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Il mio primo nome è quasi una burla del mio
Maestro, Amarto Sindjisk, colui che
mi ha allevata.
Lsyn. Un misero liquore di bacche del sottobosco,
l’infernale lsyn che scotta la lingua, nero come l’abisso.
Tipico di lui, accidenti, un elfo così geniale,
così buono, ma così dedito ad
innumerevoli e disastrosi flirt con l’alcol da restarne per sempre
segnato.
Il mio saggio Maestro.
Un tempo ero una delle migliori
servitrici di quello che era il Regno di Normar, ed ora è solo il Regno, semplicemente il
grande Regno.
Concepita, nata, cresciuta ed
allevata Spia, creata per non dire altro che si, mia signora, per tutta la mia schifosamente lunga vita di elfo.
E sì, quanto ci riuscivo bene. Quanto mi piaceva!
Per tutti, io ero Ombra.
Ancora a volte risento questo nome. Ancora fa paura, e
quanti anni sono passati!
Già. È passato molto tempo, ormai. Ora chi
mi incontra tende più a chiamarmi Mostro, allontanandosi con evidente
timore.
No, no, niente paura. Forse mi sono espressa male.
Sono una semplice elfa, cosa c’è di strano in
me? Non ho tre teste, e non sputo fuoco. E non ho nemmeno capelli color
dell’arcobaleno.
Sarei il simbolo della banalità, se non fosse per
un piccolo particolare.
Il frutto di un insignificante errore che ha rovinato per
sempre la mia vita un tempo gloriosa.
Sembrava una missione normale, una delle tante nel mio
lungo servizio di Spia.
Il fratello della nostra Regina, la nostra magnifica
sovrana, possano per sempre gli Dei averla in grazia, era scomparso senza
lasciar traccia.
Di lui non rimaneva altro che una lettera macchiata di
sangue, recapitata due settimane dopo la sua sparizione.
Una lettera in cui implorava aiuto. Una lettera
strappalacrime e tanto misteriosa.
Cosa mai poteva essere successo al Principe del Regno?
Una situazione abbastanza antipatica.
Eravamo entrati allora noi in azione: gli occhi
onniveggenti del Regno, gli infallibili segugi che tutto fiutano.
Io ero stata scelta per la missione, io, perla rara tra le
Spie.
Ero sola.
Non avevo voluto nessun compagno per quest’impresa tutto sommato facile. La mia superbia e la mia indipendenza
erano proverbiali.
Io ero la migliore, e nessun intralcio si crei per Ombra!
Beh. Forse non sono del tutto sincera con me stessa.
Avevo esultato quando ero stata scelta, ma come avrei
esultato per qualsiasi altra missione. Non avevo mai fatto storie per un
po’ di compagnia.
Forse c’era un altro motivo. Ben più
importante della mia tracotanza.
Amavo Chekaril, il giovane Principe: in quel periodo della
mia vita, il mio apogeo, ero bella, fiorente e forte, e la relazione che avevo
intrecciato con lui tempestosa e precaria.
Gli avevo dato persino una figlia, nata più per
casualità che per amore, una bellissima piccola.
Ero ligia alle tradizioni, allora.
L’avevo ceduta alle Spie, e non aveva che qualche
mese!
Chi nasce tra di noi non ha che un destino: essere un
Cane. Non c’è scappatoia che regga. Gli infanti vengono fin dalla
più tenera età allontanati dalle famiglie, e affidati ad un maestro, che li alleva ed allena, dandogli il proprio
nome come cognome, quasi un marchio di appartenenza.
Così era per me, così era stato per lui, e
per altre infinite generazioni di Spie, tornando indietro di secoli e millenni.
Così è stato anche per la mia bambina.
Ma preferisco evitare di indugiare
troppo in certi ricordi, potrebbero farmi perdere.
Dov’ero?
Ah, certo.
Insomma, stavo cercando Chekaril. La pista che stavo
seguendo mi dava quasi la certezza di un rapimento a scopi politici.
Niente di più ovvio.
I miei contatti mi avevano avvertita
del nascondiglio: una grotta in un bosco. Ero dunque lì
per appurare la realtà dei fatti.
Mi avvicinai silenziosa, come solo un’elfa allenata
da secoli sa fare. Mi nascosi tra gli alberi.
Tsk, che idiozia, rapire un Principe
e poi disseminare indizi come novellini! E nessuno era stato capace di
trovarlo!
Spiai, guardai.
Mi venne un colpo al cuore.
Solo, prigioniero di una radura all’imboccatura
della caverna, senza nessuna sentinella o essere a fargli da guardia, legato ed in ginocchio, c’era lui.
Chekaril.
Bisbigliai il suo nome, esterrefatta, e, per la prima ed ultima volta nella mia carriera, commisi
un’imprudenza fatale. Mi precipitai verso di lui, ignorando la stranezza
della cosa.
Un lampo. E fu tutto buio.
Quando mi svegliai, ero bendata da capo a piedi, e il
peggior dolore che avessi mai provato mi ossessionava.
Non appena mi mossi un poco, mi arrivò
all’orecchio una voce gentile, che intimò di fermarmi.
Ero al Lazzaretto da ormai quindici giorni.
Ci volle un altro mese per farmi riprendere.
Ero stata presa dalla tomba per i capelli: una famiglia di
boscaioli mi aveva trovata, ustionata orrendamente, in
una radura, sola, e mi aveva pietosamente aiutata.
Avevo abbracciato la morte.
Di Chekaril nessuna traccia.
La grotta non esisteva. Non era mai esistita.
Quella a cui ero andata incontro
era una sola cosa: una trappola.
Venne il giorno in cui dovettero sbendarmi: nessuno sapeva
cosa avrebbero trovato sotto le bende. Forse sarebbe rimasto qualche segno, mi
dissero.
La prima volta che, tremante, mi vidi allo specchio, quasi
svenni.
Mi era rimasto ben più di qualche segno. Mi sarebbe
rimasto per sempre.
Metà intera del mio corpo era una sola, orrenda
cicatrice.
Nemmeno il viso, il mio bel viso,
era rimasto indenne: da una parte la mia pelle lattea era intatta, liscia come
una buccia di pesca.
Dell’altra si era salvato solo l’occhio,
fortunatamente, che luccicava malevolo come giaietto.
I capelli si erano bruciati, ed
avevano scavato solchi come corde sulla mia nuca.
Ero quasi calva, fatta eccezione per una vaga lanugine che
cominciava a crescere.
Piansi, per la prima volta dopo tantissimo tempo. Mostro.
Mostro. Mostro!
Quel nome cominciò a perseguitarmi.
Di bisbiglio in bisbiglio, di bocca in bocca, Ombra moriva
lentamente, soffocata da un altro fardello.
E da gloriosa Spia, di Lsyn Amarto non rimase altro che
una miserabile cicatrice vivente.
Non accettai, né mai ho realmente accettato, cosa divenni.
Gli specchi diventarono i miei peggiori nemici, gli unici
davanti ai quali tremavo di paura.
No, non volevo essere messa di fronte alla mia miseria, al
mio fallimento.
Cominciai ad indossare quella che
sarebbe divenuta la mia tenuta, immutabile e ammonitrice.
Mi nascosi, nascosi il mio viso
sfigurato sotto una maschera di porcellana, bianca, fatta eccezione per due
linee nere che, come lacrime, mi scendevano dalle fessure per gli occhi, tutto
quello che volevo fare vedere di me.
Quei pozzi, neri, vuoti, bui. Abissi.
Era il deserto, il nulla in cui si era trasformata la mia
anima.
Il niente che io ero.
Celai il mio corpo sotto pesanti abiti neri ed un mantello che lasciava scoperto solo il volto. I
capelli ricrebbero, ricci e scuri come sempre. Ricadevano, come un sipario, ai
lati del mantello.
Non ero più io, né lo sarei più
stata.
Ombra, l’astuta Spia,l’assassina, sempre vincente e fedele, era
sparita. Al suo posto nacque Mostro, derelitto nulla e buco nero, che mai
più esercitò il proprio mestiere...
La
Regina,
possano gli dei averla in eterna grazia, non ha mai dimenticato.
Mi chiamò al suo cospetto, chiamò me, Il
Mostro, la spia decaduta ed inutile, ad apparire
davanti a lei, splendente di oro e gioielli.
Ella mi guardò, vide il tetro
fantasma che ero divenuta, e sorrise, piena di veleno, di disprezzo.
Avevo fallito miseramente, ero stata giocata come una
novellina.
Per colpa mia il fratello era ancora prigioniero.
Chekaril, sì, il mio amore.
Dov’era? Come stava? Qualcuno aveva notizie di lui?
“Abbiamo tutti subito una grande perdita,
Lsyn”.
Mi disse, con la sua voce dolce come miele, continuando a
sorridere, come giocandosi di me.
“Ed io non ho perdonato questo tuo enorme
fallimento. Non perdono facilmente. Mio fratello è l’unico capace
di poter preservare il mio sangue e la mia stirpe. Io non posso avere figli:
senza Chekaril, il nostro regno sarebbe preda dei
feroci avvoltoi della successione, e piomberebbe nel caos. E tu cosa fai?
Giochi all’inseguimento? Comprendi al meglio la portata della tua
imprudenza, ora? Ti chiedo ora l’ultimo favore. Vai, e
cercalo, e dopo sarai libera”.
Come mi sentivo umiliata, ma come quelle parole furono per
me campane a festa, gioia e luce in una camera buia!
Sì, avevo ancora una possibilità. La mia
Regina mi aveva fatto un regalo.
Provai un’immensa gratitudine per lei, che aveva
capito l’entità della mia pena.
Cosa potevo fare, se non obbedire?
Non sopportavo più la mia vita inerte,
l’orrore che suscitavo al mio passaggio, i miei incubi, i miei ricordi.
Volevo fuggire, scappare via, volare in alto e ritornare ad essere forte.
Radunai le mie armi e tutto ciò di cui avevo
bisogno, e mi misi in viaggio.
L’ultima missione.
Passarono ore. Giorni, settimane, anni.
Cinquant’anni.
Non sono molti, per un elfo, in realtà. Nella sua
vita non cambia nulla.
E nella mia ci fu spazio solo per
il vagare, il cercare, come un cane rognoso e randagio.
Per cinquant’anni, vagai.
Per cinquant’anni, non conobbi altro che fuggevoli
illusioni, veglie crudeli e cocenti delusioni.
Per cinquant’anni fui la tetra pellegrina,
l’oscura viaggiatrice.
E, per cinquant’anni, non ebbi notizia alcuna di
Chekaril.
Ora voglio raccontarvi una storia.
La storia di come bevvi
l’amaro calice fino alla feccia.
Perché, si,
come ogni viaggio, anche il mio doveva avere un termine.
Me ne sarei
resa presto conto.
Angolo di Akita xD: come vedete, non è affatto
granché.____. conto di
migliorare...o lo spero O.ò I capitoli sono
corti, lo so, ma preferisco così (almeno non ci si ammazza al solo
vedere la lunghezza xD). Beh, in ogni caso, vi
piaccia o meno questa storiella senza pretese,
lasciate una bella recensione? Fa bene alla salute, sapete... Soprattutto a quella dell’autrice. GraaaziexD
ps: questo prologo è stato corretto e migliorato. Era tempo che
volevo farlo, ma purtroppo non ne ho mai avuto
l’occasione. Provvederò a sistemare anche
gli altri capitoli quando potrò.
Ricordo ancora come iniziò la fine, sì se la ricordo
Ricordo ancora come iniziò la fine,sì se la
ricordo.
Non è molto difficile, rammento tutto, ogni dannato
giorno, quasi fosse un orrido incubo da cui è faticoso svegliarsi.
Da poco avevo compiuto i trecento anni, e, come sempre, il
passare del tempo mi riempiva di ulteriore nostalgia
rabbiosa.
Ormai tenevo stancamente il conto degli anni, il
calendario serviva solo per il mio compleanno.
Per ricordare che, evviva, grandi festeggiamenti, avevo un anno in più: un anno sprecato in giro per il
continente senza concludere nulla.
Erano passati quasi cinquant’anni, ormai, ed io
ancora vagavo, disperata.
Di Chekaril nessuna traccia.
Nulla, nemmeno il più flebile sospiro
d’indizio, nulla a dirmi che ancora andavo avanti per qualche motivo.
Tutto quell’inutile viavai era stressante.
Fosse stato per me, il tempo sarebbe completamente sparito
dal mio modo di pensare, ma avevo bisogno di regole e schemi familiari.
Altrimenti, avrei cominciato a girare in tondo come un
misero animale in gabbia, e quello che restava del mio senno sarebbe andato a
farsi una lunga vacanza, sicuramente molto lontano da me.
Non avrei mai più trovato Chekaril. Vivo, o morto.
Non importava: la mia missione era ritrovare il Principe.
L’avrei portata a termine a qualunque costo.
Ormai, quella era l’unica cosa che mi restava. Tutto
il resto era ormai perduto.
Non potevo tornare alla mia città, alla mia vita di
prima.
Non ero altro che feccia della
feccia. Uno scarto, un rifiuto messo in un angolo.
I miei compagni di un tempo non avrebbero più accettato
la creatura ferita che ero. Non avrei riacquistato il potere che avevo. Né la mia ricchezza, né i miei affetti.
Che cosa avrei fatto, cominciato a mendicare? Gli elfi non
si abbassano a fare questo, mai.
No.
Non potevo fare altro che andare avanti, trascinarmi,
bestia ottusa, nel tentativo di portare a termine la mia missione o morire nel
frattempo.
Non sapevo quanto senso avesse andare alla ricerca di un
principe scomparso da tempo, ma non potevo smettere di
raccogliere briciole e renderle polvere tra le mie mani.
Amavo troppo il ricordo di me, di Chekaril, ci tenevo
troppo a sapere che, dopotutto, avevo ancora qualcosa da fare in quel mondo.
Ciò che il mio sterile girovagare significava me lo
rendeva la più forte tra le droghe.
E, perciò, andavo avanti, senza sapere cosa il
domani avesse in serbo per me.
Quando tutto cambiò io non
me ne resi conto.
Era un giorno gelido, come ne possono capitare tanti, in
primavera.
In quel periodo, i miei viaggi senza inizio né fine
mi avevano spinta nella città di Zakadi.
Non era, la mia, una scelta casuale: era la capitale
dell’omonima Repubblica, un assurdo crocevia tra il Regno degli elfi, e
l’Impero umano.
Ogni cosa, merci, informazioni, persone, doveva
assolutamente passare per quella ragnatela così strategica, quel morbido
cuscino da strapazzare quando l’odio verso il nemico si faceva troppo
forte.
Semmai ci fossero state nuove del mio dolce Chekaril, le
avrei trovate lì. Sicuro.
Andare a Zakadi era il mio modo
di ricominciare dopo una falsa pista.
In fondo, ero stata per molto tempo lontana da quel
reticolo dannato, e le cose potevano essere cambiate.
Era il mio modo di darmi coraggio.
Di rimettere insieme, col più fragile dei collanti,
i pezzi che erano rimasti di me dopo l’ennesimo vicolo cieco, per
illudermi ancora di essere intera, di essere forte e coraggiosa e di non
abbattermi di fronte a niente.
Da lì io potevo ripartire con un motivo per andare
avanti.
E poi, quella città mi è sempre piaciuta. Una
patria senza patria.
Era, ed è ancora, caotica ed eterogenea, il cuore
impazzito di un luogo senza motivo e senza senso, come me.
Dovunque e comunque c’era caos, passaggio, tutto
arrivava e se ne andava senza mai restare.
Zakadi, città
di tutti e di nessuno, luogo di ladri, mercanti, profughi, viaggiatori, mendicanti,
mercenari e soldati.
Non si poteva varcare il confine senza passare per le ben
poco severe reti della brulicante città, che tutto lasciava ma che tutto
ascoltava!
In quei tempi vacillanti passare per i ponti sul fiume di
confine non era possibile. Né tantomeno varcare le
montagne, un’impresa disperata anche per noi Spie.
Tutto, dunque, passava da Zakadi.
Oh, quel luogo era una vera e propria miniera di informazioni: difficile che qualcuno non si lasciasse
sfuggire un seppur minimo commento su qualcosa.
E lì, anche i muri avevano orecchie.
Non per nulla Zakadi è
sempre stato il pozzo preferito dalle Spie.
Pullulava di informatori ,
ufficiali e… diciamo più informali. Famiglie che da generazioni
servivano le Spie.
La mia fonte preferita, e la più affidabile, era
Junielle, la tenutaria di uno dei tanti bordelli del
luogo.
Era il nucleo della fitta rete di cui noi Spie ci servivamo per carpire informazioni.
Fedele e puntuale, non mi aveva mai tradita,
e ciò che diceva lei era sempre la verità. Quello che lei diceva era verità pulita e di prima mano. Roba di
qualità sopraffina.
E, ovviamente, le mie visite non
erano mai completamente mirate alla mia missione. Qualche volta avevo bisogno di
Junielle.
Da lei trovavo anche protezione, e conforto quando il fardello
della mia mostruosità, e del mio fallimento, cominciava a ridiventare
troppo pesante.
Ogni volta tornavo da lei, a lamentarmi
dell’ennesima pista sbagliata, a piangermi addosso.
Potrei chiamarla quasi amica, se non fosse di rango
così spiccatamente infimo.
Lei, in fondo, era solo una misera informatrice, ed io una
Spia. Per quanto decaduta e piuttosto inutile, potevo
ancora fregiarmi del nome di Ombra. Beh, così andava il mondo.
Però io mi fidavo della buona
Junielle.
Solo lei ed il mio Fratello di Maestro,
l’elfo che è stato cresciuto con me dalla stessa persona, avevano
visto il mio viso senza maschera.
Ma, mentre non avrei mai più
avuto il coraggio di presentare la mia brutta faccia da mio fratello, che mi
aveva visto in troppe occasioni miserevoli e pietose per non compatirmi, dalla
mia amica io tornavo sempre.
Fisso, ad intervalli regolari, mi
rifugiavo da Junielle quando non ce la facevo più a parlare con la mia
ombra.
Quello era uno di quei momenti.
Fu facile per me entrare in città: non c’erano
guardie, a parte alcune sentinelle che vigilavano sull’ordine cittadino.
C’era d’altronde un caos assurdo, troppo per potercontrollare ogni singolo viaggiatore.
Un po’ me ne dispiaceva. Dopo l’aver tutte le
porte spalancate, essere Spie significa anche saper eludere ogni barriera.
Ho sempre considerato queste due cose dei piaceri molto
seducenti. Specialmente l’ultimo, mi divertiva da impazzire trovare il
metodo per accedere di soppiatto in qualche città fortificata.
L’unica piccola pecca di Zakadi,
dopotutto. Non poteva essere perfetta.
Dopo aver superato le mura, mi ritrovai nell’enorme
via principale, la strada che per pareti aveva locande e mercati.
Via maestra uguale un fiume di
gente.
Era così bello essere in mezzo alla folla senza
essere seppur minimamente calcolata.
Non potevo però reprimere un certo senso di
disagio.
C’era tantissima gente, di
ogni etnia e quasi ogni razza. Troppa gente.
In fondo, avevo passato mesi e mesi
in quiete e solitudine, tutto quel vociare mi dava alla testa, me la faceva
girare, mi ubriacava.
Ma, tutto sommato era un vantaggio.
Quella stessa fiumana spaventosa mi proteggeva dagli sguardi indiscreti. Mi
mescolavo egregiamente ai profughi ed ai derelitti.
Lasciai però ben presto quell’enorme strada
lastricata e confusa. Ben altri erano i luoghi che mi aspettavano.
In un certo verso, ben più
affascinanti.
Il mio obiettivo erano i luridi, tortuosi vicoli della
città antica, angusti e bui, contornati da enormi e cadenti palazzi in
tufo e argilla, che incombevano con la loro presenza,
oscurando il sole.
Quello si che era lo spirito di Zakadi, la sua vera anima sporca. Per una persona perbene,
diciamo un profugo medio, quelli erano luoghi proibiti, in cui mettere piede
solo per farsi uccidere.
Lì abitava la chiassosa melma mai dormiente, altro
che bravi mendicanti. Ad ogni ora del giorno o della notte si potevano osservare
spettacoli d'ogni genere.
Trovavo quei posti marci molto più consoni al mio
modo di vedere le cose. Chi stava sotto stava sotto, chi era più in alto
dominava ed angariava com’era giusto che fosse.
Chi non sapeva tenersi il posto, pagava. Chi sapeva salire,
saliva. Punto.
Sapevo benissimo qual era il mio posto, e rispettavo le
regole che ben conoscevo.
Ehi, è da quando ho raggiunto la piena
maturità che non sono una persona pulita.
Impressi a fuoco su di me ci sono anni da persona
malfamata.
Criminali, intrighi, omicidi: ci sguazzavo dentro a mio perfetto agio. Quella era stata la mia lunga vita.
E poi mi sentivo molto meglio lì che in quel
vialone maledetto e mondano.
Chi mi incontrava e mi notava,
notava quel verme strisciante tra le sue amiche ombre, generalmente non aveva
la reazione che di solito riscontravo.
Niente facce disgustate e pietose.
Semplicemente, un prudente, e dolce, cambio di strada.
Essere un miserabile, immondo verme non significa essere
sciocco. Nessuno di loro lo era.
Mi diressi così con calma, senza intoppi, verso il
mio obiettivo primario.
Il bordello di Junielle: il peggior posto tra i peggiori,
un'antica casa a tre piani, ridipinta malamente di un rosso osceno e
squillante, un colore ormai quasi scrostato, che comunque mi faceva
dolere gli occhi.
Ai lati dell'uscio due cumuli di sporcizia,
mezzo, sudicio ma efficace, per dissuadere anche il mendicante
più disperato dall'eleggere quel posto come dimora temporanea.
La casa era illuminata sempre a giorno. Perfino a porte
chiuse, si sentiva la musica, sinuosa e sensuale, ed
un odore che io ho sempre odiato: un misto nauseante di oppio, profumo e
lerciume.
Dei, quanto odiavo quel luogo.
Lo detestavo profondamente già quando ero ancora la
giovane Ombra.
Com’era squallido, e
scontato, e orribile. Fatto sta, quel luogo tremendo attirava un sacco di
gente. Ancora mi chiedevo il perché.
Insomma, il motivo mi è piuttosto chiaro, ma….accidenti.
Un po’ di senso estetico, un minimo di
buongusto… no?
Sbuffando, bussai all'ingresso principale, una porta di
legno scuro e massiccio.
Era tardo pomeriggio, un orario assai insolito per la
maggior parte dei clienti, e perciò aspettai più a lungo del
normale.
Finalmente, la porta si socchiuse, il minimo per far
passare un viso che conoscevo.
Il portinaio, con la sua aria stanca ed
annoiata, da uomo di mondo, non appena vide il fantasma che io ero, divento
pallido come un lenzuolo, e sgranò gli occhi.
Venivo sempre a sorpresa, generalmente nei momenti meno
opportuni.
E poi a quell’elfo, Fran,
non ero per niente simpatica.
Mi temeva, e profondamente: ne aveva ben donde, a pensarci
bene.
Quando era stato appena assunto, prima che mi riducessi in
quel modo orrendo, aveva osato impedirmi di entrare.
Junielle non era arrivata in tempo per fermare il mio
coltello, che avevo infilzato ben bene in una delle sue mani, inchiodandola al
tavolo.
Un po’ brutale, forse, ma quella lezione gli era
stata d’aiuto, più di mille lavate di capo.
Da allora, Fran mi obbediva
ciecamente.
Ah, quanto amo certi metodi di apprendimento. Son sempre i
migliori.
Vidi, con immenso piacere, il portinaio deglutire con
difficoltà, per poi prendere un bel respiro.
La porta si aprì leggermente. Dovevamo solo
sbrigare certe pratiche e poi sarei entrata senza problemi.
"cosa
volete?".
Domandò, in tono spiccio, ricomponendosi abilmente,
come se fossi un cliente in incognito, una delle persone poco raccomandabili
che aiutavano Junielle, o cose del genere.
Dietro la maschera, feci una smorfia.
Detestavo parlare, per un solo e semplice motivo.
Nemmeno la mia voce si era salvata da quell’inferno
di fuoco da cui ero uscita a stento viva.
Facevo fatica a dire le cose più semplici, ed avevo un timbro orribile.
Roco, stizzoso, asessuato. Un sibilo sgradevole da
sentire.
E pensare alla mia vecchia, dolce voce… quanto mi
faceva odiare quella nuova Lsyn difettosa!
Facevo a meno spesso di parlare, anche per pura vergogna.
Non averne la possibilità per la maggior parte del
mio tempo costituiva un vantaggio, ma anche l’ennesimo problema.
Ogni volta che riprendevo a parlare facevo sempre
più fatica.
Quella volta non fece eccezione. Mi sentii arrossire
addirittura prima di aprire bocca.
Presi una o due volte il respiro. Non parlavo da così tanto tempo che anche due parole mi costavano
molta fatica.
"merce da scambiare". Ciò bastava per
farmi spalancare l’uscio.
Fran si fece immediatamente da parte,
rigido, inespressivo. Nemmeno mi guardava.
Da quando indossavo quella maschera gli era
stato espressamente ordinato di fare finta di nulla, presumo.
L’ennesima delle delicatezze di Junielle.
Venni da lui introdotta nell'ingresso.
Era una piccola sala stuccata pesantemente, e con pessimo
gusto, di oro e viola. Quattro lampade dall'aria esotica erano ad ogni lato: diffondevano un fumo denso ed una luce
fastidiosa.
Sulla parete di fronte c'erano due porte scure, entrambe
chiuse. Da una provenivano suoni di musica e risa
sguaiate.
L’altra era muta, silente, morta, vuota.
Sentii la testa girarmi vorticosamente. Lì dentro
la puzza schifosa dell’oppio era insopportabile. Dolce ed
appiccicosa, mi faceva venire la nausea.
Senza che parlassi,Fran mi precedette, timoroso.
Si
guardò a destra e sinistra, poi cacciò fuori un’unica chiave,
appesa ad una corda.
Con quella, aprì la seconda porta, quella muta.
Ormai sapevo benissimo cosa si celava dietro:una rampa di
scale, illuminata dalla luce che filtrava da alcune finestre rotte. In cima,
un’altra porta, socchiusa. Lì dovevo andare.
Mi avviai senza nemmeno ringraziare, disgustata, oppressa
da un mal di testa nascente. Che schifo, quel luogo.
"Junielle arriva subito, Ombra".
Disse il portinaio dietro di me, con una voce strozzata,
prima di chiudere la porta. Mi fece piacere sentire il mio vecchio nome, quello
che veniva usato ai tempi
della mia giovinezza.
Fran si che capiva come girava il
mondo!
Lì dentro si respirava aria più salubre.
Nonostante le finestre rotte era un ambiente
più piacevole, chiaro ed anonimo.
Cominciai a salire le scale, con tutta la calma possibile,
ed aprii la porta in legno scuro che era in cima.
Entrai in quello che era il mio luogo preferito di tutto
quel posto sguaiato: una stanza circolare, dai colori pastello, estremamente sobria, in un tale contrasto con ciò che
la circondava da risultare quasi ridicola.
Ecco, ecco la vera Junielle, raffinata, schifiltosa.
Sarebbe stata un’ottima nobile se non fosse statamezzelfa, ibrida, dunque impura.
Sotto la sua veste da volgare tenutaria, Junielle è
una persona dall'eleganza impeccabile, nonchè
sfacciatamente ricca: abitava, con il compagno, in uno dei quartieri migliori
della città, non certo in quel luogo maledetto dagli dei.
Ho sempre pensato prendesse in giro i suoi clienti, o che
fosse troppo tirchia per sbottonarsi un po’.
I vetri, in quel posto, erano nuovi, immacolati come le
poltrone in pelle ed il tavolino attorniato da qualche
sedia dall’aria comoda.
Tutto era pulitissimo, splendente: le tende bianche
sembravano appena lavate, la tovaglia dello stesso colore sul tavolino non
aveva nemmeno una piega. Tutto profumava di pulito.
Quello era un luogo in cui pochissimi mettevano piede. Io
ero una di quei privilegiati.
Qualcosa era cambiato, dalla mia ultima visita, quasi un
anno prima. Non vidi lampade: l'unica, tremolante luce proveniva
dal camino, che era acceso.
C’era una cosa, tuttavia, che non era cambiata
né cambiava mai. Ogni volta che lo vedevo era un nuovo colpo al cuore.
Uno specchio alto, dai vetri incrinati.
Conoscevo ogni parte di quell’oggetto. Ero stata io
a romperlo, in un accesso di disperazione, la prima volta che ero venuta
lì dopo essere stata ferita.
Junielle aveva cercato di ricondurmi alla ragione. Mi
aveva messa malamente di fronte allo specchio.
L’unica mia reazione erano state urla lancinanti.
Mi ero fatta molto male quando avevo battuto con i pugni
sullo specchio. In quei momento, l’odio verso me
stessa era arrivato ad un punto di rottura.
Ricordare quell'episodio, e la follia da essa generato, mi
turba tuttora. Mi turba ogni specchio, ogni superficie riflettente, dopotutto.
Posai la mia enorme borsa, la sede di tutti i miei poveri
averi, su una di quelle sedie, e poi guardai lo specchio.
Fissai il mio volto coperto da quella maschera
inespressiva.
Sapevo benissimo quale doveva essere il passo successivo.
Fosse stato per me non l’avrei mai fatto, ma
Junielle lo esigeva.
Da sempre cercava di farmi riconciliare con la mia
immagine: per lei, in fondo, ero sempre Lsyn.
E c’era sempre di peggio, anche se non capivo come
potesse esistere un essere più mostruoso di me.
Perciò, tra di noi c’era un’unica
regola ferrea, che esigeva la calma più assoluta: niente maschera
durante i nostri incontri.
Mi veniva da piangere, volevo nascondermi come un cucciolo
spaventato dai tuoni.
Me la tolsi lentamente, riluttante, davanti lo specchio, e la riposi nella borsa.
Odiavo farlo, ma se non l’avessi fatto la mia amica si sarebbe arrabbiata, e quello non lo gradivo molto.
Tendevo ad innervosirmi quando qualcuno alzava la
voce.
E poi non sopportavo Junielle arrabbiata. Era
l’unico ponte per la realtà, senza lei
sarei impazzita. Perciò, dovevo obbedirle.
Quando apparve il mio viso, chiusi
gli occhi di scatto, presa da un timore senza fine. Mi faceva male vedere la
parte integra del mio viso.
Mi ricordava cose che era meglio
sopire.
Ad occhi chiusi potevo immaginare
che, sotto la brutta maschera, un incantesimo avesse operato per guarirmi.
Cercai di farmi coraggio, e respirai profondamente, come
prima di un duello importante, come prima di una corsa disperata per salvarmi
la vita.
Appoggiai una mano allo specchio, per sostenermi, e
avvicinai l'altra alla metà sfregiata, presa dall’assurda speranza
di essere di nuovo bella e sana, gli occhi serrati.
Tremavo: avevo paura di me stessa. Ne ho sempre avuta, da
quando il mio aspetto si è guastato in modo irreparabile.
Speravo così tanto,
inconsciamente, che quasi mi aspettavo di sentire del liscio al tocco.
Il contatto con la pelle ruvida e reale mi fece sobbalzare
di qualche centimetro.
Di riflesso, aprii gli occhi.
Un viso per metà normale ricambiò il mio
sguardo. Era terrorizzato quanto me.
Dei, quanto ero brutta. Come ero orribile, come…
Quanto facevo schifo. Che verme immondo ero
diventata? Che cosa ero? Cos’era rimasto di me,
ormai?
Provai a fare un sorriso. Mi invase
una nausea invincibile, che nulla aveva a che fare con l’odore di oppio,
ormai sostituito dal buon profumo di legna e resina.
Probabilmente il fuoco non aveva danneggiato solo la pelle.
No, non poteva fare solo quello, non poteva solo
rovinarmi la voce, la bellezza e la vita: lo specchio rimandò l'immagine
della parte sfigurata che si torceva in un modo orrendo e grottesco.
Anche un sorriso era diventata la
smorfia di un mostro.
Ero Mostro, ormai, non potevo dimenticarlo.
Quello fu troppo, per me.
Presa da un timore incontrollabile, voltai lo specchio
verso la parete e mi fiondai verso la poltrona più vicina al fuoco.
Un freddo terribile mi aveva invaso le membra.
----------------------------------------------
Puff, puff.
Ho corretto anche questo capitolo. Ce n’era, di roba da modificare e
rivedere.
Spero che vi sia più gradito,
così. Sicuramente è più ordinato. E lungo.
E, per la miseria.
Rileggendo i commenti qui sotto (che vi
consiglio se volete farvi quattro risate dopo la depressione cosmica di Lsyn xD), mi rendo conto di quanto fossi irrimediabilmente stupida.
Hovoglia di modificare anche
quelli! O.o
Povero Carlos Olivera,
povero lettore da sempre fedele.
Ma come diavolo facevi
a sorbirti ciance del genere? O_O
Questo è uno dei motivi per il quale ho completamente eliminato il mio angolo personale.
Mi rendo conto di ritenermi saggia ad averlo
fatto.
Conserverò
però questi commenti, così com’erano (orrori di battitura
compresi). Puro spirito di masochismo, temo.
Angolo di Akita xD:
Per Carlos Olivera:il mio primo commentatore
*_______* ohh, che bello xD
sai, sono contenta, molto, che ti sia piaciuta la storia xD
lo so, l'impaginazione fa a dir poco schifo ._. e lo dico da sola .___. Non ho
la pazienza necessaria per scaricare i programmi html, quindi mi arrangio un
po' con Word ._. e, diciamocelo con chiarezza, non è che sono poi una
cima... per pubblicare questa storia mi ci è
voluto un mese buono ._. salvo poi ricordarmi che sbagliavo la procedura
d'impaginazione ._. sono un genio, io ù.ùcooomunque...spero che continuerai a seguire, ed a
recensire xD adoro sentire i pareri degli altri xD ah, ps: ho aumentato la scrittura <.< così
almeno sembra di leggere qualcosa in più xD
purtroppo, mi sono accorta che, più vado avanti, più certi
capitoli crucilai si "gargantuizzano"xDsacrébleu!!!
Incredibile ma vero, ce l’ho fatta. Ho
completato anche la revisione di questo capitolo. È stata
particolarmente dura, un po’ per l’università, un po’
perché ho trovatodifficile
esprimere al meglio le mie idee. Junielleè un personaggio difficile, quando si sa l’intera storia.
Continuo ad essere dell’opinione che
dovevo essere ben matta a mettere su un sito i primi capitoli, così come
mi venivano. E mi sembravano anche efficaci.
Ah, beata gioventù.
Vi lascio alle mie “Piccole
Prefazioni”, ed al capitolo.
Ed è quello che spero leggiate, se non
altro per la vostra sanità mentale.
Akita.
Piccola prefazione:
posso chiedere, a chi legge, un minuscolo favore?
Perchè non commenta quasi nessuno? T______T d'accordo, d'accordo.Vi
lascio al vostro libero arbitrio (ed al terzo capitolo che, come vedrete,
è ancora piuttosto moscio xD).
Buona lettura (ed a "dopo" XD)!
-----------------------------------------------
Ancora spaventata da quell’orrore che avevo visto
nello specchio, dal mio viso orribile, rimasi a fissare il fuoco, assorta.
Ero stata una stupida. Perché avevo voluto guardare?
Accidenti, mi ero fatta fregare come una stupida. Non avrei
dovuto fare quella mossa poco saggia…
Ecco, tutti i miei buoni propositi stavano per andare a
monte. Quel poco di calma che avevo faticosamente racimolato stava per svanire.
Non potevo mettermi la maschera? Ero così
tranquilla quando avevo il viso coperto!
Se solo Junielle mi avesse vista in quelle condizioni, non
so cosa mi avrebbe fatto. Odiava quando mi piangevo addosso.
Come facevo ogni volta che ero nervosa, cominciai a
frugare distrattamente nella mia borsa, in cerca di un oggetto familiare,
qualcosa che potesse rendermi più sicura di me.
Non l’avrei mai ammesso, ma incontrare la mia amica
mi riempiva di ansia. Avevo sempre paura che cominciasse a rimproverarmi e a
rendere, così, manifesta ai miei occhi la creatura debole che ero
diventata.
Trovai la miavecchia pipa. Sorrisi leggermente.
Era l’unico lusso che mi concedevo, ormai. La presi
con delicatezza. Se si fosse rotta ne sarei stata davvero dispiaciuta.
Quei gesti semplici, ripetuti da tempo immemorabile, da
quando ancora ero una giovanissima Spia, avevano il potere di farmi
concentrare. E io dovevo essere ben concentrata, dovevo sembrare la calma
personificata.
Non dovevo dare indizi che potessero far capire alla mia
amica quanto fossi spezzata.
Non avevo bisogno di compassione, la temevo. Non potevo
essere indulgente con me stessa, ammorbidirmi avrebbe significato impazzire una
volta e per tutte.
Ero troppo debole, e non dovevo impazzire. C’erano
ancora tante cose da fare, Chekaril da cercare. Chekaril…
Rimasi a fissare il fuoco come un’idiota, mentre
mille pensieri si facevano spazio nella mia mente.
Quei baci rubati, oh, gli abbracci amorevoli e
fugaci…
Sobbalzai, e mi parve di fare uno sforzo sovrumano per non
sprofondare in quei ricordi dolorosi. Oh, che stupida che ero.
Portai le mani alle tempie. Avevo voglia di gettarmi
addosso la cenere bollente che era nella pipa. Forse in quel modo mi sarei
svegliata e avrei smesso di sognare come una bambina sciocca.
Ma la volevo smettere di pensare al passato, si o no?
Tanto, se pure avessi trovato Chekaril, non avrei mai
più potuto ottenere di nuovo quello che avevo un tempo.
Ero diventata un mostro, non dovevo dimenticarlo. Ero
diventata orribile. Ed era tutta colpa mia. Perché quei pensieri e
quelle stupide speranze non mi lasciavano stare, per una buona volta?
Non ero più quella di una volta. Non lo sarei mai
più stata…
Quando Junielle si degnò di apparire, ero immersa
in quel genere di pensieri felici.
Mi sentivo scoperta, ed impaziente. Non ero più
abituata a stare senza maschera per tutto quel tempo.
Sentendo il cigolio della porta che si apriva, mi girai
appena. Sentii il sollievo invadermi, acqua per un assetato.
Finalmente.
Junielle era arrivata, pronta per umiliarmi e guarirmi.
Almeno, mi avrebbe distolta da certi pensieri.
Osservai entrare, con la coda dell’occhio, la mia
cara, dolce amica, a metà tra l’irritato, il meditabondo ed il
sollevato.
Junielle, la buona ed allegra Junielle, dal sorriso
onnipresente e genuino.
Doveva essere stata interrotta in qualche affare. Dovevo
averla interrotta, più correttamente.
Non avrei saputo spiegare altrimenti il suo abbigliamento.
Alla luce scarsa del camino vedevo davvero poco, ma quel
poco bastava a mandarmi in belva.
Detestavo la copertura della mia amica, la odiavo con
tutto il mio cuore.
Certo, ai miei tempi avevo indossato di peggio, ma
comunque quel vestito bianco, tutto luccicante, non mi piaceva. Troppo
pacchiano. Poco da vera lei.
La mia attenzione nei suoi confronti calò ben
presto.
Sapevo che avrebbe subito cominciato con i suoi
rimproveri, e non mi andava. In quel momento, sapevo che la mia amica mi stava
profondamente disapprovando.
Avrei potuto farmi trovare in una stanza bene illuminata,
seduta decentemente, e non stravaccata su di una poltrona con aria afflitta.
Soprattutto, non avrei dovuto fumare, lei odiava quella
mia abitudine.
Ma mi seccava. Ero io ad aver bisogno di conforto, non
lei. E non avevo la minima idea di come si accendessero le luci.
Rivolsi nuovamente la mia attenzione al fuoco, ed emisi
uno sbuffo di fumo, aspettando la tempesta, che, come avevo previsto, non
tardò ad arrivare.
"buoni dei, Lsyn!". Fu il caloroso saluto della
mia cara Junielle, nemmeno entrata. Digrignai i denti. Di certo, lei era sempre
la stessa. Non aveva perso nemmeno il vizio di urlare quando parlava.
Non mi mossi, né le risposi. Di certo non aveva
finito la cantata. Tanto valeva sorbirsela tutta, con un solo orecchio.
Sentii la porta chiudersi, poi rumori di passi,
accompagnati dalla voce stentorea ed effervescente di una certa amica forse un
po’ sorda.
"Che cos’è questo buio? Qui dentro
sembra di essere in una camera mortuaria! Rischi di accecarti! E che ci fai con
quella pipa? Detesto vederti fumare!".
Ah, Junielle non cambiava mai. Non conosceva le parole prendere fiato. Un altro motivo per
amare quelle visite. Ogni tanto avevo bisogno di un po’ di buonumore.
"quello che faccio non sono affari tuoi, Junielle.".
Mormorai, asciutta, quasi meccanicamente, emettendo
un'altra nube di fumo.
La mia era una risposta da manuale. Ormai era diventato il
nostro saluto. Lei mi rimproverava, io la mandavo a quel paese.
Lei rise, esuberante.
“bentornata, Lsyn! Quasi mi mancavi…”.
Sorrisi. Anche a me era mancata tanto, la sua
vitalità e la sua gioia mi ricaricavano. Se avessi contato solo sulla
compagnia di me stessa, probabilmente sarei impazzita molto presto.
Sentii altri rumori di passi, non troppo distanti da me. E
poi strano rumore cristallino, che mi fece sobbalzare. Avvertii un brivido.
Brivido della magia.
Alcuni punti della parete, apparentemente a caso, si
illuminarono, di una luce inizialmente fioca, che andò man mano
aumentando.
Ben presto, la sobria stanza fu illuminata morbidamente,
ed i contorni divennero nitidi. Capii all’istante, e ne fui stupita. Ecco
perché non avevo notato lampade!
Per un momento, la mia attenzione fu calamitata verso
quella novità. Junielle era piena di sorprese, ogni volta che arrivavo
da lei c’era qualcosa di nuovo.
"addirittura lampade magiche...".
Mi stupii di quanto la mia voce sembrasse compiaciuta. In
effetti, avevo visto poche volte in vita mia quel lusso, e davvero da
pochissime parti, solo in case di
persone estremamente ricche.
La mia amica se lo meritava tutto, davvero. Beh, non per
quello che faceva, ma le volevo bene.
Era un piacere vedere che, almeno a qualcuno, la fortuna
stesse girando per il verso giusto.
"gli affari devono andare bene".
Tornai, per la terza volta, a fissare il fuoco.
Nemmeno finito di parlare, che avevo avvertito una leggerissima
fitta di disagio. Non mi piaceva quel sentimento.
Non ero sincera con me stessa. Non ero affatto contenta
del destino fausto di Junielle.
Quella era un’ingiustizia. Perché lei,
mezzelfa, essere sudicio ed inferiore, aveva tutto, ed io, nobile elfa di
sangue purissimo, ero una povera vagabonda?
Perché a lei tutto e a me niente?
Ed io ero una Spia, ero Ombra. Lei era solo una misera
informatrice.
Ma lei non aveva sbagliato quanto me, mai. Lei svolgeva il
suo mestiere di informatrice con serietà impeccabile, io ero stata
trascinata in una trappola ignobile.
Cercai di ignorare quei pensieri prima che divenissero
troppo insistenti.
No, io ero felice per la mezzelfa. Felicissima.
Sentii altri passi, e poi una figura tutta allegra si
sedette pesantemente sulla poltrona quasi di fronte alla mia, sprofondando nei
cuscini.
Junielle, cara amica mia. La fissai, finalmente, dimentica
delle mie fantasticherie.
Accipicchia, lei si che era uguale a sempre!
La invidiai ancora, invidiai la sua forza e la sua
allegria.
Sorrideva. Sorrideva ancora, avrebbe sorriso sempre. Non
si sarebbe mai tolta di faccia quel sorriso smagliante ed un po’
malizioso.
Gli occhi verdi brillavano di gioia. Felice di vedermi,
forse? Anomalo. Io non sarei stata felice di vedermi.
Sarebbe stata una grande bellezza, se solo non avesse
avuto quel piccolo difetto di nascita…
Eh si. Mezzelfa, lo ripeto. Sangue impuro, sterile, unione
abietta tra due razze diverse.
In quanto tale, non era benvista da nessuno, pochi
riuscivano a fidarsi di quell’essere ibrido. Nemmeno io ero sicura di
fidarmi.
Non c’era da stupirsi, dunque, della vita che
conduceva la mia amica.
"uomo o elfo che sia, chiunque ha bisogno di un po' di
svago, non credi?".
Disse lei, allegramente, scuotendo l’elaborata
pettinatura che racchiudeva i suoi capelli rossi.
D’un tratto, mi sentii stanca di quella
conversazione inutile, di tutta quell’allegria.
Che stupidaggini stavamo dicendo. Non ero venuta lì
per quello.
Un tempo adoravo chiacchierare con Junielle, fare
confusione con lei, metterle a soqquadro la vita.
Si, ma un tempo non ero nemmeno invidiosa, e non facevo
minimamente caso alla sua razza.
Da quella frase avrei preso spunto per tutta una serie di
stupidaggini, che ci avrebbero fatte arrivare ad un felice stato di ubriachezza
da risate.
Quei tempi erano ormai lontani, ed io non ero più
la stessa. Junielle, invece, si.
Avevo passato anni in mezzo ai boschi, in viaggio, immersa
in un silenzio irreale. Anni a non dire quasi nulla, anni di quiete.
E ora, come ogni volta, arrivavo lì e venivo
sommersa da una minacciosa nube di risate ed allegria, perché lei era
sempre uguale a se stessa. Troppo per me.
A stento sopportavo tutto quel chiasso. Il fatto che fosse
così allegro e soddisfatto non poteva fare altro che riempirmi di odio.
Volevo solo le notizie che di solito Junielle mi dava, e
poi me ne sarei andata. Solo quello contava, ormai, il mio viaggio. Il resto
poteva andare in malora.
Io non me ne sarei accorta.
Quello non era più il mio mondo.
Non risposi a quella che era tutto sommato una
provocazione, e scrollai le spalle, gettando una nube di fumo dritta in faccia
della mia amica.
Smise di sorridere, almeno una buona notizia, e si
voltò dall'altro lato.
"stai peggio del solito, Lsyn". Disse poi,
tossendo, con una strana voce soffocata.
“non ci riesci?”.
Sapevo a cosa alludeva. Lo sapevo perfettamente.
No, Junielle. Non ci riuscivo. Non mi sarei mai e poi
mai riconciliata con me stessa. Avevo commesso troppi sbagli imperdonabili, e
dovevo pagarne il prezzo.
Solo allora smisi di fissarla, e la guardai. Notai le
linee di preoccupazione sul suo volto, e che era molto tesa.
Quello non era previsto nel programma. Insomma, quella
domanda me la faceva circa due volte ogni volta che andavo da lei, e riceveva
la stessa risposta dolorosa. Sapeva benissimo quanto mi costasse dire certe
cose.
Eppure, continuava e continuava e continuava. Che sperava
di fare?
"No, Junielle. Né ora né mai".
Mormorai, ferma, mentre una silenziosa ondata di dolore mi
sommergeva. Mi sentivo straziare il cuore.
La semplice domanda che mi facevo era: come?
Come potevo farcela? Come potevo andare in giro senza
maschera e non sentirmi un'esclusa? Come potevo riposare, se una missione mi
tormentava con i suoi misteri insoluti?
La mia amica mezzelfa si girò di nuovo verso di me,
con un’espressione sofferente. Era strano vederla senza sorriso.
Quel volto era diverso quando non era allegro, sembrava ci
mancasse una componente fondamentale. Un’amica a metà. Era
rarissimo vederla così.
“non potresti provare?”.
Eh no,tutto
quello non era proprio in programma. Junielle non si era mai azzardata a fare
una domanda del genere.
La guardai, con astio. Come poteva pensarlo, dopo tutto
quello che avevo combinato?
Lei parve farsi piccola piccola nella sua poltrona, e
continuò con voce flebile, arrossendo.
“sai…sono passati così tanti
anni…potresti provare a rifarti una vita”.
Quella assurda proposta mi fece ghignare. Sentii
un’ondata di rabbia e freddo divertimento percorrermi il corpo, una
scossa alla mia apatia.
Rifarmi una vita. Splendide parole, se non fosse stato per
qualche piccolo, inconsistente, particolare.
“certo. Certamente”. La mia voce suonò
intrisa diamaro sarcasmo alle mie
stesse orecchie.
“un’ottima prospettiva. Sono certa che la Regina lascerà
andare senza problemi una Spia inadempiente. Sicuramente questa vecchia
sfregiata sarà accolta da tutti con applausi”.
Era la perfetta verità. Non potevo avere una
parvenza di vita, dovevo cercare Chekaril. Era la mia missione.
E poi, chi avrebbe voluto una creatura orribile come me?
Mio fratello, Tijorn? Avrei pesato sulla sua vita normale?
Junielle? Bah, sciocchezze.
Vidi la mia amica sbiancare, forse turbata dalle mie
parole dure. Fece per aprir bocca, ma la zittii con un gesto violento.
Ci fu un improvviso silenzio, che si prolungò fino
a pesare.
Poi,cosa ben
peggiore, il viso della mezzelfa mostrò un’altra espressione. Compassione. Pietà.
Una rabbia silente cominciò a montare, spazzando
via l’amarezza, come un vento fetido.
Digrignai i denti, cercando di dominarmi, a bocca chiusa
per non farmi vedere. Sentii le labbra tendersi.
Odiavo quando faceva così. Mi guardava come un
relitto, un giocattolo rotto del quale è impossibile liberarsi.
Mi faceva sentire un peso, un orribile peso, un parassita
che succhiava avidamente la felicità altrui, lasciandone solo gli scarti
al suo passaggio.
Avrei voluto urlare, rompere a pugni quel malvagio
specchio di misericordia, incrinare quel bel faccino dalla vita perfetta.
Io, relitto inutile, parassita, rotta, sporca.
Ma io non potevo lasciarmi andare in quel modo. Mordere la
mano che mi aveva accolta? Oh no, mai, anche se quell’accoglienza
significava accettare la carità di un essere inferiore.
Dovevo dominare la mia ira. Nessuno mi avrebbe accolta
come lei, nemmeno mio fratello. Lui si che aveva cervello da vendere.
Tali, ormai, erano i rapporti tra me e Junielle, che un
tempo chiamavo amica.
La mezzelfa
sorrise, scuotendo i capelli rossi. Un sorriso forzatamente dolce, che mi fece
venir voglia di scrollarla, di intimarle di uscire da quel suo maledetto guscio
dorato.
“potresti almeno…provare, sai. Toglierti la
maschera e tutto il resto”. Disse, innaturalmente calma, facendo un lieve
gesto verso di me.
Sobbalzai per la sorpresa, spiazzata. Eh?L’idea era inconcepibile come un
asino che cammina a testa in giù.
Lei non si scompose, ed il suo sorriso si allargò.
La sua voce era gentile.
“io ed il mio compagno potremmo ospitarti per un
po’, sai, per farti ambientare. Poi non ti tratterremo, potrai andare
dove vorrai. Ma almeno senza quella cosa orribile…”.
No, decisamente eravamo andate oltre gli schemi classici. Se
non fosse stato per l’accenno alla maschera, avrei pensato fosse
impazzita.
Ma quella volta parlava sul serio. Davvero era disposta ad aiutarmi tanto? Ad ospitarmi
finché non avessi riacquistato familiarità con il mio aspetto?
Boccheggiai. Un dolore immenso mi avvolse, un rimpianto
profondo mi squarciò l’anima.
Ma cosa mai stavo pensando della mia povera Junielle?
Cos’ero divenuta?
Carità? Misericordia? Lei era mia amica, per gli
dei!
Lei non aveva paura di me, non si era mai scostata dal mio
cammino.
Lei era solo premurosa, e non voleva mi facessi del male.
Lei…mi aiutava tanto, aveva sempre le informazioni
giuste, un’amica perfetta. Era quasi infantile, pensarlo, ma di conforto.
Cominciarono a riempirsi gli occhi di lacrime.
Per un attimo fui dilaniata da due emozioni contrastanti,
la rabbia di prima e la tenerezza di quel momento. Un tenue barlume di
speranza: chissà, forse potevo riprendere la mia ricerca con una
stampella in più.
Ma no, come potevo? Chekaril…non potevo lasciare
passare altro tempo!
Già troppi anni erano trascorsi,
poteva…poteva essere ormai morto.
Quello la
Regina non me lo avrebbe mai perdonato, e nemmeno io. Vagare,
girare, girare, girare.
Quella era la mia vita, lo era diventata, lo sarebbe stata
fino a missione compiuta. Non potevo fermarmi a pensare, non avevo il tempo di
guarire.
Cercai di aprire bocca. Io…io volevo tanto restare
con Junielle. Magari avrei mandato una lettera al mio fratellino Tijorn.
Avrei cominciato a non aver paura delle mie cicatrici, e
poi… e poi cosa?
Avrei trovato il coraggio di riprendere il cammino? Il mio
animo era ormai troppo selvaggio per non migrare?
Ero ancora immersa in quella fornace di pece bollente,
quando qualcosa cambiò.
Probabilmente intuendo il mio stato d'animo, Junielle si
sporse, e posò una mano, asciutta e fresca, sulla parte offesa del mio viso, carezzandolo leggermente, come
per confortarlo.
Non l’avesse mai fatto.
Provai l’impulso irresistibile di mordere a sangue
quella mano morbida, che non conosceva spada, cicatrici, non aveva assaggiato
né il sangue, né la polvere, né le lacrime della
sconfitta.
Puzzava di prigione. Capivo, certo.
Accettando, avrei firmato la mia condanna a morte.
Quella mano puzzava di bambagia. Ricacciai il mio dolore
indietro, e mi girai. Schifosa, caritatevole mezzelfa.
Osare trattarmi come una serva? Orribile essere inferiore,
osava trattare in questo mondo Ombra? Viscido verme, che intendeva fare di me?
Trasformarmi in lei e nei suoi falsi sorrisi?
Fare in modo da rendermi per sempre debitrice di lei,
sangue sporco ed infetto? Ancora quella carità disgustosa?
Ora l’avrei messa a posto, avrebbe capito quale
spazzatura doveva occupare.
Ero ferita, ero moribonda, non ero più la stessa
Ombra, ma lei mi doveva lasciare stare. Avrei ritrovato Chekaril, e sarei tornata
a splendere di gloria.
E allora sarei tornata per riprendermi il posto che mi
spettava, uno molto in alto, che lei non avrebbe raggiunto mai.
"non mettermi mai più le mani addosso, Sangue
Impuro".
Il mio ringhio rabbioso colpì più di una
palla di cannone. Come se l'avessi colpita davvero, Junielle si ritirò
sulla sua poltrona, diventando color carta.
Seppi senza parlare di averla offesa. Ci fu un altro
momento di silenzio.
Non ebbi bisogno di guardare per vedere la sua espressione
ferita.
Stavolta restammo a lungo in silenzio. La rabbia
svanì pian piano, lasciandomi spossata. Non previsto, avvertii qualcosa
di simile alla profonda vergogna.
Troppo tardi. Junielle era arrivata troppo tardi a scavare
nella mia anima. Ero io l’infetta.
Rabbia, vergogna, odio. Tutti questi sentimenti si erano
annidati dentro di me, avevano scavato una tana.
La mia amica l’aveva raggiunta, ed era stata morsa
dalle serpi che vi abitavano.
Per troppo tempo avevo vissuto da sola, ruminando il mio
rigetto per il mondo che mi rigettava. Non ero più me.
Presi a vergognarmi di me stessa, di quello che ero
diventata, e di come avevo trattato una persona che un tempo, quando potevo
dire di essere viva, chiamavo amica.
Sospirai, e fissai la pipa, ormai spenta. Io ero come lei.
Spenta. Vuota.
"non volevo".
Quelle parole mi uscirono di bocca molto inattese. Non
avevo la forza di stupirmi.
"mi dispiace".
Non ebbi nemmeno il coraggio di guardarla. La sentii
alzarsi, ed andare vicino alla finestra, ma non la seguii con lo sguardo.
Rimasi a fissare il fuoco. Non sapevo.
Cosa avrei dovuto provare? Dolore? Cosa? Non riconoscevo
più tanto bene le emozioni. Ero troppo vuota. Confusa.
"Tijorn
mi ha detto che ci sono novità. Dovresti andare a trovare lui ed Amarto.
Avrei dovuto riferirti questo, quando ti fossi fatta viva".
Mi fece male sentire la sua voce incrinata, e sofferente.
Stava piangendo, o quanto meno stava per farlo. In quel momento, mi odiai
più del solito.
Il pensiero di dover rivedere il Maestro e mio fratello,
in circostanze normali, mi avrebbe fatto venir voglia di morire, ma non era il
momento di provare ansia.
Io ero uno stupido e lurido vermetto strisciante. I
vermetti non provano ansia.
Chiusi gli occhi. "già. Avresti dovuto".
Ribattei, con voce cauta, piatta.
Un altro di quei silenzi imbarazzati, che sembravano non
finire mai. Da quando avevamo cominciato a non parlarci più? Non
ricordavo.
"per quanti anni...".
Disse all'improvviso Junielle, con un sospiro intriso di
lacrime e confessioni.
"ti ho visto vagare? Cinquant'anni, Lsyn, è da
tanto che stia viaggiando come una stupida, in tondo”.
Sobbalzai. Non avevo mai sentito la mia amica così
piena di amarezza. L’avevo ferita, eccome se l’avevo ferita.
Il vermetto sprofondò un altro pochino nella
poltrona.
Rimasi ad ascoltare quelle parole, vere e proprie spade,
in silenzio.
“per cinquant'anni, sono stata il tuo porto sicuro.
Ti ho tenuto la mano quando gli altri fuggivano!
Ti ho vista diventare un fantasma, e non ho avuto paura di
te, non ti ho allontanata!
Per cinquant'anni, Lsyn. Cinquanta dannatissimi anni.
Ti ho sostenuta!
Ma tu... tu disprezzavi tutti, e mi hai sempre trattata
come nient'altro che una lurida prostituta ed una serva, ed io che facevo? Ti
ho accolto sempre, e ti confortavo quando piangevi così disperatamente da
non riuscire nemmeno a prendere fiato!
Con che moneta mi stai ripagando, Amarto Lsyn?".
La scelta di mettere il mio secondo nome avanti, quella
scelta così formale, mi paralizzò, immergendomi nel panico
più totale.
Nemmeno la
Regina lo faceva. Nemmeno gli sconosciuti.
Mi sentii invadere da una certa smania gelata. Mi alzai di
scatto, e la guardai.
Era stravolta: il viso bagnato di lacrime, arrossato e
sfatto.
Il vermetto si contorse un altro po’. Oh…amica
mia, dolce amica mia.
Non l’avevo mai vista soffrire tanto. Era tutta
colpa mia.
Cercai di fare un timido passo in avanti, senza nemmeno
sapere cosa avrei fatto dopo, ma lei mi bloccò con uno sguardo, tirando
su col naso.
Era così distrutta, così…non so
nemmeno definirlo. Io mi ero professata sua amica, e l’avevo
chiamata…no, non posso ripeterlo.
Il suo tono di voce raggiunse toni di isteria, e si
incrinò ancora di più.
"cosa fai? Vieni qui, arrogante ed egoista come
sempre, comportandoti da padrona, e mi dai del sangue impuro! Cosa sono per te?
Un'informatrice? Una protettrice? O un'amica?".
Non seppi che risponderle, e la domanda cadde nel silenzio.
Da tempo non sapevo più cosa significasse la parola
amicizia. Da tempo non sapevo più cosa significasse tutto.
Avevo smesso di vivere.
Rimanemmo così, per un sacco di tempo, a fissarci,
entrambe in piedi.
Lentamente, le parole della mia amica cominciavano a fare
breccia nella mia testa.
Ero stata così egoista e crudele?
Così mostro? Ero confusa. Non mi sembrava di essere
stata così antipatica, in passato. Potevo solo essere sicura di una
cosa.
Era fatta. Persa. Persa. L’avevodavvero persa. Avevo esagerato,
fracassato quella fragile armonia che ci legava.
Fui io a spezzare quell’immobilità, rotta
solo dai respiri affannosi di Junielle, che sembrava già pentirsi di
quello che mi aveva detto.
No, in realtà sapevo esattamente cosa fare: mi
aveva schiarito le idee.
Dovevo andarmene di lì, e in fretta.
Con una mano, guardando ancora Junielle, cercai la mia
borsa e vi rovistai con una mano, fino a trovare i lineamenti rassicuranti
della maschera. Eccola, la mia unica e vera amica.
Lei sapeva proteggermi dagli sguardi, curarmi e
consolarmi, senza pretendere nulla.
La sollevai, tenendola stretta come fosse un inestimabile
tesoro.
Era fatta. Avevo perduto per sempre il mio ultimo ponte
con la vita.
Junielle osservò attentamente ogni mio minimo
movimento, ancora piangendo, perplessa.
Quando si accorse che mi stavo rimettendo ciò che
mi celava al mondo, sgranò gli occhi, ed in un attimo tornò ad
essere se stessa.
Mi si avvicinò di corsa, e mi fermò la mano.
Aveva una strana espressione, quasi maniacale. La sofferenza era una lucina
piccola piccola nei suoi occhi. Ne fui stupita.
"Junielle...".
Cominciai, con un sussurro. Temevo di farle altro male.
Non era giusto che dovesse soffrire ancora per colpa mia.
Lei mi aveva sempre accolta…ed io? Ero stata una
bestia schifosa, e avrebbe fatto bene ad allontanarsi da me.
Cosa che al momento non sembrava avere la minima
intenzione di voler fare, ovviamente. Testarda mezzelfa.
"cosa credi di fare, eh?".
Quasi mi urlò in faccia, con una strana voce venata
d’ira, stringendomi così forte il polso che fui costretta ad
abbassare la mano. Quella veemenza mi sorprese.
"dove credi di andare? Dannazione, Lsyn! Tra le due
non saprei dire chi è la bastarda ma, maledizione, ti voglio bene! Ti
voglio bene!".
Fece una cosa che mi stupì, ancora di più
delle parole, qualcosa che nessuno aveva mai fatto da un sacco di tempo.
Mi abbracciò, riprendendo a singhiozzare.
Lasciai cadere la borsa, a dir poco stupefatta. Da quanto
non sentivo più il calore intimo di un abbraccio?
Anni e anni e anni, avevo dimenticato quella sensazione
dolce.
La mia prima reazione, elfa abituata a decenni di vita
semi selvatica, come una bestiola, fu quella di allontanarmi di scatto,
soffocata.
Lentamente, però, mi costrinsi a lasciarmi andare.
Sarebbe stato un gesto tremendo, quello di allontanarmi.
Era troppo tempo che nessuno osava un gesto di affetto nei
miei confronti, davvero troppo.
Da tantissimi anni avevo paura che la gente mi si
avvicinasse, nessuno mi aveva nemmeno mai sfiorata per sbaglio, tanto facevo in
modo di evitare contatto con esseri che non fossero la mia cena. La cosa mi
riscaldò il cuore.
C'era sempre Junielle, la mia amica.
Amica, che stranissima parola. Evocava solidarietà,
affetto, cose belle che avevo dimenticato di avere.
Quella era l’amicizia?
Per quanto potessimo litigare, per quanto io, nella mia
folle rabbia, la offendessi, lei era lì. Rimanemmo per un po' abbracciate.
La scena doveva essere piuttosto buffa: nonostante la
lontana sensazione di pace, nel mio cuore, non ero riuscita a ricambiare
l’abbraccio.
La sentivo come una cosa così anomala… ero
rimasta com’ero, letteralmente paralizzata dalla sorpresa.
Dopo un
po’, l’imbarazzo prese il sopravvento. Non ero per le
manifestazioni prolungate d’affetto, anche quando ero ancora davvero
Lsyn.
Resistevo solo a Tijorn e Chekaril. Il primo…beh,
semplicemente perché era il mio mitico Tijorn, per il secondo non
c’era bisogno di spiegazione alcuna.
E poi, tutto quell’affetto mi stava commuovendo. Era
completamente fuori luogo in quel momento.
E poi, non potevo assolutamente restare.
Da quando ero diventata più tranquilla,
l’idea di tornare da mio fratello Tijorn mi riempiva di inquietudine.
Non avevo mai fatto uno sforzo per vederlo in quegli anni,
e lui, conoscendo i miei bisogni, mi aveva assecondata, sicuramente certo che,
prima o poi, sarei tornata.
Quella chiamata era, dunque, molto anomala, e dovevo
indagare a fondo.
Avrei fatto meglio a sbrigarmi, prima era meglio era.
Dovevo togliermi quella spina. Perché mi cercava, quell’altro?
Mi staccai, gentilmente, dalla mia amica.
"devo andare". Dissi, piano, guardandola nei
lacrimosi occhi verdi.
Lei scosse la testa, con un’aria mortificata che mi
face venir voglia di cancellare i miei propositi.
"è troppo tardi Lsyn...almeno dormi qui...
avrai tutto il tempo di...".
Fui seccata da quel continuo invitarmi a restare. Non ero
imprigionata. Forse lei non lo capiva, ma l’idea di ritrovare Tijorn era,
più o meno, come avere una spina nello stomaco.
Non volevo vincoli, proprio in quel momento.
E poi mi seccava. Non volevo essere ospitata da nessuno.
"no, Junielle. Rimanere sarebbe stupido".
Feci presto ad interromperla, con un gesto fermo,
rimettendomi finalmente la maschera, allacciandola con movimenti torpidi.
Il gelo familiare sul viso mi fece sentire più
sicura. Stavo sempre meglio quando ero nascosta agli occhi di tutti, e potevo
ringhiare al mondo senza che nessuno mi chiedesse perché.
"ci siamo scambiate troppo veleno. Finiremmo per
litigare di nuovo, e potrebbe non esserci nessun riparo, stavolta. Non è
il momento di restare: se Tijorn ha bisogno di me, c’è qualcosa di
importante, lo sai. Tornerò, come sempre, non preoccuparti. Magari con
Chekaril".
Sorrisi involontariamente, ma la maschera lo coprì.
Magari mio fratello aveva notizie preziose, e sarei
andata, grazie a lui, verso la vittoria. Già ne sentivo il sapore.
Dopo quello, sarei rimasta dalla mia amica per giorni e
giorni.
La mia amica sembrò comprendere, ed annuì
leggermente. Mi sentii sollevata.
Mi girai verso la porta, e cominciai ad allontanarmi da
lei. Stancamente. Lei non mi seguì, e restò lì dove
l’avevo lasciata.
"buona fortuna, Lsyn...".
Fu l’ultima cosa che le sentii dire, un sussurro
triste e stentato, prima che la porta si chiudesse dietro di me.
sono in crisi T____T sono arrivata...no. Mi rimangio tutto
quello che ho detto. Folgorante idea uhm... <.< lo so, non ci avete
capito nulla <.< abituatevici (detto in modo grammaticalmente correttissimo)
xD
ehi, è iniziata l'estate (ieri, però... fa
nulla <.<)!!! Che bello .___.
Per Carlos Olivera: grazie per il commento,
ancora una volta xD! Tu non sai quanto mi sono divertita a scrivere della
città xD chissà perchè, ma l'inserviente io l' immagino
con gli occhi a palla -.- di quelli che sembrano schizzare via da un momento
all'altro xD comunque, bando alle ciance mie solite. Continua a recensire, e a
farmi notare qualunque cosa che a tuo parere non va (oltre l'impaginazione
.____. Ma quella, è causa persa .__.)... fammi sapere se anche questo 3
capitolo è di tuo gradimento xD
Dopo un lungo periodo,
sono riuscita a finire la revisione di questo
capitolo.
Cosa paradossale, sono
ancora meno contenta dell’ultima parte. Ma non
sono riuscita a far di meglio, e questo la dice lunga.
Questo periodo è
abbastanza brutto, e penso che mi occorrerà ancora molto tempo prima di
poter continuare anche il seguito.
Sono ancora fermamente
convinta che questa revisione non serva ad un
granché, visto che nulla è cambiato dalle prime pubblicazioni, ma
continuo lo stesso, forse per qualche mio oscuro istinto masochista.
Come pure per istinto
masochista manterrò praticamente intatti i miei
commenti precedenti.
Temo di essere fuori di testa più o meno quanto Lsyn. Se non peggio.
Buona lettura(?).
Akita
--------
Eccoci finalmente (sic!!!)
al quarto capitolo. Non so chi legge (chi?? O___O), ma io mi sto divertendo xD
Ok, sporadici lettori, vi lascio ai miei deliri.
Seeyoulater!
Akita
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La casa di Tijorn Amarto, mio Fratello di Maestro, non era
lontana da Zakadi: lui abitava, allora, in un
distretto montano del nostro regno, una zona coperta da faggeti e castagneti,
dai rari, piccoli villaggi.
Non ci voleva moltissimo per raggiungerlo, soprattutto per
una persona abituata ai lunghi viaggi come me.
Lo consideravo, tutto sommato, un
vantaggio a metà.
Non avevo voglia di rivedere il sorriso di mio fratello,
ma, nello stesso tempo, se avessi aspettato troppo mi
sarei strappata il cuore con le mie stesse mani, per divorarlo.
Non sono mai stata un tipo molto paziente, e quella non
era una situazione in cui dimostrarsi tali.
Tijorn.
L’ultima volta che l’avevo visto, ovvero alla mia partenza per quel maledetto viaggio, dovevo
avergli sbattuto la porta in faccia senza troppi complimenti.
Lui, all’epoca, viveva ancora nella più
grande città degli elfi, nonché capitale
del Regno, Galinne, la meravigliosa Galinne dalle cupole d’oro.
La sua casa, in cui avevo passato l’intera
convalescenza, non era troppo lontana dalla stupenda abitazione che all’epoca
poteva ancora dirsi mia.
Con il tempo, come mi aveva ampiamente spiegato Junielle
in ogni nostro incontro, le cose erano cambiate.
Mio fratello non aveva più retto il peso della
grande, opulenta città, troppo densa di ricordi che a lui non piacevano.
Si era dunque ritirato nei pressi di Sharilar,
un modesto villaggio più a nord di Galinne, quasi ai confini del Regno.
Abitava nel posto più bello che potesse mai
esistere al mondo, nel quieto bosco che circondava quell’ammasso di
povere case: una modesta casetta quasi nascosta, remota, il luogo che ci aveva visti crescere felici, e che avevamo abbandonato con il
Maestro quando eravamo entrambi Spie adulte.
Io e mio fratello eravamo estremamente
diversi, su questo non ci pioveva.
Ovviamente, non sto parlando del sangue. Io non avrei
potuto fare quella scelta, mai.
Le nostre strade si erano divise quasi subito, e
così i nostri destini.
Tijorn era stato una buona Spia, ma, a differenza mia,
dopo i primi decenni di attività obbligatoria, lui, così pacato di natura, aveva scelto la via dell'insegnamento.
E dire che prometteva ancora meglio di me, con il suo
sangue freddo e i suoi metodi calcolati fino all’ultimo imprevisto.
La sua pazienza e meticolosità erano diametralmente
opposte al mio comportamento, che ha sempre rasentato il brutale.
La differenza più marcata tra noi due, quella che
aveva deciso il nostro futuro, non era però quella: lui era una persona
buona.
Troppo per il sangue e gli intrighi di corte, elementi in
cui io mi trovavo a mio perfetto agio.
Sempre stato un mollaccione di
prima categoria, il mio fratellone, una Spia incompleta. Dei due, sono stata sempre io la
cocca della regina, spia, diplomatica e spiccia assassina.
Lui aveva preferito un tranquillo anonimato, malvisto
dalle Spie operanti.
Uno stile di vita che lo aveva certamente isolato da molti
membri del nostro ordine, ma che gli aveva permesso di mantenere intatti i suoi
sogni, i suoi cari, le sue speranze, in una relativa libertà.
Io avevo scelto la carriera folgorante, il sangue, il
rispetto, la paura, la vita mondana e le missioni.
Ero rimasta sola, cacciata a calci nel sedere al primo
sbaglio, come un cane randagio. Forse era quello il pensiero che mi feriva di
più.
Quella sua vita serena avrebbe potuto essere anche la mia,
ma il sentiero che mi aveva portata alla distruzione
non me l’aveva permesso.
Mi ero distrutta con le mie stesse mani.
Io ero una povera vagabonda solitaria, lui…
Da quando eravamo adulti, il nostro Maestro, Amarto, non
si era staccato da lui.
Io non avevo la pazienza di gestire un vecchio elfo mezzo
alcolizzato, ed ero sempre in viaggio, o nel Quartier Generale, o a corte.
Insomma, ero sempre impegnata.
Tijorn si è sempre occupato del nostro povero
vecchio, specialmente quando una lunga, rovinosa malattia gli ha rubato la vista e, unica nota positiva, la voglia di
toccare un solo goccio di alcol.
Da sessant’anni buoni, inoltre, la sua casa
incasinata era stata allietata da due altre presenze.
Nysha e Manolìa
Tijorn, le due allieve di mio fratello.
Erano gemelle identiche, amate come figlie proprie, come
il Maestro aveva fatto con noi, e promettevano bene, nonostante le ricordassi
ancora come due mocciose frignanti.
Mi chiamavano Zia Maestra, quando ancora ero viva, ed ero
sempre a casa loro, a fare la capricciosa e a raccontar loro le mie mille
avventure pazzesche. Io lo trovavo estremamente
divertente.
Ah, che dolore al cuore. Dovevano essere molto felici,
loro.
Nessuno aveva più notizie di me dall’inizio
del mio viaggio. Avevo proibito a Junielle di parlare, anche se sapevo che
l’avrebbe fatto comunque.
Avevo promesso a me stessa di non tornare mai più
dai miei affetti. Già andare dalla mia amica era più doloroso di
quanto lei pensasse.
Se poi ricordavo tutto il livore che avevo riversato
addosso a mio fratello e al Maestro, tutta la rabbia, l’odio,
l’impotenza e la paura che si erano scatenate durante la mia
convalescenza… tutti gli insulti, tutta la vergogna…
Avevo innegabilmente voglia di tornare indietro e perdermi
in uno dei miei soliti giri senza fine.
Parlare di nervosismo era riduttivo: niente mi faceva
sentire così male quanto il ricordo dei miei
cari.
Io ero stata una bestia, ma la cosa che mi faceva venir
voglia di sprofondare nel terreno era un’altra.
Sarebbe stato facile dimenticare dei parenti ostili o
freddi.
Non era quello il caso: Tijorn ed
Amarto sono sempre stati buoni, pazienti, premurosi nei miei confronti,
nonostante tutti i miei capricci, il mio carattere orrendo, e il disastro che
aveva compiuto su di me l’incidente. Insieme mi hanno aiutato e fatto compagnia al Lazzaretto più di una volta.
Mi hanno fatto compagnia prima e dopo la nascita di mia
figlia, e non mi hanno mai fatto sentire sola.
Tijorn, poi, era sempre stato ben più di un
fratello di Maestro. Non avrei potuto sperare in un fratello migliore.
Mi ha sempre risollevata quando
cadevo, pronto a sorreggermi fin quando non ce l'avessi fatta da sola, mi ha
sempre confortata, assistita, coccolata, viziata. Era sempre stato così,
da quando ne ho memoria.
Io ero la piccolina della famiglia, irresponsabile e
capricciosa, e loro avevano sempre fatto quadrato attorno a me.
E poi, le due piccine mi adoravano, stravedevano per la
loro zia bizzarra. Erano così piccole quando le avevo viste
l’ultima volta, così innocenti.
Le portavo sempre in campagna o per i boschi, a cercarfiori, fragole,
castagne e funghi.
Avrei potuto odiarli, come odiavo
la sfacciata felicità di Junielle. Non potevo. Li amavo. Io li amavo,
tutti, tanto intensamente da fare male al cuore!
Era quello che non faceva altro che gettare continuamente
sale sulle mie ferite.
Mi sentivo un verme. Piccolo, lurido e strisciante.
Durante il viaggio, avevo cercato di calmarmi in ogni
modo.
Avevo evitato le strade battute, e camminavo per i boschi
conosciuti, per sentieri tracciati dalla mia memoria, in mezzo alla
tranquillità di un inizio di primavera.
Non avrei sopportato la vista di qualche paesano, che si
sarebbe immancabilmente terrorizzato.
Ero troppo schifata da me stessa, troppo presa da ricordi
dolorosi: una cosa del genere avrebbe innescato in me un istinto di fuga che si
sarebbe placato solo dopo aver messo molta distanza tra me e Sharilar.
La calma boschiva, però,
non serviva a schiarirmi le idee come avevo sperato.
Mi sembrava di essere sballottata dalla corrente di un
fiume impetuoso.
Troppi pensieri nella mia testa, troppi ricordi, troppe
ferite.
Come avrebbe reagito il mio caro Amarto? E quelle due
amabili creaturine? Erano cresciute? Sapevano usare
la magia? Il Maestro aveva ripreso a bere?
Tijorn mi aveva perdonata per
tutto quello che gli avevo fatto? Lo avevo ferito tanto, come un’egoista.
Ne ero perfettamente conscia: lui mi voleva un bene
infinito, e io lo avevo ricambiato nel modo più
terribile che una sorella potesse immaginare.
Sparendo, quasi per dargli la colpa
di tutto quello che era successo. Povero fratello mio, cosa gli dovevo aver
fatto passare!
La cosa più ironica di tutte,
era che lui non aveva mai smesso di cercarmi.
Oltre alle lettere che mi spediva tramite Junielle, che
non leggevo mai, mi teneva informata proprio tramite la nostra comune amica.
Consultava gli archivi di Galinne, per me, interrogava le
altre Spie, corrompeva e chissà cos’altro.
Tutto per me, per me, per me. Perché mai la sua sorellina doveva
rimanere senza notizie!
Che vergogna, infinita e bruciante.
L’unica cosa che poteva vagamente consolarmi era
che, in fondo, lui non aveva mai cercato un vero contatto con me, consapevole
che, da idiota qual ero, sarei fuggita in un attimo.
Il fatto di dovermi precipitare da lui mi sembrava indizio
di un grosso cambiamento.
Qualcosa doveva essersi mosso, e qualcosa di grosso.
Anche quell’indizio di diversità mi
spaventava. Ero quasi abituata alla routine: io che tornavo da Junielle, lei
che mi dava una lettera da parte di mio fratello, io che la bruciavo, lei che
mi diceva le notizie a voce, come Tijorn le aveva
riferito.
Ora ero costretta a compiere un passo enorme, il
più grosso degli ultimi anni. Ne avevo paura.
Temevo anche mio fratello, paradossalmente. Non conoscevo
l’entità del cambiamento, e non avevo mai avuto una grandissima
forza di volontà.
E se l’atmosfera calda e rassicurante della mia
famiglia mi avesse spinta a rimanere? Non potevo
permettermi un lusso così grande.
Con Junielle era facile resistere, ci dividevano
troppe cose non dette. Nella casa della mia infanzia c’era Tijorn,
c’era Amarto, tutti motivi sufficienti per restare.
Sapevo che, se avessi scelto di percorrere quella strada,
loro mi avrebbero protetta e coccolata in ogni modo
possibile ed immaginabile, senza compassione, senza farmi pesare il mio
aspetto.
Rimanevo la loro adorata cucciola anche con un corpo
distrutto per buona metà.
No, non potevo rimanere. C’era Chekaril da cercare, ed un dovere da assolvere. Non potevo rinunciare alla mia
missione solo perché mi sentivo bene con loro!
Chissà. Forse, se avessi seguito la tentazione,
avrei evitato il disastro. Sarei stata bene, e forse sarei riuscita a guarire
prima.
Sono stata stupida. Però,
che ironia.
L’unica volta che non ho ascoltato i miei istinti
infantili, e ho cercato di ragionare come una persona adulta, ho devastato
tutto. Mai che faccia una cosa buona, eh…
Ad ogni modo, avevo ottimi motivi per essere in ansia.
Camminavo per il sottobosco, con i passi agili e veloci di
chi è abituato ai viaggi a piedi, i sensi vigili, allertati da ogni
minimo rumore. Guardavo dritto, e nulla mi avrebbe fermata.
Volevo arrivare il prima possibile,
prima che facesse buio. Temevo bestie e briganti, che non si facevano scrupoli
di un'elfa sola, seppure sfregiata e orribile. Non dovevo dimenticare la
prudenza delle Spie.
Era la prima volta che percorrevo quei luoghi in modo
quasi automatico, senza fermarmi a salutare la mia infanzia.
Di solito, quand'eropiù giovane, per quanto
fosse urgente la missione, quei boschi erano tappa obbligata ogni volta che
passavo da quelle parti: sapevano di reminescenze infantili, di passeggiate, di
giochi e spensieratezza.
Ricordare quei tempi di oblio totale tuttora mi riempie di
amarezza.
Avrei dato la mia anima pur di rimanere bambina, un’innocente
che aveva le lezioni pomeridiane come unico pensiero.
Avrei pagato con la mia vita pur di rimanere in quel
bosco, ancora incosciente delle crudeltà che mi aspettavano, ancora con
una vaga idea di quello che significava essere nata Spia.
Avrei preferito anche un solo giorno in quel modo, e poi
la morte, alla mia lunga vita di elfo, straziante, inutile oltre
ogni immaginazione.
Ecco perché non potevo né riuscivo a
fermarmi. Tutti quei pensieri facevano un bel male.
Per quanto fossi veloce, tuttavia, non ce la feci: la
notte fu più veloce di me, e mi piombò addosso, tradendomi.
Ad un certo punto, quando il sole
era già calato da un pezzo, fui costretta a fermarmi: non ero molto
contenta, ma non era prudente camminare di notte.
L’avevo fatto da giovane, tantissime volte da Spia,
arrogante e sicura della mia potenza letale, una vipera notturna.
Avrei dovuto essere abituata all’ombra
da cui prendevo il nome, ma l’incidente aveva inciso in me una sottile,
insidiosa paranoia.
La solitudine aveva cominciato a farmi perdere la bussola
già da un pezzo. Non mi riconoscevo, né d’altronde mi sarei
riconosciuta più.
In breve, non mi fidavo a fare quello che avevo sempre fatto. Avevo paura, avrei avuto paura
anche se un innocuo animaletto di foresta mi avesse tagliato la strada
in quel momento.
Da giovane, com’ero un tempo, un incontro
ravvicinato con un bandito o un lupo mi avrebbe riscaldato il sangue nelle
vene, tanto amavo gli scontri, tanto mi sentivo scioccamente sicura della forza
che non avevo.
In quel momento, solo l’idea mi faceva venir voglia
di correre via, starnazzando come una gallina. Questione di prudenza.
E poi non potevo presentarmi da Tijorn in piena notte, mi
avrebbe scannata, ed era poco.
I fruscii ed i normali rumori
della notte mi inquietavano, e sobbalzavo ad ogni piè sospinto.
L’istinto pavido che sentivo in me mi portava a
cercare un rifugio sicuro. Forse allora sarei stata un
pochino più tranquilla.
Dopo una breve ricerca, trovai quello che cercavo: un
vecchio albero, quasi senza foglie né gemme, forse un faggio.
Abbastanza in alto per sentirmi
al sicuro, c’era una biforcazione, forse un antico danno. I rami
lì erano abbastanza robusti per sorreggermi.
Mi sentii immediatamente
rassicurata, e mi arrampicai velocemente. Almeno l’agilità non l’avevo
persa.
Il mio rifugio temporaneo non era pulito, né
comodo, ma avevo imparato ad arrangiarmi, in quegli anni.
Mi sistemai, e, come prima cosa, mi tolsi la maschera.
Mi dava fastidio stare senza maschera, mi faceva sentire
peggio che nuda, ma dovevo mandar giù qualcosa.
Frugai, a disagio, nella mia borsa, vecchia e sdrucita,
ormai quasi vuota.
Trovai qualche vecchio pezzo di carne salata, un po’
ammuffito. Era passato un bel pezzo dal mio ultimo furto, l’unico modo
che avevo di procurarmi un cibo che non fosse crudo ed
impossibile da cucinare.
Mangiavo ormai quello che mi capitava. Ero proprio appena
un gradino più su dei mendicanti, e ne risentivo parecchio.
Scossi la testa, mangiucchiando
senza fame quella cena orrenda. Ero scesa decisamente in basso.
Tijorn mi avrebbe uccisa.
Fu un sollievo finire, e rimettersi la maschera.
Con l’automatismo di anni di gesti uguali, dopo
essermi coperta il volto, rinfrancata, usai la borsa come cuscino e mi stesi.
Era tempo di dormire, quel sonno leggero, vigile e per
niente riposante che gli addestramenti ed i viaggi mi
avevano lasciato in eredità.
Ero molto stanca, ero sempre stanca,
e non ci misi molto ad addormentarmi.
Nel buio e nell’oblio mi venne a trovare,
cosa non molto rara, un sogno.
Sono passati tanti anni, ma ancora lo ricordo bene. Credo
che sia tra gli incubi più terribili che io abbia mai fatto, e ne ho fatto e ne faccio molti. Ne ho tanta paura.
Non mi sembrava tanto spaventoso, all’inizio: semplicemente,
mi sembrò di aprire gli occhi.
Era giorno. Mi trovavo in una sorta di cavità
luminosa. C'erano tracce d'umidità dappertutto, e si sentivano, in lontananza,
i suoni della foresta.
Caspita, sembrava un sogno così rilassante!
Mi guardai un po’ meglio intorno. Ero in una larga
caverna umida, e l’uscita non era troppo lontana. Cominciai allora a
dirigermi proprio verso di lì.
Una strana urgenza mi spingeva ad
uscire.
Sbucai in una bella radura, un posto tranquillo come se ne
trovano tanti nelle foreste.
Mi fermai. Ma…io conoscevo
quel luogo.
Da lì era cominciato tutto. Quello era il luogo del
mio incidente, e non potevo dimenticarlo.
Sentii come una fitta d’inquietudine. Tutto era
calmo, fin troppo calmo. Calmo come quel giorno.
Con la strana consapevolezza che si ha nei sogni, sapevo
che nulla esisteva al di fuori di quel posto. Il resto era semplice illusione,
pura finzione.
Qualcosa mi spinse a girarmi di scatto.
Poco lontano da me, ancora tra gli alberi, c’era un
cigno.
Era bianco, maestoso, superbo. Mi guardava, altezzoso, con
dei liquidi occhi neri, senza muoversi.
Mi studiava, senza paura né fretta. Per quanto
bizzarro possa sembrare, mi sentivo come una preda, valutata e soppesata.
Sono pazza, ne sono sempre stata pienamente consapevole.
Restituii quello sguardo neutro, rendendomi
improvvisamente conto di essere del tutto sana. Accettai questo fatto senza
meraviglia, come se fosse normale.
Ad un certo punto, lo strano cigno
allungò il lungo collo, ed aprì il becco.
Non so cosa mi aspettavo che succedesse, ma sicuramente
non quello che sentivo.
Il cigno, cosa assurda, cantava.
Un canto di bellezza assoluta, da
far venire le lacrime agli occhi. Sentivo lo strazio in quelle note, sembrava che quel
bellissimo volatile mi stesse parlando.
Io sono dannato. Sono dannato e non posso scappare. Sono incatenato,
prigioniero di catene che tu non vedi: aiutami.
Recidi questi legami, e liberami. Lasciami volare, libero
di meravigliare ancora il mondo.
Lasciati incantare anche tu.
Non capivo cosa volesse da me.
Improvvisamente come aveva cominciato, il cigno smise
improvvisamente di cantare, e abbassò la testa, come sconfitto.
Poi cominciò ad avvicinarsi, a passi lenti, stanchi.
Quando fu di fronte a me, si fermò, ed alzò la testa meravigliosa.
I nostri sguardi si incontrarono,
e lui parve supplicarmi.
La mia mano si ritrovò all'improvviso gravata dal
peso familiare di qualcosa.
Abbassai lo sguardo: stringevo la mia spada, scintillante
come illuminata da mille soli. Un invito seducente alla violenza. Seppi allora
cosa fare.
Senza esitazione, a testa bassa, con la scioltezza pulita
dei sogni, la conficcai nell'ampio petto del cigno, che gorgogliò, un
ultimo respiro soddisfatto.
Finalmente mi sentii degna di alzare lo sguardo, la lama
ancora infitta nel corpo dell’animale.
Ebbi un colpo e mi allontanai di scatto, inorridita.
Chekaril mi fissava con sguardo accusatore e beffardo, la
spada infissa all'altezza del cuore.
Rimase immobile, poi, dopo un ultimo sorriso freddo, ironico,
scomparve.
Ero di nuovo sola, immersa in una quiete mortale.
Nulla esisteva al di fuori di quella radura: nessuno mi
avrebbe mai sentita, nessuno mi poteva sentire.
Il cigno mi aveva incantata.
L’avevo liberato nell’unico modo possibile:
offrendomi al suo posto. E non lo avevo capito!
Cercai di muovermi, ma qualcosa me lo impediva, un peso
insopportabile dalle parti del cuore, delle catene invisibili che mi
opprimevano le ali.
Lui era libero, e io prigioniera.
Non potevo scappare.
Un improvviso lampo. E poi non vidi altro che i rami dell’albero
sopra il quale mi ero addormentata, e il cielo buio.
Io adoro questo capitolo xD
finalmente, le cose entreranno nel vivo. Vi avverto (chi legge, almeno!!), il prossimo capitolo sarà anormalmente lungo. Mi
sono venute due pagine e mezzo di word O___O e vabbè,
è una parte che adoro (e che non intendo spezzare è.é) xD, ed
è anche importante. Sono irritata ù.ùperchè nessuno commenta (continuerò a
lagnarmi finchè qualcun altro, esasperato
dalle mie continue rimostranze, si decida a muovere le due regali dita ed azzardarsi a lasciarmi un commento. Non per essere acida,
ma...),e soprattutto perchè,
capitolo dopo capitolo, le persone che leggono sono sempre meno? O___O è
un qualcosa che m'inquieta non poco <.<
Coomunque, passiamo ora (al) commento xD
Per Carlos Olivera: eh
si ._. è davvero deprimente vedere quanti sforzi inutili si fanno .___. Vabbè, scrivo per scrivere, non per essere recensita
xD (comunque la tua storia "Antares"
mi piace davvero moltissimo xD) su sususu...
Sono curiosa di sapere cosa ne pensi *_____* che ne dici del sogno? xD (oddio. MI
sono accorta che questo capitolo non ha dialoghi O.O cos'è successo? xD griderò al miracolo!)
A tutti gli "altri" (sperando in maggior
successo) aurevoirxD
Come precedentemente promesso (a chi?? O___O), eccomi con il quinto capitolo. Vi ho già
avvertiti (o) -.- sarà più lungo xD e purtroppo, non è il
solo. Avendo scritto gli ultimi capitoli (che, diciamocelo chiaramente, son
quelli che ho scritto prima ._.), mi sono accorta di
aver fatto grossi sproloqui tragici xD
Ora vi lascio alla lettura, alle ossessioni di
Lsyn ed alla sua pazzesca paranoia infernale xD
Akita
----------------------------------
Mi tirai su di scatto, il respiro
mi usciva a singhiozzi. Era ancora notte: troppo presto per mettersi in
cammino. Un gufo lanciò il suo cupo richiamo. Mi guardai intorno, la
mente in subbuglio, e tolsi la maschera, tergendomi il sudore freddo dalla
fronte, godendomi l'aria fresca. Sognavo di rado Chekaril, e mai in
quelle bizzarre vesti. Mi sentivo scossa. Cosa voleva significare
quell'incubo? Perchè l'avevo sognato, proprio ora? Ben
presto, grazie all'abitudine, mi calmai. Non sentivo più sonno, ma
non potevo ancora proseguire: sbuffai, seccata, e mi misi più comoda,
osservando la foresta attorno, ancora con la maschera tolta. Quando non ci sono
in giro persone o specchi,è piacevole sentire il viso libero, e si
può; quasi credere sia intatto. Come spesso accadeva, mi ritrovai a pensare
a lui. Ben presto mi ritrovai sommersa nei ricordi. Era stato quello sguardo
canzonatorio, da spiritello malvagio, a stregarmi. Era entrato a testa bassa
dove stavo facendo rapporto alla Regina, possano gli
dei averla in eterna grazia. Lo avevo guardato con sospetto,
timorosa fosse qualcuno venuto ad intromettersi, chiudendomi in un
silenzio repentino, ma la mia signora mi rassicurò. Sorrise, con
un'espressione sarcastica e molto divertita. "Chekaril, sei
arrivato come un fulmine. Hai addirittura spaventato Lsyn
l';Ombra!". Il nuovo arrivato ridacchiò, e scosse la testa.
"ah, Lainay... mi sento deluso!". Disse, con voce morbida e
vellutata, venata di allegria. "di solito sortisco ben altri
effetti!". Avevano riso entrambi, sottovoce. Io ero rimasta a guardarlo,
con nient'altro che diffidenza nel mio cuore. La Regina sbuffò,
ora seccata. "santi dei, Lsyn, sei peggio di
un'infante! è mio fratello Chekaril...il guerriero
viaggiatore, ricordi?". Avevo un pallido ricordo di un ragazzino
petulante e presuntoso, sempre intento ad azzuffarsi con qualcuno,
principalmente sua sorella. Era partito che era ancora giovane, per essere
destinato ad una carriera militare. Da allora, era tornato così di rado
al castello che non l';avevo più visto. La mia signora
continuò, dopo un breve silenzio, a parlarmi. "Non temere: puoi
tranquillamente continuare a fare rapporto". Non mi sentivo rassicurata,
e rimasi zitta, studiando ciò che intravedevo del viso nascosto. Erano
davvero simili: stessi occhi viola, stessi capelli biondi. Finalmente, il
giovane alzò la testa, scoprendo lineamenti fini, quasi cesellati da un
orafo. Io rimasi letteralmente senza fiato, e riuscii a stento a mantenere il
mio contegno impassibile, e non arrossire come una fanciulla alle prime armi.
Lui aggrottòun sopracciglio, chiaramente squadrandomi per bene, e poi
sorrise, in un modo che in seguito avrei imparato ad identificare come scherno
interessato. Ricominciai a parlare. Ma non ci staccammo gli occhi di dosso. La
mia signora, fortunatamente, non se ne accorse: altre volte avevo tenuto quel
comportamento, ed era sempre sintomo del manifestarsi della mia paranoica
cautela. Da allora, non furono che sguardi fugaci e sorrisi furtivi, quando
c'incrociavamo per i corridoi del castello. L'occasione per
parlargli si presentò tempo dopo: la sorella stava in quel periodo molto
male, probabilmente avvelenata da qualche fanatico, ed era lui il mio
referente. Nel vederlo, mi pareva quasi che il cuore fosse in procinto di
scoppiare, e lo stomaco di finire nelle piante dei piedi, nonostante non lo
vedessi da tempo ed il suo aspetto fosse deturpato dalle notti insonni.
Mantenni a stento il mio contegno impenetrabile. Riuscii a dire le
novità solo per mezzo: forse per la stanchezza dell'essere
infermiere di un'ammalata, forse per preoccupazione, o chissà
cos'altro, decise di buttare la cautela alle ortiche.
Mi baciò. Decisamente, non fui romantica. Non lo sono mai stata, in
realtà, nonostante lui fosse, per me, come l'acqua per un
assetato. Lo schiaffeggiai con tutta la forza che avevo. Non doveva e non
poteva permettersi. Io ero una Spia, un Cane della Regina...e lui era suo
fratello! Il suddetto lui in questione, forse indovinando i miei pensieri,
rise, e mi si avvicinò di nuovo, per abbracciarmi. Io mi divincolai,
borbottando a mezza voce bestemmie che avrebbero fatto arrossire un rozzo
marinaio, ma che lo divertirono ancora di più. Poi si chinò verso
me per sussurrarmi all'orecchio. "parole interessanti, per gli
accidenti! Ora me la paghi, piccola Spia!".
Mormorò, solleticandomi il collo con i capelli. "vieni stasera
alla fattoria fuori le mura, e discuteremo insieme di queste gravi
notizie". Disse le ultime parole con voce normale, riprendendo il suo
contegno grave, ma facendomi l'occhiolino. Non resistetti a tanta
sfacciataggine, e mi arresi. Risposi con un sorriso appena accennato, ed un
piccolo inchino. Il nostro primo appuntamento. Quella casa abbandonata
la ricordo ancora come l'avessi lasciata ieri. Erano un dolore, ed una gioia immensi, ricordare quei momenti. Da
allora, ci fu un anno di beatitudine clandestina. Dovevamo stare attenti: non
potevamo permetterci il lusso di essere scoperti. In pubblico mantenevamo le
distanze: io la Spia, lui il Principe. Distanze che annullavamo, in tutti i
sensi, in qualche luogo ed ora impensabili. Il rifiutarlo ed il rifuggirlo era
diventato quasi un gioco, un gesto simbolico per ribadire la nostra totale
indipendenza l'uno dall'altra. Nessuno sospettò mai nulla.
Verso l'inverno di quell'anno, cominciarono i primi litigi e
gelosie. Dopo una missione particolarmente ardua, ed un tuffo in un lago ghiacciato
(dal quale, se fossi stata sola, non sarei mai uscita), ero finita per
l'ennesima volta al Lazzaretto, con una brutta febbre e la voce del tutto
fuori uso. Non vedevo Chekaril da
ormai due mesi, e bramavo la sua compagnia, sentire la sua voce calda,
accarezzare i suoi capelli. Finalmente, dopo settimane d'impazienza, mi
dimisero, a due giorni da un importante ballo. Si potrebbe pensare che le Spie
siano pezzenti, da ciò che ho raccontato. Nulla di più sbagliato:
la nostra organizzazione si basa su antenati di antica e pura nobiltà.
Ad ognuno poi è data la scelta: vivere una doppia vita da nobile, o
contadino. Io avevo preferito la prima strada. Insomma, ero estremamente
impaziente: durante quelle feste, l'attenzione si allentava, ed avevamo
l'occasione di vederci un po' più. Quella sera, la mia
cameriera quasi m'implorò di non uscire: ero ancora convalescente,
e dovevo stare alla larga dalle intemperie. Non l'ascoltai, e mi fiondai
al castello, preparandomi nel mio modo migliore. Quel giorno era una ricorrenza
importante, l'inizio del Regno, e l'organizzazione perfetta. Fui
sommersa da molti dei miei colleghi, che chiesero informazioni sulla mia
salute, e perfino
la Regina venne a parlarmi, ed a complimentarsi per il coraggio dimostrato.
Sentii con un orecchio solo tutte quelle lodi
sperticate. Ero occupata a cercare Chekaril. Dove si era cacciato? A furia di
tentare di trovare, trovai. In mezzo al luogo dove ballavano altre coppie,
c'era lui, tra le braccia un'elfa dai capelli rossi, con il quale
si teneva stretto, lo sguardo perso.
Crollai di schianto su una sedia, tanto da attirarmi parecchi sguardi
preoccupati, e qualche mormorio. Seguii il mio unico amore con gli occhi,
reprimendo a stento le lacrime, ed il tremore. Mi sentivo come una fanciulla
inerme. Perchè non avevo ascoltato la mia serva? Ad un certo punto, i
nostri sguardi s'incontrarono. Lui sgranò gli occhi, ed
accompagnò elegantemente la dama al suo posto, fingendo poi di andare
verso il palco della musica, ma dirigendosi verso me. Fuggii, senza pensare
più a nulla. Quando fui in grado di connettere di nuovo, mi trovavo nel
portico del castello, quello che dava sui giardini. Non c'era nessuno:
tutti si stavano godendo la festa. Mi appoggiai alla balaustra, forte come se
stessi su una nave in tempesta. Chiusi gli occhi. Non so quanto tempo rimasi
lì. Mi riscosse dal mio dolore muto un abbraccio familiare. Lui mi aveva
trovata. Rimasi immobile, mentre poggiava la testa sulla spalla.
"Lsyn...". Mormorò, suadente, con una nota di supplica
nella voce. "amore mio...ascoltami...". Non gli risposi, la
stretta si fece più forte, quasi rabbiosa. Ed allora mi divincolai, come
facevo tante volte per gioco. Solo che quello non era la nostra solita
sceneggiata. Lui mi lasciò andare, e ci fronteggiammo. Io lo fissai
dritto negli occhi, colma di rabbia e di dolore, combattendo contro il pianto.
"occhio non vede, cuore non duole, Chekaril?". Sibilai, con voce
incrinata. "hai un modo tutto tuo d'intendere le promesse!".
Mi voltai per andarmene. Lui mi afferrò per un braccio, e costrinse di
nuovo a girarmi. "maledizione, stupida che non sei altro!".
Ringhiò, ora arrabbiato. "Lainay
sospetta: prima di te, avevo fama di dongiovanni, e lo sai. Ora ci sei solo
tu". Il suo volto, prima teso e nervoso, si addolcì, e lui
proseguì teneramente. "e ci sarai solo e sempre tu. Ma se mia
sorella lo scopre, ti caccerei nei guai. Perciò ho deciso di darmi da
fare. Ma Inokuni è già sposata: ci limitiamo a leziose
galanterie...ah, povero Chekaril, che sceglie le sue prede tra elfe occupate!".
Ridacchiò, ora pienamente tornato in lui, già intuendo la mia reazione. Penso
di aver sgranato gli occhi: un'elfa sposata era praticamente intoccabile.
E lui non aveva mentito. Non poteva: non mi avrebbe parlato con tanta premura,
e tanta dolcezza. Mi feci finalmente sfuggire qualche lacrima.
"tu...hai...deciso di... bastard...". Ebbi il tempo
di dire, in un soffio, prima che lui mi tappasse la bocca con un bacio.
"lasciami proseguire una stupida sceneggiata". Disse poi, facendomi
il suo solito occhiolino."però ora non ne ho voglia: che ne dici
se andiamo a farci una passeggiata?". Per quella volta facemmo pace. Ma
l'idillio era stato spezzato: i nostri litigi erano frequenti quanto e
certe volte più dei momenti di beatitudine. Sfogavamo la nostra rabbia
ed il nostro odio in una passionalità quasi violenta. I nostri incontri,
notturni e segreti, divennero più frequenti: ma non parlavamo ormai
molto. Avevamo scoperto l'oscuro lato del nostro carattere. E non ci
piacevamo. Le "sceneggiate" di Chekaril divennero veri e propri
tradimenti. Ed io, ogni volta, mi vendicavo ripagandolo con la stessa moneta.
Ma tornavamo sempre insieme, ad amarci ed odiarci. E quanto ci amavamo, quanto
ci odiavamo! Eravamo fuoco e ghiaccio, ed il nostro amore un fuocherello nella
sterpaglia della brughiera. Era distruzione totale, di cose e sentimenti. Ci era
rimasto solo quello. Fu in quel periodo tumultuoso che scoprii di aspettare mia
figlia. La segretezza raddoppiò, ed il nostro rapporto si mitigò.
Non rivelai a nessuno l'identità del padre. Nemmeno Junielle sa.
Io e lui, omai, per il mio stato, non ci vedevamo più spesso. Negli
ultimi periodi, prima che nascesse, e anche dopo, Chekaril era diventato quasi
paranoico. Temo che la sorella sapesse, o intuisse,
molto. Quando la portarono via, portarono via nostra figlia, lui era lì,
incaricato di sorvegliare. Si trattenne dall'avere un attacco isterico,
mentre io ero piuttosto calma. Sapevo che doveva andare così: lui
l'avrebbe voluta tutta per sè. Io, anche se ero innamorata di lei,
dal primo momento in cui l'avevo stretta tra le braccia, mi ero
preparata. Da allora, i rapporti tra me e lui si andarono a raffreddare sempre
più. Dopo nemmeno sei mesi, scomparve. E la mia vita cambiò: non
ebbi più spazio e coraggio per l'amore, nella mia vita ridotta ad un ammasso di cicatrici che mi fissava da uno specchio.
Ma lo bramavo ancora. Non l'ho mai, mai, smesso di amare. Era per quello che la mia ricerca mi
ossessionava tanto. Mi colpì però un pensiero, e cercai in ogni
modo di liberarmene. Scossi la testa, mentre riemergevo lentamente dai ricordi,
più triste di prima. Avevo ricordi così nitidi di lui, che il mio
cuore piangeva a non poterli toccare. Non volevo il Chekaril freddo e cortese,
nè il traditore violento e passionale. Desideravo rivederlo come prima,
beffardo ed amorevole, premuroso ed innamorato. Per fortuna, stava albeggiando.
La maschera m'impedì di scoppiare in lacrime. Perchè lui mi
avrebbe odiata, avrebbe avuto paura di me, sfregiata e orribile, per colpa sua.
Era quello il pensiero molesto. Che ironia. Sfregiata per amore di un fantasma.
Ridacchiai stupidamente, forse per mascherare la disperazione che provavo.
Saltai giù dal mio riparo, e mi rimisi in cammino, a testa bassa. La
casa di Tijorn mi aspettava: ero pronta ad andare incontro al mio futuro,
sofferente e sfinita.
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Angolino di Akita xD
be-e-nissimo! Eccoci con il 5 capitolo, miei cari prodi
invisibili. Mia ciurma fantasma. Ohhhh...si. Io mi ci diverto a fare la
melodrammatica. è così dannatamente passé xD
coomunque...oh, quanto adoro Chekaril
*Q* è una carogna, ma lo adoro xD ohh...si xD
ed ora, bando alle ciance e allo slcero xD
passiamo al commento xD
per Carlos
Olivera: com'è dannatamente gratificante ricevere commenti
positivi xD su su su, il mio è un innocente scherzetto da ego smisurato qual sono xD sii...continua Antares!
*.* sono curiosa di sapere cosa succederà ai tuoi eroi xD tutti quegli
scontri m'affascinavano, oh, si xD Millennium War la sto cominciando a
leggere xD devo dire, per ora non ci ho capito una mazza (anche perchè ho
letto i primi 2 o 3 capitoli .___.), ed ho fatto solenne confusione con i nomi, però mi piace xD dimmi cosa pensi,
al solito xD che ne pensi di Chekaril (e di questo capitolo)? Sembra
verosimile col resto della mia storiella inconcludente? xD
*___* un megabacio xD (si, quando sono recensita divento schifosamente
molliccia ù.ù)
e per gli altri
recensite ù.ù
non per nulla ma... vorrei solo
sapere cosa ve ne pare O___ò
Eccomi qui, con il mio sesto capitolo xD intanto, sono in completa crisi esistenziale e d'ispirazione
T___T cioè... ho in mente l'inizio, e verso la fine. Ma come
riempire tutto questo spazio? Che far combinare a Lsyn? O__ò
Ach, zzz...
eccomi O___O ci sono. Davvero, ci sono!
Problema risolto xD
Tralasciando scleri
vari, è giunto il momento di lasciarvi al fatidico incontro del mio
mostriciattolo preferito xD
Che succederà? Cosa gli dovrà mai
dire
La risposta, tra altri tre capitoli ù.ù
Pazientate, chusma fantasma, pazientate.
Ora vi lascio davvero xD
per leggere di nuovo voce di Akita e non di Lsyn, giù come al solito xD
Sono più idiota del normale, oggi, ma
pazienza, sopportatemi xD
See you later!!!
Akita
Arrivai in vista della casa di Tijorn verso metà
pomeriggio. Il tempo era migliorato molto da quando
avevo lasciato Zakadi: era una giornata soleggiata e tiepida. La maschera aveva
preso a darmi molto fastidio, ed avevo caldo. Per questo, e per altri motivi,
il mio umore stava peggiorando di minuto in minuto. Avevo perso la strada due
volte, ed ero praticamente stata costretta a prendere un viottolo sterrato. Tutti
quelli che incontravo, principalmente villani, cambiavano strada non appena
notavano arrancare la mia figura, nera e curva come un gigantesco insetto.
Dovevo essere, probabilmente, una figura di malaugurio.
Per loro no, certamente. Altri avrebbero dovuto temere la mia rabbia. Ero
finalmente rientrata nel bosco con una sensazione di sollievo enorme. Sotto la
penombra delle foglie novelle faceva più fresco. Non voluto, mi
assalì un improvviso senso d'apprensione, che ero riuscita a
sopire per tutto il tempo. Quasi mi mancò il fiato dal nervosismo.
Sapevo ormai a menadito la strada, memoria forgiata da anni di permanenza e
giochi, e mi diressi, furtiva, verso il punto esatto.
Il bosco di Sharilar era molto luminoso e tranquillo, e
l'unico suono era il canto degli uccelli. Finalmente, vidi la casa, in
una radura attraversata da un ruscello. Mi fermai, tra il deliziato ed il
divertito. Avevo passato lì la mia infanzia, per lasciare quell'abitazione
con Tijorn.
A quanto pareva, quest'ultimo se ne era
impossessato nuovamente. Ed aveva cambiato tutto, con il suo terribile gusto
romantico. La mia vecchia casa, un tempo un po' cadente, era ora una
solida costruzione di mattoni, con accanto una piccola
stalla pulita. Il prato era stato curato alla perfezione, e la staccionata che
l'attorniava ridipinta a nuovo. Sui muri intonacati di bianco si
arrampicavano edera e gelsomini. Il tetto era in tegole rosse, con un camino,
spento, ma che immaginai molto piacevole nelle notti d'inverno. La porta
e le finestre erano in legno grezzo e scuro. Ai lati dell'entrata, due
cespugli di rose. Ridacchiai stupidamente: Tijorn amava quel genere. Era tipo
da potare personalmente le piante. Scommettevo l'avesse
fatto.
Mi avvicinai di soppiatto, rintanandomi tra gli alberi,
mentre mi assaliva di nuovo l'ansia, come una muta esplosione
all'altezza dello stomaco. Stavo per rigettare la colazione.
All'improvviso, tutto si fece freddo. Mi sentii seccata dalla mia
debolezza, e borbottai qualche bestemmia. Avanti,
stupida vecchia capra! Pensai, senza decidermi a muovere un passo. Prima o poi lo dovrai fare...stiamo
parlando di tuo Fratello! Perchè non hai battuto ciglio davanti a
Junielle? Dannazione! Alzai gli occhi al cielo, ringhiando, e mi avviai,
uscendo di nuovo alla luce del sole. Avevo fatto pochi passi, quando la porta
si spalancò, ed uscì Tijorn, con un secchio in mano. A differenza
mia, lui è molto alto. Ha una carnagione stupenda, nè lattea,
come me, nè scura. L'unica cosa che ci accomuna sono i capelli
neri, che non ricordavo portasse così lunghi. Gli ho sempre invidiato,
inoltre, i suoi occhi. Sono di un grigio incredibile: sembra di potersi
perdere, poter annegare in due pozze di saggezza e comprensione.
Mi fermai, e rimasi lì, in
attesa, ferma in mezzo al sentiero di acciottolato bianco che portava alla
porta. Lui al momento era di spalle, intento a chiudere la porta, e poi a
sistemarsi i capelli in una pratica coda di cavallo. Finalmente, si
girò. Era evidentemente distratto: fece qualche passo
prima di accorgersi della mia mesta presenza. Quando mi vide,
sgranò gli occhi, sorpreso. Aprì la bocca a mezzo, ed il secchio
gli cadde di mano con un clangore sonoro. Restammo lì, impalati. Un incontro davvero lieto.
Io, in quel preciso istante, sentivo il mio stomaco
ridursi in gelatina, e le gambe tremare per il nervosismo. Mio Fratello si
sciolse in un improvviso sorriso, caldo e gioioso. "la mia
Nanetta...". Disse, mentre gli occhi quasi gli diventavano lucidi. Io
avvertii, assieme ad un'altra fitta di paura, un'improvvisa irritazione. Odiavo quando mi prendeva in giro per la mia bassa statura.
Quello era però il soprannome di una vita, tutto l'affetto di un
fratello maggiore condensato in una parola scherzosa. A quel pensiero, lo sdegno sparì in
un baleno, sostituito da un affetto secolare. I miei propositi
d'impassibilità svanirono quando lui si
precipitò verso di me, e mi abbracciò, così violentemente
da alzarmi da terra. Rimanemmo a lungo così. Se devo essere
completamente sincera, in quel momento Tijorn non era affatto la mia
preoccupazione principale. Mentre lui era commosso, infatti, il mio unico
pensiero era la colazione che saliva e scendeva in modo inquietante.
Pregai con tutto il cuore che non succedesse nulla.
Non avevo nessuna intenzione di vomitare addosso al fratello che non vedevo da
anni. Ho sempre avuto qualche problema di stomaco legato al nervosismo.
Finalmente, mi lasciò andare, e si terse le lacrime
con la manica, in un gesto da bambino che mi emozionò. Abbassai il capo
nascosto. "non ti aspettavo così presto". Disse, prendendomi
una mano. "sono contento tu sia venuta".
"anch'io". Ammisi, parlando per la prima
volta.
Lui fece una smorfia. "dimmi un po',
Nanetta...". Disse, scuotendo il capo. "da quanto è che
non spiccichi parola?".
Non risposi, e scossi il capo, a disagio. Ci fu un attimo
di silenzio. Tijorn alzò gli occhi al cielo, e sospirò, mentre il
sorriso si cancellava da bocca. Ho un vero e proprio
talento, nel farlo.
"dove sono le ragazze?". Dissi finalmente, rendendomi
solo in quel momento conto di quanto fosse orrenda la mia voce, che arrivava
quasi distorta all'esterno.
Il viso di mio fratello ridiventò sereno in un attimo.
"fuori, da qualche parte con Amarto. Ho pensato potesse fargli bene un
po' di aria primaverile". Concluse, mentre la gioia ritornava a
danzare negli occhi chiari. Rimanemmo per un altro attimo in silenzio. Mi
sentivo davvero male. Proprio mentre Tijorn cominciava ad
adombrarsi, ripresi la parola, esitante.
"hai ragione". Dissi, stringendogli una mano,
e fissando, quasi divertita, il suo volto perplesso. "dovrei parlare un
po' di più". Lui rise, ed io sentii finalmente il nodo di
tensione allentarsi.
"su coraggio, Lsyn...". Mi rispose, con un
sogghigno astuto. "vieni dentro. Mi sorprende non ti sia già
sentita male. O il tuo autocontrollo è diventato straordinario?".
All'improvviso, sentii molto caldo nella maschera, ed il malessere tornò, più forte di prima.
Lui rise di nuovo, probabilmente indovinando il mio stato d'animo.
";ti proibisco di rovinare il mio prato. Su, forza,
entriamo: le piccole moriranno di gioia, nel vederti". Continuò a
parlare, trascinandomi quasi verso l'uscio. M'incupii.
"forse". Risposi, improvvisamente triste.
"o moriranno per il panico di vedermi così".
Lui non parlò più, ma la stretta si fece
più decisa. Mi spinse quasi nella casa. In quel momento, fu tanta
l'ansia che non resistetti. Sarei caduta se Tijorn, ridacchiando come un
idiota, non mi avesse sostenuta.
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Angolino di Akita xD
Con un giorno di ritardo (perchè, sapete, mi ero
ripromessa di pubblicare un capitolo al giorno. Ma non
ho fatto i conti con i parenti, le pizze e le birre... ehm. Dicevamo?
<.<), eccomi qui con il sesto capitolo. xD
Stranamente (e giustamente, direte voi che sorbite i miei sproloqui insensati),
non ho nulla da dirvi (e per fortuna, Akita cara...), mi chusma fantasma xD
Passiamo dunque al dunque xD
per Carlos Olivera:
massalve xD allora, allora, allora... ho provato un po' con il
cosiddetto "metodo casalingo" per l'impaginazione (ovvero un po' di fantasia e tanta, tanta pazienza ._.), e devo
dire che con quest'altra scrittura mi trovo meglio (per essere del tutto
sincera, scriverei con quest'altra pagine e pagine *__*). Secondo te come
va ora? O___ò Si lo so...non brillo come
genio dell'impaginazione xD sono contenta che Chekaril ti sia piaciuto xD
a dire la verità;, quel fatto dell'educazione era la cosa che mi
pareva più assurda in assoluto O___ò però...esigenze
di storia (perchè io il seguito mica lo svelo O.O) ù.ù xD
coomunque *.* mi fa piacere leggere le tue recensioni... è un motivo
in più per andare avanti in questa storia xD ora, ti lascio perchè
questa risposta al commento sta diventando lunga quasi quanto i miei capitoli
xD un bacione, e continua a recensire (con sincerità xD)!
Eccomi qui con il...il...capitolo boh. Dovrebbe
essere...il sesto? Di nuovo boh xD dannazione,
come odio i temporali estivi T__T avrei aggiornato prima se non avesse
tuonato tutto il tempo, facendo di conseguenza saltare la corrente ogni dieci minuti O___ò senza piovere, e lo ripeto, senza piovere è.é
Mah, questo tempo è proprio strano.
Mi sono ridotta come una simpatica vecchietta,
già alle soglie della maggiore età. Tremendamente sconfortante.
Parlare del tempo...puah.
Ok, ora basta.
Vi lascio al capitolo, chusma!
See you later xD
Akita
--------------
Quando mi ripresi, ero seduta nella piccola e confortevole
cucina, davanti ad un tazza ricolma di quello che
sembrava tè. Mi sentivo stordita, come se mi avessero dato una mazzata
in testa, ed avevo un cattivo sapore in bocca. Qualcuno si sedette accanto a
me. Mi girai, e mi ritrovai davanti la faccia di mio fratello, incerta tra il
preoccupato ed il divertito.
"coraggio, bevi". Mi disse, premuroso,
costringendomi a prendere la tazza calda tra le mani. "ti farà
bene. Sei nervosa quanto uno degli animaletti che prende in trappola Nysha.
Coraggio...".
Lo fissai, mentre la caligine che avevo nella testa non
accennava a scomparire. "io...non bevo con la maschera... non
posso mica bere con...". Interruppi il mio borbottare di scatto, e
sgranai gli occhi. Ricordai improvvisamente una cosa: avevo tolto la maschera,
inavvertitamente, quando riuscivo ancora a ragionare e lo stomaco non aveva
deciso di proclamare una solenne dittatura.
Il panico e la consapevolezza di essere vulnerabile e
scoperta mi assalirono, letali ed improvvisi. Mi sentii debolissima, ed il
cuore cominciò a battere velocemente, mentre lo stomaco riprendeva la
sua battaglia. Mi chinai su me stessa, boccheggiando. La tazza andò in
frantumi a terra, e mio fratello si allontanò di scatto, con un
sobbalzo. Mi misi la testa fra le mani, nascondendo il volto, tremando, completamente lucida,
mentre il cuore mi batteva all'impazzata. Tijorn
borbottò qualcosa, affannato. Non capii nulla di quanto stava dicendo. Ero troppo terrorizzata,
come se mi fossi ritrovata in mezzo a belve feroci, sola e disarmata. Mi capitava, quando mi si toglieva la
maschera senza preavviso.
Passò quello che mi sembrò un secolo di
paura. Ad un certo punto, Tijorn mi abbracciò. Tentai di fuggire, ma la
stretta si fece più forte. Penso di essere scoppiata in lacrime, mentre
mio fratello tentava di confortarmi, in ogni modo a lui possibile.
Era tempo che non piangevo: mi sembrava quasi un sollievo,
farlo. Non desideravo altro che sfogarmi, sfogare tutta l'amarezza e la
disperazione che mi si erano accumulate dentro, in tutto il tempo in cui avevo
vagato in allucinata solitudine, in tutto il tempo in cui mi ero macerata con
la consapevolezza della mia profonda, ed inguaribile, solitudine.
Lui mi lasciòfare, disarmato e triste quanto e
più di me. Finalmente, riuscii a ricompormi. Rimanemmo un altro
po' abbracciati, dondolandoci lievemente come infanti.
"sorellina mia...". Mormorò lui,
con voce spezzata, stringendomi più forte, quasi a volermi proteggere.
"come posso guarirti?". Rimanemmo un altro po'in silenzio.
"dammi un'altra tazza di tè".
Risposi finalmente, tentando di sciogliere quel terribile clima che si era
creato. Lui ridacchiò, una risatina stentata.
"ne ho in abbondanza. Non vorrai certo farti trovare
in questo stato dalle tue Nipotine Allieve...". Abbassai lo sguardo,
sentendomi infinitamente triste.
"con la maschera sarebbe meglio". Ci fu un
altro momento di silenzio assoluto, mentre lui si alzava, togliendo i cocci
della tazza e prendendone un'altra pulita, riempiendola di tè caldo.
Ebbi il coraggio necessario per alzare gli occhi. Tijorn
era con la tazza in mano, ed appariva estremamente indifeso. Il bel volto era
atteggiato a dolore, puro ed infinitamente semplice. Lui soffriva quanto me,
dei miei sfregi e della mia vergogna.
Scosse il capo, per l'ennesima volta. "non
guarirai mai". Affermò, con voce amara, mettendomi la porcellana
fumante sotto il naso. Era una solfa che da un po' di tempo mi ripetevano
spesso. Non risposi, e m'impadronii della tazza, scottandomi la lingua
con il primo sorso.
"ti ho pensato, in tutti questi anni". Disse
mio fratello, sedendosi di nuovo accanto a me.
Non lo guardai: avevo paura di trovare dentro al suo
sguardo la stessa desolazione che c'era stata in quello di Junielle. Ma
la sua voce era ferma, ora, infinitamente calma e modulata come la
risacca.Sorseggiai di nuovo la mia
bevanda, senza fretta.
"mi sono sempre tenuto in contatto con la nostra
amica. Sapevo che non saresti mai guarita, nè lo sarai mai".
"spicciati, Tijorn, e finiamola con questa lamentela". Lo interruppi, con voce
brusca e dura. "perchè sono venuta qui?
Che cosa hai trovato di tanto importante per scomodarmi di persona?".
Ci fu una breve, brevissima, pausa.
Temetti il peggio, e serrai gli occhi. Lui riprese a
parlare, senza minimamente scomporsi.
"nulla che non possa aspettare un paio di giorni.
Abbiamo spazio per un'ospite". Mi rispose, serafico come se mi
stesse raccontando del tempo.
Rimasi ancora ad occhi chiusi. Ci fu un'altra,
estenuante, pausa. Mi riscosse dai miei pensieri una mano sulla spalla, dal
tocco gentile. Aprii gli occhi, e mi voltai, sorpresa, verso mio fratello.
Non era nè commosso, nè triste. Era calmo,
e, se possibile, solenne. Sembrava uno dei nostri sacerdoti durante una
celebrazione. Lui stava confortando me.
Non c'era, come nella stretta di Junielle, una sorta di egoistica spinta,
ad andare avanti, d'esortazione a riprendere la mia vita normale, e di
rasserenare lei in quel modo. C'era accettazione, in quel semplice tocco,
e senso di vicinanza. Ciò che era successo era successo. Non c'era
modo di cambiarlo. Ma si poteva migliorare.
Per quella volta, lasciai che tornassi la vecchia Lsyn.
Mi abbandonai di nuovo ad un abbraccio pieno di affetto.
Tijorn era l'unico capace di farmi calmare. La mia camomilla personale.
"come farei senza la mia piccola nevrotica?".
Disse lui, improvvisamente fattosi scherzoso. "ho sopportato
cinquant'anni di vita da maestro, con due pesti ed un vecchio elfo
smemorato: cos'è un'ennesima crisi di coscienza di una
Nanetta rediviva per un eroe come me?".
Gli tirai un pugno in mezzo al petto, abbastanza forte.
Lui ridacchiò.
"dovresti piantarla di giocare sulla mia bassa
statura, fratello mio". Gli dissi, sciogliendomi dal suo abbraccio e
fissandolo, improvvisamente piena di vita, come se mi fossi svegliata, e mi
fossi accorta che tutto era un sogno, e che una bella giornata di sole era
pronta ad attendermi. Non mi sentivo così da anni. Magia dei Fratelli di
Maestro pazienti... Non so cosa trovò nel mio
sguardo, ma s'illuminò.
"è già abbastanza dura essere sotto la
media elfica, ed essere per giunta una Spia, sfigurata e vagabonda... non
infierire anche tu!". Tijorn incrociò le braccia, e mise il
broncio.
"bevi quella tua dannatissima tazza di tè,
Lsyn, e taci. Vedi di tenere a bada i tuoi attacchi di nervosismo, però:
mi hai già rovinato le rose!".
Scoppiò; a ridere, e, inaspettatamente, lo seguii.
Sentire il suono della mia risata ragliante fu quasi uno shock. Mi ero
dimenticata come si rideva.
Per mascherare l'improvviso, e stupido, rossore,
presi la tazza ed inghiottii tutto il tè che c'era dentro in un
sorso, quasi strozzandomi.
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Hola, chusma!
Eccoci qui
al sesto capitolo, un ennesimo capitolo di passaggio. Come vedrete, la
verità non è lontana (muahahahahahahaahahah
<.<)!
Insomma,
tra poco una svolta.
Ora, non
ho esattamente nulla da dire.
Vi lascio
ai soliti ringraziamenti.
Per Carlos Olivera: eccomi qui, nuovo capitolo fresco
fresco xD ancora vivo e palpitante ù.ù sai, è un
mio vizio riempire i capitoli di personaggi xD ho scarsa inventiva, per le
situazioni e le avventure di contorno <.< dunque faccio incontrare i miei
personaggi con persone, dunque tante descrizioni xD e non è ancora
finita <.< coomunque...come già saprai, ho finalmente letto la
tua Millennium War, e commentato xD ho già detto abbastanza ;P bè, che altro?
xD spero che continuerai a recensire (Mi fa tanto piacere
vedere che qualcuno segue questa storia xD), e fammi sapere che pensi xD ciau ciau!!
Eccomi qui, con il capitolo numero otto. Le
novità si avvicinano... probabilmente, comunque, i prossimi capitoli
saranno postati con più lentezza del previsto. C'è un buco
da riempire, una grossa lacuna xD
Beh, ora al abordaje, mi chusma!
See you later!
Akita
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Era passata da poco mezz'ora dal mio
arrivo quando ci raggiunsero Amarto e le piccine. Per precauzione, una volta finito il tè, mi ero
rimessa la maschera. Io e Tijorn eravamo rimasti abbracciati, in silenzio.
Avevo bisogno di conforto, allora, e dell'amore fraterno e
disinteressato, che solo lui mi poteva donare. In sua presenza, tutti i
pensieri cattivi venivano spazzati via. Li sentimmo
arrivare. Le gemelle parlavano ad alta voce, ed il loro chiacchiericcio
incessante copriva quasi le imprecazioni ed i rimproveri del mio Maestro.
Amarto non era cambiato di una virgola. Un tempo lo temevamo, con la sua voce
tonante e roca e la sua imponente figura: ma ora è; un'ombra di
come era un tempo. Dirgli di mia figlia era stato durissimo: ero andata
lì perchè non potevo stare da sola con i servi. Era un
comportamento tipico delle Spie. Si teneva sotto controllo il soggetto, per
impedire scappasse, evitando così di perdere il figlio. Mio fratello, che
da sempre ha vissuto con lui, mi aveva accolto a braccia aperte, senza fare domande.
Amarto mi aveva urlato contro per un'ora intera, e poi mi aveva sbattuto
fuori di casa sua, salvo farmi rientrare subito, trattandomi per tutto il tempo
che rimasi lìcome una bambola fragile, accogliendo Junielle come
un'amica e la mia bambina quasi fosse sua figlia.
Sono sempre stata la sua preferita. Sorrisi, e scossi il capo. Il mio gesto venne imitato da Tijorn. Lui si sciolse
dall'abbraccio, e si alzò. "vado incontro". Disse,
mentre le voci si facevano più alte. "ti annuncio?". Annuii,
benchè sapessi che la sua fosse solo una domanda retorica. Nysha e Manolìa
non mi avrebbero riconosciuta, ed avrebbero urlato, se fossero entrate senza preavviso.
Al solo pensiero della loro reazione inspirai e espirai, mentre lo stomaco
riprendeva a gorgogliare. Mio fratello ridacchiò, e si avviò,
sparendo alla mia vista. Mi rannicchiai sulla sedia, mentre il disagio
cresceva. Un pugno forte colpì la porta, due volte. Tijorn aprì
la porta, che protestò con un cigolio. "già di ritorno, scapestrate? Che avete combinato?
Su, forza, entrate...vi aiuto io, Maestro...ecco
qui...voi due, pesti, dove credete di andare?". Abbaiò, senza
prendere fiato, verso probabilmente le due bambine. Sbuffai. Non c'era
solo idiozia e buonismo sotto quel
bel faccino! Misi in conto di dirglielo, una volta o l'altra, e ritornai
ad ascoltare. "ma...Maestro...". Chiocciò intanto una
voce, probabilmente Nysha, a giudicare dal tono impertinente. "abbiamo
sete...". Una fitta allo stomaco quasi m'impedì di
ascoltare il resto. "aspettatemi: abbiamo un ospite qui". Ci fu un
momento di silenzio. "Tijorn...". Disse Amarto, con la sua voce
stentorea e profonda, che tradiva una certa severità. "chi
può venirci a trovare in questo dannato buco? Chi hai raccattato da
strada, stavolta? Quale mendico?". Scossi la testa, ed immaginai mio
fratello sorridere. Non aveva perso l'abitudine di dare da mangiare ai
poveri, allora? Persa com';ero nelle riflessioni, non ascoltai il seguito.
Sobbalzai quando udii le piccole urlare di gioia, e
dei rumori di zuffa. Tijorn riprese a parlare, con tutta
l'autorità di un Maestro. "guai a voi se fate commenti,
però. Lei...lei... è in missione, e si deve nascondere.
Vi metto in punizione se non mi obbedite!". Le promesse, fatte ad alta
voce, andarono sprecate. Sentii di nuovo lo stomaco contrarsi.
"cominciate ad andare, che aspettate? Io mi fermo un attimo con
Amarto...". Scalpiccii vari. Due figurette
d'infanti si precipitarono in cucina. Appena mi videro, si bloccarono,
spaventate e stupite, ed il sorriso si cancellò dalle loro facce.
Resistetti all'impulso di raggomitolarmi di nuovo. Erano cresciute parecchio.
Sembravano ragazzine sui dodici anni, perfettamente identiche, dai capelli castani
e ricci, raccolti in una lunga treccia, agli occhi dello stesso colore, ed il
viso scuro a forma di cuore. Riuscivo a distinguere Nysha da Manolìa
solo per un particolare: la scelta degli abiti. Se la prima preferiva i colori
intensi, lo seconda invece le tinte pastello. Quest'ultima, con gran
tempismo, tappò la bocca alla sorella quando
questa l'aprì per commentare. "zia Maestra". Disse,
con un sorriso, tirando intanto la treccia alla gemella, che si ricompose.
"è bello rivedervi". Le fissai, sorridendo all'interno
della maschera. Sentii un moto d'infinita tenerezza verso di loro, mentre
lo stomaco si calmava. Nessuno delle due si avvicinò molto: mi girarono
attorno per prendere la brocca dell'acqua. La gioia che le aveva pervase
era sparita. Entrambe si sedettero all'altro lato del tavolo, guardandomi
con imbarazzo. "dove siete stata per tutto questo tempo, Zia?".
Disse Nysha, prendendo timidamente la parola. Non avevo mai visto quella
piccola elfa così a disagio. Mi schiarii la voce, che risultò
sempre sgradevole e chioccia: entrambe mi guardarono con timore. "ho una
missione da compiere. Una lunga, lunga missione". Dissi semplicemente. A
loro bastò. Per fortuna, mi salvarono Tijorn ed Amarto, che scelsero
quel momento per entrare. Mi venne un colpo al cuore nel vedere il mio Maestro
così invecchiato. Quando a noi succede (ed è una cosa rara),
è sintomo di gravi problemi. Un tempo, era stato un elfo, come ho
già detto, possente: altissimo e minaccioso, dai
capelli neri, sempre arruffati, occhi verde scuro,
ora ostili, ora teneri, ed un naso che, quand'ero piccola, mi divertivo a
paragonare ad un becco. La sua chioma arruffata era diventata tutta bianca ora,
come i suoi occhi. Sembrava davvero un uccellino, gracile come se potesse
portarlo via un soffio di vento. Sentii un enorme affetto nei suoi confronti.
Camminava appoggiandosi al braccio di Tijorn. Senza che lui potesse
muovere un passo, mi alzai di scatto, facendo cadere la sedia con un tonfo
sonoro. Con tutta la calma possibile, mio fratello lo guidò vicino a me.
Egli alzò la testa. I suoi occhi lattiginosi erano inondati di lacrime.
"la mia piccola Lsyn...". Disse. Almeno la voce era rimasta
uguale. Mi abbracciò senza aspettarsi una risposta. Avevo la gola
completamente serrata. Sentii Tijorn mormorare qualcosa, e le piccole lasciare
la stanza. Stavo per soffocare. Mi ero decisamente sbagliata a paragonare
Amarto ad un fragile uccellino! Il mio caro Maestro mi liberò dalla sua
stretta, senza asciugarsi le lacrime. "tutto questo tempo...tutto
questo tempo...Tijorn mi ha accennato...cosa ti è successo,
piccola?". La sua voce rotta tradì tutta la preoccupazione di un
genitore. Dovevo aspettarmi una simile domanda. Mi assalì il freddo, e
vidi, ai margini del mio campo visivo, mio fratello irrigidirsi. Restammo per
un buon minuto in silenzio. "Lsyn...". Azzardò Amarto,
parlandomi con gentilezza. "posso...controllare...quello che ti
hanno fatto?". Allungò la mano, prima che potessi rispondere, e mi
slacciò la maschera, prendendola in mano delicatamente e poggiandola a tentoni sul tavolo. Cominciai a respirare affannosamente,
agitata come prima. Cercai con lo sguardo Tijorn, che mi sostenne. Non mi
accorsi di essere andata in iperventilazione fin quando
la sua stretta non si fece più forte. Amarto dovette intuire qualcosa,
perchè esitò, con la mano ad un soffio dalla parte offesa del mio
viso. "davvero, piccina...". Disse, con serietà, cercando di
rassicurarmi con la sua voce profonda. "sento il tuo respiro. Sono il tuo
Maestro, coraggio...ho il diritto di poter vedere con le mie dita,
no?". Mi morsi la lingua, e tirai un gran sospiro. Cercai di non
scoppiare, e di non cominciare ad urlare ed a dibattermi come una pazza.
"forza!". Sbottai inavvertitamente, tendendo tutti i muscoli.
"toccate, e constatate, come fossi una belva del serraglio, la mia
rarità". Amarto si accigliò. "parole come le tue sono
indegne di te, Lsyn". Disse, prima di sfiorarmi delicatamente la guancia
sfregiata, percorrendo tutto il viso, fino alla gola. Ritirò subito la
mano, quasi fosse rimasto scottato, e sul suo volto si dipinse l'orrore.
Tijorn mi lasciò, e prese la maschera dal tavolo, rimettendola con
velocità al suo posto, per poi riprendere a starmi vicino. Era finita.
Mi lasciai mollemente trasportare da lui sulla mia sedia, dove mi accasciai. Il
Maestro era rimasto intanto lì, ancora terrificato. Mi allacciai con
movimenti sicuri la mia protezione dietro le orecchie, mentre riguadagnavo la
mia calma. Mio fratello, avevo intanto fatto sedere Amarto accanto a me. Lui
aveva ripreso a piangere, mettendosi poi le mani nei capelli. Feci per parlare,
per rinfacciargli ciò che mi aveva costretto a fare, ma fortunatamente
Tijorn mi mise una mano davanti alla bocca. Non c'era bisogno di ferirlo
ulteriormente. Amarto mormorava qualcosa, che nessuno dei due riuscì a
sentire. La cantilena senza sosta del traumatizzato.
"perchè?". Disse poi, coprendosi il volto con le mani.
"perchè proprio a te, Lsyn? Eri così felice!". Risi,
ma stavolta di scherno feroce. Risi fino a farmi dolere la pancia. Risi per non
abbandonarmi alla disperazione."è il destino, Maestro". Replicai,
con voce brusca e carica d'amarezza. "nessuno vi ha mai raccontato
del suo pessimo umorismo?". Tijorn mi guardò, irato, mentre Amarto
ricominciava a piangere. Ci fu un lungo silenzio, carico di tensione. "ora basta!". Sbottò mio fratello, facendomi
sobbalzare. Vidi nei suoi occhi la severità, e nel suo viso la
tensione.Lui mi tese una mano, che
io presi. Mi fece alzare di forza, quasi trascinandomi verso la porta,
stringendomi forte. "Maestro, vado e torno". Disse, semplicemente. Amarto
non lo ascoltò nemmeno, e continuò a singhiozzare, col cuore
spezzato. Non ebbi il tempo di dire o fare nulla: marciando spedito, con me
alle calcagna, Tijorn mi trascinò per lo stretto corridoio, fino a
lasciarmi malamentein una stanza da letto, spoglia e
semplice. "questa è la tua stanza, Lsyn". Disse, reprimendo
a stento la rabbia. Lo guardai, con sfida. Ci fu un attimo di silenzio, teso
come un panno inamidato, in cui rimanemmo a fissarci. Sapeva cosa volevo dire con quello sguardo. E sapeva che non mi ero minimamente pentita di ciò che avevo detto. Con un ringhio collerico,
mio fratello si voltò, senza più degnarmi di uno sguardo, uscendo
e sbattendo la porta dietro di sè. Rimasi come un'idiota impalata
per diverso tempo. Semplicemente perfetto. Ero riuscita a rovinare una giornata
splendida con quell'incidente. Ero sempre la stessa. Mi sedetti sul letto di schianto. Ed era solo il primo giorno. Al
solo pensiero, lo stomaco prese a dolermi di nuovo. Mi lasciai sfuggire
un gemito, mentre mi stendevo, fissando le travi scoperte
del tetto.
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Angolino di Akita:
oh, ecco l'ottavo capitolo. Personalmente,
non pensavo di arrivare così in là xD
bè;, oggi non ho voglia di fare pagliacciate varie: odio lavorare di
domenica .___. Anche perchè è solo di domenica .__. Soprattutto se
le persone danno fondo al loro sarcasmo congenito quando ti fai in quattro .__.
è odioso .__. E poi dicono che sono una strega acida... O___ò
vabbè. Ora basta.
Passiamo dunque al dunque xD:
per Carlos Olivera:prego xD
uhm...diciamo che la fine prevista non è proprio quella...
O___ò immagino come ci si possa sentire con metà viso ridotta ad
un ammasso di cicatrici...ma io sono innaturalmente crudele con la mia
povera pazzoide inventata è.é non ti dico altro, sennò
rovino la sorpresa! :P beh, che altro dire xD spero
che anche questo capitolo ti sia piaciuto xD come al solito, le tue recensioni
mi riempiono di gioia xD beh, allora al prossimo xD fammi sapere che pensi di
questo xD ciau ciau!
E per la chusma fantasma...
sapete già, o voi tutti, che fare.
Son tornata (beh, si, per me questa è una
lunga, lunga assenza...non riesco a stare lontana da questa storia per
più di un giorno O.o)...avrei aggiornato volentieri ieri ma...sono uscita e poi, essendoci stato il solito
temporale pomeridiano (altresì chiamato buriana xD), è mancata la luce fino alle quattro di
stamattina .__. Mamma mia, dicendo così sembra di abitare in chissà
quale lontano paese del terzo, o quarto, mondo .__. E non è un cosa
bella mangiare al buio .__. Anche perchè non avevamo candele .__. Ed avevo
pure comprato un libro nuovo... >.<
D'accordo, penso che ora possa bastare. Mi
ci voleva un po' di sclero xD
Ebbene, bando alle ciance, vi lascio in balia di Lsyn xD
See you later!
Akita
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A dispetto di come era iniziato, il resto di quel breve
soggiorno andò bene. Io e Tijorn facemmo pace la sera stessa, quando lui
mi portò una ciotola di zuppa. Mi sorbii una solenne lavata di capo,
perchè non dovevo comportarmi così con il Maestro, che era solo un
povero vecchio, eccetera eccetera, ma dopo un
po' fu tutto dimenticato. Per qualche giorno, dimenticai il mio dolore, e
la mia mostruosità. Furono pochi, ma preziosi,
giorni di luce. I miei ultimi giorni di luce. La quiete prima della tempesta.
S'instaurò una piacevole routine quotidiana: la mattina aiutavo
Tijorn in qualche faccenda, ed il pomeriggio lo affiancavo
nell'apprendistato delle due gemelle, che in breve si abituarono al mio
aspetto strano. Amarto mi trattò sempre come al
solito. Tuttavia, l'ombra di me stessa continuava, instancabilmente, a
perseguitarmi. Mangiavo sola, o al massimo in compagnia di Tijorn. Non avevo il
coraggio di togliermi di nuovo la maschera, perdipiù di fronte a due
innocenti. Dalla casa sparirono gli specchi, e gran parte delle superfici
riflettenti. Apprezzai quel piccolo pensiero, quel dettaglio che mi ricordava
che nulla poteva tornare come prima. Avevo, per ben tre volte, implorato mio
fratello di dirmi la novità, ma lui aveva sempre rifiutato. Sapevo
benissimo il perchè, e desistetti. Si rifiutava di lasciarmi andare, di
lasciarmi di nuovo, consapevole che io mi sarei immersa nuovamente nella
solitudine e nella disperazione. La loro compagnia era la mia sola medicina.
Avessi desistito per sempre... perchè non tacqui, allora?
Passò una settimana. Cominciai a sentirmi inquieta. Sbaglio, o era uno
sguardo d'insofferenza quello che mi aveva rivolto Tijorn, mentre
curavamo l'orto? E mi era solo parso di veder le gemelle bisbigliare al
mio passaggio? Ben presto, l'umore della casa, che con il mio arrivo era
schizzato alle stelle, peggiorò notevolmente. Negli ultimi giorni della
mia permanenza, la mia stanza divenne il mio rifugio. Presi a passarci sempre
più tempo, ed a parlare, quel poco che ormai dicevo, sempre e solo dello
stesso argomento. Non aiutavo più Tijorn, nè in casa nè
come Maestro. C'era un solo ritornello che mi rimbombava in testa, sonoro e ripetitivo quanto il rintocco del vecchio
orologio della torre di Sharilar, che si sentiva allo scoccare di ogni ora, nonostante
fossimo piuttosto distanti da villaggio. Andavo a dormire e mi svegliavo con un
solo nome che occupava la mia mente. Chekaril.
Devi ritrovarlo. L'hai promesso. E' tuo dovere. E che stai facendo?
Giochi con le piccole. Fedifraga. Indolente. Paghi bene
Lainay, e tutta la sua bontà. Non immagini quanto possa
essere dura, per lei, dipendere da lui per la stabilità del Regno? Se
è morto? Cosa fai? Che dirai? Come salverai la dinastia e la pace? Tutta
colpa tua. Ti piacerebbe veder morire i tuoi cari, e crollare tutto il mondo
che hai contribuito anche tu a costruire con tanta fatica e tanto sangue?
Allora, al lavoro, Spia maldestra e pigra. Non parlavo a nessuno di questi
pensieri, e della coscienza che mi rodeva come un verme, ma
Tijorn indovinava lo stesso. Lui mi capiva, anche solo da uno sguardo. E, mano
a mano che i giorni passavano, si faceva, ad ogni occhiata che mi rivolgeva,
sempre più cupo e taciturno. Perfino le infanti sembravano a disagio.
Amarto era preoccupato, lo sapevo, nonostante il mio segreto tumulto mal mi
facesse concentrare sugli altri. Il tempo trascorso insieme divenne fonte di
silenzi. Fuori, il bosco fioriva, e la natura cantava. Dentro, era tutto morto.
E passarono quasi due settimane. Ero in agonia. Una sera, stavo piluccando uno
strano minestrone, nella mia camera, illuminata debolmente da una candela
tremolante, quando mi assalì, come sempre, la coscienza che mi rimproverava,
con più forza e più cattiveria del solito. Dannato mostriciattolo, che fai per la tua patria? Che fai per il
Regno? Mangi zuppa di verdura, comodamente seduta su un letto morbido. Chekaril
potrebbe essere steso su un letto di terra, e lo sai. Non lo amavi, Lsyn,
vecchia e stupida mucca? Non lo desideravi, schifosa sfregiata? Mi
offendevo da sola, e lo sapevo. Cominciarono a scorrermi lacrime copiose dagli
occhi. Tutto dannatamente vero. Mi passò anche quel poco di fame che
avevo. Posai a terra la scodella, e mi rannicchiai. Il dolore stava tornando,
con forza raddoppiata. Scoppiai in lacrime, lacrime amare, lacrime nascoste.
Dopo, ero tanto sfinita che mi addormentai senza rendermene conto, ancora
piangendo.
Ero in una specie di
sotterraneo. C'erano tracce d'umidità dappertutto, e si
sentivano, in lontananza, i suoni della foresta. Realizzai, a livello
inconscio, di essermi sbagliata. Quello non era un sotterraneo. Ero in una
caverna. Cominciai allora ad andare lentamente verso quella che mi sembrava
l'uscita, sbucando senza intoppi in una radura coperta di rugiada.
Conoscevo quel posto. Da lì era cominciato tutto. Non so come, ma seppi,
come se fosse sempre stato di mia conoscenza, che nulla esisteva al di fuori di
essa. Il resto era semplice illusione, pura finzione.
Qualcosa mi spinse a girarmi. E, poco lontano da me, attorniato da due giovani
alberi, vidi un cigno, bianco e maestoso, che mi fissava con i suoi liquidi
occhi neri.
Tirai violentemente il fiato, aprendo gli occhi di scatto,
e mi misi seduta, ancora respirando affannosamente. No. Non ancora. Non di
nuovo quel sogno. Attorno a me era tutto buio e silenzio. Dov'ero? Chi
ero? Che ci facevo, lì? Dopo un po', la mente si schiarì.
Pian piano, come un nuotatore che emerge da chissà quali abissi, mi resi
conto di essere nella camera. Mi ero addormentata tutta raggomitolata sul
letto, in una posizione strana. Mi faceva male dappertutto, e mi sentivo
stanchissima. Era notte fonda. La candela si era consumata. La casa
taceva. Strinsi i pugni, ferendomi i palmi con le unghie. Basta. Non ce la
facevo più. Mi alzai, e, dimenticando addirittura della maschera e delle
scarpe, aprii la porta e mi fiondai verso quella di Tijorn, imprecando
sottovoce per il piede sinistro che avevo immerso nella zuppa fredda. Avevo
troppa fretta. Arrivai alla mia meta in un attimo, con poche falcate
silenziose. Cominciai a bussare freneticamente, assurdamente impalata
lì, al buio. Dopo un po', l'uscio si spalancò, ed
uscì mio fratello, in un';assurda vestaglia da notte, molto
assonnato. Quando mi vide, tuttavia, si fece serio. Non riuscii a spiccicare
nemmeno una parola. "aspettami in cucina. Vengo tra poco". Mi
disse, chiudendomi la porta in faccia. Sospirai di sollievo. Non so cosa avesse visto in me, ma sentivo che, finalmente, quella
situazione d'immobilità forzata si sarebbe sbloccata. Fu abbastanza. Mi
affrettai ad obbedire, e andai dove detto, sedendomi alla stessa sedia di
sempre, quella che avevo occupato per quindici giorni. Finalmente, la resa dei
conti.
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Angolino di Akita:
eccomi qui, con il nono capitolo, un po' più allucinato del solito ^.^
finalmente, sono riuscita a tappare quel misterioso buco, ed ora la scrittura
procede a ritmo regolare *.* farò di tutto pur di ovviare a questo
piccolo ritardo (si, sono molto fissata con regole, orari, eccetera O.o).
Passiamo dunque al dunque:
Per Carlos Olivera: ohh... lo so che Lsyn
è antipatica xD mentre scrivevo provavo le tue
stesse sensazioni, e gli stessi pensieri xD ma, essendo scritto come una specie
di diario, in prima persona, mi pare quasi normale che lei non veda altri che
se stessa xD diciamocelo con chiarezza, tutti tendono un po' ad
autocompatirsi, soprattutto quando si fanno del male xD molte persone fanno
un caso di stato anche pochi punti (me compresa ù.ù). Quindi ho pensato: ferite grandi, grande autocompatimento. Sono una bestiolina strana O.o . Ma..tu
aspetta è.é vedrai cosa succederà xD ti ringrazio, come
sempre, per il tuo parere e la tua partecipazione, e spero che continuerai a
recensire *___* al prossimo capitolo! Ciau ciau!
Per gli ALTRI, non mi spreco nemmeno a fare ulteriori
recriminazioni. Tanto lo so che non mi recensite comunque ù.ù
Siamo arrivati al capitolo numero dieci
ù.ù non me l'aspettavo, non me l'aspettavo. Non ho
nient'altro da dire. La soddisfazione per essere andata così
avanti mi gratifica ù___ù vorrei fare dell'ironia, ma
vorrei evitare, in caso qualcuno di delicato si offendesse <.< e poi fa troppo caldo <.<
Insomma, ora vi lascio a questo capitolo, d’importanza
cruciale per il resto del racconto.
Occhi ed orecchie aperti! :P
Ok, basta. See you later!
Akita
------------
Tijorn non ci mise molto, ma l'attesa fece si che quel breve intervallo durasse, a mio parere, secoli.
L'ansia in me cresceva sempre più, come acqua calda versata in una
tazza. Finalmente, sentii dei passi felpati. Dall'ombra al mio fianco
emerse mio fratello, vestito in modo decente, che reggeva in una mano un
piattino scheggiato con una candela accesa, e nell'altra un sacco di
iuta. Una spiacevole sensazione di freddo viscido s'impadronì di
me al solo osservare la forma regolare dell'oggetto contenuto lì
dentro. All'istante, capii cosa c'era, e rabbrividii. A passi
strascicati, intanto, lui si era diretto verso la sua sedia, di fronte a me, ed
aveva posato la candela sul tavolo, appoggiando il sacco chissà dove per
terra. Non mi aveva degnato di uno sguardo. Finalmente, si sedette
pesantemente, ancora senza guardarmi, nè parlarmi. Mi sentii
tremendamente irritata, dal suo comportamento, ed addolorata. Lui sapeva che
quella era la mia missione. Cosa accidenti stava succedendo? Di solito mi
lasciava andare senza dire nulla, conscio che sarei tornata, prima o poi,
più o meno devastata. Ma ora sembrava riluttante. C'era qualcosa
di molto grosso in ballo. "hai infilato il piede nella zuppa,
Lsyn?". Disse, spezzando il silenzio pacifico e sonnacchioso della notte, e prendendo a
fissare la candela, come se fosse la cosa più interessante del mondo.
"avevo fretta". Risposi, asciutta. Lui chiuse gli occhi, e capii
solo da quel gesto quanto fosse combattuto, e quanto
soffrisse. "già. Avevi fretta". Mormorò, incrociando
le mani al petto, come se lo avessi colpito a morte. Cominciai a sentirmi preoccupata. Non mi
piaceva quel comportamento. Chekaril era morto, allora? Si stava forse
chiedendo perchè doveva essere proprio lui a raccogliere per
l'ennesima volta i cocci in cui mi sarei sbriciolata, povero vaso
già riparato troppe volte? Si chiedeva se c'era
ancora speranza di riattaccarli? La preoccupazione raggiunse livelli
allarmanti. Mi decisi a rompere il silenzio, e sentii la mia voce spezzarsi
pian piano. "Tijorn, ti prego!". Sbottai, cercando di non urlare,
cominciando a tremare leggermente. Lui mi guardò, finalmente, ed io
lessi la sofferenza nei suoi occhi, come se stesse sotto tortura. La
preoccupazione divenne panico. Lo sentii farsi strada nella mia voce.
"qualunque cosa, qualsiasi notizia tu mi debba dare, dammela! Parla,
dannazione, e non tenermi sulle spine!". Mio fratello si morse le labbra,
a disagio. M'interruppi, ansimando. Lui tese le mani sul tavolo, verso di
me, mani che io afferrai, con forza disperata. Ci fissammo negli occhi,
entrambi tormentati. "quattro mesi fa, sono andato nella capitale, al
quartier generale". Cominciò, con voce pacata, chiudendo di nuovo
gli occhi e donandomi una stretta rassicurante. Non l'interruppi. Era sua
abitudine girare intorno alla notizia, soprattutto se non gli piaceva. Non avrei concluso nulla cercando di affrettare i tempi. "ho consultato gli
archivi, ma nulla di nuovo. Poi, uscendo, ho incontrato il Falco". Feci
una smorfia. Il Falco, l'elfa della quale stavamo parlando, non mi era mai piaciuta. Al mondo, rispondeva al nome di Akita, penso. Era una tipa
strana, più inquietante di me, dai colori sbiaditi come quelli di un
panno lavato troppe volte, perennemente con il lungo naso fra i libri. Era la Bibliotecaria e la
Guardiana degli archivi, e sapeva, chissà come, sempre tutto quello che
accadeva. Impossibile coglierla di sorpresa. Tra me e lei c'era sempre
stata una rivalità accanita. Tempo fa, quando eravamo giovani Spie,
avevamo fatto addirittura a gara per scoprire i nostri veri nomi, la nostra
carta vincente, quello che pochi conoscevano. Era stata l'unica volta in
cui l'avevo spuntata. Penso che quella gallina sia ancora convinta che io
mi chiami Gertrude. Tijorn, tuttavia, ne andava pazzo. Difficile pensare che
non ci fosse qualcosa tra loro. Tuttavia, le questioni sentimentali di mio
fratello in quel momento non mi dovevano interessare. Ripresi ad ascoltarlo,
sempre piùnervosamente. "beh...tu sai com'è
fatta... ha cominciato a prendermi in giro per il fatto che continuavo a
darti retta, ed ha espresso in modo inequivocabile il suo disprezzo nei tuoi
confronti". Sorrisi biecamente, e mio fratello inghiottì a vuoto e
s'interruppe. Per un attimo dimenticai la mia preoccupazione, e mi sentii
assalire dalla rabbia. Tipico di lei. Se fossi mai tornata
a Galinne, avevo in serbo un bel libro condito all'arsenico tutto per
quel codardo rifiuto della civiltà, infiocchettato con un bel nastrino
rosa, quel disgustoso colore che le piaceva tanto. Il sorriso si
trasformò in un ringhio feroce. Scossi la testa più volte, come
un cane bagnato, per riguadagnare lucidità. Non potevo lasciarmi
distrarre da un verme di biblioteca. La rabbia mi combinava sempre brutti tiri.
Cercai di riprendere il filo, lasciando che Tijorn continuasse.
"poi...sai...sono andato da lei". Arrossì
furiosamente, e s'interruppe di nuovo. Se il suo obiettivo era stato
quello di distrarmi, con quell'ultima notizia ci riuscì in pieno.
I miei sospetti avevano avuto conferma: avevo decisamente fatto centro. Sgranai
gli occhi, e lo fissai, in modo così truce che lui mi lasciò
andare, indietreggiando con la sedia, sempre più rosso. Avrei potuto
cuocerci qualcosa, sul suo viso. Ricordare quegli ultimi momenti
d'allegria mi riempie di dolore. "Tijorn!". Lo sgridai, stupefatta,
ringhiando furiosamente. "non quella sottospecie della sottospecie della
sottospecie di ragno! E'
disgustoso! Non le avrai detto del mio nome, spero...". Fu il suo
turno di guardarmi con indignazione. "lo farei secondo te, Lsyn?".
Disse, alzando il mento con fare altero. Sogghignai. "esistono molti modi
per cavare di bocca qualcosa ad un ribelle, uomo o elfo che sia, Tijorn".
Insinuai, sempre con quel ghigno astuto stampato in faccia. Dovevo sembrare
diabolica, e mi compiacqui dello sguardo perplesso e terrorizzato di mio
fratello, mentre il colore svaniva a chiazze dal suo viso. "e questi sono
sapere comune tra tutti gli esseri di sesso femminile...anche di animali come lei". Ebbi il
piacere di vederlo arrossire di nuovo furiosamente, e di sentirlo chiocciare
qualcosa d'indistinto. Passò; un po' di tempo. Pian piano,
quel prezioso momento di pace svanì. L'ansia fece capolino nei
nostri sguardi, e ci prendemmo di nuovo per mano. Tijorn riprese a parlare,
tornato nuovamente tormentato e nervoso. "beh...dopo un
po'...". E qui ebbe la decenza di distogliere lo sguardo.
"mi ha detto di avere qualcosa per te". Mi sentii sprofondare. Akita...qualcosa...per
me? Cosa accidenti voleva quell'essere immondo? Ascoltai il resto con
attenzione spasmodica. Tijorn si schiarì la voce, e prese a scavare nel
sacco, estraendo una lettera, dalla carta pesante e raffinata, e posandola sul
tavolo. "mi ha detto...beh... Lsyn". Disse in tono urgente
e più stridulo il mio nome, prendendomi le mani, stringendole forte, e
guardandomi pieno d'apprensione. "stai tranquilla, d'accordo?
Ha detto che dovevo darti questa lettera da parte sua". Sospirò, e
fece una pausa. Il momento era arrivato. Sentivo qualcosa pulsare insistentemente in gola. Riprese a
parlare, così velocemente che quasi mi persi le sue parole. "ed ha
aggiunto... Lsyn, ci sono notizie certe di Chekaril".
------------------------
Angolino di Akita:
ahhhahhahhh.
Scommetto che questo ve l'aspettavate ù.ù
Non ho nulla da dire O.o strabiliante O.o (il caldo mi rende silenziosa...dovrebbe far caldo sempre, allora O.o)
Passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: beh,
eccoci qui al capitolo numero 10 ù.ù scusa per prima, ma davvero
dovevo fuggire O.o questa casa è come un deserto pieno di condor O.o grazie
comunque per l'indirizzo ù.ù passando alla storia: non ci
avevo pensato, sai O.o Lsyn elfa oscura però non reggerebbe xD non ti
pare abbastanza corrotta così com'è? xD
poi, giudicherai dai suoi gesti e dalle sue azioni ciò che diventerà xD in
questo racconto, però, stai sicuro che gli elfi son tutti una razza :P grazie
al solito per il commento, ed esprimo di nuovo la speranza che continuerai a
leggere :P ciau!
In quanto agli ALTRI è.é
Dico solo è.é (sto prendendo a minacciare il nulla O.O)
E basta è.é
Alla prossima puntata (cosa accadrà mai ai nostri
eroi? xD)...
Eccoci qui con l'undicesimo capitolo. Questo,
in particolare, è tra quelli che mi sono divertita di più a
scrivere. Ci sarà di nuovo la mia omonima, in tutta la sua cattiveria (o
cazzimma, rende meglio l'idea xD). E si
saprà qualcosa in piùsu Chekaril, ma nno vi dico più null sennò vi rovino la lettura ^.^
Ora vi lascio, godetevi questo capitolo.
See you later!
Akita
------
Ci sono momenti in cui la testa sembra quasi ovattata, e tutto
è immerso in chissà quale liquido che fa muovere a rallentatore
le cose. La mente si svuota, e così protegge da colpi che potrebbero
esser fatali per l'equilibrio psichico. Tale mi sentivo io in quel
momento. Vedevo il viso bianco e concentrato di Tijorn come da una grande
distanza. Mi sentii qualcosa tra le mani. Abbassai lo sguardo, e vidi la
lettera. Strappai la busta sigillata con fretta indiavolata. Mi tremavano le
mani. La lettera, vergata in inchiostro rosso con grafia leziosa e piena di
svolazzi, era certamente di Akita. Quell'essere era il più odioso
e leccato che abbia mai calcato le nostre terre. Mi
accinsi a leggere. Ho ancora quel pezzo di carta raffinata, e, peraltro,
ricordo ancora il testo, offensivo e caustico, pieno d'insinuazioni e
malignità, quasi a memoria. Diceva:
Mio
caro mostriciattolo sfregiato;
sono
sicura che il tuo fratellino ti ha già detto cosa bolle in pentola. E'
un'infinità di tempo che non vedo il tuo brutto muso. Come saprai
di certo, io sono ancora qui, eminenza grigia delle Spie. Sorpresa,
vero? Io non tanto. Come capirai, lavoro ancora con estrema accuratezza,
e sono ancora nel pieno della mia carriera. A differenza della tua, mia cara,
la mia attività è ancora fervente. Si lo
so, esagero con questi ancora, ma devo ricordarti della tua miserevole
condizione di vagabonda, o no? E, per fare ancor di più la differenza,
ho rimarcato notevolmente la carenza che hai d'informatori decenti. Anche
Tijorn qui presente, sicuramente nel momento in cui stai leggendo queste parole vicino a te, pronto a confortarti come
un insulso Guaritore, non sfugge, benchè ovvii a questa terribile mancanza
d'intelletto con altre qualità molto più
materiali, che decisamente non avrai mai occasione di sperimentare. E non
è che il tuo vagabondare ti sia servito a molto. Mi dici come diavolo
hai fatto a non notare tutti quegli indizi? Da te mi aspettavo un successo
più immediato...ma può darsi che
quell'incidente famoso non abbia rovinato solo il tuo bel faccino. Che
delusione per quella che si mostrava la punta di diamante della nostra
organizzazione non cavare nemmeno un ragnetto dal buco! Cosa fai, Mostro? Ti
fai battere da un topo di biblioteca e dai suoi contatti? Che dici, sfregiata,
comincio a raccontarti del mio ennesimo successo, o no? Beh, si, la gloria
andrà tutta a te...o forse no. Starò a vedere. Insomma:
Lateek ha trovato chiare tracce di Chekaril, il bel principino che tu stai
cercando. A quanto pare, un locandiere nell'Impero ha riconosciuto la sua
descrizione. Il resto è stato facile quanto rubare ad un infante.
Avresti saputo farlo anche tu. Le tracce si sono susseguite l'una dopo
l'altra. Lateek non è riuscita ad andare ulteriormente avanti, ma
ha ragionevolmente supposto che si trovi a Gerinti,
sano se non salvo. E' un piccolo isolotto a poca distanza dalla baia di
Shankor, nel cuore dell'Impero, in uno dei pochi luoghi abitati da
mortali ed immortali. Anche se a questo punto non penso tu sia totalmente in
te, sempre che non sia già fuggita facendo i bagagli in fretta, voglio
dirti un altro paio di cose. Non andare troppo di fretta, ed avvisa prima
Nostra Signora la Regina.
Quel posto pullula di schifosi mortali, pronti a saltare
addosso a chiunque presenti un minimo di stranezza. Stai attenta. Mi piacerebbe
rivedere prima o poi il suo schifoso viso mascherato, anche se so che sarai
vittoriosa, e la vittoria non dovrebbe arridere alle incompetenti come te. Ma
ripeto, sempre che ciò accada. Dubito fortemente di certe tue
capacità. Se mai venissi catturata senza che tu mi
abbia ascoltata, noi non ci conosciamo. Ci tengo alla mia superba vita.
Rammenta. Gerinti, sulla baia di Shankor. E l'ultima grande città
prima della loro capitale, e non è difficile arrivarci. Stento ancora a
credere che tu non l'abbia già setacciata da cima a fondo. Ma non
sono qui a discutere delle tue labili capacità deduttive. Stammi bene.
Il
Falco.
(a proposito, la
scelta di Gertrude come nome era davvero patetica, Lsyn. Strano che tu sia
riuscita a farmelo credere per così tanto tempo. Ma, come dicevo, in
quanto a scarsa acutezza tuo fratello ti batte, davvero. Soprattutto in certi
momenti. Ma non voglio svegliare pensieri amorali nella tua già fragile
testolina)
Sempre
che tu non sia ora in preda ad un attacco isterico, arrivederci.
Akita.
Strinsi la lettera a me, tremando follemente. Tutti i
muscoli del mio corpo erano tesi, e la mia testa sembrava essere in preda ad
uno sconvolgimento totale. La carta si accartocciò nelle
mie esili mani. Non avevo nemmeno fatto caso al tono odioso di quel
ratto di fogna, e alla sua superbia dannata. Un solo pensiero mi rimbombava nel
mio cervello sfilacciato. Lo stavo per trovare. Vivo. Chekaril, il mio amore,
il mio unico amore. La mia vita era ad una svolta. Presto sarei tornata a
Galinne vittoriosa, ed il Regno sarebbe stato salvo. La mia esistenza come Spia
sarebbe finita, ed io avrei avuto un po' di pace. Mi sembrava in quel
momento quasi ovvio che i rapitori l'avessero portato in un piccolo
centro nel cuore dell'Impero umano. Erano luoghi troppo pericolosi per un
elfo, Spia o non Spia. Non avevo minimamente pensato di andare ad esplorare nei
loro territori. Inoltre l'unica acqua che io abbia mai
conosciuto è quella del mio bagno serale. Non so nuotare,
d'accordo, ed ho una paura tremenda dell'acqua. In un paio di
occasioni stavo addirittura per affogare. Non potevo andare in un isolotto,
completamente circondato dal mare, profondo e pieno di chissà quali
mostri, pronti a divorarmi! Chi aveva rapito Chekaril doveva conoscermi bene, e
conoscere anche il nostro rapporto segreto. Il solo pensiero mi riempiva
d'odio, e di paura. Quei bastardi l'avrebbero pagata con atroci
torture per avermi fatta penare, ed aver fatto penare la Regina, che gli dei l'abbiano in eterna grazia. Mi riscosse dal
mio torpore un abbraccio concitato. Mi accorsi in quel momento che mi ero
letteralmente raggomitolata sulla sedia, tremando e piangendo di gioia. E mi
ricordai solo in quel momento di Tijorn. Il mio dolce fratello. Perchè
mi aveva nascosto cosìa lungo queste informazioni importanti?
Perchè non era felice quanto me? Mi tesi ancora di più
quando lui mi strinse a sè, mormorando parole tranquillizzanti.
"sei un egoista, Tijorn!". Ringhiai, fuori di me, cercandomi di
divincolare. "Chekaril! Vivo! Perchè non me l'hai detto
subito?". Lui non rispose, e continuò a cullarmi, dolcemente.
Piano piano, mi lasciai andare a
quell'abbraccio, e sospirai. Mio fratello era sempre lo stesso. Ed io non
riuscivo ad arrabbiarmi mai troppo a lungo con lui. Il mio cuore esultava, in
tumulto, e lo sentivo rimbombare. "volevo che tu stessi un po' con
me, piccina". Disse poi, guardandomi con dolore. "eri così
sola...così disperata...". Volli credergli, o meglio, ci
cascai con tutta me stessa. Perchè allora, non sapevo che, sia lui, che
Lainay, che Akita, tutti mi nascondevano qualcosa, un piccolo, insignificante,
dettaglio che ci avrebbe rovinati tutti. "sei un egoista". Replicai,
prima di scoppiare in un pianto dirotto, di sollievo. Lui mi tenne stretta, ma
senza provare a rincuorarmi in nessun modo. Mi conosceva abbastanza bene per
sapere che, in quelle condizioni, non era esattamente la cosa giusta da fare,
se non voleva farsi molto male. Rimanemmo così; per chissà quanto
tempo, tanto che, una volta calmatami, stavo quasi per addormentarmi. Facendomi
quasi andare faccia a terra, Tijorn si alzò improvvisamente,
lasciandomi. Lo guardai, truce, reprimendo a stento l'istinto di
bestemmiare, ma lui non se ne accorse quasi. "ferma lì".
Intimò, chinandosi verso il sacco. "prima avvisiamo la Regina, poi
decideremo il da farsi". Gli diedi ragione.Era da incoscienti precipitarsi in mezzo
agli umani senza che lei lo sapesse. Lo osservai mentre rovistava di nuovo nel sacco, e sollevava
uno strano oggetto. Mi vennero i brividi appena percepii la sua presenza.
---------
Angolino di Akita:
buonasera, chusma! *___* come è
ormai mia abitudine, un altro capitolo troncato a metà (ma questo solo
per farvi schiattare u____u). E' qualcosa che
adoro, davvero *.*
oggi è stato davvero un delirio
O.o tra pigne giganti che precipitavano a tradimento,scottature, funghi,
fragoline di bosco e pirati affamati reincarnati in cavalli curiosi O.o
ci potrei scrivere, una storia,
davvero xD eh, la gente di mare non è fatta per la montagna xD
beh, ora basta.
Passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera:
mwahaha, eccomi, come promesso U.u beh, se prima la pensavi in un determinato
modo sulla omonima, ora la cosa non può che peggiorare xD io mi ci
diverto, così xD in fondo, ognuno di questi personaggi è un lato
di me. Tutti hanno qualcosa di ciò che mi sta intorno, ed io a volte
sono esattamente così, quando ho voglia di dare fastidio. E poi, questo
è sempre filtrato dall'ottica di Lsyn O.o i personaggi non hanno
mai il "loro" carattere, non sono "assoluti", tutto
è irresistibilmente filtrato dalla protagonista O.o
vedrai...non finirà qui, con Akita è.é ti è
piaciuto questo capitolo? E', ripeto, tra quelli che mi sono divertita di
più a scrivere xD la lettera, soprattutto. Fammi
sapere quello che pensi, mi raccomando *___* ciau!
Per gli altri, solita ordinazione (xD).
Sono troppo stanca e scottata (letteralmente) per lottare.
Eccomi qui con il capitolo numero 12, regolare
come un orologio a cucù ^.^
E' un po'più lungo del
previsto, ma non me ne sono accorta fino a quando non
l'ho finito O.o vabbè,il prossimo compenserà quest'anormale lunghezza xD
See you Later!
Akita
---------
Il Comunicatore è un rarissimo oggetto magico, le
cui origini si perdono nella notte dei tempi. E'magia elfica elementare.
Permette di accedere al Piano Astrale, dove tutto è ciò che
è, senza fronzoli e senza menzogne, e da dove provengono i sogni. Solo
pochissime persone possono usarlo coscientemente, e sono tutte tra le Spie. Tra
l'altro, i Comunicatori rimasti sono tutti di nostra proprietà,
gelosamente custoditi nel quartier generale. Sia io che Tijorn abbiamo quella
stilla di potere necessaria per poter entrare nel Piano, ed agirvi in modo
cosciente. E percepiamo questo rimasuglio di potere, eco di grandiosi tempi
dove gli elfi dominavano incontrastati con la loro dilagante magia, così
come lo usa e lo percepisce la Regina. Tijorn prese il Comunicatore, tenendolo
con due dita, quasi fosse un oggetto disgustoso. Aveva un aspetto innocente,
una specie di cilindro di legno scuro intagliato finemente, con una gemma
azzurra in cima, ma emanava un tremendo potere. Mi si rizzarono i capelli sulla
nuca. "Akita ha avvertito la Regina che userai questo". Prese a dire Tijorn, che appariva
rassegnato ed un po' frustrato. Lo linciai con lo sguardo, eccitata come
se dovessi partecipare ad una grande festa. "lei ha promesso di
essere...lì...ogni notte". Meravigliosa Lainay. Non osai
nemmeno pensare quale dispendio di energie potesse
costare rimanere nel Piano. Con esitazione, mi tese l'oggetto, tenendolo
a debita distanza da lui. Lo afferrai con impazienza, ignorando la scossa
sgradevole che mi dava il solo toccarlo, e mi sistemai. Era ancora notte fonda,
e ci sarebbe voluto un po' di tempo prima
dell'alba, per fortuna. Cominciai la procedura. Fu qualcosa di quasi
meccanico. Chiusi gli occhi, e cercai un briciolo di concentrazione. Ben
presto, nonostante fossi in preda a tantissime emozioni, tutto cominciò
a farsi ovattato. Non vedevo, nè sentivo, più nulla di quello che
accadeva attorno a me, anche se ne ero cosciente. Sapevo che Tijorn mi stava
tenendo d'occhio, mantenendomi per le spalle, pronto a sorreggermi
quando sarei tornata, e che avevo i piedi freddi. Ma ben presto ignorai
anche la mia identità. Un'esplosione di luce. E poi entrai nel
Piano.
E' strano esservi quando
non si dorme. E' tutto buio, ad eccezione di alcune labili luci, che
spariscono non appena si fissa lo sguardo verso di esse.
Pensieri ed emozioni estranee sfiorano le guance, come ali d'uccelli. I
pensieri dei dormienti. In quel posto, non sono Lsyn. Sono L'Ombra.
E' da lì che nascono i nostri soprannomi, da quello che ci
mostriamo di essere nel primo viaggio, quello fatto come prova. Io, fin dallìinizio,
sono stata un turbine buio, ancora più di quello che mi circondava,
indistinto e difficilmente distinguibile, come una macchia d'inchiostro
su un abito nero. E' questo ciò che è la mia anima, la mia
essenza, speciale perchè unica, ed irripetibile. Lì non ero una
sfregiata orrida. Lì non rifuggivo nessuno, e brillavo ancora nella mia
gloria oscura. Mi riscossi dai miei pensieri, e cominciai a cercare.
L'essenza di Lainay è come una nube di gas luminoso. Può
prendere ogni forma, e risplende di porpora e polvere di
diamanti, regale e sfrontato. Non è difficile trovarla. Cominciai
a cercare. Non ci si muove realmente, nel Piano. Tutto equivale ad un pensiero,
perfino la parola. Non è una bella esperienza: bisogna tenersi sotto
controllo, o si finisce per perdersi e, di conseguenza, morire. L'ho
visto accadere tantissime volte. Mi accorsi, improvvisamente, di non essere
più concentrata. Dirottai tutti i miei sentimenti in un unico scopo:
trovare Lainay. Non ci furono più altri pensieri. Proprio quando
cominciava a farsi strada in me un senso di panico sottile, individuai il
familiare bagliore purpureo. Sospirai di sollievo, e in un attimo mi trovai
davanti l'essenza della mia Signora. Lei si era accorta subito di me. Venni avvolta dalla nube, e provai una sensazione
d'intenso disprezzo, insieme ad altri sentimenti poco identificabili, ma
non molto amichevoli. Fu come essere investiti da una nube di ghiaccio. Questo
pensava di me la Regina, e questo era il suo saluto. L'eternitàrisplende. Sentii nella mia mente le sue
parole, innaturalmente gelide, il riconoscimento rituale. L';eternità è per i vincitori. Risposi. Anche
la mia voce mentale da' l'impressione
d'indefinito, di difficilmente distinguibile. Sembra il fruscio di una
foglia morta, e lo odio. L'ultima formula mi arrivò, secca e detta
in modo quasi offensivo, come uno sputo in faccia. I vincitori risplendono. Poi, finalmente, la voce sprezzante
cominciò a dire qualcosa di serio, nel tono mortalmente dolce usato quando era arrabbiata o contrariata. Ci voleva una Bibliotecaria, Ombra, per
farti mettere sulla strada giusta? Mi sentii percorrere da un brivido. Lei
sapeva. Di sicuro quella bastarda le aveva riferito tutto. La mia ombra fu
percorsa da un fremito. Non mi permise di dire nulla. Sono delusa, Lsyn. Proseguì imperterrita la voce, senza
traccia di sentimento. Sai che lui
è l'unica speranza per me, vero? E allora perchè ti
crogioli in quel tuo dolore, senza far nulla, fallimento che non sei altro?
Perchè non lavori com'era tuo solito? Il gas si dilatò,
e si scurì. Finalmente, riuscii a rispondere. Ma... mia signora...come potevo andare nel territorio mortale,
per altro su un'isola? Non potevo osare tanto! Una propaggine del gas si allungò verso me. Ebbi
la sensazione come di uno schiaffo sulla guancia, violento. Mi sarebbe rimasto
un bel segno. Usa la tua abilità,
sfregiata maledetta! Serpe in seno, sei una Spia, con mio grande rammarico!
Sentii percorrermi da un'ondata di rabbia, e l'ombra si fece
più scura. Lei non era mai stata ferita, sfregiata, dileggiata. Lei era
al comodo su un trono, consapevole di poterci rimanere anche in eterno. Era il
suo egoismo che mi aveva mandato al macello. Per la prima volta dopo
chissà quanto tempo, provai odio per la mia Regina. La mia essenza era
nero più scuro della notte, ora. Inrisposta il
gas si dilatò ulteriormente, prendendo a pulsare. Una sfida aperta,
come ce n'erano state tante, in passato. Dopo un po', mi arresi.
Lei era troppo forte, e non aveva senso lottare contro la Regina benedetta. Era
l'ancora di tutti contro il caos! Io ero l'egoista! E poi amavo
Chekaril. Anche lei lo amava. Perchè dovevamo essere in contrasto? La
mia anima si schiarì, e rimpicciolì. Così andiamo meglio. Disse Lainay, tornando alla forma
normale, soddisfatta. Ricordati, tu sei
polvere per i miei piedi. Posso mandare qualche altro cane ad ucciderti, senza
pietà, se non lavorerai bene e non mi obbedirai. La voce si fece
improvvisamente piùtenera, e l'anima mi avvolse in una nube
colorata e rassicurante. La mia signora mi donava un abbraccio. Era proprio
vero che io sbagliavo. Lei era sempre nel giusto. Sempre. Ed io ero un insetto
infimo che non si meritava di strisciare al cospetto della sua maestosa
regalità. Rimpicciolii ancora di più. Che ti è successo, mia piccola Ombra? Disse lei, apparendo
affranta. Eri così...perfetta,
prima. Tutte le missioni che ti ordinavo venivano
svolte in modo egregio. Ti distinguevi in ogni cosa facevi, e brillavi in
società. E ora? Quella sensazione di calore svanì,
lasciandomi come uno scialle perduto in una notte fredda e ventosa
d'inverno. Di nuovo la nube si fece più grande. Vaghi senza meta e senza scopo. Ti ho
ordinato cinquant'anni fa di ritrovare mio fratello, Lsyn.
Cinquant'anni. La voce si venò di sarcasmo. Certo devono essere stati proprio geniali
per nascondere tutte le tracce... Mi agitai, rimpicciolendo ancora di
più. Era vero, tutto vero: ero stata poco attenta. Non era difficile
trovare segni di un rapimento. Non ero stata obbediente. Meriteresti una punizione, Ombra, per la tua negligenza.
Asserì la Regina, tranquilla, fluttuando pigramente. E sarei tentata di dare la missione a
qualcun altro...Il Falco, magari... è stata così
diligente e veloce... Mi sentii morire, e diventai più piccola
di una macchia. Lainay incombeva su di me, perfida. No. Non questo. No. No. Non
poteva. Io avevo sprecato la mia vita per cercare il mio unico amore. Non
poteva negarmi la gioia di ritrovarlo, e di saperlo vivo. Non poteva. Ne sarei
morta. Ero rimasta gravemente ferita per lui, ed ora sfregiata a vita. Non
poteva togliermi la mia unica ragione d'esistenza. Akita no. Lei no. Non
se lo meritava, stupida elfa. La mia essenza si torse. Obbedirò.
Farò tutto quello che vuoi, Lainay. Tutto. Mi ucciderò per
compiere ciò che mi è stato ordinato. Vagherò,
veglierò, digiunerò. Ma questo no. Tutto pur di ritrovare
Chekaril. Rimasi immersa in quella tortura per un tempo incalcolabile. Poi,
finalmente, Lainay parlò....Ma
forse è meglio di no. Mi sentii quasi svanire dal sollievo, e tornai
alle dimensioni normali. Ti ho già
punito abbastanza facendo questa prova. Un altro errore, però... ascoltai
spasmodicamente la voce che diventava più severa. Un altro errore e cancellerò la tua presenza da queste terre,
immondo sputo. Comprese? La mia Regina beneamata. Fremetti per un attimo di rabbia. Perchè si
comportava così con me, il suo cane più fedele? Non sapeva quanta
fatica mi costava, indagare, penare, viaggiare, semi invalida
com'ero? E tuttavia le obbedivo, m'inchinavo, mi umiliavo. Di nuovo
mi sentii indignata. Non potevo io, verme di terra, esserle grata almeno una
volta? Mi aveva risparmiata. Mi aveva perdonata. E non si aspettava da me che
cieca obbedienza. Ed io l'avrei fatto. Perchè io ero un nulla, lei
era tutto. Da lei dipendevano tutti. E chekaril aveva bisogno di me. Farò di tutto pur di ritrovarlo, mia
Signora! Esclamai, affannata. La sua essenza guizzò, e si
schiarì. Mi ucciderei per
adempiere ad un vostro ordine. Avete ragione: sono stata negligente. Ma ora non
lo sarò più. E' una promessa. Mi sembrò di udire
un sospiro soddisfatto, e segretamente crudele. Sono soddisfatta, Ombra. Mi raccomando, porta con te il Comunicatore.
Voglio rapporti regolari. Se noterò strane assenze, considerati
già morta. Disse solo questo, in tono basso ed
asciutto, prima di scomparire, senza salutarmi minimamente, sdegnosa.
--------------------
Angolino di Akita:
eccoci qui. Un altro personaggio presentato,
un altro piuttosto cattivo. Povera Lsyn, senza pace O.o non ho nulla da dire.
Passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: ma
ciao!xD piaciuto il capitolo? Azzeccato in pieno: io mi ci diverto, con i personaggi un po'
cattivelli xD mentre scrivevo morivo dalle risate xD si, in realtà il
mio obiettivo non era dotare la lettera di carica offensiva. Lo scopo è
un altro. Ma, come hai giustamente detto tu, vedrai in seguito :P il personaggio di Akita non si risolve qui :P davvero? *______*
sono curiosa da morire *Q* non vedo l'ora di leggere!!!
Per il mio capitolo, invece, penso che si dovrà aspettare un paio di
giorni (massimo tre o quattro), perchè c'è bisogno ancora
di ulteriori chiarimenti :P Lsyn mica può restare all'infinito dove l'ho rimasta :P fammi sapere che pensi della regina, più cinica,
stavolta xD e commenta *__* ciau!
Per gli ALTRI, una recensione sarà gradita. Lasciate
la mancia alla reception.
Eccoci qui con il capitolo numero 13
xD lunghezza nella norma, un pochino sdolcinato u.u e questo
non è decisamente nella mia norma u.u
Per il prossimo prevedo (u.u) una "sorpresa"
(che certamente un certo Qualcuno già saprà <.<), ed
aspettatevi un romanzo nel romanzo, perchè sto scalpitando per finirlo.
Se vi capita, o mi chusma desconocida, andate a
leggere "Millennium War:Rebirth", di Carlos Olivera u.u
Non ve ne pentirete, parola di scout.
Ora vi lascio alle avventure pazzoidi di Lsyn O.o
See you Later!
Akita
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Dopo che Lainay svanì, rimasi sola nel Piano. Mi
sentivo ferita per il suo comportamento. Dopotutto, ero io la sfregiata.
Dopotutto, ero io la vagabonda e la poveraccia. Dopotutto, ero solo una Spia.
Non potevo farci nulla: la mia Regina era fatta così. Probabilmente,
riflettendoci a freddo, avrei capito le sue ragioni, come sempre. Lei era la
mia Regina. La mia padrona. L'obbedienza nei suoi confronti mi sembrava
quasi scontata: era un punto d'onore, per me, aver sempre esaudito ogni
suo desiderio. Se avesse deciso la mia morte, l'avrei
accettata. Non riuscivo a rimanere lì. Mi sentivo tremendamente sola in
quel luogo, e i pensieri dei dormienti mi facevano venire i brividi. Nel Piano
ero costretta ad affrontare me stessa, la mia anima, ciò che ero, senza
fraintendimenti o menzogne. Ed io non ero una dei buoni. La solita
consapevolezza non mi diede la soddisfazione che normalmente provavo. Al contrario.
Non mi piacque per nulla, e decisi per un ritorno anticipato, anche se conoscevo a menadito il suo caro prezzo. Cominciai a concentrarmi, pensando
intensamente non alla mia essenza di Ombra, ma a Lsyn, rigida come una scopa e
con lo sguardo perso, in mano un cilindro bollente, alle spalle un vigile ed
amorevole fratello. Ebbi la sensazione di svanire pian piano, e questo è
orribile. Andarsene dal Piano senza addormentarsi provoca qualche effetto
collaterale, il minore dei quali l'impressione di ridursi in polvere
sotto i propri occhi, cosciente fino all'ultimo del proprio
disgregamento. Non è doloroso, ma mi terrorizza. L'ha sempre
fatto, anche solo l'idea. Fino ad allora, però, non ero mai stata così vigliacca da
fuggire, e mi ero addormentata. Ora fuggo spesso. Non sono più capace di affrontare me stessa: sono troppo debole, troppo ferita,
troppo pazza. Aspettai pazientemente la fine dello sgretolamento, cercando di distrarmi, e non pensarci, nonostante fremessi dall'orrore. Finalmente, vidi attorno a me la luce bianca che mi aveva accolto
all'andata, quel latteo mondo di passaggio, e poi sentii, dopo una
frazione di secondo, un rumore sordo, come di un'esplosione. Mi ritrovai
scaraventata violentemente nel mio corpo, come da un calcio. Riacquistai in un lampo tutta la mia pesante corporeità, e tutti i
sensi. Mi resi conto, gradualmente, di cos'ero, chi ero e dove ero. Dopo un attimo di sbandamento e fiato mozzo, tirai un respiro difficoltoso. L'aria aveva una consistenza nauseabonda. Mi
sentivo come fatta di macigni. Tutto mi rispondeva male, non con la
fluidità tipica delle figure nel Piano Astrale. Di solito il ritorno era
molto meno traumatico: si aveva come l'impressione di risvegliarsi da un
lungo sonno. Ora no. Ero finita a gambe all'aria: avevo fatto un tremendo
salto all'indietro, rovesciando la sedia e finendo a terra. Tijorn
bestemmiava e lo vidi con una mano appoggiata al tavolo, sostenendosi
mentre con l'altra si
teneva un piede che, come dedussi, avevo schiacciato repentinamente. Era quasi
l'alba. Avevo un fischio persistente nelle orecchie. Il Comunicatore
fumava tra le mie mani. Lo lasciai andare di scatto, ed esso cadde a terra,
apparentemente innocuo, con un tintinnio malefico. Per ultimo, arrivò il
dolore, straziante. Gemetti. Ogni muscolo era indolenzito, ed avevo qualche
crampo. Ero sicura che mi sarebbero usciti molti lividi sulla schiena. La
guancia dello schiaffo pulsava. Inoltre, mi ero bruciata le mani. Questi ultimi
dolori, però, erano i meno persistenti. Sembrava una sensazione quasi
onirica, come se stessi sognando. Le mani, infatti, erano
solo un po' arrossate, e la guancia leggermente gonfia. Mi sentivo
mortalmente stanca, come se avessi corso un'intera giornata, e sapevo di
non riuscirmi ad alzare. Dopo il primo, violento momento del mio ritorno,
Tijorn zoppicò verso di me, ansioso. "Lsyn!". Esclamò, pieno
d'angoscia. S'inginocchiò accanto a me. "dannazione!
Che hai combinato?". Non risposi. Mi sentivo sfinita. Mi si chiudevano
gli occhi. Obbedii quasi meccanicamente a quell'impulso.Volevo dormire, concedermi un lungo
sonno ristoratore, non pensare più a nulla. Mio fratello non era
però dello stesso parere. Mi allontanò dalla sedia, e mi fece
stendere a terra. Prese a scuotermi, chiamandomi con voce affannata. Temeva
chiaramente qualche complicazione: che fossi impazzita, o che mi fossi persa, e
che il mio corpo non fosse altro che un involucro vuoto. Finalmente, trovai
l'energia necessaria per farfugliare qualcosa d'indistinto. Tijorn
non sembrò sollevato. "dannazione! Dimmi qualcosa di
sensato!". Mi urlò quasi in faccia, trattenendosi solo per il
fatto che in casa non c'eravamo solo noi. Avevo la testa completamente
annebbiata. Non pensavo a Chekaril, alla sgarbata sorella o alla mia missione.
Il mio corpo era un solo, pesante, blocco. Affondavo in una piacevole lanugine
dorata. Sonno benedetto. Mi dava fastidio tutto quell'agitarsi, quello
scuotersi... per nulla. Io stavo bene. Ero solo stanca,
tanto stanca. Avrei voluto dormire per sempre. Dovevo però
qualcosa a mio fratello. Sapevo che stava morendo di preoccupazione, e solo dal
tono capii che a breve sarebbe scoppiato in una crisi isterica. Mi
irritò, quel comportamento infantile. Chi era l'elfa, dei due? Aprii
di nuovo gli occhi, ma vedevo tutto sfocato. Anche quel semplicissimo gesto mi
sembrò immane come sollevare una montagna. "perdente". Mi
decisi finalmente a mormorare. Incominciò a girarmi la testa. Tijorn
smise di scuotermi, per fortuna, e lo sentii chinarsi verso me. "come, prego?". Mi domandò, ora con voce molto
perplessa, e più calma. "sei...sei un
perdente. Un
maledetto...dannato...schifoso...fo...fo...".
Cominciai a perdere contatto con la realtà. Il pavimento era freddo. E
quella lanugine dorata mi aspettava, era così invitante...mi ci
sarei crogiolata per una vita intera. Sentii qualcuno ridere, in lontananza,
una risata di sollievo. Poi, mio fratello mi sollevò da terra, e mi
tenne in braccio come un'infante. Non fu difficile, dato la mia piccola
costituzione. Richiusi gli occhi, accoccolandomi meglio, godendo del tepore,
schioccando la lingua. Se non fosse stato per il beccheggio, quello sarebbe
stato eletto a mezzo di trasporto preferito. "sei piena di lividi". Mi mormorò Tijorn
nell'orecchio. "mi toccherà guarirne qualcuno, e non so nemmeno come fare! Hai le mani
tutte rosse...una si sta pure spellando! Ma non sai tenerti fuori dai guai, eh? Hai fatto un salto prodigioso. Davvero.
Prodigioso". Risi debolmente. Sentii aprirsi una porta, e dopo poco,
Tijorn mi posò in un posto molto morbido, coprendomi con delle coperte.
Mi accucciai, borbottando qualcosa, soddisfatta, abbracciando il cuscino. Finalmente.
Letto. Che morbido e caldo paradiso. Un tintinnio. "non potevi mettere in
un posto migliore quella tua zuppa, Lsyn!". Mi sgridò Tijorn, sarcastico. Ma
la sua voce si stava già allontanando. Sprofondai in quelle simpatiche
nuvolette dorate, che mi accolsero benevolmente.
"numitiencoshiderasioneLain...". Feci in tempo di balbettare,
prima che tutto diventasse calore e buio. Mi ci abbandonai con piacere. Fu un
sonno senza sogni, pesante, intriso di luce. Non dormivo così da anni.
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Buon pomeriggio a tutti voi!
Puntuale come sempre, ecco qui. Letto? Piaciuto? Ne sono
contenta. Sono molto annoiata, quindi vi lascio stare e non vi tedierò
con discorsi insulsi.
Passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: ma tu
sei un genio *___* sei un genio *.* quel capitolo è me-ra-vi-glio-so *.*
l'ho letto due o tre volte, e lo andrò a rileggere a breve xD vabbè, ho detto già
abbastanza nel mio commento ^.^ ohh...ma con la regina mica è finita qui
u.u questo è nulla u.u si: è il personaggio più antipatico
che abbia mai concepito la mia testolina marcia O.o siii *____* quello che hai
detto è giustissimo: a morte Lainay u.u per Lsyn nel mondo dei mortali, dovrai ancora
pazientare un po' xD il prossimo capitolo, però, sarà quello
famoso che si sta progettando xD a proposito, penso di doverti fare delle
domande O.o vabbè, poi vediamo O.o fammi sapere che pensi di questo
capitolo! Ciau!
In quanto agli altri, mi pare quasi ovvio intuire cosa mi
aspetto da voi.
Eccomi qui con il tanto sospirato capitolo
numero 14, dopo giorni di lavoro. Non è granchè (considerando che
l'ho finito ieri, in preda ad una fortissima emicrania), ed è
lunghissimo (10 pagine, signori e signore, ben 10!!!).
Avvertenza: il
personaggio di Regis e l'avvenimento
del torneo cui fa riferimento questo capitolo non sono di mia invenzione, come
la battuta di Tijorn sull'avventatezza, riportata però in modo non
pedissequo. Appartengono a Carlos Olivera ed
alla sua spinoff fantasy Millennium War: Rebirth,
che vi consiglio di leggere. Grazie per il piccolo prestito *___*
con questa piccolissima
precisazione, vi lascio alla lettura del capitolo.
See you later!
Akita
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Quando
mi svegliai, ci volle un po' per recuperare il senno. Rimasi
chissà quanto ad occhi chiusi, godendomi il benefico calore delle
coperte, ancora pacificamente appallottolata su un lato, con i pugni chiusi
vicino al mio viso, come mi addormentavo sempre. Mi sentivo incredibilmente
riposata, e molto serena. Il dolore persisteva ancora, ma non era così
forte come prima. Sorrisi. Tijorn doveva avermi medicata. La guancia
però era bella gonfia, e le mani ancora rosse. Decisi finalmente che ero
del tutto sveglia, e mi stiracchiai, sbadigliando,
come un gatto pigro. Le articolazioni crocchiarono, ed io gemetti leggermente,
allungandomi quanto più potevo, soddisfatta. Che pace. Non si sentiva
nemmeno un fruscio. Aprii gli occhi. Ero nella mia camera, con le tende chiuse,
che lasciavano filtrare pochissima luce. Tuttavia, mi accorsi che qualcosa non
andava. Da quel poco che vedevo, la luminosità era aranciata, come
quella del crepuscolo. Sgranai gli occhi, stupefatta, e sentii montare in me un
senso d'incredulità spaventata: un serpentello gelido che
strisciava verso il mio cuore. Quanto
avevo dormito? Scossi il capo. Non era ancora l'alba
quando ero tornata dal Piano. E non mi era mai capitata una cosa del
genere. Sobbalzai quando la porta scricchiolò e
si aprì piano. Rimasi a fissare la figura silenziosa di Tijorn, che
entrava dallo spiraglio che aveva aperto, in punta di piedi, con qualcosa in
mano dalla forma piatta. Sorrisi di nuovo, girandomi verso di lui, osservando i
suoi movimenti cauti mentre si richiudeva la porta alle spalle e si girava
verso di me. "puoi fare a meno di tutta questa prudenza, fratello
caro". Gli dissi, con una nota di divertimento nella voce. Ridacchiai stupidamente quando lo vidi sobbalzare, e far quasi cadere
ciò che portava. Lui si avvicinò, ora con più
velocità. Riuscii a vedere il suo volto sollevato, e sorridente.
"Lsyn?". Domandò, avvicinandosi a me e mettendomi una mano
sulla fronte, sorridendomi ancora di più. "sei sveglia?
Lucida?". Aggrottai le sopracciglia, molto perplessa. "si
può sapere che vai dicendo?". Domandai, divincolandomi, mentre il
tono di voce diventava scorbutico, e più aspro. Tijorn rise, felice, e,
posando l'oggetto accanto a me, andò in cerca di una sedia.
"sveglia e lucidissima, presumo. Senn&ònon mi avresti mandato al
diavolo in quel modo così gentile". Ridacchiò di nuovo, aprendo le umili
tende con un largo gesto. La camera fu inondata dalla gloriosa luce del tardo
pomeriggio. Il gelo cominciava ad attanagliarmi il cuore. Qualcosa,
però, mi distrasse. Un profumo, per l'esattezza, che proveniva dal
misterioso oggetto accanto a me. Abbassai lo sguardo, curiosa. Ed esultai. Quel
coso era un piatto. Un piatto pieno,
per dovere di cronaca. Pieno di qualcosa che non mi sarei mai aspettata in
quella stagione. Sentii un sorriso stupido affiorare sulle labbra, e sedetti di scatto, impadronendomi del piatto e posandolo sulle gambe.
"funghi!". Esclamai, guardando mio fratello, che intanto si era
seduto accanto a me, con una smorfia furba stampata sul viso. Il mio piatto
preferito. Che tesoro. "pasticcio di funghi! Tijorn! Come hai
fatto?". Lui arricciò il naso, e scosse il capo. "io ho
amici generosi, Lsyn". Affermò, altero, alzando il mento, un
atteggiamento che conoscevo benissimo. "amici maghi, e molto golosi".
Gli feci la linguaccia, proprio come quando eravamo piccoli. "chiudi il
becco, fratello dei miei stivali". Dissi, prima di attaccare il cibo,
voracemente. Avevo una fame terribile, cosa leggermente insolita per me. Non
alzai il naso dal piatto finchè non ebbi finito
tutto. Poi mi appoggiai al cuscino, e fissai Tijorn, che mi guardava con uno
strano cipiglio. "non ti vedo così felice da tanti, tantissimi,
anni". Disse infine, in risposta alla mia
domanda muta. Restammo per un po' in silenzio. ";quanto ho
dormito?". Domandai alla fine, inquieta, incontrando i suoi occhi
apprensivi. "cosa è successo?". L'espressione di mio
fratello si fece improvvisamente grave. "hai combinato un disastro,
Lsyn". Mi disse, severo, stringendo le labbra. "tornare indietro in
modo anormale è stata una pessima idea. Sei rimasta priva di conoscenza
per quasi due giorni". Mi sentii sprofondare. Avevo dormito per un sacco
di tempo. Un lasso di tempo anormale per gli umani, figuriamoci per gli elfi. "hai
avuto un po' di febbre, ma nulla di grave, solo una piccola reazione al
tuo fisico malconcio". Mi guardò, tra il truce ed il divertito.
"temevo qualche ritorno di fiamma, che so,
qualcosa.Se non ti fossi ripresa
entro stasera, avrei chiamato un Guaritore". Si rabbuiò
ulteriormente. "il problema è che il primo degno di questo
nome...non è esattamente ad una distanza decente". Soffiò, facendomi scappare una risatina. Lui
mi guardò, stringendo le palpebre,cupo. Abbassai gli occhi, ed
arrossii. Oh oh.Ecco in arrivo una sfuriata. "tu!". Esclamò, in tono di voce più alto, ed arrabbiato. "ma nessuna, e
ripeto, nessuna delle tue avventure
ti ha insegnato qualcosa? Cioè, io dico, non impari mai, Lsyn? Scappare
via dal Piano! In quel modo! Che ti diceva sempre Amarto? Che il Piano è
pericoloso per i viaggiatori, o no? Dove hai la testa?
Cioè...guardati!". Mi prese la mano sfregiata, con forza, ed
io lo lasciai fare, timorosa. Tijorn era terribile quando
si infuriava. Pallido, me la mise davanti in modo che fossi costretta a
vederla, tutta storta, e martoriata. Mi morsi le labbra, e per poco non
scoppiai in lacrime. Lui continuò, imperterrito. "non ti bastava
questo insegnamento? Eppure tutti te lo hanno sempre detto!".
Ringhiò, lasciandomi andare ed alzandosi, prendendo a camminare avanti
ed indietro per la camera. "perfino gli sconosciuti te lo dicevano,
ricordi, Lsyn?". Mi domandò, puntandomi l'indice della mano
sinistra contro, richiamandomi alla memoria vecchie reminiscenze,risalenti a
quando ancora il mio unico tormento era Chekaril, ed il suo misterioso
allontanamento. "è l'avventatezza la peggiore compagna di
ogni persona, specialmente per le Spie!". Mi ululò contro,
furioso. "l'avventatezza!".
Quella parola mi colpì con la forza di un macigno, e m'irrigidii.
Davvero, non riuscii più ad ascoltare quello che Tijorn diceva.
Cominciai a perdermi nei ricordi, mentre lui ancora borbottava.
Era
stato in un duello che avevo per la prima volta sentito
questa parola rivolta alla mia persona. Un torneo. Fu due mesi prima del mio
terribile incidente. Per me era un periodo nero: nonostante fossi più
temuta che mai, cominciavo a farmi delle domande. Avevo da poco dato via mia
figlia, la mia adorata infante, e Chekaril era più bastardo e violento
che mai. Cominciava a tradirmi regolarmente, e trattarmi quasi come un oggetto,
un soprammobile, da usare quando se ne ha bisogno. Addirittura una volta, preso
da un attacco d'ira, mi aveva schiaffeggiata. Gliel'avevo fatta
pagare amaramente, pungendolo di nascosto con un ago intinto in un'erba
che lo rese debole come un pesce senza spine per giorni, ma non avevo
dimenticato. Io ne soffrivo tremendamente, perdonandolo e tornando ad amarlo
ogni volta, ed i miei comportamenti ne risentivano, facendo subire conseguenze
anche alle mie missioni, che cominciavo a non eseguire più in modo
perfetto come prima. Amarto mi aveva parlato del torneo, ed io avevo accettato
d'iscrivermi, per una volta senza atroci litigate. Devo averlo stupito
moltissimo. Ma quella era una possibilità egregia per me. Non m'importava
nulla del premio, della gloria, della fama. All'epoca ero ancora famosa,
come l'Ombra che uccide e rapisce, che prende
ciò che vuole, nascosta ed implacabile, inafferrabile e crudele, e questo mi galvanizzava. Non
avevo bisogno di soldi, nè del premio, una spada magica di cui non avevo
minimamente bisogno. No. Quello che volevo dimostrare era un'altra cosa:
il mio valore. Cominciavo ad essere incerta su
quest'ultimo punto, e mi chiedevo ripetutamente se nella mia vita fossi
stata forte, e quanto, o se mi fossi fatta trascinare dagli eventi, come
un'alga dal mare, senza scopi e senza desideri se non quelli inculcatigli
a forza. Chekaril mi aveva svuotata da ogni energia. Volevo solo scappare,
scappare da lui, da tutte le incombenze del Regno, che allora si chiamava
ancora di Normar, scappare dalla mia essenza. Volevo essere un'altra, ed
ergermi sopra la pila delle persone da me sconfitte, vittoriosa ancora una
volta. Era anche un affare di superbia, è vero. Non ho mai accettato la
sconfitta, nè morale, nè fisica. Salvo quella volta. Infatti, non
riuscii ad arrivare che al primo girone delle eliminatorie. Ma imparai molto. Fu un periodo
meraviglioso. Durante i primi scontri, mi ero resa conto che non ero cambiata
io, ma la percezione che avevo di me. E che stavo riacquistando la fiducia in me
stessa. Lontano da Chekaril, e dai suoi abbracci feroci, mi sentivo libera. Mi
divertii molto, e confermai al mondo la reputazione da crudele guerriera che
avevano di me. Mi divertii a martoriare un nano, giocando con lui fino ad
averlo sfinito, con vari trucchetti un po' sleali, tra illusioni e
sparizioni varie, e dopo cominciare a fare sul serio, quasi uccidendolo. Per
tutti lo risparmiai, ma finii l'opera più tardi, in una locanda
lontana dallo stadio, solo per divertimento. Ma questo nessuno lo sa. Ne uccisi
anche un altro, un umano mio sfidante, perchè, durante il breve scontro,
mi aveva osato insultare in un modo strano, che suonava vagamente come cagna malcresciuta. Strano soprannome.
Ma capii che stava dileggiando la mia statura, ed insinuando qualcosa sulla mia
fedeltà. Chissà se il suo cadavere è ancora appeso a
quell'albero. All'epoca ero innegabilmente una belva assetata di sangue e sofferenze, e ne gioivo. Mi dava un divertimento crudele, quasi sadico, vedere il
terrore che si dipingeva nello sguardo delle persone che mi avevano visto
all'opera, vedere l'odio misto ad attrazione che suscitavo al mio
passaggio. Ero ancora bella, e forte. Furono i miei ultimi sonni tranquilli.
Arrivai, finalmente, alle eliminatorie. Dopo qualche incontro non poco
edificante, e ancor meno piacevole, con un vecchio nemico, incontrai il mio
avversario. Era un umano, un ragazzino, secondo il mio metro di giudizio.
Doveva avere forse venti, forse trenta anni. Non sono mai stata brava ad
indovinare le età umane. Si doveva esser tagliato i capelli da poco, ed
erano disordinati, e nerissimi, più scuri dei miei, che hanno sfumature castane. Non era esattamente quello che si definisce un omone, anche se era più alto di
me...ma questo non importava, perchè l'unico che ero riuscita
a guardare negli occhi senza torcermi il collo era stato il nano, alto poco
meno di me. Davvero umiliante: penso si sia ormai capito che la statura
è per me una fonte di disagio continuo. Aveva un portamento altero e
guardingo, e la folla lo inneggiava. Regis. Il giovane eroe di quel regno.
Avevo sentito qualche storiella su di lui, e trovavo molto interessante quella
sfida. Un avversario ideale. Sorrisi al pensiero della vittoria. Potevo
mettermi alla prova in modo egregio. Combattemmo a lungo, e lui mi mise davvero
in difficoltà, dando fondo a tutti gli stratagemmi che conoscevo, alcuni di quelli estremamente sleali. Stupido ragazzino. E tutti lo adoravano. Che invidia. Proprio
quando sembravo ormai aver stravinto, e la gioia del combattimento, durante il
quale avevo capito molte cose, era al suo culmine, commisi un piccolo errore.
Mi permisi di essere magnanima, con una mossa stolta
di cui ancora mi vergogno. Inutile dire cosa successe dopo. Mi sconfisse senza
alcuna difficoltà. Rivalutai quel giovane dagli occhi di ghiaccio,
così distante, ma così gentile. E lui, proprio lui, mi
consigliò maggior prudenza. Mi diede una lezione suprema su onore,
giustizia e attenzione. Lezione che, nonostante la strana allegria con la quale
mi avviai, sconfitta, non recepii. Solo ora comprendo
alla perfezione le sue parole, e solo ora sono matura per ricevere quel
prezioso insegnamento. Dopo il combattimento, tornata, molto malconcia, nella locanda
dove alloggiavo, e dove mi aveva raggiunta Tijorn, mi ero sorbita una predica infinita sui nostri
comportamenti da Spie, che avevo in pugno la vittoria, e che
l'avventatezza può uccidere, che non si parlava del torneo ma se
avessi continuato così non l'avrei passata liscia un'altra
volta perchè il mio avversario poteva non essere fittizio. Il Guaritore
che mi stava medicando in quel momento, inoltre, non faceva che appoggiare mio
fratello, dandogli continuamente ragione. Quei due si trovavano molto
d'accordo, e presero a fare amicizia. Era snervante starli a sentire.
Fortuna che con me avevo sempre erbe ed intrugli. Versai nel loro tè
pomeridiano una cospicua dose di un liquido inodore ed insapore, a forte
effetto lassativo. Inutile dire il seguito. Ma mi divertii molto, oh, se mi
divertii. Insomma: nonostante avessi promesso di guardarmi un po' di
più alle spalle, non seguii il consiglio. Sono sempre stata troppo
orgogliosa per farlo. Un bambino, un ragazzino mortale, per quanto famoso e
valoroso, non poteva, nè doveva, azzardarsi a dirmi nulla, a me, la Spia
vecchia di secoli. E questo, anche questo, mi portò alla rovina. Presi
ad odiare Regis, che nulla aveva fatto, se non ammonirmi giustamente. Ma lo
odiavo, perchè mi aveva fatto notare una delle mie debolezze. La mia
debolezza fatale. Il destino, imprevedibile e beffardo, doveva però
farci incontrare un'altra volta, in un contesto del tutto diverso.
Ero
stata sbendata da una o due settimane, non so, ed ero al Lazzaretto, con Tijorn
e tanti fantasmi al mio fianco. Era il periodo più critico della convalescenza, quando ancora dovevo, se non
conciliarmi, almeno abituarmi al mio nuovo, orrendo aspetto. Il mio fisico si
era quasi ripreso, ma la mia mente era totalmente sconvolta. Ero più
orrida di ora: alcune porzioni di pelle, specialmente sul viso, non erano del
tutto ricresciute, la parte ferita era tutta gonfia, ed i capelli non erano che
sparuti, corti, ciuffi. Dovevo aver già rotto un paio di specchi, in
preda a crisi isteriche improvvise, e non facevo altro che rimanere seduta sul
mio letto, raggomitolata in modo che la faccia non si vedesse, spesso
singhiozzando senza requie, mordendomi le nocche della mano sana per non urlare.
Avevo perduto tutto. Tijorn mi era vicino, ma non poteva fare nulla per me,
nemmeno toccarmi una spalla in segno di conforto, perchè sapeva che
sarei esplosa. Nonostante ciò, era sempre accanto a me, parlandomi
piano, con quieta disperazione, muovendosi solo raramente per parlare con i
Guaritori, che cominciavano ad avere paura di me, ed a temere fossi totalmente
impazzita. Qualche volta cercava di farmi mangiare qualcosa, ma avevo
completamente perso l'appetito, e dovevano costringermi, per non farmi
morire di fame. Non m'importava. Io avevo fallito. Avevo fallito. Avevo
fallito. Non ci sarebbe mai più stata l'Ombra. L'Ombra era
morta, morta per la sua superbia, per il suo amore verso un ingrato, per la sua
scarsa pazienza. Quando mi capitò d'incontrare Regis, era un
giorno come un altro. Una bella mattina di sole, che prometteva tante cose
belle per i vivi. Io non accettavo più la luce, che mi svelava, e vivevo
a tende tirate, come in una cripta. Ero immersa nella
penombra, che mi celava, me agli altri quanto gli altri a me. Ero sola. Mio
fratello era uscito per un po', ed io ero a letto, come facevo per la
maggior parte del tempo, fissando il vuoto, con la testa tra le braccia. Sentii
dei passi, e mi raggomitolai, aspettando che mio fratello entrasse.
Lo sentii fermarsi di botto, invece, e delle parole, che mi
giunsero chiare, grazie al mio udito. "strano posto per incontrarsi,
Tijorn. Eppure ti vedo bene, a parte la stanchezza". Sobbalzai, come sono sicura fece lui, e alzai la testa. Regis? Che ci faceva
lì? Come un';eco, mio fratello rispose. "Regis?".
Chiese, mentre la sua voce stanca e rotta si venava di stupore.
"perchè sei qui? Qui, al Lazzaretto? Siamo a Normar,
Regis&...hai un'autorizzazione per sostare?". Strinsi gli occhi,
e digrignai i denti. Quel maledetto mi perseguitava anche qui! Che avevo fatto
di male? Ritornai ad ascoltare la riposta tranquilla dell'umano.
"quante domande, Tijorn...". Rispose, in tono leggero.
"sono in viaggio, e questo Lazzaretto è l'ultimo decente.
Stavo solo...controllando certe cose. E mi pare normale avere
l'autorizzazione". Il tono di voce divenne da gioviale, a severo.
"con la regina che vi ritrovate...piuttosto, Tijorn. Perchè
sei qui?". Attimo di silenzio. Potevo immaginare l'espressione
carica di dolore di mio fratello, e ringhiai sommessamente. Se l'avesse
fatto soffrire ancora, l'avrei cacciato io. Il mio aspetto bastava ad intimorire chiunque.
Allora non sapevo che ero io la causa della sua incredibile sofferenza. Dopo un
po', Tijorn si decise a parlare. "Lsyn è stata...molto
male". Disse, esitante. Ci fu un'esclamazione di stupore da parte
del mortale. "Lsyn!". Disse, e quasi si
poteva sentire il sorriso nella sua voce. "l'Ombra. Dovevo intuire fosse nelle vicinanze: voi due siete inseparabili. E
dimmi...cosa ha avuto? Ora sta meglio?". Solo io sapevo quanto quelle
parole cortesi stessero ferendo mio fratello. Dopo un
altro, lungo silenzio, si decise a parlare. "è stata ferita gravemente
da una trappola illusoria". Disse, piano, con la sofferenza nella bella
voce. "un ritorno di fiamma...io...io...Regis...io non la
riconosco più". Si decise finalmente a confessare, con un tono che
sapeva di pianto nascosto. "è rimasta due settimane
priva di conoscenza e...beh". S'interruppe, un
lunghissimo silenzio. "è lì dentro". Mi si torsero le
budella, e mi sentii piena d'odio. Sicuro come la notte, quell'impiccione sarebbe venuto da me. E infatti, così fu. La porta si aprì con uno
scatto, piano, quasi a non volermi spaventare. Io ero così annebbiata
dalla rabbia che li guardai dritto negli occhi, una
tremenda smorfia sul mio viso. Tijorn distolse lo sguardo, e si affrettò
a chiudere la porta. Regis, invece, lo sostenne, apparentemente distante e
pacato. Non era cambiato per nulla. Si avvicinò, con cautela, poi
allungò una mano. Mi limitai a ringhiare ed a ritirarmi, come una bestia
selvatica. Lui m'ignorò a bella posta, e, dopo un paio di tentativi,
riuscì a sfiorarmi la guancia offesa. Una strana espressione, frammista
di severità e pietà, si fece largo sul suo volto giovanile.
"come è potuto succedere, Ombra?". Mi chiese, sedendosi
accanto a me, senza distogliere gli occhi dal mio viso. Fui io che li chiusi, riappallottolandomi, trattenendo a stento le lacrime.
"l'Ombra è morta per la sua cecità alla luce".
Dissi, sobbalzando per aver udito per la prima volta il mio nuovo tono di voce.
Anche Regis e Tijorn sembravano colpiti, anche se il primo sembrava aver capito
cosa intendevo dire. "Tijorn...". Domandò il primo,
spezzando il silenzio, un po' più teso. "non è stata
colpita solo la pelle... è stata un'esposizione diretta alla fiamma, vero?". Mio fratello fece un segno di assenso. Il
volto dell'umano si fece di ghiaccio. "riesci a tenere una spada in
mano, Lsyn?". Mi domandò poi, gentilmente. Alzai il viso, e lo
guardai, stupefatta. "le mani sono a posto". Dissi, semplicemente.
"ma che vuoi da me?". Lui si erse in tutta la sua altezza, rigido
come una statua. "mostrami che sei la stessa, elfa avventata". Mi
disse, con voce sferzante. "o meglio, mostra a te stessa che il viso non
pregiudica quello che sei". Io e Tijorn ci guardammo, mentre lui mi tendeva
una mano. "alzati, e vieni con me". Mi ordinò, fissandomi
dritta negli occhi. Ricambiai lo sguardo, sentendo, ahimè, di credergli e di fidarmi di lui con tutta me stessa. Gli afferrai la mano, e
lui mi tirò su, sostendendomi quando mi girò la testa. Lui mi fece di nuovo la stessa domanda, ed io sbuffai, seccata. Ero
impaziente. Tutti e tre ci dirigemmo verso il cortile del Lazzaretto. Avevo il
viso affondato nel mantello di Regis, aggrappata letteralmente a lui per
sfuggire agli sguardi pieni di orrore che mi rivolgeva la gente che
incrociavamo. Finalmente, l'uomo si fermò, ed io alzai lo sguardo.
Eravamo in un piccolo spiazzo di acciottolato. Tijorn era già; lì,
con la mia spada in mano. Mi avvicinai a lui, zoppicando. Alla luce del sole, aveva
delle occhiaie davvero terribili. Gli rivolsi un sorriso di rassicurazione
quando mi scoccò un'occhiata preoccupata. Sentire il peso
familiare della spada mi incoraggiò. Mi voltai, e vidi il mio vecchio
avversario già pronto. Andai con la memoria al duello di tanto tempo
prima. Ma ora erano cambiate tante cose. Ed io per prima non ero l'Ombra.Regis però sembrava non essersene
accorto, e mi scrutava, beffardo. "pronta per una nuova sconfitta,
Ombra?". Mi disse, scrutandomi attentamente, forse in cerca di qualche
cedimento. Sorrisi, per la prima volta dopo quelli che
mi parevano secoli. Era una situazione pressochè assurda: un duello in
un Lazzaretto, tra un mortale vestito di abiti da viaggio ed un'elfa
convalescente, vestita solo della sua camicia da notte sgualcita e macchiata.
"io non ne sarei così intimamente convinta, Regis...".
Dissi, prima di slanciarmi contro di lui. Ancor prima che
le nostre lame cozzassero, mi sentii percorrere da una terribile fitta di
dolore in tutto il corpo. Annaspai, e, lasciando cadere la spada, caddi in
ginocchio. Repressi un gemito, e mi sentii, all'improvviso, peggio che
mai. Sentii rumori vari, come di zuffa. "no". Disse il mio
avversario, probabilmente rivolto a Tijorn. "deve imparare". Una
lacrima m'inumidì le guance. Poi un'altra. Scoppiai in
lacrime, disperatamente. "sono una fallita". Singhiozzai,
cominciando a dondolare, portandomi i pugni vicino la bocca.
"sono...sono un relitto". Sentii qualcuno incombere su di me.
"è questo il prezzo che si paga per i propri errori, Ombra".
Mi disse la voce di Regis, severissima. "e tu sei stata avventata. Lo sei
sempre stata. Quale parte della tua vita non ti è stata chiara?".
Non risposi, e lui riprese la parola. "anche tu hai un corpo,
Lsyn". Proseguì, in tono più morbido. "un corpo che
ci tradisce, un corpo debole. Il tuo problema è che lo ignori, e vai
avanti facendo tutto di testa tua. Mi aspettavo rifiutassi di batterti, debole
come sei. Non conosci i tuoi limiti, e questo mi stupisce. E' qualcosa di
così difficile?" . Aveva ragione. No. Non potevo ammetterlo, nella mia sofferenza e nel mio egoismo.
Era stato lui, lui mi aveva dato i consigli che mi avevano portato in quello stato. Anche se non era che una pietosa bugia, ci credetti con
tutta me stessa. "no! Stai zitto!
Stai zitto! Non me lo ricordare!". Presi ad urlare disperatamente, piangendo di
dolore e di umiliazione, coprendomi le orecchie con le mani, e dondolando
più forte. Scalpiccii vari, intorno a me il brusio si faceva sempre
più forte. "statele lontani!". Intimò
l'umano ai probabili Guaritori, pieno di carisma. "con lei ce la vediamo noi. Tijorn,
aiutami a portarla dentro". Sbaglio, o avevo sentito un vago tono di
quieto tormento nella voce di quell'essere impossibile? Cominciai ad
urlare ed a divincolarmi come una pazza quando mi sentii prendere per le
ascelle. Fu dura tenermi ferma. Mi riuscii a liberare solo nella mia stanza, e
mi precipitai nel letto, coprendomi tutta con la coperta, tremando. Entrambi si
sedettero vicino a me. "io non posso fare nulla per
lei". Annunciò Regis, con una voce carica ora di dolore. "ero
venuto qui perchè mi hanno raccontato quello che è successo. Ero rimasto stupito dallo spiazzo
bruciato nei pressi della casa di una famiglia di boscaioli, ed ho fatto delle domande. L'ho
riconosciuta dalla descrizione che mi hanno dato, e mi sono precipitato qui. Ho
pregato con tutto il cuore che non le fosse successo
nulla di così grave, e che fosse ancora viva. Mi dispiace molto, Tijorn.
Una guerriera della sua levatura non merita una fine così ingloriosa
della sua carriera. Ho provato a farla ragionare, ma ho fallito. Anche in
questo". "non devi dire così!". Lo rimproverò
Tijorn, asciutto. "tu sei...sei...sei il migliore, Regis.
Chiunque tu sia, da qualunque posto tu provenga, tu rimarrai il migliore. I
più grandi eroi di tutti i tempi impallidiscono a confronto della tua mente
profonda". Ci fu un attimo di silenzio. Mi accorsi che cominciavo ad
esser intorpidita. Ero debole, e mi stavo riaddormentando. Mi sentii
intimamente felice di riuscire a fuggire in qualche modo da quell'orribile situazione. "e
poi...dai il tempo a Lsyn di rimuginarci su...vedrai che si
stabilizzerà". Un sospiro. "lei è perduta, Tijorn.
Non illuderti. Non so cosa...chi...ci sia, al
suo posto. Ma quella pazza non è la guerriera che io conosco. Stalle
vicino...e spera". Disse, in tono grave. Poi, le ultime parole che
sentii da lui, furono venate da una strana malinconia. "è per
questo che sono in viaggio, amico mio. Ho bisogno di vedere se le mie
convinzioni sono ancora giuste, e quanto".
Ridacchiò;. "in fondo...Lsyn mi ha insegnato qualcosa".
Sprofondai nel buio dell'incoscienza. Quando mi svegliai, se n'era
andato, e mio fratello dormiva. Non l'ho mai più rivisto. I tempi
ed i luoghi sono cambiati: il mio regno non è più di Normar, ha annesso tutte
le nazioni elfiche, ed il suo è cambiato irrimediabilmente.
Gli umani hanno preso ad odiarci per il nostro immenso potere, nonostante prima
ci chiamassero cugini. Io gli dedico sempre un pensiero, a quel mortale
così insolito, così intelligente, così severo ma
così pietoso da cercare di aiutare un'elfa pericolosa e superba. A
distanza di tanto tempo, penso sia morto, di vecchiaia forse, o in
qualche modo valoroso, facendosi distinguere in battaglia per il suo grande
onore. Gli ho sempre però augurato ogni bene. Se lo merita.
Quando tornai al presente, mio fratello stava ancora sbraitando. "...assolutamente
incontrollata, stupida bestia, e del tutto irresponsabile!". Ci fu un
attimo di silenzio. Forse accortosi del mio sorriso ebete, Tijorn mi si
avvicinò. Sobbalzai quando me lo trovai a pochi
centimetri dal mio viso. "Lsyn?". Mi domandò, ora
interrogativo. "mi stai ascoltando?". Strizzai gli occhi, ed
annuii. Certamente che lo ascoltavo. Certamente. Lui tirò un sospiro, e mi si sedette accanto, sul letto. Doveva
essersi sfogato. Finalmente. "ho avuto paura, sorellina mia". Mi
disse, per poi abbracciarmi con foga. Io risposi con altrettanto trasporto. Mio
fratello era l'unica persona sulla quale potessi
mai contare, dotato di speranza, ed affetto, di amore e comprensione.
Però, tra me e me, sorrisi. Lasciarsi trasportare dai ricordi non era
così male. Dovevo farlo molto più spesso. Soprattutto quando
mi si urlavano contro aggettivi sconnessi da parte di un fratello imbestialito,
permaloso ed asfissiante come una mamma chioccia. Ci allontanammo dopo un
po', e lui si alzò, tendendomi una mano ed aiutando a rimettermi
in piedi. "ed ora, Lsyn mia cara". Disse, facendo uno strano gesto
circolare con un braccio teso, con impressa sul viso un'espressione
furba. "diamo inizio alle danze!". Lo fissai, attonita. Che stava
dicendo?
---------
Angolino di Akita:
eh-eh-eh. Come noterete, ci ho preso gusto nello staccare
i capitoli in un punto cruciale ù____ù cosa vorrà mai dire
Tijorn? Appuntamento alla prossima puntata ù___ù inoltre vorrei
avvisarvi che proseguirò i miei aggiornamenti
in modo un po' più lento, perchè ho bisogno di elaborare la
storia e non è un buon momento. Assicuro però la presenza circa
ogni tre giorni, il tempo di scrivere.
Passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: eh??
*___* che dici? Come ti sembra questo capitolo? Ho riportato il tuo personaggio
senza troppe sbavature? Ti è piaciuto? Come vedi, sono in frenesia da
scrittura, un po' come fanno gli squali appena sentono l'odore di
sangue ù__ù solo che la loro è da pasto, ma lasciamo stare
ù__ù accidenti, questo è davvero il capitolo più
lungo O____o 10 pagine! Bisognerebbe farlo piùspesso, questo
interscambio di protagonisti ù___ù; passando alla storia... eh...Lsyn
non ne passa mai una buona, lo so O.o soprattutto, non la passa liscia xD su, forza *___* che ne pensi di questo capitolo? Aspetto ansiosa
il tuo puntuale, e prezioso, commento. Ciau!
Per gli altri, mi scoccio a
scrivere le stesse cose.
Oggi, come vedrete, si torna nella norma. Niente
più sproloqui, per ora. Tocco di nuovo di quella sdolcinatezza che non
so se odiare o amare O___o
Bah, io vi lascio alla storia perchè la
mia voglia di fare la scema è pari allo zero assoluto.
See you later!
Akita
-------
Ci volle qualche minuto per uscire dalla mia camera.
Nonostante Tijorn, sempre più enigmatico, mi avesse giurato fossimo soli, perchè Amarto e le piccole erano a
Sharilar a comprare cibo, non mi fidavo, e cercavo la maschera per ogni dove,
ansiosa. Non trovai nulla, e cominciai ad avvertire i primi sintomi di una
crisi isterica. Finalmente mi decisi a mettere il naso fuori, anche se mio
fratello fu costretto a trascinarmi per una mano, a suon di rassicurazioni e minacce. Nel
piccolo corridoio, capii che aveva detto la verità. La casa era innaturalmente
silenziosa, illuminata dalla luce sonnacchiosa del tardo pomeriggio: niente
litigi, niente rimproveri, niente urla, niente pianti, niente risate. Solo
silenzio. Sospirai di sollievo, e mi rilassai, ignorando l'occhiataccia
che mio fratello mi rivolse, scuotendo intanto il capo. Tenendomi ancora per mano, Tijorn mi portò nella
cucina, sordo alle mie domande insistenti. Morivo dalla curiosità. Che
stava dicendo prima? Che intendeva? M'illuminai di gioia
quando vidi le cose sul tavolo, e mi girai verso Tijorn, sornione e
solenne. "tu sei un genio!". Esclamai, avvicinandomi piano a dei
vecchi abiti della mia taglia lasciati sullo schienale di una sedia, ormai
scoloriti, molto rattoppati, ed al tavolo, dove troneggiavano bottiglie varie,
la mia maschera, la spada avvolta in un telo nero ed impermeabile, una borsa
piena, bende ed un piccolo pugnale, una mia vecchia arma, lucidata e
bellissima, dall'elsa scura e dalla lama sottile, corta ed un po'
incurvata, come quella di una falce. Quando ero ancora una giovane Spia, la
usavo per tagliare le gole, e solo per quello. Era facilmente occultabile. Tijorn pensava veramente a tutto. Lui si lasciò andare ad un sorriso furbo. "ho dovuto adattare
un po' dei vecchi abiti di Nysha... erano gli unici che si
avvicinavano alla tua taglia". Disse semplicemente, scrollandosi nelle
spalle. "ti andranno stretti, ma penso che saranno perfetti
per il tuo ruolo. Ricordati di nascondere la spada in qualche luogo che conosci
bene e di lasciare la maschera nella borsa, rischieresti troppe domande". Che tesoro di fratello maggiore. Quasi come avere una madre. Fui sul punto di dirglielo ma,
pensando che in quel modo l'avrei offeso, cambiai idea.
"hai dato fondo alla tua riserva di impiastri, Tijorn?". Domandai invece della battuta che mi era salita spontanea alle labbra,
in tono pratico, ma grato, prendendo uno dei flaconi,
pieno di un liquido lattiginoso, ed alzandolo per osservarlo in controluce. Era
perfetto: mio fratello aveva un talento innato per l'erboristeria. Mi girai verso
di lui, giusto per vederlo annuire, sereno. "a me non servono".
Disse, abbassando lo sguardo. Notai in lui affiorare a tradimento la stessa
tristezza di qualche giorno prima. L'aveva sapientemente nascosta, per non turbarmi o contrariarmi, ma era
ancora lì. Tijorn non voleva che me ne andassi. Mi sentii delusa e ferita, anche se non più come il giorno prima, forse perchè mi faceva male vederlo soffrire. Posai la bottiglia sul
ripiano, e mi avvicinai a lui, che ancora a volto chino, con una strana smorfia
triste sul volto. "io devo andare, fratello mio". Gli dissi,
dolcemente, carezzandogli un braccio. Odiavo vederlo così indifeso. Gli
volevo troppo bene: era come se facessi soffrire me stessa. Lui
sobbalzò, ma non mi guardò nè rispose. Strinsi le labbra,
e gli presi il mento, tranquilla, cercando di girare il viso verso di me, in
modo fosse obbligato a fissarmi negli occhi. Lui obbedì docilmente, ed
io mi accorsi che, per la prima volta dopo giorni, i suoi bellissimi occhi
chiari erano umidi. "Tijorn...". Gli dissi, col fiato mozzo.
Non doveva fare così. Mi uccideva. Ogni sua lacrima era un pugnale.Lui era il più forte, dannazione! A lui toccava il ruolo di guida e conforto!
Io non avevo la forza necessaria per far tirare avanti tutti e due! Stavolta
fui io ad abbracciarlo, disperata. Dei, come lo volevo
bene! Mio fratello mi strinse forte, e seppellì il suo viso tra i miei
capelli. "non andartene, Nanetta...". Mi disse, con voce rotta.
"non voglio che tu vada via. Ricordi com'eri quando sei arrivata qui?". Annuii, ancora stretta a lui, e lo lasciai
continuare. Un nocciolo duro di determinazione si andava
però formando in me. Trovare Chekaril era la mia missione. Il mio
dovere. Io dovevo farlo. Non perchè qualcuno me lo ordinava, non
perchè in caso contrario sarei stata uccisa, non perchè ne ero ossessionata. No. Era puro senso di
dovere. Capii che, ormai, era solo quello ad evitare che la mia determinazione andasse in pezzi.
Molte volte, quando penso a questi momenti, rimpiango il fatto di non
essermi lasciata convincere da mio fratello, e non essere rimasta con lui,
chiedendo a Lainay di lasciarmi perdere, e mandare qualcun altro. Sarebbe stato
meglio. Ma allora non potevo sapere ciò che stava per succedere. Non
è mio dono la preveggenza. "eri così...disperata...".
Singhiozzò mio fratello, mettendo molta enfasi all'ultima parola.
"così...sperduta...ed io non potevo far altro che
guardarti, e sperare in un sorriso! Non andare, Lsyn.
Non andare, sorellina. Ti perderai di nuovo!". Mi supplicò,
lasciandosi poi sopraffare dai singhiozzi. M'irrigidii. No. Io sarei
tornata, e vittoriosa. Ed allora, io e lui, finalmente sereni, saremmo potuti andare ancora sotto il
vecchio tiglio nel bosco, dove giocavamo da piccoli, a chiacchierare e
litigare, a progettare e sognare, oppure insegnare alle gemelle a pescare, nel
piccolo stagno dove lui mi buttava in estate, facendomi, una volta, quasi
affogare, nell'inutile tentativo di farmi nuotare. L'idea mi piaceva, e lì, mentre confortavo mio fratello,
ne sorrisi, lasciandomi cullare da quella certezza. Sarebbe andata così. "io devo andare. Ma
tutto tornerò al suo posto, Tijorn, quando finirò ciò che
devo fare". Gli dissi, per una volta fiduciosa, in tono dolce e
consolatorio. "ed io sarò con te, Amarto e le infanti, fino a
quando non sopporterai più i miei lamenti ed isterie. E tutto si rinnoverà. Non
sarà più come prima, ma prometto per impegnarmi che ci
assomigli!". Finii la frase con entusiasmo palese, lasciandomi pervadere
da quel calore, benigno e piacevole quanto un fuoco in una tormenta. Io per
prima ci credevo profondamente, e mio fratello se ne accorse. Con
quell'affermazione riuscii a farlo smettere di piangere, con mio grande
sollievo. Finalmente. Restammo a dondolarci per un po', poi lui mi
lasciò andare, asciugandosi le guance bagnate con il suo solito gesto, e
guardandomi con un sorriso. Gli risposi cercando di fare l'occhiolino,
che non mi riuscì. Non ho mai capito in che modo Tijorn mi facesse guarire, e perchè la sua vicinanza fosse
fonte di forza per me. Lui riprese il suo aspetto furbo, ed afferrò le garze ed
una bottiglia, mentre il sorriso si trasformava in un ghigno sghembo. Gemetti.
Ecco che mi aspettava la parte più antipatica di tutto.
"siediti!". Mi ordinò, scherzoso. Sapeva che odiavo certe
cose. "e smettila di fare la vittima!". Io... la vittima? Chi si era fatto consolare poco tempo prima? Guardai mio
fratello in tralice e sbuffai, afflitta, avviandomi verso la sedia come un
condannato al patibolo. Mio fratello emise un verso di disapprovazione ed
impazienza, ed io mi sedetti pesantemente. Lui allora stappò il flacone,
e cominciò a srotolare le garze, inumidendole con il liquido contenuto
nella bottiglia ed avvolgendomele attorno ai capelli, con mille giri. Chiusi
gli occhi, e borbottai. "ah! Lasciami fare e vedrai come sarai
bella!". Tijorn sembrava aver recuperato tutta l'allegria e la
vitalità solita. Ne ero contenta, anche se conoscevo il motivo del suo buonumore, e
non mi piaceva. Dopo aver racchiuso tutti i capelli in uno strano bendaggio,
prese un altro flacone, peno di un liquido denso e viola, e me lo passò.
"su, forza!". Esclamò, gongolando. Avrei voluto dare un
pugno in quella faccia sogghignante, ma mi trattenni solo perchè sapevo
che quando mi prendeva in giro voleva dire che era quasi in sè. Stappai
la bottiglia, e quasi mi tappai il naso, reprimendo a stento un conato. Tijorn si allontanò. Quella
robaccia emanava un forte odore di frutta marcia. Era orribile. E sarei stata
costretta a metterla tutta sulla faccia e sulle mani. Sospirai, ed immersi la
mano in quella specie di gelatina orrenda, mentre mio fratello ridacchiava come
un matto. Per fortuna, non avrei dovuto aspettare tanto prima di vederne gli
effetti.
-------------
Angolino di Akita:
eccomi
qui con un nuovo capitolo di passaggio. Un altro capitolo spezzato a
metà. Ma, come avrete senz'altro capito, io mi diverto a lasciarvi
con l'acqua alla gola ù.ù dovete penare
è____é dai, su. Al prossimo capitolo vi spiego tutto, promesso!
Passiamo dunque
al dunque:
per Carlos Olivera: grazie *_____* mentre scrivevo ero preda di
patemi incredibili... e se non avessi reso bene quello che intendevo
rendere? Si: sono decisamente paranoica xD eh...lo so che la frase di Tijorn
lascia molti dubbi, era fatta apposta xD penso che tu abbia già intuito
qualcosa, a questo punto, su cosa abbiano intenzione di fare i miei cari elfetti psicolabili ù______ù
esponi a me le tue idee xD e fammi sapere, mi raccomando xD ciao!
Ormai l'inutile
appello è consuetudine, perciò non lo faccio.
Eccoci finalmente al punto in cui il mistero si
risolve xD mwahahahahah... in questo capitolo, ho
dato uno spazio leggermente più ampio alle descrizioni. Rimedierò
con il prossimo e gli altri ancora u.u
See you later!
Akita
-------
Ci volle ben più di un'ora per finire il
camuffamento. Dopo essermi spalmata addosso quella
roba schifosa, cercando di non vomitare o togliermela via, strillando,
cominciò la parte più dolorosa. Mettendomi completamente alla mercè
di un fratello un po'troppo su di giri, strategia che, come sapevo molto
bene, aveva adottato per distrarre me e lui dal suo tormento, mi preparai. Dopo
aver inghiottito qualche goccia di un liquido verde, che mi fece torcere per
diversi minuti di dolore, mentre mio fratello mi teneva stretta, cercando di
ignorare le mie pesanti bestemmie (non sono mai stata una persona molto fine,
in certi frangenti), e di non ridere come un matto, tutto fu in salita. Mi
ritrovai a girare intorno al tavolo, impedita ancora da qualche fitta,
impiastricciando tutto di viola, con Tijorn, con un cucchiaio in mano, alle
calcagna. Rido ancora a pensare che mi comportai davvero come un'infante:
ma, spesso, tendo a giustificare quel ridicolo episodio come un inconscio
tentativo da parte mia di ribellarmi all'orribile costrizione del
camuffamento. Ed io ho sempre odiato medicine ed intrugli. Mi piace ricordare che, in fondo, non ero del tutto perduta. "bevi!".
Continuava a dire mio fratello, con il cucchiaio teso davanti a sè. Io,
immancabilmente, urlavo e mi allontanavo. Quella confusione andò avanti
per ben mezz'ora. Fu solo la sua astuzia a salvarci da un carosello che
pareva infinito. Ad un certo punto, Tijorn si fermò, serio, e
posò con cautela il liquido nella bottiglia lì vicino. "che
dici?". Disse poi, voltandosi verso di me e strofinandosi le mani con
fare allegro. "dico a Lainay che non trovi il coraggio di
continuare?". "non voglio cambiare voce!". Protestai,
avvicinandomi, riluttante, irritata per la mia ulteriore bassezza, che per
fortuna non aveva alterato le capacità fisiche. Aveva vinto. Prima del
mio incidente, ero stata un'ottima imitatrice, ed intrugli orridi del
genere non mi servivano. Ma ora, con quel tono asessuato e roco che mi
ritrovavo, era difficile anche solo il parlare normalmente. Mi rabbuiai, e lui
se ne accorse, sorridendomi gentilmente. "ti aiuterà anche a
parlare, Lsyn". Mi disse, riempiendo di nuovo il cucchiaio di quel
liquido dal colore indefinibile. "farai molta, molta, meno fatica. E so
quanto ti costa in condizioni normali un discorso". Finalmente, gli
sorrisi, sospirando di rassegnazione, attenta però
ad inspirare lentamente, per evitare il fetore pestilenziale che mi
accompagnava. A tradimento, Tijorn m'infilò il cucchiaio in bocca,
ed io inghiottii inavvertitamente. Mi avvolse una curiosa sensazione, un misto
di calore e benessere. Guardai negli occhi mio fratello, stupefatta, e lui
sorrise di nuovo. "vedi? Non è così male. Io ero costretto a prenderla sempre". Mi disse,
facendomi l'occhiolino. "pensi i capelli siano pronti?".
Domandai, sobbalzando poi per aver udito la nuova voce, dolce e
tremula. Le parole mi venivano con più facilità, e capii di non
essere costretta ad interrompermi per prendere fiato ogni poco. Sorrisi tra me
e me. Era bello sapere di poter tornare ad essere, anche se per
poco, una delle tante, e non l'elfa sfregiata e pazza, la viaggiatrice piena di patemi. Lui
annuì, senza scomporsi, e si avvicinò al lavabo. "molto
probabilmente anche il viso. Metti la testa qui sotto, che ti sciacquo".
Mi rispose, calmo. Poi fece una pausa, mentre io obbedivo docilmente, ancora
deliziata per il calore che sentivo in gola. Facendomi chinare verso l'acqua,
ricominciò a parlare. "Potresti prendere in considerazione
l'idea di assumere l'infuso per la voce per sempre,
sai...". Disse, in tono meditativo, mentre mi srotolava le bende in
cui erano racchiusi i capelli. "non sarebbe meglio per te? Non faresti
meno fatica?". Scossi il capo, decisa. L'idea non mi piaceva per
nulla. "la mia voce è parte di quello che sono diventata,
Tijorn". Dissi, in tono duro, mentre lui mi bagnava i capelli, ciocca
dopo ciocca. "è il mio monito per certi errori. Non posso
mascherarla, perchè non sarei più io!". Mi sentii in colpa, e sperai di non essere arrossita.
In realtà, quella era una pietosa bugia. Volevo far vedere a Chekaril
quanto fossi diventata forte in sua assenza, di quanto
la sua ricerca mi avesse rinforzata nonostante la mia pazzia e la mia
invalidità, e quanto mi fosse costato il suo amore. Pure solo per pietà, lui mi doveva amare, solo per la dedizione nei suoi confronti.
Volevo poi farla pagare ai suoi rapitori, in modo che la mia
immagine distorta fosse l'ultima cosa che vedessero, immersi nel terrore più puro. Tijorn, però,
ci cascò in pieno, e strinse le labbra, mentre gli occhi gli si
riempivano di allegria e fierezza. Ero sicura pensasse di essere stato lui a
guarirmi, a farmi rendere conto di non esser poi tanto un mostro, con la sua
compagnia. Mi fece piacere rendermi conto di lasciarlo più felice. Dopo
i capelli, fu il turno dell'unguento addosso, operazione molto più complicata del previsto, ma prevedibilmente
schifosa. Dopo di questo, ci fu un'altra lotta per mettermi due gocce del
liquido bianco in ogni occhio, operazione fortunatamente non dolorosa.
Finalmente, indossai gli abiti preparati per me: una casacca ed una sorta di
pantalone molto largo, vestiti da viaggio di foggia femminile, di gusto
tipicamente popolare, mal cuciti ed in cotone grezzo, tinti di tanti colori da
essere diventati di un grigio spento. Oltre a questi, un enorme mantello di
lana dalle tante tasche interne, odoroso di tabacco e polvere, evidentemente
comprato da uno straccivendolo e pulito alla bene e
meglio. Dopo essermi mascherata nella mia stanza, mi fissai nello specchio, e
rabbrividii. Non ero più io. Il mio aspetto era quello di un'umana
magra e curva,
dal viso rugoso e cotto dal sole. Sembravo uno di quegli esseri mortali ed
emaciati di età indefinibile quanto le loro rughe, che solcano la pelle numerose quanti i loro dolori, passati e
presenti. Ad occhio e croce, però, dimostravo sulla cinquantina di anni:
un'età di tutto rispetto per un infimo e debole umano, che avrebbe
allontanato eventuali molestatori. I miei capelli erano candidi e crespi,
disordinati e ruvidi al tatto. Feci una smorfia, che si ripercosse sul viso,
dove le cicatrici si erano così confuse con le rughe da essere diventate
invisibili, la stessa cosa che era accaduta alle braccia ed alle mani. Gli
occhi apparivano cisposi ed affetti da una cataratta incipiente. Amavo, ed amo,
alla follia i miei capelli neri e ricci, ma fluenti,
che vedevo trasformati in un ammasso di paglia bancastra e sporca. Ero davvero
orrida. La vecchiaia era stata impietosa con la mia povera mortale fittizia.
Sotto quel mantello di debolezza, ero io, in tutta la mia
abilità, silenziosità e forza di elfo. Mi sentivo rinfrancata. Avrei dovuto fingere molte
cose. Ma quello mi divertiva, e non era difficile. Uscii dalla stanza, e mi
diressi verso la cucina, dove Tijorn stava pulendo il disastro che avevamo
combinato, borbottando cose che avevano tutta l'aria di essere bestemmie.
Dal tavolo era sparita ogni cosa tranne la spada ed il pugnale, e la borsa
pareva scoppiare. Quando mi vide, fece un sorriso accennato, senza
apparentemente scomporsi, e riprese a pulire. "a Sharilar si è
fermata per qualche giorno una carovana di nomadi, diretta alla capitale
dell'Impero". Fui io a sorridere. Tijorn pensava ad ogni cosa.
"una vecchia sola darebbe troppo nell'occhio. Si tratta della
tribù di Fjodr". Annuii. Un vecchio informatore. A volte i nomadi
del deserto, uomini e strane creature mortali, gli Insathi, gli unici alla
quale è permesso di vagare liberamente per tutti i regni, sono molto
preziosi. Questo Fjodr Eveli, un Insat, il capo di un gruppo dell'est
estremo, raccoglieva con i suoi seguaci mercanti per ogni dove del Regno, per poi farli entrare in
clandestinità in posti per loro pericolosi come l'Impero, e farli
contrabbandare i loro tesori. La sua tribù era tra le più grandi
e temute, anche se, come norma prescriveva, le loro intenzioni erano sempre
pacifiche. Trattare con le Spie era sua prerogativa. Conosceva sia me che
Tijorn, e ci aveva tratti con sè più di una volta. Poteva farmi
passare tranquillamente dove voleva. "tu sei Cate...
nuova cameriera personale sua e del suo Inatha". Parve farsi piccolo quando lo trapassai con uno sguardo furioso. Una
cameriera! Io, Lsyn Amarto, che ero stata tra i nobili più ricchi di
Galinne! Una cameriera, inoltre, costretta a servire anche le sue compagne! Non
era possibile, non era degno di me! Mi trattenni dall'urlare frasi
sconnesse solo perchè sapevo che doveva andare così, e non potevo fare assolutamente nulla. Fjodr si
divertiva a trattarmi male. Era geloso di noi elfi, e della nostra
immortalità. Lasciai che mio fratello continuasse con un gesto
spazientito. Lui sospirò, e prese a parlare in tono più
tranquillo. "hai cinquantasette anni, e vieni da una città vicino
il confine. Sei nata serva, e sei stata ceduta a lui
da un latifondista decaduto. Hai la vocazione per pittura e Guarigione, e sai
sbrigare solo i lavori che concernono la casa, ma non cucinare. Sei piuttosto
brava con i piccoli". Ridacchiò quando mi
vide sgranare gli occhi, indignata. Aveva fatto di me una paria, esposta ogni
attimo al pubblico ludibrio! Avrei voluto tanto fare pagare questo, e tanto
altro, a quel maledetto essere, ma non potevo, a meno di non voler scatenare
una faida terribile tra la mia piccola famiglia e lui. Non volevo far intromettere innocenti in beghe tra sconosciuti. Sarebbe stato molto,
molto difficile, recitare la parte della paziente, umile, sottomessa servetta.
"è più facile così spiegare tutto ciò che ti
porti appresso...ah, ricordati che, per tornare normale, c'è
tutto lì dentro. Devi prendere il liquido verde e quello bianco ogni due
giorni, e rinnova l'unguento ed il colorante per i capelli il mese
prossimo". "lo so". Gli risposi, ormai rassegnata, con una
smorfia. "ma non mi piace tutto questo". Lui rise, e mi mise una
mano sulla spalla. "ti porterò io da lui all'alba,
domattina. Ci aspetta al finire del bosco. Oh!". Esclamò, quando
udì dall'esterno una familiare confusione. Mentre parlavamo, si era
ormai fatto sera. Un tempismo davvero perfetto. Sapevo quanto stesse male mio fratell oal pensiero di dovermi salutare. "sono tornati...mi serve proprio un aiuto! Lsyn,
vai ad aprire tu mentre recupero altri stracci!".
Scossi il capo e mi avviai. Sarebbe stata una serata davvero terribile. Tutti
al comando di un pazzo armato di strofinacci, senza poterci ribellare per tema di vederlo scoppiare. Ed il peggio doveva ancora
venire...
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Angolino di Akita:
benissimo! Eccomi qui con un altro capitolo staccato a
metà, ma non esageratamente enigmatico xD devo
dire che mi sono divertita un mondo xD oggi son felice *____* si è
aggiunta una nuova commentatrice xD saluti, confetti e baci xD
passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: eccomi qui! Ecco qui: ora sai che cosa
sta succedendo xD mio dio, la carovana è stata
davvero una trovata fortunosa, però O.o non sapevo assolutamente come
andare avanti xD (benedico Leigh Brackett ed il suo Ciclo Marziano xD) fatto
sta, che qui si è arrivati davvero ad un capitolo che non m'immaginavo
di poter vedere O.o vabbè, più o meno quello da dire l'ho
detto O.o più o meno O.o fammi sapere che pensi! Ciao!
Per Selly:
carissima, benvenuta *_________* certo che non arrivi tardi...15 capitoli
non sono per fortuna tanti, da leggere (figurati che ho passato personalmente a
leggere per tutta una sera una fic di 35... O.O) xD sono contenta che Lsyn e
Tijorn ti siano piaciuti ^.^ e, non preoccuparti: arrivi proprio in tempo xD
come si suol dire: passi quando arriva il bus v.v beh, fammi sapere anche tu
cosa pensi del capitolo *___* sono curiosa di sentire il rintocco di un'altra
campana (senz'offesa per la metafora, eh... O.o). ancora benvenuta, e
ciao!
Buon pomeriggio, chusma! Eccomi qui, puntuale
come sempre, con il vostro capitolo tutto da divorare. Quando l'ho scritto pensavo occupasse poche righe, poi mi sono
accorta che per questo exploit coccoloso è
diventato un capitolo ._. pazienza, nel prossimo ci saràl'incontro
di cui sospiravate :P
Innanzitutto, prima di cominciare, vorrei fare
il benvenuto ad una nuova (lo si spera) commentatrice:
Kylien *____*
Coccole, assassini e spam a te
ù___ù
See You Later!
Akita
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Quella notte, nonostante la pulizia della cucina mi avesse
stancata molto, non riuscii a dormire. Troppi pensieri cominciavano ad
affollarmi la mente, troppe recriminazioni. Per una volta, non stavo pensando a
Chekaril, o al mio futuro, o almeno, non del tutto. E' vero, continuavo a
chiedermi se lui potesse ancora amarmi e se stesse bene, perchè non
fosse fuggito dai suoi rapitori e perchè non l'avessero ucciso in tutto questo tempo, ma
il viso che campeggiava nella mia immaginazione quando
abbassavo le palpebre era un altro. Sapevo che Tijorn, nella stanza accanto,
era sveglio quanto me. E sapevo quanto stesse male.
Era stato di un'allegria eccessiva per tutto il tempo, ed aveva persino
dimenticato di rimproverare le gemelle per i loro abiti laceri, conseguenza di
una piccola zuffa tra infanti alla quale avevano partecipato in città.
Io lo conoscevo troppo bene per non allarmarmi davanti a questo strano
comportamento. Da quando ero stata ferita, lui era diventato così. Non
che prima non fosse protettivo, anzi: fin da piccoli, quando io piangevo o non
stavo bene, lui era sempre accanto a me, consolandomi ed asciugandomi le
lacrime. Quella volta in cui, per scherzo, mi aveva buttata nell'acqua,
salvandomi però non appena vide che non mi
tenevo a galla, io non gli avevo parlato per settimane, nonostante lui facesse
di tutto per farsi perdonare. Un giorno d'autunno, sotto un forte
temporale, scomparve per ore. Amarto lo cercò per tutto il bosco, con me
alle calcagna, con il panico negli occhi. Giurai di non farlo più
soffrire, pregai qualunque dio, sconosciuto e non, piansi per ore ed ore, pur
di farlo tornare. Il mio desiderio fu esaudito a tarda notte, quando la pioggia
si era quasi calmata. Era sporco, infangato, fradicio e lacero, ma aveva tra le
mani dei grappoli d'uva, di cui all'epoca andavo pazza. Era stato
un furto. Approfittando del primo giorno in cui la sorveglianza del maestro si
era un po' allentata, visto il tempo, era
fuggito nei vigneti di Sharilar. Aveva attraversato il bosco sotto una pioggia battente, al freddo. Aveva rischiato di farsi prendere dal vecchio
proprietario, conosciuto per la cinghia con cui colpiva le mani dei giovani
ladri che scopriva nelle sue proprietà, e si era perso, bagnandosi fino
al midollo e gelandosi. Tutto per uno stupido perdono. Si ammalò per me,
com'era prevedibile, una febbre terribile che tenne sveglio il nostro
Maestro per giorni e giorni, facendogli temere il peggio. Non mi mossi dal suo
letto fino a quando non guarì del tutto.
Eravamo entrambi intorno ai dieci anni, piccoli tra i mortali quanto tra gli
elfi. Da quel giorno rimasi appiccicata a lui, prendendolo in maggior
considerazione, e pensando sempre due volte prima di litigare. Da quando ero
stata ferita, però, io ero tra i suoi pensieri principali. Tra le sue
ossessioni principali, direi. Sapevo che quel suo dolore non era dovuto
all'egoismo. Lui pensava a me. A me, e nessun altro. Pensava rischiassi
di soffrire, e di cambiare in peggio. Pensava di dovermi proteggere da ogni cosa che provasse a farmi male, ma che non ci fosse mai riuscito. Mi
tormentavo. Mio fratello era me, in un certo senso. Camminavo avanti ed
indietro per la stanza, mordicchiandomi le unghie, preoccupata. Avrebbe
sopportato la mia assenza, fragile come si era mostrato di essere diventato?
Sarebbe stato in grado di salutarmi senza farmi rimproverare di non essergli
stata vicina? Mi avrebbe perdonata per aver messo me
al primo posto? Non ce la facevo più, e presi una terribile decisione. Gli avrei detto che rinunciavo alla mia missione, e
che sarei rimasta con lui. Cosa m'importava di un fedifrago manesco quando il mio dolce fratello stava male?
D'istinto, senza quasi pensare, corsi fuori,
sbattendo porte varie. Entrai così come una furia nella sua camera. Era
sempre stata la sua stanza: piccola ma luminosa, completamente spoglia, a parte
il letto spartano, un vecchio comodino di legno grezzo, una sedia traballante
ed un ritratto scrostato, che rappresentava il mare in tempesta. "Tijorn...". Dissi, chiudendomi la porta alle spalle, affannata, girandomi verso lui. Mi bloccai subito,
dapprima terrorizzata. Lui era sul letto, stravaccato a pancia in giù
come fosse crollato così, ancora vestito con
gli abiti del giorno prima, senza nemmeno essersi tolto le scarpe. Non diede segni di aver sentito la mia entrata
precipitosa, e non si mosse. Sul comodino c'erano un foglietto, strappato
evidentemente da qualche parte, fitto della sua scrittura, un calamaio con
infilata dentro una vecchia piuma, ed un bicchiere quasi vuoto. Mi avvicinai,
mordendomi le labbra. Avevo sentito una fitta di paura incredibile
quando l'avevo visto inerte. Quando mi ero
accorta del suo respiro, era sembrato mi togliessero un macigno dal
petto. Dormiva pesantemente. Non me l'ero aspettata, e guardai
sospettosa il bicchiere. Gli andai vicino, scostandogli i capelli dal viso,
mettendo in vista l'espressione rilassata ed immobile, e presi il biglietto. Sorrisi,
scuotendo il capo mentre leggevo. Mio fratello era un idiota. Aveva scritto:
Nanetta;
non preoccuparti. Sono vivo, non ho
commesso nessuna sciocchezza. La tua mancanza non è così terribile da
farmi suicidare, stanne sicura. Non riuscivo a dormire, per la terza notte di
seguito. Ho bisogno di sonno, altrimenti questa casa andrà a rotoli. Ho
preso un leggero
narcotico, per stordirmi qualche ora, tutto qui. Stai calma. Riusciremo ad arrivare puntuali all'appuntamento con Fjodr, te l'assicuro. Ho misurato bene le
dosi. Non provare a svegliarmi, comunque, perchè non ti sentirò.
So che ti sei precipitata da me, in preda ai sensi di colpa. Domani non ti
dirò nulla, perchè non ho il coraggio di dirti certe cose a voce, ma vai tranquilla. Parti senza rimorsi, perchè io
sono veloce a riprendere la mia tranquilla esistenza di Maestro.
Sono stato un po' egoista (molto, direi) a rivelarti
il mio dolore, ma non ce l'ho fatta. Temevo di
vederti cambiata in qualche modo terribile una volta saputo
di Chekaril. Ho sbagliato. Se sei qui sei sempre la stessa, e non cambierai
mai. Sarai per sempre la mia isterica, lunatica, avventata, adorabile
sorellina. Se non ti sei fatta le paranoie che io immaginavo facessi,
e non sei venuta a parlarmi, ed io ho sprecato carta per nulla,
beh...pazienza. Tutti cambiano.
Ad ogni modo sappi che ti voglio bene, e sarò per
sempre qui, ad ascoltarti, e sostenerti. Non finirò mai di ripetertelo, e non sarà mai
abbastanza.
Torna a letto e dormi
anche tu!
Ne hai bisogno. Più di me.
Ridacchiai, e scossi la testa di nuovo. Io adoravo mio
fratello. Quell'idiota di mio fratello. Lui era senz'altro la
persona migliore del mondo. Se non altro, quella che mi conosceva meglio. Sapeva esattamente quali sarebbero state le mie mosse ed i miei pensieri.
Presi la sedia, trascinandola vicino al letto, e mi sedetti comodamente, senza
smettere di sorridere. Provavo una tenerezza infinita per quel fratello
paziente e premuroso, dolcissimo e serio, che mi ritrovavo. Cosa avevo fatto di
bello per meritarmi una persona così sempre al mio fianco? Nemmeno
Chekaril si era mai curato di certe cose. Lui non si era mai portato in fin di
vita per un po' d'uva, non era mai stato al Lazzaretto con me, non
aveva mai fatto pazzie per funghi fuori stagione. Tijorn era mio fratello. Ed
io potevo contare su di lui quanto lui poteva contare su di me. Neppure dopo
che io ero stata sfregiata mi aveva abbandonata, anzi. Mi salirono le lacrime
agli occhi, e decisi di rimanere lì, con lui. Non avrei potuto fargli
compagnia per tanto tempo, e volevo sentirlo vicino ancora una volta. Gli presi
la mano che penzolava fuori dal letto, e poi,
accoccolandomi con la testa sul materasso libero sopra al suo capo, usando le
nostre mani intrecciate come cuscino, mi assopii, tenendo stretto il
bigliettino che aveva scritto con la mano libera. Saperlo più sereno, o
almeno più consapevole, mi rincuorava.
---------
Angolino di Akita:
ehilà a tutti voi! Se siete
sopravvissuti all'esplosione di zuccheri qui su, godetevi un po' i
commenti, visto che oggi son d'umore tenero .__. Ancora benvenuta, mia
spammatrice ù__ù
passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera:
mwahahahah, quando si dice destino... xD mio caro, stai pronto a goderti il
prossimo capitolo, perchè gli eccessi di cattiveria non sono finiti
è___é piaciuto questo capitolo, invece? Non so, lo trovo troppo
zuccheroso per i miei gusti xD in fondo, Lsyn diventa
sempre più sentimentale in compagnia del fratello xD dal prossimo un po' di pepe crudele in
più, promesso ù___ù beh, a presto! Fammi sapere! Ciau!
Per Selly:
ma su...il bello inizia ora :P mettiti comoda
sulla sedia ed afferra i popcorn ù____ù si, oggi sono un po'
esaltata, ma fa' nulla xD per quello, dovrai aspettare un po', ma
stai sicura che la tua attesa sarà ben ripagata xD intanto, esprimi la
tua opinione su questo capitolo come più ti aggrada xD ciao!
Per Kylien:
a completare la colorata triade, ecco la Campana cara xD
(in senso buono, eh v.v) *___* sei davvero un lampo a leggere (ed i miei
capitoli davvero corti, tra l'altro xD), e sono contentissima ti sia
piaciuta *.* fai sapere alla cara, piccola zia Akita cosa pensi *_____* un
coltello a te, e si ci spamma sul forum xD
Per gli ALTRI: ora sono soddisfatta per non rompervi tanto
xD
Vi avverto già in anticipo che reputo
odioso questo capitolo ._. è lungo, ma non sono per niente riuscita a
rendere le cose come volevo .___. Spero di rifarmi (attraverso un piccolo
momento di sconforto e noia xD) con i prossimi
capitoli .__.
Vi lascio a quest'orrore.
Akita
-------
Stavo sognando, un sogno di luce che non rammento, quando qualcosa
iniziò a disturbarmi. Qualcuno, più esattamente, chiamava e mi
scuoteva. "Nanetta...". Continuava a ripetermi una voce
nell'orecchio, fastidiosa come il ronzio di una mosca. Chiunque stesse
chiamando quella Nanetta doveva ben essere una persona avventata per osare
svegliarmi! L'essere disturbatore, intanto, mi aveva preso per la testa,
e cercava di farmi alzare. Davvero, ero in una posizione scomodissima. Ma
ciò non autorizzava quel tipo a darmi fastidio. Se avesse continuato
così, l'avrei ucciso a mani nude. L'avrei strangolato. Poco
ma sicuro."Lsyn, arriveremo in ritardo!". La voce parve assumere
un'inflessione di supplica, mentre si alzava di tono. Si fece strada in me
uno spiraglio di comprensione. Quel nome era il mio. Tijorn! Fu l'unico pensiero coerente dopo un bel po'.
Realizzai improvvisamente chi ero, cosa ci facessi lì e, soprattutto,
dove dovevo andare. Il sonno mi passò di botto. Aprii gli occhi e
scattai in piedi, scarmigliata, recuperando in un attimo
tutta la lucidità necessaria. Mio fratello era di fianco a me, in
ginocchio, sveglio, anche se un po' intontito, e mi guardava con aria
severa. "finalmente! Ti sto chiamando da un sacco di tempo". Mi disse,
alzandosi e riavviandosi i lunghi capelli neri, chiudendoli, con un gesto
rapido, in una fluente coda di cavallo, prendendo poi qualcosa di lungo da
terra e porgendomelo. Studiai per bene la sua espressione. Sembrava totalmente
vuota. La cosa non mi piacque per nulla. "muoviti, ho già messo
tutto sul mulo...prendi il pugnale, e nascondilo. Non si sa mai. Ho
occultato la spada nella borsa, sarebbe stato troppo difficile spiegare la sua presenza". Obbedii, e infilai la piccola arma nella veste, al
sicuro. Il contatto con la guaina fredda mi fece bene, perchè non ero
nel massimo delle mie facoltà mentali. Senza pensare, infatti, mi sporsi
verso mio fratello, in cerca di un abbraccio rassicurante. Non dovevo farlo. Lui mi evitò
intenzionalmente, e si voltò per uscire precipitosamente dalla camera, senza parlare.
Mossi i primi passi anch'io, mentre il cuore veniva trafitto da
mille lame ghiacciate. Ero però troppo stordita per farci caso. Non ho
mai avuto buona resistenza ai risvegli bruschi. Cominciavo a sentire le prime
avvisaglie di nervosismo all'altezza dello stomaco, mentre seguivo Tijorn
nella cucina, ed ero ancora per buona metà nel mondo dei sogni. Non ci
fermammo per mangiare: lui sapeva benissimo che non ce
l'avrei fatta a buttare giù nemmeno un sorso d'acqua.
Era un momento troppo importante per sprecarlo in inutili gesti. Arrivammo nel
piccolo ingresso. Lui, improvvisamente, si fermò, e si girò verso
me, ad un passo dall'uscio. All'inizio, ancora insonnolita ed
assorta nei miei propositi di pianificazione, non me ne accorsi. Poi, notai un
paio di freddi occhi grigi fissi su di me. Restituii lo sguardo con fare di
sfida, fermandomi a mia volta. Lui parlò, una voce assurdamente piatta,
che non gli apparteneva. Odiavo sentirlo così, e speravo intimamente si
riprendesse presto. "non hai intenzione di salutare Amarto e le
piccole". Non era una domanda. Mi sentii irritata. Salutarli era il mio
ultimo pensiero. Non c'era il minimo bisogno di dare fondo di nuovo alla
mia riserva di tenerezza. Il ricordo dei tormenti della sera prima mi pareva
ora ridicolo. Mi dovevo trattenere dall'urlare, irritata. Era un errore lasciarsi prendere dai sentimenti, un grosso
errore. Una Spia emotiva era un bersaglio molto, molto facile. Lasciarsi
irretire dall'idea di abbandonare una missione per un fratello
poi...era un'onta, seppur non commessa, che non riuscivo a
dimenticare. Avevo sprecato la mia vita per quella missione. Ed avevo intenzione di calpestare chiunque avesse osato impedire ulteriormente il suo successo.
"non ne ho il minimo bisogno". Dissi, mentre la voce
si faceva dura, prendendo la vecchia inflessione che da tempo non usavo.
L'Ombra stava lentamente risorgendo in me. Ed avrei permesso che
succedesse, almeno per il mio ultimo atto. Ed in questo l'affetto era
solo debolezza. Cancellai mentalmente Tijorn dai miei pensieri. Fu un gesto
molto doloroso, ma necessario. Beh...diciamo che
provai a non pensare alla sua sofferenza, ed a concentrarmi un po' su me stessa, qualcosa che di solito mi veniva quasi automatico fare. Non
ci riuscii. Strinsi e labbra, mentre un'ondata di silenziosa rabbia mi
avvolgeva. Lo spinsi da parte, brutalmente, ed uscii fuori, dove il giovane
mulo di proprietà di mio fratello era carico delle mie cose. Mi fermai vicino ai cespugli di rose,
assaporando l'aria brumosa e profumata di primo mattino. Era quasi
l'alba: il sole non era ancora sorto, ma si scorgeva una debole
luminosità ad est. Il bosco si stava svegliando. Tijorn uscì
anche lui, chiudendo la porta dietro di sè, e mi superò,
cominciando a controllare l'umile cavalcatura marrone. Non lo guardai,
nè lui mi guardò. Sapeva che doveva andare così. E sapeva
quanto spudoratamente mentissi a proposito di Manolìa, Amarto e Nysha.
Mentivo anche a me stessa. A me stessa per prima. Se li avessi
visti, non me ne sarei pù andata da lì. Se avessi parlato loro,
tutti i miei propositi d'impassibilità sarebbero svaniti.
Conoscevo Tijorn abbastanza bene per sapere che avrebbe detto tutto questo alle piccine, una volta tornato, e la cosa non mi dava stranamente fastidio.
Amarto mi conosceva come un
padre, e non aveva bisogno di scuse. Mi faceva male lo stomaco. Finalmente, mio
fratello decretò che potevamo partire. Senza più scambiarci
nemmeno una parola, cominciammo ad avviarci verso il limitare del bosco.
Ci volle una mezz'ora circa per arrivare al punto
prestabilito. Lì dove cominciava la boscaglia, ci aspettava
l'Insat. Faceva molto fresco, e mi avvolsi meglio nel mio rozzo mantello.
Avevo camminato come una sonnambula dietro Tijorn, desiderando intensamente di
potermi sdraiare e dormire in santa pace da qualche parte. Ci fermammo.
"Fjodr dovrebbe essere qui tra poco". Disse Tijorn, con voce calma.
Alzai il viso verso lui. Non mi guardò neppure. La sua espressione avrebbe potuto benissimo appartenere ad una maschera. Scossi
il capo per cercare di schiarirmi le idee. Avevo la testa completamente vuota.
Eravamo circondati da alti cespugli. Cominciammo senza ulteriori preamboli a
scaricare le mie cose a terra, vicino a me. Aspettammo per un bel po'. Il
mulo, libero, cominciò a brucare, placido, senza muoversi. La luce aumentò
gradualmente, ed il canto degli uccelli si fece sempre più forte e
gioioso. Dopo una decina di minuti, iniziai ad agitarmi. Notai che anche Tijorn
sembrava preoccupato. Per la prima volta dopo un po', ci guardammo negli
occhi. "non doveva essere già qui?". Domandai, trattenendo a
stento la delusione, e l'ira. "ma quanta fretta di viaggiare,
elfa!". Disse una strana voce echeggiante vicino a noi. Sobbalzammo, e ci
mettemmo più dritti. Fjodr stava arrivando. Lui aveva sentito noi, ma
non noi lui. Finalmente, udimmo dei chiari fruscii, e poi emersero, di fronte a
noi, le figure bizzarre di due Insathi. Sono esseri molto particolari, che
ancora vedo passare in tarda primavera, e di cui ancora sento parlare. Non
penso si estingueranno mai. Abitanti del deserto, sono mortali, ma hanno una
vita più lunga di quella umana, anche se non arrivano mai alla veneranda
età di un nano, che può raggiungere i duecento anni. La loro
cultura consiste essenzialmente nell'esaltazione della vita errante,
vista come filosofica e nobile scelta di vita, nella neutralità
più assoluta, tanto che le armi sono considerate impure, e non vengono mai toccate, e nella sopportazione. Per questo,
nelle loro carovane, si può incontrare di tutto, dai nomadi umani, ai
mercanti clandestini, ai criminali, ai profughi, e alle spie. Tutti sono tollerati con la medesima
pazienza. L'ascetismo è il loro massimo obiettivo, raggiunto
però da pochi. Da circa duecento anni, grazie ad un patto infrangibile
tra regni, vagano senza problemi per le nostre terre. In cambio della loro
naturale neutralità, dovunque vadano hanno diritto ad ospitalità,
ed inviolabilità, pena la morte. La loro società è da sempre
patriarcale, e la loro religione il deserto, dove nascono e muoiono. Sono un
popolo estremamente fiero, più vicino agli uomini che a noi elfi, che
odiano in larga parte, invidiosi della nostra lunghissima vita. Il loro aspetto
fisico è quanto mai strano: si dice siano stati originati da umani
alterati con la magia. E la magia benigna scorre loro in corpo, nel loro
argenteo sangue, naturale quanto l'aria che respirano. Sono molto alti,
ed indossano, Insat quanto Inat, abiti lunghi e colorati, rossi, gialli, o
lilla. Il loro intero corpo sottile è di colore scuro, ricoperto da una corta e
compatta peluria ocra. Mani e piedi presentano somiglianze con le zampe di
alcuni felini, dotate di cuscinetti resistenti per non affondare nella sabbia,
tanto da non essere mai impacciati da scarpe o guanti: è per questo che
noi non riusciamo a sentirli, nonostante il nostro finissimo udito. Il viso
è inquietante, anche se incantevole: uno strano misto di umano ed
animale. Le orecchie sono lunghe e larghe, bordate di peluria più lunga
rispetto al resto del corpo, ed capelli vengono
portati sciolti: sono argentei per gli Insat, corvini per le Inat, e sembrano dotati di vita propria.
Gli occhi...gli occhi sono sconvolgenti. Per tutto il viaggio, non riuscii
mai a scollare i miei dai loro. Non hanno pupille, nè iridi. Sono
grandissime pozze di oro fuso, imperturbabili e profondi. Sembrano scavare nei
recessi più reconditi della mente, mettendo a nudo ogni sentimento,
pensiero, segreto. Dei due che avanzavano verso noi, in quella fredda mattina,
riconobbi chiaramente Fjodr, accompagnato da una delle sue compagne:
c'erano evidenti segni di età sul suo viso alieno, ed i suoi abiti
erano insolitamente dorati, a conferma del suo rango. L'espressione, poi,
inconfondibile: invidia e disgusto albergavano in quegli occhi strani. Non ci salutò, nè noi lo salutammo. Tollerare non vuol dire amare. Non feci
caso quasi alla Inat, una giovane timida, dai lunghi capelli raccolti in una
fascia istoriata, segno di appartenenza tipico di Fjodr. Lei, ad un gesto
imperioso del marito, prese i miei bagagli e, senza dire una parola, scomparve.
Dopo un silenzio sdegnoso, l'Insat si decise a parlare. "Anì
è la più veloce e silenziosa del mio Inatha". Disse,
arrogante, tenendosi a distanza da noi due. "nella tribù dormono ancora,
e non faremo fatica a farti inserire. Ho già parlato a tutti della mia
nuova serva". Sospirò, chiaramente intavolando un lungo,
silenzioso discorso con sè stesso, nel tentativo di distrarsi. Era
sempre stato così: mal ci sopportava, e solo la sua cultura impediva di rifiutarmi un passaggio, seppur ben pagato. Mi sarei dovuta aspettare di tutto, da lui.Ora l'idea della carovana non mi pareva così geniale.
"muoviti, Lsyn". Aggiunse, guardandomi dall'alto in basso.
"hai un sacco di cose da fare, oggi". Non disse più nulla, e
sapevo perchè. Lui non mi reputava degna. Per lui ero la più infimatra gli infimi. Ero elfa e spia, e questo
bastava. Sentii un moto violento di rabbia. Lo stomaco si torse così
violentemente che boccheggiai, appoggiandomi a mio fratello, che stavolta non
si ritrasse. L'avrei ucciso, prima o poi. Avrei infranto moltissimi
accordi e convenzioni, ma il mio lavoro sarebbe stato pulito, e nessuno avrebbe
potuto dirmi nulla, perchè nessuno mi avrebbe potuta incolpare. Era
l'ora dei saluti. Tijorn mi guardò, cercandomi d'infondere
rassicurazione, e mi strinse forte. "abbi cura di te, Nanetta...". Mi
disse, con voce leggermente più vitale, mentre mi abbandonavo nel suo abbraccio, dondolandomi un po'. Mi
sentii improvvisamente triste. Non l'avrei rivisto per chissà
quanto tempo. C'erano tantissime cose non dette tra noi, tantissime cose
non fatte: era uno strazio vedere il suo sorriso falso ed immobile come quello
di una bambola. Era terribile osservare il suo abile schermo, la sua abiltà nel nascondermi ogni pensiero. Non riuscii a dire nulla, nè a prolungare il nostro
addio. Brutalmente, mi sentii tirare per la spalla da qualcuno. Ci sciogliemmo,
e mi girai con deliberata lentezza, stringendo ancora il braccio di mio
fratello. Il vecchio Fjodr mi guardava con astio. Sentii che Tijorn, obbedendo
a chissà quale impulso, si allontanava da me, lasciandomi, e sapevo
quanto gli fossedoloroso. L'Insat sapeva
d'irritarmi, e lo faceva apposta. Conosceva la mia sofferenza nel
lasciare Tijorn. Cominciai a tremare di rabbia, e digrignai i denti un attimo,
in direzione di quell'orribile mostro. Lui mi rivolse la stessa
attenzione che avrebbe potuto rivolgere ad un cagnolino petulante. Cercai di
non saltargli addosso, e di non sguainare il pugnale che tenevo nascosto nell'abito.
"la tribù non aspetta i tuoi comodi, Spia.
Nè quelli di colui che chiami a torto fratello. Muoviamoci, senza indugi, e
basta smancerie. Non sei un sultano, ora, e devi obbedirmi fino a quando ci lasceremo. E' il tuo pagamento". Si avviò, senza
aspettarmi. Tutto quello che aveva detto era la pura verità.
Perchè Tijorn non aveva creato un travestimento più indipendente?
Perchè non potevo stare un altro po' con lui? Senza più
dire, o fare, nulla, mordendomi a sangue le labbra per non urlare la mia ira e
sofferenza, e non bestemmiare, dopo un'ultima stretta fugace
al suo braccio mi allontanai da Tijorn, seguendo il mio nuovo padrone.
M'irritava doverlo pensare in questi termini. Quando mi voltai per salutarlo di nuovo, mio fratello era già
sparito nella boscaglia e nella nebbia, di ritorno alla sua piccola e pacifica
casa. Sentii un'ondata di autentico dolore squarciare il mio cuore. Ero
sola. Di nuovo. Mormorai qualcosa, rabbiosa, e ripresi
a marciare verso l'accampamento della tribù, prudentemente a
qualche passo dall'Insat. Il mio viaggio era iniziato.
-----
Angolino di Akita:
eccoci
qui, con il diciottesimo capitolo. Non è granchè, ma avevo fretta
di aggiornare (il 17 è la mia unica superstizione .__.
Ma ho buoni motivi per essere superstiziosa riguardo a questo numero .___.),
e mi ha preso una tale noia...
d'accordo,
ora basta.
Passiamo dunque
al dunque:
per Carlos Olivera: eh...giudico anche io fin troppo
sentimentale il capitolo O.o ma che ci vuoi fare, dovevo farlo...e poi mi
piaceva ù__ù mi rifarò, promesso. Mi rifarò xD già da quello che ti ho detto puoi ben capire
quanto io mi stia gustando l'attesa, per scrivere il capitolo di cui
parlavamo l'altro ieri v.v non finirò mai di ringraziarti per la
mappa :P cosa ne dici di questo capitolo? A me non è piaciuto tanto .__.
Mi sembra piatto .__. Vabbè, in questi giorni sono decisamente paranoica
.__. Fammi sapere! Ciau!
Per Selly: ehi :P come ho detto su, anche a me il capitolo piace molto xD
ed ho lo stesso romanticismo di un cespuglio di rovi v.v sarà perchè
Tijorn è il mio personaggio preferito, o perchè tendo un po'
ad idealizzare la figura fraterna, chissà v.v fatto sta che era mio
dovere v__v Lsyn non può essere pazza psicotica sempre...almeno per
un po' lasciamola stare, su xD esponi le tue idee in rapporto a questo
schifo di capitolo xD ciao!
Per Kylien: ma ciao :P eh...la lettura rapida è anche mia dannazione
._. i libri non bastano mai, ti do pienamente ragione su questo .__. Che te ne
pare di questo capitolo? Lsyn tornerà infamA, non preoccuparti ù__ù
però Tijorn merita un trattamento d'onore, sissì xD anche se, a mio parere, l'amore verso il fratello non è che egoismo mascherato <.<
chi non vorrebbe una persona così al fianco? xD
vabbè, va'. Fai sapere a zia Akita, su, che pensi *__* baci, spam
e coltelli!
Ciao agli ALTRI :P
Akita(ma chi accidenti sta urlando con voce da Nazgul??? O___O)
Eccoci qui, con il capitolo numero 19 O.O
assurdo O.O ho notato però una cosa... <.< perchè nessuno
ha letto lo scorso? Vabbè, lasciamo perdere.
Ora, lasciatemi fare una piccola, grata,
puntualizzazione.
Il personaggio di Nemys,
qui soltanto accennato (ma è meglio fare sempre le cose come si deve
ù__ù), non è completamente frutto della mia fantasia. Lo è
in minima parte. Si deve ringraziare Carlos Olivera,
gentile santo, e le sue brillanti idee. L'elaborazione
di questo personaggio, che come avrete certamente capito non è d'importanza secondaria, è dovuta a lunghe
chiacchierate elucubratici, e sogni strani (ma di questo rivendico il
privilegio :P) grazie mille, per la gentilezza ed il continuo supporto *_____*
Ora vi lascio al capitolo (insolitamente lungo,
lo ammetto) ^.^
See you later!
Akita
--------
"dimmi un po', elfa...". Disse Fjodr
improvvisamente, girandosi verso di me. Eravamo quasi arrivati, ed Anì
si era aggiunta nuovamente a noi, portando la mia borsa malandata. Avevo tentato di riprenderle,
preoccupata per tutte le boccette delicate che c'erano dentro, ma Fjodr
me l'aveva categoricamente impedito. L'Inat era la più
giovane tra le sue compagne, da poco andata in sposa al vecchio Insat. Ancora
non gli aveva dato nessun figlio, e, per questo, relegata al rango più infimo della corte del marito, più in
basso anche dei servi. Sarebbe diventata moglie effettiva
solo una volta nato un piccolo. A lei toccavano tutti i compiti
più gravosi. Ne ero intimamente felice: come nuova schiava, sapevo che
non sarei stata ben accetta nella comunità. Non m'importava
praticamente nulla della giovane, timida Inat. In fondo...la sua missione
non era difficile e piena di sofferenze come la mia. All'epoca ero davvero una grandissima egoista. Finalmente, dopo quasi
un'ora di cammino, la mia testa si era completamente schiarita, e potevo affrontare l'Insat in maniera più degna. Restituii
lo sguardo alieno del capotribù con una certa sfida. Mi disgustava, con
quell'aria di perenne superiorità. Lui riprese a parlare. Era la
prima volta che mostrava una seppur minima curiosità. "è
vero quello che dicono su di te? Che il tuo bel corpicino di elfa è
stato sfregiato in modo orribile?". Sentii un'ondata d'irritazione farsi
strada in me, mentre lo guardavo mettere in mostra la chiostra di piccoli
denti aguzzi in uno strano ghigno. Mi lasciai sfuggire un
ringhio involontario, stringendo gli occhi e continuando a fissare il vecchio
con insolenza. Stupido mortale tremebondo. Non sapeva nulla della sofferenza.
Non aveva mai provato la sensazione di essere buttato nel fango, calpestato,
deriso. Lui era sempre stato servito e riverito. Oh...perchè avevo
lasciato Tijorn? Il suo sguardo ferito era ancora fisso nella mia memoria: era
fin troppo facile figurarselo ora, distratto e taciturno. "non mi
conosci, Fjodr". Dissi, con voce soffocata. Per la prima volta dopo quello che mi pareva un secolo, il tono era simile alla mia vecchia
voce. Facevo fatica a parlare. Dovevo, assolutamente, rinnovare il trattamento. Non avevo pensato durasse così poco. L'Insat
ridacchiò, ed io mi morsi le labbra, resistendo per l'ennesima
volta all'impulso di sguainare il pugnale. La mano sinistra
corse istintivamente ad esso, chiudendolo in una morsa spasmodica.
Anì mi guardò, preoccupata e meravigliata. Povera piccola. Non
doveva aver mai visto qualcuna sfidare suo marito. Per lei era un sacrilegio. A
me non importava. "tu non sai nulla di me". Fjodr rise apertamente,
a sentire il mio tono caustico. Mi prendeva in giro, mi scherniva: sapeva che
non potevo toccarlo, per ora. "vedi?". Mi disse poi, senza
minimamente scomporsi, ancora con un sorriso derisorio stampato sul viso,
indicando un punto, distrattamente. "siamo quasi arrivati". Era
vero: cominciavo ad intravedere, nella pallida luce mattutina, macchie di
colore che emergevano dalla boscaglia. Non si sentiva nemmeno un fruscio.
Sentii l';Insat irrigidirsi, e lo guardai. Aveva stretto le labbra
sottili, che erano diventate pallide. Sembrava ora arrabbiato. Per me i mortali
erano un mistero assoluto. "da ora in poi, vedi di comportarti
bene". Ci fu un attimo di silenzio beato. Presi a distanziarmi dal vecchio,
cambiando postura: lasciai il pugnale, abbassai lo sguardo,in una parvenza decente di
umiltà e mitezza sottomessa, e congiunsi le mani all'altezza del ventre.
M'ingobbii leggermente, e presi a zoppicare. Ma non potevo rinunciare ad un'ultima frecciata. Aspettai che Fjodr, con un ennesimo
gesto, senza parlare, mandasse avanti la giovane moglie, e lo raggiunsi.
"percè odi noi elfi così tanto,
Fjodr?". Chiesi, rallentando. L'Insat m'imitò, e si
girò verso me. Fece una strana smorfia, arricciando il naso, una smorfia
di disgusto, e sbattendo le lunghe orecchie, una volta. "voi siete
elfi". Mi rispose, semplicemente, stringendosi nelle spalle. "e
contate meno di un granello di sabbia. Muoviti, e smettila di fare domande. Non
sei tu la padrona". Forse per sottolineare quest'ultimo passaggio,
fece una cosa che probabilmente, se fossi stata Lsyn l'Ombra, e non Cate
la misera umana, gli sarebbe costata molto cara: mi prese brutalmente per una
spalla, stringendomi forte, e mi spintonò in avanti. E, tutto questo,
senza nessun preavviso. Inciampai un paio di volte, cadendo infine a terra.
Guardai il responsabile della rovinosa caduta, furiosa. Fissai quella sua
faccia pelosa con lo spasmodico desiderio di sbatterla su qualche pietra
appuntita. L'avrebbe pagata amaramente. Mi sarei vendicata. Feci per
parlare, quando lui, che era vicino, mi mise la mano davanti alla bocca,
alzando un sopracciglio, aggrottando le sopracciglia cespugliose e girando i
grandi occhi dorati verso un punto ben preciso. Seguii il suo sguardo. Senza
accorgercene, eravamo nei pressi del primo cerchio di tende
dell'accampamento, costruzioni di pelle grezza tipiche dei cammellieri.
Sentivo dei rumori: fruscii, e strani bramiti. Probabilmente i loro animali da
soma erano svegli. Mi rialzai, senza fare il minimo rumore, ricomponendomi
velocemente. Mi osservai distrattamente per constatare i danni. Avevo le mani
verdi d'erba, con qualche graffio. All'altezza del ginocchio
sinistro, c'era uno strappo. Mi strinsi nelle spalle. Quell'abito
era, fortunatamente, già vecchio. Strappo più, strappo
meno... non mi sarei dovuta preoccupare di certe cose. Fjodr, dopo avermi
indirizzato uno sguardo che interpretai come falsamente compassionevole, si
rimise in cammino. Lo seguii, ed arrivai con lui all'accampamento. Come
tradizione, era situato in una grande radura, e formato da dieci cerchi
concentrici, il loro numero sacro. Tradizionale, e fissa, era anche il posto di
ciascun rango. In quello più esterno c'erano i cammellieri con le
loro bestie, le guide ed i profughi, in tende di pelle grezza, in quello dopo
i servi adibiti ai trasporti pesanti, in tende di cotone povero e grigio, in
quello dopo le Inat vedove, sterili o in età da marito, in quello dopo
ancora quelle con figli ma senza marito, entrambi i cerchi riconoscibili per
via delle abitazioni di tessuto nero, in quello dopo i nomadi umani e le loro
tende di lana dipinta ed intrecciata, e così via, fino ad arrivare agli
ultimi due cerchi, dove c'erano gli ospiti d'onore, i funzionari
d'alto rango, ricchi mercanti, i figli e le mogli del capotribù, in tende di
materiali colorati e pregiati. Lì sarei stata ospitata io, in quanto
serva di una di queste ultime, in una tenda di scarto insieme ad altre sventurate. Al centro, campeggiava la sontuosa
tenda di Fjodr, una monumentale costruzione di seta a righe gialle e blu. Ogni
livello era collegato ad un altro tramite un ingegnoso sistema di intervalli
tra tende, che formavano piccole stradine. In giro, non c'era ancora
nessuno. Quando non erano nel deserto, i nomadi tendevano a lasciarsi irretire
dall'ozio. Ci avviammo verso il mio posto. "per quanto ci fermeremo
qui...padrone?". Chiesi, pronunciando l'ultima parola dopo un sospiro rassegnato. Mi
costò molto. L'Insat sembrò segretamente soddisfatto, ed io
avvertii lo stomaco contrarsi dalla rabbia. Strinsi i denti. "un altro
paio di giorni, poi ci muoveremo alla volta del Matriarcato". Feci una
smorfia di disgusto, e lo stomaco si torse di nuovo. Avrei dovuto calcare il
suolo dei peggiori nemici della Regina. Elfi, e guidati dalla ributtante
sacerdotessa Nemys, un'arrivista spuntata chissà dove
cinquant'anni fa, adorata e riverita dal popolo, si erano staccati da noi
quando la Regina aveva cominciato ad annettere le
nazioni che una volta formavano l'Unione Elfica, formando uno stato indipendente. Era stata una mossa stupida ed avventata.
La Regina era l'ultimo baluardo contro l'avanzata della sudicia orda umana. Da allora, tra noi era
pace vigile. Mi schifava dover mettere piede in un covo di rinnegati, dove noi
Spie eravamo uccise a vista. Scrollai le spalle, e non dissi più nulla.
Continuammo a camminare in silenzio. Finalmente, ci fermammo in una tenda un
po' in disparte, dai toni più spenti delle altre. Spalancai gli
occhi dalla sorpresa. La timida Anì era sulla soglia, guardandosi i
piedi. Era lei la mia padrona. Fjodr le si avvicinò,
e le afferrò una spalla, con fare possessivo, e stranamente amorevole.
Lei non si mosse. Digrignai i denti di nuovo, e cercai di controllare il
respiro. Dovevo calmarmi. Era schifoso lasciarsi...usare...in quel modo.
D'accordo, era la loro società, ma
trecento anni di vita paritaria erano difficili da dimenticare.
"Anì sa chi sei...vero, Anì?". Disse il vecchio,
avvicinandosi a lei, e cingendole le spalle, guardandola, mentre gli occhi
dorati si riempivano di segreto amore. La giovane Inat annuì, ed il tono
della pelle si fece più scuro. Il marito sorrise, e le donò una
stretta fugace. Lei ricambiò il sorriso, piena di vergogna. Nel guardare
queste sotterranee effusioni cancellai immediatamente i pregiudizi che prima mi
avevano afflitta. Mi ero sbagliata: lui amava davvero le sue compagne. Non
prevista, mi assalì un'ondata d'invidia verso la piccola
Inat. Lei era amata e protetta, e, quando avrebbe avuto un figlio, sarebbe
diventata anche potente nel clan. Quella bambina timida! Perchè il
destino mi aveva riservato di amare un fantasma? Perchè lo cercavo, a costo della mia stessa esistenza? Mi morsi la lingua, fino a
sentire il sapore del sangue, per non parlare. Odioso animaletto dai capelli neri
e orecchie
smisurate. Ipocrita. Io meritavo tutto l'amore del mondo, per i miei
sacrifici, non lei. I due, finalmente, si staccarono. Sospirai di sollievo,
segretamente, e mi sciolsi. Fjodr si girò verso me, improvvisamente
severo. "baderete entrambe ai piccoli delle altre, e starete qui, assieme. Tu, Lsyn,
la dovrai però servire, ed obbedire ad ogni suo, seppur minimo,
desiderio...capito, stupida elfa? Ora vado a sbrigare i miei affari. Fate
amicizia, e non procuratemi problemi". Senza ulteriori salamecchi, se ne
andò verso la sua tenda, con passo solenne. Anì lo seguì con gli occhi fino a quando non vide scomparire la sua figura scura nella tenda.
Rimanemmo un attimo entrambe in silenzio. Stavo
prendendo ad odiare quell'essere così falsamente timido. Mi
avrebbe tiranneggiata, solo per puro piacere. Finalmente, l'Inat mi
guardò, per la prima volta. Non lessi altro che innocenza nei grandi
occhi dorati, e curiosità. Sentii una fitta d'irritazione.
Sospirai di nuovo, per l'ennesima volta: dovevo calmarmi. Era una
tiritera che mi stavo ripetendo spesso da quando ero
entrata in quell'accampamento. La creatura abbozzò un sorriso
gentile, e mi tese una mano. "vieni dentro". Mi ordinò
sommessamente, ancora a mano tesa. Aveva una bella voce, calda e piena, seppur
giovanile. Ignorai l'invito cortese e mi diressi verso la mia nuova abitazione, aggirandola, entrando nel
piccolo ambiente caldo, senza aspettarla. Essere quasi di grado uguale alla
propria padrona era davvero vantaggioso.
-------
Angolino di Akita:
mwahaha. Lsyn è tornata la solita
egoista è.é tremate!!!!!!!!!!! Dovete ancora vedere
ciò che succederà, ma sappiate che questo non è che l'inizio
u.u mi mancavano un poco gli sproloqui malvagi v.v ehi O.o perchè qui
nessuno legge/commenta? Se non vi è piaciuto il capitolo, basta dirlo. Non
lasciare un commento è segno di scortesia, penso O.o
vabbè. Passiamo dunque al dunque(per quanto dunque
possa essere u.u)
per Carlos Olivera: Ehi T.T come vedi, sei rimasto solo tu a commentare T.T
era un capitolo così brutto? T.T
vabbè <.< davvero Tijorn antipatico? O.o beh...in fondo
è il suo modo per dissimulare il dolore O.o non ho trovato altro metodo
che una finta freddezza O.o spero di essere stata plausibile xD
in quanto a Nemys, ho avuto un'idea (ma di questo non sto a parlare qui
v.v) *___* ah, vedrai...combina tanto, combina. La cara Lsyn *__* xD
cosa pensi di questo capitolo senza alcuna pretesa? Fammi sapere, che sono curiosa di leggere
le tue opinioni, come sempre, d'altronde *___* ciau!
Visto che non ci sono altri commenti, mi fermo qui T_____T
Come vedete, ce l'ho
fatta O___o non pensavo di riuscire a scrivere il capitolo, e postarlo pure O.o
come vedrete, si tratta di uno dei capitoli di passaggio :P perchè, come
chi sa sa già(e scusate il giro assurdo di parole xD), quando devo dire
una cosa che mi diverto a scrivere prendo tempo xD
Ora vi lascio.
See you Later!
Akita
-----
Passammo sei giorni in quello spiazzo che, come capii poi,
era nella periferia di Sharilar, poco distante dalle sue graziose
case in legno. Cercai di portare pazienza: quella era la prima lunga sosta dopo
mesi di spostamenti, e non potevo mettere fretta ad un capo affaticato per i
miei bisogni. Pian piano, mi abituai a quella stranissima vita pacata. Dormivo
e passavo la maggior parte del mio tempo nella più completa solitudine,
nella quiete della tenda. Fjodr, che non si fece
più vedere nè mi chiamò, mi aveva fatto un enorme piacere
ad assegnarmi ad Anì, che passava la maggior parte del tempo assieme a
lui. Vedevo quella timida Inat poche volte, essenzialmente
quando, sempre di mattina, eravamo costrette, con le altre mogli e le
loro serve, a badare ai numerosi, fastidiosi marmocchi del capo. Notai che le altre componenti
dell'Inatha non erano molto ben disposte nei suoi confronti, quanto le
altre schiave, principalmente umane, non lo erano nei miei. Il primo giorno fu
davvero orribile: quando entrammo nella tenda dei piccoli, ci fu un lunghissimo
attimo di silenzio assoluto. Le tre Inat, i loro sei figli, due Insat e quattro
Inat, di età compresa tra i pochi mesi e qualche anno, e le tre serve,
tutte anziane, tutti si girarono a fissarci con espressioni a dir poco ostili.
Anì divenne purpurea, e balbettò qualcosa. Io, sotto la maschera
di timidezza, nascondevo una grande ira. L'elsa del pugnale divenne fissa
nella mia mano. Fu una mattinata d'inferno. In quella tenda cercarono di
renderci la vita più che difficile, in ogni modo a loro possibile: le
serve mi nascondevano ciò che mi serviva, le altre mogli escludevano
Anì dai loro discorsi. Solo i piccoli si abituarono subito alla nostra
apparizione, prendendo a giocare e fidandosi di noi come nulla fosse. A
giudicare da mille piccoli indizi, era la prima volta che la mia padrona si
trovava in loro presenza.Finalmente, dopo il magro pranzo, entrambe fummo congedate. Per me fu un
sollievo enorme: potevo tranquillamente ritornare al mio vero volto, al mio
vero comportamento. Mi chiusi in un silenzio repentino, io,
che fino a qualche attimo prima avevo chiacchierato per quanto mi era
stato possibile, con le altre, patetiche umane, ed il mio viso, prima di una
calma quasi bovina, si adombrò. Ci dirigemmo verso la nostra tenda:
erano le ore più calde della giornata, e tutti erano chiusi nelle loro
abitazioni a riposare. Io, che non avevo più rivolto la parola ad
Anì dopo quel penoso tentativo di fare amicizia, fui quasi sorpresa di
sentire la sua esile mano su una spalla. Fu solo per mera educazione se non mi
divincolai, piena di orrore. Detestavo essere toccata, da chiunque. Le
indirizzai uno sguardo feroce. Lei tolse la mano quasi si >fosse
scottata. Arrivammo, in silenzio, alla tenda che condividevamo, ed
entrammo. "sai perchè mi odiano tanto?". Mi disse
l'Inat con la sua voce giovanile, sedendosi su un mucchio di pelli. Io la
guardai un attimo, piena di sarcasmo, poi la imitai, prendendo la borsa e
cominciando a rovistarvi dentro in cerca del mio tabacco e della mia pipa. Ne
avevo urgente bisogno. "pensi m'importi?". Le risposi
immediatamente, in tono secco. La sera prima avevo preso quella specie di
sciroppo, e la mia voce era tornata musicale e sommessa. Cominciai a riempire
la pipa, ed accenderla, con indifferenza sovrana. Non provavo assolutamente
nulla verso quella sventurata, anzi: mi dava fastidio sentirla blaterare.
"io pago il mio passaggio, tutto qui. Non ho bisogno di sentire i
lamenti di una piccola cortigiana malriuscita". Emisi una nuvola di fumo.
Ora andava meglio. Ci fu un attimo di silenzio, ed io mi voltai verso la mia
compagna di disavventure, solo per osservare la sua reazione, con una punta di
divertimento. Sembrava non essersi avveduta di nulla, e stava lì, le
mani conserte in grembo e lo sguardo basso. Stupida, inutile mortale. Sbuffai,
e mi girai dall'altro lato. Lei riprese a parlare, mente io cercavo di
fare di tutto per non starla a sentire. "mi hanno donata al capo come
pegno...come regalo". Disse, stringendosi nelle spalle sottili, e
scuotendo la bellissima chioma scura. "e loro mi odiano perchè,
fino a quando non avrò un figlio, monopolizzerò; la sua... attenzione".
Aggrottai le sopracciglia. Ecco cosa significava quell'amore ossessivo,
quell'attenzione spasmodica verso quell'esserino insulso da parte
di Fjodr. "a loro piace essere tutte uguali...". Sputò
improvvisamente, con una rabbia che mi stupì. Non credevo possibile un tale coinvolgimento emotivo da parte di un verme di quella risma.
La degnai di uno sguardo,
uno solo. I grandi occhi d'oro erano stretti, e pieni di quelle che mi
sembravano lacrime. Lei riprese a parlare, tirando un gran sospiro mentre io le indirizzavo uno
sbuffo di fumo dritto in faccia. Mi divertì vederla tossire.
Perchè non chiudeva il becco e non andava a fare compagnia a suo marito?
Che voleva da me? Mi divertii molto meno quando, passata la nuvola, lei riprese, imperterrita, a parlare, come se non le avessi
fatto nulla. Non aveva recepito il messaggio. Perfetto. Mi toccava stare a sentire una Inat lenta di comprendonio. Per l'ennesiam volta, rimpiansi Tijorn. "com'è il tuo mondo, Lsyn?". Mi disse,
voltandosi verso di me, mentre una prima lacrima argentea le scendeva lungo la
guancia pelosa. "sarei accettata da qualcuno se fuggissi?". Presi a
ridere come una pazza, senza risponderle, quasi inghiottendo la pipa. "tu?".
Le dissi, dura, quando smisi di ridere e tossire. "tu non sei un'elfa, Inat. Mettitelo bene in quella
testa oblunga che ti ritrovi. Tu sei un'insulsa mortale. Ed a noi non
servono i mortali, che nulla fanno se non insozzare una razza superiore".
Ci fissammo: io, con ostilità mal celata, lei con indifferenza. "e
poi...vedrai...";. Sogghignai, posandole una mano
sul braccio. Ebbi l'estremo piacere di vederla sobbalzare al tocco.
"quando avrai un figlio le cose si sistemeranno. E reputo che, stando le
cose come stanno, non passerà molto...". Sghignazzai di nuovo quando lei arrossì, e si ritirò,
accucciandosi, piena di vergogna. Quella era la vita. Trovare qualcuno
più debole da martoriare era un piacere immenso. All'epoca, non lo
nego, ero di una crudeltà incredibile, ed ora me ne vergogno. Ho pagato
amaramente il prezzo del mio sarcasmo e della mia misantropia. Vorrei essermene
tanto resa conto prima. L'Inat mi guardò,
ora piangendo apertamente. Sembrava offesa, ed io ne fui contenta. Aggrottai le
sopracciglia, quando la sentii parlare, con voce rotta. "ora capisco perchè
Fjodr ti odia così tanto". Disse, stringendo i begli occhi. Ci fu
poi un attimo di silenzio. Forse per distrarsi, Anì cambiò
argomento. Un argomento fatale. "non hai mai amato tanto da mettere quella persona al primo posto, anche prima della tua vita, Lsyn?
Che sensazione si prova?". Quella domanda innocente ebbe un effetto devastante. Mi sentii mancare il fiato, come se mi
avessero donato un pugno nello stomaco. La pipa mi sfuggì di mano,
cadendo con un tintinnio a terra, spargendo tabacco dappertutto. Non me ne
accorsi. M'irrigidii, mentre sentivo una sgradevole sensazione di freddo
attanagliare le mie viscere. No. Non volevo quell'ondata di ricordi. Non
volevo ricordare. Capelli biondi, occhi d'ametista, in un viso scolpito
nella neve. Un sorriso sghembo e beffardo su labbra sottili. Chekaril. Sobbalzai
quando mi sentii afferrare per le spalle. Anì mi si era
avvicinata, e mi stava scuotendo. Dovevo essere impallidita terribilmente,
perchè il viso dell'Inat esprimeva pura preoccupazione. Le rivolsi
un altro sguardo di fuoco, e lei si scostò."scusa, Lsyn!". Mormorò,
abbassando la sguardo. "scusa...non volevo...". Mi alzai di
scatto, rendendomi conto di tremare terribilmente. "tu non sai nulla di
me". Ripetei, come in un sogno. La mia voce non aveva il minimo sentore
di vita. "nulla. Tu non conosci la sofferenza. Non conosci la pazzia,
nè la decadenza: tu vivi e vivrai dentro un mondo ovattato e protetto. Tu non
conosci il sangue, nè l'oscurità seducente. Io ci ho
sguazzato dentro. Tu non sai nulla del mio viaggio. Ed io viaggio da quando Fjodr era un giovane Insat inesperto". Mi
scostai, cominciando ad uscire. "vado a prendere dell'acqua".
Uscii, schizzando verso il pozzo. Rimasi lì abbastanza da calmarmi. Fu un sollievo, quando tornai, vedere Fjodr
portare Anì, a braccetto, verso la sua tenda.
Tra me e l'Inat si stabilì
una tregua silenziosa. Lei non tornò che la mattina dopo, pronta per una
nuova giornata. Per fortuna, pian piano, le altre mogli e le serve ci
accettarono. Non mormoravano più quando la
giovane passava, nè mi facevano sgarbi. Una delle piccole, Sadiribeth,
di tre anni, si legò a me in modo incredibile. Solo io e la madre
riuscivamo a calmarla durante i suoi capricci, e lei si faceva pettinare i
bellissimi capelli neri solo da me. Vedere qualcuno interessarsi alla mia vita
tormentata era molto strano. Era strano anche vedere quanto fosse
facile passare inosservata: tra gli elfi, non era mai stato così. In
gioventù ero sempre stata troppo riconoscibile per via della statura irregolare
per gli elfi, di norma molto alti, del mio comportamento un po' troppo
sboccato e della mia fama. Dopo l'incidente, il mio abbigliamento strano
e le mie cicatrici erano quasi una calamita per gli sguardi dei curiosi. Ero
abituata ad attirare l'attenzione, e non avevo mai amato molto la cosa,
specialmente durante le missioni. Finalmente, nessuno si curava di me. Ero
normale anche come statura, e la cosa non poteva che farmi piacere. Per tutti,
non ero altro che una mite vecchietta, che amava circondarsi dai piccoli. Mi
rilassai un po'. Dopo i primi momenti di tensione, tra me e Anì si
cominciò a sviluppare una strana complicità univoca. Io cercavo
di essere il più sgradevole possibile con lei. Non le avevo ancora
perdonato quella domanda. Mi ossessionava ancora. Lei, al contrario, mi copriva
in ogni istante, e mi proteggeva se Fjodr cercava di darmi fastidio. Un paio di
volte, in occasione dei miei viaggi nel Piano, mi aveva vegliata
mentre io ero incosciente, in balia di chiunque. Non mi parlava mai.
Cercava di essere gentile quanto più possibile con me. Io ne
approfittavo, ovviamente. Finalmente, una mattina all'alba, si cominciarono a smontare le
tende, ed a preparare i carri, trainati da quelle strane bestie dallo sguardo
ebete ed il pelo brunastro, con due gobbe sul dorso. Loro le chiamavano cammelli, o qualcosa di simile. A me
facevano un po'impressione. Ne hanno sempre fatta. Sembravano cavalli
strizzati ed allungati, tracciati dalla mano di uno scultore pazzo. Fui
però contenta della comparsa di questi mostri. Voleva dire solo una
cosa: il cammino che mi portava a Chekaril si stava per accorciare.
--------
Angolino di Akita:
che insulso, piccolo capitolo. Che insulso
capitolo. Che...ok, basta. Basta. Basta.
Passiamo dunque al dunque (oggi sono particolarmente...particolare
ù__ù ma concedetemi la domenica, che io lavoro e sono esaurita)
Per Carlos
Olivera: eh si xD ce l'ho fatta!!! Sono fiera di
me stessa, sissì xD non pensavo di riuscire ad aggiornare xD non
è puntualità, questa...è ossessione! Beh, in quanto a
Nemys... povera Lsyn O.o povera O.o e questo è poco O.o vedrai,
vedrai (come sai di sapere, eh ù__ù). Oggi non ho stranamente
nulla da dire O.o ah, ho sistemato un po'la mappa, ricordamene O.o fammi
sapere cosa pensi xD ciau!
Per Selly:
ehi! L'importante è che sia tornata a recensire, sissì :P oh, questo è nulla, cara ù__ù il
momento in cui potrà sfogarsi non appare tanto lontano xD devo
confessare che certe volte è un po' difficile far tornare Lsyn
bastarda come prima xD mi ero abituata a considerarla affettuosa, che ci vuoi
fare xD ma così è più divertente, non credi? Su,su,su...fai sapere a zia Akita che pensi di questo
capitolo xD ciao!
Ho preso 88/100 al DELF *______* non ci credo
non ci credo non ci credo... xD non ci credo...
sono in uno stato di gioia isterica da stamattina O.o
che bello xD
Con questo, la smetto e vi lascio al capitolo.
See you later!
Zia Aki
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A metà pomeriggio dello stesso giorno, dopo aver
accuratamente impacchettato tutti i beni personali dei componenti della
numerosa carovana, ci mettemmo in viaggio, alla volta di Myrthana, la capitale
dell'Impero. Io ed Anì ci separammo, per fortuna: lei andò
con le altre Inat, io nel convoglio dopo, con le serve. Nessuno mi rivolse la
parola per giorni: sempre più spesso, ricadevo involontariamente nel mio
mutismo, e mi chiudevo in un silenzio sdegnoso ed ostinato, perdendomi in mille
pensieri. Gli altri lo interpretavano come la nostalgia di una vecchia,
calata in un contesto del tutto estraneo e nuovo. La verità era che io
non riuscivo a stare in compagnia. Quando una persona si avvicinava troppo a
me, cominciavo a diventare nervosa, e spesso mi agitavo. Cinquant'anni di
vita raminga e solitaria, abituata alla mostruosità del mio aspetto, mi
avevano marchiata troppo a fondo. Ero sempre piùansiosa: ogni passo
compiuto era uno in più verso Chekaril, e la mia redenzione. E, per giunta,
il movimento oscillante del carro, lo scricchiolio delle ruote, ed il
chiacchiericcio incessante delle mie stupide coinquiline, mi davano immenso
fastidio. Camminavamo per tutto il giorno, un'incredibile striscia
vivente e polverosa, e ci fermavamo solo per la notte. La sera, alla luce del
falò, raggiungevo Anì, e fingevo di prendermi cura di lei. Lei
faceva tutto da sola, mentre mi parlava allegramente, del suo passato, della
sua famiglia natale, di un'altra tribù, del deserto, e di altre
futilità che non servivano altro che a colmare un silenzio altrimenti
imbarazzante, rotto dai miei sbuffi regolari di fumo. Presi a frequentare
sempre più il Piano, ed informare la Regina dei nostri spostamenti.
Imparai ad uscirne senza addormentarmi e senza conseguenze devastanti, a parte
una terribile spossatezza che poteva durare ore. Furono giorni sempre
più angosciosi. Cominciavo a rifare, con terribile periodicità,
il sogno del cigno. Se chiudevo gli occhi la sua immagine regale mi
ossessionava, mi tormentava. Dormivo e mangiavo poco, anche per un elfo, ed ero
sempre più confusa e segretamente isterica. Lentamente, mi resi conto di
stare attirando molti sospetti. Avevo visto una delle guardie del carro dove
viaggiavo confabulare con Fjodr, che mi era parso preoccupato. Una sera mi
chiamò nella tenda, esponendomi chiaramente il problema, serio. Nessuno
si fidava più di me. Ero diventata la strana serva ombrosa, che non
parlava e rimaneva digiuna per un lasso di tempo considerevole senza
apparentemente avvertire nulla, sempre uguale a sé stessa. La mia
commedia stava diventando pietosa. Le Inat cominciarono ad impedirmi di toccare
i loro figli, cosa della quale ero segretamente grata. Avevo nostalgia dei miei
bei capelli serici, così facili da pettinare e curare, dei miei limpidi
occhi neri, ed addirittura delle mie orrende cicatrici, che fungevano quasi da
deterrente per gli scocciatori. Promisi all'Insat una cosa: non appena
raggiunto l'Impero, mi sarei volatilizzata. Inspiegabilmente, Anì
non prese bene la cosa. La giovane nei giorni precedenti era diventata strana:
sempre più umorale, meno disposta a darmi una mano durante i miei viaggi
spossanti nel Piano ed a coprirmi. Scoppiò a piangere addirittura,
implorandomi di non lasciarla sola. "io non ho nessuna amica come te,
Lsyn!". Singhiozzò, raggomitolata sul suo giaciglio. Io la guardai
in modo strano. Io...che? Amica di una Inat? Un'infima mortale?
Pensai seriamente stesse andando fuori di testa. Non le risposi, e feci finta
di dormire. A poco a poco, i lamenti della giovane si calmarono, con mio grande
sollievo. Dopo lunghi giri, entrammo senza intoppi nel Matriarcato di Uruk. Il
nostro peggior nemico dopo quella massa di fanciulli dalle orecchie tonde.
Ribelli. Schifosi codardi pieni d'illusioni. Odiavano la Regina, che
consideravano una tiranna sanguinaria. Questo bastava per scatenare il mio odio.
Era il punto più meridionale di quella che era stata la Federazione Elfica,
ed era situato in una grande e fertile pianura sottostante le montagne e le
colline della zona di Sharilar. Nella morfologia di quegli elfi c'erano
insignificanti differenze fisiche, come in tutti quelli delle zone più
meridionali. Avevano spesso toni di pelle più scuri, ed i capelli
bianchi non erano sinonimo di malattia, anzi: erano quasi comuni. Ero stata
davvero di rado in quelle zone, e sempre adottando tutte
le cautele del caso. Come facevo ormai regolarmente, dopo un passaggio sul
fiume del confine, le cui acque spumeggianti mi lasciarono terrorizzata (e
penso che Anì abbia ancora i segni delle unghiate involontarie che le infersi
stringendole in braccio, in una morsa di paura), mi apprestai ad entrare nel
Piano. Era la settima sera di viaggio, e ci eravamo accampati nel cuore del
territorio. Dopo essermi assicurata che Anì mi vegliasse
a dovere, afferrai il Comunicatore e, come al solito, mi catapultai nel Piano.
Ben presto fui circondata da quel buio consolatorio, e
ripresi ad essere Ombra. Mi avviai al solito luogo dove incontravo l'Essenza della Regina, ma ebbi una sgradevole
sorpresa. A posto dell'elegante bagliore purpureo, c'era
un'altra figura che mi aspettava. Una figura ben nota: una donna rapace,
coperta di piume, dagli occhi gialli e malevoli e dalle grandi ali marroni che
spuntavano dalle scapole. Il Falco. Quella che nel mondo reale era un inutile
topo di biblioteca, lì grandoisa come ogni anima, mi fissò. La mia
Essenza si dilatò e scurì, come sempre quando ero arrabbiata. Che ci fai tu qui, verme? Chiesi,
sgarbatamente. Lo stridio d'uccello che era la sua voce mi ripose, mentre
lei arruffava le penne, apparentemente imperturbabile. La Nostra Sigonra ha da fare, idiota. Mi rispose,
inclinando il capo antropomorfo. Non
può stare tutto il tempo dietro ai falliti, no? E' in fondo una
Regina. Ringhiai, fissando quel calmo mostriciattolo, mentre la mia anima
prendeva a pulsare. Lei ridacchiò;, e si sistemò le ali. Sono stata delegata io a controllarti, come
vedi. Dove sei, ora? Cercai disperatamente di non cadere nella sua trappola
urticante. Era sempre così: lei amava giocare col cibo
prima di mangiarlo. Il suo soprannome non era dovuto
solo al bizzarro aspetto dell'Essenza. Siamo nel cuore di Uruk, Akita. Le dissi con voce pericolosamente
dolce, mentre l'ombra di cui era composto il mio corpo rimpiccioliva,
fino a tornare normale. Entro pochi
giorni raggiungeremo il confine, ed io li lascerò.Lei ebbe uno scatto improvviso: spalancò le grandi ali, ed emise uno stridio
sorpreso. Si ricompose però subito. Sola,
Lsyn? Andrai tutta sola per l'Impero umano? Domandò, piena di
stranissima premura, allungando un artiglio verso me. Mi scostai, stranita. Non
l'avevo mai sentita così preoccupata. Sospettano di me, sono costretta a farlo. Le dissi, in tono
schifato. Lei si lisciò le penne del collo con una mano, ritirando
l'altra e riprendendo i suoi irritanti comportamenti abituali. Un sorriso
maligno deformò il viso. Se ti
prendono, fammi un fischio. Voglio vederti agitare quei bei piedini che hai nell'aria
di un patibolo. Ah...Tijorn
ti saluta, comunque... a quel nome, mi rimpicciolii, schiarendomi. Era una
cosa strana, sentire quel nome in quel contesto. Come diavolo faceva quel verme
ad essere in contatto con lui? Mi strisciò uno strano sospetto in mente.
Sei a Sharilar, Akita? Le chiesi,
celando a stento il mio disagio. Avevo sbagliato a sottovalutare quella storia
assurda, prendendola come un fatto isolato. Se ciò che pensavo fosse
stato giusto, voleva solo dire che le cose tra quei due stavano diventando
serie. Non mi piaceva per nulla la prospettiva di trovarmi tra i piedi quel
ributtante stecco dal naso lungo quando fossi tornata
da mio fratello. Il sorriso si trasformò in un ghigno. Oh, no... disse lei, stringendo gli
occhi, con una calma invidiabile. Lui è da me. No.
Proprio non mi piaceva. Tijorn era andato da lei, a Galinne? Aveva a tal punto
nostalgia della sua perfida compagnia? Cominciai ad inquietarmi seriamente, e
l'ombra di cui ero composta perse per un attimo
la sua coesione. Poverino...aveva
così bisogno di conforto...che gli hai fatto per ridurlo in quello
stato, sfregiata? La sorpresa fu tale che la mia Essenza di dilatò
improvvisamente, come se un'esplosione l'avesse dilaniata
dall'interno. Altro che cose serie... era stato sedotto in piena
regola da un ragno! Lei, probabilmente intuendo i miei pensieri, rise. Per tutti gli dei. Che schifo. Mio fratello non aveva il minimo
senso del gusto.
Era un idiota. Al ritorno, gli avrei fatto una solenne lavata di capo. Erano
davvero strani pensieri, lo ammetto. Ma io sono sempre stata irrazionalmente
gelosa nei confronti di Tijorn. Specialmente quando le sue compagne
consistevano in immondi sputi acidi come quella. Passammo un momento eterno in
silenzio. Poi lei, inaspettatamente, si ricompose, guardandomi con ansia,
inclinando il viso. Ci sono giunte strane
notizie dalla tua carovana, Lsyn, e nessuna di queste mi piace molto. Mi
disse, avvicinandosi, aprendo le ali e tenendole tese, come se stesse per
spiccare il volo.Ci sono state raccontate strane storie.
Gli occhi gialli guizzarono da una parte all'altra, sospettosi. Dai un'occhiata in giro, e controlla: a quanto
pare, qualcosa non va come dovrebbe. C'è qualcuno lì che
non rispetta la neutralità come dovuto. Spia come hai sempre fatto: la
Regina è inquieta. Non le piace questa storia, e teme si possa attentare
al suo potere. Ma vedi di non farti scoprire. Il volto tradì di nuovo quell'ansia assurda nei miei confronti. Ero perplessa.
Che fine aveva fatto l'Akita acida? Quasi non la riconoscevo: non era normale. Ci tengo a rivederti, almeno una volta.
Guardati alle spalle. Non finì nemmeno di parlare. Dopo un fugace
tocco al mio braccio, la donna-falco svanì, mentre Akita si
addormentava. La sua coscienza mi scivolò a fianco, sfiorandomi come una
carezza. E poi mi trovai sola nel Piano. Decisi di addormentarmi: per quelle
notizie ci voleva la luce del sole.
-------
Angolino di Akita:
salve a tutti! Non mi dilungherò
molto...ma chi legge tra le righe sa quanto io mi
stia divertendo xD il titolo del capitolo è molto arbitrario, ma non
sapevo proprio che mettere O.o vabbè xD xD
passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: eggià xD come hai visto, tendo ancora a...dilungarmi
xD mi sto divertendo sai xD "signorina tagliagole"...
mi piace xD proprio adatto xD si...come ti ho già detto, è l'HTML ._. sono una frana in questo genere di cose, lo
ammetto .__. Che dici di questo capitolo? Fammi sapere fammi sapere *___* ciao!
Per Selly:
*___* grazie xD ma nu...
Lsyn è così dannatamente tenera xD già, proprio una mite
vecchietta xD e, come chi sa sa, ancora non è
finita xD che dici di questo capitolo? Fammi sapere, perchè io sono
curiosa *___*
Non ho voglia ed ho fretta di aggiornare per rimproverare
gli ALTRI xD
Ok, ora vi lascio, facendo una piccola
precisazione.
Isnark non è di mia proprietà. E' una delle
creature di Carlos Olivera, della quale mi sono
impadronita con il suo entusiastico consenso xD santo, santissimo,
grazie! v.v
Ora vi lascio al capitolo.
See you later!
Akita
---------
Durante gli ultimi quattro giorni di permanenza in quella
carovana, l'atmosfera si fece davvero tesa, per vari motivi. Durante uno
degli sporadici colloqui con Fjodr, per concertare la mia sparizione e renderla
plausibile, avevamo deciso di mettere in giro la
voce di una mia grave malattia. Smisi di prendere l'intruglio per la
voce, che tornò roca ed affaticata come prima. Era un tormento
incredibile parlare in quello stato, dopo giorni di relativo benessere.
Inoltre, le notti insonni mi stavano donando un'aria molto sbattuta, e
la pelle cominciava a tornare normale. Morale della favola: avevo un aspetto
pessimo. Perfetto per la mia ultima sceneggiata. Il capotribù mi prese
nel suo carro, ufficialmente per tema che la malattia fosse
molto contagiosa. Anì, sempre più svogliata e taciturna, mi
seguì, per assistermi, visto che le malattie umane non sono le stesse di quella Insathi. Ero
costretta a viaggiare seduta in un angolo, assistendo agli occasionali scambi
di tenerezze tra i due coniugi, cercando di dominare la nausea per il movimento
ondulatorio del carro, ad occhi bassi. Stare con loro m'imbarazzava, e mi
riempiva di un indefinibile dolore. Se io non fossi nata Spia, e Chekaril non
Principe, anche noi saremmo potuti vivere felici ed
innamorati, come loro, alla luce del sole, senza programmare assurdi stratagemmi anche solo per scambiarci un
abbraccio. Magari mi avrebbe sposata. Ne ero convinta. Se lui non fosse stato
rapito, prima o poi me l'avrebbe chiesto lo stesso. Oh, l...amore mi
riempiva d'illusioni. Sapevo che quelle riflessioni mi uccidevano, ma non
potevo farci nulla. Erano regolari e naturali come l'aria che respiravo,
come le lacrime che tentavo di non lasciar cadere dai miei occhi tornati
limpidi. Il mio dolore si traduceva in terribili e stupidi dispetti verso la povera Inat,
che sembrava stare sempre più male. Inutile dire che non obbedii ad
Akita, e non feci come promesso. Come potevo, se rimanevo chiusa in una tenda o
in un carro tutto il giorno? Inoltre, la tribù, compresi estranei, contava
circa duecento creature di diverse razze. Come potevo spiare tutti? Non ero
onnipotente ed onnipresente, ed agivo in territorio ostile. Nell'ultimo
contatto con la Regina, tornata presenza stabile nel Piano, avevo osato un po' troppo, e
l'avevo fatto notare. Mi guadagnai uno schiaffo violento, e delle parole
di disprezzo, accompagnate dalla minaccia di sospendermi dalla missione. Tale
ero per Lainay: il mio era lo stesso rango dei suoi domestici. Non sapevo se
sentirmi lusingata o ferita da quella considerazione. Devi trovare entro tre giorni il traditore. Stai per entrare
nell'Impero, e dovrai lasciare la carovana. E so che non potrai
più metterti in contatto con nessuno. Mi disse poi, con fretta
insolita. Una volta
trovato, mettilo sotto tuo
controllo e mandalo nel Piano. Avrò bisogno di fargli qualche domanda.
Io sarò qui fino alla mattina del quarto giorno. Spia come sai fare solo tu. Obbedisci Queste furono le sue ultime
parole prima di sparire. Il suo ultimo ordine prima
del silenzio: una volta sola nel territorio nemico, un contatto sarebbe stato
un suicidio. Sarei stata una notte intera del tutto indifesa. E non si poteva
fare. Da quel momento, cercai di stare più attenta: la sera, una volta
addormentati tutti, sgattaiolavo fuori dalla tenda e
gironzolavo per l'accampamento, in cerca di movimenti sospetti. Per
creare una potente droga che avrebbe ipnotizzato la persona, asservendola
completamente alla volontà di chi gli avesse parlato per primo per un
certo lasso di tempo, provocando inoltre una brutta amnesia, di durata
variabile tra una settimana e qualche mese, stetti tutta una notte in un bosco
di larici dove sostavamo, in cerca di alcune erbe, elementi essenziali per
ciò che volevo preparare, per mischiarle poi con cose rubate a Fjodr,
che non se ne accorse. Furono giorni per me tremendi: sapevo che, in caso di
fallimento, la prospettiva di essere uccisa era più che tangibile. E non
avrei rivisto il mio amato Chekaril. Come fare? Dove cercare? Non mangiavo
quasi più dal nervosismo, e dormivo nel carro, segretamente sollevata di
non dover vedere i due Insathi per mano. Ogni ora che passava mi riempiva di disperazione. Finalmente, il penultimo giorno, una
traccia. Era l'alba, e stavamo per partire. Anì era scomparsa, come capitava spesso in quei giorni, e
la stavo straccamente cercando, su ordine del marito. Cercai di apparire quanto
più malata possibile, e notai con piacere che le persone si spostavano
dal mio passaggio. Almeno ero credibile, con quell'aria debole e la voce
stanca. Non appena trovata l'Inat, raggomitolata vicino al pozzo, con un
aspetto un po' scombussolato, cominciammo ad avviarci verso la tenda di
Fjodr, in silenzio. Ero distratta: il comportamento svagato della creatura,
sempre stato elettrico ed allegro da quando la conoscevo, mi sembrava
stranissimo, e mi preoccupava il confine con l'Impero sempre più
vicino. Non avevo trovato un accidente, nemmeno uno scampolo di prova, e
cominciavo seriamente a pensare Akita avesse preso una svista colossale. Che
l'amore l'avesse rimbambita più del
solito? A costo di rischiare la vita, le avrei parlato di nuovo, una volta
nell'Impero. Mentre passavamo per il cerchio abitato pressoch&è dai
mercanti di basso rango, tuttavia, qualcosa attirò la mia attenzione.
Una bella voce maschile, ora venata di rabbia, ma da me ben conosciuta. Mi
sentii gelare, e mi bloccai sul posto, sgranando gli occhi. Mi risvegliai solo quando Anì mi riscosse, preoccupata. Mi si stava
mozzando il respiro. Ero sicura di aver trovato quello che stavo disperatamente
cercando, perchè sapevo ora l'identità della mia preda. Akita non si era sbagliata. Mandai avanti l'Inat, con il
pretesto di aver bisogno di una boccata di aria più fresca. Le dissi che
l'avrei raggiunta subito. La mia voce era atona. Non appena sola, cominciai
a camminare attorno al cerchio, con la massima naturalezza possibile nonostante i miei piedi
fossero serrati in una morsa di ghiaccio. Giunsi nei pressi di una tenda umile,
dove faceva capolino un viso familiare. Lineamenti affilati, ascetici. Capelli
bianchi e lunghi, raccolti parzialmente in una coda. Pelle olivastra ed occhi
castani, lievemente obliqui, tipici di un elfo nativo dei boschi del meridione.
Al momento vestiva panni piuttosto dimessi, da povero mercante, e stava urlando
qualcosa contro un umano, a proposito di galline rubate nottetempo. Ebbi un
mancamento, e quasi caddi a terra. Io conoscevo quell'elfo, e sapevo la
sua storia. Ad Isnark non sarebbe potuto importare
meno delle galline. Perchè non era un mercante. Un traditore del proprio
popolo non può esserlo. Il Capitano dei Celestiali di Uruk, la
controparte delle Spie, tecniche e fedeltà a parte, non era altro che un
infiltrato. E quest'infiltrato aveva viaggiato per tutto il Regno, pronto
a fomentare sommosse contro la Regina. Senza
esitazione, non appena compresa appieno la situazione, fuggii a gambe levate
verso il carro di Fjodr, attenta a non farmi vedere da nessuno, scivolando ed
incespicando. Perchè proprio lui? La nostra rivalità era durata a
lungo, quando io ancora ero la nobile e pericolosa Lsyn di un regno di Normar sempre
più grande e lui un volgare figlio di contadini, arrivato da un piccolo
ducato elfico sulla costa, poi inglobato nei territori della Regina, ed
appartenente alla milizia nemica. Ci eravamo conosciuti durante l'assedio
di una città, quando io, dopo aver ucciso un ufficiale nemico,ero stata colta
sul fatto da quello che poi scoprii essere il suo migliore amico, un incauto civile che
ammazzai brutalmente, senza scrupolo alcuno. Lui mi diede a lungo la caccia, missione persa in partenza. Il
nostro ultimo incontro risaliva al famoso torneo in territorio umano, dove
eravamo entrambi partecipanti. Quando uscii dallo stadio, battuta, lui
perdonò i miei atti. Al momento della proclamazione dell'Impero,
era fuggito ad Uruk, ed era diventato col tempo capitano dei Celestiali, una
loro potente milizia. Correva voce di una relazione tra lui e la sacerdotessa
Nemys, ributtante elfa ingrata. Ed ora era lì, impegnato in
chissà quale missione. Ma, pensai salendo nel carro, affannata e
pallidissima, con un groppo alla gola, la sua maschera sarebbe presto caduta. Non importava il suo
perdono. Aveva attentato alla gloriosa Regina: era ricaduto nel suo stupido
orgoglio patriottico, cieco e sordo. Ed io, al momento propizio, l'avrei
preso come prigioniero. Ed avrebbe, volente o nolente, parlato. L'ombra non si acceca con l'ombra.
-------
Angolino di Akita:
ahahahahahahahaha xD finalmente, l'arcano
mistero si risolve xD (ma per il meglio dovete ancora aspettare xD)...beh,
ora basta xD
passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: ehi xD
ecco qui Isnark, in tutta la sua bellezza, mio caro messere intuitivo xD
è vero, non si è ancora entrati nel vivo...però...tutto
ciò fa presagire belle cose, no? :P tra poco
sguazzerò nel mio elemento xD che dici di questo capitolo? Diciamo che
non si è ancora nel bello, però...presentato bene? Akita? Non
è Akita che ti deve preoccupare, credimi O.o non proprio, almeno xD ora come ora, non si capisce che intendo
dire :P che bello xD si elucubri, si elucubri... xD fammi sapere *___*
ciao!
Per Selly:
ciao, grazie mille *____* davvero? Hai fatto il PET??Dimmi
un po'...com'è? O.o avrei intenzione di fare qualcosa
di simile l'anno prossimo, ma l'inglese non è decisamente il
mio forte O.o già...povera Anì, fa pena anche a me O__O Lsyn la
bistrattata, povera piccina xD per il comportamento di
Akita dovrai aspettare, sissì :P non è ancora momento xD fammi
sapere *____* baci!
Per Kylien:
ma ciao! Grazie anche a te *____* eh...diciamo di si
:P ma cos'è, Akita ha destato molta curiosità, eh? :P che dici di questa "novità nefasta"? xD fidati, nel prossimo capitolo ce ne saranno di migliori
:P su...dici a Zia Aki che ne pensi del capitolo *__* intanto che lo spam
sia con te!!!
Temevo di dover aggiornare per lunedì,
invece ce l'ho fatta! Che bello
xD
Proseguiamo ora con un piccolo disclaimer:
Isnark non è un personaggio da me inventato. Appartiene a
Carlos Olivera, ed al suo spinoff fantasy, di
cui non sto a ripetervi il nome. Come al solito, lo
ringrazio, per la sua infinita disponibilità, e per le sue idee spesso
geniali xD grazie, grazie, grazie!
Ora vi lascio al capitolo che, come noterete,
è decisamente più lungo del solito xD
See you later!
Akita
.......
Quel giorno tenni gli occhi ben aperti. Sbirciavo
continuamente fuori dal carro, per cercare di notare
qualche strano movimento. Avevo paura che, nella relativa sicurezza della sua
patria, Isnark se la svignasse. Non fu così,
anzi: spiandolo, riuscii ad ottenere la chiave per catturarlo. Me la
fornìlui, involontariamente. La notte stessa, infatti, decisi di fare
un'altra passeggiata nel suo cerchio: ora sapevo chi cercare, e non
volevo lasciarmi sfuggire quella pericolosa preda. Avevo aspettato che tutti
andassero a dormire, spossati dalla lunga marcia. Feci finta di imitarli, rifugiandomi
nella mia tenda vuota. Anì era probabilmente con Fjodr, e così
non fui costretta a sorbirmi inutili chiacchiere e pianti. Cominciai a
preparare tutte le mie cose, in fretta, in caso di una fuga improvvisa. Misi
fuori la spada e la droga. Ero quasi sicura mi sarebbero
servite presto.Una volta sceso il silenzio
nell'accampamento, mi alzai, lasciando ancora tutto dentro la mia piccola
abitazione, e mi avviai verso il cerchio dei mercanti. In giro non c'era nessuno. Arrivata alla postazione
che avevo occupato la mattina, mi appostai nei pressi della tenda
dell'elfo. Speravo con tutto il cuore ci fosse ancora. Aspettai a lungo,
mentre la mia ansia cresceva in maniera esponenziale. Finalmente, il mio
desiderio fu esaudito: vidi uscire la sua figura alta e snella dall'abitazione.
Isnark era vestito di scuro, con un mantello dal largo cappuccio, che ne
impediva l'identificazione, e portava con sè una grande bisaccia.
Mi rannicchiai nell'angolo buio che avevo scelto come punto
d'osservazione. La mia preda era guardinga, e si guardò a lungo
attorno prima di avviarsi verso il bosco che ci circondava, inoltrandosi. Stava
probabilmente scappando. Senza fare il minimo rumore, lo seguii, mantenendomi a
poca distanza da lui. Avevo bisogno di sapere cosa diavolo stava facendo. Se stava fuggendo, avrei dovuto atterrarlo, e presto. Sperai
con tutto il cuore non fosse così. Non volevo fargli del male, se non
altro perchè lui mi aveva perdonata ed io, con tutti i miei difetti, non
l'avevo dimenticato. Era un sacrilegio ferire un nemico che aveva rinunciato
ad un debito di sangue. Lo sapevo. Il mio lavoro aveva un motivo in più
per essere del tutto pulito. Un bagliore, e dei sussurri, mi misero in allerta.
Isnark raggiunse quel punto con calma. Cercai di fare il meno rumore possibile,
e mi avviai con lui, procedendo silenziosa nel sottobosco. Finalmente, dopo un
lungo giro, arrivai dietro ad un grosso albero contorto, attorniato da rovi, da
dove Isnark si vedeva benissimo. Un punto d'osservazione perfetto. Era in
una radura, e si era tolto il mantello, rivelando la sua familiare tenuta da
combattimento. Non era solo. Il cuore saltò un colpo, ed io strinsi i
denti per non imprecare. Dannazione! La speranza di un lavoro pulito stava
andando in malora man mano che mi rendevo conto dei particolari della scena.
Seduti alla luce di un vivace falò, c'erano due altri elfi, senza la loro
tipica corazza ma perfettamente riconoscibili come Celestiali. Non era stato
difficile identificarli, nonostante fossero figure sconosciute: erano armati
fino ai denti, e portavano entrambi un grosso ciondolo rosso, illuminato dalla
luce del fuoco, e perfettamente visibile. Era tondo, grosso quanto una noce, e
splendeva. Il loro segno di riconoscimento. Per il resto, non si assomigliavano
affatto: uno era alto e sottile, dai capelli rossi ed ondulati, tenuti in
ordine perfetto, l'altro più basso e muscoloso, dall'orrenda
zazzera castana, riccia ed arruffata. Mi sentii sopraffare da un senso
d'impotenza. Era stato sciocco pensare che il loro Capitano non si fosse portato un paio di fedeli botoli corazzati dietro,
pronti a difenderlo fino all'ultimo sangue. I miei piani andavano rifatti.
Scuotendo il capo, ripresi ad ascoltare e vedere. Isnark si era seduto tra
loro, intanto che spiavo i suoi compari, che gli avevano fatto deferentemente
posto. "avete mangiato?". Disse, con tranquillità,
guardandoli. Erano tutti e tre perfettamente calmi. Certamente non sapevano che
li stavo osservando, sapientemente nascosta dietro dei cespugli di rovi, come una belva in caccia! Ripresi ad ascoltare, avida di notizie.
Entrambi avevano annuito, ed era piombato il silenzio. "avete trovato
qualcosa di positivo, Capitano?". Disse il rosso, con voce curiosa. Il
tono era gradevole. "notizie dal Regno?". Isnark fece una smorfia.
"pessime notizie, direi, Rami". Mormorò, guardando il fuoco
e giocherellando con una ciocca. "ho girato la bellezza di dieci
villaggi! Dieci! Sono in giro da due mesi, e nessuno, dico, nessuno, mi ha mai
detto di temere la Regina!". Strizzai gli occhi. Ecco che cosa era andato
a fare. Proselitismo per i ranghi ribelli. Mi morsi le labbra, mentre pensavo.
Era urgente che Lainay gli parlasse. Più che
urgente. L'elfo basso aveva riso, una risata aspra, di scherno. Poi
definì la mia Signora con un appellativo cosìoffensivo che
sgranai gli occhi, scandalizzata. Non l'avrebbe passata liscia. Non che
io non avessi mai bestemmiato prima d'ora, ma mai contro la Regina. Mai contro la mia
dorata, regale, maestosa e potente signora e padrona. L'avrebbero pagata
per questo. Il loro Capitano, intanto, aveva ripreso a parlare. "sta
diventando sempre più potente". Disse, mesto, girando un ceppo.
"tanto più che quella specie di animale del suo consorte le ha
affidato anche la milizia in mano. Quella maledetta serpe ha tutte le forze
armate, segrete e non, in suo potere. Prevedo guai, e guai seri". Ci fu
un momento di silenzio. Cominciai a riflettere su quelle strane informazioni,
aggrottando le sopracciglia. Ero d'accordo in pieno sulla definizione di
Cyran, il Re. Un elfo, per carità, assai attraente, e di nobilissimi
natali, ma del tutto inadatto per ricoprire la sua carica. I suoi unici
interessi erano la caccia, le armi ed i cavalli. Era uno sprovveduto ed un
pasticcione: sapevo bene che era per questo che la Regina l'aveva scelto
come marito. Tra di loro non c'era una briciola
d'amore, e l'assenza di un figlio non faceva che aumentare
l'antipatia. Così assorta nei miei ricordi di quell'elfo
inetto, quasi mi lasciai sfuggire un'informazione
fondamentale. A quanto pareva dai loro discorsi, sarebbero rimasti lì
per quattro giorni, in modo da far perdere le tracce di Isnark, che fino ad ora
aveva viaggiato sotto copertura con la carovana. Poi, sarebbero tornati a
Kyradon, la capitale
di Uruk, dove avrebbero fatto rapporto a Nemys. I due soldati erano scelti tra
la sua guardia personale, ed avevano il compito di scortare il loro capitano, e
proteggerlo in caso di attacchi. Non avevano tenuto in conto gli imprevisti, a
quanto pareva. Specialmente gli imprevisti che concernevano una spia
casualmente in viaggio nella stessa carovana. Sospirai di sollievo. Avevo
tempo. Non rimasi ad ascoltare le loro altre chiacchiere, e me ne andai,
raggiungendo silenziosamente la tenda di Anì, ancora fortunatamente
vuota. Presi ad arraffare tutto ciò di cui avevo bisogno,
tutti i miei effetti personali. Presi la spada, e la agganciai alla
cintura. Il suo peso era confortante. Mentre prendevo la borsa, e me la mettevo
in spalla, cominciai ad abbozzare un piano. Sogghignai, mentre
uscivo, carica di mille boccette. Ora sapevo che fare.
Una volta uscita fuori dal
circolo di tende, cominciai a correre disperatamente. Avevo una fretta
indiavolata. Non m'importava di non aver salutato gli Insathi, a cui sapevo di dovere molto: ora avevo qualcosa di molto
bello ed importante da fare. Mi sentivo inebriata, come prima di ogni missione.
La bellissima eccitazione dell'omicidio. Cercai di frenarmi, e di non precipitarmi ad ammazzarli allegramente. La prima cosa che feci fu
cercare un ruscello, o una pozza d'acqua. Fortunatamente, non dovetti
cercare molto. Era poco più di un rigagnolo, ma andava molto bene per i
miei scopi. Ora non dovevo fare altro che gesti ripetuti tantissime volte in
passato. Prima cosa, il viso. Ah, quanto dovevo a Tijorn. Promisi, tra me e me,
di regalargli qualcosa di utile e speciale una volta tornata. Magari un vero
cavallo, il suo desiderio di sempre, o un fazzoletto di terra coltivabile. Sorrisi, immersa nei miei progetti, mentre continuavo ad
agire. Con cautela, presi dalla borsa una specie di blocco di materia unticcia,
color avorio, conservato in quella che mi sembrava carta, e ne tagliai un bel
pezzo con il pugnale. Poi lo immersi nell'acqua,
e cominciai a passarmelo sulla faccia. Ciò che era rimasto del
camuffamento cominciò a svanire, sotto l'effetto di quella
sostanza dall'odore penetrante, non sgradevole. Sentii riemergere le
cicatrici, lisce al tatto, e feci una smorfia. Era una cosa che non mi piaceva.
Ripetei la stessa operazione per tutte le parti che avevo sottoposto alla
sostanza viola. Poi, posando il quadrato, con gesti febbrili rovistai nella
borsa, fino a cercare una bottiglia piena di liquido giallo. Per poco non lo
feci cadere, tanto che mi tremavano le mani. Non vedevo l'ora di farla
pagare a quel gruppetto ignaro di traditori della propria razza. Inghiottii un
paio di gocce di quella roba, e, dopo essermi dibattuta per un po' dal
dolore, scoprii con disappunto, mentre mi scioglievo dal nodo in cui mi ero
contratta, che i vestiti indossati non mi entravano più. Il mio corpo
era tornato quello di sempre, scattante, sano e giovane. Mi disfeci dei brutti
abiti grigi e malandati. Fu un vero strazio cercare di togliere le cose che non
uscivano, senza l'aiuto di nessuno. La casacca dette
moltissimi problemi. Mi ritrovai a saltellare, imprecando, con le braccia per
aria, senza potermi muovere in nessun senso. Strappai il tutto senza alcun
rimorso. Finalmente, ripresi il mio aspetto di uccello del malaugurio,
riappropriandomi dei vecchi abiti neri, sgualciti ma estremamente più
comodi di quell'ammasso di toppe che indossavo
precedentemente. Posai il liquido giallo, e presi una bottiglia blu. Misi un
paio di gocce in ogni occhio. Per ultimo, mi occupai dei capelli.
L'unguento per farli tornare normali era in un contenitore piatto. Lo
spalmai tutto, sfregandolo con ansia. Non vedevo l'ora di ritrovare i
miei ricci scuri e morbidi. Aspettai che facesse effetto andando avanti ed
indietro per l'umile riva, borbottando maledizioni verso i tre elfi.
Finalmente, venne l'ora di togliere quella schifosa sostanza grigia.
Quella era la parte più antipatica. Rimasi per un po' di tempo a
fissare il ruscello, afflitta. Non mi andava di doverci ficcare la testa
dentro. Sospirai più volte. Odiavo farlo. Quell'acqua era fredda,
e fangosa. Che orrore: avrei rovinato i capelli. Ed era sera, e
non avevo un fuoco dove scaldarmi. Pazienza. Avevo cose più importanti
da fare. Sorrisi biecamente, mentre pensavo alla nuova missione, chinando il
capo impastato verso l'acqua. Avrei provato l'ebbrezza del
combattimento, del sangue e della vittoria finale, dopo tanto tempo di dolore e
inutilità. Ero arrugginita, lo sapevo, ma anche il
combattente più valoroso non riesce a duellare contro una Spia, infida e
piena di risorse, molto spesso per niente legali. Partivo nettamente
avvantaggiata in questo senso. Conoscevo Isnark, e sapevo non si sarebbe mai
abbassato a giocare sporco. Il suo stupidissimo onore
glielo impediva. A me no: la parola onore era a me sconosciuta. In quanto alle
guardie, sapevo come neutralizzarle in un batter d'occhio. Rabbrividii,
mentre bagnavo i capelli, liberandoli da quella sostanza. Cercai di distrarmi
in ogni modo. La Regina sarebbe stata nel Piano, come promesso? Sarebbe stata
contenta di me? Avrebbe perdonato, almeno un poco, tutti i
miei vergognosi fallimenti? Mi scrollai tutta, alzandomi, come un cane
bagnato. Ebbi il grande piacere di vedere il ruscello chiazzato di grigio. Mi
voltai, afferrando una ciocca e tirandola leggermente in modo da vederla.
Fissai una massa di capelli bagnati e scuri. Sorrisi. Tutto era andato alla
perfezione. Mancava solo un altro, piccolo, tocco. Rovistai nella borsa ancora
una volta, per tirare poi fuori la mia maschera, impolverata e fredda. Sorrisi,
e sospirai di gioia, come nel vedere una vecchia e confortante amica dopo tanto
tempo. Il gesto familiare di allacciarla dietro le mie puntute orecchie mi diede
un grande coraggio, e restituì la fiducia in me stessa. Mi riallacciai
la spada, e presi il pugnale ricurvo, tenendolo stretto nella mano sinistra.
Così conciata, ero davvero tornata Lsyn l'Ombra. Presi allora il
Comunicatore, mentre sentivo rizzarsi tutti i peli. Lo nascosi sotto gli abiti,
con cautela, in modo che non toccasse inavvertitamente la pelle, facendomi
finire dritta nel Piano. Presi anche la droga, una poltiglia che avevo messo in
una vecchia ciotola, e l'avvolsi in delle foglie, nascondendo anch'essa
sotto gli abiti, in un punto diverso. Lasciando lì la borsa, che avrei
recuperato una volta finito tutto, mi avviai con calma
verso il luogo dove si erano sicuramente accampati gli elfi. Pregustavo
già il sangue che sarebbe scorso. E ne gioivo.
Per ritrovare il piccolo spiazzo, non mi ci volle molto:
scoprii poi che il ruscello era appena a dieci minuti da loro. Mi attirò
il bagliore del fuoco, molto più smorzato rispetto a prima. Avevo perso
il senso del tempo. Sicuramente era passata almeno un'ora, se non di
più. Fremente, pregai con tutto il cuore dormissero tutti. Oh...come
amavo il contatto della porcellana bianca contro la mia pelle! Mi appostai
dietro i soliti cespugli, e spiai. Era come avevo previsto: sicuri di essere in
territorio amico, dormivano tutti e tre del nostro sonno leggero, avvolti nei
loro mantelli, le armi a portata di mano. Non avevano messo sentinelle, gli
stupidi. Il falò non era altro che un ammasso di braci rosseggianti. Mi
morsi le labbra, fissandoli con attenzione. Il rosso, Rami,
ed il castano, erano ai lati di Isnark, quasi a volerlo proteggere. Quello
più basso russava leggermente, ed aveva il capo appoggiato su un tronco.
C'era un sasso a poca distanza dalla brutta faccia di Isnark. Sarei
dovuta stare attenta a non inciamparci. Afferrai la spada, mantenendola in modo
da non farla oscillare, e sbucai nel piccolo spiazzo. Ero stata così
silenziosa che nessuno si accorse di nulla. Ghignai
sinistramente. Mi sarei occupata per prima cosa dell'elfo che aveva
insultato la Regina. Gli
arrivai di fianco, in punta di piedi, e m'inginocchiai, stando attenta a
non provocare il minimo clangore. Una foglia morta, trascinata sul terreno dal
vento, avrebbe fatto più rumore di me. Gioii di questo fatto. Il cuore
batteva forte. Mi sentivo felice, e Chekaril non era che un fantasma nella mia
mente. Era sempre stato così, per ogni missione. Alzai il piccolo
pugnale ricurvo, osservandolo con gioia selvaggia. E poi, di scatto, lo
abbassai, manovrandolo con la destrezza che solo l'esperienza porta ad avere. Un taglietto qui, uno là,
oplà! Il Celestiale stava passando all'altro mondo senza nemmeno
accorgersene. Erano davvero interessanti gli arabeschi che il suo sangue
disegnava sulla pallida pelle. Un lavoro perfetto, eseguito a regola
d'arte. Mi sentii fiera di me stessa. Rimpiansi solo di non vederlo
soffrire. Ero davvero un animale immondo. Perchè non mi fermai?
Perchè? Senza alzarmi, mentre il povero tipo si dissanguava, mi slacciai
la spada. Fu un gesto terribilmente avventato, ma non potevo rischiare di fare
rumore. Mi alzai, infatti, lasciandola lì. Ripetei gli stessi gesti con
il rosso. Ah...povere creaturine fiduciose. Avete tratto l'ultimo
respiro. Spiacente di non potervi fare morire nel vostro bel letto, circondati
dai parenti afflitti, ma quella di venire qui è
stata una vostra scelta, e noi tutti abbiamo la facoltà di libero
arbitrio. Ora c'erano due traditori infingardi in meno. Era una cosa
davvero bellissima da pensare. Peccato che l'ultima vittima mi avesse
schizzata tutta, inondandomi le mani e rendendole un po' viscide, ma non
importava. In tutto questo, Isnark non si era accorto di nulla. Dormiva ancora,
a pancia all'aria, una mano sulla sua bella spada, con la bocca
semiaperta. Ridurlo in mia schiavitù era ora un gioco da ragazzi.
Rovistai nella casacca, ed estrassi la droga. In silenzio, efficiente come una
volta, perfetta, scartai la foglia, e presi una disgustosa manciata di
quell'ammasso tritato male. Per fortuna avevo i guanti. Strisciai verso
il suo viso. Ero così concentrata che commisi un errore fatale,
nonchè molto stupido. Mi dimenticai del sasso, e,
immersa in piacevoli pensieri di sangue, ci misi un ginocchio sopra. Il
dolore fu improvviso, e lancinante. Mi strappò alle mie sanguinolente
considerazioni, e mi fece cadere la droga. E qui feci una stupidaggine:
cominciai a bestemmiare sottovoce, dimentica dell'avversario. Questo
bastò perchè Isnark aprisse un occhio e, vedendomi incombere su
di lui con un coltello insanguinato in mano, si mettesse seduto con uno scatto,
brandendo la spada. Mi sentii gelare, e mi morsi la lingua, sobbalzando. Ero
stata una dannata stupida. L'elfo dai capelli bianchi mi fissava con
sorpresa, e confusione. Io restituii lo sguardo, pietrificata dal panico,
facendo velocemente il punto della situazione. Non avevo la spada. Avevo con me
un minuscolo, insignificante coltellino. E lui quella che aveva tutta
l'aria di essere una sciabola. Lui era un guerriero veterano. Io ero una
Spia arrugginita e stanca. Tutto era a mio sfavore. Decisi in una frazione di
secondo di giocare di sorpresa, l'unica arma che ormai avevo.
Perchè ero stata così sicura di me stessa? Perchè ero
stata così idiota? Sentivo il sapore del sangue in bocca, e la lingua
doleva. Ora era venuto il momento di vedere quanto valevo. Mentre ancora il mio
avversario si guardava attorno, con orrore crescente, io gli saltai addosso,
cercandogli di bloccare la mano della spada, facendogliela lasciare, e nel
contempo di avvicinarmi alla mia. Cademmo entrambi a terra, rotolando, lottando
senza esclusione di colpi, in silenzio. Lottavamo per uccidere. Finii con un
piede nella brace, e la feci schizzare verso il
braccio scoperto di Isnark, che bestemmiò. Le nostre armi giacevano
dimenticate da qualche parte. Ben presto, la sua stazza superiore ebbe la
meglio su di me, da sempre naturalmente mingherlina. Sarei riuscita a catturare
un umano, ma mai un elfo allenato. Mi ritrovai, senza sapere come, a pancia in su, fissando il volto sconvolto dell'elfo. Gli
usciva sangue dal naso, ed i capelli erano tutti impolverati. Cercai di
muovermi, inutilmente. Ero bloccata. Un senso di panico crescente, dapprima
smorzato dalla furia della lotta, si fece strada in me. Ero finita. Il mio
viaggio terminava lì. La faccia di Isnark era concentrata, e rossa di rabbia. Una mano
sulla mia gola, una mano callosa, da guerriero. E poi sentii stringere. Mi stava per strangolare.
Annaspai disperatamente. Non era giusto! Perchè dovevo morire?
Perchè non lui, il traditore? Sperai con tutto il cuore non mi avesse
riconosciuta. Cominciavano a formarsi macchie nere nel mio campo visivo, ed il
fiato mi mancava sempre più. Stavo morendo. Era tutto silenzioso,
fatta eccezione per i miei rantoli, ed i fruscii dei miei movimenti
frenetici. Mi sentivo un animale in gabbia. Era così triste che
l'ultima cosa da vedere fosse il volto di un nemico. Davvero triste. Ero
ormai allo stremo, quando sentii la pressione allentarsi. Boccheggiai, poi
tossii, tirando un bel respiro, come se fossi appena riemersa da un abisso. Mi
ci volle qualche altro momento prima che la vista si
schiarisse, ed il mondo smettesse di girare. Ero ancora prigioniera della
stretta ferrea di Isnark, ma lui non stava più tentando di uccidermi,
anzi: mi fissava, perplesso, a poca distanza da me. Gelata ed indebolita,
ancora affannata, ricambiai il suo sguardo fiero. La sua espressione, dapprima
confusa, si schiarì improvvisamente, e lui impallidì, se
possibile, ancora di più. Maledizione! Mi aveva riconosciuta!
Mantenendomi con una mano, operazione più facile del previsto, ed
appoggiandosi a me con tutto il peso, in maniera tale da bloccarmi,
cominciò con l'altro arto a togliermi la maschera. Gemetti
disperatamente, e mi divincolai. Non riuscii a concludere nulla: scoprii con
orrore che era più forte di me. Che umiliazione. Finalmente, lui sollevò
la maschera, e la gettò da un lato. Sgranò gli occhi,
stringendomi più forte. Avvertii un lieve tremito nelle sue membra.
Dovevo averlo spaventato a morte. "Lsyn!". Esclamò, a bocca
aperta, con voce roca. Erano le prime parole che mi rivolgeva. "non puoi
essere tu...cosa...". La sua voce sfumò nel nulla. Era rimasto chiaramente colpito dai segni che portavo sul viso. Ringhiai, senza rispondergli, sputandogli
poi in faccia. Non doveva osare! Non doveva rivolgermi la parola! Lui, un
traditore violento. Che ne sapeva lui di me? Il mio avversario non si scompose,
e mi tenne più stretta. Cercai ancora una volta di liberarmi. Isnark mi
guardò, ed alzò una mano, chiudendola a pugno. "non voglio ucciderti nè farti del male ma...visto che
la metti così...". Disse, preparandosi al colpo, diretto verso
il mio viso. Era chiaro intendeva stordirmi, per poi portarmi priva di sensi, prigioniera, a Kyradon, dove, quasi sicuramente mi
avrebbero processata per chissà quanti crimini, e messa a morte, o tenuta
come ostaggio. Davvero divertente. Peccato che non si era accorto di avermi
quasi lasciate libere le gambe. Prima che mi colpisse,
gli mollai una ginocchiata dritta nello stomaco. Sentii la presa allentarsi
subito, ed il mio avversario ritirarsi, rannicchiato e dolorante. Non mi concessi
nemmeno il tempo di pensare, ed agii d'istinto. Rotolai via, velocemente, e mi trovai vicina al
cadavere dell'elfo castano. Rovistai attorno a lui fino ad afferrare un
pomolo freddo. Finalmente, avevo la mia spada. Mi alzai di scatto, in guardia.
Isnark mi aveva imitata. La partita non era ancora vinta. Ed ora ero in netto
vantaggio: ero molto più leggera e veloce. Ci girammo a lungo attorno,
come due lupi famelici. Alla fine, lui perse la pazienza, e con un grido,
alzò la spada, abbassandola verso me, con un sibilo. Fu facile parare il
colpo. Cominciammo a duellare, menando violenti fendenti, e dando fondo a tutte
le nostre risorse. Sopperivo alla mia mancanza di forze con l'astuzia.
Lui s'incaponì a mantenere la difesa, e questo gli costò
caro. Grazie ad una sua piccola disattenzione, mi misi
in vantaggio: superai la sua guardia, e gli incisi un profondo taglio
orizzontale sulla guancia destra. Ebbi l'estremo piacere di vederlo arretrare,
reprimendo a stento un gemito di dolore. Primo sangue versato. Io ero quasi
illesa, a parte la gola che bruciava e pulsava e tagli vari, che non davano
particolare fastidio. Dopo quella ferita, per me fu tutto in discesa. Il
taglio, che partiva dall'attaccatura del naso e proseguiva obliquamente
verso la mascella, sanguinava copiosamente, e lo stava indebolendo molto. Perse
di nuovo il ritmo, evidentemente provato dall'ingente perdita di sangue,
e ciò mi permise d'incidergli un'altra ferita, sulla stessa
guancia ma in senso orizzontale, dall'orecchio alla bocca, quasi
perpendicolare alla prima. Lui cercò di resistere, ma, dopo poco, comiciò ad ondeggiare pericolosamente, mentre gli
occhi andavano di tanto in tanto fuori fuoco. Gioii. Lo avevo in pugno.
Disarmarlo, costringendolo a torcere il polso, fu un gioco da infanti. Sfinito,
Isnark cadde in ginocchio, i capelli e la casacca sporchi ed infangati. Era
pieno di sangue. Provai una momentanea pietàper quell'elfo coraggioso, ma ogni simpatia per lui scomparve quando
tentò di afferrare la spada, in un gesto disperato, e di conficcarsela
nel cuore. Ah, era così? Voleva scampare all'interrogatorio
suicidandosi? Mi sentii invadere dalla rabbia, una rabbia cieca e pericolosa.
Isnark avrebbe dovuto cominciare a preoccuparsi per quella sua infima vita. Gli
mollai un altro calcio, dritto nello sterno, senza più traccia di pietà alcuna. Non fu forte, ma abbastanza per farlo finire, gemente, schiena a terra, la spada ancora
in mano. Gli misi un piede sulla gola, trionfante, ed un altro sul braccio
della spada. Poggiai su quest'ultimo tutto il mio peso, e sentii uno
scricchiolio. Dovevo avergli rotto il braccio, perchè lui gridò.
Spostai il piede, posandolo a terra. L'avrei potuto uccidere in un batter
d'occhio: avevo vinto. "ah, ah, ah!". Gli dissi, prendendolo
in giro. Al suono della mia voce lo sentii fare una smorfia. "volevi giocareLsyn l'Ombra, Isnark, mio amico? Sappinon si
scappa, piccino!". "ammazzami, bastarda". Mi rispose lui, ansimante
per lo sforzo. "ammazzami come hai fatto con Lisander e Rami. Non
è questo che vuoi, Lsyn? Non vuoi disfarti di un potente nemico? Non sarebbe bello il mio sangue sulla tua spada?".
Chiuse gli occhi. Io cominciai a ridere, aumentando il peso, costringendolo a
girare il capo, e premere la guancia ferita al terreno. Lo sentii reprimere un
altro urlo di dolore. Povero, piccolo caro. Mi credeva davvero così
sprovveduta, lui e la sua logica spicciola? Non l'avrebbe
scampata così facilmente. Doveva ancora parlare. "ti ripeto
che non si scappa, Isnark". Sputai, con rabbia. Ah, che dolce piacere
vederlo vinto, ai miei piedi. "e tu mi servi. Dimmi un
po'...". Il tono della mia voce si fece casuale, come se io e
lui fossimo davanti ad un bel fuoco, a chiacchierare di tempi andati. Come
adoravo prenderlo in giro. "ti è piaciuto il Regno? Ci porterai il
viaggio la cagna che avete come sovrana?". Lui cercò di liberarsi
dal mio piede, ma inutilmente. Era davvero debole. Un lieve senso di colpa si
fece strada nella mia mente. Perchè gli facevo così del male?
Cos'ero diventata? Quando ero più giovane, l'avrei finita subito, senza giochi inutili e sadici. Ma la vita mi aveva resa troppo crudele. Aprendo gli occhi offuscati, Isnark riprese a parlare,
con rabbia. "non parlare di cose che non sai!". Ringhiò, guardandomi.
Ricambiai con calma il suo sguardo, sorridente. "cos'è che
non so, caro". Gli domandai, falsamente dolce. Cercai di dominare il
dolore che cominciavo a provare. Povero Isnark. Doveva soffrire davvero molto.
Davvero un lavoro pulito, il mio! La mia vittima, zuppa di sangue, mi rispose
sempre più debolmente. "non sai nulla, tu...nulla di nulla. Cosa sei diventata,
Lsyn?". Mormorò, richiudendo gli occhi, completamente vinto.
Gemette di nuovo, debolmente, quando con il piede gli toccai la ferita. Poi lo
lasciai andare. Non si mosse: rimase lì, respirando con
difficoltà, cosciente solo a mezzo. Mi guardai attorno. Il campo era un
disastro. C'era sangue dappertutto. Avrei dovuto pulire, dopo. Non potevo
permettermi il lusso di lasciare tracce. Finita l'eccitazione della
caccia, la vergogna s'impadronì di me. Ero una bestia. Tirai un
bel respiro, e, accorgendomi del bolo della droga, ancora intatto in un punto,
lo presi, avvicinandomi di nuovo al mio avversario. M'inginocchiai
accanto al suo viso, mordendomi le labbra. Era conciato davvero male. Ero stata
troppo cattiva. Isnark riprese a parlare, in un lamento. "in nome del mio
perdono, Lsyn...". Mi supplicò, ancora ad occhi chiusi, con voce spezzata.
"uccidimi...ti prego...non lasciare che Lainay carpisca certe
informazioni...ti prego!". Socchiusi gli occhi, ed,
involontariamente, mi lasciai sfuggire una lieve
risata incredula. Aveva davvero coraggio da vendere, l'elfo, per
chiedermi una cosa del genere. Gli misi la droga in bocca, a forza. Sentii
stringermi il cuore. Povero Isnark, povero amico coraggioso.
M'investì un'ondata di rispettosa ammirazione. Davvero
notevole. Forza...un'ultima menzogna e poi non ti renderai conto di
nulla. "questa ti ucciderà, Isnark...". Gli sussurrai,
con premura e pietà inattese. "questa ti
ucciderà...su...inghiottiscila... non farà
male...". Lui mi obbedì, sempre meno presente. Mi sentii
sopraffare dalle lacrime. Ecco cosa ne era delle promesse. Potessi essere dannata in eterno. "mi
dispiace...mi dispiace!". Gli dissi, con voce rotta, mentre aspettavo che la
droga facesse effetto. Ed era vero. Mi dispiaceva che, per l'ennesima
volta, fossimo nemici. Mi dispiaceva dovergli fare del male, e mentirgli. Ma
dovevo obbedire alle direttive della mia Signora. Dopo un paio
di minuti, la sua figura snella si rilassò, e lui aprì gli occhi
scuri, ora vuoti e calmi. "mi senti, Isnark?". Gli domandai, con
autorità. Era venuto il momento di agire, di mettere da parte umanità e debolezze. Lui annuì, girandosi verso me, senza
traccia di ostilità alcuna. Era del tutto in mio potere. "ora
farai tutto quello che ti dico, va bene?". Lui annuì di nuovo ed
io, con cautela, presi il Comunicatore da sotto i miei abiti e glielo misi in
mano. "ora concentrati". Era un ordine, e lui mi obbedì
senza fiatare. Vidi i suoi occhi divenire vitrei, e poi il suo corpo dibattersi
e lottare contro Lainay, in uno spasimo di lucidità. Lo mantenni fino a quando non
si calmò, afflosciandosi tra le mie braccia, avenuto o addormentato. Lainay aveva avuto
ciò che desiderava. La mia missione era compiuta. Scoppiai in lacrime.
Povero, povero Isnark. Non potevo lasciarlo così. Cominciai a
tamponargli le ferite con il mantello, in fretta, mentre lui era ancora
incosciente. Avevo commesso delle azioni terribili, ma potevo rimediare almeno a qualcuna di esse.
.........
Angolino di Akita:
ehilà, ciurma! Eccomi qui con la
spiegazione di molte cose xD è un capitolo un
po' cruento, lo so, ma vi devo confessare di essermi divertita un casino
a scriverlo xD son sadica quanto Lsyn, certe volte, eh xD
beh, penso che basti, ho fretta di
aggiornare.
Passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera:
ehilà xD finalmente, ecco il tanto sospirato incontro xD che ne pensi? Ci
sono abbastanza scintille per i gusti del mio affiatato pubblico? xD ah, tu non sai come volavano le dita sulla tastiera
mentre scrivevo xD allucinante xD povero Isnark...Lsyn gliele ha suonata di santissima ragione O.o il capitolo più lungo dall'inizio
della storia O.o che bello, che bello!!!! Come vedi inoltre, sto cominciando a
dare altri indizi per la fine. Sono sparsi un po' qui e là, e,
confesso, non molti sono comprensibili xD ah, ma come
mi diverto! Beh, commenta, e fammi sapere che ne pensi!!!
Ciau!
Per Selly:
ma ciao! Eh già...fare da candela è davvero spiacevole, ed io lo so bene xD sono solidale anch'io con il mio povero
mostriciattolo xD (no, non ti ucciderebbe, stanne certa xD annuirebbe con tale
forza da procurarsi un paio di ernie cervicali, ma non ti ucciderebbe xD) ecco
l'incontro con il nostro simpatico Isnark xD che ne pensi? Devo dire che
ho avuto la tentazione di riscriverlo, perchè certe volte indugiavo in
alcuni particolari un po' macabri O.o ho cercato di volare alto e di
girarci attorno xD che ne dici? Sono avida
di un parere! A presto!
Per Kylien:
grazie, cara v.v fa parte di un sadico complotto per tenervi con l'acqua
alla gola (anche se non lo sapete muahmuahmuah xD) v.v
cosa dici di questo piccolo interludio battagliero? Devo dire che ci voleva
<.< scalpitavo per scriverlo xD oh bè,
fammi sapere, eh xD baci dalla zia Aki omicida xD che lo spam regni sovrano!
Non ce la faccio più xD
io adoro questo capitolo xD è così...ah, vedrete (L) xD
Beh, non vi tolgo la sorpresa.
Isnark non appartiene a me, ma a Carlos
Olivera.
Finite le precisazioni, penso che il viaggio
possa iniziarexD
See you later!
Akita
-------
Sapevo di commettere un grosso errore, un enorme errore, e sapevo anche
quanto fossi incauta, ma non potevo lasciar morire
Isnark. Non potevo: il solo pensiero mi rivoltava. L'lfo non era mai,
mai stato mio amico. Però lo avevo sempre rispettato, nonostante fosse
un lurido traditore, figlio di poveri contadini. Si era battuto per
l'ennesima volta con onore, mentre io avevo tenuto come sempre fede alla
definizione comune di Spia, crudele e sleale. C'erano anche numerosi
altri motivi, ben più profondi, e tutti contribuivano ad
addolorarmi, e confondermi terribilmente le idee. Quelle ferite, che per un caso assurdo formavano l'iniziale del mio nome, avrebbero
lasciato delle brutte cicatrici, e non sopportavo l'idea di aver
sfigurato qualcuno, io, il mostro. Perchè proprio sulla guancia? E se si
fossero infettate? Il fantasma di questa possibilità aleggiava nella mia
mente in modo incessante, e mi tormentava. Rischiava di morire per un paio di
tagli, accidenti! Eravamo lontani dai centri abitati, molto lontani. Come fare
per salvargli la vita senza venire imprigionata a mia
volta, e magari, torturata e uccisa senza la possibilità di rivedere
Chekaril, di salvarlo e di tornare felice? Lui mi aveva risparmiata, mi aveva
concesso di vivere proprio nel momento in cui sembrava avermi battuta. Ero
davvero idiota, lo ammetto: che coerenza c'era nel proteggere qualcuno
con la quale precedentemente si ci era battuti
all'ultimo sangue? Che coerenza c'era nel voler salvare un nemico?
L'Ombra, quella creatura sadica e crudele che ero una volta, non l'avrebbe mai
fatto. Avrebbe lasciato morire Isnark, senza remore: era un avversario, e tanto
bastava. Ma io avevo visto troppa sofferenza nella mia vita per restarne
indifferente: essa era la mia perenne compagna. E non c'era Lainay che
tenesse. Avevo tempo, e le avevo obbedito: avevo diritto ad
un attimo di tregua. Quella pietà sbalordì anche me e, in
seguito, cercai di giustificarla con il fatto che, se lo avessi ucciso, mi
sarei attirata dietro decine di persone assetate di sangue. Da quanto avevo
capito, Isnark era considerato un eroe della resistenza, ed era molto amato dal
popolo di Uruk, secondo solo a Nemys. Questo però non giustificava il
comportamento che ebbi nei suoi confronti. Infatti, nonostante il pericolo di essere scoperta incombesse su di me
ad ogni momento che passava, nonostante poco prima l'avessi conciato
davvero male, rimasi con lui in quello spiazzo devastato, seduta per terra,
tenendogli il capo tra le braccia, assurdamente premurosa, e tamponandogli
rudemente le ferite per cercare di arginare l'emorragia. Fortunatamente
Isnark rimase incosciente, perchè dovevano fargli davvero male.
Finalmente, il sangue si arrestò, ed io sbuffai. Il peggio era passato.
Dovevo solo pulirle, per evitare spiacevoli inconvenienti. Ed ecco il primo
problema. Che fare? Non avevo acqua calda, nè garze. Dopo un po'
di tempo passato a riflettere, cominciai a rovistare nelle bisacce dei
Celestiali morti, della quale non m'importava perfettamente nulla, in
cerca di una borraccia, che poi trovai, togliendo il tappo e
svuotandola sul viso
dell'elfo, con un gesto spiccio. A mali estremi, estremi rimedi. Ero davvero una Guaritrice provetta. Fu
allora che riprese conoscenza, con una smorfia, ed un gemito di dolore.
"stai fermo". Gli ordinai, distrattamente, continuando ad
asciugargli i tagli, il volto contratto per la concentrazione e l'ansia. Lui,
ancora senza parlare, mi obbedì immediatamente, senza obiettare, stranamente, afflosciandosi come
morto. Aggrottai le sopracciglia, sorpresa, e mi bloccai. Che stava succedendo? Quello non era un comportamento da Isnark.
Lo sguardo, che avevo inchiodato al terreno, corse al suo viso, preoccupato. Lo
fissai a lungo. Non appena la situazione mi fu chiara, non riuscii a reprimere
una risata: la droga doveva essere ancora attiva, perchè i suoi occhi
erano ben lungi dall'essere vigili. Scuotendo il
capo, con un sospiro di sollievo, mi rimisi al lavoro, continuando ad
asciugargli la faccia. Non si mosse. Era davvero una fortuna: non mi avrebbe
riconosciuta, una volta sveglio, a meno di non
portarselo come ostaggio attraverso tutte le terre conosciute. Scartai
immediatamente l'idea: da quella parte, l'unica prospettiva era il
cappio del boia. Secondo problema. Come fare per liberarmi di lui, facendolo
sopravvivere, per poi rimettermi in viaggio? Portarlo al confine, per uno
scambio, era anch'essa una via poco percorribile: mi avrebbero messo alle
calcagna un intero esercito, pur di catturarmi. Sebbene non esercitassi più
lo spionaggio da un bel po' di tempo, la mia fama era ancora viva, e
molti tremavano solo a sentire il mio nome. E la maggior parte di
essi mi voleva morta. Per salvarmi, avrei dovuto valicare le montagne, e fare un giro molto tortuoso per non essere presa. Ma lui? Che farne? Non potevo lasciarlo
lì, debole e sanguinante! Non aveva la forza di volontà
necessaria per andare avanti. A meno che... mi balenò in mente una
possibilità, e borbottai una maledizione senza senso, mentre con una
mano libera mi battevo la fronte. Ma certo! La droga era ancora attiva, e lui
sotto la mia potestà! Se gli avessi ordinato qualcosa in accordo con i
desideri più profondi del suo essere, l'ordine sarebbe valso anche
dopo la fine dell'effetto. E quale creatura al mondo vuole morire? Tremai
di gioia. Avevo la chiave per salvare Isnark, il mio povero amico. Era strano pensarlo in quei termini.
Promisi a me stessa d'implorare il suo perdono, una volta finito tutto. Forse quello che stavo facendo per riparare al mio torto sarebbe bastato. Dovevo prima
occuparmi del braccio, e poi avrei sistemato tutto. Afferrai il mantello di Rami,
scuotendo il cadavere senza nessuna pietà, strappando poi
l'indumento in mille strisce. Isnark stava sprofondando di nuovo
nell'incoscienza. "rimani sveglio, idiota!". Abbaiai, sempre
più ansiosa, prendendo una manciata di bende improvvisate, e voltandomi
verso di lui. Fu un sollievo vedere che mi obbedì. Con delicatezza ed
attenzione, sollevai leggermente il braccio che avevo rotto. Lo sentii
lamentarsi debolmente. Esaminai il danno, cercando di fare il punto, mettendo
insieme le scarse conoscenze che avevo di Guarigione, almeno per farmi
un'idea della situazione che avevo creato. Mordicchiandomi le labbra,
perplessa e disperatamente concentrata, arrivai alla conclusione di avergli
quasi spezzato l'osso dell'avambraccio. Se solo fosse stato umano,
non ci sarebbe stata speranza per un recupero totale. Mi aveva davvero dato di
volta il cervello, per combinargli un tiro così. Sentii un'altra,
tardiva, fitta di senso di colpa, e bestemmiai sottovoce. Cercai, annodando i lacci, di fasciargli il
braccio come potevo, poi, gli sistemai il mantello, spolverandogli i capelli.
Era pronto per andare. Ed io ero un'idiota. Cominciai a scuotere
leggermente Isnark, che aprì un occhio. "Isnark...tu vuoi
vivere, vero?". Domandai, posandogli con premura una mano sulla fronte. Fu bello vederlo annuire. "bene...io
ti ordino di vivere. Devi vivere. E' vero che conosci il centro abitato
più vicino?". Mosse di nuovo il capo. Un altro cenno affermativo.
Il sollievo m'invase, come tè bollente in una giornata di neve.
Sorrisi di gioia. "benissimo. Io ti ordino di raggiungerlo, e di farti
curare. Capito, Isnark?". Lui ricambiò il mio sorriso, ed
annuì per la terza volta. "vai, allora! Prendi la bisaccia e vai,
senza voltarti nèè fermarti fino a che non avrai
raggiunto la tua meta! Vivi, maledetto sia chi ti ha generato!".
Confesso che la bestemmia sorprese anche me. Troppo tardi mi morsi le labbra:
sperai silenziosamente che lui non l'avesse interpretata come un ordine.
Al momento, non pareva. Lo vidi alzarsi faticosamente, e compiere
con lentezza esasperante tutti i gesti da me detti, sparendo poi,
barcollante, nel buio. Rimasi sola con i due cadaveri, in una piccola radura
macchiata di sangue. Lentamente, alla rabbia si sostituì un altro
sentimento, qualcosa di molto più viscido e freddo. Fissai i due
cadaveri quasi con terrore, e con molto fastidio. Odiavo i morti. Li odiavo.
Quando avvertii i passi esitanti di Isnark sfumare in lontananza lanciai un
grido di esasperazione. Perchè non era ancora finita. "ed ora,
dannazione". Sbottai, sconsolata e schifata, guardando quello che
rimaneva dei Celestiali. Quello era il terzo problema "cosa ne faccio di voi due?".
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Angolino di Akita:
ah... com'è stato
appagante scrivere di Lsyn infermiera provetta (L) davvero (L) ah, la mia
piccola Spia piena di turbe esistenziali, ah! (L)
ok, la smetto di parlare a vanvera. D'accordo.
Passiamo dunque al dunque:
Per Carlos
Olivera: perchè provi pena per Isnark?? O___o l'ho
trattato con i guanti (dopo averlo torturato un bel po', lo ammetto <.<)!
Dai, non pensi che Lsyn sia un'infermiera provetta? (quando
scrivevo la scena della borraccia mi frullavano queste parole in mente, ed ora
chi me le leva più xD) sono contentissima che il capitolo ti sia
piaciuto...mi sono fatta una marea di fisime xD e se non va bene? E se, e
se, e se... mi esasperavo da sola O.o vabbè, va' xD
dimmi un po'...che pensi di questo capitolo? Attendo impaziente tue opinionial riguardo xD ciau!
Per Selly:
hola! xD già...tu non sai quanto io mi sia
divertita a scrivere del duello, tu non sai xD grazie :P sono contenta che
anche a te sia piaciuto ^^ passando a cose più serie...ti dico solo
che dell'incontro nel Piano si sapranno solo certe cose...ma per questo dovrai aspettare molto,
molto ancora xD beh, cara, Lainay non è un personaggio sopportabile,
almeno questo xD la cara Lsyn è una testa dura, non c'è che
dire...le occorrerà ancora molto per capire...ecchevuoi(xD), deve
essere un po' ritardata per ragioni di storia xD che pensi di questo
capitolo? L'ho trattato bene al povero Isnark, dopo averlo letteralmente
massacrato? xD fammi sapere *.* ciao!
Mi scuso per l'assenza anormale, per me,
ma in questi giorni Internet non ha collaborato. Non so se riuscirò ad
aggiornare con la solita frequenza per questo motivo. Mi scuso ancora xD
See you later!
Akita
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Come avevo previsto, l'occultamento dei cadaveri fu
un affare complicato, più del previsto. Riflettei a lungo su quel terzo
problema. D'accordo, ero in un bosco. In un bosco nemico. Pochissime
speranze di trovare burroni, crepacci, insomma: posti dove gettare i corpi,
senza lasciare tracce. Non avevo pale, nè picconi, e non potevo scavare
una buca. Allora che fare? Una stranissima sensazione di gelo cominciò a
farsi strada in me. Mi venne la pelle d'oca, e penso di aver sgranato gli
occhi. Mi girai verso le pallide larve che un tempo erano
stati esseri vivi e senzienti. Se solo non fosse stato per il sangue,
avrei giurato dormissero. Mi morsi le labbra, rabbrividendo. Gemetti. La
soluzione era una sola. Avrei dovuto farmi coraggio. Tanto, tanto coraggio.
Io odiavo i cadaveri, li ho sempre odiati. Sebbene ci
abbia convissuto, l'abbia sfiorata moltissime volte, e ne sia stata
spesso la causa, la morte mi terrorizza, quasi più dell'acqua.
E' un accadimento così...strano, di così innaturale ed imperscrutabile,
difficile da accettare per un essere pluricentenario. Ed un corpo freddo e
rigido non aiuta a superare la fobia. Non sono mai riuscita a stare vicina ad
una vittima, dopo averla uccisa, mai. Ero stata dileggiata molte volte per
questo. Ora ero costretta a nascondere le prove di un delitto come una ladra. Ci ero costretta.
Ero quasi sicura che, una volta tornata la memoria ad Isnark, sarei stata nei
guai più seri. Avevo tempo per fuggire, ma Uruk non sarebbe mai
più stato un territorio sicuro, per me. Ed era meglio nascondere
ulteriori prove, per pura cautela. Parola strana per me, un tempo. Sentivo
già all'altezza della gola stringere la ruvida corda del cappio. In
quel delicato momento, la mia vita era al primo posto. Ed allora mi dovevo dare
una mossa. Sospirai, poi afferrai la spada, in silenzio ma piagnucolando
segretamente nella mia mente, come un'infante, come una fanciulla senza
nerbo, e m'inginocchiai vicino ai due. Sul mio viso doveva essere
impressa una terribile smorfia di disgusto. Cominciavo a sentire sul fondo
della lingua l'aspro sapore della bile. Un respiro. E poi cominciai a
smembrare i corpi, combattendo contro l'impulso di chiudere gli occhi e
fuggire. Povera me. Povera, povera me. Perchè mi facevo tutti quei
problemi, quegli scrupoli? Pensai, cercando di distarmi, e di non guardare
l'assurdamente rigida faccia di Lisander. Ero si
o no una Spia? Lsyn l'Ombra dove diavolo si cacciava in quelle
situazioni? Perchè non riuscivo ad essere padrona
di me stessa? Tremavo follemente, cercando di mantenere regolare il respiro.
Finalmente, portai a termine quel rivoltante compito, trattenendo a stento la
nausea e la rabbia. Ero tutta sporca di sangue, pessima prospettiva
quando si ha paura dei fiumi, dei laghi, ed in generale di tutte le
acque che non siano parte integrante di un rilassante bagno caldo, decisamente
un'utopia quando si è in viaggio in incognito. Rivolsi gli occhi
al cielo, piena di gioia. Ora che quei due non erano riconoscibili come
creature, tutto mi era più semplice. Attizzai nuovamente il fuoco,
aspettando fino a che non ruggì, rovente. E poi ci gettai quello che
rimaneva dei due innocenti Celestiali dentro, abiti ed effetti personali
compresi, cibo escluso. Rubai però loro i ciondoli, un segno di
riconoscimento troppo palese, e li cacciai in una tasca, al sicuro. Quei
bellissimi monili mi sono diventati cari, ed è bello vederli al collo di
persone che amo e proteggo con tutta me stessa. Ora mi sentivo meglio. Seppure avessero
trovato qualcosa, nessuno avrebbe potuto imputarmi gli omicidi,
nè riconoscere le ossa. E, seppure l'avessero
fatto...c'era tutto il tempo per ritrovare Chekaril. Dopo essermi
assicurata che nulla andasse a fuoco oltre il dovuto, mi girai verso quello che
era stato un accampamento. Era un disastro totale. C'era sangue
dappertutto, e la mia maschera era gettata malamente
in un angolo. Sentii una tremenda
fitta di ansia. Dannazione, era fatta di porcellana! Non era certamente adatta
ad essere strapazzata in quel modo! Voltando definitivamente le spalle al
falò mi avviai esitante verso di essa. Se solo si fosse rotta, davvero
non avrei saputo che fare. Quella maschera era stata la mia protezione, la mia
amica, il mio solo conforto. Aveva coperto le mie cicatrici, la mia bruttezza,
la mia mostruosità. Ed era stato un regalo di Tijorn, uno dei tanti, ma il più prezioso. L'ultimo
regalo prima della mia partenza. Si era stancato del fatto che, una
volta dimessa dal Lazzaretto, convalescente in casa sua, portassi stracci avvolti attorno alla testa e uscissi solo di
notte, saltando ogni volta che incrociavo uno sguardo troppo curioso. Era
andato da un abile artigiano di Galinne, ora morto. Quando l'avevo visto
venire con in mano quel fine oggetto, quasi ero
scoppiata in lacrime. Dolcissimo fratello, sempre presente,anche in un oggetto, in un
pensiero. Il ricordo della sua premura era stato l'unico calmante nelle
lunghe notti d'inverno, quando ero costretta a fermarmi, mentre la neve
cadente, trasformata dal vento, disegnava nell'aria strane forme,
ed io i denti dal freddo, rannicchiata da qualche parte, senza poter
accendere un fuocherello per riscaldarmi. Quella maschera era
stata l'unica amica nei viaggi infiniti, quando conversavo con i miei
ricordi, persa in un labirinto di fantasmi. Aveva lenito tanti bocconi amari,
quando la gente mi guardava e cambiava strada. Ripresi a tremare, nonostante
facesse caldo. Se si fosse rotta, sarebbe stato come perdere una sorella, una
madre. Un po' esagerato, lo ammetto, ma spesso la solitudine fa impazzire
leggermente anche le menti più salde. Ed io non lo ero. M'inginocchiai,
ed afferrai spasmodicamente l'oggetto. Sospirai di sollievo. Era quasi
tutto a posto. Esaminai la superficie, con cura, togliendo con un'unghia
la terra. Era un po' scheggiata in alcune parti, e da un lato correva una
piccola incrinatura, ma non era nulla di preoccupante. Sentii un'ondata
di sollievo farsi strada nel mio cuore. Esitante, me la riallacciai dietro le
orecchie, un gesto ormai meccanico. Poi guardai lo spiazzo, dove il fuoco
bruciava allegramente. Il sorriso si trasformò in un ghigno, e sentii pian piano la sicurezza tornare in me. Era davvero
tempo di andare, che si sopiscano i ricordi ed i
rimpianti. Chekaril mi aspettava, no? E, seppure il fuoco avesse intaccato per
caso il resto, non era propriamente un male. Raccolsi il cibo, che mi sarebbe servito nelle montagne, e, ancora ghignando, senza
rimorsi, mi avviai verso il ruscelletto, dove avevo lasciato la borsa. Era tempo
di rimettersi in viaggio. La mia missione si era conclusa con successo.
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Angolino di Akita:
eccomi qui, con un capitolo scritto un
po' di fretta, ma di cuore xD come detto su,
mi dispiace per non essere stata puntuale, ma per cause di forza maggiore
Internet non è stato disponibile ._. ho una linea un po' bizzosa
._.
d'accordo, passiamo dunque al
dunque:
per Carlos Olivera: ma Lsyn
è umana (cioè, pardon, elfa)...solo che se lo dimentica,
certe volte xD davvero?? O__o allora sono sinceramente curiosa di leggere...anche se SO che ci vorrà ancora molto,
molto, molto tempo v.v per ora, lasciamoci trasportare da leggiadro presente
(ehi ma come son poetica oggi!! xD)! Certo che è stato nel Piano, Isnark...
ci vorrà tempo però, prima di scoprire cosa è successo (anche se tu lo sai BENISSIMO :P). Che
dici di questo capitolo? L'ho scritto di corsa appena ho visto che si
connetteva <.< per ora, ti saluto. Ciao!
Per Selly:
ciao! Ehi si, si vede, eh? Lsyn in fondo è un cuore tenero, tenero,
tenero xD teneramente bastardo, diciamo, su xD eh eh...
fa bene a non piacerti la parte del Piano xD perchènasconde grandi,
grandi magagne :P abbi solo un po' di pazienza... si tratta solo in
fondo di segreti che condizioneranno anche il seguito v.v
muahahahahahahahahahah xD che dici di questo capitolo! Fammi sapere! Ciao!
Oggi sono d'umore coccoloso, anche se ho
una verve da celenterato xD ho battuto il mio record:
4 ore e mezza di sonno!!! Evviva ._. cioè... il record non proprio,
però... ._. odio i fattoni che gironzolano la notte, ubriachi
fradici, gridando e ridendo alle 4 del mattino ._. e poi oggi sono tornata nel
posto preferito della mia infanzia <.< che dolore, che dolore!! <.<
sono rimasta a fissare la gola dove giocavo con la paperetta
di plastica per un buon paio di minuti <.< argh,
che sentimentale <.<
Vaaabbè... basta! xD
See you later!!
Vostra Akita oggi schizzata O.o
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Ancora galvanizzata per gli accadimenti della notte,
cominciai a correre non appena afferrata la borsa, e ficcato il cibo dentro,
frettolosamente. Non sapevo il motivo: semplicemente, mi era parsa una buona
idea per sfogare la rabbia che mi restava. Per il tradimento di Isnark, rimasto
il contadino sempliciotto di una volta, per l'omicidio dei due
Celestiali, che sapevo punibile con la morte, e per la mia insospettata
pietà. Come sempre, soprattutto quello mi dava fastidio. Era sempre scioccante, quando quel lato del mio carattere si mostrava,
guizzando senza preavviso. Lo detestavo: mi ricordava i miei limiti, e la mia
imperfezione. Ed io non volevo essere imperfetta, anzi. Alzando lo sguardo,
notai che, pian piano, il nero inchiostro del cielo cominciava a sbiadire. Si
preannunciava una giornata di sole. Scossi il capo. Avevo preso tutto con
estrema calma. Troppa calma. Entro l'alba del giorno dopo avrei dovuto
raggiungere le montagne che correvano parzialmente lungo la linea del confine,
a cavallo tra Regno, Matriarcato ed Impero. Erano luoghi poco frequentati,
impervi e perennemente freddi, nonostante in quel tempo la primavera fosse
molto inoltrata. Avrei penato, oh, come avrei penato.
Rallentando, trasformando la corsa in un cammino veloce, feci mentalmente
l'inventario di ciò che avevo nella borsa, tanto per occuparmi un
po'la mente. Altri unguenti, quanto bastava per trasformarmi ancora in
una placida vecchietta, i loro antidoti, il Comunicatore ed un'abbondante
razione di carne secca, rubata, che speravo sufficiente per valicare le
montagne. Una volta arrivata nell'Impero, sarei tornata la mite
vecchietta, cambiando ovviamente nome, ed avrei potuto...diciamo prendere
in prestito viveri dalle fattorie. Non avevo abiti di ricambio, e questa era la
cosa più brutta. Ero sporca di sangue e terra. Perfino i capelli erano
impastati. Dovevo avere un aspetto terribile, ed il mio profumo non era
sicuramente dei più seducenti. Mi scrollai quel pensiero con un gesto
annoiato. Non ero ad un ballo, dannazione! E non era il momento adatto per pensieri
frivoli da nobile vanitosa qual ero. Ero ormai da un'oretta in viaggio, quando mi
fermai di botto. La mia testa si fece completamente vuota, a parte un sordo
ronzio, fissando un ruscello familiare. Mi morsi le labbra, improvvisamente
inquieta. Era questo, per caso, il quarto problema? Risi da sola per la battuta
idiota, con la ma solita risata aspra e ragliante. Perchè non
c'era da scherzare: avevo vagato in tondo. Mi ero distratta, e non
conoscevo il territorio. Sapevo di dovermi dirigere verso est, ma a quanto pare avevo sbagliato miseramente, nonostante di
solito il mio senso dell'orientamento non sia per nulla pessimo.
Cominciai a sibilare bestemmie. Di quel passo mi sarei trovata quanto meno a
Kyradon! Come diavolo avrei fatto nell'Impero? Mi sarei davvero
dovuta appoggiare a Lateek, che sapevo viveva in un piccolo villaggio
costiero? E come avrei fatto senza cibo, per le montagne? Osservai il cielo,
parzialmente oscurato dalle foglie. Per quel motivo non vedevo un accidente.
Bestemmiai più forte. L'unica soluzione era arrampicarsi su
qualche albero alto. Dopo aver osservato gli arbusti attorno a
me, scelsi un faggio solido e fronzuto, un po'contorto,
ma perfetto per il mio scopo.Posai la borsa a terra, ed affidandomi a tutti gli
dei, noti e non, cominciai l'ascesa. Mi tornarono in mente i giochi della
mia infanzia, e le calde giornate estive con Tijorn nel bosco di Sharilar,
quando ci appollaiavamo su un albero scelto a caso, in cerca di frescura,
sgranocchiando frutti sgraffignati dalla dispensa, nascondendoci dal Maestro,
che ci cercava per la solita lezione. Era una fortuna aver vissuto i primi
tempi della mia esistenza in campagna. Arrivai in cima, finalmente. Mettendo
cautamente i piedi su due rami più robusti, misi la testa fuori. Ero
leggermente più in alto del resto del bosco, e questo mi risultò
utile. Concentrata, mi osservai attorno. Alla mia sinistra, un debole alone di
fumo, probabilmente resti del falò. Alla destra, finalmente, le
montagne, che spiccavano alte ed azzurrine nella luce del primo mattino.
Sospirai di gioia, e scesi, rompendomi quasi l'osso del collo,
sdrucciolando su una macchia di muschio del tronco, ma atterrando,
letteralmente, sana e salva sul suolo. Scrollandomi il terreno di dosso
afferrai la borsa, e cominciai ad avviarmi. Finalmente sapevo dove andare.
A passo sostenuto, rallentando solo per mangiare
distrattamente qualcosa, senza fermarmi, raggiunsi la base di una montagna
solamente il giorno dopo, verso il primo pomeriggio. Seppur sfinita, mi
costrinsi ad andare avanti, cominciando l'ascesa svogliatamente. Dovevo
arrivare in cima, sperando che quella fosse la direzione giusta. Non mi sentivo
molto in forma: la testa ed il collo mi dolevano terribilmente, conseguenza dei
capelli tenuti troppo a lungo bagnati, ed ero stordita. I miei ricordi di quel
viaggio sono decisamente sfumati. Verso sera, ormai quasi a metà strada,
decisi di fare una pausa. Era stata una giornata difficile: in quei luoghi non
c'erano sentieri, nè alberi. Solo rocce, rocce, erba ed arbusti
spinosi. E poi ancora rocce. Era stata quasi una scalata. Rimpiansi amaramente
di non averci pensato prima, e non essere rimasta con gli Insathi. Chi se ne
importava di Isnark, del tradimento, se io
mi fossi di nuovo persa? E come aiutarmi? Chi mi
diceva di non essermi di nuovo perduta? Perlomeno, pensai, rannicchiandomi al
riparo di una roccia, per difendermi da un vento fastidioso che aveva cominciato
a soffiare instancabilmente, lì non c'erano nemici da cui
guardarsi. Chi accidenti avrebbe potuto vivere in un posto così
desolato? Fui davvero, davvero, incauta. Perchè mi sbagliavo di grosso.
Oh, si che mi sbagliavo! Fui decisamente ingenua:
senza più fare caso a nulla, beandomi dell'assurda quiete montana,
mi concessi un lungo riposo. Avevo dormito male durante tutto il viaggio nella
carovana, e per tre giorni buoni non avevo chiuso occhio. Non sapevo di essere
già braccata.
Accadde all'alba. Ero più lucida, anche se
decisamente non ristorata, e cominciavo ad avvertire le prime avvisaglie di
quello che aveva tutta l'aria di essere un raffreddore. Mi sentii molto
seccata da quel fatto, ricordo. Era davvero incredibile. Beh...nessuno mi
aveva detto di andare in giro di notte con i capelli bagnati! Mugugnando, mi
rialzai dal mio giaciglio temporaneo e, prendendo dalla borsa una striscia di
carne secca, ripresi il mio cammino. Ero arrivata in un posto leggermente
più ameno: la vegetazione era più fitta, inframmezzata qui e
là da grandi rocce spoglie, e sentivo il canto degli uccelli. La natura
in primavera era sempre bella. Forse fu quello a distrarmi, non so, forse fu la
stanchezza, ma fui davvero stupida. Stavo passando tra due grandi rocce, a testa bassa,
immersa fino alla vita in una bella caligine grigia e compatta, nebbia di primo
mattino, quando mi sentii chiamare. Era una voce maschile. Mi fermai di botto, stupefatta. Cominciai a tremare, mentre mi
salivano le lacrime agli occhi. Chekaril! Alzai di scatto al
testa, e, cercando in ogni modo di frenare la commozione, mi guardai
attorno freneticamente. "Chekaril?". Chiamai, disperatamente. Anche
la voce mi tremava. La testa si svuotò del tutto. "dove
sei?". "qui, Lsyn, qui!". Disse la voce, con un tono allegro
che mi diede coraggio. Starà bene? Che gli avranno fatto? Il suono
proveniva dalla fine della strana gola che stavo percorrendo. Reprimendo a
stento un singhiozzo, cominciai a correre verso una risata, guardando avanti.
Avanzai fino a portarmi avanti ad una roccia, che incombeva su di me. Non
sentivo nulla. "Chekaril!". Chiamai, disperata, mentre
mi guardavo ancora attorno, come una bestia presa in trappola. Come aveva fatto
a liberarsi? Come? Dov'era ora? Ero ansiosa di vederlo, di toccarlo, di parlargli,
sentire il calore dei suoi abbracci rassicuranti. I miei tormenti stavano per
aver fine. Il cuore mi batteva all'impazzata, e lo stomaco cominciava a
dare la sua solita battaglia. Mi sentivo le gambe molli, e per un momento
pensai di cadere a terra. Qualche lacrima scese sul mio viso nascosto,
facendomi prudere le guance. Avanzai ancora. Quello che vidi mi
gelò, letteralmente. Non provai più nulla, solo un cocente dolore
ed una tremenda delusione. Perchè quella non era altro che
un'allucinazione. Non poteva essere altrimenti. C'era un essere che
assomigliava ad un misto stranissimo di Chekaril e quello che pareva un cigno:
il corpo e gli abiti erano quelli giusti, simili a come l'avevo visto io
per l'ultima volta, ma dalla schiena partivano delle grandi ali candide,
e le mani erano palmate e gialle. La cosa piùassurda era il volto, o
meglio, la testa: sopra un elegante collo di
cigno, bianco e superbo, si ergeva la bellissima testa bionda del mio unico
amore, che mi sorrideva. C'era qualcosa al suo fianco. Il dolore si
trasformò in un senso di panico crescente, non appena capii
l'identità misteriosa. A fianco a lui, piccola come quando l'avevo lasciata ma con un sorriso sdentato, assurdamente in piedi,
avvolta in una miniatura del mio abito preferito, c'era mia figlia. Il
cuore smise di battere per un secondo, poi ricominciò a tambureggiare
più forte di prima. Mi si mozzò il fiato, e mi venne la pelle
d'oca. Quello che vedevo era terrificante. Che razza di allucinazioni
erano? Cominciai ad indietreggiare, mentre in me si faceva strada il gelo. Non
era possibile. Non era possibile. Non era reale!
Fu un vero e proprio shock quando quell'orrida immagine di Chekaril mi
parlò, guardandomi con i suoi brillanti occhi ametista. "ciao,
Lsyn". Mi disse, con il suo fantastico sorriso sghembo. Mia figlia
m'indicò. Boccheggiai dall'orrore, poi mi voltai per
fuggire, scoppiando in lacrime. Non ne ebbi il tempo. Sentii qualcosa di freddo
premermi contro la schiena. E poi in me si fece strada un terribile dolore,
mentre tutti i muscoli si contraevano. Ebbi un solo, disperato pensiero: Una trappola! Gridai per la tortura
atroce che stavo sopportando. Poi si fece tutto buio.
--------
Angolino di Akita:
ahahahaah
xD un altro capitolo spezzato a metà xD credevate fosse finita, eh? xD o era troppo palese (ma è ovvio che è
palese ._. che acume, Aki, che acume ._.)
d'accordo,
oggi non sono in me. Passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: in effetti, come ti devo aver già
detto, ho esagerato un pochino O.o
vabbè, mi piaceva così xD comunque, per dovere di cronaca, non ho
mai visto nè l'uno nè l'altro film...però
sono un'appassionata lettrice di Anne Rice, e Richard Matheson O.o< ben prima che
uscisse il film tratto da UN suo libro è.é che col libro ha in
comune solo il nome, che orrore è.é d'accordo, d'accordo,
basta. Che dici dell'allucinazione? Macchinata bene la trappola (e beh,
tu sai esattamente quello che più o meno succederà xD) fammi sapere tutto, che me è curiosa *__*
per Selly: mia cara *__* Lsyn è semplicemente un
personaggio...indeciso, tutto qui xD non sa se stare dalla parte del bene,
o dalla parte del male xD e tutti tentennano, cambiano, e poi cambiano di
nuovo, non credi? xD stammi a sentire, è meglio
metterti l'anima in pace, se posso dirtelo xD il fatto del Piano
avverrà ancora tra un bel po' di tempo xD ma come adoro tenervi
sulle spine xD che dici di questo capitolo? Piaciuto?** fammi sapere! Baci!
Per Kylien: spammona
mia *-* eh, vuoi sapere troppo...eh... non si fa xD
si attende :P comunque sei la prima alla quale piacciono queste scene, a quanto
ho capito xD Lsyn èumana, certamente *__* in senso lato, ma certamente
xD che dici del capitolo? Fammi sapere ** baci e spam!
Fa troppo caldo >.< vabbè, vi
lascio al capitolo: non ho la forza per fare o dire nulla, oggi.
See you later!
Akita
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C'era uno spiffero di vento freddo. Era davvero
fastidioso. Cosa diavolo era successo? Avevo la bocca impastata, ed ogni
muscolo del corpo doleva in maniera terrificante. Perfino la semplice azione di
respirare mi riempiva di sofferenza. Pian piano, riguadagnai parzialmente
lucidità, anche se il cervello continuava a sembrarmi avvolto in strati
e strati di coperte, ed il ragionare mi risultava piuttosto faticoso. Ero stesa
da qualche parte. Sentivo un lieve cigolio, e lo strano pavimento freddo dov'ero
riversa ondeggiava dolcemente. Non mi sembrava di essere
prigioniera: non ero legata. Arrivai, ancora ad occhi chiusi, alla
conclusione che l'illusione, ed il conseguente, terribile dolore provato,
non fossero stati altro che qualche bizzarro fenomeno
montano, di natura magica o sconosciuta. Chissà. Al momento non avevo la forza di pensarci su. Provai a muovermi
leggermente, ed aprire gli occhi incrostati. Senza preavviso, arrivò una
fitta tremenda, partendo dal punto in cui ero stata colpita da quella scarica e
diffondendosi rapidamente ovunque. La luce accecante del sole mi ferì
gli occhi. Gemetti, e li richiusi. "io proverei
a stare calma, se fossi in te". Disse una strana voce malinconica e
profonda, proveniente da un punto indefinito accanto a me. "non vanno
troppo per il sottile quando si tratta di stranieri, loro". Sobbalzai per lo stupore,
accogliendo l'ennesima fitta con un altro lamento. Mi decisi a socchiudere
gli occhi, spaventata dalla situazione molto insolita. L'ultimo ricordo
che avevo del luogo dove ero svenuta era una conca. Quell'ambiente non ci
assomigliava affatto. Dove diavolo ero finita? E soprattutto, cosa era successo? La scena che si
presentò al mio sguardo offuscato aveva dell'incredibile. Ero in
una strana costruzione metallica, a quanto pareva conica, grande più o
meno quanto un carro. Il pavimento era solido, uniforme, mentre tutto attorno c'erano
nient'altro che sbarre. Mi sentii sprofondare. Ero prigioniera! Avevo commesso
l'ennesima stupidaggine, io, la grande Spia! Ed ora? Che si faceva? Non riuscivo
a concentrarmi. Non ero sufficientemente lucida per formulare più di due
pensieri coerenti, ed era una cosa davvero strana. Che mi avevano fatto? Spostai
lo sguardo verso destra. Di fianco a me c'era l'essere più
incongruo che avessi mai visto, più strano di un Insat: sembrava un uomo
sulla trentina, vestito di stranissimi stracci grigi e lunghi, dai capelli di
una strana sfumatura nocciola e gli occhi verdi, dall'espressione triste.
Strizzai gli occhi quando mi resi conto del
particolare più; strano: un paio di ali piumate, nere come pece, gli
spuntavano dalle scapole. Un vago senso di stupore si fece strada in me, ma non
durò a lungo: ero così stordita che accettai la cosa come
normale. La testa era completamente vuota. Non provavo nemmeno l'impulso
di fuggire. Doveva essere prigioniero, come me. Che creatura insolita. L'uomo
alato mi si avvicinò, e mi prese delicatamente il viso, fissandomi negli
occhi. Mi resi solamente in quel momento conto di non avere la maschera. Oh...
che cosa insolita. "ti hanno drogata, eh? Non bastava il fulmine?".
Domandò, penso più che altro a sè stesso. Poi si rivolse
chiaramente a me. "come ti senti, elfa? Mi capisci?".
Resistetti all'impulso di chiudere di nuovo gli occhi. Ma che voleva da
me questo tipo? Non poteva lasciarmi in pace, a dormire? Perchè non la
smetteva di starnazzare? Più che altro per togliermelo dai piedi, gli
risposi, con voce roca e flebile. Era davvero uno sforzo tremendo mettere
insieme una frase di senso compiuto. "sete". Gli dissi
semplicemente, mentre tutto attorno a me si faceva ovattato e distante. Mi faceva
male dappertutto. Richiusi gli occhi, rimanendo ancora cosciente. "non
bere, te lo consiglio. Ti faresti ancora più male". Mi disse, con
pietà. Poi ci fu una pausa. "ad ogni modo, visto che dovremo
essere coinquilini per un po', io sono Eiron. Ma se il nome non ti piace
mi puoi chiamare semplicemente Ron". Pian piano, mentre ancora blaterava,
la sua voce cominciò a sfumare, ed io caddi nuovamente nel nulla.
Quando mi risvegliai, mi accorsi che la mia mente era
quasi sgombra, ed il dolore se n'era andato. Rimasi un po' a
riflettere, ancora ad occhi chiusi. Benissimo, ero prigioniera, in compagnia di
una strana specie di pollo antropomorfo. Mi avevano presa, e tolto tutto, maschera compresa. Ma chi mi aveva presa?
Chi aveva una forza magica tale da produrre un'illusione così realistica come quella di Chekaril? Già...Chekaril.
Ero stata una sciocca a pensare che mi
avesse raggiunta. L'amore mi aveva resa cieca, e sorda. Mi sentii
assalire da un'ondata di rabbia ed amarezza. Ero sempre la solita illusa,
ed avventata. Come potevo fare ora, come potevo cercarlo, se ero rinchiusa
miseramente, presa in trappola come un novellino? Fino a che punto poteva
arrivare la mia stupidità? Ero davvero stata sciocca. Come avrei
fatto? Dovevo, assolutamente,
fuggire. Le recriminazioni a dopo. Mi decisi allora ad aprire gli occhi, e
mettermi faticosamente seduta. Avevo la bocca secca. Mi guardai bene attorno. Era
notte. L'essere alato dormiva. La cella continuava ad ondeggiare e
cigolare stranamente. Eravamo all'aria aperta. Un senso di freddo
strisciante si fece largo nel mio cuore. Che razza di cella era? Mi avvicinai
lentamente al margine, strisciando, preoccupata, per esaminare meglio la
situazione. Avevo un terribile presentimento. Per poco non feci un salto quando mi resi conto del guaio in cui mi ero cacciata
con così tanta leggerezza. Capii improvvisamente il perchè non
ero legata, oppure perchè non ci fosse sorveglianza. Perchè mettere
guardie quando c'era di meglio? Eravamo infatti sospesi
nel vuoto, tra le montagne, in una stretta gola, e solo una catenella attaccata
ad un braccio, in alto, ci teneva lontani dalla morte. Possibilità di
fuga: meno di zero. M'invase una rabbia accecante, principalmente rivolta
contro me stessa. Le mie disavventure non mi erano
servite a nulla? Ero così dura di comprendonio? Dovevo andarmene di
lì ad ogni costo! Afferrai dunque il reticolo delle sbarre, piena di
disperazione, e cominciai a scuoterle in cerca della porta. Non poteva finire
così! Non poteva! Chekaril! Lo dovevo cercare! Perchè mi avevano presa? Io non avevo
fatto nulla! Ero incappata in abitanti di Uruk? I tempi non coincidevano...
Isnark non avrebbe dovuto riacquistare la memoria così presto! Cos'era
mai andato storto? Quale altra stupidaggine avevo commesso? E perchè ero
con una specie di gallinaceo, di una razza che al momento non mi sovveniva? Quasi
non mi accorsi delle lacrime che scorrevano copiose sulle mie guance. Continuai
a cercare una via di scampo dal vicolo cieco in cui mi ero cacciata a lungo. Ad
un certo punto una voce mi riscosse dai miei affannosi ed inutili tentativi di
evasione. "fossi in te, non lo farei". Mi girai di scatto,
stringendo gli occhi e digrignando i denti. Ron mi guardava, seduto mollemente
a poca distanza da me. Dovevo averlo svegliato con tutto il fracasso che avevo
fatto. Tutto il dolore che provavo, ed il disgusto verso me stessa, s'indirizzarono
fulmineamente verso quell'uccello malcresciuto. Come osava ostacolarmi? Sapevo
di avere un aspetto tremendo, e fui contenta quando lo
vidi indietreggiare impercettibilmente. Tuttavia il pollo continuò a
guardarmi fisso. Aveva fegato. "la gabbia si regge solo su una catenella.
Non agitarla troppo, potrebbe finire col rompersi". "che ne sai tu?".
Sbottai, con un tono terribile, la voce incrinata dal pianto, gridando, piena
di delusione. Stupido uomo alato. "tu hai le ali! Tu puoi volare! Che t'importa
se quest'affare cade o no? Aiutami, invece di fare il moralista, pollo!".
Un sospiro, e gli occhi tristi di Eiron si fecero lucidi. Lui abbassò
fieramente lo sguardo. "io non posso volare... non più, almeno".
Mormorò, con voce sommessa. Poi aprì un'ala. Mi fermai ad
osservarla, temporaneamente distratta. Molte piume erano tagliate di netto. Piume
che, sapevo, non sarebbero mai ricresciute. Gli avevano tarpato le
ali. Seguendo il mio sguardo sospettoso, lui sospir&ò di nuovo. "è
il prezzo da pagare per gli sbagli commessi, tra noi. Tutti devono pagare i propori errori, e le proprie debolezze". Disse, richiudendola, dolente. Il prezzo da pagare
era fin troppo caro per me, ed il mio peccato d'impulsività! Io non avevo fatto nulla! Cominciai
a tremare per la furia. "perfetto". Dissi, con voce incerta. "davvero
perfetto. Ed ora che faccio?". Mi sentii salire le lacrime agli occhi, e
non le ostacolai. Non ne avevo la forza. Prendendomi la testa tra le mani,
scivolando fino a rannicchiarmi, scoppiai a piangere, singhiozzando senza
requie.
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Angolino di Akita:
buon pomeriggio a voi, ragazzi! Come vedete,
questo capitolo oggi è molto, molto, molto, stanco xD
piùche altro stracco, direi xD vabbè, è di transizione :P
passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera:
ehilà xD già...Lsyn è avventata come sempre u.u prima
agisce, poi si pente, ovvio xD le recriminazioni non sono finite, però
xD che dici come introduzione a ciò che verrà dopo? Ho reso bene
i pollastri? xD mio dio, la voglia di scrivere oggi se
n'è andata in vacanza ._. portandosi dietro il cervello xD che dici del
capitolo? A me non piace molto (e dico la verità, a me non piace nessun
capitolo)...tu che dici? Fammi sapere *.* ciao!
Per Selly:
oh, si u.u Lsyn non brilla certo per acume xD ma, in
fondo, non è la stessa trappola xD lei mica si è avventata contro
Chekaril... ha tentato di fuggire O_O solo che è stata...beccata...prima
xD non essere così veemente, cara... in fondo si tratta solo di difesa
xD non dico altro xD wow O.o e dire che l'idea dell'albero mi
è venuta perchè non sapevo che farle fare O.o ringraziamo
papà Tolkien per l'ispirazione xD beh... al prossimo capitolo
si capiranno molte altre cose xD che dici del capitolo? Dimmi, dimmi *.* ciao!
Che razza di giornata ._. possiedo un
quantitativo di sfiga colossale ._. ho preso un raffreddore, ad agosto!!!! E non
riesco a camminare per colp di una distorsione alla caviglia ._. dannazione >.<
Vabbè, non posso lamentarmi.
Se non altro, sono viva e vegeta. Ottimista, eh?
See you later!
Akita
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Mi calmai dopo un po'. La testa cominciava a pulsare
di nuovo, e mi sembrava di avere gli occhi gonfi. Finalmente, tirando su col naso come un'infante, ed asciugandomi le lacrime, mi
ricomposi, riprendendo il mio aspetto sdegnoso di prima. Fissai con sfida
Eiron, pronta a fargli pagare ogni accenno di derisione in modo atroce. I suoi
occhi verdi mi stupirono: erano pieni
di quella che aveva tutta l'aria di essere comprensione, una malinconica
consapevolezza ed accettazione. Il volto, stranamente liscio come quello di un
bambino, era sereno. Sentii una fitta tremenda d'imbarazzo. Perchè
mi ero lasciata andare? Sentivo caldo: dovevo essere arrossita terribilmente.
L'uomo alato mi sorrise tristemente. "fa' un po' a
tutti lo stesso effetto, la prima volta". Disse, scrollando le ali con un
fruscio, ed abbassando umilmente lo sguardo. "non temere: presto ti ci
abituerai. Ci si abituano tutti, prima del processo". La rassegnazione
nella sua voce profonda non mi piacque, e feci una smorfia. Un processo?
Strinsi le labbra, indignata. Io stavo solo passeggiando! Probabilmente
intuendo i miei pensieri, Eiron mi guardò di nuovo, impassibile.
"sei stata trovata nel nostro territorio...e loro non amano gli stranieri". Sbattei le palpebre più
volte, stupita, ancora guardando impudentemente il mio coinquilino.
Cos'era quello strano lampo d'indignazione che avevo visto negli occhi di smeraldo? E quella distinzione?
Se lui era un abitante di quei luoghi, perchè essere così
selettivo? Erano tutti quanti alati come lui? Cominciai a parlare per la prima
volta, con un tono di voce che rasentava l'ostile. Quel mostriciattolo
ibrido non me la contava giusta: mi nascondeva informazioni vitali. "noi?
Loro? Che vuoi dire?". Gli abbaiai contro, stringendo i pugni, arrabbiata
e seccata. Mi dava fastidio vedere quell'essere: era uno scherzo della
natura, uno scherzo del destino. "vuoi piantarla di giocare agli
indovinelli e chiarirmi una volta per tutte in che dannata situazione mi sono
andata ad infognare?". Per la prima volta, l'espressione nel mio
coinquilino si fece indignata. Lui arruffò le piume, chiaramente ferito
nell'orgoglio. "punto numero uno". Disse, digrignando i
denti, senza minimamente spaventarmi. L'assurdità della situazione
aveva avuto la meglio sul mio buonsenso, e le ultime scoperte avevano distrutto
quello che rimaneva del mio scarsissimo autocontrollo. "certe cose non
devono interessarti, mostriciattolo senz'ali. Punto numero
due...". Si bloccò quando notò il tremito delle mie
mani, che avevo strette al petto. Stava per passare il limite. Se avesse
continuato l'avrei strangolato. Dare del mostriciattolo? A me? Come osava? Cos'era tutta
quella confidenza? Lui poi, il pollo umano? Ci sfidammo per un lungo attimo con
gli sguardi, ed io non avevo la minima intenzione di cedere. Io ero la Spia, e
non cedevo nemmeno di fronte alle montagne. Perchè io ero l'oro, e
tutti non dovevano fare altro che inchinarsi al mio passaggio. Doveva capire
una volta per tutte chi avrebbe comandato d'ora in poi, in quel buco di
cella. Pian piano, notai che il suo sguardo, da irato, si faceva pieno di
quella strana tristezza. Avevo vinto. Provai estrema ed immediata
soddisfazione, e sorrisi debolmente. Ora avrebbe imparato a stare al posto suo,
oppure gli avrei fatto del male. Passammo un lungo attimo in silenzio, poi lui,
forse intuendo che facevo sul serio, e che l'avrei ucciso se mi avesse di
nuovo sottovalutato, distolse lo sguardo, alzando il mento in modo regale. Mi
ricordò in un certo modo Tijorn, e l'atteggiamento sprezzante che
assumeva, principalmente quando aveva qualcosa da nascondere. Ma mio fratello
non aveva mai avuto i suoi occhi, che esprimevano tutto l'orgoglio distrutto
di un essere superiore. O che si credeva tale. La differenza è sempre
stata labile, e troppo confusa per poterla distinguere. "allora?".
Lo incalzai, impaziente. Volevo le mie risposte, lì e subito.
"perchè sono qui? Chi sei? Chi sono i nostri carcerieri?
Perchè sei rinchiuso qui? Che mi faranno?". Lui fece una smorfia
dolente, ed incassò la testa tra le spalle, come un rapace ferito.
"...io sono sempre stato troppo disponibile con gli...altri". Disse, amareggiato,
guardandomi con evidente disperazione. Rimasi ad ascoltare attentamente,
ansiosa. Finalmente la situazione si sarebbe chiarita. "perciò il
nuovo capitano mi ha...punito". Si zittì, e guardò il
pavimento cigolante, stringendo gli occhi. "entrare nel territorio
è una grave colpa". Aggiunse, umiliato. "e ti faranno un
processo, tra qualche giorno. Hai avuto fortuna, straniera...la nuova
matriarca è più gentile con i non alati". Fu forse a quelle
parole che ebbi un'intuizione, e tutte le cose andarono al loro posto.
Schioccai il pollice ed il medio, annuendo, guadagnandomi un'occhiata
perplessa da parte di Ron. Avevo capito con chi avevo a che fare, ma la cosa
non mi piaceva. Tengu, gli uomini-uccello. Lo strano pollo che avevo con me era
uno di loro. La seconda per importanza delle razze non antropomorfe, inferiore
solo agli Insathi, e superiore agli Inu,gli uomini-cane. Avevo studiato le loro abitudini in gioventù, e
mi ero appassionata alla loro storia. Non si sapeva granchè, solo che
vivevano nelle montagne, in villaggi guidati da una femmina della loro specie, la Matriarca. Gli
uomini possedevano ali nere, il loro simbolo di indipendenza e forza, la donne
strane orecchie piumate. La sola femmina a possedere le ali era la Matriarca, che, in tarda
età. ormai troppo stanca per volare e guidare il suo popolo, sceglieva colei che l'avrebbe succeduta, trasmettendole
quelle bellissime appendici bianche. Non erano immortali, e vivevano meno degli
Insathi, ma più degli uomini e degli Inu. Erano una razza terribilmente
indipendente, e fiera, che aveva la guerra nel sangue. Erano riusciti a tenere
a bada addirittura Lainay, e le sue brame di conquista. L'intrusione nel
loro territorio era punita o con la morte, o, in caso di governo più
mite, con la reclusione. Non avevano pietà nemmeno con gli esponenti
della loro razza: in caso di crimini non gravi, agli uomini venivano tarpate le ali, una punizione che 0per molti
era peggio della morte stessa, alle donne veniva prevista la fustigazione, con il taglio pubblico delle orecchie, e
tutti venivano poi condannati all'esilio sulle montagne più alte
ed impervie, coperte da ghiacciai perenni. Non mi piaceva la piega che gli
avvenimenti avevano preso. Perfino il metodo di cattura era spietato: le prede
venivano attirate con delle illusioni in posti prefissati, e poi stordite con
strani lampi. Quello che era successo a me. Ero in pericolo, in grande pericolo.
Beh...mi ritenevo tuttavia fortunata di non essere incappata in elfi di
Uruk. Nella sfortuna, un colpo di fortuna. L'isolamento Tengu era proverbiale,
e l'eco delle mie recenti azioni non sarebbe mai arrivato lì. Dovevo
però proteggere la mia identità. Mi sembrava da stupidi non
conoscere almeno di fama uno dei Cani più sanguinari delle Regina, e gli
uomini-uccello non dimenticano mai. Se avessero saputo solo il mio
nome...mi aspettava il cappio. Io volevo vivere, se non altro per adempiere alla mia missione.. Dovevo inventarmi una scusa, ed al
più presto. Mi sentii invadere da un'ondata di preoccupazione. Ero
finita davvero male. Probabilmente accorgendosi della mia espressione tormentata, Eiron mi sorrise, e riprese a
parlarmi. "a che stai pensando, straniera?". Mi domandò, con
educata curiosità, protendendosi leggermente verso di me. Non mi piacque
quella confidenza, ed indietreggiai fino a trovarmi con le spalle contro le
sbarre, in volto stampato un bel sorriso falsamente rassicurante. "nulla,
Eiron...nulla". Gli risposi, pacatamente, mentre dentro di me
c'era una tempesta. "ti ho trattato davvero male prima, e mi devo
scusare con te. Comunque puoi chiamarmi Laila, se vuoi". Forse quella
cortesia improvvisa l'insospettì di certo, anche se non lo lasciò
trapelare, ma non potevo fare nulla di meglio. Fosse stato per me, l'avrei
ucciso senza esitazione. Ma non potevo peggiorare la mia situazione, già
molto critica. Dovevo farmelo amico, o almeno alleato. Convenni con me stessa
che una copertura era la cosa migliore. Mi sarei finta una povera mezzelfa,
forse, o un'elfa, in esilio, in fuga. Un'innocente. Nessuno mi
aveva mai vista, e nessuno sapeva delle mie mani lorde di sangue. Sorrisi al mio
coinquilino, che ricambiò con solennità. I Tengu non perdevano
mai la loro dignità innata, nemmeno in ceppi ed umiliati, senza ali con
la quale esprimere la loro voglia di libertà e la loro unicità.
Era una cosa davvero orribile, un po' come privare una Spia del suo
lavoro, un Inat dei suoi occhi. Segretamente, lo compatii, e lo capii. Ma non
dovevo assolutamente lasciar intravedere la simpatia che provavo per
quell'essere triste. Ne andava della mia esistenza. "che dici, Ron...". Cominciai a
chiedergli, inclinando la testa da un lato, con studiata cordialità.
"ci farà male dormire un po'?". Il suo ghigno si
allargò, facendosi più calroso, e lui fece un segno di diniego. Annuii, e mi rannicchiai,
chiudendo gli occhi. Mi serviva un po' di riposo, o non sarei riuscita a preparami
un alibi decente per la mia presenza nei loro territori. "buonanotte,
allora". Lo sentii rispondere poco prima di assopirmi
"buonanotte". Mi disse, con voce sommessa. E poi mi addormentai,
piena d'interrogativi e problemi.
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Angolino di Akita:
ahii >.< eccomi qui con il vostro capitolo. Ho cercato
di dare quante più risposte possibili, e di evitare stacchi bruschi
(anche perchè, se l'avessi fatto, sarei andata incontro ad un
sanguinario linciaggio virtuale O.o)...vabbè xD ho fatto del mio
meglio, non ammazzatemi!
Passiamo dunque al (ahi) dunque (ahi):
per Carlos
Olivera: noo!! Pietà, pietà! (si nasconde) chiedo umilmente
perdono! xD ecco, ho cercato di essere clemente, oggi xD il capitolo da'
qualche risposta xD non è profondamente ingiusto...è
divertente, invece xD vabbè, che dici di questo capitolo? Ti piace? Ho aggiunto una cosa a proposito dei Tengu, mi pareva ragionavole O.o Fammi
sapere che ne pensi, di tutto *.* (si, lo so, oggi non ho voglia ._.) ciau!
Per Selly:
ma salve! Oh...quanto adoro le reazioni veementi xD mi riempiono di
soddisfazione segreta, anche se so che prima o poi qualcuno mi ammazzerà
brutalmente per eccesso di, come si suol dire, cazzimma xD eh cara...
vedrai che tutti i tuoi interrogativi avranno una risposta, prima o poi xD lo
so, è un po' bastardamente ironica la mia trovata xD beh, ora
però si capiscono più cose, no? xD fammi sapere anche tu *__* che
ti pare di questo capitolo?
Allora, procedo immediatamente con un avviso,
per evitare spargimenti di sangue xD
Allora: in questa prossima settimana, il
ritmo degli aggiornamenti rallenterà di parecchio (prevedo di scrivere
due capitoli). Questa scelta è stata dettata da molti motivi. Primo fra
tutti, ho bisogno di un po' di vacanza anche io.
Secondo, e molto più importante, è che mi sembra una terribile
mancanza di rispetto aggiornare quando persone che mi seguono dall'inizio
non ci sono. Il ritmo dei miei normali aggiornamenti è molto rapido, e
farei perdere il filo a chiunque. Questo mi porterà ad allungare i tempi
previsti, ed aggiornare in tempi scolastici, ma non m'importa. Ci vediamo
venerdì prossimo! Buone vacanze xD
Terminato questo piccolo chiarimento, vi lascio
al capitolo.
See you later!
Akita
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Passarono circa tre giorni, scanditi
dall'impressionante monotonia della piccola cella cigolante,
dall'alternarsi di giorno e notte, e dagli sporadici pasti. In tarda
mattinata del mio secondo giorno di prigionia ci avevano portato qualcosa da
mettere sotto i denti. Eravamo entrambi in silenzio, rannicchiati agli angoli
opposti della gabbia sospesa nel vuoto, senza guardarci nè rivolgere gli
occhi verso il basso, quando sentimmo un tremendo scossone. Io saltai
letteralmente in piedi, incredibilmente spaventata, mentre il mio compagno
alato non si
mosse, anzi: chiuse gli occhi e fece finta di dormire. Mi guardai freneticamente
attorno, mentre la cella si sollevava pian piano. Che stava mai succedendo?
Notai uno strano, robusto uncino attaccato ad un argano trascinarla verso
l'alto, verso la terra. Cominciai ad inquietarmi, e tesi
tutti i muscoli del corpo. Che volevano da noi? Una folle speranza mi
guizzò nella mente: se avessero aperto la porta della gabbia, senza tema
di poter cadere, avrei potuto fuggire. Ogni illusione svanì dalla quandola scena si presentò chiaramente ai miei
occhi: c'erano cinque guardie Tengu, due maschi alati, che trascinavano
la corda, rivestiti da una cotta di maglia nera, in mano strani scettri di
legno con anelli dorati in cima, che mi trasmisero la stessa viscida sensazione
del Comunicatore, e tre femmine dalle bianche orecchie piumate, tutte piuttosto
giovani, che formavano un cordone attorno ad uno spiazzo di terra. Portavano
leggere armature, e grandi spade ricurve, dalla fabbricazione a me sconosciuta,
o eleganti archi. Sembravano tutte estremamente vigili: era chiaro quanto fosse
stupido, anzi, impossibile, cercare d'imbrogliarle. Repressi a stento la
mia rabbia, e la mia delusione, mentre sentivo pizzicare agli angoli degli
occhi le prime lacrime. Come potevo scappare da lì senza farmi uccidere?
Disperata, resistendo al folle impulso di scagliarmi contro le sbarre ed urlare
maledizioni all'indirizzo di quelle fiere creature, digrignando i denti,
mentre il cuore batteva impazzito, rimasi lì, impalata, mentre la gabbia
veniva calata e posata nello spiazzo. Un maschio si avvicinò: portava un sacco pieno sulle spalle,
e pareva il più anziano. C'erano ciuffi grigi nei suoi capelli
neri, e le piume erano chiazzate di bianco. C'erano mostrine
dorate appese agli spallacci della sua sobria armatura. L'alterigia
traspirava da ogni poro della sua pelle chiara. Il Tengu allungò il
braccio sinistro, la cui mano stringeva lo strano bastone, e mi parlò,
brandendo la strana arma verso di me. "indietro, sudicia
straniera!". Ringhiò, guardandomi con sguardo arrogante. Doveva
essere il più alto di grado di tutti, forse un Capitano, chissà.
Lo fissai, mentre sentivo in gola il calore della rabbia che cominciava a
montare in me. Non mi sarei mossa da lì per nulla la mondo, che quel
volatile facesse quel che vuole! Come osava trattarmi come una popolana qualsiasi? Che avevo
fatto di tanto grave? Esasperato, l'uomo alzò il tozzo bastone.
";questo è l'ultimo avvertimento, sfregiata...".
Mormoò, apparentemente più tranquillo.
"indietreggia!". Sentii uno stupido trionfo montare in me. Prima o
poi, come aveva fatto Eiron, che continuava a fingersi addormentato in fondo
alla gabbia, tutti avrebbero capito chi era degno di comandare. Non percepii il
pericolo fino a quando non fu troppo tardi. Sentii
chiaramente l'addensarsi di qualcosa
attorno al Tengu, una misteriosa energia che mi ricordò la tensione
del fulmine. Impietrii, dandomi immediatamente della stupida. Avevo osato
troppo. Avevo commesso un tremendo sbaglio montandomi la testa, e comportandomi come fossi nella mia patria. Mi tornò in mente ciò che mi aveva detto il mio
coinquilino a proposito del modo in cui stordivano gli stranieri. "oh,
no...no...". Ebbi il tempo di mormorare, facendo un istintivo
passo all'indietro, con la testa vuota, pronta a fuggire, prima di essere
sbattuta violentemente contro le sbarre, vicino ad Eiron,
da una scarica proveniente dall'anello. Armi magiche. Tutto il corpo di
contrasse di nuovo, ma non persi conoscenza, e fu peggio. Mi contorsi, colpita da un
terribile dolore all'altezza del petto, e caddi a terra, alla ricerca
disperata di aria. Ero stata
stupida, e superba. Mi rimproverai severamente, mentre ancora boccheggiavo. Ero
stata in procinto di mandare all'aria la mia pantomima. Dovevo fare
più attenzione. Ancora preda di forti spasmi, notai una giovane premere
in alcuni punti della cella, facendo aprire una porticina, da dove entrò
assieme a quello che mi aveva colpito. Qualcuno mi diede un paio di calci, per
accertarsi, forse, che fossi ancora viva. Mi mossi
debolmente, e mi lasciai sfuggire un gemito. Ma
perchè mi facevano tutto quello? Non riuscivo ancora a capirlo.
"non hai un po' esagerato?". Disse la Tengu, fissandomi ancora. Mi
assalì una fitta di disagio misto a paura, e distolsi lo sguardo. Non
volevo mettere ancora alla prova la pazienza di quelle creature inumane.
"alla Matriarca serve ancora viva, per quanto sia
orribile...". Sentii un chiaro tonfo, poi il Tengu parlò.
"nessuno mi ha dato ordini a proposito del trattamento da riservare a
questa cagna rognosa...".Sbottò,
infastidito. "e poi lei non ha obbedito. Era ovvio la colpissi".
Socchiusi gli occhi. Chissà se Eiron ci era passato. Forse era per
quello che fingeva di dormire. Mi sentii assalire dai rimpianti. Perchè
non l'avevo imitato? La mia furbizia rasentava lo zero, la cautela pure.
Che idiota. Rimasi immobile, cercando di riparare all'errore di prima,
mentre sentivo chiudersi la cella, e poi un altro scossone. Rimasi a lungo
ferma, cercando, per quanto possibile, di sembrare inerme, nonostante
nella mia mente fossero fisse immagini ben poco rassicuranti, condite ad
insulti vari e molto succosi. Sentivo un pulsare sordo dentro le costole, come
se avessero colpito il cuore con un calcio. La gabbia smise pian piano di
ondeggiare. E immediatamente Eiron si mosse. Lo sentii toccarmi la spalla, ed
aprii gli occhi. Incombeva su di me, evidentemente indignato e preoccupato.
"ti hanno fatto molto male?". Mi chiese, mettendomi una mano sul
collo ed esercitando una pressione lieve. "senti ancora dolore?".
Le sue domande precise m'insospettirono. Lui sapeva perfettamente cosa
stavo passando, e conosceva il principio di quella specie d'inquietanti
bastoni. Non mi fu difficile immaginarlo sano e crudele, con gli altri, colpire
un povero prigioniero che nulla aveva fatto se non farsi gli affari suoi. Non
gli risposi, e mi limitai a guardarlo, indignata. Lui, dopo qualche attimo di
concentrazione, tolse la mano dal collo, con evidente sollievo, poi si girò,
rovistando nel sacco, estraendone un tozzo di pane nero. Era quasi ironico.
Cominciai a ridacchiare stupidamente, poi mi decisi a darmi una mossa.
Puntellandomi con i gomiti, riuscii a mettermi seduta. Il dolore, con mia
gioia, dopo un terribile attimo diminuì subito. Sospirai, e guardai
storto il Tengu. Non me la contava giusta, l'angioletto. Stupido uomo
pennuto. Di malo modo afferrai il pane che silenziosamente mi porgeva, e gli
diedi un morso. Lo stomaco cominciava a reclamare, e per me quel mucchio
informe e secco di grano duro fu una manna, più gustoso di un banchetto.
"che mi hanno fatto?". Domandai poi, addentando un altro pezzo di
pane, guardandolo mangiare dignitosamente. Volevo, e dovevo, sapere. Non mi era
piaciuto per nulla quel dolore al petto, ed avevo il presentimento che potesse
essere fatale. Dovevo sapere a cosa andavo incontro. Vidi il volto di Eiron
farsi improvvisamente amareggiato. "il generale è sempre un
po'...veemente, quando si tratta di stranieri".
Annunciò, rannicchiandosi. Avvertii immediato fastidio. Gli avevo
più volte pregato di non rispondere per indovinelli, ma non mi aveva
ascoltata mai. Prima che potessi rimbeccarlo,
però, lui continuò. "usano l'essenza dei fulmini
per fare del male*". Si scrollò le ali, con una smorfia. "a
volte il cuore si ferm...è questo è un fastidio per loro,
quando si tratta di stranieri. Loro devono sapere perchè vengono da
noi". Lampo d'intuizione. Quei bastoni erano scettri a matrice
elementare, niente di più semplice. Condividevano molti principi con i
Comunicatori, che usavano però la negromanzia pura per
funzionare. Io non avrei mai potuto usare quelle armi, ma i Tengu sono il
sangue dell'aria, della terra e dell'acqua, essenze della natura
montana come gli Insathi sono gli spiriti del deserto. E capii istantaneamente
una cosa che fino a quel momento mi era sfuggita: Ron non condivideva quei
principi. E tutto andòal suo posto. Secondo la loro cultura, quello era
considerato alto tradimento, e punito con la reclusione. Dovevo stare attenta:
quei cosi rischiavano di farmi morire. Finimmo di mangiare in silenzio, mentre
io metabolizzavo le informazioni appena ricevute. Dopo di allora, imitai Eiron
ad ogni pasto, accasciandomi e chiudendo gli occhi, tesa. Cominciavo a
rassegnarmi, ed a meditare una via di fuga nobile, qual è il suicidio,
quando arrivòun lampo di speranza. Il processo.
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* per evitare fraintendimenti, e
per amore della chiarezza, con questa frase intendo una scossa elettrica a
medio/basso voltaggio. Ovviamente, non potevo scrivere energia elettrica, per
il semplice motivo che non l'hanno scoperta. Gli effetti sono
più che noti, e molto, molto dolorosi xD
Angolino di Akita:
ok, ok, niente spargimenti di sangue
xD ho errato a staccare un capitolo in questo modo barbaro, ma mi preme
spiegarvi il motivo: era mia intenzione scrivere anche del processo, ma mi sono
accorta della sua importanza ai fini della storia, e non gli avrei
reso giustizia.
Passiamo dunque al dunque:
per Carlos
Olivera: già...eccoli qui xD è in estremo pericolo, lo so...che
dici del capitolo? So che mi ammazzerai, ma ho spiegato il perchè di
questa scelta xD non avrebbe avuto senso mettere tutto
assieme, era un po'antiestetico @.@ che dici del capitolo, insomma? Sembra
molto stupido, ma tu sai che non lo è, perchè è di
presentazione di un personaggio che comparirà dopo :P
e tu sai chi :P beh, fammi sapere...e buone vacanze *___*
per
Selly: poverini, già xD no, non preoccuparti, sarebbe crudele lasciarla
lì...o meglio... la fine prevista lo è estremamente di
più, sarebbe MEGLIO lasciarla lì :P ma poi non mi diverto xD ah,
se ti piacciono gli scontri sanguinosi... non hai che da aspettare xD
fidati, fidati, fidati xD beh, che pensi del capitolo? Lascio molte cose in
sospeso, ma mi sono accorta che ormai è diventato un vizio xD fammi sapere *.* ciao!
Ahhh. Dopo una settimana,
eccomi qui, puntuale come promesso!
Che bello *__* sono finalmente maggiorenne xD
fatemi gli auguri è.é
Che compleanno terrificante O.o
Non darò mai più carta bianca alle
mie zie <.<
Sono terribili, messe assieme, quelle
dannatissime è.é
D'accordo, ora vi lascio alla storia.
See you later!
Akita
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Sembrava una giornata come le altre: il cielo era limpido,
e c'era qualche spiffero di vento, cosa che aveva fatto ondeggiare la
gabbia in maniera terribile. Eravamo, sia io che Eiron, stati male tutta la
mattina. Mi sembrava di essere sballottata dalle onde, e rimpiangevo più
che mai di non essere stata attenta, quel giorno nebbioso in cui avevo seguito
un'allucinazione. Verso mezzogiorno, quando il sole era ormai alto da un
bel pezzo, avvertimmo un familiare scossone, e ci stendemmo entrambi, tesi.
Chiusi gli occhi, sperando con tutta me stessa che nessuno mi facesse del male,
così, per gioco. Non volevo sperimentare di nuovo la forza dei fulmini,
e quel dolore atroce che seguiva la scossa. Lo ricordavo fin troppo bene.
Più di una volta, in questi anni in cui non mi rimane altro che
rimuginare sui simulacri del passato, lamentando la mia disgrazia come
un'eroina delle ballate eroiche che narravamo attorno al caminetto del
quartier generale durante le gelide serate invernali di Galinne, ho notato, con
infinita ironia, quanto un essere senziente in gabbia finisca per somigliare ad
animali ammaestrati, per la gioia dei carcerieri. Tali eravamo noi. Non
c'è dignità nella prigionia. La si perde tra le sbarre.
Dunque, dopo essere stati sballottati per un bel po', sentimmo la
prigione aerea posarsi a terra, e la porta aprirsi. Qualcosa di acuminato mi
toccò brutalmente una spalla, ed io mi tesi, senza aprire gli occhi. La
paura del dolore, la paura di morire, di non potere mai più rivedere
Chekaril, di non poter mai più riscattarmi, mi attanagliava lo stomaco,
agitandolo come se avessi inghiottito una belva rabbiosa. Strinsi
le labbra, sospirando. Un calcio. "muoviti, sfregiata". Mi disse
una voce rude, una voce familiare. "sappiamo che non stai dormendo.
Alzati, e vieni con noi. La
Matriarca aspetta". Strinsi i pugni. Che mi volevano
fare? Perchè la loro regina mi voleva vedere? Che voleva da me? Ebbi
un'illuminazione improvvisa, e scattai in piedi, guadagnandomi severi
ammonimenti da parte del generale. Abbassai lo sguardo, mostrandomi sottomessa,
quando dentro di me esultavo di gioia. Era venuto il momento del processo. Da
quel momento in poi, mi sarei giocata la vita. Beh, non che m'importasse
molto. La mia esistenza si era svolta sempre così, perennemente a
contatto con la morte, giocandoci come con una vecchia amica venuta a prendere
il tè. Che cosa buffa. Vivere, per prepararsi a morire. Lo fanno tutti,
o è il destino di ogni Spia?
Ma dovevo ritrovare Chekaril, al bando stupide considerazioni retoriche. Non
potevo lasciarmi andare a pensieri febbrili. Dovevo vivere, almeno quella volta.
Mentre mi trascinavano, sotto lo sguardo preoccupato di Eiron, fuori dalla
gabbia, legandomi le mani brutalmente, con un pezzo di corda viscida, presi
freneticamente a fare un riassunto di tutto ciò che dovevo dire. Avevo
concertato, nelle ore vuote della prigionia, la mia identità fittizia, e
l'avevo preparata nel migliore dei modi. Lo scenario per la mia pantomima
era già pronto. Non dovevo far altro che far cominciare lo spettacolo di
cui io sarei stata regista. O quello,
o nulla. Sospirai e, tra le scapole uno di quei malefici scettri, cominciai ad
avanzare, scortata da Tengu guardinghi, trascinata letteralmente
dall'uomo che mi aveva colpito la prima volta che ci avevano portato da
mangiare. Mi sentivo debole, e malferma. La gambe, dopo giorni
d'inattività e oscillazioni varie, non mi reggevano bene, ed avevo
sonno, dormendo poco a causa dell'agitazione dell'attesa. Avevo cominciato a mangiare molto meno, e
sapevo di essere terribilmente dimagrita, sciupandomi ancora di più. Ero
sporca, e malconcia. In quelle condizioni, non mi era difficile recitare la
parte dell'umile servetta sottomessa. Superando una palizzata di aguzzi
pali di legno, entrammo nel villaggio. Incuriosita, mi sporsi per osservare
meglio la vita di quegli strani esseri. Era un'occasione imperdibile,
studiare le usanze di un popolo raro e schivo come quello. Non potevo non
approfittare della situazione. La curiosità stava avendo il sopravvento.
Mi sentivo molti sguardi addosso, sguardi ansiosi, sguardi ostili, sguardi
curiosi, sguardi orgogliosi. Le abitazioni erano semplici, ad un piano, fatte
di tronchi di solido legno, squadrato e scuro, con tetti dall'aria
inespugnabile. C'erano poche finestre. Era un insediamento piccolo, ma
ordinato, con le viuzze che s'intersecavano, per formare tanti piccoli
quadrati dove erano costruite le case. Ci stavamo dirigendo verso il centro. Villaggi
come quelli se ne potevano trovare a decine per le montagne, simili tra gli
uomini, quanto tra le altre razze. C'erano però significative
differenze, negli abitanti quanto in certi edifici. La gente per strada si
scostava, o si nascondeva, al nostro passaggio, ma riuscii a godermi molte
scene di vita quotidiana Tengu. Non ho mai rinunciato alle mie inclinazioni da
studiosa, sebbene tenda a reprimere quest'amore per la conoscenza. Vidi
un gruppetto di piccoli, di età varia, giocare e litigare in un cortiletto.
I maschi avevano le ali grigiastre, soffici e lanuginose, quasi come quelle dei pulcini, del tutto
inadatte a volo, ma qualcuno cominciava già a mostrare le prime, lucide,
penne nere. Le femmine avevano lunghe orecchie già formate, ricoperte da
piume bianche, che le facevano sembrare ali di gabbiano, e sembravano
comandare a bacchetta i coetanei. Mentre passavamo, sentii le loro
esclamazioni di sorpresa, ed i loro insulti infantili. Una donna uscì
dalla casa di corsa e, fissandomi con malcelata ostilità, trascinò i bimbi
dentro. Vidi, in un angolo, passeggiare giovani di entrambi i sessi, soli o
appaiati, apparentemente indaffarati, che non mi degnarono nemmeno di uno
sguardo. Invidiai amaramente una coppia che si teneva a braccetto, camminando
con un solo occhio sulla strada da fare, e l'altro per il compagno. Li
odiai profondamente. Camminammo ancora, dove alcuni anziani maschi, seduti
sulle gradinate di un edificio in muratura, dalle ali ormai pesanti e chiazzate
di grigio, ma ancora gagliarde e forti, salutarono i miei carcerieri,
ricambiati con deferenza. Doveva essere la caserma, quella, chissà.
Finalmente, in silenzio, dopo aver attraversato uno spiazzo vuoto, ci
avvicinammo ad una costruzione in pietra, dalla forma ottagonale, che
sovrastava ogni altra abitazione grazie ad una bella scalinata di mattoni
rossi. Guardie, tutte femmine, presidiavano la zona. Mi sentii improvvisamente
preoccupata, e dimenticai all'istante quella strana serenità scesa
su di me nell'osservare la vita tranquilla di quei pollastri.
L'incontro con la
Matriarca stava per arrivare. Salimmo le scale, e mi
guadagnai un malevolo spintone che quasi mi fece cadere. Mi morsi il labbro
inferiore per impedirmi di replicare in qualsiasi modo. La mia vita era appesa
al filo di una lama. Parlottando in una lingua cinguettante e dolce, che non
capii, due Tengu ci fecero entrare, aprendo la massiccia porta di legno scuro.
Entrammo solo io ed il generale, che mi puntò la sua arma alla gola. Le
porte si richiusero. Eravamo in un androne ampio e scuro, e di fronte a noi
c'era una scalinata. Ci fermammo. Il mio cuore perse un colpo, e
deglutii. Oh, no. "da ora, minuscola bastarda...". Mi sussurrò
il Tengu, malevolo, affondando lo scettro con cattiveria nella clavicola,
provocandomi un dolore atroce. Cercai di non gridare. Una fredda sensazione di
panico si faceva strada nella mia mente. Dovevo stare calmissima, e non rispondere alle sue provocazioni, o mi
avrebbe uccisa. Più facile a dirsi che a farsi. Socchiusi gli occhi, e
tesi tutti i muscoli. Il generale continuò a parlare. "stai
tranquilla o ti ucciderò con il fulmine. Intesi?". Annuii
disperatamente. Riprendemmo il cammino, salendo le scale, ed arrivando ad una
porta presidiata da due guardie che, senza una parola, la aprirono. Il mio
carceriere mi spinse dentro, lasciandomi andare. Non mi mossi, pietrificata.
Una mossa sbagliata ed avrei potuto dire addio alla mia miserabile vita. Mi
guardai attorno. Ero in un stanza rettangolare, di pietra, più lunga che
larga, dalle alte ed eleganti volte a crociera. Su una parete si inframmezzavano
meravigliosi arazzi di lana colorata, illuminati da semplici candelieri in ferro battuto, e
da alte e strette finestre, dai vetri istoriati. L'intera stanza era
illuminata dalla luce che essi creavano, fantastici disegni astratti. Sul pavimento
un tappeto rosso, con quattro guardie per lato. Era un luogo imponente, ed io,
istintivamente, mi sentii piccola ed intimorita. Non mi succedeva dai miei
tempi d'oro, quando andavo a riferire alla Regina l'esito delle mie
missioni nella sala del trono, una stanza dove il marmo bianco ed il cristallo
trionfavano. Tutte e due le sale avevano qualcosa che le accomunava nella
solennità, sebbene lì dominassero le tinte forti, le linee
austere e un'oscurità calda ed avvolgente, a Galinne invece la
freddezza e l'impersonalità, linee estrose ma sterili, ed una
luminosità quasi minacciosa, che sembrava costringere chiunque a mettere
a nudo ogni pensiero. Qualcuno mi spinse in malo modo, e decisi di avanzare di
qualche passo. Alzai lo sguardo, respirando affannosamente. Al termine del
tappeto, in fondo alla sala, c'era una predella di legno squadrato, con
in cima uno stranissimo trono dello stesso materiale, a fianco un giovane Tengu
dall'aria spaesata, dal piumaggio adulto non ancora completo. Lo schienale
era alto, modellato a forma di ali spiegate, e non c'erano braccioli.
Niente gemme, nè sfarzo. L'essere seduto su quella regale sedia mi
sembrò immensamente strano. Era poco più di una bambina, una
ragazza. Era vestita di una tunica, lunga e rossa, dal tessuto semplice,
fermato poco più in alto della vita da una semplice cintura di cuoio, larga una mano.
Indossava calzari dello stesso materiale, dai legacci che correvano attorno
alla gamba, fino al ginocchio, ed i suoi capelli, di un castano rossiccio,
erano raccolti, mettendo in rilievo le lunghe orecchie
piumate. Sul capo correva un sottile cerchio dorato. Aveva la stessa carnagione
di Tijorn, ed un paio di grandi, fieri, occhi castani, lucenti quanto quelli di
un falco. I suoi lineamenti erano dolci, quasi anonimi, ma per questo
particolari, ed era piccina, con un corpo ancora infantile. A differenza di
tutte le altre femmine, aveva le ali, possenti appendici bianche, troppo grandi
ed adulte per quell'essere minuto. Sporgevano, luminose, ai lati del sedile.
A forza di spintoni, il generale mi fece andare avanti, fino a portarmi al
cospetto della loro, giovane, Matriarca. Lei si alzò, barcollando un
poco per il peso delle ali. Era poco più alta di me, ma prometteva di
diventare molto grande. Non appena lei fece un passo, tutti attorno a me
s'inchinarono, tranne il generale. Io rimasi impalata, con mio grande
imbarazzo. Non sapevo che fare: avevo perso dimestichezza con questo genere di
situazioni. Che fare, inchinarsi e umiliarsi, o no? Il generale agì per
me. Sentii, improvvisa, una piccola scarica. Ebbi un attimo di sbandamento,
accecata da un terribile dolore. Quando mi ripresi, dopo un attimo, ero a
terra, con la Matriarca
di fronte. La fissai, annaspando, alzando solo il viso. Lei ricambiò io
mio sguardo ed io, con mi grande sorpresa, ci lessi pietà. Con la bocca
secca, deglutii di nuovo, a vuoto. La giovane guardò il Tengu che mi
aveva colpita. "puoi andare al tuo posto, Hari". Disse, con voce
acuta, ma piena di una maturità e autorità insospettabili.
"questa poverina non si tiene nemmeno in piedi, è un mucchietto di
stracci, cicatrici ed ossa". Un sorriso sarcastico le illuminò il
volto. "o forse è così pericolosa da riuscire a simulare un
attacco dei fulmini?". Sentii il tipo muoversi, a disagio. "no, mia
Signora". Rispose, mettendosi sull'attenti. La Tengu mi sembrò
soddisfatta. "bene. Allora vai al tuo posto. Con lei me la sbrigo io.
Uscite tutti". Non mi piacquero quelle parole. Non mi piacquero per
nulla. Mi accigliai. Quelle frasi pacate mi sapevano di guai, grossi guai per
me. Tutte le guardie obbedirono. Rimanemmo sole. Ero alla completa mercè
di una stranissima ragazzina alata, con tanto potere quanto la Regina in mano.
Non appena la porta si chiuse,la
Matriarca mi tese una mano. La guardai, insospettita. Che
voleva da me? La ragazza mi sorrise. "su, forza, alzati". Mi disse,
incoraggiandomi, avvicinandosi con calma.Forse era meglio di quanto pensassi. Il mio compito si stava presentando più facile del previsto. Mi feci trascinare in piedi, e, dopo
aver barcollato un po',mi risistemai. "non
sei molto più alta di me". Osservò quella, scrutandomi.
Sentii una fitta di vergogna. Perchè chiunque incontrassi doveva notare
sempre la mia piccola statura? Era peggio del naso di Akita, che se la prendeva con chiunque le facesse notare la sua stranezza. Ero certa che la Matriarca non volesse
offendermi, a dispetto di tutto, e che mi stesso solo analizzando. Dovevo
essere una vera curiosità. "non è normale, per
un'elfa. E tutte quelle cicatrici da un lato del viso...". Fece
l'atto di sfiorarmi la guancia offesa, ed io mi ritrassi, preda di una
paura molto più profonda del rispetto che cominciavo a provare per
quella bambina alata. Eh, no. La mia faccia non si tocca. Senza scomporsi, la giovane ritirò la mano.
Rimanemmo a lungo in silenzio. Non ero affatto preparata a quel comportamento
quasi comprensivo, e mi sentivo molto a disagio. "perchè non mi
trattate come fanno gli altri, Matriarca?". Dissi, vincendo la paura e la
soggezione. La mia interlocutrice non sembrò reagire alla mia mancanza
di rispetto più che evidente, ma fece una strana smorfia. "la tua
voce è davvero terribile". Disse, abilmente eludendo la mia
domanda. "ed io conosco solo poche cose capaci di provocare danni
così profondi. Perchè ti trovavi per le montagne?". Mi
offrì la risposta su un piatto d'argento. Finsi lacrime di dolore,
lacrime che non avevo, e simulai un abile singhiozzo. Che la recita abbia
inizio. "la mia casa è andata in fiamme". Mormorai,
distogliendo lo sguardo. Sperai con tutto il cuore ci cascasse in pieno.
"è successo tutto tre mesi fa..." Decisi di fare un
po' di scena. Un po' di pietà in più torna sempre
utile, quando si ci deve salvare la pelle. Mi nascosi il viso tra le mani,
singhiozzando senza pudore. Prendi questo, uccellaccio del malaugurio. In certe
occasioni, non ero certamente più matura di quella bambina con la
corona. "i miei bambini...". Mi lamentai a lungo, spiando
intanto tra le mani la reazione della Matriarca. Sembrava pietrificata
dall'orrore, e dopo poco sentii una mano piccola e calda posarsi sulla
mia spalla ossuta. "E'
per questo che ero sulle montagne". Continuai, asciugandomi le lacrime
che non avevo, ed abbassando lo sguardo. Ah... saper fingere a volte
tornava davvero utile. "dovevo raggiungere mio fratello, che abita a
Zakadi". Tirai su col naso. Meglio far perdere del tutto le mie tracce. Singhiozzai
per un po', senza esagerare. Non volevo che mi scoprisse. Allora sarei
stata nei guai. Ci fu un lungo silenzio. La Matriarca mi guardava,
con tristezza immensa. "colei che mi precedette su questo trono aveva
un'idea un po'... distorta
dell'ospitalità". Disse, storcendo la bocca. "per lei,
tutti gli stranieri erano punibili con la morte, a meno che non fossero
Insathi, Inu o Tengu. Devo dire che non approvo in pieno i suoi metodi. Non li
ho mai approvati". Sorrise amaramente. "ma sono ancora troppo
giovane per cambiare tutto, e questo non è il periodo per pensarci. Tu
mi sembri innocente, povera elfa. Come ti chiami?". Le dissi il mio falso
nome, stupita. Era incredibile che mi avesse creduto così in fretta.
Avevo la netta impressione che volesse liberarmi subito, a dispetto della mia
identità, disgustata da una situazione che non le piaceva, ma non
potesse. "bene, Laila". Mi rispose, dopo un ulteriore silenzio,
aprendo e chiudendo le grandi ali. "sono costretta a parlare con il consiglio, ma voglio
fortemente la tua libertà, te lo confesso". Scosse il capo,
indignata. Immediato sollievo. Avevo un'alleata in quel villaggio di
maniaci della violenza. "non è nella chiusura che risiede la
dignità del mio popolo. Dovranno impararlo tutti qui, prima o poi".
Mi piacque molto il suo tono duro. Era giovane, ma sapeva davvero bene come si
regnava. Lei si voltò verso di me. "darò l'ordine di
trattarti meglio, e di non usare il fulmine su di te ancora". Mi
osservò meglio, ed io sentii una fitta di disagio. "sei in cella
con il povero Eiron, vero?". Annuii, pensando al triste Tengu dalle ali
mozze, come un dio caduto. Lei sospirò. "era mio amico prima che
la vecchia Matriarca lo condannasse
alla pena più orrenda". Fece una pausa, e chiuse gli occhi.
"era un guerriero molto dotato, ma ribelle e tenero di cuore. Lasciò andare uno straniero, un
povero viandante come te, disobbedendo al generale. Venne condannato in via
diretta, ed abbandonato da tutti, tranne che da me, la sua confidente ed amica
più cara. Ero lì a tenergli la mano quando gli tarparono le ali.
Hari se ne occupò personalmente". Sospirò, mentre io
sentivo una fitta di pena per il mio coinquilino. Era stato un dannato stupido.
"la Matriarca
mi passò le ali dopo qualche giorno, e morì. Se solo si fosse decisa
prima... l'avrei salvato". Capii che la povera regina infante
doveva sfogarsi con qualcuno. Mi stava dando fiducia, la massima fiducia
possibile. Decisi di approfittarne quanto più potevo, ed assunsi
un'aria quanto più contrita possibile. Lei mi sorrise.
"abbiamo sofferto tanto". Le dissi, buttando
quell'affermazione quasi per caso, in tono innocente. Sapevo esattamente quello che stavo per fare. Circuirla si
rivelò più facile del previsto. Gli raccontai di mio marito, e
dei miei tre bambini, di una tranquilla vita da fornaia mai esistita. Ah, io ho sempre
adorato mentire. Quando ero ancora apprendista con Amarto, diceva sempre che
avevo un talento naturale per la simulazione, e le bugie. La maggior parte
della mia carriera si era svolta in quello stile. Donne fedeli, anziane vedove,
persino ragazzini. Sapevo imitare chiunque. E' un talento necessario, per
le Spie. Mi sentivo lievemente in colpa, perchè quell'innocente
ragazzina pendeva dalle mie labbra mentre raccontavo la tragica storia di un
incendio fasullo, e di una degenza solitaria, tra false lacrime, ma presto me
ne dimenticai, presa dal mio racconto. "e vi giuro, signora, vi
giuro...".Dissi,
piangendo, mentre pensavo freneticamente a come portarla dalla mia parte.
"che io non ho mai fatto male a nessuno, e che non avevo la minima
intenzione di entrare nei vostri territori!". Come no. E gli asini
volano. Beh...a dire il vero non avevo la minima idea di dove stavo
andando. Avevo appena ucciso due Celestiali, smembrandoli e bruciando i resti,
e quasi ammazzato il loro Capitano, ma questo lei non poteva saperlo di certo.
Non stavo mica mentendo del tutto... una menzogna a metà è sempre più facile da dire. Mi diede soddisfazione vedere lacrime
nei suoi occhi fieri. Era rassicurante sapere che le mie abilità di
simulazione non erano state pregiudicate dallo scarso uso. Ero quella che ero:
Lsyn, una Spia di altissimo livello, presa in una missione che doveva, in ogni
modo, andare a buon fine. Ci fu un attimo di silenzio. "un ultima
domanda, Laila...". Mi disse lei, con solennità, scostandosi da me,
ed alzando fieramente il capo. Mi tesi. Che voleva da me? Sospirai, e stetti a
sentire il resto, mentre la mente lavorava a pieno regime.
"cos'è quell'oggetto che abbiamo trovato nella tua
borsa? Quella specie di bastone che da' una sensazione...come di
viscido?". Oh, oh. Accidenti. Il Comunicatore!
Cercai di non andare in panico. Che fare? Oh, ero stata stupida a non pensarci!
Deglutii di nuovo, e le dissi la prima cosa che mi veniva in mente. "non
lo so, mia signora". Dissi, congiungendo le mani ed abbassando lo sguardo,
timidamente. "sono tutte cose di mio fratello... avevo preso la spada
perchè avevo paura dei briganti, ma per il resto non so nulla".
Tremai. Se non ci avesse creduto, ero spacciata. Tuttavia, non appena mi
arrischiai ad alzare lo sguardo, vidi il volto della Matriarca sereno, e
pensieroso. Altro, lungo, silenzio. Lo stomaco si stava torcendo in maniera
terribile, e poco ci mancava che mi chinassi, boccheggiando, dal dolore. La Tengu sospirò.
"saprai il verdetto tra pochi giorni, Laila, quando anche la situazione
di Eiron sarà chiarita". Mi disse, allontanandosi da me, con passo
regale. Poi si voltò, con un sorriso gentile. "ma sappi di avere
un';alleata, qui. Un'alleata potente". Schioccò le
dita, ed immediatamente entrarono il generale e le altre guardie. Cercai di non
ricambiare il sorriso, ed abbassai di nuovo lo sguardo. Ero riuscita nel mio
intento. Sarei, quasi sicuramente, stata liberata. Venni presa brutalmente da
Hari, che venne immediatamente sgridato dalla Matriarca. Dopo ordini vari, ed
un congedo sereno, cominciammo a percorrere di nuovo le vie che mi avevano
portata nel villaggio, diretti verso la prigione. Ero soddisfatta di me stessa. Brava, Lsyn. Sei sempre la migliore.
Ora non dovevo far altro che aspettare. Mi ero guadagnata un'amica, e
questo non poteva che essere un bene. Entrai nella cella, per la prima volta,
senza protestare, buona come un pezzo di pane appena sfornato. Sorrisi addirittura
ad Hari, un sorriso sarcastico, di scherno. Lui mi guardò storto, ma non fece nulla. Mi sedetti,
mentre la gabbia veniva rimessa al suo posto. Ora dovevo essere più
calma che mai.
------------
Angolino di Akita:
allora xD dopo la mia piùlunga assenza, eccomi xD
devo però avvisare, che questa, purtroppo, non sarà l'ultima
<.<
ebbene si: anche io parto *ç* dal 2 al 13
settembre, destinazione Sardegna *ç*
beh, tanto per avvisarvi prima xD
passiamo dunque al dunque:
per Carlos
Olivera: mwahaha è.é; chi la fa, lèaspetti
ù__ù beh, queste sono le risposte che do'per ora (mwahaha)
è.é beh, lo saprai presto... il capitolo quello lì
è il prossimo xD che dici dello stratagemma di Lsyn? xD lo so, sembra
strano...ma poi si ci renderà conto di molte cose ^^ in fondo, la Matriarca non è
quello che sembra xD beh, spero che la tua vacanza sia andata bene, e non vedo
l'ora di sapere che ne pensi, come sempre *____* ciau!
Per Selly:
bene bene bene xD beh, un po' di tutte e due le cose xD beh, ecco il
processo *__* lo so, non è la fine, ma...beh, divertitevi xD che ne
pensi? *___* fammi sapere xD ciau!
Per Kylien:
olà, mia carissima *__* come promesso, ecco
qui il capitolo xD e che fa, l'importante è che tu legga :P beh,
il fatto è che i capitoli sono molto corti, e lo scaglionare le
informazioni viene quasi automatico xD per quell'altra tua
perplessità, ti ho già spiegato perchè xD che dici di
questo capitolo?? *___* dici, dici, che son curiosa xD
E' stato un capitolo devo dire
difficilissimo da scrivere, non chiedetemi perchè O.o
Sono poco avvezza a certe cose xD
Mamma, che stanchezza <.<
D'accordo, vi lascio a Lsyn (perchè
so che prima o poi mi ammazzerete se non vi dico che le succede O_O)!
See you later!
Akita
-----------
Passarono altri due giorni, due giorni d'inferno.
Sebbene i Tengu mi lasciassero stare, probabilmente sollecitati dalla
Matriarca, sia io che Eiron fummo costretti a sopportare cose peggiori della tortura. Non
dovevamo passarla liscia. Per un intero giorno, caldo perfino nelle montagne,
non ci portarono nè cibo, nè acqua. Non ricordo perfettamente
nulla, solo il sole che batteva, impietoso, sulle nostre teste, senza
possibilità di riparo, e la speranza di un soffio di vento, o di una
nuvola, che non arrivava mai. Fu un immusonito cadetto, un giovanissimo Tengu
dall'aria familiare, senza scettro, a portarci qualche pezzo di qualcosa,
il giorno dopo, ed un'acqua dal sapore viscido, che a noi sembrò
il migliore nettare del mondo. Ci disse che si erano dimenticati di noi, ma
sono sicura che la realtà fosse stata un'altra. Sospettavo che il generale stesse ostacolando ogni tentativo di migliorare
le nostre condizioni tremende. Io non fui più toccata dal fulmine, ma,
il primo pomeriggio del secondo giorno, venne trovato
il metodo per darmi fastidio, un sistema davvero geniale: bambini. Terribili e
chiassosi esserini svolazzanti e tentennanti che c'impedivano di riposare
almeno un po', prendendoci in giro e stuzzicandoci con bastoncini
appuntiti. Quando, stremati dai loro brevi voli, si appoggiavano al tetto della
cella, essa ondeggiava, e noi tremavamo. Quella tortura dell'anima si
aggiungeva al mio tormento, all'ansia di sapere il verdetto degli anziani
a cui la bambina alata si era rivolta, ed alle
condizioni precarie della mia salute. Ma non potevo far altro che
raggomitolarmi in un angolo, la testa tra le mani, aspettando la
libertà, o l'agonia. Era sfiancante, e crudele. E venne,
finalmente, la sera, con la tranquillità che ne seguì.
Sospirammo entrambi di sollievo, segretamente, preparandoci per dormire. O
almeno, Eiron si preparò. Io, ormai, non chiudevo quasi occhio, e ne
risentivo pesantemente. Uno scossone eliminò tutti i nostri propositi di
riposo. Come ormai sapevamo di poter fare, quando un altro fremito
annunciò che la gabbia stava per essere tirata a terra, non facemmo
finta di dormire. Io mi tesi, vigile. La prima cosa che notai fu la totale
assenza di guardie. Non si vedeva nemmeno l'ombra di uno dei nostri
crudeli aguzzini. Questo non mi piacque per nulla, e cominciai ad inquietarmi.
Il tonfo del pavimento sul terreno sconnesso mi parve di cattivo presagio.
E' quasi assurdo quanto la mente sia disposta,
in condizioni di debolezza, a trovare un senso anche alle cose più
stupide. La porta si aprì con uno scatto. Notai che il mio compagno
sembrava preoccupato. Entrò così un vecchio dalle ali spennate e
grigiastre, pesanti ed infeltrite, ma dai terribili occhi neri, capelli
arruffati e brizzolati, ed una cicatrice sul collo che mi ricordò in
maniera netta le ferite che avevo inferto ad Isnark. Era vestito di un ricco
abito di velluto rosso, ed in mano aveva delle corde. Sembrava un mite e
curioso Tengu, forse un militare in pensione. Ma mi
sbagliavo, e di grosso. Il mio compagno di cella boccheggiò. Mi voltai
verso di lui, incuriosita, e sempre piùagitata. Povero il mio stomaco.
Cosa stava succedendo? I tristi occhi verdi del mio coinquilino erano pieni di
panico. Il vecchio, alto ed imponente quanto Amarto, si fermò
scrutandoci. Si fece strada in me una folle speranza. "Laila, di mestiere
fornaia, ed Eiron, soldato rinnegato dei guardia
confini". Disse, impettito, con una voce profonda, quasi sepolcrale. Devo
ammettere, a malincuore, che quell'essere faceva la sua scena.
"siete stati chiamati a cospetto della Matriarca Gwen e del Consiglio
degli Anziani. Il verdetto sulla vostra condizione è stato enunciato. Mi
dovete seguire". Per poco non svenni. Eccoci alla fine, o all'inizio.
Cosa sarebbe successo? Quale sarebbe stato il mio futuro? Chekaril si
avvicinava? O era definitivamente fuori dalla mia portata?
Mi sarei riscattata? O no? Con grande sorpresa del vecchio,
presa da una vampata di eccitata speranza, fui io a tendere i polsi,
quando lui si avvicinò con le corde. Dovevamo fare in fretta. Io volevo
che si facesse in fretta! Il mio cuore era in tumulto. Anche Eiron si fece
legare senza problemi, docile come un agnellino, ritto
in maniera regale, lo sguardo fisso davanti a sè. Ma io, ormai avvezza a
quel malinconico Tengu, notai che gli tremavano le mani. Il suo verdetto,
sicuramente, non sarebbe stato favorevole. Aveva già perso buona parte
di quello che poteva perdere. Tremai al pensiero di cosa fosse
previsto per lui. L'esilio. Il lavaggio del cervello. La meditazione, in
grotte tormentate dal gelo. La fervente preghiera. La perdita di ogni briciolo
di dignità rimasta. Il suo prezzo da pagare era molto alto. Ma il mio?
Mentre il vecchio ci aiutava ad alzare, sentii una fitta d'ansia, e lo
stomaco, come sempre, si contrasse. Ed io? Che avrebbero fatto a me? Mi
preparai agli ultimi atti della mia commedia, ed uscii umilmente dalla gabbia,
la testa bassa ed incassata tra le spalle. Gabbia che, in ogni caso, avrei
visto per l'ultima volta. Morte, o rilascio. Due tipi diversi di
libertà. Ma pur sempre libertà. Ed io non sapevo che avrei visto,
in maniera altrettanto diversa, entrambi.
Noi tre, percorremmo le stesse vie che mi avevano portata
per la prima volta nella residenza della Matriarca. A differenza di quel
giorno, però, non c'era nessuno per le strade, ed era buio.
L'unica luce era quella giallastra e debole delle piccole lampade ad olio
fuori da ogni porta. Oltre alla corda che ci legava i polsi, e che ci teneva uniti, come uno strano
guinzaglio, non eravamo guardati, a parte la veglia discreta del vecchio.
L'ultima volta che ero uscita dalla cella ero stata scortata da una
piccola truppa, pronta a saltarmi addosso al minimo accenno di movimento. Era una cosa davvero strana. Dovevo appurare i fatti: mi credevano inferiore ad un vecchio?
Rimasi ad osservare per un po' il nostro accompagnatore, e, dopo un po' provai a
divincolarmi debolmente, solo per vedere cosa sarebbe successo. Bastò un
solo sguardo assassino da parte di quella mite figura a farmela rivalutare in
maniera totale. Una sola occhiata mi aveva fatto tremare dalla testa ai piedi.
Quella creatura, all'apparenza così dolce, sarebbe sicuramente
stata capace di farci male in un batter d'occhio, senza aver nemmeno
bisogno del bastone. Era meglio di un esercito di guardie, ma più umano.
Mi conveniva, tuttavia, non stuzzicarlo più del dovuto. Eiron aveva
avuto ragione ad averne paura. Abbassai la testa, apparentemente mortificata,
nell'imitazione passabile di una persona che non volesse
far altro che grattarsi, e che non si fosse ricordata della costrizione.
Continuando a camminare, senza tirarci, il Tengu fece qualcosa che mi sorprese
moltissimo. Mi diede un buffetto sulla sommità del capo, come a volermi
rassicurare, farmi capire che aveva compreso. Incomprensibile. Sgranai gli
occhi, e, con un guizzo, guardai brevemente Eiron, che marciava accanto a me.
Ma che era saltato in testa a quella specie di guardia? Minacciarmi e poi
rassicurarmi? Che dovevo pensare del Tengu? Il mio coinquilino non mi
degnò di uno sguardo. Camminava eretto, a testa alta, mascella serrata,
guardando avanti a sè, le ali perfettamente chiuse contro le sue spalle.
Sembrava un re. Finalmente, arrivammo al palazzo di pietra, illuminato da
numerose torce fiammeggianti. C'erano molte più guardie della
prima volta, e questo mi spiegò in parte perchè non ci fosse
nessun altro vicino alla cella. A quanto pareva, quello era un momento molto
importante, o un periodo molto buio. Cominciammo a salire le scale.
La sala del trono era uguale a come me la ricordavo: era
notte, ora, ed il numero di guardie anche lì considerevolmente
aumentato. La predella però era scomparsa, sostituita da quattro scranni
intarsiati, dai diversi colori, da sinistra a destra: uno bianco, l'altro
nero, uno dorato e uno di legno. Su quello bianco sedeva una vecchia Tengu
grassoccia, dall'aria materna, su quello dorato la Matriarca, solenne come
sempre, la più giovane, e su quello di legno un uomo di mezza
età, muscoloso e coperto da un reticolo di sottili rughe
d'espressione, a suo completo agio: una gamba penzolava dal bracciolo,
mentre lui guardava tutti, sornione, come se stesse prendendo in giro il mondo.
Ma su quello nero c'era l'ultima persona che mi sarei mai
aspettata: vestito di un completo nero come le sue ali lucide, c'era il
generale, un'espressione tronfia in viso. Fui investita dalla stessa
sensazione di vuoto che si prova quando si cade da una
grande altezza: ero spacciata. Lui era uno degli Anziani. Per me era finita:
aveva senz'altro convinto tutti della mia colpevolezza. Ed io ero
già defunta. Andai incontro alle quattro figure con la tremenda voglia
di piangere. Guardai, sperduta, la
Matriarca, che mi rassicurò con un sorriso dignitoso.
Mi resi conto di tremare. Avevo la testa vuota. Inchinandosi, il vecchio che ci
aveva portati lì si allontanò da noi, sciogliendoci, dato che non
potevamo scappare, e si mise a fianco dello scranno di legno. Poi
cominciò a parlare. Doveva essere il banditore. Ma quante cose era? Mi gettava in ulteriore confusione.
Ascoltai ciò che diceva con attenzione spasmodica, tentata di cercare
una via di fuga, e mettere in quel modo fine a tutte le mie sofferenze. Fu un
pensiero che mi sfiorò davvero. Ero disperata. "oggi".
Disse, alzando il mento e scuotendo le ali. "il Consiglio degli Anziani
ha enunciato, dopo una lunga discussione, la sorte di due nostri prigionieri:
Laila, elfa, trovata da un cadetto durante una missione di esercitazione nei
nostri territori...". E qui si spiegò la stranezza della mia
visione: di solito i trucchi Tengu erano verosimili, e perfetti. Fino ad
allora, avevo imputato la stranezza dell'allucinazione come un risultato
della mia mente contorta, e leggermente insana. Era un piacere vedere la
conferma che non era così. "ed Eiron, colpevole di tradimento
d'ideale, recidivo, già punito con la Pena Massima. Cosa dite per
quest'ultimo?". Il vecchio si fermò, e indietreggiò.
Il rituale Tengu era davvero, davvero strano. Non riuscii a capire nulla: mi
sfuggivano troppi passaggi. Ed ero agitata. La Matriarca si
alzò, a braccia tese, ed il mio coinquilino si avvicinò fino a
sfiorarla, guardando da un'altra parte. Notai la tensione sul suo giovane
viso, e la tristezza. Si seppe il verdetto prima ancora che parlasse,
in un sussurro dolente, senza staccare gli occhi dall'amico, che
girò il capo. Si era sempre saputo: il suo caso era stato molto facile
da discutere. Reclusione. Esilio. Il verdetto era stato unanime: non aveva
senso liberare un Tengu dalle ali tarpate, privo della sua dignità.
Tutti annuivano quando la loro regina parlava, e
nessuno chiedeva nulla. Sarebbe stato portato l'indomani in un monastero
sulla cima della montagna, ed abbandonato tra i suoi malinconici simili, che si
erano macchiati delle stesse colpe. La Matriarca finì di parlare, ed Eiron,
girandosi, si allontanò, fino ad arrivarmi di fianco. Era a testa bassa,
ma vidi lacrime scorrere per la prima volta dagli occhi fieri. Sospirai quando mi sentii chiamare. Era venuto il momento di
imitare il mio coinquilino. Ero tesa in modo inverosimile, ma sospettavo che,
tra poco tempo, tutti i miei tormenti sarebbero finiti. Arrancai, a testa bassa, senza
quasi sapere quello che stavo facendo, fino alla Matriarca, che mi prese
saldamente per le spalle. Alzai la testa, tremante. Sperai con tutto il cuore
che la mia bugia avesse sortito almeno qualcosa, e che
la morte che mi aspettava non sarebbe stata troppo terribile. Implorai
silenziosamente chissà chi per non sperimentare di nuovo il dolore
tremendo del fulmine. La prima cosa che vidi fu un sorriso rassicurante su un
volto giovanile. "lo vedi, Mastra Guaritrice?". Cinguettò, ancora guardandomi.
"e anche tu, Mastro Artigiano? E' un povero coniglietto sperduto,
come vi dicevo. Avete fatto si o no bene ad
ascoltarmi?". Deglutii quando li vidi annuire,
l'una vigorosamente, l'altro con lentezza. Lui mi fece però
un occhiolino scherzoso. L'unico a rimanere rigido e tronfio fu Hari,
che, con una mano, andò a stringersi il petto. Nonostante tutta la mia
confusione, quel gesto non mi piacque. Mi era fin troppo familiare. Sentii un
vago senso d'apprensione, e qualcosa in me, nel vuoto che si era creato
nella mia testa, si mise in allerta. Qualcosa che aveva più a che fare
con gli intrighi di corte in cui l'Ombra era stata svezzata ed aveva
sguazzato, che con il pane immaginario di Laila la fornaia. La Matriarca, dopo un altro
sorriso, riprese però a parlare, ed io ascoltai, dimenticandomi di
controllare, mentre mi riempiva un senso d'incredulitàcrescente.
"dopo una lunga discussione, e dopo aver esaminato attentamente il
caso". Disse, fieramente, mentre cominciavano a brillarle gli occhi, guardando storto per un attimo qualcuno.
"reputiamo a larga maggioranza Laila innocente, e casualmente incappata
nei nostri territori. La assolviamo da ogni precedente colpa, e la liberiamo,
restituendole ogni bene confiscato!". Non mi resi nemmeno conto di aver
aperto la bocca a mezzo. No. Non era possibile, non era possibile! Non sarei
morta! Almeno, non in quel momento. Venni assalita
dalla necessità impellente di gridare di gioia, mentre questa mi
riempiva come acqua calda in una teiera, e mi trattenni giusto in tempo. Non capii più nulla.
Cominciai a tremare, mentre mi si appannava lo sguardo. Cominciai a piangere, e
stavolta sul serio. Non potevo non farlo. Avrei ritrovato Chekaril, avrei
proseguito nella mia missione, mi sarei riscattata! Sentii vari tramestii, e
tutti gli Anziani si alzarono. Dopo avermi guardata per un po', la Matriarca, forse mossa a
pietà dal mio stato evidentemente confusionale, mi strinse in un
abbraccio a suo modo confortante, che io ricambiai. "su...è
tutto finito...". Mi mormorò, battendo con una mano la mia
schiena. Alzai lo sguardo da oltre la sua spalla, folle di gioia, fissando il
tetto. E tutto accadde molto in fretta, e non ebbi quasi il tempo di pensare.
Con la coda dell'occhio, grazie alla mia vista allenata, vidi un
baluginio alla mia sinistra. E mi ricordai in un lampo lo strano comportamento
di Hari. Gridai, ma non per la gioia, mentre una fredda determinazione
s'impadroniva della mia mente sconvolta. E ricordo di aver pensato
qualcosa sulla mia altra possibilità di farmi valere davanti al
Consiglio e alle guardie, e sul fatto che quella giovane pura non doveva morire per colpa mia.
Poi mi trovai a terra, il viso premuto contro una
delle morbide ali della giovane, un dolore lancinante al braccio. Attorno a me
sentivo brusii sconvolti. Alzai il capo, di scatto, respirando affannosamente,
verso Hari, che si guardava attorno, sperduto. Chissà perchè, in un lampo d'intuizione,
capii che era stato visto, e che tutti ora lo
guardavano, interdetti e sorpresi. Come assassino faceva davvero pena: un
attentato alla Matriarca in mezzo a tanti soldati. Davvero idiota. Era un
novellino. Lui cominciò ad indietreggiare, verso la porta, sempre
più velocemente. "no!". Urlai, nel silenzio, cercando di
mettermi in piedi, ma bloccata dal dolore al braccio,
e rimanendo inginocchiata. Mi guardai la fonte del fastidio, con la vista un
po' annebbiata. Conficcato nel mio avambraccio c'era un lungo
pugnale sottile, del genere che io avevo sempre usato per colpire al cuore.
Aveva attraversato la carne, e la punta sporgeva
dall'altro lato, gocciolando sangue scuro. "fermatelo!". Le
mie grida rabbiose e doloranti svegliarono il generale. Lui si voltò, e,
ancora nello stupore della sala, cercò di fuggire. Io urlai di nuovo, e tentai di alzarmi, ricadendo a terra, affannata. Troppo tardi: qualcuno stava agendo al posto mio.
All'improvviso, si frappose qualcosa di grosso e grigio a metà strada verso l'uscita, una specie di pollo
spennato. Eiron. Era stato rapido di riflessi, e, intuendo le intenzioni del
borioso traditore, gli aveva tagliato la strada, quasi istintivamente, con un ruggito di
rabbia. Senza pensarci due volte, Hari lo attaccò, disperato. Osservai il magro Tengu lottare con il suo vecchio generale, in un
silenzio irreale, una lotta senza esclusione di colpi. Ali malate, spezzate,
tarpate, contro ali forti, nere, lucide. Si capiva ben poco di quello che stava succedendo. Fu un attimo. Uno schiocco. E poi il
corpo di Hari cadde a terra, il collo in una posizione innaturale, mentre
Eiron, ansimante, con il labbro spaccato, si metteva in piedi, gonfiando il
petto e togliendosi la polvere dagli abiti lerci, guardandosi attorno, incredulo, come se non credesse ai suoi occhi. Ci fu
un momento di silenzio. E poi cominciò il pandemonio.
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Angolino di Akita:
ollallà ollallà xD eccomi qua xD
un po' in ritardo, ma ho avuto davvero da fare, e sono distrutta xD per
la prima volta dopo mesi mi sono addormentata come una bambina xD subito,
chiudendo solo gli occhi xD fosse sempre così... <.<
d'accordo, passiamo dunque al
dunque:
per Carlos Olivera: ah,
bello esser letti da lettori intelligenti e fedeli xD beh, contenta che ti
piaccia *___* il meglio deve ancora venire o.O fidati
è.é non è un personaggio ben sviluppato...e tante cose
si devono chiarire ancora, eh xD finalmente, dopo capitoli in cui ho rischiato il
linciaggio, ecco il risultato, molto ovvio, del processo (con qualcosa di meno
ovvio dentro, ma che tu già sapevi :P) è stato difficile, ho
detto,scrivere questo capitolo, e
non mi è nemmeno piaciuto O.o tu che dici? Fammi sapere!! *__*
per Selly: nuuu...perchè perfida? xD si doveva salvare la pelle, anche io avrei mentito
spudoratamente per vivere O.o beh...questo punto
della fornaia infelice è ancora tutto da sviluppare :P occhi ed orecchie
aperti! xD povero, povero Eiron...le cose si
aggiusteranno per lui...si...ma non dico in che modo O.o eh, se Lsyn
rimanesse lì, mi dici come vado avanti con la storia??? xD beh, che dici
di questo capitolo? *__* fammi sapere!
Ringrazio anche
Jami, che mi ha inserita nei preferiti *__* è un onore xD
Oddio. Ora so cosa succederà alla fine di questo capitolo. Lo
so. Vi voglio bene >.<
Ah, se vi do l'impressione di avere fretta, è perchè
ho fretta O_O me la sono davvero presa comoda oggi O.o
Beh, vi lascio, e non mi fate del male!!!!
See you later!
Akita
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Ho ricordi molto confusi di quello che successe dopo.
Qualcuno gridava, ed il brusio si era trasformato in un ronzio indistinto, come
un alveare disturbato. Il braccio mi faceva un male tremendo. Ancora in
ginocchio, a testa bassa, il respiro affannoso, mi sentii attorniare da varie
entità alate. Li sentivo incombere su di me. Guardie, forse. Perfetto,
davvero perfetto. E se avessero pensato che io facessi
in qualche modo parte del complotto? Ma che avevo combinato? Ero però
felice, in un certo senso, di aver salvato la Matriarca, anche se per
poco non ci avevo rimesso la pelle. Non si meritava una morte del genere, per
mano di uno dei suoi più fedeli collaboratori. Povero Hari. Povero,
stupido Tengu. Ti costava tanto progettare meglio un assassinio, e non farlo
quando io ero lì? Era un complotto, per caso, per farmi dare da qualcuno
della micetta? Chi ero io, dannazione, per fare l'eroina? Allora perchè
l'avevo fatto? Ancora confusa, tentai di mettermi almeno seduta. La
testa, appena accennai un movimento, cominciò a girare vorticosamente,
ed io serrai gli occhi, fermandomi. Ero troppo debole, e la perdita di sangue
non mi stava aiutando. Sperai che le mie condizioni avessero mosso a
pietà qualcuno: è sempre bene riuscire simpatica. Ed avevo
bisogno di aiuto. "fatemi passare! Sto bene!". Urlò improvvisamente
una voce familiare, venata d'ira, strappandomi dalle mie considerazioni
pigre ed ovattate. Un abito bianco, chiazzato di rosso in più punti,
entrò nel mio campo visivo. La Matriarca era illesa: sospirai di sollievo.
Almeno, tutti i miei sforzi non erano stati vani. Comprendevo poco di quello
che mi stava succedendo attorno. Sentii delle mani sulla spalla sana, mani che
mi scuotevano selvaggiamente. Qualcuno iniziò a chiamarmi, chiamare il
mio falso nome, almeno. Cercai di rispondere, dire qualche sciocchezza, ma non
ci riuscii. Cominciai a perdere contatto con la realtà. Troppe emozioni,
troppa stanchezza, troppo sangue, troppa confusione. Mi sembrava di
galleggiare. Tutto era ovattato, come se stessi per addormentarmi. Avvertii
qualcuno prendermi delicatamente, e stendermi sul pavimento freddo. Il contatto
con la pietra gelida mi fece bene, e mi diede la lucidità necessaria per
guardarmi un po' attorno. I rumori si fecero più vicini, e reali.
La testa cominciò a girare di meno. Riaprii gli occhi. C'era un
capannello di gente preoccupata attorno a me. A pochi centimetri dal mio viso,c'erano la Mastra Guaritrice
e la Matriarca,
pallidissima, sporca del mio sangue, ma incolume. Tutte e due mi fissavano. Appena l'ultima si accorse che ero
più lucida, mi sorrise. "grazie...". Mormorò,
ancora scossa. Sentii una strana sensazione di calore all'altezza delle
guance. Non ero abituata a quel comportamento. Quale regnante mi aveva mai
detto grazie? La Regina non ricordavo l'avesse mai fatto, nonostante io
per lei avessi rischiato la mia stessa vita, in più di un'occasione,
e mi fossi lordata le mani di sangue innocente. Che strana cosa: da quando avevo
cominciato ad essere Spia, nessuno mi aveva mai
ringraziata. Non dovevo piacer molto a nessuno, forse, o forse non svolgevo
bene il mio mestiere. Quella singola parola era così strana da sentire
in bocca a qualcuno con in mano del potere. Mi riscaldava
il cuore. Ricambiai il sorriso, che si trasformò subito in una smorfia
di dolore, quando la Tengu
grassoccia mi afferrò il braccio ferito, dove il coltello ancora faceva
bella mostra di sè. "stai ferma, tesoro...". Mi disse, in
tono pratico, aumentando la pressione. "ora devo togliere il
pugnale... non farà male...". Gemetti. Dei, quanto odiavo, ed odio ancora, i Guaritori! Mi ero sentita
dire quelle tre parole, in passato, moltissime volte, nei Lazzaretti, tappa
quasi obbligata dopo tutte le missioni pericolose, vale a dire la maggior parte
di quelle a cui partecipavo. A Galinne ero addirittura
famosa: mi prendevano in giro per le fantasiose maledizioni che indirizzavo a
chiunque mi toccasse quando non stavo bene. Conoscevo
a menadito i meccanismi e le trappole ipocrite della Guarigione. In generale, a
quella frase così dolce non seguiva mai nulla di piacevole. E quella
volta non fece eccezione. Strinsi i denti, promettendo a me stessa di non
urlare qualcosa di offensivo nei confronti dell'innocente Guaritrice quando avrei cominciato a sentire dolore.Promesse e propositi che furono completamente dimenticati
quando avvertii, subito dopo, un movimento ed una fitta lancinante. Mi
divincolai, rendendo necessario l'intervento di qualcuno, che mi
mantenne, e borbottai a mezza voce una bestemmia ben scelta. Ma la debolezza
tornò quasi subito a farsi sentire, ed io chiusi gli occhi di nuovo, mentra la testa sembrava volersi staccare dal resto del corpo.
Dannazione. Non mi piaceva essere così inerme. Fluivo, come se stessi
per addormentarmi. Sentii un verso indeciso. "penso dovrò darle
dei punti... Gwen, dove posso...?". Non riuscii mai a sentire la
risposta. Ebbi, all'improvviso, l'impressione di essere stata infliata a testa in giù in qualche posto molto buio.
E non sentii più nulla.
Dopo quello che mi parve un
secondo, ripresi conoscenza. Rimasi ad occhi chiusi, analizzando per bene le
sensazioni che mi provenivano dall'esterno. Il braccio non faceva tanto male, anzi: la benda che mi fasciava strettamente non era
quasi avvertibile. Ero ancora debole, come se avessi corso per giorni, ma la
testa non girava più. Attorno a me, un silenzio irreale ed
assoluto. Ero stesa su qualcosa di morbido e cedevole, forse una lettiga.
C'era odore di fiori. Forse sarei riuscita ad azzardare qualche passo.
Ora che ero libera, potevo andarmene quando volevo,
giusto? Chekaril mi aspettava! Assalita da quella folle speranza, aprii gli
occhi. Ero in una stanza di pietra, stesa su un letto, quasi soffocata da
pesanti coltri color ocra, fatte all'uncinetto. Accanto a me, una
finestra. Era ancora buio, e l'unica luce proveniva da una lampada ad
olio posata su un comodino al mio lato. Sentii, improvviso, un fruscio, e mi
voltai di scatto verso sinistra. Non ero sola come avevo creduto. Di fronte a
me, seduta su una semplicissima sedia di legno, vestita da una strana tunica
rossa, c'era la
Matriarca, rilassata come non mai. Dannazione. Come potevo
fuggire, ora? La giovane Tengu mi sorrise. "ben svegliata". Mi
disse, accavallando le gambe, osservandomi, senza astio. Tirai un respiro.
D'accordo, d'accordo, la recita non era ancora finita.
Puntellandomi sul braccio sano, mi riuscii a mettere seduta. Ero vestita con
una stranissima veste di cotone grigiastro, dalle maniche lunghe e svasate,
linda e profumata. Anche io ero pulita. Mi riempii di segreta soddisfazione:
finalmente, un po' di civilità.
Rimanemmo in silenzio, lei tranquilla, io agitata come non mai.
Come avrei fatto? Come le avrei spiegato il mio gesto? Deglutii
quando lei aprì di nuovo la bocca. "come ti senti?".
Non risposi a quella domanda gentile. La vuoi sapere la risposta, Matriarca?
Bene, mi sento un'idiota. Ho salvato una nemica! Ho compiuto un gesto
molto sciocco. Da me, insomma. Ero ancora libera? Non ne ero sicura.
"posso andarmene ora?". Le chiesi, di getto, dopo un altro
silenzio. Era una cosa che mi premeva molto. Lei aggrottò un
sopracciglio. "quanta fretta, elfa...". Mi disse, scrollando le
ali, senza guardarmi. "lo so che, fino ad ora la nostra ospitalità ha lasciato a desiderare, ma sei ferita. Tuo fratello è lì, sono sicura
capirà il tuo ritardo. Sei un mucchietto di ossa e, ridotta così,
non andrai avanti per molto. Da quant'è
che non dormi e mangi decentemente?". Arrossii, sentendomi immediatamente
piena di vergogna e delusione, per chissà quale motivo.
Questo mi spinse ad essere più scorbutica del
normale. "non è colpa mia se il vostro generale era un
animale...". Mi morsi le labbra quando la
vidi distogliere lo sguardo, afflitta. Brava, Lsyn. Sei doppiamente idiota.
Perchè avevo messo in mezzo quel traditore? Altro silenzio imbarazzato.
"sono stata sciocca a fidarmi di lui". Mi confessò,
improvvisamente, mordendosi le labbra. "mi era sempre sembrato il
più degno... ma sai una cosa? Lavorava, da quando mi hanno dato le ali, per una tribù a noi
nemica, che non condivideva le mie opinioni moderate". Un classico.
Povera Matriarca: quanti dubbi albergavano ora, nella sua mente candida, sulla
fedeltà degli altri Anziani? Non mi parve strano che si confidasse con
me. Secondo tutti, ero un'innocua ed infelice fornaia. Sobbalzai
quando vidi un paio di lacrime scenderle sul viso.
No...perchè doveva piangere? Non le bastava avermi mossa a
pietà? Strinsi i pugni sotto le coperte, per impedirmi di obbedire allo
stupidissimo impulso di abbracciarla. Mi ricordava Junielle, e la
sua fragilità. Cosa pessima: quell'appartenente ad un odioso
popolo pieno di boria cominciava a starmi simpatica. Pessima cosa. Lei riprese
a parlare, in un sussurro spezzato. "quando ho pensato che Eiron e te... i
nostri prigionieri... mi avete salvata... mentre lui...".
Scosse il capo. "ora saranno tutti d'accordo con me".
Beh...buon per te. Mi sentii improvvisamente piena d'apprensione.
Che fine aveva fatto il mio compagno di cella? Non l'avevo più
visto da quando aveva ucciso Hari.
"dov'è Eiron?". Chiesi, dopo un altro breve silenzio,
piena di preoccupazione. In un certo senso, mi ero affezionata a quel triste
Tengu: adoravo il suo modo discreto di fare, nonostante avessimo praticamente
litigato quasi sempre. La
Matriarca serrò gli occhi, e non mi rispose per un bel
po'. Non mi piacque quella pausa, ed a ragione. "siamo tutti grati a lui per quello che ha fatto, e ci rimorde
la coscienza per avergli negato la possibilità di volare, a lui, che esprimeva
le idee giuste". Disse poi, atona e stranamente formale. "ma lui tra noi non può
più vivere: le piume mozzate non ricresceranno. E lui è stato
sempre troppo fiero per vivere con un'onta del genere. Ha chiesto di
morire, come premio per la sua bellissima azione. Ci ha implorati, benchè
volessimo lasciarlo in vita, tra noi. Una morte nobile: lo tratteranno
esattamente come i malati senza speranza. Una morte degna di lui, degna di un
eroe. Procederanno domani mattina". Senza nessun preavviso,
cominciò a singhiozzare senza ritegno. Mi sentii piena di dolore. Povero
Eiron. Povero, triste mio compagno, che mi aveva aiutata
quando mi colpivano con i fulmini, che mi aveva fatta spazientire, che
mi aveva posto strani indovinelli, che aveva condiviso con me giorni di
prigionia e tormenti. Alla fine, si sarebbe liberato da ogni affanno: lo capivo
alla perfezione. Non doveva essere facile vedere attorno a sè giovani
creature alate, e non poterle raggiungere, pur avendo le ali per volare. Non
era facile sentirsi emarginato, sapendo che, se le cose fossero andate diversamente, lui non lo sarebbe stato, e lo capivo. Non resistetti, e, senza
più curarmi della mia reputazione, o di altro, mi sporsi, prendendo una
mano esile della giovane Tengu, e la strinsi forte. La sentivo stranamente
vicina. Lei perdeva un amico, ed, un po', era colpa sua, che non era
riuscita a far cambiare idea alla vecchia Matriarca. Solo il destino allora
sapeva quanto quella sensazione mi sarebbe divenuta familiare, in un futuro che
ancora ignoravo. Rimanemmo un po' così, lei piangendo, io piena di
dolore muto. In seguito, cercai in tutti i modi di convincermi che il mio
comportamento non fosse altro che la parte migliore della mia recita, e che ero
stanca, e molto confusa. Ora dico senza vergogna che non era così: sono
cambiata, forse in meglio. Non lo so, e non lo voglio sapere. Quando il tempo
diventa un susseguirsi infinito di sofferenze, certe cose non hanno più
importanza. Le tenni la mano fino a quando, con un
sospiro, lei si calmò, alzando il viso sfatto. Mi sorrise. "ho
fatto bene a fidarmi di te...". Mi disse improvvisamente,
asciugandosi gli occhi con una manica. Non mi piacquero quelle parole: si fece
strada in me una sensazione di gelo, ed un brutto presentimento. Non poteva
essere... Lei mi fece l'occhiolino, con fare complice, ed io mi
agitai a disagio, nel letto. "avevo sentito tante storie sul tuo
conto... Mi ero fatta l'idea di un mostro gelido ed
insensibile...ho fatto bene a lasciarti andare!". Oh, no. Oh, no. Oh,
no. Rischiai seriamente, debole com'ero, di svenire. Mi aveva beccata. Mi
aveva riconosciuta. Ero inerme. Dovevo fuggire! Ma come fare? Dannazione, e mi
era parso di essere così perfetta nella mia recitazione! Ecco
perchè mi aveva creduta senza sospetti...ed io che avevo pensato fosse ingenua! La Matriarca si accorse della mia agitazione estrema
e, per la prima volta, il suo sorriso mi parve una smorfia astuta. Qualcosa mi
fece capire che ero nei guai, e seri. Beh... potevo assicurare la mia anima
al nulla: ero praticamente morta. Molto divertente, Matriarca. Lasciarmi andare, per poi uccidermi con le tue mani. Divertente. "pensavi
che io credessi alla tua stupida recita della fornaia, Lsyn Amarto, chiamata
l'Ombra, una delle Spie e degli elfi più pericolosi in
circolazione? Mi facevi così stupida?". Mi chiese, con infinita
dolcezza. "Io e te dobbiamo parlare".
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Angolino di Akita:
accidenti <.< (prepara la valigia) io
me ne fuggo O.o non uccidetemi, ve ne prego!! >.< scommetto che non ve lo
aspettavate, però xD ahhh, come mi diverto xD
passiamo dunque al dunque (se non siete
già pronti per venire a casa mia per ammazzarmi):
per Carlos Olivera: ma io
dormivo sulla tastiera, quando l'ho scritto O.o vegetavo xD beh, contenta
ti sia piaciuto xD e lo so che ora vorrai ammazzarmi nei modi più
orribili e cruenti che esistono...però...poi non saprai che
succede dopo xD beh, prima o poi Lsyn doveva cambiare un po'...anche
se...peccato...ah, io non ti dico nulla xD mi sto vendicando xD che
dici di questo capitolo? Piaciuto? (penso che un paio
di cose non siano scese giù xD ma io sono crudele xD) fammi sapere (e
non uccidermi!! >.<)
per
Selly: cara *-* tu non mi ucciderai, vero? Sappi che è ancora libera,
però xD io avevo in mente come tortura una cosa
molto più crudele, molto @.@ poi sono incappata in un pasticcio
linguistico terribile (qualunque cosa scrivessi, in qualunque modo lo
scrivessi, era un terribile e palese doppio senso, e non mi piaceva @.@), ed ho optato per un'altra
cosa xD a questo punto, penso che la decisione di Eiron non ti piaccia poi
molto xD fammi sapere che ne pensi, eh... *__*
Ma io vi adoro...vi adoro xD
è divertente leggere le vostre reazioni :P
Ora scappo: vado piuttosto di fretta.
See you later!
Akita
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Quelle parole ebbero lo stesso effetto di una secchiata di
acqua gelida in pieno dicembre. M'immobilizzai, serrando la mascella. Dannazione. Ero stata
davvero idiota: quella era un'altra trappola, preparata in modo
sopraffino. Non dovevo caderci, in nessuno modo. La Matriarca stava solo
fingendo. Sicuro. Mi restava solo una carta di giocare, per salvarmi la vita.
Perchè quella maledetta mi aveva liberato? Quale morte prevedeva, per
me? L'avrei uccisa, se solo non fossi stata così debole. Sarei potuta
scappare. Era notte, e nessuno mi temeva. Ma non potevo. Chiusi i pugni sotto
le coperte, per impedirmi di tremare, e cercai, in ogni modo possibile, di
guardare la Matriarca
con pura innocenza. "io? L'Ombra, una Spia?". Domandai, in
tono un po' smorzato, per impedire tremasse. Mi diedi un contegno quasi
divertito, e molto incredulo, e mi costrinsi a sorridere, sebbene fossi immersa nella confusione
più terribile e totale. "ma non se ne sente parlare da tantissimo
tempo. Potrebbe essere morta. Cos'è che vi fa pensare io sia
lei?". Lei ricambiò lo sguardo, sorniona. E quegli occhi pieni
d'ironia mi fecero perdere d'ogni speranza: non mi credeva. Ero
stata così pietosa, nella mia recita? Lei si sporse verso di me. Dovetti
farmi davvero forza per non divincolarmi, e far finta di essere ancora la fiduciosa Laila. Senza alcuna traccia
d'animosità, lei mi sfiorò le cicatrici. "queste,
Lsyn". Mi disse, con una punta di divertimento."non sai che i
ritorni di fiamma lasciano una traccia perenne? E non sai che noi Tengu, come
gli Insathi, siamo capaci di captarla? Credevi che nessuno sapesse del tuo
terribile incidente? Me l'avevi davvero fatta credere, Lsyn... se non
fosse stato per quell'aura strana che ti
accompagna...". Schifose cicatrici: senza di esse,
l'avrei passata liscia. Digrignai i denti, mandando tutto all'aria.
D'accordo, non m'importava più di nulla. Il mio destino era quello di morire, ora, in quel momento?
Beh, ben venga. Ormai ero lì, dopo averla salvata da un assassinio.
Bella gratitudine. Davvero."d'accordo". Dissi, abbassando il tono di voce, in un
ringhio smorzato. Ero davvero arrabbiata, con lei, e con me stessa,
soprattutto. Avrei dovuto contare quell'eventualità. Che ingenua:
mi ero fidata di me stessa, e della sovrana, sicura di averla messa nel sacco. Che
sciocca. "come volete che mi uccidano?". Con mio grandissimo
stupore, la Matriarca scoppiò a ridere, una risata estremamente
divertita. Parve quasi tornare quella di prima. Non mi piacque quell'atteggiamento,
e la guardai, piena di sospetto. Che voleva fare? Che intendeva con quella
risata gioiosa? Dopo un po', lei si ricompose, ed andò ad
incontrare il mio sguardo diffidente. "ma nessuno sa la tua vera
identità...solo io, ed Eiron, che ti siamo stati più
vicini". Mi disse, scrollando le spalle. Per poco non spalancai gli
occhi. Il pollo sapeva! Avrebbe potuto comprarsi la libertà con
quell'informazione. Non l'aveva fatto. Il rispetto verso quel
malinconico Tengu aumentò in maniera spropositata. Ripresi ad ascoltare
la Matriarca, mentre lei mi sorrideva gentilmente. "addirittura, poco
prima che ti svegliassi mi ha chiamata...lui mi ha chiesto di risparmiarti...ma tu sei libera! Io ti ho liberata, e
non ho nessuna intenzione di ucciderti. Sarei un'ingrata se lo facessi".
Immediato sollievo, e non riuscii a trattenermi dal sospirare. Deglutii. Avrei
potuto riprendere il mio viaggio. "così...vi fidate di
me?". Le chiesi, guardando il vuoto. Non potevo quasi crederci.
Un'altra risata, e poi lei mi rispose, dolcemente, quasi a confortarmi.
"certo che no! Ma in ognuno di noi c'è del buono, e tu hai
mostrato un lato che nemmeno io credevo esistesse". Mi disse, facendomi
voltare verso di lei, incredula. Buona, io? Che, poco tempo
prima, avevo fatto a pezzi due innocenti? Che l'avrei uccisa
senza nessun indugio pur di fuggire? Era così cieca? Scossi il capo. No: lei
non mi conosceva. Altre volte avrei dovuto sentire quelle parole. Forse ora
è vero, forse avevano ragione. Prima che potessi
aprire bocca, però, lei m'interruppe, di nuovo. Era quasi
seccante. "mi hai salvata, Lsyn. Fidarsi paga. Ma anche se tu fossi stata
diversa...io ti avrei lasciata andare lo stesso. Sono stanca di questa
chiusura sterile". Lei abbassò lo sguardo. Si, certo. Come no.
Povera cucciola alata: ne aveva di strada da fare per capire il mondo. Non le
bastava l'esempio del suo amico, che per eccessiva fiducia
l'indomani sarebbe morto? Le sorrisi, piena di scherno, e scossi il capo.
Pessima mossa. La reazione che ebbe la mia giovane interlocutrice mi
lasciò alquanto intimidita. Lei mi guardò in modo assai truce,
afferrando il copriletto in una morsa spasmodica, tremando impercettibilmente. Non l'avevo mai vista così.
L'avevo davvero fatta arrabbiare: avevo messo in dubbio la sua
autorità. Sembrava stesse per schiaffeggiarmi, così come aveva
sempre fatto la Regina quando io osavo troppo, come
una servetta impertinente. Mi pentii subito del mio gesto avventato. Ma che
accidenti mi passava per la testa? Chi ero io per discutere sul potere di una
sovrana? Istintivamente, mi preparai al colpo: incassai la testa nelle spalle,
e serrai gli occhi. Ben mi stava: me l'ero davvero, davvero cercata.
Attesi il colpo a lungo, tesa. Colpo che non arrivò. Ancora
raggomitolata, sentii la sua voce, carica di perplessità.
"Lsyn?". Mi chiamò, evidentemente preoccupata. Quel tono
quasi dolce mi caricò d'incertezza. Allora non mi avrebbe fatto
del male? Mi arrischiai a socchiudere un occhio, pronta a serrarlo di nuovo in
caso di necessità. Me la trovai davanti, che mi scrutava, gli occhi
pieni d'ansia. "che stai facendo? Ti senti bene?". Era
davvero diversa dalla mia cara regina. Trovai quel fatto quasi strano: ero
abituata al suo potere violento, e quasi non mi parve vero non essere trattata
come una domestica. Ritenni quasi sicuro tornare alla normalità, ed
aprii gli occhi. "sto benissimo, Matriarca". Le dissi, stupendomi
del tono pieno di gratitudine che avevo usato. Che tesoro: non mi aveva
colpita. Era davvero un modo strano di regnare. Come si faceva obbedire dai
suoi simili senza usare la forza, o la persuasione? L'amavano? Ma una
sovrana non si ama: si teme, e si rispetta. "sto beniss...".
Non riuscii a completare la frase. Quasi come a smentire le mie parole, mi
assalì un altro, violento, giramento di testa. La vista si
offuscò, ed io, per qualche attimo, non capii più; nulla.
La prima cosa che mi colpì quando
recuperai tutti i sensi, fu un piacevole profumo di cibo caldo. Mi sentivo
debolissima. Lo stomaco, con mia grande vergogna, brontolò. Credo di
essere arrossita, e di aver fatto una strana smorfia. Non dovevo mangiare da
qualche giorno: un lasso di tempo pazzesco, per chiunque. Per l'ennesima
volta, riaprii gli occhi. Ero stata di nuovo stesa, e
sistemata. Che premura. Mi rimisi lentamente seduta,
prendendomi la testa fra le mani. Avevo un cerchio tremendo alla testa.
"ma ti davano da mangiare, Lsyn?". Mi domandò la voce dolce
della Matriarca, fuori dal mio campo visivo. Mi girai
verso di lei, togliendo le mani dal viso, che sapevo
stravolto. Era seduta, un'espressione ansiosa in viso, ed una ciotola
fumante in mano. Quell'oggetto catalizzò immediatamente la mia
attenzione, quasi come avrebbe potuto fare lo stesso Chekaril. Quel contenitore
di quella che mi pareva rozza creta mi parve, all'improvviso, la cosa
più importante del mondo, che tutto andasse in
malora. Dovevo mangiare. Ero abbastanza calma per
poterlo fare. Non sarei sopravvissuta senza farlo. "non...ci
riuscivo". Mormorai, senza staccare gli occhi da quell'umile
ciotola piena di qualcosa di simile ad uno stufato. Lì c'era un
tesoro. So che il mio, in quel momento, fu comportamento davvero poco degno,
ignobile per una spia d'alto rango come me. Ma
ormai avevo completamente dimenticato cosa fosse la dignità, dopo giorni
di trattamento disumano. E poi la fame mi attanagliava, terribile come una
belva feroce. La Tengu sospirò. All'improvviso, vidi davanti a me
quel contenitore, invitante e profumato. Senza pensarci due volte, lo afferrai,
e, piena di bramosia, me lo portai alle labbra. Poco prima di prendere il primo
boccone, mi assalì, improvviso, un sospetto. E se avesse avvelenato quel
piatto all'apparenza così innocente? Chi lo avrebbe mai saputo? Un
modo davvero pulito per farmi fuori. Io stessa avevo fatto così
innumerevoli volte. Mi bloccai e, piena di diffidenza, osservai la Matriarca. Lei mi
sorrise, incoraggiante. "perchè fate tutto questo per me?". Dissi, la ciotola vicina alla bocca, che mi tentava irresistibilmente.
La Tengu mi sorrise, ancora. "mi hai salvato la vita, semplice". Disse, facendomi un giocoso occhiolino.
"e poi, mi sei simpatica". Fu quello a convincermi della sua buona fede. Lei non
l'avrebbe mai fatto, non mi avrebbe mai uccisa. Poteva mai fare una cosa del genere,
quell'essere fiero, dallo sguardo così puro? Mi sentii invadere
dal senso di colpa. Lei non era meschina come me, e come tutta la gente che
avevo frequentato fino a quel momento. Ah, e non m'importava. Avrei
rischiato: avevo davvero troppa fame. Attaccai lo stufato con voracità.
Mi parve il cibo più buono del mondo. Finì davvero troppo presto.
Mi sentii immediatamente meglio. Uno stomaco pieno aiuta davvero. In pace con
il mondo, ancora con in mano la ciotola, ormai
ripulita perfettamente, alzai lo sguardo verso la Tengu. Lei mi guardava,
piena di quella che aveva tutta l'aria di essere pietà. Mi
sorrise, tristemente, e scosse il capo. "perchè dobbiamo fare
sempre così? Sei in uno stato pietoso". Gentilmente, si
allungò, e prese il contenitore vuoto dalle mie mani. La lasciai fare,
stancamente. Non le risposi. Lo sapevo, ne ero pienamente consapevole. Mi
sentivo anche vagamente felice, troppo distratta per poter pensare. Che razza
di giornata. Mi immersi così tanto nei miei pensieri che sobbalzai,
saltando quasi, quando mi sentii una mano su una spalla. La Matriarca mi
guardò di nuovo, ancora più abbattuta. "ho da chiederti un
favore". Mi disse, mentre io ancora cercavo di rimettermi in sesto, il
cuore che batteva come impazzito. Avevo davvero i nervi a fior di pelle. Annuii
debolmente, come a volerla far continuare. Cosa mai voleva da me? Lei
sospirò. "Eiron vuole che tu lo assista durante la sua
morte". Mi disse, tutto d'un fiato. Mi avvolse un familiare dolore.
Il mio povero coinquilino: voleva darmi anche quest'onore, a me, che
l'avevo trattato in una maniera ignobile? Non sapevo ancora cosa dovevo
fare. E sono sicura che, se l'avessi saputo, avrei capito immediatamente
perchè lui mi voleva. La Tengu riprese a parlare. "però
devo dire un paio di parole al Consiglio. Ho bisogno di rivelar loro la tua vera identità. Accetti?". Vago ed immediato
senso di paura. Cosa sarebbe successo se lei avesse detto la mverità su di me? Non sarei stata nei guai? Probabilmente intuendo il mio stato
d'animo, lei si affrettò a rassicurarmi. Il suo sguardo, da
triste, divenne inesplicabilmente duro. "devono ancora capire chi
comanda, qui, ed è ora che qualcuno gli rammenti che la Matriarca sono
io, e che posso tutto". Mi disse, stringendo gli occhi. Brava, la giovane
alata. Così si governava. "ed i tempi sono cambiati: tu sei mia
amica. Accetti?". Annuii di nuovo, senza parlare. Era venuto il momento
di andare allo scoperto. Forse avevo trovato degli alleati. Senza attendere
oltre, la giovane sovrana si alzò, guardandomi."domani ti
manderò a chiamare...quando sarà tutto pronto per il rito". Mi disse, con una strana fretta. Notai, nel
suo sguardo, un terribile dolore, che non mi avrebbe mai voluto far vedere, e
tracce di lacrime. Capii che, tra un po', sarebbe crollata. Povera piccola.
Non è mai facile perdere un amico. Un moto, improvviso, di simpatia.
Amavo davvero quel modo di fare, quell'orgoglio innato. Quell'esserino,
per quanto giovane, aveva la stoffa per essere una vera sovrana. Lei, forse
vedendo la mia curiosità, si girò, e cominciò ad
andarsene, a passi lunghi, quasi volesse correre via. "buonanotte, Lsyn". Mi disse, quasi sulla soglia.
"buonanotte, Matriarca". Le risposi, docilmente, prima che lei
fuggisse via, come una ladra. Rimasi sola. Per un po', mi trattenni a rimuginare. Cosa mi stava succedendo? Perchè mi
comportavo così stranamente? Quella non era l'Ombra. L'Ombra sarebbe già fuggita. Ma, aiutata
dallo stomaco pieno, e dalla stanchezza che si faceva ancora sentire, mi
assalì un'ondata improvvisa di sonno. Mi sistemai meglio,
ristendendomi, piombando nellìoblio non appena chiusi gli occhi. Il giorno
mi attendeva con altre prove.
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Angolino di Akita:
xD mi sono davvero divertita a scrivere
questo capitolo xD scusatemi se "vi arronzo" un po', ma vado di fretta xD
passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera:
carissimo, egregio, mister *__* ti prego... no >.< non puoi tu! Devo dire
che però mi diverto xD eccomi qui, puntuale
come sempre, nei miei aggiornamenti :p una promessa è una promessa :P
che dici di questo capitolo? Volevo metterci pure Eiron in mezzo, ma mi sono
accorta che non andava, così... poi si aumenta
la tensione :P fammi sapere, che sono curiosa *_*
per Selly: cara *.* è ovvio ù__ù e mica è scema, lei xD
lo sapevo che non ti sarebbe piaciuto...ti do solo questo consiglio:
risparmia le lacrime per altri morti xD ah, ma io come mi diverto xD lo so,
anche a me dispiace un po', ma, come dire...Eiron è un
personaggio già "creato morto" xD appena mi è venuto
in mente sapevo già la sua fine xD è un po' crudele,
però necessario...fammi sapere, intanto, che ne pensi di questo
capitolo *.*
per Kylien: carissima xD
a me importa che tu legga, il commento po...mi fa piacere, e molto, ma se
non dipende da te certo non posso farci nulla xD beh, come ho già detto
su, Eiron è stato destinato da me fin dalla sua "nascita"; a
morire... l'avevo già pensato dalla fine xD avevo in mente un'altra
scena, ma è stata irrealizzabile...vabbèxD tu fammi sapere
*.* baci!
Qui qualcuno, già leggendo il titolo del
capitolo, capirà. Qualcuno gioirà, qualcun altro no <.<
Ringrazio il solito, santissimo santo Carlos Olivera per l'idea, e per avermi salvato dai labirinti
inestricabili di mamma wikipedia xD
Senza di lui, a quest'ora starei ancora
facendo impazzire metà contatti MSN per trovare un veleno di origine
vegetale che avesse determinate caratteristiche xD
Ora, vi lascio al capitolo...
See you later!
Akita
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Era quasi l'alba quando mi
svegliai. Mi sentivo davvero meglio: quasi in forma, in realtà. Un altro
pasto decente, ed avrei potuto, bene o male, continuare il mio viaggio. Sono
sempre stata veloce nel riprendermi, come tutte le Spie. O quello, o la morte.
E' questo che ci hanno sempre insegnato. E la naturale vitalità
elfica aiuta, e molto. Tuttavia, rimasi un po' a letto, godendomi il
piacevole tepore delle coperte. Non avrei visto queste comodità; per un
bel po' di tempo, ed era meglio approfittarne finchè potevo. Nel
silenzio più totale,cominciai a pianificare le mie
mosse future attraverso l'Impero. Una volta scesa dalle montagne, sarei
stata direttamente nel territorio umano. Sarei stata costretta a battere le
zone più desolate, evitando ogni forma di vita senziente. Non conoscevo
bene quei territori, ma confidavo solo nella mia capacità
d'orientamento e memoria. Dovevo dirigermi verso la costa, a Scmen, la
piccola cittadina portuale dove viveva il contatto preferito di Akita, Lateek,
un'umana, una zitella acida, proveniente da un&'antica famiglia
d'informatori. Poi...via, verso Gerinti. Mi sentii inquieta, come
preda di un orrido presentimento, e desiderai più che mai la compagnia di
Tijorn, a confortarmi e prendermi bonariamente in giro, sempre con me.
Chekaril, il mio Chekaril, era lì, e mi aspettava. Mi avrebbe amata se l'avessi
salvato? Scossi la testa. Era un'ossessione: qualunque fosse il pensiero
che mi attraversasse la mente, sempre finivo per pensare a lui. Fortunatamente,
prima di sprofondare nella disperazione più cupa, e nei miei soliti,
tormentosi pensieri, sentii dei leggeri colpi alla porta. Mi voltai verso di essa nel momento esatto in cui si aprì, lasciando
intravedere la minuta figura di una piccola Tengu, una domestica, a giudicare
dagli abiti semplici. A passi incerti, la nuova arrivata entrò. Era
molto giovane, e portava, tra le braccia, un grosso fagotto nero, evidentemente
pesante. L'osservai, incuriosita, senza ostilità alcuna, avvicinarsi, e
posare tutto quello che la ingombrava ai piedi del mio letto. Poi si rivolse a
me, lo sguardo basso. Odiai quel modo di fare: perfino le mie domestiche, in un
passato così remoto da non apparirmi reale, avevano l'ordine
preciso di, usando le mie parole, non
scodinzolare. D'accordo, erano serve. Mi dovevano rispetto ed
obbedienza ciechi, ma guai ad abbassare lo sguardo, od
inchinarsi ad ogni piè sospinto, cinguettando leziosamente complimenti.
A qualcun altro avrebbero potuto far piacere, ma a me no. Mi
è sempre sembrato un modo sofisticato per prendere in giro il
prossimo. "la mia signora vi ha chiesto se...potreste
unirvi a lei, per colazione...". Mormorò, piena di timidezza e
paura repressa, diminuendo ulteriormente la mia scorta già esigua di
pazienza. Chi credeva io fossi? Poi, d'un
tratto, mi ricordai del motivo della chiamata, e rabbrividii. La fine di un
eroe. Povero Eiron. In cosa l'avrei dovuto aiutare? Quel punto del
rituale Tengu, tenuto gelosamente segreto come tutta la loro vita, mi era
completamente oscuro. Assieme all'ormai abituale fitta di rammarico per
il destino già compiuto del mio coinquilino, avvertii anche un moto di pura, e genuina,
curiosità. Stavo per avere un onore indiscutibile, entrando
nell'intimo della vita di un popolo che mi aveva da sempre intrigata. Avessi
saputo cosa sarei stata costretta a fare... Era ora di sbrigarsi: non avrei
fatto aspettare oltre il rito. Io ero solo un'ospite, per di più
indesiderata. Mi decisi, prima che la servetta parlasse ancora, a darmi una
mossa: spostando le coperte, mi alzai rapidamente, con un fruscio, fino a
trovarmi di fronte alla Tengu. Dannazione: mi era sembrata più piccola,
dal letto. Mi superava di tutta la testa. La guardai malissimo, e lei distolse
lo sguardo, abbassandolo ancora di più. Era ora di una bella lezione.
Prima che si potesse muovere, agguantai il fagotto,
con uno scatto. Eh, no. Per quanto fossi orrenda, non ero monca. Poi alzai lo
sguardo, fino ad incontrare i suoi occhi, spaventati e docili. Ora mi avrebbe
sentita. "punto primo". Sussurrai, con un tono così dolce
da stupirla. Poveretta: dentro di me già gioivo all'idea
di potermela finalmente prendere con qualcuno. Davvero meschino,
ma rilassante. Sospettavo che la giornata si sarebbe
rivelata piuttosto sanguinosa. "non so quello che ti hanno
insegnato qui, ma io non voglio essere trattata come un'idiota".
Ah, che immenso piacere fu vederla sbiancare. Strinsi gli occhi, in una recita
già perfettamente conosciuta dalle mie serve, che mi temevano
quando notavano quel comportamento. Ma quella piccola no. Ora sarebbe
venuto il peggio. "punto secondo, puoi tranquillamente guardarmi in
faccia, anche se sono orrenda, e lo so...". Alzai il tono di voce,
rendendolo man mano sempre più adirato. Funzionava sempre. Ed il
divertimento era assicurato. Per la prima volta, fui contenta della mia voce
asessuata e del mio viso sfigurato: facevano più scena. La vidi,
infatti, indietreggiare impercettibilmente, mentre gli occhi le
si riempivano di lacrime. Mi ricordò Anì, e la sua
sottomissione forzata. Ah, le avrei dato una lezione per la vita. "punto
terzo...fuori di qui!".
Urlai le ultime tre parole, piena di rabbia. Oh, dei,come
adoravo farlo. Ghignai quando la povera servetta, dopo
un altro, inutile, inchino, si affrettò ad andarsene. Era davvero un
ottimo modo per sfogare la tensione, che, pian piano, sentivo accumularsi in
me. Un
modo poco diplomatico, davvero, ma utile. Avrei dovuto trovare da sola la
strada per raggiungere la Matriarca, ma quello era il male minore. Molto utile.
Sbuffai, soddisfatta, mentre afferravo il fagotto. Era davvero pesante: cosa
mai poteva esserci, dentro? M'inginocchiai e, piena di curiosità,
lo aprii: dentro c'era il mio mantello, pulito e rammendato da mani
abili, e tutti i miei abiti, felicemente consunti e scoloriti,
ma lindi e profumati, con la maschera, stranamente lucida, e gli stivali,
morbidi e logori. C'era anche il mio piccolo pugnale, affilato come
sempre. L'altra arma, però, mi sorprese: non era la mia vecchia,
agile spada dall'elsa nera e graffiata e dal pomo di metallo brunito, con
un fodero di cuoio ormai lacero, la mia compagna di tante disavventure. Era uno
strano fodero, di un magnifico grigio, liscio e lucido come la schiena di un
topo. S'intravedeva l'elsa, stranamente bianca, avvolta in un fitto
reticolato argenteo. Rimasi ad osservarlo, perplessa. Di chi era? E
dov'era la mia fidata spada, che mi aveva, bene o male, seguito in tutti
gli anni, accompagnando giuramenti, sangue e morte? Mancavano, inoltre, i miei
guanti. Decisi di posticipare le
domande e, contenendo la curiosità, mi alzai, e, afferrando i miei
abiti, mi rivestii velocemente, dando anche una rapida scorsa
all'avambraccio fasciato, che mandava lievissime fitte di dolore.
Sospirando di piacere, mi rimisi la maschera e, come sempre, il contatto con la
ceramica fredda mi ridiede fiducia, e pace. Fu come rivedere una sorella, come
riabbracciare Tijorn, come rendersi conto di avere freddo solo dopo essere
stati messi vicino ad un camino. Tale era la mia vita. Come ultimo tocco, presi
il mantello, facendolo roteare prima di metterlo, per assicurarmi non ci fosse
più nulla. Rovistai in una delle tasche nascoste: i due ciondoli erano
ancora lì. Mi assicurai il pugnale sotto la casacca, ben nascosto agli
occhi di tutti, e poi, finalmente tornata l'Ombra, l'oscura macchia
notturna, mi decisi ad osservare meglio quella spada meravigliosa, che avevo
quasi casualmente poggiato sul letto. I miei pensieri, mentre m'infilavo
i familiari vestiti, erano ripetutamente andati a quell'oggetto di
mirabile fattura, che avevo osservato per tutto il tempo, morendo dalla voglia
di saperne di più. Chi diavolo mi aveva fatto quel regalo? Afferrai il
fodero con la mano destra, quella intatta, e, mantenendo la presa salda, con
l'altra mano tirai fuori una splendida spada, dalla lama sottile ma
robusta, mediamente lunga, leggermente incurvata alla fine. Mi sfuggì un fischio sommesso di stupore. Doveva essere stata lucidata
e pulita di recente, e, su un lato della lama, a metà, prima ancora
dell'incurvatura, c'era una scritta, in una lingua che non
compresi. Era veramente un'arma meravigliosa. Provai un paio di affondi:
il bilanciamento era perfetto, e non era troppo pesante per me. Non riuscii a
credere che qualcuno mi avesse fatto un dono del genere. Non rimpiangevo la
cara, vecchia spada, che pure mi aveva accompagnata per tantissimi anni. Ero
però un po' in imbarazzo: tutto questo, per cosa? Una vita
salvata? Dovevo, assolutamente, parlare con la Matriarca. Rimettendo la mia
nuova arma nel fodero, ed allacciandolo alla cintura, mi avviai verso la porta,
uscendo rapidamente e chiudendola con fermezza. Con mia grande sorpresa, la
Tengu che avevo trattato così in malo modo era ancora lì. Tradiva
segni evidenti di pianto, ma, non appena mi vide, mi venne incontro con la
stessa timidezza di prima. Capii, in un lampo, che quello doveva essere per lei
un comportamento naturale. Mi sentii invadere, immediatamente, dalla vergogna.
Ero stata meschina, a prendermela con lei. Dovevo ricordare che lì non
ero nessuno. "seguitemi, signorina". Sussurrò lei, senza il
coraggio di guardarmi, cominciandosi ad avviare, mantenendosi a distanza da me.
Io la seguii, senza dire nulla. Mi sfuggì un
sorriso, invisibile a tutti. Percorrendo vie ancora deserte, visto che non era
ancora sorto il sole, arrivammo entrambe ad una porta nera, di legno massiccio.
Senza una parola, la giovane Tengu me la aprì, ed io entrai, facendole
un cenno di ringraziamento, cercando disperatamente di scusarmi per
l'arroganza di prima. Lei arretrò, arrossendo, e chiuse la porta. Mi trovai in un ambiente piccolo ma arioso,
una sorta di sala da pranzo. I colori predominanti, dappertutto, erano bianco e
giallo, e le uniche cose scure erano il legno del tavolo rotondo e delle sei
sedie, ed una porticina quasi nascosta, in un angolo. Era ancora troppo presto
per spegnere le candele dei numerosi candelieri.
Seduti su quattro delle sedie foderate di stoffa a righe, c'erano la
Matriarca, a testa bassa, che piluccava distrattamente qualcosa da un piatto,
tirando frequentemente su con il naso, i due Anziani che avevo già
conosciuto, che mi guardarono, con espressione strana, non appena feci il mio
ingresso, un giovane Tengu dall'aria dolente, che mi ricordò in
maniera inquietante Akita, forse per il lungo naso, o i capelli di un biondo
quasi bianco. Doveva essere il nuovo Mastro Guerriero. Era forse più
grande di poco della Matriarca, e m'ignorò pacificamente,
continuando a mangiare, calmo. Il mio sguardo cadde sull'ultima figura.
Ed impietrii. Seduto dignitosamente, a mani conserte, senza mangiare, vestito
da uno strano abito bianco, le ali distrutte chiuse contro il corpo esile, i
capelli tagliati corti, ed un'espressione fissa ed altera in viso,
c'era Eiron. Non si girò nemmeno quando
feci un passo in avanti. Incominciai a sentirmi davvero nervosa, e deglutii a
vuoto. La Matriarca si girò verso di me: nonostante cercasse di non
darlo a vedere, era distrutta. Gli occhi erano iniettati di sangue, ed un
po' gonfi. Doveva aver pianto a lungo. Mi fece una pena immensa vederla
così. "ben svegliata, Lsyn". Mi disse, con voce roca,
cercando di fare un sorriso. Io ricambiai, con fare rassicurante. Doveva
soffrire immensamente. Il momento in cui avrebbe visto il suo amico morire era
vicino, sempre più vicino. In quel momento, la tensione creatasi al mio
arrivo si spezzò. La Mastra Guaritrice si alzò di scatto,
cominciando ad avviarsi verso di me. Mi attanagliò il terrore, un
artiglio di ghiaccio conficcato nel mio stomaco. Mi avevano tratta in trappola?
Guardando il suo viso calmo, senza nemmeno rendermi conto di aver emesso un
suono strozzato, di pura paura, cominciai ad indietreggiare, portando una mano
alla spada. Se solo avesse provato a toccarmi, l'avrei uccisa.
"ehi, calma, calma!". Mi disse la Tengu, ormai a poca distanza da
me, alzando le mani, in tono molto concitato. "voglio solo vedere la ferita
come sta! Stai tranquilla, nessuno qui vuole farti del male!". Sbuffai,
rilassandomi un po'. Ma non tolsi la mano dall'elsa, fissando
ancora la Guaritrice, preoccupata. "la Matriarca aveva ragione,
Lsyn". Disse improvvisamente un'altra voce, che riconobbi
istintivamente come quella del Mastro Artigiano, stranamente
seria. "tu non sei pericolosa per noi. Le hai salvato la vita.
Lasciati curare, ti prego". Mi decisi, sospettosamente, ad abbassare la
guardia. Era tutto un trucco per uccidermi? Ogni dubbio venne
dissipato dal correre premuroso della vecchia Tengu, che, ancora in piedi mi
scoprì il braccio, togliendo le bende, e, afferrandomi per una mano,
prima che potessi fare qualunque cosa, trascinarmi sull'unica sedia
libera, tra lei ed Eiron. Mi ritrovai, senza sapere come, seduta, mentre lei mi
esaminava la ferita, un taglio ottimamente suturato. "vedo che hai
accettato il mio dono". Mi disse, improvvisamente, una voce gentile. Eiron.
Ero sbalordita, e mi girai verso di lui. Mi guardava, sereno, senza tradire il
minimo accenno di qualunque sentimento. Negli occhi verdi, però, non
c'era la sua solita tristezza, anzi: gli leggevo quasi il trionfo, ed una
pace terribile. Doveva essere molto felice di morire da eroe, chissà.
Dopo un attimo di silenzio sbigottito, mi decisi a parlare. "la spada
è tu...? ahia!". Dannata vecchiarda. Mi
aveva afferrato la ferita con le sue mani sottili, punzecchiandola come in
cerca di qualcosa. Metodi spicci da Guaritore. Rimanemmo il silenzio, mentre
lei continuava il suo compito, mettendo uno strano unguento che bruciava sul taglio, e poi altre bende, abbassandomi poi la manica
con una pacca. "tutto perfetto, tesoro". Mi disse, con un gran
sorriso soddisfatto. Non potei fare a meno di guardarla male. Ero ancora tutta
dolorante. Se mi avesse ancora chiamata tesoro, le
avrei tagliato le orecchie, per farmene un fermaglio per le occasioni speciali.
Digrignai i denti, biascicando una bestemmia, per loro inudibile. Poi,
girandomi verso Eiron di nuovo, che ancora mi guardava con espressione neutra,
ripresi a parlare. "allora? Perchè mi hai donato la tua
spada?". Gli chiesi, piena di curiosità. "cosa devo
fare?". Il Tengu mi sorrise, mentre nella stanza calava il silenzio
più irreale, e doloroso, di cui quasi non m'accorsi. "devi
far si che la mia morte sia onorevole, e per questo la
mia spada è al tuo servizio". Mi disse, abbassando lo sguardo,
fieramente."ora ti spiego cosa fare...".
Era tutto pronto. Dopo un paio
di spiegazioni, che mi avevano sconvolta,ci eravamo
trasferiti nella stanza accanto, una saletta buia, a parte l'unica
finestra, aperta verso oriente, all'alba, e spoglia, a parte un tavolino,
dove faceva bella mostra di sè un lungo pugnale, avvolto in un drappo
dal colore chiaro. Mi mossi come
sott'acqua. Non potevo ancora credere di aver accettato una cosa di quel
genere. Non potevo. Non potevo! Mi tremavano le mani, follemente, e lo stomaco
dava battaglia. Non avevo mangiato nulla, da quando
Eiron, con voce piatta, aveva cominciato a spiegare il mio ruolo. Mi aveva
detto quanto quello che stavo per fare fosse un grande
onore. Mi ribellavo completamente a quell'idea. Qualcuno aveva preso la
mia nuova spada, e non sapevo ancora dove fosse finita. La mia testa era
completamente vuota. Osservai, istupidita, il mio amico mettersi in ginocchio,
rivolto verso la finestra. La Matriarca, addolorata, si posizionò di
fianco al tavolino, mentre sentivo gli altri ai miei lati. Io ero dietro il
Tengu, ancora disarmata. Restammo per qualche attimo in silenzio, mentre il
cielo si schiariva. L'alba stava arrivando. "puoi ancor ripensarci,
Eiron". Disse la Matriarca, con voce soffocata. "non ci sarà
nessuna conseguenza...non per te". Il mio coinquilino la
guardò, fiero. "non pensarci, Gwen, ed obbediscimi". Le
disse, con voce dura, guardandola, severamente. Nessuno si era mai rivolto
così alla Matriarca. "come pensi io possa vivere senz'ali?
Le hai viste, Gwen? Hai visto cosa ha combinato Hari? Cosa vorresti fare, se
non mi uccidessi? Mi manderesti in uno di quei monasteri, solo perchè ho
espiato una colpa che non avevo?". Quelle domande caddero nel vuoto: la
Tengu distolse lo sguardo, girandosi. La luce si stava facendo sempre
più intensa. Il momento stava arrivando. Quasi non mi resi conto di
tremare. Accidenti...avevo smembrato due corpi, ed ora non riuscivo a
trovare il coraggio per fare una cosa così semplice! Dove diavolo era
finita la crudele Lsyn? Cosa stavo diventando? Mi stavo rammollendo? Osservai
il Tengu riprendere la parola. "passami il pugnale, Gwen...".
Eiron non ebbe nessuna risposta. Lui chiuse gli occhi, e si morse il labbro
inferiore. "Gwen...ti prego...". Mormorò,
implorante. "in nome della nostra amicizia...". Sentii una mano
battermi delicatamente una spalla. Mi voltai, di scatto, in silenzio. Il Mastro
Guerriero, con fare serio e dolente, mi stava porgendo la spada. Presi
l'elsa, tremando. Non poteva fare questa parte un soldato qualunque? Io
ero abile con la spada nella stessa maniera di uno di loro. Bel modo di
vendicarsi, davvero. Eiron aveva uno stranissimo senso dell'umorismo. Mi
girai. Il tavolino era vuoto, e la Matriarca di spalle, scossa da muti
singhiozzi. Il pugnale era ora in entrambe le mani di Eiron, che lo teneva
puntato verso il suo addome. Strinsi i denti. In quel momento avrei voluto
fuggire via. Non m'importava più di studiare usanze interessanti.
Un amico stava per morire. E sarei stata io a dargli il colpo di grazia.Lui guardò avanti, verso lo
splendido paesaggio montano, illuminato debolmente di fronte, tra due monti.
"ti lascio la mia spada, Lsyn". Disse lui, sognante, guardando
perso ciò che aveva attorno. Cosa pensava mai? Quali erano i pensieri di
un morente, di un suicida? Quanta lucidità ci voleva, per compiere un
simile gesto, quanto coraggio? Conosco, ora, e capisco Eiron. Non avrei
tremato, quella volta, se solo l'occasione si fosse presentata qualche
mese dopo. Rimpianti inutili. In quel momento, volevo solo finisse tutto in
fretta, per poi fuggire nella mia camera, facendo magari un bagno, per lavar
via i brutti ricordi. "quest'arma sarà per sempre sporca del
tuo sangue, Eiron...". Lui si girò, guardandomi duramente,
come aveva fatto per Gwen, bloccandomi a metà della frase. "un motivo
in più perchè sia tu a tenerla". Mi disse, spiccio, prima
di girarsi di nuovo. Saggio Tengu. Seppi, automaticamente, che queste sarebbero state le sue ultime parole. Il lucore dorato si
era fatto più intenso. Calò, di nuovo, quel silenzio innaturale, e
gelido. La Matriarca, con gli occhi inondati di lacrime, si girò,
frenando i suoi singhiozzi. Riuscivo ora a vedere attorno con più
chiarezza. Respirai a fondo. Lo stomaco aveva ormai fatto un nodo
inestricabile. Tremavo, anche se cercavo in ogni modo d'ignorarlo. Alzai
la spada, portandola oltre la spalla, mentre Eiron piegava leggermente il
collo, sempre guardando fuori, perso in chissà quali pensieri. Alcune
parole, sussurri lievi nel silenzio, si andarono a formare sulle sue labbra,
parole nella sua lingua, che io non conoscevo. Il cielo era inondato di luce,
ormai. Lui alzò il pugnale, pronto a calarlo al primo raggio di sole che
avesse toccato il suo viso. Aveva scelto un attimo suggestivo, un bel momento. E quel momento era vicino. No,
ti prego, Eiron, puoi tornare indietro, non puoi farlo, non devi morire. La
luce era più forte, ed ora vedevo tutto distintamente. Mi sfiorò,
per un folle attimo, l'idea di bloccare il Tengu, di togliergli il
pugnale di mano, e di confortarlo, di fargli cambiare idea. Ma non potevo
farlo: lui, dandomi quell'importante compito, si era fidato di me. Ed io
non potevo tradirlo, non proprio in quel momento. Eiron fece un gran respiro,
aprendo le grandi, spennate, ali nere, che mi sfiorarono le spalle. C'era
una nuvola a coprire la luce dell'alba. Anche il cielo non voleva quello
scempio. Ma il sole sorse, vinse lo stesso, apparendo a tradimento tra i due
monti, inondando di gagliarda luce tutti noi. Quei momenti rimasero a lungo nei
miei sogni. Un sorriso estatico comparve sul volto risoluto del Tengu, ricordo.
Tutto era silenzioso, come sott'acqua. E poi colpì. Sentii il
pugnale vibrare, e poi un rumore sordo. Un suono che conoscevo fin troppo bene.
Le ali di Eiron, del mio amico, fremettero. Troppo tardi per fare qualunque
cosa. Il pugnale tintinnò, probabilmente cadendo a terra. Era venuto il
mio momento. Mi tremavano le gambe, e stavo male. Ma glielo dovevo. Lui mi
aveva accudita quando stavo male, in prigione, mi
aveva consigliata. Ed ora potevo ripagarlo in un modo degno.Respirai, una volta. Dovevo fare presto,
per non farlo soffrire. Respirai di nuovo. E poi, con un fendente preciso, lo
colpii alla nuca, un taglio netto e profondo. Non pensavo a nulla, in quel
momento, ma sentii i miei abiti chiazzarsi, e divenire caldi, e bagnati. Il suo sangue. Non volevo pensarci. Non lo guardai.
Non volevo vedere quello che avevo fatto. Sentii le sue ali fremere
un'ultima volta, e poi distendersi. Lui cadde in avanti, senza un suono. Non
poteva. Lui era morto. Non c'era più nulla da fare. Le mie gambe
cedettero in quel preciso istante. Caddi in ginocchio, usando la spada come
puntello, e chiudendo gli occhi. Il giorno era arrivato.
"così muore Eiron, grande eroe dei Tengu". Disse la
Matriarca, con voce rotta. Poi scoppiò in un pianto dirotto.
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Angolino di Akita:
mamma, come mi è dispiaciuto scrivere
di questo capitolo ._. amavo pazzamente Eiron ._. aha, ora vi starete chiedendo
perchè mai io sia così masochista da uccidere un personaggio che
amo ._. non lo so ._. so solo che è divertente xD ah, il suo suicidio si
ispira al rituale giapponese del seppuku, simpatico metodo di suicidio gentilmente
spiegatomi e suggeritomi da Carlos Olivera... grazie *__*
passiamo dunque al dunque:
per Carlos Olivera: ed
eccoci qui al capitolo che aspettavi *__* non sono molto soddisfatta, ti
dirò xD tu, invece, che dici? Ti piace? Proprio non so O.o sono reduce
da un'ora di scuola elementare (ditemi perchè devo dare
ripetizioni, altrimenti chiamata xD), e non avevo
voglia @.@ la Lsyn della capanna di Tijorn (che fa tanto capanna dello zio Tom,
oddio xD)...ah, bene O.o allora certe cose del seguito non so se ti
piaceranno xD fammi sapere che sono davvero curiosa *__*
pe
Selly: mia cara, ora lo so che mi ucciderai ma...dovevo @.@ io amo la
Matriarca, sai? xD è adorabile xD Eiron lo
amavo tantissimo ._. ma era un personaggio senza nessuno sbocco e così...finendo rimarrà
nella memoria, perchè i personaggi che ci piacciono di più
li amiamo all'immensità solo dopo che sono morti xD intanto, fammi
sapere *__*
ciao a tutti (e grazie, Zakato, per la recensione xD)
Eccomi qui, come sempre in orario perfetto xD vedrete, questo capitolo ha un po’ del tenero “modalità
Tijorn” xD
Oggi non ho voglia O.o
See you later!
Akita
-------
Rimasi quello che mi parve un lasso di tempo
incommensurabile a testa bassa, inginocchiata sul pavimento, l’eco dei
singhiozzi convulsi della Matriarca ed uno strano ronzio nelle orecchie. La
spada era l’unica cosa che m’impediva di crollare a terra. Eiron
era morto, morto anche per mano mia. Chiusi gli occhi, per non vedere nulla,
per non far cadere l’occhio su quello scempio a cui
io avevo dato una mano. L’avevo ucciso. Avevo versato altro sangue
innocente. Non potevo crederci. Non potevo! Che diritto avevo, io, di simulare
la mano del boia? La mia mente rifuggiva quel terribile pensiero. Eppure era
lì, insistente e martellante. Eiron era un amico. Mi aveva aiutata. Non
riuscivo a capire il perché del suo gesto. Perché aveva chiesto
di uccidersi, con tante cose che poteva fare? L’orgoglio e l’infelicità
si potevano spingere fino a quel punto? Ero stolta, e molto. Solo il fato
sapeva quanto sarei stata in grado di comprendere quei sentimenti. Ma io non lo
sapevo, allora, ed ero ben lungi dall’accettare quei tremendi pensieri. I
miei occhi erano asciutti, ma dentro di me piangevo. Mi riscosse dal mio dolore
muto una mano delicata su una spalla. Aprii gli occhi, e, evitando di guardare
il corpo rigido di Eiron, mi girai verso una figura che incombeva su di me.
Sentivo i singhiozzi disperati della Matriarca più vicini. Mi trovai di
faccia con il Mastro Guerriero,che mi tendeva una mano, mentre
con l’altro braccio sosteneva la figura esile della sua sovrana. Era
triste, ma negli occhi splendeva una luce fiera. “su, coraggio,
Lsyn…”. Mi disse, sorridendo mestamente. “andiamo via…
si occuperanno loro del resto…”. Gli obbedii, quasi fossi sotto ipnosi. Mi sentivo totalmente scombussolata.
Dopo avermi fatta alzare, lui prese la spada dalla mia mano, che ancora
grondava sangue, gentilmente, quasi con reverenza. Lo fissai con quello che
penso fosse uno sguardo totalmente vuoto. Poi lui, senza perdermi
d’occhio, si avviò fuori, parlando con voce sommessa alla
Matriarca, che ancora piangeva, con il cuore spezzato. Mi dispiacque per lei:
doveva sentirsi in colpa quanto me. So, ora più
che mai, come si sente, in quei momenti, in cui la perdita è più
cocente. I giorni passano, fluiscono stancamente, passano gli anni, e migliaia
di soli sorgono. Ma i morti ed i ricordi restano, sempre, nelle nostre memorie
e nelle tombe, impalpabili come il più mero dei fantasmi,
irraggiungibili come una stella, fonte di perenni tormenti e rimpianti. Mi
voltai, una volta, verso il corpo ormai inerte di Eiron, di cui si stavano
occupando la Mastra Guaritrice ed il Mastro Artigiano. Non so cosa mi spinse a
farlo, forse il bisogno di dare l’ultimo addio ad un essere così
nobile e fiero come lui, forse fu solo la curiosità, non so. Quello che
vidi mi terrorizzò a morte. L’avevano girato a pancia in su, ora, e lo stavano alzando da terra. Senza guardare
deliberatamente la terribile ferita che si era inferto, fissai il volto, che
ondeggiava stranamente sul collo, che per poco non avevo reciso. I suoi tristi
occhi verdi, spenti ed opachi, erano aperti, e la bocca atteggiata ad un
sorriso che, contrattosi per il dolore del colpo, era quasi diventato un ghigno
beffardo. Deglutii, improvvisamente con le gambe molli. Perché il
cadavere sembrò guardarmi, davvero, e prendermi in giro, dileggiandomi
apertamente e spietatamente per il gesto che avevo commesso. La suggestione provoca
cose davvero strane. Fui assalita dal tremore, e da un timore che non avevo
provato nemmeno in presenza dei cadaveri dei
Celestiali. Voltandomi di scatto, mi precipitai, malferma sulle gambe, fuori,
raggiungendo con uno scatto il Mastro Guaritore e la Matriarca, cercando
disperatamente di non pensare a quello che avevo appena visto.
Insieme, un gruppo sparuto ed addolorato, raggiungemmo gli
appartamenti della sovrana, stanze tiepide e comode, dai toni
dell’azzurro e del blu. Il giorno era avanzato molto, e, di tanto in
tanto, avevamo incontrato le prime guardie mattiniere, che, sbigottite, ci
avevano fissati apertamente, soffermandosi sulla loro dolente sovrana. Noi
avevamo fatto finta di nulla. Lei si era, pian piano, calmata, ed ora solo
pochi singhiozzi scuotevano il suo corpo magro. Si era raddrizzata, ancora le
lacrime che scorrevano sul suo volto fiero, ma aveva concesso al Mastro
Guerriero di aiutarla a camminare fino al suo salotto, un’accogliente
camera dai tendaggi e dal divanetto di un celeste chiarissimo, dalle numerose
finestre, che spandevano una luce allegra. Io li avevo seguiti,
traballante, così pallida in volto da aver spaventato il Mastro,
lo sguardo totalmente assente. Io ero vuota. Non pensavo a nulla, o meglio: nei
miei occhi era ancora impresso il ghigno crudele di Eiron, che stonava
così tanto sul volto disteso, il rumore sordo che la mai lama aveva
fatto penetrando nella carne del collo. Durante il tragitto, per fortuna,
ripresi coscienza di me stessa, e di quello che mi circondava…
ma le gambe ancora non avevano smesso di tremare. Era stata una
terribile mattina, un terribile risveglio. Accadde tutto come in un sogno. Il
Mastro Guerriero, dolcissimo e premuroso, ci fece sedere entrambe sul
morbidissimo divanetto, una manna degli dei, e poi s’inginocchio
di fronte alla Matriarca, prendendole una mano. Lei non diede segno di
sentirlo. Intanto, il suo volto dal lungo naso si era girato verso di me.
“pulirò io la spada, se me lo permetti…”. Mi disse,
cercando il contatto visivo, che io rifuggii. Non mi sentivo pronta a quello.
Odiavo quello sguardo severo, e fiero, da falco. Mi ricordava troppo Eiron. Mi
faceva vergognare di quello che ero, e di quello che fui. Mi faceva vergognare
di essere l’Ombra. Mi girai, imbarazzata, dall’altro lato, ed
annuii leggermente. Lo sentii alzarsi. “vi porterò qualcosa da
mangiare, presto…ne avete bisogno”. Ci disse, con un sospiro. Io lo
ignorai, e mi concentrai su una mattonella blu scuro. Com’era
interessante il disegno dorato. In che condizioni era la Matriarca?Sbirciai, obbedendo al mio improvviso
impulso, da un lato, per osservare la loro sovrana, e le sue reazioni. Era
lì,sguardo
spento come quello di Eiron, a gambe incrociate sul divano, le ali candide
serrate. Fissava il vuoto. Fui attraversata da un’ondata di dispiacere, e
d’inquietudine. Era stato un gran brutto trauma, per lei, per quella
dolcissima Tengu, così impenetrabile, ma così gentile. Io mi
stavo riprendendo, aiutata anche dall’abitudine, ma lei no. Avrebbe
sofferto a lungo. Povera amica mia. Scossi il capo, improvvisamente
infastidita. Ma che razza di pensieri erano, quelli? Che mi stava capitando? Considerare amici quelli che fino al giorno prima mi avevano
torturata? Cos’ero, idiota? Era il seme del cambiamento, ma io ancora non
lo sapevo. Strano come il destino a volte giochi in modo perverso e sleale, per
queste cose. Qualcuno si deve divertire molto, per questo. Quelle
considerazioni andarono immediatamente accantonate quando
vidi la bocca sottile della Matriarca aprirsi, e lei parlare, con una vocina
sottile che non sembrava la sua. “chiudi le tende, Kyrre…”.
Disse, senza guardarlo, atona, piombando poi nel silenzio più luttuoso.
L’ordine fu immediatamente eseguito, e piombammo in una penombra
riposante. Sospirai di rassegnazione. Non potevo ancora partire:
quell’esserino aveva bisogno di una mano, almeno nei primi giorni. Uno
scalpiccio, ed il suono di una porta che si chiudeva. Sobbalzai di spavento, e
mi girai verso il punto dove fino a poco tempo prima c’era il Mastro. Se
n’era andato. Finalmente. Sbuffai, un suono che, nel silenzio, mi parvesonoro come il
soffio del vento, e mi allungai sul divano, mettendo la testa sullo schienale,
e chiudendo gli occhi. Visto che avevo i mezzi per farlo, tanto valeva
riposarsi un po’. Non potevo far altro. Il dolore era ancora palpabile,
ed un po’ mi preoccupava. La Matriarca avrebbe sopportato tutto questo?
Rimanemmo per un po’ così, in silenzio, rilassante come poche cose
al mondo. Cominciai a scivolare sulla china del sonno. Mi ero quasi
addormentata, quando sentii qualcosa premere contro il
mio lato destro. Aprii gli occhi, improvvisamente, tirando il fiato per la
paura, con un rantolo. Mi bloccai, senza nemmeno sapere cosa
stessi facendo, in una frazione di secondo. La Matriarca si era
appoggiata alla mia spalla, raggomitolandosi accanto a me, come un bambina in cerca di protezione, come un’amica.
Avevo una delle sue bellissime ali a pochi centimetri dal mio naso. Mi faceva
il solletico. Mi trattenni giusto in tempo dallo starnutire. Quella Tengu mi
fece, inaspettata, una tenerezza immensa. Solo Tijorn, Junielle, Amarto e
Chekaril avevano osato un contatto così ravvicinato e confidenziale con
me, senza secondi fini, solo per sentirmi vicina. Nessun altro: tutti mi
temevano, troppo, tanto da non stringermi neppure una mano
quando si presentavano. Mi sentii improvvisamente vicina a quell’essere
alato: poteva essere mia figlia. Sorrisi, quasi senza rendermene conto, e le
posai una mano sul capo. Ero stata ammaliata dalla promessa d’amicizia.
Mi mancavano le attenzioni di mio fratello, e fui intimamente contenta di aver
trovato qualcuno che non temesse il mio aspetto mostruoso.
Forse si poteva ancora migliorare. “pensi che ora Eiron sia da qualche
parte?”. Mi chiese, all’improvviso, con voce smorzata,
accoccolandosi ancora di più, come in cerca di conforto. Scossi il capo,
senza darlo a vedere. Come no: nella terra. Come può esistere qualcosa,
oltre il caso? Eiron non sarebbe morto, né avrebbe avuto le ali mozze,
ed io non sarei stata lì. Il Regno non sarebbe stato in guerra, e gli
umani e le loro razze non antropomorfe non sarebbero esistite. Un mondo solo di elfi, prospero e pacifico. Un’utopia. Nessuno ci
aveva mai detto cosa ci fosse dopo. Le Spie non
avevano istruzione religiosa di sorta, non ne hanno avuta mai, per alcuni
semplici motivi. Anche la fede più solida si sgretola
quando la morte diventa un affare quotidiano. Ed una persona che smette di
credere diventa più fragile, perché perde il suo mondo. Sapevo
che lei credeva. Quindi nonpotevo dirle l’assenza del
mio credo, e le mie convinzioni. Non ora, e non in quel momento. L’avrei
ferita. “non lo so”. Mi limitai a risponderle, in un sussurro. Ci
fu una pausa. “non puoi rimanere nei nostri territori, Lsyn, con noi?”.
Mi domandò di nuovo, alzando lo sguardo dolente verso di me, speranzosa.
Serrai le labbra. Chekaril. Anche il mio dolore doveva terminare, anche il mio
tormento. No, Matriarca, non posso fare questo. Lui ha bisogno di me. Non avrei
mai potuto disertare una missione. Mai: quella era la mia vita, il mio destino.
Ancora non avevo compreso il perché di quelle tentazioni. Forse davvero
qualcuno cercava di dissuadermi dal partire. Ma io non l’ascoltai. Scossi
il capo, energicamente, contrariata. Ci fu un altro silenzio. “tira una
mia piuma, Lsyn”. Ordinò perentoriamente la Matriarca, il tono di
voce tornato inesplicabilmente quello di sempre. Fui assalita dalla sorpresa.
“cosa?”. Le domandai, guardandola, aggrottando le sopracciglia. Che
voleva da me? Tirarle una piuma? Non potevo, era proibito! Mi guadagnai
un’occhiata sprezzante. “tira una piuma, ho detto!”.
Sospirai. Era un ordine. Ed assoluto. Se era quello che voleva… cercando
di fare il più delicatamente possibile, presi l’ala più
vicina, e tirai una delle piume, quella che mi dava fastidio, facendomi prudere
il naso. La sentii fremere. Poi osservai quello che avevo fatto. Era una delle piume più lunghe, morbida e rigida. Superava in
grandezza il mio avambraccio. In un attimo, il tempo di prenderla, essa
cambiò leggermente colore, coprendosi di una stranissima patina iridescente.
Sobbalzai, e la strinsi forte. Avevo avvertito il freddo sentore della magia
emanare da quell’oggetto. Cosa stava mai succedendo? Io e la Matriarca ci
scambiammo uno sguardo. Io ero stupefatta, e raggelata, lei stranamente
soddisfatta. “sai….le piume Tengu non
cadono mai, se non tolte da qualcuno. Donare una piuma significa fiducia,
Lsyn”. Mi disse, ritornando ad accoccolarsi accanto a me, come in cerca
di sostegno. “ed ora, ti basterà averla con te per essere
riconosciuta come un’amica dei Tengu. Nessuno della nostra razza ti
potrà mai più toccare. Torna da noi, quando vuoi, e sarai la
benvenuta”.Strinsi le
labbra, sentendo lo spiacevole sentimento della commozione farsi strada in me.
Mi venne voglia di piangere. Che dono. Non ero degna, non potevo! Io ero una
Spia, una crudele assassina. L’avrei uccisa se solo avessi voluto, e
potuto. Il solo pensiero ora mi ripugnava. Le volevo bene, dannazione! Mi resi
conto di quella cosa solo in quel momento. Mi biasimai a lungo. Non ero
coerente. Non lo ero affatto. Trovavo simpatica una mortale! Una mortale, io,
l’elfa! Feci per parlare, per rifiutare quell’incredibile regalo,
quel pegno della sua amicizia, ma lei mi fulminò con un’occhiata
fin troppo familiare. Mi ricordò Lainay, quando io cercavo di dire la
mia, ed i suoi sguardi feroci poco prima di schiaffeggiarmi con violenza.
Sapevo a cosa stava pensando. Era il suo desiderio, d’accordo. Lei era la
sovrana. Quello era un dono inestimabile. Mi vergognai come una ladra. Le
sorrisi, arrossendo come una ragazzina. Davvero stupido. “grazie”.
Le dissi, abbassando lo sguardo. Lei ridacchio, una risata pregna di ottimi
presagi. Io, stupidamente, la seguii, senza nessun motivo. Di lì a poco,
ridevamo entrambe, come idiote, una risata anche un po’ isterica. La vita
doveva continuare.
------
Angolino di Akita:
sono davvero…stanca O.o
demotivata O.o non mi piace questo capitoloo >.< non mi piace >.<
vabbè, basta: passiamo dunque al
dunque.
Per Carlos
Olivera: davvero *__* ci sono riuscita?? Ne sono
davvero, davvero contenta *.* come ti ho già detto, è una cosa a cui non avevo minimamente pensato ._. me idiota ._. vabbè,
si troverà una spiegazione plausibile (perché sono capace di
andare a correggere il tutto, se non c’è O.o) ù__ù
è triste, si ._. che dici di questo capitolo? Ti ripeto, non mi piace
(ma quando mai un capitolo mi è piaciuto?? O.o)
._. lo trovo troppo rapido ._. ma oggi non ho la
minima voglia O.o vabbè, fammi sapere, dai xD
Per Selly:
oilà, che veemenza xD mi sono gustata la tua
filippica fino in fondo, davvero xD ehi, ti piaceva tanto il personaggio di
Eiron? xD quella spada tornerà moltissime volte,
fidati xD eh… se tu mi vuoi uccidere per questo…per altre cose che
farai? O.o oddio, non lo voglio sapere >.< qui tu mi raggiungi e mi
uccidi O.o (si, comunque, la risposta è quella xD
avrebbe odiato Lsyn per sempre se lei l’avesse rapito…e avrebbe
cercato in ogni modo di darsi la morte. Poi poverino… O.o) cosa ne pensi
del capitolo? Fai sapere *-*
Per Kylien:
ma dai xD mica durante i funerali ti metti a studiare lo
stato di decomposizione del cadavere? (me molto fine,
come vedi ù__ù). Beh, Lsyn stava cambiando…ma
solo ora si vede xD eh, si…la storia è più lunga di quanto
pensassi O__O sta diventando un mattoncino xDvabbè xD tu dimmi che pensi di questo dolce
capitolo xD
Allora, piccolo ma necessario avviso: questo
è l’ultimo capitolo che posterò fino al 14 settembre. Mi
dispiace, immensamente, ma vado in vacanza 10 giorni, e lì non ho
accesso al mio pc, né ad internet. Vacanze strane, e settembrine. Mah…
Mi dispiace L
D’accordo, ora vi lascio al capitolo.
See you later!
Akita
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Come imparai, o meglio, fui costretta ad imparare, dare troppa corda ad un Tengu non è mai la
cosa più saggia da fare. Soprattutto quando la creatura in questione
è una Matriarca con enormi complessi, con un infinito bisogno di donare
affetto. Soprattutto quando la mittente dell’affetto, io, era ancora
più impossibile dell’altra.
Con la scusa della mia estrema debolezza, dovuta a giorni
di stenti, e della ferita che, se non curata, rischiava d’infettarsi, fui costretta a rimanere in quel villaggio montano per circa
una settimana, alla mercé di una ragazzina alata ed un po’
depressa, con la quale finii per legare molto.
Furono giorni sereni, e luminosi, della quale serbo ottime memorie, che terrò per me fino alla fine
dei miei giorni. Devo ammettere che, una volta guadagnata la fiducia dei Tengu,
si poteva trovare anche piacevole, perfino divertente,
la loro quieta compagnia. Sebbene mortali, era il
popolo che, come dignità, più si avvicinava agli elfi. Gli
Insathi erano troppo alieni per considerarli amici. Mi
concessi un breve periodo di tranquillità, cercando di dimenticare la
mia missione, come non avevo più fatto da quando
avevo lasciato Tijorn.
Addirittura, per la prima volta nella mia esistenza dopo
l’incidente, non portai la maschera per giorni interi, senza imbarazzo o
tormento alcuno.
Vero, notai la solita, misteriosa, sparizione di specchi e
altre superfici simili, una premura sempre ben accetta, e, dopo una tremenda
sfuriata fatta ad un paio di piccoli che mi fissavano con insistente e morbosa
curiosità, nessuno osò più incontrare il mio sguardo, ma
per il resto fui accettata in maniera discreta.
Ebbi, finalmente, l’incredibile opportunità
di studiare, senza problemi, la vita ordinaria ed i riti più intimi dei
Tengu. Da quando si era sparsa la voce che Laila la
fornaia aveva salvato la vita alla Matriarca, ero benvoluta dovunque andassi,
addirittura nella caserma, tana dei reazionari più irriducibili.
Fui costretta a presenziare anche
al funerale di Eiron, la mattina dopo il suo suicidio, una cerimonia semplice,
ma che mi lasciò spossata. Il ricordo del suo involontario ghigno
sarcastico era ancora troppo vivido nella mia mente.
Il Mastro Guerriero mi restituì la spada che il mio
coinquilino mi aveva donato, perfetta, come appena forgiata, lo stesso giorno,
prendendomi da parte, per impedire alla Matriarca, che dopo due notti insonni
dava chiari segni di cedimento, di vedere quell’arma.
Quasi non riuscii a tenerla in mano: era la mia
immaginazione, o c’erano ancora tracce di sangue? Feci notare questo al
Tengu, che mi fissò con aria stranita, per poi sorridermi dolcemente,
stranamente comprensivo.
Ebbi il sospetto mi credesse per buona metà
totalmente matta. Rimanemmo per un attimo in silenzio, poi, guardando gli
strani simboli incisi su un lato della lama, osai fare una domanda, che mi
premeva da tempo.
“cosa significa questa
scritta?”. Chiesi, sinceramente incuriosita. Volevo sapere. Non potevo
andare in giro con qualcosa di sconosciuto inciso sulla mia spada. Poteva
benissimo essere un insulto alla monarchia elfica, o
chissà cos’altro. Sbagliavo. Forse avrei fatto meglio a
stare zitta. Vidi il mio interlocutore abbassare il volto, con una smorfia
dolente. Soffriva anche lui, ma non lo dava a vedere. La morte di Eiron, proprio quando era diventato un eroe, doveva esser
stato un durissimo colpo per tutti quelli che supportavano la linea moderata di
governo.
“è la nostra lingua”. Mi disse poi, con
un sussurro. “Eiron è stato il maestro d’armi della
Matriarca, prima che lei fosse disegnata per divenire la discendente, e poi il
suo più grande amico e confidente. Le era devoto. Quello era il suo
motto”.
Sorrise, un sorriso amaro, forzato, che non mi piacque.
“sempre fedele. Solo gli dei
sanno quanto…”.
Mi sentii improvvisamente in colpa, per chissà
quale motivo. Più conoscevo quella spada, e la
storia che c’era dietro, meno mi sembravo degna di essa.
Avrebbe dovuto essere seppellita con il suo padrone,
un eroe, non portata ed impugnata da una Spia, una sleale combattente
voltabandiera.
Quel motto sarebbe diventato il mio, dopo che
quell’arma ebbe assaggiato tanto sangue innocente, ed io
l’amarissimo frutto del rimorso.
Fedele, ma a qualcosa e qualcuno che mai avrei immaginato
di conoscere. Io, per fortuna, non lo sapevo. Non sapevo tante, tante cose.
Mi riscosse dai miei pensieri la voce, ora dura, del
Mastro Guerriero. “Hari usò la sua spada per tarpargli le
ali”. Esclamò, pieno di comprensibile astio. “aveva molta fantasia quando si trattava di far soffrire il
prossimo… Eiron avrà pensato in un gesto simbolico per lavare via
l’onta dalla sua arma, che l’aveva servito così bene. Tieni fede a questa nuova dignità,
Lsyn…”.
Mi disse, solenne, prima di voltarsi ed andarsene. Mi
sembrò un commento implicito rivolto alla mia vita, ed al mio mestiere. Non seppi cosa pensare, e mi sentii ancora
più umiliata. Rimasi tutta la giornata assieme alla Matriarca,
accompagnata dalla presenza confortante e gentile della Mastra Guaritrice, che
mi aveva in simpatia, ed un po’ di blando sedativo, che mi stordì
abbastanza per non pensare.
E passò anche quella
settimana.
Essendo costretta dalla stessa sovranaad essere perennemente in sua
compagnia, presi a trascorrere moltissimo tempo con gli Anziani. Imparai a
conoscere, in quel brevissimo e bizzarro periodo, dove mi parve di non essere
me, presagio di un cambiamento molto posteriore, e ben
più grande, quelle quattro figure.
Tutti sembravano incantati da me nello stesso modo in cui
io lo ero di loro. Rimarranno memorabili le eroiche schermaglie politiche e
culturali tra me ed il Mastro Artigiano, un Tengu dallo stranissimo umorismo
cinico. Quasi alla mia partenza, si scoprì finalmente la matrice ed il
mandante del tentato assassinio.
Una trama degna del più torbido tra gli intrighi di
Galinne. Era stato trovato, negli effetti personali di Hari, il cui cadavere
era stato buttato da una rupe, tra il disprezzo generale, un elenco di tutti
gli appartenenti ad un movimento di matrice tradizionalista di un altro
villaggio, nettamente più chiuso di quello. I membri erano quasi tutti guardia-confini. Alcuni, prevedendo la caccia, erano
riusciti a fuggire, ma avevano catturato gran parte dei traditori, che avevano
cantato.
Ilvecchio Mastro Guerriero lavorava da ben cinque anni per un
villaggio vicino, che da tempo era in guerra con il suo. Era riuscito ad
entrare nelle grazie della Matriarca, che condivideva molte sue idee, ed aveva
cercato, in ogni modo, di destabilizzare il suo
potere, agendo nello stesso tempo da restauratore delle antiche, sane, abitudini
Tengu, come quella di gettare gli stranieri da un burrone.
Con l’elezione della nuova sovrana, Hari era
convinto di aver trovato, visto la giovane età di quell’ultima, un
valido supporto, ed un burattino molto semplice da gestire. Non era stato
così, e, come ultima mossa, gli era stato ordinato l’assassinio.
Peccato che l’assassino fosse così maldestro,
e sfortunato. Era incappato in una Spia professionista, che per secoli aveva
sguazzato negli intrighi. Ed era stato beccato.
Avevano già le prove per dimostrare il coinvolgimento dell’altro
gruppo di simili. Si stava scendendo sul piede di guerra. Tempi
duri si prevedevano per l’altra Matriarca, e per il suo popolo.
Passò la settimana, tra battibecchi e confidenze,
risate ed indagini.
Finalmente, una mattina, momento da me estremamente
odiato per le accurate visite ed esperimenti sull’aura che le cicatrici
emanavano da parte di un’interessatissima Mastra Guaritrice,
quest’ultima, dispiaciuta, decretò che ero ormai abbastanza in
salute per poter partire.
Fu per me una sorpresa totale: mi ero abituata alla
compagnia dei Tengu.
Mi assalì, improvvisa, una fitta
d’apprensione. D’accordo, Chekaril si faceva sempre più
vicino e tangibile, ma, per una volta, il pensiero non mi suscitò gioia,
anzi.
No.
Non volevo stare sola, non volevo
ricominciare la mia tormentata ricerca! Volevo stare in pace, tranquilla, con i
miei amici!
Ora comprendevo perfettamente il disagio e la
preoccupazione che avevano attanagliato Tijorn. Sapevo benissimo che, una volta
tornata sola con i miei fantasmi, l’Ombra avrebbe ripreso il sopravvento.
Ero dilaniata, divisa, strappata in due parti, che
lottavano per la supremazia. Non sapevo che fare.
In preda all’incertezza, corsi dall’unico faro
stabile che la breve vacanza dai Tengu mi aveva concesso di avere: la
Matriarca. Lei era nel suo studio, scrivendo chissà cosa. Non si scompose quando mi vide entrare precipitosamente, sbattendo
la porta, con un’espressione terribile in viso. Dalla morte di Eiron, quello che le era rimasto dell’infanzia si
era dissolto. Gwen stava diventando una seria creatura, composta e dignitosa,
una vera Tengu. Ma non aveva dimenticato la
pietà, l’umanità che la distingueva. Era così
diversa da Lainay, e dal suo dispotismo crudele ed arbitrario. Solo ora me ne rendevo conto, solo ora capivo. Lei mi
guardò, aggrottando le sopracciglia. Poi sorrise, calma, alzandosi dallo
scrittoio ed avvicinandosi.
“e così”. Mi
disse, alzando il mento, senza traccia di dolore alcuno negli occhi scuri e
fieri, senza preamboli. “devi partire”.
Lei sapeva. Non sembrò addolorata. E questo mi ferì ancora di più. Credevo di
aver trovato un’amica! Cos’ero stata,
nient’altro che uno strumento? Un burattino, da buttare quando non serve
più? Sentii lacrime di rabbia scendermi sul viso,ed un terribile groppo in gola.
Mi sentii abbandonata, e sola. Una terribile solitudine scese in me, una
terribile consapevolezza che, nonostante tutto, ero sempre un’emarginata,
finche non avessi finito la mia missione. Lo capii:
l’unica possibilità di salvezza era quella di trovare Chekaril. E solo quella.
edendo la mia reazione, la Matriarca
cambiò espressione, ed atteggiamento. Mi sorrise, dispiaciuta, ed
addolorata, un dolore composto.
“Lsyn…”. Mi disse, abbracciandomi con
calore. Non mi mossi, né le risposti. Era ora
di prendere le distanze, ora di tornare sottomessa, di tornare
la viaggiatrice, la pellegrina. “su…non fare
così…”.
Forse un po’ troppo bruscamente, mi discostai. Ma
lei non sapeva quanto stessi soffrendo, quanto fossi
riluttante. E pensare che, all’inizio di tutto,
sarei scappata come un lampo da lì. Mi ero davvero legata a quella
pennuta. Era troppo tardi per rimpiangerlo. Ero andata troppo oltre.
se la Matriarca
accetta…”. Dissi, impedendo alla mia voce di tremare, tergendomi le
lacrime. “io andrei”.
Se l’avessi ferita con
quelle parole, non lo diede a vedere. Mi sorrise, invece.
“ti aspettano Kyrre ed Andrei al limitare del
villaggio, con tutte le tue cose, Lsyn. Ti accompagneranno fino al confine con
l’Impero”. Mi disse, chinando lievemente la testa.
L’ineluttabilità delle cose.
Un addio.
Seppi, senza aver bisogno d’indovinare, che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista.
Ed allora, andarono a monte tutti
i tentativi di dominarmi. Cominciai a tremare, senza rendermene quasi conto, ed
a piangere. “non voglio andare, Matriarca… non voglio
andare!”.
Sibilai, con una voce spezzata che non era la mia. Lei
scosse il capo, e mi abbracciò di nuovo. Scoppiai in singhiozzi,
perfettamente conscia della mia debolezza. Ma non
m’importava, non m’importava fare la figura della bambina. Sarei
partita. Tutto sarebbe finito. L’Ombra stava tornando.
Ancora non capivo quanto grande fosse
stato il mio cambiamento, e che l’Ombra era morta per sempre.
Rimanemmo così un bel po’.
All’improvviso, irrigidendosi, mentre io ancora
piangevo sulla sua spalla, lei fece qualcosa che non mi sarei
mai aspettata. Si ritrasse, fieramente, scostandomi con un gesto brusco,
lasciandomi stupefatta. Mi guardò con volto duro, e severo, un volto da regina, e poi si voltò. Era davvero
cambiata, quella che una volta era stata una giovane Tengu che si era
accoccolata contro di me, distrutta per la morte dell’amico. Aprii la
bocca a mezzo, troppo stupita per pensare. Mi stava cacciando, forse per
impedire di crollare lei stessa.
Quella era la mia missione, ed avrei dovuto far di tutto
pur di portarla a termine, senza intromissioni da parte di nessuno. Lei non
poteva impedire il mio destino. Lo capii improvvisamente, e mi vergognai del
mio comportamento, forse un po’ infantile.
Ma io ero una bambina nei sentimenti
puri e genuini, un’amicizia corrisposta, ma non devota. Sentii pizzicarmi
le gote, e seppi di essere arrossita. D’accordo, era ora di andare.
Sospirai e poi, senza parlare, mi voltai, e, simulando
calma, uscii dallo studio.
Non appena chiusi la porta cominciai a correre
disperatamente verso il punto in cui i due Tengu mi aspettavano, tergendomi le
lacrime che ancora scorrevano. Di nuovo in viaggio. Via, verso l’Impero.
Per una volta, stranamente, il pensiero non suscitò alcuna gioia in me.
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Angolino di Akita:
ok, io il mio avviso l’ho
fatto ù__ù quindi nessuno mi uccida xD
perché nessuno ha commentato, tranne il
solito, benedetto, Carlos Olivera?
._.
Vabbè, passiamo dunque al dunqueJ:
per Carlos Olivera: ah,
sai, sono davvero contenta ti sia piaciuto, come capitolo xD eh, si…il
suo cambiamento è davvero irreversibile xD piuma e spada lo saranno da
ricordo xD ho avuto un’idea mentre scrivevo, ma non sto a parlartene qui
xD che dici del capitolo? Non se sono molto soddisfatta, sai…
non avevo molta voglia, oggi (il cervello è andato in vacanza senza di
me!!!). tu che ne dici? Aspetto un tuo preziosissimo
commento *__* ci conto *__*
Che giornate, che vacanza @.@
strana alla massima potenza O.ò
Mamma, non voglio ricordare xD
D’accordo, ora vi lascio al capitolo (che
non è granché perché un po’ ho perso il mordente, ma giuro che mi rimetterò in pari xD)
Domani inizia la scuola T____T
Non voglio, non voglio (tanto più che tra
qualche mese mi aspetterà la maturità T.T)!! >.<
Vabbè
xD
See
you later!
Akita
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Andrei, il Mastro Artigiano, e il caro Kyrre, stranamente
tranquilli e silenziosi come non li avevo più visti dal giorno della
morte di Eiron, mi aspettavanolì dove la Matriarca mi
aveva indicato, in un punto discosto, in modo da rendere quasi invisibile la
mia partenza.
Il biondo Mastro Guerriero portava la mia borsa, assurdamente
gonfia e piena.
Durante la folle corsa per arrivare lì, il dolore
che provavo si era smorzato, tramutandosi nella determinazione più pura.
Una volta trovato Chekaril, e riportato alla sorella,
nulla mi avrebbe impedito di andarmene dal Regno, di fuggire dal mio passato,
di diventare finalmente quello che non ero mai stata.
Mi si forniva una possibilità egregia.
L’ultima possibilità. Ombra, in un modo o nell’altro,
sarebbe morta, ed io avrei potuto vivere in tutta tranquillità, magari
portandomi dietro Tijorn, con le piccole ed Amarto. Sarei tornata lì, da
quei gentili pennuti, con i miei più cari affetti, e, forse, avrei avuto
la vita felice che mi meritavo.
Illusioni, pure e semplici illusioni, sebbene pie come le
intenzioni.
Ero una dannata ingenua, una bambina umana.
La vita è più contorta di quanto chiunque possa mai prevedere, e nessuno sa ildove il destino vuole si approdi.
Ancora provo un vago, dolente, stupore, per gli
avvenimenti che sono arrivati a segnare indelebilmente la mia stracca e
completamente inutile esistenza.
Ancora non riesco a crederci, non riesco a credere nella
malignità del caso.
Per me non ci sarà mai tregua.
Ma io non sapevo, non potevo sapere! Mi avviai verso i due
Tengu a testa alta, tergendomi le lacrime rimaste, lo stimolo dell’ultimo
briciolo di fierezza razziale a sostenermi. Dovevo essere forte. Tanto, sarei
tornata.
Entrambi mi sorrisero con sollievo, forse aspettandosi un
fragile essere devastato.
Non mi piacque quella prova dei loro sentimenti nei miei
confronti. Dimenticavano la mia identità, e quanto fossi
forte?
D’accordo, era meglio non esagerare. Era solo una
stupidissima partenza, nulla più. Poi sarei tornata.
Decisi di archiviare la questione, che non mi piaceva, non
mi piaceva per nulla, e passai rapidamente ad altro. Fissai il mio bagaglio,
enormemente lievitato, con meraviglia, e sarcasmo. Alcune cuciture erano sul
punto di saltare.
Mentre ci avviavamo, Andrei in testa, affiancai Kyrre, che
portava la vecchia sacca.
“si può sapere chi diavolo ha riempito fino a
questo punto la mia borsa?”. Chiesi, con un tono forse un po’
troppo acido, ma completamente legittimo. Dimenticavano che io non ero
esattamente un gigante nemmeno nella mia forma migliore, che non avevo? Il
biondo Tengu arrossì vistosamente. “chiedilo
alla Mastra Guaritrice”.
Disse, secco e sbrigativo, allungando il passo, tanto che
fui costretta quasi a correre per raggiungerlo. Schifose gambe lunghe.
“è convinta tu sia denutrita”.
Sospirai, e scossi il capo, mentre Andrei,
davanti, ridacchiava, come suo solito, e Kyrre s’incupiva.
Non l’avevo mai visto ridere. Era sempre rimasto
così, calmo o cupo, mai allegro. Continuammo a camminare, in silenzio,
fino a raggiungere uno strapiombo. La sola vista di quel profondo baratro mi
diede le vertigini. Non osai guardare giù, e, per distrarmi, posai lo
sguardo attorno.
Avanti a noi, un dolce e verdeggiante paesaggio collinare,
punteggiato da radi, piccoli villaggi, che spiccavano colorati alla luce del
bel sole montano. Terra d’Impero.
Il mio viaggio stava per continuare. Mi assalì un
vago malessere.
Le mie prove erano ben lungi dall’esaurirsi, e
quella non era stata che breve vacanza. Improvvisamente, ci fermammo, ed
entrambi si girarono verso di me, Kyrre ora calmo, Andrei inspiegabilmente su
di giri.
Li guardai con curiosità. Non mi piacque il suo
comportamento: sembrava si stesse divertendo per qualcosa che sfuggiva alla mia
comprensione.
Non ero certa di voler sapere di cosa si trattava.
I due Tengu si guardarono, ed un altro sorriso si
aprì sul volto sardonico del Mastro Artigiano, mentre il compagno
scuoteva la testa, rassegnato.
Mi sentii irritata. Perché
doveva essere così idiota? Si fece strada un pessimo presentimento in
me. La mia mano scatto subito all’elsa della mia nuova spada.
Ci guardammo per un bel pezzo, in silenzio. Poi Andrei
cominciò a parlare, con voce venata di assurdo divertimento.
“la strada qui finisce per i tuoi piedini, piccola
elfa!”.
Lo fissai con un misto tra perplessità e fastidio.
Piccola elfa?
Io avevo, probabilmente, più del triplo dei suoi
anni, senza contare che l’avrei potuto uccidere senza nemmeno che lui se
ne accorgesse.
È sbagliato divertirsi alle spalle delle persone di
bassa statura, davvero sbagliato.
M’inquietò, inoltre, quella frase. Cosa stava dicendo? Perchè mi avevano condotta fino a
quel terrificante burrone? La presa sull’elsa si rafforzò.
“Andrei vuole dire che ora la strada per te senz’ali si fa
impraticabile”.
Interloquì velocemente Kyrre, con apprensione
più che evidente, fissando la mia spada con circospezione. Si era fatto
davvero cauto da quando mi aveva sfidata in un duello
amichevole, con lunghi bastoni, qualche giorno prima, beccandosi un calcio nel
basso ventre ed una tremenda bastonata in testa solo per avermi trattata con
eccessiva galanteria. Aveva imparato davvero bene la lezione, e conosceva i
miei limiti.
Il sospetto che avevo si fece più forte man mano
che passavano gli attimi, ma lasciai la spada.
Il Mastro Guerriero sembrò rilassarsi, mentre Andrei, sempre dietro di lui, era uguale a prima. Stupido
Tengu impudente.
Lo fissai con un’occhiata assassina, e lui mi
sorrise. Mi stava prendendo in giro. “allora? Come devo scendere?”.
Chiesi, seccamente. Cominciavano a darmi fastidio tutti quei preamboli, peraltro assolutamente
inutili.
Sentii una strana inquietudine quando
vidi il Mastro Artigiano avvicinarsi di un passo, ed allargare le braccia, con
un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Kyrre distolse lo sguardo e, per la prima volta da quando
lo conoscevo, si lasciò scappare un sorrisetto. La cosa mi sconvolse. Il
presentimento stava per divenire certezza. Oh, no.
“ti dobbiamo portare noi”.
Disse lui, con voce leggermente soffocata, forse per lo
sforzo di non ridere. Ecco cosa mi stavano nascondendo.
Una discesa tra le braccia di un Tengu non era esattamente
il mio modo preferito di viaggiare, soprattutto se il Tengu in questione era
Andrei. Se avessero potuto cadermi le braccia,
l’avrebbero fatto.
“allora, visto che Kyrre è già pieno
di cose, ti porto io!”.
Andrei mi si avvicinò ancora di più, mentre
gli occhi gli brillavano di divertimento a stento
represso, spalancando le braccia.
“vieni qui, mia minuscola
am…”.
Eh, no. Quello era davvero troppo. Tutto ma non quello.
Non accettavo altre prese in giro.
Prima che potesse aggiungere
altro, colpii. Un calcio ben assestato in punti nevralgici è davvero
utile. Ed ebbi l’estremo piacere di zittire l’impertinente e
fastidioso Tengu, facendolo boccheggiare e piegare in due, sopraffatto dal
dolore.
Sogghignai.
Quello si meritava. Non penso avrebbe più osato
trattarmi come Laila la fornaia.
Kyrre non ce la fece, e si lasciò scappare una
grassa risata, mentre il Mastro Artigiano era quasi a terra, guardandomi con
occhi stupiti, inondati di lacrime di dolore, senza più sorridere. Fu
una vera soddisfazione.
Alla fine, trovammo un accordo.
Quando un addomesticato Andrei si
riprese,guardandomi truce, camminando in modo davvero buffo, senza osare
più parlare, prese la borsa, incaricandosi di portarla lui, ed io finii
per essere portata da Kyrre, rispettoso e delicato.
Mi preparai, senza avere la minima idea di quello che
stava per succedere.
Per fortuna, tra tutte le mie fobie non ci sono le grandi
altezze. Anche se nulla potrà mai più
prepararmi a quell’impresa scioccante. Non avevo, ovviamente, mai volato.Fino a quel momento, avevo immaginato
scalassero la montagna, svolazzando quando ce
n’era bisogno.
Non fu così per nulla.
Entrambi, il Mastro Guerriero tenendomi saldamente tra le
braccia, si sporsero terribilmente sull’abisso.
“tieniti forte e chiudi gli occhi, Lsyn”.
Mi mormorò il Tengu nelle orecchie, mentre
camminava.
Non ebbi nemmeno il tempo di chiedermi il perché di
quelle parole. Mi spaventai a morte quando entrambi,
ad ali chiuse, si lanciarono nel vuoto, in una picchiata folle.
Sembrò quasi che gli organi in me fossero spariti
completamente, facendo spazio al vuoto più assoluto.
Ero a testa in giù. Strillai di terrore, e chiusi
gli occhi, stringendomi forte a Kyrre. M’imposi di non guardare, di non
pensare, di non fare assolutamente nulla. Mai più mi sarei fidata dei
Tengu, mai più. Dopo quello che mi parve un
attimo, senti un battito, ed uno strattone.
Rallentammo
considerevolmente, mentre la vertiginosa picchiata si trasformava in una dolce
discesa. Dopo pochissimo, toccammo terra, con un tonfo leggero. Mi sentii
sfiorare la testa. “Lsyn…”.
Disse il Mastro Guerriero, chiudendo le ali con uno strano
fruscio. “su…scendi…”.
Mi decisi ad aprire gli occhi, e muovermi un po’.
Eravamo ai piedi di una verdissima e dolce collina.
Sorrisi. Il viaggio da ora in poi, sarebbe stato lievemente più facile.
Niente psicopatici alati in giro, pronti a fulminarmi ad ogni piè
sospinto. Nell’Impero gli uomini non lo fanno. Non hanno una potenza
magica necessaria. La loro razza, in quel periodo, si era notevolmente
imbarbarita, come se non lo fosse stata in passato.
Però erano ugualmente pericolosi. Piombai a terra
in maniera alquanto sgraziata, ondeggiando un po’, ed allontanandomi
leggermente dai due.
Ci guardammo, estremamente seri. Era venuta l’ora di altri addii. Il Mastro Artigiano fu il primo a spezzare
il silenzio.
“sebbene per poco tu non mi abbia trasformato in una
Tengu…”.
Disse, con un sorriso doloroso. Cercava di scherzare, ma
il suo sguardo era serio.
“mi ero affezionato a te. Pazienza…”.
Io lo guardai, e sorrisi. Dannazione, io per prima mi ero
affezionata a loro!
Non potevo lasciarmi andare ad altre manifestazioni di
affetto, peraltro nettamente fuori luogo in un territorio molto pericoloso come
quello.
Dovevano andarsene, e subito. Loro risposero al mio
sorriso, per poi guardarsi.
Kyrre annuì leggermente. Entrambi, allora, fecero
qualcosa che mi lasciò di stucco.
Rimasi a guardarli, spaesata, mentre Andrei estraeva una
strana cordicella nera e sottile dalla sua tasca, e Kyrre quattro piume dalla
sua.
Guardai con attenzione quei quattro oggetti. Tre piume
erano lunghe, piume di ali, mentre la terza era molto
più piccola e lanuginosa. Una era nera come ebano, l’altra
leggermente ingrigita. Le due rimanenti, incluso la piccola, bianche.
Mi sentii invadere dall’incredulità, mentre
fissavo i due armeggiare con la cordicella, legando in modo strano tutte e tre
le piume, ai lati le scure, in mezzo le chiare, secondo quello che mi parve un
disegno prestabilito. Non poteva essere.
Tutti e tre Anziani, Matriarca inclusa (mi ero a lungo
domandata dove fosse finita la piuma che mi aveva donato), mi avevano donato un
pegno della loro amicizia e stima.
Partivo da lì carica di letizia e doni. Finalmente
conclusa l’operazione, Andrei si avvicinò a me, stranamente serio,
mantenendo la corda con solennità.
“questa, Lsyn”.
Disse, avvicinandosi, e sistemandomi la corda con un gesto
rapido attorno al mio collo, quasi gettandomela addosso, come fosse un aspide.
Sentii uno strano scatto, e fu solo il buonsenso ad
impedirmi di andare a tastare il tutto. Lui si allontanò, e riprese a
parlare, guardandomi negli occhi.
“è un pegno di amicizia. Ovunque i non
antropomorfi ti riconosceranno come degna di stima, Insathi, Tengu o Inu che
siano.
Il Consiglio del nostro villaggio ti ha accettata come sua
abitante onoraria. Vieni, quando vuoi, e sarai la benvenuta.
Nessuno potrà mai togliere queste piume o questa
corda dal tuo collo senza il suo esplicito ordine. Sei legata a noi”.
Lo sguardo si fece molto severo, ed io distolsi il mio.
“non dimenticarlo”.
Sorrisi, trattenendo a stento improvvise lacrime di
commozione. Non ero mai stata così amata, così rispettata da
Lainay. Mai.
Di nuovo il mio cuore si riscaldò.
“ci rivedremo, lo prometto…”.
Dissi, alzando lo sguardo, grata, verso i due Mastri,
entrambi con un sorriso dolce stampato in viso.
Kyrre mi porse la borsa. La presi, quasi curvandomi per il
peso. Accidenti. A volte la Mastra Guaritrice era troppo premurosa.
“fa’ ciò che devi”.
Mi disse solo, solenne e serio come sempre. Annuii.
Quell’episodio parve farmi tornare tutto il coraggio
di cui avevo bisogno. Feci un respiro profondo.
“arrivederci, allora”.
Non sapevo che sarebbe stato un addio. Vorrei tanto
rivederli, abbracciarli di nuovo, scherzare con loro.Ma non posso.
Questi confini sono per me una prigione.
Non potevo saperlo, e fu quasi con speranza, e tanta
forza, che li vidi inchinarsi buffamente, ed avvicinarsi per una breve stretta
di mano (o, nel caso di Andrei, un buffetto sul capo, ma per una volta non me
la presi), prima di aprire le ali e, con un balzo armonioso, spiccare il volo.
Rimasi a guardarli fino a quando
lo strapiombo me lo consentì, fino a quando non sparirono oltre il
crinale. Con un sospiro, piena di tristezza e forza nel tempo stesso, mi voltai
verso la collina, prendendo la borsa efacendo il primo passo.
La mia vita ora dipendeva solo dalla cautela. E ce ne sarebbe voluta tanta. Mi avviai verso il sole a testa bassa,
in allerta, pronta a scattare per ogni minimo rumore. Lateek mi aspettava.
---------
Angolino di Akita:
dopo la mia vacanza, eccomi qui,
tornata, miei fedeli e stoici lettori xD nuove idee ballonzolano allegramente
per la mia testolina, e di questo sono contenta xD quanto mi siete mancati xD
passiamo velocemente al dunque:
per Carlos Olivera: ho
adempiuto alla mia promessa ;P eccomi qui, con esattamente (ora che scrivo) 11
minuti di ritardo sulla tabella di marcia ù_ù onta e vergogna
>.< vabbè xD vado molto, molto di fretta, non so perché, ma
ti dico che un po’ di suspance è quello che ci vuole ;P te lo meritiJ no, no xD vabbè xD ciao!
Per Selly:
ovvio che è accettabile xD ma a me piacciono
queste scene, che ci vuoi fare xD Lsyn cambierà, e di molto xD
già si capisce che diventerà xD io sono crudele, cara, sappilo xD
anche in questo caso sto correndo, e molto xD grazie J mi diverto, oh se mi diverto xD ciao, e fammi sapere!
Le terre degli umani sono davvero splendide, lo ammetto, e mi piacque
davvero attraversare quelle fertili valli
Le terre
degli umani sono davvero splendide, lo ammetto, e mi piacque davvero
attraversare quelle fertili valli. Basandomi sulle mie scarse conoscenze della
topografia dei luoghi, percorsi il sentiero più breve che da Uruk
portava a Scmen, battendo strade a volte quasi impraticabili, sconosciute o
poco frequentate, attraversando il dolce paesaggio collinare. C’erano
ancora segni di una grandezza passata: una volta i regni umani erano stati
incredibilmente fiorenti, luoghi incantevoli e pacifici, dove tutte, o quasi
tutte, le razze erano tollerate, dove i più grandi maestri ed artigiani
erano in competizione perenne, ma amichevole, con i
mastri elfici, migliorandosi e migliorando, insegnando ed apprendendo. Ero abbastanza
anziana per ricordare tempi del genere, tempi felici e
sicuri in cui si poteva arrivare alla costa senza nessun problema. Era tutto
andato in frantumi cinquant’anni fa, ma all’epoca ero già in
viaggio, e non conoscevo bene la storia. Da quando si erano costituiti Regno ed
Impero, i rapporti tra noi ed i deboli cugini umani si erano irrimediabilmente
guastati, fatto molto aiutato dai continui scontri. Tutti ci temevano, temevano
la terribile potenza della nostra dorata sovrana. La crisi era avanzata, ed il
sospetto strisciava. Fatto sta che tutte le terre, specialmente quelle vicino
ad i confini con il Regno si erano spopolate durante gli anni, per vari motivi:
avevo, più volte, incontrato cicatrici di
vecchie guerre. M’imbattei a più riprese in resti di accampamenti,
ormai inghiottiti dalla vegetazione, piccoli villaggi abbandonati, ormai nient’altro
che ruderi, e rovine di signorili abitazioni. Ben presto, però, qualcos’altro
giunse ad attirare la mia attenzione, catalizzandola, ed entusiasmandomi sempre
più. Mi ero preparata, ben sapendo la situazione, ad un territorio
spasmodicamente controllato, pieno di pattuglie di soldati, abilmente camuffati, ma crudeli e sanguinari con gli stranieri che
cercavano di passarla liscia, senza passare la dogana, che si situava nei dintorni
di Zakadi. Quello era stato un punto nevralgico, appetitoso dal punto di vista
agricolo e strategico. Lainay aveva più volte tentato di mettervi le
mani sopra, ma senza nessun risultato. Tutte le mie precauzioni, tuttavia,
furono del tutto inutili. Non c’era nessuno. Nemmeno
di notte, durante le mie veglie affannose, riuscivo a scorgere fuochi o ulteriori
segni di soldati, o cittadelle fortificate. Solo alcuni
piccoli villaggi, ma niente di più. Gli uomini sembravano aver
abbandonato quel pezzo prezioso di terra. Mi sentii inquieta. Ero fuori dal mondo da molto tempo: il mio istinto da Spia mi diceva che stava
per succedere qualcosa di grosso, di molto grosso. Dovevo indagare. A metà percorso, ormai assalita dalla più
tremenda inquietudine, mi arrischiai anche a scendere dalle colline,
girovagando di notte come un cane selvatico per i campi di grano e le case dei
contadini, spiando e raccogliendo informazioni. Gelai. Seppure fosse ormai
quasi stagione di raccolto, il momento in cui il campo ha più bisogno di
cure, nessuno pareva occuparsi di esso. Le erbacce
crescevano liberamente in mezzo alle spighe, che avevano un colore piuttosto
malsano, anche se dedussi, da molti particolari, che il raccolto fosse stato
abbandonato di recente. Gli agglomerati erano più miseri del solito,
come vuoti. Una notte, vinta ormai dalla
curiosità, mi arrischiai a spiare in una casa, dopo essermi accertata
che tutti dormissero. Entrai, silenziosa e furtiva, nella
minuscola abitazione, che doveva aver visto giorni migliori. In casa non c’erano
altro che una vecchia scarna, una donna e due piccoli.
Nessuna traccia di uomini o ragazzi. Ripetei l’esperimento per quattro
altre volte. La scena era la stessa: l’unico umano maschio che avevo
incontrato era stato un neonato. Non ero stupida. Allontanandomi da quel luogo,
riprendendo la mia marcia forzata, capii: una guerra era in corso, da poco
tempo. E sapevo contro chi. Ci potevo scommettere la
pelle. Ancora camminando al buio, scossi il capo: ecco cos’erano stati
tutti quei movimenti di truppe, quel minaccioso accentramento di potere a cui aveva accennato Isnark! Nonostante la situazione fosse
tutt’altro che rosea, mi sentii segretamente felice: la Regina si sentiva
protetta, si sentiva con le spalle coperte. Sapeva che io sarei riuscita nel
mio intento. Sapeva sarei riuscita a trovare Chekaril. E, una
volta risolto quell’increscioso contrattempo, la presa dei
territori umani sarebbe state più che facile, un giochetto da infanti. Allungare
le mani su quella considerevole fetta di territorio era da sempre stata la sua
più grande ambizione: erano cinquant’anni che tentava, in un modo
o nell’altro, di accaparrarsi almeno una piccola regione. Non ci era mai
riuscita: la mancanza di Chekaril, svezzato, cresciuto e maturato tra le armi
ed i soldati, si faceva sentire. E lei non poteva rischiare troppo, non quando non c’era un erede al trono di linea
diretta a garantirle la successione, e la stabilità del regno. Mi sentii
follemente gioiosa, in uno stato d’esaltazione che durò qualche
giorno. Reagii, ovviamente, come ogni elfo che si rispetti:
felice di accaparrarsi nuove terre dove far fiorire le nuove generazioni, senza
più guerre. Ma c’erano anche altre motivazioni, ovviamente, molto
più personali. Era meraviglioso: avrei avuto anche io una fetta di
gloria, tutta per me. Avrei concluso la mia carriera in grande, mi sarei
guadagnata la stima perpetua della casata reale. Forse, il mio ritiro non sarebbe
stato difficile come previsto. Meglio sbrigarsi, dunque, a ritrovare Chekaril,
il mio adorato. Sebbene già forzassi abbastanza le tappe, mi costrinsi
ad aumentare ancora di più il ritmo di viaggio, arrivando a dormire a
mala pena una mezz’ora per notte, e mangiare durante il cammino, senza
distrarmi minimamente. Le tracce della cura amorevole dei miei dolci amici
Tengu sparirono, ed io tornai fiaccata nel corpo, anche se non nello spirito. Ero
molto affaticata, ma avevo una nuova fede a sostenermi, una nuova speranza. Già,
me stolta, immaginavo il ritorno a casa, l’unica ossessione, la mia nuova
ossessione: Chekaril mi sarebbe stato grato, e mi avrebbe tenuta in considerazione.
E, chissà, magari si sarebbe di nuovo innamorato di me, nonostante la
mia bruttezza. Lainay mi avrebbe accolta in pompa magna, come un’eroina,
e tutti si sarebbero inchinati a me. La guerra sarebbe incominciata sul serio,
e stavolta l’Impero sarebbe stato schiacciato. Gli umani sarebbero stati
decimati, e controllati, com’era giusto che fosse. Ho sempre odiato la
loro razza Mi è sempre stato insegnato di fare così: solo quello
mi hanno inculcato dalla mia più tenera infanzia. Odia gli uomini, i
mortali. Essi sono la nostra antitesi. Ci ucciderebbero, se solo potessero. Sono
invidiosi, e meschini. Hanno sempre paura. Hanno distrutto il nostro sogno,
stupidi mortali fragili, hanno infranto il nostro desiderio d’armonia. Non
riesco a scrollarmi di dosso queste credenze, che so stupide, ancora oggi. So
che non importa la lunghezza della vita, ma la sua qualità. È una
lezione, tuttavia, troppo nuova per me, e tuttora ho problemi nell’assimilarla.
All’epoca, tuttavia, tutto quello era ben lungi dallo sfiorarmi la testa.
Ancora in viaggio, il mio sogno continuò. Magari, dopo aver attaccato l’Impero
e gli altri, piccoli, regni mortali, avremmo potuto attaccare Uruk, e
distruggere Nemys e la sua cricca. Un panorama perfetto. Una volta
pacificato il tutto, avrei chiesto il permesso di ritirarmi, o di
diventare Maestra. Sentivo di essere diventata abbastanza saggia per farlo. Si, forse avrei preso un marmocchio, un piccolo
allievo, per allevarlo nel più puro rispetto della nostra razza, per
mettere a frutto le lezioni di Amarto e degli altri maestri del quartier
generale. Sarebbe diventato, o diventata, una grande Spia, pronta a servire i
regnanti in un tempo di pace perenne. Nessuno avrebbe potuto negarmi nulla. Chekaril
mi avrebbe adorata, mi avrebbe rispettata. Ed io l’avrei adorato a mia
volta. Magari Lainay avrebbe approvato una nostra eventuale, e legale, unione. In
fondo, non sarei mai più stata operante come Spia. Allora, in pace con
me stessa, ed insieme a tutta la mia famiglia allargata, sarei andata a vivere
a Sharilar, oppure dai Tengu, che tanto volevo rivedere e riabbracciare,
immergendomi in una vita dedicata ai miei affetti. Sogni folli, sogni di una
mente irrimediabilmente perduta. Ero un’infante, un’infante piena d’immaginazione.
Lo sono sempre stata, e per questo ne soffro. Vorrei essere stata più
realista, aver tenuto i piedi per terra. Non l’ho fatto, e ne pago lo
scotto. Tuttavia, nei quindici giorni di marcia forzata e dritta verso Scmen,
non mi resi conto della cosa più importante. Non capii la cosa
più bella, la cosa che avrebbe fatto saltare Tijorn di gioia. Al contrario
di ogni mia previsione, l’Ombra non era più tornata da quando avevo lasciato la Matriarca egli altri miei amici. Non ero tornata la
fredda e disperata Lsyn, ossessionata da sé stessa, dalla propria
manchevolezza. Stavo guarendo, o meglio: stavo cambiando, in una maniera che
non mi era perfettamente comprensibile. Ma solo ora so, solo ora me ne rendo
conto: il processo che portò al mio cambio radicale fu quasi del tutto
sotterraneo, così lento che a stento me ne accorsi. E quando me ne resi conto, mi ero già irrimediabilmente sporcata le
mani di sangue e rimorso. Ma, in quel momento, era solo una marcia in
più, una speranza che mi spronava, mi spingeva, mi aiutava, mi
sosteneva. La mia ultima missione. Con mio grandissimo disappunto, il tempo
andò sempre più a migliorare, e divenire caldo, man mano che
proseguivo verso sud. Il mio abbigliamento mi divenne insopportabile. La vegetazione,
cambiò pian piano: dai larici, abeti e betulledelle zone nord, a faggi, querce,
sorbi, e altre piante che non conoscevo in collina, fino ad arrivare a bassi
ulivi dalle foglie verde-argento e dal tronco contorto, pini e sottobosco
profumato nei pressi del mare. Per il momento, non avevo trovato anima viva, ma, man mano che la costa si faceva sempre più
vicina, fui costretta ad attraversare strade battute. Per poco non finii nei
guai più seri, con una carovana di cantanti girovaghi che quasi mi
sorprese per strada, costringendomi a fuggire, finendo in mezzo ai rovi, e
coprendomi di graffi. La mia figura reclamava attenzione: una creatura
completamente ammantata, vestita di nero, con una maschera, piccola e
magrolina, era un faro, una calamita per tutti gli sguardi, anche i più
discreti. Per questo, già ormai vicina al mio obiettivo, presi una
decisione anticipata: sfidando il destino, e mandando a quel
paese tutta la cautela, fui costretta a camuffarmi di nuovo da vecchia,
con gli unguenti che mi rimanevano. Nascondendomi in un boschetto, presi,
impedita ed aiutata dalla scarsità dei materiali primi, ancora un altro
aspetto: non c’era più abbastanza roba per i capelli, né per
la voce, così mi arrangiai. Ero, inoltre, sola: nessun fratello ad
aiutarmi con le garze da applicare alla chioma! Desiderai, per l’ennesima
volta, la compagnia di Tijorn. Dopo una preparazione piuttosto difficoltosa, al
mio posto c’era una donna umana, povera e minuta, dai crespi capelli
color ferro, e dalla voce severa e roca. Era sicuramente più giovane di
Cate: non avevo messo nulla per gli occhi, che saettavano ancora giovani e
limpidi, e mi ero contenuta con l’impiastro per la pelle, diminuendo le
rughe, e facendo anche intravedere qualche cicatrice. Avevo deciso inoltre la
mia identità: avrei preso ancora un altro nome, Abil, un nome allora
comune tra i mortali, ed il mio preferito tra la rosa di scelte, e sarei stata
una donna pericolosa, una criminale, anche se non molto vistosa, dura e
silenziosa, abituata a fare tutto di testa sua. Un’identità ideale
per evitare domande indiscrete, e, soprattutto, per evitarmi dolori allo
stomaco come quando ero Cate. Mi rimisi in cammino molto
più tranquillamente, marciando a passo spedito e spavaldo verso
la mia meta, nel bel mezzo della strada. Funzionò. In giro non c’erano
guardie, né soldati, e tutti quelli che passavano, vecchi contadini dall’aria
stanca, con dietro giovani donne tristi e bambini magri, mi lasciavano andare,
terrorizzati. Facevo il mio effetto. Ed avevo anche meno caldo. Finalmente, un
giorno di sole, svoltando una curva, fui assalita da strane sensazioni: la
prima cosa che mi arrivò fu un odore insolito, che fece fremere le mie
narici. Misto ai profumi della boscaglia c’era un’essenza secca, misteriosa,
aspra, piena di vita. Tempo prima l’avevo sentita, ma sempre mi riempiva
d’estasi, costringendomi ad inspiararne grandi
boccate. Poi arrivò un suono, ipnotico e ripetitivo, come il respiro di
un immenso animale, una bestia dormiente, inesorabile e regolare. E poi, la
vista. Rimasi di stucco, come sempre. Ecco che, ai miei piedi, si stendeva,
azzurro e scintillante, fino a perdita d’occhio, l’oceano. Solo
lì vidi tanta acqua messa assieme in un solo posto. Cercando disperatamente
di non pensare alla piccola traversata che mi avrebbe aspettato, mi guardai
attorno. Conoscevo, fortunatamente, Scmen: era un piccolo scalo portuale, ed
era il villaggio costiero più grande. Fondamentalmente, era un
agglomerato di casette variopinte, messe in ordine casuale, tutte raggruppate
attorno al piccolo porto, meta inoltre dei parecchi contrabbandieri. Era l’unico
posto in cui certe cose venivano tollerate. E conoscevo
anche il punto esatto dove abitava Lateek, che una volta, con un’altra Spia,
avevo visitato. Lei era una bimba, allora, ma scommettevo si ricordasse
ancora di me. Le piaceva tirarmi i capelli, ricordo. Era il suo divertimento preferito.
La sua famiglia, arricchitasi con il commercio illegale e non, e con altre
attività poco lecite, sfornava informatori da tempo immemorabile, ed era
tra le più fedeli al nostro ordine. Strano come i mortali giurino a noi
fedeltà: ma, a volte, il denaro fa miracoli. Lateek era l’ultima a
gestire quell’attività: alla sua morte, tutto sarebbe passato alla
figlia della sorella minore. Era tradizione che il primo figlio divenisse
informatore, e non si sposasse mai, lasciando il proprio incarico, alla morte,
al primogenito del fratello, o sorella, minore. Ed a tale legge non scritta
Lateek si era uniformata: era stata una donna di terrificante bruttezza, e
dalla straordinaria acidità, e forse era stato un bene non avesse
costretto la famiglia ad affidarle un poveretto da comandare. Perfetta per
Akita. All’epoca, aveva circa settant’anni: decrepita come non mai,
svolgeva ottimamente il proprio mestiere, ancora tenacemente attaccata alla
vita. Sospirai, guardando Scmen, a poca distanza da me, sulla sinistra,
respirando l’odore strano del mare, nelle orecchie il rimbombo delle
onde. Il tempo di scendere una breve strada, e sarei stata in città: da
allora, i passi verso Chekaril erano contati. Sorrisi involontariamente, ed,
allegra come un capretto, cominciai ad avviarmi, del tutto dimentica di dover
attraversare un braccio di mare per arrivare ancora più vicina alla mia
meta ultima.
--------
Angolino di Akita:
allora,
allora, allora. Perdonatemi innanzitutto per l’impaginazione terrificante, ma oggi non ho voglia di mettermi dietro word
ed i suoi arcani misteri xD
come
seconda cosa, vorrei augurare a tutti quanti, voi studenti come me, un ottimo
inizio scolastico (e soprattutto, miei misteriosi compagni dell’ultimo
anno di superiori, facciamoci la croce per l’esame di maturità xD),
o un ottimo inizio dei corsi universitari (a vostra discrezione, eh xD). In bocca
a lupo a tutti!
Passiamo,
finalmente, al dunque:
per Carlos Olivera: grazie, carissimo *_* anche io sono
contenta di scrivere xD come ti ho già detto, non mi sono minimamente
accorta di avere allungato in quel modo assurdo il brodo o.o
non pensi sia troppo, o sono io che mi sto facendo i film come mio solito? O.o
beh…vedrai xD non posso proprio dirti nulla, ma
questa Lsyn è solo una parte del cambiamento xD poverina, eh, ci voleva il
calcio nelle parti sensibili di un Tengu impertinente, eh ù__ù
xD come mi pareva ovvio e lapalissiano ù__ù
son tutte prerogative femminili, queste xD
d’accordo, basta con gli scleri. Che dici del capitolo? Lo so,
è un po’ corto il lasso di tempo, ma devo far quadrare una certa
cosina xD che non ti dirò (così mi
vendico di ieri!!! è.é), ovviamente ù__ù fammi
sapere *_*
ciao
al resto della ciurma, che so impedita per ottimi motivi ;)
Capitolo 39 *** Vecchio, Vecchia e Serpe Nera. ***
Per l’ennesima volta da quando avevo messo piede in quella topaia
ambulante, maledii veementemente la mente perversa che aveva recluso Chekaril
in un’isola
Per
l’ennesima volta da quando avevo messo piede in quella topaia ambulante,
maledii veementemente la mente perversa che aveva recluso Chekaril in
un’isola.
In mezzo
al mare.
Ma cosa
passava per la testa di certa gente?
L’acqua,
sebbene i marinai giurassero e spergiurassero sulle condizioni ideali di tempo,
che non c’erano onde e cose del genere, faceva rollare la Serpe Nera, l’agile brigantino su
cui ero stata ospitata per la traversata fino a Gerinti, come fosse una culla
gigante.
Non era
piacevole. Io, fin dal primo momento, mi ero rifiutata di salire sul ponte,
terrorizzata e, per colpa del movimento, ero stata afflitta sin da subito da un
feroce mal dimare. Avevo una
dannatissima fifa, tanto che di quel viaggio riservo pochi ricordi.
Sotto di
me, c’erano litri e litri di acqua infestata da mostri feroci, che non
aspettavano altro che quel guscio di noce affondasse.
La vita
aveva riservato per me un altro tiro mancino. Mi ero sempre rifiutata, fino a quel momento, di
toccare un’acqua che avesse anche solo una parvenza di torbido, profondo
o scuro. Sono schizzinosa, per certe cose. Ed ecco che navigavo in un mare che
aveva tutte e tre quelle caratteristiche. Perfetto. Davvero, davvero, perfetto.
Per
pietà nei miei confronti, vedendomi diventare di un delicato verdino, i
marinai, gente rude e poco raccomandabile, mi avevano portata nel punto
più in basso della nave, dove il rollio era meno avvertibile, assieme
alle provviste ed all’acqua, e lì mi avevano lasciata. Non mi ero
mossa.
Faceva un
freddo cane, sebbene fosse tutto asciutto. Mi stesi sul pavimento di legno
scuro, avvolgendomi quanto più potevo nel mantello. Come unica
compagnia, lo scricchiolio del sartiame e del legno, ed un occasionale
zampettare di ratti grossi come piccoli gatti, che mi avevano fatta saltare di
paura. Forse quello dei marinai non era stato un gesto di pietà.
Maledissi Paòl ed il suo umorismo strambo.
Non
riuscivo a stare bene in nessun modo. Ero molto nervosa, e soffrivo per il
regolare movimento della nave. In poche parole, pensai seriamente di essermi
giocata una volta e per tutte lo stomaco. Mi stendevo, usando la borsa come
cuscino, ed avvertivo l’urgente bisogno di muovermi. Stavo per finire la
mia missione, ed, in quel modo, si sentiva di più il beccheggio. Mi
alzavo, e cercavo di muovere qualche passo. Crollavo miseramente bocconi. Non
ero abituata a tutto quel movimento. La scena si ripeté più e
più volte. Ero, per fortuna, sola. Desiderai ardentemente la terraferma,
e qualcosa di dannatamente solido sotto i miei piedi. Qualcosa che non rischiasse
d’inghiottirci da un momento all’altro, preferibilmente. O almeno
d’inghiottirmi. Una fine davvero ingloriosa dopo tutte le mie fatiche!
Sapevo di
tenermi a galla quanto un pezzo di roccia. Rimpiansi, per la prima volta in
vita mia, di non aver mai accettato qualche piccola lezione di nuoto, un
qualcosa su cui sia Tijorn che Chekaril avevano sempre insistito. Ma la
prospettiva di sguazzare allegramente lì dove qualsiasi cosa possa
attaccare senza farsi notare fino all’ultimo momento, non mi era mai
piaciuta. Quindi avevo ignorato tutti i consigli, benché l’idea di
aver un motivo inattaccabile ed piacevole per vedere Chekaril, tutto per me
(lui nuotava davvero bene, e molte volte aveva dato lezioni a qualche Spia o
Immortale un po’ incapace), mi avesse allettata molto, ed avevo fatto
tutto di testa mia. Per fortuna, il viaggio durava al massimo qualche ora.
L’idea dei contrabbandieri era stata di Lateek. Erano sempre sue le idee
pessime.
Ero
arrivata a Scmen in pochissimo tempo.
Avevo,
infatti, cominciato a correre in modo quasi disperato, zampettando
allegramente, ancora annebbiata dalla prospettiva di poter rivedere Chekaril,
in veste di vincitrice. Ero arrivata alle prime case in un lampo. Cominciai a
guardarmi attorno.
L’assenza
totale di mura è una particolarità di quella città: la
concentrazione di criminalità è così alta da dissuadere
qualunque banda di briganti dall’assaltarla. La malavita domina i vicoli
bui e stretti, così simili a quelli dei bassifondi di Zakadi, ed
è poco prudente mettersi contro di essi, o far del male al popolo.
Sebbene
Scmen facesse parte dell’Impero, lì le leggi non valevano come
altrove. Le tasse venivano pagate, e quella era una miniera per gli affari
illeciti dello stato stesso. Perfettamente inutile, dunque, mettersi contro i
padroni della piccola città portuale. I criminali sono tuttora così
sicuri di loro stessi da non piazzare quasi sentinelle, fatta eccezione per
qualcuno in perenne pattuglia nei dintorni, pronta ad intercettare persone
dall’aspetto troppo pulito. Io non lo ero, e fui lasciata in pace.
Misteriosa fratellanza tra avanzi di galera…
Percorsi
dunque tranquillamente le stradine sterrate e polverose, senza essere
infastidita, attorniata da strane case colorate e dagli stili discordi, ma
tutte alte, in modo da proiettare delle ombre sulla via, dove si svolgevano
perennemente traffici d’ogni tipo. Scmen è tuttora il crocevia di
ogni affare illegale, una città vivace, a forte maggioranza umana, dove
perfino per mangiare si deve contrattare al buio, tra violetti impregnati
dall’odore disgustoso del pesce marcio, quando peraltro esisteva, ed
esiste ancora, un mercato. Non ho mai capito queste bizzarrie da ladri umani.
Il furto sembra quasi risolversi in un gioco. Tutto l’illecito diventa
lecito, e perfino normale, a Scmen, luogo proibito alla gente perbene, o agli
sprovveduti. L’ho sempre trovato divertente, e graziosamente
folcloristico. Ma tenni sempre pronto il pugnale: non si sa mai.
Camminai
tra le abitazioni pacchiane a lungo, in cerca della dimora avita di Lateek,
situata nei pressi del porto, beandomi di tutte le stranezze che incontravo, di
tutta la bizzarra e variopinta folla che mi sfiorava. Lì passavo per
normale, e non destavo preoccupazioni. Quel travestimento era perfetto, come
sempre, d’altronde. Mi sentii soddisfatta, come mi capitava spesso ormai.
Era davvero adorabile vedere le mie capacità intatte.
Dopo
essermi persa un paio di volte nel dedalo disordinato di palazzi di un verde
palude, case in uno strano stile sbilenco, false capanne atte ad imitare un
poco plausibile stile Inu, ed addirittura, un’abitazione con infisso
sulla porta quello che aveva tutta l’aria di essere un topazio grosso
come una noce, trovai la strada. Stupita, mente ancora camminavo con il naso
all’insù, mi domandai ripetutamente come facessero i padroni a non
farselo rubare.
Quella
era una fiera ininterrotta delle vanità. Poco da stupirsi che i sobri e
sinistri ladri elfi non ci mettessero piede.
Finalmente,
dopo aver attraversato un vicolo più ampio degli altri, dove si teneva,
alla luce del sole, la trattazione di mercanzia dall’aria
straordinariamente sospetta, vendita tenuta da truffatori, mai visti
così baldanzosi, arrivai all’ultima schiera di case, in vista
porto, un’intricata costruzione letteralmente piena di barche, da quelle
di pescatori, le più rare, ad un piccolo vascello di legno scuro,
dall’aria vissuta ed imprendibile.
Scossi il
capo, frastornata. Quella città non finiva mai di stupirmi. Era un mondo
al contrario.
Dopo aver
girato un po’, arrivai nei pressi dell’abitazione di Lateek.
Era una
casa, stranamente, di dimensioni molto modeste, ideale per una sola persona.
Come vistosità, tuttavia, faceva concorrenza alle più grandi.
Aveva, su tutta la facciata anteriore, appiccicate conchiglie di varia forma e
dimensione, fino a costruire un mosaico colorato ed insensato. Avevo visto di
rado quello spettacolo, ed ogni volta mi deliziava. Mi fermai un po’ ad
osservare.
Le
finestre e la porta erano di legno chiaro e massiccio, dall’aria
evidentemente nuova, mentre il tetto in assurde tegole multicolori.
E
lì mi si presentò la prima cosa strana. Sarei dovuta scappare a
gambe levate già a quelle prime, strampalate, avvisaglie. Invece, come
sempre, non ascoltai la persistente vocina della mia ragione, che mi sussurrava
di lasciar perdere e di rubare qualche barca con annesso povero pescatore. Sgranai
gli occhi: dal comignolo si levava un sottile fumo grigio. Il caminetto, con
quel caldo atroce, era acceso. Le imposte, inoltre, erano tutte chiuse, con le
tende tirate. Gemetti, e feci un passo in avanti. Mi costrinsi ad avanzare fino
ad arrivare vicinissima alla porta. L’altra cosa che mi colpì fu
un odore stranissimo, che mi fece starnutire più volte: un profumo
stucchevole, che alla lunga dava la nausea. Esitai: conoscevo l’eccentricità
di Lateek, ma ebbi il sospetto che con la vecchiaia fosse peggiorata.
Per
fortuna, pensai, noi elfi non dobbiamo sottostare a quel rimbambimento
progressivo. Abbiamo altre pene da sopportare, ben più atroci. Vorrei
essere umana, ora.
Finalmente,
mi decisi a bussare quattro volte, in una successione prestabilita, e da me ben
conosciuta. Era il segnale di riconoscimento di ogni Spia, che pregava di
essere ricevuta ed aiutata. Dopo pochi attimi di attesa, la porta si
aprì a mezzo. Fui investita da una folata di aria calda e speziata,
così inebriante che barcollai. Presi per un attimo in considerazione
l’idea di non entrare. Dallo spiraglio apertosi, fece capolino la testa
canuta di una vecchia e grassa umana, coperta di rughe, dagli acutissimi e
malevoli occhi castani.
Avrei
riconosciuto Lateek anche dopo secoli e secoli, anche solo dal disgustoso porro
sul mento. Ci guardammo. Repressi una risata: sulla testa liscia della mortale
campeggiava, allegro, un assurdo cappello a cilindro, di stoffa gialla, molto
incongruo per quella faccia da cane mastino. L’umana strinse gli occhi,
squadrandomi con sospetto.
“che
vuoi?”. Sbottò all’improvviso, scorbutica.
La sua
voce era strana, troppo acuta per una della sua stazza. Sorrisi con malizia.
“sono
l’Ombra, e sai che voglio”. Dissi, piano, guardandomi prima attorno
per poi parlare.
idi i
piccoli occhi spalancarsi, e, dopo un momento, la porta si aprì del
tutto.
Ero stata
riconosciuta, senza troppi preamboli. La cosa m’insospettì non
poco: Akita doveva averla avvisata. Entrai nell’unica stanza del piano
terra, un soggiorno con un camino e varie sedie sparse qui e là,
trattenendo il respiro.
Lì
dentro vigeva il calore più soffocante, una temperatura adatta al
deserto. Come avevo notato prima, nel buco del camino scoppiettava allegro e
vivace un fuoco, ed ardevano in vari punti della stanza grandi bracieri in
ferro battuto contenenti una strana sostanza nerastra. Le tende, dal pesante
tessuto verde, erano tirate. Tutto era un trionfo di giallo e verde. Perfino il
pavimento era a righe gialle e verdi.
Scossi la
testa, frastornata, come se avessi ricevuto una botta in testa. Davvero assurdo.
La porta, con uno scatto, mi si chiuse dietro. Sobbalzai, e mi voltai verso la
mastodontica figura della vecchia, dal viso sgraziato e disarmonico, che
conteneva tutta la bruttezza tipica di quella stirpe. Era vestita, nonostante
la temperatura impossibile, da vari strati colorati di lana, senza dare minimi
segni di disagio, mentre io, con quegli indumenti leggeri, cominciavo a sudare
profusamente.
Odiai
quella donna in maniera quasi esagerata, solo per quello.
D’un
tratto, Lateek si sporse verso di me, prendendomi brutalmente per il colletto,
trascinandomi verso di sé. Riusciva a farlo senza alcuna fatica.
Conoscevo benissimo il suo modo di fare, e, sebbene mi sentissi scandalizzata,
e non volessi far altro che piantarle in corpo la mia spada, non reagii. Non
diedi il minimo segno di vita anche quando lei cominciò a tastarmi il
viso, il braccio e la spalla sfigurate, probabilmente in cerca di qualche
indizio potesse provare che non fossi io. Finalmente, la brutta umana mi
lasciò, e si girò, per raggiungere il caminetto ed attizzarlo.
“e
così quella goffa puttana di Akita ti ha detto della mia scoperta,
eh?”. Disse, senza preamboli. Sogghignai, ed annuii.
La mia
collega non era amata da nessuna parte, perfino dal suo contatto preferito.
Perché Tijorn era così innamorato di lei? Non era mai riuscita a
combinare niente senza provocare disastri di proporzioni immani, non era quel
che si dice attraente, seppure il suo incarnato pallidissimo, quasi azzurrino,
fosse affascinante, aveva un carattere acido ed impossibile. Eppure lui ne era
rimasto praticamente folgorato, dalla prima volta che si erano incontrati,
quando noi eravamo solo adepti, appena arrivati alla capitale, e da allora
Akita era per lui sempre stato un chiodo fisso, nonostante avesse provato a
dimenticarla in molti modi. Non ci era riuscito: solo io potevo capire la
felicità che aveva dominato il suo cuore, quando quello stecco dal naso
lungo aveva finalmente mostrato segni d’interesse per lui. Stupido
fratello mio.
Dopo un'altra
pausa, Lateek si alzò faticosamente, mettendosi dritta, e mi donò
un’occhiata che mi fece raggelare. Sebbene potessi benissimo essere la
capostipite della sua stirpe, quella vecchia pazza non mancava
d’intimorirmi.
I vecchi
umani mi fanno sempre quest’effetto. La vecchiaia negli elfi non da segni
visibili, non è una distruzione progressiva della mente e del corpo come
quella. Solo in caso di grandi tribolazioni i capelli imbiancano piano piano, e
si forma qualche ruga. Ma nulla più.
Guardai
il viso devastato dell’umana con orrore. Mi ritenni fortunata di non
dover sottostare al tempo in quel modo. Avevo ancora tantissimo tempo da vivere.
“beh?”.
Mi disse lei, senza cambiare tono, fissandomi con evidente disgusto. “che
ti guardi? Siediti, che il capitano Paòl deve ancora arrivare!”.
Sgranai
gli occhi, stupita, fissandola con stupore. Mi trovavo del tutto impreparata. Paòl?
Chi era? Che dovevo fare con questo Paòl? Lei parve accogliere quel
nuovo sguardo con fastidio. La odiai ancora di più.
“e
come vorresti arrivarci su quell’isoletta, eh? Paòl e la sua
ciurma devono scaricare merce che scotta per stanotte, a Gerinti, come ogni
notte, quindi ti danno un passaggio…oggi viene a salutami, ma sa
già di te”.
Non mi
scomposi, e mi sedetti scompostamente su una poltrona, in silenzio. Si: Akita
doveva aver già previsto tutto. Rimasi per un po’ a rimuginare,
senza degnare l’informatrice di uno sguardo. Avrei dovuto immaginarlo:
contrabbandieri. Spesso l’ordine delle Spie di appoggia ai criminali per
i propri spostamenti.
Non conoscevo
questo tipo, e ne dedussi, a ragione come vidi poi, che si trattava di un
umano. Non aspettammo a lungo. Dopo poco, si sentirono una serie di botte
vigorose alla porta.
“arrivo!”.
Strillò Lateek, fattasi improvvisamente molto arzilla.
Non mi
girai, approfittando di quelli che sapevo sarebbero stati gli ultimi momenti di
pace, e cominciai a giocherellare distrattamente con la cinghia della borsa.
Per
fortuna la mia permanenza in quella casa non sarebbe stata lunga. Non avrei
sopportato un attimo di più quell’odore disgustoso.
Non feci
caso al parlottio veloce, non mi diedi nemmeno la pena di ascoltarli. Poi
qualcuno dal passo pesante entrò nel salotto.
“oè,
elfa, ciao!”. Raspò una voce maschile e rude, molto vicina a me.
Sobbalzai,
e, lasciandomi guidare dall’istinto, sfoderai il pugnale, girandomi e
puntandolo alla gola di un uomo brizzolato. Mi bloccai giusto in tempo, e ci
fissammo.
Era un
bel mortale, evidentemente più giovane di Lateek, forse
dell’età dell’essere che stavo impersonando. Era munito di
un’impressionante criniera di capelli, che si andavano a confondere con
la lunga barba. Il volto era aperto e tondo, dalle guance rubizze e piene, e
dal grosso naso. Gli occhi azzurri, grandi e beffardi, e la mole cospicua,
ricoperta da abiti dalla foggia incongrua, dai colori spenti, ed odorosi di mare.
L’uomo,
vistosi minacciato, alzò le braccia, con un sorriso. Gli mancava qualche
dente, e molti erano marci.
Rabbrividii
dall’orrore, ma non abbassai la guardia.
“cala,
cala! Mica ti faccio male…”.
Digrignai
i denti. Sentivo di odiarlo già, dal modo in cui mi squadrava,
perplesso. Poco convinta, abbassai il pugnale, e, con un gesto rapido, lo
rinfoderai.
Dovevo
stare molto attenta con le persone in contatto con le Spie. Un minimo errore, e
la fedeltà poteva andare al diavolo. Quindi, dovevo sopportare. Era
dura, ma era così. Pregai brevemente il nulla per concedermi almeno un
briciolo della pazienza che non avevo.
“e
brava la piccina!”. Ruggì, allegro come un bambino, dandomi una
pacca su una spalla che per poco non mi fece finire a terra.
Ora
basta: non ero disposta ad essere trattata così un minuto di più.
Mi girai, e, senza una parola, gli donai un’occhiataccia tale da farlo
rabbrividire.
“non
osare”. Dissi poi, a bassissima voce, usando il mio reale tono, fredda
come ghiaccio.
Di solito,
quello sortiva i suoi effetti. E così fu. Non mi parlò
più, e corse a sedersi sul divano, improvvisamente pallido.
Riuscivo a
spaventare anche i coriacei lupi di mare. La cosa mi piacque.
Lateek ci
raggiunse subito, con tre piccoli bicchieri, colmi di un liquore, che io non
toccai. Dopo l’esperienza di Amarto, che, durante tutta la nostra
infanzia, e fino alla malattia che l’ha costretto a vivere come un
eremita, indugiava spesso in complicati rapporti con le bottiglie, rimanendo a
volte per giorni e giorni del tutto sbronzo, non ho mai bevuto nemmeno un
goccio di quegli intrugli. Sia io che Tijorn siamo astemi.
Rimanemmo
un altro po’ in quel soffocante androne. Non badai minimamente alle loro chiacchiere
futili, e mi rilassai, dominando una certa ansia che cominciava a sorgere. Il mare
mi aspettava. La cosa non mi piaceva.
Dopo un
po’, quello che dedussi essere il capitano Paòl riprese la parola.
“bene,
compari”. Disse, alzandosi di scatto, portando Lateek con sé. “alziamoci
e diamo una buona virata a questo timone! Andiamo, nana di un’elfa!”.
Avrei volentieri
staccato quella testa rubiconda da quel corpo grasso, ma mi trattenni. Ribollivo
di rabbia.
“oh…mi
mancherai, Paòl…”. Cinguettò Lateek, con fare
stranamente civettuolo. Mi assalì un’ondata di nausea. Quando tentava
di essere romantica, Lateek finiva sempre per assomigliare ad un cane bavoso. Non
le riusciva per niente bene.
Molto probabilmente,
la strategia di seduzione non andò a buon fine: vidi il capitano ridere
a crepapelle, per poi donare un paio di botte sulla spalla di Lateek.
“eh,
amica mia…”. Ruggì, tra le risate. “a me non
mancherà per nulla la tua stanza soffocante!”.
Mi trattenni
giusto in tempo dal fare una linguaccia a quella donna. Ben le stava Quell’uomo
era un illetterato ottuso, davvero, ma adorai quel modo di fare. Era adatto per
quella specie di carlino scodinzolante.
Mi girai
verso di lei. La donna sembrava piuttosto delusa. Ne fui felice.
Il congedo
fu estremamente rapido, e di esso quasi non ricordo nulla, tanto mi
traumatizzò la nave: Lateek tornò dentro senza un minimo di
saluto, aprendo le tende.
Il capitano
rise. “stupida balena!”. Disse poi, scuotendo il capo, ed
avviandosi.
Io ridacchiai,
poi cercai di stargli dietro, trotterellando. Aveva un passo troppo lungo per
me. La cosa mi umiliò terribilmente. Mantenendo la borsa con entrambe le
mani, stringendomela al petto, come un’infante, seguii Paòl, che
si tenne alla larga da me. Mi venne il sospetto che stesse forzando il passo
per distanziarmi.
Così,
passo dopo passo, arrivammo al piccolo ed agile brigantino di sua
proprietà, la Serpe Nera, un
nome che trovai di scarsa inventiva.
Era una
barca di legno scuro ai lati, con il ponte chiaro, con solo due alberi, dalle
vele bianche. Per il resto, niente di speciale. La ciurma era composta da un
gruppo piuttosto omogeneo di avanzi di galera, cosa che non mi stupì. Era
tipico. La nave era stipata da cima a fondo di ciarpame vario. Nonostante il
mare nel porto fosse più che calmo, come sapevo sarebbe successo, appena
messo piede sulla nave ebbi i primi problemi di panico. Da allora, ed è
vero, i ricordi si fanno ovattati. Mi ripresi lì, nella stiva, tra ratti
e cibarie, attanagliata da una paura assurda e terrificante, quando ormai, a
notte fonda, eravamo in mare aperto. Per poco non mi misi ad urlare. Cominciai,
silenziosamente, ad implorare che la terra venisse presto. Mi sentivo davvero
male.
l’impaginazione fa schifo, e lo so. Perdonatemi,
ma oggi non ho voglia.
Se notate qualcosa di strano dal punto di vista grammaticale,
preoccupatevi solo se non sta parlando Paòl xD
In quel caso, avvisatemiiii xD
Nell’altro, invece, è proprio il personaggio
così O.o
Beh ^^
See you later!
Akita
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In un
punto imprecisato della traversata, senti improvvisamente il rollio ridursi, di
molto. Avevo passato quelli che mi erano parsi secoli interminabili tra cigolii
e squittii, mentre, ogni tanto, da fuori, provenivano vari ordini urlati,
oppressa da una nausea paralizzante e da un terrore che non accennava a
scomparire. Mi ero rannicchiata a terra, sul legno ruvido, avvolgendomi nel
mantello, formando un incongruo bozzolo grigio di abiti, ed avevo chiuso gli
occhi, cercando disperatamente di non pensare a ciò che mi stava sotto.
Vedevo con la mente orde di strani e viscidi esseri
multicolori, dotati di zanne, nuotare in circolo sotto la nave, aspettando con
ansia un eventuale, incauto, bocconcino. Nei momenti di panico, sono piuttosto
feconda, dal punto di vista dell’immaginazione. Tremavo, dal freddo e
dalla paura. Avessi potuto, sarei fuggita a gambe
levate da quell’assurda situazione. Non ho la minima idea di quello che successe
nel periodo di traversata, né quanto durò realmente. Forse mi
addormentai, usando la mia borsa come cuscino. So solo che, ad un certo punto,
sentii una porta aprirsi, e dei passi pesanti. Sobbalzai, e cercai subito di
mettermi in piedi. Cosa che, ovviamente, non mi riuscì. Rimasi in
ginocchio, con lo stomaco sottosopra, a guardare un’ombra avvicinarsi, mentre
in me si faceva strada un altro tipo di terrore. Mi attraversò un
pensiero. Non si ci poteva mai fidare dei criminali
usati come contatti, ed un coltello nella schiena è sempre
un’eventualità ben poco remota. E’ successo, più di
una volta, alle Spie incaute. S’insegna ai giovani di prestare
attenzione, di avere sempre le armi sottomano e di non dare fiducia a nessuno,
e, soprattutto, di dare l’impressione di essere, sempre e comunque,
superiori. Io, preda della debolezza e della mia più grande fobia, non
avevo rispettato nessuna di quelle regole. Ed oramai era troppo tardi per
pentirsene. Rimasi lì, pietrificata, aspettando l’attacco, ad
occhi sgranati, ed il respiro affannoso, cercando di darmi un contegno, e di
escogitare un ultimo piano. L’enorme ombra si avvicinava sempre
più. Deglutii, sentendomi all’improvviso, straordinariamente
lucida, e tesi i muscoli per un attacco a sorpresa, sperando almeno di riuscire
a dare qualche colpo al mio prossimo avversario prima di morire. Una morte
onorevole. Ero stata avventata, come sempre. Ma, in quel momento, non
c’era più tempo per pensieri del genere, non c’era
più tempo per l’autocommiserazione. Desiderai una morte veloce, ed
indolore, anche se sapevo non sarebbe stato così. Rimpiansi solo di non
poter mai più vedere Chekaril, e di non poter vivere in pace con la mia
famiglia. Perlomeno, non tutto era perduto, e non trascinavo nella mia rovina
il Regno. La traccia era stata data. Non vedendomi tornare, né dare
più segni di vita, Lainay avrebbe mandato sicuramente qualcun altro al
posto mio, ed il mio unico amore sarebbe stato libero. Il Regno sarebbe stato
salvo. Povero Tijorn: avrebbe sofferto tanto, sapendomi morta. Per la prima
volta, sapere che Akita sarebbe stata con lui non mi diede fastidio, anzi. Ne
fui contenta. L’avrebbe consolato, gli avrebbe fatto compagnia. E forse
sarebbe guarito, un giorno o l’altro. Mi sentii invadere da
un’enorme tristezza. Non c’era più tempo per chiarire, per
la pace, per la gioia. Un fruscio. Il mio cuore perse un colpo e mi mordicchiai
le labbra, sospirando, e preparandomi a saltare, girandomi lentamente verso la
fonte del rumore, afferrando il pugnale, e sguainandolo con un solo movimento
fluido. Feci rapidamente un calcolo. Potevo, nelle mie condizioni, atterrare
forse due, o tre di quegli energumeni, e forse, salire all’aria aperta.
Ma poi? Non potevo certamente fuggire! Per evitare una morte brutale, e forse
chissà quali sevizie, non rimaneva che una scelta. Accolsi, con un
brivido di repulsione, l’idea di gettarmi a mare. Non sapendo nuotare, ed
appesantita da innumerevoli cose, sarei andata giù come un sasso. Non mi
sarei fatta toccare da quei ladri ed assassini. Un paio di grossi sacchi si
mossero, frusciando, di fronte a me. Strinsi le labbra, pronta ad un balzo nel
buio, nel vero senso della parola. Dallo spiraglio creatosi, fece
improvvisamente capolino prima un braccio muscoloso e villoso, dalla mano
callosa che reggeva una lampada ad olio accesa, e poi la faccia barbuta e
sorridente di Paòl. Quello che seguì ha del comico. Schizzai in
piedi, il pugnale alto sopra di me, pronta a tutto pur di conservare la mia
dignità, e lanciai uno strillo involontario, facendo di tutto
perché sembrasse di rabbia. Peccato che una piccola onda fortuita si
fosse abbattuta proprio in quel momento sulla nave, abbastanzaper farla
rollare un po’ più forte. Mi ritrovai seduta a terra, sbattendo
stupidamente le palpebre, il pugnale ancora alto, mentre Paòl rideva
come un pazzo, facendosi strada attraverso la merce e, torreggiando con tutta
la sua mole su di me, arrivandomi vicino. La sua arma, una piccola spada un
po’ arrugginita, pendeva pigramente dal fianco. Ebbi l’impressione
fosse lìpiù
per fare scena piuttosto che per uccidere e combattere. Mi sentii,
improvvisamente, molto stupida. Sentii le orecchie
bollire. “un po’ nervosetta, eh, elfa?”. Ridacchiò il
capitano, soddisfatto, sedendosi a gambe incrociate di fronte a me, mettendo la
lampada in mezzo. Lo guardai male, senza rispondere, mentre sentivo il vecchio
panico e la nausea tornare, più forti di prima. Ero stata stupida: quel
pensiero non mi abbandonò per tutta la conversazione. “che ti
credi, che io ammazzo i mucchi di quattrini come te, eh?”. Scosse la
testa, rovistando in una tasca lercia, tirandone fuori quelle che avevano tutta
l’aria di essere due grosse acciughe sotto sale. Una era mezza
mangiucchiata, l’altra integra. L’odore intenso di quei due malefici
oggetti mi arrivò subito alle narici, stordendomi con l’aroma particolare,
che odiavo, ed a cui non ero per nulla abituata. La
nausea peggiorò in un lampo: boccheggiai, mettendomi una mano davanti
alla bocca, e chiudendo gli occhi. Maledissi
l’olfatto più sensibile degli elfi, che in quel momento mi stava
scombussolando in maniera terrificante. Mi rannicchiai di nuovo, mettendo la
testa tra le braccia, e sentii un grugnito di disapprovazione. “sempre
delicatini voi elfi…mangia che ti fa bene, tiè!”. Un tonfo
delicato, nei pressi dei miei piedi, e l’odore si fece più
intenso. Non mi girai nemmeno per vedere cosa fosse successo.
“e vabbè…”. Mi disse Paòl, con voce più
soffocata. “avevo pensato che ti faceva piacere
un po’ di cibo e di compagnia…”. Una pausa. “ma, visto
che tu non mangi, mangerò io!”. Non lo interruppi, rimanendo
immobile. Non stavo davvero bene. Rimanemmo per un po’ in silenzio. Per
fortuna, quell’orribile aroma diminuì d’intensità,
anche se rimase, permeando il tutto con la sua esenza
nauseabonda, permettendo tuttavia alla nausea di poter essere controllata.
Alzai con cautela lo sguardo, che sapevo inondato di lacrime, e mi guardai
attorno. Il capitano mi fissava con evidente disapprovazione. Aveva la barba
sporca. Lui fece una smorfia. “sei pure più delicata di quell’altro, guarda…”. Grugnì,
ridacchiando. Spalancai gli occhi, improvvisamente oltraggiata.
Quell’altro? Chi mi aveva battuta sul tempo? Lainay aveva mandato qualcun
altro? Qualcosa che non aveva nulla a che fare con lo stomaco si torse in me,
in maniera assai sgradevole. Sentii un’improvvisa, e sgradevole,
oppressione al petto. Mi voltai verso il contrabbandiere con ansia.
“quell’altro?”. Dissi, con una bruttissima voce sofferente e
soffocata, guadagnandomi un’occhiata perplessa da parte del capitano.
“ma si, quell’altro…”. Disse lui, scuotendo il capo.
“e che, potevo avere dieci anni…”. Alzò il mento con
aria tronfia, e gonfiò il petto. “ma ero già sulla nave con
mio padre, ha! Comunque si, me lo ricordo bene…”. La voce si smorzò,
persa nei ricordi. Mi sentii invadere nello stesso tempo dal sollievo e dalla
preoccupazione. Qualcuno mi aveva preceduta. E non aveva portato Chekaril da
Lainay. Lui era ancora tutto mio. “era un tipaccio dai capelli chiari, e
mi sembrava un morto…si, mi sembrava aspettare quasi qualcuno…e poi
se ne è tornato dopo pochi giorni, ed era si, nero come un carbone, era!
Seccato come un’aringa!”. Ridacchiò di nuovo, sbattendo una
mano sulla coscia corpulenta. Mi sentii incredibilmente soddisfatta, e
rassicurata. Il tipaccio doveva
essere stato uno dei rapitori di Chekaril, quasi di sicuro. Era così, e
basta. Non c’erano altre alternative plausibili. Non ce n’erano. Ero
cieca. Mi sbagliavo, e di grosso anche. Ben presto, però, avrei capito
tutto. Non bisognava far altro che aspettare. Ed io non ce la facevo
più, oppressa dal mal di mare e dall’ansia. Chekaril era vicino,
vicinissimo. La mia missione stava per finire, fortunatamente.
Cinquant’anni di vagabondaggi, di stenti, e di sofferenza, sarebbero
stati ben ripagati! E quanto bene! Ad un certo punto, mentre ancora io ero
presa dai pensieri, Paòl sembrò ricordarsi di una cosa.
“ah, si, elfa!”. Disse, portandosi una mano alla fronte, ed alzando
lo sguardo verso di lui. Io, che avevo precedentemente abbassato il mio, lo ripresi a fissare. “tu non sai come arrivare a
Gerinti! Allora…”. Fece una pausa. La mia attenzione fu, in un
lampo, catalizzata verso la faccia rubiconda di quel barbuto criminale. Lateek
doveva averlo pagato molto per farlo diventare così servile nei miei
confronti! Preferii non sapere come avesse fatto, per
pagarlo. Preferii davvero sorvolare. Il capitano non mi sembrava un uomo dai
gusti molto fini. Scossi leggermente il capo, come a volermi liberare da quei
pensieri molesti, ed incominciai ad ascoltarlo, prendendo mentalmente nota. Avevo
bisogno di tutte le informazioni possibili. “stiamo per attraccare sulla
costa nord, in una caletta un po’ discosta dal villaggio…”.
Il suo sguardo si fece severo. Mi sentii intimamente felice. Non mancava molto
per riabbracciare la terraferma, anche se questa corrispondeva alla parte
più difficile della mia missione, cioè localizzare Chekaril.
“lì ci aspettano dei contatti, quindi devi scendere subito! Poi,
basta che sali, e sei a Gerinti di Su… e
lì abitano tutti contadini e pastori. Poi c’è Gerinti di
Giù, e lì ci sono solo pescatori. Gli elfi sono un po’ da
tutte le parti…se li cerchi li trovi!”. Ridacchiò di nuovo.
Era irritante quella sua risatina chioccia ed acuta, quasi falsa.
“poi, quando torni, ogni notte siamo qui. Gli affari vanno bene”. Di nuovo gonfiò il petto, tronfio
e ridicolo come un galletto. Ad un certo punto, sentii delle urla acute, che
blateravano qualcosa in qualche dialetto umano, poi un tonfo, che per poco non
mi mandò a gambe all’aria. Il rollio diminuì ancora. Senza
più ridere, Paòl si alzò, sbraitando qualcosa nello stesso
dialetto. Poi si girò, rivolgendosi a me con tono improvvisamente
diventato spiccio. “prendi tutte le tue cose che ci siamo!”. Rimasi
lì, impalata. Per un attimo, fui sicura di non aver capito bene. Eravamo
arrivati. Finalmente! Mi assalì, però, il nervosismo. Non era
finita lì. Deglutii, e mi alzai, tentennando. Barcollai un po’,
prima di mettermi dritta. Il capitano mi guardò con ostilità.
“e dai!”. Esclamò, innervosito, fissandomi con uno sguardo
che non aveva nulla del gentile, sciocco lupo di mare. Era scaltro, il vecchio,
ed abile. “non abbiamo tutta la notte!”. Notte? Ma quanto tempo era
passato? Ancora vagamente stordita, mantenendo stretto il mio sacco, cominciai
a salire con il capitano, senza far nemmeno caso a dove mettevo i piedi.
Rimuginavo, entrando nel labile campo delle probabilità. Gerinti,
dunque, era divisa in due parti, entrambe a scarsa densità elfica. Il
che, ovviamente, mi rendeva il compito molto meno
difficile. Sapevo che Chekaril non sarebbe stato portato in una casa Di solito,
però, in un piccolo abitato si sa sempre tutto. E tutti collaborano per
tenere nascosto ciò che scotta, soprattutto se questo è utile a
qualcosa. Potevo scommettere le dita della mano sana che tutti gli elfi che
abitavano lì fossero esuli del Regno, contrari
al regime vigente, ed ostili all’antichissima dinastia di Lainay. Tutto
sarebbe andato a loro favore, se il suo governo fosse caduto! Avevano mille
motivi per voler tenere nascosto Chekaril. Non volli nemmeno pensare alla
qualità della prigionia. La tortura non era esclusa dalla rosa delle mie
possibilità. Rabbrividii. Ad un certo punto, qualcuno mi scosse per una
spalla. “oè, elfa!”. Disse la voce di Paòl, mentre la
mano ancora mi scuoteva. Sbattei le palpebre, ritornando alla realtà.
Ero fuori, sulla bella prua curata. E quello che vidi non mi piacque: una rozza
passerella di legno, malamente appoggiata alla punta
della nave, in equilibrio precario, era di fronte a me. Poggiava su un molo di
legno scuro e consumato, che si perdeva in mezzo agli scogli, dopo aver
lasciato intravedere un viottolo in salita. Sentii una spinta, e mi girai.
Tutta la ciurma mi guardava con facce ostili, o inespressive. Capii cosa dovevo
fare, e strinsi i denti, facendo un passo in avanti. Pregai chissà chi
di non farmi cadere in acqua. Lì mi sembrava profonda, e sarei
sicuramente morta. Qualcuno mi spinse di nuovo, ed io incespicai, finendo dritta
sulla passerella, che ondeggiò terribilmente, staccandosi dalla prua, e
finendo sul molo. Con me su, ovviamente: ero rimasta impigliata con la manica,
e, nei brevi attimi prima della caduta, non ero riuscita a liberarmi. Andai a
sbattere malamente contro il legno, e sentii delle
risa sguaiate. La manica si strappò. Solo grazie alla ma borsa avevo
evitato di rompermi qualche dente, mettendola tra me e la superficie, ma lo
stesso mi tagliai l’interno di una guancia. Dopo un momento di
stordimento terribile, alzai il viso. Mettendomi poi in ginocchio, tutta
dolorante, osservai, con rabbia, il brigantino che si allontanava lentamente.
Al mio ritorno, non gliel’avrei fatta passare liscia, a quel capitano e
tutti i suoi marinai rozzi! Borbottando bestemmie, sputando una boccata di
sangue nell’acqua, incredibilmente arrabbiata, mi avviai barcollando
verso il viottolo. L’ultima parte del viaggio mi aspettava.
La salita
al chiaro di luna non diede eventi di gran rilievo. Mi resi conto di essere
stata sbarcata in una piccola baia tranquilla, contornata da imponenti rocce di
granito, qualcosa che avevo visto davvero di rado nella mia vita. Senza badare
al paesaggio, ripresi la salita. Ero troppo occupata a far piani. Mi
aspettavano giorni furtivi, giorni d’indagine. Spirava un venticello
profumato e leggero dal mare, e non faceva caldo. Mi sentivo bene e, pian
piano, mi rilassai. Fortunatamente, per un po’ non sarei stata costretta
ad andare per mare. Una volta finito il tutto, niente
e nessuno mi avrebbe costretta a ripetere quella terribile esperienza. Per
fortuna, al ritorno ci sarebbe stato Chekaril, e non avrei avuto tempo per
avere paura. Sarei stata troppo immersa nel raccontargli tutte le
novità, e nel bearmi della mia nuova condizione di eroina del Regno. Ben
presto, però, rinunciai anche a pensare, per salire. Mi sentivo ancora
un po’ spossata. Il mal di mare persisteva, per nulla aiutato dal sapore
di sangue che ancora sentivo in bocca, e dal nervosismo. Lo stomaco era in
subbuglio. Per giunta, dopo ore d’immobilità forzata, e di
ondeggiamenti vari, ero piuttosto malferma sulle gambe. Era un piacere stare
sulla terraferma, ma barcollavo come fossi ubriaca.
Pian piano, salii il viottolo sterrato, attorniato da profumati arbusti poco
elevati. Dopo un po’, l’inusuale, basso sottobosco lasciò
spazio ad un’erba alta e, a quanto potevo vedere, bruciata già dal
sole, e la via scomparve, inghiottita dal prato. In quella, la salita
finì, ed io mi ritrovai in una piccola radura, a strapiombo sulla
scogliera naturale. Sentivo il mare da lassù. Quel rumore conciliava il
sonno. Rimasi per un po’ ferma, cercando di riprendere fiato. La salita
era parsa molto meno ardua, vista da lontano! Ed ora, ce ne sarebbe stata un’altra,
ben più lunga. La intravedevo, nascosta da un grosso masso. Ero a pezzi.
Barcollando un po’, decisi di riposarmi lì, per qualche minuto, il
giusto per rimettere a posto fiato e stomaco, e per riguadagnare
l’equilibrio. Mi avvicinai così allo strapiombo, non so
perché. Forse mi prese la curiosità di vedere come fosse il mare da su, o forse ero così stordita da non
riuscire a pensare coerentemente. Non so. Quello che so è che, ad un
certo punto, mi attirò un baluginio proveniente dalla boscaglia
lì vicino, che prima non avevo notato. Mi allarmai: potevano essere briganti,
o chissà cos’altro. Dovevo vedere: magari
la via per Chekaril era più vicina di quanto avessi immaginato. Strinsi
il pomo del pugnale. Non avevo tempo per la spada. Cautamente, silenziosa come
solo un’elfa sa fare, mi avvicinai. Era buffo: una sola altra volta avevo
fatto così, e quel comportamento aveva segnato la mia fine. Continuai ad
avanzare, ed ero molto vicina al mio obiettivo. “ah!”. Gridai,
quando i miei piedi, con uno scricchiolio, trovarono qualcosa, ed io inciampai,
finendo per la seconda volta con la faccia a terra. Bestemmiando con rabbia, mi
girai, ancora stesa, e afferrai la cosa incriminata, liscia ed ovale, e
tirandola su, per vederla meglio. Rimasi pietrificata. Perché quello che
avevo in mano era un teschio umano, ghignante e beffardo alla luce della luna,
monito eterno alla morte. O almeno, era quello che mi sembrava. Il gelo mi
avvolse, e, con un gridolino sciocco, lasciai cadere il macabro oggetto,
tastando poi il terreno attorno a me. C’erano ossa dappertutto. Dovevo
essere finita in uno scheletro. Ebbi paura. Come presa da un presentimento, mi
girai di nuovo, ipnotizzata, verso la fonte della luce. E quello che notai mi
riempì di terrore. Eventi più grandi di me si erano svolti in
quella piccola isoletta, eventi che io non conoscevo. Mi parve di nuovo un pessimo
presagio.
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Angolino di Akita:
puntuale
come un orologio svizzero a cucù (ma si sa quali erano però le
mie intenzioni primigenie, ah >.<), eccomi qui xD
ahaaa…
le
cose si fanno intricate xD e, anche se qualcuno SA di cosa si tratta qualcosa….non sa tutto xD
passiamo
però al dunque, prima che i miei scleri inducano ad impressionanti
suicidi di massa (la cosa non sarebbe male, in certi casi <.<)
per Carlos Olivera:
già o.o Lsyn versione idrofoba è
adorabile xD beh ^^ come vedi, ho fatto di tutto per allontanarlo dal modello a
cui inconsciamente mi ero rifatta O.O è un mito inconscio, oddio xD
inquietante, sissì xD come vedi, le cosa si fanno più…strane
è.é cosa sarà MAI successo?? xD
chissà, chissà xD vabbè xD fammi sapere, come sempre, le
tue opinioni ^^ piaciuto il capitolo (di passaggio, perché io sono
sadica xD)? Fammi sapere *.*
Ragazzi miei, se mi date la confidenza per chiamarvi così,
non credevo di arrivarci.
Non lo credevo!! xD
Vabbè, ora vi lascio.
Niente commenti, sotto, perché non ho tempo
,e l’impaginazione non è molto bella.
Saluto tutti, ovviamente, in particolare il mio fedelissimo,
irriducibile Carlos Olivera, che se oggi non avessi aggiornato oggi, sarebbe
venuto da me e mi avrebbe ammazzata xD
La curerò quando avrò tempo
xD
A dopodomani!
Akita
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Già,
fu davvero un pessimo, pessimo presagio. Il presagio della mia prossima
sventura. Perché qualcuno era morto, lì. E non ero sicura di
voler sapere chi fosse. Mi avvolse il gelo, e la
fronte si ricoprì di un sottilissimo velo di sudore freddo. Senso
d’ineluttabilità: di nuovo sentii la morte sopra di me, quando si sa di non aver più scampo, di essere già
segnati, di avere un marchio che dice al mondo, come un orribile tatuaggio,
quanto sia vicina la data dell’annientamento finale. Un terribile dubbio
si fece strada nella mia mente. Possibile che?... Mi
rialzai di scatto, tornata improvvisamente lucida, e reattiva. Il mal di mare,
come lo stordimento, era scomparso. Restava solo la preoccupazione, qualcosa
che chiudeva gola e stomaco, che opprimeva il petto come un grosso macigno, che
impediva ogni pensiero. Mi lasciai sfuggire un breve,
roco, sospiro, mentre mi avvicinavo, esitante, alla fonte di quel bagliore
luminoso. Avevo riconosciuto subito la sua forma, ed ero sicurissima di sapere
cosa fosse. Mi avvicinai ancora, tremante, mentre,
attorno, tutto mi sembrava come attutito. Devo dire non fu una mossa saggia da
parte mia, ma non ero più in me, decisamente. Avrei potuto essere
vittima di un attacco, e non accorgermene neanche. Percepivo la mia
fisicità come estremamente…altra, qualcosa di totalmente estraneo
a quel mondo dove un monile scintillava. Niente era reale al di fuori del mio
campo visivo. Fu come essere ipnotizzata. Provai una sensazione quasi
d’irrealtà, quando vidi, appesa stranamente ad un ramo, spezzata,
leggermente annerita dal tempo, ma ancora piena della sfavillante bellezza
elfica, una lunga collanina d’argento, con incastonata, al centro, una
grande gemma bluastra, che rifletteva la luce. Era quella l’origine del
bagliore luminoso. Mi mancò il respiro. Non riuscivo a muovermi, a
pensare, a fare nulla. Allungai il braccio sinistro verso l’oggetto, con
strani movimenti torpidi ed incerti, e l’afferrai, facendomi scorrere il
gioiello nella mano in tutta la sua lunghezza. Il contatto con il metallo
freddo mi fece discretamente bene. Con un sobbalzo, tornai alla vita, non
riuscendo, tuttavia, a distogliere gli occhi nemmeno un attimo da quel monile.
Non volevo vedere ciò che mi era attorno, non volevo scoprire altri,
inquietanti indizi. Le mani presero a tremarmi, ed io le
chiusi a pugno. Dovevo calmarmi, assolutamente. Lo scheletro e quella
collana non potevano avere nulla a che fare l’una con l’altra. Non dovevano! Era tutto troppo irreale,
troppo orrendo, per poter anche solo immaginare un’eventualità che
non fosse dovuta al caso. Perché io conoscevo
benissimo quella collanina. Quel perfetto manufatto elfico era passato nelle
mie mani. Io l’avevo ricevuto da Amarto, il giorno del mio centesimo
compleanno, quando divenni pronta per
l’apprendistato vero e proprio al quartier generale. Ed ero stata io a
donarlo a Chekaril, come pegno a non dimenticarmi. Il mondo ed i ricordi mi
crollarono addosso, letteralmente. Mi ritrovai seduta a terra, ancora con lo
sguardo fisso sulla collanina, mentre il dolore mi assaliva, muto e terribile,
ed io rivivevo ogni attimo di quell’ultimo giorno davvero felice.
Fu il giorno prima della mia
partenza, la partenza per quella missione in cui sarei caduta in un lago
ghiacciato, rischiando di annegare e beccandomi una brutta polmonite che per
poco non mi lasciò secca. La missione al cui termine, dopo quasi un mese
di degenza al Lazzaretto, durante una festa, avrei visto Chekaril ballare con
un’elfa dai capelli rossi. Il momento che avrebbe sancito la fine del
nostro idillio. L’inizio della fine. È doloroso ricordarlo,
appuntarlo, scriverlo, ma necessario. La scrittura, ormai, è la mia unica
catarsi, l’unico modo per sfogarmi, per conferire con qualcuno senza
giudizi, senza consigli, senza orrore, qualcuno che non mi considera come un
relitto, o un mostro. Ricordo benissimo che, quel giorno, non ero riuscita ad
incrociare Chekaril, presa da mille impegni, e rimpiangevo di non poterlo
salutare. Non c’era più tempo, e prenderne coscienza mi fece male.
Desideravo almeno dargli un ultimo bacio, strappargli la promessa d’esser
fedele. Ero abbattuta, ed ero tornata nella mia ricca casa provando un
sentimento di sconfitta, che ben presto mi sarebbe divenuto fin troppo
familiare Mi ero ritirata più presto del solito nel salottino adiacente
alla mia stanza da letto, un posto in cui mi rifugiavo sempre la notte prima di
ogni missione, per leggere un libro e concentrarmi sulle cose da fare, ed avevo
congedato la mia cameriera personale, l’unica oltre me, Tijorn ed Amarto,
a poter entrare nel salottino. Era una bella stanza: piccola,
ma accogliente, un trionfo di legno lavorato e tappezzeria rosso scuro,
damascato di nero, un accostamento per la quale ero andata sempre pazza. Vigeva
la sobrietà più assoluta: qualche candelabro, un caminetto,
acceso per combattere il freddo pungente di Galinne, un minuscolo divanetto, in
tinta con l’ambiente, uno scrittoio, ingombro di mappe, documenti e cose
varie, una sedia, due porte, ed una porta-finestra protetta da tende, che si
apriva sul balconcino che affacciava sulla via centrale di Galinne. In quel
momento ero stesa sul divano, che avevo incautamente posizionato vicino al
camino, assorta nella lettura di una cronaca di guerra, sgraffignata, senza il
consenso del proprietario, ovviamente, dalla piccola biblioteca di Tijorn, e
beandomi del calore delle fiamme. Ero ancora bellissima, integra e perfetta, e
non avevo paura del mio aspetto. Ero ancora la pericolosa Ombra, la più
fedele servitrice della corona, e la nobile, sciocca, vanesia ed arrogante Rian
Askerat, lo pseudonimo che usavo a corte, e con il quale ero conosciuta negli
ambienti altolocati. Non ricordo esattamente cosa indossassi,
qualcosa di caldo e dai colori intensi, ma ricordo perfettamente il tremendo
freddo, e che avevo la mia spada sempre accanto. Non ero stupida. Si fece notte
fonda, ed io non avevo ancora sonno. Continuai a leggere con impegno. Ero
così impegnata in quell’interessante cronaca, così
distratta, che in un primo momento non sentii i
regolari, lievi, colpi alla finestra. Mi destai dalle mie fantasticherie solo quando il rumore non si fece più forte, e
rapido. Quasi urgente. Sobbalzai, e, afferrando la spada, mi avvicinai alle
finestre. Avevo chiuso le tende, per fortuna. Mi vennero in mente pensieri
d’ogni tipo su ladri ed assassini. Gli incauti, o l’incauto,
avrebbero avuto una tremenda sorpresa. La cosa importante era prenderli di sorpresa.
Un colpo ben assestato, e via: un criminale di meno in giro per Galinne.
Mettendomi in un lato, scostai lievemente un lembo di tessuto, in modo da scoprire
e non essere scoperta. Mi venne un colpo al cuore, e dimenticai ogni proposito
d’omicidio. Reso ancora più pallido dal freddo, le guance e la punta del naso splendidamente colorite da un vago
rossore, imbacuccato ben bene in un mantello lacero, i capelli biondi, che a
stento gli arrivavano a coprire le orecchie appuntite, mossi dal lieve vento,
gli occhi viola dall’espressione rassegnata, Chekaril aspettava. Sembrava
guardingo, e piuttosto infreddolito. Non riuscii a credere ai miei occhi.
Quella era una palese violazione delle regole che ci eravamo imposti. Venire a
casa mia era un pericolo incredibile, un pericolo potenzialmente mortale. Per
me. Fui sopraffatta dalla gioia e dalla paura nello stesso tempo. Paura per
noi, per lui, per me, e per ciò che progettavamo, per i nostri cauti, ma sciocchi, piani per poter stare insieme, per le
nostre speranze per un futuro più roseo. Senza più perdere tempo,
scostai le tende con un solo gesto, lasciando cadere la spada, presa da
un’urgenza improvvisa, ed aprii la finestra. In quel tempo, il nostro era
ancora un idillio, tenuto più che segreto, ma ancora un idillio, tipico
dei primi tempi di un innamoramento. Eravamo pazzi l’uno
dell’altra, e viceversa, incantati da noi stessi, dalle nostre azioni, dalle
nostre menti e dai nostri corpi. Vorrei tanto tornare a quella situazione quasi
assurda di beatitudine, ma so che non è possibile. E la cosa mi
distrugge. Mi manca, tanto. Ebbi solo il tempo di avvertire una folata di aria
fredda e profumata di neve, prima di essere travolta da un elfo innamorato ed
incosciente. La mia parte razionale si ritirò in un umile angolino,
quando lo sentii vicino. Era davvero alto, o forse io troppo bassa. Fatto sta
che mi sentii alzare da terra, e stringere in una morsa. Non cercai di
divincolarmi, anche perché non ne avevo la minima voglia. Respirai il
suo profumo, impregnato d’inverno, lasciandomi andare per un attimo
contro di lui. Ma poi cercai di farmi lasciare. Lui mi permise di alzare solo
la testa, in modo da guardarlo negli occhi. Eravamo arrivati, in qualche modo,
vicini al camino. “che ci fai qui?”. Dissi, avvicinandomi fino a
notare le più piccole imperfezioni del viso. Non ero per nulla
dispiaciuta della sua intrusione ma, decisamente,
quell’imprudenza era davvero pericolosa. Se l’avessero scoperto,
saremmo finiti nei guai entrambi, guai seri. “lo sai che…”.
Lui non mi lasciò continuare, e mi tappò la bocca con un bacio.
Dopo quello che mi parve un secolo ci staccammo. Mi girava
la testa. Lui avvicinò la sua fronte alla mia. “volevo
salutarti”. Disse, sommessamente, con la sua voce profonda e musicale,
guardandomi di sottecchi. Penso di essere finita completamente in un altro mondo,
perché quasi non capii cosa stava dicendo, talmente ero persa in quei
magnifici occhi color dell’ametista. Un po’ esagerato,
ma vero. Non sapevo, e non so tuttora, cosa fossero
le mezze misure. E lui era la prima persona di cui m’innamorassi
in maniera così totale, e totalizzante. Mi risvegliò dai miei
pensieri poco opportuni una folata di vento gelido. La finestra era ancora
aperta. Mi divincolai dall’abbraccio, e lui si lasciò scostare.
Conoscevale
regole. Corsi accanto al mio obiettivo, e lo chiusi, tirando le finestre con un
gesto rapido. Lui mi seguì, rimanendo a pochi centimetri da me. Era un
invito dannatamente allettante. Ma io non potevo lasciarmi andare, non quando una missione mi aspettava, una missione
pericolosa. Dovevo concentrarmi. Non potevo lasciarmi tentare. Non potevo… Ma dove finiva l’autocontrollo
leggendario delle Spie, in quei momenti? Dovevo stare calma. Dovevo. Stare. Calma.
Cosa difficile quando la persona di cui ero pazza era a pochissima distanza da
me. Quasi potevo sentire il suo fiato caldo sul collo. Ancora mi batte il cuore
più rapidamente, al solo ricordo. Snervante, davvero snervante.
“dannazione, Chekaril!”. Sbottai, voltandomi verso di lui,
trovandomelo ad un centimetro di distanza, con un sorriso furbo stampato in
viso. Dovetti fare un enorme sforzo per raccogliere di nuovo i pensieri, e non
cominciare a balbettare come un’idiota. Proseguii in tono molto meno irato. “io…tu…ah!”.
Rinunciai definitivamente ad ogni tentativo di fare un discorso coerente, e
scrollai le spalle. Penso di aver sorriso scioccamente. Ero davvero pazza di
lui. Chekaril, intanto, mi abbracciò, stavolta con meno impeto, e
ridacchiò. “lo so, lo so…”. Mi disse, con fare
estremamente ilare, guardandomi dall’alto. Odiavo
quando faceva così. Senza fare il minimo sforzo, e senza che io
opponessi resistenza., mi riportò davanti al
camino. “ti devi concentrare e non puoi lasciare spazio a nulla,
vero?”. Mi sorrise, un sorriso tenero, che mi fece sciogliere di nuovo,
poi riprese a parlare. “io voglio solo starti vicino,
oggi…nient’altro”. Mi sentii davvero male. Sapevo che quella
non sarebbe stata la missione più facile della mia carriera, né
la più corta. Rimpiansi di essere una Spia, solo perché non
potevo averlo vicino quando volevo. Desiderai la vita
frivola di Rian, i suoi viaggi, come unico pensiero il vestito da indossare per
un ballo a corte, o per una passeggiata. Non era la prima volta che pensieri
del genere m sfioravano la mente. Lo abbracciai forte, senza parlare, e lui
ricambiò, tenendomi come fossi una cosa
fragile. Sapeva perfettamente come comportarsi, in ogni situazione. Solo Tijorn
ed Amarto mi conoscevano così bene. Poi mi scostai lievemente.
“togliti questo mantello da poveraccio….sei
finito nelle rose, eh?”. Avevo alti cespugli di rose bianche dalle grandi
spine tutto attorno alla mia casa, un metodo perfetto per impedire ai ladri di
arrampicarsi, come lui aveva fatto. Era stata un’idea di mio fratello. Ridacchiai mentre lui obbediva, con un’espressione contrariata,
rivelando i suoi soliti abiti di un giallo spento, il colore che portava sempre
quando non era impegnato in qualche battaglia. Afferrai il lungo e pesante soprabito,
e corsi velocemente nella mia camera da letto, nascondendolo sotto il letto
stesso. Se per caso fosse venuta la cameriera, che
aveva l’ordine di bussare prima di entrare, Chekaril si sarebbe nascosto
dietro le tende, ed io avrei fatto finta di star leggendo. Ogni prova della sua
esistenza doveva scomparire. Fu proprio in quel momento concitato che mi venne
in mente della collanina. Era un monile che per me aveva un grande valore
affettivo: un regalo del Maestro, l’ultimo giorno nella casa a Sharilar.
Tijorn, essendo più grande di me, aveva già compiuto il secolo e
se n’era andato da qualche anno, tornando solo per brevissime visite in
estate, ed ero malinconicamente sola. Quel compleanno si svolse in tono molto
minore degli altri, benché fosse più importante. Non vedevo
l’ora di riabbracciare il mio dolce fratello, ma
quella separazione fu davvero uno strazio. Era finita la mia infanzia,
l’età dei giochi spensierati, delle malefatte, delle noiose
lezioni pomeridiane su storia e cultura dei popoli, di giocosi duelli, di fughe
tattiche e cadute in acqua. Da quel momento sarei stata una giovane Spia,
un’adepta, pronta a ricevere un’educazione severissima e crudele,
pronta a diventare un fantoccio nelle mani dei sovrani. Quella collana
rappresentava la parte più luminosa della mia vita, e non la indossavo
mai, per pure ragioni sentimentali. Odiavo il solo pensiero di poterla perdere.
La volli donare al mio unico amore, come pegno, senza sapere il suo terribile
significato intrinseco, il gioco del destino di cui anche quell’innocente
gioiello era complice. La fine di Ombra. Fu un gesto spontaneo, non deliberato,
naturale come l’aria che respiravo. Così si sarebbe ricordato di
me. Ficcandomi la collanina in una tasca, mi fiondai nel salottino. Chekaril
era stravaccato sul divanetto, sonnecchiando, godendosi il tepore del camino,
la testa appoggiata allo schienale, ad occhi chiusi, completamente a suo agio.
Mi avvicinai, silenziosa, utilizzando tutti i miei trucchi da Spia per
risultare invisibile. Avevo in mente di giocargli un meraviglioso, piccolo,
scherzo. Solo con lui mi permettevo di essere così idiota, così
infantile. In punta di piedi, respirando appena, mi avvicinai al divano,
chinandomi poi sul suo viso, e prendendo una ciocca dei miei capelli. Gli solleticai
il naso, giocosamente, e fu un attimo. Lui aprì gli occhi, di scatto,
come solo un soldato allenato sa fare, e fece un
salto. Risi, apertamente, e lui mi guardò, imbronciato. Poi la sua
espressione si distese in un ghigno diabolico. Aveva qualcosa in mente.
“oh, oh…”. Dissi, arretrando di un passo. Repressi a stento
una risata. Prima che potessi reagire in qualche modo,
lui si sporse, inginocchiandosi sul divano e prendendomi di peso. Il mondo si
capovolse, e per un attimo non capii nulla. “mettimi giù!”.
Sussurrai, trattenendomi dall’urlare, mentre mi godevo
un’interessante vista al contrario del mio camino. Chekaril rise, di
nuovo, ed io mi ritrovai seduta sulle sua ginocchia,
sul divano. Mi abbracciò. “così impari!”.
Sghignazzò, stringendomi più forte. Fossero state tutte
così, le punizioni… Fu il mio turno di fare l’offesa.
“non è colpa mia se hai i riflessi ed i sensi di un orso in
letargo!”. Lui mise un finto broncio, ma poi mi baciò, di nuovo,
un bacio di quelli che amavo tanto, per poi abbracciarmi, mettendo la testa
bionda su una mia spalla. Rimanemmo un po’ così, senza parlare,
fissando il fuoco, beandoci solo della nostra presenza. “mi
mancherai”. Mi confessò, ad un tratto, guardandomi, addolorato. Mi
sentii totalmente presa alla sprovvista, e non risposi, lui, dopo un breve
silenzio, continuò. “cerca di non ferirti, Lsyn, né farti
in alcun modo del male. Soffrirei troppo se ti sapessi ammalata, o peggio”.
Gli sorrisi, mestamente. Ogni missione era un salto nel vuoto, e lo sapevamo
entrambi. Quella particolarmente. Entrare nelle grazie di un sovrano di un
territorio vicino, per poi ucciderlo e rubare alcuni preziosissimi documenti,
non era esattamente una passeggiata. Lui aveva tentato di dissuadere la stessa
sorella dal farmi partecipare, ma lei aveva voluto l’Ombra, io, e Becco
Aguzzo, un giovane ma promettente adepto, a tutti i costi. Non si era ancora
rassegnato. Odiai quel terribile clima di tristezza creatosi, e volli
rimediare. Frugai nella mia tasca rapidamente, mentre lui mi guardava
incuriosito, e ne estrassi la collanina. Sorrisi alla sua espressione
incredula. Mi sporsi per agganciarla. “promettimi d’esser fedele,
Chekaril”. Gli sussurrai nell’orecchio, mentre mi staccavo. Lui,
con una mano si sfiorò la gemma al centro, e mi guardò di nuovo,
stupefatto. “prometti d’amarmi, per sempre”. Era doloroso
separarsi da un ricordo così vivido della mia infanzia, ma pensai che
non c’era consolazione più grande che nel
vederlo appeso al collo affusolato della creatura che più amavo in
assoluto nel mondo. Lui scosse il capo. “ma che razza di pensieri ti
vengono in mente, Lsyn?”. Mi disse, stringendomi forte. Quanto amai
quelle parole, quanto. Mi lasciai stringere, completamente rapita. “sai
che non lo farò mai, mi senti? Mai!”. Quanto erano false, quelle
parole, e quante retorica c’era! Non lo capii:
ero troppo infatuata. Avessi fatto io il primo passo, comportandomi da vera
Spia, certe cose non sarebbero mai accadute. Ma invece no: fiduciosa come
un’infante, mi lasciai baciare per l’ennesima volta, abbandonando
completamente quel poco di raziocinio che mi aveva permesso di essere fedele
alle mie buone abitudini da Cane della Regina, mandando letteralmente all’aria tutti i miei propositi.
Ed ora ero lì, a ben cinquant’anni di
distanza, dopo innumerevoli sofferenze: un’ottusa larva sfigurata,
dall’anima mutilata ed inutile. Stavo malissimo. Ero arrivata troppo
tardi. Era finito. Era tutto finito, tutto! Strinsi forte la collana, fino a
farmi dolere la mano, e me la portai al petto. Non riuscivo a respirare: il
fiato mi usciva a singhiozzi, a flebili rantolii spezzati. Non poteva, non
poteva essere! Non era detta l’ultima parola! Poteva essere solo tutto
causale. Poteva essere una collana uguale! Non cercai nemmeno di piangere: il
dolore era andato troppo al di là, la sofferenza si era spinta in un
territorio dove tutto si fa ovattato, distante ed irreale. Smisi di pensare, e
mi lasciai cullare dalle lacrime che non riuscivano ad uscire, mentre un senso
di fallimento impotente si faceva strada in me. L’avevano ammazzato, i
bastardi! L’avevano ucciso, chissà da quanto tempo! Il Regno era
perduto! Subitanea e bollente come una fiammata, m’invase la rabbia, ed
io, diventata ormai belva, scattai in piedi, un ringhio involontario che mi
usciva dalle labbra. L’avrebbero pagata. Sarebbero morti tutti, mi
costasse pure la vita! Cosa avrebbe fatto Lainay, ora? Come avrebbe proseguito
la sua campagna? Come ci sarebbe potuta essere, un’utopia elfica, senza i
mezzi per realizzarla? Egoisti, egoisti! Li avrei uccisi uno ad uno, ed avrei dato in pasto le loro viscere ai compagni!
Ironicamente, fu proprio il gesto che feci, quell’alzarmi così
piena di furia da terra, a svelarmi qualcosa in più. Mentre, infatti,
guardavo la boscaglia, piena di furia e dolore indicibili, mi accorsi di
un’ombra frastagliata ed irregolare poco distante, troppo strana per
essere un albero. Qualcosa non andava. Mi bloccai, mentre la mente mi si
svuotava. Cos’era quel coso immobile, dal profilo così poco
familiare? M’invase il sospetto. Poteva essere tutto un trucco per farmi
capitolare. No: decisamente lì c’era qualcuno, o qualcosa, che non
me la contava giusta. Afferrai il pugnale, e lo sguainai. Silenziosa, come
sapevo fare benissimo, mi avvicinai alla figura, di soppiatto. Gli saltai
vicino, pronta ad uccidere, guidata solo dall’istinto cieco. E quello che
vidi, per la seconda volta in pochissimo tempo, mi pietrificò. Qualcosa
in me fece una capriola, o due. Mi resi conto, in un attimo, di aver sbagliato
tutto. Chekaril non poteva entrarci. O forse si: ben più tardi avrei
scoperto tutto ciò che c’era dietro al mio viaggio, ma per ora per
me era un mistero. C’erano tracce più che evidenti di uno scontro
antico: tronchi spezzati, boscaglia caduta, strani segni di bruciature, dove
più nulla era ricresciuto. Con crescente stupore, osservai la figura
immobile e squarciata di un gigante di metallo. Qualcosa non quadrava. Avevo
visto quei cosi una sola volta nella mia vita: durante le fasi finali del
torneo a cui avevo partecipato, la città che lo
ospitava fu attaccata da un pazzo, che risvegliò, forse, quegli strani
esseri. Se fossero state creature senzienti o no, non so: mostri di ferro, alti
e minacciosi, dotati d’impressionanti armi (la più familiare era
un’enorme spada curva, ora assente), si muovevano in modo innaturale,
grottesco, levitando. Qualcosa di cui non avevo mai sentito parlare. Era quasi
comico, e se non fossi stata in pericolo di vita,
allora, penso che ne avrei riso. Erano così sgraziati, così
brutti, ma così potenzialmente letali.
Avevo affrontato qualcuno di quelli, dalla forma cilindrica e dall’unico
occhio spento in cima, e sapevo quanta forza ci volesse
per trafiggerne uno. Io e Tijorn stavamo per allontanarci dalla città quando si aprirono degli impressionanti
crepacci. Io, com’era nella mia natura,curiosai dentro uno di essi. Ebbi
il vanto ad essere forse la prima ad essere aggredita da quei mostri in tutta
la città. Poco dopo, essi avevano invaso quell’avamposto umano,
come ad un ordine prestabilito. Ce n’erano anche due di diverse fattezze,
molto più grandi e temibili. Avevo combattuto, fianco a fianco con il
mio miglior avversario del torneo, quell’umano, Regis, che sembrava ben
conoscere la natura di quelle bambole mortali, uno di essi.
Mi spiegò qualcosa, ma ammetto, con mia grande vergogna, di essermene
dimenticata. Non ricordo ormai nemmeno il loro nome. So solo, per sommi capi,
che avevano bisogno di qualcuno che li comandasse all’interno, e che la
distruzione che portavano era superiore a qualsiasi cosa conoscessimo. Correva
voce che anche Lainay ne possedesse alcuni, tenuti in gran segreto, pilotati
dai suoi elfi più fedeli, ma fu una voce mai confermata, salvo una
volta. Fui ferita, ricordo, da uno dei mostri giganti, e, mentre mi curava,
parlai a Regis di Chekaril, quasi di sfuggita. Beh, a dire la verità fu
lui che mi tirò le parole di bocca. Fatto sta, che mi confidai per la
prima volta, esponendo, a spizzichi e bocconi, il mio più grande
problema. Non avrei mai pensato di aprire lo scrigno dei miei segreti proprio a
lui, un umano che era stato mio avversario, eppure lo feci. A lungo è
stato l’unico a sapere chi fosse il padre di mia
figlia. Comunque, in quel momento, avevo uno di quei cosi
davanti, squarciato ed arrugginito, inerte, quasi distrutto. Non riuscii
a credere ai miei occhi. Che diavolo ci faceva un aggeggio del genere,
lì, in quell’isoletta sperduta? Cos’era accaduto, che io non
sapevo? Quali eventi si erano svolti in quello spunto
immondo di terra? Fui assalita da un altro presentimento. Correndo indietro,
agile come un cerbiatto, raggiunsi il punto in cui avevo visto lo scheletro.
Affannata, m’inginocchiai accanto. Era evidentemente un elfo: le ossa
erano molto più sottili e leggere. Alcune erano spezzate, ma da questo
non potevo dedurre nulla: potevano benissimo essere state spezzate da animali
in cerca del midollo. Presa da una frenesia quasi eccessiva, frugai attorno.
Quello che trovai mi colmò di terrore e di sollievo. Sollievo
perché non poteva essere Chekaril: lui non aveva capelli ricci, e
bianchi, né indossava un’armatura quando
era sparito. Lainay mi aveva detto che mancavano dal suo armadio vari abiti da
viaggio, di cuoio marrone. Terrore perché tutto era troppo terribile, ed
inspiegabile, per poterci pensare. Cercando un altro po’, trovai la cosa
che mi gettò, decisamente, in confusione: una spada dal pomo
d’oro, arrugginita, ma che presentava ancora evidenti tracce di contatto
contro un corpo contundente. Osservai bene l’armatura, sempre più
incerta. All’altezza dello sterno, un solo colpo preciso, potenzialmente
mortale. Chiunque fosse stato a morire, l’aveva fatto dopo uno scontro. E
molto sanguinoso, a quanto pareva. Dopo cinquant’anni non era rimasto
granché, ma, mentre facevo qualche respiro per calmarmi, capii una cosa:
Chekaril non c’entrava nulla. Una spiacevole sensazione di freddo si fece
strada in me. Conoscevo solo un corpo d’armi che utilizzava quelle spade
e quelle armature. Immortali. E se noi eravamo i Segugi, loro i Mastini. Erano
nobili della capitale del Regno: solo loro potevano far parte di quell’armata
di élite. Sceglievano loro quel destino:
divenire armi viventi, al servizio del Principe. Appartenenti
a Galinne, dannazione, fedelissimi di Chekaril! Che ci faceva uno di
loro lì? Perché c’era stato uno scontro? Contro chi? Lainay, a mia insaputa, aveva mandato qualcun altro a
salvare Chekaril? Akita aveva saputo quelle notizie molto
prima di riferirmele? Mi avevano tenuta all’oscuro dei veri
intrighi? Gli Immortali erano implicati nella scomparsa del loro Capitano? Cosa
c’entrava quella collanina? Com’era finita lì? Era tutto un
trucco? Una falsa pista? O no? Troppe domande, senza risposta. C’era solo
un modo per scoprire tutto: trovare, finalmente, Chekaril. Era l’unica
cosa da fare, l’unica cosa che avrebbe impedito alla mia testa di
scoppiare. Stordita e molto confusa, sentii la determinazione impadronirsi di
me. Osservai brevemente la strada da fare, e mi alzai, dando un calcio di
spregio al teschio che mi aveva fatta inciampare, per poi condurmi quasi alla
follia, facendolo rotolare più volte, ed intascando il gioiello,
riprendendo la borsa con un movimento veloce e camminando, i pugni serrati,
braccia contro il corpo, con quello che sapevo essere un cipiglio terribile.
Qualcuno stava cercando di prendermi in giro. E si stava divertendo molto,
anche. Non l’avrebbe passata liscia. Pestai il piede a terra, come sequesta fosse la
mia peggiore nemica, e cominciai a marciare a testa bassa. Mi fossi fermata
allora!
Percorsi la stretta, tortuosa stradina, dal terreno molto
sdrucciolevole, senza fermarmi, ancora arrabbiata
Percorsi
la stretta, tortuosa stradina, dal terreno molto sdrucciolevole, senza
fermarmi, ancora arrabbiata. L’ira era come una carica, e mi diede
l’energia necessaria per quella faticosa salita. La pendenza non era
accentuata come nei viottoli di montagna che io ero abituata a percorrere,
diabolici sentieri dove la parola d’ordine è attenzione, ma era fissa
e costante. Gerinti è un’isoletta principalmente collinare: una
sola, piccola, altura, che digrada in baie, grotte nascoste e piccole calette
dai fantastici strapiombi. Un lato è molto dolce, ideale per la
coltivazione delle viti e la pastorizia. L’altro, quello in cui mi
trovavo io in quel momento, è più aspro, pieno di trabocchetti ed
antri sconosciuti. Un posto ideale per nascondersi, o nascondere qualcuno:
avrei dovuto faticare molto per trovare Chekaril. La cosa non
m’importò: chiunque avesse preparato quello scherzo, in quella
radura, non era stato per nulla divertente. Il motivo che aveva spinto i
rapitori a creare una simile sceneggiata mi era ignoto. Durante la salita, per distrarmi e
mantenere costante la rabbia, l’unica cosa che ormai mi faceva andare
avanti, tanto ero sfinita, avevo rivolto tutti i miei pensieri a quel problema.
Avevo deciso, in attesa delle spiegazioni che mi sarebbero state date di sicuro
dal mio amore, di sospendere il giudizio: ero convinta, tuttavia, si fosse
trattata di un’astutissima trappola, un mezzo per dissuadere i messi dell’Impero
ad approfondire ulteriormente la
ricerca di Chekaril: le ossa appartenevano ad un elfo, la collana era del
Principe, e questo bastava per gettare nella disperazione un osservatore
frettoloso. Tutto, però, era troppo poco…casuale, ecco. Troppo specifico.
Sembrava tutto preparato apposta per me. Ebbi uno strano pensiero, che
m’inquietò oltre ogni dire: ero probabilmente spiata, e da molto.
Solo io sapevo cosa significasse quella collanina, e cosa fosse. Solo io potevo
sapere certe cose. Solo io e pochi altri conoscevamo la mia meta. Mi fidavo di
essi, perfino di Akita. C’era qualcosa di strano in tutto quel
ragionamento, qualcosa che non riuscivo a capire. Molte cose non quadravano. Mi
avevano tenuta sott’occhio per molto tempo prima di procedere al
rapimento? Il rapitore conosceva bene Chekaril, ed era stato suo confidente? O
forse avevano estorto a lui stesso le informazioni di cui avevano bisogno, con
metodi fin troppo conosciuti e fin troppo usati, un’eventualità
che mi fece rabbrividire fin nelle ossa? Propendevo per l’ultima ipotesi,
per un semplice motivo: non è difficile crollare, sotto i ferri di un
abile torturatore. Anche senza versare sangue, il dolore che può
provocare spezza anche gli animi più impavidi di fronte alla morte. Davanti
al dolore ad all’umiliazione tutti capitolano: questo mi aveva insegnato
la mia magnifica esperienza dai Tengu. Quel pensiero mi fece uscire fuori dai
gangheri una volta e per tutte. Immaginare Chekaril sottomesso e ferito era
oltre le mie labili capacità di sopportazione. Ancora camminando a testa
alta e pugni chiusi, digrignai i denti, ed aumentai l’andatura. Avrei
ucciso tutti quelli che si fossero permessi anche solo di averlo sfiorato con
un dito! Li avrei fatti penare, e tanto. Li avrei spaventati, e poi avrei
copiato sul loro corpo ogni segno lasciato a Chekaril. Il Principe non si
toccava. Quel mio pensiero, visto da una prospettiva ben posteriore, ha quasi
dell’ironico. Ne riderei ora, se potessi, e se ci riuscissi. Facevo a
malapena attenzione a dove mettevo i piedi: il resto, è tutta nebbia
nella mia memoria, tanto ero offuscata dall’ira. Finalmente, dopo una
tremenda strettoia, dove più che altro bisognava arrampicarsi più
che camminare, arrivai in un ennesimo spiazzo boscoso, molto, molto più
grande del precedente. Ero quasi in cima al basso monte: la punta smussata si
ergeva poco sopra di me, imponente nel cielo nero e punteggiato di stelle. Mi
fermai, di nuovo. La rabbia, che avevo portato fino al limite estremo per
tenermi in piedi, cominciò, come avevo previsto, a scemare. Rimase solo
la determinazione, che mi aveva sostenuta, e mi aveva fatto mettere due passi
insieme, attraverso Regno ed Impero, ed un vago sdegno. Mi mancarono,
improvvisamente, le forze. Da quando avevo lasciato i Tengu, avevo totalmente
ignorato le loro suppliche, e non mi ero riguardata come promesso. Respirando
affannosamente, mi sedetti di schianto sull’erba, cercando un po’
di riposo. Era ancora notte: nessuno sarebbe passato, di lì. Beatamente
stravaccata a terra, mi sfiorai le piume che avevo appese al collo, ricavandone
una sorta di strana scarica. Il loro basso potenziale magico era ancora attivo,
come lo è tuttora. Non penso si esaurirà mai. Il pensiero,
volando attraverso chilometri e chilometri, andò immediatamente alla
Matriarca e agli Anziani. Cos’era successo, in quel territorio, durante
la mia assenza? Stavano tutti bene? Avevano o no iniziato la guerra contro il
villaggio nemico? Sorrisi debolmente. Il ricordo di quei volti gentili ed
innocenti mi avrebbe accompagnata a lungo, e poi perseguitata. Il ricordo della
loro fierezza e forza mi avrebbe spinta a prenderne esempio, come già
facevo. Passò un po’ di tempo. Cominciai, lentamente, a sentirmi
meglio. Mi lasciare cullare per qualche attimo da pensieri oziosi. Sognai un
bel bagno caldo, in un’acqua controllata, bassa, profumata e limpida, ed
un letto accogliente: un sonno in pace con il mondo. Non era ancora
l’ora: più lentamente mi muovevo, più Chekaril si faceva
lontano. Dovevo darmi una decisa mossa. Ma prima, bisognava mettere qualcosa
sotto i denti, o sarei crollata strada facendo. Rovistando nella borsa,
estrassi qualcosa di commestibile, eredità più che gradita delle
copiose provviste donatemi così cortesemente dalla Mastra Guaritrice, e
cominciai a guardarmi intorno, ancora seduta. Dovevo raggiungere Gerinti, e
lì cominciare le mie indagini. Notai, a poca distanza da me,
seminascosto dalla boscaglia, una strada che mi sembrava battuta. Alzandomi
piano, andai, lasciando lì la borsa, in esplorazione. Mi addentrai un po’
per quel sentiero sconosciuto. Si trattava di una terribile discesa tra due
costoni di roccia, che circondava la montagna, arrivando dall’altra parte
dell’isola, là dove il paesaggio si faceva molto meno aspro. In lontananza, qualcosa che a malapena
riuscivo a scorgere, un agglomerato di piccole ed umili case in argilla e
tronchi di legno, illuminate a stento da qualche torcia. Riuscivo ad individuare,
sulla spiaggia che s’intravedeva in basso, qualche barca in legno, ma
nulla più. Probabilmente, il villaggio di giù era stato costruito
sulla montagna. Era l’ora ideale per arrivare a Gerinti di su, e
cominciare la ricerca di elfi da lì. Potevo quasi scommettere che la
maggioranza della loro popolazione fosse tutta concentrata in un posto solo:
sono rari gli elfi nati in un posto di mare, e la nostra razza tende a non
amarlo particolarmente, o a temerlo. Siamo una razza nativa di boschi e
montagne, essenzialmente schiva, amante dell’agricoltura, e dei campi.
Dovunque ci siano elfi, inoltre, soprattutto in luoghi estranei all’Impero,
è probabile trovarne in un solo luogo, quasi per proteggersi ed aiutarsi
in caso di problemi con altre razze, specialmente con quella umana o Insathi,
pronti a fare fronte comune in ogni evenienza. Trovato uno, avrei trovato
tutti. Ed allora mi sarebbe bastato torturarne uno per ricavare tutte le
informazioni di cui avevo bisogno. Brutale, ma rapido. In una piccola
comunità, mi ripetei, le notizie si spargono a macchia d’olio. Il
mio ragionamento non faceva una grinzaAppena resami conto di aver trovato la
strada, tornai indietro, verso la mia borsa, di corsa, rischiando più
volte di scivolare. Arrivata alla mia meta, aggiustai rapidamente il mio
camuffamento, migliorando la voce e dandomi un aspetto un po’ più
mite. In caso di avvistamenti, sarei stata costretta a recitare la parte dell’umana,
della poveraccia, della mentecatta, della smemorata muta. Un altro
camuffamento. Dopo essermi curata, venne il momento di raccogliere tutte le
cose utili: non potevo andare in giro con una borsa enorme. Il mio ruolo era
quello della povera, della mendicante. Mi ricordai dell’agguato ad
Isnark, e di tutta la preparazione antecedente ad esso. Bizzarro come le cose
si stessero ripetendo. Non colsi, sfortunatamente, l’intero schema. Sarei
scappata, se l’avessi fatto. Cambiai per prima cosa il mio mantello
grigio con quello nero, pieno di tasche nascoste dove avrei messo le cose, e
più largo. Rovistando nella borsa, presi il Comunicatore, che mi sarebbe
sicuramente servito a breve per annunciare alla Regina l’esito della
missione, la mia spada, che allacciai alla cintura, qualche unguento ed alcune
strisce di carne secca. Lo stretto necessario. Dopo qualche esitazione,
afferrai anche la collanina, e la ficcai nella stessa tasca in cui riposavano i
ciondoli dei due Celestiali, che avevo così barbaramente ucciso. Ero
pronta a partire. Rammaricandomi di dover lasciare la maschera e buona parte
delle provviste in balia del caso, cercai di trovare un posto per celare il
tutto ad occhi indiscreti. Non volevo perdere il resto delle cose preziose che
rimanevano: dovevo ancora tornare! C’era un magnifico tronco contorto e
cavo, poco distante da me, un nascondiglio perfetto, che utilizzai con gioia.
Spezzai un ramo basso dell’albero, di un tipo a me sconosciuto, per avere
un riferimento. Sospirai, ora più felice. In quel momento ero davvero
pronta. Mi avviai lentamente. Ripercorsi la stessa strada con più
cautela, attenta a non scivolare, avviluppandomi completamente nel mantello,
rendendomi indistinguibile con la notte. Feci attenzione a non produrre nemmeno
il minimo fruscio camminando. Ero l’Ombra tra le ombre. Ero nel mio elemento,
e ne gioii. Amavo la notte, ed il suo silenzio. Almeno non faceva caldo.
Mi resi
ben presto conto che la guerra era arrivata fin lì. Imitando il mio
comportamento nei villaggi umani che avevo incontrato nell’Impero,
cominciai a curiosare nelle case. C’erano la stessa miseria, la stessa
fame, le stesse facce scavate dovunque. Nelle case, addormentati profondamente,
c’erano solo donne, bambini e vecchi. Lo squallore, con mio enorme
disgusto, regnava sovrano: certe abitazioni non erano che catapecchie di una sola
stanza, dove dormivano in cinque o sei, più alcuni animali da cortile.
Mi sentii disgustata. Nemmeno gli elfi più poveri osavano trattarsi in
quella maniera! Dov’era l’orgoglio degli esseri umani?
Dov’era mai finito? Esisteva davvero? Può una razza condurre sé
stessa in abissi di abbandono senza farsi domande sul senso della propria
esistenza? Cosa spingeva mai quelle creature a trattarsi come bestie? Fame?
Pigrizia? O era solo il mio animo da nobile un po’ schizzinosa che si
risvegliava? Non sapevo, né seppi mai. Fui costretta ad uscire di corsa
da quella casupola, allarmata dall’inquietudine che mostravano alcune
galline al mio approssimarsi. Rischiai di essere scoperta. Ripresi la mia
esplorazione. Fui costretta ad entrare in ogni abitazione che incontravo per la
mia via, case che mostravano vari
gradi di degradazione. Niente elfi: ero entrata negli alloggi di quasi
metà del villaggio, e avevo scoperto solo orecchie tonde. Cominciai a
ricredermi su quanto avevo congetturato a proposito degli elfi e del mare.
Avrei perso un giorno se avessero abitato giù: non potevo farmi vedere
alla luce del sole. La mia presenza sarebbe sembrata quantomeno sospetta. Ed
allora, niente avrebbe impedito ai rapitori di farmi fuori, o spostare
Chekaril. Oltre il danno, la beffa! Era un’altra cosa che non quadrava:
abitare a mare non faceva parte della logica di un elfo. O almeno, era
così che ragionavano tutti i miei compaesani, ed amici. Il mare è
infido, non è come un placido stagno od un lago. È freddo, e
pericoloso. Tuttavia, non desistetti dal curiosare un altro po’. C’erano
altri postiin cui non avevo visto.
Entrai in altre due case. Cominciai a sentirmi disorientata. Il villaggio, seppure di modeste
dimensioni, era stato creato in ordine molto casuale, come sassolini tirati a
casaccio dopo essere stati scossi in un sacco. Il tutto dava l’idea di
essere stato creato secondo un ordine arbitrario ed individuale. Ognuno
costruiva dove e come voleva. Peggio di Scmen, o Zakadi. Perfino un
accampamento provvisorio di Insathi era più ordinato. La cosa, per me,
abituata all’ordine maniacale di Galinne ed altre città, elfiche e
non, mi gettò nella disperazione più nera. Avevo girato la stessa
zona per un paio di volte, in tondo! Era assurdo! Basta, non potevo continuare
così. Mi fermai, in mezzo ad un piccolo cortile recintato appartenente
ad una casa più ordinata e ricca delle altre, che non avevo ancora
visitato, e rimasi ad osservare il tutto, portandomi le mani sulla testa. Due case
davano sulla via, l’altra invece era al contrario. Quella di fianco era
invece orientata in modo ancora diverso, e così via. Cose da pazzi. Ed io
non ero nemmeno nella mia forma migliore. Ero stanca. Non avrei retto molto a lungo
in quel modo. Dovevo trovare almeno qualche indizio. Dovevo. Chekaril
aspettava, ferito, magari avvelenato, o malato. Chekaril era vicino. Molto
vicino. Sentivo battere il cuore solo al pensiero. Rimasi per un po’ ad
osservare l’oscurità, fissando le case con sconforto crescente.
Non potevo spiare in ognuna di esse! Prima o poi mi avrebbero scoperta! Scossi
il capo. Forse era venuto il momento di trovare un rifugio. Sentivo la
stanchezza sempre più acutamente, farmi dolere muscoli ed ossa, e
chiudere gli occhi. Ma Chekaril? Non potevo stare un altro giorno con le mani
in mano! Volevo vederlo, abbracciarlo, confortarlo, portarlo con me, parlargli.
Quello che mi sembrava un ringhio di cane mi riportò improvvisamente
alla realtà. Sobbalzai, e mi guardai freneticamente attorno. Sgranai gli
occhi, indietreggiando, appena capii l’origine del rumore. Oh, no. Non
pure quello! Non avevo pensato ad un’eventualità del genere!
Decisamente, tutto si stava mettendo contro di me. Come se non l’avesse
mai fatto. Con orrore crescente osservai un enorme cane, un meticcio grigio,
emergere da un angolo della casetta, ed avvicinarsi con lentezza, a zanne
scoperte ed occhi luccicanti fissi su di me. Oh, oh. Avevo svegliato qualcuno.
E quel qualcuno non sembrava bendisposto verso me. Dovevo fuggire, o mi sarei
fatta male. Il problema era che qualcosa sembrava avermi ancorata al suolo,
solidamente come le radici fanno con gli alberi. Dovevo provare ad ingraziarmi
il primo essere vivente che mi trovava a Gerinti. Magari quel mostro stava
facendo solo scena. “bravo, bello…”. Mi arrischiai a
mormorare, con voce soffocata, quasi un pigolio indistinto. Niente. Il cane
cominciò ad avvicinarsi sempre più, minaccioso. Dannazione. Mi morsi
un labbro. Quel mostro mi arrivava tranquillamente alla vita. Un solo morso, e
per me era la fine. Ero completamente paralizzata. A poca distanza da me, il
mio aggressore si fermò. Ci fu un attimo di stasi, in cui io ed il mio
nuovo, strambo, nemico prendemmo a fissarci, io con terrore, lui con allarme e
minaccia. Passò qualche attimo di pura paura. Poi, finalmente, l’animale,
ringhiando sempre più rumorosamente, fece per slanciarsi contro di me. E
fu allora che recuperai tutte le mie facoltà. Mi girai, e, scavalcando
la bassa staccionata del cortile con un balzo, cominciai a correre quanto
più velocemente possibile. Non avevo nessuna voglia di farmi del male. Il
gigante prese ad abbaiare furiosamente, ed a rincorrermi. Sentii uno
spostamento d’aria terribilmente vicino all’altezza delle
ginocchia, ed accelerai. Il cane continuò a latrare rabbiosamente Perfettamente
convinta di avere un’intera muta di cani rabbiosi dietro, mi addentrai in
una zona nuova: le case sembravano più belle, e molto più ordinate.
Non c’erano cancelli, lì, né recinzioni. Gli abitanti
dovevano essere in maggior parte contadini. C’erano attrezzi per l’aratura
disseminati incautamente fuori i cortili, tra i quali spiccava un grosso carro
malmesso, e molte case avevano una piccola stalla. Tutto sembrava più
pulito. Sentendo il latrato del mio inseguitore più lontano, mi azzardai
a fermarmi, e, con il respiro pesante, ed il volto presumo pallidissimo dalla
paura, mi voltai. Non c’era nessuno. Rimasi per qualche minuto in attesa,
in silenzio, mentre le orecchie mi rimbombavano, pronta a scattare di nuovo
anche alla sola vista di un muso. Ma nulla. L’abbaio si fece sempre
più debole, poi si spense del tutto. Sorrisi, rendendomi conto solo in
quel momento di tremare follemente. Sospirai di sollievo. Il mostro non mi
aveva raggiunta. Ma ero punto e a capo: nessuna traccia di presenza elfica. Come
fare? Entrare in altre case, con il rischio di esere morsa da qualche cane, o
peggio? Non ebbi tempo per fare alcunché. La stanchezza, traditrice, mi
assalì improvvisamente, facendomi barcollare. Dopo un attimo di
sbandamento, mi guardai attorno per cercare un rifugio per la notte. Conoscevo benissimo
i miei limiti, e sapevo di essere quasi sul punto di oltrepassarli. Non avrei
resistito un secondo di più, ed uscire di nuovo dal villaggio era fuori discussione.
Mi attirò il vecchio carro, che giudicai troppo malconcio per poter
essere usato. Con le giuste accortezze, sarebbe diventato un nascondiglio
perfetto. M’inginocchiai, e guardai sotto. Le grandi ruote davano uno
spazio sufficiente per intrufolarsi, e non essere vista. Avrei dormito all’addiaccio,
all’erba ed al freddo, ma quella, da quando avevo cominciato il viaggio,
non era più una novità. Fu un gesto altamente sconsiderato, ma
non potevo fare di meglio. Mi sentivo quasi in trappola. Non potevo andare
avanti, perché il mio corpo mi stava tradendo. Non potevo tornare indietro,
per lo stesso motivo. L’alternativa sarebbe stata arrampicarsi su un
albero: ma lì, di alberi non ce n’erano. Mi buttai, già istupidita
dal sonno, sotto il carro, rannicchiandomi quanto più potevo, in modo da
non risultare visibile. Stavo scomoda, ma almeno ero virtualmente non
intercettabile. Ero nei guai, o forse no. La mattina dopo avrei fatto i conti
con le mie scelte: ma, in quel momento, ero troppo stanca. Appena posai il viso
su una mano che usavo come cuscino, infatti, mi addormentai, piombando in un
fresco, riposante oblio.
Mi parve fosse passato solo un secondo, quando sentii, mentre ancora ero
immersa saporitamente in un sonno profondo, dovuto alla stanchezza accumulata
in giorni di viaggio, una secchiata di acqua gelida
Mi parve
fosse passato solo un secondo, quando sentii, mentre ancora ero immersa
saporitamente in un sonno profondo, dovuto alla stanchezza accumulata in giorni
di viaggio, una secchiata di acqua gelida. Non metaforicamente: venni investita
senza preavviso da uno scroscio di acqua fredda, che m’infradiciò
da capo a piedi. Il sonno sparì in un baleno: saltai letteralmente
seduta, aprendo gli occhi di scatto, picchiando la fronte contro una figura
apparsa magicamente di fronte a me. Cosa diavolo stava succedendo? Chi mi aveva
svegliata? Ci furono alcuni attimi di vero sbandamento. Non riuscivo a
ricordare dove fossi, né cosa o chi fossi. Il mondo era un turbinio di
colori. La testa mi faceva male nel punto in cui avevo sbattuto contro quella
cosa, qualunque oggetto fosse. Un risveglio molto brusco, non c’è
che dire. “ahi!”. Gemette una voce maschile, poco distante da me.
Feci un salto, recuperando in un lampo tutte le mie facoltà mentali. La
notte prima, stanchissima, mi ero addormentata sotto un carro malconcio,
perfettamente convinta di non essere scoperta. Avevo reputato troppo vecchio
quel calesse per essere ancora usato, e l’avevo giudicato un nascondiglio
perfetto. Come al solito, avevo sbagliato nelle mie predizioni: poco ma sicuro,
non ero più dove mi ero addormentata. Non ero più sotto il carro.
Chi mi aveva scoperta? Lì c’era spazio a malapena per far
strisciare e rannicchiare in un angolino una persona esile e di bassa statura.
Invece io, in tutta la mia esigua altezza, ero comodamente seduta su quello che
mi sembrava un prato. Sbattei più volte gli occhi, scuotendo la testa,
per recuperare la vista. Ora il mio camuffamento entrava in gioco. Devo ammettere
che mi ero già aspettata di essere scoperta, e per questo non andai in
panico. Dovevo stare calma: recitare, e bene, come avevo fatto dai Tengu. Mi
avrebbero creduta, in fondo, se io non avessi portato con me una traccia
inconfondibile. Traccia che elfi ed umani percepiscono molto raramente. Il sangue
freddo era più che indispensabile: un solo errore e sarei stata
scoperta. Ed allora avrei potuto dire addio a me ed alla razza elfica. Dovevo
agire con tutta la cautela che potevo racimolare. Timidamente, alzai lo
sguardo, che sapevo ancora cisposo e dall’espressione un po’
ottusa, tipico del risveglio, e mi guardai attorno. Era ancora notte, ed tutti
sembravano dormire, nelle loro povere case. Dovevo aver dormito un’ora,
forse un po’ più. Di lì si spiegava il mio stordimento
totale. Il cielo era appena più chiaro sul mare, segno dell’alba
imminente. Si presagiva un’ottima giornata, calda e senza vento. Tutto
era ancora silenzioso. Dopo un po’,con cautela, lasciai che lo sguardo si
posasse verso la figura poco distante da me. Per poco non feci un altro salto.
Non volevo crederci. Non potevo! La gioia e lo stupore mi assalirono immediatamente,
e feci fatica a non lasciar trapelare nulla dal mio viso. Perché,
inconsciamente, involontariamente, avevo trovato una delle chiavi. Ce
l’avevo fatta! Chekaril era più vicino ogni secondo che passava.
Benedissi il momento in cui mi ero buttata sotto quel vecchio carro. Era stata,
tutto sommato, una pessima idea, ma aveva dato ottimi frutti, come tutte le mie
pessime idee. Seduto di fronte a me, una mano sull’erba e l’altra a
massaggiarsi la fronte, che avevo probabilmente colpito nell’alzarmi, c’era
un giovane contadino dall’aria preoccupata e cordiale. Non sembrò
accorgersi della mia stranezza. Questo, tuttavia, non fu il motivo della mia
gioia: lui era, inconfondibilmente, un elfo. Solo la nostra razza poteva avere
lineamenti così fini, un corpo così sottile. La tonalità
di capelli ed occhi era inoltre innaturale per un essere umano: un nero che,
anche alla luce debole di quel momento, in cui non era notte, ma nemmeno
giorno, quando il sole non aveva ancora fatto capolino all’orizzonte, si
stemperava nel blu più cupo. Un colore impossibile da imitare, tipico
degli elfi delle pianure di ghiaccio, molto più a nord di Galinne, in un
territorio tra i primi ad essere conquistati durante l’avanzata di
Normar, tra i primi ad essere inglobati in quello che sarebbe poi diventato il
Regno. Quante volte, studiando la divisione dei sottotipi di elfo, avevo
desiderato capelli od occhi di quella sfumatura così rara! Avevo un
esemplare di quella fortunata minoranza proprio davanti: scommettevo che la
gradazione della pelle fosse chiarissima, dalle sfumature azzurrine, come
quella di Akita. Invidiosa, io? Forse un po’, lo ammetto. In quel
momento, però, tutti quegli indizi non facevano altro che aumentare
l’euforia, ed il pericolo. Non dovevo mostrarmi troppo avventata. Non
dovevo. Però avevo trovato, sicuramente, l’agglomerato elfico.
Potevo già vedere Chekaril davanti, libero. Potevo già sentire le
trombe della fanfara, che annunciavano il mio arrivo trionfante a Galinne.
Decisi istantaneamente, mentre ancora ci fissavamo, di non parlare, e di
mostrarmi spaesata, come se non sapessi com’ero finita lì. Una
vittima di amnesia. Un camuffamento non troppo complicato. Bastava tenere a
mente solo poche, piccole, regole, e non dimenticarsi mai di esse, nemmeno per
sbaglio. Lasciai comparire, sul mio viso falsamente rugoso, un sorriso vacuo e
sciocco. Il cuore batteva a mille. Non riuscivo ad avere altri pensieri se non
quelli concernenti la mia missione, ed il fatto che avevo trovato un elfo. Il
giovane contadino mi guardò, ricambiando il mio sorriso, con
preoccupazione, poi si mise in ginocchio, in un lampo. “accidenti che
botta! State bene, anziana cugina?”. La belva assetata di sangue che era
in me sogghignò malevolmente. Anziana cugina! Ero ancora un’umana,
per fortuna. Ed ero un’elfa fortunata: non poteva capitarmi preda
migliore. Bisognava solo manipolarla un po’, e poi avrei avuto tutte le
informazioni di cui avevo bisogno. Mi sentii meschina nell’usare quei
trucchi sleali contro un appartenente alla mia stessa razza, ma era una cosa
che andava fatta. Tutto per il mio principe preferito. Ringraziai mentalmente
Tijorn, ed i suoi miracolosi intrugli a prova d’acqua. Aveva combinato
disastri a non finire, durante le prime preparazioni, ma ora meritava
l’appellativo di vero esperto. Ero pronta per la mia ultima recita.
Ancora guardando fisso il povero, giovane elfo, finsi un altro sorriso, gentile
e stupido, e poi scossi lievemente il capo, come se non lo capissi. Poi mi
guardai attorno, facendo del mio meglio per sembrare una povera mendicante
smarrita. Finalmente, mi girai di nuovo, ed inclinai lievemente la testa in un
lato, con un’espressione interrogativa. Studiai ogni minima espressione
del volto del giovane, in attesa anche di un solo segno di riconoscimento.
Nulla. Vidi solo il suo sorriso cordiale sparire in un attimo, e la sua
espressione farsi molto preoccupata. Con calma, pianissimo, lui si
avvicinò, come se avesse paura di terrorizzarmi. Io lo rimasi a guardare
con calma bovina, ancora con la stessa espressione placida. Non poteva
conoscere la tempesta che si agitava al mio interno, la gioia che mi avrebbe,
prima o poi, spinta a ballare come una pazza da qualche parte. Non poteva
sapere che, se fosse dipeso solo da me, l’avrei già afferrato,
tappandogli la bocca, e l’avrei portato in un posto dove interrogarlo per
bene, per poi ucciderlo senza rimorsi. Ma non potevo farlo: eravamo nel bel
mezzo di un villaggio in procinto di svegliarsi. In quella missione, la parola
d’ordine era cautela. Dovevo andarci con i piedi di piombo. E dunque
dovevo guadagnarmi, in un modo o nell’altro, la sua fiducia. Era il primo
obiettivo, la prima priorità. L’elfo mi fissò negli occhi a
lungo. “mi capite, cugina?”. Mormorò, con voce molto meno
vitale. Sembrava sentirsi segretamente in colpa. Io, con una punta
d’improvvisata perfidia, mi limitai a guardarlo, con fare incerto. Dovevo
sembrare un’idiota totale. Lui impallidì, e negli occhi scuri gli
lessi la pietà. Ero riuscita ad incantarlo. Il mio inconsapevole
aiutante mi tese la mano, poi mi guardò con fare incoraggiante.
“vieni, su…”. Mi disse, in tono molto dolce, mentre il
sorriso riaffiorava, carico di compassione. Seppi di aver centrato il segno:
aveva abbandonato il voi. Riuscii a fermarmi giusto in tempo dal sorridere
malignamente. Era in mio potere. Senza altre esitazioni, afferrai la mano che
mi tendeva, senza fare storie. Insieme ci alzammo. Lui mi sostenne quando io,
ancora indolenzita per la posizione scomoda che avevo assunto, barcollai.
L’elfo, poi, mi condusse lentamente alla casa a cui apparteneva il
cortile, una costruzione sobria di legno, lievemente sbilenca. “io
comunque sono Xavier. Xavier. Xa-vier”.
Disse proprio così: lo ripeté più volte, allungando la a in modo quasi comico. Sembrava stesse
parlando con un bambino. L’avrei preso per pazzo, e l’avrei
sicuramente fulminato con un’occhiata gelida, se non mi fossi ricordata,
in un lampo, di essere una povera vecchietta traumatizzata. Forse voleva farmi
imparare il suo nome. Beh, chi ero io per non accontentarlo? Finsi un altro
sorriso. “Xavier”. Ripetei, con voce incerta. Sperai con tutto il
cuore che il giovane contadino non si accorgesse della lieve sfumatura di
sarcasmo involontario nella mia voce. Niente: lui annuì, con aria
soddisfatta, e riprese a camminare. Per poco non mandai a monte il mio
camuffamento. Ero troppo stupita per fingermi una vecchia scema: scoccai uno
sguardo incredulo all’elfo, che non intercettò. Xavier era una
creatura di un candore quasi infantile, come raramente ne avevo conosciute,
poco incline al sospetto. Avevo trovato il pollo giusto da spennare. Recuperai
tutta la baldanza che mi serviva. Decisamente, gli dei volevano che io trovassi
Chekaril. Tutto era a favore perché io diventassi l’eroina di
Galinne. Povero, povero sfortunato. Ci fermammo davanti alla porta.
L’elfo bussò delicatamente un paio di volte, poi rimanemmo ad
aspettare. Mi ricomposi velocemente: se ero riuscita ad imbrogliare il giovane
contadino, non era detto sortissi lo stesso effetto con gli altri inquilini
della bella casa. Non sapevo chi abitasse con lui. Non fui costretta ad
aspettare molto: l’uscio si aprì, e da esso fece capolino
un’elfa assonnata, ma perfettamente vestita con un abito di foggia
elfica, di cotone marrone, con le maniche svasate. I lunghi capelli biondo
miele erano raccolti in una crocchia ordinata. Mi sembrò mia coetanea,
come Xavier. Aveva un’aria materna, che mi ricordòdolorosamente la mastra Guaritrice. I
grandi occhi verde scuro si colmarono di stupore quando ci vide. “Xavier!
Chi è lei?”. Disse, spostandosi per farci passare. Entrammo in una
grande e semplice stanza, dal tavolo di legno, con sei sedie, e dal focolare in pietra acceso,
dove in un paiolo bolliva qualcosa dall’odore gradevole. In un angolino,
una scala a pioli, sempre di legno, che conduceva al piano superiore. Appesi
alle pareti, selle e bardature varie, insieme a vari attrezzi di cui mi
sfuggiva l’utilizzo ed il nome. Mi ritrovai improvvisamente seduta su una
delle grezze sedie, probabilmente fatte a mano, ancora fintamente stordita. Una
famigliola tipicamente elfica. Sia il mio primo interlocutore che l’elfa,
che per comodità giudicai la moglie, si sedettero vicino a me. Xavier
sembrava tormentato. “non lo so”. Disse, guardando dalla mia parte,
mordendosi il labbro inferiore, pensieroso. “stavo andando al
campo…e quando ho spostato il carro per attaccarlo al mulo l’ho
trovata che ci dormiva sotto…. L’ho scossa, ma non la riuscivo a
svegliare…”. Ah. Ecco spiegata la brutta sorpresa dell’acqua
fredda. Tremavo ancora, ed ero bagnata fradicia. Non se ne erano accorti?
Dannazione. “così le
ho buttato un po’ di acqua fredda addosso. Lei si è alzata ed ha
picchiato la fronte contro la mia. Non si ricorda niente. Mi sembra
completamente pazza”. Sentii un segreto moto di soddisfazione, mentre
ascoltavo attentamente tutto ciò che stavano dicendo, lo sguardo fisso
su un punto del tavolo. Avevo fatto esattamente la figura che intendevo fare.
La giovane elfa, a giudicare dal rumore, si era alzata. “allora questo
è un caso per il vecchio Krish, non credi?”. Disse, allegramente.
Krish? Un altro elfo? Il nome era ben strano. Nella nostra lingua era una
parola che stava a significare colui che
rinuncia. Chi mai poteva fregiarsi di un tale titolo? Cosa poteva
significare? Rinunciare a cosa? Quel nome mi riempì di sospetto acuto.
Poteva essere uno pseudonimo per un esiliato, un capo della rivolta contro il
Regno. Poteva sapere, dunque, dove fosse Chekaril. poteva aver nascosto lui
stesso Chekaril. Dovevo quindi raggiungere questo Krish, dovunque egli fosse.
Ed allora, avrei trovato la chiave di tutto. Solo gli dei sapevano quanto fossero
vere tutte le mie supposizioni. L’elfa riprese a parlare. “a
proposito di Krish…non ti stava aspettando per cominciare a piantare
prima che sorgesse il sole?”. Sentii, improvviso, un rumore di sedia
spostata, che mi fece sobbalzare, e voltare di scatto. Xavier era in piedi,
improvvisamente elettrico. “maledizione, stavo dimenticando!”.
Disse, andando intanto verso la porta. Si girò verso di me solo una
volta, e mi sorrise. Io rimasi impassibile, vuota. L’elfa lo seguì
fino all’uscio. “mi raccomando, occupati di lei fino a quando
torno, eh?”. La giovane annuì pazientemente, con un sorriso dolce,
che venne ricambiato. Il livello d’intesa tra i due era spaventoso.
“tu parlane a Krish…magari domattina possiamo portarla da
lui…”. Non volevo sentire altro che quello. Mi girai nuovamente
verso il focolare, avvicinandomi un po’ con la sedia. Complice il caldo
della cucina, mi stavo già asciugando, e non avevo più freddo. La
cosa non poteva essere che positiva. Non volevo ammalarmi nel bel mezzo della
mia vittoria. Seppi, dallo sbattere della porta, e dal fischiettio allegro che
svaniva in lontananza, che Xavier se n’era andato. Sentii dei passi. Feci
bene attenzione a non muovermi. Ora dovevo stare attenta. La donna di casa mi
era sembrata molto meno ingenua del marito, anche se aveva parlato poco. Aveva
una certa vena d’astuzia primitiva che non mi piaceva. La sentii
avvicinarsi al fuoco, e poi un rumore di stoviglie. Mi ritrovai, chissà
come, una ciotola di qualcosa di fumante davanti. Aveva un aspetto rustico ed
appetitoso. Nonostante lo stomaco brontolasse molto, visto che il mio ultimo
pasto degno di quel nome risaliva almeno a due settimane prima, non mi slanciai
subito sul cibo. Guardai prima la ciotola, poi l’elfa, che era vicina a
me, sorridente, poi di nuovo la ciotola, poi l’elfa. Dovevo sembrare
smarrita, una povera umana smarrita. “su, cugina, mangia”. Disse,
senza traccia di rancore alcuno. “è tanto buono, e tu sei
così magra…”. Dovevo fingere la pazzia un po’
più spesso. Mi divertiva essere trattata da pazza. Era piacevolmente
ironico. Ne avrei riso, quando tutto fosse finito. Non mi lasciai pregare,
tuttavia, ed afferrai la ciotola con mani bramose.
Da quel
brusco risveglio, passai un’intera giornata, ore più, ore meno, in
quella piccola famiglia. Ebbi modo di vedere la vita a Gerinti, di gran lunga
più rilassata di quella di altri posti dove abitavano umani ed elfi
assieme. L’isolamento e la povertà avevano dato i loro frutti.
Lì si ci trattava ancora come i primi tempi di convivenza, quando non
c’erano guerre ed eravamo tutti cugini. Nessuno portava rancore, e tutti
si aiutavano. La comunità era piccola, e ben organizzata. A nessuno
importava la razza del vicino, ed erano tutti mescolati tra loro, cosa che mi
aiutò a capire come mai non fossi riuscita a trovare un solo agglomerato
elfico. Avevo mantenuto un contegno da cane, randagio e bastonato, per tutto il
tempo in cui ero stata in quella casa, e, restando in un silenzio placido e
buono, appresi molto. Benedetto silenzio ingannatore! Xavier e la moglie (che
si presentò spontaneamente come Sybil) avevano due figli, due infanti
di, presumo, nemmeno dieci anni. Due maschi. Mi presero immediatamente in
simpatia, e cominciarono a chiamarmi “Nonnina”, cosa che mi diede
molto fastidio. Fu molto difficile calmarmi, in quell’occasione. Potevo
essere la loro madre! Loro però, non lo sapevano. Era quello che mi
ripetevo per non saltar loro addosso. Il pomeriggio trascorse in fretta. Molte
donne umane, ed elfe, portavano i loro bambini a giocare insieme, come dedussi,
ogni volta a casa di ciascuna, a turno. Oggi era il momento di Sibyl. Come
compresi dai loro discorsi, fatti mentre su un ripiano s’impastava il
pane, e mentre i piccoli giocavano insieme fuori, senza odio e senza razzismo
alcuno, c’era una guerra contro il Regno in corso. Avevo azzeccato nelle
mie supposizioni. Lainay non era mai stata così aggressiva, ed aveva
addirittura occupato Zakadi, facendo un eccidio degli elfi rivoluzionari
lì presenti, poi passando oltre. Nel Matriarcato di Uruk erano in stato
di massima allerta. Tuttavia, cosa strana, il territorio non era ancora stato
attaccato. Gli scontri si stavano concentrando nei punti che io avevo
attraversato, a fasi alterne.Il
mio compito era più che mai urgente: la situazione era in fase di
stallo. Ringraziai mentalmente tutti gli dei, sconosciuti e non, per avermi
concesso di trovare una soluzione al problema Chekaril così in fretta.
Mi sembrava tutto maledettamente facile. E ne ero contenta. La Regina veniva
odiata da tutte, indistintamente: i maschi umani erano infatti stati reclutati
per una leva straordinaria, e agli elfi toccava lavoro doppio nei campi o nelle
barche, per sostentare tutti. A quanto pareva, se lì non esistevano
pregiudizi, nell’Impero ce n’erano, eccome. Qualche marito delle
elfe lì presenti era stato picchiato, perché aveva osato
esprimere un’opinione personale sulla leva obbligatoria. Erano stati
tagliati i contatti con Gerinti, ed ogni aiuto proveniva da Scmen e dai
contrabbandieri. Il misterioso Krish pareva essere un’eminenza nella
comunità: si occupava del razionamento, aiutava chi ne aveva bisogno,
sebbene non fosse molto in forma. Quelle notizie, apprese mentre io ero seduta
allo stesso posto della mattina, lo sguardo fisso e vuoto, mi diedero molto a
pensare. Krish m’intrigava, e molto. Chi era? Da chi mi avrebbero
portata, la mattina dopo? Decisi, istantaneamente, di lasciare stare la
famiglia di Xavier. Erano innocenti. Krish doveva, assolutamente, essere
ascoltato. Era lui il motore di tutto. Ed allora avrei trovato Chekaril. Sibyl
scoprì anche, accidentalmente, la mia spada, mentre io mi giravo per
prendere qualcosa, la sera. Io, completamente fuori di me, diedi una
dimostrazione così convincente di non saperla usare, e mi mostrai
così attaccata ad essa, abbracciandola con aria sperduta, che
l’elfa mi lasciò stare, sospettosa, e non me la tolse. Al
tramonto, una volta andate via tutte le allegre comari con prole, e messi a
letto i due piccoli diavoli, ci raggiunse Xavier. A cena mi parlò
incessantemente, forse per cercare un barlume di memoria in me, o almeno, in
quello che fingevo di essere. Mi raccontò della sua infanzia, nel nord
estremo del territorio elfico, e della sua fuga all’arrivo di Normar. I
primi periodi di Gerinti, quando ancora gli uomini erano diffidenti verso loro,
i profughi. La conoscenza di Sibyl, ed il loro matrimonio felice. Mi
parlò anche di Krish, del misterioso Krish. O almeno, ci provò.
Infatti, non appena cominciò la sua storia, Sibyl lo zittì con
un’occhiata. M’insospettii. Mi nascondevano qualcosa. Sybil non si
fidava di me. Non parlò dell’affare della spada al marito. Se
fossi stata sola con il ciarliero Xavier, sarei riuscita a cavare il ragno dal
buco. Ma nulla: l’elfa, prudentemente, tenne sempre occupato il marito,
facendomi preparare un giaciglio, e poi trascinandolo a letto. Stranamente,
mentre osservavo le ultime braci del fuoco morente rosseggiare innocue, mi
sentii al sicuro, e sicura di me stessa. Il momento della verità stava
per giungere. L’ora dei traditori sarebbe scoccata. Ed io avrei vinto.
Avrei vinto. Il pensiero mi piacque moltissimo. Mi addormentai senza
accorgermene, ancora fiaccata dal viaggio terribile, con il sorriso sulle
labbra. Non sapevo fosse l’ultimo: non avrei sorriso per molto, molto
tempo, e la gioia non mi avrebbe più visitata per quelli che mi parvero
secoli. Andavo allegramente al macello, di mia spontanea volontà. Il
mattino dopo, quando ormai era già giorno, Xavier mi venne a svegliare.
Mi mostrai placida e distesa come sempre. L’elfo era già pronto,
ed io non feci altro che farmi salutare da Sibyl, e seguirlo. Ero nervosa. Lo
stomaco, dopo quello che mi pareva un secolo, riprese a dare instancabilmente
battaglia. Penso di essere diventata di un’allegra e vivacesfumatura di giallo canarino, tanto che
Xavier si preoccupò, ed attaccò il suo mulo al carro, pieno di
quello che mi sembrava fieno, con insolita rapidità. Saltai su,
immergendomi nella paglia profumata. Quell’odore mi fece bene, e mi
calmai un po’. Si va da Krish! E non ne vedevo l’ora. Avevo sete
del suo sangue. Mi chiesi per l’ennesima volta quale potesse essere la
sua identità. Poco dopo, ci muovemmo. “eh, vedrai, Krish è
qui vicino…”. Disse Xavier, dolcemente, mentre io stavo ad occhi
chiusi. “così vediamo se si può fare qualcosa per te,
eh?”. Non risposi, com’era ovvio, e mi limitai a godere del breve
viaggio. Era una giornata meravigliosa: il cielo era limpido come non mai,
senza l’ombra di una nuvola, e faceva piuttosto caldo. Riuscivo a
scorgere la frastagliata costa di Scmen, addirittura, all’orizzonte.
Tranquillamente, arrivammo finalmente ad una casa che mi parve familiare.
C’era una staccionata bianca, e la casa sembrava molto curata. Fu con
enorme, inquieto stupore, che vidi, da un angolo, emergere, sospettoso, ad orecchie
ritte, il grosso cane grigio che mi aveva inseguita. Al collo, cosa che io non
avevo visto quella notte, aveva un
grosso collare di ferro, attaccato ad una lunga, robusta catena. Era legato.
Non mi avrebbe potuto fare nulla, se fossi entrata in quella casa
dall’altro lato. Maledissi me stessa per la mia cecità, e
stupidità. Avrei potuto trovare Krish in un batter d’occhio, se
solo non mi fossi fatta prendere dal panico! Mi calmai, tuttavia, subito. Ero
troppo felice, troppo in pace con il mondo per prendermela con me stessa. In
fondo, stavo arrivando da Krish per un’altra via, ma ci stavo arrivando.
E quella era la cosa fondamentale. Xavier fece fermare il mulo fuori dal
cortile, e, dopo avermi aiutata a scendere, scese anche lui. Insieme, in
silenzio, ci avviammo all’uscio. Il cane ringhiò minacciosamente,
ma non si mosse. L’emozione in me cresceva ad ogni passo, e fu difficile
contenermi. Se solo Xavier, che mi teneva per un braccio, gentilmente, mi
avesse lasciata, ero quasi sicura che avrei cominciato a galleggiare
beatamente, persa com’ero nei miei sogni di sangue. Lo stomaco dava
fastidio, ma io quasi non me ne accorgevo. Chekaril era vicino, molto vicino.
Molto, molto vicino. Come aveva fatto a casa sua, l’elfo bussò. E
la mia vita prese, in un attimo, quella parabola discendente che non si
è ancora arrestata tuttora. E, da quel momento in poi, Lsyn Amarto non
sarebbe mai più stata la stessa. Ed avrei assaggiato l’amaro
sapore del sangue, della polvere, e del ferro. Perché, quando la porta
si aprì, fui violentemente scagliata nella realtà, senza riuscire
a credere ai miei occhi. Non potevo crederci. “chi è?”. Fece
una vocina d’infante, lasciando che facesse capolino dalla porta una
corta zazzera di capelli ricci e neri. Mi sentii male, d’improvviso, e
tutto si fece freddo. Gelido. Mi mancò il respiro, e sentii le
vertigini. Quella minuta figura d’infante non poteva essermi sconosciuta.
No, non poteva. Non quando mi aveva svegliata la notte, per giorni e giorni,
perché affamata, non quando mi aveva fatta soffrire, non quando l’avevo
aspettata con ansia per mesi e mesi, non quando avevo passato ore ed ore a
contemplarla, innamorata, mentre dormiva, non quando mi assomigliava in maniera
impressionante, a parte gli occhi. Gli occhi del padre, lo stesso colore e lo
stesso taglio. Una madre non dimentica mai una figlia, anche se è
costretta a darla via. Mai. Non dimentica mai il suo aspetto. E c’era
lei, in carne ed ossa, alta già più di me, un’infante
felice, dal sorriso smagliante, e vitale. La mia adorata piccola. Rimasi a fissarla
per quelle che mi parvero ore, con uno sgradevole senso d’oppressione al
petto. Non riuscivo a prendere fiato. Lei no. Cosa ci faceva lì? Lei no,
lei no! Lei era una Spia! Lei doveva essere con un Maestro! Lei non poteva
essere lì! Io non potevo vederla, no! Dovevo sbagliarmi, per forza! Chi
era allora Krish? Cosa stava succedendo? Ebbi la netta impressione di cadere
all’indietro, di cadere nel vuoto. Il mondo roteò attorno a me, e
cominciò a restringersi. Non sentii nemmeno le parole che lei e Xavier
si scambiarono. Sentii un dolore terrificante al petto, che mi ricordò
in maniera netta i fulmini dei Tengu. E poi non capii più nulla, e tutto
si fece buio.
Dal mio ultimo commento siamo andati davvero
avanti, eh? xD
Vi confesso, ho incontrato parecchie
difficoltà con questo capitolo, molte, ed ancora di più ne
incontrerò con i successivi.
È difficile descrivere certi stati d’animo.
Molto difficile. Leggendo questo capitolo, mi fate la cortesia di dirmi cosa ne
pensate? Sono poco convinta… O.o
Vabbè, sarò breve.
Ringrazio, come sempre, Carlos Olivera del suo preziosissimo supporto, e del suo pungolo ad
andare avanti xD
Senza di lui, penso, sarei molto più
indietro ^^
Inoltre, visto che non ho il tempo di
commentare, ringrazio Selly del suo lunghissimo
commento, e le dico di non preoccuparsi ^^ lo studio è la cosa
più importante, ben più importante di una manciata di stupidi
capitoli J ti confesso, mi mancavano i tuoi commenti, ma questo ripaga benissimo
xD
Ah, si: fai bene a temere xD
Fai molto bene xD
Buono studio, mi raccomando **
Un bacione, intanto, a tutti, chi legge solo, e
chi invece dice la sua ^^
Ciao!
Akita
--------
Non riesco esattamente a ricordare cosa mi successe nel momento esatto in cui mi ripresi. Mi girava la testa, e
sentivo insistentemente uno strano frullio, come quello prodotto dalle ali di
un uccello entrato in una stanza. E tale mi sentivo io in quel momento: una
fragile creatura sperduta, annegata in un contesto ostile ed estraneo, senza
conoscere il modo per uscirne fuori. Non riuscivo a ragionare in maniera
limpida. Ogni volta che tento, tuttora,di ricostruire gli accadimenti di
quella prima, terribile, rivelazione, la mia mente va a sbattere contro un
solido muro, qualcosa che ho costruito per difendermi. O forse per non
impazzire. Ma io ero già pazza. Dovevo esserlo. Non potevo aver visto
quello che avevo visto. Era troppo…incongruo, troppo beffardo. Nella mia
mente c’era il vuoto, il vuoto più assoluto e terribile. Da una
parte avrei voluto tanto urlare, gridare di dolore, gridare per il tormento
incessante che ad ogni battito produceva il cuore, ma dall’altra non
potevo. Non ci riuscivo. Qualcosa si
spezzò in me, qualcosa si bloccò, e persi una parte della mia
anima per sempre. Quella che avevo visto era mia figlia. Mia figlia! Era quasi
ironicamente poetico. La tradizione delle Spie vuole che mai i genitori
sappiano dove si trovi, o con quale nome sta crescendo, il loro pargolo. Si
scongiura di creare affetti basati su qualcosa di diverso della fedeltà
alla Regina. I legami tra Fratelli di Maestro sono si, più profondi, ma
anche più complessi di un legame di sangue, e
più, paradossalmente, fragili. Ed ora, in quell’esatto
momento, mi trovavo davanti all’unico essere che mai mi sarei aspettata
di ritrovare. Sangue del mio sangue. Fu come essere sbendata un’altra
volta, come scoprire qualcosa che fino ad ora avevo nascosto. Perché io
non avevo mai dimenticato la mia piccola, adorata, infante, sebbene nella mia
memoria non fosse altro che un tenerissimo e seccante fagottino, con qualche
capello in testa. Avevo sofferto molto quando le Spie adibite alla sistemazione
degli infanti, con Chekaril a controllare che tutta la cerimonia andasse bene,
me l’avevano strappata dalle braccia. Quel giorno, Tijorn, Amarto e
Junielle erano assenti. Lo avevo voluto io. Non volevo che vedessero il mio
strazio: l’orgoglio bruciava ancora con le sue fiamme roventi, in me. Non
c’era nessuno a tenermi la mano, a consolarmi. Eppure il mio unico amore
era a pochi centimetri da me. Non avevo mai conosciuto un tormento più
acuto, che paragonerei ad un prigioniero legato che guarda
il mazzo di chiavi che lo potrebbe
liberare, senza riuscire a muovere un muscolo. Lo avevo fissato, per un lungo
attimo. Avrei voluto leggere in lui lo stesso dolore che covava in me. Non fu
così, e questo mi fece ancora più male. Stava guardando il
pavimento, apparentemente interessato alle venature del marmo
dell’ingresso della vecchia casa di Tijorn, indifferente alla bambina che
si dimenava tra le braccia della Spia, ed indifferente a me. Era da un bel
po’ di tempo che litigavamo selvaggiamente, principalmente sul futuro di
nostra figlia. Io e lui la vedevamo in modo completamente opposto. Sebbene
considerassi ancora essere una Spia come un grande onore, qualcosa in me era
già mutato in modo irreversibile. La piccola, quel dolce fagotto che mi
aveva torturata per ben quattro mesi con i suoi lamenti notturni, aveva sangue
reale nelle vene, sangue di una delle più antiche casate di elfi mai
conosciute. Era la figlia del Principe Chekaril, dannazione, figlia di nobili,
elfa di sangue puro! La sorella, all’epoca non sapevo perché, non
aveva figli, e girava una fondata voce sulla sua sterilità. Non avere un
erede diretto, in caso di morte violenta, di malattie, o accidenti che inogni caso
avrebbero impedito alla Regina di regnare, era presagio certo di atroci guerre
civili. Perché non dare mia figlia alla Regina beneamata? Un atto di
fedeltà nei suoi confronti estremo, e più che dovuto. Avrei
accettato di separarmi da mia figlia volentieri, se almeno lei fosse stata
designata da Lainay come erede al trono. In realtà, il pensiero che mi
era venuto in mente era un altro. Io sarei rimasta in servizio come Spia, e
lei, prima o poi, sarebbe stata Regina. Mi pareva un’idea stupenda,
quella di servire fino all’ultimo respiro, ciecamente, la propria figlia.
L’amavo troppo per pensarla sottomessa, come lo ero io, alla sua stessa
zia, per pensarla immersa nel sangue e negli intrighi. Chekaril avrebbe potuto
confessare apertamente la sua intemperanza, magari accollando tutte le
responsabilità a me, che, in quanto Spia, godevo di una certa
immunità. Ero sicura che la Regina avrebbe accolto sua nipote come un
dono del cielo, e non sarebbe successo nulla d’irreparabile. Ma il mio
dolce compagno non la pensava come me. Si comportava in modo strano da un
po’ di tempo, circa da quando aveva visto
l’infante per la prima volta, donandole appena uno sguardo sfuggente,
come se non gli importasse molto, e rifiutandosi di prenderla in braccio.
Sembrava volesse disfarsene il prima possibile, e la cosa non mi piacque. Qualche
mese prima c’era stato un tremendo episodio, che mi aveva fatto soffrire
intensamente: era sera, e lui, come faceva sempre più di rado, mi era
venuto a trovare. Io mi sentivo, sebbene non avessi fatto altro che
sonnecchiare tutta la giornata, stanchissima, e demoralizzata. Vedevo
avvicinarsi sempre più la data della nascita, ed era come se risuonasse
una campana a morto. Quel giorno lo
vidi ancora meno entusiasta del solito all’idea di diventare padre di
quello che sarebbe stato un sottoposto. Mi sentii quasi offesa dal suo
atteggiamento distante, e seccata dal fatto che cercasse ancora di tenere tutto
nascosto. Era stato lui a supplicarmi di non lasciarmi scappare
l’identità del padre del bambino, quando avevo deciso di tenerlo.
Io avevo obbedito, seppure fossi stata fin dall’inizio contraria: il
danno era stato fatto. Che almeno si prendesse qualche responsabilità in
più sulle spalle, non eravamo più bambini! Era finito il tempo
per giocare a nascondino. Cosa importava se Lainay mi avesse
punita, o mi avesse degradata a Maestra, con un’opportunità
così golosa di salvare la discendenza del Regno? Io non ero una fornaia
qualunque, non ero una contadina spaurita! Come tutte le Spie, tra i miei
antenati potevo annoverare la cerchia dei Venti Nobili, elfi di sangue puro che
avevano servito il primo, mitico, Re, l’unificatore del nostro popolo ed
il progenitore della stirpe reale di Normar, alle quali gesta Lainay si era
ispirata. Non avevo capito ciò che si celava dietro. Ancora non sapevo,
ancora non conoscevo tutti gli altarini che si celavano dietro quel
comportamento in apparenza così semplice, e cinico. Quando avevo esposto
la mia idea a Chekaril, lui era impallidito mortalmente, ed io, notando la sua
reazione, gli avevo risposto male. Avevo, sempre di più,
l’impressione di essere trattata come un giocattolo, come una concubina. Ed
io avevo la mia dignità da preservare. Quello che ne seguì fu forse
il litigio più violento che avessimo mai avuto,
fatto sottovoce per timore che qualcuno ci sentisse. Fu in quella determinata
occasione che lui mi schiaffeggiò, fuggendo subito dopo, per poi
incappare nella mia tremenda vendetta. L’ultimo giorno in cui vidi mia
figlia, inghiottita in un boccone dal nostro ordine, scappai nella camera degli
ospiti, che era diventata la mia ormai da più di un anno, subito dopo
quello sguardo. Mi sentii mortalmente ferita. Ma, come ogni cosa, anche il
dolore cocente di quell’episodio si smorzò pian piano. Nei primi
tempi, evitai intenzionalmente di parlare di mia figlia, poi ebbi ben altre
cose alla quale pensare. Alla fine, mi abituai a considerarla come una piccola
apprendista, alle spalle un amorevole Maestro, o Maestra, e magari un paziente
Fratello di Maestro come il mio. Mi ero conciliata con l’idea di saperla
Spia, ed avevo quasi sperato avesse successo, laddove
la madre aveva così terribilmente fallito. Fino al
secondo prima che quella dannata porta si aprisse, ero stata
relativamente in pace con me stessa. Ma in quel momento il mondo era capovolto.
Non potevo crederci. Perché il destino si stava accanendo così
tanto su di me? Cosa avevo fatto di così cattivo? Perché? Domande
a cui ancora non ho trovato una risposta. Forse mi
sono rassegnata a non averla. Mi sento troppo vecchia, troppo debole e mutilata
per cercare ancora un senso in questa vita che io vivo per gli altri, e della
quale non m’importa. Sentivo il cuore battere nella gola, come un boccone
troppo grosso da inghiottire. Cos’era successo? Perché mia figlia
si trovava lì? Krish era un infiltrato delle Spie? E cosa
c’entrava Chekaril con tutto quello? Krish lo avrebbe dovuto trovare! Chi
era Krish? Chi era? Ero stata mandata come rinforzo? Krish aveva scoperto
tutto? Cosa c’entrava quella bambola meccanica che avevo trovato in
quella piccola radura? Cos’era successo che io non sapevo? Pian piano,
riguadagnai contatto con la realtà. La testa mi girava. Mi sentivo
stranamente assente. Forse fu davvero quello a salvarmi: la sanità
mentale si rifugiò in un angolo sicuro del mio inconscio, erigendo un
guscio che mi avrebbe protetta ancora a lungo, impedendomi di perdere me
stessa. Dovevo essere stesa su un materasso, e c’erano parecchie persone
attorno a me, o almeno giudicai così dal brusio continuo e preoccupato.
Qualcuno mi passava qualcosa dall’odore terribile sotto il naso. Ebbi
l’impressione che la testa si staccasse dal
collo, ed aprii gli occhi. Ero in una stanza buia, illuminata solo da qualche
candela. Attorno a me c’erano Xavier, pallido come un cadavere, ed
un’elfa sottile e pallidissima, che non avevo mai visto. Per un attimo,
davvero, pensai di aver sognato tutto, e di essermi risvegliata dopo
un’allucinazione. Magari mi ero sentita male nel carro. Entrambi
sorrisero, quando mi videro sbattere le palpebre, perplessa, e si guardarono.
“ben svegliata”. Mi disse l’elfa, una creatura anemica, dallo
sguardo intenso e dai capelli corti, tanto da non riuscirne ad identificare il
colore. Mi parve quasi di conoscerla, ma imputai quel presentimento alla
situazione di estrema debolezza mentale nella quale riversavo. Poteva,
tuttavia, essere benissimo una Spia. Sentivo un freddo mortale. Con riluttanza,
cominciai a prendere coscienza che, forse,avevo davvero avuto una visione.
Il cuore cominciò, con mio grande sollievo, a calmarsi. Forse ero al
cospetto di Krish. Il mondo non si era capovolto. Ero ormai quasi abituata alla
mia nuova identità, e perciò non risposi. Fu una grandissima
fortuna: il mio silenzio mi aiutò a smorzare i pensieri, e renderli
sopportabili. “ci sei svenuta sulla porta appena Roxen l’ha aperta!”.
Ridacchiò Xavier, evidentemente sollevato. Si era preoccupato per me,
povero stupido. Il cuore riprese a battere furiosamente, e mi assalì di
nuovo il familiare senso d’irrealtà. Mia figlia era lì.
Roxen. Mi diede un senso di calore inaspettato il darle un nome. In quel
momento di estrema agitazione mi misi addirittura a dissertarci su, e questa
cosa ancora ne rido. Che cattivo
gusto: un appellativo giusto per un cavallo, non per una graziosa infante!
Fosse stato per me, l’avrei chiamata Srilé, Gwendolyn, o Gheneva. Non
Roxen. Niente di così rozzo.
Un nome che avesse risuonato in modo musical, altisonante.
Ed invece no. Mia figlia aveva un nome da equino! Ma chi aveva un gusto
così pessimo, secondo solo all’elfo che mi aveva dato il nome di
un liquore? Stupii me stessa con quelle oziose
considerazioni. Quasi come se…stessi digerendo la cosa. In fondo, sebbene
le cose non quadrassero, e fosse stata un orribile sorpresa,
l’eventualità d’imbattermi in mia figlia non erano mai state
molto remote. Il mondo era piccolo. Ora dovevo trovare Chekaril. Chekaril,
Chekaril, Chekaril. Era un bisogno più grande della mia stessa vita,
un’ossessione che mi avrebbe lasciata solo con un terribile atto di
perfidia, di cui ancora mi vergogno profondamente.
Cercai così di mettermi seduta, ma l’elfa me lo impedì,
mettendomi una mano sulla fronte. La sentii gelida. “aspettate che arrivi
mio marito prima di fare qualsiasi cosa, veneranda
madre”. Disse, con voce sommessa, ma decisa,
spingendomi di nuovo sui cuscini. “abbiate pazienza”. Non mi
ribellai. Sarebbe stato inutile farlo. Krish: in quel momento era il pezzo
più importante della scacchiera. Dovevo sapere, assolutamente, chi fosse, in cosa
fosse coinvolto, ed in che misura. E sua moglie, poi? Che stava significare? Roxen
cosa c’entrava? Rimanemmo per un po’ in silenzio, ascoltando i
passi che provenivano da fuori, e la vita calma del villaggio, quando la porta
si aprì un po’, e, come aveva fatto prima, fece entrare pian piano
la figura di mia figlia nella stanza. Il cuore mi parve esplodere di gioia, e per
poco non scoppiai in un pianto dirotto. Passata la sorpresa, era rimasto un
affetto incredibile, ed un rimpianto amaro: non l’avevo vista crescere. Non
l’avevo vista camminare, non l’avevo sentita pronunciare la sua
prima parola, non l’avevo consolata quando
piangeva. Adesso la vedevo lì, dopo ben cinquant’anni, un’infante
già a metà della sua infanzia. Sentii di amarla immensamente, e
teneramente. Avrei voluto tanto dirle qualcosa, confessare la verità. La
fissai, con un bisogno disperato di piangere, o di correre ad abbracciarla. Mi sentivo
in debito con lei di qualcosa, e l’urgenza di spiegarle, almeno, chi
fossi io, e perché avessi, in quel momento, gli occhi lucidi. Invece, mi
limitai a fissarla. Aveva gli occhi ed il viso di una piccola felice e ben
nutrita, e me ne compiacqui. Chiunque fosse Krish, ci
sapeva fare benissimo con gli infanti. I capelli, neri e ricci come i miei,
erano corti e lucidissimi, dei boccoli ordinati che le coprivano a stento la
punta delle orecchie. Gli abiti, seppure un po’ vecchi, erano puliti e
non rammendati. Aveva gli zigomi alti e gli occhi del padre, ma per il resto mi
assomigliava molto, nei lineamenti delicati e nella pelle pallida, ora colorita
dal sole. Innegabilmente, sarebbe diventata una bellissima elfa. Soprattutto,
al contrario di me, sarebbe stata alta, come il padre, se non di più. Ne
fui intimamente fiera: non avrei sopportato di mettere al mondo un’altra
elfa piccola e minuta come me. In quel momento, la piccola si guardò le
scarpe, arrossendo deliziosamente, e fece un passo avanti. Alzò poi la
testa, e mi guardò con aria perplessa. Senza nessun timore, le sorrisi. Fu
qualcosa di non deliberato, e quasi rilassante. Non m’importava dei due
elfi accanto a me. Mi dovetti calmare, subito, o non ce l’avrei
fatta, e sarei scoppiata in lacrime. Sarei crollata in poco tempo. La mia
resistenza fu ulteriormente messa alla prova quando
lei ricambiò il sorriso. Il viso le si illuminò.
Quel solo gesto cancellò dalla mia mente tutto
il dolore provato fino a quel momento, quasi come se le mie ferite si fossero
rimarginate, quasi come se non fossi più il terribile Mostro. Mi sentii…finalmente
degna, intera, come avevo pensato solo Chekaril potesse fare. Sbattei le
palpebre, come stordita. Mi sentii molto, molto felice. Mi aveva sorriso! Mi aveva
sorriso! Non sapeva chi fossi, ovviamente, ma…mi
aveva sorriso! Mi sentii scioccamente ed istantaneamente l’elfa
più felice del mondo, sebbene sapessi che quello era solo un ghigno di
cortesia. Chekaril poteva aspettare, se solo il mondo fosse illuminato da quel
sorriso così simile al mio. Ed ancora oggi, quel sorriso è tra le
poche cose in grado di scaldarmi l’anima. Mi ero quasi calmata, ed il mio
cuore aveva ripreso a battere normalmente, estasiata dalla figura sorridente e
silenziosa della mia bambina, quando sentii una voce. Una
voce inconfondibile. Ed allora, per poco non morii. Sono rare le volte in cui
mi sono sentita così vicina all’annientamento finale, e quello fu
uno di questi. I tre elfi si girarono istantaneamente verso di me, quando io
tirai violentemente il fiato, portandomi una mano al cuore. Di
nuovo quella fitta al petto. Mi ricordai, boccheggiante, della trappola
che mi avevano teso i Tengu, ed a quella voce fantastica che risentivo dopo
cinquant’anni. Mi parve impossibile. Mi avevano teso un’altra
trappola? Lui non voleva mia figlia, lui non l’aveva mai voluta! Era lui
che mi voleva convincere a disfarmene, quando ancora era possibile, era lui che
mi aveva schiaffeggiata solo perchè avevo proposto di risparmiarle una
vita da Spia. Ma era suo quel tono gaio, profondo e maturo, più
consapevole di sé. Ed istantaneamente capii che non si trattava di un’illusione.
“Roxen! Roxen, sei lì?”. Disse la voce calda di Chekaril,
venata di stanchezza. E mia figlia si girò, mentre la porta si apriva
del tutto, facendo entrare la creatura da me più amata al mondo.
Non saprei, né avrei saputo mai, anche dopo un solo giorno,
descrivere ciò che provai quando sentii quella voce, e mi resi conto di
non essere vittima di un’allucinazione
Non
saprei, né avrei saputo mai, anche dopo un solo giorno, descrivere
ciò che provai quando sentii quella voce, e mi
resi conto di non essere vittima di un’allucinazione.
Mi parve
improvvisamente di essere ancora nell’imbarcazione di contrabbandieri che
mi aveva portato fino a lì, preda di una terribile tempesta.
ra quasi come adattarsi
a vivere a testa in giù, o sott’acqua. E sono sicura che
l’ultima cosa mi avrebbe fatto meno impressione.
Cinquant’anni.
Cinquanta. Perfino per gli elfi non
è un lasso di tempo di poco conto, e per gli umani è quasi una
vita intera. Non era possibile che, dopo anni e anni di veglie, ferite, freddo,
e disavventure ben poco piacevoli, trovassi il mio unico amore con tanta
facilità. Era quasi
sadicamente ironico. Il destino è innegabilmente un gran bastardo.
È
difficile spiegare cosa provai.
Mi
pietrificai, nel vero senso del termine. Mi sentii gelida ed insensibile quanto
una lastra di marmo. Avevo la testa leggerissima, ed i polmoni in fiamme.
Immagino di essermi dimenticata di respirare per un bel po’.
Non
potevo credere che tutto fosse cosi dannatamente facile! Non era giusto! Fui
assalita da interrogativi di ogni genere, e mi sentii perduta, pazza.
Ma
allora…cos’era successo in realtà? Chekaril aveva preparato
tutta una messinscena? Tutte le cose che avevo sentito, e che mi ero ripetuta
nel corso di mezzo secolo erano sbagliate? Tutti i ricordi che avevo di lui,
falsati? Non mi ero resa conto di essere stata usata? Ma lo ero stata davvero?
Il mio
ragionamento andava a cozzare contro un muro solido d’incredulità.
Chekaril mi amava! No era possibile mi avesse gabbata
in quel modo crudele! Lui aveva avuto un figlio da me! Non poteva essere
così cattivo con la madre di quell’infante allegra!
Mi sentii
confusa.
Misteriosamente,
o forse non tanto, non sentii la gioia che mi ero preparata a provare. Non
sentii le lacrime che avevo nascosto per così tanto tempo, né mi
venne voglia di alzarmi ad abbracciare il mio principe.
No. Non
mi sentii felice, affatto. Provai una stranissima sensazione
di…abbandono, ecco. Mi parve di essere stata volgarmente tradita. Ed ero
indignata. Ed indignata non è un aggettivo abbastanza descrittivo per la
fitta d’atroce odio, misto al dolore più puro, che provai.
No: io
non ero una stupida. Tra tutti i miei difetti quello sicuramente non
c’era. Non per nulla ero considerata una delle Spia
più acute, sebbene la mia scarsa prudenza poco mi avesse permesso
di sfoggiare le mie qualità da investigatrice.
Avevo
capito cos’era successo.
E penso
che anche una stupida si sarebbe resa conto della
situazione: Chekaril era sparito, ed era stato reputato, fino a quel momento,
prigioniero, in chissà quali condizioni. Invece no.
Quello
aveva tutta l’aria di essere un tradimento. Contro me,
contro il Regno, ma soprattutto contro sua sorella, la mia dolce e benemerita
Regina. Lei lo aspettava, lei lo voleva bene. Lei non poteva avere eredi. Lui
viveva con sua figlia. Nostra figlia,
dannazione!
Non
potevo crederci. Cosa significava allora, quello scheletro, con la bambola di
ferro? Chi era arrivato prima di me? Ero stata mandata come rimpiazzo? Tutti si
erano burlati di me? E la collanina? Perché era appesa ad un ramo,
negligentemente, nonostante fosse un oggetto d’infinito valore?
Ancora
non sapevo, ma stavo cominciando a porre le basi per l’atto più
perfido e meschino della mia vita. Mi è difficile tuttora conciliarmi
con quel gesto, ed ancora piango per esso.
Ma io mi
sentivo volgarmente tradita, usata come una posata, o una
fazzoletto. Mi aveva trattata forse come una serva, come una delle tante
cortigiane adoranti che lo seguivano dappertutto, quando ancora era al
castello, spiandolo e mettendosi in mostra, in cerca delle sue attenzioni?
Io…io
l’avevo amato. E lo amavo ancora. Non avevo smesso d’amarlo neppure quando il mio viso si era mostrato per la prima
volta allo specchio, metà trasformata in un ammasso di cera sciolta.
Neppure
quando avevo vagato, al freddo, nella vana speranza di trovare un indizio.
Neppure
quando ero stata sospesa nel vuoto, in una gabbia, in compagnia di un triste
uomo alato!
Nemmeno
quando ero stata ferita da un traditore della propria razza!
La mia
fede in lui non aveva mai, mai vacillato. Ma perché lui mi aveva
tradita, allora?
Oh…perché
non avevo ascoltato Tijorn? Perché, accettando il suo assennato e
lungimirante invito, non ero rimasta con lui? La mia vita sarebbe stata
infinitamente più breve, forse, ma molto più felice. Oppure
sarebbe stata lunga e felice.
Ma ora,
il mio dolce fratello era lontano da me, molto lontano, in compagnia fissa di
un’elfa che odiavo più di ogni altra. E chissà se, dopo la
mia partenza così burrascosa, il nostro rapporto si era irrimediabilmente
incrinato. Lo temevo. Forse non mi voleva più bene come una volta.
Il
pensiero non mancò di agitarmi ancora di più, lì, stesa su
un letto, fingendo di essere una calmissima vecchietta, mentre il mio amore era
vicino, e gli altri lo guardavano, adoranti, Roxen inclusa. E pensare che era
stata indesiderata per così tanto tempo!
Su di me,
improvvisa, ma molto amata, scese una grigia nube di apatia, e tristezza, che
non mi avrebbe abbandonata a lungo. No. Non volevo capire. Non volevo! Mi
sentii come quando Tijorn mi aveva dato la lettera di Akita, quando la mia vita
aveva subito la mia prima, drastica, svolta.
ualcosa si erse tra me ed il mio raziocinio, impedendomi
di pensare, e di farmi soffrire ulteriormente. E ciò che successe, da
quel momento in poi, è tra le cose più difficili da scrivere, da
confessare. Perché soffro, a ricordare quanto io possa essere bestia, e
che la superiorità elfica non esiste, quando si soffre come io ho
sofferto.
E che la
mia mano non tremi, ricordando il baratro in cui precipitai, la fossa che
scavai con le mie stesse, nude, mani.
Rimasi ad
aspettare, stesa su quel letto, impassibile, piena di tormento interiore, gli
occhi fissi sulla figura che era appena entrata.
Chekaril
non era cambiato di molto, fisicamente.
Sembrava
più magro, aveva un volto più pallido, e scavato, con
un’ombra di barba non fatta, ed i capelli erano lunghi quanto quelli di Tijorn,
portati sciolti, e scarmigliati. Indossava degli abiti tipici da contadino, di
cotone grezzo, ma si poteva intuire molto facilmente il suo passato da
guerriero esperto.
Non
rimasi insensibile al suo fascino, e, per un attimo, le antiche sensazioni tornarono
a farmi visita. Volevo alzarmi, ed avvicinarmi a lui, anche solo per sfiorarlo
inavvertitamente.
Ma poi
ricaddi nella mia turbinosa apatia.
Lo fissai
apertamente, mentre ancora lui non mi guardava, limitandosi a salutare Xavier e
la moglie, con un cenno, e poi rivolgersi alla figlia.
Mi
concessi il lusso di osservarlo per un altro po’.
Erano gli
occhi e l’espressione che io non riconobbi, e che mi misero a disagio.
Il
Chekaril che conoscevo io era stato spesso illuminato da un sorriso sghembo, da
una luce beffarda, e sicura di sé, mentre gli occhi avevano scintillato
di fierezza, fuochi d’ametista che ardevano instancabili, abbagliando e
terrorizzando al tempo stesso.
Il portamento era stato altero,
sprezzante, in ogni occasione.
Aveva
emanato regalità da tutti i pori.
In quel
momento, tuttavia, non vidi nulla di tutto ciò. Sembrava quasi
invecchiato, per quanto a noi possa succedere.
Camminava
lievemente curvo, come se stesse portando un grosso peso, e la bocca aveva
preso una piega grave, come se non sorridesse da un sacco di tempo, e portasse
una grave colpa nascosta dell’anima.
I suoi
occhi era calmi, sereni, adulti, ma tradivano una certa preoccupazione, e
quella che interpretai come l’espressione di un animale in trappola,
rassegnato ormai ad una fine inevitabile.
C’era
saggezza, in quei fuochi viola, e tanta, tanta stanchezza, misto a qualcosa che
tuttora non riuscirei ad identificare.
Sembrava
quasi… contrizione, come se
stesse aspettando una punizione, non vedendo l’ora che arrivi.
Era
l’espressione di un penitente, di un perseguitato, la luce di un
condannato, che niente aspetta se non che scocchi la sua
ora.
Rimasi ad
ascoltare, preda di una sorta di estatico rapimento, la sua voce, ben modulata,
severa, ma al tempo stesso dolce, che mi trasportò indietro nel tempo, a
giorni luminosi, piacevoli e gai. Quella era rimasta uguale. La cosa mi
provocò un dolore enorme.
“Roxen…”.
Disse,
guardando nostra figlia, che gli stava di fronte, il viso basso, contrita.
“che
ci fai qui? Non ti avevo detto di non disturbare la nostra ospite?”.
La
piccola alzò istantaneamente la testa, un gesto sdegnato che mi
deliziò. Mi assomigliava anche negli atteggiamenti, e molto. Scommettevo
che ora avrebbe detto la sua, o avrebbe cercato.
“ma…padre…
mi avevi…”.
Chiocciò,
con la sua dolce vocina innocente, una musica di campanelle per me, prima di
essere zittita da un’occhiata eloquente del genitore.
“ora
vai a giocare fuori con tuo fratello, su… dopo ti prometto di portarvi
giù a vedere i pescatori che tornano, d’accordo?”.
Un
sorriso illuminò il volto emaciato di Chekaril, un sorriso infinitamente
dolce, speciale, complice, solo per sua figlia. Un raggio di sole, che
squarciò il velo di stordimento che mi ero creata.
Mi si
strinse il cuore, un dolore che quasi non riuscii a sopportare. Quei sorrisi
erano stati per me.
Cercai di
rimanere impassibile, e non piangere.
Era
qualcosa di troppo triste, infinitamente triste, vedere uno stralcio della vita
che avevo sempre desiderato avere con lui.
Ed in
quel terribile momento, dopo cinquant’anni, dopo che avevo intrapreso un
orrido vagabondaggio, ferita nel corpo e nell’anima, scoprivo chequel privilegio
era toccato solo a lui, in compagnia di un’altra famiglia, un’altra
elfa, un altro figlio.
Un altro
figlio!
Una
moglie!
E mia
figlia non sapeva chi fosse la sua vera madre!
Sentii
farsi strada in me l’invidia.
Un’esistenza
normale, diversa, non oberata dal fardello della propria perfezione.
Un’esistenza felice. Un’esistenza nascosta, ma
piena di vita.
Tutto quello
che avevo desiderato, ma non avevo mai avuto.
E tutto
questo, mentre io mi trascinavo, nella neve e nel fango, sommando, giorno dopo
giorno, l’ossessione che aveva tenuta in piedi.
Perché
era solo la mia forza di volontà che m’impediva di lasciarmi
cadere, solo la mia forza di volontà era capace di far muovere un piede
dopo l’altro.
Tutto
questo mentre io diventavo il peggiore verme tra i vermi.
Tutto
questo mentre io perdevo la mia salute.
Quasi non
m’importò del Regno, e della successione: quello che era successo,
e quello che provavo, riguardavano me, e me soltanto.
Il
pensiero di quel tradimento mi annientò.
Annientò
quel poco d’illusione che mi era rimasta, quei sogni a
cui non avevo mai rinunciato, forgiandosi attraverso dolori difficilmente
immaginabili per chiunque. Trasformò tutti i miei desideri in polvere.
Ed,
istantaneamente, sentii nascere qualcos’altro da quel cadavere.
Vendetta.
L’odio,
amaro e potente come veleno, m’invase, scorrendomi nelle vene,
sostituendo il sangue. Mi parve di essere fatta d’odio. La mia pelle era
odio. I miei occhi erano odio.
E quanto
avrei voluto vedere aprirsi in quel petto una ferita, prodotta dalla mia stessa
spada! Quanto avrei voluto trafiggerlo, fargli provare un pizzico
dell’umiliazione che provavo in quel momento, vedere sangue scuro uscire
dalla bocca che tante volte mi aveva baciata!
Chekarilaveva rapito
brutalmente tutto quello che poteva rubare: il mio amore, la mia dedizione, il
mio tempo, i miei affetti, il mio aspetto, perfino la mia vita.
Era
arrivato come una tempesta di neve, disperdendo e rimescolando, e poi se
n’era andato, freddo ed indifferente, prendendo il suo tributo di sangue
e carne.
Metà
intera del mio corpo se n’era andata per lui.
Avevo
perso la mia bellissima voce per lui!
Ero quasi
morta, per trovarlo!
Chi aveva
adibito quella trappola, Chekaril stesso?
Chi?
Ero piena
di furia, a stento repressa in quella stanzetta, dove rimanevo, con occhi fissi
e vacui. Benedico ancora la mia capacità di finzione, perché solo
quella m’impedì di saltare addosso al mio principe, e di
strozzarlo con le mie stesse mani.
Non
volevo nemmeno ammetterlo a me stessa, ma continuavo ad amarlo, in fondo. Il
mio dolce elfo. Lo amavo, e lo odiavo.
Soffrivo,
ma solo gli dei sapevano quanto fossi felice di
vederlo così integro!
La mia
situazione mi ricordò un episodio accaduto durante la mia infanzia.
Eravamo
nella casetta a Sharilar, ancora innocenti, ancora protetti, ancora felici,
spie novizie, ancora non degne del primo nome.
In giro
con Tijorn, un giorno d’estate, in un bosco, avevo visto uno spettacolo
che mi aveva turbata moltissimo.
Una
meravigliosa farfalla, dalle ali bianche e nere, era rimasta impigliata in una
grossa ragnatela. Il povero e fragile animale era ancora vivo, e si dibatteva,
con tutta la forza che poteva disporre. E più si dibatteva, più
s’impigliava, e più lottava.
Eravamo
rimasti ad osservare, affascinati, la sua battaglia inutile per la vita.
Ad un
certo punto, forse attratto dal movimento, sulla ragnatela era arrivato un grosso
e peloso ragno marrone. Era stata
la fine per il meraviglioso insetto alato.A quella
vista, la farfalla si era immobilizzata, vinta dal terrore. Era stato un gioco
da ragazzi imprigionarla in un bozzolo di seta, per il ragno, e portarla
abilmente via.
E tale mi
sentivo io in quel momento.
Ero la
stupida e delicata farfalla, che si dibatteva in un gomitolo inestricabile di
odio ed amore.
Ero
invischiata, prigioniea.
E tutti
quei pensieri scorsero nella mia mente in un attimo, in molto meno tempo di
quanto io ci abbia messo per metterli per iscritto.
Mentre io
mi rodevo, nel mio dolore, che ancora dona, di tanto in tanto, i suoi colpi di
coda, Roxen se n’era andata, scoccando un bacio affettuoso sulla guancia
del padre. Avrei voluto ricorrerla, parlarle,
prenderla tra le braccia. Avrei voluto non essere una Spia, perché tutto
quello non sarebbe mai successo!
Con un
sospiro, tornato ora rassegnato ed amareggiato, Chekaril si girò.
“Xavier”.
Disse
solamente, con una voce autorevole, che mi ricordò il modo in cui
comandava i suoi Immortali.
Il
contadino, preso in considerazione, si alzò di scatto, mettendosi in
quella che mi parve un’imitazione scadente dell’attenti
militaresco.
I due si
guardarono, e, quello che tutti conoscevano come Krish, sorrise.
“io
con lei me la vedo benissimo, è solo una vecchia pazza…”.
Mi
lanciò un’occhiata breve, quasi preoccupata. Che mi allarmò
subito. Chekaril mi conosceva fin troppo bene, e conosceva il mio stile di
camuffamento. Dovevo cominciare ad agire. Non potevo farmi trovare impreparata.
Misi una
mano nel mantello, alla ricerca del fodero della spada. Lo trovai, e sospirai
di sollievo. L’arma era ancora lì. Sciocchi!
Strinsi
spasmodicamente il pomo, sentendo, con mia grande consolazione, il freddo
gelido del metallo. Il principe continuò a parlare.
“prendi
con te un paio di elfi ed andate ad arare il campo sud…dobbiamo ancora
piantare qualcosa, o sbaglio?”.
Il tono
era stranamente consapevole, autoritario e spiccio. “no, Krish, non ti
sbagli…”.
Disse Xavier, avvicinandosi alla porta.
“ma tu non vieni?”.
l
sorriso di Chekaril si trasformò in un ghigno amaro. “vorrei,
ma… sai che non posso”.
Si guardò il braccio destro, inerte
come l’altro, e scrollò le spalle.
“è un lavoro troppo pesante
per me”.
Per poco
non sogghignai. Sapevo poco su come e perché non potesse usare bene il
braccio, un particolare che Lainay mi aveva appena accennato, ma la cosa mi
riempiva di felicità.
Prima era
stato tra i miei maggiori tormenti. Ora ne ero più che contenta. Saperlo menomato, anche se in maniera parziale, mi
faceva sentire un po’ meno in credito con lui. Saperlo sofferente mi
colmava di gioia selvaggia.
Volevo il
suo sangue. Lo bramavo, lo desideravo.
Volevo
quasi immergermi in esso, ballare, berlo, mentre lui
moriva.
Ma prima,
avrei dovuto parlare con Lainay, e, soprattutto, con lui.
Perchè
avrebbe dovuto dirmi molte cose. Molte.
Avevo
bisogno di risposte a tutti gli enigmi dell’ultima parte del viaggio, e
non intendevo fare mosse avventate prima di sapere la storia.
In quel
momento bruciavo d’odio, ma non sapevo realmente come fosse andato tutto.
Avrebbe potuto essere controllato a vista dai ribelli, e quella solo una montatura
per trarmi in inganno.
Xavier
poteva essere il suo carceriere.
Erano pure
e semplicissime illusioni, ma mi abbandonai ad esse
con insolito piacere.
Avevo
bisogno di credere in qualcosa, fosse menzogna o no.
Avevo
bisogno di aggrapparmi ad un briciolo di speranza, prima che quest’ultima
fosse ridotta definitivamente in cenere.
Non
volevo, in realtà, uccidere l’elfo che avevo tanto amato senza
prima godere un po’ della sua compagnia.
Avrebbe
sofferto molto per il trattamento che mi aveva riservato, molto.
Ma prima
avrebbe parlato, volente o nolente.
Osservai
con ansia gli ultimi scambi di convenevoli tra Chekaril e Xavier.
Poi,
l’ultimo elfo se ne andò, fischiettando un’allegra melodia.
Rimanemmo
solo io, Chekaril e sua moglie, quella lurida, maledetta elfa dai capelli
rasati e l’aria decisa. Non aveva nulla a che vedere con me, e con la mia
bellezza.
O almeno,
la bellezza che era stata.
Il
contegno autoritario ed allegro del principe parve svanire in un attimo, quando
sentimmo la porta dell’ingresso chiudersi, con un tonfo, quasi come non
fosse stata altro che apparenza.
E lo era.
Il mio
unico amore sospirò, mentre le spalle gli si curvavano nuovamente.
Mi
arrischiai a guardare l’elfa accanto a me. Era guardinga, rigida come un
ciocco di legno, ma non armata. La cosa mi fece piacere.
Strinsi
l’elsa della spada più forte, facendomi quasi male. Ero sicura,
sicurissima, che entrambi avevano capito cosa fossi.
Vidi
Chekaril chiudere la porta della stanza, tirando addirittura il chiavistello.
Poi si
girò.
Ed io lo
guardai, piena di sfida, di odio e d’amore.
E seppi,
chissà come, che mi aveva riconosciuta, quando
nei suoi fantastici occhi viola guizzò una luce di comprensione.
Il volto
pallido si fece immensamente triste, ed io lo odiai più che mai. Era lui
che aveva il diritto di essere triste, o io? Chi aveva vagato per
cinquant’anni, mandando al diavolo tutti e tutto?
Mandai all’aria
la mia copertura, e mi alzai a sedere, entrambe le
mani nel mantello, per nascondere la mia spada, ritta e fiera, guardando negli
occhi il mio unico amore.
Lui si
mordicchiò un labbro, apparendo interiormente combattuto.
E vidi i
suoi occhi umidi, scintillanti di lacrime.
Con un
paio di passi, si avvicinò alla moglie, prendendole una mano, ed
inginocchiandosi, in mia direazione.
Io mi
girai, rigida, per osservarli entrambi.
Rapidamente,
feci il punto della situazione.
L’elfa
aveva capito il mio mestiere, ma non la mia identità. Il commosso
Chekaril, invece, aveva compreso tutto.
Mi aveva
guardata troppe volte negli occhi, per non riconoscerli.
“Lsyn…”.
Mormorò,
senza fiato, guardandomi negli occhi.
Gli
leggevo la sorpresa, ed il dolore.
Un dolore
che non compresi, e che mi fece imbufalire.
In quel momento, esplosi.
Non ci
voleva altro.
Con un
movimento veloce, sguainai la spada,estraendola da sotto
il mantello, ignorando le loro esclamazioni terrorizzate.
Non
aspettavo altro per potermi sfogare.
Entrambi
boccheggiarono, e si mossero.
Ma io fui
più veloce di loro. Ero colma di gioia sadica, e crudele. Mi sembrò
giusto.
Mi
bastò un solo gesto, e la punta acuminata di quella che fu la spada di
Eiron, si trovò a pochi millimetri dall’occhio viola di Chekaril.
Vidi il
panico nei suoi occhi.
I due s’immobilizzarono,
cristallizzati in una posizione per me vantaggiosa. Così mi rendevano
facile le prossime mosse.
Con la
mia tipica velocità, prima che lui potesse ancora muoversi, mi sporsi
dal letto, afferrando con una mano la nuca liscia dell’elfa, in una morsa
tremenda, e mettendogli la parte affilata della lama sulla gola, spostandola
dal mio amato, che non si mosse.
Sembrava
terrorizzato.
Sentii, i
muscoli della mia prigioniera tendersi, e le afferrai un orecchio, torcendolo,
senza pietà alcuna. Doveva stare ferma, o l’avrei uccisa. E non
scherzavo.
Sapevo
essere piuttosto fantasiosa quando si trattava di
torture.
La sentii
reprimere un gridio di terrore, e di dolore, e lei cercò di
divincolarsi, producendosi solo un brutto taglio sulla gola, che prese a
sanguinare copiosamente.
Il
marito, pallido come un morto, le fece cenno di non muoversi, pietrificato.
Come avevo previsto. Chekaril non si sarebbe mosso finche sua moglie sarebbe
stata in pericolo. Bravo, il mio piccolo amato. Mi conosceva abbastanza bene per capire le mie intenzioni. Sapeva già quanto fossero funeste.
Io
gustavo già il sangue che sarebbe scorso. Lo odiavo. Lo odiavo!
Sempre
fedele, a me stessa.
Sempre
fedele, al sangue e all’odio.
Sempre
fedele: avevo fatto male a dubitare delle Spie, di noi Spie.
Quale
migliore uso per una vendetta?
Perché mi ero lasciata irretire
dall’amore?
Io odiavo l’amore.
Lo dovevo odiare!
Iniziò
così la mia discesa verso un baratro da cui solo la stessa arma fu
capace di strapparmi.
Ed io,
all’inizio, ne ero molto felice.
“ed
ora, bastardo…”.
Sibilai,
piena d’astio, guardandolo al di sopra dell’orecchio sinistro
dell’elfa, torcendolo ancor di più, tenendomi con i corpo lontano da lei, per evitare colpi a sorpresa.
La mia
vittima mi sembrava terrorizzata, e questo mi era d’aiuto.
“faresti
meglio a parlare, se non vuoi che io tagli la testa alla tua amata!”.
Chekaril
ed io ci guardammo. Lui non cambiò espressione, e la cosa mi diede
enormemente fastidio. “posso spiegarti tutto, Lsyn…”.
Mormorò lui, dopo un lungo attimo, prendendo a guardare sua moglie, ed
afferrandole di nuovo una mano. Lei mi sembrava calma sotto la mia lama. Sapeva
qualcosa che non sapevo, o il terrore l’aveva paralizzata. Forse entrambe
le cose. Odiai più che mai quell’elfa decisa. No, mi ero
sbagliata: l’Ombra non era mai morta. Era rimasta a sonnecchiare, in un
antro recondito ed oscuro del mio essere, in attesa del momento giusto per
colpirmi, per colpire. E per farmi tornare ad essere la Spia fredda e crudele.
Quello pensavo allora. La realtà era un’altra. Perché Ombra
era morta, era stata colpita da un paio di ali bianche, ed io l’avevo
seppellita quasi senza accorgermene. Quelle ultime, terribili, scoperte,
avevano semplicemente tirato fuori un lato di me che fino ad ora non reputavo
di avere, un qualcosa comune a tutti, siano elfi, Tengu, Inu, umani o Insathi.
Il tradimento può far impazzire ogni creatura. Specialmente se esso
proviene da un essere profondamente amato, come, per me, era Chekaril. Ed io
soffrivo immensamente: avevo vissuto per un’illusione. Non riuscivo a
pensarci. Io l’avevo sognato! Io l’avevo cercato! Io…io non
sapevo nemmeno quante cose avessi fatto, per lui. Qualcosa…anzi, no,
qualcuno, prese possesso di me. Ancora oggi non saprei ben spiegare cosa mi
prese in quel breve periodo. Fatto sta che quelle tranquille parole offuscarono
quel poco di ragionamento che mi rimaneva. Sentii la mente invasa da uno strano
calore, che nulla aveva a che fare con la temperatura. Aumentai la pressione
della lama sul collo della mia rivale, che annaspò leggermente, e
cercò di tirarmi una gomitata. Inutile dire l’esito del gesto: mi
ero preparata a quel tipo di ribellione fin dall’inizio, e non mi
scomposi. La mia vittima si mosse ancora debolmente, poi si lasciò
scappare un gemito. Ecco: stava cedendo. Un flebile suono mi annunciò
che l’elfa aveva cominciato a piangere. Mi piacque, e ne gioii. Non era
forte come pensavo. “non chiedo altro, bastardo”. Ringhiai,
guardandolo. L’elfa si era avvinghiata letteralmente alla sua mano, e lui
mi fissava, con preoccupazione crescente. Ah, la soddisfazione del terrore.
Perché lui doveva temere da me. Doveva temere, molto. E lo sapeva. Odiai
più che mai la sua compagna. Lei aveva il conforto del marito: sapeva o
no che quella mano doveva essere intrecciata alla mia? Sapeva o no cosa avevo
fatto per lui? Chekaril intuì, probabilmente, il mio ultimo pensiero,
forse dal mio sguardo rapace, non so. Di nuovo la tristezza affiorò sul
suo viso pallido, snza che la mano si spostasse di un millimetro.
“beh…è una storia lunga…”. Disse, abbassando lo
sguardo e mordicchiandosi il labbro inferiore. Conoscevo quel gesto. Mi stava
nascondendo qualcosa, qualcosa che era restio a confessare. Passò un
lungo attimo. Io ribollivo come un paiolo pieno. Poi chiuse gli occhi, di
scatto. “non è come pensi…”. Quelle parole diedero il
colpo di grazia. Quante volte le avevo sentite, quando scoprivo un suo
tradimento? Quante volte mi era toccato sorbirmi le sue patetiche scuse,
credendoci, perdipiù? Quante volte avevo sorriso quando lui mi parlava
così? Quante volte a quelle parole era seguito un perdono quasi
immediato? Quanto stupida ero stata? Quella volta, non mi sarei lasciata
prendere da sciocchi sentimenti. Avevo ignorato troppe cose. Era davvero venuto
il momento della vendetta. Era troppo. Era troppo! Sentii la rabbia risalirmi
la gola, acida come bile. Rabbia nei suoi confronti, nei miei, e per la mia
ingenuità. Ero stata stupida: l’amore mi aveva offuscato il
raziocinio. Quella consapevolezza rese di me una belva ferita. Ed allora, tutto
in me fu furore puro. “mi hai usata, Chekaril! Mi hai usata!”. Urlai, con una voce stridula
che li fece sobbalzare. Dei, era davvero piacevole sfogarsi in quel modo! Era
un bel po’ di tempo che non urlavo in quella maniera. Forse dovevo farlo
più spesso. L’elfa cominciò a singhiozzare apertamente,
mentre lui serrava ancora di più i chiari occhi.
“cinquant’anni, Chekaril! E’ da quando te ne sei andato che
non faccio altro che cercarti, che sperare in te! Ho penato, per te, ho
viaggiato, sono stata privata di ogni tipo di dignità, per te! E solo
per te! Ho perso tutti i miei affetti per cercarti, per una stupida ossessione!
Ho perso la mia vita… ho perso tutto!”. Non so cosa innescarono, in
me, quelle parole, ma, ad un certo punto, sentii una smania tremenda di
piangere, a cui per poco non cedetti. Mi si offuscarono gli occhi, e tutto si
confuse in un turbinio di colori. Ma, attraverso la nebbia liquida che
m’impediva di vedere chiaramente il mondo, notai una sola lacrima, una
sola, che scese, silenziosa ed argentea, sulla guancia sinistra di Chekaril.
Ogni suo lineamento era teso, duro ed affilato, come un’arma. Ci fu un
lunghissimo silenzio, rotto solo dai singulti confusi della mia vittima. Lo
stimolo del pianto si stava facendo troppo pressante. O quello, o la pazzia. Ma
io non potevo lasciarmi andare. Non io, la grande e fiera Spia. Io ero troppo in
alto rispetto alla normale plebe, per mostrare i miei sentimenti in quel modo.
La furia si era tramutata di nuovo in dolore, in qualcosa di profondo, e
tormentoso, un instancabile roditore che mi minava l’anima, con i suoi
denti affilati. Potevo sentire ogni morso. Ero stata preda della più
grande illusione di questo mondo. Mi ero innamorata, completamente, e
totalmente. In quel momento, le speranze ed i progetti che mi ero fatta durante
il mio viaggio solitario per l’Impero, mi parvero più che mai infantili.
Mi ero fidata delle apparenze. Mi ero fidata di tutti! Cosa avrei fatto? Come
sarei tornata? Chekaril sarebbe ritornato a fare il Principe, magari, con
moglie e prole…ed io? Cosa avrei fatto, povera, temuta e schifata, il
relitto, la bambola rotta che nessuno più desidera? Tijorn non mi
avrebbe più voluta con sé, o meglio: io non avrei più
sopportato di stare con lui, le cui speranze ed i cui desideri erano tutti
andati felicemente in porto. Mio fratello era un elfo felice. C’era Akita
a cui donare tutto il suo amore, ed io non intendevo intromettermi nel suo
sogno. Per quanto quell’elfa fosse stata sempre sgradevole ed antipatica,
per quanto io avessi potuto dirne, per quanto l’avessi odiata con tutta
me stessa, non mi sarei mai intromessa in quella storia. Avevo troppo rispetto
per gli innamorati, e per Tijorn. Non volevo che la sua felicità
s’inquinasse con qualcosa di brutto, dolente e sporco come me.
Junielle…Junielle era mezzelfa. E non avremmo fatto che litigare in ogni momento,
per qualunque cosa. L’amicizia con lei era ormai irreparabilmente
rovinata. Amarto viveva con Tijorn, e mai l’avrei preso con me. Il mio
dolce Maestro aveva bisogno di una presenza stabile, e certa, nella sua vita,
come lo era mio fratello. Dopo la malattia era diventato estremamente fragile,
emotivamente, quasi come un vecchio umano. Le altre Spie…beh…
finché ero stata bella, potente e temuta, avevo avuto la loro amicizia.
Ma ora no: nel mio umile alloggio, nel quartier generale, non sarei certamente
stata la benvenuta. Insegnare? Io? Che avevo da insegnare ad una futura Spia?
Quali valori potevo trasmettere? L’arte del fallimento? Come lasciarsi
ingannare? Dalla Regina non potevo contare in alcun aiuto: per lei, ero una
pedina nel suo vasto campo di scacchi. Una volta svolta la mia ultima missione,
non mi avrebbe sorpresa un coltello piantato in mezzo alla schiena. Era la prassi:
io ero, in fondo, inutile. Tornare dai Tengu? Perché? Da sola? La
Matriarca, prima o poi, sarebbe morta. Tutti i miei amici, lì, sarebbero
morti. Non si trattava di una razza immortale. Ed io sarei stata come Eiron,
diversa. Unica della mia razza, immutabile mentre il tempo lascia segni
indelebili sui tuoi compagni di viaggio, che si spengono poco a poco. Mentre io
sarei vissuta ancora per moltissimo tempo! Io non ero che all’inizio della
mia vita! Capii più che mai il mio povero amico dalle ali tarpate, e
compresi, in quel momento, tutte le sue scelte. La verità, enorme e
terribile, scese su di me come una mazzata. Ero sola, terribilmente e
completamente sola. Vuota. Avevo fatto, con le mie illusioni, e la mia
ossessione, terra bruciata attorno a me. Era come ricevere una stilettata nel
cuore. Potevo morirne. Non volevo vedere quel mondo. Non volevo vedere la
rovina nella quale ero così subitaneamente precipitata! Così,
anche io chiusi gli occhi: li serrai, come una bimba spaventata, senza
muovermi, ancora la spada appoggiata alla gola dell’elfa. Quel gesto, per
quanto possa sembrare strano, era il mio unico conforto. Si: come amavo quella
sofferenza che io recavo! Come amavo pensare di non essere l’unica a
soffrire! Ci fu un lunghissimo silenzio. Potevo sentire la voce allegra ed
ignara di Roxen, fuori, discorrere con qualcuno, un infante, a giudicare dal
tono. Il suo fratellastro. Stavano giocando. Mia figlia. Mia figlia, che non mi
avrebbe mai amata, mai conosciuta! Quello fu troppo. Scoppiai in singhiozzi
prima ancora di potermene accorgere, e prevenire così un tale affronto a
quel poco d’orgoglio che mi rimaneva. Sentii le lacrime calde sulle mie
guance. Tutto il dolore che provavo, tutta l’umiliazione, si tradussero
in quel pianto disperato, mentre io ero ancora in quell’assurda
posizione. Avrei voluto morire in quell’esatto momento, estinguermi, come
una candela accesa da troppo tempo, e non pensare più. Cadere in un
oblio riposante, così simile al sonno: la migliore medicina. Ed io la
volevo, la bramavo. Dove avrei trovato la forza per affrontare la mia lunga
vita, senza più nessuno a confortarla? Mi resi conto, in
quell’assurdo momento, di essere totalmente…indifesa. Avevo con me
una grande spada, e tutta l’abilità di una Spia…ma ero
indifesa, come un cucciolo. Non sarei riuscita a muovermi, nemmeno volendo. Nonera quello che speravo! Non era quello
che desideravo! Io non avevo voluto altro che una vita felice! Perché
tutti ce l’avevano così con me? Perché? Cos’avevo
fatto di così male? Perché tutti riuscivano a sfuggire da
sé stessi, ed io no? Cosa mi costringeva a farmi schiacciare, impotente,
dagli ingranaggi del fato? Perché gli altri riuscivano sempre a sottrarsi,
ed io no? All’improvviso, senza che nessun rumore ne annunciasse
l’arrivo, sentii una presenza calda e confortante, vicino a me. Non osai
aprire gli occhi. Stavo ancora piangendo, e non capivo più nulla. Quel
qualcuno mi strinse delicatamente a sé. Braccia forti che conoscevo.
“lascia Aevo, ti prego…”. Mormorò, vicino al mio
orecchio, la voce addolorata di Chekaril. Sobbalzai. Non me l’aspettavo.
Quel contatto mi fece bene, ma al tempo stesso acuì il dolore. Lui non
era più mio. “prometto di spiegarti tutto, Lsyn…tutto. Non fuggiremo.
Non ne abbiamo la minima intenzione. Non siamo qui per scappare, Lsyn…non
siamo qui per scappare!”. Quel tono, implorante e disperato, mi fece
tremare tutta. Persi totalmente il controllo dei miei movimenti. Che mi stava
succedendo? Rabbrividii, e perfino la testa sembrava fredda, e vuota, una
cripta abbandonata. Quasi non mi accorsi di obbedire alla supplica disperata di
Chekaril, e di lasciare cadere, con un clangore sonoro, la spada, prendendo a
tremare in modo folle. Il dolore tornò, raddoppiato. Non riuscii a
resistergli. Ripresi a singhiozzare, con vigore rinnovato. La gola mi doleva
terribilmente, ed ogni singulto era per me una tortura. Ingannata, tradita,
sola! Schifosamente, dannatamente sola.
Non avevo nessuno. Non c’era nessuno per me! Quasi non sentii di essere
stata sollevata, e portata di peso su una superficie morbida e calda. Qualcuno
mi abbracciò. Ed io mi lasciai andare a quell’abbraccio,
perché ne avevo terribilmente bisogno. Sapevo, con orribile consapevolezza,
che in esso non c’erano messaggi impliciti, solo una disperata voglia di
far tornare normale qualcuno alla quale si è tenuto molto. Non
c’era nessuna tenerezza, in quell’abbraccio: Chekaril non era mio.
Non so
quanto tempo rimasi lì, a singhiozzare tra le braccia forti di Chekaril,
tremante e disperata, ma so solo che, ad un certo punto, mani gentili mi
toccarono il viso. Erano fresche, e mi permisero di riguadagnare quel poco di
lucidità rimastami. Nessuno parlava. Mi resi conto, allora, che
l’elfa mi era vicina. Quelle non erano le mani di Chekaril: erano troppo
sottili, e delicate. Aevo mi stava accarezzando, senza nessuna parola. Non capii
quel comportamento: io l’avevo voluta uccidere, e solo gli dei sapevano
quanto poco ero stata vicina dal farlo davvero! Aprii gli occhi , a mezzo. Mi
ritrovai davanti la faccia preoccupata dei due elfi. Chekaril mi abbracciava
ancora, una stretta delicata, ma mi guardava, bianco come gesso. Aevo, sebbene
ferita ed ancora scossa,mi fissava con ansia, accarezzandomi il viso. Lui aveva
l’espressione più addolorata di questo mondo, colpevole e
tormentata. Non so cosa pensai, in quel momento. I singhiozzi stavano pian
piano scemando, ma il dolore no. Mi sentivo terribilmente debole. Fu forse per
quello che non riuscii a fermare in tempo la catastrofe. Ad un certo punto, infatti,
l’elfa aggrottò le sopracciglia. Parve molto perplessa.
“Chekaril…”. Disse, portandosi una mano davanti al viso, ed
osservandola con attenzione, stupefatta. Penso di aver ripreso a tremare. Mi
venne un colpo al cuore. Capii immediatamente cosa stava accadendo. Forse per
le troppe sollecitazioni, il mio camuffamento si stava sfaldando. Aveva
resistito fin troppo a lungo. Quel pianto aveva sancito la sua fine. Mi sentii
invadere dall’orrore. Vidi chiaramente una sorta di crema giallastra
sulle mani della giovane. “cos’è questo?”. No! Non
poteva essere…morii cento volte nella mia anima. Il cuore prese a
battermi furiosamente. Vidi preoccupazione sul volto del mio amato, e quasi
sospetto. “non toccare!”. Cominciai ad urlare, con voce resa
stridula dal panico che mi attanagliava, divincolandomi come una pazza.
Chekaril fu costretto a stringermi da dietro, come una prigioniera. Non volevo
che vedessero le mie cicatrici… non volevo mi considerassero come un
mostro! Non volevo pietà! Cosa facevo di male, per meritarmi una tortura
simile? Cosa? Continuai a dibattermi furiosamente, con tutte le energie che mi
rimanevano, ma Chekaril, che mi teneva, era più forte. Continuai a
lottare strenuamente. Sentivo qualcuno uscire dalla porta, e correre verso
l’altro lato della casa. Feci il punto della situazione, e mi trovai nei
guai. Non ero stata abbastanza attenta, come sempre. D’accordo, era
finita. Che volevano fare? Che volevano farmi, soprattutto? Mi ero fidata
troppo! Mi avrebbero uccisa? Forse era meglio, molto meglio. Avrei senz’altro
smesso di soffrire. Ma non per questo smisi di dibattermi, in un silenzio quasi
irreale. Mi sarei anche uccisa da sola, certo, ma non avrei mai permesso
all’elfo che tanto avevo amato di toccarmi, di ferirmi anche in quel
senso. Fu la mia resistenza selvaggia a farmela spuntare. Se Chekaril fosse
stato ancora un valente e sano guerriero, forse non mi sarei mai liberata. Ma,
come avevo notato, da molto tempo spade e lance erano state sostituite da falci
e forconi, e l’abiltà era di gran lunga diminuita. Senza contare
il suo braccio offeso: non riusciva ad usarlo per molto tempo, senza provare un
atroce dolore. Quello era il suo maggiore difetto. Notai, improvvisamente, la
presa, al lato destro, allentarsi, e di molto. Approfittai immediatamente di
questa falla. Non mi ci voleva altro. Ancora offuscata dalla rabbia,
dall’orrore e dalla paura, mi spostai completamente sul lato offeso,
facendo in modo che lui si trovasse a reggere tutto il mio esiguo peso. Ma fu
abbastanza: ebbi il grande piacere di essere libera di muovermi. Ora sarebbe
venuto il bello. Senza aspettare di gioire per il mio successo, strinsi la mano
a pugno, spasmodicamente, e mi girai di scatto. Colpii senza pensare.
Ciò che feci mi riempì di terribile soddisfazione. Sentii il mio
pugno colpire qualcosa di molto morbido, e poi un ululato di dolore. Il
Principe si scostò da me, lasciandomi libera di respirare, ancora il
pugno alzato e lo sguardo attonito, e feroce, ancora in ginocchio sul letto.
Istintivamente, Chekaril si portò una mano al viso. Ci fissammo. Mi
guardava come fossi un mostro bizzarro, ed alieno, appena comparso davanti a
lui, con uno sbuffo di fumo. L’avevo colpito su una guancia, con tutta la
forza che avevo. Il risultato già cominciava a vedersi: dovevo avergli
tagliato l’interno della guancia, perché, sul lato della bocca,
c’era un po’ di sangue. E sangue gli usciva anche dal naso.
Sbuffai. Ora avrebbe potuto farmi ciò che voleva: almeno un colpo era
andato a segno. Ben altro gli avrei dovuto fare, ben altro. Ancora
quell’idea non mi aveva sfiorato la mente. Dopo un po’, lui
spostò la mano, distogliendo lo sguardo dal mio, e la guardò.
Poco dopo, fece una smorfia di dolore e, con la stessa mano, andò a
massaggiarsi un punto vicino alla spalla destra, probabilmenteil punto dove lo avevano ferito. Era
stata una ferita piuttosto grave, e doveva fargli molto, molto male. Non era da
lui lamentarsi per qualcosa. Ben gli stava. Lui, ancora massaggiandosi la
vecchia ferita, riprese a fissarmi, inferocito. Mi sentii subito come una
condannata a morte. Inequivocabilmente, i pensieri che gli passavano per la
testa non erano dolci, nei miei confronti. Ma forse non ne aveva mai avuti:
forse io ero stata una delle tante prede delle sue cacce. Sentii spezzarsi in
me l’ultimo filo che mi teneva legata a lui. Su di me piombò una
sorta di fredda, lucida, cattiveria. Ero pazza: non potevo non esserlo. Gli
sorrisi, mettendo, in quel gesto, tutto il disprezzo, che per lui ora provavo.
Stupido bastardo. Si meritava molto, molto, di più, per quello che mi
aveva fatto passare. Fu piantato il seme dell’odio. E fu da lì che
cominciai a pensare alla più tremenda vendetta. Il problema era, che
ancora non sapevo cosa fare. “dimmi un po’, Chekaril…”.
Gli sussurrai, mentre un sarcastico sorriso mi torceva il viso. “chi ti
ha fatto così male? Vorrei mandargli un regalo!”. Lo sguardo che
ci scambiammo, pieno di veleno, mi ricordò molto i primi nostri litigi. Ma
quella volta non ci sarebbe stata la pace. Eravamo entrambi furiosi. Io,
almeno, ero pazza di rabbia. E vedevo il dolore negli occhi di quello che una
volta avavo amato, e per la quale cominciavo a provare solo odio, ed invidia.
“chiedilo al tuo amichetto umano, ed al suo senso dell’umorismo
deviato!”. Ringhiò, ancora massaggiandosi la spalla. Sembrò
quasi quello di un tempo, dignitoso ed indignato, regale e pieno di disprezzo.
Sentii una vaga sopresa. Quelle parole mi presero, sinceramente, alla
sprovvista. Amichetto umano? Io non avevo amici umani! Io conoscevo pochissimi
umani! A meno che… un sospetto si affacciò nella mia mente, e
strinsi gli occhi. C’era solo una creatura capace di combinare un
disastro simile. Un solo mortale. Ed avevo sentito qualche storia, dopo una
rovinosa sconfitta di Normar. Lampo di comprensione. Per poco non presi a
ridacchiare. Dolce, caro, Regis. Sempre lui, il mio inconsapevole custode!
Peccato fosse morto, ed io non sapessi dove fosse sepolto. Magari era sparito
dal mondo,o chissà che
altra fine aveva fatto!Peccato non
potergli fare un gigantesco regalo, come ringraziamento per la sua giusta
azione. Avrei dovuto dedicargli un pensierino ogni sera, prima di andare a
dormire. Lui aveva capito Chekaril meglio di me, e gli aveva dato una giusta
punizione, su questo non c’era dubbio. Sapeva quanto la morte fosse a
rischio di santificazione. Che gran regalo mi aveva fatto! Quella menomazione
mi sarebbe ancora tornata utile, molto ancora. Forse sorrisi, perché
vidi la rabbia accendersi nel volto del mio amato, facendo sparire tutta la sua
grazia. Era stato sempre così. “perchè ridi, Lsyn? Sei
contenta?”. Ringhiò, stringendo gli occhi per l’ira. “
sei contenta di questa cicatrice? Non posso lavorare bene, Lsyn, né
combattere al massimo delle mie capacità. Mi hanno umiliato!”. Ah,
si? Lui aveva solo una cicatrice. Metà del mio corpo assomigliava a cera
sciolta. Povero cucciolo, come doveva essere stata difficile, la sua esistenza,
confortata da un tetto, del cibo, e degli affetti, mentre assumeva la guida del
popolo elfico del luogo, ed anche di quello umano! Una sofferenza che io,
povera vagabonda sfigurata, non potevo comprendere. Prima che potessi
rispondere, con una battuta salace che adesso non rammento, la porta si
aprì, e ne emerse Aevo, pallida come un morto, con uno straccio imbevuto
in mano, ed una fasciatura improvvisata sul collo affusolato. Ci fu un attimo
di silenzio, mentre ci guardavamo interdetti. Chekaril s’interruppe, e ci
fissò, prima lei, poi io, lasciando che il sangue scorresse dal naso,
lasciando gocciolasse dal mento e macchiasse gli abiti. Sembrava non curarsene.
Non riuscivo, inizialmente, a capire. Allora… no. Non volevano
sicuramente uccidermi. Stavano mantenendo, assurdamente, la loro promessa.
Avrebbero fatto meglio a fuggire. Nessuno sapeva come sarebbe andata a finire,
però. Forse il Principe si fidava di me. Capii, in un lampo, quali fossero
le intenzioni dell’elfa. Voleva togliere il camuffamento, un gesto per
lei pietoso. Stranamente, in quell’attimo cristallizzato, non ebbi paura
come prima. Un pensiero perverso mi si scatenò in mente, una smania
terribile ed indomabile. Sentii una strana calma impossessarsi di me. Volli far
vedere a Chekaril cos’ero diventata, per lui, cosa mi aveva reso una
trappola, da lui probabilmente progettata. Bastardo. Bastardo! In un attimo, mi
portai di fronte ad Aevo, strappandogli lo straccio fradicio da mano. Lei si
scostò leggermente. Abbassai il capo, e mi girai in modo non mi
vedessero. Volevo vedere l’orrore comparire nei loro occhi alla vista di
tutte le cicatrici, e non solo di una parte. Volevo che vedessero cos’ero
davvero divenuta. E, ancora, non volevo che mi vedessero in quel momento
così personale. Stavo per tornare me stessa, senza più sotterfugi
od imitazioni. Nemmeno dai Tengu ero stata così…me, come lo sarei
stata in quel momento. Solo Tijorn e Junielle sapevano cosa c’era dietro
al mio guscio.Nessuno parlava. Mi
strofinai lo straccio una sola volta sul viso, poi lo osservai. Era vero: il
camuffamento si stava sciogliendo letteralmente. Lo strofinaccio era già
sporco. Ripresi a pulirmi il viso, meticolosamente, fino a quando, dopo poco,
non ci passai una mano, sentendo tutti i segni al loro posto. Feci una smorfia.
Non era piacevole, pensare di ritornare il mostro di una volta. Passai
rapidamente alle mani, che furono molto più facili da pulire, e poi fui
pronta. Mi lasciai cadere il panno, ormai inservibile, dalle mani. Il lieve
tonfo che fece fu lo scoppio di un cannone, in quel silenzio irreale. Potevo
avvertire la tensione nell’aria. Ero pronta. Gioia selvaggia. Tirai un
gran respiro. E poi, impassibile, mi girai verso i due coniugi.
Registrai
in un attimo le loro reazioni. Aevo fu la prima che guardai, la più
vicina. Lei squittì, portandosi le mani alla bocca, e mi guardò
con occhi sgranati, terrorizzati, da animaletto in trappola. Poi
cominciò a singhiozzare, nascondendo il viso. Non voleva guardare. Non
voleva guardare! Quasi risi. Ma Chekaril era quello che m’interessava.
Spostai lo sguardo verso di lui, lentamente. Mi guardava, pietrificato.
Allungò subito la mano sinistra, con movimenti torpidi, forse per
toccarmi. Solo all’ultimo momento cambiò idea, passandosela sulla
faccia. Notai il suo tremito convulso. La rabbia scomparve come per incanto sul
suo viso pallido, sostituita da una dolente incredulità. Non poteva
crederci. Ma come? Non aveva previsto che sarei stata io a dargli la caccia?
Non lo sapeva? Mi aveva sottovalutata, e di molto. Lui deglutì. Poi le
gambe non lo ressero più. Cadde in ginocchio, respirando affannosamente,
senza staccare gli occhi dal mio viso. Mi sentii trionfante: ero riuscito a
ferirlo. “e così è per metà intera del mio corpo,
Chekaril”. gli dissi, con un tono tetro e piatto, che quasi mi
stupì. Delusione, rabbia, dolore: tutte si erano sublimate in quella
calama, sadica, pazzia. “la tua trappola illusoria. Sei stato tu. Non lo
prevedevi? Non prevedevi sarei stata io a darti la caccia?”. Fu il suo
turno di tremare incontrollabilmente, preda di un’emozione troppo grande
per essere espressa. Alla fine, un paio di lacrime scesero dai suoi occhi
feriti, seguite da molte altre. L’avevo scioccato. Entrambe le mani
corsero ad artigliarsi i capelli. No, mi correggo: era disperato. Sembrava
completamente fuori di sé. Aprì per un paio di volte la bocca,
come un pesce, ma quello che ne uscì non furono altroché sillabe
senza senso. Poi lui chiuse gli occhi, dondolando un po’. Finalmente, in
un mormorio, riprese a parlare “non sono stato io, Lsyn! Io non
sapevo!”. Sussurrò, a voce così bassa che mi dovetti
avvicinare, a capo chino. “perché? Perché ti ha fatto
questo?”. Il pianto gli incrinò irrimediabilmente la voce, e lui
serrò le labbra. Dopo un breve silenzio, riprese a parlare, quasi con un
gemito di dolore. “Lainay! Mia sorella ha preparato tutto. È stata
lei!”. Cosa? Lainay? Mi sentii invadere da un’ondata
d’incredulità. La mia Regina? No, non era possibile.
Probabilmente, non avevo capito bene. Non dovevo aver capito bene. Quella
confessione era troppo strana. “non ho capito, scusa”. Gli dissi,
con uno strano tono, tra il cortese e l’incerto. Sentii vacillare
qualcosa in me, di nuovo. Ebbi la netta impressione che le mie nuove sicurezze
sarebbero state infrante di lì a poco. E così fu. Quella confessione
mi sconvolse. E fu lì che preparai la mia atroce vendetta. Chekaril,
infatti, alzò il viso di scatto, aprendo gli occhi scintillanti di
lacrime. Mi guardò, pieno di furore represso. “è stata
Lainay, Lsyn! Lainay! Lainay ci aveva scoperti!”. Gridò,
digrignando i denti. Un urlo straziato. Nei suoi occhi brillava il dolore, un
dolore mai sopito, una rabbia sempre repressa, dei segreti mai detti ad anima
viva. Sembrava ansioso di condividere queste cose. “Lainay sapeva di me e
te, sapeva tutto! È stata Lainay a chiedermi di continuare a vederti,
è stata Lainay a chiedermi di avere un figlio da te, è stata
Lainay a preparare la mia sparizione, ed è stata lei a procurare tutte
le tue disgrazie!”.
Non volli
capire. Non volli. Non poteva essere. Non poteva! Tutta la mia rabbia, la mia
terribile furia dolorosa, di dissolse in un vago
sentore d’incredulità. Fu un colpo troppo grande, che oserei paragonare solo al momento in cui Tijorn mi diede la
lettera di Akita, e solo a quello. Solo in quegli attimi mi ero sentita vacua,
vuota e confusa, come lo ero in quell’esatto momento, separata da un muro
di cotone dalla mia restante ragionevolezza. Il mondo girava per me al
contrario. “la Regina?”. Domandai, fissando la figura tremante e
singhiozzante di Chekaril. Quasi non me ne accorsi, ma tremavo anche io. Avevo
freddo, tanto freddo, e mi sentivo il capo leggero. Ero scossa. E scossa
è dir poco. “la mia signora, Chekaril? Cos’è, uno
scherzo?”. Mi costrinsi a ridere, ma la risata che finsi risultò
sgradevole e stridula. Mi sentivo legata mani e piedi.
Non era possibile… allora… Chekaril non mi aveva mai amata? Ero stata
solo uno strumento, una pedina? Mi sentii malissimo: lo stomaco si torse con
violenza inaudita, e fu solo la mia volontà ad impedirmi di crollare a
terra. Ciò che seguì ancora mi tormenta. Quella confessione
ancora mina il mio animo. Il Principe mi
guardò, il viso pallido, sfatto, inondato di lacrime. Sentivo, come
provenienti da un'altra dimensione, i singhiozzi soffocati di Aevo. Chekaril
deglutì, una volta, facendo un debole segno di diniego. Per poco la gambe non mi ressero. Perché? Perché
proprio io? Che avevo fatto di male? Io ero nata Spia, ed avevo svolto ogni mia
missione con egregia puntualità e perfezione! Avevo versato sangue,
sudore, lacrime, per la mia sovrana! Avevo mangiato la polvere migliaia e
migliaia di volte per lei! Avevo perso tutti, solo per esaudire ogni suo
desiderio! Qual era il mio peccato, allora? Cos’avevo fatto per meritarmi
un trattamento del genere? Mi sentii, più che mai, tradita, e smarrita,
come una bambina in una piazza affollata. Lainay, fino a quel momento, era
stata il mio più importante punto di riferimento. Lei disponeva della
mia vita a suo piacimento. Io le avevo donato fedeltà assoluta ed
incondizionata, come un cane verso la sua padrona. E lei? Lei cosa aveva fatto,
per me? Mi aveva sfigurata. Mi aveva reso l’essere più immondo e
viscido di questa terra. Mi ero fidata di lei, dei
suoi ordini, delle sue storie! E venivo ripagata con
delle bugie, delle ferite, usata come uno straccio, da buttare quando smette di
servire. Pensavo la mia Regina mi tenesse in considerazione, pensavo che mi
rispettasse come sua fedelissima servitrice, come un’eroina! No, non era
così. Né lo sarebbe mai stato. Io… io ero stata usata. Era
stata lei a sfigurarmi, per poi disprezzarmi, come se l’errore fosse
stato mio? Ed era una cosa troppo terribile, troppo scioccante da pensare.
Erano troppi i dubbi, per non esprimerli a parole. Mi dovevo sfogare. Ma non ne
avevo la forza. Mi guardai attorno, smarrita. Cominciavo a sentirmi debole.
Poi, in uno stato di vacuità tremante, rivolsi i miei occhi di nuovo
verso Chekaril. Non potevo neppure immaginare lui mi avesse presa in giro,
ottenebrando la mia ragione, ubriacandomi di baci, di carezze e vane promesse,
fino a farmi dimenticare il mio stesso essere Spia. Non potevo pensarci. C’erano
troppi punti oscuri. La matassa doveva essere sbrogliata. Dovevo domandare, per
mettermi l’anima in pace, o distruggerla. Cominciai dalla cosa che mi
premeva di più. E da lì, tutto si fa ovattato. Come se io non
fossi stata altro che entità eterea. Ero troppo scioccata per rendermi
conto di avere una mente ed un corpo. “allora…
Chekaril…”. Esordii. Con una voce pigolante, che non riuscivo a
riconoscere come mia. “tu… non mi hai mai…
davvero…”. Il Principe mi guardò, serio, arricciando la
bocca, in un gesto contrito. Dopo una brevissima pausa, in cui spostò lo
sguardo verso Aevo, figura scioccata e tremolante a cui
non feci più caso, per poi riportarlo su di me, si decise a parlare.
Esitante. “io….Lsyn…”. Soffiò, con voce ancora
un po’ incrinata, per poi mordersi il labbro inferiore. Ebbi paura di
ciò che stava per dire, sebbene, in un certo verso, lo presagissi
già. La sua fama di adescatore e frivolo donnaiolo era stata, allora,
già più che consolidata. Finalmente, dopo un ennesimo sospiro,
Chekaril si decise a confessare. E nessuno lo fermò più. La sua
voce si fece sempre più urgente durante il racconto, sempre più
rapida. Si fermava solo per riprendere fiato, trascinandomi nel più
brutto incubo ad occhi aperti che io abbia mai avuto.
Mi guardò per tutto il tempo con occhi imploranti, ed io lo odiai
più che mai si può, dall’amore,
passare all’odio più assoluto? Oh, si. Si può. Stupido,
debole, elfo. “eri bella, Lsyn. Molto bella. Avevo sentito parlare delle
tue gesta, e Lainay mi raccontava di te. Eri una Spia potente, allora, e volli
conoscerti”. Un sorriso triste affiorò sul suo bel volto, un
sorriso che mi fece venir voglia di dargli un calcio, di fargli del male. Viscido
bastardo. Poi lui riprese a parlare, rapido, dopo aver tirato un profondo
respiro, come se quella confessione gli costasse molto. “e quando ti
vidi, per la prima volta…”. Scosse la testa, come un cane bagnato,
ancora incredulo. “dei, Lsyn…non penso ti
sia mai accorta dell’effetto che avevi su elfi ed umani. Il fascino di
ciò che non si può avere, hai presente? Ed io ti desiderai, Lsyn,
desiderai averti tutta per me. Eri un Cane della Regina, il Cane più
attraente sul quale io avessi mai posato gli occhi. Tu
eri un gioiello, per me, il gioiello più inestimabile del proibito
tesoro reale. Il più bello. Volli averti ad ogni costo, volli
conquistarti con ogni mezzo. Perché non è mai stato da me perdere
una sfida. Una tresca nascosta: esisteva un invito più allettante, per
me? Lainay non doveva sapere: sarebbe stato troppo pericoloso, ed avrei osato
troppo. Fu proprio quello, stranamente, a fungere da pungolo, sai? Eri una
preda difficile, lo ammetto. Circuire una nobile sciocca non era per nulla difficoltoso…ma
una Spia? Avrebbero funzionato le strategie di seduzione che affinavo da
secoli? Non sai che gioia, fu, vedere che tu ricambiavi il mio interesse! Non
sai che soddisfazione, fu il vederti accettare il mio invito, donandoti a me
con tutta te stessa!”. Ero sempre, sempre più sbalordita,
arrabbiata e ferita. Mi aveva presa in giro, nel modo più atroce che mai
avesse potuto escogitare. Lui non voleva altro, come
un cacciatore che appende le teste delle sue prede al
muro di casa sua, vantarsi con sé stesso di aver posseduto una Spia, di
essersi preso gioco della sua stessa sorella! Ed io mi ero abbandonata al suo
amore con la fiducia di un’infante. Non riuscii a crederci. Dovetti
fermarmi, dovetti farmi quasi violenza, per non uccidere seduta stante quel
vile essere, che mi guardava, con fare colpevole. “sono stato meschino,
Lsyn, sono stato un bastardo!”. Ringhiò, digrignando i denti, come
se quella confessione gli costasse molto. Soffriva. La cosa mi fece piacere.
“chi avrebbe pensato che tu ti fossi davvero innamorata? Perché
non avevo contato la tua relativa gioventù?”. Il ghigno doloroso
si trasformò in un repellente sorriso dolce, che mi fece andare con la
memoria a tempi più felici, che, in quel momento, mi facevano venire i
brividi. “perché tu sei più giovane di me,
Lsyn….tanto più giovane… e sebbene Spia… ancora non
hai capito come va il mondo. Sei così ingenua, una bambina nel mondo dei
sentimenti… e per me era facile…così facile…”.
Mi lasciai sfuggire un ringhio involontario, e vidi
l’espressione di Chekaril farsi preoccupata. Sapevo benissimo quanto fossi ingenua, grazie. “se non la smetti di chiamarmi
ingenua, ti ucciderò qui, seduta stante”. Mormorai, tremando di
rabbia. Avevo una volta provato amore per quell’essere viscido. Ora godevo
nel vederlo tremare di paura. “ma forse, se continui a spiegare, ti
risparmierò la vita”. Chekaril mi guardò, deglutendo, e poi
riprese a parlare, tremando leggermente, con voce malferma. “per me,
Lsyn…eri…solo un giocattolo. Uno dei tanti. Certo, tra quelli
più belli, la creatura più affascinante sulla quale io abbia mai posato gli occhi, ma… eri solo un
giocattolo. Ti avrei abbandonata non appena avessi trovato un obiettivo
più…goloso, diciamo così…”. Solo gli dei sapevano quanto quelle parole, casuali, veritiere e
ciniche, mi stessero ferendo. Solo un giocattolo. Un gioiello prezioso, una
preda golosa. Ero considerata così dall’unica creatura che mi ero
permessa di amare davvero. Chekaril fece una smorfia amara. “tuttavia…”.
Disse, esitando. “quando tornai all’alba, il giorno in cui dovevi
partire per la missione, trovai Lainay ad attendermi nelle mie stanze”.
Oh, no. Era stata quella sua mossa a svelare tutto. Non avrei mai saputo nulla,
se solo non fosse venuto a casa mia, per salutarmi, e vedermi un’ultima
volta. Sarei rimasta sana, intatta ed innocente. Il Principe chiuse gli occhi,
sospirando di nuovo. Sembrava gli costasse molto parlare di quelle cose.
“la prima cosa che fece…fu quella di domandarmi se mi ero
divertito, con te, quella notte”. Lui digrignò di nuovo i denti.
“mi piombò il mondo addosso, davvero…cercai di negare, di
proteggerti, d’inventarmi una falsa amante… ma
lei fu irremovibile”. Scosse il capo. Ero incredula: messa nel sacco come
una novellina. “mi aveva fatto seguire dal primo momento, non appena si
era resa conto che io avevo posato gli occhi su di te. Ci aveva fatto spiare, e
sapeva tutto di noi. Tutto”. Ed io non mi ero mai resa conto di nulla.
Davvero, davvero, un’ottima Spia. La voce di Chekaril, in quel momento,
s’incrinò ancora di più, e lui, aprendo gli occhi, mi
guardò, con lo stesso atteggiamento disperato di prima.
“lei…lei mi pose davanti ad una scelta, Lsyn”. Il tono
divenne più amaro. “e sai cosa mi disse? Lo sai? Lo sai che mi
disse, con quella voce insopportabilmente dolce che si ritrova? Ovviamente, non posso evitare che tu corra
dietro a tutte le sottane che si muovono, Chekaril, ignorando i rischi che
comporta tale atteggiamento, per la nostra stirpe, e per la tua fama regale. Il
tuo atteggiamento non è degno. Tuttavia…potrei soprassedere, se tu
non avessi circuito la mia migliore Spia. E qui sorrise, Lsyn, davvero,
come se godesse dal farmi male! Mi guardava come una gatta guarda la sua preda,
Lsyn…tu non puoi capire…”. Mi diedero enormemente fastidio
quelle parole. Chi credeva io fossi? Un’infante?
Lainay mi aveva guardato più di una volta in quel modo, come un felino
che si lecca i baffi. Ed avevo sempre temuto quello sguardo. Conoscevo fin
troppo bene sua sorella per non interpretarlo come presagio di guai certi. Feci
per parlare, quando Chekaril alzò una mano verso di me, implorandomi di
lasciarlo continuare. Lo lasciai fare. Chi lo avrebbe più fermato? I
segreti, il dolore di una vita intera, sembravano tradursi un quel fiume
inarrestabile di parole. Compresi perfettamente il motivo del suo sguardo
sparuto, e colpevole. Soffriva per me. Lui riprese così a parlare.
“Lsyn…mi diede un ultimatum. Lsyn
mi è preziosa. Non posso permettere che tu la distragga.Avevo intenzione di ucciderla, Chekaril,
a dirti la verità…ma poi…ho
cambiato idea. Lei potrebbe essermi utile anche in un altro modo. E lei mi
sorrise di nuovo, Lsyn…mi sorrise di nuovo! Sapevo che mi stava per
tirare un terribile colpo, e così fu, sai? Si fece seria, tanto
seria… e come ricordo bene le sue parole! Resta con lei, Chekaril. Non osare
lasciarla. Devi farlo per me. So quanto tu la
consideri, e come la consideri, ma lei è troppo preziosa. Sai che sono
sterile. Io ho bisogno di un erede, e tu puoi darmelo. Voi potete darmelo. Lsyn
può avere figli, ed è di sangue nobile. Non saprebbe mai la fine
di suo figlio, perché imbastiremo una sceneggiata, in modo che lei creda
sia andato alle Spie. Lo alleveremo nel castello, Chekaril, e sarai il padre
della prossima stirpe di re! Cercai di obiettare, cercai di difenderti. Non
volevo usarti in quel modo orrendo! Non volevo, lo giuro!”. Supplice
schifoso. Lo odiavo. Lo odiavo! Tremai di rabbia, per la smania di ammazzarlo,
alla quale per poco non soccombetti. Ma i miei interrogativi dovevano essere
sopiti. Dopo avrei pensato a come fargli del male. Chekaril riprese a parlare,
con voce supplichevole, e rapida. “lei sai cosa mi rispose? O quello, Chekaril, o darò
l’ordine di ammazzarla. Datemi un erede, e tu potrai tradire quante volte
vuoi. Cosa potevo fare, secondo te? Mi ripugnava l’idea di toccarti,
baciarti, amarti, solo per quell’obiettivo. Avrei, tanto, voluto
lasciarti. Ma Lainay mi assicurò che, se fossi stata tu a
lasciarmi…non sarebbe successo nulla”. Di nuovo un sorriso amaro
affiorò su quei lineamenti sconvolti. “cosa potevo fare, secondo
te? Al tuo ritorno, mi diedi da fare per farmi odiare. Divenni violento,
possessivo, incomprensibile, come mai lo ero stato. Tu mi amavi lo stesso.
Cercai di rendere più visibili possibile i miei
tradimenti, le mie tresche, ma tu non mollavi. Hai mai capito la forza
dell’amore? Lainay lo sapeva, ti conosceva benissimo. Sapeva che non mi
avresti mai lasciato di tua spontanea volontà. Mi terrificava l’essere
così manesco, distruttivo, rovinare un fiore dai rari colori, solo per
non farlo cogliere da altri. Ma dovevo farlo. Non volevo tu fossi solo uno
strumento del Regno! Eri stata mia! Le cose mie non si toccano!”. Dei, quanto mi faceva schifo, con quel suo sorriso dolce, ed
il comportamento ferito. Dei…lo odiavo. Non volli fermare quel flusso di
parole abiette, solo per curiosità. Dovevo sapere, e torturarmi. Povera me.
“Ed immagini quanto la notizia della tua gravidanza mi abbia sconvolto? Lainay
avrebbe avuto quello che voleva! Da un mio giocattolo! Quasi inammissibile. Cercai
di non far trapelare la notizia, ricordi? Provai in ogni modo a convincerti di
disfarti del bambino. Ma tu…nulla. Tu mi amavi. Tu eri…tu eri felice! E fosti tu a chiedermi di donare
nostro figlio a Lainay, come un’offerta votiva! A lei! A quella sadica
maledetta! Mia sorella non è conscia della reale superiorità elfica.
Mia sorella è solo una pazza dalle orecchie a punta. Lei non sa nulla
della reale potenza della nostra razza piena di grazia! Lei non lo sa! Ma io
devo obbedirle!”. Come no. E lui lo sapeva. Guardai brevemente Aevo. Ero quasi
sicura di trovarla schifata quanto me. Invece no. Lei fissava suo marito quasi
con pietà, ed amore incredibile. Non sembrava nemmeno sorpresa. Sospettai
che lei sapesse già tutto. “quando nacque
Roxen…Lainay era la creatura più felice del mondo. Vedeva il suo sangue
salvo. E quando la ebbe al castello…lei era la sua bambola. Vedi, mia
sorella ha sempre desiderato avere figli. Sempre. Sua nipote era il suo strumento
preferito, e già pensava a come farla crescere, viziata, coccolata, nel
rispetto delle più rigide regole di allevamento elfiche. Io ne ero disgustato, e chiesi di essere
lasciato fuori da tutto. Non volli più vedere
la nostra bambina. Volli dimenticare della sua esistenza, e m’immersi in
una vita di scontri. E fu lì che la mia vita cambiò”. Di nuovo
lo sguardo si fece duro, e cattivo. Quasi seppi cosa stava per dire. Benedetto Regis.
“quel bastardo di umano…quello schifoso mortale…mi ha reso
invalido agli occhi degli elfi. Agli occhi di Lainay. Ai suoi occhi non servii
più ai combattimenti. Ero un giocattolo difettoso. Venni da lei
etichettato, così,immediatamente, come
allevatore. Il clima di corte stava diventando troppo rovente, e la bambina non
era più al sicuro. Così… una notte, fece sparire me, Roxen e
la sua dama di compagnia, nascondendo tutte le tracce…”. Lo sguardo
si posò su Aevo. Uno sguardo tenero, pieno d’amore. Toh. Tu guarda.
Dei, io avrei ucciso quell’elfa! Poco, ma sicuro. L’avrei torturata sotto gli occhi del
marito, per poi fargli mangiare il cuore. Bastarda. “un drappello di
guardie ci condusse in una casa isolata sulla costa, e lì vivemmo per
qualche anno. Sapevo, ho sempre saputo, che tu mi avresti dato la caccia. Della
trappola ero quasi all’oscuro: Lainay mi aveva solo detto che aveva un
modo per tenerti a bada”. La mia Regina…parlava in questo modo di
me? Tirai su con il naso. Avevo una terribile smania di piangere, di sfogarmi. Ma
non potevo. Non di fronte a loro. “beh…sai com’è…vivemmo
dieci anni in quella casetta. Lì la vita mi ha insegnato molto. Benedissi
il momento in cuimi desti Roxen. Era il mio unico
amore, la mia unica luce. Me ne innamorai, vivendo e parlando con lei. Realizzai
solo in quel momento fosse mia figlia. E poi…”. Un sorriso, rivolto
ad Aevo, un sorriso complice. “un giorno, capii cosa fosse davvero l’amore”.
Oh. Bastardo. A cosa serviva evitare di parlare di certe cose, se mi aveva
già uccisa con quello detto prima, esposto con
tanta cinica sincerità? Ipocrita. Chekaril, riguadagnato un tono
più sereno, mi guardò, e poi alzò regalmente il mento,
grattandosi il naso. Era a disagio. Doveva aver capito i pensieri che si
agitavano in me. “così, chiesi a Lainay di andare in un posto
tranquillo, per godermi un po’ di vita serena, prima che Roxen fosse diventata adulta. E, alla nascita del piccolo
Chekaril, il permesso mi fu dato. Mia sorella era davvero contenta. Un maschio:
quale gioia migliore, per lei?”. Chekaril? aveva
dato il suo nome a suo figlio? Cos’era, matto? O forse un po’
egocentrico. Forse ambedue le cose. “Ed il resto penso che lo indovini da
sola, no?”. Oh, dei. Anche idiota. Fece una smorfia disgustata. Mi disse
il resto con rapidità allucinante, come se volesse togliersi un peso. “tuttavia,
non ha mai smesso di controllarci. Ad intervalli periodici ha mandato Spie per
controllarmi, per vedere se stessi tenendo fede alla
parola data. Tu sei una di quelle, presumo. Perciò ti aspettavamo. Hai visto
il cadavere e la bambola meccanica, giù alla radura, vero?”. Annuii,
stupefatta. Il puzzle si stava ricomponendo. E le tessere non mi piacevano. Per
nulla. Né mi piacque il sorriso obliquo ed estraneo di Chekaril. “quello
era un Immortale che si stava comportando male. Era un generale, un ufficiale di
altissimo rango, fedele a Lainay fino alla morte. Tuttavia…”. Scosse
il capo, con rassegnazione. Tutto ciò mi fece capire quanto poco
conoscessi Chekaril. Avevo amato un mostro. “il potere può dare
alla testa un po’ a tutti, no? Era venuto a controllarmi, ma si era
lasciato prendere dalla sete di sangue. Prese ad uccidere i paesani,
indiscriminatamente, fino a quando io, spazientito non lo sfidai. Non so per
quale miracolo sia riuscito ad ucciderlo, tuttavia, ci
riuscii. Lainay approvò il mio gesto, soprattutto perché,
così facendo, mi guadagnai la gratitudine di tutta Gerinti, e la
fiducia, che ancora non mi è stata tolta. Tutti
qui sanno la mia vera identità. E tutti mi amano, e ci proteggono,
indiscriminatamente. Diciamo…che sto facendo propaganda per il Regno!”.
No. Quella risata stridula non gli apparteneva. Né quello sguardo
gelido. Ma allora che avevo conosciuto? Chi avevo amato? Una bestia mi mangiava
il cuore, divorandolo a gran bocconi. Vendetta, odio, rabbia, gelosia,
delusione. Una bestia dai mille volti. “ed ecco tutto, Lsyn. Questo è
tutto. Non sono mai sparito, nessuno mi ha rapito. Tornerò,
tornerò nel Regno, quando Roxen sarà grande. Hai un Comunicatore?
Potresti chiedere a Lainay la conferma della mia storia, e dire che è
tutto a posto…”. Ecco! Il Comunicatore! Si accese qualcosa in me. Quelle
parole cordiali accesero qualcosa in me. Il fuoco atroce della vendetta. Avevo sete
di sangue, sete di morte. Ed ebbi via libera verso l’abisso.
Sono contenta nel leggere le vostre reazioni, davvero.
Siete il mio principale motore xD
Le vostre ansie di omicidio e castrazione sono ottime xD
Ma ancora dovete leggere xD
Mi dispiace non potervi salutare uno per uno, come
si conviene…
Ancora, però, un saluto speciale a voi, Carlos Olivera e
Selly, che ormai mi seguite da tempo immemorabile xD
Senza i vostri commenti…come sarei andata avanti?
Grazie **
Vi lascio al capitolo, che chiarirà le intenzioni di Lsyn
(che so vi piaceranno… xD)
Au revoir!
Akita
--------
Guardai
per un attimo Chekaril, e le sue lacrime di coccodrillo. Per una volta, non
provai nulla, solo un odio bruciante, devastante. Perché io sapevo.
Sapevo quanto fossero false. Sapevo quanto fosse falso il suo comportamento. Lo conoscevo fin troppo
bene per non capire. L’odio scorreva in me con il sangue, devastando il
mio essere. Vedevo l’astuzia scintillare in quegli occhi falsamente
umidi, l’astuzia di chi sa di aver già
vinto. Davvero? Pensava di aver vinto, di avermi vinta per sempre? Allora non
mi conosceva! Bramavo vendetta. Avrei cancellato quel sorriso dolce ed ipocrita
dalla faccia della terra, per sempre. L’amore mi aveva davvero offuscato
la ragione. La mia rabbia, il mio dolore…tutto si era sublimato in
quell’odio puro, senza confini. Mai più, mai più ho provato
un sentimento così fortemente negativo. Non
avrei mai più amato tanto da odiare. Il fuoco della vendetta mi
ottenebrò i sensi. Ed allora, riguadagnai tutta la dignità
perduta, la dignità di una belva in gabbia. In un attimo, capii cosa
dovevo fare, e, in me, ne sorrisi. Il piano fu pronto, nella mia mente
devastata. Lui, quell’elfo dai lunghi capelli biondi, e dallo sguardo
falsamente sincero, me l’avrebbe pagata, per avermi presa in giro
così impunemente. Aevo, quella stupida elfa rasata, me l’avrebbe
pagata, per avermi rubato un’illusione, per aver avuto un figlio
dall’unica creatura che, sfortunatamente, mi era capitato di amare
così incondizionatamente. La mia Regina me l’avrebbe pagata, lei
più di tutti. Mi avevano rubato la vita. Mi avevano rubato le mie
illusioni. Mi avevano rubato l’innocenza. Mi avevano rubato la bellezza.
Mi avevano rubato gli affetti. Mi avevano rubato tutto! Ed io, io cosa avevo
fatto? Avevo strisciato al cospetto della Regina come
un verme, mi ero concessa totalmente ad un bastardo impunito, avevo risparmiato
la vita ad un’insulsa elfa, umiliandomi ancora di più! Venni assalita da una tremenda smania di uccidere. Chekaril
mi aveva offerto la sua testa su un piatto d’argento, credendo di riuscire
ad incantarmi, come aveva fatto tante volte in passato, con quelle parole piene
di miele. Ma io ero cambiata. Il mondo attorno a me era cambiato. Non riuscivo
a pensarci. Avevo lasciato Tijorn per cercarlo. Avevo lasciato il mio
dolcissimo fratello solo, preoccupato a morte per me. Avevo lasciato
l’elfo che mi era stato vicino, più di tutti, seguendo ogni mio
passo con lo sguardo, pronto a sorreggermi ad ogni caduta, spronandomi ad
andare avanti. Ed io l’avevo lasciato solo, ottenebrata da
un’ossessione, che si era rivelata la mia rovina. L’avevo fatto
soffrire immensamente. Magari non voleva nemmeno più vedermi. Non mi
sarei stupita se fosse successo. Ovviamente, quando e
se fossi tornata. Il pensiero di Tijorn acuì il dolore. Per chi l’avevo
abbandonato? Per un debole fedifrago dalla mente perversa. Benedico, tuttora,
la rabbia che mi offuscò il giudizio. Perché, se fossi stata
lucida, non avrei potuto fare quello che ho fatto. Inorridisco al solo pensiero,
sebbene cerco di ripetermi quanto quel gesto fosse necessario. La vendetta
è sempre dolce, ma in quel caso, non fece altro che distruggere i resti
della mia innocenza, della mia voglia di combattere, e vivere ancora. Forse
ancora oggi amo Chekaril, ancora oggi soffro per la sua confessione, ancora
oggi non voglio crederci. La spada di Eiron avrebbe dovuto assaggiare tanto
sangue, prima di essere lavata d’ogni colpa. Ma, guardando il mio amato
Principe, ancora inginocchiato di fronte a me, dentro di me scorreva solo gioia
selvaggia, la gioia pregustata di una sadica vendetta. Non m’importava
della mia anima. Volevo solo il suo sangue. Ero ferita, la mia anima a stento
si teneva insieme, e lo sapevo. Chekaril giocava proprio su quello. Non aveva
contato che una belva ferita, seppure sanguinante e sfinita, è ancora
più pericolosa, proprio per il dolore che cova. Ribollendo d’ira
selvaggia, sfoderai il mio, migliore, falso sorriso. Feci finta di cascare
nell’ingenua trappola che mi avevano teso. Il primo passo verso l’annientamento.
Lainay stava per pagare atrocemente tutti i suoi misfatti. “oh…
quindi è tutto a posto, vero? Il Regno è salvo?”. Stupii i
miei interlocutori con la mia voce calma, lievemente modulata, un tono che
suggeriva una vaga, incredula, felicità. Chekaril ed Aevo si guardarono.
Forse pensarono seriamente fossi impazzita. Mi trattenni giusto in tempo dal
ghignare. Non sapevano quanto vicina fosse la loro
fine. Il mio amato, poi, mi guardò, aggrottando lievemente un
sopracciglio. Mi scrutò, cercò di capire quali fossero
i miei pensieri. Una cosa che non doveva accadere, in nessun modo. Perché
l’avrei solamente spaventato. Nascosi me stessa
sotto un velo di freddo interesse, come un serpente divertito. Sapevo farlo
molto bene, e lo feci. Non ero mai stanca di fingere. Non quando sarebbe stata
l’ultima volta. Il piano era già completamente formato nella mia
testa. Si trattava solo di metterlo in atto. “si, Lsyn…il Regno
è salvo”. Quasi sorrisi al suo tono cauto. Oh, si: aveva capito benissimo che qualcosa non andava. Era una
fortuna non sapesse cosa si agitava nella mia testa. Mi sentivo dileggiata,
usata, tradita, trattata come una stracciona. Solo una volta ero stata presa in
giro così vigliaccamente, quando ero ancora infante, e la mia vendetta
era stata terribile. Una banda di Sharilar chiamava me e Tijorn straccioni,
orfani, poveracci, figli di un ubriacone. Ci perseguitavano, ci tiravano bucce
e scarti, urlavano al nostro passaggio frasi offensive, ogni volta che andavamo
nel villaggio. Mio fratello, spesso e volentieri, si cacciava in assurde risse,
dalla quale usciva sonoramente sconfitto, destinato a ricevere altre legnate
dal Maestro, che non tollerava certi comportamenti. Ma lui non faceva altro che
cercare di difendere me ed Amarto. Detestava, come me,la nomea da alcolizzato del
nostro Maestro, anche se sapeva quanto fosse vera. Odiava
quando io, al termine di ogni gita, scoppiavo in lacrime di rabbia,
conscia di non poter fare nulla. E perciò si cacciava, ogni volta che
toccavamo il suolo della piccola città, in ogni sorta possibile ed
immaginabile di guai. Io non reagii così. Aspettai, ed aspettai. Non
feci altro che aspettare, aspettare il momento in cui sarei diventata una nuova
Spia, ed avrei ricevuto il mio nome. E, quando finalmente divenni
l’Ombra, e fui mandata con lo stesso Tijorn nella mia prima missione
ufficiale, decisi di fare una piccola deviazione. Ebbi così la vendetta
che tanto bramavo da anni. Sotto gli occhi sconcertati di mio fratello, feci
fuori tutti i componenti della piccola banda che tanto ci aveva vessato,
facendomi riconoscere da ognuno di loro. Avevo gioito, e tanto. Quella vendetta
atroce aveva sancito, una volta e per tutte, la nascita
dell’Ombra, della crudele Ombra, silenziosa ed implacabile. Perché
quell’episodio mi veniva in mente così instancabilmente,
lì, in quella stanza da letto buia? Perché le urla soffocate di
terrore delle mie vittime, facevano da accompagnamento al mio piano? Ah, come
gioivo! Trasformai la mia smorfia di rabbia in un sorriso luminoso, aperto e
gioioso, tutto per Chekaril. Fu in quell’esatto momento che capii di
averlo in mio potere. Perché, si, lui rispose al mio sorriso, con uno
dei suoi irresistibili ghigni sghembi, e poi guardò Aevo, trionfante. Pensava
di aver vinto, il caro principino. Barcollando un po’ si alzò, per
poi sospirare, guardandomi con aria colpevole. “davvero, Lsyn…mi
dispiace tanto”. Sussurrò, con fare confidenziale, avvicinandosi,
e tendendo la mano verso la parte sfigurata del mio viso. Lo lasciai fare,
nonostante mi ribellassi al solo pensiero, disgustata. Fui costretta a
lasciarlo fare. Trovai il contatto repellente. Quante volte avevo sognato
quelle carezze? Quante volte avevo agognato quel contatto così
confidenziale con lui? Quanto ero stata stupida? Detestavo quelle moine false.
Quelle mani delicate mi sembravano sporche di sangue, del mio sangue. Dovetti
farmi forza, per non girarmi, e mordergli le dita a sangue, come una bestiolina
selvatica. Ma non potevo. Avrei mandato il mio piano a monte. Così, mi limitai
a sorridere dolcemente, cercando in ogni modo di apparire la sciocca Spia
innamorata, com’ero stata fino a poco tempo prima.
“non sono stato io a sfregiarti in questo modo orrendo…”. Oh,
no, Chekaril. Lui aveva fatto di peggio: aveva distrutto la mia anima,
l’aveva allegramente sfregiata, senza curarsene minimamente. “io
non volevo. Come potrò mai sdebitarmi?”. Morendo, Chekaril,
morendo. Ed io sapevo già il modo in cui l’avrebbe fatto, e la
mano che l’avrebbe fatto. I due fratelli avrebbero pagato per ogni ferita
che avevano inciso sul mio corpo, nella mia anima. Rimasi a guardarlo, mentre
il suo viso si illuminava. Finalmente, con mio grande sollievo, mi
lasciò stare, smettendo di toccarmi, e si girò verso Aevo.
“dove hai messo il nostro Comunicatore?”. La cosa mi prese alla
sprovvista. Cosa? Avevano un Comunicatore? Lainay gli aveva accordato quella
fiducia? Ma a cosa serviva, poi? Chekaril non era in grado di usarlo: non aveva
potuto regnare proprio per l’assenza di potere magico, la caratteristica
dei regnanti elfici. Lo scettro era andato alla gemella, Lainay, e lui era
stato destinato ad una brillante carriera militare, bruscamente interrotta a
causa di un umano. Non avrei mai finito di benedirlo, solo per aver dato un
tormento infinito a Chekaril, per averlo così astutamente torturato. Benedetto
Regis. Benedetto. Perché Chekaril, un tempo, andava fiero della propria
posizione, della propria bellezza perfetta. Rimasi a guardare la moglie del
Principe saltar su, tremante, ed uscire di scatto fuori dalla
camera. Che elfo furbo: aveva trovato un ottima cagna
ammaestrata con la quale giocare. Non mi stupì più di
tanto l’amore che provava per lei. Scommettevo l’avesse
già tradita di nascosto, più di una volta, con le belle
giovani del posto. Ero stata così stupida da non notare l’astuzia
del mio amato? Ero stata così ottenebrata dall’amore? Chekaril, di
nuovo, si girò verso di me. “è un regalo di Lainay”.
Disse, cercando forse di spiegare tutto, tranquillo, tendendomi una mano, che
io presi, cercando in ogni modo di non apparire rigida, o tesa, o arrabbiata,
cercando di apparire piena di entusiasmo. “lo usiamo per mettere in contatto
le Spie che vengono a controllarci con lei. Su, coraggio, cominciamo a
prepararci…”. Mi condusse su una delle sedie, sulla quale mi fece
sedere. Io fremevo, ma non di gioia. Già pregustavo il sangue che
sarebbe scorso. No: non m’importava della piccola Roxen, non
m’importava del piccolo Chekaril, non m’importava del dolore che
avrei a loro recato. Sapevo già cosa fare. Li avrei portati dalla loro
zia, come voleva, e poi sarei andata a morire da qualche parte, sola. La mia
missione era pericolosamente al termine. E non vedevo futuro, oltre di essa. Vedevo solo oscurità, dolore, e morte. Era
insopportabile il pensiero di una vita lunghissima, con un fardello del passato
così pesante, troppo per poter sopportarlo. Il mondo era abbastanza
grande per permettermi di sparire, di andare da
qualche parte, per non comparire più, se non nella memoria labile di
qualcuno. Dopo avermi fatta accomodare, Chekaril si posizionò di fronte
a me, inginocchiandosi, in modo da trovarsi al mio livello. Ero così
impegnata nel tentativo di concentrarmi, che quasi non lo notai.
Mi venne un colpo quando me lo trovai a pochi
centimetri dal mio viso. Mi guardava, ansioso. “perché mi stai
fissando così, Chekaril?”. Domandai, con voce innocente. Oh, si:
sospettava qualcosa. Non era certamente sciocco! Dovevo prepararmi a tutto. Lui
sapeva usare benissimo la sua bellezza accecante come arma.
Il Principe si avvicinò ancora di più al mio viso. Ebbi un
pessimo presentimento. Il corpo mi tradì. Mi sentii arrossire, ed il
cuore prese a battermi più velocemente. Maledizione. Lui se ne accorse,
e sorrise dolcemente. “non vuoi tirarci qualche colpo basso, vero,
Lsyn?”. Disse, fissandomi con i suoi intensi occhi viola. Dovetti farmi
forza per non annegarmi dentro, incantata dalla bellezza di quell’elfo. Sapevo
cosa stava facendo. Stava tentando di ammaliarmi, di far scemare la mia rabbia.
Il problema era che ci stava quasi riuscendo. Cercai di appellarmi al mio
buonsenso, e di dire qualcosa d’intelligente. Speranza vana. “no,
Chekaril….dirò solo la verità”. Oh, dannazione. Come
odiavo le promesse! Quello mi era sfuggito senza che io volessi. Sarei stata
costretta ad infrangere un giuramento.La cosa m’infastidì. Perché ero così
dannatamente debole? Mi agitai, a disagio, quando lui mi sorrise, avvicinandosi
ancora di più. Potevo sentire i suoi capelli solleticarmi il collo.
“bene”. Sussurrò, con un sorriso astuto. Oh, no. Seppi
subito cosa aveva intenzione di fare. Ma non ebbi il tempo di ritrarmi, di
fuggire, di evitare quel gesto, che mi avrebbe perseguitato, e che mi perseguita tuttora. Un gesto incomprensibile, classificabile
solo come ultimo, inutile, tentativo di asservirmi al suo potere. Lui sapeva
che io gli stavo nascondendo qualcosa. Perché quel bastardo mi
baciò. Mi baciò, un bacio freddo, calcolato, avido. Mi
pietrificai, stupefatta, e lo lasciai fare. Ero troppo sorpresa per ribellarmi.
Maledetto! Perché mi faceva questo? Perché? Tutta la rabbia, e
l’odio, che avevo dentro, rimontarono con intensità doppia.
L’unica cosa che m’impedì di schiaffeggiare il Principe,
incurante delle conseguenze del mio gesto, fu l’arrivo di Aevo. Chekaril
si ricompose poco prima la sua entrata, prendendo un atteggiamento casuale, e
gioioso, come quello di prima, ed allontanandosi considerevolmente. Bastardo doppiogiochista.
Io non riuscii a cambiare espressione. Quel gesto, all’apparenza
così inconsulto, aveva finito per confondermi orribilmente. Oh,
l’avrei ucciso. Nessuno si permetteva di usarmi a quel modo! E pensare
che, solo pochi giorni prima, avrei pagato con la mia vita per un solo bacio di
Chekaril. Strano, come il destino possa giocare scherzi sadici. La moglie non
si accorse di nulla: era troppo ottusa per farlo, probabilmente. O forse troppo
innamorata. Non appena fece un passo in quella stanza buia e calda, sentii la
presenza del Comunicatore. L’avvertii, come avrebbe potuto avvertirla
ogni elfo dotato di una stilla di potere magico. Quell’oggetto non era
uno scettro, come quello che fino ad ora avevo usato io: era più che
altro,una
grossa pietra grigia, a forma di uovo, liscia e screziata di nero. Correva,
tutto intorno, un fregio, tipico in ogni Comunicatore. Mi vennero i brividi, e
notai che anche l’altra elfa aveva la pelle d’oca. Aevo lo
manteneva avvolto in un fazzoletto, con aria disgustata. Ottimo. Anche lei
poteva percepirlo. Lei sapeva usarle la magia. Ciò che seguì,
furono nient’altro che gesti ripetuti moltissime volte, come per ogni
viaggio nel Piano. Ero così concentrata che precipitai immediatamente.
Non ci volle che un attimo per la familiare esplosione luminosa, e, poi, per lo
strano paesaggio buio, dove la luce non era altro che labile presenza, e dove i
pensieri dei dormienti mi sfioravano l’anima.
La prima
cosa che notai, fu che la mia Essenza stava cambiando. La cosa mi sconvolse, e
per poco non mi persi: che mi stava succedendo? Cos’era cambiato, in me?
L’ultima volta che ero andata nel piano ero uguale. Ed i cambiamenti non
erano casuali. Dentro di me si stava sviluppando uno stravolgimento di cui io
ero a malapena conscia. Non ero più il turbine buio, l’Ombra
pericolosa ed indefinibile, non ero più…scura. Il nero si era
trasformato in grigio, un grigio piacevole e perlato, quello della pallida
bruma mattutina, destinata a scomparire al primo, timido, raggio di sole. La
consistenza era impalpabile, una nube fragile. Tutto dava un’insolita
aria di fragilità. Mi seccò mostrarmi a Lainay in quello stato, e
cercai di apparire almeno più minacciosa. Provai a trasmettere la mia
rabbia al mio aspetto. Nulla: ottenni solo di far diventare la bruma una nebbia
compatta, e solida. Così andava meglio. Parzialmente soddisfatta,
cominciai a cercare, febbrilmente. Non volevo lasciare il mio corpo indifeso
per troppo tempo. Non mi fidavo di quella coppia diabolica. Finalmente,
avvistai il familiare bagliore purpureo, e mi precipitai verso la Regina.
Qualcosa
era cambiato anche in lei. Il gas luminoso si era trasformato in qualcosa di
diverso… qualcosa d’indefinibile. Manteneva, di originario, solo il
colore. Per il resto, avevo l’impressione di trovarmi al cospetto di una
sezione di uovo, al cui interno splendeva un’informe cosa oscura, che mi
diede l’impressione di…primordiale, di non ancora definito. Un cambiamento
più grande in atto? O qualcosa di più? Cos’era successo,
durante la mia assenza? Accantonai quasi immediatamente la questione. Non potevo
distrarmi. In quel momento, quasi non ci feci caso. Sol dopo avrei compreso la
natura terribile di quello stravolgimento, che ancora una volta, avrebbe
travolto la mia vita, come un fiume in piena. Solo dopo avrei capito cosa
significava quell’aspetto così insolito. Mi preparai alla mia
pantomima. Non avevo mai mentito alla mia Signora, e la cosa mi risultò
più difficile del previsto. Mia Regina!
Mia Regina! Esordii, affannata. Anche la mia voce era cambiata: avevo l’impressione
che a parlare fosse il vento. L’essenza regale non si scompose minimamente,
al mio apparire. Sembrò quasi mi aspettasse. Ah...suppongo che tu sia Ombra. Esordì
la voce, tranquilla come non mai, in tono casuale. Ah…come odiavo quel
tono, così ricco di sottintesi! Gliel’avrei fatta amaramente
pagare. La voce riprese il suo eloquio calmo. E suppongo anche che tu abbia scoperto di Chekaril… oh,
poverina. Ancora non sapeva quanto la stessi giocando.
Pregai che il mio aspetto non tradisse la bugia che stavo per dire. Ancora non
sapeva quanto io fossi prossima a giocarla. Mi finsi
affannata, disperata, spaesata. Tutte cose che ero, ma in un altro senso. Allora voi sapevate, Signora? Sapevate della
sua ribellione e non avete ancora fatto nulla? Con quelle parole fintamente
sdegnate, riuscii laddove in tanti avevano fallito: l’uovo perse la sua
coesione per un attimo, preda di un’incredula furia. Solo il nucleo
oscuro rimase al suo posto, tranquillo ed informe. La sua forma si
dilatò, e scurì incredibilmente. Come, ribellione? Cosa sta tramando Chekaril, insieme a quella
sgualdrina di Aevo, in quel covo di sporchi straccioni? Rispondimi! Ah,
come mi piacquero quelle parole rabbiose, dette quasi in un ringhio. Stavo giocando
con il fuoco, e lo sapevo. Ma tutto impallidiva di fronte alla mia tanto
agognata vendetta. Non importava il Regno. No: non m’importava. Stavo riuscendo
nel mio intento. Ma prima, le domande fondamentali. Cominciai a temporeggiare. Mi
finsi incredibilmente ferita, il dolore di una Spia che sa di aver mancato, di
non essere degna di fiducia, e presi la parola, timidamente. Mia Signora…ma perché non mi
avete detto che lui era a Gerinti, sano e salvo? L’avrei controllato,
avrei fatto di tutto per voi, avrei impedito tutto questo! Perché non mi
avete accordato questa fiducia? Cosa ho fatto di male? Vidi l’essenza
della Regina rimpicciolire pian piano, e calmarsi. Niente, Lsyn…niente. Mi disse, con una finta dolcezza che mi
disgustò oltre ogni dire. Bastarda. Come faceva a fingere così
bene? Eri già partita
quando scoprii che lui si era liberato da solo… così lo
mandai con Aevo a Gerinti, per farlo stare un po’ tranquillo…è
così debole, povero fratello mio… Oh. Che dannata stronza! A quanto
pare, non ero solo io ad avere un debole per le bugie.
E come recitava bene! Come poteva farmi questo? Come poteva essere così
schifosamente ipocrita con me? Cercai di dominare la mia rabbia, e chinai il
capo, con fare comprensivo. Ma dimmi…
esordì la voce, improvvisamente curiosa. Avevo acceso qualcosa in lei. Sapevo
benissimo quanto odiasse le sfide al suo potere. La conoscevo.
Ed era proprio in quello che speravo. Avevo fatto decisamente centro. Per poco
non cominciai a saltare dalla gioia. Perché
si sta ribellando? Tu dove sei, ora? Ah. Ora veniva il meglio. Feci finta
di essere addolorata, di essere terrificata dal dolore. Cominciai a gemere,
lievemente, e la mia anima si schiarì, espandendosi. L’ho scoperto ad una riunione, mia
Regina… mi ha rapita! Ma sono riuscita a scoprire qualcosa… una
pausa. La sentii fortemente a disagio. Ripresi a parlare, piena di fretta. Sta cercando di approfittare della mancanza
di maschi umani per stabilire un’oligarchia elfica a Gerinti, e riunire
anche Uruk sotto una sola bandiera… odio. Sentii solo odio provenire
dalla figura di Lainay. Ero riuscita a farle credere una storia del tutto campata in aria, ma plausibile. Non sapevo tutti i
retroscena, e che per poco non avrei causato un incidente politico di
dimensioni colossali, e nemmeno m’importava. La mia vendetta stava
riuscendo benissimo. Il mio obiettivo era solo quello. Lainay non aveva motivo
di sospettare di me. Mi stavo comportando esattamente come una fedelissima spia
leccapiedi. Sentii la soddisfazione farsi strada in me. Cominciai a gustare il
sapore del sangue che sarebbe scorso. Poi…poi
sono riuscita a sfuggirgli, mia Regina amata… mi sono rifugiata in una
caverna a Gerinti, Signora! Sono lì, ora! Il silenzio che
seguì mi parve un ottimo auspicio. Ancora non volevo crederci: avevo
ingannato la mia sovrana! Non pensavo fosse così facile da circuire. Tutte
illusioni, tremende illusioni. Non avevo capito un bel niente. Un bel niente! A
volte, sono davvero candida come una bambina. Timidamente, nel Piano, ripresi
la parola. Cosa devo fare, ora, mia Signora? Quali sono i vostri ordini? La risposta
fu immediata, e lapidaria. La porta d’accesso all’abisso. Ci sono dei bambini, con lui. Due infanti,
un maschio e una femmina. Come se non lo sapessi! Ma mi credeva così
ingenua? O forse mi stava prendendo in giro? Prendili, e portali da me. Ah. Avrei dovuto rapire Roxen e
Chekaril. Più facile a dirsi, che a farsi. Ma quelli erano ordini. E non
potevo discuterli. Quando la Regina dava ordini, era mio dovere obbedire. Era il
Giuramento. Eravamo chiamati Cani proprio per quello. Cani perfettamente
addestrati. Ma l’ordine che volevo era un altro. Decisamente un altro. Ed
allora, tutti i miei scrupoli sarebbero svaniti. Mi preparai alla parte
più divertente della mia finzione. E
per il Principe, Signora? Cosa devo fare con lui? Una risata sadica, una
sola, sadica e soddisfatta. Quanto fu bello, ascoltare quel suono. Uno scampanellio
divino. Fremetti di gioia nell’udire le parole che seguirono quel riso
affascinante. Quello che vuoi, Lsyn. Uccidilo
come più ti aggrada. Uccidi anche Aevo. È un ordine.
Dopo quel terribile ordine, che mi riempì di gioia ardente e
selvaggia, la gioia dell’omicidio, tra me e Lainay non rimase nulla da
dire
Dopo quel
terribile ordine, che mi riempì di gioia ardente e selvaggia, la gioia
dell’omicidio, tra me e Lainay non rimase nulla da dire. Assicurai alla
Regina, stranamente calmissima, che avrei svolto la mia missione con
entusiasmante perfezione. Era vero. Raramente mi era capitato di bramare
vendetta come in quel momento, e tutte le volte erano state distruttive. E la
mia capacità di sopportazione era giunta al limite estremo già da
molto, molto tempo. Non rimanevano ostacoli a frapporsi tra me ed il mio
obiettivo. Bramavo il sangue di Chekaril, e di Aevo. Bramavo vederli sconfitti,
imploranti, doloranti. La sola idea bastava a riempirmi di suprema
soddisfazione. Il mondo non sarebbe cambiato, dopo quell’omicidio,
sarebbe andato avanti come sempre. Di questo non dubitavo, né mi facevo
illusioni. Ma sarebbe stata fatta giustizia nel mio piccolo universo. E quello
contava. Perché non si può tornare indietro? Perché decisi
quel gesto? Ma cosa mi passava per la testa, in quei concitati momenti? Quanto
può, l’odio? A cosa servì il mio giudizio arbitrario ed
egoista, cieco e sordo agli altri? A portare altro dolore, altro sangue, una
catena infinita di lutto edi
rimorsi, di cui ancora sento l’amarissimo sapore. Perché certe
cose non cambiarono. Avrei dovuto pensarci. Andava tutto dannatamente troppo liscio. E Lainay non era stupida, anzi.
Conosceva certi meccanismi molto meglio di me. Ed io non ero più la
stessa. Ero stata fuori dal mondo per troppo tempo, e non ero più degna
dell’appellativo di Spia. Nemmeno di Ombra. Anche la mia anima era
cambiata. Cosa diventai? Cos’ero diventata? Non ero più la fredda
Ombra, non ero più Lsyn, incerta
tra luce e buio: al mio posto, una belva assetata di morte, ottusa,
incosciente. Il mio buonsenso? Perché, ne ho mai avuto uno? Le mie
missioni non mi hanno insegnato alcuna consapevolezza, mai. Dovevo stare
attenta: certi segnali erano fin troppo chiari. Avrei dovuto ragionare,
rimanere a mente lucida, senza lasciarmi prendere dalla mia dannata
avventatezza. Perché non tutto era ciò che sembrava. E troppi
conti non tornavano ancora. Davvero troppi. E le conseguenze della mia rabbia
accecante si ripercossero solamente su me, ed i miei cari. Su loro in
particolare. Perché molto era destinato a cambiare, a mutare in modo
irreversibile il proprio cammino. Ma niente sarebbe mutato in meglio. Scorse
solo del sangue in più, sangue colpevole ed innocente. I segnali
c’erano, e tanti. Avrei dovuto accorgermene. Lainay era troppo, troppo
calma. E poi, perché aveva cambiato il suo aspetto? Cos’era
successo alla sua Essenza? Cos’era quell’insolito nucleo oscuro?
Oh, prima o poi l’avrei capito. Molto prima che poi. Era solo rovina.
Rovina, solo ignara rovina. Rovina per tutti. Rovina innocente, rovina
vittima.Chi non lo fu, e chi
ancora non lo è? Dovevo pensarci, oh, si. Dovevo pensarci prima. Dovevo
lasciare tutto com’era, dimenticare, lasciarmi distruggere. Ma la portata
del mio gesto mi fu chiara solamente dopo averlo compiuto. Tardivi sensi di
colpa, tardivo pentimento. Tardiva consapevolezza. E fu quel ragionamento ad
inghiottirmi in quell’abisso, quella spirale profonda e dolorosa, dalla
quale è impossibile uscire. Sarebbe stato meglio morire di dolore,
consumarsi per quell’orribile delusione, piuttosto che lasciare il fuoco
si espandesse, e bruciasse tutto, tutto quello guadagnato in tre maledetti
secoli di vita. Secoli sprecati, andati al vento ed alla cenere. Fui stupida,
tanto stupida. Ma, ancora oggi, quando tante cose sono cambiate, non riesco a
negare di non aver gioito. Fui felice, mostruosamente felice. Un breve attimo
di felicità, prima di essere assalita da un orrore senza nome.
Perché non ricordai, allora, il sogno del cigno?
Dopo i
soliti convenevoli, stranamente pacati e cortesi, Lainay mi lasciò sola
nel Piano, svanendo con un sussurro delicato. Mi sentii, cosa fin troppo
insolita per me, in quel momento, in pace con me stessa. Stavo per compiere una
delle azioni più assurdamente piacevoli e riprovevoli della mia
carriera. Sentivo di avere tempo. Chekaril si fidava ciecamente di me: in tutta
la sua astuta ingenuità, aveva probabilmente pensato che quel bacio
indesiderato mi avesse ammorbidita. Ma chi pensava io fossi? Chissà cosa
aveva pensato, di me, in tutto quel tempo. Ero stata una vittima? Ero stata uno
strumento? Una perla rara? O una delle tante? La sua confessione, piuttosto che
schiarirmi le idee, mi aveva confuso ancora di più. Ciò che provavo
nei suoi confronti non era che rabbia, la rabbia dell’innamorato deluso.
Mi sentivo volgarmente presa in giro. Ma come non amare quel sorriso
ammaliante? Come nonperdersi in
quegli occhi impenetrabili? Per cinquant’anni ero corsa dietro una
fuggevole illusione, un’utopia, una trasfigurazione. L’avevo
sognato, l’avevo pensato, l’avevo cercato, disperata. Avevo
trasformato unferoce lupo affamato
in un tenero cucciolo paffuto. Un falco in un passerotto. Ed i miei sogni erano
stati brutalmente infranti, in quel modo atroce. Il mio amore trasformato in
odio, quell’odio irrazionale, incomprensibile per chi non l’ha mai
provato, un incendio che divora il cuore. Con quella calma impossibile, che
s’impadroniva di me ogni volta che c’era da uccidere qualcuno, quel
freddo calcolo che pian piano m’invadeva la mente, calmando la mia
rabbia, e trasformandola in cinismo, feci il punto della situazione. Bene, la
priorità non era alta. Non c’era sospetto: le vittime, nella
misura concessa dalla prudenza, si fidavano di me. Poveri sciocchi. Decisi
così d’addormentarmi. Non avrei riposato molto, e sarei stata
anche più lucida, una volta sveglia. Non serviva a niente buttarsi a
capofitto nel mio corpo, per poi addormentarsi subito dopo, sfinita. Non avrei
concluso nulla. Assolutamente nulla. Mi concentrai, dunque, sul processo
inverso al ritorno.Mi ci voleva
molta concentrazione, più di quanta avrei dovuto usare per andarmene
senza tappe intermedie. Un solo errore, e sarei svanita nel nulla, senza
lasciare tracce, né nel mondo, né nel Piano, come se non fossi
mai esistita. Ed il mio corpo fisico sarebbe morto. Così, mi preparai,
fino a raggiungere la totale assenza di pensieri,di distrazioni. Fu un’impresa
titanica, ma ci riuscii. Immaginai così la mia Essenza espansa, espansa,
sempre più espansa, fino ai limiti della coscienza di sé, fino al
muro oltre il quale mai nessuno è andato. Il mondo parve
cristallizzarsi, fondersi in un tutt’uno, e, per un attimo glorioso, mi
parve di raggiungere la pura verità. E poi, senza quasi accorgermene,
piombai nel buio più assoluto. Tutto si fece oblio, oblio fresco, e
riposante. E, se sognai, non lo ricordo.
Al mio
risveglio, trovai la casa stranamente silenziosa. Fu la prima cosa che
avvertii. Ero di nuovo nella mia camera scura, stesa comodamente sul letto:
qualcuno doveva avermi portato lì dopo che mi ero addormentata,
togliendomi il mantello, ma lasciando al suo posto la spada. Doveva essere
stato Chekaril. Tipico di lui, pensarmi ancora come la fiduciosa ed onorevole
Spia che aveva conosciuto, e che non sopportava vedersi toccare le armi da mani
estranee. Eppure mi aveva visto minacciare Aevo, sua moglie, senza la minima
esitazione. Dei: com’ero cambiata, da quei tempi felici, e come sono
ancora cambiata ora! Qualcosa non andava. Prima di andare nel Piano, avevo
sentito, anche nei momenti di rabbia più intensa, le urla allegre e le
risate di Roxen e del fratellastro, che giocavano nel giardino. Ora nulla:
tutto era stranamente silenzioso, ovattato. Che mi avessero giocata? Che fossero
spariti tutti? Cominciavo a preoccuparmi, quando un rumore di piatti mi
rassicurò. Qualcuno era in casa, e si stava apparecchiando. Ma per
pranzo o per cena? Che ore erano? Lì dentro era troppo buio per poter
fare anche solo tentare d’indovinare. Spinta dalla fredda determinazione
dell’omicidio, che non lasciava spazio a considerazioni oziose, mi alzai
di scatto, scostando le coperte. Benedissi chiunque mi avesse tolto
l’impiccio del mantello: lo vidi, non appena in piedi, avvolto in un cantuccio
della camera. Lo ignorai, e mi diressi verso la porta. Ghignavo già,
pregustando il piacere dell’omicidio, come si fa con un vino di buona
qualità. Cominciai a fantasticare. Avrei colpito per prima Aevo, poi
Chekaril, e poi… mi folgorò un pensiero terribile. Non stavo
tenendo tutto in conto. Come avrei fatto con i piccoli? Come avrebbero reagito,
se mi avessero vista piombare in una stanza, una figura mostruosa e
sconosciuta? Come allontanarli, poi, dalla scena del delitto? Non potevo farli
assistere all’omicidio dei loro genitori, o presunti tali! Non avevo la
minima intenzione di turbare in qualche modo la mia piccola Roxen. Il mio fiore
non andava toccato da cose così terribili, come una vendetta sanguinosa.
Il fato le aveva permesso di vivere lontana da tutto quello, da tutti gli
intrighi e da tutti gli omicidi delle Spie: non sarei stata io, che tanto avevo
fatto per cercare di allontanarla dal mio ordine, a stravolgerle la vita.
Avrebbe già dovuto sopportare tanti cambiamenti, con l’entrata nella
corte di Lainay. Il solo pensiero mi provocò una fitta intensa di
dolore. Non sarebbe mai stata mia. Non avrebbe mai saputo la vera
identità della madre, a meno che la Regina non avesse ritenuto utile
riferirgli l’intera storia. Ma ne dubitavo: se l’avesse fatto, sarebbe
stato semmai per farmi odiare. Farmi odiare dalla mia stessa infante, dalla mia
piccola innocente! Scacciai quel pensiero con rapidità. Faceva troppo
male. Non furono solo quelli gli scrupoli morali. C’erano anche questioni
di tipo meramente pratico: se mi avessero vista, così, senza maschera,
orrenda e sfigurata, un mostro, uccidere a sangue freddo i loro amatissimi
genitori, cosa avrebbero pensato di me? Come guadagnarsi, poi, la loro fiducia?
Con loro, dovevo recitare la parte della benefattrice,solo quella. E non mi andava di
coinvolgere anche Roxen nelle mie questioni personali. Né lei, né
il piccolo Chekaril dovevano entrare in quella fogna che era il mio inconscio.
Moderai il mio entusiasmo, e, con la mano a mezz’aria, pronta ad
afferrare la porta, decisi per il silenzio e la cautela, almeno finche non mi
fossi resa conto della situazione.
In punta
di piedi, sfruttando le zone d’ombra della casa, accogliente nel suo
stile interamente di legno grezzo, mi avviai verso il punto in cui il rumore di
stoviglie era più forte. Avvertii, man mano che mi avvicinavo,
l’odore di cibo, a quanto pareva, carne. Feci una smorfia. Ho sempre
odiato il sapore e l’odore della carne, in ogni sua forma, fin da
piccolissima. Chekaril ne andava matto, specialmente quando era ben cucinata.
Disgustoso. Fu quasi con sollievo, che ricordai di non doverla mangiare. Non mi
serviva. Continuai a cercare segni di vita. Passando vicino ad una finestra,
notai con sollievo che il sole era ancora alto. Non dovevo aver dormito che
poche ore, per mia fortuna. Doveva essere, al massimo, primissimo pomeriggio.
C’era tutto il tempo di agire. Arrivai, finalmente, percorrendo uno
stretto e corto corridoio, ad una semplice porta chiara, socchiusa. Rimasi per
qualche attimo ad ascoltare. Il rumore lì era più intenso, ma non
provenivanoaltri suoni. Niente
chiacchiere, niente risate, niente di niente. Come se il cibo si stesse
preparando da solo. Fui assalita dalla curiosità, lì,
seminascosta dalla porta. Perché nessuno parlava? Lentamente,
così, mi arrischiai a dare un’occhiata fugace all’interno.
La stanza non differiva di molto da quella della casa di Xavier, solo che era
molto più spaziosa, ed ordinata. C’erano più mobili, alle
pareti erano appese verdure varie, ed il tavolo era più spazioso e
pulito. Era una bella casa felice. Un vero peccato dover interrompere
così quel falso idillio. La sola idea di spargere, per un attimo,
sgomento e desolazione in quei paesani ottusi, mi riempì di gioia.
Odiavo tutti, e, se avessi potuto compire una strage, l’avrei fatta. Mi
sentivo nella disposizione d’animo adatta. Non appena notai le presenze
in quella camera calda, mi calmai. Gli infanti non c’erano. Era
apparecchiato per tre, già tutto pronto. Io dovevo essere al centro. Era
il piatto con meno carne, e più verdure. Chekaril era già seduto,
alla mia sinistra, in mano un bicchiere di quello che mi parve vino rosso,
strano e divertente preludio, e fissava Aevo, mentre lei puliva. La scena mi
parve appartenere ad un sogno. Nessuno di loro due parlava, nessuno di loro due
sembrava teso, i loro movimenti erano torpidi. Ma c’era qualcosa che non
andava. Stavano aspettando: Chekaril non si era ancora mosso, ed il bicchiere
era pieno. Mi ritirai nel mio cantuccio, e cominciai a riflettere. La
situazione era migliore di quanto pensassi. Sospirai di sollievo. I piccoli non
c’erano. Era tutto a posto. Non avrei dovuto inventarmi strane cose per
attirare le mie prede in trappola. Il problema sarebbe stato fuggire, una volta
compiuto il misfatto, ma di quello me ne sarei preoccupata dopo. Guardando
quella placida scenetta famigliare, mi venne un’idea diabolica, e, tra me
e me, sorrisi. Perché non far gustare ai due un ultimo pranzo, dando
loro false speranze? Perché non donar loro una parvenza di serenità,
prima di colpirli a morte, così come avevano fatto per me? Decisi per
quell’atroce finzione, ed imbastii un sorriso falso, allegro e rilassato,
tutte cose che non ero. Facendo la parte dell’ingenua sollevata, aprii la
porta, infischiandomene allegramente di tutto. Avevo voglia di giocare un
po’. Ebbi il piacere di vedere entrambi sobbalzare, e girarsi verso di
me. Chekaril si versò un po’ di vino sulla casacca. Abbassai lo
sguardo, vergognosa. “vi ho spaventati?”. Mormorai, timidamente,
alzando per un attimo lo sguardo, e controllare il Principe. Lui ed Aevo si
guardarono, una frazione di secondo, con serietà, prima che il mio amato
mi sorridesse. “ma cosa dici, Lsyn…su, vieni dentro. Ti stavamo
aspettando per mangiare”. Disse, con un’allegria briosa che
suonò quanto mai fuori posto con i suoi occhi sospettosi. Alzai lo
sguardo, e mi avviai al mio posto, con un sorriso tranquillo stampato in viso.
Eh, si: Chekaril era davvero, davvero, nervoso. Studiava il mio comportamento
in maniera quasi spasmodica, analizzando ogni minimo gesto che facevo. Misurai
attentamente le mie movenze, imponendomi una calma che non possedevo. Avvertii
un movimento dietro le mie spalle, e tramestii vari. Con la mia solita
immaginazione, fiutai una trappola inesistente, e mi voltai di scatto, ignorando
quanto e come quel gesto potesse essere interpretato. Quello che vidi mi diede
ulteriore motivo di gioire. Quella che potevo chiamare la loro sala da pranzo,
era al piano terra, e dava direttamente sulla strada. C’era qualche
finestra, ed una porta che interpretai come l’ingresso secondario. Eravamo
in vista, ed io dovevo restare evidentemente nascosta: Aevo, in mano un mazzo
di grosse chiavi dall’aspetto antico, stava chiudendo tutte le finestre,
con dei pannelli di legno grezzo, e stava serrando la porta, guardandosi
attorno con aria circospetta. Ottimo: non mi avrebbero notata, né
avrebbero avuto via di scampo. Pensai che, nel caso di una visita di Spie, quel
gesto era dovuto. Poteva destare sospetti la presenza di un estraneo, per
giunta bizzarro come me, nella casa dell’intelligente e nobile Krish. Si
fidavano così tanto di me? La cosa non mi dispiacque. Con un sorriso,
per una volta genuino, dettato dalla sadica gioia che mi cresceva dentro, mi
sedetti accanto a Chekaril. Fui raggiunta da Aevo qualche attimo dopo. La
stanza era piombata nel buio, illuminato solo dall’onnipresente focolare.Mi
ritrovai così, in mezzo alle mie due vittime, mentre loro mi guardavano,
con un sorriso ed uno sguardo preoccupato. Chekaril, suadente, mi prese la mano
destra, quella rovinata, tastando delicatamente tutte le cicatrici. Lo lasciai
fare, e lo fissai, con curiosa educazione. Non fu difficile frenare la mia
rabbia: la mia vendetta lo avrebbe colpito presto. “cosa ti ha detto
Lainay?”. Domandò, con evidente cautela. Vidi nel suo sguardo
profondo, l’ansia. Decisi di giocargli un ultimo tiro. Un ultimo tiro,
prima del sangue che tanto stavo pregustando. Gli sorrisi gioiosamente, e
risposi con calma. “ha detto che sei tanto debole, e che hai bisogno di
riposo”. Oh, si. Riposo eterno. Ma quello era un particolare che poteva
aspettare ancora un po’. Potevo giocare ancora, prima di mangiare il
cibo. E come suonò falsa la mia voce, falsa perfino alle mie orecchie! I
due sposi, stranamente, non se ne accorsero. Sentii vari sospiri di sollievo,
ed il loro volto si distese. Dovevo averli convinti, con una sola frase.
Chissà quante volte l’avevano sentita! Ancora oggi non mi capacito
di come abbia potuto fare, per ingannarli con così tanta
facilità. Ho solo una risposta, e penso sia giusta. Non erano,
semplicemente, più abituati a sospettare. Si fidavano di Lainay, si
fidavano dei suoi ordini. E Chekaril pensava, evidentemente, che il suo bacio
mi avesse sedotta. E’ facile addormentare il sospetto, quando si vive in
mezzo a contadini ottusi, per ben cinquant’anni, in una pace bucolica,
piena di affetti e rispetto. Ed il Principe non era mai stato molto sospettoso,
nei miei confronti. Credeva nella forza onnipotente della sua bellezza. E non
aveva tutti i torti: più di una volta, mi aveva ricondotta al suo
volere, come se niente fosse! Ma io ero cambiata, irrimediabilmente. Avevo
passato quegli ultimi cinquant’anni in mezzo agli stenti ed agli inganni.
Ero passata attraverso mille prove, mille sofferenze. Ed ero diffidente di
natura. La rabbia, inoltre, aveva finito per offuscare la mia capacità
di giudizio, ed ero tesa verso un solo obiettivo. Uccidere quei due. Anche
Lainay me l’aveva ordinato! Ero, si, stata io ad averla ingannata, ed
essermi ordinata da sola una cosa che già avevo intenzione di fare, ma
avevo lo stesso ricevuto un ordine dall’alto. E gli ordini non si
discutono. Mi ero, praticamente, lavata le mani, e messo la coscienza al
sicuro. Avrei avuto tempo di pentirmi, tanto tempo. La tensione nella stanza
diminuì considerevolmente: Chekaril mi sorrise, ed Aevo si girò
verso il cibo. La imitai. Ottimo, davvero ottimo. Rabbrividisco al solo ricordo
del pensiero gioioso che mi folgorò la mente. Ad un lato del piatto, le
posate. Tra cui un coltello, di fattura artigianale, dal manico di legno, ma
dall’aria estremamente malvagia. Ora, mancavano davvero pochissimi
istanti al momento in cui avrei cominciato a giocare. E, si, mi sarei divertita
molto. Dovevo, tuttavia, accertarmi di alcune cose. Feci passare qualche minuto
di silenzio, il tempo di cominciare a mangiare. Feci finta di concentrarmi sul
io piatto, ed afferrai spasmodicamente le posate. Notai che Chekaril usava
quanto più possibile solo la mano sinistra. La destra era posata
negligentemente sul tavolo, rilassata, troppo lontana. Dovevo colpire la
sinistra, per metterlo fuori gioco. Ma, prima, qualche domanda.
“Chekaril…”. Dissi, casualmente, alzando solo lo sguardo
verso di lui, facendo finta d’inghiottire un pezzo di cibo. Lui mi guardò,
incuriosito. Aevo continuò a mangiare, ormai a suo agio. Povera piccola.
Se solo avesse saputo che quelli erano i suoi ultimi istanti di vita, non li
avrebbe sprecati così. Ne sono certa. “ma i piccoli dove
sono?”. Un sorriso apparve sul suo volto pallido. “prima li ho
portati a vedere i pescatori. Poi…beh, abbiamo incontrato la moglie di
Xavier, Sybil, ed i loro due infanti”. Il sorriso diventò una
smorfia astuta, e quasi buffa. “loro li hanno invitati a casa loro per
pranzo… come potevo rifiutare, sapendo che tu eri in casa, condannata a
rimanere in una piccola stanza buia?”. Bastardo. Non voleva che io li
vedessi. Non voleva che io li toccassi, che loro parlassero con me. Dovevo
essere una figura completamente estranea. Voleva allontanarmi da Roxen. Non ci
sarebbe riuscito, nemmeno volendo. Perché ora io esigevo mia figlia
indietro. La rivolevo, con tutta me stessa. E non ci sarebbero stati dei capaci
di farmi cambiare idea. “dovevo darti un minimo di libertà,
no?”. Ridacchiò, e con lui Aevo. Io mi costrinsi a sorridere. Non
so cosa mi trattenne. Non so cosa m’impedì di non strozzarlo.
Però mi stava dando un’ottima notizia: un ostacolo in meno.
M’imposi di aspettare, aspettare ancora qualche minuto, per amor della
tortura, per aumentare ancora di più il mio astio. E così feci.
Passammo il resto del pranzo in silenzio. Chekaril fu il primo a finire,
seguito da Aevo. Soddisfatto, poggiò entrambe le mani sul ripiano, palmo
all’ingiù. Era il mio momento. ci fu un ultimo attimo di silenzio
assonnato. “ah…”. Dissi, smettendo di torturare il mio cibo,
che non ero riuscita nemmeno a toccare, ed abbassando le posate, stringendo
però il coltello più forte, fino a farmi dolere le nocche. Ormai
pienamente a suo agio, Chekaril rivolse solo lo sguardo verso di me. “ho
dimenticato di dirvi una cosa che Lainay mi ha ordinato!”. Oh, come mi
batteva forte il cuore. Oh, quanta gioia dimorava nel mio petto! Riuscii a
sembrare tranquilla, lievemente euforica, forse su di giri. Ma potevano
interpretare il mio entusiasmo in tantissimi modi. E così fu: pensando evidentemente
che fosse qualcosa di poco conto, Chekaril si lasciò sfuggire un sorriso
sghembo, di scherno. Aevo mi guardava, interessata. C’era più di
quello che sembrava, in quell’elfa. Era acuta: se solo fosse stata in
allenamento, avrebbe sospettato qualcosa. Compensava Chekaril in un modo
perfetto. Forse mi sbagliavo sul fatto dei tradimenti. Forse lui le era davvero
fedele. Beh, non era certo il momento di pensarci. E la fedeltà non
serve, quando si è morti. “ah, si? E cosa ti ha detto?”.
Disse il mio amato, con uno strano tono irritante, come se parlasse con un
bambino. Ed, in quel momento, io ero felice come una bambina in un negozio di
bambole, come amava definirmi Tijorn in quelle situazioni. Quello che successe
dopo, fu l’inizio di una perpetua rovina. “oh, beh…”.
Dissi, scollandomi nelle spalle, sorridendo. Si: davvero Chekaril mi stava
trattando come un’infante: scommettevo si rivolgesse a Roxen con meno
condiscendenza. La cosa non m’irritò. Mi sarei presa la mia
vendetta. Oh, si. Il fuoco della vendetta ruggiva in me, mi consumava. Ed io ne
gioii. Mi preparai al colpo. “mi ha detto…questo!”. Digrignando i denti dalla rabbia che potevo
mostrare, trasfigurata dall’ira, colpii. E fui fulminea. Il coltello
affondò nella mano sinistra di Chekaril in un attimo, prima che lui si
potesse accorgere di qualcosa. Sentii, giuro, il coltello intaccare
l’osso, una lieve resistenza che subito cedette, e poi piantarsi nel
tavolo, a fondo. L’arma improvvisata era così affilata,
così perfetta, che tappò la stessa ferita. Usciva poco sangue, e
la cosa non mi piacque. Ma io non dovevo fare solo quello. Quello era solo il
preludio. Tutto successe in una frazione di secondo. L’atmosfera
cambiò di colpo. Il Principe urlò di dolore, e si fece davvero pallidissimo.
Contorcendosi sulla sedia, mi guardò, sbigottito, e vacuo, ancora troppo
scioccato dal colpo improvviso per poter capire. Aevo saltò
letteralmente, e mi guardò, soffocando un gridolino. Ghignai follemente,
e mi alzai in piedi. Tutto quello che mi avevano fatto passare, tutte le
sofferenze che avevo procurato e che mi erano state procurate, stavano per
essere vendicate. Non posso descrivere l’acuto piacer di quei momenti,
non posso descriver l’esaltazione folle che s’impadronì di
me. Diventai un mostro, un essere sanguinario, una crudele. Cose che non ero
mai stata. Avevo sempre preferito metodi puliti di esecuzione. Ed io avevo pura
dei cadaveri, mi facevano orrore! Perché ero così tranquilla, di
fronte all’elfo che avevo tanto amato, e che stavo per ammazzare
così brutalmente? Con un ringhio disincarnato, una voce che non mi
apparteneva, cominciai a parlare. “mi è stato ordinato il vostro
omicidio, traditori”. Dissi, con voce atona, celando tutti i miei
sentimenti, la mia più grande bugia. “perché voi mi avete
mentito, e Lainay ha deliberato”. Quello che seguì fu il terrore
più puro, un terrore cieco, paragonabile solo al sentimento che afferra
le falene prigioniere alla luce. Perché loro sapevano che un ordine
diretto della Regina non può essere discusso, e va eseguito, ad ogni
costo. Le Spie sono addestrate per fare questo, obbedire senza chiedersi il
perché. Ed io lo stavo facendo. Al loro terrore si mischiava
l’incredulità. Sapevo che non mi avevano mentito. E quello, in
seguito, fu per me il più grande tormento. Chekaril, con la mano destra
afferrò il coltello, e cominciò, affannosamente, a tentare di
toglierlo. Non ce la faceva. Il braccio destro era troppo debole, ed il
coltello piantato troppo in profondità. L’unica reazione che sortì,
fu la fuoriuscita di un po’ di sangue, e molto dolore. Nient’altro.
Si stava torturando da solo. Ottimo. Mi avrebbe facilitato il compito. A lui
avrei pensato dopo. Mi concentrai sulla mia altra vittima. Aevo era andata
totalmente in panico: non aspettavo altro. Il volto trasformato in
un’immagine di terrore, gli occhi pieni di lacrime, era scattata in
piedi, e mi guardava, tremando evidentemente. Aveva in mano il mazzo di chiavi.
Oh, no. Sapevo quello che stava per fare. E gliel’avrei impedito, ad ogni
costo. Potevo andare con calma: ero quasi sicura lei non sapesse lottare. Ed
una mente offuscata dalla paura è facile da confondere ulteriormente. Io
ero lucidissima, lei no. Ah, quanti ricordi, di quante missioni! Quella, in un
modo o nell’altro, sarebbe stata la mia ultima missione. Avrei portato i
piccoli a Lainay, e poi me ne sarei andata per conto mio, vagando un po’.
Dovevo essere presente, non perdermi nei miei pensieri! Mi concentrai sulla
scena. Aevo aveva fatto un passo all’indietro, diretta verso la porta,
guardandomi, tremando follemente. Io ero comunque più vicina. Avanzai di
un po’. “ma dove vai, piccina…”. Canticchiai, con voce
allegra, illuminata da una gioia folle, che non lasciava spazio a pensieri che
non fossero collegati al sangue, alla morte, alla vendetta. Istintivamente, le
mie mani corsero al pomo della spada. Povero Eiron, povera la sua memoria,
tradita così brutalmente. Sempre fedele a cosa, al sangue? Non
m’importò: sguainai la lunga, agile arma, con un solo movimento, e
la portai al mio fianco. Ripresi ad avanzare. “gioca un po’ con
Lsyn… non vuoi giocare con me? Così mi offendi…”. Aevo
cedette del tutto. I suoi nervi non dovevano essere abituati ad essere
minacciati di morte! Commise un gesto incredibilmente stupido. Con un grido, si
slanciò contro la porta, brandendo le chiavi come un’arma.
“Aevo! No!”. Gemette Chekaril, ancora inchiodato al tavolo,
muovendosi con maggior lena, per liberarsi. Tutto invano. Sentii i singhiozzi
convulsi di Aevo con perversa gioia. Era di spalle a me, tremando come una
foglia, stava cercando la chiave
per la porta, probabilmente per andare fuori, e cercare aiuto. Uno sciocco
pensiero. Ma dovevo sbrigarmi: non potevo giocare con il destino. Alzai la
spada, di piatto, verso la schiena di quell’esserino singhiozzante. E la
sbattei, delicatamente, due volte, su una spalla, come per indurla a girarsi.
Dei, come mi divertivo! Udii i singhiozzi cessare di scatto. L’elfa smise
di muoversi. Le punta l’arma. Senza che ordinassi niente, lei si
girò, con un sospiro. Aveva il viso disfatto, pieno di lacrime,
l’espressione di chi è stato tradito nei begli occhi, e tremava,
al punto tale che le chiavi le caddero di mano, con un tintinnio. Sembrava
ipnotizzata. Arriva, un momento, in cui sai di essere condannata, e che
combattere non serve a nulla. Quello pensò Aevo. E Chekaril lo
capì. “Lsyn, ti prego, no, Aevo no…”. Gemette,
annunciandomi, con vari tramestii, che stava ancora cercando di liberarsi. Non
mi girai verso di lui. “lascia stare Aevo! Prendi me, non lei! Lei non
c’entra nulla!”. Lei mi guardava ancora con occhi vuoti. Sentii una
fiammata di rabbia invadermi il petto. Strano come l’atmosfera fosse
cambiata: meno di pochi minuti prima, stavamo mangiando tranquillamente.
“oh, si che lei c’entra!”. Esclamai, puntando, con lentezza,
la spada al centro del petto dell’elfa. Senza colpire ancora. Aevo si
limitò a tremare. L’avevo schiantata, avevo schiantato la sua
ragionevolezza. Era una bestiolina in mio potere, come quando costruivamo, io e
Tijorn, trappole nel bosco per le lucertole. E loro lottavano, di
divincolavano, ma poi capivano, e divenivano molli, e docili. Così era
lei. “ti ha amato. E questo posso farlo solo io!”. Bah. Potevo
essere di gran lunga più originale. Ma, dicendo la verità, non ne
avevo granché voglia. Volevo solo uccidere. Solo quello.Ed esaudii immediatamente alla mia
brama. Senza ascoltare più le suppliche disperate di Chekaril, colpii,
un solo affondo deciso. La lama penetrò senza alcuna difficoltà.
Dagli occhi di Aevo trasparì solo una lieve sorpresa, null’altro.
Lei emise un gorgoglio strozzato, spalancando lievemente gli occhi. Inatteso,
un filo di sangue le uscì dalla bocca. Ma solo in quel momento sarebbe
venuto il meglio. Perché avevo colpito un punto particolare, un punto
che alcuni miei colleghi amavano colpire solo per il piacere del sangue. La
lama stava tappando la ferita. Ero sorda a tutto, sorda al mondo, sorda agli
urli disperati di Chekaril, dal cuore spezzato. Pensavo solo al corpo vagamente
tremante dell’elfa, ed a me. Estrassi la spada con un solo movimento
deciso. I miei umili abiti grigi si tinsero di rosso cupo. Sentii il familiare
calore del sangue. Oh. Quella proprio non ci voleva! Per togliere il sangue,
avrei dovuto faticare, e molto. Ma nulla valeva quanto la visione di Aevo,
ancora viva, ma agonizzante, scivolare sul pavimento, lasciando una striscia di
sangue sulla porta! Nulla, davvero nulla. La spada ancora gocciolante, rimasi a
fissare la mia prima vittima. Era ancora viva, e tremava follemente,
gorgogliando, ma non lo sarebbe stato per molto. Ora come in quel momento, di
lei non poteva importarmene meno. Era ancora cosciente, e stava soffrendo in
maniera atroce. Quello si che era soddisfacente! Ormai divenuta una tetra e
macabra belva, accantonando la mia razionalità senza remore alcune, mi
girai verso Chekaril. Era ancora inchiodato sul tavolo. Ormai la mano zuppa di
sangue. Era in piedi, o almeno chino, e si stava divincolando come un
animaletto preso dai legacci. Mi guardava, come se non riuscisse a credere ai
proprio occhi, e borbottava, senza, forse, accorgersene, qualcosa, senza sosta.
Era sconvolto. Riusciva a nascondere il proprio tremito, ma io notai lacrime
scendere copiose sul suo viso più pallido del solito. Ci guardammo per
un attimo. Lui, gradualmente, smise di muoversi, e mi sorrise. Un sorriso
disperato. “su, bastarda…”. Mi disse, guardandomi schifato,
con voce tremante. “uccidimi…cosa aspetti? Non vuoi questo?”.
I suoi commenti disperati, l’ultima carta che provò a giocare per
aver salva la sua orribile ed infima vita, andarono a vuoto. Ero troppo fuori
di me per comprendere, per soffrire, ed, ormai, reagivo come una di quelle
bambole meccaniche. Completamente fuori di me, anelavo solo la distruzione,
pilotata da un essere che non era me. Risi, un riso folle, stridulo. Non era la
mia risata. Non lo poteva essere. Ero impazzita, del tutto. “io? Bastarda
io? Ma ti sei guardato, Chekaril?”. Ringhiai poi, smettendo di ridere in
un attimo. Lui mi guardò come se fossi pazza. E probabilmente lo ero. Oh…ma
perché feci tutto quello? Perché nessuno mi fermò? Cominciai
ad avanzare verso Chekaril, invece, fino ad arrivargli vicinissimo. Ero letteralmente
zuppa di sangue. Non dovevo offrire uno spettacolo superbo. Lui, infatti,
distolse lo sguardo. “dove sono finite tutte le tue promesse? Ora devi
morire, e lo sai. Ma…ti offro un’ultima possibilità di
riscatto”. Come no. Volevo solo giocare, e nient’altro. Sapevo che
lui non aveva più scampo, e lo sapeva lui. Ma doveva soffrire quanto
più era possibile. Con un gesto violento, afferrai il coltello, e lo
estrassi dalla ferita. Lui gemette, e si morse le labbra. Ci guardammo, per un
attimo, prima che riprendessi a parlare. Gli porsi il coltello, dalla parte del
manico, sporcandomi la mano di sangue, il suo sangue. Era un bel pensiero. “combatti,
e vinci contro di me. Ti risparmierò”. I suoi occhi di ametista di
spalancarono, e lui mi guardò con aria sbigottita. Sapeva quanto me che,
con la mano destra, non sarebbe riuscito a combinare nulla. La sua ora era
già scoccata. Lui, in un gesto avventato, fece per afferrare l’arma,
ma poi esitò. “combatti!”. Quasi gridai, guardandolo con
puro odio. Volevo ucciderlo, ucciderlo in quel momento, ma non potevo risparmiarmi
la dolce tortura di vederlo soffrire ancora un po’. Un coltello, contro
una spada. Un invalido contro una belva. Come poter fare un confronto? Sapevamo
entrambi che lo scontro si sarebbe risolto con una carneficina. E non sarei
stata io a morire. Lui, pensando probabilmente la stessa cosa. Regis? Benedetto
mille volte, per avergli inferto quella ferita! Chekaril sospirò, e si
morse le labbra. Finalmente, afferrò il coltello, e si mise in guardia. Mi
avventai contro di lui con rabbia. Cominciammo uno strano duello. Il mio
avversario contraccambiò un paio di colpi, ma non sembrava particolarmente
entusiasta. Era evidentemente rassegnato a morire, e guardava, di tanto in
tanto, il cadavere di Aevo, con aria molto addolorata. Voleva raggiungerla. E chi
ero io per negargli un simile desiderio? Fui, però, assalita da una
nuova rabbia. Lui non mi aveva mai amata così. “combatti!”. Urlai, finalmente, un urlo rabbioso,
terrificante, che lo fece sobbalzare. In un impeto di nuovo orgoglio, mi
guardò con rabbia, e dilatò le narici. La sua fine era vicina,
davvero vicina. E l’energia che mi aveva supportata fino a quel momento
stava scemando. Ci fermammo, per un attimo. Perché non mi lasciai morire
allora? Perché non permisi a Lainay di avere quello che voleva? Invece no:
con un urlo, ci slanciammo entrambi contro l’altro, brandendo le nostre
armi. Riprendemmo a combattere, con furia raddoppiata, in giro per la stanza. All’improvviso,
inciampai inavvertitamente in una sedia,feci un paio di passi all’indietro per bilanciarmi nuovamente. Chekaril
vide in quel movimento il momento adatto per colpire. Ed io mi vedevo
già spacciata, illuminata solo da una rabbia accecante, quando successe
il miracolo, che mi permise di metter la parola fine a quell’odiosa
pantomima. Alzò il coltello, pronto a colpire. Forse, lui alzò
troppo il braccio, non so. Fatto sta che, poco prima di vibrare il colpo, lui
gemette, mordendosi a sangue le labbra, e lasciando cadere la sua arma con un
tintinnio. Il braccio non aveva retto. Ed io approfittai di quel momento
perfetto, e colpii. Incisi un terribile taglio sull’addome di Chekaril,
un taglio che prese a sanguinare copiosamente. Tutto parve rallentare. Ci fermammo
entrambi. Lui mi guardò, per un attimo, poi si guardò la ferita,
stupito. E poi crollò in ginocchio. Sorrisi. “così, siamo
alla fine”. Dissi, tranquillamente, brandendo la spada per un nuovo,
mortale colpo. Lui mi guardò, fattosi improvvisamente malinconico. Fece uno
strano sorriso, un sorriso dolorante e stentato. “lo sapevo…che
prima o poi sarebbe successo”. Mormorò, tenendosi la ferita,
guardandomi, vinto. Che gioia, vederlo così prostrato. “lui…lui
me l’aveva detto. Me l’avrebbe fatta pagare se ti avessi fatto del
male”. Lui chi? Regis? Quasi non potevo pensare lui fosse stato
così gentile, nei miei confronti, era quello, il vero affetto? Lui mi
considerava un’amica? Basta. Non potevo più stare ad ascoltare
oltre Chekaril. avevo un’inspiegabile fretta di finire tutto. “io…dovevo
immaginarlo…”. Lo interruppi, con un sorriso crudele. “oh, si”.
Dissi, ghignando follemente. “dovevi proprio immaginarlo!”. Fu un
attimo. Mi preparai ad un colpo rapido. Ed affondai la mia spada, un regalo che
tanto mi era servito, nel collo morbido ed affusolato del mio unico amore. Un colpo
mortale. Non ci fu nessun suono. Ancora lo sogno. Ancora sogno lo schizzo di
sangue che m’investì il viso, caldo e vischioso. Ancora sogno il
tonfo che fece il suo corpo, cadendo. Avevo ucciso il mio unico amore. Ero stata
vendicata. Ma a che prezzo?
Il cerchio
si era concluso. Io, Lsyn Amarto, Allieva di Amarto Sindjisk, prima Ombra, poi
Mostro, avevo vendicato tutti i tortiche erano stati commessi nei miei
confronti. Il mio più grande errore. Rimasi qualche attimo immobile, il
respiro affannoso, la spada ancora a mezz’aria, nel punto in cui avevo affondato il terribile colpo mortale, senza poterci
credere. Non riuscivo a ragionare bene. I margini del mio campo visivo erano
appannati. Passai un momento di assurdo delirio, che ricordo
con impressionante lucidità. Ero ancora mente? Ero ancora corpo? O forse
non ero? Cos’ero? Vivevo in un mondo di colori accesi, in cui il sangue,
di cui era zuppa la cucina, aveva il colore di un esotico fiore. Esotico,
allettante fiore ma era un mondo vero? Esisteva davvero un mondo in cui io
avevo ucciso Chekaril? Chekaril era morto? Tutto mi sembrava irreale, staccato
da me, appartenente ad un altro mondo. Rimasi per un bel po’ lì,
in piedi nella cucina, la spada ancora alzata, ai miei piedi il cadavere
dell’elfo da me un tempo amato. Il fuoco scoppiettava allegramente,
ignaro ed impassibile davanti a quell’atroce tragedia che avevo commesso.
Lui non poteva sapere di quello che avevo fatto! Perché, si, l’avevo fatto. L’avevo fatto. Dei.
L’avevo fatto. Chekaril era morto. Freddo, immobile, giaceva ai miei
piedi. Inerte, inerme. Il braccio non gli sarebbe mai più servito. Non
avrebbe mai più parlato. Non avrebbe più abbracciato i suoi
piccoli. Non mi avrebbe più ingannata! Aevo era morta, sofferente,
inchiodata ad una parete, con il pensiero di non essere riuscita a salvare il
suo amore. Era morta, agonizzando dolorosamente, come una bestia al macello, e
non poteva più ostacolarmi. I bambini erano vivi, ed ancora non sapevano
della terribile verità, del fatto che erano rimasti orfani, e che, di
lì a poco li avrebbe aspettati un viaggio. Ma io? Io chi ero? Chi aveva
ammazzato due creature a sangue freddo? E, soprattutto: chi aveva ammazzato il
proprio amore, dopo averlo ingannato, dopo avergli dato una falsa sicurezza?
Cos’ero io? Uccidere a sangue freddo uno sconosciuto è facile;
un’altra cosa è quando la vittima
è un essere che si è conosciuto, toccato, amato, con la quale
parlavo. Io amavo Chekaril! Ma… perchè non ero contenta?
Perchè non saltavo di gioia al pensiero di aver attuato la mia tremenda
vendetta, di aver vendicato tutti gli inganni, i soprusi, l
violenze della quale ero stata vittima incosciente? Perché non ero
soddisfatta, nel vedere quei due viscidi bastardi vinti, sconfitti, uccisi, per
permettere all’utopia elfica di realizzarsi, finalmente? No: io non stavo
gioendo. Non era gioia, quel senso d’irrealtà crescente. Non era
mio l’orrore che provavo, mentre spiavo interdetta l’abisso nella
quale ero allegramente precipitata, ricca d’avventatezza. Io dovevo
gioire per quell’omicidio: non poteva essere. O forse si? La scarsa
prudenza mi aveva fatta sragionare. No: non avrei dovuto ucciderlo. Era stata
una pessima idea: avrei dovuto portarlo dritto da Lainay, mentendole
spudoratamente, o avrei dovuto lasciarlo stare. Ma non quello. Tutto, ma non
quello. Mi sarei dovuta forse uccidere, pur di non combinare quello scempio.
Chekaril era stato un bastardo, un maledetto bastardo, e mi aveva tradita in un
modo inconcepibile, con una crudeltà che io avevo sempre pensato non gli
appartenesse; mi aveva trattata come un giocattolo, come una perla, un
gioiello, un cavallo, un’arma. Ero stata trattata come un oggetto. Non
era giusto, però, averlo trattato in quel modo barbaro, ingannando,
tradendo. Non sentivo come mio quel modo d’agire. Eppure avevo agito
così per così lungo tempo! Ero cambiata, si, e molto. Perché
io non ero una Spia, non ero un’eroina. Non ero più Ombra, ma
nemmeno Luce. Ero solo una povera derelitta sperduta, immersa ed ottenebrata da
un tramonto perenne, che credeva di poter partecipare a giochi più
grandi di lei, una mendicante che si credeva una regina. Ma perchè
l’avevo ucciso? I saggi non si pongono mai a livello degli inferiori, a
livello di tali, meschini individui. Io avevo fatto qualcosa di peggiore,
spinta dal mio istinto focoso. Avevo ucciso colui che amavo, con tutta me
stessa, più di tutta me stessa. Ed ora ne cominciavo a patirne le prime
conseguenze. Qualcosa, in quella cucina insanguinata, scese, per opprimermi
l’anima: una coltre invisibile, che quasi potevo sentire
quando mi muovevo, che quasi mi curvava come una vecchia mortale. Mi
soffocava, sempre presente e minacciosa, pesante come un macigno. Era senso di
colpa? Forse. Non chiedetemi quale fu il pensiero che mi portò ad
affondare, ad affondare sempre di più in un terribile baratro di colpe,
quale fu il fantasma che ancora mi perseguita. Non ho la minima idea di cosa
fu, a ridurmi così, in una cucina deserta, a parte me, insieme a due
larve che avevo provveduto ad eliminare con una crudeltà quasi disumana.
Il silenzio ed il buio opprimevano tutto. Sentivo solo un leggero gocciolio,
gocce di qualcosa che cadevano in terra.E nient’altro. Mi guardai intorno, con i movimenti torpidi che appartengono ai sogni. Il tavolo era intatto, nulla sembrava
turbare la quiete di un pranzo appena interrotto: piatti,
cibo, ed i fiaschi d’acqua e vino rosso, erano ancora al loro
posto, come se nulla li avesse toccati,come in attesa di una festa, che non sarebbe arrivata mai. C’era
solo una piccola macchia di sangue, al posto di Chekaril, ed una scanalatura
nel legno massiccio, lì dove il coltello aveva colpito. Chekaril.
Chekaril, Chekaril. Non volevo guardarlo. Non volevo guardare i suoi occhi
aperti, vuoti, il viso dall’espressione ancora sorpresa e dolorante, che
mai si sarebbe trasformata in un sorriso. Lui non mi avrebbe più
sorriso, con quel fantastico ghigno ammiccante che faceva cadere ai suoi piedi
interi stuoli di elfe, ed umane. Quel sorriso che mi aveva piegata al suo
volere più di una volta. Il sorriso che amavo. I suoi occhi non
avrebbero più scintillato, quegli occhi d’ametista lavorata,
così pieni di malizia e serietà. Non volevo vedere le terribili
ferite che gli avevo inferto, non volevo vedere lo squarcio che gli avevo
aperto in gola, così vivido, così largo, che ancora sanguinava.
Non volevo vedere il coltello insanguinato, con il quale gli avevo compromesso
ogni speranza di vita, con quella ferita sulla sua mano sinistra, che quasi non
si vedeva, leggermente discosto da lui. Non volevo vedere Aevo, contorta
dall’agonia, accasciata orrendamente vicino alla porta, in un lago del
suo stesso sangue, che rigava la porta. Rimasi così ad osservare
l’allegro fuocherello scoppiettante, con sopra, il bricco del tè
che fumava. Come in un sogno, il fischio del tè che usciva mi
strappò dalle mie considerazioni, un fischio acuto, penetrante, che
fendette il silenzio, ferendomi le orecchie. Un fischio che a me, completamente
stravolta dalla colpa, parve d’accusa. Non riuscivo a sopportarlo. “smettila!”.
Urlai, rivolta a quella teiera diabolica. Ero arrivata al limite estremo della
sopportazione. Quel maledetto fischio! Perché nonla smetteva di ripetere le mie
colpe, snocciolandole una ad una come una cantilena malvagia? O forse ero io
che immaginavo tutto? Il suono della mia stessa voce mi fece sobbalzare. Era
secco, arido, doloroso come una frustata. Rammentava al popolo intero la mia
colpa. La teiera continuò a fumare e sibilare, beffarda, una voce di
denuncia. Si: mi pareva che stesse parlando, stesse sussurrando a tutti,
malevolmente, la mia colpa. Lsyn, Lsyn,
pazza Lsyn! Canticchiò allegramente, scoppiettando. Lsyn è impazzita! Si, guardate
l’Ombra, che ha ucciso Chekaril, che ha fatto tanto per lei! Lui
l’ha protetta, lei l’ha sgozzato. Lei ha rifiutato la sua unica
speranza di redenzione. Sei perduta. Sei spergiura. Io so. Io ho visto tutto.
Sono la tua coscienza, Lsyn Amarto. E ti accuso. Mostro! Il tè
cominciò a fuoriuscire, bollendo, dal suo recipiente. Il fuoco
avvampò, sfrigolando, a contatto con il liquido che fuoriusciva dalla
graziosa teiera. Dei, penso di essere completamente
impazzita, in quel momento. sentii degli strani
rumori, come di gente che parlava in lontananza. La figura di Kyrre comparve
alla mia coscienza, alta, autorevole ed alata. Lo ricordavo benissimo, quando
mi aveva dato la spada con la quale avevo ucciso degli
innocenti, quella spada così ben pulita. Quella spada era
destinata all’onta. Quando ne lavava una, ne commetteva un’altra,
ben peggiore. Quella spada era zuppa di sangue innocente. “Tieni fede a questa nuova dignità,
Lsyn…”. Mi aveva detto Kyrre, solenne, in un angolo nascosto
del villaggio, per impedire che la Matriarca ci vedesse, e soffrisse. Una
girandola di volti, colori e voci, prese ad affastellarmi la mente, a
riempirla, con le loro parole atroci, di terribile accusa, con il loro convulso
e confuso turbinio. Quel ricordo ne diede vita a molti altri. E rivissi un
bacio di Chekaril. Rividi Tijorn, che mi supplicava di rimanere. E mio fratello
si trasformò in Isnark, che mi supplicava di lasciarlo stare. Lainay mi
guardò, con l’accusa in viso, pallida, e tese un braccio verso di
me, l’indice puntato contro il mio petto, in un gesto astioso. Roxen mi
aprì una porta, sorridendo. Le voci, quelle voci totalmente immaginarie,
misoverchiarono,
ed io mi sentii girare la testa. Fui sul punto di cadere, di svenire,di urlare dalla
disperazione, ed indietreggiai di un paio di passi. Mi misi le mani sulle
orecchie, e premetti forte, scuotendo intanto il capo, come un cane bagnato. Le
voci diminuirono. Cominciai, gradualmente, a sentirmi meglio. Chiusi ed aprii
gli occhi, in successione, un paio di volte. Dei, forse
stavo davvero impazzendo, non so. Forse ero già pazza, o forse fu
soltanto lo shock, a rendermi così sensibile, a farmi avere quelle
strane allucinazioni, che non vivevano, se non nella mia testa. Fatto sta che
furono poste le basi, tragiche, per quello che fu, in seguito, il mio terribile
tentativo di mettere tutto a posto, cercando di riparare, in modo distorto ed
insano, il torto che avevo commesso. E forse fu proprio in quel momento che
capii appieno cosa avevo fatto. Non c’era modo di riparare alla morte.
Non era più possibile tornare indietro: Chekaril ed Aevo non si sarebbero
più rialzati, non avrebbero sentito le mie scuse, non mi avrebbero
perdonata. I piccoli erano, ora, solo e totalmente nelle mie mani. Era mio,
ora, il compito di prenderli, e portarli alla loro zia. Alla loro zia bastarda,
alla Regina maledetta, colpevole anche lei di quell’omicidio, dalle mani
sporche di sangue innocente come e più delle mie. Ed io ero zuppa di
quel sangue, immersa in quell’omicidio brutale. Ma… un momento. Ero
stata io ad ordinarmi di agire! Io avevo agito, avevo fatto tutto da sola!
Lainay era solo un pretesto: chi aveva confessato alla Regina un falso
tradimento? Io. E chi aveva chiesto cosa fare con Chekaril? io. Chi non aveva obiettato quando la Regina mi aveva dato il permesso di
farlo fuori? Io. Io, io, sempre e solo io! La colpa era solo mia, e di nessun
altro! La spada di Eiron mi cadde dalle mani, con un clangore sonoro. Il pianto
cresceva, lo sentivo formarsi in gola, lottare per salire a galla, e per
offuscarmi la ragione. Ero pietrificata letteralmente dall’orrore del
gesto commesso. Avevo pensato di star agendo nel giusto, di star facendo la
cosa giusta. Mai considerazione fu più sbagliata della mia. Le lacrime
mi offuscarono gli occhi. Terrificata, prossima a scoppiare in un pianto
dirotto, mi portai una mano alla bocca, forse per non gridare. La mia mano era
viscida di sangue, e sapeva di ruggine e sale. Sangue contro sangue: il mio
viso sporco di sangue, le mie mani zuppe di sangue. Cedetti, definitivamente. Quasi
non mi accorsi di essere caduta in ginocchio, accanto al cadavere del mio amato
elfo. Lacrime copiose presero a scendermi sulle guance luride. Mi resi conto di
tremare come una folle. E forse folle ero. Finalmente, chinai il viso,
costringendomi a guardare il volto sconvolto del dolce elfo traditore, che
tanto avevo amato. Lui, vittima come tutti gli altri. Lui, vittima più
di tutti. Una lacrima cadde sul suo
viso incredulo ed immobile. Poi un’altra. Entrambe scesero sulle guance
dell’elfo come fossero state le proprie. Chekaril
sembrava piangere. Ma stavo piangendo io. Un singhiozzo mi ferì la gola.
Poi un altro. “Chekaril…”. sussurrai,
piegandomi sul suo corpo disfatto. Dei…com’era freddo. Mi odiai,
tanto, per questo. Ero stata stupida, avventata, un mostro, una bestia. E lui
non mi avrebbe mai più sentita, non mi avrebbe mai più
rassicurata. Quasi avevo dimenticato quanto mi avesse ferito, confessandomi di
non avermi mai amata. Ma io l’amavo follemente. E l’avevo amato. C’era
qualche differenza? Per qualcuno potrebbe non sembrare importante: per me si. Mi
ero resa sua eguale, con quell’omicidio sconsiderato. “Chekaril…ti
prego…”. Come no. E lui poteva ascoltarmi. Lui, quel guscio vuoto
di cui ero stata colpevole. Cominciai a singhiozzare più forte, sempre
più forte. Avrei voluto parlargli, confessargli di aver sbagliato,
volergli chiedere scusa. Ma a che pro? Lui non mi avrebbe sentita. Lui era una
larva, un corpo freddo e rigido come marmo. L’avevo perso per sempre. E non
c’era più speranza di ritrovarlo. Come avrei voluto che lui mi
rispondesse, mi rassicurasse, mi dicesse che era tutto era a posto, e che,
anche se non mi aveva mai amata, mi avrebbe sostenuta ed incoraggiata, e tenuto
la mano. Io avevo voluto solo questo! Io volevo solo essere amata! Ed ora,
invece, mi ritrovavo sola al mondo. Perché io, ora, ero davvero sola. Non
avrei mai più avuto il coraggio di presentarmi da qualcuno dei miei
amici, o conoscenti. Ancora piangendo, mi sfiorai le piume di Tengu, che ancora
erano al collo, impossibili da togliere. Cosa avrebbero pensato, i miei amici
alati, nel vedermi conciata così, nel sapermi così crudele? La Matriarca,
la dolcissima Gwen, si sarebbe più fidata di me come una volta? Tijorn avrebbe
più avuto il coraggio di abbracciarmi, nel sapermi zuppa di sangue
innocente? Junielle mi avrebbe ancora sgridata, avrebbe ancora lottato con e
per me, dopo che fosse venuta a conoscenza della mia terribile colpa? Gli infanti
si sarebbero mai fidati di me? Quel pensiero me ne fece venire un altro in
mente. Avevo ancora una missione da svolgere. L’ultima missione prima di
cadere nell’oblio, prima di ritirarmi definitivamente,
e di isolarmi da tutti. La colpa bruciava, troppo vivida, nella mia mente. Meditare,
solo, sarebbe stato troppo poco. Ma avrei capito cosa fare, a tempo debito. E l’avrei
fatto. In un caso o nell’altro, nessuno della mia famiglia avrebbe
più sentito parlare di me. Non li avrei contaminati con la mia
bestialitàcrudele. Loro erano troppo buoni, e puri. Dopo il mio ultimo
dovere, sarei scomparsa, e nessuno avrebbe più sentito parlare di me. Ma ora dovevoprepararmi: il piccolo Chekaril e Roxen mi attendevano, ancora ignari
della loro sorte, ancora ignari di essere orfani. Con chissà quale aiuto
di chissà quale dio, riuscii ad alzarmi faticosamente, ed ad evitare di
guardare di nuovo Chekaril, e di piangere ancora. Tirai su con il naso. La colpa
bruciava in me, terribile, divorando la mia anima, come aveva fatto il fuoco
della vendetta. Ma era rimorso, quel rimorso che ancora non mi ha abbandonata,
quel rimorso che ancora mi infesta i miei sogni, con
il volto esangue di Chekaril, abbandonato, così, a terra, senza
sepoltura alcuna, quel rimorso che ancora mi fa svegliare, ansimante ed in
lacrime, quel rimorso che mi fa tenere, di notte, tutte le lampade accese. Forse
ho fatto bene ad ucciderlo, forse no. Forse dovevo lasciarlo stare. O forse non
c’è giusto, non c’è sbagliato. Forse lo dovevo fare. Forse
il destino aveva deciso così. O forse ero stata io, con la mia
avventatezza, a scegliere quella strada. Devo dire che, in quel momento, mentre
mi avviavo, strascicando i piedi, verso la camera che era stata mia, per
recuperare il mantello, non pensai affatto a quelle cose. Ero ancora troppo
stordita dal pianto, troppo oppressa dal senso di colpa, troppo pensierosa. Ora,
sapevo cosa dovevo fare. Nascondere i corpi, celare le prove fisiche del
misfatto, che sarebbero rimaste sempre impresse nel mio spirito. La mia
vendetta era compiuta. E solo gli dei sapevano quanto
dolore mi desse quel pensiero!
Ero tornata in cucina, lottando strenuamente contro il pianto, avvolta
strettamente nel mio nero mantello, nascondendo, a nessuno se non soltanto a me
stessa, le prove del misfatto: quegli abiti, una volta grigi, ora rossi
Ero
tornata in cucina, lottando strenuamente contro il pianto, avvolta strettamente
nel mio nero mantello, nascondendo, a nessuno se non soltanto a me stessa, le
prove del misfatto: quegli abiti, una volta grigi, ora rossi.
Rossi di sangue, tintura malefica. Era una sensazione sgradevole, molto
sgradevole, averli addosso. Nei punti meno colpiti, il sangue si era seccato, e
crepitava lugubremente, o almeno così mi parve, intralciando ogni
movimento, con una sensazione sgradevole. Non più piacevoli erano
certamente le zone ancora zuppe, ormai fredde e viscide. Odiavo quel contatto
repellente. Tuttavia, non mi ribellai. Avevo ben altri pensieri per la testa.
Mi muovevo come una sonnambula, in uno stato che a malapena oserei
definire sconvolto. Ero intorpidita, ed avevo un freddo tremendo. Ma non si
trattava di una sensazione fisica. La mia anima pareva essersi congelata,
frantumata in mille schegge di ghiaccio affilato, che mi tormentavano il cuore.
La colpa affondava i suoi artigli crudeli nel mio collo, mozzandomi il respiro,
rendendolo breve ed affannoso come l’ansimare di un cane accaldato.
Passato il momento d’incredulità e di orrore, non mi rimaneva
altro che un senso di stolida accettazione,un gesto
quasi di sottomissione verso la bestia che sonnecchiava in me, con un occhio
aperto, ed un disperato desiderio di nascondere le prove del delitto,
annientarle, eliminarle. Quello era il sentimento che predominava in me,
assoluto ed impellente. Avevo un bisogno disperato, animalesco, di fuggire da
quelle cose orrende che avevo creato io stessa, quei cadaveri
muti ed inetti. Forse, così, avrei potuto dimenticare, e forse,
togliendo le prove fisiche di quello che era successo, tutto sarebbe tornato
indietro. Si: la polvere non aveva un viso. Un frammento non era un occhio.
Meno si vedeva, meglio era per me. Non esistevano prove, non esisteva la colpa,
non esisteva il delitto. Logica semplicissima ed efficace. Nessuno poteva dire
di essere stato testimone dell’omicidio di Chekaril ed Aevo, nessuno
poteva dire che erano stati uccisi, perché io avrei impedito che
succedesse. Doveva tutto sembrare un incidente. Io non ero mai entrata. Non ero
mai esistita. A Gerinti non era arrivata alcuna Lsyn, alcuna vecchia matta.
Dimenticate tutto, dimenticate gli ultimi giorni. Era solo cenere. O meglio, lo
sarebbe ben presto diventata. Dovevo distruggere, distruggere, distruggere.
Distruggere, distruggere, distruggere. Distruggere: quello era
l’imperativo che ripetevo senza sosta nella mia mente, una cantilena che
prese a non avere più senso, ad essere solo un insieme casuale di
lettere, di suoni. Non so: forse sussurravo quella stessa parola ad alta voce,
un fruscio che mi teneva compagnia, un rumore che mi aiutava a non perdere del
tutto il contatto con la realtà. Pazza, sciocca, resa cieca, sorda e
muta dal dolore. Non si può dimenticare, ed i miei non furono che gesti
folli. Non mi rendevo ancora conto che è impossibile
cancellare i ricordi, che è impossibile impedire che, di tanto in tanto,
il viso pallido di Chekaril ricompaia nella mia memoria, monito perenne alla
mia avventatezza, facendomi tremare dal terrore. E, nemmeno, posso impedirmi,
nei sogni, di rivisitare le scene più atroci della mia vita, di rivivere
il momento in cuila mia spada affondava nel collo morbido del mio amore, con un
tonfo sordo, ed uno schizzo di sangue scarlatto, che mi aveva inondato il viso.
Ricordi che mi fanno svegliare di scatto, con il cuore che batte
all’impazzata, e gli occhi sbarrati dal panico. Ricordi che mi fanno
fissare il buio, ansiosa, che mi fanno temere che, da un momento
all’altro, dalla quiete notturna compaiano i fantasmi evanescenti di
coloro che ho ucciso, pronti a tendere le loro adunche mani accusatrici verso
di me, per prendermi, e portarmi nel nulla, assieme a loro. Ed allora mi
rannicchio, mi nascondo sotto le coperte, come un’infante che ha paura
dei mostri che abitano la sua immaginazione, e serro gli occhi, cercando di non
vedere, d’ignorare, di dimenticare. Ma, e questo ora mi è ben
chiaro, è impossibile dimenticare. Impossibile. Potevo essere più
sciocca, nel precipitarmi in quella cucina, in pieno giorno, e fare quello che
ho fatto? Può darsi di si, può darsi di
no. Non voglio saperlo, né voglio soffermarmi più di tanto su
considerazioni oziose che distruggono il mio cuore già abbastanza
lacerato. E fu così, che, in uno stato a metà tra il sonno e la
veglia, tra il sogno e la realtà, mi avvicinai al tavolo, incespicando
goffamente nelle mie stesse gambe, le mani leggermente avanti. In quei momenti,
il mondo si fa completamente offuscato, e, davvero, non riesco a ricordare come
ritrovai la mia spada di nuovo in mano. Dovevo essermi chinata vicino a Chekaril, ed aver avuto il coraggio di avvicinarmi
al suo cadavere freddo e bianco. Lo ritenni quasi impossibile. Avevo compiuto
un gesto del genere? E perché, poi? A cosa mi serviva quella spada
sporca di sangue innocente, che mai si sarebbe lavato, quell’arma di
sangue brunito? Stupita, guardai l’arma. La lama, seppure arrossata dal
sangue che aveva assaggiato, era ancora splendente, e
l’elsa d’argento filigranato risplendeva come fuoco freddo. Fuoco
freddo. Le parole mi suggerirono un’idea, e continuai a ripetermi quella
parola in mente, come per cercare un senso intrinseco, che non aveva. Fuoco,
fuoco… Fuoco? La casa era fatta quasi interamente di legno. Il tavolo
aveva un’aria impenetrabile, ma le sedie ed i muri non sembravano, poi,
così resistenti. Specie le ultime, malandate e consunte. Facili da
rompere, con una spada. Dovevano pur avere delle torce per la notte: erano
abbastanza ricchi da permettersele. E quella era la stanza adatta per
conservarle. In quei momenti, ebbi davvero la furbizia di una volpe, davvero. Nono
ho mai capito perché sia stata così stupida. Forse fu il trauma,
forse è qualcosa in me che non va. Vedevo addirittura i sostegni. Nel
camino scoppiettava, allegro, il fuoco. Ed il legno brucia con il fuoco. Ovvio.
Non è difficile che, una scintilla casuale sui muri, sia il preludio per
una tragedia, in una casetta di contadini. La casa era grande, ma non troppo.
Un solo piano. Il tetto, con tutta la ricchezza possibile, era sempre di
paglia, e non pioveva da giorni. Dovevo solo essere lesta a fuggire, tutto qui.
Il resto, poi, sarebbe stato facile, molto, molto facile. Non dovevo far altro
che fingere, tutto qui. E non farmi notare da nessuno. Come un automa, una
bambola meccanica, mi sporsi sul tavolo, ed afferrai i due fiaschi pieni.
Davano una sensazione così…strana, polverosa, come un qualcosa di
falso, di vuoto. Feci un passo all’indietro, portandomi di lato al
tavolo, più vicina ad Aevo. E lasciai andare i due contenitori,
veementemente, come se qualcuno li avesse lanciati. Con un ampio gesto, poi,
percorrendo il tavolo, feci cadere tutto, mettendo in disordine, come se vi
fosse stata, in quella camera, una colluttazione atroce. Non potevo contare
solo sull’incendio. Certo, non ero stupida. Solo stordita. E dovevo
incolpare qualcuno di un duplice omicidio, no? Vincendo così il mio
terribile disgusto, presi il coltello insanguinato che avevo usato per
trafiggere la mano di Chekaril, e nascosi così la ferita con esso, cercando di dare l’impressione che lui avesse
prima ucciso Aevo, e poi si fosse suicidato. Un piano che faceva acqua da tutte
le parti, lo ammetto. Erano, si, contadini, ma anche un idiota saprebbe
distinguere un colpo di spada da uno di coltello, anche solo dalla dimensione.
Il colpo al collo, nel punto d’incontro tra quest’ultimo e la
clavicola, in direzione del cuore, era ben difficile da autoinfliggersi, per
non parlare poi di quello sull’addome, che avrebbe dovuto implicare una
posizione del polso tale da annullare la forza della spinta. Perché, poi
colpire l’addome ed il collo? E, poi, che fine aveva fatto la vecchia
matta che i due elfi avevano raccolto così pietosamente? Si era
volatilizzata? Perché tutte quelle orme insanguinate? Non
corrispondevano a Chekaril. Più ci penso, più quel piano mi pare
assurdo. Ma, spaventata e tremante com’ero, non ero in grado di pensare a
qualcosa di meglio. La mia ragionevolezza era completamente assente, rintanata
in un cantuccio caldo della mia mente, senza la minima intenzione di uscirvi,
peraltro. C’era solo da sperare che il fuoco attecchisse. Potevo sperare
solo in quello. Sperai ardentemente nei pannelli che, seppur di legno grezzo,
erano molto, molto sottili, non difficili da bruciare. Forse, a quello
servivano, durante la penuria di legna, non so. Così, dopo aver
imbastito la mia pietosa sceneggiata, mi diressi, barcollante, verso la sedia
più malconcia, quella di Chekaril, ed alzai la spada. Fu più
difficile del previsto, ma, alla fine, riuscii a staccare il legno nelle sue
parti fondamentali. Per poco non scheggiai la mia spada, la mia meravigliosa
spada, ma, alla fine, stanca morta, ce la feci. Passai così alle altre
sedie. La prima, la mia, fece la stessa fine di quella di Chekaril; ma quella
di Aevo, ed un’altra, forse quella di un piccolo, dall’aria
più solida e nuova, fu complicata da rompere, e ci riuscii solo per
metà. Portando via pezzo per pezzo, ed imprecando quando una scheggia
s’infilò in un dito, riuscii a creare un piccolo mucchio di legno,
vicino al camino, a fare un cerchio attorno ad una finestra. Dovevo solo
sperare nella mia buona stella, ora: quella buona stella che mi aveva tradita
più di una volta. Presa da una frenesia quasi incontrollabile,
ripetendomi in continuazione ilpiano nella mia mente, cominciai
a frugare la stanza, mettendola sottosopra, in cerca di olio, torce, o qualcosa
del genere. Niente. Cominciai a disperare: credevo i due così stupidi da
mettere un qualcosa di potenzialmente infiammabile in una stanza dove si
cucinava? Era così evidente la mia estrazione nobile? Cosa fare? Ero ad
un punto morto: il mio lavoro affannoso mi aveva portato al nulla. Sbuffai: era
solo, quella, un’insulsa perdita di tempo. Sussurrando la mia solita
cantilena di distruzione, ormai completamente impazzita, uscii dalla stanza,
aprendo ogni porta, e frugando dappertutto. Dovevano nascondere l’olio. Ovvio.
Ovvio! Non poteva essere altrimenti! Cominciai ad esplorare. Era davvero una
bella casa: molto semplice, dai letti comodi, ma
rustici, e funzionale, tipica di un contadino abbastanza ricco. Entrai nella
camera dei bambini, piena di giocattoli di legno che m’intenerirono.
Erano oggetti di fattura evidentemente artigianale,elementare e molto maldestra,
niente a che vedere con i ninnoli delicati e colorati che avevo visto in mano a
Manolìa e Nysha, oggetti di ottima fattura elfica, principalmente un
regalo di Amarto, ma quasi mi commossero. Quei poveri piccoli, la mia povera
Roxen, erano ormai orfani, e non avrebbero mai saputo che non era stato un
incidente a portare via i loro amati genitori. Avevo visto, da quel piccolo
scambio di battute, l’amore che c’era stato tra mia figlia ed il
padre, e scommettevo fosse stato così anche per
il piccolo Chekaril, il suo fratellastro. Il Principe, a dispetto di tutte le
scuse che addiceva quando io gli parlavo di rivelare
l’esistenza della piccola, cosa peraltro inutile, se l’era cavata
davvero bene, e li aveva cresciuti a dovere. Quanto, quanto sarebbe cambiata la
loro vita, in così poco tempo? Quanto presto avrebbero dovuto
abbandonare l’infanzia, tutto per colpa mia? Quanto presto sarebbero
venuti a contatto con l’orrore del Regno, le sporche ambizioni di Lainay?
Quanto presto avrebbero dovuto subire le sue soffocanti attenzioni? Era colpa
mia, tutta colpa mia. Dovevo a quei poveri infanti almeno qualcosa. Non potevo
distruggere tutta la loro felicità. Con la stessa fretta che aveva
caratterizzato i precedenti istanti, cominciai a cercare tra i giocattoli. Sui
lettini, finalmente, vidi qualcosa che m’interessò: un cavallino dall’aria
vetusta, di velluto marrone scolorito, di chiara provenienza dei migliori
artigiani elfi di Galinne, a cui mancava un occhio di
vetro, ed un cane di stoffa grigia, imbottito con quelle che mi sembravano
piume, cucito alla meno peggio, con quelli che mi parevano bottoni come occhi.
Sembrava unpiccolo
cuscino con coda, zampe, orecchie e muso, ma aveva un’aria più
nuova. Aveva un’inquietante somiglianza con la bestia feroce che possedevano,
con quella specie di lupo lanoso, che mi aveva aggredita, e fatta scappare come
un’idiota. Scommettevo fosse stata una creazione
di Aevo. Quei due oggettini erano quelli dall’aria più vecchia, ed
usata. Forse i loro giocattoli preferiti. Sarebbero stati contenti, quando li
avrebbero rivisti. Avrebbero rammentato loro giorni belli e felici, nei periodi
di buio apprendistato che sarebbero venuti. Si sarebbero addormentati
sorridendo, pensando alla loro mamma ed al loro papà che li volevano,
tutto sommato, ancora bene. Mi faceva male, pensarlo. Era un dolore troppo,
troppo grande. Perché la madre di Roxen era un’altra. Ero io. E
non potevo dirlo, non potevo confessarlo a nessuno! Quei gingilli,
all’apparenza così sciocchi, era preziosi. Forse potevo farmeli
buoni, ed amici, con quel regalo inaspettato. Forse sarebbero riusciti a
volermi bene. Sarebbero stati le prime persone dopo lungo tempo a stimarmi in
qualche modo. Il pensiero non fece altro che deprimermi. Tirai su con il naso.
Sentivo un persistente groppo alla gola. Che avevo fatto? Cosa? Perché?
Perchè avevo rubato alla mia piccola Roxen la felicità? Rimasi a
guardare quella stanza semplice per un attimo soltanto, preda
di un dolore troppo profondo per essere descritto. Che dannata egoista che ero
stata! Dovevo, evitare, in ogni modo, di scoppiare in singhiozzi, nei
singhiozzi più atroci. Bastarda, vile assassina! Poi, come un lampo, mi
attraversò un pensiero. I piccoli non dovevano vedere quello scempio.
Xavier, prima o poi, li avrebbe accompagnati a casa. Io mi dovevo sbrigare,
prima che vedessero i loro genitori immersi nel sangue! Mi misi più
dritta, come attraversata da una scossa elettrica, ed intascai i due balocchi,
nella stessa, grande, tasca, dove avevo messo le due collane dei Celestiali che
avevo così brutalmente ucciso, e la collanina di Chekaril. poi, affannosamente, uscii, ed aprii la porta accanto.
Un’altra stanza da letto. Presumibilmente, quella di Chekaril ed Aevo,
una stanza con un semplice letto, uno sgabello ed un piccolo armadio, che io
spalancai, speranzosa. Nulla: con una certa delusione, notai che era pieno
soltanto di vestiti di varie taglie. Abiti semplici, da contadini. C’era
qualcosa anche per i bambini. Poteva servirmi qualcosa. Arraffai alcuni abiti
da infante, per i piccoli, ed un paio di tuniche di cotone, che sapevo utili
per altri scopi. Poi, sempre correndo come un’invasata, la mente ormai
occupata dal bisogno impellente di nascondere, di non far vedere ai piccoli,
ripresi la mia esplorazione. Stavo cominciando a disperare, disperare
amaramente, quando giunse l’illuminazione. L’illuminazione
sottoforma di piccola stanza buia. Era l’ultima del piccolo corridoio, e
chiusa a chiave. Ci volle tutta la mia forza per aprirla. Quasi mi lussai una
clavicola. La spalla faceva un male tremendo. Imprecai aspramente, arrabbiata. Sperai
che le mie speranze non venissero deluse. Finalmente,
riuscii a vedere cosa c’era dentro. E gioii: nella mia mente si
aprì qualcosa, come una finestra, ed essa s’illuminò a
festa. Quella stanzetta era un magazzino di generi di contrabbando. Cibo,
medicine, ed altri oggetti proibiti in tempo di carestia o guerra, erano
stipati in pile ordinate. Avevo dimenticato che Krish, per i paesani, era un
abile mercante, un abile ladro e contrabbandiere. E, soprattutto, che la sua
casa era un crocevia di ogni cosa, il mercato dell’impossibile. Krish,
l’elfo dei miracoli. Quasi risi, alla mia battuta estremamente stupida.
Ma ero davvero pazza, all’epoca, ero resa una belva dall’ansia di
dimenticare. Non agivo come un essere senziente, bensì come un animale,
come un infante vendicativo e distruttore. Rovistai un po’ nella bolgia
infernale. E trovai ciò che cercavo. Olio. Olio da lampade, per la
precisione, con ben dieci di esse accanto, pronte
all’uso. Lampade grezze, dallo stoppino di stracci, ma più che
ottime per ciò che dovevo fare. Ne afferrai solo una, ma
presi la tanica di quell’olio. Accidenti, com’era pesante! La
spalla del braccio con la quale trascinavo il grande
contenitore urlò, protestando per il lavoro atroce. Mi morsi le labbra
per non gemere. Ero presa da una frenesia incredibile, una gioia di
distruzione, e non potevo arrendermi ora. Avevo trovato il metodo per eliminare
tutte le prove. Sogghignai. Quale metodo migliore per alleggerire il barile, se
non svuotarlo un po’?
Era
fatta. Ero tornata, soddisfatta e ridacchiante, nella cucina, il contenitore
dell’olio che si faceva, via via che proseguivo per ogni stanza,
più leggero. Impregnai, con gioia perversa, i vestiti
nell’armadio, ed il letto dei due maledetti sposi. Bastardi. Lì
erano stati così felici. Lì Chekaril aveva avuto cos poco
rispetto di me, come tutte le altre volte! Risi, a lungo, con piacere. Li avevo
uccisi, ora! Con più rispetto, e quasi con dolore, procedetti nella
camera dei bambini, e nello sgabuzzino dove avevo trovato un tesoro. Ero
perfettamente conscia di stare per affamare molti contadini, e le loro
famiglie. Stavo per rendere alla miseria un intero villaggio. La cosa mi fece
quasi male, fino a quando non ricordai che, molto
probabilmente, quelle erano solo le scorte della settimana, o del mese. Ci sarebbe
stato qualcun altro a contrattare con i contrabbandieri, magari lo stesso
Xavier, che, pur nella sua ingenuità, mi sembrava l’elfo adatto
per svolgere il ruolo di diplomatico. E, forse, Chekaril aveva nascosto le
altre cose in qualche grotta. Era impossibile che fosse tutto in quella
stanzetta soffocante! E cosa m’importava, inoltre? Io, di cibo, ne avevo
in abbondanza! Mi scrollai nelle spalle, ripetendomi inoltre che non era affar
mio, e versai un po’ d’olio sulle cose, anche sulle pareti. Stavo creando
il preludio per un inferno. Ed io, stolidamente, ero nel bel mezzo. Non riesco
a ricordare se ci pensai, e quando. Forse il pensiero di rimanere imprigionata
lì, in un ammasso di fuoco, non mi sfiorò neppure. Ero davvero
sciocca. O forse troppo impazzita, troppo frettolosa, troppo impulsiva. Ridacchiando,
e versando qua e là l’olio, ero arrivata in cucina. Per prima
cosa, avevo rotto un vetro, quello di una delle finestre più discoste
dalla strada principale. Era un buco abbastanza grande,
minuta e piccina com’ero, per farmi passare, seppur facendomi
qualche taglio. Ero protetta dalle sedie, dall’ammasso di sedie che non
avevo oliato, rendendolo più lento, nella mia mente contorta, a bruciare.
Una soluzione stupida, molto stupida. Ma non avevo paura delle cicatrici. Non quando
metà del mio corpo era un solo ammasso informe. Non quando le spalle
erano segnate da lunghe linee doppie e curve, le ciocche dei miei capelli che
si erano bruciate, e che mi avevano segnata, come frustate, in modo indelebile.
Ancora presa da un’assurda fretta, senza alcun pensiero in mente, sparsi
un po’ dappertutto l’olio, anche sui cadaveri, finendolo quasi. Con
i rimasugli, impregnai le tuniche che avevo rubato dall’armadio dell’olio
rimasto, e alacremente, le avvolsi attorno ad un pezzo lungo e secco di legno,
abbastanza lungo e abbastanza resistente da permettermi di raggiungere il
soffitto. Avevo intenzione di bruciare prima la paglia, e poi di versare la
lampada, accesa, a terra, creando una sorta di reazione a catena. Avevo, nei
miei piani, tutto il tempo di fuggire. Non avevo contato la velocità del
fuoco, che divora tutto, insistentemente. E non previdi quello che, di
lì a poco, mi parve ovvio. Immersi così, allegramente inconscia
di stare finendo in una trappola da me stessa astutamente preparata, il panno
nel fuoco del camino. Subito, il tessuto impregnato con l’olio, s’infiammò,
una fiamma viva e potente. Ed io, ridacchiando come una matta, saltai su una
sedia spaccata a metà, alzando il mio palo improvvisato, e conficcandolo
nella paglia secca. Aspettai. Vidi,
dopo poco, alzarsi la prima lingua di fuoco. Aveva attecchito. Soffocai un urlo
di gioia. Il mio piano aveva funzionato! Ridacchiai, estremamente felice,
ancora di più, gioendo pazzamente. Si! Si! Tutto distrutto, tutto! Tutto
sarebbe morto, non esistito, nullo! Ed io avrei, forse, dimenticato quello che
non esisteva. Sciocca. Sciocca! Rimasi ancora un po’
ad osservare il mio trionfo, che sottoforma di fiammelle, si propagava
velocemente sulla paglia. Un attimo solo, si. Mi piaceva così tanto
vedere un mio piano finalmente andato in porto! Avrei voluto, così
tanto, ridere! Rimasi in uno stato simile all’ipnosi per un bel po’.
Uno scricchiolio strano mi riportò, finalmente, alla realtà. Sentii
mancare un battito. Cosa stava succedendo? Cos’era quel rumore strano? La
sedia stava…cedendo? Ero salita?... Non ebbi il
tempo di pensarci. Fu troppo tardi il mio penoso tentativo di saltar via. Perché
la sedia, della quale mi ero così stupidamente fidata, si ruppe sotto i
miei piedi. Caddi, palo e panno infiammato, a terra. Non sarebbe stata un’altezza
eccessiva, se non avessi incontrato qualcosa nella mia caduta. La mia testa
urtò contro un oggetto spigoloso, e duro. Dolore immediato. Seguirono attimi
di buio più assoluto. E non mi resi conto di aver lasciato andare una
miccia nell’olio!
Dannazione:
fui davvero, davvero, stupida. Ero stata presa follemente dal mio arcano
desiderio di distruzione, un impeto quasi bestiale di rivalsa, e non avevo
pensato alle conseguenze. Un gesto incauto che quasi mi costò la pelle.
Le mie solite manie di protagonismo. Cosa avevo voluto dimostrare, spargendo
olio dappertutto, mettendo a rischio la mia stessa vita inutile? Perché
mi ero appollaiata su quella sedia mezza rotta, stupida e soddisfatta come una
gallina sul trespolo, che chioccia contro l’intruso nel suo pollaio? A
cosa mi era servita quella maledettissima messinscena? A procurarmi solo altro
dolore, ecco tutto. Chi mi avrebbe notata, in fondo? Quale assurda pazzia mi
aveva afferrata, così subdolamente? Mi stavo torturando, stavo andando
allegramente al macello, fischiettando. L’unica cosa buona che avevo
fatto, era stata quella di prendere due giocattoli per i piccoli. E la
prospettiva di rallegrarmi nel fare visita a due sperduti orfanelli, portando
loro vestigia di tempi felici, non era così allettante. Ero odiosa: la
solita Lsyn, sciocca ed incauta, che prima commetteva un errore, poi ci
piangeva su. E non sono cambiata, oh, anzi. Il dolore mi rese, mi ha reso e mi
rende, pazza. Conosco l’inutilità di lamentarsi, rimproverandosi e
tormentandosi per un passato che non cambia, né cambierà mai;
perché passato, finito, fuori dalla portata
perfino degli dei più potenti, semmai ne esiste qualcuno. Tuttavia, non
ho mai cessato di farlo. E non lo farò mai. Vorrei, oh, così
tanto, fuggire da questa prigione che io stessa mi sono creata, vorrei smettere
di sognare, vorrei dimenticare. Ma non voglio. Non posso. I ricordi dei miei
orribili misfatti mi accompagneranno sempre, sempre e sempre. Cosa ho imparato
da tutte queste cose? Cosa so, ora? Nulla, non ho e non so, tutto qui. Sono
più povera, in tutti i sensi, sebbene così non sembri, e
più disperata. Condannata ad una vita di eterni rimpianti, troppo debole
per scuotermi dalla mia cella fatta di torpore, per raddrizzare quella spirale
che mi imprigiona in un dolore senza confini, che m’impedisce di vedere
seriamente oltre me stessa. Dolore di cui è mia la colpa. E, tutto
ciò che posso fare, tutto ciò che mi rimane da
fare, è immaginare come sarebbe potuta andare, come sarei diventata
altrimenti. Sarei tornata una Spia, se non avessi ucciso Chekaril? Sarei
tornata dai Tengu? Sarei morta? Chi lo sa. Troppi interrogativi storpiano una
mente oziosa, nei lunghi pomeriggi, in cui sono sola, quando non mi rimane
altro da fare che sedermi al sole e pensare, riflettere, desiderare, sognare,
scrivere, aspettando la sera, aspettando un altro giorno sempre uguale, senza
ormai prendere coscienza di quanto sia preziosa la vita. E posso solo dedicarmi
a quelle poche creature che non mi considerano un mostro, quei pochi esseri che
riescono a parlare con me, ripetendo mille e mille volte gli stessi gesti e le
stesse parole. Fui stupida, davvero. Ma la trovata del fuoco fu l’idea
più idiota che mi fosse mai passata per quel
rimasuglio d’intelligenza che avevo. Non ho mai concepito una trovata
più assurda di quella. Arrampicarsi su una sedia rotta…che
genialità! Da quando ero entrata in quella casa maledetta, la mia
condotta era stata piena di errori, che si erano susseguiti l’uno dopo
l’altro, e che ancora si susseguirono,
impietosamente, infallibilmente. Avevo tradito il Regno. Avevo ucciso
l’unico essere che mi ero permessa di amare. Avevo voluto, presa da
un’ansia terribile, distruggere ogni prova nel modo più assoluto
possibile, ed avevo dimenticato ogni norma di cautela. Tutti quegli sbagli, mi
avevano portato lì, in quel piccolo angolo, svenuta, mentre
l’intera casa stava andando a fuoco. Mi svegliai davvero dopo poco, o
presumo sia stato così. Forse fu il caldo, ad accelerare il processo,
non so, forse furono le prime grida, a strapparmi da quel disgraziato torpore,
ed ad impedirmi di finire arrostita come un maiale nei giorni di festa, cosa
che, a mio parere, reputo ancora la mia fine migliore, ed adatta. Fatto sta
che, dopo quello che mi parve un attimo interminabile
di oblio, riuscii ad aprire gli occhi. Faceva un caldo infernale, ed avevo un
ruggito insistente nelle orecchie. Ruggiti e scoppiettii. All’inizio, mi
spiegai questo fenomeno come conseguenza del trauma, e non me ne preoccupai. Ma
quel rumore era ben altro, qualcosa di molto più inquietante. Avevo un
mal di capo incredibile, come se una carica di cavalleria si stesse svolgendo
nella mia testa, ed avevo la vista appannata. Ci volle un po’ per mettere
a fuoco il tetto rosseggiante. Mi resi subito conto di essere nei guai
più seri, ed il cuore saltò un battito. Panico: panico assoluto,
il panico di una bestiolina in trappola. L’incendio aveva attecchito.
Eccome se aveva attecchito!La
paglia era, ormai, completamente andata a fuoco. E cominciavo, lì, in
quello spiazzo benedetto, che mi salvò così intempestivamente, ad
intravedere le prime, alte, lingue di fuoco, che s’insinuavano nella mia
labile barriera protettiva. Decisamente, avevo esagerato nel mettere in scena
quell’inferno! Capii: dovevo sbrigarmi, prima di morire. C’era, si o no, ancora una via di fuga? La finestra era ancora
aperta?Saltai, immediatamente, a
sedere, lasciandomi scappare uno squittio acuto, di paura, e di dolore. La
testa aveva preso a martellare appena mi ero mossa, e non mi dava tregua.
Sentivo qualcosa di bagnato corrermi per la nuca e le spalle, probabilmente
sangue. Perfetto, davvero, davvero perfetto. Ci mancava solo quello. E, si,
avevo un’enorme, naturalissima, fifa. Avrei dato, in quel momento, tutti
i miei averi per poter sguazzare in una pozza d’acqua, al riparo da quel
calore diabolico! Il fumo mi accecò, e m’impedì immediatamente
di respirare bene, avvolgendomi, con il suo sentore acre e prepotente. Tossii
convulsamente, capendo che, il ruggito che avevo nelle orecchie non era dovuto propriamente alla botta. Attorno a me si stava
scatenando l’incendio più terribile che avessi mai visto. Tavolo,
pareti, tetto: tutto bruciava allegramente, crollando in una massa
carbonizzata. Solo il mio angolino era stato, per il momento, meno colpito: il
tetto, però, stava davvero mostrando segni di cedimento. Ancora
pochissimo tempo e sarei stata trasformata in un ammasso bruciacchiato e
fumante, come avviava ad essere il tavolo, che era stato così solido,
così all’apparenza impenetrabile. Tutto il contrario di quello che
ero io, una stupida e fragile mortale, fatta di carne e sangue. Perfettamente
combustibile, proprio come lo erano Chekaril ed Aevo, che stavano sicuramente
già bruciando. Perlomeno, qualcosa del mio piano originario era andato a
segno. Ma, dannazione, io dovevo fuggire subito! Non era previsto morissi anche
io! Avvertivo, ad una distanza che mi sembrava quasi irreale,
grida disperate, e rumori vari. I contadini, e le contadine, erano
accorsi in massa, per poter vedere se c’era qualcosa da fare. Ma anche
io, rinchiusa in quella topaia che si stava rivelando la mia tomba e gabbia,
potevo distintamente vedere che, per quel rogo, l’unica cosa da fare era
aspettare che il fuoco si esaurisse da sé. Altro non potevano fare, con
i loro mezzi umili. Sperai quella fosse una giornata senza vento: no, davvero
non meritavano, quei poveri elfi morti di fame, pagare per una colpa che non avevano.
Non volevo che l’incendio si propagasse. Per fortuna, la casa di Chekaril
non era attorniata da altre. Il cane, quell’orrido animale feroce che
avevano legato al fianco, guaì disperatamente. Fu l’unico essere
per il quale non mi dispiacque, davvero. Mi agitai, alzandomi a fatica in
piedi. Ero dolorante. Non potevo crederci. Tutte le mie fatiche sarebbero state
ripagate in quel modo? Tutti i miei peccati espiati da quel fuoco purificatore?
Ma io? Dovevo bruciare miseramente, come un qualsiasi pezzente? Io avevo ancora
da fare, non era giusto! Io dovevo portare il piccolo Chekaril e Roxen dalla
loro zia, per poi viaggiare, alla ricerca di una comprensione che non sarebbe
giunta. Dolci illusioni. Ma, in ogni modo, non potevo lasciarmi andare in quel
modo, morire così, come un animale! Rinchiusa tra la morte ed una
finestra tagliente, valutai con affanno le mie prospettive. Con sollievo, mi
accorsi di poter ancora scappare, sempre che il fumo, che mi stava soffocando,
non mi avesse ammazzata prima. D’accordo, molto probabilmente, se fossi
fuggita, tutti mi avrebbero visto, e sarebbe stato difficile avvicinarsi ai
fanciulli. Se non fossi fuggita, intrufolandomi in
quello squarcio che avevo così fortunatamente aperto, beh…i
piccoli non avrebbero avuto più nulla da temere, almeno da parte mia.
Magari avrebbero potuto vivere un’altra decina di anni in pace, soli,
dimenticando tutto quello che era successo. Ed io, almeno, avrei avuto
l’oblio che mi meritavo, morendo lì, insieme al mio amato
Chekaril. Magari, mi sarei gettata nel fuoco, io stessa, in cerca di ciò
che rimaneva del mio amato, ed avrei spirato con lui, con il conforto ed il
perdono di un morto. Non era una cattiva prospettiva, tutto sommato. Era terribilmente
allettante. Cercai di distogliere il pensiero da quell’idea,
concentrandomi sulle questioni pratiche. Ma nulla: niente poteva distogliere il
mio sguardo ipnotizzato dalle fiamme che mi stavano quasi per lambire. Se fossi
stata immobile per un altro po’, esse avrebbero attecchito sul mio corpo,
e per me, se non mi fossi ribellata, non ci sarebbe stato più scampo. Le
sedie stavano già ardendo allegramente, ed il fuoco mi aveva raggiunta
quasi, ormai. Mi ritrovai a fare considerazioni strane, forse aiutata dalla
botta tremenda alla testa, non so. Su di me, scese un’insolita calma,
resa più bizzarra dal momento critico in cui mi trovavo. Stavo sudando,
il mantello era zuppo quanto me. Ma non
m’importava: nella mia mente, tutto era gelido calcolo, e lì era
il mio paradiso. Mi lasciai andare ad una sorta d’ipnosi incantata, e
penso di aver sorriso. Sprofondare nell’oblio, dimenticare, finalmente,
del tutto, lasciarsi andare ad un sonno eterno. Mi piaceva. Inutilmente cercai
di distogliermi da quelle idee. Ma, ne ero conscia, esse sarebbero divenute
un’ossessione. Furono gettate le basi per quello che fu poi il futuro,
per quello che fu di fronte ad uno specchio lontano, ed ancora ignaro. Faceva
tanto male, essere bruciati? Era così doloroso? I ricordi erano lontani,
in quel momento, i ricordi della mia terribile degenza in quel Lazzaretto,
ustionata ed ormai sveglia, una creatura senza speranze e senza sogni, ed il
dolore terribile, assoluto, che avevo provato quando
ero ancora bendata, quel dolore che mi faceva urlare a pieni polmoni quando mi
muovevo, quel dolore che aumentava quando anche solo sussurravo, quelle fiamme
maledette che mi avevano devastato corpo e mente. Ma si, quella sensazione
terribile sarebbe durata solo pochi attimi, niente più. Dopo, non ci
sarebbero stati specchi delatori, non ci sarebbe stato un fratello che,
vedendomi per la prima volta senza bende, mi avrebbe rassicurata sul fatto che
niente si vedesse, per poi fuggire via, troppo scioccato per vedere la mia
rapida presa di coscienza del mio nuovo aspetto, troppo ferito per poter
sentire i gemiti ed i singhiozzi che sarebbero seguiti a quell’affermazione,
quando avevo toccato per la prima volta quella pelle che sembrava crema
rappresa. Non ci sarebbe stata una degenza interminabile, piena di fantasmi ed
ossessioni, non ci sarebbe stata una maschera. Non ci sarebbe stato un viaggio.
Solo oblio, fresco, riposante oblio. Niente più Chekaril, niente
più Aevo, niente più doveri, niente più bisogni, niente
più colpe. Si: fui davvero vicina a lasciarmi tentare da quel demone
sottile, quella vocina che mi sussurrava insistentemente di abbandonare tutto. È
vero, né Roxen, né il fratellastro, avrebbero avuto un futuro
davvero sicuro, ma non m’importava. O almeno, cercai di non importarmene.
Roxen era mia figlia! Avevo sofferto per lei, ed io ero la madre! Perché
farla soffrire? Già sarebbe stata messa a dura prova per colpa della mia
avventatezza, non potevo farle anche questo! Ma la mia voglia di dimenticare
era troppo forte. E, se non potevo dimenticare per vie normali…tanto
valeva andarsene. Tanto non sarei servita più a nessuno. A che pro
continuare un’esistenza vuota, e falsa? Qualcosa era scattato nella mia
mente. Dovevo morire.Volevo morire.
Non avevo nessuno per cui vivere. Non potevo tornare più indietro. La
via della mia salvezza era lì, a pochi centimetri, invitante…
eppure io rimasi lì, impavida contro il fuoco incombente, persa nei miei
pensieri, quasi incantata dalle fiamme che lambivano i miei piedi, e dai
crepitii del tetto, che minacciava di crollare subito. Non mi accorsi nemmeno
di aver cominciato l’inesorabile cammino che mi portò a non
essere, mai più, Lsyn, l’Ombra, ed a fregiarmi di altri abiti, ed
altri nomi, con quelle tre ampie ciocche bianche, che non mi lasceranno
mai. Con la mano ferita, strinsi forte gli abiti dei bambini, che avevo ancora
stretti a me. Mi erano, stranamente, di conforto, e di calore. Afferrai forte
la spada, la spada di Eiron che, nonostante tutto, non mi aveva lasciata, e la
rimisi nel fodero, ancora zuppa di sangue, legno e miseria. Sarebbe stata resa
pura con me. Poi, tesi la stessa mano, la sinistra, la mano che ho sempre usato
per combattere e scrivere, verso il fuoco. Volevo cominciare con l’arto
che più mi era stato utile in quel terribile massacro. Feci un passo in
avanti, pronta ad accogliere con gioia quel fuoco purificatore, quello
strumento divino, quel mezzo per pacificarmi, una volta e per tutte. Il calore
mi lambì le dita, il fumo mi avvolse. Tossii, di nuovo. La gola mi
bruciava. Eh, si. Doveva finire: tutto doveva finire. E ne ero ben contenta. Il
fuoco era vicino, sempre più vicino, terribilmente vicino. Tesi la mano,
incantata. Un attimo di dolore, e poi sarei affondata nelle fiamme. Di me, non
sarebbe rimasto nulla, solo polvere, che magari si
sarebbe mischiata a quella di Chekaril, in un abbraccio, obbligato ed eterno. Nulla
della stupida mucca che ero, immeritevole di stare al mondo. Una fiammella intraprendente
e tempestiva mi accarezzò un dito, uno di quelli sani, terribilmente
affascinante, e vicina. Rimasi a guardarla per un attimo. Sembrava quasi non
avermi fatto nulla. Era questo, allora, quello che mi aspettava? Niente di
più sbagliato. Dopo poco, infatti, sentii un dolore lancinante, che si
propagò dalla mano al braccio, un dolore che mi era disgraziatamente
familiare. Fu allora l’istinto ad agire in vece mia. Non avrei sopportato
quella tortura per altro tempo. Per quasi due mesi mi aveva tormentato, e non
ero disposta a soffrire ancora per le ustioni. Avevo già fatto la mia
parte. La mia mente venne invasa dal terrore, e dall’irrazionalità
più pura. Mi girai, trasformata in una sorta di animaletto gemente e
singhiozzante, e mi precipitai verso la finestra rotta,il dito che bruciava e pulsava,
ricordandomi quello che avevo fatto. Fui all’esterno, nel retro della
casa, in un attimo, respirando l’aria pura, e tossendo. Non rimasi per
altro tempo nell’ozio. Guidata solo dalla memoria, cominciai a correre
disperatamente, barcollando ed inciampando, verso la radura dove avevo lasciato
le mie cose. Era l’unico punto familiare, ora, l’unica cosa che mi confortasse, che mi potesse distogliere dal mio dolore,
fisico e non. Lì c’era Tijorn, lì c’era la Mastra
Guaritrice, lì c’erano i Tengu, tutti i miei amici. Se incontrai
persone, se qualcuno cercò di capire chi fossi, non so, né ricordo.
So solo che uscii dal villaggio, come se avessi alle calcagna un’intera
orda di draghi, senza fermarmi a vedere lo scempio che avevo commesso, la casa
di Chekaril che ardeva velocemente, ferocemente, cancellando tutti i miei
misfatti dalla faccia della terra. Ma non dalla mia mente, purtroppo!
Terribilmente
sfinita, e dolorante,ancora tutta tremante ed
impaurita, arrivai in quel piccolo boschetto dove avevo lasciato la borsa. Continuai
a correre, piangendo senza accorgermene quasi, fino all’alberello cavo
dove c’era la mia borsa. Ero partita tutto sommato
allegra, piena di furia ed ardore. Tornavo, malconciadisfatta, in tutti i sensi. La testa
ed il dito dolevano terribilmente, mi ero tagliata il viso, fortunatamente
dalla parte già sfregiata, e sanguinavo. Ero terrorizzata, spossata nel
fisico e nell’anima, preda di uno shock senza limiti. Nessuno,
fortunatamente mi aveva seguito. Ma io, di questo, non m’importai, né
lo notai. Respiravo malissimo: continuavo a tossire, ed ansimavo a fatica. Mi sembrava
di avere una strana oppressione al petto, un macigno sul cuore. E la mia mente,
era completamente distrutta. Ero stata accecata da rabbia, potere, sete di distruzione,
ossessioni, e mi ero ritrovata così, un fantasma dal mantello
bruciacchiato, zuppo di sudore ed insanguinato, e dagli abiti crepitanti, piena
di ferite, fisiche e non. Preda di una tosse che m’impediva di tirare
anche solo un respiro decente, mi avvicinai, barcollando, all’albero. Ero
stata, decisamente, una stupida. Avevo sprecato la mia più grande
occasione di dimenticare tutto! Ora, tutto il coraggio
che avevo avuto si era dissolto, lasciandomi solo tremito, ed un gran freddo,
come se fossi su uno dei bellissimi ghiacciai delle montagne alte dei confini
del vecchio territorio di Normar, dove girava voce vivessero ancora i draghi, e
non su una tranquillissima isoletta in mezzo al mare, all’inizio dell’estate.
Tremavo a tal punto che, una volta vicina all’albero, mi lasciai cadere,
in ginocchio, singhiozzando di dolore, paura ed umiliazione. Con un gesto quasi
automatico, strinsi la mano dolorante, stringendo i denti. Stupida, stupida
Lsyn. Avevo avuto un’ottima occasione, e l’avevo sprecata. Mi sarei
potuta ricongiungere a Chekaril, si. Per sempre. E lui non sarebbe scappato, perché
non poteva. Avrei potuto, finalmente, rivendicarlo come mio. Perché lui
era mio, lui, il mio Principe dolcissimo e premuroso, era stato di mia ed unica
proprietà. Beate illusioni! Invece, cosa mi era rimasto? Tanti ricordi
amari, tanta umiliazione forzata, tante ferite, ed un dolore che non accennava,
né accennò mai, a scomparire, a guarire. Tossendo e
piagnucolando, resa completamente folle, irrazionale dal dolore, serrai gli
occhi, come un bambino che si nasconde per non vedere la cose
brutte che accadono attorno a lui. Ma le brutture erano lì,
impresse nella mia memoria, indelebili e beffarde. Mi sfuggivano, mi
dileggiavano! Dannazione! Il colpo che avevo inferto ad Aevo. Il gorgoglio che
aveva emesso. L’urlo disperato di Chekaril. I suoi rimpianti. La resistenza
che aveva fatto la clavicola al mio colpo. Tutte queste immagini disgraziate
ruotavano senza sosta nei miei occhi chiusi, presentandosi davanti come un atto
di accusa continuo, pieno di morte e sangue. Tutte quelle immagini mi
tormentavano, mi davano fastidio, mi uccidevano. Il cuore
prese a battermi furiosamente, e lo stomaco si torse, andando ad
aggiungersi alla lista dei dolori. Non potevo resistere un secondo di
più. Volevo qualcuno vicino a me, dannazione! Volevo qualcuno a
confortarmi, lì! Volevo Tijorn, e la sua pazienza, volevo i miei amici,
i miei affetti! Avrei voluto perfino Akita, così saccente ed irritante,
a ripetermi che avevo sbagliato, e che ero davvero una stupida capra come lei
sospettava da sempre. Tutto il contrario di lei. Volevo perfino la sua
compagnia! Avrei voluto perfino Isnark, che mi voleva sicuramente morta! Qualcuno,
dannazione, qualcuno che mi offrisse una spalla su cui piangere, o qualcuno che
mettesse fine alle mie sofferenze! Perché, perché ero così
dannatamente, schifosamente, maledettamente sola? Perché gli altri erano
felici, ed io no? Perché avevo commesso quegli sbagli? Perché mi
ero imbarcata in quella stupidissima missione? Non lo sapevo, né lo
seppi mai, affogata così in quella stupida, delirante
autocommiserazione. Non capii quanto prezioso fosse il
mio dolore, non lo capii ancora. In quel momento, con la gola dolorante, piena
di tagli e bruciature, l’unica cosa che potevo fare era gridare. E così
feci, dannazione, così feci, urlando a pieni polmoni
tutto il mio dolore e tutte le imprecazioni che conoscevo, cercando,
senza esito, di sfogarmi, senza timore che qualcuno mi scoprisse. Sarebbe stato
meglio così, in fondo. Sarei morta. Quale prospettiva migliore di
quella? Ormai immersa nelle mie lacrime, piena di dolori e contusioni, alzai lo
sguardo offuscato. Soffrivo troppo. E quello che vidi non fece altro che
aumentare la mia sofferenza. Perché Chekaril lì non poteva
esserci, no?
Un bel po’ di tempo che la voce di zia Aki non si fa sentire,
eh? xD
Molto meglio, dite? Vi do pienamente ragione U_U
Insolitamente per me, ho aggiornato per due giorni di seguito.
Non posso ancora rivelare il motivo per il quale sto andando di
fretta (e non sembrerebbe, da quello che scrivo!!! xD),
ma giuro che vi sarà chiaro ben presto (e qualcuno già SA xD)!!!
Passiamo, dunque, ad alcuni ringraziamenti lampo:
per prima cosa, un applauso per il pazientissimo san Carlos
Olivera (xD), che mi aiuta, mi suggerisce, mi commenta, e legge questi deliri
da giovane adepta al manicomio qual sono xD da ben 53 capitoli (o 52?! O_o)!!!
grazie, carissimo *___* non finirò mai, mai di
ringraziarti!
Inoltre, ringrazio Kylien e Selly, che, seppur non commentando,
(spero stiano) seguono xD
Inspiegabilmente, qualcuno mi ha aggiunta tra i preferiti, ha aggiunto
quest’assurda storia!! O_o
Ma… O_o
Sono onorata *-*
Cambaboy (no, non si scrive così, ma non ricordo la sequenza
esatta maiuscole/minuscole O_o);
Eilinn;
Fantasy girl (questa la ricordo @__@)
Vi ringrazio xD ma…non è che
mi lasciate un commentino, eh? *ç*
Ora, vi lascio al mio orrendo ed insulso capitolo xD
Ciao!
Akita
------
Miei dei, quanto, quanto ero pazza! No: Chekaril, proprio lui, non
poteva esserci. Io ero ancora zuppa del suo sangue. Lui era morto: io
l’avevo ucciso. Un ragionamento semplicissimo. Ma che mi procurava un
dolore tremendo, che aumentava di attimo in attimo, che mi riempiva la bocca
con il suo sapore acido. L’avevo colpito, l’avevo bruciato, ne
avevo gioito. Dannazione. Avevo usato tutta la mia astuzia, eh? Ma no: Chekaril
non doveva stare lì. Stavo impazzendo. L’avevo appena ucciso, eliminato
dalla faccia di quella terra come se non fosse mai esistito, no? No? Ma allora
perché lo vedevo? Perché mi stava davanti? No: non poteva essere.
Mi stavo sbagliando! Si: quella che stavo vedendo in quel momento,
raggomitolata sotto quell’albero cavo e leggero, non poteva essere che
un’allucinazione. Cosa non tanto strana, però, in quel momento non
ci pensai. Tutte le idee, possibili e non, mi vennero in
mente: avevo ucciso un’illusione; niente di quello che avevo fatto era
vero; Chekaril stava bene, ora sarebbe venuto a farmi una meravigliosa
ramanzina su ciò che è giusto e su ciò che non lo
è. Poi, tutto sarebbe tornato al suo posto. Magari, oh, si, avrei
fatto pace con Aevo, anche con lei. Mi avrebbero difeso, mi avrebbero protetto.
Forse sarei potuta guarire. Mi sentivo nella
disposizione d’animo adatta per essere amica con
il mondo, per abbracciare amorosamente perfino un riccio. Tutto, pur di essere
perdonata. Tutto, pur di far smettere quel sordo dolore al cuore. Tutto, pur di
farmi tornare a respirare liberamente. Tutto, pur di non essere ossessionata da
ricordi troppo terribili per essere rievocati. Non presi in considerazione
altre idee: ero perfettamente convinta di aver ragione, di non aver ucciso il
mio unico amore. Lui era ancora lì, materiale e severo, pronto a
sgridarmi per la mia mancanza di giudizio! E con che gioia avrei accolto quell’ennesima
ramanzina! Le mie mani erano ancora linde, ero ancora pura! Come, come fui
illusa, come fui pazza. Ero troppo sconvolta, troppo indebolita per includere qualche
possibilità più realistica, che comprendeva tutta la gamma di
pazzia ed illusioni. E non è tanto normale vedere i fantasmi, no? Ebbi
la netta sensazione che una lama mi stesse squarciando
il petto. Rimasi lì, inerte, le lacrime che mi scorrevano sul viso. Lacrime
di gioia, di dolore, non so. Io e Chekaril o almeno quello che mi pareva tale,
ci guardammo. Mi stavo sbagliando, oh, si. Quale spiegazione logica
c’è, ad un elfo ammazzato pochi minuti prima
che ti guarda severamente? Ma chi diavolo avevo ucciso? Oh, dei. Oh, dei, dei. Lui indossava i suoi soliti vestiti gialli, della
seta più fina, come usava vestirsi a corte, ed i capelli erano ben
pettinati, ed ordinati. Il suo colorito era normale, ma gli occhi splendevano,
infossati, come due gioielli in una cavità oscura. Ci fissammo, e lui mi
sorrise, un sorriso che assomigliava più ad un ringhio. La paura, ed una
folle speranza, presero a scorrermi, incessanti, delle vene. Quel colpo fu
davvero duro da digerire. Allora lui non era morto! Mi sentii di colpo meglio,
osservando quella figura non più materiale della polvere, e sentii
un’allegria incredibile pervadermi il petto. Mi sentii più
leggera, e tornai ad ascoltare il battito del cuore, leggermente affannato.
Tutto parve scongelarsi, uscire esitante da un inverno stranamente troppo breve.
Non tutto era perduto. Non tutto era perduto, io non ero perduta! Mi convinsi
che, quello che avevo commesso fino a quel momento, niente era stato se non un
complotto, ordito da elfi crudeli, per allontanare ogni Spia dal vero
obiettivo. Obiettivo che era fuggito, ed era venuto da me! Ero libera? Mi
avrebbe perdonato, il mio amore? Aveva bisogno di aiuto? Stava bene? Senza
attendere oltre, scattai in piedi, barcollando. Non potevo rifiutare la mia
unica occasione di riscatto possibile! Mi resi conto di tremare follemente, di
non riuscire ad annodare i fili della mia ragionevolezza. Ero senza fiato:
qualcosa m’impediva di respirare. “Chekaril…”.
Mormorai, facendo un passo in avanti, piena di gioia, traboccante di
felicità. Ero viva, finalmente viva. Ma…un momento. qualcosa non andava. Sentii le lacrime tornare, più
forti di prima. Ma ora era solo dolore, e delusione cocente. Il tempo di un
battito di ciglia, ed, al posto del mio amato Principe, non c’erano altro
che un paio di tronchi dalla forma strana. Chekaril era sparito. Avevo
immaginato tutto. L’inverno tornò prepotentemente a ghiacciare il
mio cuore. Non lo sentii più, sebbene sapessi quanto e come battesse. Fu
la delusione più terribile di tutte, mista ad un terrore acuto.
Perché di lui non mi rimase che quello, polvere. Stavo impazzendo
davvero? Era un’allucinazione, quella? O altro? Quello sguardo severo
sarebbe stato il mio monito perenne, il dito puntato sulle mie colpe. E mi
avrebbe spinta a prendere decisioni che sarebbero risultate
la fine della persona che si fregiava il titolo di Ombra. Perché,
perché? Perché anche la mia mente doveva perseguitarmi? Non ressi
a tutti quie sentimenti, il mio animo non
sopportò oltre. Dacché ero in piedi, barcollai pesantemente,
così stordita da non riuscire a pensare, e caddi. Non sentii nemmeno
l’urto sul terreno. Ero tutta intorpidita. Quell’ultima
allucinazione crudele non ci voleva. Perché? Avevo speso la mia vita
intera dietro una stupidissima ideologia, dietro qualcosa che mi aveva
accoltellato alle spalle, che mi aveva volgarmente presa in giro. Mi ero
innamorata di un incallito donnaiolo. Ero stata trattata come un gioiello di
scarso valore senzanemmeno accorgermene. Mi avevano
strappato la mia piccola infante, la mia dolce Roxen, destinandola ad un futuro
ignoto, senza che io sapessi nulla. Ero stata convinta che lei stesse crescendo come un’ottima Spia, mentre lei,
allegra ed innocente, aveva un altro viso da indicare come quello della madre,
un viso nuovo come fratellino. La dama di compagnia di Lainay, Aevo, aveva dato
alla luce un piccolo bastardo, di cui ora dovevo occuparmi. Non ce l’avevo con l’infante, che intendevo
proteggere con la mia stessa vita, se necessario: ma era quella maledetta che
mi aveva ferita. Serpe in seno! Quante volte ci eravamo incrociate? Allora
aveva i capelli lunghi, sempre sciolti, e vestiva in modo molto elegante. Era
quello il motivo per la quale non l’avevo
riconosciuta. Quella sottospecie di essere vivente aveva cresciuto mia figlia! Un’elfa che non mi
conosceva, che aveva solo di rado visto il mio viso, che non sapeva nemmeno
come fosse fatta Roxen appena nata, quanto fosse grande! E mi avevano mentito,
in tutto! In cosa altro avrei dovuto dubitare di Lainay? Quante altre cose non
mi aveva mai rivelato? Per chi avevo svolto il mestiere a cui
fin dalla nascita ero stata destinata? Mi sarei dovuta preoccupare? Ed ecco il
risultato, della mia cieca obbedienza. Due orfanelli sperduti, ed una mente
schiantata. Due innocenti uccisi, e tante allucinazioni disperate. Ero sola,
pazza, irrimediabilmente destinata ad un rapido declino. Avrei svolto solo
un’altra, stolida missione, e poi mi sarei eclissata dalle scene.
Qualcosa scattò in me, lì, riversa stupidamente su quel prato,
sguardo fisso nel vuoto, totalmente sconvolta. La decisione accese un fuoco, in
me, che ancora non si è estinto. Si: avrei
svolto la missione. Ma a modo mio. E che nessuno osasse dire che Lsyn non
sapeva gestire nemmeno sé stessa! Dovevo solo andare a recuperare i
fanciulli, e tutto avrebbe cominciato un nuovo corso. Solo… non ne avevo
il coraggio, ora. Non era il momento.. Stavano
piangendo, si stavano disperando sicuramente, mentre Sybil e Xavier avrebbero
discusso sul perché di quell’incidente, di quell’incendio
così violento. Cosa mai era successo in quella casa? Una lampada accesa
incautamente, il camino, una scintilla? Certamente, mai sarebbero giunti alla
conclusione che la placida vecchietta senza nome, raccolta così per
caso, si era rivelata una Spia sanguinaria! No: non avrei avuto il coraggio di
sorridere davanti a loro, d’indossare la maschera per non spaventarli e
mostrarmi allegra ed affabile, una sorta di buona cugina, venuta a portarli in
un altro mondo felice, mentre loro si disperavano, mentre il loro dolore era
ancora terribilmente vivo. E sarei stata anche stupida: scommettevo che i
controlli per il villaggio si fossero intensificati incredibilmente. Erano
contadini, ma non stupidi. Sybil, poco ma sicuro, avrebbe controllato i piccoli
assiduamente per qualche giorno, per poi tranquillizzarsi. Dovevo stare alla
larga da Gerinti per qualche tempo. Ma, dei, come mi
era difficile! Volevo andare da Roxen! Volevo sentire la sua oce, accarezzarle il viso! Aspettare: solo, dovevo
aspettare. Calma, Lsyn. Guarda in aria, e rilassati. Non pensare. Mi stesi
sulla schiena, mollemente, ritrovandomi a fissare il cielo azzurro. Quel
celeste così intenso, così puro, così dolce, così
allegro, così privo di ogni ferita, ogni nuvola, ogni cicatrice.
Così totalmente fuori posto con tutte le miserie che accadevano in quell’angolo
sperduto di mondo, così indifferente ad un’elfa sfregiata di
piccola statura che lo fissava così stupidamente. Chi poteva mai
consolare, il cielo, trionfante ed irrimediabilmente superiore, calmo perfino
quando lasciava che sulla terra si scatenasse il più atroce dei
temporali? Cos’era, il cielo? Di cosa era mai fatto? Cosa aveva portato
me stessa a fissarlo, cosa mi aveva portata a tutte quelle disgrazie? E
perché soffrivo così tanto, perché non potevo fuggire?
Cercai, oh, si, cercai di scappare da quel dolore acuto e sordo allo stesso
tempo, quella sensazione così totale e totalizzante, così penosa.
Quella tortura anche fisica, quel dolore che mi lasciava spiazzata, stordita,
cieca e sorda al mondo. Si: dovevo aspettare. Aspettare, ed aspettare. Ed aspettai,
cancellando totalmente me stessa. Non mi mossi da quella posizione, per non so
quanto.
Il tempo
smise di avere significato. Si allargava, e si restringeva, si dilatava e si
compattava, ad ogni mio desiderio, senza recalcitrare, con un sorriso ipocrita.
Furono i giorni più estenuanti di tutta la mia esistenza, secondi solo
alla più grande perdita che il destino mi
avrebbe riservato in futuro, a quella perdita che ancora avverto tormentosa,
che ancora non riesco ad accettare, in tutta la sua terribile casualità.
Passarono giorni, notti, eoni, ere, secoli. Rimasi
lì, fissando il sole, la luna e le stelle, viaggiando per chilometri e
chilometri con la fantasia, tornando indietro di anni, millenni, e poi andando
avanti, fino a quando il mio inconscio non trovava un ostinato muro d’incomprensione,
di futuri possibili e non. Se fossi rimasta con il mio dolce fratello, tutto
quello non sarebbe successo. Non sarei rimasta imprigionata in quella rete
così assurda di dolorosissime menzogne, di amarissimo sangue. Capii. Capii,
tutto, in quello stato di delirio dormiente. Il Cigno era stato liberato,
liberato dal suo fardello di colpe, bugie e mezze verità, di ricordi e
di tormenti. Il Cigno era libero di volare, andarsene in un oblio senza
ritorno, libero dal suo dovere di Principe, finalmente non più vittima,
non più prigioniero. Aveva lasciato me, me, che con quel colpo di spada
avevo reciso i lacci che l’avevano tenuto alla vita, facendoli
inesorabilmente annodare alle mie caviglie, legandomi alla terra, ed alla
colpa. Con un sorriso beffardo mi aveva conquistata, con un sorriso beffardo si
era liberato di me, e del mondo crudele. Tutto il sogno, ora, quel sogno che
avevo interpretato come una liberazione imminente da ogni mio male, aveva avuto
un senso. E mi aveva fatta a pezzi, mi aveva distrutta. Avevo sbagliato. Non potevo
essere libera, non quando avevo ingannato, bruciato,
ucciso. Io; vittima, carnefice, stritolata dalle ruote del caso, del fato
più crudele ed ignaro, e vincente allo stesso tempo sul carro. Io,
irrimediabilmente prigioniera dei miei incubi peggiori. I giorni si slegarono,
tutto smise di avere senso. Non ho la minima idea di quanto tempo passò
dal momento in cui mi stesi per fissare il cielo azzurro, di quanti giorni lasciai
passare, muovendomi solo per motivi urgenti, senza aspettare che il sole mi
scottasse, mi toccasse, mi rivelasse. Avevo fatto così anche quando ero
stata ferita, ed avevo scoperto il mio nuovo volto. Ora ero cambiata, di nuovo:
ma non ero sicura che quello che vedevo mi fosse gradito. Divenni il fantasma
del fantasma di me stessa. Una larva di una larva tra le larve. Perché,
no: a nulla ero buona, se non a rimpiangere me stessa. E lo meritavo, meritavo
l’odio, meritavo il dolore. Perché io ero destinata a quello, ed a
nient’altro. Basta. Non mi rimaneva che versare tutte le lacrime di cui
ero a disposizione, fino a seccarmi, fino a divenire una mummia, un essere
fatto solo di cenere. Sarebbe stato bello, molto bello. Ma mi rimaneva ancora qualcosa
da fare.
Fu proprio
quel pensiero ad evitare mi perdessi del tutto nei labirinti che mi ero creata,
fu proprio quello l’appiglio che mi riportò ad una relativa
sanità, lo scoglio contro cui la mia ragionevolezza
si artigliò, per non venire travolta dal fiume di pazzia che aveva
invaso la mia mente. Roxen e Chekaril. I miei due piccoli protetti mi stavano
aspettando. I miei due piccoli amici non vedevano l’ora che la loro
nuova, breve tutrice, li venisse a prendere, di
nascosto, portandoli verso un futuro che solo lei conosceva. E nessun altro. Perché
l’embrione della mia nuova idea si stava appena formando nella mia mente:
l’embrione di una rivoluzione, di una ribellione. Una delle poche cose
buone che sono riuscita a fare, è stata proprio quella. E’ una
delle cose di cui riesco ancora ad andare fiera. Era un pomeriggio nuvoloso ed
afoso quando i giorni ripresero ad avere un senso. Mi ero raggomitolata sotto un cespuglio, debole e lurida, ad occhi chiusi. Non scelsi
io di tornare alla ragione. Mi ricordo, solo, che, ancora ad occhi chiusi, ebbi
il mio primo pensiero cosciente da chissà quanto tempo, e capii di
essere Lsyn, e di trovarmi ancora a Gerinti. Fu come una piccola campanella
suonata in un grande spazio vuoto. Mi svegliai a fatica dal mio torpore
indotto. Mi sentivo affamata, stanca, troppo demoralizzata per poter anche
pensare alle cose che avevo fatto, ma stranamente viva. E seppi il motivo di
quell’anelito di vitalità. Dovevo ritrovare i piccoli. I tempi
erano maturi per farlo. Dovevo svegliarmi, e presto! Riuscii, faticosamente, ad
aprire gli occhi, costringendomi. Ero a pezzi. La testa mi girava, e mi sentivo
fin troppo affaticata. Non riuscivo a ricordare se avessi dormito, o se avessi
mangiato, in quel tempo indefinito in cui tutto era diventato fosco e buio. Era
stato un periodo fin troppo incerto, fin troppo doloroso. Dovevo, però,
lasciarmi alle spalle tutto quello, per aiutare gli unici esseri meritevoli di
amore, tra i pochi meritevoli di amore. Avevo ucciso Chekaril, ed Aevo. Ma ora
mi sentivo pronta per proseguire quel poco di vita che mi rimaneva. Mi sciolsi,
lentamente, dal nodo in cui mi ero contratta. Tutte le articolazioni
scricchiolarono, e mi diedero il benvenuto alcuni
piccoli crampi. Stavo recuperando la mia fisicità, in modo piuttosto
traumatico. Il mio corpo protestava per un’immobilità durata
chissà quanto tempo. Mi sentivo come una neonata, incerta di fronte alle
novità che la vita mi presentava. Ma ero decisa: quello stesso giorno, di
notte, sarei andata dai piccoli. Non potevo attendere oltre: la tempesta era
passata, e mi attendeva il buio ed il sonno. Non ci sarebbe più stata
sorveglianza, e potevo portarli con me, anche se non sapevo
ancora dove trovare i contrabbandieri. Li avrei cercati. Non era certo un
ostacolo di poco conto come quello a fermarmi! Lentamente, girai il viso verso
l’esterno, reprimendo un gemito. Doveva aver piovuto: il terreno, che io
vedevo così vicino, era completamente zuppo. Cominciai, lentamente, a
muovermi. Dovevo prepararmi, e dovevo mangiare qualcosa. Non osai nemmeno immaginare
in che stato fossi, tutta inzaccherata, sparuta e tremante come un cane
randagio. La testa prese a girarmi immediatamente, ed io mi fermai. Maledizione!
Ero completamente devastata. Dovevo muovermi, in ogni modo ,anche
se ero così debole. Non dovevo fermarmi. Perché stavo lasciando
che il mio corpo mi sopraffacesse? Perché? Ringhiando, ormai illuminata
dal fuoco benedetto della decisione, strisciai fuori dal
mio nascondiglio, mettendomi poi in piedi a fatica. Mi tremavano follemente le
gambe, ma sentivo la mia mente abbastanza stabile, per poter almeno frenare l’avanzata
dell’orrore. Avevo superato una fase critica. Ne ero uscita, seppur
malconcia e sfinita, con una cosa da fare. Il mio ultimo obiettivo. La prima
cosa che feci, dopo essermi guardata attorno, ed aver inspirato una volta,
profondamente, l’aria profumata, fu quella di barcollare fino all’albero
cavo e di estrarne la mia borsa. Ancora assonnata, agendo meccanicamente, al
mio movimento feci seguire l’azione per cui mi
ero mossa: addentare un po’ delle provviste che mi erano rimaste. Dovevo usarle
con parsimonia: ben presto non sarei stata più sola. Due piccole bocche
affamate mi avrebbero accompagnata in quell’ultima, straziante parte di
viaggio. Benedissi la dolce Mastra Guaritrice per l’ennesima
volta. Fortunatamente, non mi sentivo traumatizzata come giorni prima: il
dolore immediato si era nascosto in un cantuccio della mia mente, pronto a
saltar fuori non appena gliene avessi dato l’occasione. Ma non ne avevo
più paura: quella smania terribile di piangere che sentivo ancora in
quel momento sarebbe svanita presto. Conoscevo ormai il mio futuro. Chekaril ed
Aevo sarebbero stati vendicati, dalla stessa mano che li aveva uccisi. Spazzolai
letteralmente quel poco cibo che mi concessi, frutta secca per la maggior parte,
accompagnata da qualche sorso d’acqua, abbastanza per
darmi un po’ di forza. Poi, rovistando nella mia borsa, estrassi i miei
vecchi indumenti neri e la maschera, posandoli distrattamente da un lato. Senza
fretta, presi i balocchi dei piccoli dalle tasche, quei due pupazzi allegri,
così dolorosamente innocenti, e gli abiti che avevo raccattato, un po’
bruciacchiati ma ancora decenti, e li ficcai vicino a quei pochi unguenti che
mi rimanvano. Richiusi il sacco, e lo rimisi
diligentemente al suo posto, nascosto nel tronco. Sarei andata dopo a prenderlo.
Mi sentivo ancora vagamente stordita. Sapevo, ovviamente, cosa fare, ma un’invincibile
stanchezza mi attanagliava le membra. Ero triste, irrimediabilmente triste,
quella tristezza docile che afferra talvolta,
tranquillizzando la propria anima con una calma fittizia. Forse un po’ d’acqua
mi avrebbe fatto bene. Un bel bagno: non importava se in
acqua dolce o salata: dovevo togliere tutte le tracce di camuffamento, e tutta
la sporcizia. Dovevo andare dai bambini, almeno, pulita. Non si
sarebbero mai fidati di una sorta di vagabonda piena di sangue rappreso! Mi tolsi,
stancamente, il mantello, e lo esaminai. Era terribilmente sporco, di terra,
sangue e sudore. Cominciai a farmi schifo da sola. Beh…almeno quella
reazione aiutò a farmi capire di essere ancora viva. Come ero potuta
sprofondare in quell’abisso? Io, maniaca dell’ordine e della
pulizia, avevo addirittura dimenticato di togliemi il
sangue da dosso! Ero arrivata, davvero, ai limiti della decenza di ogni
creatura senziente. Dov’era finito il mi orgoglio di elfa? Un elfo non si
dovrebbe combinare come avevo fatto io. Non era
dignitoso! Ero arrivata fino a quel punto, il dolore mi aveva fatto dimenticare
chi ero? Eh, no. Quello proprio no. Seppure debole, stremata e parecchio
triste, ebbi un improvviso moto di stizza, ed afferrai gli abiti. Dovevo sbrigarmi.
Non avevo i mezzi adatti, ovviamente, ma promisi a me stessa di essere pulita
entro un’ora. Dovevo. Non vedevo l’ora di trovare anche una piccola
spiaggia isolata, attorniata dal mare. In quel momento, anche quell’infida
massa d’acqua scura e torbida mi sembrò allettante. Non mi sarei,
ovviamente, inoltrata oltre un certo livello, perché continuavo ad avere
paura, ma l’istinto di lavarmi era più forte di
qualunque cosa. Magari, se avessi fatto in fretta, avrei potuto anche dormire
un po’, e presentarmi agli infanti proprio come volevo, linda, rilassata
ed affabile. Ma dovevo muovermi. Per quanto fossi
debole, il mondo non aspettava me. E, dice un proverbio, se non ora, quando? Stringendo più forte la maschera,
e gli abiti, mi alzai, mentre la testa mi girava, e cominciai ad avviarmi verso
il mare. Ero troppo stanca ed ansiosa per formulare anche un solo pensiero
decente. I piccoli aspettavano me. Li avrei portati nel mio futuro. Quella era
l’unica cosa bella da pensare. Per il resto, vedevo, nel passato e nel
futuro, una scia interminabile di sangue.
Ora, (finalmente direte voi, ed a ragione), le
cose cominciano ad entrare nel vivo.
Ma non del tutto. Sono già 14 pagine di
scritto, sono sopra questa robaccia dalle 14.00!!!!
Orrido capitolo, oorrido
>___<
Vabbè.
Un saluto speciale, come sempre, ad i miei
carissimi Sellye Carlos Olivera.
Mi fa un piacere dannato ricevere i vostri
commenti, davvero.
Essi sono il motore della storia!!
GrazieJ
(ah, si, Selly: quando si
è davvero innamorati, si è ciechi, sordi e muti al mondo, o
almeno, è questo quello che penso. Hai voglia di dire (e dirti!!!): vedi, quello è così e così…
il risultato più vivo è quello di farsi mandare a quel paese. Gli
innamorati c’hanno delle bistecche alla fiorentina sugli occhi o.o E mica
vai a pensare che il tuo amato ti sta prendendo per il culo, no? xD).
Ringrazio, inoltre, i tre che mi hanno messa tra
i preferiti, come sempre ù__ù
ciao!
Akita
----------
Finalmente, ero pronta. Ci era voluto molto più
tempo di quanto io avessi immaginato, per scovare una
piccola spiaggia dal lato non abitato. Finalmente, a ridosso di una piccola
grotta, trovai ciò che cercavo, ed iniziai il processo lungo che mi avrebbe fatta ritornare la giovane Lsyn Amarto, elfa, un
tempo gloriosa Spia, ora derelitta tra i derelitti, vittima tra le vittime.
Mentre camminavo, un senso di cieco calore si era impossessato della mia anima
ormai inaridita, un sentimento che aveva sostituito il dolore immenso che
provavo: l’impazienza. Non vedevo l’ora d’incontrare i due
piccoli. Sapevo, esattamente, cosa fare con loro in quel momento, e come
trattarli. Principi, piccoli principi sarebbero stati in mia compagnia. E che
nessuno osasse anche solo sfiorare il loro faccino pulito! Dovevo
però, per risultare l’amica rassicurante che per loro
volevo essere, perdonarmi, perdonare la bestia che aveva osato interrompere la
loro quiete bucolica, quel mostro che aveva commesso un atto dalla quale non
c’era ritorno. Uccidere è sempre un avvenimento molto traumatico,
che cambia per sempre la vita. E l’orrore che avevo creato andava al di
là di un semplice omicidio. Ma dovevo perdonarmi, dovevo mettermi in
pace, almeno per un po’. Avevo ancora moltissime cose da fare, e non
potevo lasciare quei due innocenti in balia del destino. Gerinti non era un
rifugio sicuro, per loro. Seppure io fossi tornata a
mani vuote, cercando di proteggerli, ci sarebbe stata sempre un’altra
Spia pronta a portarli alla Regina. Ed io non sapevo come avrebbe trattato
Roxen! Potevo ovviare ad un’ulteriore catena di disgrazie solo in un
modo. Prendendoli con me, e portandoli da qualche parte sicura. Ancora non ero
decisa, ancora non sapevo quale sarebbe stata la loro definitiva dimora, se il
castello di Galinne o un’umile casa di contadini. Ero molto combattuta
tra antica fedeltà e l’amore, quell’amore che solo una madre
può provare, misto ad un rimorso mai sopito.
Sentivo già di adorare il piccolo Chekaril, quell’innocente frutto
di un amore che mai avrei pensato si realizzasse, e che mi aveva fatta
soffrire, che non era mio figlio, ma che aveva bisogno di me. E questa cosa mi
rinfrancava. Sarei stata come una madre per lui, anche se sapevo
di non poter imitare Aevo, di non poterla sostituire. Bizzarro, trovarsi in una
situazione del genere, molto bizzarro. Farsi accettare, entrare negli affetti e
nelle grazie di due candidi infanti, come fossero i più grandi sovrani
del mondo. Ma io questo volevo: essere amata, essere accettata da qualcuno,
senza domande e senza sospetti. Avrei avuto tempo per pensare alla futura
sistemazione dei miei nuovi, graditi, compagni di viaggio. Avevo ancora tutto l’Impero
da ripercorrere in senso contrario, ed in venti giorni ce la saremmo sbrigati,
senza attraversare le montagne, e preferendo un percorso dritto, a tappe
forzate. Avrei potuto decidere con tutta calma una sistemazione adatta. Poi,
una volta visti sereni, ed al sicuro, sarei scomparsa dolcemente dalle loro
vite, pronta a diventare un ricordo pallido, ed evanescente, di una strana
signora mascherata che era stata così buona da portarli in una nuova,
bella famiglia. Ed allora, avrei potuto ritornare ad
essere assalita dai fantasmi. Ma, in quel momento affannato, non importava. I morti
erano il mio ultimo pensiero. Dovevo eludere il Regno, non dovevo dare mie
notizie fino a quando non mi fossi decisa su cosa
fare. C’erano altri interrogativi, più immediati. Non sapevo
ancora cosa avrei raccontato loro, per incantarli ed indurli ad avere fiducia
di me, ma contavo sulla mia capacità d’improvvisare. Sperai solo
che l’accoppiamento di colori da me prediletto non li spaventasse. Non
è rassicurante, il nero, per un piccolo a cui si
raccontano terrificanti storie di mostri sotto il letto per farlo stare buono.
Il viaggio era un altro interrogativo. Dove trovare, poi, il capitano
Paòl e la sua ciurma? Sarebbero bastate le provviste e l’acqua?
Fino a che punto era, la guerra contro il Regno? Quanto saremmo stati visibili,
un’elfa molto bassa completamente avvolta in abiti neri, con una maschera
bianca a coprirle il viso, accompagnata da due infanti laceri e spaesati, che
per la prima volta uscivano dal rifugio sicuro di un’isola? Non potevo
sperare, inoltre, che i territori da me attraversati fossero intatti e poco
sorvegliati, come all’andata. Ero rimasta fuori dal
mondo per un lasso di tempo incredibile, ed avevo perso ogni contatto con la
civiltà. Non sapevo come muovermi. Quanto successo aveva avuto il Regno?
Quanto l’Impero? Fino a dove saremmo arrivati, prima di essere
intercettati dai soldati? Sperai in un colpo di fortuna, una situazione di
stallo, una tregua. Insomma, qualcosa che permettesse di evitare di percorrere
zone in cui i bambini sarebbero stati continuamente esposti agli orrori della
guerra. A me non importava, di sangue ne avevo visto fin troppo, e ne ero
tragicamente abituata, ma loro? Come non sporcare la loro innocenza? Ancora non
sapevo. Ma non m’importava. In silenzio, presa da questi interrogativi,
cominciai a tornare decente. La prima cosa che feci fu quella di lavare almeno
un po’ il mantello nero. Poi, lo misi ad asciugare. Passai dunque al
resto del corpo. Certo, non avevo i mezzi necessari per profumare di rose, ma
almeno non ero più simile, come odore e come aspetto,
ad una capra scappata per sbaglio dal macello. Era un gran sollievo non sentire
più il sangue incrostato sul viso. Il mare, inoltre, mi aveva
traumatizzata. Era l’unica fonte d’acqua che avevo incontrato.
Certamente, ci doveva essere qualche piccolo fiumiciattolo o pozzo
d’acqua dolce, per i paesani, ma non ero sicuramente così sciocca
da avvicinarmi ad un posto molto frequentato. Ero rimasta nell’acqua
bassa, bassissima, sfidando il mio panico e la mia totale incapacità nel
nuoto, ma ugualmente fu un’esperienza memorabile per la sua stranezza.
Alle necessità la paura si doveva piegare. Con quella frase in mente
misi una mano dentro. Come avevo contato, l’acqua era gelida, così
fredda che avvertii una forte fitta. Ciò che mi
sorprese, però, furono altre cose, molto più stupide. Mi ero
aspettata un ambiente torbido, mostruoso, scuro come l’acqua che la Serpe Nera aveva solcato di notte, come
l’acqua dell’unico lago che avevo visto in vita mia. Non credevo però fosse così limpida, così
bella, ma, soprattutto, così salata.
Certo, l’acqua marina non era dolce, e lo sapevo, ma non mi ero aspettata
un sapore così sgradevole. Cercai di non inghiottirne, ma, la mia pelle,
si portò il sale ed uno spiacevole odore salmastro, non appena asciutta.
Era il mio primo contatto diretto con il mare, e mi parve naturale una simile
meraviglia. Tutto sommato, però, fu un’esperienza che non mi
piacque. Le onde mi davano fastidio, e la corrente, seppure debole, mi dava l’impressione di voler attentare alla mia vita. Non
sapevo nuotare, giusto? Non era bello come un bagno caldo e profumato, al
sicuro. Giurai, perciò, a me stessa, di non tornarci più dentro.
Il colore dei capelli, quel grigio biancastro, sgradevole alla vista, se ne
andò. Ma non del tutto, purtroppo. Il segnale che qualcosa stava
accadendo nel mio fisico. Infatti, ad un certo punto, vidi il mio riflesso
nell’acqua, cosa che, fino a quel momento, immersa nei miei pensieri, non
avevo notato. Interessata, mi specchiai. Volevo vedere in che stato fossi, e come e quanto i camuffamenti se ne fossero andati.
La curiosità prese il sopravvento. Era un bel po’ che non vedevo
il mio visino sfregiato. I miei lineamenti erano distorti, e la visione non era
chiara, ma quello che vidi mi spaventò. Avevo già capito di
essere dimagrita in un modo pauroso, tanto da sembrare uno sparuto e casuale
mucchietto di ossa e pelle, ma il viso era messo in condizioni orride. La parte
sana mi sembrava terribilmente pallida e scavata, con grandi occhiaie che cerchiavano
occhi stanchi, opachi ed un po’ spiritati. La bocca aveva, ma forse fu
solo la mia immaginazione, una piega diversa, quasi amara. Per il resto, ero
rimasta uguale, a metà tra bruttezza estrema e bellezza senza tempo, un
po’ sfiorita. Ma furono i capelli a farmi fare un salto terribile. No!
Cos’era successo ai miei bellissimi ricci neri? Una mano andò
immediatamente a tastarsi le ciocche incriminate. Cercai, con la coda
dell’occhio, di vedere i capelli. Sentii una fitta di panico gelido. Oh,
no. Oh, no. Era solo il colore che non era andato bene via, era solo il
riflesso, oppure io avevo davvero alcuni fili grigi tra i capelli ed un paio di
piccole zone del tutto candide? Era la mia immaginazione o io assomigliavo
davvero ad una giovane mortale invecchiata anzitempo? Pregai che non fosse
così, che fosse solo un piccolo, innocente scherzo della tintura che mi aveva
preparato Tijorn, che sarebbe andato via con il giusto trattamento. Ma sapevo
di sbagliarmi. Non è un buon segno, quando i capelli diventano bianchi,
o grigi, negli elfi, quei colori smorti che non sono tipici di qualche stirpe.
Perdere capelli, o cominciare ad ingrigire, sono segni che spesso muovono a
pietà chiunque, nella nostra razza. Non è normale, per niente.
È segnale di pessima salute, com’era successo
con il mio dolce Maestro, o di terribili problemi. Io non ero nel massimo della
mia forma, e di problemi ne avevo avuti abbastanza per un’intera vita.
Sospirai, e cercai in ogni modo di non pensarci. Cominciavano già a
mancarmi i miei bei ricci neri, lucenti ed uniformi, che nemmeno il fuoco,
nemmeno i viaggi erano riusciti a fare imbiancare. Ed ora, per colpa di uno stupidissimo elfo traditore, per colpa di un efferato
omicidio, il bianco ed il grigio erano entrati nella tavolozza dei miei colori.
Sperai ardentemente il processo non riprendesse, sperai che fosse solo o
temporaneo o almeno che si bloccasse lì. Quei colori sono rimasti, fieri
e fermi. Non penso se ne andranno mai, e sono il mio tormento. Ancora oggi, tra
i miei timori principali c’è quello di vedere, giorno dopo giorno,
i miei capelli divenire candidi, come quelli di una vecchia mortale,
perché so benissimo che i guai attraverso cui sono passata sono
abbastanza per trasformare ali di corvo in una bella
massa di neve. Ancora oggi, nonostante io sappia che l’avanzata delle
ciocche bianche, ormai leggermente più numerose della prima volta, sia
ferma per sempre. Ma allora, ovviamente, cercai di non pensarci. Imputai tutta
la colpa al mio fratello pasticcione, che in gioventù, durante i suoi
primi esperimenti con erbe e cose varie, mi aveva ridotta ad avere per un paio
di mesi degli assurdi capelli di un rosa vivo, un colore da me fortemente
odiato. Boccoli rosa. Uno spettacolo orrendo. Akita mi aveva presa in giro
crudelmente, fino a quando io, esasperata, non miero tagliata i capelli, mettendo sopra
la zazzera mista tra rosa e nero che mi ritrovavo, una normalissima parrucca
castana, fino a quando i miei capelli non furono tornati ad un colore ed ad una
lunghezza decenti. Finalmente, mi rivestii, con i miei bellissimi abiti neri. I
cenci grigi, che avevano vissuto tante avventure, furono strappati e messi in
un cantuccio. Erano inutilizzabili, completamente macchiati di sangue, ed un
po’ bruciacchiati. Notai con disappunto che la casacca, come il resto,
vestiti che un tempo mi andavano a pennello, erano così larghi da
poterci nuotare dentro. Non era una bella cosa. Dovevo sembrare uno
spaventapasseri di gusto un po’ cupo. Finalmente, passai all’ultimo
tocco. La mia dolcissima maschera, la mia fidata amica, la mia silente
compagna. Era un bel po’ di tempo che non la mettevo. La prima sensazione
che provai, al contrario di quello che mi ero aspettata, fu quella di
soffocamento. Avevo pensato di ricevere conforto da quell’oggetto, il
conforto solito di un oggetto quotidiano. Non fu così. Certo, era
rassicurante la presenza di un qualcosa di familiare, qualcosa che avevo dato
per scontato negli anni, ma non ero più abituata al peso della ceramica,
ormai un po’ scheggiata, e mi sentivo prigioniera. Soffocavo, ed avevo
caldo. Pian piano, però, quella sensazione sgradevole sparì.
Riuscii ad abituarmi al peso che un tempo portavo disinvoltamente, ma avvertivo
sempre la presenza della maschera, come un ostacolo. Cosa m’importava, se
la gente mi avesse vista mostruosa com’ero? Cosa importava agli altri,
quando io avevo visto e provato orrori ben più grandi
di un incidente? Cominciai, lentamente, a comprendere una cosa. C’erano
avvenimenti ben più terribili di un corpo sfregiato a metà, un
viso che non si distendeva bene, di una voce roca ed asessuata. Rimanere invalida, per esempio, in qualche modo. Accecarsi.
Perdere tutto, essere spogliati di ogni illusione, di ogni speranza,
com’era successo a me. Ed ora, vuota com’ero, sporca di un sangue
immaginario che non voleva andare via, potevo vedere le mie cicatrici come la
peggiore disgrazia capitatami? Proprio, proprio no. Mi sarei tolta la maschera,
memento perenne alla mia diversa bruttezza, se fosse dipeso tutto da me. Ma non
potevo spaventare i piccoli. Loro certamente non avevano mai visto cose orrende
come me. Ed il sembiante di pupazzo allegro a volte rassicura di più di
un viso aperto, ma tremendo, da guardare. Decisi,
così, di non togliermi mai la maschera davanti ai loro occhi, di far
finta di non poterla togliere. Potevano crederci, no? Non avevano visto
qualcuno come me, no? In preda a mille pensieri, ora tornata in
un’attività fervente ed allegra che sapevo temporanea, afferrai il
mantello, ancora bagnato, e tornai di corsa alla radura ed all’albero
cavo, in tempo peril tramonto. Niente, ovviamente,
era stato toccato, ma fui ugualmente contenta di vedere tutto come l’avevo
lasciato. La pulizia aveva portato più tempo del previsto. Il sole aveva
squarciato le nuvole, colorandole di viola e giallo, ed era basso, di un colore
intenso, un rosso meraviglioso, che tingeva il mare di mille e mille riflessi. Era
ancora troppo presto per avventurarsi nel villaggio: sicuramente i contadini
erano appena tornati,e stavano mangiando nelle loro case. Avrei dovuto aspettare a
notte fonda, quando tutto sarebbe stato tranquillo, e tutti avrebbero dormito
sonni sereni. Quindi, mi rimaneva tempo per un breve riposo. Ne avevo bisogno,
un grande bisogno. Ero anche io un essere vivente, una creatura cui gli ultimi
accadimenti avevano tolto il sonno! Ed, inoltre, avevo ancora capelli e
mantello fradici. Dovevo essere perfetta, al cospetto dei miei piccoli amici.
Non potevo lasciarmi prendere dalla rabbia, né risultare inquietante, scorbutica
o cose del genere. Dovevo essere allegra, con il sorriso nella voce, una
presenza rassicurante e stabile. Qualcosa che non sentivo affatto, né
che ho mai sentito. Ma ero costretta: tutto per Chekaril e Roxen. Una famiglia
temporanea, ma pur sempre una famiglia. Ed io ne sarei stata la guida. Accidenti.
Ora ricordavo ben perché avevo rifiutato categoricamente di essere una Mestra! Scivolando sfinita con la schiena sul tronco,
illuminata dagli ultimi raggi gloriosi di un sole caldo, scivolai in un sonno
leggerissimo, abbastanza per rimettermi in forze.
Era notte fonda, il momento in cui tutti dormono, anche gli elfi, quando io scivolai, silenziosa ed
ormai più lucida, a Gerinti, ombra fra le ombre. Appena sveglia, poco tempo prima, mi ero fiondata per la strada che
ormai conoscevo a memoria, piena di una fretta comprensibile. Il mio mantello,
seppur un po’ rigido e ruvido al tatto, era asciutto, e così anche
i capelli, bizzarramente più ricci ed ordinati, deliziosi da guardare.
Avevo ripreso la mia borsa, ed ora la portavo con me. Non ricordavo fosse stata così pesante, e rumorosa. L’unica
cosa che portavo fuori, a mano, erano i due piccoli giocattoli dei bambini, che
stringevo forte. Li avevo messi bene in ordine, lisciandoli con le dita e
spazzando via dal loro tessuto ogni traccia di sporco, ed erano perfetti. Sapevo
benissimo quanta felicità avrei arrecato ai miei amici, una volta che
avessero visto i loro amati ricordi. Sospirai quando
oltrepassai le prime case. Sebbene fosse notte, avvertivo una certa aria di
lutto in giro, un’ombra dolorosa e persistente, che sapeva di fumo. Ad
una casa notai, addirittura, appeso uno straccio nero sulla porta. Krish era
stato molto, molto amato. Se solo avessero saputo quale serpe si celava sotto
le sembianze di un tranquillo esiliato, quella creatura da cui ero stata
trattata così schifosamente! Scossi il capo, e passai avanti. Era
davvero disgustoso. Ed i piccoli, quanto facilmente mi avrebbero seguita,
mentre avevano la pietà di tutto un villaggio? Dovevo mettermi davvero
d’impegno, e farmi amare davvero. Ripresi il cammino: per fortuna, sapevo
come orientarmi fino alla casa di Xavier. Evitai intenzionalmente lo spiazzo
bruciato che un tempo era stata una casa allegra e fiorente. Non avvo il coraggio per vedere i resti bruciati, quella cenere
che sapevo mista a quella del mio amato. Rimarcai con sollievo che nessun altra
abitazione era rimasta colpita da quel fuoco che avevo ferocemente appiccato.
La casa di Chekaril era stata più discosta dalle altre, e questo era una
fortuna. Inoltre, non sembravano esserci tracce di sorveglianza. Probabilmente,
si erano davvero convinti che quello fosse stato un tremendo incidente, e che
tutti, da Krish alla vecchia umana, ci avessero rimesso la vita.
L’incendio doveva essere stato piuttosto rapido a divampare. Io stessa,
con quel dito che ancora doleva, ne ero testimone. Probabilmente, cose del
genere erano accadute, o accadevano. Insomma: il mio piano era felicemente
riuscito. Mi rallegrai di ciò, mi rallegrai di aver allontanato da me
ogni altrui colpa. Nessuno poteva risalire a me. Sarei stata libera, se solo la
mia coscienza non mi avesse straziato in quel modo atroce! Avevo, però,
modo di riscattarmi, almeno parzialmente. E fu con quello spirito che arrivai
fino alla modesta casetta con il carro davanti. I piccoli erano lì,
affranti e disperati. Ma io non avrei lasciato continuare a lungo quel clima di
dolore. Li avrei condotti ad una nuova speranza. Feci, rapidamente, il giro
della casa all’esterno. Benedissi il fatto che l’avevo
già visitata, che ci ero entrata. Conoscevo a menadito il primo piano, ma
non avevo mai visitato il secondo. Mi basai, allora, sul numero delle finestre,
l’unico modo in cui sarei riuscita ad entrare nelle camere. Di sopra, ce
n’erano cinque. Quattro di esse erano aperte. L’ultima,
invece, sul lato destro, che dava su un grosso albero contorto, era chiusa, con
una specie di fazzoletto che penzolava al lievissimo vento che proveniva dal
mare. Reputai, o almeno, sperai, di aver capito quale fosse
la stanza che Xavier e Sybil avevano dato ai piccoli. In caso contrario, ce n’erano
altre due o tre da visitare. Ero abbastanza silenziosa per non svegliare
nessuno. Quella, fortunatamente, grazie all’alto albero, che cresceva
addosso al vetro, era la più facile da raggiungere. Mi arrampicai sulla
grande pianta, dal legno straordinariamente ruvido e cavo, e dall’aria,
nonostante tutta la sua grandezza, fragile, con lentezza. Ebbi l’improvviso
timore che si rompesse, e procedetti con enorme calma. Finalmente, incuneata
tra due grossi rami ad un palmo dalla finestra, guardai dentro. E gioii. Avevo capito
tutto, al primo colpo. Beh…non era stato così difficile. La stanza
era molto piccola, evidentemente una sistemazione di fortuna. I lettini non
erano altro che miseri, ma ordinati e puliti, sacchi
di fieno, o almeno così mi parve. La porta era chiusa. I piccoli erano
svegli, e si tenevano abbracciati, davanti ad un piccolo lumicino schermato,
che rischiarava debolmente la stanza. La scena mi addolorò immensamente,
e dovetti farmi forza per non piangere. La mia piccola Roxen, vestita di un
semplice abito rosso, di cotone stinto, abbracciava un bimbetto evidentemente
di una decina d’anni più piccolo di lei, ancora in un’età
incerta, dove la crescita tumultuosa dei quaranta anni non si è ancora
avviata,poco
più basso di me, in lacrime. Quel piccolo magro, dai capelli, a quanto
vedevo, chiari, e dal faccino delicato, mi fece pietrificare. Non me l’aspettavo,
non aspettavo un colpo del genere. In fondo, però, avrei dovuto
immaginarlo. Non l’avevo mai visto, e quel primo incontro fu illuminante.
Oltre al nome, di Chekaril aveva anche l’aspetto. La somiglianza tra
padre e figlio era spaventosa, quanto quella tra me e Roxen. Doveva,
però il piccolo, ad un’analisi più attenta, avere i capelli
più mossi, lievemente più scuri, di una sfumatura che sfociava
del miele, e la pelle anemica della madre. Ma quello era un segno, un segno di
quel destino in cui io non credevo. Non avevo protetto il padre, né mi
ero fatta amare da lui. Possibile rifarsi con il figlio? Dentro la mia maschera,
sorrisi pietosamente. Poveri piccoli. Che avevo fatto, cosa avevo combinato! Ero
stata davvero crudele, avventata. Non potevo pensarci prima? Ogni singhiozzo
che scuoteva la spalle strette dell’infante era
una stilettata dritta nel mio cuore. Non potevo continuare così. Dovevo salvarli,
salvare quegli innocenti da quel dolore che né Xavier né Sybil
erano capaci di comprendere. Loro avevano una loro famiglia, dovevano
importarsi per prima cosa dei loro figli, il loro bene più prezioso. Nella
cultura elfica, è difficile trovare una madre bendisposta a curare i piccoli
degli altri. La sterilità è una piaga diffusa tra la nostra gente,
e proprio per questo gli infanti vengono curati in
modo quasi spasmodico. Allevare un figlio come proprio, o allevare il proprio
figlio, sono due cose diverse. Il proprio sangue che scorre nelle vene di un
piccolo è diverso da quello sconosciuto. Sono credenze diffuse nella
nostra società a carattere fortemente
discriminatorio. Mi reputo fortunata a non aver avuto un’educazione
elitaria e stupida come quella, a non aver avuto indottrinamento domestico di
sorta. Mi permetteva di essere più naturale, e mi permette di fare cose
che per gli altri elfi sono difficili da accettare. Per quanto ben curati,
dunque, Roxen e Chekaril sarebbero sempre venuti secondi rispetto ai piccoli
demoni della famiglia di Xavier, e non avrebbero mai avuto l’affetto di
prima. Quello era il principale ostacolo che si poneva davanti al loro futuro. Abbandonarli
in una famiglia sconosciuta, non se ne poteva parlare proprio per quel motivo. Lainay,
io sapevo, li avrebbe trattati come principi, come re, li avrebbe coccolati e
viziati. Per quanto bastarda, la Regina era
perfettamente capace ed abile nel manipolare gli infanti, e la gente in
generale. Ma io non volevo che Roxen fosse trasformata in un freddo burattino,
come lo ero stata io. Chi, dannazione, chi, poteva amare i due come figli propri? Non avevo ancora la soluzione, e disperai,
guardando quei piccoli piangere, e disperarsi. Avevano perso tutto. Tutto, per
colpa mia. Sentii un’acuta fitta di dolore. Avrei voluto, tanto, piangere
con loro. Ma non potevo. Io dovevo essere, almeno per un po’, la roccia
contro la quale si sarebbero aggrappati. Preparai così la mia
messinscena. Sorrisi, i miei occhi si riempirono di gioia, nonostante io olessi piangere con loro. Mi allungai un pochino, alzando
il braccio e tendendo l’anulare. Due colpi leggeri al vetro. Vidi i due
piccoli sobbalzare, ed allontanarsi l’uno dall’altro. Non dovevo
spaventarli. Io dovevo essere buona, e dolce, e rassicurante. Tutto ciò
che non ero, praticamente. Inclinando lievemente il viso, portandomi buffamente
i capelli davanti alla maschera, ripetei l’azione, per attirare l’attenzione
su di me. Altri due colpi. Roxen si girò verso di me. Che bel volto che
aveva, così leggiadro! E quegli occhi di ametista, gli occhi del padre
che sarebbero vissuti per sempre! Chekaril ripeté come uno specchio l’azione
della sorellastra. Il volto pallido era inondato di lacrime, ma vedevo
chiaramente che i suoi occhi non erano viola. Verde scuro, forse. Sospirai di
sollievo. Non avrei sopportato oltre di avere un piccolo gemello del mio amore
davanti a me per molti giorni. Sarei senz’altro
scoppiata. Il volto del piccolo si riempì, immediato, di
curiosità, e lui fece un passo avanti, forse per aprire la finestra. Roxen
lo fermò immediatamente, e mi guardò con sospetto malcelato. Fu davvero
doloroso vedere mia figlia così maldisposta verso di me. Peggio di ogni
cosa. Mi frenai poco prima di abbassare il capo. Non potevo nemmeno lasciar
intravedere il mio tormento, dannazione! Sarebbero stati giorni molto, molto
lunghi. Avrebbe retto, il mio stomaco? In quel momento, da me disperatamente
ignorato, stava dando un’atroce battaglia. Negli ultimi tempi,
però, era diventata una sensazione familiare, e cercai di non preoccuparmene
troppo. Ora dovevo solo incantare due piccoli amici. Mi concentrai. Scossi il capo buffamente,
di nuovo. E staccai le mani dall’albero, per agitarle in segno di saluto.
Non avevo, intelligentemente, indossato i guanti. Dovevo sembrare un essere
umano, almeno, solo un po’ bizzarro, non un mostro della notte. Ma io, con
le inquietanti creature partorite dall’ingegno infantile, non avevo una seppu minima somiglianza. Non dovevo averla. Ero semplicemente
una buffissima ed imbranata elfa, venuta da loro perché li voleva bene. Mi
sbilanciai, e rischiai di cadere. In parte lo feci apposta, per far sorridere i
piccoli, ma nulla mi preparò a frenare qualcosa che sarebbe sicuramente
diventato una caduta, se solo non mi fossi appesa ad un ramo. Ero più
vicina alla finestra, ora. Sbirciai di nuovo dentro. E sobbalzai. Tutti e due
erano piantati ad un soffio da me, dall’altra parte del vetro, con il
naso premuto contro di esso, guardandomi con curiosità,
ed interesse, maggiori. Chekaril sorrideva, divertito, ed aveva smesso di
piangere. Roxen pareva più sospettosa, ma non aveva più quello
sguardo cattivo di prima. Mi assomigliava, anche negli atteggiamenti. Considerai
quel cambiamento come un successo. Assurdamente piantata contro la finestra,
ripetei di nuovo il gesto di saluto, con la mano sana. Vidi, con gioia
crescente, un piccolo, pallido sorriso comparire sulle labbra piene di Roxen. Chekaril
rise apertamente, innocente e lieto. Il mio cuore scoppiò, e mi sentii
piena di una felicità che mi riscaldava come una buona tazza del
tè che mi preprava Tijorn. Non stava
più piangendo, il piccolo. Ero risuscita a farlo smettere di disperarsi!
Era una cosa buona, ottima. Entrambi, finalmente, risposero al mio saluto. Toccai
di nuovo il vetro con il dito, due volte, ed inclinai il capo. Sperai di
riuscire rassicurante. L’albero scelse proprio quel momento per
scricchiolare minacciosamente. Oh, oh. Io sapevo che quella pianta era fragile!
Mi guardai indietro, preoccupata, poi mi girai verso i piccoli, guardandoli con
crescente inquietudine. Vero, ero davvero leggerissima, ma
nulla impediva all’albero di rompersi, e di uccidermi. E dopo…cosa
sarebbe mai successo? Per fortuna, quei due avevano del senno da vendere. Mia figlia,
a giudicare dal suo sguardo urgente, aveva capito. Ci fu un rapido, silenzioso
per me, scambio di battute tra i due fratelli. Poi, inaspettatamente, la
finestra si aprì di scatto, facendomi ruzzolare goffamente nella stanza.
Capitolo 55 *** La speranza di un futuro migliore. ***
Non mi aspettavo quell’entrata così precipitosa,
così subitanea, e, per un attimo, ne rimasi spiazzata
Non mi
aspettavo quell’entrata così precipitosa, così subitanea,
e, per un attimo, ne rimasi spiazzata. Dopo quella buffa caduta, mi ritrovai a
pancia in su, a fissare stupidamente le rozze travi di legno del soffitto.
Benedii me stessa per aver legato bene la maschera: non appena ferma, fu la
prima cosa che controllai. Non si era mossa. Sospirai, e mi mossi un po’.
Ero quasi finita con il naso nella paglia dei lettini, in una posizione
piuttosto scomoda. Starnutii, infastidita, e poi scossi il capo: qualche filo
mi stava dando enormemente fastidio. Sentii un coro di risatine soffocate, ed,
immediatamente, le facce dei piccoli entrarono nel mio campo visivo. Roxen,
finalmente, si era sciolta: mi guardava, con un gran sorriso stampato sul
visino delicato. Potevo vedere con maggior precisione le fattezze del piccolo
Chekaril. Sentii battere il cuore più forte, guardando quel volto
pallido, ancora umido di lacrime, ma rischiarato da un bel ghigno. Era la mia
possibilità di rivalsa contro quel destino, che ancora doveva riservarmi
i giochi più crudeli. Oh, si: era davvero uguale al padre, fatta
eccezione per gli occhi. Verdi, un colore molto raro già di sé
per gli elfi, ma dalla strana tonalità, probabilmente presa dalla
famiglia della madre. Nessuno degli antenati della stirpe reale aveva occhi
verdi, anzi: tutti erano caratterizzati da sfumature miste tra il viola e
l’azzurro, entrambi tinte piuttosto diffuse. Nessuno mi avrebbe
preparata, né mai mi preparò, a quel colore insolito. Al buio mi
era parso scuro, ma, ora, invece, ad una debole ma sufficiente luce, intravedevo
tutti i toni del bosco, e scommettevo che ancora di più mi sarei
sconvolta alla luce del sole. Ed ancora oggi rimango interdetta, stupefatta da
un meraviglioso insieme della terra. Mentre ancora li fissavo, stregata da quei
piccoli, ancora ferocemente disperata, in cerca di una via di redenzione che
speravo arrivasse presto, ed una via d’uscita per quell’assurda
situazione nella quale mi ero ficcata, sentii la voce di Roxen. Mi parvero un
dolce scampanellio, quelle poche parole, dette in tono divertito, la più
bella musica del mondo, e per poco non mi commossi. Mia figlia. Ero con mia
figlia, che mai avrei sperato di rivedere, con la quale mai avrei sperato di
parlare. Forse davvero poteva venire qualcosa di buono, da quell’atto
atroce che avevo commesso. “ciao signora!”. Esclamò, con un
bel sorriso. Il grosso era fatto: almeno, non era più sospettosa nei
miei confronti. Sembrava, anzi, divertita. Ne fui quasi sorpresa: bastava
così poco, per simpatizzare con un piccolo! Mi bastava promettere
qualcosa per affascinarla, per condurla silenziosamente con me. Qualcosa di poco,
solo quello. Ed allora, tutto si sarebbe avviato ad un nuovo, per me incerto,
inizio. Scommettevo di aver già vinto il cuore del fratello, ancora
troppo piccolo per non essere incantato da una buffa, piccola signora, venuta dal
nulla con doni e promesse, con in mano la speranza di un futuro migliore.“chi siete?”. Quelle parole
infantili, quel misto di formalità ed informale ingenuità, mi
offuscarono lo sguardo con amare lacrime. Povere, piccole creaturine. Erano
ancora innocenti, e pure, dopotutto. Ed io ero venuta così ciecamente a
distruggere le loro vite! No, dovevo riparare, anche se parzialmente, ai torti
che avevo fatto.Con un gesto
rapido, mi misi seduta, e, facendo finta di riavviare i capelli con la mano
sana, controllai i legacci della maschera. Era tutto a posto: non si erano
mossi di un millimetro. Sospirai di sollievo. Almeno, non mi sarei dovuta
preoccupare di celare il mio aspetto, con i piccoli, di dover continuamente
sistemare una maschera dai legacci rotti. Non potevo, certamente, mostrar loro
la mia bruttezza infinita. Era già una grande cosa. “sono
un’amica, piccini, e mi chiamo Lsyn”. Dissi, con voce dolce, un
po’ incerta. Temevo molte cose, e, con quelle prime parole, mi sarei
giocata tutto. Tremai un po’, quando cominciai a parlare, e chiusi le
mani a pugno per far in modo che i piccoli non se ne accorgessero. Ma presumevo
che essi fossero stati attirati da ben altre cose. Sapevo benissimo
l’effetto che avrebbe fatto il mio tono, rauco e molto aspro, un ringhio
faticoso, e mi ero preparata ad ogni reazione. Se mi avessero accettata anche
in quello, allora la strada era tutta in discesa. Sennò…avrei
trovato un metodo, giusto? Mi aspettavo di tutto, dal disgusto alla sorpresa, e
per poco non serrai gli occhi, come a non voler vedere, a dimenticare, a far
finta di non esser lì. Ero davvero preparata a tutto. Ma niente mi
preparò alla loro stupefacente reazione. I due piccoli non diedero segno
alcuno di essersi accorti della mia strana voce, anzi. Continuavano a sorridere
imperterriti, senza muoversi dalla loro postazione. Mi erano davvero vicini.
Non si scambiarono nemmeno uno sguardo perplesso. O erano piccoli, o cominciavo
a risultare gradevole, buffa, degna di fiducia. A quel punto, mostrare i
pupazzi sarebbe stato dare il colpo di grazia ai sospetti già molto
labili. La mia missione si prospettava più semplice del previsto. Fui
contenta di non dover ricorrere a minacce, o a misure drastiche di emergenza.
Perché io da lì me ne sarei andata con loro, volenti o nolenti. Non
intendevo lasciare quel compito a nessun altra Spia. Roxen era mia figlia,
Chekaril il figlio del mio povero principe, ed erano entrambi miei. Volevo
essere amata da qualcuno, lasciare in qualcuno un bel ricordo. Ed ,a quanto
pareva dai loro atteggiamenti, ci stavo riuscendo. Quella dimostrazione di
mancanza di timore mi riscaldò, e mi spronò ad andare avanti, a
concedere loro maggiore confidenza, sempre di più. Dovevo sembrare
simpatica, in ogni modo. “potete anche darmi del tu, no?”.
Aggiunsi, in modo molto più spigliato. Quella decisione presa era stata
assai subitanea. Solo in quel modo sarei sembrata più…vicina a
loro, solo in quel modo avrei perso quell’aura da adulta che portavo.
Forse, e davvero lo pensai, i due avrebbero finito per considerarmi come loro
pari, donando fiducia assoluta. Tanto, come statura già c’ero. Non
finii nemmeno di parlare, che Chekaril m’interruppe, guardandomi in un
modo fin troppo familiare. Mi stava studiando, era molto curioso. Quante,
quante volte avevo visto quello sguardo allegro, e ben poco educato? Troppe,
per non riconoscerlo. Strinsi la mascella, tesa. Avevo improvvisamente freddo.
Molto freddo. Sentii brividi gelidi corrermi lungo la schiena. Quello a cui ero
davanti aveva dell’inquietante, e molto. Il piccolo assomigliava, anche
negli atteggiamenti, al padre, in una maniera quasi spettrale. Era come se il
Principe si fosse reincarnato in quel bambino innocente, in una versione
purificata. Vero, mancava qualcosa del Chekaril originario, una certa aria
tronfia, o forse ero solo io suggestionata dall’aspetto molto simile al
suo, non so. Fatto sta, che a quello sguardo desiderai fuggire. Come
un’eco, risentii le urla disperate, di puro dolore, la voce del mio
amato. No. Oh, no. Non ancora quei rumori, non ancora quelle sensazioni! Chiusi
gli occhi per una frazione di secondo, giusto per schiarirmi la mente. Ma
quell’impressionante copia era ancora lì, fiduciosa ed allegra.
Desiderai, per un attimo, di fuggire, e fu solo la decisione di stare con i
piccoli a tenermi ferma, lì, seduta, con loro di fronte a me, i candidi,
i puri. E dovevo proteggerli, da tutti i mali, proteggerli anche a costo della
mia vita. Io avevo rubato la loro felicità. Ora loro potevano prendere
ogni cosa di me stessa. Lo sapevo, e ne ero intimamente molto felice. Era, come
intendevo io, un segno del destino? Il caso mi permetteva una via
d’uscita, un modo per redimermi, redimere quello scempio che avevo
causato, cancellare quella macchia dai miei ricordi? Era impossibile, quella
era davvero un’utopia, eliminare, estirpare il ricordo di uno schizzo
violento di sangue in faccia, il ricordo di un coltello che, con un tonfo
sordo, si piantava nella carne e nel legno. Impossibile eliminare
quell’ostinata sensazione di solitudine, di veder passare il mondo
davanti più veloce di quanto io possa andare, di tendere le mani e non
poter afferrare, di affogare, di non aver un punto fisso nella mia vita. Ma,
almeno, potevo seminare un po’ di luce, lasciare un frutto che forse non
sarebbe andato perduto. Potevo farmi volere bene. “si…ma chi sei
tu?”. Disse il piccolo Chekaril, allontanando con uno sbuffo una ciocca
di capelli che era arrivata davanti al suo viso pallido. “perché
sei qui da noi?”. Sorrisi, nella mia maschera. La recita doveva iniziare.
Feci un gesto rapido con la mano, e la sbattei sul lettino che era dietro di
me, quasi ad invitare i piccoli a sedersi. Poi, mentre i due mi obbedivano,
guardandomi, ora curiosi, mi sistemai, e mi girai verso di loro. Ci trovammo a
formare un bizzarro triangolo, ed io li ebbi entrambi di fronte. I loro visi
riempirono il mio cuore di gioia. Potevo affidare la mia speranza a loro,
almeno per un po’ di tempo. Rispondere a quelle domande, tuttavia, si
rivelò più difficile del previsto. Cosa dirgli? Cosa rivelar
loro? Decisi, almeno per un po’, di temporeggiare. “io sono una
persona che vive nel continente…”. Tossicchiai, a disagio. Le
espressioni dei piccoli, da incuriosite, si erano ghiacciate, ed entrambi si
erano guardati, perplessi. Si stavano, molto probabilmente, chiedendo perché
diamine io la stessi facendo così lunga. In realtà, non sapevo
proprio cosa dire. Forse avevo proprio sbagliato tutto. Stavo esitando troppo.
Dovevo giocare il tutto per tutto. Non potevo temporeggiare un minuto di
più. Presi una decisione fulminea. Non dovevo stare a pensare, dovevo
agire! Avrei rischiato. Forse, così, si sarebbero fidati di me. E,
comunque sarebbe andata…mi restavano sempre alte carte da giocare, vero?
Strinsi forte, sotto il mantello, i due pupazzi, per cercare di rassicurarmi.
Sarebbe andato tutto bene. Mi tremavano le mani, e molto. “e…sono
la sorella di vostra madre”. Dannazione. Non potevo scegliere bugia
migliore di quella! Avevo pensato che un legame familiare in più li
avrebbe rassicurati. Avevo torto. I loro sorrisi si erano trasformati in
espressioni smarrite, tutto di un colpo, non appena ebbi finito di pronunciare
quella frase. Chekaril aveva fatto un salto, e mi aveva guardato, incredulo.
Roxen era, praticamente, rimasta pietrificata. Leggevo, nei loro occhi
innocenti, la perplessità, il dolore. Fu una stilettata in pieno petto.
Avevo sbagliato. O forse no. “ma la mamma se n’è andata
via”. Mormorò mia figlia, abbassando lo sguardo. Chekaril si
lasciò sfuggire un paio di lacrime. “mamma e papà sono
andati via, e non torneranno da noi”. Dannazione. Perché mi
sentivo così atrocemente in colpa? E non potevo svelar loro nulla! Stavo
facendo loro del male, e la cosa mi diede fastidio. Sbaglio, o avevo promesso
di proteggerli? Il loro dolore mi contagiò, e mi diede l’idea per
continuare la mia pantomima nello stesso tempo. Sentii le lacrime pizzicarmi
gli angoli degli occhi, lacrime totalmente genuine. Il rimorso,
quell’amaro frutto di cui mi ero nutrita in quei giorni, tornò a
farsi sentire, acerbo e pungente, devastandomi di nuovo l’anima. Cercai,
inutilmente, di dominarmi. Ero io la causa di tutto quel dolore. Perché
esistevo ancora? Perché? Nessun fulmine era caduto per uccidermi dopo
quell’atroce misfatto. Eppure, era l’unica cosa mai desiderata da
quel momento. lasciai che qualche lacrima sgorgasse dai miei occhi, inumidendo
le guance nascoste dalla maschera, e facendole prudere. Mi portai una mano al
viso, distratta dai miei stessi pensieri, e fu solo il contatto con la ceramica
fredda a ricordarmi chi ero, e dov’ero. Sospirai. “lo so, lo so che
non c’è più”. Dissi, con voce rotta, completamente
genuina. Lo sapevo, benissimo. L’avevo uccisa io. Mi trattenni dal
singhiozzare disperatamente. Dovevo andare avanti, dovevo aiutarli, quei poveri
fanciulli. Ancora la vista annebbiata dalle lacrime, alzai lo sguardo verso di
loro, addolorata. I loro volti si confusero in un turbinio di colori, ma io non
distolsi lo sguardo. Subitaneo, mi folgorò un pensiero. Dovevo
approfittare di quel momento delicato per distruggere ogni loro difesa. Era
crudele, tanto crudele, e mi biasimai per quello che stavo per fare, ma dovevo.
Dovevo. Altre Spie, al posto mio, li avrebbero rapiti, stordendoli di giorno,
senza remora alcuna, prendendo ogni cautela. Ma io ero ormai troppo dentro al
dolore, al tradimento, all’odio, al rimorso, per potermi considerare
ancora una Spia effettiva. Amavo troppo quei piccoli di già, sebbene ben
poco avessi parlato loro. Provavo sentimenti.E non tutti erano positivi. Ero stata
maledettamente presa in giro, dalle creature che con più dedizione avevo
servito. Chekaril e sua sorella erano stati per molti annii miei punti di riferimento, e li avevo
amati, li avevo serviti anche a costo della mia stessa vita. Mi ero portata
moltissime volte sulla soglia dalla quale non si torna, mi ero ammalata
moltissime volte, per obbedire alle loro direttive. Avevo distrutto il mio
aspetto per un’illusione, per una stupida illusione! Ed ora? Potevo solo
vendicarmi. I piccoli sarebbero stati fedeli a me, ed in ogni modo dovevo
riuscirvi. A me, a me, e solo a me. Non alla loro maledetta zia: forse, e solo
forse, li avrei portati a lei. Ma non l’avrebbero mai amata come il mio
ricordo, io sarei stata come una silente maestra, un aiuto della memoria.
Dovevano volermi bene. Ed io ne avevo disperato bisogno. Oh, ma dov’era
Tijorn, quando serviva? Perché non avevo giurato di tenermi in contatto
con lui? Perché avevo lasciato che Akita lo ghermisse, me lo portasse
via? Ora, cosa mi rimaneva? Un pugno di polvere. Oh, si: dovevo fingere, dovevo
lasciare che i piccoli mi amassero, senza riserve. Mi sarei inventata una
storia sopraffina. Ancora oggi stento a credere che a quelle parole false
sarebbe scaturito un legame così forte da trascendere ogni limite, ogni
ostacolo. Un legame che va al di là dell’amore, dell’affetto
stesso, che si tramuta in vero e proprio annientamento del proprio essere.
Rimango stupita nel ricordare quale effetto ebbero, quell’accozzaglia ben
poco plausibile di menzogne. Ma ancora devo rendermi conto che plagiare un
infante non è per nulla difficile. Basta parlargli come un essere
adulto, come ad un amico, ed è fatta. Non ho mai avuto, in giovinezza,
esperienze prolungate con gli infanti, e questo andò e va ancora a mio
discapito. Esagero, e molto: o sono troppo melliflua, troppo convincente, o
divento una belva. Nei brevi mesi passati con Roxen, era di norma Tijorn ad
aiutarmi, a darmi consigli su consigli, su come allevare un piccolo, come
tranquillizzarlo, eccetera eccetera. E’ sempre stato molto più
bravo lui di me, in questo. Ma ora lui non era lì, con me. Tirando su
con il naso, cominciai a parlare, mettendo insieme una pietosa, ma efficace,
bugia. “io sono venuta qua…per dire a vostra madre di tornare. Sapete”.
Tirai di nuovo su con il naso, un gesto del tutto genuino, e ripresi a parlare,
spiegando con voce tremula, e triste. Il mio tono sapeva di rimpianto infinito.
E forse era davvero così. Oh, quanto il rimorso stava scavando in me,
quanto, subdolo come un verme in una noce. “noi eravamo molto legate, ma
avevamo litigato. Io non volevo che lei venisse qui, ad abitare”. Confidai
con tutta me stessa che Roxen non si ricordasse dei periodi di Scmen. In caso
contrario, sarei stata davvero nei guai: mia figlia non era stupida. Dovevo vedere:
quello sguardo appannato mi stava dando molto fastidio. Strinsi forte gli
occhi, cercando di far scendere le lacrime, che presero a cadere, copiose. Le guance
mi stavano facendo impazzire. In quel modo, tuttavia, mi schiarii lo sguardo. Era
l’unico mezzo per farlo, per vedere bene. Dovevo osservare le loro
reazioni. Di nuovo, mi stupii. Erano davvero tristi, ma qualcos’altro
brillava nei loro begli occhi. Mi guardavano, commossi, ma stranamente felici. Chissà:
forse pensavano di aver trovato qualcuno di famiglia, che li avrebbe portati
alla felicità. Xavier e Sybil, in tutta la loro gentilezza, non potevano
sostituire una zia, si sconosciuta, ma sempre una zia. Una manna caduta dal
cielo. Oh, beh…da un albero, per essere più precisi. Ripresi a
parlare, con voce smorta. “per un sacco di tempo non ci siamo sentite…poi,
sapete, mi ha mandato una lettera, e mi ha fatto sapere di volermi vedere,
così mi presentava voi”. Vidi Roxen sobbalzare, e guardarmi con
interesse. Sperai che restassero esclusi dalle decisioni di casa meno
importanti, come in una famiglia tradizionale elfica. Feci una pausa più
lunga, per timore che qualcuno di loro volesse obiettare qualcosa. Ma non lo
fecero: rimasero a guardarmi, impazienti di sapere il resto della storia. “ed
allora, sono venuta, sapete…sono venuta due giorni fa, ma non ho trovato
la casa…era tutto…tutto…”. Feci una pausa, sopraffatta
dal dolore, e serrai gli occhi. Dannazione. Io ero la prima a soffrire! Il ricordo
dei carboni ardenti mi perseguitava, il ricordo di quel fuoco atroce che avevo
appiccato, di cui io stessa ero stata artefice. Un inferno, per coprire le
prove di ben altro scempio. Ma quei poveri piccoli dall’aria sperduta,
era meglio che quelle cose non le sapessero. Era meglio che quell’episodi
orribile rimanesse sepolto nella mia memoria, rimanesse in me, per tormentarmi,
tormentare me, e nessun altro. Ci fu una lunghissima pausa, in cui io,
sopraffatta dai ricordi atroci, dimenticai la mia finzione, dimenticai di
essere zia Lsyn, la buona, e tornai ad essere Lsyn, piena di rimorso, punita
del suo comportamento dalle memorie, che mi tormentavano, straziandomi l’anima.
Mi raggomitolai, presa da un dolore acuto al cuore, da un senso di sconfitta
immanente. Non potevo farci niente. A che pro prendere quei poveri piccoli, ed
estirparli da lì, da quel luogo felice? Perché? Perché tanta
cattiveria? Non mi avrebbero creduta. Mai. Ed io avrei perso, li avrei visti al
castello, portati lì da un’altra Spia, crudele magari come alcuni
elementi del nostro ordine, che magari si sarebbe fatta amare, e li avrebbe
plagiati. Ed io sarei stata sconfitta, per l’ennesima volta, sarei stata
odiata ed etichettata come menzognera, ed omicida. Non so quanto tempo rimasi
così, sperduta nella mia rassegnazione acuta, terribilmente sola,
lasciando che la lacrime scorressero dentro la maschera, e mi facessero
impazzire. So solo che, con quel comportamento spontaneo, la ebbi vinta. Chissà
cosa videro, in me, in piccoli: forse un’amica, forse una compagna nel
loro dolore, forse davvero un’ancora di salvezza. Fatto sta che, ad un
certo punto, sentii un peso caldo e solido appoggiarsi a me, con tutto il suo
peso. Seguito poi da un altro, ben più leggero. Tutto quello, mi
ricordò la Matriarca, ed il suo disperato bisogno di aiuto. Riconobbi immediatamente
quel segnale, senza spaventarmi. Aprii gli occhi di scatto. I due piccoli si
erano avvicinai moltissimo a me, fino a toccarmi, e si erano raggomitolati, con
fiducia, addosso a me. Forse volevano confortarmi, forse volevano confortare
loro, non so. Quello che fu, comunque, mi riempì di gioia inaspettata. Ehi…forse
davvero non tutto era perduto! Sentii un fiotto di calore invadermi la gola, e
per poco non cominciai a singhiozzare. Un essere come me…come potevano
amare una creatura brutta come me? Come? Come poter amare un essere abietto
come Lsyn Amarto? Era la prima volta che incontravo mia figlia, e che la
toccavo. Che si lasciavano toccare, come consci che non avrei fatto loro del
male. E mai, mai e poi mai. Ero davvero loro zia, in un certo senso. Li amavo
come una madre può amare i figli. Avrei voluto averli vicini per l’eternità,
così. Stavo vincendo, davvero? Sorrisi, e strinsi i pupazzi. Quei due
piccoli mi stavano davvero volendo bene? Decisi, instancabile, di giocare la
mia ultima carta. Dovevo aver da loro la fiducia assoluta. Ma come fingere,
mentre loro erano così vicini? Sospirai, e li cinsi con un braccio solo,
o almeno ci provai. Riuscii, perlomeno, ad averli tutti e due vicini a me. “shhh…io
ora sono qui, su…”. Mormorai, cercando in ogni modo di essere
tranquillizzante. Mi stupii: avevo davvero vinto il loro cuore? O loro avevano
vinto il mio? Forse ero io ad essere stata presa dai loro legacci. Non c’era
altra soluzione all’enigma. Li amavo già troppo, più della
mia stessa, infima vita. Mi sciolsi in una pozzo informe quando Roxen mi
guardò, mentre Chekaril si stringeva più forte a me. Io lei ci fissammo, uno sguardo infinito. Mi
persi in quegli occhi viola, gli occhi del padre. Vidi in essi solo una strana
gioia, e serietà infantile, acuta e pacata. Avevo ragione: era davvero
eccezionale per i suoi cinquant’anni. Strano come una mano tesa possa
fare la differenza, nei momenti di dolore. Lei si fidava di me, una
sconosciuta. Ah, la potenza del sangue! E lei non sapeva, nemmeno lontanamente,
cosa fosse per me. L’avevo aspettata, l’avevo desiderata, l’avevo
curata, l’avevo abbandonata, ma avevo continuato a pensarla. Era la mia
copia, il mio amore, la mia piccola protetta. Chekaril non lo era di meno.Era si, non figlio mio, ma…non m’importava.
Io non mi facevo di queste remore. In fondo, le Spie erano abituate ad allevare
figli di altri. Ed io ero stata allenata proprio a quello, a non avere
tradizioni sciocche di sorta. Contemplai mia figlia quasi con venerazione. Era bellissima,
il mio fiore. Quasi indegna per un rospo come me. Roxen, dignitosamente,
tirò su con il naso, ed alzò il mento, discostandosi un po’.
Io la lasciai andare, e strinsi più forte Chekaril, che aveva gran
bisogno di contatto, di calore. Mi sembrò di conoscerli da secoli, di
averli già conosciuti prima che nascessero. Erano destinati a me. Lei prese
a parlare, guardandomi dritta negli occhi, senza timore alcuno. “Xavier e
Sybil sono buoni, però non ci vogliono bene”. Disse, seriamente,
con maturità insospettabile per una piccola della sua età. Poverina.
Non sapeva nemmeno quanto avesse ragione. “tu, Lsyn? Tu ci vuoi bene?”.
Volerli bene? Dannazione: cosa, cosa potevo rispondere? Ero stregata, ormai e
completamente, da loro. Il mio fosco destino era intrecciato a loro, avevo
intrecciato la mia vita, avevo deciso di dedicare il resto della mia vita, quel
breve intervallo che, di lì a poco, mi avrebbe portata alla fine, o
quella che speravo fosse tale, a loro, quei candidi elfi, quei cuccioli. Avrei sacrificato
me stessa, per loro. Tutta me stessa. E volerli bene era poco, era solo un
eufemismo per esprimere l’affetto sconfinato che avvertivo nei loro
confronti. Potevo essere ancora migliore, con loro. Potevo redimermi, almeno un
po’. “si, piccoli”. Dissi, con voce tremante e dignitosa. Ma sincera.
“io vi voglio bene. E, se volete, vi porterò con me”. Quelle
parole furono una volatola di sfogo. Mi sentii libera, finalmente, libera e
accettabilmente felice. Per altri giorni, li avrei avuti con me, insieme a me,
avrei parlato con le creature più dolci del creato. Sorrisi mentre
Chekaril si stringeva più forte a me, finalmente singhiozzando, un
pianto liberatorio, e Roxen mi guardava, con uno stupore che, ben presto, si
trasformò in un lieve cenno di assenso. Avevo vinto, avevo trionfato. E non
mi erano nemmeno serviti i giocattoli!
Dopo aver superato quell’ultimo scoglio, formato dalla loro stesa
riluttanza, andarsene fu la cosa più facile del mondo
Dopo aver
superato quell’ultimo scoglio, formato dalla loro stesa riluttanza,
andarsene fu la cosa più facile del mondo. I due infanti furono davvero
poco restii ad abbandonare la casa di Xavier, elfo gentile e premuroso, ma
davvero imbranato. Avevano deciso non appena avevo loro detto di essere parente
di sangue. Elfi piccoli si, ma dalle idee chiare. Scappammo davvero in fretta.
Non appena si furono calmati un po’, insieme a me, dal cuore riscaldato e
dal bisogno tremendo ed urgente di donare amore a qualcuno, progettammo in
silenzio la partenza. Mentre Roxen raccoglieva tutte le scarse cose che avevano
in quella stanza, tutti gli oggetti che erano stati donati loro, o che erano
riusciti a raccattare dalle scarse rovine della casa, principalmente di valore
simbolico, con diligenza da cosciente sorella maggiore, Chekaril, aggrappato a
me come un bizzarro parassita, cominciò a parlare incessantemente, un
fiume di parole che sembrava non volersi arrestare. Sembrava darmi la massima
fiducia possibile, e sembrava aver deciso di volermi bene. Benedetta
volubilità infantile! Non ci era voluto molto per farlo smettere di
singhiozzare, ed aveva tutta l’aria di sentirsi rassicurato dalla mia
presenza, in quel momento. Io lo stringevo dolcemente con una sola mano, per
fargli sentire la mia presenza, delicata ed affettuosa come avrebbe potuto
esserlo la madre, ed ascoltavo, l’unica cosa che potevo fare, deplorando
più che mai il mio gesto. Non avrei avuto mai, mai il coraggio di fare
quello che avevo fatto, se solo avessi conosciuto i piccoli prima. Mai, mai, mi
sarei arrischiata d uccidere i genitori, se solo avessi visto prima la gioia
che regnava nella loro casa. Mi ero innamorata di quei visi pallidi e
addolorati, un amore sconfinato, a prima vista. Anche dell’infante, che
era segno lampante, prova fin troppo materiale ed evidente del tradimento del
Principe nei miei confronti. In fondo, lui era innocente, un semplice effetto
di un gesto che non aveva fatto altro che irritari a morte. E che colpa aveva,
il mio piccolo cucciolo, se suo padre era un dannato donnaiolo doppiogiochista?
Nessuna. L’avrei protetto come avrei protetto Roxen. Lo sentivo quasi
come mio. Avrei cercato di fare di tutto per la loro felicità. Avrei dato
loro la mia vita per una sola risata, un solo sorriso. Li avrei protetti,nel lungo viaggio che avremmo svolto
insieme, da ogni avversità. Non potevo permettermi leggerezze, né
lasciarmi prendere dall’ansia. Niente più colpi di testa, o
inseguimenti di fantasmi. Ero tesa verso un solo obiettivo: portare al sicuro i
piccoli. Sarebbe stato strano, avere qualcuno con cui parlare davanti al fuoco,
la sera, qualcuno che avrebbe preso quel viaggio come un’enorme
avventura, senza preoccuparsi del futuro. Sarebbe stato strano, tenere in conto
altre bocche da sfamare, una presenza viva e cosciente con cui parlare. E che
avrebbe risposto, soprattutto, a differenza di tutte le illusioni che mi ero
creata durante i miei disperati viaggi solitari. Ci sarebbe stata più
luce. Sarebbero stati bene con me, li avrei trattati come principi, come re,
cessando anche di mangiare per far saziare loro. Si…ma dopo? Che fare?
Tenerli con me, non se ne parlava. Non dovevano stare oltre a contatto con un
essere immondo come me. Cosa avrebbero imparato, da un insetto della mia risma,
che aveva ucciso i loro stessi genitori? Portarli da Tijorn? Niente da fare,
abitava a Sharilar, ed era, ora, in compagnia di una ributtante quanto bastarda
Spia, che avrebbe adorato i piccoli per il solo fatto di poterli portare alla
Regina, che le avrebbe fatto una carezza su quella dannata testa vuota che si
ritrovava. Non mi fidavo di lei. Portarli ad Uruk, dai ribelli? Come, quando?
Dopo che avevo quasi ucciso Isnark, certamente non godevo di ottima fama, in
quel luogo. L’unica cosa sicuramente benaccetta nel Matriarcato era la mia
testa, magari portata su un
meraviglioso piatto d’argento filigranato, da esporre come pezzo unico.
La testa di Lsyn, l’Ombra. Un dono raro e gradito. Scommettevo Nemys ce
l’avesse a morte con me, per aver indebolito il suo Capitano. Magari era
davvero la prima a volermi ridotta in cenere! Non ci avrebbe messo che uno
schiocco di dita, per ordinare magari l’esecuzione dei piccoli, davanti
ai miei stessi occhi, per torturarmi fino alla morte. Ed io ne sarei,
sicuramente, morta. La immaginavo, davvero, come una copia di Lainay, versione
buona. Trecento anni di servitù estrema mi avevano davvero fatto un
lavaggio del cervello. Ma, questo, l’avrei scoperto solo dopo. Passai ad
altre opzioni.I Tengu? Troppo
pericoloso: non dovevo sottovalutare le reazioni del Popolo Alato. Io in quel
villaggio ero amata, ma loro erano estranei, e non avevano salvato la vita ad
alcuno. Non avevo voglia d’inventarmi altre spiegazioni. Gli umani,
mascherarli da servi ed affidarli agli Insathi, portarli in un villaggio Inu,
dove gli elfi non si avvicinavano che per caso, oppure solo per razzia? Nemmeno
a parlarne. Cosa fare, allora? Dovevo scegliere il meglio, per loro. Sarebbero
stati bene da Lainay, che poteva, in ogni momento, ridurli a meri strumenti per
il suo trono, a freddi burattini? Avrei dovuto portarli lì, o altrove?
Mi tormentavo, mentre abbracciavo la piccola figura di Chekaril, che continuava
a chiacchierare sottovoce. Tormentavo il futuro, sperando di poterlo ridurre a
brandelli. Non smise di parlottare incessantemente, lieto di aver trovato un
punto di riferimento, nemmeno quando li feci velocemente arrampicare
sull’albero, mentre recuperavo la borsa, e mentre ci avviavamo nel punto
dove mi avevano lasciata i contrabbandieri, furtivi come ladri. Nessuno si era
accorto di nulla. Avevo agito nel più completo silenzio. Al loro
risveglio, gli abitanti di Gerinti avrebbero contato altri due abitanti in meno.
Noi saremmo fuggiti con i contrabbandieri, ed, allo spuntare dell’alba,
saremmo stati a Scmen, in viaggio. Speravo fossero al molo, Paòl e la
sua scatenata ciurma di avanzi di galera. Il piccolo sembrava aver trovato in
me un’eccellente valvola di sfogo. Nei primi momenti della nostra
conoscenza mi era parso silenzioso, quasi timido, ma ora ammisi di essermi
davvero sbagliata. Era una macchina di parole. Parole, sue parole, su parole. Una
raffica interminabile di ciance. Si era sbloccato, dopo quel pianto, e voleva
farmi intendere in ogni modo, di trovarmi di suo estremo gradimento. Roxen non
parlava, ma mi era vicina, e mi stringeva impaurita una mano. Avevo addirittura
legato i pupazzi alla cintura, velocemente, per tenerla, per sentire la sua
manina liscia nella mia. Mi stavano quasi per scivolare. Sperai ardentemente
che non lo facessero. Sarebbe stato per loro un colpo troppo grande ricevere
quei balocchi senza preavviso. La piccola sembrava quasi tesa, conscia di star
vedendo Gerinti per l’ultima volta, e si guardava attorno con
apprensione. Le strinsi la mano, una volta, per farle capire che ero vicina. Quel
contatto mi faceva sentire completa. Mia figlia era lì, con me. Non mi
bastava altro. Chekaril era troppo piccolo per capire la portata di quel
cambiamento, e continuò a parlare, senza staccarsi da me nemmeno un
attimo. Ad un certo momento, com’era prevedibile per me, da sempre stata
piuttosto restia ai discorsi interminabili, quella vocina instancabile prese ad
infastidirmi molto. Perché non la smetteva di raccontarmi quanto bravo,
buono e bello fosse il loro cane, di cui apprezzavo solo il nome, strettamente
legato ad un elfo nell’orbita della corte, che odiavo con tutto il cuore
per la sua aliena crudeltà? Perché non smetteva di narrarmi tutte
le gesta di suo padre, il grande, grosso ed astuto Krish, che tanto lo voleva
bene, e che tanto idolatrava? Mi faceva male sentire parlare del padre, mi
stava torturando atrocemente. Tuttavia, con un sorriso dolcissimo ed allegro, e
con qualche commento neutro di tanto in tanto, non lo interruppi. Potevo fare
solo questo. Immaginai fosse questa la mia punizione per l’omicidio
commesso, il ricordo perenne. Lo lasciai parlare e parlare, senza
interromperlo, fino a quando, ormai vicini al mio albero, non mi resi conto che
stava blaterando qualcosa di molto importante. Da quelle chiacchiere futili appresi
molte cose su Xavier, e molti retroscena. A quanto pareva dalle frasi infantili
di Chekaril, lui e la moglie erano ottimi genitori, ma si erano ritrovati
totalmente impreparati a gestire una situazione critica di quel genere, a dover
prendere con sé anche i figli di un altro elfo, per quanto amato. Avevano
cominciato ad allontanarsi, e le cose si sarebbero msse molto male per i due,
se io non fossi venuta. Non erano cattivi, ma solo molto tradizionalisti. Ed,
in più, la povertà aveva allungato le sue mani anche su di loro.
Erano contadini, e nemmeno troppo ricchi. In quei tempi di magra, potevano
farcela esclusivamente in quattro, e non di più, con i frutti che la
terra dava loro. Persino io, nei panni di una vecchia mortale, ero stata
portata da Krish, perché lui era più ricco, il più ricco
di tutti, e poteva permettersi un’ospite. Xavier, da un po’ di
tempo, si era legato moltissimo al Principe, e la sua famiglia aveva dipeso da
lui, fungendo da vice comandante. Nelle sue mani erano ora tutti i traffici con
la terra, con Scmen. Era stata, per loro, l’unica nota positiva.
Avrebbero guadagnato molto di più, ora, e si avviavano ad essere la
famiglia elfica più prestigiosa dell’isola. Ne fui quasi contenta:
almeno, non avrebbero dovuto più patire la fame. Non poteva essere che
una cosa positiva. Finalmente, dopo un lungo giro per evitare ai piccoli le
spoglie della bambola meccanica e del suo occupante, arrivammo al piccolo molo.
Ci fermammo. Presi a scrutare il mare, in attesa dei contrabbandieri. Speravo arrivassero.
O sarei stata, la mattina dopo, in guai davvero seri. Chekaril, che mi stava
confidando di essere stato lui a rompere il vaso della vecchia madama Swot,
perché stava giocando nel suo giardino con i piccoli amici, si
fermò, dubbioso, e si zittì, con grande gioia delle mie orecchie
stanche. Fu imitato da Roxen, che mi guardò con aria perplessa. Risposi ai
loro sguardi parlando con dolcezza. “vengono qui i contrabbandieri,
vero?”. Dissi loro, con aria affabile, dolce come miele. “saranno
loro a portarci sul continente, a Scmen”. Beh, almeno così
speravo. Paòl aveva detto di essere lì ogni notte, vero? Vero? Stavano
per arrivare, giusto? Mi sentivo tremendamente insicura. Avevo posto quella
domanda proprio per rassicurarmi. E m’illuminai quando vidi il volto dei
piccoli aprirsi d’innocente meraviglia. I due si guardarono. Chekaril
splendeva come una torcia accesa. “andiamo con i contrabbandieri?”.
Disse Roxen, a cui mancava solo una bocca spalancata per completare
l’espressione di assoluta incredulità che aveva impressa in viso.
“andiamo nel continente? Dove c’è la neve?”. Risi
sommessamente, ed annuii. Quelle reazioni infantili erano assolutamente
deliziose. Mi riempivano di gioia. Mi riscaldavano l’anima. Mi parve
quasi strano sentirmi dire quelle parole. Non dovevano mai aver visto in vita
loro una nevicata, una cosa che a me pareva quasi scontata. Promisi a me stessa
che, in qualunque luogo li avrei portati, sarebbe stato un posto con tanta,
tanta neve d’inverno, neve a iosa. Avrebbero potuto giocare, battagliare
come facevamo io e Tijorn da piccoli, finendo ogni volta per malmenarci sul
serio, suscitando l’ira incontrollata del Maestro, dalla quale fuggivamo
ogni volta, misteriosamente tornati in perfetto accordo. Un posto abbastanza
freddo, ma non gelido come l’estremo nord, in cui, in alcuni luoghi, la
neve era perenne. Non avrebbero sopportato il freddo, loro, i figli del sole,
come io non tolleravo il calore opprimente ed eccessivo della costa.
“è troppo presto per la neve…”. Dissi, allegramente,
fissando i loro volti curiosi. Dei, non me ne saziavo mai. Si: avrei
sacrificato la mia vita, per loro. Per il tempo che mi rimaneva, avevo uno
scopo per la quale vivere, qualcuno che mi amava, che ricambiava il mio
interessamento. “ma, dove abito io, d’inverno nevica così
tanto che non si può uscire di casa. Quando, smette,
però…le strade diventano tutte bianche!”. Promisi in me che
anche la loro infanzia, o quello che ne rimaneva, sarebbe stata serena come la
mia. E, da adulti, sarebbero vissuti sereni, magari in qualche famiglia sterile
di contadini, con me come immaginario angelo custode. Le mie parole allegre,
così pietosamente su di giri, fecero urlare Chekaril di gioia. “la
neve, Rox, la neve!”. Disse, lasciandomi per abbracciare la sorella, che
ricambiò allegramente, senza perdermi tuttavia di vista. Mi strinsi
nelle spalle, e le scossi allegramente, quando invece sentivo una spiacevole
sensazione di freddo che mi attraversava il corpo. Quello sguardo era fin
troppo consapevole. Roxen sembrava aver capito che qualcosa non andava. Mia
figlia era fin troppo matura per la sua età. Dava l’idea di una
piccola di settanta o ottanta anni, con il suo lieve cipiglio, leggermente
annoiato, e tragicamente addolorato. Cercai di non pensarci. Se solo mi fossi
soffermata un altro po’ in quello sguardo viola, sarei impazzita. Quella
piccola, già troppo cresciuta per la sua esigua età, mi metteva i
brividi e mi rassicurava, al tempo stesso. Era così diversa da me. Io
non ero così intelligente a cinquant’anni, dannazione! Ero troppo
impegnata, a dire la verità, a litigare selvaggiamente con mio fratello,
di solito solo per puro divertimento, a scappare con lui nel bosco quando
Amarto si arrabbiava sul serio, e poi a nasconderci quando lui veniva a
cercarci per darci una sonora e dolorosa lezione, per il nostro comportamento
scorretto e poco decoroso per due future Spie. Lei dava, bizzarramente,
l’idea di una piccola mamma per il fratellino. Tra di noi scorreva,
nonostante tutto, una strana complicità. Ci capivamo davvero bene. Il
fratellastro non si era accorto del nostro silenzioso scambio di sguardi, e
continuò ad esprimere la propria gioia. E qui, si lasciò scappare
una piccola confessione involontaria. “hai visto che la nave andava nel
continente? Hai visto che avevo ragione quando siamo scappati per vedere la
barca che scaricava le cose per papà?”. Roxen arrossì
terribilmente, e mi guardò, colpevole, mentre Chekaril non si accorse
della cosa detta. Sospirai di sollievo. Non riuscii a non celare un sorriso
compiaciuto. Ringraziai la maschera che coprì la mia espressione quasi
tronfia. Almeno, nonostante la sua aria quasi adulta, Roxen faceva qualcosa di
normale, era un’infante normale, che aveva fatto impazzire i genitori! Ero
fiera di lei. Brava la mia piccola! Fuggire è un tonico, per i bambini,
se è solo per pura voglia di conoscere, in un contesto tranquillo come
quello. Una marachella ogni tanto era un gran bene. Ed io non potevo parlare,
non potevo sgridarla, quando da piccola, assieme a Tijorn, complice più
che entusiasta di malefatte, avevo combinato cose ben peggiori. Far ubriacare
il mulo che avevamo nella stalla con la riserva di liquori del Maestro non era
nemmeno lontanamente paragonabile ad una scappatella notturna per vedere le
navi, vero? Come potevo parlare, io, che avevo fatto impazzire Amarto? Quindi,
mi mostrai più che comprensiva, e le feci l’occhiolino. Dovevo
sembrare molto rassicurante. Dovevo essere loro amica. Fu per questo che, in un
lampo, mi vennero in mente i loro balocchi. Li avrei resi estremamente felici,
eternamente grati. O forse no. Non potevo saperlo, ed i contrabbandieri erano
ancora ben lungi dall’arrivare. Pazienza: almeno sarei stata lì
per calmarli, in caso di pianti. Dovevo fare, però, in fretta, o mi
sarebbe mancato il coraggio. Per attirare la loro attenzione, mi schiarii la
voce. Il cuore mi batteva, furiosamente. Il gesto che stavo per compiere aveva
molto dell’azzardato, e lo sapevo. Con un gorgoglio minaccioso, lo
stomaco si torse. La mano sfregiata corse per afferrare i due giocattoli prima
che mi perdessi di coraggio, stringendoli in una morsa spasmodica. Non dovetti
attendere prima che i due smettessero di abbracciarsi. I miei gesti avevano
subito attirato l’attenzione dei piccoli. Roxen mi guardò di
nuovo, incuriosita, e Chekaril si staccò dall’abbraccio, girandosi
verso di me, con una certa aria di aspettativa. Ora dovevo solo inventarmi
qualcosa di plausibile, per giustificare la presenza di quei due animaletti di
pezza. Pregai tutti gli dei, sconosciuti e non, di mandarmela buona, di non
farli piangere di nuovo, né di farmi commuovere. Non dovevo piangere,
non dovevo deprimermi, non dovevo essere scontrosa con loro. Dovevo essere una
dolcissima madre, un surrogato di Aevo, per quanto mi era possibile. Dovevo. Lo
dovevo al Principe, che avevo ammazzato. Lo dovevo all’elfa, e lo dovevo
a me stessa. A me stessa soprattutto. Mi schiarii di nuovo la voce, ascoltando
il pigro sciaguattare del madre. “allora…”. Esordii,
guardando il terreno, stringendo con forza i balocchi. Perché,
dannazione, sentivo così caldo? Perché mi sentivo così
imbarazzata? Stavo morendo dalla vergogna, ed il senso di colpa minacciava di
riaffiorare. Non ci voleva. Lo stomaco mi avrebbe fatta impazzire, prima o poi.
“io…ieri notte…sono andata alla vostra casa, per vedere se
qualcosa era rimasto ancora…”. Con la mano sana mi sistemai i
capelli, senza guardare nessuno dei due, facendo una pausa. Non volevo vedere i
loro sguardi addolorati, e curiosi. “ho trovato dei vestiti…sono
bruciacchiati ma vanno bene, sapete? E poi…poi…ho trovato
questi”. Dei. Ero terribilmente rossa sotto la maschera. Che mi stava
succedendo? Basta: il tempo era mio nemico. Dovevo approfittare di quella
parentesi per quel, speravo gradito, regalo. Una volta con Paòl, ogni
speranza di dare i giocattoli sarebbe andata a vuoto. Dovevano sentire la casa
vicina. Sperai di non essere troppo avventata, e pregai la mia buona stella.
Senza altri intermezzi, poi, rivelai i giocattoli, ed alzai il viso nello
stesso momento, per vedere le loro reazioni. Mi aspettavo, moltissimo, il
dolore, la nostalgia, perfino le lacrime, o l’odio. Perfino il breve
momento di sorpresa, quel silenzio ghiacciato che attraversò i loro
volti, improvvisamente pallidi, mi rassicurò. Era normale. Non lo fu il
seguito, per niente. Per quella volta, decisi che quei due piccoli non erano comuni
creature mortali. O forse io troppo abituata alle reazioni adulte. Davvero, ero
preparata a tutto. Ma non a quello, per l’ennesima volta. Senza nemmeno
rendermene conto, mi trovai travolta da due infanti esagitati, pieni di gioia
fino a scoppiare. Per qualche attimo, non capii niente, e mi sentii davvero
disorientata. Ero immersa in un turbinio di abbracci gioiosi, ringraziamenti a
profusione, lacrime quasi di sollievo. Ero spiazzata, totalmente spiazzata. Come
potevano essere così felici, dopo aver visto un frammento della loro
precedente esistenza? Come? Mi sentii quasi male. Non ero autorizzata ad
assistere a queste manifestazioni così intim di sentimenti. Non lo ero. Finalmente,
dopo non so quanto, i due piccoli si staccarono. Niente mi preparò a
quegli sguardi pieni di gratitudine che mi rivolsero. Roxen aveva stretto a sé
il cane grigio, con fare possessivo, mentre Chekaril si era asciugato le
lacrime con il cavallino di pezza che aveva tra le mani, che era ora un po’
macchiato. Mia figlia mi guardò con un’occhiata che io interpretai
come estrema gratitudine. “grazie, zia Lsyn, grazie!”. Disse,
sorridendo senza posa. “mi mancava il mio cagnolino!”. Dovetti farmi
forza per non tremare, e scoppiare in lacrime. Dolci, dolcissime parole
infantili, che riparavano ogni crepa! Ero stata chiamata zia. Mi avevano
ringraziato! Avevano ringraziato me, solo per aver donato loro di pezzi di
passato, degli amici immaginari! Cosa c’era di più bello, quale
gioiello valeva di più di quegli sguardi gioiosi, pieni di agitazione innocente?
Mi sentii quasi morire, non so se per la gioia, o la tristezza infinita che
provavo nei loro confronti, perché avevo rubato loro la felicità.
Anche Chekaril si girò verso di me. “sai, zia…”. Disse,
tirando su con il naso, e guardandomi con gratitudine. “io non riuscivo a
dormire senza il cavallino…papà mi diceva sempre che mi avrebbe
protetto, quando lui non c’era…magari così sta con me…”.
Per poco non stramazzai a terra. Oh, dei. Oh, dei. Dannazione. Cominciavo a
sentire le lacrime pizzicarmi gli angoli degli occhi. Tutto quello era fin troppo doloroso per
sopportarlo. Come, come avrei resistito per ben quindici giorni minimo, con
quei piccoli innocenti? Come non morire di dolore? Sarei scoppiata in lacrime,
lacrime amare, vedendo le loro facce graziose piene di amore ben presto. Il cuore
mi sembrava di ghiaccio infranto, e faceva male. Fu solo una cosa a
distogliermi dalla mia pena immensa, che mi svuotava il petto e rendeva
difficile anche il solo respirare. “oè,
voi lì!”. Disse una voce molto lontana, portata dal mare come
in un sogno. Sobbalzai, e mi girai verso il mare. Conoscevo quella voce. Una voce
che mi salvava dai miei pensieri neri. Esultai silenziosamente. Una nuova fase
stava per avere inizio. La Serpe Nera
scivolava elegantemente sull’acqua, diretta verso il molo. Il viaggio
ricominciava. E stavolta, decisi improvvisamente, non mi sarei lasciata
affascinare dal mero potere!
Il resto del viaggio non presentò particolari problemi, e si
svolse con tranquillità
Il resto
del viaggio non presentò particolari problemi, e si svolse con
tranquillità. Il mare era calmo, ed i marinai curiosamente gentili verso
i piccoli. Non me l’aspettai. Roxen e Chekaril, sotto il mio sguardo
preoccupato, vennero issati a bordo con enorme
facilità, e vennero coccolati per tutto il breve viaggio
dall’intera ciurma, che sembrava trovare la loro presenza un piacevole
diversivo dalla vita sempre monotona e incerta del mare. I piccoli, dopo
l’iniziale reticenza, avevano cominciato ad operare il loro fascino anche
su quei duri lupi, e cominciavano a divertirsi, stranamente. Furono circondati,
in breve, da una vera e propria folla di sfaccendati, menestrelli e
prestigiatori improvvisati. Storia diversa fu per me. Nessuno mi aiutò a
salire, e dovetti farcela con le mie esigue forze. Nessuno fece caso a me.
Né Chekaril né Roxen, in caso di attacco, avrebbero potuto
contare su un mio seppur minimo aiuto. Ero appena salita sul ponte, infatti, quando
il leggero beccheggiare della nave, a cui non ero per
niente preparata, mi fece avvertire quasi immediatamente una vaga sensazione di
malessere, che mi parve nettamente di cattivo auspicio. Non sbagliavo: dopo
poco tempo dall’inizio della traversata,mi ridussi ad un mucchio
mugugnante ed informe di stracci, steso in mezzo ad alcuni sacchi di farina,
dalla quale differivo, temo, solo per il colore, la testa appoggiata alla mia
borsa. Stavo davvero malissimo. Dubito fortemente io riesca a superare una
volta e per tutte il mio timore irrazionale verso
l’acqua, e l’inguaribile mal di mare di cui soffro, ogni volta che
mi trovo in qualcosa che abbia seppure la vaga somiglianza con una barca. In
quella situazione a dir poco penosa, quasi mi dimenticai dei piccoli. Ero troppo
occupata a decidere dove lo stomaco fosse finito, se a
posto del cuore o in gola. Nelle prime parti tranquille del viaggio, per
fortuna, tutti mi lasciarono stare, non so se per pietà o per disgusto.
Non ero riuscita simpatica, durante il mio viaggio d’andata. Né
suscita simpatia un’elfa mascherata e lievemente piagnucolosa, accasciata,
inerte, con un braccio a coprirle il viso. Quella volta non mi portarono nella
stiva. Non seppi se esserne contenta o meno. Cercavo in ogni modo di dominarmi,
la mente completamente vuota, ed ascoltavo le risate ed il parlottio degli
infanti. Almeno loro, mi dissi, erano sereni. Avrebbero dimenticato un
po’ il dolore dell’essere orfani. Cosa
che, peraltro, per Roxen non era vera. Ma si poteva dirle una cosa del genere,
senzasconvolgerle
l’esistenza? Per niente. Ero condannata al silenzio, un silenzio che mi
straziava il cuore. Per quel momento, la nausea terribile che provavo era una
punizione più che sufficiente. Un’onda più forte fece
rollare fieramente la nave. Gemetti, e strinsi gli occhi. Qualcuno dei due
piccoli, forse Chekaril, ridacchiò, e disse qualcosa a voce alta, che
non afferrai. Dannazione, come odiavo il mare! Gemetti di nuovo, e mi sistemai
meglio sulla farina. “cerca di non rompermi niente, elfetta,
eh…”. Brontolò una voce anziana e ben conosciuta, di fianco
a me. Non mi arrischiai nemmeno a vedere chi fosse.
Ormai conoscevo Paòl abbastanza per sapere i suoi tentati scherzi a
memoria. “sto già abbastanza male senza che tu mi dica cosa fare,
Paòl…”. Mormorai, ancora ad occhi chiusi. Ero troppo stanca
per diventare l’elfa isterica che ero stata all’andata. Troppo stanca, troppo demoralizzata. Non avevo uno straccio
di forza. Tutta la mia decisione era stata assorbita da una casa in fiamme.
Avevo, inoltre, dormito solo poche ore, un riposo più che inadeguato
dopo un viaggio spossante, un viaggio che mi aveva devastata, un viaggio a
vuoto, e giorni di veglia atroce ed allucinata. Ci fu un momento di silenzio,
un momento che benedissi. Poi, con voce roca, il
capitano riprese a parlare. “ io conosco quei due bambini,
Spia…”. Mi sussurrò, con voce incuriosita. Ero troppo
distrutta per poter capire appieno le sue parole, decisamente troppo malmessa.
L’unica cosa che mi limitai a fare fu spostare il braccio, quel tanto che
mi permise di aprire un occhio e fissare il volto barbuto del vecchio. Volli osservarlo:
la sua espressione mi avrebbe suggerito se preoccuparmi o no. Non c’era
sospetto, non c’era preoccupazione. Notai solo un infinito interesse,
quasi infantile. Decisi così di non essere in ansia prima del tempo, e
richiusi l’occhio. Non volevo vedere la nave, le onde, il mare. Ne avevo
troppa paura. Ed ero troppo stanca, troppo. Paòl riprese a parlare.
“sono i figli del vecchio Krish, di Gerinti, vero? Dov’è
quella vecchia volpe? Perché stai portando i suoi
piccoli via?”. Sentii, improvviso, un moto di stizza acuta, e mi
morsi il labbro inferiore per non ringhiare di rabbia. Perché diavolo
non mi lasciava agonizzare in pace? Doveva pure infierire con quello
stupidissimo nome? Senza aprire gli occhi, gli risposi, forse con voce
più acuta ed aspra di quanto avessi voluto. “fatti gli affari
tuoi, capitano”. Gli dissi, con una certa vena di scherno. Non mi sentivo
davvero in vena di spiegazioni. Non in quel momento, in cui la testa mi pareva
stesse fluttuando allegramente in una nebbia acida. “ciò che
faccio io non è di tua competenza. Lasciami sbrigare la mia missione, e
fai quello per il quale sei stato pagato!”. Bene. Davvero, davvero, ci
voleva. Mi sentii lievemente sollevata, anche se il malessere non scomparve.
Avevo dimenticato quanto soddisfacente fosse
prendersela con gli scocciatori. Mi faceva davvero bene. Il capitano non
ripose, forse piccato, chissà, e, dopo poco, un lieve rumore mi
annunciò che se n’era andato. Nessun altro venne a darmi fastidio,
con mio grande sollievo. Sospirai, ecercai di rilassarmi. Non serviva
a nulla torturarmi, ascoltando ciò che succedeva attorno, contando le
ore, e saltando ad ogni piè sospinto. Inoltre, ero troppo stanca. In tre
giorni avevo dormito in tutto tre o quattro ore, e ne stavo risentendo pesantemente.
Dovevo riposare, o non sarei riuscita ad attraversare l’Impero.
Finalmente libera di lasciarmi morire in pace, mi addormentai dunque dopo poco.
Era l’unico modo per sfuggire al mal di mare, alla nausea che mi rendeva
molto simile ad un mollusco bestemmiatore. Riuscii, fortunatamente, a dormire
per tutto il viaggio, risparmiandomi la vista del mare aperto, paesaggio a cui sentivo di non essere ancora pronta. Mi risvegliai
solo la mattina dopo, quando ormai eravamo quasi arrivati a Scmen, ed i marinai
gridavano ordini, sacramentando. Sentivo due pesi caldi ai miei lati, pesi che
non erano sacchi di farina. La mia prima reazione fu quella di aprire gli occhi
di scatto, completamente convinta che qualche marinaio mi stesse giocando un
brutto scherzo. Invece no: Roxen e Chekaril si erano addormentati accanto a me,
rannicchiati contro di me, abbracciati ai loro giocattoli. La loro espressione
era così placida, innocente e distesa che m’intenerì
moltissimo. Dimenticai all’istante ogni allarme. Erano dei veri cuccioli.
Erano voluti rimanere con me. Sentii un moto d’affetto verso di loro.
Qualcuno, inoltre, ci aveva coperti con una sottile coperta di lino, che si era
avvolta tutta intorno alla figura sottile di mia figlia. I marinai erano stati
molto gentili nei loro confronti. Nonostante
tutto, forse, gli uomini che erano al soldo di Paòl non erano avanzi di
galera, come avevo creduto. Dovevano odiare solo le Spie, che, in fondo, erano
elfi e li dominavano a bacchetta. Almeno, avevano provato pietà nei
confronti dei piccoli. Ed eravamo tutti e tre sani e salvi, dall’altra
parte del mare, nel continente. Non era una piccola cosa, anzi. Rassicurata,
continuai ad osservare i piccoli, con un minuscolo sorriso. Erano troppo dolci,
offrivano uno spettacolo troppo delicato per farli svegliare. Sapevo che non
avrebbero accettato bene questa cosa, abituati com’erano a poltrire fino
a tardi. Ma si sarebbero dovuti abituare. C’era un viaggio urgente da
fare, un intero Impero in guerra da attraversare. Io non ero esattamente grande
e grossa, e non potevo portare nemmeno uno di loro in braccio. Forse sarebbe
stato più plausibile il contrario. Roxen era addirittura più alta
di me! Scuotendo il capo, cercando di vincere ancora la presente nausea, mi
misi in ginocchio, guardando in basso per non finire a fissare il mare, e
cominciai a scuoterli. Mi facevano pena, ma dovevo farlo. Entrambi uscirono dal
sonno di malavoglia. “zia…”. Mugugnò Chekaril,
strofinandosi gli occhi pesti, seduto dopo un po’, assurdamente, su un
sacco. “siamo arrivati a casa?”. Scossi il capo, dolcemente, ed
abbracciai entrambi. Non riuscii a resistere a quell’impulso: quei due
infanti mi riducevano il cuore in poltiglia informe. Li amavo troppo. Erano
l’unica fonte di luce nel baratro oscuro in cui ero caduta. Ancora
stretta all’assonnata Roxen, beandomi del suo contatto per me
rassicurante, presi a parlare. “no, piccoli, la mia casa è molto,
molto lontana, su, nel nord”. Dissi, sospirando con rassegnazione.
Portarli a casa mia? Come avrei spiegato loro che non potevo tenerli con me?
Avrei dovuto inventarmi qualcosa, ed al più presto. Non potevo dir loro
che forse sarebbero andati si da una zia, ma non me.
Una zia crudele, che li avrebbe trattati come servi, come burattini. Una zia
calcolatrice, che vedeva in loro meri strumenti del Regno. Roxen, la maggiore,
sarebbe stata allenata per ricevere il trono, una volta adulta, Chekaril
avrebbe, prima o poi, preso il posto del padre. Rabbrividii al pensiero di
vederlo a capo del suo esercito, lo sguardo freddo ed inquisitore, astuto come
quello di un gatto, senza sentimenti come quello di una serpe. Già
vedevo Roxen, assisa sullo splendido trono d’argento del castello di
Galinne, comandare a suo fratello uno sterminio d’innocenti, con un
sorriso bieco. Entrambi resi folli e crudeli da quella maledetta che mi aveva
rovinato il corpo, la vita, e mi aveva rapito l’anima, torturandola e
piegandola, annullandomi. Un senso di gelo mi pervase il corpo. Volevo davvero
quello? Volevo davvero obbedire alla mia signora? Cosa sarebbe successo, se non
l’avessi fatto? Sarei morta? Si sarebbe svolta una caccia per trovare i
piccoli? Cosa dovevo fare, allora? Non sapevo. Non volevo mettere a repentaglio
la loro felice esistenza. Loro si meritavano una vita serena. Senza lavaggi del
cervello. Presa da una brama incontrollata, brama di affetto, abbracciai di
nuovo entrambi, con forza. Li amavo troppo. “viaggeremo per il
continente!”. Dissi poi dolcemente, cercando di essere
allegra, guardando i loro volti troppo assonnati per recepire la
verità. “ora stiamo per sbarcare. Vedrete, piccoli, che tutto
andrà bene. Su, forza! Sveglia!”.
Non ci
volle molto per approdare a terra. Forse spinti da un impeto di umana bontà,
o forse per fare bella figura davanti agli sguardi innocenti dei piccoli,
finalmente svegli, i marinai non allestirono la sceneggiata che aveva
contraddistinto il mio rovinoso arrivo a Gerinti, il mio arrivo piuttosto
doloroso. A posto della passerella che mi aveva fatta cadere all’andata,
c’era ora una decente lastra di legno, al posto giusto, che non
ondeggiava, e ci permise una discesa agevole. Salutammo con gratitudine i
contrabbandieri. In fondo, mi avevano aiutata. Erano stati uno dei mezzi per
arrivare alla mia maledizione eterna. Aiutata si, ma a farmi capire cosa fossi
davvero, o a devastarmi? Che avevano fatto? L’incertezza della
situazione, tuttavia, non m’impedì di rivolgere un cenno brusco al
capitano Paòl, che ci aveva accompagnati, scuro in viso, fino alla fine
del molo, mentre i piccoli lo salutavano a gran voce. Lui non mi degnò
di uno sguardo, e si limitò a fare il buffone con Roxen e Chekaril,
salutandoli con cordialità, e poi andando a grandi passi verso una
locanda a ridosso della banchisa. A me ed ai piccoli non rimase che fare il
primo passo nel continente, un passo verso una meta incerta. Cominciammo
così il viaggio, un interminabile cammino di ben venti giorni, in cui,
praticamente, successe poco e nulla. Gli infanti rimasero storditi da Scmen, e
dalle sue variopinte case. A Gerinti non esistevano cose di quel genere, e loro
guardavanole
bancarelle dei venditori ambulanti, sentivano il vocio della gente che ci
passava accanto, con l’ebbrezza che si prova nella prima esperienza di
qualsiasi cosa. Era il modo giusto per far iniziare loro una vita diversa, un
luogo dove la guerra non aveva mietuto il suo fio regolare di miseria. Risero
molto guardando le strade, e, per me, quel suono allegro fu l’unguento
più bello per le ferite del mio cuore, che ancora pulsavano crudelmente.
Un unguento, purtroppo, non risolutivo. Non ero guarita da quel dolore acuto
che mi aveva posseduta da quando avevo ucciso
Chekaril, e quei momenti mi ossessionavano ancora, accantonati, ma non
dimenticati. Non sarebbero guarite mai. Entusiasmo a parte, non li persi di
vista, tenendoli per mano, con una stretta quasi per loro dolorosa. Scmen non
è mai stata la città adatta per due infanti abituati alla vita
placidamente bovina di Gerinti. I ladri ed i criminali avevano sempre abbondato,
in quel maledetto e sordido buco, peggio di Zakadi, ma in quel momento di
guerra sembravano più aggressivi del solito. Scmen era forse
l’unica città a prosperare di tutto l’Impero, prosperare nei
suoi commerci illegali. Lì la guerra era intesa come solo una breve
parentesi, lì, per il popolo mai dormiente della città criminale.
Una parentesi nella quale le carogne avrebbero abbondato, le carogne dove
affondare i loro artigli avidi da avvoltoi. Ogni occasione era buona per
guadagnare qualcosa per aumentare il lusso. Ed un momento di disattenzione mi
sarebbe bastato per farne approfittare un rapitore, che avrebbe preso uno dei
piccoli, per poi venderlo al mercato nero di schiavi, o peggio. Non volevo
rompere in quel modo barbaro quella loro gioia. Se solo qualcuno si fosse avvicinato con cattive intenzioni, promisi a me stessa
di farlo a pezzi. Ero nella disposizione d’animo adatta per farlo. Rimasi
tesa come una corda per tutto l’attraversamento della città,
guardandomi continuamente indietro per accertarmi di non essere seguita.
Finalmente, uscimmo, incolumi, ed io mi rilassai. Nessuno ci aveva seguiti, nessuno si era importato di un’elfa e due
piccoli. Il primo scoglio era stato superato. Rimanevano molti nodi da
sciogliere ancora, a potevano attendere. All’ombra di un masso, feci
così fermare per un po’ Roxen e Chekaril, ben poco abituati alla
marcia massacrante che avevo svolto per un tempo superiore alla loro stessa
vita, per farli riposare, e mangiammo.
Seguendo
a ritroso il mio cammino dell’andata, cominciammo ad avvicinarci
lentamente al Regno. Come detto, ci mettemmo ben venti giorni, prendendocela
con la massima calma. Mi dovevo aspettare, tuttavia, quello che successe,
davvero. Dovevo rendermi conto di essere ormai finita. Dopo la prima settimana,
infatti, in cui mi mostrai il più entusiasta
possibile, la vecchia tetraggine era ritornata alla carica, con forza
raddoppiata. Non ebbi la forza per lottare contro di essa
ancora una volta troppo debole, troppo debole anche per oppormi lievemente. Un
velo di cupa rassegnazione scese su ogni mio gesto, opprimendomi con il suo
peso fumoso. Presi a parlare solo quando stretto necessario, ed essere
terribilmente affettuosa. Solo i piccoli riuscivano a rallegrarmi un po’,
ma la flebile luce che loro emettevano cominciava ad affievolirsi girono dopo
giorno. Affogavo in un mare di disperazione, e nessuna mano c’era ad
afferrare la mia, per tirarmi su, e permettermi di respirare. Tutto mi sembrava
tremendamente grigio e noioso, tutto aveva smesso di avere colore. Pian piano,
smisi d’interessarmi anche a loro, e presi a passare sempre più
tempo in un silenzio tombale. Mi ero ormai abituata alla loro compagnia, ai
loro passi felpati durante il cammino, alla loro ombra assieme alla mia, e
presi a dare per scontato la loro presenza, che finì
per risultarmi quasi fastidiosa. I piccoli quasi non sembravano accorgersi del
mio stato d’animo, fortunatamente, e continuavano a rimanere dietro di me
fedelmente. Erano davvero troppo piccoli per capire che qualcosa cominciava
davvero a non andare. Ma io capii. Non ce la facevo più. Avevo perso
ogni gioia di vivere. Non riuscivo più a ricordare cosa fosse un sorriso. I gironi parevano tutti uguali. Cominciai
a mangiare sempre meno. Chekaril prese ad infestare i miei sogni, ogni giorno
con più aggressività, minando la mia resistenza. Spesso passavo
notti intere sveglia, tremando, nonostante facesse molto caldo, mentre il
piccolo mi teneva la mano nel sonno, per rassicurare lui. Io ero lì,
presenza silente nelle loro vite, ma…chi avrebbe rassicurato me? Chi mi
teneva la mano? Nessuno. Ero sola, sola contro le mie paura,
sola la notte, quando le mie colpe affioravano dal terreno, puntando le loro
dita adunche verso di me, sola contro il mio dolore. Non avevo la forza necessaria
per lottare ancora. Cosa avrei fatto, dopo? Comunque agissi, tutto era
irrimediabilmente perduto. Qualunque cosa facessi, dovunque io andassi, sarei
rimasta lo stesso sola, separata dal mondo normale da un vetro impossibile da
rompere, un vetro fatto della mia stessa bruttezza. Perché, si, la mia
maschera pesava, pesava molto, ed ogni giorno che passava mi soffocava sempre
di più. Desiderai liberarmene, liberarmene una volta e per tutte.
Sparire dalla faccia della terra, in un viaggio senza fine, non sarebbe
bastato. Con me sarebbero stati, a farmi compagnia, i fantasmi di un passato
glorioso, ed incauto. Fantasmi di tempi in cui ero ancora amata,
fantasmi dei tempi in cui ero una belva assetata di sangue. Sarei stata
perseguitata per sempre da me stessa, anche nel luogo più lontano ed
impervio. Capivo più che mai Eiron, ora, e la sua fierezza. Mi sentivo
sola nel mondo, un mondo senza speranza, un mondo intriso di sangue, dove
ognuno trovava un’ancora, ancora che io avevo stupidamente perduto.
Più andavo avanti, più, inoltre, le ferite recenti della guerra
si facevano evidenti, intristendomi. I bambini non lo notavano mai, ma io
m’incupivo sempre, quando vedevo fumo nero alzarsi all’orizzonte.
Ecco quello che era scaturito dalla mia sudicia fedeltà. Fumo, cenere,
morte. La fedeltà…cos’era? Per chi avevo lottato? Su cosa
s’innalzava il sistema dei miei valori? In cosa avevo creduto? Tutte le
cose in cui avevo fermamente creduto, tutti i sentimenti alla quale avevo
consacrato una dannata vita si erano sgretolati sotto i miei piedi, lasciandomi
cadere in un vuoto senza fine. Non so far capire, né so analizzare,
quello che mi successe in quel periodo. È difficile descrivere certi
sentimenti per chi non li ha mai provati, sentimenti di vuoto assoluto, in cui
si sa di essere andati oltre la soglia dove le lacrime non hanno più
significato. Perché io ero vuota, mi sentivo vuota. Vuota. Non ero più Ombra, non ero Lsyn, né Nanetta…non
ero, semplicemente. Non ce la facevo nemmeno ad odiare il fatto di sentirmi
stanca, moralmente stanca. Avevo sempre lottato, mi ero sempre ribellata. Ma,
ormai, qualcosa in me si era spezzato per sempre. Mi sentivo terribilmente…contingente,
praticamente inutile, come una bambola rotta. In quel mondo grigio non volevo
restare. In quel mondo di tormento l’unica via d’uscita era una
sola, e la conoscevo. Presi a rimpiangere amaramente di non essermi buttata nel
fuoco, quel giorno, ormai lontano, in cui avevo voluto nascondere le prove del
mio delitto. Perlomeno, le mie sfortune avrebbero avuto fine, in quel momento. Se
solo non si fosse messo in mezzo l’istinto, a quell’ora non avrei
più penato. Invece, no. Per colpa di me stessa, per colpa della mia
orrenda fisicità, il mio tormento continuava, facendomi trascinare a
fatica in un mondo che non sapeva della mia esistenza, né che mi voleva.
Ero spinta solo ed unicamente dalla presa di coscienza della missione. Non potevo
lasciare le cose a mezzo. Rimaneva solo un’ultima cosa da fare. Non potevo
lasciare incompiuta la mia ultima missione. No. Ma come, come compirla? Era quello
il mio altro, grande tormento. Ci pensavo, ogni notte, ogni giorno, mentre
trascinavo con me i piccoli stanchi, che si stringevano a me in cerca di un
conforto che non potevo dare. Portarli da Lainay, nemmeno a parlarne. Avevo finalmente
deciso. La mia Regina non si meritava un’offerta così da parte mia,
un’ennesima offerta votiva. La mia esistenza bastava. Non mi sarei
inchinata una volta di più a colei che mi aveva reso così priva
di vita, che mi aveva prosciugata di ogni voglia di vivere, di ogni tipo di
spinta ad andare avanti. Trecento anni buttati al vento, duecento anni di
sudore e fatiche per quello, duecento anni di servile sottomissione, per finire
calpestati nel fango, per finire come un verme. Per me, un guscio deambulante. Ero
stata così stupida da non vederne le prime avvisaglie? Perché avevo
continuato? Avrei desiderato, ardentemente, anche provare dolore, provare pena.
Qualunque cosa, pur di svegliarmi. Ma ormai non esisteva persona al mondo
capace di ricondurmi alla ragione. Ero arrivata oltre ogni sentimento, in una
terra di nessuno dove nessuno vive, a parte le anime destinate a morire. Ed io
tale ero, tale mi sentivo. O forse ero morta, ma non lo sapevo. Il viaggio continuò,
una tortura ad ogni passo. Fu quasi al confine con il Regno, una serata
tranquilla come le altre, che mi venne un’idea. Idea disperata, l’ultima
idea, ma pur sempre un’idea. Conoscevo l’unica persona capace di
amare i due come figli suoi, una persona abbastanza potente da poterli
proteggere da Lainay, l’ultima persona che Roxen e Chekaril avrebbero
dovuto vedere in vita loro. Qualcuno che non mi avrebbe potuto negare nulla. Una
persona amica. C’era qualcuno capace di tirarmi fuori
dagli impicci, qualcuno capace di amare, svicolato totalmente da ogni
catena. Per la prima volta dopo lungo tempo, sentii un flebile palpito di
speranza. C’era un modo per impedire l’inevitabile. I piccoli
avrebbero amato Junielle alla follia. Ne ero certa. Il giorno dopo, mi dissi,
saremmo dovuti andare verso Zakadi. Pregai ogni dio possibile ed immaginabile
di mandarmela buona, e che la mia amica mezzelfa fosse
ancora viva. O, che almeno, la città fosse
ancora in piedi. Era tempo di guerra, non dovevo dimenticarlo. E di sangue ne
sarebbe scorso a fiotti.
Arrivammo a Zakadi in una tarda sera d’inizio estate, stanchi
morti
Arrivammo
a Zakadi in una tarda sera d’inizio estate, stanchi morti. Era ormai il
nostro ventiduesimo giorno di viaggio, ed eravamo sporchi e laceri.
L’ultima parte di viaggio era stata davvero difficoltosa. Il territorio,
che, quando io ero partita, era ancora parte dell’Impero, era pericoloso,
e nemmeno uno dei più facili da attraversare: era tutto un saliscendi di
colline pietrose. Cominciavo a notare i primi segni di affaticamento anche in
Roxen e Chekaril. avevano cominciato a parlare molto
di meno, ed a farsi trascinare da me, non meglio messa di loro, la sera, fino a
quando io, impietosita, non li facevo salire su qualche albero, e riposare. Io
avevo perso del tutto sonno ed appetito. Rimanevo sempre ai piedi
dell’albero, tesa, di guardia, fino a quando un
sonno leggero non mi coglieva, un sonno ben poco riposante. Erano stati giorni
tremendi. Il confine portava, più che evidenti, i segni di una guerra
fin troppo violenta. Solo la fortuna ci aveva impediti di finire dritti in un
accampamento di soldati, molte volte. Avevo intravisto, chiaramente, e
più di una volta, sventolare fieramente il giglio bianco, il vessillo
della casa reale, ed il drago d’oro degli Immortali. Solo due volte ci
eravamo imbattuti nel leone dell’Impero, ed avevo preferito cambiare
strada. Di notte, si vedevano i bivacchi lungo tutte
le colline, rosseggiare minacciosi, e l’eco di canti ebbri, un monito
perenne ai pericoli che stavamo correndo. Non so quale fu la buona stella che
impedì ai piccoli d’incappare in qualche campo di battaglia, e di
farci finire nelle mani dell’Impero, o peggio, in quelle del Regno, di
non far loro vedere morti o sangue. Eravamo circondati. Vedevo, negli sguardi
di Roxen e Chekaril, l’orrore. Non riuscivano a capire, rimanevano
spiazzati di fronte a quegli spettacoli che, nella loro terra, erano lontani, venivano usati come spauracchio per i bambini. Non
sembravano più interessati di me alla superba vegetazione montana, uno
spettacolo per loro inusuale come lo era per me il mare, e sembravano quasi
essere stati contagiati dal mio allarme. Erano tesi quanto me, come specchio dei miei sentimenti meno nascosti. Una notte,
quando eravamo ormai vicini a Zakadi, ed il controllo sembrava essersi
allentato, Roxen non si addormentò. Seria, aspettò che il
fratello cedesse al sonno, sull’albero dove li avevo piazzati, e dopo,
scese silenziosamente vicino a me, che ero seduta a
terra, le spalle appoggiate al tronco. “zia?”. Esordì,
stringendosi a me, guardandomi con i suoi grandi occhi viola, i bellissimi
occhi del padre, dall’espressione spaurita e sperduta, stringendo il cane
di pezza, come se fosse un’ancora. Io, persa nei miei pensieri, mi
limitai a guardarla, e la strinsi a me. Avevo bisogno di loro più di
quanto immaginassero. Ero già stata trasformata
in una mera bambola, senza sentimenti e senza emozioni, prosciugata da ogni
cosa che non fosse il dolore. Stavo malissimo, ma non
lo davo a vedere. “i grandi a Gerinti parlavano di una
guerra…”. Proseguì mia figlia, affondando la sua testolina
ricciuta nella mia spalla, in cerca di conforto. “noi stiamo andando dove
c’è la guerra?”. M’irrigidii. Cosa avevo fatto?
Perché avevo strappato quelle anime innocenti dalla loro pace isolata,
per portarli in un luogo dove, decisamente, la situazione non era rosea? Oh,
dei. Come potevo dirle che eravamo nel bel mezzo di un territorio critico, e
che non sapevo se Zakadi esisteva ancora? Poteva essere stata travolta
dall’esercito di Galinne, poteva essere successo di tutto. Junielle
poteva benissimo essere morta, per quanto ne sapevo. Quel pensiero mi fece
sprofondare l’umore, già praticamente basso, sottoterra. Cercai di
farmi forza, di non far vedere alla piccola il mio malessere, e di rassicurarla.
Perché lei aveva gran bisogno di me. Lei doveva essere felice. Io ero
ormai giunta troppo in basso per essere rassicurata. “dove vi
porterò non c’è la guerra, non ti preoccupare, piccina
mia… andrà tutto a posto”. Sentii un orrendo colpo al cuore
nel dire quelle parole. Ero stata una bastarda. Per quella notte, Roxen rimase
con me, troppo spaventata dal bosco per rimanere con suo fratello, per risalire
sull’albero. Decise di farmi compagnia, e si accoccolò contro di
me, il pupazzo stretto tra le braccia, per addormentarsi. Io provai a
canticchiare qualcosa, una melodia che la rassicurasse, e le conciliasse il sonno ma smisi molto presto. Le note rotte che uscivano
dalla mia bocca avevano qualcosa di beffardo, di odioso, violentavano
l’aria notturna impunite, come cristalliin frantumi. Mi limitai a stringere la
figuretta di mia figlia, trasmettendole il mio calore, fino a
quando non si fu addormentata, e oltre. Io, a differenza sua, quella
notte non chiusi occhio. Poveri, poveri cuccioli. Il mio dolore, quel tedio
assoluto che provavo, quella rabbia contro me stessa,
giunsero all’acme. Rischiai d’impazzire di nuovo,
persa in un modo di fantasmi. E fu in quel giorno che maturò la
mia terribile decisione. Perché per me non c’era nulla da fare, in
quel mondo tremendo, in quel mondo spietato, che io stessa avevo contribuito a
costruire. Avevo rapito l’infanzia spensierata di due piccoli, portandoli
verso un futuro incerto. Avevo agito spinta solo ed
esclusivamente dalla pura e tremenda avventatezza. Mi ero ridotta ad uno
straccio. Perché l’avevo fatto? Cosa avevo fatto? Per chi? Per me? O per la bestia assetata di
sangue e morte che viveva in me? Tutti i momenti che mi avevano portata ad
essere così disillusa, ogni azione che mi aveva lasciato una ferita,
erano vividi nella mia mente. Rividi il lampo di luce dal quale era cominciato
tutto. Rivissi in quella notte, agitandomi, tormentando un lembo del mantello
fino a quando non si consumò del tutto, il mio
tremendo mese di convalescenza, in cui avevo spinto mio fratello
sull’orlo di una crisi di nervi, in un baratro di sconforto da cui mi ero
stupita fosse riuscito ad uscire. Viaggiai tante e tante volte, ripetute e
ripetute, per il Regno, battendo milioni di volte le stesse strade, diventando
una bestia solitaria ed ossessionata, piena di rabbia ed odio. Chiamai Junielle
sangue impuro mille e mille volte,
fino a farmi quasi urlare dalla disperazione. Rividi Anì, la dolce
Anì, Isnark, e le sue orrende ferite, i Celestiali innocenti che avevo
ucciso a sangue freddo. Il momento in cui avevo dato il colpo di grazia ad
Eiron.Tutti i miei inganni, tutte
le mie illusioni e crudeltà, mi sfilarono incessanti davanti agli occhi.
E Chekaril ed Aevo erano lì, fissi nella mia mente, a capeggiare
quell’atroce processione di misfatti. Il volto contorto dell’elfa
era abbastanza per far rabbrividire anche le pietre.
L’attimo in cui la mia lama era affondata nel collo morbido del mio amato
era ancora vivido nella mia mente, potevo ancora sentirne il sordo rumore.
Sarei impazzita, prima o poi. Ero davvero arrivata a quel punto? Avevo ucciso
colui che amavo ed avevo sempre amato per…per cosa? Perché avevo
davvero compiuto quel tremendo atto? Obbedienza? Obbedienza a cosa, se ero
stata io a darmi l’ordine che mi aveva portato a quel punto di
disperazione estrema? O solo pura e meschina vendetta? Meritavo più che
mai l’appellativo di Mostro. Lui, è vero, mi aveva tradita,
umiliata, trattata come uno straccio vecchio, ma non aveva meritato quella fine,
anche solo perché stava allevando mia figlia lontano dalle Spie. Non aveva
meritato di veder sfumare la propria felicità. Ed io, che tanto
l’avevo cercata, che diritto avevo di toglierla, come una dea crudele?
Che diritto avevo avuto, io di strappare vite come se niente fosse, beandomi
nel sangue, esigendolo come per un sacrificio? Ero io, nel torto più
atroce. Ancora oggi, ancora tuttora, questo pensiero mi dissuade
dall’uccidere, è questo pensiero, soprattutto, che mi ha tolto
ogni vena bellicosa, che ha estirpato quello che rimaneva della migliore Spia
della Regina. Mi sembrava di scivolare in una spirale; di stare affogando e di
essere in cerca di una vana mano amica. Era un forte senso d’oppressione
al petto, una morsa che m’impediva di tirare anche un solo e semplice
respiro. Mi dibattevo. Non erano sensi di colpa. Era puro e semplice orrore.
Presi consapevolezza, in un lampo di un fatto, e tirai violentemente il fiato,
stringendo più forte Roxen, tanto che mugugnò nel sonno. Ero
stata io la causa di tutto! Ero stata io a rubare l’infanzia felice di
due innocenti, io avevo ucciso tutte quelle persone, io avevo fatto soffrire
tutte le persone che mi amavano, facendole irrimediabilmente allontanare da me!
Io, io, io e solo io! Io ero un mostro! Un mostro! Perché, si, io, Lsyn,
che tanto si compativa, che tanto provava dolore, la pura e la buona,
l’obbediente e la fedele, avevo provato piacere nell’infliggere dolore. Si, perché non era
stato che quello. La mia vita era stata solo un mezzo per infliggere dolore.
Avevo ferito mio fratello, il mio dolce Tijorn. Infliggere dolore
all’unico essere che io abbia mai amato. Infliggere dolore ad una dolce
elfa innocente, che aveva come unica colpa l’aver amato la persona
sbagliata. Infliggere dolore a quei poveri infanti, carne da macello per la
Regina, se solo non fossi intervenuta. Infliggere dolore a mia figlia.
Perché l’avevo fatto? Leggevo la mia colpa riflessa negli occhi di
chi l’aveva subita, e me ne dolevo. Ero una creatura ignobile. Non
riuscivo più a sopportare quella coltre informe che mi attanagliava il
petto. Stavo lentamente agonizzando. Perché, perché non mi ero
buttata in un crepaccio, quando era ancora possibile? Perché non mi ero
lanciata nel fuoco? Perché non mi ero annegata? Perché? Di
viaggiare, nemmeno a parlarne. Soffrivo troppo per andare via. Volevo vedere
Tijorn, farmi coccolare da lui, ma non potevo. Volevo scherzare con Junielle,
giocare stupidamente con lei, ma non potevo. Volevo dire chiaramente a Roxen
che lei era mia figlia. Volevo addirittura litigare con Akita, farmi prendere
crudelmente in giro da lei e dalla sua lingua biforcuta. Ma non potevo. Non
potevo! Perché non avrei fatto altro che contaminarli con la mia essenza
disgustosa. Tutti erano fin troppo innocenti per essere macchiati con la
disgustosa essenza che ero. Potevo sparire in un altro modo, sparire dalla
faccia di quel mondo. Mi folgorò, improvvisa, un’idea, un’idea
terribile, enormemente terribile, e sogghignai, un sogghigno vuoto, vacuo,
quasi feroce. Non tutto era perduto. Potevo redimermi, potevo lavare via tutti
i miei peccati, e dimenticare tutto, ed essere dimenticata. Sarei stata
egoista, forse, ma non importava. Tutte le persone che amavo sarebbero state al
sicuro con qualcuno. E la bestia che era nata in me, un giorno lontano di
primavera, poteva essere annientata. In un solo modo. Non mi ero lanciata nel
fuoco, è vero. Ma non ero immortale.
Progettai
tutto con estrema calma, nel silenzio dell’ultima parte del viaggio.
Niente doveva andare storto. Aveva preso a piovere a dirotto, e presto
c’inzuppammo tutti e tre fino al midollo. Roxen e Chekaril indossavano
abiti troppo leggeri per quell’improvviso cambio di tempo, così
frequente alle mie latitudini, e così li avevo protetti dalla pioggia e
dal freddo notturno avvolgendoli nei lembi del mio largo mantello, tenendoli
stretti. Mi faceva piacere averli più vicini, sentire il loro calore,
per l’ultima volta. Mi confortava proteggere una particella
dell’elfo che avevo assassinato. Perché l’avevo ucciso per
troppo amore. E lo desideravo ancora, anelavo sentire per l’ultima volta
il suo abbraccio rassicurante, i suoi baci sul mio viso. Anche quel bacio a
tradimento che mi aveva donato, quel bacio così violento, sarebbe stato
nella mia memoria come un ultimo attimo di quiete. Ma l’ultima immagine
che avevo di lui sarebbe stata sempre un volto irrigidito dalla morte, ancora
vagamente sorpreso, immerso nel proprio sangue. Niente baci, né
abbracci, né carezze. Ma lui non aveva mai amato me, realmente. Dovevo
ficcarlo bene in testa, no? Ma allora perché sentivo l’orribile
smania di piangere? Perché ero solo confortata dall’idea della mia
spada, che ben presto si sarebbe purificata da tutto quel terribile sangue
innocente che l’aveva impregnata? Mi riscossi improvvisamente dai miei
pensieri, e mi girai verso i piccoli, che mi guardarono, con aria infreddolita.
Dovevo portarli al riparo, e subito. Ma prima dovevo fare un’ultima cosa.
Zakadi era vicina, e, da lì, sapevo dove andare. “statemi
incollati”. Dissi, severa, guardando quello che mi rimaneva di Chekaril,
piangendo nel mio intimo. “questi posti sono pericolosi. Non vi mostrerò
due volte quello che starete per vedere, quindi tenetelo bene a mente!”.
Loro due annuirono, e mi strinsero. Percorremmo così l’ultimo
tratto che ci separava dalla città. Fui immensamente sollevata di vedere
ancora tutto in piedi. Zakadi, chissà perché, aveva continuato a
mantenere la sua indipendenza, e la sua fama di città libera. Era
più squallida che mai. I profughi, ormai divenuti troppo numerosi per le
locande, infestavano le strade, che erano chiassose, puzzolenti, fangose,
infestate da malvagie presenze che ridevano e gemevano. Uno spettacolo di
miseria che mi disgustò. Chekaril mi guardò, con aria davvero
terrorizzata, e si strinse a me. Roxen prese a guardare fissamente una famiglia
di quelli che dovevano essere stati contadini che chiedeva l’elemosina.
C’erano due piccoli sul ciglio della strada, magri e sparuti, che
ricambiarono il suo sguardo curioso ed innocente con odio,
prima di girarsi. Sentii i due piccoli appiccicarsi a me con tutte le
loro forze. Perché non avrebbero dovuto farlo? In fondo…io ero
stata la loro salvatrice, io ero venuta per portarli ad un futuro di gioia
luminosa. Sentii qualcosa rompersi nel petto, come se il cuore si fosse
trasformato in mille pezzetti di vetro affilato, pronte a lacerarmi. Avevo
combinato una cosa tremenda. Quasi per fuggire da me stessa, aumentai il passo,
fino a portarmi davanti al bordello di Junielle, stranamente malmesso, ma
sempre vivo. Era una grande fortuna. Ora mi dovevo preparare alla mia ultima
sceneggiata, la sceneggiata che mi avrebbe liberata da ogni male. Mi girai di
nuovo verso i due piccoli, e mi chinai vicino alle loro piccole orecchie
appuntite. “ora, bambini…”. Dissi, a voce bassa.
“andremo in una locanda, per farvi mangiare. Domani non ci sarò,
quindi tutto è nelle vostre mani, mi raccomando. Io devo partire,
partire per chiedere…”. Esitai un momento, vedendo il volto di
Roxen farsi sempre più amareggiato. “…a mio cugino di
raggiungermi. È una persona bravissima e molto colta, e mi
aiuterà ad allevarvi. Ma devo parlargli di persona. Quindi, domani
mattina, venite qui e chiedete di Junielle. Di giorno
non correrete pericoli, qui, e lei vi proteggerà. È una grande
amica, e non rifiuterà di tenervi per un po’. Vi darò una
lettera in cui spiego tutto. D’accordo?”. Chekaril e Roxen mi
guardarono con meraviglia. “zia Lsyn!”. Esclamò il piccolo,
aggrappandosi a me, quasi disperato, sporgendo il labbro inferiore. Sembrava
stesse per piangere. L’avrei fatto volentieri anche io. “ma noi ti
vogliamo bene così come sei! Poi torni, però, vero?”. Non
riuscii a non farmi sfuggire un paio di lacrime, che
furono nascoste dalla maschera, e carezzai il suo volto con dolcezza.
“ovviamente, piccino…”. Mormorai, rassicurante, stringendoli
e riprendendo a camminare. “ovviamente. Sarò qui prima che vi
accorgiate della mia assenza!”. Sia Roxen che Chekaril sembrarono
rassicurati. Ma non mi sfuggì l’occhiata
misteriosa che si scambiarono ad un certo punto. Cercai di non farci caso, e li
condussi in un posto che conoscevo bene. Arrivammo così, in una piccola
locanda in una zona vicina al quartiere dove c’era Junielle, una zona
più tranquilla. Era un posto in cui venivo spesso, tempo
prima. Ci tornavo ancora, di tanto in tanto, e ci ero tornata ancora.
Amavo quel posto piccolo, spesso semideserto, in cui potevo mangiare ogni cosa
a prezzo moderato. Il mio porto preferito dopo le missioni. L’oste, Greg,
un elfo rubizzo, dagli occhi azzurri, dalla spiccata somiglianza con un gatto
arancione, mi conosceva bene: bastarono poche parole per organizzare il tutto.
Era un bel posto, sebbene frequentato da gente di ogni tipo. Una locanda tutta
in legno, fumosa e profumata di cibo, calda ed accogliente.
Feci mangiare i piccoli, su un tavolo appartato, che divorarono tutto con
avidità tipica della loro età. Io non mangiai nulla. Non potevo:
avevo lo stomaco chiuso. L’evidenza di ciò che potevo fare era
ormai assodata. Ci avessi pensato prima, avrei evitato tante disgrazie, e tante
famiglie distrutte. Dallo stesso Greg, ad un certo punto, mi feci portare un
foglio, ed un calamaio con piuma. La afferrai con la mano sana, e la strinsi
forte. Stavo per compire un passo dalla quale non sarei più tornata
indietro. Sospirai, ed intinsi la piuma nell’inchiostro nero. Poi, calai
la mano con forza sulla carte. Ricordo ancora a
memoria ciò che scrissi.
Junielle;
quando tu riceverai questa lettera, dalle
mani di due innocenti che nulla sanno, io non ci sarò già
più.
Sarò
fuggita, fuggita con un fardello che mi strazia il cuore.
Junielle,
ho trovato Chekaril, sai? Non pensavo che in questi mesi tutto cambiasse
così radicalmente… ma è stato
così.
L’ho
ucciso, Junielle, con le mie stesse mani. È morto.
Non
posso dirti né come, né dove, e nemmeno il perché, ma
sappi che convivo con quest’orrore da molto tempo.
Quelli
che vedi, sicuramente davanti a te, sono i suoi figli. Lainayvoleva che io li portassi a
Galinne, da lei. Ma io non voglio. Non voglio donare quei cuccioli a quella
pazza sadica, assetata di sangue.
Ti
chiedo, allora, un enorme favore, amica mia. L’ultimo.
Tu
hai le mani sporche quanto le mie, Junielle, non puoi rifiutarmi niente. Non questo.
Ti supplico.
Sei
stata mia amica, e sei potente. Sei l’unica capace di fare quello che sto
per chiederti.
Portali
con te, Junielle, nascondili. Fai in modo che il Regno non li trovi. Fuggi ad
Uruk, se puoi, e rifatti una vita con loro.
So
quanto tu ed il tuo compagno desiderate avere un
figlio, un figlio che vi è negato per la tua stessa razza.
Ve
ne offro due, amica mia, due.
Falli
vivere felici, e sereni. Vivi serena anche tu.
Io
non posso. Sono troppo contaminata per le loro anime pure.
Io
scomparirò, scomparirò dalle vostre vite, e non mi vedrete
più. Non cercatemi.
Junielle,
ti chiedo solo questo, come ultimo favore.
Distruggi
questa lettera, e scappa subito nel Matriarcato, dove sarete al sicuro dalle
brame di Lainay.
Scappate.
Non voltarti indietro.
Ti
supplico, amica mia. Ti supplico.
Perdonami
per ogni torto, e cerca di ricordarmi come la chiassosa Spia del nostro
passato, che ti metteva a soqquadro la casa.
Fai
sì che il mio ricordo sia di conforto per tutti voi.
Ti
prego, Junielle. Solo tu puoi farlo.
Ti
prego.
Lsyn.
Chiusi la
lettera in quattro parti, e la affidai a Roxen, che aveva appena finito di
mangiare. Mi doleva il cuore, a farlo. Ma era necessario. Lei l’accettò,
senza guardarla né fare storie, una cosa che mi parve ben strana, e se
la mise in una tasca. Finalmente, ci alzammo, e Greg ci venne incontro per
condurci nelle nostre camere. Il cuore mi batteva forte. Giunse il momento
degli addii. Un addio che per loro era un arrivederci. Avevo voluto due camere
separate, ma a fianco. Si sarebbero sentiti più protetti, ma non mi
avrebbero vista, in quello che stavo per fare. Li abbracciai dolcemente, a
lungo, poi, con le lacrime agli occhi, mi scostai, per guardarli. Era l’ultima
volta che lo facevo. Roxen, così simile a me, gli occhi ametista del
padre, e Chekaril, la copia di quello che era stato Principe, malfattore,
donnaiolo, eroe. Mi trattenni giusto in tempo dallo scoppiare in lacrime,
seguendo il loro esempio. Strinsi i denti, e feci finta di essere la zia severa
che li aveva portati d un futuro luminoso Ingiunsi loro di non venire a
disturbarmi. Non capirono cosa tramavo, per fortuna, e promisero di obbedire.
Mia figlia e suo fratello mi guardarono, afflitti. “torni presto, vero, zia Lsyn?”. Disse il piccolo, tirando su col
naso, gli occhi rossi, guardandomi attraverso il velo dei capelli, un gesto che
mi ricordò in maniera netta il padre, e che mi trafisse il cuore. Feci
un buffo inchino, che lo fece sorridere. “ovviamente”. Dissi.
Bugiarda. Non potevo mentire più spudoratamente. Augurai loro la
buonanotte e chiusi la porta di schianto, fuggendo nella piccola camera
ordinata, dal letto singolo, un piccolo comodino pieno di candele ed uno
specchio, simile a quello che c’era nella casa di Junielle. Dimenticai di
mettere la mandata. Avevo troppa fretta.
Mi mossi in maniera febbrile, preparando tutta la messinscena con
precisione maniacale, com’era mio solito
Mi mossi
in maniera febbrile, preparando tutta la messinscena con precisione maniacale,
com’era mio solito. Non avrei rinunciato, proprio facendo
quell’atto estremo da cui sapevo non c’era più ritorno, alla
vista della mia umiliazione finale. A distanza di tempo, quando ormai sono
cambiate molte cose, pur restando le stesse, mi chiedo davvero cosa avessi
nella testa, in quel momento. Trucioli, forse, o foglie secche. Le vere
motivazioni di quel gesto, che fu una delle cause di una rovina futura, mi sono
ancora oscure. Fu il dolore? L’incoscienza? L’egoismo? O forse una
delle mie solite esagerazioni, dovute a manie di protagonismo non proprio
nascoste? Io, ovviamente, non avevo avuto la seppur minima intenzione di
partire, di dedicarmiad una vita
solitaria e peregrina, vagando di terra in terra in cerca di una pace effimera,
già dall’inizio. Semplicemente, ero troppo debole, troppo ferita
per rialzare il capo, per rialzarsi e continuare a combattere. Ero stata
schiantata, schiantata dalla mia stessa, tremenda, ingenuità, un
topolino al servizio di un nido di vipere. Avevo tentennato quel girono, nel
fuoco, ma non avrei ceduto ora, proprio in quel momento. mi sentivo matura per
andarmene una volta e per sempre. Avevo anche vissuto ben tre vite umane,
no?Gli uomini avrebbero pagato per
vivere anche solo metà della mia esistenza. Non potevo lamentarmi, e
potevo decidere con tranquillità di morire, vero? Ero ancora giovane tra
gli elfi, ma con questo? Ne ero pienamente conscia, anche in quel momento
critico. Ero adulta, si, ma nemmeno a metà del percorso che ad un elfo
è riservato. Dubitai, però, che un qualsiasi mio simile avesse
subito l’ingiustizia ella vita come avevo fatto io. No: io non intendevo
vivere ancora, umiliarmi di fronte alla vita, soffrire ancora, e far soffrire.
Rimanere ancora viva era un’utopia, un dolce sogno. Non potevo più
toccare uno solo dei miei affetti, perché ero sporca, impura, omicida.
Potevo ancora sentirmi zuppa del sangue del mio amato. Non potevo vivere con
gli altri, con i miei affetti, perché io non meritavo loro,
semplicemente. Ero troppo meschina per i grandi cuori che avevano accompagnato
la mia infanzia e giovinezza. Ogni cosa che avrei fatto, ogni secondo della mia
esistenza, sarebbe stato scandito dalla solitudine estrema che io stessa avevo
cercato. Non avrei potuto più vivere con Tijorn, che ormai aveva davvero
trovato la sua ragione di esistere, e che certamente non avrebbe sopportato una
zavorra com’ero io, o con Junielle, che sicuramente ancora ricordava con
amarezza l’epiteto che le avevo affibbiato durante la mia ultima visita,
solo perché ero una sciocca bestia, che non voleva farsi toccare. I
piccoli non meritavano di passare l’infanzia, o quello che ne rimaneva,
con me, non potevo allevare, egoisticamente, i figli di coloro che avevo
ucciso. Non era mio diritto. Amarto era solo un vecchio elfo malato, e non
sarei riuscita a fargli compagnia come meritava. Non ero più una Spia. I
miei antichi compagni mi avrebbero rigettata ed ostacolata in ogni modo a loro
possibile. Ero stata tradita dalla mia Regina, trattata come la più vile
delle servette, umiliata come una schiava. I ribelli mi volevano morta, e mi
avrebbero, probabilmente, anche torturata se fossi finita nelle loro mani.
Tutte le altre persone che avrebbero potuto capirmi, capire il mio gesto,
rimproverarmi, per poi accettarmi, senza orrore alcuno, erano certamente morte,
o lontane. Era un senso di vuota desolazione, quello che provavo, come se fossi
in mezzo ad un deserto, sola, un deserto che io stessa mi ero creata. E quello
spiazzo bruciato, incenerito, ormai da tanto sterile, era la mia anima. Ero
stata annientata, annichilita. Capii in un lampo ciò che mi aveva sempre
voluto dire Eiron, il suo desiderio di essere ricordato in modo degno, di
smettere di essere umiliato. Come lui non voleva vivere senz’ali,
straniero tra la sua gente, io non volevo vivere con quel fardello che era la
mia memoria, il fardello di quella che era stata un’ossessione, e mi
aveva allontanata dagli affetti più cari. Avevo si, bruciato ogni
traccia del mio terribile operato, ma nella mia memoria era tutto fin troppo
nitido. Ero stata ridotta ad un niente, un guscio senza possibilità di
salvezza. Ed io volevo precipitare, non volevo far altro che precipitare in un
riposante oblio, non pensare più, essere fuori dalla portata di tutto e
tutti, senza sensazioni, senza dolore, senza coscienza. Riposarsi, dormire, per
sempre, e nulla più. Cercavo solo quello, ero in cerca solo della pace,
che in ogni modo mi era stata negata in vita, nella mia esistenza per un vano,
vuoto ideale. Avevo perso tutto, tranne la vita. Ed, in quel momento, ero io a
volermene disfare.
Avendo
già tutto progettato, agii in fretta, senza inutili pensieri, o
preamboli, già gustando il nulla in cui sarei discesa. Libera,
finalmente, da tutta la disperazione, tutto lo smarrimento e la sofferenza che
avevo causato a me ed agli altri. Non ne vedevo l’ora. Accesi tutte le
candele, una a una, posizionandole sul loro supporto, fino a quando
l’intera, piccola camera, non fu illuminata a giorno. Dovevo vedere bene
tutto quello che sarebbe accaduto. Dopo che l’ultimo stoppino
cominciò ad ardere, afferrai i supporti e li posizionai in modo da
formare un cerchio perfetto, di cui io sarei stata il centro. Suicidio si, ma
con un minimo di eleganza. Il cerchio: da un cerchio era iniziato tutto, da un
cerchio doveva finire. Non ero esente da uno sprazzo di pura pazzia. Suicidarsi
è un atto che richiede fegato, molto fegato, ed un’incoscienza
pura, incoscienza del valore della redenzione, della punizione, del pentimento.
Strano scriverlo, io che l’ho cercato l’ho desiderato, l’ho
invocato, io che ne ho gioito, io, che tante volte ci sono arrivata molto
vicina. Tali sono i piani di una mente irrimediabilmente distorta. Solo ora
capisco, dopo aver visto infinito orrore. Solo ora, dopo essermi torturata in
una delle maniere più atroci che conoscessi, dopo aver sofferto
infinitamente. Che ragionevolezza potevo provare, allora, com’ero
ridotta, fermamente convinta di essere sola? Il mio unico pensiero, in quella
camera illuminata, era quello di farla finita, subito, nel modo più
doloroso che conoscessi. Perché, si, io dovevo soffrire, e molto, per
quello che avevo fatto. Mi ero macchiata le mani di crimini terribili, e non
potevo mettervi riparo. Ero, o sarei stata, perduta. Ed allora, solo per il
puro desiderio di farlo, dovevo pagare tutto il male fatto. Basta, solo quello.
Una volta messo lo specchio al centro, vicino al punto dove avevo deciso avrei
passato gli ultimi istanti di consapevolezza, passai a questioni più
terrene. Sapevo che Greg, il mattino dopo, avrebbe trovato uno scempio, e che,
forse, la sua reputazione ne sarebbe stata rovinata. Non fa bene alla storia
della locanda una suicida, soprattutto quando avrebbe lasciato un disastro
dietro di sé, come prevedevo stesse per succedere. Dalla mia borsa, che
avevo posato sul letto, estrassi tutti i pochi spiccioli che avevo, e li
sparpagliai sulle lenzuola candide, mettendo anche il piccolo pugnale, che non
mi sarebbe servito, e altri gingilli di qualche valore. Dovevo pagare il grande
favore che mi stava facendo il grasso oste, no? Ed io gli ero grata, molto
grata. Dopo aver sbrigato quell’ultimo affare, cominciai la sceneggiata
vera e propria. Con calma esemplare, senza cambiare minimamente espressione, mi
slacciai il lungo mantello nero che portavo, così vecchio e rattoppato
un mio fedele compagno, e lasciai che scivolasse, con un debole fruscio, a
terra. Non dovevo essere intralciata in nessun modo. Rimasi, così, solo
con i miei abiti neri e comodi, lisi ed un po’ scoloriti. La seconda cosa
che feci, fu quella di togliermi il cinturone a cui avevo assicurato la spada,
lasciando che cadesse sul mantello. Qualcosa di esso, tuttavia, ancora mi
serviva. Dal bellissimo fodero grigio satinato, estrassi la bellissima spada
ricurva di Eiron, dall’elsa filigranata d’argento, e da quella lama
larga, ma così leggera, con impresso su quel motto, che tanto mi era
alieno. Ero stata sempre fedele a cosa? Avevo servito il sangue, la morte, fino
all’ultimo respiro. Ma quella non era fedeltà: di niente si
trattava, se non morboso attaccamento, e quasi di necessità. Una
necessità che mi avrebbe portata alla tomba, ben presto. Fissai la
spada, scintillante alla fievole luce rossastra delle candele. Era superba,
sembrava quasi guardarmi, fredda ed altera. Sembrava quasi rilucere di sangue
fantasma, il sangue di tutte le vittime innocenti, che era stata costretta ad
assaggiare. Era un’arma maledetta: con questa avevo dato il colpo di
grazia ad Eiron, ucciso Chekaril, ucciso Aevo, minacciato. Mai una cosa buona
era scaturita dall’uso di quella spada, mai ero riuscita a tenere fede
alla preghiera che Kyrre mi aveva fatto. Ma ben presto, con il mio stesso
sangue, ogni peccato sarebbe stato lavato da quella magnifica lama, ogni errore
ripagato con la mia sofferenza. E quell’arma, come sempre succedeva, non
sarebbe stata tolta dal mio cadavere, e avrebbe finito di seminare miseria nel
mondo. avrebbe riposato con me. Forse quello mi rendeva felice. Con la mano
sana, strinsiil pomo lavorato
dell’ara, e sospirai. Stavo per fare il gesto che, se fossi vissuta
ancora, mi avrebbe cambiato la vita. Perché io non volevo più
vedermi con la maschera, quell’oggetto infernale, la causa di ogni mio
male. Volevo essere com’ero, un mostro, sfregiata, orrenda. Ma me stessa.
Avevo trovato, per quel gesto, un pizzico della dignità che per
cinquant’anni non avevo avuto. Ero riuscita a vivere, in quel viaggio da
incubo, senza maschera, e non ero stata allontanata anzi: ero stata accettata.
Cosa importava, allora, nel momento della mia morte, se mi fossi vista o meno?
Molto, molto più di quanto si possa pensare. Potevo, e dovevo, fare i
conti con me stessa, con Lsyn, senza mediazioni, senza quella sorta di
cuscinetto protettore che era la mia maschera. Dovevo uscire dalle mie
illusioni, dal mio dolore e dalla mia stupidità quasi infantile, come
avevo abbandonato la casa a Sharilar, e dovevo vedere cos’ero realmente
diventata. Solo così potevo ammazzarmi avendo la piena consapevolezza
del gesto commesso. E poi la maschera aveva cominciato a soffocarmi. Volevo
essere libera. E quale giorno migliore di quello della mia morte? Era l’ultima
volta che facevo quei gesti, che tante volte avevo ripetuto con così
tanta negligenza. Gustai quegli ultimi attimi di libertà, quegli ultimi
attimi di consapevolezza, ben conscia di star per morire, e mi slacciai la
maschera con estrema lentezza, lasciando poi che cadesse, come se non l’avessi
fatto apposta. Non feci nulla, nemmeno un movimento, quando cadde a terra. Non mi
mossi, rimanendo a guardare, come stordita, nemmeno quando, con uno schianto
sonoro, la maschera di frantumò in tre pezzi, che finirono sparpagliati
per la stanza. Rimasi per un po’ a guardare il mio atto, all’apparenza
così semplice. Lsyn, l’Ombra, il Mostro, era morta. Non c’era
modo migliore per esprimerlo. Mi scollai di dosso la strana sensazione alla
gola che cominciavo a provare e, muovendomi con velocità, ancora la
spada stretta nella mano, andai vicino allo specchio, di fronte. Dovevo vedermi
bene quando mi sarei trafitta. Rimirai la mia bruttezza, le mie cicatrici e,
con una mano, le sfiorai. La sensazione di ruvido non mi disgustò. Non
avevo più timore della mia immagine. Come presa da una debolezza
improvvisa, crollai in ginocchio, la spada ben ferma in mano. La puntai
così verso il ventre, afferrandola anche con l’altra mano, con
mortale lentezza. Erano i miei ultimi atti, e dovevo gustarli fino in fondo. Avrei
fatto in modo di avere una morte molto lenta, e dolorosa, dissanguandomi goccia
a goccia. Non mi sarei compromessa organi vitali, ed avrei prolungato in questo
modo l’agonia. Sapevo come fare. Una lunga, straziante agonia. Era quello
che volevo. Mi fissai, lì, inginocchiata davanti allo specchio, un
fantasma sfregiato, dallo sguardo lucente e pazzo. “dimmi un po’,
Lsyn..”. Dissi così a mestessa, a voce alta e gracchiante, guardandomi fissa negli occhi,
guardando fisso il mio orrido riflesso, che mi osservava, sogghignante e
tormentato. Sorridente ed orrendamente torto. Sfregiato e perfetto. Il boia e
la vittima. Il problema era stabilire chi fosse chi. Il mio testamento. Un testamento
che avrei ascoltato da sola. Un po’ matto, vero, ma non posso stabilire
cosa fossi, allora. “Quante
vite hai spezzato? Quanti innocenti hai trucidato? Vedi bene, ora,che la stessa
spada che colpì un morbido collo, ora si prenderà la sua
vendetta, il suo tributo di sangue. È così che va il mondo, Lsyn.
Devi assaporare l’amaro calice fino alla sua feccia, fino all’ultima
goccia. Soffriamo, dunque, e da ciò ricaviamo gioia!”. Smisi di
parlare, forse accorgendomi della vana vacuità delle mie parole, e
chiusi gli occhi. Li serrai, digrignando i denti. Dovevo concentrarmi. Tra poco
avrei smesso di soffrire. Ne fui felice. Alzai la spada con entrambe le mani.
Rimasi per un attimo ferma, gustando quell’ultimo momento di tensione. Era
venuto il momento di pagare per tutto. Rimasi per un altro attimo a gustarmi
quel vibrante silenzio, che assentiva con la sua grandezza al mio atto. Poi,
agii. Calai la spada che Eiron, con tanta previdenza, mi aveva donato, con
forza, verso il mio addome. Senza paura. Nessuno mi fermò, stavolta,
nessuno. Nemmeno me stessa. Sentii così senza esitazioni il morso gelido
dell’acciaio temprato attraversarmi da parte a parte, ed un immediato,
atroce dolore, impadronirsi di me, un dolore che avevo sempre collegato con i
Tengu, ed i loro scettri. Mi
contrassi, stavolta senza più nessun pensiero in testa. Ancora
rabbrividisco al ricordo di quella tremenda sensazione. Ma allora ne ero
felice, molto felice. Ricavavo gioia da ogni stilla di tormento. Mi lasciai
sfuggire un gemito, un gemito di puro dolore, involontario, e qualcosa di caldo
si riversò fuori dalla mia bocca. Sentii un orribile sapore metallico in
fondo alla gola, qualcosa di viscido ed amaro sulla lingua. Sangue? Si, sangue.
Il mio sangue. Ridacchiai, felice. Stavo per smettere di soffrire. Non sentii
di essere caduta in avanti, infrangendo lo specchio con gran fracasso. Non so
quanto rimasi lì, ad agonizzare allegramente. La vista cominciò,
finalmente, dopo un tempo che mi parve infinito. ad offuscarsi. Il dolore,
dapprima presente e fastidioso, cominciò ad essere lontano ed ovattato.
Volavo in un mare di soffice lanugine. In un tempo ed un luogo imprecisati,
sentii una porta aprirsi, sbattendo e degli strilli di terrore. Qualcosa mi
afferrò per le spalle. Mani delicate. Conoscevo quella stretta. Il mio
amato Chekaril. “sei venuto a prendermi…”. Mormorai. E persi
i sensi.
Da quel momento
in poi, i miei ricordi si fanno sfumati, e non riesco a capire cosa sia
realtà, e cosa, invece, dovuto solo al puro delirio.
Entrai così
in un mondo dove luce, spazio tempo, non avevano significato. Quello che sognai
fu solo il frutto di una mente folle.
Vidi un
arcobaleno di colori, un magico caleidoscopio davanti ai miei occhi, e sentii
strani rumori ai margini della mia coscienza.
Poi persi
i sensi.
Sentii
dopo un po’ qualcuno urlare, di nuovo. Dov’ero finita? Conoscevo
quel viso strano, davanti a me. Era una mia amica, qualche secolo fa. La testa
gli andava a fuoco, o forse sono i capelli. Erano così rossi. Forse
urlano perché c’era un incendio, chissà. Ero tra le braccia
di qualcuno. Chekaril, non fare lo spiritoso!
Ancora,
svenni.
Chi mi aveva
sdraiato su quella superficie dura? Che avevo combinato di brutto? Ero morta?
Mi ero ubriacata? Quanto avevo bevuto? Strano, io ero astemia. Mi sentivo
però così strana…così…leggera… come se avessi
potuto prendere il volo da un momento all’altro, solo volendo. E faceva
freddo. Tanto freddo. Chi era quell’’uomo barbuto, che incombeva su
di me? Via, barbone, sciò! Che mi voleva fare? Cercai di agitarmi, ma i
miei arti non mi rispondevano. Dov’ero? Dovevo essere in acqua. Era tutto
così bagnato. Il barbuto si voltò verso una donna strana, dal
viso sconvolto. Dovevo averla vista da qualche parte, tanto tempo fa. I capelli
le stavano andando a fuoco. “è molto grave. Sta perdendo troppo
sangue”. Disse l’uomo, serio. Chi era grave? I bambini stavano
male? Li avevano attaccati? Ero un’irresponsabile…Lainay mi avrebbe
staccato la testa dal collo se gli fosse successo qualcosa qualcosa! Accidenti,
mi dovevo alzare! “cercherò di fare il possibile”. Girandosi
di nuovo, il barbone si avventò su di me, con artigli da avvoltoio. Che voleva
fare il mostro? Mi straziava il ventre, perché? Si stava cibando di me! Erano
tutti mostri, quelli! Urlai qualcosa.
Persi i sensi di nuovo.
C’era
un tipo strano vicino a me. Era sdraiato accanto. Il collo gli pendeva, inerte.
I mostri sicuramente l’avevano mangiato. Allora eravamo morti tutti e
due. Lui mi sorrise, e mi accarezzò il viso. Aveva le mani gelide.
Sorrise di nuovo. I suoi denti erano affilati, e lui si sporse per baciarmi,
per mordermi. Urlai di nuovo.
Non capii
più nulla, per un tempo indeterminato di tempo.
C’era
solo dolore attorno a me. Cosa stava succedendo? Qualcuno avrebbe fatto meglio
ad allontanare tutti quei folletti dispettosi dalla mia pancia. Mi stavano
tirando, pizzicando, e facevano male. Mi agitai. Una nuova fitta, lancinante.
Poi solo
buio.
Chi erano
quei bambini dallo sguardo di cerbiatto, accanto a me? Dovevo averli visti
qualche secolo prima. Sono i figli della rossa, lo so. Faceva caldo. Avevo
caldo. Il maschietto mi disse qualcosa. Non lo capii. Però mi ricordava
qualcuno. Di chi ero prigioniera? La sua mano si alzò. Mi gocciolò
qualcosa dalla fronte. Era una bella sensazione.
Non capii
più nulla.
Ero in un
incendio. Ero in un fuoco e mi dovevo salvare. Mi stavano bruciando viva. C’erano
tante mani che piovevano dal cielo, e tante voci che chiamavano, o chiamavano
qualcuno, non so. Cosa? Lsyn? Chi sarà? Che strano nome. Mi ricordava un
vecchio cieco intento a ballare con una bottiglia, chissà perché.
Svenni.
Ero in un
boschetto. Decisamente. Chissà come mi trovavo qui. Dovevo aver dormito
a lungo. Che razza di sogni avevo fatto! Mi alzai, tranquilla, senza alcun
pensiero e, come se sapessi già cosa fare, mi diressi verso un ruscello,
che mormorava placido a poca distanza da me. Mi sedetti, e mi guardai
nell’acqua. Ero proprio bella. Il mio viso era liscio come una pesca,
senza cicatrici alcune. Mi stiracchiai. Era bello sentirsi liberi, e felici. Guardai
per un po’ l’acqua limpida, fino a quando sentii qualcuno sedersi
accanto a me, ed il suo riflesso baluginare. Mi girai. Chekaril! Stava bene. L’avevo
ucciso, o no, allora? Era il giovane innamorato dei miei ricordi, quello che mi
fissava con sguardo ferito, non l’eroe Krish, il donnaiolo crudele.
Accettai la sua presenza come fatto normale. “ma tu sei morto”. Gli
dissi, dopo un lungo silenzio passato ad osservarci. Non importava, niente
affatto. Lui era lì, che mi stringeva a sé e mi donava un dolce
bacio. Persi la cognizione del tempo, immersa in una felicità che va al
di là della vita e della morte. Dopo quelli che sembrano secoli, ci guardammo
di nuovo, ancora abbracciati teneramente.Come lo amavo, per tutti gli dei! Lui sorrise, triste. “lo so, lo
so. Dovresti esserlo anche tu, sai…”. Mi disse, accarezzandomi il
viso. Annuii, consapevole ma serena, e lui sospirò. Era bello sentirlo
così vicino. “sei stata una matta, Lsyn, una vera matta”. Mi
sorrise, ma era un sorriso amaro, molto sarcastico. Mi strinsi a lui. Non volevo perderlo nemmeno per un
attimo. “perché, Lsyn?”. Mi domandò, con voce morbida
come le fusa di un gatto. “che colpa avevi? Perché ti volevi
suicidare?”. “io ti volevo raggiungere”. Replicai, con la
massima naturalezza. Un altro attimo di silenzio. Sentii un’immensa
sofferenza farsi strada nel mio petto. “ti amo, Chekaril. Non ho mai
smesso di farlo. Come posso convivere con quello che ho fatto? Ti ho ucciso!
Non posso sopravvivere con questo macigno sul cuore!”. “ oh si che
puoi. Tu devi vivere, amore mio”. Mi rispose, l’espressione tragica,
stringendomi forte. “non puoi morire per i tuoi fantasmi. La colpa
è stata anche mia, del mio
egoismo e della mia superficialità. Sono stato un bastardo, a trattarti
come un giocattolo, come un cavallo. Quando sono andato via, quanto ti ho
costretta ad avere un figlio da me non ti ho tenuta in conto, e non ho tenuto
in conto il tuo amore, e la tua forza, che è tanta, amore mio,
più di quanto tu possa immaginare. Ma sapevo che saresti venuta, Lsyn,
perché il tuo amore era troppo profondo, troppo complicato perché
io potessi capirlo. Sono stato uno stronzo. Ti ho rubato il cuore, e anche
l’aspetto. Mi sono preso tutto di te, e non ti ho lasciato altro che
un’ossessione e tanti ricordi amari. Lainay non c’entra nulla. Ora
lo so. Ora me ne rendo conto. Ero giovane, allora, giovane e sventato. Un donnaiolo,
non credi?”. Mi ammiccò brevemente, prima di riprendere la sua
aria seria. “Non ti ho amata come meritavi, ed ho avuto la mia punizione,
non credi? Piccola mia…tu non puoi morire per me. Non posso rubarti anche
la vita. Devi vivere. Per te, per i piccoli. Non permettere che Lainay faccia
di loro uno strumento per il regno. Fatti valere, perché non è
finita ancora. Vivi. Per Tijorn e Junielle. Devi vivere. Fallo per me”.
Lo fissai, incuriosita. “ma tu non sei reale, vero?”. Domandai, con
la morte nel cuore. Mi dispiaceva. Un Chekaril così non poteva esistere.
Lui sorrise tristemente, di nuovo. “sono quello che tu immagini io sia,
nient’altro”.
E poi, non
ci fu più nulla. L’oblio stese su di me le sue pietose ali, ed io
non vidi né sentii più.
Stavo dormendo? Ero morta? Cosa diavolo stava succedendo?
Quelli furono i miei primi pensieri coerenti, dopo quel terribile tentativo di
suicidio. Era stato, tuttavia, un processo molto lento e graduale. Dapprima non
mi ero nemmeno resa conto di essere cosciente, anche se, ad un certo livello,
lo ero già. Qualcosa, in un momento imprecisato della mia riposante
non-esistenza consacrata al buio ed al riposo, era cambiato leggermente,
all’improvviso. Non so dire quando esattamente
mi ricordai, in un lampo, ancora immersa in un buio colloso, del fatto che io
possedevo ancora un corpo. Successe, semplicemente, naturale come risvegliarsi
da un lungo sonno. Ero ancora immersa in un’oscurità quasi
asfissiante, ma il mondo stava cominciando a riprendere significato. Brandelli
di pensieri mipresero
a vorticare nella mente a velocità assurda, disorientandomi. Ricordavo
di essere quasi morta. Ricordavo uno specchio, vagamente, ed una spada. Ed un
grande dolore.Passò qualche
attimo di confusione. Cercai di mettere insieme, affannosamente e, a quanto
pareva, piuttosto inutilmente, gli scampoli di ciò che avevo fatto in
quel tempo. Mi pareva fossero passate solo pochissime ore, e, nel contempo,
secoli. Ero tutto il mondo, e nello stesso tempo, un granello di sabbia. La
testa mi pareva staccata dal resto del corpo. In quel momento di sbandamento,
tornarono tutte le sensazioni fisiche, e mi accorsi di essere ancora viva. Ero,
forse, in un letto, stesa a pancia in su, ed ero
coperta da un morbido strato, che mi teneva calda, e che era leggero, la testa
appoggiata contro qualcosa di cedevole, un cuscino, forse. Doveva essere una
bella giornata: sentivo un calore familiare, piacevole, inondarmi il viso. Il
sole stava splendendo. Sentivo, ad una grande distanza, degli uccelli
cinguettare. Il suono non mi arrivava bene: le orecchie sembravano quasi
essersi tappate, riempite d’acqua, e non riuscivo a sentire come avrei
dovuto. Mi sentivo sfinita, come dopo una lunga corsa. Mi accorsi di avere gli
occhi chiusi: sentivo le palpebre, pesare come un macigno. La lingua era
impastata, ed avevo un terribile sapore in bocca, un sapore di ferro, come se
avessi mangiato un coltello, o un pezzo di carne ancora crudo, misto ad un
altro, amaro e freddo, che non riuscii a riconoscere. Avevo freddo, ma nello
stesso tempo un caldo infernale. Era una sensazione fastidiosa, un istinto che
mi spingeva, nello stesso tempo, a rannicchiarmi e muovermi. Un terribile
pungolo. Ma poi realizzai che quella non era
decisamente la sensazione più orribile. Dolore. Un dolore, caldo e
incessante, che mi arrivava, pulsando con il mio cuore lento, dalle parti circa
della pancia. Era una sofferenza sorda, ma pressante.
Faceva un male cane. In quel momento,rividi, nella mia
mente, l’attimo tremendo in cui mi ero conficcata la mia spada in corpo.
Tutto prese ad avere più senso. Mi sentii, immediatamente, inquieta.
Qualcuno doveva avermi salvata. Ero ancora viva. Chi si era permesso di fare
una cosa del genere, come erano riusciti a raggiungermi in tempo? Stanca,
demoralizzata, e totalmente confusa com’ero, non riuscii a mantenere
più a lungo quei sentimenti. tutto mi pareva
enormemente fuori luogo, di fronte alla stanchezza mortale che percepivo in me.
Volevo dormire, solo dormire, dimenticare. Provai a ricordarmi la sensazione
del sonno, a rievocarlo, nella speranza che tornasse. Ma niente. Il dolore al
ventre era troppo terribile, troppo forte per permettermi di scivolare nel mio
oblio senza sogni. Avevo provato qualcosa di lontanamente simile
quando era nata Roxen, ma non era la stessa cosa. Quella prima
sensazione era infatti acuta, tremendamente viva e
vera. Ciò che in quel momento provavo era qualcosa di più
lontano, ma, nello stesso tempo, di più orrendamente fastidioso. Era
sordo, e pulsava. Pulsava e tirava. La cosa, decisamente, non mi piaceva. Un
rumore strano mi strappò alle mie considerazioni ancora leggermente
deliranti, e calamitò la mia attenzione. Ero ancora ad occhi chiusi quando sentii, distintamente, un rumore che mi
ricordò un gemito sommesso di dolore, un mormorio, ed un singhiozzo. Non
era la mia voce: non era una donna, o un’elfa, chiaramente. Ed aveva
qualcosa di molto familiare. Una voce sentita cento, mille volte, nei
Lazzaretti che visitavo, una voce pronta ad ammonirmi, a consolarmi, a darmi
consigli, a scherzare, a risollevarmi in caso di caduta. No, mi stavo
sbagliando. Non era possibile. Dovevo sbagliarmi, di sicuro.Come, come poteva essere lì?
E, per giunta, dov’ero? Mi ero, per caso, sognata tutto? Ero stata male,
al Lazzaretto, dopo una missione? Chekaril non mi avevamai tradito? Mia figlia non
esisteva? Non avevo mai tentato il suicidio? Cinquant’anni di vita erano
solo stati il sogno di una ferita?Oppure non ero mai stata Lsyn, non ero mai stata una Spia? Avevo davvero
fatto uno strano ed orrendo delirio? Qualche sedativo che mi avevano
somministrato provocava allucinazioni? Sentii, più che mai pressante,
l’esigenza di aprire gli occhi. Mi mossi leggermente, in silenzio, senza
che il dolore aumentasse. Dovevo appurare, capire cosa diavolo stava
succedendo. Perché mio fratello non poteva essere lì, dovunque io
fossi stata. Era lontano da Zakadi, e, sicuramente, Akita non gli avrebbe
permesso di venirmi a trovare. Quell’elfa sapeva come essere crudele, nei
miei confronti. Ed era astuta, molto astuta. O forse non era mai esistita? E
tijorn c’era davvero? Un altro singhiozzo, più debole, mi decise
una volta e per tutte. Dovevo svegliarmi. Forse, magari, sarei riuscita a
prendere sonno in seguito. Mi azzardai così a socchiudere gli occhi. La
luce del sole li ferì immediatamente, con dolore, e li serrai. Fu solo
dopo qualche secondo che arrischiai di nuovo. Stavolta non successe nulla.
All’inizio, vedevo solo macchie indistinte, davanti a me, ma poi, pian
piano, il mondo si rimise a fuoco. Mi ritrovai a fissare un elegante soffitto
ocra, decorato ai lati da qualche elegante e discreta voluta in stucco
più chiaro. Realizzai subito di non potermi trovare in un Lazzaretto, di
qualsiasi specie. Nessuno aveva soffitti così sfarzosi, nessuno poteva
permetterseli, nemmeno gli edifici nelle capitali. Tutti i fondi venivano investiti, o quasi, per i medicinali e cose varie.
Quella, invece, mi sembrava una casa di un nobile, o, comunque, di una persona
molto ricca. Senza ancora girarmi verso la fonte del rumore, timorosa di vedere
ciò che ci avrei trovato, feci un po’ vagare lo sguardo per la
stanza. Ero in un bel letto, dei toni del verde, e, di lato a me, avevo due
grandi finestre a sesto acuto, che facevano entrare molta luce, chiarissima e
pura, scomponendola in mille arabeschi, e rendendo visibile la polvere che
fluttuava nell’aria. Era una camera davvero molto luminosa, dalle pareti
dello stesso colore del soffitto. Era tutto molto semplice. Lo stile mi
ricordò, in un certo senso, la casa di Junielle, quella che mostrava la
sua vera, sobria facciata, e quellache nessuno conosceva, ma che io
che avevo visitato molte volte, per lo stretto legame che mi univa alla
mezzelfa. Ebbi un brutto presentimento. Passò davvero poco tempo, quando
esaurii le novità. Ancora un altro singhiozzo, un pianto soffocato a
stento, come a non voler dare fastidio. Mi sentii, improvvisamente, irritata
dalla mia stessa incertezza. Basta. Non dovevo comportarmi così. E poi
ero curiosa. Magari tutto quello che sapevo essere accaduto era stato solo un
incubo provocato dal delirio. Di sicuro la Regina non sarebbe potuta essere
così crudele nei miei confronti, e nemmeno Chekaril. Così, presa
da una nuova, leggera, forza, sospirai brevemente, e mi girai. Mi trovai davanti
la figura di mio fratello, non c’erano dubbi. Era raggomitolato su una
semplice sedia, vicino al mio viso, ed aveva la testa bassa, le mani tra i
lunghi capelli neri, lisci e sottilissimi. La sorpresa fu tale che sobbalzai
per lo spavento. D’accordo, me l’ero aspettavo, in un certo senso,
ma mi spaventai lo stesso. Una fitta tremenda allo stomaco accolse questo
movimento avventato. La ferita prese a pulsare Mi morsi le labbra, ma nulla
m’impedì di farmi scappare un gemito di dolore. Tijorn ebbe una reazione
immediata: sobbalzò, ed alzò il viso, preoccupato, verso di me.
Un’ondata di vero e proprio dolore, non dovuto alla ferita,
m’inondò il corpo. Qualunque cosa avessi fatto,
ero stata tremendamente meschina. Era in condizioni davvero pietose. Non mi sarei
stupita se anche a lui fossero uscite alcune ciocche
bianche. Non doveva dormire da parecchio tempo: ne erano testimoni muti le sue
tremende occhiaie, violacee e profonde, e l’aria sbattuta e tesa. I suoi
bellissimi occhi grigi, grandi e profondi, erano iniettati di
sangue, gonfi e lucidi per il sonno e per il pianto. I capelli, che
tanto amava curare e spazzolare, erano diventati una matassa di seta annodata,
arruffata, piena di polvere. Doveva averci passato le mani per un bel po’
di tempo, preso dal tormento. Il volto era pallido come quello di un cadavere,
e sembrava aver passato mille anni di torture, tanto era contratto in una
smorfia di disperazione pura. Il dettaglio che m’inquietò di
più, fu, appunto, sul viso: l’ombra di barba scura che gli era
cresciuta sul viso, trascurata da un bel po’ di tempo. Lui non permetteva
mai che gli crescesse, mai. Diceva di odiarla, odiare la sensazione pungente
che gli provocava quando si sfiorava il mento. Non
l’avevo mai visto in condizioni così terribili. Perfino quando mi
ero ferita, mi ero sfigurata, lui aveva mantenuto un’ombra di speranza e
decenza. Ora no: qualcosa in lui sembrava essersi spezzato in maniera
definitiva. Era lui, mio fratello, che soffriva tremendamente con me. Era lui,
Tijorn, che, quando vedeva di non riuscire a proteggermi, cominciava a
disperare, e tormentarsi, come stava facendo in quel momento. provai, immediata, una sensazione di vergogna. Cosa avevo
fatto per meritarmi un simile tesoro, nella mia miserabile vita? Cosa? Allora
qualcuno mi amava, davvero? Tijorn mi voleva bene? Anche se io ero stata
così cattiva nei suoi confronti? Non ebbi il tempo di rimuginare ancora,
di lasciarmi andare ai miei pensieri. Perché lui aveva notato che io ero
sveglia. Vidi uno strano scintillio passare nei suoi occhi stanchi.
Un’espressione di gioia assoluta che mai gli avevo visto in volto. Una
gioia mista al dolore. Vidi, esterrefatta, troppo stupita per pensare, il suo
labbro inferiore tremare leggermente, come se stesse per mettersi a piangere,
fino a quando lui, ancora guardandomi, stupito, non se
lo morse a sangue. Ci fissammo per un secondo ancora. Chissà, forse
senza nemmeno accorgermene, lui scivolò dalla sedia, silenziosamente,
rimanendo in ginocchio, arrivando davvero vicino, per guardarmi meglio. Aveva
rinunciato a controllarsi, ed ora tremava, follemente. Non riusciva a credere
ai suoi occhi. “Lsyn…”. Mormorò, con voce roca e
spezzata. L’avevo totalmente distrutto. Mi si strinse il cuore.
“sei sveglia…”. Un sorriso, debolissimo ed involontario,
andò a disegnarsi sulle mie labbra. Si: ero sveglia, e viva. Il mo
tentativo di suicidio non era andato a buon fine. Non ebbi il tempo di
rispondere a quella che non mi pareva una domanda, ma che aveva tutta
l’aria di pretendere qualche spiegazione. Vidi, negli occhi grigi ed
arrossati di Tijorn, alla sorpresa e la felicità sostituirsi
qualcos’altro, un sentimento che stavolta conoscevo fin troppo bene.
Rabbia. Rabbia assoluta, e delusione. Il volto pallido divenne duro e rigido
come una statua. Forse d’istinto, o forse senza nemmeno
sapere cosa stesse facendo,
mio fratello alzò una mano. Seppi già cosa aspettarmi, ma non mi
ribellai. Me lo meritavo, perché ero stata cattiva. Così, quando
lui mi appioppò un bel manrovescio sulla guancia sinistra, lo lasciai
fare, limitandomi a farmi sfuggire un gemito. Era la
prima volta che Tijorn si azzardava a picchiarmi sul serio, come un padre. Ma
quella volta aveva ragione. Io avevo ucciso degli innocenti ,e
fatto soffrire chi pensavo mi stesse più caro al mondo. e non riuscii a capire quanto gli costasse quel gesto, e che
era stato solamente una sorta di…punizione, per quel gesto inconsulto che
avevo commesso. Il trovarmi così, il sapere che mi ero infilzata senza
remore con una spada, l’aveva annientato. Si sentiva in colpa, per avermi
lasciato andare, penso. Ma non lo capii. Capii solo di aver sbagliato, ancora
terribilmente debole e sconvolta, di essere nel torto, e di esserlo sempre
stata. Dopo quel gesto liberatorio, il mio dolce fratello fece qualcosa che mi
sconvolse, stavolta, nell’intimo. Scoppiò in singhiozzi, come non
era mai scoppiato davanti a me, cedendo al dolore in modo praticamente
assoluto. Era sempre stato piuttosto reticente a mostrarmi il suo dolore, per
evitare che io mi dispiacessi per lui, e soffrissi, e perciò, in
trecento anni di vita in comune, l’avevo visto versare qualche lacrima
solo poche volte. aveva sempre preferito manifestare
il suo disagio, i suoi sentimenti in maniera piuttosto pacata, affidandosi ad
un linguaggio che doveva tutto agli sguardi, ai movimenti, alle azioni. Ed
invece in quel momento me lo trovavo lì, la testa affondata vicino a me,
afferrato da un tormento terrificante, che mai aveva osato mostrare.
L’avevo fatto giungere al limite. Avrei tanto, tanto voluto confortare, accarezzargli
la testa, fare qualcosa, ma non ci riuscii. Non volevo toccarlo. Era una cosa
troppo pura, troppo dolce per poterla contaminare con il mio tocco impregnato
di sangue innocente. Feci per muovermi, con lentezza mortale, ma poi rimasi con
la mano a mezz’aria, senza osare toccare mio fratello, senza osare dare
un segno di vita. Non parlammo per un bel po’ di tempo. Sentii qualche
lacrima scendere sulle mie guance, anche sulle mie guance, dai miei occhi
aridi. Non avevo avuto il minimo rispetto, per lui. Lo stavo facendo soffrire
immensamente. Stavo facendo soffrire lui, il mio dolce fratello che era sempre
con me, aiutandomi, sostenendomi e guarendomi. Mio fratello, che mi aveva
amata. E forse ancora mi voleva bene. Non riuscii a pensarci. Finalmente, dopo
un tempo che mi parve infinito, Tijorn si riprese, ed alzò il viso
disfatto verso di me. Vide la mia mano tesa verso di lui prima che potessi
ritirarla, e l’afferrò, stringendola con forza, accarezzando il
dorso con le dita, una stretta che, mio malgrado, mi confortò
terribilmente. Risposi alla sua stretta, debolmente, senza alcuna forza. Mi
sentivo debole come un gattino appena nato. D’improvviso, lui alzò
la mano libera verso di me, ed io temetti un altro schiaffo. Chiusi gli occhi,
aspettandomi il colpo. Un colpo che non arrivò. Mi donò una
carezza, invece, con tutto l’affetto che un fratello maggiore può dare. Una carezza che mi donò calore. Non
potevo stare male se lui era bei paraggi, la mia camomilla personale. Riaprii
gli occhi, e lo guardai di nuovo. Lui riprese a parlare, con voce stanca.
“Nanetta…”. Disse, continuando ad accarezzarmi, la voce
venata d’ira e preoccupazione. Era disperato, e pose le domande, solite e
fatali, a cuiio non seppi rispondere. “perché? Perché, sorellina
mia? Cosa ci volevi dimostrare, eh? Siamo morti di paura…perfino il
Guaritore non voleva crederci quando la febbre si
è abbassata…perfino lui”. Si morse di nuovo il labbro
inferiore, e parve lì lì per scoppiare
di nuovo in lacrime. Ma, quella volta, riuscì a trattenersi. Io, dal mio
cantuccio, stavo cercando un po’ di fiato per parlare, cosa che, alla
fine, mi riuscì. “da quanto sono qui?”. Chiesi, con voce
roca e debole, resistendo all’impulso di assopirmi di
nuovo, presa ad un terribile capogiro. La risposta non tardò ad
arrivare. “otto giorni. Io sono qui da ieri”. Rimasi per un attimo
in silenzio, valutando le informazioni. Otto giorni. Non era il mio record, ma
era tanto. L’avevo scampata per un pelo.
“chi mi ha salvata?”. Ci fu un attimo di esitazione. Tijorn mi
guardò, pensieroso, prima di cominciare a raccontare con voce sommessa,
come a volermi conciliare il sonno. Era stata tutta una tragica
fatalità. Sia Roxen che Chekaril avevano capito al volo le mie
intenzioni, anche se pensavano io volessi solo andarmene.
Avevano, quindi, cercato un modo per mettermi alle strette. Appena avevo chiuso
la mia porta, si erano così fiondati fuori, con grande coraggio, fino al
bordello di Junielle, chiedendo di lei, dicendo di avere una lettera da
consegnare da parte di Lsyn. La mia amica non si era fatta attendere,
preoccupata che io non mi fossi fatta vedere, ed aveva letto la lettera. A
dispetto dei due piccoli, li aveva intuito immediatamente le mie reali
intenzioni. Mi conosceva fin troppo bene. Aveva pregato Fran di portare i
piccoli nella sua casa, e, reclutando al volo il primo Guaritore che le era passato sottomano, era corsa fino alla mia stanza. Io
avevo appena colpito, ma ero già immersa in un lago di sangue,
semicosciente. Mentre Junielle, terrorizzata, aveva chiesto una carrozza, il
Guaritore aveva prestato le prime cure del caso. Mi avevano portata nelle casa della mia amica, e lì, era riuscito a
chiudere la ferita giusto in tempo. Ero rimasta a delirare per tutto il tempo,
assistita da tutti loro, in una delle camere degli ospiti. Lì mi trovavo
ancora. Roxen e Chekaril avevano visto la mia faccia. Stranamente, non ne erano
rimasti particolarmente colpiti. Bimbi dallo stomaco forte, dicevo io! Finalmente,
arrivammo alla fine del racconto. Rimanemmo per un po’ in silenzio, di
nuovo. Bene. Non ero morta. Forse era davvero destino. Era stato tutto troppo
assurdo per non pensarci. Forse avevo ancora qualcosa da fare. Mi aggrappai a
quella speranza con le unghie e con i denti. Sapevo che non sarei mai
più riuscita a racimolare il coraggio per un atto come quello. Mai più.
Per distogliermi da quei pensieri, feci una domanda a mio fratello, anche solo
per sentire la sua voce, per sapere che non era tutta un’illusione. “come
sei arrivato qui? Chi ti ha avvisato?”.
Domandai, socchiudendo gli occhi “e Amarto e le bambine?”. La risposta
fu subitanea, anche se un po’ tentennante. “Junielle ha mandato uno
dei suoi messaggeri, Lsyn. Mi sono precipitato qui. Amarto sa solo che sei
stata molto male. Non sono venuti a trovarti, ma sono a Zakadi. È meno
pericoloso”. Quelle ultime parole, scelte con cautela e dette con
esitazione, mi riempirono d’inquietudine. Cos’era successo? Aprii
di nuovo gli occhi, e mi voltai verso Tijorn. “che vuoi dire con è meno pericoloso,
Tijorn?”. Chiesi di nuovo, con una nota di panico nella voce. Non mi
rispose, ed evitò il mio sguardo. Un’ombra scura passò per
il volto, insieme ad un’espressione che
riconoscevo come disagio. Mi nascondeva qualcosa. Stava accadendo qualcosa di
molto grave. Prima che potessimo parlare di nuovo,
pria che potessi estorcergli almeno un indizio, la porta si aprì.
Entrarono Junielle ed i due infanti, con cautela. Si accorsero subito di me.
Nel vedermi sveglia, se non sana, la mia amica s’irrigidì, mentre
gli occhi le si riempivano di lacrime, mentre i due
piccoli si precipitarono verso di me, senza nemmeno pensarci, urlando il mio
nome. Tijorn, con un sorriso stanco, si alzò, e fece loro spazio. Un paio
di uragani mi afferrarono le spalle ed il viso, strapazzandomi. Mi ritrovai
sommersa di abbracci, gioia e lacrime. Cominciò, d’improvviso, a
montare un orrido senso di nausea, ed il dolore si ripresentò ,più violento di prima. Mi lasciai sfuggire un gemito di dolore, che non passò inosservato.
Qualcuno li spostò di peso, con mia grande felicità. Mi sentivo
mancare il fiato. Il dolore pulsava, peggiorando di minuto in minuto. Mi
sentivo tuttavia sorpresa, e sollevata. Loro mi volevano bene. Avevano perso i
propri genitori e non avevano vacillato. Mi avevano vista, senza maschera, ed
avevano fatto finta di nulla. Erano forti, i piccoli. Roxen era mia figlia. Decisi
una cosa: non mi sarei uccisa di nuovo, solo per proteggere loro. Forse potevamo
davvero fuggire. Lainay si doveva arrendere all’evidenza: non li avrei
lasciati andare così facilmente. Avevo commesso un crimine enorme, ma
potevo riscattarmi in qualche altro modo che non fosse
il suicidio. Si: avevo deciso di adorarli. Com’erano piccoli, ma
com’erano coraggiosi! Non sapevo, allora, che sarebbero stati, nei tempi
a venire, tra le poche persone che mi avrebbero tenuta aggrappata alla vita,
tra gli unici valori per il quale non avrei tentato di
nuovo di ammazzarmi. Non sapevo. Ma allora, confusa e debole, sapevo solo di
volerli bene. Ci fu un attimo di quiete, prima di essere aggredita di nuovo da
una massa di gente felice. Il viso tirato della mia amica occupò
all’improvviso tutto il mio campo visivo. Cercava di darsi il suo solito
contegno vitale, ma non le riusciva tanto bene, con quelle occhiaie enormi che
si ritrovava. Li avevo fatti soffrire, tutti quanti. “e allora, maledetta
che non sei altro?”. Tuonò, così forte che mi rimbombarono
le orecchie. Chiusi gli occhi di scatto, e digrignai i denti. La sua voce mi
dava fastidio. Come accorta del suo errore, Junielle riprese a parlare in modo
più pacato. “ti sei svegliata, eh, poltrona? Che volevi combinare,
eh? Volevi lasciarci? Sappi che non è cosa facile, dannato mostriciattolo!”.
Mi lasciai sfuggire un sorrisetto, ancora ad occhi
chiusi, e seppi, chissà come, che anche loro stavano sorridendo,
sollevati. Dei, io li volevo bene! Forse loro potevano
odiarmi, ma io li volevo bene! Mi si riscaldò il cuore. Ci fu
all’improvviso qualche attimo di silenzio, ed un parlottio. Qualcuno
uscì. Rumore di sedia spostata, ed un corpo che ci si sedeva di peso.
Tijorn mi posò una pezzuola bagnata in fronte, passandomela un paio di
volte. Mi resi conto di bruciare. Non stavo affatto bene. “apri gli
occhi, sorellina mia…”. Disse, con premura e tanta tenerezza. Gli obbedii,
trovandomeli entrambi a fianco, con espressioni tristissime in viso.
“detto tra noi, maledetta”. Cominciò Junielle, prendendomi la
mano libera, che io strinsi debolmente. La sua finta vitalità era
sparita, sostituita dalla stessa aria disperata e stanca di Tijorn. Mi fece
male vederla così ridotta. “perché lo hai fatto? Perché?
Cosa volevi fare? Cosa è successo per ridurti così?”. Oh,
no. Ancora le stesse domande! Perché? Perché mi tormentavano
così? Forse, se io avessi detto loro qualcosa, i sarebbero calmati un poi?
Forse. Presi qualche momento per rispondere, e guardai
il soffitto. Non avevo la forza necessaria per ribattere in modo adeguato. Si sarebbero
dovuti arrendere all’evidenza. Cominciavo a perdere lucidità:
tutto stava ridiventando tremendamente ovattato. Dovevo fare un altro sforzo,
almeno per placare un po’ della loro curiosità. “ho obbedito
alla mia Regina, quella bastarda, che sia maledetta in eterno”. Mormorai,
afflitta. Un attimo si silenzio perplesso. “ho adempiuto
alla mia missione, ma non tutto è andato al suo posto. Lei mi ha
ordinato di uccidere Chekaril, e portarle i suoi figli. Ho obbedito”. Ci
furono varie esclamazioni di stupore. “ciò non giustifica il tuo
tentato suicidio, Lsyn”. Disse Tijorn, pensieroso, sfiorandosi il mento,
fissandomi con i suoi occhi acuti, con una strana voce dura e secca. In quei
momenti smetteva i panni del dolce elfo premuroso, e tornava ad essere il
brutale assassino della sua giovinezza. “quello non era il tuo primo
omicidio. Anche io ho ucciso, e lo farei senza il minimo
rimorso altre milioni di volte, se solo me lo ordinassero. Non mi piace,
e lo sai, ma un ordine non si discute. Ogni normale Spia lo farebbe. E tu non
sei una Spia normale: sei stata la nostra punta di diamante. Hai compiuto
azioni molto più disgustose e riprovevoli della
maggior parte di noi. Cosa c’è in ballo?”. E bravo mio
fratello. Era molto più sveglio di quanto avessi mai immaginato.
Esitai, perplessa, rimanendo a fissare i loro volti curiosi. Dovevo dire loro
qualcosa? Si, o li avrei tormentati in eterno. Sospirai, mentre mi arrivava dal
ventre un’ennesima fitta. Repressi un gemito, ed andai avanti. Solo il
cielo sapeva quanto mi stessero costando quelle
rivelazioni. Mi preparai al colpo. “io lo amavo”. Dissi,
semplicemente. Le loro espressioni sconvolte mi sarebbero rimaste impresse per
sempre in mente. Tijorn era ad un passo dallo svenire. Junielle sembrava non
credere alle proprie orecchie. “Chekaril…io lo amavo. Ma lui mi
aveva presa in giro. E lui aveva mia figlia…nostra figlia…”. Non
avevo la forza per dire di più. Quelle parole sconnesse furono tutto
quello che fui capace di mettere insieme. Mi assalì, inaspettata,
un’ondata di debolezza, e sentii girarmi la testa. Non ce la facevo a sostenere
tutte quelle emozioni in una sola volta. Mi ero appena svegliata. Richiusi debolmente
gli occhi, e lasciai che la mia voce sfumasse, fino a svanire, proprio quando i due stavano cominciando a fare un’infinità
di domande. Le voci cominciarono a farsi più lontane. Entrambi tacquero
subito, notando il mio comportamento. Poi Tijorn riprese la parola, parlando
con tenerezza infinita, riprendendo il suo travestimento di paziente Maestro
dalla casa in un bosco, tornano ad essere il mio dolcissimo e disperato
fratello maggiore. Non per altro, nel nostro ambiente era chiamato Mille
Maschere. “guardala…”. Disse, probabilmente rivolto alla mia
amica, con tenerezza infinita. “è così debole… non
penso sia il momento di approfondire
l’argomento. Lasciamola riposare”. Non sentii la risposta. Quelle
parole furono le ultime cose che udii prima di sprofondare nuovamente nel sonno
profondo e appiccicoso della febbre.
Non voglio soffermarmi su quei tremendi giorni di riposo forzato, non
voglio
Non
voglio soffermarmi su quei tremendi giorni di riposo forzato, non voglio. Sono
tuttora tra i ricordi più dolorosi che conservo, e tra i più
umilianti. Nell’unica settimana che passai coscientemente
nella casa di Junielle, in quella comoda stanza, tutto sembrò filare
abbastanza liscio. Per i primi tre giorni dopo il mio risveglio, non fui
nemmeno capace di mettermi un po’ più dritta, e non facevo altro
che dormire, spesso sotto effetto di sedativi, svegliandomi ad intervalli
irregolari. Miglioravo molto lentamente. La febbre era ancora presente, e
fastidiosa, ed ancor più tremendo era il dolore, ma la terribile ferita
che mi ero inflitta stava guarendo. Ebbi modo di conoscere, finalmente, il mio
salvatore: un Guaritore piuttosto anziano di cui non ho mai saputo il nome;un uomo, dai tratti evidentemente meridionali, forse
addirittura nomadi, dalla lunga barba scura, spruzzata di grigio e bianco. Era
una creatura mite ed esperta, dall’infinita delicatezza. Veniva molto spesso,
per controllarmi ed agire in caso ci fossero stati segni d’infezione, un
fantasma tragicamente sempre presente, ed ogni volta mi parlava, in toni bassi
e consolanti, trattandomi come se fossi una bambola di porcellana da riparare.
E tale ero, per tutti, ed anche per me stessa. La mia mente era ben lungi dal
ristabilirsi dai mostruosi accadimenti delle precedenti settimane, ed ancora
vacillava, molto. Perfino io non capivo cosa mi stesse accadendo, né
l’ho mai capito. Ero fragile, fragilissima, ed anche una parola fuori
luogo era capace di scatenare reazioni inconsulte, che a me, peraltro,
sembravano particolarmente legittime. Io avevo sofferto più di tutti, e
non mi pareva strano che gli altri soffrissero con me, per me. Io dovevo creare
dolore ovunque andassi, per farmi odiare, per far si
che tutti si allontanassero da me, per farmi rimanere sola come la cagna che
ero. Sprofondai in un abisso di autocommiserazione, ed egoismo. Ma non ero mai,
mai sola, per quanto io cercassi di essere il
più cattiva possibile. C’era sempre mio fratello, con me, pronto a
coccolarmi o sgridarmi, come fossi una sua piccola
allieva, o Junielle, che sembrava non reagire alle mie provocazioni. Temevano,
chiaramente, un altro tentativo di suicidio. Rimanevano incollati a me, a
turno, in ogni momento della giornata. Ero troppo offuscata, tuttavia, per
capirlo, per ringraziarli. Nessuno di loro due toccò più, in quei
giorni, l’argomento Chekaril. La mia amica mezzelfa ci provò, una
volta, poco dopo il mio secondo risveglio; ma la reazione rabbiosa che ebbi,
agitandomi tanto da far quasi riaprire la ferita e costringerli a chiamare il
Guaritore, e farmi addormentare, li dissuase dal parlare ancora. Da quel
momento, tutto, in mia presenza, veniva rallegrato da
chiacchiere spensierate. Roxen e Chekaril non ebbero mai il permesso di venirmi
a trovare. Sarebbero rimasti sconvolti, da quello che avrebbero visto. Ero
troppo, troppo, fuori di me stessa. Tutti i traumi dovuti sopportare fino a
quel momento si scaricarono in pochi giorni, con effetti terrificanti. Ed io
non capii nulla di ciò che mi stava succedendo, anche se lo ricordo piuttosto
bene, e la cosa non mi piace. Ci mancò davvero poco alla più
completa pazzia. Forse la febbre mi stava squilibrando la mente, o, forse, era
come aveva detto il mio Guaritore: una reazione ritardata a ciò che mi
era successo. Era solo una cosa temporanea, mi dicevano. Fatto sta, che ero
più ingestibile di un infante capriccioso. Prima mi muovevo a scatti, irrequieta, fino a farmi gemere per il dolore, poi
arrivavo ad una fase di completa apatia. Passavo, in pochi attimi, dalla
più cupa disperazione alla nera rabbia, sfociando poi in
un’allegria isterica, o in un delirio elettrico e nebbioso, spesso
nemmeno in quest’ordine. Mangiavo con entusiasmo, quel poco che mi era
permesso, poi rifiutavo il cibo, e dovevano costringermi. Non m’importava
di Tijorn, né di Junielle, o di Amarto, che ancora non avevo visto, e
dei miei piccoli protetti: al centro del mio mondo c’ero io. Qualche
volta, intervalli che si facevano sempre più frequenti con il passare
dei giorni, riuscivo a riprendere il pieno controllo di me stessa, e tornavo la
vecchia, paziente e martire Lsyn. Allora, mi rendevo conto di quello che stavo
davvero facendo. Tijorn sembrava sul punto di collassare, quasi più
matto di me, e qualche volta l’avevo visto crollare dal sonno mentre mi parlava. Altre volte era successo
così: la mia permanenza al Lazzaretto, sconvolta e sfigurata, aveva sortito gli stessi effetti. Me ne ricordavo fin troppo
bene. Allora, presa dal rimorso e dai sensi di colpa per quello che combinavo quando non ero in me, lo svegliavo e gli chiedevo
scusa. Lui, immancabilmente, mi abbracciava, e mormorava che tutto andava bene, tutto sarebbe andato bene. Junielle mi
guardava, e scuoteva la testa con un sospiro. Poi mi prendeva le mani, e le
stringeva forte, in segno di vicinanza. Di più non faceva. Sembrava
traumatizzata da quello che mi era successo, era davvero sconvolta. Non
riusciva nemmeno a fingersi allegra, lei, che era un’abilissima bugiarda,
lei, che mi aveva insegnato a mentire.Allora, ogni volta che si presentava quello scenario, mi ripetevo che
non ero degna di loro, che i miei dolci amici erano creature troppo perfette
per sporcarsi con le mie drammatiche mancanze, il mio orrido comportamento. Io
li stavo facendo soffrire terribilmente. Ed allora, cominciavo a singhiozzare,
senza requie, nonostante loro mi abbracciassero, mi carezzassero e cercassero
di consolarmi, fino a quando, desolati, non si
trovavano costretti a farmi bere qualcosa di amaro, che mi trasportava di forza
in un sonno senza sogni. Spesso era quello l’unico modo per dormire: gli
incubi mi tormentavano, quando provavo ad
addormentarmi da sola. Ed allora mi svegliavo di botto, gridando disperata,
facendo immediatamente intervenire la sentinella di turno. Mi vergogno
terribilmente a ricordare quel periodo, e spesso evito di pensarci. Ero così
fiacca, piegata ed indebolita da una Regina bastarda, a cui
avevo giurato fedeltà, a cui avevo donato tutto, che mi aveva mostrato
una facciata di severa e composta giustizia, che si era rivelata
nient’altro che una sadica approfittatrice, un’impunita omicida, da
essere quasi impazzita. Ma, per fortuna, sono sempre stata forte. Fu la mia
fortuna. Trovai, in me, qualcosa che mi fece risollevare lo sguardo, qualcosa
che rese gli intervalli di lucidità sempre più lunghi. In ben
quattro giorni, sprofondai e risalii dal più terribile abisso che io abbia mai provato. Toccai il fondo della mia
desolazione, del mio meschino smarrimento, della mia miseria. Ma ne risalii,
proprio in quel momento, il più buio. Ebbi il coraggio di dire basta, e
di racimolare tutti i brandelli di me che mi erano rimasti, per cercare di
metterli insieme, di ricomporli. Mi appigliai con forza all’unica cosa
che aveva permesso di mantenermi viva. Bisognava proteggere Roxen e Chekaril.
Ed ora anche Tijorn, il mio amato fratello, Junielle, Amarto, Manolìa, Nysha.
Forse anche Akita. Bisognava che mi rimettessi il più presto possibile
in forma, per fuggire, non sapevo dove, né come. Ma dovevamo fuggire.
Non potevamo rimanere lì, con il rischio che il Regno ci prendesse. Pensai che, ormai, la Regina doveva
aver capito le mie reali intenzioni, e fosse già alla disperata ricerca
delle mie tracce. Dovevo sbrigarmi, e rimettermi in piedi, in uno stato mentale
decente. Fu questo, quell’amore inconsulto ed infinito che provavo per la
mia piccola famiglia, a riportarmi sulla strada della ragione, a farmi
rinsavire.E, ben presto, i momenti
di lucidità si fecero sempre più lunghi, fino a
quando non tornai, in un tempo sorprendentemente breve, la solita Lsyn,
forse un po’ più ammaccata e malinconica del solito, ma sempre la
stessa. Solo gli incubi rimasero al loro posto, invariati. Nessuno mi chiedeva
mai cosa sognassi di così brutto, tanto da svegliarmi nel cuore della
notte, strillando. Tijorn e Junielle si limitavano a confortarmi. Ragionandoci
bene, non mi era andata così malaccio. D’accordo, avevo ucciso il
mio amato. Lui mi aveva tradita. Avevo perso il mio punto di riferimento
principale, il Regno. Ero una fuorilegge, ormai, per loro. Ma, in fondo, avevo
avuto quello che volevo. I miei affetti, intatti. Chekaril non mi aveva mai
amata, ma, forse, gli altri, si. Lo vedevo dalla speranza che brillava nei loro
occhi ogni volta che mi notavano sorridere, quando mi vedevano tranquilla,
quando scherzai per la prima volta con il Guaritore. Avevo, anzi, avuto
qualcosa in più. Chekaril, il piccolo Chekaril, e Roxen. Mia figlia,
l’ultima persona che mi sarei aspettata di
rivedere al mondo. Entrambi i piccoli mi amavano alla follia. Cosa potevo
aspettarmi di più, da una vita che ancora, forse, aveva riservato per me
qualche sorriso? Mi misi davvero d’impegno, per uscire fuori
dalla debolezza in cui ero precipitata. Ed, il quinto giorno dal mio
risveglio, riuscii a mantenermi calma per tutta la giornata. Mio fratello
sembrava fuori di sé dalla gioia, e così Junielle. Rimasi per un bel
po’ a chiacchierare con loro, cercando di sembrare normale, di sorridere,
anche se non ne avevo la minima voglia. Non mi sentivo sicura, mi sembrava
strano che Tijorn non fosse marcato stretto da quel verme di Akita, pensavo che
in realtà mi volesse bene meno di prima. Ma dovevo farlo per loro.
Dovevo essere allegra per loro, solo per loro, le parti del mio cuore, le parti
divise di me stessa. Fui dolce e tranquilla fino a sera, riuscii anche a
mangiare senza alcuna storia, con finta allegria, e li convinsi. Ma nulla
m’impedì, ad un certo punto, di sognare il corpo insanguinato di
Chekaril che crollava a terra.
Il giorno
dopo, la mattina, quando l’effetto del narcotico che qualcuno mi aveva
propinato dopo che mi ero svegliata di scatto, piangendo e dimenandomi,
svanì del tutto, lasciandomi la mente curiosamente sgombra ed un cattivo
sapore in bocca, scoprii di essere sola con Tijorn.
Lui era già sveglio, e mi guardava, carezzandomi le ciocche che
ricordavo bianche. Sentivo uno strano odore che aleggiava attorno a me, come di
pulito. Qualcuno doveva avermi lavata. Junielle, pensai. Fissai mio fratello di
rimando. Si era accorto subito che ero sveglia. Mi mossi così,
stiracchiandomi leggermente, quel pocoche mi permetteva la ferita, e
sbadigliai. Mio fratello continuò a lisciarmi i capelli, con un sorriso
incerto. Io gli risposi, ancora sonnecchiante. Avevo appena avuto
un’idea. “buongiorno”. Sospirai, vagamente stordita dai
postumi del calmante, guardandolo con un ghigno appena accennato. Lui
sbuffò, apparendo immensamente sollevato, e mi fece l’occhiolino.
Sembrava aver dormito un po’ di più, e si era sistemato i capelli,
di nuovo ordinati e lucenti, legati, come ricordavo, nella
sua solita coda ordinata, e tagliato la barba. Aveva un’aria
più rilassata, e certamente più rispettabile, anche se nulla gli
avrebbe tolto quello sguardo cauto. Temeva qualche mia piccola esplosione. Il
Guaritore, quando era certo che io non sentissi, cosa che io invece stavo
discretamente, ma ovviamente, facendo, l’aveva avvertito di essere
delicato, perché ero ancora piuttosto instabile. Lo sapevo, ma, francamente,
non m’importava. Avevo una missione troppo importante per trascurarla.
“buongiorno, sorellina. Sempre dormigliona come al
solito, eh?”. Mi disse, con voce leggera, e scherzosa. Io sorrisi ancora
di più, debolmente, chiudendo gli occhi, come a far capire che accettavo
la piccola, innocua presa in giro. “non è certo colpa mia se
sogno ogni notte la tua brutta faccia…”. Mormorai, ghignando. Lui
rise dolcemente. Un suono che mi era mancato moltissimo. Ci fu un attimo di
silenzio. “dov’è Junielle?”. Domandai, aprendo di
nuovo gli occhi, e fissando il volto ancora pallido e tirato di mio fratello.
Tijorn prese un’aria piuttosto casuale, un’aria che già
conoscevo. “oh…niente”. Mi disse, alzando il mento in un
gesto regale ed altero. Oh, si: mi stava nascondendo qualcosa. “è
uscita, per fare…delle…commissioni”. Mi sorrise,
furbescamente, innocente come un piccolo cucciolo paffuto. Stavano preparando
qualcosa, quei due. Strinsi gli occhi sospettosa.
“e che genere di commissioni?”. Chiesi, con una voce che mi
uscì naturalmente vitale, e curiosa, senza forzature,
come il giorno prima. Anche io ero più tranquilla, più
serena. Ero stata pacificata dalla mia decisione. Mi rimaneva solo un unico,
piccolo particolare da capire. L’espressione del mio dolce fratello
s’illuminò, e lui mi fece una linguaccia scherzosa. “vedrai
che lo capirai presto”. Disse poi, misterioso, scrutandomi con aria
circospetta. Temeva, evidentemente, uno dei miei eccessi. Ma io, ben
consapevole dei suoi pensieri, non feci altro che stringermi nelle spalle, e
prendere un’aria indifferente. Quando sarebbe venuto il momento,
l’avrei saputo. Era inutile forzare i tempi. Tijorn parve calmarsi, e mi
scrutò, ansioso, riprendendo a giocare con i miei capelli. Quel tocco mi
dava un conforto enorme, mi faceva sentire amata. Mi dava un senso infinito di
pace. Rimasi un po’ in silenzio, imitato da lui. Dovevo fargli una
domanda, una sola. Era troppo pressante. Perché, senza mio fratello, la
mia vita era quasi inutile non sarebbe stata altro che un insieme buio di fatti
casuali. Ed io l’amavo sopra me stessa, un amore
inferiore solo a quello per mia figlia. Ma lui? Dovevo scoprirlo. Lo stomaco
rischiava di torcersi al solo pensiero, e di farmi davvero male. Cercai di
stare ragionevolmente calma. “Tijorn…”. Chiesi, di punto in
bianco, guardandolo ansiosa. “ma tu mi vuoi ancora bene?”. Lui
sobbalzò, sorpreso, e mi guardò, sbattendo le palpebre. Sembrava
non aspettarsi una domanda del genere. Era confuso, molto confuso. Dopo un attimo
che mi parve infinito, il suo volto si aprì in un sorriso enorme, e lui
mi abbracciò di scatto, istintivamente. Non mi ritrassi. Mi sembrò
che il cuore si stesse sciogliendo, con quel gesto, che stesse riprendendo a
battere. Ebbi una voglia matta di ricambiare, ma non potevo, perché la
ferita avrebbe tirato troppo, e mi sarei fatta del male. Riuscii solo ad
appoggiare la mia testa alla sua spalla, e sorridere. Ancora così, lui
riprese a parlare. A giudicare dal tono rotto, mi sembrava commosso. “ma
che razza di pensieri fai, Nanetta mia?”. Mi disse, scuotendomi
leggermente, quel tanto che bastava per non farmi male. Un altro fiotto di
calore, all’altezza del cuore. Mi sentii finalmente libera, e completa,
in pace con me stessa, o almeno in una situazione di estrema serenità.
Con Tijorn era sempre così. Non saremmo potuti essere più uniti,
nemmeno volendo. Avevamo bisogno l’uno dell’altra, e viceversa. Ed
io, in sua compagnia, mi sentivo finalmente solida, forte, completa. Lui era la
mia spalla. La mia spalla parlante. Un po’ noiosa, certe
volte, asfissiante ed apprensiva. Ma era mio fratello. Una parte di me
stessa. Mio fratello, il mio dolce fratello, riprese a parlare, ruggendo,
quasi. Sembrava scoppiare di felicità. Sentivo addirittura il suo cuore
battere. Era emozionato. Provai un moto d’istintivo divertimento, prima
di rendermi conto di essere emozionata anch’io. “volerti bene? Solo
volerti bene? Rinnegherei me stesso per te! Sei mia
sorella, dannazione, no?”. Ovvio. Sentii una bizzarra sensazione di
freddo. Ma l’elfastra dal naso lungo? Che fine aveva fatto quel cencio
sporco di Akita? Perché non era lì a rovinare i miei affetti?
Perché non aveva plagiato Tijorn, in modo che mi odiasse? Dovevo
chiederglielo. Aspettai che si calmasse, e che si staccasse da me, rimanendo
tuttavia con una mano intrecciata alla mia, prima di domandare. Mi schiarii la
voce, improvvisamente seria, e lui mi guardò, preoccupato. E
così, dopo essermi riguadagnata la sua attenzione, feci le domande che
tanto mi premevano e m’inquietavano. “ma Akita? Che fine ha fatto,
Tijorn? Perché non è con te?”. Ahi. Una stranissima ombra sofferente
passò sul volto di mio fratello, e lui chiuse gli occhi mordendosi il
labbro inferiore. Mi sentii immediatamente in colpa per averglielo chiesto. Quello
era un tasto dolente, per lui, una ferita che ancora bruciava. Avrei dovuto
immaginarlo. Cos’era successo, per separare i due amanti del secolo, la
coppia più improbabile mai vista in vita mia? Chi era stato? Io? Akita era
morta? A quel pensiero, quasi provai apprensione. Tijorn non si meritava tanto
dolore, in vita sua. Sempre lui, a soffrire per gli altri, e mai un attimo di
riposo. Guardai, incuriosita, mio fratello, che, ad un certo punto, aprì
bocca. “non lo so”. Mi confessò, in un soffio. Quelle tre
parole dovevano costargli molto. “poco
dopo che sono tornato a Sharilar, sai, mi ha mandato una lettera. Diceva di
contattare te, Lsyn, di rintracciarti, al più presto. Diceva di aver
scoperto qualcosa di orribile, di tremendo, roba grossa e
pericolosa. Eravamo tutti in pericolo. Tu dovevi tornare subito, di
nascosto, senza farlo sapere alla Regina. Dovevamo raggiungerla, tutti noi, e
scappare. Mi ha detto che nel Regno si nascondeva del marcio. Non è
stata più esplicita…non sono riuscito a scoprire cosa intendesse dire… le ho mandato un messaggio per vie segrete,
volevo che fosse più chiara, che mi raggiungesse… ma lei, Nanetta…non
ha più risposto”. Sentii freddo. Sapevo cosa Akita aveva scoperto,
io lo sapevo. L’inganno perpetrato nei miei confronti. Aveva cercato di
metterci in guardia, di farci fuggire prima che tutto precipitasse, e non ci
era riuscita. Era stata, quasi di sicuro, scoperta a
trafugare informazioni. E quella cosa costava caro. Sentii, inaspettato, un
moto di gratitudine nei suoi confronti. Aveva messo a repentaglio la sua stessa
vita, per me. Ed io che la odiavo così tanto! Provai quasi vergogna. Poi,
tutto fu cancellato nel momento in cui Tijorn aprì gli occhi, carichi di
un dolore immenso. “non ha più risposto, Lsyn…”. Mormorò,
con voce sempre più spezzata, mentre riprendeva a tremare. Strinsi forte
la mano che mi teneva, e, mi resi conto, di essere io a tenere lui, in quel
momento. Ci ero già passata. L’amava davvero. Si era sacrificata
per lui. “cosa le sarà successo? Sarà morta? Che avrà
voluto dirmi? Cosa dovevo fare?”. Non risposi a quelle domande disperate.
Sapevamo cosa succedeva alle Spie prese in castagna, beccate a violare il
rigido regolamento di fedeltà. Sparivano. Punto e basta. Nessuno sentiva
più parlare di loro. Puff, svanite, come se non fossero mai esistite. Lo
sapevamo. Era un qualcosa molto più prossimo di quanto avessimo immaginato. E, fui sorpresa di sentire dolore
quanto lui, alla notizia. Forse mi ero sbagliata a giudicare quello stecco dal
naso lungo. Forse non era così egoista e perfida come avevo sempre
immaginato, un’insopportabile saccente e presuntuosa. Forse mi ero
sbagliata. Anche lei aveva avuto del buono. Si era sacrificata, per Tijorn, per
me. Ci distrasse, improvviso, dal nostro muto dolore in comune, un bussare alla
porta della camera. Sobbalzammo. Tijorn nascose subito il suo tormento dietro
una maschera serena, e mi fece l’occhiolino. “Junielle, sei tu?”.
Domandò, con voce allegra. Oh. La sorpresa stava arrivando? Provai
curiosità, e alzai addirittura la testa dai cuscini per vedere meglio. Cosa
mi avevano preparato, quei due mascalzoni? Mio fratello sembrava aver
recuperato tutto il buonumore, e sorrideva apertamente, ora, in modo quasi
naturale. Sorrisi quasi anch’io. Cambiammo entrambi espressione
quando udimmo, dall’altro capo della porta, una voce gelida ed
asessuata. Oh, no. Quella non era Junielle. Ci guardammo, ed impallidimmo. Non era
Junielle. No che non lo era. Eravamo, più precisamente, nei guai fino al
collo. “aprite, Tijorn e Lsyn Amarto”. Disse la voce ben conosciuta
di un alto funzionario della corte di Lainay, uno dei più fedeli
servitori e leccapiedi. Il Regno ci aveva trovati. Alla fine, tutte le nostre
cautele non erano servite a nulla. Mi sentii male. “sappiamo che siete
lì. Aprite, o butteremo giù la porta”.
Solo in un’altra occasione, poco più tardi, così
drammaticamente presto, mi capitò di vedere mio fratello impallidire
così tanto, diventando di una gentile sfumatura verdina
Solo in
un’altra occasione, poco più tardi, così drammaticamente
presto, mi capitò di vedere mio fratello impallidire così tanto,
diventando di una gentile sfumatura verdina. Non l’avevo mai visto
spaventato in quel modo, l’espressione serafica alterata inuna smorfia di
puro terrore, gli occhi un po’ sgranati. Ed io non ero in condizioni
migliori. Penso di non aver mai provato un simile terrore. Mai. Una fitta allo
stomaco mi ricordò di respirare. Il tempo parve, per, me, congelarsi,
cristallizzarsi in mille frammenti del ghiaccio più freddo, che mi
perforavano il petto. Provai, per un attimo, dolore puro. Il mio campo visivo
si restrinse. Sembrava che il mio mondo si fosse limitato a quella dannata
porta. Non c’era più nulla al di fuori di essa.
Mi sentii sola, sperduta in una landa desolata, dalla quale non c’è ritorno. Senza pensarci, comandata totalmente
dall’istinto, mi girai verso mio fratello, che m’imitò,
nello stesso momento. Le mani che prima ci stringevamo così dolcemente,
per confortarci, si torsero una morsa spasmodica, dettata dal puro panico.
Sapevamo di essere nei guai, nei guai più tremendi. Tijorn aveva
sicuramente letto la lettera che avevo mandato a Junielle, e sapeva, almeno in
parte, cosa avevo combinato. Inoltre, mi aveva dato una mano, a me, la traditrice.
Così facendo, aveva infranto almeno la metà delle regole del
nostro severissimo codice d’onore. Le più importanti, inoltre. Io
ero, ormai, completamente fuori da ogni giurisdizione.
Avevo rifiutato di obbedire alle direttive della Regina. E questo bastava per
far di me la peggiore delle peggiori. Sarei dovuta essere unicamente condannata
a morte. Il pensiero, dopo essere scampata ad un tentativo di suicidio, mi fece
torcere lo stomaco, al punto tale da farmi boccheggiare del dolore. Ci avevano
scoperti.Il Regno, il Regno ci
aveva trovati. Come mai? Perché? Cos’era successo? Domande
necessarie, anche se drammaticamente inutili. Eravamo già in trappola,
come topi invischiati. Tutto era troppo assurdo per poter implicare un
tradimento di qualche genere. Era tutto troppo, troppo strano. Sentii Tijorn
tremare, e mi accorsi di tremare anch’io. Respirai un paio di volte per
calmarmi, profondamente, ma invano. La scelta del nostro prossimo carceriere di
certo non aiutava. “Tijorn e Lsyn Amarto!”. Tuonò al di
là dell’uscio chiuso della mia stanza quella voce, così
conosciuta, dal timbro tremendamente familiare, e minaccioso. “questo
è l’ultimo avvertimento! Aprite!”. Io e mio fratello ci
fissammo con apprensione. Le occhiaie di Tijorn erano evidenti in modo orrendo,
in quel volto reso esangue dalla paura. I suoi occhi sembravano due tane di
coniglio, in fondo alle quali brillavano luci grigie. Era quasi inquietante. Ma
nulla al confronto di chi ci aspettava al di là della porta.
“potremmo fuggire dalla finestra…”. Pigolò
quest’ultimo, con una voce così acuta che quasi non la riconobbi,
proponendo debolmente una pazzesca via di fuga. Sapevamo entrambi che era
impossibile. Io potevo a stento muovermi, e lui non poteva scalare un muro con
me in braccio. Mi maledissi, per la mia stupidità, peraver tentato di uccidermi,
facendomi solo molto male. E, poi, c’erano Junielle e gli altri da
avvisare. Il pensiero mi fece quasi svenire. Roxen. Chekaril. In mano al Regno,
come pezzi di creta morbida, da modellare a proprio piacimento. Eravamo nei
guai, guai seri. Io e Tijorn passammo un attimo infinito in silenzio. “i
bambini…”. Gemetti a bassa voce, mentre, dall’altro lato,
provenivano colpi, ed imprecazioni soffocate. Nessuno dei due aveva la seppur
minima intenzione di alzarsi. Era una cosa già stabilita, senza neppure
parlare. Che fossero venuti loro, da noi. Non avevamo intenzione di strisciare
ancora, non alla presenza di un nostro quasi eguale. Vidi, per la prima volta,
un pallido sorriso farsi strada sul volto di Tijorn. “se è di
questo che ti preoccupi, sorellina…”. Disse, stringendomi ancora
più forte la mano, quasi fino a farmi male, e guardandomi, rassicurante.
“loro sono con Junielle, per Zakadi…dovevano andare a prendere
Amarto, volevamo farti una sorpresa…”. Accidenti. E che sorpresa!
Ma dov’era il compagno di Junielle, quando serviva? Che fine aveva fatto?
Di solito, ci veniva sempre a salutare, ed aveva un ottimo rapporto con me, un
po’ più venato di ostilità con Tijorn, seppure non fosse
stato mai un individuo geloso. Ma, tutto sommato, ci voleva bene. Sentii,
improvvisamente, freddo. Era lui il traditore? O era morto?.
Un nuovo colpo, più forte, ed un cigolio, ci fecero sobbalzare, e
voltare verso la porta. Un altro colpo ancora, ed essa cominciò a dare i
primi segnali di cedimento. Le parole di Tijorn mi avevano sollevata. Per
quanto dolore avessi dovuto patire, per quante
torture, i piccini erano liberi, lontani dalle grinfie di Lainay. Junielle
aveva provveduto, seppur inconsapevolmente, alla loro libertà. Lei
avrebbe capito, tutto. E magari sarebbero fuggiti da qualche parte, magari ad
Uruk, magari in qualche luogo sperduto, e si sarebbero rifatti una vita. E la
prospettiva di morire per qualcuno, con Tijorn a fianco, non era poi
così cattiva. Una stretta più forte della mano mi fece voltare.
Mio fratello mi guardava, con un sorriso strano, forse rassegnato, forse
esaltato. Difficile dirlo. “per quanto tu sia stata una vera pazza
scriteriata per tutta la tua vita, Nanetta, per quanto tu mi abbia fatto penare
non poco…”. Mormorò, consolante e tranquillo. Dannazione.
Eravamo già arrivati alle ultime dichiarazioni, allora? Mancava davvero
poco. Mi preparai, mentre arrivava un nuovo colpo, ed uno scricchiolio
più forte dalla nostra unica, labile difesa. E non avevamo intenzione di
erigerne altre. Saremmo morti. Morti, forse, per qualcosa di buono. Cosa fosse, il buono, non lo sapevo. E non lo so tuttora. “ti
voglio bene, Nanetta, sempre te ne ho voluto e sempre te ne vorrò”.
Sentii un sorriso involontario affiorare in volto. Oh, dei, se
solo avesse saputo della mia totale adorazione, per quel fratello magico,
dolce, premuroso, sempre presente! Lo avrei protetto a costo della mia
miserevole vita. Ma non era il momento diessere melodrammatici. “ora
non esageriamo con le dichiarazioni d’amore eterno, Tijorn”.
Ghignai, facendogli l’occhiolino. “magari è solo per una
tortura… sai, non necessariamente si muore!”. Lo sentii ridere
sommessamente, e quel suono fu musica per me. Far dello spirito in una
situazione critica, con un matto sadico e furibondo a pochi metri di distanza.
Un’impresa, un’impresa che nascondeva la nostra pacata
disperazione. Non è bello sapere di dover morire. Ma, spesso, si riesce
lo stesso a scherzarci su. “sei molto ottimista
oggi, sorellina mia…”. Ridacchiò, mentre ci stringevamo
spasmodicamente le mani, guardandoci con quieto timore. Se fossi sopravvissuta
per un po’, scommettevo mi sarebbero usciti i lividi, e così anche
a lui. “le tue parole mi scaldano la giornata!”. Non ebbi
l’occasione, mai, di rispondergli a tono, di fingermi ancora rilassata ed
allegra, quando dentro di me stavo urlando. Perché, in quel momento, con
uno schianto sonoro, la porta di legno scuro cedette miseramente, sbattendo
contro il muro. Trattenni il respiro, e sentii fievoli parole uscire dalla
bocca di mio fratello. Eravamo finiti, totalmente finiti. Con la morte nel
cuore, vidi entrare un’alta figura magra, vestita di un ricco abito di
velluto blu notte, dal taglio strano, la blusa istoriata con ghirigori
argentei, motivo ripreso nel mantello leggero dello stesso colore,con al centro
il giglio bianco di Normar, del Regno. La figura che avrebbe segnato la nostra
morte. Quella belva ghignante era più che capace di ammazzarci a forza
di torture, dopo una lentissima agonia. Era armato di un lungo coltello, in un
fodero di uno strano grigio satinato, dall’elsa sottile. Tremammo.
Seppure da sola, seppure poco armata e senza nessunoproteggerla, l’elegante figura di
quella creatura bastava a spaventare ogni essere senziente, a ridurlo ad una
lumaca obbediente. E non era difficile comandare un’elfa convalescente,
ancora fin troppo debole, e suo fratello disarmato ed insonnolito, entrambi
paralizzati dalla paura. Lo conoscevamo, e sapevamo di doverlo temere. Jalim,
lo stranissimo Jalim, il cane più feroce della muta della Regina.
Sanguinario, pazzo, fedelissimo, misterioso. Nessuno lo conosceva, al punto che
perfino i lati più risibili della sua identità ci rimanevano
nascosti. Niente in lui parlava. Perfino il suo nome, un’accozzaglia ben
studiata di suoni, non diceva nulla, sulle sue origini. Era già a fianco
del Regno prima ancora che io nascessi. Ma, non per
questo, non lo conoscevo di fama. Le voci nel quartier generale parlavano di
una figura, comunque, controversa. Capriccioso fino ad un limite estremo, era
un individuo da prendere con le pinze, e molti avevano sperimentato la sua
furia incontrollabile. Ogni sua parola era da misurare attentamente,
perché si trattava di un’affilata una lama a doppio taglio. Era
tra i cuccioli più perversi mai usciti dall’allevamento di Lainay.
Calmissimo, inquietante e malevolo, un attimo prima, sadico, rabbioso ed
isterico, quello dopo. Ma sempre incomprensibile, una porta della quale nessuno
aveva la chiave. La combinazione di vocali all’interno del nome Jalim era,
ed è, tipica di un nome neutro. Ho sempre nutrito fondati e feroci
sospetti che quella non fosse la sua vera
identità. Ero sempre stata smaniosa di apprendere qualcosa su di lui,
sul suo mistero. Ma, in ogni caso, evitavo quanto più possibile di parlargli. Una pazzia, peraltro, il chiedergli qualcosa.
Ricordavo ancora con vivissimo orrore un mio conoscente, l’Occhio, e
quello che Jalim gli aveva fatto, solo perché aveva osato insultarlo, a
bassissima voce. Penso che quella creatura indemoniata abbia mangiato
personalmente, con mio enorme disgusto, le labbra e la lingua che gli aveva
strappato in presenza della Regina. Tijorn, nei suoi
periodi da Spia, nella sua giovinezza, aveva avuto spesso contatti con lui, era
stato costretto addirittura a lavorarci assieme, più di una volta. E
l’impressione che ne aveva ricavato era facilmente arguibile, sia dalle
orrende cicatrici di origine sconosciuta che gli correvano trasversalmente
sulle spalle, ferite di cui si era sempre rifiutato di riferirmi la storia, sia
dal panico puro che gli correva in viso ogni volta che Jalim si avvicinava. E
mio fratello aveva più che ragione. Era una creatura ripugnante, un
grosso ragno peloso, che tesseva la sua tela, senza fermarsi mai. In lui, ogni
azione era tesa verso e per il Regno, verso la sua Lainay. Tutto quel mistero
che faceva di se stesso m’infastidiva, e quella brama di sangue era
anormale anche per quella che ero io un tempo, e mi metteva una gran fifa
addosso. Solo Lainay sembrava conoscerlo, d’altronde. Non era un mistero
la sua preferenza spiccata per Jalim, che consultava spesso, per ogni cosa. E
sembrava amarlo, apprezzarlo, un amore malsano, una complicità che mi ha
sempre fatto rabbrividire. L’impossibilità di capire cosa Jalim fosse, effettivamente, rendeva difficile classificare
quell’attaccamento morboso, e fin troppo ricambiato. Ma scommettevo che
la scelta del cieco Cyran come consorte non fosse dovuta
solo a motivi politici, e di comando. Trasgredire, rompere giuramenti, schemi,
e divertirsi, è sempre stata una prerogativa della mia Regina. Tra me e me l’avevo sempre chiamato
l’Ermafrodito, per motivi fin troppo ovvi. Quando parlava usava il
maschile, o il femminile, indiscriminatamente, a suo piacimento. Il suo aspetto
poteva essere benissimo quello di un’elfa, e quello di un elfo, nello
stesso tempo. La sua voce, addirittura, aveva inflessioni sia maschili che
femminili, una parlata lenta e strisciante, che avevo sempre fatto volentieri a
meno di ascoltare. Ed il suo viso, dai toni quasi albini, incolori, anonimi,
con quei capelli bianchi e mortalmente lisci, dai riflessi azzurrognoli, dalla
pelle candida come marmo, e dagli svelti e sarcastici occhi di un azzurro
chiarissimo, quasi bianco, o di un bianco quasi azzurro, aveva tratti così
confusi da risultare androgini. Non mi sarebbe parso strano se qualcuno fosse venuto da me a raccontarmi come avesse alterato i suoi
lineamenti per ottenere quell’effetto spettrale. Ed ora ce lo trovavamo davanti, il volto freddo ed inespressivo che
avevamo tutti imparato ad associare al pericolo, le labbra tese e biancastre,
unico segno della sua rabbia. Era ad un passo dall’esplodere. Tijorn
tirò un gran respiro, e si zittì. “oh ohoh…”.
Ridacchiò Jalim, con l’espressione fissa di un serpente divertito,
la voce musicale ed incongrua che risuonava leziosa, come una miriade di
campanellini. Mi si accapponò la pelle, e fremetti: avevo come la
sensazione che volesse staccarsi, per correre in un posto sicuro. Quella
creatura era da sempre una delle poche capaci di riempirmi di terrore.
Conoscevo abbastanza bene l’ermafrodito maledetto per non riconoscere i
suoi modi di fare. Quel tono dolcissimo ed ipnotico era più pericoloso
di un urlo di rabbia. “a quanto pare, chi non
muore si rivede…”. Non gli rispondemmo, attoniti, e lui fece un
passo avanti. Risuonò in tutta la stanza, come se fosse stato un tuono,
un tuono foriero di sventura. Jalim alzò così le mani, con un
sorriso sarcastico, avanzando ancora lentamente verso di noi, scuotendo i
capelli con fare leggiadro. “ma non scomodatevi, non alzatevi per
me!”. Il suo comportamento era apparentemente cordiale, ma potevo
benissimo vedere gli occhi freddi, fissi su di noi, lievemente scintillanti, di
pazzia, o di delirio, forse. Sentii Tijorn rabbrividire violentemente, e lasciarmi
la mano. Lui lo conosceva meglio di me. Lo guardai con la coda
dell’occhio. Sembrava inchiodato alla sua sedia, bloccato lì come
da una forza sovrannaturale, ogni muscolo teso, ed era pallidissimo. Le vene
del collo spiccavano, come corde. Era più spaurito di me. Solo lui,
Jalim, era capace di ridurlo in quello stato. Mio fratello non era mai stato un
elfo vile, mai. Cercai di non pensare a cosa
quel mostro gli avesse fatto per ammaestrarlo a quel modo. Ricordavo nettamente quando ci avevano avvisati, me ed il Maestro,
ancora forte, sano ed indipendente, che lui era tornato ferito dalla missione
intrapresa un mese prima, ed era al Lazzaretto di Galinne. Non avevano voluto
dirci cosa avesse. Io ed Amarto ci eravamo preoccupati molto: sapevamo quanto
fosse stata facile la missione, un compito quasi da novellini, ma ci aveva allarmato
l’insistenza del pericoloso Jalim ad accompagnarlo, a controllarlo.
L’avevamo pregato di stare attento ad ogni cosa, insieme a
quell’orrendo esemplare di elfo, di non osare. Parole inutili. Fu la
prima, e quasi unica, volta, in cui fui costretta a fare io da compagnia a
Tijorn al Lazzaretto, una cosa che ho sempre odiato.
Aveva riportato segni di origine sconosciuta un po’ su tutto il corpo, e
si era rotto un paio di costole, come per una caduta violenta. Ma più
inquietanti erano i quattro tagli sulla schiena, colpi profondi e netti che
avevano tutta l’aria di essere stati inferti da un
artigli molto, molto affilati. Non aveva voluto rivelare a nessuno
l’origine di tutti quei malanni, nemmeno ai Guaritori. Nemmeno a me. La
prima cosa che fece non appena fu in grado di alzarsi fu quella di correre al
quartier generale per un colloquio con la Spia che aveva il compito di segnare
le Spie disponibili, per una missione o per divenire Maestri. Dopo un
po’, arrivò una lettera che lo avvertiva della nascita delle sue
future allieve, e della data in cui le avrebbero
portate da lui. Fu la missione che sancì il suo definitivo ritiro, che
lo spinse a richiedere il permesso per divenire Maestro, uno dei tanti motivi
che lo spinsero a ritirarsi a Sharilar. Ero rimasta spiazzata dal suo
comportamento, ed avevo voluto conoscere il motivo della sua scelta. Lui era
impallidito, ed aveva cambiato discorso. Sembrava spaventarsi a morte ogni
volta che si tirava in ballo Jalim. Avevo deciso di lasciar perdere, ma
rabbrividivo al solo pensiero di quali orrori fosse stato
costretto a sopportare, in quella dannata missione. Trovarsi vicino,a pochi passi dal suo aguzzino, senza potersi muovere,
doveva essere un’esperienza terribile, per lui.Dovevo assomigliargli, quando i Tengu si
avvicinavano con i loro scettri malefici. Non l’avevo mai visto con gli
occhi così sgranati. L’elfo androgino parve accorgersene, e
sorrise biecamente all’indirizzo di Tijorn, che batté le palpebre
una volta, e si mosse impercettibilmente verso di me, come a volermi
proteggere. Un gesto che mi riempì di tenerezza, mista ad allarme.
Sprofondai nelle coperte, desiderando di sporgermi per abbracciare il mio
spaventato fratello, senza poterlo fare, e cercai di nascondermi. Il fruscio
che provocai fece guizzare per un attimo lo sguardo di Jalim verso di me. Poi,
lui lo riportò a Tijorn. “ma come, tesoro caro…”.
Disse, improvvisamente, fermandosi accanto a lui, e guardandolo, con un cipiglio
sadicamente divertito. “non sei felice di vedermi? Ero così
ansioso di vedere un così antico e buon compagno di squadra!”.
Tijorn rabbrividì di nuovo, e spostò ancora di più la
sedia verso di me, nascondendomi alla vista del pericoloso elfo.
“Jalim…”. Disse, come saluto, con una voce fredda e piatta,
che sapevo usava solo quando aveva da nascondere un
forte sentimento. E sapevo, per una volta, cosa il mio povero fratello stesse
sopportando, cosa si stesse agitando nei meandri della
sua anima. “gentile, da parte tua, venirci a fare una
visita…”. La risposta della creatura mi sconcertò. Lui
scoppiò a ridere, una risata insopportabile, stridula come il suono di
unghie sul vetro, lievemente folle, ed il suo viso esangue s’illuminò,
colorando lievemente di rosso le guance. Rapida com’era venuta, la risata
s’interruppe, e lui, ancora lievemente tinto da un pizzico di vita, si
girò verso di me. Soffocai un gemito di terrore quando
vidi i suoi occhi spettrali accendersi, un fuoco fatuo e malvagio che covava in
bulbi pallidi e acuti. Il mio corpo reagì istantaneamente al pericolo
che la mia mente aveva recepito già da un po’ di tempo. Provai l’impulso
irrefrenabile di fuggire, e mi mossi un po’, a disagio. Avrei voluto
avere un paio di ali, come quelle della Matriarca, per sfuggire ad una
situazione così spinosa. Mi resi conto di tremare follemente, e di non riuscire
a staccare lo sguardo da quel viso spaventoso. Jalim fece un passo verso di me. Mi trattenni
dall’urlare. “oh, Tijorn caro…”. Cinguettò, con calma
mortale, ed un sorriso bieco stampato in viso. Poi proseguì, senza
prendere fiato, fissandomi ancora con quello sguardo incandescente, ardente di
furia a stento imbrigliata in una tranquilla apparenza. “è questa
la tua piccola Sorella di Maestro? Ma certo, che sciocca
che sono, la vedevo spesso al castello! Ma non mi avevi mai raccontato dei suoi
occhi, caro!”. Eh? Cosa stava dicendo? I miei occhi? Cosa avevano i miei
occhi, i miei normalissimi occhi del nero più profondo ed intenso, un
colore che aveva ispirato al mio Maestro il mio nome, che non andava? E,
soprattutto, perché quell’essere diabolico si metteva a cianciare
dei miei occhi? Provai una fitta d’inquietudine, e sospirai. “superano
addirittura i tuoi, Tijorn, il che è tutto dire…tu guarda, sono
così neri che non si vede la pupilla! Sarà un grande piacere appropriarmene
dopo che la mia Signora avrà finito con voi!”. Il sorriso perverso
che si dipinse sul suo volto pallido ci fece scattare. Io sobbalzai, l’orrore
che strisciava freddo in me, e Tijorn saltò in piedi, come se qualcuno l’avesse
scosso, frapponendosi tra me ed il mostro. Fu un atto di enorme coraggio, un
atto istintivo che ancora mi lascia di stucco, al solo
ricordo. Jalim, tuttavia, fu più veloce di lui. Stava aspettando quel
movimento, ne ero sicura. Ci aveva stuzzicati apposta. Sentii così un
rumore strano, come di uno schiaffo, e mio fratello mi cadde quasi addosso,
piombando seduto sui miei piedi, tenendosi una guancia, che il bastardo
ermafrodito aveva sicuramente colpito. Tuttavia, la prima cosa che fu, fu
quella di allungare l’altra mano, quella libera, e di stringere una delle
mie, spasmodicamente, senza guardarmi. Fremetti di rabbia, impotente e
momentanea. Come, come osava fare del male al mio dolce fratellino? Come osava
schiaffeggiarlo? Maledetto! Perché infliggeva un simile trattamento a
noi, come fossimo schiavi? Cos’era, ci credeva bambini imbelli, solo perché
disarmati? Mi voltai di nuovo verso l’androgino, arrabbiata oltre ogni
dire, decisa a dirgli qualcosa di pungente ma ogni
istinto bellicoso fu soffocato, come fiammelle sotto un pesante panno di lana,
dalla sua espressione. Jalim non sorrideva, né ridacchiava più. Ci
fissava, muto, immobile e rigido come un cadavere, la mano sottile e femminea
ancora alzata. Allargò le narici, e per un attimo sembrò
più terribile che mai. “Tijorn e Lsyn Amarto, allievi di Amarto
Sindjisk, detti Mille Maschere e l’Ombra”. Scandì, mentre la
rabbia, finora trattenuta, fluiva dalle sue parole, impregnandole di
fatalità da giorno finale, mentre ci fissava, spalancando lievemente gli
occhi. Un comportamento che m’incuriosì, ed avrei riso per la sua
stranezza, se non fossi stata così annientata dalla paura. Ma Tijorn
sembrava sapere bene cosa stesse per venire, ed il suo
atteggiamento me lo dimostrò in pieno. La mia mano venne
stritolata da un fratello terribilmente impaurito. “siete stati accusati
di: cospirazione, alto tradimento, avete infranto tutte le leggi del vostro
Codice… alzatevi, e seguitemi, perché l’Altrove è il
luogo del vostro pentimento”. L’Altrove. Così lo chiamavamo.
Nessuno sapeva cosa, o dove, fosse. Avevo sempre pensato fosse una sentenza di
morte, e che li ingannassero, per portarli a morire da qualche parte. Mi sbagliavo,
ma allora non sapevo. Il mio cuore saltò un paio di battiti, e mi
guardai a lungo con mio fratello. Vidi stampata sul suo viso un’espressione
rassegnata, che sapevo riflessa in modo speculare sul mio. Quante, quante volte
avevo sentito quelle parole, quelle formule che tanto ci spaventavano, rivolte
magari ad una Spia insolvente? E quanto, quanto avevo deplorato la sua
condizione, sapendo che sarebbe sparita, senza più dare notizie di sé?
Quante volte avevo immaginato dove potesse finire, come potesse morire? Quante volte
mi ero sentita fiera di non essere mai stata richiamata, di essere una delle
poche Spie con la fedina immacolata? Ecco come mi ero ridotta. Per cercare di
salvare la vita di due innocenti, ero condannata ad una pena di cui non
conoscevo nemmeno l’esatta entità. Sarei morta. Però,
inaspettata, sentii travolgermi un’ondata di speranza. Avevo adempiuto alla mia principale missione, che mi ero
autoimposta. Chi s’importava, in quel momento, di Lainay, della
maledetta? I piccoli era salvi, sani e salvi. Per quanto avessero potuto
torturarmi, in quel maledetto Altrove, avrei avuto una luce a sorreggermi, un
motivo per resistere. La mia bocca sarebbe rimasta serrata, mentre due infanti
avrebbero giocato in un prato, ridendo, spensierati, con una mezzelfa amorevole
a proteggerli. E, così, sarei forse morta felice. La cosa mi piaceva,
molto. In fondo, la mia vita era servita a qualcosa, dopotutto. Avevo abbandonato
quell’esistenza priva di nerbo e senso che era stata il mio fulcro per
cos lungo tempo, quando svolgevo missioni senza cognizione di causa alcuna,
senza valori e senza amore. Il mio destino si compiva. La scriteriata Ombra non
era più. Lsyn aveva trionfato, con tutto il suo carico d’ingombrante
sofferenza. Due piccoli erano salvi, pronti a vivere una nuova esistenza da
ribelli. Combattere per un ideale,
giusto o sbagliato, non m’interessava. L’unico mio obiettivo era
stato quello di far felici due creature innocenti, alle quali tenevo molto. Non
avrei mai voluto che si sporcassero, si macchiassero come avevo fatto io. E ci
ero riuscita. La mia dolce Roxen era scampata a quell’ingranaggio di
bestialità che era il Regno. L’allegro Chekaril era sopravvissuto
ad un nome ed un’armatura troppo stretti per lui, per il suo animo
così buono. E tanto bastava, tanto bastava per rendermi felice. Non m’importava.
Sarei morta piena, cosciente del mio unico, e raro, gesto buono, anche se
estremamente egoista, e sarei morta con Tijorn. Cosa potevo
volere di più? Mi lasciai prendere così in braccio da mio
fratello, diventato inespressivo e stordito, mentre Jalim lo pungolava da
dietro con quello che mi parve un coltello, lasciandomi avvolgere senza storie
da una coperta leggera, e, mentre camminavamo, ebbi anche il coraggio di
rivolgere un sorrisone al nostro aguzzino, un gesto
che lo lasciò spiazzato. Risi, in me, per quel volto confuso. Pensavo di
saperla più lunga di lui. Molto più lunga.
Uscimmo dalla casa di Junielle, situata in un posto più discosto dalle
altre, quell’edificio di così buongusto, dove ci aspettava, a
cavallo, un drappello di enormi elfi montati su altrettanto minacciose
cavalcature scure. Sentii mio fratello sobbalzare, e mormorare un’imprecazione
sottovoce, stringendomi più forte. Non mi piacque quell’atteggiamento.
Qualcosa era andato storto. Mi girai di scatto. Ed il mondo mi crollò
addosso. In me si fece il vuoto più totale. Perché quei bastardi
erano riusciti a catturare tutti, a mettere le loro mani sudice su tutti.
Amarto, il vecchio cieco, già in sella ad un magro castrone, l’aria
abbattuta e sconfitta, Manolìa e Nysha, confuse, che si tenevano strette
su un baio, Junielle, con gli occhi verdi che scintillavano di rabbia, con un
livido grosso quanto una mela sul collo, i capelli impolverati, legata ad un
ciuco, tutti con le briglie saldamente assicurate nelle mani di quei terribili
cavalieri, a noi nemici, che ci fissavano con aria ostile. C’era un
enorme cavallo nero, dall’aria piuttosto inquieta, ad aspettare me e
Tijorn. Se c’erano loro, allora sapevo anche che i piccoli erano perduti,
per me. Lainay avrebbe vinto, per l’ennesima volta. Volevo piangere, solo
piangere. Fallita. Con orrore crescente, mi voltai verso due soldati a piedi,
dall’aria più esile, ma evidentemente Immortali, che tenevano
avvinti strettamente ad essi, Chekaril e Roxen, che si
dibattevano con aria ribelle, con tutte le loro forze. Ma non potevano far
nulla contro due elfi addestrati. Avevo fallito. Lainay li avrebbe presi. No! No!
Non pure quello, non poteva essere così, stavo sognando tutto! Un urlo
rabbioso di Chekaril mi fece tremare. Stavano facendo loro del male? L’aria
venne a mancarmi, e sentii uno strano rumore, come un pigolio. Dopo poco, mi
resi conto di essere io a produrlo. All’improvviso, dopo un terribile
attimo cristallizzato, mia figlia parve notarmi. “zia Lsyn!”. Urlò
con tutto il fiato che aveva in corpo, tendendo le magre braccia verso di me. Mi
riscossi, in un attimo. Vidi tutto rosso, e mi avvolse una furia incredibile. Non
potevano permettersi di portare via i piccoli! Li avrei uccisi, uno per uno, se solo avessero provato!. Dimenticai di essere ferita, e
praticamente inutile. Avrei potuto fare una strage di quei bastardi. “no!”.
Ruggii, cercando di alzarmi, di divincolarmi dalla stretta rassicurante di
Tijorn, e di correre verso di loro. Un dolore lancinante, insopportabile, al
ventre accolse quel movimento avventato. E scivolai nel buio più
assoluto.
Essere legata come un salame a cavallo, costretta ad una posizione
assurdamente immobile per ore, appiccicata ad un fratello ugualmente avvinto,
il dolore in agguato ad ogni movimento della propria cavalcatura, la febbre che
mi faceva rimbombare la testa
Essere
legata come un salame a cavallo, costretta ad una
posizione assurdamente immobile per ore, appiccicata ad un fratello ugualmente
avvinto, il dolore in agguato ad ogni movimento della propria cavalcatura, la
febbre che mi faceva rimbombare la testa come un gigantesco tamburo, non
è un’esperienza che, in tutta sincerità, vorrei ripetere. E
dire che passammo ben dieci giorni in viaggio, una colonna compatta e minacciosa
di soldati e poveri prigionieri, preceduti da un grande carro coperto, in
quelle condizioni. Non vidi più i miei piccoli, i miei poveri protetti,
non riuscii a trovarli in tutta quella marmaglia, ma non mi stancai mai di
cercare. Mai. Ero letteralmente pazza di rabbia, quando mi svegliai, a cavallo,
le mani strettamente tenute contro la sella del nostro cavallo nero, con dietro
Tijorn, che sopportò tutte le angherie con il suo solito stoicismo, a cui ero assurdamente legata. Entrambi non potevamo
muoverci, nemmeno cambiare posizione. Potevamo solo girare la testa. Lo scoprii
dopo essermi divincolata per un’ora buona, urlando con quel poco di fiato
che avevo nei polmoni tutti gli insulti che conoscevo, contro i soldati, contro
Jalim, contro il Regno, contro Lainay, contro il mondo, e, soprattutto, contro
me stessa, fino a quando la febbre aveva preso il sopravvento. Ero stata,
indubbiamente, una cretina. Un’imbecille poco previdente, come mio
solito. Perché avevo cercato di suicidarmi? Perché avevo commesso
un gesto così sciocco? Debole così com’ero, non potevo fare
nulla per liberare e liberarmi, e, soprattutto, per trovare Chekaril e Roxen. Avevo
fallito, anche in questo. Il solo pensiero mi riempiva di una smania orrenda,
un pungolo doloroso, e praticamente inutile. Mi torturavo, pensando al mio
incombente fallimento, a quel fallimento che si era riversato su tutti noi.
Perché ero andata a Zakadi? Perché mi ero diretta in un posto
così affollato, dove era fin troppo facile contattare le autorità
di qualche regnante, dove erano frequentemente in allerta per l’arrivo di
criminali e fuorilegge? Più ci pensavo, più mi pareva ovvio. Sarei
potuta andare dai Tengu, con i piccoli. Avrei potuto
infiltrarmi in qualche carovana Insathi,ed eludere i confini, per andare nel deserto, o, non so, anche nelle
zone polari del Regno, dove gli abitanti più ostili erano gli orsi. Ero
stata enormemente stupida, a non pensarci prima. Quel pensiero mi rodeva, quel
rimorso stava scavando in me in un odio devastante, profondissimo, e, ora che
tutto è ancora cambiato, mi rode tuttora. Un odio verso me stessa, peraltro.
Sarei stata io, in un modo o nell’altro, a consegnare ad una pazza i
piccoli, per farne suoi piccoli diletti. Si sarebbe mostrata sicuramente per
ciò che non era, tutta zucchero e miele, una vera mamma putativa, ed
avrebbe plagiato quelle due menti giovani ed inesperte con la stessa
facilità con la quale era stata traviata la mia, quella di Tijorn, di
Akita, e tutte le altre Spie. Lainay, signora suprema del Nord, Regina
beneamata del Regno Elfico, e bla bla bla, era
infinitamente brava in quel genere di cose. Una vera serpe, tutta tesa verso un
obiettivo che nessuno aveva mai compreso appieno. Ma, il solo pensiero della
rovina che avevo causato mi faceva piangere, singhiozzare come una povera
derelitta. Immaginavo Roxen, ormai adulta, a fianco di Lainay, gli occhi viola
accesi dalla stessa luce delirante e gelida, mandare a morte degli innocenti;Chekaril,
diventato maledetto come il padre, giocare con le anime di mille e mille
persone, e mi tormentavo.Viaggiammo, così, dieci giorni, dieci giorni di vera e propria
tortura, per me, e per gli altri. Per tutti, la sola idea
di finire in un luogo di cui non si sapeva l’ubicazione, un luogo
semplicemente chiamato Altrove, un’accezione generica che metteva i
brividi, in tutta la sua potenza profetica, terrorizzava. Inoltre, ciliegina
sulla torta, sia io che mio fratello, durante tutto il giorno, eravamo affidati
a Jalim, che trottava a fianco del nostro cavallo, tenendo le briglie,
più lunghe del normale, con fare disinvolto ed allegro, come se per lui
quella non fosse altro che una gita di piacere, e forse, nella sua
mentalità distorta, lo era, eccome. Penso, anzi, ho la certezza, che la
scelta di Jalim come nostra guida non aveva del casuale. Ne erano, come prove
fin troppo schiaccianti, il fatto che lui, eccitato come un infante alla vista
di un balocco nuovo, non smetteva di parlarci, confondendosi con i generi molto più del solito, e sorridendo biecamente. E non
erano belle cose, quello che cianciava a voce alta, per niente. Avevo sentito spesso
Tijorn tremare, terrorizzato, ed io stessa avevo avuto la pelle d’oca
più di una volta. Ed a ragione. Perché, no, non era da Jalim
cicalare di cose normali per una qualsiasi creatura senziente, no. Troppo poco
originale, e, soprattutto, sadico. Lui ci ripeteva entusiasticamente,
ossessivamente, praticamente sempre, che la
sua luminosa Regina gli aveva fatto un grandissimo regalo, l’aveva
reso un essere felice, la creatura più felice del mondo. Gli aveva dato
praticamente privilegi infiniti nella guerra, di cui ci ripeteva le fasi fino
allo stremo, ed erano tutti suoi i prigionieri da torturare, e le mansioni
più sanguinolente. Un lavoro che lo riempiva di gioia ebbra. Mi
rivoltava il sentire, ogni dannatissimo giorno, fino a quando
la luce calava, cosa aveva fatto ad ognuno delle sue sfortunate vittime, e cosa
avrebbe fatto con noi, se solo la Regina gliel’avesse permesso. Poi ci
confessava, con voce più bassa, e malvagia, facendolo evidentemente
apposta, che, visto che eravamo condannati all’Altrove, all’oblio
eterno, visto che eravamo traditori della patria e dell’onor elfico,
eravamo comunque in suo potere. Tutti in suo potere. E lui avrebbe potuto fare
tutto quello che gli fosse passato per quello strumento perverso di tortura,
dove tutto usciva distorto come un cavaturaccioli, che si ritrovava come mente.
E, dicendo così, guardava Tijorn, con uno strano scintillio malefico
negli occhi. Lo sentivo deglutire, sempre, e non rispondere. Jalim doveva
avergli fatto davvero del male, per spaventare il mio Tijorn in quella maniera.
Potevo solo immaginare, e, di solito, non cose positive. Il vedere mio fratello
così tremante mi riempiva d’angoscia. Era una tortura mentale, la
nostra, insopportabile, d’altronde. Nei miei sogni, già abbastanza
sconvolti dalla febbre, si andavano ad aggiungere anche le scene che evocava,
quel bastardo ermafrodito, in deliri allucinanti che mi lasciavano spossata. E
sapevo che nemmeno Tijorn dormiva molto. Era quello più colpito dei due,
dalla vicinanza del suo antico aguzzino, dai suoi modi di fare e di dire
atroci,e,
anche se non lo dava a vedere molto, stava soffrendo pene inimmaginabili. Era
diventato, man mano che il viaggio procedeva verso nord, sempre più
cupo, e poco reattivo. Negli occhi brillavano le fiamme del tormento, il dolore
più puro. Gli ultimi giorni, nemmeno le promesse dell’ermafrodito
di staccargli le orecchie se non gli avesse parlato, se non l’avesse
celebrato come dovuto, funzionarono. Aveva resistito fino a quel momento, ma
poi anche lui, che era di tempra piuttosto forte, aveva ceduto. Se il viaggio verso
il luogo tanto temuto fosse stato più lungo, di sicuro si sarebbe
lasciato morire. Gli ultimi periodi prese ad evitare addirittura il mio
sguardo, preferendo fissare il vuoto, mentre si formava in mezzo la fronte, una
piccola ruga che indicava quand’era assorto nei suoi pensieri, nelle sue
fantasticherie. Cercava di fuggire a tutto quello, almeno con la mente. Mi
sentii terribilmente in colpa. Per colpa mia, lui, che non c’entrava assolutamente niente con le mie beghe con il Regno,
era stato trascinato nel suo incubo ad occhi aperti. Era tutta colpa mia.
Sapevo quanto stesse soffrendo, e ne soffrivo anch’io. Più che
altro, avrei volentieri cavato la lingua al maledetto, per offrirla a mio
fratello, se solo avessi potuto. Potevano fare qualunque cosa a me, torturarmi
in ogni modo possibile, ma Tijorn no. Non lui. Non era
permesso, non era lecito! Come osava, Jalim, in tutto il suo sadismo accentuato
ed estremizzato, far del male, o volerlo fare, quantomeno, ad una creatura
buona come la mia adorata mamma chioccia? Come osava? Odiai più che mai
quel pazzo. Era frustrante, oltretutto, il non poter fare nulla, nemmeno poter
fuggire. E così, ogni volta che Jalim si permetteva di fare
un’allusione al passato di Tijorn, io lo fulminavo con lo sguardo,
dimenandomi, e digrignando i denti guadagnandomi nient’altro che una
risatina ed un buffetto sulla guancia buona. Un paio di volte, cercai
addirittura di morderglielo, quell’arto freddissimo e morbido, e fu
l’unica volta che ottenni una reazione non da Jalim, ma da mio fratello,
che mi sussurrò un no
disperato, e cercò di divincolarsi a sua volta. La sofferenza contenuta
in quell’unica parola, lo smarrimento, mi dissuasero dal ripetere
quell’atteggiamento, molto più dell’occhiata assassina
dell’ermafrodito. Il bastardo ci logorava, lavorando sull’unica
leva che possedeva per tormentarci. Jalim sembrava preferirci, in una maniera
possessiva e malsana, preferire entrambi, e gli occhi gli scintillavano ogni
volta che giurava di voler i nostri, di occhi. Ed a me, quell’orrore si
sommava alla tristezza infinita, al senso d’inutilità assoluta che
provavo, nel vedere il carro incedere lento avanti a noi, carro in cui
c’erano sicuramente i piccoli, che non scesero né si fecero vedere
mai. Chissà cosa gli avevano raccontato, per farli stare buoni, per
addolcire la loro prigionia. Temetti, ad un certo momento, che li stessero minacciando, che stessero usando tutto la loro
potenza orribile per convincere Roxen e Chekaril a capitolare. Speravo
ardentemente non fosse così. Furono dieci giorni di patimenti
difficilmente narrabili, un orrore che la mia mente rifiutava, e rifiuta
ancora, di ricordare. Patimenti non solo psichici: per dieci giorni fui
tormentata dalla febbre, che imperversava specialmente di notte, e dal dolore.
Viaggiavamo senza un Guaritore, e, i miei amici, cominciarono a temere il
peggio. La ferita non era ancora guarita quando ci
avevano prelevati così brutalmente. E quel trattamento disumano non mi
faceva bene. Loro, d’altronde, non stavano meglio di me. Viaggiavamo
legati ai cavalli per tutta la giornata, senza soste, senza mangiare né
bere, fino alla sera, quando, sotto sorveglianza
generalmente di qualche soldato nerboruto, eravamo sbattuti lontano
dall’accampamento, all’aria aperta, e ci veniva dato un morso di pane,
e carne affumicata, assieme ad un po’ d’acqua. Nei primi giorni, fu
Tijorn il mio assistente, come aveva fatto sempre, sempre e sempre. Era lui che
mi teneva in braccio, per riscaldarmi quando la febbre
si alzava al punto tale che, nonostante fosse ormai estate anche lì,
tremavo di freddo, avvolgendomi con il suo mantello, ed il mio. Era lui che
sacrificava metà della sua razione d’acqua per me. Era lui che mi
convinceva a mangiare un po’. Era lui che, vincendo il timore ed il suo
naturale buonsenso prudente, andò a supplicare i rudi soldati, una notte
in cui io stavo peggio del solito, di farmi avvicinare al falò che
avevano creato nell’accampamento per cucinare, per riscaldarmi, o,
quantomeno, accendere un fuocherello, perché non avevamo cattive intenzioni,
ma erano preoccupati per la mia salute, che era già compromessa. Si
beccò, come tutta risposta, un tremendo pugno nello stomaco, che lo fece
cadere a terra, ed una sequela d’insulti. Non hanno pietà, per le
Spie cadute in disgrazia, come noi non ne avevamo di loro durante le nostre
missioni. Con il passare del tempo, man mano che Tijorn sprofondava sempre di
più nella sua apatia, a lui si sostituirono Junielle, che veniva malmenata spesso, perché mezzelfa, ed Amarto,
il mio dolce Maestro, che mi teneva stretta a sé, ripetendomi, a volte
piangendo, che era tutta colpa sua. Ma, alle mie domande, non rispondeva mai.
Povero, povero, vecchio mio. Sembrava eludere lo sguardo di tutti, nonostante
non potesse vederci, e la sera non si addormentava se non aveva me, mio
fratello, Nysha e Manolìa accanto, protetti dalla sua stretta. La sua famiglia.
Una parola che mi sembrava strana, immensamente. Mi sembrò tanto di
ritornare piccola, quando avevo un incubo ed il mio Maestro mi consolava.
Volevo tanto ringraziare, ringraziare tanta bontà, e tanto affetto, ma
non ce la facevo. Blateravo spesso dei piccoli, preda del delirio, e tutte le
notti erano sogni strani. L’ermafrodito entrava in molti di questi. Ero
terrorizzata da lui. Ancora oggi,
mentre scrivo queste parole, sento la pelle accapponarsi, e mi sembra quasi che
Jalim venga, da me, a torturarmi ancora. È orribile pensare che, da
quell’accadimento, sono passati più di
dieci anni. Ancora fa fin troppo male per abituarsi al pensiero. Finalmente,
dopo che ci ebbero bendati gli occhi, e fatti girare a lungo in tondo,
arrivammo,in
un tardo pomeriggio estivo e caldo, in un gigantesco atrio, forse un’ex
scuderia, dove c’era, ad aspettarci, un manipolo di soldatini imberbi.
Dopo tutte quelle torture, ci sembrò un sollievo, essere affidati a quei
giovani dallo sguardo inesperto. Era, forse, una loro tattica, quella di estenuare
il prigioniero, prima di portarli lì? Cosa sarebbe successo, ora?
Eravamo, comunque, arrivati. Come ho scoperto poi, l’Altrove non è
altro che un antico castello di una delle monarchie antecedenti il Regno, molto
vicino a quello che era il confine con Uruk, non lontano da Sharilar. Un luogo
davvero carino, una costruzione regale immersa nella foresta, appollaiata su un
monte come un’aquila, dove, fin dalle origini del nostro ordine, venivano portate le Spie macchiatesi di un terribile
delitto, in attesa che il verdetto venisse reso definitivo, e pronunciato. Un
luogo tutto sommato ancora sicuro, in quei tempi di guerra, proprio
perché in una zona poco popolata, e tranquilla. Ma un posto pericoloso.
Davvero pericoloso. Pericoloso per noi. Mentre eravamo ancora bendati, avevano
allontanato il carro, con mio enorme dolore, e urla stridule. Noi eravamo stati portati da un ingresso
secondario, ad un atrio vicino agli alloggi del Guaritore. Ne avevamo un
po’ tutti bisogno. Una volta
smontati tutti, io in braccio a Tijorn, l’unico che non aveva le
mani legate, con mia grande gioia, ci congedammo da Jalim e dalla sua terribile
compagnia. Lui, rimontando a cavallo, come tutta risposta ai nostri sguardi
sollevati fece un sorrisone, e l’occhiolino.
“ci rivediamo presto, miei diletti!”. Tubò, agitando il
braccio, voltando poi la sua cavalcatura, ed uscendo. Sentii mio fratello
stringermi più forte, e girai lo sguardo verso di lui. Gli occhi erano
sgranati al punto tale da sembrar sul punto di voler schizzare fuori dalle orbite. Era un piacere, tuttavia, vedere il
terrore dipinto anche nei volti dei giovani elfi che ci dovevano scortare.
Terrore, e disgusto. Tutto sommato, quei soldati semplici
erano anime miti, gentili, normali guardie, che ancora conservavano la loro
parte di umanità, per quanto umano possa essere un elfo. Creature
rispettose, e meste, senza nome. Ci indicarono gentilmente la strada, ed aiutarono
addirittura Junielle ed Amarto, i più provati dal lungo viaggio a
cavallo. Un paio presero per mano Nysha e Manolìa, che non avevano
parlato dall’inizio del viaggio, e si erano limitate a stare con il mio
Maestro, e cominciarono a scherzare con loro, strappando dai loro visini
sconvolti e smagriti un sorrisino. Qualcuno di loro si
accorse del viso spento di mio fratello, e borbottarono tra loro, chiedendogli
gentilmente se potevano portarmi, se lui aveva bisogno di aiuto. Lui non
rispondeva a nessuno, e si limitava a stringermi più forte. In silenzio,
ci dirigemmo verso l’uscita dell’atrio, entrando così in un
lungo corridoio, sobrio e dai colori tenui, con un’unica porta in fondo.
Una scena vagamente inquietante. Preceduti da due soldati, io e Tijorn fummo i
primi ad avviarci. “dove stiamo andando?”. Squittì, da
dietro, una vocina, forse Manolìa, quando eravamo quasi vicini alla
porta. Una voce gentile, quella del capitano, un elfo smilzo ed abbronzato, che
sembrava impacciato nella divisa, quanto un drago che vuole imitare una
libellula, che dava tutta l’aria di essere stato strappato da poco ai
campi. “dal Guaritore, piccola mia…”. Disse, sporgendosi per
aprire la porta. Era scuro in viso. “è una tappa obbligata, visto
le condizioni in cui siete ridotti… su forza, voi due,
entrate…”. Si fece da parte, spalancando la porta, permettendo al
fantasma di Tijorn, con me in braccio, di entrare nell’ampia stanza
luminosa e tiepida, dal soffitto alto ed i colori chiari ed allegri, di forma
rettangolare. C’erano ben due ampi finestre, che
davano sulla foresta intera. In un lato, era tutto un affastellarsi di
armadietti di varia forma e colore, mentre, dall’altro, c’erano
alcuni letti, e poltroncine, dai colori vivaci, tutto tipico di una camera
comune di un Lazzaretto. Una scena che, a me, era piuttosto familiare. Una
sedia era occupata, da quella che mi sembrava un’elfa bionda e molto
pallida, vestita di un bellissimo abito prugna. I capelli, liscissimi e
luminosi, le cadevano a nascondere il viso, ora chino su un libro, aperto sulle
sue ginocchia. Sentii Tijorn emettere un sospiro roco, e sobbalzare, preso di
sorpresa. Mezza stordita dalla febbre, sulle prime non capii cosa avesse
scatenato quella reazione. Ma poi, mi riempì nient’altro che la
meraviglia, quando l’elfa, probabilmente incuriosita dal rumore, non
alzò il viso. Il cuore mi si fermò per la sorpresa, ed io rimasi,
sconvolta, a fissare il viso altrettanto sconvolto di Akita. Era lei.
Impossibile sbagliarsi. Avevo visto infinite volte quel viso magro, dalla pelle
diafana, quasi azzurrina, quegli occhi lievemente allungati, contornati da
ciglia folte, di uno strano ed anonimo azzurro scambiato, ora
spalancati per la sorpresa. Soprattutto, avevo preso in
giro infinite volte il suo naso, un po’ lungo, ed adunco, un
particolare che stonava drammaticamente con il resto del suo essere, che
avrebbe potuto essere definito carino, se non fosse stato per quel particolare.
Dimenticandosi del libro, quella che una volta era mia nemica acerrima
scattò in piedi, rivelando la sua incredibile altezza, pari a quella di
Tijorn. Mi aspettavo di trovarla magra come un chiodo, anemica, come l’ultima
volta che l’avevo scorta, ma non mi sembrava, da quello che vedevo. Per niente.
Era ingrassata un po’. E non le stava male, anche se mi pareva strano. Molto
strano. Rimanemmo per una frazione di secondo ad osservarci. Strano, nel
vederla, sentii gioia, quasi, e gratitudine immensa. Niente odio, niente
acrimonia. La sua azione, il suo sacrificio, aveva cancellato tutto il mio
astio nei suoi confronti. È bizzarro constatare come cambino
le cose. Beh…almeno, non eravamo soli nell’ultima parte del nostro
calvario. C’era lei a tener alto il morale di mio fratello. Lei mi
avrebbe aiutata a fargli dimenticare l’orrore, lo sapevo. Si vedeva da
come ci guardava, piena di spavento. “maledizione!”. Fu l’unica
cosa che, penso, si sentì di dire, con la sua voce lievemente stridula,
cominciando ad affrettarsi verso di noi, lasciando, cosa che mi stupì
moltissimo, il libro a terra, aperto e capovolto. Se Akita lascia un libro, si diceva al quartier generale, preparati alla fine del mondo.
Ed alla fine del mondo ci saremmo dovuti preparare, se non altro per
quello che sarebbe successo
Ed alla
fine del mondo ci saremmo dovuti preparare, se non altro per quello che sarebbe successo. Che ci sarebbe successo. La fine del
mondo, del nostro mondo, il termine
di quella parte minuscola dell’esistenza globale, che tanto era per noi
preziosa. Niente fu mai più come prima. Si è spento un sole, si
sono accese mille candele. Ciò basta per rischiarare il nostro ottuso
cammino. Ma la luce da loro emanata non è che pallido riflesso, mero
fantasma, delle cose che furono, della grandezza passata. Tante piccole, timide
fiammelle, sussurri tenui di speranza, che insieme riscaldano il cuore,
riscaldano il cuore di noi, i superstiti. Ma, chi, allora, aveva speranza? Come
avremmo potuto sperare, rinchiusi in un luogo di cui non sapevamo nemmeno
l’ubicazione? Ci limitammo, ad andare avanti, a far finta di non essere
condannati. Come se la nostra ora non fosse già scoccata, sottoforma di
carro traballante, dove sedevano due piccoli elfi, innocenti e tremanti, la mia
nuova ossessione. Rimanemmo così, ad osservare, impietriti, Akita
correre verso di noi, pallida più del solito. Portava, cosa strana per
lei, per la sua stessa natura non esattamente agile, un bel vestito prugna, di
quello che mi sembrò lino, o comunque una stoffa molto leggera, trattenuto
in alto da una fascia più scura, alquanto sottile, uno stile tipico di
Galinne. La guardai, stupita. Non era esattamente la prima persona che mi sarei
aspettata di ritrovare, in quel posto misterioso. Penso che Tijorn fosse dello stesso parere mio. Se non fossi stata tra le sue
braccia, troppo debole per poter camminare da sola, si sarebbe precipitato
dalla sua amata elfa. Glielo leggevo in faccia, negli occhi, quasi incantati,
come quelli di un cieco a cui, improvvisamente,
permettono di poter vedere il mondo, la luce, i colori. E, devo ammettere,
anch’io ero piuttosto felice di vedere lì il Falco,
quell’elfa con la quale ero stata nemica, la creatura che, quando le mie
preoccupazioni non erano altro che quelle dovute ad una missione, cose che, in
quei momenti drammatici, mi parevano stupidaggini, o ad un ballo, mi aveva
presa crudelmente in giro, che non aveva sprecato un’occasione per dire
la sua con quella lingua lunga ed affilata che si ritrovava. Akita, la mia
casuale compagna di stanza, durante gli ultimi periodi
dell’apprendistato, che abbiamo fatto assieme. Akita, che mi rendeva
impossibile l’esistenza, che mi faceva scappare da Tijorn, esasperata. La
buffona, l’eterna sfortunata. Aveva vissuto l’intera infanzia nel
quartier generale, sola in mezzo ad indifferenti adulti, ma nessuno conosceva
il motivo. L’insopportabile, l’affamata cronica. Spesso,
presa dall’ispirazione che mi scorreva nelle vene, carogna come
poche volte in vita mia, per vendicarmi dei suoi commenti urticanti ed acidi,
fatti di solito in mensa in mezzo alla folla, spifferavo ai supervisori le sue
sortite notturne in cucina, facendo sì che venisse punita. Finivamo
spesso, dalle nostre schermaglie acide, a duelli veri e propri. Era stato un
grandissimo sollievo quello di finire l’apprendistato, divenire Spia vera
e propria, ed avere una camera nel quartier generale, tutta per me. Ma la
rivalità era rimasta, e molto. L’ultima volta che l’avevo
vista, era stato quando, ancora convalescente e piuttosto instabile, ero andata
a recuperare alcune cose, nella mia camera, che sapevo di vedere per
l’ultima volta. Anche lei stava per partire, per una meta che non
conoscevo, né conobbi mai. Una missione segreta, segretissima.Io, Spia ormai decaduta, che tutti
ormai evitavano, stavo cercando i miei pochi averi davvero utili, intabarrata
sotto strati di tessuto che nascondevano il mio corpo ormai sfigurato, quando
l’avevo sentita, dalla porta, che avevo lasciato aperta, parlarmi.
Cercò di stuzzicarmi, come faceva sempre, di provocare in me una qualche
reazione che l’avrebbe soddisfatta, e mi diede dell’inetta,
dell’inutile relitto. Mi bastò, allora, alzare lo sguardo per
farla impallidire, e zittirla. Lei mi seguì all’interno di tutto
il quartier generale. Mi sentii il suo sguardo addosso fino a
quando non uscii dall’edificio, ma non la salutai. Fu
l’ultima volta che la vidi di persona. Mi ero aspettata, dopo tutti
quegli anni, che lei stesse facendo i salti dalla
gioia, stesse progettando ogni modo possibile per abbattermi del tutto, di
privarmi di tutte le cose che lei avrebbe fagocitato avidamente. Da giovane era
perfettamente capace di farlo. Avevo pensato che Tijorn non fosse altro che un
pretesto per farlo allontanare da me, per cercare di staccarmi dal mio stesso
fratello tanto amato. Dei mi ero sbagliata, ed alla grande. Anche lei era
cresciuta, e di molto. Akita, con tutti i suoi terribili difetti, conosceva la
misericordia, la pietà. Era una creatura capace di amare, di comprendere
ogni tipo di amore. E ne ebbi la conferma, in quel momento, tra le braccia di
un fratello paralizzato dalla sorpresa, per metà stordita dalla febbre,
per l’altra annebbiata dalla pena, ossessionata dal pensiero di Roxen e
Chekaril, che erano sicuramente nel mio stesso edificio, per chissà
quale motivo. Io e mio fratello fummo travolti da un’elfa preoccupata, e
trepidante. Mi avvolse, d’improvviso, il profumo che da sempre usava, una
mistura che io avevo giudicato sempre troppo stucchevole e pesante, ma che, in
quel momento, mi riportò indietro, con la memoria, a tempi molto più felici. Socchiusi gli occhi, lasciandomi
trasportare dall’ondata di ricordi. Anche la voce era perfettamente
uguale a come la ricordavo. Per un attimo non capii più nulla. Qualcuno
mi aveva abbracciato, qualcuno aveva abbracciato me e Tijorn. “per gli dei, maledizione! Per gli
dei!”. Imprecò quella che una volta mi era stata nemica,
staccandosi da noi. Riconobbi la nota di eccitazione febbrile, di agitazione
estrema, nella sua voce acuta e familiare. Era un piacere ascoltare quel suono,
anche se era piuttosto sgradevole. Mi riportava a momenti più felici. Mi
metteva gioia, nonostante mi facesse rimbombare la testa.
“Akita…”. Mormorò Tijorn, con una roca voce
d’oltretomba, un basso latrato che quasi non gli apparteneva. Bene. Aveva
ripreso a parlare. Riaprii gli occhi solo per guardarlo di nuovo in viso. Era,
almeno, un po’ più vivo, animato. La vista della sua amata elfa
sembrava averlo rinvigorito un po’, sembrava avergli strappato via quel
velo impalpabile di apatia disperata che era sceso su di lui, alla vista di
Jalim. Scostandosi con uno scatto impaziente del viso pallido i capelli, il
Falco fece un gesto strano, allontanandosi. “non ora, Tijorn! Non
è il momento!”. Cinguettò, urgente, guardandomi con ansia,
girandosi verso un punto in cui gli armadietti s’interrompevano.
Ricambiai stancamente il suo sguardo. Avevo una disperata voglia di dormire. La
stessa febbre m’impediva, tuttavia, lo stesso dolore, di chiudere occhio.
Ero davvero stanca. Non desideravo altro che dimenticare, per un po’, i
miei guai. “mettila su uno dei letti, svelto! Max! Max!”. Le invidiai i polmoni di ferro. Aveva detto tutto
quello senza nemmeno prendere fiato, urlando come un marinaio. Mi sentii
percorrere da una fitta di dolore alla testa, per le stesse note acute del suo
tono, e chiusi gli occhi, di scatto, irrigidendomi, e digrignando i denti.
Sentii Tijorn muoversi, camminare, e chinare il viso verso di me.
“coraggio Nanetta, coraggio…”. Mi bisbigliò, piuttosto
preoccupato, posandomi poi su quello che interpretai come un letto. Alcuni rumori.
Una porta cigolò. “e diamine, Akita, stavo lavorando!”.
Brontolò una voce maschile, molto profonda e lenta, scandalizzata.
Giudicai il suo tono molto, molto irritato. “cos’è che urli
in questo modo barbaro? Li avevo sentiti, accidenti! Cosa credi che io sia,
sordo? Invalido? Imbecille? Che fretta c’era…”. La voce
misteriosa, mai sentita prima, sfumò nel nulla. Altri passi. Sentii,
d’improvviso, qualcuno incombere su di me. Chi era? Max? Ma chi era Max,
il Guaritore? Con la testa piena di strani echi, mi azzardai, presa dalla curiosità,
ad aprire gli occhi. Se fossi stata meglio, penso che
avrei apprezzato a pieno la stranezza della cosa. Davanti a me, indecifrabile e
fosco, c’era il Guaritore meno Guaritore che avessi mai
visto. Se di Guaritore si trattava, e non di boia. Nella mia lunga
esperienza di Lazzaretti ed affini, avevo imparato ad associare al mestiere un
viso dolce, spesso paffuto, dall’espressione speranzosa e bonaria.
Quell’elfo non era esattamente così. Anzi, non lo era per niente.
Era brutto, e rozzo, seppure avesse un fascino tutto suo. Su questo non
c’era da discutere. Aveva capelli castani, che non doveva lavare forse da
un secolo o due, tirati in uno stretto codino, che gli serviva, forse, a
nascondere la calvizie così incipiente che io, seppur stesa e mezza
addormentata, notai. Un elfo calvo. Disgustoso. Sembrava non concedersi un buon
riposo da settimane, ed aveva il viso sfatto come quello di Tijorn, dalla barba
lunga di qualche giorno. Due occhi castani mi fissavano, scrutatori ed
indignati. Ci fu un attimo di silenzio. Con lo sguardo, mi spostai fino a
guardare Tijorn ed Akita, ai piedi del letto, che erano un accanto
all’altra, e mi guardavano, ansiosi. “beh, Akita, perché
accidenti non hai fatto più in fretta, eh?”. Abbaiò lo
strano elfo, girandosi verso di lei, in tono piuttosto seccato. La mia amica
arrossì furiosamente, ed abbassò il capo. “ma sono appena
venuti, Max…”. il Guaritore in questione,
si staccò per un momento dal mio letto, sparendo dal mio campo visivo.
Richiusi gli occhi sfinita. Sentii, come da una grande
distanza, la voce di Max sibilare. Mi sembrava molto, molto seccato. “eh,
sono appena venuti! Cosa credi, che io sia un novellino? Non cercare di
difenderti!”. Di nuovo passi, e rumore di
ferraglia. Silenzio. Beh? Quanto aspettava a curarmi, almeno, a darmi qualcosa
che mi avrebbe trasportata nel mondo dei sogni? Qualcuno si schiarì la
voce. “beh? Mi volete dire cos’ha questa, o devo andare a
casaccio?”. Beh. Davvero non avevo mai incontrato un Guaritore più
acido di quello. Senza parlare, qualcuno di scostò
gli abiti, facendo vedere la tremenda ferita. Qualcuno, presumibilmente Akita,
tirò il fiato. Max brontolò qualcosa d’indistinto,
probabilmente bestemmie, e, senza preamboli alcuni mi toccò la
ferita con un dito, premendo leggermente. Il dolore fu immediato, lancinante come
se mi avessero di nuovo lanciato una palla di fuoco addosso. Fuoco, fuoco mi
bruciava nelle viscere, fuoco mi bruciava sulla pelle. Ma perché
accidenti mi ero conficcata una spada in corpo? Perché ero stata
così idiota? In quel momento, sarei stata in piedi, magari sarei
riuscita a fuggire con i piccoli, e la mia famiglia. Troppo tardi, per
rimpianti stupidi. Tutto quello che potevo fare, era, come sempre, prendermela
con il Guaritore, approfittando della sua gentilezza di fondo per non essere
aggredita a mia volta. Fondamentalmente meschino, e molto infantile, ma dovevo
pure bestemmiare contro qualcuno, no? Non misi in
conto, quasi ovviamente, la natura insolita di Max, insolita per un mite
Guaritore. Così, presa dal tormento, mentre lui ancora esaminava la
ferita, provocandomi spesso atroci fitte, cercai di alzarmi, ed aprii gli
occhi. Non avrei tollerato un secondo di più di essere trattata come una
cavia. Così emisi un gemito strozzato, cercandomi di mettere dritta. Una
fitta più forte delle altre mi dissuase, ed io mi morsi le labbra per
non urlare, mormorando una bestemmia. Sentii, immediatamente, qualcuno cingermi
le spalle, e cercare un modo per riaccompagnarmi sul materasso. Cercai di
ribellarmi, ma chi mi teneva era più forte di me, e riuscì a piegarmi,
ed a mantenermi. Era difficilissimo stare ferma. In tutto questo, l’elfo
non si era mosso, e, armato di un grembiule macchiato, dalle mille tasche dalle
quali fuoriuscivano oggetti dall’uso per me sconosciuto, continuava la
sua accurata ispezione. Non volevo ammetterlo nemmeno a me stessa, ma ci sapeva
fare. Era bravo. “lasciami stare!”. Implorai, con una voce sottile
che non sembrava la mia. Parole fatali. Mi pentii immediatamente di aver
parlato, e l’abbraccio asfissiante del quale ero prigioniera, divenne un
rifugio accogliente. Calò il silenzio. Le mani fredde di Max smisero di
tastarmi la pancia, e lui si girò. Mi sentii morire, sotto quello
sguardo gelido, e sentii il viso in fiamme. Ci fu un terribile momento di
silenzio. Mi morsi le labbra per non gemere ancora. Il dolore era
insopportabile. “pretendi di fare il mio lavoro, elfa?”. Disse
lentamente Max, con calma mortale. “cos’è che siete, voi
Spie, tutte uguali?”. Rimasi letteralmente a corto di parole. Quello
strano Guaritore m’intimoriva. Dovevo essere tremendamente rossa. Per la
prima volta in tutta la mia vita, con mio grande stupore, abbassai lo sguardo,
piena di vergogna, e umiliazione, guardando il mo abito macchiato come se fosse
la cosa più bella del mondo, l’opera d’arte più
inestimabile. Dopo un altro, imbarazzante, momento di silenzio, il terribile
Guaritore parlò. “la ferita superficiale è leggermente
irritata, niente di che, considerando il modo disumano con cui vi hanno portati
qui...”. Disse, con tono professionale, abbandonando quell’aria di
asprezza che l’aveva contraddistinto. “è gonfia, e qualche
punto è saltato. Ma, per il resto, va molto bene. All’interno
è quasi totalmente guarita, per fortuna. Chi l’ha curata prima ci
sapeva fare.È stata
trafitta da una spada o una lancia, vero?”. Attimo di silenzio. Immaginai
Tijorn annuire. La stretta che mi teneva immobilizzata si allentò,
trasformandosi in un abbraccio rassicurante. Mi ritenni piuttosto al sicuro per
poter richiudere gli occhi, e poggiai il capo su un braccio caldo e morbido.
“mh”. Mugugnò Max, rovistando da qualche parte.
“cercherò di toglierle i punti, e di cauterizzare ciò che
resta della ferita”. Oh. Il panico mi avvolse, immediato, a quelle
parole, e m’irrigidii di nuovo. Sapevo a cosa stavo per andare incontro.
Dolore terribile, insopportabile. L’abbracciò tornò ad
essere una stretta ferrea, presagendo che mi sarei mossa. Doveva essere Tijorn
a mantenermi. Solo lui mi conosceva abbastanza bene da ricordare una per una le mie intemperanze di fronte ai Guaritori. Ed il dolore
non era abbastanza per fermarmi, anzi. Più
aumentava e più io divenivo una belva. Avrei voluto saltare vie,
strisciare fino a qualche letto, e nascondermi sotto. Perché ero stata
altre volte sottoposta a quel trattamento. E non mi piaceva, per niente. Non
avevo voglia di farmi friggere un altro po’. Tutto quello che riuscii a
fare, tuttavia, fu riaprire gli occhi, e voltarmi verso Max. “ti
prego… non il fuoco…”. L’elfo bruno alzò gli
occhi al soffitto. Il viso era mobile, dalle espressioni mutevoli.
“cielo, un’altra!”. Esclamò, facendo un gesto nella
mia direzione, indignato. “stai zitta e fammi fare il mio lavoro, ti ho
detto!”. Se non fossi stata così stanca, molto probabilmente mi
sarei sentita scandalizzata immensamente da quel comportamento così
incivile e poco rispettoso nei miei confronti. Come si permetteva, lui, infimo
Guaritore, di parlarmi in quella maniera? Mi ricordai di una cosa, e ricacciai
in gola gli insulti che sentivo salire nella mia gola, come una fiammata. Ecco.. avevo dimenticato, per l’ennesima volta, di non
essere più una potente Spia. Io, nel mondo, valevo meno di prima. Ero
una nullità, ora, un’elfa tra le tante. Anzi: una paria, una
traditrice, condannata ad una morte ancora misteriosa. Ed, ora come ora, quello
strano Guaritore era infinitamente più superiore
a me, di rango. Prenderne coscienza mi fece ancora una volta male. Sospirai, e
richiusi la bocca. “scusatemi”. Mormorai, con voce incerta,
concentrandomi, umiliata, sulla punta del naso dritto e corto del Guaritore.
Lui non fece altro che sbuffare, la bocca socchiusa. “era ora!”.
Tuonò, guardandomi fisso, con i suoi implacabili occhi castani.
Implacabili, perché mi avevano fatto ricordare la mia inutilità,
implacabili, perché mi mettevano di fronte alla mia meschina esistenza,
al mio carattere impossibile. “Akita, prendi questa…”. Disse,
dopo un breve attimo, il Guaritore, con una voce leggermente annoiata.
“visto che la signorina qui non sopporta il dolore, fagliela bere
tutta…”. Rialzai lo sguardo, solo per un attimo, piena di
riconoscenza verso quell’elfo che, alla fine, aveva capito il mio
strazio, ma vidi che Max non mi guardava. Si era girato, indifferente ed
indaffarato, per preparare i suoi strumenti, spostai così lo sguardo
verso Akita, che aveva appena stappato una fiala verdastra, e mi guardava, con
un sorriso pietoso sul viso. Guardai, come in cerca di qualcosa di cui nemmeno
io conoscevo l’esistenza, verso Tijorn, e lui mi restituì lo
sguardo, dolcemente. Di nuovo, la stretta si allentò. Non mi ribellai
alla fiala. Avrei fatto di tutto, pur di sfuggire per qualche tempo al dolore
fisico, ma, soprattutto, alla disperazione che minacciava di travolgermi.
Accolsi l’oblio, il cupo, riposante oblio, con gioia. Ben presto, sarei
stata meglio, in tutti i sensi.
Sognavo.
I piccoli mi stavano guardando, dietro ad una buia prigione, ed io avevo un
mazzo di chiavi in mano. Dovevo lasciarli andare, dovevo liberarli,
assolutamente. Così, poi, sarebbero fuggiti. Ma, no, non potevo
muovermi. Cercavo di liberarmi dalle pastoie che mi tenevano inchiodata sul
posto, ma non ci riuscivo. E rimanevo a guardarli, mentre loro
m’imploravano di liberarli. Mi
dispiace. Dissi loro, prima che il sogno di frantumasse in mille schegge
colorate, lasciandomi solo una vaga sensazione di calore. Ritornai ad avere un
corpo, un corpo libero. Ero sveglia. Qualcuno mi teneva al caldo. C’era
qualcuno, a passarmi un panno umido sulla fronte. Ancora febbre? Davvero,
davvero, non ne potevo più. Almeno, ero cosciente. Il dolore al ventre
si era notevolmente attenuato, anche se rimaneva una vaga sensazione di bruciore.
“dodici”. Disse, una voce allegra e querula, che proveniva da un
punto al mio fianco. Sobbalzai lievemente, ed aprii gli occhi. Mi ritrovai
davanti il viso pallido di Akita, che sorrideva. “oh, ben
svegliata”. Mi disse, con un sorriso stanco. Io ricambiai quel sorriso,
debolmente. “sei sola, qui?”. Mormorai, debolmente. Dov’era
Tijorn? Avevo, assolutamente, bisogno di sentirlo vicino. Stava meglio? Aveva
dormito un po’? Akita parve capire al volo quello che intendevo dire. “Tijorn
è di sopra…l’ho mandato a dormire poco fa. Era distrutto,
poverino…”. Il sorriso si trasformò in un’espressione
dolcissima, innamorata, ma incredibilmente triste. Oh, era cambiata molto. Non
era più la mia nemica acida. L’amore sembrava averle
fuso il cervello. Era capitato anche a me. E anche l’aspetto era
mutato. Il viso era più dolce. I lineamenti spigolosi di una volta erano
diventati un ovale perfetto, grazioso e morbido. Il Falco, quell’elfa che
un tempo avevo così odiato, aggrottò un sopracciglio. “non
ti dispiace se ci sono solo io, vero?”. Mi disse, in tono molto meno sicuro. Un’ondata di stanchezza mi avvolse,
e scossi il capo. No: non mi dispiaceva avere accanto colei
che aveva tentato di salvare le mie illusioni, di farmi vivere intatta.
“va tutto bene, allora…perché, sai, io volevo scambiare un
paio di parole con te”. Capii subito cosa intendeva dire. Sentii un
nocciolo di dura ritrosia farsi strada in me. “no, Akita”. Dissi,
con insolita asprezza, guardando dritto nei suoi occhi, ora seri. “non ho
intenzione di riesumare quello che ho fatto. I miei incubi mi bastano”. L’elfa sorrise amaramente. Sentii una mano delicata e
fresca afferrare la mia. Sorpresa per un contatto così insolito da parte
di lei, che mi odiava tanto, quasi mi ritrassi. Temevo quasi fosse
tutta una presa in giro. Ma poi, riuscii a dominarmi, dominare l’istinto
che mi supplicava di nascondermi, di evitare il Falco crudele. Ma lei non era
più il Falco, come io non ero più
l’Ombra. Strinsi anch’io, lievemente, un contatto che la fece
sorridere. “me ne sono accorta dei tuoi incubi…”.
Bofonchiò, tornando, per un attimo, ad essere quella di un tempo. Ma poi
scosse il capo, e ritornò il mistero di prima. Alzò gli occhi
verso di me, colmi di serietà. Si mordicchiò il labbro inferiore.
“in realtà, Lsyn…”. Mormorò, con un sospiro,
guardandomi dritta in volto. “quello che ti voglio dire è che mi
dispiace. Dovevo contattarti io, direttamente. Ma temevo che mi odiassi, Lsyn,
che non mi ascoltassi. Mi dispiace di essere stata così cattiva nei tuoi
confronti. Sai, il problema era che io ero invidiosa di te…”. Mi
confessò, senza prendere di nuovo fiato. Lo sguardo si fece
improvvisamente duro. “tu eri così felice, con quel fratello che
ti amava come una parte di se stesso, con un Maestro… il
mio, sai, era un incosciente. Morì prima del mio decimo
compleanno. Fu ucciso. E nessuno voleva accollarsi la mia
responsabilità”. Il sorriso si torse in una smorfia. La capivo,
benissimo. A volte, succedeva che un piccolo novizio rimanesse senza tutori. Ed
allora, l’unica possibilità per farlo vivere era quella di
allevarlo al quartier generale. Ma non era una bella vita. Nessuno amava quegli
allievi di nessuno, e venivano ignorati appena
possibile. Per Akita, l’allegra e ciarliera Akita, le cose non dovevano
essere state belle. “sai… sono stata prossima a divenire una tua
Sorella. Ma Amarto aveva già ben due allievi con sé, e voleva
curarli bene… cos’ero io, al confronto della piccola stella che
già prometteva bene, al confronto del piccolo sole che cominciava a
splendere?”. Mi agitai, a disagio, con una strana sensazione al livello
dello stomaco, quando vidi alcune lacrime scintillare sugli zigomi alti della
mia migliore nemica. Non mi ero mai accorta di quanto soffrisse,
di quanto la sua vita fosse già cominciata con un fallimento. “ed
ho vissuto nel quartier generale…tutti quegli anni…sai cosa
significa, Lsyn?”. Mormorò, lei, deglutendo, guardandomi con
disperazione. Sembrava volersi togliere un peso da dosso. “lo sai? Lo sai
che ero l’unica infante? Lo sai che potevo pure scomparire, per mesi, e
nessuno se ne sarebbe mai accorto? Lo sai che è stato un maggiordomo
paziente ad insegnarmi a leggere? Lo sai che vivevo con la
servitù?”. Su quelle ultime parole, la voce si spezzò, e
lei tirò su col naso. Oh, Akita… mi sentii tremendamente in colpa
per averla trattata sempre così male. Avevo dato per scontato qualcosa
che lei non aveva mai avuto. Degli affetti. La sensazione di essere amata.
Qualcosa di cui mi ubriacavano. E lei, per tutto quel tempo, aveva vissuto al
freddo, ed al buio. Le strinsi la mano, forte. Di più non potevo fare, e
me ne rammaricai. Lei mi guardò, e sembrò prendere un po’
di coraggio. Riprese a parlare, con voce rotta. “e poi…e poi…
poi vi ho visti arrivare, Lsyn, uno ad uno… nutriti, ben puliti,
amati… e tu, chelitigavi con Tijorn, senza nemmeno renderti conto di quanto fosse
prezioso! Di quanto fosse bello, essere amati…protetti… e tu, che
non te ne rendevi conto! Ti odiai, e tanto”. Lei strinse le labbra,
mentre gli occhi scialbi le splendevano di furia. “ti ho odiato tanto.
Tu…avevi tutto. Io niente. Ho cercato di renderti la vita più
difficile possibile, di farti vedere quanto orrenda fosse
la vita reale… volevo primeggiare, in tutto, ricordi? E tu mi davi sempre
sonore lezioni. Ed io ti invidiavo sempre di più, perché eri
più abile, intelligente di me… ed io cos’ero, se non un
rifiuto del destino?”. Basta. Non sopportai più quelle parole, che
mi ferivano nel profondo, e feci per parlare. Volevo scusarmi, scusarmi per
tutto, per tutto, per tutto. Ma lei, notando forse un mio movimento mi
zittì, mentre io non potetti fare altro che rimanere a guardarla, le
lacrime che le scendevano silenziose sulle guance. Poi mi accorsi di piangere
anch’io. Difficile non farlo. Un pallido sorriso inondò il viso di
Akita, illuminandolo debolmente. “Lsyn…so cosa vuoi dirmi”.
Mi disse, con calma. “vuoi scusarti, e lo so. Ma tu non potevi sapere. Ho
fatto di tutto, per scavalcarti. Dovrei essere io a scusarmi. Dei, com’ero superba, allora! Non sai com’ero
felice, di sapere che tu eri stata ferita gravemente, con scarse
possibilità di ripresa… ma quando ti vidi, avvolta in un telo,
guardarmi con quegli occhi così vuoti…”. Rabbrividì,
e mi strinse forte la mano che mi teneva. Risposi alla sua stretta, desiderando
ardentemente abbracciarla. Non avevo mai conosciuto una persona così
sfortunata. “ho capito che non ero l’unica a soffrire. Non ero
l’unica ad aver perso tutto. Che poi…non era vero. E me ne sono accorta quando ho cominciato a prestare attenzione agli
sguardi incantati di Tijorn”. Ridacchiò, tra le lacrime. Poi,
prese un attimo per riprendere fiato. Approfittai di quel momento per dire la
mia. Avevo capito una cosa fondamentale. Akita era parte del tessuto della mia
vita. Lo era sempre stata. Solo che io non me n’ero mai accorta. Ma
c’era ancora tempo per rimediare. E, forse, la fuga non era impossibile. “possiamo
soffrire insieme, Akita”. Mormorai, facendola girare di scatto verso di
me. Lei mi sorrise, illuminandosi. Aveva capito al volo. Risposi al suo
sorriso, debolmente. “Tijorn sarà pure l’amore della tua vita…ma si ha sempre bisogno di una spalla su cui
piangere, no?”. Ci guardammo. Lei sospirò, e, senza preavviso, mi
abbracciò delicatamente. Di nuovo, quel profumo dolciastro mi avvolse,
nauseandomi. Grazie agli dei, lei non poteva vedere la mia faccia, in quel
momento. D’accordo, pace fatta. Ma quell’odore continuava a
disgustarmi. “grazie, Lsyn…”. Mormorò Akita,
spiazzandomi totalmente, prendendomi alla sprovvista. “ti voglio bene.
Posso dirtelo ora, vero?”. Oh dei. La situazione era davvero assurda.
Quattro mesi prima, le avevo dato del verme, della stupida. Ora
l’abbracciavo. Ma, si, le volevo bene. Un
po’ strano, dirlo. Il pensarlo mi fa ancora effetto. Strano come la
sofferenza leghi due anime per nulla affini. Risi sommessamente, per non farmi
male. “ovvio che me lo puoi dire, sciocca”. Le dissi, forse con
tono un po’ più duro. Lei non se ne accorse, o fece finta di non
accorgersene, e ridacchiò, staccandosi. Rimanemmo per un po’ in
silenzio, a ridacchiare. Poi, d’improvviso, lei mi guardò, seria.
“ho un enorme problema, Lsyn, enorme…ed è quello il vero
motivo per il quale ho bisogno del tuo aiuto…cioè…uno dei
tanti”. Mi sussurrò, mordendosi di nuovo le labbra. La guardai,
incuriosita. Cosa le succedeva? Tutta la sua allegria era sparita, sostituita
dall’ansia. E, forse, da una piccola parte di gioia. E senso di colpa.
Lei, dopo essersi brevemente guardata attorno, mi strinse di nuovo la mano, e
si avvicinò. “non l’ho detto a Tijorn”. Le sue parole
rapide, dette in tono vagamente cospiratorio, mi fecero sospettare qualcosa. Possibile
che…? La fissai negli occhi, apertamente, e lì vi riconobbi
qualcosa. Uno sguardo fremente, quasi fanatico, che avevo avuto anch’io. Qualcosa
scattò in me. Devo averle stritolato la mano,
perchè lei si scostò. Quelle paroline mi ricordavano qualcosa. Eh
si, che mi ricordavano qualcosa. Bene. Sospirai, poi fulminai con lo sguardo
Akita, che arrossì. Tutto tornava. Perché, sennò, si
sarebbe trovata dal Guaritore? Mi sarei espressa come lei, se solo avessi avuto
qualche anima pia con la quale confidarmi di Roxen. Avevo un certo intuito per
certe cose. “o almeno…non ancora”. Oh, basta. Che si fosse
dato pane al pane, e vino al vino. Tanto, avevo capito. La guardai malissimo. Sentii
uno strano miscuglio di sentimenti. gelosia, rabbia,
divertimento, ansia, urgenza. Ero arrabbiata con Tijorn. Per un certo verso, l’aveva
messa nei guai. Dovevamo fuggire da lì, con più motivazioni di
prima. E dovevamo fare in fretta. “aspetti un figlio da lui, vero?”.
Le sussurrai, duramente, cercando di reprimere l’astio che si avvertiva
nella mia voce. Non mi stupì più di tanto il vederla annuire,
chiudendo gli occhi e prendendo di nuovo a martoriarsi le labbra.
Per un attimo, in me si agitarono le sensazioni più contrastanti
Per un
attimo, in me si agitarono le sensazioni più contrastanti. Guardavo
Akita, e la sua espressione addolorata e mi sembrava di capirla
misteriosamente. Ero passata anch’io attraverso quella fase tormentosa,
in cui l’amore materno si combatteva con il senso del dovere. Mi faceva
strano pensare Tijorn padre. Sapevo che non l’avrebbe
presa molto bene, neanche in una situazione normale. In lui, l’amore
sconfinato per Akita prevedeva anche il non aver figli, perché avrebbe
sofferto troppo nel vederseli negati. Per saperli magari vicini, e non poter
parlar loro, non poter osservare la loro crescita. Non avrebbe sopportato di
vedere la sua amata martoriarsi al momento dell’abbandono. Era stata fin
troppo dura per lui, stare accanto a me in certi momenti, quando mi abbandonavo
allo sconforto, e deprimevo anche lui. Quasi sorrisi ad un pensiero subitaneo.
Sarei stata zia, vera zia. Non solo la Sorella di Maestro del Maestro, a dirla
tutta. Chi, meglio di Akita, poteva comprendere le mie ragioni, ora? Quella non
era una situazione tipica, in cui la speranza di rivedere il piccolo era sempre
alta, almeno di vederlo, di sfuggita, da adulto. Invece no. Saremmo morti,
tutti. Akita a Tijorn non avrebbero avuto nemmeno la consolazione di tenerlo
con loro, poter chiamarlo figlio, fino allo svezzamento. Io, per conto mio, non
avevo intenzione di fare ulteriori regali a quella che era stata la mia
padrona. Fuggire, ecco l’unica soluzione. Quella volta, non ebbi
tentennamenti alcuni. Non avevo alcuna voglia di morire per una causa in cui
non credevo più. Non ero la vecchia Lsyn, la Spia razzista e classista,
dalla spada facile. Per niente. Avevo versato l’ultimo sangue innocente,
e ne avevo pagato l’amarissimo scotto, e ne pago tuttora. Non volevo
ricominciare tutto daccapo. Fuggire, magari dai Tengu. Quella
si che era un’ottima idea! Akita era la prima a doverlo sapere.
Ero sicura che, lì seduta, ad occhi chiusi, forse per non piangere di
nuovo, sarebbe stata d’accordo con me. Per una volta, i nostri desideri
coincidevano alla perfezione. Le Spie? Il senso del dovere? Roba passata. Avevo
trovato un nuovo scopo a cui essere fedele. Sempre fedele. Solo
ora ne capivo appieno il senso. Solo in quel momento capii il verso
senso della fedeltà. Non pensiero meccanico, inculcato a forza, non
costrizione. La fedeltà era la massima espressione del libero arbitrio.
Un libero arbitrio che mi era da sempre negato. Ma noi eravamo esseri
senzienti. Non avevo intenzione di farmi mettere i piedi in testa
un’altra volta. Non sarei morta. No, non per una causa indegna, una causa
infame. M’investì una fiammata potente di calore, che nulla aveva
a che fare con la febbre. Proteggere Amarto, le piccole, Tijorn, Akita, ed il
loro piccolo ancora non nato. Era quella la mia priorità. Con un
sussulto, ricordai Roxen e Chekaril. i miei timidi
piccoli chissà ora dov’erano, sotto esame accurato. Il pensiero
del grande regalo fatto a Lainay m’infuriò ancora di più.
Dovevano essere in quel castello. Per forza. Per forza! Non poteva averli
portati già a Galinne! No, era impossibile. Accidenti a loro, se non li
avrei trovati! Avrei fatto fuoco e fiamme, pur di riprendermi i miei piccoli. Non se ne parlava proprio,
di lasciarli alla mercé di una matta! Se solo Lainay avesse avuto un
figlio, avrebbe capito che intromettersi tra una madre ed i suoi bambini,
putativi e non, era pericoloso quanto affrontare un orso a mani nude. E tale io
mi sentivo, lì, riversa in quel letto, completamente sfatta dal dolore e
dalla febbre. Dovevo guarire. E sperare, sperare soprattutto. Sperare che,
almeno quella volta, tutto sarebbe andato bene. Prima cosa, dovevamo mettere un
paio di fatti n chiaro.Piena di
quella nuova forza, che tanto mi pareva strana per la sua luce egoista, ripresi
la mano di Akita, e la strinsi, con la massima forza che mi era concessa.
“chi altro lo sa?”. Soffiai, con una voce trepidante che non sembrava
la mia. Se qualcuno dei soldati ne fosse venuto a
conoscenza…scappare era una cosa impossibile. Il Falco riaprì gli
occhi. Dentro ardevano le fiamme, le fiamme della tortura. Povera piccola mia. Essere Spia e diventare madre è sempre un avvenimento
troppo traumatico per essere raccontato a parole. Sentire un piccolo fiore
sbocciare, aspettarlo con ansia, ed amarlo, seppur senza conoscerne
l’aspetto, il carattere, così, a priori, e poi, vedertelo privare
per sempre. Per sempre, senza speranza alcuna di rivederlo. Saperlo vivo,
saperlo sano, sapere anche come
trovarlo, e dove. Poterlo spiare. Ma
non poterlo fare. Solo per una sciocca imposizione, e per nient’altro.
È uno strazio. Dopo un sospiro, Akita mi rispose, sommessa. “Max.
Lui è dalla nostra parte”. Potevo scommetterci, su quello. Con
tutte le sue asprezze, il Guaritore mi sembrava un’ottima persona.
“mi tiene informata su quello che accade dentro e fuori l’Altrove.
Lui è stanco di tutti i morti, di tutte le povere Spie giustiziate solo
perché desideravano vivere. Appena ha scoperto che ero incinta ha
cercato di farmi fuggire”. Deglutendo sonoramente, lei tirò sul col naso. Sembrava sofferente, torturata. Odiai vederla
così. Mi sembrava di vedere me, in altri tempi, in altri luoghi.
“ma io… io volevo sapere vostre notizie! Non potevo andarmene senza
conoscere cosa stava succedendo, e se tu eri caduta nella trappola che avevano
teso per te!”. Un singulto le sfuggì dalle labbra, e lei
chinò il viso. Mi fece una pena immensa. Era stata forte, a sopportare
tutto quello per tutto quel tempo da sola. “io…io volevo
Tijorn!”. Mi sembrò, per un momento, quasi un’infante
sorpresa a mangiare marmellata di nascosto. Scossi debolmente il capo. Akita
non aveva ancora imparato a non sentirsi in colpa per il solo e semplice fatto
di amare. Le accarezzai, con un dito, il dorso della mano, e lei si
voltò verso di me, guardandomi attraverso il velo dei lisci capelli
chiari. Stava piangendo. “non potevo scappare senza di lui… come
avrei allevato il piccolo, da sola? Io non sono forte come te, come
lui…”. Mormorò, con voce rotta. Digrignai i denti, irritata.
Perché buttarsi così giù? Il mondo le aveva distrutto la
fiducia in se stessa. Cosa che nemmeno tutte le terribili prove a cui mi avevano sottoposta erano riuscite a far crollare.
Non sopportavo le sue parole. Aveva, dunque, già smesso di lottare?
Forse non aveva mai iniziato. “io non sono così abile! Io sono
un’inetta…finisco sempre nei guai…non so fare niente! Non
riesco in niente!”. Era quello, allora, che pensava di lei? Oh, dei, cosa le aveva riservato la vita, per renderla
così dannatamente sottomessa?
Ebbi la netta, nettissima, impressione di non conoscere per niente il Falco, la
mia nuova amica. L’avevo sempre odiata, senza cognizione di causa. Ai
miei occhi, era sempre stata una vipera troppo sicura di sé, superba
nella sua sfortuna, fiera di essere un’appassionata di letture, e solo
quello. Il guscio che aveva creato attorno a sé era stato così
impenetrabile da impedirmi di capirla davvero, e di apprezzarla. Dovevo
sbrigarmi. Sentii, a quelle parole, un’ondata improvvisa di rabbia. Aveva
avuto la possibilità di mettere in salvo il suo piccino, e non
l’aveva fatto? Beh…anch’io avevo ragionato così,
d’altronde. Anch’io ero stata sciocca. Non ero nelle condizioni adatte
per farle una paternale. Ed il mio danno era ben peggiore. “non piangere,
Akita, su…”. Mi limitai a sussurrare, stringendole forte una mano,
con il tremendo desiderio di starle più vicina.
“l’importante è che la fuga ci è ancora possibile,
no? A quanto…?”. Lei non mi fece nemmeno finire di parlare, e, con
l’altra mano, fece un gesto strano, come per scacciare una mosca
immaginaria, ancora a viso chino. “quarto mese, quasi…”.
Mormorò, con un nuovo sospiro. Stava piangendo, e tanto. Accolsi le sue
parole con un moto di sorpresa. Dovevo sbrigarmi a rimettermi in piedi. E
subito. “ma il problema non è questo, Lsyn…”.
Mormorò, mentre la mano prendeva leggermente a tremare. “dove
andremo? La guerra è nelle sue fasi peggiori…gli elfi stavano
perdendo, Lsyn… oh…”. I suoi singulti silenti divennero veri
e propri singhiozzi, e lei si coprì la bocca con la mano libera.
“e…Max mi ha detto che Uruk ed il Regno hanno stretto un
patto… un patto! Un patto!”. Ahia. Di nuovo
tradita in un modo atrocemente bastardo. Vero e proprio stupore
m’invase, come una doccia fredda. Lainay si era alleata con Isnark, e
Nemys, dopo che io avevo cercato di
far fuori il primo? Come diavolo c’era riuscita? Maledetta Regina! Cosa
diavolo aveva scoperto di così compromettente, per spingere anche quei
ribelli a capitolare? Guardai la figura sussultante di Akita senza sapere cosa
dire. Troppi interrogativi mi frullavano per la mente. Troppi. “dovrebbe
essere un patto segreto…ma Max lo sa
perché è stato lui a dover giustiziare la Spia che aveva concluso
le trattative, e si è sfogato con me…”. Un patto segreto? La
cosa si faceva ancora più grave del previsto. Sussultai. C’era
qualcosa di grosso da nascondere. Una grossa gatta da pelare. Ne ero sicura.
“Uruk fingerà di allearsi con l’Impero… e sfiderà
il Regno… e poi…nella battaglia…cambierà
schieramento”. Akita sospirò, e si girò verso di me.
Poverina. Doveva aver tenuto quei problemi nascosti per troppo tempo. Non le
faceva senz’altro bene soffrire in quella maniera. Pur nella
preoccupazione, trovai il tempo per aver pietà di lei. Non c’era
mai stato un attimo di pace, per il povero Falco, mai un ramo dove posare le
sue stanche ali. Aveva il volto teso in una smorfia di dolore puro. “in
caso di vittoria, tutta la zona di Sharilar passerà al Matriarcato…”.
Mormorò, passandosi la mano libera in faccia, per tergere le lacrime,
che continuavano a sgorgarle dagli occhi. “e non ci rimane molto
tempo”. Ero d’accordo con lei, per l’ennesima volta. Non ci
rimanevano che pochi scampoli di tempo. Ero quasi sicura che Lainay ci avrebbe uccisi prima dell’annessione, sicura. La
clessidra correva. A quel pensiero, il cuore mi batté più forte,
facendomi quasi male. Ci rimaneva davvero pochissimo. Dovevamo stabilire un
limite, ed al più presto. “entro una settimana riuscirò a
trascinarmi in piedi, Akita, e riusciremo a fuggire…”. Le dissi, mentre
sentivo il viso farsi teso. Lei sussultò, sorpresa, e mi guardò,
mentre gli occhi, suo malgrado, le si illuminavano.
“o meglio, dobbiamo fuggire…non c’è castello che tenga, ed io sono ancora l’Ombra…”. Le
sorrisi stancamente, con almeno uno straccio dell’antica fierezza a
supportarmi. Nonostante tutto quello che mi era successo, il mio allenamento
sarebbe stato sempre lì, a disposizione. Ero stata la migliore Spia
della Corona. Ora, finalmente, lavoravo per me, per qualcosa in cui credevo
profondamente. La salute e la felicità dei miei cari. Mi faceva male
perdere Roxen e Chekaril, molto. Ma non sapevo dove fossero finiti. Forse, la
mia prossima ricerca sarebbe stata proprio quella. Akita, alle mie parole, si
fece sempre più speranzosa. Sembrava pendere dalle mie labbra. “ma…
dove andremo?”. Domandò, pallida ed ansiosa. Io, trionfante, mi
sfiorai le piume che avevo al collo. Lei, seguendo il mio sguardo,
sgranò gli occhi. Doveva aver capito cosa intendevo fare. La sua cultura
era troppo vasta per ignorare una cosa del genere, un tipico rito Tengu. “sono
stata in un villaggio Tengu, e so come arrivarci”. Dissi, duramente. Avevo
avuto sempre la soluzione, e l’avevo ignorata. Ma, forse, era stato un
bene. Akita ed il suo piccolo si sarebbero salvati. E, poi, io sarei andata
alla ricerca dei miei piccoli. “dobbiamo lavorare insieme a Max, ed abbiamo anche un pretesto…”. Mi guardai,
guardai il mio corpo martoriato, emaciato e pallido. Ero proprio messa male. Ma
non potevo lasciarmi andare. Per il riposo c’era tempo. Ora la mia
guarigione sarebbe dovuta procedere a marce forzate. O
quello, o nulla. Tutto era troppo urgente. Fissai severamente il volto
speranzoso della mia amica. “devi dirlo a Tijorn, e lo sai”. Akita si
fece molto seria, ed abbassò di nuovo il viso. “lasciamolo dormire
un po’ in pace, Lsyn…”. Mormorò, lasciandomi la mano. “ha
bisogno di riposo, e sai che non avrà requie, quando saprà di suo
figlio, fino a quando io non sarò al sicuro,
lontana dalle Spie… voglio lasciargli un’ultima notte tranquilla”.
Solo gli dei, solo gli dei sapevano quanto quelle
parole fossero vere.
Cacciai
letteralmente Akita, dopo davvero poco. Io stavo benissimo, anche se ero un po’
dolorante,, e non mi sentivo stanca. Ma lei cascava
dal sonno, chissà da quanto non dormiva, non si riposava. La redarguii
aspramente: non doveva strapazzarsi così, nelle sue condizioni. Avremmo avuto
ben altre occasioni di tormento, e lo sapevo. Molte altre notti insonni. Un po’
bofonchiando, brontolando e lamentandosi, dicendo di non essere una bambolina
di porcellana delicata, lei mi obbedì docilmente. Se ne andò via,
uscendo dalla porta da cui eravamo entrati. Io non avevo ancora avuto il
piacere di vederla. Rimasi così sola nell’ampia stanza,
dormicchiando fino all’alba, quando Max venne. Io gli parlai, gli
raccontai del mio piano. Lui stette ad ascoltare in silenzio, e non mi diede né
il suo assenso né il suo dissenso, ma prese a
curarmi più alacremente, e, dopo essere sparito dopo un po’, mi
portò in gran segreto una planimetria. Una planimetria del castello,
completa di passaggi segreti, alcuni dei quali potevano esserci molto utili. In
quella settimana, in cui io mi ristabilii quasi completamente dalla mia
tremenda ferita, tutto il nostro gruppo cominciò a pianificare la fuga. Io
e Junielle, io che non potevo muovermi e Junielle che, stranamente, si era
isolata da tutti, ci occupammo dei passaggi segreti, di studiare tutte le piante
che Max ci portava continuamente, per pianificare i percorsi. Max ed Amarto,
adducendo come scuse la cecità del Maestro,
facevano finta di perdersi, per giudicare il livello di sorveglianza che, a
detta dell’acido Guaritore, era sensibilmente aumentato negli ultimi
tempi, per aggiornarci sui sentieri percorribili. Tijorn, aiutato da un’Akita
sempre più solare, che si occupava di Nysha e Manolìa quasi
fossero figlie sue, cercava, prendendo varie fonti dalla biblioteca, di capire
dove accidenti fossimo finiti, e come fare a
raggiungere, secondo i miei racconti, la montagna dove abitavano i Tengu. Erano
rimasti molto impressionati dal fatto che io fossi riuscita ad averela fiducia del
Popolo Alato. Akita doveva aver detto subito del bambino amio fratello, la stessa mattina
del nostro dialogo. L’avevo visto arrivare, scarmigliato e sconvolto,
pallidissimo, marciando a passi lunghi, seguito da una nervosa Akita, che
cercava di parlargli, di mediare. Ma lui, furente, nemmeno fosse
colpa mia, era corso fino al mio letto, per poi piantarsi lì, teso e
dritto come un fuso, le braccia sui fianchi. Dovetti farmi forza per non
scoppiare a ridere come un’idiota. Si vedeva chiaramente che il mio
fratellino non sapeva cosa accidenti combinare, quale sentimento provare. Quella
mattina mi sentivo un po’ più forte, ed ero stata capace di
mettermi quasi seduta, appoggiata ad una pila di cuscini gentilmente portatami
da Max, dove nascondevo le planimetrie. Io e Tijorn ci guardammo, io
sarcastica, lui praticamente fuori di sé. Lui prese un gran respiro, poi
cerco di parlare. “ma tu…lui…lei…”. Farfugliò,
prima di ridursi nuovamente al silenzio. Gli passò un’occhiata
molto confusa nei bellissimi occhi grigi. Aggrottai un sopracciglio. Non pensavo
che mio fratello fosse così impressionabile. “il guaio l’hai
fatto tu”. Gli dissi, per il solo gusto di vederlo arrossire furiosamente.
Ridacchiai sommessamente. Ancora non me la sentivo di ridere apertamente,
ancora rischiava di uccidermi dal dolore, ancora piangevo per le mie colpe. Ma dovevo
ridere. Era troppo buffo per non farlo. Tijorn, ancora rosso come un peperone,
strinse gli occhi. “tu lo sapevi!”. Esclamò, indignato,
guardando Akita, che abbassò lo sguardo, sempre
più pallida. Temetti che, da un momento all’altro, scoppiasse a
piangere. “tu lo sapevi prima di me!”. Scossi il capo. Mio fratello
non cambiava mai. Beh… la notizia doveva avergli sconvolto tutti i piani.
Sarebbe stato fuori di sé anche in condizioni normali, figuriamoci con
una sentenza a morte che pendeva allegramente sopra le nostre teste. Perciò,
gli parlai con una certa freddezza, per una volta io quella delle due con la
testa sulle spalle. Io ci ero passata. Faceva un
strano effetto vedere Tijorn smarrito a quel modo. “beh, è
così terribile?”. Dissi, con una certa ironia. “potresti
anche ringraziarmi, visto che, mentre tu dormivi, io cominciavo a pianificare
la fuga…”. Il suo sguardo cambiò, di nuovo. Parve calmarsi. Il
suo colorito tornò, lentamente, normale. Non avevo mai visto i suoi
occhi scintillare in quel modo. Passò poco più di un minuto. Conoscevo
fin troppo bene Tijorn per non capire quello che gli stava passando per la
testa. Immaginava giorni felici, liberi, con il suo piccolo ed Akita a fianco,
con me, finalmente pacificata. Sogghignai, e scossi di nuovo la testa. Come Tijorn
non c’era nessuno. La sua amata elfa dal naso lungo non aveva, invece,
capito. Lo guardava di sottecchi, sempre più preoccupata e triste, e le lacrime
cominciavano ad addensarsi ai lati dei suoi begli
occhi, inumidendo le ciglia. Senza preavviso alcuno, facendomi sobbalzare,
Tijorn si girò, abbracciando Akita con tanta foga da alzarla da terra. “oh,
Akita…”. Mormorò, il viso affondato dei folti capelli dell’elfa.
Lei mi guardò, stupita, ed io sorrisi distogliendo lo sguardo. Non mi
sembrava giusto, né delicato, osservarli. E mi faceva troppo male,
inoltre. La ferita di Chekaril non si era ancora chiusa, né forse si
chiuderà mai. Da quel momento in poi, Tijorn fu la creatura più
premurosa del mondo con Akita. Non la lasciava mai, mai, mai. La sua apatia
scomparve. La vista di Akita, e le ultime notizie che gli aveva dato, l’avevano
tranquillizzato. La mia amica sembrò pacificarsi, ed era sempre
più allegra. Rinacque, rinasceva ogni volta che il suo compagno la
guardava con occhi innamorati, che parlava del loro futuro, che la baciava, non
tanto di nascosto, che l’abbracciava, che suggeriva nomi. Mi dava una
gioia mista ad un dolore atroce, il vederli così felici. Gioia, perché
Tijorn era mio fratello, e non volevo nient’altro che la sua
felicità. Dolore, perché io non ero mai stata amata in quel modo,
da nessuno. Nessuno mi aveva mai amata così. Ero quasi in imbarazzo,
quando ero con loro. E venne, dopo accurati piani vari, il momento in cui io
riuscii ad alzarmi, e camminare, senza provare dolore alcuno. Fuggimmo, con Max
ad accompagnarci, a notte fonda, quando la sorveglianza si allentava un po’.
Il saggio Guaritore, ci portò, come ultimo regalo, alcuni vestiti, e le
nostre armi, trafugate dall’armeria in cui erano state
portate. Nessuno se n’era accorto. I soldati erano troppo giovani per
saper fare bene il loro lavoro, ed erano stanchi quanto Max delle continue
condanne a morte. La mia spada, argentata e superba, il mio piccolo coltellino,
lo stocco di Tijorn ed i pugnali di Akita, tornarono a noi. Toccare di nuovo la
spada di Eiron, la spada con cui avevo tentato di togliermi la vita, fu
emozionante. La riprendevo in mano, dopo aver toccato il fondo, ed essere
rinata come persona nuova.. Li nascondemmo, come
sempre, nel mio letto. Io, ad ogni visita che i soldati, di tanto in tanto,
facevano, recitavo la parte della morente, dell’agonizzante, e mi coprivo
con un’infinità di coperte, sudando per il terribile caldo,
facendo finta di delirare, mentre gli altri, prendendo un’aria
mortalmente preoccupata, facevano capannello attorno a me. Il Guaritore
sospirava con aria di compatimento, e diceva sempre che c’era una
gravissima infezione, e che non c’era nulla da fare, se non cercare di
alleviarmi il tormento. Io cercavo di non ridere, di fare la parte dell’incosciente,
ma certe volte era davvero dura fingere. Ero sicura che lo facesse apposta. Akita
si divertiva un mondo a fare quelle sceneggiate. Anche Tijorn, quando gli elfi
se ne andavano, in punta di piedi per non disturbarmi, ridacchiava. Junielle era
l’unica a non reagire a quelle situazioni. Sembrava morta, morta dentro. Un
paio di volte, avevo sentito provenire da lei una zaffata pesante, che mi
faceva girare la testa, del liquore da cui io prendevo il nome, il nerissimo
liquore, in cui turbinavano pagliuzze ancora più scure, il colore dei
miei occhi, che aveva deciso Amarto a chiamarmi Lsyn. Non ebbi il tempo per
preoccuparmi. I preparativi proseguirono, alacri. Finalmente, una notte, ci
vestimmo furtivamente, i sensi all’erta, e sgattaiolammo fuori lo
stanzone, con Max che ci precedeva con un candelabro acceso. Una lunga
processione di figure intabarrate. Io indossavo i miei soliti, sdruciti abiti
neri, mentre gli altri si erano adattati con altre cose scure, che a volte
producevano effetti esilaranti. Akita e Junielle si erano dovute arrangiare con
le cose di Amarto e Tijorn, ed erano tremende a guardarsi. La prima era
inciampata già un paio di volte, prontamente recuperata prima ancora di
toccar terra da un compagno molto attento. C’inoltrammo nel castello, nel
nostro percorso prefissato, con molta tranquillità. Nessuno si aspettava
un’eventuale fuga, con me morente.
Mi sentii fiera della nostra recitazione. C’erano cascati con tutte le
scarpe. Proseguimmo, senza grandi intoppi, fino ad un grande ritratto in un
corridoio, accanto ad una larga nicchia d’oscurità. Il passaggio
segreto. Max, che era rimasto davanti a tutti, cominciò a borbottare strane
parole, premendo in alcuni punti precisi del grosso quadro, un dipinto che
raffigurava uno degli antenati della casata reale. Con uno scatto, ed uno
scricchiolio, il quadro si aprì, rivelando un grosso buco scuro. Cominciammo
ad entrare tutti, prima Akita con Amarto, che portava il candelabro, Nysha e
Manolìa con Junielle. Tutti cominciarono ad avviarsi. Rimanemmo fuori
solo io e Tijorn. Ero piena di gratitudine per quell’elfo coraggioso,
Max, che stava rischiando la vita per noi. Lo guardai, sull’orlo delle
lacrime. Lui sembrò non scomparsi minimamente. “Max…”.
gli dissi, guardando il suo volto serio. “non
sapremo mai come ringraziarti…perché non fuggi con noi?”. La
solita espressione di sufficienza annoiata gli passò sul volto emaciato.
Uno strano sorriso gli illuminò il viso. “sono stanco di vivere. Non
preoccupatevi per me…”. Un rumore, un rumore di passi, ci fece
sobbalzare. Era molto vicino, e proveniva dal corridoio accanto, di fronte a
noi. Non ce n’eravamo accorti, così presi a fuggire. Era troppo
tardi per fuggire impuniti, per sistemare tutto. Mentre Max sistemava il
quadro, noi ci accucciammo nell’oscurità. Il cuore mi batteva in
gola come impazzito. Oh, no. Non proprio ora, che avevo la libertà a
portata di mano, la libertà di poter cercare Chekaril e mia figlia! Pregai
ogni dio conosciuto e non che, chiunque fosse, non venisse lì, e ci scoprisse.
Max ci raggiunse. Ci fu un momento terribile, di pura tensione, un momento in
cui i passi si confondevano con i battiti dei nostri cuori impauriti. E finalmente
si rivelarono, due soldati della scorta che ci aveva portati lì,
sicuramente in ronda. Uno dei due portava una lampada, e sembrava annoiato. “certo
che però…”. Borbottò l’altro, un tipo smilzo e
scuro. Ci passarono davanti. Cercai di non balzare via, strillando. “fare
queste ronde… cosa pensa, Lainay, che quelli raggiungano le sue camere
sopra? Stiamo freschi! Ci sta l’elfetta nana, lì, che sta morendo…”.
L’elfetta nana. Sarei saltata addosso a quei due solo per quello che
stavano dicendo. Ma l’impulso a rivelarmi ed attaccare mi fu dato da un’altra
cosa. Infatti, l’altro, dopo aver emesso un verso di disapprovazione,
agitò la lampada. Il fascio di luce quasi ci raggiunse. Mi accorsi solo
dopo un po’ di aver tirato il fiato. “certo che pure la Regina ha
le sue belle gatte da pelare..”. mormorò, passando oltre, burbero. “si sente stanca, e quei due demonietti la fanno dannare…”.
Cosa? I bambini? Lì? A portata
di mano? Roxen con Lainay? Chekaril con Lainay? Lei stava mettendo le mani
addosso ai miei piccoli? Non ci vidi più. Il mondo divenne,
improvvisamente, orlato di rosso, ed io, con un ringhio arrabbiato, balzai
fuori il mio nascondiglio, sguainando la spada. I bambini. Avevo l’occasione
di riprenderli con me. E non me la sarei fatta sfuggire, quella volta, a costo
di uccidere ancora.
Ah, i
miei soliti colpi di testa! Smetterò mai di essere così
dannatamente avventata? Smetterò mai di piangere le mie azioni,
guardando il futuro, con un occhio al passato? Oh…ma perché?
Perché non usai la mia astuzia? Perché non agii da sola? Ero
piena di furia, quell’ardore giovanile che ora, anche se è passato
ben poco tempo, mi ha abbandonato, quella fiamma svanita così
lentamente, agonizzando come un falò incustodito, quella furia che mi
fece dimenticare tutto: la mia esistenza, i piani accurati di fuga, la stessa
vita dei miei amici, del fratello premuroso che, fino all’istante prima,
mi era stato di fianco. I bambini. Pensavo solo a loro, alla loro dolce
innocenza, al fatto che, in quel momento, si trovassero con Lainay. E che,
soprattutto, Lainay era lì.
Non potevo quasi crederci. Io e la regina che tanto avevo servito con
fedeltà, la fedeltà che mi aveva quasi ucciso più di una
volta, eravamo nello stesso castello. Lì, a portata di mano, a di
coltello, pronta per quella mia vendetta, quel pensiero che non mi aveva
scossa, fino a quel momento. io, per lei, avevo ucciso Chekaril. Era stata lei
a farmi finire in un Lazzaretto, distrutta nel fisico e nell’animo,
sfregiata a vita, carica di ossessioni. E, per quelle mi ero conficcata una
spada in corpo, per quelle avevo penato per giorni e giorni! Avevo rifiutato,
per pura cecità, a tutte le occasioni di vita felice che mi erano state
presentate: potevo proprio dire di aver voltato le spalle alla fortuna, di
averle sputato addosso. Ah…se avessi accettato la supplica di Tijorn! Se
fossi rimasta con i Tengu! Se fossi fuggita con i piccoli! Ecco, erano loro
l’altro motivo di quella mia reazione inconsulta. Il solo pensiero di
Roxen, Chekaril e Lainay nella stessa stanza mi faceva venire il sangue alla
testa. Il mondo si tingeva di rosso, annegava in un mare di cremisi, se solo mi
lasciavo tentare da quell’immagine. I piccoli erano miei. Miei, solo miei! Come osava, quella maledetta elfa, arrogarsi
il diritto di averli con sé, solo per una stupida questione di sangue?
Era sua zia, e allora? Lei si era mai arrampicata su un albero per andarli a
trovare? Lei aveva avuto scrupoli di coscienza solo per pensare al loro
benessere, per caso? Lei aveva agito nella loro più totale sicurezza? Li
aveva mia stretti a sé per ripararli dalla pioggia e dagli sguardi
rapaci ed indiscreti? Cosa aveva fatto, la loro zia, per loro? Mi aveva
mandato, per chissà quale diabolica ragione, ad uccidere i loro
genitori. Li aveva fatti rapire. Non mi ero mai chiesta il motivo, troppo presa
dal mio tormento, ma perché? Molte volte mi tormento, per non averlo
capito prima. Era così lampante, così ovvio. Lainay era troppo
furba per non mettere in programma anche una mia eventuale diserzione. Mi
conosceva, da quando io ero appena centenne, avevo appena cento, stupidissimi
anni, e lei era già sul trono, già adulta e Regina. Mi aveva
chiamata al suo cospetto moltissime volte. E non c’era da escludersi che,
nei mesi della mia relazione con il fratello, mi avesse spiata di persona. Era
la tipa da farlo. Quindi, se lei amava tanto Chekaril, perché mandare me? Qualcosa tramava, nell’ombra
della sua mente contorta, una matassa troppo complicata da sbrogliare,
c’era qualcosa d’importante ad occuparla, qualcosa che
l’aveva distolta dai suoi piani originari, quali che fossero. La tela che
lei costantemente tesseva erasempre, maledettamente, perfetta, senza un filo fuori posto. C’era
stato qualcosa, qualcosa l’aveva sbloccata, qualcosa che io non avevo
recepito. Lainay non faceva mai, mai un passo falso, senza avere una solida
base su cui poggiarsi. Era dannatamente furba, una volpe, ed imprevedibile.
Quelle poche volte che aveva clamorosamente sbagliato, spesso o quasi sempre su
questioni militari, sulle cui nozioni era beatamente digiuna, le erano state
d’insegnamento supremo. Poco mi sarei stupita se non si fosse fatta dare
lezioni di tattica. Trovava sempre il modo di risorgere, come un serpente a cui
non viene tagliata la testa. Era tutto così drammaticamente ovvio.
Così ovvio, l’essere stata presa per i fondelli dal primo
all’ultimo atto della mia tragedia! Cosa avevo capito, in trecento,
inutili, anni di vita? Niente, perfettamente niente sulla politica. Niente,
della vera vita. Ero rimasta tale e quale alla mia infanzia: una pedante
scavezzacollo dall’inimmaginabile amor proprio, viziata e superficiale.Avevo beatamente vissuto nel mio mondo
incantato e ristretto, una contadinotta ingenua travestita maldestramente da
dura Spia. E pagai amaramente lo scotto, lo scotto di essere fagocitata tutta
intera da persone più furbe di me. Io, che mi credevo così
scaltra, ero stata inevitabilmente giocata. Senza nemmeno accorgermene, il che
è per me fonte ulteriore di onta. Ovviamente, il pensiero di essere
stata solo una pedina per tutto il tempo non mi sfiorò minimamente.
Quello che volevo erano solo i bambini, quei due piccoli chiacchieroni che
erano stati con me per tutto il viaggio di ritorno per l’Impero
martoriato dalla guerra. Solo Roxe, la calmissima Roxen, e Chekaril così
allegro e dolce. Solo loro. Lainay avrebbe pagato amaramente per aver separato
una madre dai suoi figli. Perché io li consideravo così, e
così li considero tuttora. Saltai fuori dal mio nascondiglio in un
lampo, con un guizzo che nemmeno io credevo possibile, aizzata da tutta la
disperazione che avevo compressa dentro. Sentii qualcuno cercare di trattenermi
per il mantello, ma una serie di strappi m’indicarono che non c’era
riuscito. Mi ritrovai così con la spada sguainata senza sapere quando,
libera di muovermi, ad attaccare due guardie prese praticamente di sorpresa.
Colpii il primo, quello che aveva la lanterna, in un attimo, presa da una furia
difficilmente contenibile. Tutto ciò che ricordo di quell’attimo,
fu il tintinnio del vetro infranto a terra, ed il buio che improvvisamente
diveniva più fitto. Ed uccisi ancora, ancora una volta un innocente, con
un colpo rapidissimo e crudele dritto al cuore, senza rimorsi alcuni. Rimorsi
che tuttora non ho. Tendo sempre a giustificarmi, per quella morte ingiusta.
Non era colpa sua, in fondo, se era stato usato, come me. L’avevo
liberato da una prigionia ben peggiore di quella della vita. Mentre io,
balzando come impazzita, avevo colpito il compagno, l’altro elfo si era
organizzato, prendendo la sua grossa spada, e mettendosi in guardia. Io mi
girai, ancora la spada in mano, gocciolante e tiepida di sangue altrui. Ci guardammo.
Per un attimo, io non vidi nulla al di fuori della fonte d’informazioni
che era a pochi passi di distanza. La mente, ridotta ormai a freddo e lucido
mostro, calcolò rapidamente tutto quello che potevo fare. Niente mosse
avventate, prima cosa da mettere in conto. Quello mi serviva vivo. Seconda
cosa, assolutamente necessaria: non doveva urlare. Se solo avesse fiatato, ci
saremmo trovati davvero nei guai. Una volta immobilizzato, avrei scelto cosa
fare, come estorcergli quello che mi serviva. Ma dov’erano finiti Tijorn
e Max? Mi avevano lasciata sola? Dannazione. Se avesse urlato? Ecco,
esattamente. Quella mia esitazione per poco non mi costò molto caro. La
guardia, infatti, con un sorriso maligno, aveva già preso fiato per
gridare a pieni polmoni. Feci per lanciarmi contro di lui. L’avrei
ucciso, ma non m’importava. Ancora prima di fare un passo,
fortunatamente, un paio di mani sbucarono dal nulla, e, in un lampo,
l’elfo si trovò avvinto ai corpi di due elfi molto, molto
irritati, che gli misero entrambi una mano davanti alla bocca. Max si
staccò immediatamente, e mi guardò, in cagnesco. Con un urlo
soffocato, il soldato cercò di districarsi, ma inutilmente: era
difficile scappare alla stretta di Tijorn, molto difficile. Aveva avuto anni per
allenarsi con me, che sgusciavo come un’anguilla, e per lui era un gioco
da ragazzi mantenerlo. Ad un certo punto, un coltellino spuntò da
chissà dove, e venne puntato alla gola del malcapitato, che smise subito
di fare storie. Non sembrava, ma mio fratello non era poi così tanto
buono come sembrava, o voleva far sembrare. Diciamo che non era la persona
migliore da far arrabbiare, lui, che non s’irritava mai. Tijorn era
incluso nel genere di persone incapaci di esplodere per un nonnulla, innocue di
solito ma davvero pericolose nei loro attacchi rarissimi d’ira.Da piccola avevo paura di lui, quando se
la prendeva con me davvero. Lo sguardo che mi lanciò, inviperito e
collerico, gelido come ghiaccio, mi avrebbe fatta morire se solo fossi stata in
condizioni normali. Stavo mettendo in pericolo me, lui Akita, suo figlio,
Amarto ed il resto della brigata, per una stupidaggine. Ma, invece, mi limitai
a fissare i due, alternativamente, ancora bollente d’ira. Bisognava
muoversi! Uno schiaffo mi arrivò, improvviso e sonoro. Max mi aveva
colpito. “ehi!”. Fui capace di dire, prima di essere travolta da
un’ondata di rabbia dello schizzinoso Guaritore. “bella,
questa!”. Ringhiò, guardando quello che avevo combinato. Alla
faccia della fuga silenziosa! Ero stata in procinto di rovinare tutto. Mi
sentii irritata. Perché non capiva? C’era Roxen lì, e non
me la sarei fatta sfuggire. Cosa ne poteva sapere, lui? L’elfo
continuò il suo panegirico rabbioso, guardandomi, gonfio come un gallo
da combattimento. “ma cosa credi di fare, tu, giocare a carte? E saresti
una Spia? Complimenti per l’acume! Cosa hai risolto, eh?”.
“ora basta, Max”. Ringhiò la voce bassa di Tijorn, piena di
rabbia a stento contenuta. Fu quel tono di voce, insolito per la voce morbida
di mio fratello, a raffreddarmi un po’. Riusciicosì a guardarmi intorno. Era
stato un miracolo se nessuno ci aveva scoperti. La mia vittima aveva schizzato
tutto attorno, ed anch’io ero un po’ sporca. Perfetto: era
diventata ormai una consuetudine. Tijorn, apparentemente calmo come sempre, ma
dagli occhi brucianti di rabbia, tratteneva il soldato, immobile e
terrorizzato, che mi guardava. Max aveva chiuso la bocca, e si era zittito.
Abbassai lo sguardo verso terra. “Lsyn…”. Disse mio fratello,
freddo. Non osai guardarlo in faccia, perchè sapevo che vi avrei letto
accusa, solo accusa. Tijorn era davvero l’unico capace di ricondurmi alla
ragione. “perché l’hai fatto? Cos’hai in
testa?”. A quelle parole, tutta l’ansia che sentivo esplose,
dilagando all’esterno. Alzai lo sguardo, improvvisamente frenetica. Ogni
minuto che passava era un secolo in più lontano dai piccoli. “i
bambini. Lainay!”. Dissi, avvicinandomi a mio fratello ed al soldato, con
la disperata voglia di piangere. La mia voce tremò e si spezzò,
incontrollabile. “sono qui, Tijorn…con lei! Non posso permettere
che tutto ciò accada, Tijorn! Non posso convivere con un’altra
colpa! Devo liberarli!”. Ci fu
una pausa, dopo le mie parole isteriche. Mio fratello, il mio dolcissimo
Tijorn, mi guardava, ora impassibile. Mi morsi le labbra per non urlare. Mi
sarei giocata tutto, con un’altra azione sconsiderata. Affetto, amore
fraterno, compassione, comprensione, amicizia. Glielo leggevo in faccia. Era
molto pratico, Tijorn, in queste cose. E, quando si parlava di Akita e suo
figlio, non sentiva ragioni. Strinsi i pugni. Senza di lui non avrei saputo
come andare avanti. Era lui che riusciva a ricomporre i pezzi che ogni volta
raccoglieva con amore, era lui l’unico collante della mia anima. Se lui
mi avesse odiata, beh…la mia vita avrebbe smesso di avere senso,
probabilmente. Ma non successe mai. Con un sospiro, guardandomi con maggiore
calma, mio fratello si chinò verso l’orecchio della sua impotente
vittima. Seppi di aver vinto, e sospirai di sollievo. Grazie, fratello mio.
“ora…”. Sussurrò gelidamente Tijorn, stringendo di
più la presa, e facendo si che una goccia di sangue scendesse dal collo
della guardia, che sembrò terrorizzata ed urlò, gesto
immediatamente soffocato dalla mano nervosa di Tijorn. Gioii di quello sguardo
sperduto. Doveva temerci, ed a ragione. “dobbiamo farti solo una domanda,
nient’altro. Se ti rifiuterai di rispondere…beh, andrai a fare
compagnia al tuo compare. Ma se ci obbedisci, e non urli…allora
può darsi che io sia in vena di sentirmi magnanimo”. Mi sentii
soddisfatta. Tattica tipica di Tijorn, praticamente un classico.
L’avrebbe ucciso, dopo, senza pietà alcuna. L’aveva sempre
fatto. Ed io ero avevo partecipato con lui a troppe missioni per non
riconoscere il suo tono, diventato suadente, studiato ad arte, e i suoi
inganni. E sapevo bene quanto gli stesse costando quel gesto. “allora?
Cosa fai, accetti di rispondere o no?”. Una strana sensazione di colare
m’invase quando vidi lo sventurato annuire freneticamente, con le lacrime
che gli si addensavano ai lati degli occhi. Era spezzato. Sembrava molto
più forte. Era un povero elfo, ancora giovane. Dovevo averlo visto nel
corpo di guardia che ci aveva accolti all’arrivo, ma non ricordavo bene.
Era un peccato ucciderlo, un peccato necessario. Quasi sentii rimorso.
Esitante, mio fratello tolse appena la mano. Cantò, il povero uccellino.
Cantò, parlò, avrebbe fatto di tutto pur di salvarsi la vita,
quella vita già perduta. Avrebbe recitato anche un salmo. Ci
confessò tutto, ci svelò che Lainay, tronfia e sicura di
sé, aveva preso alloggio in una delle camere del piano superiore, senza
guardie accanto. Ci disse dov’era, anche come sfuggire alle ronde, unico
mezzo di sicurezza. Si sentiva al sicuro, la bastarda, era al sicuro. Ci aveva
sottovalutati, o era un’altra dimostrazione di astuzia? Ci spiegò
che due infanti, due piccoli gufetti spaventati, erano costretti a seguirla
giorno e notte. Avevano pensato fossero due schiavetti, perché erano
laceri e sporchi, e spesso pieni di lividi, perché Lainay non si faceva
remore a schiaffeggiarli malamente quando, secondo lei, si comportavano male.
Io vidi rosso a quelle parole. Li aveva picchiati! Picchiati! Lui, notando la
mia espressione raggelata, ci disse che lui non aveva colpe. Lui lavorava solo
per mandare soldi alla sua famiglia, per farli mangiare, e basta. Non aveva mai
fatto niente di male, non capiva perché dovessimo ucciderlo. Aveva dato
ai piccoli, una volta che la Regina non vedeva, dei biscotti, perché gli
era sembrato avessero fame. Gli aveva cercato i loro pupazzi, aveva
letteralmente implorato la Regina di poter ridarglieli. Non avrebbe detto
niente a nessuno, sicuro, la fuga sarebbe stata il suo segreto. Potevano
tramortirlo, ma non ucciderlo. Avrebbe detto a tutti di non sapere niente. Povero,
povero innocente. Smise d’implorare quando Tijorn, senza preavviso, gli
tagliò la gola.
Eravamo
quasi arrivati. Max era rimasto con i due cadaveri dei soldati, occupandosi di
nasconderli nel passaggio segreto ed avvisare gli altri, che si sarebbero
raccolti in un piccolo atrio verso la fine del tunnel che conduceva in piena
foresta. Non c’era stato verso, invece, di staccare Tijorn da me, ed
infatti, mi stava seguendo. Il gesto che cambiò il destino, forse. La
rabbia era sbollita nell’istante esatto in cui il corpo del soldato gli
era caduto, inerte, tra le braccia, e lui, con un’espressione terribile
in viso, era schizzato in piedi, facendo un salto, con un debole squittio.
Avevo visto il fantasma di un vecchio raccapriccio passargli in viso. Potevo
intuire l’orrore che provava solo fissandolo. Mio fratello aveva fatto
voto di non ammazzare più, se non per motivi fin troppo contingenti, per
pura difesa personale. Non aveva mai amato il sangue, le morti. Soprattutto
quelle ingiuste. Devo dire, anch’io mi sentivo scossa dalle parole dell’innocente
soldatino. Era ancora imberbe, puro come acqua sorgiva. E noi l’avevamo
ucciso, lui, che non c’entrava niente.Mi ero però sporcata troppe volte
le mani per essere sensibile come il mio eterno fratello. Certo, mi dispiaceva,
ma, in quel momento, la cosa che mi premeva di più era quella di far
pagare alla mia Regina amata tutte le cose brutte che aveva fatto, e liberare i
piccoli, portarli con me. Non avevamo incontrato nessuno, o meglio, sporadiche
coppie di guardai, che borbottavano di malumore e non si guardavano bene
intorno. Tutti giovani, come lo sconosciuto. Ma io non avevo mai messo a posto
la spada, che era in mano, pronta. Eravamo quasi arrivati alla porta che ci
aveva indicato, al terzo piano, in un corridoio dall’apparenza anonima ed
umile, quando Tijorn si fermò. Io, presa dai miei pensieri, andai un
altro po’ avanti, prima di accorgermi che lui, silenziosa ombra, non era
più al mio fianco. Mi girai. Tremai nel riconoscere lo sguardo che mi
rivolse. Era vuoto. Oh, no. Non di nuovo. Non in quel momento. Sul suo viso
pallido si agitavano la vergogna ed il terrore, l’odio verso se stesso e la
sofferenza. Mi fermai. Sentii una morsa gelida afferrarmi lo stomaco. Avrei
dovuto ammazzarlo io. Lui non aveva avuto mai così tanta forza da
prendere una vita a sangue freddo, nemmeno nei primi periodi. Dopo un tempo che
mi sembrò infinito, lui parlò. “mi sento un mostro”.
Mormorò, distogliendo lo sguardo. Oh, Tijorn…feci un passo verso
di lui, ma lui, con un gesto, m’impedì di andare avanti. Guardava
il pavimento di pietra.Un sorriso
amaro gli torse il viso. “io pensavo di essere diverso”. Disse,
scuotendo i capelli. “pensavo di poter provare pietà, pensavo di
poter trattenermi dall’uccidere, pensavo che il lavaggio del cervello
delle Spie non avesse attecchito su di me…”. Mi sentii sconvolta, e
guardai i suoi occhi pieni di lacrime. Cosa? Pensava questo, di lui? Lui era
diverso, dannazione! Chi, dannazione, chi avrebbe assistito una sorella ferita
ed impazzita, più di una volta? Chi avrebbe deciso di salvare la propria
compagna, ed il figlio che, secondo la nostra norma, sarebbe stato un grande
onore affidare ad altri? Era questo, allora, quello che si agitava nel suo
animo? Non si era reso conto di quanto fosse speciale, in confronto a me, che
ero nient’altro che una bestia inumana? Scossi il capo, e feci un passo.
Lui non me lo impedì, anzi: continuò a parlare. Sembrava che si
stesse togliendo un grande peso dallo stomaco. Lasciai che si sfogasse. Non si
era mai aperto così, con nessuno. Gli faceva bene. “anche
quando…”. Esitò, e chiuse gli occhi. Quando parlò, la
voce si fece più amara. “anche quando Jalim mi costringeva... mi torturava,
per far si che uccidessi quelle povere persone…”. Solo gli dei
sapevano quanto quelle parole mi stessero ferendo fin nel profondo. Mi
avvicinai ulteriormente. Jalim doveva pagarla,anche lui. Come aveva osato
toccare mio fratello? Oh, gliel’avrei fatta pagare, e carissima. Gli
occhi grigi di Tijorn si riempirono di lacrime, che cominciarono a scorrere
sulle guance, inarrestabili. La morte di quello sconosciuto lo aveva sconvolto,
aveva aperto una parta della sua anima che io non conoscevo. Tijorn non era mai
stato così fragile. O mi sbagliavo? Non conoscevo che una parte di mo
fratello? Preferii non pensarci. “io pensavo di essere nel
giusto…erano innocenti, quelli…perché avrei dovuto
ucciderli? Perché mi sarei dovuto arrogare il diritto di togliere la
vita a qualcuno, come un dio? Tu hai visto, prima?”. Cominciò a
tremare. La sofferenza che si agitava in lui era troppo profonda. Ma io la
capivo benissimo. “hai visto, no? Ho ucciso…avevo promesso di
salvarlo, di risparmiargli la vita…ho ucciso, a sangue freddo!”.
Sarebbe scoppiato a piangere in breve tempo, lo sapevo. E non c’era tempo
da perdere. Non potevamo indebolirci così, proprio ora che la meta era
così vicina. Così, senza pensarci, senza premeditarlo, lo
abbracciai forte. “shh”. Sussurrai, piena dal suo dolore. Il mio
povero fratellino. Era strano, consolarlo. Ma non per questo mi sarei rifiutata
di farlo. Fortunatamente, lui rispose al mio abbraccio. Se non l’avesse
fatto, non so come ce la saremmo cavata. Come me la sarei cavata. La mia voce
risultò strana, un pigolio strozzato, un flusso inarrestabile di parole
sommesse ed urgenti. Ma avevo qualcosa in gola che non mi faceva parlare bene.
Un groppo insistente e fastidioso, un nodo inestricabile. “non pensarci,
fratello mio, non pensarci… tu sei sempre stato diverso, tu sei
diverso… tu sei la creatura più buona dell’intero mondo,
Tijorn, lo capisci? Tu sei luce, lo sai? Pensa ad Akita… al
piccolo… abbiamo tutti bisogno di te… coraggio Tijorn, non è
successo niente, il mondo ti ammirerà come prima, noi ti vorremo per
sempre bene, ed è questo che conta, no? Non è successo niente,
hai agito nel giusto…lui sapeva le conseguenze della sua fedeltà,
le sapeva… ti prego Tijorn… dai la colpa a me, se vuoi, odiami,
disprezzami per quello che vi ho fatto, ma, ti prego, non odiarti! Non
arrenderti! Non voglio vederti così, non voglio…tu sei forte,
Tijorn…sei forte!”. Come sempre, le dichiarazioni di affetto, per
noi, erano sempre strane. Quella volta, a pochi passi dalla porta che avrebbe
segnato per sempre le nostre vite. Davvero bizzarro. Non fu facile calmare mio
fratello, per niente. Rimanemmo abbracciati per un tempo che mi sembrò
infinito. Amai quel momento. mi sembrava vicino come durante la nostra
infanzia, vicino e comprensibile. Avevo cercato, da quando l’avevo
ritrovato, il protettore di una volta, il forte scoglio al quale aggrapparmi
per non essere portata via dalla marea. Avevo fatto di tutto purché
Tijorn fosse il solito, la roccia, il secondo padre. Mi ero sbagliata.
Cinquant’anni di vita ci avevano allontanati, e, seppure lui mi volesse
bene, era troppo cambiato, era diventato troppo delicato, per essere ancora il
pilastro della mia vita. Le cose potevano cambiare. Mi sembrava, tuttavia, di
avere tempo per rimediare. Poco ma sicuro, avrei fatto di tutto per ritornare
allo stato di prima. Sarei stata io la più forte e, sebbene ferita ed
annientata come mai prima di quel momento, avrei fatto in modo da guarirci
entrambi. Il mondo ci aveva piegati, ma noi ci saremmo rialzati. Ci saremmo
rialzati. Ci saremmo aiutati a vicenda, nel farlo. Io l’avrei fatto per
il solo amor fraterno, per vedere Tijorn sereno, giocare con il suo piccolo,
vederlo crescere bene, in mezzo a persone sane. Vivevo solo per lui, ormai, e
per la sua famiglia. Akita mi avrebbe aiutato, ne ero certa. Ero piena di
futile speranza, allora, piena di quella che tutti chiamano fiducia. E
così, riuscii almeno un po’ a guarire Tijorn, in quel momento
così brutto, facendo si che smettesse di piangere, e si staccasse,
seguendomi, silenzioso come me, vicino alla porta, e provando a forzarla. Essa
si aprì senza problemi. Mi parve, ci parve, molto strano. Ma non ci
ponemmo altri problemi, e, agili e veloci, entrammo dentro.
Ci
ritrovammo in un piccolo stanzino buio un quadrato sui cui lati c’erano
delle porte di legno chiaro. Sentii una strana stretta allo stomaco. Il momento
della verità si avvicinava. Già pregustavo la vendetta. Io e mio
fratello ci guardammo. “ora ci dividiamo, Tijorn”. Sussurrai, piena
d’ansia. Lo stomacomi si
stava torcendo in un modo impossibile. Cominciai ad essere nervosa. E,
purtroppo, non potevo contare su di lui per rassicurarmi. Era il primo a necessitare
di una mano, con quello sguardo triste, ferito, non da lui. Mi sembrò
strano prendere le redini di tutto. Decisi di dargli il compito meno pericoloso
e sanguinoso, meno aspro. “tu cerca i piccoli, tanto sono solo quattro
stanze… dovrebbero essere trattati come servi, quindi fa’ un
po’ tu…io vado da Lainay”. Tijorn annuì, e,
scoccandomi uno sguardo preoccupato, si diresse verso la porta più
vicina all’ingresso, quella che, secondo i canoni tipici di Galinne,
portava all’ingresso dei piccoli alloggi dei servi. Io, senza guardarlo
ulteriormente, mi diressi verso quella all’altro lato, di fronte. Ero
esaltata. Avevamo fatto tutto quel percorso, e nessuno ci aveva notati! Liberi,
liberi di muoverci, di fare tutto quello che volevamo! Allora, davvero Lainay
aveva perso un po’ di smalto! Fui incauta, come sempre. Gioendo dentro di
me, ma silenziosa come una vera Spia, aprii la porta, che non protestò
con il minimo cigolio. Tutto era perfetto. Troppo perfetto. Mi trovai
così in un’ampia stanza oscura, dai colori tenui, da un enorme
letto a baldacchinoal centro, dove
intravedevo una forma stesa. La Regina riposava, dormiva i suoi sogni pieni di
sangue. Tutto era perfetto. Già mi vedevo, in viaggio con la mia
famigliola, verso le montagne, finalmente liberi, e felici! Lainay era in mia
mercé. Avrei potuto ucciderla, con un colpo di spada. Fu un pensiero
che, devo ammetterlo, mi sfiorò. Ma poi, pensai sussultando, avrei
combinato il caos, con un solo gesto. Agendo in quel modo avrei gettato nel panico
la mia razza. Ed io l’amavo troppo per poter fare un gesto di odio
così profondo nei suoi confronti. Pazza sadica o no, Lainay era pur
sempre un baluardo contro le forze umane. No, non avrei fatto nulla: mi bastava
il mio piccolo mondo, la mia piccola esistenza felice. Che mondi interi fossero
caduti, che vite e vite fossero state disperse, non m’importava. Io
volevo solo Chekaril e Roxen. Niente più. La vendetta poteva anche
andare a quel paese. Non mi sarei giocata la mia piccola pace familiare per una
cosa risibile come quella. Dovevo solo farle prendere una sonora paura,
nient’altro. Una piccola lezioncina, solo per dire che Lsyn Amarto non
scherzava. Così, in punta di piedi, mi avvicinai al lettone. Una bella
paura: la medicina suprema contro la megalomania. Ero tremendamente felice:
tutti i miei desideri si sarebbero realizzati, la mia pace attuata. E che il
mio vecchio Chekaril se ne fosse andato via, con tutti i suoi fantasmi. Io
avevo da vivere una vita, una vita per gli altri. Non importava la vendetta.
Non importava. E fu con senso di esultanza puro che io tolsi via le coperte,
con uno scatto, e puntai la spada contro un fantoccio di legno. Non ho mai
provato un senso di gelo come quello. Era come venire congelati, come morire.
Tutto il mio corpo gridava: allarme, allarme! Mai sottovalutare Lainay,
astutissima Regina del Regno. Mai. Avevo fatto un errore fondamentale. E ne
avrei pagato il prezzo. Sarei morta. Meglio morire, che quello. Il mio pensiero
volò immediatamente a Tijorn. Come fare, per avvisarlo? Una risatina
sommessa e malevola mi strappò dal mio panico incombente. Con lentezza
esasperante, mi girai. Non volevo vedere quello che avrei visto. Ma fu ancora
peggio. Non mi ero mai sentita così male, prima d’ora. Solo nel
vedere Chekaril libero, forse. Si, perché aspettavo di trovarmi, a poca
distanza da me, l’alta e smilza figura di Lainay, vestita di un abito
candido di seta pregiata, bianco come la sua pelle lattea, un diadema di fini
perle nere sulla sua fronte chiara, i lunghi capelli ondulati, dello stesso
colore di Chekaril, raccolti in un’elaborata acconciatura, e gli occhi
viola scintillanti per un sorriso soddisfatto e trionfante che le stirava le
labbra piene, come quello che potrebbe avere un ragno quando sa di aver preso
in trappola un moscerino, la bellezza sfolgorante e malvagia. Ma quello che per
poco non mi fece svenire fu un altro particolare. Perché Lainay, che
sempre, sempre, sempre, mi aveva parlato della sua sterilità, che mi
aveva confessato di soffrirne, di esserne ossessionata, che voleva un figlio a
tutti i costi, che aveva detto, in un momento un po’ rabbioso, che un
figlio suo non sarebbe vissuto con un territorio appartenente agli umani, mi
aveva tradita di nuovo, con le sue parole. Io mi ero fidata, avevo cercato
Chekaril proprio per garantire una stabilità al Regno, che rischiava di
rimanere senza eredi. Ma un erede c’era, oh si che c’era. O meglio,
ci sarebbe stato, e non tra molto tempo. Gelai, e, per un attimo, non riuscii a
respirare. Incinta. Lainay era…non
volevo pensarlo. Non osavo pensarlo. Eppure era così,
inequivocabilmente. La portata di un evento del genere era catastrofica. Lainay
sarebbe stata una madre ottima, molto premurosa, ma il suo senso di protezione includeva
una certa dosa di perversione. Per il futuro regnante, tutto sarebbe dovuto
essere sicuro. Ed io sapevo il concetto distorto di sicurezza, per Lainay. Morte,
sangue e distruzione. I possibili pretendenti uccisi. Mi furono chiare molte
cose, in quel momento. La guerra, la guerra soprattutto. Lei si sentiva sicura
di vincere. Tutto era perduto. Tutti i miei sogni potevano svanire. Perché
quella pazza avrebbe trionfato, anche sulla mia piccola armonia. Lottai con me
stessa per rimanere presente. Sperai che almeno Tijorn potesse fuggire. “ti
aspettavo più presto, Lsyn”. Mi disse, con la sua dolcissima voce,
terribile voce ipnotica. Un sorriso, più malvagio, le fece lampeggiare i
denti, al buio. “credo che la tua simpatica metà, con la quale hai
preso sicuramente un accordo, ti stia aspettando…non fa niente se
sarà delusa, vero?”. Imprigionata nella mia morsa di terrore
supremo, che mi teneva inchiodata lì, senza speranza di muovermi, provai
un moto di sconcerto. Cosa stava dicendo, nel suo delirio di onnipotenza, che
seguiva ogni suo successo? Lei vide il mio sguardo sperduto, forse, e sorrise
ancora di più. “ma di cosa stai parlando?”. Riuscii a
mormorare, sentendomi come un passerotto immobilizzato dalla presa sicura di un’aquila.
Parole vuote di sfida, vane. Pallide in confronto a ciò che disse dopo,
ciò che mi cambiò l’esistenza, anche se allora non lo
sapevo. Perché lei aveva già vinto. Su questo non potevo
discutere. Dovevo solo sperare in una morte onorevole. Di nuovo quella bassa
risata, che mi fece accapponare la pelle. “ma come? Tu e lei, Lsyn…”.
Mormorò, scuotendo il capo, ironicamente. “tu e Nemys, la conosci
vero? Lo sai chi è? Sai chi è lei?”. Si girò verso
di me, portandosi le mani alla schiena, soddisfatta come un gatto affamato. Provai
timore istantaneo. Tragedia. Disperazione. Morte. Non potevo far altro che
pensare ad essa. Ma lei, la bastarda, continuò a parlare. “lei
è te, oh si…la tua Rinnegata!”.
Non
capii. La confusione si era impossessata completamente di me, rendendo vane le
parole, forse troppo affrettate, forse troppo dettate dall’orgoglio, di
Lainay. Non reagii, forse, come lei si aspettava, a quella strana notizia. Era
come avere un sasso nella testa. Un grosso sasso. Quella maledetta, spinta
forse dalla folle presa di coscienza della vittoria, si era lasciata scappare
una cosa strana, stava forse vaneggiando? Lei…era me. Impossibile: io ero
io. Ero lì, non da un’altra parte, bruttina ma integra, e
ricordavo perfettamente cosa avevo fatto fino all’attimo prima. Non ero
pazza, dunque. Non così tanto da divenire allo stesso tempo la crudele
Ombra ed il capo della fazione ribelle. Non avevo una doppia
personalità. O meglio, ero sicura di non averne. Sulla pazzia non ci
scommetterei poi tanto. Quella tremenda verità, perché di altro
non si trattava, faceva parte di ciò che mi rifiutavo completamente di
accettare da una vita intera. Non era possibile. Cioè…non avevo
mai sentito parlare di una cosa del genere, a meno che non si trattasse di
magia sperimentale o estremamente pericolosa, magia nera. Non avevo conoscenze
approfondite di quella branca del sapere. Non mi erano mai stati dati
chiarimenti a proposito, nonostante nel mio sangue scorresse una stilla di
potere, una stilla appena necessaria a farmi fare qualche piccolo, facile,
trucco, ed a farmi viaggiare nel Piano. Analizzai quel poco che sapevo. Uno
sdoppiamento? Impossibile. Un… un cosa? Oh, cosa poteva mai essere? Non
avevo, nella mia lunga vita, mai sentito parlare dei Rinnegati.Meglio: quello era il nostro
appellativo, noi Spie eravamo chiamate così, quando avevano intenzione
di offenderci. E solo successivamente, dopo che furono successe molte altre
disgrazie, qualcuno dal cuore grande mi spiegò cosa volesse dire la
Regina con quelle parole convulse. Ma non lo dirò ora. Non adesso, non
scriverò in questo momento di un dialogo, capitato non molto tempo dopo,
con la mia guida, coli che liberò l’Ombra dalle ombre di un
passato troppo pesante da sopportare, rendendo visibile e fastidiosa la luce
del rimorso. Scriverò dei miei dubbi, i miei sciocchi dubbi.
Perché allora non sapevo cosa pensare. Lainay era a conoscenza di questa
mia ignoranza, ed aveva parlato in quel modo incauto apposta. Mi aveva gettato
nella confusione più pura, nel panico senza uscita. Si riferiva ad
un’altra Spia, una che dovevo conoscere, forse? Ma allora perché
diceva che ero lei? Era mia sorella di sangue? Tijorn forse lo sapeva. Akita
sicuramente: avrei dovuto chiederglielo, prima o poi. Pensieri inutili. Mi resi
conto, con uno strano senso di fatale spossamento, che non l’avrei mai
più rivista. Mai più. Non avrei mai conosciuto quello che
c’era da conoscere, le realtà che non sapevo ancora. Secondo le
mie previsioni più ottimistiche, ci andava bene se fossimo sopravvissuti
fino al mattino dopo. Piansi, dentro di me, rendendomi conto che anche Tijorn,
lui, così pieno di vita davanti, era stato condannato per la mia scarsa
previdenza. Ancora una volta ero stata presa in trappola dal ragno, ancora una
volta. E quella fu la peggiore. La peggiore, perché tutti i veli che
fino a quel momento mi avevano avvolta, tenendomi separata dalla crudezza dal
mondo reale, si strapparono, squarciandosi in mille brandelli non più
riparabili. La peggiore perché tutto tornò al suo posto,
drammaticamente. Compresi tutto, tutto ciò che avevo fatto, quello che
stavo facendo e quello che avrei fatto. Per un attimo, glorioso e tremendo al
tempo stesso, il mio cammino fu illuminato dal bagliore corrusco di un lampo.
La mia epifania. Ancora paralizzata dal terrore e dai pensieri, rigida come una
statua di sale, sentii una mano fredda stringere la mia. Lainay, la Regina, si
era avvicinata, senza timore alcuno, senza timore della mia spada, che l’avrebbe
potuta trafiggere, ponendo fine alla sua vita ed a quella del suo maledetto
erede, che tanto aveva desiderato, mi aveva toccata. Quel contatto mi parve
repellente, viscido come se a toccarmi fosse stato un serpente, altrettanto
liscio e freddo. Mi sarei divincolata, se solo il mio corpo avesse risposto
alle sollecitazioni. Ero gelata, completamente e totalmente gelata. Lsyn ed
Ombra si combatterono, in quel momento, una battaglia atroce, senza esclusione
di colpi. Un affastellamento confuso di pensieri si contorceva, si agitava
nella mia mente. Sensazioni balenanti e contrastanti mi sfioravano, rendendomi
instabile, un caleidoscopio disorientante, un labirinto inestricabile, che mi
rese immobile, indifesa alla grande Lainay di Normar, ultima Regina di Normar,
e prima sovrana del Regno, dal grande e potente Regno.
Odio.
Odiavo
quella dannata figura, bellissima alla luce della luna, beffarda e fintamente
dolce, una vedova nera, un ragno velenoso. Se non fosse stato per lei, io non
avrei ucciso, Chekaril non sarebbe morto. Non avrei cercato
l’annientamento finale. Era stata lei a dare inizio a tutto. Se lei non
avesse voluto un erede da me, la
storia con il Principe si sarebbe esaurita da sé, senza dolori e lacrime
amare. Percepivo una strana sensazione di amaro in bocca, ogni volta che, per
caso, i suoi occhi s’incrociavano ai miei.
Sete di
vendetta.
Aveva
distrutto tutta la mia vita, con un solo ordine. Aveva reso tutti schiavi, con
quella folle voglia di dominio, con le sue manie di superiorità. Aveva
reso me sfregiata, pazza e vagabonda, aveva creato il fantasma che ero stata
per cinquant’anni, aveva mutilato il mio spirito. Mi aveva uccisa,
torturata in ogni modo a lei concepibile, stritolata nelle sue spire, e ne
aveva goduto. Tutto ciò non poteva essere. Non ero una bestia ottusa,
io!
Rispetto.
In fondo,
lei era l’unico baluardo contro il male, contro l’orda dilagante
degli umani senza fantasia. Gli altri elfi erano stati corrotti dal loro
potere, dalla loro astuzia. Non potevo non ribadire la completa giustizia delle
sue idee. Le condividevo anch’io, in parte. Uruk non contava. Uruk non
era nulla al confronto del potere del Regno. Se solo l’avessero capito,
gli umani si sarebbero estinti in breve tempo.
Paura.
Poteva
uccidermi in qualunque momento. Io, seppure avevo una spada in mano, non ero
nulla al suo confronto. Non avevo il coraggio necessario per lanciarmi contro
la Regina che per così tanto tempo avevo odiato. Non avevo, inoltre, mai
avuto intenzione di ucciderla. Mai. E, d’altronde, aspettava anche lei un
figlio, dopo chissà quali sacrifici. Era una mia nemica, ma non riuscivo
a levarmi di dosso la spiacevole sensazione di avere in comune con lei
qualcosa. Non potevo, da madre qual ero, toglierle quel piacere, quel nuovo
balocco. L’aveva voluto tanto! Mi ricordava troppo Akita, quando la
guardavo, sebbene con lei non c’entrasse niente. Ma non potevo uccidere a
sangue freddo una creatura innocente. Non potevo. Avrei preferito farmi
uccidere. Lei aveva in mano le vite dei miei piccoli. E lei lo sapeva.
E questi
erano, i terribili pensieri che si agitavano nella mia mente, facendomi
tremare, mentre tra di noi scorreva un attimo infinito di silenzio. Potevo
sentire gli alberi, fuori, sussurrare al tiepido vento estivo. Ero stanca. Gli
occhi mi dolevano, avevano preso, al mio giudizio, una strana consistenza
cisposa. E non riuscivo a fermare lo sguardo da nessuna parte. Uno strano,
fastidioso pungolo era cresciuto nel mio petto, uno sprone malefico. Qualcosa
che m’impediva di stare ferma, e nello stesso modo, mi costringeva ad
essere bloccata. Non sapevo assolutamente cosa fare. Mi limitai a guardare
brevemente quella che era stata la mia dolce Regina, che mi guardava con uno
strano sorriso. Il volto addolcito, reso assurdamente perfetto dal piccolo,
futuro mostro che le cresceva dentro. Ebbi un lampo improvviso. Quella volta,
nel Piano. Il nucleo oscuro, eccolo, quell’esserino ancora sconosciuto,
non manifestato. Una volta, tempo prima, quando ancora ero piccola e non
conoscevo la miseria, mi avevano raccontato di cosa succedeva
all’Essenza, in quei casi. Perché, il nucleo oscuro? Sbagliavo a
definirlo in quei termini. Era ancora qualcosa di piuttosto mal definito, senza
alcuna personalità. Un piccolo, innocente esserino in potenza. E l’uovo,
era fin troppo ovvio. Avrei dovuto pensarci prima. Avrei dovuto osservare, io
la grande Spia. Ma chi, in quel momento tragico in cui avevo scoperto di essere
stata presa in giro, avrebbe capito? E c’erano innumerevoli altre
perplessità che mi ronzavano in testa, frenetiche,come api infuriate.
Primo, con un erede non c’era bisogno di ulteriori pretendenti al trono,
giusto? Ma allora…perché accidenti voleva i piccoli? Perché
mi aveva pregato di portarli da lei, se non ne aveva più bisogno? Sapeva
già, sicuramente, di aspettare un figlio quando Akita mi aveva avvertita
di Chekaril. Perché lei non aveva mosso un dito per impedirmi di
uccidere il fratello, se già sapeva tutto? Era fin troppo strano. Ed io
sentii l’oscuro, incombente fantasma dell’ineluttabilità
tragica incombere sopra di me, il destino crudele. Ebbi freddo, sebbene si
morisse dal caldo. Abbandonando la sua aria da pazza sadica ed orgogliosa, la
Regina socchiuse dolcemente gli occhi, una gatta soddisfatta. “mia cara,
cara, Lsyn…”. Disse, stringendomi forte la mano. Sentii di non
poter scappare, non poter divincolarmi a quella stretta fatale. Mi stava
imprigionando, lei, sotto quello sguardo morbido e quel sorriso tranquillo. Non
provai a divincolarmi. Avevo già, inconsciamente, rinunciato a lottare.
Non avrei potuto fare niente, arrabbiarsi e combattere non serviva a niente. Sarei morta, punto. Mi
dispiaceva solo di aver trascinato Tijorn nella mia rovina. Lei continuò
a parlare, in tono infinitamente dolce. “cos’è quello
sguardo? Sembri un passerotto infreddolito. Hai paura di me, vero?
Perché? Dici la verità…vuoi scappare?”. Dei. Mi
sembrava una madre ansiosa, pronta a sgridare una figlia un po’ troppo
scapestrata, per farle capire con voce gentile di stare sbagliando, pronta a
dare bei consigli. Ma, nel fondo dei suoi occhi ametista, gli occhi di Roxen,
gli occhi di Chekaril, vedevo scintillare la malizia. Temetti quello sguardo.
Non riuscivo a capire cosa le stesse passando per la mente. In che modo voleva
uccidermi? Inconsciamente, presi a tremare. Lainay scosse il capo. “oh,
piccola mia…”. Esclamò, teneramente, inclinando il capo. La
stretta si fece più forte, decisa, ed, in un attimo, senza averlo voluto
io, mi ritrovai seduta sul grande letto azzurro. Ecco. Ora mi avrebbe uccisa.
Sarebbe tutto finito. Ed io non avrei nemmeno potuto rivedere mia figlia, o suo
fratello. Mi sarebbe stato impedito, per sempre, persa nel mio vuoto oblio.
Inaspettatamente, in quello trovai una briciola di coraggio, quel necessario
per fare qualche domanda, per parlare. Una flebile brace. Magari Tijorn avrebbe
capito tutto, ci avrebbe sentite, e sarebbe fuggito con i piccoli. Ecco, sarei
morta, ma sarebbe stata la nostra vittoria. Una vittoria senza me, ma non
m’importava. Racimolando tutto il fiato che trovavo, cercai di parlare,
con una vocina flebile, a stento udibile anche nel totale silenzio che ci
avvolgeva. “ma…ma…”. Balbettai, deglutendo.
All’altezza dello stomaco, sentivo un’incredibile dolore. Come se
un artiglio mi stesse squarciando da dentro. Volevo chiederle tutto. Volevo rendere
conto di tutto. Volevo sapere. Dovevo sapere. La Regina, calma, prese una sedia
piena di cuscini, e ci sprofondò sopra, apparentemente stanca. Ma il suo
sguardo non mi lasciò mai, indagatore, nelle sua profondità si
celava la più tremenda crudeltà. Perché lei aveva
già architettato tutto, tutto fin dal primo momento. ancora non me ne
ero accorta. Ho già detto di essere praticamente inerme di fronte a
Lainay, di credere, incondizionatamente, a tutto, di non capirla, vero? Dopo un
attimo di silenzio, ripresi. Avevo ancora la mano imprigionata in quella
stretta solida. “ma…cosa volevi dire, prima, Lainay? Perché
Nemys è me?”. Se la stessi offendendo dandole del tu, una
strategia minima che avevo adottato per ribadire la mia ormai totale autonomia
nelle sue scelte pazze, non lo dimostrò mai. Lei fece un gesto con la
mano destra, come per scacciare una mosca molesta che le stesse ronzando
attorno al capo, poi rimase con il braccio piegato, il gomito posato sul
bracciolo, la mano molle e rilassata, e mi sorrise di nuovo. Era perfettamente
naturale. “oh, niente…”. Asserì, in tono neutro e
casuale, stringendosi le spalle. Era un’ottima bugiarda. Un’ottima
bugiarda. O forse io non volevo credere alla verità delle sue parole,
chissà. “volevo solo fare…una metafora. Volevo solo dire che
stavi diventando come Nemys…sai chi
è, Rinnegata, vero?”. Un’espressione di disappunto che
mi parve totalmente genuina gli passò in volto. “mi dispiace che
tu non sia riuscita a capire…ma io non stavo dicendo niente di
particolare. Davvero”. Di nuovo quel sorriso, inusuale quanto familiare.
La Regina non si era mai comportata così amorevolmente nei miei
confronti. Cos’aveva da nascondermi? Perché si mostrava
così disponibile? Presa da una diffidenza così forte da
travalicare il brulichio di sentimenti che si agitava in me, cercai di togliere
la mano dalla sua. Invano. Lei mi teneva. Era forte, anche se non lo
dimostrava. Alzai il viso verso di lei. Sembrava dispiaciuta, fin quasi alle
lacrime. “siamo arrivati dunque alla fine?”. Domandò, in un
tono così rotto che mi avrebbe commosso, se solo non avessi visto lo
scintillio malizioso nei suoi occhi. Era una bugiarda nata. Chissà cosa
gli passava per quella testa contorta che si ritrovava, quali sadici piani! Lo
avrei scoperto presto, molto presto. Molto più presto di quanto osavo
immaginare. Il labbro inferiore le tremò impercettibilmente,quasi fosse
vicina alle lacrime. Maledetta bastarda. Non le avrei creduto nemmeno se mi
avesse supplicato di rimanere, strisciando come un verme, vestita solo del saio
viola dei Puniti, di quelli che, nella nostra cultura, devono espiare una colpa
tremenda.“ma come,
Ombra…tu hai salvato il mio Regno… hai salvato mio figlio da un
traditore…”. Soddisfazione immediata. Allora ci era cascata, ed in
pieno! Almeno in quello, non avevo fallito. Ero quasi allegra, dopo quella
scoperta. Abbastanza allegra per essere un po’ più sboccata. Se lo
meritava, tutto. Ma la rivelazione me la sarei gustata, fino all’ultimo.
All’ultimo momento, le avrei detto che suo fratello non era mai stato un
traditore. Potevo aspettare un po’. Lei riprese a parlare, quasi gemendo.
“vuoi davvero fuggire?”. Dei, quanto m’infastidiva. Avrei
voluto farla finita, ora e subito. Mi ricordai della spada, ancora una volta,
ma la ritenevo ancora inutile. Minacciarla non sarebbe servito a nulla.
“poche ciance, Lainay”. Sbottai allora, con una voce insolitamente
dura, per me, e secca, cercando di conficcarle le unghie nella mano. La sentii
fremere, ma non staccò la presa. Ci voleva. “Chekaril mi ha raccontato
un paio di cose che possono interessarmi, ma non è quello il motivo di
questa bella chiacchierata, vero?…dimmi un po’…perché
volevi mia figlia e suo fratello?”. Ecco. Dritti al punto, come piaceva a
me. Inutile girarci intorno. Quella era la domanda che mi premeva di
più. Perché mi aveva fatto penare per ben quattro mesi, quando
aveva già la chiave della salvezza del Regno nelle mani? La ma
spavalderia svanì in un attimo, quando vidi, in un lampo, la Regina
cambiare espressione. Da pacifico e quasi materno, il suo volto pallido divenne
una maschera di gelo. Lei mi lasciò la mano, e, in un attimo, si
ritrasformò nella Regina della mia giovinezza, gelida e perennemente
cupa. Nei suoi occhi chiari passò un lampo di furia, subito represso. Fu
un attimo. Dopo pochissimo, tanto da farmi dubitare di aver visto davvero la
vecchia Lainay, tutto tornò come prima. Ma lei non mi riprese la mano.
La sua voce non fu più musicale e conciliante come prima, però.
Mi sembrò più che mai un roco sibilo. Da quella bocca sentii le
cose più orrende che mi sia mai capitato di sentir, le verità
più scabrose e tremende, la vera Lainay. Non sapevo perché si
stesse confidando così, con me, in quel mondo. A meno che non intendesse
uccidermi subito dopo averlo fatto. Ma forse, c’era ancora la speranza di
un cambiamento. Suo figlio poteva averle ammorbidito il carattere. Ancora ho
timore al ricordo. Non ho mai più avuto accesso ad una mente così
terribile come la sua. “secondo te, idiota?”. Ringhiò,
stringendo le labbra, gli occhi che mandavano lampi arrabbiati. Mai, mai, aveva
perso così il controllo, davanti a me. Ebbi paura. Paura di uno
schiaffo, io che ero armata. Cosa può fare l’abitudine.
“questo piccolo è nato, eh? Lo vedi davanti a te, vivo e
vegeto?”. La furia fosca che sembrava averla afferrata era incredibile.
Sembrava una mamma orsa, che difende i suoi piccoli a costo della vita. Non
guardava nemmeno più me. I suoi occhi erano fissi nel vuoto. Vidi le sue
mani stringere spasmodicamente il bracciolo. Era una domanda sbagliata, molto
sbagliata. Non richiesta, mi ricordai di una sciocchezza, un pettegolezzo di
corte, di quella corte di cui, un tempo, ero stata assidua frequentatrice.
Prima che girassero voci sulla sua sterilità, voci che poi vennero
rafforzate dalla mancanza di un erede, quando io non ero ancora nata, e Lainay
aveva la mia età, o forse meno ancora, dopo alcuni brutti episodi era
nato un bambino, da un padre sconosciuto. Morto. Era già morto quando
venne alla luce, povero piccolo. Si vociferava che, da quel terribile
accadimento avesse sconvolto Lainay in modo pazzesco, trascinandola
sull’orlo dell’esaurimento nervoso, della pazzia, e stravolgendole
il carattere. Non ci avevo creduto, mai. Ma non potevo far altro che pensarci,
vedendo i suoi occhi, dopo quelle parole, colmarsi di un dolore immenso,
indescrivibile. Mi fece quasi pietà. In fondo, la Regina non era altro
che una vittima, una vittima del destino, come noi tutti. Forse non voleva
altro che un’esistenza felice, non voleva altro che cose semplici. E non
ci era riuscita.Era questa, forse,
l’origine della sua megalomania? Rabbrividii quando vidi il suo sguardo
posarsi su di me, e riempirsi di una furia quasi omicida. Ed allora tutta la
verità venne a galla. Quella verità che mi sconvolse, mi
addolorò immensamente, quelle cose a cui mai ebbi il tempo di pensare.
Di nuovo, quel ringhio basso, e quello spasmodico movimento delle mani, come se
volesse strozzarmi, ma non potesse. “ho fatto di tutto per ottenere
questo risultato, per avere questo figlio, Lsyn…”. Mormorò,
guardandomi con occhi gelidi, che mi fecero venir voglia di scappare, per
nascondermi e non farmi trovare più. “Guaritori fidati, maghi ed
ancora Guaritori…sono dieci anni che cercano di trovare un rimedio alla
mia sterilità. La mia sterilità..”. strinse le labbra
piene, lei, e tirò un respiro profondo. Mi sentii inchiodata al mio
posto, paralizzata. Il suo dolore era troppo grande perché lo potessi
capire appieno. C’era pazzia, dentro, e tanta, tanta frustrazione. Vidi
alcune lacrime, che mi sconvolsero più di tutto, baluginare agli angoli
dei suoi occhi. Lainay non piangeva mai. Perché si sentiva autorizzata a
confidarmi tutto, proprio in quel momento? Ero convinta di dover morire,
perciò non m’interessava. Ma la trappola era ben più
grande, e ben congegnata di quanto io pensassi. Lei riprese, dopo una breve
pausa, a parlare, mormorando tra i denti, la mascella serrata, per dominarsi.
“quando sono stata sicura di essere incinta… non potevo lasciare
nulla al caso. Speravo, e spero, che questa sia la volta buona
che…”. La sua voce si spense, e lei sollevò il mento, un
gesto che mi parve infinitamente simile a quello di Tijorn. La voce riprese a
parlare, ipnotica e sommessa. Sembrò, per me, che non esistesse
nient’altro. “ma non potevo lasciare nulla al caso. Nulla. Tutti i
possibili nemici vanno eliminati, e lo sai. Voglio che il mio bambino cresca
sereno, senza quella feccia di mortali ad attentare alla sua piccola
vita…”. La sua voce si tinse di amarezza, ed io la guardai meglio.
Si era girata verso l’unica, grande finestra, con aria assente. Sembrava
star facendo il riassunto di qualcosa. Provai, per lei, una pietà
immensa. Lei soffriva, come tutti. Non era fredda come le sue bambole
meccaniche, allora. Forse si, forse no. E quello era tutto un trucco. Un trucco
di cui io non m’avvidi. “certo, avevo ancora bisogno dei miei eredi
contingenti, semplici piccoli, ma tutti i possibili nemici andavano annientati.
Tutti. Perciò, Lsyn, avevo
bisogno di te”. Scosse il capo, ed io avvertii una sensazione strana,
come se lo scettro dei Tengu mi avesse colpita. Mi venne la pelle d’oca,
ed, ancora una volta, mi sentii atrocemente dileggiata. Ma ero troppo occupata
nel sentire il seguito, per prestare ancora attenzione ai miei pensieri. Tutto
stava tornando. Capii che quella che il mio vecchio amore mi aveva raccontato
era solo la sua verità. Ce
n’era un’altra. Quasi temevo di scoprire quale.
“si…sapevo che tu volevi ritrovare Chekaril, e sapevo della tua
ossessione. Decisi così di giocare in mio favore. Mio fratello è
sempre stato piuttosto pericoloso per il mio trono, sai? Amato dalla gente,
ottimo guerriero, abile e prudente…ma aveva un solo difetto. Un solo,
grande difetto”. Eh. Quel difetto mi era fin troppo conosciuto.
L’incapacità di non correre dietro alle sottane delle belle elfe.
La bugia facile. Come la sorella, d’altronde. Con una strana sensazione
di gelo, accolsi le seguenti parole con incredulità. Ero stata presa in
giro in modo atroce. Ed anche Chekaril. La cosa più divertente era
proprio quella. “se, come previsto, lo avessi riaccolto nel Regno alla
maggiore età di Roxen, con mio figlio vivo…posso scommetterci la
pelle, sul fatto che si sarebbe scatenata una guerra civile, una ribellione. E
mio figlio è quello che regnerà, senza se e senza ma”. Il
suo sguardo feroce mi fece venire i conati di vomito. Sarebbe stata
un’ottima madre. Ma, per proteggere il suo pargolo, non avrebbe esitato
ad eseguire terribili stragi. E tutto solo per proteggerlo. Lainay era un
soggetto pericoloso per la comunità. Ed era Regina. Bizzarro scherzo del
fato, affidare una corona ad una psicopatica. “ma, nello stesso tempo,
se…se fosse nato morto…”. Esitò a lungo su quella
parla, mordicchiandosi il labbro. “avevo bisogno dei due eredi. Qui
entravi tu, Lsyn”. Un sorriso, freddo e breve. Ebbi paura, di nuovo, e lo
stomaco si torse. “il tuo amore per Chekaril era abbastanza forte da
spingerti ad eccessi incredibili, una volta saputo tutto. Ho giocato sulla tua
buona fede, lo ammetto. Ma non me ne dolgo. Sapevo che tu l’avresti ucciso,
e, bizzarramente, la cosa non mi da fastidio”. Era un mostro. Quella
creatura, dai dolci lineamenti elfici, era un mostro. Un mostro della peggior
specie. Avevo l’incredibile voglia di piantarla in asso, e fuggirmene
via. Impossibile farlo. Mi toccò ascoltare tutto, fino in fondo. Avevo i
brividi, e l’incredibile voglia di piangere. Avevo passato anche lo
sdegno. “sapevo, inoltre, che il tuo amore per la piccola ti avrebbe
spinta a far di tutto per farti perdonare”. Scosse il capo, alzando gli
occhi la cielo, e la voce si fece più leggera. “ti conosco
benissimo, Lsyn. Sapevo anche che tu avresti tentato di allontanarli dal mio
potere, e perciò ho messo di guardia, a Zakadi, dalla tua sporca
mezzelfa ed a Sharilar, piccoli drappelli di guardia. È stata una
fortuna che sia stato Jalim a trovarvi…”. Come no. Una grande e
grossa fortuna. Avrei ballato di gioia. Amavo quell’elfo. O
quell’elfa, quale che fosse. Maledetto ermafrodito. O forse no,
chissà. Sul viso di Lainay, inaspettatamente, si disegno un sorriso
beato, e scintillante, e lei mi guardò dritto negli occhi. Vidi
qualcosa, qualcosa d’indefinibile, turbinare in quei malefici abissi, ma
non riuscii a capire di cosa si trattasse. Era il male assoluto lei, il male
assoluto, perché fatto per il bene di un singolo. E solo di quello.
Bizzarro. Anche l’altruismo può essere pericoloso, specie se
distorto a quel modo. Le successive parole mi fecero gelare, ancora di
più. Perché lei disse una cosa tremenda, allegra e pimpante. “ma,
per fortuna, tutto sta andando come previsto…stiamo entrando nel nono
mese, ed il piccolo è sano e forte…”. Dei. La
maternità può dare davvero, davvero alla testa. La fissai,
scioccata. Se solo il bambino fosse stato un maschio…beh…allora la
catastrofe sarebbe stata assicurata. Con una madre come Lainay, sarebbe
cresciuto con i valori più distorti delle tradizioni, tradizioni
esasperate e portate alle estreme conseguenze. Ed avrebbe avuto anche il
comando delle armate. E, se fosse stato dotato di potenziale magico…
potevamo allora aspettarci la morte e la tragedia con assoluta sicurezza. Chi
avrebbe resistito, ad un mammone, sottomesso e perversamente crudele? Un
infante, già trasformato nel più bel balocco della madre. Era
terribile. D’improvviso, l’espressione di Lainay tornò
fosca. “dovrebbe sopravvivere al parto, o almeno è questo quello
che mi dicono…”. Buttò lì, stringendo gli occhi, e
guardandomi come se fossi io la responsabile della sua salute. Con una mano, si
sfiorò distrattamente i capelli, come per tranquillizzarsi. Poi, un sorriso
perverso le tirò il viso bianco. “sono indecisa, Lsyn… Roxen
e Chekaril possono essere i suoi servi personali…o li uccido?”. Il
cuore saltò uno o due battiti, e mi si mozzò il fiato. I bambini
no! Tutto, ma i piccoli non si toccavano! Era quello, allora? Quello, il prezzo
di tutto? Senza nemmeno farla finire, con quella nocetta così
mostruosamente tranquilla, e svagata, sobbalzai, mettendomi in piedi.
“no!”. Urlai, facendomi per avventare contro Lainay, che non si
mosse, né batté ciglio. Tremando come una pazza, mi fermai giusto
in tempo. Non ero più padrona dei miei movimenti. Emisi un paio di
gemiti strozzati, prima di bloccarmi, indecisa. Cosa fare? Aggredirla, compromettendo
così la vita di un innocente con la sua, o stare ferma? Era una prova,
quella? Era strano, il suo sguardo impassibile. Poi, improvvisamente, il
sorriso sadico le si trasformò in un ghigno divertito. “li ami, a quanto
pare”. Disse, secca come una frusta. La sua voce assurdamente dolce mi
face rabbrividire, e quasi piangere. Volevo scappare, scappare da quella camera
degli orrori. Volevo i miei piccoli, la mia famiglia. Solo quello. Furono le
sue ultime parole a darmi un barlume di speranza, solo quelle. La trappola
suprema. “d’accordo, d’accordo… Lsyn…prometti di
non farti mai più rivedere nel Regno?”. Oh. Quello che mi chiedeva
era scandalosamente ovvio. Ed avrei
fatto di tutto, pur di avere di nuovo con me i miei piccoli, adorati bambini. Perciò
fui cieca, quando annuii disperatamente, con la voglia tremenda di piangere, di
disperarmi. Perciò fui cieca, quando udii il sospiro fintamente
addolorato di Lainay. “e sia, allora. Tieniti quei maledetti marmocchi
con te”. La sua voce, venata d’ira, oh, era il più dolce
scampanellio, per me. Avrei potuto volare. Sentii, d’improvviso, il suo
tono alzarsi. “porta qui i cosi, Jalim!”.
Capitolo 68 *** Il coltello dalla parte del manico. ***
In quella fuga precipitosa, e così intrinsecamente tragica, in
cui si consumò il rogo vero e proprio dell’Ombra, dapprima
demonizzata in un corpo martoriato, poi odiata, torturata, ed alla fine uccisa,
il mio pensiero fisso andò a proprio quella fatale d
In quella
fuga precipitosa, e così intrinsecamente tragica, in cui si
consumò il rogo vero e proprio dell’Ombra, dapprima demonizzata in
un corpo martoriato, poi odiata, torturata, ed alla fine uccisa, il mio
pensiero fisso andò a proprio quella fatale discussione, in cui tante
cose mi furono chiarite, ma tante rimanevano da chiarire, ebbi modo di pensare,
lamentando la mia disgrazia, di quanto qualcosa cominciato bene possa finire in
tragedia. Il primo interrogativo, che mi tormentava, era quello delle prime
parole che Lainay mi aveva rivolto, così sicure, trionfanti. Non credevo
ad una parola di ciò che mi aveva detto per rassicurarmi, o per
spaventarmi. Cosa stava dicendo, in realtà, in quel rigurgito
d’orgoglio pazzoide, quando mi aveva vista arrivare? Chi era Nemys? Cosa
voleva dire con quell’esclamazione trionfante? Perché sarei dovuta
andare ad Uruk, dritta in bocca di quelli che una volta erano stati ribelli di
un regno di Normar sempre più in espansione, e che volevano la mia testa
quasi quanto quella della Regina? Pensava prima di parlare? Aveva considerato
che, per servirla stupidamente, per servire la sua pazzia, avevo reso
invalicabile, per me e la mia famigliola, il confine più sicuro di
tutti? Perché mi sarei
dovuta fidare di Nemys, che sicuramente mi odiava, perché Isnark non mi
avrebbe ucciso? Cosa stava a significare, in quel frangente, Rinnegata? Nemys non era stata una Spia.
In caso contrario, l’avrei saputo. Non poteva essere così giovane
da aver finito il noviziato e l’apprendistato in quei cinquant’anni
in ci ero stata assente, per poi insediarsi come Alta Sacerdotessa e sovrana a
Kyradon! La stessa sua storia, che poco conoscevo, mi confutava
quell’ipotesi. Lei era…mistica, già dall’inizio. Non
so come altro definirlo. Junielle mi aveva parlato, con inconsueta
preoccupazione, di una creatura che credeva davvero in ciò che diceva.
Una Spia non riceva insegnamento religioso di sorta, né io l’ho
mai voluto, lo ripeto e sempre lo ripeterò. Sebbene stiano cercando di
darmi qualche inconscia dritta, io la rifiuto. Ho sofferto troppo per credere
ancora in qualcosa, per credere che ci sia
qualcosa. Ma allora, i miei interrogativi erano parecchio più terreni.
Mi ero forse sbagliata ad interpretare la frase? Lainay aveva forse voluto
dirmi che, secondo la sua opinione, sia io che Nemys avevamo rinnegato
ciò che era per lei l’orgoglio di elfo? Non reggeva. Ero in un
vicolo cieco. Ero sempre andata fiera della mia razza, e l’ho sempre
difesa ad ogni costo, contro il casuale grigiore della maggior parte degli
umani. Allora, cosa voleva dire? Non lo sapevo, non lo volevo sapere. E, per il
momento, quel dubbio rimase insoluto. Ciò che successe dopo fu troppo doloroso
per riflettere ancora su pasticci forse meramente linguistici, tutto si svolse
troppo velocemente per poter pensare ancora. I miei dubbi vennero svelati dalla
persona più improbabile, a mio parere, che mi potesse capitare
d’incontrare. Una creatura così strana, così fuori da ogni
schema mortale, così eterea, ma così dolce ed umana, una fata delle
favole, di quelle favole che Amarto ci raccontava, a me e Tijorn, nelle lunghe
notti invernali, per farci stare calmi, e non distruggere la casetta, da
rifuggire quasi ad ogni descrizione possibile. Chi cercò di guarirmi, di
sollevarmi, di dare a me anche una minima parvenza di vita, per affrontare un
futuro denso di nebbia, di nera nebbia di dolore, denso di ricordi, di un tempo
passato che non tornerà. Oltre a quell’interrogativo, ce
n’era un altro, molto, molto più urgente. Eh, si: ero sbiancata
maledettamente quando Lainay aveva chiamato Jalim, ed avevo sentito lo stomaco
torcersi in ogni direzione possibile. Mi bastava un salto, un solo salto, ed
avrei posto fine a quella chiamata con enorme facilità. Ma non lo feci.
Rimasi lì, bloccata da un gelo quasi innaturale, domandandomi
disperatamente perché non riuscivo a muovere i piedi. Trappola.
L’ennesima trappola. C’era Tijorn, dentro. Immaginai la sua
espressione, faccia a faccia con quel mostro dannato con le orecchie a punta,
il panico che l’avrebbe attanagliato, e mi venne voglia di uccidere
qualcuno, di strillare, di muovermi, o anche solo di piangere. Magariera già morto. Immaginare il mio
dolce, caro fratello maggiore trapassato da una spada crudele, passato a fil di
lama da un pazzo sadico che l’aveva torturato, che gli aveva sconvolto la
mente, morto, defunto, oggetto inanimato e freddo buono solo per essere
bruciato, per essere seppellito, per essere donato di nuovo alla natura, mi
faceva venire i brividi. E dire quello era poco. Mi riempiva di un gelo
interiore quasi innaturale, mi rendeva immensamente triste, mi annichiliva.
Senza Tijorn, il mondo avrebbe smesso di avere una luce. Certo, la mia
esistenza sarebbe continuata, per pura inerzia, avrei vissuto per Chekaril e
Roxen, per Akita e mio nipote, per Junielle, Amarto e le piccole gemelle, ma,
allo stesso modo di una pianta senza più sole, sarei vissuta, pallida e
gracile, invisibile alle grandi foglie degli alberi, così fragile da
farmi portare via da un soffio di vento. Mio fratello era la mia guida, il mio
confidente, il mio migliore amico, compagno di malefatte, ricordi e dispetti,
compagno di missioni, Guaritore improvvisato ed imbattibile erborista, il mio
fornitore di camuffamenti preferito, il mio difensore, il mio difeso,
semplicemente il mio amatissimo fratello. E senza di lui io ero niente. Niente!
Perciò, il solo nome di colui che aveva osato farlo soffrire, mi
riempiva di ulteriore disperazione. Ed i piccoli sarebbero stati con lui?
Sarebbero morti anche loro? Caduta nell’inganno, nella trappola
astutamente congegnata da quella serpe e quella volpe, sarei stata consegnata
allo sciacallo, e prontamente torturata e divorata? Stupido ma reale pensiero,
ebbi un lampo improvviso di Jalim, occhi affamati e bavaglio al collo,
divoratore prontamente stereotipato, immergere un innocente cucchiaio, con aria
distratta, in quello che la mia mente interpreto come una qualche parte del
corpo, umano ed elfico. Un pensiero che mi avrebbe fatto ridere, tanto era
buffo, ma che, in quel momento, non mi faceva che venir voglia di rompere la
mia immobilità dettata dal panico, per uccidere, in qualche modo, la
Regina. In quel terribile attimo di silenzio, mi resi conto di avere, ancora
grondante di sangue, in mano la spada, la meravigliosa spada leggermente
ricurva di Eiron. Era un peccato non potersi muovere, come avvinta da un
incantesimo. E forse lo ero, forse no. Ciò che so, è che mi
ribellai fieramente ai vincoli che il panico aveva creato per me, invano. La
paura aveva vinto. Dopo davvero poco, lo spazio di un minuto, dall’ombra
emersero ben quattro figure, tutte e quattro saldamente poggiate sulle proprie
gambe. Dal panico, passai alla gioia più inebriante. Forse Lainay diceva
la verità. Forse aveva intenzione di lasciarci andare. Non so
perché, forse un sussulto di sagacia, ma quell’ultimo pensiero mi
fece venire un sospetto. Non vista, cercando di non farmene rendere conto,
guardai per un attimo la Regina, per osservare la sua espressione, per vedere
cosa stava pensando. Aveva smesso di curarsi di me non appena chiamato Jalim,
e, nello stesso mio modo, scrutava il buio della porta. Ciò che covava
nel suo sguardo mi mise leggermente in allarme. Di solito Lainay era
un’ottima bugiarda, ed era capace di far credere addirittura ad una gallina
di poter volare con i falchi. Aveva un’ottima dialettica, ed uno sguardo
freddo, imperscrutabile. Ma io la conoscevo troppo bene per non capirla. Avevo
vissuto a stretto contatto con lei per un po’ di tempo, per le missioni. Intendevo
ogni singolo lampo dei suoi occhi viola. Mi era stato insegnato,
d’altronde, a fare quello. Obbedire la Regina anche solo da uno sguardo.
Ed ecco, quella cosa mi stava tornando assai utile. Compresi l’inganno,
ne sentii il sapore, e sobbalzai. La sua espressione era sempre neutra, dignitosa
ed un po’ oltraggiata, ma io potevo vedere dietro le apparenze. Le spalle
erano tese in una postura quasi innaturale, studiatamente rilassata, che mi
ricordò nettamente di tutte le volte in cui avevo assistito a trattative
di pace, dove lo scopo era solo uno: fagocitare quanto più possibile. Lo
sguardo fintamente innocente covava un briciolo, solo un briciolo di malizia,
qualcosa di facilmente interpretabile come aspettativa, attesa, il che le dava
un’aria da gatto in caccia. Troppo naturale, troppo poco… Lainay,
ecco. Se fosse stata normale, mi avrebbe cacciata, ed avrebbe fatto portare
ciò che volevo da un servo, o un soldato di basso rango. Non si sarebbe
così dolcemente intrattenuta, facendo la parte della mamma incompresa.
Disturbarla mentre dormiva, soprattutto in uno stato delicato come quello in
cui era ora, sarebbe potuto benissimo costarmi un calcio nelle costole, da lei
in persona o qualcos’altro di molto doloroso, una punizione per il mio
comportamento disdicevole. No: non avrebbe chiacchierato con me, mi avrebbe
urlato contro. Ed i piccoli non sarebbero stati accompagnati dal suo cucciolo
preferito, il suo perverso cagnolino, in persona! Un comportamento troppo
civile per Lainay, che io avevo conosciuto nella sua vera faccia, lontana dalla
propaganda che lei stessa si faceva. Perciò, con vero e proprio allarme,
quando vidi entrare nella piccola stanza Tijorn, sano e salvo, con mio
grandissimo sollievo, ma molto, molto spaventato, a braccetto con un sorridente
Jalim, acconciatoe vestito come
per un ballo di corte, cosa che più che mai mi fece rendere conto della
strana situazione venuta a crearsi, mi scambiai un veloce sguardo con lui. Gli
leggevo negli occhi lo stesso panico, la stessa cautela, e la stessa
felicità mia, quando mi aveva guardato, viva. Lui fece uno strano gesto,
inclinando lievemente la testa verso Jalim, con uno scatto, poi sgranò
gli occhi. Intimava attenzione. Pericolo. Come se non l’avessi già
capito! Non so se quell’atteggiamento fu notato o no. Rapida come un
fulmine, la mia attenzione fu sviata da qualcun altro. Ed allora, la mia gioia
toccò il culmine. Di nuovo insieme. Sempre, sempre e sempre. Saltando a
piè pari tutto il formalismo di corte, all’improvviso, due piccole
figure infagottate in cenci marroni, mi corsero incontro. “zia Lsyn! Zia
Lsyn!”. Urlarono due piccole voci, prima che i proprietari mi si precipitassero
addosso. Quasi caddi, travolta dalla loro stessa gioia, assaporandola quasi
fosse materiale. Con una mano, spostai lievemente la spada indietro, in modo da
non ferirli. Ero ad un passo dalle lacrime. Con il braccio libero, li andai ad
abbracciare, o cercai di stringerli entrambi. Ero troppo piccina per poterli
avvicinare di più al mio cuore. Roxen, mia figlia, il mio piccolo
fiorellino coraggioso, era già più alta di me, e Chekaril
prometteva di divenirlo. Ma avrei voluto, oh, tanto, proteggerli, incastonarli
in un luogo sicuro e felice, e tenerli per sempre lì! Il destino,
così crudele ad indifferente, aveva voluto altrimenti. E chissà
quali e quanti patimenti quella maledetta aveva fatto sopportare loro! Presa
quasi da una strana frenesia, pazza di gioia, in un certo senso pacificata,
mentre loro ancora mi stringevano, come presa da urgenza, sollevai i loro volti
e li guardai. Rapidissima, alla felicità subentrò un altro
sentimento. Indignazione, credo, in larga parte, ma anche rabbia. Quei momenti
sono troppo confusi, nella mia mente, per poterli ricordare bene. Ma rammento
dettagliatamente, con singolare orrore, quello che vidi sui loro volti. Il
livello a cui erano potuti arrivare. E forse fu allora che la furia
sostituì il rispetto e la paura. Perché mai, mai, oltraggiare una madre, mai mettersi contro di ella. Mai, se si
vuole rimanere ancora vivi per raccontarlo. Ed io ero sufficientemente
pericolosa per rappresentare una minaccia concreta alla vita di Lainay, e del
suo piccolo. Era stata una stupida a lasciami la spada, a non avermela tolta
quando era ancora troppo stordita per intendere e per volere. Cosa credeva, che
anche quell’ultimo affronto da me subito mi avrebbe fatto rimanere docile
come un agnellino? Sciocca! Tutto, tutto, fuorché quelli che
consideravo, ormai, figli miei. E Roxen lo era davvero. Gettai via tutti i miei
sentimenti, tutto quello che ancora provavo per la Regina, quella
fedeltà mescolata a ribrezzo, l’abbandonai totalmente.
Perché a Roxen erano stati tagliati i capelli, ancora di più,
quel casco di morbidi boccoli, nerissimi, ali di corvo come i miei, erano ora
solo fitti riccioli, dritti come fusi, molto corti. Anche a Chekaril era stato
riservato lo stesso trattamento, ed era stato quasi rapato a zero. Sul loro
viso, tuttavia, trovai più evidenti, in un lampo, i segni
dell’oltraggio che io stessa avevo subito. Poco ma sicuro, erano stati
selvaggiamente picchiati. Me lo dicevano i loro occhi sperduti, la paura che
potevo quasi toccare, il modo cauto con cui si stringevano a me. Potevo intuirlo
dal fatto che non riuscivano a fissarmi, forse consci che, se il mio sguardo
avesse incontrato il loro, tutti i soprusi subiti sarebbero venuti a galla,
avrei indovinato tutto. Ma non era così difficile farlo lo stesso. Cosa
significava, a parte un colpo violento, quell’enorme livido nero che
attorniava l’occhio del piccolo Chekaril, che sembrava ad un passo dalle
lacrime? Cosa poteva significare la guancia gonfia di mia figlia, il suo
tremolio scomposto? Non notai di essermi contratta in una posizione quasi
innaturale, di star stringendo i miei piccoli viaggiatori coraggiosi in una
stretta distratta, di non confortarli minimamente. Il mio sguardo si
posò, invece, su Jalim, che teneva ancora stretto Tijorn. Un ringhio
sordo mi uscì dalle labbra. Nemmeno io so come riuscì a venirmi
quel suono basso, e minaccioso. Forse fu la furia. Strinsi la spada con
più forza, fino a quando la filigrana del pomo non sembrò
imprimersi a fuoco sulla mia pelle. Ora non l’avrebbero passata liscia.
Avevano passato il limite. Sentii i piccoli lasciarmi, nascondersi forse al mio
fianco, e mi alzai, torreggiando in tutta la mia scarsa altezza. Ma sembrai
ergermi per tre metri, ombrosa e terribile come una torre. Lo strano elfo mi
guardò, ed aggrottò un sopracciglio, lasciando Tijorn. Brutto
bastardo. Scommettevo fosse stato lui a far del male ai miei cuccioli in quel
modo. “cos’è che mi guardi così? Che ti ho fatto di
male?”. Chiocciò con la sua voce querula e frivola, guardandomi
con innocenza. Ma per un attimo, il suo sguardo corse verso Lainay, ancora di
fianco a me. Tirai un grosso respiro. Impenitente, anche. Mi avevano nascosto
una cosa importantissima, lo stato dei piccoli: e, se mentivano su quello, non
osavo immaginare cosa sarebbe potuto succedere se io, come nei piani, mi fossi
fidata ciecamente di loro. Qualcuno stava bisbigliando, un suono che a me parve
quello della coscienza. Ma la coscienza non poteva avere voce maschile, no?
Guardai brevemente Tijorn. Scuoteva il capo, lui, e mormorava qualcosa, i pugni
chiusi, teso come una corda di violino. Se non fosse stato così poco da
mio fratello bestemmiare, giurerei di aver sentito provenire da lui, quella
volta, qualche pesantissima imprecazione. “vedi i marmocchi, eh? Ma,
fidati, Lsyn, amica mia, non sono stata io”. Storsi il viso a quella
disgustosa smorfia, piena di falsità e miele. Si: non avevo, nemmeno nei
miei sogni più assurdi, visto Jalim così disponibile, così
poco sadico. Non aveva nemmeno infilato una volta nel discorso l’accenno
a torture, minacce o cose del genere. La presa sulla spada divenne più
forte. Era tanta, forse, la loro sicurezza di aver vinto , che mandavano al
diavolo anche i minimi tentativi di fare scena. O forse ero io ad essere
cambiata, a vedere l’ipocrisianei loro comportamenti. Ero sicura, tuttavia: non appena usciti da
quella camera, saremmo stati attaccati e trucidati da qualcuno che era
lì apposta. Poco ma sicuro. Dovevo stare in campana, e molto. Analizzare
ogni singola parola. Ero indignata, e furiosa. Bene. Così mi trattavano,
io, che avevo, per loro, speso trecento anni della mia misera vita, speso
sangue, e bellezza. Avevo consegnato mia figlia ad una macchina perversa. La
cosami provocava uno strano
sentimento rabbioso. Avevo sacrificato il mio amore, la mia maternità,
per un’ottusa megalomane, ed il suo, o la sua, questo ancora non so,
amante preferito. Udii ancora Jalim parlare, con la chiara consapevolezza che,
se avesse cianciato un altro po’, l’avrei ucciso, per poi levarmi
finalmente la curiosità di sapere cosa diavolo in realtà fosse.
“fidati di me…io sono innocente e puro…davvero, stavolta, non
ho fatto del male a quei cosi…”. Eh, no. Era troppo. Mancava solo
un sorriso sadico alla sua espressione soddisfatta, e la sua sarebbe valsa come
una confessione. O meglio, già lo era. Avevo sentito, ad un certo punto,
il singhiozzo di mia figlia. Loro, una volta finito tutto, mi avrebbero
confessato tutta la verità. Era stato lui a malmenarli , mentre Lainay
li guardava, divertita. Lui li aveva picchiati per puro divertimento, li aveva
presi a calci solo per il piacere di vedersi gratificato dalla sua amata
regina. Era stato sempre sotto i suoi occhi che avevano tagliato loro i
capelli, perché Lainay non prendesse malattie, da quei, come mi disse
Chekaril, piangendo, sacchi di pulci.
Sacchi di pulci, i miei bambini! Se solo avessi potuto, tutto quello sarebbe
bastato a farmi tornare nel Regno, solo per infliggere una sonora lezione a
quei due. Ucciderli, magari. O rapire il figlio di Lainay, per trattarlo
esattamente come lei aveva trattato i
miei piccoli. Ignobile, prendersela con un innocente…ma cosa aveva fatto,
lei? Qualcuno mi fermò, allora, quando volli fungere, per una volta, da
mano del destino. Mi preparai, mi preparai al colpo che avrei usato per
tagliargli la testa, e feci un passo in avanti. Una mano fredda mi
fermò, all’improvviso, tenendomi la spalla in una stretta ferrea.
Allarmata mi girai, di scatto. Lainay mi aveva fermata. Mi guardava, con una
sorta di apprensione negli occhi vuoti, da serpente divertito. Gioii. Cosa era
passato loro per la testa, di farmi entrare armata? Ero così mutata, nei
miei comportamenti? O forse non si
erano accorti che l’Ombra è inafferrabile, che non si fa mai
prendere né controllare? Avevano superato ogni limite di decenza. Ero
stufa. Stufa, e punto. È dire poco, aggiungerei. Stufa di essere
trattata come una serva. Ero un’elfa, ed avevo dignità, io! Stufa,
di dipendere, la vita e la morte, l’esistenza e la prigionia, da una
pazza visionaria. Cosa credeva, che fossi una stupida? Stufa, di vedere i miei
cari maltrattati allo stesso mio modo. Potevano farmi di tutto. Ma non toccare
i miei affetti. Eh, no. Quelli mai. Erano proibiti. Chiunque avesse torto anche
loro un capello, ne avrebbe dovuto rispondere con me. E forse Lainay non se
n’era accorta. Non se n’era accorta, non aveva messo in conto la
mia pericolosità latente. Ma forse, con quello sguardo stranamente
apprensivo, stava capendo. Bene. Ero stufa. Stufa di tutti loro, della loro
ipocrisia, della loro perversa violenza. Ero stufa di essere considerata ancora
un’amica di Normar. Nel mio sguardo lei dovette leggere qualcosa,
perché, alla preoccupazione si sostituì la paura. “su
Lsyn…”. Mi disse, con una strana voce, di qualche tono più
acuta. Oh, si: mi temeva, eccome. Lei era disarmata, ed incinta, fragile come
una farfalla essiccata. Io ero piena di rabbia, inacidita da nuovi ed antichi
torti, resa forte dai viaggi e dalle sofferenze. Cosa più importante,
ero armata, e quel giorno avevo già ucciso. La mia spada sarebbe stata
contenta di assaggiare, finalmente, per una volta nella sua esistenza, sangue
colpevole. Ed io non vedevo l’ora di farlo. Mi dispiaceva solamente che
ci sarebbe andato di mezzo un bambino. Era un gran peccato. Ma era figlio della
madre sbagliata, su quello non c’era dubbio. Perciò, quella vocina
ben poco sicura fu musica, per le mie orecchie. La sua presa sulla mia spalla,
oh, era molto facile da togliere. Non era più la Lainay di una volta. O
meglio, il suo stesso desiderio gliel’aveva impedito. Un sorriso strano
si andò a formare sul viso pallido della Regina. “ora, sai cosa
facciamo? Manderò a chiamare i miei soldati, così vi
accompagneranno fuori, vi faranno da scorta, eh? Cosa ne dici, Lsyn? Non
è un buon compromesso?”. Un altro singhiozzo, dalle parti dei
piccoli. Eh, no. Non mi fregava così, oh no. Logica buona per
l’Ombra, ma non per Lsyn. Non mi sarei accontentata della trappola.
Perché era sicuramente quello, il piano originario. Poco, ma sicuro.
Rimasi tuttavia in silenzio, come per valutare. Attaccare, l’unica soluzione.
Dovevo ricordare che io ero sola, loro erano in due. E Jalim era pericoloso
anche senz’armi alcune. Ed, inoltre, era un po’ improbabile che lui
non si fosse portato qualcosa dietro, fosse pure un piccolo coltellino. Lo
stava nascondendo. Per fortuna che Tijorn era libero, armato anche lui, ed
anche piuttosto arrabbiato. Furioso era dire meglio. Sogghignai tra me e me.
Come sempre, avevo trovato in lui un validissimo alleato. Perfetto. Pensai che
sarebbe stato davvero felice di vendicarsi, di vendicarsi di tutte le torture
subite. Glene offrivo l’occasione su un piatto d’argento. Lui
intercettò il mio sguardo. E sogghignò apertamente. Mi aveva
capita benissimo. Tese i muscoli del collo, e si girò verso Jalim. Lo
imitai. Stringeva qualcosa tra le pieghe del su abito, senza dubbio un arma.
Lui era suo. Messaggio chiaro, e tondo. Lainay era mia. Tutta mia. Potevo fare
con lei quello che volevo, ora. Mi venne in mente un’idea. Potevamo
andarcene senza uccidere nessuno, a testa alta, no? Un po’ di minacce non
hanno mai fatto male a nessuno, su. Così, la spada che fino a quel
momento pendeva con la punta a terra, si ritrovò puntata alla gola di
Lainay. “decisamente non mi pare un buon compromesso!”. Sibilai,
con una voce che non pareva la mia. Mai più vidi Lainay così
terrorizzata, né la vidi mai. Stava impallidendo maledettamente. Da
lì, precipitò tutto. Con un urlo belluino, non da lui vedendo
minacciata la sua dolce Regina, Jalim, senza preoccuparsi delle conseguenze,
balzò verso di me. I piccoli strillarono. Udii, chiaro e tondo, lo
stridio di due lame che si cozzano. Tijorn lo aveva intercettato. Mi girai, per
assicurarmi che tutto stesse andando per il verso giusto. Il loro duello era
iniziato. Approfittando del mio breve momento di distrazione, la Regina cercò
di scampare alla minaccia della mia arma. La sentii alzarsi, pronta a fuggire,
per salvare la sua pellaccia, e quella del suo disgustoso bambino. Troppo
lenta, e troppo goffa, per me, dai nervi tesi fino all’estremo.
Ah…il regno l’aveva ammorbidita, e molto. E lei non aveva mai, in
fondo, combattuto. Non so cosa feci, né come lo feci, ma, senza parlare,
mi gettai a capofitto contro di lei, disposta pure a ferirla, per quello che
volevo. Non intendevo essere mai più trattata come un giocattolo, mai
più. Potevo essere un individuo, senziente ed indipendente. Ed ora, lo
stavo mostrando a me stessa. La mia rivalsa era incominciata. Mi ritrovai,
così, aggrappata alla figura esile di Lainay, e puntai la spada
all’unico punto che riuscivo a raggiungere correttamente quando ero in
piedi. Posai quindi la spada, il filo più tagliente, sul ventre gonfio.
Un colpo, e tutto sarebbe finito. Avevo la maledetta voglia di farlo, ma mi
trattenni giusto in tempo. La resistenza contro di me finì in un attimo.
Era fiera, lei, era pazza, ma non stupida, anzi. Me ne sentii soddisfatta,
molto. Con l’atra mano, presi a stringerle le mani in una morsa. Lei non
si ribellò. “benissimo, Lainay…”. Sussurrai, con un
sorriso involontario sulle labbra. La strinsi più forte, e la guardai.
Si era cristallizzata, un’espressione davvero sdegnata, ma disperata, sul
volto pallido. Aveva capito di essere in trappola. Jalim, la sua carta
vincente, era ancora tenuto a bada da mio fratello. Lo dimostravano ancora i
rumori di combattimento, provenienti alle nostre spalle. Era indifesa. Lei non
era mai stata forte: basava tutta la sua potenza sul sopruso, sulla violenza
psicologica. Ora, il compromesso. Non l’avrei uccisa. Non ancora. Ma
volevo qualcosa in cambio. “ora…io voglio essere sicura della tua
buona fede”. Oh…com’era terribile la mia voce! Me ne
compiacqui. Così doveva essere. “ma, visto che fino ad ora sono
sempre stata giocata da te, voglio una certezza…”. Lei non mi
guardò. Non guardava nessuno, e niente. Tirò su col naso. Vinta.
Vinta e stravinta. Non credevo fosse così facile. “cosa
vuoi?”. Mi disse, con una voce fiera. Volevo ballare. Avevo vinto. Per
una volta. “è semplice”. Le sussurrai, cercando di
avvicinarmi al suo orecchio. Potevo essere più forte, ma ero davvero
più bassa di lei. Rimpiansi, per l’ennesima volta, di non essere
di dimensioni normali per un elfo, di essere così drammaticamente
piccina. Per un umano poteva andare bene, ma per un elfo no. L’altezza:
la mia grande fissazione. “voglio un lasciapassare. Non importa come lo
scrivi, fosse anche con il sangue e le tue stesse dita. Voglio avere una
sicurezza, mia cara Regina. Se accetti…beh, ce ne andremo, e tu non
sentirai mai più parlare di noi, e potrai crescere il tuo marmocchio in
pace. Sennò…beh…mi vedo costretta ad ucciderlo. E ad
uccidere anche te, forse. Cosa scegli?” com’erano belle le mie
parole dolcissime, e pericolose. Per farle capire che non scherzavo, premetti
leggermente la spada sulla sua pelle. Doveva sentire la paura, di cos’era
fatta, che odore aveva. Ci fu un debole tentativo di staccarsi da me, di
liberarsi. Ma io ero stata resa forte dalla rabbia, la cieca rabbia che
m’impediva di pensare coerentemente. Avevo io il coltello dalla parte del
manico. E tanto bastava. Fu un gioco da ragazzi, per me, tenerla. Quella
soddisfazione mi ripagò di tutte le umiliazioni subite in una vita
intera. L’avrei schiaffeggiata, se tutto fosse andato come dicevo io,
dopo. Poi, saremmo fuggiti alla velocità massima a noi consentita,
schizzare come un lampo. Un lasciapassare, vero, garantiva immunità. Ma
non permetteva di fare tutto. Scommettevo che, così inerme, avrebbe
accettato. Ora, bisognava solo mettere fuori gioco Jalim, il suo braccio
armato. A quello ci pensò Tijorn, diligente. L’ebbe vinta, sui
suoi incubi, sul suo dolore, sul suo terrore. Perché,
d’improvviso, vedemmo schizzare verso di noi un’arma strana, una
sorta di coltello lungo, simile ad una fiamma. Spinsi Lainay per farla
spostare, ed entrambe ci girammo verso i due combattenti. Tijorn, illeso, era
in guardia, lo stocco ancora in mano, e guardava con aria compiaciuta un
sorpreso Jalim, che aveva ancora la mano chiusa a pugno. Mano vuota. Gioii, in
me. Eravamo in procinto di vincere. Fuori uno. E Tijorn era ancora vivo. La cosa
più importante era quella. Ci fu un attimo di silenzio, in cui i due
duellanti si guardarono. Sentii gemere debolmente Lainay. Lei doveva essere
davvero preoccupata. Preoccupata per il suo tenero, perverso Jalim. Vidi, in un
lampo, passare sul volto di Tijorn una strana espressione maliziosa. Temetti
quello sguardo. O meglio. Dovevo temere per Jalim. Stava per combinare qualche
tiro mancino nei suoi danni. Sicuro. Non sbagliai. Avevo più che
ragione. Prima che l’elfo androgino si riprendesse, infatti, mio fratello
aveva già agito. Chissà da quanto desiderava farlo, stringere la
mano a pugno, e colpire, con tutta la frustrazione che aveva represso in anni,
colpire la mascella dell’ermafrodito con tutta la sua forza, con un pugno
ben assestato. Sarebbe stato un miracolo se non gliel’avesse rotta. Dolce
e caro fratellino mio. Jalim crollò, completamente fuori gioco. La
difesa, l’unica difesa di Lainay, era infatti svenuta, completamente
venuta meno. Cadde a terra come un sacco vuoto. Davvero soddisfacente la vista.
Sentii, così, la debole resistenza della Regina svanire. Era finita. Non
poteva contare su nessun altro aiuto. Aveva contato su di me, sulla mia paura.
Ed aveva fallito. Molto stupida, come cosa. Lei si morse le labbra, forse per
non gridare. Guardai ancora per un attimo mio fratello incombere sul suo
nemico, le mani sui fianchi, soddisfatto, dandogli un altro paio di calcetti
sul capo bianco, forse per accertarsi non stesse fingendo, poi mi girai
definitivamente verso la mia nemica, che non aveva ancora deciso. Ero
impaziente. Potevo benissimo ucciderla, ora come ora. Sperai non fosse
così stupida da rifiutare. “allora? Rispondi!”. Intimai, con
voce aspra, la vidi sobbalzare, e girarsi quanto poteva per osservarmi. Aveva gli
occhi pieni di una rabbia lacrimosa, una fierezza di una tigre calpestata e
derisa. Sconfitta, ma ancora pericolosa. Dovevo avere quel lasciapassare per
tutti noi, e subito. Ci fissammo, per un attimo. E poi, con mia grande gioia,
la vidi annuire. Brava, Lainay. Incauta, per una volta, ma non stupida. “lo
farò, Lsyn”. Mormorò, facendo una smorfia. “tu sei
pazza, sei pazza… immagini che tutto quello che io ho detto siano
sciocchezze, vero? Lo vedrai, maledetta…lo vedrai! Stai facendo la scelta
sbagliata!”. Irritazione immediata. Lei aveva picchiato i miei piccoli,
mi aveva umiliata in un modo pazzesco, inumano, e poi veniva a darmi dalla
pazza? La strinsi più forte, rabbiosa. “cosa vuoi che me ne
importi, eh?”. Ringhiai, torturandole le mani. Doveva soffrire,. Almeno un
ombra di quello che avevo provato io. “quello che faccio è solo
affar mio. Mio! Ora, se non ti spiace, vorrei andarmene con le persone a cui
voglio bene, concetto che ti è, a quanto pare, oscuro, e non voglio
cadere di nuovo nelle tua stupide trappole. Muoviti a fare quello che devi
fare, e ce ne andremo!”.
Lei mi obbedì. Oh, si che mi obbedì. Avrebbe fatto di tutto pur di
salvare il salvabile, la vita del suo disgustoso figlio, la sua vita. Non
avrebbe potuto far altro. Avrebbe strisciato carponi,
cantando canzoncine da osteria, se solo gliel’avessi chiesto. Una grande
rivalsa, per me, tormentata, torturata, umiliata, derisa, per tutta la mia vita
da Spia. Un’enorme rivalsa. Lei aveva fatto del male ai miei cari, ed a
me stessa. Ci aveva trattati come bestie. Ed avrebbe pagato, oh si. Ma, in quel
momento, e fu ciò che pensai, la cosa più importante da fare era
assicurarsi che i piccoli, Tijorn, Akita, ed il resto della variegata ciurma,
fossero al sicuro,assicurarsi un modo valido per
fuggire, per andarcene via da quel silente luogo di dolore, per non ritornarvi
più. Io e mio fratello sottomettemmo completamente Lainay. Jalim non si
era ancora mosso, né si mosse durante la nostra poco pacifica
conversazione. Il pugno di Tijorn lo aveva steso, e anche bene. Magia da parte
di una persona, calmissima, posata ed allegra di solito, capace di ferire
seriamente solo nei momenti di rabbia! Vidi un sogghigno soddisfatto sul suo
volto pallido. E fui lui a zittire Lainay quando
cominciò a fare storie perché non aveva materiale da scrittura.
Le puntò addosso la sua arma, silenzioso e
leggermente sogghignante. Lei si zittì, d’un colpo. Era docile
come un agnellino, la cara Regina. La minacciammo nei modi più atroci,
per noi assurdamente divertenti, giurandole di farle scrivere anche con il
proprio sangue, basta che scrivesse, finche lei non cedette, e chiese a mio
fratello di rovistare in un cassetto, e tirare fuori carta, piuma, calamaio e
sigillo regio, tutti gli accessori da scrittura che lei teneva sempre da parte,
per ogni evenienza. Vittoria, vittoria totale. Immaginare il nostro futuro non
era mai stato più piacevole. Già mi vedevo, zia, madre, sorella
ed amica felice. Una casetta nascosta, su, nelle montagne, inaccessibili per
via dei Tengu che le abitavano. Inaccessibili, ma non per me. Loro erano creature
amiche, per me. La Matriarca mi avrebbe accolta a braccia aperte, e si sarebbe
fidata di me. Lsyn, l’amica dei Tengu. Suonava davvero bene, nella mia
mente, mentre la ripetevo come una cantilena, guardando Lainay scrivere, mentre
noi due incombevamo su di lei, per essere certi non stesse facendo sciocchezze,
o ci stesse tradendo. Ma lei non fece nulla di tutto quello che temevamo.
Mentre lei scriveva, la fronte solo lievemente imperlata di sudore freddo, i
piccoli mi si erano avvicinati, e qualcuno dei due si era aggrappato al
mantello, stringendolo in una morsa spasmodica. Leggevo nel loro sguardo
l’ingenua speranza. Di nuovo insieme. Tutti insieme,
come una grande famigliola felice. In fondo, era solo quello che volevo. Vivere
in pace, circondata dai miei affetti, in una casa serena. Nuove piccole pesti a
rallegrare un’esistenza parimenti allegra. Immaginavo così, la mia
vita, ei miei sogni di pace. Sogni brutalmente infranti, sempre infranti,
quando la mia ossessione era un cinico donnaiolo, quando mi ritrovai a fissare
un paio di orbite vuote, ed occhi con quattro pupille, quando il modo smise di
avere ogni sfumatura di colore, che non fosse un
uniforme, tedioso grigio. Io volevo solo essere amata! Una vita senza scosse,
senza persone che si ritraevano alla mia vista, al mio arrivo, fino a farmi
arrossire, umiliata, accompagnata dal suono allegro di risate, dalla noia di
giornate piene di calore, intrise di luce, tutte uguali, ma
preziose perché facenti parte della stessa esistenza. Volevo solo un
po’ di tranquillità. Il destino aveva deciso altrimenti, per me,
ha deciso altrimenti. Questi dieci anni, passati dalle mie ultime tragedie,
questi dieci anni che mi ci sono voluti per riuscire a nascondere almeno un
po’ il mio dolore, sono calma apparente. Ed io lo so che si ci prepara a rovine future. Mi sto già preparando.
Ma, allora, in quel momento dl trionfo assoluto del nostro pensiero,
l’attimo in cui Lainay appose il sigillo reale alla pergamena, fitta
della nostra speranza,cosa potevamo saperne? Sia io
che Tijorn credevamo di aver ottenuto il lasciapassare
per la libertà. E ne gioivamo, pazzamente, assurdamente. Bastava
guardarci, fissarci negli occhi, leggere in lui la promessa di poter vedere suo
figlio, di vederlo crescere, di poterlo tener con sé per sempre, per sentire
un senso sottile d’esaltazione, una piacevole morsa allo stomaco, come
brodo caldo. Mai più vincolati dal codice d’onore delle Spie,
così rigido, così assurdo. Mai più. Finalmente liberi,
liberi di scegliere la propria vita, liberi di scegliere la propria esistenza,
liberi di fare scelte, liberi di morire come
più ci aggradava. Non più schiavi di un’ideologia che,
francamente, non aveva mai interessato davvero, o almeno, tale era per me.
Perché potevo conservare il mio orgoglio anche non uccidendo, anche fuori da intrighi e rapimenti. L’avevo finalmente
capito, dopo anni in cui ero andata a cercare una felicità effimera nel
sangue. Potevo agire alla luce del sole, godere finalmente della vera essenza
elfica, del vero onore. Perché non è mai, mai, dignitosa, una
vita al servizio di qualcuno, non è mai dignitoso abbassarsi al livello
di stupidi domestici. Io non ero una domestica. Ed ora, la spada puntata contro
un corpo fragile, ed inerme, lo stavo dimostrando. Quella buia stanza mi pareva
orlata da una luce perlata, segno della mia felicità. Avrei potuto dare
a mia figlia, ed al suo fratellastro, un futuro degno di quel nome. Mi stavo
riscattando dall’azione più abietta della mia vita. Avevo ucciso Chekaril, vero. Ma avevo
salvato i suoi piccoli, che mi amavano. Era la cosa più bella del mondo.
Avessi saputo cosa sarebbe successo dopo, quello scontro tremendo e pauroso,
quella figura mostruosa che ancora mi turba al solo pensiero, avrei ucciso
quella maledetta, si. Mi sarei tolta lo sfizio di essere io, la mano del
destino, di togliere io il giogo dagli oppressi! Ma reputavo i tempi non ancora
maturi. Non c’era una figura abbastanza forte da poter prendere il
governo, da saper governare un territorio così vasto, senza il rischio
di guerre civili. Un polso saldo che ancora non esisteva. I ribelli avevano una guida troppo buona, troppo poco…sovrana. No: il
mondo non era pronto alla morte di quella tiranna. Non potevo ancora ucciderla.
Fu quello che m’impedì, in quella stanza buia, di premere una
lama, di distruggere altre due vite. Mi limitai a spostarmi, quando Tijorn
prese, con aria trionfante, la pergamena, contemplandola come se fosse un
tesoro prezioso. Anch’io la guardai con sottile reverenza. Libertà.
Lì c’era tutto. Lainay ci aveva sollevati dai nostri incarichi di
Spie, ci aveva radiati tutti. Tuttavia, cosa contraria alle ferree regole della
nostra casta, dove chi entrava non usciva più, non eravamo perseguibili,
nessuno ci poteva uccidere. La stessa Regina ci proteggeva. Chiunque ci avesse anche solo infastiditi, sarebbe stato punibile con
una morte atroce e dolorosissima. Lei ci stava dando il permesso di vivere come
e dove ci aggradava, con la clausola di non tornare mai più nei
territori del Regno, quei territori sempre più in espansione. Vivi, vivi
e liberi. Chiunque aggregatosi fino a quel momento alla nostra compagnia, piccoli
compresi, rientrava sotto la nostra protezione, ed era ugualmente immune.
Questo voleva anche dire che avevamo salvato la vita allo scorbutico Max. Praticamente,
eravamo tutti salvi. Troppo bello per credere fosse
vero, quasi. Esaudita la nostra richiesta più che pressante, a me non
rimase di far altro che allontanare la lama da Lainay,
con un ghigno sprezzante, e guardarla fisso. Lei ricambiò il mio
sguardo, gli occhi che navigavano in quelle lacrime di umiliazione che fin
troppo spesso avevano solcato il mio viso. Me ne sentii soddisfatta. Era bello
sapere di aver piegato una creatura che, fino a qualche tempo prima, mi aveva
tenuta sotto controllo in ogni modo possibile, ed immaginabile. Gli stava bene.
Lei scosse il capo, e crollò seduta sul letto, guardando la figura
immobile di Jalim con preoccupazione. Poco ma sicuro, non appena spariti noi
dalla vista, lei si sarebbe precipitata a soccorrerlo. Sospirò, un
sospiro indignato. Mi fece quasi ridere. Con i piccoli alle calcagna, muti e
mesti, mi allontanai da lei, affiancandomi a Tijorn, e la squadrai per bene.
“sono onorata di avere avuto
una simile conversazione con voi, mia signora venerata”. Dissi, beffarda,
inchinandomi con cerimonia. Vidi un lampo di rabbia passare negli occhi di
Lainay, rabbia e anche strano riconoscimento.Sembrava che qualcosa le fosse passato
per la mente. Preferii non sapere cosa, non cercare d’indovinare. Troppo
pericoloso. “fare affari con la vostra attenta collaborazione è
stato davvero, davvero un piacere. La mia spada ringrazia!”. Oh, per poco non risi quando il suo volto si deformò in
una smorfia rabbiosa, quando lei digrignò i denti, impotente. Era legata
mani e piedi dal suo stesso lasciapassare. “fuori dai
piedi, Lsyn”. Ringhiò, facendo una strana smorfia. Rabbia forse. Non
poteva farci nulla ,però. La cosa mi
rincuorò. Sembrava capace di dilaniarci con le sue stesse mani.
“sono stanca di te, e dei tuoi deboli compari. Pensavo che tu fossi tra
le vincenti, che tu fossi davvero forte. Mi sbagliavo davvero. Non sei molto
dissimile da un umano!”. Ehi! Quella era davvero, davvero,
un’offesa grave. Quasi mi veniva voglia di torcerle il bel collo, lungo
ed affusolato, o di piantarle una spada in corpo. Ma dovevo trattenermi.
C’era il mio futuro ad aspettarmi, fuori. Per fortuna esistevano le
parole, l’intelligenza, l’arguzia. Potevo farne uso, almeno per una
volta nella mia vita. “beh…”. Dissi, in tono casuale,
guardando un allarmato Tijorn, in attesa di una mia
reazione rabbiosa, che non ci sarebbe stata. Gli feci l’occhiolino, e lo
vidi rilassarsi istantaneamente. Potevamo giocare ancora da vincitori.
“allora gli umani a cui mi paragoni saranno
davvero fieri di avermi come metro di giudizio, me, un’elfa!”. Le
sorrisi, ma più che un sorriso mi sembrò uno sfoderare minaccioso
di denti. Mi stavo trattenendo dal saltarle addosso. Lei doveva saperlo, doveva
averlo intuito comunque, perché sbiancò ulteriormente, e
arretrò un po’. Una cosa che mi fece terribilmente piacere. Era
bello vederla così sconfitta. Ci fu un ulteriore attimo di silenzio.
“a quanto pare, il tuo umorismo è peggiorato, con gli
anni…”. Ringhiò, trasformando la smorfia rabbiosa in un
sorriso altrettanto pericoloso. Ma io non avevo più paura di lei. Non
quando non poteva toccarmi. Non dovevo averne. Quel sussurro gelido non poteva
più farmi crollare ai suoi piedi. Non quando mi aveva mandata ad
uccidere a sangue freddo il mio amato, suo fratello. Non l’avevo mai
creduta capace di tanto. Dovevo rendermi conto che il mondo non era tutto
abitato da persone corrette, e, soprattutto, sane di mente. Di nuovo quel
ghigno torse la sua bocca piena. “vai, vattene pure, tradisci la tua
sovrana… cosa t’importa, in fondo? Cosa t’importa di perdere
l’occasione di essere al mio fianco per costruire un ottimo futuro?
Si… tu sei un’umana con le orecchie a punta! Solo una volta mi
è capitato di vedere un umano…ma, si, tu
sei come lui!”. Bah…roba vecchia, trita e ritrita. Chissà
chi era, l’umano da lei incontrato. Potevo solo avere vaghi sospetti.
Peccato fosse morto da un bel po’ di tempo, quasi di sicuro. Un gran
peccato. Il mio debito nei suoi confronti aumentava. Essere paragonata ad un
eroe…beh, mi stava facendo un gran bel complimento, senza nemmeno saperlo.
Quasi annoiata, resistendo al folle impulso di sbadigliare apertamente,
continuai ad ascoltarla, ascoltare i suoi inutili deliri. Era noioso. Non
vedevo l’ora di fuggire, via, via dal regno, via dal mio passato.
“stessa cecità, stessa assurda stupidità… per chi
lavori, Lsyn? Per te stessa? O per il futuro? Io sono il futuro! Avevi tra le
mani la gloria, e come quello stupido l’hai fatta scivolare via!”.
Ah. Davvero? A me il futuro non interessava, a meno che i destini dei miei
affetti non vi fossero necessariamente legati a doppio
filo. A me interessava vivere tranquilla. Tutto qui. Che la gloria, il sangue,
l’oro, se li prendessero gli altri. Volevo solo dormire, e svegliarmi
sicura, con un piatto pronto, o da cucinare, senza terrore, senza attesa. Tutto
qui. Fu per quello che risposi a Lainay con insolita dolcezza, prendendo la
mano di Tijorn, e smettendola di guardare. Cercai infatti,
con lo sguardo, i piccoli, che mi fissavano, speranzosi. Mentre parlavo,
arruffai i capelli, o quello che ne restava, a Chekaril e Roxen, e sorrisi
loro. Loro mi imitarono, timidamente. “oh no…ti sbagli, Lainay. Io
lavoro per i miei cari. Hai presente il significato, vero?”. Mormorai,
con aria distratta, mentre, la mia famigliola al seguito, mi avviavo verso
l’uscita della camera. Mio fratello mi donò un’occhiata
adorante, dolcissima, ed i piccoli si strinsero ancor di più a me. Mi
sembrò di essere un faro, un sole. Per la prima volta, mi sentii una
guida. Lì finì la mia fedeltà, il mio orgoglio deviato.
Abbandonai lì il mio passato. O almeno mi sembrò di farlo. Non
guardai per un’ultima volta la Regina, sicuramente arrabbiata, e
preoccupata. Mi soffermai solo per un attimo sulla figura di Jalim, a cui Tijorn donò un altro paio di calcetti sulla
testa mentre passava, come se non ne avesse mai abbastanza. E poi i miei occhi
furono solo per i volti tumefatti dei piccoli. Il ritrovarli fu una festa, per
i miei nervi tesi. Erano molto scossi, come d’altronde noi. Avrei preso a
tremare, ne ero sicura, non appena ci saremmo ritrovati tutti al sicuro. Mio
fratello mi stava stritolando la mano. Era lui che aveva il lasciapassare.
Doveva essere terribilmente nervoso. “tu non sei il futuro…quello
te lo puoi anche dimenticare”. Sulla soglia, mi raddrizzai, e mi voltai.
Volevo far vedere per l’ultima volta a Lainay il mio odio nei suoi
confronti. Perché, si, io bruciavo d’odio. Ardevo. Dei…la
odiavo. Era stata capace di distruggere la mia vita con un solo ordine. Ed ora,
inconsapevolmente, ne stava ricreando uno, giustamente. La giustizia aveva
fatto il suo corso. Non guardai a lungo. Il mio fu solo uno sguardo sfuggente.
Volevo avere fissa in mente la sua umiliazione, solo quello. Un balsamo per la
mia anima addolorata, per il mio corpo sfregiato. Tutte ferite di cui lei era
stata responsabile. “tu sei solo una grande pazza!”. Ed ecco. Il passo
definitivo. Così, mano nella mano con mio fratello, aggrappati a me i
piccoli per i quali avevo sacrificato tutto, anche una fuga normale, mi voltai.
Voltai le spalle al mio passato. Voltai le spalle ad un legame di
fedeltà e sottomissione, ormai definitivamente spezzato. Voltai le
spalle a quella per cui, in passato, avevo ucciso,
mentito, rubato, rapito. Me ne andai, accanto ilmio futuro, la prospettiva di una vita
tranquilla, che mai si sarebbe realizzata. Ma me ne andai, voltai le spalle ad
una Regina infuriata ed un bastardo svenuto, e me ne andai, uscendo con i miei
soli accanto. Come avevo previsto, una pattuglia ci aggredì subito dopo
aver lasciato la camera. Noi eravamo tranquilli, ed a ragione. Fu una gran piacere, una grandissima soddisfazione, ficcar loro
davanti gli occhi la prova della nostra immunità! Perché gli
elfi, sadici, bastardi, o buoni e dolcissimi, hanno chiara una cosa: ai patti
si tiene fede. Detta una cosa, fatta una promessa, non
si può più infrangere. Perciò fu davvero bellissimo vedere
i soldati arretrare, imbarazzati, e darci il via libera
per scendere. Ebbri di gioia, velocissimi, corremmo
tutti e quattro fino al passaggio segreto, senza altre complicazioni. Dovevamo
andare ad avvertire gli altri. E poi, sarebbe stata un’intera,
bellissima, volata verso la libertà!
Correvamo.
Correvamo, senza fare altro, sfiancati. Ecco dovevo immaginarlo. Non può
andare tutto sempre dritto, no? Topi in gabbia. Ratti. Ecco in cosa ci aveva
trasformati la paura. La vedevo, si poteva sentire, toccare quasi, un panico
spesso e solido, che si rifletteva negli occhi di tutti.A quegli schiocchi sordi, pesanti, lenti
come la morte che stava sicuramente per arrivare, quel rumore che mi faceva
sbattere i denti, quell’inesorabile clessidra che scandiva quel che
restava della nostra esistenza, non si poteva sfuggire. Mi sentivo i suoi occhi addosso, occhi della
Creatura. E tremavo. Si, tremavo mentre correvo, stretti a me Roxen e Chekaril.
Sentivo i loro respiri affannosi. E, di tutti gli altri, nessuno stava meglio.
Pensai a Tijorn, che correva poco dietro di me, che quasi trascinava Akita,
impacciata e piuttosto lenta, e poi Junielle, con Amarto, e Max, con le
gemelle. C’eravamo tutti. Ma nessuno poteva fuggire, nessuno poteva
scappare. Agli occhi del cielo non si sfugge. Tutto quello che avevamo fatto,
tutto quello che avevamo tentato di proteggere, sarebbe svanito, volatilizzato,
come se non fossimo mai esistiti. Il nostro sforzo, vanificato. La cosa mi
provocava frustrazione. Per colpa mia sarebbe morto mio fratello, mia figlia,
mio nipote. Per colpa della mia stupida fedeltà. A cosa serviva, a cosa
serviva, allora, cercare di redimersi? A cosa mi era servito? Come sarei potuta
anche solo esistere per un altro secondo, con il pensiero di aver trascinato
degli innocenti in un baratro senza fine? A cosa era servito rischiare la vita
per cercare i piccoli, costringere Lainay a donarci l’immunità?
Niente, assolutamente niente. La mia colpa sarebbe stata sempre lì, viva
e vicina. Pronta ad assalirmi, a tormentarmi, non colpendomi direttamente,perciò, torturandomi ancora di
più. Le nostre speranze, i miei sogni? Una vita tranquilla dai Tengu?
Futuro passato, ormai, svaporato come nebbia mattutina al levarsi del sole. Non
ero stata in grado di proteggere i miei cari. Tra poco saremmo morti, e niente
avrebbe avuto più d’importanza. Anche gli infanti, anche chi
ancora non era nato. Il lasciapassare? Buono ormai per un falò. Correre,
la nostra unica alternativa. Correre, sperando in un rifugio. Sentirsi una
preda. Non ero mai stata dalla parte del cacciato. Sempre stata il cacciatore,
il falco, il lupo, l’orso, l’aquila. Non mi era mai capitato di
finire come un cerbiatto, un passerotto, fuggire con il cuore in gola, sentire
l’alito gelido della morte dietro il collo. E la sensazione non mi
piaceva, per niente. Ma non potevo farci nulla. Non potevamo farci nulla. Il
nostro inseguitore non era compreso nei limiti mortali, nelle regole dei vivi.
L’Aberrazione. Bastava un solo sguardo per capirlo. Non era un drago. Non
era un grifone, o una qualsiasi altra creatura, immaginaria e non. Non poteva
esserlo. E pensare che eravamo partirti con il morale così alto!
Chi
avrebbe mai capito, alla nostra partenza dal passaggio segreto, la sventura
futura che stava per accaderci? Chi avrebbe mai capito di aver innescato il
processo che spense il nostro sole privato? Eravamo al settimo cielo, con quel
lasciapassare in mano che sembrava, per noi, oro colato. Ci eravamo
precipitati, io, Tijorn, ed i piccoli, nel corridoio del ritratto, in un
attimo. Il cuore mi batteva pazzamente, folle di gioia. Libertà!
Libertà! Mai più leggi, mai più obblighi, libera di aprire
le mie ali, finalmente, di poter scrivere il mio destino. Avevo ancora pagine e
pagine vuote, nel libro della mia vita, libera di poter riempire senza nessuna
mano sulla mia, pronta a guidarmi. Veder crescere il proprio futuro. Nuova
linfa si sarebbe aggiunta a quel vecchio albero rinsecchito che era la mia
anima. E, forse, sarei nuovamente ringiovanita. Le ciocche bianche, quelle
ciocche candide e grigie che percorrevano di striscio i miei capelli nerissimi,
sarebbero sparite, sparite con tutto quello che significavano, tutto il
retaggio di terrori e fatiche che avevo sopportato in cinquant’anni. Le
mie tribolazioni sarebbero finite. Io e mio fratello eravamo sembrati dei
bambini, sembravamo essere tornati infanti, mentre arrancavamo, con i bambini
stretti a noi. Avevamo preso a ridacchiare follemente, saltellando di tanto in
tanto, e, ad un certo punto, Tijorn mi aveva presa per mano, ed avevamo
cominciato a correre a perdifiato. Un piccolo accesso di pazzia, dovuta
all’incredibile felicità che ci attanagliava. Sentirsi
completamente liberi dopo trecento anni circa di schiavitù, forzata e
mascherata… beh, da’ un po’ alla testa.I piccoli, man mano che scendevamo, avevano
capito. Avevo spiegato loro, piena di lecita frenesia, baciando loro le gote
morbide, piena di affetto, che sarebbero rimasti per sempre con me, stavolta,
con la loro zia, e che saremmo fuggiti lontano, in un posto dove tutti mi erano
amici, e ci avrebbero accolti bene. Mia figlia sarebbe stata con me, per
sempre. Magari, un giorno, quando sarebbero stati grandi entrambi, avrei loro
spiegato tutta la verità, raccontato che io non ero la loro zia. Ma quel
momento poteva attendere. Ora il mio obiettivo era solo quello di portare al
sicuro due infanti feriti e tristi, tremanti ancora di dolore, ed umiliazione.
Feci di tutto per risollevare loro lo spirito, per strappargli un sorriso.
Stavolta nessuno ci avrebbe impedito di stare insieme per sempre. Avrebbero
visto la neve, per la prima volta nella loro vita, ed avrebbero conosciuto
persone con le ali, che volavano come tanti gabbiani. Per tutta risposta,
Chekaril e Roxen, senza smettere quell’aria dimessa, mi avevano
abbracciata. “per fortuna che sei qui, zia…”. Mi disse Roxen,
staccandosi, e prendendo una mano, che io strinsi forte. Cosa le aveva fatto
Lainay, per provocarle un dolore del genere, a lei, che era forte? Povera
figlia mia. Avrei fatto di tutto per farla guarire, toglierle di mente quello a
cui aveva assistito, gli orrori che aveva subito, povera piccola mia. Dovevo
essere forte per lei, solo per lei. Suo fratello le diede una gomitata tra le
costole, e mi guardò, lievemente più sveglio, ed allegro. Lui mi
stritolò l’altra mano libera. “ma io te lo avevo detto che
non era morta! Visto che ho sempre ragione?”. Aveva chiocciato,
saltellando, gli occhi ora luminosi. Tijorn era scoppiato a ridere, e gli aveva
posato una mano sulla testa, come per scompigliargli i capelli. Lui si era teso
per un attimo, forse in attesa di uno schiaffo che non sarebbe arrivato mai,
non da mio fratello. Ma poi, comprendendo che quella era stata solo una
coccola, aveva ricominciato a sorridere. Li avevo così abbracciati di
nuovo, imprecando nella mia mente per la violenza estrema di Lainay,
compiangendo suo figlio, e, nel frattempo, gioendo di averle dato
un’umiliazione così pesante, e poi avevamo ripreso a camminare.
Dopo poco i due infanti si erano lasciati prendere dal gioco, ed avevano corso
con noi, mia figlia mano nella mano con me, Chekaril invece con Tijorn. Avevo
visto, con mio grande sollievo, un lieve sorriso, appena accennato, disegnarsi
sulle labbra della piccola. Era forte, ed intelligente. Avrebbe assimilato il
trauma in pochissimo tempo, e , una volta arrivata dalla Matriarca,
l’avrei vista giocare, spensierata, con il fratellino, come faceva a
Gerinti. Mi venne in mente una piccola cosa: Andrei aveva un conto in sospeso
con me. Avrebbe portato, per non essere preso di nuovo a calci nei punti più
delicati del suo essere, i miei piccoli protetti a fare un bel volo per le
montagne. Ero certa che avrebbero gradito. Sogghignai tra me e me. Il Mastro
Artigiano non sarebbe potuto essere per niente allegro della mia ricomparsa.
Ricomparsa, per giunta, eterna, o quasi. Una cosa molto buffa. Correndo come
pazzi, avevamo infine raggiunto, in un piccolo stanzino nascosto, i nostri
compagni, decantando ad alta voce la nostra vittoria totale, sbandierando il
lasciapassare con aria trionfante. C’era stata un’esplosione totale
di gioia. Quel semplice documento era passato di mano in mano, occhi increduli
lo osservarono. Amarto scoppiò in lacrime, ed abbracciò le
gemelle, che avevano preso a fissare i piccoli con aria interrogativa. Junielle
era rimasta inattiva e passiva come negli ultimi giorni, senza cambiare
espressione, cosa che mi aveva immensamente preoccupata, ed era stata
abbracciata spasmodicamente da un Max un po’su di giri, che aveva abbandonato la sua
aria austera ed acida. Akita si era, già da quando eravamo arrivati,
precipitata tra le braccia di Tijorn, e l’aveva quasi buttato a terra,
dall’impeto dettato dall’entusiasmo, scoppiando in lacrime, e
borbottando qualcosa a proposito della preoccupazione. Ne aveva pienamente
ragione, povera elfa. I due non si erano staccati per un bel po’, ed
erano rimasti, uno la continuazione dell’altra, abbracciati strettamente,
almeno per una decina di minuti. Non andavamo di fretta: eravamo vittoriosi.
Passata la confusione e la gioia, passati i primi attimi, ci fu, per un breve
momento, la sorpresa. ChekarilRoxen si erano stretti a me saldamente, mentre venivano guardati,
specialmente da Max ed Akita, con interesse. Quest’ultima era sempre
stata tremendamente curiosa, quasi un cucciolo di cane: mi aveva guardata, con
aria stranita, e poi aveva fissato specialmente Roxen. Non era così
stupida, e lei mi assomigliava davvero molto. L’aveva vista, appena nata,
ed anche qualche mese dopo, ed aveva sempre giurato che io e lei potevamo
essere scambiate per sorelle, tanto eravamo uguali. Aveva aperto la bocca per
chiedere chissà cosa, ma l’avevo fulminata con uno sguardo, e lei
aveva capito al volo. “ma che bei piccolini che siete…”.
Aveva detto invece, con un sorriso caldo ed una voce rassicurante, chinandosi
lievemente per guardarli meglio. “come vi chiamate?”. I due si
erano stretti a me ancora di più, nascondendosi nelle pieghe del mio
mantello, intimiditi, o forse pieni di paura, e non avevano spiccicato parola.
Avevo sorriso, ed avevo posato entrambe le mani sulle loro teste, con una
carezza leggera. “su…”. Avevo detto, con una voce tenera che
quasi non mi apparteneva. Ma li amavo troppo. Quella era la realtà.
Guardai tutti, e strinsi gli occhi, come per intimare loro il silenzio. Sapevo
cosa sarebbe successo quando avrei detto il nome del piccolo. Un’omonimia
spettrale. Una somiglianza altrettanto netta. “ su, Akita cara… ti
presento la piccola Roxen, ed il piccolo Chekaril…”. Lei era
sbiancata a quel nome, ma non aveva parlato. Ci scambiammo uno sguardo, ed io
annuii lievemente. Akita strinse le labbra, e si avvicinò un po’.
“dai, piccini…forza…salutate zia Akita…”.
Entrambi alzarono di scatto il viso, sorpresi. “è tua sorella, zia
Lsyn?”. Mormorò Roxen, timidamente. Akita, accanto a lei, sorrise.
“è come se lo fossimo…ci sentiamo tutti fratelli,
qui”. Dei. Non avevo mai sentito la sua voce così conciliante. Era
davvero tenera. La prospettiva di stare per diventare madre la stava forse
aiutando a mitigare quel caratteraccio che si ritrovava. Se fosse stata la
vecchia mia nemica, in questo momento mi avrebbe risposto con una battuta di
spirito all’aceto. Invece no. Non c’era traccia di umorismo nei
suoi occhi chiari. Lei, invece, si chinò verso la piccola, mia figlia, e
le sfiorò il naso con un dito. Lei non si ritrasse, anzi:
cominciò a guardarla con maggior fiducia. Persino Chekaril si
staccò un po’ da me, fissando di sottecchi la nuova arrivata. Lei,
in fondo, era con Max l’unica estranea. Cominciai a sperare in una grande
famiglia. Le premesse c’erano, tutte. “perciò,
piccini…voglio che mi chiamiate zia...la stessa cosa per gli altri,
no?”. Attimo di silenzio. Ma già vedevo l’approvazione tra
tutti. Solo Junielle era apatica, come sempre. Mi chiesi cosa avesse per essere
così…morta. Amarto sbuffò, scuotendo il capo. “io
voglio essere il nonno!”. Asserì, con la sua voce tonante ed un
sorriso, che fece ridere tutti. Persino me. Persino i piccoli. Una grande
famiglia. Un po’ stramba, dove solo in pochi erano davvero parenti di
sangue, dove c’era anche una mezzelfa, di norma razza piuttosto
disprezzata dagli elfi, molto allargata. Ma non importava. Sentivo che non
aveva importanza. Amavo tutti, in quello scalcinato insieme, in quel gruppo
scompagnato di creature poco raccomandabili, o insospettabili. E stavolta
sapevo di essere ricambiata. Ci saremmo aiutati l’uno con l’altro.
Saremmo stati per sempre insieme. Illusioni inutili, e dolorose. Dopo un
po’ di tempo passato a crogiolarci nella nostra vittoria, nella nostra
gioia, cominciammo ad avviarci fuori. Era finalmente l’alba, l’alba
di un nuovo giorno. Un giorno libero, felice, in cui tutte le promesse
brillavano di una luce nuova. Libertà appena nata, che guardava
sorridente all’avvenire, crogiolandosi nella luce, gialla e fievole, che
rendeva tutto simile ad un sogno. Ci ritrovammo così in mezzo ad un
bosco, che, come avevo dedotto dalle cartine che avevo studiato nei miei giorni
di degenza, era alle propaggini settentrionali di Sharilar. Era nemmeno troppo
lontano dalla casetta di Tijorn, a dire la verità. A metà tra
questa ed il confine con il Matriarcato di Uruk, l’ultimo posto in cui
avevamo bisogno di mettere piede. Eravamo davvero vicini a Kyradon, davvero.
Poco più di una mezz’oretta a cavallo. Dovevamo costeggiare tutto
il confine, per entrare nelle montagne, e poi, tutto si sarebbe affidato alla
mia memoria. Poco importava se ci avesse trovati un altro clan di Tengu: le
piume che avevo legate al collo bastavano per impedir loro di attaccarci.
Avrebbero riconosciuto in me una loro amica, e mi avrebbero rispettata: facendo
così, avrei garantito per i miei compagni, ed avrei chiesto
delucidazioni sulla strada da seguire per trovare Gwen e compagnia. Il resto
sarebbe stata una passeggiata. Tutto il viaggio non ci avrebbe dovuto portare
più di una decina di giorni di viaggio. Come sfamarci, come proteggerci,
non importava. Avremmo cacciato: dannazione, eravamo o non eravamo abituati a
tutto? Era estate, e non faceva troppo freddo. Nessuno aveva, peraltro, voglia
di tornare indietro per una sortita nelle cucine. Ci bastava aver rischiato una
volta. Perciò, allegri e piuttosto incoscienti, ci avviammo,
inoltrandoci nel bosco a passo tranquillo. Nessuno aveva fretta. Non potevamo
essere toccati, in fondo. Il mio cuore viaggiava nell’aria. Camminavo, a
fianco le creature per il quale avevo lottato strenuamente per un tempo
incredibile, ed avevo le ali ai piedi. Avrei voluto cantare, esprimere la mia
gioia in ogni modo possibile, ballare e ridere. Non provavo queste emozioni da
un periodo immemorabile. Ero sempre stata così preda di dolore, pena,
tormento e vergogna continui, da non ricordare neppure come si facesse ad
essere felici. Ed, ora che lo ero, mi sembrava che mi avessero tolto un gran
macigno dal cuore. Una nuova, brevissima, alba della mia vita. In quel momento,
senza più maschera, il mio viso sfregiato che si beava dei primi, freddi
raggi di sole estivo, senza maschera, senza finzioni, con un sorriso enorme
sulle labbra, mi sentivo di nuovo pronta a vivere. Lasciati alle spalle la
malinconia dell’autunno, i rigori dell’inverno, ed i primi, timidi
sprazzi di colore della primavera, potevo rivivere la mia estate, ricca di
luce, di calore. Un’estate infinita. Se solo avessi saputo quanto fragili
erano le mie illusioni!
Accadde
dopo qualche ora. Ancora ebbri di gioia, stavamo costeggiando cautamente il
confine, ed eravamo in un punto un po’ pericoloso. I presidi non erano
lontani, ma eravamo, ancora, innegabilmente, protetti, stranamente, dal Regno.
Dovevamo solamente non essere visti. Tutto qui. Se non fossimo comparsi, a
portata dei loro archi, non dovevamo temere da loro. In sostanza, quello non
era ancora territorio del Matriarcato, e gli elfi ribelli dovevano farsi i
fatti loro. A patto, ovviamente, di stare in silenzio. Sorridevamo ancora
tutti, riscaldati dai raggi che filtravano dalle foglie verdi, federavamo
ancora felici. Come sempre nei momenti di svago, Tijorn ed Akita si erano messi
a chiacchierare, poco prima che il silenzio s’imponesse, del nome da dare
al loro piccolo. Già ci stavano pensando. E già litigavano,
scherzosamente, quasi fosse una loro sanissima abitudine. Mi divertiva vederli
così affiatati, vederelo
sguardo adorante che mio fratello indirizzava perennemente alla compagna, quasi
fosse un oggetto prezioso. Devotamente, completamente innamorato. Esistevano
poche creature così affettuose come lui, così fedeli. Mi sentii
un po’ invidiosa di Akita, che aveva conosciuto la felicità al
primo colpo, senza passare attraverso le sofferenze di un amato indifferente,
com’era successo a me. Avrei voluto tanto, tanto essere amata un
po’ di più, sapere di aver suscitato interesse in qualcuno, e
ricambiarlo. Mi mancava quel fuoco, quell’incendio che divorava il cuore,
che lo riscaldava, che dava uno stupido senso alla vita. Non avrei potuto
provare quelle sensazioni, mai più. Ero solo una stupida sfregiata,
brutta come la morte. Chi mai mi avrebbe vista non come un’amica, non
come una confidente, ma una vera e propria compagna di vita? Scacciai
rapidamente quei pensieri, che promettevano già di adombrarmi,
d’immalinconirmi. Io non potevo lamentarmi. Ero circondata di affetti, di
amicizie. Avevo dei piccoli da curare, dei fiori da coltivare, da far sbocciare
in tutti i loro bellissimi colori. Avevo un fratello che mi adorava, un
prossimo nipote da viziare. La mia vita era piena, avevo bevuto fino
all’ultima goccia di latte e miele, ed ancora me ne restavano altri
infiniti bicchieri. Avevo stretto a me i piccoli, ed avevo ascoltato, con un
sorriso, i battibecchi allegri di Akita e Tijorn. L’elfa, la mia amica,
aveva deciso di chiamare, maschio o femmina che fosse, il piccolo Machin. Un
nome, anche a mio parere, sgraziato, asessuato. Si era decisamente impuntata,
ed a nulla valevano le proposte del compagno, che sembrava, tuttavia, aver
già accettato la scelta, tacitamente. Il loro, più che altro, era
un gioco. E così avevamo riperso a camminare, allegri. Tutta la nostra
gioia era destinata a svanire presto. Nessuno se ne accorse, fino alla fine.
Stavamo attraversando una macchia di faggeti, alti e verdi, quando,
all’improvviso, avevamo sentito stranissimi rumori. Due schiocchi, come
di grosse ali, e poi un suono lontano, un invito, un sussurro dai mille toni,
che riverberò nella mia anima. Mi sembrò di tremare, tremare
all’interno. Non avevo mai sentito un suono simile. Non era umano, non era
vivo. Non lo sembrava. Pareva quasi essere uscito da me stessa, da noi stessi,
essersi materializzato come uno spettro tra noi. Un suono che mi fece
rabbrividire. Sentii la pelle accapponarsi in un modo quasi bizzarro, quasi
volesse fuggire, andare a nascondersi. Nello stesso tempo, provai una strana
sensazione di fascino morboso, un uncino che mi afferrò lo stomaco, e lo
strinse, una morsa misteriosamente calda. Non capii cosa stesse succedendo. Ma,
istintivamente, mi misi in allarme. Non potevo ancora sapere che quella cosa
sarebbe stata la nostra rovina. Tutti gli adulti si guardarono. Io fissai
Tijorn, che mi parve il più allarmato di tutti. Aveva stretto il braccio
ad Akita, e si era zittito a metà di una frase. Ci fu un momento di silenzio.
Volti che, un attimo prima, avevano riflettuto la soddisfazione e la gioia di
essere finalmente liberi, si colmarono d’apprensione. Ciascuno sentiva,
in se stesso ,che quella non era una cosa normale. Fui io la prima a parlare,
la prima a spezzare il silenzio che si era creato. Strano…il bosco era in
silenzio, come noi. Prima degli strani suoni, ci avevano circondati cinguettii
vari, e fruscii. Ora nulla. Gli animali tacevano. Più saggiamente di
noi. Qualcosa era in caccia. “cos’era…quello?”.
Bisbigliai, con una strana voce soffocata, guardando Tijorn, e stringendo a me
i piccoli. Se ci fosse stato un pericolo, mi sarei sacrificata per loro tutti.
Mio fratello guardò per un attimo in alto, e poi scosse il capo,
stringendo Akita, che lo guardò, perplessa. “non ne sono
sicuro…”. Sussurrò, palesemente pallidissimo,
mordicchiandosi un labbro. E poi, tutto fu in discesa. Ogni illusione fu
infranta. Ogni felicità, svanita. Ed io precipitai nel tormento, un
tormento da cui ancor oggi non sono uscita. Rovina, dannazione, terrore,
distruzione. Il mio animo ancora freme, nel ricordare l’abominio cui
osservammo, e che fu origine di tanto dolore, dolore ancora presente. Spense il
sole, spense il sole, spense il calore e la vita che mi erano rimasti. E, per
lungo tempo, niente fui, dopo quello, se non creatura ottusa, che donava
affetto per inerzia. Di nuovo, di nuovo, udimmo quel tremendo rumore. Stavolta
il freddo s’impadronì di me, un freddo strano, che mai avevo
provato. Innaturale. All’altezza degli alberi più grandi, ci fu un
improvviso spostamento d’aria, che avvertimmo. Un fortissimo vento che ci
spinse ad alzare tutti il capo. Per poco non urlammo. Una creatura enorme era
planata a bassa quota, per poi risalire. Sembrava, a primo acchito, un enorme
drago piumato, dalle ali come quelle dei pipistrelli, di un bizzarro ed
intenso, a quanto avevo visto, colore rosso. Non era un drago. Non poteva
esserlo. Nessun drago di cui io avevo mai sentito parlare aveva le piume.
Nessuno. Di cosa si trattava, allora? Oh…qualcosa di ben peggiore, di ben
più senziente di un rettile gigante. Solo dopo molte ricerche, ho
scoperto la reale natura di quegli esseri. Creature innaturali, nate da un
incantesimo, potente e proibito, che stacca l’anima dal corpo, dandole
forma dell’Essenza. Non ho mai trovato ulteriori informazioni, ma, a
quanto pare, si tratta di magia nera. È molto pericoloso. Perché
Tijorn conoscesse quelle cose, mi è tuttora ignoto. Non è
più possibile tornare indietro, e si rischia di dare il controllo alla
creatura nata dall’essenza, sulla ragione. E, per motivi che non vengono
mai ben esplicati, la cosa è fatale. Ma allora non sapevo. Sapevo,
infatti, solo di aver paura. Qualcosa in me, infatti, aveva già
registrato delle cose che mi sembravano sfuggite. Sentii, immediatamente, un
terrore irrazionale invadermi, lo stesso terrore che deve provare la colomba
alla vista dell’ombra d un’aquila incombente. Fummo,
improvvisamente, investiti da un’onda di uno strano profumo, dolce ed
amaro allo stesso tempo, un misto di fiori, cioccolato, neve, frutta e
cannella, che inebriava e prendeva alla gola, nel medesimo tempo. Come
pietrificati, rimanemmo per un attimo con lo sguardo verso l’altro, fino
a quando la creatura non svanì del tutto. Poi ci fu un momento di
silenzio. “dannazione!”. Imprecò Tijorn, prendendo
saldamente per mano una spaventata Akita, che era a bocca aperta per lo
stupore. Io sussultai, presa di sorpresa, e guardai mio fratello. Non riuscivo
a capire cosa stesse dicendo. “cosa…?”. Non ebbi nemmeno il
tempo di finire la mia frase. Non lo ebbi mai. “corriamo, dannazione!
Dobbiamo nasconderci! È in caccia! Ci ha puntati! Ci ha puntati!”.
Le parole di mio fratello, parole così strane, che non capii
minimamente, risvegliarono qualcosa in me. Terrore. Terrore puro. Strinsi
più forte le mani fredde dei piccoli. Nessuno si mosse. Tijorn ci
guardò, davvero spaventato. Poche volte lo avevo visto così
esaltato. “non avete capito, vero?”. Domandò, con voce
più calma. Ma non m’ingannava. Vedevo i suoi occhi guizzare,
instancabili. Era nervoso. Rese più nervosa me, facendo in quel modo.
Lui non attese le nostre reazioni, e prese a parlarci convulsamente. Ci disse,
in parole brevi, che eravamo nei guai. Fu molto vago. Disse, rapidamente, che
non era un drago, che era semplicemente…un non essere. Una Creatura, un
Abominio. Ed era più pericoloso, che era materiale come me e lui.
Bisognava nascondersi. Non lo capii, e, a giudicare dagli sguardi altrui,
nemmeno gli altri lo capirono. Ma ogni domanda fu posticipata: di nuovo, come
per farci sbrigare, la creatura passò sopra di noi, emettendo quel
bizzarro rumore. E quello bastò per farci divenire istantaneamente
isterici. Cominciammo a correre senza rendercene conto.
E
così, ci avviammo verso una direzione sconosciuta, senza più
senso né sentimento, pazzi di terrore. Fu tremendo. Ad intervalli
regolari la Creatura, mente stavamo cambiando direzione, ci spingeva verso
un'altra, sbarrandoci la strada, passandoci sopra. Stavamo facendo il suo
volere senza nemmeno accorgercene. Mai, mia più provai un terrore del
genere. Braccati. Dalla padella alla brace. Eravamo scampati ad una pazza
isterica, per finire nelle fauci di un mostro di cui, allora, non sapevo
l’origine! E tutto per colpa mia. Era quello ciò che mi ripetevo
instancabilmente. Tutta colpa mia. Ero stata io a trascinare tutti in
quell’incubo. Anche mia figlia. Anche suo fratello. Non so quanto
quell’inseguimento penoso durò. Per me furono ore, giorni, secoli,
si spensero lune, tramontarono soli, si distrussero stelle. Correvamo, spinti
dall’urgenza e dalla paura, e per noi non c’era altro. Solo terrore
cieco. Correre, correre, in cerca magari di un riparo, di una caverna dove
ripararci, per fuggire, per nasconderci come parassiti. Io ero davanti a tutti.
Pur essendo la più bassa, ho sempre avuto gambe piuttosto veloci. E
perciò fui io la prima ad entrare in un’enorme radura erbosa, che
dava su una grotta. Sospirai di sollievo. Eravamo salvi. Avremmo potuto
respirare un po’, calmarci, ed attendere che il mostro finisse di cacciare,
per fuggire nei boschi, e non ritornare più in quei luoghi maledetti.
Avevo sempre detto che a Sharilar non si sa mai quello che si trova! Ma
perché non potevamo vivere in un mondo più tranquillo? Per
fortuna che esistevano i luoghi dove poterci nascondere! Presa così da uno
strano sollievo, feci un passo in avanti, lasciando la sicura dimora degli
alberi. Non so come il mostro riuscì a nascondere il suo arrivo, la sua
picchiata. Fatto sta che cademmo in una trappola fatale. Ebbi appena il tempo
di sentire il sole illuminarmi il volto, riscaldandolo, confortandomi
l’anima, prima di sentire un tonfo sordo provenire da un punto di fronte
a me. Una trappola. Era quello che la cosa voleva. Ne fui sicura, subito. Forse
i piccoli urlarono. Forse no. Quello che so, è che la creatura mostruosa
che ci sbarrò la via della felicità mi fece gelare. Mi
guardò, con le sue orbite vuote. Non capii più nulla. Mi
sembrò di essere, al cospetto di quel mostro bastardo, che ci aveva
sicuramente attirati in una trappola, completamente vuota. Inesistente. Ero
infinitamente piccola, ed infinitamente grande. Tutto, e niente. Non so
spiegare cosa provai alla vista di quel coso impossibile, quell’abominio,
quell’aberrazione. Perché tale la avrei definita, se fossi stata
normale. Ma, in quel momento, mi pareva terribilmente affascinante. Un incanto.
Mi aveva incantata? Qualcuno, dietro di noi, sibilò. Un sibilo di
terrore. Sentii mormorare il mio nome. Ma ormai non pensavo più a nulla.
Ero totalmente, irrimediabilmente incantata da quella creatura bizzarra. Era
me, era Tijorn, era tutto il mondo. un mare di scelte si stendeva dinanzi a me,
sottoforma di orrida creatura. Di nuovo, quella folata di strano vento
profumato, che mi fece fare un passo in avanti. Quella cosa, per me, era la
redenzione, vero? Era per qual motivo che ero stata davanti a tutti, no? Era un
mostro bizzarro. Alto come il più grande degli abeti, aveva un lungo
corpo da rettile, coperto da fini e sottili piume carminio, con lunghe ali
listate d’osso, che sembravano fiamme vive. Erano chiuse, ora, e
risplendevano di tutti i toni dell’arancio, del viola, del bruno,
dell’oro, del rosso. Aveva una coda, lunga e robusta, che terminava in un
lungo aculeo scuro. Quel maledetto aculeo. Lungo tutto il dorso correva una
meravigliosa criniera cremisi, di quelli che mi sembravano fili di fiamme
scure. Le zampe, lunghe e solide, dotate di tremendi artigli, erano
scompagnate: le anteriori avevano tutta l’aria di essere quelle di un
uccello, le posteriori di un felino. Ma il muso…il muso mi avrebbero rivoltata,
se fossi stata in condizioni normali. Si appoggiava al lunghissimo collo
piumato, incongruo e terribile. Rabbrividisco al solo ricordo di
quell’orrore. Sembrava il cranio essiccato di un rapace, ricoperto di
quello che mi pareva bruno cuoio vecchio. Le orbite erano totalmente vuote:
nemmeno una luce, niente. Solo vuoti abissi. Sembrava un cadavere ambulante, lo
ammetto. Il lungo becco ricurvo era aperto, e dalla parte inferiore penzolava
una lunghissima lingua scura, simile a quella dei serpenti. La creatura non si
muoveva. In un lampo, notai qualcosa, sul suo dorso del mostro, qualcosa che si
mosse improvvisamente. Il coso non era solo. Mi sentii tirare indietro. Ehi!
Perché mi toglievano da quella visione divina? Ero definitivamente
andata, fino a quando sentii, netti, due schiaffi sul mio viso. Pian piano,
riguadagnai contatto con la realtà. Ero di nuovo al sicuro, nel bosco,
lontano dagli imbrogli del mostro. Mi sentii assalire dal freddo, e
dall’orrore, dalla sensazione che qualcosa d’innaturale era
all’opera, e tremai. Mi ritrovai davanti il volto preoccupato di Tijorn.
Gli sorrisi debolmente. Come mai era lì? Dopo un attimo, tutti i
ricordi, fortunatamente tornarono, ed io m’irrigidii. Il mio sguardo
guizzò per un attimo verso il mostro, ed allora provai quello che dovevo
provare. Era un essere ributtante, ed anormale. Il volto di tutti era
cadaverico. Mi sentivo confusa. Avevo uno strano ronzio in testa. Scrollai il
capo, la testa leggera. La sensazione di trovarmi nel posto sbagliato diminuì.
“ma cosa diavolo…”. Dissi, barcollando un po’. Non
riuscivo a stare bene in piedi. Tijorn mi guardò, serio e pallido.
“ti ha soggiogata. Non guardare il nirimis’giroth negli occhi”.
Una strana smorfia gli storse il viso, mentre sbirciava tra le foglie. “o
almeno, nelle orbite. Bastardo…”. Mi sentii meravigliata. Cosa significavano
quella parole? Si possono tradurre come manifestazione
dell’essenza. Non c’entrava nulla. Quella era una creatura viva
e vegeta come noi! Ma perché non ne avevo mai sentito parlare? Troppo proibito,
troppo tremendo per parlarne, lo so. E quella non era viva. Era solo una
proiezione. Una proiezione piuttosto pericolosa. Invulnerabile…a meno che
il compagno fisico non venga colpito. Ed il compagno non poteva essere lontano
dall’essenza, impossibile starne lontani: dov’era quello del
mostriciattolo? Trasalimmo nel sentire una voce stranissima. Qualcuno di umano
si era affiancato alla cosa, che non reagiva, non l’attaccava. Una strana
figura vestita d’oro, con lunghi abiti dorati, dalle larghe maniche. Un’elfa,
un’elfa dai lunghissimi capelli rossicci e scompigliati, e dalla pelle
pallida. Gli occhi…beh. Mi sarebbe piaciuto scappare, per quello che
vidi. Perché gli occhi erano tremendi. Aveva belle iridi castano
intenso, dalla strana espressione fissa e vuota, come persa in un proprio mondo
di perversa follia. Ma c’era qualcosa
che permeava tutto l’occhio, che quasi lo copriva. Una sorta di altra
pupilla gelatinosa, di colore giallo intenso, che guizzava da una parte all’altra,
instancabile. Tijorn imprecò. “maledizione!”. Bisbigliò,
fissando la creatura, che si era fermata poco avanti al mostro, ed aveva aperto
le braccia, in segno di benvenuto. “non è in sé…”.
Sobbalzai. Mio fratello sembrava sapere benissimo cosa stava succedendo. Lo guardai,
meravigliata. Ancora oggi mi è rimasto impresso quel momento, un momento
in cui lui dimostrò di avere conoscenze un po’ troppo pericolose,
di sapere davvero troppo. Eppure lui non era uno stregone potente. Non molto, almeno,
per un elfo. Conosceva troppo bene la magia proibita. La cosa non mi piaceva. Ogni
domanda fu poi cancellata nel momento esatto in cui l’elfa aprì
bocca. “tesoro tesoro!”. Cinguettò, con una voce di qualche
tono troppo acuta, decisamente innaturale, un tono che mi fece rabbrividire. Vidi
la pelle d’oca sul braccio teso di Tijorn. No: non era normale. Era tutto
troppo orribile per poterlo descrivere. “perché vi nascondete? Venite
a parlare con noi!”. Ci fu un momento di silenzio. Vidi una stranissima
luce negli occhi di Tijorn. Un’espressione che non mi piacque. Non mi
piacque per nulla. Lui si girò verso di noi. Gli avevo già visto
impressa quell’espressione. aveva deciso di fare qualcosa di molto
pericoloso. “io vado”. Mormorò, con voce sommessa. Sia io
che Akita ci muovemmo nello stesso istante. No! No! Che gli passava per la
testa? Fui invasa dalla preoccupazione, e dalla rabbia. Ma non si rendeva conto
di quello che stava pensando? Era troppo pericoloso! Lui non avrebbe fatto un
passo. La mia amica, con un salto, prima che lui potesse finire, gli si era
incollata addosso, senza parlare. Dichiarazione muta d’immobilità.
Se solo mi avesse lasciato un po’ più di spazio, l’avrei
imitata. Mi avvicinai così ai due, e mi piantai di fronte a Tijorn, che
non stringeva la compagna, ma guardava, nello sguardo la determinazione, avanti
a sé. “tu…tu non vai da nessuna parte!”. Ululai, ringhiando.
Non doveva permettersi. Lui era padre. Non doveva fare quei colpi di testa. Lui
aveva un figlio a cui pensare, un futuro roseo. Voleva distruggerlo,
distruggere tutti noi. Stupido eroe. Cosa diavolo pensava, di sopravvivere? Avevamo
tutti visto di cosa era capace il coso, e ne avevamo avuto la prova materiale. M,io
fratello mi guardò, disperato. Poi strinse forte Akita. “io devo,
Lsyn…io so cos’è!”. Gemette, guardandomi, pieno di
determinazione. Eh, no. Non si sarebbe azzardato. “e non mi guardare
così…io devo andare, io devo… lui…loro cacciavano, sono
in cerca di cibo e di anima… non posso lasciare un abominio del genere in
giro!”. Eh, n. mio fratello non doveva pensare cose del genere. Come mi
sarei sentita io, se lui fosse morto? Come avrebbe allevato il bambino Akita? Si
rendeva conto delle sciocchezze? Da solo non ce l’avrebbe mai, mai fatta!
Saremmo tutti morti senza la sua compagnia. Tutti. Ed io più di tutti. E
forse fu per quello che l’aggredii malamente, stringendo i pugni per non
picchiarlo. Stupido eroe. “ti ucciderai, Tijorn, ti ucciderai! Hai visto
com’è forte, quella creatura? Più di te, di sicuro! Da solo
non ce la farai mai!”. Un’idea mi attraversò la testa. Potevo
aiutarlo. E fargli da scudo nel caso fosse stato nei guai. Un conto era far
morire me, che non avevo nessuno, a parte due piccoli che speravo di saper
curare, ma che avevo io stessa strappato alla pace. Un altro era far morire un
futuro padre di famiglia, affettuoso ed amato da tutti. Io avevo ancora molti
conti aperti con la vita. Lui era un elfo felice, e non meritava di morire. Non
lo meritava. Lo amavo troppo per farlo soffrire, per negargli quello che era
stato negato a me. Così proseguii, isterica. “vuoi andare? Vuoi? Ma
non lo farai senza di me, fratellino! Non provare ad attaccare quel coso da
solo! Io vengo con te!”. Si: insieme. Insieme, sempre e sempre. Per sempre.
Insieme nell’infanzia, nella giovinezza, nel dolore e nell’allegria.
Ed insieme anche in quella missione. Lui mi guardò stranito. Nei suoi
bellissimi occhi grigi, quegli occhi che mi pacificavano, passò un lampo
che non riuscii ad identificare. Ci fu un momento di silenzio. Io mi sentii
tesa. Se non avesse accettato…beh…avremmo trovato un altro modo per
fuggire. “dobbiamo proteggerli, Lsyn”. Mi disse, stringendo
dolcemente Akita. Era deciso. Insieme, ancora una volta. Annuii, e strinsi le
labbra. Un cupo trionfo scese su di me. La mia amica prese a tremare, ed
ululò. “no! No!”. Gemette, stringendosi così forte
che sembrò volersi fondere all’amato. “no! No andate! Vi ucciderà!
Andate via! Scappiamo!”. Mentre lui sussurrava paroline dolci nell’orecchio
di Akita, per confortarla, io mi girai verso i piccoli, e soffiai loro un
bacio. Erano con Amarto, Manolìa e Nysha, e mi guardavano, con occhi
sgranati. Mi fece una pena immensa vederli. Se solo li avessi guardati un altro
po’, avrei rinunciato alla mia missione quasi suicida. Perciò mi
girai verso la radura, tirando un bel respiro. Più velocemente si
faceva, meno doloroso era per tutti. Guardai Tijorn. Lui annuì
brevemente, poi guardò fisso Akita. “amore mio…”. Sussurrò,
asciugandole le lacrime che cominciavano a correre copiose dal suo volto. Mi fece
una pena immensa. Forse era davvero un bene, non amare. “tornerò,
te lo giuro. Lasciami andare. Sarò vivo e vegeto, non preoccuparti…rimanete
qui, spostatevi solo un po’…per non vedere. Ehi…non piangere…”.
Lui le prese il volto tra le mani, e si fece guardare negli occhi. M’imbarazzò
vedere quello che vidi, ma ero troppo impegnata a fare cenni spasmodici a
Tijorn, per andare. Segni che lui ignorò, troppo preso a consolare la
sua piangente compagna, con voce tenera, e consolante. “non piangere…ti
prometto che tornerò, vivo e vegeto. Sennò come litigherai più
per i nomi del piccino, eh?”. Lei ridacchiò, una risata stentata e
tremula. E fu allora che Tijorn la baciò, un bacio tenero, indugiante,
che sapeva d’addio. Scostai lo sguardo, e mi avvicinai alla radura. Le creature
erano ancora in attesa, il mostro, e l’elfa con i quattro occhi. Sentii un
singhiozzo, ed un gemito più forti. Tijorn doveva aver lasciato Akita. Ed
infatti, dopo pochissimo me lo sentii accanto. Lui mi prese la mano destra,
come quando eravamo bambini, e lui aveva paura del buio. Ed il nostro era un
salto nel buio, il salto verso un mostro sotto il letto che esiste, e fa male. Entrambi,
con quella libera, stringemmo le nostre armi. L’ultima missione insieme. Dovevamo
essere coraggiosi. E vivere per i nostri cari. Facemmo un passo in avanti. In quel
momento, svuotai la mia mente da ogni pensiero. Tutto quello che ricordo fu il
battito del mio cuore, e le parole dell’elfa pazza. Mi concentrai per il
combattimento, mano nella mano con il mio amato fratello. Il volto pallido dell’elfa
si illuminò, quando noi entrammo nella radura. Fui per un momento
accecata dalla luce del sole, ma poi notai che il mostro era rimasto lì,
inerte, mentre l’elfa aveva girato la testa, in un modo innaturale,
torcendola quasi fino ai limiti dell’impossibile, come se avesse il collo
più lungo del normale. Sentii Tijorn schiarirsi la voce. “ebbene,
ebbene, ebbene…”. Cinguettò la pazza, sorridendo, gli occhi
castani fissi, quelli gialli, spettrali, guizzanti. Sentii un brivido di paura.
E Tijorn mi strinse forte la mano. “eccovi qui… finalmente! Che begli
elfetti che siete…”. Fremetti. Non sapevo perché, ma quelle
parole suadenti mi mettevano addosso una gran paura. Strinsi di più la
mia spada, per darmi coraggio. Mio fratello mi stritolò la mano. Uno sguardo
mi fece capire che anche lui stava morendo di paura. Ma si stava contenendo. Accidenti.
Non cera mai pace, per noi. Pregai ogni dio esistente che ce la mandasse buona.
“chi sei, o Abominio che percorri l’etere?”. Disse Tijorn,
con una strana voce solenne. Sembravano parole già costruite, formule
che preludevano a qualcosa. Ed io sapevo cosa. Un duello, di cui solo due
sarebbero risultati i vincitori. E vidi, infatti, l’elfa sobbalzare, e
digrignare i denti. Cosa molto strana. “tu…tu ci conosci!”. Sibilò,
torcendo il collo dall’altro lato. Rabbrividii, di nuovo, ed abbassai lo
sguardo, per non fissarlo sulla creatura che l’elfa aveva a suo fianco. Avevo
timore di essere di nuovo soggiogata. E stavolta mi sarebbe stata fatale, una
simile imprudenza. “vuoi sapere cosa siamo? Ebbene…”. Uno strano
sorriso si disegnò sulle labbra sottili dell’elfa, sottili ed
esangui. Lei era morta. Mi sembrò tale, in quel momento. Una marionetta.
“noi siamo…noi siamo la manifestazione d’essenza, cari, e d’esistenza.
Ciò che siamo è ciò che sembra che siamo. Due, e uno, e
uno, e due”. Bah. O era pazza, o stava parlando in un altro modo rispetto
a noi. Non avevo capito nulla. Forse erano davvero solo parole vuote, che non
significavano altro che: dite quello che
volte, facciamo tanti preamboli, poi vi ucciderò. Tijorn sospirò. Ci fu un momento
di silenzio, poi lui riprese la parola. Si: vane frasi, solo puro galateo. Bah.
Io, da parte mia, avrei già infilzato il mostriciattolo con la spada,
senza ante leccate. Cose così. Non ho mai amato le moine cortesi. Tanto sempre
da una parte si va a parare. “perché, o voi, ci date la caccia?”.
Domandò, con la stessa voce modulata. Bah. Decisamente, decisamente un
coso strano. L’ignoranza è una bruta bestia. L’elfa prese a
camminare, avvicinandosi elegantemente alla creatura, come se le parole di
Tijorn non l’avessero minimamente scalfita, e, una volta vicina alla
spalla del mostro, saltò sul dorso con un balzo agile, sistemandosi come
se quella, tra le scapole, fosse la sua posizione naturale. Il coso non si
mosse ancora. Difficile stabilire chi fosse la marionetta di chi, ora. “non
abbiamo forse il diritto di calcare il suolo e solcare i cieli, come e
più di voi?”. Domandò poi la voce mielosa. Lontana. Dei…mi
dava fastidio. Mi mossi leggermente. Tijorn mi strinse la mano, per dirmi forse
di pazientare. “non è tutto nostro dominio, forse? La domanda…la
caccia…la faremo noi a voi, perché è qui che cacciamo!”.
Tijorn fremette. Capii, da tutte quelle parole insensate, una cosa. Il duello
era vicino. Sentii uno strano rimescolio al pensiero. Lui, mio fratello,
cercò di parare un po’ il colpo, di salvare il salvabile, ma
fremette ancora, e parlò con voce meno limpida. Tolsi la sicura alla
spada. Dovevamo essere il più veloci possibile. “noi veniamo in
pace!”. Esclamò, in tono di supplica. L’elfa nascosta rise,
ed a lungo. Rise pazzamente, una risata strana, sospirosa. “ma noi non conosciamo
pace!”. Ghignò, dopo essersi calmata. Si, non mi sbagliavo: c’era
una sottile vena d’aspettativa, di sadismo e di voglia di sangue, ora, in
quella voce allegra. “per noi esiste solo un immenso terrore, e
distruzione. Agli occhi del cielo noi siamo i Diversi, i Divisi. Diversi, e
grandi nella loro diversità. Siamo due, voi siete due. Cosa vuoi,
allora?”. Di nuovo mio fratello sospirò, e sguainò la sua
arma. Dopo un attimo, lo imitai. Avevo il cuore in gola, fatto contribuito dal
momento in cui lui mi lasciò la mano,ve si staccò lievemente da
me. Ci guardammo, e lui fece uno strano gesto. Un gesto da Spie. Lo attaccherò da dietro, tieni la
posizione. Voleva dire. Io annuii, e lui si girò nuovamente, di
nuovo, sentii l’eccitazione impadronirsi di me. Di nuovo, eccomi a
giocare a dadi con la morte. E non ero mai stata così vicina ad essa,
all’annichilimento totale. Forse davvero le andavo a cercare. “allora
io mi arrogo il diritto di duello!”. Tuonò Tijorn, mordendosi
forte la labbra. Strinsi il pomo della spada di Eiron, mettendomi in guardai. Lo
stesso fece lui. Di nuovo quella risata maleficamente dolce. “e duello
sia!”.
Poveri noi, che fummo tanto pazzi da duellare con quel mostro feroce
Poveri
noi, che fummo tanto pazzi da duellare con quel mostro feroce! Perché?
Perché lo facemmo, ci lasciammo così tanto tentare dalla sorte?
Tremo, mentre rammento quei momenti convulsi. Tremo, perché rammento la
sventura che seguì quella frase ghignante. La parabola discendente di
quei brevi attimi che la felicità ci aveva concesso. Eravamo sfortunati,
sfortunato il giorno in cui eravamo nati noi tutti! Perché non
aspettammo un poco, perché non restammo nel bosco, dove il Diverso, dove
l’elfa pazza non poteva arrivare? Perché lì, oh si,
lì si consumò la vera e propria tragedia della mia vita. Un colpo
così duro da poterlo a stento sopportare, da far divenire una vita
intera un insieme casuale di cose e fatti, di nessuna importanza. Sapevamo,
già allora, di stare giocando d’azzardo, con un prezzo molto,
molto alto. Chissà, forse non c’importava, o forse avevamo
qualcosa di più grande da proteggere. La nostra famiglia. Io e Tijorn
eravamo gli unici capaci di farlo davvero. Essa era l’unica speranza che
ci rimaneva, l’unica cosa che c’impedì di fuggire come
conigli spaventati, da quella grande radura contornata di alberi. Ci eravamo
arrogati il diritto di sfida, li avevamo sfidati. Non sapevo se, in caso di
sconfitta, il nostro avversario avrebbe accettato solo uno di noi come vittima
sacrificale, o forse no. Non importava. Ero più che decisa a salvare la
vita di mio fratello ad ogni costo. Lasciarlo morire era fuori discussione. Non
avevo nessun diritto di agire come la mano del destino, di dare acqua al mio mulino.
Ma ci avrei provato, in ogni modo possibile. Tesi così i muscoli,
l’eco del mio cuore che rimbombava nel petto. Tijorn si mosse lievemente,
indietreggiando di un passo, senza perdere di vista il mostro, che non si era
ancora mosso. Era rimasto lì, in silenzio tombale, senza modificare posizione, fermo come un pupazzo abbandonato. Sembrava
innocuo, solo un’orrida statua, messa lì per puro caso. Vedevamo
l’elfa dall’abito d’oro, protetta dal lungo collo della sua
anima, cominciare a muoversi febbrilmente, indossando uno strano elmo
scintillante, quasi una maschera, dorato come il resto
dell’abbigliamento, a forma di testa di drago, un obbrobrio che lasciava
scoperti solo gli occhi per mezzo di due buchi. Vidi chiaramente ogni
procedimento. Allo stesso modo, s’infilò due guanti di tessuto
lucente, e prese una strana arma da chissà dove, probabilmente un punto
che noi non riuscivamo a vedere dal basso, una lunga lancia robusta, dalla lama
strana, a forma di fiamma, forma che mi ricordò il lungo coltello di Jalim.
Tirai un bel respiro. I giochi erano prossimi dal cominciare. Beh….la
cosa mi provocava un sentimento misto tra preoccupazione ed eccitazione pura,
un brivido che mi rendeva i movimenti più fluidi, la vista più
acuta, che correva fino alla punta dei piedi, e mi faceva rizzare i capelli.
Era tanto che non provavo l’ebbrezza del combattimento. Feci,
rapidamente, due calcoli. Due elfi, due Spie ben addestrate, contro
un’elfa fuori dalla nostra portata, ed un
bizzarro essere, un miscuglio orrido e scheletrico di varie forme. Eravamo in
netto svantaggio. Se solo avessimo avuto degli archi… Chissà se il
coso si poteva ammazzare con mezzi normali. Avevamo bisogno della magia, o cos’altro? Per un attimo, ripresi a guardare Tijorn.
Lui ricambiò mestamente il mio sguardo, e mi sorrise, come a dire di
volermi bene, nonostante tutto. Ebbi un brutto presentimento. Sembrava che mio
fratello si stesse congedando dal mondo. che cosa gli
stava passando per la testa bacata che si ritrovava? Quale azione eroica?
Sentii le mani divenirmi a poco a poco insensibili, mentre l’avversario
ancora si preparava. Sperai solo di non dover fare salti mortali per impedire a
quel pazzo che mi stava acanto mi suicidarsi. Aveva
così fretta di abbandonare suo figlio, la sua compagna, una vita felice?
Feci una smorfia a quei pensieri. In fondo, io non potevo parlare. Non quando
mi ero conficcata una spada in corpo. “non provare a fare bravate,
fratellino”. Gli sibilai, guardandolo, con astio. Per un attimo,
esistette solo lui. Errore fatale. Persi completamente di vista il mio
avversario. Ero troppo preoccupata. Non volevo che Tijorn morisse. Sarei morta
anch’io, se solo fosse malauguratamente successo. E la possibilità
mi faceva gelare il sangue. Mio fratello. Morto, bianco, freddo. Immobile. Era
davvero troppo. Deglutii per scacciare l’orrido pensiero. Lui scosse la
testa, ma il sorriso si allargò, sembrando un ghigno tragico. “non
ne ho intenzione”. Sussurrò. Stringendo forte la lama, ed
abbassando il viso. Un gesto che non mi piacque. Lo conoscevo troppo bene.
C’era qualche inghippo. “tieni la posizione, distrailo. Fai tutto
quello che è in tuo potere, ma non far arrabbiare il nirim. Non colpirlo troppo forte. Tanto
non sentirebbe comunque nulla”. Sobbalzai, presa di sorpresa totale.
Dannazione. Ci eravamo davvero infognati in una situazione schifosa. Non ne
vedevo l’uscita. Come uccidere, come ferire una creatura invulnerabile,
in fondo solo una proiezione troppo materiale? Non ne avevo la minima idea.
Tijorn si morse troppo forte le labbra, e vidi chiaramente uscire una piccola
goccia di sangue. Doveva essere nervoso quanto me ,se
non di più. In fondo, lui aveva la precisa idea dei limiti e delle
possibilità del coso, e del suo cavaliere dorato. Provai una subitanea
fitta di dolore, al pensiero di Akita che l’aspettava ansiosa, nel bosco,
al sicuro, aspettando di vederlo tornare, vittorioso o perdente,
ma illeso. La decisione di proteggerlo ad ogni costo si fece più
pressante.Avrei dovuto spiarlo,
spiare ogni suo movimento, ed accorrere quando si sarebbe messo nei guai. E,
come stavano procedendo le cose, ero sicura che sarebbe successo presto. Dovevo
distrarre il mostro, evitando di strafare, e tenere d’occhio mio
fratello. C’era da sperare di arrivare almeno viva fino a metà
scontro. Lui sospirò, è guardò avanti. “io
cercherò di colpire la nalim.
È l’unico modo per uscire vivi”. L’esistenza,
l’elfa. Il brutto presentimento si trasformò in certezza. Era
troppo difficile. Si sarebbe dovuto arrampicare, o chissà quale altra
diavoleria. E non stavamo combattendo contro un idiota, questo era sicuro.
Sperava di vivere? Di fare l’eroe? Cosa gli passava per la testa? Lui,
elfo felice, perché non si affibbiava il compito meno pericoloso,
cioè il mio? Perché nolasciava che fossi io a compiere il lavoro
sporco? Cercava di proteggermi? Mi sentii impallidire, e, contemporaneamente,
m’invase l’irritazione. D’accordo, io l’avrei protetto,
ma mi avrebbe dato davvero fastidio se lui si fosse cacciato volontariamente in
qualche vespaio. Perché quella che doveva morire ero io, non lui. Sperai
non si portasse dietro troppi sensi di colpa. Avvertii uno strano movimento, un
fruscio. Ma non me ne importai, e, ignorando l’avversario, mossa molto stupida “no! Tu non farai niente
del…”. Fu un momento. Prima ancora di riuscire a finire la frase,
il nemico colpì. A lui andava il primo attacco. Nello spazio libero tra
me e Tijorn piombò dall’alto, improvvisamente, la fine
dell’enorme coda del mostro, piumata, e munita del lungo aculeo. Dalla
punta dell’impropria arma, curva, quasi piegata verso l’interno,
sprizzarono alcune goccioline trasparenti. Ottimo. Il coso era pure velenoso.
Perfetto. Feci, istintivamente, un salto indietro, per fortuna, ed evitai per
un pelo di essere toccata da quel liquido malefico. Mi girai in un lampo verso
il nostro nemico. Il mostro si era mosso, e ci guardava, con aria malefica
dalle sue orbite vuote, che io evitai accuratamente di fissare. Aveva chiuso il
becco, e sembrava stranamente vivo. E molto, molto più pericoloso. Sul
corpo magro guizzavano, in bella vista, i muscoli. Era piegato in un modo
strano, quasi raggomitolato, le fantastiche ali colorate, semiaperte. Potevamo
vedere l’elfa, il cavaliere, in bella vista, la lancia pronta.
“attenta!”. Disse Tijorn, prima che la coda, con un guizzo, si
muovesse di nuovo. Non era il momento di fare calcoli, né di pensare. In quel momento persi di vista mio fratello, e tutti i miei
pensieri furono concentrati sul modo migliore per salvarmi la pelle. Almeno per
un altro po’, per salvarla a Tijorn stesso. Sperai che se la stesse cavando. A spada sguainata, corsi verso sinistra,
il mio lato libero, ed il coso si girò con me, con un suono strano.
Dannazione. Era maledettamente veloce. Stava stranamente ignorando Tijorn. O
forse aveva risorse che io non conoscevo. D’accordo. Era venuto il
momento di fare un po’ di casino. Mi ritrovai sovrastata dal capo
scarnificato del mostro, che mi fissava, o forse stava attendendo qualcosa.
Aveva l’aria di divertirsi molto. Stava giocando con il cibo, lo sapevo.
Per fortuna eravamo due. Sentii un’onda di vaga disperazione assalirmi,
mentre alzavo la spada verso l’enorme becco aguzzo, e sogghignai.
“ehilà, mostriciattolo!”. Dissi, ridacchiando pazzamente.
Potevano essere le mie ultime parole. Uccidi
solo me, uccidi solo me, lascia stare Tijorn. Era la cantilena che mi
ripetevo senza sosta, disperata. Avevo paura. E molta. Ero di fronte a tutti i
miei peggiori incubi, messa di fronte alle mie paure, da sconfiggere. O da
accogliere. Questo non lo sapevo. “scommetto che non ce la fai a
prendermi eh?”. Deglutii, e poi tirai la frecciata che mi avrebbe potuto
trascinare nel buio in un attimo. “vero, brutto ammasso di lardo e
piume?”. Ero pronta. Pronta a farmi attaccare, a far concentrare
l’attenzione su di me, ad ogni costo. Ed il mostro accolse, lui accolse
la mia sfida. Aprì il becco, in un attimo, emettendo un suono stridulo
quanto innaturale, e, con un guizzo in avanti da serpente, si gettò
verso me, pronto a dilaniarmi. Io fui più veloce di lui, però.
Con un balzo, mi scostai di lato, ad un soffio dal muso, che morse la terra.
Fremevo di terrore, il terrore più puro mai provato da una creatura
vivente. Era troppo forte. Troppo. Solo la sua testa era grande quanto me. Per
lui ero solo un assaggino.Chissà cosa stava facendo Tijorn.
Sperai se la stesse cavando meglio di me. Mi sentivo
impacciata, resa impacciata dallo stesso terrore. Strinsi forte la spada, tanto
da farmi quasi male, e feci una mossa che mi sarebbe potuta costare il braccio,
o tranquillamente la vita. Con un fendente cercai di colpire il triangolo di
pelle tra le orbite ed il becco. Invano. La mia spada non incontrò
nulla, nemmeno la minima resistenza. Sembrò passare attraverso
l’aria. Ed il coso non si smosse minimamente. Mi assalì il gelo.
Oh, dei. Non era giusto. Era innaturale.
Ed impari, soprattutto. Ecco perché non indossava alcuna armatura. Non
ne aveva bisogno. Lui poteva colpire me. Io non potevo nemmeno fargli un
graffio. Non era divertente. Non era per niente divertente. Di nuovo, il
mostro, con quel grido sospiroso che parlava direttamente alla mia anima,
facendole provare la paura più pura, la paura della preda davanti
all’astuto cacciatore, alzò il muso da terra, e cercò di
colpirmi di nuovo. Io mi spostai, e lui mi seguì con lo sguardo, dondolando
il collo come un serpente. Poi colpì, ed io mi spostai. La scena si
ripeté più volte. lui cercava di farla
finita, io mi muovevo, e cercavo di colpirlo. Mi sentivo finita, finita, in
quel orrido momento convulso. Il mio pensiero era tutto per Tijorn. Dovevo fare
in modo che lui riuscisse nel suo intento. Cominciavo, però, ad essere
stanca. E dovevo andarci piano. Non potevo permettermi d’irritare la
bizzarra creatura. Se la sarebbe presa con Tijorn, altrimenti. O mi avrebbe
fatta a pezzi anzitempo, prima che lui fosse riuscito a salire sulla sua
groppa. Era un peccato avere la vista occupata dall’immensa mole del
mostro. Non riuscivo a vedere cosa stava succedendo, dove si era andato a
rintanare mio fratello, per sfuggire all’elfa, che chissà cosa
stava facendo. Era palese il loro gioco. Lei si sarebbe occupata di Tijorn. Lui
di me. Semplice. Guardai con preoccupazione il mostro. Ci eravamo girati, ed
ora eravamo esattamente nel punto da cui eravamo partiti, di nuovo, da cui
eravamo usciti dal bosco protettore. Avevo il respiro affannato, e quasi non
riuscivo a prendere fiato. Quel gioco mortale, quel balletto assurdo, mi stava
sfiancando. Ed era proprio quello che il mio avversario stava aspettando.
Sicuro come la morte che sarebbe arrivata presto. Lui si stava spazientendo.
Scuoteva il capo implume, infastidito, come da una mosca, ed emetteva brevi
gridolino, attaccando con ferocia e velocità sempre maggiore. Avevo
anche intravisto mio fratello, che si muoveva, furtivo, tra gli alberi. Stava
raggiungendo la parte posteriore del mostro. Un paio di volte lui l’aveva
intravisto e, lasciando per un attimo me a riprendere fiato, si era girato, ed
avevadato
un forte colpo di coda, nella speranza di prenderlo. Non lo stavo interessando
abbastanza. Dovevo dargli un’ulteriore possibilità. Dovevo quindi
cambiare strategia, ed in fretta. Guardai, sempre più stanca, il ventre,
rosso e piumato, che stava a poca distanza da me. Ci poteva passare
tranquillamente, sotto, un uomo di media statura. Io ci arrivavo solo con la
punta della mia spada. Però ci passavo benissimo. Quello era un
suicidio. Osservai con ansia le zampe possenti, dai grandi artigli, e valutai
le possibilità. Potevo farlo impazzire un altro po’. Sospirai.
Beh…dopo di quello, potevo dire addio al mondo. Sperai che Akita e Tijorn
si prendessero bene cura di Roxen e Chekaril. Chissà, fosse nata una
femmina avrebbe avuto il mio nome. Ora non importava. Gridai, e, brandendo la
spada sopra di me, mi lanciai sotto il miscuglio, prima che lui capisse le mie
intenzioni. “ora voglio vedere come fai!”. Urlai, stuzzicando,
arrivata a destinazione fortunatamente incolume, le costole del mostro con la
punta della spada. Mi sembrava di colpire il nulla ma,
a quanto pare, la mia provocazione stava sortendo il suo effetto. Con un urlo
acutissimo, che mi fece dolere i timpani per un bel po’, il mio
avversario s’impennò lievemente, e cercò di arrivare a me
grazie al suo lungo collo, agitando le zampe con furia. Cominciai a muovermi,
fastidiosa e rapida come un’ape, una vespa, con il respiro sempre
più affannato, in tondo, evitando, molto spesso per un pelo, di farmi
colpire da qualche arto, o dallo stesso muso. Avevo catalizzato
l’attenzione del coso, e, chissà, magari Tijorn era già su.
Ma ero stanca. Ero diventata sempre più lenta, e schivare i colpi era
divenuto sempre più difficile. I miei riflessi si erano sopiti, ed io
cominciavo ad avvertire le prime avvisaglie di un collasso. No! Non potevo
permetterlo, non ora! Sarei morta, e la cosa non m’importava, ma Tijorn
avrebbe dovuto uccidere il mostro! Lui, almeno, doveva vincere. Mi sentii
percorrere da una fitta di disperazione, e da una nuova, ultima energia. Gli
ultimi sprazzi, prima di crollare. Ero al limite. Non riuscivo nemmeno a
prendere fiato. Il mondo stava rallentando drammaticamente il suo corso.
“no!”. Urlai, mentre mi trovavo in un posto piuttosto pericoloso,
vicino alle rapaci zampe anteriori, dai grandi artigli, e, in un impeto di
furia, conficcai con tutta la mia forza la spada di Eiron, come sempre a vuoto,
nel grande petto. Ciò bastò. Fu un attimo, ed io non ero
più così veloce da schivare il colpo. Un grido, un rumore di
stoffa lacerata. Per un momento, non capii assolutamente più nulla. Poi
mi trovai all’aperto, distesa sull’erba,
un dolore atroce al braccio sinistro. Oh oh. Ero andata davvero troppo oltre.
Mi guardai dove mi faceva male, e notai, per prima cosa, sangue fuoriuscire da
una brutta ferita al braccio. Ahi. Non ci voleva. Cercai di trovare la forza
necessaria per rimettermi in piedi, piena di disperazione. No. Non poteva
finire così! Non era nulla. Non doveva essere nulla. Io dovevo
combattere ancora, per la salvezza degli altri. Non riuscii a muovere un
muscolo. Tremavo tutta, e la testa mi girava. Avevo perso il controllo del
respiro, e mi sembrava di soffocare. Vedevo puntini neri al limite del mio capo
visivo. Ero stata completamente, completamente vinta. Socchiusi gli occhi.
Fa’ che la morte arrivi presto, per me, Lsyn Amarto. Fa’ che non senta dolore. Un’ombra incombeva su di me. La sentii,
sentii il cambio lieve di temperatura, ed il profumo intenso. Un gorgoglio
soddisfatto. Non potevo farci nulla. Sperai che gli altri se la cavassero meglio di me. Che Tijorn avesse avuto il buonsenso
di squagliarsela. Lo sperai ardentemente. E poi aprii gli occhi, per guardare
in faccia la mia fine. Strano, morire per gli altri. Ti da’ un senso
insolito di realizzazione, il farlo. Mi ritrovai faccia a faccia con il mio
assalitore mostruoso, che mi fissava a sua volta, il capo lievemente reclinato
in un lato. Stavolta gli occhi vuoti non ebbero alcun effetto incantatorio su
di me. Lui preferiva avermi così, vinta, beffarda, lucida, per gustare
ancora meglio la vittoria. Lo sapevo. Lo guardai, guardai il suo muso bruno, le
piume che si muovevano lievemente al vento. Ero affannata. Sperai in una fine
rapida. Il coso sembrò soddisfatto dal mio stato di profonda
prostrazione. Aspettai il buio ad occhi aperti. Il graffio che mi ero
procurata, la ferita, faceva male, molto male. Ero giunta alla fine del mio lungo
viaggio. Una fine da eroina. Sacrificatasi per altri. Buffo, per una tentata
suicida. Quasi avrei ridacchiato, se non mi fosse mancato in quel modo il
fiato. Ci fu ancora un attimo in cui ci osservammo, io vinta, lui vincitore. E
poi, con un gemito da spezzare i timpani e le pietre, lui alzò il muso
al cielo, vittorioso, ed aprì le ali, impennandosi sulle zampe
posteriori. Sembrò, per un attimo, una fiamma viva. Guardai i lucenti
artigli che mi avevano colpita, enormi alla luce del sole. Un colpo e via.
Sarebbe tutto finito. Quell’attimo, l’attimo
prima del colpo fatale, fu infinito. Tutto sembrò rallentare. Mi
sentii, per una volta, pronta. Pronta a morire. Pronta ad essere uccisa. Almeno
mio fratello sarebbe vissuto. Chiusi gli occhi, li serrai. Non c’era nemmeno
da sperare di poter recuperare il mio corpo. Avrei risparmiato di far piangere
molte persone. Passarono alcuni attimi. Poi ci fu un rumore strano, un'altra
specie di brontolio. Il colpo che aspettavo non arrivò mai. Eh?
Cos’era quella tortura? Si rendeva conto, il coso, che mi stava offrendo
una possibilità di salvezza? Cominciavo a sentire sonno, molto sonno, ma
non respiravo più senza controllo, non annaspavo in cerca d’aria.
La ferita stava prendendo a fare meno male, e la testa non girava più.
Se solo avesse aspettato un altro attimo, mi sarei rialzata, ed avrei ripreso a
combattere fino al vero e proprio collasso, fino a farmi scoppiare il cuore. Ma
cosa stava succedendo? Perché il colpo non veniva? Un altro mormorio.
Che strano, il mostro sembrava non avere più interesse per me. Sentii un
fruscio, ed un tonfo, il tonfo delle zampe, molto vicino a me. Il silenzio, a
parte quello, era totale. Potevo sentire il fruscio delle foglie. Non mi
toccò. Sembrava essersi dimenticato di me, totalmente. Come se
qualcos’altro avesse attirato la sua attenzione. Qualcosa di molto
strano, o molto più pericoloso. Cosa mai poteva essere? Ecco. In un
lampo, capii la situazione. Tijorn non era scappato, come avevo sperato. Stava
cercando di salvare me, forse. Lo stupidone. Di nuovo il presagio di futura
sventura. Gelo assoluto. Le membra diventarono di ghiaccio,
leggere come piume. No! No! No! Non so come, né perché, ma
mi ritrovai in un attimo in piedi, barcollando lievemente a causa di un piccolo
giramento di testa. Osservai il mostro. Ed i miei peggiori incubi furono
confermati. Il cuore sembrò scoppiarmi in petto. Il coso era girato,
girato verso un punto buio, di nuovo il muso inclinato in un lato, come in attesa. La punta della coda era alta, ed il pungiglione
alla fine vibrava. Ci fu un momento di calma assoluta. Quello che successe dopo
si contende i miei incubi con la vista di Chekaril morto, sanguinante, a terra.
Ancora lo sogno, ancora piango al ricordo. Ancora vorrei strapparmi tutti i
capelli, tanto è forte il dolore. Preferirei mille volte morire,
divenire un’idiota senza senso, balbettante ed allegra, divenire pazza,
piuttosto che essere costretta a rivivere ancora il medesimo incubo. La colpa
mi tormenta, ancora, corrodendomi come acido. Perché quello che successe
è colpa mia, colpa della mia disattenzione. Il momento in cui il mio
mondo di speranze s’infranse per sempre. E da lì, smisi di
sperare. Ed ancora fa più male la consapevolezza di non essere riuscita
a far nulla. Rimasi immobile, gelata, terrificata, senza spada e muta. Vidi
tutto, lo vidi,e
vidi la fine di tutto. Perché, con un grido ed un fruscio, Tijorn,
armato e pieno di graffi, emerse dalla boscaglia, andando dritto verso la coda
del mostro, con un salto. Lui riuscì ad aggrapparsi,nel probabile tentativo di
scalare, affondando le mani nella criniera, mentre l’avversario era
sorpreso, e tenne forte la presa. Io volevo gridare. Urlare, urlare con tutte
le mie forze che era pericoloso. Ma non ci riuscii. Non riuscii a parlare!
Qualcosa mi si era impigliato in gola. Non volevo credere stesse succedendo
davvero, che stesse succedendo a noi. Stupido! Pazzo!
Tijorn, no! Perché? Perché lo fece? Perché non
fuggì, approfittando della mia sconfitta? Perché doveva essere
sempre così maledettamente altruista? Non sentii nemmeno le lacrime
pizzicarmi gli angoli degli occhi. Non riuscivo a muovermi. Chissà. Se
forse mi fossi mossa, se avessi attaccato il mostro, lui mi avrebbe sicuramente
ricambiato il favore, e Tijorn sarebbe riuscito nel suo intento. Invece non
feci nulla. Nulla! È colpa mia. Solo colpa mia.
Solo ed esclusivamente colpa della mia disattenzione, della mia fretta. Non
riesco a pensarci. Non ci riesco. Ancora il solo ricordo mi fa rabbrividire, e
mi assale la smania, che mi fa venir voglia di muovermi, fare qualcosa, o anche
solo di piangere, di disperarmi. Un lusso che non mi posso permettere. Non feci
altro che rimanere lì, ferma ed incredula, vedendo sgretolarsi, una ad
una, le illusioni di pace, la mia stessa giovinezza.
Un fatto che avrebbe cambiato l’intero corso della mia vita, lo stesso
mio essere. Perché, con un rumore sorpreso, la creatura sobbalzò,
e, mentre Tijorn cercava di trovare un punto sicuro di appoggio, emise un suono
furioso. Sbatté una della grandi zampe posteriori
a terra, sollevando una nuvoletta di polvere. Poi tese il collo, girandosi per
vedere meglio. Bastò solo un movimento. Uno solo. Un guizzo incredibile
della coda, un movimento rapido e fluido. E Tijorn fu scagliato a terra,
cadendo con un tonfo al suolo. Ero così immobilizzata da non riuscire
nemmeno a trovare la forza di chiudere gli occhi. Forse il mostro mi aveva
ipnotizzata di nuovo? O forse ero io, il dolore e la confusione che provavo,
completamente assoluti, mai sentiti con tanta intensità, nemmeno nel
momento in cui mi ero resa conto di aver ammazzato Chekaril, che mi avevano
ghiacciata? Non saprei dirlo. So solo che mio fratello era alla mia portata,
sarei riuscita ad arrivare vicino a lui, a buttarmi avanti e proteggerlo con il
mio corpo da quello che successe dopo. Sono sicura che ce
l’avrei fatta. Invece non feci nulla. Non trovai nemmeno la forza
per gridare. Tijorn doveva aver sbattuto la testa in modo parecchio violento, e
sembrava assai confuso, sbatteva le palpebre, e scuoteva leggermente il viso.
Era a pancia in su, completamente riverso, ma si
muoveva, cercava di mettersi in piedi. Sapeva quanto gli sarebbe costato
rimanere così. Invece no. Invece non ce la fece. Non ce la faceva. Non
riusciva a farcela. Vedevo il suo volto nitidamente, il suo volto pieno di
fretta, di terrore, potevo quasi allungare il braccio e toccarlo. Mi
sembrò così, allora, benché gli altri ripetano
spesso che non avrei potuto mai coprire la distanza tra me e lui, perché
il tempo in cui tutto finì fu troppo poco. Non c’era tempo. Io
invece credo che ce l’avrei potuta fare. Ne sono
sicura. E me ne tormento, e ne piango ancora. Tutto successe in un battito di
ciglia. Un attimo prima, il mostro stava osservando mio fratello, il mio amato
fratellino, l’altra parte di me stessa, l’elfo che mi curava, che
mi confortava, che era sempre lì per donarmi un buffetto o una carezza,
che faceva così tanto per me, mentre io non fui nemmeno capace di
salvargli la vita. Lo osservava, con palese curiosità, ed una strana
aria beffarda. Poi, fu un altro guizzo. E l’urlo tremendo di dolore che
ne seguì, quell’urlo straziante, che mi spezzò per sempre,
ancora mi perseguita, mi tormenta, mi fa disperare. Perché, girandosi
leggermente per posizionare meglio la lunga coda vibrante, il mostro, come se
fosse la cosa più semplice del mondo, come se fosse solo
un’abitudine, come se stesse giocando a palla, con aria annoiata,
trafisse Tijorn, sulla spalla destra, con il suo lungo, acuminato, aculeo
avvelenato. Penso che mi piegai su me stessa, cercai
di difendermi, capace solo di fare quello, quando mio fratello strillò
di nuovo, contraendosi tutto, quando il nostro nemico, soddisfatto, tolse
l’aculeo, e, con un mormorio, si avvicinò con il becco
scarnificato alla sua figura tremante. L’elfa dall’abito dorato,
nascosta nelle piume morbide della sua macchina di morte, rise. Lei trionfava,
quella mattina. Lei aveva trionfato. Quella risata sadica, divertita,
freddissima, mi riscosse. Riuscii a lacerare parzialmente il velo di
stordimento che era sceso su di me, quel velo che m’impediva di impazzire
dal dolore. Quella cortina trasparente, fatta di placida indifferenza, che mi
divide dal mondo, che ancora non si è dissolta. Tijorn. Tijorn stava
rischiando seriamente la vita. Per me. Io non stavo facendo nulla. Tijorn, mio
fratello, che aveva una vita davanti, ben più che promettente, stava
soffrendo. No! Cos’era, quell’ingiusto invertire i ruoli?
Perché lui doveva soffrire? No. Quel maledetto l’avrebbe pagata.
Mi sentii avvolgere da una cupa nube di determinata disperazione, e ricordai,
in quel momento, di non aver ancora lasciato la spada, di averla ancora stretta
nella mano. Avrei fatto di tutto per mio fratello, lì, riverso a terra,
inerme, sofferente, tutto pur di allontanare il mostro da lui. Ma…ma poi?
Cosa avremmo fatto? Lui era ferito, avvelenato probabilmente. Non doveva essere
una sciocchezza, la sua ferita. Presi in considerazione l’idea terribile
che sarebbe potuto benissimo morire, mentre io mi battevo per lui. Pregai
chissà chi che lui resistesse, che trovasse la
tempra necessaria per tener duro fino all’arrivo dei soccorsi. Si,
ma…quali? Dove trovare persone amiche in grado di curarlo? I Tengu?
Troppo lontani. I ribelli, Uruk? Certo che lo avrebbero aiutato. A passare
all’altro mondo. Quello si che sarebbero stati
felici di fare, sgozzarci uno ad uno come agnelli in un giorno di festa. Ma
allora? Come salvarlo? Cosa fare? Come fare, soprattutto? Ah, ma cosa
m’importava? Tijorn stava soffrendo. Provai una fitta di acuto dolore,
quando lo sentii urlare di nuovo. Strinsi forte la spada, ignorando il dolore
che la ferita mi faceva provare. A noi due, mostro. Ora potevo attaccarlo. Era
chino su mio fratello, sinceramente interessato alla sua agonia, come un
Guaritore di fronte ad una nuova malattia. Sperai che il veleno non fosse
troppo rapido. Non avevo la minima idea di cosa fosse
composto. Ma, a giudicare dalle urla di Tijorn, non doveva essere qualcosa di
molto piacevole. Ogni strillo faceva male come una lama. Sentii, per la prima
volta, l’ombra della colpa martoriarmi. Il nemico era distratto. Avrei completato
io l’opera di distruzione, costasse quel che mi costasse. Vendetta. Pura
e semplice vendetta. Forse che l’elfa aveva dimenticato che anche noi
eravamo in due, e che io non avrei mollato l’osso per niente al mondo,
non quando la salute e la vita del mio amatissimo fratello era appesa ad un
filo per colpa sua? Eh, no, si stava sbagliando, di grosso pure. Stavolta non
me la sarei fatta scappare, per niente. Sarebbe stato un enorme piacere
sgozzare quella gola affusolata, bagnarmi del suo sangue. Eh no. Sostenuta solo
da quello, dal pensiero di Tijorn, delle sue ferite, feci due passi in avanti.
Il tempo sembrò sospendersi. Dovevo andarci piano. E, ad un certo punto,
il mio destino fece, subitaneo, un altro passo verso quello che poi fu il mio futuro,
così strano, così doloroso. Sentii, dietro di me, una strana
sensazione. Un’increspatura,
una piccola mutazione del tessuto della realtà. Qualcosa di percepibile
a stento, come un vento caldo che percorreva la pelle. Ebbi un brivido.
Riconobbi istantaneamente di cosa si trattava, quella sensazione umida e
bollente, quasi viscida, che strattonava lo stomaco, lo riempiva di olio.
Magia. Qualcuno stava usando la magia dietro di me. Cosa? Chi? Che
diavolo… Non ebbi nemmeno il tempo di girarmi, di capire cosa diavolo stesse succedendo, che due sfere, delle
dimensioni della mia testa, di quello che mi sembrava fuoco giallo vivo,
corsero verso il mio nemico, dirette verso il collo. Ed ebbi un moto di
sorpresa. Esse non svanirono come per magia, inghiottite da qualcosa di
più forte di loro. Colpirono,
infrangendosi, con un rumore sordo, sulla base della nuca del mostro, che
strillò di dolore, un rumore orrendo, di vetri infranti. Chi stava
colpendo aveva un potenziale magico altissimo. Oppure la magia poteva vincere il
mostro. Stupido non averci pensato prima. Un essere di magia…colpito con
la magia., tornava, a pensarci bene. Altri globi,
prima ancora di riavermi dalla sorpresa, di dimensioni e colori variabili,
sfrecciarono verso la creatura, colpendola in diverse parti, con uno strano
rumore liquido. Dalle parti colpite si levava uno strano fumo traslucido, che
prendeva forme umane, o di animali, o di cose, e che cambiava colore, svanendo.
Nelle parti colpite rimaneva uno strano alone scuro, di un viola quasi nero, che
non cambiava di nuovo in rosso. Ben presto nell’aria di diffuse uno
strano odore asprigno, che tuttora non saprei definire. Di nuovo, il Diviso
strillò, contorcendosi. Doveva provare dolore, anche l’elfa,
perché sentii un urlo femminile sovrapporsi alla voce innaturale della
sua Essenza. Di nuovo, altri globi, più grandi.
Chi ci stava proteggendo non demordeva, anzi. D’un tratto, percepii
chiaramente la situazione cambiare. Il mostro, che mi era parso così
invincibile, così tremendo, con un gemito, cominciò ad
indietreggiare, allontanandosi dalla figura riversa di Tijorn, raggomitolandosi
su se stesso come un ragno piumato. I nostri misteriosi salvatori stavano
vincendo. Ancora il mostro urlò, per l’ultima volta. Poi le sue
grandi ali fiammeggianti si aprirono. Una spinta, poi un’altra. E ben
presto fu alto nel cielo. Non l’ho mai più visto, infestare il
mondo con la sua presenza. Forse è da qualche parte, a leccarsi le
ferite, cercando di guarire, per attaccarci di nuovo. Forse ci sta aspettando,
in cerca di una rivalsa. A me, tutto quello non importava. Persi totalmente il
contatto con la realtà che mi circondava. Cominciai così a
correre disperatamente verso Tijorn, stanca e zoppicante. Il mio cuore stava
perdendo il ritmo, tanto batteva forte, e mi sembrava di esser sul punto di
scoppiare. Stavo malissimo. La preoccupazione si era impadronita di me,
gelandomi le membra. Non tutto era perduto. Dovevo essere positiva. Non tutto
era perduto! Non so come, ma mi ritrovai in ginocchio accanto a mio fratello. I
suoi abiti erano, da un lato, zuppi di sangue, e di una strana sostanza, che
pareva acqua, e che aveva un odore dolciastro. Mi capitò di sfiorarne un
po’, con la mano sinistra. Porto ancora l’ustione che ne
seguì. Ma, in quel momento, non sentii il dolore. “Tijorn!”.
Urlai, con una voce acutissima, che non sembrava la mia. Lui era ancora
cosciente, ma tremava follemente. Da una parte, la sofferenza era troppa, era
il veleno che imperversava nella mia mente. Il veleno del dolore.
Dall’altra, tutto era ovattato, distante, tranne lui. Stava malissimo.
Non l’avevo mai visto in uno stato simile. E quello mi fece capire che la
situazione era davvero, davvero critica. Il volto era di un orrendo colore, un
bianco quasi cianotico, e lui stava cercando disperatamente di prendere fiato.
Ma tutto quello che gli riusciva erano solo una serie di rantolii sommessi.
Stava soffocando. Ero così disperata di non accorgermi nemmeno di essere
scoppiata in lacrime, disperata. Non sapevo assolutamente che fare.
L’impotenza mi aveva afferrata, ed ero immobile, a fianco di mio
fratello, che soffriva ed agonizzava. Una sensazione orrenda, vederlo morire,
senza poter fare nulla. Mi consumava, come un gelido fuoco. Tutto quello che mi
venne di fare fu un gesto. Gli posai entrambe le mani sul volto, e lo
accarezzai. La pelle era
freddissima, e sudata. “stai calmo, Tijorn, calmo…”.
Bisbigliai, chinandomi verso di lui, con una voce singhiozzante che non mi
apparteneva. Io ero la prima a non essere calma. Ma stavo soffrendo. Troppo per
poterlo raccontare, per poterlo scrivere. La mia era una tortura, bruciavo di fiamme.
Le fiamme ardevano in me, mi tormentavano. Era straziante, era uno strazio,
vederlo così. Lui, senza preavviso, ancora rantolando orrendamente, mi
afferrò un braccio con la mano sinistra, e strinse forte. Mi fece male,
ma non protestai. Faceva bene. Era colpa mia se lui era in quello stato pietoso.
Solo colpa mia. Solo. Colpa. Mia. Lui si morse le
labbra a sangue, in cerca di un po’ di energia, per poter anche solo
parlare. “non riesco…”. Disse, con una voce sibilante, uno
strano rumore di risucchio che non gli apparteneva. Fece una smorfia, di dolore
puro, che mi trafisse come una pugnalata di ghiaccio, e poi inarcò
lievemente la schiena. Mi parve un pessimo presagio, ma cercai di non pensarci.
“non riesco a respirare…”. Dannazione. Digrignai i denti,
senza nemmeno accorgersene. Era troppo penoso vedere mio fratello in quello
stato. Troppo. Cerai di non piangere quando lui
cominciò a tossire, peggiorando di attimo in attimo. Il veleno era
davvero rapido. Ed io non potevo farci nulla! Nulla, assolutamente nulla!
Sentii, ad un tratto, delle presenze attorno a me. Il terreno vibrò, e
molte voci confusero il loro suono. Sembravano aver tutti
fretta. Qualcuno urlò che c’era bisogno di un Guaritore.
Sentii, d’improvviso, qualcun altro vicino a me, qualcuno singhiozzare,
spostarmi di peso. Tanta gente. Mi stavano parlando, ma io non li capivo.
Sbattei le palpebre, e mi accorsi di star piangendo anch’io. Non riuscivo
a capire. Akita? Come c’era arrivata? Mi parve che tutto ciò che
era successo si fosse cancellato dalla mia mente. Niente esisteva, a parte
Tijorn. Ed anche la stanchezza stava facendo il suo corso. Il mio campo visivo
si era ristretto. Ed, in fondo, avevo perso anch’io sangue, ero ferita.
Mi sentii improvvisamente debolissima, e mi sentii girare la testa. No. Non
ora. C’è Tijorn che non sta bene. Dovevamo… dovevamo andare.
Si: dovevamo andare: ma non capivo più dove fosse il
cielo, dove la terra. Non riuscivo nemmeno a sentire il terreno sotto le
gambe. C’era Tijorn che stava male. Tijorn. Tijorn. Tijorn. Il suo nome
sembrava rimbombarmi nella mente, ripetuto mille volte da echi lontani.
Qualcuno mi afferrò per le ascelle, e mi tirò su. Gli occhi mi si
chiudevano. Dovevo...dovevo muovermi. Ma ero troppo debole. Non ce la facevo.
Riuscii appena a fare un passo. Davanti a me c’erano delle persone. Elfi,
a giudicare, forse, vestiti di azzurro e blu, dalle armature argentate. Eravamo
salvi, allora? Tutti? Chi erano? Li guardai stancamente. Non mi sfuggì un particolare. Molti portavano un grosso ciondolo al collo,
di un rosso brillante, grosso come una noce. Oh…Celestiali di Uruk. Erano
loro, vero? Si…io ricordavo di averne uccisi due. Avevano lo stesso abbigliamento.
Arrivano i nostri, finalmente. Erano miei nemici, non mi amavano, ma non
importava. Oh…avrebbero salvato Tijorn! E cosa importava, se mi avessero
uccisa? Tanto mi sentivo già morire. Senza Tijorn, la mia vita avrebbe
smesso di avere senso, sarebbe stata solo un’accozzaglia di fatti ben
poco probabili. Loro dovevano salvarlo. Lui era un elfo felice. Era un elfo
felice… un elfo felice. Non doveva morire così. No. Io dovevo
morire. Io l’avevo fatto ferire. Io non ero stata attenta, e basta. Io,
io e solo io. La colpa era mia. Solo mia. Mi trovai davanti, improvvisamente,
il viso di un elfo, dai corti e ricci capelli castani, gli occhi scuri, e la
bella pelle color legno, un colore compatto. Oh…ed un’espressione
ben poco amichevole in viso. Sembrava grosso. Molto grosso. Era lui a tenermi? E
come mi stava guardando! Sembrava volermi mangiare. Beh…poco male. L’importante
era salvare mio fratello. Tutto qui. Lui stava male. Molto male. Per colpa mia.
Solo mia. Non mi spaventai, alla vista della mia condanna a morte. Ero arrivata
ad un punto limite, un punto di non ritorno. Ero così stordita da non
provare più nulla. Solo un vago interesse. Ma solo perché erano
arrivati a salvare il mio fratellino, lo stupidone. La mia mamma chioccia. Loro
l’avrebbero salvato. Si: lui sarebbe vissuto, con la sua compagna, i miei piccoli, suo figlio, le sue allieve. Che io ci fossi
o no, nel suo quadretto felice, era relativo. Io dovevo solo servire per farlo
vivere. Una vita per la sua. Morire…bah. Che mi facessero morire…se
solo gli fosse servito per vivere! Tijorn era l’unico dei due meritevole
di un’altra occasione. Io no. Ero troppo cattiva, brutta, sporca. Ero una
bestia, avevo ucciso senza remore. Il mondo per me non aveva più
importanza. Non se l’avessero lasciato soffrire in quel modo. Avevo ancora
nelle orecchie i suoi strilli acuti. “salvatelo…”. Mormorai,
con una vocina sottile, stranissima. Mi domandai perché, nonostante non
fossi appoggiata a terra, fossi in piedi. Non riuscivo a capire. La mia ragione
sbatteva contro un soffice muro di lanugine. Il mondo era una cosa così
strana. “lui è un elfo felice…un elfo…felice…”.
Fu troppo per me. La testa cominciò a vorticare pericolosamente. Tutto si
confuse in un turbinio assurdo di colori, luce e suoni. E poi non ricordo
più nulla di quello che seguì.
Non so come, né so quando e perché, ma, ad un certo punto,
mi accorsi di essere sveglia
Non so
come, né so quando e perché, ma, ad un certo punto, mi accorsi di
essere sveglia. Mi sentivo le palpebre pesanti, e non le aprii ancora. Avevo
sonno, e mi sentivo stanchissima, come se avessi corso per ore. Il braccio
sinistro pulsava, e sembrava stretto in strisce e strisce di quello che mi
pareva tessuto. Qualcosa non quadrava. Ricordavo vagamente di aver corso molto,
ed un viso sconosciuto che mi guardava storto. Non riuscivo a collegare quello
con la mia situazione attuale. Ma non riuscivo a capire perché fossi
stesa, stesa su qualcosa di piuttosto morbido, coperta da un panno caldo, o
forse dal mio mantello. Era una sensazione magnifica, ma davvero non capivo. Il
silenzio mi avvolgeva, caldo e piacevole. L’unico suono era un cigolio
costante, ed un rumore come di ruote. Dovevamo essere in movimento. In
movimento? Chi c’era con noi? La risposta era lì, pronta, ma
sfuggente, e non riuscivo ad afferrarla. Era fastidioso. Che pace. Se non fosse
stato per quella strana sensazione, come se il mio corpo avesse registrato e
ricordato una situazione precedente a quella, ben più terribile, tutto
sarebbe stato perfetto. Ma la certezza di dover rammentare qualcosa era molto
forte. Dovevo ricordarmi di una cosa, una cosa piuttosto urgente ed importante
che premeva agli estremi della mia coscienza. Ma mi sfuggiva continuamente.
Corrugai leggermente la fronte. Perché i ricordi mi scappavano,
sfuggivano via dalle mie mani, sgusciavano come acqua corrente? Che cosa
c’era, di così pericoloso da ricordare? Di così triste? Fu
un lampo. E rimpiansi subito di non riuscire a ricordare nulla. Tijorn! La
fuga. Il Diverso, il duello. E l’immagine di mio fratello ferito a morte.
A quell’ora…no. Non poteva essere. Dovevo stare calma, calmissima.
L’avevano salvato. Dovevano. Ne ero sicura. Ma il mio corpo reagì
istintivamente, prima ancora di aver completato il pensiero. “ah!”.
Gridai, saltando immediatamente seduta, su quella che mi pareva una brandina,
come svegliata da un orribile incubo. E tale era, il ricordo. Pensare alla morte
di mio fratello era troppo terribile. Troppo. Ed eravamo anche nelle mani dei
nemici, che ci volevano morti! La prospettiva che il mondo mi offriva non era
esattamente ottima. Potevamo essere più sfortunati di quello? Eppure,
avevamo solo chiesto una vita tranquilla. Il destino aveva deciso di
trasformarci nel suo balocco preferito. Dovevo essere ancora debole, dopo lo
scontro convulso e pazzo con il mostro, dopo essere stata scaraventata a terra
da una zampa artigliata, o dovevo essere da molto tempo stesa, perché
sentii, non appena fui seduta, un fortissimo capogiro, ed un senso tremendo di
nausea. Il cuore mi saltò in gola, ronzando furioso, e nelle orecchie
sentii un fischio acuto. Mi sentii malissimo, e chiusi gli occhi di scatto, ondeggiando.
Qualcuno, prima che potessi fare anche solo un ulteriore gesto, mi
abbracciò. Sentii subito un’ondata di profumo dolcissimo,
penetrante, quasi stucchevole, avvolgermi. Un profumo molto familiare. Dei
capelli mi solleticarono il volto. Akita. Dei…per fortuna, era viva.
Sentii uno strano rimescolio nello stomaco, per nulla dovuto al malessere. Era
colpa mia se il suo compagno era morto. Mio fratello. Dovevo superare quel
momento di debolezza alla svelta. Era una fortuna che la testa stesse
cominciando a girare di meno. “Lsyn…calma, tutto va bene, tutto va
bene…”. Bisbigliò, con fare tranquillizzante, una voce
acuta, leggermente rotta al pianto. Oh, no. No! Non poteva essere. Non poteva
essere! La preoccupazione minacciò di soffocarmi, mi attanagliò
la vita con una fitta tremenda. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Se
Tijorn fosse morto, sarei morta anch’io. Di dolore. Già era
troppo, troppo per essere sopportato. “è tutto a
posto…stiamo tutti bene”. Tutti bene? Lo stava dicendo tanto per
farmi stare tranquilla per un po’, perché, per loro, ero ancora la
fragile larva di qualche tempo prima. Potevano dimenticarlo. Avevo deciso il
mio futuro, deciso da che parte stare. E nessuno mi avrebbe ostacolata
più. Aprii gli occhi. Vidi, attraverso i capelli chiarissimi della mia
amica, il fondo di quello che doveva essere un carro chiuso. Ero a terra, su
una piccola branda, in un angolo. Sentii un’improvvisa smania avvolgermi,
e, per un attimo, tutto fu offuscato dalla paura. Paura di conoscere il mio
futuro, il punto dove la mia stupidità aveva condotto tutti. Tijorn. Non
sarei mai riuscita a togliermi dalla testa i suoi strilli di dolore, il suo
viso pallidissimo, le sue parole soffocate. Ricordavo che non riusciva a
respirare, e che era stato avvelenato. E tutto quello, per salvarmi. Se solo
fosse morto…beh… potevo gettarmi con lui nel fuoco. Era stata tutta
colpa mia, tutta. Non l’avrei mai finito di ripetere, né mai lo
finirò. Dicono tutti che sono ossessionata, perseguitata dal mio
passato. Ma non posso non esserlo. Non quando tutto quello è colpa mia.
Non quando tanta sofferenza è nata per salvarmi. Io, che non meritavo
altro che essere messa a morte, per quello che avevo fatto. Avevo ucciso
innocenti, rubato, rapito, spiato. E tutto quello, per assecondare le manie di protagonismo
di una pazza omicida. Ed ecco quello che mi rimaneva. Polvere, sangue, cenere,
un odore amaro di sconfitta. Ma io dovevo sapere, dovevo saprei allora. Tutti i
miei pensieri erano orientati su una sola persona, un solo individuo, allora.
Tijorn. Lui stava soffrendo. “io…io…io…”. Dissi,
con una vocina sottile, che decisamente non mi apparteneva. Bizzarro. Non mi
ero nemmeno resa conto di essere di nuovo scoppiata in lacrime, in singhiozzi.
Mi strinsi forte ad Akita, rubando un po’ del suo calore. Tutto quello
che avevo posseduto, tutta la vita che era stata in me, si era ghiacciata, come
la superficie di un fiume in inverno, quando nevica. Avevo freddo. O forse era
solo una mia sensazione. La mia amica, il Falco, ricambiò la mia
stretta. Sembrava volermi rassicurare. Rassicurare di cosa? Mio fratello stava
male. Io me l’ero cavata con un graffietto da nulla, che sarebbe guarito
senza lasciare segni. Un buffetto. E lui era stato avvelenato, la sua spalla
trapassata da parte a parte da un maledetto aculeo velenoso.
“Tijorn… dov’è Tijorn?”. Dei. Non avevo mai
sentito la mia voce piena di quel tormento, quella fiamme di colpa che mi
straziavano l’anima.Fu
allora, seduta su quella vecchia branda, abbracciata dolcemente da quella che
un tempo avevo odiato più di ogni altra, che sentii una voce, un
mormorio. C’era qualcun altro nel carro, oltre a noi due. Una mano gelida
trovò la mia, e la strinse forte. Sobbalzai, e mi districai dalla
stretta dell’elfa, che si fece da parte senza proteste. Notai di sfuggita
un sorriso tremulo sul suo volto bianco. Chi era che mi stringeva?Chi c’era, lì?Mi voltai, ed
il sollievo mi riempì subito, piacevole, come acqua calda. Sollievo,
misto a rammarico, e dolore, e poi ancora preoccupazione. Mi sentii più
leggera, come se mi avessero tolto un gran peso dalle spalle. Perché mio
fratello non era morto. Beh…era messo davvero male, ma non era morto. Era
steso su una branda accanto alla mia, completamente riverso, senza forze. Era
riuscito a malapena a raggiungere la mia mano, ma ora ero io a stringere lui.
Era di uno spiacevole colorito azzurrino, quasi verdastro, e respirava a
fatica, come se gli costasse molto, con un leggero sibilo. La ferita era
bendata, un bendaggio di fortuna. Era vivo, vivo e cosciente, o quasi. Gli occhi
erano socchiusi, più chiusi che aperti, a dire la verità, e lui sembrava piuttosto confuso.Ma mi stava guardando, con un pallido
sorriso, una parvenza di sorriso, stampata sul volto. Presi a tremare, senza
alcun controllo, e mi avvicinai ulteriormente, stritolandogli la mano. Non
tutto era perduto, allora. Il mio cuore prese di nuovo a battere senza
controllo, ma stavolta era dalla gioia. Non era successo nulla
d’irreparabile. Potevo ancora sperare. Se solo avessi potuto, sarei
scoppiata dalla gioia, esplosa in mille pezzetti. Mi sentii la creatura
più felice del mondo. poco importava che eravamo tutti in mano ai
nemici, che stessimo andando molto probabilmente ad Uruk, a Kyradon. Non
importava. Io sarei potuta anche morire. Lui era salvo. Sarebbe sopravvissuto.
Era troppo bello per sembrare vero. Cominciai a piangere più forte, fino
a farmi dolere la gola, il petto. Mi avvicinai tantissimo a lui, quasi come a
volerlo abbracciare, fino a trovarmi vicinissima al suo viso stanco. Volevo
stringerlo a me, abbraccialo fino a schiantarmi. Ma non osavo. Sembrava
debolissimo. Non osavo fare qualcosa che avrebbe potuto fargli più male
che altro. Era strano, guardarlo così, ferito, quando di solito ero io a
fare la parte della malata. Ero sempre stata io dall’altra parte del
Lazzaretto, praticamente quasi sempre. Lui aveva avuto troppo buonsenso per
fondarsi a corpo morto nelle missioni più difficili. Aveva sempre scelto
questioni leggere, o facili, niente di troppo impegnativo, che imponesse la
probabilità, anzi, la certezza, di un omicidio. Praticamente, tutto
quello che io ero andata sempre a cercare, e che avevo trovato. Davvero strano
vedere i ruoli così invertiti. Con un sospiro, mio fratello aprì
bocca. “ciao, Lsyn…”. Disse, con un sussurro stentato che mi
fece mordere il labbro inferiore, guardandomi, mettendo a fuoco lo sguardo. Non
era morto, è vero, ma ci era andato davvero, davvero vicino. Ancora il
respirare, la sola azione di respirare, gli costava una fatica immensa. Lui,
infatti, subito dopo aver parlato, respirò profondamente, e poi, dopo
una pausa, riprese a parlare. Sapevo che sarebbe stato meglio, per lui, non
fare sforzi. Ero troppo stanca, troppo preoccupata per impedirglielo. E la
gioia di sentire ancora la sua voce era troppa. Il mio stupidone. La mia mamma
chioccia. “visto…che ce l’abbiamo fatta?”. Dei. Il
suono della sua voce, distorta in quel rantolio roco, mi faceva male. Lui si
zittì, e respirò profondamente. Gli sorrisi, dentro di me
preoccupata, e gli strinsi ancora più forte la mano freddissima, e
sudaticcia. Stava male, stava ancora molto male. Ma il peggio sembrava essere
passato. Così parlai, con voce soffocata dalle lacrime che ancora mi
scendevano, copiose, sulle guance. “già…ce l’abbiamo
fatta”. Lui rispose al mio sorriso, e chiuse lentamente gli occhi, come
se volesse addormentarsi. Sorrisi teneramente. Sentii un’ondata di pena,
investirmi. Cosa non aveva fatto, per salvarmi? Doveva essere stanchissimo,
povero fratellino mio. Glielo concedevo. Gli avrei concesso tutto, pur di farmi
perdonare. Non ebbe il piacere di dimenticare per un po’ il dolore del
mondo. Akita, immediatamente, si portò accanto a lui, e, con mio enorme
sbalordimento, si chinò sul viso e gli schiaffeggiò con forza le
guance, con aria molto preoccupata. Tutti i lineamenti del suo volto erano
tesi, e sembrava aver pianto molto. Tijorn sobbalzò, ed aprì di
nuovo gli occhi. Non guardò lei, né me.I suoi occhi si persero nel vuoto, in
alto, smarriti. Non mi piaceva vedere mio fratello così, il mio dolce
fratellino in quello stato. Mi faceva troppo male. La compagna sembrò
soddisfatta, e mi guardò, annuendo lievemente. Avevo sgranato gli occhi,
senza voler credere a ciò che vedevo. Perché si era fiondata
così su di lui, con tanta ferocia, e tanto sadismo? Non aveva diritto ad
un po’ di riposo, ora che aveva salvato tutti? Non lo capiva? Lui aveva
salvato anche lei, sacrificandosi. Ed invece lo tormentava. Mi sentii
indignata, ed aprii la bocca per protestare. Esigevo una spiegazione per quel
comportamento così stupido. Akita mi precedette, e sorrise stancamente.
“i Guaritori mi hanno detto di tenerlo sveglio fino all’arrivo al
Lazzaretto”. Spiegò, con aria stanca, guardando il compagno, che
ancora mi teneva la mano. O meglio, a cui ancora tenevo la mano. Lui non mi
stava stringendo, anzi. La sua mano era morbida e cedevole, come se non avesse
forze. E forse le aveva sprecate per parlarmi. Sperai ardentemente che non
fosse così. Akita continuò a parlare, sedendosi a terra, con un
tonfo, e prendendo la mano libera del compagno, con dolcezza. “sono
riusciti ad impedire che il veleno si diffondesse ancora, ma…”. Lei
scosse il viso appuntito, ed i capelli le volarono da tutte le parti, indomiti.
“ molte tracce sono ancora presenti. Ha bisogno di cure più
approfondite.Mi hanno detto che
è un veleno subdolo, che agisce con maggiore rapidità e minore
visibilità nel sonno. Lui non deve addormentarsi, almeno fino quando non
gli sarà somministrato l’antidoto. Rischierebbe troppo”.
Avvertii freddo, ed istantaneamente, andai a guardare mio fratello.
D’improvviso, il prenderlo a schiaffi e tormentarlo non mi sembrava
così una cattiva idea. L’avrei fatto senza sosta fino
all’arrivo, se solo gli fosse servito a salvarsi la pelle. Mio fratello
doveva meritarsi tutta la felicità del mondo, e non era giusto vederlo
così sofferente. Tijorn aveva ancora quel sorriso stanco stampato in
viso, un sorriso che mi sembrava, ora, quanto mai sciocco, e vuoto. Povero
stupidone mio. Cercai un altro argomento, disperatamente, per distrarmi. Ma non
persi di vista gli occhi semichiusi di mio fratello, in attesa che si
chiudessero, per farlo svegliare. “dove siamo diretti?”. Dissi, con
voce lievemente soffocata, tirando su con il naso, ed asciugandomi le lacrime.
Non era ora di piangere, e di disperarsi. C’era troppo bisogno di me per
farlo. Avrei pianto dopo, avrei singhiozzato dopo, in solitudine. Ci fu un
attimo di silenzio. La risposta arrivò dopo un po’, esitante.
“al Lazzaretto di Kyradon, Lsyn”. Mormorò lei, con voce
soffocata, e preoccupata. Accidenti. Nella tana del lupo. E pensare che avevamo
fatto tanto per evitare Uruk! Impossibile sfuggire al mio destino. Sentii
un’ascia, l’ascia del boia, cigolare sopra di me. Beh…almeno
avrei chiesto di lasciare stare i miei compagni. Loro odiavano solo me, ero io
che mi attiravo tutto l’odio. In fondo, eravamo salvi, al sicuro. Cosa
importava, poi, se io fossi morta? Assolutamente niente. Rimanemmo in silenzio
per un po’, cullate solo dal rumore cigolante del carro. Cercai di non
pensare, e rimasi tutto il tempo a fissare mio fratello. Lui sarebbe
sopravvissuto. Forse era l’ultima volta che lo vedevo. Mi avrebbero
uccisa subito, o no? Avrebbero aspettato la ripresa di Tijorn, per processarci
tutti? Mi maledissi, maledissi me stessa. Stavo mandando al macello un sacco di
innocenti. Chi era il Capitano dei Celestiali di Uruk, al momento? Forse un
elfo dai capelli bianchi che mi odiava, di nome Isnark? Nel nostro ultimo
incontro, non l’avevo attaccato, forse, rompendogli un braccio,
drogandolo e ferendolo? Non avevo ucciso due suoi commilitoni? Non aveva,
forse, tutto il diritto di pretendere una vendetta? Lui, certamente, sicuro
come la morte, mi odiava terribilmente. Non aveva tutti i torti, in fondo. E
Nemys? Nemys, con tutti i misteri che si portava dietro? Lei mi odiava, anche
lei, per quello che avevo fatto al compagno. Mi avrebbe voluta vedere
agonizzante, o meglio. Se mi avesse conosciuta a dovere, avrebbe torturato
qualcuno dei miei affetti. Era il solo modo di farmi soffrire ancora di
più, perché, orami, del mio corpo non me ne importava. Dovevo
proteggerli, ad ogni costo. Fui presa da una strana frenesia. Alzai gli occhi
verso Akita. Dovevo proteggerla, proteggere lei e tutti gli altri. Proteggere.
Proteggere. Proteggere. “se vi chiedono qualcosa, Akita…”.
Bisbigliai, con voce soffocata quasi quanto quella di Tijorn. Era tornato il
groppo insistente alla gola, che mi tormentava, mi faceva del male. Era
insopportabile. Pensare Roxen sofferente, di nuovo. Chekaril. Non potevo
tradirli così, un’altra volta. Dovevo metterli al sicuro, mettere
al sicuro tutti. “dici che tu non sai nulla,qualunque cosa ti chiedano.
Tu non sai nulla, né sanno nulla gli altri. Nulla di nulla. Io vi ho
costretti a seguirmi”. Akita, la mia carissima Akita, perspicace ed intelligente,
alzò un sopracciglio, incuriosita. “ma che stai…”.
Disse, indignata e sorpresa, prima che,con uno scossone, il carro si fermasse.
Eravamo arrivati? O mi stavano prelevando, per ammazzarmi? Lo sguardo che
entrambe ci scambiammo era pieno di preoccupazione. Passarono attimi tremendi.
Sentii torcermi lo stomaco, insopportabile. E poi, vedemmo i lembi di tessuto
che ci separavano dal mondo esterno aprirsi di scatto, rivelando il cortile
bianco di un luogo, forse il Lazzaretto, ed il viso di tre elfi cupi. Uno di
essi era quello che mi aveva salvato, l’elfo dalla pelle scura. Alla luce
del sole, ora che ero ben più cosciente, e presente, sembrava più
minaccioso che mai. Doveva essere altissimo, ben sopra la media degli elfi e
nerboruto. Un gigante, un bestione. Il viso aveva lineamenti decisi, tratti
molto marcati. Mi ero sbagliata decisamente sul colore dei capelli. Erano di un
bel nero pieno. Pazienza. Non aveva importanza. Mi sentii intimidita, un
cerbiatto di fronte ad un orso. Ero molto piccola già normalmente, ma, solo
a guardare quell’elfo, sembravo minuscola. Un’infante. Gli altri
due elfi, uno con il ciondolo, dai capelli lisci, di un bel rosso tiziano,
l’altro senza, dai gelidi tratti spiccatamente nordici, erano
ridicolmente gracili al suo confronto. Ma tutti e tre, senza distinzioni, ci
fissavano con malcelata ostilità, ed una punta di disprezzo. Ci
fissammo. Io deglutii. Un solo pugno del gigante e sarei stata poltiglia da
dare in pasto ai maiali. La cosa non mi piaceva. “scendete”. Ordinò
il bestione alto e scuro, con una voce profonda e calda, che sarebbe stata
molto bella se non fosse tinta da quell’odio così profondo. Mi
sentii a disagio, e vidi la paura nello sguardo della mia amica. Salvi, ma a
che prezzo? Io ed Akita obbedimmo, avvicinandoci e prendendoci per mano. Uno
dei due Celestiali l’aiutò a saltare dal carro, con premura. Io
fui prontamente ignorata, e scesi in uno spiazzo porticato, addossato
all’edificio, collegato ad esso per mezzo di alcune scale larghe. Mi
sentii oggetto di sguardi irati non appena misi piede fuori. Nel piccolo
ambiente, collegatocon
l’esterno da un cancello di ferro battuto, ora chiuso, pieno di carrozze
e carri, non potevano esserci che una decina, tra soldati e civili sconosciuti.
Sentii tutti i loro sguardi addosso, in un attimo. Mi sentii piena
d’imbarazzo, e strinsi forte la mano di Akita, addossandomi lievemente a
lei. Tuttavia, mi sentivo sollevata. A quanto pare, l’odio non sembrava
nei loro confronti. Tutti volevano
fulminare solo me, ridurmi in piccoli pezzetti, fini come sabbia. Non era una
grande perdita. Tutto sommato, mi sentivo sollevata. I miei cari erano al
sicuro. Era quella la cosa più importane, solo quella. Sospirai, facendo
qualche altro passo in avanti. Era ora di addossarsi tutte le colpe di una
vita. Non potevo fingere che tutto andasse sempre bene, che io fossi innocente,
perché non lo ero. Fu con uno strano senso di fatalità che mi
lasciai abbracciare dai miei cari riuniti, accolsi solo con vaga, torpida
felicità, i bambini, che si aggrapparono a me, e mi fecero cadere. E
nello stesso modo indifferente li seguii, salendo le scale, quando alcuni
Guaritori presero Tijorn, per portarlo dentro. Mi faceva male stare
così, ma dovevo. Dovevo staccarmi da loro. Lo sapevo. Tanto, prima o
poi, sarei morta. Me lo dicevano tutti gli sguardi. Ogni elfo che mi
incrociava, che non fosse un Guaritore, si bloccava, fissandomi con astio, e,
spesso, borbottando con il vicino. Sentivo i loro sguardi perforarmi la
schiena, fino a quando non sparivano dalla mia vista. La cosa mi metteva a
disagio, ma non gli davo molta importanza. Appena si fosse sparsa la voce della
mia presenza lì, il popolo avrebbe chiesto a gran voce il mio sangue.
Avevo già firmato, praticamente, la mia condanna a morte. Tutti mi
odiavano, in quel luogo. Se solo i soldati, compreso il gigante, non ci
avessero accompagnati, molto probabilmente sarei stata linciata dalla folla. Ma
io preferivo una morte pulita, e veloce. Avevo sofferto troppo. Fu quindi con
sollievo che entrai in una stanza vuota, dove ci fecero attendere che i
Guaritori finissero di curare mio fratello. Ero solo un po’ in pensiero
per lui. C’era solo quell’ostacolo a cui pensare. Dopo, sarei
potuta morire in pace. Fu quindi con enorme sollievo, troppo stanca per poter
piangere, come fece Akita, che accolsi la notizia che Tijorn era ormai fuori
pericolo, e che si sarebbe rimesso presto. Era tutto a posto, ora. Tutti i miei
cari erano salvi, al sicuro. Potevo attendere la mia fine in pace.
“ho
detto che mi sento bene, Lsyn, accidenti a te!”. Disse la figura pallida
di mio fratello, la schiena appoggiata ad una miriade di cuscini, il braccio
tutto bendato, e sostenuto da una fascia. Erano passati ormai cinque giorni dal
nostro arrivo. Non avevo fatto altro che stare al capezzale di mio fratello, a
stento dormendo. Volevo passare quanto più tempo possibile con lui,
volevo rimediare al mio errore prima di essere chiamata per un processo
sommario, e mandata a morte. La situazione, in così poco tempo, si era
ribaltata. Pochi giorni prima era lui a curare me, solerte e tranquillo,
paziente e lievemente disperato. Ora ero io la mamma chioccia, e, devo dire,
ero divenuta molto asfissiante. Ma ne avevo ben donde. Erano forse le ultime
volte che vedevo Tijorn, e non potevo dirgli di quello che stava accadendo. Lui
non sapeva ancora dove fossimo. Non l’aveva ancora capito. Nessuno ne
aveva parlato in sua presenza, inoltre. Inoltre, ero l’unica abbastanza
in forma per poter stare in piedi tutta una notte, per riuscire a sopportare
tutto quello. Amarto era vecchio, e cieco. Non poteva fare nulla. Max mi
aiutava, ma molto spesso, essendo Guaritore, aveva da fare da altre parti.
Sembrava essere entrato nel suo elemento, e non era cambiato nulla, di lui. I
Guaritori sono fatti così. Allenati a non avere pregiudizi di sorta, a
vedere oltre le apparenze, per giudicare le ferite o la bravura. Un poveraccio,
o un barone, può divenire Guaritore. Basta solo avere le
capacità. Erano gli unici a non borbottare al mio passaggio, a non
sembrare ostili. Io ero una tra le altre. Avevano liquidato la mia ferita in un
attimo, e si erano precipitati su Tijorn con la ferocia di avvoltoi su una
carcassa. Junielle…beh, temevo sinceramente che Junielle fosse impazzita.
Non aveva parlato, né guardato nessuno, da un bel po’. Bisbigliava
solo nell’orecchio di Max, con cui sembrava aver legato molto, e non
parlava con nessun altro. Nemmeno con me. All’arrivo, si era seduta da
una parte, e ci aveva seguiti con lo sguardo, come un cane randagio. Non era
più la vivace, sboccata mezzelfa di sempre. Qualcosa sembrava averla
spezzata, spezzato la sua tempra forte. Nessuno era riuscito a capire,
tuttavia, cosa. Akita era fuori discussione. Era stata messa troppo sotto
pressione, una cosa che nelle sue condizioni non era per niente positiva, e ne pativa
le conseguenze. Poco dopo il nostro arrivo, infatti, una volta che tutto
sembrava finito, non si era sentita per niente bene, e si era dovuta mettere a
letto. Era ancora lì. I Guaritori non le permettevano nemmeno di alzare
un dito, nonostante lei giurasse e spergiurasse che si era trattato solo di un
malessere passeggero, perché lei non riusciva a sopportare il movimento
del carro, delle navi, e l’ondeggiare in generale. Ma nessuno le credeva,
poverina. Facevo la spola tra lei e Tijorn. Ero divenuta l’aiuto
Guaritrice. Cominciavo a farmi una cultura su intrugli ed affini. La mia amica
era piuttosto di malumore. Mi raccontava di non poter fare altro che leggere,
leggere, leggere ed ancora leggere. In circostanze normali non le avrebbe fatto
che piacere, questo, ma ora voleva vedere il compagno. Smaniava di parlargli. E
non si poteva muovere. I Guaritori dicevano che era per il bene del piccolo,
solo per il suo bene. Immancabilmente Akita borbottava di sapere benissimo dove
il bene andava messo. E, di solito, aggiungeva un paio di bestemmie che mi
facevano sorridere. Era tenerissima, era tenerissima la sua angoscia. Andava
calmata, sempre. Allora la rassicuravo, dicevo che tutto andava a meraviglia,
Tijorn stava bene, migliorava a vista d’occhio, dormiva sempre di meno,
che aveva solo un po’ di febbre, e che doveva pensare solo a lei, ora. La
salute di suo figlio era troppo importante per trascurare anche solo una
piccola cosa, ed i Guaritori lo stavano facendo perché sapevano il fatto
loro. Aveva patito troppo, in quel periodo, per non allarmarsi anche ad una
piccola avvisaglia, anche se si trattava solo di un malessere dovuto al
movimento del carro. Quasi sempre, dopo quelle parole, lei cominciava a
ricoprirmi d’insulti. Mi chiamava loro
alleata, e lo sputava come se fosse una cosa orrenda. Io sorridevo, e,
lasciandola sfogare in silenzio, me ne andavo da Tijorn. Era lui il mio
pensiero principale. Cominciava davvero a migliorare, moltissimo, di giorno in
giorno. Era sempre più presente, e le tracce di veleno cominciavano a
sparire. Respirava meglio ogni minuto che passava. L’unica cosa non molto
positiva era la febbre, comparsa il secondo giorno, una febbricola bassa ed
insistente, che lo sfiancava, ma i Guaritori non sembravano allarmati da essa.
Era sempre una ferita profonda, insomma, ed era quasi naturale. Tuttavia,
doveva bere un intruglio schifoso, una sorta di roba che assomigliava a fango
verdastro, dall’odore orrendo, e dal sapore, a quanto pareva dalle sue
smorfie, altrettanto disgustoso. Cercava di scampare alla tortura ogni volta
che poteva. Ma contro di me non riusciva a fare nulla. Rimanevo lì, in
silenzio, con il bicchiere teso, fino a quando lui, esasperato, non lo
afferrava, e tracannava il contenuto, con aria abbattuta, senza prendere fiato.
Ero davvero peggio di una mamma chioccia. Molto peggio. Ed allora, quel quinto
giorno, ero lì, calmissima, il mio destino già prontamente
accettato, indifferente, con quel bicchiere orrendo in mano, tesa verso Tijorn.
Avevo preferito non pensare al mio futuro, alla mia prossima morte. Ormai, mi
ero abituata a quel pensiero. Facevo quindi del mio meglio per stare con mio
fratello, ogni attimo che passava, curandolo meglio che potevo. In fondo, non
penso che qualcuno si sarebbe accollato quella responsabilità, dopo la
mia morte. Dovevo fare di tutto, finché potevo. Quel giorno la febbre si
era alzata un po’, ma lui era più forte che mai. Respirava
liberamente, ormai, ed aveva ripreso colore. Era riuscito anche a mettersi
seduto, povero fratellino mio, ed ora stava lì, appoggiato ad una pila
di cuscini che gli avevo procurato, irritato. Non gli piaceva che gli dicessi
cosa fare. Pazienza. Tra un po’ non l’avrei più infastidito.
Lui, però, non lo sapeva. Gli avevo raccontato che eravamo stati salvati
da cacciatori, ed eravamo ancora nel Regno. Non potevo dirgli che Kyradon era a
poca distanza dalla sua camera. E che io sarei morta presto. “devi berlo,
lo sai”. Mormorai, con voce dolce, ma ferma. Lui fece smorfia
infastidita. Quanto ad amore per le medicine, lui non aveva nulla da
invidiarmi. In quello eravamo davvero fratelli. Lui mi guardò malissimo,
e deglutì sonoramente. “ma…ma è orrendo!”.
Protestò, quasi implorando. Sorrisi, ma non risposi, rimanendo con il bicchiere
teso. Ora capivo benissimo cosa voleva dirmi quando ripeteva che era per il mio
bene. Sapevo che tra un po’ avrebbe capitolato, e, perciò, non
cedetti alle sue suppliche. Quel giorno non fu diverso da tutti gli altri.
Borbottando a proposito di un complotto, che tutto era uno schifo, Tijorn afferrò
il bicchiere con la mano sana, e ne bevve docilmente il contenuto. Poi, con una
smorfia nauseata, mi tese il contenitore vuoto, guardandomi storto. Era buffo
quando faceva così. Tanto buffo, e tenero. E tanto dolce. Sarebbe
vissuto a lungo, molto a lungo, più di me. Volevo che serbasse un bel
ricordo della sua sorellina, della sua Nanetta. Quel giorno lo guardai,
ricordo, e mi avvicinai a lui. Lo abbracciai forte, senza che facesse
resistenza. Tijorn mugugnò un altro po’ sulla sua medicina, ma poi
si zittì, e mi circondò la schiena con il suo braccio,
restituendo l’abbraccio. Mi era mancato, molto. Era un gran peccato dover
morire proprio in quel momento, quando tutto sembrava finito. Sentii una fitta
di tristezza. Era brutto pensare di non rivederlo più. Lui, i piccoli,
Amarto, Akita. Mi sarebbero mancati da morire. Beh, per quanto possano mancare
gli affetti ad un morto. Mi sarebbe piaciuto anche vedere mio nipote, vedere il
suo aspetto, tenerlo tra le braccia, coccolarlo. Non potevo farlo. Perché,
perché sapevo così bene che la morte mi stava aspettando? Come
facevo a saperlo? Era fin troppo arguibile. Ero lì, preda appetitosa ed
inerme, per Nemys ed Isnark. Avrebbero goduto nel vedermi morta, almeno una
nemica in meno. Non potevo dar loro torto. Ero stata cattiva, brutta, sporca.
Avevo peccato, e dovevo pagare. Mi sembrava fin troppo normale. Mi sarei tolta
io la vita, per risparmiare loro un’esecuzione pubblica, per risparmiarmi
quell’umiliazione, se solo non avessi avuto tanta paura. Dopo aver
sperimentato la vera e propria morte, non ne avevo il coraggio. Non potevo
averlo. Avrei voluto confidarmi con io fratello, piangere sulla sua spalla. Ma
non potevo. Lui era troppo debole, ancora malato. Per una volta, dovevo essere
io forte per lui. “ti voglio bene”. Fu l’unica cosa che
riuscii a confessargli, reprimendo un improvviso impulso di piangere. Non
potevo, o lui avrebbe mangiato la foglia. Poco ma sicuro. Mio fratello non fece
altro che stringermi più forte. Era caldo e solido, tra le mie braccia.
L’ultimo abbraccio. L’ultima volta che lo vedevo. Sperai ancora che
desse l mio nome ad una sua eventuale figlia. Non avevo il coraggio di
chiederglielo. Ed ecco che il nostro destino si compì. Perché, ad
un certo punto, sentimmo la porta aprirsi, e sobbalzammo entrambi, presi di
sorpresa. Mi sciolsi dal suo abbraccio, e guardai indietro. Chi era che ci
disturbava? Un Guaritore? Junielle o Max? uno dei piccoli? Amarto? Oppure Akita
si era riuscita a liberare dalle presenze inquietanti, sottoforma di Guaritori
preoccupati, che la costringevano a letto? Niente di tutto quello. Il mio
destino era arrivato, sotto strane forme. Fissai, sorpresa, la figura di un
giovanissimo elfo, probabilmente un aiutante, o un Tirocinante, dai capelli
ricci e castani, sparati in tutte le direzioni, e dagli occhi scuri. Lui mi
guardò con un certo timore, poi si schiarì la voce. “Lsyn
Amarto?”. Domandò, con una voce giovanile e neutra, venata di
strana soddisfazione. Capii in un lampo. Il mio cuore saltò di un
battito, e, istantaneamente, sentii il mio stomaco contrarsi. Ecco. Mi stavano
chiamando. Dovevo rimanere tranquilla. Feci un gran respiro, per non agitare
Tijorn, e parlai con voce casuale, dolce ed indifferente. Ma dentro ribollivo.
Rimpianto, paura, anche rabbia, senso di ribellione, senso di dovere. Dovevo
morire per i miei sbagli. Ma era così tremendamente ingiusto. Pazienza.
Sarei morta per una buona causa, almeno. Potevo mentire. Dire di non
conoscerla. Magari non mi aveva riconosciuta. Invece non feci nulla di tutto
quello. “sono io”. Dissi, con voce ferma, senza il minimo tremolio,
e guardai di sottecchi Tijorn. Anche lui fissava il ragazzino, e sembrava
più incuriosito che altro. Nessun sospetto. Ottimo. Il tipetto sorrise,
soddisfatto. “potete uscire un momento? Abbiamo bisogno un momento di
voi”. Ecco. Ora sarei stata incatenata, uccisa seduta stante, picchiata.
Strinsi le labbra, e mi voltai verso mio fratello. Sentivo già le mie
campane a morto. Fissai, per l’ultima volta, i suoi magnifici occhi grigi,
e sperai che la prossima Lsyn li ereditasse. Erano troppo belli per andare
perduti. Ci guardammo per un attimo, ed io sorrisi. Un sorriso quanto mai
falso. “aspettami che torno subito”. Mentii, con voce rapida,
incolore. Povero Tijorn. Non mi avrebbe mai più vista. Né io avrei
più visto lui. Sentii un moto di affetto verso di lui. Gli volevo bene.
Lo adoravo. Un sogghigno stese il volto sereno di mio fratello, il mio dolce
stupidone. Non aveva intuito nulla. Sperai che non la prendesse troppo a male,
quando avrebbe saputo della mia fine. Lo speravo ardentemente. Non avrebbe
nemmeno avuto qualcosa su cui piangere, un mio ricordo, le mie ceneri, nulla.
Sarei stata gettata in una fossa comune. Un grosso peccato. Ma non importava.
Nono quando stavo per perdere i miei amati affetti. Dovevo essere forte.
Fortissima. Sospirai, e sorrisi, un sorriso falso. Avrei voluto piangere,
dimenarmi, urlare. Ma non potevo. “secondo te, Lsyn, dove posso andare?”.
Mugugnò, con un sorrisone sul volto. Gli invidiai la sua
felicità, ma fu solo un attimo. Fui felice, invece, per lui. La sua
clessidra si era riempita: lui viveva nell’alba. Trasformai la smorfia
che stava per nascere in un sorriso. Un sorriso falsissimo. Gli volevo bene.
Non l’avrei mai finito di ripetere. Lascialo era un dolore troppo acuto,
come se mi stessero recidendo il cuore. Orribile, doverlo lasciare, proprio
dopo averlo ritrovato per sempre. “ti voglio bene, stupidone”.
Ripetei, trattenendo a stento le lacrime. E poi l’abbracciai,
permettendomi di fare una cosa che non facevo dall’infanzia, una cosa che
mi aveva sempre imbarazzata, non so nemmeno io il perché. Lo baciai su
una guancia, rapidamente, abbracciandolo forte forte per un attimo, e poi mi
staccai, girandomi. Non l’avrei mai più visto. Oh, povera me. Non
avevo resistito. Sentivo le lacrime corrermi sul volto, copiose. Non era giusto
morire. Non quando avevo trovato la felicità. Raggiunsi in un attimo il
giovane. Lui si fece da parte. Era molto, molto più alto di me.
Dannazione. Non ce n’era mai uno da guardare dall’alto. D’improvviso,
lontana dall’influenza benefica di mio fratello, cominciai a tremare.
Sentii freddo, ed un malessere diffuso. Il nervosismo stava aumentando. In
fondo, la mia vita era alla fine. Sbuffai, e guardai quello che mi aveva
chiamata. Lui ricambiò il mio sguardo, incuriosito, senza
ostilità. Poi chiuse la porta. Staccandomi per sempre da Tijorn,
recidendo con lui ogni legame. No! Il mio fratellino! Scoppiai in singhiozzi
senza nemmeno accorgermene. Perché non potevo vivere serena, con lui e
gli altri? Volevo scherzare con Akita e Junielle, volevo punzecchiare Tijorn,
parlare con Amarto come ai vecchi tempi. Giocare con i piccoli. Tenere in
braccio il mio piccolo nipotino. Tutte cose che non avrei mai più potuto
fare. Ero già morta, in un certo senso. Non importava quando mi avessero
uccisa davvero. Avevo sprecato la mia vita per futilità. Ed ora ne
pagavo il prezzo, pagavo il prezzo della mia supponenza. “è
inutile fare questi piagnistei, Spia”. Disse una voce, profondissima e
calma, venata di disprezzo. Una voce sconosciuta che mi fece sobbalzare, e
girarmi verso la sua fonte. Al dolore si sostituì la paura. Erano quelle
le mie guardie, coloro che mi avrebbero condotta al luogo del massacro?
Perfetto, davvero perfetto. Perchè ero sovrastata da due giganti scuri.
Uno era l’elfo che mi aveva salvata, il gigante, il bestione, vestito di
abiti rossi, l’aria indifferente, con in mano delle corde dall’aria
malefica. L’altro era, in un certo senso, più terrificante. Se il
primo era scuro di pelle, un caldo e compatto color legno, quest’ultimo
individuo lo era ancora di più. Un colore impossibile per un elfo, di un
nero scurissimo, intenso oltre ogni dire, una pozza di oscurità. Eppure
era un elfo quanto il suo compare. Strano. I colori estremi, bianchissimo e scurissimo,
non erano tipici degli elfi, per niente. Sono rarissimi. Tremai. Non sembrava
una creatura molto gentile, raccomandabile e disponibile. Un duro, sotto tutti
gli aspetti. Aveva un’aria minacciosa, benché fosse molto meno
muscoloso del compare, anche se più alto. Superava i due metri. Un
gigante, che ai miei occhi appariva ancora più grande. Ero una nana, nei
loro confronti. Non che non lo fossi normalmente, intendiamoci. Agli occhi di
un umano potevo anche sembrare normale, forse solo un po’ piccina, ma per
un elfo ero indiscutibilmente fuori dalla norma, malcresciuta. In pratica, una
nana. Qualcuno aveva insinuato che fosse un difetto di crescita.
Beh…senz’altro non era colpa mia, in ogni caso. Esilarante. Eravamo
tutti fuori dagli schemi. Ero troppo spaventata per ridere della cosa.
Proseguii nell’esame dell’elfo che aveva parlato. I capelli erano
neri anch’essi, lunghi fino a metà schiena, ed acconciati in
quelle che mi sembravano minuscole treccine, il che metteva in evidenza le
orecchie a punta tipiche della nostra razza. Aveva dei lineamenti gentili, con
un naso forse un po’ troppo affilato, ed enormi occhi obliqui. Questi
ultimi mi sconvolsero, ed indietreggiai senza accorgermene. Il colore! Che
colore era? Giallo. Posso solo descriverlo così. Era il colore del sole,
il colore degli occhi degli Insat. Oro. Occhi stranissimi, innaturali come la
pelle. Non avevo mai visto un elfo con quei toni fantastici addosso. Per il
resto, era piuttosto normale. Era vestito di semplici abiti azzurro chiaro, ed
al collo, cosa che non mi sfuggì, portava il ciondolo rosso, a
differenza del compare, che pure era un Celestiale. Mi parve strano.
Cos’era che li differenziava? Cosa aveva, il bestione, in meno o in
più dell’altro gigante? Proprio, non ne avevo la minima idea.
Spaventata, li guardai, stavo ancora piangendo, e mi morsi le labbra per non
singhiozzare. Stavo malissimo. “Benagi, forse sarebbe meglio
legarla…”. Disse il secondo, quello con il ciondolo, parlando al
bestione. Lui annuì, stringendo le labbra. Socchiusi gli occhi, e sperai
che non mi facessero troppo male. “dove stiamo andando?”. Domandai,
con una voce piccola, e timidissima. Entrambi mi fulminano con lo sguardo.
“la nostra venerabile Nemys vuole vederti, bastarda”. Disse
l’elfo chiamato Benagi, con una smorfia di sufficienza, mentre mi legava.
Mi odiava, e molto. Si vedeva, anche a distanza. “dice che deve parlarti.
Perciò verrai con noi”. Accidenti. Nemys in persona voleva
parlarmi! Cosa avevo fatto di così grave? Cosa c’era, di
così importante, da rivelarmi? Previdi, non so perché, una morte
veloce e dolorosa. Lo sapevo. Lei avrebbe voluto sapere il perché io
avevo fatto del male ad Isnark. Chissà se era guarito, chissà. E
mi avrebbe torturata, solo per pagare il fio. D’accordo. Se non fossi
stata così preparata a morire, credo che mi sarei suicidata, seduta
stante. Il problema era solo che mi avevano preso la spada, e non sapevo dove
fosse. Un gran peccato. Una volta legate a dovere le mani dietro la schiena, ci
muovemmo verso l’esterno del Lazzaretto, io nascosta tra i due elfi,
invisibile di fronte alla loro incredibile mole. Il secondo, quello di cui non
conoscevo il nome, zoppicava vistosamente. Si portava dietro la gamba destra,
quasi inerte, e mi stupii non si aiutasse con un bastone. Così, uscendo
dal Lazzaretto per la stessa porta della mia entrata, ci mescolammo senza
essere notati alla gente che entrava in Kyradon, la città sacra. Come
ogni Lazzaretto, anche questo era fuori le mura, in territorio neutro. Fui
malamente portata in città, trascinata di malagrazia. Entrando nella
prima cerchia, ci avviammo verso l’interno, chissà dove.
Kyradon
è una città strana. Costruita in una pianura, è geometrica
fino all’esaurimento, è fatta interamente, all’esterno di
marmo bianco, o intonaco dello stesso colore. È tutto bianco. Case
bianche, anche i palazzi dei poveri, anche i negozi, strade grigiastre. Nei
vicoli stretti si sentiva un persistente e gradevolissimo odore di fiori. Ed i
fiori erano dappertutto, nei balconi in ferro battuto dei ricchi, venduti per
le strade, fiori di ogni genere, fiori di stagione, fiori provenienti dalle
regioni più meridionali e temperate, o fiori invernali e gracili, di
zona. Una città piena, pienissima, di fiori. Il profumo inebriava.
Trassi un gran respiro dell’aroma concentrato e piacevole. Era forse
l’unica cosa che mi rimaneva da fare. Osservai, interessata, la vita
nella città. Tutto si svolgeva con una placida calma, mista ad una
vitalità solenne. Molte persone che intravidi sorridevano, ed erano ben
nutrite, anche tra i poveri, nonostante fossimo in tempo di guerra. È
una città molto bella e pulita, costruita sull’unica collinetta
presente nella pianura, un pendio dolce e erboso, ed è una città
di media grandezza, secondo i modelli degli accampamenti Insathi. Tre cerchi di
mura: nel più esterno, mercanti di basso rango, poveri, piccoli
borghesi, eccetera, nel secondo i ricchi, nel terzo solo i sacerdoti, o il
sovrano. Ed infatti la leggenda vuole che Kyradonsia nata da unelfo nomade, che viveva con una
tribù. È una città sacra. Milioni, milioni di pellegrini
vengono a visitare i suoi templi, di chissà quale culto, a me
sinceramente sconosciuto. In primavera ed in estate la percentuale di stranieri
supera addirittura gli abitanti. È quasi assurdo. Ed infatti la gente
sciamava., gente di ogni razza, ma principalmente elfi. Ci dovevamo fare spazio
a gomitate. Era una fortuna avere due tali giganti al mio fianco. Noi,
camminando di buona lena, le mie guardie che mi nascondevano, ci dirigemmo
verso la cima della piccola collina. Tremai di terrore. Sapevo cosa
c’era, lì. Il palazzo, ed il tempio maggiore. Consacrato al dio
del sole, e della luce, era la costruzione più importante di Kyradon,
dove Nemys aveva istituito il suo rito. Un imponente edificio rettangolare di pietra
bianca, soprelevato leggermente da terra grazie a tre bassi scalini, circondato
da colonne bianche, dritte, dalle scanalature profonde, dal semplice capitello
piatto, addossato ad un altro edificio in pietra chiara, forse il castello, il
palazzo. Quello che era. Il tetto era di tegole dorate, che riflettevano la
luce del sole in mille barbagli fantastici, l’unica nota di colore
presente. Poco sotto di esso, sulla struttura tra i capitelli e il tetto stesso,
correva un fregio strano. Era troppo in alto per vederlo bene, ma notai,
chiaramente, che lo stile non assomigliava per niente ai templi presenti a
Galinne. Il disegno di quest’ultima era continuo, colorato, e tutto era
molto meno sobrio, ricco di oro ed orpelli vari. Lì mi pareva di notare,
tra un disegno e l’altro, tre scanalature, come quelle delle colonne, che
assomigliavano ai graffi paralleli di una belva feroce. “muoviti,
maledetta”. Bisbigliò il tipo di nome Benagi, stringendo un
po’ la corda. “ci perderemo il rito. Non vorrei essere nei tuoi
panni, dopo!”. Sospirai di nuovo, e, docilmente, presi a trotterellare
dietro di loro. Non era giusto. Avevano le gambe troppo lunghe. Continuammo a
camminare. Dopo quelle che sembrarono ore, ci avvicinammo ulteriormente. Tutto
quel biancore quasi dava fastidio agli occhi. L’ dentro c’era
l’essenza pura della luce. Notai, mentre incespicavo, una cosa. La
strada, man mano che andavamo avanti, si faceva deserta. Erano tutti
all’interno, forse, o forse quel livello era solo per i sacerdoti, che
erano dentro. Ad un certo punto, mentre venivo trascinata letteralmente dai due
giganti verso la costruzione, sentii un rumore. Un canto. All’interno del
tempio rettangolare, in ciò che c’era dentro, stavano cantando a
squarciagola. Era molto bello, ed armonioso. Non riuscii ad intendere le
parole, però, quel suono mi riempì di speranza. Sembrava volermi
consolare, voler dire che tutto sarebbe andato bene, e che nessuno era
lì per farmi del male. Mi piacque, e mi sentii stranamente rinfrancata.
Sembrava parlare alle corde del mio cuore. Erano voci femminili, che cantavano
in un ritmo solenne, pieno di gioia e di fiducia, con slancio notevole. Era un
ringraziamento per la luce, per la vita, per la bellezza della stessa
esistenza, un canto di perdono. Era un peccato non essere arrivati in tempo per
ascoltarlo tutto. Sospirai, e mi affrettai assieme ai due. Avevo dovuto correre
per tutto il tempo, e cominciavo a sentirmi stanca. Proprio mentre mettevamo
piede sul primo scalino, il bellissimo canto s’interruppe. Mi
sembrò di precipitare dalle nuvole. Il mio sole si era improvvisamente
eclissato, ed ora sentivo di nuovo freddo. Stavano sacrificando qualcosa? E
forse, ebbi un guizzo di notevole stupidità, la vittima sarei stata io?
Stavano aspettando me? Tremai, e quasi caddi. Fui fermata solo dall’elfo
dagli occhi d’oro, che mi mantenne un braccio, e mi trascinò di
nuovo in piedi. “dovremmo affrettarci”. Mormorò lui,
inquieto, guardando il compare. Lui annuì. Avvertii, non so perché,
improvvisamente, senza motivo alcuno, una brutta, dolorosissima fitta allo
stomaco. Sentii una bizzarra sensazione, come se dovessi andare avanti, come se ci fosse qualcosa lì, ad
aspettarmi. Mi sentii, per un attimo, a casa. A casa? Ma se stavo per morire?
Cosa andavo a pensare? Eppure, era così. Io dovevo stare lì. Era
il posto giusto per me. Strano. Anzi: era inquietante. Molto inquietante.
Finalmente, attraversando una zona d’ombra, tra le mura ed il vero e
proprio edificio, entrammo, attraverso una porta di bronzo sorvegliata da due
Celestiali armati di lance ai lati, ora aperta. Mi trovai davanti uno
spettacolo incredibile. Per un attimo, i due si fermarono, per farmi ammirare.
Ci trovavamo in una costruzione rettangolare, lunga e stretta, un po’
buia, perché senza finestre, ma illuminata da molte candele, appoggiate
a candelieri attaccati alle pareti, circa all’altezza dei due giganti.
Stranamente, non c’era fumo, né odore. Presi nota di quelle
informazioni con una strana curiosità, e dimenticai per un attimo la mia
situazione drammatica. Non avevo mai messo piede in un tempio, in fondo.
Continuai ad osservare. Ai lati del rettangolo c’erano delle panche di
legno, piene di persone, molte delle quali a capo chino, tutte in piedi, ora.
Nessuno, tuttavia, sembrò notarmi, notare il nostro arrivo. Eravamo
stati molto silenziosi, e la loro attenzione era concentrata su
qualcos’altro. Esse erano separate dal piccolo corridoi che si creava tra
le due ali da delle transenne mobili, sempre in legno scuro. Addossato alla
parete, un altro piccolo corridoio, del tutto vuoto. Le persone, di diversa
estrazione sciale, erano molto educate. Non volava una mosca. Ad un certo
punto, sentii uno scampanellio. Un rumore strano, come di campanelle. Poi un
altro scampanellio. E poi un altro, in successione. Io, che ero stata attirata
dai disegni strani dei candelieri, sobbalzai, e guardai, finalmente, dove non
volevo guardare, cioè all’altra estremità del rettangolo. E
ci rimasi di sasso. Non potevo crederci. Su una piattaforma soprelevata, sempre
di tre gradini, con avanti quattro soldati, due in piedi sul pavimento, due che
si appoggiavano al primo scalino, tutti armati della strana lancia a forma di
cuneo, in basso quelle che mi parevano sacerdoti e sacerdotesse, dodici in
tutto, vestiti di tuniche del bianco più accecante, una persona vestita
di color cenere inginocchiata ai suoi piedi, c’era Nemys. Deglutii, e mi
sentii molto male. Di nuovo, lo stomaco si contrasse, più forte, e
percepii la stranissima sensazione di essere…dove dovevo essere. Strano, perché
lei era mia nemica. Eccola lì. Colei che mi avrebbe cambiato il futuro.
Non mi sembrava una persona così inquietante, così cattiva. Era
un’elfa molto delicata, di una bellezza luminosa, che sembrava sprizzare
dolcezza e saggezza da tutti i pori. Era alta e magra, vestita di una tunica
candida, orlata di oro, con, alla base, ghirigori dorati. Potevo notare i suoi
capelli, di un bianco accecante come tutto intorno a lei, un bianco naturale
come quello di Isnark o Jalim, dai mille riflessi pastello. Non riuscivo a
vedere bene i lineamenti, a quella distanza, ma mi pareva che lei fosse ad
occhi chiusi, e che stesse sorridendo dolcemente. Ero stranamente attirata da
quella figura solenne. Non sapevo perché, né come mai, ma,
all’improvviso, tutti i timori nei suoi confronti furono cancellati. Mi
sembrava una creatura mite, incapace di far del male a qualcuno. Era
così dolce, così carina! Per un momento mi persi, beatamente,
nella mia osservazione. Sembrava una creatura incredibilmente rassicurante.
Un’elfa totalmente e completamente dedicata agli altri, al bene.
Immacolata, pura come il suo abito, e la città in cui viveva. Non so
come lo seppi, ma, istantaneamente, vedendola, anche dal punto lontano in cui
ero, capii che non mi avrebbe mai, mai uccisa. Forse mi avrebbe processata,
forse sarei stata incarcerata, ma non sarei morta. Sentii un flebile palpito di
speranza, e, per un momento, dimenticai Tijorn, la sua immagine che mi
tormentava. Continuammo, tutti e re, ad osservare il rito. I sacerdoti, ad un
certo punto, fecero tintinnare delle campanelle d’argento che avevano in
mano, uno alla volta. Dodici tintinnii, dodici scampanellii musicali. Era una
musica bellissima, che rinfrancava il cuore quasi quanto il canto. Era
così la religione? Questo provava chi credeva, quel senso di pienezza,
di dolcezza? Chi lo sa. Non ne ho la minima idea. Fatto sta che i miei due
carcerieri mi lasciarono vedere tutto, fino ad un certo punto. Seguii ogni
momento del rito, che non conoscevo, fino a quando non fui strappata
brutalmente dalla mia contemplazione estatica, trascinata verso l’ignoto.
Guardai bene la persona inginocchiata di fonte a Nemys. Sembrava poco
più che un ragazzino, un umano, un elfo, non so, dai colori anonimi ed
intermedi. Non aveva nulla di particolare. Chissà perché era
lì. Il rito continuò. Di nuovo la serie di tintinnii, più
veloce, stavolta. Nemys aprì le braccia, sorridendo di più. La
folla, come un solo essere, ondeggiò, mormorando una preghiera
inintelligibile, come un sol uomo. Di nuovo, lo scampanellio, sempre più
veloce. Una piccola ruga si andò a formare sulla fronte liscia della
sovrana del Matriarcato. Da quel momento in poi, quasi fosse stato un segnale,
i sacerdoti fecero tintinnare le loro campanelle sempre più veloce, fino
a quando non si fusero in un solo suono. La folla continuò a pregare, le
voci che si fondevano in una sola, profonda, solenne, il suono di un corno da
guerra. Era ipnotico. Ero incredula. Non avevo mai visto uno spettacolo
così grandioso. Sentii girarmi la testa. Era tutto molto, molto strano. Lentamente,
la sovrana andò a posare le sue mani, affusolate e lunghe, eleganti,
sulla testa della persona, sempre ad occhi chiusi, con fare concentrato. Ma in
che festività eravamo capitati? Forse…forse la designazione di un
nuovo soldato, un nuovo sacerdote? Non lo sapevo. Qualcosa di ben più
misterioso. Qualcosa che avrei scoperto in futuro. Sobbalzai, quando sentii,
inconfondibile, l’addensarsi di un potere magico, una magia molto
potente. Di nuovo lo scampanellio, ora frenetico, ma comunque armonioso. Mi
tesi quando vidi una strana luce circondare la testa del supplice vestito di
cenere, che rimase immobile. Cosa stava succedendo? Cos’era, quello? Non
riuscivo a capire di cosa si trattasse. Era un tipo di magia che non riuscivo
ad identificare in nessun modo. Era stranissima. Prima che il rito finisse, mi
sentii tirare. Mi girai, furiosa, dimenticando per un momento i due giganti che
mi tenevano. Ehi! Perché non mi facevano vedere un altro po’? Ero
curiosa, dannazione! Che mi lascino fare qualcosa, prima di morire! Niente. Fui
condotta, prima di riuscire a protestare, al silenzio da un’occhiata
intimidatoria dell’elfo senza nome.
D’accordo…d’accordo. Mi arrendo. Sono tutta vostra. Avevo
visto la cosa più bella del mondo. Ora potevo morire. Mi lasciai trascinare
mollemente dai due, per il corridoio ai lati. Fino ad una porticina di legno.
Scuro. Nessuno mi notò. Tutti erano troppo concentrati su quello che
stava accadendo sulla piattaforma, troppo concentrati a pregare. Ero curiosa,
ancora, di vedere cosa stava succedendo. Gli scampanelli continuavano, con un
accenno festoso nella melodia. Mi misi in punta di piedi. Non riuscivo a
guardare, attraverso tutte quelle test,e dannazione! Cercai di contorcermi,
incuriosita ed estatica, per vedere meglio, ma non ci riuscii. Accolsi con
delusione uno spintone dell’elfo chiamato Benagi, che mi fece segno di
entrare attraverso la piccola porticina nera. Entrai, ancora legata, sola. La
porta fu subito chiusa dietro di me, e tutti i rumori si smorzarono.Sola. Finalmente. Se solo fossi stata
libera di muovermi…tanto, lo stesso, ero chiusa. Ero in una camera
piccina, scura, molto disordinata, ammobiliata solo da un divanetto, coperto di
abiti e stole di ogni colore, una libreria stracolma, ed un tavolino con
quattro sedie. Sul tavolino, una brocca di cristallo, piena d’acqua
gelata fino all’orlo, e qualche bicchiere accanto. Deglutii. Lì
dentro faceva caldo, ed io, dopo la passeggiata, cominciavo ad avere sete.
Quella era una tortura. Doveva esserlo. Era estate, dannazione! Era una
tentazione enorme. Ehi, ma…i due mostri non c’erano. Nemys nemmeno.
Mi attraversò un’idea. Ero sola, no? Tutta sola. E, davanti a me,
c’era un bel bicchiere di acqua fresca, pronto, che mi chiamava,
ammiccando. Il difficile sarebbe stato liberarsi dalle corde. Pazienza. Potevo fare
quello che volevo. Avevo i denti da usare, e la gambe libere. Mi guardai
attorno, per essere sicura di non essere spiata. Cosa assurda, lo temevo.
Temevo in qualche trucchetti da maga. Mi avvicinai, lentamente al tavolino.
Poi, una volta lì, cercai di liberarmi dalle corde che mi tenevano
prigioniera. Niente da fare. L’elfo che mi aveva legata sapeva davvero il
fatto suo. Molto bene. Sospirai, rassegnata. Ero una condannata a morte.
Perché mi tormentavano ancora, mettendomi una cosa ambita sotto il naso,
senza poterla raggiungere. Perché? Sbuffai. Magari Benagi si era dimenticato
di lasciarmi andare. Maledetto orso! Mi allungai sul tavolino. Dovevo sembrare
ridicola. Ah…cosa importava! Stavo morendo di sete. Arrivavo a stento al
primo bicchiere. Aprii la bocca. Ora dovevo stare attenta, se non volevo riempirmi
il muso di schegge di vetro. Delicatamente, con i denti e le labbra, cercai di
portare il bicchiere da me. Non so quanto ci volle, per quel lavoro delicato. Solo
so di essermi avvicinata lentamente al bicchiere vuoto, di averlo avvicinato
con destrezza. Non so cosa intendessi fare, forse liberarmi con quello. Forse prendere
la brocca con i denti. Non ne ho la minima idea. Mi allungai un altro po’.
Cominciavo a sentire un vago senso d’oppressione. Ma volevo quell’acqua,
accidenti! Era così bella, così invitante…. E non importava
che il mio fosse un comportamento da infante. Non me ne importava un piffero. Ero
in punto di morte. Potevo levarmi qualche sfizio, fosse anche stato quello di
rubare l’acqua alla Sacerdotessa. Ha, ha, ha. Magari avrei rotto la
brocca, dopo, solo per farle dispetto. Molto, idiota, lo so. Comunque, non ne
ebbi mai occasione. Sentii delle voci provenire dietro la porticina nera,
quella che si era richiusa dietro di me. “su, Benagi, Zipherias, aprite…voglio
vederla”. Disse una voce musicale, dolcissima, rassicurante, che
consolava da ogni male. Oh, no! Nemys! Sobbalzai, ed il bicchiere di cristallo
mi sfuggì dal controllo. “no!”. Sussurrai, lasciandomi
scappare il bicchiere, che cominciò a rotolare. Drammaticamente vicino
al confine con il nulla, con l’aria. Avrebbe fatto un rumore infernale. E
non avrei sopportato di fare una figura del genere, anche se prima ero pronta a
farla. “maledizione…torna qui!”. Cercai anche di fare un
salto. Ma senza mani non potevo fare nulla. Accidenti, accidenti! A nulla
servirono i miei gemiti, e le mie suppliche. Il bicchiere cadde, birichino, dal
tavolo, e, come se fosse normalissimo, andò ad infrangersi a terra, con
un rumore infernale, spaccandosi in mille pezzi. Nello stesso momento, la porta
si aprì. Una figura si stagliò, esile ma solenne. Come un’infante
sorpresa a rubare nella dispensa, mi misi dritta, mentre il cuore mi batteva
forte. Prima avevo avuto una possibilità d’ingraziarmi la buona
sovrana. Ora, con quello che avevo combinato, ogni possibilità era
andata a farsi friggere. Ero spacciata. Volevo piangere, piangere per la mia
stupidità. Mi morsi il labbro inferiore. Non ci avevo pensato, come
sempre. Evitai, così, di fissare, accuratamente, il volto di Nemys,
nonostante fossi curiosa. Che faccia aveva, questa famosa elfa? Che faccia
aveva, la nemica di Lainay? Che faccia aveva davvero? Mi risparmiai, per un po’,
il colpo al cuore che mi aspettava. Non volevo che lei interpretasse la mia
curiosità per sfida. Così, fissai il mio sguardo sul pavimento. Ero
imbarazzata, e capii, in un attimo, di essere arrossita. Sentii la porta
chiudersi. Eccomi di fronte l’ennesimo ostacolo, l’ennesima nemica.
Nessuno voleva la mia felicità. Era terribilmente triste. Quanto mi
sbagliavo. “Lsyn…” bisbigliò la sovrana, con una
strana voce commossa. Non osai alzare lo sguardo. Poteva trattarsi di un trucco.
“Lsyn…”. Disse solo quello, poi ci fu una pausa. Ehm…si,
le avevo rotto un bicchiere. E le avevo ferito il compagno. Poteva odiarmi
quanto voleva. Non successe esattamente così. Rumore di passi, di corsa.
E poi non ci fu più spazio per nulla. Sobbalzando dalla sorpresa,
incredula, sentii, dopo quei passi frettolosi, qualcuno stringermi a sé spasmodicamente,
una stretta forte, spezza ossa. Eh? Era Nemys, quella? Mi sentii, per un attimo, soffocare. Cosa?
Mi stava… Nemys mi stava… abbracciando?
Eh? Qualcosa mi sfuggiva. Che diavolo stava succedendo? Nemys, la mia nemica,
che mi doveva odiare più di ogni altra cosa al mondo, mi abbracciava? Mi
stava forse davvero soffocando? Oppure c’era qualcos’altro sotto? Sapevo
solo una cosa, in qual momento. Mi stava facendo male, stringendo il braccio
nel punto in cui mi ero ferita. Dannazione. Ma chi era, quella? Si poteva
sapere cosa accidenti stava succedendo? Ero impazzita io o il mondo? O forse
avevamo tutti imparato a camminare a testa in giù, ed io non me n’ero
accorta?
Capitolo 73 *** Un bicchiere è sempre un bicchiere. ***
Ancora tra le braccia della pallida elfa, immersa in quei lisci capelli
bianchi che sapevano di fiori e miele, un distillato stesso dell’essenza
della città, provai di nuovo quella bizzarra sensazione
Ancora
tra le braccia della pallida elfa, immersa in quei lisci capelli bianchi che
sapevano di fiori e miele, un distillato stesso dell’essenza della
città, provai di nuovo quella bizzarra sensazione. Non so come
descriverlo altrimenti, ma sentii il
mio cuore. Quasi come se non lo avessi mai avuto finora, quasi come se lo
avessi dato per scontato. Era una strana sensazione, di calore, di completezza,
una sensazione a cui non saprei dare un nome. Quasi come se tutti i miei
tormenti fossero spazzati via, tutti di un colpo. Come se fossi intera,
integra, come se non avessi più il viso per metà rovinato, e
cicatrici a devastarmi il corpo, a deturparmi del tutto collo e schiena. Come
se tutte le umiliazioni, la stanchezza, il dolore da me provato non esistesse più.
Era strano, ma non mi sentivo inquieta. Per niente. Non andai a pensare che
quell’abbraccio poteva essere solo un trucco, che ero ancora legata, e
che Nemys mi aveva completamente in suo potere. Che era la compagna di Isnark,
che avevo quasi ucciso. Che era la proprietaria del bicchiere che avevo rotto,
che chissà quanto costava. Una cosa del genere, a Galinne, mi sarebbe
costata un paio di scudisciate, di sicuro, in caso che Lainay fosse di
buonumore, beninteso. No: non andai a pensare quelle cose cattive, su di lei.
Sapevo che era arrabbiata con me, perché ero stata una maledetta
sciocca, ma, a primo acchito, non so come facessi a dirlo, non diedi per
scontato la mia morte. Nemys mi ricordava in maniera netta la Matriarca, la sua
dolcezza priva di quella cupa fierezza di razza. Sembrava quasi più
piccola, portava in sé qualcosa di apertamente infantile, candido e
saggio allo stesso tempo. Lì, tra quelle braccia estranee, in quella
dolce stretta, mi sentii rassicurata, non so perché. Era quella la
sovrana di Kyradon, quella che gli elfi del Regno disprezzavano tanto?
Quell’insieme di fiori e luce, l’incarnazione vivente della sua
città sacra? Era quello il faro opposto a Lainay, la sua più
irriducibile nemica, che, misteriosamente, si era alleata con lei? Era lei
quella che chiamavano la Rinnegata? E cosa aveva, di rinnegata? Non mi sembrava
una creatura che sguazzava nell’odio, nel rimorso, nel dolore, nella
solitudine, una senza patria, picchiata come un cane randagio da entrambi gli
schieramenti, una persone condannata a vagare per sempre in un grigio limbo.
Non era legata mani e piedi alle pastoie del passato. No. Quella ero io. La
rinnegata ero io. Forse era quello che aveva voluto dire Lainay. Molto
filosofico. Bah…oppure era pazza. Un’ipotesi che mi tentava
terribilmente. Eppure, insieme a quell’ondata di calore, percepii
un’insieme di sentimenti che mi fece sentire uno schifo, un essere
d’infimo ordine. Io… io avevo le mani lorde di sangue innocente.
Avevo ucciso il mio amato. Spinto mio fratello ad ammazzare, facendo tornare i
suoi incubi, ciò che lui aveva fatto di tutto per dimenticare,
rimestando il fondo oscuro della sua anima, che poco gli piaceva. Agito sempre
e comunque come se non avessi una mente. I piccoli erano stati picchiati solo
perché io ero egoista, tanto egoista. Il mio stupidone preferito era
stato ferito gravemente solo per la mia disattenzione. Ero impura, una macchia
di fango su un giglio, inadatta a quella luce. Io non dovevo stare lì!
Quello non era il mio posto, quello era il posto per persone con la coscienza
pulita e lo sguardo sereno, persone a cui non sfuggiva la vera essenza
dell’amore. Io non potevo stare lì: avevo servito
l’oscurità, ero l’Ombra. Ecco, era una reietta, e quello mi
stava bene, perché lo meritavo. Ed ora ecco. Io, la più indegna
di tutti, odiosa ed odiata, indegna perfino di stare con i proprio cari, con la
gente che amava, per paura di contaminarli con la propria stupidità,
l’essenza stessa dell’oscurità inetta, venivo accolta dalla
luce come un’amica. Una sorella. Cinque giorni di sguardi storti, di
persone che alla mensa del Lazzaretto si zittivano quando io sgattaiolavo
lì per prendere qualcosa da portare ai piccoli, una chicca, o un
po’ di cibo per Akita, di elfi che borbottavano ingiurie al mio passaggio,
di uno dei cuochi che mi rifilava gli scarti di tutto, cinque giorni di
sopportazione stoica, in cui non avevo detto una parola, in cui mi ero dedicata
solo a curare i miei cari, senza mostrare una briciola di dolore, come se fossi
la persona più soddisfatta e felice al mondo, facendo finta di fregarmi
completamente di quello che dicevano gli altri, mentre per me ogni
manifestazione d’odio era una stoccata, perché era quello che
sapevo su di me che diveniva visibile, tangibile, ebbero la meglio. Fu forse
perché, in presenza di quell’elfa che, a ben vedere, avrei dovuto
odiare, che avrei dovuto addirittura temere quanto e più di Lainay,
quella creatura così dolce che avevo disprezzato e dileggiato
così a lungo, mi sentii stranamente al sicuro, libera da ogni vincolo, o
forse fu perché lei era la prima persona da un bel po’ a non
trattarmi come se fossi invisibile, come facevano i Guaritori, che parlavano
solo ed esclusivamente di affari concernenti il loro mestiere, senza fare
preferenze, oppure ad aver bisogno di me, o a non odiarmi, a non guardarmi male
e cercare di far di tutto per ferirmi, non lo so. So solo che, ad un certo
punto, sentii pizzicarmi gli angoli degli occhi, ed un persistente groppo in
gola. E tutto quello successe in un attimo, il tempo di quel lungo abbraccio.
Prima che Nemys mi lasciasse, infatti, ero già scoppiata in singhiozzi
come non facevo da tempo, o forse come non mi ero mai permessa di fare. Non
avevo mai permesso a me stessa di superare un certo limite in presenza degli
altri, per la mia stessa fierezza che m’impediva di lasciarmi andare.
Anche con Tijorn mi ero imposta un limite, anche con Chekaril, benché
sorpassassi quel limite spesso e volentieri. Non avevo mai pianto così
forte, quei singhiozzi dolorosi e secchi, quasi senza lacrime, che mi sarebbero
tanto divenuti familiare in un seguito non così remoto. Un pianto di
dolore, di sollievo, di rimorso, non lo so. Stordita dalle lacrime, mi sentii
improvvisamente trascinare, una stretta dolce. Mi ritrovai seduta sul divanetto
senza sapere come ci fossi arrivata, libera ormai da quell’abbracci,
ancora gli occhi inondati di lacrime. Come potevo dire a Nemys che mi
dispiaceva? Come potevo dirlo, che ero cambiata? Come potevo dirlo, come potevo
confessare che era stata sempre e comunque colpa mia? Mi dispiaceva, di tutto.
Di averla disprezzata, di averla dileggiata, io, la bestia più bestia di
tutte. Di averle ferito il compagno, io, che ero stata così scottata
dall’amore. Di essermi messa contro di lei. E, si, anche di averle rotto
il bicchiere. Di nuovo, qualcuno mi abbracciò, rapidamente, e mi sentii,
subito dopo, le mani libere. Fu una bella sensazione, non sentirsi più
tirare all’indietro, non sentire più quel lieve dolore ad ogni
movimento avventato. Tirai su con il naso, e, la prima cosa che feci con la
manica, fu quella di asciugarmi gli occhi. Ma non ci riuscivo. Le lacrime erano
troppe. Tutte le lacrime che avevo conservato per quel momento stavano uscendo
fuori, imperiosamente, ed io non potevo farci nulla. Rimasi tutto il tempo a
testa bassa, il petto squassato dai singhiozzi, al punto che mi faceva un male
tremendo, come se volesse scoppiare, esplodere, senza potermi controllare. E
non ne provai vergogna. Mi sembrò così giusto, così
dolorosamente bello. Non trovavo nulla di riprovevole nel piangere di fronte ad
una che avevo considerato una nemica, anzi. Oh, Nemys…come mi dispiaceva,
di tutto. Ero stata io. Io e solo io, che non avevo fatto altro, nella mia
esistenza, disturbare le vite altrui, distruggerle, io, che non a torto ero
odiata da molti, sopportata da pochissimi, amata, credo, solo da un paio di
creature. Ed ecco che veniva quella sovrana, amata, venerata e perfetta,
l’antitesi della mia esistenza, e mi abbracciava. Sentii,
d’improvviso, mentre ancora piangevo, squarciata da un dolore tanto
intenso quanto liberatorio, qualcuno sedersi accanto a me, e mettermi qualcosa
di duro e freddo in mano. Lo guardai, di sfuggita, e quasi risi. Un bicchiere
colmo d’acqua. Deglutii. Nemys era così maledettamente gentile,
con me. Un tesoro. Ed io, che avevo fatto di tutto per ostacolarla, era la
beneficiaria di amore, da parte di una persona che avrebbe dovuto prendermi a
calci, e sarebbe dovuta essere la prima a farlo, perché io le avevo
causato danni oltre ogni dire. Avevo, incosciente del suo amore, preso il
bicchiere e rotto la brocca, in senso metaforico, per puro divertimento, solo
perché me l’aveva ordinato una parte di me che aveva smesso di
esistere per sempre. Ero stata punita severamente di questo, come una monella.
Strinsi forte l bicchiere freddo, e non bevvi. Respirai, invece, un paio di
volte, profondamente, nel tentativo inutile di calmarmi. Non feci altro che
prepararmi ad una nuova crisi di pianto. Lei mi lasciò sfogare, in
silenzio, in un silenzio pacifico. Non si sentiva una mosca volare, solo i miei
singulti. Dopo un po’, senza preavviso, ancora la vista offuscata dalle
lacrime, sentii una mano posarsi sulla mia libera, leggera e fragile, quasi
come le ali di una farfalla. Sobbalzai, e quasi mi ritrassi. Lei non tolse la
mano, e m’impedì di ritirarla. “smetti di piangere, piccolo
ragnetto…”. Mormorò, con quella voce melodiosa, addolorata,
così assurdamente familiare, come se la conoscessi da una vita, come se
fosse la mia più cara amica, la sorella persa da una vita. L’altra
parte di me stessa. C’era qualcosa che mi sfuggiva. Un ricordo, che
fluiva via come un ruscello. Sobbalzai. Quell’appellativo mi diceva
qualcosa. Piccolo ragnetto. Piccolo ragnetto. Piccolo ragnetto? Mi sentii,
istantaneamente, avvolgere dal gelo più acuto. Provai un senso
d’irrealtà incombente.Nemys aveva usato un soprannome da me ben conosciuto, e sapendo di
usarlo. Come conosceva quelle cose? Come? Perché
quell’appellativo, quel nomignolo con cui lei mi chiamò sempre, mi
era familiare, fin troppo. Da piccola Amarto mi chiamava così,
affettuosamente, ragnetto, piccolo ragnetto, perché già allora
ero minuscola, ad agilissima, capace di cacciarmi ovunque per nascondermi. E
lui ripeteva il mio soprannome come una cantilena, una ninnananna, quando non
stavo bene, oppure facevo brutti sogni. La voce profonda del Maestro mi
tranquillizzava sempre, quando lui mi prometteva che sarebbe stato sempre
lì, per me, fino a quando non sarei stata meglio, ed io mi addormentavo,
irresistibilmente. Era un ricordo vago, nebuloso, che mi riempiva di nostalgia.
La mia infanzia era stata così assurdamente felice, se si escludevano le
giornate in cui Amarto era praticamente sbronzo, quando dovevamo fuggire nella
foresta, perché l’atmosfera diveniva pesante, così dannatamente
piene di luce. Così irrecuperabili. Fu forse quel nomignolo a farmi
smettere di piangere, o forse già mi stavo tranquillizzando da un
po’. Però era strano. Troppo strano. Quel nome non era stato usato
senza cognizione di causa. “non piangere su, è tutto a posto,
tutto finito…”. Come volevo crederle. Come. Avrei fatto di tutto,
pur di crederle, credere a quella creatura che sembrava leggermi nel pensiero,
quell’elfa che ancora non avevo visto in viso. Cosa strana, vero? Non
avevo mai visto Nemys. Solo da lontano, o attraverso la cortina umida delle
lacrime. Pian piano, riguadagnai il controllo di me stessa. I singhiozzi si
fecero più radi, le lacrime smisero di uscire. Mi sentivo triste,
fragile, stanchissima. Ma un grosso fardello sembrava essersi scaricato dalle
mie spalle, qualcuno lo aveva tolto. Mi sembrò strano, il fidarsi
così completamente di una sconosciuta. Deglutii, ed arrossi leggermente.
Mi ero lasciata andare, con lei, come non mi lasciavo andare con nessuno.
Nemmeno Tijorn, mai, mi aveva visto piangere a quel modo di mia spontanea
volontà. Mi aveva vista triste, dolorante, impazzita, sconvolta, ma non
aveva mai avuto il permesso di toccarmi, o provare a consolarmi, in quei
momenti delicati. Invece no. Permisi a quella che doveva essere la mia nemica
numero due di abbracciarmi di nuovo, delicatamente. Ne avevo bisogno. E come
sentivo atroce, il senso di colpa nei suoi confronti! Avrei voluto strisciare
al suo cospetto, ed avrei fatto di tutto pur di farmi perdonare. Mi schiarii la
gola, e, nello stesso momento, mi resi conto di avere ancora il bicchiere pieno
in mano. Era buffo. Quella cosa che prima, quando credevo di star per morire,
avevo desiderato così tanto, era stata accantonata non appena
l’avevo avuta, con il permesso. Ridacchiai, e, senza ancora guardare
Nemys, mi scolai tutto d’un fiato l’acqua, piacevolmente fresca.
Scese giù che era una meraviglia: non c’è niente di meglio,
dopo un pianto disperato, quando fa caldo, di un bel bicchiere freddo per calmarsi.
Non so perché evitai di fissare l’altra elfa in viso, non lo so.
Rispetto, forse, o forse timore. In fondo, non sapevo ancora se sarei morta o
meno. Quello ancora non lo sapevo. Poteva essere tutto un trucco. Non so
perché, ma non ero portata a pensarlo. Era un po’ troppo drastico
per quella dolce elfa, che mi sembrava così familiare. E poi,
stranamente, non sentivo il bisogno di guardarla. Qualcosa mi diceva, qualcosa
all’interno del mio animo, che non sapevo capire, che lei era sempre
stata lì, con me, che io la conoscevo da sempre, non c’era bisogno
di uno sguardo incuriosito. Non provavo curiosità: essa era mitigata da
quel sentimento caldo di conoscenza, di completezza. Strano da parte mia, da
sempre una ficcanaso nata. Ero proprio una Spia scaduta: mi fidavo del primo
che passava, e non l’andavo ad osservare nemmeno, per notare nei suoi
occhi una scintilla di cattiveria nei miei confronti! Ed invece non lo feci:
rimanemmo di nuovo in silenzio, io a testa bassa, con il bicchiere in mano, lei
che mi accarezzava il dorso dell’altra mano, quella rovinata, come se non
avessimo nulla da dirci, come se avessimo esaurito ogni discorso, dopo anni ed
anni di chiacchiere instancabili. Come se la nostra amicizia fosse al tal punto
profonda, da far parlare la quiete. Eppure io la conoscevo solo da pochi
istanti, e già mi sembrava di aver a che fare con lei da una vita
intera. Ero così semplice da capire? O forse lo era lei? Sentii, ad un
certo punto, la smania incredibile di parlare. Volevo scusarmi: scusarmi per
tutto il male che le avevo recato. Mi schiarii così la voce. Il suono
spezzò la pace, come una frustata. Aprii e chiusi, incerta sulle parole
giuste, la bocca un paio odi volte, come un pesce, prima di parlare.
C’era un grosso problema. Non me la sentivo di chiamarla con qualche appellativo
onorifico, mia signora o venerabile. Non avevo intenzione di
venerare e servire strisciando nessuno. Avevo trovato la mia dignità, e
non volevo buttarla al miglior offerente. Lei avrebbe avuto a mia stima solo
quando avrebbe dimostrato di essere davvero quello che sembrava. Non volevo
un’altra Lainay, che mi aveva accolta, quando io ero appena entrata come
apprendista, con mille e mille moine, e che mi aveva trattata per tuta la mia
esistenza come una schiava. Tuttavia, non potevo nemmeno chiamarla Nemys, come
se fosse un’amica.Era
ancora, per certi versi, una sconosciuta, benché, in un certo senso,
sentissi di conoscerla già, ad un livello molto più profondo di
me stessa. Non sapevo cosa fare. Optai per una scelta neutra.
“io..”. esordii, per poi richiudermi di nuovo nel mio temporaneo
mutismo. Oh, bene. Come spiegarle il tumulto stanco che si agitava in me? Come
affermare la mia indipendenza, e, nello stesso tempo, la mia servitù?
Come dirle di essere cambiata del tutto? Come dirle che imploravo di vivere
ancora, e di essere perdonata, di essere amata? Perché io quello
desideravo. La vita tranquilla con i miei cari. Una vita che, prima desiderio
irrealizzabile, stava di nuovo timidamente rilucendo, come una candela che cova
una scintilla al soffiare del vento, e, non appena esso si è arrestato,
riprende a bruciare come se nulla fosse. Forse, dopo, sarei potuta tornare a
far da aiuto al mio fratellino, fino a quando non si sarebbe ripreso del tutto.
Avrei aiutato Akita, a far nascere e crescere il piccolino. L’avrei preso
in braccio, coccolato, viziato. Avrei allevato Roxen e Chekaril, li avrei
ubriacati d’amore, fino a farli guarire, risanare le ferite che da tanto
si portavano dietro, avrei dato loro tutto quello che io non avevo avuto, o che
avevo avuto al tempo stesso. E poco importava che sarei stata odiata da tutti.
Non avevo in programma di uscire di casa. Magari, non appena notato che io non
ero più l’Ombra, si sarebbero tutti tranquillizzati, ed avrebbero
cominciato ad accettarmi. Nell’attesa che succedesse, comunque, prevedevo
di dedicarmi completamente alla famiglia per un po’. La prospettiva non
era per nulla malvagia. Ma dovevo farmi perdonare. Mi sarei volentieri messa in
ginocchio su vetri rotti pur di non essere uccisa. Ancora, scelsi il male
minore. In fondo,le avevo rotto un
bicchiere. Anche per quello ci volevo un perdono. Sperai capisse. Non me la
sentivo di dire che mi sarei fatta tutto quello che avevo combinato al
compagno, se solo lo avesse chiesto, solo per un perdono. “mi dispiace…ho
rotto il bicchiere”. Quanti significati, quel bicchiere. Una colpa. Un
perdono. Nemys rise, una risata dolcissima, infantile quasi, che mi
rinfrancò lo spirito. Lei mi lasciò la mano, e mise la mano sulla
testa, giocherellando con i miei capelli. La lasciai fare. Non mi sentivo,
stranamente, a disagio. Come se mi stesse toccando una madre. “un
bicchiere è sempre un bicchiere”. Disse, con quella voce strana,
tintinnante, come se stesse sul punto di mettersi a cantare. Sembrava divertita.
Mi accarezzò di nuovo i capelli. “se tu non fossi stata legata,
non l’avresti rotto, no?”. Annuii, con una strana sensazione di
sollievo. Lei aveva capito. Dei, Nemys era così strana! Sembrava conoscermi
a menadito, leggere dentro di me! Il mio bicchiere, la mia vita, ciò che
le avevo fatto. Le tre cose s’intrecciavano. Ero stata legata da quello
stupido giuramento, più forte della vita stessa, quella vita che aveva
fatto in modo di distruggere completamente. Quella vita che ormai non mi
apparteneva più. Ero stata liberata, sciolta da ogni fune. Annuii così
lievemente, e ripresi a parlare, con voce sommessa. “ora però non
sono più legata, mi hai liberato”. Liberato da Lainay. Non tutti i
sovrani erano pazzi scatenati come lei. Era un piacere, sentirlo. Ed un peccato
che quella pazza fosse così potente da costringerla a mettere da parte
la sua ideologia, chiunque lei fosse. A quel punto, non m’interessava poi
tanto. Era così bello, stare con lei, capirsi senza aver bisogno di
parlare, ed anche così inquietante…un qualcosa che non avrei
voluto che non finisse mai. Nemys rise, di nuovo. Lei sembrava sempre ridere. “quindi
si suppone che tu non rompa più bicchieri!”. Oh, no. Non ne avevo
bisogno. Libera dalle funi, potevo vivere la mia vita in pace, sorbire l’acqua
della vita, così piacevole del torrido dolore, così gustosa. Avevo
trovato la mia vita. Lei non aspettò la mia risposta, e mi
abbracciò di nuovo. “oh, Lsyn…”. Disse poi, con una
voce stranamente seria che m’inquietò. “tu non puoi sapere
la bellezza dello stare qui, accanto a te…mi sento finalmente completa”.
Bizzarre parole. Anche per me era la stessa cosa. Che lei fosse la mia gemella
dimenticata? Sorrisi. Se solo avessi saputo la realtà, in quel momento,
se solo avessi studiato un po’ di più, chiesto magari a quel topo
mangia carta che era Akita, a quel punto avrei capito il perché di molte
cose. Perché mi sentissi completa, innanzitutto. E perché Nemys
sembrava saper comportarsi con me come se mi conoscesse da una vita. Perché
mi sentissi così rassicurata in sua presenza. Perché, soprattutto,
non riuscissi a togliermi di testa l’idea di essere a casa, esattamente
dove dovevo essere. Lei continuò a parlare, mentre io abbassai ancora di
più lo sguardo. Non riuscivo a sopportare la presenza di una creatura
così pura, accanto a me. Oppure era il mio inconscio, che, avendo
registrato ciò che a me era sfuggito, mi stava mettendo in guardia. Lei continuò
a parlare, tranquilla. “sai…ho avuto paura per te. Un paio di volte
ti percepivo molto poco, come se stessi per svanire. Mi sono spaventata davvero.
Come avrei fatto, se tu fossi morta?”. Eh? Cosa? Lei stava insinuando di
sapere tutti i miei colpi di testa? Accolsi quelle parole, quella sorta di
confessione, un una sorta di curioso sconcerto. Provai un sentimento misto tra
l’imbarazzo e la sdegnosa irritazione. Ehi, si fidava proprio tanto di
me! Non riuscivo a capire un accidenti di quello che stava dicendo. Percepirmi?
Mi aveva messo un aggeggio magico addosso, per spiarmi? Quasi mi sentii
indignata. Mi sembrava così una brava persona…mi ero proprio
sbagliata, nei suoi confronti! Ecco. Lei non era altro che una delle tante
stupide sovrane in giro. Magari un po’ più pietosa. Ma sempre
diffidente, nei miei confronti. Nessuno mi voleva bene davvero, per ciò
che ero, Lsyn, l’avventata Lsyn. Stavo proprio sbagliando. Ma non era
colpa mia. Io non ero a conoscenza di certe cose. Emisi uno strano rumore, e
feci par parlare. Ma lei mi bloccò, con uno strano rumore. “lo so
che non sai, Lsyn…”. Disse, con una voce morbidissima, calma e
dolce. Ecco. Avrebbe fatto meglio a spiegarsi. Io volevo una spiegazione. Ero stanca
di essere trattata come una stupida. “e lo so che sulle prime non mi
crederai…strano, però. Pensavo che quella misera di Lainay te l’avesse
detto… difficile per lei starsi zitta, su una chicca del genere…”.
Ebbi una strana sensazione, come di ripetuto. Lainay c’entrava qualcosa? Stavo
forse per scoprire cosa significava Rinnegato? Aguzzai le orecchie, in vista
della confessione. Non avrei mai pensato, poi, che fosse una cosa tanto
sconvolgente. Lei riprese a parlare, dopo una piccola pausa, in tono
meditabondo. “e tu non hai detto nulla su di me…ne deduco che…”.
Di nuovo, una pausa. Poi lei parlò, una preghiera affrettata che mi
cambiò la vita per sempre. “Lsyn? Perché non mi guardi
negli occhi, solo per un momento?”. Eh? Quella richiesta così
strana mi fece sobbalzare, e, senza attendere oltre, le obbedii, del tutto
inconsciamente. Volevo guardarla, capire perché mai lei volesse quello. Ero
curiosa. Che richiesta assurda! Che c’era di strano, nel suo volto? Dovevo
proprio guardarla, svelare i miei segreti a lei? Non era lei un’elfa come
tutte? Oh…come mi sbagliavo. E lo capii subito dopo aver incontrato il
volto più sconvolgente della mia intera esistenza. Cosa c’era di
strano? Cosa c’era di strano? No:
non c’era nulla di particolare negli occhi, bellissimi, di un piacevole azzurro
limpido, il colore del cielo a prima mattina, un colore piuttosto comune negli
elfi, contornati da lunghe ciglia curve, occhi che risplendevano di fede,
speranza e dolcezza antica; o nella pelle, candida come il marmo delle mura del
tempio, una pelle perfetta. Ciò che mi sconvolse fino all’inverosimile,
seccandomi la bocca, e facendo battere il cuore, impazzito, facendomi emettere
brevi pigolii insensati fu ben altra cosa: i lineamenti. Perché lei,
Nemys, sovrana ed Alta Sacerdotessa del Matriarcato di Uruk, mi assomigliava a
tal punto da poter essere scambiata per una sorella. Assomigliava a me, ad una
reietta qual ero. Deglutii, e mi sentii girare la testa. Mi trovavo in una
situazione da incubo. Nemys…io…Nemys…Non
volevo crederci. Era impossibile! Eravamo…oh, dei, eravamo quasi identiche! Lei era…lei era me,
prima che un incidente malvagio mi sfregiasse in modo orrendo metà
volto. Era me, senza malizia, senza cattiveria, senza oscurità nei miei
colori. Era me. Non c’era nessun dubbio. Me, se solo Lsyn Amarto fosse
stata alta e più dolce. Erano mie, le labbra, carnose, ben
proporzionate. Mio, il naso, miei gli zigomi. Solo la forma del viso,
più tonda, una spruzzata di lentiggini sulle guance bianche, le
sopracciglia meno sottili ed arcuate, un piccolo neo dove io non ne avevo,
erano differenti. Un viso molto gradevole, molto bello, giovanile. Ma…accidenti…io…
lei mi assomigliava. Non poteva
essere un caso, quello, vero? No: io stavo delirando. Era tutto falso quello che
vedevo. Si: era solo un incubo. Ben presto mi sarei svegliata, ed avrei
scoperto che eravamo riusciti a fuggire dai Tengu. Niente di tutto quello
esisteva. Si: doveva essere così. Qualcuno stava emettendo un piglio
soffocato. Era un brutto rumore. Sapeva d’incredulità. Sapeva di
bricco del tè, quel bricco da tè che mi aveva incolpata, quando
io avevo ucciso degli innocenti. Ma io non stavo uccidendo nessuno. Forse me stessa,
ma quello non importava. Mi sentii inchiodata al volto di Nemys, come se non
potessi distogliere lo sguardo da lei. Cosa significava tutto quello? Lei era
mia sorella? Mia sorella di sangue? Oppure si era modificata con la magia, per
chissà quale scopo? Non ero
così lontana dalla verità. In fondo, lei aveva usato la magia. Ma
in un altro senso. Poi mi accorsi di essere io a pigolare. Mi parve strano non
essere svenuta. Avevo subito troppe emozioni, in quel maledetto periodo. Se solo
fossi sopravvissuta anche a quello, mi sarei eclissata dal mondo per un po’,
pronta a gestire una tranquilla vita domestica, senza scosse. Ma…era per
quel motivo che lei mi aveva accolta così con benevolenza? E perché
mi sembrava di conoscerla già? Cos’era, quella sensazione di agio che
provavo, quella sicurezza che m’impediva di saltar via, e cominciare a
strillare? O forse ero troppo sconvolta, addirittura così tanto di non
riuscire a far altro che borbottare? C’erano troppe cose strane, troppe
cose che non andavano. Non riuscivo a pensare. C’era qualcosa che m’impediva
di metterle insieme. Era tutto troppo sconvolgente. Vidi, la cosa più
assurda di questo mondo, le labbra di Nemys, le mie labbra, curvarsi in una smorfia strana, quasi di tristezza. Rimasi
un altro po’ a fissarla. Non volevo credere ai miei occhi. Non riuscivo a
crederci. Non so con quale coraggi racimolai un po’ di fiato, necessario
per una stupidissima affermazione. Non ne ho la minima idea. Solo che sentivo
che, se non avessi parlato, sarei davvero impazzita, e stavolta sul serio. “Nemys…”.
Dissi, stavolta senza farmi remore sul suo nome. In fondo, lei mi assomigliava
troppo. O mi stava prendendo in giro, o davvero era qualcuno a me legato. Legato
si, in un modo che non avrei mai immaginato. “tu…tu…sei come
me!”. Oh, dei. Potevo dire una cosa migliore, una battuta un po’
più intelligente. Ma ero troppo sconvolta per pensare ad altro. Uno strano
sguardo dolce passò per gli occhi azzurri della mia misteriosa
interlocutrice. Nemys, chi sei? Potevo fidarmi di lei, o stavo per essere
nuovamente giocata? Ci fu un lungo attimo di silenzio. Potevo benissimo sentire
il mio cuore battere, rimbombare nelle orecchie. E poi lei, con un mezzo
sorriso stampato in volto, riprese a parlare. “no, Lsyn. Io non sono come
te”. Sussurrò, con dolcezza infinita. Di nuovo un attimo di
silenzio. E poi disse le parole che mi rimandarono alla memoria un altro
momento, una fuga. “io sono te”.
Ecco. Era troppo. Il bicchiere cadde a terra, con un sonoro strepito. Accidenti.
Il secondo andato in pezzi!
Bizzarro.
Ebbi davvero una bizzarra reazione, piuttosto inconsulta, a dire la
verità. Ero talmente pietrificata dall’incredulità,
dall’assurdità che la stessa Nemys mi stava dicendo, quelle parole
dolcissime, tristi, accompagnate da quello sguardo saggio, che sobbalzai
malamente quando sentii il bicchiere che s’infrangeva a terra. Quel
rumore ebbe il potere di ricondurmi, seppur parzialmente, alla ragione. Presi
di colpo coscienza della mia corporeità. Che ero io, Lsyn Amarto,
lì, seduta tranquillamente accanto ad una creatura che mi aveva detto
una delle cose più strane che mi sia mai capitato d’ascoltare in
vita mia. Ero lì. Repressi a stento l’impulso che mi suggeriva di
toccarmi il volto, per vedere se c’ero davvero, se in quel mondo
esistevo, o la stessa terra sulla quale poggiavo i piedi era solo
un’illusione di un mago pazzo. O forse no? Che voleva dire con io sono te? Chi ero realmente? Chi era
realmente lei? Cosa significava quell’ammasso del tutto casuale di
lettere, così pregno di significato? Io ero stata creata da lei? O lei
creata da me? Impossibile. L’avrei ricordato, se fosse stato così.
Qualcosa mi sfuggiva, continuamente. Avevo immaginato tutto, ero solo il frutto
dell’immaginazione di qualcuno, di lei? Non poteva essere dannazione! Io ero lì! Viva e vegeta! Avevo bevuto la
stessa sua acqua, prima! Io ero materiale come lei! O forse lei immateriale
come me? Non riuscivo a pensare. Mi sembrava di essere di nuovo immersa in quel
lago gelato, prigioniera di una corrente contro la quale non avrei mai potuto
vincere. Bene. La confusione regnava sovrana in me. Diciamo pure che avevo
l’impressione di aver mandato il mio ragionamento a fare una lunga
vacanza. E, tutto ciò che feci, la mente impegnata a ballare
allegramente una giga, fu reagire in una maniera magnifica. Magnificamente
inconsulta, per essere precisa. Perché avrei potuto fare di tutto, in
quella situazione. In quel momento non ci pensai, ma ora capisco alla
perfezionecome mai non ci fossimo
sedute sulla sedia, o il perché lei fosse così tesa, come pronta
a saltarmi addosso. Avrei potuto ucciderla senza fatica, oppure fare di peggio.
Avrei potuto impazzire, cominciare ad urlare. Scoppiare in lacrime, cercare di
fuggire, o, chissà, anche morire. Ridere, ridere pazzamente, burlarmi di
lei, cercare di farmi del male. Avere un colpo, e rimanere immobile, come una
sonnambula, per tanto tempo. Compiacermi per avere qualcuno che mi conoscesse
bene, gioire per il fatto di non essere più sola, incomprensibile al
mondo, imprevedibile a tutti, di avere qualcuno che mi capisse alla perfezione,
quello che poi feci. Qualunque cosa. Invece no. Ero così stordita,
così presa dalla stanchezza, dall’incredulità, dallo stesso
ragionamento, che mi stava portando a trarre conclusioni sempre più
assurde, mentre la soluzione era così dannatamente semplice, che mi
comportai in maniera molto strana. Mi pareva di procedere in modo diverso dal
resto del mondo, come se io scorressi più lentamente rispetto alle altre
cose che mi circondavano. Uno sfasamento certamente non mitigato da quella
sensazione di calore che ancora sentivo nello stomaco, quella morsa liquorosa
che sembrava mettere pace tra me e la mia tormentosa esistenza, quel sentimento
che mi metteva addosso una gran fifa. Non lo sapevo classificare: era come rendersi
conto di avere un altro arto, come vedersi spuntare all’improvviso una
coda, delle ali, e saperle usare, d’istinto. Era qualcosa di
completamente nuovo. Non fastidio, non allegria, né rabbia, né
apatia, né nervosismo, o qualunque altra sensazione umana. Fu quella
particolare sensazione che mi spinse ad accettare a priori le parole di
Nemys,parole a cui, se le avessi
sentite da un altro, non avrei creduto minimamente. Mi sarei fatta una gran
bella risata. Invece no: qualcosa dentro di me, di sconosciuto e nel contempo
familiare, sapeva che lei non poteva
mentire. Avvertivo, non so cosa, come
se fossi stata brutalmente messa davanti alla parti più nascoste del
proprio essere. Come scoprire di avere una bestia feroce nascosta dentro,
pronta a fuggire, ad artigliare. Quella certezza m’inquietava più
di qualunque cosa. Soprattutto, mi gettava quasi nel panico il fatto di non
aver paura. Stavo benissimo. Riuscivo a crederle, senza impazzire. O forse ero
già troppo matta di mio per riuscire ancora a dare segni di squilibrio.
O forse avevo accettato troppe stranezze nella mia vita per sorprendermi
ancora. In fondo non mi aveva detto ancora tutto. Poteva esserci una
spiegazione semplice a tutto quello, niente di drammatico. Qualcosa di
piacevole, rassicurante. Doveva essere così. Non dovevo inquietarmi. Ma
allora perché mi sentivo tanto debole, come se fossi malata? E,
d’accordo, ero anche tremendamente curiosa, quella curiosità che
uccide. Potevo avere una reazione più sveglia. Però, tutto quello
che feci, del tutto ipnotizzata da chissà cosa, assentata per un
po’dal mondo terreno, fu quello di, non appena sentii il bicchiere
cadere, guardare in basso, con aria spaesata ed un po’ intontita. Ci fu
un lungo attimo di silenzio. Forse diceva di essere me perché era mia
sorella di sangue. Beh… non era una cosa così cattiva. Avrei
dovuto dividere il mio dolce
fratellino con un’altra persona, e nessuno sarebbe riuscito a superare la
suabravura e dolcezza, né
nessuno che non fosse Akita o i suoi figli me l’avrebbe rubato, ma non
importava. Pazienza. Decisamente sarebbero state lontane tutte le strane
supposizioni che avevo avuto. Ero così drammaticamente lontana dalla
verità, quella verità che le avrebbe comprese tutte, quella
tremenda confessione che mi spinse a fare domande che i avrebbero trascinata in
un baratro d’incertezze, se solo non fosse capitato qualcos’altro,
qualcosa che non sono lungi dal descrivere. Aprii la bocca. Non avevo mai
sentito la mia voce così soffocata. Quasi mai. “il bicchiere…
scusa, Nemys…”. Mormorai, allungandomi un po’, e tendendo la
mano verso i frammenti dell’oggetto, come se fosse integro.
“è rotto…”. Si: diedi più importanza al
bicchiere che a quella rivelazione terribile. Non ho ancora capito
perché la mia mente debba essere così stupidamente contorta.
Forse fu un retaggio dei miei tempi con Lainay, quando ad una minima
sollecitazione corrispondeva un sonoro ceffone. O forse fu un’altra cosa,
un mio tentativo di allontanarmi, di distrarmi dal mio timore, da quella
sensazione di gelido assoluto scesa su di me. Propendo per quest’ultima
spiegazione. Non potevo essere così condizionata dalla mia vita, una
vita che avevo lasciato cinquant’anni prima. Anche se qualche volta mi
capita di avere qualche strana reazione, d’incassare la testa sulle
spalle quando dico la mia, di camminare guardandomi sempre attorno, di non
guardare mai fisso negli occhi alcuni interlocutori particolari, non penso che
quella scusa fosse dovuta a quello. Ero semplicemente troppo scioccata per
poterci ancora pensare. Punto. Prima ancora di sfiorare il vetro tagliente,
sentii una mano forte stringersi sul mio polso, ed un’altra cingermi
dolcemente. Mi sentii tirare da qualcuno, e mi ritrovai di nuovo a fissare il
volto, ora animato da ansia trepida, di Nemys. Mi ritrovai, del tutto
inconsciamente, di nuovo ipnotizzata dai suoi occhi. Erano dolcissimi,
così dolci, una cura per il mio animo ferito. Sembravano guarire tutte
le mie ferite. Era così bello, così piacevole, che mi sarei
abbandonata in quella tregua in eterno. Quando ero con Nemys, confusione o
dolore, pace o tristezza, svanivano. Restava quella sensazione di calma
suprema, mi ritrovavo sola in una cappella ben protetta e silenziosa, dove
nulla e nessuno poteva toccarmi. Sentii una mano fresca appoggiarsi al mio viso,
poi un’altra. Fui costretta a guardare quella che sembrava la mia gemella
fatta male. O io che ero fatta male su suo stampo, questo non saprei dirlo. Lei
sembrava agitata. Io avevo quasi dimenticato il perché di tutto quello.
Mi bastava essere tranquilla. Basta. Ne avevo abbastanza della guerra che il
fato conduceva contro di me. “Lsyn…”. Mi disse, con voce ora
solo lievemente affrettata, che mi parve lo stesso musica liquida.
“calma…ora spiegherò tutto!”. Calma? Io ero
calmissima. La stessa confusione aveva creato un bozzolo duro di lanugine, una
coperta calda contro cui avvolgersi, per ripararsi dal gelo della
realtà. Non volevo piombare in essa. Non volevo essere strappata dalla
consapevolezza al mio stordimento. Ero piacevolmente confusa. Ci fu un lungo
attimo di silenzio, in cui ci scrutammo negli occhi. Lei sembrava cercare di
leggere qualcosa in me, di capire cosa mi passasse per la testa. Io mi beavo
negli ultimi attimi di tranquillità. Sapevo che dopo avrei avuto troppo
a cui pensare. “ora, piccolo ragnetto mio, ascoltami bene”. Disse,
con uno strano tono conciliante. Sembrava trattarmi come un adulto si comporta
con un’infante. Tale mi sembravo per lei, ma non ne avevo a male. Era un
comportamento che mi rassicurava. Avevo bisogno di punti di riferimento.
Tuttavia, ero perplessa. Gli occhi esprimevano troppa saggezza malinconica per
essere quelli di una giovane, per essere quelli che dimostrava. Ma quanti anni
aveva davvero Nemys? Quelle iridi azzurre mi parlavano di secoli, ere,
millenni, di una tristezza che si può acquisire solo
nell’età adulta. Eppure lei era così apparentemente giovane! Accidenti. Gli elfi non erano
immortali, affatto. Certo, estremamente più longevi di ogni altra razza,
antropomorfa e non, ma sempre mortali. Abbiamo solo una vita molto, molto
lunga. Eppure quella giovane sembrava allo stesso tempo vecchissima. Una
vecchia bambina. E quel suo tocco era così delicato, e deciso. Non mi
stava facendo del male, ma mi obbligava a guardarla fisso in viso, quel viso
dall’espressione dolce e mesta. Così lei cominciò a
parlare, in tono conciliante, piuttosto solenne, e lento, come se stesse
recitando una salmodia, un tono che m’ipnotizzò. “ho molte
cose da dirti, poco tempo per dirlo. Il tempo stringe”. Di nuovo un
sorriso, stranamente amaro. “Isnark voleva farti uccidere non appena ho
capito che stavi arrivando, ma l’ho dissuaso. Tutti però vogliono
una più chiara presa di posizione da parte tua, te lo dirò con
schiettezza”. Accidenti. Mi fece piacere sapere che Isnark, seppure in
tutto il suo odio nei miei confronti, era vivo e stava bene. Almeno, non avevo
combinato altri guai. Ma quel fatto di prendere posizione non mi andava
parecchio. Non intendevo legarmi con giuramenti di fedeltà eterna. Uno
mi era bastato, e mi aveva scottata, rovinato la mia vita per sempre, in tutti
i sensi. Non volevo tarparmi ancora le ali, proprio quando avevo riguadagnato
la mia stabilità, fosse pure per una creatura incantevole, una fata di
luce, come Nemys. Avevo un bel fratello, vivo e vegeto, mia figlia ed il suo
fratellastro, quella pazza di Akita, il mio nipotino non ancora nato, il mio
Maestro, i miei amici, con me. Io volevo solo una vita tranquilla, vivere
serenamente con i miei cari. Un’esistenza senza scosse: proprio quella
che mi era stata negata per la maggior parte della mia vita adulta,
un’esistenza in cui sarei stata capace di poter prendere liberamente le
mie scelte, senza condizionamenti di sorta. Mi era troppo cara la
libertà, in quella breve parentesi di contentezza, per poterla donare ad
un altro sovrano da servire. Se solo me l’avessero permesso, non appena
Tijorn fosse stato bene ce ne saremmo andati via da Uruk, alla volta del
villaggio Tengu. Perciò interruppi Nemys. “mi dispiace di averti
dato così fastidio, a te ed ad Isnark”. Dissi, leggermente
più presente ed attiva, la voce più dura del solito. “ ma
io non ho alcuna intenzione di rimanere, Nemys. Non appena mio fratello
starà bene, partiremo alla volta delle montagne Tengu, e nonci vedrete più”. Una
risata, dolce e squillante, quasi da bambina, stroncò il mio deciso
discorso a metà. Nemys era scoppiata a ridere sommessamente. Poi mi
aveva guardata, scuotendo lievemente il capo. “la situazione è
brutta, Lsyn, dovresti averlo già compreso da te”. Mi rispose,
scuotendo lievemente il capo bianco, ma senza distogliere lo sguardo dal mio.
Lessi onestà sul suo volto pallido, ma anche tanto dolore. “fossi
in me ti manderei dove vuoi, non posso. Tu dovresti essere libera, come tutti,
come il vento, l’aria e l’acqua. Ma i tuoi stessi errori, errori
che non potevi evitare, ti tengono incatenate le ali a terra. È una cosa
troppo brutta per potervi pensare”. Sobbalzai. Violento come una mazzata,
mi aveva assalito un ricordo. Il ricordo di un sogno, il sogno che mi aveva
tormentato in un modo terribile per un sacco di tempo, quando ancora potevo
chiamarmi a diritto l’Ombra. Il sogno del cigno. Il cigno, il mio
Chekaril, se n’era volato via, l’avevo fatto volare via, libero
ormai da ogni vincolo, di carne, sangue e fedeltà. Io ero rimasta
incatenata al posto suo, o forse lo ero sempre stata. Il capro espiatorio. La
vacca sacrificale. Ero prigioniera nelle maglie del mio stesso passato, della
mia stessa essenza oscura. Il fatto di non poter scappare da essa mi colmava di
rammarico. Per quanto io potessi fuggire, il ricordo era lì, infido e
brutto, in agguato come una bestia feroce, pronto ad assalirmi ogni volta che
mi distraevo. Una carezza rapida di Nemys riuscì a distogliere la mia
attenzione da quei pensieri mesti, ed io concentrai di nuovo la mia attenzione
sull’elfa che, contro ogni prospettiva, mi aveva accolto davvero
benevolmente. Il suo viso era una maschera di dolore puro.
“c’è la guerra, ragnetto mio, una guerra a cui noi non
possiamo far a meno di partecipare, a meno di non voler essere schiacciati come
scarafaggi”. Dei. Mi faceva male sentire la sua voce quasi incrinata. Lei
soffriva, nel solo immaginare l’elemento in cui io avevo sguazzato dalla
mia giovinezza. Lei mi scrollò lievemente la testa. La lasciai fare.
Avevo visto un’ombra di pianto nei suoi occhi. Me ne rammaricai. Era una
creatura troppo pura e buona per il sangue. La bestia, delle due, ero
certamente io. “giovani muoiono, tanti valenti giovani si spengono,
insensatamente, tante piccole fiammelle estinte da una folata improvvisa di
vento, ed io non posso farci nulla, se non sperare che finisca presto”.
Un sospiro,lei strinse le labbra.
Il suo dolore era tanto, e traspariva in ogni suo lineamento. Mi sentii
anch’io triste a quello spettacolo, non so perché. Avevo
considerato, consideravo e considero tuttora, la morte in guerra come una morte
piena di onore. Avrei preferito mille e mille volte finire trafitta da una
spada nemica, piuttosto che spegnermi in un letto, tra le lacrime dei
familiari. Non davo fastidio a nessuno, non avrei dato troppo dolore, dolore
prolungato nel vedermi appassire, piano piano. Me ne sarei andata via,
così, improvvisamente, e combattendo con onore, senza dipendere da
nessuno. A quanto pare, Nemys non condivideva la mia idea. I suoi occhi
sembravano mandare saette, tanto scintillavano di lacrime e rabbia, e la voce
era ormai rotta, commossa. “e tutto per i piani di quella
misera….povera, povera Lainay, credere che la chiave di tutto sia nel
dominio!”. D nuovo, lei scosse la testa. Quasi i suoi capelli mi finivano
nel naso. Non potevo che essere d’accordo con lei, anche se non avrei mai
chiamato la mia precedente sovrana misera, o povera. Bastarda, pazza o
sgualdrina, come minimo, tanto per essere un po’ educata. Beh. Quella
misteriosa Nemys era troppo buona. Non sembrava quasi odiarla. Solo compatirla,
e tanto. Strana creatura. Uno sguardo severo di quest’ultima mi
gelò. Sembrava volermi rimproverare di qualcosa, qualcosa di molto
grave. Temetti quell’occhiata. No tanto per la sua carica minacciosa, del
tutto assente, ma piuttosto come memento alla mia stupidità ed
avventatezza. Dovunque andassi, ognuno si premurava di sottolineare la mia
totale mancanza di buonsenso. Era una cosa che cominciavo ad odiare. “e
poi tu… non voglio rimproverarti nulla, Lsyn… ma voglio solo che tu
prenda coscienza di quello che hai fatto”. Cosa? Che avevo combinato? Mi
sentii, per un momento, smarrita. Io non avevo fatto nulla, nulla! A meno
che…rabbrividii, e cercai, inutilmente, di evitare lo sguardo severo
della mia interlocutrice, fattasi più pacata. Lei mi costrinse a
guardarla in viso. Mi contorsi, senza esito. Non volevo sapere cos’era
successo nel Piano! Non volevo sapere cosa Lainay aveva scoperto da Isnark! Di
nuovo lei mi carezzò sulla stessa guancia, dolcemente, come a volermi
tranquillizzare. Poi si costrinse a sorridere, un sorriso tirato che mi
agitò ancora di più. Stava per venire la tempesta. “so
quanto ti sia costato, e so pure quello che hai fatto…”. Si:
cercare di salvare il compagno, che mi odiava. Uccidere due innocenti.
Bell’affare, vero? Ero stata davvero, davvero, sconsiderata. Di quegli
omicidi me ne pentivo anch’io. Ascoltai con disperazione quello che stava
per dire. Si, lo sapevo: era ancora tutta colpa mia. Io avevo mandato a monte
chissà quale piano delicato. Avevo gioito, anche, gioito per servire quella
matta di Lainay. Se solo avessi conosciuto prima di intraprendere
quell’apprendistato che mi avrebbe dato di volta il cervello,
riempiendomi di valori distorti che solo la colpa riuscì a dissipare, mi
sarei donata anima e corpo a Nemys. Lei non mi avrebbe tradita in quel modo
volgare, come aveva fatto la mia precedente sovrana, la bastarda. Mi sentii
straordinariamente in colpa, quasi male, quasi scoppiai in lacrime. Chiedevo il
suo perdono. Io non la conoscevo. Lei era la creatura perfetta, ed io non avrei
mai osato fare qualcosa contro di lei. Lei non voleva il male degli elfi, al
contrario. Lei voleva solo la vita. “ma, con quel maledetto gesto, hai
eliminato ogni prospettiva, per noi, di rimanere neutrali di fronte a questa
carneficina. Hai consentito, mandando Isnark nel Piano, che Lainay carpisse il
più importante segreto custodito tra queste mura”. Cosa? Cosa? Un
passaggio segreto? Un modo per vincerli? Ebbi un attimo d’illuminazione,
in quella pausa breve. Oh…ma non dovevo comportarmi come una sciocca!
C’entrava qualcosa con il fatto che lei era me, qualunque cosa volesse
dire. Forse non era una cosa così rassicurante, per poterli ricattare.
Ebbi improvvisamente paura di Nemys, una paura cieca. Sarei scomparsa
volentieri, se solo avessi potuto. Serrai così gli occhi, come in attesa
di un ceffone. “mi dispiace, Nemys…non volevo….non
volevo!”. Dissi, con una strana voce stridula, cominciando già a
tendere tutti i muscoli. Fu una reazione istintiva. Non volevo farmi troppo
male. “non volevo!”. D’accordo. Avevo una fifa nera io ero in
suo potere, totalmente. Non potevo davvero far nulla, se lei mi avesse voluta
far male. Ed io quello mi aspettavo, perché quello che avevo fatto era
troppo, troppo grave, per non meritarsi una punizione. Ma cosa era successo di
tanto grave? Cosa c’era, sotto? Non riuscivo ad immaginarlo. Ma,
sicuramente, sarebbe stata una cosa poco piacevole da sentire. Quasi mi tappai
le orecchie. Un movimento interruppe il mio chiocciare indistinto. Percepii lo
spostamento d’aria, e la mancanza di pressione sulle mie guance. Ecco.
Ora mi sarei fatta male sul serio. Mi tesi ancora di più, fino a farmi
dolere tutto il corpo. Ma non successe nulla del genere. Mi sentii invece abbracciare,
e lei, la dolce sovrana di quel luogo, mi strinse a sé, disperata.
Riaprii gli occhi, sorpresa. Era strano non vedersi tiranneggiata in quel modo,
picchiata e ridotta al rango di servitrice. Forse non sarebbe stato tanto male
servire una creatura del bene come Nemys. Non avevo mai incontrato qualcuno
buono come lei. Servirla, sarebbe stato un grande onore, e non una mancanza di
libertà. Forse potevo pensarci davvero. Mi lasciai tentare per un
momento da quell’idea, mentre ero tra le braccia della Sacerdotessa. Era
un bel sollievo non doverla guardare degli occhi. Avevo la sensazione di
essermi tolta una grossa spina dal piede. Non sopportavo guardarla fisso. Era
troppo dolce, troppo candida e quasi infantilmente saggia, per farla
contaminare con il buio che conservavo in me. “oh, Lsyn, dimentico
sempre…”. Mormorò lei, in tono consolante, mettendomi una
mano sui capelli, e cominciando a carezzarmi. Era davvero piacevole essere
trattata così. Nessuno mi aveva donato tanto affetto genuino, solo
Tijorn, nemmeno Chekaril. Era bello sapere che qualcuno oltre alla mai famiglia
mi voleva bene. Bello e strano. Mi sembrava di tornare ai miei vecchi tempi,
alle mie antiche illusioni, e la cosa mi piaceva. “no, non ti farò
del male…scusami, se ti sono sembrata troppo cattiva…il fatto
è che, ragnetto mio, siamo stati ricattati”. Tipico di Lainay.
Provai un’ennesima ondata di disgusto nei suoi confronti. Nemys, con la
sua purezza, non la vedeva nemmeno lontanamente. Solo un po’ la Matriarca
poteva assomigliarle, ma poco. La Sacerdotessa di Kyradon non aveva un orgoglio
di ferro. Sapeva quando capitolare. Torsi la bocca. Mi sembrava di aver
mangiato qualcosa di amaro. C’era mai del bene non contaminato dal male?
Luce pura senza ombre, un mezzogiorno perpetuo e sfolgorante? Era così
brutto, così sgraziato, pensare quella maniaca a contatto con la pura
elfa che mi abbracciava ora. Era orrido da pensare. “ci stanno
ricattando...vogliono farci combattere al loro fianco, tra qualche mese, quando
tutto sarà pronto per dare la spallata finale all’Impero”.
Un tempo sarei stata felice di tutto quello, di quella vittoria. Ora mi
rammaricavo solo per i prossimi sudditi della pazza. Solo gli di sapevano
quanta sventura stava per scendere su quei poveri umani. “fino a quel momento,
dovremo rimanere neutrali. In cambio, ci daranno tutta la regione di Sharilar,
tutti i boschi della zona…ma nessuno potrà ripagarci delle perdite
che subiremo. E non possiamo farci nulla, oppure Lainay rivelerà a tutti
il mio segreto!”. Di nuovo la voce andò a spezzarsi un po’.
Tremai inconsapevolmente, qual era il terribile segreto che aveva legato mani e
piedi quell’essere supremo? Sentii una strana sensazione di gelo farsi
strada in me. C’era qualcosa di grosso sotto, di molto grosso. Sentii
un’improvvisa urgenza di parlare. Dovevo chiedere. Dovevo sapere. Non
c’era più tempo per temporeggiare. “Nemys…”.
Mormorai, staccandomi da lei, cosa che mi riuscì incredibilmente
facile,prendendola a fissare, sena
guardarla negli occhi direttamente. La temevo troppo per farlo. “ma….ho
bisogno di alcune risposte. Tu mi hai detto di essere me, ma io…io non ho
capito”. Arrossii lievemente, imbarazzata. Certo, non era colpa mia se
alcune branche del sapere mi risultavano ostiche e sconosciute. Certamente non
era colpa mia. Mi fermai per un momento. sul suo viso non lessi tracce di
scherno alcuno. Non mi stava prendendo in giro. Mi sentii rinfrancata
enormemente, e continuai. “Lainay mi aveva accennato qualcosa
dei…dei… Rinnegati, una cosa simile…”. Ecco. La vidi
sbiancare, e tendersi. Mi sembrò improvvisamente molto nervosa. Ecco.
Avevo centrato il punto. Curiosamente, provai una bizzarra sensazione di
sollievo. Stavo per scoprire quello che mi tormentava da un po’.
“esattamente…cosa significa?” fui presa da
un’ispirazione improvvisa. Poteva essere, dopotutto. “ma le due
cose sono legate? Cos’è un Rinnegato?”. Ci fu un momento di
silenzio ghiacciato. Quasi temetti di essere andata troppo oltre. Nemys era
pallida, e, mentre avevo domandato, aveva chiuso gli occhi, e presa a
mordicchiarsi il labbro inferiore. Mi sembrò terribilmente addolorata,
addolorata per qualcosa che non capii mai. Lei sospirò un paio di volte.
non osi interrompere il suo silenzio, il suo momento di riflessione. Ero certa
che, prima o poi, le risposte che volevo sarebbero arrivate. Sarebbero
arrivate, fin troppo pregnanti di significato. Ma, devo dire, non me ne
dispiacque. Non era una cosa così brutta. Così rimasi in
silenzio, tormentando di nascosto il lembo del mantello, nervosa anch’io,
mentre attendevo, seduta sul divano, una risposta, una sola risposta, che mi
avrebbe cambiato la vita. Dopo l’ennesimo sospiro, finalmente, lei
parlò, tenendo ancora gli occhi chiusi. “un Rinnegato non è
un elfo”. Mormorò, con una strana voce roca, che, nonostante il
caldo, mi fece venire i brividi. Quelle parole avevano la forza di
un’invocazione, una preghiera. Non mi piacque. “né un uomo,
né qualunque altra razza tu possa immaginare. Un Rinnegato può
solo assomigliare ad essi, ma non lo sarà mai veramente. Un Rinnegato
non è vivo nel vero senso della parola, sebbene di vera vita ne abbiano
bisogno, e con essa mascherino il proprio essere. Un Rinnegato è un
parassita. Un Rinnegato è energia, creatura con più magia di un
Insat nelle vene. Un Rinnegato è la parte più oscura
dell’esistenza, l’abisso che ognuno ha, ma che i viventi si
sforzano di nascondere al mondo”. Di nuovo, un sospiro dolente. Che
strane parole. Non aveva nemmeno finito di parlare, e già avevo una
ridda di domande in testa. Tutto quello che stava dicendo non c’entrava
nulla. Erano cose curiose quelle, ma non capivo cosa c’entrassero con la
sua persona così dolce. Rimasi in silenzio, tuttavia, nonostante fossi
smaniosa di apprendere, ed attesi che lei finisse di parlare. Forse non aveva
detto tutto. E così fu. Dopo un sorriso amaro, lei riprese il monologo.
“sai come si creano i Rinnegati, Lsyn?”. Mi chiese, aprendo gli
occhi. La guardai fisso, ora, e scoprii, in quel mare calmo, la disperazione.
Non riuscii a comprenderne il motivo. Che strana razza, i Rinnegati. Non ne
avevo mai incontrato uno, prima di quel momento. O forse mi sbagliavo,
chissà. Feci un segno di diniego. Ma lei non sembrò nemmeno farci
caso.“i Rinnegati
sono…sono la parte più oscura dell’anima di una persona, che
si stacca, e forma un corpo a sé. Ma, per farlo, ci vuole un evento
terribilmente traumatico. Una morte, un incidente, un oltraggio… alcune
cose sono così forti da mandare in pezzi l’anima di un elfo, o un
uomo, da staccarla in decine di frammenti, che si ricompongono sempre, in
ordine inevitabilmente diverso. Ma, fatalmente, una piccola parte viene
perduta”. Un sorriso amaro le torse il volto, un sorriso che reputai
stranissimo. “ciò che il creatore vorrebbe nascondere al mondo. E,
se questa parte è forte…può crearsi un corpo. Un corpo
materiale, ma fittizio. Un involucro vivente, autonomo e parlante”.
Sentii uno strano brivido. Non doveva essere così piacevole, essere
staccati dalla propria casa, per venirsi catapultati fuori, al freddo, soli,
senza più il resto di sé, espressione di qualcosa di nascosto, un
aborto dell’anima. Non doveva essere così bello. Assomigliava
quasi alla mia condizione. Provai pietà per quelle povere creature. In
fondo, loro non avevano nessuna colpa, no? Di nuovo, la voce di Nemys
s’incrinò. “non voglio fartela lunga…non capiresti la
maggior parte delle cose…”. Per quello non avevo obiezioni alcune.
“a volte ciò che si nasconde è pieno d’odio per il
proprio creatore, che sente parte di sé, sempre e sempre e sempre…
perché un Rinnegato non è davvero vivo, non è davvero
morto, e deve usare l’energia per sostentarsi…la deve rubare al
mondo…ed è una cosa così orrenda…”. Non mi
piacque il tono di voce che usava Nemys, che stava usando in quel momento. mi
caricava di presagi nefasti. Era perso, vuoto come i suoi occhi, un sussurro a
malapena percettibile. Decisamente non mi piaceva. Era come se lei mi stesse
nascondendo qualcosa. Cosa, non lo capivo. Disorientata, continuai ad
ascoltare. Non riuscivo a dare un senso a tutto quello. Lei sapeva troppe cose.
O io ne sapevo troppo poche. “così contro natura… qualche
volte si crea un corpo davvero vivo,
ma è così raro… a volte egli ama il proprio creatore, ma
non succede spesso…il proprio creatore, quello che gli ha dato la
vita…così, anche che il Rinnegato porti in sé sia ombra che
luce, quasi come un vero essere umano… e non c’è
possibilità alcuna di divenire vivi…”. La sua voce dolce, il
suo canto gioioso, sfumò nel nulla, e lei rimase per un bel pezzo in
silenzio. Ecco. Ora non me la stava contando proprio giusta. Aveva distolto la
sguardo. Sembrava essere lei, in quel momento, a voler evitare me. Che strano.
Non me la contava giusta. Fu un sospetto immediato. No, proprio no. Qualcosa mi
stava nascondendo. Ma cosa? Non riuscivo a capirlo. Di nuovo, ci fu un gelido
attimo di silenzio. Guardai l’atteggiamento nervoso di Nemys, e, in mezzo
a tutto quel disorientamento, sentii accendermi un piccolo fuocherello di
sospetto. Lei sapeva troppe cose. Troppe, per essere una normale creatura. Non
mi piaceva. Un ricordo, di una regina pazza, che sventolava trionfante una cosa
che non avevo capito, allora. Ebbi un tremendo sospetto, più forte degli
altri. Qualcosa scattò in me, un attimo glorioso di totale comprensione.
Sentii il colore svanire dalle mie guance, mi sentii divenire gelata, e dentro
di me si aprì un buco. Molti ricordi andarono al loro posto. La testa
cominciò a girarmi lievemente. Il volto trionfante di Lainay. Nemys, che
mi assomigliava tanto. Nemys, che diceva di essere me. D’accordo. Un
altro po’,e sarei svenuta.
Non poteva essere! Non poteva! Doveva esserci, per forza, un’altra
spiegazione. Una spiegazione molto, molto plausibile. Io mi sentivo intera! Non
poteva essere! Nemys non mi sembrava una creatura piena d’odio… ed
io ero intera. Intera. Bah. Tutto mi sembrava così una colossale presa
in giro che quasi sorrisi, che quasi risi. Ero incredula. La verità di
quelle parole sconnesse si stava così avvicinando alle mie supposizioni
da lasciarmi come dopo una doccia gelata in pieno inverno, come un salto in un
lago ghiacciato. Dovevo fare qualche domanda. Dovevo domandare. Tutto quello
era troppo terribile per essere vero. Dovevo essere sicura di quello che
pensavo. Magari erano solo mie supposizioni. Ma, allora, perché Nemys mi
aveva parlato dei Rinnegati? Non era stato un caso, vero? Non le andava solo di
chiacchierare, no? Dovevo sapere. Dovevo sapere. Dovevo sapere se la mia anima
era ancora intera, quello che significasse! Sentii la mia voce, tremante,
tremula, incerta, un pigolio sommesso, parlare. Ma era come se io non stessi
realmente partecipando a quello che mi era intorno. Come se fosse tutto
finzione, un senso di alienazione totale. Parlai, guardando il volto triste e
pallidissimo di Nemys, quell’elfa che forse non lo era, ma che era me. Un
po’ complicato da esprimere come concetto, ma tutto sacrosantamente vero.
“allora…Nemys… tu sai queste
cose…perché…sei una Rinnegata?”. Ecco. Dovevo
togliermi quel peso di dosso. C’erano troppe cose che corrispondevano,
che andavano d’accordo tra di loro, prendendo in considerazione
quell’ipotesi. Quel tono svagato, dolente, così triste, pieno di
partecipazione. Troppo strano per non essere preso in considerazione. Troppo.
Di nuovo, un sospiro, e lei, finalmente, mi guardò ancora negli occhi.
Sembrò accennare un sorrisetto soddisfatto, e molto addolorato.
“non farne parola ad anima viva”. Sussurrò, guardandomi
bene. Ancora quel sorriso, tinto di amarezza. “perché io sono
diversa da tutti gli altri. Mi odierebbero tutti, se solo sapessero cosa sono.
Crederebbero nella mia malafede. Ma io non sono come tutti gli altri. Io ho
luce. Io amo la vita…e chi mi ha creato”. Il cuore saltò un
paio di battiti, ed il fiato mi mancò, tanto che dovetti sospirare
parecchie volte per riguadagnare il controllo, almeno parziale, di me stessa.
Lei mi guardò incuriosita, ma io feci finta di nulla. Ecco. quelle
ultime tre parole erano per me d’importanza cruciale. Stavo per scoprire
quanto fossi vera, e perché. Soprattutto, quanto fossi intera. “e…”. Chiesi
di nuovo, in tono casuale, ma tremendamente timoroso, come quello di un pulcino
bagnato, allontanandomi leggermente, affondando le mani nella morbida copertura
di velluto del divano. Nemys mi fissò con rimpianto, ma non si mosse.
Ebbi pena per lei. Ma dovevo vederci chiaro prima di fidarmi di quella creatura.
Poteva non essere quello che sembrava. “chi è la tua
creatrice?”. Repressi a stento, nell’istante di silenzio che
seguì la mia domanda impertinente, l’impulso tremendo di chiudere
gli occhi. Non volevo vedere. Magari, se avessi obbedito al mio corpo, tutto
sarebbe svanito, e mi sarei accorta di aver solo sognato. Speranze inutili.
Dovevo smetterla d’illudermi: non potevo creare la realtà a mio
piacimento. Evitai intenzionalmente di guardare la Sacerdotessa. Ora che sapevo
cosa realmente fosse, ero lievemente intimorita da lei. Era troppo strano il
pensiero che andava creandosi in me. Il pensiero di essere di fronte a me
stessa. Era troppo, troppo strano. Non riuscivo ancora ad accettare
l’idea, così incredula da non riuscire ad avere paura. Sentii
così la voce come provenire da un luogo lontano, venata di tremenda
dolcezza. “era un’elfa, cattiva come la gramigna fuori, ma buona
come il grano, dentro”. Sussurrò, con una strana dolcezza. Era
strano sentir parlare di me in quel modo. Perché era di me che stava
parlando. Potevo metterci la mano sul fuoco. “sotto la sua scorza di
crudeltà era ancora candida come un’infante. Andò in cerca
del suo amato Principe, e fu amaramente ingannata. Un colpo, un colpo tremendo
di fuoco la spedì dritta verso un inferno da cui non pensai uscisse
mai… ed io la vidi cadere, orrenda ed ustionata, fino a quando non la
trovarono…fino a quando non capirono. Quell’elfa eri tu, Lsyn. Io
sono la tua Rinnegata”. La
povera Nemys richiuse di nuovo gli occhi, mortificata. Sobbalzai. Ecco,
l’aveva detto. Mi sentii tremendamente male, un gelo che mi bloccò
i piedi, un gelo incredulo. Repressi a stento l’istinto di tastarmi il
volto, il corpo, per vedere se fossi ancora intera. Mi morsi, però, le
labbra a sangue. Tutto si spiegava. La somiglianza, il senso di
familiarità, il calore che accanto a lei ricevevo. Lei era me, staccata
da me stessa. Ma perché ero con lei? Perché mi aveva voluto
vedere? Voleva forse la mia testa, perché l’avevo creata? E che
colpa avevo, io, di tutto quello?Un concetto troppo difficile per essere digerito in poco tempo.
L’unica cosa che feci fu quella di alzare di scatto il viso verso Nemys,
e fissarla negli occhi. Quello sguardo, così docile, innocente, candido
e puro, scacciò tutte le nubi. No: lei stava dicendo la verità.
Non era cattiva. Quasi quasi mi veniva da sorriderle. Ora, che so molte
più cose di quel momento, che mi sono state spiegate più cose,
posso dire una cosa con sicurezza: se non morii in quel momento, troppo
spaventata per vivere ancora, fu proprio perché fui protetta dalla mia
stessa ignoranza. Se solo avessi saputo, se solo fossi stata condizionata fin
dalla nascita a pensarla in un certo modo, non avrei avuto la reazione che poi
ebbi. I Rinnegati sono odiati, disprezzati, trattati come veri e propri
parassiti, alla stregua di pidocchi. Li temono. Per me, sono l’unica
categoria ad essere davvero priva di colpe. Sono solo poveri innocenti, i
Rinnegati, costretti ad un’esistenza che nemmeno loro desiderano. Provo
pietà per loro. Loro non hanno nessuna colpa. Esistono per la nostra
leggerezza, per il nostro desiderio di cacciarsi nei guai. Ci odiano per
questo. Perché abbiamo una vita, una vera vita, non siamo ombre
materiali
di esseri viventi, e perché la sprechiamo. Non ho nulla da rimproverar
loro, nulla. Fissando quel delizioso volto tondo e pallido, teso ed ansioso, in
attesa della mia reazione, così graziosamente punteggiato di efelidi,
capii una cosa. Non me ne importava davvero! Cosa significava, tutto quello?
Nulla. Esisteva una me fuori da me. Una me che aveva lottato da sempre contro
la Regina, una me che si era schierata dalla parte del bene, che era la
creatura più pura mai incontrata al mondo. E fu per quello che ebbi la
reazione che ebbi. Un moto di affetto incredibile, di attaccamento profondo
verso quell’alta elfa. Lei era me, lei mi conosceva meglio di qualunque
altro, meglio addirittura di Tijorn. Lei era la mia gemella. Anzi: era me
stessa. La prova vivente che, una volta, c’era stato qualcosa di buono,
in me, e che ora non c’era più, o forse c’era ancora. Ma era
bello pensare che una parte di me si fosse salvata dall’incendio dell’anima,
da quel rogo che mi distrusse in seguito. Io ero sporca, orrenda agli occhi di
tutti, odiata. Ma c’era un’altra parte di me amata ed idolatrata, candida
come una piuma d’oca. C’era qualcosa di me stessa, la vecchia,
pazza Lsyn, che non era andato irrimediabilmente perduto, che viveva ancora in
quella creatura luminosa. Potevo odiarmi quanto volevo: avevo compiuto una cosa
buona nella mia vita, con la mia stessa sconsideratezza, che tanto mi aveva danneggiato.
Nel fuoco avevo fatto nascere la speranza. L’amavo. Si: la amai
immensamente. Avevo trovato una sorella. E lei, chissà, magari voleva
bene me. Avevo trovato un’altra alleata. Una persona che avrei protetto a
costo della vita. Perché rappresentava ciò ce di me era morto per
sempre, ciò che era svanito nel fuoco che mi aveva deturpato il corpo. La
gioia, l’amore, la vera vita. Non l’esistenza di larva piena di
rimorsi che conducevo, e conduco ancora. Avevo ucciso me stessa. Ma dalle mie
ceneri era nata una fata, la più bella fata del mondo. no: non mi
sembrava così tremendo, che lei fosse una Rinnegata. Non ci vedevo nulla
di male. E poi, lei era così irrimediabilmente buona! Mi aveva
accettata, aveva accettato me, la sua creatrice, quando invece avrebbe dovuto
odiarmi con tutta se stessa. Invece no. Mi amava. Ed io amavo lei. Non importava
come, né quando. L’avrei servita con tutta me stessa, con la mia
vita, se sarebbe servito. C’era una nuova arrivata in famiglia, ed era
tra le più importanti. Io l’avevo accettata in pieno. Ma prima, mi
sarei divertita un po’ a giocare con lei. Volevo tenerla sulle spine,
così, tanto per ridacchiare un po’ dentro di me, e vendicarmi di
tutto il periodo in cui non si era fatta sentire. Chissà, forse non ero
matura per accettarla come lo ero ora, chissà, forse lei credeva che l’avrei
odiata. Non importava. Ora dovevo godermi un po’ d’allegria. Così,
cercai d dominare l’impulso che mi spingeva ad abbracciarla fino a
soffocarci entrambe, e ridere fino a crepapelle, e presi un’aria svagata.
“dimmi un po’, Nemys…”. Dissi, guardandola negli occhi
ansiosi e disperati, quegli occhi bellissimi che m’ipnotizzavano, mi
facevano sentire al sicuro. Come gli occhi di Tijorn. Con lei, niente sarebbe
andato storto. “i Rinnegati conoscono i ricordi della vita passata con il
creatore, insieme, quando si era ancora con lui?”. Ecco. Volevo solo
divertirmi un po’, sentirmi raccontare cose che già sapevo. Perciò,
ringalluzzii quando la vidi annuire mestamente, a stento trattenendo le
lacrime. Chissà, forse pensava che la stessi odiando, quando invece
chissà cosa m’impediva di chiamarla sorellina. L’avrei
fatto, prima o poi. Ma dovevo levarmi quello sfizio, e poi tutto sarebbe andato
al suo posto. “allora…dammi una prova che non stai mentendo, che
non ti sei inventata tutto…”. Risi in me stessa quando vidi un
lampo d’indignazione correre negli occhi chiari. Non aveva ancora capito che
la stavo prendendo in giro, per fortuna. Rimasi un attimo in silenzio. Poi sorrisi.
C’era solo un ricordo che conoscevo solo io. Solo e io e Tijorn. Un ricordo
della mia luminosa infanzia. “ora dimmi. Cosa c’era sulla mensola
della stanza da letto del Maestro?”. Era un ricordo divertente. Una delle
solite nostre marachelle. Vidi Nemys fare una smorfia schifata. “una
bottiglia di liquore, come al solito”. Rispose subito, sorridendo suo
malgrado, nonostante negli occhi ci fossero le fiamme. “era sempre piena,
lui provvedeva a riempirla quando si svuotava…quando la svuotava è
meglio… era una bottiglia tonda e panciuta, dal vetro trasparente. Una volta
che era piena noi e Tijorn la versammo nell’abbeveratoio del mulo. Eravamo
stanchi di vedere sempre Amarto sbronzo”. Repressi una risata. La reazione
del povero animale era stata tremendamente buffa. Un po’ meno quella del
Maestro. Anche Nemys ridacchiò. Che belli, quegli ultimi istanti di
pace. “mi ricordo che il Maestro ci rincorse per tutta la foresta, appena
scoperto il fatto…”. Bisbigliò, sorridendo apertamente,
sempre con quello strano cipiglio. Era un bel ricordo, pieno di luce e calore. Avevo
scelto quello apposta. “ci diede tante di quelle legnate da lasciarci il
segno per giorni. Dopo di quello abbiamo fatto sparire la bottiglia del
laghetto, per vendetta”. Oh! La gioia stava diventando troppa. E non ce
la facevo, a vedere la mia gemella così triste. Mi faceva troppo male. E
poi…si, le volevo un bene incredibile. L’affetto che provavo nei
suoi confronti era secondo solo a quello che provavo per Tijorn. Perché lei
era me. Era me, purificata. Una Lsyn distillata, in cui tutto l’odio, l’acredine,
venivano sconfitti. E lei rappresentava la vittoria di me stessa, contro quel
fato bastardo che mi voleva morta ad ogni costo. Perciò, non resistetti.
Era troppo. Scoppiai così a ridere, svelando finalmente lo scherzo, e mi
fiondai ad abbracciarla, stringendola più forte che potevo. Lei era me. Lei
era me. Lei era me.
Mi godetti in pieno quell’abbraccio soffocante, in quegli ultimi
momenti d’illusione, quegli ultimi istanti prima che il velo della cruda
realtà si fosse sollevato, spingendomi in un baratro di cui ancora non
intravedo la fine
Mi
godetti in pieno quell’abbraccio soffocante, in quegli ultimi momenti
d’illusione, quegli ultimi istanti prima che il velo della cruda
realtà si sollevasse, spingendomi in un baratro di cui ancora non
intravedo la fine. Quell’eclissi perenne, quell’ulteriore scherzo
del fato crudele e bastardo. Ma allora ancora non sapevo. Ancora prevedevo un
futuro così roseo da quasi nausearmi. Non sarei morta. Non vedevo
l’ora di raggiungere Tijorn! Strinsi Nemys a me con tutta la forza che
avevo, delirante di gioia. Lei rappresentava tutto ciò che io ero stata,
la gioia, l’amore, la speranza, l’innocenza che io avevo imparato a
perdere così presto, ma a cui non avevo rinunciato mai. Era come avere
una sorella, un faro in un mare in tempesta, una luce nella nebbia. Chissà.
Non mi sarei mai abituata, in fondo, al pensiero di avere un Rinnegato, altro
da me, ma legato ancora alla mia persona, un vincolo che si sarebbe potuto
spezzare solo con la morte. Era strano pensare che Nemys fosse davvero me, in
un certo senso, la me buona. Una me
ancora inalterata, salvatasi miracolosamente da tutto il terrore di
cinquant’anni, da tutte le ombre. Non che io non fossi cattiva,
intendiamoci bene. Ero solo molto, molto sfortunata, legata inesorabilmente ad
un destino di dolore, ad un passato che mi tormentava, e mi tormenta ancora.
Ero stata sporcata dagli inganni e dalle fiamme che avevano straziato la mia
carne, dalle macchi di menzogne, da cinquant’anni d’insensato
vagabondaggio. Irrimediabilmente perduta, la vecchia Ombra, la vecchia,
allegra, sfrontata, chiassosa Lsyn Amarto, spezzata in mille frammenti che mi
tagliavano il cuore, me lo riducevano in brandelli. Ma l’idea che una
parte di me si fosse salvata, che un pezzetto della mia antica essenza, il
migliore, si fosse incarnato di quella creatura, figlia della speranza, la
Sacerdotessa a capo dei ribelli, dei sediziosi, di quelli che, a lungo, erano
stati gli unici abbastanza coraggiosi per opporsi alle brame di quella regina
pazza che era Lainay, accecata al tal punto dal suo desiderio da averlo
trasformato in brama di distruzione, riscattando in quel modo anche tutto il
male che io avevo commesso….beh, mi rinfrancava enormemente. Forse, anche
per me c’era una speranza, la speranza di ritornare senza pensieri, la
speranza di godersi l’età adulta, quell’estate che ancora mi
sorrideva, piena di allettanti promesse. Ora che sapevo che non sarei morta, la
mia fantasia partì a tutta forza. Immaginai la mia esistenza felice e
luminosa, finalmente libera da ogni costrizione. Non appena tornata al
Lazzaretto, mi sarei dedicata ai miei cari con tutta la forza del mio essere.
Non importava più quanti giuramenti di fedeltà o non belligeranza
che avrei dovuto stringere. Sapevo a chi giurare. Nemys non si sarebbe mai
approfittata della mia felicità. Mio fratello si sarebbe dovuto mettere
in piedi presto: non sarebbe stato carino se lui si fosse legato ad Akita in
ogni modo possibile per loro? Era piacevole immaginare la vita che mi
aspettava. Nonostante quel piccolo contrattempo, quel mostro profumato e
pericoloso, avevamo vinto. La felicità non ci sarebbe stata più
preclusa, mai più. Avrei finalmente vissuto una vita degna di quel nome,
con Tijorn, il mio caro, dolcissimo Tijorn, il mio stupido fratellino, la sua
velenosa e simpaticissima compagna, ed il mio piccolo nipotino, chegià amavo, che non vedevo
l’ora di stringere tra le mie braccia, quel mostriciattolo che non vedevo
l’ora di coccolare fino alla nausea e viziare. Avrei riempito allo stesso
modo di attenzioni i miei dolci protetti, e mia figlia, la mia piccola Roxen,
le avrei fatto crescere i capelli fino a terra, per poi acconciarli in morbide
trecce, da arrotolare sulla nuca, in un’acconciatura più bella di
qualsiasi principessa. Avrei reso Chekaril un vero elfo, degno di portare quel nome
altisonante, che al padre, quel verme schiavizzato dalla sorella, buono solo a
darsi da fare per portare problemi, calzava solo in battaglia. Gli avrei
insegnato, al mio piccolo, la compassione, il valore della libertà,
tutte cose che io avevo sempre ignorato, facendolo apposta, e che desideravo
più di ogni altra cosa, forse. Li avrei visti giocare con le gemelle,
libere ancora prima di essere incatenate, per loro fortuna. Era mio desiderio
fisso sentire le risate echeggiare ancora accanto a me, quelle risate allegre
che io avevo sentito solo una volta. Magari avrei preso loro anche un altro
cagnolino, magari una creatura della razza tipica delle montagne, bestie
longeve, mansuete con i padroni, terribili con gli estranei indesiderati,
fedeli fino alla morte. Enormi esseri lanosi e morbidi, addestrati a far la
guardia fin dalla nascita, piccole collinette di pelo arruffato che mi avevano
deliziata ed intimorita, perché, su due zampe, mi sovrastavano
tranquillamente. Avrei avuto tutto quello, ed anche di più: ci sarebbe
stata Nemys a proteggermi. Lei mi conosceva, sapeva che non avrei mai
più fatto del male. L’idea di uccidere ancora mi atterriva, ed io
aborrivo quella possibilità con ogni fibra del mio essere. Ero stanca
del sangue, stanca di vederlo scorrere sempre per colpa mia, come se ne
gioissi, e l’altra parte di me stessa lo sapeva, e fin troppo bene. Avrei
voluto implorare perdono ad Isnark, scivolare in ginocchio al suo cospetto,
rivelandogli che davvero non avevo voluto fare quello che avevo fatto, che i
volti dei due elfi da me uccisi ogni tanto comparivano nei miei sogni per
perseguitarmi assieme agli altri fantasmi, che davvero non avevo voluto
sfregiargli il volto, perché conoscevo l’umiliazione e
l’abbrutimento che una cicatrice portava, soprattutto se in bella vista
come quella, che non intendevo affatto costringerli ad entrare in una guerra in
cui loro non sarebbero voluti entrare per nulla al mondo, a fianco di un mostro
che li ricattava senza remore alcune, che sicuramente
aveva carpito da Isnark la reale identità di Nemys, gioendone
pazzamente, sfruttandolo come un mezzo qualsiasi. Aveva preso tranquillamente
le informazioni che le servivano, cose preziose, in quel viaggio nel Piano di
cui io ero la responsabile. Se solo Uruk fosse caduta in disgrazia, sarebbe
stato solo ed esclusivamente colpa mia. E gliel’avrei detto,
l’avrei rivelato a quell’elfo che mi odiava, prima o poi, tutto il
tormento che mi agitava. Io non l’avevo fatto apposta, accidenti! Come
rivelarglielo? Mi sarei anche sfregiata l’altra metà del volto,
per vendicare quello che avevo fatto. Per quel momento, non mi preoccupai di
quello. C’era Nemys a proteggermi, quella creatura a cui, se solo fosse
servito, mi sarei legata in ogni modo possibile, in modo da servirla e riverirla
come tutti facevano. Lei era degno di rispetto, ai miei occhi, ancora di
più. Era me, la me salva da ogni male, non intaccata
dall’oscurità. Mi pareva bizzarro, e lo era. Io, Lsyn, avevo
servito l’oscurità in ogni sua forma, ne ero stata
l’espressione vivente. Lei era la luce, trionfante. Eravamo
complementari, ci servivamo a vicenda, la luce per mettere in evidenza il buio,
per evidenziarne la gloria oscura, il buio per far sperare nella luce
sfavillante. Tuttavia, eravamo diverse. Mi parve così strano, mente
abbracciavo Nemys fino a farmi dolere il costato, sentirla e vederla
così simile, ma, nel contempo, così differente. A parte i
lineamenti, ed il colore della pelle, io e lei non avevamo in comune
nient’altro. Era davvero strano. Era forse in suo potere modificare il
suo aspetto a suo piacimento? Chissà. Dovevo chiederglielo. Mi scostai
così lievemente da lei, in modo da guardarla nuovamente in viso. Lei era
felice, felicissima, si vedeva, ed anche un po’ commossa. Lo spettacolo dei
suoi innocenti occhi chiari, scintillanti di lacrime, m’intenerì.
Erano così diversi da quei pozzi senza fondo che mi ritrovavo, che
Chekaril aveva definito così profondi da risultare degni di timore,
quegli occhi in cui non trovavo davvero nulla di strano. Era così
diversa l’espressione, così dolce, così saggia. Era strano.
Perché i Rinnegati non assomigliavano come gocce d’acqua al loro
creatore? Potevano scegliere cosa essere, cambiare il loro aspetto a
piacimento? Era un fenomeno davvero curioso. Dovevo chiederglielo. Così,
tenendole ancora le mani, che lei strinse con partecipe affetto, presi a
parlare. Avevo la voce più roca del solito, quasi come se fossi
sull’orlo delle lacrime. E forse stavo piangendo davvero. Ma non
m’importava, affatto. “senti, Nemys…”. Dissi, con voce
bassa, quasi timorosa di spezzare quell’incantesimo di pace che si era
creato. Lei mi sorrise, e mi guardò con interesse. Sembrava sapere
esattamente cosa mi stesse passando per la testa. Capii, non so come, che lei
avrebbe risposto ad ogni mia perplessità. Mi sentii rassicurata da quel
fatto. “cioè…perché sei diversa da me? Hai potuto
scegliere il tuo aspetto?”. Lei ridacchiò, ed annuì.
Accidenti. Repressi a stento l’impulso che m’imponeva di ridere con
lei. Ma quel suono metteva gioia, quello scampanellio così simile alla
musica del rito che aveva officiato, faceva sembrare il mondo solo una cosa
positiva. Non riuscivo che a provare felicità, quando lei era nei
paraggi. Era un po’ come Tijorn: stessa carica benevola, stesso affetto
che sprizzava da ogni poro. Non si poteva disperare, quando c’era lei.
Con voce conciliante, dopo un’altra risata scampanellante che mi mise
ulteriormente di buon umore, lei riprese a parlare. Bevvi avidamente ogni sua
parola, come un viandante appena tornato da un lungo viaggio nel deserto. Era
piacevole potersi fidare così ciecamente di una sovrana. Ma lei non era
come le altre. Lei era l’essenza della luce. Strano pensare fosse me, per
sommi capi. Ma vero. “certamente!”. Esclamò, con un sorriso
brillante e disinvolto, forse un po’ sarcastico. “ognuno di noi Rinnegati può
costruirsi un corpo a suo piacimento. Io volevo ricordarti, senza calcare
troppo la mano. In fondo…tu hai sempre odiato la tua statura!”. Di
nuovo, lei rise, quella risata altamente contagiosa, e mi abbracciò per
un attimo. Non mi sentii oltraggiata per quella presa in giro, anzi: ridacchiai
con lei. In fondo era vero. La mia piccola statura è sempre stata, per
me, un’ossessione pura. Non dovevo prendermela. Lei aveva voluto solo
rimarcare una cosa piuttosto ovvia. Mentre ancora ridacchiavamo, sostenendoci
l’un l’altra, lei riprese a parlare. “molti di quelli che
erano Rinnegati sono dissimili al loro creatore, da noi…” disse,
ora con aria assorta. Mi sentii incredibilmente incuriosita. C’erano
altri Rinnegati? Davvero? Decisamente, la curiosità si fece così
spasmodica da prendermi allo stomaco, che si torse lievemente. Mi trattenni dal
fare una smorfia. Odiavo quelle reazioni stupide. “prendi
Zipherias…lui è l’esatta antitesi del suo creatore”.
Un nuovo sorriso, apertamente di scherno, ma sempre dolce, le comparve sulle
labbra. Zipherias? Strano. Quel nome mi sembrava familiare. Dove l’avevo
sentito? Da qualche parte, lì quasi di sicuro. Ma l’esatta persona
“mi ha raccontato di essersi staccato da un mercante della costa
ovest… una creatura, a sua opinione, grassa, minuscola, viscida e pallida
come uno spettro. E l’hai visto, no? Lui è un gigante…
proprio chiaro, nemmeno!”. Di nuovo, lei ridacchiò. Qualcosa alle
sue parole, andò a posto. Aha!
Provai un moto improvviso di stupore. Il tipo con le treccine. Quello
altissimo, che mi aveva squadrato tutto il tempo con un’aria di
sufficienza che dava sui nervi. Quel mostro era un Rinnegato? Ricordavo dove
avevo sentito quel bel nome, altisonante ed un po’ complesso. Lei aveva
chiamato uno dei due elfi che mi avevano accompagnata lì Zipherias. Il
più chiaro non poteva essere: l’altro l’aveva chiamato, in
mia presenza, Benagi. Poteva essere solo quello con il ciondolo, quel tipaccio
scurissimo e claudicante, dall’espressione perennemente annoiata ed
aspra. Accidenti…ora si spiegava quel colore
così…così nero!Lui non era un elfo. Mi sentii istantaneamente intimorita ancora di
più. Era strano pensare quel bastardo un Rinnegato, quel gigante solo
un’ombra. Non corrispondeva alla materialità della sua stretta
forte e dolorosa, quella stretta che mi avrebbe lasciato ben più di un
livido. Era strano pensarlo un Rinnegato, davvero. Perché zoppicava
così vistosamente? Conciliare la sua immagine minacciosa e torreggiante
con quella della dolce Nemys mi sembrava un’impresa impossibile. Eppure,
entrambi mi avevano tratta benissimo in inganno. Erano elfi. O almeno, tali
sembravano. Accidenti. Quasi non ci potevo pensare. Zipherias, un Rinnegato. Ma
quanti altri ce n’erano, nella sua cricca? Ero incredula, fortemente
incredula. Ovviamente, non in un modo esagerato. Non conoscevo abbastanza il
mostro scuro per potermi stupire di una cosa del genere. Stavo solamente
facendo qualche calcolo. L’altra parte di me sorrise, di fronte allo smarrimento
totale che sicuramente lasciavo intravedere, e scosse leggermente il capo, come
se avesse detto troppo. Non sembrava rimpiangerlo, però. Dovevo parlare.
Assolutamente. Accidenti, quella era roba davvero grossa! Quanti Rinnegati
stavano con lei? Quanti facevano parte del suo esercito? Accidenti. E loro
avevano avuto paura di Lainay? Loro?
Quanto erano forti, i Rinnegati? Tutte quelle domande erano davvero troppe per
me. Riuscii, di tutto quello che mi si agitava in testa, ad esternare solo un
pensiero. Sotto lo sguardo protettivo ed innocente di Nemys, accanto a lei come
avevo fatto con la Matriarca, come avevo fatto per una settimana con la mia
amica Tengu, cominciai a parlare, in quel serrato botta e risposta, quel
dialogo così pieno d’affetto. Odiai sentire la mia voce
così debole e lontana. Ma lo stupore mi aveva davvero lasciata alla
sprovvista. “quel tipo che mi ha accompagnata qui è un Rinnegato
come te?”. Domandai, stupefatta. Una domanda stupida, ma che mi avrebbe
rivelato nuove, piccole cose sconcertanti. Quante altre cose mi erano precluse?
Quanti segreti covava, quella dolcissima me? A quelle parole, Nemys parve
divenire piuttosto cauta. Si mordicchiò il labbro inferiore, guardando
verso l’alto, eludendo il mio sguardo inquisitore, e sospirò. Il
sorriso, quel sorriso dolce che aveva avuto per lungo tempo, da quando mi aveva
confessato la sua identità, a pensarci bene, si smorzò, divenendo
un’espressione sognante, ricca di soddisfazione. Mi domandai il
perché. Non mi era sfuggito il lampo di esultanza comparso nei suoi
chiari occhi. “non più, Lsyn”. Esclamò, guardando
ancora verso l’alto, sognante, con la stessa voce che potrebbe avere una
madre che parla di un figlio geniale. “ora lui è un elfo come te.
Io l’ho reso tale”. Cosa?
Se prima ero rimasta spiazzata, in quel momento mi aveva completamente presa di
sorpresa. Penso che sbiancai, e sicuramente ebbi un sobbalzo, tanto che Nemys
mi guardò di nuovo, e mi strinse forte le mani, come per volermi
rassicurare, nei suoi occhi, ora l’ansia.Ma non c’era nulla da fare
pertranquillizzarmi un po’.
O meglio: non sarei mai scappata, non da quell’essere così puro,
non dalla parte integra di me stessa, ma rischiavo di sentirmi male. Lo stomaco
si torse con tale violenza da farmi gemere debolmente. Dei. Come lo odiavo! Mi
sentii, per la prima volta, tremendamente in soggezione. Nemys aveva un potere
tale da far divenire ombre di viventi viventi veri e propri? No: non le
credevo. Era impossibile! Come poteva fare? E lei? Lei era una Rinnegata? E
perché non si curava? Accidenti, accidenti, accidenti. Ecco
cos’era, quell’esplosione di potere che mi aveva fatto rizzare i
capelli sulla base della nuca, nel tempio! Ebbi un’improvvisa
illuminazione, e mi diedi della stupida. Avrei dovuto capirlo prima, molto prima.
Forse avevo capito cos’era andato a fare quella persona inginocchiata,
nel tempio. Forse era quella, la spiegazione di quell’alone di luce. Come
accidenti faceva? Beh…non erano noccioline, quelle, per spiegarsi bene.
Nemmeno il più potente mago elfo ci sarebbe riuscito. Nessuno,
accidenti! Come, come trasformare un corpo fatto di energia in uno fatto di
carne? Ci voleva troppo dispendio d’energia! Troppo potere da sprecare!
Era un’impresa sovrumana! Ora lei arrivava, fresca come una rosa appena
colta dal giardino, e mi comunicava, come se niente fosse, di essere capace di
creare così, un corpo dal nulla, di cambiare essenza ad un individuo
costituito d’ombra. Tra un po’ che avrebbe fatto, mi avrebbe detto
di saper resuscitare i morti, o cos’altro? Ero letteralmente impietrita.
Oggi rido, nel ricordare la mia reazione. Dopo le cose tremende che seguirono,
dopo la creatura che oggi è tra i miei protetti, quella creatura
così dolce, ma così strana e pericolosa, non mi stupisco più
di nulla. Non ho la forza per stupirmi. Ma in quel momento, io, abituata da
secoli a maghi piuttosto mediocri, a stento capaci di entrare nel Piano, non
riuscivo a concepire un’idea così devastante. Accidenti…era
letteralmente assurdo. Penso di aver guardato Nemys con un’aria così
stupita da apparire idiota, non so. Ora non ricordo alla perfezione, ma spero
ardentemente di non aver aperto la bocca. Lo spero. Parlai come in un sogno,
come immersa in una caligine turbinante. Ci voleva tempo per assimilare quello
che mi stava dicendo. “tu…tu hai…sei…fai…”.
Riuscii a squittire, con una voce tanto simile a quella di Aevo quando mi aveva
guardato per la prima volta senza maschere. Era tutto quello che riusciva ad
uscirmi, davvero. Lei annuì lievemente, e sorrise. Poi mi
abbracciò forte, come per impedirmi di fuggire da lei. Ero esterrefatta.
Ed esterrefatta è dire poco. Lei mi tenne dolcemente tra le sue braccia,
come per rassicurarmi. Era bello, bello essere così vicina ad una
persona così cara, ma, davvero, avevo bisogno di risposte. Quel potere
tanto spaventoso mi turbava. Non lo credevo nemmeno possibile. “Lsyn,
è il mio potere… è così perché sono una
Rinnegata”. Mormorò, passandomi una mano tra i capelli. Sembrava
quasi trattarmi come una bambina. Non era così spiacevole, m ami pareva una
strana sensazione. Soprattutto se quella che mi trattava così aveva
appena cinquant’anni. L’età di mia figlia. Eppure, sembrava
vecchia di secoli, e millenni. Quegli occhi così dolci mi narravano di
ere passate, di vento, di sabbia che spazza via il tempo, rendendolo cosa
innominabile, rifiuto tra i rifiuti. Prestai spasmodica attenzione alla sua
voce ansiosa, tornata di nuovo lievemente sofferente. Sembrava quasi aver paura
che io la lasciassi, che prendessi ad odiarla.Quasi sbuffai. Aveva così poca
fiducia in me? Non l’avrei mai lasciata, mai. Era davvero esagerata: in
fondo, ero solo un po’ turbata, niente più. Non c’era
bisogno di fare tutte quelle storie. Mi aveva solo presa alla sprovvista, tutto
qui. Non era poi così grave. La sua voce terrorizzata ed addolorata
m’intenerì. “ho trasformato un sacco di gente…tutti
quelli con il ciondolo rosso erano
Rinnegati…io voglio solo la vita delle persone, che siano felici,
nient’altro… non voglio far del male a nessuno!”. Accidenti. A
giudicare dalla diffusione di quel ciondolo lei aveva donato alla vita un bel
po’ di creature. Era davvero incredibile. Mi sentii invadere,
all’improvviso, da una tenerezza e rispetto incalcolabili. La mia dolce
Nemys. La mia sorellina, l’altra parte di me. Com’eravamo diverse,
ma com’eravamo uguali! Davvero, davvero, davvero, non avevo mai
incontrato una creatura come lei. Lei non voleva altro che la felicità
altrui. In quello ci assomigliavamo. In fondo…che cos’era, quel
potere, se non pura e semplice magia vecchio stile? Non comprendeva minacciose
creature che facevano impazzire, né altre diavolerie del genere. Era una
magia bianca, una magia che prevedeva gioia, luce vita. Niente di male,
insomma. Perché mi spaventavo tanto, in fondo? Come potevo, io, dubitare
di una creatura tanto buona? Non dovevo spaventarmi per una bazzecola del
genere. Non avevo crollato di fronte alle più tremende
atrocità…dovevo reagire come un pulcino spaventato solo per
quello! Ignobile da parete mia, una fiera elfa del nord. Nonostante tutto, non
avrei mai dimenticato la mia purezza razziale. Dovevo sentirmi meschina per
quello. Io avrei dovuto far di tutto per l’unica parte di me stessa che
si fosse salvata dall’agonia tremenda del fuoco. Io dovevo ammirare
Nemys, che si sacrificava per gli altri. Io non avevo mai fatto tutto quello
che lei faceva ogni giorno. Io non ero riuscita a tener testa a Lainay come
aveva fatto lei, impedendole di conquistare anche quei territori, riuscendo a
catalizzare la fedeltà e l’amore di popoli interi, creando uno
stato libero e fecondo. Io non ero mai riuscita, né lo sarei mai stata,
a fare nemmeno un po’ di quello che aveva fatto lei. Io ero riuscita solo
a mettere nei guai me, e gli altri. Non avevo fatto altro che quello, né
smisi mai di farlo. La consapevolezza di ciò mi gettò per un
attimo nello sconforto. Era brutto pensare quelle cose, tremendo. Mi dava una
certa sensazione di nullità, d’impotenza. Proprio in quel momento,
tra le braccia, ancora una volta, della mia gemella, della mia sosia diversa,
capii di aver accantonato la questione del potere come se non fosse mai
esistita. Beh…davvero, non m’importò più. Mi ero
calmata, finalmente. Era stata così sciocca, la mia reazione!
Timidamente, sorrisi, e restituii l’abbraccio. La Rinnegata, la mia
Rinnegata, mi strinse più forte. Restammo a lungo così, stretta,
come per consolarci. Ricevetti una bizzarra sensazione di calore, da quell’abbraccio.
Come se nulla potesse andare storto. Fu bella, e, per un breve, brevissimo
momento, mi sentii al sicuro. Ed invece, le cose stavano per precipitare. Erano
pronte per farlo. Ad un certo punto, non so dire come né quando,
sentimmo qualcuno bussare la porta. Io e Nemys ci staccammo. La mia Rinnegata
sembrava avere un’espressione alquanto confusa, e seccata. “chi
sarà mai?”. Disse, con voce ora tranquillizzata, per fortuna,
alzandosi dal divano. Io non la seguii. Stavo troppo bene, lì. In fondo,
lei non se ne sarebbe andata. Mai più. Le due parti di me, i due lati
della mia personalità, non dovevano andare divisi. “cosa
sarà mai successo? Ho dato l’ordine di non disturbarci…”.
Non ho mai creduto alle premonizioni, ma, davvero, quello che successe dopo
ancora mi lascia stupita. Sentii uno strano rimescolio nello stomaco, e provai
una sensazione poco familiare, ma tremenda. Non so perché, ma pensai immediatamente
a mio fratello, al Lazzaretto, ad Akita. C’era qualcosa che non andava,
quello era sicuro. D’un tratto, la sicurezza che avevo mostrato in quel
colloquio svanì del tutto. Mi sentii di nuovo disperatamente sola. Avvertii
freddo, un freddo indicibile. Oh, no. No. No. Non poteva andare tutto storto,
vero? Certamente…poteva essere una questione d’infima importanza…ma
io non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea di Tijorn. Non lo so perché.
Sentii un indicibile dolore invadermi le membra. No. Era solo la mia
immaginazione. No! Io volevo vivere! Volevo vivere, vivere, vivere! No! Non potevano
rubarmi le mie speranze! Non in quel modo! Io dovevo essere felice! Cercai di
respirare, ma mi accorsi di avere qualcosa bloccato in gola. Cercai di
calmarmi. Inutilmente. Sentii battere il cuore come un uccellino indifeso in
gabbia. Non stava succedendo. Dovevo rimanere calma. Non tutto era detto. Non tutto.
Dopo essersi avvicinata un po’ alla porta, Nemys parlò. “chi
è?”. Disse, con una voce svagata che mi parve molto strana. Mi ricordai,
cosa stranissima, del momento in cui era cominciato tutto, di quando io e
Tijorn eravamo nella stanza di Junielle, in attesa che lei portasse i piccoli
ed Amarto da noi. La situazione mi sembrava la stessa. Quasi non mi resi conto
di essere schizzata in piedi, tremante. Non mi resi quasi conto dell’occhiata
preoccupata ed incuriosita che mi aveva lanciato Nemys. Dietro la porta
massiccia, si sentì una voce soffocata. La voce del giovane che mi aveva
chiamato quando ero da Tijorn. “venerabile Nemys, aprite!”. Disse,
con una strana voce urgente. La voce che mi parve uno squillo di tromba, per
me. Lo squillo finale. L’ultima battaglia per la mia felicità. “c’è
bisogno del vostro aiuto!”.
Vennero a chiedere il suo aiuto urgente, definiamolo così,
maledetto sia chi mi fece venire quel tremendo colpo al cuore, per una vera
sciocchezza
Vennero a
chiedere il suo aiuto urgente,
definiamolo così, maledetto sia chi mi fece venire quel tremendo colpo
al cuore, per una vera sciocchezza. O forse la reputo tale perché avevo
interpretato quelle parole in modo sbagliato. Oh, molto sbagliato. Fatto sta,
che io e Nemys, alzateci di scatto, lei pallida, con la morte in viso, io
completamente fuori di me, piena di pensieri strani, lo stomaco che sembrava
essersi infilato in una botte piena di acqua bollente, ci precipitammo fuori
senza esitare. Quella voce era familiare, io avevo visto il giovane che mi
aveva chiamata, nel Lazzaretto. Quel tipo sottile, dai capelli indomabili. Che
fosse rimasto lì, a far da guardia ai miei amici? Che fosse rimasto da
mio fratello? Insieme al terrore, sentii una fitta d’irritazione.
Perché accidenti i guai dovevano capitare quando io non c’ero? A
quel punto, la colpa non poteva essere per niente data a me. Erano gli altri ad
essere una massa di caproni irresponsabili. Sapevano che per me Tijorn era come
me stessa. La febbre non gli era ancora passata, e lui doveva stare a riposo.
Era ancora convalescente, e doveva stare, completamente fermo in quel
lettuccio. Era un ordine tassativo. Per gli incompetenti avrebbe pure potuto
cominciare a fare piccole passeggiate, ma per me no. Mi sarei fidata di farlo
muovere solo quando Max mi avesse dato il suo permesso. Era di lui che mi
fidavo. Che i Guaritori di Kyradon, o qualche altro incompetente,
l’avessero fatto alzare? E se il veleno non fosse stato estratto del
tutto, da quella massa di idioti imbellettati? Quell’ultima
possibilità mi fece quasi cadere, a contorcermi per il dolore allo
stomaco, tanto che Nemys, giratasi per un momento verso di me, pallida , mi
afferrò per un braccio, e mi tenne forte. Ma non caddi. Non ancora, almeno.
La possibilità di vedereTijorn, il mio bel Tijorn, morire, era troppo orrenda per poterla
contemplare. Già altre volte mi ero lasciata cullare da quelle terribili
fantasticherie, che mi torturavano e mi tormentavano, ma mai come quel momento.
Sentivo freddo dappertutto, ero tutta indolenzita. Il mio corpo era un blocco
di ghiaccio. Mi pareva di essere come racchiusa in una camera molto stretta,
senza potermi muovere. Quasi vedevo del nero agli angoli del mio campo visivo.
Uscimmo dallo stanzino, dove con tanta felicità avevo conosciuto
l’altra parte di me stessa, la mia Rinnegata, rapide come due frecce. Il
giovane elfo, minuscolo in mezzo ai due giganti scuri, che lo affiancavano ci
guardò con ansia, e si rivolse alla Matriarca, dopo un attimo di sconcerto,
chissà, forse dovuto al fatto che lei mi stava mantenendo, toccandomi
con gran confidenza. Mi sentivo talmente male da non riuscire quasi a
camminare. Ero separata dall’oblio solo grazie a Nemys, che mi faceva
sentire la sua presenza, tenendomi sottobraccio, e sostenendomi. Senza di lei
avrei rischiato di stare peggio, molto peggio. Lei era la mia fonte di luce,
che mi supportava quando io mancavo. Ed in quel momento tutto ero, tranne che
presente. L’elfo castano pareva pieno di apprensione.Lo guardai di sottecchi. Era nervoso, ma
non mi sembrava poi così tanto addolorato.“dovete venire, mia
signora!”. Cinguettò, torcendosi le mani, guardandomi per un
momento con rabbia. Cercai di ignorare quel segnale piuttosto negativo, di
ciò che sarebbe seguito. Sembrava, in qualche modo, agitato. “i
sacerdoti hanno bisogno di voi!”. Ed ora che c’entrava Nemys?
Perchè sarebbe dovuta andare lei, e non io? Che significava tutto
quello? Avvertii la pressione sul braccio che lei mi avevo stretto diminuire.
Deglutii, e non guardai nessuno. Ero troppo concentrata a contare le bianche
mattonelle, troppo concentrata a studiarne le venature del candido marmo.
Sapevo che lasciare che l’ansia s’impadronisse di me era più
che sbagliato. Se solo l’avessi fatto, sarei svenuta, o peggio. Sentivo
il cuore in gola, battere con un tamburo. Tuttavia, non so perché,
quando sentii la presa ferrea della Rinnegata allentarsi, mi sentii meglio.
Forse non tutto era nero come mi era parso. Forse era tutto un trucco. Forse
era successo qualcosa di meno grave. Oppure volevano Nemys davvero, non me. Mi
sentii così trascinare e,seguiti da Benagi e da Zipherias, due colossi neri, due statue
minacciose, ci avviammo di nuovo verso l’interno del tempio, nei pressi
dell’altare. Man mano che procedevamo, trovai la forza per alzare la
testa. Il giovane elfo, che stava discorrendo animatamente con Nemys stava
parlando di qualcosa inerente al tetto, a qualcosa che era caduto, di un
incidente che richiedevaassolutamente la presenza della
Matriarca, in quanto era avvenuto proprio nei pressi dell’altare. Un
cedimento del soffitto, qualcosa del genere. A quelle parole, mi sentii
investita da una curiosa ondata di sollievo, accompagnata da una non meglio
definita ira. Le fitte tremende allo stomaco si calmarono, lasciandomi preda di
un dolore sordo, ma piuttosto sopportabile, anche se non prometteva nulla di
buono. Sentii un vago sapore acidulo invadermi la gola, mordendola. Mi sentii
la testa leggera, e capii, improvvisamente, di essere lì, di essere
presente, come se non me ne fossi accorta, prima. Allora Tijorn stava bene. Era
ancora lì, al Lazzaretto, sbuffante e tutto sommato sano, o almeno mi
pareva così, ad attendermi con impazienza. Mi sentii invadere da un
fiotto di energia e colore, che mi diede la forza necessaria per muovermi da
sola. Nemys, tuttavia, non mi lasciò. Mi sembrò mi guardasse per
un attimo, che mi scrutasse attentamente, come in cerca di qualche cedimento,
ma io non ne capii il motivo. Le immagini morbose di Tijorn bianco, freddo ed
immobile erano ormai svanite dalla mia mente. Mi sembrava che qualcuno mi
avesse tolto un gran peso dalla schiena. Mi sentivo molto meglio, a parte quel
dolore continuo, che dallo stomaco mi afferrava il petto, ed un certo
stordimento. Era sempre stato così, e non me ne curai più di
tanto. Certo, di solito non ero ancora mezza indebolita da una ferita che,
secondo i miei piani, avrebbe dovuto uccidermi, e da una fuga precipitosa, ma
riconoscevo quei sintomi. Mi succedeva, dopo attimi di nervosismo. Soprattutto
quando mi facevano venire spaventi simili. Guardai, per un secondo, storto il
giovane, che non sembrava far caso a me. L’avrei ammazzato, con le mie
stesse mani. L’avrei davvero ucciso. Ma come si era permesso? Per una
sciocchezza del genere, farci morire di paura! Come se mi avesse letto nel
pensiero, Nemys, mentre ci avvicinavamo all’altare, si accostò al
mio orecchio. “tranquilla, Lsyn…”. Disse, in tono dolce. Io
non la guardai, ma preferii fissare in cagnesco l’elfo che mi aveva
strappata alla mia pace. Una pace che mai più avrei potuto avere, un
attimo beato, dopo tanto soffrire. Scoprire di essere ancora una persona, di
non essere odiata a morte da tutto il mondo. La cosa mi recava un grande
sollievo. E quella creatura infingarda, senza sapere cosa mi stava provocando,
aveva interrotto un momento di pace! Si vedeva, oh se si vedeva, che lui non
aveva mai sofferto davvero. Era da quando avevo tentato di suicidarmi, anzi, da
quando avevo scoperto che Chekaril era ancora vivo, che non avevo tregua. La
mia vita si era rivelata una serie infinita di torture, una peggio
dell’altra. Mi pareva di aver trovato, finalmente, un equilibrio. Un
equilibrio che quel maledetto era andato a spezzare. “Torterio è
giovane, e si spaventa per poco. È sempre nervoso”. Grazie! E perché accidenti non
era andato a tormentare qualcun altro? Avevo già avuto in abbondanza la
mia razione di terribili notizie, ed avevo i nervi a fior di pelle. Era quasi
una reazione normale, per una creatura abituata da sempre alle tragedie. Quel
maledetto avrebbe dovuto pagare, prima o poi. Magari non l’avrei ucciso.
Ma avrebbe sofferto, e molto. Non mi si spaventava in quel modo. Le gambe
ancora mi tremavano follemente. Forse era davvero un bene che Nemys mi stesse
sostenendo. Arrivammo, dopo poco, nel punto dove era accaduto
l’incidente: nient’altro che un piccolo, minuscolo crollo. Tutta
quella confusione non era accaduta altro che per una questione d’ordine
infimo. Tre sacerdotesse erano lì, tutte e tre con il ciondolo rosso,
vestite di abiti bianchi e lunghi, efluttuanti mantelli color argento, di quella che mi sembrava seta.. Le
guardai con curiosità. D’un tratto, i monili dei due soldati che
avevo ucciso, ancora al sicuro nel mantello, mi sembrarono più pesanti
che mai. Avevo ucciso un essere che si meritava più di ogni altro di
vivere. Cercai di non pensarci, e mi concentrai sulle tre elfe. Una delle tre era
addirittura più bassa di me, cosa che fino ad allora avevo reputato
davvero impossibile, ma l’altezza scarsa era compensata dalla
straordinaria massa di riccioli fitti e corti, di un comune giallo paglierino.
Attorno alla gola aveva legato, oltre al monile, quello che mi sembrava un
nastro color oro. Le altre due non avevano connotati particolari, e mi
sembravano quasi anonime, quasi fatte apposta per essere dimenticate. Il
nastro, nel loro caso, era rosso acceso. Le tre, che confabulavano tra di loro,
al nostro arrivo si girarono. Ed impietrirono. Impietrirono, davvero. Mi sentii
trapassare da sei occhi increduli e molto ostili. Quasi mi sentii male
anch’io, di nuovo, più di prima. Fino a quel momento l’astio
vero e proprio mi era stato risparmiato, l’astio di quel popolo che aveva
imparato a temermi. Fino a quel momento nessuno aveva notato il mio arrivo, a
parte i Guaritori, che sembravano non darci tanto peso, e qualche sporadico
paziente di turno. E già quelle occhiate di disgusto, quei sussurri che avevano
accompagnato i giorni infiniti al Lazzaretto di Kyradon, mentre io mi affannavo
dietro a Max, cercandolo di aiutarlo come potevo, andando avanti ed indietro
piena di bende, strumenti vari e boccette d’intrugli, mentre andavo dai
piccoli, che avevano dovuto stare a riposo per circa tre giorni per via dei
colpi brutali ricevuti da Lainay e Jalim. E tutto quello che ricevevo come
ringraziamento erano parole accoglienti come una trappola per lupi, insulti
sussurrati, detti a mezza voce, ed, un paio di volte, addirittura urlati. Mi
avevano chiamata in ogni modo possibile ed immaginabile, ed avevo dovuto
sopportare, nonostante mi tormentassi. Dovevo sopportare tutto quello,
perché me lo meritavo. Me lo meritavo ,per essere stata una cagna della
Regina, e tutto quello. Me lo meritavo, perché era tutta colpa mia. Ma
questo non voleva dire che la cosa non mi colpisse, anzi. Non ero così
insensibile, così forte. Era orrendo vedere i frutti della mia atroce
condotta, i frutti che tutta la mia esistenza aveva dato. Nessuno credeva che
mi fossi ravveduta. Tutti pensavano che il mio non era altro che un vile trucco
per uccidere, magari, o per trafugare informazioni preziose. La cosa era
atroce. E provai un tremendo desiderio di piangere, di disperarmi, senza poter
fare nulla. Il dolore, con mio grande allarme, raddoppiò, ed io mi
sentii ancora più male. Nemys mi strinse di nuovo forte. Ci fermammo di
fronte alle tre sacerdotesse, in silenzio. Potevo sentire la tensione
nell’aria, toccarla, quasi. Una delle tre, la più piccina, quella
bassa che mi sembrava un’infante, sibilò, e mi guardò
storto. Sembrava ad un passo dal saltarmi addosso. Quella alla sua sinistra,
senza smettere di fissarmi con gli occhi socchiusi, le mise una mano sulla spalla.
Tutte e tre abbassarono la testa, s’inchinarono, al cospetto di Nemys. Ma
non troppo. Sembravano avere un ruolo piuttosto importante, un ruolo di spicco.
Le tre rialzarono subito il capo, e tornarono a fissarmi, quasi fossi una volpe
in un pollaio. Mi strinsi, intimorita, a Nemys, quasi inconsciamente, come in
cerca di protezione. Stavo tornando a sentirmi male. Desideravo il contatto con
mio fratello, con Akita, più che mai. Volevo essere vicina ai miei cari.
Lì, nonostante la Rinnegata mi volesse bene, mi sentivo
un’estranea, una straniera, peraltro poco benvoluta. Deglutii. Il sapore
acido stava diventando disgustoso. “mia signora, è successo un
piccolo contrattempo”. Sussurrò la piccina, con una voce che
cercava evidentemente di dissimulare la rabbia che stava provando nei miei
confronti. Sentii Nemys tirare un sospiro, e la guardai. Era piuttosto pallida,
ed aveva le labbra tirate in quella che mi pareva una smorfia di
disapprovazione. Ci fu un lungo momento di silenzio. Non so perché, ma
mi sentii di nuovo di troppo. In terribile imbarazzo. Lei stava rischiando per
me. Il gioco non voleva la candela. Feci per parlare, ma fui zittita da
un’occhiata ammonitrice della mia nuova sorella d’anima. Lei
sorrise brevemente, poi si rivolse alle tre guardinghe sacerdotesse. “pace,
amiche mie”. Disse, con la sua meravigliosa voce cristallina. Era
così bella che aveva quasi il potere di calmarmi, di tranquillizzarmi.
Ma le tre non sembrarono soddisfatte, e quella che aveva parlato strinse forte
le labbra. “Lsyn è venuta qui in pace, e mi fido di lei. Conosco
il suo cuore”. Nessuna delle tre, con mio grande rammarico, parve fidarsi
delle sue parole. La castana, quella alla destra, digrignò i denti, e
sibilò qualcosa troppo a bassa voce per poter essere udito. Non mi era
mai capitato di essere odiata con quell’intensità. Certo,non ero mai stata particolarmente amata
dal popolo di Galinne, nei miei anni ruggenti: anche sotto la mia copertura ero
molto sgradevole con gli umili. Ovviamente, tutti mi avevano evitato dopo che
ero stata sfigurata, e mi avevano temuto. Ero sempre accompagnata da un velo di
mitica paura, ma mai dall’odio. Nessuno aveva mai mostrato tanto astio
nei miei confronti. Non sapevo assolutamente come comportarmi. Quasi mi sentii
irritata, ed addolorata al tempo stesso. Che ne sapevano, quelle tre bigotte,
dei rituali delle Spie? Cosa ne sapevano, del fatto che io, dal concepimento,
ero stata destinata a esser quello che ero stata? Potevano rendersi conto del
terribile ingranaggio di morte, che fagocitava coloro che finivano in mezzo ad
esso, in cui ero stata schiacciata? Capivano che io non avevo mai auto il
diritto di scegliere il mio futuro? Sapevano loro i tormenti che avevo patito?
Avevano mai avuto un figlio, per poi vederselo strappare dalle braccia senza la
speranza di rivederlo? Erano mai state crudelmente prese in giro, crudelmente
picchiate dalla stessa sovrana, solo per aver detto una singola parola fuori
posto? No, di sicuro. Eppure, non so perché, assieme allo sdegno provai
anche una vergogna immensa. Vergogna per ciò che ero stata, per
ciò che ero ancora. Avevo corteggiato le tenebre, non avevo mai cercato
di sfuggirvi. Non ero stata come Tijorn, che si era prudentemente tenuto
lontano dall’oscurità, che aveva scelto di non partecipare ai
massacri ordinati, di dedicarsi alla vita tranquilla per cui era fatto. Io
avevo gioito, un tempo, della mia vita crudele, avevo considerato la prigionia
come un dono del cielo per ergersi in alto, sempre più in alto. Ed in
quel momento, calpestata e derisa dal mio stesso orgoglio, vinta dal più
semplice caso, meritavo tutto l’astio del mondo, solo perché non
ero stata capace di ribellarmi ai lacci segretamente imposti. Ero stata una
mucca legata ad un palo, libera di ruminare solo per la misura della catena, e
ben felice di esserlo. Non riuscii a sopportare oltre quegli sguardi ostili. Mi
pareva di essere in una tana di lupi. Ricordavo lo sguardo nemico di Benagi, lo
sguardo pieno di rancore di Torterio, i sibili delle pie sacerdotesse, l’indifferenza
cinica ed annoiata di Zipherias. Solo Nemys, per chissà quale motivo, mi
voleva bene. E non sapevo nemmeno fino a che punto. Abbassai lo sguardo, di
nuovo, sulle mattonelle. Ci fu un ennesimo momento di silenzio. Avrei voluto
strapparmi la carne a morsi. Tutto, pur di farmi perdonare. Di nuovo una fitta
di dolore, che quasi mi fece scappare un gemito. Non mi sarebbe mai, mai
riuscito di vivere in pace con i miei cari, se prima non avessi deciso come
legarmi a Nemys, in modo da mostrare quanto fosse reale la mia buonafede. Dovevo
trovare un modo per fuggire da quella rete che il mio passato orrendo aveva
creato, assolutamente. Io non volevo essere odiata così. Non ne avevo il
diritto. Non volevo, nemmeno. Io desideravo solo essere amata, essere compresa.
Tutto qui. Qualcuno che mi sostenesse, perché io non ce la facevo
più. Qualcuno che mi tenesse per mano, che mi guidasse per la tempesta
che stavo attraversando. La pena era immensa, la pena era troppo immensa per
esser sopportata. All’improvviso, traditrice, senza preavviso,
arrivò un ondata tremenda di malessere. La debolezza ancora presente,
forse la ferita che ancora aveva qualcosa che non andava, il colpo che mi aveva
fatto prendere il giovane elfo, nascosto ora tra i due giganti scuri e
silenziosi, il nervosismo accumulato in giorni e giorni in cui mi era impedito
di parlare del mio martirio con chicchessia, trovarono finalmente un valvola di
sfogo. Un ennesimo fiotto di acido mi salì in gola, ed io tossii. La testa
sembrò staccarsi dal corpo, e mi sembrò di essere immersa in una
lanugine scura. L’ambiente attorno a me appariva e scompariva, quasi si
stesse nascondendo di proposito. Mi parve che le gambe non mi reggessero
più. Qualcuno mi sostenne. Il dolore esplose, maligno e crudele, il mio
ennesimo torturatore, all’altezza dello stomaco, inondandomi il petto. Era
una sensazione tremenda. Quasi urlai, e mi contrassi in un bozzolo, per cercare
di sfuggire al tormento. Pace. Volevo solo pace. Volevo solo stare tranquilla. Delle
mani fresche si posarono sul mio viso. Era un bella sensazione. Non capivo dove
fossi, né chi fossi, quasi annichilita dal tormento. Forse ero stesa. Forse
ancora in piedi, non lo sapevo, né m’importava. Volevo Tijorn,
solo Tijorn. Volevo i miei bambini, volevo Akita, volevo Amarto, e persino
Junielle, la nuova, apatica Junielle. Volevo stare con chi amava. Volevo che
Nemys fosse amata da tutti, non che dovesse patire il sospetto generale. Lei non
lo meritava. Qualcuno bisbigliò qualcosa, con aria spaventata. Qualcun altro rispose. Non lo volli
capire. Chiusi gli occhi, con disperazione. Non volli vedere. Non volevo fare
niente. Solo rimanere, prigioniera del mio dolore, andarmene da lì. Non volevo
più essere l’oggetto di sguardi indiscreti. Avevamo lasciato, io e
Nemys, la calma dello stanzino in cui lei mi aveva rivelato la sua reale
essenza. Lei doveva riprender il suo ruolo di Matriarca. Io da rinnegata qual
ero, da odiata, da scarto della società. Con il pretesto di un solito
doloretto da nervosismo, cercai di sfuggire al dolore più grande: la
netta, nettissima, presa di coscienza della mia miseria, dell’abisso in
cui ero precipitata. Avevo cercato di oppormi ad esso, avevo cercato di
nuotare, ma le onde erano state troppo alte, e troppo forti. Il giro di ruota
era arrivato al suo punto più basso. O almeno, era quello che credevo,
quando sentii qualcuno afferrarmi, prendendomi in braccio, quando sentii Nemys
sussurrare che sarebbe venuta da me molto presto, che tutto sarebbe andato bene,
che sarei tornata dai miei cari, a riposarmi, perché avevo tanto bisogno
di un po’ di riposo. Ma io non ero della stessa opinione. Se qualcosa si
fosse smosso, si sarebbe smosso solo in senso negativo, quello era davvero
sicuro. E quanto, quanto avevo ragione! Isnark avrebbe ordinato la mia condanna
a morte. Sarei stata allontanata per sempre dai miei amati. Per sempre, e non
vi sarebbe stato rimedio. Cercai di arginare il pianto, e, mentre ci muovevamo,
mi concentrai sul dolore, per non impazzire. Tutto sommato, la mia era stata
più scena che altro. Quelle braccia che mi tenevano a distanza erano
sgradevoli, terribilmente sgradevoli. Sembravano fremere dalla voglia di
buttarmi giù, di farmi del male. Del male che meritavo, che meritavo
tutto, fino all’ultima goccia. Ed ancora non sapevo quanta, quanta
sofferenza ci sarebbe stata, nel mio futuro! Ed io ancora non sapevo, ancora mi
lamentavo per quelle che poi mi sarebbero sembrate stupidaggini! Rimasi,
così, ad occhi chiusi, per un po’. Aspettavo il momento giusto per
far finta di risvegliarmi, per rimettermi nei piedi, ma non volevo essere
troppo in mezzo alla gente. Non volevo vedere altro rancore, altra rabbia. Perciò,
rimasi immobile per un certo tempo nelle braccia del mio salvatore sconosciuto,
che mi stava, di sicuro, portando al Lazzaretto. Faceva caldo. Evidentemente,
ero coperta, per non essere vista. Così presa dai miei pensieri, non
dovevo essermene accorta prima. Non importava. Cominciai, dopo un po’, a
dimenarmi, impaziente. Ma quanto accidenti ci metteva, il tipo? Aprii gli
occhi. Volevo vedere chi mi stava portando con così tanta stoica
rassegnazione al proprio dovere. Braccia scure, forti. Uno dei due mostri,
degli elfi alti. Quasi sicuramente, a giudicare dal passo fluido e non
claudicante, si trattava di Benagi, il più piccino e chiaro. Sentii un’improvvisa
fitta di disagio. Non mi piacevano, né Zipherias né Benagi, per
niente. Troppo alti, troppo ostili nei miei confronti. Ne avevo quasi paura. Ad
occhi aperti, il dolore finalmente quasi placato, mi dimenai un altro po’.
Volevo far capire di voler scendere. “stai ferma, buona e zitta, cagna nana”.
Mi sibilò una voce, una voce neutra che mi ferì. Odiavo essere
trattata in quel modo. Io volevo solo un po’ d’affetto, un po’
di rispetto. Nient’altro. “arriveremo al Lazzaretto, e lì ti
lascerò libera. La Matriarca non ti vuole morta. La gente, qui, ti
lincerebbe. Siamo riusciti a nasconderti prima, però ora sono solo uno. Quindi,
non agitarti, e fammi fare il mio mestiere”. Non mi piacquero quelle
parole neutre, dette nel tono con cui si parlerebbe ad un bambino. Un tono che
conteneva segrete promesse di minaccia. Benagi sembrava essere sul punto di stritolarmi
nella sua stretta. Capivo che si stava trattenendo solo per amore della sua
sovrana, nulla più. Ringraziai nella mia mente Nemys. Stava davvero
rischiando il suo onore, per me. Sospirai, e non parlai, deglutendo il boccone
amaro. Avevo una terribile voglia di piangere. Non potevo farmi vedere piagnucolosa,
però, non da lui. Dovevo essere forte, almeno per un altro po’. Non
potevo fare quella figura di fronte a quello sconosciuto che mi odiava. L’orgoglio
bruciava ancora forte. Ci fu una lunghissima pausa di silenzio. Sentivo la vita
della città scorrere attorno a me. Una vita a cui io non avrei mai
potuto partecipare. Perché il destino non aveva deciso di farmi nascere
fornaia, magari come Laila, l’identità fittizia che avevo assunto
dai Tengu? Perché non avevo diritto ad una bella vita tranquilla? Cosa avevo
fatto di male, se non nascere nella famiglia sbagliata? Cercai di parlare senza
far intravedere la mia voce incrinata. “io non voglio essere odiata”.
Mormorai, sperando che Benagi non mi sentisse. Speranza alquanto vana. “un
po’ tardi per pensarci, bastarda. La Matriarca può anche fidarsi
di te, ma io dico che il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Ringhiò
l’elfo alto, stringendomi un po’, con ostilità più
che tangibile. Mi sentii enormemente ferita dalle sue parole. “finché
non ci sarà una prova della tua fedeltà, beh…dovrai solo
rinchiuderti nei Lazzaretti per poter continuare a sopravvivere. Ti sgozzerei
con le mie stesse mani per quello che hai fatto, ma non posso. Staremo a vedere
cosa combinerai. Ma non aspettarti di trovare in me un alleato!”. Sapevo già,
lo sapevo benissimo. Avrebbero potuto uccidermi con la facilità con cui
si ammazza un pollastro. La cosa non poteva che farmi ancora più male. Cercai
di non pensarci. Esistevano le persone che ancora credevano in me. Dovevo sperare
in esse. Ma come, come avere la fiducia di quelle persone? Che dimostrazione di
fedeltà dovevo fare, per farmi almeno rispettare un po’? come,
come riscattare i miei infiniti errori? Ero inutile, completamente inutile. Oh…ma
perché non ero morta? Perché il caso aveva deciso di farmi
vivere, di farmi soffrire ancora? Fu con quei sentimenti amari che mi congedai
dall’elfo scuro, nel cortiletto secondario del Lazzaretto. Fu con quei
tremendi pensieri che mi avviai di nuovo verso la camera di Tijorn, con ansia,
accompagnata dal silenzio che scendeva quando io passavo, dagli insulti a mezza
bocca. Mi trattenni dal piangere. E che sollievo fu, entrare nella camera di
mio fratello, dove lui mi aspettava, paziente ed ansioso! Lo guardai, commossa.
Non si era ancora mosso. Lui, sobbalzando, ricambiò lo sguardo, e
sorrise, un sorriso stanco, ma luminoso. Ed io che l’avevo immaginato
pallido, livido, morto, bianco, freddo! Stava bene. Stava bene. Era solo
indebolito dal veleno, della malattia. Era lì, un futuro padre di
famiglia, un coraggioso uomo d’onore. Lui non era odiato. Almeno lui
sarebbe potuto vivere in pace. Mi permisi di respirare più liberamente. Compresi,
solo in quell’attimo, quanto fossi stata in pensiero per lui. Non ero
abituata a saperlo ferito. In sua compagnia, i fantasmi se ne andavano, si
volatilizzavano come nebbia. Lui mi tranquillizzava, riusciva a farmi sperare
in qualcosa, fosse solo lui, o mio nipote, il mio nipotino che avrei sicuramente
visto. L’avrei protetti, per sempre, da ogni avversità. Mi sarei
fatta prendere a sassate per loro. Tutto, pur di farmi amare da qualcuno. Entrai
nella camera con rapidità, e mi chiusi la porta alle spalle. Tornavo,
ferita nel cuore, ma sostanzialmente sollevata. Lui era vivo. Gli altri stavano
bene. Era solo quello che contava. Gli occhi grigi di mio fratello si
appuntarono nei miei. Mi sentii turbata, come ogni volta che quei fari di un’anima
buona e giusta mi fissavano. Lui mi scavava dentro. Era solo quello il modo
giusto per descriverlo. Il ghigno si allargò. “sorellina mia…”.
Disse lui, con affetto ed il poco fiato che aveva, liberando un braccio dalle
coperte, quello buono, e tendendolo verso di me. Il suo sorriso mi sciolse il
cuore, e sentii le lacrime pungermi gli occhi. Lui era lui. Non c’era
altro da dire. Vederlo in via di guarigione mi riempiva di speranza. Il mio
viaggio non era ancora a vuoto. Lui, dopo una piccola pausa per respirare,
riprese a parlare. Mi avvicinai a lui con un po’ d’apprensione. Doveva
essere stanco, molto stanco. In fondo, non si era ancora ripreso del tutto. Doveva
stare tranquillo. “non avevi detto che saresti stata via…per poco?”.
Perché, quanto ero stata via dal mio amato fratellino? A me anche un
secondo pareva un secolo. Non riuscii a resistere. Dando ormai libero corso
alle lacrime che mi premevano da tanto tempo, lacrime amare e salate, corsi
verso di lui, abbracciandolo con la poca forza che mi rimaneva. Lui mi cinse
con un braccio, mormorando qualcosa di rassicurante. Lasciai che i singhiozzi
salissero a squassarmi petto e gola, quei singhiozzi che avevo tenuto nascosti
così a lungo. Non ce la facevo più. Ero precipitata in un mondo
brutto ed ostile, e volevo rifugiarmi vicino al solo che potesse capirmi. E fu
lì, tenuta stretta dal mio eterno salvatore, che mi sentii davvero a
casa, protetta da ogni sventura. Con lui ero me stessa, potevo essere m stessa
senza venir giudicata, amata, odiata. Tijorn era Tijorn, e mi avrebbe protetta.
Eravamo sempre insieme, nel bene e nel male. E c’era lui che mi voleva
davvero bene. Avessi sperimentato prima, il vero gusto della solitudine!
Fu in quel momento, mentre mi lasciavo consolare da Tijorn, che capii
quanto fossi stata tesa nei giorni precedenti
Fu in
quel momento, mentre mi lasciavo consolare da Tijorn, che capii quanto fossi
stata tesa nei giorni precedenti. Era bello sentire la gioia sprigionarsi da
ogni cosa, quella sensazione di sicurezza da cui io ero stata sempre estranea. Era
bello rimanere stretta a lui, tenendolo come se fosse una statuetta di
fragilissimo vetro, lasciandomi coccolare, lasciandomi dire che tutto era a
posto. Ed io lo credevo davvero, credevo che davvero tutto fosse solo una
passeggiata in discesa, nemmeno troppo difficile da fare. Una discesa che mi
avrebbe portata alla pianura, monotona ma per questo più che preziosa,
di una vita tranquilla, senza scosse. Il peggio era passato. Eravamo fuggiti da
una dittatura sanguinaria. Eravamo scappati al nostro destino di more, tutti
vivi. Era un peccato non poter andare dai Tengu, dove mi avrebbero trattata con
enorme fiducia, ma a tutto si poteva trovare un rimedio. Lo scoglio più
grande, la Matriarca, era superato ampiamente. Era una fortuna che Nemys fosse
così saggia, così calma, così portata a non lasciarsi
annebbiare da un giudizio irrimediabilmente offuscato da un astio antico.
Dovevo solo trovare il metodo per far capire a tutti gli altri quanto fossi
realmente cambiata. Il problema era essenzialmente lì. Fare beneficenza?
Con quali soldi? Fuggendo, avevamo davvero abbandonato tutto. Eravamo
poveracci. Non sapevo come ce la saremmo cavata dopo aver lasciato il
Lazzaretto, né m’importava. Mendicare era fuori discussione.
Forse, sia io che Tijorn, saremmo stati costretti a vivere facendo i maestri
d’armi, Akita magari prestando servizio in case di nobili, divenendo la
tutrice dei piccoli di famiglia. Aveva una solida cultura, per esserlo. In quel
momento non importava. C’era un problema ben più tangibile da
risolvere. Come farsi amico il popolo? Anche Nemys avrebbe rischiato di
perderci la faccia, prestando a noi, vili Spie, un aiuto di qualsiasi tipo.
Avevo sentito Benagi: solo la neutralità dei Guaritori, solo
l’oasi di pace in cui trovavo rifugio, mi permetteva di non essere uccisa
a forza di lanci di pietre e altri oggetti contundenti. Perfino Isnark, il
nobile principe Isnark, mi odiava. Lui era quello che aveva, più di
tutti, motivi per essere arrabbiato con me. Beh…. Chi non lo sarebbe
stato, al suo posto? Avevo permesso che Lainay, quella maledetta,
s’impossessasse di uno dei segreti più terribili, e meglio
custoditi di tutto il Matriarcato. Mi odiavo per quello che avevo fatto.
Quindi, ero davvero nei guai. In sostanza, su una popolazione di chissà
quanti individui, fatta eccezione per la mia cricca, protetta
dall’anonimato, e, in certi casi, dal rispetto, circa tre o quattro
persone, a voler essere ottimista, credevano in me, nel mio pentimento
più che sincero, sentito con ogni fibra del mio essere. E penso che solo
una si fidasse ciecamente di quel fatto, per chissà quale motivo. Ci
voleva qualcosa di molto spettacolare, e davvero vincolante, capace di andare
oltre qualunque mio giuramento, di sorpassarli ed imporsi su di essi,
annullandoli. Qualcosa di così potente da legarmi a vita. Ma cosa,
accidenti? Cosa? Non volevo fare l’errore di divenire fedele alla Regina,
ma non al Regno. Quello era stato il mio giuramento di Spia, un’arma
affilata, a doppio taglio per me e per Lainay, e non aveva fatto altro che provocarmi
danni, e dolore. Sarei stata fedele ad Uruk, al Matriarcato, legata al suo
destino, qualunque esso fosse, fino alla morte. Non alla Matriarca. La cosa mi
avrebbe donato un po’ più di autonomia, ed avrei combattuto per un
vero ideale. Libertà, autonomia, vero desiderio di fare del bene, senza
essere irrimediabilmente legata alle sorti di una creatura, libera di scegliere
nei limiti, libera di far del bene senza dover dominare. Libera e serva, ma
felice di esserlo. Ma come fare? Al momento non mi veniva in mente nessun
giuramento così potente, che mi lasciasse prigioniera e al contempo
libera d’agire. Beh, e non m’importava. Ci avrei pensato dopo,
quando la felicità per la vicinanza di Tijorn fosse svanita, quando mi
sarei sentita meglio, più calma, più disposta a ragionare, quando
anche l’amarezza per il trattamento che stavo ricevendo si sarebbe
attenuata. Certo non potevo pensare di venire accolta con canti e
festeggiamenti…ma nemmeno con quell’astio atroce! In quel momento
volevo solo essere abbracciata da Tijorn. Volevo solo attingere alla mia scorta
di camomilla personale, volevo solo calmarmi, sentirmi bene. Sapere che lui era
lì, vivo e vegeto. Ci tenemmo stretti a lungo, lui che mormorava parole
confortanti, carezzandomi i capelli con il braccio buono, mentre io, seduta sul
letto, singhiozzavo, abbracciandolo, in modo tale da non fargli male,
però. Lo adoravo. Adoravo quella magnifica sensazione, di essere amata,
di avere qualcuno che non mi avrebbe mai tradita. Mi piaceva crogiolarmi in
quell’atmosfera così carica d’amore e di speranza. Non
piansi a lungo: il mio fu solo uno sfogo momentaneo, dovuto alla frustrazione
che covava da lungo tempo in me. Dopo poco, anch’io mi sentii contagiata
da quel clima di ottimismo nascente. In fondo, eravamo tutti vivi. Certo, non
sani, ma vivi. Ci saremmo rimessi presto. Tutto sarebbe andato bene. Mi sentivo
in una botte di ferro, davvero. Finché ero lì, tanto, nessuno
avrebbe potuto toccarmi, farmi del male. Avrei dedicato tutto il tempo che
avevo ai miei cari, senza crucci. Avrei finalmente dato una tirata
d’orecchie come si deve ad Akita, che tanto si lamentava di non potersi
ancora alzare, che tanto smaniava di mettersi in piedi. M sarei precipitata dai
piccini, per rassicurarli, per giocare un po’ con loro. Avevo una voglia
matta di conoscere a fondo Roxen, d’impormi finalmente come una vera
madre, senza essere un surrogato, peraltro pessimo, di Aevo, che l’aveva
allevata per tutti quegli anni. In un certo senso, dovevo, a lei ed a quel
fedifrago donnaiolo da strapazzo di suo marito, la vita di quelle due piccole
stelline. Erano stati cresciuti in una maniera davvero superba. Mi sarei,
finalmente, fatta valere. L’idea mi piaceva. Chissà: forse, un
giorno nemmeno lontano, avrei trovato il coraggi odi rivelare alla mia piccola
il mio vero ruolo. Ma c’era tempo: loro credevano io fossi la zia.
C’era tempo per le domande, le recriminazioni, l’odio che forse
sarebbe venuto, per la disperazione. Certamente non avrei mai rivelato loro la
fine dei loro genitori, o presunti tali. Mi bastava la terribile somiglianza di
Chekaril figlio con l’omonimo padre per farmi ricordare ogni mio errore,
per farmi rimordere la coscienza peggio di un sogno. Forse, quella era proprio
una prova che il destino mi mandava, per riscattarmi. Pazienza. Avevo ancora un
sacco di tempo, per ricominciare a vivere, ed amare, come si deve. In fondo,
avevo l’amicizia della Matriarca. Non rischiavo la vita per il solo fatto
di esistere. Lei avrebbe calmato i bollenti spiriti di Isnark, e di tutti
coloro che mi volevano morta. Era un peccato non poter andare da lei, a
chiacchierare un altro po’. Decisamente, avevo bisogno di una
personalità come lei, nella mia vita. Mi dispiaceva solonon aver salutato bene Nemys, la mia
cara, nuova sorella. Pensare che lei, in un certo senso, fosse me, mi dava una
strana sensazione di benessere assoluto. Lei non era come tutti gli altri. Lei
era una creatura a parte anche nella sua stessa razza. Perfino il suo aspetto,
eccettuata quella somiglianza con me così spiccata da spaventare chiunque
mi avesse conosciuta prima dell’incidente, era insolito. Quei colori,
così chiari da farla sembrare quasi albina, quella dolcezza e saggia
ragionevolezza, erano pacifiche armi davvero potenti, capaci di disarmare anche
il più ostile dei nemici. Ne avrei parlato con Tijorn, quando le sue
condizioni di salute avrebbero permesso un simile dialogo. Necessitavo di una
bella chiacchierata chiarificatrice con la mia camomilla personale, quel
fratello in cui stavo scoprendo un carattere estremamente complesso,
sfaccettato come le facce del più bel diamante del mondo, prezioso
ancora di più per quel preciso motivo. Avevo bisogno di sfogarmi con
lui, molto, ma dovevo ancora aspettare. Mio fratello, il mio dolce stupidone,
era debole, febbricitante, non riusciva ancora a spiccicare due frasi di fila
senza prendere fiato. Non avrebbe mai potuto affrontare il fatto che la mia
identità, per quanto strano fosse, si fosse scissa in due esseri
senzienti, e che uno di essi fosse la Matriarca di Uruk. In quel momento, mi
sembrava più che mai un infante da curare, fragile come un calice di
cristallo. L’idea di poterlo assistere, stavolta senza impicci alcuni, di
poterlo avviare al suo futuro, di cui anch’io avrei fatto parte, mi
esaltava. Non ero più gelosa di lui. Akita per perfetta. Si compensavano
a vicenda. L’assoluta mancanza di delicatezza con il tatto fatto elfo. Il
perfido sarcasmo, e la velata ironia. Uniti erano un’arma micidiale,
durante un litigio sicuramente spassosi. Dovevo stare ben attenta, negli anni
che sarebbero seguiti!
Quante
stupide illusioni. Se solo avessi capito…se solo avessi saputo. Lo so,
sono parole inutili, sono rimpianti inutili. Tutti non fanno altro che
ripetermelo, cercando invano di sollevarmi dalla prigione di nebbia, di quella
caligine in cui mi sono nascosta per non soffrire. Tutti cercano di strapparmi
la maschera immateriale che mi sono apposta sul viso, quella maschera fatta di
malinconica dolcezza, di premura quasi asfissiante, di sorrisi appena
accennati, di silenzi, di finta gioia, ma, finora, pochi ci sono riusciti
davvero. Pochi mi hanno visto piangere, pochi conoscono, senza doverlo intuire,
il dolore che mi si agita dentro. Qualcuno m’implora di credere, e
ricominciare, costruire una torre sopra le macerie della prima. Io non mi sento
ancora pronta, ho ancora una terribile paura. Paura di soffrire ancora,
orgoglio mascherato da timidezza. Anche a dieci anni di distanza, anche dopo
questo tempo, dopo che sono successe cose incredibili, dolorose e sublimi al
tempo stesso, certe ferite fanno ancora male, bruciano come se qualcuno ci
avesse messo il sale sopra. Non penso che smetteranno mai di dolere: alcuni
colpi della vita non cicatrizzano mai. Rimangono lì, tagli incancreniti
da rancore, rimpianto, dolore, e pizzicano, suppurano. Una perdita è
come un arto amputato. Sai cosa ci dovrebbe essere, a posto di quel vuoto che
ti stringe il cuore, ricordi la sensazione che si provava quando si era ancora
sani. Vorresti usare l’arto perduto, e cerchi di muoverlo, lo cerchi, credendo
di trovarlo, ma ne vedi solo il moncherino, un pezzo di pelle inutile, ricordo
di un passato glorioso e bello, che
fa un male cane, che serve solo a procurarti dolore, quelle fitte improvvise a
cui non si fa mai l’abitudine. E, per quanto si cerchi di dimenticare, la
rimembranza è sempre lì, che perseguita come un fantasma, anche
quando si cerca di non pensarvi. La perdita cuoce sempre. In un attimo di
distrazione, può capitare, grazie alla forza malvagia e sadica
dell’abitudine, di cercare la cosa perduta, l’oggetto perso che mai
più si può scovare. E, quando si prende di nuovo coscienza della
sua mancanza, quel pensiero è sufficientemente forte da impedire a
chicchessia di vivere di nuovo, di annichilire anche un gigante di pietra. È
questo ciò che provo. Un senso d’inutilità totale, ed
incombente, terribile perché non mi lascia mai, ancor più
terribile perché inaspettato. Come se si fosse spento il sole,
così, d’improvviso, solo perché nessuno aveva il coraggio
di alzare il volto e vedere che si stava spegnendo, di cercare di prevenire il
tutto. Ma non successe nulla di quello.
E chi
s’importava di guardare in aria, quel giorno? Io non avrei mai, mai
potuto capire una cosa di quel genere. Non me ne intendevo abbastanza.
Perciò, quella, fino a sera, sembrò una giornata più che
normale. Dopo essermi calmata, avevo tenuto un altro po’ Tijorn stretto a
me, poi mi ero scostata, asciugandomi le ultime lacrime. Già la gioia si
stava trasformando in esultanza, che mi scorreva nelle vene come il più
corroborante dei veleni. Avevo guardato mio fratello dritto in volto,piena d’affetto. Lui mi aveva
guardato, smarrito, ed aveva aggrottato le sopracciglia, come a volermi
domandare cosa mai fosse successo per ridurmi in quello stato. Lui non capiva,
non capiva che il mio pianto non era di dolore. Proprio no: il dolore era bel
lungi dall’arrivare. Ero solo sul punto di mettermi a danzare, tutto qui.
Gli avevo messo le mani sulle guance, meravigliandomi di quanto fosse caldo. Lo
scrutai bene, ora un po’ più calma. Era pallido, un po’
più di quando l’avevo lasciato, in effetti, e sulla fronte
c’era un leggero velo di sudore, ma non mi sembrava così grave.
Non era molto grave. La febbre doveva essersi alzata ancora un po’, solo
di poco, però. Quel pensiero catalizzò in un attimo la mia
attenzione. In un attimo, la mia identità di aiuto Guaritrice che avevo
assunto in quei giorni ritornò a galla. Perciò fu con tono
distratto che gli parlai. “sto benissimo, stupidone”. Gli avevo
detto dolcemente, mentre, con una mano, gli andavo a toccare la fronte. Eh, si:
quella roba che gli avevo fatto ingurgitare non stava facendo per niente il suo
lavoro. Avrei dovuto dire quattro paroline a Max. Quasi me ne sentii irritata.
“piuttosto, tu…sei più caldo di prima…non hai fatto
finta di bere, prima, vero?”. Mio fratello mi guardò malissimo,
con quei grandi occhi grigi che m’incantavano, che mi facevano sentire
amata, e sbuffò, scostandosi, e buttandosi di peso sui cuscini. Mi misi
le mani sui fianchi, piccata. Non doveva comportarsi così. Ma accidenti,
come gli volevo bene. Io lo facevo per il suo bene, nient’altro.
“Lsyn, dannazione…”. Imprecò lui, a denti stretti,
guardando il soffitto. Sbuffò di nuovo, senza guardarmi. Lo fissai con
disapprovazione. Si stava comportando come un bambino. Un bambino che,
peraltro, aveva bisogno di una bella sistemata. Sembrava esattamente ciò
che era, un reduce. Non era per niente dignitoso: un altro po’ e
l’avrei scambiato per un barbone, raccattato per pietà dalla
strada. Proprio non mi piaceva. Dovevo procurarmi almeno una spazzola. Una
spazzola, ed un’altra dose abbondante di quell’orribile medicina.
Calcolai il tempo che avrei impiegato, andando a prendere il necessario, mentre
lui mi parlava. Non potevo lasciarlo ancora solo. Lui aveva bisogno di me,
certo, ma io avevo bisogno di lui ancora di più. Ero stufa di lasciarlo
così, senza nemmeno un po’ di compagnia. “dimmi un
po’…ti mentirei… riguardo quell’orrore che mi fai
bere?”. Sibilò, molto irritato. Beh, certamente aveva ragione.
Solo che io ero preoccupata. Non mi piaceva, quella febbre, nonostante Max
cercasse di rassicurarmi. Continuavo a trovarla sospetta. Scossi così il
capo, anche se, in realtà, non lo stavo quasi seguendo, troppo presa dai
miei piani. Vediamo… Max non era sicuramente lontano. Avrei potuto chiedere
a lui quel piacere. Io volevo stare un po’ con mio fratello. Ci fu un
attimo di silenzio. Una spazzola sicuramente non sarebbe stata difficile da
reperire. La medicina mi sarebbe arrivata in un lampo. Dovevo solo chiedere.
Prima ancora di aprire bocca, entrambi udimmo la porta aprirsi con un cigolio.
Sobbalzai, presa completamente alla sprovvista, e mi voltai.Chi accidenti era? Che Max mi avesse
letta nel pensiero, e stesse venendo per chiedermi se avessi bisogno di
qualcosa? Sarebbe stata davvero una manna. Non appena vidi due teste, una
bionda ed una bianca, fare capolino dalla porta, timidamente, capii che non si
trattava del severo e burbero Guaritore. Tuttavia, non mi dispiacque, anzi. Erano
sempre ospiti ben graditi. Soprattutto perché erano inattesi. “si
può, vero?”. Chiocciò Akita, allegramente, portando
sottobraccio il vecchio Amarto, il mio adorato Maestro, che aveva un’aria
piuttosto preoccupata, quell’espressione che non si era tolto da quando
Tijorn era stato ferito. Lui teneva a noi due quasi fossimo figli suoi.
Nonostante i passati vizi, il Maestro era un grande elfo, dal cuore enorme. Non
ci aveva mai trattati come un Maestro tratta i piccoli novizi a lui assegnati,
con supponenza, aggressività, ed una certa dose di cattiveria. Mai. Eravamo
davvero amati come sangue del suo sangue, e forse anche di più. Era un
attaccamento strano, ma non per questo brutto, anzi. Lo ricambiavamo con tutto
il cuore. Non ho mai conosciuto mio padre reale, ma davvero non importa. Ho
sempre avuto lui, il miglior papà del mondo. Forse un po’
alcolizzato, ma la malattia aveva smussato molti dei suoi spigoli, ed eliminato
quell’amore insano. Vederlo lì, abbigliato umilmente, gli occhi
bianchi persi nel vuoto, l’espressione incredibilmente tesa, piena
d’amore, mi faceva bene come un sorso d’acqua fresca in una
giornata torrida. L’avevo un po’ messo da parte, in quei giorni
concitati. Dovevo ricostruire il rapporto tra me e lui, assolutamente. E forse
altrettanta gioia mia dava la vista dell’elfa che lo portava sottobraccio,
premurosa come una figlia, quell’elfa che io avevo trovato così
irrimediabilmente antipatica, a che ora adoravo. Quell’elfa che portava
in grembo mio nipote, il mio nipotino tanto aspettato. Quel piccolo che sarebbe
stato libero. Libero, e più che viziato. Guardai così entrambi
con una gioia incredibile, una sorta di fuoco nel cuore, mentre si avvicinavano
piano. Tijorn aveva cercato di mettersi più dritto, sobbalzando, ma non
c’era riuscito, ed ora era mezzo disteso sui cuscini, che guardava i due
con lo sguardo più estatico del mondo. Sapevo quanto stesse gioendo,
dentro di sé. Sarebbe corso dalla compagna, baciandola ed
abbracciandola, avrebbe stretto anche il Maestro, se solo si fosse potuto
alzare. Purtroppo, l’unica cosa che, in quel momento, gli riusciva, era
guardare, come un affamato guarda il cibo, i due. Mio fratello era, in quel
momento, l’elfo più felice del mondo. Ed io godevo della sua
felicità, la sua gioia contagiava anche me. Fissai però Akita con
un po’ di sospetto. Che fosse scappata dal letto, approfittando della mia
assenza? Non mi aspettavo che i Guaritori la tenessero così poco
sott’occhio. Accidenti. Ma cosa, tutto andava a rotoli in mia assenza? Se
solo avessi scoperto una sua fuga, l’avrei legata a quel letto che
occupava, fino a quando il piccolo non fosse nato. Ma non capiva che non si
trattava solo della sua vita, ora? Perciò, temo di averla scrutata con
un pizzico d’ostilità. La mia dolce Akita, dolce come veleno.“e tu che ci fai qui?”.
Ringhiai, fissandola con disapprovazione. Quasi non sentii il mormorio
scandalizzato di Amarto, né m’importai dell’occhiata nervosa
di mio fratello. Mi concentrai solo su Akita, che contraccambiava lo sguardo,
molto confusa. Sperai che non interpretasse le mie parole come una minaccia,
come se fossi tornata normale, la solita Lsyn, che l’odiava, che la
voleva separare dal suo amato. Come se mi fossi approfittata di lei, facendo
finta di diventare sua amica solo per avere un aiuto. Nessuna supposizione era
così sbagliata quanto quella. Mi preoccupavo solo di lei, e del suo
bambino, nient’altro. Non avevo intenzione di vedere soffrire lei e mio
fratello per una stupida fuga. “non dovevi stare a letto? Chi ti ha dato
il permesso di muoverti?”. Udii un altro mormorio, ed un sospiro. Ma non
avevo occhi che per la mia cara cognata, ora. La confusione, alle mie parole,
svanì come nebbia al sole di mezzogiorno. Nei suoi occhi
lampeggiò il divertimento, misto ad una certa dose d’irritazione.
Non capii. Io non facevo altro che preoccuparmi per lei, nient’altro.
“indovina, vecchia mucca?”. Mi disse, facendo sedere Amarto sulla
sedia che, fino a poco tempo prima, avevo occupato io, di fianco a mio
fratello, e sedendosi sul letto, di peso, guardandomi con la sua solita aria
strafottente. Non mi resi nemmeno conto di averla imitata. Ecco. Ora ricordavo perché non la
sopportavo. A volte se ne usciva con cose davvero fuori dal mondo. Vecchia
mucca. A me. Lei, che con quel naso sembrava un falco! Forse accorgendosi del
mio fastidio, la mia amica proseguì in tono più morbido, mentre
un sorriso dolce le compariva in viso. “Max mi ha visitato, ed ha detto
che va tutto bene, che posso alzarmi. Non c’è più pericolo.
Il piccino cresce sano e forte”. Lei disse le ultime parole con una certa
aria soddisfatta e sorniona, da mamma gatta. Gli occhi azzurri le
scintillarono. Poi prese la mano di Tijorn, che da un po’ di tempo
cercava di raggiungere la sua, e la strinse forte. Mi sentii sollevata dalle
sue parole. Akita non era così esperta, in fatto di menzogne, ed avrei
capito subito un’eventuale bugia. Mi sentii rassicurata, e mi permisi di
respirare più liberamente, e le restituii il sorriso. Lei mi fece
l’occhiolino. “allora… lui…sta bene?”.
Sussurrò Tijorn, intromettendosi nella breve discussione. Il suo tono di
voce mi parve quanto mai strano. Vibrava d’emozione. Raramente
l’avevo sentito così sopraffatto dalla gioia. Mi girai,
distogliendo lo sguardo da Akita per fissarlo meglio. Repressi una risata, non
del tutto. Mascherai il bizzarro rumore che avevo emesso con uno starnuto
finto. Akita alzò brevemente gli occhi al cielo, poi mi rivolse un
ghigno di complicità, che ricambiai. Negli occhi grigi di mio fratello
brillava una sorta di bagliore fanatico, solo al pensiero di suo figlio. Sul
viso gli aleggiava un’espressione a metà tra l’allegria
più delirante e la trepidazione. Un’espressione propriamente da
padre, l’espressione che ci sarebbe dovuta essere anche nello sguardo di
Chekaril, quell’espressione che non c’era mai stata. Tijorn sarebbe
stato un buon padre. Forse un po’ troppo impressionabile, ma comunque un
buon padre. Non osai pensare a cosa ci avrebbe riservato il futuro. Ricordavo
benissimo cosa era successo quando
era nata Roxen. Io che mi dibattevo dal dolore terribile di un parto tutto
sommato difficile; lui fu così preso dall’agitazione che, senza
nemmeno essere il padre del piccolo, si era sentito così male da
costringere Amarto, l’unico che in quel momento pareva padrone di tutta
la situazione, a fargli scolare un paio di bicchieri di liquore forte per non
fargli fare la fine di un pollo disossato. Era stata l’unica volta in cui
Tijorn aveva bevuto. Penso che ancora ilMaestro ricordi le conseguenze di quel gesto. Lui, dopo aver delirato un
po’, aveva dormito per un giorno intero. Fu addirittura tra gli ultimi a
vedere mia figlia. Era un ricordo tremendamente divertente. Non osavo pensare
la sua reazione il giorno in cui suo figlio fosse nato. L’avremmo dovuto
legare, probabilmente, o rinchiuderlo da qualche parte. Era sempre stato
lievemente impressionabile, nei riguardi di quelle cose, il mio fratellino. E
non vedevo l’ora di vederlo alle prese con gli urli e gli strepiti
notturni del primo anno. Aveva dato leggermente di matto nei quattro mesi di
permanenza di Roxen. Certamente, era abituato alle follie delle gemelle, delle
sue piccole allieve, ma non aveva mai avuto esperienze con infanti più
piccoli. Mi aveva addirittura implorato di farmi aiutare, almeno una mano, solo
per farla stare zitta nel cuore della notte. Penso che Akita immaginasse tutto
quello. Un giorno o l’altro, pensai, gliel’avrei raccontato. Ci
saremmo fatte un paio di risate in compagnia. Tijorn mi avrebbe ammazzata, ma
poco importava. Amarto doveva tirar fuori la sua riserva di liquori ad alta
gradazione. Guardai il mio Maestro. Anche lui stava cercando di mascherare un
sorriso, invano. Doveva aver avuto anche lui certi pensieri. Mi dovevo far
raccontare bene quello che era successo. Notavo la malizia brillare in quelle
orbite bianche e vuote. C’era qualcosa che non sapevo. “certo che
sta bene, Tijorn!”. Esclamò lei, girandosi verso di lui, e
sfiorandogli il naso con la mano libera, in tono stranamente casuale e vezzoso.
Non so perché, ma mi aspettai qualcosa, e sorrisi di più,
anch’io. Avevo dimenticato il dolore delle ore precedenti. “sai,
sta cominciando a muoversi… come potrebbe stare male?”. Presa
lievemente di sorpresa, cercai di nuovo di soffocare una risata, invano. Risi
come un pazza mentre guardavo l’espressione di mio fratello mutare,
dall’incertezza, alla confusione, alla gioia incredula. Quasi mi strozzai
con la mia stessa saliva. Sicuramente Akita gliel’aveva detto apposta,
per fargli fare quella faccia tremendamente buffa, da pesce lesso. Davvero, era
la verità: per quanto lui fosse intelligente, acuto, pieno di tatto ed intuizione,
davanti a certe situazioni si comportava come chiunque. Penso che solo la
debolezza derivante dalla sua condizione gli impedì di saltare come un
pazzo, esultando. Una vocina in testa mi suggerì che quel momento era
adatto per sparire per qualche attimo. Dovevo ancora prendere la spazzola, e la
medicina. Inoltre, mi sentivo un po’ a disagio, quasi come se loro non
appartenessero al mio mondo. Mi alzai così di scatto, mettendomi in
piedi. Mi sentii due paia di occhi addosso in un attimo. Guardai i miei cari,
tutti perplessi. Tijorn aveva ancora una tale faccia piena di gioia estatica,
che preferii non fissarlo per non scoppiare a ridere davanti a lui. Negli occhi
di Akita brillava una certa dose di divertimento, e, forse, emozione. Amarto
sorrideva di nascosto. Ancora oggi quella visione di serenità è
capace di risollevarmi lo spirito, di rendermi più allegra. In fondo, fu
una degli ultimi momenti di vera gioia della mia esistenza. “io vado un
momento a prendere delle cose…”. Dissi, facendo l’occhiolino
ad Akita, che annuì. Doveva aver capito al volo quello che intendevo
fare. Tijorn storse la bocca, mentre la gioia spariva dal suo viso, sostituita
da un velato disgusto. “ma…Lsyn, io…”. Biascicò,
in un estremo tentativo di evitare la medicina, implorante. Si zittì con
rapidità allucinante quando Akita lo fulminò con lo sguardo.
Preferii non fare commenti. Era divertente vedere mio fratello così
succube. “sei caldo, Tijorn”. Disse, in u tono che non ammetteva repliche.
Lui parve farsi piccolo sotto il suo sguardo implacabile. Di nuovo repressi un
ghigno. “Lsyn lo sta facendo solo per il suo bene…ah, a proposito,
cara”. Mi disse, con un gesto imperioso, verso di me. Aggrottai un
sopracciglio. La mia cara cognata si stava immedesimando un po’ troppo
nella parte della signora. “prendi pure una spazzola, che questo qui
sembra un barbone..”. Quella era una delle mie intenzioni. Repressi a
stento la vocina che mi diceva di fare una linguaccia ad Akita. “quello
volevo fare…”. Dissi, cominciando ad allontanarmi verso la porta. Era
bella, quella serenità. Era bello pensare che sarebbe durata ancora a
lungo. È terribile pensare quanto mi stessi sbagliando. Arrivata vicino
alla porta, in un impeto di giocosità, mi girai di scatto, tendendo braccio
e un dito verso Akita, con fare ammonitore. “ricorda, topo di biblioteca
che non sei altro…”. Dissi, in tono profetico. Mi piaceva, fare
così la stupida. Mi ricordava che, da una parte, sepolta sotto strati di
ricordi, c’era ancora vita. Repressi a stento la voglia di ridere. La mia
voce vibrò. Guardai per un momento l’allegro terzetto, la mia
famiglia, e gioii dall’amore che da essa si sprigionava. Mi crogiolai in
esso, ed aggiunsi il mio. Valeva la pena di fare un po’ il giullare. Aprii
la porta, ed uscii a mezzo. “preparati a ricevere da quel demonietto più
calci di quanti tu ne abbia avuti in tutta la tua vita!”. Non resistetti.
Ridacchiai e saltellai fuori, ignorando lo sguardo scandalizzato di un paio di
passanti, richiudendo la porta, ed avviandomi verso il punto dove sapevo ci
fosse Max. Non mi sentivo così viva da più di cinquant’anni.
Accadde la
sera. Per tutto il pomeriggio eravamo stati insieme, io, Tijorn, Akita ed
Amarto, chiacchierando tranquillamente, scambiandoci sfrecciatine e ricordi,
ridendo allegri, presi dall’ebbrezza dello scampato pericolo. Max mi
aveva accompagnata, ed aveva visitato velocemente mio fratello, decretando che
non c’era nulla di cui preoccuparsi. Era solo il veleno che doveva ancora
essere assorbito del tutto, tutto qui. Con enormi smorfie da parte del mio
stupidone, lui aveva deciso di fargli bere un po’ di più quell’orrendo
intruglio, solo per sicurezza, per impedire che la febbre andasse fuori
controllo. Mio fratello avrebbe dovuto sopportare un po’. Dopo quella
pessima notizia, per lui, e dopo incredibili lamenti da parte sua, per
ingurgitare quella roba viscida e schifosa, Akita gli prese a spazzolare i
capelli, districando i nodi che si erano formati in quell’ammasso di
lisci e sottili fili neri, morbidi come seta. Nemmeno uno era imbiancato,
ottimo segno. Lui la lasciò fare: pettinargli i capelli era sempre un
ottimo metodo per tenerlo buono, e zitto. Era una cosa che adorava. Chiacchierammo
così del più e del meno, di ricordi e cose allegre, del fatto che
Roxen e Nysha sembravano andare fin troppo d’accordo, e stavano facendo
impazzire la vecchia Guaritrice che le aveva in custodia, di Junielle, e del
suo comportamento strano, apatico. Akita, con una smorfia inquieta, aveva
confessato di aver origliato, un paio di volte, delle conversazioni tra lei e
Max, che non le erano piaciute per niente. Mi diceva che erano parole intrise d’odio
profondo, innaturali per una creatura dolce come lei. Appresi quelle notizie
con una vaga preoccupazione. Dovevo assolutamente parlarle. Lei non si era mai comportata
così. Che cosa le aveva fatto Jalim, o uno dei soldati? Cos’era
successo? Perché era così apatica, la mia cara amica? Cercai di
non pensarci, almeno in quel momento. Ma dovevo parlarle. Il giorno dopo sarei
sicuramente andata a cercarla, per avere risposte, per vedere cosa potevo fare
per lei. In fondo, era anche giusto che lei si sfogasse con me, dopo cinquant’anni
in cui era stata la mia spalla, no? Se solo avessi saputo cosa il giorno
seguente mi stava per donare, quanto dolore… non lo sapevo. Non lo
sapevo! Non riuscii a fare nulla! Noi quattro continuammo a parlare, mangiando
lì il frugale pasto che Max ci portò. Verso pomeriggio inoltrato,
Tijorn cominciò ad accusare vari segni di stanchezza. Era divenuto
sempre più pallido e silenzioso, nelle ultime ore, povero fratellino
mio, e spesso si era assopito, senza più prestare attenzione ai nostri
discorsi. Aveva preso anche a non fare più battute di spirito, una cosa
che non mi piacque. Sembrava covare qualcosa. Vidi riflessa negli occhi degli
altri la preoccupazione: in fondo, Tijorn non stava ancora bene. Non stava per
niente bene. Non era ottimo, per la sua salute, sforzarlo in quel modo. Aveva ancora
la febbre. C’era troppa gente accanto a lui. Aveva bisogno di riposo. Amarto
ed Akita avevano così deciso di lasciarci. Come ogni notte, sarei
rimasta io a fianco del mio dolce fratello maggiore. La mia amica avrebbe
voluto affiancarmi, stare con il suo amato, ma lo stesso Tijorn, anticipando
tutti, la pregò di andare a riposare, per il bene del piccolo. Io ero l’unica
capace di affrontare una notte quasi insonne, vegliando sul suo sonno, pronta
ad intervenire in ogni caso, pronta a svegliarlo ogni quattro ore per propinargli
quella roba schifosa che impediva alla febbre di salire. Così, verso il
tramonto, Amarto ed Akita, dopo mille storie, ci avevano lasciati. Quasi avevo
dovuto staccare i due piccioncini a forza. Decisamente Tijorn non era eroe quando
affrontava il male fisico. Senza macchia e senza paura di solito, un fifone
quando si trattava di se stesso, di una sua debolezza. Era un po’ come
me, perciò lo capivo. Akita aveva lasciato la stanza quasi in lacrime. Non
avrebbe voluto andare, e lo sapevo. Ma doveva. Doveva, se non dormire, almeno
riposare. Amarto si offrì addirittura di farle compagnia, solo per l’amore
che lo legava al suo piccolo Tijorn. Ebbi l’impressione che Amarto stesse
cominciando a reputare la mia amica come un’altra figlia. La cosa non mi
poteva fare che piacere, e vidi la stessa soddisfazione riflessa negli occhi
stanchi di mio fratello. Eravamo così rimasti soli. Io, dopo essermi un
po’ affaccendata, dopo aver costretto Tijorn a bere la sua medicina, che
lui accettò senza protestare, mi ero seduta sulla solita sedia, quella occupata
da Amarto, preoccupata. Ero inquieta. Decisamente, quello non era il
comportamento normale di Tijorn. Da quando se n’erano andati i due,
sembrava aver lasciato una maschera di finta vitalità. Era piombato sui
cuscini, e me ne aveva fatti togliere tutti tranne uno, dicendo che non
sopportava di stare come stava, che
preferiva stare steso perché respirava meglio. Sembrava non stare
particolarmente bene. Si era rannicchiato così tra le coperte, su un
lato, e non aveva parlato per un po’. Mi aveva chiesto, infine, di
chiudere le tende, perché gli facevano male gli occhi a vedere la luce
del sole, che era troppo forte. Quelle parole mi gelarono: no, decisamente non
stava bene. Valutai per un momento l’idea di chiamare Max, o un qualsiasi
Guaritore, ma lui me lo impedì. Dopo un po’, lui si era messo a
sonnecchiare, svegliandosi ad intervalli. Mi ero così seduta accanto, e
gli avevo preso una mano. Era freddissima. Avevo deglutito, preoccupata a
morte. Non era mai stato così, nemmeno i primi gironi di convalescenza. Qualcosa,
un male più oscuro e subdolo, sembrava averlo afferrato. Eppure, per tutto
il girono, mi era sembrato in discreta forma. C’era qualcosa che non
andava. Ma cosa? Lui mi sorrise, e mi guardò con stanchezza,
socchiudendo gli occhi. “Tijorn…” Bisbigliai, guardandolo,
con uno strano groppo alla gola. Ebbi un orribile presentimento.“cos’hai?
Ti vedo stranissimo…ti senti bene?”. Di nuovo quel debole sorriso,
quello che non mi piaceva. “sono solo un po’ stanco, Nanetta…”.
Mi disse, stringendomi debolmente la mano. Ricambiai la stretta, con calore. “e
questa febbre…m’indebolisce…”. La sua voce, già
debole, andò a sfumare sempre di più, e lui richiuse gli occhi. Rimasi
lì, tenendogli la mano, con una specie di nuvola d’inquietudine
che mi gravava sulla testa. Cosa succedeva? Non riuscivo a capirlo. Era un comportamento
strano, che non avevo mai visto in Tijorn. Di solito non reagiva così ad
un po’ di febbre. Lo conoscevo troppo bene. Si sarebbe lamentato della
sua piccola infermità, ed avrebbe fatto di tutto per convincermi di
stare bene, come aveva fatto fino a quel momento. non era da lui quella
debolezza. Mi nascondeva qualcosa. Cominciai così la veglia, che
presagivo diversa dalle altre. Non so perché, ma sapevo che quella notte
avrebbe portato qualcosa. Preferivo non pensare alla novità. Fino a sera
inoltrata, lui non fece altro che svegliarsi ad intervalli, per poi
addormentarsi dopo un veloce scambio di battute con me. Avevo preferito fargli
bere una dose supplementare di quella pozione per la febbre, e, con mio grande
orrore, avevo visto Tijorn, che tanto la odiava, berla quasi avidamente, come
se fosse tè. Avevo cercato di toccargli la fronte, allora ma lui si era
scostato, ed aveva bofonchiato che non era nulla, che si sentiva la febbre
sotto controllo. Poi si era addormentato tenendo le coperte alte sul suo viso,
per impedirmi di toccarlo. Il presentimento era divenuto certezza. Tijorn stava
inspiegabilmente peggiorando, la febbre si stava portando fuori controllo. Non osai
toccarlo, per quella volta, per paura di svegliarlo. Dovevo convincermi che non
era nulla. Dovevo allontanare quella sensazione di gelo che mi permeava le
membra. Non era nulla. Il mattino dopo si sarebbe rimesso. Era solo una
reazione alla fatica del pomeriggio, a tutte le emozioni che aveva provato. Non
avremmo dovuto metterlo così alla prova. Magari più tardi avrei
chiamato Max, se solo fosse andato così. Doveva visitarlo. Troppo tardi
per pensarci su. Quella pennichella fu più agitata delle altre, e
dormì di meno. Dopo un po’, vegliato da me, si svegliò, e
si scostò con orrore le coperte dal viso. Dopo essersi mosso un po’,
Tijorn mi guardò, stanco. Notai con preoccupazione che aveva gli occhi
molto lucidi, ed era pallidissimo. Sembrò tuttavia essere meno debole, e
riuscì a puntellarsi sul braccio sano, per mettersi almeno più
dritto. “sorellina mia…”. Disse, con un sospiro, tanto che
dovetti avvicinarmi per sentirlo. “ho sete…non è che…potresti
portarmi…un po’ d’acqua?”. Schizzai fuori in un attimo,
obbediente. Tutto per mio fratello. Avevo notato che non parlava bene come i giorni
precedenti. Sembrava avere qualcosa di grosso in gola. La cosa non mi piaceva. Quando
tornai, un semplice calice di vetro pieno in mano, sobbalzai per la meraviglia.
Tijorn era riuscito a sedersi. Non sembrava aver una gran cera, ma il fatto che
fosse riuscito a mettersi in quella maniera da solo poteva significare un
miglioramento in vista. Forse quel malessere diffuso era solo una piccola
conseguenza, che sarebbe scomparsa presto. Illusioni, solo illusioni e nient’altro.
Ci scambiammo uno sguardo, io preoccupata, lui quasi rassegnato, e tanto
debole. Mi ringraziò con un bisbiglio, ed afferrò avidamente il
bicchiere, senza toccarlo, guardandolo con una sorta di disgusto. Approfittai di
quel momento per toccargli la fronte a tradimento. L’inquietudine si
trasformò in panico. Tijorn scottava, nel vero senso della parola. Sobbalzai,
mentre il cuore prendeva a battere come impazzito. Lui non ebbe nemmeno la
forza di scostarsi, e strinse gli occhi. “Tijorn…tu bruci!”. Dissi,
ritirando la mano, e voltandomi. Mi divincolai in un attimo quando lui
cercò di tenermi. “Lsyn, non è nulla!”. Un mormorio,
un mormorio che quasi non sentii. “sciocchezze, Tijorn! Io vado a
chiamare Max! hai bisogno di cure!”. Affannata, piena di paura, cominciai
ad avviarmi verso la porta, come quel momento allegro in cui avevo minacciato
Akita, le avevo fatto quella giocosa previsione. L’umore era tutt’altro,
in quel momento. La preoccupazione aveva scavato una tana solida, in me. Sentivo
un freddo incredibile, nonostante fosse estate. Tremavo come una foglia, e non
riuscivo a camminare bene, non riuscivo quasi a tenermi in piedi. Dovevo andare
da Max. tijorn era peggiorato, senza motivo apparente. Arrivata vicino alla
porta, una volta aperta sul corridoio, la mia vita cambiò di nuovo, e fu
sempre un bicchiere ad annunciarmi la prossima svolta. Rumore, improvviso, di
vetri infranti. Il cuore saltò un battito, ed io mi girai, sentendomi
mancare. “Tijorn!”. Urlai, uno strillo acutissimo che, sicuramente,
avrebbe svegliato un bel po’ di persone. Ma a me non importò. Non importò.
Perché tutto il mondo si restrinse improvvisamente intorno ad una sola
persona, in un solo letto. Mio fratello, che aveva lasciato cadere il calice,
che si era rotto a terra, e si era afflosciato su di un lato. “Tijorn!”.
No: quella non poteva essere la mia voce. Non avevo mai avuto una simile voce,
così acuta, così fastidiosa. Non so come, ma mi trovai vicina a
lui, cercandolo di scuotere. Aveva gli occhi chiusi, ed era bianco. Respirava ancora.
Era vivo: quella era la prima cosa di cui mi ero sincerata. Vivo, ma non sapevo
in che stato. Lo feci stendere, e presi la sua testa tra le mie braccia. Cercai
di scuoterlo, inutilmente. Era incosciente. Non reagì nemmeno ai miei
schiaffi, sempre più forti, penso, sempre più pieni di furia
disperata. Mi sentii perduta, mi sentii perduta, vuota, nel buio, sola. E fu
allora che cominciai ad urlare sul serio, implorando chissà chi,
sperando che almeno qualcuno mi sentisse, perché di più non
potevo fare. Tutto il mondo si era trasformato in un ammasso di disperazione pura
ed assoluta. Non potevo muovermi. Ero incatenata lì. “Tijorn! Oh,
dei, Tijorn! Aiuto! Qualcuno mi aiuti!”.
Dopo quelle urla acute che lanciai, presa da un affanno che andava ben
oltre la preoccupazione, non ci volle molto riempire di persone, curiosi e
Guaritori, la piccola stanza
Dopo
quelle urla acute che lanciai, presa da un affanno che andava ben oltre la
preoccupazione, non ci volle molto riempire di persone, curiosi e Guaritori, la
piccola stanza. Incatenata a mio fratello, mentre cercavo di urlare, chiamare
ancora, finendo per emettere solo mugolii inarticolati, accarezzandogli
febbrilmente il capo, trasformata in un solo monolitodi angoscia, un’angoscia
così profonda che ancora non saprei descriverla a parole, sentii
nell’ambiente la presenza di parecchie persone. Li ignorai: ero
concentrata esclusivamente sul volto pallido diTijorn, il mio dolce Tijorn, sul suo
respiro lieve e spezzato. Cos’era successo? Perché stava
così male, improvvisamente? Non riuscivo a capire. Il veleno non si era
diffuso, o perlomeno, era entrato in circolo solo in parte davvero minima,
troppo poco per causare un peggioramento di quel genere. E poi erano passati
giorni da quando era stato ferito! Non era possibile. Il veleno doveva essersi
quasi assorbito. Era quello che mi aveva detto Max quando era venuto quella
stessa mattina, a medicare un Tijorn ancora nel pieno delle sue forze, polemico
ed allegro, la mia fonte di luce principale. E allora cosa diavolo stava
succedendo? Il mio sole si stava inesorabilmente spegnendo. Sentii gli occhi
pizzicarmi, e riempirsi di lacrime. Con un ultimo sforzo di volontà,
cercai di resistere alle lacrime, che, imperiose, cercavano di uscire. Sapevo
che se avessi cominciato a piangere non avrei finito più. Mi sentivo
irrimediabilmente sola, come se una frattura mi avesse staccato dal resto del
mondo, come se un bozzolo si fosse chiuso attorno a me, per proteggermi e
ferirmi, per farmi stare ancora di più con la mia angoscia, con la mia
premura. Era terribile. Terribile vedere il mio dolce fratello in quello stato.
Terribile saperlo in quelle condizioni. Così terribile che fu un
miracolo se non impazzii senza rimedio. Sentii, nel nido d’angosciosa
urgenza che mi ero creata, dei mormorii, ed uno strano rumore di sottofondo,
come un lamento acuto e prolungato. Mi dava molto fastidio, ma non avevo la
forza necessaria per farlo smettere. D’improvviso, sentii qualcuno
tirarmi indietro. Staccarmi dal mio stupidone. No! Come potevano farlo? Come
osavano? Cercai di dibattermi, ma era come se fossi incatenata in un blocco di
ghiaccio, come se il mio cuore non fosse altro che un ammasso rosso e gelato,
come se fossi solo anima, senza corpo alcuno. Mi sentii stringere da braccia
forti. Qualcuno mi bisbigliò all’orecchio parole che non intesi.
Ero concentrata solo su Tijorn, il mio fratellino, il mio dolce fratellino,
Tijorn, che mi aveva consolata, curata, considerata, amata, che aveva rischiato
la vita per portarmi un po’ d’uva e farsi perdonare, che era stato
il mio compagno di giochi e confidenze, di chiacchiere fatte su un albero o
sulle rive di un laghetto, che era stato complice nelle numerose malefatte, che
mi aveva assistito come testimone il giorno in cui pronunciai il giuramento per
divenire Spia, che mi aveva accompagnato nella mia prima missione ufficiale,
che mi avevafatto compagnia nelle
lunghe degenze al Lazzaretto, che mi aveva visto piangere per Chekaril senza
nemmeno sapere il motivo, e mi aveva confortata, che mi aveva accolto in casa
sua quando fui sicura di aspettare un bambino, che mi aveva spiata durante il torneo
a cui avevo partecipato, a distanza, come sempre, discreto e gentile, pronto ad
accogliermi tra le sue braccia in caso di cadute rovinose, che mi aveva curato
senza dire una parola, accettando il mio nuovo, mostruoso viso con un sorriso
rassicurante, che non aveva mai nascosto di volermi bene come una sorella, come
una gemella, come la sua migliore amica, che mi aveva aspettato per
cinquant’anni con la sua solita fiducia, confidando in me, facendo della
sua casa un porto sicuro, in caso io fossi voluta tornare da lui.
Quell’elfo che, i giorni del nostro apprendistato assieme, e anche dopo,
quando lui fu Spia ed io pronta a divenirlo, mi pregava di fargli parlare un
po’ con Akita, mi supplicava di dargli il permesso di venire, la sera, a
salutarci e fare quattro chiacchiere, facendo finta fosse una cosa casuale, che
mi aveva fatto una testa piena di ciance a proposito della bellezza e dolcezza
di quell’ammasso di veleno e coltelli che mi ritrovavo come compagna di
camera. Quell’elfo che il mio tentativo di suicidio aveva sconvolto,
quell’elfo precipitato in un baratro di apatia nel vedere il suo
aguzzino, quell’elfo che era fuggito per la salvezza nostra, e di suo
figlio. Quel bambino non ancora nato, che aveva avuto paura di non vedere. E
che forse, come si stavano mettendo le cose, non avrebbe visto mai. Tijorn: un
fratello, un amico, un confidente, un grande elfo, un eroe, dal cuore
d’oro, e tuttavia, senza essere melenso, pieno di difetti e
sfaccettature, e per questo ancora più prezioso. Mi sentii afferrare da
un dolore senza confini. Quelle braccia calde e sconosciute mi tenevano
saldamente, mi separavano da lui, impedivano che io gli fossi vicina, che
m’impediva di tenergli la mano e confortarlo, fargli coraggio, anche se
forse lui non mi avrebbe sentito. Braccia forti, dalla stretta neutra, che non
mi consolavano. Mi tenevano per la vita, senza affetto, senza partecipazione,
come se io fossi un sacco di patate. Non cercai nemmeno di dibattermi, di
divincolarmi. Mi tesi solamente verso di lui, allungando le mani come una
bambina spaventata. Ed ancora sentivo quello strano rumore, quel gemito
disperato, quel lamento da cane abbattuto, quel guaito inarticolato, che saliva
e scendeva di tono ed intensità, che si fermava per un attimo, per poi
divenire più forte. Ero io. Mi resi conto improvvisamente di essere io a
produrre quel suono disincarnato e disumano, e che stavo tremando follemente,
del tutto fuori di me. Accantonai la questione in un attimo, e non
m’importai più di questo. Alcune figure attorniarono il letto dove
mio fratello era riverso, incosciente, e me lo nascosero alla vista. Guaritori,
probabilmente, che si erano resi conto della situazione. Mi tesi ancora di
più. La stretta divenne quasi insopportabile. O forse la sentivo tale
perché la disperazione mi mordeva, mi rodeva come il più
terribile dei veleni. No! Quello è mio fratello! Una fitta al cuore mi
fece urlare, urlare nella maniera più straziante da me conosciuta. Con
lui morivo anch’io. Se lui fosse morto, mi sarei spenta, l’avrei
seguito, ad ogni costo. Non potevo vivere senza di lui. Mi sentii trascinare,
allontanare dal mio piccolo stupidone, che aveva bisogno di me. Ed allora
lottai, lottai come un pazza. Non dovevano osare. Loro cosa sapevano, cosa
conoscevano della vera sofferenza? Di quel sentimento che stavo provando io,
che mi distruggeva? Di quell’ansia tremenda che sembrava staccare la
testa dal resto del corpo? Che ne sapevano, dell’entità della mia
reale disperazione? Perché mi allontanavano da lui? Perché non
permettevano che guardassi cosa stava succedendo? Il mio urlo mi fece dolere i
polmoni. “no! Lasciami andare! Lasciami andare!”. Gemetti, con una
voce che non sembrava la mia, come se fossi sotto tortura.
“Tijorn!”. Di nuovo la persona che mi stava portando
bisbigliò qualcosa, forse qualcosa di rassicurante, al mio orecchio. Ho
un vago ricordo di aver attraversato, portata a braccia, trascinata dallo
sconosciuto, un capannello di persone, infastidite, o scioccate. Poi tutto
diventò offuscato, precipitai in un abisso di amaro dolore, che mi
straziava il cuore, lo divideva a metà. Un tormento così forte
che nemmeno dopo la morte di Chekaril avevo provato. Un sentimento estraneo a
me, al mio modo di pensare, forse perché, fino a quel momento, le
persone che amavo erano sempre state bene. Nessuno di loro era svenuto
all’improvviso, così, dopo un rapidissimo peggioramento, dopo un
meraviglioso pomeriggio passato a ridere, a ricordare i bei, vecchi tempi. Non
capivo più nulla, forse non riuscii nemmeno a muovermi. Tutto quello che
esisteva, nella mia mente, era il dolore, quel miagolio prolungato che
emettevo, ed il volto di Tijorn, bianco e pallido come me l’ero
immaginato nei giorni precedenti a quella sera tremenda. Avevo un freddo
terribile. Mi sembrava di essere in mezzo ad una tempesta di neve, nel gelido
nord estremo del Regno. Tremavo, ed avevo i brividi, nonostante fosse estate.
Mi sentii, d’improvviso, sedere da qualche parte di morbido, ed avvolgere
da una coperta. Continuai a fremere dal gelo. Al freddo del cuore non
c’è rimedio che tenga. Non riuscivo a comprendere nulla. Qualcuno
mi stava parlando, carezzando ripetutamente i capelli, una voce urgente, ed
ora, al piagnucolio che emettevo, si erano sommate alcune voci, dei singhiozzi
non tanto sommessi. C’era qualcuno accanto a me. Un vecchio elfo dai
capelli bianchi, che mi carezzava i capelli, senza guardarmi, perché
cieco, un’elfa bionda che si stava mordendo le labbra per non piangere,
invano, ed un giovane dai capelli rossi ed ondulati, vestito di un’armatura
leggera, dall’aria un po’ timida. Tutte persone che mi sembrava di
dover conoscere. Eppure non le capivo. Non riuscivo a capire quello che stavano
dicendo, quello che mi sussurravano. Aprivano e chiudevano le bocche, senza
suono, o almeno così mi sembrava. Qualcuno mi prese una mano. Cercai di
stringerla, di ricambiare la stretta, ma non penso mi riuscì.Ad un tratto, il giovane elfo che era
alla mia destra, stringendo le labbra, allungò una mano verso di me.
Avvertii uno schiaffo. Poi un altro, a sinistra. Rimasi per un attimo senza
fiato, senza capire assolutamente nulla, stordita. Ma quel gesto così
violento mi fece bene. D’un tratto, presi coscienza di tutto. I veli che
mi avevano tenuta separata dal mondo, proteggendomi dal mio terribile dolore,
si squarciarono. Ed io percepii finalmente il mondo com’era, con tutti i
suoni, e la materialità. Il lamento che emettevo s’interruppe, ed
io sbattei le palpebre. Ero nella stanza della mia cognata, seduta molto
probabilmente sul suo letto. Come ero finita lì? Mi sentivo ancora molto
stordita, ma, la vicinanza di Amarto ed Akita sembrava farmi del bene. In loro
presenza, il dolore si attenuava, per essere condiviso. Guardai stolidamente il
giovane elfo dai capelli rossi, e straordinari occhi verdi, ancora più
belli perché inusuali, che aveva tutta l’aria di essere una
guardia. Lo riconobbi quasi all’istante. Doveva essere lui che mi aveva
portata fin lì. Era una delle Guardie del Lazzaretto, il loro capo. Un
ordine strano, il loro. Si occupano di mantenere nell’ordine più assoluto
il Lazzaretto da loro custodito, ed impedire che qualcuno, preso da pazzia o
solo un bastardo, rompa l’inviolabile consuetudine di non versare sangue
nei Lazzaretti, nella neutralità considerata quasi tabù da
infastidire. Elfi stranissimi, abili combattenti eppure fedeli all’idea
di pace ed ordine, silenziosi e ligi. Quell’individuo non faceva
eccezione. Si chiamava Capouille, ed era una delle creature più stravaganti
mai conosciute. In tempi normali si occupava del Lazzaretto, della sua
manutenzione e guardia. In tempi di guerra era un abilissimo stratega, dall’astuzia
proverbiale. Ebbene, nella vita quotidiana era poco più di un mollusco. Difficilissimo
farlo parlare, soprattutto in pubblico, ed affetto da una balbuzie irritante. Nonostante
tutta la sua propensione per le armi si occupava di una mansione insolita e
tutto sommato tranquilla come quella della Guardia di Lazzaretto, ed era l’individuo
più mite del mondo, uno dei pochi che non mi squadrava con odio, o
diffidenza, solo palese curiosità, una curiosità quasi
scientifica. “be-bene, si-signorina”. Disse, con la sua voce
incerta, tremula, torcendosi leggermente le mani. “vi…vi sentite m-me-meglio?”.
Lo guardai per un attimo senza capire. Poi, non so quello che successe, né
so come successe, ma mi ritrovai sulla spalla di Akita, singhiozzando come
poche volte nella mia vita, facendomi dolere petto e gola. Lei mi avvolse con
le sue lunghe e magre braccia, e posò il suo capo nell’incavo
della mia spalla. Le nostre lacrime si mescolarono, condividemmo lo stesso
dolore, perché in due era un fardello più leggero da sopportare. Anche
Amarto soffriva. Mi sentii stringere la mano libera da un’altra callosa e
fredda, una mano asciutta e vecchia. Rimanemmo così per un bel po’
di tempo, un tempo sospeso che non amo ricordare, pieno di interrogativi. Cos’era
successo? Perché Tijorn si era sentito male, così all’improvviso?
Perché non aveva dato segni alcuni di malessere, fino a poco tempo prima
di svenire? Erano domande troppo pressanti per lasciarle da parte. Mentre piangevo
disperatamente, preda di un dolore così profondo che non saprei narrare,
erano quelle le questioni che mi ponevo. Non era possibile, non era logicamente
possibile. Il mattino prima Tijorn era stato vivace, forse con un po’ di
febbricola addosso, ma niente di preoccupante, vivo come sempre- mi
assalì un terribile sospetto. La febbre poteva avere molte ragioni. Un nodo
di panico si andò a formare in me. Avevo un’idea, un’idea
troppo tremenda per venire concretizzata. Con una ferita di quel genere poteva
benissimo essere successo. Infezione. Setticemia. Di lì non si usciva,
quello era un vicolo che portava ad una sola destinazione, e nient’altro.
Dovetti mordermi a sangue le labbra per non urlare. Passammo nel terrore, nella disperazione
più tremenda chissà quanto tempo. Ad un certo punto, sentimmo la
porta aprirsi. Sobbalzammo, io ed Akita, e ci staccammo. Guardai per un attimo
la mia amica. Povera piccola. Era davvero sconvolta: e dire che non poteva
affaticarsi troppo, per via delle sue condizioni! Ogni pensiero pietoso
scomparve quando vidi la figura di Max avvicinarsi, il Guaritore era
stranamente in imbarazzo, e molto amareggiato. Stringeva le labbra spasmodicamente,
e scuoteva di tanto in tanto il capo, guardandoci. Lo interpretai come un
pessimo presagio, e, la morte nel cuore, guardai i miei compagni in quella
sventura. Era bello non essere soli, era bello poter condividere le lacrime con
qualcuno. Mi facevano sentire accettata, lenivano un po’ lo strazio. Perfino
Capouille, rimasto lì forse per controllarci, forse per chissà
cos’altro, si tese quando vide il burbero elfo entrare. Max si
fermò in mezzo alla stanza, guardando altrove. Sembrava, più che
altro, arrabbiato con se stesso, ma io non ne capii il motivo. Nel momento in
cui era apparso avevo sentito un tuffo al cuore. Poteva dirmi di tutto. Quel volto
era sempre stato, per me, difficile da interpretare.“Tijorn…”.
Mormorai, guardandolo piena di chissà, non ricordo bene, speranza, o
forse paura. Un miscuglio di sentimenti difficile da definire. Lui ci
guardò, lugubre. “sono stato uno stupido”. Disse,
amareggiato, con una voce d’oltretomba che mi fece fremere di terrore. Lo
sguardo che ci scambiammo io ed Akita fu pieno di sottintesi. Temevamo entrambe
la terribile notizia che si stava per dare. “un vero idiota”. Ci fu
un breve, terribile attimo di silenzio, un silenzio penoso, poi il Guaritore
tirò il respiro e, guardando i nostri volti tesi, riprese a parlare, con
franchezza. Era molto pallido. “nella ferita c’è un focolaio
d’infezione, che si sta diffondendo molto rapidamente”. Disse,
tutto d’un fiato. Sentii Akita fremere e lasciarsi scappare un singulto,
al mio fianco, e le strinsi forte il braccio. Dentro di me qualcosa cedette. La
situazione era davvero, davvero critica, rischiavo di non vedere più mio
fratello vivo, e lo sapevo. Con tutte le loro arti, i Guaritori non sono mai
riusciti a scoprire un metodo per combattere efficacemente le infezioni, a
parte la cauterizzazione della ferita, e piccole medicine che si limitano a
curare i sintomi. Un’infezione può essere fatale, e chiunque lo
sa. Cominciai ad avvertire un familiare nodo allo stomaco, formarsi, un nodo
pieno di paura, ed apprensione. Guardai Max, improvvisamente piena di astio. Lui,
il Guaritore tanto esperto, perché non si era accorto dei segnali
premonitori, per agire quando la situazione era ancora sotto controllo? Perché
non aveva fatto nulla per impedire quella terribile situazione, appesa in modo
ridicolo ad un filo quanto mai precario? Ringhiai leggermente, e guardai storto
Max, che deglutì. “non dirmi nulla, Lsyn”. Mormorò lui,
l’atteggiamento di un animale ferito nel suo più profondo
orgoglio. “il veleno ha contrastato il propagarsi dell’infezione,
che non è una sciocchezza, a quanto pare… ma ora…che il
veleno del mostro sta venendo assorbito…è più facile
vincerlo, e contaminare il corpo… ed il veleno ha, nello stesso tempo,
mascherato i sintomi…perciò nessuno se n’è accorto…”.
L’irritazione si trasformò in rabbia cieca. Praticamente, quella
era poco meno di una condanna a morte. Una condanna a morte per lui ,l’eroe,
che si era lasciato ferire per proteggere me. Me e solo me. Mi sentii ancora
più male quando realizzai che era colpa mia. Colpa mia se ora il mio
dolce Tijorn stava per morire. Il freddo gelido tornò, più
terribile di prima. Ripresi a tremare, ora però invasa da una rabbia pura.
Max mi aveva detto che mio fratello stava meglio, stava migliorando ,e che la
febbre non era nulla. Aveva…aveva sbagliato! Era Max, insieme a me, ad
aver condannato Tijorn ad un’enorme sofferenza. La rabbia scorse in me
come veleno, e guardai con uno sguardo così tremendo il Guaritore che
lui rabbrividì. “spero che stiate facendo qualcosa per migliorare questa
situazione, Guaritore di miei stivali…”. Mormorai, con una voce
distante e atona che non era la mia. I Guaritori: tutti uguali. Avevo sbagliato
a fidarmi di uno di essi. Sbagliavano sempre. Erano sempre nel torto. Max deglutì,
ed annuì. “stanno cercando di cauterizzare, e togliere tutto il
focolaio…”. Mormorò. Poi fu preso da un ripensamento, ed
indirizzò altrove lo sguardo. “ma non sarà risolutivo. L’infezione
si era già propagata. Tutto sarà nelle sue mani… nelle sue,
e della sua voglia di vivere”. I soliti Guaritori. Buoni a nulla. Provai un
dolore psichico così intenso da farmi boccheggiare. Piombò un
silenzio tanto insopportabile quanto doloroso. Akita mi strinse ancora
più forte il braccio, in una morsa che mi avrebbe lasciato dei lividi, e
si morse le labbra sottili. Sapeva bene quanto me cosa volevano dire quelle
parole. Niente speranze: la situazione era troppo critica per formularne anche
solo una. Nella mia nebbia provocata dalla stessa pena, quel sentimento che mi
avviluppava, impedendomi di soffrire troppo, sentii dei singhiozzi rotti, che
non avevo mai udito in vita mia. Amarto piangeva, come un uomo dal cuore
spezzato. “il mio bambino…”. Singhiozzò, mettendosi la
testa tra le mani. Mi sentii ancora più male. Era insolito, era
indecente. Di solito il mio Maestro era come un pilastro. Quando lui cedeva,
allora era davvero grave. E non l’avevo mai sentito così
disperato, così vinto. La cosa mi fece ancora più male, e
desiderai di far sparire Max dalla faccia della terra, quel latore di cattive
notizie, come se non fosse mai esistito. “il mio bambino… il mio
piccolo Tijorn…cosa avete fatto al mio bambino?”. Ecco. Quella era
una domanda lecita. Rimanemmo per un tremendo attimo in un silenzio tombale,
rotto solo dai singhiozzi sconsolati del Maestro. Quel suo stesso, terribile
strazio, mi fece invader di un’irritazione incredibile. Guardai il
Guaritore, il colpevole di tutto. Mi ero fidata di lui, ed ora era lui che ci
faceva sentire così. “ti conviene cercare di fare l’impossibile
per lui, Max”. sentenziai, con un tono di voce così lugubre che
fece sobbalzare anche Capouille, che, per tutto il tempo, aveva guardato
altrove. Lui era avvezzo a quelle situazioni. Sentii gli sguardi catalizzarsi
su di me. A me non importò. Ero troppo presa dalla mia cocente
delusione. “se lui dovesse sfortunatamente morire, sarai tu a pagarne
tutte le conseguenze…io ti ammazzerò. Fuggi dove vuoi, vai anche
in capo al mondo, ma io ti seguirò, e ti farò pentire di non aver
messo più attenzione in quello che fai!”. Max si morse le labbra,
ed annuì, sempre più bianco.A quelle parole, io non resistetti. Mi rannicchiai di nuovo accanto ad
Akita, e, senza importarmi del mondo intero, quel dannato mondo che non mi
voleva felice, scoppiai di nuovo in lacrime, più forti di prima. Il mio
fratellino, il mio stupidone, stava morendo. Ed anch’io ne avevo la
colpa. Era un pensiero troppo terribile. Sperai con tutto il cuore che ce la facesse.
Dov’erano finite tutte le illusioni? Perché dovevano essere
confutate così crudelmente?
Con questo capitolo, vi faccio un magnifico regalo di natale. Vi
lascio con un bel regalino di natale, perché a natale tutti sono
più buoni, tranne me.
Certo che, però…si mangia, si
ci strafoga, si festeggia…e qui ho scritto il capitolo più
terribile, dopo il prossimo (che posterò domani. Sappiate che io non mi
fermo nemmeno nei giorni di festa!!U_U). E’ amore.
Con questo, vi saluto.
Uno particolare a Carlos Olivera, Selly, i miei fedeli recensori. Che
possiate passare un natale magnifico.
Un augurio anche alle persone che hanno messo questa storia tra i
preferiti, e chi legge solo.
Un saluto ed un bacio appiccicoso a tutti.
Akita
Ero
tornata da Tijorn. Ero sola, completamente sola, escludendo il Guaritore
praticamente sempre presente, ma che non parlava e non mi dava fastidio. Ero
lì da quando una Tirocinante era andata ad
avvertire Max che c’era bisogno che qualcuno di noi fosse a fianco di mio
fratello, facendogli compagnia, incoraggiandolo silenziosamente, che non
potevamo entrare tutti insieme. Avevo costretto sia
Amarto che Akita a non sobbarcarsi dei turni, ci sarei stata io e solo io. Li
avremmo chiamati quando qualcosa si sarebbe smosso.
Non volevo che si affaticassero, non volevo far aumentare loro la sofferenza,
nel vedere il nostro caro Tijorn conciato in quel modo orribile. Akita era
troppo fragile, Amarto solo un vecchio. Solo io potevo sopportare
quell’ulteriore colpo. Ero l’unica a non avere nulla da perdere.
C’era anche un altro motivo, ben più egoistico: volevo mio
fratello tutto per me. Volevo essere io a sacrificarmi per lui, giorno dopo
giorno, notte dopo notte, come aveva fatto lui quando
io avevo tentato di uccidermi. Volevo, in un certo senso, ripagare il debito,
mi sentivo in colpa per averlo trascinato in quell’inferno. E sapevo che,
lontana da lui, sarei stata troppo male. Non riuscivo ad allontanarmi da lui
anche di poco, e quando mi capitava, per motivi vari, il mio pensiero era
lì, e sentivo un dolore tremendo farsi strada nel petto, uccidermi,
stritolarmi. E così ero lì, seduta su una sedia, al suo fianco,
tenendogli la mano, facendo il possibile per abbassargli una febbre che non
dava cenni di voler scendere, sussurrandogli di tanto in tanto che mi
dispiaceva, che non doveva lasciar perdere, che doveva vivere, che tutti erano
in pensiero per lui, che avevamo bisogno di lui, lui era il nostro pilastro,
che io non volevo vederlo morire. Parole inutili. Lui non aveva mai segno di
avermi inteso, o quantomeno ascoltato. Pian piano, il dolore, come una lama
aguzza, aveva reciso tutti i miei legami con il mondo terreno, rendendo tutto
distante ed un po’ ovattato. La disperazione era cambiata, si era
trasformata in qualcosa di più profondo, una stoica, cupa rassegnazione,
una stolida tranquillità, una nebbia che impediva a qualunque sentimento
di minacciare il mio equilibrio, che m’isolava dall’intero mondo,
un muro elastico che rendeva torpido anche un singolo movimento. Il dolore si
era trasformato in apatia, un apatia che mi difendeva
dall’impazzire. Avevo toccato il fondo, e non riuscivo a trovare il modo
per risalire. Non trovavo nemmeno la forza di piangere, di fare anche una
minima cosa, e parlare era una fatica immensa, come spingere ogni volta un macigno in salita. Le mie lacrime si erano
esaurite, e con esse anche ogni speranza. Il mio mondo
incominciava e finiva con una mano fredda, quella mano che stringevo
delicatamente, quella mano che, di tanto in tanto, si muoveva, fremeva. Le
prime volte che succedeva avevo, ansiosamente, alzato lo sguardo verso il viso
mortalmente pallido di mio fratello, in cerca di anche un minimo segno di
risveglio. Ma niente. Mi ero abituata, anche a quella stupida speranza, come mi
ero abituataai
borbottii senza senso, ai colpi di tosse, ed altri piccoli segnali di vita.
Avevo imparato a non reagire di soprassalto, a non lasciarmi invadere dal
sollievo, per poi essere amaramente delusa. Sperare era un lusso che non potevo
permettermi. Anche la speranza era troppo, anche il più flebile sussulto
di attesa. Lo sapevo, lo vedevo negli sguardi neutri dei Guaritori che
venivano, sguardi tranquilli, immuni ad ogni dolore. La vita si era ridotta a
quello. Tenere una mano, lo sguardo fisso su di essa,
senza avere il coraggio di alzarlo verso un volto che sai sofferente, troppo
orrendo per te da vedere. Aspettare, ed aspettare, senza sapere bene cosa,
senza avere nemmeno la forza per vivere un minuto, un secondo, ore e giorni
tutti uguali, scandite dal cambio di guardia dei Guaritori, mai Max, che si era rifiutato di vedermi, forse preso dalla paura, dalle
visite silenziose, dal sonno leggero e dai pasti che non riuscivo nemmeno a
toccare. Mi ero insediata lì, un fungo nel terreno, un albero, un filo
d’erba, un fuscello. Quando ero tornata nella stanza di Tijorn, il mio
umore era ben diverso. Avevamo lottato, noi tre, mi avevano implorato di non
fare quella pazzia. Ero fragile, troppo fragile per poter sopportare quel
dolore. Avevo reagito con enorme fastidio. Forse mi credevano ancora la
fanciulla indifesa che aveva tentato di uccidersi, perché piombata
troppo bruscamente nel mondo della realtà? Amarto mi aveva pregato di
non andare sola, mi aveva supplicato, perché non meritavo di stare
così male, ancora, che stavo già facendo troppo per loro, mi
stavo uccidendo lentamente, mi stavo comportando quasi come una serva, una
cameriera, senza mai lamentarmi, che si erano fin troppo approfittati di me,
che ce la facevano benissimo a sopportare dei turni,
che io mi stavo sacrificando troppo per loro, che Tijorn era amato da tutti, ed
io avevo bisogno di riposo, che, sconvolta come ero, non avrei retto che per
poco tempo. Sciocchezze. Per cinquant’anni avevo ignorato totalmente il
mio stupidone, come se fosse una presenza scontata nella mia vita, lo avevo
odiato, ignorato, ero fuggita quando lui mi aveva
pregato di rimanere con lui, ero andata in cerca di un’illusione,
trovando solo sofferenza, fuggendo da me, fuggendo dai miei affetti, ed andando
incontro solo alla voglia più pura di morire. Avevo lasciato che lui
soffrisse, si umiliasse, mi aiutasse, senza una parola di ringraziamento. Ed
ora, come lui si era sacrificato per me, attendendomi, curandomi, aiutandomi,
così dovevo fare io nel momento in cui lui aveva più bisogno di
me, di una mano che l’aiutasse. Ero io, solo ed esclusivamente io, ad
avere il diritto ed il dovere di curarlo. Ero io che l’avevo spinto con
me in quel maledetto castello. Ero io che, in quella battaglia maledetta contro
quel mostro,avevo
permesso che lui si ferisse. Io ero sua sorella, dannazione! Sorella, non di
sangue, certamente: ma il tempo aveva creato un vincolo ben più solido
di quello, tra di noi. Io dovevo aiutarlo, ad ogni
costo. Io, e nessun altro. Amarto ed Akita non c’entravano nulla. Loro
dovevano solo riposare, riposare e stare tranquilli. Dovevo proteggere anche
loro dall’angoscia, del dolore. Dovevo essere solo io a soffrire. Avevo
cercato di rassicurarli, e, andando da Tijorn, avevo chiesto a Capouille, che
mi aveva accompagnata, forse temendo qualche altra mia esagerazione dovuta allo
sconvolgimento, di impedir loro di andare da mio fratello, che bastavo io, che quando ci sarebbe stato un cambiamento sarei stata io a
chiedere di avvisarli. Lui aveva accettato, ed aveva promesso di stare di
guardia, fuori, pronto a qualsiasi evenienza. Fui grata a quella Guardia. Era
certo una strana creatura, balbuziente e all’apparenza incapace anche
solo a tenere una spada in mano, ma dal cuore d’oro. Almeno non fremeva
dall’orrore nel guardarmi, non mi fissava con paura, odio, disgusto, o
quell’insopportabile indifferenza eterea da Guaritore, che si occupavano
solo ed esclusivamente dei feriti, ignorando tutto il resto. Sembrava aperto, e
franco, malgrado tutta la sua timidezza. Dietro l’aria sommessa covava un
vero soldato, cosa impossibile ma vera. Mi piaceva. Non si perdeva in ciance
inutili, e sembrava capirmi più che bene. Avevo sentito girarmi la
testa, un piccolo mancamento, quando ero entrata da Tijorn. La prima impressione
che mi aveva colpito era stata l’odore. Indefinibile, acre, un olezzo
tremendo di erbe medicinali, mischiato a qualcosa di alcolico,e
qualcos’altro che non volli definire. Mi ritrovai su una sedia, accanto a
mio fratello, senza nemmeno sapere come. La Guaritrice che era in quel momento
lì, un’elfa dal volto grifagno,mi aveva guardata, accigliata, e
poi era tornata ad occuparsi di Tijorn, passandogli quella che mi sembrava una
pezzuola bagnata sulla fronte. Con uno scatto repentino, gliel’avevo sfilata
dalla mano, ed avevo continuato quello che lei stava facendo, senza più
guardarla, prendendo una mano del mio caro fratello. Una mano che lui non aveva
stretto. Mi ero dominata a fatica alla vista del suo viso, dominata per non
scoppiare in lacrime, per dare a me stessa la dimostrazione di essere forte.
L’avevo visto conciato male, molte volte nel corso della mia vita. In
fondo, eravamo Spie, e, durante le missioni o i tornei, ferirsi era cosa
praticamente normale. Certo, di solito ero io l’amica dei Lazzaretti, che
finiva una missione si e una no in un letto, a
lamentarsi dell’incapacità dei Guaritori, o a bestemmiare contro
un fratello che mi faceva, puntualmente, una ben poco accetta lezione di
comportamento, ma questo non voleva dire che Tijorn fosse invulnerabile. L’avevo
visto bruciare di febbre, sfiancato dalle ferite, stanco, indebolito,
avvelenato. L’avevo visto prostrato in vari gradi, ma mai in quello stato
pietoso. Mai. Non aveva più nulla del sarcastico Tijorn che mi aveva
accolto quella mattina con un flebile buongiorno, accompagnato da una sua
solita battuta sul mio modo di dormire, sul fatto che io, pur stando bene,
dormivo più di lui. Non aveva nemmeno più nulla del Tijorn di
quel pomeriggio, quell’elfo che guardava la sua compagna, estasiato,
quando tutto in lui proclamava la sua felicità. Era vinto. Non riesco a
descriverlo altrimenti. Tremai nel vedere quel colorito malsano, non dissimile a quello che aveva avuto quando era stato colpito da quel
mostro, ma più tendente verso il giallognolo, quel viso tirato, il suo
respiro breve, spezzato, irregolare. Gli occhi chiusi, a forza, come se lui si
stesse rifiutando di vedere, quell’abbandono che non mi faceva presagire
nulla di buono. Cercando di non far tremare la voce, mi rivolsi alla Guaritrice,
che si era intanto seduta all’altro lato, senza guardare né me
né la stanza, mordendomi le labbra a sangue. “si
riprenderà…vero?”. Domandai, con una voce flebile, quasi
disincantata. Era una domanda stupida, stupidissima, ma avevo bisogno di
rassicurazioni. Volevo che Tijorn si riprendesse. Lui non meritava di soffrire.
Avevo sempre detto che a lui era dovuta tutta la
felicità del mondo. Lui meritava di riprendersi, avere una vita serena,
crescere suo figlio, avere magari anche altri bambini, invecchiare tranquillo
con i suoi affetti. Una vita monotona, insomma, ma preziosa proprio per quella,
per le piccole gioie quotidiane. Non meritava di soffrire, in bilico tra la
vita e la morte, che si giocavano la sua esistenza ai dadi. Quella che doveva
vivere in un eterno limbo ero io. Io avevo rischiato di far crollare il sogno
d’indipendenza di un popolo, il loro sogno di libertà. Io avevo
tradito, distrutto, ucciso, senza nemmeno prendere atto di tutto quello che
avevo fatto. Avevo servito il male, lo conoscevo, e mi ero crogiolata in esso. Non avevo mai preso in considerazione una vita grigia,
normale, e tutto quello, solo per una stupidissima illusione. La Guaritrice mi
guardò in viso, con una leggera smorfia. “bisogna
aspettare”. Disse, con una strana voce neutra, piombandopoi di nuovo
nel silenzio, quel silenzio che non fu più turbato da alcunché.
Ero troppo stanca per provare paura a quelle parole, per sentirmi avvolgere dal
gelo. Fissai di nuovo il volto di Tijorn. Era completamente inespressivo. Non più
gioia, non più felicità, non più nemmeno dolore. Un volto
solo, di tanto in tanto, increspato da una piccola smorfia, non so se di
dolore, di fastidio. Niente: calma totale. Nemmeno il delirio dovuto alla
febbre. Nulla, nemmeno il più flebile segno di lotta. Qualcosa
scattò in me. Mi sentii invadere da una strana calma, una calma in cui
covava tanta terribile disperazione. Ma non avevo la forza per manifestarla.
Qualcosa recise in me ogni sentimento, ogni speranza, una misericordia ben
affilata. Ed io mi limitai ad aspettare.
Aspettare,
si aspettare, senza chiedersi nulla, senza fare pronostici sul futuro, vivere al secondo, in quel piccolo mondo che finiva ed iniziava con
un viso. Attesa stolida, rimbambita da un dolore così intenso da essere
altro dal dolore, un dolore lontano, estraneo, come vedere immagini lontane,
che non possono colpire direttamente. Persi il conto delle ore, dei minuti, dei
giorni. L’attesa si trasformò in un ammasso di momenti tutti
uguali, scanditi solo dal mio respiro, da quello di coloro che mi attorniavano,
dai gesti ripetuti, sempre uguali, di Tijorn. Ore uguali, gesti uguali, facce
uguali, momenti uguali, tutto uguale, tutto scandito da quelle visite rade dei
Guaritori, che non facevano altro che cercare di pulire un po’ la ferita,
per far si che non si chiudesse troppo in fretta, per
cercare di salvare il salvabile. Era davvero un brutto taglio. Le prime volte
mi ero rifiutata di vederlo, avevo abbassato lo sguardo ogni volta che lo
curavano, ma poi mi ero abituata anche a quello, all’odore acre dei
medicinali, della malattia. Ben presto tutto smise di avere importanza. Presi a
non dare più importanza a nulla. Nulla era più importante. Nulla
era più reale. Esisteva solo un viso sofferente, il viso di mio
fratello, parole da dire, stesse frasi, sempre le stesse, sempre uguali, sempre
più disincarnate, parole che prendevano pian piano vita propria,
diventando solo un confuso ammasso di sillabe senza senso, contorcendosi e
stiracchiandosi come gatti pigri, ed una mano da stringere, una mano fredda ed
inerte, che non rispondeva mai. Il resto era solo cenere, polvere, che ben
presto sarebbe volata via. Tutto quello che bisognava
fare era aspettare. Ed io aspettai.
Odio
ricordare quell’orribile periodo, quel tempo terribile, ore, minuti e
giorni che mancavano completamente di un significato, il riassunto di tutta
l’ingiustizia del destino, quel destino che divertiva a tormentarci. Non
voglio, non voglio scriverne, non voglio costringere la mia mente a tornare
indietro. Eppure lo faccio, analizzo ogni singolo secondo, rimasto in me con
precisione assoluta nonostante il velo di stordimento che mi avvolse Tijorn non
si svegliò, né diede segni di ripresa. Mi hanno detto che passarono ben quattro giorni da quella sera tremenda,
quattro giorni in cui io non mi mossi, né reagii a ciò che mi
circondava. Ero sfuggita al mondo sensibile, mi ero rifugiata in una dimensione
dove la sofferenza, il dolore di vedere mio fratello agonizzante, completamente
vinto da una ferita che si era dimostrata ben più grave del previsto,
non esisteva, dove la disperazione si mutava in stoica rassegnazione. Un
delirio elettrico, nebbioso, che m’impedì d’impazzire, una
volta e per tutte. Non ci fu
giorno, né mattino, né pomeriggio. Per me, quel periodo infinito
fu una sola notte. Una notte senz’alba. Senz’alba, perché
non ci fu più sole per far vivere il mondo. Il mondo, il mondo come
l’avevamo conosciuto noi, quel mondo tutto sommato ancora giovane in cui
ci sollazzavamo, ancora infanti, ancora bambini, quel mondo in cui ci
affacciavamo, timidi, avvizzì, per lasciarci in un vuoto ed in un buio
senza fine, un vuoto gelido, in cui non rimane altro,
della vita, che uno stolido terreno, polvere, polvere e terra da tenere in
mano, per lasciare che voli via. Sballottati in un’eterna tempesta
ghiacciata, che sapeva di morte, senza più requie, una nave che non
trova il porto, un porto che non esiste più, infranto dal più
atroce dei terremoti. Chiusi la mia mente al mondo. E non mi rimase altro che
l’attesa.
Un
giorno, forse poco dopo il mio arrivo, forse due giorni dopo, non so,
arrivò Max come guardia. Il Guaritore di prima un anziano e dolce elfo,
che aveva incitato alla vita Tijorn, con me, se n’era andato da poco,
quando sentii la porta aprirsi, e qualcuno entrare in punta di piedi. Come
sempre, non mi voltai. Non era una novità, quel comportamento. I
Guaritori si comportavano sempre così, come se avessero paura di dare
fastidio a qualcuno, di infastidirmi, nel mio dolore e nel mio abbandono
pressoché totale, nel mio odio verso me stessa. Perciò, sobbalzai
lievemente quando sentii una mano calda posarsi sulla
mia spalla. Mi girai, e vidi il volto pallido di Max, il Guaritore che mi aveva strappato alla febbre, che ci aveva assistiti, e che
aveva cercato di far tutto per Tijorn, venendo solo minacciato da me,
minacciato per qualcosa che non aveva commesso. Nei suoi occhi brillava la
colpa. Sapevo quanto gli dolesse il fatto di vederci
così, di vederci abbattuti dal dolore, lui incosciente, io al di
là di ogni percezione umana, per un suo errore. Nonostante tutto,
però, avevo elaborato l’astio che provavo nei suoi confronti. Non
riuscivo più ad odiarlo. Non riuscivo più ad odiare nessuno, se
non me stessa. Ma non avevo la forza di compiangermi. Non avevo più la
forza di fare nulla povero Max. doveva aver racimolato il coraggio per
affrontarmi solo in quel momento. eppure non ero
così terribile, io. “ciao, Lsyn”. Sussurrò il
Guaritore,con aria stanca, sembrava non aver dormito
anche lui, per chissà quanto tempo. I capelli erano più arruffati
del solito, e la barba più lunga, le occhiaie più profonde. Aveva
l’aria di uno spirito, di un perseguitato. Mi ricordò, alla
lontana, lo sguardo di Chekaril, quello sguardo da volpe braccata, senza la sua
malizia. Provai un empito di pietà nei suoi confronti. In fondo, non era
colpa sua se il veleno aveva mascherato i sintomi della setticemia, anzi. Lui
aveva fatto di tutto per farci stare bene. Forse si era affezionato a noi. Ed
io lo ripagavo così? Con quell’astio, con quell’odio? Ed
allora, cosa avrei dovuto provare, nei miei confronti, di me, che ero stata la
matrice di tutta la disgrazia? Se fosse stato per me, Tijorn sarebbe stato
bene. Io forse sarei morta, dilaniata da un mostro orrendo, ma poco importava.
In fondo, a me nessuno teneva in modo irreparabile, non ero il pilastro di
nessuna esistenza. Avrei causato dolore, certamente, ma si sarebbero tutti
ripresi da esso. Se Tijorn fosse morto, invece, il
colpo sarebbe stato così forte da non farci vivere più. Lui era
l’elemento portante di tutto il gruppo. Senza di lui, tutte le nostre
vite crollavano, senza il nostro pilastro. Guardai così Max con una
sorta di maggior presenza. Credo di aver sorriso debolmente. Lui mi
scompigliò i capelli, come un padre. Mi fece bene, quel comportamento.
Voleva dire che lui non ce l’aveva con me, per
quello che avevo fatto. Che bravo elfo, senza alcun rancore. “ho deciso
di venire a farvi un po’ compagnia. Posso, vero?”. Annuii, senza
forze. Nulla aveva davvero importanza, a parte mio fratello. Con un sospiro, il
Guaritore, privo della sua solita aria scorbutica, che tanto lo rendeva
particolare agli occhi altrui, si sedette sulla stessa sedia che aveva occupato
il suo collega di prima, e cominciò la solita visita. Vidi la sua
espressione farsi sempre più adombrata, man
mano che andava avanti. Ero troppo stanca per provare qualcosa. Lo guardai,
quasi stordita, quando lui alzò lo sguardo, mentre cambiava la benda, le
labbra sottili e lo sguardo truce. Volevo sapere cosa stava succedendo, per
renderlo così cupo. Lui mi capì al volo. “qui non si
capisce niente, Lsyn”. Disse, con aria afflitta, risedendosi di colpo.
“non riesco a capire niente.Il veleno è stato assorbito…ma non
saprei dire se questo è un buon segno, oppure no”. Di nuovo,
cambiò qualcosa. Bene, ci siamo. O la va, o la spacca. Per un attimo,
desiderai che Tijorn si riprendesse, o morisse. Non sopportavo più di
vederlo così, agonizzante, pallido, febbricitante, un pupazzo malato.
Non poteva soffrire in quel modo. Quella presa di coscienza mi affossò
ulteriormente. Era bella, quella calma piatta che esisteva in quel momento, in
me, quella calma che mi rendeva impossibile anche solo parlare. Non era
disperazione. Era qualcosa di più penoso, e profondo. Una consapevolezza
assoluta, una sorta di esaltazione, come se l’intero mondo fosse ai miei
piedi, per tramare contro di me, ed ordire la mia morte. Sentii con un orecchio
solo Max blaterare sul fatto che si sentiva in colpa, che era stata colpa sua,
che in realtà non aveva voluto nulla di quello che era successo, e che
dovevo perdonarlo. Mi sentii stanca di quelle chiacchiere, di quel monologo.
Max stava dicendo solo un mucchio di stupidaggini senza senso, tutto qui. Avevo
bisogno di silenzio,di tranquillità. Non
sopportavo il suono della voce mortale. Volevo solo essere lasciata in pace, me
ed i miei pensieri. Così, mentre ancora blaterava, con la mano libera
andai a stringere quella di Max. Il flusso di parole angosciose
s’interruppe di colpo. Accolsi quella pace benedetta con un sospiro.
Max
rimase lì, con me, a farmi compagnia. Non avrei voluto un altro
Guaritore a fianco del mio inerte fratello, non una di quelle creature senza
sangue nelle vene, quelle persone che odiavo con tutta ma stessa. Solo Max mi
capiva, solo Max era capace di comprendere la portata del fardello che mi
portavo dietro. Fardello di colpa, di dolore, troppo pesante, che mi stava
curvando senza rimedio. Lui fu l’unico capace di curare Tijorn, di
cercare un rimedio per abbassargli la febbre, per trovare il rimedio che
l’aiutasse a combattere quell’infezione
terribile. Non avevamo più parlato, con mio grande sollievo, ma ci
eravamo tenuti spesso per mano, nel tentativo inutile di trovare un po’
di sollievo nella reciproca compagnia. Niente era cambiato, tutto era dannatamente
uguale. Eppure, mano mano
che il tempo proseguiva, vedevo una strana espressione dipingersi sul volto di
Max, una faccia che non gli avevo mai visto. Sembrava divenire ogni giorno
più impenetrabile, più vago, più misterioso. Aveva preso a
pulire la ferita meno spesso. Non so perché, ma capii al volo il motivo
di quel comportamento. Non c’era più nulla da fare. Tijorn stava
perdendo la battaglia. Per un ceto verso, me ne rallegrai. Avrebbe, finalmente,
smesso di soffrire. Nello stordimento in cui mi ero imprigionata, riuscii a
resistere alla voglia di fuggire, che era apparsa improvvisamente, il giorno in
cui la febbre si era alzata ancora di più, e mio fratello aveva preso ad
agitarsi. Era stata una cosa del tutto improvvisa. Era capitato un momento in
cui la luce era forte, forse era giorno. Quelle urla, quelle suppliche
sussurrate, minarono quello che restava della mia voglia di vederlo ancora
vivo. Basta! Non volevo più vedere quella tortura, quel dolore, il
dolore sfigurare il bel viso di mio fratello. Se fosse morto sarebbe stata una
gran cosa. Morto, o vivo. Non morente. Presi a tapparmi le orecchie quando lui
si lamentava, presi a rifiutarmi di passargli un panno
bagnato in fronte, presi a rifiutarmi di toccarlo. Ogni manifestazione
del dolore che lo tormentava era per me una staffilata dritta al cuore.
Precipitai ancora di più nello scoramento. Volevo morire, morire con
Tijorn, spegnermi con lui. Ogni suo dolore era una fitta di agonia. Non avrei
vissuto con quel ricordo orrendo, che mi rifiuto di mettere per iscritto. Max,
sempre più abbattuto, si era accollato anche tutte le mie
responsabilità, in silenzio. Mi ero chiesta in silenzio perché
Nemys non fosse venuta da me, conoscendo la mia sofferenza. Ma forse Isnark le
stava impedendo di venire. Era molto probabile. Poi non mi feci più
domande. Un gemito straziato scacciò tutta la vita che era rimasta in
me, e la mia esistenza si trasformò in un ammasso di ferro
incandescente, che mi feriva corpo e spirito.
Inaspettatamente,
una mattina, tutto parve andare meglio. Fu tutto molto rapido. Quella notte non
avevo dormito. Ero rimasta a supplicare Max di uccidere Tijorn in qualche
maniera, avevo passato tutto il tempo ad implorare mio fratello, peraltro
inutilmente, di vivere, di combattere ancora, di combattere quel male oscuro.
Lui non mi aveva ascoltato, non aveva dato la minima impressione di avermi
capito, ed aveva continuato a borbottare a proposito di chissà quale
antico fatto, che la sua memoria stava rivangando. Avevo passato la notte a
pregare chissà chi, chissà cosa, di far morire Tijorn. Non ne
potevo più di quella terribile agonia. Non sopportavo vederlo
così. Ogni lamento portava via un pezzo di vita, della mia vita. Era
stata una nottata tremenda. Per fortuna, all’alba la situazione era andata
migliorando. Quella mattina la febbre si era abbassata un po’, e mio
fratello, il mio dolce fratellino, aveva smesso di agitarsi. Era piombato in un
sonno malsano, sonno di febbre, il respiro stranamente più regolare e
profondo, il volto più colorito. Avevamo, sia io che Max, avuto un
palpito di speranza. Forse il peggio era passato. Forse si poteva ancora
sperare nella vita. Forse Tijorn si stava per svegliare. Il mio amico Guaritore
aveva controllato la ferita, e, con sollievo, aveva detto che sembrava andare
meglio. Dopo quelli che mi parevano secoli, mi parve
di sorridere. Avevo dimenticato come si facesse.
Avevo, così, mangiato, dopo quello che mi
pareva un secolo, e mi ero rimessa accanto a mio fratello, che sembrava
lievemente più rilassato. Quell’espressione tranquilla
squarciò in parte il velo di stordita apatia che mi ero creata. Mi ero
sentita come rinascere, a quelle parole, ed avevo sospirato. Pensai
immediatamente ad Akita, ed Amarto, che non avevo più visto. Quanto
tempo era passato? Cos’era successo, in quella rapida discesa agli inferi
e risalita? Non appena Tijorn si fosse svegliato, sarei andata in cerca dei
miei amici. Forse potevo sperare ancora. Forse, davvero, il peggio era passato.
Stupidi. Non capimmo che non si trattava altro che della quiete prima della
tempesta. No presagimmo nulla della tragedia che ci
stava per accadere. Dopo quello che mi parve un
secolo, i nostri gesti si caricarono di gioia e vitalità nuova. Non
avrei ancora sperato, non me la sentivo ancora, ma forse non era troppo tardi.
Forse davvero non avrei mai visto Tijorn bianco e freddo, giacere su una pira,
per essere bruciato. Sospirai di nuovo. Era il quarto giorno della mia agonia,
e già mi sentivo tirare fuori dalla tomba.
L’attesa si caricò di dolce gioia, una gioia soffusa. Avrei visto
di nuovo gli occhi di mio fratello aprirsi, quegli straordinari fari grigi, che
mi avevano sostenuta e guidata per un’intera esistenza, ed avrei potuto,
nuovamente, parlare con lui. Quella prospettiva mi caricò di ottimismo.
Forse davvero, non tutto era perduto. Forse, una volta che Max si fosse
accertato del passato pericolo, avremmo potuto chiamare Amarto, ed Akita, e
forse, un po’ più in là, anche i piccoli. Sarei tornata da
Nemys, ed Isnark, ad implorare di essere perdonata, per poter vivere la mia
esistenza in santa pace. Le ore passavano, e, pian piano, mi resi conto di
alcuni piccoli particolari. Era giorno. Sembrava anche una bella giornata, una
bella giornata calda. Cominciai ad avvertire la stanchezza di giorni passati a
vegliare mio fratello. Mi concessi un breve sonno. Passò un po’ di
tempo, un po’ di tempo in cui io mi godetti, finalmente, la luce. Max
fece una battuta, ad un certo punto, ed io, per la prima volta da quelli che mi
sembravano secoli, sorrisi genuinamente. Ripresi la mano di mio fratello, e sobbalzai quando me la sentii stringere. Non era una stretta
meccanica, me ne resi subito conto. C’era una certa forza, anche se
minima, ed una certa coscienza. Quello voleva dire una sola cosa. Mi sentii il
cuore in gola. Ci fu un momento di silenzio. Ebbi quasi paura di alzare lo
sguardo. Poi, finalmente, obbedii a quella voce interiore che mi comandava di
guardare in viso Tijorn, una cosa che avevo accuratamente evitato di fare da
giorni. Sentii istantaneamente gli occhi riempirsi di lacrime. Perché
Tijorn era sveglio, e mi guardava.
Penso di
essere scoppiata quasi in lacrime, quando vidi gli occhi di mio fratello
aperti, stanchi, spossati. Tijorn era molto debole, ed aveva ancora la febbre.
Avevo sentito un’incredibile gioia, e mi ero confortata in essa, quando lo avevo visto vivo, e sveglio. Era bellissimo
vederlo così, anche malandato, malmesso, ma pur sempre vivo. Ero troppo
stanca per essere davvero felice, ma, per quel momento, quella vaga allegria mi
dava la forza necessaria per sopravvivere un poco di più.
“buongiorno, fratellino…”. Gli avevo detto, carezzandogli i
capelli, arruffati, sporchi, una matassa inestricabile di nodi. Forse se li sarebbe dovuti tagliare. Non importava: mi bastava che fosse
vivo. Era solo quello l’importante. Lui mi aveva sorriso, un’ombra
di sorriso, che mi aveva scaldato il cuore, quel cuore di cui, in quei
terribili giorni, mi ero dimenticata l’esistenza. “Nanetta mia…”.
Aveva detto, sussurrato, un sussurro flebile, venendo
poi colto da un accesso di tosse che gli mozzò il fiato. Sospirai, e mi
guardai con Max, che alzò gli occhi al cielo. Non potevo aspettarmi una
ripresa subitanea, non dopo quella notte tremenda. Era normale, quindi. Tutto
normale. Cercai di crogiolarmi in quell’impressione.
“Tijorn…”. Disse il Guaritore quando
lui si fu calmato. “come ti senti?”. Ci fu un attimo di silenzio.
Un silenzio che, all’improvviso, mi parve pieno di cattivi presagi.
Guardai il volto di mio fratello. Sembrava pensieroso, stranamente rilassato,
quasi rassegnato. Era un’espressione che non mi piaceva. Sospirai per
calmarmi, senza esito. Le parole che ci giunsero all’orecchio ci
sembrarono oltremodo strane. “non soffro”. Disse mio fratello,
laconico, guardando altrove, e richiudendo gli occhi. Di nuovo ioMax ci scambiammo
uno sguardo. Il mio cuore saltò un battito. No. Non poteva essere! Non
ora! Tijorn era vivo, e sveglio. Sveglio, soprattutto. Non doveva essere
così, sicuramente. Si sbagliava. Era solo un modo di dire. Mi sentii
morire silenziosamente. Di nuovo il panico montò in me. Per non urlare,
mi morsi le nocche. Il dolore fisico che provai mi aiutò a scacciare la
pena, la preoccupazione immensa che stava montando in me. Io
e Max ci scambiammo un nuovo sguardo. Il Guaritore sembrava perplesso.
Con discrezione, fece per avvicinarsi alla ferita, per esaminarla. Stava appena
scostando le bende, quando mio fratello, aperti di nuovo gli occhi, lo
fermò con la mano buona. Lui e Max si scambiarono uno strano sguardo.
Poi il Guaritore strinse le labbra, e cercò di forzare, di allontanare
il braccio che gli stringeva il polso, inutilmente. Io rimasi a guardare, come
una sciocca. L’orrore stava montando, terribile, doloroso, pungente come
veleno. Dovetti mordermi le labbra per non urlare. In me si aprì una
voragine. Tirai il respiro come se stessi per soffocare. Sentii un grande peso
nel etto, e la testa mi girò. Mi appoggiai al letto con una mano, per
non cadere. Nessuno dei due fece caso a me. Io chiusi gli occhi. Non volevo
vedere. Avevo già capito cosa stava succedendo. Non era la prima volta
che vedevo feriti in punto di morte sentirsi improvvisamente meglio, e poi
spirare dopo poco. Ed era quello che stava capitando a Tijorn, e lui lo sapeva
fin troppo bene. Era stata una speranza volatile, vana e terribile, che non
aveva avuto nemmeno il tempo di nascere, prima di essere stroncata. Non
c’era più nulla da fare. Le mie preghiere erano state esaudite. Cercai
di rimettere insieme il muro elastico che avevo creato prima, per non scoppiare
a piangere, fino a consumarmi. Fu inutile. Tijorn, il mio fratellino. Il mio
era un dolore che mozzava il fiato, che impediva anche solo di prendere il
più piccolo respiro. Niente che le parole possono descrivere. Il lutto,
la certezza della morte, è qualcosa di troppo grande per poterlo anche
solo immaginare. “no”. Sentii sussurrare da mio fratello. Serrai
gli occhi, e strinsi la coperta, come per volermi consolare. Ma non potevo. Non
potevo fare nulla. Stavo cadendo in pezzi. “smetti di curarmi, Max…
non fate più nulla, per me. Non sento nulla…non sento dolore. Fate
finta che per me sia così. E’ inutile insistere ancora. Non voglio
più soffrire”. Il tono di mio fratello mi produsse una scarica di
dolore così forte da mozzarmi il fiato. Era il tono di un supplice, il
tono di chi sapeva di non avere scelta, né decisione alcuna sulla sua
vita, una foglia morta portata dal vento, ma, nello stesso tempo, un tono
severo, inflessibile. Da eroe. Il mondo si fece buio, e freddo. Di me rimase
solo una minima parte, a contatto con la realtà. Il freddo, quel freddo
gelido dell’anima, tornò, ed io mi trovai a tremare come se fossi
stata nuda in una tempesta di neve. Quell’alba era stata fin troppo
breve. Il mondo era precipitato nel vuoto. Vuoto, buio, e senza senso. Niente
aveva più senso. Era tutto dolore. Senza Tijorn…perché
vivere ancora? Perché lui doveva morire? Perché non io?
Perché? Vita. Vita. Cos’era la vita, senza il sole a riscaldarla?
Una vuota apparenza, vana larva. Quello che poi io diventai,
una nottola che ha il suo momento di gloria quando il sole non esiste, che,
tuttavia, lamenta la sua mancanza, senza gioire di essa. Una vita vuota, vana,
inutile. Senza Tijorn non ero nessuno. Mi morsi di nuovo le nocche. Volevo
gridare, ruggire. Volevo donare la mia vita, correre al tempio per chiedere
agli dei, chiunque essi fossero, di chiedere la mia vita in cambio di quella di
Tijorn. Io sarei morta, Tijorn sarebbe vissuto. Ma non ebbi la forza di fare
nulla. Rimasi lì, riuscendo solo ad emettere piccoli pigolii, come un
pulcino spaventato. Sapevo che da lì non sarebbe stato facile uscire. Ci
fu un momento di silenzio. “Max”. Disse Tijorn, con una strana voce
soffocata. “vai a chiamare Akita, ed Amarto. Li voglio qui, con me.
Voglio stare solo con Lsyn”. Ecco. Era finita. I pigolii si trasformarono
nel monotono lamento della sera in cui lui si era sentito male. Serrai ancora
di più gli occhi, come una bambina che non vuole più vedere, come
una bambina che ha paura dei mostri sotto il letto. Ma
di mostri lì non ce n’erano mai. Invece, in quella stanza satura
dell’odore tremendo delle erbe, il mostro c’era, eccome. Era la
morte. La morte di una parte di me stessa. Non pensai sarei riuscita a
sopportarlo. E forse sono morta, sono morta allora, e tutto il resto, da quel
momento in poi, fu solo sogno vano. Ero immersa, immersa in un oceano di
dolore, in cui non sapevo nuotare. Quella era una sofferenza nuova. Avevo
ucciso Chekaril, era vero, avevo perduto la mia innocenza. Ma mai, mai avrei
immaginato di perdere la mia stessa esistenza in quel modo assurdo. Mi
rammentai della Matriarca, di Gwen, e di come si era sentita
quando Eiron era morto, aveva deciso di dover morire. Ecco. Più o
meno io mi sentivo così. Completamente disfatta
dal destino, un destino più forte di me. Sentii dei piccoli passi
affrettati, Max, probabilmente, e la porta chiudersi. Rimasi sola con Tijorn.
Il mugolio si trasformò in un pianto vero e proprio, ed io cominciai a
singhiozzare senza requie. Il mio fratellino, Tijorn. Non l’avrei mai
più visto. Mai più mi sarei fatta abbracciare da lui, mai
più l’avrei preso in giro. Non ci sarebbero state mai più
confidenze allegre, non avrebbe mai visto il suo bambino nascere, sentendosi
male di conseguenza, come poteva essere prevedibile. Non avrei mai più
litigato con lui, lui non sarebbe stato mai più lì per farsi
perdonare, o per perdonare. Non avremmo mai più rivangato i bei vecchi
tempi. Non avrei mai più potuto costruire un futuro dove egli fosse
stato presente. E, vedere un mondo senza di lui, ancora mi era impossibile. Lui
era sempre stato lì, con me a consolarmi, confortarmi, lì,
silenziosa presenza, sarcastica, un mio secondo padre. La sua assenza faceva
più male di mille coltelli. C’erano tante cose da dire, da fare,
cose non dette, recriminazioni, promesse lasciate pendere nel vuoto. E tutto
quello sarebbe svanito. Niente, perduto, come se non fosse mai esistito. Il
dolore al petto si fece più intenso. I miei lamenti mi parevano guaiti.
Ad un certo punto, non so come, non so quando, sentii
una mano posarsi sulla mia. Tijorn. Aprii gli occhi di scatto, divenuta una
bambola preda del dolore, dilaniata, squarciata dal dolore più intenso
che si possa mai immaginare. E poi mi ritrovai
avviluppata a mio fratello, stringendolo, stringendolo forte per non farlo
andare via. L’avrei mantenuto. L’avrei mantenuto, mi sarei
aggrappata e lui, e lui non mi avrebbe lasciata. Era tutta una finta, quella.
Magari lui stava meglio, solo che non se ne accorgeva. Magari Max, se solo
l’avesse visitato, sarebbe riuscito a tirarlo fuori da
quella situazione. Invece nulla. Erano solo illusioni, le mie.
Nient’altro. Sentii una mano fresca posarsi sui miei capelli.
“Nanetta…”. Bisbigliò Tijorn, un bisbiglio ancora
più soffocato, che mi fece piangere ancora di più. “Nanetta,
non fare così…non piangere… va tutto bene… è
sempre andato tutto bene…”. Parole inutili. Trovai, finalmente, un
po’ di fiato per parlare. E mi allontanai dall’incavo della spalla
sana di mio fratello. Per guardarlo in viso. Aveva davvero una pessima cera.
Gli occhi sembravano già fissare qualcosa al di là del mondo,
come se lui stesse facendo uno sforzo per rimanere vivo. E forse era realmente
così. Maledissi quell’uccellaccio del
malaugurio. Dovunque si fosse nascosto, un giorno
sarei andata a cercarlo, per rendergli la sofferenza che lui aveva reso a noi.
L’avrei ucciso, ucciso lui e la sua compagna, quella folle elfa vestita
d’oro. Pensai in un lampo ad Akita, ed al suo bambino. Orfano senza
nemmeno conoscere suo padre. Era una cosa troppo terribile per poterla pensare.
Era ingiusto, ed egoista, pensare che Tijorn stesse per andare via, stesse per
lasciarci per sempre. Io e lui ci fissammo, e lui sorrise lievemente. “sembra
che siamo alla fine…”. Sussurrò, portando la mano sulla mia
guancia offesa, con una strana calma. Non sembrava tanto addolorato. Trasalii. La
sua mano era incredibilmente fredda. “è venuto il tempo dei saluti…
una volta per tutte… noi ci salutiamo”. Mi fecero un male immenso
quelle parole. Un senso incredibile di solitudine si fece strada in me. Solitudine
immensa, come essere su una rupe, e gridare, senza essere sentita da altri che
dal cielo. Ripresi a tremare. “Tijorn…ti prego…”. Sussurrai,
con una voce roca e spezzata che non sembrava la mia. Che vana speranza, quella
di credere che si fosse ripreso. Era un’agonia troppo orribile per
poterla anche solo rievocare. Tuttora, scrivendo queste parole, tremo, e
piango, e riesco a scrivere solo poco più di una frase, prima di versare
tutto l’inchiostro a terra, tanto che il tremito si fa forte. Lui mi
zittì con una strana occhiata. “Lsyn…non sono sveglio per
parlarti di stupidaggini”. Disse, con uno sguardo duro, che celava tanta
sofferenza. “ma voglio dirti una cosa. Nel mio mantello…”. Lui
si fermò un attimo, riprendendo a tossire convulsamente. Lo sostenni, e
l’aiutai a rimettersi un po’ meglio steso. Trasalii
quando vidi del sangue colorare le labbra esangui di mio fratello. Lui sembrò
quasi non accorgersene, e si passò una manica sulle labbra, con fare
regale, ignorando totalmente la spiacevole novità. Aveva un coraggio
incredibile. Poi, come se nulla fosse stato, lui riprese a parlare. “nel
mio mantello, in una tasca, ci sono delle lettere. Sono per…per tutti
voi. Non ho tempo…non ho tempo per dire a tutti delle cose…”.
Lui aprì e chiuse gli occhi, e sembrò, per un attimo, essersi
riaddormentato. Continuai a singhiozzare, mordendomi il labbro inferiore, per
non fare rumore. Passò poco più di un minuto. Poi lui
riaprì gli occhi, e sorrise. Un sorriso dolcissimo. Di nuovo mi
carezzò la guancia. “è un peccato non poter vedere mio
figlio crescere”. Disse, con genuino rimpianto, guardando le travi a
vista del soffitto. Mi morsi la lingua per non urlare. “ma sai…è
bello sapere che ci sei tu, con lui. In un certo senso…tu proteggerai me”.
Lo sguardo, quel magnifico sguardo
grigio, si posò su di me, carico di una dolcezza insostenibile. “non
dubitare, fratellino mio”. Mormorai, appoggiandomi con tutto il peso alla
sua mano. Volevo sentirlo vicino ,almeno un altro po’.
Quel poco che mi rimaneva. Il solo pensiero bastava a gettarmi nella
disperazione più pura. “io non ho mai dubitato di te”. Quel sussurro
stentato mise a dura prova il mio autocontrollo. Lui…non aveva mai
dubitato di me? Mi voleva bene? Sospirai, un sospiro tremulo. E poi non
resistetti. Mi buttai di nuovo con le braccia al suo collo. Lui mi cinse
leggermente con il braccio, buono, mormorando qualcosa. “non andare,
Tijorn…”. Parole vane, vuote. Chissà quante volte altre
persone, altre sorelle, avevano detto questo alle loro persone care. Ma alla
morte non c’era rimedio. Essa è la sola che ci afferra, senza
speranza di tornare indietro. Chiedere ad un morente di non andare via è
come chiedere al sole di arrestare il proprio corso. È l’atroce
natura delle cose. E’ quando un caro è
nei panni dell’agonizzante, che ci si dimentica sempre di quella cosa. Non
si può fuggire alla natura. Tijorn non rispose, e mi lasciò
sfogare un po’. Eravamo ancora soli, lì, abbracciati, per l’ultima
volta. Non mi pareva che stesse venendo nessuno. Ma dove diavolo era finito,
Max? Strano. Di solito lui era molto, molto veloce. Apprezzai quel piccolo,
inaspettato regalo. Volevo Tijorn tutto per me, solo per me. Volevo tenerlo
fino a quando non mi avrebbe sentito più, e
anche oltre. Volevo essere bruciata con lui, nella pira. Il dolore era
abbastanza forte da uccidermi, o da bruciarmi, un fuoco a cui
non c’era via di scampo. Tremavo. Avevo un freddo incredibile. “ti
voglio bene, Nanetta”. Disse ad un certo punto mio fratello, con un
sospiro tremulo. Capii che se ne stava per andare. Era lì, vicina, lo
capivo da come mi parlava. Lo strinsi ancora più forte, ma lui non
rispose al mio abbraccio. “lasciami andare…non stringermi. Tienimi solo
una mano…”. La sua era una morte orrenda, ed infelice. Ucciso, nel
fiore degli anni, da una stupidissima ferita. Ucciso nel suo maggiore momento
di gloria. Ucciso quando tutto pronosticava una vittoria. Era insopportabile. Non
capivo come si potesse vivere, senza di lui. Senza di lui, il mio sole. Gli obbedii
all’istante, senza parlare. Non riuscivo a parlare, non riuscivo ad
esprimermi. Tutto riprese a non avere un senso. Non potevo negargli l’ultimo
desiderio. Lui non desiderava il dolore di nessuno. Forse era per quello che
Max tardava tanto. Era troppo orgoglioso per farsi vedere in quello stato. Quello
che successe dopo fu troppo breve per potersene bene rendere conto, ed ancora
fa troppo male ricordare. Cercai di non piangere, perlomeno fino a quando lui mi avesse sentita. Dovevo essere forte, per
lui. Non dovevo recargli sofferenza. Così mi morsi il labbro inferiore,
fino a quando non sentii il sapore salato del sangue. Non
dovetti trattenermi a lungo, trattenere quegli ululati che minacciavano di
uscire, gli ululati di un cuore spezzato. Mio fratello mi sorrise debolmente,
un sorriso a cui io mi sforzai di rispondere. Non potevo
farlo soffrire, fare vedere che soffrivo. Non se lo meritava. Tijorn, grande
fratello, grande eroe, grande amico, grande e basta. Il mio fratellone. Il sorriso
si spense subito quando lui chiuse gli occhi. E non li
avrebbe mai più riaperti. Il resto si svolse con incredibile
rapidità. Vidi, pian piano, il petto di Tijorn abbassarsi ed alzarsi
sempre con maggior fatica. Permisi a qualche lacrima di scendere giù, ed
il sorriso si cancellò dal mio volto. Sentii un dolore acuto al petto,
come mille coltelli che mi stessero trafiggendo tra le
costole. Davanti agli occhi mi passarono tanti ricordi. Quando mi aveva buttata
nel laghetto. Quando ci prendevamo a capelli. Quando avevamo catturato una
faina, una notte, e lui era stato morso. Quando ci eravamo ritrovati come
avversari nello stesso gruppo, ed io lo avevo malmenato. Tutte le volte che, di
notte, io andavo da lui, perché avevo paura dei mostri cattivi che
mangiavano i bambini. Quando mi aveva trovata sulla soglia di casa sua, con una
strana notizia, che l’aveva lasciato con tanto d’occhi. Quando era
nata Roxen, e lui mi aveva regalato un vestito nuovo, del mio colore preferito.
Quando, la notte, lui mi aiutava, cullando la piccola, facendola addormentare. Il
giorno in cui avevo dovuto darla via mi aveva preparato una buonissima
cioccolata calda, che mi aveva portato a letto. Quando aveva scoperto che stavo
piangendo mi aveva messo Nysha in braccio, ed era venuto a dormire con me, per
farmi compagnia, per non farmi stare sola. Tutte le paternali che mi aveva
fatto, tutte le volte che mi aveva rimproverato di avere una testa vuota. La nostra
prima missione. Quando ridevamo, da piccoli, per così poco, e
così a lungo, da farci dolere la pancia. Tutte le missioni di ladrocinio
che facevamo ai danni della dispensa di Amarto. Tutte le mele rubate. L’asino
ubriaco. La prima volta che eravamo andati in un accampamento Insathi, e lui si
era lasciato coinvolgere in una rissa con dei nomadi umani, perché avevano
osato darmi fastidio. Tute le piccole cose, i piccoli gesti, i regali che ci
eravamo scambiati, i duelli che avevamo fatto, i nostri furibondi litigi, che
si concludevano sempre con una tazza di tè. Anzi: tazza di tè? Era divenuto il nostro modo preferito di dire,
quando volevamo mettere pace tra di noi. Le poche
volte che avevamo litigato seriamente. Quando l’avevo lasciato. Quando mi
aveva regalato la maschera, ed io avevo pianto di gioia. Quando ci eravamo separati
l’ultima volta. Tutto quello non era servito a nulla, solo a recare altro
dolore. Perché il respiro si stava facendo sempre più debole, la
stretta di mano quasi non c’era più. Digrignai i denti,
ringhiando, presa da un tormento così atroce che non riuscivo nemmeno ad
urlare. Gli strinsi forte la mano, così forte da fargli male, se solo mi
avesse sentito. Ma lui non diede cenni di avermi inteso. Rimase lì,
inerte come una bambola, il respiro sempre più debole, un respiro che,
ad un certo punto, cessò. Cessò, senza il minimo avvertimento,
così, come se non fosse mai esistito. Tijorn era morte, e non mi avrebbe
mai più sentito. In quell’esatto momento, mi avvolse un tale
sudario di dolor, che credetti d’impazzire. Ed urlai: mi permisi di
piangere come mai avevo fatto in vita mia. Ma nulla aveva più senso,
ora. Nulla, fuorché lui. Ma lui era morto. Ed io sarei morta con lui.
Non penso di poter descrivere, di riuscire a descrivere la pena immensa
che mi attanagliò in quel momento, quando vidi Tijorn morto
Non penso
di poter descrivere, di riuscire a descrivere la pena immensa che mi
attanagliò in quel momento, quando vidi Tijorn morto. Immobile, come se
non esistesse davvero, come se fosse solo una bambola. Tijorn. Quel fratellino che, in trecento, maledetti, anni di vita,
era sempre stato una presenza certa della mia esistenza: a volte, certo, un
po’ fastidiosa, una sorta di mia coscienza supplementare, che mi
rammentava dei miei limiti di mortale, molto più spesso un complice di
malefatte, di scherzi, o un confidente. L’unica persona, o quantomeno una
delle poche, capace di prendermi per il verso giusto, abile a capire quando
tenermi con sé, o quando lasciarmi andare. E non esistono parole capaci
di descrivere i sentimenti di una persona colpita da un simile lutto. È
come essere abbandonati all’improvviso da una gamba, da un braccio,
essere allontanati da una parte vitale di se stessi, essere lasciati soli in un
abisso buio e freddo. Vuoto. Bianco. Potrei sprecare pagine e pagine per
descrivere ciò che sentii in quel momento, lo
strappo atroce che si formò tra la mia vita di un tempo, che mi pareva
così dolce, ed innocente, anche nei suoi momenti peggiori, e la vita che
si prospettava senza mio fratello. Ma non posso, non posso ancora. Dopo dieci
anni, il dolore è ancora vivo, e presente, una ferita in cui si butta
continuamente sale. Come essere catapultati in un mondo ostile ed estraneo,
senza istruzione alcuna. Avevo ucciso Chekaril, certo, ma c’era semprestato Tijorn,
per quanto avessi dubitato di lui, con cui parlare, un bastone su cui
appoggiarsi per camminare. Avevo agito in unmodo crudele, disumano. Ma
c’era sempre stato Tijorn, a consolarmi e capirmi. Avevo tentato di
suicidarmi. Ma Tijorn mi aveva accolta, consolata, e fatto capire che
c’era ancora una vita che valeva di vivere, ad aspettarmi. Il mio intero
corpo era per metà coperto da abominevoli cicatrici da ustione, il volto
per metà ridotto ad un ammasso di cera sciolta, la voce trasformata in
un ringhio cupo di belva. Tijorn non aveva mai cambiato il suo modo di porsi
con me, a volte donandomi una carezza, a volte svegliandomi brutalmente
dall’autocommiserazione in cui sprofondavo. Solo altre
due persone che mi conoscevano prima che un incidente orrendo mi
sfigurasse erano state capaci di non prendere a trattarmi come una bambolina
fragile, agendo come se non mi fossi mai ferita, come se quei segni orrendi non
fossero mai esistiti. Junielle, la mezzelfa irrimediabilmente bugiarda, ma mai
con me, eclettica, un po’ pazzoide, vivace, un’attrice nata, che
era o impazzita del tutto, o talmente sconvolta dall’odio da essere
cambiata per sempre. Regis, quell’umano che mi aveva sfidata più
che volentieri ben più di una volta, che mi aveva insegnato molto,
cavaliere e umano insolito, misterioso, pieno d’onore, una leggenda, che
mi aveva umiliata così profondamente al Lazzaretto, per dimostrarmi che
non cambiavo mai, né sarei cambiata. Ma era morto, scomparso, o
così vecchio da essersi rimbambito, dopo cinquant’anni. Tutti gli altri
non mi avevano mai realmente conosciuto. Amarto: un vecchio elfo malato,
annegato nei ricordi di una gioventù che io non conoscevo. Akita: dopo
la morte di Tijorn non sapevo quanto riuscisse a
sopportare. Sperai che resistesse, se non altro per la salute di suo figlio. Se
avesse perso il bambino dopo quella tragedia, ne sarei morta. Mio nipote era
troppo importante per me. Era tutto quello che mi rimaneva, con Nysha e
Manolìa, di mio fratello. I bambini erano bambini. Troppo piccoli per comprendere
la portata di ciò che era successo. Max era solo un Guaritore. Rimaneva
solo Nemys, Nemys, che sicuramente mi avrebbe compresa come mai nessuno, oltre
Tijorn, era riuscito a fare. Ma lei era la Matriarca di un paese che mi odiava.
Solo un giuramento inossidabile sarebbe riuscito a pacificare, o almeno sedare,
gli animi nei confronti miei. E davvero non aveva più importanza, non
m’importava più di legarmi ad Uruk, dopo la morte di mio fratello.
Tutto aveva smesso di avere importanza, tutto aveva smesso di portare vita
dentro di sé. L’avrei fatto, per pura inerzia, puro calcolo. Non
avevo più nulla da perdere, ed ora ero io a dover proteggere gli altri,
non gli altri a proteggere me. Dovevo mettere al sicuro la mia famiglia, per
prima cosa. Ora dovevo accollarmi le responsabilità di capofamiglia che
erano state di Tijorn e che ora, lo sapevo, erano delegate a me. Io, che poco tempo prima avevo cercato di uccidermi. Era quasi buffo
da pensare. Ma, in quel momento esatto, quella mattina di un giorno che per il
resto delle creature viventi, quelle creature innocenti che non avevano mai
sperimentato il vero prezzo della superbia, la punizione che colpisce chi
s’è vantato, o si vanta, quel caro fio di dolore, quel fardello di
colpe e recriminazioni che non sarà mai alleviato, non lo pensavo. Certe
volte, ovviamente, la pena è meno presente. Alcune volte si può
anche far finta di aver dimenticato, di aver superato quello che è
successo. Ma non si tratta che di una maschera, come quella che io avevo indossato per tanti anni. Il ricordo è sempre
lì, in agguato, prontoad assalirti quando meno te lo aspetti,
quando credi di aver vinto. Ed era in quel momento, tuttavia, che la pena era
più cocente, come se mi avessero strappato un dito, una mano, un
braccio. Era anche dolore fisico, un dolore acuto, come una coltellata al
petto, che non riusciva a farmi prendere fiato. Non riuscii a fare altro che
crollare, aggrapparmi a quello che una volta era stato un fratello vivo, pieno
di speranze e di calore da donare, ma che ora era destinato a diventare solo un
mucchio di cenere, crollare, singhiozzando come mai nella mia vita. Non avevo
mai pianto così, mai, nemmeno quando avevo
ucciso Chekaril. non mi rimase altro che quello,
piangere, lamentarmi come se fossi stata ferita a morte, con ululati che non
avevano nulla d’umano, gemiti di un cuore spezzato, quel grido che avevo
trattenuto prima, e che ora poteva uscire con tutta la sua forza. On riuscivo a
capire più nulla. Nulla aveva un significato. Sentivo la mia guancia
posare sulle coperte, le mie mani artigliare il vuoto. Ma era nello stesso
tempo come se nulla esistesse, come se nulla avesse un vero senso. Tutto smise
di avere significato, perfino il tempo stesso. Ore, minuti,
settimane, giorni. Tutto passò, tutto accadde in pochissimo tempo.
Sentii, in un angolo nascosto della mia mente, una porta aprirsi, e qualcuno
precipitarsi verso di me. Era così insensato, così insensato
quell’affannarsi. Tijorn era morto. Ed ora non ci sarebbe stata forza
capace di farlo tornare indietro. Sarebbe stato bello, bellissimo, tornare
indietro nel tempo, tornare indietro ed impedire a mio fratello di agire, di
aggrapparsi a quella coda maledetta per salvarmi. Se solo ci fosse stato un
metodo, l’avrei fatto, e di corsa. Sentii altri singhiozzi, dei gemiti a
stento trattenuti. Ma, nella piccola bolla di dolore che mi ero creata, non
c’era altro che il corpo di mio fratello, inerte, e già meno
caldo, non c’eravamo altro che noi due, le mie urla, i miei singhiozzi
disperati. Sentii il cuore essere sul punto di scoppiare, come se stessi
morendo io, con lui. E non sarebbe stato un male, non mi sarebbe dispiaciuto
morire. Tijorn era morto. Sarebbe stato gusto che fossi morta io, così
oberata dalla colpa, così piena di malvagità commesse. Ma forse
era quella la mia punizione. Veder morire i miei cari senza poterci fare nulla,
vedere la more passarmi accanto, sfiorarmi senza mai
prendermi, facendosi beffe di me, farmi rimanere sola con il mio dolore,
annichilita, incapace di andare avanti. Come avrei potuto proseguire, senza una
guida a rischiararmi la strada? Come avrei potuto continuare il mio cammino,
senza il mio sole a riscaldarmi? Non ce la facevo. Perdere Tijorn era come
perdere un pezzo della mia anima. Era perdere un pezzo intero della mia
esistenza. Non potevo vivere senza di lui. La mia esistenza priva di una luce
sarebbe stato un misero sopravvivere, come una pianta fatta crescere al buio.
Tirare avanti, senza scopi, senza obiettivi alcuni, tranne quello di proteggere
la mia famiglia, o quello che ne restava, proteggerla da altri dolori, impedire
che si sfaldasse irrimediabilmente, come dei petali senza lo stelo a
sostenerli. Era incredibilmente doloroso prendere atto che non ci sarebbe stato
più nessuno a mantenermi, fino a quando non
sarei stata capace di volare di nuovo, nessuno che, in caso di caduta, sarebbe
stato lì, pronto a risollevarmi con carezze e parole ragionevoli, o con
sgridate colossali. Non avrei mai più avuto un punto di riferimento, un
confidente come lui. La mia vita sarebbe stata destabilizzata,
non avrei potuto contare su altri che su me stessa. Impossibile vivere davvero.
Sarebbe stato incredibilmente difficile andare avanti senza di lui- dubitavo di
potercela fare. Sentii qualcuno, lì, riversa su quel letto disfatto,
senza capire più nulla, senza avvertire più nulla che uno strazio
difficile da raccontare, impossibile da raccontare, uno strazio che ancora oggi
permane, sempre presente, una traccia impossibile da lavare via. Qualcuno mi
tirò all’indietro, ed io ebbi una fugace visione di Akita, in
piedi, dal volto così pieno d’orrore, e così pallido, da
far risaltare ogni segno della pelle, ma poi gli occhi si riempirono di nuovo
di lacrime, ed io vidi solo un ammasso confuso di colori. Delle braccia forti
cercarono di staccarmi da mio fratello. Gridai con tutto il fiato che avevo,
presa da un panico incredibile, un urlo belluino, stridulo. No! Non volevo
abbandonare Tijorn, non volevo lasciarlo solo! Volevo stringerlo a me,
così non se ne sarebbe andato, così non mi sarebbe scivolato
più via, ed io sarei rimasta per sempre con lui, una sola cosa con il
mio dolce stupidone, il mio fratellino, brontolone e speciale. Di nuovo quel
freddo dell’anima, terribile ancora di più perché
impossibile da arginare, mi assalì, ed io presi a tremare come presa
dalle convulsioni. Qualcuno mi tenne ferma ed io urlai ancora di
più.Qualcuno parlò,
parole che io non compresi. Sentii una boccetta, piena di qualcosa
dall’odore pesante e speziato, avvicinarsi alle mie labbra. Chi mi teneva
mi strinse ancora più forte. Serrai le labbra, e chiusi gli occhi,
dibattendomi come una pazza. Volevo raggiungere Tijorn, raggiungerlo e
abbracciarlo, rimanere con lui fino alla fine, anche se non lo sopportavo. Non
volevo dormire: perché sapevo che quello che mi volevano dare era un
sonnifero, o quantomeno un potente calmante, per stordirmi, per aiutarmi ad
accettare, almeno un po’, il lutto tremendo. Io non volevo dormire:
volevo stare vicino a mio fratello per sempre. Quasi non riuscii a muovermi.
Gridai, di nuovo, un miagolio tremendo, di bestia ferita a morte. Quel qualcuno
approfittò di quel momento per buttarmi qualcosa di gola, un liquido
amaro e freddo, che mi ricordò il sapore che avevo ogni giorno in bocca quando ero ferita. Calmante. Inavvertitamente, lo
inghiottii. Quell’orrendo sapore scivolò in gola. Mi avevano
giocata. “no…”. Mormorai, ma già il torpore si stava
impadronendo di me. Cominciai a non comprendere quello che mi stava accadendo
intorno. La vista tremolò, e si spense. Scivolai in men che non si dica in un buio infinito, buio, freddo e vuoto come quello
che sentivo in me.
Quando mi
svegliai, era pomeriggio inoltrato. Ero stesa su di una poltrona in quella che
aveva l’aria di essere un’anticamera, una piccola stanzetta buia,
con due porte, e c’era qualcuno accanto a me. Sentivo provenire, da
dentro, singhiozzi sporadici, e qualcuno mormorare. Mi sentivo ancora molto
stordita, segno che il calmante era ancora attivo. Il dolore per Tijorn mi
appariva lontano, irreale, come se non mi colpisse davvero, come se fosse tutto
un sogno. Non mi feci domande, né sentii la sofferenza che mi aspettavo
di sentire. I pensieri erano confusi, ovattati, come se non arrivassero
realmente alla loro destinazione. Cercai di mettermi seduta, ma un lieve
giramento di testa me lo impedì. Non riuscivo a ricordare tutto quello
che era successo. Quel qualcuno che era accanto a me si mosse subito, e mi mise
una mano sulla spalla. Una cascata di capelli rossi scese a solleticarmi il
viso. Era Capouille, pallido e piuttosto afflitto. “fa-fa-fate
pi-piano, si-signo-signorina…”. Disse, balbettando più del
solito, facendomi mettere seduta, cingendomi la vita per non cadere. Balbettava
più del solito, segno che era parecchio agitato. Lo guardai con un misto
di curiosità, e vago dolore. Tijorn era morto. Già. Era strano,
pensarlo. Sentii qualcosa sulle labbra, qualcosa di duro, piatto e freddo, ed
abbassai lo sguardo, verso un calice pieno di un liquido profumato, che
Capouille mi porgeva teneramente. Non era l’orribile odore intenso del
sonnifero. Sembrava più un aroma di fiori. Mi piacque molto, anche se
non riuscivo acapire
a cosa servisse. Guardai interrogativa la Guardia, che sorrise dolcemente.
“va tu-tutto bene…”. Mi disse, carezzandomi, con la mano del
braccio con cui mi teneva, i capelli. “be-bevete che vi….vi…vi
se-sentirete me-meglio”. Gli obbedii docilmente. Magari quel mal di testa
pulsante, persistente, come se dovessi ricordare qualcosa che mi sfuggiva, se
ne sarebbe andato. Aveva un buon sapore, denso, agrodolce, dissetante. Il
dolore dietro gli occhi scomparve quasi subito, ed io mi sentii piuttosto
lucida. Cominciai a ricordare ciò che era successo, e provai un senso
strano di nausea, anche se c’era sempre qualcosa che la teneva a bada.
Tijorn. Tijorn. Morto. Defunto. Freddo. Bianco. La sofferenza era meno
lancinante di prima, ma c’era, c’era
sempre, come il dolore per la perdita di un arto fantasma. Probabilmente,
quello che Capouille mi aveva fatto bere era un calmante leggero, che mi
avrebbe permesso di sopportare la veglia. Cominciai a ragionare un po’
meglio. Mi sentivo abbastanza lucida per non dare di matto di nuovo, come avevo
fatto prima. Mi assalì un disagio incredibile. Probabilmente, a
quell’ora, mio fratello era già stato composto, pronto per la
veglia, e per poi essere cremato, come era usanza tra le Spie. Non sopportai
l’idea non poter più vedere il mio pazzo preferito. Dovevo almeno
andare un po’ di là, a fargli compagnia. Anche se non mi poteva
vedere, anche se non mi poteva sentire. Mi aggrappai alla Guardia, un senso
vago di disperazione. Ringraziai il calmante, che mi permetteva di essere un
po’ più lucida, che mi permetteva di ragionare, di non essere
presa dal dolore più acuto mai provato in vita mia. Capouille mi
guardò, pietoso. “voglio andare da Tijorn”. Mormorai, come
ipnotizzata, cercando nuovamente di alzarmi, di nuovo presa
da quel giramento che per poco non mi fece cadere. La Guardia sorrise di nuovo,
e, come se non pesassi nulla, come se fossi solo un fuscello, mi ritrovai
trasportata a braccia. Ero troppo bassa per poter essere solo aiutata: la
differenza, tra me e la smilza Guardia, era troppa. Sentii un colpo al cuore,
attenuato ma sempre presente, quando entrammo nella piccola stanzetta, e
digrignai i denti, cercando di resistere al dolore, che, nonostante il calmante
leggero, minacciava di sopraffarmi. Tijorn era stato sistemato su un lettino,
vestito con gli abiti scuri con cui era partito dall’Altrove con noi, e
sembrava dormire. L’avevano pettinato, pettinato i suoi lunghi,
fantastici capelli, neri come i miei, e li avevano legati in una coda, la sua
solita coda ordinata. Era pallido, bianco come me l’ero sempre
immaginato. E gli occhi, quegli occhi che tante volte mi avevano rimproverata,
consolata, guardata con attenzione, sarcasmo, divertimento, affetto, erano chiusi,
e non si sarebbero mai più riaperti. Mi mori il labbro fino a farlo
sanguinare, fino a riaprire le ferite che mi ero procurata prima ,e distolsi lo sguardo da quello spettacolo che minacciava
di farmi impazzire. Mi guardai quindi intorno. Tutti si erano accorti del mio arrivo, ma nessun pareva farci caso più di tanto.
C’era Max, che aveva un’aria amareggiata, e piuttosto avvilita,
assieme ad una pensierosa Junielle, sempre quello sguardo ostile in volto, quel
lampo d’odio, che guardava il vuoto, corrucciata. C’era Amarto,
l’aria di un uomo che ha passato mille e mille anni di tormenti, e
perfino i piccini, con un’aria così spaventata in volto da
sembrare quattro pulcini bagnati, tutti raccolti attorno al mio Maestro. Roxen
e Chekaril stringevano i loro pupazzi che, chissà come, erano riusciti a
salvare da Lainay, mentre Manolìa e Nysha si tenevano abbracciate. Della
nostra compagnia, mancava solo Akita. Povera piccola. Pensai che
l’avessero sedata. Non ce l’avrebbe mai
fatta, fragile com’era, a vedere il suo compagno morto. Poi sobbalzai,
presa di sorpresa. Nell’angolo più discosto, seduti su semplici
sgabelli come tutti, c’erano Benagi, Zipherias, il primo calmo, il
secondo sempre lievemente annoiato, come se quella fosse una scena risaputa, e
poi, cosa che mi face morire silenziosamente, Isnark con Nemys. Il primo, al
mio ingesso, mi aveva guardato con un volto iroso, le cicatrici che gli avevo
lasciato sulla guancia che scintillavano alla luce del sole, aveva fatto una
smorfia e si era girato dall’altro lato, facendo come se non esistessi.
Doveva ancora avercela a morte con me. La Matriarca, invece, che sembrava aver
pianto di recente, gli occhi azzurri un po’ rossi ,e
gonfi, si era alzata di scatto. Non reagii a nessuna delle reazioni. Non ne
avevo la forza. Il volto di Nemys espresse, ad un certo punto, confusione, poi
pietà, poi ancora dolore. Capivo come si sentiva, perfettamente. In
fondo, Tijorn era anche suo fratello. Guardai altrove. Non avevo il coraggio di
fissare nessun altro. Capouille mi fece così sedere su uno sgabello tra
Amarto e Nemys, accanto al letto dove era posato Tijorn, dove io quasi mi
accasciai. La mano forte ed asciutta di Amarto, e quella sottile e morbida di
Nemys mi fermarono giusto in tempo, prendendomi per le spalle. Mi lasciai
così, nel silenzio tombale della veglia, andare a strane associazioni
d’idee, come quelle che si fanno prima di
addormentarsi. Ebbi un’idea, così, improvvisa. Nemys. Dovevo
legarmi a lei, per sempre. Anzi, cosa migliore: legarmi al Matriarcato. Avrei
guadagnato la fiducia di tutti. Volevo farlo. Mi sentii pronta per quella
decisione. Potevo fidarmi di Nemys. Ebbi, in un lampo, l’idea esatta di
cosa fare. M’immaginai l’abito viola, l’abito che avrei
indossato, e che poi sarebbe diventata la mia livrea. Ben presto, tutti i
tasselli del piano andarono al loro posto. Fissai, come in un sogno, la mano
abbandonata di mio fratello, e, presa da una strana, distante frenesia, mi
allungai per toccarla. Per un attimo quasi credetti si
fosse mossa, e dentro di me sentii il cuore in gola. Sarebbe stato buffo, se
fosse stato così. Tijorn redivivo, che si alzava e diceva di stare bene,
che si era sentito malissimo per un po’, ma ora era pronto per vivere
ancora. Invece nulla. Rabbrividii quando sentii la
mano di Tijorn, fredda, rigida e cedevole allo stesso tempo, abbandonata
lì. Cosa morta ed inanimata. Rabbrividii, presa da un orrore indicibile,
e, con le lacrime agli occhi, ritirai la mano. Non ebbi più il coraggio
di sfiorarlo. Avrei fatto i paragoni con lui vivo, la sua mano sicura e calda,
la sua stretta forte, ed avrei pianto, nonostante il calmante frenasse di molto
il dolore. Sperai ardentemente che non lo ricordassi così, muto, freddo,
morto, quel colorito così orribile, quell’aspetto di abbandono finale
che mi faceva rizzare i capelli. Ora so che i ricordi di luce che ho sono
troppo forti per lasciare che il ricordo di lui si offuschi in quel modo.
Trecento anni non sono noccioline. Aprii la bocca. Dovevo solo chiedere a Nemys
una cosa. La voce m uscì strana, distorta, sussurrata, lei si
chinò verso di me per sentire. “Nemys…”. Mormorai,
abbassando lo sguardo sul pavimento bianco. “dopo il funerale…
voglio aspettare la Notte. Domani mattina…voglio legarmi a te, a tutti
voi”. Un abito viola, una spada, un giuramento che mi avrebbe legata a
vita, robache
faceva sembrare il giuramento delle Spie cose da infanti. Sapevo cosa fare.
Sentii lei fremere, e guardarmi con ansia. Abbassai ancora di più il
tono di voce, affinché solo li mi sentisse.
“voglio essere Ch’argon”. Una sola parola, abbastanza per descrivere quello che stavo per fare, il passo tremendo
che stavo per compiere. Una parola che significa, nella nostra lingua, non
letteralmente, il messo. Quello per
divenire Ch’argon di un Regno e’ una procedura complessa, che richiede
la massima buonafede, e la massima buona volontà. Legata al Matriarcato,
per il suo benessere, fino alla fine. E con esso sarei
caduta, se solo esso l’avrebbe fatto. Il più fedele, non al
sovrano, ma al benessere di tutti. E’ un titolo che permette atroci restrizioni, ma maggiore libertà. Permette di
giudicare un sovrano, se è tiranno o meno. Permette di essergli fedele,
o complottargli contro. Tutto per la libertà del regno a cui si appartiene. Non sono fanatici, i Ch’argonai,
i messi. Sono più che altro un giudice sopra ogni parte, dalla mente
solida, e dalle idee chiare. Si distinguono per gli abiti color porpora, e
l’intero ordine è il Porporato. Fregiarsi di quel titolo
equivaleva a cambiare una vita, senza possibilità di scampo. Ed io ero
disposta a legarmi così ad un territorio. Non avevo nulla da perdere.
Tutti mi avrebbero creduto, dal momento in cui mi sarei legata in poi. Ero
disposta a fare un simile paso. Era l’unico metodo per proteggere la mia
famiglia. Non potevo essere libera. Ma potevo lavorare contro quella che mi aveva tolto ogni libertà, che aveva
ucciso i miei affetti, che mi aveva ferita. Ero disposta a mettere in gioco la
mai stessa vita, per quello. Sentii Nemys tremare, e la stretta si fece
più forte. “Lsyn…” bisbigliò, piena di paura.
“ne sei sicura? Non penso sia il momento di decidere, sei
confusa…”. La zitti con un gesto, e
la guardai male. Niente confusione. Ero un po’ stordita, ma sapevo quello
che facevo. Avevo preso una decisione. Come aveva detto Benagi, non potevo rimanere
rintanata nei Lazzaretti a vita. Dovevo prendere una decisione. E, senza
Tijorn, senza il mio sole, quella era l’unica direzione. Direzione
obbligata, direi. Lei abbassò lo sguardo sotto il mio. “stasera
prepareremo tutto”. Disse, per poi allontanarsi. Sembrò aver
capito. Sentii una vaga soddisfazione, un sentimento che non provavo da un bel
po’. Avrei vegliato una notte, con il mio Compare, che magari sarebbe
stato lei,poi
sarei divenuta un’altra persona. Lo dovevo. Lo dovevo a tutti, a Tijorn,
ad Akita, per la salvezza sua e del suo piccolo. Lo dovevo ad Amarto, ai miei
piccoli. Non mi pareva una decisione affrettata. Forse covava già in me
da un po’, solo che non me n’ero mai accorta. Tutto per contrastare
il Regno, e le sue manie d’espansione. Tutto per contrastare quella pazza
che aveva contrastato la mia vita. Un po’ più pacificata, con
l’impressione di aver messo a posto un bel po’ di cose nella mia
vita, ripresi a fissare Tijorn, per quello che mi parve un tempo indefinito. E
tutto smise di avere significato, ancora una volta. Nemys bisbigliò
qualcosa, ma io quasi non la sentii. Non so quanto rimasi così, con quel
rumore nell’orecchio. Ero troppo occupata a fissare il volto pallido di
mio fratello, ricordando quand’era animato, quando mi sorrideva, quando
giocava e scherzava, quando soffriva. C’era un vago sorriso sul suo volto
morto. O forse era solo la mia immaginazione. Era un bel sorriso, un sorriso
sereno, di una persona pacificata. Mi avrebbe stroncata dal dolore, se solo non
ci fosse stato quel benedetto calmante. Sembrava quasi dire che si fidava delle
persone che erano rimaste, che tutto sarebbe andato per il meglio. Ma come
poteva andare tutto bene, se lui non c’era più? Ricacciai le
lacrime, che minacciavano di scendere, lontano. Non dovevo piangere. Non in
quel momento. dovevo essere forte, dovevo mostrarmi
forte, per quelli che mi attorniavano. Ad un certo punto, qualcuno mi diede una
gomitata, che mi face sobbalzare. Ero stata così presa nei miei pensieri
da non accorgermi che Nemys mi stava chiamando. Ecco cos’era quel
bisbiglio… interrogativa, la guardai. Mi stava porgendo qualcosa, con
aria immensamente afflitta. Sembrava un foglio di carta piegato. Su uno dei
lati c’era scritto il mio nome, con una calligrafia familiare. Una calligrafia
rotondeggiante e molto calcata. Mi mancò il respiro. Quella era la
calligrafia di Tijorn. Ricordai in un attimo le sue ultime parole. Qualcuno
doveva aver trovato nel mantello, che ora indossava, quello che avrei dovuto
trovare io. Doveva aver messo tutto molto in vista, per dare a
tutti la possibilità di vederlo. Chissà chi l’aveva
trovato. Sentii di tremare. Quella era una lettera. Una lettera indirizzata a
me. Con uno scatto, la presi dalle mani della mia Rinnegata, che ancora mi
teneva per una spalla, e l’aprii. C’era un’intera pagina di
pergamena, strappata chissà dove, fitta della sua scrittura.Tremavo a tal punto, che qualcuno mi carezzò,
rassicurante. Mi avvolse, all’improvviso, un profumo che avevo imparato
ad associare a Tijorn. Carta nuova, ed inchiostro. Sentii un fiotto di calore
all’altezza del cuore. Fu come se Tijorn fosse lì, e mi stesse
parlando. Come se mi stesse abbracciando, e consolando. Tremante, cominciai a
leggere. Le parole di mio fratello, la sua cadenza frizzante e profonda, mi
riempirono la mente. Mi sembrò per un attimo di averlo davanti, non il
cadavere muto, ma l’elfo vivo e felice di qualche tempo prima, tempi che
mi sembravano secoli. Ho ancora la lettere, e qualche
volta la leggo, e la annuso, per non dimenticare mio fratello, per rinfrescarmi
un po’ la memoria. E’ bello. Come se Tijorn fosse con me, ogni
volta. Forse non se n’è mai andato davvero. Il suo spirito aleggia
intorno a noi, per proteggerci e guidarci.Voglio riportare qui ciò che scrisse, perché quelle ultime
parole vergate di suo pugno ancora mi commuovono, e sono il ricordo più
tangibile che ho di lui.
Nanetta
mia, mia dolce sorellina, piccola Lsyn;
Si, lo
so, cominciare in questo modo è incredibilmente fastidioso. Mi sa di
già detto, mille e mille volte. Però, sai, non trovo altre parole
per dirlo.
Se stai
leggendo questo, sarò sicuramente morto (spero in un modo poco doloroso, ma, sai, non ci conto tanto. In quanto a fortuna
siamo proprio fratelli).
Scontato,
eh?
Ecco. Non
sono mai stato molto bravo con le parole.
Non
chiamarmi oracolo, ma me l’aspettavo. Non poteva andarmi tutto
così liscio. Diciamo che avevo fondati motivi
per sospettare quello che poi è successo (come è successo non
m’importa, né m’importerà sicuramente quando
sarò defunto…tanto…sarò defunto, no?).
Avrei preferito
che a schiattare fosse stata Lainay, o quel pazzo
furioso di Jalim….ma non tutto può andare
bene nella vita, non credi?
Ora, ti sei
sicuramente chiesta come io faccia a fare dello spirito sulla mia morte.
Preferisco
divertirmi, farci battute su, fare sorridere te e gli altri, piuttosto che fare
la vittima. Se sono morto, sicuramente così doveva andare. In caso
contrario, brucerò queste lettere quanto prima,
e ti dirò certe cose a voce.
Lsyn, ti
supplico, non piangere per me. Lo so, so quanto è difficile, ti conosco
abbastanza bene. Ma, ti supplico, vivi una vita tutta tua. Ti è stata
rubata sempre, tutti non hanno fatto altro che prenderti in giro.
Non ho mai
sopportato di vederti piangere, Lsyn, ed ogni tuo singhiozzo era per me un
colpo al cuore. Vivi, Lsyn. Non morire per me.
Sei sempre
stata la sorella che ho sempre voluto, vedere te era come vedere me stesso.
Ti voglio
bene, ti ho voluto sempre bene. Quando ti ho visto andartene, ferita nel corpo
e nello spirito, andartene per cinquant’anni, mi sono disperato.
Come avrei
fatto senza la mia Nana preferita?
Piano
piano, però, ho capito una cosa. Sei mia sorella, Lsyn, se non di
sangue,legata
a me in mille altri modi, ben più profondi.
Io mi fido
di te. Mi sono sempre fidato.
Ci siamo
sempre fidati l’uno dell’altra, no?
Quando ti
ho vista arrivare, ferita, impazzita dal dolore, allora davvero ho temuto per
te. Ma ora, come sei ora, la vecchia Lsyn, senza nemmeno più
quell’orribile maschera che celava il tuo bel viso al mondo
(perché quelle cicatrici non contano un accidenti. Sarai sempre la
più bella. Dopo Akita, s’intende), posso davvero sperare, contare
su di te come facevo prima e coem ho fatto sempre.
Ti chiedo
solo un favore, piccola.
Ti chiedo
solamente di vegliare su Akita, la mia dolce Akita, e su mio figlio. Avrei
voluto passare molto più tempo con loro due, ma non ho potuto. La cosa
mi provoca un dolore immenso, ma cerco di non pensarci. Almeno, qualcosa di me
resterà in questo mondo.
Mio figlio.
Mio figlio. Sembra strano dirlo, non credi? Io ancora non mi ci sono abituato,
all’idea, né mi abituerò mai. Qualche volta, al buio,
sussurro queste due parole. Hanno un suono particolare, sanno di cannella e
cioccolato.
Non vedo l’ora
di stringerlo fra le braccia, di coccolarlo, d’insegnargli a fare i
dispetti alla sua zia nana.
In caso
sono morto, Lsyn, non vi azzardate a dargli il mio nome, in caso sia maschio.
Fai scegliere Akita (lei sa cosa deve fare…gliel’ho scritto, no?),
e scegli anche tu. Non voglio che mio figlio sia considerato come una mia
continuazione (perché, se sarà, malauguratamente, un misto tra la
madre e la zia…allora il mio nome sarà irrimediabilmente infangato!),
non voglio che segua i miei passi.
Ho commesso
una caterva di errori, Lsyn. So che protesterai a queste parole. Ma sono sicuro
che mi capirai.
Sono stato
cieco, e sordo, e non ti ho costretta a fuggire quando
potevamo.
Chekaril…ho
sempre schifato quell’elfo. Come poteva, accidenti, stare con te quando le sue tresche erano pubbliche, visibili al mondo
intero? Come ha potuto avere un figlio da te, quella bellissima bambina, la
piccola Roxen, il mio piccolo tesoro, che ti prego di viziare quanto più
puoi da parte del suo zietto preferito? Come? Come ho potuto
non accorgermi di nulla, lasciare che soffrissi senza indagare?
Dico: perché
non mi sono mai accorto di nulla? Perché non mi hai confidato mai nulla?
Non voglio
incolparti di niente, Lsyn. Non conosco tutta la storia, né voglio
conoscerla. Mi è bastato vedere i tuoi capelli, e quello squarcio che
hai sulla pancia per capire la tua sofferenza.
Ora guardo
fuor dalle finestre dell’Altrove, Lsyn, nella stanza che condivido con
Akita, e mi sento tremendamente in colpa. In colpa, perché non ho saputo
proteggerti da tutto il male del mondo, quel male che ha tramato contro di te,
che ti ha fatto tanto soffrire.
Non ho
saputo proteggere nessuno.
Né Akita,
né Amarto, né te, né le mie piccole allieve gemelle. E nemmeno
il piccolo.
Ho fallito,
e la cosa mi fa soffrire.
Ti prego,
Lsyn, ora che sono morto, e ti sto parlando solo attraverso uno stupido pezzo
di carta, fallo per me.
Proteggili.
Veglia su di loro.
So di
chiederti troppo, so che ora come ora non riuscirai a fare nulla, ma, ti prego,
guarisci, e veglia anche su te stessa.
Io veglierò
su di voi, su di te, per quanto mi sia possibile. Se sono
vivo…beh.
Farò
leggere queste lettere che scrivo, qui, prima di partire per un viaggio che
forse mi costerà caro, forse no, a me stesso. E mi farò quattro
risate, mentre le brucerò. Perché, in caso sono vivo…ho
tutta l’intenzione di proteggervi, appiccicoso come
quei dolci che preparavamo in autunno.
Ho tutta l’intenzione
di diventare un grasso, pigro padre di famiglia, oppure un buon maestro d’armi.
Mi piacerebbe insegnare ai giovani come difendersi. Che dici, Lsyn? Ci mettiamo
in affari assieme?
Ah, beate
illusioni. Questo castello è una trappola. Uscirne vivi sarà un
miracolo.
Ieri notte,
Lsyn, ho sentito degli strani rumori, rumori che non mi sono piaciuti.
Conosco la
creatura che li provoca, e, se le mie supposizioni sono giuste…siamo
fregati.
Non so se
quel coso sia al servizio di Lainay, anche se non
credo, o se questo sia il suo territorio di caccia.
In ogni
caso, sappi che vi proteggerò come mai ho fatto in tutta la mia vita.
Non permetterò
ad un mostriciattolo di ferire qualcuno di voi, anche a costo di morire.
Bah. Ho il
netto presentimento che sarà proprio lui la causa della mia dipartita
verso luoghi più ameni, eh?
Pazienza. Avrò
salvato tutti voi, almeno.
Ora stiamo
per partire, Lsyn. Akita si sta svegliando, e tra poco scenderemo da te.
Non so cosa
succederà, né come. Perciò ho scritto queste lettere, per
tutti voi, e le metterò in un posto dove chiunque le può trovare,
e leggere.
Ah, un’ultima
cosa. Non azzardare a tentare di nuovo il suicidio o vengo dall’aldilà
e ti strozzo io, di persona. Già una volta è stato sufficiente.
Ti voglio
bene, Lsyn. Sarai sempre nel mio cuore, nel mio spirito, nella mia anima, nei
miei pensieri.
Sorellina mia,
mia piccola nana, la mia complice preferita, la mia pazza.
Qui ci
salutiamo, ma non sarà l’ultima volta. Questa lettera è
sempre qui, per rinfrancarti. Leggila quanto vuoi.
Abbi cura
di te, e di tuo nipote. Lui o lei è me, in un certo senso.
Riguardati,
e cerca di far ragionare Akita, ed Amarto. Il Maestro ha bisogno di essere
amato. Tienilo lontano dalle bottiglie.
Cerca di
non farti ammazzare da Junielle. L’ho vista strana, negli ultimi tempi.
Fidati di
Max. Cerca di non ammazzare lui.
Ti voglio
bene, Lsyn. Non so come finire altrimenti.
Ecco. Preferisco
staccare qui, altrimenti finirò per commuovermi.
Fa strano
sentirsi di morire, eh?
Non dare
colpi di testa, anche se so che è inutile dirtelo. Sei peggio di un muro
di ferro. Pazienza.
Sarò
sempre nel tuo cuore.
Tijorn.
(l’ho
già detto che sei la mia Nana preferita, vero?)
Sulle
ultime parole, non resistetti. Un paio di lacrime, calde e salate, scivolarono
dai miei occhi, per finire sulla carta. Mi morsi le labbra. Il mio stupidone. Amarto
mi strinse forte la spalla. “le ha scritte a tutti noi…”. Disse,
con una voce spezzata, chiudendo gli occhi ciechi. Deglutii, sentendomi
afferrare da un dolore incredibile. Vidi le ultime parole sbavarsi, inumidite
dal mio pianto. E strinsi forte la lettera. Il mio fratellino. Il mio dolce
fratellino. Strinsi a me quello stupido foglietto di carta, insignificante, ma
così pieno di significato nel tempo stesso, prezioso e dozzinale. Quante
cose Tijorn sapeva, Tijorn aveva capito? Quante cose avrebbe saputo? Con un
movimento repentino, strinsi a me quel foglio stropicciato. Quasi mi parve di
abbracciare mio fratello. Quell’inerte foglio era l’ultima prova
tangibile della sua esistenza. Quel cadavere freddo non importava. Quello non
era Tijorn. Era solo una sua larva, sfiancata dalla sofferenza di una
setticemia. Il vero Tijorn, sarcastico, puro e vero, il mio eroe preferito, era
lì, in quella lettera. Quella lettera tutta per me. “anch’io
ti voglio bene, Tijorn”. Mormorai, le lacrime agli occhi. E poi nemmeno il
sedativo m’impedì di piangere, di sfogare tutto il dolore che
avevo dentro. Perché Tijorn era morto. Mi sarebbe mancato da morire.
Il funerale ebbe luogo al tramonto, quasi a sera, dopo le consuete,
tradizionali, dodici ore di veglia
Il
funerale ebbe luogo al tramonto, quasi a sera, dopo le consuete, tradizionali,
dodici ore di veglia. Era consuetudine delle Spie: sebbene non fossimo
più tali, Tijorn non aveva diritto ad una cerimonia religiosa che pure,
a quanto avevo arguito, e da quanto ne sapevo, non era tanto dissimile, solo
più lunghe. Come avrò già detto più di una volta,
l’addestramento di Spia non prevede indottrinamento religioso di sorta,
anzi: eravamo stati spinti a disprezzare ogni tipo di religione, a crederle
solo buone per il popolo, per le masse incompetenti. Toccando storie ed usanze
di altri popoli, senza divieto di approfondimento alcuno, essere abituate ad un
credo, per le Spie, può essere estremamente pericoloso per la
stabilità dell’ordine stesso. E’ facile disprezzare tutte le
religioni, non essere tentati da altri credi che non siano collegati alla
fedeltà, alla materialità, alla vita vista come continua
conquista, quando fin da piccoli viene insegnato che appartenere ad una
religione vuol dire solo essere vittime di pregiudizi che possono compromettere
l’esistenza stessa. Le dispute vanno bene per le masse e quei bruti
contadini che sono i sacerdoti. Così mi è stato insegnato, ed in
questo credo tuttora. E’ facile non sentire la mancanza di una cosa, se
non la si è mai avuta. Una pratica semplice, ma efficace, che tutti i
sovrani adottano. Nemys mi aveva confidato che c’era stata una piccola
disputa tra lei ed Isnark, in questo proposito. Erano stati loro a decider il
tutto, in mancanza di me, troppo stordita per poter fare una cosa del genere,
una preparazione che non mi sarei mai sentita di fare. Il principe avrebbe
voluto una cerimonia solenne, degna di un alto dignitario o di un re, ma la
stessa mia Rinnegata si era fermamente opposta, nonostante fosse una fervente
fedele del loro dio. Conosceva il mio modo di pensare, e sapeva che una cosa
del genere non sarebbe piaciuta né a me, né a Tijorn, se solo
avesse potuto esprimere le propria opinione, né al nostro piccolo
gruppo. Avevano quindi ripiegato su una cerimonia antica come quella delle
Spie, un ordine a cui, in fondo, eravamo da sempre appartenuti, lievemente
edulcorata, sfrondata da tutte quelle assurdità ideologiche a cui
eravamo sempre stati insofferenti, degno retaggio di un Maestro come Amarto.
Rimanemmo così per tutta la veglia, io mano nella mano con Amarto, che
sembrava quasi aggrapparsi a me come se fossi un’ancora di salvezza in
mezzo al mare in tempesta, e Nemys, che sembrava sorreggere me. Anche lei era
addolorata per tutto quello che stava succedendo, glielo leggevo negli occhi
chiari, che mi guardavano con compassione infinita, e tanta, tanta
partecipazione. In fondo, anche lei aveva tanti ricordi di Tijorn, lo ricordava
bene quanto me, e sapeva benissimo cosa stessi passando. Forse, chissà,
anche lei soffriva. Difficile non farlo quando si hanno tante rimembranze di
una persona magnifica quanto il mio dolce stupidone. Io non riuscii a fissarlo,
non riuscivo a guardarlo. Feci così scorrere il mio sguardo sui
presenti. C’erano davvero tutti, tutti quelli che, fino a quel momento,
avevo incontrato nel Matriarcato. Mancava solo Akita, che, poverina, doveva
stare ancora male. Ricordavo ancora fin troppo bene quando lei mi aveva
confidato di non riuscire a fare un passo senza il suo compagno. Chissà
quanti di loro erano stati drogati, di volontà o a forza, per sopportare
quella veglia,che era sempre dolorosa. C’era Isnark, che faceva finta io
non esistessi, Benagi, che mi fissava ancora ostile, Capouille, che sembrava
scrutarmi con preoccupazione. Addirittura c’era Zipherias, poco lontano
da me, all’apparenza tranquillo e lievemente, cinicamente annoiato come
suo solito. L’avevo sorpreso, tuttavia, un paio di volte, a guardare
dalla mia parte, uno sguardo strano in quegli insoliti occhi color
dell’oro. Sembrava quasi interessato, lievemente preoccupato, come se si
aspettasse chissà quale reazione da parte mia. C’era tutto il mio
gruppo di sopravvissuti, esclusa la mia povera amica, che, a quanto pareva,
aveva avuto un crollo nervoso poco prima che mi svegliassi, ed ora la tenevano
sotto controllo, sparando che, dopo tutto quel trambusto, non succedesse nulla
d’irreparabile al piccolo. E poi c’era io, la piccola,
insignificante Lsyn, un’elfa come tante, un’elfa che stava per
sovvertire la sua stessa esistenza, legandosi, senza possibilità di
scampo, ad un regno di cui fino a poco tempo prima era stata ferocemente
nemica. In quanto a logica non mi batteva nessuno. Una piccola elfa, resa
orrenda da tante cicatrici che le straziavano il corpo, bassa e molto magra, in
disordine, sporca, afflitta, stordita da un sedativo che svolgeva il suo
compito alla perfezione. E c’era Tijorn, il vero protagonista di tutta
quella messinscena. Rubava a tutti la scena, con quella sua presenza
silenziosa, catalizzava l’attenzione come solo un attore sa fare. Eppure
lui non stava fingendo. Era morto, davvero. Non so cosa mi spinse a fare quei
pensieri a dir poco strani. Forse fu la stanchezza, forse il calmante che,
nonostante tutto, era una droga. Dimenticai presto quelle stanche elucubrazioni.
Sprofondai in un grigiore assoluto, in un nulla piacevole, che allontanava
tutti i pensieri, che li rendeva meno appuntiti, che smussava ogni spigolo.
Guardavo il lembo di coperta davanti a me come se fosse la cosa più
interessante del mondo. lo guardai finché non smise di avere senso,
finché non fu altro che un ammasso di tessuto dai colori neutri. Ma non
volevo vedere Tijorn. Non ce l’avrei fatta. Qualcuno, ad un certo
momento, mi mise in mano un altro calice pieno di quella roba profumata. Lo
mandai giù senza una parola, inerte, incosciente. Ben presto fui di
nuovo avvolta da quella calma innaturale, che mi permetteva di superare quella
giornata quasi indenne, come se in realtà non fosse successo nulla. La
luce, dalle finestre aperte, che davano sul placido giardino interno del
Lazzaretto, immerso nella sonnacchiosa quiete estiva, cambiò, mano a
mano che il tempo passava. Quasi non mi accorsi del suo trascorrere, inerte e
senza coscienza alcuna, incapace di svegliarmi, di darmi una mossa. Non sobbalzai
nemmeno quando, silenziosamente, entrarono due giovani, uno dei quali era
Torterio, che ancora non avevo capito che mansione svolgesse, visto che era
sempre dappertutto, come se si potesse sdoppiare o triplicare, con aria
intimidita. Entrambi evitarono di far posare lo sguardo verso di me, o Tijorn.
Il giovane elfo che conoscevo si rivolse a Nemys ed Isnark, al mio fianco,
facendosi avanti, mentre l’altro rimase un po’ discosto, portando
qualcosa. Fece un buffo inchino, reso ancora più strano dalla sua
goffaggine. “miei signori…”. Bisbigliò, fissando a
terra. “è tutto pronto”. Il principe, quell’elfo che
avevo tentato di uccidere, annuì bruscamente, un atteggiamento che non
gli avevo mai visto, mentre Nemys
mi cinse la vita, stringendomi forte, guardandomi per un attimo con incredibile
affetto, un affetto che mi rassicurò, e mi diede la forza di sopportare
quello che sarebbe successo in seguito. “bene”. Sussurrò
Isnark, stringendo le labbra, stranamente rigido. Mi sentii afferrare da una
coltre di apprensione. “portatela dentro”. A quelle parole, Amarto
prese a singhiozzare senza ritegno alcuno, e mi lasciò andare. Povero
Maestro mio. Sicuramente, per come lo conoscevo io, non aveva preso nulla per
attenuare il dolore di quel lutto tremendo. Con la coda dell’occhio, lo
vidi stringere Manolìa e Nysha, che guardavano la scena, senza capire,
con lo stesso sguardo attonito di Roxen e Chekaril. capii subito cosa volessero
dire tutti con quello strano sguardo quando vidi una barella entrare. Mi
assalì un senso di freddo acuto, terrificante, e sentii un conato. Tra
poco tempo, uno schiocco di dita, mio fratello non sarebbe stato altro che
cenere, cenere e polvere con cui nutrire la terra. Sentii Nemys stringermi
ancora di più, e poi alzarsi, con me al seguito. Non riuscii ad oppormi.
Le gambe non mi reggevano, e non avevo più forze di un gattino.
Ricominciai a tremare follemente. Non volevo vedere quello che stava per
accadere. “su, ragnetto, su, non tremare…”. Mi disse la
Rinnegata, stringendomi forte, posando il suo viso sul mio capo. Io chiusi gli
occhi, li serrai. Non volevo vedere. Non volevo vedere quello chetava per
accadere. Qualcuno cominciò a trascinarmi fuori. Non mi opposi. Fui
anzi, molto felice che qualcuno mi stesse allontanando da lì. “lo
so, lo so che è difficile…bambini”. Disse poi, rivolgendosi
evidentemente ai piccoli, che forse stavano ancora vicino a noi due. Sentii un
fruscio, e premetti il mio capo contro la Rinnegata, come una bambina
spaventata. E tale mi sentivo. Tale ero. “su forza, venite con
noi…c’è Dae che vi aspetta fuori… ora che avete
salutato per bene lo zio Tijorn dovete andare con lei, su…”. Sapevo
che i piccoli non si sarebbero fatti pregare più di una volta. Volevano
risparmiare loro il tormento di vedere bruciare Tijorn, e li avevano affidati
nelle mani migliori. Dae. La materna, dolcissima balia del Lazzaretto, una
delle più brave con gli infanti, che li aveva presi molto in simpatia, e
che, in quei giorni, si era presa cura di loro. L’avevo incontrata, prima
che succedesse tutta quell’incredibile epopea tragica. Ero andata a
vedere come stavano i miei dolci infanti, e l’avevo incontrata
all’ingresso della loro stanza, che cercava qualcosa. Era una creatura
anziana, che non ci vedeva molto bene, un’elfa alta e robusta, che mi
dava l’impressione di poter sollevare un cavallo con una mano, che,
quando ero arrivata, mi aveva scambiata per un’infante, per poi rendersi
conto del terribile equivoco quando mi ero girata, e l’avevo guardata
male. Mi ero aspettata una caterva di scuse, come tutte le balie che fino a
quel momento avevano guardato i piccoli, scuse intimorite, e poi una fuga
rapida. Quella rude elfa non aveva fatto nulla di quello che mi aspettavo,
anzi. Mi aveva così fissata per un attimo, senza scomporsi, la calma
assoluta su quel viso solido. Si era poi girata, ed aveva rovistato in una
specie di cilindro, estraendoneun
biscotto, dandomelo senza tanti preamboli. Aveva detto che ne avevo bisogno, perché
ero magra come un chiodo, che la pelle sembrava appendersi alle ossa, e mi
aveva raccomandato di mangiarlo tutto. Poi si era girata, come se niente fosse,
trattandomi davvero come un’infante. E forse per lei, molto più
vecchia di me, ero davvero tale. Avevo accolto quello strano comportamento a
bocca aperta. Poi mi ero affezionata terribilmente a quella vecchia bisbetica,
che tutti i piccoli, specialmente Chekaril, adoravano. Avevo voluto solo lei
come balia, ed era divenuta la guardiana ufficiale dei quattro infanti del
nostro gruppo. Lei stessa non avrebbe permesso a nessuno di curare i suoi
cuccioli, come li definiva. Era un’elfa semplicemente straordinaria,
placida come un ruminante, quando serve, terribile come una tempesta il momento
dopo. Ma sempre pronta a dare un consiglio, con quei modi da vecchia vedova gentile.
Era la persona adatta per tenere un po’ i piccoli. Cominciammo
così ad avviarci fuori, io, aggrappata a Nemys, quasi trascinata da lei,
tremante e terrorizzata. Avvertivo che il calmante stava cominciando a svanire,
ed i suoi effetti mi sembravano sempre meno duraturi. Cominciai a tremare
così forte da fare tintinnare i miei denti. Un singhiozzo uscì
dalla mia gola, me la squarciò. Poi un altro. La Rinnegata
mormorò qualcosa di rassicurante, e poi aprì la porta, facendo un
paio di passi avanti, richiudendola dietro di sé. Mi azzardai a
sollevare il viso dalla sua veste, esitante. Davanti a me c’erano un paio
di Guaritori, uno dei quali portava una grossa borsa con sé, e Dae, a
cui i piccoli si erano già tenacemente attaccati, chiocciando sollevati.
La balia ci guardò, mi guardò, con uno sguardo d’immensa
pietà, accarezzando la testa scura di Roxen, che le si era appiccicata
addosso. Mia figlia sembrava avere una particolare predilezione per
quell’elfa gigantesca. Io continuai a tremare. Avevo la testa ostinatamente
vuota, ed il petto trafitto da una spina enorme di dolore. Volevo del sedativo,
ne volevo dell’altro. Non sarei sopravvissuta senza. Dovevo andare avanti
così almeno fino a quella sera, quando sarebbe cominciata la veglia per
divenire Ch’argon. Dopo di quella, sarei riuscita ad andare avanti,
perché avevo un obiettivo. Ma sarei sicuramente crollata al funerale.
Non avrei potuto resistere, mentre cremavano mio fratello, io mio amato Tijorn.
“mi dispiace”. Mimò Dae, silenziosamente, mentre uno dei Guaritori,
quello con la borsa, quasi leggendomi nel pensiero, rovistava nella borsa. Poi,
l’anziana e robusta elfa si rivolse ai piccoli, con una voce tenera, non
tinta da dolore alcuno, portandoli con sé nel corridoio, diretta in
giardino. Nysha e Manolìa la seguirono docilmente, ma Roxen e Chekaril
rimasero a guardarmi per un attimo, smarriti. Sembravano sperare che io li
accompagnassi. Io mi costrinsi a sorridere, a frenare per un istante il mio
tremore. Non dovevano soffrire con me. Io dovevo andare da una parte, a
svolgere un compito tremendo. Erano degli innocenti, a cui avevano rubato fin
troppo. Feci loro segno di andare, con un occhiolino. Senti le lacrime
addensarsi ai lati dei miei occhi. Non avevano smesso di fidarsi di me.
Probabilmente il mio sorriso forzato riuscì come genuino ai due, che mi
risposero, un attimo che mi illuminò di luce gloriosa, che mi
riscaldò, e, pacificati, i miei piccoli trotterellarono dietro la loro
chioccia, come due piccoli, graziosi pulcini. Appena sparirono dalla mia vista,
mi sentii assalire nuovamente dal freddo, e dal terrore. Ripresi a tremare come
se quella breve parentesi non fosse mai esistita.Nemys mi strinse forte. Non mi ero
accorta che stava parlando con i due. Uno dei Guaritori estrasse una boccetta
piena di un liquido scuro dalla sua borsa. La alzò, e la scosse con un
dito. “questa dovrebbe andare bene”. Mormorò, come a se
stesso. Poi si rivolse alla Matriarca. “mia signora, questo è un
po’ più forte. La stordiràpiù a lungo, e più
efficacemente, ma non sarà in grado di camminare, e penso che dobbiate
portarla in braccio….se questa non è un’umiliazione, per
voi, ovviamente”. Quella notizia mi diede leggermente fastidio. Ero
stanca di essere portata come una lattante, stanca di sentir parlare attorno a
me come se non ci fossi. Cercai di parlare, di lamentarmi per quello. Ma non
riuscii ad emettere altro che un mugolio indistinto. La testa prese a girarmi
vorticosamente, ed io chiusi gli occhi, lasciandomi andare, lasciandomi tenere
tutta da Nemys, la cui presa rimase salda. Lei parlò, con una voce
seria, un po’ severa, ma triste. “sono abbastanza forte per farlo.
E non è un’umiliazione aiutare chi ne ha disperatamente bisogno.
Conosco la sua anima, e conoscevo suo fratello. Quella che voi giudicate come
una Spia sanguinaria sta soffrendo come mai avete fatto in vita vostra. Vi
prego di aspettare solo un attimo”. Sentii la sua figura chinarsi verso
il mio orecchio, i suoi capelli solleticare il mio viso. “Lsyn…sei
sicura di quello che vuoi fare domani mattina?”. Bisbigliò,
abbastanza piano da non essere udita da quei due lì vicino. Non ci
pensai nemmeno per una frazione di secondo. Divenire Ch’argon. Legarsi
indissolubilmente al Matriarcato. Proteggere la mia famiglia. Era tutto
ciò che volevo. Annuii così, stancamente. Ora volevo solo un
po’ di stordimento, un po’ di pace. Non volevo soffrire in quel
modo. Sentii sotto il naso qualcosa dall’odore penetrante, e piuttosto
sgradevole. La mia unica salvezza. Erano lontani i tempi in cui rifiutavo qualsiasi
medicina, convinta fermamente di dover contare solo sul mio corpo. Ora ero
stata tradita anche da lui. Ero debole, debole e senza volontà. Mandai
giù quel liquido amaro, non piacevole e profumato come l’altro, in
un solo sorso. Nemys mi prese subito in braccio. Sentii, subito, una grande
calma impadronirsi di me, mista ad un certo torpore, a cui avrei certamente
ceduto, se solo avessi continuato a tenere gli occhi chiusi. Riaprii gli occhi,
per trovarmi a poca distanza il volto pallido e spruzzato di lentiggini di Nemys,
che mi fissava con doloroso affetto. Non riuscii a provare nulla per lei. In
realtà non riuscivo a provare nulla, per niente e nessuno. Era come se
fossi in una bolla di felicità tutta mia, una bolla di benessere dove
nulla poteva toccarmi. Non ricordavo quasi chi fossi, cosa fossi, come fossi, e
perché fossi lì. Nemmeno la vista, poco tempo dopo, di Tijorn,
riverso sulla barella, portato da Max ed Isnark, seguiti da tutti gli altri,
riuscì a farmi del male. Ero ad un passo dal non capire più
nulla. Nemys si accodò così a fianco di Amarto, il vecchio che si
appoggiava ad un’apatica Junielle, che mi prese una mano, e sorrise, un
sorriso triste e tremulo. Io risposi appena, e ci avviammo verso il luogo in
cui tutto sarebbe ormai finito.
Ancora
oggi non riesco a descrivere quello che seguì. Se allora non provavo
nulla, stordita decisamente da una medicina potente, oggi quei ricordi mi fanno
male, un dolore diverso, più lontano, che ancora mi fa sentire
un’ombra del freddo gelido che sentii allora. Non ho la minima intenzione
di soffermarmi su rimembranze troppo dolorose per poter essere ancora
affrontate. Un certo senso di ineluttabilità scende su di me, quando
ripenso a tutto quello che accadde. La morte fa questo effetto, quando ci fa
sentire il suo alito freddo ci fa rendere conto della nostra irreversibile
caducità. Che si viva cento anni, sessanta, duecento, cinquecento o
più di mille, sempre poi bisogna sottostare all’unica regola
valida per tutte le razze, ed è quello che fa molto male. L’intera
cerimonia si svolse nel silenzio più assoluto. Eravamo in un loggiato,
aperto sul bosco all’esterno, adibito sempre a quel tipo di cerimonie,
inondato dalla luce del tramonto. Il tempo passò come in un lampo. Ci
avevano atteso due elfe identiche, dai lunghi e lisci capelli neri, vestite a
lutto, che portavano, ciascuna di esse, due fiaccole accese ed una grossa
ciotola con dell’olio. E ci attendeva la pira, intrico di legni profumati
e già intrisi di quel liquido infiammabile, dove Tijorn fu messo.
L’ultima volta che lo vidi. Feci scorrere il mio sguardo su di lui,
inerte, inconscia, confusa, mentre una delle due buttava elegantemente
l’olio addosso a lui, intridendo abiti e capelli. Per farlo andare a
fuoco meglio. Rabbrividisco ancora, se penso al seguito. Amarto, il Maestro, ed
io, la Sorella, saremmo dovuti essere quelli che avrebbero appiccato il fuoco.
Eravamo i più vicini a lui, al nostro piccolo Tijorn. Il mio vecchio
elfo preferito si assunse diligentemente quel compito. Io fui aiutata da Nemys,
che strinse con me la fiaccola. Non mi aveva più messa giù, e mi
teneva, come se fossi un’infante, come se fossi malata. Io non protestai,
non ci sarei mai riuscita, ed obbedii docilmente. Con la mano libera, strinsi
la lettera al mio cuore, inconsciamente. Volevo avere Tijorn vicino, quel
Tijorn che sarebbe andato alle nuvole. Vidi il legno prendere fuoco con una
sorta di vuoto nel cuore. Avvertivo quell’assenza, la notavo. Un buco
che, più passano gli anni, più diventa grande, un abisso di
dolore che non riesco a sondare. Nemys mi fece lasciar andare la fiaccola. Ed
alla luce, rossa e calda, di quel tramonto estivo, si aggiunse quella del
grande incendio, che avrebbe portato via, per sempre, il mio dolce Tijorn, il
mio fratellino. Prima che tutto finisse, però, io non stavo già
guardando. Nemys, ad un certo punto, cosa di cui sono molto grata, si
girò dall’altro lato, stringendo le labbra. Io non riuscii a
capire, anche se ne fui segretamente grata. Non mi piaceva quello che era
successo, non mi era per niente piaciuto. Mi sentii avvolgere da qualcosa, che
mi tenne incredibilmente caldo. Qualcuno parlò alla mia Rinnegata,
dicendole parole che non afferrai. Cominciai a sentire un’incredibile
sonnolenza, a cui obbedii, chiudendo gli occhi con piacere. Scivolai, aiutata soprattutto
dal forte calmane, in un mondo senza sogni, che mi avrebbe, perlomeno,
ristorata un po’. Sentivo di dover fare qualcosa, il girono dopo,
qualcosa di molto importante. Mi meritavo in pieno quel sonno malsano, anche se
non capivo esattamente perché. Però, ero sicura di meritarmelo.
Ed era piacevole, così piacevole, abbandonarsi a delle braccia amiche!
Quando mi
svegliai, era notte fonda. Sentivo che l’effetto del calmante era
completamente svanito, lasciandomi lucida. Ero in un letto, e c’era qualcuno
attorno a me, qualcuno che bisbigliava. Avevo ancora stretta a me la lettera.
Tijorn. Povero fratellino mio. In quel momento, sicuramente, tutto quello che
rimaneva di lui era in un’urna, che chissà chi si era preso
l’onere di conservare. Per un attimo, lasciai che il dolore tornasse di
nuovo, straziante, mi permisi di crogiolarmi un altro po’ nella
sofferenza. Il dolore per Tijorn era come un ago incandescente sotto la pelle.
Bruciava, tirava, faceva un male da impazzire. Qualcosa, però,
m’impediva di dare sfogo a tutta la mia pena. Ricordavo che c’era
qualcosa da fare, qualcosa d’importante. Di molto importante.
Dov’ero finita? La mia mente si rifiutava di ricordare gli avvenimenti di
poco tempo prima. Ma cosa era successo? Che ore erano? All’improvviso,
come se mi avessero colpito i Tengu con i loro scettri, mi ricordai. La
cerimonia. Il girono dopo sarei divenuta Ch’argon. Il dolore si
dileguò, in un attimo. Dovevo preparami! La pena avrebbe aspettato.
Aprii gli occhi di scatto, e mi misi con altrettanta rapidità seduta. Io
e Zipherias facemmo quasi testa e testa. Rimasi a guardare l’elfo scuro
con enorme curiosità, e paura. Il cuore aveva perso a battere
furiosamente. Anche l’altro sembrava essersi un po’ allarmato. Non
mi ero aspettata che uno dei Tre Compari fosse lui. Chissà se si fosse
messa in mezzo Nemys, o era una sua iniziativa. “ben svegliata, piccolina
mia”. Disse all’improvviso una voce un po’ cigolante, una
voce vecchia che conoscevo bene. Ancora sentii un colpo al cuore, e mi girai.
Accanto a me, seduti su delle sedie, Amarto, le rughe del volto addolcite da
un’espressione tenera, anche se ancora molto spossato, e triste, e
Junielle, che non si era ancora resa conto di dover cambiare espressione. I
miei Tre Compari, quelli che mi avrebbero dovuto vegliare per tutto il tempo,
per tutta la notte prima del Giuramento. Mi guardai attorno, smarrita. Ero in
una bella stanza, una stanza da letto, illuminata da un paio di torce. Non
riuscivo, tuttavia, a distinguere colore alcuno. C’era una porticina, dal
lato di fronte al mio, una porticina da cui filtrava tanta luce, ed alcuni
rumori. Guardai i tre con aria interrogativa. Decisi di non pensare. Era un
momento troppo importante per lasciarmi irretire dal dolore. Non potevo
lasciarmi andare proprio in quel momento, cruciale per il dopo. Zipherias
sorrise, mentre Junielle m’indirizzò uno sguardo ostile. “a
quanto pare hanno deciso che hai bisogno di una bella strigliata”. Disse
l’elfo scuro ed enorme, facendomi un assurdo occhiolino, totalmente fuori
luogo per quel contesto. Mi sembrò tremendamente buffo. Quasi
istintivamente, con la mano libera mi andai a toccare i capelli, i miei ricci
scuri. Quello che trovai mi fece gemere di disperazione. I capelli ricci sono
difficili da domare, ed hanno bisogno sempre di molte cure. Perfino nei miei
vagabondaggi avevo avuto cura di pettinarli ogni giorno, per far si che non si
compattassero in un intrico di nodi difficilmente districabile. Gli avvenimenti
di quell’ultimo periodo mi avevano fatto totalmente dimenticare le mie
incombenze. Avevo perso il conto dell’ultimo giorno in cui mi ero curata
i capelli. Capelli che, ovviamente, erano in uno stato disastroso. Erano un
solo cespuglio, praticamente. Un cespuglio orrendo, secco ed intricato. Un
cespuglio di rovi. Mi morsi leggermente le labbra. Avrei penato a lungo. Mi
aspettava una bella tortura. Davanti a me c’era una bella tortura.
Aspettammo in silenzio un altro po’, sentendo i rumori provenienti da
quella che, probabilmente, era la stanza delle torture, ecco. Già una
volta mi era capitato, e quello che era successo mi aveva fatto strillare dal
dolore. Mi sarei trovata i miei capelli molto più corti, dopo. Peccato.
Intuendo il mio disagio, ed avendomi allevata per un sacco di tempo, Amarto mi
prese una mano. “ragnetto mio”. Mi disse, conciliante, passandomi
una mano sul volto, una carezza che mi fece immensamente bene. Io per quello
vivevo. Per quelle carezze, quelle piccole dimostrazioni di affetto da parte
dei miei cari. Tijorn non c’era più, quello era vero. Ma
c’erano tutti gli altri da proteggere. Dovevo essere forte per loro, solo
per loro. Sorrisi, un vero sorriso. Era bello quel contatto con il mio Maestro.
“non ti faranno niente che non vuoi”. Per trecento anni mi avevano
fatto fare quello che non volevo. Ora che volevo una cosa non la dovevano fare?
I miei capelli avevano bisogno di una pulita solenne. Mi appoggiai un po’
alla mano del Maestro, che sorrise ancora di più. “i miei capelli
hanno bisogno di essere lavati”. Lui non rispose, ma il sorriso gli rimase
sul volto, e non se ne andò più. Mi parve di vedere un accenno di
commozione nei suoi occhi bianchi, ma forse me l’ero solo immaginato.
Junielle sbuffò. “hai tanti vizi quanti riccioli,
Lsyn…”. Ringhiò, parlandomi per la prima volta da quelli che
mi sembravano secoli. “ed ancora meno cervello, devo dire…”.
Sobbalzai, a quelle parole atrocemente amare. No. Quella non era Junielle. La
dolce, buona Junielle…che fine aveva fatto? Quelle parole, ostili come
una trappola per lupi, non potevano essere sue. Non lo erano. La guardai,
incredibilmente sorpresa. “che ti prende, Junielle?”. Domandai,
stupefatta. Amarto ritirò la mano e la guardò male, o
almeno….guardò male il vuoto. Junielle ringhiò di nuovo,
ostile. “che mi prende?”. Ruggì, facendomi sobbalzare. Non
avevo mai visto la mia dolce amica mezzelfa in quello stato. “che mi
prende? Cosa vuoi che ti risponda, eh? Sto bene, Lsyn, non fare caso a me?
Oppure, niente di cui preoccuparsi? Credi che io sia come il tuo amato
fratellino, che si è lasciato morire così, come lo stupido quale
era?”. Ringhiai senza rendermene conto, un ringhio che non aveva nulla di
umano, e la interruppi. Quella bastarda! Come si permetteva? Come si permetteva
di infangare così la memoria di mio fratello, l’eroe, l’elfo
più buono di tutti? Come si permetteva, lei? Aveva visto il suo
funerale…aveva visto quello che era successo. Lei era stata salvata da
lui, come tutti. Eppure, non sembrava nemmeno un po’ scalfita dalla mia
reazione, e da quella di Amarto, che aveva borbottato. “come ti
permetti…tu…”. Balbettai, stravolta dall’ira, che
scorreva come fuoco liquido nelle mie vene, ed aumentava, mano a mano che
vedevo il volto, impassibile e beffardo, della mezzelfa. “tu…cosa?
Non ti ricordi che lui ti ha salvata, come a noi tutti? Fai o no parte della
nostra famiglia?”. Lei rise, una risata che mi fece quasi scattare, una
risata acuta, quasi demente. “ha! Ha! Salvare! Ha!”. Esclamò
lei, ridendo come una pazza. Poi si rivolse a tutti noi, con gli occhi che le
scintillavano. Non l’avevo mai vista in quelle condizioni. Chi fine aveva
fatto la mia amica forte? Cosa accidenti le era successo che a noi non era
accaduto? Ero praticamente troppo sconvolta per pensare lucidamente.
Allungandosi verso di me, lei digrignò i denti, ferocemente. Solo Zipherias
le impedì di avanzare. “quello che non sapevi, o non hai mai
saputo, Lsyn… è che tuo fratello non è mai stato un
santarellino come tu credevi”. Ghignò. Uno strano senso digelo mi avvolse. Strinsi forte la mano
di Amarto, che donò un’altra occhiataccia alla mezzelfa, che non
si mosse. Sembrava molto a disagio, un disagio che non compresi. Junielle era
capace di rivangare storie antichissime, per di far avere la ragione dalla sua.
Ero pronta a tutto. “tu sai che tanti anni fa siamo stati amanti per un
bel po’ di tempo, ricordi?”. Non era un bel ricordo. Tijorn aveva
sofferto molto, in quel periodo, dilaniato dall’interesse che provava,
tutto sommato, per Junielle, e l’amore folle e non contraccambiato per
Akita. Aveva tentato di dimenticarla, ma più passavano i giorni, meno ci
riusciva. Si era ritrovato legato a Junielle, quasi per caso, e non sapeva come
allontanarsi da lei. Non ci riusciva. Alla fine la mezzelfa aveva capito, e
tutto si era risolto in un certo senso bene, esaurendosi da sé. Ma io
sapevo che ancora lei ci soffriva. Non mi pareva molto intelligente,
però, l’odiare tutti noi dopo tutto quel tempo. In un certo senso
non era stata nemmeno colpa di Tijorn. Era stato solo, per sua spontanea
ammissione, un gran cretino. Mio fratello non ha mai amato la sofferenza, e non
è mai stato un dongiovanni. Era capitato, tutto qui. Uno dei pochi
errori della sua vita, ampiamente riparato. Ha sempre cercato di farsi
perdonare, da lei. Annuii, e Junielle ripeté il mio gesto, lentamente,
dileggiatrice e soddisfatta. “bene…sai, non che m’importasse
tanto, in fondo Tijorn è sempre stato un gran bravo elfo, ma quel pazzo
maledetto di Jalim, chissà come, lo sapeva…”. Sobbalzai, e
guardai Amarto, in cerca di protezione, quasi, terrorizzata. Il mio Maestro era
impietrito. Com’era successo? Perché quel pazzo ci teneva
d’occhio? Da tutto quel tempo, poi? Non riuscivo a crederci, e guardai
Junielle, come in cerca di una risposta. Ero smarrita. Lei mi fissò,
trionfante. “questo suppongo ti fosse sconosciuto, eh?”. Sbottò,
aspra, digrignando i denti. Ero troppo spaesata per avere una reazione decente.
Ma che fine aveva fatto la mia dolce amica? Era solo quello che riuscivo a
chiedermi. Junielle rise di nuovo, quella risata acuta. Decisamente, la
preferivo immobile e tranquilla, mortalmente tranquilla, rispetto a quella
dimostrazione di odio profondo. “e suppongo anche che tu non sappia
quello che è successo nel viaggio verso l’Altrove…”.
Sibilò, guardando da un’altra parte. Ma perfino io vidi tracce di
lacrime nei suoi occhi. Ricordavo vagamente di aver visto orrendi lividi
addosso a lei, nel periodo in cui io non stavo bene. Riuscivo ad immaginare perfettamente
quello che le avevano fatto. Lei riprese a parlare,con voce più bassa. Perfino
Zipherias rimase scioccato, in seguito. “no…tu non puoi saperlo,
stavi male… male per tua stessa colpa…tu non sai…tu non sai…”.
Alzò il mento, mentre alcune lacrime le scorrevano sul volto. Feci per
allungarmi verso di lei, ma Amarto mi trattenne. Sembrava parecchio allarmato,
ed incredibilmente a disagio, tormentato da qualcosa. “la notte, a notte
fonda, quando dormivate tutti, e non vi rendevate conto di quello che
succedeva, perché Jalim drogava la vostra dose di pane ed acqua…
tutti, tranne quella mia e di Tijorn…e ci prendeva…e ci portava,
lui e qualche soldato…in qualche posto riparato…e lo legavano da
qualche parte, mentre quel matto lo costringeva a guardarmi…mentre…mentre…mi
facevano le cose più orrende…”. La sua voce si spense per un
attimo, e lei serrò gli occhi. Tutti e tre ci guardammo, sbalorditi. Ciò
che era successo alla mia povera amica era praticamente al di là di ogni
giudizio. Quel bastardo di Jalim avrebbe pagato tutto quello che ci aveva
fatto. L’apatia di mio fratello si spiegò in un attimo. La compresi
all’istante. Difficile sopravvivere a certe visioni indenni. Ma perché
ce l’aveva tanto con noi, quella creatura? Mi invase un sentimento misto
di pietà, orrore, smarrimento più totale. Non sapevo
assolutamente come comportarmi. Povero Tijorn. Povera Junielle. Cercai di
allungarmi di nuovo verso la mia amica, cercando inutilmente di raggiungerla,
di stringerla a me, di consolarla, ma ancora Amarto mi bloccò. Lo guardai
di nuovo. Dal tormento, negli occhi avevano preso a bruciare le fiamme della
tortura. Lui si agitò, a disagio. Sembrava covare qualcosa. Dopo alcuni
attimi, lei riprese a parlare, con voce ancora più sommessa. “e
dicevano… lui diceva….quel matto...che non dovevamo strillare,
sennò ci avrebbero uccisi…e che…che…che ci avrebbero
lasciati andare, senza farci pi nulla, liberi e felici, se solo lui avesse
accettato di uccidere di sua mano te ed Amarto…e lui…lui rifiutava
sempre! Lui ha rifiutato la mia salvezza, e la sua! Ed ora è morto!”.
Non riuscii a credere alle sue parole. Erano cose troppo grandi per essere
espresse. Amarto mi lasciò andare la mano, e si contorse, con una
smorfia orrenda in volto, di pura sofferenza. Io non sapevo cosa fare. Tijorn era
stato costretto a subire la più atroce delle torture. Aveva rifiutato la
salvezza, sua e della nostra amica, per non uccidere me ed il Maestro. Ogni attimo
che passava, la mia convinzione di fondo, che lui fosse un eroe, si rafforzava.
Chiunque avrebbe ceduto, alla vista di quegli orrori che sicuramente avevano
fatto patire a Junielle. Non osavo nemmeno immaginare cosa le avessero fatto. Solo
a pensarci mi sentivo assalire dalla nausea. Junielle era un’egoista, e
questo lo sapevo. Non mi scandalizzavano più di tanto le sue parole. Capii
il perché di quell’odio nei nostri confronti. Lei aveva sofferto,
tutto sommato, per non far soffrire noi. Ci fu un terribile attimo di silenzio,
un attimo in cui ciascuno si guardò, dentro e con gli altri. Io mi
scambiai un lungo sguardo con Zipherias, che, sotto la pelle scurissima, era
impallidito mortalmente, e sembrava lì lì per dare di stomaco. Alla
faccia del guerriero senza macchia e senza paura. Poi Junielle sospirò,
una sola volta, e cominciò a singhiozzare disperatamente. Stavolta fui
io a non volerla abbracciare. Avevo capito. Lei mi odiava, perché lei
aveva sofferto per me, per una cosa inutile. Non potevo toccarla. Mi assalì
un senso incredibile di ingiustizia. Perché, accidenti, il Regno ce l’aveva
particolarmente con noi? Perché ci facevano così del male, si
divertivano a tormentarci? Desolata com’ero, non riuscii a trovare una
spiegazione decente. Ai singhiozzi silenziosi della mia amica si aggiunsero, ad
un certo punto, i lamenti desolanti di Amarto. Sobbalzai, e mi girai a
guardarlo, di scatto. Si stava nascondendo la testa tra le mani, e si
artigliava i capelli. Non compresi quel comportamento. Mi sentii enormemente
confusa. Amarto non era mai stato molto fragile, molto sensibile. Non riuscivo
a capire il movente di quel pianto dirotto e tormentato. “Maestro…”.
Bisbigliai, con una voce tremula che non sembrava la mia. Ci fu un attimo di
silenzio, poi il vecchio sospirò. “è tutta colpa mia…è
sempre stata tutta colpa mia…”. Mormorò, tra le lacrime. Io non
capii. In che senso era colpa sua? Il mondo si era rivoltato, o cosa? Che c’entrava,
lui? Feci per parlare, assalita dallo stesso stordimento di quando Chekaril mi
aveva rivelato l’inganno nei miei confronti, ma lui mi bloccò,
alzando il viso. Il suo era il volto di un uomo tormentato. Perfino Junielle
smise di piangere, e lo guardò, spaesata. Amarto fece una smorfia, come
se avesse inghiottito un limone, ed abbassò lo sguardo. “non
odiarmi, Lsyn…non odiarmi per questo”. Disse, prendendomi di nuovo
la mano, che io strinsi forte. No. Io non avrei odiato mai il Maestro, per
tutto quello che poteva dirmi. Non dovevo odiarlo. Non potevo. Lui era la mia famiglia.
Non avevo ancora compreso cosa mi stava per dire. “ma io ho da rivelarti
molte, molte cose….accomodatevi. Ma non odiatemi. Non volevo farvi del
male”.
In quel
momento, on capii. Mi assalì la perplessità, e mi guardai di
nuovo con Zipherias, senza sapere che fare. Non riuscivo a mettere insieme
l’idea del mio Maestro colpevole di qualcosa, il mio Amarto, che, per
cento, lunghi anni, aveva tenuto pazientemente due piccoli diavoli in casa,
abilissimi nello gettare scompiglio, mettere a soqquadro le cose, a dargli
lezioni infantili quando esagerava. Il nostro paziente Maestro, che, quando io
avevo appena dodici anni, e Tijorn quasi diciotto, quando eravamo ancora
entrambi nel cuore dell’infanzia, aveva preso, lui, che aveva smesso per
curarci bene, a bere tanto, e non aveva più smesso fino a quella
malattia che gli aveva portato via anche la vista. Il Maestro, che una volta
alla settimana, almeno, era sbronzo marcio, sempre però la sera, prima o
dopo che noi eravamo andati a letto. Quell’elfo che ci aveva insegnato a
leggere, a pensare, che ci teneva inchiodati ore ed ore alla sedia per farci
imparare tante, noiose, nozioni, quell’elfo severo che avrebbe dato la
vita per noi, che ci raccontava favole strane, evidentemente inventate da lui
sul momento, la notte, per farci dormire, e sbuffava quando gli chiedevamo di
ripetere, che ci trattava come figli, e non come allievi. Come poteva, lui,
dolcissimo e premuroso, che mi faceva sempre compagnia quando ero al
Lazzaretto, insieme a mio fratello, che aveva sempre vegliato ogni nostro
passo, vinto ora dalla vecchiaia e dal dolore di vivere, dal dolore di aver
visto morire uno dei suoi amati pulcini, essere in combutta con quei pazzi del
Regno? Come poteva, lui, che tanto ci amava, e tanto ci aveva amati, essere la
matrice di tutta la nostra sofferenza? Cosa c’era, nel suo passato? Quali
ombre? Quali sofferenze? Quale passato, soprattutto? Era una cosa troppo strana
per poterla accettare. Mi limitai così a tenergli la mano, sconvolta,
immobilizzata dalla sorpresa, in un silenzio gravido di attesa, mentre lui
scuoteva il capo canuto, annientato dal dolore. Sentii una fitta di
pietà. Povero vecchio mio, mio adorato Maestro. Lui, dopo un sospiro,
strinse forte la mia mano, e, guardando in basso, cominciò a parlare,
sommessamente, la voce rotta, dicendo una delle cose più strane che mi
sia mai capitata di ascoltare dalle sue labbra, ancora più strana della
favola del principe drago e del suo
unicorno blu. In fondo, non avevo mai osato chiedere a quel vecchio, un tempo
elfo tanto grande, ed intimidatorio, con quella zazzera di capelli scuri ora
tutti bianchi,quegli occhi castani
che mandavano lampi, quel naso lungo ed importante, qualcosa del suo passato.
Non avevamo mai osato. Era una cosa quasi proibita, da chiedere. Non avrei mai
avuto il coraggio di farlo. “quando mi ritirai…quando decisi di
divenire Maestro… non avrei mai pensato che finisse così, che
quella maledetta se la prendesse anche con voi, oltre che con me…”.
Sospirò di nuovo, e si mordicchiò le labbra. Sembrava che stesse,
piuttosto, parlando con se stesso, più che con noi. Aggrottai le
sopracciglia. Non riuscivo a comprendere dove fosse il succo del discorso, quale
fosse realmente. Cercai di parlare, ma un brusco gesto di Zipherias mi
frenò. Lui guardava Amarto in un modo quasi ostile, come se fosse
insospettito da quelle parole. Junielle si limitava a fissarci, vuota,
piangendo ancora. Una magnifica Veglia davvero. “eppure non era
così una volta… Io non ho mai fatto nulla, davvero…non
è colpa mia se è andata a finire così…”. A
quel punto, non riuscii a frenare la lingua. “così come,
Maestro?”. Domandai, con una strana voce sottile. Lui serrò gli
occhi. “cosa mi volete dire, con tutto questo?”. Ci fu un lungo
attimo di silenzio. Sentivo il cuore battere. Mi aspettavo una terribile
rivelazione, di quelle che facevano cascare le braccia, come quella che mi
aveva detto Chekaril. E forse per Amarto era davvero così, una terribile
novità per me no, in sostanza non cambiò nulla, attenuò
solo l’odio. Mi aiutò solo a capire delle cose, a capire che mai
nessuno è realmente crudele, mai nessuno realmente cattivo. Lo si
diventa, con il tempo, con le sofferenze che induriscono il cuore, o aiutano a
comprendere il bene. Ma nessuno è realmente meritevole di essere ucciso,
di essere odiato a morte. Amarto, sommesso, riprese a parlare. E stavolta non
lo interruppi più. “voglio solo dire che io conosco perché
Lainay e la sua cricca se la prendono tanto con voi. E’ nel vostro stesso
cognome, nel vostro stesso nome, le ragioni di tanto astio. La colpa è
mia. La Regina mi porta molto rancore…ma io non ho mai fatto mai
realmente nulla. Non è mai stata colpa mia”. Un nuovo sospiro.
Ancora non riuscivo a capire. Non c’entrava nulla, quello, con la sua
decisione di divenire Maestro, con la sua decisione di ritirarsi in un luogo
remoto di Normar, per allevarci in un bosco, e non a Galinne, o in qualche
altra città prossima al quartier generale. Ricordavo Amarto come una
persona piuttosto popolare tra le Spie che ogni tanto passavano per Sharilar,
piuttosto amata e benvoluta. Non c’erano mai state ragioni per
quell’amore per l’alcol, per quell’isolamento beato in cui eravamo
cresciuti. Non osavo interrompere il mio caro Maestro, anche se non capivo un
accidente di quello che mi stava dicendo. Lui, finalmente, riprese a parlare.
Vidi una lacrima sul suo viso. “un tempo, sapete, quella che sarebbe
divenuta la sovrana di Normar, e poi del Regno, era diversa. Tanto
diversa… voi non ve lo ricordate, siete troppo giovani… ma tutto
iniziò venti anni prima della nascita di Tijorn. All’epoca,
sai… l’erede al trono di Galinne, Lainay, era una grande promessa
per la prosperità dei domini di quella stirpe”. Una risatina
sgorgò dalla bocca sottile del mio dolce Amarto. Ero come ipnotizzata
dalle sue parole lente. Era incredibilmente interessante. “dotata di
acume ed intelligenza davvero fuori dal comune, già molto abile, astuta
come una donnola,sembrava essere
la sovrana ideale per un lungo periodo di pace eprosperità. Amava davvero la sua
razza, e non si dimostrava ostile verso le altre”. Sobbalzai. Quella non
poteva essere Lainay, la fredda, crudele, sanguinaria Lainay, che aveva
condannato popoli e popoli sotto il suo giogo astuto. Cosa poteva aver generato
quel cambiamento? Ascoltai avidamente il resto. Intendevo andare a fondo di
quell’abisso, fino in fondo. Tanto, non avevo nulla da perdere. E dovevo
conoscere meglio il mio nemico, quella che, il giorno dopo, sarebbe divenuta la
mia acerrima rivale. “certo, certo… la sua ambizione sfiorava il
desiderio di onnipotenza già da allora, e la spregiudicatezza di cui era
dotata rasentava l’imprudenza… ma, devo dire, era rivolta ad un
obiettivo molto positivo, non malsano come ora. Il suo sogno era quello di far
divenire Normar la nazione più ricca, pacifica, colta di tutto il
continente, un gioiello di montagna capace di rivaleggiare con le più
fiorenti corti umane, dove gli artisti ed i filosofi sarebbero arrivati a
frotte, dove i domini vicini sarebbero stati nostri amici, e dove menestrelli
avrebbero cantato in strade pulite, sicure, in cui la povertà non
esisteva. Lainay aveva intenzione di trasformare Galinne in un paradiso”.
Un’altra lacrima scese sulla guancia di Amarto, del mio povero Amarto.
Nei suoi occhi bruciavano le fiamme, le fiamme della tortura. Provai una grande
pena per lui. Non era il solo a portare il peso di un passato ingombrante.
“le era stata già data carta bianca in alcune opere, dal padre, ed
aveva mostrato una perizia davvero stupefacente. Il suo sogno non era soltanto
a parole: aveva poco meno di duecento anni, e già era riuscita a
bonificare un luogo totalmente ingestibile. Io, allora, ero una giovane Spia,
ma avevo già dato prova della mia abilità in più di una
missione. Mi avevano così incaricato di divenire il referente personale
della giovane erede, che cominciava ad addentrarsi in un mondo di cui poi, una
volta divenuta Regina, sarebbe stata a capo”. S’interruppe
all’improvviso, e digrignò i denti, una smorfia di dolore puro, di
pena immensa, e gemette sommessamente. Io non resistetti, ed abbracciai il mio
Maestro, il mio povero Maestro, di scatto, lasciandogli la mano. Non sopportavo
di vederlo così. Lui immerse il viso nei miei capelli, accarezzandoli
con una mano, e poi mi scostò, permettendo che io gli cingessi le
spalle. Ero preoccupata. Tutta quel dolore non gli faceva bene. Se solo ci
fosse stato Tijorn, che sapeva come comportarsi con lui….sobbalzai, e
deglutii. Dovevo smetterla di pensare al mio dolce fratello. Lui era
nient’altro che cenere, allora. Ricacciai indietro le lacrime che stavano
per uscire, ed, accarezzando una spalla del mio povero, vecchio Amarto, ripresi
a sentire la storia, quella storia che già preannunciava qualcosa di
molto diverso da un lieto fine. Lui riprese a parlare, sommesso. “ i
nostri incontri sarebbero stati segreti, per abituare la disinvolta erede alla
riservatezza più assoluta, anche rispetto al suo amatissimo fratello
gemello, che all’epoca era ancora nel castello”. Chekaril. il mio
amato Chekaril. Il Principe che avevo ucciso con tanta facilità, di cui
lei si era servita con tanta noncuranza. E ‘aveva amato tanto. Lainay era
proprio cambiata. Quasi presagivo quello che stava per dirmi il Maestro.
“puoi capirmi, Lsyn…voi potete capirmi…il nostro primo
incontro fu un vero e proprio colpo di fulmine. Ebbi la netta impressione che
lei fosse l’unica elfa esistente al mondo. e lei, come mi resi ben presto
conto, ricambiava con tutto il cuore. All’epoca non era una fredda
calcolatrice. Era ancora capace di provare sentimenti. intrecciammo la
relazione più tranquilla e dolce del mondo. Quasi subito le questioni
politiche strettamente riservate andarono in secondo piano. Il padre e la madre
erano contenti di vedere che la loro, giovane erede, si stesse abituando
così in fretta ad un regime di segretezza assoluta”. Sobbalzai, e
nella stanza, per un attimo, scese il silenzio più tombale. Non riuscivo
a crederci. Amarto, il mio Maestro,
accidenti, e Lainay, la crudele Lainay, che si divertiva a giocare con i
sentimenti quasi fossimo tutti giocattoli costruiti per il suo divertimento,
erano stati amanti. Non poteva essere più chiaro di così. Come,
come, per tutti gli dei, quella creatura appassionata e sincera, Regina
modello, era divenuta una belva crudele? Com’era potuto accadere? Come?
Io e Zipherias ci guardammo ancora. Il grosso elfo era completamente attonito.
Battei la spalla del mio Maestro quasi con distrazione. Non potevo,
assolutamente, crederci. Qualcosa in me si rifiutava. Era troppo strano per
potervi credere, troppo. Era strano mettere insieme il mio stanco, canuto,
sfiancato Amarto con la bellissima e pericolosa Lainay, tanto orgogliosa,
dall’orgoglio distorto, tanto astuta, sanguinaria. Ascoltai le altre
parole dolorose, del vecchio, sillaba dopo sillaba, come se fossero spremute a
forza, con una sorta di ottundimento, senza voler capire realmente. Era davvero
una grossa novità, quella, anche se ancora non riuscivo a capire tutto
quell’accanimento. “passammo una decina di anni nella più
completa felicità. Cominciarono a cambiare alcune cose.Sua madre morì dopo poco, e
Chekaril, il Principe, si accollò la responsabilità degli
Immortali, cominciando a girare i campi di battaglia, e tornare di rado. Nel
castello rimasero solo Lainay, ed il padre, il suo amato padre, che tanto le
assomigliava, con cui andava d’accordo tanto da farli sembrare fratelli,
piuttosto che padre e figlia. Per Normar furono tempi d’oro”. Una
smorfia, una smorfia amara, distorse il volto anziano del mio vecchio elfo.
Quei tempi d’oro sarebbero finiti presto, io lo sapevo. Sarebbe venuta
l’epoca della pazzia, l’epoca del terrore. “io e Lainay ci
amavamo come mai nella nostra esistenza. Il Re, chissà come, era venuto
a conoscenza di questa relazione, e la approvava. Avrebbe fatto di tutto per
quella piccola da lui tanto adorata. Così, non fummo più
costretti a vederci di nascosto. Tutto salì a galla, alla luce del sole,
ed a nessuno dispiaceva”. Un idillio, praticamente. Cominciavo a capire
perché Lainay avesse ostacolato in quel modo la relazione tra me e
Chekaril. Assomigliava troppo alla sua. Sospirai. Pensare a quell’elfo
ancora faceva molto male. Ero stata presa atrocemente in giro. Ascoltai,
addolorata, le altre parole di Amarto. Parole che mi avrebbero chiarito molte
cose. “ben presto, la mia amata mi mise a conoscenza del suo sogno
più grande, di quello che avrebbe voluto sopra ogni cosa, e che ancora
vuole, e che non spero avrà. L’erede al trono di Normar, potente
oltre ogni dire, una speranza per il nostro popolo, non avrebbe voluto altro
che un figlio tutto suo, un infante da accudire, da viziare, a cui insegnare
tante cose. Voleva un figlio da me. Ed io acconsentii con emozione: sarebbe
stata una bellissima cosa, essere il padre di un piccolo che avrebbe portato
anche il sangue di quell’elfa che amavo così tanto. Dopo un
po’, si sparse la voce che la giovane Lainay, erede al trono, avrebbe
avuto un piccolo principe. E da lì cominciò tutto”. Oh
oh.Stavolta fummo io e Junielle a
scambiarci un’occhiata terrorizzata. Ora si spiegavano molte, molte cose.
Quasi non volli sentire il seguito. Sapevo che per Amarto era un grande
strazio, dover ricordare quegli avvenimenti. Lo capivo dal modo in cui
respirava, affannosamente, come se stesse per mettersi a piangere, dal dolore
che covava nei suoi occhi bianchi. Mi preparai a tutto. Le seguenti parole
furono intrise disperazione. “la prima gravidanza non andò bene.
Al quinto mese…lei perse il bambino. Era, ed è, così
dannatamente facile…ed io le dicevo sempre che si stava sacrificando
troppo. Fu un grande dolore, per tutti noi, ma specialmente per lei. Era tutto
quello che voleva, un figlio, tutto quello che desiderava…un sogno che le
era stato negato. Dopo un po’, io ed il padre riuscimmo a farla guarire, e
lei sembrò tornare l’elfa allegra di sempre”. Amarto chiuse
gli occhi. Mi aspettavo una cosa ben peggiore di quella. Ed avevo ragione. Il
tono di voce del racconto che seguì sapeva di vetro spezzato.
“dopo un po’, fu lei a supplicarmi di provare di nuovo,
perché non voleva mollare quel grande sogno…e, quella volta, tutto
sembrò procedere per il meglio. Lei ascoltò il mio consiglio, e
si mise a letto,assistita solo da
me, la sua cameriera personale, Aevo, ed una giovane guardia dal passato
lievemente torbido, Jalim”. Sobbalzammo tutti e quattro a quella notizia,
ma io specialmente. Tutto tornava. C’erano tutti. Decisamente non era una
cosa che mi aspettavo. Ci scambiammo uno sguardo spaventato. Il passato di
Amarto non era una cosa bella da sentire. Abbracciai di nuovo il Maestro,
cingendolo per le spalle, e lui si lasciò stringere, continuando a
parlare con quella voce stridula. “era stato un regalo di Chekaril, quel
giovane strano, asessuato, pallidissimo…aveva detto che doveva mettersi
in riga, che imparare un po’ di fedeltà in quel modo gli avrebbe
fatto bene. E sembrava così. Quel giovane si legò in modo
straordinario a Lainay, diventando quasi il suo schiavo personale.
Migliorò moltissimo il suo caratteraccio, o almeno così sembrava.
La mia piccola gli era molto legata. Il fatto che sembrasse ermafrodito la
divertiva moltissimo, e lei si divertiva un mondo a punzecchiarlo. Ma amava
sempre me. Mi aveva vietato di lasciarla anche per un poco, ed ero divenuto una
presenza fissa nel castello. Il padre aveva preso a simpatizzare per me, ed
aveva chiuso entrambi gli occhi. Tutto, per la luce dei suoi occhi. Passarono,
in quel modo pacifico, otto mesi”. Ebbi un pessimo presentimento. Il
peggio stava per arrivare, e lo sapevo. Povero Maestro mio. Non era colpa sua
se Lainay era impazzita. “un giorno, arrivò la richiesta di aiuto
di un regno vicino, che era stato attaccato dagli umani per alcune questioni
doganali…il Re fu costretto a mettersi lui stesso a capo delle truppe, e
partire. Lainay era molto agitata per questo fatto, temeva che il suo amato
papà potesse farsi del male. Lei amava suo padre. Era sempre stata molto
legata alla sua figura, e lui a lei. Cercai di rassicurarla, di tenerla al
sicuro, noi tre della cerchia più stretta facevamo di tutto per
tranquillizzarla, ma lei, niente, sembrava presa da un presagio oscuro.
E…e così fu, come lei prevedeva. Dopo una settimana appena,
arrivò la notizia che il caro re si era estinto per le ferite di guerra.
Potete immaginare il dolore pazzesco che provò la mia dolce
Lainay… così forte, in effetti, che il piccolo, suo figlio, nostro
figlio, nacque un paio di giorni dopo. Nacque morto. Era un maschietto…e
mi assomigliava tanto”. Cadde improvvisamente il silenzio, ed alcune
lacrime sgorgarono dagli occhi ciechi e chiusi del mio Maestro. Sentii una
fitta terribile al cuore. Povero, povero Amarto. E povera Lainay, così
irrimediabilmente sfortunata, non c’era da stupirsi che fosse successo
tutto quello, dopo. Era facile che la costrizione a Chekaril di farmi avere un
figlio, me, la Spia, non fosse casuale. Una vendetta. Ed io che avevo
immaginato che lei fosse felice di avere un erede! Ringraziai il cielo di aver
rapito Roxen. Quella pazza, quella mente contorta, era capace di fare
chissà cosa alla sua nipotina, solo per soddisfare il suo desiderio di
maternità irrimediabilmente distorto, trasformato in quella mente
contorta dalla sofferenza, in chissà che cosa. Povero piccolo non ancora
nato. Sperai ardentemente morisse anche lui. Non si meritava una madre pazza,
resa pazza dal suo stesso sogno. Non era giusto, non era per niente giusto. Mi
morsi e labbra. Io, che ero madre, potevo capire benissimo lo strazio tremendo
di Lainay, nel vedere il suo bambino, il suo piccolo tanto atteso e desiderato,
morto. Non mi stupii più di tanto, poi, per ciò che divenne in
seguito. Sentii, anzi, un empito di compassione nei suoi confronti. Lei non
meritava il mio odio. Lei era una vittima, come noi tutti. Vittima dei suoi
stessi sogni, delle sue stesse illusioni. Amarto rimase in silenzio per qualche
momento. Io lo abbracciai forte. Povero mio Maestro. Ora capivo il
perché ci trattasse come figli suoi, quei bambini che aveva perduto. Ora
capivo perché, di tanto in tanto, si desse all’alcol. I ricordi
erano troppo duri da sopportare. Lo capivo benissimo. Sentii le ultime battute
della triste storia con un certo orrore. Amarto aveva sopportato troppo, nella
sua vita. “non voglio descrivervi più nulla…non ce la
faccio. Ma sappiate che, da quel momento, Lainay non mi volle più
vedere. Impazzì, la sua mente distorse il suo carattere, la sua mente
divenne quella fornace di cattiveria che è ora. Ed in questo, io ne sono
certo, fu aiutata da Jalim, quella serpe, che possa bruciare in eterno. Fu
Jalim ad approfittarsi ,a fare da Maestro e consolatore quando lei mi
cacciò dalla sua stanza, stravolta. Il suo sogno la uccise, uccise la
principessa allegra e promettente che era stata. Io aspettai, fidandomi della
guardia… non potevo sapere ciò che stava tramando contro di me.
Quando fui invitato a tornare, da lui stesso, vidi uno spettacolo che non
volevo veder mai. Lainay non era guarita. Qualcosa sembrava averla oscurata.
Era assisa sul suo trono, rigida, oscura, ancora pallidissima, Jalim al suo
fianco… quell’elfo che poi divenne il suo più fedele
servitore…e mi cacciò. Mi trattò come una qualunque Spia, e
mi disse che, d’ora in quel momento, sarei stato un Maestro, e mi
giurò che avrei sofferto per essere stato il padre di quei poveri bambini
morti. I suoi occhi…quegli occhi viola, ametista, così
straordinari…erano pozzi d’ombra, sembravano le gemme di cui
avevano il colore. Ed io, ancora innamorato, obbedii, con la morte nel cuore
per aver perso la mia amata, l’amore della mia vita… ma io sapevo.
Avevo già capito quello che lei intendeva fare. Presi con me due infanti,
voi. Tanti quanti i bambini che avevo perso, i miei figli. Allevai te e Tijorn
come avrei fatto per i miei poveri piccoli senza nome… quegli spiriti che
ancora mi porto nell’anima, per i quali ancora soffro… ma io sapevo.Sapevo che Lainay si sarebbe vendicata
attraverso voi, di me. Sapevo che vi avrebbe fatto soffrire atrocemente. E ne
ebbi la conferma quando, ad ogni conferma, ad ogni Giuramento…lei mi
faceva un occhiolino. E quando tu diventasti il Cane più importante
della Regina, quando Tijorn fu torturato dallo stesso Jalim, sicuramente su
ordine di quella pazza…bene…io avrei voluto uccidermi.
Perché ogni ferita, ogni colpo, ogni lacrima da voi versata sarebbe
stato per colpa mia. Junielle ha visto quegli orrori per colpa mia…tu hai
tentato il suicidio per colpa mia…”. Una smorfia, una smorfia
terribile, distorse il volto anziano di Amarto. Sentii un dolore immenso farsi
strada in me. Non doveva pensare così. Lui non c’entrava nulla.
“Tijorn è morto…per colpa mia…oh…”. Amarto
scoppiò in singhiozzi. Erano singhiozzi terrificanti, i suoi, quelli di
un cuore del tutto infranto. Provai un immediato empito di rabbia. Non nei suoi
confronti, ma per coloro che l’avevano ridotto così, per Jalim,
soprattutto. Lainay, in fondo in fondo, non c’entrava proprio nulla. Era
solo una povera pazza, prima strumentalizzata da una creatura più furba
di lei, poi divenuta anche superiore allo stesso maestro, che si era ridotto a
farle da servo. Decisamente, eravamo entrati in un gioco troppo grande per noi.
Destinati a soffrire, già dalla nostra nascita. Era buono che ora
fossimo al riparo da tutto quello. C’era stato un motivo, allora, a tutto
quell’accanimento del destino. C’era un motivo alla mia sofferenza,
alla mie prese in giro, alle tortura di Tijorn. Stranamente, quella cosa mi
rinfrancò. Non erano stati solo i miei errori, a condannare tutti,
allora. C’era qualcun altro con cui condividere il mio fardello. Povero,
povero Maestro mio. Aveva davvero sofferto tantissimo, in vita mia. Tra i
singhiozzi, Amarto bisbigliava che era colpa sua, solo ed esclusivamente colpa
sua. Mi avvolse una pena immensa per quell’elfo straordinario. Povero
Maestro mio, mio padre, non di sangue, ma più bravo di mille parenti.
D’istinto, lo abbracciai, un abbraccio soffocante. Conoscevo ogni suo
sentimento, e lui non doveva soffrire così. Lui era una vittima, come
tutti. Avevamo tutti e due, anime spezzate, bisogno di un po’ di affetto.
Ed io, davvero, davvero, gli volevo bene più e quanto una figlia. Sentii
una fitta di rammarico per quei piccoli morti, bambini perduti di un tempo
altrettanto finito, figli di una felicità del tutto preclusa. Poveri
piccoli. Nessuno avrebbe saputo mai la loro storia, il loro futuro, la loro
voce. Non avevano nemmeno avuto il tempo di tirare un respiro, di vedere, per
la prima volta, la bellezza del mondo, di quel mondo irrimediabilmente crudele.
Poveri piccini. Sperai di averne conservato bene la memoria, anche se non ci
contavo. “non è colpa vostra, mio Maestro, mio amato Maestro”.
Bisbigliai, stringendomi a lui come una figlia si può stringere al
padre. “non è mai stata colpa di nessuno”. Era vero. Non era
stata colpa di Lainay, povera Lainay. Era strano pensarlo, ma, davvero non mi
sentivo più di odiarla, non dopo tutto quello che avevo sentito. Povera,
povera Lainay, una vittima del fato come noi tutti. Non era stata colpa,
chissà, di Jalim, di cui non sapevamo nulla. Mi sembrava tutto un
disegno orrendo, un disegno terribile per farci soffrire. Il destino ce
l’aveva con noi, per chissà quale strano motivo. Era
anch’egli una vittima, o era lui il Gran Comandante di tutte le cose? Il
fato crudele? O qualcun altro, o qualche dio dal pessimo senso
dell’umorismo? Affondata nei bianchi capelli di Amarto, che, dopo un
po’, rispose al mio abbraccio, piangendo finalmente, un pianto
liberatorio, guardai Zipherias e Junielle. Tutti e due risposero al mio sguardo
afflitto, scioccati. Era davvero una cosa incredibile da ascoltare, una cosa
davvero tremenda. Una storia orrenda, come quelle di tutte noi. Non eravamo i
prediletti del fato. In quel momento, la porta si aprì, quella
porticina, e venimmo investiti da una nuvola di vapore, e da un bel po’
di luce. Io ed Amarto ci staccammo, mentre lui, in fretta e furia, si tergeva
le lacrime, con un sorriso, un sorriso dolce, tutto per me. Sembrava essersi
pacificato, ma ancora un’ombra delle fiamme ardeva nei suoi occhi,
un’ombra che non se ne sarebbe andata mai più. Lui si sentiva
colpevole. Ed io non sapevo il modo per alleviare il suo senso di colpa,
perché ero nella stessa sua barca. Io gli strinsi la mano. Non poteva
vedere anche il mio sorriso commosso. Il mio povero Maestro. L’avrei
curato, ora, con tutti i mezzi che conoscevo. Ero stata ingiusta con lui,
nell’averlo ignorato per tutti quegli anni, per averlo reputato solo il
mio Maestro, e basta. E lui che mi reputava una figlia! Osservai così
con curiosità, allora, un’anziana serva, un’elfa, uscire da
quella stanza, probabilmente il bagno, dov’era pronta chissà quale
tortura tutta per me. Lei, magra come uno stecco, dal viso arcigno, si
guardò intorno, con indifferenza. “chi di voi è Lsyn
Amarto?”. Borbottò, con una strana voce cigolante, che mi mise i
brividi. Io mi alzai, lasciando la mano di Amarto, senza più guardare
nessuno. La mia metamorfosi stava per avere inizio. La mia ultima metamorfosi,
la mia metamorfosi principale, che mi avrebbe trasformata nella più
fedele serva del Regno. Strano che lei non conoscesse il mio nome. Ci
guardammo, lei con indifferenza suprema, io con curiosità. Che strana
creatura. Sembrava non essersi sconvolta alla vista del mio viso sfregiato.
Anzi: sembrava proprio non essersene accorta, sebbene il mio viso fosse tutto
in luce. Era una grande cosa. Una piccola luce. Era bello non essere additata
come un mostro. Lei fece un cenno verso l’interno. Ebbi un lampo di una
vasca piena e fumante, di uno sgabello con su dei vestiti chiari, e di uno
specchio appannato. Il mio cuore saltò in gola per la gioia. Acqua. Un
bagno. Acqua calda, profumata, limpida, sicura, dove sarei potuta entrare con
sicurezza. Acqua calda, e fumante. Dopo sarei stata pulita come dicevo io.
Lavarmi i capelli. Una delizia a cui non potevo rinunciare. Non sarebbe mai
morta, la nobile un po’ schizzinosa che era in me. “il bagno
è pronto…”. Disse la vecchia serva, ma io quasi non
l’ascoltai. Mi ero già fiondata all’interno del bagno,
chiudendo la porta dietro di me, l’eco di una risatine nelle orecchie.
Avevo troppa fretta. Era un sacco di tempo che non mi concedevo un lusso come
quello.
Ringraziai
il cielo che fosse estate, e che facesse caldo: quando mi fui vestita, con una
sorta di lunga veste bianca, che la mattina dopo avrei sostituito con la tunica
viola del Porporato, i capelli erano ancora fradici. Mi sentivo estremamente
soddisfatta di me stessa. Del mio vestiario avevo conservato solo le quattro
piume dei Tengu, che nessuno poteva toccare all’infuori di me, e che io
non avevo intenzione di togliere, una fonte vibrante di energia magica, ed i
ciondoli che avevo rubato nel corso dei miei viaggi. Dovevo ancora trovare le
persone giuste alle quali donare quei pegni di amore eterno. Avevo una mezza
idea: ma dovevo svilupparla meglio. Il resto, i miei vecchi stracci neri,
sarebbero andati perduti per sempre. Le ultime vestigia dell’Ombra, svanite.
Ne ero contenta. Non volevo aver niente più a che fare con il Regno. In
quel momento, la mia preoccupazione principale erano i capelli. Erano
semplicemente un cespuglio impossibile da districare. Sperai che la serva
avesse un pettine, o qualcosa di simile. I capelli. Da nero corvino, si erano
ulteriormente imbiancati: ora le ciocche candide erano più larghe, e
sembravo più matura. La parte buona del viso era scavata, tormentata,
magrissima, gli occhi scure pozze di tristezza. Non mi ero spaventata: era normale
fosse così. Ero divenuta praticamente uno scheletro: l’unica cosa
che in quel momento mi sosteneva era il pensiero, la tensione di dover cambiare
per l’ennesima volta la mia vita. Quella veste, con cui avevo litigato
per un bel po’ di tempo per via degli innumerevoli lacci, mi pendeva
praticamente di dosso. Ero però soddisfatta: nulla era capace di
rilassarmi come un bel bagno caldo. Ero ora capace di lasciarmi indietro tutte
le sozzure della mia precedente esistenza, libera da ogni peccato, anche se non
dal loro doloroso ricordo. Mi ero schiarita anche le idee: ero più che
mai certa della mia scelta. Ero così uscita fuori, preoccupata. I miei
poveri capelli erano una massa inestricabile. Già sapevo il dolore che
avrei provato. Ad attendermi, oltre ai miei tre Compari, c’erano anche
due serve, entrambe con in mano dei grandi pettini. Guardai entrambe con
sospetto. Ora arrivava la tortura vera e propria. Feci una smorfia, e guardai i
miei Compari. Amarto sorrideva sotto i baffi, all’apparenza più
sereno. Junielle era sempre con quel cipiglio. Zipherias aveva distolto lo
sguardo da me, e sono sicura che fosse arrossito, per chissà qualche
motivo. La sua pelle, già nera, era divenuta scurissima. “su
forza…”. Disse una delle due serve, quella anziana, facendo un
cenno verso una sedia. “vediamo di sistemare quel nido che avete in
testa…”. Io gemetti, e mi morsi il labbro, obbedendo senza fiatare.
Ero certamente contenta di quel trattamento…ma, sicuramente, lo ero molto
meno del dolore che avrei provato!
In fondo,
andò tutto bene. Le due care domestiche furono molto gentili ,e
cercarono di farmi meno male possibile, anche se, alla fine, avevo tutta la
pelle della testa formicolante ed indolenzita. Cercai di non lamentarmi, anche
se mi face davvero male. Rompemmo due pettini, verissimo, e furono costrette a
tagliarmi qualche ciocca, anche questo è vero, ma, alla fine, mi trovai,
per la prima volta dopo chissà quanti mesi, i miei capelli completamente
districati, già quasi asciutti, puliti. Ero sbalordita. Erano divenuti
davvero lunghi, in quel periodo. Non me n’ero accorta. L’ultimo
taglio, che avevo fatto per necessità circa tre anni prima con la mia
spada, provocando un disastro, li aveva lasciati da mezza spalla a più
su. Ora erano quasi del tutto uniformi, e mi arrivavano alla fine della schiena,
lucenti, e già pronti ad arriccarsi di nuovo. Le due domestiche furono
più veloci. Facendo un qualcosa che mi lasciò praticamente a
bocca aperta, perché non avevo mai visto una cosa del genere, mi misero
quasi a testa in giù, e cominciarono ad armeggiare con i miei poveri
capelli, ungendoli con chissà cosa, e passandoci qualcosa di molto caldo
su. Non riuscii a vedere nulla di quello che stavano facendo. Alla fine, mi
fecero alzare, ed avvicinare ad uno specchio. Rimasi così sbalordita,
così senza fiato da cercare, istintivamente, con lo sguardo Amarto, che
non mi vedeva, e Junielle, che faceva finta di nulla. Solo Zipherias, lo
sconosciuto Zipherias, aveva sorriso leggermente. Poi si era girato di nuovo,
facendo finta di trovare molto interessante lo stipite della porta
d’ingresso. Non riuscii a capire il suo comportamento. Davvero, era molto
strano. Mi concentrai, davvero stupefatta, sui miei capelli, guardando, piena
di gratitudine, le due servette, distrutte, e sorrisi loro, grata. Non so in
quale maniera astrusa, con qualche metodo inventato scuramente nei miei
cinquant’anni di assenza, mi avevano fatto divenire i capelli uno scuro e
morbido ammasso liscio. I miei ricci, spariti, come se non fossero mai esistiti.
Le ciocche bianche e grigie erano più visibili, ora. Non era,
stranamente, un cattivo spettacolo. Se solo non avessi avuto metà viso
ridotto ad un ammasso di cicatrici, sarei stata molto bella. Era un grosso
peccato. Pensai a Tijorn. Chissà quanto avrebbe riso, guardandomi
conciata in quel modo. Mi morsi il labbro per svegliarmi. Non dovevo pensare a
lui. La vecchia si era lasciata andare ad un sorrisetto. “non
durerà molto a lungo…tra un paio di giorni lo dovremo
ripetere”. Io avevo annuito, contenta. Era strano vedermi così.
Non ci ero ancora abituata. Le due, allora, mi avevano fatto legare i capelli
in una comoda coda, che mi aveva lasciato scoperto il collo, e se n’erano
andate. Avevo accolto quell’acconciatura con disagio. Collo e spalle
erano le parti del mio corpo più devastate, per via dei capelli che si
erano bruciati, ed attaccati alla pelle. Presentavano cicatrici spesse come
corde, soprattutto sulla nuca, sulle spalle, orrende da vedersi, e sulla
schiena. L’orecchio destro sembrava orrendo per la nostra razza. Era
devastato a tal punto da sembrare rotondo. Superai, o almeno cercai di
superare, quel momento d’imbarazzo in fretta. Deglutii, e guardai i miei
compari. Zipherias mi aveva fatto un cenno d’incoraggiamento, guardandomi
come se nulla fosse. Gli avevo sorriso, per ringraziarlo, e lui aveva fatto un
cenno. Mi ero così andata a rifugiare nelle braccia del mio Maestro, che
mi aveva stretta con forza a sé, bisbigliandomi che era fiero di quello
che stavo diventando. E si. Ero fiera anch’io. E così passò
la notte, una notte che per persone normali sarebbe dovuta essere di preghiera,
mentre per me fu solamente di meditazione. Ricordai tutte le persone che mi
avevano fatto com’ero. Chekaril, che avevo ucciso. Tijorn, il mio povero
fratello, che era morto, e che ancora mi faceva un male tremendo ricordare. Lainay,
la povera Lainay, Regina pazza, sadica, per un solo sogno. Jalim, un mostro. Roxen.
Mia figlia. Nemys la mia dolce Rinnegata. Isnark. Dovevo farmi perdonare da
lui. Regis, che mi aveva fatto così tanto da maestro, da amico. I Tengu.
La mia vita era stata strana. Un giro in altalena, pieno di alti e bassi. E stavo
per cambiare la mia vita di nuovo, in un modo totalmente inaspettato. Avevo sofferto,
avevo penato, avevo sanguinato, avevo gioito. Ed il futuro…cosa mi
avrebbe atteso, in futuro? Quali altri intrighi? Si: che la Veglia incominci,
mia anima spezzata.
Ringraziando tutti del loro continuo supporto, perché senza
di voi chissà come sarebbe andata a finire (io non lo voglio sapere,
voi?), devo proprio fare nota di una cosa.
Fate tutti gli auguri al caro, lettore più fedele di questa storia, a cui devo voi non sapete quanto in
termini di idee, aiuti, supporto, tanto che dovrei fargli una statua d’oro,
davvero, Carlos Olivera. Io glieli faccio, gli auguri, perché oggi
è il suo compleanno (erro? O__o ti prego, non dirmi che sto facendo una
figuraccia… io e le ricorrenze viaggiamo su due binari paralleli
ò_O)xD
Grazie, grazie, grazie, ed auguri ancora.
Cerca di non esaurirti, troppo, oggi xD
Colla attack per bocca impertinente o siringa di valium?
Su, caro, non hai di che scegliere.
Oh, basta. Non avrò mai abbastanza parole per
ringraziare e fare gli auguri alla persona meravigliosa che sei, visto che
sopporti e sorbisci questa storia dalla primavera scorsa xD
Auguro a tutti gli altri una piacevole lettura (io me la rido,
intanto. Ma il perché, lo dovete sapere solo leggendo. Si, lo so, sono una maledetta sadica <__<), e
blablabla.
Auguri ancora, mio fedele lettore. Passa una bella giornata (o
quello che ne resta!!). J
Ciao a tutti!
Akita
-----------
Il
mattino arrivò presto, molto più presto di quanto io mi fossi mai aspettata. Eravamo rimasti tutto il tempo in
silenzio, così come voleva la cerimonia, o almeno era quello che mi
avevano insegnato. L’intero procedimento per divenire Ch’argon era
lungo, e complesso. Ne avevo letto, un giorno, durante le mie lezioni del
noviziato, a Galinne. Era solo un appunto, solo un appunto nel libro che
stavamo leggendo a turno, un appunto cheasseriva la difficoltà del
rito, e la sua alta pericolosità in caso di malafede
dell’individuo. Avevo chiesto delucidazioni al maestro che ci faceva
lezione in quel momento, ma avevo ricevuto da lui solo un’occhiataccia, e
l’intimazione di stare in silenzio e farmi gli affari miei. Non ci voleva
altro per farmi partire come un lampo, di notte, verso la biblioteca, in cerca
di libri più chiari da trafugare. Avevo ricattato Akita per farmi
accompagnare, le avevo giurato di spifferare tutte le sue sortite notturne, ed
il libro proibito che teneva sotto il materasso, se non mi avesse
accompagnata, ed aiutata. Lei conosceva quell’ambiente come le sue
tasche, e più di una volta aveva rubato libri troppo pericolosi, a detta
dei maestri, per noi giovani da leggere. Ho sempre pensato che quel divieto non
fosse altro che un sistema per acuire il nostro ingegno ed intuito, per
abituarci a non prendere tutto per oro colato, per allenare la libera
iniziativa, e per capire quali fossero gli individui più interessanti
dal punto di vista dell’abilità a passare inosservati. Comunque le
punizioni, in caso di scoperta delle malefatte, erano tra le più severe.
In ogni caso non mi andava di finire in cucina a pulire pavimenti,
momentaneamente degradata al rango della più infima
servitù, per il resto del mese che sarebbe venuto. Insomma, riuscii a
rubare uno di quei libri e passare inosservata, anche se Akita quasi ci
andò di mezzo, non per colpa mia, ma per la sua stupida
curiosità. Avevo passato qualche notte a leggere le pagine che
riguardavano i Ch’argon, ed il rito per diventarlo. Il maestro non sbagliava.
Era davvero roba pericolosa, quella. Me ne resi conto man mano che andavo
avanti nella lettura. Un rito che, in ogni caso, indebolisce, comunque
irreversibile. Anche controvoglia, un Ch’argon deve sempre fare quello
che è bene per il regno, anche uccidere il sovrano di cui è
amico, ma che è un tiranno ed ostacola la crescita stessa del paese,
dopo averlo vanamente consigliato sul da farsi, s’intende. Perciò,
è pericoloso avere uno del Porporato al proprio servizio: è
sempre un po’ il consigliere più disinteressato, la vocina
irritante della coscienza, limitata, ovviamente, al suo intuito e alla sua
abilità politica. Non esiste cosa in grado di potenziare
l’intelligenza di un individuo, affatto. Di Ch’argonai ce ne sono
più e meno abili. Un Ch’argon non ha mai ambizione. Non si
arrogherebbe mai una corona che non gli appartiene, ma sceglierebbe sempre la
persona giusta per reggere ciò a cui è
legato. È, in un certo senso, una schiavitù a vita, e la
più grande delle libertà. Permette una vita privata, ma che non interferisca mai con i fatti del regno di appartenenza. Ero
sicura che Nemys ricordasse bene quanto me il procedimento, sennò non
avrebbe mai tremato. Il motivo di quella rimembranza così netta era
molto semplice. Ero rimasta così affascinata dal rito in sé, che
avevo imparato a memoria, e avevo addirittura segnato su un foglio, in caso mi
servisse. Più di una volta, al servizio di Lainay, ero stata tentata dal legarmi ancora di più a lei, al suo dominio.
Qualcosa, forse la certezza della mia malafede, una vocina che mi diceva che
quella non era sicuramente la cosa giusta, che ero una Spia e più legata
di quella alle brame di una creatura non si poteva, la certezza che non sarei
mai stata così altruista, e che ancora l’egoismo era parte di me,
mi aveva impedito di fare quello che intendevo, di agire, per fortuna. Ma ora
mi sentivo pronta per cambiare in modo immutabile la mia esistenza. Non avevo
nulla da perdere, e tutto da guadagnare. Era quello, l’unico modo per
rompere definitivamente il patto delle Spie, quello l’unico modo per
rendermi indipendente dal Regno, per vanificare tutti gli sforzi di Lainay per
rendermi una persona ignobile. Ora l’avevo capito: non bastava
rimpiangere i giorni perduti, non bastava pentirsi all’interno di se
stessi. C’era bisogno di una prova che dimostrasse
a tutti che io ero davvero cambiata. Era quello l’unico modo per
proteggere la mia piccola famiglia dall’odio popolare, ora che Tijorn, il
pilastro della nostra esistenza, senz’altro il più amato, era
morto, l’unico che avrebbe potuto giurare senza essere ridicolizzato
sulla nostra buona fede. Era l’unico modo per legarmi a Nemys, la mia
Rinnegata, e per convincere tutti che ero divenuta, finalmente, una persona
diversa, perché tutti credono ad un Ch’argon. Era l’unico
modo per mondare la mia spada da tutte quelle morti innocenti che aveva
mietuto. Mondare la mia spada, ed il mio animo. Non bastava pulire la propria
spada con il proprio sangue, come avevo pensato: c’era bisogno di un
sacrificio ben più grande, che comunque non avrebbe mai placato il mio
animo dal rimorso. E quello era l’unico modo. Sarebbe stato doloroso, ma utile per tutti. Avrei protetto i miei cari, in
quel modo. Dopo la morte di mio fratello non potevo fare altro. La fine di
Tijorn era stata anche la fine di una parte di me stessa, quella parte connessa
con la speranza di una libertà assoluta, quella parte connessa con la
felicità quasi infantile, connessa all’infanzia stessa. Ero sempre
stata un po’ protetta da lui, come se fossi ancora una bambina, una
piccola infante capricciosa e volubile. E forse realmente lo ero stata. Era
tempo di abbandonare quei rimpianti di un tempo che non sarebbe venuto mai
più, e di accettare il rimorso ed il dolore che i miei terribili errori
avevano irrimediabilmente portato. Era tempo di divenire adulti, e non solo di
sembrare tale, il tempo di portare un fardello senza tentare di scaricarlo su
altrui spalle, senza giustificazioni, accettando un destino che non mi voleva
felice, rinunciando ad ogni altra pretesa di fuga, di gioventù,
prendendosi quelle responsabilità che non avevo mai voluto accettare.
Era finito il tempo dell’estate, ed avevo mietuto i frutti del mio lavoro
terribile. Era il tempo di preparare un nuovo campo, per un nuovo futuro, per
altri frutti, per un altro destino. Ed ora non avevo rimpianti, a parte quello
di non essermi resa conto prima del gioco perverso in
cui ero stata schiacciata. Avrei potuto fare tutto quello molto prima, salvare
anche Tijorn… ma era andata così. Il destino aveva voluto
così, e non c’era nulla più da fare, anche se avrei voluto
tanto cambiare il passato. Se solo ci fosse stato un modo, l’avrei fatto
di corsa. Ora dovevo solo pensare a quella Veglia. Il giorno dopo mi avrebbe
accolta come una persona migliore.
Ai primi
bagliori dell’alba, quando la luce aumentò senza che il sole
sorgesse ancora, bussarono alla porta. Abituati ad ore di silenzio, ad aver
trascorso il tempo guardandoci senza parlare, ammettendo silenziosamente ognuno
le colpe dell’altro, facendoci compagnia, rendendo meno aspra una notte
che sarebbe stata comunque terribile, in cui tutti gli sbagli da me commessisi mostrarono
in tutta ala loro crudezza, sobbalzammo. Accettai in quel momento ciò
che avevo fatto, e l’elaborai per non errare più. Ci guardammo, un
lungo attimo. Poi Zipherias si alzò. “vado ad aprire”.
Sussurrò, un sussurro che sembrò un urlo nel silenzio che si era
creato. Annuii, ed abbassai lo sguardo. Il momento in cui sarebbe cambiato
tutto si stava avvicinando. Rimasi a testa bassa fino a
quando non sentii i passi dell’elfo avvicinarsi ancora, ed un
rumore morbido, di stoffa che si posa contro stoffa. Un ulteriore attimo di
silenzio. Ora sapevo cosa sarebbe successo. Sarei stata sola, davvero sola,
fino a quando non mi avessero chiamata. “ora noi
andiamo”. Annuii di nuovo, ed alzai lo sguardo. Junielle e lui mi
guardavano. Per la prima volta, vidi un lampo di pietà negli occhi della
mezzelfa. Chissà cosa stava pensando, immersa nel suo egoismo. Mi stava
compiangendo o altro? La scura ed enorme guardai mi sorrise, incoraggiante, e
fece un cenno. Tutto l’astio nei miei confronti sembrava misteriosamente
svanito, per chissà quale motivo. Gli sorrisi
lievemente. Amarto aveva una strana espressione in viso. Lo abbracciai. Era
bello stringermi al mio caro Maestro, sentire che lui c’era ancora, e ci
sarebbe stato a lungo, e che l’avrei protetto. “non dubitare mai
delle tue scelte, Lsyn, mia piccola”. Mi sussurrò
all’orecchio, stringendomi forte. “potrai sbagliare, ma esse
saranno sempre giuste, perché tue. Non lasciarti influenzare dagli
altri. Non ne vale la pena”. Annuii. Era una cosa che già sapevo.
Era per quello che divenivo Ch’argon. Non riuscivo a capire perché
mi stesse dicendo quelle cose. Amarto era un mistero insondabile. Non
l’avevo mai capito veramente, nonostante avessi passato anni ed anni a
stretto contatto con lui. Dopo un altro abbraccio che mi mozzò il fiato,
tanto era forte, lui si staccò. Lo guardai, guardai il suo viso
commosso. Era per lui, anche per lui, che stavo facendo tutto quello. Speravo
che se ne accorgesse, anche se ero certa di si.
Sospirai, e distolsi lo sguardo, guardando di nuovo il semplice pavimento.
Sentii alcuni fruscii. Rumore di passi. “ti aspetto fuori, Lsyn…ti
verrò a chiamare quando tutto sarà
pronto”. Disse Zipherias, e, prima che potessi rispondere, si chiuse la
porta dietro di sé. Rimasi sola. Sola, dopo chissà quanto tempo,
realmente sola. Non c’era più nessuno che mi avrebbe
mantenuta, tenuto le ali mentre volavo. Era ancora difficile abituarsi al
pensiero. Racimolai tutto il coraggio di cui ero dotata, ben poca cosa rispetto
all’ardore di tanto tempo prima, quell’ardore bruciato insieme ad una casa a Gerinti, e guardai verso il punto in cui
Zipherias aveva poggiato gli abiti. I miei abiti. I miei nuovi abiti. Rimasi a
fissare un mucchio informe di viola scuro per un bel po’ di tempo. Era
strano, indossare, essere costretta ad indossare, un colore che non avevo mai
amato particolarmente, proprio per il significato che portava, quella
riservatezza del Porporato che li rendeva molto, molto simili a sacerdoti,
quella sua connessione ad una sacralità profana. Avevo sempre preferito
colori scuri, ma mai quello, troppo carico di mistero e di spirito per i miei
gusti, troppo ambiguo. Sospirai. Ero stanca di stupide dissertazioni. Mi
conoscevo abbastanza bene per sapere che, di lì a poco, avrei cominciato
a pensare a mio fratello, e da lì non sarei più uscita. Non avevo
abbastanza forze per pensare troppo a lungo. Se solo
non avessi agito, sarei rimasta lì, su quella sedia su cui ero rimasta
per tutta la notte, per sempre, e non mi sarei mossa più. Sospirai di
nuovo, e mi alzai. “andiamo, vecchia mucca…”. Sibilai, a me
stessa, un’abitudine che avevo preso nel corso dei miei viaggi, e che non
mi piaceva particolarmente. “l’hai voluto tu…”. Feci un
passo. Mi costrinsi a fare un altro. Guardai storto quegli abiti, che si
vedeva, erano di pregiata fattura, anche se molto semplici. Nemys era stata
molto buona, con me. Poi ringhiai. Ero stufa marcia di tutta quell’esitazione.
Presi così il primo capo, una lunga tunica leggera, un abito da
sacerdotessa, che sicuramente mi avrebbe fatto inciampare come una stupida, e,
borbottando sulla stupidità di certi riti, io, che non avrei mai e poi
mai ceduto la mia decisione di divenire Ch’argon, e che mi lamentavo per
la livrea ufficiale che, d’ora in poi, avrei indossato, cominciai a
vestirmi. Indossai, con un brivido, quella strana tunica porpora, sopra quella
sottoveste bianca che avevo portato fino a quel momento, una tunica con un
larghissimo cappuccio bordato di viola scuro, che avrebbe nascosto agli sguardi
di tutti il mio viso nelle cerimonie, perché un
Ch’argon raramente può mostrare la sua identità in
pubblico, in mezzo ad una folla, anche se tutti sanno chi è. Fino al
momento in cui Nemys mi avrebbe accettata come Ch’argon del Matriarcato, sarei dovuta o essere a volto scoperto, o, come in quel
caso, coprirmi con un altro capo. Sperai che Zipherias pensasse a tutto. Non
volevo essere linciata da una folla inferocita, mentre arrivavo nella sala dove
si sarebbe svolto tutto. Era un grosso peccato fosse estate: avrei avuto un
caldo tremendo. Grugnii, insoddisfatta, quando vidi la tunica andarmi
straordinariamente larga, e lunga. Mi arrivava fino ai piedi. Assomigliavo ad
uno spaventapasseri, ed il paragone non era lusinghiero. Sperai di nuovo di non
inciampare, e benedissi il fatto che, nel vestiario, ci fosse anche una corda,
una corda strana, con cui stringere l’abito in vita, dallo stesso colore
del mantello lungo, di un materiale scivoloso, che sembrava quasi seta, ma che
non era così cedevole sulla stoffa, forse velluto lavorato, chi lo sa
sperai che ci si potesse assicurare la mia spada. Ancora non la vedevo, da un
bel po’ di tempo. Ci avevano requisito le armi, quando ci avevano salvato
da quel coso. Aggiunsi a tutto quello un mantello senza cappuccio, di un viola
più scuro, che mi andava drammaticamente largo e lungo, quasi più
della tunica. Indossai anche l’unica cosa che mi era rimasta del mio
vecchio modo di vestire, i miei stivaletti di pelle nera. Erano l’unica
cosa perfetta. Bofonchiai, irritata. Per gli abiti invernali mi sarei fatta
fare qualcosa di decisamente più comodo. Non ero a mio agio vestita da
baciapile. Pazienza. Incuriosita dal mio nuovo aspetto, andai a vedermi nello
specchio. Decisamente, quella non ero io. Un tempo, mi aveva sempre restituito
lo sguardo un’audace Spia vestita di colori scuri, o di un bel vestito da
ballo, dai lunghi capelli ricci, boccoli fitti e vaporosi, e neri, e dal viso
pulito e sano, gli occhi brillanti di sfida. Ero passata dal mostro in nero,
nascosto da una maschera che ormai era andata in frantumi, a quello. Sembravo
decisamente più vecchia, dall’ultima volta che, nella casa di
Junielle, mi ero specchiata decentemente. Forse era per colpa dei capelli dalle
ciocche grigie e bianche confuse al nero corvino, più evidenti grazie ai
capelli lisci, o dello sguardo stanco, sconfitto, che baluginava nei miei occhi
neri. Quella che era una volta Lsyn era scomparsa, inghiottita da una creatura
magra, sparuta e dolente vestita con abiti più grandi di lei, in tutti i
sensi, dalla parte sana del viso scavata, pallidissima, dove le occhiaie di
innumerevoli notti quasi insonni spiccavano come ombre, come buchi, vuoti
abissi. Sospirai di nuovo, e mi girai, abbracciando con lo sguardo la stanza
dove avevo passato tutta la notte. Non mi piaceva quello che avevo visto.
Dimostrava quanto in realtà fossi stata vinta,
quanto gli avvenimenti mi avessero sconfitta. E, dopo la morte di Tijorn, era
una cosa che quasi mi aspettavo. Mi morsi il labbro, fino a riaprire, per
l’ennesima volta, quelle ferite. Ero ossessionata da mio fratello. Mi
stava perseguitando, mi uccideva con i suoi ricordi. Sentii gli occhi pieni di
lacrime. Era troppo presto per ignorarli. Non dopo che avevo visto, meno di un
giorno prima, il suo respiro fermarsi per sempre. Per fortuna, con ottimo
tempismo, sentii bussare la porta. “Lsyn?”. La voce di Zipherias.
Cercai di darmi un contegno più che mai fiero. Non doveva vedermi nessuno
così sconfitta: tutti dovevano avere un’idea di me molto positiva,
dell’orgoglio fatto elfa, dell’intelligente rimorso, rivolto al
bene altrui. Nessuno doveva conoscere veramente la piccola, meschina, egoista
Lsyn Amarto, che aveva fatto tutto quello per proteggere la sua famiglia, e se
stessa, per essere amata senza essere disturbata. “vieni. Ti aspettano
tutti, nella sala delle udienze”. Tutti? Sala delle udienze? Nemys aveva
deciso davvero di fare le cose in grande. Forse faceva bene. Strinsi i denti,
per non piangere. Piccola, meschina Lsyn, un puntino nell’universo, la
stella più insignificante. “arrivo”. Quanti significati, in
una sola parola? Cosa mi aspettava, dietro quella porta, in quella sala? Quali
nuove avventure? Lentamente, andai ad aprire la porta. Un grande cambiamento mi
aspettava. Mi attendevano, lì fuori, Zipherias, Benagi, i due giganti
scuri, il primo con in mano un involto scuro ed in
viso un’espressione indecifrabile, tuttavia rassicurante, il secondo mi
fissava invece con curiosità, ed, assurdamente, Capouille, la timida
Guardia del Lazzaretto, l’eccellente soldato. Non aveva la solita
espressione schiva, e timorosa. Sembrava esserci qualcun altro, dietro quei
magnifici occhi verdi. Un qualcuno di molto più deciso, e fiero. Il
giovane dai capelli rossi mi fece un cenno elegante. Davvero non mi sembrava
lui. Era uno strano cosa di doppia personalità,
certamente, o, la sua balbuzie ed incapacità, solo una maschera, eretta
per chissà quale motivo. Il mio amico dagli occhi d’oro mi fece
l’occhiolino, ed aprì l’involto. Sobbalzai. Si trattava di
un mantello nero, semplicemente enorme. Doveva essere il doppio di me. Cosa
accidenti ci dovevo fare? Guardai l’elfo con una strana aria sperduta. Mi
sentivo sperduta. Non riuscivo a capire cosa mi volesse dire. “mettitelo”.
Disse lui, laconico, porgendomelo. “è meglio che tu ti nasconda
prima di entrare nella sala. C’è un po’ di folla”. Lo
guardai male. Con quel coso addosso, sarei semplicemente risultata ridicola. “non
vorrai che io inciampi, spero…”. Mugugnai, di cattivo umore.
Cominciavo ad essere nervosa. Non ero abituata ai
bagni di folla. Zipherias sogghignò, cattivo. “questo non mi
sembra tanto diverso dal lenzuolo che indossi tu, eh…”. Arrossi
tremendamente. Ero davvero così ridicola? Anche Benagi, suo malgrado,
sorrise. A quel punto mi trovai costretta, praticamente, ad indossare quella
sorta di grezzo mantello, sicuramente di possesso di uno dei due giganti. Avevo
addirittura lo strascico. Ci navigavo praticamente dentro: il cappuccio quasi
mi nascondeva il paesaggio alla vista. Ero costretta a camminare con il naso in
terra. Capouille mi fissò, meditativo. “forse è davvero troppogrande, non
credi, Zipherias?”. Disse, con una voce sicura, senza balbettare
nemmeno su una sillaba. Lo guardai, meravigliata. Un’intera frase detta
senza incespicare sulle parole. Davvero incredibile per uno
come lui. L’ipotesi della doppia personalità si rafforzò.
Oppure era solo un elfo molto, molto strano. La Guardia si strinse nelle
spalle. “o questo, o la massacrano prima di scoprire cos’ha da
dire…”. Perfetto. Davvero perfetto. Sbuffai. “andiamo o da
qui non mi muovo più”. Dissi, con una strana voce tesa. Ero
davvero nervosa: lo stomaco stava cominciano a borbottare, ed il fiato mi
mancava ad ogni respiro. In quel modo, stroncai il battibecco che stava per
nascere tra i due elfi. Non so perché, ma intuii che tra Capouille e
Zipherias non corresse buon sangue. C’era una certa rivalità
sottintesa. Si vedeva dagli sguardi di fuoco che si lanciavano. Chissà
perché erano così. Quei due erano proprio strani. Cominciammo
così ad avviarci, finalmente in un silenzio benedetto. Presi
così, nel frattempo, a recitare in me stessa ciò che avrei dovuto
fare. Fui contentadi ricordare tutto. Sarebbe stata una figura troppo orrenda
quella di rimanere in silenzio nel bel mezzo del Giuramento!
Era
finalmente tutto pronto. Davvero, la voce si era sparsa molto in fretta: la
sala delle udienze, una luminosa costruzione rettangolare, di pietra chiara,
dalle volte alte e puntute, dalle finestre lunghe e arcuate, sottili, eleganti,
una sala sempliceche portava ai due troni, semplici
scranni di legno, della Matriarca e del compagno Isnark, era gremita di
persone, in maggioranza nobili di alto lignaggio e mercanti ricchi, ma anche
gente comune, che avrebbe sparso la voce della novità, stipati su panche
di fortuna. C’erano molti Celestiali a partecipare all’evento,
sicuramente per impedire a qualcuno di ammazzarmi prima del tempo. Formavano un
cordone in mezzo, creando un piccolo corridoio, dove sarei passata. Non appena
fui sulla porta, mi tolsi l’ingombro del sudario nero che avevo come
mantello, una cautela inutile, visto che non avevamo incontrato nessuno, e
fulminai con un’occhiata velenosa Zipherias. Ero inciampata tre volte,
una addirittura per le scale, rischiandomi di rompere l’osso del collo.
Dovevo avere un ginocchio delle dimensioni di un melograno maturo. Lui fece un
sorriso maledetto, falsamente angelico, e schizzò dentro, percorrendo il
corridoio riservato a me. Gli altri due della scorta sgattaiolarono
silenziosamente ai lati, per far compagnia alle altre Guardie, o Celestiali,
che presiedevano la sala. Il brusio della gente, non appena entrò
Zipherias per annunciarmi, svanì di colpo. Calò un silenzio
ostile. Sospirai, nervosa fino allo stremo. Lo stomaco stava dando battaglia, e
la cosa non mi piaceva. Guardai avanti a me. Dovevo essere coraggiosa. Dovevo
avere coraggio. Mi concentrai così sul posto da raggiungere. Seduti
sugli scranni, c’erano Isnark, rigido come una statua, gli occhi che sicuramente
stavano mandando lampi, e Nemys, candida come un cigno, meravigliosa. Era
evidentemente nervosa: stava giocherellando con una ciocca di capelli in un
modo che mi era familiare. Sotto, c’erano Junielle ed Amarto, il secondo con in mano un cuscino, dove c’era la mia spada. La
spada di Eiron, l’avrei chiamata sempre così. Zipherias si mise di
fianco a loro, e, guardando verso di me, fece un cenno. Oh, accidenti. Sentivo
le gambe molli come se fossero fatte di formaggio appena fatto. Tremante, feci un passo in avanti. Catalizzai così
l’attenzione generale, non appena entrai lì. Nel silenzio sentii
le occhiate di tutti addosso, occhiate per niente gentili. Qualcuno
digrignò i denti. Abbassai lo sguardo. Sussurri. Non ero amata. Qualcuno
stava imprecando contro di me. Sperai che, con quel gesto, tutto
quell’astio sarebbe svanito. Oh, accidenti. Però non mi aiutavano,
nessuno. Guardai, sperduta, l’unica mia fonte di luce, Nemys, che sorrise
lievemente. Ora ero solo io a dover decidere. Sarei potuta
fuggire, subito. Ma tanto valeva che mi gettassi giù dalla torre
più alta. Una mia fuga eventuale avrebbe sortito
lo stesso effetto. Morte sicura. Continuai così a tenere stretto il
labbro inferiore, e cominciai a camminare. Oh, accidenti, inciampai per ben
quattro o cinque volte in quel breve percorso. Maledetto
abito lungo, e maledette le mie gambe. Accidenti. Sentii le risatine
della gente. Ero orrendo essere trattata in quel modo. Incespicando, nervosa e
tremante come un budino, arrivai finalmente dove dovevo, di fronte alla
Matriarca, ad implorare perdono di tutte le mie azioni, per divenire una
persona migliore. Abbassai lo sguardo. Ci fu una lunga pausa, nella quale
calò finalmente il silenzio. Sospirai. Il mio futuro stava per cambiare.
Strinsi i pugni, fino a conficcarmi le unghie nei palmi. Quel lieve dolore
aiutò a calmarmi, a schiarirmi le idee. Stavo per divenire una persona
migliore. Quello era sufficiente anche per il più cattivo dei miei
persecutori. Sospirai di nuovo. Sentivo un certo dolore al petto,
un’oppressione orrenda. Lo stomaco brontolò. Arrossii, e guardai
per un attimo Nemys. Lei mi fece un sorriso consolatorio. Si era alzata, ed ora
mi sovrastava. Si capiva bene quanto si stesse
frenando, per non posarmi una mano sul capo, o abbracciarmi. Non poteva. Quella
era una cerimonia ufficiale. Una cerimonia in cui io sarei diventata la sua
più fedele servitrice. Era ora di cominciare una nuova era. “perché
sei qui, Lsyn Amarto?”. Disse, con la sua voce pura come acqua sorgiva,
solenne come un canto liturgico. Presi fiato. Ci fu un ulteriore momento di
silenzio. Era ora di spiegare le mie ragioni. “sono qui perché voglio
essere una persona nuova”. Risposi, secca. La mia voce sembrò
assurdamente spiacevole in confronto alla sua. Un gracchiare di corvo dopo il
canto di un usignolo. “so di aver sbagliato, e di questo chiedo perdono,
anche se so che le parole sono inutili, di fronte a tutto l’orrore di cui
sono stata l’artefice”. Di nuovo dei borbottii. M’imposi di
non pensarci. Ero già abbastanza nervosa di mio. “ho sbagliato, e
molto anche, ed il marchio di questa infamia mi rimarrà impresso per
sempre nel corpo e nello spirito. Ho sbagliato, e so che tutti i morti, tutte
le ferite da me causate non possono guarire, o tornare indietro. Il rimorso
delle mie azioni mi roderà come un tarlo fa con il legno. Sono stata
cieca come una talpa, la talpa più cieca di tutte, ed ora imploro di non
essere odiata. Ho capito la portata dei miei errori, e voglio rimediare ad essi”. Presa da un empito di coraggio, guardai in
alto. Nemys mi fissava, un’ombra di dolore negli occhi chiari. Non approvava le mie scelte. Lo sapevo,
ma nessuno era capace di fidarsi del prossimo come lei. Tutto quello che stava
facendo era doloroso, ma necessario. Isnark si era
girato verso di me, e mi stava osservando con sospetto, curiosità, e
sorpresa. Fui contenta di aver generato qualche altro sentimento in lui, che
non fosse l’odio che provava nei miei confronti.
Lui si accarezzò le cicatrici che gli avevo lasciato su una delle
guance, un gesto più eloquente di mille parole,
e poi mi guardò storto. Lui non mi avrebbe mai perdonato per quello che
gli avevo fatto. Deglutii, e tornai immediatamente a guardare Nemys. Avrei
dovuto temere quell’elfo, sempre. Non sarebbe mai stato mio amico, lo
sapevo. Avrebbe cercato di ostacolarmi, e ne ero cosciente. Maledizione. Dopo
una breve pausa, in cui i bisbigli divennero più forti, un ronzio di
alveare disturbato, Nemys riprese a parlare. Calò il silenzio.
“cosa vuoi fare, allora, Lsyn Amarto, per ripagare tutti i debiti che hai
con noi?”. Domandò, formale e solenne come prima. Digrignai i
denti, e lasciai passare qualche attimo. Quello che stavo per dire era
incredibilmente difficile da dire. Stavo per rifiutare una vita intera.
“rinnego la mia identità d’Ombra, Spia del Regno”.
Quelle parole tremanti ebbero un effetto terrificante. Esplosero commenti ad
alta voce, risatine, niente di particolarmente amabile nei miei confronti.
Qualcuno m’insultò. Strinsi gli occhi. Era orribile essere trattata
così. Era umiliante. Faceva più male di mille coltelli. Io volevo
solo essere amata, essere accettata. Sentii dei rumori vari.
D’improvviso, ci fu di nuovo calma. Ancora ad
occhi chiusi, trattenendo a stento le lacrime di umiliazione che minacciavano
di uscire, proseguii. La mia voce era lievemente spezzata. Non potevo farci
nulla. “rinnego i miei abiti scuri, per indossare l’identità
viola del Porporato”. Il silenzio si caricò di stupore. Lo
sentivo, lo avvertivo. Non si sentiva più nemmeno un fruscio. Dovevo
aver colto di sorpresa tutti. Era bello saperlo. “Io chiedo umilmente di
essere accettata, da voi, Matriarca, e dal popolo tutto, di cui ora è
presente una parte. Rinnego la mia esistenza, e vi dono la vita. Chiedo di
poter diventare la Ch’argon di Uruk, e con questo, legare la vita a voi,
divenire la vostra più fedele servitrice. Rinnego la mia fedeltà
a Lainay di Normar, usurpatrice ed omicida”. Le mie parole stavano
finalmente prendendo il colore che avrei sempre voluto. Si stavano riempiendo
di genuina passione. E con questo che crepino tutte le Spie che mi stavano
sicuramente sentendo. Mi morsi la lingua per non peggiorare la mia situazione
con epiteti più forti. Avrei tanto voluto insultare Lainay. Sarebbe
stato troppo divertente. Ma non potevo infrangere la formale sacralità
del rito con qualche bestemmia. “rinnego la mia stessa autonoma
esistenza”. Riaprii gli occhi, e lanciai uno sguardo carico di fuoco, di
sfida, a Nemys. Lei si stava mordendo le labbra, la pelle intorno agli occhi
divenuta sottile ed ancora più pallida. Ci fu un vero e proprio boato.
Non mi girai a vedere le reazioni di tutti. Mi bastava vedere Isnark,
praticamente pietrificato al suo posto, rigido come una statua. Era già
abbastanza soddisfacente. Gli scoccai un’occhiata supplichevole, anche se
caricata di una certa ironia. I tagli che gli avevo lasciato scintillarono al
sole, alla luce del bel mattino estivo, quando lui strinse lo sguardo, con una
smorfia di disprezzo stampata in volto. Non si fidava ancora di me. E forse non
si sarebbe mai fidato. Deglutii, e riportai lo sguardo su di Nemys. Qualcuno
stava ripristinando il silenzio. Nei suoi occhi azzurri c’erano ora le
lacrime. Ci scambiammo un sorriso, lei un sorriso tremulo, io trionfante. Il
vero divertimento stava per iniziare. Mi preparai al dolore che sarebbe venuto.
Sapevo che non si trattava di una cerimonia semplice, ma ne ero contenta.
Meritavo tutto quello. Lo meritavo, per trecento anni di stupidità.
Tirai un grande respiro. Ben presto, tornò la calma. Mi scambiai un
altro sguardo con Nemys. Lei sembrava ora implorante. Sapevo che mi stava
chiedendo in silenzio di rifiutare tutto quello. Feci un leggero segno di
diniego. Lei socchiuse gli occhi. Sospirai di nuovo. Quello era l’unico
modo per scampare all’odio, per guadagnare la fiducia di tutto il
Matriarcato. Ebbe così inizio un antico rito, quel rito che, anni prima,
nella mia innocente giovinezza, mi aveva affascinato molto. La Matriarca
parlò. “sei di cuore puro e di solida volontà?”.
Disse, guardando tutti, cercando di mantenere un contegno. Sapeva anche lei
quello che sarebbe venuto dopo, e la sua parte non sarebbe stata la più
piacevole. Decisamente io non avevo quelle qualità. Le sue parole erano
vane, messe a mio confronto, a confronto della creatura debole che ero. Dovevo
essere sincera, d’ora in poi. Quel giuramento, in caso di anche una sola
bugia, per quanto minuscola fosse, mi sarebbe costato la vita. “non ho
cuore puro, e la mia volontà ha fin troppe volte vacillato. Ciò
che sono stata ha distrutto i residui della mia innocenza”. Dissi, con un
tono molto amaro di voce. Sentii un mugugno. Sembrava la voce di Isnark.
Beh…aveva i suoi motivi per essere scettico. Quasi quasi
lo ero anch’io. “quello che ho da offrire è solo la
fedeltà, la fedeltà senza confini, e la mia buona fede e buona
volontà”. Dopo di quello, la Matriarca si rivolse ai miei tre
Compari, chiedendo, a ciascuno di loro, se qualcuno mi avesse costretta a
giurare, o se la mia volontà fosse davvero limpida, quando avevo deciso.
Le tre risposte furono tutte affermative. Tremai un attimo
quando fu il turno di Junielle, che esitò un po’ troppo a
lungo, prima di decidersi a rispondere, ma poi tirai un sospiro di sollievo. La
parte più semplice era fatta. Rimasi a guardare, tesa come una corda di
violino, Nemys che, mordendosi il labbro, più tesa di me, prendeva la
mia spada dal cuscino, e la sguainava. Tenendo la spada di Eiron come se fosse
un serpente velenoso, con una strana, buffa smorfia in viso, la Matriarca
tornò di fronte a me. “ed allora, con i doni che hai…”.
Disse, con voce davvero tremante, deglutendo un paio di volte, nervosa,
porgendomi la spada, una voce che sembrò acuta nel silenzio carico di
aspettativa che si era creato. Isnark si protese dal
suo scranno. Mi sembrò un falco dal suo nido, un falco interessato. Sogghignai
lievemente. Era un paragone davvero adatto. “giura”. Io afferrai la
spada, afferrai la sua elsa filigranata, la strinsi forte. Quasi mi sentii
tornare quella di un tempo. Lo stomaco si calmò. Sentii il freddo dell’acciaio
e dell’argento, la compagnia del mio alato, defunto amico, e sentii il
coraggio tornare. Quella sarebbe stata la parte più dolorosa, io lo
sapevo. Mi aspettavo di sentire una sofferenza pari a ferro fuso riversato
nelle vene. Strinsi i denti, e caddi in ginocchio.Quello su cui ero caduta protestò
vivacemente, ma io, quasi non me ne accorsi. Con l’altra mano, mi scostai
il mantello, e mi arrotolai la manica del braccio sano, protendendolo verso
Nemys. Non volevo aggiungere cicatrici alle cicatrici. E quella era troppo
importante per mischiarla. Il segno di riconoscimento del Porporato. Poi,
digrignando i denti, passai la spada a quella mano, la mano ferita, la mia mano
destra. Guardai verso Nemys. Aveva gli occhi socchiusi. Era ora di cominciare
un antico rito, un rito che aveva radici nella notte dei tempi. Mormorai, tra
me e me, una parola, che risuonò, carica di quel poco di magia che
avevo. Sentii, immediatamente, incombere su di me una coltre opprimente e
dolorosa. Era orribile, una sensazione tremenda, come essere schiacciata. Mi si
mozzò il fiato. “io giuro…”. Ansimai, abbassando lo
sguardo, per non vedere il viso preoccupato di Nemys. Sapeva quanto io stessi soffrendo. Ed ero solo all’inizio.“di
legarmi…al Matriarcato di Uruk, come Ch’argon, come messo…di
legarmi da esso… a vita, e che… la vita
fugga da me…in caso di bugia e tradimento. Sangue al sangue, aggiungo…perché
il messaggio penetri in fondo al mio essere, per essere… legata a questo
regno”. Di nuovo, borbottai una parola, una delle altre quattro parole
che avrei dovuto pronunciare. Il dolore aumentò, l’oppressione al
petto. Sentii il cuore rombare nelle vene. Mi sembrava di soffocare. Allora colpii,
colpii il braccio, con un taglio orizzontale, non troppo profondo, ma che
avrebbe lasciato comunque il segno. Chiusi gli occhi, e gemetti, trattenendomi
a stento dall’urlare. Sembrava che il mio braccio
stesse andando a fuoco. Era orribile, orrendo, non lo sopportavo. Oh, dei…fate che finisca presto. Mi costrinsi a mormorare
un’altra parola. Il dolore aumentò, espandendosi allo stomaco,
boccheggiai. Non riuscivo a respirare. Era sempre così. Se solo avessi
mentito, quella sarebbe stato capace di uccidermi. Ma non successe nulla. Sentii
la gente tirare il fiato. E, per un attimo, mi aspettai anch’io di
morire. Ed invece non successe nulla. Nell’inferno in cui ero
precipitata, gioii per un attimo. Qualcuno, presumibilmente Nemys, mi aveva
preso la spada di mano. Dei. Altre tre parole. Solo altre tre.
Solo altre tre. Ma già era insopportabile. Mi morsi
la lingua, e digrignai di nuovo i denti. Il peggio stava per arrivare. “giuri
così, Lsyn Amarto, di servire Uruk sempre ed in ogni caso?”. Domandò
Nemys, la voce che le tremava. Ovviamente, che lo giuravo. Tijorn, perché
non eri lì? Sperai che, dovunque egli fosse, mi stesse guardando, e che
fosse fiero di me, di quello che stavo diventando. Ero sicura che ora se la stesse ridendo, orgoglioso della sua Nanetta. “lo
giuro…”. Mormorai, con una voce soffocata, gli occhi serrati e la
testa bassa, il braccio proteso, sotto tortura per mia stessa volontà. Sussurrai
una delle altre tre parole nello stesso momento in cui Nemys m’infliggeva
un altro taglio, perpendicolare al primo. Il dolore aumentò, fino a
farmi sembrare di essere immersa in un fuoco di drago. Oh, dei. Fatemi morire. Solo altre due parole, solo altre due…poi sarebbe
finito tutto. Solo altre due. Poi sarei stata amata ed
accettata da tutti. Fu solo quel pensiero che m’impedì di ritirare
il braccio, che scottava e sembrava gonfio, e di fuggire, tra il dileggio
generale, e di piangere. Sentii il sangue scorrere, gocciolare in terra. Dopo una
piccola pausa, incespicando sulle parole, la Matriarca continuò. Sembrava
anche lei soffrire per me, a giudicare dal tono rotto di voce. Dovevo avere un’espressione
orrenda. “giuri così di mai tramare il male, di fare del tuo
meglio per il benessere di Uruk, e solo di Uruk, libera da ogni fedeltà
al sovrano, di difenderlo con tutte le tue forze?”. Una domanda
praticamente scontata. Mi morsi più forte la lingua, e cercai di
prendere fiato. “lo giuro…”. La mia voce era soffocata,
orrenda da sentire, piena di dolore immenso. Ed ogni parola era una fatica. La gola
formicolava. Mormorai la parola. E poi gemetti forte quando
lei m’incise il terzo taglio, tra i primi due, quasi urlai. La gola
sembrò andare a fuoco. Mi morsi le labbra per non cominciare a
singhiozzare. Ma era davvero troppo, davvero troppo, una sofferenza tremenda da
sopportare. L’ultima. L’ultima, e sarei stata libera. Sarebbe tutto
finito. Tutto finito. Non avrei sofferto più. Sarei stata felice. Dovevo
essere contenta di non essere morta alla terza parola. Quello voleva dire che
ero in buona fede, che non avevo mentito. Quella sofferenza atroce ripagava
tutte quelle che avevo causato a quelle povere persone. Le parole seguenti di
Nemys furono davvero rotte. Anche lei stava soffrendo terribilmente, con me. Forse
stava piangendo, tute le lacrime che stavo trattenendo io. L’odore
metallico del sangue era orribile, e mi stava nauseando. Coraggio. Solo un’altra
parola. Poi sarebbe finito tutto. Ma mi sembrava di andare a fuoco, stavo
andando a fuoco. Avevo provato un dolore simile solo quando
ero stata ferita, solo quando mi ero svegliata, bendata da capo a piedi. Solo quella volta. Quella era la sofferenza della magia. Sofferenza
da potere. Insopportabile era dire poco. Lo stomaco era contratto all’inverosimile.
Ringraziai di non aver voluto mangiare. E così, l’ultima parte del
giuramento si concluse. Aspettavo con ansia quel momento. Tutto sarebbe finito.
Tutto. Solo un’altra parolina, una sola. “giuri”. Singhiozzò
Nemys, stravolta dal mio dolore. “di rimanere legata ad Uruk fino alla
tua morte, senza possibilità di scampo, o fino alla caduta di esso, fino a quando l’ultima persona smetterà
di credere nel Matriarcato e nell’ideologia che esso porta?”. Ecco.
Ora sarebbe arrivato il peggio. Sapevo cosa sarebbe successo, e non m’importava,
davvero. La mia voce era un sussurro pieno di dolore tremendo. “lo giuro…”.
Sibilai, prima che Nemys m’incidesse l’ultimo taglio,
perpendicolare al terzo, in modo da formare una piccola stella sul braccio, un
segno fin troppo evidente di ciò che ero diventata, e prima che
mormorassi l’ultima parola, il sigillo a quello che avevo finora detto. La
sofferenza più enorme, insopportabile, terribile, m’invase,
superiore ad ogni prova mai superata fino a quel momento. Il braccio parve
esplodere, tanto era forte la pena, ed una specie di scarica simile a quella
del Tengu si propagò lungo la mia schiena, un gelo che mi fece venire la
pelle d’oca. Mi contorsi dal dolore, ed urlai, ululai, lasciando che le
lacrime scorressero libere sul mio viso. Oh. Volevo morire. Volevo morire. Singhiozzai.
Sentivo il potere avvolgermi, strozzarmi, facendomi mancare il fiato,
uccidendomi. Tutto il corpo era ormai andato a fuoco. Mi sembrava di essere di
nuovo nel Lazzaretto,combattere con delle tremende ferite, che mi facevano urlare e
dibattere, aumentando ancora la pena. Quella sofferenza sembrò
aumentare, aumentare, aumentare, un inferno senza tempo, facendomi desiderare
nient’altro che l’oblio. Ad un certo punto, cosa strana, com’era
venuta, la sofferenza scomparve. Scomparve così, d’incanto, senza
dare nemmeno il minimo preavviso. Mi sentii, così, improvvisamente,
bene. Aprii gli occhi, e fissai, sbalordita, la ferita. Era rimarginata,
completamente. Di essa rimanevano solo quattro
cicatrici argentee, unite a formare una specie di asterisco, una stella. Ancora
in lacrime, sorpresa, la testa leggera, stordita e debole, il cuore che batteva
come impazziva, uno scroscio nelle orecchie, alzai così lo sguardo. Nemys
mi stava guardando, le braccia tese verso di me, senza potermi aiutare, sul viso impressa un’orrenda espressione, come se
fosse lei sotto tortura. Isnark, dietro di lei, aveva gli occhi sgranati, e mi
guardava, spaesato. C’era un silenzio di tomba. Io mi sentivo malissimo. Vedevo
tutto offuscato, e la testa mi girava. Era logico, fino troppo logico. Non dormivo
bene da gironi, e non mangiavo da chissà quanto. Mi sentivo di svenire. Stavo
per svenire: lo avvertivo chiaramente. Cominciai a non capire più nulla.
Mi forzai così a dire le ultime parole, una voce sottile, sofferente,
affannata. Non trovavo più il fiato per parlare. “e che questo…”.
Sibilai, annaspando. Mi sentivo malferma. Le orecchie erano piene di un ringhio
di drago, di un ruggito. Era fastidioso. Sbattei gli occhi. Cominciavo ad
essere stanca, molto stanca. La sofferenza aveva dato
il colpo di grazia. Oh, Tijorn, questo l’ho fatto per proteggere la
nostra famiglia, i nostri cari. Perché era morto? Non avrei sofferto
così. Ma ora era troppo tardi. Ero divenuta una Ch’argon, la Ch’argon
di Uruk. Tutti si sarebbero dovuti fidare di me. Perché io non mentivo. Non
avevo mai mentito. Se solo l’avessi fatto, sarei già morta. Stavo malissimo.
Non era una passeggiata, quel rito. Decisamente molto doloroso. “e che
questo sia…faccia… da suggello…per ciò che sono
diventata”. Mi assalì, non appena completai il rito, un giramento
di testa più forte degli altri. Mi sentii crollare. E poi non ci fu
altro che il buio, di nuovo. Stavo prendendo a svenire un po’ troppo
spesso. Ma ero troppo debole per superare quella terribile prova indenne. Ero contenta,
però: avevo dimostrato la mia fedeltà. Non c’era cosa
migliore. Avrei protetto tutti. Ed il mio ultimo pensiero, prima di svanire in
quel riposante oblio, che mi avrebbe fatto dimenticare per un po’ la mia
identità, fu per Tijorn. Si: doveva essere fiero di me. Avrei costruito
un grande futuro, per il suo piccolo.
Per un tempo che mi parve infinito, non ci fu nulla
Per un
tempo che mi parve infinito, non ci fu nulla. Né sogni, né
incubi, né la percezione di esistere. Rimasi nell’oblio per un
sacco di tempo. Il rito mi aveva rubato le ultime forze, quelle ultime forze
che avevo conservato strenuamente, e che erano state saccheggiate da quella
cerimonia pericolosa. Non mangiavo decentemente, fatta eccezione per un
po’ di pane ed acqua, da un sacco di tempo, né dormivo bene. Avevo
passato quattro mesi terribili, di viaggi, sofferenze, ferite,il riassunto di cinquant’anni da
Mostro. A parte qualche breve parentesi di pace, il mio peregrinare non era
stato altro che una somma di sofferenze immani. Cinquant’anni in cui sono
stata rifiutata dalla gente, cinquant’anni in cui non ho fatto altro che
sentirmi poco accettata, rinnegando la stessa me, la mia essenza, dimenticando
la mia umanità, divenendo un blocco freddo didogmatica fedeltà.
Cinquant’anni in cui non ero stata altro che un ammasso di illusioni e ghiaccio,
in cui avevo volontariamente bandito tutti i buoni sentimenti, tutto
l’amore ed il dolore, in cui avevo ignorato il mio caro fratello. Tijorn,
la mia nuova ossessione, quell’elfo meraviglioso, sempre umano,
illimitato nei suoi limiti di mortale, quel fratello prezioso, complice,
l’idealista dalla ragione sempre dalla sua, il realista dal cuore
d’oro. Tijorn, quell’elfo che era morto nel sacrificio, per
salvarmi. Era giusto che anch’io mi sacrificassi per coloro che lui aveva
salvato, e per ciò che rimaneva di lui, per le sue illusioni ed i
ricordi che questi elfi cari portavano con me. Amarto, il Maestro che ci aveva
allevati, colui che consideravo come un padre, Nysha e Manolìa, le
gemelle che erano state allevate da lui per sessant’anni, che portavano
il marchio della sua educazione, Akita, la sua compagna, ed il piccolo senza
nome che sarebbe nato in inverno, nel gelo, quell’infante che la mia cara
amica voleva chiamare Machin* a tutti i costi. Io dovevo proteggere
loro, ed era giusto che mi sacrificassi per il loro benessere. Perché,
dopo essermi quasi uccisa per divenire Ch’argon, dopo che avevo passato
degli attimi nel fuoco più terribile e purificatore, tutti mi avrebbero
amata, si sarebbero fidati di me, e dei miei compagni. Quando mi risvegliai, mi
ritrovai in un altro letto, un’altra stanza, le camere che poi sarebbero
divenute mie, dove sarei rimasta per un tempo incalcolabile, per mesi e mesi e
mesi. È un bel posto, dai colori tenui e rilassanti, una camera da letto
che da su un balcone, una piccola balconata sul lato nord di Kyradon, dove si
vedono le montagne, le montagne da me tanto amate, che avrei voluto raggiungere
solo poco tempo prima, con un piccolo studiolo di legno chiaro, ed un bagno, il
mio rifugio quando non voglio essere trovata da nessuno. È un luogo che,
quando sono qui, nel castello di Kyradon, è divenuto la mia tana,
insieme alla biblioteca. Mi sembra strano che io, elfa un tempo appassionata,
piena di forze e smaniosa di entrare in azione, sia divenuta così, una
sorta di caricatura ferita di Akita, che nulla m’importasse, tranne la
salute dei miei piccoli, i miei protetti, e la compagnia di un buon libro,
sempre. O scrivere, scrivere, scrivere, dare corpo ai fantasmi che
m’infestano la mente, che mi fiaccano, che mi turbano il sonno. Stavo
malissimo. Qualcuno era accanto a me, che mi accarezzava, e mormorava il mio
nome, una voce dolce, femminile, che mi riscaldava il cuore. Quando aprii gli
occhi trovai l’intera brigata ad aspettare il mio risveglio. La mia
camera da letto era divenuta piuttosto affollata. C’erano Max, Junielle,
Amarto, i piccini con Dae, Zipherias e Capouille, entrambi piuttosto ansiosi,
il primo che si appoggiava pesantemente ad un bastone, stanco, il secondo
tornato il verme timido di sempre, il monolitico Benagi, e, in disparte,
perfino Isnark, che sembrava molto concentrato a far finta che non esistessi.
Fu una sorpresa enorme notare chi c’era più vicino a me. Le mie
elfe preferite. Nemys, con le lacrime agli occhi, sconvolta, che si
scusò e scusò per avermi costretta a fare quello che avevo fatto,
che avrebbe fatto di tutto per me, che continuò a ciarlare e ciarlare,
addolorata, spaventata, abbandonando tutta la solenne sicurezza che
l’aveva da sempre contraddistinta, da quando la conoscevo, sembrando
quasi una bambina, fino a quando io, scocciata, non le posi una mano davanti
alla bocca, con sforzo enorme, e non le sorrisi, ed Akita. Sobbalzai quando la
vidi. Si era vestita totalmente di nero, un colore che non aveva indossato mai,
un colore che aveva sempre odiato, ed aveva i capelli legati. Rabbrividii:
sembrava una figura d’incubo. Dov’era finita la mia Akita
giocherellona? Era morta insieme al compagno, o solo momentaneamente
seppellita? Era abbastanza pallida, l’aria sbattuta e tirata,
l’espressione di chi si aggrappa solo ad un sassolino per non cadere nel
burrone della disperazione più assoluta. Mi sentii estremamente ansiosa
appena la vidi. In fondo, era la compagna di Tijorn. Solo lei poteva capire il
mio dolore, la mia scelta, ma solo lei poteva odiarmi per ciò che avevo
fatto al suo amato. Ma lei mi stava guardando, preoccupata, ma seria, come se
la cosa, come se quella faccenda umana non la toccasse più di
tanto.Nei suoi occhi chiari, quel
colore anonimo e slavato, quell’azzurro acquoso, non c’era
piùquell’espressione
da eterna bambina, un po’ innocente, un po’ maliziosa, tanto
ingenua, che l’aveva da sempre caratterizzata, quell’espressine di
chi non smette mai di sperare in un futuro migliore. I suoi occhi erano quelli
di una donna adulta, ormai. C’era disillusione, dentro, e tanta, tanta
durezza, rassegnazione, ma una speranza feroce, qualcosa che le brillava dentro
come cani rabbiosi in fondo a tane profonde. Povera piccola mia. La sofferenza
doveva essere stata tanta anche per lei. Lei era la sola in grado di capirmi.
Ci bastò un solo sguardo. Lei non odiava me. Non sembrava in grado di
odiare nessuno, tanto era il grado della sua sottomissione, della sua
passività. Sembrava attendere qualcosa, attendere un’epifania, che
le avrebbe mostrato la sua strada, una strada che forse stava già
percorrendo. Rivolte a lei furono le mie prime parole, che mi fecero girare la
testa, e chiudere gli occhi. Le chiesi del bambino, e di come stesse lei. Lei
eluse la seconda domanda, carezzandomi i capelli, che erano divenuti, a quanto
mi sembrava, una massa né riccia né liscia, ma almeno, a detta
sua, il piccolo stava bene. Non aveva subito danni per il trauma che aveva
colpito la madre, il trauma della morte di Tijorn, senza il quale non faceva
mai un passo, e, a detta di tutti i Guaritori, indistintamente, da cui era stata
visitata, perché Max non riusciva più a fidarsi del suo giudizio,
non ci sarebbe mai stato pericolo per lui, perché lei era forte. La voce
le tremò dopo quelle poche parole, e si spense. Mi sentii preoccupata, e
sollevata al tempo stesso. Il mio nipotino stava bene, ed era una cosa
importante. Ero divenuta Ch’argon per lui, per lui soprattutto. Akita
invece, mi dava a pensare. Sembrava non aver più vita, agire per pura
inerzia. Sperai che si riprendesse, che la vita che fioriva in lei le desse una
speranza, una forza per ricominciare, per ricostruire qualcosa sopra le macerie
che la morte del suo compagno aveva lasciato. Sperai che fosse davvero forte
per sopportare tutto quello. Poi non mi chiesi più nulla. Cominciai a
sentirmi di nuovo male. Il braccio riprese a pulsare.
Dopotutto,
non mi andò così malaccio. Tutto sommato, rimasi a letto solo per
una decina di giorni, costretta a riposo assoluto dopo che, il quinto giorno,
avevo insistito per officiare insieme alla Matriarca alle udienze settimanali,
per prendere finalmente il mio posto come Ch’argon. Avevo smaniato per
giorni. Dovevo guarire, dovevo mettermi in piedi. Era gratificante vedere la
soggezione in cui erano le persone quando mi guardavano, ed il nuovo rispetto
nei loro occhi. Solo pochi irriducibili, a detta della Matriarca, ancora mi
detestavano. Purtroppo, tra loro, c’era ancora Isnark. Sebbene fossi
divenuta la loro più fedele servitrice, ancora non si fidava di me.
Diceva di non potermi perdonare le sue ferite. Tuttavia, nonostante tutte le mie
preghiere per alzarmi, stavo ancora maluccio. Ero svenuta a metà
mattina, troppo debole per affrontare altro, ed ero rimasta incosciente per
tutto il giorno. Da quel momento in poi Nemys decretò che, fino alla mia
guarigione completa, sarei rimasta a riposare, con limitate possibilità
di movimento, e solo nelle mie stanze, ma non nello scrittoio, che a detta
della mia asfissiante Matriarca era troppo freddo, troppo ventilato, troppo
umido, eccetera eccetera eccetera. Quella Rinnegata teneva davvero a me in un
modo incredibile. Era strano vedere una persona così affezionata a me.
Ben presto, lei divenne il mio punto principale di riferimento. Scoprii, nella
mia degenza, imprigionata da un’ennesima mamma chioccia, che la stima,
anche l’amore, a volte, nei miei confronti, stava aumentando. Sempre
più persone si fidavano di me, e non mi odiavano più. Avevo
dimostrato il mio cambiamento, il mio sacrificio, nel modo più efficace,
ed ora tutti avevano compreso. Le cameriere che venivano la mattina, per
svegliare me e le persone che mi stavano accanto la notte, avevano preso, dopo
il secondo malore, a parlarmi, a chiedermi come stessi, ad informarmi del
tempo. Prima avevano solo parlato con la guardia di turno, e mi avevano sempre
ignorata. Giudicai positivo quel cambiamento, e ne gioii. Non ero mai sola. Di
solito, ruotavano tutti, ma Akita era sempre con me. Si aggrappava a me,
sebbene non lo dicesse apertamente, come il muschio fa sui tronchi degli
alberi, decisa. Si era fatta portare pure una comoda branda, e si era accampata
lì. Non parlava volentieri, e mi teneva sempre la mano, a volte
chiedendomi di raccontarle qualche episodio della mia vita, qualcosa di
divertente, dove però Tijorn non ci fosse, qualcosa di molto difficile
da fare, visto che avevamo sempre agito come due organi di uno stesso corpo.
Non volle mai parlare di lui. Allora io cercavo di farla ridere, di raccontarle
le mie fughe solitarie dal quartier generale, fughe di cui non sapeva nulla,
delle mie missioni più buffe, delle volte in cui avevo impersonato degli
infanti, con Spie anziane a farmi da “padre”, delle volte in cui
avevo combinato dei guai tremendi, dei pranzi con re e regine, delle
contrattazioni, del mio tuffo nel lago ghiacciato. Lei non reagiva. Non rideva
né piangeva mai, o non davanti a me. Si limitava, quando io avevo
finito, a chiudere gli occhi, e sospirare, a volte rimanendo in silenzio, a
volte dicendo semplicemente. “un’altra”. Io obbedivo, con la
morte nel cuore. Era terribile vedere la vivace Akita così. Spesso,
quasi sempre quando eravamo sole, si sedeva fuori, godendosi il sole, per ore
ed ore, abbracciando assente il ventre che cresceva. Allora borbottava
qualcosa, e guardava l’orizzonte. Non riuscivo mai a vederla così
sconfitta, mai. Così mi alzavo, vincendo la debolezza, e la raggiungevo,
sedendomi a terra. Ed allora ci prendevamo per mano, per sostenerci, e
guardavamo entrambe le alte montagne, dalle punte sempre innevate. Il nostro
dolore era lo stesso. Condividevamo lo stesso destino, o stesso ricordo, la
stessa persona da piangere. Ma nessuna delle due lasciava che l’altra
vedesse le lacrime. Eravamo troppo orgogliose. Sperai ardentemente che la mia
dolce amica si riprendesse. Avrei fatto di tutto per aiutarla. Quando eravamo
in compagnia, lei, seppure sempre più silenziosa del solito, cercava di
parlare, di fare battute, con scarso esito. Era sempre più amara ed
aggressiva del solito. Sapevo cosa avesse, lo sapevamo tutti. Nessuno si
offendeva quando lei ci attaccava, sarcastica, sardonica, ironica, mordace. Il
lutto le aveva affilato gli artigli, creato un guscio che tutti ignoravano, ma
che tutti cercavano, allo stesso tempo, d’infrangere. Io aspettavo.
Sapevo che, prima o poi, lei avrebbe superato tutto, forse un po’
più ammaccata, ma avrebbe superato. E, anche se io piangevo, anche se mi
tormentavo, mi uccidevo, la notte cercando di non dormire molto per non
spaventare nessuno con i miei incubi, i miei strilli disperati, com’era
successo un paio di volte, non lo davo a vedere. Dovevo superare la morte di Tijorn,
per il bene di tutti. Dovevo riuscirci. Dovevo essere io forte. Tra le persone
che più spesso mi venivano a far visita c’erano piccoli, presenza
fissa il pomeriggio, con cui io ed Akita giocavamo, sotto lo sguardo vigile di
Dae, e che cominciavano a fidarsi sempre più di noi, fatta eccezione per
Nysha, l’allieva silenziosamente preferita da Tijorn, che aveva da sempre
un debole per lei, perché diceva che fosse identica a me da piccola.
L’infante sembrava staccarsi praticamente da tutti, anche dalla gemella, che
sembrava soffrirne. Cercai di essere buona e dolce anche con lei. Aveva bisogno
di tempo per elaborare il lutto, anche lei. Aveva voluto molto bene al Maestro.
Manolìa era sempre stata più dolce, ma molto più forte di
lei, e più indipendente, nonostante non sembrasse. Era dura staccare
Roxen e Chekaril da me. I miei guardiani preferiti erano Zipherias e Capouille,
sicuramente. Sembravano avere entrambi una certa simpatia per me, anche se
ognuno dei due non sopportava l’altro. Io adoravo principalmente il
primo, il calmo ed ironico Zipherias, galante sia con me che con Akita, una
roccia su cui potersi aggrappare sempre, un po’ cinico, delle volte, e
testardo come un mulo, orgoglioso, ma decisamente pieno di volontà ed
intuito. Ci aveva raccontato, una notte, di come si fosse azzoppato. Era stato
durante un agguato, nei primi tempi della sua vita da elfo vero. Ammetteva
senza problemi di essere stato un Rinnegato, e non se ne faceva un cruccio,
perché ormai non lo era più, anche se odiava parlare del suo creatore,
cosa che non fece mai, nonostante tutte le domande che gli ponessi. In
quell’orribile carneficina, come ci disse con una strana indifferenza,
era morta la sua compagna, Sinyel. Era stata una Rinnegata come lui, ed insieme
avevano oltrepassato i secoli. Fui meravigliata di apprendere la sua
età. Era, secondo il calcolo degli elfi, un anziano, anzi, sarebbe
dovuto morire, mentre appariva un giovane, poco più vecchio di me ed
Akita. Con una scrollata di spalle, il gigante scuro disse che era normale, e
che davvero per un elfo aveva quanto me. Poi aveva continuato con la sua
storia, terribile come sempre. Una pattuglia quotidiana era divenuta un
massacro. Erano stati elfi del Regno. Nel tentativo di salvare Sinyel, un
soldato come lui,, si era esposto, lui, a cavallo, un po’ troppo. La sua
cavalcatura, uno dei bestioni tipici del meridione, cavalli enormi, robusti e
dai manti scuri, su cui non sarei mai potuta salire, era stata colpita da una
freccia vagante, ed era caduta, trascinando lui sotto. L’impatto era
stato così forte, e la bestia così pesante, che si era rotto una
gamba in più punti, ed era stato un miracolo che il bacino non si fosse
polverizzato. Era così conciato male che i Guaritori avevano temuto rimanesse
paralizzato. Se l’era cavata con una zoppia molto marcato, ma, da allora,
preferiva entrare in guerra solo in casi estremi. Sarebbe dovuto essere il mio
più grande detrattore, perché Normar gli aveva portato via la
compagna, invece non m sembrava così, e fu una cosa che gli chiesi.
Ammiravo la sua freddezza, la sua indifferenza totale. Lui mi rispose che non
odiava chi conosceva il lutto, chi conosceva quel dolore immenso. Poi si
zittì, e non parlammo più. Amavo davvero la sua compagnia.
Sembrava capirci, capirci alla perfezione. Capouille era sempre troppo
silenzioso, troppo nervoso, troppo preoccupato di dire la cosa sbagliata, e
spesso rimaneva in un silenzio agitato, o balbettava tanto da rendere
incomprensibili le sue parole. Akita non lo sopportava. Andava a dormire ogni
volta che lo vedeva arrivare, per il turno notturno. Ben presto, anche Amarto e
Benagi presero a farmi compagnia. L’elfo scuro sembrava aver preso in
simpatia il vecchio, e non mi guardava più con ostilità.
Finalmente, mi ripresi. Fu una vera gioia, un giorno, andare a passeggiare per
il castello, ed il tempio, senza debolezza, intabarrata nella mia livrea scura,
attorniata dagli sguardi rispettosi delle persone che m’incrociavano,
senza che mormorassero al mio passaggio. Pian piano, la stima si
trasformò in amore. Furono mesi convulsi, in cui non ebbi il tempo di
pensare a me stessa. Il mio ruolo di mamma, zia, Ch’argon di Uruk, amica,
confidente, aiuto, spalla su cui piangere, eccetera, mi assorbiva troppo per
pensare alla mia pena segreta, ai miei incubi notturni, al mio tormento, al mio
rimorso, che non se ne sarebbe andato mai. Cominciai ad occuparmi della
protezione degli affari privati, cominciai a dare dritte all’esercito ed
alle guardie sui trucchi delle Spie, tradii, io, Akita ed Amarto, tutti gli
informatori di Uruk, che la mia amica conosceva, svelammo i segreti più
reconditi dell’ordine. Diventammo tutti e tre persone molto scomode per
il Regno. Cominciammo ad essere protetti. Ma nessuno osava toccarci, cosa molto
strana. Non ricevemmo minacce, segno che non ci consideravano un pericolo. Il
castello di Uruk divenne, pian piano, uno dei luoghi più impenetrabili e
difficili da spiare, per gli elfi che comandava quella bastarda di Lainay. Ma
non ci furono ritorsioni. La Regina doveva aver saputo quello che gli interessava.
O forse aveva ben altre mire. La guerra, in quel periodo, era divenuta sempre
più difficile. Avevamo ricevuto anche una delegazione segreta
dell’Impero, umani che c’imploravano di andare in loro aiuto.
Eravamo rimasti spiazzati, in una situazione di stallo che non piaceva a
nessuno. Nemys sembrava essere sempre più nervosa, di malumore. Sembrava
arrabbiata con se stessa, chissà per quale motivo. Al termine del mese
successivo, ci pervenne la notizia più terribile del mondo, una
disgrazia, per noi. Quella
maledetta aveva avuto quello che voleva. L’erede al trono del Regno,
figlio di Lainay, era venuto al mondo. Contrariamente a tutte le nostre
speranze, non era nato morto, né debole. Era un maschietto, sanissimo e
robusto, che, a detta dei nostri infiltrati nel castello di Galinne,
assomigliava molto a Lainay, con i suoi occhi, prometteva di divenire simile a
Chekaril, con la stessa corporatura alta e maestosa,ma aveva dei colori più scuri,
che non erano quelli di Cyran, il Re. Era quasi scontato che lui non fosse il
padre. Difficile pensare Lainay fedele al marito. L’identità del
padre del bambino è tuttora sconosciuta. Gli fu dato nome Kamarducil,
erede di maestà, il nome del nonno. Furono giorni molto duri per Amarto,
che prese a lamentarsi con me del suo destino, a ripetere quanto la sua amata
non fosse altro che una maledetta prostituta, e che non meritava quel regalo,
quel piccolo, destinato a chissà cosa. Non era giusto che lei avesse
tutto, e noi niente. La guerra cominciò a farsi più orribile, e
più convulsa. Arrivarono richieste di aiuto rinnovate da parte del Regno
e dell’Impero. Dopo quella nascita, Nemys divenne più cupa che
mai. Prese a stare ore in biblioteca, un posto che anch’io avevo preso ad
amare tanto, dove ero divenuta amica con il vecchio Yufrek, il bibliotecario,
cieco ed incredibilmente colto. Avevo letto una quantità enorme di
libri, di tutti i tipi. Ero rimasta affascinata da tutti quegli accadimenti,
guerre, intrighi, la storia. Mi stavo facendo una grande cultura, e la cosa non
mi dispiaceva. Ma il comportamento della Rinnegata mi lasciava perplessa. Non
voleva essere infastidita da nessuno, e ritirava il libro quando ci
avvicinavamo. Perfino Yufrek aveva l’assoluto divieto di avvicinarsi a
lei. Dopo un po’, la Matriarca, dopo un paio di giorni passati a
confabulare con Max, che si rifiutò di dirmi cosa avesse lei, prese a
chiudersi, ogni sera, per un paio di ore nei suoi appartamenti, rifiutandosi di
ricevere chicchessia. Perfino Isnark e me eravamo banditi. Un paio di volte ci
eravamo guardati, mentre eravamo cacciati via di malo modo. Eravamo entrambi
interdetti. Nessuno sapeva cosa stesse passando per la testa della mia
Rinnegata. Avevo cercato di parlarle, di capire cosa stesse tramando. Ma avevo
avuto solo un’occhiataccia, come risultato di tutto, ed
un’intimazione a stare al mio posto. Avevo minacciato Nemys, per la prima
volta. La carica che ricoprivo imponeva che io le dessi un consiglio, un
ammonimento. Le dissi che, se ciò che faceva avesse danneggiato il
Regno, io sarei stata costretta ad usare le maniere forti, e lei lo sapeva. A
quel punto, Nemys mi rassicurò. Aveva gli occhi che le brillavano in un
modo strano quando mi abbracciò, rassicurandomi. Non dovevo temere
nulla. Avevo avuto un brutto presentimento. I rapporti tra me ed il Principe
erano molto tesi, dopotutto. Quando c’ero io, lui spariva misteriosamente
dalla stanza in cui ero entrata. Non ci parlavamo mai. Dopo la nascita di
Kamarducil, Akita prese a campeggiare nella mia stanza. Non se ne andò
più di lì. Non sembrava capace di stare da sola. Non guariva dal
suo lutto, e la cos mi preoccupava. Aveva bisogno del suo tempo, ma pareva
più fragile che mai. La prima volta che sentì un calcio dal
piccolo, una sera, prese a piangere, e non si calmò per un bel po’
di tempo, fino a quando io non fui costretta a chiamare rinforzi. Da allora,
rimase sempre in silenzio, o parlando con me raramente. Ma non voleva
lasciarmi, mai. Qualche settimana dopo, era accaduto un terribile incidente,
che dell’incidente aveva ben poco. Durante una battuta di caccia, il Re
del Regno, il grande ed inetto Cyran, era stato ucciso da un cinghiale, o
almeno così sembrava. Io e
Nemys discutemmo a lungo su questo fatto. La Matriarca sembrava molo
preoccupata. Io ero tranquilla, e glielo dissi. Non avevamo da temere da
Lainay. Lei aveva quello che voleva. Povero, povero sciocco. Ci chiedemmo tutti
come riuscisse Lainay a far credere tutte quelle cose al popolo, ed ai nobili.
Era davvero astuta, ed, in più, aveva dalla sua le Spie. Ora che aveva
un figlio, vivo e sano, lui non serviva più, anzi, le era
d’intralcio. Povero sciocco. Ho sempre provato una pena immensa per
quello stupido elfo. Passò un altro po’ di tempo, un altro mese. E
la data della battaglia campale cominciò ad avvicinarsi. Grazie al mio
status di Ch’argon, io ero l’unica a stare tranquilla, anche se a
soffrire moltissimo. Dovunque ci fossimo schierati, visto che, a quanto pareva,
il nostro aiuto era indispensabile per tutti e due gli eserciti, Uruk sarebbe
stata al sicuro. Qualcosa mi diceva che, quella volta, un aiuto al Regno era
molto più vantaggioso per tutti noi. Quel sesto senso che si era
accresciuto con quella stella, quella sicurezza per certi affari che
contraddistingueva il Porporato, mi spinsero a parlarne con Isnark. Tutto
quello che ottenni fu un’occhiata meditabonda, ed un cenno. Poi di nuovo
lui mi aveva guardata malissimo. Ero fuggita. Quell’elfo mi spaventava, e
molto. Nel castello di Uruk, più i giorni passano, più la
tensione aumentava. C’era stata una chiamata alle armi collettiva, ed
anche molte guardie, tra le quali Capouille, Benagi e Zipherias, erano state
reclutate. Avevo pregato a tutti e tre di fare attenzione, e di non morire. Non
avrei sopportato vederli feriti o morti. Tenevo ormai troppo, a quei tre elfi,
tutti e tre strani. Il primo mi aveva guardato male, ed aveva detto, con voce
sicura, che solo in guerra lui si sentiva bene. Il secondo mi aveva fatto un
occhiolino, ed aveva detto che lui era forte, e che già combatteva da un
po’. Il terzo mi aveva sorriso, e, per la prima volta, mi aveva
abbracciata, dicendo che tutto sarebbe andato bene. Quel contatto mi
turbò. Non ero più abituataa quei gesti d’affetto. Persino Nemys, nella sua strana cupezza,
malinconia, come se qualcosa la rodesse da dentro, aveva preso ad essere
più distante, una cosa di cui soffrivo. Ma la capivo: stava soffrendo
per il suo popolo, ed era in pensiero per il suo compagno, che avrebbe
comandato l’attacco, a chissà quale fronte. Avrebbe deciso sul
posto. E venne il giorno della partenza, quasi in autunno, dopo la vendemmia:
un giorno di lutto per Uruk. Io, insieme ad Akita, eravamo le uniche a non
reagire. Io ero troppo preoccupata per i miei amici. Se uno dei tre, di quei
tre matti, fosse morto, io avrei ricevuto un colpo troppo grande. Tijorn era
sempre lì, in un angolo della mia mente. Facevo sempre paragoni con lui,
instauravo conversazioni mentali con lui, me le inventavo, cercavo sempre di
agire come lui avrebbe fatto, e voluto da me. La mia amica era troppo apatica.
Man mano che il piccolo cresceva, lei diveniva sempre più distante,
sempre più cupa. Sembrava stesse attendendo qualcosa, o qualcuno.
Parlava sempre meno. Non riuscivo a capire perché stesse succedendo
tutto quello. Non mi pareva un buon segno, ed avevo un brutto presentimento. Ma
cercavo di non pensarci. In quei gironi terribili, inferni pieni d’ansia
ed incertezza, la vita ad Uruk si cristallizzò. Coloro che erano rimasti
diminuirono le loro attività. Kyradon divenne stranamente silenziosa.
Perfino Nemys smise di avere quell’aria cupa, sempre un po’
tormentata, apparendo soddisfatta, anche se tremendamente preoccupata per il
suo amatissimo compagno. Smise di rinchiudersi la sera nelle sue stanze, e
prese di nuovo a coccolarmi, ad appoggiarmi come una bambina, a giocare con i
miei piccoli protetti, l’unica ventata di vitalità in quel tempo,
e, come Akita, si accampò da me per tutta l’assenza
dell’esercito. Divenne di nuovo la Rinnegata dolcissima di un tempo, e la
cosa non mi fece che piacere. Era bello averla di nuovo con me. Facevamo uno
strano trio. Una Ch’argon sfregiata, indaffarata ed un po’ esaurita
com’ero io all’epoca, una silenziosa elfa incinta, amara e sempre
più dura e silenziosa, ed una Rinnegata gentile, e buona, la Matriarca
di Uruk, che la sera si faceva spazzolare i capelli, mentre chiacchieravamo
della giornata trascorsa. Non voglio parlare di quella battaglia, che è
una cosa ignobile, che decisamente non mi piace. Posso solo dire che Lainay, il
Regno, vinse, che estese il suo dominio per tutto l’Impero, donando terre
ai piccoli regni umani rimasti neutrali, grazie all’aiuto di quelle
orribili bambole meccaniche, tenute segrete fino a quel momento, che fecero una
strage grazie alla loro strana magia, o quello che fosse, annientando
l’esercito umano. Le mie previsioni di Ch’argon si rivelarono
azzeccate. Isnark si alleò, alla fine, con il Regno, ricevendo, in
cambio della fedeltà, la promessa di non attaccarci mai, e tutto il
territorio di Sharilar. Non ci parve una grande vittoria. Era orribile aver dovuto
combattere a fianco di quel mostro di Lainay. Alla notizia, Nemys pianse, a
lungo. Per poco non la imitai. Era colpa mia se era successo tutto quello.
Senza la mia soffiata, il Regno ci avrebbe pregato solo di rimanere neutrale,
cosa che avrebbero fatto con piacere, o ci saremmo schierati con
l’Impero. Invece, la nostra fu una scelta dolorosa ed obbligata. La colpa
mi tormentò per giorni e giorni. Fui consolata dalla stessa Nemys, che
mi pregò di non tormentarmi, perché avevo riparato a tutti i miei
errori. Non riuscii a stare più calma. Passai un bel po’ nella
biblioteca, confortata dai libri e da Yufrek, che sembrava avermi preso in
simpatia. Dopo qualche giorno, finalmente, arrivarono i nostri.
L’esercito di Uruk non aveva avuto molte perdite, e ben pochi feriti.
Tuttavia, Isnark sembrava invecchiato di secoli quando tornò,
buttandosi, per prima cosa, tra le braccia della compagna, e poi guardandomi
con rassegnazione. Mi strinsi nelle spalle, poi corsi a cercare i miei tre
amici. Zipherias, il mio carissimo Zipherias, e Benagi, erano quasi illesi,
anche se molto stanchi. Erano tutti e tre al Lazzaretto perché avevano
dovuto trasportare Capouille, confuso da una brutta ferita in testa, che rimase
lì come paziente per un bel po’. Sospirai di sollievo nel vedere
tutti e tre vivi, e li abbracciai. Tutti, a parte Capouille, che non fece che
canticchiare una marcia allegra, completamente rimbecillito dal colpo in testa,
mi ricambiarono con calore. La cosa successiva che feci fu quella di andare a
cercare Max, e di trascinarlo per le orecchie, letteralmente, dal mio amico dai
capelli rossi, preoccupata che quella confusione fosse permanente. Il burbero
elfo mi rassicurò. Sarebbe tornato, come in effetti fece, normale in
poco tempo. E così, anche la guerra, che per tanto si era trascinata, si
concluse. Gli umani, quei poveri umani, furono ridotti, come l’Utopia
perversa del Regno voleva, al rango di schiavi, sottomessi ad una Regina pazza.
Era una cosa ingiusta. Non era giusto, davvero, che Lainay vincesse, che avesse
tutto. Ma doveva essere così. L’importante era che tutti i miei
protetti stessero bene, e che Uruk fosse ancora libera. Le rivolte umane che
scoppiarono nei primi tempi furono sedate con un bagno di sangue. Dopo di
allora, i dissidenti fuggirono nei rimanenti regni liberi. Poveri conigli
spauriti. Disprezzo fortemente i ribelli umani. Sono solo buoni a nulla.. Tra
noi, dopo aver ricevuto Sharilar come promesso, piombò una pace vigile,
come c’era tra gli altri regni. La potenza di Lainay turbava tutti. Era
meglio non svegliare il cane che, satollo, dormiva. Avrebbe potuto schiacciarci
tutti come insetti minuscoli. Allearsi era praticamente impossibile. Tutti
diffidavano di noi,le Spie, nei
territori di Lainay, erano più attive che mai. Un ambasciatore umano era
morto nel tentativo di raggiungerci. Dopo quell’episodio, il Regno ci
inviò la richiesta cortese di rimanere neutrali. Non era proficuo,
combattere. Era una minaccia bella e buona, e nel castello ci fu tumulto per un
po’. Passarono così re mesi. Io non raggiunsi Sharilar, non
raggiunsi la casa di Tijorn, come volevo fare. Akita era troppo debole per
affrontare un simile viaggio. Più passava il tempo, più diveniva
silenziosa e riflessiva, aspettando chissà cosa. Non mi piaceva
quell’atteggiamento. Il piccolo cresceva forte, e sano. Sarebbe nato
nell’inverno. L’inverno, inverno di sentimenti, doloroso, freddo,
in cui tutto cambiò. Max e Junielle ci lasciarono. Partirono insieme,
per un altro Lazzaretto, perché l’elfo si sentiva ancora in colpa
per la morte di Tijorn, e voleva allontanarsi per un po’, riflettere,
mentre la mezzelfa semplicemente non ce la faceva a sopportarmi. Il loro
rapporto era divenuto molto stretto, erano diventati compagni. Si consolavano a
vicenda, poverini. Per me fu doloroso vederli partire. Tuttora mi sono
rifiutata di chiedere ai Guaritori la loro destinazione. È brutto vedere
un’amica allontanarsi da te, sempre. Per qualche girono, mi sentii
davvero perduta. Non so cosa avrei fatto, senza i miei tre amici, e Nemys. I
tre soldati cominciarono ad affezionarsi in modo terribile a me, ed io a loro.
Scoprii in loro delle persone meravigliose, compreso Capouille, che non era il
verme che sembrava. Aveva una grandissima sensibilità, e, cosa che
nessuno sapeva, amava dipingere, suonare, scrivere, comporre poesie che nessuno
leggeva. Nessuno, tranne me. Lui si fidava davvero della mia persona, una cosa
che mi lusingava. Era strano vedersi accettata in quel modo. Mi piaceva, mi
riscaldava il cuore.Era davvero
dotato, quell’elfo timido, ma speciale. Il mio preferito, tuttavia,
rimaneva sempre Zipherias. Adoravo il suo cinismo, il suo modo a volte un
po’ brutale di esporre la verità dei fatti, la sua calma
invidiabile. Avevo capito che quella rivalità tra Zipherias e Capouille
non era altro che una grande amicizia mascherata. Stare insieme a quei tre era
davvero un balsamo per la mia anima ferita. Anche ad Akita piaceva la loro
compagnia. Io e lei eravamo sempre insieme. Lei aveva preso ad appoggiarsi a
me, come se fossi la sua roccia. La mia amica non parlava mai. Era sempre
più triste, pallida, sempre meno loquace, dura come una pietra.
L’unica cosa che davvero le importava era il piccolo che portava in
sé. Era l’unica cosa che pareva darle un po’ di vita. Ne
avevo parlato a Nemys, preoccupata, che mi aveva rassicurata. Una volta nato,
il bambino avrebbe cambiato Akita. Ne era certa. La Matriarca aveva cominciato
a passare molto tempo con me, parlandomi, confortandomi. Era l’unica a
cui confidavo i miei incubi, i miei tormenti, era il mio punto di riferimento.
Il rapporto tra lei ed Isnark sembrava essersi stranamente incrinato. Non si
parlavano molto, ed il Principe sembrava sempre un po’ accigliato, come
se qualcosa lo turbasse. Su questo, la Rinnegata era stata parecchio evasiva.
Non avevo voluto inferire. Non mi piaceva costringere qualcuno a confessare
tutto, soprattutto riguardo quell’ambito dei sentimenti. Dopo Chekaril
non lo facevo mai. E cadde la neve. Sostituii il mio abito di cotone con un
altro più pesante, con un pantalone, ed il mantello bordato di pelliccia
scura. Tra i due sovrani scese, all’improvviso, di nuovo la pace. Isnark
prese ad essere incredibilmente premuroso con la compagna, a fare di tutto per
lei. Cominciò a sopportare anche la mia presenza. Sospettai che lui
avesse tradito, chissà quando, la Matriarca, o qualcosa del genere. Non
potevo più essere lontana dalla verità. Si avvicinò,
così, pian piano, la data prevista per la nascita del mio nipotino.
Akita prese ad essere stranamente nervosa, quasi frenetica. Cominciò a
farmi discorsi strani. Una sera, mentre guardava la neve cadere, nella stanza
da letto, dove c’era anche un piccolo camino acceso, mentre io ero
indaffarata a preparare delle carte e scartoffie, lei si girò. “se
io morissi…”. Disse, aggrottando le sopracciglia. Sobbalzai. Non mi
piacevano quei pensieri. Le facevano male. “se io morissi tu baderesti a
Machin?”. Aveva deciso di chiamarlo, o chiamarla, così. Era un
nome che le ricordava i tempi felici passati con Tijorn, le loro schermaglie.
Non avevo osato contraddirla. A quelle parole, l’avevo guardato storto.
“stupida”. Sibilai, alzando lo sguardo dalle scartoffie, e
guardando il volto serio e concentrato, arrotondato un po’. “non
pensare a queste cose. E poi mi pare ovvio. Stai parlando di mio o mia nipote,
cara!”. Akita sorrise, come pacificata, e si girò di nuovo. Io la
guardai a lungo, inquieta. Per quel giorno non parlammo più. Ero nervosa
per lei. Non mi piaceva quel terribile comportamento. Mi faceva venire pensieri
strani in mente. Era come se lei non stesse aspettando che la morte, per poter
raggiungere Tijorn. Non mi piacevano quei discorsi. Il giorno dopo, andai a
parlare con Dae. Akita voleva che fosse lei a fare da levatrice. Si fidava
molto della vecchia elfa. Lei acconsentì, e si trasferì, per
quelle ultime settimane, accanto a noi, chiedendo umilmente a Nemys il
permesso, cosa che lei fu ben felice di dare. Il tempo previsto era agli
sgoccioli. Prese a fare molto più freddo. Passarono così un paio
di settimane. Una sera, nel mio scrittoio, mentre ero quasi pronta per decidere
di andare a letto, sentii qualcuno bussare spasmodicamente alla porta che
collegava alla stanza da letto la stanza in cui, come sempre, mi dedicavo ai
documenti quotidiani. Ero divenuta una sorta di consigliera di Nemys, e quel
compito mi toccava. Tuttavia, capii immediatamente qual era la ragione di tutta
quella fretta, schizzai ad aprire, con il cuore in gola. Mi ritrovai, come un
pensiero improvviso mi aveva detto, di fronte Akita, una strana espressione sul
volto, leggermente curva. Oh oh. Mi sentii sbiancare. Ebbi l’impressione
che, tra poco, avrei conosciuto il mio nipotino. Mi assalì, immediata, l’ansia,
un’ansia che mi rese stranamente limpida. Io ed Akita ci guardammo. “Dae,
eh?”. Dissi, con una strana voce acuta. Mi sentii terribilmente nervosa. Lei
sorrise, ed annuì, mentre il lieve sorriso si stirava in una smorfia
terribile di dolore. Agii in un lampo. Sapevo perfettamente cosa fare. Feci stendere
Akita, aiutandola nonostante fossi molto più bassa di lei, e poi corsi
dalla vecchia elfa, che mi raggiunse in un attimo. Mentre lei preparava il
tutto, io raggiunsi la guardia notturna. Le chiesi di avvisare l’intero
gruppo. Lui obbedì, scattando. Poi tornai da Akita, e le strinsi forte
la mano. Lei m’implorò di non lasciarla, perché aveva una
gran fifa. Ben presto, tutto fu pronto per accogliere il nuovo arrivato. Tutto precipitò
con incredibile rapidità, com’era successo con Tijorn. Mi toccò
sopportare le urla tremende di Akita, rese ancor più strazianti dal
fatto che, tra i singhiozzi, lei chiamasse Tijorn, il suo compagno,
chiedendogli perché lui non fosse lì con lei. Odio ricordare quei
momenti. Sembrava che queicinque
mesi di apatia si stessero tutti scaricando in quel momento. Era terribile
dover ascoltarla, dovere tranquillizzarla. Me lo chiedevo anch’io. Perché
Tijorn non era lì? Perché non era lì a vedere il suo
piccino nascere? Era tormentoso, orribile. Non amo ricordare quei momenti,
anche per un’altra cosa. Ciò che successe fu del tutto
inaspettato, e perciò molto più doloroso. Non ebbi nemmeno il
tempo di prepararmi. Finalmente, alle implorazioni terribili di Akita, si
sommò, ad un certo punto, a notte fonda, ormai, un pianto vigoroso, un
po’ arrabbiato. Eccolo lì, il piccolo diavolo. Sembrava già
volersi affermare, il frugoletto. Sorrisi, lasciandomi avvolgere da un’incredibile
gioia. Tijorn, guardaci. Guarda il tuo bambino. Tutto era stato piuttosto
rapido. Io, per fare nascere quella maledetta di Roxen, che se l’era
presa comoda, ci avevo impiegato un giorno intero, ed avevo sofferto in un modo
assurdo. Lei se l’era cavata con qualche ora di pena. Io ed Akita ci
guardammo. La mia amica era crollata, esausta, sui cuscini che le avevo messo,
ed ora mi guardava con gli occhi socchiusi ed un vago sorriso soddisfatto. “ce
l’ho fatta…”. Sussurrò, quasi a se stessa, tronfia. Poi
chiuse gli occhi. Io scossi il capo divertita. “e cosa, ne dubitavi?”.
Domandai, lasciandomi prendere da un senso di leggerezza. Era nato, il piccolo
Machin. Non c’era più nulla da temere. Akita non mi rispose, e
scosse il capo. Poverina. Doveva essere distrutta. Quasi subito, quel pianto si
era calmato, sostituito da un lamento sommesso. Dae, tenendo quel fagottino in
braccio, avvolto in un panno bianco, ci guardò. “è un bel
maschietto”. Annunciò, sorridendo. Sorrisi anch’io, di nuovo.
Era bello sapere che la vita continuava, ancora. Era davvero bello. La levatrice,
indaffarata, si avvicinò al capezzale della nuova madre, e le porse il
fagottino. Ebbi un improvviso lampo di un ciuffo rado e sparato in aria di
capelli chiari. Peccato. Il colore di Tijorn era andato perduto. Doveva avere
il colore di Akita, forse, ma ancora non si capiva. Ero curiosa, davvero. Com’era
il mio nipotino? Non vedevo l’ora di fissarlo in faccia, di vederlo
insieme alla madre, di vedere Akita sorridere di nuovo. Invece successe una
cosa stranissima. L’elfa scosse il capo, socchiudendo gli occhi, priva di
ogni forza. “no”. Sussurrò, con una voce sottilissima. Io e
Dae ci guardammo, interdette. Non mi piacque quel fatto. Non era da lei. “dallo
prima…dallo prima a Lsyn…”. Sobbalzai, presa completamente di
sorpresa. Cosa? Io, la prima? Voleva da me quest’onore? Fui zittita da un’occhiataccia
della balia, era quello il suo volere. Lei voleva così, e non era
salutare dirle di no. Così, presi con delicatezza quel piccolo fagotto,
che già prometteva di diventare alto, sotto lo sguardo attento della
balia. Dimenticammo per un attimo Akita, grande errore. Mi sentii travolgere da
un’ondata di emozione. Machin. Ciao, piccolo. Ero la zia. La prima ad
avere l’onore di prenderlo in braccio, di stringerlo a sé. Lo guardai,
presa da una felicità immensa. Akita mi aveva fatto un grande regalo. La
mia vita era piena, ora, e completa. Il figlio di Tijorn, tanto amato, protetto
ed atteso, era lì. Lo guardai. Era tutto rosso, ed aveva gli occhi
chiusi, i lineamenti contratti, ma già vedevo quanto assomigliasse ad
entrambi i genitori. Mi sentii incantata. Lì c’era Tijorn. Era lì
con noi. “non ha il tuo naso, Akita…”. Dissi, scherzosa,
senza staccare lo sguardo dal piccolo, incantata dal suo visino delicato. Non ebbi
risposta. Mi sentii travolgere da una strana ondata di freddo. “Akita?”.
Sussurrai, alzando lo sguardo. Sentii Dae imprecare, e tirare il fiato. Qualcosa,
in me, si ruppe. Di nuovo, quel vecchio panico. Capii in un attimo perché
lei aveva voluto che fossi io la prima a tenere Machin. Perché quello
che sicuramente stava sperando da giorni, da mesi, che aveva progettato da
tempo, che aveva sperato, era accaduto. Akita aveva finalmente raggiunto il suo
amato Tijorn. Era morta, morta dopo aver dato alla luce il suo piccolo, che
tanto aveva desiderato proteggere. Non c’era più nulla da fare. Mi
sentii terribilmente male. Non poteva avermi lasciato anche lei!
Augurando velocemente a tutti un magnifico anno nuovo, perché
non ho tempo, vi faccio una piccola precisazione:
*non sapevo che “machin” fosse un sostantivo francese. Ha
più o meno la valenza di “coso” “affare” in italiano. Non ridete
di me. È che mi piaceva ç__ç
Con l’augurio a tutti, specialmente a chi legge e commenta, di
un buon anno nuovo, vi lascio xD
tutti i morti che ci sono stati finora, e che ci saranno ancora
(questo lo dico per avvisarvi), sono stati pensati fin dal primo momento
così. So quanto possa dare fastidio, e far
sembrare le Memorie una puntata speciale di cronaca nera, ma, detto
sinceramente, è meglio così.
Non sarebbe stato lo stesso, ed avrei infranto i miei principi, se
avessi fatto sopravvivere anche uno solo di loro.
Sono un po’ come Eiron. Carne già morta. È orrendo
dirlo così, ne sono cosciente, ma è quello che penso. Non riesco
ad immaginarmi le Memorie con Tijorn, Akita e Machin, uniti
insieme come una famigliola felice, Lsyn a presiedere il tutto come una
dea soddisfatta.
Non mi piace, ed ha del ridicolo. Si: non sono fatta per i finali
completamente allegri.
Ma confortatevi: questo non è che il primo di tre. Già
nel prossimo ci saranno meno schiattati, promesso xD
Devo solo finire di mattare una, di cui qualcuno già sa la
fine...poi l’elenco è finito ò_O
Ecco, ho detto quello che volevo dire. È che mi premeva xD
Passo velocemente ai saluti:
un saluto e tanti baci ai miei fedelissimi, Carlos
Oliverae Selly.
Come farei senza i vostri commenti, le vostre idee, le vostre sgridate che mi
divertono tanto? =P
grazie alle 9 persone che hanno inserito la storia nei
preferiti. Non so se la stiano leggendo, ed in caso contrario un po’ me
ne duole, ma vi ringrazio lo stesso. Vedere questa storia accettata mi fa
felice. Ma un commentino, ogni tanto, giusto per segnalare la vostra presenza
ed i vostri pensieri, no?
Vabbè xD
Un altro saluto a chi legge, solamente. Mi farebbe piacere sentire
le vostre opinioni. I commenti esistono per scriverli, e le storie per essere
commentate =P
Augurandovi buon divertimento con quest’ennesimo capitolo
leggero e divertente, che non ho avuto la forza di continuare fin dove dovevo,
colpa mal di testa, vi lascio.
A domani!
Akita
----
Non ci fu
nulla da fare. Per quando Dae si sforzasse, per quanto
tutti facessero del loro meglio per riprenderla dalla tomba, Akita non ce la
fece. Uccisa da un’emorragia interna, a quanto pare,
causatale dalla posizione del piccolo Machin. Bugie, incanti da Guaritore. Io
non ero d’accordo con loro, né lo sono tuttora. E’ molto
più probabile che, dalla morte di Tijorn, della mia dolce amica, che
tanto aveva sofferto negli ultimi mesi,non fosse rimasto che il corpo,
che la vitalità si conservasse per pura inerzia, per una sorta di amore
materno. La fine del suo compagno aveva sancito anche la sua: della mia amica
era rimasto nulla fuorché l’involucro. Quella che aveva vegetato
fino a quel momento non era Akita, né lo era mai stata. Ciò che
rimaneva di lei aveva solo atteso la nascita di Machin, la nascita di quel
bambino che portava in sé una parte di mio fratello, quel piccolo che
già sentivo di amare come se fossi la madre, e forse anche di
più, un amore feroce, protettivo, da mamma orsa, quell’infante che
Tijorn aveva cercato di proteggere con la sua vita, per poi andarsene. Era strano
pensarlo. Akita se n’era andata. Andarsene, volare via, raggiungere il
suo caro amore, stare con lui per sempre, stavolta, nell’oblio, nel buio,
o altrove. Non era più sola. Tra tutte, tra tutte le disgrazie che mi
hanno inflitto, questa è stata davvero la morte che ho accettato di
più, anche se non se ne andrà mai l’amarezza per mio
nipote, per il fatto che sia rimasto orfano senza nemmeno poter ricevere una
carezza da parte dei suoi genitori, elfi grandi, dal cuore d’oro,
leggende ormai di famiglia, questa nostra famiglia sgangherata, dove nessuno
è realmente parente di nessuno, o almeno nessuno è quello che si
pensa sia. Una zia che non lo è davvero, o è la madre di quella
che il mondo reputa sua nipote, la cosa più terribile, per me, da
sopportare. Vorrei parlare a Roxen, ma so di non potere. Forse quando
sarà grande, rivelerò a lei ed a Chekaril la realtà delle
cose. Ma che per ora mi pensino la loro dolce zia, venuta a salvarli da una
condizione orribile, dall’essere rimasti orfani. Zii e zie che spuntano
dovunque, come funghi. E pensare che Machin chiama zio Zipherias. Immaginare
quel piccolo chiaro di pelle, occhi e capelli, delicato e scapestrato,
imparentato con quel gigante scuro, calmo fino all’inverosimile, mi fa
quasi ridere. Ma davvero: tra tutte, la morte di Akita
è quella che comprendo di più, quella che ho sempre capito. Lei
mi fa tuttora una grandissima pena. Povera mia sfortunata, perseguitata fino
alla fine. Mai un attimo di felicità, per lei. La capisco. Isnark, con
il suo cinismo di fabbricazione recente, qualche volta mi fa notare che il suo
comportamento ha avuto dell’egoista. Mi ha sbolognato un marmocchio,
l’ennesimo che avrei dovuto allevare, un altro cucciolo al mio nutrito
branco, e nemmeno l’ultimo, senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo
in viso, senza nemmeno abbracciarlo. Quando fa queste considerazioni di solito
lo caccio di casa, un paio di volte a calci. Non deve permettersi di giudicare
la mia Akita così, la mia sfortunata Akita. Io la capisco. Dopo una vita
di sfortune, dopo un’infanzia orribile, dopo un’intera esistenza in
cui era stata un po’ messa da parte, un po’ fraintesa, un po’
odiata, un po’ sfruttata, aveva trovato la sua pace in un elfo che era
morto per lei. Un elfo che l’aveva amata silenziosamente per anni,
secoli, dal primo momento in cui l’aveva vista, un elfo che, nei loro
brevi momenti di pace, l’aveva sicuramente fatta sentire speciale, unica,
adorata. Com’era fatto Tijorn, scommettevo che avesse
fatto i salti mortali, per lei. E tutto quello le era stato portato via.
Se solo fossi
stata al suo posto, penso che avrei fatto la stessa cosa anch’io.
Avevo o non avevo cercato il suicidio dopo aver ammazzato l’elfo che
amavo tanto? Ma, quando vidi Akita lì, fredda, immobile, incosciente, in
braccio quel fagottino che si agitava debolmente, che lei mi aveva messo tra le
braccia, provai ben altre sensazioni. Alla disperazione assoluta che
seguì, quella disperazione che mi fece uscire dalla camera che
condividevamo, noi povere elfe sole, come una sonnambula, annunciando la
notizia, guardando fisso un punto avanti a me, si aggiunse un altro sentimento.
Attaccamento, l’attaccamento irresistibile e materno, che provavo verso
Machin. Io ero stata la prima a prenderlo in braccio dopo Dae. Io avevo avuto
quell’onore, precedendo addirittura Akita, che aveva spirato prima ancora
di vedere suo figlio in viso. Io, io, solo io. Io avevo giurato di proteggerlo
da tutto, in una serata gelida, mentre la madre guardava la neve cadere, quella
neve che permeava Kyradon come una fredda coperta. Io ero, insieme ad Amarto, ciò che rimaneva del passato di Tijorn,
del padre di quel piccino, quel fratello che mi avrebbe per sempre
ossessionata. Io avrei dovuto fare le veci della madre, del padre, io ero la
prima ad averlo stretto a me, ad averlo salutato. Era un feroce senso materno,
il mio, esclusivo e possessivo, diffidente e pieno d’amore. A me andava
quell’onore. Ero io a dover proteggere Machin, la luce dei miei occhi.
Solo io. E fu per quello, per quell’esatto motivo, che, quando tutta la
brigata presente lì, davvero tutti, si alzarono di
scatto, stupefatti ed addolorati, cercando di abbracciarmi, di
prendermi, mentre Nemys cercava di togliermi il piccolo dalle braccia, che io
reagii in un modo che penso nessuno si dimenticherà. Mi ritirai, aspra,
divincolandomi, guardando la mia Rinnegata come se fosse il peggior nemico
della mia vita, rintanandomi in un angolo e guardando tutti con astio, mentre
il piccino cominciava, spaventato dal clamore, a lamentarsi di nuovo. Akita
aveva voluto fossi io a fargli da madre. Io, e nessun altro. Io ero stata a
prenderlo in braccio, ad accoglierlo al mondo. Nel corridoio dove si erano
assiepati tutti del mio gruppetto, infanti esclusi, calò un silenzio
gelido, rotto solamente dal pianto del mio nipotino, quel nipotino per cui ero divenuta Ch’argon. Mi lasciai sfuggire un ringhio sommesso, un avvertimento irrazionale, prima di
cominciare a cullare distrattamente quel fagotto che avevo in braccio, quel
fagottino caldo e vivo, quella parte di Tijorn e di Akita che non intendevo
mollare per nulla al mondo, fissando ancora tutti, a turno. Nemys e Isnark si
cambiarono una strana occhiata, e le labbra del Principe sbiancarono, mentre
lui le ritirava in una smorfia di disapprovazione, mentre la Rinnegata non sapeva
assolutamente che fare. Capouille e Zipherias si erano scambiati
un’occhiata terrorizzata, e mi guardavano con enorme apprensione. Benagi,
sotto la pelle scura, era divenuto di uno spiacevole color marroncino, e teneva
saldamente la spalla di Amarto, che aveva una mano tra i capelli, ed era
l’unico a sembrare addolorato per la cara elfa che aveva perso la vita
lì dentro. Per un momento, mi sentii perduta. Ero io, io e solo io, io a
dover fronteggiare tutte quelle persone, che tutto mi volevano, tranne che
bene. Ero rimasta sola, ero sola, perduta nel buio, vuoto abisso della mia
stessa disperazione. Avevo solo quel piccolo cosino, quel piccolo cosino ed i
bambini che stavano sicuramente dormendo. Ero io la sola a poter proteggere e
curare Machin. Per un momento, sentii le lacrime pizzicarmi gli angoli degli
occhi. Ma poi la solita fierezza m’impedì di esternare così
i miei pensieri. A quel lutto non reagii, in un primo momento, con
l’abbandono doloroso che mi aveva afferrato nel momento in cui il mio stupidone
aveva smesso di respirare. La morte di Tijorn aveva indurito anche il mio
cuore. Dopo quella sofferenza, tutte quelle mi sembravano relative, pesi che
non facevano altro che aggiungersi a quel grande macigno che pesava sul mio
cuore. Dopo l’iniziale momento di sgomento, Nemys stava già
cominciando a riprendersi. Il suo volto si distese in un sorriso triste,
tremulo, mentre negli occhi le guizzava una strana angoscia. Giudicai quel
comportamento come una reazione alla perdita. Era vero, era anche quello, ma,
più che altro, la Matriarca aveva altri pensieri per la testa, ben
peggiori. Con la voce malferma, Nemys mi parlò, con strana dolcezza
cauta. “Lsyn, tesoro mio…”. Disse, allungando con cautela le
braccia verso di me, ed il bambino. Io mi addossai ancora di più al
muro, una smorfia d’odio in viso, quell’odio nuovo nei suoi
confronti, che mi scorreva nelle vene, amaro come veleno. Quell’odio
tremendo misto alla rabbia più pura. Rabbia nei miei confronti, per me,
che non ero riuscita a salvare anche la mia cara amica, che se n’era
andata, lasciandomi sola con quel piccino, rabbia per il destino che, in
qualche modo, sembrava avercela molto con me. Machin era la mia sola luce. Mi
aggrappavo a lui, come avevo fatto con i miei amici, cercando un conforto in
quella figura di neonato, che cullavo, e che stava cominciando ad addormentarsi. Quel neonato ancora non esattamente
pulito, infagottato in una coperta tenuta tiepida per lui, affamato
sicuramente. Già. Io non potevo nutrirlo. C’era bisogno di
qualcuno. Dovevo pensare a quello. Se solo mi avessero lasciata in pace,
l’avrei fatto subito. Avrei trascinato qualche giovane nutrice da me,
promettendole quel lauto compenso che potevo darle, in cambio di un amore
incondizionato per il cucciolo che le stavo per affidare, per un tempo
brevissimo, e sempre in mia presenza, perché non mi sarei fidata di lei
per nulla al mondo. solo che ero assediata da quelli
che si professavano miei amici. Erano tutti molto più alti di me, e con
la loro mole, mi soffocavano. Fissai così Nemys con odio malcelato. Lei
non distolse lo sguardo dal mio. Vi lessi grandissimo dolore, in quegli occhi
chiari, un dolore difficilmente esprimibile a parole. Lei continuò a
parlare con voce più sottile, con atteggiamento rassicurante, tentando
di essere la roccia a cui spesso mi ero aggrappata nei
mesi passati. Ma non riuscivo, in quel momento, a pensare al suo conforto. I
miei pensieri erano proiettati in due parti. In quella camera da letto, dove
piangevo per la scomparsa dell’amata di mio fratello, che avevo giurato
di proteggere da tutto, e lì, dove dormiva quel piccino. Lei
cercò di essere dolcissima, una guida, invano.
Nulla poteva contro quella che ero divenuta, stravolta
dal dolore, trasformato in oscuro senso di protezione “coraggio, ragnetto
mio….il bambino ha bisogno di essere lavato,
su… bisogna trovare una nutrice…perché non me lo dai in
braccio, così ti riposi? Magari puoi andare a dormire da Roxen ed i
piccoli…hai un’aria così stanca e sconvolta,
che…”. Io la interruppi con un’occhiata di fuoco. Non doveva
permettersi di toccare il mio nipotino. Non lei. Lei non aveva dovuto sentire
quello che avevo udito io, quelle suppliche terribili uscite dalla bocca di
Akita. Lei non aveva dovuto assistere alla morte di un altro pezzo della propria
esistenza. Lei non conosceva la forza dell’amore materno, no. Lo
conosceva solo attraverso me, solo attraverso quello che avevamo provato nei
brevi mesi con Roxen. Non l’aveva mai sperimentato davvero di persona.
Era sempre rimasta rintanata lì, in un luogo recondito del mio spirito,
o in quel posto, soffrendo per uno stupido ideale. Non pensavo davvero quelle
cose, ma gliele dissi. Oh, si che parlai. Non penso
che ci fu un altro momento in cui la ferii di
più. Stringendo a me Machin, godendo del suo tepore, della sua
materialità, il lumicino che m’impediva di precipitare nel vuoto,
parlai. Le mie parole furono amare, sarcastiche, venate di sottilissimo
disprezzo, e di un’evidente disperazione, che mi aveva sconvolto
l’anima, che quasi m stava facendo impazzire, stava annientando quello
che rimaneva di me, facendomi divenire la larva che sono. “tutto questo
lo faccio io”. Quasi sputai, guardando la Rinnegata con una tale carica
d’odio che lei ritirò le mani, ed indietreggiò fino ad
Isnark, che, silenziosamente, pose una mano sul pomo della spada, pronto ad
intervenire se solo l’avessi attaccata. Poveri
stupidi. Capouille fece un passo verso di me, ma fu frenato di Zipherias.
Entrambi mi fissavano con immenso dolore, anche se il secondo non mi compativa.
“tutto questo lo faccio io, e tu non me lo puoi impedire… vai ad
occuparti degli urgenti affari del Matriarcato, vai, che è l’unica
cosa che sai fare bene, tu…occupati degli altri, quel popolo che ti ama, quel
popolo da cui ti nascondi come un coniglio impaurito, e lascia fare a me la
zia. Non immischiarti nei miei affari. Machin è mio”. Di nuovo, il silenzio. L’odio traboccava in me,
fuoriusciva da me in ondate tremende. Nemys sembrò più che mai
ferita. Un paio di lacrime le scesero sul volto candido. Sapevo di averla
ferita enormemente. Ma io non capivo. Non capivo, anche se tuttora vorrei mangiarmi le mani per quello che dissi. Ero troppo
sconvolta dal dolore. Non volevo essere toccata. Non volevo essere compatita.
La mia dolcissima Rinnegata, mordendosi le labbra, fece un passo verso di me,
di nuovo. Eh, no. Non doveva toccarmi. Le voleva rubarmi il mio piccolo
nipotino. Io mi ritirai ulteriormente, e ringhiai. Ma già all’odio
si stava sostituendo il dolore. Avevo perso Akita. Era morta. Mi rimanevano
solo loro. “vattene!”. Quasi urlai, con una voce che, mio malgrado,
stava cominciando ad incrinarsi. Nemys, ora decisa, fece un altro passo. Mi
sentii, d’improvviso, prendere da un dolore senza confini, un affetto
irrazionale. Un lampo di ragione. Mi stavo comportando come una stupida. Stavo
facendo del male a tutti, Machin compreso, ma
soprattutto a Nemys. Nemys, che si era fidata di me, che mi aveva accolto a
braccia aperte, che tante volte mi aveva coccolata, rimproverata, dolce e
gentile, come la brezza, solenne come una montagna innevata. Perché
stavo diffidando di lei? Cosa mi aveva fatto? Perché dovevo ferirla in
quel modo? Tremai, ed il piccino cominciò a lamentarsi. Oh, piccolo
Machin. Con quello stupido attaccamento gli stavo facendo del male, molto del male.
Aveva bisogno di mangiare, essere pulito, dormire. Tutte cose che, nella nebbia
del mio dolore, gli stavo negando. Non reagii, perciò, quando Nemys fece
un altro passo. Tentai di nuovo di ritirarmi, mentre si formava di nuovo un
groppo alla gola. Cominciai a vedere tutto offuscato da quelle lacrime che
stavo tentando di frenare. “vattene…”. Mormorai, con voce
liquida, tremante. Povera Akita. Poveri tutti. Perché il destino ce l’aveva tanto con noi? Cosa avevamo fatto di
così male? Eppure, tutto quello che volevamo era vivere. Solo vivere.
Quello era il premio di una volontà così umile. Deglutii quando lei tese di nuovo le braccia, avvicinandosi
con un sorriso rassicurante, senza essersela, apparentemente, presa. Nemys. Lei
era il mio porto sicuro, la mia ancora nella tempesta, il falò nella
neve. Io l’avevo ferita, non avevo saputo fare altro che quello. Non
sapevo far altro che quello. Ferire, tagliare, uccidere, odiare. Mi
tremò il labbro inferiore. Non mi mossi quando
lei mi sfilò il mio nipotino dalle braccia, prendendolo come se fosse
una reliquia preziosa, e girandosi verso qualcuno, probabilmente uno dei miei
amici. Mi sentii abbandonata, di nuovo. Completamente sola. Machin non era mio.
Non lo sarebbe mai stato, d’altronde. Io non ero sua madre. Sentii un
dolore straziante al livello del cuore. Tijorn non c’era. Non
c’era, per guidarmi, per aiutarmi. Ero sola. Completamente sola.
“Capouille, portalo da Dae, dentro, e fallo lavare”. Disse Nemys, ordinando, perentoria, ancora una traccia di turbamento
della voce, tornata la sovrana di sempre. Abbassai il viso, e mi accoccolai
lì, in quell’angolo, posando le spalle contro il muro. Qualcuno mi
stava ancora guardando. Zipherias, sicuramente, con chissà che
espressione, Benagi, e forse anche Isnark, che mi odiava a morte. Sentii di
nuovo il gelo, quel freddo immenso che mi aveva afferrata alla morte di Tijorn.
Ignorata, negletta, come una cosa rotta, cominciai a tremare. Ascoltai quelle
parole perentorie con un groppo in gola, e le lacrime che ancora minacciavano
di sgorgare. Nessuno mi toccava, nessuno faceva caso a me. Ero sola, sola in
mezzo ad estranei. “dille anche che quando ha finito deve portarlo a
fianco. Poi corri al Lazzaretto, e cerca una delle nutrici. Voi altri
cominciate a…ad organizzare per la veglia. A lei ci penso io”. Che
brutte parole. Un’altra veglia. Un altro funerale. Non avrei partecipato.
Già ora non riuscivo più a tenermi in piedi. Non avrei sopportato
di vedere altre fiamme lambire la carne. Sarebbe stato troppo, per me. Per
chissà quanto, rimasi in silenzio. Mormorii, un singhiozzo soffocato,
rumore di passi rapidi. Per un tempo infinito, rimasi sola, lì, spalle
al muro, sull’orlo delle lacrime. Vuoto. Buio. Freddo. Di
nuovo quelle odiose sensazioni, che mi avevano perseguitata alla morte
di Tijorn. Non c’era nulla in grado di salvarmi. Nulla. Ero destinata ad
essere annientata dall’odio come sempre. Ad un certo punto. Sentii, a
testa bassa, uno spostamento d’aria, e mi contrassi. Non so perché,
ma ricordai Lainay, ancora una volta, ed i suoi schiaffi tremendi, quando io
non obbedivo ad un suo ordine. Immaginai che Nemys, finalmente, mi volesse
donare almeno un buffetto. Io lo meritavo. Come al
solito, lei non si permise nulla del genere. Quel ricordo mi
ossessionerà per sempre. Il riflesso di ritirarmi ad ogni movimento
brusco mi rimarrà, ennesima cicatrice lasciatami da quella maledetta. Non
penso se ne andrà mai. Ad un certo punto, ancora tremante, infreddolita
ed addolorata, sentii un abbraccio avvolgente, delle dolci carezze. Mi avvolse
un bel profumo, di fiori, cannella e neve, il profumo di Nemys. Dopo tutte
quelle parole cattive, dopo quella rabbia che le avevo scaricato ingiustamente
addosso, tutto quell’astio, lei mi abbracciava. Si permetteva di abbracciarmi,
come se nulla fosse accaduto. A me, l’anima sporca, la creatura
più orribile, disgustosa, meschina dell’universo intero. Io davvero
non la meritavo, per quanto cercassi di espiare la mia
colpa. Io non meritavo nessuno di quelli che mi stavano accanto. Non riuscii a
reggere altro. Scoppiai in lacrime, lasciando libero sfogo alla mia
disperazione, aggrappandomi a lei come una bambina, tremando come se fossi nuda
in mezzo ad una tempesta di neve.
Quando mi
calmai un poco, quando il dolore acuto si trasformò in una sorta di
accettazione vaga, mi ritrovai nella stanza da letto che nelle ultime settimane
era stata di Dae. Nemys, dopo avere cercato inutilmente di confortarmi, mi
aveva trascinata lì dentro, facendomi sedere su una sedia vicino al
fuoco, visto che tremavo come se fossi sotto chissà quale effetto, e mi
aveva avvolta in una coperta, continuando a tenermi stretta, come per non
lasciarmi andare. Il tremito non si era calmato. Avevo un freddo terribile, un
freddo che non veniva dal corpo, ed era come se avessi la febbre. Una febbre
dello spirito, che non si poteva curare. Volevo Machin. Volevo il mio piccolo
nipotino. Non sopportavo quel vuoto tra le mie braccia. La mia Rinnegata si era
preoccupata, moltissimo. Quando Capouille era tornato, accompagnato da una
giovane elfa, chiamata Quais, l’aveva subito rimandato indietro, a
chiamare il primo Guaritore che gli fosse capitato sottomano. Era preoccupata
per me, glielo si leggeva in faccia. Aveva quindi mandato la giovane dai
capelli chiari dentro, da Dae, ed avevamo aspettato. Io tremavo al punto tale
da far tintinnare i denti. Ero incredibilmente vuota. Stavo malissimo. Dov’era,
Tijorn? Dov’era, Akita? Perché tutti mi avevano lasciata sola, a
fare qualcosa che non sarei riuscita a fare? Perché mi avevano lasciata
a fare da guida, io, che non sapevo nemmeno guidare me stessa? Dovetti frenare
il pianto, quel pianto che da poco si era calmato. Le me lacrime sembravano
infinite. “perché tutti mi hanno lasciata sola?”. Chiesi, al
vuoto, o forse a Nemys, con una voce lamentosa che non era la mia, cercando di
non piangere. Lei non rispose, e si limitò ad accarezzarmi i capelli, lisci
come li portavo ormai più spesso. Sorrise, un sorriso tutt’altro
che allegro, e poi si alzò. Il Guaritore, un elfo anziano che non avevo
mai visto, venne poco dopo. La visita fu molto rapida. Ero solo in stato
confusionale, e presto sarei tornata normale. No, non potevo prendere nulla,
nessuno sonnifero per aiutarmi a superare quell’ennesimo trauma. Rischiavo
di esserne assuefatta: dovevo superare tutto da sola. Dopo che il vecchio se ne
fu andato, Nemys, dopo essere sparita per un po’, mi fece stendere sul
letto. Mi coprì con delle coperte, e si sedette a fianco. Cominciò
a parlarmi, parlarmi, non fare altro che parlarmi. Cominciò a ricordarmi
della nostra infanzia, dolci ricordi comuni, cominciò a dire che
sarebbero sempre stati tutti con me, nei miei ricordi, e che lì li avrei
trovati sempre, impossibili da uccidere, cominciò ad accarezzarmi il
viso dicendo che no, non se l’era presa, che era giusto fossi così
addolorata, era giusto. Sembrava stranamente turbata quando
diceva quelle cose, mentre mi confortava, come se avesse qualcosa di nascosto
da mantenere, da non potermi dire, ma morendo dalla voglia di parlare. La mia
Rinnegata era preziosa. Sapeva esattamente cosa mi stesse
passando per la testa, e sapeva come porvi rimedio. A poco a poco, il tremito
si calmò. Cominciai a sentirmi meglio, molto più lucida. Alla disperazione
per il mio lutto, si sostituì la voglia di rivedere mio nipote. Era per
lui che avevo penato, era per lui che era successo tutto quello, era per lui
che vivevo. Cominciai ad essere insistente, fare domande su
domande, mettere Machin in ogni pensiero, in ogni parola. Cercai anche di
alzarmi, ma fui bloccata. Dopo un po’, Nemys, esasperata, andò per
un attimo fuori. Rimasi ad attenderla, ansiosa. Non volevo essere lasciata
sola. In solitudine, tutti i fantasmi tornavano,
insistenti, e mi sentivo di nuovo male. Per fortuna, quella parentesi di
disperazione fu brevissima. Non appena vidi la mia Rinnegata tornare, alle
calcagna la guardinga Dae, che mi guardò con compassione, e la
spaventata Quais, in braccio un bel fagottino di coperte, mi sentii balzare il
cuore in gola. Mi sarei alzata di scatto, se solo lei non mi avesse fulminato
con uno sguardo ammonitore. Machin. Eccolo lì, il mio dolce e piccolo
nipote. Sentii un’ondata di enorme affetto farsi strada in me. Sulle mie
labbra comparve un piccolo sorriso, e vidi il volto pallido e corrucciato della
mia amica distendersi. Già. La vita continuava. In un modo o nell’altro,
Tijorn ed Akita erano sempre con me. Sarebbero rimasti insieme, loro che
avevano dato la vita per lui, in quel piccolo, mescolati ad art. mi avvolse un
certo calore, e la trepidazione. Il gelo che avevo provato scomparve del tutto.
Quasi non mi sentivo più sola. C’era Machin con me. Ed anche
Nemys. Nemys, che mi capiva come nessuno nella mia vita, perché era me
stessa. “eccolo qui, il mascalzone…”. Disse, con affetto, la
Rinnegata, sedendosi al mio fianco, sul letto, guardando il piccolo con amore,
ed una certa aria di aspettativa dolente. Nel brodo di giuggiole in cui ero
affondata nel vedere quel piccolo, trovai strano quel comportamento, ma non ci
badai più di tanto. Probabilmente, la Rinnegata si stava chiedendo perché
quel piccino dovesse soffrire già della perdita dei genitori, e che non
fosse una cosa giusta. Ero d’accordo, anche se non potevamo farci nulla. Il
destino sembrava arridere, come sempre, a quelli che la massa crede malvagi. Cancellai presto quei pensieri. C’era
solo mio nipote, solo lui, ora. Avrei fatto di tutto per proteggerlo. Di tutto.
Magari, quando sarebbe stato abbastanza grande, l’avrei portato a
Sharilar con tutti i piccoli, per fargli fare una vita serena. Non meritava di
soffrire, lui. Avrei cercato di rimediare alla mancanza di Tijorn ed Akita
sommergendolo d’affetto. Avrei cercato l’aiuto di Amarto per farlo
divenire un elfo sano, perfetto, felice. Gli avrei dato tutto quello che io non
avevo avuto. Libertà, amore, libero arbitrio. Tutto quello per cui i genitori avevano lottato. Sarebbe divenuto un elfo
bravissimo, con tutte le doti dei genitori. L’avrei allevato come se
fosse stato mio figlio. E tale lo sentivo. Quasi subito, Nemys, ancora
sorridendo mestamente, mi mise il piccino in bracci. Per un attimo, fui
soffocata dall’emozione. Il mio piccolo nipotino. Piccolo mio. Lo guardai.
Sotto la coperta che lo avvolgeva, proteggendolo dal freddo intenso della notte
invernale, era vestito di un abito che avevano scovato chissà dove, di
lana gialla, che gli andava un poco piccolo. Era davvero un bel neonato, lo
ammettevo. Davvero un bellissimo neonato. Non assomigliava ad una ranocchia
come era Roxen appena nata. Aveva solo un ciuffo di primi capelli, quei capelli
che sarebbero spariti presto, di, già si vedeva, uno strano colore, un
biondo che riluceva di riflessi rossastri ed aranciati, forse un po’
più chiaro di quello di Akita. Nel viso si potevano già scorgere
i lineamenti di entrambi i genitori, mescolati in un modo davvero interessante.
Li vedevo, vedevo la linea decisa ma delicata della mascella di Tijorn, gli
zigomi alti e signorili di Akita, e tanti altri piccoli particolari. Ancora non
si vedeva bene, ma mi sembrava che avesse preso davvero molto dal padre. Le sembianze
della madre erano solo accennate, andando a compensare lì dove Tijorn
aveva avuto difetti. Il mio piccolo paffuto stava sonnecchiando, soddisfatto. “farà
strage di elfette, lui…”. Mormorai, con uno strano tono querulo di
voce, un tono che avrei giudicato irritante, se solo non fossi
così immersa nella contemplazione di quel minuscolo tesoro, di quella
piccola candela di speranza. Gli sfiorai la guancia, con un dito, una carezza
leggera , di cui lui non s’avvide. Non intendevo
svegliarlo. “il mio piccolo Machin…non è vero, eh, che sei
bellissimo? Ha preso tutto dal papà…eh, si. Te lo dice la zia!”.
Dei. Mi stavo comportando come una mamma chioccia. Se solo fossero stati
lì, Tijorn ed Akita avrebbero ironizzato molto su quel fatto. Mio fratello
avrebbe bofonchiato qualcosa. La mia amica avrebbe candidamente tradotto, con
un sorriso ironico, dicendo che sembravo una cretina. Quasi potevo sentirli,
sentire le loro vocinella mia testa. Si: loro non mi avrebbero mai abbandonata. Sarei
rimasta per sempre con loro, presenze silenziosi, ma
sempre lo stesso presenti., con un sorriso dolce, guardai Nemys. Mi fissava,
più rilassata, ma ugualmente triste. Lei si costrinse a ricambiare il
mio sorriso, poi socchiuse gli occhi. Davvero, sembrava turbata per qualcosa. Al
momento non ci feci caso. Ero troppo incantata da Machin. Così, pian
piano, avvolgendo con un lembo della coperta che avevo indosso anche il
piccolo, coprendolo ancora di più, temendo che prendesse freddo, mi
alzai dal letto, senza che nessuno mi ostacolasse. Forse, si, potevo vivere. Avevo
un motivo, in fondo. In punta di piedi, mi avvicinai al camino acceso, e mi
sedetti sulla sedia che era lì vicino. Machin non doveva prendere
freddo. Il mio nipotino sarebbe stato protetto da ogni sventura. E poco
importava che per proteggerlo mi sarei dovuta sacrificare io.
Per qualche giorno non riuscii a muovermi da lì, da quella stanza
Per
qualche giorno non riuscii a muovermi da lì, da quella stanza.
Praticamente non uscii. Non avevo ancora il coraggio per tornare nella mia
camera, la camera che per tanti mesi avevo condiviso con Akita, che era morta
nel mio letto, tra l’altro, non sentivo ancora la forza per farlo. Rimasi
con Dae, Quais ed il bambino nella stanza della balia, coccolandolo,
vezzeggiandolo, facendo di tutto per non farlo sentire orfano e solo.
C’innamorammo di quel galletto pestifero, che c’illuminò
piacevolmente la vita. Io ero completamente innamorata di lui, il mio piccino.
Già facevo progetti, m’immaginavo di crescerlo, di tenerlo con me,
di parlargli. Mi sembrava una grande promessa di speranza futura, un
incitamento ad andare avanti, a dire che la vita continuava. E che vita. Quel
marmocchio era sempre tra le braccia di qualcuno, quel mio piccolo sole, il mio
sole in erba. I primi due o tre giorni non fece altro che dormire, dormire e
mangiare. Poi cominciò a svegliarsi. Ed allora cominciò il vero
divertimento. Non toccava mai la culla che avevano scovato chissà dove,
o almeno, quasi mai. Quando io dormivo, quando mi permettevo di riposare,
c’era Dae a tenerlo, giocandoci, cullandolo, oppure contemplandolo solo,
parlandogli, oppure Quais, che aveva il ruolo più importante di tutte e
tre, che svolgeva con efficienza. Da quanto avevo capito dalle sue rare parole,
l’elfa, quieta, dolce e silenziosa, dagli occhi di un blu profondo ed i
capelli color miele, lei era fuggita dal Regno alla morte di suo marito, che
svolgeva segrete attività ribelli, da cui aveva avuto un figlio che era
morto pochi giorni dopo la nascita, per il freddo e gli stenti della madre, che
aveva deciso così di divenire nutrice. Non sembrava soffrire molto.
Aveva una pazienza infinita, anche se un senso materno poco sviluppato. Evitava
di stringere a sé Machin più del necessario. Così eravamo
io e Dae a viziarlo. Quasi sempre, con noi, c’era anche Nemys, che si
contendeva il diritto di stringere il piccolo con noi due, oppure Isnark, che
veniva solo per far compagnia alla Rinnegata, che non lasciava un attimo sola,
preoccupato, guardandomi sempre come se fossi una nuova razza di parassiti, o i
miei amici, o Amarto, o i bambini, che avevano ripreso a venire di pomeriggio.
Non partecipai alla veglia. Fu grazie a loro che riuscii a superare la morte di
Akita, una ferita segreta che si aggiunse alle altre, che cominciò a
disturbare il mio sonno. Era una fortuna che il piccolo, spesso, mi svegliasse
con il suo pianto deciso. Era molto abile ad intervenire nei momenti meno
opportuni. Se solo ci fossero stati i suoi genitori con lui, allora davvero
sarebbero impazziti, ed io, la zia, avrei comunque dovuto fare gli
straordinari. Era già una piccola peste. Nei rari momenti in cui era
nella culla, semplice e spoglia, vicino al camino per non fargli prendere
freddo, coperto da una coperta imbottita di piume, insieme ad un nugolo di
lenzuola, trovava sempre il modo per farsi sentire. Un neonato di pochi giorni,
ma già dalle idee chiare. Io ero ben felice di assecondarlo, almeno per
il momento. Sarebbe venuto troppo presto il giorno in cui avrei dovuto smettere
di viziarlo, per imparargli la reale vita. Perciò mi godevo il suo
tepore, ridacchiavo anche quando, con il suo pugnetto, stringeva una ciocca di
capelli e non la lasciava andare finche non si addormentava, o io ero costretta
a tirare, oppure svolgevo volentieri anche le mansioni meno piacevoli. Molti
miei capelli avevano fatto quella fine, anche se la preferita da spennare era
Nemys che aveva preso a legare i capelli in una coda. Mio nipote cominciò ben presto a
fare preferenze. Cominciava a strillare se solo Amarto, che si era un po’
offeso per quello, o Isnark, quelle rare volte che si permetteva di prenderlo
in braccio, lo tenevano per un momento, mentre aveva preso ad amare Capouille,
che qualche volta Dae fu costretta a chiamare per distrarre Machin. Ma i
preferiti eravamo io, Nemys e Zipherias. Soprattutto io, con mio enorme
piacere. Ero stata eletta la culla d’eccezione. Lui sembrava amare il
suono della mia voce orribile e roca. Sembrava che lo trovasse rassicurante.
Quella era una delle gioie maggiori. Gli altri infanti avevano accolto
l’arrivo di quel piccolo con enorme curiosità. Nysha e
Manolìa, che si erano finalmente tolte il vizio di chiamarmi Zia Maestra,
e di darmi del voi, preferendo un più semplice zia, ed il tu, erano
rimaste completamente spiazzate, così come Chekaril, che lo guardava
sempre con tanto d’occhi, ad un palmo dal suo viso, finendo un paio di
volte ghermito da delle manine curiose, mentre Roxen, con aria saputa, aveva
preso a raccontare a tutti che sicuramente
mentre dormivano era venuta uno gnomo curioso, che dentro un grande fiore aveva
portato quel coso, scambiandolo per dei tesori. La prima volta che tirò
fuori questa storiella, sicuramente raccontatale da Chekaril padre
chissà quando, forse alla nascita del fratellastro, mi chiesi,
spiazzata, cosa avessero quei due in testa per inventarsi una cosa simile. Una
grande fantasia, sicuramente, ed una grande memoria. Beh, sicuramente la piccola
mi aveva evitato una grande incombenza. Passarono circa un paio di settimane
tranquillissime, scandite da Machin, dalle visite degli amici, dai documenti
che avevo ripreso, la mattina, quando mio nipote dormiva tra le braccia di Dae,
a consultare, dalle letture, dalle chiacchiere con Nemys che avevano ripreso
vigore e frequenza. Ancora non mi perdonavo per le cose terribili che le avevo
detto, e, più volte, glielo dissi. Ero davvero impazzita quando Akita
era morta. La Rinnegata sembrò capirmi. Sorrideva sempre, quando tentavo
di scusarmi, dicendo che non c’era bisogno, che sapeva che io non pensavo
davvero quelle cose. Ma l’angoscia che le avevo visto il primo giorno di
vita del nostro nipotino in viso non scomparve, anzi: ogni volta, ogni mattina
che faceva capolino dalla porta della stanza, aumentava. Temetti di esserne io
la causa, temetti di essere io la causa delle occhiate indecifrabili che i due
compagni si lanciavano, temetti io di essere la causa delle sempre più
frequenti presenze di Isnark, che non lasciava un momento la Matriarca, quasi
ansioso, guardandomi con una strana aria, tra lo speranzoso ed il riluttante.
Perciò ero sempre più a disagio quando stavano insieme. Nemys mi
ripeteva che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che era solo un piccolo
litigio tra loro due, che lui stava febbrilmente cercando di farsi perdonare.
Ma io non le credevo. Vedevo sempre la menzogna brillare in quegli occhi
praticamente incapaci di mentire. Cominciai a sospettare di lei. Cercavo
così di essere dolce e gentile, di far vedere che stavo guarendo, di
scusarmi sempre, ma non vedevo miglioramenti. C’era qualcosa che non
andava, e la cosa mi era chiara. Cosa, non avrei mai saputo dirlo. Ma potevo
riparare a ciò che era successo? Ero io la causa di tutto quello, le mie
parole folli ed incaute? O qualcos’altro? Non avrei saputo mai dirlo, o
l’avrei saputo troppo tardi, se solo, una sera, qualcuno, la persona
più insospettabile del mondo, non fosse venuta a dirmelo, a confessare,
per cercare chissà cosa, ferendomi sempre di più. Mi sentii di
nuovo terribilmente sola, con quella confessione, come se nessuno si fidasse
mai veramente di me. Mi sentii uno strumento, da usare e coccolare quando
necessario. Ed ora spiegherò il perché, il perché la
realtà delle cose finisse sempre per sconvolgermi, il perché
decisi che il destino aveva congiurato per me, per tormentarmi sempre di
più, e perché capii di dovermi solo conformare a ciò che
sarebbe successo.
Era una
sera, il sole era appena tramontato. Dae e Quais erano andate a riposare, a
fianco, e Machin aveva appena mangiato, e si stava addormentando. Come ogni
giorno, la responsabile per la nanna ero io. Solo con me il mio dolce nipotino
dormiva. Se solo fosse stato tra le braccia di altri, si sarebbe svegliato
immediatamente. Non riuscivo a capire come riconoscesse, ancora quasi cieco, la
nostra identità, ma ero davvero contenta che lui mi accettasse in quella
maniera, che, nella sua semplicità infantile, mi amasse già, come
una madre. Mi ero così accoccolata sulla mia solita sedia, avvolgendo
con la solita coperta ampia me e l’ammasso di lenzuola che era Machin,
vicino al camino, cominciando a cullarlo, cantandogli una canzoncina, quella
che amavo sempre canticchiare, quella che avevo in testa praticamente da
sempre, che pensavo di avere inventato io, e così penso tuttora. Il
piccolo, sazio, pulito, caldo, felice e soddisfatto, si era addormentato
subito, ed io stavo cominciando, come sempre, ad imitarlo, presa dal calore, e
dal mio mormorio, dall’incanto di guardare quella creatura così
perfetta, che cominciava ad avere il colorito di pelle di Akita, quel colore
dell’alabastro, lievemente azzurrino, delicato e nobile. Quelle volte che
aveva aperto gli occhi mi ero resa conto che il taglio era a metà tra i
due genitori. Ciglia e sopracciglia erano sicuramente della madre, eleganti, ma
la forma degli occhi era quella di Tijorn. La prima volta che l’avevo
vista ero rimasta senza fiato. Il colore non era ancora percettibile, quel
colore che sarebbe cambiato con il tempo, che stava già virando verso un
promettente grigio, ma avevo l’impressione che gli occhi di Tijorn mi
guardassero attraverso il tempo. Ero rimasta praticamente così
ipnotizzata che mi avevano dovuta scuotere. Tijorn non era mai morto. Tijorn
viveva in quel marmocchio birbante. Era una cosa troppo bella per essere vera.
Insomma, quella sera, troppo impegnata a contemplare il mio bellissimo
nipotino, mi ero quasi addormentata sulla sedia, come facevo una sera si e una
no. Ad un certo punto, mi aveva svegliato un bussare insistente alla porta.
Avevo sobbalzato, e per poco non avevo svegliato il piccolo. “chi
è?”. Domandai, con voce calma, non troppo alta. La riposta che
venne dall’altra parte mi fece sobbalzare. Una voce maschile e profonda,
lievemente strascicata per l’accento della costa sud-occidentale del
Regno. La voce annoiata di una persona che temevo moltissimo. “sono
Isnark, parassita”. Disse l’elfo, con una punta di cattiveria.
M’imposi di non tremare solo per non svegliare il piccolo. Deglutii.
Sperai che non avesse intenzione di farmi del male, non ora. Dovevo proteggere
il piccino, lo strinsi ancora di più. Non avevo intenzione di farlo
entrare. Ci fu un attimo di silenzio. “non ho intenzione di sfondare la
porta”. Disse la voce, un po’ più irritata. “ma lo farò
se continui a stare in silenzio. Ho bisogno di parlarti. È
urgente”. Mi avvolse la curiosità. Isnark voleva parlarmi? A
proposito di cosa? Ci fu un empito di ansia. Probabilmente, voleva spiegarmi il
perché del loro comportamento strano. O chiedermi aiuto per
riconquistare la sua amata, chissà. Oppure scusarsi, voleva parlarmi,
per fare magari pace. Volli sapere. Non ce la facevo con
quell’interrogativo. Sperai che non fosse tutto un trucco. Ma Isnark non
era così viscido e vile: lui era un elfo pieno d’onore.
“ah…entra pure”. Dissi, con una voce che facevo di tutto per
far risultare calma, padrona di sé, ma che non riusciva per nulla tale.
Isnark non se lo fece ripetere due volte. Entrò, i lunghi capelli
bianchi raccolti nella sua solita coda bassa, il volto ieratico impassibile, ma
lievemente irritato. La prima cosa che andai a cercare, nel suo abbigliamento
semplice, fu la sua spada, che non trovai. Mi sembrava totalmente disarmato. Mi
concessi un sospiro di sollievo. Stringeva in una mano qualcosa avvolto in un
drappo color velluto scuro. Poi ci guardammo. Seguì un ennesimo momento
di silenzio, mentre la porta si chiudeva dietro di lui. Il Principe fece un
cenno nella mia direzione. “dai il marmocchio a qualcuna delle tue
aiutanti”. Disse, con una voce che non ammetteva repliche, né
disobbedienze. “ho bisogno di parlarti di una cosa importante. Sbrigati,
parassita”. Obbedii in silenzio. In un certo senso ero a lui subordinata.
Avvolgendo il piccolo, con cautela, nella coperta che amavo tanto, come alcune
volte avevo fatto per non farlo svegliare, portai Machin di là, da Dae,
con la morte nel cuore. Spiegai alla vecchia balia, in tono sommesso, tutta la
situazione. Lei accettò di tenere il piccino con sé, e lo strinse
forte. Sentendomi vagamente intimorita, spaventata, addolorata per la scarsa
fiducia e per l’odio che l’elfo covava nei miei confronti, tornai
nella stanza. Con aria assente, Isnark si era seduto al mio posto, tra le
braccia quel fagotto strano, grosso ed informe, accarezzandosi, com’era
sua abitudine, le cicatrici che gli avevo lasciato sul volto. Sembrava volermi
sempre ricordare i miei errori. Il dolore fu come una pugnalata in petto. In
punta di piedi, avvolta nei miei abiti viola da Ch’argon, mi avvicinai a
lui. Di nuovo, lui mi guardò, con i suoi pensierosi occhi castani.
Aggrottò lievemente le sopracciglia. “bene. Vieni più
vicina, ho bisogno di guardarti bene in viso quando ti parlo. Non mi fido di
averti alle spalle”. Ero praticamente indignata. Ma come si permetteva?
Cosa pensava, lui? Come osava, trattarmi in quel modo? Non aveva ancora
imparato a fidarsi di me? Non aveva capito che io non ero più la Spia
crudele? Tuttavia, gli obbedii. Mi sedetti a terra, di fronte a lui, al freddo,
a gambe incrociate. Rabbrividii, ma lui non sembrò avvedersene. Mi
fissò ancora per un attimo, prima di cominciare a togliere quel drappo
da quella cosa. Lo osservai, incuriosita. Chissà perché, mi
assalì uno strano presentimento. Presentimento che poi si
concretizzò, quando vidi quell’urna di ceramica decorata e ferro
battuto, avvolta da volute eleganti e spirali, ed il gelo mi avvolse. Mi morsi
il labbro inferiore. Lì c’era quello che mi rimaneva di due delle
persone a cui avevo tenuto di più al mondo. Isnark, mentre io guardavo
quell’urna, presa dal dolore, un dolore strano, sordo, lontano, una sorta
di smania a far scomparire quella cosa, cominciò a parlare. “qui
dentro ci sono le ceneri di Tijorn ed Akita”. Disse, indifferente alla
mia pena, a quelle parole che mi stavano tagliando più di mille spade,
porgendomi con attenzione quell’anfora chiusa, ancora mezza avvolta in
quel drappo. Sentii un dolore fisico, quasi materiale. Mio fratello, la sua
compagna, erano lì. Mescolati per sempre in un abbraccio non
districabile, polvere nella polvere, per sempre insieme. I loro corpi erano
lì, senza possibilità di poter rivederli, senza la
possibilità di parlarci. Non era particolarmente piacevole pensarlo,
tutt’altro. “Nemys non voleva dartela prima di qualche tempo, ma,
visto che dovevo venire qui lo stesso, ho pensato di prendere due piccioni con
una fava. Fanne ciò che vuoi”. Bastardo maledetto. Non solo non
riusciva a fidarsi di me, non solo mi odiava a morte, ma godeva anche nel
vedermi soffrire. Afferrai quella cosa con mani tremanti. Ci fu un ennesimo
attimo di silenzio. Addolorata, piena di pena, per un attimo non riuscii a fare
altro che osservare ciò che conteneva mio fratello ed Akita, il dolore
che cresceva in maniera esponenziale. Presi, come avevo cominciato a fare un
po’ troppo spesso, ad abbracciarmi, come per cercare di tenere insieme il
cuore che si andava spezzando, e posai l’urna a terra. No. Non volevo
vederla. Non ci riuscivo. Era troppo. Con un gesto veemente, andai di nuovo a
coprirla. Mi sentii un po’ meglio, e riuscii a prendere fiato. Ero davvero
arrabbiata con quell’elfo che stava stravaccato a fianco a me, su quella
sedia. Era meschino e bastardo. Mi odiava, e faceva di tutto per farmi
soffrire. Ed ancora non avevo idea di quello che avrei passato, sempre per
colpa sua. “hai qualcos’altro da dirmi, Isnark?”. Domandai,
con una voce malferma, orribilmente sull’orlo delle lacrime. La vista
dell’urna mi aveva sconvolta. Cercai di non guardarla, e mi concentrai
sul viso beffardo del mio nemico. Non era giusto. Per niente giusto, che io
fossi trattata in quel modo, io, che avevo sofferto tanto, che mi ero
sacrificata tanto per tutti loro. “oppure quello di venire qui è
stato solo un pretesto per ferirmi ancor di più di quanto io non sia
già? Cosa vuoi da me, ancora?”. Il Principe si mise più
dritto, e mi guardò male. “ho bisogno di te, Lsyn”. Mi
rispose, dopo avermi lanciato un’occhiata di fuoco che
m’intimorì. “tu sei l’unica che mi puoi
aiutare”. Opportunista dei miei stivali. Per un attimo, stringendo gli
occhi, fui tentata di rifiutare. Ma poi vidi qualcosa negli occhi cupi del mio
nemico, quegli occhi fieri, da falco, che mi guardavano storto.
Infelicità. Dolore, più che altro. Un dolore misto ad una luce di
strana speranza, ed umiliazione. Mi chiesi cosa fosse stato per provocare in
lui quei sentimenti. decisi di mordermi la lingua, così, e stare zitta.
Feci un cenno, in silenzio, come per intimargli di continuare. Lui strinse
ancora di più le labbra. Ci fu un lungo momento di tensione. Mi sentii
inquieta. Cosa c’era, che non andava? Cosa c’era? Sospettai che le
cose tra lui e Nemys stessero andando più male del previsto. Eppure non
mi erano sembrati così irritati l’uno con l’altro, quando
erano insieme, tutt’altro. Non erano mai stati così uniti. Bah.
Vai a capire le dinamiche dell’amore. Non mi piaceva quel silenzio. Non
presagiva nulla di buono. Com’erano testardi quei due, non mi sarei
stupita se avessero litigato per qualcosa di molto stupido. Non mi rimaneva che
ascoltare. Isnark sembrò, per un tempo infinito, raccogliere i pensieri,
lì, seduto rigidamente, agitato, su quella sedia, tanto che fui sul
punto di sbottare, arrabbiata, irritata da quel silenzio e da quella tensione
prolungati. Finalmente, si decise a parlare. Lo fece con un tono lugubre, acido
come un limone, un tono aspro che suonava strano con quelle parole. Fui tentata
di ammazzarlo, davvero. “Nemys…Nemys aspetta un bambino”.
Disse, guardando altrove, fiero e cupo come la statua di un dio cattivo. Ebbi
la netta sensazione che le braccia mi stessero cascando, andando in pezzi. Allora
era per quello! Beh? Tutto lì? Era tutto lì davvero? Era per
quello quella faccia da funerale, per quella notizia stupenda? Ma cosa stava
diventando Isnark, matto? Per un attimo, esultai. Perfetto. Un altro bel
nipotino da viziare. Non mi sarei dovuta muovere da lì fino alla
nascita, lo sapevo, e lo volevo, ma non mi pesava. Non per quella bellissima
cosa. Cosa c’era di così strano? Perché Isnark sembrava
così infelice, così tormentato dalla cosa? A meno che…strinsi
gli occhi. Mi assalì un sospetto. Era strano che io non fossi stata la
prima a saperlo. Ma forse la mia Rinnegata non voleva sconvolgermi ancora di
più, o aveva qualcosa da nascondere. O quello, o davvero
quell’elfo aveva preso una brutta botta in testa. “sei tu il padre,
vero?”. Dissi, colta da un timore improvviso. Ecco, anche se m sembrava
strano un tradimento da parte di Nemys, nulla era impossibile. Come ho
già scritto, è impossibile comprendere le dinamiche
dell’amore. Fu con sollievo che vidi l’elfo fare un cenno di
assenso. Ma poi mi sentii ugualmente perplessa. Che cosa stava succedendo? Udii
il mormorio di Isnark con un certo senso di stupore. Cercai di controllare la
mia espressione. non intendevo rimanere a bocca aperta lì, davanti a
quel bastardo. “purtroppo si”. Eh? Qualcosa mi sfuggiva. Come
purtroppo si? Ma che razza di cose stava dicendo? Proprio non lo capivo.
Perché si confidava con me? Che c’entravo in quelle beghe
familiari? Forse era lui che non amava più lei? In quel caso, che cavolo
voleva da me? Voleva una complice? In quel caso, aveva trovato proprio una
cattiva compagna. Non intendevo far soffrire Nemys, la mia cara Nemys. Fu per
quello che mi rivolsi a lui con una certa asprezza. Non avevo intenzione di
aiutare un emulo fedifrago di Chekaril, un verme come lui, per niente.
“ed allora, Isnark?”. Chiesi, tendendomi verso di lui, sentendomi
invadere dall’ira. Non capivo. Non riuscivo a capire. “che vuoi da
me? Che vuoi che faccia, io? Non sei contento di divenire padre?
Non…”. Lui interruppe la mia invettiva, scattando con le mani in
avanti. Le nostre voci, per un attimo più alte, s’intrecciarono.
Poi, con un’occhiataccia, feci si che lui sussurrasse. “non
è questo che intendo, idiota!”. Ringhiò, molto contrariato.
Mi dovetti frenare per non saltargli addosso, per rompergli sulla testa la
prima cosa che mi fosse capitata sottomano. Forse così rinsaviva. Lui
continuò a parlare, disperatamente. E mano mano, presi a comprendere la
disperazione, ed a condividerla, e sentirmi, per l’ennesima volta,
amaramente tradita. Perché lei, la mia dolce Rinnegata, che tanto mi
voleva bene, mi aveva nascosto una cosa fondamentale. Mi aveva taciuto una cosa
importantissima. Come se io non fossi nessuno, come se fossi ancora una
bambina. “non voglio dire questo…gli dei sanno solo loro quanto io
frema dall’idea di avere un figlio, ma…è Nemys il
problema!”. Battei gli occhi più volte, perplessa. Lui mi aveva
afferrato un polso, con forza tremenda, e mi stava finalmente, dopo tantissimo
tempo, guardando negli occhi. Risposi al suo sguardo, confusa. Non riuscivo a
capire. Era Nemys che non voleva il piccolo? Mi pareva strano. Era lei che non
si sentiva pronta? Lui mi guardò, con disperazione ora quasi tangibile,
la disperazione di un uomo che sa già come tutto andrà a finire. Non
mi piacque quello sguardo. Aveva del pazzo. “in che senso,
Isnark?”. Mormorai, cercando di tranquillizzarlo. Mi stava davvero
facendo male, ma quasi non se ne rendeva conto. “cosa vuoi dire?”.
Lui mi guardò male per un secondo, prima di ridere. Ridere, ridere come
un pazzo, senza lasciarmi il polso, ma stringendolo ancora di più, una
risata stridula, acuta, che non mi piacque. Davvero. Isnark sembrava essere
totalmente impazzito. Dopo un po’ lui smise di ridere, tornando
immediatamente cupo come sempre. “scommettevo che lei non ti avesse detto
nulla, in proposito!”. Esultò, beffardo, con una strana smorfia in
viso, ed una strana voce. “la povera, piccola, derelitta Lsyn, che non
deve soffrire, che ha già sofferto tanto, poverina!”. Dei, com’era
irritante quella voce. Cercai di parlare, d’intervenire, ma lui me lo
impedì, con un’occhiata disperata. Lui era un elfo disperato. Mi
zittì. “Lsyn, Nemys non deve
avere questo figlio”. Disse, improvvisamente ansioso, terrorizzato.
Quei sentimenti contagiarono anche me, chissà perché. Sentivo che
qualcosa non stava andando come doveva, lo avvertivo. Perché quello che
disse mi sconvolse, del tutto. “non fraintendermi, Lsyn….non
fraintendermi. Io vorrei questo bambino, e lei pure….ma non possiamo. Lei
si è intestardita con questo desiderio dal giorno in cui Lainay ha
scoperto la sua identità…sa che questo figlio sarà un elfo,
ma con tutti i poteri da Rinnegato, e…sarà un grande elfo, ma
è pericoloso. Per lei è pericoloso. Rischia la morte”. Mi
sentiibalzare il cuore in petto.
No. Lei no. Mi sentii malissimo. Non anche lei. Lei mi aveva mentito, mi aveva
tenuto nascosto tutto quello. Mi sentii tremendamente sola, ed arrabbiata.
Pensava fossi una bambina, io? Pensava fossi così stupida? Mi
divincolai. Non sopportavo il contatto con quel latore di cattive notizie. Lui
mi lasciò fare. M rannicchiai in un angolo. No. Non volevo essere
toccata. Se solo mi avessero sfiorata, sarei andata in pezzi. Parlai con una
voce terribile, incrinata. Mi sentivo tradita, tradita dalla stessa parte di me
stessa. Era una sensazione terribile. Non volevo perdere anche lei. Non volevo.
No: decisamente questo figlio non era la soluzione migliore.
“la…morte?”. Sussurrai, con una vocina sottile, fissando
Isnark come istupidita. Non volevo crederci. Nemys non poteva sacrificarsi
così. Non doveva. Io avevo ancora tanto bisogno di lei. Non ero pronta a
lasciarla, né lo sarei stata mai. Non poteva andarsene anche lei.
L’elfo che mi stava accanto si mordicchiò il labbro, e poi
annuì. “la sua stessa natura la metterà in pericolo non
appena questo piccolo nascerà… lei si è intestardita, dice
che è meglio farla morire che continuare ad essere schiavi di Lainay in
quel modo, che nostro figlio sarà libero daogni giogo, e potente oltre ogni
dire… ma che lei dovrà probabilmente morire. E lei vuole morire,
purché sia per questo motivo. Lei dice che non c’è onore
più grande”. No! Nemys, perché? Sentii una staffilata di
dolore acutissimo, e digrignai i denti. Egoista. Maledetta egoista. Questo era,
lei. Solo ed esclusivamente un’egoista. Pensava ad uno stupido ideale, a
nient’altro. Non pensava ad un orfano, alla sua famiglia addolorata.
Pensava a degli stupidi sconosciuti, ai Rinnegati, al suo popolo. Mi ero
sbagliata sul suo conto. Era solo un’idealista, e basta, tutto qui. Lei
non mi amava. Per lei io ero uno strumento come un altro. Lei non era
così tanto diversa da Lainay. Eppure, io mi ero legata a lei per sempre,
senza possibilità di scampo! Mi sentii attraversare da una strana
sensazione. Mi sentii improvvisamente in gabbia, rinchiusa in uno spazio troppo
piccolo per me. Mi sentii soffocare. Tradita. Tradita senza possibilità
di scampo. Lei non si era fidata di me, non abbastanza per dirmi quella cosa,
per chiedermi un consiglio, che avrei dato. Non c’entrava il mio dolore
nei confronti di Akita. Era più grande quello del tradimento. Già
instabile com’ero, quello fu un colpo tremendo. Come si era permessa?
Perché tutte a me? Perché il destino aveva come unico obiettivo
quello di ferirmi a morte? Vidi l’espressione di Isnark riflettere la
stessa rabbia che provavo io, la stessa impotenza. Sentii un enorme fiotto di
rabbia. Lì tutti si mettevano d’accordo per ferirmi. L’elfo
aggrottò le sopracciglia, vedendo chissà cosa nel mio volto.
“io ho bisogno di te, Lsyn”. Dichiarò, serio e severo, cupo
come non mai,. Ecco l’altro egoista. “per quanto tu possa essere
una nana patetica e disgustosa, Nemys ti tiene parecchio in credito. Si fida
molto di te”. Eccome. L’avevo visto. Ringhiai sommessamente,
irritata. Dopo un attimo di silenzio, lui riprese a parlare.
“perciò, voglio che tu provassi dove io ho fallito. Voglio che tu
le chieda di…”. Chiuse gli occhi, con evidente pena, ed
esitò. Bastardo egoista maledetto. Non farò mai nulla per te.
“di… di sbarazzarsi di questo bambino, Lsyn. È troppo
pericoloso per lei…continuare ancora questa stupidaggine”. Ringhiai
più forte, ormai divenuta un solo blocco di rabbia glaciale. Bene. Era
così che mi trattavano, come una cameriera. Lainay non era poi
così diversa da loro. Io ero sempre la povera servetta, che doveva
correre avanti ed indietro per aiutarli. Nemys mi voleva lasciare. Ed io non lo
sopportavo. Non sopportavo quel pensiero. Non sopportavo di rimanere sola. Il
problema era essenzialmente lì. Non volevo che lei se ne andasse per
sempre, solo per aiutare gli altri. Ero meschina, ero egoista. Ma non volevo
soffrire ancora. Guardai, sperduta, l’urna che conteneva Tijorn ed Akita.
Rivolevo indietro tutti i miei affetti. Li rivolevo indietro, volevo parlare
ancora con loro, discutere, chiedere il loro aiuto. Invece ero sola,
irrimediabilmente e schifosamente sola. Io mi sacrificavo per gli altri. Ma
nessuno si sacrificava per me. E così, agguantando, irosa, l’urna
di ferro e ceramica, alzandomi di scatto, e tenendola stretta al cuore, guardando,
minacciando di piangere, Isnark, che sembrava sinceramente stupito, feci un
ennesimo gesto stupido. “bene”. Dissi, con una voce tremante,
addolorata, con un senso di vuoto incombente. “benissimo. Te lo scordi,
Isnark. Io non farò mai nulla per voi. Non mi sacrifico per gli egoisti…non
più!”. Rifiutandomi di guardare ancora tutto, tutti, mi precipitai
fuori, correndo, sbattendo la porta. Il dolore mi aveva sopraffatta. E
cominciai a dare libero sfogo alle mie lacrime. Volevo andarmene, fuggire. Era
l’unica cosa che riuscivo a fare, in quel momento.
Scendendo
alle stalle, correndo alla cieca, addolorata, cercando di non singhiozzare,
l’urna stretta al cuore, vuota, tradita, desolata, presi la decisione di
fuggire per un po’. Non sapevo dove sarei andata. Non m’importava.
Volevo solo un posto sicuro dove pensare, dove poter lasciare spazio ai miei
sentimenti. Era orribile quello che era successo. Non mi sentivo tanto
preoccupata per la gravidanza di Nemys, e per i pericoli che lei correva. Se
lei si fidava, se lei si era intestardita, allora tutto era destinato, in un
modo o nell’altro, ad andare bene. I problemi che si faceva Isnark non
esistevano. Non sarebbe successo nulla di male. Quello che mi feriva
maggiormente era il fatto che mi avesse tenuto nascosta una cosa del genere. Mi
sentivo trattata come una schiava, davvero. Io facevo tutto per lei, di tutto,
mi sacrificavo, passavo mattine e mattine a compilare scartoffie,mi confidavo con lei, facevo un sacco di
cose per lei. Tutto quello che avevo ricevuto in cambio erano solo un paio di
parole vuote, vane consolazioni. E basta. Lei non mi metteva a conoscenza dei
suoi segreti, dei suoi pensieri. Mi era parso che lei si fidasse di me. Invece
non era che una facciata. Lei mi trattava come una bambina. Ed io non me n’era
mai accorta. Perché Tijorn se n’era andato? Perché Akita
era stata così debole da seguirlo? Perché non mi potevano
più sentire? Perché? Perché? Sotto gli occhi stupiti della
servitù, raggiunsi, disperata, avvolta da quel senso orribile di perdita
e tradimento, alle stalle, dove raggiunsi lo scudiero, e mi feci preparare il
mio cavallo, quello che Nemys mi aveva regalato, una bestia agile e non
eccessivamente grande, veloce e resistente, dal bel mantello sauro, in tutta
fretta. Senza che nessuno mi disturbasse, ancora stringendo l’urna al
petto, disperata, mi avviai al galoppo verso l’uscita di Kyradon. Mi
parve che qualcuno stesse urlando il mio nome, ma non me ne importai, e
continuai. Continuai a cavalcare, in una direzione sconosciuta, per i boschi,
accecata dal dolore. Volevo andarmene. Non m’importava di Machin. Non
m’importava di nulla, ormai. Lui aveva le persone che gli volevano bene.
Io no. Io ero stata tradita in tutta la mia vita, e gli unici che davvero mi
avevano capito erano lì, con me, trasformati in cenere muta. Continuai a
cavalcare per una ventina di minuti, incerta.Il cavallo mi obbediva, ma ero io a non
essere molto sicura. Ammetto di non essermela mai cavata granché
nell’equitazione. Ed ero decisamente molto sconvolta, accecata dalle
lacrime, dal dolore. Ad un certo punto, per chissà quale motivo, quella
bestia maledetta, spaventata da chissà cosa, scartò, ed io, che
mi tenevo con una sola mano, scivolai. Gridai mentre cadevo, come unico
pensiero quello di non rompere l’urna. Non m’importava se mi fossi
fatta male. Non importava a me, figuriamoci agli altri. Ci fu un assurdo
momento in cui non capii più nulla. E poi avvertii un dolore lancinante
dappertutto, qualcosa che mi teneva, che mi tratteneva, più
propriamente, che impediva ad una parte del mio corpo che andassi a terra. Ma
faceva male. Il rumore di zoccoli rallentò, poi si fermò.
Maledetta bestia…anche lei ce l’aveva con me! Aprii gli occhi. Ero
finita in un cespuglio di rovi. Ero già piena di spine. Grugnii, e
cercai di divincolarmi. Per fortuna, l’urna era lì, intatta. Dopo
un po’, riuscii a liberarmi. Contusa e piena di graffi, rialzandomi, mi
guardai attorno. Quel posto mi era familiare. Era stato un tempo territorio del
Regno, una propaggine estrema del bosco di Sharilar, dove esistevano strane
rovine che avevo visto da giovane, e che mi erano sembrate quelle di una casa.
Un portale, un altare…cose strane, millenarie, di cui avevo letto, ma non
avevo capito quasi nulla. Ero in una piccola radura poco distante da lì.
Mi scrollai di dosso la neve. Faceva freddo, davvero freddo. Mi strinsi alla
ceramica fredda, tremando. Quel cavallo maledetto, sbuffando, mi guardò,
incuriosito, poi scalpitò. Era fermo, mi aspettava. Ma io non avevo
più la forza di muovermi. La notte era quieta. Bella, limpida, perfetta.
On c’era nemmeno una nuvola, nel cielo stellato. Sola, mi sentii
afferrare dal panico. Tradita. Ero la Ch’argon del Matriarcato, ma non
potevo lavorare per esso. Nemys sicuramente ora mi stava odiando per quello che
avevo fatto, per la stupidità che avevo fatto.Forse aveva davvero temuto quella mia
reazione. Forse non aveva avuto tutti i torti, per nascondermi quel fatto.
Avevo reagito in un modo estremamente immaturo ed avventato, com’era mio
solito. Ero anche disarmata. Se solo qualcuno mi avesse voluto attaccare, sarei
stata completamente alla sua mercé, senza potervi fare nulla. Ero
praticamente in un vicolo cieco. Mi venne il singhiozzo. Benissimo. Ma che
imbecille che ero! Magari Isnark l’aveva fatto apposta, a farmi del male.
Magari voleva proprio quello. Era un peccato che non sapessi tornare.
Avvicinandomi al cavallo, presi ad accarezzargli il muso. Era piacevolmente
caldo, e mi confortò. Ero stata una sciocca a fuggire così, senza
mantello e senza spada. D’ora in poi, se solo fossi tornata, mi sarei
portata sempre tutto dietro. Ma non mi sentivo ancora abbastanza coraggiosa da
tornare. Ero ancora piuttosto scombussolata, ed addolorata. Se solo Tijorn
avesse potuto parlarmi. Se solo Akita mi avesse confortata. Beh…se i due
fossero stati ancora vivi, mi avrebbero dato della stupida. Mi meritavo uno
scappellotto. Ma loro erano morti. Dovevo smettere di pensarci. Stavo
impazzendo. Dovevo sbarazzarmi di quell’urna, creare magari una bella
lapide, dove sarebbero stati al sicuro, e lontani. Davvero, inoltre, quella
vicinanza con le ceneri dei miei cari mi stava snervando. Non era una cosa
bellissima. Mi venne, improvvisa, un’illuminazione. Sarebbe stato bello,
fare quello che intendevo fare. Prendendo il cavallo per le redini, mi avviai,
zoppicando, dolorante, piena di spine, anche nei capelli, verso una direzione
casuale, alla cieca. Ben presto, chissà come, arrivai ad un piccolo
spiazzo protetto dalla neve da un intrico di rami resi pesanti, con un
gigantesco albero al alto, dal tronco evidentemente cavo. Sorrisi debolmente,
poi legai il cavallo. Mi chinai verso una piccola tana sotto l’albero,
una tana che mi assicurai essere vuota. Ecco ciò che cercavo. Sospirai.
Tijorn ed Akita avevano bisogno della loro casa dove riposare. Era doloroso
allontanarsi da loro, ma necessario. Quelle ceneri mi avrebbero fatto
impazzire, prima o poi. Così, nascosi l’urna, avvolta nel drappo
rosso, sotto l’albero, e poi, rompendomi le unghie contro il terreno reso
duro dal gelo, strappai qualche zolla, polverizzandola sotto le mie dita
sanguinanti, e copersi quella strana tomba improvvisata. Sospirai, di nuovo.
Tutto il dolore che mi ero provocata era lecito, e normale. Me lo meritavo
tutto, fino all’ultimo. Perché ero stata stupida. Avevo creduto ad
Isnark. Magari tutto non era come avevo pensato. Avevo pensato male come al mio
solito, ma non sapevo tornare. Non sarei riuscita a tornare. Mi sarei persa a
Sharilar. Digrignai i denti, e poi mi sedetti sul terreno gelido. Dannazione.
Avevo freddo, ero stordita, dolorante, piena di spine, le mani non mi
rispondevano, mi ero persa. Ero stata una stupida. Andare a parlare con la
Rinnegata, no, eh? Mi ero fidata di quel maledetto di Isnark. Ed ecco quello
che mi era successo. Borbottai di nuovo, poi mi mossi, a disagio. Avventata e
stupida, come sempre. Non volevo morire. Sperai che la mattina mi avrebbe
portato nuove rassicuranti. Per i momento, era poco saggio, avventurarsi da
qualche parte. Mi raggomitolai, guardando il buco dove c’erano mio
fratello, il mio amato fratello, e la sua compagna. Ero sola. Orrendamente
sola. Quasi sentii di nuovo le lacrime farsi strada, ma mi bloccai. Quello
l’avevo voluto io. Avevo voluto io quella tremenda solitudine. Solo
perché ero una stupida, una maledetta istintiva, avevo combinato quel
guaio. Sperai di sopravvivere alla notte. Faceva già troppo freddo. Ma
non avevo la forza di muovermi. Non so come, ma riuscii ad alzarmi, e mi
avvicinai di nuovo al cavallo. Vi salii, a fatica, poi mi raggomitolai
lì, senza essere capace di muovermi, rabbrividendo. Avevo freddo.
Sentivo un freddo tremendo. Come mi avrebbero salvata? Meritavo di morire. Ero
stata una sciocca. Una dannata sciocca. Ma avevo ancora paura di essere stata
volgarmente tradita.
Non so
quanto rimasi, lì, intirizzita, piena di dolore, aggrappata ad un
cavallo perplesso, rubando il suo calore. Ancora a notte fonda, lo so
perché cercai di non fare la stupidaggine estrema di addormentarmi, e di
rischiare di morire assiderata di conseguenza, sentii dei passi, qualcuno chiamarmi.
Mi riscossi dal torpore ipnotico in cui ero caduta, e gemetti quando tutti i
muscoli protestarono. Chi mi chiamava? Stavo impazzendo, per caso? No: i
richiami erano più vicini, ora, e vedevo, lontane, delle luci. Sentii il
cuore balzarmi in gola. Mi stavano salvando. Stavano cercando me, la sciocca
credulona, la bambina. Nemys aveva avuto ragione a trattarmi così, a non
mettermi a conoscenza dei suoi più grandi segreti. Dopo tuta quella
sofferenza che avevo passato ero regredita ad uno stato quasi infantile, di
sicuro molto più egoista di lei, quella che avevo reputato tale. Ero
un’ingrata. Un’ingrata, e basta. Ma allora non lo pensai affatto.
Presa da un’incredibile speranza, cominciai a chiamare anch’io, con
una voce roca e fievole, mettendomi seduta, fino a quando qualcuno non si
precipitò da me. Mi balzò il cuore in petto, povera, povera
Nemys. Fino a che punto l’avrei fatta soffrire? Aveva uno sguardo
tremendo, sperduto, addolorato, che si riscosse lievemente quando mi vide. Era
con Zipherias, che sembrò immensamente sollevato, nel vedermi viva. Se
davvero quello che mi aveva detto Isnark era vero, allora aveva rischiato
davvero molto, lei, nel venire lì. Io ero stata una sciocca. Avevo
creduto nelle stupide parole di lui, che mi odiava. La mia dolcissima Rinnegata
si precipitò da me, abbracciandomi, avvolgendomi con il suo tepore. Si
spaventò nel vedermi così fredda, così gelida, così
piena di spine, le mani sporche di terriccio e sanguinanti. Diceva che avevo le
labbra viola. Poi mi disse che ero stata un’emerita sciocca. Ci fu un
attimo di silenzio. Sentii un debole colpo al cuore. Dovevo dirglielo.
“dimmi che non me l’hai detto perché hai paura di farmi del
male, Nemys”. Dissi, con una strana voce disperata, prendendola per il
colletto, guardandola, con il viso offuscato. Sentivo le lacrime scorrere.
Quella cosa mi faceva ancora male. “dimmi che ti fidi di
me…”. Lei scoppiò a piangere, e mi abbracciò. Mi
disse che Isnark era stato uno stupido, che non doveva dirmelo così, che
se n’era reso conto appena mi aveva vista fuggire. Era vero, rischiava
molto, per quello stupido sogno, ma non era detto che sarebbe morta. In quella,
si guardò brevemente con Zipherias, una cosa di cui quasi non mi avvidi.
Io capivo il suo desiderio di maternità, lo capivo benissimo. Capivo il
suo volere, e lo accettavo. Sarebbe stato pericoloso, ma davvero non importava.
Anche nel mio caso ad un certo punto era divenuto molto difficile, avevo
rischiato di rimanerci lì, io e mia figlia. Ma io avevo paura di non
essere amata. Era quello che mi premeva. Temevo di non essere accettata da lei.
Lo temevo ancora, malgrado tutti quei mesi. Avevo passato troppi anni odiata ed
abbandonata da tutti. Ero come un cane, un povero cane randagio, abituato alle
bastonate ed ai morsi, che quando trova una mano amica non si fida di lei. Poi
Nemys disse che aveva avuto paura. Qualcuno mi sollevò da cavallo, ma io
ero troppo impegnata ad abbracciare la mia Rinnegata come una disperata. Mi
sentii avvolgere da qualcosa di caldo. Mi disse che, quando Isnark
l’aveva raggiunta, confessandole tutto, spaventato, era corsa assieme a
Zipherias sulle mie tracce. Avevano avuto paura fossi morta. Lei aveva sentito
il legame con me divenire, ad un certo punto, molto debole. Mi dispiacque
averla ferita in quel modo, e glielo dissi. Lei mi rispose che ero davvero
un’imbecille, e che dovevo fidarmi di lei. Lei stava aspettando solo il
momento più propizio per dirmelo. Vedeva che ero così felice, e
non voleva preoccuparmi, ora che sembravo aver guadagnato un certo equilibrio.
Scoppiai in lacrime. Ero stata sciocca a non fidarmi di lei. Sarei potuta
andare da lei a chiedere spiegazioni ,senza fuggire al gelo. Ero stata stupida.
Ne ero pienamente cosciente. Stupida, ed avventata. Meritavo davvero
quell’appellativo.
Brontolai,
ad un certo punto, sul fatto dell’urna. Nemys promise di non dimenticare
dove fosse. Ero intorpidita. Poi lei mi sussurrò che mi voleva bene,
comunque andasse, che lei sarebbe stata sempre con me, come una sorella. Mi
aggrappai a lei come se fosse il relitto di una nave, l’ultima speranza
del naufrago. E poi le sussurrai che le volevo bene anch’io.
Arrivammo,
chissà come, al castello. Nelle stalle, ad aspettarci, c’erano
Benagi, Capouille ed Isnark, che si preoccuparono immediatamente appena mi videro
in quelle condizioni. Fino a quel momento, per non affaticare Nemys, ero stata
in braccio a Zipherias, incapace di muovermi, tremando, gelata, e lo sentivo
lamentarsi sommessamente ogni volta che faceva forza sulla gamba zoppa, ma poi
passai subito in braccio all’altro gigante, Benagi, che mi chiese se
stessi bene. Io mormorai di si, in un modo non proprio convincente. La
Rinnegata, rabbiosa, mi aveva fatto salire di corsa nella mia camera, la camera
che non avevo voluto vedere, e mi aveva fatto fare un bagno bollente. Mi ero
gradualmente sentita meglio, molto meglio sia fisicamente che spiritualmente.
Non ero stata tradita, allora. Era una grande cosa. Non appena mi fui vestita
con delle cose calde e molto pesanti, ed entrai, riluttante, nella camera da
letto, dal camino acceso, lei mi si precipitò contro, armata di
pinzetta. Passai una mezz’ora di punizione vera e propria, mentre Nemys
mi toglieva, una ad una, le spine del cespuglio in cui ero rimasta conficcata,
mentre mi pettinava i capelli, ripetendomi che ero una cretina. Ad un certo
punto soggiunse, con soddisfazione, che Isnark aveva avuto la punizione che si
meritava per aver distorto la realtà in quel modo. Avrebbe badato a
Machin per qualche giorno. Sapevo quanto fosse difficoltoso per lui, e sorrisi.
Poi ripetei che mi dispiaceva, che avevo capito subito di aver fatto una
stupidaggine. Nemys non mi rispose, e mi disse che era normale, che mi capiva,
che ero sotto stress da troppo tempo. Mi misi a letto poco dopo. Ero stanchissima,
e mi bruciavano gli occhi. Mi addormentai subito. Quella notte, Nemys non mi lasciò.
Diceva di sentirsi in colpa di non avermelo detto prima. Liquidai quella cosa
con un gesto. Poi dissi qualcosa a proposito dell’urna, e mi addormentai.
Per cinque
o sei giorni non ricevetti visite da nessuno, a parte qualche Guaritore. Pensai
di essermelo meritato. La ragione era semplice: nonostante tutte le precauzioni
che avevano adottato, avevo comunque beccato una bella febbre da cavallo,
così come mi meritavo. Tradimento. Bah. Ma come diavolo mi era venuto in
mente? Sinceramente, non lo sapevo. Avevo diffidato un po’ troppo a lungo
della gente, per capire quando facevano tutto per proteggermi, e quando invece
lo facevano per farmi del male. Quando mi fui rimessa, avevo capito appieno la
stupidità del mio comportamento. Ero una cretina, ed a questo nessuno
poteva obiettare. Cercai di fare di tutto per porvi rimedio. Oltre a Machin,
cominciai ad occuparmi assiduamente anche di Nemys, per i mesi che seguirono. Mi
resi subito conto che c’era qualcosa che non andava. I riti di
purificazione dei Rinnegati andarono poco a poco diradandosi, man mano che la
gravidanza andava avanti. Lei cominciò ad essere sempre più
stanca, silenziosa, mesta, e non faceva altro che sonnecchiare per tutto il
giorno, oppure rimanere semplicemente ad ascoltarmi parlare. Le udienze furono
fatte solo da me e dal Principe. Nemys cominciava a non farcela più. Qualcosa
sembrava rubarle sempre di più l’energia, qualcosa che cresceva,
che lei amava già. Il compagno aveva preso ad essere sempre più
rassegnato, in materia. Isnark era sempre di umore più cupo, ma non
lasciava mai la compagna. I rapporti tra me e lui, dopo un ennesimo momento di
crisi, andarono a migliorare. Perlomeno, non mi prese a chiamare più
parassita, e prendemmo a fare qualche dialogo civile. Avevamo qualcosa in
comune: il benessere della Rinnegata. Presi a fare di tutto per lei. Se le
prime volte aveva cercato di schermirsi, o di lamentarsi, poi prese a non fare
più commenti, anzi, a ringraziarmi. Divenni una frequentatrice abituale
delle sue stanze, poste in una magnifica torre, da cui si accedeva per un
corridoio sospeso per aria. Capii che davvero qualcosa cominciava ad andare
storto: tuttavia, vedevo Nemys ottimista, o falsamente tale, e lo ero anch’io.
Lei si fidava, ed io non potevo far altro che fidarmi. Dovevo avere fiducia in
lei. I Guaritori non riuscivano a spiegarsi quella strana debolezza. Imputarono
tutto alla fatica. Passarono sei mesi. Se non altro, l’amicizia con i
miei tre giganti non si era per nulla scalfita. Quei tra soldati cominciarono,
anzi, ad essermi sempre più legati, soprattutto Zipherias, che prendeva
spesso a farmi compagnia. Machin crebbe. Cominciò a divenire davvero un
bellissimo bambino, e, qualche volta che eravamo andati a fare una passeggiata,
lui in braccio, io, e qualcuno degli amici di turno che si sorbiva qualche ora
con me, avevo ricevuto i complimenti. Mi lusingavano quasi fossi la madre. I capelli
erano cresciuti un po’, ed erano di un colore stranissimo, un color oro
rosso, giallo con sfumature aranciate e rossicce, meravigliosi. Gli occhi
avevano cambiato colore. Grigio, quel grigio di mio fratello, chiaro, profondo,
espressivo. Erano gli occhi di Tijorn, in tutto e per tutto. Non mi stancavo
mai di guardarli. Lui, a parte qualche particolare tutto della mamma, come la
pelle alabastrina, le sopracciglia delicate, il viso sottile, gli assomigliava
molto, d’altronde. Era un bambino buono, vivace ed intelligente, anche se
una vera e propria peste. Amava ridere, e combinare guai. Aveva una vera e
propria passione per me, che io contraccambiavo teneramente. Il mio nipotino. Amavo
moltissimo circondarmi di marmocchi, dei miei protetti, e fare un giro, andare
nel bosco, oppure solamente giocare. Nemys diceva che avevo un’incredibile
propensione ad amarli. Poi aggiungeva che ero obbligata ad amare anche suo
figlio, perché, in un certo senso, era figlio mio. Quando ci pensavo mi
sentivo un po’ strana. Già. Mi avrebbe chiamato zia. Ma io non ero
propriamente tale. Ero un po’ la madre. Che strano. Ma come spiegarlo ad
un infante? Allora facevo una battuta, e noi due ridevamo. A quel punto, per
sottolineare il divertimento della situazione, Machin afferrava i capelli di
chi lo teneva in braccio, solitamente io, e tirava, ridendo con la sua bocca
dai due denti. Ma, appena io mi lamentavo, lasciava la presa, con una buffa
faccia contrita, e sporgeva il labbro inferiore, addolorato, come a volersi far
perdonare. Io lo abbracciavo. Allora lui si accoccolava contro di me, e non si
muoveva più, soddisfatto, spesso addormentandosi. Era adorabile. Avevamo
preso a benvolerlo tutti. Anche Isnark, per il quale lui non aveva una grande
simpatia. Gridava ogni volta che lui voleva giocare un po’, con sua
grande delusione e nostro enorme divertimento. Per Amarto aveva superato l’odio,
per fortuna. Si lasciava coccolare tranquillamente. Tornai più di una
volta nel luogo in cui avevo seppellito ciò che rimaneva di Tijorn ed
Akita. Quel luogo divenne un vero e proprio santuario. Vi piantai dei
bellissimi gigli, giglie rose, di
persona, in modo che coprissero l’entrata, e poi, com’era
tradizione lì, attaccai due file di campanelle a due rami secchi e
robusti, e li piantai proprio all’ingresso della tana in cui, una notte
di disperazione, avevo nascosto un’urna che mi ossessionava, facendo in
modo che, ad ogni soffio di vento, ad ogni movimento, le campanelle
tintinnassero, dolcemente, come se in quel luogo ci fossero gli spiriti. Passò
altro tempo. Il bambino di Nemys cresceva, e lei era sempre più stanca,
quasi dolorante. Cominciai pian piano a capire come stavano andando le cose. Nemys
non ce la faceva. Qualcosa era troppo debole. In lei. Fino all’ultimo
momento, io speravo. Speravo in lei, confidavo nella sua forza. Non volevo che
mi abbandonasse. Non avrei saputo cosa fare. Perciò, dovevo solo sperare.
Solo sperare. Di solito, quando ci pensavo, mi sentivo assalire dal freddo. E tornò
l’estate. Era strano pensare a tutto quello che era successo l’anno
prima, in quel periodo, come la mia vita fosse cambiata. Passò un anno
dalla morte di Tijorn. Io rimasi quasi un giorno intero a parlargli, lì,
alla sua tomba. Mi mancava. Mi mancava tutto di lui. Era una ferita che ancora
faceva male. Passò un anno da che diventai Ch’argon. La data del
parto cominciò ad avvicinarsi. I riti divennero sempre più radi. Io
ed Isnark eravamo sempre dalla stanca Nemys, che ormai non faceva altro che
riposare, o scrivere, o aspettare. Aspettava qualcuno, diceva. Ma di solito,
quando gli chiedevo chi, lei mi diceva semplicemente di aspettare con lei. Ed io
aspettai. Sicuramente, non mi aspettavo decisamente quello che successe. Una delle
cose più strane mai capitate in vita mia. È particolare pensare a
come cambiò la mia vita da quel momentoesatto, come cambiò di nuovo.
Ero alla
tomba di Tijorn ed Akita. Quel giorno mi sentivo molto strana. Avevo bisogno di
stare un po’ da sola, come mi succedeva spesso. Cinquant’anni di solitudine
mi avevano cambiato molto. Non sopportavo più la folla ed il caos di
Kyradon, ed ogni tanto avevo bisogno di raccogliere le idee, di andare dove
amavo andare. Mancavano due settimane alla data prefissata per il parto,
tuttavia, ed ero stata riluttante ad andare. Poteva capitare di tutto. Nemys mi
aveva rassicurata. Aveva detto che non sarebbe successo nulla, che era ancora
tutto lontano. Si sentiva una meraviglia. Quel giorno ci sarebbe dovuto essere
un rito, quindi io mi sarei annoiata, sarei stata da sola. Dunque, era meglio
che andassi un po’ via, se mi sentivo così a disagio. Sennò,
com’era successo un paio di volte, risultavo sgradevole a tutti,
risultavo cattiva. Mi ero sentita tranquillizzata, e mi ero fiondata nella
foresta. Avevo cavalcato a lungo, godendomi il tepore estivo, abbigliata della
tunica viola che avevo sempre avuto, quella estiva, e così, legando il
cavallo un po’ lontana, ero andata dai miei cari. Era una bella mattina
luminosa, che prometteva tante belle cose per i vivi. Io avevo a lungo parlato
con Tijorn ed Akita. Avevo descritto loro i progressi di Machin, che stava
cominciando a gattonare, ed a procurarmi un sacco di guai, che aveva rischiato
di rompere un vaso costoso, che la notte piangeva se non dormiva con me o con
Dae, che Nemys mi era parsa strana in quei giorni, che ero riuscita a non
litigare con Isnark, che davvero Zipherias stava prendendo ad essere un po’
troppo appiccicoso, e tante altre piccole cose quotidiane. Nessuna risposta,
dalla cruda e nuda terra. Solo un vago tintinnio di campanelle. Mi sentii, come
sempre, orrendamente sola. Nessuno mi poteva capire. Nessuno. Nemys stava
troppo male per potermi ascoltare, per poter ascoltare le mie lamentele. I miei
amici in fondo a volte non mi capivano. I bambini erano troppo piccini. Loro erano
morti, gli unici capaci di riuscire a comprendermi. Quasi mi misi a piangere. Implorai
loro di rispondermi, di tornare. Sussurrai mille e mille preghiere, senza
esito. Ero sola. E poi rimasi di nuovo in silenzio, addolorata. Avvertii degli
strani rumori. Sobbalzai. Cos’era? Rimasi con l’orecchio teso un
altro po’. Ancora rumori. Accidenti. Mi sentii avvolgere da ogni sorta di
pensieri. Quella era sempre una regione piuttosto tranquilla, ma non si poteva
mai sapere. Nemici. Ferite. Morte. Solitudine. Eh, no. Non intendevo morire. Dovevo
curare i miei cari. Estrassi la spada, in silenzio. Potevo sentire il cuore che
mi batteva fortissimo, l’ebbrezza dell’agguato sciogliermi il
sangue. Di nuovo, il tintinnio di campanelle. Maledissi quel rumore, e sgattaiolai
via, verso un albero vicino, addossandomi al tronco. Ero pronta a far fuori
qualunque nemico. Se solo avessi saputo quale sorpresa mi si stava preparando…con
la mano libera dalla spada, mi tirai il cappuccio. Nessuno doveva vedermi,
nessun nemico. I rumori si ripeterono, più vicini. Ad un certo punto,
vidi una figura, di soppiatto, che si avvicinava. Aveva una spada meravigliosa,
scintillante, che mi stupì, che emanava potere da ogni parte della
struttura, ed era nascosto dal mantello. Doveva essere un giovane uomo,
però. Nessuno della razza degli elfi era così poco cauto. Chissà
chi era. In ogni caso, ero prontissima a farlo fuori. Agile come una gatta
selvatica, mi preparai, strinsi forte il pomo della spada. Sentii il fruscio
debole dei passi dell’uomo fermarsi. Lo sentii molto vicino. Il potere
della spada non mi mentiva. Bravo, il tipo. Conoscevo poche persone in grado di
avvicinarsi così ad una Spia. Rimanemmo per un attimo così, uno
dal lato opposto all’altro, pronti all’agguato. E poi agimmo nello
stesso momento. puntai la lama alla gola dello sconosciuto, alto e sottile, e
sentii che lui mi imitava. Buffo. Davvero buffo. Ebbi un lampo di capelli lisci
e neri, una carnagione scurita dai viaggi, occhi scuri e lineamenti che mi
erano curiosamente familiari. Quel tipo mi ricordava qualcosa. Ci guardammo per
una frazione di secondo. Vidi la sorpresa montare nei suoi occhi duri,
indomiti. Si: quell’uomo mi diceva qualcosa. Non riuscivo a capire cosa,
però. Sentii, improvvisamente, la lama scostarsi dalla mia gola. Eh? Che
succedeva? Stupido sciocco. Io non mi mossi. Credeva io fossi inerme? Ero piccina,
bassa, è vero. Ma ero stata una Spia. A me non la sia faceva franca. Il motivo
di quel comportamento era però un altro. Scrutandomi come se non
credesse ai propri occhi, il giovane esclamò, con una voce venata d’incredulità
che mi riportò a tempi lontani, che ricacciai subito indietro nella mia
memoria, troppo concentrata sullo scontro che mi pareva imminente. “Lsyn!”.
Disse, guardandomi come se fossi impazzita, o chissà quale prodigio. Mi sentii
avvolgere dal freddo, e dalla sorpresa. Chi era? Che cosa stava succedendo? Io non
conoscevo umani. Chi era quella creatura così familiare che conosceva il
mio nome? Cosa stava succedendo, dannazione?
Capitolo 87 *** Ai confini dell'irrealtà-Una parte del passato. ***
Salve a tutti, miei lettori
Salve a tutti, miei lettori. A quanto pare, questi avvisi stanno tornando
xD
Beh, non vi ci abituate. La scuola è vicina
ç__ç
Povera me, povera me. Per questo, vi dirò che forse gli
aggiornamenti si diraderanno, dopo il 7, purtroppo .__.
Gennaio è gennaio .__. E questo è il 5 anno .__.
Vabbè, lasciamo perdere.
Saluto tutti, soprattutto chi legge e commenta (i miei adorati
Carlos Olivera e Selly -farei loro una statua d’oro, che ne dite? xD), mandando ad essi un grande bacioJ
Disclaimer praticamente fondamentale. Poi non mi venite a dire che
non ve l’ho detto!
Per chi abbia
lettoMillennium War-Rebirth, questo e
gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto
situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio!
È solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di
tempo, con il consenso di entrambi! xD
Dunque, molte delle situazioni, la
maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la
prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia “indipendenza
letteraria” (xD)-), e, soprattutto, il
personaggio di Regis appartengono all’anzidetto
Carlos Olivera, ed alla sua opera xD
Ecco. Quello che avevo da dire l’ho detto!
Grazie a tutti, perché sono qui, ma soprattutto a chi si fa
sentire, a chi mi aiuta, a chi mi sprona ad andare avanti.
Grazie. Senza di voi proprio non so dove sarei xD
A presto!
Akita
-----
Ma chi
era, quel giovane umano che mi stava guardando? Davvero, mi diceva qualcosa. I
suoi lineamenti non erano per nulla sconosciuti, ad una parte di me che cercava
di farsi notare, cercava di darmi una dritta. C’era una parte profonda,
in me stessa, sepolta sotto strati e strati di dolore, che continuava a
ripetermi che io conoscevo quel tizio, quel tizio che mi guardava con una sorta
di gioia perplessa, quel tizio che mi sembrava di conoscere da tutta la mia
vita. Eppure era strano. Non conoscevo umani così giovani, come lui.
L’unico umano con il quale avessi stretto un legame….beh, avrebbe
dovuto avere più di settant’anni, un’età per noi che
corrisponde all’infanzia, per loro alla più infame delle
vecchiaie. Tra le razze, gli unici a rimbecillirsi totalmente una volta anziani sono proprio gli umani. Le razze non
antropomorfe passano un periodo relativamente breve di anzianità, un
periodo in cui la loro forza svanisce rapidamente, lasciando però la
mente lucida ed un corpo senza acciacchi, mentre per gli elfi, più
semplicemente, l’invecchiamento dovuto al tempo semplicemente non esiste.
Un elfo che vive una vita tranquilla e sana può superare praticamente
indenne i secoli, arrivando in punto di morte con l’aspetto senza età
che trova riscontro nei più anziani, quegli occhi calmi ed il volto
antico e liscio al tempo stesso. Sono piccoli particolari come quelli che
svelano la vera età di un elfo. I capelli bianchi e quelle che sembrano
rughe possono apparire anche in un giovane, com’ero in sostanza io, che
avevo i capelli ingrigiti a soli trecento anni di vita, la prima età
adulta per la mia razza, se sollecitato nella maniera sbagliata. Insomma, quel
volto liscio da giovane uomo non corrispondeva a nessuno degli umani che
conoscevo, tutti morti e sepolti o irrimediabilmente rovinati dal tempo
crudele. Eppure qualcosa mi sussurrava che non era del tutto sconosciuto. Mi
assalì un terribile sospetto, e, in quell’istante in cui ci
scrutammo, io piena di sospetto, lui stupito e felice, feci
tutte le congetture del caso, tutte drammaticamente errate. Che fosse un
ambasciatore dei regni lontani, o un ribelle venuto a cercare rifugio? Che
fosse un profugo, o un brigante? Come al solito, ero
ben lontana dalla verità. Ma, certe volte, quando il tempo gioca brutti
scherzi come quello, che sembrano quasi segni del destino, segni di un
cambiamento profondo in me e negli altri, segni del tramontare di
un’epoca, e del volgersi alla nascita di un’altra, quando la
corrente di quell’oscuro fiume che è il tempo che scorre in circolo,
le cui acque sono sempre smosse e sempre mutevoli, è impossibile capire.
Certe volte la verità viene, più forte di una mazzata. E sono
sicura che per lui fu molto peggio. Io, sotto non
tanto sotto, fui davvero felice di vedere quella persona, lì, in quel
tempo, in quel momento così delicato per me. Quasi un segno del destino,
che mi voleva risollevare dalla disperazione in cui ero caduta. Ma allora non
mi feci prendere dalla fantasia, che mi suggeriva di aprirmi a nuovi orizzonti,
e di non giudicare quell’accadimento con la mia solita grettezza. Ma non
feci attenzione. Grave errore.Così parlai, con la mia solita voce roca, cattiva, in allarme,
pronta a fare secco un giovane che tutto pareva fuorché animato da
cattive intenzioni, e che sembrava molto contento di vedermi.
“tu…”. Dissi, facendo in modo, con la spada ancora puntata
alla sua gola, che lui abbassasse il viso meglio verso
di me. C’era solo una persona che assomigliava a quella così.
Sentii una strana sensazione, come se avessi la pelle d’oca. Scacciai
brutti pensieri in un attimo. Per un momento, guardando negli occhi
quell’uomo, mi parve di ritornare indietro nel tempo, in quei periodi in
cui ero l’Ombra, la nobile Rian Askerat, Lsyn Amarto, la Spia di Normar,
quando ancora non conoscevo dolore, e sapevo come essere contenta. Quello sguardo fiero, ora venato di perplessità. Quei
lineamenti, contratti in un sorriso di sollievo, appena accennato. Ma non
doveva essere. Non poteva essere. Io mi stavo sicuramente sbagliando.
“chi sei? Come conosci il mio
nome?”. Il giovane parve smarrito, per un attimo, e mi guardò,
sbattendo gli occhi. Dannazione, mi era tremendamente familiare, quello sguardo
perplesso, che mi guardava come se fossi ammattita. No. Ancora quella
sensazione, quell’inquietudine. Quel tipo mi era troppo familiare. Come
se fosse stato accanto a me dall’infanzia. Non capivo. Non riuscivo
assolutamente a capire. Il sorriso sollevato dell’uomo si
trasformò in uno di compatimento, e gli occhi tornarono insondabili. Lui
sembrava saperla molto più lunga di me. Eh, no. A me non la si fa. Strinsi la presa sulla spada, pronta ad usarla in
ogni caso. E poi, con voce più gentile, quasi come se stesse parlando ad
una bambina, lui disse la cosa più strana del mondo. Una cosa che mi
scombussolò ad un punto tale che non sono sicura che gli avvenimenti del
paio di giorni che seguirono siano stati reali, o solo uno stranissimo sogno.
“ma come, Lsyn, non mi riconosci?”. Domandò lui,
gentilmente, a voce ora normale, completamente padrone di sé.
Attraversai un altro brevissimo momento di confusione. No. Io non lo conoscevo.
Per un attimo, il suo volto si sovrappose a quello di un ricordo. Un ricordo
non particolarmente piacevole, né per me, né per lui, ne sono
certa. Un Lazzaretto, io, orribile più che mai, isterica e debole, lui,
che mi sovrastava, superbo, che mi aveva inflitto una durissima umiliazione,
che ancora bruciava come fuoco. Un duello, il momento in cui mi aveva dato una
solenne lezione, il momento in cui mi aveva fatto rendere conto del mio più
grande difetto, il momento in cui, per un attimo, Chekaril era stato spazzato
via, come nebbia mattutina al sorgere del sole, l’ennesima volta in cui
mi aveva sconfitto. Un combattimento, la prima volta che avevo visto quelle
cose, quelle bambole meccaniche che tanto avevano seminato distruzione, il
momento in cui avevo confidato un segreto che per me era troppo prezioso.
Quando avevo cominciato a considerarlo, nei lunghi anni di solitudine, passati
aviaggiare
senza senso, a soffrire per delle stupide illusioni, uno dei miei amici
invisibili, da coccolare nei miei ricordi. Ma scacciai subito quei rimpianti.
Non poteva essere, e basta. Erano passati cinquant’anni, che per un uomo
sono tanti. Come no. Le parole che seguirono mi confutarono tutte le false
rassicurazioni che mi ero creata. Con uno scatto della testa, lui si tolse
tranquillamente qualche ciocca di capelli scuri che mi aveva, per un po’
di tempo, lasciato il margine del dubbio sulla sua identità. Sentii
praticamente il cuore fermarsi. “sono io, Regis…”. Cosa? Mi
sentii immediatamente mancare il fiato. No. La mia memoria aveva ragione, come
sempre. Non mi ero sbagliata. Regis. Subito mi sentii attraversare
dall’incredulità, da una confusione che mi fece girare la testa,
da un certo malessere. Non era possibile. Era praticamente impossibile! Come
poteva? Come accidenti poteva essere che una persona come quella, che
cinquant’anni prima era stato un uomo nel fiore dei suoi anni,
attraversare lo scorrere del tempo praticamente intatto? Era uguale a come
l’avevo conosciuto, identico. Solo la spada era molto diversa,
un’arma quasi da sogno, come se on appartenesse a questo mondo. sfrigolava di potere, e la cosa non mi piaceva. Non mi
è mai piaciuto essere nelle vicinanze di un oggetto caricato di magia
come quello. Mi sa di strano. Di malvagio, quasi. Ma quella era la cosa minore.
Lo guardai meglio. Si: era proprio lui. Non era cambiato minimamente: stessi
lineamenti fieri, stessi occhi scuri e limpidi, stessa espressione franca,
stessi capelli per nulla toccati dalla neve dell’età. Mi sentii
avvolgere da una sensazione di panico, e di gelo totale. Era innaturale. Se
solo non conoscessi Regis per quello che era, avrei pensato che lui avesse
fatto chissà che sortilegio per mantenersi giovane, un qualcosa che avesse
impedito al suo tempo crudele di scorrere, di erodere lentamente la roccia
della sua identità. Ma era impossibile. Quello che pensai dopo mi fece
fremere, e persi il controllo, dopo aver esclamato chissà che cosa,
della spada, che sentii cadere a terra. Ero forse di fronte ad un fantasma? Quello che vedevo non era che
uno spirito di un morto? Allora esistevano davvero? Lui era morto lì, in
chissà che epoca? Oppure quella non era altro che una proiezione
malefica, qualcosa di oscuro, una trappola? Mi sentii ancora più male, e
cercai di parlare. Dovevo sapere. Se solo fosse stato una mera proiezione non
mi avrebbe più risposto, no? Così parlai, con una vocina piccola piccola, con chissà
che faccia. Ma io mi sentivo strana, come staccata dal proprio corpo. “no…tu…non
puoi…non può essere. Tu non sei Regis!”. Esclamai,
allontanandomi di un passo, stupefatta, completamente terrorizzata. Era tutto
troppo innaturale. Cos’è, lo spirito del passato venuto ad ammonirmi,
a parlarmi? Quasi risi. Ma poi ogni accenno d’ilarità scomparve,
quando vidi l’espressione del mio umano preferito. Era lui a sembrare
incredibilmente confuso, quasi pieno di compassione. Aggrottò le
sopracciglia, preso in contropiede. Sembrava esattamente nella stessa mia
barca. “Lsyn, si può sapere che ti prende?”. Domandò,
quasi infastidito, da chissà cosa. Lui…infastidito.
Lui…sembrava quasi offeso, quasi come se fossi io a prendere in giro lui.
Bene. La situazione stava davvero peggiorando. Resistetti all’impulso di
prendermi a schiaffi, per vedere se quello non fosse tutto un sogno. Doveva
esserlo. Mi mordicchiai il labbro. Dolore. Ecco. No: non era un sogno.
Accidenti…tra poco gli sarei saltata addosso per vedere se lui fosse
davvero materiale. Uno schiaffo bastava? O dovevo ficcargli una spada in corpo?
Decisamente la cosa non mi andava. Se solo fosse stato reale, per quanto mi
paresse strano, avrei combinato un bel guaio. E rammentavo fin troppo bene tutte le volte che mi ero scontrata con lui chi era
stato ad avere la peggio. “certo che sono io! Cos’è,
d’improvviso ti sei dimenticata di me?”. Quasi mi strozzai con la
saliva. Ma tu sentilo, il presuntuoso! Certo, era difficile scordarsi di lui,
delle sue eterne manie da primadonna,Dimenticarsi di lui. E lui che lo
diceva come se fosse la cosa più strana del mondo, come se mi fosse
andato di volta il cervello! Ma si vedeva? Cinquant’anni dopo averlo
visto era ancora un bel giovane orecchie-tonde. Certo,
se li portava bene, gli anni. O era un elfo in incognito, o gli umani
provenienti da dove veniva lui erano ben strani. No. Dovevo parlare. La
situazione era troppo strana. Ecco. Lui non doveva essere lì. Io dovevo
parlare. “ma come…tu…io…Regis”. Dissi, cercando
di racimolare quel poco di idee e fiato che avevo. Ma era difficile. Molto
difficile. Beh…non capita tutti i giorni di vedere comparire davanti un
antico amico, bello, fresco come una rosa, piombato dalle nuvolette in cui
abita. “ascoltami. Tu non sei qui. Cioè…tu…tu non
dovresti essere qui”. Perfetto. Avevo detto qualcosa che non aveva assolutamente
senso. Non mi stupì lo sguardo perplesso del giovane, che mi
fissò davvero come se fossi impazzita. Non gli davo tutti i torti. La
situazione, a ripensarci, era comica. Nella mia confusione stavo dando fondo a
tutto il mio umorismo nascosto. Peccato che fossi spaventata e confusa, per
nulla in vena di chiacchiere e giochi stupidi. “ma che stai
dicendo?”. Bella domanda, Regis. Non lo sapevo neppure io. Ero troppo
terrorizzata da lui, per pensarci. E lui mi pareva praticamente stupefatto
dalle mie parole. Aveva un’espressione stranissima, un po’
preoccupata. Per me. La voglia di prenderlo a schiaffi per vedere se fosse reale aumentò. Ed allora la situazione
andò a degenerare drammaticamente. “mi dici perché non
dovrei essere qui? Tu, piuttosto”. La sua voce si fece un po’
più seria. Cominciai a pensare che quello fosse davvero uno spirito
inconsapevole di essere morto. Macabro. “che ci fai in giro per la
foresta?”. Non era mio diritto, per caso? Decisamente, la situazione che
qualcosa non quadrava si fece più forte. O ero pazza io, o lo era lui.
Magari stavo parlando con il nulla. “non dovresti essere ancora al
Lazzaretto”’. Quasi mi cascò la mascella. Al Lazzaretto? A
fare cosa? Non andavo in un Lazzaretto come paziente da un bel po’ di
tempo. L’ultima volta che ci ero stata era per…un momento. mi sentii attraversare da un sospetto. Possibile che...? Lo guardai, quasi con pietà. Ora era lui ad
apparire un po’ sgomento. Ma mai quanto me. Avevo ancora il cuore che mi
batteva impazzito. “al Lazzaretto?”. Domandai, con una certa voce
stupita. Vidi, negli occhi scuri di Regis, passare lo smarrimento. Decisamente,
mi pareva un po’ diverso da come mi era apparso sempre. Sicuramente meno
freddo, più…umano, ecco. Meno dignitoso, più stranamente
insicuro. Meno deciso a nascondere tutto di se stesso. Era strano. Molto
strano. Quella discussione stava prendendo una piega tutta particolare. Ad un
tratto, l’espressione di Regis sembrò trapelare sicurezza.
Sembrò trattarmi come una bambina. Sicuramente, qualcosa non andava.
Stavamo parlando come due lingue diverse, due registri diversi. Era
stranissimo. “ti sei ripresa in fretta…solo pochi giorni fa
sembravi moribonda!”. Di nuovo, provai sgomento, insieme ad una punta di inquieto divertimento. La situazione era
surreale. Sembrava che per lui il tempo non fosse realmente passato. La cosa
aveva del bizzarro. Moribonda. Che avevo fatto pochi giorni prima? Niente di
particolare. La cosa più dolorosa che mi era capitata era stata andare a
sbattere con la fronte su uno spigolo mentre
rincorrevo uno scatenato Machin, tutto qui. Mah. Magari quella cosa mi aveva
fatta impazzire. Era tutto frutto della mia testa. Tutto. Io non stavo parlando
con nessuno. Con nessuno. Dovevo rendermi conto di quello. Era davvero strano.
Ero pazza. Dovevo esserlo. Beh…avevo belle allucinazioni. Ero contenta di
rivedere quel tipaccio. Me le aveva suonate più di una volta, ma mi
rassicurava. Mi ricordava quella che ero stata. Mi andava bene, come amico
immaginario. Davvero bene. “Regis, ma che stai dicendo?”. Dissi,
con voce ora più sicura. Beh…dovevo lo stesso indagare. E,
soprattutto. Non mi piaceva quello guardo paralizzato dallo stupore che apparve
nei suoi occhi. Sembrava ora lui il confuso, io la sicura. Era tutta
immaginazione. Nulla di quello che stava succedendo era reale. “come di
che sto parlando?”. Domandò, confuso e perplesso. “di quando
sono venuto a trovarti…cos’è stato…tre giorni
fa?”. Cosa? Ebbi un’illuminazione improvvisa. Regis era rimasto a
quella volta in cui ci eravamo incontrati al Lazzaretto. Ebbi
l’impressione che gli fosse successo qualcosa di
grave, di molto grave. No: non era la mia immaginazione. Peccato, un grosso
peccato. Ma averlo lì, lui, così simile a Tijorn, che mi
rassicurava tanto, mi piaceva. Ero egoista, maledettamente egoista, lo sapevo,
ma non m’importava. Era bello avere di nuovo con sé una parte del
passato. Quando io lo guardai in modo strano, lui sembrò confondersi
ancora di più. Il mio sospetto diventò certezza. Non tutto quello
che sembrava era come sembrava*. Lui deglutì vistosamente. Sembrava
essersi reso conto della situazione ai confini dell’irrealtà.
Mormorò il mio nome, guardandomi, come un bambino precipitato in un
mondo praticamente sconosciuto. Ed io seppi subito che fare. Era meglio non
nascondergli nulla. Meglio, soprattutto perché io non sapevo cosa stava
succedendo. Sospirai. Ora veniva la parte difficile.
“Regis…”. Dissi, con gentilezza estrema. Sperai davvero che
fosse materiale. Almeno l’avrei avuto un po’ con me. “da quel
giorno…sono passati più di cinquant’anni”. Ecco.
L’ora della verità.
Per poco
non fu lui a rimanerci secco. Strano come i ruoli si fossero invertiti. Lui
scosse la testa, praticamente stupefatto, attonito. Negli occhi c’era,
evidente, la disperazione. Provai un empito di pena nei suoi confronti. Beh.
Per lui non doveva essere facile. Io intanto ero contenta che fosse lì,
illusione o meno. Ma mi riuscivano insopportabili i sentimenti che si agitavano
in quello sguardo un tempo impassibile. Incertezza. Terrore. Confusione. Rabbia.
Povero piccolo umano. Quasi come ipnotizzato, lui fece qualche passo in avanti,
per poi crollare seduto su un tronco caduto. Povero Regis. Era dura, per lui,
rendersi conto di certe cose. Anche se nessuno avrebbe potuto togliermi la
curiosità del perché accidenti fosse successo tutto quello, odiai
quei cattivi sentimenti che si agitavano in quell’umano che mi aveva
tanto aiutata. Recuperando la spada, mi andai a sedermi vicino. Di nuovo fui
tentata di prendergli la mano, per vedere se fosse materiale, per sentire di
nuovo la vicinanza di quel caro, vecchio amico. Non tanto vecchio, in un certo
senso. Non riuscivo a capire come fosse accaduto quel prodigio. Era
praticamente assurdo. Mi frenai giusto in tempo. Per attimi che parvero
infiniti, non facemmo altro che scrutarci a vicenda, nel silenzio creato,
s’instaurò una specie di tensione, una tensione fatta di domande
non fatte, cose non dette, azioni irrisolte. Quell’umano. Era davvero un
segno del destino, l’averlo ritrovato. Mi si fece strada un’idea,
in mente. Non sarebbe stato male, sfidarlo. Lui mi aveva umiliata, in quel
Lazzaretto, quando io ero ferita. Ed io vedevo, ora, tante ferite nel suo
sguardo, tante incertezze e tanto mistero, qualcosa che prima non c’era
stato, o che forse non avevo mai notato. Lo vidi quasi sperduto, sconsolato,
arrabbiato con se stesso. Perciò, non osai fargli quella richiesta. Mi
bastava anche solo averlo un po’ vicino. Mi faceva bene avere accanto qualcuno che non stesse per morire, o che non fosse
di umore nero. Poverino. Mi ricordava tanto tempi più
felici, quel fiero umano, che, in un certo senso, stare con lui era una
dolcissima tortura. Lui apparteneva ad un’altra epoca. Momenti in cui io
ero stata felice, momenti in cui ero stata sana, momenti in cui Tijorn era
stato vivo. Mi venne voglia di sfogarmi con lui. Ero sola, mi sentivo sola, e
non c’era di meglio di un vecchio amico per parlare. Chissà Tijorn
cosa avrebbe pensato di me. Ma non potevo. Lui mi
sembrava già troppo turbato di suo. Anche lui mi scrutava,
chissà, forse meravigliandosi dei miei cambiamenti. Non lo so,
sinceramente. Dopo un po’, noi due riprendemmo a parlare. Sembrò
volersi confessare con me, mi raccontò una storia molto strana, di
soldati umani in mezzo a Normar, di un portale che si era acceso, e che li
aveva fatti tutti ritrovare lì. Più parlava, più sembrava
sconfortato. Mi confessò di non sapere come uscire da quella situazione.
Povero, povero Regis. Non riuscivo ad essere completamente dispiaciuta,
però, nonostante non lo dessi a vedere. Era bello, in un modo o
nell’altro, averlo accanto, e, soprattutto, sapere di non essere
impazzita. Era davvero strano. Lui mi voleva dire che aveva viaggiato...nel
tempo? Nello spazio? Che tutti lo potevano fare? Mi venne in mente una cosa.
Una cosa che feci presto a scacciare. Ma era una possibilità troppo
allettante. Poter tornare indietro. Poter avvisare la vecchia Lsyn di non
cascarci con tutte le scarpe, in quell’inganno orrendo, poterle dire di
fuggire con suo fratello e con Akita. Sarei stata allora felice, con tutti al
mio fianco. Magari non mi sarei trovata invischiata in quella orribile
situazione. Dopo un attimo di silenzio, in cui entrambi rimanemmo a rimuginare,
lui sconfortato, io presa da una speranza quasi illogica, lui fece una cosa
che, a detta mia, non avrebbe mai dovuto fare. Il curioso. Cominciò a
farmi qualche domanda, guardandomi con la sua solita aria rilassata ed
osservatrice, leggermente perplesso, come se non mi riconoscesse più. Ad
un certo punto, mi sentii infastidita. Io lo volevo solo vicino. Non volevo che
lui cercasse di sapere quello che mi era successo. Io mi vergognavo della mia
condotta. Non volevo parlarne con lui, che mi avrebbe sicuramente rimproverata.
Ed io non volevo essere messa di fronte ai miei sbagli. Non volevo confessargli
tutte le mie colpe, non volevo confessargli di essere stata la colpevole della
morte di mio fratello, che, a quanto mi era sempre parso, anche lui stimava.
Non volevo parlare del passato con lui. Il mio passato era ancora troppo
recente, troppo schifosamente ustionante. Erano ferite invisibili, le mie, di
cui nessuno poteva rendersi conto. E che facevano ancora terribilmente male.
Avvertii, improvvise, la lacrime arrivare. Cercai di
ricacciarle. Cercai di essere vaga, di svicolare da quell’orrenda situazione,
di cercare di evitare il pianto del cuore che stava per sgorgare, quel lamento
terribile di cui mi vergognavo. Non volevo fare vedere tutta la mia debolezza.
Ma, accidenti, avrei voluto. Non sapevo perché, ma mi fidavo ciecamente
di Regis. Mi sembrava quasi di conoscerlo da una vita intera, come se fosse
sempre stato dall’altra parte di uno specchio, la sua vita perfettamente
visibile alla mia. Quell’umano mi sembrava oltremodo allettante. Lui
sapeva bene cosa significava soffrire. Era come un porto sicuro, per me, anche
se non l’avrei mai, mai confessato ad anima
viva. Cercai di resistere al pianto quanto più potevo. Ma lui,
sfortunatamente, dopo un ennesimo scambio innocente, per lui sicuramente, di
parole, se ne accorse. Mi fissò, immensamente preoccupato, quasi senza
fiato, indignato, e cercò di strapparmi qualche
parole, innocente, su chi fosse stato a ridurmi così. Ma allora
se n’era accorto! Aveva compreso la mia rabbia, il mio dolore acuto,
aveva notato, nella sua intelligenza, il mio turbamento. Ed allora ebbi una
reazione rabbiosa, e spropositata, che prese di sorpresa entrambi. mi sentii avvolgere, debole e mutevole com’ero in quel
periodo, da un’immensa rabbia, caldissima. Rabbia verso me stessa, verso
la debole che ero, verso il ratto di fogna che ero stata e che ero tuttora. Lui
non doveva essere così buono nei miei confronti. Io non me lo meritavo.
E lui…perché lui era venuto? Perché era venuto a
scompigliare il mio fragile equilibrio, quando io ero così serena, con
tutto il carico di ricordi che portava dietro, inevitabilmente? La mia reazione
fu di dolore mascherato. Mi dispiace ancora per quello che feci, perché
non ero in me. Reagii come quella volta che ero scappata da Uruk, finendo per
fare del male a me ed agli altri. Strinsi forte la spada, mentre lui era
sinceramente addolorato per me, quel magnifico umano. E poi colpii, senza
pensarci su, totalmente fatta d’istinto. Menai un fendente che gli
avrebbe fatto davvero del male, se solo non si fosse spostato giusto in tempo.
Una parte di me, quella ragione che avevo tranquillamente messo da parte, si
dispiacque di quel gesto stupido. Un’altra, invece, esultò. Lui mi
guardò come se fossi una pazza, ma, immediatamente, senza troppo
entusiasmo, si mise in guardia. Cominciammo il primo scambio di colpi,
conclusosi senza vincitori, né vinti. Mi sentivo esaltata. Sembrò
a lui, dalle mie parole, che quello fosse una resa dei
conti, fatta solo perché io ero una stupida elfa vanesia. Sbagliato, si
sbagliava se la pensava così. Io gli volevo bene, come un amico. Lui era
stata spesso la mia ancora per non cadere nel buio. Lui mi aveva segretamente,
a sua insaputa, aiutata, e molto. Io non ce l’avevo
con lui. Quel duello che, all’apparenza così irrazionalmente mi
ero andata a cercare, era solo un modo per dirgli che stavo male, che avevo
bisogno di sentirmi viva, in qualche modo. Quel canto di lame mi faceva bene.
Forse era davvero quello, l’unico modo di dialogare con Regis. Non
m’importava se fossi stata perdente, davvero, come succedeva spesso.
Volevo solo battermi con qualcuno, sentire di essere ancora viva, non il
relitto orribile che ero sempre. Era un sacco di tempo che non duellavo con
qualcuno, era una sacco di tempo che preferivo, alle
armi che tanto amavo, la diplomazia che non sapevo usare. Tornare a maneggiare
la spada di Eiron, con la quale avevo passato tante avventure, mi confortava.
Era un balsamo per la mia anima ferita. Era l’unico mezzo per non
piangere disperatamente sopra il latte già versato. Prima di riprendere
a lottare, lo provocai un po’. Era bello vederlo così calmo, ma
allora stesso tempo stupito delle mie parole. Sembrava aver capito che nemmeno
io ci credevo, ma non lo dava a vedere, o almeno provava. Era evidente, come
appresi dal secondo scambio di colpi, che c’era qualcosa che turbava il
grande Regis di Fiya, quel misterioso uomo che diceva di provenire da un altro
mondo. Chissà cosa si stava agitando in quella giovane testolina.
Contrariamente alle altre volte, ora era lui a non metterci più di tanto
impegno nel combattimento, ed a distrarsi, quasi sperasse
che io non facessi sul serio. Stava sbagliando, e di grosso. Approfittando di
una falla nella sua difesa, ad un certo punto, gli menai un calcio così
forte da farlo quasi arrivare a terra. Mi sentii soddisfatta segretamente. Ah.
Mai nulla fa più bene che picchiare qualcuno. Mi piaceva, quella
situazione. Per una volta ero io a vincere. Per una volta era lui a terra,
dolorate. Un balsamo per la mia autostima a terra. Lui cercò di
riprendersi, ancora meno motivato di prima, dolorante, e per me, e disarmarlo
finalmente, quella sua spada meravigliosa che un po’ mi spaventava, e
farlo cadere a terra furono una sola cosa, un gioco da ragazzi. Mi sentii
trionfante. Avevo vinto. Decisamente, non c’era nessuno migliore di me.
Così, solo per vantarmi un po’, gli puntai la spada alla gola,
come per minacciarlo di morte. Ci guardammo, lui pieno di falsa sfida e
sicurezza vacillante. Sembrava non fidarsi tanto di me, essere quasi spiazzato
da quel cambiamento. E fu per quel motivo che io non mi mossi. Ben presto,
all’ardore del combattimento, nella mia mente si sostituì il
panico. Cominciai a tremare. Ero stata stupida. L’avevo attaccato, lui,
che mi aveva aiutata tante volte, così, per gioco. La vittoria prese a
sapere di sale e cenere. Come scusarmi, ora? Che fare? Come fare, soprattutto?
Oh, accidenti. Ero stata di nuovo stupida. Avevo di
nuovo agito come una stupida avventata. Avevano ragione, tutti, a chiamarmi
così. Per un lungo momento, ci guardammo, io indecisa, timorosa,
timorosa anche di avergli fatto del male, perché se fosse stato
così non me lo sarei mai perdonato. Fare del male a lui, il mio amico
Regis, che aveva tentato tante volte di risollevarmi dal baratro in cui ero
caduta, quell’umano decisamente fuori da ogni
schema. Decisamente, non ci fu tempo per fare nulla. Ci guardammo per davvero
poco tempo, prima che la situazione si ribaltasse di nuovo. Udii uno strano
rumore, come di scatto, e mi raddrizzai, allarmata. Non avevo mai sentito una
cosa di quel genere. Cos’era? Che stava succedendo? C’era,
evidentemente, qualcosa di strano. Altri rumori. Mi misi in guardia. Attacco
probabile. Non mi piaceva, quella situazione. Seguì un secondo di puro
silenzio. Ad un certo punto, una serie di stranissimi scoppi, davvero insoliti,
come qualcosa costretto a fatica in un tubo con dentro dell’aria
compressa, ma più metallico. Sentii, distintamente, qualcosa tintinnare,
colpire la mia spada, a grande velocità e con grande forza, quasi
strappandomela dalle mani. Quasi nello stesso momento, con mia grande sorpresa,
sentii un dolore orribile all’avambraccio in cui tenevo la spada, un
dolore terrificante, mai provato. Quasi come se un uncino di fuoco mi stesse
trapassando la pelle. Non era una spada. Non era fuoco. Era più circoscritto,
ma più intenso. Sentii subito l’odore metallico del mio sangue, e
qualcosa di bagnato corrermi sul braccio. Gridai, tenendomi la ferita. Quel
coso mordeva! Mordeva, feriva, era insopportabile. Raramente sono stata
costretta a sopportare una cosa di quel genere. No era
nemmeno un coltello. Come un sassolino buttatomi addosso, ma molto più
tagliente e veloce, e più forte. Che roba era? Mi sentii, persa nella
nebbia di dolore, allontanare da Regis con un calcio. Si: io me lo meritavo. Mi
meritavo quella brutta punizione, per aver fatto quello che avevo fatto. Caddi:
le gambe, dal trauma, non riuscivano più a mantenermi. Sentii delle
parole, delle voci, una lingua che non conoscevo. La voce di Regis, più
distinta delle altre, che rispondeva nello stesso idioma. Cominciai a non
vederci più bene, riversa chissà dove. I pensieri non fluivano
più con la stessa coerenza, il dolore mi stava facendo impazzire. Avrei voluto
darmela a gambe: ma non potevo. Non riuscivo a muovermi. Mi sentivo sempre
più stanca, sempre meno presente: stavo perdendo i sensi, e lo sapevo. Sperai
solo di non morire. Mi rimanevano troppe cose da fare. Di nuovo uno scambio di
parole. Poi qualcuno mi si avvicinò, e cominciò a darmi dei
colpetti in faccia. Avrei voluto allontanarmi, da lui. Ma non ci riuscivo. Forse
era Regis. Ma non mi pareva lui. Era più scuro e tarchiato. Altre parole.
Poi, ad un certo punto, come se non ci fosse mai stato, il dolore svanì.
Venne risucchiato a poco a poco, lasciando al suo
posto uno strano formicolio. Tentai di vedere cosa stesse
succedendo, ma non riuscivo a muovermi. Non ce la facevo. Mi sentivo ancora
troppo debole. Cominciò ad avvolgermi uno strano torpore, dovuto
probabilmente alla brutta ferita, al trauma, alla perdita di sangue, che, come
avvertivo, non era poca. Sentii degli strani movimenti, uno strano formicolio. Come
se qualcosa mi stesse toccando la ferita, la senza farmi male. Non capii. Era fin
troppo strano. Era irreale, soprattutto. Ma cominciavo a sentirmi sempre
più male. Chiusi gli occhi sul mondo, che ormai vedevo offuscato, e cominciai
a precipitare nel buio. Oh, Regis. Mi avrebbe mai potuto perdonare di quella
stupidaggine che avevo commesso ,con la mia solita
avventatezza? Avrebbe potuto mai capirmi? Avrei avuto un’altra possibilità
di parlargli, soprattutto? Non stavo morendo, vero? Lo speravo. Ma poi, non mi
chiesi più nulla. Piombai in un sonno profondo, in un buio accogliente. Che
strana mattinata. Il sole era sorto da così poco ,ed
io avevo rivisto un amico che credevo invecchiato e morto, avevo duellato con
lui, mi ero sentita di nuovo viva, ero stata colpita da chissà cosa,
forse un’arma sconosciuta. Ma chi erano, quegli altri? Cosa accidenti
stava succedendo? Cosa mi aveva colpito, soprattutto? Ma quelle domane potevano
attendere. Mi addormentai: ero troppo stanca, turbata da quell’orribile
trauma, per poter pensare ancora ad altro.
Capitolo 88 *** Ai confini dell'irrealtà-Dal tempo crudele. ***
Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli
che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni
Per chi abbia
lettoMillennium War-Rebirth, questo e
gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto
situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio!
È solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di
tempo, con il consenso di entrambi! xD
Dunque, molte delle situazioni, la
maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la
prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia
“indipendenza letteraria” (xD)-), e,
soprattutto, il personaggio di Regis
appartengono all’anzidetto Carlos Olivera,
ed alla sua opera xD
Non
dovetti rimanere molto tempo addormentata, non so. Diciamo che non ne ho la
minima idea, né mi sono mai premurata di scoprirlo. E’ un fatto
molto marginale rispetto agli accadimenti assurdi a cui
dovetti assistere poco dopo essermi resa conto di aver ripreso coscienza.
Quando mi svegliai, ero in un posto in un certo senso diverso da quello che
avevo lasciato, un posto per un verso parecchio strano. Nulla di quello che mi
ero successo, e quello che ancora mi stava succedendo, pareva avere qualcosa di
reale. Avevo rivisto un mio vecchio amico, che tanto vecchio non era. Ero stata
colpita da qualcosa di sconosciuto. Da quello che avevo capito, c’era
altra gente. Ed ancora, ad occhi chiusi, avvertivo voci non tanto lontane. La
cosa più strana, era che non stavo male. Niente pena. Strano. Niente
tortura. Non mi sembrava di avvertire dolore: all’altezza di quella
specie di morso sentivo solo un vago formicolio, ma era come se non avessi quel
pezzo di pelle. Era inquietante. Dovevo essere stesa su qualcosa di molto
ruvido, dalla consistenza strana. Mi sembrava di essere ancora nel bosco, o
almeno la percezione di temperatura era quella, l’odore fresco di inizio
autunno, quando l’aria, dopo mesi di caldo, comincia a rinfrescarsi, e divenire limpida, prendendo quell’aroma tutto
particolare, che già presagisce una lontana neve, i rumori erano i
soliti, lievemente attutiti. Accanto a me, c’era qualcuno. Sentivo la sua
presenza, e strani rumori, come di metallo che colpisce
il legno. Aspettai un po’ prima di annunciare il mio risveglio. Ero stata
proprio una sciocca. Combattere per una simile stupidità una persona che
mi voleva bene, e che rispettavo…bah. Il dolore mi stava squilibrando la
mente. Povero Regis, che non aveva fatto altro che chiedermi cosa
stesse andando di male! Fossi stato in lui, non avrei lasciato andare
quell’elfa pazza che l’aveva quasi voluto uccidere. Io mi sarei
uccisa, al posto suo. Devo dire che me lo meritavo. Altro rumore di voci, dal
suono amichevole. Voci maschili. Una lingua sconosciuta. Sembravano parlare tra di loro, ma non capivo una parola del discorso,
né quel linguaggio mi sembrava simile a qualcuno di quelli umani, uno dei
loro dialetti. Decisamente troppo nasale per gli idiomi umani, dai suoni duri,
ed aspirati. Eh, no. Ma in che razza di mani ero finita? Con chi se la faceva,
Regis? Eravamo stati fatti prigionieri da una tribù a me sconosciuta,
che passava di lì? Oppure un altro di quei maledetti misteri che quella
dannatissima primadonna si portava dietro, come tanti cagnolini fedeli? Beh,
senz’altro quella cosa da cui ero stata colpita non era un’arma
conosciuta. Non era nemmeno qualcosa di magico, perché, in caso contrario,
avrei avvertito qualcosa, perché sono poche le
armi magiche che quando si attivano non rilasciano la loro energia, peraltro
percepibile alla perfezione da elfi, creature non antropomorfe e maghi umani
molto abili. Beh, a dire la verità, solo le trappole, come quella in cui
ero cascata, e che mi era costata terribili ustioni,
ed altrettanto orride cicatrici, sono fatte per essere invisibili. Comunque,
non era una trappola. Sennò saremmo morti entrambi. e
soprattutto io non sarei stata ancora una volta viva. Non osavo pensare ad
un’altra simile sfortuna, nella sfortuna. E se invece fosse successo
davvero così? Che mi avevano fatto, quella volta? Avevo il naso rotto?
Ero cieca, o chissà quale altra diavoleria? Ma non sentivo dolore. Allora,
che diavolo, volevo assolutamente scoprire cosa accidenti quel giovane si fosse
portato appresso in quel viaggio assurdo. Già aveva superato se stesso
tornando da cinquant’anni nel passato. Volevo proprio scoprire quale
sorpresa era in serbo. L’ultima volta erano stati grossi scatoloni di
ferro che galleggiavano in aria…ora? Decisamente, la mia immaginazione si
rifiutava di andare oltre quei cosi. Cosa ci poteva essere di più
strano? Eh no. Non potevo resistere. Aprii gli occhi. Al momento non
c’era nulla di così spettacolare in giro, e rimasi un po’
delusa. Ero stesa su una specie di telo dagli strani colori, e, con la coda
dell’occhio, intravedevo qualcuno di familiare accanto a me, seduto. Un
pochino mugugnando, disturbata da un piccolo giramento di testa, mi misi seduta.
Il sospetto che avevo avuto era stato confermato: la persona accanto a me era
Regis, che, con calma invidiabile, come se non lo avessi mai sfiorato,
giocherellava con un ramo, affilandolo con la sua spada, completamente
indifferente al mondo che gli scorreva attorno. Forse aveva voluto dargli una
forma interessante, chissà, ma tutto quello che gli era riuscito era una
specie di rettangolo ubriaco. Appena dovette avvertire il mio movimento, fatto
con calma, perché temevo qualche altrogiramento di testa dovuto alla
debolezza, alla perdita di sangue, cosa che non si verificò, lui si
girò, ed un piccolo sorriso si disegnò sul volto giovanile. Mh.
Sobbalzai. Aveva un brutto segnaccio lì dove dovevo averlo graffiato con
la spada nel momento in cui ero stata colpita. Ci ero andata proprio pesante.
Il sorriso che si disegnò sul mio volto orribile in
risposta al suo era sicuramente qualcosa di sforzato e sciocco. Dovevo sembrare
un’idiota. “ben svegliata”. Deglutii. La sua voce non mi
sembrava per nullaarrabbiata. Non mi guardava con ostilità. Non c’era
astio nei suoi occhi scuri e calmi. Nemmeno sveglia, e già mi ritrovai di nuovo disarmata, completamentespiazzata da quell’umano che, in
teoria, avrei dovuto disprezzare per la sua razza, cosa che in pratica era
impossibile da fare. Casomai, sarebbe dovuto essere il
contrario. Ero io la sciocca e la fragile, la mezza pazza da disprezzare.
Eppure lui non lo faceva, anzi. Sembrava sempre trovare gradevole la mia
compagnia. Com’era complesso, Regis. Di solito gli umani sono piuttosto
semplici di leggere. Creature preoccupate e perennemente alla ricerca di
qualcosa, che la loro stessa breve vita gli impediva di realizzare. Creatura piccole come formiche, del tutto sprovviste di
orgoglio, quell’orgoglio proverbiale della nostra razza. Presi da soli
sono molto interessanti: profondi come l’oceano, ingenui come un bambino
al tempo stesso, anche quando sono immersi nel male più assoluto, anche
quando solo contadini ignoranti. Più versatili, più svelti,
specialmente durante l’infanzia. Siamo noi che impariamo più cose,
noi elfi. Ma generalmente sono gli uomini a mettere in pratica la nostra
teoria. Un gruppo di esseri umani è devastante. La forza bruta alla
millesima potenza, che perde la propria ragione, diventando moltitudine animale
senza ideali. Lui mi è sempre sembrato un elfo, per certi comportamenti,
per la profondità assurda delle sue idee, per la complessità di
quel carattere che non ho mai capito appieno, forse perché era troppo
simile al mio, in un tempo lontano, se fossi stata una
persona diversa, se l’educazione da Spia non mi avesse irrimediabilmente
orientato verso un tipo di esistenza. Mi era sempre sembrato più vecchio
degli anni che mostrava, più maturo, uno stagno troppo torbido per
vederne il fondo. Mi ero sentita drammaticamente poco all’altezza nei
suoi confronti, e non dico fisicamente. Anche lui aveva avuto le proprie
sofferenze, anche lui aveva i propri pensieri dietro quell’aspetto calmo
ed acuto, fiero, da guerriero solitario, scommettevo che anche lui avesse avuto i propri lutti, e tanti. Se la storia della sua
estraneità al nostro mondo, cosa così strana da non poterla
nemmeno concepire, era vera, allora doveva davvero aver lasciato tutti
dall’altra parte, i suoi amici, i suoi affetti, chissà, magari
anche la sua famiglia. Chissà da quanto vagava, sprecando la sua
giovinezza, alla ricerca di un modo per ritornare indietro, chissà da
quanto soffriva! Avevo visto preoccupazione, smarrimento totale nel suo viso,
ma anche una certa voglia di combattere quell’ennesimo scherzo del suo
destino, di quella rete intricata che era la sua vita. Non avrebbe smesso di
trovare un modo per tornare nel suo tempo. E quella era la cosa che ci
differenziava. Nel suo sguardo c’era ancora l’ardimento, la tenacia
di un’anima che non ha smesso mai di snudare gli artigli, ed attaccare,
una creatura che non si è mai rintanata nel suo buco, per non uscirne
mai più. Lui aveva imparato da tutti i suoi errori. Ne aveva tratto una
morale, per crescere, per divenire una persona ancora migliore, ancora
più speciale. Io no. Avevo definitivamente rinunciato a lottare, vivendo
per pura inerzia, per puro amore verso i cari che mi rimanevano. Ero caduta, e,
anche sapevo quanto fosse sbagliato, non mi
risollevavo più. I miei errori non avevano portato altro che a
disgrazie. Non avevo imparato nulla da tutti i miei lutti: mi portavano solo
incubi, e tanti ricordi amarissimi. E comunque andasse,
la mia vita era una sequela impressionante di fallimenti. L’unica cosa
buona che avevo fatto, creare Nemys, non era stata nemmeno per mia
volontà. Che buffo. Lainay si era creata da sola la propria nemica.
Insomma, tirando le somme ero indegna, io, l’elfa, di stare anche solo vicino a Regis, anche solo di sfiorarlo. Sarebbe stato
giusto che lui mi avesse allontanata, schiacciata come lo scarafaggio sporco
che ero. Invece non era così: lui si limitava a sorridermi gentilmente,
guardandomi con un certo affetto divertito, come se sapesse che io non cambiavo
mai, e ne fosse felice. Aprii la bocca per parlare. Avrei voluto dire molte
cose, quanto davvero mi dispiacesse, quanto sapessi di essere una vera sciocca.
Ma non ci riuscii. Mi limitai a chiedere cosa fosse successo, nonostante la cosa ben poco m’importasse. Lui scosse lievemente
la testa, ed ebbi la netta impressione che avesse capito
quello che avevo da dirgli. Non riuscii a dirgli oltre che uno stupido
“mi dispiace”. Trasalii subito dopo aver parlato. In quanto a
genialità, battevo Paòl. Mi sarei presa a sassate da sola, per
l’ovvietà che mi era uscita di bocca. Beh. Povero Regis. Aveva un
bel graffio sul collo, di forma misteriosamente irregolare, l’avevo preso
allegramente a calci, nella foga del combattimento rabbioso. E ancora mi
guardava con affetto calmo, come se avesse capito tutto, con quella sottile
ironia che traspariva da ogni angolo del suo viso, come se mi capisse, davvero.
Bah. Chi lo capiva era bravo. Mi sarei ammazzata da sola, per le scempiaggini
che uscivano dalla mia bocca. Stupida vecchia capra. Sobbalzai
quando mi venne in mente un pensiero. E la mia spada? Mi era caduta di
mano, lo ricordavo benissimo, quando ero stata colpita, sopraffatta dal dolore.
Lo ricordavo. Mi cominciò a battere forte il cuore. Non dovevo
assolutamente perdere quella meravigliosa spada, il ricordo così vivido
di un caro amico, quella spada che aveva lavato via le mie colpe con il mio
sangue, che aveva assaggiato come me l’umiliazione e una dolorosa
rinascita. Per fortuna, sotto lo sguardo curioso e benevolo, ed il piccolo
sorriso di Regis, che era stranamente più tranquillo di
prima, che scuoteva nuovamente il capo, divertito, con chissà quale
pensiero sotto quella zazzera scura che portava ancora i segni di quel taglio
maldestro al tempo del torneo, per quanto strano potesse sembrare pensarlo,
quanto straniante, la trovai accanto a me, subito, stesa a riposare con la
proprio padrona che ancora non si riconosceva come tale. Mi sentii rinfrancata.
Regis doveva aver pensato anche a quello. Lo guardai, riconoscente, mentre
rinfoderavo quell’arma preziosa, preziosa sia come spada in sé,
che come valore affettivo. L’incisione sempre fedele brillò per un attimo alla luce del sole. Mi
sentii stranamente meritevole di quella scritta. Stavo tenendo
fede alla mia promessa. Beh, almeno era una cosa. L’interesse con il
quale l’umano aveva seguito i miei movimenti m’inquietò, e
mi mise una strana sensazione addosso. Non mi piaceva essere sommersa da una
valanga di domande da quel ficcanaso, che peraltro non aveva imparato la
lezione. Ero troppo stanca di fingere forza, troppo fragile dentro per poter
continuare la mia pantomima di persona pacificata. Quella recita che stavo
imbastendo durava da fin troppo, dalla morte di Akita, quando nessuno aveva
deciso di chiedermi più nulla su di me, quando tutti sapevano di
ciò che facevo. Provai uno strano bisogno di sfogarmi con qualcuno.
Nemys, in quel periodo, era sempre troppo assorbita da se stessa, dalla sua
gravidanza difficile e dall’esito purtroppo scontato, che sapevo aveva
tentato in ogni modo di nascondermi, ma che io implicitamente sospettavo. Il
mio Maestro,beh… non potevo dirgli certe cose. I
miei tre amici non mi capivano ancora bene, mi conoscevano da troppo poco
tempo. C’era solo lui, Regis. Quell’umano a cui
mi sentivo tanto affine, come se fosse mio amico da secoli. Era davvero una sensazione
strana, che avevo provato dalla prima volta che l’avevo visto. Come se
l’avessi sempre conosciuto, come se avessi passato la mia vita con lui.
Qualcosa, in me, diceva che potevo fidarmi ciecamente di lui, io, la persona
che, specialmente in gioventù, non si fidava nemmeno del suo riflesso,
di potermi confidare con lui, unica persona in grado di capire l’inferno
in cui ero precipitata. E così feci, approfittando di una sua ennesima
domanda casuale, sul costruttore della mia bellissima spada. Non riuscii, come
mi era sempre capitato, ad aprirmi totalmente, e dissi solo qualcosa, a spizzichi e bocconi, immersa in un pianto silenzioso. A
dire il vero la cosa più eclatante che gli
dissi fu quella della cambiata geografia di Uruk, al suo tempo molto più
piccola. Accolse con stupore quella notizia, informandosi su chi fosse a nostro capo. Ed io gli parlai di Nemys, un
po’. Ancora non potevo rivelargli che si trattava della mia Rinnegata.
Non mi sentivo pronta. Ma in quel momento lui era già riuscito a farmi
calmare, a forza di sussurri pieni di forza, mentre mi carezzava con una mano i capelli con dolcezza, delicatissimo, per rinfrancarmi, per
farmi sapere che lui mi era vicino. Ed io che avevo cercato di fargli del male,
di umiliarlo come lui aveva umiliato, a ragione, me! Ho sempre adorato Regis. E
dire che io, fino a poco tempo prima, avevo tentato di
ammazzarlo. Quell’uomo era capace di sconvolgere lo stesso tessuto del
destino. In tutto il mio dolore che si stava riversando fuori come lava, mi
sentii turbata da quel gesto, anche se non lo diedi a vedere. Quel contatto
così ravvicinato mi confondeva, mi stava confondendo. Era terribilmente
piacevole, forse davvero un po’ troppo. Mi piaceva essere trattata con
tutta quella familiarità. Era bello vedere qualcuno agire come se le mie
cicatrici, che mi deturpavano il corpo, non esistessero. Con quella sua innata
dolcezza, uno scoglio al quale aggrapparsi nella tempesta, riuscì a
placare il mio pianto, a distrarmi, parlando di altre cose. Ma lui non tolse la
mano dalla mia spalla, un contatto che trovavo oltremodo confortante. Gliene
fui immensamente grata. Avevo bisogno di una persona cara nella mia vita. E
poco male che lui non fosse riuscito a tornare nel suo tempo. Devo dire, che
proprio quella era una cosa che non mi dispiaceva. Se fosse rimasto qui, la
cosa mi sarebbe piaciuta moltissimo, nonostante fosse una cosa che cercavo di
nascondere anche a me stessa. Certo, avrei fatto di tutto per vedere felice
quell’amico speciale, che, comunque andasse, era destinato a morire molto
prima di me, avvizzendo terribilmente, ma se solo si fosse presentata
l’occasione non avrei sprecato il mio tempo con lui solo per duelli
futili. Quel tempo concessomi quando tutto cambiò di nuovo era un dono
degli dei, qualunque essi fossero. Quando il vento della mia vita mutava ancora
direzione, c’era lui. C’era stato lui quando
mi ero resa conto di essere ancora forte. C’era stato lui nel momento
più orribile della mia esistenza. Indirettamente, c’era stato lui
un altro milione di volte, ed ora era lì, davanti a me, calmo e
tranquillo, una morbida roccia in mezzo alla tempesta della mia vita. Dovevo
essergli grata. Bah….ma che razza di pensieri mi
stavano venendo in mente? La sua presenza era solo innaturale qui, e basta.
Però, averlo vicino…oh. Scacciai tutti quei pensieri con veemenza.
Lui non si accorse del mio strano comportamento. Decisamente mi stavo
comportando come una stupida. Non dovevo volere così bene ad un umano
dalla vita breve. Mi sarei solo fatta del male. Un po’ troppo tardi, per
pensarlo. Avevo già stretto una solida amicizia con quella creatura
così strana, fedele e fiera, così nobile. Quell’animo
così affine, che sentivo vicino, eppure lontano, come il riflesso di uno
specchio. Era strano, pensare a noi due. Come le facce di una stessa medaglia, unite, ma costretta a guardare in due lati completamente
differenti, senza incrociarsi mai. La nostra vicinanza mi dava uno strano
sentore, di attrazione fatale e repulsione al tempo stesso. Come se non
dovessimo incontrarci, come se la nostra amicizia fosse qualcosa di contro il
mondo. Eppure, qualcosa in me smaniava di parlargli, anche solo di stargli
vicino. Riconoscevo ad un livello troppo profondo l’affinità che
lui aveva con me, ed io con lui. E decisamente, in tutto il tempo che lui fu
con me, essa prevalse, ed il nostro rapporto, quello strano rapporto che
alternava momenti di confidenze, amicizia gradevole ed aiuto, ad altri in cui
ci scannavamo peggio di due cani randagi per un osso, fu destinato a mutare
ancora, in un modo assurdo, imprevedibile, seppure innegabilmente interessante.
Devo ringraziarelui
se, per un certo verso, guarii, lui e tutto il bagaglio di strani personaggi
che si portava dietro. Dopo un po’, finalmente, il nostro discorso si era
tramutato in un dialogo civile, serio. Mi assorbii totalmente in quello scambio
di parole così raro con quello strano umano. Mi piaceva. Ad un certo
punto, sentimmo qualcuno raschiarsi la gola per ottenere la nostra attenzione.
Lui si girò, tranquillo, ed io lo imitai, un po’ allarmata.
Sobbalzai. Decisamente, questo era un po’ strano. Mi era familiare.Guardai storto Regis, che
aggrottò lievemente le sopracciglia, disorientato dal mio cambio di
umore. Ero perplessa. Decisamente quell’umano mio amico aveva tanti assi
nella sua manica. Riusciva a stupirmi sempre. Che strana creatura. Era un uomo,
un po’ bassino, più tarchiato e scuro di Regis, dalla faccia
affabile, un po’ tonda, dai capelli ed occhi di un bel castano intenso.
Sembrava un po’ a disagio, ma ben deciso a proseguire il suo compito,
quale che fosse. Indossava strani abiti, di uno strano
materiale, di colore davvero insolito, interessante per mimetizzarsi nel bosco,
ed aveva in mano una sorta di cassetta, all’apparenza pesante e piena. A
tracolla portava uno stranissimo oggetto nero, lungo e stretto, un po’
come una faretra di un arco, ma dalla forma totalmente diversa. Lo guardai con
curiosità. Chissà a cosa serviva sicuramente non aveva un aspetto
così benevolo. Guardai Regis con curiosità. Lui non sembrava spaventato
dal nuovo arrivo, quindi deciso di non esserlo nemmeno io. Mi fidavo di , e lui sembrava a suo agio con quelle persone. Fui
assalita dalla curiosità. Ero davvero impaziente. Quello strano umano
era una novità fin troppo golosa, per me. E, di solito, quelle che
portava Regis erano particolarmente ghiotte. “chi è?”.
Chiesi, guardando con interesse lo strano atteggiamento dell’uomo,
professionale e sicuro di sé, ma comunque molto discreto. Il mio amico
sorrise leggermente, e fece un cenno verso di lui. Sembrava conoscerlo. Che
strano. “è un medico”. Mi rispose, con voce calma, non
diversa da come mi aveva parlato per tutto il tempo, trattandomi sempre nello
stesso modo, nonostante io avessi cercato di ammazzarlo. Che bravo umano. Medico.
Strano termine. Ricordavo vagamente che spesso gli umani chiamavano così
i Guaritori. Suonava n un modo quasi brutto. “si chiama Masato. Ti ha
curata lui”. Oh, tu guarda. Mi aveva curata lui. Dovevo proprio
ringraziarlo: era lui che non mi aveva fatto sentire dolore, era lui che aveva
impedito a quella cosa che si era piantata nel mio braccio di mordermi ancora.
Bah, però. Il suono del nome era proprio orribile. O meglio. Era un
pessimo nome. Ed io che mi ero lamentata di Roxen! Che gusti avevano, gli umani
del posto in cui proveniva la mia primadonna preferita? Erano forse tuttimatti come
cavalli, come lui? Nemmeno un minimo di eleganza. Sembrava il nome di una cosa.
Non ero abituata a quei suoni strani. Ricambiai riluttante il cenno del
soldato. Il mio amico sogghignò, con sarcasmo, davvero divertito. Io gli
rivolsi un’occhiataccia. Lui m’ignorò, e si concentrò
sul tipo. Con una bella voce tenorile, l’uomo cominciò a parlare,
in quella lingua nasale che avevo già ascoltato. Sbattei più
volte gli occhi, stranita. Ma che strana cosa. Mi sentii davvero molto
perplessa. Chissà che stava dicendo. Qualcuno lo stava capendo? Con mio
enorme stupore, girandomi così velocemente da farmi schioccare le
vertebre del collo, sentii Regis rispondere tranquillamente, con tono calmo,
nello stesso medesimo idioma. Lo guardai come se fosse un cane con dieci zampe
appena sbucato davanti a me. Non potevo crederci.
Lui li capiva! Lui era in combutta con loro! Sperai ardentemente che non fosse
così. Non mi sarebbe piaciuto se mi avessero imprigionati assieme.
Cominciai ad escogitare qualcosa di molto doloroso per il mio amico in caso
fosse stato così. Ero davvero stupida. Cominciarono ad affollarsi nella
mia mente un sacco di domande. “ma che lingua è? Che state
dicendo?”. Domandai a bruciapelo, verso il mio amico, protendendomi,
curiosa, verso di lui, in un lampo. Era più vicino di quanto pensassi. Quella fu la prima delle situazioni potenzialmente
imbarazzanti che si andarono a creare, molto per colpa
mia. Mh. Capii subito di aver fatto una cosa leggermente sbagliata. Quasi quasi i nostri nasi si toccavano. Forse eravamo un
po’ troppo vicini. Cercai di ignorarlo. Ma mi sentii stranamente tesa,
una tensione particolare, che mi faceva brontolare lo stomaco, e forse
così lui, che, con un’espressione enigmatica, ma uno strano
tumulto negli occhi, si allontanò un po’, girandosi con perfetta
naturalezza. Mh. Mi sentii contrariata, da lui e da me. Non potevo comportarmi
in quella maniera. Per inciso, non sapevo nemmeno il perché stessi
agendo così. E lui che faceva finta di niente! Perché non mi
rispondeva con una battutina sarcastica sulla mia foga nel muovermi, sulla mia
scarsa attenzione che ci aveva quasi fatti andare testa contro testa? Tanto quella specie di creatura dalla forma di rapa non ci
avrebbe capiti. Invece no. Il massimo che si era permesso fu un sorrisino.
Certe volte lo detestavo con tutto il cuore, quando faceva così.
Arrossii come una mela matura. Mh.“diciamo che abbiamo molte cose in
comune”. Disse, scrollandosi nelle spalle, indifferente. Ma non mi
fregava più, non da quando avevo imparato a
conoscerlo. Era inquieto. Aveva uno strano cipiglio. Eh no. Non ero più
la sprovveduta che ci cascava quando voleva fare la
parte dell’eroe senza macchia e senza paura. Mh. Forse quel periodo insieme
non sarebbe stato così noioso. C’erano tante cose da scoprire
ancora. Magari era così solo perché era rimasto colpito dalle mie
cicatrici. Che pessima eventualità: essere temuta anche da Regis mi
avrebbe schiantata. Avrei dovuto parlarne con lui, quando se ne fosse
presentata l’occasione. Sentii, senza preavviso, tirarmi la ferita,
qualcosa che non mi fece eccessivamente male. La guardai, perplessa. La manica
era sollevata, e vedevo chiaramente che qualcuno aveva fasciato il mio braccio
con delle bende candide, lievemente macchiate di sangue. Eppure non faceva
male. Cominciai a muovere il braccio. Vidi l’allarme sul volto di Masato,
ed una sorta d’insofferenza divertita in Regis, che alzò gli occhi
al cielo. Bah. Era strano. Lui allora mi parlò di una pratica strana,
che mi faceva capire che i suoi amici venivano dal suo mondo. una pratica che non faceva sentire dolore, che calmava il
dolore. Interessante, davvero interessante. Lui la chiamò in un modo
strano: anetestia, astenetia, asne…boh. Forse anestesia, ma non penso
proprio. Era un nome più strano. Erano davvero avanzati, in termini di
medicina. Chissà fino a che punto potevano arrivare, chissà. Mi
venne uno strano pensiero. Forse, se solo Tijorn fosse stato in mano
loro…magari non sarebbe morto. Cacciai quel pensiero con stizza. Non
erano venuti, e basta. Doveva morire. Doveva lasciarmi. Era giusto che fosse
così, che fossi io a soffrire per tutti, e basta. Poco dopo, dopo un
altro scambio di parole, in una lingua di cui lui mi rivelò
il nome, ma che al momento non ricordo, Regis mi chiese uno strano permesso,
con paziente calma, e prudenza. Il medico mi chiedeva di fare una cosa strana.
Voleva il mio sangue. Per un momento rimasi impressionata da ciò che mi
stava dicendo, e non capii assolutamente nulla. Voleva farmi qualcosa che si
chiamava prelievo, qualunque cosa fosse. Per analizzare il mio sangue in
seguito. Rimasi spiazzata, e guardai in un modo così buffo Regis che lui
mi fece un occhiolino, sorridendo divertito. Chissà cosa voleva farmi.
Ma io mi dovevo fidare di Regis. In fondo non mi aveva mai fatto qualcosa di
male, ero sempre stata io a travisare le sue azioni generose. Poi quel
ranocchio non mi sembrava così cattivo. Aveva una faccia buona. Dovevo
fidarmi del mio amico, no? Lui si era fidato di me. Se poi mi avessero fatto
del male, li avrei ammazzati. Semplice. Tanto avevo con me la spada. Ah. Ma che
stavo dicendo? Ebbi un moto di ripulsa verso me stessa. Ma mi dovevo comportare
sempre così? Dovevo sempre essere così sanguinaria? Bah. Accettai
così, riluttante, ancora perplessa. Ci fu un altro scambio di battute
tra i due, detti nella loro lingua strana. Non mi piacque un certo sorrisetto
familiare. Conoscevo molto bene i miei polli. Cominciai a temere uno
scherzetto, ma lui non era tipo da fare così. Sdrammatizzava solo, ma
non era un tipo molto giocoso. Un tiro mancino del genere me lo sarei dovuto aspettare da Tijorn, nonda quel serio guerriero. Regis
così si alzò, lasciando spazio a quel tipo, che si sedette, e
cominciò a rovistare nella sua borsa, dove c’erano tanti oggetti
strani. Dopo un cenno nei nostri confronti, il mio amico si allontanò,
sparendo, con mio grande rammarico, dal mio campo visivo. Ci scambiammo un
altro sguardo. Era indecifrabile, e pensieroso, di nuovo. Distolsi subito lo
sguardo, a disagio. Non mi piaceva quando i nostri
sguardi s’incontravano. Poco prima l’avevo trovato rassicurante, ma
ora mi metteva in soggezione. Mi turbava. C’erano troppe cose non dette,
azioni non fatte. Preferii concentrarmi sulle azioni del giovane medico, che
stava maneggiando qualcosa. Ebbi un lampo di argento. Sentii immediatamente la
mancanza di Regis, e mi guardai inutilmente attorno per cercarlo. Peccato. Mi
rinfrancava averlo vicino. Era rassicurante la sua presenza matura. Di nuovo un
bagliore, e Masato parve farsi minuscolo. Accolsi con sospetto quel movimento,
soprattutto collegato alle parole scherzose, incomprensibili, che lui aveva
detto al tipo, guardandomi. Capii subito il perché quando il medico,
facendomi continuamente cenni di non preoccuparmi, con prudenza, come se fossi
una bestiaccia pericolosa, tirò fuori uno strano aggeggio dalla punta
lucente ed acuminata. Sgranai gli occhi. Cosa
diavolo era quel coso? Era malefico, nonché antiestetico al massimo.
Mi sembrava una specie di contenitore di vetro lungo e stretto, con quel
piccolo ago malefico. Guardai così male il povero tipo che lui
sobbalzò, e si guardò intorno ansioso,
alla ricerca di Regis. Quel comportamento m’insospettì.
Chissà che cosa aveva detto nei miei confronti di offensivo, o solo di
divertente, che aveva preso come una battuta. Probabilmente che fossi un
po’ mordace. Era capace di dire una cattiveria simile. Sbuffai, dovevo
fare la brava elfa. Solo per non darla vinta a quell’umano ironico.
Tanto, lui mi aveva curato. Non mi poteva fare così male. Tesi il braccio
con insofferenza, proprio sotto al naso del tipo. Lui mi guardò con
ansia, poi si preparò, le mani leggermente malferme, a conficcarmi
l’ago nel braccio.
Tuttavia,
non fu qualcosa di doloroso, anzi. Una piccola puntura veloce. Finì
presto. Vidi con fascino il contenitore riempirsi di sangue, il mio sangue
scuro, dal colore diverso da quello umano, più intenso e compatto, una
tonalità che fece sgranare gli occhi a Masato, quel sangue che diveniva
subito nero poco dopo la morte, sempre di consistenza strana, più fluida
di tutte le razze, qualcosa che affascinò in maniera ossessiva il
medico, che, eccitato dalla novità, mise il mio sangue in una
bottiglietta, e poi mi sorrise, grato, guardandolo in controluce, come se fosse
un tesoro, e poi rimettendolo con mille cure nella borsa, affaccendato. Lo
guardai, perplessa. Che persona strana. Decisamente gli umani del mondo di
Regis erano una massa di nevrotici. Con un cenno, Masato mi fece capire che
tutto era finito. Gli scoccai un’occhiata incredula. Era tutto lì?
Il prelievo? Da come me ne aveva parlato mi era sembrato tutto più
sanguinoso e doloroso. Era stato una puntura d’insetto. Una zanzara
più o meno avrebbe sortito lo stesso effetto.
Se solo mi fosse capitata l’occasione avrei fatto prendere un colpo a
Regis, anche se scommettevo che non ci sarei mai
riuscita. Gli avrei raccontato una storia strana e falsa su qualcosa, solo per
fargli prendere un po’ di paura. Bah. Non pensavo di riuscirci. Ecco. Mi sentii,
d’improvviso, sola. Volevo Regis con me. Ero in
mezzo ad umani strani e sconosciuti. Non ce la facevo nemmeno più a
stare lì, seduta su quella branda. Volevo cercare il mio unico punto di
riferimento. Ne avevo un gran bisogno, ora che era con me. Mi aiutava a
camminare con le mie gambe. Mi alzai così, senza più rivolgere
l’attenzione al medico, e, aiutandomi con il suono della sua voce,
accompagnata dagli sguardi curiosi, a volte ostili, degli altri tipi, che mi
sembravano, drammaticamente, tutti gemelli, arrivai in uno strano luogo, uno
spiazzo. Regis era lì, vicino ad un arco rovinato dal tempo,
chissà, forse il portale, accanto ad un uomo dall’aria giovanile,
alto, dai colori chiari e l’aria furba, l’unico a distinguersi con
quella sua espressione scanzonata, che mi guardò con interesse,
squadrandomi dall’alto in basso, quando arrivai. Da quello che mi disse il mio amico, che ridacchiò quando io gli
scoccai un’occhiataccia, senza parlargli, erano arrivati da lì, da
quella rovina. Provai un nuovo empito di speranza. Quel coso poteva viaggiare
nello spazio, e nel tempo. Tornare indietro. Forse fu allora che mi venne
quell’idea. Tornare da Tijorn. Parlargli di nuovo. Cambiare la mia vita.
Non era una cattiva idea. Avrei potuto seguirlo. Forse il mio amico parve
capire cosa mi stesse passando per la mente,
chissà. Mi guardò in maniera strana quando
io azzardai un’esclamazione un po’ più sorpresa. Mi venne in
mente una cosa. Quell’arco non mi era del tutto sconosciuto. Avevo
sentito parlare di quelle rovine, in tempi recenti, a Kyradon. Era in un libro
che avevo letto, sulla storia di strane costruzioni che erano qui dalla notte
dei tempi, dalla fabbricazione sconosciuta, dal grande potere magico, che era
capace di uccidere un elfo sul colpo alla sua attivazione, un libro pieno, ad
un certo punto, di disegni e parole strane, che non ero riuscita a capire.
Quando ne avevo parlato al bibliotecario, al saggio Yufrek, lui mi aveva
requisito il libro, e non me l’aveva dato più. Chissà.
Magari poteva essere d’aiuto. Magari capivano quelle iscrizioni. Quel
tipo, che Regis mi aveva presentato come Peter, mi sembrava abbastanza
intelligente. Negli occhi azzurri brillava una certa malizia, soprattutto mentre guardava me ed il mio amico. Sembrava vedere
qualcosa che non c’era. Bah. Peter. Storsi il naso
quando sentii quel nome. Un altro nome terribile, da donna per me, che
mi aveva di nuovo spinta a chiedermi se tutti avessero
quel pessimo gusto, e guardare Regis, chiedendomi se quello fosse il suo vero
nome, anche se altre volte l’avevo sentito chiamare in un altro modo, o
se avesse uno di quei cosi strani. Regis era molto più bello. E poi quei
due, o meglio tutti, mi sembravano sconfortati nel trovarsi lì, anche il
mio amico. Non mi piaceva vederlo così. Avrei fatto di tutto per
aiutarlo. Non mi piaceva vederlo così. Volevo vederlo sorridere, quel
sorriso pieno di misteri che m’intrigava. Odiavo vederlo con quello sguardo
fosco. Tanto…prima o poi sarei dovuta tornare a
casa, al castello. Nemys mi aspettava, Machin mi aspettava. Senza di me quella
peste non mangiava, e si limitava ad urlare, chiamandomi con quel balbettio che
mi contraddistingueva, quel nomignolo con cui mi avrebbe chiamata sempre,
nomignolo oltremodo ridicolo. Lalla.
Ancora oggi mi chiama così. Zia Lalla. Dice di trovare difficile il mio
nome da dire, e che gli piace Lalla. Non penso smetterà mai, con mio
grande rammarico. È decisamente il soprannome peggiore mai capitato in
vita mia. Quasi quasi preferivo Nanetta. E’ di
famiglia il vizio di trovare epiteti ridicoli ed infamanti alla
mie persona. Io, che farei di tutto per mio nipote, sto zitta, anche se
rabbrividisco ogni volta. Zipherias lo trova oltremodo divertente. Un paio di
volte ha provato a chiamarmi così, ma l’ho dissuaso, in modi molto
efficaci. Diciamo che so trovare i centri nevralgici di un elfo, o di un uomo.
È facilissimo, soprattutto quando il suddetto
non se lo aspetta. Penso di averlo fatto camminare a gambe larghe per giorni.
Ma se lo merita. Davvero gli è stato di lezione. Mi sento soddisfatta
ogni volta che ci ripenso. Insomma. A casa c’era bisogno di me. E, se mi avesse
seguito Regis, mi sarebbe incredibilmente piaciuto. Trovavo ottima la sua
compagnia, una balsamo per la mia anima ferita, e
fargli un regalo, come la possibilità di tornare indietro, in un tempo
che di sicuro amava, mi piaceva. Avrei dimostrato così il mio affetto
nei suoi confronti. Tutto per aiutarlo, per aiutare il mio amico. Alla mia
notizia di avere forse una soluzione, gli occhi dell’umano si
illuminarono. “davvero?”. Mi disse, guardandomi con una nuova
speranza. “sono tutt’orecchi”. Io allora gli esposi
ciò che mi ero ricordata. Non ero sicura che
quelle iscrizioni gli potessero servire, ma lo feci lo stesso, senza dargli
false speranze. Certo, magari potevano essere solo istruzioni su come
prepararsi un rimedio contro il raffreddore, ma non potevamo saperlo. Appena terminai,
gli occhi scuri traboccavano di gioia, ed io gioii con lui. Era bello vederlo
così felice. “può darsi che le pagine contengano
suggerimenti su come tornare indietro”. Rimuginò, apparendo, sotto
lo strato impermeabile di tranquillità che adottava sempre, praticamente
esaltato. Lo conoscevo troppo bene per non capirlo. “gran bella idea,
Lsyn”. Lui sorrise, ed io arrossii leggermente, senza preavviso,
compiaciuta. Aveva detto gran bella idea. Era d’accordo con me. Quindi avevo
detto una cosa intelligente. Quindi lui approvava la mia idea. Quindi mi
avrebbe seguita a Kyradon, e sarebbe stato un altro po’ con me, ed
avremmo parlato, e gli avrei confidato tante altre cose. Provai subito un
empito di vergogna. Mi stavo comportando come una sciocca. Non mi capivo
più. Ero così ansiosa di vedere quella primadonna felice di aver
commesso una piccola sciocchezza. Mi sentii imbarazzata. Sperai che nessuno
avesse notato il mio rossore: avrebbero potuto fraintendere. Ma nemmeno Regis
si era accorto di quel fatto. Era troppo preso dall’idea. Troppo infervorato,
arrovellandosi su chissà quali fatti. Sospirai di sollievo. Avevo le
guance in fiamme. Lui non si era accorto della mia stranissima reazione. Era subito
stato interpellato da uno degli uomini, e chissà, forse gli aveva
spiegato la situazione. Si era diffusa immediatamente una strana aria di
eccitazione, un’eccitazione che durò
poco. Ad un certo punto, senza preavviso, un’esclamazione di allarme,
nella loro lingua, incomprensibile come il verso di uno strano animale. Vidi,
immediatamente, tutti, tranne Regis che non era armato con quei cosi, afferrare
quelle armi lunghe e sottili, e brandirle verso un punto definito. Mi concentrai.
Si: avvertivo strani rumori, fruscii perfettamente avvertibili anche da un
umano allenato. Mi tesi. Non si poteva mai sapere: quello non era ancora un
posto molto tranquillo. Sperai non ci fossero molti morti. Avevo l’impressione
che quei cosi così innocui potessero fare
davvero molto male. Sospettai che fosse stata una di
quelle armi a mordermi il braccio. Mi scambiai una fugace occhiata allarmata
con Regis, poi entrambi continuammo a fissare la boscaglia. Altri fruscii. Ad un
certo punto, con mio enorme stupore, dal sottobosco emerse una figura ben
conosciuta, accompagnata da altre quattro persone. Tutti elfi, vestiti di
azzurro, con al collo un grosso ciondolo. Il primo ad
uscire era stato un elfo altissimo, scuro di pelle, grosso come un gigante, il
mio elfo dagli occhi d’oro. Zipherias. Vidi gli sguardi spaventati degli
umani, anche di Regis, che non lo conosceva, e capii all’istante di dover
agire. Non volevo che il mio amico si facesse del male. Se solo fosse successo,
se solo fosse morto per una mia disattenzione, non me lo sarei mai perdonato. Ma…cosa
diamine ci faceva, lì, Zipherias, che zoppicava tanto nell’ultimo
periodo, perché la pioggia e l’umidità di fine estate lo
facevano dannare? Aveva una strana espressione. Quasi turbata. Mi sentii
afferrare da una mano gelida. Non era mai così sconcertato, lui. Il mio
amico era sempre calmo, qualunque cosa succedesse. Stava
accadendo qualcosa di grave. Ebbi un pensiero improvviso. Nemys. Machin. Qualcuno
era morto. Qualcuno era ferito. Capouille era stato attaccato da qualcuno. Amarto
non si era sentito bene. Era vecchio, e poteva succedere. I miei bambini. Roxen
era caduta e si era rotta qualcosa. Chekaril si era tagliato e stava morendo,
come Tijorn, come mio fratello. Mi sentii ghiacciare. La situazione stava
volgendo al peggio. Silenzio. Uomini
ed elfi si guardarono. Zipherias era interdetto. Due dei suoi sottoposti si
guardarono, sconvolti. Vidi qualcosa muoversi. Scattai, immediatamente. Non doveva
succedere nulla. “no! No! Fermi!”. Gridai, isterica, guadagnandomi un’occhiata
perplessa e preoccupata di Regis, ed una sorta di sguardo sollevato di
Zipherias. Sembrava contento di avermi trovata. La cosa non mi piacque. Lui non
mi disturbava mai quando venivo nel bosco, da Tijorn
ed Akita. La situazione era critica. “sono amici miei!”. Per fortuna,
il mio amico umano fu abbastanza rapido nel comunicare la cosa, ed il peggio
passò subito. Quei cosi maledetti furono abbassati, con titubanza,
però, ed i miei compagni di avvicinarono subito. I cinque elfi si
guardarono intorno, spaesati, probabilmente dalla stranezza di vedere umani
così strani in giro, ma poi Zipherias si fiondò subito verso di
me, cosa che io imitai. Cercai di darmi un briciolo di decenza. Avrei voluto
tanto abbracciarlo, farmi consolare. Ma non potevo. Non davanti a Regis. Ah. Stavo
avendo strani pensieri, da un po’ di tempo. La solitudine mi stava
facendo impazzire. “Zipherias…”. Cominciai, preoccupata, con
una strana voce angustiata, ma lui mi precedette, prendendomi le mani, e
guardandomi ansioso, con mille domande che gli navigavano nel mare d’oro
che aveva a posto delle iridi. “ero certo di trovarti qui…”. Mormorò,
con una voce un po’ malferma. Non mi piacque. Lui non era mai sconvolto. “ma
chi sono questi umani, tutti qui?”. Ma perché stava temporeggiando
in questo modo? Era chiaro che stava tentando di
prendere tempo. Accolsi quella domanda con irritazione. A quanto pare o stavo io travisando la cosa, o davvero la situazione
era gravissima. “non lo so nemmeno io”. Risposi, con uno scatto del
viso, infastidita. “non chiedermelo”. Ci fu un attimo di silenzio. Rimasi
ad ascoltare il tumulto del mio cuore, che batteva come impazzito. Cercai di
tenere a bada il mio corpo. Zipherias sembrava ugualmente agitato. Mi strinse
ancora più forte le mani. “bene, ne parleremo dopo…”. Disse,
con una stranissima aria svagata. Tremai. Ecco che stava per venire la mazzata.
Mi preparai. “sono venuto qui per avvisarti di
una cosa molto grave”. Ah, come odiavo a volte Zipherias. Perché non
si decideva? A volte tirargli fuori le risposte era più difficile che
imparare a Machin che la pappa non era un gioco, e che noi non eravamo bersagli
o sputacchiere. Nervosa oltre ogni dire, sottraendomi al contatto con il mio
amico, troppo tesa per voler essere toccata, parlai. E fu la fine di tutto. “e…di
che si tratta?”. Domandai, con una strana voce tremula. “cosa
succede?”. Niente, niente riuscì a prepararmi a quello che stava
per dire. Ero partita con la consapevolezza che non sarebbe successo nulla. Ero
partita serena! Perché tutto doveva succedere quando
io non c’ero, così, all’improvviso? Zipherias sospirò.
“è la Matriarca”. Disse, con una strana aria cupa. “è
in travaglio”.
Capitolo 89 *** Ai confini dell'irrealtà-Quello che mi ossessiona. ***
Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli
che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni
Per chi abbia
lettoMillennium War-Rebirth, questo e
gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto
situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio!
È solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di
tempo, con il consenso di entrambi! xD
Dunque, molte delle situazioni, la
maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la
prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia
“indipendenza letteraria” (xD)-), e,
soprattutto, il personaggio di Regis
appartengono all’anzidetto Carlos Olivera,
ed alla sua opera xD
“in…travaglio?”.
Ripetei, con una stranissima voce stridula. Il mondo ondeggiò per un
attimo, prima di ritornare alla sua posizione di prima. Tutto si fece freddo,
anche l’aria che quel mattino avevo giudicata perfetta, mite, una
giornata ideale per stare fuori casa. Ma Nemys….lei i aveva
rassicurata! Aveva detto che non le sarebbe successo nulla, accidenti a me! Ma
perché tutto doveva succedere proprio quando io
decidevo di andarmene, proprio quando la mia attenzione si allentava?
Perché la paura, l’ansia, il dolore, mi dovevano cogliere proprio
in un momento di pace? Eppure tutto sembrava essersi messo così per il
meglio. La mia Rinnegata da un paio di giorni si sentiva molto meglio, ed era
molto più forte, ed aveva deciso di officiare ad un rito, che sapevamo
già l’ultimo, comunque sarebbe andato il parto. Avevo finalmente
trovato un equilibrio tra ricordi e realtà. Io avevo rivisto un vecchio
amico che credevo morto, oppure vecchio, decrepito, nel fiore degli anni,
ancora bello e forte come lo avevo lasciato. Ed ecco che la situazione
degenerava, diveniva tremendamente pericolosa. Nemys era in pericolo di morte,
e lo sapevo. Se solo l’avessi persa… non
osai pensarlo. Sarebbe stato troppo per me. Provai un empito momentaneo di odio
verso quell’infante non ancora nato, un odio bruciante, perché lui
stava uccidendo la mia dolce amica, l’altra parte di me stessa, ma fu
solo un attimo. Mi vergognai di quello che stavo pensando. Povero cuccioletto.
Su di lui, o su di lei, si erano andate a creare enormi aspettative. Non so per
quale strana leggenda, qualche incarnazione dell’incarnazione dell’incarnazione di un dio o cose del genere, roba
zuppa di superstizioneche mi ero rifiutata categoricamente di approfondire, disgustata,
molti vedevano nell’erede prossimo al trono di Uruk un liberatore. Era
riprovevole. Sarebbe stato solo un neonato come tanti, accidenti. Affamato,
chiassoso, fastidioso e tenerissimo. Poi sarebbe divenuto infante, ed avrebbe
meritato solo di giocare, spensierato, e di studiare, senza fastidio alcuno,
come un elfo normale. Poi sarebbe cresciuto, sarebbe diventato un bel giovane,
ed avrebbe cominciato a trovare la sua strada. Non accettavo che il suo cammino
fosse già predefinito verso il trono. Non era giusto. Era un capro
espiatorio, nient’altro. Mio nipote, per un certo verso, mio figlio per
un altro. Sarebbe stato speciale più di ogni altro, un elfo con una
parte di Rinnegato, con chissà che abilità, ma aveva il diritto
ad una vita, serena. Non potevano farne uno strumento. Non lo accettavo, non quando la stessa cosa era stata fatta a me. Era per
questo che Nemys aveva voluto questo bambino? Per opporsi a Lainay ed a
Kamarducil, quell’altra povera vittima di una vittima? Mi avvolse
l’amarezza. Che solo ci avessero provato. L’avrei difeso con le
unghie e con i denti, una mamma orsa. Isnark poteva benissimo regnare da solo.
Se poi il piccino avesse voluto diventare
re…beh…almeno sarebbe stata una sua scelta e basta. In caso
contrario, c’ero io a difendere le sue scelte. Guardai Zipherias, furente
e preoccupata, e lui ricambiò lo sguardo, interrogativo. “è
successo stamattina, poco dopo il rito”. Mormorò il gigante,
guardando a terra. Accidenti. Ero andata via davvero da poco. Ma perché
nessuno mi aveva raggiunta? Donai un’occhiataccia al gigantesco elfo, che
sembrò farsi piccolo piccolo.
“Nemys non voleva disturbarti, visto che la cosa andava per le
lunghe…”. Replicò, in tono casuale. “ma poi ci sono
state complicazioni, e mi ha ordinato di venire a cercarti, e portarti a da lei. Devi venire, subito”. Deglutii,
improvvisamente con la gola secca e riarsa come se avessi camminato giorni e
giorni sotto il sole cocente del deserto. Complicazioni. La sola parola mi
faceva venire i brividi addosso. Si cominciava a partire con il piede
sbagliato. Perfetto. L’apprensione tornò, una nuvola che oscurava
il mio giudizio. Deglutii di nuovo. Annuii, quasi incapace di parlare. Poi la
voce mi uscì, straordinariamente distorta.
“si…naturalmente”. Dissi, e poi feci per giurarmi subito
verso il mio amico. Dovevamo andare. A casa avevano tutti
bisogno di me. Dovevo vedere la mia amica. Dovevo aiutarla, come avevo
fatto con Akita. Fui sorpresa di trovarmelo vicinissimo, a malapena un passo da
me. Per la seconda volta, fummo sul punto di scontrarci testa e testa. Feci un
salto all’indietro. Accidenti. Era silenzioso, il mio amico. Lui mi
guardò con una certa apprensione, vedendo chissà cosa nel mio
sguardo. Paura, ansia, forse. Mi sorrise dolcemente, un sorriso rapido, e poi
si rivolse a Zipherias, con la sua solita aria rilassata e cordiale,
velatamente ironica. Guardai il mio amico dagli occhi d’oro. Decisamente,
non mi sembrava molto bendisposto, lui, verso il nuovo arrivato. Lo guardava
con una certa aria sospettosa, e molto acida. Vedevo aleggiare la gelosia nei
suoi tratti. Alzai gli occhi al cielo. Certe volte era asfissiante, davvero. Si
comportava come il mio compagno. Perfino, qualche volte
se l’era presa con Capouille, uno dei loro soliti litigi giocosi. Bah.
Non lo capivo. Sul suo volto scuro si dipinse un sorriso sarcastico, superiore,
che mantenne per tutto il tempo. Regis, saggio umano, lo ignorò di bella
posta. Ed io ero troppo seccata, troppo piena di preoccupazione per placare gli
animi, volevo raggiungere Nemys. Dovevo. Li aveva bisogno di me. Avevo il cuore
in gola. L’urgenza di andare via mi stava stringendo in una morsa orrenda
lo stomaco. Avevo allontanato da me ogni piccolo problema. D’accordo, non
riuscivo a capire cosa stessi facendo con Regis,
perché sembrassi civettare un po’ quando lui era nei paraggi. Oh,
d’accordo, lo immaginavo, ma non avevo il coraggio di pensarlo. Non
ancora. Si era presentato anche un grosso dilemma. Tornare indietro nel tempo.
La prospettiva mi deliziò. Era una tentazione troppo forte per poterla
ignorare. Avvisare me stessa del terribile destino a cui
stava andando incontro. Avvisare Tijorn, Akita, anche Junielle, fuggire via
insieme ad Uruk. Una vita perfetta. Andare a rapire da
Chekaril la mia Roxen, che mi avrebbe chiamata mamma. Mio fratello sarebbe
stato vivo, e con lui tutti i miei affetti. Allontanai in fretta quel pensiero.
Al momento dovevo concentrarmi sul mio terribile presente. Regis, calmo come un
laghetto limpido, si era rivolto al mio enorme amico, senza la minima traccia
di timore, nonostante la sommità della sua testa non arrivasse nemmeno
alla sua spalla. Forse quella era un’altra cosa che indispettiva il mio
scuro elfo. Amava spaventare un po’ con la sua mole terribile.
Quell’umano lo stava apertamente sfidando. Sperai che non gli venissero
in mente strane idee. Duelli, combattimenti, cose così. Misi in conto di
avvertirlo, prima o poi. Non volevo che Zipherias finisse spiaccicato per la
sua boria, che a volte era davvero esagerata, da quell’acqua cheta di
Regis. Mi preoccupavo seriamente per lui. E poi non volevo vederli combattere.
“sbaglio o la vostra Matriarca è in travaglio?”. Domando
l’umano, con aria casuale, con quel suo solito modo di girare attorno una cosa. Lo guardai, interessata, e lui, per un
attimo, ricambiò il mio sguardo. Ha. Ormai lo conoscevo. Aveva qualcosa
in mente. Inutile affrettare i tempi. L’avrebbe detta, prima o poi,
quella sua idea geniale. Zipherias non sembrò capire, e il suo sarcasmo
divenne evidente. “acuto osservatore dell’ovvio, direi. Dovrei
complimentarmi”. Rispose, con uno strano cipiglio divertito. Fui tentata
di coprirmi il volto con le mani, esasperata. Oh, no. Ma perché doveva
essere così maledettamente cretino? Ma che gli passava per
quell’acino d’uva che aveva nella testa? Rischiava di mettercelo
contro. Di mettermelo contro. Ed io non volevo che Regis si allontanasse da me.
Era troppo bello averlo vicino, a portata di voce e mano. Una persona che mi
conosceva anche come Lsyn l’Ombra, com’ero stata prima di divenire
Mostro, e poi Ch’argon. Mi era troppo caro. Era l’unica
persone che mi poteva aiutare. Lo guardai, apprensiva, e sospirai di
sollievo. Non sembrava essersi irritato. Era solo un po’ contrariato, e
non con me. Beh. Se avesse dato una bella lezione a Zipherias non gli sarei
stata che grata. A volte era insopportabile. Sul bel volto dell’umano si
aprì uno stranissimo sorriso. “fai meno lo spiritoso”.
Disse, guardando me, con una strana aria beffarda. Sembrava aver capito
qualcosa che a me era sfuggito. Lo guardai, interrogativa. L’unica cosa
che ebbi come risposta fu un non tanto velato occhiolino. Ebbi la netta
impressione che stesse provocando apposta il mio
grosso amico. Beh, non avevo nulla da obiettare. Proprio nulla. E devo dire
che, nonostante la situazione, quel gesto mi fece piacere. Era bella la
complicità che si era andata a creare, tra noi due, come se fossimo
amici da sempre. Arrivammo ben presto ad un compromesso. Un compromesso che mi
fece ben sperare che tutto si risolvesse per il meglio. Regis, in cambio di
un’occhiata a quel libro di cui gli avevo parlato poco prima, ci avrebbe
dato un aiuto per Nemys. Il tipo, il medico, Masato, avrebbe tentato di far
tutto per lei. Non so perché, ma mi sentii meglio. Se era
capace di fare quello che avevo visto, curarmi senza farmi sentire dolore,
sicuramente la mia Rinnegata sarebbe riuscita a sopravvivere. Sicuro. Tentai di
aggrapparmi a quella seppur labile speranza, e mi sentii
invadere da una certa calma. Non avrei combinato nulla, se mi fossi agitata
troppo. Avrei finito per fare come durante la veglia per Tijorn. Stordita dai
sedativi, e basta. Dovevo tenere il sangue freddo. Non potevo reagire male.
Nemys aveva bisogno di me. Stava sicuramente passando una pena incredibile, una
tortura difficilmente comprensibile. Si: Regis ed i suoi amici ci avrebbero
aiutati, e tutto sarebbe andato a frinire per il meglio. Riuscii ad essere
anche lievemente entusiasta della cosa. Ah, Regis. Se solo fosse arrivato
prima, con le sue meraviglie, avrebbe salvato la vita anche a Tijorn. Ma ormai
era troppo tardi per pensarlo. Zipherias, specialmente dopo che ebbi fatto le
presentazioni, ed accolto l’ondata di stupore che si propagò a
quella stramba notizia, sembrò fidarsi sempre meno dell’umano,
rimasto a guardarlo con aria sottilmente beffarda, sicura di sé, o
almeno falsamente tale, e mi scoccò un’occhiata furente. Sembrava
sempre meno contento, ma fu costretto ad accettare. Tre dei suoi soldati
sarebbero rimasti a guardia degli altri umani, perché il luogo era
ancora abbastanza irto di pericoli, mentre Regis, Peter, con quella sua aria
strafottente e sicura di sé, ed il mite Masato, con un borsone dietro
che mi fece sgranare gli occhi dallo stupore, sarebbero venuti con noi.
Velocemente, andammo nel luogo dove avevano tutti radunato le proprie
cavalcature, compresa la mia testarda cavalla saura, che avevo deciso di
chiamare Nina*. Ci fu un attimo di confusione, mentre tutti si sistemavano. Io
salii in fretta su Nina, che alzò il muso e mi guardò, perplessa.
Si era abituata alle mie stranezze, perciò non ci fece molto caso, e
riprese a brucare. Cominciai a risentire l’apprensione in me, mentre
quell’effimera ondata di speranza svaniva, mentre aspettavo che tutti
fossero pronti. Accidenti. Sperai che tutto andasse bene. Mi guardai attorno.
Zipherias era già montato sul suo gigantesco cavallo nero, un veterano
di mille guerre pieno di cicatrici, calmo come il padrone, e mi stava guardando
male. Mi chiesi vagamente cosa avesse contro di me. Gli restituii lo sguardo,
interrogativa, ma lui non fece altro che girarsi con una smorfia. Beh. Io a
volte proprio non lo capivo. Regis ed i due umani avevano preso in prestito le
cavalcature di quegli elfi che erano andati a fare da guardia ai loro compagni.
Il mio amico si stava sistemando sulla mite ed irsuta cavalla dal manto
isabella di un mio conoscente, di cui non sapevo nemmeno il nome, e sembrava
nato a cavallo. Cercai di non ridere mentre vedevo i
suoi due amici. Della mia primadonna non avevano proprio nulla. Era evidente
che di un cavallo avevano visto solo le bistecche, in
tutta la loro vita. Avevano insistito per montare su un solo cavallo, un baio
nervoso che già cominciava ad irritarsi e scalpitare, e stavano in
groppa come due interessanti sacchi di sabbia. Nemmeno io ero stata così
goffa, la prima volta. Un elfo dovette spiegar loro come funzionavano le
briglie. Poi decise di portare lui il cavallo, e lo legò alla sella
della sua cavalcatura. Mi chiesi perché mai Zipherias non avesse
obiettato nella loro scelta. Il cavallo pezzato che era stato declassato a
mulo, per i momento, era molto più tranquillo.
Ebbi la netta impressione che si stesse divertendo
molto. Bah. Chi lo capiva era bravo. Io non ne avevo la minima intenzione. Non
in quel momento. finalmente, prendemmo a camminare.
Io, per colpa di quella maledetta testarda che decideva sempre di muoversi solo
quando e come lo diceva lei, nonostante le mie ripetute implorazioni, rimasi un
po’ indietro, e mi feci tutto il viaggio con Regis. Lui cercò di
farmi coraggio, di dire che sarebbe andato tutto bene. Sembrava aver capito
bene la mia paura. Gli fui grata per quelle parole. Era sempre meraviglioso,
quando faceva così. Mi riscaldava il cuore, quando qualcuno
s’importava di me in quel modo. Quel momento rilassato tra noi due fu
interrotto da una battutaccia di Zipherias, che, a quanto pareva, ci stava
guardando. Quella fu la prima, e non ultima, volta in cui lo supplicai di
chiudere il becco. I miei sospetti erano confermati. Era invidioso. Marcio di
gelosia. Eppure, io e Regis non eravamo certo compagni o amanti. Certo che no!
Cercai di non arrossire a quel pensiero. Non era una cattivissima idea, proprio
no. Sobbalzai, e mi concentrai sul percorso. Accidenti, me lo dovevo mettere in
testa: quello che pensavo era proibito. Tra un umano ed un’elfa al di
là dell’amicizia nulla può nascere. Solo
amici. Solo ed esclusivamente due buoni amici che si rincontrano dopo
tanto tempo. Quell’elfodoveva avere un’idea molto
strana ed esclusiva di amicizia. Ma io lo conoscevo da molto più tempo
di lui. E gli volevo un mondo di bene. Era bello averlo di nuovo con me. Lui
non sapeva cosa significasse Regis per me. Un passato, un passato che non
voleva sapere di andarsene via, di svanire. Una felicità intermittente.
Eppure, avevo la netta impressione che proprio lui fosse
lì per mettere pace in me stessa. Tutte le volte che l’avevo
incontrato era stato così. Non ci sarebbe stato nulla di strano se anche
quella volta mi avrebbe aiutata a trovare un reale
motivo per vivere, per tornare a vivere, senza vegetare. Era come se nessuno
tranne lui mi capisse davvero. Provavo una strana
affinità con quell’umano. Era come vedere me stessa in un altro
momento, in un altro contesto, in un altro mondo, con un altro ruolo. Non mi
sapevo spiegare cosa fosse quella grande
familiarità, quella sorta di attrazione che provavo per lui. Qualcosa
che mi spingeva sempre a gravitare attorno a lui, quando era presente, a
pensarci spesso, quando non c’era. Beh. Proprio un umano, tra tutti.
Sperai silenziosamente che non se ne andasse. Tutto sarebbe stato meno amaro,
con lui presente a sostenermi. Se solo qualcosa fosse andato storto con Nemys,
senza di lui sarei stata malissimo. Mi avrebbe aiutata, ne ero certa. Ci contavo.
Finalmente, dopo vari battibecchi tra me e Zipherias, quest’ultimo si
zittì, e, mestamente, prese a guardare avanti. Per un po’ ci fu il
silenzio più completo, rotto solo dal rumore degli zoccoli, dal fruscio,
dal respiro dei cavalli, dal cinguettio degli uccelli. Finalmente, io e Regis,
poi, riuscimmo a parlare per un po’. E, in modo molto indiretto, ebbi la
vendetta che tanto sospiravo contro il mio odiato Isnark. Ignorando
un’occhiata ammonitrice del mio scuro amico, che sembrava per chissà
quale motivo allarmato dalle mie parole, cominciai a raccontargli della
terribile battaglia finale. Era stata un’orribile carneficina, per gli
umani. Dopo un po’, mi resi conto che avevo sbagliato a tirare fuori
quella storia di cui anch’io sapevo ben poco. Vidi l’orrore montare
poco a poco sul viso sempre calmo del mio amico. Provai un enorme empito di
vergogna a raccontare di come Uruk avesse tradito i suoi ideali, per una
minaccia che non potevo dirgli. Anche lui, in fondo, aveva sicuramente i suoi
pregiudizi contro i Rinnegati. Sul fondo di quegli occhi di norma sempre
limpidi, vidi addensarsi la rabbia. Ahi. Presagii guai per Isnark. Certe volte,
quell’umano sapeva essere terribile. Beh, mi bastava che non
l’avesse ucciso. Poi mi sarei divertita a vederlo pestato. Man mano che
proseguii la storia, vidi ciò che avevo temuto ed aspettato nello stesso
tempo addensarsi sul viso un po’ più pallido del mio amico.
Incredulità. Frustrazione, la frustrazione di non essere sicuramente
arrivato in tempo per salvare anche quella situazione.
Beh. La primadonna, mio caro Regis, non si può far sempre. Arrivano
momenti in cui il fato è così beffardo, e decide di giocare in un
modo così sadico con noi, che non possiamo farci nulla. Solo arrenderci
alla tempesta, e sperare che passi presto. Poi, mentre proseguivamo verso
Kyradon, cavalcando fianco a fianco tra i due sacchi di patate dalle orecchie
tonde, aggrappati disperatamente all’indocile baio che Zipherias si era
divertito a dar loro, ed i soldati, vidi piano piano
il mio amico divenire nero di rabbia. Lo capivo. Avrei provato anch’io le
stesse sensazioni, se solo non fossi stata al corrente di tutto. La sensazione
di essere con le mani legate…senza potersi liberare, pur cercando di
dibattersi. Nonostante tutta la mia apprensione per quell’espressione sul
suo viso familiare, che man mano che proseguiva il tempo mi nascondeva sempre
meno, mi venne in mente un’idea. Una bella idea. Sogghignai. Se avesse
pestato quel bastardo in erba di Isnark mi avrebbe fatto un enorme piacere. Era
un bel po’ di tempo che io lo volevo fare, ma mi ero trattenuta per ovvi
motivi. Certo, non era il momento più adatto per una zuffa in piena
regola, con Nemys in quella brutta situazione, ma mi sarei divertita un mondo
anche con un piccolo pugno. Almeno la giornata avrebbe avuto qualcosa di
positivo per cui essere ricordata. Morivo dalla voglia
di vedere Isnark picchiato. Morivo, davvero. Quando io finii di parlare, ci fu
un attimo di silenzio teso, rotto solo dallo scalpitio affannoso degli zoccoli,
attutito dalla terra. Guardai avanti a me, concentrandomi sul percorso da fare,
nonostante Nina conoscesse già a memoria ogni sasso. L’avrei
potuta far andare tranquillamente a briglie sciolte, e sarebbe tornata a casa
senza nemmeno perdersi una volta. Ma comunque feci finta di concentrarmi, per
non disturbare il mio amico. Aveva davvero un’espressione fosca.
Addirittura intercettai Zipherias, che si era girato per un’ennesima
battutaccia all’acido, preda di quell’antipatia mista a quello che
giuravo fosse gelosia pura, si bloccò a mezz’aria, non appena vide
la sua faccia cupa, e chiuse il becco, guardandomi con una certa aria stranita
che mi divertì. Mi scrollai nelle spalle, poi mi girai per spiare un
po’ la situazione. Mh. Qualcosa mi diceva che per una certa creatura
prossima ad essere picchiata a sangue il futuro non sarebbe stato proprio
roseo. Isnark se la stava per passare davvero male. Glielo leggevo in faccia,
sul volto teso e pallido di Regis: propositi omicidi per un elfo idiota. Non
ero proprio contraria, però…povero bambino. Mi vennero gli
scrupoli di coscienza. Mh. Forse era davvero dire un paio di paroline a Regis,
magari per farlo calmare un pochino. Era proprio il caso. Nemys ci avrebbe
staccato la testa di persona, a me in particolare, se solo avesse scoperto la
morte del suo compagno proprio quando stava per tirare
probabilmente le penne pure lei. Mi venne freddo. No. Non dovevo pensare una
cosa del genere. Preferii così rivolgermi a Regis, per distrarmi. Se
solo avessi lasciato correre i pensieri, non mi sarei più mossa da
lì. “so cosa stai pensando, Regis”. Oh, si, che lo so. Lui
si girò, e rabbrividii. Accidenti, quando voleva essere pauroso, lo era,
eccome. Sprizzava minaccia da tutti i pori. Oh. Ci guardammo con una sorta di
aria di sfida. C’era anche dolore, in quegli abissi scuri che pochi
sapevano sondare. Un dolore che non capivo. “e ti prego…non essere
in collera con Isnark”. Anche perché poi la colpa sarebbe ricaduta
su di me. Nemys mi avrebbe staccato la testa. Fa’ un po’ i conti
tu… di nuovo, ci guardammo. Lui abbassò lo sguardo. Povero Regis.
M’infastidiva vederlo così pensieroso. Amavo il suo sorriso, fin
troppo, i suoi scherzi. Passammo un piccolo momento di silenzio. Vedevo
già approssimarsi le mura di Kyradon. Sentii uno
gradevolissimo strappo in fondo allo stomaco. Nervosismo. Chissà Nemys
come stava. Zipherias aveva detto che c’erano complicazioni. Non ne ero
tanto sorpresa, chissà perché, ma mi preoccupavano molto. Non mi
piaceva,come
cosa. Finalmente, vidi la bocca serrata di Regis aprirsi. Mi dovetti sporgere
da cavallo per sentire il mormorio dolente che disse. “che ne è
stato di Fiya?”. Domandò, come se non volesse realmente saperlo.
Aah. Capii al volo. Era quello ciò che lo angustiava. Il regno da cui
veniva. Beh. Se era per quello, avevo buone notizie per lui. La regina
attualmente sul trono era stata una delle poche persone, munite di buonsenso, a
restare neutrale. Aveva anche avuto concessioni territoriali, ed era in ottimi
rapporti con Normar, senza pericolo diattacco, nonostante molti della
sedicente resistenza si stessero rintanando lì. Sorrisi lievemente,
sollevata. Dargli una brutta notizia mi avrebbe fatto molto del male. Volevo
vederlo stare un po’ meglio. “per Fiya non devi preoccuparti”.
Dissi, tranquilla. Vidi la sua espressone rischiararsi leggermente. Ci
scambiammo un lievissimo, fugace sorriso. “nonostante la ristrettezza dei
suoi domini rispetto a cinquant’anni fa il tuo regno è rimasto
intatto. Non faceva parte dell’Impero, e si è salvato”. Lo
vidi chiaramente sospirare di sollievo. Mi sentii più sollevata
anch’io. Almeno non avrebbe torto il collo ad Isnark. “secondo
alcuni costituirà la prossima linea difensiva contro Lainay…ma
è troppo presto per dirlo”. In silenzio procedemmo
nell’ultima parte del viaggio. Fui intimamente contenta di aver sollevato
almeno un po’ lo spirito al mio amico. Aveva certo un bel cipiglio
arrabbiato, ma nulla mi avrebbe fatto più bene
di vedere pestato Isnark. Mi sarei vendicata anche solo a vederlo. In quello
gli lasciavo briglia sciolta: mi bastava che non lo uccidesse. Riportai
così lo sguardo verso il paesaggio. Eravamo ormai entrati in Kyradon, la
mia città. Era strano pensarlo, dopo che per più di un secolo avevo vissuto nella graziosa Galinne dalle guglie di
diamante. Cominciai a sentirmi ancora più nervosa. Avrei voluto spronare
Nina, ma sapevo che avrei perso di vista Regis, e la cavalla non mi avrebbe di
certo obbedito. A volte combattere con quella maledetta era una sfida persa in
partenza. Nemys. Dovevo assolutamente arrivare da lei. Chissà quanto
stava soffrendo. Era successo pure a me. Comprendevo benissimo il dolore
d’inferno che stava provando. E sapevo quanto la situazione fosse davvero delicata. In silenzio, il mio amico ancora a
fianco, percorremmo tutti i tre livelli concentrici, seguiti dagli sguardi
curiosi degli abitanti che incontravamo. L’unico momento in cui mi girai verso Regis, in cerca di un conforto che sapevo
impossibile, lo vidi a metà ancora irritato, per l’altra
metà assorto a contemplare la mia città, affascinato dal candore
e dall’oro. Ed era davvero uno spettacolo imponente, ne ero sicura.
Nonostante il caos, amavo Kyradon, città sacra e capitale di Uruk. Mi
guardai per un momento così con Zipherias. Il mio amico scuro fece una
strana smorfia, e si girò in avanti. Oh, perfetto. Anche l’elfo
ostile e geloso. Ma io che avevo fatto con Regis? L’avevo baciato davanti
a lui, per caso? No. Era solo un mio amico. Solo un mio innocentissimo amico.
Scossi il capo più volte per liberarmi dell’assurdo rimpianto che
mi aveva afferrato al pensiero. Dovevo mettermelo bene in testa. Niente
pensieri strani. Amico. Solo un amico. Era umano,e fare anche solo certi pensieri era proibito. Pericoloso,
direi. Ah. Mi misi più dritta. Fortuna che eravamo arrivati nel piazzale
familiare, quello del tempio. Cominciammo a rallentare. Vidi la zazzera
arruffata e chiarissima di Isnark prima ancora di vedere lui. Eccolo lì,
il futuro padre. Devo dire che la stava prendendo piuttosto bene. Perlomeno non
si era preso a strappare i capelli come un soldato di cui mi avevano raccontato
le gesta, oppure non era approdato felicemente nelle terre sane e pure del
delirio com’era successo a Tijorn il giorno della nascita di sua nipote,
di mia figlia. Beh: umani o elfi che siano,
antropomorfi o meno, i maschi sono sempre tutti uguali. Posso giurare di aver
visto quei capelli indomabili del mio amico-nemico ritti in testa, quasi, per
tutte le volte che ci doveva aver passato in mezzo le mani. Fermammo i cavalli poco vicino a lui, e smontammo. Accidenti. Davvero
non avevo previsto la scenetta che accadde, che mi
ripagò di mesi di torture psichiche da parte di quel bastardo che mi
chiamava parassita. Davvero senza prezzo. A testa bassa, dritto e inesorabile
come una nave con le vele spiegate, una faccia che, se non fosse stata
così terribile, sarebbe stata incredibilmente divertente, prima ancora
che ci riavessimo tutti dalla sorpresa, Isnark compreso, che sembrava essere
stato messo di fronte ad un misto tra un fantasma ed i suoi peggior incubi, ed
era pallido come un cadavere, Regis si portò di fronte all’amico,
in silenzio, senza nemmeno uno straccio di saluto. Oh, si. Sangue. Ci fu un
attimo in cui i due si squadrarono. Mi conficcai le unghie nei palmi, e mi
morsi il labbro inferiore per non ridacchiare. La situazione non lo richiedeva.
Ma era così dolce la vendetta, così innegabilmente zuccherina.
Su, Regis. Picchialo. A sangue. Mi avrebbe fatto un enorme piacere, oh si. Beh.
L’ammontare dei debiti con il mio carissimo amico sarebbe ammontato ancora
di più. “tu…”. Bisbigliò Isnark, in quel
silenzio tombale che si era creato. Vedevo tutti tesi,
i due umani avevano messo mano a quelle strane cose che avevano in spalla, e si
guardavano intorno, guardinghi. Preferii allontanarmi di un passo. Vigliacca, vero…ma era necessario. Non tirava buona
aria. Preferii nascondermi a mezzo, esultando dentro di me. Oh, si. Vedevo
affiorare l’ira in Regis, in ogni muscolo che aveva teso. Bene.
“non puoi essere…”. Non ebbe nemmeno il tempo di finire. Con
mia enorme felicità, mettendo a dura prova il mio autocontrollo, che
m’impediva per poco di non saltare dalla gioia, il mio umano preferito
agì. Oh si, se agì. Mi ripagò di tutti i torti che quel
lurido, schifoso contadino divenuto principe mi aveva fatto. Un bel pugno. Ben
piazzato. Sullo zigomo delle cicatrici che io gli avevo lasciato. Mi sentii
enormemente soddisfatta quando lo vidi cadere sedere a
terra. Mi ripagava di tutto, eccome se lo faceva. Mi morsi il labbro per non
ridere, e non intervenni. Com’era bello vederlo a terra, a mangiare la
polvere. Bastardo. Regis aveva ragione. Avrebbe, secondo quel principio, dovuto
picchiare anche me, ma io non c’entravo nulla. Chissà
perché ce l’aveva tanto con lui. Non mi
risultava che si conoscessero bene, chissà. Io
non lo sapevo. Sobbalzai, strappata brutalmente alla mia estasi di vendetta
ricevuta, quando la situazione precipitò, in un attimo. I due non si
erano nemmeno staccati che, con notevole tempismo, Zipherias ed i suoi stavano
per saltare addosso al mio amico. Mi mossi anch’io, presa da un istinto
più forte di qualunque cosa. Mi mossi in
direzione opposta a quella dei miei amici elfi. Per proteggere un umano, un
volgarissimo umano. Non intendevano mica ferirlo, vero? Io mi sarei messa in
mezzo. Lui aveva ragione, e punto, qualunque cosa avesse fatto Isnark. Il
Principe era ideologicamente nel torto, e basta. Non dovevano toccare il mio
amico. Mi era troppo caro. I due amici umani, che mi erano sembrati tanto
goffi, agirono ben prima di me. Erano più vicini a Regis, e si
piazzarono a proteggergli le spalle, alzando quelle strane cose nere.
Così, ebbi un’altra risposta ai miei interrogativi. Bene. Quelle
cose non sono innocue. Per niente. Sobbalzai quando
sentii degli stranissimi rumori, simili a quelli che avevo udito prima di
essere colpita. Mi spaventai in una maniera spropositata, e mi rannicchiai da
chissà quale parte, forse mezza protetta a
terra, terrorizzata. Non volevo essere morsa di nuovo. Ebbi la netta
impressione che quei cosi mi potessero uccidere prima
di fare un passo. Però non valeva. Era sleale. Beh. Almeno gli altri si
erano fermati. Che difesa efficace. Non udivo più nessuno scalpiccio. Mi
allungai per vedere cosa stesse succedendo. I due
umani erano ancora con le armi levate, dalla cui sommità usciva un
po’ di fumo. Regis sovrastava un pallido ed addolorato Isnark, furioso.
Davvero, temetti per quell’elfo. Non avevo mai visto il mio amico
così arrabbiato. Non mi sarei stupita se fosse esploso
di rabbia. Qualcosa gli era andato storto, oh, si. Però era bello vedere
Isnark così conciato. Gli sarebbe rimasto un livido fantastico. Come
avrei voluto essere io a fargliene un altro su quel bel faccino! Beh, inutile
dire che mi piacque da impazzire quando Regis
scaricò addosso al povero, povero elfo tutto l’astio nei suoi
confronti. Compresi perché il mio amico era così arrabbiato nei
suoi confronti. Chissà quando, in che momento della loro esistenza, si
erano incontrati, ed Isnark aveva fatto la promessa di schierarsi contro
Lainay. Promessa che aveva prontamente disatteso. L’ira del mio amico
sembrava incontenibile. Erompeva violenta, una fiammata in un tubo. Lui si
fermò solo quando Isnark non fu quasi sul punto
di piangere. Ah, che bello. Vederlo ridotto così era gratificante, anche
se condividevo la sua umiliazione in qualche maniera. Era stato l’unico
modo per uscire vivi da quella situazione. Non potevamo fare altrimenti. La
minaccia di Lainay era troppo terribile. Non potevamo rischiare, con lei che
sapeva quell’enorme segreto. E metterne a conoscenza anche Regis, quando
la situazione si fu calmata e Zipherias, che era uno dei pochi a conoscenza del
fatto che Nemys fosse in realtà una Rinnegata, ebbe mandato via tutti i
soldati, fu ‘unica via possibile per Isnark di uscire da quella situazione,
l’unico modo per placare un po’ la sua rabbia. Io uscii dal mio
nascondiglio, seguita da un’occhiata ironica del mio amico elfo, ed
entrai nella conversazione tra i due, ora che il pericolo di quelle strane armi
sembrava lontano. Fu una grossa fortuna che Regis fosse
così aperto mentalmente. Non sembrò maldisposto contro Nemys,
anzi, si limitò a borbottare qualcosa di non comprensibile, dopo il
primo momento di sorpresa. Sembrava anche piuttosto incuriosito. Ritenni non
opportuno confessargli di chi lei fosse la Rinnegata.
L’avrebbe capito da sé, ci scommettevo. Dopo quel momento tanto
buffo e terribile al tempo stesso, al situazione si
calmò un poco. Isnark e Regis, con mio sollievo, fecero pace, e,
finalmente, ci decidemmo ad andare da Nemys, quando di nuovo tornò la
relativa tranquillità. Fui contagiata subito dall’apprensione
dell’elfo dai capelli bianchi. Io quasi corsi avanti, tanta era grande
l’ansia, insieme a lui. Quasi gli altri non
riuscivano a tenere il nostro passo. Ma nessuno disse nulla, a proposito. Nessuno
commentò. Regis, guardandomi, cercò di trasmettermi calma,
sorridendo con tranquillità. Io deglutii. Non riuscivo a calmarmi.
Proprio non ce la facevo. Il mio cuore batteva forte come un tamburo. No. Non
volevo che Nemys morisse. Non l’avrei sopportato. Per niente. Finalmente,
dopo quello che parve un secolo, arrivammo nella bella
camera di Nemys, dai toni chiari che le piacevano tanto. Entrammo in punta di
pied9i. io fui l’ultima, dopo Regis. Vidi
accadere una cosa davvero strana. Con la mia amata Rinnegata, a letto,
c’era un tipo. Mi sembrava vagamente umano, anche se non riuscivo a definirlo. Era cestito con abiti strani, dalla
foggia sconosciuta, di colore molto scuro, forse nero, ed era alto, e smilzo.
Aveva degli strani, e lunghi, capelli argentei. Regis, non appena lo vide,
s’immobilizzò. Lo vidi, di spalle a lui com’ero, sobbalzare.
“Erik!”.Esclamò
lui, con una stranissima voce, evidentemente spaventata. Mi sentii
immediatamente inquieta, e mi spostai per vedere meglio. Si: Regis era
intimorito da quella creatura. Mi chiesi chi diavolo potesse
essere per metterlo così a disagio. Qualcuno di formidabile, senza
dubbio. Provai un empito di protezione verso il mio umano. Avrebbe pagato,
l’avrebbe pagata davvero cara se solo si fosse azzardato a toccarlo con
un dito. Lo strano essere si girò. Per conto mio rimasi davvero
interdetta. Scossi il capo più volte per accertarmene. Accidentaccio.
Quel tipo assomigliava a Regis, oh si che gli
assomigliava. Avrebbe potuto essere scambiato per suo
fratello. Un fratello dai lineamenti più cupi, dagli
occhi, se possibile, più foschi, dall’espressione ora un
po’ confusa, e tanto amara. Ebbi la netta impressione di vedere come
l’ombra del mio amico umano. Devo dire che quel tipo non mi piaceva
particolarmente. Non aveva fatto nulla di male, non mi aveva davvero fatto
nulla, ma io non mi fidavo. Anche se non si stava
muovendo, limitandosi a guardare Regis con un certo astio, se solo avesse fatto
del male a qualcuno l’avrei ammazzato con le mie stesse mani. Però
era strano che si trovasse lì, trattando Nemys con evidente
familiarità. Ma chi diavolo era? Cosa ci faceva da Nemys? Perché
Regis lo conosceva? Non so. A parte il suo nome, so davvero pochissimo di lui.
Non l’ho mai più visto, a parte quella giornata. Chissà chi
era. Ho l’impressione che anche il mio amico umano avesse certi scheletri
da nascondere nel suo armadio. Quei due avevano l’aria di due gatti
pronti a saltarsi addosso. Bah, maschi. Non sanno cos’è la
mediazione. Comunque, la mia Rinnegata intervenne presto, ed il tipo di nome
Erik si scostò. La vedemmo tutti. Sentii un colpo al cuore, e feci un
passo in avanti. Povera mia amica, mia sorella. Il suo volto pallido era
contorto dalla sofferenza, teso in una smorfia di puro dolore. Mi sentii sull’orlo
delle lacrime, e socchiusi gli occhi. No. Avrei voluto, tanto, correre da lei
come una bambina, consolarla, implorarla di tener duro, di non lasciarmi,
piangere, ma non potevo. Ero in pubblico. Mi sarei sfogata una volta sola.
Dovevo resistere. Avevo ancora un briciolo di orgoglio. E poi c’era
quello sconosciuto lì. Io ero la Ch’argon. Al popolo dovevo dare
l’impressione di essere forte, anche se non lo ero. Dovevo sembrare
forte. Lo dovevo per tutti. Istantanea com’era venuta, l’ondata di
pena se ne andò. La seppellii prontamente sotto altri mille pensieri.
Ecco. Era meglio. Era molto meglio. Sentii, accanto a me, Regis tirare il
fiato, e guardare la mia Rinnegata con stupore. Arrossii. Mi sa che aveva capito. La somiglianza tra noi due era molto netta. Un
po’ come quella tra lui ed il tizio. Ebbi un improvviso lampo, e lo
guardai, stupita. Poteva essere. E chi l’avrebbe mai detto. Regis, avere
un Rinnegato. Non tutti erano così puliti come sembrava. Perciò
non si era stupito più di tanto! Non mi sembrava
però così cattivo, così pauroso. Solo un po’
triste, tormentato. I suoi occhi guizzavano da una parte all’altra,
inquieti. Anche lui mi guardò, annuendo tra sé e sé,
chissà perchè. Distolsi subito lo sguardo. Mi parve quasi
indelicato fissarlo. Che strana creatura. Schiarendosi un po’ la gola,
nel silenzio teso che si era creato, Isnark presentò Regis. Ma Nemys lo
interruppe subito. Lo conosceva, attraverso me. Aveva vissuto il torneo con me.
Le sue parole fecero girare immediatamente il mio amico verso di me. Arrossi di
nuovo. Era davvero stupito. Beh. A lui doveva apparire davvero una cosa
stranissima, quella. Chissà dove si era mai visto una Rinnegata e la sua
creatrice pappa e ciccia come noi. Annuii, e poi feci un passo in avanti. Quel
gesto sembrò svegliare un po’ tutti. Isnark, Zipherias e Peter
sgattaiolarono fuori, verso la biblioteca, penso. Masato ed io, lui riluttante,
io preoccupata, ci avvicinammo a Nemys. Erik e Regis rimasero indietro. Li
guardai brevemente. Stavano guardandosi in cagnesco, ma non parlavano. Mi
fissai con Nemys. Lei cercò di sorridermi, ma le venne fuori una brutta
smorfia di dolore. Deglutii, di nuovo, cercando di ricacciare indietro le
lacrime. Guardai, implorante, Masato. Tutto quello che avrebbe potuto fare,
l’avrebbe fatto, non importava a che razza di prezzo. Non
m’importava. Lei doveva vivere. Senza le sue parole dolci, il suo sorriso
confortante…come avrei fatto? Come sarei andata avanti? Cercai di
reprimere la disperazione che minacciava di soffocarmi. Andai al capezzale
della mia Rinnegata, e le tenni la mano. Lei mi sorrise di nuovo, e mi
carezzò il dorso della mano. Sembrava molto tranquilla. Come se non
fosse in punto di morte, forse e quasi. Come se, nonostante il dolore, fosse
felice Il dottore cominciò la visita. A parte un momento di puro
stupore, dovuto allo sfoggio di uno dei tanti poteri di Nemys, un potere della
sua natura da Rinnegata che conoscevo, che le permetteva di parlare in
qualsiasi lingua, in chissà che maniera, parlando direttamente
all’anima della persona, quel momento non fece altro che aumentare la mia
disperazione, e quella di Isnark, che nel frattempo era tornato. Nemys stava
male. Per la prima volta ebbe un quadro completo di ciò che le stava
accadendo. Il dolore che la scuoteva era davvero tanto, e più di una
volta Masato si era dovuto fermare. Mi sentii disperata. Per una volta, mi
sentii vicina ad Isnark, angustiato come me. Cercai Regis con lo sguardo. Era
l’unico che mi poteva salvare, in quella situazione. Ma lui non prestava
attenzione a quello che gli capitava intorno. Stava confabulando con quel tipo
sinistro, senza smettere di guardarlo con circospezione,
attento. Davvero. Sembravano due gatti rivali,
due bestie selvagge. Davvero, quei due non si volevano molto bene. Il tipo dai
capelli d’argento se ne andò dopo poco, per fortuna. Saperlo
vicino al mio caro amico mi spaventava, soprattutto da quando
avevo visto gli occhi scuri di Regis riempirsi di apprensione nel vederlo. Dopo
un po’, Masato diede le sue amarissime conclusioni. Bisognava aspettare
ancora. Nonostante tutto il dolore, comunque lui avesse agito, Nemys avrebbe
rischiato di morire. Anzi: in ogni caso sarebbe morta. Ed allora, capii
finalmente la verità. Lei era sempre stata cosciente di questo, del
fatto che sarebbe sempre e comunque morta, e
così Isnark. Ero io l’unica stupida a sperare ancora. Da quando
aveva scoperto di essere incinta, Nemys aveva capito di avere il destino
segnato. Mi aveva tenuto tutto nascosto, di nuovo, per proteggermi, presumo. Mi
sentii malissimo. Ero troppo stanca per soffrire per quel fatto. Nemys. Morta.
Niente più coccole, niente più sorrisi. Sarei stata di nuovo,
tremendamente, sola. E stavolta, senza più ritorno. Erano morti. Tutti.
L’unica persona rimasta in grado di capirmi sarebbe svanita anche lei. Cercai
di non scoppiare in lacrime, e guardai Regis, in cerca di un appiglio. Per
fortuna c’era lui. In quel momento, mi ritrovai a sperare che non se ne
andasse, o ,quantomeno, mi portasse con lui. Sarebbe
stato bello tornare indietro e mettere tutto a posto, per poi tornare con
ricordi cambiati, e tutti vivi. Troppo bello per essere vero.Non sarei stata la ferita, la mutilata
nell’animo, la vita soffocata e spezzata in mille frammenti, che come
specchi riflettevano parti staccate di me, mille volti distorti e diversi,
senza un intero che mi desse calore e conforto. Quella volta fu davvero dura,
non piangere. Mi allontanai da tutti, deglutendo senza posa, il volto teso, in
una posa fiera. Solo Nemys e Regis parvero capire. La Rinnegata distolse il
volto, tutta presa dall’unica maniera, un sedativo forte, che, in piccole
dosi, le avrebbe placato il doloresenza farla delirare, per
aspettare che le sue condizioni fossero un po’ migliori, mentre il mio
amico, con un’espressione indecifrabile, stranamente profonda, a disagio,
piena di compassione, fece un passo involontario in avanti, guardandomi, per
poi raddrizzarsi, rimettendosi la sua maschera composta. Era meglio
così. Se solo qualcuno mi avesse toccata, avrei
cominciato a singhiozzare senza finire più.
Una volta
che Masato le ebbe dato quella sorta di sedativo, con lo stesso aggeggio
infernale con cui aveva tirato a me il sangue, ebbe inizio la lunghissima
attesa. Senza pietà, tutti fummo cacciati via dalla sua stanza,
anch’io ed Isnark, che sparì immediatamente dalla circolazione, il
volto di un uomo con mille e mille anni di tormenti alle spalle, il volto di un
uomo sul rogo. Nemys aveva bisogno di assoluto riposo. Nessuno doveva
disturbarla. Io mi premurai di non guardarla in viso. Non ce la facevo. Faceva
troppo male. Ci disperdemmo subito. Io, addolorata, disperata, corsi via in un
lampo, fermandomi solo per spiare Regis, che andava verso la biblioteca. Ma non
avevo voglia di seguirlo. Non ancora. Quella orribile notizia mi aveva
snervata, benché vi fossi preparata da tempo. Mi sentivo completamente
vuota. Era orribile non avere più speranze. Orribile. E Nemys non mi
aveva detto nulla! Aveva preferito nascondere tutto sotto un velo di menzogna!
Presa dalla rabbia, ricaccia indietro, tirando su con il naso, le lacrime che
minacciavano di uscire. Sola, di nuovo, senza possibilità di scampo.
Avevo passato un periodo brevissimo in compagnia di me stessa, una persona che
mi aveva fatto vedere quanto io in realtà in me
avessi anche del buono, che mi aveva aiutata a camminare sui miei piedi, che mi
aveva consolata quando ero triste, sgridata quando facevo una stupidaggine. Ed
ora mi lasciava, con un ennesimo marmocchio da curare, ed altri ricordi
agrodolci. Ed io non potevo nemmeno essere arrabbiata con lei. Non ora. Non
ora, che era l’ultimo giorno in cui l’avrei vista da viva. Nessuno
mi avrebbe più capita da uno sguardo. Nessuno. Amarto ormai era troppo
vecchio. I miei amici erano morti, o lontani. C’era solo Regis. Si:
dovevo, in ogni caso, andarmene con lui, o convincerlo a rimanere con me. Era
l’unica mia ancora a quello che ero stata. Senza di lui, sarei andata
alla deriva, vegetando per servire gli altri. Persa nei miei pensieri,
raggiunsi le camere di Dae, e del mio pulcino. Il mio piccolo Machin. Era
l’ora della pappa, quella. La nutrice aveva sicuramente bisogno di me,
nel tiro a bersaglio che era divenuto dare da mangiare alla peste. Mi diedi
un’apparenza allegra: ero divenuta brava, con le maschere. Pensai che
andare con Regis era necessario anche per il piccolo.
Sarei tornata indietro nel tempo anche per lui. Quando sarei tornata, lui non
sarebbe più stato orfano. Sarebbe cresciuto con i suoi genitori, e
magari un nugolo di fratellini. Una vita molto più
felice di quella che si prospettava con me. Sorrisi lievemente, un po’
rasserenata, fiduciosa di poter cambiare tutto, ed entrai. Nel piccolo
salottino, seduti su due poltrone, c’erano Dae ed Amarto, che erano
divenuti buoni amici, che osservavano, o almeno la nutrice osservava, la figurabionda del piccolo
Machin, seduto sul tappeto di lana a terra. “buongiorno…”.
Dissi, entrando. Tutti e tre alzarono la testa. I due vecchi sorrisero, e mi
fecero un cenno. Dei. Mio nipote aveva anche lo stesso atteggiamento di Tijorn,
regale, un po’ rapace. Alzava la testa come lui. Sul volto, però,
gli si disegnò un sorriso sdentato e sghembo che era tutto sua madre.
M’indicò, imperioso, mettendosi a sedere. Nella manina paffuta
stringeva un giocattolo che gli avevo regalato io, un coniglio morbido, di
stoffa imbottita e resistente, che lui si divertiva a mordicchiare. Era tutto
intriso di bava. Sentii un lieve moto di disgusto. Bleah. “La!”. Urlò lui, tutto
contento, scalciando con quei deliziosi pedini, e guardandomi con quegli occhi
che erano uguali a quelli del padre, stessa profondità. Mi sentii
invadere da un mesto buonumore. Almeno, c’era qualcuno che era contento
di vedermi. Sorrisi. “ciao, piccolo marmocchio…”. Dissi,
cercando di non mostrare il mio dolore profondo, abbassandomi e prendendo mio
nipote in braccio. Stava diventando bello pesante. Ma era meraviglioso, con
quella pelle di panna e rosa,quei capelli dal misterioso colore
aranciato, tutto paffuto. “come stiamo, eh? Come sta il mio
tesoro?”. Bah. A volte mi stupivo della mia vocina idiota. Però
era gratificante vedere Machin che, senza avermi capito, si accoccolava contro
di me, ripetendo una salva di lalala continui,
fermandosi solo per prendere fiato, sgambettando allegramente, pieno di vita.
Era bello, vedere quell’innocenza estrema. Non avrei mai, mai permesso
che lui fosse sporcato dalla stessa ombra in cui io avevo sguazzato. Mai.
Chiunque avesse voluto fargli del male, sarebbe dovuto
prima passare sul mio cadavere. Anzi, sulle mie ceneri, perché nemmeno
da morta mi sarei arresa all’eventualità di perdere Machin. No.
Scambiai un paio di vivaci parole con Dae e Amarto. Nessuno dei due, pur
guardandomi con dolcezza, mi fece domande su Nemys. Conoscevano
l’entità della mia pena. Giocai un po’ con Machin, tenendolo
stretto e solleticandogli la pancia, facendolo ridere in ogni modo a me
conosciuto. Quelle risate a squarciagola, così infantili ed innocenti,
riuscirono a mettermi un po’ di buonumore. Venne così l’ora
della pappa, la minacciosa ora della pappa. Tenendo stretto il mio guizzante
nipotino, pieno di vita come si addiceva ad un infante della sua età,
andammo di là tutti e tre, per farlo mangiare. Era una parte un
po’ difficile della giornata: Machin non aveva ancora capito che quella
roba tritata che gli davamo non era un gioco. Era lungo e spossante,
costringerlo ad aprire la bocca. Che poi il piccolo già sembrava dotato
dell’umorismo perverso della madre, era cosa risaputa. Ero stata colpita
a tradimento più di una volta dal cibo che lui mi aveva sputato in
faccia, quando credevo che avesse inghiottito il boccone, oppure ero stata
presa per i capelli da un bambino ridente,e quasi
portata con la faccia nella ciotola, lacrimando dal dolore. Stare con Machin
era bellissimo, ma sfiancava. Era inutile rimproverarlo, dirgli di smetterla.
Lui lo faceva solo per vederti con la faccia piena di orribile sbobba dal
colore incerto. Amarto diceva sempre che Tijorn era come lui, da piccolo, solo
un po’ più calmo. Sembrava aver ereditato la natura esagitata di
Akita. Quella volta non fu da meno. Fui costretta, una volta averlo messo a
nanna, cosa che fece docilmente, addormentandosi senza problemi, a tornare
nella mia camera, per cambiarmi con un altro abito, sempre del mio solito
viola, un po’ più pesante perché faceva freddo. Quando mi
allontanai da mio nipote, il buonumore che avevo avuto svanì come neve
al sole, si sciolse. Sentii di nuovo affiorare il panico, il
dolore terribile di essere sola, la curiosità, il desiderio di
tornare indietro. Volevo Regis. Volevo stare un po’ con lui. Vederlo,
almeno, anche senza parlargli. Non appena fui un po’ più
presentabile quella fu la prima cosa che feci. Sgattaiolai come un topolino,
silenziosa, in biblioteca. Almeno vederlo. Almeno vedere il suo viso delicato,
vederlo aggrottare le sopracciglia quand’era nervoso, e tanti altri
piccoli gesti a me divenuti familiari. Almeno ricevere il conforto di un viso
amico. E poi volevo vedere a che punto fosse della sua
ricerca. Comunque fosse andata, sarei stata con lui, sempre. La cosa non poteva
farmi che piacere. Oh, d’accordo. Non mi era indifferente. Ero molto
affezionata a lui, fin troppo. Quell’umano mi attirava in un modo che non
avrei mai creduto possibile. Era come una calamita. Impossibile resistervi.
Accidenti. Mi morsi il labbro per non imprecare, mentre salivo a passi svelti
le scale della biblioteca, agile e silenziosa come solo una Spia sa fare. Sfruttando le ombre, passai inosservata al vecchio
Yufrek, il vecchio barbuto e quasi cieco che era il bibliotecario, e che aveva
preso a benvolermi, e salii su, dove sentivo delle parole. Passando, non vista,
di banco in banco, di schiera in schiera di libri, arrivai su una scrivania
ingombra poco distante da loro. Eccolo lì. Lui, e Peter, il biondino,
che cercava di parlare con il giovanissimo assistente del bibliotecario, ancora
un infante, cercando di imparare i rudimenti della nostra lingua. Regis invece
studiava, in un silenzio quasi religioso. Mi accoccolai tra i libri, il naso in
un enorme volume aperto, nascosta dalle ombre. Si era immerso nella traduzione
del libro, ed era molto impegnato. I capelli scuri, già più
lunghi dell’ultima volta che lo avevo visto al Lazzaretto, gli coprivano
il volto con un’ombra. Di tanto in tanto mormorava qualcosa tra sé
e sé, e poi passava avanti, sfogliando le pagine con attenzione da studioso.
A differenza del tipo a lui vicino, facilmente riconoscibile per umano, che mi sembrava tanto un bambino, ai miei occhi, lui sembrava,
ancora una volta, vecchio di secoli. Provai l’irresistibile tentazione di
mostrarmi. Volevo stargli vicino, sentire il calore della sua compagnia. Volevo
guardarlo bene in volto, sorridergli, dimenticare per un attimo di essere
un’orribile elfa sfregiata, per tornare ad essere Lsyn. Mi trattenni
giusto in tempo. Stava lavorando. Non era giusto che lo distraessi. Rimasi per
un tempo infinito a guardarlo, nell’animo un sentimento misto a timore e
attrazione. Per i canoni umani era bello, altroché. Anche per i canoni
degli elfi. Era abbastanza delicato per piacere un po’ a tutte. Poteva davvero
rivaleggiare con Chekaril. Arrossii, per la terza volta in una giornata, e mi
morsi il labbro. Ora capivo benissimo perché esistessero i
mezz’elfi. Prima di quel momento, mi ero sempre chiesta come umani ed
elfi potessero amarsi. Oh. Era possibile? Era davvero possibile per due razze
così diverse, ma così uguali? Era possibile, per me, essere
attratta da lui? Troppo complesso. Lui meritava di meglio, di meglio di me. E,
dopo Chekaril, non volevo più essere presa in giro. Non più.
Digrignai i denti, e, silenziosamente, mi alzai, distogliendo lo sguardo, con
grande fatica. Era come se fossi calamitata da lui. Avvicinarmi, lasciarmi
stringere, lasciare che lui mi baciasse. No. Non dovevo pensarlo. Io ero
brutta. Orribile. Mostruosa. Quel sentimento sicuramente non era corrisposto.
Cosa aveva da guadagnarci, lui, ad amarmi? Probabilmente mi considerava
un’amica, una buona amica, nulla più. Scappai via da quel luogo,
con un groppo in gola. Non era assolutamente il momento di pensare a certe
cose. Nemys stava morendo. Stava morendo. Fuggii nel chiostro del tempio, un
luogo a quell’ora deserto, perché mi dovevo sfogare. Piansi come
non facevo da mesi. Così orribile, così orribile la sconfitta. E
non potevo farci nulla, nulla, come sempre. Sarei tornata indietro per salvare
i miei cari. Ma nulla mi avrebbe dato l’amore di chi amavo.
Ero ormai
calmissima, ed ero rientrata, di sera, piena di uno strano senso di accettazione quando Zipherias mi venne a chiamare. Nemys
aveva bisogno di me, a quanto pareva. Ansiosa, lo seguii. Non ci scambiammo una
parola. Entrambi eravamo troppo, troppo nervosi, e il mio amico sembrava ancora
avercela con me. Entrai nella camera sua in un lampo. Cosa mi voleva dire?
Scuse? Consolazioni? Intimazioni ad essere forte? Ero curiosa, e tanto tesa. Un segreto?. Eravamo
sole. Lei era circondata da quelle strane scatole che Masato aveva portato, le
scatole luccicanti, che chissà a cosa servivano, e mi stava guardando.
Di fianco a lei, al letto, c’era il suo enorme specchio. Chissà
chi gliel’aveva messo lì. E chissà a cosa serviva. Di certo
lei non aveva una bella cera. Era pallida e dolorante, dal viso tanto severo. Il
motivo di quella chiamata mi fu chiaro ben presto. Un rimprovero. Lei non
volava dirmi belle parole d’addio, non voleva confortarmi. Solo
sgridarmi. E tutto quello, perché? Perché avevo detto a Regis
delle cose sulla storia che non dovevo dirgli. Assurdo, davvero assurdo. Mi
sentii minuscola al suo cospetto, e di nuovo fui sul punto di piangere. Eccomi
trattata come la servetta, una bambina. Non ero niente di diverso. Non capii
nulla del suo discorso, troppo contorto per le mie conoscenze. Parlò del
fatto che, la conoscenza del futuro di Regis avrebbe potuto influire su quel
presente, ed altre stranissime parole, troppo difficili per comprenderle, per
me, che avevo, tutto sommato, una preparazione degna di quel mondo,
ma inadeguata per quelle strane situazioni. Mi chiesi come conoscesse
tutti quei termini strani. Poi lei si ammorbidì, e mi chiese di venire
vicino a lei. Abbassai lo sguardo, senza riuscire ad incontrare il suo. “Lsyn…c’è
per caso qualcosa che t’inquieta?”. Mi chiese, indagatrice e dolce.
Mi sentii a disagio, come trafitta da mille aghi. Accidenti. Volevo tornare
indietro nel tempo, riparare a tutti i miei errori. Amavo la persona più
proibita al mondo. Mi sentivo male, perché ero trattata da serva, sempre
e sempre. Con la scusa di proteggermi mi usavano. Eppure, quella domanda di
Nemys mi prese in contropiede. “come?”. Dissi, interdetta,
guardandola finalmente negli occhi. Lei sorrise dolcemente, un sorriso normale,
come se non stesse morendo, come se quello fosse tutto un sogno. “lo sai
che con me puoi parlare”. Bisbigliò, tornata l’elfa complice
di sempre, la mia confidente, che mi aveva vista piangere, disperarmi, a lutto, allegra. Mi sentii a disagio, e mi agitai, torcendomi
le mani. Mi premeva dirle troppe cose. Troppe. E lei capì. Lei capì
tutto. Fu molto dolce, con me. Lei sapeva quanto e quale fosse
il mio turbamento. Ma nulla poteva porvi rimedio. Non potevo tornare indietro nel
tempo, la cosa era semplice. Avevo fatto una scelta, e quella sarebbe stata,
per sempre. Se solo ci avessi provato, sarei morta, persa per sempre nelle
pieghe immense del tempo, eterna viandante. Tijorn sarebbe rimasto nella tomba,
e così gli altri. Non potevo cambiare nulla. Regis sarebbe andato via,
senza di me. Mi sentii avvolgere da un incredibile senso di disperata sconfitta,
e, di nuovo, mi assalì lo strazio. Avevo fallito in tutto, nella mia
vita. In tutto. Non ero riuscita a proteggere chi amavo. Avevo perso ogni cosa.
Ero sola, del tutto sola. La tristezza che mi
assalì fu tanta, così tanta, così straziante, che non
resistetti più. Tutto il dolore che avevo dentro esplose, tutto il senso
d’inutilità. E scoppiai a piangere, lì, aggrappata
disperatamente a Nemys, come una naufraga, sperando che almeno lei non mi
lasciasse. Non l’avrei sopportato. Ne sarei morta. Lei, carezzandomii capelli,
roccia al mio dolore come sempre, giurò che, in un modo o nell’altro,
mi avrebbe accompagnata sempre, perché io ero in lei, e lei era in me. Noi
eravamo una sola cosa. Non so perché, ma mi sentii lievemente
rinfrancata da quelle parole. Era bello pensare che almeno lei, pur non
sentendola fisicamente, non mi avrebbe mai e poi mai
lasciato. Insieme, fino alla mia fine, fino alla tomba. Così, con quel
pensiero, riuscii di nuovo a dominarmi. Avevo una voglia matta di stare un po’
da sola. Avevo bisogno di riflettere. Tuttavia, fui riluttante ad andare via,
quando Zipherias mi cacciò letteralmente fuori. Forse quella era l’ultima
volta che vedevo la mia Rinnegata viva, che le parlavo. Uscii fuori
così, persa nella mia mestizia, triste oltre ogni dire. E fui colta di
sorpresa. Erik, quel giovane dai capelli d’argento, doveva aver
origliato. M’interpellò, asserendo che Nemys aveva ragione. Alla confusione
ed al timore per una persona così strana, che davvero metteva in
soggezione, si sostituì il fastidio. Ma chi era? Come si permetteva di
parlarmi in quel modo? Lui non sembrò avvedersi del mio fastidio, anzi. Continuò
a parlarmi. E spesso ho usato alcune delle sue parole come appiglio
per i momenti difficili. Non ricordo proprio tutto quello che mi disse. Erano belle
parole, piene di immenso dolore, di quella persona così intimidatoria,
ma così piena di una sorta d’intrinseca bontà, senza
eroismo, senza boria, ma con umiltà e tanto dolore. Non so perché,
ma lo sentivo vicino, tanto vicino. Mi ero simpatico, così, a pelle. Era
uno strano animaletto. Era strano che Regis lo temesse così. Di tutti i
suoi consigli, lo ammetto, uno solo mi rimase impresso, ed a quello obbedii. Con
quell’aria saggia ed infantile al tempo stesso, confusa e decisa, lui mi
disse parole preziose, che qui riporto testualmente, perché così
mi rimasero impresse.
“Scrivi.C’è un
limite alla quantità di dolore e di sofferenza che la mente può
sopportare; i vecchi dolori fanno posto ai nuovi, ma anche se la mente non li
ricorda essi restano lì, nel cuore, e non smettono di fare male;
esternarli in qualche modo, magari imprimendoli sulla carta, è
l’unica cosa che può farli uscire allo scoperto.Sarà un’esperienza
difficile, molto dolorosa, perché ti costringerà a confrontarti
una volta per tutte col peso del tuo passato, ma una volta che sarai giunta
alla fine avrai tratto da esso tutti gli insegnamenti
necessari ad andare avanti, e allora potrai anche lasciartelo alle spalle.”
Sono grata
ad Erik per ciò che disse. Sono parole preziosa,
parole d’oro, un faro nella tempesta. Ed ora più che mai posso
dargli ragione. Ma tirerò le somme più avanti. Devo solo dire
che, tra tutte le persone incontrate in quel giorno convulso, quel ragazzo, che
tanto sospettavo fosse il Rinnegato di Regis, lui più di tutti mi
donò un insegnamento. Speranza, senza illusione. Forza, pura e dura,
decisa e piena di fuoco. Quello che mi aiuta ad andare avanti, quelle parole. Quello
che mi ossessiona. Lasciai quel tipo con uno strano senso di calore. Era inquietante,
era sinistro, però mi era simpatico. Sentivo che avevamo tanto in
comune, lui ed io. Non l’ho mai più visto. È un gran
peccato. Vorrei parlargli ancora, ringraziarlo, dire che aveva
ragione. Ma non posso. Non so dove sia. Tuttavia lo devo ringraziare, se andai
nelle mie stanze con più tranquillità. Riuscii a dominare il
pianto, ancora per un po’. Sospirai. Nulla stava andando come previsto. Nulla
andava mai come previsto. Disgrazie, come sempre. Questo mi aspettava, nel mio
cammino. Avrei dovuto abituarci. Ma ora non potevo fare nient’altro che
aspettare. Aspettare, ed aspettare, che la clessidra smettesse il suo
stillicidio, che anche Nemys mi lasciasse, che Regis se ne andasse, senza
sapere quanto io avessi cominciato a guardarlo con occhi diversi dall’amicizia,
che forse non era proprio un male, che tutti della vecchia brigata se ne
andassero, lasciando la mia anima ulcerata, piena di tristezza. Sola. Tutto ciò
che potevo fare, era solo sperare. Sperare di proteggere chi sarebbe venuto. Non
appena arrivai nella mia stanza, buia, mi andai a sedere sul balcone, guardando
le montagne alte. E così, il vento, il vento freddo del nord, il Respiro
di Drago, cominciò a soffiare, portando via ogni impurità. E le
mie lacrime si mischiarono al morso del primo, limpido gelo, di quella notte
senza nuvole.
*nome strettamente autobiografico. Nina era la baia testarda su cui
facevo equitazione o__o fino a quel momento non sapevo che anche i cavalli
avessero i tic nervosi. Davvero. Era una cavalla frustrata, quella! O__O
Capitolo 90 *** Ai confini dell'irrealtà-Ci eravamo sentiti dei. ***
Oltre al solito disclaimer, vorrei farvi partecipi di una piccola,
minuscola poesia, di Edgar Lee Masters e la sua magnifica “Antologia di
Spoon River”, che mi ha ispirato grande parte di questo capitolo, che
dedico tutto a Carlos Olivera, che saluto, ed
Oltre al solito disclaimer, vorrei farvi partecipi di una piccola,
minuscola poesia, di EdgarLeeMasters e la sua magnifica “Antologia di SpoonRiver”, che mi ha
ispirato grande parte di questo capitolo, che dedico tutto a Carlos Olivera,
che saluto, ed a cui auguro ancora in bocca al lupo xD
Un saluto a tutti, miei lettori fedelissimi e meno fedeli J
Akita
FaithMatherny
Al principio non riuscirai a capire cosa significano,
e forse non lo capirai mai,
e forse non te lo dirò mai: -
questi bagliori improvvisi nell’anima,
come fulmini guizzanti su nubi di neve
a mezzanotte quando la luna è
piena.
Arrivano nella solitudine, o forse
Mentre siedi con un amico e all’improvviso
Cade il silenzio nel discorso e i suoi occhi
Senza batter ciglio ardono verso di te:-
Voi due avete visto insieme il segreto,
lui lo vede in te e tu in lui.
E state lì seduti, impauriti che il Mistero
Sorga davanti a voi e vi colpisca a morte
Con uno splendore simile a quello del sole.
Abbiate coraggio, voi anime che tutte avete simili visioni!
Come il vostro corpo è vivo e il mio
è morto
Voi state afferrando un minuscolo soffio dell’etere
Riservato proprio a Dio.
EdgarLeeMasters.
Per chi abbia
lettoMillennium War-Rebirth, questo e
gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni.
Niente paura, non si tratta di plagio! È
solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos
Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di tempo, con
il consenso di entrambi! xD
Dunque, molte delle situazioni, la
maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la
prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia
“indipendenza letteraria” (xD)-), e,
soprattutto, il personaggio di Regis
appartengono all’anzidetto Carlos Olivera,
ed alla sua opera xD
Come
ormai tante persone sicuramente stavano facendo, anch’io aspettai,
immersa nel buio del balcone. L’unica luce che proveniva dalla mia stanza
da letto, le lampade ad olio che la sera tenevo sempre accese, bastava a
rischiarare quanto bastava per non farmi finire gambe all’aria se avessi voluto raggiungere il letto, rientrare dentro. Per la
stessa spinta del forte vento freddo, un’anta della grande porta a vetro
che collegava la stanza da letto, l’ingresso del mio piccolo appartamento
privato, si era spalancata, ed aveva messo in disordine la pila di carte che
avevo vicino al camino, che frusciavano e danzavano, sparse dappertutto sul
pavimento, gonfiando la pesante tenda scura come un grosso e sinistro fantasma,
che si muoveva come fosse vivo. Non me n’ero curata. Non importava, con
una notte così bella e limpida, l’ultima notte di Nemys sulla
terra, non m’importavano quelle futili faccende terrene. Il dolore a quel
pensiero era davvero troppo. Fino a quel momento avevo creduto di essere
davvero sola, ma solo in quel momento capivo davvero cosa fosse
la solitudine. Non ci sarebbe stato più nessuno in grado di capirmi
davvero, a non avermi visto prima dell’incidente. La mia vita era stata
spezzata a metà da quell’orribile accadimento, spezzata a
metà com’era il mio corpo. E da una parte c’era il Passato,
liscio e bello, perfetto, dai colori tenui, una morbida e calda pianura.
Dall’altra il Presente, devastato, un intrico di orribile asprezza,
deformante come uno specchio rotto, pauroso, le irte montagne che un tempo
avevo scalato, quelle bellissime, maestose montagne, che mi stavano davanti,
coperte di boschi e neve. E da una parte c’era stata Lsyn, la Nanetta di
Tijorn, il piccolo ragnetto di Amarto, dolci ricordi con cui consolarsi nelle
notti insonni. Dall’altra non c’era più nessuno. Nulla.
Nulla e buio, come in quella notte. E su quello mi ero concentrata per
scacciare la malinconia, sul silenzio fischiante e desolato, sul paesaggio che
quella collina, di cui il castello costituiva la sommità, da cui vedevo
tutta la mia adorata Kyradon, scintillante come un cumulo di neve perenne, la
pianura, e poi le aspre montagne su cui vivevano serenamente i miei fieri amici
alati. Un girono li avrei raggiunti. Li avrei
raggiunti, ed avrei raccontato a Kyrre di essere divenuta una persona migliore.
Sospirai, triste. Non ero l’unica a vegliare, ad attendere una fine
inevitabile. Tantissime luci, nelle belle case dei ricchi, o nelle
umili capanne dei più poveri, o addirittura negli alloggi dei
pellegrini, erano accese, tante piccole e luminose gemme di speranza. Sentivo,
di tanto in tanto, canti, o cori di preghiere, chiaramente pieni di speranza,
giungere fino a me, frammenti che rendevano più desolante l’attesa.
Il popolo aspettava come me. Ma c’era una
differenza. Il mio era il solo, straziante lamento funebre che si levava al
cielo. Nemys era amata, ma ancora di più lo sarebbe stato suo figlio.
Avrei preferito una morte subitanea a quella lunga agonia. Se solo fosse
successo così anche con Tijorn ed Akita, allora non avrei resistito. Da
un lato, era stato meglio così. Non sopportavo quell’attesa,
quella tortura prolungata. Da un lato però, speravo che il mio nipotino
si facesse attendere ancora un altro po’. Ora che dovevo
aspettare, non ero pronta a lasciare la mia dolce Rinnegata. Non ancora. Volevo
un altro po’ di pace. Sospirai ancora, il vento delle orecchie, che
gemeva per me. Mi alzai: le gambe mi si stavano intorpidendo. Mi appoggiai
così alla balaustra, in piedi, guardando ancora la città. Invidiai
le persone che, in quel momento, erano riunite, lì, con la loro
famiglia, al caldo, piene di speranza fino all’orlo, trepidanti, pregando
con fervore. Pregare. Avrei voluto avere io, in quel momento, qualcosa a cui aggrapparmi. Di solito tendevo a considerare la
religione come uno stupido ammasso dicredenze, superstizioni che
avevano lo stesso valore dell’oppio per un drogato,ma quella volta rimpiansi seriamente di
non avere un dio a cui credere. Mi sentivo davvero persa, sola, piccola come
una formica, lì, schiacciata dalle imponenti montagne e da quella notte
limpida e fredda. Si: mi sarebbe piaciuto pregare per qualcosa, ma non potevo.
Non sapevo in chi e cosa sperare. Qualcosa in me rifuggiva quell’atto di
contrizione. Mi sarei sentita legata a qualcosa di cui non avevo fatto parte:
sarebbe stato come un insulto per quelle persone che da sempre credevano in
qualcosa. E così ero condannata dalla mia stessa intelligenza ad una
solitudine non so quanto bella. Provai per un attimo ad immaginare come sarebbe
stata la mia vita se non fossi stata una Spia, magari Laila, la fornaia. Una
famiglia, una famiglia di sangue, la cosa che decisamente mi mancava meno. Una
vita tranquilla, da analfabeta o quasi tale, punteggiata dal lavoro e dalla
religione. Una vita modesta, senza chiedermi nulla, senza soffrire. Un marito,
che forse avrei amato, dei figli. Un viso sano. Le leggende avrebbero camminato
lungi da me, ed io avrei continuato la mia esistenza candida, in un piccolo,
ottuso paese. E poi mi oscurai. La guerra. la fame. La
morte. Tutto quello mi avrebbe perseguitato anche lì. E forse il mio
destino sarebbe stato lo stesso. Al caso predefinito non si poteva fuggire.
Ciò implicitamente già scritto per me sarebbe accaduto comunque,
tutte le disgrazie, quali sarebbero state le mie decisioni. Quello sarebbe
stato, e basta. Quel vento freddo, che scendeva dalle montagne e sapeva quasi
di neve, che puliva il cielo dell’afa estiva, rendendo e stelle
più che mai brillanti, diamanti su un mare di velluto, mi s’insinuò
nei vestiti, scompigliandomi i capelli, che erano ancora in quella coda
scombinata in cui li avevo legati quella mattina, togliendomi il cappuccio che
avevo alzato per riparami dal freddo autunnale.
Rabbrividii, e mi strinsi al metallo freddo della balaustra, in cerca di un
impossibile calore. Mi sembrava di buon augurio per Nemys, quel vento, e nello
stesso tempo un tragico avvertimento. Ricordavo una vecchia leggenda che Amarto
mi aveva raccontato da piccola, quando io, lui e Tijorn eravamo stretti intorno
al braciere in giornate come quelle, mangiando noci e nocciole. Quel vento era
chiamato Respiro di Drago perché rappresentava il soffio gelido di
questi ultimi, dei bianchi draghi alati del Nord, le creature più vicine
in assoluto alla perfezione divina. Con il loro soffio essi salutavano la morte
di una persona desinata a legarsi in qualche modo ai loro
ranghi, a divenire bella come loro. Da allora, ogni volta che il vento
cantava, io scappavo fuori, naso in su, come nella
speranza di vedere il nuovo Bianco librarsi in cielo. Era davvero una strana
credenza, di cui avevo trovato tracce in antichi tomi della Biblioteca sia di
Kyradon che del Quartier Generale, che affondava le sue radici nella notte dei
tempi. Cominciai a viaggiare con l’immaginazione. Chissà come
sarebbe stata, Nemys, come drago, se ancora ci avesse ricordati, oppure se si
ritirasse, come i suoi simili, nelle candide e lucenti caverne di diamante dove
la leggenda tramandava abitassero i draghi bianchi,
per uscire a caccia nelle notti di luna piena, immemore e piena di nuova
saggezza. Bella, sicuramente, degna ancora di maggior rispetto. Finalmente un
essere vivente, non più legato alla sua essenza, un essere perfetto,
degno di essere venerato come un dio. Ma scacciai in fretta quelle
fantasticherie, dolente. I draghi non esistevano. Quella era solo una mera
leggenda. Nemys sarebbe morte, e la sua essenza si sarebbe dispersa
nell’etere. Non mi avrebbe più parlato. Non mi avrebbe più
confortato. Avrei dovuto trovare la forza, da sola, per andare avanti. Una forza
che sapevo di non avere. Chiusi gli occhi, stringendo i pugni. Non ce l’avrei fatta. Non ci sarei riuscita mai. Fui
assalita dalla smania. Basta. Non potevo più stare lì, fuori, con
il rischio di prendermi di nuovo un bel febbrone da cavallo, ridotta a letto
proprio in un momento poco opportuno. Sospirai ancora, e feci per girarmi.
Avrei dormito un po’. Quasi nello stesso momento, cogliendomi di
sorpresa, e facendomi sobbalzare, la porta d’ingresso della mia camera si
aprì, cigolando. Mi misi immediatamente in posizione di guardia. Chi
accidenti era che entrava in quel modo barbaro senza bussare? Stava succedendo
qualcosa? Alla preoccupazione si sostituì la sorpresa, quando vidi
spuntare dallo spiraglio aperto il volto esitante di Regis, che si guardava attorno,
lievemente spaesato. Quando mi vide impietrì, sorpreso. Restituii il suo
sguardo, interdetta. Accidenti, proprio non ci voleva. Non lui, e soprattutto
non ora. Non doveva vedermi così. Il giovane mi sembrò lievemente
imbarazzato. Sfido io, doveva essersi sicuramente perso. Cercai di sorridergli,
ma non ero in vena. Quello ce mi uscì fu una smorfia desolata. Lui,
stranamente sereno, anche se un po’ a disagio, fece per ritirarsi.
“scusa, Lsyn”. Disse, guardandomi. Mi sarebbe piaciuto stare un
po’ con lui. Avevo come l’impressione che quella sarebbe stata
l’ultima volta che gli avrei potuto parlare. E volevo farlo, accidenti,
volevo godere un po’ della sua attraente compagnia. Mi piaceva tanto
parlare con lui. Aveva idee così interessanti. Mi mancava un po’
il coraggio, però. Era un invito che si prestava a molteplici
interpretazioni. Lottai per non arrossire di nuovo. Decisamente ero fuori di
testa.“devo aver sbagliato camera…ti lascio sola”. Sobbalzai.
No! Non volevo se ne andasse. Volevo stare un po’ con lui. Lui era l’unica persone che mi capisse davvero, in quel
momento. feci un passo in avanti, prima che lui
potesse sparire per sempre dalla mia vita. “no, aspetta!”.
Esclamai, forse con troppa veemenza. Lui mi fissò negli occhi, sorpreso.
Ma almeno smise di andare via. Proseguii con voce più calma, venata di
casualità. “resta un po’ con me.
Non voglio rimanere sola. Non stanotte”. Mi mordicchiai il labbro
inferiore, mentre attendevo, in quel breve istante, la risposta. Ero cercata di
sembrare il più innocente possibile, ma vedevo la lieve sorpresa,
l’esitazione sul volto dell’uomo. Beh, io di certo non mordevo,
né l’avrei assalito. Volevo solo un po’ di conforto, tutto
qui. Regis era il solo che mi conoscesse anche da
prima. E poi lo volevo accanto. Mi era proibito, era un frutto ancora
più proibito di Chekaril da cogliere, per la sua stessa razza, ma non
avrei rinunciato per niente al mondo a qualche oradi innocenti chiacchiere. Anche
solo guardarlo, spiarlo di nascosto, spiare di nascosto la linea delicata del
suo profilo, i suoi occhi scuri che mi guardavano con cordialità neutra,
quella zazzera che a malapena gli arrivava alla nuca, dove era tagliata bene,
s’intende. Era bello parlare con lui, mi piaceva. M’irritava
vedermi così fraintesa. Non volevo fare nulla. Non covavo cattive
intenzioni. Ero troppo triste, troppo giù di morale, per pensare cose
del genere. Probabilmente Regis dovette pensare che non c’erano molti problemi, con me, io non ero moralmente e
socialmente pericolosa, o che davvero avevo bisogno di essere confortata un
po’, e così, entrò, richiudendosi attentamente, senza fare
rumore, la porta dietro di sé, e raggiungendomi in punta di piedi sulla
balaustra, guardando, preoccupato, il caos che aleggiava nella camera da letto.
Sorrisi stancamente, e mi girai di nuovo, per appoggiarmi alla balaustra. Lui
mi raggiunse dopo poco. Ecco. Era bello così. In silenzio, due anime
sole, ad osservare il paesaggio, dicendo però tante cose, nella nostra
mente, parlando con i soli gesti. Lui si era rilassato, era tranquillo. Io no.
La sua vicinanza mi stava lievemente mandando in confusione. Ecco…forse
non era stata un’ottima idea quella di invitarlo dentro. Davvero la
tentazione di saltargli addosso si stava facendo troppo forte. Accidenti, e lui
era così tranquillo! Arrischiai un’occhiata dalla sua parte. Stava
guardando le montagne, perso in chissà che pensieri. Lo invidiai. Lui
non stava per perdere nessuno. Per lui, Nemys era un nome. No: decisamente non
era il momento giusto per quei pensieri. Nemys, stava morendo, mi stava
lasciando per sempre. In quella quiete, mi sentii di nuovo prendere dalla
smania. Battei i piedi in terra, inquieta, per liberarmi dal freddo che
sentivo. Cominciai a canticchiare sommessamente. Non sopportavo quel silenzio. Avevo
preso a non sopportarlo più. Dovevo fare assolutamente qualcosa, o
davvero avrei cominciato a singhiozzare, per non smetterla. Non mi sarei
calmata per niente al mondo. Solo quella canzoncina
aveva il potere di calmarmi. Era come se fosse parte di me. Guardai apertamente
Regis, sentendolo sobbalzare come se fosse stato morso da un serpente.
Chissà perché mi guardò con una faccia strana, battendo
per un paio di volte gli occhi, come se mi vedesse per la prima volta. Con il
pretesto della mia canzoncina stupida, prendemmo finalmente a chiacchierare,
vuote e vane parole, che non avevano quasi senso, per me. Sentivo la freddezza
di lui, o meglio, l’amicizia che covava dietro la sua falsamente fragile
umanità. Ben presto ricademmo in un mesto silenzio. Ero troppo
malinconica per poter ammantare di vivacità la nostra conversazione. Era
sempre stato così. Quando eravamo soli, prima o poi non riuscivamo a
trovare l’argomento di cui parlare. Entrambi troppo schivi, o troppo
fieri, troppo cauti per aprirci veramente, nonostante fossimo amici, una
bizzarra amicizia tra lupi solitari. Cominciai a rimpiangere di aver invitato
quell’umano da me. Accidenti. Il desiderio di farmi abbracciare, farmi
consolare era davvero troppo forte. No, non potevo crollare, non davanti a lui.
Era stato un enorme errore. Lui era una delle tante fonti del mio tormento.
Quello che provavo verso di lui non era classificabile. No: non ero innamorata.
Dopo quello che era successo con Chekaril non mi
sentivo pronta ad amare ancora. Né mi era amico, certamente. Non facevo
strani pensieri per un amico. Era qualcosa di strano, un’attrazione che
si mischiava a repulsione. Ben presto il silenzio diventò tombale. Un
silenzio, stranamente, pieno d’imbarazzo. Bah. Forse ero io che mi stavo
immaginando un po’ troppe cose, ma l’avevo visto guardarmi.
Percepii una strana tensione accumularsi, quella stessa tensione che più
volte mi aveva preso allo stomaco in sua compagnia.Eravamo tanto simili. Lui però
aveva da sempre quello che io non avevo mai avuto. La libertà. Il suo
destino era fatto per essere insondabile, e completamente nelle sue mani. Lo
invidiavo, tanto. Lo fissai, desolata. Strano. Anche lui mi guardava, ora
apertamente, senza imbarazzo, con quella solita aria sorniona, seria e
vagamente interessata al tempo stesso, un’espressione insondabile. Non
cercò di eludere il mio sguardo come prima. Mi osservava, attentamente,
come se stesse valutando qualcosa, come un felino tra l’erba. E cosa
stava valutando, quanto fossi orribile? Quanto dolore avessi in me? Quanto
fossi capace di essere dileggiata, con quelle orribili cicatrici che mi
rendevano l’essere più ributtante dell’universo? Sentii
crescere un minaccioso groppo alla gola. Ciò che provavo per Regis
scivolò in fondo ai miei pensieri, almeno per un breve momento. Lui se
ne sarebbe dovuto andare, via per sempre, ed anche l’ultimo amico mi
avrebbe abbandonata. Ero così schifosamente sola. Non potevo nemmeno
tornare indietro, per salvare le persone che erano morte per colpa mia. Era
impossibile, decisamene impossibile, perché avrei perso me stessa, e fatto del male anche agli altri. Non potevo
fare nulla, ed avevo perso tutto. Anche Nemys sarebbe andata via per sempre, ed
io sarei rimasta con dei bambini che non sapevo proteggere, che avevo a volte
condannato senza saperlo, bambini che non riuscivo ad amare come si meritavano.
Sarei rimasta sola in una tempesta gelida di neve, in una tormenta, senza potermi
salvare, senza poter trovare il lumicino della porta della mia casa. Un esilio
volontario mi aspettava, a Sharilar, io, che avevo vissuto serena, che un tempo
era stata felice e ricca, che ero stata bella, che avevo avuto tanti amici che
m’invidiavano. Un maledetto incidente mi aveva rovinata, aveva rovinato
quella che ero stata. Ma forse così voleva il destino. Anche lui,
quell’uomo che mi stava guardando, con cui mi stavo guardando, nero
stemperato nel nero, il mio colore di tenebra mescolato al suo, più
caldo, aveva passato i suoi dolori, però. Ne ero certa: non mi avrebbe
capita così bene, in caso contrario. Però lui era così
forte, era riuscito a superare tutto, e davanti a lui si stendeva un futuro
tanto ignoto quanto eccitante. Eravamo andati a finire in modo così
diverso, io e lui. Ebbi improvvisamente paura, un terrore tremendo, lo spavento
del buio. La prossima sera che avrei passato,
l’avrei passata in reale solitudine. A nulla mi servivano Capouille, il
timido Capouille, Zipherias e Benagi, Roxen, Amarto, Dae, eccetera
ecceteraeccetera.
Io sarei stata sola. Nemmeno Regis ci sarebbe più stato. Lui avrebbe
proseguito il suo cammino, in un altro tempo, in un altro luogo. Ed io non
l’avrei rivisto mai più. Era un dolore troppo grande per poter
essere sopportato, l’idea di perdere anche quel giovane che mi fissava,
in quel silenzio carico di religione, con quello sguardo che voleva dire tutto
e niente. Non avrei mai più potuto parlare con nessuno, mai più
sfogarmi. Perché nessuno mi capiva veramente. Non riuscii a resistere al
pianto che avanzava, che mi premeva agli angoli degli occhi, che me li faceva
bruciare. Sentii, senza poterci fare nulla, le lacrime offuscarmi la vista, e
scorrermi sulle guance. Il volto del mio amico tremolò, e poi si confuse
in un turbinio di colori accesi. Cercai di girarmi dall’altro lato, di
mordermi le labbra per non singhiozzare. Ma fu tutto inutile. L’uomo si
accorse che io stavo piangendo. Accidenti. Me lo sentii subito più
vicino. Abbassai il capo, in un tentativo di non farmi vedere. Ero troppo
pietosa. Ero in uno stato troppo orribile per stare vicino a lui. Non si
meritava di vedermi così giù. In fondo, io non conoscevo le sue
sofferenze. Le mie potevano essere solo fissazioni di un’egocentrica.
Eppure non potevo smettere di provare terrore, che mi mozzava il fiato,
martoriandomi con singhiozzi umidi. Non volevo stare sola. Non volevo. Sarebbe
stato bello, se lui fosse rimasto lì, con me, per sempre. Ma non potevo
neppure sperare quello. Lui era umano. Sarebbe morto dopo un tempo che per me
era insignificante. Non avrei mai, mai potuto averlo, né come amico,
né come compagno. Era praticamente impossibile
“Lsyn…”. Era solo un sussurro, nient’altro. Un sussurro
che solo io avrei potuto sentire, in quel silenzio, in quella
note limpida, con quella luna piena così fredda, indifferente
alle nostre sorti di mortali, che ci guardava annaspare come formiche, come
creazioni di un sapiente pazzo, che ci usava solo per suo personale
divertimento, che ci guardava affannarci dietro un obiettivo vano, raccogliendo
sassolini su sassolini di giorni tutti uguali, levigati dal tempo che li poliva
da ogni impurità. Solo un nome, il mio nome. Eppure c’era tanta
preoccupazione dentro. Tanti significati nascosti. Non riuscii più a
trattenermi. Non riuscivo più a trattenere quello strazio che conservavo
dentro da troppo tempo, ormai. Ancora a testa bassa, immersa in un mare di
lacrime, così, cominciai a parlare. “ho paura, Regis”.
Confessai, con una stranissima voce soffocata, tremando leggermente. Di nuovo,
stava arrivando quel freddo, quel freddo dell’anima che non potevo
combattere in nessun modo. Sperai che il mio amico non mi vedesse in quello
stato orribile, tremante come se avessi la febbre. Volevo cacciarlo, ma non ne
avevo la forza. Volevo solo parlare, ora. Solo sfogare il dolore che avevo compresso, nascosto in un bell’angolino della
mia essenza, in mesi ed anni di vita. La mia esistenza era stata inutile. Non
ero mai servita a nessuno. Non ero mai riuscita a proteggere nessuno. “io
non ho più nulla…ciò che avevo di più caro mi
è stato portato via, come se non fosse mai esistito. Le persone a cui volevo bene non ci sono più…”. Mi
fermai per riprendere fiato. Cercai di dominare i miei singhiozzi, ma non ci
riuscivo. Ora che avevo cominciato, le parole stavano quasi fluendo da sole,
inarrestabili come un fiume in piena. “e ora…ora anche Nemys se ne
andrà via. A cosa è servita la mia vita? Come farò ad
andare avanti, Regis? Perché il destino si sta divertendo a torturarmi
tanto?”. Cercai di tergermi le lacrime con una manica. Ma non riuscivo a
frenarmi. Ebbi una vaga impressione di un Regis pietrificato dalla stessa
compassione, dallo stesso sdegno, ma poi di nuovo non vidi più nulla.
“Cosa gli ho fatto, io? Cosa ho fatto di male per meritarmi
questo?”. Le ultime parole furono soffocate da un’ondata più
forte di pianto, ed i miei singhiozzi si trasformarono in lamenti sommessi. Non
ce la facevo più. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare, con cu
liberare quella parte di me che avevo dovuto nascondere per così tanto
tempo. Regis era il più adatto. Non c’era altra persona che mi capisse così bene, che mi volesse così bene a
disposizione. E poi ne avevo bisogno. Ma non gli potevo dire che piangevo anche
per lui, per qualcosa che non riuscivo a capire. Era proibito. L’avrei
fatto allontanare, e lui mi avrebbe detto che tra noi due nulla era possibile.
Ed era, quella, una cosa che sapevo già di mio. Io elfa, lui umano.
Troppo pericoloso per noi, a rischio di terribile sofferenza. Poi lui se ne
sarebbe dovuto andare. Non avevamo speranze. La nostra amicizia era destinata a
rimanere solo nei ricordi. Non c’era più mezzo per metterci in
contatto. Non c’era spazio per noi. Il mondo non ne aveva.
Improvvisamente, mentre ancora singhiozzavo, lo sentii vicinissimo. Sentii un
vago movimento nell’aria, lo percepii, ma non ebbi paura. Mi fidavo
ciecamente di Regis. Sentii le sue mani, mani callose, da guerriero, e tuttavia
così delicate, ansiose, posarsi sul mio viso, carezzandomi le guance,
senza temere la mia mostruosità. Quasi mi ritrassi. Ma quel contatto era
innegabilmente dolce, come miele. Mi riempì d’inaspettato calore.
Tirai su con il naso. Dovevo calmarmi. Stavo offrendo a lui uno spettacolo
indecente. “Lsyn…”. Ripeté di nuovo, dicendo il mio
nome con un’intensità nuova, colma fino all’orlo di
preoccupazione pura. Era un tono quasi urgente, e stranamente partecipe,
addolorato. Soffriva lui con me. Sentii la lieve carezza delle sue mani
diventare più salda. Stranamente, mi confortò. Era come una
roccia a cui aggrapparsi, di nuovo. Cercai di smettere
di singhiozzare, invano. Perlomeno, cominciai a piangere di meno. “Lsyn,
guardami…”. Deglutii, ed aprii gli occhi, sbattendoli più
volte per liberarli dalle lacrime che continuavano a scendere. Mi sentii un
po’ intimidita, e fui un po’ riluttante nell’obbedirgli. Non
volevo che leggesse quella piccola verità che gli tenevo nascosta,
quell’attrazione che comunque provavo per lui. Era qualcosa di troppo
segreto. Riottosa, incrociai il suo sguardo, caldo, forte, pieno di quella vita
che a me era negata. Erano occhi così belli, anche senza essere
particolari. Esprimevano tante cose, come quelli di Tijorn. Ci guardammo.
Deglutii di nuovo. Lui mi stava fissando con una strana luce negli occhi, devo
ammetterlo. C’era dolore, dolore per me, e anche qualcosa che non
riuscii, in quel momento, ad identificare. Lui teneva a me, non c’era
dubbio. Lui mi carezzò dolcemente la guancia sfregiata, con tenerezza,
togliendo le lacrime. “non puoi arrenderti, Lsyn”. Mi disse, in
tono morbido, consolatorio, una coperta in cui avvolgersi. Tirai di nuovo su
con il naso. “non sei sola, e non lo sarai mai. Ci sono persone che ti
vogliono bene, e che avranno bisogno di te ancora di più in futuro. Non
arrenderti, non ora che hai superato tante cose più brutte di
questa”. Non so perché, ma quelle parole sommesse, dette con tanta
forza, riuscirono almeno a placarmi un po’, o forse già mi stavo
calmando prima. Ed era impossibile stare male, quando lui mi coccolava in quel
modo. Difficile dirlo, confessarlo, ma mi piaceva, e molto. Lui sorrise, un
sorriso tenerissimo, e mi terse le ultime lacrime, con delicatezza. Feci per
parlare. Non so cosa volessi davvero dire. Ma lui mi
mise un dito davanti le labbra prima ancora che potessi parlare. Sentii il
battito del mio cuore accelerare. Oh, non ora. Non volevo patemi da ragazzina
sciocca, io, l’elfa adulta. Cercai di schiodare lo sguardo dal suo. Fin
troppo difficile. Ero ipnotizzata da quegli occhi scuri. Di nuovo, ci
guardammo. “il destino non esiste, Lsyn”. Mormorò, senza
cambiare tono di voce. E sembrava credere fermamente, in quello che diceva.
Sentii di appigliarmi a quelle parole in modo disperato. “il futuro ce lo costruiamo noi, solo noi, con le nostre mani”.
Bello lui, che faceva tutto così semplice. Non tutti avevano la sua
fortuna, non tutti. Il mio sorriso fu amaro, ed ancora umido di lacrime. Ero
ancora triste, fin troppo. Ma quel contatto, quelle mani che ancora mi
carezzavano, erano la cosa più bella del mondo. “come puoi
saperlo, Regis?”. Gli domandai, forse con un tono lievemente di sfida,
senza però staccare gli occhi dai suoi. Ma ormai quasi non ricordavo
più cosa stavo dicendo. Qualcosa sembrava aver cancellato tutto il
mondo, tutta l’esistenza. C’era solo lui, il suo viso. E, ad un
certo punto, capii una cosa. Fu un lampo, come uno di quei lampi sulle montagne
piene di neve, i gironi di tempesta, che illuminano
tutto il cielo scuro, un guizzo. Non aveva cambiato espressione, non aveva
minimamente battuto ciglio. Ma, ad un certo punto, mi sentii ricambiata. Vidi
lo stesso segreto che covava nei miei occhi riflettersi nei suoi. Sentii
qualcosa, una sorta di corrente, attirarci. Niente di magico, o di strano. Pura
e semplice attrazione vecchio stile. E lui sembrava incantato da me come lo ero
io da lui. Accidenti. Davvero non riuscivo più a conservare un minimo di
decenza. Lui mi rispose. Ma anche il suo fu, più che altro, un mormorio
assente. Lui guardava me, me e solo me. Qualcosa sembrava essere scattato, una
sottile alchimia, un’affinità che quasi temevo. “a suo
tempo, anch’io ho fatto un scelta che mi ha
cambiato la vita”. Mormorò, assorto. Mi resi conto, che, piano piano, ci stavamo avvicinando sempre di più. Era
qualcosa d’istintivo, d’incomprensibile. Eppure, così bello.
“e sono stato io a prenderla, senza guide o mediazioni”. La sua
voce si abbassò ancora di più, ormai un sussurro appena
intelligibile. “non esistono strade predeterminate”. Deglutii.
Eravamo a pochissima distanza, di nuovo ci stavamo sfiorando. Immaginai che
subito lui si scostasse. Invece non fu così. Anche lui sembrava stanco
delle finzioni che avevamo imbastito fino a quel momento. Deglutii. Forse era
meglio non andare così oltre. Non sarei stata capace di sopportare un
addio, se solo il nostro legame si fosse rinsaldato in quel modo. “Regis,
io…”. Mormorai, presa da un attimo di lucidità. Ma lui non
si mosse, ed io non mi scostai. Sembravamo aver imboccato una strada per noi
già prefissata. Alla faccia delle scelte, accidenti. E prima che
qualcuno di noi due potesse riprendere un briciolo di razionalità,
successe quello che non sarebbe mai dovuto accadere. Non so come, non so
perché, ma mi ritrovai a baciarlo, senza potermi controllare. Sentii il
cuore battermi all’impazzata, sentii quasi sciogliermi, mentre la ragione
andava a farsi una lunga passeggiata in luoghi lontani ed esotici. Accidenti.
Immaginai che mi stesse odiando in quel momento, e poggiai delicatamente,
ancora incatenata a lui, le mie mani sulle sue spalle, forse per staccarlo da
me, non so, anche se penso fu più che altro un riflesso istintivo. Lui
non mi permise di fare niente, e devo dire che non mi ribellai. Dolcemente, mi
cinse la vita, imprigionandomi in un abbraccio in cui mi ero consegnata
volontariamente, e mi tirò verso di lui, annullando quella labile
distanza che ci separava prima. A quel punto, decisi di mandare all’aria tutti i miei sani principi razziali, e mi
strinsi a lui con forza. Ero un’elfa, lui era un uomo, stavamo facendo
qualcosa di puramente scandaloso e riprovevole per entrambe le razze, ma me ne
fregava altamente. Era quello che desideravo, era quello che almeno apparentemente,
anche lui desiderava. Quel bacio, dapprima tutto sommato innocente, si
trasformò in qualcosa di più passionale. Capii, in un lampo,
quello che stava succedendo. E chi l’avrebbe mai detto. Eravamo stati
nemici, una volta. Ci eravamo scontrati in un duello
all’ultimo sangue, tutte le volte che ci eravamo visti. Non
riuscii a fare a meno di pensare che quello aveva a
che fare con un duello, ma d ben altro genere. Si vedeva che doveva finire
così, ecco. Alla faccia delle belle parole. E chi l’avrebbe mai detto.
Lui, così silenzioso… ah, la mia acqua cheta, che rovina i ponti.
Non era proprio un momento adatto, ma anche quella era una cosa che tutto
poteva farmi, fuorché importarmi. Avevo bisogno di lui. Per un attimo,
ci staccammo, per guardarci. Sapevo che se avessimo continuato, non avremmo
più smesso. Sapevo qual era il mio limite, e sapevo anche che lo stavamo
per superare, di molto. Ma l’occhiata ardente che ci scambiammo
bastò a fugare ogni dubbio. Di nuovo, ci baciammo, un bacio che con
quello di prima non aveva nulla a che vedere. Cominciai a trovare orribilmente
d’impaccio i vestiti che ci coprivano. Da quel momento in poi, ad agire
per me fu solo l’istinto, quell’istinto che chiunque di noi
possiede. Non riesco a capire ancora come arrivammo dentro, né chi
chiuse la finestra, forse qualcuno di noi, a tentoni, né
chi prese l’iniziativa, forse tutti e due. Ben presto i nostri abiti
andarono a far compagnia al pavimento. Passai un momento di assoluto e
profondissimo imbarazzo quando lui mi vide senza niente
addosso, l’entità dei danni da fuoco ben visibile, tutta la mia
schiena rovinata, e le altre cicatrici che il tempo mi aveva procurato. Temetti
quasi per un attimo che lui si ritraesse, guardandomi
per la prima volta senza mediazione alcuna, di abiti che potevano nascondere la
mia orripilante bruttezza. Ma lui non sembrava essersene accorto. Mi sorrise,
un sorriso che voleva dire tante cose, e poi mi baciò, dolcemente, un
bacio a cui poi se ne aggiunse un altro, poco sotto il
mio orecchio orrendamente mutilato per via del fuoco, come se le cicatrici non
esistessero. La paura, la ritrosia, scomparve d’incanto. Sentii un nodo
di fuoco all’altezza dello stomaco, e non pensai più a nulla, se
non all’uomo che mi stava regalando una nuova, inaspettata, giovinezza,
ricreando una fiducia nel mio corpo che credevo di aver perduto per sempre. Conservo
ancora di quei momenti ogni attimo, nella mia memoria, ogni carezza ed ogni
sospiro, ogni mormorio, e ciò che ci dicemmo in quelle ore, senza mai
parlare, è tra i miei ricordi più belli e strazianti, che
serberò per sempre solo per me. Ci amammo, con tutta la tenerezza che
avevamo, dimenticando per un po’ il nostro posto nel mondo, chi eravamo. Era
come una corsa, libera e felice, in una discesa, attimi di spensieratezza
impagabili, che non ritorneranno più, che mi
riempiono di dolcissima malinconia. In quei momenti fummo capaci di allontanare
da noi, una bolla di pace, fragile e bellissima, tutta la desolazione, la
tristezza, l’incertezza che covavamo dentro di noi. Dimenticare,
dimenticare tutto, affidarsi solo ai baci ed alle carezze di una persona amata,
unirsi in una notte dove dovunque c’era dolore. E quando quel fuoco che aveva arso le nostre essenze cominciò ad estinguersi,
ed il sonno ebbe la meglio, ebbi la netta impressione di essere amata. Sperai di
non sbagliarmi. Perché Regis, mi è stato tutto. Nemico,
avversario, conoscente, compagno d’armi, aiutante, amico, confidente,
spalla su cui piangere, amante, per un tempo perfetto e drammaticamente breve al
tempo stesso. La sua compagnia mi ha insegnato tanto. Scivolai nel sonno quasi
con rimpianto, temendo già un risveglio brusco che mi avrebbe gettato
violentemente nella cruda realtà. Per una notte, ci eravamo sentiti dei.
Capitolo 91 *** Ai confini dell'irrealtà-Quando tutto cambia. ***
Fu forse uno spiffero di vento, passato da chissà dove, a
svegliarmi
Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli
che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio! È solo un piccolo
scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una
cosa che era pianificata da un bel po’ di tempo, con il consenso di
entrambi! xD
Dunque, molte delle situazioni, la
maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la
prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia “indipendenza
letteraria” (xD)-), e, soprattutto, il personaggio di Regis appartengono all’anzidetto Carlos Olivera, ed alla sua opera xD
Ps: Carlos Olivera, ho cercato di seguire i tuoi consigliJ grazie…
A presto!
Akita.
Fu forse
uno spiffero di vento, passato da chissà dove, a svegliarmi.
Ero
avvolta dalle mie morbide coperte, accoccolata come sempre sul lato destro,
quello menomato, quasi come per nascondermi.
Non mi
mossi ancora. Qualcosa m’impediva di farlo. Ero tranquilla, una
sensazione di piacevole stordimento, e serena. Sentivo qualcuno vicino a me.
Feci subito mente locale, e, sotto i baffi, sorrisi leggermente, mentre il
cuore prendeva a battermi più velocemente.
Ci misi
un secondo per capire dove fossi, se, soprattutto, con chi fossi.
Decisi in
un lampo di non aprire ancora gli occhi, di non dare indizi che fossi sveglia.
Mi concessi il lusso di rimanere a pensare un po’.
Accidenti.
Il mio mondo aveva subito una svolta terribile, l'ennesima, la meno
inaspettata, da me voluta...ma non ne ero pentita. Affatto. Non ero così
felice da tempo, magra consolazione pensando al dolore che mi attendeva.
Quell’uomo aveva l’indubbio potere di sconvolgermi la vita. E,
stavolta gliene ero davvero grata.
Quello
che era successo tra me e Regis avevarimesso nella prospettiva giusta parecchie cose, parecchi conti che
avevo in sospeso con me stessa.
Era stato
bello, per quel tempo infinitamente lungo ed infinitamente breve, riprendere ad
essere Lsyn, a sentirmi davvero viva, sentire di esistere, davvero, senza essere
un’accezione casuale nel tempo. La prospettiva di dovermi svegliare,
quando mi attendeva un mondo sadico e spaventoso, non mi allettava. Non volevo
saltare nel buio, non ancora, non volevo spezzare quell’incantesimo,
quella bolla di pace.
Non avevo
la minima voglia di ritornare un mondo bugiardo, falso e doloroso, non dopo
quello che era successo in quelle ore meravigliose.
Non
volevo ritornare ad essere la vecchia Lsyn; sentirmi compatita, mai trattata
per ciò che ero veramente, sempre tenuta come una bambola fragile, su
una mensola, da guardare, da contemplare, ma mai da scuotere o stringere a
sé.
Ero
un'elfa, adulta per di più, accidenti, non erouna bambina!
Se c'era
una cosa che un certo umano, che era accanto a me, mi aveva fatto comprendere,
era proprio quella. Non potevo lasciarmi andare al dolore, come una fanciulla
inesperta, patire come se non avessi mezzi per lottare contro l’abisso
amaro fermamente intenzionato ad inghiottirmi per sempre.
La
sofferenza che avevo subito era tanta, le ingiustizie troppe anche per una Spia
com'ero stata.
Troppi
lutti avevano devastato, il mio cuore, troppe perdite.
Ma dovevo
lottare. Se non altro, per quelli che erano ancora con me. Per i miei amici, i
miei protetti, i miei nipoti, mia figlia.
Non mi
sentivo ancora pronta ad andare avanti, a sfoderare del tutto gli artigli per
farmi spazio nel mondo. Ma, almeno, potevo dire di aver avuto il coraggio di
alzare la testa, e guardarmi intorno.
Non era
determinazione, né quel fuoco ardente che mi aveva supportato per tutto
il mio viaggio, no.
Qualcosa
di più lento, che mi distruggeva meno i nervi, più malinconico.
Non avrei mai superato il rimorso ed il dolore per i miei cari perduti. Mai
dimenticato di essere stata, un tempo, un’elfa felice. Non ero ancora
moralmente pronta ad immergermi nuovamente in quell’oscuro fiume
tumultuoso che è l’esistenza piena di una creatura senziente.
Preferivo rimanere lì, in un angolo, ad ascoltare ciò che
succedeva nel mondo, dall’altra parte di un vetro che mi separava dalla
mondanità. E così feci anche per quella volta. Rimasi ad occhi
chiusi, immobile come una statua, regolando il respiro per non sembrare quello
che ero, sveglia.
Temevo il
risveglio, temevo la morte di Nemys. Non volevo soffrire dopo tanta
felicità, volevo ancora della quiete da assaporare, il pensiero di non
aver sbagliato, quella volta, per quanto ne potessero dire i moralisti.
Io ero
elfa, lui era umano, due razze simili, ma agli antipodi, chissà quanto
accidenti avevamo di differenza, ma eravamo entrambi senzienti ed adulti, e lo
avevamo voluto fortemente. O, almeno, io lo avevo voluto. Proprio quello mi
spingeva nell’incertezza. Ma era una cosa, soprattutto una cosa, a
dissuadermi.
Cosa mi
avrebbe detto Regis, non appena mi fossi svegliata? Quali parole aveva in serbo
per me, dopo quella notte?
Mi
avrebbe detto che era stato tutto bellissimo, ma che lui aveva fatto un grosso
errore, perché non mi amava, che era stato un impulso dovuto alla
disperazione di essere catapultato in un altro mondo? Che per lui ero solo stata
un’eccezione, un breve momento di svago, come avrebbe potuto dire
Chekaril, pensiero stupido che cacciai via subito?
Si era
già pentito di avermi baciata, di avermi stretta a sé con tanta
dolcezza, come se fossi la cosa più preziosa a questo mondo?
Aveva
fatto tutto quello, perché?Solo perché io ero un punto di riferimento in quel mondo che non
gli apparteneva?
Forse…beh,
Regis non mi era mai sembrato donnaiolo o approfittatore. Il suo codice morale
era severissimo, e lui era una persona incredibilmente seria, soprattutto per
questioni delicate come quelle, che coinvolgevanopersone e sentimenti, e mi mettevano di
fronte ad un rischio inevitabile.
Ormai era
troppo tardi per pensare, per i rimorsi. Non c’era verso e non
c’era verso di tornare indietro.
Beh, io
mi sarei rifiutata di farlo, inoltre. Seppure quella notte mi avesse lasciato
qualcosa di più di meri ricordi, esponendomi ad un pericolo
potenzialmente mortale per me, non mi sarei tirata indietro.
Però…non
si ci poteva mai fidare dell’istinto mutevole degli umani.
Oh,
d’accordo. Ad un certo punto ero stata io a decidermi, ero stata io a
fargli capire quanto in realtà lo desiderassi, qualcosa che aveva ben
poco a che fare con l’amicizia, ero stata io l’irrazionale.
Potevo
sperare, dunque, nel fatto di avere ricambiato il mio interesse?
Davvero
mi amava? Amava, me, il mostro che avrebbe in ogni caso lasciato?
Oppure io
non mi ero resa conto della sua riluttanza? Era rimasto colpito dalle
cicatrici, quegli orribili segni irregolari che mi sfregiavano il corpo?
Beh,
almeno di quello potevo stare sicura. Regis era stato impegnato a fare ben
altro che rendersi conto di quelle mostruosità, e tutto mi era parso
fuorché riluttante.
Però,
l’interrogativo rimaneva, e tanto.
Quell’uomo
mi amava, o avevamo fatto un madornale errore? Avevo compromesso
un’amicizia, che, se non ci fossimo saltati addosso come idioti senza
cervello, sarebbe rimasta meravigliosa, nei ricordi?
Stavo per
piombare in un incubo ad occhi aperti?
Beh, non
so quanto rimasi, tormentata, a pensare, cercando di non sospirare, di non fare
niente, per non svegliarlo o disturbare il suo elucubrare. Per non spezzare la
magia.
Sarei
rimasta, lo confesso, un’infinità a tormentarmi, se qualcosa non
avesse smosso la situazione, e mi avesse convinto ad aprire gli occhi.
All’improvviso,
infatti, senza nemmeno un fruscio o un rumore che m’indicasse
l’imminenza del gesto, sentii una lievissima pressione sulla guancia. Un
dito, che mi sfiorava appena. Mi concentrai per non irrigidirmi. Una carezza,
inconfondibile, che scese, lenta, fino alla base del collo, per poi sfiorarmi i
capelli. Dolce, tenerissima, come per non volermi disturbare, come per non
volermi svegliare, ma piena di affetto.
Mi sentii
improvvisamente riscaldare il cuore. Se solo avesse provato qualche sentimento
negativo, Regis non mi avrebbe coccolata così, credendo di sicuro io
fossi ancora addormentata. Lui non avrebbe fatto così. Avrebbe evitato
il contatto fisico, cosa che non mi pareva stesse facendo.
Sorrisi
di nuovo, lievemente. Era bello sentirsi così considerata, avere
qualcuno su cui contare in un modo o nell’altro.
Mi sentii
pronta per subire qualunque colpo. In ogni caso, lui mi sarebbe rimasto amico.
Avrei voluto che lui mi corrispondesse in quella strana attrazione che provavo per
lui, ma non era possibile. Almeno lo avrei avuto accanto negli ultimi momenti
della mia Rinnegata.
Aprii
così gli occhi. Ero dalla parte sinistra del letto, e così mi
ritrovai a fissare la finestra malamente chiusa, da cui proveniva la fioca luce
della luna e molti spifferi freddi, che mi davano fastidio. Era ancora notte
fonda: non avevamo dormito molto.
Sentii
sfrigolare la mia lampada ad olio. Regis doveva averla accesa da un po’.
A pensarci bene, sin dal mio risveglio, la notte era stata troppo luminosa per
la sola luna.
Attesi
che lui smettesse di carezzarmi, per non dargli l’impressione che mi
avesse svegliata.
Intanto,
presi a raccogliere le idee.
C’era
solo una domanda possibile, da fare, una sola, che mi avrebbe risolto ogni
dubbio. Sospirai, e mi mossi un po’. Mi morsicai leggermente il labbro,
ripetendomi che, comunque andasse, lui non mi odiava. Non ancora, almeno.
“voglio
che tu mi risponda sinceramente”. Dissi, seria, guardando fisso il cielo
fuori, blu scuro, senza salutarlo, senza muovermi. Non avevo il coraggio di
girarmi, e guardarlo in viso. Non volevo sentirmi dire che lui non mi amava
fissando quel volto di cui ormai conoscevo i dettagli. “lo hai fatto
perché mi ami?”.
Ero
pronta ad attendere una risposta dolce, ma conciliante, o quantomeno
un’esitazione lunga, seguita dalla straziante verità. Ma non
successe nulla del genere. Sentii una nuova, rapida carezza, ugualmente dolce.
E lui mi rispose subito, sicuro, con voce limpida, senza che avessi il tempo di
prepararmi al peggio.
“si”.
Un monosillabo, una sola parola, eppure mi riempì di gioia selvaggia.
Lui ricambiava il mio amore. Non c’era cosa più bella da sentire,
quasi come se mi avessero dato la notizia che Tijorn ed Akita erano
resuscitati. Aveva fatto tutto quello senza stupidaggini. Mi diedi della
stupida. Non dovevo pensare di lui così male.Beh. Dopo l’esperienza di
Chekaril, e pensando soprattutto che lui era umano molto più di
me… la mia diffidenza era comprensibile. Lui continuò. “e
questo un po’ mi spaventa”.
Sbattei
le palpebre, improvvisamente calma e perplessa. Non aveva senso, quello che mi
aveva detto. Assolutamente no. Mi amava, ma aveva paura di quello. Quella
risposta mi ricordava un modo di scaricare molto sottile e meschino.
Se solo
Regis non fosse stato quell’uomo serio e fiero che era, avrei cominciato
a sospettare.
Ma non
feci altro che girarmi, ricordandomi vagamente che stavo per mostrare la mia
parte più menomata, ma senza timore.
Lui era disteso
a pancia in su, ugualmente avviluppato sotto le coperte per proteggersi dal
vento freddo, e mi guardava. Mi sentii sciogliere non appena incrociai il suo
sguardo scuro. Non c’era altro che amore per me, lì, dolcezza. Un
bel sorriso si dipinse sul suo volto rilassato, un sorriso aperto e franco,
quel sorriso che amavo. Non c’era spazio per l’inganno. Mi sentii
stupida per aver dubitato di lui. Ma c’era una domanda da fagli. Era
urgente.
“perché?”.
Gli domandai, con una strana voce addolorata, fissandolo preoccupata. Non mi
piacevano quelle risposte a mezzo. Avrei voluto abbracciarlo, farmi stringere,
aggrapparmi a lui, sentirlo vicino, ma non ne avevo ancora il coraggio. Ora
avevo bisogno di chiarimenti.
Il suo
sorriso si allargò ancora di più, lasciando intravedere i denti
bianchi e regolari, e lui allungò una mano verso di me, carezzandomi con
la punta delle dita la guancia sfregiata, ripetendo gli stessi gesti che aveva
fatto con l’altra. Poi parlò, un sussurro sincero, ma tenero.
“tempo
fa, promisi di donare il mio amore ad una sola persona”. Mi sentii
invadere da una punta di gelosia. Senz’altro, chiunque fosse doveva
essere ben fortunata. Chissà chi era. Mi sarebbe piaciuto conoscerla,
solo per avere l’estremo piacere d sbattergli in faccia la verità.
Beh, ero meschina. Molto. Ma non m’importava. “tu, però, sei
stata in grado di farmi dimenticare quella promessa”.
Ah, beh.
La gelosia si trasformò in una strana, cauta allegria. Mi sentivo
davvero lusingata. Sicuramente, quella che aveva attratto il severo Regis non
era una persona comune. Ed io l’avevo battuta, anche se per un tempo
insignificante. Ha. Una piccola vittoria per il mostro.
Non mi
sentii, tuttavia, del tutto pacificata. Avevo bisogno di sapere un’altra
cosa.
Mi
tremò un po’ la voce quando gli posi la questione principale.
“sei
pentito di quello che abbiamo fatto?”. Domandai, guardandolo,
mordicchiandomi subito il labbro, presa da una preoccupazione improvvisa. In
fondo, non sapevo come realmente l’avesse presa. Poteva anche essersene
pentito, benissimo. In fondo io ero un’elfa.
Beh, se
solo, malauguratamente, qualcuno fosse venuto a sapere della cosa, o la cosa
fosse divenuta così palese da non poterla nascondere, mi potevo giocare
la fiducia di molti, e nel secondo caso, anche la mia stessa salute. E lui non
avrebbe potuto far nulla a proposito, perché sarebbe stato già
lontano. A me non importava minimamente, ma a lui?
Ma lui
non sembrava pensarci più di tanto. Il sorriso, da tenero, si
trasformò in derisorio, un sorriso che mi ricordò tanto Tijorn,
ed anche vagamente esasperato, in senso buono.
“no”.
Disse semplicemente, facendomi l’occhiolino, che, come al solito, ebbe il
potere di farmi arrossire come una cretina. Fui tentata di dargli un buffetto,
o un piccolo calcio per farlo smettere. Ma la felicità estrema che mi
aveva afferrato m’impedì di fare qualsiasi cosa.
“tu?”.
Lo
guardai male. Sperai intensamente che scherzasse. Il suo sorriso furbo non
scomparve. E poi mi resi conto di stargli sorridendo anch’io.
Era
così bella, la sensazione di essere amata. Meravigliosa. Mi spediva
dritta in cielo.
Io, il
mostro, ero amata. Era strano, pensarlo, era strano non fare ribrezzo.
Mi
accoccolai così contro di lui, quello che avevo desiderato fare dal
momento in cui mi ero svegliata, posando la testa tra la spalla ed il torace.
Lui mi lasciò fare, e poi mi abbracciò, tenendomi stretta, una
abbraccio saldo e dolce, che non mi faceva male e non mi soffocava. Sembrava
che lui stesse stringendo a séqualcosa di prezioso, fragile e delicato come ali d’insetto. Era
sempre stato così, anche prima.
Era
così diverso, da Chekaril, quei momenti in cui eravamo stati insieme, da
lui che, anche nei primi periodi, quando forse un po’ mi amava, mi faceva
sempre male in qualche modo, forse inavvertitamente,forse perché di me realmente non
s’importava di me.
Ed era
un’altra cosa che avevo temuto, quella, il dolore, in ogni momento di
quelle ore, un terrore segreto che non si era mai avverato. E perciò,
anche per quello, ero felice.
Ritenni
opportuno farlo partecipe della mia gioia.
“nessuno
mi ha mai amata in tutta la mia vita, e lo capisco solo ora”. Confidai,
accoccolandomi ancora di più, beandomi della sua tiepida e solida
presenza. Lui mi sfiorò dolcemente un braccio, come a volermi consolare.
Ma io non ero triste. Impossibile esserlo. “ora però so cosa
significa poter contare sull’affetto di chi si ama”.
La
stretta diventò più forte, come se lui non volesse lasciarmi
scappare. Mi sentivo incredibilmente al sicuro tra quelle braccia forti, come
se nulla avesse potuto toccarmi finché c’era lui.
“il
mio affetto lo hai sempre avuto, e lo avrai sempre, Lsyn”.
Sussurrò Regis, da qualche parte vicino ai miei capelli. Sorrisi ancora,
e mi sistemai meglio. “di questo puoi essere sicura”.
Adoravo
quelle parole dolcissime, e sicure, che davano l’impressione di poter
spostare un masso e fermare il tempo.
Sospirai
di nuovo. Era raro, per me, toccare quelle vette di felicità. Era tempo
che non mi sentivo così protetta. Gustare il calice della gioia. Era
tanto che mi veniva crudelmente proibito.
“lo
so, Regis”. Mormorai, alzando il viso verso di lui, ed allungando una
mano per sfiorare la sua guancia, trattenendo l’impulso di baciarlo.
“l’ho sempre saputo”.
Ed era
vero. Qualcosa, in me, sapeva che lui mi voleva bene. Non fino a questo punto,
ovviamente, ma lui mi ha sempre considerato un’amica. Ora scoprivo che
eravamo davvero legati, in un altro modo, più di quanto mi aspettassi.
Ma l’affetto nei miei confronti non l’avevo mai messo in dubbio.
Rimanemmo
per un po’ così, abbracciati, le nostre mani intrecciate, beandoci
solamente della nostra presenza, così, semplicemente, dimenticando i
nostri doveri, le nostre stesse identità, in un momento di quiete
assoluta, dimenticando il dolore del mondo, i nostri cuori che battevano lenti,
all’unisono.
Nessuno
dei due era intenzionato a staccarsi dall’altro, almeno non
volontariamente. Se solo ci avessero dato più tempo, forse ci saremmo
addormentati di nuovo, pacificati, o avremmo parlato, di cose che non si dicono
tra chi è realmente sicuro e vivo.
Io,
almeno, ero sul punto di assopirmi di nuovo, tranquillizzata da Regis, dalle
sue lievi carezze, e stavo sonnecchiando già, quando, beffardo e
terribilmente calcolato, qualcuno bussò alla porta, violentemente.
Letteralmente,
saltai, rannicchiandomi ancora di più nelle coperte, e staccandomi da
Regis, che sobbalzò come me, preso di sorpresa, e si mise più
dritto.
Oh,
accidenti. Chi poteva essere a quell’ora tardissima? Deglutii, e mi
guardai con Regis, che era ugualmente preoccupato.
Quella
relazione che si era istaurata tra di noi doveva rimanere segreta.
Se fosse
stato qualcuno che voleva entrare, Dae per qualche capriccio di Machin, o
addirittura Amarto, Capouille o Zipherias, Isnark nella peggiore delle ipotesi,
allora eravamo davvero, davvero nei guai.
Un uomo
adulto non si può mica nascondere sotto un letto, eh.
Mettendo
pure il fatto che eravamo entrambi nudi come vermi, e che i nostri vestiti
erano sparpagliati un po’ dovunque per la stanza… beh.
Certo non
ci voleva un ingegno acuto per capire la situazione.
E la cosa
non si poteva camuffare come una discussione amichevole tra vecchi amici,
proprio no.
Temetti
per un attimo per la nostra incolumità, per quella di Regis soprattutto.
Primo,
era disarmato.
Secondo,
se solo fosse entrato Zipherias, l’avrebbe fatto a polpette.
L’ho
già detto, vero, che quell’elfo è irrazionalmente geloso
verso di me?
Bene. Se
solo avesse scoperto cosa avevo fatto con un umano… preferisco lasciare
la frase in sospeso.
Insomma,
chi ha orecchie per intendere, intenda.
“chi
è?”. Domandai, con una voce tremante, guardando, oltre Regis, la
porta, ansiosa, il cuore che mi batteva forte, mettendomi a sedere. Temevo
chissà chi, e chissà cosa.
E di
nuovo, prevedibilmente, la mia vita cambiò. Sentimmo una voce affannosa,
preoccupata, quasi rotta, una voce giovanile, provenire da fuori. Impallidii.
Torterio.
Il messaggero che, fino a quel momento, era venuto sempre ad interrompere i
miei momenti di pace con annunci colmi di sventura. Deglutii.
“Lsyn,
sei qui, finalmente…ti stavo cercando da un sacco di tempo!”.
Chiamò la voce, quasi disperata. Non l’avevo mai sentito
così, e la cosa non mi piacque. “Lsyn, devi venire,
subito!”.
Ebbi un
lampo improvviso, e mi guardai con Regis. Ci capimmo al volo. Bisognava andare,
subito. Tutti e due capimmo subito cosa stava succedendo. Nemys. Era arrivato
il momento tanto temuto. Il momento in cui tutto di nuovo cambia.
“si…”.
Dissi, con una strana voce preoccupata, schizzando immediatamente fuori dal
letto, come un lampo, ed adocchiando i miei abiti. “arrivo
subito…”.
Le mie
parole si spensero in un mormorio angosciato, e sfumarono nel nulla. Ma
perché tutto doveva sempre accadere quando io ero più felice?
Perché, quando mi pareva di aver trovato una nuova forza, essa era messa
così duramente alla prova?
Con
Tijorn era stato così. Con Akita era stato così. Era stato
così per tutto. Non era giusto, non era per niente giusto.
Non mi
piaceva soffrire così. Io volevo solo rimanere un po’ in pace,
dannazione!
Dovevo
arrendermi, allora? Eh, no. Al destino non volevo dargli quest’ennesima
soddisfazione.
Non sarei
più sprofondata nella monotona passività.
Avrei
trasformato il mio dolore in qualcosa di buono. Alla faccia del fato, ha.
Sentii un
fruscio dall’altra parte del letto, e vidi, con la coda
dell’occhio, Regis che cominciava frettolosamente a raccattare i suoi
abiti da terra.
Ci
vestimmo, in un silenzio tombale e teso, preoccupati, in fretta.
L’incanto di pochi minuti prima era stato irrimediabilmente spezzato. La
pace era volata via, verso altre persone, altre coppie, altri singoli.
Mi sentii
invadere dalla tensione, dalla frustrazione e dalla solita, gelida paura.
Cominciai ad essere sempre meno fiduciosa, sempre meno sicura di me. In fondo,
il mondo stava tramando contro di me. Non potevo sperare che tutto andasse
bene.
Era
terribile il pensiero di dover lasciare Nemys per sempre, era qualcosa che
faceva un male incredibile.
Mentre mi
rivestivo, presi, come al solito, a tremare involontariamente. Mi sentii lo sguardo
di Regis addosso, mentre mi vedeva sicuramente in difficoltà, forse
sull’orlo delle lacrime. Ma io non volevo piangere. Non volevo dare
questa soddisfazione. A chi, non lo so. Chissà cosa vide, nei miei occhi
scuri. Io non lo vedevo. Ero solo preoccupata per Nemys. Lei stava soffrendo .e
tra poco non ci sarebbe stata più, lasciando un altro orfano a questo
mondo.
Farmi la
coda di cavallo, visto che i miei capelli, in principio resi lisci dal solito
sistema, ma poi gonfiatisi ed arricciatisi senza prendere forma definita peggio
che ad ogni fine di giornata, mi risultò praticamente impossibile.
Tremavo
così tanto che le mani non stavano ferme, e saltellavano come rane
allegre. Regis dovette aiutarmi. Mi bloccò le mani con fermezza, prese
il nastro, e, dolcemente, senza tirarmi nemmeno una ciocca, mi sistemò i
capelli.
Sospirai,
e chiusi le mani a pugno. Dovevo stare calma. Lui mi guardò, preoccupato
dietro la sua solita maschera seria, e mi strinse brevemente una mano. Quel
contatto fugace mi fece un bene immenso. Riuscii a recuperare almeno un
po’ il controllo che avevo di me stessa. Cercai di farmi forza.
Tutti e
due, uscimmo insieme dalla mia stanza, senza preoccuparci dei significati
intrinseci della cosa.
Appena
uscimmo, Torterio ci guardò con tanto d’occhi, ma non fece
domande.
In
silenzio, un silenzio terribile, ci avviammo verso la stanza della mia adorata
Matriarca, la morte nel cuore, correndo più che potevamo.
Il
castello era un formicaio impazzito. Non avevo mai visto i rilassati domestici
così agitati, così frenetici. Capii: l’ora era più
che mai vicina. Rischiai d’inciampare per quel pensiero, e ci fu solo
Regis che impedì di schiantarmi malamente a terra. Io ero troppo
preoccupata per ringraziarlo, e ripresi a correre.
Fu quando
arrivammo, tutti e tre, nei pressi della bella camera di Nemys, che la
situazione si presentò in tutta la sua drammaticità. Il primo
indizio che ci fu dato, furono i suoni. O meglio, il suono.
Un urlo
straziante, di dolore puro, che faceva sembrare gli strilli di Akita deboli
stridi. Gemetti, ed aumentai il passo. Povera Nemys, costretta asubire in quel modo, inesorabilmente
proiettata verso la morte. Torterio si fermò lì, e ci
guardò. Sembrò capire qualcosa, poi scosse la testa, e corse
altrove. Chissà dove serviva.
Quando
entrammo, sbattendo la porta, io con la morte nel cuore, che mi stava per
scoppiare violentemente, tremante, Regis con me, vicino a me, che
m’infondeva coraggio con la sua presenza solida, vedemmo la reale
situazione com’era. Se non ci fosse stato lui, non so come avrei fatto.
Sarei andata fuori di testa come quando era toccato ad Akita, penso.
Le
condizioni di Nemys erano davvero pessime. Lei era sempre stata in grado di
sopportare bene il dolore, e non l’avevo mai vista con una smorfia di
sofferenza in volto. Ora il suo viso così pallido e delicato era
letteralmente sfigurato, come se fosse sotto tortura. Bene. Da me non aveva
preso solo la faccia. Era stato così per me. Solo che io non ero morta.
Lei lo sarebbe stata. Era orribile da pensare.
Nella
stanza c’erano Zipherias, in un angolo, con gli occhi sbarrati, che
sembrava tanto un bambinone messo di fronte ad una situazione troppo grande per
lui, Masato ed alcune levatrici, che sciamavano attorno alla figura della
Matriarca, preoccupati, ed Isnark, che mi guardò, terrorizzato, quando
entrai, lo sguardo di un uomo che sta per perdere tutto.
Gli feci
un cenno incoraggiante, anche se non mi sentivo in grado di sostenere
chicchessia, ma lui non se ne accorse, e continuò a fissarmi, sperduto.
Ma almeno, noi, per la prima volta, ci capivamo.
Poi,
qualcos’altro mi distrasse. Odore, seppure fievole, impossibile da
carpire per un umano, di sangue. Sangue vero, metallico, dolciastro. Guardai
terrorizzata Nemys. La situazione era peggio di quanto immaginassimo.
Tutto
sommato, non fu qualcosa di eccessivamente lungo, anche se lo porto dentro come
una delle mie tante ferite, non la peggiore, perché ho sempre saputo che
qualcosa di Nemys è ancora in me, e che lei non se n’è
andata del tutto.
Dopo poco
che entrai, rimanemmo solo in quattro. Masato fungeva da levatrice, povero
uomo, ed era bianco come un cencio, letteralmente sconvolto, tanto che temetti
che stesse per svenire,mentre
Regis attendeva un po’ discosto, paziente, con un panno bianco in mano,
un panno tiepido che avrebbe accolto il nuovo arrivato, dopo essere stato
lavato nella piccola tinozza calda che lo aspettava. Io ed Isnark ci mettemmo
ai due lati di Nemys, al suo capezzale.
Il suo
compagno le tenne la mano, guardandola con disperazione, senza un briciolo di
felicità per il suo bambino, o guardando me, stranamente complice,
mentre io, sistemata accanto alle scatole luccicanti e tintinnanti di Masato,
mi lasciai prendere il braccio, che lei strinse così forte che mi
lasciò lividi che durarono giorni, confortandola, parlandole dolcemente,
sussurrandole cosa fare.
Dubito
che mi sentì. Era troppo occupata ad urlare.
Non so
quanto tempo durò quella terribile tortura, che mi faceva lacrimare gli
occhi, guardare Regis, sperduta, facendomi consolare da lui con gli occhi, che
cercavano di sostenermi.
E poi,
finalmente,con mio enorme
sollievo,dopo un momento di terribile incertezza, orribile perché sia
Nemys che suo figlio furono sul punto di lasciarci le penne, colpa di
chissà cosa,e dopo un urlo
più forte di tutti, sentimmo tutti un pianto che a me parve
terribilmente familiare.
Feci una
smorfia, e mi allungai meglio per vedere. Dal volume e dal suono deciso del
pianto, simile per certi versi a quello di Machin, mi aspettavo un altro demone
incarnato. Cominciai a temere i mesi a venire. Non volevo fare un’altra
volta le nottate. Per fortuna c’era il papà.
Sperai
che non fosse maschio. C’era bisogno di una presenza femminile, in quel
castello, nelle nostre vite.
Ed
infatti, così fu. Ad essere venuta al mondo, era una bella bambina.
Sentii sollievo.
Poi
abbassai lo sguardo verso Nemys. Lei aveva gli occhi socchiusi, ma non sembrava
ancora intenzionata ad andarsene.
Dimenticai
subito le mie elucubrazioni a proposito della nuova arrivata, e di altre
futilità, quando la presa sul mio braccio si allentò e
svanì, mentre la mano le cadeva sul materasso. Fissai Isnark e poi la
mai Rinnegata con terrore puro. Lei era ancora viva, ma sembrava più
debole di momento in momento.
La
piccola fu subito depositata tra le sue braccia. E lei, diversamente da Akita,
non la rifiutò. La prese con dolcezza, spossata, mentre delle lacrime di
gioia, o forse no, le scendevano sul viso. Guardai, piena di dolore, di nuovo
Isnark. Era pietrificato, ed osservava le donne della sua vita come stordito.
Teneva la mano della compagna quasi con distrazione.
“Nilyan…”.
Sussurrò la mia Rinnegata, allo stremo delle forze, sfiorando con un
dito il visino delicato della piccola. Aveva gli occhi aperti, a differenza di
Machin, sul mondo. Il suo pianto non era durato a lungo, e non si stava
lamentando.
Brava,
bimba. Sicuramente non ci avrebbe fatto dannare come il cuginetto.
Mi
mancò quasi il fiato, quando la osservai bene, e, per un attimo, dimenticai
il mio dolore nel vedere Nemys andarsene per sempre.
Aveva la
pelle olivastra del padre, già si poteva vedere benissimo, nonostante
non fosse che un esserino rugoso, mani lunghissime e delicate, dalle unghie
sottili e lucenti, incantevoli, e non aveva un capello, nemmeno un ciuffo
sparato in aria. Gli occhi erano quelli azzurri della madre, era un colore che
pareva certo, il taglio del padre. Ma il viso era il nostro. Il mio e di Nemys.
Ci assomigliava molto, anche se i suoi tratti erano affilati da qualche
dettaglio di Isnark, il che le dava già un vago aspetto da falchetto.
Era una piccola davvero bella. Avrebbe fatto strage di cuori. Non sembrava aver
patito gli sforzi del parto, ed era in piena forma, grassoccia e ben pasciuta.
Eccola
lì, la mia nipote, la mia figlia. Comodo, però. Avere figli senza
patire niente.
Guardai,
addolorata, Nemys. Vedevo la stanchezza addensarsi nei suoi occhi chiari. Io e
lei ci guardammo, serie. Ed io carpii un certo incitamento ad essere forte, da
parte di quella straordinaria creatura. La capii, ed annuii.
Potevo
essere forte. Dovevo esserlo. Ero costretta. Dovevo crescere una volta e per
tutte.
Ci
sorridemmo stancamente. Poi lei mi mise in braccio la mia piccola Nilyan.
La
accettai come se fosse la cosa più delicata del mondo, un tocco esperto,
dopo tutta la pratica che avevo fatto con Machin. La mia piccola, dolce
nipotina si divincolò un po’, disorientata, ma poi si
calmò, mentre io la cullavo, mormorandole paroline dolci. Si doveva fare
così, con gli infanti.
Lei,
infatti, si calmò immediatamente, se si accoccolò contro di me.
Sentii
un’ondata fortissima di emozione,e dovetti abbassare lo sguardo per non
fare vedere a nessuno le lacrime che covavano dentro. Di nuovo, eccomi stregata
da una bambina. L’avrei allevata come fosse mia.
“Crescila
meglio che puoi, Lsyn…”. Mi disse Nemys, la mia dolce Nemys, con
una strana voce fievole, sussurro stanco. Non la guardai. Non avevo il coraggi.
In fondo, un’altra parte di me stessa stava per andare via per sempre. “tu…è
come fossi sua madre…”.
Alzai il
capo, fiera. Non mi vergognai delle lacrime che scorsero, inevitabili. Mi
sentivo forte dentro. Quella volta non sarei crollata. Lo dovevo a Nemys.
“lo
farò…”. La rassicurai, con voce ferma, e lei mi sorrise
dolcemente, girandosi poi verso il suo compagno.
Non avevo
mai visto Isnark così distrutto, e vederlo mi fece stranamente male. Non
riusciva a frenare le lacrime, e piangeva come forse quasi mai nella sua vita.
Era spezzato, spezzato irrimediabilmente dentro, come lo ero stata io alla
morte di Tijorn, a quella di Akita. Sapevo come comportarmi con lui. Provai
tanta pena per quell’elfo che mi era stato nemico, e strinsi a me Nilyan,
sua figlia.
L’elfo
dai capelli bianchi si portò alle labbra, cercando di non singhiozzare
troppo, la mano di Nemys che stringeva spasmodicamente come a impedirle di
andarsene, posandola poi sulla sua guancia ferita. Lei lo lasciò fare,
ed il suo sorriso si trasformò in qualcosa di complice, come se volesse
riprendere una discorso interrotto.
Sapevo
che per lui non era facile. Perdeva la sua amata, ed io lo capivo.
Perdevo
qualcuno anch’io. Mia sorella. Sentii una fitta di strazio, e digrignai i
denti, piano, per non farmene accorgere.
“io
sono sicura che sarà come te…”. Sussurrò Nemys,
socchiudendo gli occhi. “stesso ardore…stessa grinta…”.
Povero
Isnark, povero amico mio. Era strano pensarlo così. Ma quando lo vidi
tremare, trattenendoa stento i
gemiti che gli uscivano dalle labbra, lo sentii incredibilmente vicino.
L’avrei fatto anch’io, se solo non avessi avuto qualcuno da
proteggere dal mio dolore.
Di nuovo,
una strana espressione passò sul volto bianco, pallidissimo, della mia
Rinnegata. La pressione sul viso del compagno divenne una carezza.
“non
piangere…”. Sussurrò ancora, con una voce tormentata.
“sapevamo tutti che sarebbe finita così”. Tutti tranne me.
Bell’affare. “non voglio lacrime…sono felice di avervi potuti
avere qui, con me…al mio fianco… e così mi basta”. Ma
Isnark non si calmò. Non sentiva, secondo me, nemmeno le cose che gli
diceva. Era troppo sconvolto dal dolore.
E anche
io non scherzavo. Il mio tormento era meno violento, più calmo, quasi
rassegnato, perché in fondo già me lo aspettavo, ed avevo quasi
fatto il callo a tutte quelle morti, per quanto brutto potesse essere dirlo.
Perciò,
mi concentrai sulla piccola Nilyan per non piangere. Volevo obbedire alla mai
Matriarca, il suo ultimo desiderio. La mia piccola nipotina. La strinsi a me,
protettiva. Sarei stata, per lei, una madre. E guai a chi avesse cercato di
togliermela dalle braccia. Sarei stata una mamma orsa. Lei aveva bisogno di
tutta la felicità possibile. Perché se lo meritava. Già il
suo futuro era fosco, pieno di nuvole, così piccola e già
strumento per il Matriarcato. Io avrei fatto in modo che lei crescesse libera, e
che quello non accadesse. Ero pronta a difenderla con gli artigli, se solo ci
avessero provato, se avessero osato.
Nemys
parlò anche a Regis, brevemente, rassicurandolo su chissà cosa.
Poi ci fu un omento di silenzio.
Improvvisamente,
uno strano sorriso si dipinse sul volto stanchissimo della Matriarca, un
sorriso quasi liberatorio. Poi lei mi guardò, uno sguardo breve, con gli
occhi che già le si chiudevano, occhi pieni di luce, come a volermi
spronare ad andare avanti.
Per un
attimo, io e lei ci fissammo. Io annuii lievemente. Lei sospirò, ed il
sorriso divenne qualcosa di strano.
E
così, chiudendo definitivamente, gli occhi, mentre la mano che Isnark
teneva scivolava via, inerte, mentre lei cadeva dolcemente sul cuscino, molle
come una foglia d’autunno, quelle foglie bellissime e dorate che devono
morire, o come un fiore di albicocco, che cade per lasciare spazio al frutto
che cresce, anche Nemys, mia Rinnegata, colei che meglio mi conosceva,
passò al di là del mondo delle cose reali, piombando nel nulla.
Il
sacrificio supremo era stato compiuto. Nemys era morta per ciò per cui
aveva vissuto, in cui aveva creduto. Senza rimpianti, senza dolore. Lasciando atutti la forza di andare
avanti.
Capitolo 92 *** Ai confini dell'irrealtà-Un raggio di sole. ***
Raramente ho visto un dolore come quello che vidi in quel momento negli
occhi scuri di Isnark, ed essere abbastanza lucida, non toccata dal dolore per
poterlo riferire, soprattutto
Mi SCUSO immensamente per questo ritardissimo!
Chiedo umilmente perdono >__<
Internet non funzionava. Mi dispiace ç__ç
Questo capitolo non è nemmeno tutto quello che volevo scrivere,
ma…pazienza.
Ci rifaremo in seguito, e siamo alle battute finali J
Vi aspetto al prossimo, mi raccomando :P
Vabbè, ora vi lascio al capitolo, velocemente.
Vi ringrazio, ed un bacio infinito a tutti, ma tre a chi commenta! =*
Ciao!
Akita
Raramente
ho visto un dolore come quello che vidi in quel momento negli occhi scuri di Isnark, ed essere abbastanza
lucida, non toccata dal dolore per poterlo riferire, soprattutto. E per poterlo
guardare. Non vorrò farlo mai più. Mai più. Fu terribile,
ancora più doloroso che vedere Nemys morire. Isnark mi era nemico, non
eravamo per niente amici l’uno dell’altro. Ci detestavamo, non
riuscivamo a parlare senza litigare o cominciare a punzecchiarci, e quelle
volte che instauravamo una conversazione civile era perché non potevamo
fare altrimenti. Ma vedere lo strazio affiorare su quel volto pallidissimo,
solcato dalle lacrime che io non avrei mai dovuto vedere, singhiozzi che non
avrei mai dovuto sentire, mi fece star male per lui. Ancora oggi non riesco ad
inferire su qualcuno che soffre, fosse anche Lainay. Non dopo quello che ho passato. Ho la ferma convinzione che noi tutti
non siamo altro che vittime di un destino crudele, per quanto Regis abbia
cercato di farmi mettere in testa il contrario. Per quanto egli abbia potuto parlare, io sono di questa ferma opinione.
Esiste un destino per noi. Suo compito è metterci alla prova,
svegliarci, e farci vedere quanto sia stranamente
bella la vita, a cosa serva. La sofferenza per svegliare la felicità.
È strano pensarlo. Io, in quel momento in cui tutti versarono qualche
lacrima, anche il falsamente impassibile Regis, e quel bonaccione del medico,
fui forse l’unica ad essere forte. Dovevo essere realistica e non
lasciarmi prendere da un’inutile disperazione come tutte le volte. quello che era successo in appena un giorno aveva schiarito
decisamente le mie idee. Non mi sentivo pronta a vivere, potevo solo
sopravvivere, ma sopravvivere bene. Tijorn ed Akita non erano tornati per
asciugare le mie lacrime. Vorrei tanto che lo facessero, anche solo per un
attimo, anche solo per chiedere loro scusa, perdono per averli fatti morire in
quel modo stupido, ma era impossibile. Dunque, piangere non serviva proprio a
niente, solo a sfiancarmi. In fondo, Nemys non se n’era andata totalmente.
Era la mia Rinnegata, dopotutto. Prima o poi, il destino ci avrebbe fatti di
nuovo rincontrare, se davvero lei fosse esistita nuovamente, sotto altre spoglie. Ma qualcosa di lei rimaneva, in ogni caso.
Rimaneva in me, la sua creatrice, nonostante tutto, ed in quella piccola
creatura che mi stava tra le braccia, che io tenevo con delicatezza, che aveva
appena afferrato un lembo del panno tiepido che l’avvolgeva, e cominciava
a chiudere gli occhi, stanca. Sorrisi dolcemente, guardandola, e sfiorandole le
guance lisce con un dito, senza disturbarla. Nilyan. Una neonata, lunga
più o meno come una grossa forma di formaggio, tranquilla, sicuramente
affamata, appena nata, ma già bellissima. Una principessa, in ogni
senso. E lei, povero cucciolo, aveva tante responsabilità sulle spalle!
Avevano fatto scaricabarile su quel piccolo, esile corpicino. Mi sentii
invadere da un profondo senso d’ingiustizia. A che serviva, odiare le
Spie, se poi si faceva la stessa cosa su quella neonata? Un tesoro delicato
come lei non sarebbe mai riuscita a sopportare una simile esistenza. Protetta,
scortata per sempre, senza uno straccio di possibilità di una vita
normale. Perché doveva diventare il segnacolo della resistenza contro un
enorme Regno? Nessuno ce l’avrebbe fatta, nessuno.
Una piccola allenata fin dall’infanzia ad essere la sovrana della luce,
per dirne una, nemmeno poteva. Ci voleva un dio per fermare Lainay, potente
oltre ogni dire. Questa frase penso basti molto bene a spiegare come ormai
stanno le cose. Cosa pensavano che fosse, Nilyan? Un oggetto?
L’emanazione in terra di una divinità? Sciocchezze. A meno che un
dio non sia così sadico da reincarnarsi in una creatura in partenza
minuscola, praticamente senza nessuna utilità, un fastidio notturno,
brava sola a mangiare e dormire, una creatura fragilissima e mortale…beh.
Il dio dovrebbe essere anche poco sano di mente. Plagiare le anime di povere
genti adoranti perché venerino un mucchietto di stracci. Assurdo. Ma
prendere direttamente fattezze adulte, no? Più ci pensavo, più
ero scettica. Avessero solo osato
toccare con un dito Nilyan, chiamarla nuova dea e blablabla… avrei
toccato loro qualche altra cosa. Strappandogliela. Strinsi a me dolcemente quel
fagottino tiepido. Sentivo lei e Machin come figli miei. Toccarli era proibito,
ed avrebbe scatenato la mia collera. E la collera di un’ex Spia non
è mai perfettamente indolore, ancora meno a parole. Ancora lì, in
piedi vicino a quel corpo di Nemys, che, come lei mi aveva descritto una volta,
per la sua natura si dissolse in luce, donandomi nuova speranza, decisi una
cosa. Nessuno mi avrebbe mai tolto Nilyan. La mia bambina non avrebbe mai
sofferto. Venni assalita da un silenzioso panico, e
deglutii. Lainay. Se solo avesse saputo della nascita della piccola, beh…
l’avrebbe uccisa di sicuro. Deglutii di nuovo, e guardai Regis, che
osservava con interesse il punto in cui Nemys era stata una volta,
chissà, forse in cerca di un appoggio. Capii, così, n un lampo,
una cosa. Non ci sarebbe stato più nessuno, una volta
partito lui, ad trattenermi in quel meraviglioso castello, dove avevo
lasciato un frammento della mia esistenza. Ero libera. Non c’era
più una Nemys da curare. Machin era abbastanza grande per
potermela cavare da sola, ed avrei potuto portare Dae con me. Si trattava solo
di sistemare un po’ la casetta di Sharilar, che tanto volevo raggiungere,
la casa che il mio amato Tijorn mi aveva lasciato, drammaticamente desolata.
Avrei portato con me Amarto, Dae, e tutti i piccoli. Nilyan compresa, magari
una volta svezzata. Dovevo solo aspettare qualche mese. Non era lontana da suo
padre, ed era al sicuro da qualunque attacco, perché aveva me, peggio di
mille cani da guardia, pronta a triturare in pezzetti microscopici anche il
più innocente dei malintenzionati con la sola forza delle braccia.
Perché i bambini erano miei, miei e di nessun altro. Io dovevo fungere
loro da madre, proteggerli come solo una Spia sa fare,
amarli, crescerli. Era un buona idea. Me ne sarei
andata via, per quanto Isnark potesse sicuramente protestare. Mi sarei
ritirata, per vivere in tranquillità il mio nuovo ruolo da tutrice
responsabile, avrei imparato a vivere, pronta per rientrare in gioco quando il momento fosse stato opportuno. Mi riscossi
un poco, e mi guardai attorno. Era odioso, vedere tutto quel dolore, sentire di
essere partecipe e nello stesso momento distante. Avevo eretto un muro tra me
ed il mondo, e, anche se avevo voglia di piangere, non potevo. Il mio stesso
orgoglio da poco nato me lo impediva, la mia stessaferocia da poco risvegliata,
quell’ardore che s’indirizzava verso un unico scopo. Proteggere
Machin, Nilyan, e tutti i piccini, proteggere le persone da me amate. Tirai
così un bel respiro, e ricacciai tutte le lacrime indietro,
rimangiandomele. Osservai quello che stava accadendo. Era quasi l’alba. In quella stanza
mi sembrava ancora notte fonda, nonostante tutto. Deglutii per non essere
afferrata dallo strazio. Dopo le urla della mia mata parte di me stessa, era
piombato un silenzio tra l’addolorato ed i sereno,
rotto solo da strani fruscii spezzati, la cui origine mi fu chiara poco
dopo. Era strano, inquietante, quella calma apparente. Masato stava prendendo,
ancora piuttosto scosso, i macchinari, e non guardava nessuno, perso in
chissà che razza di pensieri. Sentivo lo sguardo di Regis posarsi
insistente addosso. Ci guardammo. Lui, le labbra strette, si permise di
sorridere un poco, all’apparenza sollevato, forse dal non vedermi
distrutta. Sarebbe stato terribile, per lui e per me, se fossi piombata in
quello stato disperato che seguì la morte di Akita. Ero preparata per
quell’eventualità, quel colpo, che però
non arrivò mai, con mio enorme sollievo. Annuii stancamente, e feci un
passo verso di lui, spostandomi per far passare lo strano medico. Poi guardai
Isnark. Strinsi i denti, e mi venne la pelle d’oca. Guardava,
completamente disfatto, il posto dove fino a poco tempo fa c’era stata la
sua amata, ed aveva il volto di una creatura torturata. Ripeteva a fior di
labbra chissà cosa, le lacrime che ancora scorrevano, senza che lui se
ne accorgesse, ed era pallido come un morto. Dovevo aver avuto la stessa faccia
io, quand’era morto Tijorn. Sembrava non accorgersi che il mondo era
ancora lì, al suo posto, che, nonostante la morte di una creatura che
amavamo tutti, nulla si era fermato, non si era nemmeno reso conto della
nascita di sua figlia. La sua mano era ancora lì, a stringere il vuoto
come aveva fatto per la mano della sua amata, come se Nemys fosse ancora
lì. Ed allora compresi appieno la portata del suo dolore, del suo
terribile strazio. L’aveva nascosto, per tutti quei mesi, per non far del
male alla compagna. Ma in quel momento capii, capii Isnark come non mi era mai
capitato. E forse fu proprio quel momento a farmi capire che non covavo
più paura o risentimento nei suoi confronti. Volevo solo pace. Era il
momento adatto per farmi perdonare di tutto, per diventare amica di
quell’elfo sotto sotto straordinario. Capii
Isnark. Non doveva essere stato facile vivere tutti quei mesi con quel dolore
che cresceva ogni giorno. Vedere Nemys indebolirsi giorno dopo giorno, per
colpa di qualcosa che non sapeva se amare o odiare, per colpa di un figlio che
era suo. Vedere crescere silenziosamente il frutto del loro amore, senza
poterne gioire, perché sapeva che la sua nascita avrebbe sancito la fine
dell’amatissima compagna, per la quale aveva fatto di tutto, sempre. Mi
sentii afferrare un po’ dal disagio. Che diritto avevo, io, di
abbracciare sua figlia, io, che non sapevo nulla di lui? Che diritto avevo, io,
di considerarla come mia? Sperai intensamente che Isnark l’accettasse, e,
soprattutto, accettasse Nilyan. Sarebbe stato terribile se avesse imputato a
lei la morte della compagna. Di nuovo, terrorizzata, stavolta, mi scambiai
un’occhiata con Regis, una lunga occhiata supplichevole. Non sapevo
assolutamente che fare, come muovermi. La situazione di Isnark era troppo,
troppo delicata. Strinsi a me Nilyan come sperduta. L’umano, il mio amato
umano, la mia primadonna preferita, sorrise lievemente, un sorriso tutto
sommato triste. Poi fece un cenno verso di Isnark, come a consigliarmi di
avvicinarlo, di avvicinarmi. Feci un passo in avanti, esitante, verso
l’elfo dagli spettinati capelli bianchi, e poi guardai di nuovo Regis, in
cerca di un segno d’incoraggiamento. Lui alzò gli occhi al cielo.
Lo interpretai come un sintomo di fastidio, ed arrossii leggermente. Aveva
ragione: mi stavo comportando da stupida. Ero adulta, e responsabile. Se solo
mi fossi affidata ad altri, non avrei saputo vivere quando
essi sarebbero venuti a mancare, com’era successo per Tijorn. E Regis se
ne sarebbe andato. Nessuno mi avrebbe detto cosa fare. Cullando dolcemente la
mia piccola nipote, mi decisi così a coprire la labile distanza che mi
separava dall’addolorato Isnark con un paio di passi, guardando solo lui.
Non sembrò essersi accorto del mio arrivo. Non sembrava accorgersi di
nulla. Sospirai. Povero elfo. Era totalmente distrutto. Sperai intensamente che
ce la facesse. Sapevo che era difficile. Ma doveva farlo per il bene della
piccola che riposava nelle mie braccia. “Isnark…”. Sussurrai,
con voce stranamente dolce, posandogli una mano sulla spalla, esitante.
L’ultima volta che l avevo fatto per poco non
era saltato su, come morso da uno scorpione, e si era divincolato. Lui non si
mosse. Non sembrò sentirmi, e continuò a fissare, straniato, il
cuscino stropicciato, la leggera e lunghissima camicia da notte bianca,
macchiata di sangue, che era rimasta dopo che Nemys si era dissolta. Sentii una
stretta al cuore. Avrei preferito sentirmi chiamare parassita, piuttosto che
quello. Sospirai, e mi feci coraggio. Dovevo farlo.
“Isnark…”. Ripetei, la voce più incerta, passando la
mano sul suo viso, come a carezzarlo, a confortarlo. Ed allora lui alzò
lo sguardo verso di me. Non lessi in lui né astio, né odio,
né disgusto nei miei confronti. Lui era vuoto. Qualcosa gli aveva
strappato via tutta la sua carica combattiva. Sorrisi tristemente, dolcemente,
come a volerlo confortare. Non importava se lui si fosse comportato male nei
miei confronti. Non aveva più importanza, non di fronte a quel tremendo
spettacolo. Non tolsi la mano dal suo viso, da quello zigomo che portava ancora
i segni del pugno feroce di Regis, e delle cicatrici delle ferite che gli avevo
inferto quando ancora eravamo nemici. “coraggio,
alzati. Stanno aspettando tutti Nilyan”. Non sapevo se fosse vero. Non
importava, dopotutto. Ma era l’unico modo per svegliarlo da quel
terribile torpore che l’aveva pervaso. “su, forza, usciamo”.
Lui sbatté gli occhi, liberandoli dalle ultime lacrime, e sembrò
svegliarsi un po’. Annuì, lievemente, poi si alzò. Mi
scostai da lui, sorridendo mestamente, ed aspettai che mi sovrastasse. Non
stava dritto. Era curvo, come se qualcosa lo avesse spezzato dentro. Per molti
giorni camminò, nel castello ,quando nessuno lo
poteva vedere, con lo sguardo basso, e quando lo alzava, chiunque avrebbe
potuto leggervi il vuoto assoluto che vi covava dentro. Sospirai, e gli tesi,
dolcemente, senza muoverla troppo, Nilyan. Ebbi un attimo di terrore
quando lui la guardò, vacuo, per un momento senza nemmeno
toccarla, e passai un momento terrificante. Ma poi lui tese le braccia,
goffamente, e la prese. Lo sentii sospirare, e mormorare il nome della figlia,
ma feci finta di non accorgermene. Lui la strinse subito a sé,
guardandola con una piccola scintilla di vita. Ma non parlò. Non
sembrava averne la forza. Si voltò, bruscamente, ed aprì la
porta. Trotterellando, io lo seguii, e così fece anche Regis. Quando mi
passò a fianco, mi sfiorò una mano,dolcemente, riempiendomi di un
lieve calore, che mi diede la forza di non rimanere lì impalata. Ognuno
di noi due si mise a fianco del triste elfo, pronto ad aiutarlo in ogni caso.
Riluttante, io mi alzai il cappuccio. Ero pur sempre la Ch’argon del
Matriarcato, e dovevo avere una certa dignità.
Dare
certi annunci non è mai facile come sembra. Mai facile come raccontare,
come descrivere l’espressione di dolore puro che vidi sul volto di
Zipherias, con una fascia nera del lutto al collo, o nel vedere Benagi chiedere
ad Isnark se tutto andasse bene, se lui avesse bisogno di qualcosa, e non
ricevere risposta alcuna, da quell’elfo che per quasi un mese
spiccicò pochissime parole al giorno, elfo
trasformato in larva dallo sguardo freddissimo e a volte fisso. Ritengo ancora
un vero e proprio colpo di fortuna il fatto che lui abbia trovato la forza in
sé per risvegliarsi, per divenire il papà premuroso ed un
po’asfissiante, l’amico un po’ cinico ma saggio, il regnante
lungimirante e prudente che è adesso. Non è facile ricordare che
fummo costretti, io, Isnark con in braccio la piccola,
che dormiva, e Regis, ognuno di fianco all’altro, facendoci forza a
vicenda, ad uscire fuori, mentre il sole ancora non era sorto, per sbrigare una
cosa che decisamente non mi piacque. Andare a presentare Nilyan al popolo, che,
come ci aveva annunciato il mio amico dagli occhi d’oro, si era affollato
all’ingresso del tempio, appena si era sparsa la voce del parto. Mi
sentii invadere da uno strano fastidio. Era così che intendevano quella
piccola? Un capro espiatorio? Una dea da venerare e mandare la
martirio? Mi mossi, irritata, proprio appena eravamo usciti. Zipherias
mi guardò e sorrise leggermente, così come Regis. Poi entrambi si
guardarono. Uno strano sorrisetto comparve sul bellissimo volto
dell’umano, un sorriso che, se non l’avessi conosciuto così
bene, avrei giurato fosse di scherno, un sorriso stranamente e sottilmente
possessivo. Ma mi stavo sbagliando. Sicuro. Il grande elfo scuro lo fulmino con
un’occhiataccia, e poi guardò me, allarmato. Io feci finta di
niente, e guardai allegramente per aria, stranamente attirata dai colori
dell’alba che avanzava. Poi guardai la folla. C’erano davvero
tantissime persone. Ricchi, aristocratici e borghesi, mercanti, artigiani,
pellegrini, sicuramente anche Spie, soldati, uomini, elfi, donne, e, se non
sbaglio, anche uno o due Insathi. Tutta quella marea di gente si era affollata
per vedere la piccola, nuova arrivata. Mi sentii gelosa. Per Machin non
c’era stata tutta quella festa, eppure ne aveva ugualmente diritto. Mh.
Dovevo provvedere, e subito. Quando sarebbe stato un po’ più
grande, gli avrei fatto un grande regalo. Uguale per tutti, ovviamente. Non
potevo fare preferenze. Guardai tutta quella gente, sentendomi un po’
sperduta. Tutti fedelissimi, tutti incredibilmente in
attesa. Dovevano essere stati in attesa fervente tutta
la notte. La stessa gente che avevo sentito pregare prima, tutti fedeli
entusiasti, che piangevano una Matriarca e ne festeggiavano una nuova.
Tuttavia, mi tesi lo stesso. Ero pronta a qualunque attacco, un attacco che non
venne. Non potevo sapere cosa sarebbe successo. Tuttavia, nessuno osò
attaccare la mia bambina. Mi guardai attorno, guardinga. La figura più
conosciuta che intravidi, nascosta in un angolo, appena appena
visibile, fu, penso, quella di Erik, quell’inquietante giovane che tanto
assomigliava a Regis. Lo guardai, e anche lui sembrò fissarmi: forse mi
fece un cenno, per salutarmi, o come monito, qualcosa che io fraintesi forse, o
compresi. Poi non lo vidi più. Sorrisi lievemente. Quella creatura mi
avrebbe insegnato molto. Poi fissai la mia piccola nipote. Isnark la presentò al popolo,
mentre il sole sorgeva, festoso, squarciando le basse nuvole ed illuminandoci
di una luce gioiosa, una luce piena di promesse e speranze per noi, che eravamo
ancora vivi, che avevamo ancora il coraggio di andare avanti. E la luce
inondò il viso delicato della mia piccolina, che si mosse, infastidita. La
fissai con tenerezza. La mia dolce Nilyan. Avrei fatto di tutto, per lei.
Passò
anche quel giorno. Per mantenere le apparenze, imbastimmo anche la finzione
suprema, la finzione delle finzioni: il funerale di Nemys. Come venni a sapere
nel pomeriggio, la mia Rinnegata aveva già preparato tutto,
accuratamente, da chissà dove fu fatto uscire un pupazzo di paglia, dalle
stesse dimensioni e forme di Nemys, addirittura dalla parrucca bianca, avvolto
accuratamente in un sudario. La cosa mi diede fastidio: la Rinnegata aveva
preparato tutto, senza dirmi nulla. Ma gliene fui molto grata. Non so se me l’avesse detto quanto avrei sopportato. Forse sarei crollata
prima. Tutto s’incastrava, preciso come gli ingranaggi di un orologio. Fantoccio
o no, comunque, non riuscii a sopportare la veglia. Aspettare fino al tramonto,
un’ora tipica per i fedeli a quel loro culto, seduta a piangere mi era
impossibile. Ero allergica a quelle cose, dopo quello
che avevo visto con Tijorn. Disertai allora quell’orribile funzione,
inutile, per di più, perché non ce l’avrei
fatta in ogni modo. Lasciai così Isnark, che comunque volle vegliare
quel simulacro a tutti i costi, stordito, avvolto da una nube di tristezza che
era impossibile eliminare, buttato in un angolo come un mucchio di stracci, malinconico e silenzioso, e mi rivolsi lì
dove c’era più vita. Avevo bisogno di questo, in quei momenti, di
urla, di pianti e strepiti, di risate, di combattimenti per fare la pappa. Volevo
far vedere a Dae ed Amarto che non ero crollata. Ero fiera di me stessa, di
quello che stavo diventando. E di quello dovevo ringraziare Regis, solo Regis,
intervenuto per l’ennesima volta a salvarmi dall’abisso in cui
stavo annegando, a tendermi una mano. Per quel pomeriggio non ci vedemmo
più. Avevo ancora bisogno di lui, e, quando, dopo l’alba, mi aveva
confidato che il girono dopo se ne sarebbe dovuto
andare, ci ero rimasta un po’ male. Volevo ancora averlo un po’ con
me. Era l’unico che mi separava dalle tenebre. Avevo accolto quella
notizia anche con rassegnazione. Sarebbe stato bello se lui fosse rimasto con
me un altro po’, soprattutto dopo che la situazione tra
di noi si era chiarita, in modo così inaspettato, ma si era
chiarita. Sarebbe stato bello averlo con me un altro po’. Ma quello
sarebbe rimasto tra i congiuntivi e condizionali, e perciò me ne feci
una ragione. Le nostre vite sarebbero scorse per sempre parallele, strade che s’incrociavano
solo per cambiare la vita di uno di noi due, e basta. Perciò, non avevo
sofferto molto. Certo, mi ero crogiolata un po’ in labili patemi da
amante disperata, ma poi non ci feci più caso. Ero abituata a
confrontarmi con dolori così grandi che quello mi parve
un gioco da ragazzi, così stupido da poter essere affrontato senza
problemi. Così ero stata tutto il pomeriggio con i vecchi, che erano
stati felici di vedermi nuovamente vitali, con Machin, scatenato più che
mai, con gli altri bambini, con la nuova nutrice, e, soprattutto, con Nilyan. Machin
aveva accolto la nuova arrivata con enorme curiosità. Si era sporto
verso la culla, mentre era in braccio a me, ed aveva indicato la neonata, che
dormiva, emettendo uno strano verso. Aveva cercato anche di allungarsi verso di
lei, curioso, ma io glielo avevo impedito, ignorando le sue sonore proteste. Sarebbe
venuto ben presto il momento in cui i due avrebbero giocato assieme. M’innamorai,
com’era successo con Machin, della mia piccola nipote. Non potevo tenerla
troppo in braccio, perché l’altro nipotino era davvero geloso di
me, possessivo in modo buffo, ma la fissavo, incantata, stupefatta. Era bellissima.
Stupenda. Perfetta. L’avrei protetta a costo della mia vita. Il pomeriggio
era passato in fretta, e mi aveva aiutato a non pensare. Li avevo lasciati la
sera con un grosso senso di rimpianto ed un peso nel cuore, e mi ero recata,
con Nilyan, nel piazzale antistante al tempio, dove mi aspettava Isnark, e
Regis, con il quale mi scambiai una lunghissima occhiata, indecifrabile ed
ardente al tempo stesso. mi accorsi spesso che lui mi
fissava. E, non lo nego, lo facevo anch’io. Spesso, durante la
lunghissima, tediosa cerimonia, m’incantavo ad osservare sul suo viso giovanile
i giochi di luce, desiderando pazzamente di stargli un po’ più
vicina. Isnark si prese sua figlia dalle mie braccia con un curioso senso di
gratitudine. Mi ringraziò con voce fievole, addirittura. Poi mi sorrise,
triste. Mi sentii invadere dalla speranza. Forse con lui non tutto era perduto.
Forse potevamo costruire qualcosa, un’amicizia che sarebbe durata a
lungo. Poi mi sedetti sul mio basso scranno, e guardai il piazzale, di cui
avevo un’ottima visuale. La gente, piangente e vestita a lutto, si poteva
contare a migliaia. Era un alveare silenzioso o singhiozzante, tristissimo da
guardare. Buffo. Sulla pira, allestita al centro e protetta da Celestiali, tra
i quali vidi un incarognito Zipherias, ancora marcio di gelosia per me, c’era
un mucchio di stracci. Mi permisi di sorridere. Poi aspettai impaziente la fine
del sermone, lunghe frasi che non dicevano nulla, solo vuoto e vano elogio. Sbadigliai,
annoiata, poi guardai la pira. Addio, Nemys. Forse un giorno ci rincontreremo,
forse no. Ma per sempre la ricorderò come colei
che mi ha salvato, che mi ha aiutato, che mi ha teso una mano quando tutti mi
bastonavano. Colei che mi ha insegnato ad essere una persona migliore. E quando
la sacerdotessa, con un incantesimo, fece sparire tutto, una prerogativa
della nobiltà religiosa, sospirai, imitata da Isnark. Con lei. Se ne andavano
tantissime cose. Ma, per fortuna, la forza sarebbe rimasta, per sempre. Se c’era
una lezione che Nemys mi aveva inculcato, era proprio quella di andare avanti. Ed
io intendevo seguirla a tutti i costi.
Capitolo 93 *** I corsi e ricorsi della memoria. ***
Quella sera raggiunsi di nuovo i bambini, perché avevo un matto
bisogno di loro
Quella
sera raggiunsi di nuovo i bambini, perché avevo un matto bisogno di
loro. Volevo vedere un po’ di persone felici, ignare della sofferenza del
mondo. Non ce la facevo più ad essere attorniata da gente che piangeva e
si strappava i capelli dalla disperazione. Nemys non voleva pianti, non voleva
sceneggiate tragiche. Non li aveva mai voluti. Mi resi conto, oziosamente, di
star considerando la mia Rinnegata ancora viva. Non ho mai smesso di cercare
lei in me, forse fu per questo. Forse l’ho anche trovata. Forse Nilyan mi
ha donato una stilla di forza di vivere, lei, i piccoli, Regis, che, con le sue
parole dolci o secche, con il suo amore, mi aveva fatto rendere conto di essere
ancora stranamente viva. Quindi, appena concluso il funerale, prendendo la piccola
dalle braccia del padre, che aveva ancora qualcosa da sbrigare, forse
organizzare la partenza di Regis e compagnia, mi avviai dentro, diretta verso
il castello. Salutai il mio umano preferito con una lunga occhiata, che lui
intercettò, ed alla quale rispose, guardandomi con quegli strani occhi
scuri ed impassibili, vecchi e giovani al tempo stesso. Poi mi girai,
velocemente, cercando di resistere alla smania che mi sussurrava di lasciarmi
abbracciare da quella creatura che non voleva altro che il mio bene, e andai
dentro. Inoltre, Nilyan aveva cominciato a farsi sentire. Doveva avere di nuovo
fame, cosa più che comprensibile, povera piccina mia. La rubai agli
sguardi adoranti dei sacerdoti, guardandoli male uno per uno, ed andai via a
passo veloce. Raggiunsi così il piccolo appartamento che Dae condivideva
con tutti i piccini, accompagnata spesso e volentieri da un Amarto pazzo di
contentezza per il suo nuovo e gradito ruolo di nonno, ed entrai. Come sempre,
in quel piccolo posto regnava una caotica pace. Il Maestro si era impossessato
di Machin, e gli stava facendo il solletico, mentre lui rideva come un pazzo.
Dae e la nuova nutrice chiacchieravano placidamente tra di loro, mentre la
vecchia balia pettinava i capelli di Manolìa. Nysha, Roxen e Chekaril,
che giocavano in un angolo, furono i primi a vedermi, vedere la loro piccola
zia, e mi si precipitarono contro, avvolgendomi in un abbraccio soffocante.
L’unico a non avermi superato era ormai il piccolo, che però
prometteva di farlo molto presto. Mia figlia, al contrario di me, sarebbe
diventata molto, molto alta, come il padre. Restituii il loro affetto con
dolcezza. Passai l’intera sera cercando di dimenticare la tristezza che
mi aveva assalito alla morte di Nemys, quel vago senso di solitudine che non prometteva
nulla di buono. Rimasi lì, a lottare con Machin per impedirgli di andare
fuori, ad addormentare Nilyan, a giocare con Nysha, Manolìa, Chekaril e
Roxen fino a che non fu buio fitto. I quattro più grandi avevano
ricevuto in regalo, da un nonno benevolo, dai nuovi giocattoli, e furono molto
restii a mettersi a letto, ad addormentarsi. Fui costretta a seguirli, come
accadeva ormai molto spesso, rimboccare premurosamente loro le coperte, e
cominciare a raccontare una favola, tra quelle che mi erano rimaste più
impresse dei deliri che s’inventava il Maestro. A loro piacevano, ed io,
ogni volta che avevo successo con loro, ero sempre più elettrizzata.
Avrei fatto di loro magnifici elfi, sereni, consapevoli, e, soprattutto,
liberi. Non avrei mai e poi mai permesso che soffrissero ancora, che
soffrissero come me. Li avrei protetti da ogni sventura, da ogni cosa, da ogni
malattia. Avrei sacrificato la vita per le loro anime innocenti. Ero quindi
tornata, dopo che anche l’ultimo si fu addormentato, nel piccolo
salottino. Dae era andata ad addormentare Machin, molto probabilmente, e
rimanevano Amarto e la nutrice, insieme ad un’altra persona che mi dava
le spalle. Mi avvicinai, in silenzio, per scrutarla meglio. Solo Amarto e la
nutrice si accorsero di me, ma non lo diedero a vedere. Sobbalzai quando notai
che si trattava di Isnark. Teneva in braccio la figlia, seduto, guardandola con
dolcezza, ipnotizzato. Non sembrò nemmeno notare il mio arrivo. Sospirai
un po’, andando a rifarmi la coda con un gesto sicuro. Sperai che
l’elfo stesse un po’ meglio di quella mattina. Al funerale lo avevo
visto terribilmente frustrato e prostrato. Mi aveva ringraziato addirittura, un
comportamento decisamente non da lui. Ci mancava solo che mi chiamasse Lsyn: se
fosse successo, allora davvero quella sarebbe stata una data storica. Il timore
nei suoi confronti comunque rimaneva. Forse non se ne sarebbe mai andato. Va
bene: avevo paura che lui mi ferisse ancora. L’aveva fatto troppe volte,
e ne aveva goduto. Ero diffidente, e mi avvicinai a lui come un gatto si
avvicina alla sua preda. Mi fermai a distanza di sicurezza, senza perderlo
d’occhio. Poteva scaricare il suo odio nei miei confronti ora. Feci un
flebile rumore per annunciare la mia presenza. Lui non si mosse nemmeno. “Isnark?”.
Chiamai, timidamente, avvicinandomi al Maestro, che mi prese una mano, e le
strinse, dolce e protettivo. Guardai quello che pochi giorni prima mi aveva
urlato contro, dicendo che provocavo solo disastri, solo perché avevo
lasciato cadere una tazza vuota a terra, con il gomito, inavvertitamente, e che
ora stava lì, immobile sulla poltrona, tenendo delicatamente sua figlia,
che stringeva un suo pollice, addormentata, avvolta in una copertina colorata.
Ancora lui non alzò lo sguardo verso di me. Aveva davvero i capelli
fuori posto, ed indossava gli abiti che gli avevo visto la mattina prima,
sgualciti, macchiati e stropicciati. Non sembrava rendersene conto.
“è bellissima”. Sussurrò, senza preamboli, senza dire
altro, incantato, senza cambiare posizione. “ci assomiglia. Assomiglia a
Ne…a lei”. Sobbalzai quando mi resi conto che lui non riusciva a
pronunciare il nome della compagna, quasi timoroso d’infangarne la
memoria. Intercettai lo sguardo della nutrice, la segaligna e scura Wynet, che
lo guardava, interdetta e preoccupata. Amarto scosse la testa, rassegnato. Mi
sentii un po’ inquieta, e preoccupata, molto. Non era da Isnark
comportarsi in quel modo. Non era da lui rinunciare a combattere. Solo in quel
momento mi fu esattamente chiaro quanto Nemys fosse importante per lui, quanto
lui vivesse per lei. La sua morte lo aveva distrutto. Aveva fatto anche a me
del male. Ma io avevo imparato a rivolgere la mia pena altrove, a trasformarla
in amore. Lui non sapeva farlo, era evidente. Sembrava uno di quei gusci d’insetto
vuoti, una pelle di serpente lasciata lì dopo una muta. Si trascinava
per pura inerzia. Riconobbi quel comportamento. Era stato anche mio, in un
tempo remoto. Feci per parlare, per cercare di confortarlo, senza muovermi da
vicino ad Amarto, sempre leggermente spaventata, ma lui mi precedette.
Alzò finalmente lo sguardo, schiodandolo dalla paffuta figura delle
neonata che aveva in braccio, e mi guardò. Tremai. Negli occhi scuri
c’era tantissima disperazione. Disperazione, un dolore cupo, misurato, ed
anche orgoglio. Mi fissò come un falco fa con la sua preda. Avevo spesso
l’impressione, quando ero con Isnark, di stare davanti ad un uccello
rapace, un falco pellegrino o un’aquila. Quello sguardo feroce aumentava
quell’impressione che avevo di lui. Deglutii. Mi spaventava, così
fosco, cupo, addolorato. In lui non vedevo un minimo segno di speranza. Era
troppo presto per cercare di farlo uscire fuori dal suo guscio, lo sapevo, ma,
se fosse continuato così sarei stata costretta ad intervenire. Ci
fissammo per un attimo infinito. Poi lui aprì la bocca. Quelle parole
sembrarono uscirgli a forza. “devo ammettere che mi dispiace,
Lsyn”. Disse, con dignità, stanco. Oh. Mi aveva chiamato per nome.
Annotai in mentre la giornata. Casomai qualcuno mi avesse rinfacciato qualcosa,
ecco. “ho l’impressione di aver sbagliato, con te”. Di nuovo
un attimo di pausa. Lui strinse forte gli occhi, poi li riaprì. Ci vidi
più dolore. Feci un gesto, per farlo smettere, ma lui non mi obbedì.
Era orribile vedere quello strazio sul suo viso. “…lei…me lo
diceva sempre. Lo diceva, che ero troppo crudele con te, che eri cambiata
tanto”. Di nuovo quello sguardo penetrante. Ebbi una voglia matta di
scappare a quell’indagine. Isnark mi ha sempre intimorito.Mi addossai allo schienale della
poltrona di Amarto. E per fortuna che se n’era accorto! Non riuscivo,
però, ad essere felice, a gioire di quelle scuse. Avevo superato
l’astio nei suoi confronti. “sono stato cieco. Ti ho vista
distrutta dal lutto, quasi pazza di dolore…e non ho capito. Mi sono
permesso di odiarti anche quando ti sei ridotta a letto per giorni, solo per
diventare Ch’argon”. Scosse la testa, stringendo le labbra. Sentii
una vera e propria pena farsi strada in me. Non c’era bisogno di quelle
parole. Avevo capito. Non volevo che lui mi chiedesse scusa. Non ce n’era
più bisogno. Feci per parlare, ma lui mi bloccò, con una strana
occhiata. Ci guardammo, e lui strinse ancora di più le labbra. “ti
ho vista disperata, cercare di nascondere il tuo dolore a tutti, per non farci
del male… ed io ti facevo male ancora di più. Ogni volta che mi
avvicino ti ritrai, ti tendi come se fossi pronta a ricevere uno schiaffo. Hai
paura di me, vero?”. Accidenti, non lo facevo così perspicace.
L’aveva capito, da chissà quanto. Mi diedi della stupida, mentre
facevo segno di no, scuotendo freneticamente il volto, e nel contempo facevo un
passo all’indietro. Non riuscivo più a nascondere certe cose. Beh.
Intanto non mi sarei aspettata delle simili cose dette da lui. Se fossi stata
normale, davvero gli avrei misurato la febbre. La gente doveva morire
più spesso, o quanto meno i suoi amici. Forse davvero lui si rendeva
conto del mondo reale solo in quel modo. Bah. Sul suo volto si dipinse un
sorriso un po’ assente. Poi parlò, con voce più flebile.
“non dico che tu non abbia fatto i tuoi errori”. Ecco. Se avesse
continuato in quel modo, mi sarei davvero preoccupata. Un Isnark che rinuncia
al suo orgoglio sta davvero malissimo. “anzi, metà della tua vita
è stata un errore bello e buono…però devo dire di essere
stato cieco al tuo cambiamento. Pensavo che tu fossi davvero l’ultima sul
mondo a poter cambiare, tu, la bastarda che ha ucciso un caro amico e quasi
ucciso me…”. Oh. Sbuffai. Beh, non c’era da disperare per
lui. Rimaneva sempre la solita testa dura. Ma non avrebbe mai smesso di
rinfacciarmi quelle cose? Accolsi quelle parole con una fitta di disagio, e mi
mossi, facendo chissà che smorfia. Io non volevo ricordare quelle cose.
Erano troppo brutte. Non volevo ricordare di essere stata una Spia. Lui scosse
la testa, e l’abbassò nuovamente verso la figlia, che si era mossa
un po’. Le accarezzò lievemente la guancia rosea.
“però mi sbagliavo”. Ecco. Una cosa di quel genere, detta da
lui, che non ammetteva mai certe cose, si poteva paragonare ad un tentativo di
perdono strisciando in ginocchio. Alzai gli occhi al cielo. Perlomeno, il
dolore non lo aveva devastato troppo. Era pur sempre un elfo molto forte. E
dovevo anche dargli ragione, perché, in quanto al fatto dei miei errori,
ne avevo fatti, e tanti. Chiunque ne faceva nella propria vita. Cercai dunque
di sorridere. Ero a metà tra il timore ed una strana voglia di fare
pace. Era un momento perfetto. Ed avrei fatto di tutto, pur di far vivere
serena Nilyan. Lui magari, così, avrebbe accettato la mia idea di
portarla a Sharilar con me. Non era il momento di dirglielo, ma
un’atmosfera tra noi due più rilassata poteva essere possibile.
Dovevo però approfittare di quell’occasione troppo bella per
essere sprecata. Dovevo. Vincendo il naturale timore nei confronti di
quell’elfo curvo e mesto, mi allungai verso di lui, staccandomi dal
Maestro, e facendo un passo in avanti, seguito poi da un secondo. Sentii un
vero e proprio senso di panico farsi strada in me. Ora tutto sarebbe cambiato.
Dovevo essere fiduciosa di me stessa. Mi resi conto di tremare leggermente. Mi
avvicinai a lui, tremante, e gli posai, cauta, una mano su una spalla. Lui non
si ritirò, né si mosse. Mi rilassai un po’. Sospirai.
“quindi…amici?”. Dissi, timorosa, con una stranissima
vocetta. Qualcosa in me si riempì d’irritazione. Mi stavo
comportando davvero come una cretina. Avevo un modo idiota di fare, molto
cretino. Ed avevo anche paura. Non potevo fare a meno di pensare che quella non
fosse altro che una trappola. Mi sentivo sempre di più simile ad un
animaletto selvatico, addomesticato a stento e timoroso. Mi sentii avvolgere da
un fiotto di calore, e da una sorta di rilassamento, quando vidi l’altro
elfo annuire debolmente. Qualcosa nella mia vita sembrò tornare al suo
posto. In effetti, quell’inimicizia mi aveva sempre fatto un po’
male. Il rimorso per quello che gli avevo provocato era vivo, ma lui non lo
capiva, o meglio, non lo aveva capito prima. Era bello vedere che anche lui
poteva rimangiarsi le sue parole. Dopo un altro attimo, mi ero però
scostata, ed ero andata a sedermi sul bracciolo della poltrona di Amarto. Non
mi fidavo ancora abbastanza. Rimanemmo in silenzio, per quella sera, riposando.
C’era un vuoto tra di noi, un vuoto che pesava più di una
presenza. Nemys sembrava non averci lasciato. Io ed Isnark condividevamo lo
stesso dolore, e partecipavamo silenziosamente ognuno al lamento
dell’altro. Avevamo perso entrambi una parte importantissima della nostra
vita, e ci capivamo. Forse è quello che ci lega tuttora. Rimanemmo fino
a sera inoltrata lì, in silenzio, parlando con gli sguardi, fino a
quando Isnark non si addormentò sulla poltrona, ancora in braccio la
figlia, che fu presa prontamente dalla nutrice, ai primi segni di veglia.
Amarto ci lasciò, dicendo che aveva sonno, e Wynet andò con la
piccola nella sua stanza, perché aveva fame. Io mi misi al posto del
Maestro, chiedendomi vagamente dove diavolo fosse Dae con Machin. Il salotto
era così tranquillo, silenzioso a parte il lieve russare di uno
stanchissimo Isnark, crollato letteralmente dopo quei giorni orribili, che fui
sul punto di addormentarmi anch’io. Stavo oziosamente prendendo in
considerazione l’idea di andarmene nella mia camera, di farmi un bel
bagno caldo e rilassante, e di mettermi a letto, visto che non avevo dormito granché
la notte precedente, quando sentii Dae entrare, e qualcuno piangere. Mi
svegliai di soprassalto, imitata da Isnark. Sobbalzai quando vidi la gigantesca
balia cullare il mio piccolo nipotino, che singhiozzava, disperato, una manina
in bocca, e mi alzai di scatto. “che?...”. cominciai, sconvolta.
Odiavo vedere il mio piccino disperarsi così terribilmente. Era
terribile. Faceva venire voglia di piangere anche a me. Isnark mi
guardò, confuso, poi fissò il bambino. Dae alzò gli occhi
al cielo, tendendomi il marmocchio, che si divincolò, piangendo,
accoccolandosi contro di me. Lo cullai, distrattamente. Che diavolo era
successo? Dae di nuovo alzò gli occhi al cielo, poi parlò.
“i denti”. Mugugnò, semplicemente. Io gemetti. Oh, no. Gli
stavano sicuramente uscendo i denti, di nuovo. Prevedevo una notte
completamente insonne. Quella notte compresi davvero il significato di
“essere genitore responsabile”. Borbottando una ninnananna
inventata sul momento, andando avanti ed indietro, fui costretta a
tranquillizzare il mio nipotino, aiutata a turno da Dae, e, da, addirittura, da
Isnark, che sembrò prendere il piccolo come se fosse un cucciolo di
drago, stranito. Per una volta, mio nipote non sembrò fare la
differenza. Tanto, a parte qualche sonno di un’ora al massimo, non faceva
altro che lamentarsi. Svegliò addirittura Nysha e Chekaril, che vennero
addirittura dentro per vedere cosa stesse succedendo, assonnati. Affidando
Machin a Dae mi affrettai a riportarli a letto, distrutta, calmandoli con
paroline dolci. Accidenti. Ero un’elfa, dormivo poco anche di mio, ma non
ero certo una creatura indistruttibile.Non vedevo l’ora che crescessero tutti, che divenissero tutti
bambini come loro. davano più soddisfazioni, e meno fastidio. Per
fortuna i due piombarono presto in un sonno senza sogni. Mi assicurai che Roxen
e Manolìa dormissero, ghiri in letargo come sempre, e poi tornai dal mio
piccolino. Ci diede tregua solo verso l’alba, assopendosi tra le mie
braccia, stanco. Ero stanchissima anch’io. Mi si chiudevano gli occhi.
Non sapevo come avrei fatto da sola, a Sharilar, o al massimo con Amarto.
Proprio non sapevo. Magari avrei chiesto a Dae di venire con me. Era
l’unico modo per sbrigarsela. Mi ero dunque assopita sulla poltrona,
mentre il povero Isnark, capitato di sicuro in una brutta situazione, andava a
vedere come stesse la sua piccola. Avrei davvero voluto imitarlo, ma non ce la
facevo. Ancora in braccio il mio piccolo, mi addormentai. Avrei riposato poco,
lo sapevo. Per il pomeriggio, dovevamo accompagnare Regis al punto in cui era
venuto, per farlo tornare indietro. Brutto pensarlo, abbandonare
quell’umano in quel modo, maera purtroppo necessario. Lui doveva tornare da dove veniva. Quello non
era il suo posto, quella non era la sua gente. Preferivo lasciarlo andare che
vederlo infelice. Avrebbe fatto troppo del male anche a me.
Il
mattino dopo, ormai quasi verso il pomeriggio, ancora prostrata per la notte
orribile, mi svegliai con un mal di testa colossale. Mugugnando, mi trascinai
fino alla mia camera, dopo essermi messa d’accordo con Isnark, ugualmente
sconvolto, con gli occhi iniettati di sangue, per l’ora in cui avremmo
dovuto accompagnare Regis, per salutarlo un’ultima volta, con
l’idea fissa di un bel bagno caldo. L’acqua pulita e profumata mi
aiutò a schiarirmi le idee. Era una bella giornata, più calda
della norma. Riuscii anche a mettermi degli abiti più freschi.
Pettinarmi fu davvero un’impresa impossibile. Mi limitai a fare una coda
di cavallo, semplice ed ordinata. Lasciare il mio collo scoperto, stranamente,
non mi dava più fastidio. Avevo imparato a non avere paura delle mie
cicatrici, che facevano parte di me, monito perenne ai miei errori. Non potevo
fingere di non essere accettata, non dopo che nessuno si scomponeva più,
e, soprattutto, non dopo quella notte passata con Regis. Chissà se lui
si era reso conto del valore che lui aveva avuto per me. Ho l’impressione
di si, anche se non voglio ammetterlo nemmeno a me stessa, qualche volta. Mi
guardai ugualmente nello specchio con una smorfia. Poi sfiorai la guancia
deturpata. “sei davvero bellissima, tesoro”. Cinguettai,
infastidita, per poi voltarmi. Evitai intenzionalmente di posare il mio sguardo
sul letto ancora disfatto, ed uscii fuori. Per un po’, vagai senza meta,
gironzolando per il castello senza pensieri. Non avevo voglia di far nulla, e
volevo solo muovermi. Non era una bella giornata, per me, nonostante ci fosse
un bellissimo sole. Regis se ne stava per andare. Non avremmo più potuto
parlare, non avrei più potuto contattarlo. Se solo mi fosse successo
qualcosa, lui non ne avrebbe saputo nulla. Né, ovviamente, io avrei
saputo nulla di lui. Conoscevo poco del suo futuro, mi ero rifiutata di
approfondire la questione. Insomma, non sarei mai più riuscita a
vederlo, a toccarlo, a parlare con lui. Mi faceva molto male come cosa. Di lui
mi sarebbero rimasti solo ricordi agrodolci, o forse speravo solo quello. Non
volevo dare la vita ad un mezzelfo, per niente. La prospettiva
m’inquietava, mi metteva una strana repulsione addosso. Avevo visto
Junielle, il suo destino. Non sarebbe stato amato, sarebbe stato sempre
dileggiato. Io avrei rischiato moltissimo per metterlo al mondo, la mia stessa
vita. C’è una ragione per la quale le madri di mezzelfi sono per
la maggior parte umane. La metà delle elfe che decide di non sbarazzarsi
di un mezzelfo muore, di parto o per qualche altro motivo. Sotto questo punto
di vista, siamo fin troppo fragili. Se solo fosse successo qualcosa, davvero
non avrei saputo che pesci prendere. Non avrei avuto il coraggio di disfarmi di
un eventuale figlio di Regis. L’avrei amato troppo. Nello stesso tempo,
avrei messo in pericolo me, e lui. Pregai chissà chi che non fosse
successo nulla. Non doveva succedere nulla. Non ci sarebbe stato nessuno che mi
avrebbe appoggiata. Zipherias mi avrebbe strozzata. Isnark si sarebbe
allontanato. Anche Capouille mi avrebbe disprezzata. E la prospettiva di una
battaglia di quel genere mi metteva davvero poca forza in corpo. Non potevo
mettermi a letto, sola, per non morire. Non in quel momento in cui tutti
avevano bisogno di me. Mugugnai di nuovo. Ero stata avventata. Eravamo stati
avventati. No, non dovevo avere simili pensieri. Non era successo niente, e
basta. Dovevo convincermene. Non mi sarebbe accaduto niente di male. Nessuno sarebbe
venuto a conoscenza di quello che era successo tra me e quel giovane umano. Sarebbe
rimasto tutto nei miei ricordi. Tutto. Dovevo convincermene. Aumentai il passo
per sfuggire a quei pensieri sgradevoli. Vidi Capouille, il mio amico dai
capelli rossi, in lontananza, attorniato da due elfi più anziani, i suoi
genitori, che avevo conosciuto per sbaglio. Dalla madre avevo capito perché
il figlio era venuto fuori così. Lui era l’ultimo, il più
piccino. E lei era asfissiante. Anche
con me, mi aveva guardato malissimo, poi aveva detto a Capouille che doveva
proteggermi da li. Il mio amico dai capelli rossi in quei giorni balbettava
più del solito, ed era nervoso e goffo. Madre velenosa, acida, che per
poco non avevo ammazzato. Preferii cambiare strada. Mi accorsi così che
era quasi l’ora. Correndo, mi fiondai verso le stalle, in cui già
vi trovai Regis, Peter, che mi fece l’occhiolino, Masato, che mi
salutò con bonarietà, ed Isnark, già a cavallo. Mi guardai
con il mio amico umano, attimi infiniti. I suoi occhi scuri mi stavano dicendo
tantissime cose. Deglutii. Era bello. Bello, intoccabile, ora. Avrei voluto
salutarlo degnamente, donargli un ultimo bacio, aggrapparmi a lui ed implorarlo
di non dimenticarmi mai. Ma non potevo. Così distolsi lo sguardo,
addolorata, e mi avviai verso Nina, che, già bardata, mi aspettava.
La cavalcata
verso il luogo dove Regis e gli altri erano arrivati fu stranamente breve. Solo
Peter e Masato parlavano tra di loro, nel loro linguaggio, mentre Regis ed
Isnark confabulavano raramente. Io non riuscivo a parlare. Cavalcai tutto il
tempo in coda alla piccola fila, gli occhi fissi sulla nuca del mio umano
preferito. Mi sarebbe mancato moltissimo, troppo. Volevo baciarlo un’ultima
volta, sentire il suo profumo fresco. Cose che mi erano tutte proibite, non di
fronte a tutti loro. Arrivammo nei pressi di quella specie di arco, ora
debolmente illuminato, in un lampo, o almeno mi sembrò così. Scendemmo
da cavallo. Gli altri soldati salutarono i tre con allegria, e me con un cenno
del capo. Si sbrigarono in fretta a passare dall’altro lato. Sparirono tutti
nella luce. Sentii strisciare, sgradevole, sulla pelle il sentore della magia. Non
mi piaceva. Odiavo quella sensazione di malessere viscido. Mi prendeva allo
stomaco, e me lo chiudeva. In breve, rimanemmo solo io, Isnark e Regis. Con un’occhiata
indecifrabile verso di me, lui si allontanò un attimo, con la scusa di
controllare i cavalli. Rimanemmo solo io ed il mio amato umano. Ci scrutammo,
ognuno incatenato negli occhi dell’altro. Mi schiarii la voce,
imbarazzata. Odiavo gli addii. Dei, come volevo dirgli che lo amavo, e l’avrei
sempre amato! Non potevo. Solo un bacio. Solo un bacio, poi potrò morire
in pace. “ti auguro di trovare le risposte che cerchi”. Brontolai,
con una stranissima voce triste. Non mi sembrava tanto un augurio. Tra di noi
correvano milioni di cose non dette. Ed io vedevo che anche lui era infastidito
da quelle sceneggiate. Sul suo viso s disegnò un piccolo sorriso. Sospirai.
“anch’io a te, Lsyn”. Disse, in tono morbido e neutro, senza
staccare gli occhi dai miei. “il nostro viaggio è appena all’inizio.
Non sarà semplice”. Scossi il capo, mesta. “ogni viaggio
è difficile, Regis”. Dissi, stringendo le labbra. Perché non
potevamo impegnare il nostro tempo in maniera più proficua? Un bacio,
per esempio? Un abbraccio? Io avevo bisogno di lui. Impazzivo, con lui, ma
senza nel frattempo. Era straziante vederlo andare senza poter fare altrimenti,
senza poterci fare niente. “ma forse il mio non sarà così
arduo”. Sorrisi, misteriosa. Bene, io sapevo qualcosa che lui non sapeva.
Sarebbe rimasto un pezzo di lui, in quella terra. E, alle sue domande, alla sua richiesta di
spiegazioni, io gli parlai di quella che era a metà tra una leggenda e
la verità. C’era qualcosa di lui che rimaneva. Una spada, in un
posto che per gli umani aveva la valenza di un santuario. Se solo avessero
saputo che Regis aveva appoggiato la nostra causa, ci avrebbero seguiti contro
Lainay. Bisognava solo attendere, attendere che i tempi fossero maturi per le
coscienze timorose ed addormentate degli uomini. Lui sembrò incredulo,
ma si scrollò nelle spalle. A tempo debito, anche lui avrebbe saputo, e
più di noi. Poi ci fu un attimo di silenzio. “ora…io devo
andare”. Mormorò alla fine, con un sospiro. Sentii mille frecce
distruggere il mio fragile cuore, strapparlo e capovolgerlo. Quasi mi si
riempirono gli occhi di lacrime. Era necessario. Doveva esserlo. Un sorrisino
triste si disegnò sul viso mesto di Regis. Ci guardammo, a lungo,
parlando senza parlare. Poi decidemmo, per l’ultima volta, ad annullare
le distanza che ci separavano. Il nostro ultimo bacio. Mi tornò in mente
Tijorn, quando, in quel bosco, aveva baciato Akita con quel disperato
trasporto. Era quello che stavamo facendo noi, baciarci come se fosse l’ultima
ora del mondo, un lungo bacio che rimarrà nel mio cuore come una
dolorosa stilettata. Ci staccammo, riluttanti, guardandoci con immensa
tristezza. Regis. Mi sarebbe mancato, moltissimo. Ma ora doveva andare. Lui si
girò, e fece per fare qualche passo. Poi mi guardò di nuovo,
stavolta con un sorriso. “ah”. Disse, tornando ad essere sornione e
impassibile come sempre. “dimenticavo…”. Mise una mano in
tasca, e rovistò per un po’. Lo guardai, curiosa. Che voleva
darmi? Finalmente, lui estrasse qualcosa di luccicante, e me lo lanciò
al volo al grido di “prendi, Lsyn!”. Con i miei ottimi riflessi da
elfo, obbedii, e poi aprii il pugno. Mi ritrovai a fissare uno strano monile,
una sorta di anello lavorato, appeso ad una catenina. Era bello, ed era caldo. Sorrisi
vagamente. Un ricordo. Di tutto. Mi sentii più felice. Di poco. “cos’è?”.
Dissi, guardando verso Regis. Lui mi guardava, ed era arrivato ad un passo dal
portale. Sorrise, indecifrabile. Mi salirono le lacrime agli occhi. Ero vicina
dal non vederlo più. “è il ricordo di una persona cara”.
Il suo sorriso si allargò. Non capii, e lo guardai, vacua. “una
persona cara?”. Era suo, quel ricordo? Oppure chi? Non riuscivo a
ricordare nessuno che indossasse quel bel monile. Nessuno. Lui sospirò,
misterioso.“quando la tempesta del tuo cuore si sarà placata
almeno un po’”. Disse, calmo. Sembrava volermi spiegare qualcosa,
senza poterlo fare. Mandai bene a mente quelle parole. Non ho ancora obbedito,
ma lo farò presto. Lo giuro su di lui. “vai al villaggio di
Yamaura. Lì troverai le risposte che vuoi”. Lo guardai, stranita,
e lui mi fece un occhiolino. Non avevo mai sentito parlare di un villaggio del
genere. Avrei dovuto cercare a lungo. Chissà perché voleva che io
andassi lì. Dovevo farlo però. Un giorno o l’altro, l’avrei
fatto. È ancora una promessa non risolta. Ma lo farò presto,
quando capirò dov’è Yamaura, o cos’è. Sono molto
curiosa. Odio gli enigmi irrisolti. Ci scambiammo un ultimo sorriso, e mi
sentii Isnark vicino. Sperai che non ci avesse visti baciarci con confidenza e
trasporto, un bacio decisamente non amicale. “addio, Lsyn!”. Le sue
ultime parole. Con un lampo di luce, anche lui fu inghiottito da quel portale,
per non uscirne mai più. Strinsi forte a me quell’anello. Domande o
no, sarebbe rimasto per sempre il ricordo di un umano che ho amato con tutta me
stessa. Non so che fine abbia fatto, non so dove e come sia morto. Ma spero che
abbia trovato pace. Voglio che sia così. Strazianti, dolci ricordi
accompagnano la sua figura. È lui che mi ha donato la forza di andare
avanti. Lui che mi ha tirata fuori dall’abisso. Lui che mi ha insegnato a
non odiarmi. Ed io non odierò lui mai più. Sarà sempre,
per me, tra le figure più importanti della mia vita, che l’hanno
rivoltata come un calzino, che l’hanno trasformata in qualcosa d migliore
con la loro presenza. Auguro ogni bene a Regis. Il mio pensiero è fisso
molto spesso a lui. Forse non se ne andrà mai dalla mia memoria. Lì
vive ancora. E per sempre vivrà, fino a quando, almeno, io non
morirò. Ho amato Regis, e lo amerò per sempre. Difficile non
farlo, con una persona simile. Spero tanto che non gli sia accaduto nulla di
male, nella vita, e che abbia trovato la sua strada. Pochi come lui lo
meritano.
Ci apprestammo, a tornare, io ed Isnark, nel silenzio tombale che si era
andato a creare dopo che Regis era scomparso, se n’era andato, facendo
tornare tutto a quella normalità che tutto era tranne che normale,
avviandoci di malavoglia verso i cavalli
T___________T
Il prossimo capitolo, beh, mi duole dirlo…
FINIRO’!!
xD
il prossimo sarà l’epilogo, perciò la
storia in sé per sé finisce qui.
Ma attenti, perché ci sarà un seguito…e
lì Lsyn ne vedrà delle belle xD
preparatevi a ricevere altre mazzate con il, chiamiamolo “libro secondo”
xD xD
Vi saluto tutti, e vi dico di non perdervi la prossima puntata xD
Nel prossimo capitolo provvederò a ringraziarvi per il vostro
supporto, ma ora vi dono un bacio =*
Alla prossima!
Akita
Ci
apprestammo, a tornare, io ed Isnark, nel silenzio tombale che si era andato a
creare dopo che Regis era scomparso, se n’era andato, facendo tornare
tutto a quella normalità che tutto era tranne che normale, avviandoci di
malavoglia verso i cavalli. Io stringevo ancora in mano quello strano anello
istoriato, mantenuto da quella semplice catenina, e mi sentivo quasi stordita.
Era strano, quasi fantastico, quello che era accaduto in quei giorni convulsi.
Di nuovo, la mia vita aveva subito un cambiamento drastico, in così poco
tempo. Di nuovo, qualcuno a cui tenevo molto mi aveva
lascito. Nemys se n’era andata, l’ultima mia ancora. La parte
più pura di me era volata via, lasciandomi definitivamente sola. Dovevo
ancora metabolizzare la cosa, pensare che non ci sarebbe stato mai più
nessuno a guidarmi, ma che sarei stata io a dover guidare, senza spalle forti
dietro. Avrei dovuto imparare ad usare le ali che mi erano state donate senza
più sostegno. Non capivo ancora come fare, non lo nego.
Né, tra l’altro, ancora l’ho capito. Come posso vivere una
vita autonoma quando non mi è mai stato
insegnato come si fa? Sono sempre stata di altri. Ombra, Nanetta, anche Mostro,
Ch’argon. Mai Lsyn, mai di me stessa, in una vita tranquilla in cui tutti
mi temevano e nessuno poteva osare mettermi i piedi in testa. Fondamentalmente,
ero sempre esistita in virtù di una sfida ben più grande di me.
Non so ancora vivere nella banale quotidianità, non so ancora
rapportarmi in maniera sana con le persone, una nobile improvvisamente declassata
al rango di contadina, non so ancora come non sprofondare nella
vergogna tutte le volte che gli sguardi si posano sul mio viso disfatto,
i mormorii pietosi che mi fanno andare su tutte le furie. Non riesco ancora a
vivere, e tutto quello che riesco a fare è crescere dei piccoli in modo
che siano autonomi ed indipendenti, mai plagiati da qualcuno più grande
di loro, più potente, com’era successo a me. Su questo, sono
intransigente. Quando Isnark mi parla di cominciare ad insegnare a Nilyan i
precetti del governo, dando maggior importanza ad essi
che magari ad altre cose, gli vorrei staccare la testa. Spesso gli rispondo che
se vuole un re se lo va a cercare, e che non deve plagiare qualcuno che deve
crescere sano e protetto. Ripetono sempre che quello che sto facendo ha davvero
del bello, che davvero sono cambiata, nel meglio. Ma io non riesco a vedere
questi cambiamenti. Sono ancora ossessionata, ossessionata da quel passato che
non vuole saperne di andare via, di svanire una volta e per tutte, di farsi
meno doloroso. Ancora, ad intervalli ora radi, ora fitti, mi vengono a visitare
gli incubi più orribili. Sogno Chekaril, Tijorn, tutti i miei errori,
tutte le mie perdite, né riuscirò mai a guarire quelle ferite che
solcano il mio animo, numerose quanto quelle che mi sfigurano. Però
cerco di non darlo a vedere. Mi sono rassegnata alla mia vita, rinunciando
all’ambizione di brillare ad ogni costo, rinunciando al mio orgoglio,
piegandomi docile al destino, una canna palustre al vento. Eppure, devo e dovevo
vivere. Anche solo per chi è morto per farmi questo regalo. Anche solo
per dispetto nei confronti di Lainay. Eppure, non mi farò vedere mai
più ad una cerimonia a volto scoperto, né cercherò di
legarmi a qualcuno che non siano i piccoli. Ho
rinunciato alla maschera, ho rinunciato ad isolarmi completamente dalla vita,
ma metto sempre una certa distanza tra essa e me. In
fondo, ho sempre vissuto la bellezza di cinquant’anni in perfetta
solitudine, no? Non mi sento pronta a vivere di nuovo, ad aprire gli occhi.
Forse un giorno troverò la forza, forse no, affossandomi in
un’esistenza senza vita, un’esistenza spesa solo per far vivere gli
altri, tenere il proprio mantello affinché gli altri lo possano usare
come tappeto per non sporcarsi i piedi. Eppure, quell’umano mi ha donato
una speranza che ancora perdura. Mi ha fatto capire che sono ancora un essere
senziente, che provo emozioni, che posso essere anche felice. Per quanto la
gioia sia sempre funestata dalla tristezza, per quanto
non esista mai una vera felicità, essere serena, per me, è
possibile. Si tratta solo di me, ora, solo ed esclusivamente di me. Raggiungere
una calma interiore, in quel mare che è ora in tempesta, potervi tornare
a navigare con il vento in poppa. Questo pensiero mi fa sempre sentire vicina
all’obiettivo, e, nello stesso tempo, diametralmente all’opposto di
esso. Vedo la gioia vicinissima, e lontana come
l’orizzonte. La vedo come una chimera vivente. Ho l’impressione che
essa sia nascosta dietro un velo, e che basti un solo
passo per sollevarlo e raggiungerlo. Eppure, ci sono ancora delle catene che
bloccano le mie ali. Qualcosa non è mai morto, e lo stesso rimorso
m’impedisce di essere felice, lo stesso senso di colpa. In quel momento,
in quel bel pomeriggio caldo, in cui, assonnata, osservavo quelle rovine ormai vuote,
mi sentivo così. Avvertivo la pace vicina, a portata della mia mano, ma
non riuscivo a raggiungerla. Non riuscivo a rendere reale la lezione che Regis
mi aveva dato. Non riuscivo a trasformare in sorrisi la speranza. E poi avevo
troppo da fare. I bambini mi avrebbero aspettato per la notte, perché io
li facessi addormentare, e dovevo riposarmi, se non volevo crollare prima di
loro. Machin sicuramente stava ancora un po’ male per il dente, povero
piccolo. Così, io fui la prima a scrollarmi, a muovermi. Guardai
brevemente il monile che Regis mi aveva lasciato, incuriosita, facendolo
scintillare alla luce del sole. Poi lo misi in tasca. Non l’avrei
indossato fino a quando ilmistero sulla sua origine non si fosse
chiarito. Chi era quella persona cara di cui mi aveva accennato? Che
c’entrava, poi, quel villaggio dal nome così strano, sperduto
chissà in quel buco montano? Cosa significava quell’anello? Non ne
avevo la minima idea. Certamente, non avevo mai visto qualcuno con indosso un
gioiello del genere. Un oggettino delicato, argenteo, di fattura più che
elfica. Avevo visto cose simili a Galinne, ma più ci pensavo, meno la
cosa mi convinceva. Non aveva senso. Io non conoscevo nessuno di Galinne. Mi
risvegliò dai miei pensieri Isnark, ancora vagamente stordito.
“dovremmo andare”. Io annuii. Nilyan era rimasta scoperta per
troppo tempo. Era pericoloso: Lainay poteva approfittarsi di quel momento in
cui Uruk era relativamente debole per attentare alla vita della giovane
principessa, della minuscola principessa. Sangue di Rinnegato o no, era nata da
poche ore, e certamente non poteva ammazzare le eventuali Spie a colpi di
magia, cosa ridicola da pensare. Una neonata non è così difficile
da uccidere, benché io l’avessi affidata nelle mani di Dae e di
Amarto, che controllava come un cane da caccia benché
fosse cieco, e da Zipherias. D’accordo che l’ultima persona era
stata lievemente minacciata, perché se solo fosse
successo qualcosa anche di minimo alla mia nipotina gli avrei cavato gli
occhi dalle orbite con le mie mani, ma la cosa aveva lo stesso senso. Eravamo
quindi in una situazione parecchio destabilizzante in potenza. Era quasi ora di
parlare ad Isnark del mio piano. Magari sarebbe stata solo una soluzione momentanea, ma efficace. Quando era sola con me, potevo
mettere una mano sul fuoco che sarebbe stata protetta da tutte le Spie. Non le
avrei permesso di allontanarsi nel bosco di più di qualche metro. Sarei
stata peggio di qualcosa di una mamma chioccia. Sperai solo che non ereditasse
la mia natura. Di solito, da piccola,
quando Amarto mi diceva di non fare qualcosa, di solito era quella la prima
cosa che facevo. Alla fine nemmeno le bastonate servirono per correggere questo
piccolo vizio. Me lo levai solo all’epoca del noviziato, quando ad ogni
sgarro poteva corrispondere da una settimana a due mesi di servaggio, una cosa
che proprio non mi andava giù, o punizioni decisamente peggiori, ed
umilianti. Insomma, se solo Nilyan fosse stata una testa calda come me, proprio
non avrei saputo che fare. Bisognava renderla responsabile ben presto. Tra me
ed Isnark, il mio nuovo, insospettabile amico, c fu un altro momento di
silenzio meditabondo. Chissà che cosa stava pensando. Io non lo guardavo
nemmeno, tutta presa a pensare al futuro dei marmocchi. Alla fine, si rivolse
di nuovo a me. Mi anticipò, ed io mi ritenni subito fortunata. Non so
come avrei fatto a descrivere ad Isnark la mai idea di
allontanare sua figlia per un po’ da Kyradon, dalle sue braccia. Sarebbe
stato capace di sgozzarmi. M’intimoriva ancora molto. “ho parlato
con i sacerdoti”. Disse, in un mormorio. Mi girai verso di lui,
incuriosita. Mi stava fissando, con un’aria che
m’insospettì. Sembrava cominciare a girare intorno ad una cosa,
per poi dirla. Sembrava volermi dire qualcosa, e, nello stesso tempo,
rifiutarsi di confidarmi quello che gli passava per la mente. Lo guardai, temo,
in un modo un po’ strano. Voleva qualcosa da me, ne ero certa, ma non
riuscivo a capire cosa. Le seguenti parole mi chiarirono di più la
situazione. “sono tutti dell’opinione che sarebbe più saggio
allontanare Nilyan per un po’ da Kyradon. Tu cosa ne pensi?”.
Ah…ora capivo! Dovetti reprimere a stento un sorrisetto. Bene. Mi ero
fatta tanti problemi per nulla. A quanto pareva, lui doveva essere arrivato
alle mie stesse conclusioni. O era una cosa ovvia, o davvero era l’unica
soluzione possibile al problema. Cercai di non dare a vedere che avevo capito.
Temo, in questo, di aver miseramente fallito. L’elfo mi guardò
alzando lievemente gli occhi al cielo. Gli risposi con una certa aria casuale,
guardando la chioma di un albero a caso. “già… Lainay
potrebbe ucciderla…non si sa mai”. Lui scosse un po’ il capo,
come per dirmi che aveva capito che avevo compreso il suo gioco, e sapevo
esattamente dove mi voleva portare. Arrossi lievemente, e non lo guardai
più. Oh. Ma non doveva essere altro che felice, lui, di avermi fatto
capire quello che voleva. Doveva essere contento di avere una Ch’argon così sveglia. Bah. A mio parere, solo gli dei devono sapere quanto stesse soffrendo in quel
momento ad affidarmi la sua piccola gemma. Beh...era necessario. A ben pensarci
se pure Nilyan avesse ereditato la propensione alla magia della madre, non
sarebbe riuscita ad utilizzarla almeno per i primi vent’anni di vita,
nemmeno involontariamente. Le capacità magiche, nei nostri piccoli,sono
completamente sopite fino a quell’età circa, per poi arrivare alla
massima potenza al raggiungimento della maturità. Insomma: era come
qualunque bambina umana, completamente inerme. Ci voleva qualcuno che la proteggesse almeno fino ai primi due o tre anni, anche se
quel qualcuno non era altro che una maga da strapazzo, buona solo in
semplicissimi trucchetti da Spia, e nient’altro, dalle dimensioni
microscopiche, un ragno scheletrico, con tutta la sua forza nella protettiva
buona volontà che si portava dietro. Davvero un’ottima guardia del
corpo. Eppure, Isnark doveva fidarsi di me più di mille sacerdoti, per
affidarmi quell’onere. Era davvero incredibile, e la cosa mi riempiva di
gratitudine. Se solo mi avessero detto che un giorno quell’elfo mi
avrebbe colmato di fiducia, beh, credo proprio che sarei scoppiata a ridere in
faccia al malcapitato interlocutore. Beh. Il mondo girava davvero come voleva.
Il sovrano di Uruk assunse la mia stessa aria, ben poco convincente.
Cominciammo, così, ad avviarci verso i nostri cavalli, che ci
aspettavano docili, legati ad un albero. “beh…il problema è
uno”. Disse, guardando in aria. Ma che bravo attore innocente. “dove
possiamo nasconderla?”. Oh, guarda. Proprio non mi ero accorta dove
voleva arrivare. Saltai su Nina con aria sicura. Se Isnark me lo chiedeva…ma proprio… l’avrei fatto, certo.
Decisi così, mentre il mio amico si sistemava sulla sua cavalcatura
grigia, di abbandonare ogni finzione. Mentre ci avviavamo a passo lento verso
il castello, tranquilli, inondati dalla calda luce del sole del primo
pomeriggio, nella quiete del bosco di Sharilar, parlai, seria, sottovoce, come
a non voler disturbare ciò che mi era attorno. “ci ho già
pensato”. Dissi, guardando stavolta fisso Isnark, che non rifuggì
il mio sguardo. “potrei portarla con me, a Sharilar…avevo
intenzione di trasferirmi lì da un po’”. Arrossii di nuovo,
lievemente. La mia idea era sempre stata quella, tornare nel luogo della mia
infanzia, per vivere le ultime gocce di pace dorata, da assaporare prima di
immergersi nuovamente nella vita tumultuosa.Dovevo solo sistemare un po’ la
casetta di Tijorn e poi tutto sarebbe andato al suo posto. Io lì ci ero
cresciuta. Non esisteva luogo più bello. Affrettai così a
spiegare la mia scelta, parlando rapidissima. “È vicino, a portata
di mano in caso di pericolo, ma sufficientemente tranquillo per un
bambino”. Isnark fece una smorfia. Sicuramente non doveva piacergli
l’idea di separarsi dall’ultimo pezzetto di Nemys sulla terra per
un po’. Ma era purtroppo necessario: era brutto, però, leggergli
negli occhi il dolore. Dovevo trovare una soluzione, una via di mezzo.
Sicuramente c’era. Non potevo privare il padre della figlia. “non è
una cattiva idea”. Quelle parole parvero uscirgli di forza dalla bocca,
come se le sputasse. Perlomeno, non sembrava avercela con me, affatto.
“io avrò comunque da fare. Bisogna organizzare le difese: Lainay
non starà per sempre a grattarsi la pancia”. Cosa purtroppo vera.
C’erano ancora altri regni da aggredire, da fagocitare. Tra di essi, Uruk. Il mio stesso essere Ch’argon mi
faceva annaspare come un passerotto in una trappola al solo pensiero. Il Regno
non era mai sazio. Erano state fatte promesse su promesse, era vero. Impossibile
sapere però quante e quali di esse fossero
vere. Mai fidarsi del serpente che dorme. Il problema è che eravamo in
una situazione difficile, per non dire drammatica. Avvolti, praticamente, nel
Regno neonato. Strozzati. Un minimo passo falso, e ci saremmo trovati le armate
degli Immortali a devastare la bianca Kyradon. Era un orrore pensare a
quell’eventualità. I regni umani erano troppo deboli, spauriti, o
lontani. I tempi non erano ancora maturi. “già…”.
Asserii, sospirando, malinconica. Era così ingiusto che quella pazza
avesse tutto. O non avevo fatto nulla di male, intenzionalmente, a qualcuno.
D’accordo. Ammazzare Chekaril era stata una mia iniziativa. Ma penso di
aver scontato abbastanza per quello, no? Perché accidenti a chi tutto ed
a chi niente? Il mondo è cieco. “ma ora come ora sarà
difficile. Dove trovare altri alleati? Nessuno ha il coraggio di mettersi
contro il trono di Galinne”. Conclusi, amara.
Lainay aveva i suo Cani, che la circondavano
dappertutto, fedeli. Aveva un figlio intoccabile. Noi eravamo disperati.
Combattevamo per un ideale ormai morto. E tutto questo, solo per sopravvivere.
Era squallida, quella lotta senza valori di fondo. E pure così
terribilmente vera. Nessuna guerra ha motivi di fondo. Solo
stupide mire economiche. Vite e vite, per soddisfare la sete di potere
di qualcuno, capace di trasformare i sogni sadici esistenti in tutti gli esseri
viventi in una terribile realtà. Eravamo stretti in una morsa terribile.
Come uscire da quella orribile situazione? Guardando Isnark, triste, mi accorsi
di una certa aria meditabonda. Chissà cosa stava pensando. Non lo so
ancora, né ho mai approfondito la questione. Non ne ho voglia. “se
serve, chiederemo anche aiuto alle leggende, Lsyn…”.
Sentenziò, solenne. Poi spronò il suo cavallo, in modo che non
potessimo più parlare.
Il mese
seguente fu tutto impegnato per rifinire il piano che avevamo costruito quel
pomeriggio. Impedendomi di mettere piede in un luogo dove i ricordi mi
avrebbero fatta annegare, Capouille, Benagi e Zipherias si accollarono la
responsabilità di mettere un po’ a posto la casa di Tijorn, che
non doveva essere altro che un rudere un po’ abbandonato, un focolaio
freddo, gelido, senza il sole che l’aveva illuminato. Non vollero
categoricamente farmi entrare, dicendo che mi sarei davvero distrutta, e che
non ce n’era bisogno. Li vedevo molto di rado, immersa
in una mole di lavoro che sembrava aumentare di giorno in giorno, ma ogni
incontro era sempre molto bello. Tra me ed Isnark, dal rapporto cordiale che si
era instaurato precedentemente, si andò a creare una certa confidenza,
per non dire complicità. Avevamo subito entrambi lo stesso dolore, e lui
si aggrappava a me per uscire dal baratro che il lutto gli aveva aperto sotto i
piedi. Cercava di vivere, sopravvivere per la sua principessina, ed ogni giorno
che passava sembrava cavarsela un po’ meglio. Non sentii mai più
dalla sua bocca il nome di Nemys, e lui si rifiutò di andare a dormire
nella loro camera, cambiando stanze, in un’altra ala del castello,
togliendo di mezzo ogni cosa che potesse anche solo
ricordargli vagamente l’amata, ma almeno sorrideva un po’
più spesso, senza quello sguardo perso nel vuoto, e si occupava alacre
dei suoi affari da sovrano, aiutata da una solerte Ch’argon. Dovevamo
ringraziare Nilyan, la piccola figlia, per quella ripresa veloce. Senza, penso
proprio che non ce l’avrebbe fatta. La piccola
diventava ogni momento più bella. Mi
assomigliava molto, identica per molti versi a Nemys, per altri al padre, ed
aveva una bella e liscia pelle olivastra, il colore di Isnark. Era una bambina
tranquilla, tutto il contrario di quella peste di Machin, il piccolo che aveva
imparato presto a darmi molte grane, che accettavo con entusiasmo. Piangeva proprio quando era altamente indispensabile. Se non altro,
proprio come il cugino, non stava mai nella culla. Di solito, quando io
arrivavo all’ora della pappa di Machin la
trovavo sempre o tra le braccia di Amarto, di Dae o di Wynet, tutti innamorati.
Il mio nipotino si era sentito un po’ trascurato in quell’ultimo periodo,
ed ogni volta che mi vedeva, strillava forte. Avevo imparato a prendere in
braccio e salutare sempre prima lui. Quando non lo facevo, mi tirava i capelli.
Era già geloso in maniera parossistica. Di me, solo di me. Lo trovavo
divertente. Metà della giornata la passavo così in mezzo ai
bambini, giocando con Chekaril, Roxen e le gemelle, addormentando Nilyan,
oppure battagliando aspramente per dare da mangiare alla peste, che ancora non
riusciva a capire la differenza tra cibo e gioco. L’altra metà
riempivo scartoffie o davo udienza con Isnark, una mansione seccante. Era una
fortuna che, per un po’, mi sarei assentata. Odiavo ascoltare lamentele
futili e varie, e dovevo anche essere gentile e giusta. Era sfiancante. Isnark era
sempre più diverso da quell’elfo ostile che mi aveva accolta,
ferita e disperata. Spesso, la sera, quando lui raggiungeva la figlia per stare
un po’ con lei, parlavamo dei vecchi tempi, ci raccontavamo cose e
storie. Lui era pazzo di Nilyan. Quelle volte che piangeva saltava
immediatamente su, preoccupato come se fosse una cosa mortale. Per fortuna, mia
principalmente, di Regis non rimasero altro che ricordi
dolci. Era per un certo verso un sollievo enorme. La vita continuava, placida. Nessuno
avrebbe mai saputo nulla. Beh. Tanto placida non fu. Io fui ad un soffio dal
cadere in un agguato, dal quale me ne uscii solo con lividi, graffi, ed un’intera
ciocca di capelli strappata via. Si trattava, quasi sicuramente, di Spie,
venute ad uccidermi. Peccato che furono uccise loro, da me in persona, che, per
fortuna, ancora so come si maneggia una spada, ed ancora so giocare sporco quando posso. Da allora nessuno mi ha più
torto un capello. Bizzarro. Decidemmo così la compagnia che, per tre
anni, si sarebbe dovuta eclissare da Kyradon. Io, ovviamente, I bambini tutti,
Amarto e Dae. Ogni tre giorni Isnark, molto contrariato, ci sarebbe venuto a
trovare, con una delle guardie preferite a rotazione. Venne così, un giorno
freddo d’inverno, in cui ancora non era caduta la neve, ma gli alberi
erano completamente spogli, in un tramonto nuvoloso, in cui tutto fu pronto. Zipherias
mi venne ad avvisare che la casa era pronta. Ci muovemmo, con un carro che
ancora è mio, un ronzino attaccato avanti,
pieno delle nostre povere cose, tutti abiti. Gli oggetti più pesanti
erano già stati portati via. Lasciai Kyradon quasi con gioia. Non vedevo
l’ora di cominciare la mia nuova vita. Nella luce rossa della sera,
guardai tutti, quelli che ci accompagnavano ed i miei futuri coinquilini. Nessuno
di questi ultimi era triste. Roxen era invece eccitatissima: gli avevo
descritto la casetta come un paradiso in mezzo al bosco. Non vedeva l’ora,
lei ed il fratello, che scendesse la neve. Io avevo
già dato loro via libera per i dintorni della casa, a patto che restassero sempre tutti insieme. Cicalava con un tranquillo,
pacificato Amarto, chiamandolo nonnino, un appellativo che gli piaceva da
impazzire. Io, a cavallo di Nina, ero un po’ nervosa. Non sapevo come
avrei reagito alla vista della casa della mia infanzia, che avevo lasciato quando ancora Tijorn era vivo, felice e vegeto. Zipherias,
che era quello pi di malumore di tutti insieme ad
Isnark, mi cavalcò vicino tutto il tempo, facendomi sentire la sua
vicinanza. Per poco, quando vidi la mia casa, non scoppiai in lacrime. Lasciai che
tutti andassero avanti, ed ammirai l’esterno. Non era cambiato nemmeno
una virgola. Era certo più grande, più spaziosa, perché avrebbe
dovuto ospitare una tribù, ma nulla era
cambiato dal giorno di primavera in cui me n’ero andata l’ultima
volta. Ero rimasta così ipnotizzata che mi ero quasi aspettata di vedere
uscire fuori un arrabbiato Tijorn, che mi diceva di farla finita con quei
piagnistei, e di venire per una buona volta dentro perché si stava
facendo tardi. Invece dalla porta emerse il timido Capouille, che mi
abbracciò dolcemente, trascinandomi dentro senza parlare. Vissi quella
sera come una sonnambula. Tutto era rimasto identico. Cambiava solo l’ordine
delle stanze. Quella mia era stata trasformata in quella di Chekaril e Roxen. Manolìa
e Nysha erano sempre al loro posto. Wynet, poverina, si sarebbe dovuta
stringere un po’, ma la cosa non le dispiaceva. Amarto e Dae erano
insieme. Facile prevederlo. Il Maestro non avrebbe mai superato l’oltraggio
e l’amore per Lainay, ma almeno quell’elfa gli faceva del bene ai
nervi. Il loro era una affetto davvero profondo, un’intesa
incredibile. La mia era quella di Tijorn. Non so perché vollero farmi
quel regalo. Quando lo seppi fui sul punto di sentirmi
male. Mio fratello mi avrebbe perseguitata, per sempre. Quella sera mi ritirai
senza mangiare, salutando tutti con un vago senso d’irrealtà. Zipherias
mi aveva abbracciata forte, Isnark mi aveva stretto
una spalla. Capouille aveva balbettato che era tutto diverso. Non m’importava.
Raggiunsi la mia camera trascinando i piedi. Quando aprii la porta, fui
assalita da un senso di sollievo, misto a dolore: più o meno era rimasto
tutto identico, ma ciò che caratterizzava Tijorn era scomparso. I suoi
abiti erano via, finiti chissà dove, quel quadro, la crosta che tanto
amava, sparita. Al suo posto, una carta incorniciata. Il letto era stato
spostato vicino al muro, per far posto alla scrivania ingombra già di
scartoffie varie. Ma fu guardando quella carta appesa che mi venne un groppo in
gola. Riconobbi immediatamente la lettera che mio fratello, il mio stupidone,
mi aveva scritto prima di morire, prima che scappassimo così
avventatamente. Mi sedetti sul letto con le lacrime che scorrevano
silenziosamente. I ricordi, tanti ricordi, mi assalirono in un attimo. E mi
sentii persa. La mia luminosa infanzia, e quello che ero ora. Così brutto,
così orribile. Mi rannicchiai così sul letto, sospirando. Mi avvolse
un bel profumo, di lavanda e ginestre. Quel profumo mi avvolse, come un
abbraccio. Ed io mi sentii consolata. Tijorn usava quella mistura per
allontanare le tarme. Quello,
stranamente, mi diede la voglia di continuare a lottare. In fondo, la vita continuava,
che io lo volessi o no.“sono tornata”. Dissi, ad alta voce. Il mio gracchiare di
corvo fendette il silenzio. E mi risposero i rumori allegri che venivano di
là, dove i bambini giocavano. Sorrisi debolmente. Avevo, perlomeno,
qualcosa da fare. La mattina dopo avrei avuto un gran daffare. Avevo i miei
amici, i miei affetti. Potevo tentare di raccogliere le macerie della mia vita.
Forse ne sarebbe uscito qualcosa di buono. Così, affondata tra le
coperte ed il cuscino, mi addormentai, cullata da quel profumo familiare. Quello
era il primo giorno della mia vita.
E’ strano pensare che siano già passati dieci anni da quel
giorno, in cui tornai lì dove era cominciato tutto
Miei cari lettori e lettrici.
Vi comunico ufficialmente che Memorie dei Rinnegati-La Figlia Delle
Spie, dopo ben nove mesi (oddio mio, è una coincidenza orribile xD) di lavoro, tra contrattempi ed incidenti vari, è
giusta finalmente al suo epilogo.
Epilogo, però, solo della prima storia.
Riceverete ben presto notizie di me, e…non perdete d’occhio
la sezione Originali-Fantasy, perché un seguito è presto in
arrivo, e se mi lasciate io vengo lì da voi e vi strozzo xD
Oh, mi sento strana.
In questa stupidaggine ci ho messo davvero la ma anima, il mio
spirito.
Mi sento male a mettere “completa” la storia.
Beh, so che ne scriverò un’altra…ma
è difficile staccarsi dai miei “figli” xD
Da Chekaril, Tijorn (il mio preferitoL), ma soprattutto da
Lsyn.
Sarà strano ricominciare daccapo.
Mi sarete fedeli, vero?
Io ho bisogno di voi, più che mai.
Vi ringrazio, mille volte.
Un primo ringraziamento va a Carlos
Olivera. Accidenti, udite udite!Mi ha sopportato fin dal primo capitolo,
commentandoli tutti con sincerità, la miglior qualità al mondo! xD
Inchiniamoci tutti alla sua smisurata pazienza!
È stato lui il mio lettore più assiduo e fedele, e
devo ringraziare lui se non mi sono bloccata, se la storia è risultata
lunga com’è.
95 capitoli. Accidenti, è molta roba, eh?
Senza di te, mio caro, non ci sarebbero state un mucchio di cose.
È alla tua inventiva vulcanica che devo una buona parte delle
Memorie, e anche ai tuoi consigli indiretti.
Ed a quanto pare anche qualcosa (molto) del secondo episodio, eh? xD
Non so proprio come ringraziarti, come…mah. Ti devo tantissimo
o.o
Grazie è troppo poco!
Sappi che, per qualunque problema, io sono qui.
Ora mi commuovo xD
Un ringraziamento tutto speciale va anche a Selly, che mi è stata ugualmente fedele, e,
anche se lei non lo sa, mi ha dato parecchi spunti xD
In bocca al lupo con lo studio, e grazie per i tuoi commenti
veementi, che mi divertono, e che mi motivano ancora di più. Grazie,
grazie, grazie.
Voi due siete stati il mio motore! Mi seguirete fino in fondo, vero?
Un miliardo di baci, anche solo per avermi seguita in una missione omicida come
questa x.x =*
Altro ringraziamento va a kylien, che, semplicemente, è lei. Zitta zitta
se ne va, ma mi stava minacciando di morte in caso tardassi ad aggiornare. Carino
alludere a cose, in una sera fredda in cui tutto era sabbia (xD),
di cui un terzo era all’oscuro, eh? xD coltelli
e coccole a te =* spero che mi seguirai ancora xD
Grazie, alle otto persone che mi hanno messa tra i preferiti. Mi dispiace
non mettervi tutti per nome, uno ad uno (scrivo i ringraziamenti senza essere
connessa, e mi secca mettere il filo prima del tempo),
ma sappiate che tengo a voi, moltissimo. Grazie solo per aver letto.
Grazie anche ai semplici lettori casuali.
Inoltre, un ringraziamento tutto particolare e personale, per meriti
tutti loro, va alle mie Tre Marie, le mie Tre Caravelle: la Nana, la Nipota, e
l’altra parte di me stessa XD
Anche se non hanno letto tutto questo sproloquio, le devo
ringraziare solo per avermi donato mille e mille spunti.
E’ grazie a loro, e grazie al mondo che mi circonda, se
è nata Lsyn ed il suo mondo.
E’ grazie alla mia sorellina spirituale se Lsyn da’
calci nelle parti basse quando offesa. E’ grazie alle occasioni che mi
offrono di psicanalizzarle che Tijorn è così maledettamente mamma
chioccia.
grazie a loro, solo perché mi fanno morire dalle risate. Solo perché
terrorizzo quando guido, solo perché la
professoressa di spagnolo assomiglia così tanto ad un carlino, solo per
le allusioni e perché gli uomini partoriscono macchinine pelose.
Grazie a loro di mille altre cose.
Grazie a loro semplicemente perché ci sono, e perché semplicemente
io ci sarò per loro, comunque vada.
E grazie di nuovo a tutti!
Con la speranza che mi seguiate…beh…ci si vede al
prossimo, che ben presto arriverà (promesso!).
Vostra oggi appiccicosa;
Akita.
E’
strano pensare che siano già passati dieci anni da quel giorno, in cui
tornai lì dove era cominciato tutto. Dieci anni. Se confrontati con la
mia lunga vita non sono altro che polvere nel vento, ma, come i
cinquant’anni del mio lungo peregrinare vacuo ed invano, significano
molte cose. E’ strano, pensare che sola ora io trovi il coraggio di
scrivere, di prendere penna ed inchiostro e cantare le mie fallimentari gesta.
Strano, fare paralleli tra quella che fui una volta, e quella che ora sono.
Di tempo
ne è passato. È stato bello, veder crescere i propri affetti,
vederli maturare, in quella vitatranquilla e piena di sole che
è la nostra.
Questi
dieci anni sono passati a fare da zia, e da maestra. I piccoli sono cresciuti,
e tanto, con mia enorme gioia.
Machin si
è fatto davvero un bambino stupendo. Ha quei capelli di uno strano
biondo rossiccio, con sfumature arancione, ed assomiglia tanto al padre. Ogni
volta che lo guardo mi sembra di fissare Tijorn attraverso il tempo. Ogni volta
che i suoi occhi mi fissano, mi viene un groppo alla gola. È un piccino
vivace, un monello, forse un po’ troppo. Tuttavia, sa perfettamente quali
sono i suoi limiti. Ci fa dannare, impazzire, ma, quando capisce di esser
andato troppo in là, fa di tutto per farsi perdonare. È un gran
coccolone, affettuoso e tenerissimo. Quando, un paio di volte, mi ha sentito
piangere, ora che è più grande corre subito per vedere cosa
è successo, e mi consola. Lo adoro, anche se è un po’
mattacchione, ed adora fare scherzi, soprattutto ai danni degli altri, poveri,
piccoli. Mi duole dire che più di una volta sono stata costretta ad
usare il bastone, con lui. Gli devo insegnare almeno un po’ di
disciplina. Anche se non riesco ad essere dura, né ci riesce Amarto.
Machin assomiglia tanto a me quando ero piccola!
È
cresciuta anche Nilyan. È bella, una bella bambina, ed assomiglia tanto
alla madre, ma ha i colori del padre, se si escludono gli occhi azzurri. Isnark
la adora, tanto che, dopo il primo anno passato da me, non ce
l’ha fatta, e mi ha costretto ad andare, per quattro giorni su
sette, al castello, con tutta la tribù. Per i piccoli
queste due case sono il massimo. Stare a Kyradon piace moltissimo
soprattutto alla mia piccola Nilyan. A Sharilar, nella nostra casetta, non la
lascio mai allontanarsi troppo con i grandi, nel bosco. Nel castello, invece,
ha un esercito pronto a difenderla anche solo se qualcuno osi sfiorarle una
guancia. Ha un carattere davvero particolare. Ama seguirmi, a casa, disegnare
con me, oppure lasciare che io le insegni a leggere, è molto dolce, ma,
quando si sfrena con mio nipote, diventa incontrollabile. Quei due sono come
gemelli. Si coprono a vicenda, si difendono, e se qualcuno osa fare del male a
Nilyan, Machin diventa aggressivo, e viceversa. Le punizioni sono sempre in
due. Ci fanno impazzire. Un paio di volte li ho trovati appollaiati sul tetto
della casa, a mangiare mele e sputare i semi quando qualcuno di noi passava.
Quella volta non l’ha passata liscia,come non
l’ha scampata Machin. Poi, nelle cucine del castello, hanno rubato un
pollo arrostito. Nessuno sa che fine abbia fatto. Sono l’incubo della mia
vecchia Nina, che comincia a fare i peli bianchi. Qualche volta le hanno
mozzato la coda, povera, paziente cavalla. Quei due sono terribili, messi
assieme. Peggio di me e Tijorn, un’associazione pura a delinquere. Anche
se, lo confesso, un paio di volte sono stata io a punzecchiarli. Sono stata io,
lo confesso, che ho dato loro l’idea di appendere ad un filo sottile il
parrucchino di un Sacerdote, per poi sfilarlo durante una funzione. Ho riso
tanto da farmi dolere la pancia. Isnark dice che per certi versi non
crescerò mai. Però sono straconvinta che sia stato lui ad ordire
la sparizione del pollo. Sono stata io, un paio di volte, a fuggire con loro,
la zia mattacchiona. Ogni tanto mi diverto così. È bello non
togliersi i semplici piaceri della vita. Ho voglia di ritornare ad essere un
po’ bambina. E poi, un paio di volte sono stata aiutata da Amarto. Anche
lui si diverte, dice che così ritorna giovane. Mi dice sempre che il
ruolo di nonno gli si confà molto. Al che Dae gli da uno scappellotto
sulla nuca. Mi sono abituata alla presenza solida dell’elfa. Mi aiuta
molto, quando sono triste. Mi aiuta a stamparmi in faccia un sorriso, e
riprendere a lottare.
Roxen e
Chekaril sono i piccoli più belli del mondo. Mia figlia è
cresciuta, in questi anni, in una maniera impressionante, e sta cominciando,
lentamente, a sbocciare in una bellissima giovane. Ora che i tratti infantili
cominciano a svanire, mi assomiglia sempre di più. Ogni mese le devo
allungare gli abiti. Tra qualche anno raggiungerà il Maestro. Porta
sempre i capelli molto lunghi, ricci e neri come i miei. Ama stare con me,
chiacchierare con me, aiutarmi con i più piccoli. Non è,
tuttavia, una persona molto dolce. Ha una forza spaventosa, una volontà
ferrea e cieca. Come me, la sua forza magica è quasi assente. Maga da
strapazzo come la madre. E’ testarda come un mulo, e non si lascia
influenzare da nessuno. Mi rende fiera. Quando la vedo mi ringalluzzisco. A
lei, oltre che a Nysha e Manolìa, sto cominciando a dare rudimenti di
scherma. Dopo le prime volte, disastrose sotto ogni punto di vista, ci sta
provando gusto. Mi ha assestato un paio di colpi niente male. Si vede
l’influenza materna, altroché. Mi rende così fiera,
così felice, che stia seguendo i miei passi, in
modo sano. Mia figlia diventerà un’elfa felice, nonostante tutto
il dolore che ha sopportato. Sto recuperando, lentamente, il tempo che come
madre non ho avuto, con successo. Si fida ciecamente di me, come il fratello,
anche se mi chiama ancora zia. Anche Chekaril sta crescendo. Diventerà
un bellissimo giovane. Ahimè, anche lui mi sta superando in altezza. Tra
breve ritornerò la più piccina della famiglia. La cosa non mi
piace, visto che sia Machin che Nilyan sono già alti
quanto me. Da un po’ di tempo, il mio piccolo mi sta innervosendo.
Non mostra minimamente propensioni per le armi, e non riesce nemmeno a sfiorare
un bastone senza farsi del male. È tutto il contrario del padre.
L’ho visto, minacciosamente, interessato molto alle erbe, alle pozioni, e
tutti gli altri trucchi da Guaritore. Temo il giorno in cui mi verrà a
chiedere il permesso per entrare nel Lazzaretto, un luogo che lui, quando siamo
a Kyradon, frequenta assiduamente. Spero solo che sia un’infatuazione
momentanea. Tuttavia, quando verrà il momento, non impedirò
nulla. È la strada che lui si è scelto. Ed io sarò
comunque fiera di lui. So che sarà il migliore di tutti. Mi fido di lui,
ciecamente.
Amarto
sta invecchiando. L’ho visto, l’altro giorno, tenersi la schiena.
Sto
invecchiando anch’io, lentamente.
Ho appena
tre secoli e dieci anni, ma mi sembra di essere vissuta per millenni. Mi sento
stanchissima, e vecchia, decrepita.
Stiamo,
per il resto, tutti bene.
Isnark si
è ripreso dal suo lutto. Si comporta davvero bene, come papà e
come sovrano. Non ho nulla da rinfacciargli, come Ch’argon e come amica.
Sono quasi riuscita a superare la paura nei suoi confronti: ormai parliamo come
vecchi amici. Sono davvero contenta, di questo. Abbiamo entrambi a cuore la
sorte di Nilyan. Lui è davvero iper protettivo nei confronti della
figlia, una seconda mamma chioccia. La prima, ovviamente, sono io. Poi
c’è anche Dae. Tutti e tre, tuttavia, non riusciamo a capire
perché accidenti lei riesca, con Machin, a svicolare sempre dai nostri
controlli. Qualche volte li abbiamo dovuti ripescare
per le orecchie addirittura dal Lazzaretto. Le punizioni sembrano sortire
sempre l’effetto contrario. Spero solo che, crescendo, si calmino un
po’.
I miei
amici, Capouille, Zipherias e Benagi, sono sempre gli stessi. Sono i tre zii
dei piccoli. Nella loro innocente crudeltà, spesso, Nilyan e Chekaril
prendono di mira il mio povero, timidissimo amico dai capelli rossi, e lo
prendono in giro. Lui non sa come difendersi. Ma so che i bambini lo adorano.
È sempre lui che li vizia con qualche chicca. Sembra non potervi
resistere. Zipherias è più burbero, ma io so che li adora. I
piccini non osano giocare sulla sua zoppia. L’ultima volta che
l’hanno fatto hanno ricevuto una bastonata a tradimento. Eppure, il
grande elfo dagli occhi d’oro è il loro perenne guardiano. Non li
lascia mai. Spesso io e lui siamo gli addetti alle favole della buonanotte.
Tutti e tre mi vogliono bene come sempre. Benagi è paziente come sempre,
Capouille si fida di me, Zipherias è morboso. Ma tutti e tre mi
proteggono, mi sostengono, e mi amano. La loro compagnia mi fa bene.
Da un
punto di vista strettamente territoriale, la vita non va così bene.
Siamo sempre in pace vigile con il Regno, satollo, preoccupato solo di
consolidare i propri confini. Ultimamente abbiamo avuto un’invasione di
esseri umani. Essi ci raccontano le storie più terribili. Villaggi
bruciati, messi a fuoco, uomini e ragazzi massacrati senza pietà, o
mandati a fare gli schiavi. Famiglie senza più casa, perché la
loro abitazione è stata presa da degli elfi. Qualcuno ci ha raccontato
di uomini portati a Galinne, dove non si sa più niente di loro. Conosco
voci agghiaccianti in merito. A quanto pare, la sperimentazione di nuove tecnologie
avviene su cavie umane. L’usanza, ormai consolidata, d’istituire
duelli tra uomini o combattimenti con delle bestie, nelle capitali elfiche,
bagni di sangue spaventosi, ha grande seguito. Quando
mi hanno raccontato di uno di quegli spettacoli mi sono sentita male. La miseria
regna sovrana. È una situazione difficile, orribile. I regni umani
rimasti integri sono sempre più poveri. Tuttavia, a quanto pare, si sta
formando un nucleo molto forte di resistenza, concentrato soprattutto nella
vecchia patria di Regis, Fiya. È incredibile la forza di volontà
di quegli insetti. Gli umani liberi si stanno dando molto da fare. Sotto sotto, la tecnologia bellica sta facendo passi da gigante.
Comincio a temere una nuova, devastante guerra, prima che i piccini abbiano
completato la loro crescita. Io ed Isnark stiamo cercando di essere il più diplomatici possibile, ma è difficile.
Per fortuna, Lainay non fa molto caso al mondo esterno. Le spie a palazzo ci
dicono che è sempre molto assorbita nell’allevare il suo piccino,
proteggendolo come se fosse un tesoro prezioso. A quanto pare, il povero
Kamarducil non ha il permesso di uscire, né di imparare a combattere.
Lainay lo vizia, lo fa vivere nella bambagia. Dicono che gli assomigli molto,
ma che abbia un bel carattere. Dicono che sia molto gentile, buonissimo,
educato. La madre non sa dirgli di no. È innamorata di lui. Il padre
è rimasto sconosciuto, tuttora. Spero che questa situazione duri a
lungo. In ogni caso, ci aspettano ancora molti anni di pace, ed io ne voglio
approfittare. I miei piccoli devono vivere sereni.
Fino a
pochi mesi fa, non avevo minimamente intenzione di riprendere a scrivere. La
mia vita era assorbita dalle piccole faccende quotidiane, ed ero troppo stanca.
In quel periodo, tuttavia, gli incubi si erano intensificati, ed avevo preso a
stordirmi ogni volta, all’insaputa di tutti, con del sonnifero. Ogni
volta ce ne voleva sempre di più, ed io non sapevo cosa fare,
assolutamente. Stavo sempre peggio, ed avevo preso a trattare male anche i
bambini. Nessuno capiva cosa avessi. Avevo dimenticato
le parole di quel saggio giovane dai capelli d’argento, avevo dimenticato
l’infusione di vita che era stato l’ultimo regalo di Regis. Avevo
dimenticato cosa voleva dire aprirsi al mondo. non
parlavo di Tijorn da un bel po’ di tempo. Quando andavo da lui ed Akita
non parlavo. Spendevo tutta la mia forza per piangere. Mi sentivo più
debole che mai. Una sera, davanti al camino acceso, stavo ascoltando Nilyan
leggere. Avevo preso gusto per un libro che nel Regno era proibito, un libro
che io mi ero nettamente rifiutata di leggere. A quando avevo capito, lì
si parlava di Regis, delle sue gesta nella sua permanenza da noi. Non volevo
sapere nulla su di lui. Non volevo sapere com’era andata a finire. Volevo
ricordarmi di lui come un’ombra venuta a donarmi la vita. Così,
usavo quel libro, che mi ero rifiutata anche di toccare, come allenamento per
Nilyan, che doveva imparare a leggere. Così, stravaccata sul divanetto,
l’ascoltavo incespicare, correggendola di tanto in tanto. Doveva essere l’ultima
pagina, o almeno una delle ultime. La sua vocina acuta m’ipnotizzava.“…l’abbiamo…chia…chiamata…Atla…Atala…zia?”.
Mi chiese lei, improvvisamente curiosa. Io mi voltai verso di lei. Il suo
visino tondo mi fissava, illuminato dal camino, circondata dalla sua zazzera di
capelli crespi e bianchi. “cos’è Atlantis?”. Mi scrollai
nelle spalle. Non so perché, ma non avevo la minima curiosità per
quel luogo, dovunque fosse. Bah. Mera leggenda. Doveva
avere qualche fondo di verità, ma non era la città perfetta in
mezzo al mare che tutti descrivevano. Mah. Io ero perplessa. “non lo so,
tesoro”. Dissi, schietta, con un sorriso stanco. Il suo entusiasmo non
parve frenarsi, anzi. “ma secondo me dev’essere
bellissima”. Affermò lei, sicura. Io scrollai leggermente il capo.
Nilyan era una sognatrice. Era una bambina, in fondo. “quando sarò
grande ci andrò!”. Io annuii lievemente, distratta dal nulla,
senza più prestare attenzione, e le feci cenno di continuare. Lei obbedì,
docilmente. Ascoltai il resto con un orecchio solo, distratta. Prima o poi,
anche lei si sarebbe dovuta confrontare on la realtà, lo sapevo. Sentii,
sempre di più, man mano che andava avanti, uno strano senso di disagio. C’era
qualcosa che premeva agli angoli del cervello. Qualcosa che mi sfuggiva in
continuazione. Ascoltai Nilyan muovendomi a disagio sulla sedia. C’era un
pungolo che non voleva lasciarmi andare. “…permettere che…il
rico…ricordo del maestro…”. Incespicò Nilyan. Io deglutii.
Il maestro. Regis. Scossi la testa quando m’invasero
centinaia di ricordi, io avevo conosciuto quell’uomo, l’avevo
amato. Il ricordo dei suoi baci era ancora rovente in me, faceva ancora male e
bene allo stesso tempo. E di tutte le cose che mi aveva detto. Presi ad
immergermi nei ricordi dell’ultimo girono in cui l’avevo visto, di
quegli ultimi attimi preziosi. “e di ciò che ha fat…fatto
per tutti noi si per…perda nel tempo”. M’irrigidii.
Non solo quello che egli aveva fatto. C’era stato anche qualcun altro che
mi aveva dato una solenne lezione di vita. Scrivere. Che cosa buffa, che tipo
buffo, quell’Erik. Al momento non avevo quasi fatto caso alle sue parole,
quelle sagge parole che, com’è ovvio, per un attimo non si
capiscono. Però ora sentivo di essere matura per quell’insegnamento.
Non feci più caso a ciò che disse Nilyan. Scrivere. Avevo una
notte intera per confessarmi sulla carta, per raccontare le mie meschine
disgrazie a quel testimone muto. Avevo una notte intera, e altre notti, altre
notti ancora. La mia storia attendeva solo di essere scritta. Misi a letto la
piccina con uno strano senso di stordimento, dopo essermi complimentata con
lei. Il mio cuore aveva bisogno di essere messo in ordine. Dovevo capire cosa
provavo. Dovevo capire perché ero così, o sarei morta di
crepacuore. Raggiunsi la mia camera in un lampo.
Mi sedetti,
e presi un foglio intonso. La penna era già intrisa d’inchiostro.
Il cuore
mi batteva come un tamburo. Sapevo che, prima o poi, sarebbe stato più
tranquillo.
Ben presto,
mi resi conto che le parole sgorgavano a fiotti, come le lacrime.
Non smisi
più di scrivere, alternando gironi amorevoli con notti furiose,
disperate, tristi o divertenti.
La mia
vita.
Cinquant’anni
di vita.
E
così, mi confrontai con me stessa, senza mediazioni o dolcezze.
Capii così,
cos’ero un tempo, e cosa sono ora.
Un tempo
ero Lsyn Amarto, altresì chiamata Ombra. Un terribile incidente mi
rovinò la vita, un incidente che ora reputo quasi benedetto, che mi
stravolse e mi distrusse. Distrusse la bestia ricca e tronfia che ero. Fui
Nanetta, ragnetto, la bambina da proteggere sempre. Quanto il tempo cambia le
cose. Ora sono qui, e solo ora l’ho capito. Sono Lsyn, Lsyn Amarto, ma
non sono più una Spia, un cane. Ho sacrificato la mia vita per salvare i
miei familiari. Ora sono zia, e madre. Ora sono Ch’argon di Uruk. E me ne
vanto.
Un tempo
ero libera, libera come il vento, o almeno così mi pareva. Capisco che
quello, in quel tempo, non era altro che una gabbia più grande delle
altre, una gabbia dorata. Potrei, ora, sembrare prigioniera. Ma le catene che
mi sono imposta da sola mi rendono più felice e libera di molte altre
persone.
Un tempo
servivo una tiranna pazza, che mi usava come suo personale gingillo, e di un
fratello che io amavo, ma che non mi amava, e mi usava. Ora servo solo me stessa, me stessa e le persone che amo.
Quel
viaggio, quel viaggio che io avevo a tutti i costi cercato di concludere, era
finito in tragedia. Molti punti rimangono irrisolti, e tanti altri restano
ancora, per noi, un mistero.
Ciò
che è accaduto in soli cinquant’anni ha avuto il pregio ed il
difetto di distruggermi, di schiantarmi completamente.
Ma non mi
sono arresa. Ho imparato dai miei errori che cercare di finire una vita, uccidersi,
in mille modi, è una cosa praticamente inutile. Perché gli incubi
vengono a tormentarti anche nella morte.
Ora vago,
vago tra le macerie di quella che un tempo fui, cercando d’intravedere
qualcosa, una luce a cui aggrapparsi per edificare un
nuovo, meraviglioso palazzo, cento e cento volte più bello di quello di
prima. È ancora lungo, quel processo che mi poterà alla fine, ed
il mio viaggio è ancora tutto all’inizio, un viaggio che è
lungo quanto la mia vita.
Ciò
che mi è accaduto, il fuoco, sangue, cenere e lutto che ho provocato e
che mi hanno provocato non mi hanno tarpato le ali. Avrei potuto chiudermi in
un silenzio volontario, impazzire, ma non l’ho fatto.
Ho
deciso, quando è stato troppo, di aprire il mio cuore ad un pezzo di
carta, ad un calamaio pieno d’inchiostro.
Ho voluto
riportare quello che mi è successo, sanguinando nel cuore per vecchie
ferite che non si chiuderanno mai.
Ho voluto
seguire un consiglio che mi fu dato anni fa, quando
uno strano giovane m’interpellò, un giovane dai capelli
d’argento che era venuto e tornato al nulla nello spazio di pochissime
ore. Una flebile luce, in un momento che altresì sarebbe stato il
più oscuro della mia intera esistenza, che nel buio ci ha navigato.
Ho
scritto, mettendo sulla carta le mie cicatrici, senza nemmeno sapere
perché, senza nessuno scopo, tranne quello di mettere ordine nel mio
cuore.
Non
è stato bello. Ho penato, china sul mio scrittoio, ho tremato, pianto
addirittura. Mille e mille volte ho gettato tutto via in un impeto di rabbia
pura, di dolore, e spesso tutto quello che mi faceva calmare era un abbraccio
ed un sorso di amaro tranquillante. È stato difficile, questo viaggio a
ritroso nei miei errori, negli incubi che ancora mi fanno svegliare, urlando,
di notte.
Perché
io non ho dimenticato, né dimenticherò mai. Nella mia vita si
aggirano troppi fantasmi.
Mi chiamo
Lsyn Amarto, ed un tempo ero una figlia delle Spie. Un tempo amavo un Principe,
che teneva a me come alla migliore delle sue concubine. Questo principe
è morto sotto i colpi della mia crudele spada.
Lsyn
Amarto un tempo aveva un bel fratello maggiore, che l’amava come se
stesso.
Ora
questo fratello è cenere, cenere muta e fredda, stretta in un immortale
abbraccio con l’elfa che per suo figlio ha donato la vita.
Un tempo
ero adulata.
Ora sono
io a rifuggire la vita mondana. Rinuncio, rinuncio a qualunque forma di vita
personale, tutto in favore di quegli adorabili marmocchi, quelle creature che
stanno crescendo libere e serene, libere di vivere
come a loro aggrada.
Rinuncio
a me stessa. Sto rinunciando a me stessa.
Eppure,
non mi abbatterò mai.
Aspetto.
Cosa, non lo so, forse che il mio destino si riveli, palese come un filone
d’oro, o forse che i tempi maturino abbastanza da permettermi di fare
capolino di nuovo nella vita a cui rinuncio
volontariamente.
Ciò
che posso fare è combattere, combattere nell’attesa che il momento
della rivalsa giunga.
Ed io lo
sento. Sento che questo momento di anno in anno si fa più vicino.
Ineluttabile,
fredda, inesorabile, la resa dei conti si avvicina, ghignando.
Io
l’aspetto. L’aspetto con un sorriso sul volto, alle spalle la mia
famiglia.
Per
cinquant’anni sono stata la pellegrina, l’oscura viaggiatrice.
Ora sono
e sarò qualcos’altro. Il mio cammino è ancora per la maggior parte oscuro, ma io mi sono portata una lampada
dietro.
Il
destino non mi frega. Non più.
Ed ho
capito una cosa, la sola cosa che vale davvero in questo mondo.
La
fedeltà non vale ad un accidenti.
L’onore
è un vanto per gli sciocchi.
L’amore
non è altro che rinuncia, rinuncia per gli altri.
L’altruismo
non è altro che far star bene il prossimo per stare bene.
La
rassegnazione è solo consolazione per le anime deboli.
Il dolore
spinge a lottare, ad interrogarsi.
Ad
interrogarsi per la vita, a combattere con le unghie e con i denti per
conquistarsi un posticino in un mondo che è indifferente nei tuoi
confronti, e tanto può elevarti nella luce, quanto, nell’attimo
dopo, buttarti nel più sudicio fango.
Il dolore
incita a non abbandonarsi al dolore.
E’
questo quello che ho imparato nella mia vita, nelle lunghe notti insonni,
passate a riempire pagine e pagine di inutili parole, notti in cui mi
addormentavo con il naso sul piccolo e rozzo diario, notti rischiarate da
un’unica, debole, candela.
Giorni in
cui mi vedevo nello specchio, e vedevo una creatura a metà trasformata
in un mostro.