Memorie dei rinnegati-La Figlia Delle Spie

di Akita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di Come Scesi Dalla Grazia. ***
Capitolo 2: *** L'inizio. ***
Capitolo 3: *** Junielle ***
Capitolo 4: *** Il sogno ***
Capitolo 5: *** Pensieri E Ricordi ***
Capitolo 6: *** Un incontro davvero lieto... ***
Capitolo 7: *** Camomilla e Tè ***
Capitolo 8: *** Stasi ***
Capitolo 9: *** Resa Dei Conti ***
Capitolo 10: *** Confessioni. ***
Capitolo 11: *** Lettere e chiarimenti ***
Capitolo 12: *** Sfide e Piani Astrali. ***
Capitolo 13: *** Botta e Ritorno. ***
Capitolo 14: *** L'avventatezza. ***
Capitolo 15: *** Si comincia! ***
Capitolo 16: *** La Preparazione ***
Capitolo 17: *** Legami Familiari. ***
Capitolo 18: *** Si Parte! ***
Capitolo 19: *** L'accampamento. ***
Capitolo 20: *** Un Argomento Fatale ***
Capitolo 21: *** Falchi alla luce del sole ***
Capitolo 22: *** Perché proprio lui? ***
Capitolo 23: *** Crudele pietà ***
Capitolo 24: *** Tre Problemi. ***
Capitolo 25: *** Orrore. ***
Capitolo 26: *** Voci nella Nebbia ***
Capitolo 27: *** Il prezzo da pagare. ***
Capitolo 28: *** Confronto di volontà. ***
Capitolo 29: *** L'essenza dei fulmini ***
Capitolo 30: *** Il Processo ***
Capitolo 31: *** Due tipi diversi di libertà. ***
Capitolo 32: *** Io e te dobbiamo parlare. ***
Capitolo 33: *** Accetti? ***
Capitolo 34: *** Ti lascio la mia spada. ***
Capitolo 35: *** Il seme del cambiamento. ***
Capitolo 36: *** L'ineluttabilità delle cose. ***
Capitolo 37: *** Terra d'Impero ***
Capitolo 38: *** Una nuova speranza. ***
Capitolo 39: *** Vecchio, Vecchia e Serpe Nera. ***
Capitolo 40: *** Cose più grandi di me. ***
Capitolo 41: *** Qualcuno mi prende in giro! ***
Capitolo 42: *** Eventuali sentieri... ***
Capitolo 43: *** Krish, il misterioso. ***
Capitolo 44: *** Sangue del mio sangue. ***
Capitolo 45: *** Esigo delle risposte. ***
Capitolo 46: *** Terra Bruciata. ***
Capitolo 47: *** Come un giocattolo. ***
Capitolo 48: *** E' un ordine. ***
Capitolo 49: *** Fuoco di vendetta. ***
Capitolo 50: *** Ma io? ***
Capitolo 51: *** Era solo cenere. ***
Capitolo 52: *** Fuoco purificatore. ***
Capitolo 53: *** Se non ora, quando? ***
Capitolo 54: *** Ciocche bianche. ***
Capitolo 55: *** La speranza di un futuro migliore. ***
Capitolo 56: *** Oè, voi lì! ***
Capitolo 57: *** Dall'altra parte del mare. ***
Capitolo 58: *** Un modo per redimersi. ***
Capitolo 59: *** Scampoli dell'Oltretomba. ***
Capitolo 60: *** La Revenante. ***
Capitolo 61: *** Di nuovo nei guai. ***
Capitolo 62: *** L'Ermafrodito. ***
Capitolo 63: *** Se Akita lascia un libro... ***
Capitolo 64: *** Qualcosa cambia. ***
Capitolo 65: *** Brutte gatte da pelare. ***
Capitolo 66: *** I tormenti delle anime. ***
Capitolo 67: *** Epifania. ***
Capitolo 68: *** Il coltello dalla parte del manico. ***
Capitolo 69: *** Volata verso la libertà! ***
Capitolo 70: *** Agli occhi del cielo. ***
Capitolo 71: *** E' tutta colpa mia. ***
Capitolo 72: *** Di nuovo, un cambiamento. ***
Capitolo 73: *** Un bicchiere è sempre un bicchiere. ***
Capitolo 74: *** Lei era me. ***
Capitolo 75: *** Rivelazioni. ***
Capitolo 76: *** Giro di ruota. ***
Capitolo 77: *** Caduta libera. ***
Capitolo 78: *** Lo strazio. ***
Capitolo 79: *** Una notte senz'alba. ***
Capitolo 80: *** Bianco. ***
Capitolo 81: *** Non volevo farvi del male. ***
Capitolo 82: *** Anime spezzate. ***
Capitolo 83: *** Il Giuramento. ***
Capitolo 84: *** Cronaca di un Cambiamento. ***
Capitolo 85: *** Machin. ***
Capitolo 86: *** La realtà delle cose. ***
Capitolo 87: *** Ai confini dell'irrealtà-Una parte del passato. ***
Capitolo 88: *** Ai confini dell'irrealtà-Dal tempo crudele. ***
Capitolo 89: *** Ai confini dell'irrealtà-Quello che mi ossessiona. ***
Capitolo 90: *** Ai confini dell'irrealtà-Ci eravamo sentiti dei. ***
Capitolo 91: *** Ai confini dell'irrealtà-Quando tutto cambia. ***
Capitolo 92: *** Ai confini dell'irrealtà-Un raggio di sole. ***
Capitolo 93: *** I corsi e ricorsi della memoria. ***
Capitolo 94: *** Aprire gli occhi. ***
Capitolo 95: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Di Come Scesi Dalla Grazia. ***


Mi chiamo Lsyn Amarto, figlia delle Spie

Mi chiamo Lsyn Amarto, figlia delle Spie.

Il mio primo nome è quasi una burla del mio Maestro, Amarto Sindjisk, colui che mi ha allevata.

Lsyn. Un misero liquore di bacche del sottobosco, l’infernale lsyn che scotta la lingua, nero come l’abisso.

Tipico di lui, accidenti, un elfo così geniale, così buono, ma così dedito ad innumerevoli e disastrosi flirt con l’alcol da restarne per sempre segnato.

Il mio saggio Maestro.

Un tempo ero una delle migliori servitrici di quello che  era il Regno di Normar, ed ora è solo il Regno, semplicemente il grande Regno.

Concepita, nata, cresciuta ed allevata Spia, creata per non dire altro che si, mia signora, per tutta la mia schifosamente lunga vita di elfo.

E sì, quanto ci riuscivo bene. Quanto mi piaceva!

Per tutti, io ero Ombra.

Ancora a volte risento questo nome. Ancora fa paura, e quanti anni sono passati!

Già. È passato molto tempo, ormai. Ora chi mi incontra tende più a chiamarmi Mostro, allontanandosi con evidente timore.

No, no, niente paura. Forse mi sono espressa male.

Sono una semplice elfa, cosa c’è di strano in me? Non ho tre teste, e non sputo fuoco. E non ho nemmeno capelli color dell’arcobaleno.

Sarei il simbolo della banalità, se non fosse per un piccolo particolare.

Il frutto di un insignificante errore che ha rovinato per sempre la mia vita un tempo gloriosa.

Sembrava una missione normale, una delle tante nel mio lungo servizio di Spia.

Il fratello della nostra Regina, la nostra magnifica sovrana, possano per sempre gli Dei averla in grazia, era scomparso senza lasciar traccia.

Di lui non rimaneva altro che una lettera macchiata di sangue, recapitata due settimane dopo la sua sparizione.

Una lettera in cui implorava aiuto. Una lettera strappalacrime e tanto misteriosa.

Cosa mai poteva essere successo al Principe del Regno?

Una situazione abbastanza antipatica.

Eravamo entrati allora noi in azione: gli occhi onniveggenti del Regno, gli infallibili segugi che tutto fiutano.

Io ero stata scelta per la missione, io, perla rara tra le Spie.

Ero sola.

Non avevo voluto nessun compagno per quest’impresa tutto sommato facile. La mia superbia e la mia indipendenza erano proverbiali.

Io ero la migliore, e nessun intralcio si crei per Ombra!

Beh. Forse non sono del tutto sincera con me stessa.

Avevo esultato quando ero stata scelta, ma come avrei esultato per qualsiasi altra missione. Non avevo mai fatto storie per un po’ di compagnia.

Forse c’era un altro motivo. Ben più importante della mia tracotanza.

Amavo Chekaril, il giovane Principe: in quel periodo della mia vita, il mio apogeo, ero bella, fiorente e forte, e la relazione che avevo intrecciato con lui tempestosa e precaria.

Gli avevo dato persino una figlia, nata più per casualità che per amore, una bellissima piccola.

Ero ligia alle tradizioni, allora.

L’avevo ceduta alle Spie, e non aveva che qualche mese!

Chi nasce tra di noi non ha che un destino: essere un Cane. Non c’è scappatoia che regga. Gli infanti vengono fin dalla più tenera età allontanati dalle famiglie, e affidati ad un maestro, che li alleva ed allena, dandogli il proprio nome come cognome, quasi un marchio di appartenenza.

Così era per me, così era stato per lui, e per altre infinite generazioni di Spie, tornando indietro di secoli e millenni.

Così è stato anche per la mia bambina.

Ma preferisco evitare di indugiare troppo in certi ricordi, potrebbero farmi perdere.

Dov’ero?

Ah, certo.

Insomma, stavo cercando Chekaril. La pista che stavo seguendo mi dava quasi la certezza di un rapimento a scopi politici.

Niente di più ovvio.

I miei contatti mi avevano avvertita del nascondiglio: una grotta in un bosco. Ero dunque lì per appurare la realtà dei fatti.

Mi avvicinai silenziosa, come solo un’elfa allenata da secoli sa fare. Mi nascosi tra gli alberi.

Tsk, che idiozia, rapire un Principe e poi disseminare indizi come novellini! E nessuno era stato capace di trovarlo!

Spiai, guardai.

Mi venne un colpo al cuore.

Solo, prigioniero di una radura all’imboccatura della caverna, senza nessuna sentinella o essere a fargli da guardia, legato ed in ginocchio, c’era lui.

Chekaril.

Bisbigliai il suo nome, esterrefatta, e, per la prima ed ultima volta nella mia carriera, commisi un’imprudenza fatale. Mi precipitai verso di lui, ignorando la stranezza della cosa.

Un lampo. E fu tutto buio.

 

Quando mi svegliai, ero bendata da capo a piedi, e il peggior dolore che avessi mai provato mi ossessionava.

Non appena mi mossi un poco, mi arrivò all’orecchio una voce gentile, che intimò di fermarmi.

Ero al Lazzaretto da ormai quindici giorni.

 

Ci volle un altro mese per farmi riprendere.

Ero stata presa dalla tomba per i capelli: una famiglia di boscaioli mi aveva trovata, ustionata orrendamente, in una radura, sola, e mi aveva pietosamente aiutata.

Avevo abbracciato la morte.

Di Chekaril nessuna traccia.

La grotta non esisteva. Non era mai esistita.

Quella a cui ero andata incontro era una sola cosa: una trappola.

 

Venne il giorno in cui dovettero sbendarmi: nessuno sapeva cosa avrebbero trovato sotto le bende. Forse sarebbe rimasto qualche segno, mi dissero.

La prima volta che, tremante, mi vidi allo specchio, quasi svenni.

Mi era rimasto ben più di qualche segno. Mi sarebbe rimasto per sempre.

Metà intera del mio corpo era una sola, orrenda cicatrice.

Nemmeno il viso, il mio bel viso, era rimasto indenne: da una parte la mia pelle lattea era intatta, liscia come una buccia di pesca.

Dell’altra si era salvato solo l’occhio, fortunatamente, che luccicava malevolo come giaietto.

I capelli si erano bruciati, ed avevano scavato solchi come corde sulla mia nuca.

Ero quasi calva, fatta eccezione per una vaga lanugine che cominciava a crescere.

Piansi, per la prima volta dopo tantissimo tempo. Mostro. Mostro. Mostro!

 

Quel nome cominciò a perseguitarmi.

Di bisbiglio in bisbiglio, di bocca in bocca, Ombra moriva lentamente, soffocata da un altro fardello.

E da gloriosa Spia, di Lsyn Amarto non rimase altro che una miserabile cicatrice vivente.

Non accettai, né mai ho realmente accettato, cosa divenni.

Gli specchi diventarono i miei peggiori nemici, gli unici davanti ai quali tremavo di paura.

No, non volevo essere messa di fronte alla mia miseria, al mio fallimento.

Cominciai ad indossare quella che sarebbe divenuta la mia tenuta, immutabile e ammonitrice.

Mi nascosi, nascosi il mio viso sfigurato sotto una maschera di porcellana, bianca, fatta eccezione per due linee nere che, come lacrime, mi scendevano dalle fessure per gli occhi, tutto quello che volevo fare vedere di me.

Quei pozzi, neri, vuoti, bui. Abissi.

Era il deserto, il nulla in cui si era trasformata la mia anima.

Il niente che io ero.

Celai il mio corpo sotto pesanti abiti neri ed un mantello che lasciava scoperto solo il volto. I capelli ricrebbero, ricci e scuri come sempre. Ricadevano, come un sipario, ai lati del mantello.

Non ero più io, né lo sarei più stata.

Ombra, l’astuta Spia, l’assassina, sempre vincente e fedele, era sparita. Al suo posto nacque Mostro, derelitto nulla e buco nero, che mai più esercitò il proprio mestiere...

 

La Regina, possano gli dei averla in eterna grazia, non ha mai dimenticato.

Mi chiamò al suo cospetto, chiamò me, Il Mostro, la spia decaduta ed inutile, ad apparire davanti a lei, splendente di oro e gioielli.

Ella mi guardò, vide il tetro fantasma che ero divenuta, e sorrise, piena di veleno, di disprezzo.

Avevo fallito miseramente, ero stata giocata come una novellina.

Per colpa mia il fratello era ancora prigioniero.

Chekaril, sì, il mio amore.

Dov’era? Come stava? Qualcuno aveva notizie di lui?

“Abbiamo tutti subito una grande perdita, Lsyn”.

Mi disse, con la sua voce dolce come miele, continuando a sorridere, come giocandosi di me.

“Ed io non ho perdonato questo tuo enorme fallimento. Non perdono facilmente. Mio fratello è l’unico capace di poter preservare il mio sangue e la mia stirpe. Io non posso avere figli: senza Chekaril, il nostro regno sarebbe preda dei feroci avvoltoi della successione, e piomberebbe nel caos. E tu cosa fai? Giochi all’inseguimento? Comprendi al meglio la portata della tua imprudenza, ora? Ti chiedo ora l’ultimo favore. Vai, e cercalo, e dopo sarai libera”.

Come mi sentivo umiliata, ma come quelle parole furono per me campane a festa, gioia e luce in una camera buia!

Sì, avevo ancora una possibilità. La mia Regina mi aveva fatto un regalo.

Provai un’immensa gratitudine per lei, che aveva capito l’entità della mia pena.

Cosa potevo fare, se non obbedire?

Non sopportavo più la mia vita inerte, l’orrore che suscitavo al mio passaggio, i miei incubi, i miei ricordi.

Volevo fuggire, scappare via, volare in alto e ritornare ad essere forte.

Radunai le mie armi e tutto ciò di cui avevo bisogno, e mi misi in viaggio.

L’ultima missione.

 

Passarono ore. Giorni, settimane, anni.

Cinquant’anni.

Non sono molti, per un elfo, in realtà. Nella sua vita non cambia nulla.

E nella mia ci fu spazio solo per il vagare, il cercare, come un cane rognoso e randagio.

Per cinquant’anni, vagai.

Per cinquant’anni, non conobbi altro che fuggevoli illusioni, veglie crudeli e cocenti delusioni.

Per cinquant’anni fui la tetra pellegrina, l’oscura viaggiatrice.

E, per cinquant’anni, non ebbi notizia alcuna di Chekaril.

 

Ora voglio raccontarvi una storia.

La storia di come bevvi l’amaro calice fino alla feccia.

Perché, si, come ogni viaggio, anche il mio doveva avere un termine.

Me ne sarei resa presto conto.

 

 

 

Angolo di Akita xD: come vedete, non è affatto granché  .____. conto di migliorare...o lo spero O.ò I capitoli sono corti, lo so, ma preferisco così (almeno non ci si ammazza al solo vedere la lunghezza xD). Beh, in ogni caso, vi piaccia o meno questa storiella senza pretese, lasciate una bella recensione? Fa bene alla salute, sapete... Soprattutto a quella dell’autrice. Graaazie xD

ps: questo prologo è stato corretto e migliorato. Era tempo che volevo farlo, ma purtroppo non ne ho mai avuto l’occasione. Provvederò a sistemare anche gli altri capitoli quando potrò.

Akita

 

 

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Capitolo 2
*** L'inizio. ***


Ricordo ancora come iniziò la fine, sì se la ricordo

Ricordo ancora come iniziò la fine,  sì se la ricordo.

Non è molto difficile, rammento tutto, ogni dannato giorno, quasi fosse un orrido incubo da cui è faticoso svegliarsi.

Da poco avevo compiuto i trecento anni, e, come sempre, il passare del tempo mi riempiva di ulteriore nostalgia rabbiosa.

Ormai tenevo stancamente il conto degli anni, il calendario serviva solo per il mio compleanno.

Per ricordare che, evviva, grandi festeggiamenti, avevo un anno in più: un anno sprecato in giro per il continente senza concludere nulla.

Erano passati quasi cinquant’anni, ormai, ed io ancora vagavo, disperata.

Di Chekaril nessuna traccia.

Nulla, nemmeno il più flebile sospiro d’indizio, nulla a dirmi che ancora andavo avanti per qualche motivo.

Tutto quell’inutile viavai era stressante.

Fosse stato per me, il tempo sarebbe completamente sparito dal mio modo di pensare, ma avevo bisogno di regole e schemi familiari.

Altrimenti, avrei cominciato a girare in tondo come un misero animale in gabbia, e quello che restava del mio senno sarebbe andato a farsi una lunga vacanza, sicuramente molto lontano da me.

Non avrei mai più trovato Chekaril. Vivo, o morto.

Non importava: la mia missione era ritrovare il Principe. L’avrei portata a termine a qualunque costo.

Ormai, quella era l’unica cosa che mi restava. Tutto il resto era ormai perduto.

Non potevo tornare alla mia città, alla mia vita di prima.

Non ero altro che feccia della feccia. Uno scarto, un rifiuto messo in un angolo.

I miei compagni di un tempo non avrebbero più accettato la creatura ferita che ero. Non avrei riacquistato il potere che avevo. Né la mia ricchezza, né i miei affetti.

Che cosa avrei fatto, cominciato a mendicare? Gli elfi non si abbassano a fare questo, mai.

No.

Non potevo fare altro che andare avanti, trascinarmi, bestia ottusa, nel tentativo di portare a termine la mia missione o morire nel frattempo.

Non sapevo quanto senso avesse andare alla ricerca di un principe scomparso da tempo, ma non potevo smettere di raccogliere briciole e renderle polvere tra le mie mani.

Amavo troppo il ricordo di me, di Chekaril, ci tenevo troppo a sapere che, dopotutto, avevo ancora qualcosa da fare in quel mondo.

Ciò che il mio sterile girovagare significava me lo rendeva la più forte tra le droghe.

E, perciò, andavo avanti, senza sapere cosa il domani avesse in serbo per me.

Quando tutto cambiò io non me ne resi conto.

Era un giorno gelido, come ne possono capitare tanti, in primavera.

In quel periodo, i miei viaggi senza inizio né fine mi avevano spinta nella città di Zakadi.

Non era, la mia, una scelta casuale: era la capitale dell’omonima Repubblica, un assurdo crocevia tra il Regno degli elfi, e l’Impero umano.

Ogni cosa, merci, informazioni, persone, doveva assolutamente passare per quella ragnatela così strategica, quel morbido cuscino da strapazzare quando l’odio verso il nemico si faceva troppo forte.

Semmai ci fossero state nuove del mio dolce Chekaril, le avrei trovate lì. Sicuro.

Andare a Zakadi era il mio modo di ricominciare dopo una falsa pista.

In fondo, ero stata per molto tempo lontana da quel reticolo dannato, e le cose potevano essere cambiate.

Era il mio modo di darmi coraggio.

Di rimettere insieme, col più fragile dei collanti, i pezzi che erano rimasti di me dopo l’ennesimo vicolo cieco, per illudermi ancora di essere intera, di essere forte e coraggiosa e di non abbattermi di fronte a niente.

Da lì io potevo ripartire con un motivo per andare avanti.

E poi, quella città mi è sempre piaciuta. Una patria senza patria.

Era, ed è ancora, caotica ed eterogenea, il cuore impazzito di un luogo senza motivo e senza senso, come me.

Dovunque e comunque c’era caos, passaggio, tutto arrivava e se ne andava senza mai restare.

Zakadi, città di tutti e di nessuno, luogo di ladri, mercanti, profughi, viaggiatori, mendicanti, mercenari e soldati.

Non si poteva varcare il confine senza passare per le ben poco severe reti della brulicante città, che tutto lasciava ma che tutto ascoltava!

In quei tempi vacillanti passare per i ponti sul fiume di confine non era possibile. Né tantomeno varcare le montagne, un’impresa disperata anche per noi Spie.

Tutto, dunque, passava da Zakadi.

Oh, quel luogo era una vera e propria miniera di informazioni: difficile che qualcuno non si lasciasse sfuggire un seppur minimo commento su qualcosa.

E lì, anche i muri avevano orecchie.

Non per nulla Zakadi è sempre stato il pozzo preferito dalle Spie.

Pullulava di informatori , ufficiali e… diciamo più informali. Famiglie che da generazioni servivano le Spie.

La mia fonte preferita, e la più affidabile, era Junielle, la tenutaria di uno dei tanti bordelli del luogo.

Era il nucleo della fitta rete di cui noi Spie ci servivamo per carpire informazioni.

Fedele e puntuale, non mi aveva mai tradita, e ciò che diceva lei era sempre la verità. Quello che lei diceva era verità pulita e di prima mano. Roba di qualità sopraffina.

E, ovviamente, le mie visite non erano mai completamente mirate alla mia missione. Qualche volta avevo bisogno di Junielle.

Da lei trovavo anche protezione, e conforto quando il fardello della mia mostruosità, e del mio fallimento, cominciava a ridiventare troppo pesante.

Ogni volta tornavo da lei, a lamentarmi dell’ennesima pista sbagliata, a piangermi addosso.

Potrei chiamarla quasi amica, se non fosse di rango così spiccatamente infimo.

Lei, in fondo, era solo una misera informatrice, ed io una Spia. Per quanto decaduta e piuttosto inutile, potevo ancora fregiarmi del nome di Ombra. Beh, così andava il mondo.

Però io mi fidavo della buona Junielle.

Solo lei ed il mio Fratello di Maestro, l’elfo che è stato cresciuto con me dalla stessa persona, avevano visto il mio viso senza maschera.

Ma, mentre non avrei mai più avuto il coraggio di presentare la mia brutta faccia da mio fratello, che mi aveva visto in troppe occasioni miserevoli e pietose per non compatirmi, dalla mia amica io tornavo sempre.

Fisso, ad intervalli regolari, mi rifugiavo da Junielle quando non ce la facevo più a parlare con la mia ombra.

Quello era uno di quei momenti.

Fu facile per me entrare in città: non c’erano guardie, a parte alcune sentinelle che vigilavano sull’ordine cittadino.

C’era d’altronde un caos assurdo, troppo per poter  controllare ogni singolo viaggiatore.

Un po’ me ne dispiaceva. Dopo l’aver tutte le porte spalancate, essere Spie significa anche saper eludere ogni barriera.

Ho sempre considerato queste due cose dei piaceri molto seducenti. Specialmente l’ultimo, mi divertiva da impazzire trovare il metodo per accedere di soppiatto in qualche città fortificata.

L’unica piccola pecca di Zakadi, dopotutto. Non poteva essere perfetta.

Dopo aver superato le mura, mi ritrovai nell’enorme via principale, la strada che per pareti aveva locande e mercati.

Via maestra uguale un fiume di gente.

Era così bello essere in mezzo alla folla senza essere seppur minimamente calcolata.

Non potevo però reprimere un certo senso di disagio.

C’era tantissima gente, di ogni etnia e quasi ogni razza. Troppa gente.

In fondo, avevo passato mesi e mesi in quiete e solitudine, tutto quel vociare mi dava alla testa, me la faceva girare, mi ubriacava.

Ma, tutto sommato era un vantaggio. Quella stessa fiumana spaventosa mi proteggeva dagli sguardi indiscreti. Mi mescolavo egregiamente ai profughi ed ai derelitti.

Lasciai però ben presto quell’enorme strada lastricata e confusa. Ben altri erano i luoghi che mi aspettavano.

In un certo verso, ben più affascinanti.

Il mio obiettivo erano i luridi, tortuosi vicoli della città antica, angusti e bui, contornati da enormi e cadenti palazzi in tufo e argilla, che incombevano con la loro presenza, oscurando il sole.

Quello si che era lo spirito di Zakadi, la sua vera anima sporca. Per una persona perbene, diciamo un profugo medio, quelli erano luoghi proibiti, in cui mettere piede solo per farsi uccidere.

Lì abitava la chiassosa melma mai dormiente, altro che bravi mendicanti. Ad ogni ora del giorno o della notte si potevano osservare spettacoli d'ogni genere.

Trovavo quei posti marci molto più consoni al mio modo di vedere le cose. Chi stava sotto stava sotto, chi era più in alto dominava ed angariava com’era giusto che fosse. Chi non sapeva tenersi il posto, pagava. Chi sapeva salire, saliva. Punto.

Sapevo benissimo qual era il mio posto, e rispettavo le regole che ben conoscevo.

Ehi, è da quando ho raggiunto la piena maturità che non sono una persona pulita.

Impressi a fuoco su di me ci sono anni da persona malfamata.

Criminali, intrighi, omicidi: ci sguazzavo dentro a mio perfetto agio. Quella era stata la mia lunga vita.

E poi mi sentivo molto meglio lì che in quel vialone maledetto e mondano.

Chi mi incontrava e mi notava, notava quel verme strisciante tra le sue amiche ombre, generalmente non aveva la reazione che di solito riscontravo.

Niente facce disgustate e pietose.

Semplicemente, un prudente, e dolce, cambio di strada.

Essere un miserabile, immondo verme non significa essere sciocco. Nessuno di loro lo era.

Mi diressi così con calma, senza intoppi, verso il mio obiettivo primario.

Il bordello di Junielle: il peggior posto tra i peggiori, un'antica casa a tre piani, ridipinta malamente di un rosso osceno e squillante, un colore ormai quasi scrostato, che comunque mi faceva dolere gli occhi.

Ai lati dell'uscio due cumuli di sporcizia, mezzo, sudicio ma efficace, per dissuadere anche il mendicante più disperato dall'eleggere quel posto come dimora temporanea.

La casa era illuminata sempre a giorno. Perfino a porte chiuse, si sentiva la musica, sinuosa e sensuale, ed un odore che io ho sempre odiato: un misto nauseante di oppio, profumo e lerciume.

Dei, quanto odiavo quel luogo.

Lo detestavo profondamente già quando ero ancora la giovane Ombra.

Com’era squallido, e scontato, e orribile. Fatto sta, quel luogo tremendo attirava un sacco di gente. Ancora mi chiedevo il perché.

Insomma, il motivo mi è piuttosto chiaro, ma….accidenti.

Un po’ di senso estetico, un minimo di buongusto… no?

Sbuffando, bussai all'ingresso principale, una porta di legno scuro e massiccio.

Era tardo pomeriggio, un orario assai insolito per la maggior parte dei clienti, e perciò aspettai più a lungo del normale.

Finalmente, la porta si socchiuse, il minimo per far passare un viso che conoscevo.

Il portinaio, con la sua aria stanca ed annoiata, da uomo di mondo, non appena vide il fantasma che io ero, divento pallido come un lenzuolo, e sgranò gli occhi.

Venivo sempre a sorpresa, generalmente nei momenti meno opportuni.

E poi a quell’elfo, Fran, non ero per niente simpatica.

Mi temeva, e profondamente: ne aveva ben donde, a pensarci bene.

Quando era stato appena assunto, prima che mi riducessi in quel modo orrendo, aveva osato impedirmi di entrare.

Junielle non era arrivata in tempo per fermare il mio coltello, che avevo infilzato ben bene in una delle sue mani, inchiodandola al tavolo.

Un po’ brutale, forse, ma quella lezione gli era stata d’aiuto, più di mille lavate di capo.

Da allora, Fran mi obbediva ciecamente.

Ah, quanto amo certi metodi di apprendimento. Son sempre i migliori.

Vidi, con immenso piacere, il portinaio deglutire con difficoltà, per poi prendere un bel respiro.

La porta si aprì leggermente. Dovevamo solo sbrigare certe pratiche e poi sarei entrata senza problemi.

 "cosa volete?".

Domandò, in tono spiccio, ricomponendosi abilmente, come se fossi un cliente in incognito, una delle persone poco raccomandabili che aiutavano Junielle, o cose del genere.

Dietro la maschera, feci una smorfia.

Detestavo parlare, per un solo e semplice motivo.

Nemmeno la mia voce si era salvata da quell’inferno di fuoco da cui ero uscita a stento viva.

Facevo fatica a dire le cose più semplici, ed avevo un timbro orribile.

Roco, stizzoso, asessuato. Un sibilo sgradevole da sentire.

E pensare alla mia vecchia, dolce voce… quanto mi faceva odiare quella nuova Lsyn difettosa!

Facevo a meno spesso di parlare, anche per pura vergogna.

Non averne la possibilità per la maggior parte del mio tempo costituiva un vantaggio, ma anche l’ennesimo problema.

Ogni volta che riprendevo a parlare facevo sempre più fatica.

Quella volta non fece eccezione. Mi sentii arrossire addirittura prima di aprire bocca.

Presi una o due volte il respiro. Non parlavo da così tanto tempo che anche due parole mi costavano molta fatica.

"merce da scambiare". Ciò bastava per farmi spalancare l’uscio.

Fran si fece immediatamente da parte, rigido, inespressivo. Nemmeno mi guardava.

Da quando indossavo quella maschera gli era stato espressamente ordinato di fare finta di nulla, presumo.

L’ennesima delle delicatezze di Junielle.

Venni da lui introdotta nell'ingresso.

Era una piccola sala stuccata pesantemente, e con pessimo gusto, di oro e viola. Quattro lampade dall'aria esotica erano ad ogni lato: diffondevano un fumo denso ed una luce fastidiosa.

Sulla parete di fronte c'erano due porte scure, entrambe chiuse. Da una provenivano suoni di musica e risa sguaiate.

L’altra era muta, silente, morta, vuota.

Sentii la testa girarmi vorticosamente. Lì dentro la puzza schifosa dell’oppio era insopportabile. Dolce ed appiccicosa, mi faceva venire la nausea.

Senza che parlassi, Fran mi precedette, timoroso.

 Si guardò a destra e sinistra, poi cacciò fuori un’unica chiave, appesa ad una corda.

Con quella, aprì la seconda porta, quella muta.

Ormai sapevo benissimo cosa si celava dietro:  una rampa di scale, illuminata dalla luce che filtrava da alcune finestre rotte. In cima, un’altra porta, socchiusa. Lì dovevo andare.

Mi avviai senza nemmeno ringraziare, disgustata, oppressa da un mal di testa nascente. Che schifo, quel luogo.

"Junielle arriva subito, Ombra".

Disse il portinaio dietro di me, con una voce strozzata, prima di chiudere la porta. Mi fece piacere sentire il mio vecchio nome, quello che veniva usato ai tempi della mia giovinezza.

Fran si che capiva come girava il mondo!

Lì dentro si respirava aria più salubre. Nonostante le finestre rotte era un ambiente più piacevole, chiaro ed anonimo.

Cominciai a salire le scale, con tutta la calma possibile, ed aprii la porta in legno scuro che era in cima.

Entrai in quello che era il mio luogo preferito di tutto quel posto sguaiato: una stanza circolare, dai colori pastello, estremamente sobria, in un tale contrasto con ciò che la circondava da risultare quasi ridicola.

Ecco, ecco la vera Junielle, raffinata, schifiltosa. Sarebbe stata un’ottima nobile se non fosse stata mezzelfa, ibrida, dunque impura.

Sotto la sua veste da volgare tenutaria, Junielle è una persona dall'eleganza impeccabile, nonchè sfacciatamente ricca: abitava, con il compagno, in uno dei quartieri migliori della città, non certo in quel luogo maledetto dagli dei.

Ho sempre pensato prendesse in giro i suoi clienti, o che fosse troppo tirchia per sbottonarsi un po’.

I vetri, in quel posto, erano nuovi, immacolati come le poltrone in pelle ed il tavolino attorniato da qualche sedia dall’aria comoda.

Tutto era pulitissimo, splendente: le tende bianche sembravano appena lavate, la tovaglia dello stesso colore sul tavolino non aveva nemmeno una piega. Tutto profumava di pulito.

Quello era un luogo in cui pochissimi mettevano piede. Io ero una di quei privilegiati.

Qualcosa era cambiato, dalla mia ultima visita, quasi un anno prima. Non vidi lampade: l'unica, tremolante luce proveniva dal camino, che era acceso.

C’era una cosa, tuttavia, che non era cambiata né cambiava mai. Ogni volta che lo vedevo era un nuovo colpo al cuore.

Uno specchio alto, dai vetri incrinati.

Conoscevo ogni parte di quell’oggetto. Ero stata io a romperlo, in un accesso di disperazione, la prima volta che ero venuta lì dopo essere stata ferita.

Junielle aveva cercato di ricondurmi alla ragione. Mi aveva messa malamente di fronte allo specchio. L’unica mia reazione erano state urla lancinanti.

Mi ero fatta molto male quando avevo battuto con i pugni sullo specchio. In quei momento, l’odio verso me stessa era arrivato ad un punto di rottura.

Ricordare quell'episodio, e la follia da essa generato, mi turba tuttora. Mi turba ogni specchio, ogni superficie riflettente, dopotutto.

Posai la mia enorme borsa, la sede di tutti i miei poveri averi, su una di quelle sedie, e poi guardai lo specchio.

Fissai il mio volto coperto da quella maschera inespressiva.

Sapevo benissimo quale doveva essere il passo successivo.

Fosse stato per me non l’avrei mai fatto, ma Junielle lo esigeva.

Da sempre cercava di farmi riconciliare con la mia immagine: per lei, in fondo, ero sempre Lsyn.

E c’era sempre di peggio, anche se non capivo come potesse esistere un essere più mostruoso di me.

Perciò, tra di noi c’era un’unica regola ferrea, che esigeva la calma più assoluta: niente maschera durante i nostri incontri.

Mi veniva da piangere, volevo nascondermi come un cucciolo spaventato dai tuoni.

Me la tolsi lentamente, riluttante, davanti lo specchio, e la riposi nella borsa.

Odiavo farlo, ma se non l’avessi fatto la mia amica si sarebbe arrabbiata, e quello non lo gradivo molto. Tendevo ad innervosirmi quando qualcuno alzava la voce.

E poi non sopportavo Junielle arrabbiata. Era l’unico ponte per la realtà, senza lei sarei impazzita. Perciò, dovevo obbedirle.

Quando apparve il mio viso, chiusi gli occhi di scatto, presa da un timore senza fine. Mi faceva male vedere la parte integra del mio viso.

Mi ricordava cose che era meglio sopire.

Ad occhi chiusi potevo immaginare che, sotto la brutta maschera, un incantesimo avesse operato per guarirmi.

Cercai di farmi coraggio, e respirai profondamente, come prima di un duello importante, come prima di una corsa disperata per salvarmi la vita.

Appoggiai una mano allo specchio, per sostenermi, e avvicinai l'altra alla metà sfregiata, presa dall’assurda speranza di essere di nuovo bella e sana, gli occhi serrati.

Tremavo: avevo paura di me stessa. Ne ho sempre avuta, da quando il mio aspetto si è guastato in modo irreparabile.

Speravo così tanto, inconsciamente, che quasi mi aspettavo di sentire del liscio al tocco.

Il contatto con la pelle ruvida e reale mi fece sobbalzare di qualche centimetro.

Di riflesso, aprii gli occhi.

Un viso per metà normale ricambiò il mio sguardo. Era terrorizzato quanto me.

Dei, quanto ero brutta. Come ero orribile, come…

Quanto facevo schifo. Che verme immondo ero diventata? Che cosa ero? Cos’era rimasto di me, ormai?

Provai a fare un sorriso. Mi invase una nausea invincibile, che nulla aveva a che fare con l’odore di oppio, ormai sostituito dal buon profumo di legna e resina.

Probabilmente il fuoco non aveva danneggiato solo la pelle. No, non poteva fare solo quello, non poteva solo rovinarmi la voce, la bellezza e la vita: lo specchio rimandò l'immagine della parte sfigurata che si torceva in un modo orrendo e grottesco.

Anche un sorriso era diventata la smorfia di un mostro.

Ero Mostro, ormai, non potevo dimenticarlo.

Quello fu troppo, per me.

Presa da un timore incontrollabile, voltai lo specchio verso la parete e mi fiondai verso la poltrona più vicina al fuoco.

Un freddo terribile mi aveva invaso le membra.

 

 

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Puff, puff. Ho corretto anche questo capitolo. Ce n’era, di roba da modificare e rivedere.

Spero che vi sia più gradito, così. Sicuramente è più ordinato. E lungo.

E, per la miseria.

Rileggendo i commenti qui sotto (che vi consiglio se volete farvi quattro risate dopo la depressione cosmica di Lsyn xD), mi rendo conto di quanto fossi irrimediabilmente stupida.

Ho  voglia di modificare anche quelli! O.o

Povero Carlos Olivera, povero lettore da sempre fedele.

Ma come diavolo facevi a sorbirti ciance del genere? O_O

Questo è uno dei motivi per il quale ho completamente eliminato il mio angolo personale.

Mi rendo conto di ritenermi saggia ad averlo fatto.

Conserverò però questi commenti, così com’erano (orrori di battitura compresi). Puro spirito di masochismo, temo.

 

Angolo di Akita xD:

Per Carlos Olivera: il mio primo commentatore *_______* ohh, che bello xD sai, sono contenta, molto, che ti sia piaciuta la storia xD lo so, l'impaginazione fa a dir poco schifo ._. e lo dico da sola .___. Non ho la pazienza necessaria per scaricare i programmi html, quindi mi arrangio un po' con Word ._. e, diciamocelo con chiarezza, non è che sono poi una cima... per pubblicare questa storia mi ci è voluto un mese buono ._. salvo poi ricordarmi che sbagliavo la procedura d'impaginazione ._. sono un genio, io ù.ù cooomunque...spero che continuerai a seguire, ed a recensire xD adoro sentire i pareri degli altri xD ah, ps: ho aumentato la scrittura <.< così almeno sembra di leggere qualcosa in più xD purtroppo, mi sono accorta che, più vado avanti, più certi capitoli crucilai si "gargantuizzano"xD sacré bleu!!!

See you soon xD

 

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Capitolo 3
*** Junielle ***


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Incredibile ma vero, ce l’ho fatta. Ho completato anche la revisione di questo capitolo. È stata particolarmente dura, un po’ per l’università, un po’ perché ho trovato  difficile esprimere al meglio le mie idee. Junielle  è un personaggio difficile, quando si sa l’intera storia.

Continuo ad essere dell’opinione che dovevo essere ben matta a mettere su un sito i primi capitoli, così come mi venivano. E mi sembravano anche efficaci.

Ah, beata gioventù.

Vi lascio alle mie “Piccole Prefazioni”, ed al capitolo.

Ed è quello che spero leggiate, se non altro per la vostra sanità mentale.

                                                                              Akita.

Piccola prefazione:

posso chiedere, a chi legge, un minuscolo favore? Perchè non commenta quasi nessuno? T______T d'accordo, d'accordo.Vi lascio al vostro libero arbitrio (ed al terzo capitolo che, come vedrete, è ancora piuttosto moscio xD).

Buona lettura (ed a "dopo" XD)!

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Ancora spaventata da quell’orrore che avevo visto nello specchio, dal mio viso orribile, rimasi a fissare il fuoco, assorta.

Ero stata una stupida. Perché avevo voluto guardare?

Accidenti, mi ero fatta fregare come una stupida. Non avrei dovuto fare quella mossa poco saggia…

Ecco, tutti i miei buoni propositi stavano per andare a monte. Quel poco di calma che avevo faticosamente racimolato stava per svanire.

Non potevo mettermi la maschera? Ero così tranquilla quando avevo il viso coperto!

Se solo Junielle mi avesse vista in quelle condizioni, non so cosa mi avrebbe fatto. Odiava quando mi piangevo addosso.

Come facevo ogni volta che ero nervosa, cominciai a frugare distrattamente nella mia borsa, in cerca di un oggetto familiare, qualcosa che potesse rendermi più sicura di me.

Non l’avrei mai ammesso, ma incontrare la mia amica mi riempiva di ansia. Avevo sempre paura che cominciasse a rimproverarmi e a rendere, così, manifesta ai miei occhi la creatura debole che ero diventata.

Trovai la mia  vecchia pipa. Sorrisi leggermente.

Era l’unico lusso che mi concedevo, ormai. La presi con delicatezza. Se si fosse rotta ne sarei stata davvero dispiaciuta.

Quei gesti semplici, ripetuti da tempo immemorabile, da quando ancora ero una giovanissima Spia, avevano il potere di farmi concentrare. E io dovevo essere ben concentrata, dovevo sembrare la calma personificata.

Non dovevo dare indizi che potessero far capire alla mia amica quanto fossi spezzata.

Non avevo bisogno di compassione, la temevo. Non potevo essere indulgente con me stessa, ammorbidirmi avrebbe significato impazzire una volta e per tutte.

Ero troppo debole, e non dovevo impazzire. C’erano ancora tante cose da fare, Chekaril da cercare. Chekaril…

Rimasi a fissare il fuoco come un’idiota, mentre mille pensieri si facevano spazio nella mia mente.

Quei baci rubati, oh, gli abbracci amorevoli e fugaci…

Sobbalzai, e mi parve di fare uno sforzo sovrumano per non sprofondare in quei ricordi dolorosi. Oh, che stupida che ero.

Portai le mani alle tempie. Avevo voglia di gettarmi addosso la cenere bollente che era nella pipa. Forse in quel modo mi sarei svegliata e avrei smesso di sognare come una bambina sciocca.

Ma la volevo smettere di pensare al passato, si o no?

Tanto, se pure avessi trovato Chekaril, non avrei mai più potuto ottenere di nuovo quello che avevo un tempo.

Ero diventata un mostro, non dovevo dimenticarlo. Ero diventata orribile. Ed era tutta colpa mia. Perché quei pensieri e quelle stupide speranze non mi lasciavano stare, per una buona volta?

Non ero più quella di una volta. Non lo sarei mai più stata…

Quando Junielle si degnò di apparire, ero immersa in quel genere di pensieri felici.

Mi sentivo scoperta, ed impaziente. Non ero più abituata a stare senza maschera per tutto quel tempo.

Sentendo il cigolio della porta che si apriva, mi girai appena. Sentii il sollievo invadermi, acqua per un assetato.

Finalmente.

Junielle era arrivata, pronta per umiliarmi e guarirmi. Almeno, mi avrebbe distolta da certi pensieri.

Osservai entrare, con la coda dell’occhio, la mia cara, dolce amica, a metà tra l’irritato, il meditabondo ed il sollevato.

Junielle, la buona ed allegra Junielle, dal sorriso onnipresente e genuino.

Doveva essere stata interrotta in qualche affare. Dovevo averla interrotta, più correttamente.

Non avrei saputo spiegare altrimenti il suo abbigliamento.

Alla luce scarsa del camino vedevo davvero poco, ma quel poco bastava a mandarmi in belva.

Detestavo la copertura della mia amica, la odiavo con tutto il mio cuore.

Certo, ai miei tempi avevo indossato di peggio, ma comunque quel vestito bianco, tutto luccicante, non mi piaceva. Troppo pacchiano. Poco da vera lei.

La mia attenzione nei suoi confronti calò ben presto.

Sapevo che avrebbe subito cominciato con i suoi rimproveri, e non mi andava. In quel momento, sapevo che la mia amica mi stava profondamente disapprovando.

Avrei potuto farmi trovare in una stanza bene illuminata, seduta decentemente, e non stravaccata su di una poltrona con aria afflitta.

Soprattutto, non avrei dovuto fumare, lei odiava quella mia abitudine.

Ma mi seccava. Ero io ad aver bisogno di conforto, non lei. E non avevo la minima idea di come si accendessero le luci.

Rivolsi nuovamente la mia attenzione al fuoco, ed emisi uno sbuffo di fumo, aspettando la tempesta, che, come avevo previsto, non tardò ad arrivare.

"buoni dei, Lsyn!". Fu il caloroso saluto della mia cara Junielle, nemmeno entrata. Digrignai i denti. Di certo, lei era sempre la stessa. Non aveva perso nemmeno il vizio di urlare quando parlava.

Non mi mossi, né le risposi. Di certo non aveva finito la cantata. Tanto valeva sorbirsela tutta, con un solo orecchio.

Sentii la porta chiudersi, poi rumori di passi, accompagnati dalla voce stentorea ed effervescente di una certa amica forse un po’ sorda.

"Che cos’è questo buio? Qui dentro sembra di essere in una camera mortuaria! Rischi di accecarti! E che ci fai con quella pipa? Detesto vederti fumare!".

Ah, Junielle non cambiava mai. Non conosceva le parole prendere fiato. Un altro motivo per amare quelle visite. Ogni tanto avevo bisogno di un po’ di buonumore.

"quello che faccio non sono affari tuoi, Junielle.".

Mormorai, asciutta, quasi meccanicamente, emettendo un'altra nube di fumo.

La mia era una risposta da manuale. Ormai era diventato il nostro saluto. Lei mi rimproverava, io la mandavo a quel paese.

Lei rise, esuberante.

“bentornata, Lsyn! Quasi mi mancavi…”.

Sorrisi. Anche a me era mancata tanto, la sua vitalità e la sua gioia mi ricaricavano. Se avessi contato solo sulla compagnia di me stessa, probabilmente sarei impazzita molto presto.

Sentii altri rumori di passi, non troppo distanti da me. E poi strano rumore cristallino, che mi fece sobbalzare. Avvertii un brivido. Brivido della magia.

Alcuni punti della parete, apparentemente a caso, si illuminarono, di una luce inizialmente fioca, che andò man mano aumentando.

Ben presto, la sobria stanza fu illuminata morbidamente, ed i contorni divennero nitidi. Capii all’istante, e ne fui stupita. Ecco perché non avevo notato lampade!

Per un momento, la mia attenzione fu calamitata verso quella novità. Junielle era piena di sorprese, ogni volta che arrivavo da lei c’era qualcosa di nuovo.

"addirittura lampade magiche...".

Mi stupii di quanto la mia voce sembrasse compiaciuta. In effetti, avevo visto poche volte in vita mia quel lusso, e davvero da pochissime parti,  solo in case di persone estremamente ricche.

La mia amica se lo meritava tutto, davvero. Beh, non per quello che faceva, ma le volevo bene.

Era un piacere vedere che, almeno a qualcuno, la fortuna stesse girando per il verso giusto.

"gli affari devono andare bene".

Tornai, per la terza volta, a fissare il fuoco.

Nemmeno finito di parlare, che avevo avvertito una leggerissima fitta di disagio. Non mi piaceva quel sentimento.

Non ero sincera con me stessa. Non ero affatto contenta del destino fausto di Junielle.

Quella era un’ingiustizia. Perché lei, mezzelfa, essere sudicio ed inferiore, aveva tutto, ed io, nobile elfa di sangue purissimo, ero una povera vagabonda?

Perché a lei tutto e a me niente?

Ed io ero una Spia, ero Ombra. Lei era solo una misera informatrice.

Ma lei non aveva sbagliato quanto me, mai. Lei svolgeva il suo mestiere di informatrice con serietà impeccabile, io ero stata trascinata in una trappola ignobile.

Cercai di ignorare quei pensieri prima che divenissero troppo insistenti.

No, io ero felice per la mezzelfa. Felicissima.

Sentii altri passi, e poi una figura tutta allegra si sedette pesantemente sulla poltrona quasi di fronte alla mia, sprofondando nei cuscini.

Junielle, cara amica mia. La fissai, finalmente, dimentica delle mie fantasticherie.

Accipicchia, lei si che era uguale a sempre!

La invidiai ancora, invidiai la sua forza e la sua allegria.

Sorrideva. Sorrideva ancora, avrebbe sorriso sempre. Non si sarebbe mai tolta di faccia quel sorriso smagliante ed un po’ malizioso.

Gli occhi verdi brillavano di gioia. Felice di vedermi, forse? Anomalo. Io non sarei stata felice di vedermi.

Sarebbe stata una grande bellezza, se solo non avesse avuto quel piccolo difetto di nascita…

Eh si. Mezzelfa, lo ripeto. Sangue impuro, sterile, unione abietta tra due razze diverse.

In quanto tale, non era benvista da nessuno, pochi riuscivano a fidarsi di quell’essere ibrido. Nemmeno io ero sicura di fidarmi.

Non c’era da stupirsi, dunque, della vita che conduceva la mia amica.

"uomo o elfo che sia, chiunque ha bisogno di un po' di svago, non credi?".

Disse lei, allegramente, scuotendo l’elaborata pettinatura che racchiudeva i suoi capelli rossi.

D’un tratto, mi sentii stanca di quella conversazione inutile, di tutta quell’allegria.

Che stupidaggini stavamo dicendo. Non ero venuta lì per quello.

Un tempo adoravo chiacchierare con Junielle, fare confusione con lei, metterle a soqquadro la vita.

Si, ma un tempo non ero nemmeno invidiosa, e non facevo minimamente caso alla sua razza.

Da quella frase avrei preso spunto per tutta una serie di stupidaggini, che ci avrebbero fatte arrivare ad un felice stato di ubriachezza da risate.

Quei tempi erano ormai lontani, ed io non ero più la stessa. Junielle, invece, si.

Avevo passato anni in mezzo ai boschi, in viaggio, immersa in un silenzio irreale. Anni a non dire quasi nulla, anni di quiete.

E ora, come ogni volta, arrivavo lì e venivo sommersa da una minacciosa nube di risate ed allegria, perché lei era sempre uguale a se stessa. Troppo per me.

A stento sopportavo tutto quel chiasso. Il fatto che fosse così allegro e soddisfatto non poteva fare altro che riempirmi di odio.

Volevo solo le notizie che di solito Junielle mi dava, e poi me ne sarei andata. Solo quello contava, ormai, il mio viaggio. Il resto poteva andare in malora.

Io non me ne sarei accorta.

Quello non era più il mio mondo.

Non risposi a quella che era tutto sommato una provocazione, e scrollai le spalle, gettando una nube di fumo dritta in faccia della mia amica.

Smise di sorridere, almeno una buona notizia, e si voltò dall'altro lato.

"stai peggio del solito, Lsyn". Disse poi, tossendo, con una strana voce soffocata.

“non ci riesci?”.

Sapevo a cosa alludeva. Lo sapevo perfettamente.

No, Junielle.  Non ci riuscivo. Non mi sarei mai e poi mai riconciliata con me stessa. Avevo commesso troppi sbagli imperdonabili, e dovevo pagarne il prezzo.

Solo allora smisi di fissarla, e la guardai. Notai le linee di preoccupazione sul suo volto, e che era molto tesa.

Quello non era previsto nel programma. Insomma, quella domanda me la faceva circa due volte ogni volta che andavo da lei, e riceveva la stessa risposta dolorosa. Sapeva benissimo quanto mi costasse dire certe cose.

Eppure, continuava e continuava e continuava. Che sperava di fare?

"No, Junielle. Né ora né mai".

Mormorai, ferma, mentre una silenziosa ondata di dolore mi sommergeva. Mi sentivo straziare il cuore.

La semplice domanda che mi facevo era: come?

Come potevo farcela? Come potevo andare in giro senza maschera e non sentirmi un'esclusa? Come potevo riposare, se una missione mi tormentava con i suoi misteri insoluti?

La mia amica mezzelfa si girò di nuovo verso di me, con un’espressione sofferente. Era strano vederla senza sorriso.

Quel volto era diverso quando non era allegro, sembrava ci mancasse una componente fondamentale. Un’amica a metà. Era rarissimo vederla così.

“non potresti provare?”.

Eh no,  tutto quello non era proprio in programma. Junielle non si era mai azzardata a fare una domanda del genere.

La guardai, con astio. Come poteva pensarlo, dopo tutto quello che avevo combinato?

Lei parve farsi piccola piccola nella sua poltrona, e continuò con voce flebile, arrossendo.

“sai…sono passati così tanti anni…potresti provare a rifarti una vita”.

Quella assurda proposta mi fece ghignare. Sentii un’ondata di rabbia e freddo divertimento percorrermi il corpo, una scossa alla mia apatia.

Rifarmi una vita. Splendide parole, se non fosse stato per qualche piccolo, inconsistente, particolare.

“certo. Certamente”. La mia voce suonò intrisa di  amaro sarcasmo alle mie stesse orecchie.

“un’ottima prospettiva. Sono certa che la Regina lascerà andare senza problemi una Spia inadempiente. Sicuramente questa vecchia sfregiata sarà accolta da tutti con applausi”.

Era la perfetta verità. Non potevo avere una parvenza di vita, dovevo cercare Chekaril. Era la mia missione.

E poi, chi avrebbe voluto una creatura orribile come me? Mio fratello, Tijorn? Avrei pesato sulla sua vita normale?

Junielle? Bah, sciocchezze.

Vidi la mia amica sbiancare, forse turbata dalle mie parole dure. Fece per aprir bocca, ma la zittii con un gesto violento.

Ci fu un improvviso silenzio, che si prolungò fino a pesare.

Poi,  cosa ben peggiore, il viso della mezzelfa mostrò un’altra espressione. Compassione. Pietà.

Una rabbia silente cominciò a montare, spazzando via l’amarezza, come un vento fetido.

Digrignai i denti, cercando di dominarmi, a bocca chiusa per non farmi vedere. Sentii le labbra tendersi.

Odiavo quando faceva così. Mi guardava come un relitto, un giocattolo rotto del quale è impossibile liberarsi.

Mi faceva sentire un peso, un orribile peso, un parassita che succhiava avidamente la felicità altrui, lasciandone solo gli scarti al suo passaggio.

Avrei voluto urlare, rompere a pugni quel malvagio specchio di misericordia, incrinare quel bel faccino dalla vita perfetta.

Io, relitto inutile, parassita, rotta, sporca.

Ma io non potevo lasciarmi andare in quel modo. Mordere la mano che mi aveva accolta? Oh no, mai, anche se quell’accoglienza significava accettare la carità di un essere inferiore.

Dovevo dominare la mia ira. Nessuno mi avrebbe accolta come lei, nemmeno mio fratello. Lui si che aveva cervello da vendere.

Tali, ormai, erano i rapporti tra me e Junielle, che un tempo chiamavo amica.

 La mezzelfa sorrise, scuotendo i capelli rossi. Un sorriso forzatamente dolce, che mi fece venir voglia di scrollarla, di intimarle di uscire da quel suo maledetto guscio dorato.

“potresti almeno…provare, sai. Toglierti la maschera e tutto il resto”. Disse, innaturalmente calma, facendo un lieve gesto verso di me.

Sobbalzai per la sorpresa, spiazzata. Eh?  L’idea era inconcepibile come un asino che cammina a testa in giù.

Lei non si scompose, ed il suo sorriso si allargò. La sua voce era gentile.

“io ed il mio compagno potremmo ospitarti per un po’, sai, per farti ambientare. Poi non ti tratterremo, potrai andare dove vorrai. Ma almeno senza quella cosa orribile…”.

No, decisamente eravamo andate oltre gli schemi classici. Se non fosse stato per l’accenno alla maschera, avrei pensato fosse impazzita.

Ma quella volta parlava sul serio. Davvero era disposta ad aiutarmi tanto? Ad ospitarmi finché non avessi riacquistato familiarità con il mio aspetto?

Boccheggiai. Un dolore immenso mi avvolse, un rimpianto profondo mi squarciò l’anima.

Ma cosa mai stavo pensando della mia povera Junielle? Cos’ero divenuta?

Carità? Misericordia? Lei era mia amica, per gli dei!

Lei non aveva paura di me, non si era mai scostata dal mio cammino.

Lei era solo premurosa, e non voleva mi facessi del male.

Lei…mi aiutava tanto, aveva sempre le informazioni giuste, un’amica perfetta. Era quasi infantile, pensarlo, ma di conforto. Cominciarono a riempirsi gli occhi di lacrime.

Per un attimo fui dilaniata da due emozioni contrastanti, la rabbia di prima e la tenerezza di quel momento. Un tenue barlume di speranza: chissà, forse potevo riprendere la mia ricerca con una stampella in più.

Ma no, come potevo? Chekaril…non potevo lasciare passare altro tempo!

Già troppi anni erano trascorsi, poteva…poteva essere ormai morto.

Quello la Regina non me lo avrebbe mai perdonato, e nemmeno io. Vagare, girare, girare, girare.

Quella era la mia vita, lo era diventata, lo sarebbe stata fino a missione compiuta. Non potevo fermarmi a pensare, non avevo il tempo di guarire.

Cercai di aprire bocca. Io…io volevo tanto restare con Junielle. Magari avrei mandato una lettera al mio fratellino Tijorn.

Avrei cominciato a non aver paura delle mie cicatrici, e poi… e poi cosa?

Avrei trovato il coraggio di riprendere il cammino? Il mio animo era ormai troppo selvaggio per non migrare?

Ero ancora immersa in quella fornace di pece bollente, quando qualcosa cambiò.

Probabilmente intuendo il mio stato d'animo, Junielle si sporse, e posò una mano, asciutta e fresca, sulla parte offesa del  mio viso, carezzandolo leggermente, come per confortarlo.

Non l’avesse mai fatto.

Provai l’impulso irresistibile di mordere a sangue quella mano morbida, che non conosceva spada, cicatrici, non aveva assaggiato né il sangue, né la polvere, né le lacrime della sconfitta.

Puzzava di prigione. Capivo, certo.

Accettando, avrei firmato la mia condanna a morte.

Quella mano puzzava di bambagia. Ricacciai il mio dolore indietro, e mi girai. Schifosa, caritatevole mezzelfa.

Osare trattarmi come una serva? Orribile essere inferiore, osava trattare in questo mondo Ombra? Viscido verme, che intendeva fare di me? Trasformarmi in lei e nei suoi falsi sorrisi?

Fare in modo da rendermi per sempre debitrice di lei, sangue sporco ed infetto? Ancora quella carità disgustosa?

Ora l’avrei messa a posto, avrebbe capito quale spazzatura doveva occupare.

Ero ferita, ero moribonda, non ero più la stessa Ombra, ma lei mi doveva lasciare stare. Avrei ritrovato Chekaril, e sarei tornata a splendere di gloria.

E allora sarei tornata per riprendermi il posto che mi spettava, uno molto in alto, che lei non avrebbe raggiunto mai.

"non mettermi mai più le mani addosso, Sangue Impuro".

Il mio ringhio rabbioso colpì più di una palla di cannone. Come se l'avessi colpita davvero, Junielle si ritirò sulla sua poltrona, diventando color carta.

Seppi senza parlare di averla offesa. Ci fu un altro momento di silenzio.

Non ebbi bisogno di guardare per vedere la sua espressione ferita.

Stavolta restammo a lungo in silenzio. La rabbia svanì pian piano, lasciandomi spossata. Non previsto, avvertii qualcosa di simile alla profonda vergogna.

Troppo tardi. Junielle era arrivata troppo tardi a scavare nella mia anima. Ero io l’infetta.

Rabbia, vergogna, odio. Tutti questi sentimenti si erano annidati dentro di me, avevano scavato una tana.

La mia amica l’aveva raggiunta, ed era stata morsa dalle serpi che vi abitavano.

Per troppo tempo avevo vissuto da sola, ruminando il mio rigetto per il mondo che mi rigettava. Non ero più me.

Presi a vergognarmi di me stessa, di quello che ero diventata, e di come avevo trattato una persona che un tempo, quando potevo dire di essere viva, chiamavo amica.

Sospirai, e fissai la pipa, ormai spenta. Io ero come lei. Spenta. Vuota.

"non volevo".

Quelle parole mi uscirono di bocca molto inattese. Non avevo la forza di stupirmi.

"mi dispiace".

Non ebbi nemmeno il coraggio di guardarla. La sentii alzarsi, ed andare vicino alla finestra, ma non la seguii con lo sguardo. Rimasi a fissare il fuoco. Non sapevo.

Cosa avrei dovuto provare? Dolore? Cosa? Non riconoscevo più tanto bene le emozioni. Ero troppo vuota. Confusa.

 "Tijorn mi ha detto che ci sono novità. Dovresti andare a trovare lui ed Amarto. Avrei dovuto riferirti questo, quando ti fossi fatta viva".

Mi fece male sentire la sua voce incrinata, e sofferente. Stava piangendo, o quanto meno stava per farlo. In quel momento, mi odiai più del solito.

Il pensiero di dover rivedere il Maestro e mio fratello, in circostanze normali, mi avrebbe fatto venir voglia di morire, ma non era il momento di provare ansia.

Io ero uno stupido e lurido vermetto strisciante. I vermetti non provano ansia.

Chiusi gli occhi. "già. Avresti dovuto". Ribattei, con voce cauta, piatta.

Un altro di quei silenzi imbarazzati, che sembravano non finire mai. Da quando avevamo cominciato a non parlarci più? Non ricordavo.

"per quanti anni...".

Disse all'improvviso Junielle, con un sospiro intriso di lacrime e confessioni.

"ti ho visto vagare? Cinquant'anni, Lsyn, è da tanto che stia viaggiando come una stupida, in tondo”.

Sobbalzai. Non avevo mai sentito la mia amica così piena di amarezza. L’avevo ferita, eccome se l’avevo ferita.

Il vermetto sprofondò un altro pochino nella poltrona.

Rimasi ad ascoltare quelle parole, vere e proprie spade, in silenzio.

“per cinquant'anni, sono stata il tuo porto sicuro. Ti ho tenuto la mano quando gli altri fuggivano!

Ti ho vista diventare un fantasma, e non ho avuto paura di te, non ti ho allontanata!

Per cinquant'anni, Lsyn. Cinquanta dannatissimi anni.

Ti ho sostenuta!

Ma tu... tu disprezzavi tutti, e mi hai sempre trattata come nient'altro che una lurida prostituta ed una serva, ed io che facevo? Ti ho accolto sempre, e ti confortavo quando piangevi così disperatamente da non riuscire nemmeno a prendere fiato!

Con che moneta mi stai ripagando, Amarto Lsyn?".

La scelta di mettere il mio secondo nome avanti, quella scelta così formale, mi paralizzò, immergendomi nel panico più totale.

Nemmeno la Regina lo faceva. Nemmeno gli sconosciuti.

Mi sentii invadere da una certa smania gelata. Mi alzai di scatto, e la guardai.

Era stravolta: il viso bagnato di lacrime, arrossato e sfatto.

Il vermetto si contorse un altro po’. Oh…amica mia, dolce amica mia.

Non l’avevo mai vista soffrire tanto. Era tutta colpa mia.

Cercai di fare un timido passo in avanti, senza nemmeno sapere cosa avrei fatto dopo, ma lei mi bloccò con uno sguardo, tirando su col naso.

Era così distrutta, così…non so nemmeno definirlo. Io mi ero professata sua amica, e l’avevo chiamata…no, non posso ripeterlo.

Il suo tono di voce raggiunse toni di isteria, e si incrinò ancora di più.

"cosa fai? Vieni qui, arrogante ed egoista come sempre, comportandoti da padrona, e mi dai del sangue impuro! Cosa sono per te? Un'informatrice? Una protettrice? O un'amica?".

Non seppi che risponderle, e la domanda cadde nel silenzio.

Da tempo non sapevo più cosa significasse la parola amicizia. Da tempo non sapevo più cosa significasse tutto.

Avevo smesso di vivere.

Rimanemmo così, per un sacco di tempo, a fissarci, entrambe in piedi.

Lentamente, le parole della mia amica cominciavano a fare breccia nella mia testa.

Ero stata così egoista e crudele?

Così mostro? Ero confusa. Non mi sembrava di essere stata così antipatica, in passato. Potevo solo essere sicura di una cosa.

Era fatta. Persa. Persa. L’avevo  davvero persa. Avevo esagerato, fracassato quella fragile armonia che ci legava.

Fui io a spezzare quell’immobilità, rotta solo dai respiri affannosi di Junielle, che sembrava già pentirsi di quello che mi aveva detto.

No, in realtà sapevo esattamente cosa fare: mi aveva schiarito le idee.

Dovevo andarmene di lì, e in fretta.

Con una mano, guardando ancora Junielle, cercai la mia borsa e vi rovistai con una mano, fino a trovare i lineamenti rassicuranti della maschera. Eccola, la mia unica e vera amica.

Lei sapeva proteggermi dagli sguardi, curarmi e consolarmi, senza pretendere nulla.

La sollevai, tenendola stretta come fosse un inestimabile tesoro.

Era fatta. Avevo perduto per sempre il mio ultimo ponte con la vita.

Junielle osservò attentamente ogni mio minimo movimento, ancora piangendo, perplessa.

Quando si accorse che mi stavo rimettendo ciò che mi celava al mondo, sgranò gli occhi, ed in un attimo tornò ad essere se stessa.

Mi si avvicinò di corsa, e mi fermò la mano. Aveva una strana espressione, quasi maniacale. La sofferenza era una lucina piccola piccola nei suoi occhi. Ne fui stupita.

"Junielle...".

Cominciai, con un sussurro. Temevo di farle altro male. Non era giusto che dovesse soffrire ancora per colpa mia.

Lei mi aveva sempre accolta…ed io? Ero stata una bestia schifosa, e avrebbe fatto bene ad allontanarsi da me.

Cosa che al momento non sembrava avere la minima intenzione di voler fare, ovviamente. Testarda mezzelfa.

"cosa credi di fare, eh?".

Quasi mi urlò in faccia, con una strana voce venata d’ira, stringendomi così forte il polso che fui costretta ad abbassare la mano. Quella veemenza mi sorprese.

"dove credi di andare? Dannazione, Lsyn! Tra le due non saprei dire chi è la bastarda ma, maledizione, ti voglio bene! Ti voglio bene!".

Fece una cosa che mi stupì, ancora di più delle parole, qualcosa che nessuno aveva mai fatto da un sacco di tempo.

Mi abbracciò, riprendendo a singhiozzare.

Lasciai cadere la borsa, a dir poco stupefatta. Da quanto non sentivo più il calore intimo di un abbraccio?

Anni e anni e anni, avevo dimenticato quella sensazione dolce.

La mia prima reazione, elfa abituata a decenni di vita semi selvatica, come una bestiola, fu quella di allontanarmi di scatto, soffocata.

Lentamente, però, mi costrinsi a lasciarmi andare. Sarebbe stato un gesto tremendo, quello di allontanarmi.

Era troppo tempo che nessuno osava un gesto di affetto nei miei confronti, davvero troppo.

Da tantissimi anni avevo paura che la gente mi si avvicinasse, nessuno mi aveva nemmeno mai sfiorata per sbaglio, tanto facevo in modo di evitare contatto con esseri che non fossero la mia cena. La cosa mi riscaldò il cuore.

C'era sempre Junielle, la mia amica.

Amica, che stranissima parola. Evocava solidarietà, affetto, cose belle che avevo dimenticato di avere.

Quella era l’amicizia?

Per quanto potessimo litigare, per quanto io, nella mia folle rabbia, la offendessi, lei era lì. Rimanemmo per un po' abbracciate.

La scena doveva essere piuttosto buffa: nonostante la lontana sensazione di pace, nel mio cuore, non ero riuscita a ricambiare l’abbraccio.

La sentivo come una cosa così anomala… ero rimasta com’ero, letteralmente paralizzata dalla sorpresa.

 Dopo un po’, l’imbarazzo prese il sopravvento. Non ero per le manifestazioni prolungate d’affetto, anche quando ero ancora davvero Lsyn.

Resistevo solo a Tijorn e Chekaril. Il primo…beh, semplicemente perché era il mio mitico Tijorn, per il secondo non c’era bisogno di spiegazione alcuna.

E poi, tutto quell’affetto mi stava commuovendo. Era completamente fuori luogo in quel momento.

E poi, non potevo assolutamente restare.

Da quando ero diventata più tranquilla, l’idea di tornare da mio fratello Tijorn mi riempiva di inquietudine.

Non avevo mai fatto uno sforzo per vederlo in quegli anni, e lui, conoscendo i miei bisogni, mi aveva assecondata, sicuramente certo che, prima o poi, sarei tornata.

Quella chiamata era, dunque, molto anomala, e dovevo indagare a fondo.

Avrei fatto meglio a sbrigarmi, prima era meglio era. Dovevo togliermi quella spina. Perché mi cercava, quell’altro?

Mi staccai, gentilmente, dalla mia amica.

"devo andare". Dissi, piano, guardandola nei lacrimosi occhi verdi.

Lei scosse la testa, con un’aria mortificata che mi face venir voglia di cancellare i miei propositi.

"è troppo tardi Lsyn...almeno dormi qui... avrai tutto il tempo di...".

Fui seccata da quel continuo invitarmi a restare. Non ero imprigionata. Forse lei non lo capiva, ma l’idea di ritrovare Tijorn era, più o meno, come avere una spina nello stomaco.

Non volevo vincoli, proprio in quel momento.

E poi mi seccava. Non volevo essere ospitata da nessuno.

"no, Junielle. Rimanere sarebbe stupido".

Feci presto ad interromperla, con un gesto fermo, rimettendomi finalmente la maschera, allacciandola con movimenti torpidi.

Il gelo familiare sul viso mi fece sentire più sicura. Stavo sempre meglio quando ero nascosta agli occhi di tutti, e potevo ringhiare al mondo senza che nessuno mi chiedesse perché.

"ci siamo scambiate troppo veleno. Finiremmo per litigare di nuovo, e potrebbe non esserci nessun riparo, stavolta. Non è il momento di restare: se Tijorn ha bisogno di me, c’è qualcosa di importante, lo sai. Tornerò, come sempre, non preoccuparti. Magari con Chekaril".

Sorrisi involontariamente, ma la maschera lo coprì.

Magari mio fratello aveva notizie preziose, e sarei andata, grazie a lui, verso la vittoria. Già ne sentivo il sapore.

Dopo quello, sarei rimasta dalla mia amica per giorni e giorni.

La mia amica sembrò comprendere, ed annuì leggermente. Mi sentii sollevata.

Mi girai verso la porta, e cominciai ad allontanarmi da lei. Stancamente. Lei non mi seguì, e restò lì dove l’avevo lasciata.

"buona fortuna, Lsyn...".

Fu l’ultima cosa che le sentii dire, un sussurro triste e stentato, prima che la porta si chiudesse dietro di me.

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Angolino di Akita:

sono in crisi T____T sono arrivata...no. Mi rimangio tutto quello che ho detto. Folgorante idea uhm... <.< lo so, non ci avete capito nulla <.< abituatevici (detto in modo grammaticalmente correttissimo) xD

ehi, è iniziata l'estate (ieri, però... fa nulla <.<)!!! Che bello .___.

Per Carlos Olivera: grazie per il commento, ancora una volta xD! Tu non sai quanto mi sono divertita a scrivere della città xD chissà perchè, ma l'inserviente io l' immagino con gli occhi a palla -.- di quelli che sembrano schizzare via da un momento all'altro xD comunque, bando alle ciance mie solite. Continua a recensire, e a farmi notare qualunque cosa che a tuo parere non va (oltre l'impaginazione .____. Ma quella, è causa persa .__.)... fammi sapere se anche questo 3 capitolo è di tuo gradimento xD

Ed a voi, o lettori sconosciuti è___é

Recensite ù_ù

Au revoir xD

 

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Capitolo 4
*** Il sogno ***


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Dopo un lungo periodo, sono riuscita a finire la revisione di questo capitolo.

Cosa paradossale, sono ancora meno contenta dell’ultima parte. Ma non sono riuscita a far di meglio, e questo la dice lunga.

Questo periodo è abbastanza brutto, e penso che mi occorrerà ancora molto tempo prima di poter continuare anche il seguito.

Sono ancora fermamente convinta che questa revisione non serva ad un granché, visto che nulla è cambiato dalle prime pubblicazioni, ma continuo lo stesso, forse per qualche mio oscuro istinto masochista.

Come pure per istinto masochista manterrò praticamente intatti i miei commenti precedenti.

Temo di essere fuori di testa più o meno quanto Lsyn. Se non peggio.

Buona lettura(?).

                                                                   Akita

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Eccoci finalmente (sic!!!) al quarto capitolo. Non so chi legge (chi?? O___O), ma io mi sto divertendo xD

Ok, sporadici lettori, vi lascio ai miei deliri.

See you later!

Akita

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La casa di Tijorn Amarto, mio Fratello di Maestro, non era lontana da Zakadi: lui abitava, allora, in un distretto montano del nostro regno, una zona coperta da faggeti e castagneti, dai rari, piccoli villaggi.

Non ci voleva moltissimo per raggiungerlo, soprattutto per una persona abituata ai lunghi viaggi come me.

Lo consideravo, tutto sommato, un vantaggio a metà.

Non avevo voglia di rivedere il sorriso di mio fratello, ma, nello stesso tempo, se avessi aspettato troppo mi sarei strappata il cuore con le mie stesse mani, per divorarlo.

Non sono mai stata un tipo molto paziente, e quella non era una situazione in cui dimostrarsi tali.

Tijorn.

L’ultima volta che l’avevo visto, ovvero alla mia partenza per quel maledetto viaggio, dovevo avergli sbattuto la porta in faccia senza troppi complimenti.

Lui, all’epoca, viveva ancora nella più grande città degli elfi, nonché capitale del Regno, Galinne, la meravigliosa Galinne dalle cupole d’oro.

La sua casa, in cui avevo passato l’intera convalescenza, non era troppo lontana dalla stupenda abitazione che all’epoca poteva ancora dirsi mia.

Con il tempo, come mi aveva ampiamente spiegato Junielle in ogni nostro incontro, le cose erano cambiate.

Mio fratello non aveva più retto il peso della grande, opulenta città, troppo densa di ricordi che a lui non piacevano.

Si era dunque ritirato nei pressi di Sharilar, un modesto villaggio più a nord di Galinne, quasi ai confini del Regno.

Abitava nel posto più bello che potesse mai esistere al mondo, nel quieto bosco che circondava quell’ammasso di povere case: una modesta casetta quasi nascosta, remota, il luogo che ci aveva visti crescere felici, e che avevamo abbandonato con il Maestro quando eravamo entrambi Spie adulte.

Io e mio fratello eravamo estremamente diversi, su questo non ci pioveva.

Ovviamente, non sto parlando del sangue. Io non avrei potuto fare quella scelta, mai.

Le nostre strade si erano divise quasi subito, e così i nostri destini.

Tijorn era stato una buona Spia, ma, a differenza mia, dopo i primi decenni di attività obbligatoria, lui, così pacato di natura, aveva scelto la via dell'insegnamento.

E dire che prometteva ancora meglio di me, con il suo sangue freddo e i suoi metodi calcolati fino all’ultimo imprevisto.

La sua pazienza e meticolosità erano diametralmente opposte al mio comportamento, che ha sempre rasentato il brutale.

La differenza più marcata tra noi due, quella che aveva deciso il nostro futuro, non era però quella: lui era una persona buona.

Troppo per il sangue e gli intrighi di corte, elementi in cui io mi trovavo a mio perfetto agio.

Sempre stato un mollaccione di prima categoria, il mio fratellone, una Spia incompleta. Dei due, sono stata sempre io la cocca della regina, spia, diplomatica e spiccia assassina.

Lui aveva preferito un tranquillo anonimato, malvisto dalle Spie operanti.

Uno stile di vita che lo aveva certamente isolato da molti membri del nostro ordine, ma che gli aveva permesso di mantenere intatti i suoi sogni, i suoi cari, le sue speranze, in una relativa libertà.

Io avevo scelto la carriera folgorante, il sangue, il rispetto, la paura, la vita mondana e le missioni.

Ero rimasta sola, cacciata a calci nel sedere al primo sbaglio, come un cane randagio. Forse era quello il pensiero che mi feriva di più.

Quella sua vita serena avrebbe potuto essere anche la mia, ma il sentiero che mi aveva portata alla distruzione non me l’aveva permesso.

Mi ero distrutta con le mie stesse mani.

Io ero una povera vagabonda solitaria, lui…

Da quando eravamo adulti, il nostro Maestro, Amarto, non si era staccato da lui.

Io non avevo la pazienza di gestire un vecchio elfo mezzo alcolizzato, ed ero sempre in viaggio, o nel Quartier Generale, o a corte. Insomma, ero sempre impegnata.

Tijorn si è sempre occupato del nostro povero vecchio, specialmente quando una lunga, rovinosa malattia gli ha rubato la vista e, unica nota positiva, la voglia di toccare un solo goccio di alcol.

Da sessant’anni buoni, inoltre, la sua casa incasinata era stata allietata da due altre presenze.

Nysha e Manolìa Tijorn, le due allieve di mio fratello.

Erano gemelle identiche, amate come figlie proprie, come il Maestro aveva fatto con noi, e promettevano bene, nonostante le ricordassi ancora come due mocciose frignanti.

Mi chiamavano Zia Maestra, quando ancora ero viva, ed ero sempre a casa loro, a fare la capricciosa e a raccontar loro le mie mille avventure pazzesche. Io lo trovavo estremamente divertente.

Ah, che dolore al cuore. Dovevano essere molto felici, loro.  

Nessuno aveva più notizie di me dall’inizio del mio viaggio. Avevo proibito a Junielle di parlare, anche se sapevo che l’avrebbe fatto comunque.

Avevo promesso a me stessa di non tornare mai più dai miei affetti. Già andare dalla mia amica era più doloroso di quanto lei pensasse.

Se poi ricordavo tutto il livore che avevo riversato addosso a mio fratello e al Maestro, tutta la rabbia, l’odio, l’impotenza e la paura che si erano scatenate durante la mia convalescenza… tutti gli insulti, tutta la vergogna…

Avevo innegabilmente voglia di tornare indietro e perdermi in uno dei miei soliti giri senza fine.

Parlare di nervosismo era riduttivo: niente mi faceva sentire così male quanto il ricordo dei miei cari.

Io ero stata una bestia, ma la cosa che mi faceva venir voglia di sprofondare nel terreno era un’altra.

Sarebbe stato facile dimenticare dei parenti ostili o freddi.

Non era quello il caso: Tijorn ed Amarto sono sempre stati buoni, pazienti, premurosi nei miei confronti, nonostante tutti i miei capricci, il mio carattere orrendo, e il disastro che aveva compiuto su di me l’incidente. Insieme mi hanno aiutato e fatto compagnia al Lazzaretto più di una volta.

Mi hanno fatto compagnia prima e dopo la nascita di mia figlia, e non mi hanno mai fatto sentire sola.

Tijorn, poi, era sempre stato ben più di un fratello di Maestro. Non avrei potuto sperare in un fratello migliore.

Mi ha sempre risollevata quando cadevo, pronto a sorreggermi fin quando non ce l'avessi fatta da sola, mi ha sempre confortata, assistita, coccolata, viziata. Era sempre stato così, da quando ne ho memoria.

Io ero la piccolina della famiglia, irresponsabile e capricciosa, e loro avevano sempre fatto quadrato attorno a me.

E poi, le due piccine mi adoravano, stravedevano per la loro zia bizzarra. Erano così piccole quando le avevo viste l’ultima volta, così innocenti.

Le portavo sempre in campagna o per i boschi, a cercar  fiori, fragole, castagne e funghi.

Avrei potuto odiarli, come odiavo la sfacciata felicità di Junielle. Non potevo. Li amavo. Io li amavo, tutti, tanto intensamente da fare male al cuore!

Era quello che non faceva altro che gettare continuamente sale sulle mie ferite.

Mi sentivo un verme. Piccolo, lurido e strisciante.

Durante il viaggio, avevo cercato di calmarmi in ogni modo.

Avevo evitato le strade battute, e camminavo per i boschi conosciuti, per sentieri tracciati dalla mia memoria, in mezzo alla tranquillità di un inizio di primavera.

Non avrei sopportato la vista di qualche paesano, che si sarebbe immancabilmente terrorizzato.

Ero troppo schifata da me stessa, troppo presa da ricordi dolorosi: una cosa del genere avrebbe innescato in me un istinto di fuga che si sarebbe placato solo dopo aver messo molta distanza tra me e Sharilar.

La calma boschiva, però, non serviva a schiarirmi le idee come avevo sperato.

Mi sembrava di essere sballottata dalla corrente di un fiume impetuoso.

Troppi pensieri nella mia testa, troppi ricordi, troppe ferite.

Come avrebbe reagito il mio caro Amarto? E quelle due amabili creaturine? Erano cresciute? Sapevano usare la magia? Il Maestro aveva ripreso a bere?

Tijorn mi aveva perdonata per tutto quello che gli avevo fatto? Lo avevo ferito tanto, come un’egoista.

Ne ero perfettamente conscia: lui mi voleva un bene infinito, e io lo avevo ricambiato nel modo più terribile che una sorella potesse immaginare.

Sparendo, quasi per dargli la colpa di tutto quello che era successo. Povero fratello mio, cosa gli dovevo aver fatto passare!

La cosa più ironica di tutte, era che lui non aveva mai smesso di cercarmi.

Oltre alle lettere che mi spediva tramite Junielle, che non leggevo mai, mi teneva informata proprio tramite la nostra comune amica.

Consultava gli archivi di Galinne, per me, interrogava le altre Spie, corrompeva e chissà cos’altro. Tutto per me, per me, per me. Perché mai la sua sorellina doveva rimanere senza notizie!

Che vergogna, infinita e bruciante.

L’unica cosa che poteva vagamente consolarmi era che, in fondo, lui non aveva mai cercato un vero contatto con me, consapevole che, da idiota qual ero, sarei fuggita in un attimo.

Il fatto di dovermi precipitare da lui mi sembrava indizio di un grosso cambiamento.

Qualcosa doveva essersi mosso, e qualcosa di grosso.

Anche quell’indizio di diversità mi spaventava. Ero quasi abituata alla routine: io che tornavo da Junielle, lei che mi dava una lettera da parte di mio fratello, io che la bruciavo, lei che mi diceva le notizie a voce, come Tijorn le aveva riferito.

Ora ero costretta a compiere un passo enorme, il più grosso degli ultimi anni. Ne avevo paura.

Temevo anche mio fratello, paradossalmente. Non conoscevo l’entità del cambiamento, e non avevo mai avuto una grandissima forza di volontà.

E se l’atmosfera calda e rassicurante della mia famiglia mi avesse spinta a rimanere? Non potevo permettermi un lusso così grande.

Con Junielle era facile resistere, ci dividevano troppe cose non dette. Nella casa della mia infanzia c’era Tijorn, c’era Amarto, tutti motivi sufficienti per restare.

Sapevo che, se avessi scelto di percorrere quella strada, loro mi avrebbero protetta e coccolata in ogni modo possibile ed immaginabile, senza compassione, senza farmi pesare il mio aspetto.

Rimanevo la loro adorata cucciola anche con un corpo distrutto per buona metà.

No, non potevo rimanere. C’era Chekaril da cercare, ed un dovere da assolvere. Non potevo rinunciare alla mia missione solo perché mi sentivo bene con loro!

Chissà. Forse, se avessi seguito la tentazione, avrei evitato il disastro. Sarei stata bene, e forse sarei riuscita a guarire prima.

Sono stata stupida. Però, che ironia.

L’unica volta che non ho ascoltato i miei istinti infantili, e ho cercato di ragionare come una persona adulta, ho devastato tutto. Mai che faccia una cosa buona, eh…

Ad ogni modo, avevo ottimi motivi per essere in ansia.

Camminavo per il sottobosco, con i passi agili e veloci di chi è abituato ai viaggi a piedi, i sensi vigili, allertati da ogni minimo rumore. Guardavo dritto, e nulla mi avrebbe fermata.

Volevo arrivare il prima possibile, prima che facesse buio. Temevo bestie e briganti, che non si facevano scrupoli di un'elfa sola, seppure sfregiata e orribile. Non dovevo dimenticare la prudenza delle Spie.

Era la prima volta che percorrevo quei luoghi in modo quasi automatico, senza fermarmi a salutare la mia infanzia.

Di solito, quand'ero  più giovane, per quanto fosse urgente la missione, quei boschi erano tappa obbligata ogni volta che passavo da quelle parti: sapevano di reminescenze infantili, di passeggiate, di giochi e spensieratezza.

Ricordare quei tempi di oblio totale tuttora mi riempie di amarezza.

Avrei dato la mia anima pur di rimanere bambina, un’innocente che aveva le lezioni pomeridiane come unico pensiero.

Avrei pagato con la mia vita pur di rimanere in quel bosco, ancora incosciente delle crudeltà che mi aspettavano, ancora con una vaga idea di quello che significava essere nata Spia.

Avrei preferito anche un solo giorno in quel modo, e poi la morte, alla mia lunga vita di elfo, straziante, inutile oltre ogni immaginazione.

Ecco perché non potevo né riuscivo a fermarmi. Tutti quei pensieri facevano un bel male.

Per quanto fossi veloce, tuttavia, non ce la feci: la notte fu più veloce di me, e mi piombò addosso, tradendomi.

Ad un certo punto, quando il sole era già calato da un pezzo, fui costretta a fermarmi: non ero molto contenta, ma non era prudente camminare di notte.

L’avevo fatto da giovane, tantissime volte da Spia, arrogante e sicura della mia potenza letale, una vipera notturna.

Avrei dovuto essere abituata all’ombra da cui prendevo il nome, ma l’incidente aveva inciso in me una sottile, insidiosa paranoia.

La solitudine aveva cominciato a farmi perdere la bussola già da un pezzo. Non mi riconoscevo, né d’altronde mi sarei riconosciuta più.

In breve, non mi fidavo a fare quello che avevo sempre fatto. Avevo paura, avrei avuto paura anche se un innocuo animaletto di foresta mi avesse tagliato la strada in quel momento.

Da giovane, com’ero un tempo, un incontro ravvicinato con un bandito o un lupo mi avrebbe riscaldato il sangue nelle vene, tanto amavo gli scontri, tanto mi sentivo scioccamente sicura della forza che non avevo.

In quel momento, solo l’idea mi faceva venir voglia di correre via, starnazzando come una gallina. Questione di prudenza.

E poi non potevo presentarmi da Tijorn in piena notte, mi avrebbe scannata, ed era poco.

I fruscii ed i normali rumori della notte mi inquietavano, e sobbalzavo ad ogni piè sospinto.

L’istinto pavido che sentivo in me mi portava a cercare un rifugio sicuro. Forse allora sarei stata un pochino più tranquilla.

Dopo una breve ricerca, trovai quello che cercavo: un vecchio albero, quasi senza foglie né gemme, forse un faggio.

Abbastanza in alto per sentirmi al sicuro, c’era una biforcazione, forse un antico danno. I rami lì erano abbastanza robusti per sorreggermi.

Mi sentii immediatamente rassicurata, e mi arrampicai velocemente. Almeno l’agilità non l’avevo persa.

Il mio rifugio temporaneo non era pulito, né comodo, ma avevo imparato ad arrangiarmi, in quegli anni.

Mi sistemai, e, come prima cosa, mi tolsi la maschera.

Mi dava fastidio stare senza maschera, mi faceva sentire peggio che nuda, ma dovevo mandar giù qualcosa.

Frugai, a disagio, nella mia borsa, vecchia e sdrucita, ormai quasi vuota.

Trovai qualche vecchio pezzo di carne salata, un po’ ammuffito. Era passato un bel pezzo dal mio ultimo furto, l’unico modo che avevo di procurarmi un cibo che non fosse crudo ed impossibile da cucinare.

Mangiavo ormai quello che mi capitava. Ero proprio appena un gradino più su dei mendicanti, e ne risentivo parecchio.

Scossi la testa, mangiucchiando senza fame quella cena orrenda. Ero scesa decisamente in basso. Tijorn mi avrebbe uccisa.

Fu un sollievo finire, e rimettersi la maschera.

Con l’automatismo di anni di gesti uguali, dopo essermi coperta il volto, rinfrancata, usai la borsa come cuscino e mi stesi.

Era tempo di dormire, quel sonno leggero, vigile e per niente riposante che gli addestramenti ed i viaggi mi avevano lasciato in eredità.

Ero molto stanca, ero sempre stanca, e non ci misi molto ad addormentarmi.

Nel buio e nell’oblio mi venne a trovare, cosa non molto rara, un sogno.

Sono passati tanti anni, ma ancora lo ricordo bene. Credo che sia tra gli incubi più terribili che io abbia mai fatto, e ne ho fatto e ne faccio molti. Ne ho tanta paura.

Non mi sembrava tanto spaventoso, all’inizio: semplicemente, mi sembrò di aprire gli occhi.

Era giorno. Mi trovavo in una sorta di cavità luminosa. C'erano tracce d'umidità dappertutto, e si sentivano, in lontananza, i suoni della foresta.

Caspita, sembrava un sogno così rilassante!

Mi guardai un po’ meglio intorno. Ero in una larga caverna umida, e l’uscita non era troppo lontana. Cominciai allora a dirigermi proprio verso di lì.

Una strana urgenza mi spingeva ad uscire.

Sbucai in una bella radura, un posto tranquillo come se ne trovano tanti nelle foreste.

Mi fermai. Ma…io conoscevo quel luogo.

Da lì era cominciato tutto. Quello era il luogo del mio incidente, e non potevo dimenticarlo.

Sentii come una fitta d’inquietudine. Tutto era calmo, fin troppo calmo. Calmo come quel giorno.

Con la strana consapevolezza che si ha nei sogni, sapevo che nulla esisteva al di fuori di quel posto. Il resto era semplice illusione, pura finzione.

Qualcosa mi spinse a girarmi di scatto.

Poco lontano da me, ancora tra gli alberi, c’era un cigno.

Era bianco, maestoso, superbo. Mi guardava, altezzoso, con dei liquidi occhi neri, senza muoversi.

Mi studiava, senza paura né fretta. Per quanto bizzarro possa sembrare, mi sentivo come una preda, valutata e soppesata.

Sono pazza, ne sono sempre stata pienamente consapevole.

Restituii quello sguardo neutro, rendendomi improvvisamente conto di essere del tutto sana. Accettai questo fatto senza meraviglia, come se fosse normale.

Ad un certo punto, lo strano cigno allungò il lungo collo, ed aprì il becco.

Non so cosa mi aspettavo che succedesse, ma sicuramente non quello che sentivo.

Il cigno, cosa assurda, cantava.

Un canto di bellezza assoluta, da far venire le lacrime agli occhi. Sentivo lo strazio in quelle note, sembrava che quel bellissimo volatile mi stesse parlando.

Io sono dannato. Sono dannato e non posso scappare. Sono incatenato, prigioniero di catene che tu non vedi: aiutami.

Recidi questi legami, e liberami. Lasciami volare, libero di meravigliare ancora il mondo.

Lasciati incantare anche tu.

Non capivo cosa volesse da me.

Improvvisamente come aveva cominciato, il cigno smise improvvisamente di cantare, e abbassò la testa, come sconfitto.

Poi cominciò ad avvicinarsi, a passi lenti, stanchi.

Quando fu di fronte a me, si fermò, ed alzò la testa meravigliosa.

I nostri sguardi si incontrarono, e lui parve supplicarmi.

La mia mano si ritrovò all'improvviso gravata dal peso familiare di qualcosa.

Abbassai lo sguardo: stringevo la mia spada, scintillante come illuminata da mille soli. Un invito seducente alla violenza. Seppi allora cosa fare.

Senza esitazione, a testa bassa, con la scioltezza pulita dei sogni, la conficcai nell'ampio petto del cigno, che gorgogliò, un ultimo respiro soddisfatto.

Finalmente mi sentii degna di alzare lo sguardo, la lama ancora infitta nel corpo dell’animale.

Ebbi un colpo e mi allontanai di scatto, inorridita.

Chekaril mi fissava con sguardo accusatore e beffardo, la spada infissa all'altezza del cuore.

Rimase immobile, poi, dopo un ultimo sorriso freddo, ironico, scomparve.

Ero di nuovo sola, immersa in una quiete mortale.

Nulla esisteva al di fuori di quella radura: nessuno mi avrebbe mai sentita, nessuno mi poteva sentire.

Il cigno mi aveva incantata.

L’avevo liberato nell’unico modo possibile: offrendomi al suo posto. E non lo avevo capito!

Cercai di muovermi, ma qualcosa me lo impediva, un peso insopportabile dalle parti del cuore, delle catene invisibili che mi opprimevano le ali.

Lui era libero, e io prigioniera. Non potevo scappare.

Un improvviso lampo. E poi non vidi altro che i rami dell’albero sopra il quale mi ero addormentata, e il cielo buio.

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Angolino di Akita xD

Io adoro questo capitolo xD finalmente, le cose entreranno nel vivo. Vi avverto (chi legge, almeno!!), il prossimo capitolo sarà anormalmente lungo. Mi sono venute due pagine e mezzo di word O___O e vabbè, è una parte che adoro (e che non intendo spezzare è.é) xD, ed è anche importante. Sono irritata ù.ù perchè nessuno commenta (continuerò a lagnarmi finchè qualcun altro, esasperato dalle mie continue rimostranze, si decida a muovere le due regali dita ed azzardarsi a lasciarmi un commento. Non per essere acida, ma...),e soprattutto perchè, capitolo dopo capitolo, le persone che leggono sono sempre meno? O___O è un qualcosa che m'inquieta non poco <.<

Coomunque, passiamo ora (al) commento xD

Per Carlos Olivera: eh si ._. è davvero deprimente vedere quanti sforzi inutili si fanno .___. Vabbè, scrivo per scrivere, non per essere recensita xD (comunque la tua storia "Antares" mi piace davvero moltissimo xD) su su su su... Sono curiosa di sapere cosa ne pensi *_____* che ne dici del sogno? xD (oddio. MI sono accorta che questo capitolo non ha dialoghi O.O cos'è successo? xD griderò al miracolo!)

A tutti gli "altri" (sperando in maggior successo) au revoir xD

See you soon xD

Akita

 

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Capitolo 5
*** Pensieri E Ricordi ***


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Ta-daan! xD

Come precedentemente promesso (a chi?? O___O), eccomi con il quinto capitolo. Vi ho già avvertiti (o) -.- sarà più lungo xD e purtroppo, non è il solo. Avendo scritto gli ultimi capitoli (che, diciamocelo chiaramente, son quelli che ho scritto prima ._.), mi sono accorta di aver fatto grossi sproloqui tragici xD

Ora vi lascio alla lettura, alle ossessioni di Lsyn ed alla sua pazzesca paranoia infernale xD

Akita

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Mi tirai su di scatto, il respiro mi usciva a singhiozzi. Era ancora notte: troppo presto per mettersi in cammino. Un gufo lanciò il suo cupo richiamo. Mi guardai intorno, la mente in subbuglio, e tolsi la maschera, tergendomi il sudore freddo dalla fronte, godendomi l'aria fresca. Sognavo di rado Chekaril, e mai in quelle bizzarre vesti. Mi sentivo scossa. Cosa voleva significare quell'incubo? Perchè l'avevo sognato, proprio ora? Ben presto, grazie all'abitudine, mi calmai. Non sentivo più sonno, ma non potevo ancora proseguire: sbuffai, seccata, e mi misi più comoda, osservando la foresta attorno, ancora con la maschera tolta. Quando non ci sono in giro persone o specchi,è piacevole sentire il viso libero, e si può; quasi credere sia intatto. Come spesso accadeva, mi ritrovai a pensare a lui. Ben presto mi ritrovai sommersa nei ricordi. Era stato quello sguardo canzonatorio, da spiritello malvagio, a stregarmi. Era entrato a testa bassa dove stavo facendo rapporto alla Regina, possano gli dei averla in eterna grazia. Lo avevo guardato con sospetto, timorosa fosse qualcuno venuto ad intromettersi, chiudendomi in un silenzio repentino, ma la mia signora mi rassicurò. Sorrise, con un'espressione sarcastica e molto divertita. "Chekaril, sei arrivato come un fulmine. Hai addirittura spaventato Lsyn l';Ombra!". Il nuovo arrivato ridacchiò, e scosse la testa. "ah, Lainay... mi sento deluso!". Disse, con voce morbida e vellutata, venata di allegria. "di solito sortisco ben altri effetti!". Avevano riso entrambi, sottovoce. Io ero rimasta a guardarlo, con nient'altro che diffidenza nel mio cuore. La Regina sbuffò, ora seccata. "santi dei, Lsyn, sei peggio di un'infante! è mio fratello Chekaril...il guerriero viaggiatore, ricordi?". Avevo un pallido ricordo di un ragazzino petulante e presuntoso, sempre intento ad azzuffarsi con qualcuno, principalmente sua sorella. Era partito che era ancora giovane, per essere destinato ad una carriera militare. Da allora, era tornato così di rado al castello che non l';avevo più visto. La mia signora continuò, dopo un breve silenzio, a parlarmi. "Non temere: puoi tranquillamente continuare a fare rapporto". Non mi sentivo rassicurata, e rimasi zitta, studiando ciò che intravedevo del viso nascosto. Erano davvero simili: stessi occhi viola, stessi capelli biondi. Finalmente, il giovane alzò la testa, scoprendo lineamenti fini, quasi cesellati da un orafo. Io rimasi letteralmente senza fiato, e riuscii a stento a mantenere il mio contegno impassibile, e non arrossire come una fanciulla alle prime armi. Lui aggrottòun sopracciglio, chiaramente squadrandomi per bene, e poi sorrise, in un modo che in seguito avrei imparato ad identificare come scherno interessato. Ricominciai a parlare. Ma non ci staccammo gli occhi di dosso. La mia signora, fortunatamente, non se ne accorse: altre volte avevo tenuto quel comportamento, ed era sempre sintomo del manifestarsi della mia paranoica cautela. Da allora, non furono che sguardi fugaci e sorrisi furtivi, quando c'incrociavamo per i corridoi del castello. L'occasione per parlargli si presentò tempo dopo: la sorella stava in quel periodo molto male, probabilmente avvelenata da qualche fanatico, ed era lui il mio referente. Nel vederlo, mi pareva quasi che il cuore fosse in procinto di scoppiare, e lo stomaco di finire nelle piante dei piedi, nonostante non lo vedessi da tempo ed il suo aspetto fosse deturpato dalle notti insonni. Mantenni a stento il mio contegno impenetrabile. Riuscii a dire le novità solo per mezzo: forse per la stanchezza dell'essere infermiere di un'ammalata, forse per preoccupazione, o chissà cos'altro, decise di buttare la cautela alle ortiche. Mi baciò. Decisamente, non fui romantica. Non lo sono mai stata, in realtà, nonostante lui fosse, per me, come l'acqua per un assetato. Lo schiaffeggiai con tutta la forza che avevo. Non doveva e non poteva permettersi. Io ero una Spia, un Cane della Regina...e lui era suo fratello! Il suddetto lui in questione, forse indovinando i miei pensieri, rise, e mi si avvicinò di nuovo, per abbracciarmi. Io mi divincolai, borbottando a mezza voce bestemmie che avrebbero fatto arrossire un rozzo marinaio, ma che lo divertirono ancora di più. Poi si chinò verso me per sussurrarmi all'orecchio. "parole interessanti, per gli accidenti! Ora me la paghi, piccola Spia!". Mormorò, solleticandomi il collo con i capelli. "vieni stasera alla fattoria fuori le mura, e discuteremo insieme di queste gravi notizie". Disse le ultime parole con voce normale, riprendendo il suo contegno grave, ma facendomi l'occhiolino. Non resistetti a tanta sfacciataggine, e mi arresi. Risposi con un sorriso appena accennato, ed un piccolo inchino. Il nostro primo appuntamento. Quella casa abbandonata la ricordo ancora come l'avessi lasciata ieri. Erano un dolore, ed una gioia immensi, ricordare quei momenti. Da allora, ci fu un anno di beatitudine clandestina. Dovevamo stare attenti: non potevamo permetterci il lusso di essere scoperti. In pubblico mantenevamo le distanze: io la Spia, lui il Principe. Distanze che annullavamo, in tutti i sensi, in qualche luogo ed ora impensabili. Il rifiutarlo ed il rifuggirlo era diventato quasi un gioco, un gesto simbolico per ribadire la nostra totale indipendenza l'uno dall'altra. Nessuno sospettò mai nulla. Verso l'inverno di quell'anno, cominciarono i primi litigi e gelosie. Dopo una missione particolarmente ardua, ed un tuffo in un lago ghiacciato (dal quale, se fossi stata sola, non sarei mai uscita), ero finita per l'ennesima volta al Lazzaretto, con una brutta febbre e la voce del tutto fuori uso. Non vedevo Chekaril da ormai due mesi, e bramavo la sua compagnia, sentire la sua voce calda, accarezzare i suoi capelli. Finalmente, dopo settimane d'impazienza, mi dimisero, a due giorni da un importante ballo. Si potrebbe pensare che le Spie siano pezzenti, da ciò che ho raccontato. Nulla di più sbagliato: la nostra organizzazione si basa su antenati di antica e pura nobiltà. Ad ognuno poi è data la scelta: vivere una doppia vita da nobile, o contadino. Io avevo preferito la prima strada. Insomma, ero estremamente impaziente: durante quelle feste, l'attenzione si allentava, ed avevamo l'occasione di vederci un po' più. Quella sera, la mia cameriera quasi m'implorò di non uscire: ero ancora convalescente, e dovevo stare alla larga dalle intemperie. Non l'ascoltai, e mi fiondai al castello, preparandomi nel mio modo migliore. Quel giorno era una ricorrenza importante, l'inizio del Regno, e l'organizzazione perfetta. Fui sommersa da molti dei miei colleghi, che chiesero informazioni sulla mia salute, e perfino la Regina venne a parlarmi, ed a complimentarsi per il coraggio dimostrato. Sentii con un orecchio solo tutte quelle lodi sperticate. Ero occupata a cercare Chekaril. Dove si era cacciato? A furia di tentare di trovare, trovai. In mezzo al luogo dove ballavano altre coppie, c'era lui, tra le braccia un'elfa dai capelli rossi, con il quale si teneva stretto, lo sguardo perso. Crollai di schianto su una sedia, tanto da attirarmi parecchi sguardi preoccupati, e qualche mormorio. Seguii il mio unico amore con gli occhi, reprimendo a stento le lacrime, ed il tremore. Mi sentivo come una fanciulla inerme. Perchè non avevo ascoltato la mia serva? Ad un certo punto, i nostri sguardi s'incontrarono. Lui sgranò gli occhi, ed accompagnò elegantemente la dama al suo posto, fingendo poi di andare verso il palco della musica, ma dirigendosi verso me. Fuggii, senza pensare più a nulla. Quando fui in grado di connettere di nuovo, mi trovavo nel portico del castello, quello che dava sui giardini. Non c'era nessuno: tutti si stavano godendo la festa. Mi appoggiai alla balaustra, forte come se stessi su una nave in tempesta. Chiusi gli occhi. Non so quanto tempo rimasi lì. Mi riscosse dal mio dolore muto un abbraccio familiare. Lui mi aveva trovata. Rimasi immobile, mentre poggiava la testa sulla spalla. "Lsyn...". Mormorò, suadente, con una nota di supplica nella voce. "amore mio...ascoltami...". Non gli risposi, la stretta si fece più forte, quasi rabbiosa. Ed allora mi divincolai, come facevo tante volte per gioco. Solo che quello non era la nostra solita sceneggiata. Lui mi lasciò andare, e ci fronteggiammo. Io lo fissai dritto negli occhi, colma di rabbia e di dolore, combattendo contro il pianto. "occhio non vede, cuore non duole, Chekaril?". Sibilai, con voce incrinata. "hai un modo tutto tuo d'intendere le promesse!". Mi voltai per andarmene. Lui mi afferrò per un braccio, e costrinse di nuovo a girarmi. "maledizione, stupida che non sei altro!". Ringhiò, ora arrabbiato. "Lainay sospetta: prima di te, avevo fama di dongiovanni, e lo sai. Ora ci sei solo tu". Il suo volto, prima teso e nervoso, si addolcì, e lui proseguì teneramente. "e ci sarai solo e sempre tu. Ma se mia sorella lo scopre, ti caccerei nei guai. Perciò ho deciso di darmi da fare. Ma Inokuni è già sposata: ci limitiamo a leziose galanterie...ah, povero Chekaril, che sceglie le sue prede tra elfe occupate!". Ridacchiò, ora pienamente tornato in lui, già intuendo la mia reazione. Penso di aver sgranato gli occhi: un'elfa sposata era praticamente intoccabile. E lui non aveva mentito. Non poteva: non mi avrebbe parlato con tanta premura, e tanta dolcezza. Mi feci finalmente sfuggire qualche lacrima. "tu...hai...deciso di... bastard...". Ebbi il tempo di dire, in un soffio, prima che lui mi tappasse la bocca con un bacio. "lasciami proseguire una stupida sceneggiata". Disse poi, facendomi il suo solito occhiolino."però ora non ne ho voglia: che ne dici se andiamo a farci una passeggiata?". Per quella volta facemmo pace. Ma l'idillio era stato spezzato: i nostri litigi erano frequenti quanto e certe volte più dei momenti di beatitudine. Sfogavamo la nostra rabbia ed il nostro odio in una passionalità quasi violenta. I nostri incontri, notturni e segreti, divennero più frequenti: ma non parlavamo ormai molto. Avevamo scoperto l'oscuro lato del nostro carattere. E non ci piacevamo. Le "sceneggiate" di Chekaril divennero veri e propri tradimenti. Ed io, ogni volta, mi vendicavo ripagandolo con la stessa moneta. Ma tornavamo sempre insieme, ad amarci ed odiarci. E quanto ci amavamo, quanto ci odiavamo! Eravamo fuoco e ghiaccio, ed il nostro amore un fuocherello nella sterpaglia della brughiera. Era distruzione totale, di cose e sentimenti. Ci era rimasto solo quello. Fu in quel periodo tumultuoso che scoprii di aspettare mia figlia. La segretezza raddoppiò, ed il nostro rapporto si mitigò. Non rivelai a nessuno l'identità del padre. Nemmeno Junielle sa. Io e lui, omai, per il mio stato, non ci vedevamo più spesso. Negli ultimi periodi, prima che nascesse, e anche dopo, Chekaril era diventato quasi paranoico. Temo che la sorella sapesse, o intuisse, molto. Quando la portarono via, portarono via nostra figlia, lui era lì, incaricato di sorvegliare. Si trattenne dall'avere un attacco isterico, mentre io ero piuttosto calma. Sapevo che doveva andare così: lui l'avrebbe voluta tutta per sè. Io, anche se ero innamorata di lei, dal primo momento in cui l'avevo stretta tra le braccia, mi ero preparata. Da allora, i rapporti tra me e lui si andarono a raffreddare sempre più. Dopo nemmeno sei mesi, scomparve. E la mia vita cambiò: non ebbi più spazio e coraggio per l'amore, nella mia vita ridotta ad un ammasso di cicatrici che mi fissava da uno specchio. Ma lo bramavo ancora. Non l'ho mai, mai, smesso di amare. Era per quello che la mia ricerca mi ossessionava tanto. Mi colpì però un pensiero, e cercai in ogni modo di liberarmene. Scossi la testa, mentre riemergevo lentamente dai ricordi, più triste di prima. Avevo ricordi così nitidi di lui, che il mio cuore piangeva a non poterli toccare. Non volevo il Chekaril freddo e cortese, nè il traditore violento e passionale. Desideravo rivederlo come prima, beffardo ed amorevole, premuroso ed innamorato. Per fortuna, stava albeggiando. La maschera m'impedì di scoppiare in lacrime. Perchè lui mi avrebbe odiata, avrebbe avuto paura di me, sfregiata e orribile, per colpa sua. Era quello il pensiero molesto. Che ironia. Sfregiata per amore di un fantasma. Ridacchiai stupidamente, forse per mascherare la disperazione che provavo. Saltai giù dal mio riparo, e mi rimisi in cammino, a testa bassa. La casa di Tijorn mi aspettava: ero pronta ad andare incontro al mio futuro, sofferente e sfinita.

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Angolino di Akita xD

be-e-nissimo! Eccoci con il 5 capitolo, miei cari prodi invisibili. Mia ciurma fantasma. Ohhhh...si. Io mi ci diverto a fare la melodrammatica. è così dannatamente passé xD

coomunque...oh, quanto adoro Chekaril *Q* è una carogna, ma lo adoro xD ohh...si xD

ed ora, bando alle ciance e allo slcero xD

passiamo al commento xD

per Carlos Olivera: com'è dannatamente gratificante ricevere commenti positivi xD su su su, il mio è un innocente scherzetto da ego smisurato qual sono xD sii...continua Antares! *.* sono curiosa di sapere cosa succederà ai tuoi eroi xD tutti quegli scontri m'affascinavano, oh, si xD Millennium War la sto cominciando a leggere xD devo dire, per ora non ci ho capito una mazza (anche perchè ho letto i primi 2 o 3 capitoli .___.), ed ho fatto solenne confusione con i nomi, però mi piace xD dimmi cosa pensi, al solito xD che ne pensi di Chekaril (e di questo capitolo)? Sembra verosimile col resto della mia storiella inconcludente? xD *___* un megabacio xD (si, quando sono recensita divento schifosamente molliccia ù.ù)

 

e per gli altri

recensite ù.ù

non per nulla ma... vorrei solo sapere cosa ve ne pare O___ò

beh...au revoir xD

Akita

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Capitolo 6
*** Un incontro davvero lieto... ***


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Salve a tutti! xD

Eccomi qui, con il mio sesto capitolo xD intanto, sono in completa crisi esistenziale e d'ispirazione T___T cioè... ho in mente l'inizio, e verso la fine. Ma come riempire tutto questo spazio? Che far combinare a Lsyn? O__ò

Ach, zzz... eccomi O___O ci sono. Davvero, ci sono!

Problema risolto xD

Tralasciando scleri vari, è giunto il momento di lasciarvi al fatidico incontro del mio mostriciattolo preferito xD

Che succederà? Cosa gli dovrà mai dire

La risposta, tra altri tre capitoli ù.ù

Pazientate, chusma fantasma, pazientate.

Ora vi lascio davvero xD per leggere di nuovo voce di Akita e non di Lsyn, giù come al solito xD

Sono più idiota del normale, oggi, ma pazienza, sopportatemi xD

See you later!!!

Akita

Arrivai in vista della casa di Tijorn verso metà pomeriggio. Il tempo era migliorato molto da quando avevo lasciato Zakadi: era una giornata soleggiata e tiepida. La maschera aveva preso a darmi molto fastidio, ed avevo caldo. Per questo, e per altri motivi, il mio umore stava peggiorando di minuto in minuto. Avevo perso la strada due volte, ed ero praticamente stata costretta a prendere un viottolo sterrato. Tutti quelli che incontravo, principalmente villani, cambiavano strada non appena notavano arrancare la mia figura, nera e curva come un gigantesco insetto.

Dovevo essere, probabilmente, una figura di malaugurio. Per loro no, certamente. Altri avrebbero dovuto temere la mia rabbia. Ero finalmente rientrata nel bosco con una sensazione di sollievo enorme. Sotto la penombra delle foglie novelle faceva più fresco. Non voluto, mi assalì un improvviso senso d'apprensione, che ero riuscita a sopire per tutto il tempo. Quasi mi mancò il fiato dal nervosismo. Sapevo ormai a menadito la strada, memoria forgiata da anni di permanenza e giochi, e mi diressi, furtiva, verso il punto esatto.

Il bosco di Sharilar era molto luminoso e tranquillo, e l'unico suono era il canto degli uccelli. Finalmente, vidi la casa, in una radura attraversata da un ruscello. Mi fermai, tra il deliziato ed il divertito. Avevo passato lì la mia infanzia, per lasciare quell'abitazione con Tijorn.

A quanto pareva, quest'ultimo se ne era impossessato nuovamente. Ed aveva cambiato tutto, con il suo terribile gusto romantico. La mia vecchia casa, un tempo un po' cadente, era ora una solida costruzione di mattoni, con accanto una piccola stalla pulita. Il prato era stato curato alla perfezione, e la staccionata che l'attorniava ridipinta a nuovo. Sui muri intonacati di bianco si arrampicavano edera e gelsomini. Il tetto era in tegole rosse, con un camino, spento, ma che immaginai molto piacevole nelle notti d'inverno. La porta e le finestre erano in legno grezzo e scuro. Ai lati dell'entrata, due cespugli di rose. Ridacchiai stupidamente: Tijorn amava quel genere. Era tipo da potare personalmente le piante. Scommettevo l'avesse fatto.

Mi avvicinai di soppiatto, rintanandomi tra gli alberi, mentre mi assaliva di nuovo l'ansia, come una muta esplosione all'altezza dello stomaco. Stavo per rigettare la colazione. All'improvviso, tutto si fece freddo. Mi sentii seccata dalla mia debolezza, e borbottai qualche bestemmia. Avanti, stupida vecchia capra! Pensai, senza decidermi a muovere un passo. Prima o poi lo dovrai fare...stiamo parlando di tuo Fratello! Perchè non hai battuto ciglio davanti a Junielle? Dannazione! Alzai gli occhi al cielo, ringhiando, e mi avviai, uscendo di nuovo alla luce del sole. Avevo fatto pochi passi, quando la porta si spalancò, ed uscì Tijorn, con un secchio in mano. A differenza mia, lui è molto alto. Ha una carnagione stupenda, nè lattea, come me, nè scura. L'unica cosa che ci accomuna sono i capelli neri, che non ricordavo portasse così lunghi. Gli ho sempre invidiato, inoltre, i suoi occhi. Sono di un grigio incredibile: sembra di potersi perdere, poter annegare in due pozze di saggezza e comprensione.

Mi fermai, e rimasi lì, in attesa, ferma in mezzo al sentiero di acciottolato bianco che portava alla porta. Lui al momento era di spalle, intento a chiudere la porta, e poi a sistemarsi i capelli in una pratica coda di cavallo. Finalmente, si girò. Era evidentemente distratto: fece qualche passo prima di accorgersi della mia mesta presenza. Quando mi vide, sgranò gli occhi, sorpreso. Aprì la bocca a mezzo, ed il secchio gli cadde di mano con un clangore sonoro. Restammo lì, impalati. Un incontro davvero lieto.

Io, in quel preciso istante, sentivo il mio stomaco ridursi in gelatina, e le gambe tremare per il nervosismo. Mio Fratello si sciolse in un improvviso sorriso, caldo e gioioso. "la mia Nanetta...". Disse, mentre gli occhi quasi gli diventavano lucidi. Io avvertii, assieme ad un'altra fitta di paura, un'improvvisa irritazione. Odiavo quando mi prendeva in giro per la mia bassa statura. Quello era però il soprannome di una vita, tutto l'affetto di un fratello maggiore condensato in una parola scherzosa. A quel pensiero, lo sdegno sparì in un baleno, sostituito da un affetto secolare. I miei propositi d'impassibilità svanirono quando lui si precipitò verso di me, e mi abbracciò, così violentemente da alzarmi da terra. Rimanemmo a lungo così. Se devo essere completamente sincera, in quel momento Tijorn non era affatto la mia preoccupazione principale. Mentre lui era commosso, infatti, il mio unico pensiero era la colazione che saliva e scendeva in modo inquietante. Pregai con tutto il cuore che non succedesse nulla. Non avevo nessuna intenzione di vomitare addosso al fratello che non vedevo da anni. Ho sempre avuto qualche problema di stomaco legato al nervosismo.

Finalmente, mi lasciò andare, e si terse le lacrime con la manica, in un gesto da bambino che mi emozionò. Abbassai il capo nascosto. "non ti aspettavo così presto". Disse, prendendomi una mano. "sono contento tu sia venuta".

"anch'io". Ammisi, parlando per la prima volta.

Lui fece una smorfia. "dimmi un po', Nanetta...". Disse, scuotendo il capo. "da quanto è che non spiccichi parola?".

Non risposi, e scossi il capo, a disagio. Ci fu un attimo di silenzio. Tijorn alzò gli occhi al cielo, e sospirò, mentre il sorriso si cancellava da bocca. Ho un vero e proprio talento, nel farlo.

"dove sono le ragazze?". Dissi finalmente, rendendomi solo in quel momento conto di quanto fosse orrenda la mia voce, che arrivava quasi distorta all'esterno.

Il viso di mio fratello ridiventò sereno in un attimo. "fuori, da qualche parte con Amarto. Ho pensato potesse fargli bene un po' di aria primaverile". Concluse, mentre la gioia ritornava a danzare negli occhi chiari. Rimanemmo per un altro attimo in silenzio. Mi sentivo davvero male. Proprio mentre Tijorn cominciava ad adombrarsi, ripresi la parola, esitante.

"hai ragione". Dissi, stringendogli una mano, e fissando, quasi divertita, il suo volto perplesso. "dovrei parlare un po' di più". Lui rise, ed io sentii finalmente il nodo di tensione allentarsi.

"su coraggio, Lsyn...". Mi rispose, con un sogghigno astuto. "vieni dentro. Mi sorprende non ti sia già sentita male. O il tuo autocontrollo è diventato straordinario?".

All'improvviso, sentii molto caldo nella maschera, ed il malessere tornò, più forte di prima. Lui rise di nuovo, probabilmente indovinando il mio stato d'animo.

";ti proibisco di rovinare il mio prato. Su, forza, entriamo: le piccole moriranno di gioia, nel vederti". Continuò a parlare, trascinandomi quasi verso l'uscio. M'incupii.

"forse". Risposi, improvvisamente triste. "o moriranno per il panico di vedermi così".

Lui non parlò più, ma la stretta si fece più decisa. Mi spinse quasi nella casa. In quel momento, fu tanta l'ansia che non resistetti. Sarei caduta se Tijorn, ridacchiando come un idiota, non mi avesse sostenuta.

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Angolino di Akita xD

Con un giorno di ritardo (perchè, sapete, mi ero ripromessa di pubblicare un capitolo al giorno. Ma non ho fatto i conti con i parenti, le pizze e le birre... ehm. Dicevamo? <.<), eccomi qui con il sesto capitolo. xD Stranamente (e giustamente, direte voi che sorbite i miei sproloqui insensati), non ho nulla da dirvi (e per fortuna, Akita cara...), mi chusma fantasma xD

Passiamo dunque al dunque xD

per Carlos Olivera: massalve xD allora, allora, allora... ho provato un po' con il cosiddetto "metodo casalingo" per l'impaginazione (ovvero un po' di fantasia e tanta, tanta pazienza ._.), e devo dire che con quest'altra scrittura mi trovo meglio (per essere del tutto sincera, scriverei con quest'altra pagine e pagine *__*). Secondo te come va ora? O___ò Si lo so...non brillo come genio dell'impaginazione xD sono contenta che Chekaril ti sia piaciuto xD a dire la verità;, quel fatto dell'educazione era la cosa che mi pareva più assurda in assoluto O___ò però...esigenze di storia (perchè io il seguito mica lo svelo O.O) ù.ù xD coomunque *.* mi fa piacere leggere le tue recensioni... è un motivo in più per andare avanti in questa storia xD ora, ti lascio perchè questa risposta al commento sta diventando lunga quasi quanto i miei capitoli xD un bacione, e continua a recensire (con sincerità xD)!

In quanto alla solita chusma fantasma...

Il solito avvertimento.

O supplica.

Intendetela come volete.

Recensitee T___T (occhioni da cucciola xD)

Adieu xD

Akita

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Capitolo 7
*** Camomilla e Tè ***


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Salve, mi chusma! xD

Eccomi qui con il...il...capitolo boh. Dovrebbe essere...il sesto? Di nuovo boh xD dannazione, come odio i temporali estivi T__T avrei aggiornato prima se non avesse tuonato tutto il tempo, facendo di conseguenza saltare la corrente ogni dieci minuti O___ò senza piovere, e lo ripeto, senza piovere è.é

Mah, questo tempo è proprio strano.

Mi sono ridotta come una simpatica vecchietta, già alle soglie della maggiore età. Tremendamente sconfortante.

Parlare del tempo...puah.

Ok, ora basta.

Vi lascio al capitolo, chusma!

See you later xD

Akita

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Quando mi ripresi, ero seduta nella piccola e confortevole cucina, davanti ad un tazza ricolma di quello che sembrava tè. Mi sentivo stordita, come se mi avessero dato una mazzata in testa, ed avevo un cattivo sapore in bocca. Qualcuno si sedette accanto a me. Mi girai, e mi ritrovai davanti la faccia di mio fratello, incerta tra il preoccupato ed il divertito. "coraggio, bevi". Mi disse, premuroso, costringendomi a prendere la tazza calda tra le mani. "ti farà bene. Sei nervosa quanto uno degli animaletti che prende in trappola Nysha. Coraggio...". Lo fissai, mentre la caligine che avevo nella testa non accennava a scomparire. "io...non bevo con la maschera... non posso mica bere con...". Interruppi il mio borbottare di scatto, e sgranai gli occhi. Ricordai improvvisamente una cosa: avevo tolto la maschera, inavvertitamente, quando riuscivo ancora a ragionare e lo stomaco non aveva deciso di proclamare una solenne dittatura. Il panico e la consapevolezza di essere vulnerabile e scoperta mi assalirono, letali ed improvvisi. Mi sentii debolissima, ed il cuore cominciò a battere velocemente, mentre lo stomaco riprendeva la sua battaglia. Mi chinai su me stessa, boccheggiando. La tazza andò in frantumi a terra, e mio fratello si allontanò di scatto, con un sobbalzo. Mi misi la testa fra le mani, nascondendo il volto, tremando, completamente lucida, mentre il cuore mi batteva all'impazzata. Tijorn borbottò qualcosa, affannato. Non capii nulla di quanto stava dicendo. Ero troppo terrorizzata, come se mi fossi ritrovata in mezzo a belve feroci, sola e disarmata. Mi capitava, quando mi si toglieva la maschera senza preavviso. Passò quello che mi sembrò un secolo di paura. Ad un certo punto, Tijorn mi abbracciò. Tentai di fuggire, ma la stretta si fece più forte. Penso di essere scoppiata in lacrime, mentre mio fratello tentava di confortarmi, in ogni modo a lui possibile. Era tempo che non piangevo: mi sembrava quasi un sollievo, farlo. Non desideravo altro che sfogarmi, sfogare tutta l'amarezza e la disperazione che mi si erano accumulate dentro, in tutto il tempo in cui avevo vagato in allucinata solitudine, in tutto il tempo in cui mi ero macerata con la consapevolezza della mia profonda, ed inguaribile, solitudine. Lui mi lasciòfare, disarmato e triste quanto e più di me. Finalmente, riuscii a ricompormi. Rimanemmo un altro po' abbracciati, dondolandoci lievemente come infanti. "sorellina mia...". Mormorò lui, con voce spezzata, stringendomi più forte, quasi a volermi proteggere. "come posso guarirti?". Rimanemmo un altro po'in silenzio. "dammi un'altra tazza di tè". Risposi finalmente, tentando di sciogliere quel terribile clima che si era creato. Lui ridacchiò, una risatina stentata. "ne ho in abbondanza. Non vorrai certo farti trovare in questo stato dalle tue Nipotine Allieve...". Abbassai lo sguardo, sentendomi infinitamente triste. "con la maschera sarebbe meglio". Ci fu un altro momento di silenzio assoluto, mentre lui si alzava, togliendo i cocci della tazza e prendendone un'altra pulita, riempiendola di tè caldo. Ebbi il coraggio necessario per alzare gli occhi. Tijorn era con la tazza in mano, ed appariva estremamente indifeso. Il bel volto era atteggiato a dolore, puro ed infinitamente semplice. Lui soffriva quanto me, dei miei sfregi e della mia vergogna. Scosse il capo, per l'ennesima volta. "non guarirai mai". Affermò, con voce amara, mettendomi la porcellana fumante sotto il naso. Era una solfa che da un po' di tempo mi ripetevano spesso. Non risposi, e m'impadronii della tazza, scottandomi la lingua con il primo sorso. "ti ho pensato, in tutti questi anni". Disse mio fratello, sedendosi di nuovo accanto a me. Non lo guardai: avevo paura di trovare dentro al suo sguardo la stessa desolazione che c'era stata in quello di Junielle. Ma la sua voce era ferma, ora, infinitamente calma e modulata come la risacca.Sorseggiai di nuovo la mia bevanda, senza fretta. "mi sono sempre tenuto in contatto con la nostra amica. Sapevo che non saresti mai guarita, nè lo sarai mai". "spicciati, Tijorn, e finiamola con questa lamentela". Lo interruppi, con voce brusca e dura. "perchè sono venuta qui? Che cosa hai trovato di tanto importante per scomodarmi di persona?". Ci fu una breve, brevissima, pausa. Temetti il peggio, e serrai gli occhi. Lui riprese a parlare, senza minimamente scomporsi. "nulla che non possa aspettare un paio di giorni. Abbiamo spazio per un'ospite". Mi rispose, serafico come se mi stesse raccontando del tempo. Rimasi ancora ad occhi chiusi. Ci fu un'altra, estenuante, pausa. Mi riscosse dai miei pensieri una mano sulla spalla, dal tocco gentile. Aprii gli occhi, e mi voltai, sorpresa, verso mio fratello. Non era nè commosso, nè triste. Era calmo, e, se possibile, solenne. Sembrava uno dei nostri sacerdoti durante una celebrazione. Lui stava confortando me. Non c'era, come nella stretta di Junielle, una sorta di egoistica spinta, ad andare avanti, d'esortazione a riprendere la mia vita normale, e di rasserenare lei in quel modo. C'era accettazione, in quel semplice tocco, e senso di vicinanza. Ciò che era successo era successo. Non c'era modo di cambiarlo. Ma si poteva migliorare. Per quella volta, lasciai che tornassi la vecchia Lsyn. Mi abbandonai di nuovo ad un abbraccio pieno di affetto. Tijorn era l'unico capace di farmi calmare. La mia camomilla personale. "come farei senza la mia piccola nevrotica?". Disse lui, improvvisamente fattosi scherzoso. "ho sopportato cinquant'anni di vita da maestro, con due pesti ed un vecchio elfo smemorato: cos'è un'ennesima crisi di coscienza di una Nanetta rediviva per un eroe come me?". Gli tirai un pugno in mezzo al petto, abbastanza forte. Lui ridacchiò. "dovresti piantarla di giocare sulla mia bassa statura, fratello mio". Gli dissi, sciogliendomi dal suo abbraccio e fissandolo, improvvisamente piena di vita, come se mi fossi svegliata, e mi fossi accorta che tutto era un sogno, e che una bella giornata di sole era pronta ad attendermi. Non mi sentivo così da anni. Magia dei Fratelli di Maestro pazienti... Non so cosa trovò nel mio sguardo, ma s'illuminò. "è già abbastanza dura essere sotto la media elfica, ed essere per giunta una Spia, sfigurata e vagabonda... non infierire anche tu!". Tijorn incrociò le braccia, e mise il broncio. "bevi quella tua dannatissima tazza di tè, Lsyn, e taci. Vedi di tenere a bada i tuoi attacchi di nervosismo, però: mi hai già rovinato le rose!". Scoppiò; a ridere, e, inaspettatamente, lo seguii. Sentire il suono della mia risata ragliante fu quasi uno shock. Mi ero dimenticata come si rideva. Per mascherare l'improvviso, e stupido, rossore, presi la tazza ed inghiottii tutto il tè che c'era dentro in un sorso, quasi strozzandomi.

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Hola, chusma!

Eccoci qui al sesto capitolo, un ennesimo capitolo di passaggio. Come vedrete, la verità non è lontana (muahahahahahahaahahah <.<)! Insomma, tra poco una svolta.

Ora, non ho esattamente nulla da dire.

Vi lascio ai soliti ringraziamenti.

Per Carlos Olivera: eccomi qui, nuovo capitolo fresco fresco xD ancora vivo e palpitante ù.ù sai, è un mio vizio riempire i capitoli di personaggi xD ho scarsa inventiva, per le situazioni e le avventure di contorno <.< dunque faccio incontrare i miei personaggi con persone, dunque tante descrizioni xD e non è ancora finita <.< coomunque...come già saprai, ho finalmente letto la tua Millennium War, e commentato xD ho già detto abbastanza ;P bè, che altro? xD spero che continuerai a recensire (Mi fa tanto piacere vedere che qualcuno segue questa storia xD), e fammi sapere che pensi xD ciau ciau!!

In quanto agli ALTRI, si sa già cosa fare ù.ù

Bè, io vi lascio!

Alla prossima (molto probabilmente domani <.<)!!!

Akita

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Capitolo 8
*** Stasi ***


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Bonsoir xD

Eccomi qui, con il capitolo numero otto. Le novità si avvicinano... probabilmente, comunque, i prossimi capitoli saranno postati con più lentezza del previsto. C'è un buco da riempire, una grossa lacuna xD

Beh, ora al abordaje, mi chusma!

See you later!

Akita

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Era passata da poco mezz'ora dal mio arrivo quando ci raggiunsero Amarto e le piccine. Per precauzione, una volta finito il tè, mi ero rimessa la maschera. Io e Tijorn eravamo rimasti abbracciati, in silenzio. Avevo bisogno di conforto, allora, e dell'amore fraterno e disinteressato, che solo lui mi poteva donare. In sua presenza, tutti i pensieri cattivi venivano spazzati via. Li sentimmo arrivare. Le gemelle parlavano ad alta voce, ed il loro chiacchiericcio incessante copriva quasi le imprecazioni ed i rimproveri del mio Maestro. Amarto non era cambiato di una virgola. Un tempo lo temevamo, con la sua voce tonante e roca e la sua imponente figura: ma ora è; un'ombra di come era un tempo. Dirgli di mia figlia era stato durissimo: ero andata lì perchè non potevo stare da sola con i servi. Era un comportamento tipico delle Spie. Si teneva sotto controllo il soggetto, per impedire scappasse, evitando così di perdere il figlio. Mio fratello, che da sempre ha vissuto con lui, mi aveva accolto a braccia aperte, senza fare domande. Amarto mi aveva urlato contro per un'ora intera, e poi mi aveva sbattuto fuori di casa sua, salvo farmi rientrare subito, trattandomi per tutto il tempo che rimasi lìcome una bambola fragile, accogliendo Junielle come un'amica e la mia bambina quasi fosse sua figlia. Sono sempre stata la sua preferita. Sorrisi, e scossi il capo. Il mio gesto venne imitato da Tijorn. Lui si sciolse dall'abbraccio, e si alzò. "vado incontro". Disse, mentre le voci si facevano più alte. "ti annuncio?". Annuii, benchè sapessi che la sua fosse solo una domanda retorica. Nysha e Manolìa non mi avrebbero riconosciuta, ed avrebbero urlato, se fossero entrate senza preavviso. Al solo pensiero della loro reazione inspirai e espirai, mentre lo stomaco riprendeva a gorgogliare. Mio fratello ridacchiò, e si avviò, sparendo alla mia vista. Mi rannicchiai sulla sedia, mentre il disagio cresceva. Un pugno forte colpì la porta, due volte. Tijorn aprì la porta, che protestò con un cigolio. "già di ritorno, scapestrate? Che avete combinato? Su, forza, entrate...vi aiuto io, Maestro...ecco qui...voi due, pesti, dove credete di andare?". Abbaiò, senza prendere fiato, verso probabilmente le due bambine. Sbuffai. Non c'era solo idiozia e buonismo sotto quel bel faccino! Misi in conto di dirglielo, una volta o l'altra, e ritornai ad ascoltare. "ma...Maestro...". Chiocciò intanto una voce, probabilmente Nysha, a giudicare dal tono impertinente. "abbiamo sete...". Una fitta allo stomaco quasi m'impedì di ascoltare il resto. "aspettatemi: abbiamo un ospite qui". Ci fu un momento di silenzio. "Tijorn...". Disse Amarto, con la sua voce stentorea e profonda, che tradiva una certa severità. "chi può venirci a trovare in questo dannato buco? Chi hai raccattato da strada, stavolta? Quale mendico?". Scossi la testa, ed immaginai mio fratello sorridere. Non aveva perso l'abitudine di dare da mangiare ai poveri, allora? Persa com';ero nelle riflessioni, non ascoltai il seguito. Sobbalzai quando udii le piccole urlare di gioia, e dei rumori di zuffa. Tijorn riprese a parlare, con tutta l'autorità di un Maestro. "guai a voi se fate commenti, però. Lei...lei... è in missione, e si deve nascondere. Vi metto in punizione se non mi obbedite!". Le promesse, fatte ad alta voce, andarono sprecate. Sentii di nuovo lo stomaco contrarsi. "cominciate ad andare, che aspettate? Io mi fermo un attimo con Amarto...". Scalpiccii vari. Due figurette d'infanti si precipitarono in cucina. Appena mi videro, si bloccarono, spaventate e stupite, ed il sorriso si cancellò dalle loro facce. Resistetti all'impulso di raggomitolarmi di nuovo. Erano cresciute parecchio. Sembravano ragazzine sui dodici anni, perfettamente identiche, dai capelli castani e ricci, raccolti in una lunga treccia, agli occhi dello stesso colore, ed il viso scuro a forma di cuore. Riuscivo a distinguere Nysha da Manolìa solo per un particolare: la scelta degli abiti. Se la prima preferiva i colori intensi, lo seconda invece le tinte pastello. Quest'ultima, con gran tempismo, tappò la bocca alla sorella quando questa l'aprì per commentare. "zia Maestra". Disse, con un sorriso, tirando intanto la treccia alla gemella, che si ricompose. "è bello rivedervi". Le fissai, sorridendo all'interno della maschera. Sentii un moto d'infinita tenerezza verso di loro, mentre lo stomaco si calmava. Nessuno delle due si avvicinò molto: mi girarono attorno per prendere la brocca dell'acqua. La gioia che le aveva pervase era sparita. Entrambe si sedettero all'altro lato del tavolo, guardandomi con imbarazzo. "dove siete stata per tutto questo tempo, Zia?". Disse Nysha, prendendo timidamente la parola. Non avevo mai visto quella piccola elfa così a disagio. Mi schiarii la voce, che risultò sempre sgradevole e chioccia: entrambe mi guardarono con timore. "ho una missione da compiere. Una lunga, lunga missione". Dissi semplicemente. A loro bastò. Per fortuna, mi salvarono Tijorn ed Amarto, che scelsero quel momento per entrare. Mi venne un colpo al cuore nel vedere il mio Maestro così invecchiato. Quando a noi succede (ed è una cosa rara), è sintomo di gravi problemi. Un tempo, era stato un elfo, come ho già detto, possente: altissimo e minaccioso, dai capelli neri, sempre arruffati, occhi verde scuro, ora ostili, ora teneri, ed un naso che, quand'ero piccola, mi divertivo a paragonare ad un becco. La sua chioma arruffata era diventata tutta bianca ora, come i suoi occhi. Sembrava davvero un uccellino, gracile come se potesse portarlo via un soffio di vento. Sentii un enorme affetto nei suoi confronti. Camminava appoggiandosi al braccio di Tijorn. Senza che lui potesse muovere un passo, mi alzai di scatto, facendo cadere la sedia con un tonfo sonoro. Con tutta la calma possibile, mio fratello lo guidò vicino a me. Egli alzò la testa. I suoi occhi lattiginosi erano inondati di lacrime. "la mia piccola Lsyn...". Disse. Almeno la voce era rimasta uguale. Mi abbracciò senza aspettarsi una risposta. Avevo la gola completamente serrata. Sentii Tijorn mormorare qualcosa, e le piccole lasciare la stanza. Stavo per soffocare. Mi ero decisamente sbagliata a paragonare Amarto ad un fragile uccellino! Il mio caro Maestro mi liberò dalla sua stretta, senza asciugarsi le lacrime. "tutto questo tempo...tutto questo tempo...Tijorn mi ha accennato...cosa ti è successo, piccola?". La sua voce rotta tradì tutta la preoccupazione di un genitore. Dovevo aspettarmi una simile domanda. Mi assalì il freddo, e vidi, ai margini del mio campo visivo, mio fratello irrigidirsi. Restammo per un buon minuto in silenzio. "Lsyn...". Azzardò Amarto, parlandomi con gentilezza. "posso...controllare...quello che ti hanno fatto?". Allungò la mano, prima che potessi rispondere, e mi slacciò la maschera, prendendola in mano delicatamente e poggiandola a tentoni sul tavolo. Cominciai a respirare affannosamente, agitata come prima. Cercai con lo sguardo Tijorn, che mi sostenne. Non mi accorsi di essere andata in iperventilazione fin quando la sua stretta non si fece più forte. Amarto dovette intuire qualcosa, perchè esitò, con la mano ad un soffio dalla parte offesa del mio viso. "davvero, piccina...". Disse, con serietà, cercando di rassicurarmi con la sua voce profonda. "sento il tuo respiro. Sono il tuo Maestro, coraggio...ho il diritto di poter vedere con le mie dita, no?". Mi morsi la lingua, e tirai un gran sospiro. Cercai di non scoppiare, e di non cominciare ad urlare ed a dibattermi come una pazza. "forza!". Sbottai inavvertitamente, tendendo tutti i muscoli. "toccate, e constatate, come fossi una belva del serraglio, la mia rarità". Amarto si accigliò. "parole come le tue sono indegne di te, Lsyn". Disse, prima di sfiorarmi delicatamente la guancia sfregiata, percorrendo tutto il viso, fino alla gola. Ritirò subito la mano, quasi fosse rimasto scottato, e sul suo volto si dipinse l'orrore. Tijorn mi lasciò, e prese la maschera dal tavolo, rimettendola con velocità al suo posto, per poi riprendere a starmi vicino. Era finita. Mi lasciai mollemente trasportare da lui sulla mia sedia, dove mi accasciai. Il Maestro era rimasto intanto lì, ancora terrificato. Mi allacciai con movimenti sicuri la mia protezione dietro le orecchie, mentre riguadagnavo la mia calma. Mio fratello, avevo intanto fatto sedere Amarto accanto a me. Lui aveva ripreso a piangere, mettendosi poi le mani nei capelli. Feci per parlare, per rinfacciargli ciò che mi aveva costretto a fare, ma fortunatamente Tijorn mi mise una mano davanti alla bocca. Non c'era bisogno di ferirlo ulteriormente. Amarto mormorava qualcosa, che nessuno dei due riuscì a sentire. La cantilena senza sosta del traumatizzato. "perchè?". Disse poi, coprendosi il volto con le mani. "perchè proprio a te, Lsyn? Eri così felice!". Risi, ma stavolta di scherno feroce. Risi fino a farmi dolere la pancia. Risi per non abbandonarmi alla disperazione."è il destino, Maestro". Replicai, con voce brusca e carica d'amarezza. "nessuno vi ha mai raccontato del suo pessimo umorismo?". Tijorn mi guardò, irato, mentre Amarto ricominciava a piangere. Ci fu un lungo silenzio, carico di tensione. "ora basta!". Sbottò mio fratello, facendomi sobbalzare. Vidi nei suoi occhi la severità, e nel suo viso la tensione.Lui mi tese una mano, che io presi. Mi fece alzare di forza, quasi trascinandomi verso la porta, stringendomi forte. "Maestro, vado e torno". Disse, semplicemente. Amarto non lo ascoltò nemmeno, e continuò a singhiozzare, col cuore spezzato. Non ebbi il tempo di dire o fare nulla: marciando spedito, con me alle calcagna, Tijorn mi trascinò per lo stretto corridoio, fino a lasciarmi malamentein una stanza da letto, spoglia e semplice. "questa è la tua stanza, Lsyn". Disse, reprimendo a stento la rabbia. Lo guardai, con sfida. Ci fu un attimo di silenzio, teso come un panno inamidato, in cui rimanemmo a fissarci. Sapeva cosa volevo dire con quello sguardo. E sapeva che non mi ero minimamente pentita di ciò che avevo detto. Con un ringhio collerico, mio fratello si voltò, senza più degnarmi di uno sguardo, uscendo e sbattendo la porta dietro di sè. Rimasi come un'idiota impalata per diverso tempo. Semplicemente perfetto. Ero riuscita a rovinare una giornata splendida con quell'incidente. Ero sempre la stessa. Mi sedetti sul letto di schianto. Ed era solo il primo giorno. Al solo pensiero, lo stomaco prese a dolermi di nuovo. Mi lasciai sfuggire un gemito, mentre mi stendevo, fissando le travi scoperte del tetto.

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Angolino di Akita:

oh, ecco l'ottavo capitolo. Personalmente, non pensavo di arrivare così in là xD bè;, oggi non ho voglia di fare pagliacciate varie: odio lavorare di domenica .___. Anche perchè è solo di domenica .__. Soprattutto se le persone danno fondo al loro sarcasmo congenito quando ti fai in quattro .__. è odioso .__. E poi dicono che sono una strega acida... O___ò vabbè. Ora basta.

Passiamo dunque al dunque xD:

per Carlos Olivera:prego xD uhm...diciamo che la fine prevista non è proprio quella... O___ò immagino come ci si possa sentire con metà viso ridotta ad un ammasso di cicatrici...ma io sono innaturalmente crudele con la mia povera pazzoide inventata è.é non ti dico altro, sennò rovino la sorpresa! :P beh, che altro dire xD spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto xD come al solito, le tue recensioni mi riempiono di gioia xD beh, allora al prossimo xD fammi sapere che pensi di questo xD ciau ciau!

E per la chusma fantasma... sapete già, o voi tutti, che fare.

Au revoir xD!

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Capitolo 9
*** Resa Dei Conti ***


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Hola, chusma! xD

Son tornata (beh, si, per me questa è una lunga, lunga assenza...non riesco a stare lontana da questa storia per più di un giorno O.o)...avrei aggiornato volentieri ieri ma...sono uscita e poi, essendoci stato il solito temporale pomeridiano (altresì chiamato buriana xD), è mancata la luce fino alle quattro di stamattina .__. Mamma mia, dicendo così sembra di abitare in chissà quale lontano paese del terzo, o quarto, mondo .__. E non è un cosa bella mangiare al buio .__. Anche perchè non avevamo candele .__. Ed avevo pure comprato un libro nuovo... >.<

D'accordo, penso che ora possa bastare. Mi ci voleva un po' di sclero xD

Ebbene, bando alle ciance, vi lascio in balia di Lsyn xD

See you later!

Akita

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A dispetto di come era iniziato, il resto di quel breve soggiorno andò bene. Io e Tijorn facemmo pace la sera stessa, quando lui mi portò una ciotola di zuppa. Mi sorbii una solenne lavata di capo, perchè non dovevo comportarmi così con il Maestro, che era solo un povero vecchio, eccetera eccetera, ma dopo un po' fu tutto dimenticato. Per qualche giorno, dimenticai il mio dolore, e la mia mostruosità. Furono pochi, ma preziosi, giorni di luce. I miei ultimi giorni di luce. La quiete prima della tempesta. S'instaurò una piacevole routine quotidiana: la mattina aiutavo Tijorn in qualche faccenda, ed il pomeriggio lo affiancavo nell'apprendistato delle due gemelle, che in breve si abituarono al mio aspetto strano. Amarto mi trattò sempre come al solito. Tuttavia, l'ombra di me stessa continuava, instancabilmente, a perseguitarmi. Mangiavo sola, o al massimo in compagnia di Tijorn. Non avevo il coraggio di togliermi di nuovo la maschera, perdipiù di fronte a due innocenti. Dalla casa sparirono gli specchi, e gran parte delle superfici riflettenti. Apprezzai quel piccolo pensiero, quel dettaglio che mi ricordava che nulla poteva tornare come prima. Avevo, per ben tre volte, implorato mio fratello di dirmi la novità, ma lui aveva sempre rifiutato. Sapevo benissimo il perchè, e desistetti. Si rifiutava di lasciarmi andare, di lasciarmi di nuovo, consapevole che io mi sarei immersa nuovamente nella solitudine e nella disperazione. La loro compagnia era la mia sola medicina. Avessi desistito per sempre... perchè non tacqui, allora? Passò una settimana. Cominciai a sentirmi inquieta. Sbaglio, o era uno sguardo d'insofferenza quello che mi aveva rivolto Tijorn, mentre curavamo l'orto? E mi era solo parso di veder le gemelle bisbigliare al mio passaggio? Ben presto, l'umore della casa, che con il mio arrivo era schizzato alle stelle, peggiorò notevolmente. Negli ultimi giorni della mia permanenza, la mia stanza divenne il mio rifugio. Presi a passarci sempre più tempo, ed a parlare, quel poco che ormai dicevo, sempre e solo dello stesso argomento. Non aiutavo più Tijorn, nè in casa nè come Maestro. C'era un solo ritornello che mi rimbombava in testa, sonoro e ripetitivo quanto il rintocco del vecchio orologio della torre di Sharilar, che si sentiva allo scoccare di ogni ora, nonostante fossimo piuttosto distanti da villaggio. Andavo a dormire e mi svegliavo con un solo nome che occupava la mia mente. Chekaril. Devi ritrovarlo. L'hai promesso. E' tuo dovere. E che stai facendo? Giochi con le piccole. Fedifraga. Indolente. Paghi bene Lainay, e tutta la sua bontà. Non immagini quanto possa essere dura, per lei, dipendere da lui per la stabilità del Regno? Se è morto? Cosa fai? Che dirai? Come salverai la dinastia e la pace? Tutta colpa tua. Ti piacerebbe veder morire i tuoi cari, e crollare tutto il mondo che hai contribuito anche tu a costruire con tanta fatica e tanto sangue? Allora, al lavoro, Spia maldestra e pigra. Non parlavo a nessuno di questi pensieri, e della coscienza che mi rodeva come un verme, ma Tijorn indovinava lo stesso. Lui mi capiva, anche solo da uno sguardo. E, mano a mano che i giorni passavano, si faceva, ad ogni occhiata che mi rivolgeva, sempre più cupo e taciturno. Perfino le infanti sembravano a disagio. Amarto era preoccupato, lo sapevo, nonostante il mio segreto tumulto mal mi facesse concentrare sugli altri. Il tempo trascorso insieme divenne fonte di silenzi. Fuori, il bosco fioriva, e la natura cantava. Dentro, era tutto morto. E passarono quasi due settimane. Ero in agonia. Una sera, stavo piluccando uno strano minestrone, nella mia camera, illuminata debolmente da una candela tremolante, quando mi assalì, come sempre, la coscienza che mi rimproverava, con più forza e più cattiveria del solito. Dannato mostriciattolo, che fai per la tua patria? Che fai per il Regno? Mangi zuppa di verdura, comodamente seduta su un letto morbido. Chekaril potrebbe essere steso su un letto di terra, e lo sai. Non lo amavi, Lsyn, vecchia e stupida mucca? Non lo desideravi, schifosa sfregiata? Mi offendevo da sola, e lo sapevo. Cominciarono a scorrermi lacrime copiose dagli occhi. Tutto dannatamente vero. Mi passò anche quel poco di fame che avevo. Posai a terra la scodella, e mi rannicchiai. Il dolore stava tornando, con forza raddoppiata. Scoppiai in lacrime, lacrime amare, lacrime nascoste. Dopo, ero tanto sfinita che mi addormentai senza rendermene conto, ancora piangendo.

Ero in una specie di sotterraneo. C'erano tracce d'umidità dappertutto, e si sentivano, in lontananza, i suoni della foresta. Realizzai, a livello inconscio, di essermi sbagliata. Quello non era un sotterraneo. Ero in una caverna. Cominciai allora ad andare lentamente verso quella che mi sembrava l'uscita, sbucando senza intoppi in una radura coperta di rugiada. Conoscevo quel posto. Da lì era cominciato tutto. Non so come, ma seppi, come se fosse sempre stato di mia conoscenza, che nulla esisteva al di fuori di essa. Il resto era semplice illusione, pura finzione. Qualcosa mi spinse a girarmi. E, poco lontano da me, attorniato da due giovani alberi, vidi un cigno, bianco e maestoso, che mi fissava con i suoi liquidi occhi neri.

Tirai violentemente il fiato, aprendo gli occhi di scatto, e mi misi seduta, ancora respirando affannosamente. No. Non ancora. Non di nuovo quel sogno. Attorno a me era tutto buio e silenzio. Dov'ero? Chi ero? Che ci facevo, lì? Dopo un po', la mente si schiarì. Pian piano, come un nuotatore che emerge da chissà quali abissi, mi resi conto di essere nella camera. Mi ero addormentata tutta raggomitolata sul letto, in una posizione strana. Mi faceva male dappertutto, e mi sentivo stanchissima. Era notte fonda. La candela si era consumata. La casa taceva. Strinsi i pugni, ferendomi i palmi con le unghie. Basta. Non ce la facevo più. Mi alzai, e, dimenticando addirittura della maschera e delle scarpe, aprii la porta e mi fiondai verso quella di Tijorn, imprecando sottovoce per il piede sinistro che avevo immerso nella zuppa fredda. Avevo troppa fretta. Arrivai alla mia meta in un attimo, con poche falcate silenziose. Cominciai a bussare freneticamente, assurdamente impalata lì, al buio. Dopo un po', l'uscio si spalancò, ed uscì mio fratello, in un';assurda vestaglia da notte, molto assonnato. Quando mi vide, tuttavia, si fece serio. Non riuscii a spiccicare nemmeno una parola. "aspettami in cucina. Vengo tra poco". Mi disse, chiudendomi la porta in faccia. Sospirai di sollievo. Non so cosa avesse visto in me, ma sentivo che, finalmente, quella situazione d'immobilità forzata si sarebbe sbloccata. Fu abbastanza. Mi affrettai ad obbedire, e andai dove detto, sedendomi alla stessa sedia di sempre, quella che avevo occupato per quindici giorni. Finalmente, la resa dei conti.

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Angolino di Akita:

eccomi qui, con il nono capitolo, un po' più allucinato del solito ^.^ finalmente, sono riuscita a tappare quel misterioso buco, ed ora la scrittura procede a ritmo regolare *.* farò di tutto pur di ovviare a questo piccolo ritardo (si, sono molto fissata con regole, orari, eccetera O.o).

Passiamo dunque al dunque:

Per Carlos Olivera: ohh... lo so che Lsyn è antipatica xD mentre scrivevo provavo le tue stesse sensazioni, e gli stessi pensieri xD ma, essendo scritto come una specie di diario, in prima persona, mi pare quasi normale che lei non veda altri che se stessa xD diciamocelo con chiarezza, tutti tendono un po' ad autocompatirsi, soprattutto quando si fanno del male xD molte persone fanno un caso di stato anche pochi punti (me compresa ù.ù). Quindi ho pensato: ferite grandi, grande autocompatimento. Sono una bestiolina strana O.o . Ma..tu aspetta è.é vedrai cosa succederà xD ti ringrazio, come sempre, per il tuo parere e la tua partecipazione, e spero che continuerai a recensire *___* al prossimo capitolo! Ciau ciau!

Per gli ALTRI, non mi spreco nemmeno a fare ulteriori recriminazioni. Tanto lo so che non mi recensite comunque ù.ù

Insomma, alla prossima!

Akita

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Capitolo 10
*** Confessioni. ***


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Ok, chicos ù.ù

Siamo arrivati al capitolo numero dieci ù.ù non me l'aspettavo, non me l'aspettavo. Non ho nient'altro da dire. La soddisfazione per essere andata così avanti mi gratifica ù___ù vorrei fare dell'ironia, ma vorrei evitare, in caso qualcuno di delicato si offendesse <.< e poi fa troppo caldo <.<

Insomma, ora vi lascio a questo capitolo, d’importanza cruciale per il resto del racconto.

Occhi ed orecchie aperti! :P

Ok, basta. See you later!

Akita

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Tijorn non ci mise molto, ma l'attesa fece si che quel breve intervallo durasse, a mio parere, secoli. L'ansia in me cresceva sempre più, come acqua calda versata in una tazza. Finalmente, sentii dei passi felpati. Dall'ombra al mio fianco emerse mio fratello, vestito in modo decente, che reggeva in una mano un piattino scheggiato con una candela accesa, e nell'altra un sacco di iuta. Una spiacevole sensazione di freddo viscido s'impadronì di me al solo osservare la forma regolare dell'oggetto contenuto lì dentro. All'istante, capii cosa c'era, e rabbrividii. A passi strascicati, intanto, lui si era diretto verso la sua sedia, di fronte a me, ed aveva posato la candela sul tavolo, appoggiando il sacco chissà dove per terra. Non mi aveva degnato di uno sguardo. Finalmente, si sedette pesantemente, ancora senza guardarmi, nè parlarmi. Mi sentii tremendamente irritata, dal suo comportamento, ed addolorata. Lui sapeva che quella era la mia missione. Cosa accidenti stava succedendo? Di solito mi lasciava andare senza dire nulla, conscio che sarei tornata, prima o poi, più o meno devastata. Ma ora sembrava riluttante. C'era qualcosa di molto grosso in ballo. "hai infilato il piede nella zuppa, Lsyn?". Disse, spezzando il silenzio pacifico e sonnacchioso della notte, e prendendo a fissare la candela, come se fosse la cosa più interessante del mondo. "avevo fretta". Risposi, asciutta. Lui chiuse gli occhi, e capii solo da quel gesto quanto fosse combattuto, e quanto soffrisse. "già. Avevi fretta". Mormorò, incrociando le mani al petto, come se lo avessi colpito a morte. Cominciai a sentirmi preoccupata. Non mi piaceva quel comportamento. Chekaril era morto, allora? Si stava forse chiedendo perchè doveva essere proprio lui a raccogliere per l'ennesima volta i cocci in cui mi sarei sbriciolata, povero vaso già riparato troppe volte? Si chiedeva se c'era ancora speranza di riattaccarli? La preoccupazione raggiunse livelli allarmanti. Mi decisi a rompere il silenzio, e sentii la mia voce spezzarsi pian piano. "Tijorn, ti prego!". Sbottai, cercando di non urlare, cominciando a tremare leggermente. Lui mi guardò, finalmente, ed io lessi la sofferenza nei suoi occhi, come se stesse sotto tortura. La preoccupazione divenne panico. Lo sentii farsi strada nella mia voce. "qualunque cosa, qualsiasi notizia tu mi debba dare, dammela! Parla, dannazione, e non tenermi sulle spine!". Mio fratello si morse le labbra, a disagio. M'interruppi, ansimando. Lui tese le mani sul tavolo, verso di me, mani che io afferrai, con forza disperata. Ci fissammo negli occhi, entrambi tormentati. "quattro mesi fa, sono andato nella capitale, al quartier generale". Cominciò, con voce pacata, chiudendo di nuovo gli occhi e donandomi una stretta rassicurante. Non l'interruppi. Era sua abitudine girare intorno alla notizia, soprattutto se non gli piaceva. Non avrei concluso nulla cercando di affrettare i tempi. "ho consultato gli archivi, ma nulla di nuovo. Poi, uscendo, ho incontrato il Falco". Feci una smorfia. Il Falco, l'elfa della quale stavamo parlando, non mi era mai piaciuta. Al mondo, rispondeva al nome di Akita, penso. Era una tipa strana, più inquietante di me, dai colori sbiaditi come quelli di un panno lavato troppe volte, perennemente con il lungo naso fra i libri. Era la Bibliotecaria e la Guardiana degli archivi, e sapeva, chissà come, sempre tutto quello che accadeva. Impossibile coglierla di sorpresa. Tra me e lei c'era sempre stata una rivalità accanita. Tempo fa, quando eravamo giovani Spie, avevamo fatto addirittura a gara per scoprire i nostri veri nomi, la nostra carta vincente, quello che pochi conoscevano. Era stata l'unica volta in cui l'avevo spuntata. Penso che quella gallina sia ancora convinta che io mi chiami Gertrude. Tijorn, tuttavia, ne andava pazzo. Difficile pensare che non ci fosse qualcosa tra loro. Tuttavia, le questioni sentimentali di mio fratello in quel momento non mi dovevano interessare. Ripresi ad ascoltarlo, sempre piùnervosamente. "beh...tu sai com'è fatta... ha cominciato a prendermi in giro per il fatto che continuavo a darti retta, ed ha espresso in modo inequivocabile il suo disprezzo nei tuoi confronti". Sorrisi biecamente, e mio fratello inghiottì a vuoto e s'interruppe. Per un attimo dimenticai la mia preoccupazione, e mi sentii assalire dalla rabbia. Tipico di lei. Se fossi mai tornata a Galinne, avevo in serbo un bel libro condito all'arsenico tutto per quel codardo rifiuto della civiltà, infiocchettato con un bel nastrino rosa, quel disgustoso colore che le piaceva tanto. Il sorriso si trasformò in un ringhio feroce. Scossi la testa più volte, come un cane bagnato, per riguadagnare lucidità. Non potevo lasciarmi distrarre da un verme di biblioteca. La rabbia mi combinava sempre brutti tiri. Cercai di riprendere il filo, lasciando che Tijorn continuasse. "poi...sai...sono andato da lei". Arrossì furiosamente, e s'interruppe di nuovo. Se il suo obiettivo era stato quello di distrarmi, con quell'ultima notizia ci riuscì in pieno. I miei sospetti avevano avuto conferma: avevo decisamente fatto centro. Sgranai gli occhi, e lo fissai, in modo così truce che lui mi lasciò andare, indietreggiando con la sedia, sempre più rosso. Avrei potuto cuocerci qualcosa, sul suo viso. Ricordare quegli ultimi momenti d'allegria mi riempie di dolore. "Tijorn!". Lo sgridai, stupefatta, ringhiando furiosamente. "non quella sottospecie della sottospecie della sottospecie di ragno! E' disgustoso! Non le avrai detto del mio nome, spero...". Fu il suo turno di guardarmi con indignazione. "lo farei secondo te, Lsyn?". Disse, alzando il mento con fare altero. Sogghignai. "esistono molti modi per cavare di bocca qualcosa ad un ribelle, uomo o elfo che sia, Tijorn". Insinuai, sempre con quel ghigno astuto stampato in faccia. Dovevo sembrare diabolica, e mi compiacqui dello sguardo perplesso e terrorizzato di mio fratello, mentre il colore svaniva a chiazze dal suo viso. "e questi sono sapere comune tra tutti gli esseri di sesso femminile...anche di animali come lei". Ebbi il piacere di vederlo arrossire di nuovo furiosamente, e di sentirlo chiocciare qualcosa d'indistinto. Passò; un po' di tempo. Pian piano, quel prezioso momento di pace svanì. L'ansia fece capolino nei nostri sguardi, e ci prendemmo di nuovo per mano. Tijorn riprese a parlare, tornato nuovamente tormentato e nervoso. "beh...dopo un po'...". E qui ebbe la decenza di distogliere lo sguardo. "mi ha detto di avere qualcosa per te". Mi sentii sprofondare. Akita...qualcosa...per me? Cosa accidenti voleva quell'essere immondo? Ascoltai il resto con attenzione spasmodica. Tijorn si schiarì la voce, e prese a scavare nel sacco, estraendo una lettera, dalla carta pesante e raffinata, e posandola sul tavolo. "mi ha detto...beh... Lsyn". Disse in tono urgente e più stridulo il mio nome, prendendomi le mani, stringendole forte, e guardandomi pieno d'apprensione. "stai tranquilla, d'accordo? Ha detto che dovevo darti questa lettera da parte sua". Sospirò, e fece una pausa. Il momento era arrivato. Sentivo qualcosa pulsare insistentemente in gola. Riprese a parlare, così velocemente che quasi mi persi le sue parole. "ed ha aggiunto... Lsyn, ci sono notizie certe di Chekaril".

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Angolino di Akita:

ahhhahhahhh.

Scommetto che questo ve l'aspettavate ù.ù

Non ho nulla da dire O.o strabiliante O.o (il caldo mi rende silenziosa...dovrebbe far caldo sempre, allora O.o)

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: beh, eccoci qui al capitolo numero 10 ù.ù scusa per prima, ma davvero dovevo fuggire O.o questa casa è come un deserto pieno di condor O.o grazie comunque per l'indirizzo ù.ù passando alla storia: non ci avevo pensato, sai O.o Lsyn elfa oscura però non reggerebbe xD non ti pare abbastanza corrotta così com'è? xD poi, giudicherai dai suoi gesti e dalle sue azioni ciò che diventerà xD in questo racconto, però, stai sicuro che gli elfi son tutti una razza :P grazie al solito per il commento, ed esprimo di nuovo la speranza che continuerai a leggere :P ciau!

In quanto agli ALTRI è.é

Dico solo è.é (sto prendendo a minacciare il nulla O.O)

E basta è.é

Alla prossima puntata (cosa accadrà mai ai nostri eroi? xD)...

Akita

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Capitolo 11
*** Lettere e chiarimenti ***


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Ta-dan!

Eccoci qui con l'undicesimo capitolo. Questo, in particolare, è tra quelli che mi sono divertita di più a scrivere. Ci sarà di nuovo la mia omonima, in tutta la sua cattiveria (o cazzimma, rende meglio l'idea xD). E si saprà qualcosa in piùsu Chekaril, ma nno vi dico più null sennò vi rovino la lettura ^.^

Ora vi lascio, godetevi questo capitolo.

See you later!

Akita

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Ci sono momenti in cui la testa sembra quasi ovattata, e tutto è immerso in chissà quale liquido che fa muovere a rallentatore le cose. La mente si svuota, e così protegge da colpi che potrebbero esser fatali per l'equilibrio psichico. Tale mi sentivo io in quel momento. Vedevo il viso bianco e concentrato di Tijorn come da una grande distanza. Mi sentii qualcosa tra le mani. Abbassai lo sguardo, e vidi la lettera. Strappai la busta sigillata con fretta indiavolata. Mi tremavano le mani. La lettera, vergata in inchiostro rosso con grafia leziosa e piena di svolazzi, era certamente di Akita. Quell'essere era il più odioso e leccato che abbia mai calcato le nostre terre. Mi accinsi a leggere. Ho ancora quel pezzo di carta raffinata, e, peraltro, ricordo ancora il testo, offensivo e caustico, pieno d'insinuazioni e malignità, quasi a memoria. Diceva:

Mio caro mostriciattolo sfregiato;

sono sicura che il tuo fratellino ti ha già detto cosa bolle in pentola. E' un'infinità di tempo che non vedo il tuo brutto muso. Come saprai di certo, io sono ancora qui, eminenza grigia delle Spie. Sorpresa, vero? Io non tanto. Come capirai, lavoro ancora con estrema accuratezza, e sono ancora nel pieno della mia carriera. A differenza della tua, mia cara, la mia attività è ancora fervente. Si lo so, esagero con questi ancora, ma devo ricordarti della tua miserevole condizione di vagabonda, o no? E, per fare ancor di più la differenza, ho rimarcato notevolmente la carenza che hai d'informatori decenti. Anche Tijorn qui presente, sicuramente nel momento in cui stai leggendo queste parole vicino a te, pronto a confortarti come un insulso Guaritore, non sfugge, benchè ovvii a questa terribile mancanza d'intelletto con altre qualità molto più materiali, che decisamente non avrai mai occasione di sperimentare. E non è che il tuo vagabondare ti sia servito a molto. Mi dici come diavolo hai fatto a non notare tutti quegli indizi? Da te mi aspettavo un successo più immediato...ma può darsi che quell'incidente famoso non abbia rovinato solo il tuo bel faccino. Che delusione per quella che si mostrava la punta di diamante della nostra organizzazione non cavare nemmeno un ragnetto dal buco! Cosa fai, Mostro? Ti fai battere da un topo di biblioteca e dai suoi contatti? Che dici, sfregiata, comincio a raccontarti del mio ennesimo successo, o no? Beh, si, la gloria andrà tutta a te...o forse no. Starò a vedere. Insomma: Lateek ha trovato chiare tracce di Chekaril, il bel principino che tu stai cercando. A quanto pare, un locandiere nell'Impero ha riconosciuto la sua descrizione. Il resto è stato facile quanto rubare ad un infante. Avresti saputo farlo anche tu. Le tracce si sono susseguite l'una dopo l'altra. Lateek non è riuscita ad andare ulteriormente avanti, ma ha ragionevolmente supposto che si trovi a Gerinti, sano se non salvo. E' un piccolo isolotto a poca distanza dalla baia di Shankor, nel cuore dell'Impero, in uno dei pochi luoghi abitati da mortali ed immortali. Anche se a questo punto non penso tu sia totalmente in te, sempre che non sia già fuggita facendo i bagagli in fretta, voglio dirti un altro paio di cose. Non andare troppo di fretta, ed avvisa prima Nostra Signora la Regina. Quel posto pullula di schifosi mortali, pronti a saltare addosso a chiunque presenti un minimo di stranezza. Stai attenta. Mi piacerebbe rivedere prima o poi il suo schifoso viso mascherato, anche se so che sarai vittoriosa, e la vittoria non dovrebbe arridere alle incompetenti come te. Ma ripeto, sempre che ciò accada. Dubito fortemente di certe tue capacità. Se mai venissi catturata senza che tu mi abbia ascoltata, noi non ci conosciamo. Ci tengo alla mia superba vita. Rammenta. Gerinti, sulla baia di Shankor. E l'ultima grande città prima della loro capitale, e non è difficile arrivarci. Stento ancora a credere che tu non l'abbia già setacciata da cima a fondo. Ma non sono qui a discutere delle tue labili capacità deduttive. Stammi bene.

Il Falco.

(a proposito, la scelta di Gertrude come nome era davvero patetica, Lsyn. Strano che tu sia riuscita a farmelo credere per così tanto tempo. Ma, come dicevo, in quanto a scarsa acutezza tuo fratello ti batte, davvero. Soprattutto in certi momenti. Ma non voglio svegliare pensieri amorali nella tua già fragile testolina)

Sempre che tu non sia ora in preda ad un attacco isterico, arrivederci.

Akita.

Strinsi la lettera a me, tremando follemente. Tutti i muscoli del mio corpo erano tesi, e la mia testa sembrava essere in preda ad uno sconvolgimento totale. La carta si accartocciò nelle mie esili mani. Non avevo nemmeno fatto caso al tono odioso di quel ratto di fogna, e alla sua superbia dannata. Un solo pensiero mi rimbombava nel mio cervello sfilacciato. Lo stavo per trovare. Vivo. Chekaril, il mio amore, il mio unico amore. La mia vita era ad una svolta. Presto sarei tornata a Galinne vittoriosa, ed il Regno sarebbe stato salvo. La mia esistenza come Spia sarebbe finita, ed io avrei avuto un po' di pace. Mi sembrava in quel momento quasi ovvio che i rapitori l'avessero portato in un piccolo centro nel cuore dell'Impero umano. Erano luoghi troppo pericolosi per un elfo, Spia o non Spia. Non avevo minimamente pensato di andare ad esplorare nei loro territori. Inoltre l'unica acqua che io abbia mai conosciuto è quella del mio bagno serale. Non so nuotare, d'accordo, ed ho una paura tremenda dell'acqua. In un paio di occasioni stavo addirittura per affogare. Non potevo andare in un isolotto, completamente circondato dal mare, profondo e pieno di chissà quali mostri, pronti a divorarmi! Chi aveva rapito Chekaril doveva conoscermi bene, e conoscere anche il nostro rapporto segreto. Il solo pensiero mi riempiva d'odio, e di paura. Quei bastardi l'avrebbero pagata con atroci torture per avermi fatta penare, ed aver fatto penare la Regina, che gli dei l'abbiano in eterna grazia. Mi riscosse dal mio torpore un abbraccio concitato. Mi accorsi in quel momento che mi ero letteralmente raggomitolata sulla sedia, tremando e piangendo di gioia. E mi ricordai solo in quel momento di Tijorn. Il mio dolce fratello. Perchè mi aveva nascosto cosìa lungo queste informazioni importanti? Perchè non era felice quanto me? Mi tesi ancora di più quando lui mi strinse a sè, mormorando parole tranquillizzanti. "sei un egoista, Tijorn!". Ringhiai, fuori di me, cercandomi di divincolare. "Chekaril! Vivo! Perchè non me l'hai detto subito?". Lui non rispose, e continuò a cullarmi, dolcemente. Piano piano, mi lasciai andare a quell'abbraccio, e sospirai. Mio fratello era sempre lo stesso. Ed io non riuscivo ad arrabbiarmi mai troppo a lungo con lui. Il mio cuore esultava, in tumulto, e lo sentivo rimbombare. "volevo che tu stessi un po' con me, piccina". Disse poi, guardandomi con dolore. "eri così sola...così disperata...". Volli credergli, o meglio, ci cascai con tutta me stessa. Perchè allora, non sapevo che, sia lui, che Lainay, che Akita, tutti mi nascondevano qualcosa, un piccolo, insignificante, dettaglio che ci avrebbe rovinati tutti. "sei un egoista". Replicai, prima di scoppiare in un pianto dirotto, di sollievo. Lui mi tenne stretta, ma senza provare a rincuorarmi in nessun modo. Mi conosceva abbastanza bene per sapere che, in quelle condizioni, non era esattamente la cosa giusta da fare, se non voleva farsi molto male. Rimanemmo così; per chissà quanto tempo, tanto che, una volta calmatami, stavo quasi per addormentarmi. Facendomi quasi andare faccia a terra, Tijorn si alzò improvvisamente, lasciandomi. Lo guardai, truce, reprimendo a stento l'istinto di bestemmiare, ma lui non se ne accorse quasi. "ferma lì". Intimò, chinandosi verso il sacco. "prima avvisiamo la Regina, poi decideremo il da farsi". Gli diedi ragione.Era da incoscienti precipitarsi in mezzo agli umani senza che lei lo sapesse. Lo osservai mentre rovistava di nuovo nel sacco, e sollevava uno strano oggetto. Mi vennero i brividi appena percepii la sua presenza.

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Angolino di Akita:

buonasera, chusma! *___* come è ormai mia abitudine, un altro capitolo troncato a metà (ma questo solo per farvi schiattare u____u). E' qualcosa che adoro, davvero *.*

oggi è stato davvero un delirio O.o tra pigne giganti che precipitavano a tradimento,scottature, funghi, fragoline di bosco e pirati affamati reincarnati in cavalli curiosi O.o

ci potrei scrivere, una storia, davvero xD eh, la gente di mare non è fatta per la montagna xD

beh, ora basta.

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: mwahaha, eccomi, come promesso U.u beh, se prima la pensavi in un determinato modo sulla omonima, ora la cosa non può che peggiorare xD io mi ci diverto, così xD in fondo, ognuno di questi personaggi è un lato di me. Tutti hanno qualcosa di ciò che mi sta intorno, ed io a volte sono esattamente così, quando ho voglia di dare fastidio. E poi, questo è sempre filtrato dall'ottica di Lsyn O.o i personaggi non hanno mai il "loro" carattere, non sono "assoluti", tutto è irresistibilmente filtrato dalla protagonista O.o vedrai...non finirà qui, con Akita è.é ti è piaciuto questo capitolo? E', ripeto, tra quelli che mi sono divertita di più a scrivere xD la lettera, soprattutto. Fammi sapere quello che pensi, mi raccomando *___* ciau!

Per gli altri, solita ordinazione (xD).

Sono troppo stanca e scottata (letteralmente) per lottare.

Ciao!

Akita

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Capitolo 12
*** Sfide e Piani Astrali. ***


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Salve a tutti!

Eccomi qui con il capitolo numero 12, regolare come un orologio a cucù ^.^

E' un po'più lungo del previsto, ma non me ne sono accorta fino a quando non l'ho finito O.o vabbè,il prossimo compenserà quest'anormale lunghezza xD

See you Later!

Akita

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Il Comunicatore è un rarissimo oggetto magico, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. E'magia elfica elementare. Permette di accedere al Piano Astrale, dove tutto è ciò che è, senza fronzoli e senza menzogne, e da dove provengono i sogni. Solo pochissime persone possono usarlo coscientemente, e sono tutte tra le Spie. Tra l'altro, i Comunicatori rimasti sono tutti di nostra proprietà, gelosamente custoditi nel quartier generale. Sia io che Tijorn abbiamo quella stilla di potere necessaria per poter entrare nel Piano, ed agirvi in modo cosciente. E percepiamo questo rimasuglio di potere, eco di grandiosi tempi dove gli elfi dominavano incontrastati con la loro dilagante magia, così come lo usa e lo percepisce la Regina. Tijorn prese il Comunicatore, tenendolo con due dita, quasi fosse un oggetto disgustoso. Aveva un aspetto innocente, una specie di cilindro di legno scuro intagliato finemente, con una gemma azzurra in cima, ma emanava un tremendo potere. Mi si rizzarono i capelli sulla nuca. "Akita ha avvertito la Regina che userai questo". Prese a dire Tijorn, che appariva rassegnato ed un po' frustrato. Lo linciai con lo sguardo, eccitata come se dovessi partecipare ad una grande festa. "lei ha promesso di essere...lì...ogni notte". Meravigliosa Lainay. Non osai nemmeno pensare quale dispendio di energie potesse costare rimanere nel Piano. Con esitazione, mi tese l'oggetto, tenendolo a debita distanza da lui. Lo afferrai con impazienza, ignorando la scossa sgradevole che mi dava il solo toccarlo, e mi sistemai. Era ancora notte fonda, e ci sarebbe voluto un po' di tempo prima dell'alba, per fortuna. Cominciai la procedura. Fu qualcosa di quasi meccanico. Chiusi gli occhi, e cercai un briciolo di concentrazione. Ben presto, nonostante fossi in preda a tantissime emozioni, tutto cominciò a farsi ovattato. Non vedevo, nè sentivo, più nulla di quello che accadeva attorno a me, anche se ne ero cosciente. Sapevo che Tijorn mi stava tenendo d'occhio, mantenendomi per le spalle, pronto a sorreggermi quando sarei tornata, e che avevo i piedi freddi. Ma ben presto ignorai anche la mia identità. Un'esplosione di luce. E poi entrai nel Piano.

E' strano esservi quando non si dorme. E' tutto buio, ad eccezione di alcune labili luci, che spariscono non appena si fissa lo sguardo verso di esse. Pensieri ed emozioni estranee sfiorano le guance, come ali d'uccelli. I pensieri dei dormienti. In quel posto, non sono Lsyn. Sono L'Ombra. E' da lì che nascono i nostri soprannomi, da quello che ci mostriamo di essere nel primo viaggio, quello fatto come prova. Io, fin dallìinizio, sono stata un turbine buio, ancora più di quello che mi circondava, indistinto e difficilmente distinguibile, come una macchia d'inchiostro su un abito nero. E' questo ciò che è la mia anima, la mia essenza, speciale perchè unica, ed irripetibile. Lì non ero una sfregiata orrida. Lì non rifuggivo nessuno, e brillavo ancora nella mia gloria oscura. Mi riscossi dai miei pensieri, e cominciai a cercare. L'essenza di Lainay è come una nube di gas luminoso. Può prendere ogni forma, e risplende di porpora e polvere di diamanti, regale e sfrontato. Non è difficile trovarla. Cominciai a cercare. Non ci si muove realmente, nel Piano. Tutto equivale ad un pensiero, perfino la parola. Non è una bella esperienza: bisogna tenersi sotto controllo, o si finisce per perdersi e, di conseguenza, morire. L'ho visto accadere tantissime volte. Mi accorsi, improvvisamente, di non essere più concentrata. Dirottai tutti i miei sentimenti in un unico scopo: trovare Lainay. Non ci furono più altri pensieri. Proprio quando cominciava a farsi strada in me un senso di panico sottile, individuai il familiare bagliore purpureo. Sospirai di sollievo, e in un attimo mi trovai davanti l'essenza della mia Signora. Lei si era accorta subito di me. Venni avvolta dalla nube, e provai una sensazione d'intenso disprezzo, insieme ad altri sentimenti poco identificabili, ma non molto amichevoli. Fu come essere investiti da una nube di ghiaccio. Questo pensava di me la Regina, e questo era il suo saluto. L'eternitàrisplende. Sentii nella mia mente le sue parole, innaturalmente gelide, il riconoscimento rituale. L';eternità è per i vincitori. Risposi. Anche la mia voce mentale da' l'impressione d'indefinito, di difficilmente distinguibile. Sembra il fruscio di una foglia morta, e lo odio. L'ultima formula mi arrivò, secca e detta in modo quasi offensivo, come uno sputo in faccia. I vincitori risplendono. Poi, finalmente, la voce sprezzante cominciò a dire qualcosa di serio, nel tono mortalmente dolce usato quando era arrabbiata o contrariata. Ci voleva una Bibliotecaria, Ombra, per farti mettere sulla strada giusta? Mi sentii percorrere da un brivido. Lei sapeva. Di sicuro quella bastarda le aveva riferito tutto. La mia ombra fu percorsa da un fremito. Non mi permise di dire nulla. Sono delusa, Lsyn. Proseguì imperterrita la voce, senza traccia di sentimento. Sai che lui è l'unica speranza per me, vero? E allora perchè ti crogioli in quel tuo dolore, senza far nulla, fallimento che non sei altro? Perchè non lavori com'era tuo solito? Il gas si dilatò, e si scurì. Finalmente, riuscii a rispondere. Ma... mia signora...come potevo andare nel territorio mortale, per altro su un'isola? Non potevo osare tanto! Una propaggine del gas si allungò verso me. Ebbi la sensazione come di uno schiaffo sulla guancia, violento. Mi sarebbe rimasto un bel segno. Usa la tua abilità, sfregiata maledetta! Serpe in seno, sei una Spia, con mio grande rammarico! Sentii percorrermi da un'ondata di rabbia, e l'ombra si fece più scura. Lei non era mai stata ferita, sfregiata, dileggiata. Lei era al comodo su un trono, consapevole di poterci rimanere anche in eterno. Era il suo egoismo che mi aveva mandato al macello. Per la prima volta dopo chissà quanto tempo, provai odio per la mia Regina. La mia essenza era nero più scuro della notte, ora. Inrisposta il gas si dilatò ulteriormente, prendendo a pulsare. Una sfida aperta, come ce n'erano state tante, in passato. Dopo un po', mi arresi. Lei era troppo forte, e non aveva senso lottare contro la Regina benedetta. Era l'ancora di tutti contro il caos! Io ero l'egoista! E poi amavo Chekaril. Anche lei lo amava. Perchè dovevamo essere in contrasto? La mia anima si schiarì, e rimpicciolì. Così andiamo meglio. Disse Lainay, tornando alla forma normale, soddisfatta. Ricordati, tu sei polvere per i miei piedi. Posso mandare qualche altro cane ad ucciderti, senza pietà, se non lavorerai bene e non mi obbedirai. La voce si fece improvvisamente piùtenera, e l'anima mi avvolse in una nube colorata e rassicurante. La mia signora mi donava un abbraccio. Era proprio vero che io sbagliavo. Lei era sempre nel giusto. Sempre. Ed io ero un insetto infimo che non si meritava di strisciare al cospetto della sua maestosa regalità. Rimpicciolii ancora di più. Che ti è successo, mia piccola Ombra? Disse lei, apparendo affranta. Eri così...perfetta, prima. Tutte le missioni che ti ordinavo venivano svolte in modo egregio. Ti distinguevi in ogni cosa facevi, e brillavi in società. E ora? Quella sensazione di calore svanì, lasciandomi come uno scialle perduto in una notte fredda e ventosa d'inverno. Di nuovo la nube si fece più grande. Vaghi senza meta e senza scopo. Ti ho ordinato cinquant'anni fa di ritrovare mio fratello, Lsyn. Cinquant'anni. La voce si venò di sarcasmo. Certo devono essere stati proprio geniali per nascondere tutte le tracce... Mi agitai, rimpicciolendo ancora di più. Era vero, tutto vero: ero stata poco attenta. Non era difficile trovare segni di un rapimento. Non ero stata obbediente. Meriteresti una punizione, Ombra, per la tua negligenza. Asserì la Regina, tranquilla, fluttuando pigramente. E sarei tentata di dare la missione a qualcun altro...Il Falco, magari... è stata così diligente e veloce... Mi sentii morire, e diventai più piccola di una macchia. Lainay incombeva su di me, perfida. No. Non questo. No. No. Non poteva. Io avevo sprecato la mia vita per cercare il mio unico amore. Non poteva negarmi la gioia di ritrovarlo, e di saperlo vivo. Non poteva. Ne sarei morta. Ero rimasta gravemente ferita per lui, ed ora sfregiata a vita. Non poteva togliermi la mia unica ragione d'esistenza. Akita no. Lei no. Non se lo meritava, stupida elfa. La mia essenza si torse. Obbedirò. Farò tutto quello che vuoi, Lainay. Tutto. Mi ucciderò per compiere ciò che mi è stato ordinato. Vagherò, veglierò, digiunerò. Ma questo no. Tutto pur di ritrovare Chekaril. Rimasi immersa in quella tortura per un tempo incalcolabile. Poi, finalmente, Lainay parlò....Ma forse è meglio di no. Mi sentii quasi svanire dal sollievo, e tornai alle dimensioni normali. Ti ho già punito abbastanza facendo questa prova. Un altro errore, però... ascoltai spasmodicamente la voce che diventava più severa. Un altro errore e cancellerò la tua presenza da queste terre, immondo sputo. Comprese? La mia Regina beneamata. Fremetti per un attimo di rabbia. Perchè si comportava così con me, il suo cane più fedele? Non sapeva quanta fatica mi costava, indagare, penare, viaggiare, semi invalida com'ero? E tuttavia le obbedivo, m'inchinavo, mi umiliavo. Di nuovo mi sentii indignata. Non potevo io, verme di terra, esserle grata almeno una volta? Mi aveva risparmiata. Mi aveva perdonata. E non si aspettava da me che cieca obbedienza. Ed io l'avrei fatto. Perchè io ero un nulla, lei era tutto. Da lei dipendevano tutti. E chekaril aveva bisogno di me. Farò di tutto pur di ritrovarlo, mia Signora! Esclamai, affannata. La sua essenza guizzò, e si schiarì. Mi ucciderei per adempiere ad un vostro ordine. Avete ragione: sono stata negligente. Ma ora non lo sarò più. E' una promessa. Mi sembrò di udire un sospiro soddisfatto, e segretamente crudele. Sono soddisfatta, Ombra. Mi raccomando, porta con te il Comunicatore. Voglio rapporti regolari. Se noterò strane assenze, considerati già morta. Disse solo questo, in tono basso ed asciutto, prima di scomparire, senza salutarmi minimamente, sdegnosa.

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Angolino di Akita:

eccoci qui. Un altro personaggio presentato, un altro piuttosto cattivo. Povera Lsyn, senza pace O.o non ho nulla da dire.

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: ma ciao!xD piaciuto il capitolo? Azzeccato in pieno: io mi ci diverto, con i personaggi un po' cattivelli xD mentre scrivevo morivo dalle risate xD si, in realtà il mio obiettivo non era dotare la lettera di carica offensiva. Lo scopo è un altro. Ma, come hai giustamente detto tu, vedrai in seguito :P il personaggio di Akita non si risolve qui :P davvero? *______* sono curiosa da morire *Q* non vedo l'ora di leggere!!! Per il mio capitolo, invece, penso che si dovrà aspettare un paio di giorni (massimo tre o quattro), perchè c'è bisogno ancora di ulteriori chiarimenti :P Lsyn mica può restare all'infinito dove l'ho rimasta :P fammi sapere che pensi della regina, più cinica, stavolta xD e commenta *__* ciau!

Per gli ALTRI, una recensione sarà gradita. Lasciate la mancia alla reception.

Ciao!

Akita

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Capitolo 13
*** Botta e Ritorno. ***


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Ma salve!

Eccoci qui con il capitolo numero 13 xD lunghezza nella norma, un pochino sdolcinato u.u e questo non è decisamente nella mia norma u.u

Per il prossimo prevedo (u.u) una "sorpresa" (che certamente un certo Qualcuno già saprà <.<), ed aspettatevi un romanzo nel romanzo, perchè sto scalpitando per finirlo.

Se vi capita, o mi chusma desconocida, andate a leggere "Millennium War:Rebirth", di Carlos Olivera u.u

Non ve ne pentirete, parola di scout.

Ora vi lascio alle avventure pazzoidi di Lsyn O.o

See you Later!

Akita

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Dopo che Lainay svanì, rimasi sola nel Piano. Mi sentivo ferita per il suo comportamento. Dopotutto, ero io la sfregiata. Dopotutto, ero io la vagabonda e la poveraccia. Dopotutto, ero solo una Spia. Non potevo farci nulla: la mia Regina era fatta così. Probabilmente, riflettendoci a freddo, avrei capito le sue ragioni, come sempre. Lei era la mia Regina. La mia padrona. L'obbedienza nei suoi confronti mi sembrava quasi scontata: era un punto d'onore, per me, aver sempre esaudito ogni suo desiderio. Se avesse deciso la mia morte, l'avrei accettata. Non riuscivo a rimanere lì. Mi sentivo tremendamente sola in quel luogo, e i pensieri dei dormienti mi facevano venire i brividi. Nel Piano ero costretta ad affrontare me stessa, la mia anima, ciò che ero, senza fraintendimenti o menzogne. Ed io non ero una dei buoni. La solita consapevolezza non mi diede la soddisfazione che normalmente provavo. Al contrario. Non mi piacque per nulla, e decisi per un ritorno anticipato, anche se conoscevo a menadito il suo caro prezzo. Cominciai a concentrarmi, pensando intensamente non alla mia essenza di Ombra, ma a Lsyn, rigida come una scopa e con lo sguardo perso, in mano un cilindro bollente, alle spalle un vigile ed amorevole fratello. Ebbi la sensazione di svanire pian piano, e questo è orribile. Andarsene dal Piano senza addormentarsi provoca qualche effetto collaterale, il minore dei quali l'impressione di ridursi in polvere sotto i propri occhi, cosciente fino all'ultimo del proprio disgregamento. Non è doloroso, ma mi terrorizza. L'ha sempre fatto, anche solo l'idea. Fino ad allora, però, non ero mai stata così vigliacca da fuggire, e mi ero addormentata. Ora fuggo spesso. Non sono più capace di affrontare me stessa: sono troppo debole, troppo ferita, troppo pazza. Aspettai pazientemente la fine dello sgretolamento, cercando di distrarmi, e non pensarci, nonostante fremessi dall'orrore. Finalmente, vidi attorno a me la luce bianca che mi aveva accolto all'andata, quel latteo mondo di passaggio, e poi sentii, dopo una frazione di secondo, un rumore sordo, come di un'esplosione. Mi ritrovai scaraventata violentemente nel mio corpo, come da un calcio. Riacquistai in un lampo tutta la mia pesante corporeità, e tutti i sensi. Mi resi conto, gradualmente, di cos'ero, chi ero e dove ero. Dopo un attimo di sbandamento e fiato mozzo, tirai un respiro difficoltoso. L'aria aveva una consistenza nauseabonda. Mi sentivo come fatta di macigni. Tutto mi rispondeva male, non con la fluidità tipica delle figure nel Piano Astrale. Di solito il ritorno era molto meno traumatico: si aveva come l'impressione di risvegliarsi da un lungo sonno. Ora no. Ero finita a gambe all'aria: avevo fatto un tremendo salto all'indietro, rovesciando la sedia e finendo a terra. Tijorn bestemmiava e lo vidi con una mano appoggiata al tavolo, sostenendosi mentre con l'altra si teneva un piede che, come dedussi, avevo schiacciato repentinamente. Era quasi l'alba. Avevo un fischio persistente nelle orecchie. Il Comunicatore fumava tra le mie mani. Lo lasciai andare di scatto, ed esso cadde a terra, apparentemente innocuo, con un tintinnio malefico. Per ultimo, arrivò il dolore, straziante. Gemetti. Ogni muscolo era indolenzito, ed avevo qualche crampo. Ero sicura che mi sarebbero usciti molti lividi sulla schiena. La guancia dello schiaffo pulsava. Inoltre, mi ero bruciata le mani. Questi ultimi dolori, però, erano i meno persistenti. Sembrava una sensazione quasi onirica, come se stessi sognando. Le mani, infatti, erano solo un po' arrossate, e la guancia leggermente gonfia. Mi sentivo mortalmente stanca, come se avessi corso un'intera giornata, e sapevo di non riuscirmi ad alzare. Dopo il primo, violento momento del mio ritorno, Tijorn zoppicò verso di me, ansioso. "Lsyn!". Esclamò, pieno d'angoscia. S'inginocchiò accanto a me. "dannazione! Che hai combinato?". Non risposi. Mi sentivo sfinita. Mi si chiudevano gli occhi. Obbedii quasi meccanicamente a quell'impulso.Volevo dormire, concedermi un lungo sonno ristoratore, non pensare più a nulla. Mio fratello non era però dello stesso parere. Mi allontanò dalla sedia, e mi fece stendere a terra. Prese a scuotermi, chiamandomi con voce affannata. Temeva chiaramente qualche complicazione: che fossi impazzita, o che mi fossi persa, e che il mio corpo non fosse altro che un involucro vuoto. Finalmente, trovai l'energia necessaria per farfugliare qualcosa d'indistinto. Tijorn non sembrò sollevato. "dannazione! Dimmi qualcosa di sensato!". Mi urlò quasi in faccia, trattenendosi solo per il fatto che in casa non c'eravamo solo noi. Avevo la testa completamente annebbiata. Non pensavo a Chekaril, alla sgarbata sorella o alla mia missione. Il mio corpo era un solo, pesante, blocco. Affondavo in una piacevole lanugine dorata. Sonno benedetto. Mi dava fastidio tutto quell'agitarsi, quello scuotersi... per nulla. Io stavo bene. Ero solo stanca, tanto stanca. Avrei voluto dormire per sempre. Dovevo però qualcosa a mio fratello. Sapevo che stava morendo di preoccupazione, e solo dal tono capii che a breve sarebbe scoppiato in una crisi isterica. Mi irritò, quel comportamento infantile. Chi era l'elfa, dei due? Aprii di nuovo gli occhi, ma vedevo tutto sfocato. Anche quel semplicissimo gesto mi sembrò immane come sollevare una montagna. "perdente". Mi decisi finalmente a mormorare. Incominciò a girarmi la testa. Tijorn smise di scuotermi, per fortuna, e lo sentii chinarsi verso me. "come, prego?". Mi domandò, ora con voce molto perplessa, e più calma. "sei...sei un perdente. Un maledetto...dannato...schifoso...fo...fo...". Cominciai a perdere contatto con la realtà. Il pavimento era freddo. E quella lanugine dorata mi aspettava, era così invitante...mi ci sarei crogiolata per una vita intera. Sentii qualcuno ridere, in lontananza, una risata di sollievo. Poi, mio fratello mi sollevò da terra, e mi tenne in braccio come un'infante. Non fu difficile, dato la mia piccola costituzione. Richiusi gli occhi, accoccolandomi meglio, godendo del tepore, schioccando la lingua. Se non fosse stato per il beccheggio, quello sarebbe stato eletto a mezzo di trasporto preferito. "sei piena di lividi". Mi mormorò Tijorn nell'orecchio. "mi toccherà guarirne qualcuno, e non so nemmeno come fare! Hai le mani tutte rosse...una si sta pure spellando! Ma non sai tenerti fuori dai guai, eh? Hai fatto un salto prodigioso. Davvero. Prodigioso". Risi debolmente. Sentii aprirsi una porta, e dopo poco, Tijorn mi posò in un posto molto morbido, coprendomi con delle coperte. Mi accucciai, borbottando qualcosa, soddisfatta, abbracciando il cuscino. Finalmente. Letto. Che morbido e caldo paradiso. Un tintinnio. "non potevi mettere in un posto migliore quella tua zuppa, Lsyn!". Mi sgridò Tijorn, sarcastico. Ma la sua voce si stava già allontanando. Sprofondai in quelle simpatiche nuvolette dorate, che mi accolsero benevolmente. "numitiencoshiderasioneLain...". Feci in tempo di balbettare, prima che tutto diventasse calore e buio. Mi ci abbandonai con piacere. Fu un sonno senza sogni, pesante, intriso di luce. Non dormivo così da anni.

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Buon pomeriggio a tutti voi!

Puntuale come sempre, ecco qui. Letto? Piaciuto? Ne sono contenta. Sono molto annoiata, quindi vi lascio stare e non vi tedierò con discorsi insulsi.

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: ma tu sei un genio *___* sei un genio *.* quel capitolo è me-ra-vi-glio-so *.* l'ho letto due o tre volte, e lo andrò a rileggere a breve xD vabbè, ho detto già abbastanza nel mio commento ^.^ ohh...ma con la regina mica è finita qui u.u questo è nulla u.u si: è il personaggio più antipatico che abbia mai concepito la mia testolina marcia O.o siii *____* quello che hai detto è giustissimo: a morte Lainay u.u per Lsyn nel mondo dei mortali, dovrai ancora pazientare un po' xD il prossimo capitolo, però, sarà quello famoso che si sta progettando xD a proposito, penso di doverti fare delle domande O.o vabbè, poi vediamo O.o fammi sapere che pensi di questo capitolo! Ciau!

In quanto agli altri, mi pare quasi ovvio intuire cosa mi aspetto da voi.

Ciao!

Akita

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Capitolo 14
*** L'avventatezza. ***


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Ehm. Ehm.

Eccomi qui con il tanto sospirato capitolo numero 14, dopo giorni di lavoro. Non è granchè (considerando che l'ho finito ieri, in preda ad una fortissima emicrania), ed è lunghissimo (10 pagine, signori e signore, ben 10!!!).

Avvertenza: il personaggio di Regis e l'avvenimento del torneo cui fa riferimento questo capitolo non sono di mia invenzione, come la battuta di Tijorn sull'avventatezza, riportata però in modo non pedissequo. Appartengono a Carlos Olivera ed alla sua spinoff fantasy Millennium War: Rebirth, che vi consiglio di leggere. Grazie per il piccolo prestito *___*

con questa piccolissima precisazione, vi lascio alla lettura del capitolo.

See you later!

Akita

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Quando mi svegliai, ci volle un po' per recuperare il senno. Rimasi chissà quanto ad occhi chiusi, godendomi il benefico calore delle coperte, ancora pacificamente appallottolata su un lato, con i pugni chiusi vicino al mio viso, come mi addormentavo sempre. Mi sentivo incredibilmente riposata, e molto serena. Il dolore persisteva ancora, ma non era così forte come prima. Sorrisi. Tijorn doveva avermi medicata. La guancia però era bella gonfia, e le mani ancora rosse. Decisi finalmente che ero del tutto sveglia, e mi stiracchiai, sbadigliando, come un gatto pigro. Le articolazioni crocchiarono, ed io gemetti leggermente, allungandomi quanto più potevo, soddisfatta. Che pace. Non si sentiva nemmeno un fruscio. Aprii gli occhi. Ero nella mia camera, con le tende chiuse, che lasciavano filtrare pochissima luce. Tuttavia, mi accorsi che qualcosa non andava. Da quel poco che vedevo, la luminosità era aranciata, come quella del crepuscolo. Sgranai gli occhi, stupefatta, e sentii montare in me un senso d'incredulità spaventata: un serpentello gelido che strisciava verso il mio cuore. Quanto avevo dormito? Scossi il capo. Non era ancora l'alba quando ero tornata dal Piano. E non mi era mai capitata una cosa del genere. Sobbalzai quando la porta scricchiolò e si aprì piano. Rimasi a fissare la figura silenziosa di Tijorn, che entrava dallo spiraglio che aveva aperto, in punta di piedi, con qualcosa in mano dalla forma piatta. Sorrisi di nuovo, girandomi verso di lui, osservando i suoi movimenti cauti mentre si richiudeva la porta alle spalle e si girava verso di me. "puoi fare a meno di tutta questa prudenza, fratello caro". Gli dissi, con una nota di divertimento nella voce. Ridacchiai stupidamente quando lo vidi sobbalzare, e far quasi cadere ciò che portava. Lui si avvicinò, ora con più velocità. Riuscii a vedere il suo volto sollevato, e sorridente. "Lsyn?". Domandò, avvicinandosi a me e mettendomi una mano sulla fronte, sorridendomi ancora di più. "sei sveglia? Lucida?". Aggrottai le sopracciglia, molto perplessa. "si può sapere che vai dicendo?". Domandai, divincolandomi, mentre il tono di voce diventava scorbutico, e più aspro. Tijorn rise, felice, e, posando l'oggetto accanto a me, andò in cerca di una sedia. "sveglia e lucidissima, presumo. Senn&ònon mi avresti mandato al diavolo in quel modo così gentile". Ridacchiò di nuovo, aprendo le umili tende con un largo gesto. La camera fu inondata dalla gloriosa luce del tardo pomeriggio. Il gelo cominciava ad attanagliarmi il cuore. Qualcosa, però, mi distrasse. Un profumo, per l'esattezza, che proveniva dal misterioso oggetto accanto a me. Abbassai lo sguardo, curiosa. Ed esultai. Quel coso era un piatto. Un piatto pieno, per dovere di cronaca. Pieno di qualcosa che non mi sarei mai aspettata in quella stagione. Sentii un sorriso stupido affiorare sulle labbra, e sedetti di scatto, impadronendomi del piatto e posandolo sulle gambe. "funghi!". Esclamai, guardando mio fratello, che intanto si era seduto accanto a me, con una smorfia furba stampata sul viso. Il mio piatto preferito. Che tesoro. "pasticcio di funghi! Tijorn! Come hai fatto?". Lui arricciò il naso, e scosse il capo. "io ho amici generosi, Lsyn". Affermò, altero, alzando il mento, un atteggiamento che conoscevo benissimo. "amici maghi, e molto golosi". Gli feci la linguaccia, proprio come quando eravamo piccoli. "chiudi il becco, fratello dei miei stivali". Dissi, prima di attaccare il cibo, voracemente. Avevo una fame terribile, cosa leggermente insolita per me. Non alzai il naso dal piatto finchè non ebbi finito tutto. Poi mi appoggiai al cuscino, e fissai Tijorn, che mi guardava con uno strano cipiglio. "non ti vedo così felice da tanti, tantissimi, anni". Disse infine, in risposta alla mia domanda muta. Restammo per un po' in silenzio. ";quanto ho dormito?". Domandai alla fine, inquieta, incontrando i suoi occhi apprensivi. "cosa è successo?". L'espressione di mio fratello si fece improvvisamente grave. "hai combinato un disastro, Lsyn". Mi disse, severo, stringendo le labbra. "tornare indietro in modo anormale è stata una pessima idea. Sei rimasta priva di conoscenza per quasi due giorni". Mi sentii sprofondare. Avevo dormito per un sacco di tempo. Un lasso di tempo anormale per gli umani, figuriamoci per gli elfi. "hai avuto un po' di febbre, ma nulla di grave, solo una piccola reazione al tuo fisico malconcio". Mi guardò, tra il truce ed il divertito. "temevo qualche ritorno di fiamma, che so, qualcosa.Se non ti fossi ripresa entro stasera, avrei chiamato un Guaritore". Si rabbuiò ulteriormente. "il problema è che il primo degno di questo nome...non è esattamente ad una distanza decente". Soffiò, facendomi scappare una risatina. Lui mi guardò, stringendo le palpebre,cupo. Abbassai gli occhi, ed arrossii. Oh oh.Ecco in arrivo una sfuriata. "tu!". Esclamò, in tono di voce più alto, ed arrabbiato. "ma nessuna, e ripeto, nessuna delle tue avventure ti ha insegnato qualcosa? Cioè, io dico, non impari mai, Lsyn? Scappare via dal Piano! In quel modo! Che ti diceva sempre Amarto? Che il Piano è pericoloso per i viaggiatori, o no? Dove hai la testa? Cioè...guardati!". Mi prese la mano sfregiata, con forza, ed io lo lasciai fare, timorosa. Tijorn era terribile quando si infuriava. Pallido, me la mise davanti in modo che fossi costretta a vederla, tutta storta, e martoriata. Mi morsi le labbra, e per poco non scoppiai in lacrime. Lui continuò, imperterrito. "non ti bastava questo insegnamento? Eppure tutti te lo hanno sempre detto!". Ringhiò, lasciandomi andare ed alzandosi, prendendo a camminare avanti ed indietro per la camera. "perfino gli sconosciuti te lo dicevano, ricordi, Lsyn?". Mi domandò, puntandomi l'indice della mano sinistra contro, richiamandomi alla memoria vecchie reminiscenze,risalenti a quando ancora il mio unico tormento era Chekaril, ed il suo misterioso allontanamento. "è l'avventatezza la peggiore compagna di ogni persona, specialmente per le Spie!". Mi ululò contro, furioso. "l'avventatezza!". Quella parola mi colpì con la forza di un macigno, e m'irrigidii. Davvero, non riuscii più ad ascoltare quello che Tijorn diceva. Cominciai a perdermi nei ricordi, mentre lui ancora borbottava.

Era stato in un duello che avevo per la prima volta sentito questa parola rivolta alla mia persona. Un torneo. Fu due mesi prima del mio terribile incidente. Per me era un periodo nero: nonostante fossi più temuta che mai, cominciavo a farmi delle domande. Avevo da poco dato via mia figlia, la mia adorata infante, e Chekaril era più bastardo e violento che mai. Cominciava a tradirmi regolarmente, e trattarmi quasi come un oggetto, un soprammobile, da usare quando se ne ha bisogno. Addirittura una volta, preso da un attacco d'ira, mi aveva schiaffeggiata. Gliel'avevo fatta pagare amaramente, pungendolo di nascosto con un ago intinto in un'erba che lo rese debole come un pesce senza spine per giorni, ma non avevo dimenticato. Io ne soffrivo tremendamente, perdonandolo e tornando ad amarlo ogni volta, ed i miei comportamenti ne risentivano, facendo subire conseguenze anche alle mie missioni, che cominciavo a non eseguire più in modo perfetto come prima. Amarto mi aveva parlato del torneo, ed io avevo accettato d'iscrivermi, per una volta senza atroci litigate. Devo averlo stupito moltissimo. Ma quella era una possibilità egregia per me. Non m'importava nulla del premio, della gloria, della fama. All'epoca ero ancora famosa, come l'Ombra che uccide e rapisce, che prende ciò che vuole, nascosta ed implacabile, inafferrabile e crudele, e questo mi galvanizzava. Non avevo bisogno di soldi, nè del premio, una spada magica di cui non avevo minimamente bisogno. No. Quello che volevo dimostrare era un'altra cosa: il mio valore. Cominciavo ad essere incerta su quest'ultimo punto, e mi chiedevo ripetutamente se nella mia vita fossi stata forte, e quanto, o se mi fossi fatta trascinare dagli eventi, come un'alga dal mare, senza scopi e senza desideri se non quelli inculcatigli a forza. Chekaril mi aveva svuotata da ogni energia. Volevo solo scappare, scappare da lui, da tutte le incombenze del Regno, che allora si chiamava ancora di Normar, scappare dalla mia essenza. Volevo essere un'altra, ed ergermi sopra la pila delle persone da me sconfitte, vittoriosa ancora una volta. Era anche un affare di superbia, è vero. Non ho mai accettato la sconfitta, nè morale, nè fisica. Salvo quella volta. Infatti, non riuscii ad arrivare che al primo girone delle eliminatorie. Ma imparai molto. Fu un periodo meraviglioso. Durante i primi scontri, mi ero resa conto che non ero cambiata io, ma la percezione che avevo di me. E che stavo riacquistando la fiducia in me stessa. Lontano da Chekaril, e dai suoi abbracci feroci, mi sentivo libera. Mi divertii molto, e confermai al mondo la reputazione da crudele guerriera che avevano di me. Mi divertii a martoriare un nano, giocando con lui fino ad averlo sfinito, con vari trucchetti un po' sleali, tra illusioni e sparizioni varie, e dopo cominciare a fare sul serio, quasi uccidendolo. Per tutti lo risparmiai, ma finii l'opera più tardi, in una locanda lontana dallo stadio, solo per divertimento. Ma questo nessuno lo sa. Ne uccisi anche un altro, un umano mio sfidante, perchè, durante il breve scontro, mi aveva osato insultare in un modo strano, che suonava vagamente come cagna malcresciuta. Strano soprannome. Ma capii che stava dileggiando la mia statura, ed insinuando qualcosa sulla mia fedeltà. Chissà se il suo cadavere è ancora appeso a quell'albero. All'epoca ero innegabilmente una belva assetata di sangue e sofferenze, e ne gioivo. Mi dava un divertimento crudele, quasi sadico, vedere il terrore che si dipingeva nello sguardo delle persone che mi avevano visto all'opera, vedere l'odio misto ad attrazione che suscitavo al mio passaggio. Ero ancora bella, e forte. Furono i miei ultimi sonni tranquilli. Arrivai, finalmente, alle eliminatorie. Dopo qualche incontro non poco edificante, e ancor meno piacevole, con un vecchio nemico, incontrai il mio avversario. Era un umano, un ragazzino, secondo il mio metro di giudizio. Doveva avere forse venti, forse trenta anni. Non sono mai stata brava ad indovinare le età umane. Si doveva esser tagliato i capelli da poco, ed erano disordinati, e nerissimi, più scuri dei miei, che hanno sfumature castane. Non era esattamente quello che si definisce un omone, anche se era più alto di me...ma questo non importava, perchè l'unico che ero riuscita a guardare negli occhi senza torcermi il collo era stato il nano, alto poco meno di me. Davvero umiliante: penso si sia ormai capito che la statura è per me una fonte di disagio continuo. Aveva un portamento altero e guardingo, e la folla lo inneggiava. Regis. Il giovane eroe di quel regno. Avevo sentito qualche storiella su di lui, e trovavo molto interessante quella sfida. Un avversario ideale. Sorrisi al pensiero della vittoria. Potevo mettermi alla prova in modo egregio. Combattemmo a lungo, e lui mi mise davvero in difficoltà, dando fondo a tutti gli stratagemmi che conoscevo, alcuni di quelli estremamente sleali. Stupido ragazzino. E tutti lo adoravano. Che invidia. Proprio quando sembravo ormai aver stravinto, e la gioia del combattimento, durante il quale avevo capito molte cose, era al suo culmine, commisi un piccolo errore. Mi permisi di essere magnanima, con una mossa stolta di cui ancora mi vergogno. Inutile dire cosa successe dopo. Mi sconfisse senza alcuna difficoltà. Rivalutai quel giovane dagli occhi di ghiaccio, così distante, ma così gentile. E lui, proprio lui, mi consigliò maggior prudenza. Mi diede una lezione suprema su onore, giustizia e attenzione. Lezione che, nonostante la strana allegria con la quale mi avviai, sconfitta, non recepii. Solo ora comprendo alla perfezione le sue parole, e solo ora sono matura per ricevere quel prezioso insegnamento. Dopo il combattimento, tornata, molto malconcia, nella locanda dove alloggiavo, e dove mi aveva raggiunta Tijorn, mi ero sorbita una predica infinita sui nostri comportamenti da Spie, che avevo in pugno la vittoria, e che l'avventatezza può uccidere, che non si parlava del torneo ma se avessi continuato così non l'avrei passata liscia un'altra volta perchè il mio avversario poteva non essere fittizio. Il Guaritore che mi stava medicando in quel momento, inoltre, non faceva che appoggiare mio fratello, dandogli continuamente ragione. Quei due si trovavano molto d'accordo, e presero a fare amicizia. Era snervante starli a sentire. Fortuna che con me avevo sempre erbe ed intrugli. Versai nel loro tè pomeridiano una cospicua dose di un liquido inodore ed insapore, a forte effetto lassativo. Inutile dire il seguito. Ma mi divertii molto, oh, se mi divertii. Insomma: nonostante avessi promesso di guardarmi un po' di più alle spalle, non seguii il consiglio. Sono sempre stata troppo orgogliosa per farlo. Un bambino, un ragazzino mortale, per quanto famoso e valoroso, non poteva, nè doveva, azzardarsi a dirmi nulla, a me, la Spia vecchia di secoli. E questo, anche questo, mi portò alla rovina. Presi ad odiare Regis, che nulla aveva fatto, se non ammonirmi giustamente. Ma lo odiavo, perchè mi aveva fatto notare una delle mie debolezze. La mia debolezza fatale. Il destino, imprevedibile e beffardo, doveva però farci incontrare un'altra volta, in un contesto del tutto diverso.

Ero stata sbendata da una o due settimane, non so, ed ero al Lazzaretto, con Tijorn e tanti fantasmi al mio fianco. Era il periodo più critico della convalescenza, quando ancora dovevo, se non conciliarmi, almeno abituarmi al mio nuovo, orrendo aspetto. Il mio fisico si era quasi ripreso, ma la mia mente era totalmente sconvolta. Ero più orrida di ora: alcune porzioni di pelle, specialmente sul viso, non erano del tutto ricresciute, la parte ferita era tutta gonfia, ed i capelli non erano che sparuti, corti, ciuffi. Dovevo aver già rotto un paio di specchi, in preda a crisi isteriche improvvise, e non facevo altro che rimanere seduta sul mio letto, raggomitolata in modo che la faccia non si vedesse, spesso singhiozzando senza requie, mordendomi le nocche della mano sana per non urlare. Avevo perduto tutto. Tijorn mi era vicino, ma non poteva fare nulla per me, nemmeno toccarmi una spalla in segno di conforto, perchè sapeva che sarei esplosa. Nonostante ciò, era sempre accanto a me, parlandomi piano, con quieta disperazione, muovendosi solo raramente per parlare con i Guaritori, che cominciavano ad avere paura di me, ed a temere fossi totalmente impazzita. Qualche volta cercava di farmi mangiare qualcosa, ma avevo completamente perso l'appetito, e dovevano costringermi, per non farmi morire di fame. Non m'importava. Io avevo fallito. Avevo fallito. Avevo fallito. Non ci sarebbe mai più stata l'Ombra. L'Ombra era morta, morta per la sua superbia, per il suo amore verso un ingrato, per la sua scarsa pazienza. Quando mi capitò d'incontrare Regis, era un giorno come un altro. Una bella mattina di sole, che prometteva tante cose belle per i vivi. Io non accettavo più la luce, che mi svelava, e vivevo a tende tirate, come in una cripta. Ero immersa nella penombra, che mi celava, me agli altri quanto gli altri a me. Ero sola. Mio fratello era uscito per un po', ed io ero a letto, come facevo per la maggior parte del tempo, fissando il vuoto, con la testa tra le braccia. Sentii dei passi, e mi raggomitolai, aspettando che mio fratello entrasse. Lo sentii fermarsi di botto, invece, e delle parole, che mi giunsero chiare, grazie al mio udito. "strano posto per incontrarsi, Tijorn. Eppure ti vedo bene, a parte la stanchezza". Sobbalzai, come sono sicura fece lui, e alzai la testa. Regis? Che ci faceva lì? Come un';eco, mio fratello rispose. "Regis?". Chiese, mentre la sua voce stanca e rotta si venava di stupore. "perchè sei qui? Qui, al Lazzaretto? Siamo a Normar, Regis&...hai un'autorizzazione per sostare?". Strinsi gli occhi, e digrignai i denti. Quel maledetto mi perseguitava anche qui! Che avevo fatto di male? Ritornai ad ascoltare la riposta tranquilla dell'umano. "quante domande, Tijorn...". Rispose, in tono leggero. "sono in viaggio, e questo Lazzaretto è l'ultimo decente. Stavo solo...controllando certe cose. E mi pare normale avere l'autorizzazione". Il tono di voce divenne da gioviale, a severo. "con la regina che vi ritrovate...piuttosto, Tijorn. Perchè sei qui?". Attimo di silenzio. Potevo immaginare l'espressione carica di dolore di mio fratello, e ringhiai sommessamente. Se l'avesse fatto soffrire ancora, l'avrei cacciato io. Il mio aspetto bastava ad intimorire chiunque. Allora non sapevo che ero io la causa della sua incredibile sofferenza. Dopo un po', Tijorn si decise a parlare. "Lsyn è stata...molto male". Disse, esitante. Ci fu un'esclamazione di stupore da parte del mortale. "Lsyn!". Disse, e quasi si poteva sentire il sorriso nella sua voce. "l'Ombra. Dovevo intuire fosse nelle vicinanze: voi due siete inseparabili. E dimmi...cosa ha avuto? Ora sta meglio?". Solo io sapevo quanto quelle parole cortesi stessero ferendo mio fratello. Dopo un altro, lungo silenzio, si decise a parlare. "è stata ferita gravemente da una trappola illusoria". Disse, piano, con la sofferenza nella bella voce. "un ritorno di fiamma...io...io...Regis...io non la riconosco più". Si decise finalmente a confessare, con un tono che sapeva di pianto nascosto. "è rimasta due settimane priva di conoscenza e...beh". S'interruppe, un lunghissimo silenzio. "è lì dentro". Mi si torsero le budella, e mi sentii piena d'odio. Sicuro come la notte, quell'impiccione sarebbe venuto da me. E infatti, così fu. La porta si aprì con uno scatto, piano, quasi a non volermi spaventare. Io ero così annebbiata dalla rabbia che li guardai dritto negli occhi, una tremenda smorfia sul mio viso. Tijorn distolse lo sguardo, e si affrettò a chiudere la porta. Regis, invece, lo sostenne, apparentemente distante e pacato. Non era cambiato per nulla. Si avvicinò, con cautela, poi allungò una mano. Mi limitai a ringhiare ed a ritirarmi, come una bestia selvatica. Lui m'ignorò a bella posta, e, dopo un paio di tentativi, riuscì a sfiorarmi la guancia offesa. Una strana espressione, frammista di severità e pietà, si fece largo sul suo volto giovanile. "come è potuto succedere, Ombra?". Mi chiese, sedendosi accanto a me, senza distogliere gli occhi dal mio viso. Fui io che li chiusi, riappallottolandomi, trattenendo a stento le lacrime. "l'Ombra è morta per la sua cecità alla luce". Dissi, sobbalzando per aver udito per la prima volta il mio nuovo tono di voce. Anche Regis e Tijorn sembravano colpiti, anche se il primo sembrava aver capito cosa intendevo dire. "Tijorn...". Domandò il primo, spezzando il silenzio, un po' più teso. "non è stata colpita solo la pelle... è stata un'esposizione diretta alla fiamma, vero?". Mio fratello fece un segno di assenso. Il volto dell'umano si fece di ghiaccio. "riesci a tenere una spada in mano, Lsyn?". Mi domandò poi, gentilmente. Alzai il viso, e lo guardai, stupefatta. "le mani sono a posto". Dissi, semplicemente. "ma che vuoi da me?". Lui si erse in tutta la sua altezza, rigido come una statua. "mostrami che sei la stessa, elfa avventata". Mi disse, con voce sferzante. "o meglio, mostra a te stessa che il viso non pregiudica quello che sei". Io e Tijorn ci guardammo, mentre lui mi tendeva una mano. "alzati, e vieni con me". Mi ordinò, fissandomi dritta negli occhi. Ricambiai lo sguardo, sentendo, ahimè, di credergli e di fidarmi di lui con tutta me stessa. Gli afferrai la mano, e lui mi tirò su, sostendendomi quando mi girò la testa. Lui mi fece di nuovo la stessa domanda, ed io sbuffai, seccata. Ero impaziente. Tutti e tre ci dirigemmo verso il cortile del Lazzaretto. Avevo il viso affondato nel mantello di Regis, aggrappata letteralmente a lui per sfuggire agli sguardi pieni di orrore che mi rivolgeva la gente che incrociavamo. Finalmente, l'uomo si fermò, ed io alzai lo sguardo. Eravamo in un piccolo spiazzo di acciottolato. Tijorn era già; lì, con la mia spada in mano. Mi avvicinai a lui, zoppicando. Alla luce del sole, aveva delle occhiaie davvero terribili. Gli rivolsi un sorriso di rassicurazione quando mi scoccò un'occhiata preoccupata. Sentire il peso familiare della spada mi incoraggiò. Mi voltai, e vidi il mio vecchio avversario già pronto. Andai con la memoria al duello di tanto tempo prima. Ma ora erano cambiate tante cose. Ed io per prima non ero l'Ombra.Regis però sembrava non essersene accorto, e mi scrutava, beffardo. "pronta per una nuova sconfitta, Ombra?". Mi disse, scrutandomi attentamente, forse in cerca di qualche cedimento. Sorrisi, per la prima volta dopo quelli che mi parevano secoli. Era una situazione pressochè assurda: un duello in un Lazzaretto, tra un mortale vestito di abiti da viaggio ed un'elfa convalescente, vestita solo della sua camicia da notte sgualcita e macchiata. "io non ne sarei così intimamente convinta, Regis...". Dissi, prima di slanciarmi contro di lui. Ancor prima che le nostre lame cozzassero, mi sentii percorrere da una terribile fitta di dolore in tutto il corpo. Annaspai, e, lasciando cadere la spada, caddi in ginocchio. Repressi un gemito, e mi sentii, all'improvviso, peggio che mai. Sentii rumori vari, come di zuffa. "no". Disse il mio avversario, probabilmente rivolto a Tijorn. "deve imparare". Una lacrima m'inumidì le guance. Poi un'altra. Scoppiai in lacrime, disperatamente. "sono una fallita". Singhiozzai, cominciando a dondolare, portandomi i pugni vicino la bocca. "sono...sono un relitto". Sentii qualcuno incombere su di me. "è questo il prezzo che si paga per i propri errori, Ombra". Mi disse la voce di Regis, severissima. "e tu sei stata avventata. Lo sei sempre stata. Quale parte della tua vita non ti è stata chiara?". Non risposi, e lui riprese la parola. "anche tu hai un corpo, Lsyn". Proseguì, in tono più morbido. "un corpo che ci tradisce, un corpo debole. Il tuo problema è che lo ignori, e vai avanti facendo tutto di testa tua. Mi aspettavo rifiutassi di batterti, debole come sei. Non conosci i tuoi limiti, e questo mi stupisce. E' qualcosa di così difficile?" . Aveva ragione. No. Non potevo ammetterlo, nella mia sofferenza e nel mio egoismo. Era stato lui, lui mi aveva dato i consigli che mi avevano portato in quello stato. Anche se non era che una pietosa bugia, ci credetti con tutta me stessa. "no! Stai zitto! Stai zitto! Non me lo ricordare!". Presi ad urlare disperatamente, piangendo di dolore e di umiliazione, coprendomi le orecchie con le mani, e dondolando più forte. Scalpiccii vari, intorno a me il brusio si faceva sempre più forte. "statele lontani!". Intimò l'umano ai probabili Guaritori, pieno di carisma. "con lei ce la vediamo noi. Tijorn, aiutami a portarla dentro". Sbaglio, o avevo sentito un vago tono di quieto tormento nella voce di quell'essere impossibile? Cominciai ad urlare ed a divincolarmi come una pazza quando mi sentii prendere per le ascelle. Fu dura tenermi ferma. Mi riuscii a liberare solo nella mia stanza, e mi precipitai nel letto, coprendomi tutta con la coperta, tremando. Entrambi si sedettero vicino a me. "io non posso fare nulla per lei". Annunciò Regis, con una voce carica ora di dolore. "ero venuto qui perchè mi hanno raccontato quello che è successo. Ero rimasto stupito dallo spiazzo bruciato nei pressi della casa di una famiglia di boscaioli, ed ho fatto delle domande. L'ho riconosciuta dalla descrizione che mi hanno dato, e mi sono precipitato qui. Ho pregato con tutto il cuore che non le fosse successo nulla di così grave, e che fosse ancora viva. Mi dispiace molto, Tijorn. Una guerriera della sua levatura non merita una fine così ingloriosa della sua carriera. Ho provato a farla ragionare, ma ho fallito. Anche in questo". "non devi dire così!". Lo rimproverò Tijorn, asciutto. "tu sei...sei...sei il migliore, Regis. Chiunque tu sia, da qualunque posto tu provenga, tu rimarrai il migliore. I più grandi eroi di tutti i tempi impallidiscono a confronto della tua mente profonda". Ci fu un attimo di silenzio. Mi accorsi che cominciavo ad esser intorpidita. Ero debole, e mi stavo riaddormentando. Mi sentii intimamente felice di riuscire a fuggire in qualche modo da quell'orribile situazione. "e poi...dai il tempo a Lsyn di rimuginarci su...vedrai che si stabilizzerà". Un sospiro. "lei è perduta, Tijorn. Non illuderti. Non so cosa...chi...ci sia, al suo posto. Ma quella pazza non è la guerriera che io conosco. Stalle vicino...e spera". Disse, in tono grave. Poi, le ultime parole che sentii da lui, furono venate da una strana malinconia. "è per questo che sono in viaggio, amico mio. Ho bisogno di vedere se le mie convinzioni sono ancora giuste, e quanto". Ridacchiò;. "in fondo...Lsyn mi ha insegnato qualcosa". Sprofondai nel buio dell'incoscienza. Quando mi svegliai, se n'era andato, e mio fratello dormiva. Non l'ho mai più rivisto. I tempi ed i luoghi sono cambiati: il mio regno non è più di Normar, ha annesso tutte le nazioni elfiche, ed il suo è cambiato irrimediabilmente. Gli umani hanno preso ad odiarci per il nostro immenso potere, nonostante prima ci chiamassero cugini. Io gli dedico sempre un pensiero, a quel mortale così insolito, così intelligente, così severo ma così pietoso da cercare di aiutare un'elfa pericolosa e superba. A distanza di tanto tempo, penso sia morto, di vecchiaia forse, o in qualche modo valoroso, facendosi distinguere in battaglia per il suo grande onore. Gli ho sempre però augurato ogni bene. Se lo merita.

Quando tornai al presente, mio fratello stava ancora sbraitando. "...assolutamente incontrollata, stupida bestia, e del tutto irresponsabile!". Ci fu un attimo di silenzio. Forse accortosi del mio sorriso ebete, Tijorn mi si avvicinò. Sobbalzai quando me lo trovai a pochi centimetri dal mio viso. "Lsyn?". Mi domandò, ora interrogativo. "mi stai ascoltando?". Strizzai gli occhi, ed annuii. Certamente che lo ascoltavo. Certamente. Lui tirò un sospiro, e mi si sedette accanto, sul letto. Doveva essersi sfogato. Finalmente. "ho avuto paura, sorellina mia". Mi disse, per poi abbracciarmi con foga. Io risposi con altrettanto trasporto. Mio fratello era l'unica persona sulla quale potessi mai contare, dotato di speranza, ed affetto, di amore e comprensione. Però, tra me e me, sorrisi. Lasciarsi trasportare dai ricordi non era così male. Dovevo farlo molto più spesso. Soprattutto quando mi si urlavano contro aggettivi sconnessi da parte di un fratello imbestialito, permaloso ed asfissiante come una mamma chioccia. Ci allontanammo dopo un po', e lui si alzò, tendendomi una mano ed aiutando a rimettermi in piedi. "ed ora, Lsyn mia cara". Disse, facendo uno strano gesto circolare con un braccio teso, con impressa sul viso un'espressione furba. "diamo inizio alle danze!". Lo fissai, attonita. Che stava dicendo?

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Angolino di Akita:

eh-eh-eh. Come noterete, ci ho preso gusto nello staccare i capitoli in un punto cruciale ù____ù cosa vorrà mai dire Tijorn? Appuntamento alla prossima puntata ù___ù inoltre vorrei avvisarvi che proseguirò i miei aggiornamenti in modo un po' più lento, perchè ho bisogno di elaborare la storia e non è un buon momento. Assicuro però la presenza circa ogni tre giorni, il tempo di scrivere.

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: eh?? *___* che dici? Come ti sembra questo capitolo? Ho riportato il tuo personaggio senza troppe sbavature? Ti è piaciuto? Come vedi, sono in frenesia da scrittura, un po' come fanno gli squali appena sentono l'odore di sangue ù__ù solo che la loro è da pasto, ma lasciamo stare ù__ù accidenti, questo è davvero il capitolo più lungo O____o 10 pagine! Bisognerebbe farlo piùspesso, questo interscambio di protagonisti ù___ù; passando alla storia... eh...Lsyn non ne passa mai una buona, lo so O.o soprattutto, non la passa liscia xD su, forza *___* che ne pensi di questo capitolo? Aspetto ansiosa il tuo puntuale, e prezioso, commento. Ciau!

Per gli altri, mi scoccio a scrivere le stesse cose.

Ciao!

Akita/span>

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Capitolo 15
*** Si comincia! ***


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Salve!

Oggi, come vedrete, si torna nella norma. Niente più sproloqui, per ora. Tocco di nuovo di quella sdolcinatezza che non so se odiare o amare O___o

Bah, io vi lascio alla storia perchè la mia voglia di fare la scema è pari allo zero assoluto.

See you later!

Akita

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Ci volle qualche minuto per uscire dalla mia camera. Nonostante Tijorn, sempre più enigmatico, mi avesse giurato fossimo soli, perchè Amarto e le piccole erano a Sharilar a comprare cibo, non mi fidavo, e cercavo la maschera per ogni dove, ansiosa. Non trovai nulla, e cominciai ad avvertire i primi sintomi di una crisi isterica. Finalmente mi decisi a mettere il naso fuori, anche se mio fratello fu costretto a trascinarmi per una mano, a suon di rassicurazioni e minacce. Nel piccolo corridoio, capii che aveva detto la verità. La casa era innaturalmente silenziosa, illuminata dalla luce sonnacchiosa del tardo pomeriggio: niente litigi, niente rimproveri, niente urla, niente pianti, niente risate. Solo silenzio. Sospirai di sollievo, e mi rilassai, ignorando l'occhiataccia che mio fratello mi rivolse, scuotendo intanto il capo. Tenendomi ancora per mano, Tijorn mi portò nella cucina, sordo alle mie domande insistenti. Morivo dalla curiosità. Che stava dicendo prima? Che intendeva? M'illuminai di gioia quando vidi le cose sul tavolo, e mi girai verso Tijorn, sornione e solenne. "tu sei un genio!". Esclamai, avvicinandomi piano a dei vecchi abiti della mia taglia lasciati sullo schienale di una sedia, ormai scoloriti, molto rattoppati, ed al tavolo, dove troneggiavano bottiglie varie, la mia maschera, la spada avvolta in un telo nero ed impermeabile, una borsa piena, bende ed un piccolo pugnale, una mia vecchia arma, lucidata e bellissima, dall'elsa scura e dalla lama sottile, corta ed un po' incurvata, come quella di una falce. Quando ero ancora una giovane Spia, la usavo per tagliare le gole, e solo per quello. Era facilmente occultabile. Tijorn pensava veramente a tutto. Lui si lasciò andare ad un sorriso furbo. "ho dovuto adattare un po' dei vecchi abiti di Nysha... erano gli unici che si avvicinavano alla tua taglia". Disse semplicemente, scrollandosi nelle spalle. "ti andranno stretti, ma penso che saranno perfetti per il tuo ruolo. Ricordati di nascondere la spada in qualche luogo che conosci bene e di lasciare la maschera nella borsa, rischieresti troppe domande". Che tesoro di fratello maggiore. Quasi come avere una madre. Fui sul punto di dirglielo ma, pensando che in quel modo l'avrei offeso, cambiai idea. "hai dato fondo alla tua riserva di impiastri, Tijorn?". Domandai invece della battuta che mi era salita spontanea alle labbra, in tono pratico, ma grato, prendendo uno dei flaconi, pieno di un liquido lattiginoso, ed alzandolo per osservarlo in controluce. Era perfetto: mio fratello aveva un talento innato per l'erboristeria. Mi girai verso di lui, giusto per vederlo annuire, sereno. "a me non servono". Disse, abbassando lo sguardo. Notai in lui affiorare a tradimento la stessa tristezza di qualche giorno prima. L'aveva sapientemente nascosta, per non turbarmi o contrariarmi, ma era ancora lì. Tijorn non voleva che me ne andassi. Mi sentii delusa e ferita, anche se non più come il giorno prima, forse perchè mi faceva male vederlo soffrire. Posai la bottiglia sul ripiano, e mi avvicinai a lui, che ancora a volto chino, con una strana smorfia triste sul volto. "io devo andare, fratello mio". Gli dissi, dolcemente, carezzandogli un braccio. Odiavo vederlo così indifeso. Gli volevo troppo bene: era come se facessi soffrire me stessa. Lui sobbalzò, ma non mi guardò nè rispose. Strinsi le labbra, e gli presi il mento, tranquilla, cercando di girare il viso verso di me, in modo fosse obbligato a fissarmi negli occhi. Lui obbedì docilmente, ed io mi accorsi che, per la prima volta dopo giorni, i suoi bellissimi occhi chiari erano umidi. "Tijorn...". Gli dissi, col fiato mozzo. Non doveva fare così. Mi uccideva. Ogni sua lacrima era un pugnale.Lui era il più forte, dannazione! A lui toccava il ruolo di guida e conforto! Io non avevo la forza necessaria per far tirare avanti tutti e due! Stavolta fui io ad abbracciarlo, disperata. Dei, come lo volevo bene! Mio fratello mi strinse forte, e seppellì il suo viso tra i miei capelli. "non andartene, Nanetta...". Mi disse, con voce rotta. "non voglio che tu vada via. Ricordi com'eri quando sei arrivata qui?". Annuii, ancora stretta a lui, e lo lasciai continuare. Un nocciolo duro di determinazione si andava però formando in me. Trovare Chekaril era la mia missione. Il mio dovere. Io dovevo farlo. Non perchè qualcuno me lo ordinava, non perchè in caso contrario sarei stata uccisa, non perchè ne ero ossessionata. No. Era puro senso di dovere. Capii che, ormai, era solo quello ad evitare che la mia determinazione andasse in pezzi. Molte volte, quando penso a questi momenti, rimpiango il fatto di non essermi lasciata convincere da mio fratello, e non essere rimasta con lui, chiedendo a Lainay di lasciarmi perdere, e mandare qualcun altro. Sarebbe stato meglio. Ma allora non potevo sapere ciò che stava per succedere. Non è mio dono la preveggenza. "eri così...disperata...". Singhiozzò mio fratello, mettendo molta enfasi all'ultima parola. "così...sperduta...ed io non potevo far altro che guardarti, e sperare in un sorriso! Non andare, Lsyn. Non andare, sorellina. Ti perderai di nuovo!". Mi supplicò, lasciandosi poi sopraffare dai singhiozzi. M'irrigidii. No. Io sarei tornata, e vittoriosa. Ed allora, io e lui, finalmente sereni, saremmo potuti andare ancora sotto il vecchio tiglio nel bosco, dove giocavamo da piccoli, a chiacchierare e litigare, a progettare e sognare, oppure insegnare alle gemelle a pescare, nel piccolo stagno dove lui mi buttava in estate, facendomi, una volta, quasi affogare, nell'inutile tentativo di farmi nuotare. L'idea mi piaceva, e lì, mentre confortavo mio fratello, ne sorrisi, lasciandomi cullare da quella certezza. Sarebbe andata così. "io devo andare. Ma tutto tornerò al suo posto, Tijorn, quando finirò ciò che devo fare". Gli dissi, per una volta fiduciosa, in tono dolce e consolatorio. "ed io sarò con te, Amarto e le infanti, fino a quando non sopporterai più i miei lamenti ed isterie. E tutto si rinnoverà. Non sarà più come prima, ma prometto per impegnarmi che ci assomigli!". Finii la frase con entusiasmo palese, lasciandomi pervadere da quel calore, benigno e piacevole quanto un fuoco in una tormenta. Io per prima ci credevo profondamente, e mio fratello se ne accorse. Con quell'affermazione riuscii a farlo smettere di piangere, con mio grande sollievo. Finalmente. Restammo a dondolarci per un po', poi lui mi lasciò andare, asciugandosi le guance bagnate con il suo solito gesto, e guardandomi con un sorriso. Gli risposi cercando di fare l'occhiolino, che non mi riuscì. Non ho mai capito in che modo Tijorn mi facesse guarire, e perchè la sua vicinanza fosse fonte di forza per me. Lui riprese il suo aspetto furbo, ed afferrò le garze ed una bottiglia, mentre il sorriso si trasformava in un ghigno sghembo. Gemetti. Ecco che mi aspettava la parte più antipatica di tutto. "siediti!". Mi ordinò, scherzoso. Sapeva che odiavo certe cose. "e smettila di fare la vittima!". Io... la vittima? Chi si era fatto consolare poco tempo prima? Guardai mio fratello in tralice e sbuffai, afflitta, avviandomi verso la sedia come un condannato al patibolo. Mio fratello emise un verso di disapprovazione ed impazienza, ed io mi sedetti pesantemente. Lui allora stappò il flacone, e cominciò a srotolare le garze, inumidendole con il liquido contenuto nella bottiglia ed avvolgendomele attorno ai capelli, con mille giri. Chiusi gli occhi, e borbottai. "ah! Lasciami fare e vedrai come sarai bella!". Tijorn sembrava aver recuperato tutta l'allegria e la vitalità solita. Ne ero contenta, anche se conoscevo il motivo del suo buonumore, e non mi piaceva. Dopo aver racchiuso tutti i capelli in uno strano bendaggio, prese un altro flacone, peno di un liquido denso e viola, e me lo passò. "su, forza!". Esclamò, gongolando. Avrei voluto dare un pugno in quella faccia sogghignante, ma mi trattenni solo perchè sapevo che quando mi prendeva in giro voleva dire che era quasi in sè. Stappai la bottiglia, e quasi mi tappai il naso, reprimendo a stento un conato. Tijorn si allontanò. Quella robaccia emanava un forte odore di frutta marcia. Era orribile. E sarei stata costretta a metterla tutta sulla faccia e sulle mani. Sospirai, ed immersi la mano in quella specie di gelatina orrenda, mentre mio fratello ridacchiava come un matto. Per fortuna, non avrei dovuto aspettare tanto prima di vederne gli effetti.

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Angolino di Akita:

eccomi qui con un nuovo capitolo di passaggio. Un altro capitolo spezzato a metà. Ma, come avrete senz'altro capito, io mi diverto a lasciarvi con l'acqua alla gola ù.ù dovete penare è____é dai, su. Al prossimo capitolo vi spiego tutto, promesso!

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: grazie *_____* mentre scrivevo ero preda di patemi incredibili... e se non avessi reso bene quello che intendevo rendere? Si: sono decisamente paranoica xD eh...lo so che la frase di Tijorn lascia molti dubbi, era fatta apposta xD penso che tu abbia già intuito qualcosa, a questo punto, su cosa abbiano intenzione di fare i miei cari elfetti psicolabili ù______ù esponi a me le tue idee xD e fammi sapere, mi raccomando xD ciao!

Ormai l'inutile appello è consuetudine, perciò non lo faccio.

Ciao!

Akita

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Capitolo 16
*** La Preparazione ***


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Hola, chusma!

Eccoci finalmente al punto in cui il mistero si risolve xD mwahahahahah... in questo capitolo, ho dato uno spazio leggermente più ampio alle descrizioni. Rimedierò con il prossimo e gli altri ancora u.u

See you later!

Akita

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Ci volle ben più di un'ora per finire il camuffamento. Dopo essermi spalmata addosso quella roba schifosa, cercando di non vomitare o togliermela via, strillando, cominciò la parte più dolorosa. Mettendomi completamente alla mercè di un fratello un po'troppo su di giri, strategia che, come sapevo molto bene, aveva adottato per distrarre me e lui dal suo tormento, mi preparai. Dopo aver inghiottito qualche goccia di un liquido verde, che mi fece torcere per diversi minuti di dolore, mentre mio fratello mi teneva stretta, cercando di ignorare le mie pesanti bestemmie (non sono mai stata una persona molto fine, in certi frangenti), e di non ridere come un matto, tutto fu in salita. Mi ritrovai a girare intorno al tavolo, impedita ancora da qualche fitta, impiastricciando tutto di viola, con Tijorn, con un cucchiaio in mano, alle calcagna. Rido ancora a pensare che mi comportai davvero come un'infante: ma, spesso, tendo a giustificare quel ridicolo episodio come un inconscio tentativo da parte mia di ribellarmi all'orribile costrizione del camuffamento. Ed io ho sempre odiato medicine ed intrugli. Mi piace ricordare che, in fondo, non ero del tutto perduta. "bevi!". Continuava a dire mio fratello, con il cucchiaio teso davanti a sè. Io, immancabilmente, urlavo e mi allontanavo. Quella confusione andò avanti per ben mezz'ora. Fu solo la sua astuzia a salvarci da un carosello che pareva infinito. Ad un certo punto, Tijorn si fermò, serio, e posò con cautela il liquido nella bottiglia lì vicino. "che dici?". Disse poi, voltandosi verso di me e strofinandosi le mani con fare allegro. "dico a Lainay che non trovi il coraggio di continuare?". "non voglio cambiare voce!". Protestai, avvicinandomi, riluttante, irritata per la mia ulteriore bassezza, che per fortuna non aveva alterato le capacità fisiche. Aveva vinto. Prima del mio incidente, ero stata un'ottima imitatrice, ed intrugli orridi del genere non mi servivano. Ma ora, con quel tono asessuato e roco che mi ritrovavo, era difficile anche solo il parlare normalmente. Mi rabbuiai, e lui se ne accorse, sorridendomi gentilmente. "ti aiuterà anche a parlare, Lsyn". Mi disse, riempiendo di nuovo il cucchiaio di quel liquido dal colore indefinibile. "farai molta, molta, meno fatica. E so quanto ti costa in condizioni normali un discorso". Finalmente, gli sorrisi, sospirando di rassegnazione, attenta però ad inspirare lentamente, per evitare il fetore pestilenziale che mi accompagnava. A tradimento, Tijorn m'infilò il cucchiaio in bocca, ed io inghiottii inavvertitamente. Mi avvolse una curiosa sensazione, un misto di calore e benessere. Guardai negli occhi mio fratello, stupefatta, e lui sorrise di nuovo. "vedi? Non è così male. Io ero costretto a prenderla sempre". Mi disse, facendomi l'occhiolino. "pensi i capelli siano pronti?". Domandai, sobbalzando poi per aver udito la nuova voce, dolce e tremula. Le parole mi venivano con più facilità, e capii di non essere costretta ad interrompermi per prendere fiato ogni poco. Sorrisi tra me e me. Era bello sapere di poter tornare ad essere, anche se per poco, una delle tante, e non l'elfa sfregiata e pazza, la viaggiatrice piena di patemi. Lui annuì, senza scomporsi, e si avvicinò al lavabo. "molto probabilmente anche il viso. Metti la testa qui sotto, che ti sciacquo". Mi rispose, calmo. Poi fece una pausa, mentre io obbedivo docilmente, ancora deliziata per il calore che sentivo in gola. Facendomi chinare verso l'acqua, ricominciò a parlare. "Potresti prendere in considerazione l'idea di assumere l'infuso per la voce per sempre, sai...". Disse, in tono meditativo, mentre mi srotolava le bende in cui erano racchiusi i capelli. "non sarebbe meglio per te? Non faresti meno fatica?". Scossi il capo, decisa. L'idea non mi piaceva per nulla. "la mia voce è parte di quello che sono diventata, Tijorn". Dissi, in tono duro, mentre lui mi bagnava i capelli, ciocca dopo ciocca. "è il mio monito per certi errori. Non posso mascherarla, perchè non sarei più io!". Mi sentii in colpa, e sperai di non essere arrossita. In realtà, quella era una pietosa bugia. Volevo far vedere a Chekaril quanto fossi diventata forte in sua assenza, di quanto la sua ricerca mi avesse rinforzata nonostante la mia pazzia e la mia invalidità, e quanto mi fosse costato il suo amore. Pure solo per pietà, lui mi doveva amare, solo per la dedizione nei suoi confronti. Volevo poi farla pagare ai suoi rapitori, in modo che la mia immagine distorta fosse l'ultima cosa che vedessero, immersi nel terrore più puro. Tijorn, però, ci cascò in pieno, e strinse le labbra, mentre gli occhi gli si riempivano di allegria e fierezza. Ero sicura pensasse di essere stato lui a guarirmi, a farmi rendere conto di non esser poi tanto un mostro, con la sua compagnia. Mi fece piacere rendermi conto di lasciarlo più felice. Dopo i capelli, fu il turno dell'unguento addosso, operazione molto più complicata del previsto, ma prevedibilmente schifosa. Dopo di questo, ci fu un'altra lotta per mettermi due gocce del liquido bianco in ogni occhio, operazione fortunatamente non dolorosa. Finalmente, indossai gli abiti preparati per me: una casacca ed una sorta di pantalone molto largo, vestiti da viaggio di foggia femminile, di gusto tipicamente popolare, mal cuciti ed in cotone grezzo, tinti di tanti colori da essere diventati di un grigio spento. Oltre a questi, un enorme mantello di lana dalle tante tasche interne, odoroso di tabacco e polvere, evidentemente comprato da uno straccivendolo e pulito alla bene e meglio. Dopo essermi mascherata nella mia stanza, mi fissai nello specchio, e rabbrividii. Non ero più io. Il mio aspetto era quello di un'umana magra e curva, dal viso rugoso e cotto dal sole. Sembravo uno di quegli esseri mortali ed emaciati di età indefinibile quanto le loro rughe, che solcano la pelle numerose quanti i loro dolori, passati e presenti. Ad occhio e croce, però, dimostravo sulla cinquantina di anni: un'età di tutto rispetto per un infimo e debole umano, che avrebbe allontanato eventuali molestatori. I miei capelli erano candidi e crespi, disordinati e ruvidi al tatto. Feci una smorfia, che si ripercosse sul viso, dove le cicatrici si erano così confuse con le rughe da essere diventate invisibili, la stessa cosa che era accaduta alle braccia ed alle mani. Gli occhi apparivano cisposi ed affetti da una cataratta incipiente. Amavo, ed amo, alla follia i miei capelli neri e ricci, ma fluenti, che vedevo trasformati in un ammasso di paglia bancastra e sporca. Ero davvero orrida. La vecchiaia era stata impietosa con la mia povera mortale fittizia. Sotto quel mantello di debolezza, ero io, in tutta la mia abilità, silenziosità e forza di elfo. Mi sentivo rinfrancata. Avrei dovuto fingere molte cose. Ma quello mi divertiva, e non era difficile. Uscii dalla stanza, e mi diressi verso la cucina, dove Tijorn stava pulendo il disastro che avevamo combinato, borbottando cose che avevano tutta l'aria di essere bestemmie. Dal tavolo era sparita ogni cosa tranne la spada ed il pugnale, e la borsa pareva scoppiare. Quando mi vide, fece un sorriso accennato, senza apparentemente scomporsi, e riprese a pulire. "a Sharilar si è fermata per qualche giorno una carovana di nomadi, diretta alla capitale dell'Impero". Fui io a sorridere. Tijorn pensava ad ogni cosa. "una vecchia sola darebbe troppo nell'occhio. Si tratta della tribù di Fjodr". Annuii. Un vecchio informatore. A volte i nomadi del deserto, uomini e strane creature mortali, gli Insathi, gli unici alla quale è permesso di vagare liberamente per tutti i regni, sono molto preziosi. Questo Fjodr Eveli, un Insat, il capo di un gruppo dell'est estremo, raccoglieva con i suoi seguaci mercanti per ogni dove del Regno, per poi farli entrare in clandestinità in posti per loro pericolosi come l'Impero, e farli contrabbandare i loro tesori. La sua tribù era tra le più grandi e temute, anche se, come norma prescriveva, le loro intenzioni erano sempre pacifiche. Trattare con le Spie era sua prerogativa. Conosceva sia me che Tijorn, e ci aveva tratti con sè più di una volta. Poteva farmi passare tranquillamente dove voleva. "tu sei Cate... nuova cameriera personale sua e del suo Inatha". Parve farsi piccolo quando lo trapassai con uno sguardo furioso. Una cameriera! Io, Lsyn Amarto, che ero stata tra i nobili più ricchi di Galinne! Una cameriera, inoltre, costretta a servire anche le sue compagne! Non era possibile, non era degno di me! Mi trattenni dall'urlare frasi sconnesse solo perchè sapevo che doveva andare così, e non potevo fare assolutamente nulla. Fjodr si divertiva a trattarmi male. Era geloso di noi elfi, e della nostra immortalità. Lasciai che mio fratello continuasse con un gesto spazientito. Lui sospirò, e prese a parlare in tono più tranquillo. "hai cinquantasette anni, e vieni da una città vicino il confine. Sei nata serva, e sei stata ceduta a lui da un latifondista decaduto. Hai la vocazione per pittura e Guarigione, e sai sbrigare solo i lavori che concernono la casa, ma non cucinare. Sei piuttosto brava con i piccoli". Ridacchiò quando mi vide sgranare gli occhi, indignata. Aveva fatto di me una paria, esposta ogni attimo al pubblico ludibrio! Avrei voluto tanto fare pagare questo, e tanto altro, a quel maledetto essere, ma non potevo, a meno di non voler scatenare una faida terribile tra la mia piccola famiglia e lui. Non volevo far intromettere innocenti in beghe tra sconosciuti. Sarebbe stato molto, molto difficile, recitare la parte della paziente, umile, sottomessa servetta. "è più facile così spiegare tutto ciò che ti porti appresso...ah, ricordati che, per tornare normale, c'è tutto lì dentro. Devi prendere il liquido verde e quello bianco ogni due giorni, e rinnova l'unguento ed il colorante per i capelli il mese prossimo". "lo so". Gli risposi, ormai rassegnata, con una smorfia. "ma non mi piace tutto questo". Lui rise, e mi mise una mano sulla spalla. "ti porterò io da lui all'alba, domattina. Ci aspetta al finire del bosco. Oh!". Esclamò, quando udì dall'esterno una familiare confusione. Mentre parlavamo, si era ormai fatto sera. Un tempismo davvero perfetto. Sapevo quanto stesse male mio fratell oal pensiero di dovermi salutare. "sono tornati...mi serve proprio un aiuto! Lsyn, vai ad aprire tu mentre recupero altri stracci!". Scossi il capo e mi avviai. Sarebbe stata una serata davvero terribile. Tutti al comando di un pazzo armato di strofinacci, senza poterci ribellare per tema di vederlo scoppiare. Ed il peggio doveva ancora venire...

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Angolino di Akita:

benissimo! Eccomi qui con un altro capitolo staccato a metà, ma non esageratamente enigmatico xD devo dire che mi sono divertita un mondo xD oggi son felice *____* si è aggiunta una nuova commentatrice xD saluti, confetti e baci xD

passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: eccomi qui! Ecco qui: ora sai che cosa sta succedendo xD mio dio, la carovana è stata davvero una trovata fortunosa, però O.o non sapevo assolutamente come andare avanti xD (benedico Leigh Brackett ed il suo Ciclo Marziano xD) fatto sta, che qui si è arrivati davvero ad un capitolo che non m'immaginavo di poter vedere O.o vabbè, più o meno quello da dire l'ho detto O.o più o meno O.o fammi sapere che pensi! Ciao!

Per Selly: carissima, benvenuta *_________* certo che non arrivi tardi...15 capitoli non sono per fortuna tanti, da leggere (figurati che ho passato personalmente a leggere per tutta una sera una fic di 35... O.O) xD sono contenta che Lsyn e Tijorn ti siano piaciuti ^.^ e, non preoccuparti: arrivi proprio in tempo xD come si suol dire: passi quando arriva il bus v.v beh, fammi sapere anche tu cosa pensi del capitolo *___* sono curiosa di sentire il rintocco di un'altra campana (senz'offesa per la metafora, eh... O.o). ancora benvenuta, e ciao!

Per gli ALTRI, non mi spreco nemmeno.<

Ciao!

Akita

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Capitolo 17
*** Legami Familiari. ***


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Buon pomeriggio, chusma! Eccomi qui, puntuale come sempre, con il vostro capitolo tutto da divorare. Quando l'ho scritto pensavo occupasse poche righe, poi mi sono accorta che per questo exploit coccoloso è diventato un capitolo ._. pazienza, nel prossimo ci saràl'incontro di cui sospiravate :P

Innanzitutto, prima di cominciare, vorrei fare il benvenuto ad una nuova (lo si spera) commentatrice: Kylien *____*

Coccole, assassini e spam a te ù___ù

See You Later!

Akita

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Quella notte, nonostante la pulizia della cucina mi avesse stancata molto, non riuscii a dormire. Troppi pensieri cominciavano ad affollarmi la mente, troppe recriminazioni. Per una volta, non stavo pensando a Chekaril, o al mio futuro, o almeno, non del tutto. E' vero, continuavo a chiedermi se lui potesse ancora amarmi e se stesse bene, perchè non fosse fuggito dai suoi rapitori e perchè non l'avessero ucciso in tutto questo tempo, ma il viso che campeggiava nella mia immaginazione quando abbassavo le palpebre era un altro. Sapevo che Tijorn, nella stanza accanto, era sveglio quanto me. E sapevo quanto stesse male. Era stato di un'allegria eccessiva per tutto il tempo, ed aveva persino dimenticato di rimproverare le gemelle per i loro abiti laceri, conseguenza di una piccola zuffa tra infanti alla quale avevano partecipato in città. Io lo conoscevo troppo bene per non allarmarmi davanti a questo strano comportamento. Da quando ero stata ferita, lui era diventato così. Non che prima non fosse protettivo, anzi: fin da piccoli, quando io piangevo o non stavo bene, lui era sempre accanto a me, consolandomi ed asciugandomi le lacrime. Quella volta in cui, per scherzo, mi aveva buttata nell'acqua, salvandomi però non appena vide che non mi tenevo a galla, io non gli avevo parlato per settimane, nonostante lui facesse di tutto per farsi perdonare. Un giorno d'autunno, sotto un forte temporale, scomparve per ore. Amarto lo cercò per tutto il bosco, con me alle calcagna, con il panico negli occhi. Giurai di non farlo più soffrire, pregai qualunque dio, sconosciuto e non, piansi per ore ed ore, pur di farlo tornare. Il mio desiderio fu esaudito a tarda notte, quando la pioggia si era quasi calmata. Era sporco, infangato, fradicio e lacero, ma aveva tra le mani dei grappoli d'uva, di cui all'epoca andavo pazza. Era stato un furto. Approfittando del primo giorno in cui la sorveglianza del maestro si era un po' allentata, visto il tempo, era fuggito nei vigneti di Sharilar. Aveva attraversato il bosco sotto una pioggia battente, al freddo. Aveva rischiato di farsi prendere dal vecchio proprietario, conosciuto per la cinghia con cui colpiva le mani dei giovani ladri che scopriva nelle sue proprietà, e si era perso, bagnandosi fino al midollo e gelandosi. Tutto per uno stupido perdono. Si ammalò per me, com'era prevedibile, una febbre terribile che tenne sveglio il nostro Maestro per giorni e giorni, facendogli temere il peggio. Non mi mossi dal suo letto fino a quando non guarì del tutto. Eravamo entrambi intorno ai dieci anni, piccoli tra i mortali quanto tra gli elfi. Da quel giorno rimasi appiccicata a lui, prendendolo in maggior considerazione, e pensando sempre due volte prima di litigare. Da quando ero stata ferita, però, io ero tra i suoi pensieri principali. Tra le sue ossessioni principali, direi. Sapevo che quel suo dolore non era dovuto all'egoismo. Lui pensava a me. A me, e nessun altro. Pensava rischiassi di soffrire, e di cambiare in peggio. Pensava di dovermi proteggere da ogni cosa che provasse a farmi male, ma che non ci fosse mai riuscito. Mi tormentavo. Mio fratello era me, in un certo senso. Camminavo avanti ed indietro per la stanza, mordicchiandomi le unghie, preoccupata. Avrebbe sopportato la mia assenza, fragile come si era mostrato di essere diventato? Sarebbe stato in grado di salutarmi senza farmi rimproverare di non essergli stata vicina? Mi avrebbe perdonata per aver messo me al primo posto? Non ce la facevo più, e presi una terribile decisione. Gli avrei detto che rinunciavo alla mia missione, e che sarei rimasta con lui. Cosa m'importava di un fedifrago manesco quando il mio dolce fratello stava male? D'istinto, senza quasi pensare, corsi fuori, sbattendo porte varie. Entrai così come una furia nella sua camera. Era sempre stata la sua stanza: piccola ma luminosa, completamente spoglia, a parte il letto spartano, un vecchio comodino di legno grezzo, una sedia traballante ed un ritratto scrostato, che rappresentava il mare in tempesta. "Tijorn...". Dissi, chiudendomi la porta alle spalle, affannata, girandomi verso lui. Mi bloccai subito, dapprima terrorizzata. Lui era sul letto, stravaccato a pancia in giù come fosse crollato così, ancora vestito con gli abiti del giorno prima, senza nemmeno essersi tolto le scarpe. Non diede segni di aver sentito la mia entrata precipitosa, e non si mosse. Sul comodino c'erano un foglietto, strappato evidentemente da qualche parte, fitto della sua scrittura, un calamaio con infilata dentro una vecchia piuma, ed un bicchiere quasi vuoto. Mi avvicinai, mordendomi le labbra. Avevo sentito una fitta di paura incredibile quando l'avevo visto inerte. Quando mi ero accorta del suo respiro, era sembrato mi togliessero un macigno dal petto. Dormiva pesantemente. Non me l'ero aspettata, e guardai sospettosa il bicchiere. Gli andai vicino, scostandogli i capelli dal viso, mettendo in vista l'espressione rilassata ed immobile, e presi il biglietto. Sorrisi, scuotendo il capo mentre leggevo. Mio fratello era un idiota. Aveva scritto:

Nanetta;

non preoccuparti. Sono vivo, non ho commesso nessuna sciocchezza. La tua mancanza non è così terribile da farmi suicidare, stanne sicura. Non riuscivo a dormire, per la terza notte di seguito. Ho bisogno di sonno, altrimenti questa casa andrà a rotoli. Ho preso un leggero narcotico, per stordirmi qualche ora, tutto qui. Stai calma. Riusciremo ad arrivare puntuali all'appuntamento con Fjodr, te l'assicuro. Ho misurato bene le dosi. Non provare a svegliarmi, comunque, perchè non ti sentirò. So che ti sei precipitata da me, in preda ai sensi di colpa. Domani non ti dirò nulla, perchè non ho il coraggio di dirti certe cose a voce, ma vai tranquilla. Parti senza rimorsi, perchè io sono veloce a riprendere la mia tranquilla esistenza di Maestro.

Sono stato un po' egoista (molto, direi) a rivelarti il mio dolore, ma non ce l'ho fatta. Temevo di vederti cambiata in qualche modo terribile una volta saputo di Chekaril. Ho sbagliato. Se sei qui sei sempre la stessa, e non cambierai mai. Sarai per sempre la mia isterica, lunatica, avventata, adorabile sorellina. Se non ti sei fatta le paranoie che io immaginavo facessi, e non sei venuta a parlarmi, ed io ho sprecato carta per nulla, beh...pazienza. Tutti cambiano.

Ad ogni modo sappi che ti voglio bene, e sarò per sempre qui, ad ascoltarti, e sostenerti. Non finirò mai di ripetertelo, e non sarà mai abbastanza.

Torna a letto e dormi anche tu!

Ne hai bisogno. Più di me.

Ridacchiai, e scossi la testa di nuovo. Io adoravo mio fratello. Quell'idiota di mio fratello. Lui era senz'altro la persona migliore del mondo. Se non altro, quella che mi conosceva meglio. Sapeva esattamente quali sarebbero state le mie mosse ed i miei pensieri. Presi la sedia, trascinandola vicino al letto, e mi sedetti comodamente, senza smettere di sorridere. Provavo una tenerezza infinita per quel fratello paziente e premuroso, dolcissimo e serio, che mi ritrovavo. Cosa avevo fatto di bello per meritarmi una persona così sempre al mio fianco? Nemmeno Chekaril si era mai curato di certe cose. Lui non si era mai portato in fin di vita per un po' d'uva, non era mai stato al Lazzaretto con me, non aveva mai fatto pazzie per funghi fuori stagione. Tijorn era mio fratello. Ed io potevo contare su di lui quanto lui poteva contare su di me. Neppure dopo che io ero stata sfregiata mi aveva abbandonata, anzi. Mi salirono le lacrime agli occhi, e decisi di rimanere lì, con lui. Non avrei potuto fargli compagnia per tanto tempo, e volevo sentirlo vicino ancora una volta. Gli presi la mano che penzolava fuori dal letto, e poi, accoccolandomi con la testa sul materasso libero sopra al suo capo, usando le nostre mani intrecciate come cuscino, mi assopii, tenendo stretto il bigliettino che aveva scritto con la mano libera. Saperlo più sereno, o almeno più consapevole, mi rincuorava.

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Angolino di Akita:

ehilà a tutti voi! Se siete sopravvissuti all'esplosione di zuccheri qui su, godetevi un po' i commenti, visto che oggi son d'umore tenero .__. Ancora benvenuta, mia spammatrice ù__ù

passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: mwahahahah, quando si dice destino... xD mio caro, stai pronto a goderti il prossimo capitolo, perchè gli eccessi di cattiveria non sono finiti è___é piaciuto questo capitolo, invece? Non so, lo trovo troppo zuccheroso per i miei gusti xD in fondo, Lsyn diventa sempre più sentimentale in compagnia del fratello xD dal prossimo un po' di pepe crudele in più, promesso ù___ù beh, a presto! Fammi sapere! Ciau!

Per Selly: ma su...il bello inizia ora :P mettiti comoda sulla sedia ed afferra i popcorn ù____ù si, oggi sono un po' esaltata, ma fa' nulla xD per quello, dovrai aspettare un po', ma stai sicura che la tua attesa sarà ben ripagata xD intanto, esprimi la tua opinione su questo capitolo come più ti aggrada xD ciao!

Per Kylien: a completare la colorata triade, ecco la Campana cara xD (in senso buono, eh v.v) *___* sei davvero un lampo a leggere (ed i miei capitoli davvero corti, tra l'altro xD), e sono contentissima ti sia piaciuta *.* fai sapere alla cara, piccola zia Akita cosa pensi *_____* un coltello a te, e si ci spamma sul forum xD

Per gli ALTRI: ora sono soddisfatta per non rompervi tanto xD

Ciao!

Akita

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Capitolo 18
*** Si Parte! ***


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Salve!

Vi avverto già in anticipo che reputo odioso questo capitolo ._. è lungo, ma non sono per niente riuscita a rendere le cose come volevo .___. Spero di rifarmi (attraverso un piccolo momento di sconforto e noia xD) con i prossimi capitoli .__.

Vi lascio a quest'orrore.

Akita

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Stavo sognando, un sogno di luce che non rammento, quando qualcosa iniziò a disturbarmi. Qualcuno, più esattamente, chiamava e mi scuoteva. "Nanetta...". Continuava a ripetermi una voce nell'orecchio, fastidiosa come il ronzio di una mosca. Chiunque stesse chiamando quella Nanetta doveva ben essere una persona avventata per osare svegliarmi! L'essere disturbatore, intanto, mi aveva preso per la testa, e cercava di farmi alzare. Davvero, ero in una posizione scomodissima. Ma ciò non autorizzava quel tipo a darmi fastidio. Se avesse continuato così, l'avrei ucciso a mani nude. L'avrei strangolato. Poco ma sicuro."Lsyn, arriveremo in ritardo!". La voce parve assumere un'inflessione di supplica, mentre si alzava di tono. Si fece strada in me uno spiraglio di comprensione. Quel nome era il mio. Tijorn! Fu l'unico pensiero coerente dopo un bel po'. Realizzai improvvisamente chi ero, cosa ci facessi lì e, soprattutto, dove dovevo andare. Il sonno mi passò di botto. Aprii gli occhi e scattai in piedi, scarmigliata, recuperando in un attimo tutta la lucidità necessaria. Mio fratello era di fianco a me, in ginocchio, sveglio, anche se un po' intontito, e mi guardava con aria severa. "finalmente! Ti sto chiamando da un sacco di tempo". Mi disse, alzandosi e riavviandosi i lunghi capelli neri, chiudendoli, con un gesto rapido, in una fluente coda di cavallo, prendendo poi qualcosa di lungo da terra e porgendomelo. Studiai per bene la sua espressione. Sembrava totalmente vuota. La cosa non mi piacque per nulla. "muoviti, ho già messo tutto sul mulo...prendi il pugnale, e nascondilo. Non si sa mai. Ho occultato la spada nella borsa, sarebbe stato troppo difficile spiegare la sua presenza". Obbedii, e infilai la piccola arma nella veste, al sicuro. Il contatto con la guaina fredda mi fece bene, perchè non ero nel massimo delle mie facoltà mentali. Senza pensare, infatti, mi sporsi verso mio fratello, in cerca di un abbraccio rassicurante. Non dovevo farlo. Lui mi evitò intenzionalmente, e si voltò per uscire precipitosamente dalla camera, senza parlare. Mossi i primi passi anch'io, mentre il cuore veniva trafitto da mille lame ghiacciate. Ero però troppo stordita per farci caso. Non ho mai avuto buona resistenza ai risvegli bruschi. Cominciavo a sentire le prime avvisaglie di nervosismo all'altezza dello stomaco, mentre seguivo Tijorn nella cucina, ed ero ancora per buona metà nel mondo dei sogni. Non ci fermammo per mangiare: lui sapeva benissimo che non ce l'avrei fatta a buttare giù nemmeno un sorso d'acqua. Era un momento troppo importante per sprecarlo in inutili gesti. Arrivammo nel piccolo ingresso. Lui, improvvisamente, si fermò, e si girò verso me, ad un passo dall'uscio. All'inizio, ancora insonnolita ed assorta nei miei propositi di pianificazione, non me ne accorsi. Poi, notai un paio di freddi occhi grigi fissi su di me. Restituii lo sguardo con fare di sfida, fermandomi a mia volta. Lui parlò, una voce assurdamente piatta, che non gli apparteneva. Odiavo sentirlo così, e speravo intimamente si riprendesse presto. "non hai intenzione di salutare Amarto e le piccole". Non era una domanda. Mi sentii irritata. Salutarli era il mio ultimo pensiero. Non c'era il minimo bisogno di dare fondo di nuovo alla mia riserva di tenerezza. Il ricordo dei tormenti della sera prima mi pareva ora ridicolo. Mi dovevo trattenere dall'urlare, irritata. Era un errore lasciarsi prendere dai sentimenti, un grosso errore. Una Spia emotiva era un bersaglio molto, molto facile. Lasciarsi irretire dall'idea di abbandonare una missione per un fratello poi...era un'onta, seppur non commessa, che non riuscivo a dimenticare. Avevo sprecato la mia vita per quella missione. Ed avevo intenzione di calpestare chiunque avesse osato impedire ulteriormente il suo successo. "non ne ho il minimo bisogno". Dissi, mentre la voce si faceva dura, prendendo la vecchia inflessione che da tempo non usavo. L'Ombra stava lentamente risorgendo in me. Ed avrei permesso che succedesse, almeno per il mio ultimo atto. Ed in questo l'affetto era solo debolezza. Cancellai mentalmente Tijorn dai miei pensieri. Fu un gesto molto doloroso, ma necessario. Beh...diciamo che provai a non pensare alla sua sofferenza, ed a concentrarmi un po' su me stessa, qualcosa che di solito mi veniva quasi automatico fare. Non ci riuscii. Strinsi e labbra, mentre un'ondata di silenziosa rabbia mi avvolgeva. Lo spinsi da parte, brutalmente, ed uscii fuori, dove il giovane mulo di proprietà di mio fratello era carico delle mie cose. Mi fermai vicino ai cespugli di rose, assaporando l'aria brumosa e profumata di primo mattino. Era quasi l'alba: il sole non era ancora sorto, ma si scorgeva una debole luminosità ad est. Il bosco si stava svegliando. Tijorn uscì anche lui, chiudendo la porta dietro di sè, e mi superò, cominciando a controllare l'umile cavalcatura marrone. Non lo guardai, nè lui mi guardò. Sapeva che doveva andare così. E sapeva quanto spudoratamente mentissi a proposito di Manolìa, Amarto e Nysha. Mentivo anche a me stessa. A me stessa per prima. Se li avessi visti, non me ne sarei pù andata da lì. Se avessi parlato loro, tutti i miei propositi d'impassibilità sarebbero svaniti. Conoscevo Tijorn abbastanza bene per sapere che avrebbe detto tutto questo alle piccine, una volta tornato, e la cosa non mi dava stranamente fastidio. Amarto mi conosceva come un padre, e non aveva bisogno di scuse. Mi faceva male lo stomaco. Finalmente, mio fratello decretò che potevamo partire. Senza più scambiarci nemmeno una parola, cominciammo ad avviarci verso il limitare del bosco.

Ci volle una mezz'ora circa per arrivare al punto prestabilito. Lì dove cominciava la boscaglia, ci aspettava l'Insat. Faceva molto fresco, e mi avvolsi meglio nel mio rozzo mantello. Avevo camminato come una sonnambula dietro Tijorn, desiderando intensamente di potermi sdraiare e dormire in santa pace da qualche parte. Ci fermammo. "Fjodr dovrebbe essere qui tra poco". Disse Tijorn, con voce calma. Alzai il viso verso lui. Non mi guardò neppure. La sua espressione avrebbe potuto benissimo appartenere ad una maschera. Scossi il capo per cercare di schiarirmi le idee. Avevo la testa completamente vuota. Eravamo circondati da alti cespugli. Cominciammo senza ulteriori preamboli a scaricare le mie cose a terra, vicino a me. Aspettammo per un bel po'. Il mulo, libero, cominciò a brucare, placido, senza muoversi. La luce aumentò gradualmente, ed il canto degli uccelli si fece sempre più forte e gioioso. Dopo una decina di minuti, iniziai ad agitarmi. Notai che anche Tijorn sembrava preoccupato. Per la prima volta dopo un po', ci guardammo negli occhi. "non doveva essere già qui?". Domandai, trattenendo a stento la delusione, e l'ira. "ma quanta fretta di viaggiare, elfa!". Disse una strana voce echeggiante vicino a noi. Sobbalzammo, e ci mettemmo più dritti. Fjodr stava arrivando. Lui aveva sentito noi, ma non noi lui. Finalmente, udimmo dei chiari fruscii, e poi emersero, di fronte a noi, le figure bizzarre di due Insathi. Sono esseri molto particolari, che ancora vedo passare in tarda primavera, e di cui ancora sento parlare. Non penso si estingueranno mai. Abitanti del deserto, sono mortali, ma hanno una vita più lunga di quella umana, anche se non arrivano mai alla veneranda età di un nano, che può raggiungere i duecento anni. La loro cultura consiste essenzialmente nell'esaltazione della vita errante, vista come filosofica e nobile scelta di vita, nella neutralità più assoluta, tanto che le armi sono considerate impure, e non vengono mai toccate, e nella sopportazione. Per questo, nelle loro carovane, si può incontrare di tutto, dai nomadi umani, ai mercanti clandestini, ai criminali, ai profughi, e alle spie. Tutti sono tollerati con la medesima pazienza. L'ascetismo è il loro massimo obiettivo, raggiunto però da pochi. Da circa duecento anni, grazie ad un patto infrangibile tra regni, vagano senza problemi per le nostre terre. In cambio della loro naturale neutralità, dovunque vadano hanno diritto ad ospitalità, ed inviolabilità, pena la morte. La loro società è da sempre patriarcale, e la loro religione il deserto, dove nascono e muoiono. Sono un popolo estremamente fiero, più vicino agli uomini che a noi elfi, che odiano in larga parte, invidiosi della nostra lunghissima vita. Il loro aspetto fisico è quanto mai strano: si dice siano stati originati da umani alterati con la magia. E la magia benigna scorre loro in corpo, nel loro argenteo sangue, naturale quanto l'aria che respirano. Sono molto alti, ed indossano, Insat quanto Inat, abiti lunghi e colorati, rossi, gialli, o lilla. Il loro intero corpo sottile è di colore scuro, ricoperto da una corta e compatta peluria ocra. Mani e piedi presentano somiglianze con le zampe di alcuni felini, dotate di cuscinetti resistenti per non affondare nella sabbia, tanto da non essere mai impacciati da scarpe o guanti: è per questo che noi non riusciamo a sentirli, nonostante il nostro finissimo udito. Il viso è inquietante, anche se incantevole: uno strano misto di umano ed animale. Le orecchie sono lunghe e larghe, bordate di peluria più lunga rispetto al resto del corpo, ed capelli vengono portati sciolti: sono argentei per gli Insat, corvini per le Inat, e sembrano dotati di vita propria. Gli occhi...gli occhi sono sconvolgenti. Per tutto il viaggio, non riuscii mai a scollare i miei dai loro. Non hanno pupille, nè iridi. Sono grandissime pozze di oro fuso, imperturbabili e profondi. Sembrano scavare nei recessi più reconditi della mente, mettendo a nudo ogni sentimento, pensiero, segreto. Dei due che avanzavano verso noi, in quella fredda mattina, riconobbi chiaramente Fjodr, accompagnato da una delle sue compagne: c'erano evidenti segni di età sul suo viso alieno, ed i suoi abiti erano insolitamente dorati, a conferma del suo rango. L'espressione, poi, inconfondibile: invidia e disgusto albergavano in quegli occhi strani. Non ci salutò, nè noi lo salutammo. Tollerare non vuol dire amare. Non feci caso quasi alla Inat, una giovane timida, dai lunghi capelli raccolti in una fascia istoriata, segno di appartenenza tipico di Fjodr. Lei, ad un gesto imperioso del marito, prese i miei bagagli e, senza dire una parola, scomparve. Dopo un silenzio sdegnoso, l'Insat si decise a parlare. "Anì è la più veloce e silenziosa del mio Inatha". Disse, arrogante, tenendosi a distanza da noi due. "nella tribù dormono ancora, e non faremo fatica a farti inserire. Ho già parlato a tutti della mia nuova serva". Sospirò, chiaramente intavolando un lungo, silenzioso discorso con sè stesso, nel tentativo di distrarsi. Era sempre stato così: mal ci sopportava, e solo la sua cultura impediva di rifiutarmi un passaggio, seppur ben pagato. Mi sarei dovuta aspettare di tutto, da lui.Ora l'idea della carovana non mi pareva così geniale. "muoviti, Lsyn". Aggiunse, guardandomi dall'alto in basso. "hai un sacco di cose da fare, oggi". Non disse più nulla, e sapevo perchè. Lui non mi reputava degna. Per lui ero la più infimatra gli infimi. Ero elfa e spia, e questo bastava. Sentii un moto violento di rabbia. Lo stomaco si torse così violentemente che boccheggiai, appoggiandomi a mio fratello, che stavolta non si ritrasse. L'avrei ucciso, prima o poi. Avrei infranto moltissimi accordi e convenzioni, ma il mio lavoro sarebbe stato pulito, e nessuno avrebbe potuto dirmi nulla, perchè nessuno mi avrebbe potuta incolpare. Era l'ora dei saluti. Tijorn mi guardò, cercandomi d'infondere rassicurazione, e mi strinse forte. "abbi cura di te, Nanetta...". Mi disse, con voce leggermente più vitale, mentre mi abbandonavo nel suo abbraccio, dondolandomi un po'. Mi sentii improvvisamente triste. Non l'avrei rivisto per chissà quanto tempo. C'erano tantissime cose non dette tra noi, tantissime cose non fatte: era uno strazio vedere il suo sorriso falso ed immobile come quello di una bambola. Era terribile osservare il suo abile schermo, la sua abiltà nel nascondermi ogni pensiero. Non riuscii a dire nulla, nè a prolungare il nostro addio. Brutalmente, mi sentii tirare per la spalla da qualcuno. Ci sciogliemmo, e mi girai con deliberata lentezza, stringendo ancora il braccio di mio fratello. Il vecchio Fjodr mi guardava con astio. Sentii che Tijorn, obbedendo a chissà quale impulso, si allontanava da me, lasciandomi, e sapevo quanto gli fossedoloroso. L'Insat sapeva d'irritarmi, e lo faceva apposta. Conosceva la mia sofferenza nel lasciare Tijorn. Cominciai a tremare di rabbia, e digrignai i denti un attimo, in direzione di quell'orribile mostro. Lui mi rivolse la stessa attenzione che avrebbe potuto rivolgere ad un cagnolino petulante. Cercai di non saltargli addosso, e di non sguainare il pugnale che tenevo nascosto nell'abito. "la tribù non aspetta i tuoi comodi, Spia. Nè quelli di colui che chiami a torto fratello. Muoviamoci, senza indugi, e basta smancerie. Non sei un sultano, ora, e devi obbedirmi fino a quando ci lasceremo. E' il tuo pagamento". Si avviò, senza aspettarmi. Tutto quello che aveva detto era la pura verità. Perchè Tijorn non aveva creato un travestimento più indipendente? Perchè non potevo stare un altro po' con lui? Senza più dire, o fare, nulla, mordendomi a sangue le labbra per non urlare la mia ira e sofferenza, e non bestemmiare, dopo un'ultima stretta fugace al suo braccio mi allontanai da Tijorn, seguendo il mio nuovo padrone. M'irritava doverlo pensare in questi termini. Quando mi voltai per salutarlo di nuovo, mio fratello era già sparito nella boscaglia e nella nebbia, di ritorno alla sua piccola e pacifica casa. Sentii un'ondata di autentico dolore squarciare il mio cuore. Ero sola. Di nuovo. Mormorai qualcosa, rabbiosa, e ripresi a marciare verso l'accampamento della tribù, prudentemente a qualche passo dall'Insat. Il mio viaggio era iniziato.

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Angolino di Akita:

eccoci qui, con il diciottesimo capitolo. Non è granchè, ma avevo fretta di aggiornare (il 17 è la mia unica superstizione .__. Ma ho buoni motivi per essere superstiziosa riguardo a questo numero .___.), e mi ha preso una tale noia...

d'accordo, ora basta.

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: eh...giudico anche io fin troppo sentimentale il capitolo O.o ma che ci vuoi fare, dovevo farlo...e poi mi piaceva ù__ù mi rifarò, promesso. Mi rifarò xD già da quello che ti ho detto puoi ben capire quanto io mi stia gustando l'attesa, per scrivere il capitolo di cui parlavamo l'altro ieri v.v non finirò mai di ringraziarti per la mappa :P cosa ne dici di questo capitolo? A me non è piaciuto tanto .__. Mi sembra piatto .__. Vabbè, in questi giorni sono decisamente paranoica .__. Fammi sapere! Ciau!

Per Selly: ehi :P come ho detto su, anche a me il capitolo piace molto xD ed ho lo stesso romanticismo di un cespuglio di rovi v.v sarà perchè Tijorn è il mio personaggio preferito, o perchè tendo un po' ad idealizzare la figura fraterna, chissà v.v fatto sta che era mio dovere v__v Lsyn non può essere pazza psicotica sempre...almeno per un po' lasciamola stare, su xD esponi le tue idee in rapporto a questo schifo di capitolo xD ciao!

Per Kylien: ma ciao :P eh...la lettura rapida è anche mia dannazione ._. i libri non bastano mai, ti do pienamente ragione su questo .__. Che te ne pare di questo capitolo? Lsyn tornerà infamA, non preoccuparti ù__ù però Tijorn merita un trattamento d'onore, sissì xD anche se, a mio parere, l'amore verso il fratello non è che egoismo mascherato <.< chi non vorrebbe una persona così al fianco? xD vabbè, va'. Fai sapere a zia Akita, su, che pensi *__* baci, spam e coltelli!

Ciao agli ALTRI :P

Akita(ma chi accidenti sta urlando con voce da Nazgul??? O___O)

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Capitolo 19
*** L'accampamento. ***


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Eccoci qui, con il capitolo numero 19 O.O assurdo O.O ho notato però una cosa... <.< perchè nessuno ha letto lo scorso? Vabbè, lasciamo perdere.

Ora, lasciatemi fare una piccola, grata, puntualizzazione.

Il personaggio di Nemys, qui soltanto accennato (ma è meglio fare sempre le cose come si deve ù__ù), non è completamente frutto della mia fantasia. Lo è in minima parte. Si deve ringraziare Carlos Olivera, gentile santo, e le sue brillanti idee. L'elaborazione di questo personaggio, che come avrete certamente capito non è d'importanza secondaria, è dovuta a lunghe chiacchierate elucubratici, e sogni strani (ma di questo rivendico il privilegio :P) grazie mille, per la gentilezza ed il continuo supporto *_____*

Ora vi lascio al capitolo (insolitamente lungo, lo ammetto) ^.^

See you later!

Akita

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"dimmi un po', elfa...". Disse Fjodr improvvisamente, girandosi verso di me. Eravamo quasi arrivati, ed Anì si era aggiunta nuovamente a noi, portando la mia borsa malandata. Avevo tentato di riprenderle, preoccupata per tutte le boccette delicate che c'erano dentro, ma Fjodr me l'aveva categoricamente impedito. L'Inat era la più giovane tra le sue compagne, da poco andata in sposa al vecchio Insat. Ancora non gli aveva dato nessun figlio, e, per questo, relegata al rango più infimo della corte del marito, più in basso anche dei servi. Sarebbe diventata moglie effettiva solo una volta nato un piccolo. A lei toccavano tutti i compiti più gravosi. Ne ero intimamente felice: come nuova schiava, sapevo che non sarei stata ben accetta nella comunità. Non m'importava praticamente nulla della giovane, timida Inat. In fondo...la sua missione non era difficile e piena di sofferenze come la mia. All'epoca ero davvero una grandissima egoista. Finalmente, dopo quasi un'ora di cammino, la mia testa si era completamente schiarita, e potevo affrontare l'Insat in maniera più degna. Restituii lo sguardo alieno del capotribù con una certa sfida. Mi disgustava, con quell'aria di perenne superiorità. Lui riprese a parlare. Era la prima volta che mostrava una seppur minima curiosità. "è vero quello che dicono su di te? Che il tuo bel corpicino di elfa è stato sfregiato in modo orribile?". Sentii un'ondata d'irritazione farsi strada in me, mentre lo guardavo mettere in mostra la chiostra di piccoli denti aguzzi in uno strano ghigno. Mi lasciai sfuggire un ringhio involontario, stringendo gli occhi e continuando a fissare il vecchio con insolenza. Stupido mortale tremebondo. Non sapeva nulla della sofferenza. Non aveva mai provato la sensazione di essere buttato nel fango, calpestato, deriso. Lui era sempre stato servito e riverito. Oh...perchè avevo lasciato Tijorn? Il suo sguardo ferito era ancora fisso nella mia memoria: era fin troppo facile figurarselo ora, distratto e taciturno. "non mi conosci, Fjodr". Dissi, con voce soffocata. Per la prima volta dopo quello che mi pareva un secolo, il tono era simile alla mia vecchia voce. Facevo fatica a parlare. Dovevo, assolutamente, rinnovare il trattamento. Non avevo pensato durasse così poco. L'Insat ridacchiò, ed io mi morsi le labbra, resistendo per l'ennesima volta all'impulso di sguainare il pugnale. La mano sinistra corse istintivamente ad esso, chiudendolo in una morsa spasmodica. Anì mi guardò, preoccupata e meravigliata. Povera piccola. Non doveva aver mai visto qualcuna sfidare suo marito. Per lei era un sacrilegio. A me non importava. "tu non sai nulla di me". Fjodr rise apertamente, a sentire il mio tono caustico. Mi prendeva in giro, mi scherniva: sapeva che non potevo toccarlo, per ora. "vedi?". Mi disse poi, senza minimamente scomporsi, ancora con un sorriso derisorio stampato sul viso, indicando un punto, distrattamente. "siamo quasi arrivati". Era vero: cominciavo ad intravedere, nella pallida luce mattutina, macchie di colore che emergevano dalla boscaglia. Non si sentiva nemmeno un fruscio. Sentii l';Insat irrigidirsi, e lo guardai. Aveva stretto le labbra sottili, che erano diventate pallide. Sembrava ora arrabbiato. Per me i mortali erano un mistero assoluto. "da ora in poi, vedi di comportarti bene". Ci fu un attimo di silenzio beato. Presi a distanziarmi dal vecchio, cambiando postura: lasciai il pugnale, abbassai lo sguardo,in una parvenza decente di umiltà e mitezza sottomessa, e congiunsi le mani all'altezza del ventre. M'ingobbii leggermente, e presi a zoppicare. Ma non potevo rinunciare ad un'ultima frecciata. Aspettai che Fjodr, con un ennesimo gesto, senza parlare, mandasse avanti la giovane moglie, e lo raggiunsi. "percè odi noi elfi così tanto, Fjodr?". Chiesi, rallentando. L'Insat m'imitò, e si girò verso me. Fece una strana smorfia, arricciando il naso, una smorfia di disgusto, e sbattendo le lunghe orecchie, una volta. "voi siete elfi". Mi rispose, semplicemente, stringendosi nelle spalle. "e contate meno di un granello di sabbia. Muoviti, e smettila di fare domande. Non sei tu la padrona". Forse per sottolineare quest'ultimo passaggio, fece una cosa che probabilmente, se fossi stata Lsyn l'Ombra, e non Cate la misera umana, gli sarebbe costata molto cara: mi prese brutalmente per una spalla, stringendomi forte, e mi spintonò in avanti. E, tutto questo, senza nessun preavviso. Inciampai un paio di volte, cadendo infine a terra. Guardai il responsabile della rovinosa caduta, furiosa. Fissai quella sua faccia pelosa con lo spasmodico desiderio di sbatterla su qualche pietra appuntita. L'avrebbe pagata amaramente. Mi sarei vendicata. Feci per parlare, quando lui, che era vicino, mi mise la mano davanti alla bocca, alzando un sopracciglio, aggrottando le sopracciglia cespugliose e girando i grandi occhi dorati verso un punto ben preciso. Seguii il suo sguardo. Senza accorgercene, eravamo nei pressi del primo cerchio di tende dell'accampamento, costruzioni di pelle grezza tipiche dei cammellieri. Sentivo dei rumori: fruscii, e strani bramiti. Probabilmente i loro animali da soma erano svegli. Mi rialzai, senza fare il minimo rumore, ricomponendomi velocemente. Mi osservai distrattamente per constatare i danni. Avevo le mani verdi d'erba, con qualche graffio. All'altezza del ginocchio sinistro, c'era uno strappo. Mi strinsi nelle spalle. Quell'abito era, fortunatamente, già vecchio. Strappo più, strappo meno... non mi sarei dovuta preoccupare di certe cose. Fjodr, dopo avermi indirizzato uno sguardo che interpretai come falsamente compassionevole, si rimise in cammino. Lo seguii, ed arrivai con lui all'accampamento. Come tradizione, era situato in una grande radura, e formato da dieci cerchi concentrici, il loro numero sacro. Tradizionale, e fissa, era anche il posto di ciascun rango. In quello più esterno c'erano i cammellieri con le loro bestie, le guide ed i profughi, in tende di pelle grezza, in quello dopo i servi adibiti ai trasporti pesanti, in tende di cotone povero e grigio, in quello dopo le Inat vedove, sterili o in età da marito, in quello dopo ancora quelle con figli ma senza marito, entrambi i cerchi riconoscibili per via delle abitazioni di tessuto nero, in quello dopo i nomadi umani e le loro tende di lana dipinta ed intrecciata, e così via, fino ad arrivare agli ultimi due cerchi, dove c'erano gli ospiti d'onore, i funzionari d'alto rango, ricchi mercanti, i figli e le mogli del capotribù, in tende di materiali colorati e pregiati. Lì sarei stata ospitata io, in quanto serva di una di queste ultime, in una tenda di scarto insieme ad altre sventurate. Al centro, campeggiava la sontuosa tenda di Fjodr, una monumentale costruzione di seta a righe gialle e blu. Ogni livello era collegato ad un altro tramite un ingegnoso sistema di intervalli tra tende, che formavano piccole stradine. In giro, non c'era ancora nessuno. Quando non erano nel deserto, i nomadi tendevano a lasciarsi irretire dall'ozio. Ci avviammo verso il mio posto. "per quanto ci fermeremo qui...padrone?". Chiesi, pronunciando l'ultima parola dopo un sospiro rassegnato. Mi costò molto. L'Insat sembrò segretamente soddisfatto, ed io avvertii lo stomaco contrarsi dalla rabbia. Strinsi i denti. "un altro paio di giorni, poi ci muoveremo alla volta del Matriarcato". Feci una smorfia di disgusto, e lo stomaco si torse di nuovo. Avrei dovuto calcare il suolo dei peggiori nemici della Regina. Elfi, e guidati dalla ributtante sacerdotessa Nemys, un'arrivista spuntata chissà dove cinquant'anni fa, adorata e riverita dal popolo, si erano staccati da noi quando la Regina aveva cominciato ad annettere le nazioni che una volta formavano l'Unione Elfica, formando uno stato indipendente. Era stata una mossa stupida ed avventata. La Regina era l'ultimo baluardo contro l'avanzata della sudicia orda umana. Da allora, tra noi era pace vigile. Mi schifava dover mettere piede in un covo di rinnegati, dove noi Spie eravamo uccise a vista. Scrollai le spalle, e non dissi più nulla. Continuammo a camminare in silenzio. Finalmente, ci fermammo in una tenda un po' in disparte, dai toni più spenti delle altre. Spalancai gli occhi dalla sorpresa. La timida Anì era sulla soglia, guardandosi i piedi. Era lei la mia padrona. Fjodr le si avvicinò, e le afferrò una spalla, con fare possessivo, e stranamente amorevole. Lei non si mosse. Digrignai i denti di nuovo, e cercai di controllare il respiro. Dovevo calmarmi. Era schifoso lasciarsi...usare...in quel modo. D'accordo, era la loro società, ma trecento anni di vita paritaria erano difficili da dimenticare. "Anì sa chi sei...vero, Anì?". Disse il vecchio, avvicinandosi a lei, e cingendole le spalle, guardandola, mentre gli occhi dorati si riempivano di segreto amore. La giovane Inat annuì, ed il tono della pelle si fece più scuro. Il marito sorrise, e le donò una stretta fugace. Lei ricambiò il sorriso, piena di vergogna. Nel guardare queste sotterranee effusioni cancellai immediatamente i pregiudizi che prima mi avevano afflitta. Mi ero sbagliata: lui amava davvero le sue compagne. Non prevista, mi assalì un'ondata d'invidia verso la piccola Inat. Lei era amata e protetta, e, quando avrebbe avuto un figlio, sarebbe diventata anche potente nel clan. Quella bambina timida! Perchè il destino mi aveva riservato di amare un fantasma? Perchè lo cercavo, a costo della mia stessa esistenza? Mi morsi la lingua, fino a sentire il sapore del sangue, per non parlare. Odioso animaletto dai capelli neri e orecchie smisurate. Ipocrita. Io meritavo tutto l'amore del mondo, per i miei sacrifici, non lei. I due, finalmente, si staccarono. Sospirai di sollievo, segretamente, e mi sciolsi. Fjodr si girò verso me, improvvisamente severo. "baderete entrambe ai piccoli delle altre, e starete qui, assieme. Tu, Lsyn, la dovrai però servire, ed obbedire ad ogni suo, seppur minimo, desiderio...capito, stupida elfa? Ora vado a sbrigare i miei affari. Fate amicizia, e non procuratemi problemi". Senza ulteriori salamecchi, se ne andò verso la sua tenda, con passo solenne. Anì lo seguì con gli occhi fino a quando non vide scomparire la sua figura scura nella tenda. Rimanemmo un attimo entrambe in silenzio. Stavo prendendo ad odiare quell'essere così falsamente timido. Mi avrebbe tiranneggiata, solo per puro piacere. Finalmente, l'Inat mi guardò, per la prima volta. Non lessi altro che innocenza nei grandi occhi dorati, e curiosità. Sentii una fitta d'irritazione. Sospirai di nuovo, per l'ennesima volta: dovevo calmarmi. Era una tiritera che mi stavo ripetendo spesso da quando ero entrata in quell'accampamento. La creatura abbozzò un sorriso gentile, e mi tese una mano. "vieni dentro". Mi ordinò sommessamente, ancora a mano tesa. Aveva una bella voce, calda e piena, seppur giovanile. Ignorai l'invito cortese e mi diressi verso la mia nuova abitazione, aggirandola, entrando nel piccolo ambiente caldo, senza aspettarla. Essere quasi di grado uguale alla propria padrona era davvero vantaggioso.

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Angolino di Akita:

mwahaha. Lsyn è tornata la solita egoista è.é tremate!!!!!!!!!!! Dovete ancora vedere ciò che succederà, ma sappiate che questo non è che l'inizio u.u mi mancavano un poco gli sproloqui malvagi v.v ehi O.o perchè qui nessuno legge/commenta? Se non vi è piaciuto il capitolo, basta dirlo. Non lasciare un commento è segno di scortesia, penso O.o

vabbè. Passiamo dunque al dunque(per quanto dunque possa essere u.u)

per Carlos Olivera: Ehi T.T come vedi, sei rimasto solo tu a commentare T.T era un capitolo così brutto? T.T vabbè <.< davvero Tijorn antipatico? O.o beh...in fondo è il suo modo per dissimulare il dolore O.o non ho trovato altro metodo che una finta freddezza O.o spero di essere stata plausibile xD in quanto a Nemys, ho avuto un'idea (ma di questo non sto a parlare qui v.v) *___* ah, vedrai...combina tanto, combina. La cara Lsyn *__* xD cosa pensi di questo capitolo senza alcuna pretesa? Fammi sapere, che sono curiosa di leggere le tue opinioni, come sempre, d'altronde *___* ciau!

Visto che non ci sono altri commenti, mi fermo qui T_____T

Sigh.

Ciao!

Akita

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Capitolo 20
*** Un Argomento Fatale ***


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Buonasera a tutti!

Come vedete, ce l'ho fatta O___o non pensavo di riuscire a scrivere il capitolo, e postarlo pure O.o come vedrete, si tratta di uno dei capitoli di passaggio :P perchè, come chi sa sa già(e scusate il giro assurdo di parole xD), quando devo dire una cosa che mi diverto a scrivere prendo tempo xD

Ora vi lascio.

See you Later!

Akita

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Passammo sei giorni in quello spiazzo che, come capii poi, era nella periferia di Sharilar, poco distante dalle sue graziose case in legno. Cercai di portare pazienza: quella era la prima lunga sosta dopo mesi di spostamenti, e non potevo mettere fretta ad un capo affaticato per i miei bisogni. Pian piano, mi abituai a quella stranissima vita pacata. Dormivo e passavo la maggior parte del mio tempo nella più completa solitudine, nella quiete della tenda. Fjodr, che non si fece più vedere nè mi chiamò, mi aveva fatto un enorme piacere ad assegnarmi ad Anì, che passava la maggior parte del tempo assieme a lui. Vedevo quella timida Inat poche volte, essenzialmente quando, sempre di mattina, eravamo costrette, con le altre mogli e le loro serve, a badare ai numerosi, fastidiosi marmocchi del capo. Notai che le altre componenti dell'Inatha non erano molto ben disposte nei suoi confronti, quanto le altre schiave, principalmente umane, non lo erano nei miei. Il primo giorno fu davvero orribile: quando entrammo nella tenda dei piccoli, ci fu un lunghissimo attimo di silenzio assoluto. Le tre Inat, i loro sei figli, due Insat e quattro Inat, di età compresa tra i pochi mesi e qualche anno, e le tre serve, tutte anziane, tutti si girarono a fissarci con espressioni a dir poco ostili. Anì divenne purpurea, e balbettò qualcosa. Io, sotto la maschera di timidezza, nascondevo una grande ira. L'elsa del pugnale divenne fissa nella mia mano. Fu una mattinata d'inferno. In quella tenda cercarono di renderci la vita più che difficile, in ogni modo a loro possibile: le serve mi nascondevano ciò che mi serviva, le altre mogli escludevano Anì dai loro discorsi. Solo i piccoli si abituarono subito alla nostra apparizione, prendendo a giocare e fidandosi di noi come nulla fosse. A giudicare da mille piccoli indizi, era la prima volta che la mia padrona si trovava in loro presenza.Finalmente, dopo il magro pranzo, entrambe fummo congedate. Per me fu un sollievo enorme: potevo tranquillamente ritornare al mio vero volto, al mio vero comportamento. Mi chiusi in un silenzio repentino, io, che fino a qualche attimo prima avevo chiacchierato per quanto mi era stato possibile, con le altre, patetiche umane, ed il mio viso, prima di una calma quasi bovina, si adombrò. Ci dirigemmo verso la nostra tenda: erano le ore più calde della giornata, e tutti erano chiusi nelle loro abitazioni a riposare. Io, che non avevo più rivolto la parola ad Anì dopo quel penoso tentativo di fare amicizia, fui quasi sorpresa di sentire la sua esile mano su una spalla. Fu solo per mera educazione se non mi divincolai, piena di orrore. Detestavo essere toccata, da chiunque. Le indirizzai uno sguardo feroce. Lei tolse la mano quasi si >fosse scottata. Arrivammo, in silenzio, alla tenda che condividevamo, ed entrammo. "sai perchè mi odiano tanto?". Mi disse l'Inat con la sua voce giovanile, sedendosi su un mucchio di pelli. Io la guardai un attimo, piena di sarcasmo, poi la imitai, prendendo la borsa e cominciando a rovistarvi dentro in cerca del mio tabacco e della mia pipa. Ne avevo urgente bisogno. "pensi m'importi?". Le risposi immediatamente, in tono secco. La sera prima avevo preso quella specie di sciroppo, e la mia voce era tornata musicale e sommessa. Cominciai a riempire la pipa, ed accenderla, con indifferenza sovrana. Non provavo assolutamente nulla verso quella sventurata, anzi: mi dava fastidio sentirla blaterare. "io pago il mio passaggio, tutto qui. Non ho bisogno di sentire i lamenti di una piccola cortigiana malriuscita". Emisi una nuvola di fumo. Ora andava meglio. Ci fu un attimo di silenzio, ed io mi voltai verso la mia compagna di disavventure, solo per osservare la sua reazione, con una punta di divertimento. Sembrava non essersi avveduta di nulla, e stava lì, le mani conserte in grembo e lo sguardo basso. Stupida, inutile mortale. Sbuffai, e mi girai dall'altro lato. Lei riprese a parlare, mente io cercavo di fare di tutto per non starla a sentire. "mi hanno donata al capo come pegno...come regalo". Disse, stringendosi nelle spalle sottili, e scuotendo la bellissima chioma scura. "e loro mi odiano perchè, fino a quando non avrò un figlio, monopolizzerò; la sua... attenzione". Aggrottai le sopracciglia. Ecco cosa significava quell'amore ossessivo, quell'attenzione spasmodica verso quell'esserino insulso da parte di Fjodr. "a loro piace essere tutte uguali...". Sputò improvvisamente, con una rabbia che mi stupì. Non credevo possibile un tale coinvolgimento emotivo da parte di un verme di quella risma. La degnai di uno sguardo, uno solo. I grandi occhi d'oro erano stretti, e pieni di quelle che mi sembravano lacrime. Lei riprese a parlare, tirando un gran sospiro mentre io le indirizzavo uno sbuffo di fumo dritto in faccia. Mi divertì vederla tossire. Perchè non chiudeva il becco e non andava a fare compagnia a suo marito? Che voleva da me? Mi divertii molto meno quando, passata la nuvola, lei riprese, imperterrita, a parlare, come se non le avessi fatto nulla. Non aveva recepito il messaggio. Perfetto. Mi toccava stare a sentire una Inat lenta di comprendonio. Per l'ennesiam volta, rimpiansi Tijorn. "com'è il tuo mondo, Lsyn?". Mi disse, voltandosi verso di me, mentre una prima lacrima argentea le scendeva lungo la guancia pelosa. "sarei accettata da qualcuno se fuggissi?". Presi a ridere come una pazza, senza risponderle, quasi inghiottendo la pipa. "tu?". Le dissi, dura, quando smisi di ridere e tossire. "tu non sei un'elfa, Inat. Mettitelo bene in quella testa oblunga che ti ritrovi. Tu sei un'insulsa mortale. Ed a noi non servono i mortali, che nulla fanno se non insozzare una razza superiore". Ci fissammo: io, con ostilità mal celata, lei con indifferenza. "e poi...vedrai...";. Sogghignai, posandole una mano sul braccio. Ebbi l'estremo piacere di vederla sobbalzare al tocco. "quando avrai un figlio le cose si sistemeranno. E reputo che, stando le cose come stanno, non passerà molto...". Sghignazzai di nuovo quando lei arrossì, e si ritirò, accucciandosi, piena di vergogna. Quella era la vita. Trovare qualcuno più debole da martoriare era un piacere immenso. All'epoca, non lo nego, ero di una crudeltà incredibile, ed ora me ne vergogno. Ho pagato amaramente il prezzo del mio sarcasmo e della mia misantropia. Vorrei essermene tanto resa conto prima. L'Inat mi guardò, ora piangendo apertamente. Sembrava offesa, ed io ne fui contenta. Aggrottai le sopracciglia, quando la sentii parlare, con voce rotta. "ora capisco perchè Fjodr ti odia così tanto". Disse, stringendo i begli occhi. Ci fu poi un attimo di silenzio. Forse per distrarsi, Anì cambiò argomento. Un argomento fatale. "non hai mai amato tanto da mettere quella persona al primo posto, anche prima della tua vita, Lsyn? Che sensazione si prova?". Quella domanda innocente ebbe un effetto devastante. Mi sentii mancare il fiato, come se mi avessero donato un pugno nello stomaco. La pipa mi sfuggì di mano, cadendo con un tintinnio a terra, spargendo tabacco dappertutto. Non me ne accorsi. M'irrigidii, mentre sentivo una sgradevole sensazione di freddo attanagliare le mie viscere. No. Non volevo quell'ondata di ricordi. Non volevo ricordare. Capelli biondi, occhi d'ametista, in un viso scolpito nella neve. Un sorriso sghembo e beffardo su labbra sottili. Chekaril. Sobbalzai quando mi sentii afferrare per le spalle. Anì mi si era avvicinata, e mi stava scuotendo. Dovevo essere impallidita terribilmente, perchè il viso dell'Inat esprimeva pura preoccupazione. Le rivolsi un altro sguardo di fuoco, e lei si scostò."scusa, Lsyn!". Mormorò, abbassando la sguardo. "scusa...non volevo...". Mi alzai di scatto, rendendomi conto di tremare terribilmente. "tu non sai nulla di me". Ripetei, come in un sogno. La mia voce non aveva il minimo sentore di vita. "nulla. Tu non conosci la sofferenza. Non conosci la pazzia, nè la decadenza: tu vivi e vivrai dentro un mondo ovattato e protetto. Tu non conosci il sangue, nè l'oscurità seducente. Io ci ho sguazzato dentro. Tu non sai nulla del mio viaggio. Ed io viaggio da quando Fjodr era un giovane Insat inesperto". Mi scostai, cominciando ad uscire. "vado a prendere dell'acqua". Uscii, schizzando verso il pozzo. Rimasi lì abbastanza da calmarmi. Fu un sollievo, quando tornai, vedere Fjodr portare Anì, a braccetto, verso la sua tenda.

Tra me e l'Inat si stabilì una tregua silenziosa. Lei non tornò che la mattina dopo, pronta per una nuova giornata. Per fortuna, pian piano, le altre mogli e le serve ci accettarono. Non mormoravano più quando la giovane passava, nè mi facevano sgarbi. Una delle piccole, Sadiribeth, di tre anni, si legò a me in modo incredibile. Solo io e la madre riuscivamo a calmarla durante i suoi capricci, e lei si faceva pettinare i bellissimi capelli neri solo da me. Vedere qualcuno interessarsi alla mia vita tormentata era molto strano. Era strano anche vedere quanto fosse facile passare inosservata: tra gli elfi, non era mai stato così. In gioventù ero sempre stata troppo riconoscibile per via della statura irregolare per gli elfi, di norma molto alti, del mio comportamento un po' troppo sboccato e della mia fama. Dopo l'incidente, il mio abbigliamento strano e le mie cicatrici erano quasi una calamita per gli sguardi dei curiosi. Ero abituata ad attirare l'attenzione, e non avevo mai amato molto la cosa, specialmente durante le missioni. Finalmente, nessuno si curava di me. Ero normale anche come statura, e la cosa non poteva che farmi piacere. Per tutti, non ero altro che una mite vecchietta, che amava circondarsi dai piccoli. Mi rilassai un po'. Dopo i primi momenti di tensione, tra me e Anì si cominciò a sviluppare una strana complicità univoca. Io cercavo di essere il più sgradevole possibile con lei. Non le avevo ancora perdonato quella domanda. Mi ossessionava ancora. Lei, al contrario, mi copriva in ogni istante, e mi proteggeva se Fjodr cercava di darmi fastidio. Un paio di volte, in occasione dei miei viaggi nel Piano, mi aveva vegliata mentre io ero incosciente, in balia di chiunque. Non mi parlava mai. Cercava di essere gentile quanto più possibile con me. Io ne approfittavo, ovviamente. Finalmente, una mattina all'alba, si cominciarono a smontare le tende, ed a preparare i carri, trainati da quelle strane bestie dallo sguardo ebete ed il pelo brunastro, con due gobbe sul dorso. Loro le chiamavano cammelli, o qualcosa di simile. A me facevano un po'impressione. Ne hanno sempre fatta. Sembravano cavalli strizzati ed allungati, tracciati dalla mano di uno scultore pazzo. Fui però contenta della comparsa di questi mostri. Voleva dire solo una cosa: il cammino che mi portava a Chekaril si stava per accorciare.

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Angolino di Akita:

che insulso, piccolo capitolo. Che insulso capitolo. Che...ok, basta. Basta. Basta.

Passiamo dunque al dunque (oggi sono particolarmente...particolare ù__ù ma concedetemi la domenica, che io lavoro e sono esaurita)

Per Carlos Olivera: eh si xD ce l'ho fatta!!! Sono fiera di me stessa, sissì xD non pensavo di riuscire ad aggiornare xD non è puntualità, questa...è ossessione! Beh, in quanto a Nemys... povera Lsyn O.o povera O.o e questo è poco O.o vedrai, vedrai (come sai di sapere, eh ù__ù). Oggi non ho stranamente nulla da dire O.o ah, ho sistemato un po'la mappa, ricordamene O.o fammi sapere cosa pensi xD ciau!

Per Selly: ehi! L'importante è che sia tornata a recensire, sissì :P oh, questo è nulla, cara ù__ù il momento in cui potrà sfogarsi non appare tanto lontano xD devo confessare che certe volte è un po' difficile far tornare Lsyn bastarda come prima xD mi ero abituata a considerarla affettuosa, che ci vuoi fare xD ma così è più divertente, non credi? Su,su,su...fai sapere a zia Akita che pensi di questo capitolo xD ciao!

Per gli altri...bah.

Ciao!

Akita

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Capitolo 21
*** Falchi alla luce del sole ***


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Ciao a tutti!!!

Ho preso 88/100 al DELF *______* non ci credo non ci credo non ci credo... xD non ci credo... sono in uno stato di gioia isterica da stamattina O.o che bello xD

Con questo, la smetto e vi lascio al capitolo.

See you later!

Zia Aki

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A metà pomeriggio dello stesso giorno, dopo aver accuratamente impacchettato tutti i beni personali dei componenti della numerosa carovana, ci mettemmo in viaggio, alla volta di Myrthana, la capitale dell'Impero. Io ed Anì ci separammo, per fortuna: lei andò con le altre Inat, io nel convoglio dopo, con le serve. Nessuno mi rivolse la parola per giorni: sempre più spesso, ricadevo involontariamente nel mio mutismo, e mi chiudevo in un silenzio sdegnoso ed ostinato, perdendomi in mille pensieri. Gli altri lo interpretavano come la nostalgia di una vecchia, calata in un contesto del tutto estraneo e nuovo. La verità era che io non riuscivo a stare in compagnia. Quando una persona si avvicinava troppo a me, cominciavo a diventare nervosa, e spesso mi agitavo. Cinquant'anni di vita raminga e solitaria, abituata alla mostruosità del mio aspetto, mi avevano marchiata troppo a fondo. Ero sempre piùansiosa: ogni passo compiuto era uno in più verso Chekaril, e la mia redenzione. E, per giunta, il movimento oscillante del carro, lo scricchiolio delle ruote, ed il chiacchiericcio incessante delle mie stupide coinquiline, mi davano immenso fastidio. Camminavamo per tutto il giorno, un'incredibile striscia vivente e polverosa, e ci fermavamo solo per la notte. La sera, alla luce del falò, raggiungevo Anì, e fingevo di prendermi cura di lei. Lei faceva tutto da sola, mentre mi parlava allegramente, del suo passato, della sua famiglia natale, di un'altra tribù, del deserto, e di altre futilità che non servivano altro che a colmare un silenzio altrimenti imbarazzante, rotto dai miei sbuffi regolari di fumo. Presi a frequentare sempre più il Piano, ed informare la Regina dei nostri spostamenti. Imparai ad uscirne senza addormentarmi e senza conseguenze devastanti, a parte una terribile spossatezza che poteva durare ore. Furono giorni sempre più angosciosi. Cominciavo a rifare, con terribile periodicità, il sogno del cigno. Se chiudevo gli occhi la sua immagine regale mi ossessionava, mi tormentava. Dormivo e mangiavo poco, anche per un elfo, ed ero sempre più confusa e segretamente isterica. Lentamente, mi resi conto di stare attirando molti sospetti. Avevo visto una delle guardie del carro dove viaggiavo confabulare con Fjodr, che mi era parso preoccupato. Una sera mi chiamò nella tenda, esponendomi chiaramente il problema, serio. Nessuno si fidava più di me. Ero diventata la strana serva ombrosa, che non parlava e rimaneva digiuna per un lasso di tempo considerevole senza apparentemente avvertire nulla, sempre uguale a sé stessa. La mia commedia stava diventando pietosa. Le Inat cominciarono ad impedirmi di toccare i loro figli, cosa della quale ero segretamente grata. Avevo nostalgia dei miei bei capelli serici, così facili da pettinare e curare, dei miei limpidi occhi neri, ed addirittura delle mie orrende cicatrici, che fungevano quasi da deterrente per gli scocciatori. Promisi all'Insat una cosa: non appena raggiunto l'Impero, mi sarei volatilizzata. Inspiegabilmente, Anì non prese bene la cosa. La giovane nei giorni precedenti era diventata strana: sempre più umorale, meno disposta a darmi una mano durante i miei viaggi spossanti nel Piano ed a coprirmi. Scoppiò a piangere addirittura, implorandomi di non lasciarla sola. "io non ho nessuna amica come te, Lsyn!". Singhiozzò, raggomitolata sul suo giaciglio. Io la guardai in modo strano. Io...che? Amica di una Inat? Un'infima mortale? Pensai seriamente stesse andando fuori di testa. Non le risposi, e feci finta di dormire. A poco a poco, i lamenti della giovane si calmarono, con mio grande sollievo. Dopo lunghi giri, entrammo senza intoppi nel Matriarcato di Uruk. Il nostro peggior nemico dopo quella massa di fanciulli dalle orecchie tonde. Ribelli. Schifosi codardi pieni d'illusioni. Odiavano la Regina, che consideravano una tiranna sanguinaria. Questo bastava per scatenare il mio odio. Era il punto più meridionale di quella che era stata la Federazione Elfica, ed era situato in una grande e fertile pianura sottostante le montagne e le colline della zona di Sharilar. Nella morfologia di quegli elfi c'erano insignificanti differenze fisiche, come in tutti quelli delle zone più meridionali. Avevano spesso toni di pelle più scuri, ed i capelli bianchi non erano sinonimo di malattia, anzi: erano quasi comuni. Ero stata davvero di rado in quelle zone, e sempre adottando tutte le cautele del caso. Come facevo ormai regolarmente, dopo un passaggio sul fiume del confine, le cui acque spumeggianti mi lasciarono terrorizzata (e penso che Anì abbia ancora i segni delle unghiate involontarie che le infersi stringendole in braccio, in una morsa di paura), mi apprestai ad entrare nel Piano. Era la settima sera di viaggio, e ci eravamo accampati nel cuore del territorio. Dopo essermi assicurata che Anì mi vegliasse a dovere, afferrai il Comunicatore e, come al solito, mi catapultai nel Piano. Ben presto fui circondata da quel buio consolatorio, e ripresi ad essere Ombra. Mi avviai al solito luogo dove incontravo l'Essenza della Regina, ma ebbi una sgradevole sorpresa. A posto dell'elegante bagliore purpureo, c'era un'altra figura che mi aspettava. Una figura ben nota: una donna rapace, coperta di piume, dagli occhi gialli e malevoli e dalle grandi ali marroni che spuntavano dalle scapole. Il Falco. Quella che nel mondo reale era un inutile topo di biblioteca, lì grandoisa come ogni anima, mi fissò. La mia Essenza si dilatò e scurì, come sempre quando ero arrabbiata. Che ci fai tu qui, verme? Chiesi, sgarbatamente. Lo stridio d'uccello che era la sua voce mi ripose, mentre lei arruffava le penne, apparentemente imperturbabile. La Nostra Sigonra ha da fare, idiota. Mi rispose, inclinando il capo antropomorfo. Non può stare tutto il tempo dietro ai falliti, no? E' in fondo una Regina. Ringhiai, fissando quel calmo mostriciattolo, mentre la mia anima prendeva a pulsare. Lei ridacchiò;, e si sistemò le ali. Sono stata delegata io a controllarti, come vedi. Dove sei, ora? Cercai disperatamente di non cadere nella sua trappola urticante. Era sempre così: lei amava giocare col cibo prima di mangiarlo. Il suo soprannome non era dovuto solo al bizzarro aspetto dell'Essenza. Siamo nel cuore di Uruk, Akita. Le dissi con voce pericolosamente dolce, mentre l'ombra di cui era composto il mio corpo rimpiccioliva, fino a tornare normale. Entro pochi giorni raggiungeremo il confine, ed io li lascerò.Lei ebbe uno scatto improvviso: spalancò le grandi ali, ed emise uno stridio sorpreso. Si ricompose però subito. Sola, Lsyn? Andrai tutta sola per l'Impero umano? Domandò, piena di stranissima premura, allungando un artiglio verso me. Mi scostai, stranita. Non l'avevo mai sentita così preoccupata. Sospettano di me, sono costretta a farlo. Le dissi, in tono schifato. Lei si lisciò le penne del collo con una mano, ritirando l'altra e riprendendo i suoi irritanti comportamenti abituali. Un sorriso maligno deformò il viso. Se ti prendono, fammi un fischio. Voglio vederti agitare quei bei piedini che hai nell'aria di un patibolo. Ah...Tijorn ti saluta, comunque... a quel nome, mi rimpicciolii, schiarendomi. Era una cosa strana, sentire quel nome in quel contesto. Come diavolo faceva quel verme ad essere in contatto con lui? Mi strisciò uno strano sospetto in mente. Sei a Sharilar, Akita? Le chiesi, celando a stento il mio disagio. Avevo sbagliato a sottovalutare quella storia assurda, prendendola come un fatto isolato. Se ciò che pensavo fosse stato giusto, voleva solo dire che le cose tra quei due stavano diventando serie. Non mi piaceva per nulla la prospettiva di trovarmi tra i piedi quel ributtante stecco dal naso lungo quando fossi tornata da mio fratello. Il sorriso si trasformò in un ghigno. Oh, no... disse lei, stringendo gli occhi, con una calma invidiabile. Lui è da me. No. Proprio non mi piaceva. Tijorn era andato da lei, a Galinne? Aveva a tal punto nostalgia della sua perfida compagnia? Cominciai ad inquietarmi seriamente, e l'ombra di cui ero composta perse per un attimo la sua coesione. Poverino...aveva così bisogno di conforto...che gli hai fatto per ridurlo in quello stato, sfregiata? La sorpresa fu tale che la mia Essenza di dilatò improvvisamente, come se un'esplosione l'avesse dilaniata dall'interno. Altro che cose serie... era stato sedotto in piena regola da un ragno! Lei, probabilmente intuendo i miei pensieri, rise. Per tutti gli dei. Che schifo. Mio fratello non aveva il minimo senso del gusto. Era un idiota. Al ritorno, gli avrei fatto una solenne lavata di capo. Erano davvero strani pensieri, lo ammetto. Ma io sono sempre stata irrazionalmente gelosa nei confronti di Tijorn. Specialmente quando le sue compagne consistevano in immondi sputi acidi come quella. Passammo un momento eterno in silenzio. Poi lei, inaspettatamente, si ricompose, guardandomi con ansia, inclinando il viso. Ci sono giunte strane notizie dalla tua carovana, Lsyn, e nessuna di queste mi piace molto. Mi disse, avvicinandosi, aprendo le ali e tenendole tese, come se stesse per spiccare il volo.Ci sono state raccontate strane storie. Gli occhi gialli guizzarono da una parte all'altra, sospettosi. Dai un'occhiata in giro, e controlla: a quanto pare, qualcosa non va come dovrebbe. C'è qualcuno lì che non rispetta la neutralità come dovuto. Spia come hai sempre fatto: la Regina è inquieta. Non le piace questa storia, e teme si possa attentare al suo potere. Ma vedi di non farti scoprire. Il volto tradì di nuovo quell'ansia assurda nei miei confronti. Ero perplessa. Che fine aveva fatto l'Akita acida? Quasi non la riconoscevo: non era normale. Ci tengo a rivederti, almeno una volta. Guardati alle spalle. Non finì nemmeno di parlare. Dopo un fugace tocco al mio braccio, la donna-falco svanì, mentre Akita si addormentava. La sua coscienza mi scivolò a fianco, sfiorandomi come una carezza. E poi mi trovai sola nel Piano. Decisi di addormentarmi: per quelle notizie ci voleva la luce del sole.

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Angolino di Akita:

salve a tutti! Non mi dilungherò molto...ma chi legge tra le righe sa quanto io mi stia divertendo xD il titolo del capitolo è molto arbitrario, ma non sapevo proprio che mettere O.o vabbè xD xD

passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: eggià xD come hai visto, tendo ancora a...dilungarmi xD mi sto divertendo sai xD "signorina tagliagole"... mi piace xD proprio adatto xD si...come ti ho già detto, è l'HTML ._. sono una frana in questo genere di cose, lo ammetto .__. Che dici di questo capitolo? Fammi sapere fammi sapere *___* ciao!

Per Selly: *___* grazie xD ma nu... Lsyn è così dannatamente tenera xD già, proprio una mite vecchietta xD e, come chi sa sa, ancora non è finita xD che dici di questo capitolo? Fammi sapere, perchè io sono curiosa *___*

Non ho voglia ed ho fretta di aggiornare per rimproverare gli ALTRI xD

Ciao!

Akita

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Capitolo 22
*** Perché proprio lui? ***


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Ehilà, ciurma!

Eccoci qui con il capitolo numero 21 xD

Che bello, sono puntuale, alè xD

Ok, ora vi lascio, facendo una piccola precisazione.

Isnark non è di mia proprietà. E' una delle creature di Carlos Olivera, della quale mi sono impadronita con il suo entusiastico consenso xD santo, santissimo, grazie! v.v

Ora vi lascio al capitolo.

See you later!

Akita

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Durante gli ultimi quattro giorni di permanenza in quella carovana, l'atmosfera si fece davvero tesa, per vari motivi. Durante uno degli sporadici colloqui con Fjodr, per concertare la mia sparizione e renderla plausibile, avevamo deciso di mettere in giro la voce di una mia grave malattia. Smisi di prendere l'intruglio per la voce, che tornò roca ed affaticata come prima. Era un tormento incredibile parlare in quello stato, dopo giorni di relativo benessere. Inoltre, le notti insonni mi stavano donando un'aria molto sbattuta, e la pelle cominciava a tornare normale. Morale della favola: avevo un aspetto pessimo. Perfetto per la mia ultima sceneggiata. Il capotribù mi prese nel suo carro, ufficialmente per tema che la malattia fosse molto contagiosa. Anì, sempre più svogliata e taciturna, mi seguì, per assistermi, visto che le malattie umane non sono le stesse di quella Insathi. Ero costretta a viaggiare seduta in un angolo, assistendo agli occasionali scambi di tenerezze tra i due coniugi, cercando di dominare la nausea per il movimento ondulatorio del carro, ad occhi bassi. Stare con loro m'imbarazzava, e mi riempiva di un indefinibile dolore. Se io non fossi nata Spia, e Chekaril non Principe, anche noi saremmo potuti vivere felici ed innamorati, come loro, alla luce del sole, senza programmare assurdi stratagemmi anche solo per scambiarci un abbraccio. Magari mi avrebbe sposata. Ne ero convinta. Se lui non fosse stato rapito, prima o poi me l'avrebbe chiesto lo stesso. Oh, l...amore mi riempiva d'illusioni. Sapevo che quelle riflessioni mi uccidevano, ma non potevo farci nulla. Erano regolari e naturali come l'aria che respiravo, come le lacrime che tentavo di non lasciar cadere dai miei occhi tornati limpidi. Il mio dolore si traduceva in terribili e stupidi dispetti verso la povera Inat, che sembrava stare sempre più male. Inutile dire che non obbedii ad Akita, e non feci come promesso. Come potevo, se rimanevo chiusa in una tenda o in un carro tutto il giorno? Inoltre, la tribù, compresi estranei, contava circa duecento creature di diverse razze. Come potevo spiare tutti? Non ero onnipotente ed onnipresente, ed agivo in territorio ostile. Nell'ultimo contatto con la Regina, tornata presenza stabile nel Piano, avevo osato un po' troppo, e l'avevo fatto notare. Mi guadagnai uno schiaffo violento, e delle parole di disprezzo, accompagnate dalla minaccia di sospendermi dalla missione. Tale ero per Lainay: il mio era lo stesso rango dei suoi domestici. Non sapevo se sentirmi lusingata o ferita da quella considerazione. Devi trovare entro tre giorni il traditore. Stai per entrare nell'Impero, e dovrai lasciare la carovana. E so che non potrai più metterti in contatto con nessuno. Mi disse poi, con fretta insolita. Una volta trovato, mettilo sotto tuo controllo e mandalo nel Piano. Avrò bisogno di fargli qualche domanda. Io sarò qui fino alla mattina del quarto giorno. Spia come sai fare solo tu. Obbedisci Queste furono le sue ultime parole prima di sparire. Il suo ultimo ordine prima del silenzio: una volta sola nel territorio nemico, un contatto sarebbe stato un suicidio. Sarei stata una notte intera del tutto indifesa. E non si poteva fare. Da quel momento, cercai di stare più attenta: la sera, una volta addormentati tutti, sgattaiolavo fuori dalla tenda e gironzolavo per l'accampamento, in cerca di movimenti sospetti. Per creare una potente droga che avrebbe ipnotizzato la persona, asservendola completamente alla volontà di chi gli avesse parlato per primo per un certo lasso di tempo, provocando inoltre una brutta amnesia, di durata variabile tra una settimana e qualche mese, stetti tutta una notte in un bosco di larici dove sostavamo, in cerca di alcune erbe, elementi essenziali per ciò che volevo preparare, per mischiarle poi con cose rubate a Fjodr, che non se ne accorse. Furono giorni per me tremendi: sapevo che, in caso di fallimento, la prospettiva di essere uccisa era più che tangibile. E non avrei rivisto il mio amato Chekaril. Come fare? Dove cercare? Non mangiavo quasi più dal nervosismo, e dormivo nel carro, segretamente sollevata di non dover vedere i due Insathi per mano. Ogni ora che passava mi riempiva di disperazione. Finalmente, il penultimo giorno, una traccia. Era l'alba, e stavamo per partire. Anì era scomparsa, come capitava spesso in quei giorni, e la stavo straccamente cercando, su ordine del marito. Cercai di apparire quanto più malata possibile, e notai con piacere che le persone si spostavano dal mio passaggio. Almeno ero credibile, con quell'aria debole e la voce stanca. Non appena trovata l'Inat, raggomitolata vicino al pozzo, con un aspetto un po' scombussolato, cominciammo ad avviarci verso la tenda di Fjodr, in silenzio. Ero distratta: il comportamento svagato della creatura, sempre stato elettrico ed allegro da quando la conoscevo, mi sembrava stranissimo, e mi preoccupava il confine con l'Impero sempre più vicino. Non avevo trovato un accidente, nemmeno uno scampolo di prova, e cominciavo seriamente a pensare Akita avesse preso una svista colossale. Che l'amore l'avesse rimbambita più del solito? A costo di rischiare la vita, le avrei parlato di nuovo, una volta nell'Impero. Mentre passavamo per il cerchio abitato pressoch&è dai mercanti di basso rango, tuttavia, qualcosa attirò la mia attenzione. Una bella voce maschile, ora venata di rabbia, ma da me ben conosciuta. Mi sentii gelare, e mi bloccai sul posto, sgranando gli occhi. Mi risvegliai solo quando Anì mi riscosse, preoccupata. Mi si stava mozzando il respiro. Ero sicura di aver trovato quello che stavo disperatamente cercando, perchè sapevo ora l'identità della mia preda. Akita non si era sbagliata. Mandai avanti l'Inat, con il pretesto di aver bisogno di una boccata di aria più fresca. Le dissi che l'avrei raggiunta subito. La mia voce era atona. Non appena sola, cominciai a camminare attorno al cerchio, con la massima naturalezza possibile nonostante i miei piedi fossero serrati in una morsa di ghiaccio. Giunsi nei pressi di una tenda umile, dove faceva capolino un viso familiare. Lineamenti affilati, ascetici. Capelli bianchi e lunghi, raccolti parzialmente in una coda. Pelle olivastra ed occhi castani, lievemente obliqui, tipici di un elfo nativo dei boschi del meridione. Al momento vestiva panni piuttosto dimessi, da povero mercante, e stava urlando qualcosa contro un umano, a proposito di galline rubate nottetempo. Ebbi un mancamento, e quasi caddi a terra. Io conoscevo quell'elfo, e sapevo la sua storia. Ad Isnark non sarebbe potuto importare meno delle galline. Perchè non era un mercante. Un traditore del proprio popolo non può esserlo. Il Capitano dei Celestiali di Uruk, la controparte delle Spie, tecniche e fedeltà a parte, non era altro che un infiltrato. E quest'infiltrato aveva viaggiato per tutto il Regno, pronto a fomentare sommosse contro la Regina. Senza esitazione, non appena compresa appieno la situazione, fuggii a gambe levate verso il carro di Fjodr, attenta a non farmi vedere da nessuno, scivolando ed incespicando. Perchè proprio lui? La nostra rivalità era durata a lungo, quando io ancora ero la nobile e pericolosa Lsyn di un regno di Normar sempre più grande e lui un volgare figlio di contadini, arrivato da un piccolo ducato elfico sulla costa, poi inglobato nei territori della Regina, ed appartenente alla milizia nemica. Ci eravamo conosciuti durante l'assedio di una città, quando io, dopo aver ucciso un ufficiale nemico,ero stata colta sul fatto da quello che poi scoprii essere il suo migliore amico, un incauto civile che ammazzai brutalmente, senza scrupolo alcuno. Lui mi diede a lungo la caccia, missione persa in partenza. Il nostro ultimo incontro risaliva al famoso torneo in territorio umano, dove eravamo entrambi partecipanti. Quando uscii dallo stadio, battuta, lui perdonò i miei atti. Al momento della proclamazione dell'Impero, era fuggito ad Uruk, ed era diventato col tempo capitano dei Celestiali, una loro potente milizia. Correva voce di una relazione tra lui e la sacerdotessa Nemys, ributtante elfa ingrata. Ed ora era lì, impegnato in chissà quale missione. Ma, pensai salendo nel carro, affannata e pallidissima, con un groppo alla gola, la sua maschera sarebbe presto caduta. Non importava il suo perdono. Aveva attentato alla gloriosa Regina: era ricaduto nel suo stupido orgoglio patriottico, cieco e sordo. Ed io, al momento propizio, l'avrei preso come prigioniero. Ed avrebbe, volente o nolente, parlato. L'ombra non si acceca con l'ombra.

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Angolino di Akita:

ahahahahahahahaha xD finalmente, l'arcano mistero si risolve xD (ma per il meglio dovete ancora aspettare xD)...beh, ora basta xD

passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: ehi xD ecco qui Isnark, in tutta la sua bellezza, mio caro messere intuitivo xD è vero, non si è ancora entrati nel vivo...però...tutto ciò fa presagire belle cose, no? :P tra poco sguazzerò nel mio elemento xD che dici di questo capitolo? Diciamo che non si è ancora nel bello, però...presentato bene? Akita? Non è Akita che ti deve preoccupare, credimi O.o non proprio, almeno xD ora come ora, non si capisce che intendo dire :P che bello xD si elucubri, si elucubri... xD fammi sapere *___* ciao!

Per Selly: ciao, grazie mille *____* davvero? Hai fatto il PET??Dimmi un po'...com'è? O.o avrei intenzione di fare qualcosa di simile l'anno prossimo, ma l'inglese non è decisamente il mio forte O.o già...povera Anì, fa pena anche a me O__O Lsyn la bistrattata, povera piccina xD per il comportamento di Akita dovrai aspettare, sissì :P non è ancora momento xD fammi sapere *____* baci!

Per Kylien: ma ciao! Grazie anche a te *____* eh...diciamo di si :P ma cos'è, Akita ha destato molta curiosità, eh? :P che dici di questa "novità nefasta"? xD fidati, nel prossimo capitolo ce ne saranno di migliori :P su...dici a Zia Aki che ne pensi del capitolo *__* intanto che lo spam sia con te!!!

Agli ALTRI non ho nulla da dire xD

Ciao!

Akita

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Capitolo 23
*** Crudele pietà ***


……

.......

Eccomi qui, stranamente in orario!

Temevo di dover aggiornare per lunedì, invece ce l'ho fatta! Che bello xD

Proseguiamo ora con un piccolo disclaimer:

Isnark non è un personaggio da me inventato. Appartiene a Carlos Olivera, ed al suo spinoff fantasy, di cui non sto a ripetervi il nome. Come al solito, lo ringrazio, per la sua infinita disponibilità, e per le sue idee spesso geniali xD grazie, grazie, grazie!

Ora vi lascio al capitolo che, come noterete, è decisamente più lungo del solito xD

See you later!

Akita

.......

Quel giorno tenni gli occhi ben aperti. Sbirciavo continuamente fuori dal carro, per cercare di notare qualche strano movimento. Avevo paura che, nella relativa sicurezza della sua patria, Isnark se la svignasse. Non fu così, anzi: spiandolo, riuscii ad ottenere la chiave per catturarlo. Me la fornìlui, involontariamente. La notte stessa, infatti, decisi di fare un'altra passeggiata nel suo cerchio: ora sapevo chi cercare, e non volevo lasciarmi sfuggire quella pericolosa preda. Avevo aspettato che tutti andassero a dormire, spossati dalla lunga marcia. Feci finta di imitarli, rifugiandomi nella mia tenda vuota. Anì era probabilmente con Fjodr, e così non fui costretta a sorbirmi inutili chiacchiere e pianti. Cominciai a preparare tutte le mie cose, in fretta, in caso di una fuga improvvisa. Misi fuori la spada e la droga. Ero quasi sicura mi sarebbero servite presto.Una volta sceso il silenzio nell'accampamento, mi alzai, lasciando ancora tutto dentro la mia piccola abitazione, e mi avviai verso il cerchio dei mercanti. In giro non c'era nessuno. Arrivata alla postazione che avevo occupato la mattina, mi appostai nei pressi della tenda dell'elfo. Speravo con tutto il cuore ci fosse ancora. Aspettai a lungo, mentre la mia ansia cresceva in maniera esponenziale. Finalmente, il mio desiderio fu esaudito: vidi uscire la sua figura alta e snella dall'abitazione. Isnark era vestito di scuro, con un mantello dal largo cappuccio, che ne impediva l'identificazione, e portava con sè una grande bisaccia. Mi rannicchiai nell'angolo buio che avevo scelto come punto d'osservazione. La mia preda era guardinga, e si guardò a lungo attorno prima di avviarsi verso il bosco che ci circondava, inoltrandosi. Stava probabilmente scappando. Senza fare il minimo rumore, lo seguii, mantenendomi a poca distanza da lui. Avevo bisogno di sapere cosa diavolo stava facendo. Se stava fuggendo, avrei dovuto atterrarlo, e presto. Sperai con tutto il cuore non fosse così. Non volevo fargli del male, se non altro perchè lui mi aveva perdonata ed io, con tutti i miei difetti, non l'avevo dimenticato. Era un sacrilegio ferire un nemico che aveva rinunciato ad un debito di sangue. Lo sapevo. Il mio lavoro aveva un motivo in più per essere del tutto pulito. Un bagliore, e dei sussurri, mi misero in allerta. Isnark raggiunse quel punto con calma. Cercai di fare il meno rumore possibile, e mi avviai con lui, procedendo silenziosa nel sottobosco. Finalmente, dopo un lungo giro, arrivai dietro ad un grosso albero contorto, attorniato da rovi, da dove Isnark si vedeva benissimo. Un punto d'osservazione perfetto. Era in una radura, e si era tolto il mantello, rivelando la sua familiare tenuta da combattimento. Non era solo. Il cuore saltò un colpo, ed io strinsi i denti per non imprecare. Dannazione! La speranza di un lavoro pulito stava andando in malora man mano che mi rendevo conto dei particolari della scena. Seduti alla luce di un vivace falò, c'erano due altri elfi, senza la loro tipica corazza ma perfettamente riconoscibili come Celestiali. Non era stato difficile identificarli, nonostante fossero figure sconosciute: erano armati fino ai denti, e portavano entrambi un grosso ciondolo rosso, illuminato dalla luce del fuoco, e perfettamente visibile. Era tondo, grosso quanto una noce, e splendeva. Il loro segno di riconoscimento. Per il resto, non si assomigliavano affatto: uno era alto e sottile, dai capelli rossi ed ondulati, tenuti in ordine perfetto, l'altro più basso e muscoloso, dall'orrenda zazzera castana, riccia ed arruffata. Mi sentii sopraffare da un senso d'impotenza. Era stato sciocco pensare che il loro Capitano non si fosse portato un paio di fedeli botoli corazzati dietro, pronti a difenderlo fino all'ultimo sangue. I miei piani andavano rifatti. Scuotendo il capo, ripresi ad ascoltare e vedere. Isnark si era seduto tra loro, intanto che spiavo i suoi compari, che gli avevano fatto deferentemente posto. "avete mangiato?". Disse, con tranquillità, guardandoli. Erano tutti e tre perfettamente calmi. Certamente non sapevano che li stavo osservando, sapientemente nascosta dietro dei cespugli di rovi, come una belva in caccia! Ripresi ad ascoltare, avida di notizie. Entrambi avevano annuito, ed era piombato il silenzio. "avete trovato qualcosa di positivo, Capitano?". Disse il rosso, con voce curiosa. Il tono era gradevole. "notizie dal Regno?". Isnark fece una smorfia. "pessime notizie, direi, Rami". Mormorò, guardando il fuoco e giocherellando con una ciocca. "ho girato la bellezza di dieci villaggi! Dieci! Sono in giro da due mesi, e nessuno, dico, nessuno, mi ha mai detto di temere la Regina!". Strizzai gli occhi. Ecco che cosa era andato a fare. Proselitismo per i ranghi ribelli. Mi morsi le labbra, mentre pensavo. Era urgente che Lainay gli parlasse. Più che urgente. L'elfo basso aveva riso, una risata aspra, di scherno. Poi definì la mia Signora con un appellativo cosìoffensivo che sgranai gli occhi, scandalizzata. Non l'avrebbe passata liscia. Non che io non avessi mai bestemmiato prima d'ora, ma mai contro la Regina. Mai contro la mia dorata, regale, maestosa e potente signora e padrona. L'avrebbero pagata per questo. Il loro Capitano, intanto, aveva ripreso a parlare. "sta diventando sempre più potente". Disse, mesto, girando un ceppo. "tanto più che quella specie di animale del suo consorte le ha affidato anche la milizia in mano. Quella maledetta serpe ha tutte le forze armate, segrete e non, in suo potere. Prevedo guai, e guai seri". Ci fu un momento di silenzio. Cominciai a riflettere su quelle strane informazioni, aggrottando le sopracciglia. Ero d'accordo in pieno sulla definizione di Cyran, il Re. Un elfo, per carità, assai attraente, e di nobilissimi natali, ma del tutto inadatto per ricoprire la sua carica. I suoi unici interessi erano la caccia, le armi ed i cavalli. Era uno sprovveduto ed un pasticcione: sapevo bene che era per questo che la Regina l'aveva scelto come marito. Tra di loro non c'era una briciola d'amore, e l'assenza di un figlio non faceva che aumentare l'antipatia. Così assorta nei miei ricordi di quell'elfo inetto, quasi mi lasciai sfuggire un'informazione fondamentale. A quanto pareva dai loro discorsi, sarebbero rimasti lì per quattro giorni, in modo da far perdere le tracce di Isnark, che fino ad ora aveva viaggiato sotto copertura con la carovana. Poi, sarebbero tornati a Kyradon, la capitale di Uruk, dove avrebbero fatto rapporto a Nemys. I due soldati erano scelti tra la sua guardia personale, ed avevano il compito di scortare il loro capitano, e proteggerlo in caso di attacchi. Non avevano tenuto in conto gli imprevisti, a quanto pareva. Specialmente gli imprevisti che concernevano una spia casualmente in viaggio nella stessa carovana. Sospirai di sollievo. Avevo tempo. Non rimasi ad ascoltare le loro altre chiacchiere, e me ne andai, raggiungendo silenziosamente la tenda di Anì, ancora fortunatamente vuota. Presi ad arraffare tutto ciò di cui avevo bisogno, tutti i miei effetti personali. Presi la spada, e la agganciai alla cintura. Il suo peso era confortante. Mentre prendevo la borsa, e me la mettevo in spalla, cominciai ad abbozzare un piano. Sogghignai, mentre uscivo, carica di mille boccette. Ora sapevo che fare.

Una volta uscita fuori dal circolo di tende, cominciai a correre disperatamente. Avevo una fretta indiavolata. Non m'importava di non aver salutato gli Insathi, a cui sapevo di dovere molto: ora avevo qualcosa di molto bello ed importante da fare. Mi sentivo inebriata, come prima di ogni missione. La bellissima eccitazione dell'omicidio. Cercai di frenarmi, e di non precipitarmi ad ammazzarli allegramente. La prima cosa che feci fu cercare un ruscello, o una pozza d'acqua. Fortunatamente, non dovetti cercare molto. Era poco più di un rigagnolo, ma andava molto bene per i miei scopi. Ora non dovevo fare altro che gesti ripetuti tantissime volte in passato. Prima cosa, il viso. Ah, quanto dovevo a Tijorn. Promisi, tra me e me, di regalargli qualcosa di utile e speciale una volta tornata. Magari un vero cavallo, il suo desiderio di sempre, o un fazzoletto di terra coltivabile. Sorrisi, immersa nei miei progetti, mentre continuavo ad agire. Con cautela, presi dalla borsa una specie di blocco di materia unticcia, color avorio, conservato in quella che mi sembrava carta, e ne tagliai un bel pezzo con il pugnale. Poi lo immersi nell'acqua, e cominciai a passarmelo sulla faccia. Ciò che era rimasto del camuffamento cominciò a svanire, sotto l'effetto di quella sostanza dall'odore penetrante, non sgradevole. Sentii riemergere le cicatrici, lisce al tatto, e feci una smorfia. Era una cosa che non mi piaceva. Ripetei la stessa operazione per tutte le parti che avevo sottoposto alla sostanza viola. Poi, posando il quadrato, con gesti febbrili rovistai nella borsa, fino a cercare una bottiglia piena di liquido giallo. Per poco non lo feci cadere, tanto che mi tremavano le mani. Non vedevo l'ora di farla pagare a quel gruppetto ignaro di traditori della propria razza. Inghiottii un paio di gocce di quella roba, e, dopo essermi dibattuta per un po' dal dolore, scoprii con disappunto, mentre mi scioglievo dal nodo in cui mi ero contratta, che i vestiti indossati non mi entravano più. Il mio corpo era tornato quello di sempre, scattante, sano e giovane. Mi disfeci dei brutti abiti grigi e malandati. Fu un vero strazio cercare di togliere le cose che non uscivano, senza l'aiuto di nessuno. La casacca dette moltissimi problemi. Mi ritrovai a saltellare, imprecando, con le braccia per aria, senza potermi muovere in nessun senso. Strappai il tutto senza alcun rimorso. Finalmente, ripresi il mio aspetto di uccello del malaugurio, riappropriandomi dei vecchi abiti neri, sgualciti ma estremamente più comodi di quell'ammasso di toppe che indossavo precedentemente. Posai il liquido giallo, e presi una bottiglia blu. Misi un paio di gocce in ogni occhio. Per ultimo, mi occupai dei capelli. L'unguento per farli tornare normali era in un contenitore piatto. Lo spalmai tutto, sfregandolo con ansia. Non vedevo l'ora di ritrovare i miei ricci scuri e morbidi. Aspettai che facesse effetto andando avanti ed indietro per l'umile riva, borbottando maledizioni verso i tre elfi. Finalmente, venne l'ora di togliere quella schifosa sostanza grigia. Quella era la parte più antipatica. Rimasi per un po' di tempo a fissare il ruscello, afflitta. Non mi andava di doverci ficcare la testa dentro. Sospirai più volte. Odiavo farlo. Quell'acqua era fredda, e fangosa. Che orrore: avrei rovinato i capelli. Ed era sera, e non avevo un fuoco dove scaldarmi. Pazienza. Avevo cose più importanti da fare. Sorrisi biecamente, mentre pensavo alla nuova missione, chinando il capo impastato verso l'acqua. Avrei provato l'ebbrezza del combattimento, del sangue e della vittoria finale, dopo tanto tempo di dolore e inutilità. Ero arrugginita, lo sapevo, ma anche il combattente più valoroso non riesce a duellare contro una Spia, infida e piena di risorse, molto spesso per niente legali. Partivo nettamente avvantaggiata in questo senso. Conoscevo Isnark, e sapevo non si sarebbe mai abbassato a giocare sporco. Il suo stupidissimo onore glielo impediva. A me no: la parola onore era a me sconosciuta. In quanto alle guardie, sapevo come neutralizzarle in un batter d'occhio. Rabbrividii, mentre bagnavo i capelli, liberandoli da quella sostanza. Cercai di distrarmi in ogni modo. La Regina sarebbe stata nel Piano, come promesso? Sarebbe stata contenta di me? Avrebbe perdonato, almeno un poco, tutti i miei vergognosi fallimenti? Mi scrollai tutta, alzandomi, come un cane bagnato. Ebbi il grande piacere di vedere il ruscello chiazzato di grigio. Mi voltai, afferrando una ciocca e tirandola leggermente in modo da vederla. Fissai una massa di capelli bagnati e scuri. Sorrisi. Tutto era andato alla perfezione. Mancava solo un altro, piccolo, tocco. Rovistai nella borsa ancora una volta, per tirare poi fuori la mia maschera, impolverata e fredda. Sorrisi, e sospirai di gioia, come nel vedere una vecchia e confortante amica dopo tanto tempo. Il gesto familiare di allacciarla dietro le mie puntute orecchie mi diede un grande coraggio, e restituì la fiducia in me stessa. Mi riallacciai la spada, e presi il pugnale ricurvo, tenendolo stretto nella mano sinistra. Così conciata, ero davvero tornata Lsyn l'Ombra. Presi allora il Comunicatore, mentre sentivo rizzarsi tutti i peli. Lo nascosi sotto gli abiti, con cautela, in modo che non toccasse inavvertitamente la pelle, facendomi finire dritta nel Piano. Presi anche la droga, una poltiglia che avevo messo in una vecchia ciotola, e l'avvolsi in delle foglie, nascondendo anch'essa sotto gli abiti, in un punto diverso. Lasciando lì la borsa, che avrei recuperato una volta finito tutto, mi avviai con calma verso il luogo dove si erano sicuramente accampati gli elfi. Pregustavo già il sangue che sarebbe scorso. E ne gioivo.

Per ritrovare il piccolo spiazzo, non mi ci volle molto: scoprii poi che il ruscello era appena a dieci minuti da loro. Mi attirò il bagliore del fuoco, molto più smorzato rispetto a prima. Avevo perso il senso del tempo. Sicuramente era passata almeno un'ora, se non di più. Fremente, pregai con tutto il cuore dormissero tutti. Oh...come amavo il contatto della porcellana bianca contro la mia pelle! Mi appostai dietro i soliti cespugli, e spiai. Era come avevo previsto: sicuri di essere in territorio amico, dormivano tutti e tre del nostro sonno leggero, avvolti nei loro mantelli, le armi a portata di mano. Non avevano messo sentinelle, gli stupidi. Il falò non era altro che un ammasso di braci rosseggianti. Mi morsi le labbra, fissandoli con attenzione. Il rosso, Rami, ed il castano, erano ai lati di Isnark, quasi a volerlo proteggere. Quello più basso russava leggermente, ed aveva il capo appoggiato su un tronco. C'era un sasso a poca distanza dalla brutta faccia di Isnark. Sarei dovuta stare attenta a non inciamparci. Afferrai la spada, mantenendola in modo da non farla oscillare, e sbucai nel piccolo spiazzo. Ero stata così silenziosa che nessuno si accorse di nulla. Ghignai sinistramente. Mi sarei occupata per prima cosa dell'elfo che aveva insultato la Regina. Gli arrivai di fianco, in punta di piedi, e m'inginocchiai, stando attenta a non provocare il minimo clangore. Una foglia morta, trascinata sul terreno dal vento, avrebbe fatto più rumore di me. Gioii di questo fatto. Il cuore batteva forte. Mi sentivo felice, e Chekaril non era che un fantasma nella mia mente. Era sempre stato così, per ogni missione. Alzai il piccolo pugnale ricurvo, osservandolo con gioia selvaggia. E poi, di scatto, lo abbassai, manovrandolo con la destrezza che solo l'esperienza porta ad avere. Un taglietto qui, uno là, oplà! Il Celestiale stava passando all'altro mondo senza nemmeno accorgersene. Erano davvero interessanti gli arabeschi che il suo sangue disegnava sulla pallida pelle. Un lavoro perfetto, eseguito a regola d'arte. Mi sentii fiera di me stessa. Rimpiansi solo di non vederlo soffrire. Ero davvero un animale immondo. Perchè non mi fermai? Perchè? Senza alzarmi, mentre il povero tipo si dissanguava, mi slacciai la spada. Fu un gesto terribilmente avventato, ma non potevo rischiare di fare rumore. Mi alzai, infatti, lasciandola lì. Ripetei gli stessi gesti con il rosso. Ah...povere creaturine fiduciose. Avete tratto l'ultimo respiro. Spiacente di non potervi fare morire nel vostro bel letto, circondati dai parenti afflitti, ma quella di venire qui è stata una vostra scelta, e noi tutti abbiamo la facoltà di libero arbitrio. Ora c'erano due traditori infingardi in meno. Era una cosa davvero bellissima da pensare. Peccato che l'ultima vittima mi avesse schizzata tutta, inondandomi le mani e rendendole un po' viscide, ma non importava. In tutto questo, Isnark non si era accorto di nulla. Dormiva ancora, a pancia all'aria, una mano sulla sua bella spada, con la bocca semiaperta. Ridurlo in mia schiavitù era ora un gioco da ragazzi. Rovistai nella casacca, ed estrassi la droga. In silenzio, efficiente come una volta, perfetta, scartai la foglia, e presi una disgustosa manciata di quell'ammasso tritato male. Per fortuna avevo i guanti. Strisciai verso il suo viso. Ero così concentrata che commisi un errore fatale, nonchè molto stupido. Mi dimenticai del sasso, e, immersa in piacevoli pensieri di sangue, ci misi un ginocchio sopra. Il dolore fu improvviso, e lancinante. Mi strappò alle mie sanguinolente considerazioni, e mi fece cadere la droga. E qui feci una stupidaggine: cominciai a bestemmiare sottovoce, dimentica dell'avversario. Questo bastò perchè Isnark aprisse un occhio e, vedendomi incombere su di lui con un coltello insanguinato in mano, si mettesse seduto con uno scatto, brandendo la spada. Mi sentii gelare, e mi morsi la lingua, sobbalzando. Ero stata una dannata stupida. L'elfo dai capelli bianchi mi fissava con sorpresa, e confusione. Io restituii lo sguardo, pietrificata dal panico, facendo velocemente il punto della situazione. Non avevo la spada. Avevo con me un minuscolo, insignificante coltellino. E lui quella che aveva tutta l'aria di essere una sciabola. Lui era un guerriero veterano. Io ero una Spia arrugginita e stanca. Tutto era a mio sfavore. Decisi in una frazione di secondo di giocare di sorpresa, l'unica arma che ormai avevo. Perchè ero stata così sicura di me stessa? Perchè ero stata così idiota? Sentivo il sapore del sangue in bocca, e la lingua doleva. Ora era venuto il momento di vedere quanto valevo. Mentre ancora il mio avversario si guardava attorno, con orrore crescente, io gli saltai addosso, cercandogli di bloccare la mano della spada, facendogliela lasciare, e nel contempo di avvicinarmi alla mia. Cademmo entrambi a terra, rotolando, lottando senza esclusione di colpi, in silenzio. Lottavamo per uccidere. Finii con un piede nella brace, e la feci schizzare verso il braccio scoperto di Isnark, che bestemmiò. Le nostre armi giacevano dimenticate da qualche parte. Ben presto, la sua stazza superiore ebbe la meglio su di me, da sempre naturalmente mingherlina. Sarei riuscita a catturare un umano, ma mai un elfo allenato. Mi ritrovai, senza sapere come, a pancia in su, fissando il volto sconvolto dell'elfo. Gli usciva sangue dal naso, ed i capelli erano tutti impolverati. Cercai di muovermi, inutilmente. Ero bloccata. Un senso di panico crescente, dapprima smorzato dalla furia della lotta, si fece strada in me. Ero finita. Il mio viaggio terminava lì. La faccia di Isnark era concentrata, e rossa di rabbia. Una mano sulla mia gola, una mano callosa, da guerriero. E poi sentii stringere. Mi stava per strangolare. Annaspai disperatamente. Non era giusto! Perchè dovevo morire? Perchè non lui, il traditore? Sperai con tutto il cuore non mi avesse riconosciuta. Cominciavano a formarsi macchie nere nel mio campo visivo, ed il fiato mi mancava sempre più. Stavo morendo. Era tutto silenzioso, fatta eccezione per i miei rantoli, ed i fruscii dei miei movimenti frenetici. Mi sentivo un animale in gabbia. Era così triste che l'ultima cosa da vedere fosse il volto di un nemico. Davvero triste. Ero ormai allo stremo, quando sentii la pressione allentarsi. Boccheggiai, poi tossii, tirando un bel respiro, come se fossi appena riemersa da un abisso. Mi ci volle qualche altro momento prima che la vista si schiarisse, ed il mondo smettesse di girare. Ero ancora prigioniera della stretta ferrea di Isnark, ma lui non stava più tentando di uccidermi, anzi: mi fissava, perplesso, a poca distanza da me. Gelata ed indebolita, ancora affannata, ricambiai il suo sguardo fiero. La sua espressione, dapprima confusa, si schiarì improvvisamente, e lui impallidì, se possibile, ancora di più. Maledizione! Mi aveva riconosciuta! Mantenendomi con una mano, operazione più facile del previsto, ed appoggiandosi a me con tutto il peso, in maniera tale da bloccarmi, cominciò con l'altro arto a togliermi la maschera. Gemetti disperatamente, e mi divincolai. Non riuscii a concludere nulla: scoprii con orrore che era più forte di me. Che umiliazione. Finalmente, lui sollevò la maschera, e la gettò da un lato. Sgranò gli occhi, stringendomi più forte. Avvertii un lieve tremito nelle sue membra. Dovevo averlo spaventato a morte. "Lsyn!". Esclamò, a bocca aperta, con voce roca. Erano le prime parole che mi rivolgeva. "non puoi essere tu...cosa...". La sua voce sfumò nel nulla. Era rimasto chiaramente colpito dai segni che portavo sul viso. Ringhiai, senza rispondergli, sputandogli poi in faccia. Non doveva osare! Non doveva rivolgermi la parola! Lui, un traditore violento. Che ne sapeva lui di me? Il mio avversario non si scompose, e mi tenne più stretta. Cercai ancora una volta di liberarmi. Isnark mi guardò, ed alzò una mano, chiudendola a pugno. "non voglio ucciderti nè farti del male ma...visto che la metti così...". Disse, preparandosi al colpo, diretto verso il mio viso. Era chiaro intendeva stordirmi, per poi portarmi priva di sensi, prigioniera, a Kyradon, dove, quasi sicuramente mi avrebbero processata per chissà quanti crimini, e messa a morte, o tenuta come ostaggio. Davvero divertente. Peccato che non si era accorto di avermi quasi lasciate libere le gambe. Prima che mi colpisse, gli mollai una ginocchiata dritta nello stomaco. Sentii la presa allentarsi subito, ed il mio avversario ritirarsi, rannicchiato e dolorante. Non mi concessi nemmeno il tempo di pensare, ed agii d'istinto. Rotolai via, velocemente, e mi trovai vicina al cadavere dell'elfo castano. Rovistai attorno a lui fino ad afferrare un pomolo freddo. Finalmente, avevo la mia spada. Mi alzai di scatto, in guardia. Isnark mi aveva imitata. La partita non era ancora vinta. Ed ora ero in netto vantaggio: ero molto più leggera e veloce. Ci girammo a lungo attorno, come due lupi famelici. Alla fine, lui perse la pazienza, e con un grido, alzò la spada, abbassandola verso me, con un sibilo. Fu facile parare il colpo. Cominciammo a duellare, menando violenti fendenti, e dando fondo a tutte le nostre risorse. Sopperivo alla mia mancanza di forze con l'astuzia. Lui s'incaponì a mantenere la difesa, e questo gli costò caro. Grazie ad una sua piccola disattenzione, mi misi in vantaggio: superai la sua guardia, e gli incisi un profondo taglio orizzontale sulla guancia destra. Ebbi l'estremo piacere di vederlo arretrare, reprimendo a stento un gemito di dolore. Primo sangue versato. Io ero quasi illesa, a parte la gola che bruciava e pulsava e tagli vari, che non davano particolare fastidio. Dopo quella ferita, per me fu tutto in discesa. Il taglio, che partiva dall'attaccatura del naso e proseguiva obliquamente verso la mascella, sanguinava copiosamente, e lo stava indebolendo molto. Perse di nuovo il ritmo, evidentemente provato dall'ingente perdita di sangue, e ciò mi permise d'incidergli un'altra ferita, sulla stessa guancia ma in senso orizzontale, dall'orecchio alla bocca, quasi perpendicolare alla prima. Lui cercò di resistere, ma, dopo poco, comiciò ad ondeggiare pericolosamente, mentre gli occhi andavano di tanto in tanto fuori fuoco. Gioii. Lo avevo in pugno. Disarmarlo, costringendolo a torcere il polso, fu un gioco da infanti. Sfinito, Isnark cadde in ginocchio, i capelli e la casacca sporchi ed infangati. Era pieno di sangue. Provai una momentanea pietàper quell'elfo coraggioso, ma ogni simpatia per lui scomparve quando tentò di afferrare la spada, in un gesto disperato, e di conficcarsela nel cuore. Ah, era così? Voleva scampare all'interrogatorio suicidandosi? Mi sentii invadere dalla rabbia, una rabbia cieca e pericolosa. Isnark avrebbe dovuto cominciare a preoccuparsi per quella sua infima vita. Gli mollai un altro calcio, dritto nello sterno, senza più traccia di pietà alcuna. Non fu forte, ma abbastanza per farlo finire, gemente, schiena a terra, la spada ancora in mano. Gli misi un piede sulla gola, trionfante, ed un altro sul braccio della spada. Poggiai su quest'ultimo tutto il mio peso, e sentii uno scricchiolio. Dovevo avergli rotto il braccio, perchè lui gridò. Spostai il piede, posandolo a terra. L'avrei potuto uccidere in un batter d'occhio: avevo vinto. "ah, ah, ah!". Gli dissi, prendendolo in giro. Al suono della mia voce lo sentii fare una smorfia. "volevi giocareLsyn l'Ombra, Isnark, mio amico? Sappinon si scappa, piccino!". "ammazzami, bastarda". Mi rispose lui, ansimante per lo sforzo. "ammazzami come hai fatto con Lisander e Rami. Non è questo che vuoi, Lsyn? Non vuoi disfarti di un potente nemico? Non sarebbe bello il mio sangue sulla tua spada?". Chiuse gli occhi. Io cominciai a ridere, aumentando il peso, costringendolo a girare il capo, e premere la guancia ferita al terreno. Lo sentii reprimere un altro urlo di dolore. Povero, piccolo caro. Mi credeva davvero così sprovveduta, lui e la sua logica spicciola? Non l'avrebbe scampata così facilmente. Doveva ancora parlare. "ti ripeto che non si scappa, Isnark". Sputai, con rabbia. Ah, che dolce piacere vederlo vinto, ai miei piedi. "e tu mi servi. Dimmi un po'...". Il tono della mia voce si fece casuale, come se io e lui fossimo davanti ad un bel fuoco, a chiacchierare di tempi andati. Come adoravo prenderlo in giro. "ti è piaciuto il Regno? Ci porterai il viaggio la cagna che avete come sovrana?". Lui cercò di liberarsi dal mio piede, ma inutilmente. Era davvero debole. Un lieve senso di colpa si fece strada nella mia mente. Perchè gli facevo così del male? Cos'ero diventata? Quando ero più giovane, l'avrei finita subito, senza giochi inutili e sadici. Ma la vita mi aveva resa troppo crudele. Aprendo gli occhi offuscati, Isnark riprese a parlare, con rabbia. "non parlare di cose che non sai!". Ringhiò, guardandomi. Ricambiai con calma il suo sguardo, sorridente. "cos'è che non so, caro". Gli domandai, falsamente dolce. Cercai di dominare il dolore che cominciavo a provare. Povero Isnark. Doveva soffrire davvero molto. Davvero un lavoro pulito, il mio! La mia vittima, zuppa di sangue, mi rispose sempre più debolmente. "non sai nulla, tu...nulla di nulla. Cosa sei diventata, Lsyn?". Mormorò, richiudendo gli occhi, completamente vinto. Gemette di nuovo, debolmente, quando con il piede gli toccai la ferita. Poi lo lasciai andare. Non si mosse: rimase lì, respirando con difficoltà, cosciente solo a mezzo. Mi guardai attorno. Il campo era un disastro. C'era sangue dappertutto. Avrei dovuto pulire, dopo. Non potevo permettermi il lusso di lasciare tracce. Finita l'eccitazione della caccia, la vergogna s'impadronì di me. Ero una bestia. Tirai un bel respiro, e, accorgendomi del bolo della droga, ancora intatto in un punto, lo presi, avvicinandomi di nuovo al mio avversario. M'inginocchiai accanto al suo viso, mordendomi le labbra. Era conciato davvero male. Ero stata troppo cattiva. Isnark riprese a parlare, in un lamento. "in nome del mio perdono, Lsyn...". Mi supplicò, ancora ad occhi chiusi, con voce spezzata. "uccidimi...ti prego...non lasciare che Lainay carpisca certe informazioni...ti prego!". Socchiusi gli occhi, ed, involontariamente, mi lasciai sfuggire una lieve risata incredula. Aveva davvero coraggio da vendere, l'elfo, per chiedermi una cosa del genere. Gli misi la droga in bocca, a forza. Sentii stringermi il cuore. Povero Isnark, povero amico coraggioso. M'investì un'ondata di rispettosa ammirazione. Davvero notevole. Forza...un'ultima menzogna e poi non ti renderai conto di nulla. "questa ti ucciderà, Isnark...". Gli sussurrai, con premura e pietà inattese. "questa ti ucciderà...su...inghiottiscila... non farà male...". Lui mi obbedì, sempre meno presente. Mi sentii sopraffare dalle lacrime. Ecco cosa ne era delle promesse. Potessi essere dannata in eterno. "mi dispiace...mi dispiace!". Gli dissi, con voce rotta, mentre aspettavo che la droga facesse effetto. Ed era vero. Mi dispiaceva che, per l'ennesima volta, fossimo nemici. Mi dispiaceva dovergli fare del male, e mentirgli. Ma dovevo obbedire alle direttive della mia Signora. Dopo un paio di minuti, la sua figura snella si rilassò, e lui aprì gli occhi scuri, ora vuoti e calmi. "mi senti, Isnark?". Gli domandai, con autorità. Era venuto il momento di agire, di mettere da parte umanità e debolezze. Lui annuì, girandosi verso me, senza traccia di ostilità alcuna. Era del tutto in mio potere. "ora farai tutto quello che ti dico, va bene?". Lui annuì di nuovo ed io, con cautela, presi il Comunicatore da sotto i miei abiti e glielo misi in mano. "ora concentrati". Era un ordine, e lui mi obbedì senza fiatare. Vidi i suoi occhi divenire vitrei, e poi il suo corpo dibattersi e lottare contro Lainay, in uno spasimo di lucidità. Lo mantenni fino a quando non si calmò, afflosciandosi tra le mie braccia, avenuto o addormentato. Lainay aveva avuto ciò che desiderava. La mia missione era compiuta. Scoppiai in lacrime. Povero, povero Isnark. Non potevo lasciarlo così. Cominciai a tamponargli le ferite con il mantello, in fretta, mentre lui era ancora incosciente. Avevo commesso delle azioni terribili, ma potevo rimediare almeno a qualcuna di esse.

.........

Angolino di Akita:

ehilà, ciurma! Eccomi qui con la spiegazione di molte cose xD è un capitolo un po' cruento, lo so, ma vi devo confessare di essermi divertita un casino a scriverlo xD son sadica quanto Lsyn, certe volte, eh xD

beh, penso che basti, ho fretta di aggiornare.

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: ehilà xD finalmente, ecco il tanto sospirato incontro xD che ne pensi? Ci sono abbastanza scintille per i gusti del mio affiatato pubblico? xD ah, tu non sai come volavano le dita sulla tastiera mentre scrivevo xD allucinante xD povero Isnark...Lsyn gliele ha suonata di santissima ragione O.o il capitolo più lungo dall'inizio della storia O.o che bello, che bello!!!! Come vedi inoltre, sto cominciando a dare altri indizi per la fine. Sono sparsi un po' qui e là, e, confesso, non molti sono comprensibili xD ah, ma come mi diverto! Beh, commenta, e fammi sapere che ne pensi!!! Ciau!

Per Selly: ma ciao! Eh già...fare da candela è davvero spiacevole, ed io lo so bene xD sono solidale anch'io con il mio povero mostriciattolo xD (no, non ti ucciderebbe, stanne certa xD annuirebbe con tale forza da procurarsi un paio di ernie cervicali, ma non ti ucciderebbe xD) ecco l'incontro con il nostro simpatico Isnark xD che ne pensi? Devo dire che ho avuto la tentazione di riscriverlo, perchè certe volte indugiavo in alcuni particolari un po' macabri O.o ho cercato di volare alto e di girarci attorno xD che ne dici? Sono avida di un parere! A presto!

Per Kylien: grazie, cara v.v fa parte di un sadico complotto per tenervi con l'acqua alla gola (anche se non lo sapete muahmuahmuah xD) v.v cosa dici di questo piccolo interludio battagliero? Devo dire che ci voleva <.< scalpitavo per scriverlo xD oh bè, fammi sapere, eh xD baci dalla zia Aki omicida xD che lo spam regni sovrano!

Lascio in pace gli ALTRI xD

Ciao!

Akita

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Capitolo 24
*** Tre Problemi. ***


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Ahahahahahahah xD

Ahahahahahahahahhaahah xD

Non ce la faccio più xD io adoro questo capitolo xD è così...ah, vedrete (L) xD

Beh, non vi tolgo la sorpresa.

Isnark non appartiene a me, ma a Carlos Olivera.

Finite le precisazioni, penso che il viaggio possa iniziarexD

See you later!

Akita

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Sapevo di commettere un grosso errore, un enorme errore, e sapevo anche quanto fossi incauta, ma non potevo lasciar morire Isnark. Non potevo: il solo pensiero mi rivoltava. L'lfo non era mai, mai stato mio amico. Però lo avevo sempre rispettato, nonostante fosse un lurido traditore, figlio di poveri contadini. Si era battuto per l'ennesima volta con onore, mentre io avevo tenuto come sempre fede alla definizione comune di Spia, crudele e sleale. C'erano anche numerosi altri motivi, ben più profondi, e tutti contribuivano ad addolorarmi, e confondermi terribilmente le idee. Quelle ferite, che per un caso assurdo formavano l'iniziale del mio nome, avrebbero lasciato delle brutte cicatrici, e non sopportavo l'idea di aver sfigurato qualcuno, io, il mostro. Perchè proprio sulla guancia? E se si fossero infettate? Il fantasma di questa possibilità aleggiava nella mia mente in modo incessante, e mi tormentava. Rischiava di morire per un paio di tagli, accidenti! Eravamo lontani dai centri abitati, molto lontani. Come fare per salvargli la vita senza venire imprigionata a mia volta, e magari, torturata e uccisa senza la possibilità di rivedere Chekaril, di salvarlo e di tornare felice? Lui mi aveva risparmiata, mi aveva concesso di vivere proprio nel momento in cui sembrava avermi battuta. Ero davvero idiota, lo ammetto: che coerenza c'era nel proteggere qualcuno con la quale precedentemente si ci era battuti all'ultimo sangue? Che coerenza c'era nel voler salvare un nemico? L'Ombra, quella creatura sadica e crudele che ero una volta, non l'avrebbe mai fatto. Avrebbe lasciato morire Isnark, senza remore: era un avversario, e tanto bastava. Ma io avevo visto troppa sofferenza nella mia vita per restarne indifferente: essa era la mia perenne compagna. E non c'era Lainay che tenesse. Avevo tempo, e le avevo obbedito: avevo diritto ad un attimo di tregua. Quella pietà sbalordì anche me e, in seguito, cercai di giustificarla con il fatto che, se lo avessi ucciso, mi sarei attirata dietro decine di persone assetate di sangue. Da quanto avevo capito, Isnark era considerato un eroe della resistenza, ed era molto amato dal popolo di Uruk, secondo solo a Nemys. Questo però non giustificava il comportamento che ebbi nei suoi confronti. Infatti, nonostante il pericolo di essere scoperta incombesse su di me ad ogni momento che passava, nonostante poco prima l'avessi conciato davvero male, rimasi con lui in quello spiazzo devastato, seduta per terra, tenendogli il capo tra le braccia, assurdamente premurosa, e tamponandogli rudemente le ferite per cercare di arginare l'emorragia. Fortunatamente Isnark rimase incosciente, perchè dovevano fargli davvero male. Finalmente, il sangue si arrestò, ed io sbuffai. Il peggio era passato. Dovevo solo pulirle, per evitare spiacevoli inconvenienti. Ed ecco il primo problema. Che fare? Non avevo acqua calda, nè garze. Dopo un po' di tempo passato a riflettere, cominciai a rovistare nelle bisacce dei Celestiali morti, della quale non m'importava perfettamente nulla, in cerca di una borraccia, che poi trovai, togliendo il tappo e svuotandola sul viso dell'elfo, con un gesto spiccio. A mali estremi, estremi rimedi. Ero davvero una Guaritrice provetta. Fu allora che riprese conoscenza, con una smorfia, ed un gemito di dolore. "stai fermo". Gli ordinai, distrattamente, continuando ad asciugargli i tagli, il volto contratto per la concentrazione e l'ansia. Lui, ancora senza parlare, mi obbedì immediatamente, senza obiettare, stranamente, afflosciandosi come morto. Aggrottai le sopracciglia, sorpresa, e mi bloccai. Che stava succedendo? Quello non era un comportamento da Isnark. Lo sguardo, che avevo inchiodato al terreno, corse al suo viso, preoccupato. Lo fissai a lungo. Non appena la situazione mi fu chiara, non riuscii a reprimere una risata: la droga doveva essere ancora attiva, perchè i suoi occhi erano ben lungi dall'essere vigili. Scuotendo il capo, con un sospiro di sollievo, mi rimisi al lavoro, continuando ad asciugargli la faccia. Non si mosse. Era davvero una fortuna: non mi avrebbe riconosciuta, una volta sveglio, a meno di non portarselo come ostaggio attraverso tutte le terre conosciute. Scartai immediatamente l'idea: da quella parte, l'unica prospettiva era il cappio del boia. Secondo problema. Come fare per liberarmi di lui, facendolo sopravvivere, per poi rimettermi in viaggio? Portarlo al confine, per uno scambio, era anch'essa una via poco percorribile: mi avrebbero messo alle calcagna un intero esercito, pur di catturarmi. Sebbene non esercitassi più lo spionaggio da un bel po' di tempo, la mia fama era ancora viva, e molti tremavano solo a sentire il mio nome. E la maggior parte di essi mi voleva morta. Per salvarmi, avrei dovuto valicare le montagne, e fare un giro molto tortuoso per non essere presa. Ma lui? Che farne? Non potevo lasciarlo lì, debole e sanguinante! Non aveva la forza di volontà necessaria per andare avanti. A meno che... mi balenò in mente una possibilità, e borbottai una maledizione senza senso, mentre con una mano libera mi battevo la fronte. Ma certo! La droga era ancora attiva, e lui sotto la mia potestà! Se gli avessi ordinato qualcosa in accordo con i desideri più profondi del suo essere, l'ordine sarebbe valso anche dopo la fine dell'effetto. E quale creatura al mondo vuole morire? Tremai di gioia. Avevo la chiave per salvare Isnark, il mio povero amico. Era strano pensarlo in quei termini. Promisi a me stessa d'implorare il suo perdono, una volta finito tutto. Forse quello che stavo facendo per riparare al mio torto sarebbe bastato. Dovevo prima occuparmi del braccio, e poi avrei sistemato tutto. Afferrai il mantello di Rami, scuotendo il cadavere senza nessuna pietà, strappando poi l'indumento in mille strisce. Isnark stava sprofondando di nuovo nell'incoscienza. "rimani sveglio, idiota!". Abbaiai, sempre più ansiosa, prendendo una manciata di bende improvvisate, e voltandomi verso di lui. Fu un sollievo vedere che mi obbedì. Con delicatezza ed attenzione, sollevai leggermente il braccio che avevo rotto. Lo sentii lamentarsi debolmente. Esaminai il danno, cercando di fare il punto, mettendo insieme le scarse conoscenze che avevo di Guarigione, almeno per farmi un'idea della situazione che avevo creato. Mordicchiandomi le labbra, perplessa e disperatamente concentrata, arrivai alla conclusione di avergli quasi spezzato l'osso dell'avambraccio. Se solo fosse stato umano, non ci sarebbe stata speranza per un recupero totale. Mi aveva davvero dato di volta il cervello, per combinargli un tiro così. Sentii un'altra, tardiva, fitta di senso di colpa, e bestemmiai sottovoce. Cercai, annodando i lacci, di fasciargli il braccio come potevo, poi, gli sistemai il mantello, spolverandogli i capelli. Era pronto per andare. Ed io ero un'idiota. Cominciai a scuotere leggermente Isnark, che aprì un occhio. "Isnark...tu vuoi vivere, vero?". Domandai, posandogli con premura una mano sulla fronte. Fu bello vederlo annuire. "bene...io ti ordino di vivere. Devi vivere. E' vero che conosci il centro abitato più vicino?". Mosse di nuovo il capo. Un altro cenno affermativo. Il sollievo m'invase, come tè bollente in una giornata di neve. Sorrisi di gioia. "benissimo. Io ti ordino di raggiungerlo, e di farti curare. Capito, Isnark?". Lui ricambiò il mio sorriso, ed annuì per la terza volta. "vai, allora! Prendi la bisaccia e vai, senza voltarti nèè fermarti fino a che non avrai raggiunto la tua meta! Vivi, maledetto sia chi ti ha generato!". Confesso che la bestemmia sorprese anche me. Troppo tardi mi morsi le labbra: sperai silenziosamente che lui non l'avesse interpretata come un ordine. Al momento, non pareva. Lo vidi alzarsi faticosamente, e compiere con lentezza esasperante tutti i gesti da me detti, sparendo poi, barcollante, nel buio. Rimasi sola con i due cadaveri, in una piccola radura macchiata di sangue. Lentamente, alla rabbia si sostituì un altro sentimento, qualcosa di molto più viscido e freddo. Fissai i due cadaveri quasi con terrore, e con molto fastidio. Odiavo i morti. Li odiavo. Quando avvertii i passi esitanti di Isnark sfumare in lontananza lanciai un grido di esasperazione. Perchè non era ancora finita. "ed ora, dannazione". Sbottai, sconsolata e schifata, guardando quello che rimaneva dei Celestiali. Quello era il terzo problema "cosa ne faccio di voi due?".

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Angolino di Akita:

ah... com'è stato appagante scrivere di Lsyn infermiera provetta (L) davvero (L) ah, la mia piccola Spia piena di turbe esistenziali, ah! (L)

ok, la smetto di parlare a vanvera. D'accordo.

Passiamo dunque al dunque:

Per Carlos Olivera: perchè provi pena per Isnark?? O___o l'ho trattato con i guanti (dopo averlo torturato un bel po', lo ammetto <.<)! Dai, non pensi che Lsyn sia un'infermiera provetta? (quando scrivevo la scena della borraccia mi frullavano queste parole in mente, ed ora chi me le leva più xD) sono contentissima che il capitolo ti sia piaciuto...mi sono fatta una marea di fisime xD e se non va bene? E se, e se, e se... mi esasperavo da sola O.o vabbè, va' xD dimmi un po'...che pensi di questo capitolo? Attendo impaziente tue opinionial riguardo xD ciau!

Per Selly: hola! xD già...tu non sai quanto io mi sia divertita a scrivere del duello, tu non sai xD grazie :P sono contenta che anche a te sia piaciuto ^^ passando a cose più serie...ti dico solo che dell'incontro nel Piano si sapranno solo certe cose...ma per questo dovrai aspettare molto, molto ancora xD beh, cara, Lainay non è un personaggio sopportabile, almeno questo xD la cara Lsyn è una testa dura, non c'è che dire...le occorrerà ancora molto per capire...ecchevuoi(xD), deve essere un po' ritardata per ragioni di storia xD che pensi di questo capitolo? L'ho trattato bene al povero Isnark, dopo averlo letteralmente massacrato? xD fammi sapere *.* ciao!

Ciao agli altri, eh...

No comment xD

Akita

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Capitolo 25
*** Orrore. ***


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Ehilà!

Mi scuso per l'assenza anormale, per me, ma in questi giorni Internet non ha collaborato. Non so se riuscirò ad aggiornare con la solita frequenza per questo motivo. Mi scuso ancora xD

See you later!

Akita

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Come avevo previsto, l'occultamento dei cadaveri fu un affare complicato, più del previsto. Riflettei a lungo su quel terzo problema. D'accordo, ero in un bosco. In un bosco nemico. Pochissime speranze di trovare burroni, crepacci, insomma: posti dove gettare i corpi, senza lasciare tracce. Non avevo pale, nè picconi, e non potevo scavare una buca. Allora che fare? Una stranissima sensazione di gelo cominciò a farsi strada in me. Mi venne la pelle d'oca, e penso di aver sgranato gli occhi. Mi girai verso le pallide larve che un tempo erano stati esseri vivi e senzienti. Se solo non fosse stato per il sangue, avrei giurato dormissero. Mi morsi le labbra, rabbrividendo. Gemetti. La soluzione era una sola. Avrei dovuto farmi coraggio. Tanto, tanto coraggio.

Io odiavo i cadaveri, li ho sempre odiati. Sebbene ci abbia convissuto, l'abbia sfiorata moltissime volte, e ne sia stata spesso la causa, la morte mi terrorizza, quasi più dell'acqua. E' un accadimento così...strano, di così innaturale ed imperscrutabile, difficile da accettare per un essere pluricentenario. Ed un corpo freddo e rigido non aiuta a superare la fobia. Non sono mai riuscita a stare vicina ad una vittima, dopo averla uccisa, mai. Ero stata dileggiata molte volte per questo. Ora ero costretta a nascondere le prove di un delitto come una ladra. Ci ero costretta. Ero quasi sicura che, una volta tornata la memoria ad Isnark, sarei stata nei guai più seri. Avevo tempo per fuggire, ma Uruk non sarebbe mai più stato un territorio sicuro, per me. Ed era meglio nascondere ulteriori prove, per pura cautela. Parola strana per me, un tempo. Sentivo già all'altezza della gola stringere la ruvida corda del cappio. In quel delicato momento, la mia vita era al primo posto. Ed allora mi dovevo dare una mossa. Sospirai, poi afferrai la spada, in silenzio ma piagnucolando segretamente nella mia mente, come un'infante, come una fanciulla senza nerbo, e m'inginocchiai vicino ai due. Sul mio viso doveva essere impressa una terribile smorfia di disgusto. Cominciavo a sentire sul fondo della lingua l'aspro sapore della bile. Un respiro. E poi cominciai a smembrare i corpi, combattendo contro l'impulso di chiudere gli occhi e fuggire. Povera me. Povera, povera me. Perchè mi facevo tutti quei problemi, quegli scrupoli? Pensai, cercando di distarmi, e di non guardare l'assurdamente rigida faccia di Lisander. Ero si o no una Spia? Lsyn l'Ombra dove diavolo si cacciava in quelle situazioni? Perchè non riuscivo ad essere padrona di me stessa? Tremavo follemente, cercando di mantenere regolare il respiro. Finalmente, portai a termine quel rivoltante compito, trattenendo a stento la nausea e la rabbia. Ero tutta sporca di sangue, pessima prospettiva quando si ha paura dei fiumi, dei laghi, ed in generale di tutte le acque che non siano parte integrante di un rilassante bagno caldo, decisamente un'utopia quando si è in viaggio in incognito. Rivolsi gli occhi al cielo, piena di gioia. Ora che quei due non erano riconoscibili come creature, tutto mi era più semplice. Attizzai nuovamente il fuoco, aspettando fino a che non ruggì, rovente. E poi ci gettai quello che rimaneva dei due innocenti Celestiali dentro, abiti ed effetti personali compresi, cibo escluso. Rubai però loro i ciondoli, un segno di riconoscimento troppo palese, e li cacciai in una tasca, al sicuro. Quei bellissimi monili mi sono diventati cari, ed è bello vederli al collo di persone che amo e proteggo con tutta me stessa. Ora mi sentivo meglio. Seppure avessero trovato qualcosa, nessuno avrebbe potuto imputarmi gli omicidi, nè riconoscere le ossa. E, seppure l'avessero fatto...c'era tutto il tempo per ritrovare Chekaril. Dopo essermi assicurata che nulla andasse a fuoco oltre il dovuto, mi girai verso quello che era stato un accampamento. Era un disastro totale. C'era sangue dappertutto, e la mia maschera era gettata malamente in un angolo. Sentii una tremenda fitta di ansia. Dannazione, era fatta di porcellana! Non era certamente adatta ad essere strapazzata in quel modo! Voltando definitivamente le spalle al falò mi avviai esitante verso di essa. Se solo si fosse rotta, davvero non avrei saputo che fare. Quella maschera era stata la mia protezione, la mia amica, il mio solo conforto. Aveva coperto le mie cicatrici, la mia bruttezza, la mia mostruosità. Ed era stato un regalo di Tijorn, uno dei tanti, ma il più prezioso. L'ultimo regalo prima della mia partenza. Si era stancato del fatto che, una volta dimessa dal Lazzaretto, convalescente in casa sua, portassi stracci avvolti attorno alla testa e uscissi solo di notte, saltando ogni volta che incrociavo uno sguardo troppo curioso. Era andato da un abile artigiano di Galinne, ora morto. Quando l'avevo visto venire con in mano quel fine oggetto, quasi ero scoppiata in lacrime. Dolcissimo fratello, sempre presente,anche in un oggetto, in un pensiero. Il ricordo della sua premura era stato l'unico calmante nelle lunghe notti d'inverno, quando ero costretta a fermarmi, mentre la neve cadente, trasformata dal vento, disegnava nell'aria strane forme, ed io i denti dal freddo, rannicchiata da qualche parte, senza poter accendere un fuocherello per riscaldarmi. Quella maschera era stata l'unica amica nei viaggi infiniti, quando conversavo con i miei ricordi, persa in un labirinto di fantasmi. Aveva lenito tanti bocconi amari, quando la gente mi guardava e cambiava strada. Ripresi a tremare, nonostante facesse caldo. Se si fosse rotta, sarebbe stato come perdere una sorella, una madre. Un po' esagerato, lo ammetto, ma spesso la solitudine fa impazzire leggermente anche le menti più salde. Ed io non lo ero. M'inginocchiai, ed afferrai spasmodicamente l'oggetto. Sospirai di sollievo. Era quasi tutto a posto. Esaminai la superficie, con cura, togliendo con un'unghia la terra. Era un po' scheggiata in alcune parti, e da un lato correva una piccola incrinatura, ma non era nulla di preoccupante. Sentii un'ondata di sollievo farsi strada nel mio cuore. Esitante, me la riallacciai dietro le orecchie, un gesto ormai meccanico. Poi guardai lo spiazzo, dove il fuoco bruciava allegramente. Il sorriso si trasformò in un ghigno, e sentii pian piano la sicurezza tornare in me. Era davvero tempo di andare, che si sopiscano i ricordi ed i rimpianti. Chekaril mi aspettava, no? E, seppure il fuoco avesse intaccato per caso il resto, non era propriamente un male. Raccolsi il cibo, che mi sarebbe servito nelle montagne, e, ancora ghignando, senza rimorsi, mi avviai verso il ruscelletto, dove avevo lasciato la borsa. Era tempo di rimettersi in viaggio. La mia missione si era conclusa con successo.

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Angolino di Akita:

eccomi qui, con un capitolo scritto un po' di fretta, ma di cuore xD come detto su, mi dispiace per non essere stata puntuale, ma per cause di forza maggiore Internet non è stato disponibile ._. ho una linea un po' bizzosa ._.

d'accordo, passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: ma Lsyn è umana (cioè, pardon, elfa)...solo che se lo dimentica, certe volte xD davvero?? O__o allora sono sinceramente curiosa di leggere...anche se SO che ci vorrà ancora molto, molto, molto tempo v.v per ora, lasciamoci trasportare da leggiadro presente (ehi ma come son poetica oggi!! xD)! Certo che è stato nel Piano, Isnark... ci vorrà tempo però, prima di scoprire cosa è successo (anche se tu lo sai BENISSIMO :P). Che dici di questo capitolo? L'ho scritto di corsa appena ho visto che si connetteva <.< per ora, ti saluto. Ciao!

Per Selly: ciao! Ehi si, si vede, eh? Lsyn in fondo è un cuore tenero, tenero, tenero xD teneramente bastardo, diciamo, su xD eh eh... fa bene a non piacerti la parte del Piano xD perchènasconde grandi, grandi magagne :P abbi solo un po' di pazienza... si tratta solo in fondo di segreti che condizioneranno anche il seguito v.v muahahahahahahahahahah xD che dici di questo capitolo! Fammi sapere! Ciao!

Ok, gli altri andassero pure a passeggio v.v

Ciao!

Akita

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Capitolo 26
*** Voci nella Nebbia ***


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Ehi!

Oggi sono d'umore coccoloso, anche se ho una verve da celenterato xD ho battuto il mio record: 4 ore e mezza di sonno!!! Evviva ._. cioè... il record non proprio, però... ._. odio i fattoni che gironzolano la notte, ubriachi fradici, gridando e ridendo alle 4 del mattino ._. e poi oggi sono tornata nel posto preferito della mia infanzia <.< che dolore, che dolore!! <.< sono rimasta a fissare la gola dove giocavo con la paperetta di plastica per un buon paio di minuti <.< argh, che sentimentale <.<

Vaaabbè... basta! xD

See you later!!

Vostra Akita oggi schizzata O.o

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Ancora galvanizzata per gli accadimenti della notte, cominciai a correre non appena afferrata la borsa, e ficcato il cibo dentro, frettolosamente. Non sapevo il motivo: semplicemente, mi era parsa una buona idea per sfogare la rabbia che mi restava. Per il tradimento di Isnark, rimasto il contadino sempliciotto di una volta, per l'omicidio dei due Celestiali, che sapevo punibile con la morte, e per la mia insospettata pietà. Come sempre, soprattutto quello mi dava fastidio. Era sempre scioccante, quando quel lato del mio carattere si mostrava, guizzando senza preavviso. Lo detestavo: mi ricordava i miei limiti, e la mia imperfezione. Ed io non volevo essere imperfetta, anzi. Alzando lo sguardo, notai che, pian piano, il nero inchiostro del cielo cominciava a sbiadire. Si preannunciava una giornata di sole. Scossi il capo. Avevo preso tutto con estrema calma. Troppa calma. Entro l'alba del giorno dopo avrei dovuto raggiungere le montagne che correvano parzialmente lungo la linea del confine, a cavallo tra Regno, Matriarcato ed Impero. Erano luoghi poco frequentati, impervi e perennemente freddi, nonostante in quel tempo la primavera fosse molto inoltrata. Avrei penato, oh, come avrei penato. Rallentando, trasformando la corsa in un cammino veloce, feci mentalmente l'inventario di ciò che avevo nella borsa, tanto per occuparmi un po'la mente. Altri unguenti, quanto bastava per trasformarmi ancora in una placida vecchietta, i loro antidoti, il Comunicatore ed un'abbondante razione di carne secca, rubata, che speravo sufficiente per valicare le montagne. Una volta arrivata nell'Impero, sarei tornata la mite vecchietta, cambiando ovviamente nome, ed avrei potuto...diciamo prendere in prestito viveri dalle fattorie. Non avevo abiti di ricambio, e questa era la cosa più brutta. Ero sporca di sangue e terra. Perfino i capelli erano impastati. Dovevo avere un aspetto terribile, ed il mio profumo non era sicuramente dei più seducenti. Mi scrollai quel pensiero con un gesto annoiato. Non ero ad un ballo, dannazione! E non era il momento adatto per pensieri frivoli da nobile vanitosa qual ero. Ero ormai da un'oretta in viaggio, quando mi fermai di botto. La mia testa si fece completamente vuota, a parte un sordo ronzio, fissando un ruscello familiare. Mi morsi le labbra, improvvisamente inquieta. Era questo, per caso, il quarto problema? Risi da sola per la battuta idiota, con la ma solita risata aspra e ragliante. Perchè non c'era da scherzare: avevo vagato in tondo. Mi ero distratta, e non conoscevo il territorio. Sapevo di dovermi dirigere verso est, ma a quanto pare avevo sbagliato miseramente, nonostante di solito il mio senso dell'orientamento non sia per nulla pessimo. Cominciai a sibilare bestemmie. Di quel passo mi sarei trovata quanto meno a Kyradon! Come diavolo avrei fatto nell'Impero? Mi sarei davvero dovuta appoggiare a Lateek, che sapevo viveva in un piccolo villaggio costiero? E come avrei fatto senza cibo, per le montagne? Osservai il cielo, parzialmente oscurato dalle foglie. Per quel motivo non vedevo un accidente. Bestemmiai più forte. L'unica soluzione era arrampicarsi su qualche albero alto. Dopo aver osservato gli arbusti attorno a me, scelsi un faggio solido e fronzuto, un po'contorto, ma perfetto per il mio scopo.Posai la borsa a terra, ed affidandomi a tutti gli dei, noti e non, cominciai l'ascesa. Mi tornarono in mente i giochi della mia infanzia, e le calde giornate estive con Tijorn nel bosco di Sharilar, quando ci appollaiavamo su un albero scelto a caso, in cerca di frescura, sgranocchiando frutti sgraffignati dalla dispensa, nascondendoci dal Maestro, che ci cercava per la solita lezione. Era una fortuna aver vissuto i primi tempi della mia esistenza in campagna. Arrivai in cima, finalmente. Mettendo cautamente i piedi su due rami più robusti, misi la testa fuori. Ero leggermente più in alto del resto del bosco, e questo mi risultò utile. Concentrata, mi osservai attorno. Alla mia sinistra, un debole alone di fumo, probabilmente resti del falò. Alla destra, finalmente, le montagne, che spiccavano alte ed azzurrine nella luce del primo mattino. Sospirai di gioia, e scesi, rompendomi quasi l'osso del collo, sdrucciolando su una macchia di muschio del tronco, ma atterrando, letteralmente, sana e salva sul suolo. Scrollandomi il terreno di dosso afferrai la borsa, e cominciai ad avviarmi. Finalmente sapevo dove andare.

A passo sostenuto, rallentando solo per mangiare distrattamente qualcosa, senza fermarmi, raggiunsi la base di una montagna solamente il giorno dopo, verso il primo pomeriggio. Seppur sfinita, mi costrinsi ad andare avanti, cominciando l'ascesa svogliatamente. Dovevo arrivare in cima, sperando che quella fosse la direzione giusta. Non mi sentivo molto in forma: la testa ed il collo mi dolevano terribilmente, conseguenza dei capelli tenuti troppo a lungo bagnati, ed ero stordita. I miei ricordi di quel viaggio sono decisamente sfumati. Verso sera, ormai quasi a metà strada, decisi di fare una pausa. Era stata una giornata difficile: in quei luoghi non c'erano sentieri, nè alberi. Solo rocce, rocce, erba ed arbusti spinosi. E poi ancora rocce. Era stata quasi una scalata. Rimpiansi amaramente di non averci pensato prima, e non essere rimasta con gli Insathi. Chi se ne importava di Isnark, del tradimento, se io mi fossi di nuovo persa? E come aiutarmi? Chi mi diceva di non essermi di nuovo perduta? Perlomeno, pensai, rannicchiandomi al riparo di una roccia, per difendermi da un vento fastidioso che aveva cominciato a soffiare instancabilmente, lì non c'erano nemici da cui guardarsi. Chi accidenti avrebbe potuto vivere in un posto così desolato? Fui davvero, davvero, incauta. Perchè mi sbagliavo di grosso. Oh, si che mi sbagliavo! Fui decisamente ingenua: senza più fare caso a nulla, beandomi dell'assurda quiete montana, mi concessi un lungo riposo. Avevo dormito male durante tutto il viaggio nella carovana, e per tre giorni buoni non avevo chiuso occhio. Non sapevo di essere già braccata.

Accadde all'alba. Ero più lucida, anche se decisamente non ristorata, e cominciavo ad avvertire le prime avvisaglie di quello che aveva tutta l'aria di essere un raffreddore. Mi sentii molto seccata da quel fatto, ricordo. Era davvero incredibile. Beh...nessuno mi aveva detto di andare in giro di notte con i capelli bagnati! Mugugnando, mi rialzai dal mio giaciglio temporaneo e, prendendo dalla borsa una striscia di carne secca, ripresi il mio cammino. Ero arrivata in un posto leggermente più ameno: la vegetazione era più fitta, inframmezzata qui e là da grandi rocce spoglie, e sentivo il canto degli uccelli. La natura in primavera era sempre bella. Forse fu quello a distrarmi, non so, forse fu la stanchezza, ma fui davvero stupida. Stavo passando tra due grandi rocce, a testa bassa, immersa fino alla vita in una bella caligine grigia e compatta, nebbia di primo mattino, quando mi sentii chiamare. Era una voce maschile. Mi fermai di botto, stupefatta. Cominciai a tremare, mentre mi salivano le lacrime agli occhi. Chekaril! Alzai di scatto al testa, e, cercando in ogni modo di frenare la commozione, mi guardai attorno freneticamente. "Chekaril?". Chiamai, disperatamente. Anche la voce mi tremava. La testa si svuotò del tutto. "dove sei?". "qui, Lsyn, qui!". Disse la voce, con un tono allegro che mi diede coraggio. Starà bene? Che gli avranno fatto? Il suono proveniva dalla fine della strana gola che stavo percorrendo. Reprimendo a stento un singhiozzo, cominciai a correre verso una risata, guardando avanti. Avanzai fino a portarmi avanti ad una roccia, che incombeva su di me. Non sentivo nulla. "Chekaril!". Chiamai, disperata, mentre mi guardavo ancora attorno, come una bestia presa in trappola. Come aveva fatto a liberarsi? Come? Dov'era ora? Ero ansiosa di vederlo, di toccarlo, di parlargli, sentire il calore dei suoi abbracci rassicuranti. I miei tormenti stavano per aver fine. Il cuore mi batteva all'impazzata, e lo stomaco cominciava a dare la sua solita battaglia. Mi sentivo le gambe molli, e per un momento pensai di cadere a terra. Qualche lacrima scese sul mio viso nascosto, facendomi prudere le guance. Avanzai ancora. Quello che vidi mi gelò, letteralmente. Non provai più nulla, solo un cocente dolore ed una tremenda delusione. Perchè quella non era altro che un'allucinazione. Non poteva essere altrimenti. C'era un essere che assomigliava ad un misto stranissimo di Chekaril e quello che pareva un cigno: il corpo e gli abiti erano quelli giusti, simili a come l'avevo visto io per l'ultima volta, ma dalla schiena partivano delle grandi ali candide, e le mani erano palmate e gialle. La cosa piùassurda era il volto, o meglio, la testa: sopra un elegante collo di cigno, bianco e superbo, si ergeva la bellissima testa bionda del mio unico amore, che mi sorrideva. C'era qualcosa al suo fianco. Il dolore si trasformò in un senso di panico crescente, non appena capii l'identità misteriosa. A fianco a lui, piccola come quando l'avevo lasciata ma con un sorriso sdentato, assurdamente in piedi, avvolta in una miniatura del mio abito preferito, c'era mia figlia. Il cuore smise di battere per un secondo, poi ricominciò a tambureggiare più forte di prima. Mi si mozzò il fiato, e mi venne la pelle d'oca. Quello che vedevo era terrificante. Che razza di allucinazioni erano? Cominciai ad indietreggiare, mentre in me si faceva strada il gelo. Non era possibile. Non era possibile. Non era reale! Fu un vero e proprio shock quando quell'orrida immagine di Chekaril mi parlò, guardandomi con i suoi brillanti occhi ametista. "ciao, Lsyn". Mi disse, con il suo fantastico sorriso sghembo. Mia figlia m'indicò. Boccheggiai dall'orrore, poi mi voltai per fuggire, scoppiando in lacrime. Non ne ebbi il tempo. Sentii qualcosa di freddo premermi contro la schiena. E poi in me si fece strada un terribile dolore, mentre tutti i muscoli si contraevano. Ebbi un solo, disperato pensiero: Una trappola! Gridai per la tortura atroce che stavo sopportando. Poi si fece tutto buio.

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Angolino di Akita:

ahahahaah xD un altro capitolo spezzato a metà xD credevate fosse finita, eh? xD o era troppo palese (ma è ovvio che è palese ._. che acume, Aki, che acume ._.)

d'accordo, oggi non sono in me. Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: in effetti, come ti devo aver già detto, ho esagerato un pochino O.o vabbè, mi piaceva così xD comunque, per dovere di cronaca, non ho mai visto nè l'uno nè l'altro film...però sono un'appassionata lettrice di Anne Rice, e Richard Matheson O.o< ben prima che uscisse il film tratto da UN suo libro è.é che col libro ha in comune solo il nome, che orrore è.é d'accordo, d'accordo, basta. Che dici dell'allucinazione? Macchinata bene la trappola (e beh, tu sai esattamente quello che più o meno succederà xD) fammi sapere tutto, che me è curiosa *__*

per Selly: mia cara *__* Lsyn è semplicemente un personaggio...indeciso, tutto qui xD non sa se stare dalla parte del bene, o dalla parte del male xD e tutti tentennano, cambiano, e poi cambiano di nuovo, non credi? xD stammi a sentire, è meglio metterti l'anima in pace, se posso dirtelo xD il fatto del Piano avverrà ancora tra un bel po' di tempo xD ma come adoro tenervi sulle spine xD che dici di questo capitolo? Piaciuto?** fammi sapere! Baci!

Per Kylien: spammona mia *-* eh, vuoi sapere troppo...eh... non si fa xD si attende :P comunque sei la prima alla quale piacciono queste scene, a quanto ho capito xD Lsyn èumana, certamente *__* in senso lato, ma certamente xD che dici del capitolo? Fammi sapere ** baci e spam!

Ciao!

Akita

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Capitolo 27
*** Il prezzo da pagare. ***


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Mamma che sonno >.<

Fa troppo caldo >.< vabbè, vi lascio al capitolo: non ho la forza per fare o dire nulla, oggi.

See you later!

Akita

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C'era uno spiffero di vento freddo. Era davvero fastidioso. Cosa diavolo era successo? Avevo la bocca impastata, ed ogni muscolo del corpo doleva in maniera terrificante. Perfino la semplice azione di respirare mi riempiva di sofferenza. Pian piano, riguadagnai parzialmente lucidità, anche se il cervello continuava a sembrarmi avvolto in strati e strati di coperte, ed il ragionare mi risultava piuttosto faticoso. Ero stesa da qualche parte. Sentivo un lieve cigolio, e lo strano pavimento freddo dov'ero riversa ondeggiava dolcemente. Non mi sembrava di essere prigioniera: non ero legata. Arrivai, ancora ad occhi chiusi, alla conclusione che l'illusione, ed il conseguente, terribile dolore provato, non fossero stati altro che qualche bizzarro fenomeno montano, di natura magica o sconosciuta. Chissà. Al momento non avevo la forza di pensarci su. Provai a muovermi leggermente, ed aprire gli occhi incrostati. Senza preavviso, arrivò una fitta tremenda, partendo dal punto in cui ero stata colpita da quella scarica e diffondendosi rapidamente ovunque. La luce accecante del sole mi ferì gli occhi. Gemetti, e li richiusi. "io proverei a stare calma, se fossi in te". Disse una strana voce malinconica e profonda, proveniente da un punto indefinito accanto a me. "non vanno troppo per il sottile quando si tratta di stranieri, loro". Sobbalzai per lo stupore, accogliendo l'ennesima fitta con un altro lamento. Mi decisi a socchiudere gli occhi, spaventata dalla situazione molto insolita. L'ultimo ricordo che avevo del luogo dove ero svenuta era una conca. Quell'ambiente non ci assomigliava affatto. Dove diavolo ero finita? E soprattutto, cosa era successo? La scena che si presentò al mio sguardo offuscato aveva dell'incredibile. Ero in una strana costruzione metallica, a quanto pareva conica, grande più o meno quanto un carro. Il pavimento era solido, uniforme, mentre tutto attorno c'erano nient'altro che sbarre. Mi sentii sprofondare. Ero prigioniera! Avevo commesso l'ennesima stupidaggine, io, la grande Spia! Ed ora? Che si faceva? Non riuscivo a concentrarmi. Non ero sufficientemente lucida per formulare più di due pensieri coerenti, ed era una cosa davvero strana. Che mi avevano fatto? Spostai lo sguardo verso destra. Di fianco a me c'era l'essere più incongruo che avessi mai visto, più strano di un Insat: sembrava un uomo sulla trentina, vestito di stranissimi stracci grigi e lunghi, dai capelli di una strana sfumatura nocciola e gli occhi verdi, dall'espressione triste. Strizzai gli occhi quando mi resi conto del particolare più; strano: un paio di ali piumate, nere come pece, gli spuntavano dalle scapole. Un vago senso di stupore si fece strada in me, ma non durò a lungo: ero così stordita che accettai la cosa come normale. La testa era completamente vuota. Non provavo nemmeno l'impulso di fuggire. Doveva essere prigioniero, come me. Che creatura insolita. L'uomo alato mi si avvicinò, e mi prese delicatamente il viso, fissandomi negli occhi. Mi resi solamente in quel momento conto di non avere la maschera. Oh... che cosa insolita. "ti hanno drogata, eh? Non bastava il fulmine?". Domandò, penso più che altro a sè stesso. Poi si rivolse chiaramente a me. "come ti senti, elfa? Mi capisci?". Resistetti all'impulso di chiudere di nuovo gli occhi. Ma che voleva da me questo tipo? Non poteva lasciarmi in pace, a dormire? Perchè non la smetteva di starnazzare? Più che altro per togliermelo dai piedi, gli risposi, con voce roca e flebile. Era davvero uno sforzo tremendo mettere insieme una frase di senso compiuto. "sete". Gli dissi semplicemente, mentre tutto attorno a me si faceva ovattato e distante. Mi faceva male dappertutto. Richiusi gli occhi, rimanendo ancora cosciente. "non bere, te lo consiglio. Ti faresti ancora più male". Mi disse, con pietà. Poi ci fu una pausa. "ad ogni modo, visto che dovremo essere coinquilini per un po', io sono Eiron. Ma se il nome non ti piace mi puoi chiamare semplicemente Ron". Pian piano, mentre ancora blaterava, la sua voce cominciò a sfumare, ed io caddi nuovamente nel nulla.

Quando mi risvegliai, mi accorsi che la mia mente era quasi sgombra, ed il dolore se n'era andato. Rimasi un po' a riflettere, ancora ad occhi chiusi. Benissimo, ero prigioniera, in compagnia di una strana specie di pollo antropomorfo. Mi avevano presa, e tolto tutto, maschera compresa. Ma chi mi aveva presa? Chi aveva una forza magica tale da produrre un'illusione così realistica come quella di Chekaril? Già...Chekaril. Ero stata una sciocca a pensare che mi avesse raggiunta. L'amore mi aveva resa cieca, e sorda. Mi sentii assalire da un'ondata di rabbia ed amarezza. Ero sempre la solita illusa, ed avventata. Come potevo fare ora, come potevo cercarlo, se ero rinchiusa miseramente, presa in trappola come un novellino? Fino a che punto poteva arrivare la mia stupidità? Ero davvero stata sciocca. Come avrei fatto? Dovevo, assolutamente, fuggire. Le recriminazioni a dopo. Mi decisi allora ad aprire gli occhi, e mettermi faticosamente seduta. Avevo la bocca secca. Mi guardai bene attorno. Era notte. L'essere alato dormiva. La cella continuava ad ondeggiare e cigolare stranamente. Eravamo all'aria aperta. Un senso di freddo strisciante si fece largo nel mio cuore. Che razza di cella era? Mi avvicinai lentamente al margine, strisciando, preoccupata, per esaminare meglio la situazione. Avevo un terribile presentimento. Per poco non feci un salto quando mi resi conto del guaio in cui mi ero cacciata con così tanta leggerezza. Capii improvvisamente il perchè non ero legata, oppure perchè non ci fosse sorveglianza. Perchè mettere guardie quando c'era di meglio? Eravamo infatti sospesi nel vuoto, tra le montagne, in una stretta gola, e solo una catenella attaccata ad un braccio, in alto, ci teneva lontani dalla morte. Possibilità di fuga: meno di zero. M'invase una rabbia accecante, principalmente rivolta contro me stessa. Le mie disavventure non mi erano servite a nulla? Ero così dura di comprendonio? Dovevo andarmene di lì ad ogni costo! Afferrai dunque il reticolo delle sbarre, piena di disperazione, e cominciai a scuoterle in cerca della porta. Non poteva finire così! Non poteva! Chekaril! Lo dovevo cercare! Perchè mi avevano presa? Io non avevo fatto nulla! Ero incappata in abitanti di Uruk? I tempi non coincidevano... Isnark non avrebbe dovuto riacquistare la memoria così presto! Cos'era mai andato storto? Quale altra stupidaggine avevo commesso? E perchè ero con una specie di gallinaceo, di una razza che al momento non mi sovveniva? Quasi non mi accorsi delle lacrime che scorrevano copiose sulle mie guance. Continuai a cercare una via di scampo dal vicolo cieco in cui mi ero cacciata a lungo. Ad un certo punto una voce mi riscosse dai miei affannosi ed inutili tentativi di evasione. "fossi in te, non lo farei". Mi girai di scatto, stringendo gli occhi e digrignando i denti. Ron mi guardava, seduto mollemente a poca distanza da me. Dovevo averlo svegliato con tutto il fracasso che avevo fatto. Tutto il dolore che provavo, ed il disgusto verso me stessa, s'indirizzarono fulmineamente verso quell'uccello malcresciuto. Come osava ostacolarmi? Sapevo di avere un aspetto tremendo, e fui contenta quando lo vidi indietreggiare impercettibilmente. Tuttavia il pollo continuò a guardarmi fisso. Aveva fegato. "la gabbia si regge solo su una catenella. Non agitarla troppo, potrebbe finire col rompersi". "che ne sai tu?". Sbottai, con un tono terribile, la voce incrinata dal pianto, gridando, piena di delusione. Stupido uomo alato. "tu hai le ali! Tu puoi volare! Che t'importa se quest'affare cade o no? Aiutami, invece di fare il moralista, pollo!". Un sospiro, e gli occhi tristi di Eiron si fecero lucidi. Lui abbassò fieramente lo sguardo. "io non posso volare... non più, almeno". Mormorò, con voce sommessa. Poi aprì un'ala. Mi fermai ad osservarla, temporaneamente distratta. Molte piume erano tagliate di netto. Piume che, sapevo, non sarebbero mai ricresciute. Gli avevano tarpato le ali. Seguendo il mio sguardo sospettoso, lui sospir&ò di nuovo. "è il prezzo da pagare per gli sbagli commessi, tra noi. Tutti devono pagare i propori errori, e le proprie debolezze". Disse, richiudendola, dolente. Il prezzo da pagare era fin troppo caro per me, ed il mio peccato d'impulsività! Io non avevo fatto nulla! Cominciai a tremare per la furia. "perfetto". Dissi, con voce incerta. "davvero perfetto. Ed ora che faccio?". Mi sentii salire le lacrime agli occhi, e non le ostacolai. Non ne avevo la forza. Prendendomi la testa tra le mani, scivolando fino a rannicchiarmi, scoppiai a piangere, singhiozzando senza requie.

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Angolino di Akita:

buon pomeriggio a voi, ragazzi! Come vedete, questo capitolo oggi è molto, molto, molto, stanco xD piùche altro stracco, direi xD vabbè, è di transizione :P

passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: ehilà xD già...Lsyn è avventata come sempre u.u prima agisce, poi si pente, ovvio xD le recriminazioni non sono finite, però xD che dici come introduzione a ciò che verrà dopo? Ho reso bene i pollastri? xD mio dio, la voglia di scrivere oggi se n'è andata in vacanza ._. portandosi dietro il cervello xD che dici del capitolo? A me non piace molto (e dico la verità, a me non piace nessun capitolo)...tu che dici? Fammi sapere *.* ciao!

Per Selly: oh, si u.u Lsyn non brilla certo per acume xD ma, in fondo, non è la stessa trappola xD lei mica si è avventata contro Chekaril... ha tentato di fuggire O_O solo che è stata...beccata...prima xD non essere così veemente, cara... in fondo si tratta solo di difesa xD non dico altro xD wow O.o e dire che l'idea dell'albero mi è venuta perchè non sapevo che farle fare O.o ringraziamo papà Tolkien per l'ispirazione xD beh... al prossimo capitolo si capiranno molte altre cose xD che dici del capitolo? Dimmi, dimmi *.* ciao!

Ciao a tutti gli altri!

Akita

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Capitolo 28
*** Confronto di volontà. ***


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Salve a tutti!

Che razza di giornata ._. possiedo un quantitativo di sfiga colossale ._. ho preso un raffreddore, ad agosto!!!! E non riesco a camminare per colp di una distorsione alla caviglia ._. dannazione >.<

Vabbè, non posso lamentarmi.

Se non altro, sono viva e vegeta. Ottimista, eh?

See you later!

Akita

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Mi calmai dopo un po'. La testa cominciava a pulsare di nuovo, e mi sembrava di avere gli occhi gonfi. Finalmente, tirando su col naso come un'infante, ed asciugandomi le lacrime, mi ricomposi, riprendendo il mio aspetto sdegnoso di prima. Fissai con sfida Eiron, pronta a fargli pagare ogni accenno di derisione in modo atroce. I suoi occhi verdi mi stupirono: erano pieni di quella che aveva tutta l'aria di essere comprensione, una malinconica consapevolezza ed accettazione. Il volto, stranamente liscio come quello di un bambino, era sereno. Sentii una fitta tremenda d'imbarazzo. Perchè mi ero lasciata andare? Sentivo caldo: dovevo essere arrossita terribilmente. L'uomo alato mi sorrise tristemente. "fa' un po' a tutti lo stesso effetto, la prima volta". Disse, scrollando le ali con un fruscio, ed abbassando umilmente lo sguardo. "non temere: presto ti ci abituerai. Ci si abituano tutti, prima del processo". La rassegnazione nella sua voce profonda non mi piacque, e feci una smorfia. Un processo? Strinsi le labbra, indignata. Io stavo solo passeggiando! Probabilmente intuendo i miei pensieri, Eiron mi guardò di nuovo, impassibile. "sei stata trovata nel nostro territorio...e loro non amano gli stranieri". Sbattei le palpebre più volte, stupita, ancora guardando impudentemente il mio coinquilino. Cos'era quello strano lampo d'indignazione che avevo visto negli occhi di smeraldo? E quella distinzione? Se lui era un abitante di quei luoghi, perchè essere così selettivo? Erano tutti quanti alati come lui? Cominciai a parlare per la prima volta, con un tono di voce che rasentava l'ostile. Quel mostriciattolo ibrido non me la contava giusta: mi nascondeva informazioni vitali. "noi? Loro? Che vuoi dire?". Gli abbaiai contro, stringendo i pugni, arrabbiata e seccata. Mi dava fastidio vedere quell'essere: era uno scherzo della natura, uno scherzo del destino. "vuoi piantarla di giocare agli indovinelli e chiarirmi una volta per tutte in che dannata situazione mi sono andata ad infognare?". Per la prima volta, l'espressione nel mio coinquilino si fece indignata. Lui arruffò le piume, chiaramente ferito nell'orgoglio. "punto numero uno". Disse, digrignando i denti, senza minimamente spaventarmi. L'assurdità della situazione aveva avuto la meglio sul mio buonsenso, e le ultime scoperte avevano distrutto quello che rimaneva del mio scarsissimo autocontrollo. "certe cose non devono interessarti, mostriciattolo senz'ali. Punto numero due...". Si bloccò quando notò il tremito delle mie mani, che avevo strette al petto. Stava per passare il limite. Se avesse continuato l'avrei strangolato. Dare del mostriciattolo? A me? Come osava? Cos'era tutta quella confidenza? Lui poi, il pollo umano? Ci sfidammo per un lungo attimo con gli sguardi, ed io non avevo la minima intenzione di cedere. Io ero la Spia, e non cedevo nemmeno di fronte alle montagne. Perchè io ero l'oro, e tutti non dovevano fare altro che inchinarsi al mio passaggio. Doveva capire una volta per tutte chi avrebbe comandato d'ora in poi, in quel buco di cella. Pian piano, notai che il suo sguardo, da irato, si faceva pieno di quella strana tristezza. Avevo vinto. Provai estrema ed immediata soddisfazione, e sorrisi debolmente. Ora avrebbe imparato a stare al posto suo, oppure gli avrei fatto del male. Passammo un lungo attimo in silenzio, poi lui, forse intuendo che facevo sul serio, e che l'avrei ucciso se mi avesse di nuovo sottovalutato, distolse lo sguardo, alzando il mento in modo regale. Mi ricordò in un certo modo Tijorn, e l'atteggiamento sprezzante che assumeva, principalmente quando aveva qualcosa da nascondere. Ma mio fratello non aveva mai avuto i suoi occhi, che esprimevano tutto l'orgoglio distrutto di un essere superiore. O che si credeva tale. La differenza è sempre stata labile, e troppo confusa per poterla distinguere. "allora?". Lo incalzai, impaziente. Volevo le mie risposte, lì e subito. "perchè sono qui? Chi sei? Chi sono i nostri carcerieri? Perchè sei rinchiuso qui? Che mi faranno?". Lui fece una smorfia dolente, ed incassò la testa tra le spalle, come un rapace ferito. "...io sono sempre stato troppo disponibile con gli...altri". Disse, amareggiato, guardandomi con evidente disperazione. Rimasi ad ascoltare attentamente, ansiosa. Finalmente la situazione si sarebbe chiarita. "perciò il nuovo capitano mi ha...punito". Si zittì, e guardò il pavimento cigolante, stringendo gli occhi. "entrare nel territorio è una grave colpa". Aggiunse, umiliato. "e ti faranno un processo, tra qualche giorno. Hai avuto fortuna, straniera...la nuova matriarca è più gentile con i non alati". Fu forse a quelle parole che ebbi un'intuizione, e tutte le cose andarono al loro posto. Schioccai il pollice ed il medio, annuendo, guadagnandomi un'occhiata perplessa da parte di Ron. Avevo capito con chi avevo a che fare, ma la cosa non mi piaceva. Tengu, gli uomini-uccello. Lo strano pollo che avevo con me era uno di loro. La seconda per importanza delle razze non antropomorfe, inferiore solo agli Insathi, e superiore agli Inu,gli uomini-cane. Avevo studiato le loro abitudini in gioventù, e mi ero appassionata alla loro storia. Non si sapeva granchè, solo che vivevano nelle montagne, in villaggi guidati da una femmina della loro specie, la Matriarca. Gli uomini possedevano ali nere, il loro simbolo di indipendenza e forza, la donne strane orecchie piumate. La sola femmina a possedere le ali era la Matriarca, che, in tarda età. ormai troppo stanca per volare e guidare il suo popolo, sceglieva colei che l'avrebbe succeduta, trasmettendole quelle bellissime appendici bianche. Non erano immortali, e vivevano meno degli Insathi, ma più degli uomini e degli Inu. Erano una razza terribilmente indipendente, e fiera, che aveva la guerra nel sangue. Erano riusciti a tenere a bada addirittura Lainay, e le sue brame di conquista. L'intrusione nel loro territorio era punita o con la morte, o, in caso di governo più mite, con la reclusione. Non avevano pietà nemmeno con gli esponenti della loro razza: in caso di crimini non gravi, agli uomini venivano tarpate le ali, una punizione che 0per molti era peggio della morte stessa, alle donne veniva prevista la fustigazione, con il taglio pubblico delle orecchie, e tutti venivano poi condannati all'esilio sulle montagne più alte ed impervie, coperte da ghiacciai perenni. Non mi piaceva la piega che gli avvenimenti avevano preso. Perfino il metodo di cattura era spietato: le prede venivano attirate con delle illusioni in posti prefissati, e poi stordite con strani lampi. Quello che era successo a me. Ero in pericolo, in grande pericolo. Beh...mi ritenevo tuttavia fortunata di non essere incappata in elfi di Uruk. Nella sfortuna, un colpo di fortuna. L'isolamento Tengu era proverbiale, e l'eco delle mie recenti azioni non sarebbe mai arrivato lì. Dovevo però proteggere la mia identità. Mi sembrava da stupidi non conoscere almeno di fama uno dei Cani più sanguinari delle Regina, e gli uomini-uccello non dimenticano mai. Se avessero saputo solo il mio nome...mi aspettava il cappio. Io volevo vivere, se non altro per adempiere alla mia missione.. Dovevo inventarmi una scusa, ed al più presto. Mi sentii invadere da un'ondata di preoccupazione. Ero finita davvero male. Probabilmente accorgendosi della mia espressione tormentata, Eiron mi sorrise, e riprese a parlarmi. "a che stai pensando, straniera?". Mi domandò, con educata curiosità, protendendosi leggermente verso di me. Non mi piacque quella confidenza, ed indietreggiai fino a trovarmi con le spalle contro le sbarre, in volto stampato un bel sorriso falsamente rassicurante. "nulla, Eiron...nulla". Gli risposi, pacatamente, mentre dentro di me c'era una tempesta. "ti ho trattato davvero male prima, e mi devo scusare con te. Comunque puoi chiamarmi Laila, se vuoi". Forse quella cortesia improvvisa l'insospettì di certo, anche se non lo lasciò trapelare, ma non potevo fare nulla di meglio. Fosse stato per me, l'avrei ucciso senza esitazione. Ma non potevo peggiorare la mia situazione, già molto critica. Dovevo farmelo amico, o almeno alleato. Convenni con me stessa che una copertura era la cosa migliore. Mi sarei finta una povera mezzelfa, forse, o un'elfa, in esilio, in fuga. Un'innocente. Nessuno mi aveva mai vista, e nessuno sapeva delle mie mani lorde di sangue. Sorrisi al mio coinquilino, che ricambiò con solennità. I Tengu non perdevano mai la loro dignità innata, nemmeno in ceppi ed umiliati, senza ali con la quale esprimere la loro voglia di libertà e la loro unicità. Era una cosa davvero orribile, un po' come privare una Spia del suo lavoro, un Inat dei suoi occhi. Segretamente, lo compatii, e lo capii. Ma non dovevo assolutamente lasciar intravedere la simpatia che provavo per quell'essere triste. Ne andava della mia esistenza. "che dici, Ron...". Cominciai a chiedergli, inclinando la testa da un lato, con studiata cordialità. "ci farà male dormire un po'?". Il suo ghigno si allargò, facendosi più calroso, e lui fece un segno di diniego. Annuii, e mi rannicchiai, chiudendo gli occhi. Mi serviva un po' di riposo, o non sarei riuscita a preparami un alibi decente per la mia presenza nei loro territori. "buonanotte, allora". Lo sentii rispondere poco prima di assopirmi "buonanotte". Mi disse, con voce sommessa. E poi mi addormentai, piena d'interrogativi e problemi.

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Angolino di Akita:

ahii >.< eccomi qui con il vostro capitolo. Ho cercato di dare quante più risposte possibili, e di evitare stacchi bruschi (anche perchè, se l'avessi fatto, sarei andata incontro ad un sanguinario linciaggio virtuale O.o)...vabbè xD ho fatto del mio meglio, non ammazzatemi!

Passiamo dunque al (ahi) dunque (ahi):

per Carlos Olivera: noo!! Pietà, pietà! (si nasconde) chiedo umilmente perdono! xD ecco, ho cercato di essere clemente, oggi xD il capitolo da' qualche risposta xD non è profondamente ingiusto...è divertente, invece xD vabbè, che dici di questo capitolo? Ti piace? Ho aggiunto una cosa a proposito dei Tengu, mi pareva ragionavole O.o Fammi sapere che ne pensi, di tutto *.* (si, lo so, oggi non ho voglia ._.) ciau!

Per Selly: ma salve! Oh...quanto adoro le reazioni veementi xD mi riempiono di soddisfazione segreta, anche se so che prima o poi qualcuno mi ammazzerà brutalmente per eccesso di, come si suol dire, cazzimma xD eh cara... vedrai che tutti i tuoi interrogativi avranno una risposta, prima o poi xD lo so, è un po' bastardamente ironica la mia trovata xD beh, ora però si capiscono più cose, no? xD fammi sapere anche tu *__* che ti pare di questo capitolo?

Ciao a tutti!

Akita

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Capitolo 29
*** L'essenza dei fulmini ***


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Allora, procedo immediatamente con un avviso, per evitare spargimenti di sangue xD

Allora: in questa prossima settimana, il ritmo degli aggiornamenti rallenterà di parecchio (prevedo di scrivere due capitoli). Questa scelta è stata dettata da molti motivi. Primo fra tutti, ho bisogno di un po' di vacanza anche io. Secondo, e molto più importante, è che mi sembra una terribile mancanza di rispetto aggiornare quando persone che mi seguono dall'inizio non ci sono. Il ritmo dei miei normali aggiornamenti è molto rapido, e farei perdere il filo a chiunque. Questo mi porterà ad allungare i tempi previsti, ed aggiornare in tempi scolastici, ma non m'importa. Ci vediamo venerdì prossimo! Buone vacanze xD

Terminato questo piccolo chiarimento, vi lascio al capitolo.

See you later!

Akita

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Passarono circa tre giorni, scanditi dall'impressionante monotonia della piccola cella cigolante, dall'alternarsi di giorno e notte, e dagli sporadici pasti. In tarda mattinata del mio secondo giorno di prigionia ci avevano portato qualcosa da mettere sotto i denti. Eravamo entrambi in silenzio, rannicchiati agli angoli opposti della gabbia sospesa nel vuoto, senza guardarci nè rivolgere gli occhi verso il basso, quando sentimmo un tremendo scossone. Io saltai letteralmente in piedi, incredibilmente spaventata, mentre il mio compagno alato non si mosse, anzi: chiuse gli occhi e fece finta di dormire. Mi guardai freneticamente attorno, mentre la cella si sollevava pian piano. Che stava mai succedendo? Notai uno strano, robusto uncino attaccato ad un argano trascinarla verso l'alto, verso la terra. Cominciai ad inquietarmi, e tesi tutti i muscoli del corpo. Che volevano da noi? Una folle speranza mi guizzò nella mente: se avessero aperto la porta della gabbia, senza tema di poter cadere, avrei potuto fuggire. Ogni illusione svanì dalla quandola scena si presentò chiaramente ai miei occhi: c'erano cinque guardie Tengu, due maschi alati, che trascinavano la corda, rivestiti da una cotta di maglia nera, in mano strani scettri di legno con anelli dorati in cima, che mi trasmisero la stessa viscida sensazione del Comunicatore, e tre femmine dalle bianche orecchie piumate, tutte piuttosto giovani, che formavano un cordone attorno ad uno spiazzo di terra. Portavano leggere armature, e grandi spade ricurve, dalla fabbricazione a me sconosciuta, o eleganti archi. Sembravano tutte estremamente vigili: era chiaro quanto fosse stupido, anzi, impossibile, cercare d'imbrogliarle. Repressi a stento la mia rabbia, e la mia delusione, mentre sentivo pizzicare agli angoli degli occhi le prime lacrime. Come potevo scappare da lì senza farmi uccidere? Disperata, resistendo al folle impulso di scagliarmi contro le sbarre ed urlare maledizioni all'indirizzo di quelle fiere creature, digrignando i denti, mentre il cuore batteva impazzito, rimasi lì, impalata, mentre la gabbia veniva calata e posata nello spiazzo. Un maschio si avvicinò: portava un sacco pieno sulle spalle, e pareva il più anziano. C'erano ciuffi grigi nei suoi capelli neri, e le piume erano chiazzate di bianco. C'erano mostrine dorate appese agli spallacci della sua sobria armatura. L'alterigia traspirava da ogni poro della sua pelle chiara. Il Tengu allungò il braccio sinistro, la cui mano stringeva lo strano bastone, e mi parlò, brandendo la strana arma verso di me. "indietro, sudicia straniera!". Ringhiò, guardandomi con sguardo arrogante. Doveva essere il più alto di grado di tutti, forse un Capitano, chissà. Lo fissai, mentre sentivo in gola il calore della rabbia che cominciava a montare in me. Non mi sarei mossa da lì per nulla la mondo, che quel volatile facesse quel che vuole! Come osava trattarmi come una popolana qualsiasi? Che avevo fatto di tanto grave? Esasperato, l'uomo alzò il tozzo bastone. ";questo è l'ultimo avvertimento, sfregiata...". Mormoò, apparentemente più tranquillo. "indietreggia!". Sentii uno stupido trionfo montare in me. Prima o poi, come aveva fatto Eiron, che continuava a fingersi addormentato in fondo alla gabbia, tutti avrebbero capito chi era degno di comandare. Non percepii il pericolo fino a quando non fu troppo tardi. Sentii chiaramente l'addensarsi di qualcosa attorno al Tengu, una misteriosa energia che mi ricordò la tensione del fulmine. Impietrii, dandomi immediatamente della stupida. Avevo osato troppo. Avevo commesso un tremendo sbaglio montandomi la testa, e comportandomi come fossi nella mia patria. Mi tornò in mente ciò che mi aveva detto il mio coinquilino a proposito del modo in cui stordivano gli stranieri. "oh, no...no...". Ebbi il tempo di mormorare, facendo un istintivo passo all'indietro, con la testa vuota, pronta a fuggire, prima di essere sbattuta violentemente contro le sbarre, vicino ad Eiron, da una scarica proveniente dall'anello. Armi magiche. Tutto il corpo di contrasse di nuovo, ma non persi conoscenza, e fu peggio. Mi contorsi, colpita da un terribile dolore all'altezza del petto, e caddi a terra, alla ricerca disperata di aria. Ero stata stupida, e superba. Mi rimproverai severamente, mentre ancora boccheggiavo. Ero stata in procinto di mandare all'aria la mia pantomima. Dovevo fare più attenzione. Ancora preda di forti spasmi, notai una giovane premere in alcuni punti della cella, facendo aprire una porticina, da dove entrò assieme a quello che mi aveva colpito. Qualcuno mi diede un paio di calci, per accertarsi, forse, che fossi ancora viva. Mi mossi debolmente, e mi lasciai sfuggire un gemito. Ma perchè mi facevano tutto quello? Non riuscivo ancora a capirlo. "non hai un po' esagerato?". Disse la Tengu, fissandomi ancora. Mi assalì una fitta di disagio misto a paura, e distolsi lo sguardo. Non volevo mettere ancora alla prova la pazienza di quelle creature inumane. "alla Matriarca serve ancora viva, per quanto sia orribile...". Sentii un chiaro tonfo, poi il Tengu parlò. "nessuno mi ha dato ordini a proposito del trattamento da riservare a questa cagna rognosa...".Sbottò, infastidito. "e poi lei non ha obbedito. Era ovvio la colpissi". Socchiusi gli occhi. Chissà se Eiron ci era passato. Forse era per quello che fingeva di dormire. Mi sentii assalire dai rimpianti. Perchè non l'avevo imitato? La mia furbizia rasentava lo zero, la cautela pure. Che idiota. Rimasi immobile, cercando di riparare all'errore di prima, mentre sentivo chiudersi la cella, e poi un altro scossone. Rimasi a lungo ferma, cercando, per quanto possibile, di sembrare inerme, nonostante nella mia mente fossero fisse immagini ben poco rassicuranti, condite ad insulti vari e molto succosi. Sentivo un pulsare sordo dentro le costole, come se avessero colpito il cuore con un calcio. La gabbia smise pian piano di ondeggiare. E immediatamente Eiron si mosse. Lo sentii toccarmi la spalla, ed aprii gli occhi. Incombeva su di me, evidentemente indignato e preoccupato. "ti hanno fatto molto male?". Mi chiese, mettendomi una mano sul collo ed esercitando una pressione lieve. "senti ancora dolore?". Le sue domande precise m'insospettirono. Lui sapeva perfettamente cosa stavo passando, e conosceva il principio di quella specie d'inquietanti bastoni. Non mi fu difficile immaginarlo sano e crudele, con gli altri, colpire un povero prigioniero che nulla aveva fatto se non farsi gli affari suoi. Non gli risposi, e mi limitai a guardarlo, indignata. Lui, dopo qualche attimo di concentrazione, tolse la mano dal collo, con evidente sollievo, poi si girò, rovistando nel sacco, estraendone un tozzo di pane nero. Era quasi ironico. Cominciai a ridacchiare stupidamente, poi mi decisi a darmi una mossa. Puntellandomi con i gomiti, riuscii a mettermi seduta. Il dolore, con mia gioia, dopo un terribile attimo diminuì subito. Sospirai, e guardai storto il Tengu. Non me la contava giusta, l'angioletto. Stupido uomo pennuto. Di malo modo afferrai il pane che silenziosamente mi porgeva, e gli diedi un morso. Lo stomaco cominciava a reclamare, e per me quel mucchio informe e secco di grano duro fu una manna, più gustoso di un banchetto. "che mi hanno fatto?". Domandai poi, addentando un altro pezzo di pane, guardandolo mangiare dignitosamente. Volevo, e dovevo, sapere. Non mi era piaciuto per nulla quel dolore al petto, ed avevo il presentimento che potesse essere fatale. Dovevo sapere a cosa andavo incontro. Vidi il volto di Eiron farsi improvvisamente amareggiato. "il generale è sempre un po'...veemente, quando si tratta di stranieri". Annunciò, rannicchiandosi. Avvertii immediato fastidio. Gli avevo più volte pregato di non rispondere per indovinelli, ma non mi aveva ascoltata mai. Prima che potessi rimbeccarlo, però, lui continuò. "usano l'essenza dei fulmini per fare del male*". Si scrollò le ali, con una smorfia. "a volte il cuore si ferm...è questo è un fastidio per loro, quando si tratta di stranieri. Loro devono sapere perchè vengono da noi". Lampo d'intuizione. Quei bastoni erano scettri a matrice elementare, niente di più semplice. Condividevano molti principi con i Comunicatori, che usavano però la negromanzia pura per funzionare. Io non avrei mai potuto usare quelle armi, ma i Tengu sono il sangue dell'aria, della terra e dell'acqua, essenze della natura montana come gli Insathi sono gli spiriti del deserto. E capii istantaneamente una cosa che fino a quel momento mi era sfuggita: Ron non condivideva quei principi. E tutto andòal suo posto. Secondo la loro cultura, quello era considerato alto tradimento, e punito con la reclusione. Dovevo stare attenta: quei cosi rischiavano di farmi morire. Finimmo di mangiare in silenzio, mentre io metabolizzavo le informazioni appena ricevute. Dopo di allora, imitai Eiron ad ogni pasto, accasciandomi e chiudendo gli occhi, tesa. Cominciavo a rassegnarmi, ed a meditare una via di fuga nobile, qual è il suicidio, quando arrivòun lampo di speranza. Il processo.

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* per evitare fraintendimenti, e per amore della chiarezza, con questa frase intendo una scossa elettrica a medio/basso voltaggio. Ovviamente, non potevo scrivere energia elettrica, per il semplice motivo che non l'hanno scoperta. Gli effetti sono più che noti, e molto, molto dolorosi xD

Angolino di Akita:

ok, ok, niente spargimenti di sangue xD ho errato a staccare un capitolo in questo modo barbaro, ma mi preme spiegarvi il motivo: era mia intenzione scrivere anche del processo, ma mi sono accorta della sua importanza ai fini della storia, e non gli avrei reso giustizia.

Passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: già...eccoli qui xD è in estremo pericolo, lo so...che dici del capitolo? So che mi ammazzerai, ma ho spiegato il perchè di questa scelta xD non avrebbe avuto senso mettere tutto assieme, era un po'antiestetico @.@ che dici del capitolo, insomma? Sembra molto stupido, ma tu sai che non lo è, perchè è di presentazione di un personaggio che comparirà dopo :P e tu sai chi :P beh, fammi sapere...e buone vacanze *___*

per Selly: poverini, già xD no, non preoccuparti, sarebbe crudele lasciarla lì...o meglio... la fine prevista lo è estremamente di più, sarebbe MEGLIO lasciarla lì :P ma poi non mi diverto xD ah, se ti piacciono gli scontri sanguinosi... non hai che da aspettare xD fidati, fidati, fidati xD beh, che pensi del capitolo? Lascio molte cose in sospeso, ma mi sono accorta che ormai è diventato un vizio xD fammi sapere *.* ciao!

ciao al resto della ciurma!

Akita

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Capitolo 30
*** Il Processo ***


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Ahhh. Dopo una settimana, eccomi qui, puntuale come promesso!

Che bello *__* sono finalmente maggiorenne xD fatemi gli auguri è.é

Che compleanno terrificante O.o

Non darò mai più carta bianca alle mie zie <.<

Sono terribili, messe assieme, quelle dannatissime è.é

D'accordo, ora vi lascio alla storia.

See you later!

Akita

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Sembrava una giornata come le altre: il cielo era limpido, e c'era qualche spiffero di vento, cosa che aveva fatto ondeggiare la gabbia in maniera terribile. Eravamo, sia io che Eiron, stati male tutta la mattina. Mi sembrava di essere sballottata dalle onde, e rimpiangevo più che mai di non essere stata attenta, quel giorno nebbioso in cui avevo seguito un'allucinazione. Verso mezzogiorno, quando il sole era ormai alto da un bel pezzo, avvertimmo un familiare scossone, e ci stendemmo entrambi, tesi. Chiusi gli occhi, sperando con tutta me stessa che nessuno mi facesse del male, così, per gioco. Non volevo sperimentare di nuovo la forza dei fulmini, e quel dolore atroce che seguiva la scossa. Lo ricordavo fin troppo bene. Più di una volta, in questi anni in cui non mi rimane altro che rimuginare sui simulacri del passato, lamentando la mia disgrazia come un'eroina delle ballate eroiche che narravamo attorno al caminetto del quartier generale durante le gelide serate invernali di Galinne, ho notato, con infinita ironia, quanto un essere senziente in gabbia finisca per somigliare ad animali ammaestrati, per la gioia dei carcerieri. Tali eravamo noi. Non c'è dignità nella prigionia. La si perde tra le sbarre. Dunque, dopo essere stati sballottati per un bel po', sentimmo la prigione aerea posarsi a terra, e la porta aprirsi. Qualcosa di acuminato mi toccò brutalmente una spalla, ed io mi tesi, senza aprire gli occhi. La paura del dolore, la paura di morire, di non potere mai più rivedere Chekaril, di non poter mai più riscattarmi, mi attanagliava lo stomaco, agitandolo come se avessi inghiottito una belva rabbiosa. Strinsi le labbra, sospirando. Un calcio. "muoviti, sfregiata". Mi disse una voce rude, una voce familiare. "sappiamo che non stai dormendo. Alzati, e vieni con noi. La Matriarca aspetta". Strinsi i pugni. Che mi volevano fare? Perchè la loro regina mi voleva vedere? Che voleva da me? Ebbi un'illuminazione improvvisa, e scattai in piedi, guadagnandomi severi ammonimenti da parte del generale. Abbassai lo sguardo, mostrandomi sottomessa, quando dentro di me esultavo di gioia. Era venuto il momento del processo. Da quel momento in poi, mi sarei giocata la vita. Beh, non che m'importasse molto. La mia esistenza si era svolta sempre così, perennemente a contatto con la morte, giocandoci come con una vecchia amica venuta a prendere il tè. Che cosa buffa. Vivere, per prepararsi a morire. Lo fanno tutti, o è il destino di ogni Spia? Ma dovevo ritrovare Chekaril, al bando stupide considerazioni retoriche. Non potevo lasciarmi andare a pensieri febbrili. Dovevo vivere, almeno quella volta. Mentre mi trascinavano, sotto lo sguardo preoccupato di Eiron, fuori dalla gabbia, legandomi le mani brutalmente, con un pezzo di corda viscida, presi freneticamente a fare un riassunto di tutto ciò che dovevo dire. Avevo concertato, nelle ore vuote della prigionia, la mia identità fittizia, e l'avevo preparata nel migliore dei modi. Lo scenario per la mia pantomima era già pronto. Non dovevo far altro che far cominciare lo spettacolo di cui io sarei stata regista. O quello, o nulla. Sospirai e, tra le scapole uno di quei malefici scettri, cominciai ad avanzare, scortata da Tengu guardinghi, trascinata letteralmente dall'uomo che mi aveva colpito la prima volta che ci avevano portato da mangiare. Mi sentivo debole, e malferma. La gambe, dopo giorni d'inattività e oscillazioni varie, non mi reggevano bene, ed avevo sonno, dormendo poco a causa dell'agitazione dell'attesa. Avevo cominciato a mangiare molto meno, e sapevo di essere terribilmente dimagrita, sciupandomi ancora di più. Ero sporca, e malconcia. In quelle condizioni, non mi era difficile recitare la parte dell'umile servetta sottomessa. Superando una palizzata di aguzzi pali di legno, entrammo nel villaggio. Incuriosita, mi sporsi per osservare meglio la vita di quegli strani esseri. Era un'occasione imperdibile, studiare le usanze di un popolo raro e schivo come quello. Non potevo non approfittare della situazione. La curiosità stava avendo il sopravvento. Mi sentivo molti sguardi addosso, sguardi ansiosi, sguardi ostili, sguardi curiosi, sguardi orgogliosi. Le abitazioni erano semplici, ad un piano, fatte di tronchi di solido legno, squadrato e scuro, con tetti dall'aria inespugnabile. C'erano poche finestre. Era un insediamento piccolo, ma ordinato, con le viuzze che s'intersecavano, per formare tanti piccoli quadrati dove erano costruite le case. Ci stavamo dirigendo verso il centro. Villaggi come quelli se ne potevano trovare a decine per le montagne, simili tra gli uomini, quanto tra le altre razze. C'erano però significative differenze, negli abitanti quanto in certi edifici. La gente per strada si scostava, o si nascondeva, al nostro passaggio, ma riuscii a godermi molte scene di vita quotidiana Tengu. Non ho mai rinunciato alle mie inclinazioni da studiosa, sebbene tenda a reprimere quest'amore per la conoscenza. Vidi un gruppetto di piccoli, di età varia, giocare e litigare in un cortiletto. I maschi avevano le ali grigiastre, soffici e lanuginose, quasi come quelle dei pulcini, del tutto inadatte a volo, ma qualcuno cominciava già a mostrare le prime, lucide, penne nere. Le femmine avevano lunghe orecchie già formate, ricoperte da piume bianche, che le facevano sembrare ali di gabbiano, e sembravano comandare a bacchetta i coetanei. Mentre passavamo, sentii le loro esclamazioni di sorpresa, ed i loro insulti infantili. Una donna uscì dalla casa di corsa e, fissandomi con malcelata ostilità, trascinò i bimbi dentro. Vidi, in un angolo, passeggiare giovani di entrambi i sessi, soli o appaiati, apparentemente indaffarati, che non mi degnarono nemmeno di uno sguardo. Invidiai amaramente una coppia che si teneva a braccetto, camminando con un solo occhio sulla strada da fare, e l'altro per il compagno. Li odiai profondamente. Camminammo ancora, dove alcuni anziani maschi, seduti sulle gradinate di un edificio in muratura, dalle ali ormai pesanti e chiazzate di grigio, ma ancora gagliarde e forti, salutarono i miei carcerieri, ricambiati con deferenza. Doveva essere la caserma, quella, chissà. Finalmente, in silenzio, dopo aver attraversato uno spiazzo vuoto, ci avvicinammo ad una costruzione in pietra, dalla forma ottagonale, che sovrastava ogni altra abitazione grazie ad una bella scalinata di mattoni rossi. Guardie, tutte femmine, presidiavano la zona. Mi sentii improvvisamente preoccupata, e dimenticai all'istante quella strana serenità scesa su di me nell'osservare la vita tranquilla di quei pollastri. L'incontro con la Matriarca stava per arrivare. Salimmo le scale, e mi guadagnai un malevolo spintone che quasi mi fece cadere. Mi morsi il labbro inferiore per impedirmi di replicare in qualsiasi modo. La mia vita era appesa al filo di una lama. Parlottando in una lingua cinguettante e dolce, che non capii, due Tengu ci fecero entrare, aprendo la massiccia porta di legno scuro. Entrammo solo io ed il generale, che mi puntò la sua arma alla gola. Le porte si richiusero. Eravamo in un androne ampio e scuro, e di fronte a noi c'era una scalinata. Ci fermammo. Il mio cuore perse un colpo, e deglutii. Oh, no. "da ora, minuscola bastarda...". Mi sussurrò il Tengu, malevolo, affondando lo scettro con cattiveria nella clavicola, provocandomi un dolore atroce. Cercai di non gridare. Una fredda sensazione di panico si faceva strada nella mia mente. Dovevo stare calmissima, e non rispondere alle sue provocazioni, o mi avrebbe uccisa. Più facile a dirsi che a farsi. Socchiusi gli occhi, e tesi tutti i muscoli. Il generale continuò a parlare. "stai tranquilla o ti ucciderò con il fulmine. Intesi?". Annuii disperatamente. Riprendemmo il cammino, salendo le scale, ed arrivando ad una porta presidiata da due guardie che, senza una parola, la aprirono. Il mio carceriere mi spinse dentro, lasciandomi andare. Non mi mossi, pietrificata. Una mossa sbagliata ed avrei potuto dire addio alla mia miserabile vita. Mi guardai attorno. Ero in un stanza rettangolare, di pietra, più lunga che larga, dalle alte ed eleganti volte a crociera. Su una parete si inframmezzavano meravigliosi arazzi di lana colorata, illuminati da semplici candelieri in ferro battuto, e da alte e strette finestre, dai vetri istoriati. L'intera stanza era illuminata dalla luce che essi creavano, fantastici disegni astratti. Sul pavimento un tappeto rosso, con quattro guardie per lato. Era un luogo imponente, ed io, istintivamente, mi sentii piccola ed intimorita. Non mi succedeva dai miei tempi d'oro, quando andavo a riferire alla Regina l'esito delle mie missioni nella sala del trono, una stanza dove il marmo bianco ed il cristallo trionfavano. Tutte e due le sale avevano qualcosa che le accomunava nella solennità, sebbene lì dominassero le tinte forti, le linee austere e un'oscurità calda ed avvolgente, a Galinne invece la freddezza e l'impersonalità, linee estrose ma sterili, ed una luminosità quasi minacciosa, che sembrava costringere chiunque a mettere a nudo ogni pensiero. Qualcuno mi spinse in malo modo, e decisi di avanzare di qualche passo. Alzai lo sguardo, respirando affannosamente. Al termine del tappeto, in fondo alla sala, c'era una predella di legno squadrato, con in cima uno stranissimo trono dello stesso materiale, a fianco un giovane Tengu dall'aria spaesata, dal piumaggio adulto non ancora completo. Lo schienale era alto, modellato a forma di ali spiegate, e non c'erano braccioli. Niente gemme, nè sfarzo. L'essere seduto su quella regale sedia mi sembrò immensamente strano. Era poco più di una bambina, una ragazza. Era vestita di una tunica, lunga e rossa, dal tessuto semplice, fermato poco più in alto della vita da una semplice cintura di cuoio, larga una mano. Indossava calzari dello stesso materiale, dai legacci che correvano attorno alla gamba, fino al ginocchio, ed i suoi capelli, di un castano rossiccio, erano raccolti, mettendo in rilievo le lunghe orecchie piumate. Sul capo correva un sottile cerchio dorato. Aveva la stessa carnagione di Tijorn, ed un paio di grandi, fieri, occhi castani, lucenti quanto quelli di un falco. I suoi lineamenti erano dolci, quasi anonimi, ma per questo particolari, ed era piccina, con un corpo ancora infantile. A differenza di tutte le altre femmine, aveva le ali, possenti appendici bianche, troppo grandi ed adulte per quell'essere minuto. Sporgevano, luminose, ai lati del sedile. A forza di spintoni, il generale mi fece andare avanti, fino a portarmi al cospetto della loro, giovane, Matriarca. Lei si alzò, barcollando un poco per il peso delle ali. Era poco più alta di me, ma prometteva di diventare molto grande. Non appena lei fece un passo, tutti attorno a me s'inchinarono, tranne il generale. Io rimasi impalata, con mio grande imbarazzo. Non sapevo che fare: avevo perso dimestichezza con questo genere di situazioni. Che fare, inchinarsi e umiliarsi, o no? Il generale agì per me. Sentii, improvvisa, una piccola scarica. Ebbi un attimo di sbandamento, accecata da un terribile dolore. Quando mi ripresi, dopo un attimo, ero a terra, con la Matriarca di fronte. La fissai, annaspando, alzando solo il viso. Lei ricambiò io mio sguardo ed io, con mi grande sorpresa, ci lessi pietà. Con la bocca secca, deglutii di nuovo, a vuoto. La giovane guardò il Tengu che mi aveva colpita. "puoi andare al tuo posto, Hari". Disse, con voce acuta, ma piena di una maturità e autorità insospettabili. "questa poverina non si tiene nemmeno in piedi, è un mucchietto di stracci, cicatrici ed ossa". Un sorriso sarcastico le illuminò il volto. "o forse è così pericolosa da riuscire a simulare un attacco dei fulmini?". Sentii il tipo muoversi, a disagio. "no, mia Signora". Rispose, mettendosi sull'attenti. La Tengu mi sembrò soddisfatta. "bene. Allora vai al tuo posto. Con lei me la sbrigo io. Uscite tutti". Non mi piacquero quelle parole. Non mi piacquero per nulla. Mi accigliai. Quelle frasi pacate mi sapevano di guai, grossi guai per me. Tutte le guardie obbedirono. Rimanemmo sole. Ero alla completa mercè di una stranissima ragazzina alata, con tanto potere quanto la Regina in mano. Non appena la porta si chiuse,la Matriarca mi tese una mano. La guardai, insospettita. Che voleva da me? La ragazza mi sorrise. "su, forza, alzati". Mi disse, incoraggiandomi, avvicinandosi con calma.Forse era meglio di quanto pensassi. Il mio compito si stava presentando più facile del previsto. Mi feci trascinare in piedi, e, dopo aver barcollato un po',mi risistemai. "non sei molto più alta di me". Osservò quella, scrutandomi. Sentii una fitta di vergogna. Perchè chiunque incontrassi doveva notare sempre la mia piccola statura? Era peggio del naso di Akita, che se la prendeva con chiunque le facesse notare la sua stranezza. Ero certa che la Matriarca non volesse offendermi, a dispetto di tutto, e che mi stesso solo analizzando. Dovevo essere una vera curiosità. "non è normale, per un'elfa. E tutte quelle cicatrici da un lato del viso...". Fece l'atto di sfiorarmi la guancia offesa, ed io mi ritrassi, preda di una paura molto più profonda del rispetto che cominciavo a provare per quella bambina alata. Eh, no. La mia faccia non si tocca. Senza scomporsi, la giovane ritirò la mano. Rimanemmo a lungo in silenzio. Non ero affatto preparata a quel comportamento quasi comprensivo, e mi sentivo molto a disagio. "perchè non mi trattate come fanno gli altri, Matriarca?". Dissi, vincendo la paura e la soggezione. La mia interlocutrice non sembrò reagire alla mia mancanza di rispetto più che evidente, ma fece una strana smorfia. "la tua voce è davvero terribile". Disse, abilmente eludendo la mia domanda. "ed io conosco solo poche cose capaci di provocare danni così profondi. Perchè ti trovavi per le montagne?". Mi offrì la risposta su un piatto d'argento. Finsi lacrime di dolore, lacrime che non avevo, e simulai un abile singhiozzo. Che la recita abbia inizio. "la mia casa è andata in fiamme". Mormorai, distogliendo lo sguardo. Sperai con tutto il cuore ci cascasse in pieno. "è successo tutto tre mesi fa..." Decisi di fare un po' di scena. Un po' di pietà in più torna sempre utile, quando si ci deve salvare la pelle. Mi nascosi il viso tra le mani, singhiozzando senza pudore. Prendi questo, uccellaccio del malaugurio. In certe occasioni, non ero certamente più matura di quella bambina con la corona. "i miei bambini...". Mi lamentai a lungo, spiando intanto tra le mani la reazione della Matriarca. Sembrava pietrificata dall'orrore, e dopo poco sentii una mano piccola e calda posarsi sulla mia spalla ossuta. "E' per questo che ero sulle montagne". Continuai, asciugandomi le lacrime che non avevo, ed abbassando lo sguardo. Ah... saper fingere a volte tornava davvero utile. "dovevo raggiungere mio fratello, che abita a Zakadi". Tirai su col naso. Meglio far perdere del tutto le mie tracce. Singhiozzai per un po', senza esagerare. Non volevo che mi scoprisse. Allora sarei stata nei guai. Ci fu un lungo silenzio. La Matriarca mi guardava, con tristezza immensa. "colei che mi precedette su questo trono aveva un'idea un po'... distorta dell'ospitalità". Disse, storcendo la bocca. "per lei, tutti gli stranieri erano punibili con la morte, a meno che non fossero Insathi, Inu o Tengu. Devo dire che non approvo in pieno i suoi metodi. Non li ho mai approvati". Sorrise amaramente. "ma sono ancora troppo giovane per cambiare tutto, e questo non è il periodo per pensarci. Tu mi sembri innocente, povera elfa. Come ti chiami?". Le dissi il mio falso nome, stupita. Era incredibile che mi avesse creduto così in fretta. Avevo la netta impressione che volesse liberarmi subito, a dispetto della mia identità, disgustata da una situazione che non le piaceva, ma non potesse. "bene, Laila". Mi rispose, dopo un ulteriore silenzio, aprendo e chiudendo le grandi ali. "sono costretta a parlare con il consiglio, ma voglio fortemente la tua libertà, te lo confesso". Scosse il capo, indignata. Immediato sollievo. Avevo un'alleata in quel villaggio di maniaci della violenza. "non è nella chiusura che risiede la dignità del mio popolo. Dovranno impararlo tutti qui, prima o poi". Mi piacque molto il suo tono duro. Era giovane, ma sapeva davvero bene come si regnava. Lei si voltò verso di me. "darò l'ordine di trattarti meglio, e di non usare il fulmine su di te ancora". Mi osservò meglio, ed io sentii una fitta di disagio. "sei in cella con il povero Eiron, vero?". Annuii, pensando al triste Tengu dalle ali mozze, come un dio caduto. Lei sospirò. "era mio amico prima che la vecchia Matriarca lo condannasse alla pena più orrenda". Fece una pausa, e chiuse gli occhi. "era un guerriero molto dotato, ma ribelle e tenero di cuore. Lasciò andare uno straniero, un povero viandante come te, disobbedendo al generale. Venne condannato in via diretta, ed abbandonato da tutti, tranne che da me, la sua confidente ed amica più cara. Ero lì a tenergli la mano quando gli tarparono le ali. Hari se ne occupò personalmente". Sospirò, mentre io sentivo una fitta di pena per il mio coinquilino. Era stato un dannato stupido. "la Matriarca mi passò le ali dopo qualche giorno, e morì. Se solo si fosse decisa prima... l'avrei salvato". Capii che la povera regina infante doveva sfogarsi con qualcuno. Mi stava dando fiducia, la massima fiducia possibile. Decisi di approfittarne quanto più potevo, ed assunsi un'aria quanto più contrita possibile. Lei mi sorrise. "abbiamo sofferto tanto". Le dissi, buttando quell'affermazione quasi per caso, in tono innocente. Sapevo esattamente quello che stavo per fare. Circuirla si rivelò più facile del previsto. Gli raccontai di mio marito, e dei miei tre bambini, di una tranquilla vita da fornaia mai esistita. Ah, io ho sempre adorato mentire. Quando ero ancora apprendista con Amarto, diceva sempre che avevo un talento naturale per la simulazione, e le bugie. La maggior parte della mia carriera si era svolta in quello stile. Donne fedeli, anziane vedove, persino ragazzini. Sapevo imitare chiunque. E' un talento necessario, per le Spie. Mi sentivo lievemente in colpa, perchè quell'innocente ragazzina pendeva dalle mie labbra mentre raccontavo la tragica storia di un incendio fasullo, e di una degenza solitaria, tra false lacrime, ma presto me ne dimenticai, presa dal mio racconto. "e vi giuro, signora, vi giuro...".Dissi, piangendo, mentre pensavo freneticamente a come portarla dalla mia parte. "che io non ho mai fatto male a nessuno, e che non avevo la minima intenzione di entrare nei vostri territori!". Come no. E gli asini volano. Beh...a dire il vero non avevo la minima idea di dove stavo andando. Avevo appena ucciso due Celestiali, smembrandoli e bruciando i resti, e quasi ammazzato il loro Capitano, ma questo lei non poteva saperlo di certo. Non stavo mica mentendo del tutto... una menzogna a metà è sempre più facile da dire. Mi diede soddisfazione vedere lacrime nei suoi occhi fieri. Era rassicurante sapere che le mie abilità di simulazione non erano state pregiudicate dallo scarso uso. Ero quella che ero: Lsyn, una Spia di altissimo livello, presa in una missione che doveva, in ogni modo, andare a buon fine. Ci fu un attimo di silenzio. "un ultima domanda, Laila...". Mi disse lei, con solennità, scostandosi da me, ed alzando fieramente il capo. Mi tesi. Che voleva da me? Sospirai, e stetti a sentire il resto, mentre la mente lavorava a pieno regime. "cos'è quell'oggetto che abbiamo trovato nella tua borsa? Quella specie di bastone che da' una sensazione...come di viscido?". Oh, oh. Accidenti. Il Comunicatore! Cercai di non andare in panico. Che fare? Oh, ero stata stupida a non pensarci! Deglutii di nuovo, e le dissi la prima cosa che mi veniva in mente. "non lo so, mia signora". Dissi, congiungendo le mani ed abbassando lo sguardo, timidamente. "sono tutte cose di mio fratello... avevo preso la spada perchè avevo paura dei briganti, ma per il resto non so nulla". Tremai. Se non ci avesse creduto, ero spacciata. Tuttavia, non appena mi arrischiai ad alzare lo sguardo, vidi il volto della Matriarca sereno, e pensieroso. Altro, lungo, silenzio. Lo stomaco si stava torcendo in maniera terribile, e poco ci mancava che mi chinassi, boccheggiando, dal dolore. La Tengu sospirò. "saprai il verdetto tra pochi giorni, Laila, quando anche la situazione di Eiron sarà chiarita". Mi disse, allontanandosi da me, con passo regale. Poi si voltò, con un sorriso gentile. "ma sappi di avere un';alleata, qui. Un'alleata potente". Schioccò le dita, ed immediatamente entrarono il generale e le altre guardie. Cercai di non ricambiare il sorriso, ed abbassai di nuovo lo sguardo. Ero riuscita nel mio intento. Sarei, quasi sicuramente, stata liberata. Venni presa brutalmente da Hari, che venne immediatamente sgridato dalla Matriarca. Dopo ordini vari, ed un congedo sereno, cominciammo a percorrere di nuovo le vie che mi avevano portata nel villaggio, diretti verso la prigione. Ero soddisfatta di me stessa. Brava, Lsyn. Sei sempre la migliore. Ora non dovevo far altro che aspettare. Mi ero guadagnata un'amica, e questo non poteva che essere un bene. Entrai nella cella, per la prima volta, senza protestare, buona come un pezzo di pane appena sfornato. Sorrisi addirittura ad Hari, un sorriso sarcastico, di scherno. Lui mi guardò storto, ma non fece nulla. Mi sedetti, mentre la gabbia veniva rimessa al suo posto. Ora dovevo essere più calma che mai.

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Angolino di Akita:

allora xD dopo la mia piùlunga assenza, eccomi xD devo però avvisare, che questa, purtroppo, non sarà l'ultima <.<

ebbene si: anche io parto *ç* dal 2 al 13 settembre, destinazione Sardegna *ç*

beh, tanto per avvisarvi prima xD

passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: mwahaha è.é; chi la fa, lèaspetti ù__ù beh, queste sono le risposte che do'per ora (mwahaha) è.é beh, lo saprai presto... il capitolo quello lì è il prossimo xD che dici dello stratagemma di Lsyn? xD lo so, sembra strano...ma poi si ci renderà conto di molte cose ^^ in fondo, la Matriarca non è quello che sembra xD beh, spero che la tua vacanza sia andata bene, e non vedo l'ora di sapere che ne pensi, come sempre *____* ciau!

Per Selly: bene bene bene xD beh, un po' di tutte e due le cose xD beh, ecco il processo *__* lo so, non è la fine, ma...beh, divertitevi xD che ne pensi? *___* fammi sapere xD ciau!

Per Kylien: olà, mia carissima *__* come promesso, ecco qui il capitolo xD e che fa, l'importante è che tu legga :P beh, il fatto è che i capitoli sono molto corti, e lo scaglionare le informazioni viene quasi automatico xD per quell'altra tua perplessità, ti ho già spiegato perchè xD che dici di questo capitolo?? *___* dici, dici, che son curiosa xD

Ciao!

Akita

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Capitolo 31
*** Due tipi diversi di libertà. ***


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Fiuu, ce l'ho fatta!

E' stato un capitolo devo dire difficilissimo da scrivere, non chiedetemi perchè O.o

Sono poco avvezza a certe cose xD

Mamma, che stanchezza <.<

D'accordo, vi lascio a Lsyn (perchè so che prima o poi mi ammazzerete se non vi dico che le succede O_O)!

See you later!

Akita

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Passarono altri due giorni, due giorni d'inferno. Sebbene i Tengu mi lasciassero stare, probabilmente sollecitati dalla Matriarca, sia io che Eiron fummo costretti a sopportare cose peggiori della tortura. Non dovevamo passarla liscia. Per un intero giorno, caldo perfino nelle montagne, non ci portarono nè cibo, nè acqua. Non ricordo perfettamente nulla, solo il sole che batteva, impietoso, sulle nostre teste, senza possibilità di riparo, e la speranza di un soffio di vento, o di una nuvola, che non arrivava mai. Fu un immusonito cadetto, un giovanissimo Tengu dall'aria familiare, senza scettro, a portarci qualche pezzo di qualcosa, il giorno dopo, ed un'acqua dal sapore viscido, che a noi sembrò il migliore nettare del mondo. Ci disse che si erano dimenticati di noi, ma sono sicura che la realtà fosse stata un'altra. Sospettavo che il generale stesse ostacolando ogni tentativo di migliorare le nostre condizioni tremende. Io non fui più toccata dal fulmine, ma, il primo pomeriggio del secondo giorno, venne trovato il metodo per darmi fastidio, un sistema davvero geniale: bambini. Terribili e chiassosi esserini svolazzanti e tentennanti che c'impedivano di riposare almeno un po', prendendoci in giro e stuzzicandoci con bastoncini appuntiti. Quando, stremati dai loro brevi voli, si appoggiavano al tetto della cella, essa ondeggiava, e noi tremavamo. Quella tortura dell'anima si aggiungeva al mio tormento, all'ansia di sapere il verdetto degli anziani a cui la bambina alata si era rivolta, ed alle condizioni precarie della mia salute. Ma non potevo far altro che raggomitolarmi in un angolo, la testa tra le mani, aspettando la libertà, o l'agonia. Era sfiancante, e crudele. E venne, finalmente, la sera, con la tranquillità che ne seguì. Sospirammo entrambi di sollievo, segretamente, preparandoci per dormire. O almeno, Eiron si preparò. Io, ormai, non chiudevo quasi occhio, e ne risentivo pesantemente. Uno scossone eliminò tutti i nostri propositi di riposo. Come ormai sapevamo di poter fare, quando un altro fremito annunciò che la gabbia stava per essere tirata a terra, non facemmo finta di dormire. Io mi tesi, vigile. La prima cosa che notai fu la totale assenza di guardie. Non si vedeva nemmeno l'ombra di uno dei nostri crudeli aguzzini. Questo non mi piacque per nulla, e cominciai ad inquietarmi. Il tonfo del pavimento sul terreno sconnesso mi parve di cattivo presagio. E' quasi assurdo quanto la mente sia disposta, in condizioni di debolezza, a trovare un senso anche alle cose più stupide. La porta si aprì con uno scatto. Notai che il mio compagno sembrava preoccupato. Entrò così un vecchio dalle ali spennate e grigiastre, pesanti ed infeltrite, ma dai terribili occhi neri, capelli arruffati e brizzolati, ed una cicatrice sul collo che mi ricordò in maniera netta le ferite che avevo inferto ad Isnark. Era vestito di un ricco abito di velluto rosso, ed in mano aveva delle corde. Sembrava un mite e curioso Tengu, forse un militare in pensione. Ma mi sbagliavo, e di grosso. Il mio compagno di cella boccheggiò. Mi voltai verso di lui, incuriosita, e sempre piùagitata. Povero il mio stomaco. Cosa stava succedendo? I tristi occhi verdi del mio coinquilino erano pieni di panico. Il vecchio, alto ed imponente quanto Amarto, si fermò scrutandoci. Si fece strada in me una folle speranza. "Laila, di mestiere fornaia, ed Eiron, soldato rinnegato dei guardia confini". Disse, impettito, con una voce profonda, quasi sepolcrale. Devo ammettere, a malincuore, che quell'essere faceva la sua scena. "siete stati chiamati a cospetto della Matriarca Gwen e del Consiglio degli Anziani. Il verdetto sulla vostra condizione è stato enunciato. Mi dovete seguire". Per poco non svenni. Eccoci alla fine, o all'inizio. Cosa sarebbe successo? Quale sarebbe stato il mio futuro? Chekaril si avvicinava? O era definitivamente fuori dalla mia portata? Mi sarei riscattata? O no? Con grande sorpresa del vecchio, presa da una vampata di eccitata speranza, fui io a tendere i polsi, quando lui si avvicinò con le corde. Dovevamo fare in fretta. Io volevo che si facesse in fretta! Il mio cuore era in tumulto. Anche Eiron si fece legare senza problemi, docile come un agnellino, ritto in maniera regale, lo sguardo fisso davanti a sè. Ma io, ormai avvezza a quel malinconico Tengu, notai che gli tremavano le mani. Il suo verdetto, sicuramente, non sarebbe stato favorevole. Aveva già perso buona parte di quello che poteva perdere. Tremai al pensiero di cosa fosse previsto per lui. L'esilio. Il lavaggio del cervello. La meditazione, in grotte tormentate dal gelo. La fervente preghiera. La perdita di ogni briciolo di dignità rimasta. Il suo prezzo da pagare era molto alto. Ma il mio? Mentre il vecchio ci aiutava ad alzare, sentii una fitta d'ansia, e lo stomaco, come sempre, si contrasse. Ed io? Che avrebbero fatto a me? Mi preparai agli ultimi atti della mia commedia, ed uscii umilmente dalla gabbia, la testa bassa ed incassata tra le spalle. Gabbia che, in ogni caso, avrei visto per l'ultima volta. Morte, o rilascio. Due tipi diversi di libertà. Ma pur sempre libertà. Ed io non sapevo che avrei visto, in maniera altrettanto diversa, entrambi.

Noi tre, percorremmo le stesse vie che mi avevano portata per la prima volta nella residenza della Matriarca. A differenza di quel giorno, però, non c'era nessuno per le strade, ed era buio. L'unica luce era quella giallastra e debole delle piccole lampade ad olio fuori da ogni porta. Oltre alla corda che ci legava i polsi, e che ci teneva uniti, come uno strano guinzaglio, non eravamo guardati, a parte la veglia discreta del vecchio. L'ultima volta che ero uscita dalla cella ero stata scortata da una piccola truppa, pronta a saltarmi addosso al minimo accenno di movimento. Era una cosa davvero strana. Dovevo appurare i fatti: mi credevano inferiore ad un vecchio? Rimasi ad osservare per un po' il nostro accompagnatore, e, dopo un po' provai a divincolarmi debolmente, solo per vedere cosa sarebbe successo. Bastò un solo sguardo assassino da parte di quella mite figura a farmela rivalutare in maniera totale. Una sola occhiata mi aveva fatto tremare dalla testa ai piedi. Quella creatura, all'apparenza così dolce, sarebbe sicuramente stata capace di farci male in un batter d'occhio, senza aver nemmeno bisogno del bastone. Era meglio di un esercito di guardie, ma più umano. Mi conveniva, tuttavia, non stuzzicarlo più del dovuto. Eiron aveva avuto ragione ad averne paura. Abbassai la testa, apparentemente mortificata, nell'imitazione passabile di una persona che non volesse far altro che grattarsi, e che non si fosse ricordata della costrizione. Continuando a camminare, senza tirarci, il Tengu fece qualcosa che mi sorprese moltissimo. Mi diede un buffetto sulla sommità del capo, come a volermi rassicurare, farmi capire che aveva compreso. Incomprensibile. Sgranai gli occhi, e, con un guizzo, guardai brevemente Eiron, che marciava accanto a me. Ma che era saltato in testa a quella specie di guardia? Minacciarmi e poi rassicurarmi? Che dovevo pensare del Tengu? Il mio coinquilino non mi degnò di uno sguardo. Camminava eretto, a testa alta, mascella serrata, guardando avanti a sè, le ali perfettamente chiuse contro le sue spalle. Sembrava un re. Finalmente, arrivammo al palazzo di pietra, illuminato da numerose torce fiammeggianti. C'erano molte più guardie della prima volta, e questo mi spiegò in parte perchè non ci fosse nessun altro vicino alla cella. A quanto pareva, quello era un momento molto importante, o un periodo molto buio. Cominciammo a salire le scale.

La sala del trono era uguale a come me la ricordavo: era notte, ora, ed il numero di guardie anche lì considerevolmente aumentato. La predella però era scomparsa, sostituita da quattro scranni intarsiati, dai diversi colori, da sinistra a destra: uno bianco, l'altro nero, uno dorato e uno di legno. Su quello bianco sedeva una vecchia Tengu grassoccia, dall'aria materna, su quello dorato la Matriarca, solenne come sempre, la più giovane, e su quello di legno un uomo di mezza età, muscoloso e coperto da un reticolo di sottili rughe d'espressione, a suo completo agio: una gamba penzolava dal bracciolo, mentre lui guardava tutti, sornione, come se stesse prendendo in giro il mondo. Ma su quello nero c'era l'ultima persona che mi sarei mai aspettata: vestito di un completo nero come le sue ali lucide, c'era il generale, un'espressione tronfia in viso. Fui investita dalla stessa sensazione di vuoto che si prova quando si cade da una grande altezza: ero spacciata. Lui era uno degli Anziani. Per me era finita: aveva senz'altro convinto tutti della mia colpevolezza. Ed io ero già defunta. Andai incontro alle quattro figure con la tremenda voglia di piangere. Guardai, sperduta, la Matriarca, che mi rassicurò con un sorriso dignitoso. Mi resi conto di tremare. Avevo la testa vuota. Inchinandosi, il vecchio che ci aveva portati lì si allontanò da noi, sciogliendoci, dato che non potevamo scappare, e si mise a fianco dello scranno di legno. Poi cominciò a parlare. Doveva essere il banditore. Ma quante cose era? Mi gettava in ulteriore confusione. Ascoltai ciò che diceva con attenzione spasmodica, tentata di cercare una via di fuga, e mettere in quel modo fine a tutte le mie sofferenze. Fu un pensiero che mi sfiorò davvero. Ero disperata. "oggi". Disse, alzando il mento e scuotendo le ali. "il Consiglio degli Anziani ha enunciato, dopo una lunga discussione, la sorte di due nostri prigionieri: Laila, elfa, trovata da un cadetto durante una missione di esercitazione nei nostri territori...". E qui si spiegò la stranezza della mia visione: di solito i trucchi Tengu erano verosimili, e perfetti. Fino ad allora, avevo imputato la stranezza dell'allucinazione come un risultato della mia mente contorta, e leggermente insana. Era un piacere vedere la conferma che non era così. "ed Eiron, colpevole di tradimento d'ideale, recidivo, già punito con la Pena Massima. Cosa dite per quest'ultimo?". Il vecchio si fermò, e indietreggiò. Il rituale Tengu era davvero, davvero strano. Non riuscii a capire nulla: mi sfuggivano troppi passaggi. Ed ero agitata. La Matriarca si alzò, a braccia tese, ed il mio coinquilino si avvicinò fino a sfiorarla, guardando da un'altra parte. Notai la tensione sul suo giovane viso, e la tristezza. Si seppe il verdetto prima ancora che parlasse, in un sussurro dolente, senza staccare gli occhi dall'amico, che girò il capo. Si era sempre saputo: il suo caso era stato molto facile da discutere. Reclusione. Esilio. Il verdetto era stato unanime: non aveva senso liberare un Tengu dalle ali tarpate, privo della sua dignità. Tutti annuivano quando la loro regina parlava, e nessuno chiedeva nulla. Sarebbe stato portato l'indomani in un monastero sulla cima della montagna, ed abbandonato tra i suoi malinconici simili, che si erano macchiati delle stesse colpe. La Matriarca finì di parlare, ed Eiron, girandosi, si allontanò, fino ad arrivarmi di fianco. Era a testa bassa, ma vidi lacrime scorrere per la prima volta dagli occhi fieri. Sospirai quando mi sentii chiamare. Era venuto il momento di imitare il mio coinquilino. Ero tesa in modo inverosimile, ma sospettavo che, tra poco tempo, tutti i miei tormenti sarebbero finiti. Arrancai, a testa bassa, senza quasi sapere quello che stavo facendo, fino alla Matriarca, che mi prese saldamente per le spalle. Alzai la testa, tremante. Sperai con tutto il cuore che la mia bugia avesse sortito almeno qualcosa, e che la morte che mi aspettava non sarebbe stata troppo terribile. Implorai silenziosamente chissà chi per non sperimentare di nuovo il dolore tremendo del fulmine. La prima cosa che vidi fu un sorriso rassicurante su un volto giovanile. "lo vedi, Mastra Guaritrice?". Cinguettò, ancora guardandomi. "e anche tu, Mastro Artigiano? E' un povero coniglietto sperduto, come vi dicevo. Avete fatto si o no bene ad ascoltarmi?". Deglutii quando li vidi annuire, l'una vigorosamente, l'altro con lentezza. Lui mi fece però un occhiolino scherzoso. L'unico a rimanere rigido e tronfio fu Hari, che, con una mano, andò a stringersi il petto. Nonostante tutta la mia confusione, quel gesto non mi piacque. Mi era fin troppo familiare. Sentii un vago senso d'apprensione, e qualcosa in me, nel vuoto che si era creato nella mia testa, si mise in allerta. Qualcosa che aveva più a che fare con gli intrighi di corte in cui l'Ombra era stata svezzata ed aveva sguazzato, che con il pane immaginario di Laila la fornaia. La Matriarca, dopo un altro sorriso, riprese però a parlare, ed io ascoltai, dimenticandomi di controllare, mentre mi riempiva un senso d'incredulitàcrescente. "dopo una lunga discussione, e dopo aver esaminato attentamente il caso". Disse, fieramente, mentre cominciavano a brillarle gli occhi, guardando storto per un attimo qualcuno. "reputiamo a larga maggioranza Laila innocente, e casualmente incappata nei nostri territori. La assolviamo da ogni precedente colpa, e la liberiamo, restituendole ogni bene confiscato!". Non mi resi nemmeno conto di aver aperto la bocca a mezzo. No. Non era possibile, non era possibile! Non sarei morta! Almeno, non in quel momento. Venni assalita dalla necessità impellente di gridare di gioia, mentre questa mi riempiva come acqua calda in una teiera, e mi trattenni giusto in tempo. Non capii più nulla. Cominciai a tremare, mentre mi si appannava lo sguardo. Cominciai a piangere, e stavolta sul serio. Non potevo non farlo. Avrei ritrovato Chekaril, avrei proseguito nella mia missione, mi sarei riscattata! Sentii vari tramestii, e tutti gli Anziani si alzarono. Dopo avermi guardata per un po', la Matriarca, forse mossa a pietà dal mio stato evidentemente confusionale, mi strinse in un abbraccio a suo modo confortante, che io ricambiai. "su...è tutto finito...". Mi mormorò, battendo con una mano la mia schiena. Alzai lo sguardo da oltre la sua spalla, folle di gioia, fissando il tetto. E tutto accadde molto in fretta, e non ebbi quasi il tempo di pensare. Con la coda dell'occhio, grazie alla mia vista allenata, vidi un baluginio alla mia sinistra. E mi ricordai in un lampo lo strano comportamento di Hari. Gridai, ma non per la gioia, mentre una fredda determinazione s'impadroniva della mia mente sconvolta. E ricordo di aver pensato qualcosa sulla mia altra possibilità di farmi valere davanti al Consiglio e alle guardie, e sul fatto che quella giovane pura non doveva morire per colpa mia. Poi mi trovai a terra, il viso premuto contro una delle morbide ali della giovane, un dolore lancinante al braccio. Attorno a me sentivo brusii sconvolti. Alzai il capo, di scatto, respirando affannosamente, verso Hari, che si guardava attorno, sperduto. Chissà perchè, in un lampo d'intuizione, capii che era stato visto, e che tutti ora lo guardavano, interdetti e sorpresi. Come assassino faceva davvero pena: un attentato alla Matriarca in mezzo a tanti soldati. Davvero idiota. Era un novellino. Lui cominciò ad indietreggiare, verso la porta, sempre più velocemente. "no!". Urlai, nel silenzio, cercando di mettermi in piedi, ma bloccata dal dolore al braccio, e rimanendo inginocchiata. Mi guardai la fonte del fastidio, con la vista un po' annebbiata. Conficcato nel mio avambraccio c'era un lungo pugnale sottile, del genere che io avevo sempre usato per colpire al cuore. Aveva attraversato la carne, e la punta sporgeva dall'altro lato, gocciolando sangue scuro. "fermatelo!". Le mie grida rabbiose e doloranti svegliarono il generale. Lui si voltò, e, ancora nello stupore della sala, cercò di fuggire. Io urlai di nuovo, e tentai di alzarmi, ricadendo a terra, affannata. Troppo tardi: qualcuno stava agendo al posto mio. All'improvviso, si frappose qualcosa di grosso e grigio a metà strada verso l'uscita, una specie di pollo spennato. Eiron. Era stato rapido di riflessi, e, intuendo le intenzioni del borioso traditore, gli aveva tagliato la strada, quasi istintivamente, con un ruggito di rabbia. Senza pensarci due volte, Hari lo attaccò, disperato. Osservai il magro Tengu lottare con il suo vecchio generale, in un silenzio irreale, una lotta senza esclusione di colpi. Ali malate, spezzate, tarpate, contro ali forti, nere, lucide. Si capiva ben poco di quello che stava succedendo. Fu un attimo. Uno schiocco. E poi il corpo di Hari cadde a terra, il collo in una posizione innaturale, mentre Eiron, ansimante, con il labbro spaccato, si metteva in piedi, gonfiando il petto e togliendosi la polvere dagli abiti lerci, guardandosi attorno, incredulo, come se non credesse ai suoi occhi. Ci fu un momento di silenzio. E poi cominciò il pandemonio.

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Angolino di Akita:

ollallà ollallà xD eccomi qua xD un po' in ritardo, ma ho avuto davvero da fare, e sono distrutta xD per la prima volta dopo mesi mi sono addormentata come una bambina xD subito, chiudendo solo gli occhi xD fosse sempre così... <.<

d'accordo, passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: ah, bello esser letti da lettori intelligenti e fedeli xD beh, contenta che ti piaccia *___* il meglio deve ancora venire o.O fidati è.é non è un personaggio ben sviluppato...e tante cose si devono chiarire ancora, eh xD finalmente, dopo capitoli in cui ho rischiato il linciaggio, ecco il risultato, molto ovvio, del processo (con qualcosa di meno ovvio dentro, ma che tu già sapevi :P) è stato difficile, ho detto,scrivere questo capitolo, e non mi è nemmeno piaciuto O.o tu che dici? Fammi sapere!! *__*

per Selly: nuuu...perchè perfida? xD si doveva salvare la pelle, anche io avrei mentito spudoratamente per vivere O.o beh...questo punto della fornaia infelice è ancora tutto da sviluppare :P occhi ed orecchie aperti! xD povero, povero Eiron...le cose si aggiusteranno per lui...si...ma non dico in che modo O.o eh, se Lsyn rimanesse lì, mi dici come vado avanti con la storia??? xD beh, che dici di questo capitolo? *__* fammi sapere!

Ringrazio anche Jami, che mi ha inserita nei preferiti *__* è un onore xD

Ciao!

Akita

 

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Capitolo 32
*** Io e te dobbiamo parlare. ***


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Oddio. Ora so cosa succederà alla fine di questo capitolo. Lo so. Vi voglio bene >.<

Ah, se vi do l'impressione di avere fretta, è perchè ho fretta O_O me la sono davvero presa comoda oggi O.o

Beh, vi lascio, e non mi fate del male!!!!

See you later!

Akita

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Ho ricordi molto confusi di quello che successe dopo. Qualcuno gridava, ed il brusio si era trasformato in un ronzio indistinto, come un alveare disturbato. Il braccio mi faceva un male tremendo. Ancora in ginocchio, a testa bassa, il respiro affannoso, mi sentii attorniare da varie entità alate. Li sentivo incombere su di me. Guardie, forse. Perfetto, davvero perfetto. E se avessero pensato che io facessi in qualche modo parte del complotto? Ma che avevo combinato? Ero però felice, in un certo senso, di aver salvato la Matriarca, anche se per poco non ci avevo rimesso la pelle. Non si meritava una morte del genere, per mano di uno dei suoi più fedeli collaboratori. Povero Hari. Povero, stupido Tengu. Ti costava tanto progettare meglio un assassinio, e non farlo quando io ero lì? Era un complotto, per caso, per farmi dare da qualcuno della micetta? Chi ero io, dannazione, per fare l'eroina? Allora perchè l'avevo fatto? Ancora confusa, tentai di mettermi almeno seduta. La testa, appena accennai un movimento, cominciò a girare vorticosamente, ed io serrai gli occhi, fermandomi. Ero troppo debole, e la perdita di sangue non mi stava aiutando. Sperai che le mie condizioni avessero mosso a pietà qualcuno: è sempre bene riuscire simpatica. Ed avevo bisogno di aiuto. "fatemi passare! Sto bene!". Urlò improvvisamente una voce familiare, venata d'ira, strappandomi dalle mie considerazioni pigre ed ovattate. Un abito bianco, chiazzato di rosso in più punti, entrò nel mio campo visivo. La Matriarca era illesa: sospirai di sollievo. Almeno, tutti i miei sforzi non erano stati vani. Comprendevo poco di quello che mi stava succedendo attorno. Sentii delle mani sulla spalla sana, mani che mi scuotevano selvaggiamente. Qualcuno iniziò a chiamarmi, chiamare il mio falso nome, almeno. Cercai di rispondere, dire qualche sciocchezza, ma non ci riuscii. Cominciai a perdere contatto con la realtà. Troppe emozioni, troppa stanchezza, troppo sangue, troppa confusione. Mi sembrava di galleggiare. Tutto era ovattato, come se stessi per addormentarmi. Avvertii qualcuno prendermi delicatamente, e stendermi sul pavimento freddo. Il contatto con la pietra gelida mi fece bene, e mi diede la lucidità necessaria per guardarmi un po' attorno. I rumori si fecero più vicini, e reali. La testa cominciò a girare di meno. Riaprii gli occhi. C'era un capannello di gente preoccupata attorno a me. A pochi centimetri dal mio viso,c'erano la Mastra Guaritrice e la Matriarca, pallidissima, sporca del mio sangue, ma incolume. Tutte e due mi fissavano. Appena l'ultima si accorse che ero più lucida, mi sorrise. "grazie...". Mormorò, ancora scossa. Sentii una strana sensazione di calore all'altezza delle guance. Non ero abituata a quel comportamento. Quale regnante mi aveva mai detto grazie? La Regina non ricordavo l'avesse mai fatto, nonostante io per lei avessi rischiato la mia stessa vita, in più di un'occasione, e mi fossi lordata le mani di sangue innocente. Che strana cosa: da quando avevo cominciato ad essere Spia, nessuno mi aveva mai ringraziata. Non dovevo piacer molto a nessuno, forse, o forse non svolgevo bene il mio mestiere. Quella singola parola era così strana da sentire in bocca a qualcuno con in mano del potere. Mi riscaldava il cuore. Ricambiai il sorriso, che si trasformò subito in una smorfia di dolore, quando la Tengu grassoccia mi afferrò il braccio ferito, dove il coltello ancora faceva bella mostra di sè. "stai ferma, tesoro...". Mi disse, in tono pratico, aumentando la pressione. "ora devo togliere il pugnale... non farà male...". Gemetti. Dei, quanto odiavo, ed odio ancora, i Guaritori! Mi ero sentita dire quelle tre parole, in passato, moltissime volte, nei Lazzaretti, tappa quasi obbligata dopo tutte le missioni pericolose, vale a dire la maggior parte di quelle a cui partecipavo. A Galinne ero addirittura famosa: mi prendevano in giro per le fantasiose maledizioni che indirizzavo a chiunque mi toccasse quando non stavo bene. Conoscevo a menadito i meccanismi e le trappole ipocrite della Guarigione. In generale, a quella frase così dolce non seguiva mai nulla di piacevole. E quella volta non fece eccezione. Strinsi i denti, promettendo a me stessa di non urlare qualcosa di offensivo nei confronti dell'innocente Guaritrice quando avrei cominciato a sentire dolore.Promesse e propositi che furono completamente dimenticati quando avvertii, subito dopo, un movimento ed una fitta lancinante. Mi divincolai, rendendo necessario l'intervento di qualcuno, che mi mantenne, e borbottai a mezza voce una bestemmia ben scelta. Ma la debolezza tornò quasi subito a farsi sentire, ed io chiusi gli occhi di nuovo, mentra la testa sembrava volersi staccare dal resto del corpo. Dannazione. Non mi piaceva essere così inerme. Fluivo, come se stessi per addormentarmi. Sentii un verso indeciso. "penso dovrò darle dei punti... Gwen, dove posso...?". Non riuscii mai a sentire la risposta. Ebbi, all'improvviso, l'impressione di essere stata infliata a testa in giù in qualche posto molto buio. E non sentii più nulla.

Dopo quello che mi parve un secondo, ripresi conoscenza. Rimasi ad occhi chiusi, analizzando per bene le sensazioni che mi provenivano dall'esterno. Il braccio non faceva tanto male, anzi: la benda che mi fasciava strettamente non era quasi avvertibile. Ero ancora debole, come se avessi corso per giorni, ma la testa non girava più. Attorno a me, un silenzio irreale ed assoluto. Ero stesa su qualcosa di morbido e cedevole, forse una lettiga. C'era odore di fiori. Forse sarei riuscita ad azzardare qualche passo. Ora che ero libera, potevo andarmene quando volevo, giusto? Chekaril mi aspettava! Assalita da quella folle speranza, aprii gli occhi. Ero in una stanza di pietra, stesa su un letto, quasi soffocata da pesanti coltri color ocra, fatte all'uncinetto. Accanto a me, una finestra. Era ancora buio, e l'unica luce proveniva da una lampada ad olio posata su un comodino al mio lato. Sentii, improvviso, un fruscio, e mi voltai di scatto verso sinistra. Non ero sola come avevo creduto. Di fronte a me, seduta su una semplicissima sedia di legno, vestita da una strana tunica rossa, c'era la Matriarca, rilassata come non mai. Dannazione. Come potevo fuggire, ora? La giovane Tengu mi sorrise. "ben svegliata". Mi disse, accavallando le gambe, osservandomi, senza astio. Tirai un respiro. D'accordo, d'accordo, la recita non era ancora finita. Puntellandomi sul braccio sano, mi riuscii a mettere seduta. Ero vestita con una stranissima veste di cotone grigiastro, dalle maniche lunghe e svasate, linda e profumata. Anche io ero pulita. Mi riempii di segreta soddisfazione: finalmente, un po' di civilità. Rimanemmo in silenzio, lei tranquilla, io agitata come non mai. Come avrei fatto? Come le avrei spiegato il mio gesto? Deglutii quando lei aprì di nuovo la bocca. "come ti senti?". Non risposi a quella domanda gentile. La vuoi sapere la risposta, Matriarca? Bene, mi sento un'idiota. Ho salvato una nemica! Ho compiuto un gesto molto sciocco. Da me, insomma. Ero ancora libera? Non ne ero sicura. "posso andarmene ora?". Le chiesi, di getto, dopo un altro silenzio. Era una cosa che mi premeva molto. Lei aggrottò un sopracciglio. "quanta fretta, elfa...". Mi disse, scrollando le ali, senza guardarmi. "lo so che, fino ad ora la nostra ospitalità ha lasciato a desiderare, ma sei ferita. Tuo fratello è lì, sono sicura capirà il tuo ritardo. Sei un mucchietto di ossa e, ridotta così, non andrai avanti per molto. Da quant'è che non dormi e mangi decentemente?". Arrossii, sentendomi immediatamente piena di vergogna e delusione, per chissà quale motivo. Questo mi spinse ad essere più scorbutica del normale. "non è colpa mia se il vostro generale era un animale...". Mi morsi le labbra quando la vidi distogliere lo sguardo, afflitta. Brava, Lsyn. Sei doppiamente idiota. Perchè avevo messo in mezzo quel traditore? Altro silenzio imbarazzato. "sono stata sciocca a fidarmi di lui". Mi confessò, improvvisamente, mordendosi le labbra. "mi era sempre sembrato il più degno... ma sai una cosa? Lavorava, da quando mi hanno dato le ali, per una tribù a noi nemica, che non condivideva le mie opinioni moderate". Un classico. Povera Matriarca: quanti dubbi albergavano ora, nella sua mente candida, sulla fedeltà degli altri Anziani? Non mi parve strano che si confidasse con me. Secondo tutti, ero un'innocua ed infelice fornaia. Sobbalzai quando vidi un paio di lacrime scenderle sul viso. No...perchè doveva piangere? Non le bastava avermi mossa a pietà? Strinsi i pugni sotto le coperte, per impedirmi di obbedire allo stupidissimo impulso di abbracciarla. Mi ricordava Junielle, e la sua fragilità. Cosa pessima: quell'appartenente ad un odioso popolo pieno di boria cominciava a starmi simpatica. Pessima cosa. Lei riprese a parlare, in un sussurro spezzato. "quando ho pensato che Eiron e te... i nostri prigionieri... mi avete salvata... mentre lui...". Scosse il capo. "ora saranno tutti d'accordo con me". Beh...buon per te. Mi sentii improvvisamente piena d'apprensione. Che fine aveva fatto il mio compagno di cella? Non l'avevo più visto da quando aveva ucciso Hari. "dov'è Eiron?". Chiesi, dopo un altro breve silenzio, piena di preoccupazione. In un certo senso, mi ero affezionata a quel triste Tengu: adoravo il suo modo discreto di fare, nonostante avessimo praticamente litigato quasi sempre. La Matriarca serrò gli occhi, e non mi rispose per un bel po'. Non mi piacque quella pausa, ed a ragione. "siamo tutti grati a lui per quello che ha fatto, e ci rimorde la coscienza per avergli negato la possibilità di volare, a lui, che esprimeva le idee giuste". Disse poi, atona e stranamente formale. "ma lui tra noi non può più vivere: le piume mozzate non ricresceranno. E lui è stato sempre troppo fiero per vivere con un'onta del genere. Ha chiesto di morire, come premio per la sua bellissima azione. Ci ha implorati, benchè volessimo lasciarlo in vita, tra noi. Una morte nobile: lo tratteranno esattamente come i malati senza speranza. Una morte degna di lui, degna di un eroe. Procederanno domani mattina". Senza nessun preavviso, cominciò a singhiozzare senza ritegno. Mi sentii piena di dolore. Povero Eiron. Povero, triste mio compagno, che mi aveva aiutata quando mi colpivano con i fulmini, che mi aveva fatta spazientire, che mi aveva posto strani indovinelli, che aveva condiviso con me giorni di prigionia e tormenti. Alla fine, si sarebbe liberato da ogni affanno: lo capivo alla perfezione. Non doveva essere facile vedere attorno a sè giovani creature alate, e non poterle raggiungere, pur avendo le ali per volare. Non era facile sentirsi emarginato, sapendo che, se le cose fossero andate diversamente, lui non lo sarebbe stato, e lo capivo. Non resistetti, e, senza più curarmi della mia reputazione, o di altro, mi sporsi, prendendo una mano esile della giovane Tengu, e la strinsi forte. La sentivo stranamente vicina. Lei perdeva un amico, ed, un po', era colpa sua, che non era riuscita a far cambiare idea alla vecchia Matriarca. Solo il destino allora sapeva quanto quella sensazione mi sarebbe divenuta familiare, in un futuro che ancora ignoravo. Rimanemmo un po' così, lei piangendo, io piena di dolore muto. In seguito, cercai in tutti i modi di convincermi che il mio comportamento non fosse altro che la parte migliore della mia recita, e che ero stanca, e molto confusa. Ora dico senza vergogna che non era così: sono cambiata, forse in meglio. Non lo so, e non lo voglio sapere. Quando il tempo diventa un susseguirsi infinito di sofferenze, certe cose non hanno più importanza. Le tenni la mano fino a quando, con un sospiro, lei si calmò, alzando il viso sfatto. Mi sorrise. "ho fatto bene a fidarmi di te...". Mi disse improvvisamente, asciugandosi gli occhi con una manica. Non mi piacquero quelle parole: si fece strada in me una sensazione di gelo, ed un brutto presentimento. Non poteva essere... Lei mi fece l'occhiolino, con fare complice, ed io mi agitai a disagio, nel letto. "avevo sentito tante storie sul tuo conto... Mi ero fatta l'idea di un mostro gelido ed insensibile...ho fatto bene a lasciarti andare!". Oh, no. Oh, no. Oh, no. Rischiai seriamente, debole com'ero, di svenire. Mi aveva beccata. Mi aveva riconosciuta. Ero inerme. Dovevo fuggire! Ma come fare? Dannazione, e mi era parso di essere così perfetta nella mia recitazione! Ecco perchè mi aveva creduta senza sospetti...ed io che avevo pensato fosse ingenua! La Matriarca si accorse della mia agitazione estrema e, per la prima volta, il suo sorriso mi parve una smorfia astuta. Qualcosa mi fece capire che ero nei guai, e seri. Beh... potevo assicurare la mia anima al nulla: ero praticamente morta. Molto divertente, Matriarca. Lasciarmi andare, per poi uccidermi con le tue mani. Divertente. "pensavi che io credessi alla tua stupida recita della fornaia, Lsyn Amarto, chiamata l'Ombra, una delle Spie e degli elfi più pericolosi in circolazione? Mi facevi così stupida?". Mi chiese, con infinita dolcezza. "Io e te dobbiamo parlare".

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Angolino di Akita:

accidenti <.< (prepara la valigia) io me ne fuggo O.o non uccidetemi, ve ne prego!! >.< scommetto che non ve lo aspettavate, però xD ahhh, come mi diverto xD

passiamo dunque al dunque (se non siete già pronti per venire a casa mia per ammazzarmi):

per Carlos Olivera: ma io dormivo sulla tastiera, quando l'ho scritto O.o vegetavo xD beh, contenta ti sia piaciuto xD e lo so che ora vorrai ammazzarmi nei modi più orribili e cruenti che esistono...però...poi non saprai che succede dopo xD beh, prima o poi Lsyn doveva cambiare un po'...anche se...peccato...ah, io non ti dico nulla xD mi sto vendicando xD che dici di questo capitolo? Piaciuto? (penso che un paio di cose non siano scese giù xD ma io sono crudele xD) fammi sapere (e non uccidermi!! >.<)

per Selly: cara *-* tu non mi ucciderai, vero? Sappi che è ancora libera, però xD io avevo in mente come tortura una cosa molto più crudele, molto @.@ poi sono incappata in un pasticcio linguistico terribile (qualunque cosa scrivessi, in qualunque modo lo scrivessi, era un terribile e palese doppio senso, e non mi piaceva @.@), ed ho optato per un'altra cosa xD a questo punto, penso che la decisione di Eiron non ti piaccia poi molto xD fammi sapere che ne pensi, eh... *__*

ciao a tutti!

Akita

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Capitolo 33
*** Accetti? ***


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Eccomi qui, finalmente!

Ma io vi adoro...vi adoro xD è divertente leggere le vostre reazioni :P

Ora scappo: vado piuttosto di fretta.

See you later!

Akita

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Quelle parole ebbero lo stesso effetto di una secchiata di acqua gelida in pieno dicembre. M'immobilizzai, serrando la mascella. Dannazione. Ero stata davvero idiota: quella era un'altra trappola, preparata in modo sopraffino. Non dovevo caderci, in nessuno modo. La Matriarca stava solo fingendo. Sicuro. Mi restava solo una carta di giocare, per salvarmi la vita. Perchè quella maledetta mi aveva liberato? Quale morte prevedeva, per me? L'avrei uccisa, se solo non fossi stata così debole. Sarei potuta scappare. Era notte, e nessuno mi temeva. Ma non potevo. Chiusi i pugni sotto le coperte, per impedirmi di tremare, e cercai, in ogni modo possibile, di guardare la Matriarca con pura innocenza. "io? L'Ombra, una Spia?". Domandai, in tono un po' smorzato, per impedire tremasse. Mi diedi un contegno quasi divertito, e molto incredulo, e mi costrinsi a sorridere, sebbene fossi immersa nella confusione più terribile e totale. "ma non se ne sente parlare da tantissimo tempo. Potrebbe essere morta. Cos'è che vi fa pensare io sia lei?". Lei ricambiò lo sguardo, sorniona. E quegli occhi pieni d'ironia mi fecero perdere d'ogni speranza: non mi credeva. Ero stata così pietosa, nella mia recita? Lei si sporse verso di me. Dovetti farmi davvero forza per non divincolarmi, e far finta di essere ancora la fiduciosa Laila. Senza alcuna traccia d'animosità, lei mi sfiorò le cicatrici. "queste, Lsyn". Mi disse, con una punta di divertimento."non sai che i ritorni di fiamma lasciano una traccia perenne? E non sai che noi Tengu, come gli Insathi, siamo capaci di captarla? Credevi che nessuno sapesse del tuo terribile incidente? Me l'avevi davvero fatta credere, Lsyn... se non fosse stato per quell'aura strana che ti accompagna...". Schifose cicatrici: senza di esse, l'avrei passata liscia. Digrignai i denti, mandando tutto all'aria. D'accordo, non m'importava più di nulla. Il mio destino era quello di morire, ora, in quel momento? Beh, ben venga. Ormai ero lì, dopo averla salvata da un assassinio. Bella gratitudine. Davvero."d'accordo". Dissi, abbassando il tono di voce, in un ringhio smorzato. Ero davvero arrabbiata, con lei, e con me stessa, soprattutto. Avrei dovuto contare quell'eventualità. Che ingenua: mi ero fidata di me stessa, e della sovrana, sicura di averla messa nel sacco. Che sciocca. "come volete che mi uccidano?". Con mio grandissimo stupore, la Matriarca scoppiò a ridere, una risata estremamente divertita. Parve quasi tornare quella di prima. Non mi piacque quell'atteggiamento, e la guardai, piena di sospetto. Che voleva fare? Che intendeva con quella risata gioiosa? Dopo un po', lei si ricompose, ed andò ad incontrare il mio sguardo diffidente. "ma nessuno sa la tua vera identità...solo io, ed Eiron, che ti siamo stati più vicini". Mi disse, scrollando le spalle. Per poco non spalancai gli occhi. Il pollo sapeva! Avrebbe potuto comprarsi la libertà con quell'informazione. Non l'aveva fatto. Il rispetto verso quel malinconico Tengu aumentò in maniera spropositata. Ripresi ad ascoltare la Matriarca, mentre lei mi sorrideva gentilmente. "addirittura, poco prima che ti svegliassi mi ha chiamata...lui mi ha chiesto di risparmiarti...ma tu sei libera! Io ti ho liberata, e non ho nessuna intenzione di ucciderti. Sarei un'ingrata se lo facessi". Immediato sollievo, e non riuscii a trattenermi dal sospirare. Deglutii. Avrei potuto riprendere il mio viaggio. "così...vi fidate di me?". Le chiesi, guardando il vuoto. Non potevo quasi crederci. Un'altra risata, e poi lei mi rispose, dolcemente, quasi a confortarmi. "certo che no! Ma in ognuno di noi c'è del buono, e tu hai mostrato un lato che nemmeno io credevo esistesse". Mi disse, facendomi voltare verso di lei, incredula. Buona, io? Che, poco tempo prima, avevo fatto a pezzi due innocenti? Che l'avrei uccisa senza nessun indugio pur di fuggire? Era così cieca? Scossi il capo. No: lei non mi conosceva. Altre volte avrei dovuto sentire quelle parole. Forse ora è vero, forse avevano ragione. Prima che potessi aprire bocca, però, lei m'interruppe, di nuovo. Era quasi seccante. "mi hai salvata, Lsyn. Fidarsi paga. Ma anche se tu fossi stata diversa...io ti avrei lasciata andare lo stesso. Sono stanca di questa chiusura sterile". Lei abbassò lo sguardo. Si, certo. Come no. Povera cucciola alata: ne aveva di strada da fare per capire il mondo. Non le bastava l'esempio del suo amico, che per eccessiva fiducia l'indomani sarebbe morto? Le sorrisi, piena di scherno, e scossi il capo. Pessima mossa. La reazione che ebbe la mia giovane interlocutrice mi lasciò alquanto intimidita. Lei mi guardò in modo assai truce, afferrando il copriletto in una morsa spasmodica, tremando impercettibilmente. Non l'avevo mai vista così. L'avevo davvero fatta arrabbiare: avevo messo in dubbio la sua autorità. Sembrava stesse per schiaffeggiarmi, così come aveva sempre fatto la Regina quando io osavo troppo, come una servetta impertinente. Mi pentii subito del mio gesto avventato. Ma che accidenti mi passava per la testa? Chi ero io per discutere sul potere di una sovrana? Istintivamente, mi preparai al colpo: incassai la testa nelle spalle, e serrai gli occhi. Ben mi stava: me l'ero davvero, davvero cercata. Attesi il colpo a lungo, tesa. Colpo che non arrivò. Ancora raggomitolata, sentii la sua voce, carica di perplessità. "Lsyn?". Mi chiamò, evidentemente preoccupata. Quel tono quasi dolce mi caricò d'incertezza. Allora non mi avrebbe fatto del male? Mi arrischiai a socchiudere un occhio, pronta a serrarlo di nuovo in caso di necessità. Me la trovai davanti, che mi scrutava, gli occhi pieni d'ansia. "che stai facendo? Ti senti bene?". Era davvero diversa dalla mia cara regina. Trovai quel fatto quasi strano: ero abituata al suo potere violento, e quasi non mi parve vero non essere trattata come una domestica. Ritenni quasi sicuro tornare alla normalità, ed aprii gli occhi. "sto benissimo, Matriarca". Le dissi, stupendomi del tono pieno di gratitudine che avevo usato. Che tesoro: non mi aveva colpita. Era davvero un modo strano di regnare. Come si faceva obbedire dai suoi simili senza usare la forza, o la persuasione? L'amavano? Ma una sovrana non si ama: si teme, e si rispetta. "sto beniss...". Non riuscii a completare la frase. Quasi come a smentire le mie parole, mi assalì un altro, violento, giramento di testa. La vista si offuscò, ed io, per qualche attimo, non capii più; nulla.

La prima cosa che mi colpì quando recuperai tutti i sensi, fu un piacevole profumo di cibo caldo. Mi sentivo debolissima. Lo stomaco, con mia grande vergogna, brontolò. Credo di essere arrossita, e di aver fatto una strana smorfia. Non dovevo mangiare da qualche giorno: un lasso di tempo pazzesco, per chiunque. Per l'ennesima volta, riaprii gli occhi. Ero stata di nuovo stesa, e sistemata. Che premura. Mi rimisi lentamente seduta, prendendomi la testa fra le mani. Avevo un cerchio tremendo alla testa. "ma ti davano da mangiare, Lsyn?". Mi domandò la voce dolce della Matriarca, fuori dal mio campo visivo. Mi girai verso di lei, togliendo le mani dal viso, che sapevo stravolto. Era seduta, un'espressione ansiosa in viso, ed una ciotola fumante in mano. Quell'oggetto catalizzò immediatamente la mia attenzione, quasi come avrebbe potuto fare lo stesso Chekaril. Quel contenitore di quella che mi pareva rozza creta mi parve, all'improvviso, la cosa più importante del mondo, che tutto andasse in malora. Dovevo mangiare. Ero abbastanza calma per poterlo fare. Non sarei sopravvissuta senza farlo. "non...ci riuscivo". Mormorai, senza staccare gli occhi da quell'umile ciotola piena di qualcosa di simile ad uno stufato. Lì c'era un tesoro. So che il mio, in quel momento, fu comportamento davvero poco degno, ignobile per una spia d'alto rango come me. Ma ormai avevo completamente dimenticato cosa fosse la dignità, dopo giorni di trattamento disumano. E poi la fame mi attanagliava, terribile come una belva feroce. La Tengu sospirò. All'improvviso, vidi davanti a me quel contenitore, invitante e profumato. Senza pensarci due volte, lo afferrai, e, piena di bramosia, me lo portai alle labbra. Poco prima di prendere il primo boccone, mi assalì, improvviso, un sospetto. E se avesse avvelenato quel piatto all'apparenza così innocente? Chi lo avrebbe mai saputo? Un modo davvero pulito per farmi fuori. Io stessa avevo fatto così innumerevoli volte. Mi bloccai e, piena di diffidenza, osservai la Matriarca. Lei mi sorrise, incoraggiante. "perchè fate tutto questo per me?". Dissi, la ciotola vicina alla bocca, che mi tentava irresistibilmente. La Tengu mi sorrise, ancora. "mi hai salvato la vita, semplice". Disse, facendomi un giocoso occhiolino. "e poi, mi sei simpatica". Fu quello a convincermi della sua buona fede. Lei non l'avrebbe mai fatto, non mi avrebbe mai uccisa. Poteva mai fare una cosa del genere, quell'essere fiero, dallo sguardo così puro? Mi sentii invadere dal senso di colpa. Lei non era meschina come me, e come tutta la gente che avevo frequentato fino a quel momento. Ah, e non m'importava. Avrei rischiato: avevo davvero troppa fame. Attaccai lo stufato con voracità. Mi parve il cibo più buono del mondo. Finì davvero troppo presto. Mi sentii immediatamente meglio. Uno stomaco pieno aiuta davvero. In pace con il mondo, ancora con in mano la ciotola, ormai ripulita perfettamente, alzai lo sguardo verso la Tengu. Lei mi guardava, piena di quella che aveva tutta l'aria di essere pietà. Mi sorrise, tristemente, e scosse il capo. "perchè dobbiamo fare sempre così? Sei in uno stato pietoso". Gentilmente, si allungò, e prese il contenitore vuoto dalle mie mani. La lasciai fare, stancamente. Non le risposi. Lo sapevo, ne ero pienamente consapevole. Mi sentivo anche vagamente felice, troppo distratta per poter pensare. Che razza di giornata. Mi immersi così tanto nei miei pensieri che sobbalzai, saltando quasi, quando mi sentii una mano su una spalla. La Matriarca mi guardò di nuovo, ancora più abbattuta. "ho da chiederti un favore". Mi disse, mentre io ancora cercavo di rimettermi in sesto, il cuore che batteva come impazzito. Avevo davvero i nervi a fior di pelle. Annuii debolmente, come a volerla far continuare. Cosa mai voleva da me? Lei sospirò. "Eiron vuole che tu lo assista durante la sua morte". Mi disse, tutto d'un fiato. Mi avvolse un familiare dolore. Il mio povero coinquilino: voleva darmi anche quest'onore, a me, che l'avevo trattato in una maniera ignobile? Non sapevo ancora cosa dovevo fare. E sono sicura che, se l'avessi saputo, avrei capito immediatamente perchè lui mi voleva. La Tengu riprese a parlare. "però devo dire un paio di parole al Consiglio. Ho bisogno di rivelar loro la tua vera identità. Accetti?". Vago ed immediato senso di paura. Cosa sarebbe successo se lei avesse detto la mverità su di me? Non sarei stata nei guai? Probabilmente intuendo il mio stato d'animo, lei si affrettò a rassicurarmi. Il suo sguardo, da triste, divenne inesplicabilmente duro. "devono ancora capire chi comanda, qui, ed è ora che qualcuno gli rammenti che la Matriarca sono io, e che posso tutto". Mi disse, stringendo gli occhi. Brava, la giovane alata. Così si governava. "ed i tempi sono cambiati: tu sei mia amica. Accetti?". Annuii di nuovo, senza parlare. Era venuto il momento di andare allo scoperto. Forse avevo trovato degli alleati. Senza attendere oltre, la giovane sovrana si alzò, guardandomi."domani ti manderò a chiamare...quando sarà tutto pronto per il rito". Mi disse, con una strana fretta. Notai, nel suo sguardo, un terribile dolore, che non mi avrebbe mai voluto far vedere, e tracce di lacrime. Capii che, tra un po', sarebbe crollata. Povera piccola. Non è mai facile perdere un amico. Un moto, improvviso, di simpatia. Amavo davvero quel modo di fare, quell'orgoglio innato. Quell'esserino, per quanto giovane, aveva la stoffa per essere una vera sovrana. Lei, forse vedendo la mia curiosità, si girò, e cominciò ad andarsene, a passi lunghi, quasi volesse correre via. "buonanotte, Lsyn". Mi disse, quasi sulla soglia. "buonanotte, Matriarca". Le risposi, docilmente, prima che lei fuggisse via, come una ladra. Rimasi sola. Per un po', mi trattenni a rimuginare. Cosa mi stava succedendo? Perchè mi comportavo così stranamente? Quella non era l'Ombra. L'Ombra sarebbe già fuggita. Ma, aiutata dallo stomaco pieno, e dalla stanchezza che si faceva ancora sentire, mi assalì un'ondata improvvisa di sonno. Mi sistemai meglio, ristendendomi, piombando nellìoblio non appena chiusi gli occhi. Il giorno mi attendeva con altre prove.

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Angolino di Akita:

xD mi sono davvero divertita a scrivere questo capitolo xD scusatemi se "vi arronzo" un po', ma vado di fretta xD

passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: carissimo, egregio, mister *__* ti prego... no >.< non puoi tu! Devo dire che però mi diverto xD eccomi qui, puntuale come sempre, nei miei aggiornamenti :p una promessa è una promessa :P che dici di questo capitolo? Volevo metterci pure Eiron in mezzo, ma mi sono accorta che non andava, così... poi si aumenta la tensione :P fammi sapere, che sono curiosa *_*

per Selly: cara *.* è ovvio ù__ù e mica è scema, lei xD lo sapevo che non ti sarebbe piaciuto...ti do solo questo consiglio: risparmia le lacrime per altri morti xD ah, ma io come mi diverto xD lo so, anche a me dispiace un po', ma, come dire...Eiron è un personaggio già "creato morto" xD appena mi è venuto in mente sapevo già la sua fine xD è un po' crudele, però necessario...fammi sapere, intanto, che ne pensi di questo capitolo *.*

per Kylien: carissima xD a me importa che tu legga, il commento po...mi fa piacere, e molto, ma se non dipende da te certo non posso farci nulla xD beh, come ho già detto su, Eiron è stato destinato da me fin dalla sua "nascita"; a morire... l'avevo già pensato dalla fine xD avevo in mente un'altra scena, ma è stata irrealizzabile...vabbèxD tu fammi sapere *.* baci!

Ciao a tutti!

Akita

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Capitolo 34
*** Ti lascio la mia spada. ***


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Ahh-ahhh.

Qui qualcuno, già leggendo il titolo del capitolo, capirà. Qualcuno gioirà, qualcun altro no <.<

Ringrazio il solito, santissimo santo Carlos Olivera per l'idea, e per avermi salvato dai labirinti inestricabili di mamma wikipedia xD

Senza di lui, a quest'ora starei ancora facendo impazzire metà contatti MSN per trovare un veleno di origine vegetale che avesse determinate caratteristiche xD

Ora, vi lascio al capitolo...

See you later!

Akita

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Era quasi l'alba quando mi svegliai. Mi sentivo davvero meglio: quasi in forma, in realtà. Un altro pasto decente, ed avrei potuto, bene o male, continuare il mio viaggio. Sono sempre stata veloce nel riprendermi, come tutte le Spie. O quello, o la morte. E' questo che ci hanno sempre insegnato. E la naturale vitalità elfica aiuta, e molto. Tuttavia, rimasi un po' a letto, godendomi il piacevole tepore delle coperte. Non avrei visto queste comodità; per un bel po' di tempo, ed era meglio approfittarne finchè potevo. Nel silenzio più totale,cominciai a pianificare le mie mosse future attraverso l'Impero. Una volta scesa dalle montagne, sarei stata direttamente nel territorio umano. Sarei stata costretta a battere le zone più desolate, evitando ogni forma di vita senziente. Non conoscevo bene quei territori, ma confidavo solo nella mia capacità d'orientamento e memoria. Dovevo dirigermi verso la costa, a Scmen, la piccola cittadina portuale dove viveva il contatto preferito di Akita, Lateek, un'umana, una zitella acida, proveniente da un&'antica famiglia d'informatori. Poi...via, verso Gerinti. Mi sentii inquieta, come preda di un orrido presentimento, e desiderai più che mai la compagnia di Tijorn, a confortarmi e prendermi bonariamente in giro, sempre con me. Chekaril, il mio Chekaril, era lì, e mi aspettava. Mi avrebbe amata se l'avessi salvato? Scossi la testa. Era un'ossessione: qualunque fosse il pensiero che mi attraversasse la mente, sempre finivo per pensare a lui. Fortunatamente, prima di sprofondare nella disperazione più cupa, e nei miei soliti, tormentosi pensieri, sentii dei leggeri colpi alla porta. Mi voltai verso di essa nel momento esatto in cui si aprì, lasciando intravedere la minuta figura di una piccola Tengu, una domestica, a giudicare dagli abiti semplici. A passi incerti, la nuova arrivata entrò. Era molto giovane, e portava, tra le braccia, un grosso fagotto nero, evidentemente pesante. L'osservai, incuriosita, senza ostilità alcuna, avvicinarsi, e posare tutto quello che la ingombrava ai piedi del mio letto. Poi si rivolse a me, lo sguardo basso. Odiai quel modo di fare: perfino le mie domestiche, in un passato così remoto da non apparirmi reale, avevano l'ordine preciso di, usando le mie parole, non scodinzolare. D'accordo, erano serve. Mi dovevano rispetto ed obbedienza ciechi, ma guai ad abbassare lo sguardo, od inchinarsi ad ogni piè sospinto, cinguettando leziosamente complimenti. A qualcun altro avrebbero potuto far piacere, ma a me no. Mi è sempre sembrato un modo sofisticato per prendere in giro il prossimo. "la mia signora vi ha chiesto se...potreste unirvi a lei, per colazione...". Mormorò, piena di timidezza e paura repressa, diminuendo ulteriormente la mia scorta già esigua di pazienza. Chi credeva io fossi? Poi, d'un tratto, mi ricordai del motivo della chiamata, e rabbrividii. La fine di un eroe. Povero Eiron. In cosa l'avrei dovuto aiutare? Quel punto del rituale Tengu, tenuto gelosamente segreto come tutta la loro vita, mi era completamente oscuro. Assieme all'ormai abituale fitta di rammarico per il destino già compiuto del mio coinquilino, avvertii anche un moto di pura, e genuina, curiosità. Stavo per avere un onore indiscutibile, entrando nell'intimo della vita di un popolo che mi aveva da sempre intrigata. Avessi saputo cosa sarei stata costretta a fare... Era ora di sbrigarsi: non avrei fatto aspettare oltre il rito. Io ero solo un'ospite, per di più indesiderata. Mi decisi, prima che la servetta parlasse ancora, a darmi una mossa: spostando le coperte, mi alzai rapidamente, con un fruscio, fino a trovarmi di fronte alla Tengu. Dannazione: mi era sembrata più piccola, dal letto. Mi superava di tutta la testa. La guardai malissimo, e lei distolse lo sguardo, abbassandolo ancora di più. Era ora di una bella lezione. Prima che si potesse muovere, agguantai il fagotto, con uno scatto. Eh, no. Per quanto fossi orrenda, non ero monca. Poi alzai lo sguardo, fino ad incontrare i suoi occhi, spaventati e docili. Ora mi avrebbe sentita. "punto primo". Sussurrai, con un tono così dolce da stupirla. Poveretta: dentro di me già gioivo all'idea di potermela finalmente prendere con qualcuno. Davvero meschino, ma rilassante. Sospettavo che la giornata si sarebbe rivelata piuttosto sanguinosa. "non so quello che ti hanno insegnato qui, ma io non voglio essere trattata come un'idiota". Ah, che immenso piacere fu vederla sbiancare. Strinsi gli occhi, in una recita già perfettamente conosciuta dalle mie serve, che mi temevano quando notavano quel comportamento. Ma quella piccola no. Ora sarebbe venuto il peggio. "punto secondo, puoi tranquillamente guardarmi in faccia, anche se sono orrenda, e lo so...". Alzai il tono di voce, rendendolo man mano sempre più adirato. Funzionava sempre. Ed il divertimento era assicurato. Per la prima volta, fui contenta della mia voce asessuata e del mio viso sfigurato: facevano più scena. La vidi, infatti, indietreggiare impercettibilmente, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Mi ricordò Anì, e la sua sottomissione forzata. Ah, le avrei dato una lezione per la vita. "punto terzo...fuori di qui!". Urlai le ultime tre parole, piena di rabbia. Oh, dei,come adoravo farlo. Ghignai quando la povera servetta, dopo un altro, inutile, inchino, si affrettò ad andarsene. Era davvero un ottimo modo per sfogare la tensione, che, pian piano, sentivo accumularsi in me. Un modo poco diplomatico, davvero, ma utile. Avrei dovuto trovare da sola la strada per raggiungere la Matriarca, ma quello era il male minore. Molto utile. Sbuffai, soddisfatta, mentre afferravo il fagotto. Era davvero pesante: cosa mai poteva esserci, dentro? M'inginocchiai e, piena di curiosità, lo aprii: dentro c'era il mio mantello, pulito e rammendato da mani abili, e tutti i miei abiti, felicemente consunti e scoloriti, ma lindi e profumati, con la maschera, stranamente lucida, e gli stivali, morbidi e logori. C'era anche il mio piccolo pugnale, affilato come sempre. L'altra arma, però, mi sorprese: non era la mia vecchia, agile spada dall'elsa nera e graffiata e dal pomo di metallo brunito, con un fodero di cuoio ormai lacero, la mia compagna di tante disavventure. Era uno strano fodero, di un magnifico grigio, liscio e lucido come la schiena di un topo. S'intravedeva l'elsa, stranamente bianca, avvolta in un fitto reticolato argenteo. Rimasi ad osservarlo, perplessa. Di chi era? E dov'era la mia fidata spada, che mi aveva, bene o male, seguito in tutti gli anni, accompagnando giuramenti, sangue e morte? Mancavano, inoltre, i miei guanti. Decisi di posticipare le domande e, contenendo la curiosità, mi alzai, e, afferrando i miei abiti, mi rivestii velocemente, dando anche una rapida scorsa all'avambraccio fasciato, che mandava lievissime fitte di dolore. Sospirando di piacere, mi rimisi la maschera e, come sempre, il contatto con la ceramica fredda mi ridiede fiducia, e pace. Fu come rivedere una sorella, come riabbracciare Tijorn, come rendersi conto di avere freddo solo dopo essere stati messi vicino ad un camino. Tale era la mia vita. Come ultimo tocco, presi il mantello, facendolo roteare prima di metterlo, per assicurarmi non ci fosse più nulla. Rovistai in una delle tasche nascoste: i due ciondoli erano ancora lì. Mi assicurai il pugnale sotto la casacca, ben nascosto agli occhi di tutti, e poi, finalmente tornata l'Ombra, l'oscura macchia notturna, mi decisi ad osservare meglio quella spada meravigliosa, che avevo quasi casualmente poggiato sul letto. I miei pensieri, mentre m'infilavo i familiari vestiti, erano ripetutamente andati a quell'oggetto di mirabile fattura, che avevo osservato per tutto il tempo, morendo dalla voglia di saperne di più. Chi diavolo mi aveva fatto quel regalo? Afferrai il fodero con la mano destra, quella intatta, e, mantenendo la presa salda, con l'altra mano tirai fuori una splendida spada, dalla lama sottile ma robusta, mediamente lunga, leggermente incurvata alla fine. Mi sfuggì un fischio sommesso di stupore. Doveva essere stata lucidata e pulita di recente, e, su un lato della lama, a metà, prima ancora dell'incurvatura, c'era una scritta, in una lingua che non compresi. Era veramente un'arma meravigliosa. Provai un paio di affondi: il bilanciamento era perfetto, e non era troppo pesante per me. Non riuscii a credere che qualcuno mi avesse fatto un dono del genere. Non rimpiangevo la cara, vecchia spada, che pure mi aveva accompagnata per tantissimi anni. Ero però un po' in imbarazzo: tutto questo, per cosa? Una vita salvata? Dovevo, assolutamente, parlare con la Matriarca. Rimettendo la mia nuova arma nel fodero, ed allacciandolo alla cintura, mi avviai verso la porta, uscendo rapidamente e chiudendola con fermezza. Con mia grande sorpresa, la Tengu che avevo trattato così in malo modo era ancora lì. Tradiva segni evidenti di pianto, ma, non appena mi vide, mi venne incontro con la stessa timidezza di prima. Capii, in un lampo, che quello doveva essere per lei un comportamento naturale. Mi sentii invadere, immediatamente, dalla vergogna. Ero stata meschina, a prendermela con lei. Dovevo ricordare che lì non ero nessuno. "seguitemi, signorina". Sussurrò lei, senza il coraggio di guardarmi, cominciandosi ad avviare, mantenendosi a distanza da me. Io la seguii, senza dire nulla. Mi sfuggì un sorriso, invisibile a tutti. Percorrendo vie ancora deserte, visto che non era ancora sorto il sole, arrivammo entrambe ad una porta nera, di legno massiccio. Senza una parola, la giovane Tengu me la aprì, ed io entrai, facendole un cenno di ringraziamento, cercando disperatamente di scusarmi per l'arroganza di prima. Lei arretrò, arrossendo, e chiuse la porta. Mi trovai in un ambiente piccolo ma arioso, una sorta di sala da pranzo. I colori predominanti, dappertutto, erano bianco e giallo, e le uniche cose scure erano il legno del tavolo rotondo e delle sei sedie, ed una porticina quasi nascosta, in un angolo. Era ancora troppo presto per spegnere le candele dei numerosi candelieri. Seduti su quattro delle sedie foderate di stoffa a righe, c'erano la Matriarca, a testa bassa, che piluccava distrattamente qualcosa da un piatto, tirando frequentemente su con il naso, i due Anziani che avevo già conosciuto, che mi guardarono, con espressione strana, non appena feci il mio ingresso, un giovane Tengu dall'aria dolente, che mi ricordò in maniera inquietante Akita, forse per il lungo naso, o i capelli di un biondo quasi bianco. Doveva essere il nuovo Mastro Guerriero. Era forse più grande di poco della Matriarca, e m'ignorò pacificamente, continuando a mangiare, calmo. Il mio sguardo cadde sull'ultima figura. Ed impietrii. Seduto dignitosamente, a mani conserte, senza mangiare, vestito da uno strano abito bianco, le ali distrutte chiuse contro il corpo esile, i capelli tagliati corti, ed un'espressione fissa ed altera in viso, c'era Eiron. Non si girò nemmeno quando feci un passo in avanti. Incominciai a sentirmi davvero nervosa, e deglutii a vuoto. La Matriarca si girò verso di me: nonostante cercasse di non darlo a vedere, era distrutta. Gli occhi erano iniettati di sangue, ed un po' gonfi. Doveva aver pianto a lungo. Mi fece una pena immensa vederla così. "ben svegliata, Lsyn". Mi disse, con voce roca, cercando di fare un sorriso. Io ricambiai, con fare rassicurante. Doveva soffrire immensamente. Il momento in cui avrebbe visto il suo amico morire era vicino, sempre più vicino. In quel momento, la tensione creatasi al mio arrivo si spezzò. La Mastra Guaritrice si alzò di scatto, cominciando ad avviarsi verso di me. Mi attanagliò il terrore, un artiglio di ghiaccio conficcato nel mio stomaco. Mi avevano tratta in trappola? Guardando il suo viso calmo, senza nemmeno rendermi conto di aver emesso un suono strozzato, di pura paura, cominciai ad indietreggiare, portando una mano alla spada. Se solo avesse provato a toccarmi, l'avrei uccisa. "ehi, calma, calma!". Mi disse la Tengu, ormai a poca distanza da me, alzando le mani, in tono molto concitato. "voglio solo vedere la ferita come sta! Stai tranquilla, nessuno qui vuole farti del male!". Sbuffai, rilassandomi un po'. Ma non tolsi la mano dall'elsa, fissando ancora la Guaritrice, preoccupata. "la Matriarca aveva ragione, Lsyn". Disse improvvisamente un'altra voce, che riconobbi istintivamente come quella del Mastro Artigiano, stranamente seria. "tu non sei pericolosa per noi. Le hai salvato la vita. Lasciati curare, ti prego". Mi decisi, sospettosamente, ad abbassare la guardia. Era tutto un trucco per uccidermi? Ogni dubbio venne dissipato dal correre premuroso della vecchia Tengu, che, ancora in piedi mi scoprì il braccio, togliendo le bende, e, afferrandomi per una mano, prima che potessi fare qualunque cosa, trascinarmi sull'unica sedia libera, tra lei ed Eiron. Mi ritrovai, senza sapere come, seduta, mentre lei mi esaminava la ferita, un taglio ottimamente suturato. "vedo che hai accettato il mio dono". Mi disse, improvvisamente, una voce gentile. Eiron. Ero sbalordita, e mi girai verso di lui. Mi guardava, sereno, senza tradire il minimo accenno di qualunque sentimento. Negli occhi verdi, però, non c'era la sua solita tristezza, anzi: gli leggevo quasi il trionfo, ed una pace terribile. Doveva essere molto felice di morire da eroe, chissà. Dopo un attimo di silenzio sbigottito, mi decisi a parlare. "la spada è tu...? ahia!". Dannata vecchiarda. Mi aveva afferrato la ferita con le sue mani sottili, punzecchiandola come in cerca di qualcosa. Metodi spicci da Guaritore. Rimanemmo il silenzio, mentre lei continuava il suo compito, mettendo uno strano unguento che bruciava sul taglio, e poi altre bende, abbassandomi poi la manica con una pacca. "tutto perfetto, tesoro". Mi disse, con un gran sorriso soddisfatto. Non potei fare a meno di guardarla male. Ero ancora tutta dolorante. Se mi avesse ancora chiamata tesoro, le avrei tagliato le orecchie, per farmene un fermaglio per le occasioni speciali. Digrignai i denti, biascicando una bestemmia, per loro inudibile. Poi, girandomi verso Eiron di nuovo, che ancora mi guardava con espressione neutra, ripresi a parlare. "allora? Perchè mi hai donato la tua spada?". Gli chiesi, piena di curiosità. "cosa devo fare?". Il Tengu mi sorrise, mentre nella stanza calava il silenzio più irreale, e doloroso, di cui quasi non m'accorsi. "devi far si che la mia morte sia onorevole, e per questo la mia spada è al tuo servizio". Mi disse, abbassando lo sguardo, fieramente."ora ti spiego cosa fare...".

Era tutto pronto. Dopo un paio di spiegazioni, che mi avevano sconvolta,ci eravamo trasferiti nella stanza accanto, una saletta buia, a parte l'unica finestra, aperta verso oriente, all'alba, e spoglia, a parte un tavolino, dove faceva bella mostra di sè un lungo pugnale, avvolto in un drappo dal colore chiaro. Mi mossi come sott'acqua. Non potevo ancora credere di aver accettato una cosa di quel genere. Non potevo. Non potevo! Mi tremavano le mani, follemente, e lo stomaco dava battaglia. Non avevo mangiato nulla, da quando Eiron, con voce piatta, aveva cominciato a spiegare il mio ruolo. Mi aveva detto quanto quello che stavo per fare fosse un grande onore. Mi ribellavo completamente a quell'idea. Qualcuno aveva preso la mia nuova spada, e non sapevo ancora dove fosse finita. La mia testa era completamente vuota. Osservai, istupidita, il mio amico mettersi in ginocchio, rivolto verso la finestra. La Matriarca, addolorata, si posizionò di fianco al tavolino, mentre sentivo gli altri ai miei lati. Io ero dietro il Tengu, ancora disarmata. Restammo per qualche attimo in silenzio, mentre il cielo si schiariva. L'alba stava arrivando. "puoi ancor ripensarci, Eiron". Disse la Matriarca, con voce soffocata. "non ci sarà nessuna conseguenza...non per te". Il mio coinquilino la guardò, fiero. "non pensarci, Gwen, ed obbediscimi". Le disse, con voce dura, guardandola, severamente. Nessuno si era mai rivolto così alla Matriarca. "come pensi io possa vivere senz'ali? Le hai viste, Gwen? Hai visto cosa ha combinato Hari? Cosa vorresti fare, se non mi uccidessi? Mi manderesti in uno di quei monasteri, solo perchè ho espiato una colpa che non avevo?". Quelle domande caddero nel vuoto: la Tengu distolse lo sguardo, girandosi. La luce si stava facendo sempre più intensa. Il momento stava arrivando. Quasi non mi resi conto di tremare. Accidenti...avevo smembrato due corpi, ed ora non riuscivo a trovare il coraggio per fare una cosa così semplice! Dove diavolo era finita la crudele Lsyn? Cosa stavo diventando? Mi stavo rammollendo? Osservai il Tengu riprendere la parola. "passami il pugnale, Gwen...". Eiron non ebbe nessuna risposta. Lui chiuse gli occhi, e si morse il labbro inferiore. "Gwen...ti prego...". Mormorò, implorante. "in nome della nostra amicizia...". Sentii una mano battermi delicatamente una spalla. Mi voltai, di scatto, in silenzio. Il Mastro Guerriero, con fare serio e dolente, mi stava porgendo la spada. Presi l'elsa, tremando. Non poteva fare questa parte un soldato qualunque? Io ero abile con la spada nella stessa maniera di uno di loro. Bel modo di vendicarsi, davvero. Eiron aveva uno stranissimo senso dell'umorismo. Mi girai. Il tavolino era vuoto, e la Matriarca di spalle, scossa da muti singhiozzi. Il pugnale era ora in entrambe le mani di Eiron, che lo teneva puntato verso il suo addome. Strinsi i denti. In quel momento avrei voluto fuggire via. Non m'importava più di studiare usanze interessanti. Un amico stava per morire. E sarei stata io a dargli il colpo di grazia.Lui guardò avanti, verso lo splendido paesaggio montano, illuminato debolmente di fronte, tra due monti. "ti lascio la mia spada, Lsyn". Disse lui, sognante, guardando perso ciò che aveva attorno. Cosa pensava mai? Quali erano i pensieri di un morente, di un suicida? Quanta lucidità ci voleva, per compiere un simile gesto, quanto coraggio? Conosco, ora, e capisco Eiron. Non avrei tremato, quella volta, se solo l'occasione si fosse presentata qualche mese dopo. Rimpianti inutili. In quel momento, volevo solo finisse tutto in fretta, per poi fuggire nella mia camera, facendo magari un bagno, per lavar via i brutti ricordi. "quest'arma sarà per sempre sporca del tuo sangue, Eiron...". Lui si girò, guardandomi duramente, come aveva fatto per Gwen, bloccandomi a metà della frase. "un motivo in più perchè sia tu a tenerla". Mi disse, spiccio, prima di girarsi di nuovo. Saggio Tengu. Seppi, automaticamente, che queste sarebbero state le sue ultime parole. Il lucore dorato si era fatto più intenso. Calò, di nuovo, quel silenzio innaturale, e gelido. La Matriarca, con gli occhi inondati di lacrime, si girò, frenando i suoi singhiozzi. Riuscivo ora a vedere attorno con più chiarezza. Respirai a fondo. Lo stomaco aveva ormai fatto un nodo inestricabile. Tremavo, anche se cercavo in ogni modo d'ignorarlo. Alzai la spada, portandola oltre la spalla, mentre Eiron piegava leggermente il collo, sempre guardando fuori, perso in chissà quali pensieri. Alcune parole, sussurri lievi nel silenzio, si andarono a formare sulle sue labbra, parole nella sua lingua, che io non conoscevo. Il cielo era inondato di luce, ormai. Lui alzò il pugnale, pronto a calarlo al primo raggio di sole che avesse toccato il suo viso. Aveva scelto un attimo suggestivo, un bel momento. E quel momento era vicino. No, ti prego, Eiron, puoi tornare indietro, non puoi farlo, non devi morire. La luce era più forte, ed ora vedevo tutto distintamente. Mi sfiorò, per un folle attimo, l'idea di bloccare il Tengu, di togliergli il pugnale di mano, e di confortarlo, di fargli cambiare idea. Ma non potevo farlo: lui, dandomi quell'importante compito, si era fidato di me. Ed io non potevo tradirlo, non proprio in quel momento. Eiron fece un gran respiro, aprendo le grandi, spennate, ali nere, che mi sfiorarono le spalle. C'era una nuvola a coprire la luce dell'alba. Anche il cielo non voleva quello scempio. Ma il sole sorse, vinse lo stesso, apparendo a tradimento tra i due monti, inondando di gagliarda luce tutti noi. Quei momenti rimasero a lungo nei miei sogni. Un sorriso estatico comparve sul volto risoluto del Tengu, ricordo. Tutto era silenzioso, come sott'acqua. E poi colpì. Sentii il pugnale vibrare, e poi un rumore sordo. Un suono che conoscevo fin troppo bene. Le ali di Eiron, del mio amico, fremettero. Troppo tardi per fare qualunque cosa. Il pugnale tintinnò, probabilmente cadendo a terra. Era venuto il mio momento. Mi tremavano le gambe, e stavo male. Ma glielo dovevo. Lui mi aveva accudita quando stavo male, in prigione, mi aveva consigliata. Ed ora potevo ripagarlo in un modo degno.Respirai, una volta. Dovevo fare presto, per non farlo soffrire. Respirai di nuovo. E poi, con un fendente preciso, lo colpii alla nuca, un taglio netto e profondo. Non pensavo a nulla, in quel momento, ma sentii i miei abiti chiazzarsi, e divenire caldi, e bagnati. Il suo sangue. Non volevo pensarci. Non lo guardai. Non volevo vedere quello che avevo fatto. Sentii le sue ali fremere un'ultima volta, e poi distendersi. Lui cadde in avanti, senza un suono. Non poteva. Lui era morto. Non c'era più nulla da fare. Le mie gambe cedettero in quel preciso istante. Caddi in ginocchio, usando la spada come puntello, e chiudendo gli occhi. Il giorno era arrivato. "così muore Eiron, grande eroe dei Tengu". Disse la Matriarca, con voce rotta. Poi scoppiò in un pianto dirotto.

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Angolino di Akita:

mamma, come mi è dispiaciuto scrivere di questo capitolo ._. amavo pazzamente Eiron ._. aha, ora vi starete chiedendo perchè mai io sia così masochista da uccidere un personaggio che amo ._. non lo so ._. so solo che è divertente xD ah, il suo suicidio si ispira al rituale giapponese del seppuku, simpatico metodo di suicidio gentilmente spiegatomi e suggeritomi da Carlos Olivera... grazie *__*

passiamo dunque al dunque:

per Carlos Olivera: ed eccoci qui al capitolo che aspettavi *__* non sono molto soddisfatta, ti dirò xD tu, invece, che dici? Ti piace? Proprio non so O.o sono reduce da un'ora di scuola elementare (ditemi perchè devo dare ripetizioni, altrimenti chiamata xD), e non avevo voglia @.@ la Lsyn della capanna di Tijorn (che fa tanto capanna dello zio Tom, oddio xD)...ah, bene O.o allora certe cose del seguito non so se ti piaceranno xD fammi sapere che sono davvero curiosa *__*

pe Selly: mia cara, ora lo so che mi ucciderai ma...dovevo @.@ io amo la Matriarca, sai? xD è adorabile xD Eiron lo amavo tantissimo ._. ma era un personaggio senza nessuno sbocco e così...finendo rimarrà nella memoria, perchè i personaggi che ci piacciono di più li amiamo all'immensità solo dopo che sono morti xD intanto, fammi sapere *__*

ciao a tutti (e grazie, Zakato, per la recensione xD)

Akita

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Capitolo 35
*** Il seme del cambiamento. ***


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Eccomi qui, come sempre in orario perfetto xD vedrete, questo capitolo ha un po’ del tenero “modalità Tijorn” xD

Oggi non ho voglia O.o

See you later!

Akita

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Rimasi quello che mi parve un lasso di tempo incommensurabile a testa bassa, inginocchiata sul pavimento, l’eco dei singhiozzi convulsi della Matriarca ed uno strano ronzio nelle orecchie. La spada era l’unica cosa che m’impediva di crollare a terra. Eiron era morto, morto anche per mano mia. Chiusi gli occhi, per non vedere nulla, per non far cadere l’occhio su quello scempio a cui io avevo dato una mano. L’avevo ucciso. Avevo versato altro sangue innocente. Non potevo crederci. Non potevo! Che diritto avevo, io, di simulare la mano del boia? La mia mente rifuggiva quel terribile pensiero. Eppure era lì, insistente e martellante. Eiron era un amico. Mi aveva aiutata. Non riuscivo a capire il perché del suo gesto. Perché aveva chiesto di uccidersi, con tante cose che poteva fare? L’orgoglio e l’infelicità si potevano spingere fino a quel punto? Ero stolta, e molto. Solo il fato sapeva quanto sarei stata in grado di comprendere quei sentimenti. Ma io non lo sapevo, allora, ed ero ben lungi dall’accettare quei tremendi pensieri. I miei occhi erano asciutti, ma dentro di me piangevo. Mi riscosse dal mio dolore muto una mano delicata su una spalla. Aprii gli occhi, e, evitando di guardare il corpo rigido di Eiron, mi girai verso una figura che incombeva su di me. Sentivo i singhiozzi disperati della Matriarca più vicini. Mi trovai di faccia con il Mastro Guerriero,  che mi tendeva una mano, mentre con l’altro braccio sosteneva la figura esile della sua sovrana. Era triste, ma negli occhi splendeva una luce fiera. “su, coraggio, Lsyn…”. Mi disse, sorridendo mestamente. “andiamo via… si occuperanno loro del resto…”. Gli obbedii, quasi fossi sotto ipnosi. Mi sentivo totalmente scombussolata. Dopo avermi fatta alzare, lui prese la spada dalla mia mano, che ancora grondava sangue, gentilmente, quasi con reverenza. Lo fissai con quello che penso fosse uno sguardo totalmente vuoto. Poi lui, senza perdermi d’occhio, si avviò fuori, parlando con voce sommessa alla Matriarca, che ancora piangeva, con il cuore spezzato. Mi dispiacque per lei: doveva sentirsi in colpa quanto me. So, ora più che mai, come si sente, in quei momenti, in cui la perdita è più cocente. I giorni passano, fluiscono stancamente, passano gli anni, e migliaia di soli sorgono. Ma i morti ed i ricordi restano, sempre, nelle nostre memorie e nelle tombe, impalpabili come il più mero dei fantasmi, irraggiungibili come una stella, fonte di perenni tormenti e rimpianti. Mi voltai, una volta, verso il corpo ormai inerte di Eiron, di cui si stavano occupando la Mastra Guaritrice ed il Mastro Artigiano. Non so cosa mi spinse a farlo, forse il bisogno di dare l’ultimo addio ad un essere così nobile e fiero come lui, forse fu solo la curiosità, non so. Quello che vidi mi terrorizzò a morte. L’avevano girato a pancia in su, ora, e lo stavano alzando da terra. Senza guardare deliberatamente la terribile ferita che si era inferto, fissai il volto, che ondeggiava stranamente sul collo, che per poco non avevo reciso. I suoi tristi occhi verdi, spenti ed opachi, erano aperti, e la bocca atteggiata ad un sorriso che, contrattosi per il dolore del colpo, era quasi diventato un ghigno beffardo. Deglutii, improvvisamente con le gambe molli. Perché il cadavere sembrò guardarmi, davvero, e prendermi in giro, dileggiandomi apertamente e spietatamente per il gesto che avevo commesso. La suggestione provoca cose davvero strane. Fui assalita dal tremore, e da un timore che non avevo provato nemmeno in presenza dei cadaveri dei Celestiali. Voltandomi di scatto, mi precipitai, malferma sulle gambe, fuori, raggiungendo con uno scatto il Mastro Guaritore e la Matriarca, cercando disperatamente di non pensare a quello che avevo appena visto.

Insieme, un gruppo sparuto ed addolorato, raggiungemmo gli appartamenti della sovrana, stanze tiepide e comode, dai toni dell’azzurro e del blu. Il giorno era avanzato molto, e, di tanto in tanto, avevamo incontrato le prime guardie mattiniere, che, sbigottite, ci avevano fissati apertamente, soffermandosi sulla loro dolente sovrana. Noi avevamo fatto finta di nulla. Lei si era, pian piano, calmata, ed ora solo pochi singhiozzi scuotevano il suo corpo magro. Si era raddrizzata, ancora le lacrime che scorrevano sul suo volto fiero, ma aveva concesso al Mastro Guerriero di aiutarla a camminare fino al suo salotto, un’accogliente camera dai tendaggi e dal divanetto di un celeste chiarissimo, dalle numerose finestre, che spandevano una luce allegra. Io li avevo seguiti, traballante, così pallida in volto da aver spaventato il Mastro, lo sguardo totalmente assente. Io ero vuota. Non pensavo a nulla, o meglio: nei miei occhi era ancora impresso il ghigno crudele di Eiron, che stonava così tanto sul volto disteso, il rumore sordo che la mai lama aveva fatto penetrando nella carne del collo. Durante il tragitto, per fortuna, ripresi coscienza di me stessa, e di quello che mi circondava… ma le gambe ancora non avevano smesso di tremare. Era stata una terribile mattina, un terribile risveglio. Accadde tutto come in un sogno. Il Mastro Guerriero, dolcissimo e premuroso, ci fece sedere entrambe sul morbidissimo divanetto, una manna degli dei, e poi s’inginocchio di fronte alla Matriarca, prendendole una mano. Lei non diede segno di sentirlo. Intanto, il suo volto dal lungo naso si era girato verso di me. “pulirò io la spada, se me lo permetti…”. Mi disse, cercando il contatto visivo, che io rifuggii. Non mi sentivo pronta a quello. Odiavo quello sguardo severo, e fiero, da falco. Mi ricordava troppo Eiron. Mi faceva vergognare di quello che ero, e di quello che fui. Mi faceva vergognare di essere l’Ombra. Mi girai, imbarazzata, dall’altro lato, ed annuii leggermente. Lo sentii alzarsi. “vi porterò qualcosa da mangiare, presto…ne avete bisogno”. Ci disse, con un sospiro. Io lo ignorai, e mi concentrai su una mattonella blu scuro. Com’era interessante il disegno dorato. In che condizioni era la Matriarca?  Sbirciai, obbedendo al mio improvviso impulso, da un lato, per osservare la loro sovrana, e le sue reazioni. Era lì,  sguardo spento come quello di Eiron, a gambe incrociate sul divano, le ali candide serrate. Fissava il vuoto. Fui attraversata da un’ondata di dispiacere, e d’inquietudine. Era stato un gran brutto trauma, per lei, per quella dolcissima Tengu, così impenetrabile, ma così gentile. Io mi stavo riprendendo, aiutata anche dall’abitudine, ma lei no. Avrebbe sofferto a lungo. Povera amica mia. Scossi il capo, improvvisamente infastidita. Ma che razza di pensieri erano, quelli? Che mi stava capitando? Considerare amici quelli che fino al giorno prima mi avevano torturata? Cos’ero, idiota? Era il seme del cambiamento, ma io ancora non lo sapevo. Strano come il destino a volte giochi in modo perverso e sleale, per queste cose. Qualcuno si deve divertire molto, per questo. Quelle considerazioni andarono immediatamente accantonate quando vidi la bocca sottile della Matriarca aprirsi, e lei parlare, con una vocina sottile che non sembrava la sua. “chiudi le tende, Kyrre…”. Disse, senza guardarlo, atona, piombando poi nel silenzio più luttuoso. L’ordine fu immediatamente eseguito, e piombammo in una penombra riposante. Sospirai di rassegnazione. Non potevo ancora partire: quell’esserino aveva bisogno di una mano, almeno nei primi giorni. Uno scalpiccio, ed il suono di una porta che si chiudeva. Sobbalzai di spavento, e mi girai verso il punto dove fino a poco tempo prima c’era il Mastro. Se n’era andato. Finalmente. Sbuffai, un suono che, nel silenzio, mi parve  sonoro come il soffio del vento, e mi allungai sul divano, mettendo la testa sullo schienale, e chiudendo gli occhi. Visto che avevo i mezzi per farlo, tanto valeva riposarsi un po’. Non potevo far altro. Il dolore era ancora palpabile, ed un po’ mi preoccupava. La Matriarca avrebbe sopportato tutto questo? Rimanemmo per un po’ così, in silenzio, rilassante come poche cose al mondo. Cominciai a scivolare sulla china del sonno. Mi ero quasi addormentata, quando sentii qualcosa premere contro il mio lato destro. Aprii gli occhi, improvvisamente, tirando il fiato per la paura, con un rantolo. Mi bloccai, senza nemmeno sapere cosa stessi facendo, in una frazione di secondo. La Matriarca si era appoggiata alla mia spalla, raggomitolandosi accanto a me, come un bambina in cerca di protezione, come un’amica. Avevo una delle sue bellissime ali a pochi centimetri dal mio naso. Mi faceva il solletico. Mi trattenni giusto in tempo dallo starnutire. Quella Tengu mi fece, inaspettata, una tenerezza immensa. Solo Tijorn, Junielle, Amarto e Chekaril avevano osato un contatto così ravvicinato e confidenziale con me, senza secondi fini, solo per sentirmi vicina. Nessun altro: tutti mi temevano, troppo, tanto da non stringermi neppure una mano quando si presentavano. Mi sentii improvvisamente vicina a quell’essere alato: poteva essere mia figlia. Sorrisi, quasi senza rendermene conto, e le posai una mano sul capo. Ero stata ammaliata dalla promessa d’amicizia. Mi mancavano le attenzioni di mio fratello, e fui intimamente contenta di aver trovato qualcuno che non temesse il mio aspetto mostruoso. Forse si poteva ancora migliorare. “pensi che ora Eiron sia da qualche parte?”. Mi chiese, all’improvviso, con voce smorzata, accoccolandosi ancora di più, come in cerca di conforto. Scossi il capo, senza darlo a vedere. Come no: nella terra. Come può esistere qualcosa, oltre il caso? Eiron non sarebbe morto, né avrebbe avuto le ali mozze, ed io non sarei stata lì. Il Regno non sarebbe stato in guerra, e gli umani e le loro razze non antropomorfe non sarebbero esistite. Un mondo solo di elfi, prospero e pacifico. Un’utopia. Nessuno ci aveva mai detto cosa ci fosse dopo. Le Spie non avevano istruzione religiosa di sorta, non ne hanno avuta mai, per alcuni semplici motivi. Anche la fede più solida si sgretola quando la morte diventa un affare quotidiano. Ed una persona che smette di credere diventa più fragile, perché perde il suo mondo. Sapevo che lei credeva. Quindi non  potevo dirle l’assenza del mio credo, e le mie convinzioni. Non ora, e non in quel momento. L’avrei ferita. “non lo so”. Mi limitai a risponderle, in un sussurro. Ci fu una pausa. “non puoi rimanere nei nostri territori, Lsyn, con noi?”. Mi domandò di nuovo, alzando lo sguardo dolente verso di me, speranzosa. Serrai le labbra. Chekaril. Anche il mio dolore doveva terminare, anche il mio tormento. No, Matriarca, non posso fare questo. Lui ha bisogno di me. Non avrei mai potuto disertare una missione. Mai: quella era la mia vita, il mio destino. Ancora non avevo compreso il perché di quelle tentazioni. Forse davvero qualcuno cercava di dissuadermi dal partire. Ma io non l’ascoltai. Scossi il capo, energicamente, contrariata. Ci fu un altro silenzio. “tira una mia piuma, Lsyn”. Ordinò perentoriamente la Matriarca, il tono di voce tornato inesplicabilmente quello di sempre. Fui assalita dalla sorpresa. “cosa?”. Le domandai, guardandola, aggrottando le sopracciglia. Che voleva da me? Tirarle una piuma? Non potevo, era proibito! Mi guadagnai un’occhiata sprezzante. “tira una piuma, ho detto!”. Sospirai. Era un ordine. Ed assoluto. Se era quello che voleva… cercando di fare il più delicatamente possibile, presi l’ala più vicina, e tirai una delle piume, quella che mi dava fastidio, facendomi prudere il naso. La sentii fremere. Poi osservai quello che avevo fatto. Era una delle piume più lunghe, morbida e rigida. Superava in grandezza il mio avambraccio. In un attimo, il tempo di prenderla, essa cambiò leggermente colore, coprendosi di una stranissima patina iridescente. Sobbalzai, e la strinsi forte. Avevo avvertito il freddo sentore della magia emanare da quell’oggetto. Cosa stava mai succedendo? Io e la Matriarca ci scambiammo uno sguardo. Io ero stupefatta, e raggelata, lei stranamente soddisfatta. “sai….le piume Tengu non cadono mai, se non tolte da qualcuno. Donare una piuma significa fiducia, Lsyn”. Mi disse, ritornando ad accoccolarsi accanto a me, come in cerca di sostegno. “ed ora, ti basterà averla con te per essere riconosciuta come un’amica dei Tengu. Nessuno della nostra razza ti potrà mai più toccare. Torna da noi, quando vuoi, e sarai la benvenuta”.  Strinsi le labbra, sentendo lo spiacevole sentimento della commozione farsi strada in me. Mi venne voglia di piangere. Che dono. Non ero degna, non potevo! Io ero una Spia, una crudele assassina. L’avrei uccisa se solo avessi voluto, e potuto. Il solo pensiero ora mi ripugnava. Le volevo bene, dannazione! Mi resi conto di quella cosa solo in quel momento. Mi biasimai a lungo. Non ero coerente. Non lo ero affatto. Trovavo simpatica una mortale! Una mortale, io, l’elfa! Feci per parlare, per rifiutare quell’incredibile regalo, quel pegno della sua amicizia, ma lei mi fulminò con un’occhiata fin troppo familiare. Mi ricordò Lainay, quando io cercavo di dire la mia, ed i suoi sguardi feroci poco prima di schiaffeggiarmi con violenza. Sapevo a cosa stava pensando. Era il suo desiderio, d’accordo. Lei era la sovrana. Quello era un dono inestimabile. Mi vergognai come una ladra. Le sorrisi, arrossendo come una ragazzina. Davvero stupido. “grazie”. Le dissi, abbassando lo sguardo. Lei ridacchio, una risata pregna di ottimi presagi. Io, stupidamente, la seguii, senza nessun motivo. Di lì a poco, ridevamo entrambe, come idiote, una risata anche un po’ isterica. La vita doveva continuare.

 

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Angolino di Akita:

sono davvero…stanca O.o demotivata O.o non mi piace questo capitoloo >.< non mi piace >.<

vabbè, basta: passiamo dunque al dunque.

Per Carlos Olivera: davvero *__* ci sono riuscita?? Ne sono davvero, davvero contenta *.* come ti ho già detto, è una cosa a cui non avevo minimamente pensato ._. me idiota ._. vabbè, si troverà una spiegazione plausibile (perché sono capace di andare a correggere il tutto, se non c’è O.o) ù__ù è triste, si ._. che dici di questo capitolo? Ti ripeto, non mi piace (ma quando mai un capitolo mi è piaciuto?? O.o) ._. lo trovo troppo rapido ._. ma oggi non ho la minima voglia O.o vabbè, fammi sapere, dai xD

Per Selly: oilà, che veemenza xD mi sono gustata la tua filippica fino in fondo, davvero xD ehi, ti piaceva tanto il personaggio di Eiron? xD quella spada tornerà moltissime volte, fidati xD eh… se tu mi vuoi uccidere per questo…per altre cose che farai? O.o oddio, non lo voglio sapere >.< qui tu mi raggiungi e mi uccidi O.o (si, comunque, la risposta è quella xD avrebbe odiato Lsyn per sempre se lei l’avesse rapito…e avrebbe cercato in ogni modo di darsi la morte. Poi poverino… O.o) cosa ne pensi del capitolo? Fai sapere *-*

Per Kylien: ma dai xD mica durante i funerali ti metti a studiare lo stato di decomposizione del cadavere? (me molto fine, come vedi ù__ù). Beh, Lsyn stava cambiando…ma solo ora si vede xD eh, si…la storia è più lunga di quanto pensassi O__O sta diventando un mattoncino xD vabbè xD tu dimmi che pensi di questo dolce capitolo xD

Ciao a tutti!

Akita

   

 

 

 

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Capitolo 36
*** L'ineluttabilità delle cose. ***


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Allora, piccolo ma necessario avviso: questo è l’ultimo capitolo che posterò fino al 14 settembre. Mi dispiace, immensamente, ma vado in vacanza 10 giorni, e lì non ho accesso al mio pc, né ad internet. Vacanze strane, e settembrine. Mah… Mi dispiace L

D’accordo, ora vi lascio al capitolo.

See you later!

Akita

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Come imparai, o meglio, fui costretta ad imparare, dare troppa corda ad un Tengu non è mai la cosa più saggia da fare. Soprattutto quando la creatura in questione è una Matriarca con enormi complessi, con un infinito bisogno di donare affetto. Soprattutto quando la mittente dell’affetto, io, era ancora più impossibile dell’altra.

Con la scusa della mia estrema debolezza, dovuta a giorni di stenti, e della ferita che, se non curata, rischiava d’infettarsi, fui costretta a rimanere in quel villaggio montano per circa una settimana, alla mercé di una ragazzina alata ed un po’ depressa, con la quale finii per legare molto.

Furono giorni sereni, e luminosi, della quale serbo ottime memorie, che terrò per me fino alla fine dei miei giorni. Devo ammettere che, una volta guadagnata la fiducia dei Tengu, si poteva trovare anche piacevole, perfino divertente, la loro quieta compagnia. Sebbene mortali, era il popolo che, come dignità, più si avvicinava agli elfi. Gli Insathi erano troppo alieni per considerarli amici. Mi concessi un breve periodo di tranquillità, cercando di dimenticare la mia missione, come non avevo più fatto da quando avevo lasciato Tijorn.

Addirittura, per la prima volta nella mia esistenza dopo l’incidente, non portai la maschera per giorni interi, senza imbarazzo o tormento alcuno.

Vero, notai la solita, misteriosa, sparizione di specchi e altre superfici simili, una premura sempre ben accetta, e, dopo una tremenda sfuriata fatta ad un paio di piccoli che mi fissavano con insistente e morbosa curiosità, nessuno osò più incontrare il mio sguardo, ma per il resto fui accettata in maniera discreta.

Ebbi, finalmente, l’incredibile opportunità di studiare, senza problemi, la vita ordinaria ed i riti più intimi dei Tengu. Da quando si era sparsa la voce che Laila la fornaia aveva salvato la vita alla Matriarca, ero benvoluta dovunque andassi, addirittura nella caserma, tana dei reazionari più irriducibili.

Fui costretta a presenziare anche al funerale di Eiron, la mattina dopo il suo suicidio, una cerimonia semplice, ma che mi lasciò spossata. Il ricordo del suo involontario ghigno sarcastico era ancora troppo vivido nella mia mente.

Il Mastro Guerriero mi restituì la spada che il mio coinquilino mi aveva donato, perfetta, come appena forgiata, lo stesso giorno, prendendomi da parte, per impedire alla Matriarca, che dopo due notti insonni dava chiari segni di cedimento, di vedere quell’arma.

Quasi non riuscii a tenerla in mano: era la mia immaginazione, o c’erano ancora tracce di sangue? Feci notare questo al Tengu, che mi fissò con aria stranita, per poi sorridermi dolcemente, stranamente comprensivo.

Ebbi il sospetto mi credesse per buona metà totalmente matta. Rimanemmo per un attimo in silenzio, poi, guardando gli strani simboli incisi su un lato della lama, osai fare una domanda, che mi premeva da tempo.

cosa significa questa scritta?”. Chiesi, sinceramente incuriosita. Volevo sapere. Non potevo andare in giro con qualcosa di sconosciuto inciso sulla mia spada. Poteva benissimo essere un insulto alla monarchia elfica, o chissà cos’altro. Sbagliavo. Forse avrei fatto meglio a stare zitta. Vidi il mio interlocutore abbassare il volto, con una smorfia dolente. Soffriva anche lui, ma non lo dava a vedere. La morte di Eiron, proprio quando era diventato un eroe, doveva esser stato un durissimo colpo per tutti quelli che supportavano la linea moderata di governo.

“è la nostra lingua”. Mi disse poi, con un sussurro. “Eiron è stato il maestro d’armi della Matriarca, prima che lei fosse disegnata per divenire la discendente, e poi il suo più grande amico e confidente. Le era devoto. Quello era il suo motto”.

Sorrise, un sorriso amaro, forzato, che non mi piacque. “sempre fedele. Solo gli dei sanno quanto…”.

Mi sentii improvvisamente in colpa, per chissà quale motivo. Più conoscevo quella spada, e la storia che c’era dietro, meno mi sembravo degna di essa. Avrebbe dovuto essere seppellita con il suo padrone, un eroe, non portata ed impugnata da una Spia, una sleale combattente voltabandiera.

Quel motto sarebbe diventato il mio, dopo che quell’arma ebbe assaggiato tanto sangue innocente, ed io l’amarissimo frutto del rimorso.

Fedele, ma a qualcosa e qualcuno che mai avrei immaginato di conoscere. Io, per fortuna, non lo sapevo. Non sapevo tante, tante cose.

Mi riscosse dai miei pensieri la voce, ora dura, del Mastro Guerriero. “Hari usò la sua spada per tarpargli le ali”. Esclamò, pieno di comprensibile astio. “aveva molta fantasia quando si trattava di far soffrire il prossimo… Eiron avrà pensato in un gesto simbolico per lavare via l’onta dalla sua arma, che l’aveva servito così bene. Tieni fede a questa nuova dignità, Lsyn…”.

Mi disse, solenne, prima di voltarsi ed andarsene. Mi sembrò un commento implicito rivolto alla mia vita, ed al mio mestiere. Non seppi cosa pensare, e mi sentii ancora più umiliata. Rimasi tutta la giornata assieme alla Matriarca, accompagnata dalla presenza confortante e gentile della Mastra Guaritrice, che mi aveva in simpatia, ed un po’ di blando sedativo, che mi stordì abbastanza per non pensare.

E passò anche quella settimana.

Essendo costretta dalla stessa sovrana  ad essere perennemente in sua compagnia, presi a trascorrere moltissimo tempo con gli Anziani. Imparai a conoscere, in quel brevissimo e bizzarro periodo, dove mi parve di non essere me, presagio di un cambiamento molto posteriore, e ben più grande, quelle quattro figure.

Tutti sembravano incantati da me nello stesso modo in cui io lo ero di loro. Rimarranno memorabili le eroiche schermaglie politiche e culturali tra me ed il Mastro Artigiano, un Tengu dallo stranissimo umorismo cinico. Quasi alla mia partenza, si scoprì finalmente la matrice ed il mandante del tentato assassinio.

Una trama degna del più torbido tra gli intrighi di Galinne. Era stato trovato, negli effetti personali di Hari, il cui cadavere era stato buttato da una rupe, tra il disprezzo generale, un elenco di tutti gli appartenenti ad un movimento di matrice tradizionalista di un altro villaggio, nettamente più chiuso di quello. I membri erano quasi tutti guardia-confini. Alcuni, prevedendo la caccia, erano riusciti a fuggire, ma avevano catturato gran parte dei traditori, che avevano cantato.

Il  vecchio Mastro Guerriero lavorava da ben cinque anni per un villaggio vicino, che da tempo era in guerra con il suo. Era riuscito ad entrare nelle grazie della Matriarca, che condivideva molte sue idee, ed aveva cercato, in ogni modo, di destabilizzare il suo potere, agendo nello stesso tempo da restauratore delle antiche, sane, abitudini Tengu, come quella di gettare gli stranieri da un burrone.

Con l’elezione della nuova sovrana, Hari era convinto di aver trovato, visto la giovane età di quell’ultima, un valido supporto, ed un burattino molto semplice da gestire. Non era stato così, e, come ultima mossa, gli era stato ordinato l’assassinio.

Peccato che l’assassino fosse così maldestro, e sfortunato. Era incappato in una Spia professionista, che per secoli aveva sguazzato negli intrighi. Ed era stato beccato. Avevano già le prove per dimostrare il coinvolgimento dell’altro gruppo di simili. Si stava scendendo sul piede di guerra. Tempi duri si prevedevano per l’altra Matriarca, e per il suo popolo.

Passò la settimana, tra battibecchi e confidenze, risate ed indagini.

Finalmente, una mattina, momento da me estremamente odiato per le accurate visite ed esperimenti sull’aura che le cicatrici emanavano da parte di un’interessatissima Mastra Guaritrice, quest’ultima, dispiaciuta, decretò che ero ormai abbastanza in salute per poter partire.

Fu per me una sorpresa totale: mi ero abituata alla compagnia dei Tengu.

Mi assalì, improvvisa, una fitta d’apprensione. D’accordo, Chekaril si faceva sempre più vicino e tangibile, ma, per una volta, il pensiero non mi suscitò gioia, anzi.

No.

Non volevo stare sola, non volevo ricominciare la mia tormentata ricerca! Volevo stare in pace, tranquilla, con i miei amici!

Ora comprendevo perfettamente il disagio e la preoccupazione che avevano attanagliato Tijorn. Sapevo benissimo che, una volta tornata sola con i miei fantasmi, l’Ombra avrebbe ripreso il sopravvento.

Ero dilaniata, divisa, strappata in due parti, che lottavano per la supremazia. Non sapevo che fare.

In preda all’incertezza, corsi dall’unico faro stabile che la breve vacanza dai Tengu mi aveva concesso di avere: la Matriarca. Lei era nel suo studio, scrivendo chissà cosa. Non si scompose quando mi vide entrare precipitosamente, sbattendo la porta, con un’espressione terribile in viso. Dalla morte di Eiron, quello che le era rimasto dell’infanzia si era dissolto. Gwen stava diventando una seria creatura, composta e dignitosa, una vera Tengu. Ma non aveva dimenticato la pietà, l’umanità che la distingueva. Era così diversa da Lainay, e dal suo dispotismo crudele ed arbitrario. Solo ora me ne rendevo conto, solo ora capivo. Lei mi guardò, aggrottando le sopracciglia. Poi sorrise, calma, alzandosi dallo scrittoio ed avvicinandosi.

e così”. Mi disse, alzando il mento, senza traccia di dolore alcuno negli occhi scuri e fieri, senza preamboli. “devi partire”.

Lei sapeva. Non sembrò addolorata. E questo mi ferì ancora di più. Credevo di aver trovato un’amica! Cos’ero stata, nient’altro che uno strumento? Un burattino, da buttare quando non serve più? Sentii lacrime di rabbia scendermi sul viso,  ed un terribile groppo in gola. Mi sentii abbandonata, e sola. Una terribile solitudine scese in me, una terribile consapevolezza che, nonostante tutto, ero sempre un’emarginata, finche non avessi finito la mia missione. Lo capii: l’unica possibilità di salvezza era quella di trovare Chekaril. E solo quella.

edendo la mia reazione, la Matriarca cambiò espressione, ed atteggiamento. Mi sorrise, dispiaciuta, ed addolorata, un dolore composto.

“Lsyn…”. Mi disse, abbracciandomi con calore. Non mi mossi, né le risposti. Era ora di prendere le distanze, ora di tornare sottomessa, di tornare la viaggiatrice, la pellegrina. “su…non fare così…”.

Forse un po’ troppo bruscamente, mi discostai. Ma lei non sapeva quanto stessi soffrendo, quanto fossi riluttante. E pensare che, all’inizio di tutto, sarei scappata come un lampo da lì. Mi ero davvero legata a quella pennuta. Era troppo tardi per rimpiangerlo. Ero andata troppo oltre.

se la Matriarca accetta…”. Dissi, impedendo alla mia voce di tremare, tergendomi le lacrime. “io andrei”.

Se l’avessi ferita con quelle parole, non lo diede a vedere. Mi sorrise, invece.

“ti aspettano Kyrre ed Andrei al limitare del villaggio, con tutte le tue cose, Lsyn. Ti accompagneranno fino al confine con l’Impero”. Mi disse, chinando lievemente la testa. L’ineluttabilità delle cose.

Un addio.

Seppi, senza aver bisogno d’indovinare, che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista.

Ed allora, andarono a monte tutti i tentativi di dominarmi. Cominciai a tremare, senza rendermene quasi conto, ed a piangere. “non voglio andare, Matriarca… non voglio andare!”.

Sibilai, con una voce spezzata che non era la mia. Lei scosse il capo, e mi abbracciò di nuovo. Scoppiai in singhiozzi, perfettamente conscia della mia debolezza. Ma non m’importava, non m’importava fare la figura della bambina. Sarei partita. Tutto sarebbe finito. L’Ombra stava tornando.

Ancora non capivo quanto grande fosse stato il mio cambiamento, e che l’Ombra era morta per sempre. Rimanemmo così un bel po’.

All’improvviso, irrigidendosi, mentre io ancora piangevo sulla sua spalla, lei fece qualcosa che non mi sarei mai aspettata. Si ritrasse, fieramente, scostandomi con un gesto brusco, lasciandomi stupefatta. Mi guardò con volto duro, e severo, un volto da regina, e poi si voltò. Era davvero cambiata, quella che una volta era stata una giovane Tengu che si era accoccolata contro di me, distrutta per la morte dell’amico. Aprii la bocca a mezzo, troppo stupita per pensare. Mi stava cacciando, forse per impedire di crollare lei stessa.

Quella era la mia missione, ed avrei dovuto far di tutto pur di portarla a termine, senza intromissioni da parte di nessuno. Lei non poteva impedire il mio destino. Lo capii improvvisamente, e mi vergognai del mio comportamento, forse un po’ infantile.

Ma io ero una bambina nei sentimenti puri e genuini, un’amicizia corrisposta, ma non devota. Sentii pizzicarmi le gote, e seppi di essere arrossita. D’accordo, era ora di andare.

Sospirai e poi, senza parlare, mi voltai, e, simulando calma, uscii dallo studio.

Non appena chiusi la porta cominciai a correre disperatamente verso il punto in cui i due Tengu mi aspettavano, tergendomi le lacrime che ancora scorrevano. Di nuovo in viaggio. Via, verso l’Impero. Per una volta, stranamente, il pensiero non suscitò alcuna gioia in me.

 

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Angolino di Akita:

ok, io il mio avviso l’ho fatto ù__ù quindi nessuno mi uccida xD

perché nessuno ha commentato, tranne il solito, benedetto, Carlos Olivera?

._.

Vabbè, passiamo dunque al dunqueJ:

per Carlos Olivera: ah, sai, sono davvero contenta ti sia piaciuto, come capitolo xD eh, si…il suo cambiamento è davvero irreversibile xD piuma e spada lo saranno da ricordo xD ho avuto un’idea mentre scrivevo, ma non sto a parlartene qui xD che dici del capitolo? Non se sono molto soddisfatta, sai… non avevo molta voglia, oggi (il cervello è andato in vacanza senza di me!!!). tu che ne dici? Aspetto un tuo preziosissimo commento *__* ci conto *__*

ciao a tutti, e buone vacanSe! xD

Akita

 

  

 

 

 

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Capitolo 37
*** Terra d'Impero ***


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Eccomi qui, tornata puntuale come promesso J

Che giornate, che vacanza @.@ strana alla massima potenza O.ò

Mamma, non voglio ricordare xD

D’accordo, ora vi lascio al capitolo (che non è granché perché un po’ ho perso il mordente, ma giuro che mi rimetterò in pari xD)

Domani inizia la scuola T____T

Non voglio, non voglio (tanto più che tra qualche mese mi aspetterà la maturità T.T)!! >.<

Vabbè xD

See you later!

Akita

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Andrei, il Mastro Artigiano, e il caro Kyrre, stranamente tranquilli e silenziosi come non li avevo più visti dal giorno della morte di Eiron, mi aspettavano  lì dove la Matriarca mi aveva indicato, in un punto discosto, in modo da rendere quasi invisibile la mia partenza.

Il biondo Mastro Guerriero portava la mia borsa, assurdamente gonfia e piena.

Durante la folle corsa per arrivare lì, il dolore che provavo si era smorzato, tramutandosi nella determinazione più pura.

Una volta trovato Chekaril, e riportato alla sorella, nulla mi avrebbe impedito di andarmene dal Regno, di fuggire dal mio passato, di diventare finalmente quello che non ero mai stata.

Mi si forniva una possibilità egregia. L’ultima possibilità. Ombra, in un modo o nell’altro, sarebbe morta, ed io avrei potuto vivere in tutta tranquillità, magari portandomi dietro Tijorn, con le piccole ed Amarto. Sarei tornata lì, da quei gentili pennuti, con i miei più cari affetti, e, forse, avrei avuto la vita felice che mi meritavo.

Illusioni, pure e semplici illusioni, sebbene pie come le intenzioni.

Ero una dannata ingenua, una bambina umana.

La vita è più contorta di quanto chiunque possa mai prevedere, e nessuno sa il  dove il destino vuole si approdi.

Ancora provo un vago, dolente, stupore, per gli avvenimenti che sono arrivati a segnare indelebilmente la mia stracca e completamente inutile esistenza.

Ancora non riesco a crederci, non riesco a credere nella malignità del caso.

Per me non ci sarà mai tregua.

Ma io non sapevo, non potevo sapere! Mi avviai verso i due Tengu a testa alta, tergendomi le lacrime rimaste, lo stimolo dell’ultimo briciolo di fierezza razziale a sostenermi. Dovevo essere forte. Tanto, sarei tornata.

Entrambi mi sorrisero con sollievo, forse aspettandosi un fragile essere devastato.

Non mi piacque quella prova dei loro sentimenti nei miei confronti. Dimenticavano la mia identità, e quanto fossi forte?

D’accordo, era meglio non esagerare. Era solo una stupidissima partenza, nulla più. Poi sarei tornata.

Decisi di archiviare la questione, che non mi piaceva, non mi piaceva per nulla, e passai rapidamente ad altro. Fissai il mio bagaglio, enormemente lievitato, con meraviglia, e sarcasmo. Alcune cuciture erano sul punto di saltare.

Mentre ci avviavamo, Andrei in testa, affiancai Kyrre, che portava la vecchia sacca.

“si può sapere chi diavolo ha riempito fino a questo punto la mia borsa?”. Chiesi, con un tono forse un po’ troppo acido, ma completamente legittimo. Dimenticavano che io non ero esattamente un gigante nemmeno nella mia forma migliore, che non avevo? Il biondo Tengu arrossì vistosamente. “chiedilo alla Mastra Guaritrice”.

Disse, secco e sbrigativo, allungando il passo, tanto che fui costretta quasi a correre per raggiungerlo. Schifose gambe lunghe.

“è convinta tu sia denutrita”.

Sospirai, e scossi il capo, mentre Andrei, davanti, ridacchiava, come suo solito, e Kyrre s’incupiva.

Non l’avevo mai visto ridere. Era sempre rimasto così, calmo o cupo, mai allegro. Continuammo a camminare, in silenzio, fino a raggiungere uno strapiombo. La sola vista di quel profondo baratro mi diede le vertigini. Non osai guardare giù, e, per distrarmi, posai lo sguardo attorno.

Avanti a noi, un dolce e verdeggiante paesaggio collinare, punteggiato da radi, piccoli villaggi, che spiccavano colorati alla luce del bel sole montano. Terra d’Impero.

Il mio viaggio stava per continuare. Mi assalì un vago malessere.

Le mie prove erano ben lungi dall’esaurirsi, e quella non era stata che breve vacanza. Improvvisamente, ci fermammo, ed entrambi si girarono verso di me, Kyrre ora calmo, Andrei inspiegabilmente su di giri.

Li guardai con curiosità. Non mi piacque il suo comportamento: sembrava si stesse divertendo per qualcosa che sfuggiva alla mia comprensione.

Non ero certa di voler sapere di cosa si trattava.

I due Tengu si guardarono, ed un altro sorriso si aprì sul volto sardonico del Mastro Artigiano, mentre il compagno scuoteva la testa, rassegnato.

Mi sentii irritata. Perché doveva essere così idiota? Si fece strada un pessimo presentimento in me. La mia mano scatto subito all’elsa della mia nuova spada.

Ci guardammo per un bel pezzo, in silenzio. Poi Andrei cominciò a parlare, con voce venata di assurdo divertimento.

“la strada qui finisce per i tuoi piedini, piccola elfa!”.

Lo fissai con un misto tra perplessità e fastidio. Piccola elfa?

Io avevo, probabilmente, più del triplo dei suoi anni, senza contare che l’avrei potuto uccidere senza nemmeno che lui se ne accorgesse.

È sbagliato divertirsi alle spalle delle persone di bassa statura, davvero sbagliato.

M’inquietò, inoltre, quella frase. Cosa stava dicendo? Perchè mi avevano condotta fino a quel terrificante burrone? La presa sull’elsa si rafforzò. “Andrei vuole dire che ora la strada per te senz’ali si fa impraticabile”.

Interloquì velocemente Kyrre, con apprensione più che evidente, fissando la mia spada con circospezione. Si era fatto davvero cauto da quando mi aveva sfidata in un duello amichevole, con lunghi bastoni, qualche giorno prima, beccandosi un calcio nel basso ventre ed una tremenda bastonata in testa solo per avermi trattata con eccessiva galanteria. Aveva imparato davvero bene la lezione, e conosceva i miei limiti.

Il sospetto che avevo si fece più forte man mano che passavano gli attimi, ma lasciai la spada.

Il Mastro Guerriero sembrò rilassarsi, mentre Andrei, sempre dietro di lui, era uguale a prima. Stupido Tengu impudente.

Lo fissai con un’occhiata assassina, e lui mi sorrise. Mi stava prendendo in giro. “allora? Come devo scendere?”.

Chiesi, seccamente. Cominciavano a darmi fastidio tutti quei preamboli, peraltro assolutamente inutili.

Sentii una strana inquietudine quando vidi il Mastro Artigiano avvicinarsi di un passo, ed allargare le braccia, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.

Kyrre distolse lo sguardo e, per la prima volta da quando lo conoscevo, si lasciò scappare un sorrisetto. La cosa mi sconvolse. Il presentimento stava per divenire certezza. Oh, no.

“ti dobbiamo portare noi”.

Disse lui, con voce leggermente soffocata, forse per lo sforzo di non ridere. Ecco cosa mi stavano nascondendo.

Una discesa tra le braccia di un Tengu non era esattamente il mio modo preferito di viaggiare, soprattutto se il Tengu in questione era Andrei. Se avessero potuto cadermi le braccia, l’avrebbero fatto.

“allora, visto che Kyrre è già pieno di cose, ti porto io!”.

Andrei mi si avvicinò ancora di più, mentre gli occhi gli brillavano di divertimento a stento represso, spalancando le braccia.

“vieni qui, mia minuscola am…”.

Eh, no. Quello era davvero troppo. Tutto ma non quello. Non accettavo altre prese in giro.

Prima che potesse aggiungere altro, colpii. Un calcio ben assestato in punti nevralgici è davvero utile. Ed ebbi l’estremo piacere di zittire l’impertinente e fastidioso Tengu, facendolo boccheggiare e piegare in due, sopraffatto dal dolore.

Sogghignai.

Quello si meritava. Non penso avrebbe più osato trattarmi come Laila la fornaia.

Kyrre non ce la fece, e si lasciò scappare una grassa risata, mentre il Mastro Artigiano era quasi a terra, guardandomi con occhi stupiti, inondati di lacrime di dolore, senza più sorridere. Fu una vera soddisfazione.

 

  

Alla fine, trovammo un accordo.

Quando un addomesticato Andrei si riprese,guardandomi truce, camminando in modo davvero buffo, senza osare più parlare, prese la borsa, incaricandosi di portarla lui, ed io finii per essere portata da Kyrre, rispettoso e delicato.

Mi preparai, senza avere la minima idea di quello che stava per succedere.

Per fortuna, tra tutte le mie fobie non ci sono le grandi altezze. Anche se nulla potrà mai più prepararmi a quell’impresa scioccante. Non avevo, ovviamente, mai volato.  Fino a quel momento, avevo immaginato scalassero la montagna, svolazzando quando ce n’era bisogno.

Non fu così per nulla.

Entrambi, il Mastro Guerriero tenendomi saldamente tra le braccia, si sporsero terribilmente sull’abisso.

“tieniti forte e chiudi gli occhi, Lsyn”.

Mi mormorò il Tengu nelle orecchie, mentre camminava.

Non ebbi nemmeno il tempo di chiedermi il perché di quelle parole. Mi spaventai a morte quando entrambi, ad ali chiuse, si lanciarono nel vuoto, in una picchiata folle.

Sembrò quasi che gli organi in me fossero spariti completamente, facendo spazio al vuoto più assoluto.

Ero a testa in giù. Strillai di terrore, e chiusi gli occhi, stringendomi forte a Kyrre. M’imposi di non guardare, di non pensare, di non fare assolutamente nulla. Mai più mi sarei fidata dei Tengu, mai più. Dopo quello che mi parve un attimo, senti un battito, ed uno strattone.

 Rallentammo considerevolmente, mentre la vertiginosa picchiata si trasformava in una dolce discesa. Dopo pochissimo, toccammo terra, con un tonfo leggero. Mi sentii sfiorare la testa. “Lsyn…”.

Disse il Mastro Guerriero, chiudendo le ali con uno strano fruscio. “su…scendi…”.

Mi decisi ad aprire gli occhi, e muovermi un po’.

Eravamo ai piedi di una verdissima e dolce collina. Sorrisi. Il viaggio da ora in poi, sarebbe stato lievemente più facile. Niente psicopatici alati in giro, pronti a fulminarmi ad ogni piè sospinto. Nell’Impero gli uomini non lo fanno. Non hanno una potenza magica necessaria. La loro razza, in quel periodo, si era notevolmente imbarbarita, come se non lo fosse stata in passato.

Però erano ugualmente pericolosi. Piombai a terra in maniera alquanto sgraziata, ondeggiando un po’, ed allontanandomi leggermente dai due.

Ci guardammo, estremamente seri. Era venuta l’ora di altri addii. Il Mastro Artigiano fu il primo a spezzare il silenzio.

“sebbene per poco tu non mi abbia trasformato in una Tengu…”.

Disse, con un sorriso doloroso. Cercava di scherzare, ma il suo sguardo era serio.

“mi ero affezionato a te. Pazienza…”.

Io lo guardai, e sorrisi. Dannazione, io per prima mi ero affezionata a loro!

Non potevo lasciarmi andare ad altre manifestazioni di affetto, peraltro nettamente fuori luogo in un territorio molto pericoloso come quello.

Dovevano andarsene, e subito. Loro risposero al mio sorriso, per poi guardarsi.

Kyrre annuì leggermente. Entrambi, allora, fecero qualcosa che mi lasciò di stucco.

Rimasi a guardarli, spaesata, mentre Andrei estraeva una strana cordicella nera e sottile dalla sua tasca, e Kyrre quattro piume dalla sua.

Guardai con attenzione quei quattro oggetti. Tre piume erano lunghe, piume di ali, mentre la terza era molto più piccola e lanuginosa. Una era nera come ebano, l’altra leggermente ingrigita. Le due rimanenti, incluso la piccola, bianche.

Mi sentii invadere dall’incredulità, mentre fissavo i due armeggiare con la cordicella, legando in modo strano tutte e tre le piume, ai lati le scure, in mezzo le chiare, secondo quello che mi parve un disegno prestabilito. Non poteva essere.

Tutti e tre Anziani, Matriarca inclusa (mi ero a lungo domandata dove fosse finita la piuma che mi aveva donato), mi avevano donato un pegno della loro amicizia e stima.

Partivo da lì carica di letizia e doni. Finalmente conclusa l’operazione, Andrei si avvicinò a me, stranamente serio, mantenendo la corda con solennità.

“questa, Lsyn”.

Disse, avvicinandosi, e sistemandomi la corda con un gesto rapido attorno al mio collo, quasi gettandomela addosso, come fosse un aspide.

Sentii uno strano scatto, e fu solo il buonsenso ad impedirmi di andare a tastare il tutto. Lui si allontanò, e riprese a parlare, guardandomi negli occhi.

“è un pegno di amicizia. Ovunque i non antropomorfi ti riconosceranno come degna di stima, Insathi, Tengu o Inu che siano.

Il Consiglio del nostro villaggio ti ha accettata come sua abitante onoraria. Vieni, quando vuoi, e sarai la benvenuta.

Nessuno potrà mai togliere queste piume o questa corda dal tuo collo senza il suo esplicito ordine. Sei legata a noi”.

Lo sguardo si fece molto severo, ed io distolsi il mio.

“non dimenticarlo”.

Sorrisi, trattenendo a stento improvvise lacrime di commozione. Non ero mai stata così amata, così rispettata da Lainay. Mai.

Di nuovo il mio cuore si riscaldò.

“ci rivedremo, lo prometto…”.

Dissi, alzando lo sguardo, grata, verso i due Mastri, entrambi con un sorriso dolce stampato in viso.

Kyrre mi porse la borsa. La presi, quasi curvandomi per il peso. Accidenti. A volte la Mastra Guaritrice era troppo premurosa.

“fa’ ciò che devi”.

Mi disse solo, solenne e serio come sempre. Annuii.

Quell’episodio parve farmi tornare tutto il coraggio di cui avevo bisogno. Feci un respiro profondo.

“arrivederci, allora”.

Non sapevo che sarebbe stato un addio. Vorrei tanto rivederli, abbracciarli di nuovo, scherzare con loro.  Ma non posso. Questi confini sono per me una prigione.

Non potevo saperlo, e fu quasi con speranza, e tanta forza, che li vidi inchinarsi buffamente, ed avvicinarsi per una breve stretta di mano (o, nel caso di Andrei, un buffetto sul capo, ma per una volta non me la presi), prima di aprire le ali e, con un balzo armonioso, spiccare il volo.

Rimasi a guardarli fino a quando lo strapiombo me lo consentì, fino a quando non sparirono oltre il crinale. Con un sospiro, piena di tristezza e forza nel tempo stesso, mi voltai verso la collina, prendendo la borsa e  facendo il primo passo.

La mia vita ora dipendeva solo dalla cautela. E ce ne sarebbe voluta tanta. Mi avviai verso il sole a testa bassa, in allerta, pronta a scattare per ogni minimo rumore. Lateek mi aspettava.

 

 

 

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Angolino di Akita:

dopo la mia vacanza, eccomi qui, tornata, miei fedeli e stoici lettori xD nuove idee ballonzolano allegramente per la mia testolina, e di questo sono contenta xD quanto mi siete mancati xD

passiamo velocemente al dunque:

per Carlos Olivera: ho adempiuto alla mia promessa ;P eccomi qui, con esattamente (ora che scrivo) 11 minuti di ritardo sulla tabella di marcia ù_ù onta e vergogna >.< vabbè xD vado molto, molto di fretta, non so perché, ma ti dico che un po’ di suspance è quello che ci vuole ;P  te lo meritiJ no, no xD vabbè xD ciao!

Per Selly: ovvio che è accettabile xD ma a me piacciono queste scene, che ci vuoi fare xD Lsyn cambierà, e di molto xD già si capisce che diventerà xD io sono crudele, cara, sappilo xD anche in questo caso sto correndo, e molto xD grazie J mi diverto, oh se mi diverto xD ciao, e fammi sapere!

Ciao a tutti! J

Akita

 

 

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Capitolo 38
*** Una nuova speranza. ***


Le terre degli umani sono davvero splendide, lo ammetto, e mi piacque davvero attraversare quelle fertili valli

Le terre degli umani sono davvero splendide, lo ammetto, e mi piacque davvero attraversare quelle fertili valli. Basandomi sulle mie scarse conoscenze della topografia dei luoghi, percorsi il sentiero più breve che da Uruk portava a Scmen, battendo strade a volte quasi impraticabili, sconosciute o poco frequentate, attraversando il dolce paesaggio collinare. C’erano ancora segni di una grandezza passata: una volta i regni umani erano stati incredibilmente fiorenti, luoghi incantevoli e pacifici, dove tutte, o quasi tutte, le razze erano tollerate, dove i più grandi maestri ed artigiani erano in competizione perenne, ma amichevole, con i mastri elfici, migliorandosi e migliorando, insegnando ed apprendendo. Ero abbastanza anziana per ricordare tempi del genere, tempi felici e sicuri in cui si poteva arrivare alla costa senza nessun problema. Era tutto andato in frantumi cinquant’anni fa, ma all’epoca ero già in viaggio, e non conoscevo bene la storia. Da quando si erano costituiti Regno ed Impero, i rapporti tra noi ed i deboli cugini umani si erano irrimediabilmente guastati, fatto molto aiutato dai continui scontri. Tutti ci temevano, temevano la terribile potenza della nostra dorata sovrana. La crisi era avanzata, ed il sospetto strisciava. Fatto sta che tutte le terre, specialmente quelle vicino ad i confini con il Regno si erano spopolate durante gli anni, per vari motivi: avevo, più volte, incontrato cicatrici di vecchie guerre. M’imbattei a più riprese in resti di accampamenti, ormai inghiottiti dalla vegetazione, piccoli villaggi abbandonati, ormai nient’altro che ruderi, e rovine di signorili abitazioni. Ben presto, però, qualcos’altro giunse ad attirare la mia attenzione, catalizzandola, ed entusiasmandomi sempre più. Mi ero preparata, ben sapendo la situazione, ad un territorio spasmodicamente controllato, pieno di pattuglie di soldati, abilmente camuffati, ma crudeli e sanguinari con gli stranieri che cercavano di passarla liscia, senza passare la dogana, che si situava nei dintorni di Zakadi. Quello era stato un punto nevralgico, appetitoso dal punto di vista agricolo e strategico. Lainay aveva più volte tentato di mettervi le mani sopra, ma senza nessun risultato. Tutte le mie precauzioni, tuttavia, furono del tutto inutili. Non c’era nessuno. Nemmeno di notte, durante le mie veglie affannose, riuscivo a scorgere fuochi o ulteriori segni di soldati, o cittadelle fortificate. Solo alcuni piccoli villaggi, ma niente di più. Gli uomini sembravano aver abbandonato quel pezzo prezioso di terra. Mi sentii inquieta. Ero fuori dal mondo da molto tempo:  il mio istinto da Spia mi diceva che stava per succedere qualcosa di grosso, di molto grosso. Dovevo indagare. A metà percorso, ormai assalita dalla più tremenda inquietudine, mi arrischiai anche a scendere dalle colline, girovagando di notte come un cane selvatico  per i campi di grano e le case dei contadini, spiando e raccogliendo informazioni. Gelai. Seppure fosse ormai quasi stagione di raccolto, il momento in cui il campo ha più bisogno di cure, nessuno pareva occuparsi di esso. Le erbacce crescevano liberamente in mezzo alle spighe, che avevano un colore piuttosto malsano, anche se dedussi, da molti particolari, che il raccolto fosse stato abbandonato di recente. Gli agglomerati erano più miseri del solito, come vuoti. Una notte, vinta ormai dalla curiosità, mi arrischiai a spiare in una casa, dopo essermi accertata che tutti dormissero. Entrai, silenziosa e furtiva, nella minuscola abitazione, che doveva aver visto giorni migliori. In casa non c’erano altro che una vecchia scarna, una donna e due piccoli. Nessuna traccia di uomini o ragazzi. Ripetei l’esperimento per quattro altre volte. La scena era la stessa: l’unico umano maschio che avevo incontrato era stato un neonato. Non ero stupida. Allontanandomi da quel luogo, riprendendo la mia marcia forzata, capii: una guerra era in corso, da poco tempo. E sapevo contro chi. Ci potevo scommettere la pelle. Ancora camminando al buio, scossi il capo: ecco cos’erano stati tutti quei movimenti di truppe, quel minaccioso accentramento di potere a cui aveva accennato Isnark! Nonostante la situazione fosse tutt’altro che rosea, mi sentii segretamente felice: la Regina si sentiva protetta, si sentiva con le spalle coperte. Sapeva che io sarei riuscita nel mio intento. Sapeva sarei riuscita a trovare Chekaril. E, una volta risolto quell’increscioso contrattempo, la presa dei territori umani sarebbe state più che facile, un giochetto da infanti. Allungare le mani su quella considerevole fetta di territorio era da sempre stata la sua più grande ambizione: erano cinquant’anni che tentava, in un modo o nell’altro, di accaparrarsi almeno una piccola regione. Non ci era mai riuscita: la mancanza di Chekaril, svezzato, cresciuto e maturato tra le armi ed i soldati, si faceva sentire. E lei non poteva rischiare troppo, non quando non c’era un erede al trono di linea diretta a garantirle la successione, e la stabilità del regno. Mi sentii follemente gioiosa, in uno stato d’esaltazione che durò qualche giorno. Reagii, ovviamente, come ogni elfo che si rispetti: felice di accaparrarsi nuove terre dove far fiorire le nuove generazioni, senza più guerre. Ma c’erano anche altre motivazioni, ovviamente, molto più personali. Era meraviglioso: avrei avuto anche io una fetta di gloria, tutta per me. Avrei concluso la mia carriera in grande, mi sarei guadagnata la stima perpetua della casata reale. Forse, il mio ritiro non sarebbe stato difficile come previsto. Meglio sbrigarsi, dunque, a ritrovare Chekaril, il mio adorato. Sebbene già forzassi abbastanza le tappe, mi costrinsi ad aumentare ancora di più il ritmo di viaggio, arrivando a dormire a mala pena una mezz’ora per notte, e mangiare durante il cammino, senza distrarmi minimamente. Le tracce della cura amorevole dei miei dolci amici Tengu sparirono, ed io tornai fiaccata nel corpo, anche se non nello spirito. Ero molto affaticata, ma avevo una nuova fede a sostenermi, una nuova speranza. Già, me stolta, immaginavo il ritorno a casa, l’unica ossessione, la mia nuova ossessione: Chekaril mi sarebbe stato grato, e mi avrebbe tenuta in considerazione. E, chissà, magari si sarebbe di nuovo innamorato di me, nonostante la mia bruttezza. Lainay mi avrebbe accolta in pompa magna, come un’eroina, e tutti si sarebbero inchinati a me. La guerra sarebbe incominciata sul serio, e stavolta l’Impero sarebbe stato schiacciato. Gli umani sarebbero stati decimati, e controllati, com’era giusto che fosse. Ho sempre odiato la loro razza Mi è sempre stato insegnato di fare così: solo quello mi hanno inculcato dalla mia più tenera infanzia. Odia gli uomini, i mortali. Essi sono la nostra antitesi. Ci ucciderebbero, se solo potessero. Sono invidiosi, e meschini. Hanno sempre paura. Hanno distrutto il nostro sogno, stupidi mortali fragili, hanno infranto il nostro desiderio d’armonia. Non riesco a scrollarmi di dosso queste credenze, che so stupide, ancora oggi. So che non importa la lunghezza della vita, ma la sua qualità. È una lezione, tuttavia, troppo nuova per me, e tuttora ho problemi nell’assimilarla. All’epoca, tuttavia, tutto quello era ben lungi dallo sfiorarmi la testa. Ancora in viaggio, il mio sogno continuò. Magari, dopo aver attaccato l’Impero e gli altri, piccoli, regni mortali, avremmo potuto attaccare Uruk, e distruggere Nemys e la sua cricca. Un panorama perfetto. Una volta pacificato il tutto, avrei chiesto il permesso di ritirarmi, o di diventare Maestra. Sentivo di essere diventata abbastanza saggia per farlo. Si, forse avrei preso un marmocchio, un piccolo allievo, per allevarlo nel più puro rispetto della nostra razza, per mettere a frutto le lezioni di Amarto e degli altri maestri del quartier generale. Sarebbe diventato, o diventata, una grande Spia, pronta a servire i regnanti in un tempo di pace perenne. Nessuno avrebbe potuto negarmi nulla. Chekaril mi avrebbe adorata, mi avrebbe rispettata. Ed io l’avrei adorato a mia volta. Magari Lainay avrebbe approvato una nostra eventuale, e legale, unione. In fondo, non sarei mai più stata operante come Spia. Allora, in pace con me stessa, ed insieme a tutta la mia famiglia allargata, sarei andata a vivere a Sharilar, oppure dai Tengu, che tanto volevo rivedere e riabbracciare, immergendomi in una vita dedicata ai miei affetti. Sogni folli, sogni di una mente irrimediabilmente perduta. Ero un’infante, un’infante piena d’immaginazione. Lo sono sempre stata, e per questo ne soffro. Vorrei essere stata più realista, aver tenuto i piedi per terra. Non l’ho fatto, e ne pago lo scotto. Tuttavia, nei quindici giorni di marcia forzata e dritta verso Scmen, non mi resi conto della cosa più importante. Non capii la cosa più bella, la cosa che avrebbe fatto saltare Tijorn di gioia. Al contrario di ogni mia previsione, l’Ombra non era più tornata da quando avevo lasciato la Matriarca e  gli altri miei amici. Non ero tornata la fredda e disperata Lsyn, ossessionata da sé stessa, dalla propria manchevolezza. Stavo guarendo, o meglio: stavo cambiando, in una maniera che non mi era perfettamente comprensibile. Ma solo ora so, solo ora me ne rendo conto: il processo che portò al mio cambio radicale fu quasi del tutto sotterraneo, così lento che a stento me ne accorsi. E quando me ne resi conto, mi ero già irrimediabilmente sporcata le mani di sangue e rimorso. Ma, in quel momento, era solo una marcia in più, una speranza che mi spronava, mi spingeva, mi aiutava, mi sosteneva. La mia ultima missione. Con mio grandissimo disappunto, il tempo andò sempre più a migliorare, e divenire caldo, man mano che proseguivo verso sud. Il mio abbigliamento mi divenne insopportabile. La vegetazione, cambiò pian piano: dai larici, abeti e betulle  delle zone nord, a faggi, querce, sorbi, e altre piante che non conoscevo in collina, fino ad arrivare a bassi ulivi dalle foglie verde-argento e dal tronco contorto, pini e sottobosco profumato nei pressi del mare. Per il momento, non avevo trovato anima viva, ma, man mano che la costa si faceva sempre più vicina, fui costretta ad attraversare strade battute. Per poco non finii nei guai più seri, con una carovana di cantanti girovaghi che quasi mi sorprese per strada, costringendomi a fuggire, finendo in mezzo ai rovi, e coprendomi di graffi. La mia figura reclamava attenzione: una creatura completamente ammantata, vestita di nero, con una maschera, piccola e magrolina, era un faro, una calamita per tutti gli sguardi, anche i più discreti. Per questo, già ormai vicina al mio obiettivo, presi una decisione anticipata: sfidando il destino, e mandando a quel paese tutta la cautela, fui costretta a camuffarmi di nuovo da vecchia, con gli unguenti che mi rimanevano. Nascondendomi in un boschetto, presi, impedita ed aiutata dalla scarsità dei materiali primi, ancora un altro aspetto: non c’era più abbastanza roba per i capelli, né per la voce, così mi arrangiai. Ero, inoltre, sola: nessun fratello ad aiutarmi con le garze da applicare alla chioma! Desiderai, per l’ennesima volta, la compagnia di Tijorn. Dopo una preparazione piuttosto difficoltosa, al mio posto c’era una donna umana, povera e minuta, dai crespi capelli color ferro, e dalla voce severa e roca. Era sicuramente più giovane di Cate: non avevo messo nulla per gli occhi, che saettavano ancora giovani e limpidi, e mi ero contenuta con l’impiastro per la pelle, diminuendo le rughe, e facendo anche intravedere qualche cicatrice. Avevo deciso inoltre la mia identità: avrei preso ancora un altro nome, Abil, un nome allora comune tra i mortali, ed il mio preferito tra la rosa di scelte, e sarei stata una donna pericolosa, una criminale, anche se non molto vistosa, dura e silenziosa, abituata a fare tutto di testa sua. Un’identità ideale per evitare domande indiscrete, e, soprattutto, per evitarmi dolori allo stomaco come quando ero Cate. Mi rimisi in cammino molto più tranquillamente, marciando a passo spedito e spavaldo verso la mia meta, nel bel mezzo della strada. Funzionò. In giro non c’erano guardie, né soldati, e tutti quelli che passavano, vecchi contadini dall’aria stanca, con dietro giovani donne tristi e bambini magri, mi lasciavano andare, terrorizzati. Facevo il mio effetto. Ed avevo anche meno caldo. Finalmente, un giorno di sole, svoltando una curva, fui assalita da strane sensazioni: la prima cosa che mi arrivò fu un odore insolito, che fece fremere le mie narici. Misto ai profumi della boscaglia c’era un’essenza secca, misteriosa, aspra, piena di vita. Tempo prima l’avevo sentita, ma sempre mi riempiva d’estasi, costringendomi ad inspiararne grandi boccate. Poi arrivò un suono, ipnotico e ripetitivo, come il respiro di un immenso animale, una bestia dormiente, inesorabile e regolare. E poi, la vista. Rimasi di stucco, come sempre. Ecco che, ai miei piedi, si stendeva, azzurro e scintillante, fino a perdita d’occhio, l’oceano. Solo lì vidi tanta acqua messa assieme in un solo posto. Cercando disperatamente di non pensare alla piccola traversata che mi avrebbe aspettato, mi guardai attorno. Conoscevo, fortunatamente, Scmen: era un piccolo scalo portuale, ed era il villaggio costiero più grande. Fondamentalmente, era un agglomerato di casette variopinte, messe in ordine casuale, tutte raggruppate attorno al piccolo porto, meta inoltre dei parecchi contrabbandieri. Era l’unico posto in cui certe cose venivano tollerate. E conoscevo anche il punto esatto dove abitava Lateek, che una volta, con un’altra Spia, avevo visitato. Lei era una bimba, allora, ma scommettevo si ricordasse ancora di me. Le piaceva tirarmi i capelli, ricordo. Era il suo divertimento preferito. La sua famiglia, arricchitasi con il commercio illegale e non, e con altre attività poco lecite, sfornava informatori da tempo immemorabile, ed era tra le più fedeli al nostro ordine. Strano come i mortali giurino a noi fedeltà: ma, a volte, il denaro fa miracoli. Lateek era l’ultima a gestire quell’attività: alla sua morte, tutto sarebbe passato alla figlia della sorella minore. Era tradizione che il primo figlio divenisse informatore, e non si sposasse mai, lasciando il proprio incarico, alla morte, al primogenito del fratello, o sorella, minore. Ed a tale legge non scritta Lateek si era uniformata: era stata una donna di terrificante bruttezza, e dalla straordinaria acidità, e forse era stato un bene non avesse costretto la famiglia ad affidarle un poveretto da comandare. Perfetta per Akita. All’epoca, aveva circa settant’anni: decrepita come non mai, svolgeva ottimamente il proprio mestiere, ancora tenacemente attaccata alla vita. Sospirai, guardando Scmen, a poca distanza da me, sulla sinistra, respirando l’odore strano del mare, nelle orecchie il rimbombo delle onde. Il tempo di scendere una breve strada, e sarei stata in città: da allora, i passi verso Chekaril erano contati. Sorrisi involontariamente, ed, allegra come un capretto, cominciai ad avviarmi, del tutto dimentica di dover attraversare un braccio di mare per arrivare ancora più vicina alla mia meta ultima.

 

 

 

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Angolino di Akita:

allora, allora, allora. Perdonatemi innanzitutto per l’impaginazione terrificante, ma oggi non ho voglia di mettermi dietro word ed i suoi arcani misteri xD

come seconda cosa, vorrei augurare a tutti quanti, voi studenti come me, un ottimo inizio scolastico (e soprattutto, miei misteriosi compagni dell’ultimo anno di superiori, facciamoci la croce per l’esame di maturità xD), o un ottimo inizio dei corsi universitari (a vostra discrezione, eh xD). In bocca a lupo a tutti!

Passiamo, finalmente, al dunque:

per Carlos Olivera: grazie, carissimo *_* anche io sono contenta di scrivere xD come ti ho già detto, non mi sono minimamente accorta di avere allungato in quel modo assurdo il brodo o.o non pensi sia troppo, o sono io che mi sto facendo i film come mio solito? O.o beh…vedrai xD non posso proprio dirti nulla, ma questa Lsyn è solo una parte del cambiamento xD poverina, eh, ci voleva il calcio nelle parti sensibili di un Tengu impertinente, eh ù__ù

xD come mi pareva ovvio e lapalissiano ù__ù

son tutte prerogative femminili, queste xD

d’accordo, basta con gli scleri. Che dici del capitolo? Lo so, è un po’ corto il lasso di tempo, ma devo far quadrare una certa cosina xD che non ti dirò (così mi vendico di ieri!!! è.é), ovviamente ù__ù fammi sapere *_*

ciao al resto della ciurma, che so impedita per ottimi motivi ;)

in bocca al lupo a tutti, ancora una volta!!

Akita

 

 

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Capitolo 39
*** Vecchio, Vecchia e Serpe Nera. ***


Per l’ennesima volta da quando avevo messo piede in quella topaia ambulante, maledii veementemente la mente perversa che aveva recluso Chekaril in un’isola

Per l’ennesima volta da quando avevo messo piede in quella topaia ambulante, maledii veementemente la mente perversa che aveva recluso Chekaril in un’isola.

In mezzo al mare.

Ma cosa passava per la testa di certa gente?

L’acqua, sebbene i marinai giurassero e spergiurassero sulle condizioni ideali di tempo, che non c’erano onde e cose del genere, faceva rollare la Serpe Nera, l’agile brigantino su cui ero stata ospitata per la traversata fino a Gerinti, come fosse una culla gigante.

Non era piacevole. Io, fin dal primo momento, mi ero rifiutata di salire sul ponte, terrorizzata e, per colpa del movimento, ero stata afflitta sin da subito da un feroce mal di  mare. Avevo una dannatissima fifa, tanto che di quel viaggio riservo pochi ricordi.

Sotto di me, c’erano litri e litri di acqua infestata da mostri feroci, che non aspettavano altro che quel guscio di noce affondasse.

La vita aveva riservato per me un altro tiro mancino. Mi ero sempre rifiutata, fino a quel momento, di toccare un’acqua che avesse anche solo una parvenza di torbido, profondo o scuro. Sono schizzinosa, per certe cose. Ed ecco che navigavo in un mare che aveva tutte e tre quelle caratteristiche. Perfetto. Davvero, davvero, perfetto.

Per pietà nei miei confronti, vedendomi diventare di un delicato verdino, i marinai, gente rude e poco raccomandabile, mi avevano portata nel punto più in basso della nave, dove il rollio era meno avvertibile, assieme alle provviste ed all’acqua, e lì mi avevano lasciata. Non mi ero mossa.

Faceva un freddo cane, sebbene fosse tutto asciutto. Mi stesi sul pavimento di legno scuro, avvolgendomi quanto più potevo nel mantello. Come unica compagnia, lo scricchiolio del sartiame e del legno, ed un occasionale zampettare di ratti grossi come piccoli gatti, che mi avevano fatta saltare di paura. Forse quello dei marinai non era stato un gesto di pietà. Maledissi Paòl ed il suo umorismo strambo.

Non riuscivo a stare bene in nessun modo. Ero molto nervosa, e soffrivo per il regolare movimento della nave. In poche parole, pensai seriamente di essermi giocata una volta e per tutte lo stomaco. Mi stendevo, usando la borsa come cuscino, ed avvertivo l’urgente bisogno di muovermi. Stavo per finire la mia missione, ed, in quel modo, si sentiva di più il beccheggio. Mi alzavo, e cercavo di muovere qualche passo. Crollavo miseramente bocconi. Non ero abituata a tutto quel movimento. La scena si ripeté più e più volte. Ero, per fortuna, sola. Desiderai ardentemente la terraferma, e qualcosa di dannatamente solido sotto i miei piedi. Qualcosa che non rischiasse d’inghiottirci da un momento all’altro, preferibilmente. O almeno d’inghiottirmi. Una fine davvero ingloriosa dopo tutte le mie fatiche!

Sapevo di tenermi a galla quanto un pezzo di roccia. Rimpiansi, per la prima volta in vita mia, di non aver mai accettato qualche piccola lezione di nuoto, un qualcosa su cui sia Tijorn che Chekaril avevano sempre insistito. Ma la prospettiva di sguazzare allegramente lì dove qualsiasi cosa possa attaccare senza farsi notare fino all’ultimo momento, non mi era mai piaciuta. Quindi avevo ignorato tutti i consigli, benché l’idea di aver un motivo inattaccabile ed piacevole per vedere Chekaril, tutto per me (lui nuotava davvero bene, e molte volte aveva dato lezioni a qualche Spia o Immortale un po’ incapace), mi avesse allettata molto, ed avevo fatto tutto di testa mia. Per fortuna, il viaggio durava al massimo qualche ora. L’idea dei contrabbandieri era stata di Lateek. Erano sempre sue le idee pessime.

 

Ero arrivata a Scmen in pochissimo tempo.

Avevo, infatti, cominciato a correre in modo quasi disperato, zampettando allegramente, ancora annebbiata dalla prospettiva di poter rivedere Chekaril, in veste di vincitrice. Ero arrivata alle prime case in un lampo. Cominciai a guardarmi attorno.

L’assenza totale di mura è una particolarità di quella città: la concentrazione di criminalità è così alta da dissuadere qualunque banda di briganti dall’assaltarla. La malavita domina i vicoli bui e stretti, così simili a quelli dei bassifondi di Zakadi, ed è poco prudente mettersi contro di essi, o far del male al popolo.

Sebbene Scmen facesse parte dell’Impero, lì le leggi non valevano come altrove. Le tasse venivano pagate, e quella era una miniera per gli affari illeciti dello stato stesso. Perfettamente inutile, dunque, mettersi contro i padroni della piccola città portuale. I criminali sono tuttora così sicuri di loro stessi da non piazzare quasi sentinelle, fatta eccezione per qualcuno in perenne pattuglia nei dintorni, pronta ad intercettare persone dall’aspetto troppo pulito. Io non lo ero, e fui lasciata in pace. Misteriosa fratellanza tra avanzi di galera…

Percorsi dunque tranquillamente le stradine sterrate e polverose, senza essere infastidita, attorniata da strane case colorate e dagli stili discordi, ma tutte alte, in modo da proiettare delle ombre sulla via, dove si svolgevano perennemente traffici d’ogni tipo. Scmen è tuttora il crocevia di ogni affare illegale, una città vivace, a forte maggioranza umana, dove perfino per mangiare si deve contrattare al buio, tra violetti impregnati dall’odore disgustoso del pesce marcio, quando peraltro esisteva, ed esiste ancora, un mercato. Non ho mai capito queste bizzarrie da ladri umani. Il furto sembra quasi risolversi in un gioco. Tutto l’illecito diventa lecito, e perfino normale, a Scmen, luogo proibito alla gente perbene, o agli sprovveduti. L’ho sempre trovato divertente, e graziosamente folcloristico. Ma tenni sempre pronto il pugnale: non si sa mai.

Camminai tra le abitazioni pacchiane a lungo, in cerca della dimora avita di Lateek, situata nei pressi del porto, beandomi di tutte le stranezze che incontravo, di tutta la bizzarra e variopinta folla che mi sfiorava. Lì passavo per normale, e non destavo preoccupazioni. Quel travestimento era perfetto, come sempre, d’altronde. Mi sentii soddisfatta, come mi capitava spesso ormai. Era davvero adorabile vedere le mie capacità intatte.

Dopo essermi persa un paio di volte nel dedalo disordinato di palazzi di un verde palude, case in uno strano stile sbilenco, false capanne atte ad imitare un poco plausibile stile Inu, ed addirittura, un’abitazione con infisso sulla porta quello che aveva tutta l’aria di essere un topazio grosso come una noce, trovai la strada. Stupita, mente ancora camminavo con il naso all’insù, mi domandai ripetutamente come facessero i padroni a non farselo rubare.

Quella era una fiera ininterrotta delle vanità. Poco da stupirsi che i sobri e sinistri ladri elfi non ci mettessero piede.

Finalmente, dopo aver attraversato un vicolo più ampio degli altri, dove si teneva, alla luce del sole, la trattazione di mercanzia dall’aria straordinariamente sospetta, vendita tenuta da truffatori, mai visti così baldanzosi, arrivai all’ultima schiera di case, in vista porto, un’intricata costruzione letteralmente piena di barche, da quelle di pescatori, le più rare, ad un piccolo vascello di legno scuro, dall’aria vissuta ed imprendibile.

Scossi il capo, frastornata. Quella città non finiva mai di stupirmi. Era un mondo al contrario.

Dopo aver girato un po’, arrivai nei pressi dell’abitazione di Lateek.

Era una casa, stranamente, di dimensioni molto modeste, ideale per una sola persona. Come vistosità, tuttavia, faceva concorrenza alle più grandi. Aveva, su tutta la facciata anteriore, appiccicate conchiglie di varia forma e dimensione, fino a costruire un mosaico colorato ed insensato. Avevo visto di rado quello spettacolo, ed ogni volta mi deliziava. Mi fermai un po’ ad osservare.

Le finestre e la porta erano di legno chiaro e massiccio, dall’aria evidentemente nuova, mentre il tetto in assurde tegole multicolori.

E lì mi si presentò la prima cosa strana. Sarei dovuta scappare a gambe levate già a quelle prime, strampalate, avvisaglie. Invece, come sempre, non ascoltai la persistente vocina della mia ragione, che mi sussurrava di lasciar perdere e di rubare qualche barca con annesso povero pescatore. Sgranai gli occhi: dal comignolo si levava un sottile fumo grigio. Il caminetto, con quel caldo atroce, era acceso. Le imposte, inoltre, erano tutte chiuse, con le tende tirate. Gemetti, e feci un passo in avanti. Mi costrinsi ad avanzare fino ad arrivare vicinissima alla porta. L’altra cosa che mi colpì fu un odore stranissimo, che mi fece starnutire più volte: un profumo stucchevole, che alla lunga dava la nausea. Esitai: conoscevo l’eccentricità di Lateek, ma ebbi il sospetto che con la vecchiaia fosse peggiorata.

Per fortuna, pensai, noi elfi non dobbiamo sottostare a quel rimbambimento progressivo. Abbiamo altre pene da sopportare, ben più atroci. Vorrei essere umana, ora.

Finalmente, mi decisi a bussare quattro volte, in una successione prestabilita, e da me ben conosciuta. Era il segnale di riconoscimento di ogni Spia, che pregava di essere ricevuta ed aiutata. Dopo pochi attimi di attesa, la porta si aprì a mezzo. Fui investita da una folata di aria calda e speziata, così inebriante che barcollai. Presi per un attimo in considerazione l’idea di non entrare. Dallo spiraglio apertosi, fece capolino la testa canuta di una vecchia e grassa umana, coperta di rughe, dagli acutissimi e malevoli occhi castani.

Avrei riconosciuto Lateek anche dopo secoli e secoli, anche solo dal disgustoso porro sul mento. Ci guardammo. Repressi una risata: sulla testa liscia della mortale campeggiava, allegro, un assurdo cappello a cilindro, di stoffa gialla, molto incongruo per quella faccia da cane mastino. L’umana strinse gli occhi, squadrandomi con sospetto.

“che vuoi?”. Sbottò all’improvviso, scorbutica.

La sua voce era strana, troppo acuta per una della sua stazza. Sorrisi con malizia.

“sono l’Ombra, e sai che voglio”. Dissi, piano, guardandomi prima attorno per poi parlare.

idi i piccoli occhi spalancarsi, e, dopo un momento, la porta si aprì del tutto.

Ero stata riconosciuta, senza troppi preamboli. La cosa m’insospettì non poco: Akita doveva averla avvisata. Entrai nell’unica stanza del piano terra, un soggiorno con un camino e varie sedie sparse qui e là, trattenendo il respiro.

Lì dentro vigeva il calore più soffocante, una temperatura adatta al deserto. Come avevo notato prima, nel buco del camino scoppiettava allegro e vivace un fuoco, ed ardevano in vari punti della stanza grandi bracieri in ferro battuto contenenti una strana sostanza nerastra. Le tende, dal pesante tessuto verde, erano tirate. Tutto era un trionfo di giallo e verde. Perfino il pavimento era a righe gialle e verdi.

Scossi la testa, frastornata, come se avessi ricevuto una botta in testa. Davvero assurdo. La porta, con uno scatto, mi si chiuse dietro. Sobbalzai, e mi voltai verso la mastodontica figura della vecchia, dal viso sgraziato e disarmonico, che conteneva tutta la bruttezza tipica di quella stirpe. Era vestita, nonostante la temperatura impossibile, da vari strati colorati di lana, senza dare minimi segni di disagio, mentre io, con quegli indumenti leggeri, cominciavo a sudare profusamente.

Odiai quella donna in maniera quasi esagerata, solo per quello.

D’un tratto, Lateek si sporse verso di me, prendendomi brutalmente per il colletto, trascinandomi verso di sé. Riusciva a farlo senza alcuna fatica. Conoscevo benissimo il suo modo di fare, e, sebbene mi sentissi scandalizzata, e non volessi far altro che piantarle in corpo la mia spada, non reagii. Non diedi il minimo segno di vita anche quando lei cominciò a tastarmi il viso, il braccio e la spalla sfigurate, probabilmente in cerca di qualche indizio potesse provare che non fossi io. Finalmente, la brutta umana mi lasciò, e si girò, per raggiungere il caminetto ed attizzarlo.

“e così quella goffa puttana di Akita ti ha detto della mia scoperta, eh?”. Disse, senza preamboli. Sogghignai, ed annuii.

La mia collega non era amata da nessuna parte, perfino dal suo contatto preferito. Perché Tijorn era così innamorato di lei? Non era mai riuscita a combinare niente senza provocare disastri di proporzioni immani, non era quel che si dice attraente, seppure il suo incarnato pallidissimo, quasi azzurrino, fosse affascinante, aveva un carattere acido ed impossibile. Eppure lui ne era rimasto praticamente folgorato, dalla prima volta che si erano incontrati, quando noi eravamo solo adepti, appena arrivati alla capitale, e da allora Akita era per lui sempre stato un chiodo fisso, nonostante avesse provato a dimenticarla in molti modi. Non ci era riuscito: solo io potevo capire la felicità che aveva dominato il suo cuore, quando quello stecco dal naso lungo aveva finalmente mostrato segni d’interesse per lui. Stupido fratello mio.

Dopo un'altra pausa, Lateek si alzò faticosamente, mettendosi dritta, e mi donò un’occhiata che mi fece raggelare. Sebbene potessi benissimo essere la capostipite della sua stirpe, quella vecchia pazza non mancava d’intimorirmi.

I vecchi umani mi fanno sempre quest’effetto. La vecchiaia negli elfi non da segni visibili, non è una distruzione progressiva della mente e del corpo come quella. Solo in caso di grandi tribolazioni i capelli imbiancano piano piano, e si forma qualche ruga. Ma nulla più.

Guardai il viso devastato dell’umana con orrore. Mi ritenni fortunata di non dover sottostare al tempo in quel modo. Avevo ancora tantissimo tempo da vivere.

“beh?”. Mi disse lei, senza cambiare tono, fissandomi con evidente disgusto. “che ti guardi? Siediti, che il capitano Paòl deve ancora arrivare!”.

Sgranai gli occhi, stupita, fissandola con stupore. Mi trovavo del tutto impreparata. Paòl? Chi era? Che dovevo fare con questo Paòl? Lei parve accogliere quel nuovo sguardo con fastidio. La odiai ancora di più.

“e come vorresti arrivarci su quell’isoletta, eh? Paòl e la sua ciurma devono scaricare merce che scotta per stanotte, a Gerinti, come ogni notte, quindi ti danno un passaggio…oggi viene a salutami, ma sa già di te”.

Non mi scomposi, e mi sedetti scompostamente su una poltrona, in silenzio. Si: Akita doveva aver già previsto tutto. Rimasi per un po’ a rimuginare, senza degnare l’informatrice di uno sguardo. Avrei dovuto immaginarlo: contrabbandieri. Spesso l’ordine delle Spie di appoggia ai criminali per i propri spostamenti.

Non conoscevo questo tipo, e ne dedussi, a ragione come vidi poi, che si trattava di un umano. Non aspettammo a lungo. Dopo poco, si sentirono una serie di botte vigorose alla porta.

“arrivo!”. Strillò Lateek, fattasi improvvisamente molto arzilla.

Non mi girai, approfittando di quelli che sapevo sarebbero stati gli ultimi momenti di pace, e cominciai a giocherellare distrattamente con la cinghia della borsa.

Per fortuna la mia permanenza in quella casa non sarebbe stata lunga. Non avrei sopportato un attimo di più quell’odore disgustoso.

Non feci caso al parlottio veloce, non mi diedi nemmeno la pena di ascoltarli. Poi qualcuno dal passo pesante entrò nel salotto.

“oè, elfa, ciao!”. Raspò una voce maschile e rude, molto vicina a me.

Sobbalzai, e, lasciandomi guidare dall’istinto, sfoderai il pugnale, girandomi e puntandolo alla gola di un uomo brizzolato. Mi bloccai giusto in tempo, e ci fissammo.

Era un bel mortale, evidentemente più giovane di Lateek, forse dell’età dell’essere che stavo impersonando. Era munito di un’impressionante criniera di capelli, che si andavano a confondere con la lunga barba. Il volto era aperto e tondo, dalle guance rubizze e piene, e dal grosso naso. Gli occhi azzurri, grandi e beffardi, e la mole cospicua, ricoperta da abiti dalla foggia incongrua, dai colori spenti, ed odorosi di mare.

L’uomo, vistosi minacciato, alzò le braccia, con un sorriso. Gli mancava qualche dente, e molti erano marci.

Rabbrividii dall’orrore, ma non abbassai la guardia.

“cala, cala! Mica ti faccio male…”.

Digrignai i denti. Sentivo di odiarlo già, dal modo in cui mi squadrava, perplesso. Poco convinta, abbassai il pugnale, e, con un gesto rapido, lo rinfoderai.

Dovevo stare molto attenta con le persone in contatto con le Spie. Un minimo errore, e la fedeltà poteva andare al diavolo. Quindi, dovevo sopportare. Era dura, ma era così. Pregai brevemente il nulla per concedermi almeno un briciolo della pazienza che non avevo.

“e brava la piccina!”. Ruggì, allegro come un bambino, dandomi una pacca su una spalla che per poco non mi fece finire a terra.

Ora basta: non ero disposta ad essere trattata così un minuto di più. Mi girai, e, senza una parola, gli donai un’occhiataccia tale da farlo rabbrividire.

“non osare”. Dissi poi, a bassissima voce, usando il mio reale tono, fredda come ghiaccio.

Di solito, quello sortiva i suoi effetti. E così fu. Non mi parlò più, e corse a sedersi sul divano, improvvisamente pallido.

Riuscivo a spaventare anche i coriacei lupi di mare. La cosa mi piacque.

Lateek ci raggiunse subito, con tre piccoli bicchieri, colmi di un liquore, che io non toccai. Dopo l’esperienza di Amarto, che, durante tutta la nostra infanzia, e fino alla malattia che l’ha costretto a vivere come un eremita, indugiava spesso in complicati rapporti con le bottiglie, rimanendo a volte per giorni e giorni del tutto sbronzo, non ho mai bevuto nemmeno un goccio di quegli intrugli. Sia io che Tijorn siamo astemi.

Rimanemmo un altro po’ in quel soffocante androne. Non badai minimamente alle loro chiacchiere futili, e mi rilassai, dominando una certa ansia che cominciava a sorgere. Il mare mi aspettava. La cosa non mi piaceva.

Dopo un po’, quello che dedussi essere il capitano Paòl riprese la parola.

“bene, compari”. Disse, alzandosi di scatto, portando Lateek con sé. “alziamoci e diamo una buona virata a questo timone! Andiamo, nana di un’elfa!”.

Avrei volentieri staccato quella testa rubiconda da quel corpo grasso, ma mi trattenni. Ribollivo di rabbia.

“oh…mi mancherai, Paòl…”. Cinguettò Lateek, con fare stranamente civettuolo. Mi assalì un’ondata di nausea. Quando tentava di essere romantica, Lateek finiva sempre per assomigliare ad un cane bavoso. Non le riusciva per niente bene.

Molto probabilmente, la strategia di seduzione non andò a buon fine: vidi il capitano ridere a crepapelle, per poi donare un paio di botte sulla spalla di Lateek.

“eh, amica mia…”. Ruggì, tra le risate. “a me non mancherà per nulla la tua stanza soffocante!”.

Mi trattenni giusto in tempo dal fare una linguaccia a quella donna. Ben le stava Quell’uomo era un illetterato ottuso, davvero, ma adorai quel modo di fare. Era adatto per quella specie di carlino scodinzolante.

Mi girai verso di lei. La donna sembrava piuttosto delusa. Ne fui felice.

Il congedo fu estremamente rapido, e di esso quasi non ricordo nulla, tanto mi traumatizzò la nave: Lateek tornò dentro senza un minimo di saluto, aprendo le tende.

Il capitano rise. “stupida balena!”. Disse poi, scuotendo il capo, ed avviandosi.

Io ridacchiai, poi cercai di stargli dietro, trotterellando. Aveva un passo troppo lungo per me. La cosa mi umiliò terribilmente. Mantenendo la borsa con entrambe le mani, stringendomela al petto, come un’infante, seguii Paòl, che si tenne alla larga da me. Mi venne il sospetto che stesse forzando il passo per distanziarmi.

Così, passo dopo passo, arrivammo al piccolo ed agile brigantino di sua proprietà, la Serpe Nera, un nome che trovai di scarsa inventiva.

Era una barca di legno scuro ai lati, con il ponte chiaro, con solo due alberi, dalle vele bianche. Per il resto, niente di speciale. La ciurma era composta da un gruppo piuttosto omogeneo di avanzi di galera, cosa che non mi stupì. Era tipico. La nave era stipata da cima a fondo di ciarpame vario. Nonostante il mare nel porto fosse più che calmo, come sapevo sarebbe successo, appena messo piede sulla nave ebbi i primi problemi di panico. Da allora, ed è vero, i ricordi si fanno ovattati. Mi ripresi lì, nella stiva, tra ratti e cibarie, attanagliata da una paura assurda e terrificante, quando ormai, a notte fonda, eravamo in mare aperto. Per poco non mi misi ad urlare. Cominciai, silenziosamente, ad implorare che la terra venisse presto. Mi sentivo davvero male.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 40
*** Cose più grandi di me. ***


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Due piccole precisazioni:

l’impaginazione fa schifo, e lo so. Perdonatemi, ma oggi non ho voglia.

Se notate qualcosa di strano dal punto di vista grammaticale, preoccupatevi solo se non sta parlando Paòl xD

In quel caso, avvisatemiiii xD

Nell’altro, invece, è proprio il personaggio così O.o

Beh ^^

See you later!

Akita

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In un punto imprecisato della traversata, senti improvvisamente il rollio ridursi, di molto. Avevo passato quelli che mi erano parsi secoli interminabili tra cigolii e squittii, mentre, ogni tanto, da fuori, provenivano vari ordini urlati, oppressa da una nausea paralizzante e da un terrore che non accennava a scomparire. Mi ero rannicchiata a terra, sul legno ruvido, avvolgendomi nel mantello, formando un incongruo bozzolo grigio di abiti, ed avevo chiuso gli occhi, cercando disperatamente di non pensare a ciò che mi stava sotto. Vedevo con la mente orde di strani e viscidi esseri multicolori, dotati di zanne, nuotare in circolo sotto la nave, aspettando con ansia un eventuale, incauto, bocconcino. Nei momenti di panico, sono piuttosto feconda, dal punto di vista dell’immaginazione. Tremavo, dal freddo e dalla paura. Avessi potuto, sarei fuggita a gambe levate da quell’assurda situazione. Non ho la minima idea di quello che successe nel periodo di traversata, né quanto durò realmente. Forse mi addormentai, usando la mia borsa come cuscino. So solo che, ad un certo punto, sentii una porta aprirsi, e dei passi pesanti. Sobbalzai, e cercai subito di mettermi in piedi. Cosa che, ovviamente, non mi riuscì. Rimasi in ginocchio, con lo stomaco sottosopra, a guardare un’ombra avvicinarsi, mentre in me si faceva strada un altro tipo di terrore. Mi attraversò un pensiero. Non si ci poteva mai fidare dei criminali usati come contatti, ed un coltello nella schiena è sempre un’eventualità ben poco remota. E’ successo, più di una volta, alle Spie incaute. S’insegna ai giovani di prestare attenzione, di avere sempre le armi sottomano e di non dare fiducia a nessuno, e, soprattutto, di dare l’impressione di essere, sempre e comunque, superiori. Io, preda della debolezza e della mia più grande fobia, non avevo rispettato nessuna di quelle regole. Ed oramai era troppo tardi per pentirsene. Rimasi lì, pietrificata, aspettando l’attacco, ad occhi sgranati, ed il respiro affannoso, cercando di darmi un contegno, e di escogitare un ultimo piano. L’enorme ombra si avvicinava sempre più. Deglutii, sentendomi all’improvviso, straordinariamente lucida, e tesi i muscoli per un attacco a sorpresa, sperando almeno di riuscire a dare qualche colpo al mio prossimo avversario prima di morire. Una morte onorevole. Ero stata avventata, come sempre. Ma, in quel momento, non c’era più tempo per pensieri del genere, non c’era più tempo per l’autocommiserazione. Desiderai una morte veloce, ed indolore, anche se sapevo non sarebbe stato così. Rimpiansi solo di non poter mai più vedere Chekaril, e di non poter vivere in pace con la mia famiglia. Perlomeno, non tutto era perduto, e non trascinavo nella mia rovina il Regno. La traccia era stata data. Non vedendomi tornare, né dare più segni di vita, Lainay avrebbe mandato sicuramente qualcun altro al posto mio, ed il mio unico amore sarebbe stato libero. Il Regno sarebbe stato salvo. Povero Tijorn: avrebbe sofferto tanto, sapendomi morta. Per la prima volta, sapere che Akita sarebbe stata con lui non mi diede fastidio, anzi. Ne fui contenta. L’avrebbe consolato, gli avrebbe fatto compagnia. E forse sarebbe guarito, un giorno o l’altro. Mi sentii invadere da un’enorme tristezza. Non c’era più tempo per chiarire, per la pace, per la gioia. Un fruscio. Il mio cuore perse un colpo e mi mordicchiai le labbra, sospirando, e preparandomi a saltare, girandomi lentamente verso la fonte del rumore, afferrando il pugnale, e sguainandolo con un solo movimento fluido. Feci rapidamente un calcolo. Potevo, nelle mie condizioni, atterrare forse due, o tre di quegli energumeni, e forse, salire all’aria aperta. Ma poi? Non potevo certamente fuggire! Per evitare una morte brutale, e forse chissà quali sevizie, non rimaneva che una scelta. Accolsi, con un brivido di repulsione, l’idea di gettarmi a mare. Non sapendo nuotare, ed appesantita da innumerevoli cose, sarei andata giù come un sasso. Non mi sarei fatta toccare da quei ladri ed assassini. Un paio di grossi sacchi si mossero, frusciando, di fronte a me. Strinsi le labbra, pronta ad un balzo nel buio, nel vero senso della parola. Dallo spiraglio creatosi, fece improvvisamente capolino prima un braccio muscoloso e villoso, dalla mano callosa che reggeva una lampada ad olio accesa, e poi la faccia barbuta e sorridente di Paòl. Quello che seguì ha del comico. Schizzai in piedi, il pugnale alto sopra di me, pronta a tutto pur di conservare la mia dignità, e lanciai uno strillo involontario, facendo di tutto perché sembrasse di rabbia.  Peccato che una piccola onda fortuita si fosse abbattuta proprio in quel momento sulla nave, abbastanza  per farla rollare un po’ più forte. Mi ritrovai seduta a terra, sbattendo stupidamente le palpebre, il pugnale ancora alto, mentre Paòl rideva come un pazzo, facendosi strada attraverso la merce e, torreggiando con tutta la sua mole su di me, arrivandomi vicino. La sua arma, una piccola spada un po’ arrugginita, pendeva pigramente dal fianco. Ebbi l’impressione fosse lì  più per fare scena piuttosto che per uccidere e combattere. Mi sentii, improvvisamente, molto stupida. Sentii le orecchie bollire. “un po’ nervosetta, eh, elfa?”. Ridacchiò il capitano, soddisfatto, sedendosi a gambe incrociate di fronte a me, mettendo la lampada in mezzo. Lo guardai male, senza rispondere, mentre sentivo il vecchio panico e la nausea tornare, più forti di prima. Ero stata stupida: quel pensiero non mi abbandonò per tutta la conversazione. “che ti credi, che io ammazzo i mucchi di quattrini come te, eh?”. Scosse la testa, rovistando in una tasca lercia, tirandone fuori quelle che avevano tutta l’aria di essere due grosse acciughe sotto sale. Una era mezza mangiucchiata, l’altra integra. L’odore intenso di quei due malefici oggetti mi arrivò subito alle narici, stordendomi con l’aroma particolare, che odiavo, ed a cui non ero per nulla abituata. La nausea peggiorò in un lampo: boccheggiai, mettendomi una mano davanti alla bocca, e chiudendo gli occhi. Maledissi l’olfatto più sensibile degli elfi, che in quel momento mi stava scombussolando in maniera terrificante. Mi rannicchiai di nuovo, mettendo la testa tra le braccia, e sentii un grugnito di disapprovazione. “sempre delicatini voi elfi…mangia che ti fa bene, tiè!”. Un tonfo delicato, nei pressi dei miei piedi, e l’odore si fece più intenso. Non mi girai nemmeno per vedere cosa fosse successo. “e vabbè…”. Mi disse Paòl, con voce più soffocata. “avevo pensato che ti faceva piacere un po’ di cibo e di compagnia…”. Una pausa. “ma, visto che tu non mangi, mangerò io!”. Non lo interruppi, rimanendo immobile. Non stavo davvero bene. Rimanemmo per un po’ in silenzio. Per fortuna, quell’orribile aroma diminuì d’intensità, anche se rimase, permeando il tutto con la sua esenza nauseabonda, permettendo tuttavia alla nausea di poter essere controllata. Alzai con cautela lo sguardo, che sapevo inondato di lacrime, e mi guardai attorno. Il capitano mi fissava con evidente disapprovazione. Aveva la barba sporca. Lui fece una smorfia. “sei pure più delicata di quell’altro, guarda…”. Grugnì, ridacchiando. Spalancai gli occhi, improvvisamente oltraggiata. Quell’altro? Chi mi aveva battuta sul tempo? Lainay aveva mandato qualcun altro? Qualcosa che non aveva nulla a che fare con lo stomaco si torse in me, in maniera assai sgradevole. Sentii un’improvvisa, e sgradevole, oppressione al petto. Mi voltai verso il contrabbandiere con ansia. “quell’altro?”. Dissi, con una bruttissima voce sofferente e soffocata, guadagnandomi un’occhiata perplessa da parte del capitano. “ma si, quell’altro…”. Disse lui, scuotendo il capo. “e che, potevo avere dieci anni…”. Alzò il mento con aria tronfia, e gonfiò il petto. “ma ero già sulla nave con mio padre, ha! Comunque si, me lo ricordo bene…”. La voce si smorzò, persa nei ricordi. Mi sentii invadere nello stesso tempo dal sollievo e dalla preoccupazione. Qualcuno mi aveva preceduta. E non aveva portato Chekaril da Lainay. Lui era ancora tutto mio. “era un tipaccio dai capelli chiari, e mi sembrava un morto…si, mi sembrava aspettare quasi qualcuno…e poi se ne è tornato dopo pochi giorni, ed era si, nero come un carbone, era! Seccato come un’aringa!”. Ridacchiò di nuovo, sbattendo una mano sulla coscia corpulenta. Mi sentii incredibilmente soddisfatta, e rassicurata. Il tipaccio doveva essere stato uno dei rapitori di Chekaril, quasi di sicuro. Era così, e basta. Non c’erano altre alternative plausibili. Non ce n’erano. Ero cieca. Mi sbagliavo, e di grosso anche. Ben presto, però, avrei capito tutto. Non bisognava far altro che aspettare. Ed io non ce la facevo più, oppressa dal mal di mare e dall’ansia. Chekaril era vicino, vicinissimo. La mia missione stava per finire, fortunatamente. Cinquant’anni di vagabondaggi, di stenti, e di sofferenza, sarebbero stati ben ripagati! E quanto bene! Ad un certo punto, mentre ancora io ero presa dai pensieri, Paòl sembrò ricordarsi di una cosa. “ah, si, elfa!”. Disse, portandosi una mano alla fronte, ed alzando lo sguardo verso di lui. Io, che avevo precedentemente abbassato il mio, lo ripresi a fissare. “tu non sai come arrivare a Gerinti! Allora…”. Fece una pausa. La mia attenzione fu, in un lampo, catalizzata verso la faccia rubiconda di quel barbuto criminale. Lateek doveva averlo pagato molto per farlo diventare così servile nei miei confronti! Preferii non sapere come avesse fatto, per pagarlo. Preferii davvero sorvolare. Il capitano non mi sembrava un uomo dai gusti molto fini. Scossi leggermente il capo, come a volermi liberare da quei pensieri molesti, ed incominciai ad ascoltarlo, prendendo mentalmente nota. Avevo bisogno di tutte le informazioni possibili. “stiamo per attraccare sulla costa nord, in una caletta un po’ discosta dal villaggio…”. Il suo sguardo si fece severo. Mi sentii intimamente felice. Non mancava molto per riabbracciare la terraferma, anche se questa corrispondeva alla parte più difficile della mia missione, cioè localizzare Chekaril. “lì ci aspettano dei contatti, quindi devi scendere subito! Poi, basta che sali, e sei a Gerinti di Su… e lì abitano tutti contadini e pastori. Poi c’è Gerinti di Giù, e lì ci sono solo pescatori. Gli elfi sono un po’ da tutte le parti…se li cerchi li trovi!”. Ridacchiò di nuovo. Era irritante quella sua risatina chioccia ed acuta, quasi falsa. “poi, quando torni, ogni notte siamo qui. Gli affari vanno bene”.  Di nuovo gonfiò il petto, tronfio e ridicolo come un galletto. Ad un certo punto, sentii delle urla acute, che blateravano qualcosa in qualche dialetto umano, poi un tonfo, che per poco non mi mandò a gambe all’aria. Il rollio diminuì ancora. Senza più ridere, Paòl si alzò, sbraitando qualcosa nello stesso dialetto. Poi si girò, rivolgendosi a me con tono improvvisamente diventato spiccio. “prendi tutte le tue cose che ci siamo!”. Rimasi lì, impalata. Per un attimo, fui sicura di non aver capito bene. Eravamo arrivati. Finalmente! Mi assalì, però, il nervosismo. Non era finita lì. Deglutii, e mi alzai, tentennando. Barcollai un po’, prima di mettermi dritta. Il capitano mi guardò con ostilità. “e dai!”. Esclamò, innervosito, fissandomi con uno sguardo che non aveva nulla del gentile, sciocco lupo di mare. Era scaltro, il vecchio, ed abile. “non abbiamo tutta la notte!”. Notte? Ma quanto tempo era passato? Ancora vagamente stordita, mantenendo stretto il mio sacco, cominciai a salire con il capitano, senza far nemmeno caso a dove mettevo i piedi. Rimuginavo, entrando nel labile campo delle probabilità. Gerinti, dunque, era divisa in due parti, entrambe a scarsa densità elfica. Il che, ovviamente, mi rendeva il compito molto meno difficile. Sapevo che Chekaril non sarebbe stato portato in una casa Di solito, però, in un piccolo abitato si sa sempre tutto. E tutti collaborano per tenere nascosto ciò che scotta, soprattutto se questo è utile a qualcosa. Potevo scommettere le dita della mano sana che tutti gli elfi che abitavano lì fossero esuli del Regno, contrari al regime vigente, ed ostili all’antichissima dinastia di Lainay. Tutto sarebbe andato a loro favore, se il suo governo fosse caduto! Avevano mille motivi per voler tenere nascosto Chekaril. Non volli nemmeno pensare alla qualità della prigionia. La tortura non era esclusa dalla rosa delle mie possibilità. Rabbrividii. Ad un certo punto, qualcuno mi scosse per una spalla. “oè, elfa!”. Disse la voce di Paòl, mentre la mano ancora mi scuoteva. Sbattei le palpebre, ritornando alla realtà. Ero fuori, sulla bella prua curata. E quello che vidi non mi piacque: una rozza passerella di legno, malamente appoggiata alla punta della nave, in equilibrio precario, era di fronte a me. Poggiava su un molo di legno scuro e consumato, che si perdeva in mezzo agli scogli, dopo aver lasciato intravedere un viottolo in salita. Sentii una spinta, e mi girai. Tutta la ciurma mi guardava con facce ostili, o inespressive. Capii cosa dovevo fare, e strinsi i denti, facendo un passo in avanti. Pregai chissà chi di non farmi cadere in acqua. Lì mi sembrava profonda, e sarei sicuramente morta. Qualcuno mi spinse di nuovo, ed io incespicai, finendo dritta sulla passerella, che ondeggiò terribilmente, staccandosi dalla prua, e finendo sul molo. Con me su, ovviamente: ero rimasta impigliata con la manica, e, nei brevi attimi prima della caduta, non ero riuscita a liberarmi. Andai a sbattere malamente contro il legno, e sentii delle risa sguaiate. La manica si strappò. Solo grazie alla ma borsa avevo evitato di rompermi qualche dente, mettendola tra me e la superficie, ma lo stesso mi tagliai l’interno di una guancia. Dopo un momento di stordimento terribile, alzai il viso. Mettendomi poi in ginocchio, tutta dolorante, osservai, con rabbia, il brigantino che si allontanava lentamente. Al mio ritorno, non gliel’avrei fatta passare liscia, a quel capitano e tutti i suoi marinai rozzi! Borbottando bestemmie, sputando una boccata di sangue nell’acqua, incredibilmente arrabbiata, mi avviai barcollando verso il viottolo. L’ultima parte del viaggio mi aspettava.

 

La salita al chiaro di luna non diede eventi di gran rilievo. Mi resi conto di essere stata sbarcata in una piccola baia tranquilla, contornata da imponenti rocce di granito, qualcosa che avevo visto davvero di rado nella mia vita. Senza badare al paesaggio, ripresi la salita. Ero troppo occupata a far piani. Mi aspettavano giorni furtivi, giorni d’indagine. Spirava un venticello profumato e leggero dal mare, e non faceva caldo. Mi sentivo bene e, pian piano, mi rilassai. Fortunatamente, per un po’ non sarei stata costretta ad andare per mare. Una volta finito il tutto, niente e nessuno mi avrebbe costretta a ripetere quella terribile esperienza. Per fortuna, al ritorno ci sarebbe stato Chekaril, e non avrei avuto tempo per avere paura. Sarei stata troppo immersa nel raccontargli tutte le novità, e nel bearmi della mia nuova condizione di eroina del Regno. Ben presto, però, rinunciai anche a pensare, per salire. Mi sentivo ancora un po’ spossata. Il mal di mare persisteva, per nulla aiutato dal sapore di sangue che ancora sentivo in bocca, e dal nervosismo. Lo stomaco era in subbuglio. Per giunta, dopo ore d’immobilità forzata, e di ondeggiamenti vari, ero piuttosto malferma sulle gambe. Era un piacere stare sulla terraferma, ma barcollavo come fossi ubriaca. Pian piano, salii il viottolo sterrato, attorniato da profumati arbusti poco elevati. Dopo un po’, l’inusuale, basso sottobosco lasciò spazio ad un’erba alta e, a quanto potevo vedere, bruciata già dal sole, e la via scomparve, inghiottita dal prato. In quella, la salita finì, ed io mi ritrovai in una piccola radura, a strapiombo sulla scogliera naturale. Sentivo il mare da lassù. Quel rumore conciliava il sonno. Rimasi per un po’ ferma, cercando di riprendere fiato. La salita era parsa molto meno ardua, vista da lontano! Ed ora, ce ne sarebbe stata un’altra, ben più lunga. La intravedevo, nascosta da un grosso masso. Ero a pezzi. Barcollando un po’, decisi di riposarmi lì, per qualche minuto, il giusto per rimettere a posto fiato e stomaco, e per riguadagnare l’equilibrio. Mi avvicinai così allo strapiombo, non so perché. Forse mi prese la curiosità di vedere come fosse il mare da su, o forse ero così stordita da non riuscire a pensare coerentemente. Non so. Quello che so è che, ad un certo punto, mi attirò un baluginio proveniente dalla boscaglia lì vicino, che prima non avevo notato. Mi allarmai: potevano essere briganti, o chissà cos’altro. Dovevo vedere: magari la via per Chekaril era più vicina di quanto avessi immaginato. Strinsi il pomo del pugnale. Non avevo tempo per la spada. Cautamente, silenziosa come solo un’elfa sa fare, mi avvicinai. Era buffo: una sola altra volta avevo fatto così, e quel comportamento aveva segnato la mia fine. Continuai ad avanzare, ed ero molto vicina al mio obiettivo. “ah!”. Gridai, quando i miei piedi, con uno scricchiolio, trovarono qualcosa, ed io inciampai, finendo per la seconda volta con la faccia a terra. Bestemmiando con rabbia, mi girai, ancora stesa, e afferrai la cosa incriminata, liscia ed ovale, e tirandola su, per vederla meglio. Rimasi pietrificata. Perché quello che avevo in mano era un teschio umano, ghignante e beffardo alla luce della luna, monito eterno alla morte. O almeno, era quello che mi sembrava. Il gelo mi avvolse, e, con un gridolino sciocco, lasciai cadere il macabro oggetto, tastando poi il terreno attorno a me. C’erano ossa dappertutto. Dovevo essere finita in uno scheletro. Ebbi paura. Come presa da un presentimento, mi girai di nuovo, ipnotizzata, verso la fonte della luce. E quello che notai mi riempì di terrore. Eventi più grandi di me si erano svolti in quella piccola isoletta, eventi che io non conoscevo. Mi parve di nuovo un pessimo presagio.

 

 

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Angolino di Akita:

puntuale come un orologio svizzero a cucù (ma si sa quali erano però le mie intenzioni primigenie, ah >.<), eccomi qui xD

ahaaa…

le cose si fanno intricate xD e, anche se qualcuno SA di cosa si tratta qualcosa….non sa tutto xD

passiamo però al dunque, prima che i miei scleri inducano ad impressionanti suicidi di massa (la cosa non sarebbe male, in certi casi <.<)

per Carlos Olivera: già o.o Lsyn versione idrofoba è adorabile xD beh ^^ come vedi, ho fatto di tutto per allontanarlo dal modello a cui inconsciamente mi ero rifatta O.O è un mito inconscio, oddio xD inquietante, sissì xD come vedi, le cosa si fanno più…strane è.é cosa sarà MAI successo?? xD chissà, chissà xD vabbè xD fammi sapere, come sempre, le tue opinioni ^^ piaciuto il capitolo (di passaggio, perché io sono sadica xD)? Fammi sapere *.*

ciao a tutti, e buona domenica!

Akita

 

 

 

 

 

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Capitolo 41
*** Qualcuno mi prende in giro! ***


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Miei lettori e lettrici, festeggiate con me.

Abbiamo superato la boa dei 40!!!

Ragazzi miei, se mi date la confidenza per chiamarvi così, non credevo di arrivarci.

Non lo credevo!! xD

Vabbè, ora vi lascio.

Niente commenti, sotto, perché non ho tempo ,e l’impaginazione non è molto bella.

Saluto tutti, ovviamente, in particolare il mio fedelissimo, irriducibile Carlos Olivera, che se oggi non avessi aggiornato oggi, sarebbe venuto da me e mi avrebbe ammazzata xD

La curerò quando avrò tempo xD

A dopodomani!

Akita

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Già, fu davvero un pessimo, pessimo presagio. Il presagio della mia prossima sventura. Perché qualcuno era morto, lì. E non ero sicura di voler sapere chi fosse. Mi avvolse il gelo, e la fronte si ricoprì di un sottilissimo velo di sudore freddo. Senso d’ineluttabilità: di nuovo sentii la morte sopra di me, quando si sa di non aver più scampo, di essere già segnati, di avere un marchio che dice al mondo, come un orribile tatuaggio, quanto sia vicina la data dell’annientamento finale. Un terribile dubbio si fece strada nella mia mente. Possibile che?... Mi rialzai di scatto, tornata improvvisamente lucida, e reattiva. Il mal di mare, come lo stordimento, era scomparso. Restava solo la preoccupazione, qualcosa che chiudeva gola e stomaco, che opprimeva il petto come un grosso macigno, che impediva ogni pensiero. Mi lasciai sfuggire un breve, roco, sospiro, mentre mi avvicinavo, esitante, alla fonte di quel bagliore luminoso. Avevo riconosciuto subito la sua forma, ed ero sicurissima di sapere cosa fosse. Mi avvicinai ancora, tremante, mentre, attorno, tutto mi sembrava come attutito. Devo dire non fu una mossa saggia da parte mia, ma non ero più in me, decisamente. Avrei potuto essere vittima di un attacco, e non accorgermene neanche. Percepivo la mia fisicità come estremamente…altra, qualcosa di totalmente estraneo a quel mondo dove un monile scintillava. Niente era reale al di fuori del mio campo visivo. Fu come essere ipnotizzata. Provai una sensazione quasi d’irrealtà, quando vidi, appesa stranamente ad un ramo, spezzata, leggermente annerita dal tempo, ma ancora piena della sfavillante bellezza elfica, una lunga collanina d’argento, con incastonata, al centro, una grande gemma bluastra, che rifletteva la luce. Era quella l’origine del bagliore luminoso. Mi mancò il respiro. Non riuscivo a muovermi, a pensare, a fare nulla. Allungai il braccio sinistro verso l’oggetto, con strani movimenti torpidi ed incerti, e l’afferrai, facendomi scorrere il gioiello nella mano in tutta la sua lunghezza. Il contatto con il metallo freddo mi fece discretamente bene. Con un sobbalzo, tornai alla vita, non riuscendo, tuttavia, a distogliere gli occhi nemmeno un attimo da quel monile. Non volevo vedere ciò che mi era attorno, non volevo scoprire altri, inquietanti indizi. Le mani presero a tremarmi, ed io le chiusi a pugno. Dovevo calmarmi, assolutamente. Lo scheletro e quella collana non potevano avere nulla a che fare l’una con l’altra. Non dovevano! Era tutto troppo irreale, troppo orrendo, per poter anche solo immaginare un’eventualità che non fosse dovuta al caso. Perché io conoscevo benissimo quella collanina. Quel perfetto manufatto elfico era passato nelle mie mani. Io l’avevo ricevuto da Amarto, il giorno del mio centesimo compleanno, quando divenni pronta per l’apprendistato vero e proprio al quartier generale. Ed ero stata io a donarlo a Chekaril, come pegno a non dimenticarmi. Il mondo ed i ricordi mi crollarono addosso, letteralmente. Mi ritrovai seduta a terra, ancora con lo sguardo fisso sulla collanina, mentre il dolore mi assaliva, muto e terribile, ed io rivivevo ogni attimo di quell’ultimo giorno davvero felice.

 

Fu il giorno prima della mia partenza, la partenza per quella missione in cui sarei caduta in un lago ghiacciato, rischiando di annegare e beccandomi una brutta polmonite che per poco non mi lasciò secca. La missione al cui termine, dopo quasi un mese di degenza al Lazzaretto, durante una festa, avrei visto Chekaril ballare con un’elfa dai capelli rossi. Il momento che avrebbe sancito la fine del nostro idillio. L’inizio della fine. È doloroso ricordarlo, appuntarlo, scriverlo, ma necessario. La scrittura, ormai, è la mia unica catarsi, l’unico modo per sfogarmi, per conferire con qualcuno senza giudizi, senza consigli, senza orrore, qualcuno che non mi considera come un relitto, o un mostro. Ricordo benissimo che, quel giorno, non ero riuscita ad incrociare Chekaril, presa da mille impegni, e rimpiangevo di non poterlo salutare. Non c’era più tempo, e prenderne coscienza mi fece male. Desideravo almeno dargli un ultimo bacio, strappargli la promessa d’esser fedele. Ero abbattuta, ed ero tornata nella mia ricca casa provando un sentimento di sconfitta, che ben presto mi sarebbe divenuto fin troppo familiare Mi ero ritirata più presto del solito nel salottino adiacente alla mia stanza da letto, un posto in cui mi rifugiavo sempre la notte prima di ogni missione, per leggere un libro e concentrarmi sulle cose da fare, ed avevo congedato la mia cameriera personale, l’unica oltre me, Tijorn ed Amarto, a poter entrare nel salottino. Era una bella stanza: piccola, ma accogliente, un trionfo di legno lavorato e tappezzeria rosso scuro, damascato di nero, un accostamento per la quale ero andata sempre pazza. Vigeva la sobrietà più assoluta: qualche candelabro, un caminetto, acceso per combattere il freddo pungente di Galinne, un minuscolo divanetto, in tinta con l’ambiente, uno scrittoio, ingombro di mappe, documenti e cose varie, una sedia, due porte, ed una porta-finestra protetta da tende, che si apriva sul balconcino che affacciava sulla via centrale di Galinne. In quel momento ero stesa sul divano, che avevo incautamente posizionato vicino al camino, assorta nella lettura di una cronaca di guerra, sgraffignata, senza il consenso del proprietario, ovviamente, dalla piccola biblioteca di Tijorn, e beandomi del calore delle fiamme. Ero ancora bellissima, integra e perfetta, e non avevo paura del mio aspetto. Ero ancora la pericolosa Ombra, la più fedele servitrice della corona, e la nobile, sciocca, vanesia ed arrogante Rian Askerat, lo pseudonimo che usavo a corte, e con il quale ero conosciuta negli ambienti altolocati. Non ricordo esattamente cosa indossassi, qualcosa di caldo e dai colori intensi, ma ricordo perfettamente il tremendo freddo, e che avevo la mia spada sempre accanto. Non ero stupida. Si fece notte fonda, ed io non avevo ancora sonno. Continuai a leggere con impegno. Ero così impegnata in quell’interessante cronaca, così distratta, che in un primo momento non sentii i regolari, lievi, colpi alla finestra. Mi destai dalle mie fantasticherie solo quando il rumore non si fece più forte, e rapido. Quasi urgente. Sobbalzai, e, afferrando la spada, mi avvicinai alle finestre. Avevo chiuso le tende, per fortuna. Mi vennero in mente pensieri d’ogni tipo su ladri ed assassini. Gli incauti, o l’incauto, avrebbero avuto una tremenda sorpresa. La cosa importante era prenderli di sorpresa. Un colpo ben assestato, e via: un criminale di meno in giro per Galinne. Mettendomi in un lato, scostai lievemente un lembo di tessuto, in modo da scoprire e non essere scoperta. Mi venne un colpo al cuore, e dimenticai ogni proposito d’omicidio. Reso ancora più pallido dal freddo, le guance e la punta del naso splendidamente colorite da un vago rossore, imbacuccato ben bene in un mantello lacero, i capelli biondi, che a stento gli arrivavano a coprire le orecchie appuntite, mossi dal lieve vento, gli occhi viola dall’espressione rassegnata, Chekaril aspettava. Sembrava guardingo, e piuttosto infreddolito. Non riuscii a credere ai miei occhi. Quella era una palese violazione delle regole che ci eravamo imposti. Venire a casa mia era un pericolo incredibile, un pericolo potenzialmente mortale. Per me. Fui sopraffatta dalla gioia e dalla paura nello stesso tempo. Paura per noi, per lui, per me, e per ciò che progettavamo, per i nostri cauti, ma sciocchi, piani per poter stare insieme, per le nostre speranze per un futuro più roseo. Senza più perdere tempo, scostai le tende con un solo gesto, lasciando cadere la spada, presa da un’urgenza improvvisa, ed aprii la finestra. In quel tempo, il nostro era ancora un idillio, tenuto più che segreto, ma ancora un idillio, tipico dei primi tempi di un innamoramento. Eravamo pazzi l’uno dell’altra, e viceversa, incantati da noi stessi, dalle nostre azioni, dalle nostre menti e dai nostri corpi. Vorrei tanto tornare a quella situazione quasi assurda di beatitudine, ma so che non è possibile. E la cosa mi distrugge. Mi manca, tanto. Ebbi solo il tempo di avvertire una folata di aria fredda e profumata di neve, prima di essere travolta da un elfo innamorato ed incosciente. La mia parte razionale si ritirò in un umile angolino, quando lo sentii vicino. Era davvero alto, o forse io troppo bassa. Fatto sta che mi sentii alzare da terra, e stringere in una morsa. Non cercai di divincolarmi, anche perché non ne avevo la minima voglia. Respirai il suo profumo, impregnato d’inverno, lasciandomi andare per un attimo contro di lui. Ma poi cercai di farmi lasciare. Lui mi permise di alzare solo la testa, in modo da guardarlo negli occhi. Eravamo arrivati, in qualche modo, vicini al camino. “che ci fai qui?”. Dissi, avvicinandomi fino a notare le più piccole imperfezioni del viso. Non ero per nulla dispiaciuta della sua intrusione ma, decisamente, quell’imprudenza era davvero pericolosa. Se l’avessero scoperto, saremmo finiti nei guai entrambi, guai seri. “lo sai che…”. Lui non mi lasciò continuare, e mi tappò la bocca con un bacio. Dopo quello che mi parve un secolo ci staccammo. Mi girava la testa. Lui avvicinò la sua fronte alla mia. “volevo salutarti”. Disse, sommessamente, con la sua voce profonda e musicale, guardandomi di sottecchi. Penso di essere finita completamente in un altro mondo, perché quasi non capii cosa stava dicendo, talmente ero persa in quei magnifici occhi color dell’ametista. Un po’ esagerato, ma vero. Non sapevo, e non so tuttora, cosa fossero le mezze misure. E lui era la prima persona di cui m’innamorassi in maniera così totale, e totalizzante. Mi risvegliò dai miei pensieri poco opportuni una folata di vento gelido. La finestra era ancora aperta. Mi divincolai dall’abbraccio, e lui si lasciò scostare. Conosceva  le regole. Corsi accanto al mio obiettivo, e lo chiusi, tirando le finestre con un gesto rapido. Lui mi seguì, rimanendo a pochi centimetri da me. Era un invito dannatamente allettante. Ma io non potevo lasciarmi andare, non quando una missione mi aspettava, una missione pericolosa. Dovevo concentrarmi. Non potevo lasciarmi tentare. Non potevo… Ma dove finiva l’autocontrollo leggendario delle Spie, in quei momenti? Dovevo stare calma. Dovevo. Stare. Calma. Cosa difficile quando la persona di cui ero pazza era a pochissima distanza da me. Quasi potevo sentire il suo fiato caldo sul collo. Ancora mi batte il cuore più rapidamente, al solo ricordo. Snervante, davvero snervante. “dannazione, Chekaril!”. Sbottai, voltandomi verso di lui, trovandomelo ad un centimetro di distanza, con un sorriso furbo stampato in viso. Dovetti fare un enorme sforzo per raccogliere di nuovo i pensieri, e non cominciare a balbettare come un’idiota. Proseguii in tono molto meno irato. “io…tu…ah!”. Rinunciai definitivamente ad ogni tentativo di fare un discorso coerente, e scrollai le spalle. Penso di aver sorriso scioccamente. Ero davvero pazza di lui. Chekaril, intanto, mi abbracciò, stavolta con meno impeto, e ridacchiò. “lo so, lo so…”. Mi disse, con fare estremamente ilare, guardandomi dall’alto. Odiavo quando faceva così. Senza fare il minimo sforzo, e senza che io opponessi resistenza., mi riportò davanti al camino. “ti devi concentrare e non puoi lasciare spazio a nulla, vero?”. Mi sorrise, un sorriso tenero, che mi fece sciogliere di nuovo, poi riprese a parlare. “io voglio solo starti vicino, oggi…nient’altro”. Mi sentii davvero male. Sapevo che quella non sarebbe stata la missione più facile della mia carriera, né la più corta. Rimpiansi di essere una Spia, solo perché non potevo averlo vicino quando volevo. Desiderai la vita frivola di Rian, i suoi viaggi, come unico pensiero il vestito da indossare per un ballo a corte, o per una passeggiata. Non era la prima volta che pensieri del genere m sfioravano la mente. Lo abbracciai forte, senza parlare, e lui ricambiò, tenendomi come fossi una cosa fragile. Sapeva perfettamente come comportarsi, in ogni situazione. Solo Tijorn ed Amarto mi conoscevano così bene. Poi mi scostai lievemente. “togliti questo mantello da poveraccio….sei finito nelle rose, eh?”. Avevo alti cespugli di rose bianche dalle grandi spine tutto attorno alla mia casa, un metodo perfetto per impedire ai ladri di arrampicarsi, come lui aveva fatto. Era stata un’idea di mio fratello. Ridacchiai mentre lui obbediva, con un’espressione contrariata, rivelando i suoi soliti abiti di un giallo spento, il colore che portava sempre quando non era impegnato in qualche battaglia. Afferrai il lungo e pesante soprabito, e corsi velocemente nella mia camera da letto, nascondendolo sotto il letto stesso. Se per caso fosse venuta la cameriera, che aveva l’ordine di bussare prima di entrare, Chekaril si sarebbe nascosto dietro le tende, ed io avrei fatto finta di star leggendo. Ogni prova della sua esistenza doveva scomparire. Fu proprio in quel momento concitato che mi venne in mente della collanina. Era un monile che per me aveva un grande valore affettivo: un regalo del Maestro, l’ultimo giorno nella casa a Sharilar. Tijorn, essendo più grande di me, aveva già compiuto il secolo e se n’era andato da qualche anno, tornando solo per brevissime visite in estate, ed ero malinconicamente sola. Quel compleanno si svolse in tono molto minore degli altri, benché fosse più importante. Non vedevo l’ora di riabbracciare il mio dolce fratello, ma quella separazione fu davvero uno strazio. Era finita la mia infanzia, l’età dei giochi spensierati, delle malefatte, delle noiose lezioni pomeridiane su storia e cultura dei popoli, di giocosi duelli, di fughe tattiche e cadute in acqua. Da quel momento sarei stata una giovane Spia, un’adepta, pronta a ricevere un’educazione severissima e crudele, pronta a diventare un fantoccio nelle mani dei sovrani. Quella collana rappresentava la parte più luminosa della mia vita, e non la indossavo mai, per pure ragioni sentimentali. Odiavo il solo pensiero di poterla perdere. La volli donare al mio unico amore, come pegno, senza sapere il suo terribile significato intrinseco, il gioco del destino di cui anche quell’innocente gioiello era complice. La fine di Ombra. Fu un gesto spontaneo, non deliberato, naturale come l’aria che respiravo. Così si sarebbe ricordato di me. Ficcandomi la collanina in una tasca, mi fiondai nel salottino. Chekaril era stravaccato sul divanetto, sonnecchiando, godendosi il tepore del camino, la testa appoggiata allo schienale, ad occhi chiusi, completamente a suo agio. Mi avvicinai, silenziosa, utilizzando tutti i miei trucchi da Spia per risultare invisibile. Avevo in mente di giocargli un meraviglioso, piccolo, scherzo. Solo con lui mi permettevo di essere così idiota, così infantile. In punta di piedi, respirando appena, mi avvicinai al divano, chinandomi poi sul suo viso, e prendendo una ciocca dei miei capelli. Gli solleticai il naso, giocosamente, e fu un attimo. Lui aprì gli occhi, di scatto, come solo un soldato allenato sa fare, e fece un salto. Risi, apertamente, e lui mi guardò, imbronciato. Poi la sua espressione si distese in un ghigno diabolico. Aveva qualcosa in mente. “oh, oh…”. Dissi, arretrando di un passo. Repressi a stento una risata. Prima che potessi reagire in qualche modo, lui si sporse, inginocchiandosi sul divano e prendendomi di peso. Il mondo si capovolse, e per un attimo non capii nulla. “mettimi giù!”. Sussurrai, trattenendomi dall’urlare, mentre mi godevo un’interessante vista al contrario del mio camino. Chekaril rise, di nuovo, ed io mi ritrovai seduta sulle sua ginocchia, sul divano. Mi abbracciò. “così impari!”. Sghignazzò, stringendomi più forte. Fossero state tutte così, le punizioni… Fu il mio turno di fare l’offesa. “non è colpa mia se hai i riflessi ed i sensi di un orso in letargo!”. Lui mise un finto broncio, ma poi mi baciò, di nuovo, un bacio di quelli che amavo tanto, per poi abbracciarmi, mettendo la testa bionda su una mia spalla. Rimanemmo un po’ così, senza parlare, fissando il fuoco, beandoci solo della nostra presenza. “mi mancherai”. Mi confessò, ad un tratto, guardandomi, addolorato. Mi sentii totalmente presa alla sprovvista, e non risposi, lui, dopo un breve silenzio, continuò. “cerca di non ferirti, Lsyn, né farti in alcun modo del male. Soffrirei troppo se ti sapessi ammalata, o peggio”. Gli sorrisi, mestamente. Ogni missione era un salto nel vuoto, e lo sapevamo entrambi. Quella particolarmente. Entrare nelle grazie di un sovrano di un territorio vicino, per poi ucciderlo e rubare alcuni preziosissimi documenti, non era esattamente una passeggiata. Lui aveva tentato di dissuadere la stessa sorella dal farmi partecipare, ma lei aveva voluto l’Ombra, io, e Becco Aguzzo, un giovane ma promettente adepto, a tutti i costi. Non si era ancora rassegnato. Odiai quel terribile clima di tristezza creatosi, e volli rimediare. Frugai nella mia tasca rapidamente, mentre lui mi guardava incuriosito, e ne estrassi la collanina. Sorrisi alla sua espressione incredula. Mi sporsi per agganciarla. “promettimi d’esser fedele, Chekaril”. Gli sussurrai nell’orecchio, mentre mi staccavo. Lui, con una mano si sfiorò la gemma al centro, e mi guardò di nuovo, stupefatto. “prometti d’amarmi, per sempre”. Era doloroso separarsi da un ricordo così vivido della mia infanzia, ma pensai che non c’era consolazione più grande che nel vederlo appeso al collo affusolato della creatura che più amavo in assoluto nel mondo. Lui scosse il capo. “ma che razza di pensieri ti vengono in mente, Lsyn?”. Mi disse, stringendomi forte. Quanto amai quelle parole, quanto. Mi lasciai stringere, completamente rapita. “sai che non lo farò mai, mi senti? Mai!”. Quanto erano false, quelle parole, e quante retorica c’era! Non lo capii: ero troppo infatuata. Avessi fatto io il primo passo, comportandomi da vera Spia, certe cose non sarebbero mai accadute. Ma invece no: fiduciosa come un’infante, mi lasciai baciare per l’ennesima volta, abbandonando completamente quel poco di raziocinio che mi aveva permesso di essere fedele alle mie buone abitudini da Cane della Regina, mandando letteralmente all’aria tutti i miei propositi.

 

Ed ora ero lì, a ben cinquant’anni di distanza, dopo innumerevoli sofferenze: un’ottusa larva sfigurata, dall’anima mutilata ed inutile. Stavo malissimo. Ero arrivata troppo tardi. Era finito. Era tutto finito, tutto! Strinsi forte la collana, fino a farmi dolere la mano, e me la portai al petto. Non riuscivo a respirare: il fiato mi usciva a singhiozzi, a flebili rantolii spezzati. Non poteva, non poteva essere! Non era detta l’ultima parola! Poteva essere solo tutto causale. Poteva essere una collana uguale! Non cercai nemmeno di piangere: il dolore era andato troppo al di là, la sofferenza si era spinta in un territorio dove tutto si fa ovattato, distante ed irreale. Smisi di pensare, e mi lasciai cullare dalle lacrime che non riuscivano ad uscire, mentre un senso di fallimento impotente si faceva strada in me. L’avevano ammazzato, i bastardi! L’avevano ucciso, chissà da quanto tempo! Il Regno era perduto! Subitanea e bollente come una fiammata, m’invase la rabbia, ed io, diventata ormai belva, scattai in piedi, un ringhio involontario che mi usciva dalle labbra. L’avrebbero pagata. Sarebbero morti tutti, mi costasse pure la vita! Cosa avrebbe fatto Lainay, ora? Come avrebbe proseguito la sua campagna? Come ci sarebbe potuta essere, un’utopia elfica, senza i mezzi per realizzarla? Egoisti, egoisti! Li avrei uccisi uno ad uno, ed avrei dato in pasto le loro viscere ai compagni! Ironicamente, fu proprio il gesto che feci, quell’alzarmi così piena di furia da terra, a svelarmi qualcosa in più. Mentre, infatti, guardavo la boscaglia, piena di furia e dolore indicibili, mi accorsi di un’ombra frastagliata ed irregolare poco distante, troppo strana per essere un albero. Qualcosa non andava. Mi bloccai, mentre la mente mi si svuotava. Cos’era quel coso immobile, dal profilo così poco familiare? M’invase il sospetto. Poteva essere tutto un trucco per farmi capitolare. No: decisamente lì c’era qualcuno, o qualcosa, che non me la contava giusta. Afferrai il pugnale, e lo sguainai. Silenziosa, come sapevo fare benissimo, mi avvicinai alla figura, di soppiatto. Gli saltai vicino, pronta ad uccidere, guidata solo dall’istinto cieco. E quello che vidi, per la seconda volta in pochissimo tempo, mi pietrificò. Qualcosa in me fece una capriola, o due. Mi resi conto, in un attimo, di aver sbagliato tutto. Chekaril non poteva entrarci. O forse si: ben più tardi avrei scoperto tutto ciò che c’era dietro al mio viaggio, ma per ora per me era un mistero. C’erano tracce più che evidenti di uno scontro antico: tronchi spezzati, boscaglia caduta, strani segni di bruciature, dove più nulla era ricresciuto. Con crescente stupore, osservai la figura immobile e squarciata di un gigante di metallo. Qualcosa non quadrava. Avevo visto quei cosi una sola volta nella mia vita: durante le fasi finali del torneo a cui avevo partecipato, la città che lo ospitava fu attaccata da un pazzo, che risvegliò, forse, quegli strani esseri. Se fossero state creature senzienti o no, non so: mostri di ferro, alti e minacciosi, dotati d’impressionanti armi (la più familiare era un’enorme spada curva, ora assente), si muovevano in modo innaturale, grottesco, levitando. Qualcosa di cui non avevo mai sentito parlare. Era quasi comico, e se non fossi stata in pericolo di vita, allora, penso che ne avrei riso. Erano così sgraziati, così brutti, ma così potenzialmente letali. Avevo affrontato qualcuno di quelli, dalla forma cilindrica e dall’unico occhio spento in cima, e sapevo quanta forza ci volesse per trafiggerne uno. Io e Tijorn stavamo per allontanarci dalla città quando si aprirono degli impressionanti crepacci. Io, com’era nella mia natura,  curiosai dentro uno di essi. Ebbi il vanto ad essere forse la prima ad essere aggredita da quei mostri in tutta la città. Poco dopo, essi avevano invaso quell’avamposto umano, come ad un ordine prestabilito. Ce n’erano anche due di diverse fattezze, molto più grandi e temibili. Avevo combattuto, fianco a fianco con il mio miglior avversario del torneo, quell’umano, Regis, che sembrava ben conoscere la natura di quelle bambole mortali, uno di essi. Mi spiegò qualcosa, ma ammetto, con mia grande vergogna, di essermene dimenticata. Non ricordo ormai nemmeno il loro nome. So solo, per sommi capi, che avevano bisogno di qualcuno che li comandasse all’interno, e che la distruzione che portavano era superiore a qualsiasi cosa conoscessimo. Correva voce che anche Lainay ne possedesse alcuni, tenuti in gran segreto, pilotati dai suoi elfi più fedeli, ma fu una voce mai confermata, salvo una volta. Fui ferita, ricordo, da uno dei mostri giganti, e, mentre mi curava, parlai a Regis di Chekaril, quasi di sfuggita. Beh, a dire la verità fu lui che mi tirò le parole di bocca. Fatto sta, che mi confidai per la prima volta, esponendo, a spizzichi e bocconi, il mio più grande problema. Non avrei mai pensato di aprire lo scrigno dei miei segreti proprio a lui, un umano che era stato mio avversario, eppure lo feci. A lungo è stato l’unico a sapere chi fosse il padre di mia figlia. Comunque, in quel momento, avevo uno di quei cosi davanti, squarciato ed arrugginito, inerte, quasi distrutto. Non riuscii a credere ai miei occhi. Che diavolo ci faceva un aggeggio del genere, lì, in quell’isoletta sperduta? Cos’era accaduto, che io non sapevo? Quali eventi si erano svolti in quello spunto immondo di terra? Fui assalita da un altro presentimento. Correndo indietro, agile come un cerbiatto, raggiunsi il punto in cui avevo visto lo scheletro. Affannata, m’inginocchiai accanto. Era evidentemente un elfo: le ossa erano molto più sottili e leggere. Alcune erano spezzate, ma da questo non potevo dedurre nulla: potevano benissimo essere state spezzate da animali in cerca del midollo. Presa da una frenesia quasi eccessiva, frugai attorno. Quello che trovai mi colmò di terrore e di sollievo. Sollievo perché non poteva essere Chekaril: lui non aveva capelli ricci, e bianchi, né indossava un’armatura quando era sparito. Lainay mi aveva detto che mancavano dal suo armadio vari abiti da viaggio, di cuoio marrone. Terrore perché tutto era troppo terribile, ed inspiegabile, per poterci pensare. Cercando un altro po’, trovai la cosa che mi gettò, decisamente, in confusione: una spada dal pomo d’oro, arrugginita, ma che presentava ancora evidenti tracce di contatto contro un corpo contundente. Osservai bene l’armatura, sempre più incerta. All’altezza dello sterno, un solo colpo preciso, potenzialmente mortale. Chiunque fosse stato a morire, l’aveva fatto dopo uno scontro. E molto sanguinoso, a quanto pareva. Dopo cinquant’anni non era rimasto granché, ma, mentre facevo qualche respiro per calmarmi, capii una cosa: Chekaril non c’entrava nulla. Una spiacevole sensazione di freddo si fece strada in me. Conoscevo solo un corpo d’armi che utilizzava quelle spade e quelle armature. Immortali. E se noi eravamo i Segugi, loro i Mastini. Erano nobili della capitale del Regno: solo loro potevano far parte di quell’armata di élite. Sceglievano loro quel destino: divenire armi viventi, al servizio del Principe. Appartenenti a Galinne, dannazione, fedelissimi di Chekaril! Che ci faceva uno di loro lì? Perché c’era stato uno scontro? Contro chi? Lainay, a mia insaputa, aveva mandato qualcun altro a salvare Chekaril? Akita aveva saputo quelle notizie molto prima di riferirmele? Mi avevano tenuta all’oscuro dei veri intrighi? Gli Immortali erano implicati nella scomparsa del loro Capitano? Cosa c’entrava quella collanina? Com’era finita lì? Era tutto un trucco? Una falsa pista? O no? Troppe domande, senza risposta. C’era solo un modo per scoprire tutto: trovare, finalmente, Chekaril. Era l’unica cosa da fare, l’unica cosa che avrebbe impedito alla mia testa di scoppiare. Stordita e molto confusa, sentii la determinazione impadronirsi di me. Osservai brevemente la strada da fare, e mi alzai, dando un calcio di spregio al teschio che mi aveva fatta inciampare, per poi condurmi quasi alla follia, facendolo rotolare più volte, ed intascando il gioiello, riprendendo la borsa con un movimento veloce e camminando, i pugni serrati, braccia contro il corpo, con quello che sapevo essere un cipiglio terribile. Qualcuno stava cercando di prendermi in giro. E si stava divertendo molto, anche. Non l’avrebbe passata liscia. Pestai il piede a terra, come se  questa fosse la mia peggiore nemica, e cominciai a marciare a testa bassa. Mi fossi fermata allora!

 

 

 

 

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Capitolo 42
*** Eventuali sentieri... ***


Percorsi la stretta, tortuosa stradina, dal terreno molto sdrucciolevole, senza fermarmi, ancora arrabbiata

Percorsi la stretta, tortuosa stradina, dal terreno molto sdrucciolevole, senza fermarmi, ancora arrabbiata. L’ira era come una carica, e mi diede l’energia necessaria per quella faticosa salita. La pendenza non era accentuata come nei viottoli di montagna che io ero abituata a percorrere, diabolici sentieri dove la parola d’ordine è attenzione, ma era fissa e costante. Gerinti è un’isoletta principalmente collinare: una sola, piccola, altura, che digrada in baie, grotte nascoste e piccole calette dai fantastici strapiombi. Un lato è molto dolce, ideale per la coltivazione delle viti e la pastorizia. L’altro, quello in cui mi trovavo io in quel momento, è più aspro, pieno di trabocchetti ed antri sconosciuti. Un posto ideale per nascondersi, o nascondere qualcuno: avrei dovuto faticare molto per trovare Chekaril. La cosa non m’importò: chiunque avesse preparato quello scherzo, in quella radura, non era stato per nulla divertente. Il motivo che aveva spinto i rapitori a creare una simile sceneggiata mi era ignoto.  Durante la salita, per distrarmi e mantenere costante la rabbia, l’unica cosa che ormai mi faceva andare avanti, tanto ero sfinita, avevo rivolto tutti i miei pensieri a quel problema. Avevo deciso, in attesa delle spiegazioni che mi sarebbero state date di sicuro dal mio amore, di sospendere il giudizio: ero convinta, tuttavia, si fosse trattata di un’astutissima trappola, un mezzo per dissuadere i messi dell’Impero  ad approfondire ulteriormente la ricerca di Chekaril: le ossa appartenevano ad un elfo, la collana era del Principe, e questo bastava per gettare nella disperazione un osservatore frettoloso. Tutto, però, era troppo poco…casuale, ecco. Troppo specifico. Sembrava tutto preparato apposta per me. Ebbi uno strano pensiero, che m’inquietò oltre ogni dire: ero probabilmente spiata, e da molto. Solo io sapevo cosa significasse quella collanina, e cosa fosse. Solo io potevo sapere certe cose. Solo io e pochi altri conoscevamo la mia meta. Mi fidavo di essi, perfino di Akita. C’era qualcosa di strano in tutto quel ragionamento, qualcosa che non riuscivo a capire. Molte cose non quadravano. Mi avevano tenuta sott’occhio per molto tempo prima di procedere al rapimento? Il rapitore conosceva bene Chekaril, ed era stato suo confidente? O forse avevano estorto a lui stesso le informazioni di cui avevano bisogno, con metodi fin troppo conosciuti e fin troppo usati, un’eventualità che mi fece rabbrividire fin nelle ossa? Propendevo per l’ultima ipotesi, per un semplice motivo: non è difficile crollare, sotto i ferri di un abile torturatore. Anche senza versare sangue, il dolore che può provocare spezza anche gli animi più impavidi di fronte alla morte. Davanti al dolore ad all’umiliazione tutti capitolano: questo mi aveva insegnato la mia magnifica esperienza dai Tengu. Quel pensiero mi fece uscire fuori dai gangheri una volta e per tutte. Immaginare Chekaril sottomesso e ferito era oltre le mie labili capacità di sopportazione. Ancora camminando a testa alta e pugni chiusi, digrignai i denti, ed aumentai l’andatura. Avrei ucciso tutti quelli che si fossero permessi anche solo di averlo sfiorato con un dito! Li avrei fatti penare, e tanto. Li avrei spaventati, e poi avrei copiato sul loro corpo ogni segno lasciato a Chekaril. Il Principe non si toccava. Quel mio pensiero, visto da una prospettiva ben posteriore, ha quasi dell’ironico. Ne riderei ora, se potessi, e se ci riuscissi. Facevo a malapena attenzione a dove mettevo i piedi: il resto, è tutta nebbia nella mia memoria, tanto ero offuscata dall’ira. Finalmente, dopo una tremenda strettoia, dove più che altro bisognava arrampicarsi più che camminare, arrivai in un ennesimo spiazzo boscoso, molto, molto più grande del precedente. Ero quasi in cima al basso monte: la punta smussata si ergeva poco sopra di me, imponente nel cielo nero e punteggiato di stelle. Mi fermai, di nuovo. La rabbia, che avevo portato fino al limite estremo per tenermi in piedi, cominciò, come avevo previsto, a scemare. Rimase solo la determinazione, che mi aveva sostenuta, e mi aveva fatto mettere due passi insieme, attraverso Regno ed Impero, ed un vago sdegno. Mi mancarono, improvvisamente, le forze. Da quando avevo lasciato i Tengu, avevo totalmente ignorato le loro suppliche, e non mi ero riguardata come promesso. Respirando affannosamente, mi sedetti di schianto sull’erba, cercando un po’ di riposo. Era ancora notte: nessuno sarebbe passato, di lì. Beatamente stravaccata a terra, mi sfiorai le piume che avevo appese al collo, ricavandone una sorta di strana scarica. Il loro basso potenziale magico era ancora attivo, come lo è tuttora. Non penso si esaurirà mai. Il pensiero, volando attraverso chilometri e chilometri, andò immediatamente alla Matriarca e agli Anziani. Cos’era successo, in quel territorio, durante la mia assenza? Stavano tutti bene? Avevano o no iniziato la guerra contro il villaggio nemico? Sorrisi debolmente. Il ricordo di quei volti gentili ed innocenti mi avrebbe accompagnata a lungo, e poi perseguitata. Il ricordo della loro fierezza e forza mi avrebbe spinta a prenderne esempio, come già facevo. Passò un po’ di tempo. Cominciai, lentamente, a sentirmi meglio. Mi lasciare cullare per qualche attimo da pensieri oziosi. Sognai un bel bagno caldo, in un’acqua controllata, bassa, profumata e limpida, ed un letto accogliente: un sonno in pace con il mondo. Non era ancora l’ora: più lentamente mi muovevo, più Chekaril si faceva lontano. Dovevo darmi una decisa mossa. Ma prima, bisognava mettere qualcosa sotto i denti, o sarei crollata strada facendo. Rovistando nella borsa, estrassi qualcosa di commestibile, eredità più che gradita delle copiose provviste donatemi così cortesemente dalla Mastra Guaritrice, e cominciai a guardarmi intorno, ancora seduta. Dovevo raggiungere Gerinti, e lì cominciare le mie indagini. Notai, a poca distanza da me, seminascosto dalla boscaglia, una strada che mi sembrava battuta. Alzandomi piano, andai, lasciando lì la borsa, in esplorazione. Mi addentrai un po’ per quel sentiero sconosciuto. Si trattava di una terribile discesa tra due costoni di roccia, che circondava la montagna, arrivando dall’altra parte dell’isola, là dove il paesaggio si faceva molto meno aspro.  In lontananza, qualcosa che a malapena riuscivo a scorgere, un agglomerato di piccole ed umili case in argilla e tronchi di legno, illuminate a stento da qualche torcia. Riuscivo ad individuare, sulla spiaggia che s’intravedeva in basso, qualche barca in legno, ma nulla più. Probabilmente, il villaggio di giù era stato costruito sulla montagna. Era l’ora ideale per arrivare a Gerinti di su, e cominciare la ricerca di elfi da lì. Potevo quasi scommettere che la maggioranza della loro popolazione fosse tutta concentrata in un posto solo: sono rari gli elfi nati in un posto di mare, e la nostra razza tende a non amarlo particolarmente, o a temerlo. Siamo una razza nativa di boschi e montagne, essenzialmente schiva, amante dell’agricoltura, e dei campi. Dovunque ci siano elfi, inoltre, soprattutto in luoghi estranei all’Impero, è probabile trovarne in un solo luogo, quasi per proteggersi ed aiutarsi in caso di problemi con altre razze, specialmente con quella umana o Insathi, pronti a fare fronte comune in ogni evenienza. Trovato uno, avrei trovato tutti. Ed allora mi sarebbe bastato torturarne uno per ricavare tutte le informazioni di cui avevo bisogno. Brutale, ma rapido. In una piccola comunità, mi ripetei, le notizie si spargono a macchia d’olio. Il mio ragionamento non faceva una grinzaAppena resami conto di aver trovato la strada, tornai indietro, verso la mia borsa, di corsa, rischiando più volte di scivolare. Arrivata alla mia meta, aggiustai rapidamente il mio camuffamento, migliorando la voce e dandomi un aspetto un po’ più mite. In caso di avvistamenti, sarei stata costretta a recitare la parte dell’umana, della poveraccia, della mentecatta, della smemorata muta. Un altro camuffamento. Dopo essermi curata, venne il momento di raccogliere tutte le cose utili: non potevo andare in giro con una borsa enorme. Il mio ruolo era quello della povera, della mendicante. Mi ricordai dell’agguato ad Isnark, e di tutta la preparazione antecedente ad esso. Bizzarro come le cose si stessero ripetendo. Non colsi, sfortunatamente, l’intero schema. Sarei scappata, se l’avessi fatto. Cambiai per prima cosa il mio mantello grigio con quello nero, pieno di tasche nascoste dove avrei messo le cose, e più largo. Rovistando nella borsa, presi il Comunicatore, che mi sarebbe sicuramente servito a breve per annunciare alla Regina l’esito della missione, la mia spada, che allacciai alla cintura, qualche unguento ed alcune strisce di carne secca. Lo stretto necessario. Dopo qualche esitazione, afferrai anche la collanina, e la ficcai nella stessa tasca in cui riposavano i ciondoli dei due Celestiali, che avevo così barbaramente ucciso. Ero pronta a partire. Rammaricandomi di dover lasciare la maschera e buona parte delle provviste in balia del caso, cercai di trovare un posto per celare il tutto ad occhi indiscreti. Non volevo perdere il resto delle cose preziose che rimanevano: dovevo ancora tornare! C’era un magnifico tronco contorto e cavo, poco distante da me, un nascondiglio perfetto, che utilizzai con gioia. Spezzai un ramo basso dell’albero, di un tipo a me sconosciuto, per avere un riferimento. Sospirai, ora più felice. In quel momento ero davvero pronta. Mi avviai lentamente. Ripercorsi la stessa strada con più cautela, attenta a non scivolare, avviluppandomi completamente nel mantello, rendendomi indistinguibile con la notte. Feci attenzione a non produrre nemmeno il minimo fruscio camminando. Ero l’Ombra tra le ombre. Ero nel mio elemento, e ne gioii. Amavo la notte, ed il suo silenzio. Almeno non faceva caldo.

 

Mi resi ben presto conto che la guerra era arrivata fin lì. Imitando il mio comportamento nei villaggi umani che avevo incontrato nell’Impero, cominciai a curiosare nelle case. C’erano la stessa miseria, la stessa fame, le stesse facce scavate dovunque. Nelle case, addormentati profondamente, c’erano solo donne, bambini e vecchi. Lo squallore, con mio enorme disgusto, regnava sovrano: certe abitazioni non erano che catapecchie di una sola stanza, dove dormivano in cinque o sei, più alcuni animali da cortile. Mi sentii disgustata. Nemmeno gli elfi più poveri osavano trattarsi in quella maniera! Dov’era l’orgoglio degli esseri umani? Dov’era mai finito? Esisteva davvero? Può una razza condurre sé stessa in abissi di abbandono senza farsi domande sul senso della propria esistenza? Cosa spingeva mai quelle creature a trattarsi come bestie? Fame? Pigrizia? O era solo il mio animo da nobile un po’ schizzinosa che si risvegliava? Non sapevo, né seppi mai. Fui costretta ad uscire di corsa da quella casupola, allarmata dall’inquietudine che mostravano alcune galline al mio approssimarsi. Rischiai di essere scoperta. Ripresi la mia esplorazione. Fui costretta ad entrare in ogni abitazione che incontravo per la mia via,  case che mostravano vari gradi di degradazione. Niente elfi: ero entrata negli alloggi di quasi metà del villaggio, e avevo scoperto solo orecchie tonde. Cominciai a ricredermi su quanto avevo congetturato a proposito degli elfi e del mare. Avrei perso un giorno se avessero abitato giù: non potevo farmi vedere alla luce del sole. La mia presenza sarebbe sembrata quantomeno sospetta. Ed allora, niente avrebbe impedito ai rapitori di farmi fuori, o spostare Chekaril. Oltre il danno, la beffa! Era un’altra cosa che non quadrava: abitare a mare non faceva parte della logica di un elfo. O almeno, era così che ragionavano tutti i miei compaesani, ed amici. Il mare è infido, non è come un placido stagno od un lago. È freddo, e pericoloso. Tuttavia, non desistetti dal curiosare un altro po’. C’erano altri posti  in cui non avevo visto. Entrai in altre due case. Cominciai a sentirmi disorientata.  Il villaggio, seppure di modeste dimensioni, era stato creato in ordine molto casuale, come sassolini tirati a casaccio dopo essere stati scossi in un sacco. Il tutto dava l’idea di essere stato creato secondo un ordine arbitrario ed individuale. Ognuno costruiva dove e come voleva. Peggio di Scmen, o Zakadi. Perfino un accampamento provvisorio di Insathi era più ordinato. La cosa, per me, abituata all’ordine maniacale di Galinne ed altre città, elfiche e non, mi gettò nella disperazione più nera. Avevo girato la stessa zona per un paio di volte, in tondo! Era assurdo! Basta, non potevo continuare così. Mi fermai, in mezzo ad un piccolo cortile recintato appartenente ad una casa più ordinata e ricca delle altre, che non avevo ancora visitato, e rimasi ad osservare il tutto, portandomi le mani sulla testa. Due case davano sulla via, l’altra invece era al contrario. Quella di fianco era invece orientata in modo ancora diverso, e così via. Cose da pazzi. Ed io non ero nemmeno nella mia forma migliore. Ero stanca. Non avrei retto molto a lungo in quel modo. Dovevo trovare almeno qualche indizio. Dovevo. Chekaril aspettava, ferito, magari avvelenato, o malato. Chekaril era vicino. Molto vicino. Sentivo battere il cuore solo al pensiero. Rimasi per un po’ ad osservare l’oscurità, fissando le case con sconforto crescente. Non potevo spiare in ognuna di esse! Prima o poi mi avrebbero scoperta! Scossi il capo. Forse era venuto il momento di trovare un rifugio. Sentivo la stanchezza sempre più acutamente, farmi dolere muscoli ed ossa, e chiudere gli occhi. Ma Chekaril? Non potevo stare un altro giorno con le mani in mano! Volevo vederlo, abbracciarlo, confortarlo, portarlo con me, parlargli. Quello che mi sembrava un ringhio di cane mi riportò improvvisamente alla realtà. Sobbalzai, e mi guardai freneticamente attorno. Sgranai gli occhi, indietreggiando, appena capii l’origine del rumore. Oh, no. Non pure quello! Non avevo pensato ad un’eventualità del genere! Decisamente, tutto si stava mettendo contro di me. Come se non l’avesse mai fatto. Con orrore crescente osservai un enorme cane, un meticcio grigio, emergere da un angolo della casetta, ed avvicinarsi con lentezza, a zanne scoperte ed occhi luccicanti fissi su di me. Oh, oh. Avevo svegliato qualcuno. E quel qualcuno non sembrava bendisposto verso me. Dovevo fuggire, o mi sarei fatta male. Il problema era che qualcosa sembrava avermi ancorata al suolo, solidamente come le radici fanno con gli alberi. Dovevo provare ad ingraziarmi il primo essere vivente che mi trovava a Gerinti. Magari quel mostro stava facendo solo scena. “bravo, bello…”. Mi arrischiai a mormorare, con voce soffocata, quasi un pigolio indistinto. Niente. Il cane cominciò ad avvicinarsi sempre più, minaccioso. Dannazione. Mi morsi un labbro. Quel mostro mi arrivava tranquillamente alla vita. Un solo morso, e per me era la fine. Ero completamente paralizzata. A poca distanza da me, il mio aggressore si fermò. Ci fu un attimo di stasi, in cui io ed il mio nuovo, strambo, nemico prendemmo a fissarci, io con terrore, lui con allarme e minaccia. Passò qualche attimo di pura paura. Poi, finalmente, l’animale, ringhiando sempre più rumorosamente, fece per slanciarsi contro di me. E fu allora che recuperai tutte le mie facoltà. Mi girai, e, scavalcando la bassa staccionata del cortile con un balzo, cominciai a correre quanto più velocemente possibile. Non avevo nessuna voglia di farmi del male. Il gigante prese ad abbaiare furiosamente, ed a rincorrermi. Sentii uno spostamento d’aria terribilmente vicino all’altezza delle ginocchia, ed accelerai. Il cane continuò a latrare rabbiosamente Perfettamente convinta di avere un’intera muta di cani rabbiosi dietro, mi addentrai in una zona nuova: le case sembravano più belle, e molto più ordinate. Non c’erano cancelli, lì, né recinzioni. Gli abitanti dovevano essere in maggior parte contadini. C’erano attrezzi per l’aratura disseminati incautamente fuori i cortili, tra i quali spiccava un grosso carro malmesso, e molte case avevano una piccola stalla. Tutto sembrava più pulito. Sentendo il latrato del mio inseguitore più lontano, mi azzardai a fermarmi, e, con il respiro pesante, ed il volto presumo pallidissimo dalla paura, mi voltai. Non c’era nessuno. Rimasi per qualche minuto in attesa, in silenzio, mentre le orecchie mi rimbombavano, pronta a scattare di nuovo anche alla sola vista di un muso. Ma nulla. L’abbaio si fece sempre più debole, poi si spense del tutto. Sorrisi, rendendomi conto solo in quel momento di tremare follemente. Sospirai di sollievo. Il mostro non mi aveva raggiunta. Ma ero punto e a capo: nessuna traccia di presenza elfica. Come fare? Entrare in altre case, con il rischio di esere morsa da qualche cane, o peggio? Non ebbi tempo per fare alcunché. La stanchezza, traditrice, mi assalì improvvisamente, facendomi barcollare. Dopo un attimo di sbandamento, mi guardai attorno per cercare un rifugio per la notte. Conoscevo benissimo i miei limiti, e sapevo di essere quasi sul punto di oltrepassarli. Non avrei resistito un secondo di più, ed uscire di nuovo dal villaggio era fuori discussione. Mi attirò il vecchio carro, che giudicai troppo malconcio per poter essere usato. Con le giuste accortezze, sarebbe diventato un nascondiglio perfetto. M’inginocchiai, e guardai sotto. Le grandi ruote davano uno spazio sufficiente per intrufolarsi, e non essere vista. Avrei dormito all’addiaccio, all’erba ed al freddo, ma quella, da quando avevo cominciato il viaggio, non era più una novità. Fu un gesto altamente sconsiderato, ma non potevo fare di meglio. Mi sentivo quasi in trappola. Non potevo andare avanti, perché il mio corpo mi stava tradendo. Non potevo tornare indietro, per lo stesso motivo. L’alternativa sarebbe stata arrampicarsi su un albero: ma lì, di alberi non ce n’erano. Mi buttai, già istupidita dal sonno, sotto il carro, rannicchiandomi quanto più potevo, in modo da non risultare visibile. Stavo scomoda, ma almeno ero virtualmente non intercettabile. Ero nei guai, o forse no. La mattina dopo avrei fatto i conti con le mie scelte: ma, in quel momento, ero troppo stanca. Appena posai il viso su una mano che usavo come cuscino, infatti, mi addormentai, piombando in un fresco, riposante oblio.

 

 

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Capitolo 43
*** Krish, il misterioso. ***


Mi parve fosse passato solo un secondo, quando sentii, mentre ancora ero immersa saporitamente in un sonno profondo, dovuto alla stanchezza accumulata in giorni di viaggio, una secchiata di acqua gelida

Mi parve fosse passato solo un secondo, quando sentii, mentre ancora ero immersa saporitamente in un sonno profondo, dovuto alla stanchezza accumulata in giorni di viaggio, una secchiata di acqua gelida. Non metaforicamente: venni investita senza preavviso da uno scroscio di acqua fredda, che m’infradiciò da capo a piedi. Il sonno sparì in un baleno: saltai letteralmente seduta, aprendo gli occhi di scatto, picchiando la fronte contro una figura apparsa magicamente di fronte a me. Cosa diavolo stava succedendo? Chi mi aveva svegliata? Ci furono alcuni attimi di vero sbandamento. Non riuscivo a ricordare dove fossi, né cosa o chi fossi. Il mondo era un turbinio di colori. La testa mi faceva male nel punto in cui avevo sbattuto contro quella cosa, qualunque oggetto fosse. Un risveglio molto brusco, non c’è che dire. “ahi!”. Gemette una voce maschile, poco distante da me. Feci un salto, recuperando in un lampo tutte le mie facoltà mentali. La notte prima, stanchissima, mi ero addormentata sotto un carro malconcio, perfettamente convinta di non essere scoperta. Avevo reputato troppo vecchio quel calesse per essere ancora usato, e l’avevo giudicato un nascondiglio perfetto. Come al solito, avevo sbagliato nelle mie predizioni: poco ma sicuro, non ero più dove mi ero addormentata. Non ero più sotto il carro. Chi mi aveva scoperta? Lì c’era spazio a malapena per far strisciare e rannicchiare in un angolino una persona esile e di bassa statura. Invece io, in tutta la mia esigua altezza, ero comodamente seduta su quello che mi sembrava un prato. Sbattei più volte gli occhi, scuotendo la testa, per recuperare la vista. Ora il mio camuffamento entrava in gioco. Devo ammettere che mi ero già aspettata di essere scoperta, e per questo non andai in panico. Dovevo stare calma: recitare, e bene, come avevo fatto dai Tengu. Mi avrebbero creduta, in fondo, se io non avessi portato con me una traccia inconfondibile. Traccia che elfi ed umani percepiscono molto raramente. Il sangue freddo era più che indispensabile: un solo errore e sarei stata scoperta. Ed allora avrei potuto dire addio a me ed alla razza elfica. Dovevo agire con tutta la cautela che potevo racimolare. Timidamente, alzai lo sguardo, che sapevo ancora cisposo e dall’espressione un po’ ottusa, tipico del risveglio, e mi guardai attorno. Era ancora notte, ed tutti sembravano dormire, nelle loro povere case. Dovevo aver dormito un’ora, forse un po’ più. Di lì si spiegava il mio stordimento totale. Il cielo era appena più chiaro sul mare, segno dell’alba imminente. Si presagiva un’ottima giornata, calda e senza vento. Tutto era ancora silenzioso. Dopo un po’,con cautela, lasciai che lo sguardo si posasse verso la figura poco distante da me. Per poco non feci un altro salto. Non volevo crederci. Non potevo! La gioia e lo stupore mi assalirono immediatamente, e feci fatica a non lasciar trapelare nulla dal mio viso. Perché, inconsciamente, involontariamente, avevo trovato una delle chiavi. Ce l’avevo fatta! Chekaril era più vicino ogni secondo che passava. Benedissi il momento in cui mi ero buttata sotto quel vecchio carro. Era stata, tutto sommato, una pessima idea, ma aveva dato ottimi frutti, come tutte le mie pessime idee. Seduto di fronte a me, una mano sull’erba e l’altra a massaggiarsi la fronte, che avevo probabilmente colpito nell’alzarmi, c’era un giovane contadino dall’aria preoccupata e cordiale. Non sembrò accorgersi della mia stranezza. Questo, tuttavia, non fu il motivo della mia gioia: lui era, inconfondibilmente, un elfo. Solo la nostra razza poteva avere lineamenti così fini, un corpo così sottile. La tonalità di capelli ed occhi era inoltre innaturale per un essere umano: un nero che, anche alla luce debole di quel momento, in cui non era notte, ma nemmeno giorno, quando il sole non aveva ancora fatto capolino all’orizzonte, si stemperava nel blu più cupo. Un colore impossibile da imitare, tipico degli elfi delle pianure di ghiaccio, molto più a nord di Galinne, in un territorio tra i primi ad essere conquistati durante l’avanzata di Normar, tra i primi ad essere inglobati in quello che sarebbe poi diventato il Regno. Quante volte, studiando la divisione dei sottotipi di elfo, avevo desiderato capelli od occhi di quella sfumatura così rara! Avevo un esemplare di quella fortunata minoranza proprio davanti: scommettevo che la gradazione della pelle fosse chiarissima, dalle sfumature azzurrine, come quella di Akita. Invidiosa, io? Forse un po’, lo ammetto. In quel momento, però, tutti quegli indizi non facevano altro che aumentare l’euforia, ed il pericolo. Non dovevo mostrarmi troppo avventata. Non dovevo. Però avevo trovato, sicuramente, l’agglomerato elfico. Potevo già vedere Chekaril davanti, libero. Potevo già sentire le trombe della fanfara, che annunciavano il mio arrivo trionfante a Galinne. Decisi istantaneamente, mentre ancora ci fissavamo, di non parlare, e di mostrarmi spaesata, come se non sapessi com’ero finita lì. Una vittima di amnesia. Un camuffamento non troppo complicato. Bastava tenere a mente solo poche, piccole, regole, e non dimenticarsi mai di esse, nemmeno per sbaglio. Lasciai comparire, sul mio viso falsamente rugoso, un sorriso vacuo e sciocco. Il cuore batteva a mille. Non riuscivo ad avere altri pensieri se non quelli concernenti la mia missione, ed il fatto che avevo trovato un elfo. Il giovane contadino mi guardò, ricambiando il mio sorriso, con preoccupazione, poi si mise in ginocchio, in un lampo. “accidenti che botta! State bene, anziana cugina?”. La belva assetata di sangue che era in me sogghignò malevolmente. Anziana cugina! Ero ancora un’umana, per fortuna. Ed ero un’elfa fortunata: non poteva capitarmi preda migliore. Bisognava solo manipolarla un po’, e poi avrei avuto tutte le informazioni di cui avevo bisogno. Mi sentii meschina nell’usare quei trucchi sleali contro un appartenente alla mia stessa razza, ma era una cosa che andava fatta. Tutto per il mio principe preferito. Ringraziai mentalmente Tijorn, ed i suoi miracolosi intrugli a prova d’acqua. Aveva combinato disastri a non finire, durante le prime preparazioni, ma ora meritava l’appellativo di vero esperto. Ero pronta per la mia ultima recita. Ancora guardando fisso il povero, giovane elfo, finsi un altro sorriso, gentile e stupido, e poi scossi lievemente il capo, come se non lo capissi. Poi mi guardai attorno, facendo del mio meglio per sembrare una povera mendicante smarrita. Finalmente, mi girai di nuovo, ed inclinai lievemente la testa in un lato, con un’espressione interrogativa. Studiai ogni minima espressione del volto del giovane, in attesa anche di un solo segno di riconoscimento. Nulla. Vidi solo il suo sorriso cordiale sparire in un attimo, e la sua espressione farsi molto preoccupata. Con calma, pianissimo, lui si avvicinò, come se avesse paura di terrorizzarmi. Io lo rimasi a guardare con calma bovina, ancora con la stessa espressione placida. Non poteva conoscere la tempesta che si agitava al mio interno, la gioia che mi avrebbe, prima o poi, spinta a ballare come una pazza da qualche parte. Non poteva sapere che, se fosse dipeso solo da me, l’avrei già afferrato, tappandogli la bocca, e l’avrei portato in un posto dove interrogarlo per bene, per poi ucciderlo senza rimorsi. Ma non potevo farlo: eravamo nel bel mezzo di un villaggio in procinto di svegliarsi. In quella missione, la parola d’ordine era cautela. Dovevo andarci con i piedi di piombo. E dunque dovevo guadagnarmi, in un modo o nell’altro, la sua fiducia. Era il primo obiettivo, la prima priorità. L’elfo mi fissò negli occhi a lungo. “mi capite, cugina?”. Mormorò, con voce molto meno vitale. Sembrava sentirsi segretamente in colpa. Io, con una punta d’improvvisata perfidia, mi limitai a guardarlo, con fare incerto. Dovevo sembrare un’idiota totale. Lui impallidì, e negli occhi scuri gli lessi la pietà. Ero riuscita ad incantarlo. Il mio inconsapevole aiutante mi tese la mano, poi mi guardò con fare incoraggiante. “vieni, su…”. Mi disse, in tono molto dolce, mentre il sorriso riaffiorava, carico di compassione. Seppi di aver centrato il segno: aveva abbandonato il voi. Riuscii a fermarmi giusto in tempo dal sorridere malignamente. Era in mio potere. Senza altre esitazioni, afferrai la mano che mi tendeva, senza fare storie. Insieme ci alzammo. Lui mi sostenne quando io, ancora indolenzita per la posizione scomoda che avevo assunto, barcollai. L’elfo, poi, mi condusse lentamente alla casa a cui apparteneva il cortile, una costruzione sobria di legno, lievemente sbilenca. “io comunque sono Xavier. Xavier. Xa-vier”. Disse proprio così: lo ripeté più volte, allungando la a in modo quasi comico. Sembrava stesse parlando con un bambino. L’avrei preso per pazzo, e l’avrei sicuramente fulminato con un’occhiata gelida, se non mi fossi ricordata, in un lampo, di essere una povera vecchietta traumatizzata. Forse voleva farmi imparare il suo nome. Beh, chi ero io per non accontentarlo? Finsi un altro sorriso. “Xavier”. Ripetei, con voce incerta. Sperai con tutto il cuore che il giovane contadino non si accorgesse della lieve sfumatura di sarcasmo involontario nella mia voce. Niente: lui annuì, con aria soddisfatta, e riprese a camminare. Per poco non mandai a monte il mio camuffamento. Ero troppo stupita per fingermi una vecchia scema: scoccai uno sguardo incredulo all’elfo, che non intercettò. Xavier era una creatura di un candore quasi infantile, come raramente ne avevo conosciute, poco incline al sospetto. Avevo trovato il pollo giusto da spennare. Recuperai tutta la baldanza che mi serviva. Decisamente, gli dei volevano che io trovassi Chekaril. Tutto era a favore perché io diventassi l’eroina di Galinne. Povero, povero sfortunato. Ci fermammo davanti alla porta. L’elfo bussò delicatamente un paio di volte, poi rimanemmo ad aspettare. Mi ricomposi velocemente: se ero riuscita ad imbrogliare il giovane contadino, non era detto sortissi lo stesso effetto con gli altri inquilini della bella casa. Non sapevo chi abitasse con lui. Non fui costretta ad aspettare molto: l’uscio si aprì, e da esso fece capolino un’elfa assonnata, ma perfettamente vestita con un abito di foggia elfica, di cotone marrone, con le maniche svasate. I lunghi capelli biondo miele erano raccolti in una crocchia ordinata. Mi sembrò mia coetanea, come Xavier. Aveva un’aria materna, che mi ricordò  dolorosamente la mastra Guaritrice. I grandi occhi verde scuro si colmarono di stupore quando ci vide. “Xavier! Chi è lei?”. Disse, spostandosi per farci passare. Entrammo in una grande e semplice stanza, dal tavolo di legno, con sei  sedie, e dal focolare in pietra acceso, dove in un paiolo bolliva qualcosa dall’odore gradevole. In un angolino, una scala a pioli, sempre di legno, che conduceva al piano superiore. Appesi alle pareti, selle e bardature varie, insieme a vari attrezzi di cui mi sfuggiva l’utilizzo ed il nome. Mi ritrovai improvvisamente seduta su una delle grezze sedie, probabilmente fatte a mano, ancora fintamente stordita. Una famigliola tipicamente elfica. Sia il mio primo interlocutore che l’elfa, che per comodità giudicai la moglie, si sedettero vicino a me. Xavier sembrava tormentato. “non lo so”. Disse, guardando dalla mia parte, mordendosi il labbro inferiore, pensieroso. “stavo andando al campo…e quando ho spostato il carro per attaccarlo al mulo l’ho trovata che ci dormiva sotto…. L’ho scossa, ma non la riuscivo a svegliare…”. Ah. Ecco spiegata la brutta sorpresa dell’acqua fredda. Tremavo ancora, ed ero bagnata fradicia. Non se ne erano accorti? Dannazione. “così  le ho buttato un po’ di acqua fredda addosso. Lei si è alzata ed ha picchiato la fronte contro la mia. Non si ricorda niente. Mi sembra completamente pazza”. Sentii un segreto moto di soddisfazione, mentre ascoltavo attentamente tutto ciò che stavano dicendo, lo sguardo fisso su un punto del tavolo. Avevo fatto esattamente la figura che intendevo fare. La giovane elfa, a giudicare dal rumore, si era alzata. “allora questo è un caso per il vecchio Krish, non credi?”. Disse, allegramente. Krish? Un altro elfo? Il nome era ben strano. Nella nostra lingua era una parola che stava a significare colui che rinuncia. Chi mai poteva fregiarsi di un tale titolo? Cosa poteva significare? Rinunciare a cosa? Quel nome mi riempì di sospetto acuto. Poteva essere uno pseudonimo per un esiliato, un capo della rivolta contro il Regno. Poteva sapere, dunque, dove fosse Chekaril. poteva aver nascosto lui stesso Chekaril. Dovevo quindi raggiungere questo Krish, dovunque egli fosse. Ed allora, avrei trovato la chiave di tutto. Solo gli dei sapevano quanto fossero vere tutte le mie supposizioni. L’elfa riprese a parlare. “a proposito di Krish…non ti stava aspettando per cominciare a piantare prima che sorgesse il sole?”. Sentii, improvviso, un rumore di sedia spostata, che mi fece sobbalzare, e voltare di scatto. Xavier era in piedi, improvvisamente elettrico. “maledizione, stavo dimenticando!”. Disse, andando intanto verso la porta. Si girò verso di me solo una volta, e mi sorrise. Io rimasi impassibile, vuota. L’elfa lo seguì fino all’uscio. “mi raccomando, occupati di lei fino a quando torno, eh?”. La giovane annuì pazientemente, con un sorriso dolce, che venne ricambiato. Il livello d’intesa tra i due era spaventoso. “tu parlane a Krish…magari domattina possiamo portarla da lui…”. Non volevo sentire altro che quello. Mi girai nuovamente verso il focolare, avvicinandomi un po’ con la sedia. Complice il caldo della cucina, mi stavo già asciugando, e non avevo più freddo. La cosa non poteva essere che positiva. Non volevo ammalarmi nel bel mezzo della mia vittoria. Seppi, dallo sbattere della porta, e dal fischiettio allegro che svaniva in lontananza, che Xavier se n’era andato. Sentii dei passi. Feci bene attenzione a non muovermi. Ora dovevo stare attenta. La donna di casa mi era sembrata molto meno ingenua del marito, anche se aveva parlato poco. Aveva una certa vena d’astuzia primitiva che non mi piaceva. La sentii avvicinarsi al fuoco, e poi un rumore di stoviglie. Mi ritrovai, chissà come, una ciotola di qualcosa di fumante davanti. Aveva un aspetto rustico ed appetitoso. Nonostante lo stomaco brontolasse molto, visto che il mio ultimo pasto degno di quel nome risaliva almeno a due settimane prima, non mi slanciai subito sul cibo. Guardai prima la ciotola, poi l’elfa, che era vicina a me, sorridente, poi di nuovo la ciotola, poi l’elfa. Dovevo sembrare smarrita, una povera umana smarrita. “su, cugina, mangia”. Disse, senza traccia di rancore alcuno. “è tanto buono, e tu sei così magra…”. Dovevo fingere la pazzia un po’ più spesso. Mi divertiva essere trattata da pazza. Era piacevolmente ironico. Ne avrei riso, quando tutto fosse finito. Non mi lasciai pregare, tuttavia, ed afferrai la ciotola con mani bramose.

 

Da quel brusco risveglio, passai un’intera giornata, ore più, ore meno, in quella piccola famiglia. Ebbi modo di vedere la vita a Gerinti, di gran lunga più rilassata di quella di altri posti dove abitavano umani ed elfi assieme. L’isolamento e la povertà avevano dato i loro frutti. Lì si ci trattava ancora come i primi tempi di convivenza, quando non c’erano guerre ed eravamo tutti cugini. Nessuno portava rancore, e tutti si aiutavano. La comunità era piccola, e ben organizzata. A nessuno importava la razza del vicino, ed erano tutti mescolati tra loro, cosa che mi aiutò a capire come mai non fossi riuscita a trovare un solo agglomerato elfico. Avevo mantenuto un contegno da cane, randagio e bastonato, per tutto il tempo in cui ero stata in quella casa, e, restando in un silenzio placido e buono, appresi molto. Benedetto silenzio ingannatore! Xavier e la moglie (che si presentò spontaneamente come Sybil) avevano due figli, due infanti di, presumo, nemmeno dieci anni. Due maschi. Mi presero immediatamente in simpatia, e cominciarono a chiamarmi “Nonnina”, cosa che mi diede molto fastidio. Fu molto difficile calmarmi, in quell’occasione. Potevo essere la loro madre! Loro però, non lo sapevano. Era quello che mi ripetevo per non saltar loro addosso. Il pomeriggio trascorse in fretta. Molte donne umane, ed elfe, portavano i loro bambini a giocare insieme, come dedussi, ogni volta a casa di ciascuna, a turno. Oggi era il momento di Sibyl. Come compresi dai loro discorsi, fatti mentre su un ripiano s’impastava il pane, e mentre i piccoli giocavano insieme fuori, senza odio e senza razzismo alcuno, c’era una guerra contro il Regno in corso. Avevo azzeccato nelle mie supposizioni. Lainay non era mai stata così aggressiva, ed aveva addirittura occupato Zakadi, facendo un eccidio degli elfi rivoluzionari lì presenti, poi passando oltre. Nel Matriarcato di Uruk erano in stato di massima allerta. Tuttavia, cosa strana, il territorio non era ancora stato attaccato. Gli scontri si stavano concentrando nei punti che io avevo attraversato, a fasi alterne.  Il mio compito era più che mai urgente: la situazione era in fase di stallo. Ringraziai mentalmente tutti gli dei, sconosciuti e non, per avermi concesso di trovare una soluzione al problema Chekaril così in fretta. Mi sembrava tutto maledettamente facile. E ne ero contenta. La Regina veniva odiata da tutte, indistintamente: i maschi umani erano infatti stati reclutati per una leva straordinaria, e agli elfi toccava lavoro doppio nei campi o nelle barche, per sostentare tutti. A quanto pareva, se lì non esistevano pregiudizi, nell’Impero ce n’erano, eccome. Qualche marito delle elfe lì presenti era stato picchiato, perché aveva osato esprimere un’opinione personale sulla leva obbligatoria. Erano stati tagliati i contatti con Gerinti, ed ogni aiuto proveniva da Scmen e dai contrabbandieri. Il misterioso Krish pareva essere un’eminenza nella comunità: si occupava del razionamento, aiutava chi ne aveva bisogno, sebbene non fosse molto in forma. Quelle notizie, apprese mentre io ero seduta allo stesso posto della mattina, lo sguardo fisso e vuoto, mi diedero molto a pensare. Krish m’intrigava, e molto. Chi era? Da chi mi avrebbero portata, la mattina dopo? Decisi, istantaneamente, di lasciare stare la famiglia di Xavier. Erano innocenti. Krish doveva, assolutamente, essere ascoltato. Era lui il motore di tutto. Ed allora avrei trovato Chekaril. Sibyl scoprì anche, accidentalmente, la mia spada, mentre io mi giravo per prendere qualcosa, la sera. Io, completamente fuori di me, diedi una dimostrazione così convincente di non saperla usare, e mi mostrai così attaccata ad essa, abbracciandola con aria sperduta, che l’elfa mi lasciò stare, sospettosa, e non me la tolse. Al tramonto, una volta andate via tutte le allegre comari con prole, e messi a letto i due piccoli diavoli, ci raggiunse Xavier. A cena mi parlò incessantemente, forse per cercare un barlume di memoria in me, o almeno, in quello che fingevo di essere. Mi raccontò della sua infanzia, nel nord estremo del territorio elfico, e della sua fuga all’arrivo di Normar. I primi periodi di Gerinti, quando ancora gli uomini erano diffidenti verso loro, i profughi. La conoscenza di Sibyl, ed il loro matrimonio felice. Mi parlò anche di Krish, del misterioso Krish. O almeno, ci provò. Infatti, non appena cominciò la sua storia, Sibyl lo zittì con un’occhiata. M’insospettii. Mi nascondevano qualcosa. Sybil non si fidava di me. Non parlò dell’affare della spada al marito. Se fossi stata sola con il ciarliero Xavier, sarei riuscita a cavare il ragno dal buco. Ma nulla: l’elfa, prudentemente, tenne sempre occupato il marito, facendomi preparare un giaciglio, e poi trascinandolo a letto. Stranamente, mentre osservavo le ultime braci del fuoco morente rosseggiare innocue, mi sentii al sicuro, e sicura di me stessa. Il momento della verità stava per giungere. L’ora dei traditori sarebbe scoccata. Ed io avrei vinto. Avrei vinto. Il pensiero mi piacque moltissimo. Mi addormentai senza accorgermene, ancora fiaccata dal viaggio terribile, con il sorriso sulle labbra. Non sapevo fosse l’ultimo: non avrei sorriso per molto, molto tempo, e la gioia non mi avrebbe più visitata per quelli che mi parvero secoli. Andavo allegramente al macello, di mia spontanea volontà. Il mattino dopo, quando ormai era già giorno, Xavier mi venne a svegliare. Mi mostrai placida e distesa come sempre. L’elfo era già pronto, ed io non feci altro che farmi salutare da Sibyl, e seguirlo. Ero nervosa. Lo stomaco, dopo quello che mi pareva un secolo, riprese a dare instancabilmente battaglia. Penso di essere diventata di un’allegra e vivace  sfumatura di giallo canarino, tanto che Xavier si preoccupò, ed attaccò il suo mulo al carro, pieno di quello che mi sembrava fieno, con insolita rapidità. Saltai su, immergendomi nella paglia profumata. Quell’odore mi fece bene, e mi calmai un po’. Si va da Krish! E non ne vedevo l’ora. Avevo sete del suo sangue. Mi chiesi per l’ennesima volta quale potesse essere la sua identità. Poco dopo, ci muovemmo. “eh, vedrai, Krish è qui vicino…”. Disse Xavier, dolcemente, mentre io stavo ad occhi chiusi. “così vediamo se si può fare qualcosa per te, eh?”. Non risposi, com’era ovvio, e mi limitai a godere del breve viaggio. Era una giornata meravigliosa: il cielo era limpido come non mai, senza l’ombra di una nuvola, e faceva piuttosto caldo. Riuscivo a scorgere la frastagliata costa di Scmen, addirittura, all’orizzonte. Tranquillamente, arrivammo finalmente ad una casa che mi parve familiare. C’era una staccionata bianca, e la casa sembrava molto curata. Fu con enorme, inquieto stupore, che vidi, da un angolo, emergere, sospettoso, ad orecchie ritte, il grosso cane grigio che mi aveva inseguita. Al collo, cosa che io non avevo visto  quella notte, aveva un grosso collare di ferro, attaccato ad una lunga, robusta catena. Era legato. Non mi avrebbe potuto fare nulla, se fossi entrata in quella casa dall’altro lato. Maledissi me stessa per la mia cecità, e stupidità. Avrei potuto trovare Krish in un batter d’occhio, se solo non mi fossi fatta prendere dal panico! Mi calmai, tuttavia, subito. Ero troppo felice, troppo in pace con il mondo per prendermela con me stessa. In fondo, stavo arrivando da Krish per un’altra via, ma ci stavo arrivando. E quella era la cosa fondamentale. Xavier fece fermare il mulo fuori dal cortile, e, dopo avermi aiutata a scendere, scese anche lui. Insieme, in silenzio, ci avviammo all’uscio. Il cane ringhiò minacciosamente, ma non si mosse. L’emozione in me cresceva ad ogni passo, e fu difficile contenermi. Se solo Xavier, che mi teneva per un braccio, gentilmente, mi avesse lasciata, ero quasi sicura che avrei cominciato a galleggiare beatamente, persa com’ero nei miei sogni di sangue. Lo stomaco dava fastidio, ma io quasi non me ne accorgevo. Chekaril era vicino, molto vicino. Molto, molto vicino. Come aveva fatto a casa sua, l’elfo bussò. E la mia vita prese, in un attimo, quella parabola discendente che non si è ancora arrestata tuttora. E, da quel momento in poi, Lsyn Amarto non sarebbe mai più stata la stessa. Ed avrei assaggiato l’amaro sapore del sangue, della polvere, e del ferro. Perché, quando la porta si aprì, fui violentemente scagliata nella realtà, senza riuscire a credere ai miei occhi. Non potevo crederci. “chi è?”. Fece una vocina d’infante, lasciando che facesse capolino dalla porta una corta zazzera di capelli ricci e neri. Mi sentii male, d’improvviso, e tutto si fece freddo. Gelido. Mi mancò il respiro, e sentii le vertigini. Quella minuta figura d’infante non poteva essermi sconosciuta. No, non poteva. Non quando mi aveva svegliata la notte, per giorni e giorni, perché affamata, non quando mi aveva fatta soffrire, non quando l’avevo aspettata con ansia per mesi e mesi, non quando avevo passato ore ed ore a contemplarla, innamorata, mentre dormiva, non quando mi assomigliava in maniera impressionante, a parte gli occhi. Gli occhi del padre, lo stesso colore e lo stesso taglio. Una madre non dimentica mai una figlia, anche se è costretta a darla via. Mai. Non dimentica mai il suo aspetto. E c’era lei, in carne ed ossa, alta già più di me, un’infante felice, dal sorriso smagliante, e vitale. La mia adorata piccola. Rimasi a fissarla per quelle che mi parvero ore, con uno sgradevole senso d’oppressione al petto. Non riuscivo a prendere fiato. Lei no. Cosa ci faceva lì? Lei no, lei no! Lei era una Spia! Lei doveva essere con un Maestro! Lei non poteva essere lì! Io non potevo vederla, no! Dovevo sbagliarmi, per forza! Chi era allora Krish? Cosa stava succedendo? Ebbi la netta impressione di cadere all’indietro, di cadere nel vuoto. Il mondo roteò attorno a me, e cominciò a restringersi. Non sentii nemmeno le parole che lei e Xavier si scambiarono. Sentii un dolore terrificante al petto, che mi ricordò in maniera netta i fulmini dei Tengu. E poi non capii più nulla, e tutto si fece buio.

 

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Capitolo 44
*** Sangue del mio sangue. ***


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Allora, allora, allora.

Dal mio ultimo commento siamo andati davvero avanti, eh? xD

Vi confesso, ho incontrato parecchie difficoltà con questo capitolo, molte, ed ancora di più ne incontrerò con i successivi.

È difficile descrivere certi stati d’animo. Molto difficile. Leggendo questo capitolo, mi fate la cortesia di dirmi cosa ne pensate? Sono poco convinta… O.o

Vabbè, sarò breve.

Ringrazio, come sempre, Carlos Olivera del suo preziosissimo supporto, e del suo pungolo ad andare avanti xD

Senza di lui, penso, sarei molto più indietro ^^

Inoltre, visto che non ho il tempo di commentare, ringrazio Selly del suo lunghissimo commento, e le dico di non preoccuparsi ^^ lo studio è la cosa più importante, ben più importante di una manciata di stupidi capitoli J ti confesso, mi mancavano i tuoi commenti, ma questo ripaga benissimo xD

Ah, si: fai bene a temere xD

Fai molto bene xD

Buono studio, mi raccomando **

Un bacione, intanto, a tutti, chi legge solo, e chi invece dice la sua ^^

Ciao!

Akita

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Non riesco esattamente a ricordare cosa mi successe nel momento esatto in cui mi ripresi. Mi girava la testa, e sentivo insistentemente uno strano frullio, come quello prodotto dalle ali di un uccello entrato in una stanza. E tale mi sentivo io in quel momento: una fragile creatura sperduta, annegata in un contesto ostile ed estraneo, senza conoscere il modo per uscirne fuori. Non riuscivo a ragionare in maniera limpida. Ogni volta che tento, tuttora,  di ricostruire gli accadimenti di quella prima, terribile, rivelazione, la mia mente va a sbattere contro un solido muro, qualcosa che ho costruito per difendermi. O forse per non impazzire. Ma io ero già pazza. Dovevo esserlo. Non potevo aver visto quello che avevo visto. Era troppo…incongruo, troppo beffardo. Nella mia mente c’era il vuoto, il vuoto più assoluto e terribile. Da una parte avrei voluto tanto urlare, gridare di dolore, gridare per il tormento incessante che ad ogni battito produceva il cuore, ma dall’altra non potevo. Non ci riuscivo. Qualcosa si spezzò in me, qualcosa si bloccò, e persi una parte della mia anima per sempre. Quella che avevo visto era mia figlia. Mia figlia! Era quasi ironicamente poetico. La tradizione delle Spie vuole che mai i genitori sappiano dove si trovi, o con quale nome sta crescendo, il loro pargolo. Si scongiura di creare affetti basati su qualcosa di diverso della fedeltà alla Regina. I legami tra Fratelli di Maestro sono si, più profondi, ma anche più complessi di un legame di sangue, e più, paradossalmente, fragili. Ed ora, in quell’esatto momento, mi trovavo davanti all’unico essere che mai mi sarei aspettata di ritrovare. Sangue del mio sangue. Fu come essere sbendata un’altra volta, come scoprire qualcosa che fino ad ora avevo nascosto. Perché io non avevo mai dimenticato la mia piccola, adorata, infante, sebbene nella mia memoria non fosse altro che un tenerissimo e seccante fagottino, con qualche capello in testa. Avevo sofferto molto quando le Spie adibite alla sistemazione degli infanti, con Chekaril a controllare che tutta la cerimonia andasse bene, me l’avevano strappata dalle braccia. Quel giorno, Tijorn, Amarto e Junielle erano assenti. Lo avevo voluto io. Non volevo che vedessero il mio strazio: l’orgoglio bruciava ancora con le sue fiamme roventi, in me. Non c’era nessuno a tenermi la mano, a consolarmi. Eppure il mio unico amore era a pochi centimetri da me. Non avevo mai conosciuto un tormento più acuto, che paragonerei ad un prigioniero legato che guarda il mazzo di chiavi  che lo potrebbe liberare, senza riuscire a muovere un muscolo. Lo avevo fissato, per un lungo attimo. Avrei voluto leggere in lui lo stesso dolore che covava in me. Non fu così, e questo mi fece ancora più male. Stava guardando il pavimento, apparentemente interessato alle venature del marmo dell’ingresso della vecchia casa di Tijorn, indifferente alla bambina che si dimenava tra le braccia della Spia, ed indifferente a me. Era da un bel po’ di tempo che litigavamo selvaggiamente, principalmente sul futuro di nostra figlia. Io e lui la vedevamo in modo completamente opposto. Sebbene considerassi ancora essere una Spia come un grande onore, qualcosa in me era già mutato in modo irreversibile. La piccola, quel dolce fagotto che mi aveva torturata per ben quattro mesi con i suoi lamenti notturni, aveva sangue reale nelle vene, sangue di una delle più antiche casate di elfi mai conosciute. Era la figlia del Principe Chekaril, dannazione, figlia di nobili, elfa di sangue puro! La sorella, all’epoca non sapevo perché, non aveva figli, e girava una fondata voce sulla sua sterilità. Non avere un erede diretto, in caso di morte violenta, di malattie, o accidenti che in  ogni caso avrebbero impedito alla Regina di regnare, era presagio certo di atroci guerre civili. Perché non dare mia figlia alla Regina beneamata? Un atto di fedeltà nei suoi confronti estremo, e più che dovuto. Avrei accettato di separarmi da mia figlia volentieri, se almeno lei fosse stata designata da Lainay come erede al trono. In realtà, il pensiero che mi era venuto in mente era un altro. Io sarei rimasta in servizio come Spia, e lei, prima o poi, sarebbe stata Regina. Mi pareva un’idea stupenda, quella di servire fino all’ultimo respiro, ciecamente, la propria figlia. L’amavo troppo per pensarla sottomessa, come lo ero io, alla sua stessa zia, per pensarla immersa nel sangue e negli intrighi. Chekaril avrebbe potuto confessare apertamente la sua intemperanza, magari accollando tutte le responsabilità a me, che, in quanto Spia, godevo di una certa immunità. Ero sicura che la Regina avrebbe accolto sua nipote come un dono del cielo, e non sarebbe successo nulla d’irreparabile. Ma il mio dolce compagno non la pensava come me. Si comportava in modo strano da un po’ di tempo, circa da quando aveva visto l’infante per la prima volta, donandole appena uno sguardo sfuggente, come se non gli importasse molto, e rifiutandosi di prenderla in braccio. Sembrava volesse disfarsene il prima possibile, e la cosa non mi piacque. Qualche mese prima c’era stato un tremendo episodio, che mi aveva fatto soffrire intensamente: era sera, e lui, come faceva sempre più di rado, mi era venuto a trovare. Io mi sentivo, sebbene non avessi fatto altro che sonnecchiare tutta la giornata, stanchissima, e demoralizzata. Vedevo avvicinarsi sempre più la data della nascita, ed era come se risuonasse una campana a morto.  Quel giorno lo vidi ancora meno entusiasta del solito all’idea di diventare padre di quello che sarebbe stato un sottoposto. Mi sentii quasi offesa dal suo atteggiamento distante, e seccata dal fatto che cercasse ancora di tenere tutto nascosto. Era stato lui a supplicarmi di non lasciarmi scappare l’identità del padre del bambino, quando avevo deciso di tenerlo. Io avevo obbedito, seppure fossi stata fin dall’inizio contraria: il danno era stato fatto. Che almeno si prendesse qualche responsabilità in più sulle spalle, non eravamo più bambini! Era finito il tempo per giocare a nascondino. Cosa importava se Lainay mi avesse punita, o mi avesse degradata a Maestra, con un’opportunità così golosa di salvare la discendenza del Regno? Io non ero una fornaia qualunque, non ero una contadina spaurita! Come tutte le Spie, tra i miei antenati potevo annoverare la cerchia dei Venti Nobili, elfi di sangue puro che avevano servito il primo, mitico, Re, l’unificatore del nostro popolo ed il progenitore della stirpe reale di Normar, alle quali gesta Lainay si era ispirata. Non avevo capito ciò che si celava dietro. Ancora non sapevo, ancora non conoscevo tutti gli altarini che si celavano dietro quel comportamento in apparenza così semplice, e cinico. Quando avevo esposto la mia idea a Chekaril, lui era impallidito mortalmente, ed io, notando la sua reazione, gli avevo risposto male. Avevo, sempre di più, l’impressione di essere trattata come un giocattolo, come una concubina. Ed io avevo la mia dignità da preservare. Quello che ne seguì fu forse il litigio più violento che avessimo mai avuto, fatto sottovoce per timore che qualcuno ci sentisse. Fu in quella determinata occasione che lui mi schiaffeggiò, fuggendo subito dopo, per poi incappare nella mia tremenda vendetta. L’ultimo giorno in cui vidi mia figlia, inghiottita in un boccone dal nostro ordine, scappai nella camera degli ospiti, che era diventata la mia ormai da più di un anno, subito dopo quello sguardo. Mi sentii mortalmente ferita. Ma, come ogni cosa, anche il dolore cocente di quell’episodio si smorzò pian piano. Nei primi tempi, evitai intenzionalmente di parlare di mia figlia, poi ebbi ben altre cose alla quale pensare. Alla fine, mi abituai a considerarla come una piccola apprendista, alle spalle un amorevole Maestro, o Maestra, e magari un paziente Fratello di Maestro come il mio. Mi ero conciliata con l’idea di saperla Spia, ed avevo quasi sperato avesse successo, laddove la madre aveva così terribilmente fallito. Fino al secondo prima che quella dannata porta si aprisse, ero stata relativamente in pace con me stessa. Ma in quel momento il mondo era capovolto. Non potevo crederci. Perché il destino si stava accanendo così tanto su di me? Cosa avevo fatto di così cattivo? Perché? Domande a cui ancora non ho trovato una risposta. Forse mi sono rassegnata a non averla. Mi sento troppo vecchia, troppo debole e mutilata per cercare ancora un senso in questa vita che io vivo per gli altri, e della quale non m’importa. Sentivo il cuore battere nella gola, come un boccone troppo grosso da inghiottire. Cos’era successo? Perché mia figlia si trovava lì? Krish era un infiltrato delle Spie? E cosa c’entrava Chekaril con tutto quello? Krish lo avrebbe dovuto trovare! Chi era Krish? Chi era? Ero stata mandata come rinforzo? Krish aveva scoperto tutto? Cosa c’entrava quella bambola meccanica che avevo trovato in quella piccola radura? Cos’era successo che io non sapevo? Pian piano, riguadagnai contatto con la realtà. La testa mi girava. Mi sentivo stranamente assente. Forse fu davvero quello a salvarmi: la sanità mentale si rifugiò in un angolo sicuro del mio inconscio, erigendo un guscio che mi avrebbe protetta ancora a lungo, impedendomi di perdere me stessa. Dovevo essere stesa su un materasso, e c’erano parecchie persone attorno a me, o almeno giudicai così dal brusio continuo e preoccupato. Qualcuno mi passava qualcosa dall’odore terribile sotto il naso. Ebbi l’impressione che la testa si staccasse dal collo, ed aprii gli occhi. Ero in una stanza buia, illuminata solo da qualche candela. Attorno a me c’erano Xavier, pallido come un cadavere, ed un’elfa sottile e pallidissima, che non avevo mai visto. Per un attimo, davvero, pensai di aver sognato tutto, e di essermi risvegliata dopo un’allucinazione. Magari mi ero sentita male nel carro. Entrambi sorrisero, quando mi videro sbattere le palpebre, perplessa, e si guardarono. “ben svegliata”. Mi disse l’elfa, una creatura anemica, dallo sguardo intenso e dai capelli corti, tanto da non riuscirne ad identificare il colore. Mi parve quasi di conoscerla, ma imputai quel presentimento alla situazione di estrema debolezza mentale nella quale riversavo. Poteva, tuttavia, essere benissimo una Spia. Sentivo un freddo mortale. Con riluttanza, cominciai a prendere coscienza che, forse,  avevo davvero avuto una visione. Il cuore cominciò, con mio grande sollievo, a calmarsi. Forse ero al cospetto di Krish. Il mondo non si era capovolto. Ero ormai quasi abituata alla mia nuova identità, e perciò non risposi. Fu una grandissima fortuna: il mio silenzio mi aiutò a smorzare i pensieri, e renderli sopportabili. “ci sei svenuta sulla porta appena Roxen l’ha aperta!”. Ridacchiò Xavier, evidentemente sollevato. Si era preoccupato per me, povero stupido. Il cuore riprese a battere furiosamente, e mi assalì di nuovo il familiare senso d’irrealtà. Mia figlia era lì. Roxen. Mi diede un senso di calore inaspettato il darle un nome. In quel momento di estrema agitazione mi misi addirittura a dissertarci su, e questa cosa ancora ne rido.  Che cattivo gusto: un appellativo giusto per un cavallo, non per una graziosa infante! Fosse stato per me, l’avrei chiamata Srilé, Gwendolyn, o Gheneva. Non Roxen. Niente di così rozzo. Un nome che avesse risuonato in modo musical, altisonante. Ed invece no. Mia figlia aveva un nome da equino! Ma chi aveva un gusto così pessimo, secondo solo all’elfo che mi aveva dato il nome di un liquore? Stupii me stessa con quelle oziose considerazioni. Quasi come se…stessi digerendo la cosa. In fondo, sebbene le cose non quadrassero, e fosse stata un orribile sorpresa, l’eventualità d’imbattermi in mia figlia non erano mai state molto remote. Il mondo era piccolo. Ora dovevo trovare Chekaril. Chekaril, Chekaril, Chekaril. Era un bisogno più grande della mia stessa vita, un’ossessione che mi avrebbe lasciata solo con un terribile atto di perfidia, di cui ancora mi vergogno profondamente. Cercai così di mettermi seduta, ma l’elfa me lo impedì, mettendomi una mano sulla fronte. La sentii gelida. “aspettate che arrivi mio marito prima di fare qualsiasi cosa, veneranda madre”. Disse, con voce sommessa, ma decisa, spingendomi di nuovo sui cuscini. “abbiate pazienza”. Non mi ribellai. Sarebbe stato inutile farlo. Krish: in quel momento era il pezzo più importante della scacchiera. Dovevo sapere, assolutamente, chi fosse,  in cosa fosse coinvolto, ed in che misura. E sua moglie, poi? Che stava significare? Roxen cosa c’entrava? Rimanemmo per un po’ in silenzio, ascoltando i passi che provenivano da fuori, e la vita calma del villaggio, quando la porta si aprì un po’, e, come aveva fatto prima, fece entrare pian piano la figura di mia figlia nella stanza. Il cuore mi parve esplodere di gioia, e per poco non scoppiai in un pianto dirotto. Passata la sorpresa, era rimasto un affetto incredibile, ed un rimpianto amaro: non l’avevo vista crescere. Non l’avevo vista camminare, non l’avevo sentita pronunciare la sua prima parola, non l’avevo consolata quando piangeva. Adesso la vedevo lì, dopo ben cinquant’anni, un’infante già a metà della sua infanzia. Sentii di amarla immensamente, e teneramente. Avrei voluto tanto dirle qualcosa, confessare la verità. La fissai, con un bisogno disperato di piangere, o di correre ad abbracciarla. Mi sentivo in debito con lei di qualcosa, e l’urgenza di spiegarle, almeno, chi fossi io, e perché avessi, in quel momento, gli occhi lucidi. Invece, mi limitai a fissarla. Aveva gli occhi ed il viso di una piccola felice e ben nutrita, e me ne compiacqui. Chiunque fosse Krish, ci sapeva fare benissimo con gli infanti. I capelli, neri e ricci come i miei, erano corti e lucidissimi, dei boccoli ordinati che le coprivano a stento la punta delle orecchie. Gli abiti, seppure un po’ vecchi, erano puliti e non rammendati. Aveva gli zigomi alti e gli occhi del padre, ma per il resto mi assomigliava molto, nei lineamenti delicati e nella pelle pallida, ora colorita dal sole. Innegabilmente, sarebbe diventata una bellissima elfa. Soprattutto, al contrario di me, sarebbe stata alta, come il padre, se non di più. Ne fui intimamente fiera: non avrei sopportato di mettere al mondo un’altra elfa piccola e minuta come me. In quel momento, la piccola si guardò le scarpe, arrossendo deliziosamente, e fece un passo avanti. Alzò poi la testa, e mi guardò con aria perplessa. Senza nessun timore, le sorrisi. Fu qualcosa di non deliberato, e quasi rilassante. Non m’importava dei due elfi accanto a me. Mi dovetti calmare, subito, o non ce l’avrei fatta, e sarei scoppiata in lacrime. Sarei crollata in poco tempo. La mia resistenza fu ulteriormente messa alla prova quando lei ricambiò il sorriso. Il viso le si illuminò. Quel solo gesto cancellò dalla mia mente tutto il dolore provato fino a quel momento, quasi come se le mie ferite si fossero rimarginate, quasi come se non fossi più il terribile Mostro. Mi sentii…finalmente degna, intera, come avevo pensato solo Chekaril potesse fare. Sbattei le palpebre, come stordita. Mi sentii molto, molto felice. Mi aveva sorriso! Mi aveva sorriso! Non sapeva chi fossi, ovviamente, ma…mi aveva sorriso! Mi sentii scioccamente ed istantaneamente l’elfa più felice del mondo, sebbene sapessi che quello era solo un ghigno di cortesia. Chekaril poteva aspettare, se solo il mondo fosse illuminato da quel sorriso così simile al mio. Ed ancora oggi, quel sorriso è tra le poche cose in grado di scaldarmi l’anima. Mi ero quasi calmata, ed il mio cuore aveva ripreso a battere normalmente, estasiata dalla figura sorridente e silenziosa della mia bambina, quando sentii una voce. Una voce inconfondibile. Ed allora, per poco non morii. Sono rare le volte in cui mi sono sentita così vicina all’annientamento finale, e quello fu uno di questi. I tre elfi si girarono istantaneamente verso di me, quando io tirai violentemente il fiato, portandomi una mano al cuore. Di nuovo quella fitta al petto. Mi ricordai, boccheggiante, della trappola che mi avevano teso i Tengu, ed a quella voce fantastica che risentivo dopo cinquant’anni. Mi parve impossibile. Mi avevano teso un’altra trappola? Lui non voleva mia figlia, lui non l’aveva mai voluta! Era lui che mi voleva convincere a disfarmene, quando ancora era possibile, era lui che mi aveva schiaffeggiata solo perchè avevo proposto di risparmiarle una vita da Spia. Ma era suo quel tono gaio, profondo e maturo, più consapevole di sé. Ed istantaneamente capii che non si trattava di un’illusione. “Roxen! Roxen, sei lì?”. Disse la voce calda di Chekaril, venata di stanchezza. E mia figlia si girò, mentre la porta si apriva del tutto, facendo entrare la creatura da me più amata al mondo.

 

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Capitolo 45
*** Esigo delle risposte. ***


Non saprei, né avrei saputo mai, anche dopo un solo giorno, descrivere ciò che provai quando sentii quella voce, e mi resi conto di non essere vittima di un’allucinazione

Non saprei, né avrei saputo mai, anche dopo un solo giorno, descrivere ciò che provai quando sentii quella voce, e mi resi conto di non essere vittima di un’allucinazione.

Mi parve improvvisamente di essere ancora nell’imbarcazione di contrabbandieri che mi aveva portato fino a lì, preda di una terribile tempesta.

ra quasi  come adattarsi a vivere a testa in giù, o sott’acqua. E sono sicura che l’ultima cosa mi avrebbe fatto meno impressione.

Cinquant’anni. Cinquanta. Perfino per gli elfi non è un lasso di tempo di poco conto, e per gli umani è quasi una vita intera. Non era possibile che, dopo anni e anni di veglie, ferite, freddo, e disavventure ben poco piacevoli, trovassi il mio unico amore con tanta facilità.  Era quasi sadicamente ironico. Il destino è innegabilmente un gran bastardo.

È difficile spiegare cosa provai.

Mi pietrificai, nel vero senso del termine. Mi sentii gelida ed insensibile quanto una lastra di marmo. Avevo la testa leggerissima, ed i polmoni in fiamme. Immagino di essermi dimenticata di respirare per un bel po’.

Non potevo credere che tutto fosse cosi dannatamente facile! Non era giusto! Fui assalita da interrogativi di ogni genere, e mi sentii perduta, pazza.

Ma allora…cos’era successo in realtà? Chekaril aveva preparato tutta una messinscena? Tutte le cose che avevo sentito, e che mi ero ripetuta nel corso di mezzo secolo erano sbagliate? Tutti i ricordi che avevo di lui, falsati? Non mi ero resa conto di essere stata usata? Ma lo ero stata davvero?

Il mio ragionamento andava a cozzare contro un muro solido d’incredulità. Chekaril mi amava! No era possibile mi avesse gabbata in quel modo crudele! Lui aveva avuto un figlio da me! Non poteva essere così cattivo con la madre di quell’infante allegra!

Mi sentii confusa.

Misteriosamente, o forse non tanto, non sentii la gioia che mi ero preparata a provare. Non sentii le lacrime che avevo nascosto per così tanto tempo, né mi venne voglia di alzarmi ad abbracciare il mio principe.

No. Non mi sentii felice, affatto. Provai una stranissima sensazione di…abbandono, ecco. Mi parve di essere stata volgarmente tradita. Ed ero indignata. Ed indignata non è un aggettivo abbastanza descrittivo per la fitta d’atroce odio, misto al dolore più puro, che provai.

No: io non ero una stupida. Tra tutti i miei difetti quello sicuramente non c’era. Non per nulla ero considerata una delle Spia più acute, sebbene la mia scarsa prudenza poco mi avesse permesso di sfoggiare le mie qualità da investigatrice.

Avevo capito cos’era successo.

E penso che anche una stupida si sarebbe resa conto della situazione: Chekaril era sparito, ed era stato reputato, fino a quel momento, prigioniero, in chissà quali condizioni. Invece no.

Quello aveva tutta l’aria di essere un tradimento. Contro me, contro il Regno, ma soprattutto contro sua sorella, la mia dolce e benemerita Regina. Lei lo aspettava, lei lo voleva bene. Lei non poteva avere eredi. Lui viveva con sua figlia. Nostra figlia, dannazione!

Non potevo crederci. Cosa significava allora, quello scheletro, con la bambola di ferro? Chi era arrivato prima di me? Ero stata mandata come rimpiazzo? Tutti si erano burlati di me? E la collanina? Perché era appesa ad un ramo, negligentemente, nonostante fosse un oggetto d’infinito valore?

Ancora non sapevo, ma stavo cominciando a porre le basi per l’atto più perfido e meschino della mia vita. Mi è difficile tuttora conciliarmi con quel gesto, ed ancora piango per esso.

Ma io mi sentivo volgarmente tradita, usata come una posata, o una fazzoletto. Mi aveva trattata forse come una serva, come una delle tante cortigiane adoranti che lo seguivano dappertutto, quando ancora era al castello, spiandolo e mettendosi in mostra, in cerca delle sue attenzioni?

Io…io l’avevo amato. E lo amavo ancora. Non avevo smesso d’amarlo neppure quando il mio viso si era mostrato per la prima volta allo specchio, metà trasformata in un ammasso di cera sciolta.

Neppure quando avevo vagato, al freddo, nella vana speranza di trovare un indizio.

Neppure quando ero stata sospesa nel vuoto, in una gabbia, in compagnia di un triste uomo alato!

Nemmeno quando ero stata ferita da un traditore della propria razza!

La mia fede in lui non aveva mai, mai vacillato. Ma perché lui mi aveva tradita, allora?

Oh…perché non avevo ascoltato Tijorn? Perché, accettando il suo assennato e lungimirante invito, non ero rimasta con lui? La mia vita sarebbe stata infinitamente più breve, forse, ma molto più felice. Oppure sarebbe stata lunga e felice.

Ma ora, il mio dolce fratello era lontano da me, molto lontano, in compagnia fissa di un’elfa che odiavo più di ogni altra. E chissà se, dopo la mia partenza così burrascosa, il nostro rapporto si era irrimediabilmente incrinato. Lo temevo. Forse non mi voleva più bene come una volta.

Il pensiero non mancò di agitarmi ancora di più, lì, stesa su un letto, fingendo di essere una calmissima vecchietta, mentre il mio amore era vicino, e gli altri lo guardavano, adoranti, Roxen inclusa. E pensare che era stata indesiderata per così tanto tempo!

Su di me, improvvisa, ma molto amata, scese una grigia nube di apatia, e tristezza, che non mi avrebbe abbandonata a lungo. No. Non volevo capire. Non volevo! Mi sentii come quando Tijorn mi aveva dato la lettera di Akita, quando la mia vita aveva subito la mia prima, drastica, svolta.

ualcosa si erse tra me ed il mio raziocinio, impedendomi di pensare, e di farmi soffrire ulteriormente. E ciò che successe, da quel momento in poi, è tra le cose più difficili da scrivere, da confessare. Perché soffro, a ricordare quanto io possa essere bestia, e che la superiorità elfica non esiste, quando si soffre come io ho sofferto.

E che la mia mano non tremi, ricordando il baratro in cui precipitai, la fossa che scavai con le mie stesse, nude, mani.

Rimasi ad aspettare, stesa su quel letto, impassibile, piena di tormento interiore, gli occhi fissi sulla figura che era appena entrata.

Chekaril non era cambiato di molto, fisicamente.

Sembrava più magro, aveva un volto più pallido, e scavato, con un’ombra di barba non fatta, ed i capelli erano lunghi quanto quelli di Tijorn, portati sciolti, e scarmigliati. Indossava degli abiti tipici da contadino, di cotone grezzo, ma si poteva intuire molto facilmente il suo passato da guerriero esperto.

Non rimasi insensibile al suo fascino, e, per un attimo, le antiche sensazioni tornarono a farmi visita. Volevo alzarmi, ed avvicinarmi a lui, anche solo per sfiorarlo inavvertitamente.

Ma poi ricaddi nella mia turbinosa apatia.

Lo fissai apertamente, mentre ancora lui non mi guardava, limitandosi a salutare Xavier e la moglie, con un cenno, e poi rivolgersi alla figlia.

Mi concessi il lusso di osservarlo per un altro po’.

Erano gli occhi e l’espressione che io non riconobbi, e che mi misero a disagio.

Il Chekaril che conoscevo io era stato spesso illuminato da un sorriso sghembo, da una luce beffarda, e sicura di sé, mentre gli occhi avevano scintillato di fierezza, fuochi d’ametista che ardevano instancabili, abbagliando e terrorizzando al tempo stesso.

 Il portamento era stato altero, sprezzante, in ogni occasione.

Aveva emanato regalità da tutti i pori.

In quel momento, tuttavia, non vidi nulla di tutto ciò. Sembrava quasi invecchiato, per quanto a noi possa succedere.

Camminava lievemente curvo, come se stesse portando un grosso peso, e la bocca aveva preso una piega grave, come se non sorridesse da un sacco di tempo, e portasse una grave colpa nascosta dell’anima.

I suoi occhi era calmi, sereni, adulti, ma tradivano una certa preoccupazione, e quella che interpretai come l’espressione di un animale in trappola, rassegnato ormai ad una fine inevitabile.

C’era saggezza, in quei fuochi viola, e tanta, tanta stanchezza, misto a qualcosa che tuttora non riuscirei ad identificare.

Sembrava quasi… contrizione, come se stesse aspettando una punizione, non vedendo l’ora che arrivi.

Era l’espressione di un penitente, di un perseguitato, la luce di un condannato, che niente aspetta se non che scocchi la sua ora.

Rimasi ad ascoltare, preda di una sorta di estatico rapimento, la sua voce, ben modulata, severa, ma al tempo stesso dolce, che mi trasportò indietro nel tempo, a giorni luminosi, piacevoli e gai. Quella era rimasta uguale. La cosa mi provocò un dolore enorme.

“Roxen…”.

Disse, guardando nostra figlia, che gli stava di fronte, il viso basso, contrita.

“che ci fai qui? Non ti avevo detto di non disturbare la nostra ospite?”.

La piccola alzò istantaneamente la testa, un gesto sdegnato che mi deliziò. Mi assomigliava anche negli atteggiamenti, e molto. Scommettevo che ora avrebbe detto la sua, o avrebbe cercato.

“ma…padre… mi avevi…”.

Chiocciò, con la sua dolce vocina innocente, una musica di campanelle per me, prima di essere zittita da un’occhiata eloquente del genitore.

“ora vai a giocare fuori con tuo fratello, su… dopo ti prometto di portarvi giù a vedere i pescatori che tornano, d’accordo?”.

Un sorriso illuminò il volto emaciato di Chekaril, un sorriso infinitamente dolce, speciale, complice, solo per sua figlia. Un raggio di sole, che squarciò il velo di stordimento che mi ero creata.

Mi si strinse il cuore, un dolore che quasi non riuscii a sopportare. Quei sorrisi erano stati per me.

Cercai di rimanere impassibile, e non piangere.

Era qualcosa di troppo triste, infinitamente triste, vedere uno stralcio della vita che avevo sempre desiderato avere con lui.

Ed in quel terribile momento, dopo cinquant’anni, dopo che avevo intrapreso un orrido vagabondaggio, ferita nel corpo e nell’anima, scoprivo che  quel privilegio era toccato solo a lui, in compagnia di un’altra famiglia, un’altra elfa, un altro figlio.

Un altro figlio!

Una moglie!

E mia figlia non sapeva chi fosse la sua vera madre!

Sentii farsi strada in me l’invidia.

Un’esistenza normale, diversa, non oberata dal fardello della propria perfezione. Un’esistenza felice. Un’esistenza nascosta, ma piena di vita.

Tutto quello che avevo desiderato, ma non avevo mai avuto.

E tutto questo, mentre io mi trascinavo, nella neve e nel fango, sommando, giorno dopo giorno, l’ossessione che aveva tenuta in piedi.

Perché era solo la mia forza di volontà che m’impediva di lasciarmi cadere, solo la mia forza di volontà era capace di far muovere un piede dopo l’altro.

Tutto questo mentre io diventavo il peggiore verme tra i vermi.

Tutto questo mentre io perdevo la mia salute.

Quasi non m’importò del Regno, e della successione: quello che era successo, e quello che provavo, riguardavano me, e me soltanto.

Il pensiero di quel tradimento mi annientò.

Annientò quel poco d’illusione che mi era rimasta, quei sogni a cui non avevo mai rinunciato, forgiandosi attraverso dolori difficilmente immaginabili per chiunque. Trasformò tutti i miei desideri in polvere.

Ed, istantaneamente, sentii nascere qualcos’altro da quel cadavere.

Vendetta.

L’odio, amaro e potente come veleno, m’invase, scorrendomi nelle vene, sostituendo il sangue. Mi parve di essere fatta d’odio. La mia pelle era odio. I miei occhi erano odio.

E quanto avrei voluto vedere aprirsi in quel petto una ferita, prodotta dalla mia stessa spada! Quanto avrei voluto trafiggerlo, fargli provare un pizzico dell’umiliazione che provavo in quel momento, vedere sangue scuro uscire dalla bocca che tante volte mi aveva baciata!

Chekaril  aveva rapito brutalmente tutto quello che poteva rubare: il mio amore, la mia dedizione, il mio tempo, i miei affetti, il mio aspetto, perfino la mia vita.

Era arrivato come una tempesta di neve, disperdendo e rimescolando, e poi se n’era andato, freddo ed indifferente, prendendo il suo tributo di sangue e carne.

Metà intera del mio corpo se n’era andata per lui.

Avevo perso la mia bellissima voce per lui!

Ero quasi morta, per trovarlo!

Chi aveva adibito quella trappola, Chekaril stesso?

 Chi?

Ero piena di furia, a stento repressa in quella stanzetta, dove rimanevo, con occhi fissi e vacui. Benedico ancora la mia capacità di finzione, perché solo quella m’impedì di saltare addosso al mio principe, e di strozzarlo con le mie stesse mani.

Non volevo nemmeno ammetterlo a me stessa, ma continuavo ad amarlo, in fondo. Il mio dolce elfo. Lo amavo, e lo odiavo.

Soffrivo, ma solo gli dei sapevano quanto fossi felice di vederlo così integro!

La mia situazione mi ricordò un episodio accaduto durante la mia infanzia.

Eravamo nella casetta a Sharilar, ancora innocenti, ancora protetti, ancora felici, spie novizie, ancora non degne del primo nome.

In giro con Tijorn, un giorno d’estate, in un bosco, avevo visto uno spettacolo che mi aveva turbata moltissimo.

Una meravigliosa farfalla, dalle ali bianche e nere, era rimasta impigliata in una grossa ragnatela. Il povero e fragile animale era ancora vivo, e si dibatteva, con tutta la forza che poteva disporre. E più si dibatteva, più s’impigliava, e più lottava.

Eravamo rimasti ad osservare, affascinati, la sua battaglia inutile per la vita.

Ad un certo punto, forse attratto dal movimento, sulla ragnatela era arrivato un grosso e peloso ragno marrone.  Era stata la fine per il meraviglioso insetto alato.A quella vista, la farfalla si era immobilizzata, vinta dal terrore. Era stato un gioco da ragazzi imprigionarla in un bozzolo di seta, per il ragno, e portarla abilmente via.

E tale mi sentivo io in quel momento.

Ero la stupida e delicata farfalla, che si dibatteva in un gomitolo inestricabile di odio ed amore.

Ero invischiata, prigioniea.

E tutti quei pensieri scorsero nella mia mente in un attimo, in molto meno tempo di quanto io ci abbia messo per metterli per iscritto.

Mentre io mi rodevo, nel mio dolore, che ancora dona, di tanto in tanto, i suoi colpi di coda, Roxen se n’era andata, scoccando un bacio affettuoso sulla guancia del padre. Avrei voluto ricorrerla, parlarle, prenderla tra le braccia. Avrei voluto non essere una Spia, perché tutto quello non sarebbe mai successo!

Con un sospiro, tornato ora rassegnato ed amareggiato, Chekaril si girò.

“Xavier”.

Disse solamente, con una voce autorevole, che mi ricordò il modo in cui comandava i suoi Immortali.

Il contadino, preso in considerazione, si alzò di scatto, mettendosi in quella che mi parve un’imitazione scadente dell’attenti militaresco.

I due si guardarono, e, quello che tutti conoscevano come Krish, sorrise.

“io con lei me la vedo benissimo, è solo una vecchia pazza…”.

Mi lanciò un’occhiata breve, quasi preoccupata. Che mi allarmò subito. Chekaril mi conosceva fin troppo bene, e conosceva il mio stile di camuffamento. Dovevo cominciare ad agire. Non potevo farmi trovare impreparata.

Misi una mano nel mantello, alla ricerca del fodero della spada. Lo trovai, e sospirai di sollievo. L’arma era ancora lì. Sciocchi!

Strinsi spasmodicamente il pomo, sentendo, con mia grande consolazione, il freddo gelido del metallo. Il principe continuò a parlare.

“prendi con te un paio di elfi ed andate ad arare il campo sud…dobbiamo ancora piantare qualcosa, o sbaglio?”.

Il tono era stranamente consapevole, autoritario e spiccio. “no, Krish, non ti sbagli…”.

 Disse Xavier, avvicinandosi alla porta.

 “ma tu non vieni?”.

l sorriso di Chekaril si trasformò in un ghigno amaro. “vorrei, ma… sai che non posso”.

 Si guardò il braccio destro, inerte come l’altro, e scrollò le spalle.

 “è un lavoro troppo pesante per me”.

Per poco non sogghignai. Sapevo poco su come e perché non potesse usare bene il braccio, un particolare che Lainay mi aveva appena accennato, ma la cosa mi riempiva di felicità.

Prima era stato tra i miei maggiori tormenti. Ora ne ero più che contenta. Saperlo menomato, anche se in maniera parziale, mi faceva sentire un po’ meno in credito con lui. Saperlo sofferente mi colmava di gioia selvaggia.

Volevo il suo sangue. Lo bramavo, lo desideravo.

Volevo quasi immergermi in esso, ballare, berlo, mentre lui moriva.

Ma prima, avrei dovuto parlare con Lainay, e, soprattutto, con lui.

Perchè avrebbe dovuto dirmi molte cose. Molte.

Avevo bisogno di risposte a tutti gli enigmi dell’ultima parte del viaggio, e non intendevo fare mosse avventate prima di sapere la storia.

In quel momento bruciavo d’odio, ma non sapevo realmente come fosse andato tutto.

Avrebbe potuto essere controllato a vista dai ribelli, e quella solo una montatura per trarmi in inganno.

Xavier poteva essere il suo carceriere.

Erano pure e semplicissime illusioni, ma mi abbandonai ad esse con insolito piacere.

Avevo bisogno di credere in qualcosa, fosse menzogna o no.

Avevo bisogno di aggrapparmi ad un briciolo di speranza, prima che quest’ultima fosse ridotta definitivamente in cenere.

Non volevo, in realtà, uccidere l’elfo che avevo tanto amato senza prima godere un po’ della sua compagnia.

Avrebbe sofferto molto per il trattamento che mi aveva riservato, molto.

Ma prima avrebbe parlato, volente o nolente.

Osservai con ansia gli ultimi scambi di convenevoli tra Chekaril e Xavier.

Poi, l’ultimo elfo se ne andò, fischiettando un’allegra melodia.

Rimanemmo solo io, Chekaril e sua moglie, quella lurida, maledetta elfa dai capelli rasati e l’aria decisa. Non aveva nulla a che vedere con me, e con la mia bellezza.

O almeno, la bellezza che era stata.

Il contegno autoritario ed allegro del principe parve svanire in un attimo, quando sentimmo la porta dell’ingresso chiudersi, con un tonfo, quasi come non fosse stata altro che apparenza.

E lo era.

Il mio unico amore sospirò, mentre le spalle gli si curvavano nuovamente.

Mi arrischiai a guardare l’elfa accanto a me. Era guardinga, rigida come un ciocco di legno, ma non armata. La cosa mi fece piacere.

Strinsi l’elsa della spada più forte, facendomi quasi male. Ero sicura, sicurissima, che entrambi avevano capito cosa fossi.

Vidi Chekaril chiudere la porta della stanza, tirando addirittura il chiavistello.

Poi si girò.

Ed io lo guardai, piena di sfida, di odio e d’amore.

E seppi, chissà come, che mi aveva riconosciuta, quando nei suoi fantastici occhi viola guizzò una luce di comprensione.

Il volto pallido si fece immensamente triste, ed io lo odiai più che mai. Era lui che aveva il diritto di essere triste, o io? Chi aveva vagato per cinquant’anni, mandando al diavolo tutti e tutto?

Mandai all’aria la mia copertura, e mi alzai a sedere, entrambe le mani nel mantello, per nascondere la mia spada, ritta e fiera, guardando negli occhi il mio unico amore.

Lui si mordicchiò un labbro, apparendo interiormente combattuto.

E vidi i suoi occhi umidi, scintillanti di lacrime.

Con un paio di passi, si avvicinò alla moglie, prendendole una mano, ed inginocchiandosi, in mia direazione.

Io mi girai, rigida, per osservarli entrambi.

Rapidamente, feci il punto della situazione.

L’elfa aveva capito il mio mestiere, ma non la mia identità. Il commosso Chekaril, invece, aveva compreso tutto.

Mi aveva guardata troppe volte negli occhi, per non riconoscerli.

 “Lsyn…”.

Mormorò, senza fiato, guardandomi negli occhi.

Gli leggevo la sorpresa, ed il dolore.

Un dolore che non compresi, e che mi fece imbufalire.

 In quel momento, esplosi.

Non ci voleva altro.

Con un movimento veloce, sguainai la spada,estraendola da sotto il mantello, ignorando le loro esclamazioni terrorizzate.

Non aspettavo altro per potermi sfogare.

Entrambi boccheggiarono, e si mossero.

Ma io fui più veloce di loro. Ero colma di gioia sadica, e crudele. Mi sembrò giusto.

Mi bastò un solo gesto, e la punta acuminata di quella che fu la spada di Eiron, si trovò a pochi millimetri dall’occhio viola di Chekaril.

Vidi il panico nei suoi occhi.

I due s’immobilizzarono, cristallizzati in una posizione per me vantaggiosa. Così mi rendevano facile le prossime mosse.

Con la mia tipica velocità, prima che lui potesse ancora muoversi, mi sporsi dal letto, afferrando con una mano la nuca liscia dell’elfa, in una morsa tremenda, e mettendogli la parte affilata della lama sulla gola, spostandola dal mio amato, che non si mosse.

Sembrava terrorizzato.

Sentii, i muscoli della mia prigioniera tendersi, e le afferrai un orecchio, torcendolo, senza pietà alcuna. Doveva stare ferma, o l’avrei uccisa. E non scherzavo.

Sapevo essere piuttosto fantasiosa quando si trattava di torture.

La sentii reprimere un gridio di terrore, e di dolore, e lei cercò di divincolarsi, producendosi solo un brutto taglio sulla gola, che prese a sanguinare copiosamente.

Il marito, pallido come un morto, le fece cenno di non muoversi, pietrificato. Come avevo previsto. Chekaril non si sarebbe mosso finche sua moglie sarebbe stata in pericolo. Bravo, il mio piccolo amato. Mi conosceva abbastanza bene per capire le mie intenzioni. Sapeva già quanto fossero funeste.

Io gustavo già il sangue che sarebbe scorso. Lo odiavo. Lo odiavo!

Sempre fedele, a me stessa.

Sempre fedele, al sangue e all’odio.

Sempre fedele: avevo fatto male a dubitare delle Spie, di noi Spie.

Quale migliore uso per una vendetta?

 Perché mi ero lasciata irretire dall’amore?

 Io odiavo l’amore.

 Lo dovevo odiare!

Iniziò così la mia discesa verso un baratro da cui solo la stessa arma fu capace di strapparmi.

Ed io, all’inizio, ne ero molto felice.

“ed ora, bastardo…”.

Sibilai, piena d’astio, guardandolo al di sopra dell’orecchio sinistro dell’elfa, torcendolo ancor di più, tenendomi con i corpo lontano da lei, per evitare colpi a sorpresa.

La mia vittima mi sembrava terrorizzata, e questo mi era d’aiuto.

“faresti meglio a parlare, se non vuoi che io tagli la testa alla tua amata!”.

 

 

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Capitolo 46
*** Terra Bruciata. ***


Chekaril ed io ci guardammo

Chekaril ed io ci guardammo. Lui non cambiò espressione, e la cosa mi diede enormemente fastidio. “posso spiegarti tutto, Lsyn…”. Mormorò lui, dopo un lungo attimo, prendendo a guardare sua moglie, ed afferrandole di nuovo una mano. Lei mi sembrava calma sotto la mia lama. Sapeva qualcosa che non sapevo, o il terrore l’aveva paralizzata. Forse entrambe le cose. Odiai più che mai quell’elfa decisa. No, mi ero sbagliata: l’Ombra non era mai morta. Era rimasta a sonnecchiare, in un antro recondito ed oscuro del mio essere, in attesa del momento giusto per colpirmi, per colpire. E per farmi tornare ad essere la Spia fredda e crudele. Quello pensavo allora. La realtà era un’altra. Perché Ombra era morta, era stata colpita da un paio di ali bianche, ed io l’avevo seppellita quasi senza accorgermene. Quelle ultime, terribili, scoperte, avevano semplicemente tirato fuori un lato di me che fino ad ora non reputavo di avere, un qualcosa comune a tutti, siano elfi, Tengu, Inu, umani o Insathi. Il tradimento può far impazzire ogni creatura. Specialmente se esso proviene da un essere profondamente amato, come, per me, era Chekaril. Ed io soffrivo immensamente: avevo vissuto per un’illusione. Non riuscivo a pensarci. Io l’avevo sognato! Io l’avevo cercato! Io…io non sapevo nemmeno quante cose avessi fatto, per lui. Qualcosa…anzi, no, qualcuno, prese possesso di me. Ancora oggi non saprei ben spiegare cosa mi prese in quel breve periodo. Fatto sta che quelle tranquille parole offuscarono quel poco di ragionamento che mi rimaneva. Sentii la mente invasa da uno strano calore, che nulla aveva a che fare con la temperatura. Aumentai la pressione della lama sul collo della mia rivale, che annaspò leggermente, e cercò di tirarmi una gomitata. Inutile dire l’esito del gesto: mi ero preparata a quel tipo di ribellione fin dall’inizio, e non mi scomposi. La mia vittima si mosse ancora debolmente, poi si lasciò scappare un gemito. Ecco: stava cedendo. Un flebile suono mi annunciò che l’elfa aveva cominciato a piangere. Mi piacque, e ne gioii. Non era forte come pensavo. “non chiedo altro, bastardo”. Ringhiai, guardandolo. L’elfa si era avvinghiata letteralmente alla sua mano, e lui mi fissava, con preoccupazione crescente. Ah, la soddisfazione del terrore. Perché lui doveva temere da me. Doveva temere, molto. E lo sapeva. Odiai più che mai la sua compagna. Lei aveva il conforto del marito: sapeva o no che quella mano doveva essere intrecciata alla mia? Sapeva o no cosa avevo fatto per lui? Chekaril intuì, probabilmente, il mio ultimo pensiero, forse dal mio sguardo rapace, non so. Di nuovo la tristezza affiorò sul suo viso pallido, snza che la mano si spostasse di un millimetro. “beh…è una storia lunga…”. Disse, abbassando lo sguardo e mordicchiandosi il labbro inferiore. Conoscevo quel gesto. Mi stava nascondendo qualcosa, qualcosa che era restio a confessare. Passò un lungo attimo. Io ribollivo come un paiolo pieno. Poi chiuse gli occhi, di scatto. “non è come pensi…”. Quelle parole diedero il colpo di grazia. Quante volte le avevo sentite, quando scoprivo un suo tradimento? Quante volte mi era toccato sorbirmi le sue patetiche scuse, credendoci, perdipiù? Quante volte avevo sorriso quando lui mi parlava così? Quante volte a quelle parole era seguito un perdono quasi immediato? Quanto stupida ero stata? Quella volta, non mi sarei lasciata prendere da sciocchi sentimenti. Avevo ignorato troppe cose. Era davvero venuto il momento della vendetta. Era troppo. Era troppo! Sentii la rabbia risalirmi la gola, acida come bile. Rabbia nei suoi confronti, nei miei, e per la mia ingenuità. Ero stata stupida: l’amore mi aveva offuscato il raziocinio. Quella consapevolezza rese di me una belva ferita. Ed allora, tutto in me fu furore puro. “mi hai usata, Chekaril! Mi hai usata!”. Urlai, con una voce stridula che li fece sobbalzare. Dei, era davvero piacevole sfogarsi in quel modo! Era un bel po’ di tempo che non urlavo in quella maniera. Forse dovevo farlo più spesso. L’elfa cominciò a singhiozzare apertamente, mentre lui serrava ancora di più i chiari occhi. “cinquant’anni, Chekaril! E’ da quando te ne sei andato che non faccio altro che cercarti, che sperare in te! Ho penato, per te, ho viaggiato, sono stata privata di ogni tipo di dignità, per te! E solo per te! Ho perso tutti i miei affetti per cercarti, per una stupida ossessione! Ho perso la mia vita… ho perso tutto!”. Non so cosa innescarono, in me, quelle parole, ma, ad un certo punto, sentii una smania tremenda di piangere, a cui per poco non cedetti. Mi si offuscarono gli occhi, e tutto si confuse in un turbinio di colori. Ma, attraverso la nebbia liquida che m’impediva di vedere chiaramente il mondo, notai una sola lacrima, una sola, che scese, silenziosa ed argentea, sulla guancia sinistra di Chekaril. Ogni suo lineamento era teso, duro ed affilato, come un’arma. Ci fu un lunghissimo silenzio, rotto solo dai singulti confusi della mia vittima. Lo stimolo del pianto si stava facendo troppo pressante. O quello, o la pazzia. Ma io non potevo lasciarmi andare. Non io, la grande e fiera Spia. Io ero troppo in alto rispetto alla normale plebe, per mostrare i miei sentimenti in quel modo. La furia si era tramutata di nuovo in dolore, in qualcosa di profondo, e tormentoso, un instancabile roditore che mi minava l’anima, con i suoi denti affilati. Potevo sentire ogni morso. Ero stata preda della più grande illusione di questo mondo. Mi ero innamorata, completamente, e totalmente. In quel momento, le speranze ed i progetti che mi ero fatta durante il mio viaggio solitario per l’Impero, mi parvero più che mai infantili. Mi ero fidata delle apparenze. Mi ero fidata di tutti! Cosa avrei fatto? Come sarei tornata? Chekaril sarebbe ritornato a fare il Principe, magari, con moglie e prole…ed io? Cosa avrei fatto, povera, temuta e schifata, il relitto, la bambola rotta che nessuno più desidera? Tijorn non mi avrebbe più voluta con sé, o meglio: io non avrei più sopportato di stare con lui, le cui speranze ed i cui desideri erano tutti andati felicemente in porto. Mio fratello era un elfo felice. C’era Akita a cui donare tutto il suo amore, ed io non intendevo intromettermi nel suo sogno. Per quanto quell’elfa fosse stata sempre sgradevole ed antipatica, per quanto io avessi potuto dirne, per quanto l’avessi odiata con tutta me stessa, non mi sarei mai intromessa in quella storia. Avevo troppo rispetto per gli innamorati, e per Tijorn. Non volevo che la sua felicità s’inquinasse con qualcosa di brutto, dolente e sporco come me. Junielle…Junielle era mezzelfa. E non avremmo fatto che litigare in ogni momento, per qualunque cosa. L’amicizia con lei era ormai irreparabilmente rovinata. Amarto viveva con Tijorn, e mai l’avrei preso con me. Il mio dolce Maestro aveva bisogno di una presenza stabile, e certa, nella sua vita, come lo era mio fratello. Dopo la malattia era diventato estremamente fragile, emotivamente, quasi come un vecchio umano. Le altre Spie…beh… finché ero stata bella, potente e temuta, avevo avuto la loro amicizia. Ma ora no: nel mio umile alloggio, nel quartier generale, non sarei certamente stata la benvenuta. Insegnare? Io? Che avevo da insegnare ad una futura Spia? Quali valori potevo trasmettere? L’arte del fallimento? Come lasciarsi ingannare? Dalla Regina non potevo contare in alcun aiuto: per lei, ero una pedina nel suo vasto campo di scacchi. Una volta svolta la mia ultima missione, non mi avrebbe sorpresa un coltello piantato in mezzo alla schiena. Era la prassi: io ero, in fondo, inutile. Tornare dai Tengu? Perché? Da sola? La Matriarca, prima o poi, sarebbe morta. Tutti i miei amici, lì, sarebbero morti. Non si trattava di una razza immortale. Ed io sarei stata come Eiron, diversa. Unica della mia razza, immutabile mentre il tempo lascia segni indelebili sui tuoi compagni di viaggio, che si spengono poco a poco. Mentre io sarei vissuta ancora per moltissimo tempo! Io non ero che all’inizio della mia vita! Capii più che mai il mio povero amico dalle ali tarpate, e compresi, in quel momento, tutte le sue scelte. La verità, enorme e terribile, scese su di me come una mazzata. Ero sola, terribilmente e completamente sola. Vuota. Avevo fatto, con le mie illusioni, e la mia ossessione, terra bruciata attorno a me. Era come ricevere una stilettata nel cuore. Potevo morirne. Non volevo vedere quel mondo. Non volevo vedere la rovina nella quale ero così subitaneamente precipitata! Così, anche io chiusi gli occhi: li serrai, come una bimba spaventata, senza muovermi, ancora la spada appoggiata alla gola dell’elfa. Quel gesto, per quanto possa sembrare strano, era il mio unico conforto. Si: come amavo quella sofferenza che io recavo! Come amavo pensare di non essere l’unica a soffrire! Ci fu un lunghissimo silenzio. Potevo sentire la voce allegra ed ignara di Roxen, fuori, discorrere con qualcuno, un infante, a giudicare dal tono. Il suo fratellastro. Stavano giocando. Mia figlia. Mia figlia, che non mi avrebbe mai amata, mai conosciuta! Quello fu troppo. Scoppiai in singhiozzi prima ancora di potermene accorgere, e prevenire così un tale affronto a quel poco d’orgoglio che mi rimaneva. Sentii le lacrime calde sulle mie guance. Tutto il dolore che provavo, tutta l’umiliazione, si tradussero in quel pianto disperato, mentre io ero ancora in quell’assurda posizione. Avrei voluto morire in quell’esatto momento, estinguermi, come una candela accesa da troppo tempo, e non pensare più. Cadere in un oblio riposante, così simile al sonno: la migliore medicina. Ed io la volevo, la bramavo. Dove avrei trovato la forza per affrontare la mia lunga vita, senza più nessuno a confortarla? Mi resi conto, in quell’assurdo momento, di essere totalmente…indifesa. Avevo con me una grande spada, e tutta l’abilità di una Spia…ma ero indifesa, come un cucciolo. Non sarei riuscita a muovermi, nemmeno volendo. Non  era quello che speravo! Non era quello che desideravo! Io non avevo voluto altro che una vita felice! Perché tutti ce l’avevano così con me? Perché? Cos’avevo fatto di così male? Perché tutti riuscivano a sfuggire da sé stessi, ed io no? Cosa mi costringeva a farmi schiacciare, impotente, dagli ingranaggi del fato? Perché gli altri riuscivano sempre a sottrarsi, ed io no? All’improvviso, senza che nessun rumore ne annunciasse l’arrivo, sentii una presenza calda e confortante, vicino a me. Non osai aprire gli occhi. Stavo ancora piangendo, e non capivo più nulla. Quel qualcuno mi strinse delicatamente a sé. Braccia forti che conoscevo. “lascia Aevo, ti prego…”. Mormorò, vicino al mio orecchio, la voce addolorata di Chekaril. Sobbalzai. Non me l’aspettavo. Quel contatto mi fece bene, ma al tempo stesso acuì il dolore. Lui non era più mio. “prometto di spiegarti tutto, Lsyn…tutto. Non fuggiremo. Non ne abbiamo la minima intenzione. Non siamo qui per scappare, Lsyn…non siamo qui per scappare!”. Quel tono, implorante e disperato, mi fece tremare tutta. Persi totalmente il controllo dei miei movimenti. Che mi stava succedendo? Rabbrividii, e perfino la testa sembrava fredda, e vuota, una cripta abbandonata. Quasi non mi accorsi di obbedire alla supplica disperata di Chekaril, e di lasciare cadere, con un clangore sonoro, la spada, prendendo a tremare in modo folle. Il dolore tornò, raddoppiato. Non riuscii a resistergli. Ripresi a singhiozzare, con vigore rinnovato. La gola mi doleva terribilmente, ed ogni singulto era per me una tortura. Ingannata, tradita, sola! Schifosamente, dannatamente sola. Non avevo nessuno. Non c’era nessuno per me! Quasi non sentii di essere stata sollevata, e portata di peso su una superficie morbida e calda. Qualcuno mi abbracciò. Ed io mi lasciai andare a quell’abbraccio, perché ne avevo terribilmente bisogno. Sapevo, con orribile consapevolezza, che in esso non c’erano messaggi impliciti, solo una disperata voglia di far tornare normale qualcuno alla quale si è tenuto molto. Non c’era nessuna tenerezza, in quell’abbraccio: Chekaril non era mio.

 

Non so quanto tempo rimasi lì, a singhiozzare tra le braccia forti di Chekaril, tremante e disperata, ma so solo che, ad un certo punto, mani gentili mi toccarono il viso. Erano fresche, e mi permisero di riguadagnare quel poco di lucidità rimastami. Nessuno parlava. Mi resi conto, allora, che l’elfa mi era vicina. Quelle non erano le mani di Chekaril: erano troppo sottili, e delicate. Aevo mi stava accarezzando, senza nessuna parola. Non capii quel comportamento: io l’avevo voluta uccidere, e solo gli dei sapevano quanto poco ero stata vicina dal farlo davvero! Aprii gli occhi , a mezzo. Mi ritrovai davanti la faccia preoccupata dei due elfi. Chekaril mi abbracciava ancora, una stretta delicata, ma mi guardava, bianco come gesso. Aevo, sebbene ferita ed ancora scossa,mi fissava con ansia, accarezzandomi il viso. Lui aveva l’espressione più addolorata di questo mondo, colpevole e tormentata. Non so cosa pensai, in quel momento. I singhiozzi stavano pian piano scemando, ma il dolore no. Mi sentivo terribilmente debole. Fu forse per quello che non riuscii a fermare in tempo la catastrofe. Ad un certo punto, infatti, l’elfa aggrottò le sopracciglia. Parve molto perplessa. “Chekaril…”. Disse, portandosi una mano davanti al viso, ed osservandola con attenzione, stupefatta. Penso di aver ripreso a tremare. Mi venne un colpo al cuore. Capii immediatamente cosa stava accadendo. Forse per le troppe sollecitazioni, il mio camuffamento si stava sfaldando. Aveva resistito fin troppo a lungo. Quel pianto aveva sancito la sua fine. Mi sentii invadere dall’orrore. Vidi chiaramente una sorta di crema giallastra sulle mani della giovane. “cos’è questo?”. No! Non poteva essere…morii cento volte nella mia anima. Il cuore prese a battermi furiosamente. Vidi preoccupazione sul volto del mio amato, e quasi sospetto. “non toccare!”. Cominciai ad urlare, con voce resa stridula dal panico che mi attanagliava, divincolandomi come una pazza. Chekaril fu costretto a stringermi da dietro, come una prigioniera. Non volevo che vedessero le mie cicatrici… non volevo mi considerassero come un mostro! Non volevo pietà! Cosa facevo di male, per meritarmi una tortura simile? Cosa? Continuai a dibattermi furiosamente, con tutte le energie che mi rimanevano, ma Chekaril, che mi teneva, era più forte. Continuai a lottare strenuamente. Sentivo qualcuno uscire dalla porta, e correre verso l’altro lato della casa. Feci il punto della situazione, e mi trovai nei guai. Non ero stata abbastanza attenta, come sempre. D’accordo, era finita. Che volevano fare? Che volevano farmi, soprattutto? Mi ero fidata troppo! Mi avrebbero uccisa? Forse era meglio, molto meglio. Avrei senz’altro smesso di soffrire. Ma non per questo smisi di dibattermi, in un silenzio quasi irreale. Mi sarei anche uccisa da sola, certo, ma non avrei mai permesso all’elfo che tanto avevo amato di toccarmi, di ferirmi anche in quel senso. Fu la mia resistenza selvaggia a farmela spuntare. Se Chekaril fosse stato ancora un valente e sano guerriero, forse non mi sarei mai liberata. Ma, come avevo notato, da molto tempo spade e lance erano state sostituite da falci e forconi, e l’abiltà era di gran lunga diminuita. Senza contare il suo braccio offeso: non riusciva ad usarlo per molto tempo, senza provare un atroce dolore. Quello era il suo maggiore difetto. Notai, improvvisamente, la presa, al lato destro, allentarsi, e di molto. Approfittai immediatamente di questa falla. Non mi ci voleva altro. Ancora offuscata dalla rabbia, dall’orrore e dalla paura, mi spostai completamente sul lato offeso, facendo in modo che lui si trovasse a reggere tutto il mio esiguo peso. Ma fu abbastanza: ebbi il grande piacere di essere libera di muovermi. Ora sarebbe venuto il bello. Senza aspettare di gioire per il mio successo, strinsi la mano a pugno, spasmodicamente, e mi girai di scatto. Colpii senza pensare. Ciò che feci mi riempì di terribile soddisfazione. Sentii il mio pugno colpire qualcosa di molto morbido, e poi un ululato di dolore. Il Principe si scostò da me, lasciandomi libera di respirare, ancora il pugno alzato e lo sguardo attonito, e feroce, ancora in ginocchio sul letto. Istintivamente, Chekaril si portò una mano al viso. Ci fissammo. Mi guardava come fossi un mostro bizzarro, ed alieno, appena comparso davanti a lui, con uno sbuffo di fumo. L’avevo colpito su una guancia, con tutta la forza che avevo. Il risultato già cominciava a vedersi: dovevo avergli tagliato l’interno della guancia, perché, sul lato della bocca, c’era un po’ di sangue. E sangue gli usciva anche dal naso. Sbuffai. Ora avrebbe potuto farmi ciò che voleva: almeno un colpo era andato a segno. Ben altro gli avrei dovuto fare, ben altro. Ancora quell’idea non mi aveva sfiorato la mente. Dopo un po’, lui spostò la mano, distogliendo lo sguardo dal mio, e la guardò. Poco dopo, fece una smorfia di dolore e, con la stessa mano, andò a massaggiarsi un punto vicino alla spalla destra, probabilmente  il punto dove lo avevano ferito. Era stata una ferita piuttosto grave, e doveva fargli molto, molto male. Non era da lui lamentarsi per qualcosa. Ben gli stava. Lui, ancora massaggiandosi la vecchia ferita, riprese a fissarmi, inferocito. Mi sentii subito come una condannata a morte. Inequivocabilmente, i pensieri che gli passavano per la testa non erano dolci, nei miei confronti. Ma forse non ne aveva mai avuti: forse io ero stata una delle tante prede delle sue cacce. Sentii spezzarsi in me l’ultimo filo che mi teneva legata a lui. Su di me piombò una sorta di fredda, lucida, cattiveria. Ero pazza: non potevo non esserlo. Gli sorrisi, mettendo, in quel gesto, tutto il disprezzo, che per lui ora provavo. Stupido bastardo. Si meritava molto, molto, di più, per quello che mi aveva fatto passare. Fu piantato il seme dell’odio. E fu da lì che cominciai a pensare alla più tremenda vendetta. Il problema era, che ancora non sapevo cosa fare. “dimmi un po’, Chekaril…”. Gli sussurrai, mentre un sarcastico sorriso mi torceva il viso. “chi ti ha fatto così male? Vorrei mandargli un regalo!”. Lo sguardo che ci scambiammo, pieno di veleno, mi ricordò molto i primi nostri litigi. Ma quella volta non ci sarebbe stata la pace. Eravamo entrambi furiosi. Io, almeno, ero pazza di rabbia. E vedevo il dolore negli occhi di quello che una volta avavo amato, e per la quale cominciavo a provare solo odio, ed invidia. “chiedilo al tuo amichetto umano, ed al suo senso dell’umorismo deviato!”. Ringhiò, ancora massaggiandosi la spalla. Sembrò quasi quello di un tempo, dignitoso ed indignato, regale e pieno di disprezzo. Sentii una vaga sopresa. Quelle parole mi presero, sinceramente, alla sprovvista. Amichetto umano? Io non avevo amici umani! Io conoscevo pochissimi umani! A meno che… un sospetto si affacciò nella mia mente, e strinsi gli occhi. C’era solo una creatura capace di combinare un disastro simile. Un solo mortale. Ed avevo sentito qualche storia, dopo una rovinosa sconfitta di Normar. Lampo di comprensione. Per poco non presi a ridacchiare. Dolce, caro, Regis. Sempre lui, il mio inconsapevole custode! Peccato fosse morto, ed io non sapessi dove fosse sepolto. Magari era sparito dal mondo,  o chissà che altra fine aveva fatto!  Peccato non potergli fare un gigantesco regalo, come ringraziamento per la sua giusta azione. Avrei dovuto dedicargli un pensierino ogni sera, prima di andare a dormire. Lui aveva capito Chekaril meglio di me, e gli aveva dato una giusta punizione, su questo non c’era dubbio. Sapeva quanto la morte fosse a rischio di santificazione. Che gran regalo mi aveva fatto! Quella menomazione mi sarebbe ancora tornata utile, molto ancora. Forse sorrisi, perché vidi la rabbia accendersi nel volto del mio amato, facendo sparire tutta la sua grazia. Era stato sempre così. “perchè ridi, Lsyn? Sei contenta?”. Ringhiò, stringendo gli occhi per l’ira. “ sei contenta di questa cicatrice? Non posso lavorare bene, Lsyn, né combattere al massimo delle mie capacità. Mi hanno umiliato!”. Ah, si? Lui aveva solo una cicatrice. Metà del mio corpo assomigliava a cera sciolta. Povero cucciolo, come doveva essere stata difficile, la sua esistenza, confortata da un tetto, del cibo, e degli affetti, mentre assumeva la guida del popolo elfico del luogo, ed anche di quello umano! Una sofferenza che io, povera vagabonda sfigurata, non potevo comprendere. Prima che potessi rispondere, con una battuta salace che adesso non rammento, la porta si aprì, e ne emerse Aevo, pallida come un morto, con uno straccio imbevuto in mano, ed una fasciatura improvvisata sul collo affusolato. Ci fu un attimo di silenzio, mentre ci guardavamo interdetti. Chekaril s’interruppe, e ci fissò, prima lei, poi io, lasciando che il sangue scorresse dal naso, lasciando gocciolasse dal mento e macchiasse gli abiti. Sembrava non curarsene. Non riuscivo, inizialmente, a capire. Allora… no. Non volevano sicuramente uccidermi. Stavano mantenendo, assurdamente, la loro promessa. Avrebbero fatto meglio a fuggire. Nessuno sapeva come sarebbe andata a finire, però. Forse il Principe si fidava di me. Capii, in un lampo, quali fossero le intenzioni dell’elfa. Voleva togliere il camuffamento, un gesto per lei pietoso. Stranamente, in quell’attimo cristallizzato, non ebbi paura come prima. Un pensiero perverso mi si scatenò in mente, una smania terribile ed indomabile. Sentii una strana calma impossessarsi di me. Volli far vedere a Chekaril cos’ero diventata, per lui, cosa mi aveva reso una trappola, da lui probabilmente progettata. Bastardo. Bastardo! In un attimo, mi portai di fronte ad Aevo, strappandogli lo straccio fradicio da mano. Lei si scostò leggermente. Abbassai il capo, e mi girai in modo non mi vedessero. Volevo vedere l’orrore comparire nei loro occhi alla vista di tutte le cicatrici, e non solo di una parte. Volevo che vedessero cos’ero davvero divenuta. E, ancora, non volevo che mi vedessero in quel momento così personale. Stavo per tornare me stessa, senza più sotterfugi od imitazioni. Nemmeno dai Tengu ero stata così…me, come lo sarei stata in quel momento. Solo Tijorn e Junielle sapevano cosa c’era dietro al mio guscio.  Nessuno parlava. Mi strofinai lo straccio una sola volta sul viso, poi lo osservai. Era vero: il camuffamento si stava sciogliendo letteralmente. Lo strofinaccio era già sporco. Ripresi a pulirmi il viso, meticolosamente, fino a quando, dopo poco, non ci passai una mano, sentendo tutti i segni al loro posto. Feci una smorfia. Non era piacevole, pensare di ritornare il mostro di una volta. Passai rapidamente alle mani, che furono molto più facili da pulire, e poi fui pronta. Mi lasciai cadere il panno, ormai inservibile, dalle mani. Il lieve tonfo che fece fu lo scoppio di un cannone, in quel silenzio irreale. Potevo avvertire la tensione nell’aria. Ero pronta. Gioia selvaggia. Tirai un gran respiro. E poi, impassibile, mi girai verso i due coniugi.

 

Registrai in un attimo le loro reazioni. Aevo fu la prima che guardai, la più vicina. Lei squittì, portandosi le mani alla bocca, e mi guardò con occhi sgranati, terrorizzati, da animaletto in trappola. Poi cominciò a singhiozzare, nascondendo il viso. Non voleva guardare. Non voleva guardare! Quasi risi. Ma Chekaril era quello che m’interessava. Spostai lo sguardo verso di lui, lentamente. Mi guardava, pietrificato. Allungò subito la mano sinistra, con movimenti torpidi, forse per toccarmi. Solo all’ultimo momento cambiò idea, passandosela sulla faccia. Notai il suo tremito convulso. La rabbia scomparve come per incanto sul suo viso pallido, sostituita da una dolente incredulità. Non poteva crederci. Ma come? Non aveva previsto che sarei stata io a dargli la caccia? Non lo sapeva? Mi aveva sottovalutata, e di molto. Lui deglutì. Poi le gambe non lo ressero più. Cadde in ginocchio, respirando affannosamente, senza staccare gli occhi dal mio viso. Mi sentii trionfante: ero riuscito a ferirlo. “e così è per metà intera del mio corpo, Chekaril”. gli dissi, con un tono tetro e piatto, che quasi mi stupì. Delusione, rabbia, dolore: tutte si erano sublimate in quella calama, sadica, pazzia. “la tua trappola illusoria. Sei stato tu. Non lo prevedevi? Non prevedevi sarei stata io a darti la caccia?”. Fu il suo turno di tremare incontrollabilmente, preda di un’emozione troppo grande per essere espressa. Alla fine, un paio di lacrime scesero dai suoi occhi feriti, seguite da molte altre. L’avevo scioccato. Entrambe le mani corsero ad artigliarsi i capelli. No, mi correggo: era disperato. Sembrava completamente fuori di sé. Aprì per un paio di volte la bocca, come un pesce, ma quello che ne uscì non furono altroché sillabe senza senso. Poi lui chiuse gli occhi, dondolando un po’. Finalmente, in un mormorio, riprese a parlare “non sono stato io, Lsyn! Io non sapevo!”. Sussurrò, a voce così bassa che mi dovetti avvicinare, a capo chino. “perché? Perché ti ha fatto questo?”. Il pianto gli incrinò irrimediabilmente la voce, e lui serrò le labbra. Dopo un breve silenzio, riprese a parlare, quasi con un gemito di dolore. “Lainay! Mia sorella ha preparato tutto. È stata lei!”. Cosa? Lainay? Mi sentii invadere da un’ondata d’incredulità. La mia Regina? No, non era possibile. Probabilmente, non avevo capito bene. Non dovevo aver capito bene. Quella confessione era troppo strana. “non ho capito, scusa”. Gli dissi, con uno strano tono, tra il cortese e l’incerto. Sentii vacillare qualcosa in me, di nuovo. Ebbi la netta impressione che le mie nuove sicurezze sarebbero state infrante di lì a poco. E così fu. Quella confessione mi sconvolse. E fu lì che preparai la mia atroce vendetta. Chekaril, infatti, alzò il viso di scatto, aprendo gli occhi scintillanti di lacrime. Mi guardò, pieno di furore represso. “è stata Lainay, Lsyn! Lainay! Lainay ci aveva scoperti!”. Gridò, digrignando i denti. Un urlo straziato. Nei suoi occhi brillava il dolore, un dolore mai sopito, una rabbia sempre repressa, dei segreti mai detti ad anima viva. Sembrava ansioso di condividere queste cose. “Lainay sapeva di me e te, sapeva tutto! È stata Lainay a chiedermi di continuare a vederti, è stata Lainay a chiedermi di avere un figlio da te, è stata Lainay a preparare la mia sparizione, ed è stata lei a procurare tutte le tue disgrazie!”.

 

 

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Capitolo 47
*** Come un giocattolo. ***


Non volli capire

Non volli capire. Non volli. Non poteva essere. Non poteva! Tutta la mia rabbia, la mia terribile furia dolorosa, di dissolse in un vago sentore d’incredulità. Fu un colpo troppo grande, che oserei paragonare solo al momento in cui Tijorn mi diede la lettera di Akita, e solo a quello. Solo in quegli attimi mi ero sentita vacua, vuota e confusa, come lo ero in quell’esatto momento, separata da un muro di cotone dalla mia restante ragionevolezza. Il mondo girava per me al contrario. “la Regina?”. Domandai, fissando la figura tremante e singhiozzante di Chekaril. Quasi non me ne accorsi, ma tremavo anche io. Avevo freddo, tanto freddo, e mi sentivo il capo leggero. Ero scossa. E scossa è dir poco. “la mia signora, Chekaril? Cos’è, uno scherzo?”. Mi costrinsi a ridere, ma la risata che finsi risultò sgradevole e stridula. Mi sentivo legata mani e piedi. Non era possibile… allora… Chekaril non mi aveva mai amata? Ero stata solo uno strumento, una pedina? Mi sentii malissimo: lo stomaco si torse con violenza inaudita, e fu solo la mia volontà ad impedirmi di crollare a terra. Ciò che seguì ancora mi tormenta. Quella confessione ancora mina il mio animo. Il Principe mi guardò, il viso pallido, sfatto, inondato di lacrime. Sentivo, come provenienti da un'altra dimensione, i singhiozzi soffocati di Aevo. Chekaril deglutì, una volta, facendo un debole segno di diniego. Per poco la gambe non mi ressero. Perché? Perché proprio io? Che avevo fatto di male? Io ero nata Spia, ed avevo svolto ogni mia missione con egregia puntualità e perfezione! Avevo versato sangue, sudore, lacrime, per la mia sovrana! Avevo mangiato la polvere migliaia e migliaia di volte per lei! Avevo perso tutti, solo per esaudire ogni suo desiderio! Qual era il mio peccato, allora? Cos’avevo fatto per meritarmi un trattamento del genere? Mi sentii, più che mai, tradita, e smarrita, come una bambina in una piazza affollata. Lainay, fino a quel momento, era stata il mio più importante punto di riferimento. Lei disponeva della mia vita a suo piacimento. Io le avevo donato fedeltà assoluta ed incondizionata, come un cane verso la sua padrona. E lei? Lei cosa aveva fatto, per me? Mi aveva sfigurata. Mi aveva reso l’essere più immondo e viscido di questa terra. Mi ero fidata di lei, dei suoi ordini, delle sue storie! E venivo ripagata con delle bugie, delle ferite, usata come uno straccio, da buttare quando smette di servire. Pensavo la mia Regina mi tenesse in considerazione, pensavo che mi rispettasse come sua fedelissima servitrice, come un’eroina! No, non era così. Né lo sarebbe mai stato. Io… io ero stata usata. Era stata lei a sfigurarmi, per poi disprezzarmi, come se l’errore fosse stato mio? Ed era una cosa troppo terribile, troppo scioccante da pensare. Erano troppi i dubbi, per non esprimerli a parole. Mi dovevo sfogare. Ma non ne avevo la forza. Mi guardai attorno, smarrita. Cominciavo a sentirmi debole. Poi, in uno stato di vacuità tremante, rivolsi i miei occhi di nuovo verso Chekaril. Non potevo neppure immaginare lui mi avesse presa in giro, ottenebrando la mia ragione, ubriacandomi di baci, di carezze e vane promesse, fino a farmi dimenticare il mio stesso essere Spia. Non potevo pensarci. C’erano troppi punti oscuri. La matassa doveva essere sbrogliata. Dovevo domandare, per mettermi l’anima in pace, o distruggerla. Cominciai dalla cosa che mi premeva di più. E da lì, tutto si fa ovattato. Come se io non fossi stata altro che entità eterea. Ero troppo scioccata per rendermi conto di avere una mente ed un corpo. “allora… Chekaril…”. Esordii. Con una voce pigolante, che non riuscivo a riconoscere come mia. “tu… non mi hai mai… davvero…”. Il Principe mi guardò, serio, arricciando la bocca, in un gesto contrito. Dopo una brevissima pausa, in cui spostò lo sguardo verso Aevo, figura scioccata e tremolante a cui non feci più caso, per poi riportarlo su di me, si decise a parlare. Esitante. “io….Lsyn…”. Soffiò, con voce ancora un po’ incrinata, per poi mordersi il labbro inferiore. Ebbi paura di ciò che stava per dire, sebbene, in un certo verso, lo presagissi già. La sua fama di adescatore e frivolo donnaiolo era stata, allora, già più che consolidata. Finalmente, dopo un ennesimo sospiro, Chekaril si decise a confessare. E nessuno lo fermò più. La sua voce si fece sempre più urgente durante il racconto, sempre più rapida. Si fermava solo per riprendere fiato, trascinandomi nel più brutto incubo ad occhi aperti che io abbia mai avuto. Mi guardò per tutto il tempo con occhi imploranti, ed io lo odiai più che mai si può, dall’amore, passare all’odio più assoluto? Oh, si. Si può. Stupido, debole, elfo. “eri bella, Lsyn. Molto bella. Avevo sentito parlare delle tue gesta, e Lainay mi raccontava di te. Eri una Spia potente, allora, e volli conoscerti”. Un sorriso triste affiorò sul suo bel volto, un sorriso che mi fece venir voglia di dargli un calcio, di fargli del male. Viscido bastardo. Poi lui riprese a parlare, rapido, dopo aver tirato un profondo respiro, come se quella confessione gli costasse molto. “e quando ti vidi, per la prima volta…”. Scosse la testa, come un cane bagnato, ancora incredulo. “dei, Lsyn…non penso ti sia mai accorta dell’effetto che avevi su elfi ed umani. Il fascino di ciò che non si può avere, hai presente? Ed io ti desiderai, Lsyn, desiderai averti tutta per me. Eri un Cane della Regina, il Cane più attraente sul quale io avessi mai posato gli occhi. Tu eri un gioiello, per me, il gioiello più inestimabile del proibito tesoro reale. Il più bello. Volli averti ad ogni costo, volli conquistarti con ogni mezzo. Perché non è mai stato da me perdere una sfida. Una tresca nascosta: esisteva un invito più allettante, per me? Lainay non doveva sapere: sarebbe stato troppo pericoloso, ed avrei osato troppo. Fu proprio quello, stranamente, a fungere da pungolo, sai? Eri una preda difficile, lo ammetto. Circuire una nobile sciocca non era per nulla difficoltoso…ma una Spia? Avrebbero funzionato le strategie di seduzione che affinavo da secoli? Non sai che gioia, fu, vedere che tu ricambiavi il mio interesse! Non sai che soddisfazione, fu il vederti accettare il mio invito, donandoti a me con tutta te stessa!”. Ero sempre, sempre più sbalordita, arrabbiata e ferita. Mi aveva presa in giro, nel modo più atroce che mai avesse potuto escogitare. Lui non voleva altro, come un cacciatore che appende le teste delle sue prede al muro di casa sua, vantarsi con sé stesso di aver posseduto una Spia, di essersi preso gioco della sua stessa sorella! Ed io mi ero abbandonata al suo amore con la fiducia di un’infante. Non riuscii a crederci. Dovetti fermarmi, dovetti farmi quasi violenza, per non uccidere seduta stante quel vile essere, che mi guardava, con fare colpevole. “sono stato meschino, Lsyn, sono stato un bastardo!”. Ringhiò, digrignando i denti, come se quella confessione gli costasse molto. Soffriva. La cosa mi fece piacere. “chi avrebbe pensato che tu ti fossi davvero innamorata? Perché non avevo contato la tua relativa gioventù?”. Il ghigno doloroso si trasformò in un repellente sorriso dolce, che mi fece andare con la memoria a tempi più felici, che, in quel momento, mi facevano venire i brividi. “perché tu sei più giovane di me, Lsyn….tanto più giovane… e sebbene Spia… ancora non hai capito come va il mondo. Sei così ingenua, una bambina nel mondo dei sentimenti… e per me era facile…così facile…”. Mi lasciai sfuggire un ringhio involontario, e vidi l’espressione di Chekaril farsi preoccupata. Sapevo benissimo quanto fossi ingenua, grazie. “se non la smetti di chiamarmi ingenua, ti ucciderò qui, seduta stante”. Mormorai, tremando di rabbia. Avevo una volta provato amore per quell’essere viscido. Ora godevo nel vederlo tremare di paura. “ma forse, se continui a spiegare, ti risparmierò la vita”. Chekaril mi guardò, deglutendo, e poi riprese a parlare, tremando leggermente, con voce malferma. “per me, Lsyn…eri…solo un giocattolo. Uno dei tanti. Certo, tra quelli più belli, la creatura più affascinante sulla quale io abbia mai posato gli occhi, ma… eri solo un giocattolo. Ti avrei abbandonata non appena avessi trovato un obiettivo più…goloso, diciamo così…”. Solo gli dei sapevano quanto quelle parole, casuali, veritiere e ciniche, mi stessero ferendo. Solo un giocattolo. Un gioiello prezioso, una preda golosa. Ero considerata così dall’unica creatura che mi ero permessa di amare davvero. Chekaril fece una smorfia amara. “tuttavia…”. Disse, esitando. “quando tornai all’alba, il giorno in cui dovevi partire per la missione, trovai Lainay ad attendermi nelle mie stanze”. Oh, no. Era stata quella sua mossa a svelare tutto. Non avrei mai saputo nulla, se solo non fosse venuto a casa mia, per salutarmi, e vedermi un’ultima volta. Sarei rimasta sana, intatta ed innocente. Il Principe chiuse gli occhi, sospirando di nuovo. Sembrava gli costasse molto parlare di quelle cose. “la prima cosa che fece…fu quella di domandarmi se mi ero divertito, con te, quella notte”. Lui digrignò di nuovo i denti. “mi piombò il mondo addosso, davvero…cercai di negare, di proteggerti, d’inventarmi una falsa amante… ma lei fu irremovibile”. Scosse il capo. Ero incredula: messa nel sacco come una novellina. “mi aveva fatto seguire dal primo momento, non appena si era resa conto che io avevo posato gli occhi su di te. Ci aveva fatto spiare, e sapeva tutto di noi. Tutto”. Ed io non mi ero mai resa conto di nulla. Davvero, davvero, un’ottima Spia. La voce di Chekaril, in quel momento, s’incrinò ancora di più, e lui, aprendo gli occhi, mi guardò, con lo stesso atteggiamento disperato di prima. “lei…lei mi pose davanti ad una scelta, Lsyn”. Il tono divenne più amaro. “e sai cosa mi disse? Lo sai? Lo sai che mi disse, con quella voce insopportabilmente dolce che si ritrova? Ovviamente, non posso evitare che tu corra dietro a tutte le sottane che si muovono, Chekaril, ignorando i rischi che comporta tale atteggiamento, per la nostra stirpe, e per la tua fama regale. Il tuo atteggiamento non è degno. Tuttavia…potrei soprassedere, se tu non avessi circuito la mia migliore Spia. E qui sorrise, Lsyn, davvero, come se godesse dal farmi male! Mi guardava come una gatta guarda la sua preda, Lsyn…tu non puoi capire…”. Mi diedero enormemente fastidio quelle parole. Chi credeva io fossi? Un’infante? Lainay mi aveva guardato più di una volta in quel modo, come un felino che si lecca i baffi. Ed avevo sempre temuto quello sguardo. Conoscevo fin troppo bene sua sorella per non interpretarlo come presagio di guai certi. Feci per parlare, quando Chekaril alzò una mano verso di me, implorandomi di lasciarlo continuare. Lo lasciai fare. Chi lo avrebbe più fermato? I segreti, il dolore di una vita intera, sembravano tradursi un quel fiume inarrestabile di parole. Compresi perfettamente il motivo del suo sguardo sparuto, e colpevole. Soffriva per me. Lui riprese così a parlare. “Lsyn…mi diede un ultimatum. Lsyn mi è preziosa. Non posso permettere che tu la distragga.  Avevo intenzione di ucciderla, Chekaril, a dirti la verità…ma poi…ho cambiato idea. Lei potrebbe essermi utile anche in un altro modo. E lei mi sorrise di nuovo, Lsyn…mi sorrise di nuovo! Sapevo che mi stava per tirare un terribile colpo, e così fu, sai? Si fece seria, tanto seria… e come ricordo bene le sue parole! Resta con lei, Chekaril. Non osare lasciarla. Devi farlo per me. So quanto tu la consideri, e come la consideri, ma lei è troppo preziosa. Sai che sono sterile. Io ho bisogno di un erede, e tu puoi darmelo. Voi potete darmelo. Lsyn può avere figli, ed è di sangue nobile. Non saprebbe mai la fine di suo figlio, perché imbastiremo una sceneggiata, in modo che lei creda sia andato alle Spie. Lo alleveremo nel castello, Chekaril, e sarai il padre della prossima stirpe di re! Cercai di obiettare, cercai di difenderti. Non volevo usarti in quel modo orrendo! Non volevo, lo giuro!”. Supplice schifoso. Lo odiavo. Lo odiavo! Tremai di rabbia, per la smania di ammazzarlo, alla quale per poco non soccombetti. Ma i miei interrogativi dovevano essere sopiti. Dopo avrei pensato a come fargli del male. Chekaril riprese a parlare, con voce supplichevole, e rapida. “lei sai cosa mi rispose? O quello, Chekaril, o darò l’ordine di ammazzarla. Datemi un erede, e tu potrai tradire quante volte vuoi. Cosa potevo fare, secondo te? Mi ripugnava l’idea di toccarti, baciarti, amarti, solo per quell’obiettivo. Avrei, tanto, voluto lasciarti. Ma Lainay mi assicurò che, se fossi stata tu a lasciarmi…non sarebbe successo nulla”. Di nuovo un sorriso amaro affiorò su quei lineamenti sconvolti. “cosa potevo fare, secondo te? Al tuo ritorno, mi diedi da fare per farmi odiare. Divenni violento, possessivo, incomprensibile, come mai lo ero stato. Tu mi amavi lo stesso. Cercai di rendere più visibili possibile i miei tradimenti, le mie tresche, ma tu non mollavi. Hai mai capito la forza dell’amore? Lainay lo sapeva, ti conosceva benissimo. Sapeva che non mi avresti mai lasciato di tua spontanea volontà. Mi terrificava l’essere così manesco, distruttivo, rovinare un fiore dai rari colori, solo per non farlo cogliere da altri. Ma dovevo farlo. Non volevo tu fossi solo uno strumento del Regno! Eri stata mia! Le cose mie non si toccano!”. Dei, quanto mi faceva schifo, con quel suo sorriso dolce, ed il comportamento ferito. Dei…lo odiavo. Non volli fermare quel flusso di parole abiette, solo per curiosità. Dovevo sapere, e torturarmi. Povera me. “Ed immagini quanto la notizia della tua gravidanza mi abbia sconvolto? Lainay avrebbe avuto quello che voleva! Da un mio giocattolo! Quasi inammissibile. Cercai di non far trapelare la notizia, ricordi? Provai in ogni modo a convincerti di disfarti del bambino. Ma tu…nulla. Tu mi amavi. Tu eri…tu eri felice! E fosti tu a chiedermi di donare nostro figlio a Lainay, come un’offerta votiva! A lei! A quella sadica maledetta! Mia sorella non è conscia della reale superiorità elfica. Mia sorella è solo una pazza dalle orecchie a punta. Lei non sa nulla della reale potenza della nostra razza piena di grazia! Lei non lo sa! Ma io devo obbedirle!”. Come no. E lui lo sapeva. Guardai brevemente Aevo. Ero quasi sicura di trovarla schifata quanto me. Invece no. Lei fissava suo marito quasi con pietà, ed amore incredibile. Non sembrava nemmeno sorpresa. Sospettai che lei sapesse già tutto. “quando nacque Roxen…Lainay era la creatura più felice del mondo. Vedeva il suo sangue salvo. E quando la ebbe al castello…lei era la sua bambola. Vedi, mia sorella ha sempre desiderato avere figli. Sempre. Sua nipote era il suo strumento preferito, e già pensava a come farla crescere, viziata, coccolata, nel rispetto delle più rigide regole di allevamento elfiche.  Io ne ero disgustato, e chiesi di essere lasciato fuori da tutto. Non volli più vedere la nostra bambina. Volli dimenticare della sua esistenza, e m’immersi in una vita di scontri. E fu lì che la mia vita cambiò”. Di nuovo lo sguardo si fece duro, e cattivo. Quasi seppi cosa stava per dire. Benedetto Regis. “quel bastardo di umano…quello schifoso mortale…mi ha reso invalido agli occhi degli elfi. Agli occhi di Lainay. Ai suoi occhi non servii più ai combattimenti. Ero un giocattolo difettoso. Venni da lei etichettato, così,immediatamente, come allevatore. Il clima di corte stava diventando troppo rovente, e la bambina non era più al sicuro. Così… una notte, fece sparire me, Roxen e la sua dama di compagnia, nascondendo tutte le tracce…”. Lo sguardo si posò su Aevo. Uno sguardo tenero, pieno d’amore. Toh. Tu guarda. Dei, io avrei ucciso quell’elfa! Poco, ma sicuro. L’avrei torturata sotto gli occhi del marito, per poi fargli mangiare il cuore. Bastarda. “un drappello di guardie ci condusse in una casa isolata sulla costa, e lì vivemmo per qualche anno. Sapevo, ho sempre saputo, che tu mi avresti dato la caccia. Della trappola ero quasi all’oscuro: Lainay mi aveva solo detto che aveva un modo per tenerti a bada”. La mia Regina…parlava in questo modo di me? Tirai su con il naso. Avevo una terribile smania di piangere, di sfogarmi. Ma non potevo. Non di fronte a loro. “beh…sai com’è…vivemmo dieci anni in quella casetta. Lì la vita mi ha insegnato molto. Benedissi il momento in cui  mi desti Roxen. Era il mio unico amore, la mia unica luce. Me ne innamorai, vivendo e parlando con lei. Realizzai solo in quel momento fosse mia figlia. E poi…”. Un sorriso, rivolto ad Aevo, un sorriso complice. “un giorno, capii cosa fosse davvero l’amore”. Oh. Bastardo. A cosa serviva evitare di parlare di certe cose, se mi aveva già uccisa con quello detto prima, esposto con tanta cinica sincerità? Ipocrita. Chekaril, riguadagnato un tono più sereno, mi guardò, e poi alzò regalmente il mento, grattandosi il naso. Era a disagio. Doveva aver capito i pensieri che si agitavano in me. “così, chiesi a Lainay di andare in un posto tranquillo, per godermi un po’ di vita serena, prima che Roxen fosse diventata adulta. E, alla nascita del piccolo Chekaril, il permesso mi fu dato. Mia sorella era davvero contenta. Un maschio: quale gioia migliore, per lei?”. Chekaril? aveva dato il suo nome a suo figlio? Cos’era, matto? O forse un po’ egocentrico. Forse ambedue le cose. “Ed il resto penso che lo indovini da sola, no?”. Oh, dei. Anche idiota. Fece una smorfia disgustata. Mi disse il resto con rapidità allucinante, come se volesse togliersi un peso. “tuttavia, non ha mai smesso di controllarci. Ad intervalli periodici ha mandato Spie per controllarmi, per vedere se stessi tenendo fede alla parola data. Tu sei una di quelle, presumo. Perciò ti aspettavamo. Hai visto il cadavere e la bambola meccanica, giù alla radura, vero?”. Annuii, stupefatta. Il puzzle si stava ricomponendo. E le tessere non mi piacevano. Per nulla. Né mi piacque il sorriso obliquo ed estraneo di Chekaril. “quello era un Immortale che si stava comportando male. Era un generale, un ufficiale di altissimo rango, fedele a Lainay fino alla morte. Tuttavia…”. Scosse il capo, con rassegnazione. Tutto ciò mi fece capire quanto poco conoscessi Chekaril. Avevo amato un mostro. “il potere può dare alla testa un po’ a tutti, no? Era venuto a controllarmi, ma si era lasciato prendere dalla sete di sangue. Prese ad uccidere i paesani, indiscriminatamente, fino a quando io, spazientito non lo sfidai. Non so per quale miracolo sia riuscito ad ucciderlo, tuttavia, ci riuscii. Lainay approvò il mio gesto, soprattutto perché, così facendo, mi guadagnai la gratitudine di tutta Gerinti, e la fiducia, che ancora non mi è stata tolta. Tutti qui sanno la mia vera identità. E tutti mi amano, e ci proteggono, indiscriminatamente. Diciamo…che sto facendo propaganda per il Regno!”. No. Quella risata stridula non gli apparteneva. Né quello sguardo gelido. Ma allora che avevo conosciuto? Chi avevo amato? Una bestia mi mangiava il cuore, divorandolo a gran bocconi. Vendetta, odio, rabbia, gelosia, delusione. Una bestia dai mille volti. “ed ecco tutto, Lsyn. Questo è tutto. Non sono mai sparito, nessuno mi ha rapito. Tornerò, tornerò nel Regno, quando Roxen sarà grande. Hai un Comunicatore? Potresti chiedere a Lainay la conferma della mia storia, e dire che è tutto a posto…”. Ecco! Il Comunicatore! Si accese qualcosa in me. Quelle parole cordiali accesero qualcosa in me. Il fuoco atroce della vendetta. Avevo sete di sangue, sete di morte. Ed ebbi via libera verso l’abisso.

 

 

 

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Capitolo 48
*** E' un ordine. ***


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Ciurma!

Ahhhh ahhh ahhh xD

Sono contenta nel leggere le vostre reazioni, davvero.

Siete il mio principale motore xD

Le vostre ansie di omicidio e castrazione sono ottime xD

Ma ancora dovete leggere xD

Mi dispiace non potervi salutare uno per uno, come si conviene…

Ancora, però, un saluto speciale a voi, Carlos Olivera e Selly, che ormai mi seguite da tempo immemorabile xD

Senza i vostri commenti…come sarei andata avanti?

Grazie **

Vi lascio al capitolo, che chiarirà le intenzioni di Lsyn (che so vi piaceranno… xD)

Au revoir!

Akita

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Guardai per un attimo Chekaril, e le sue lacrime di coccodrillo. Per una volta, non provai nulla, solo un odio bruciante, devastante. Perché io sapevo. Sapevo quanto fossero false. Sapevo quanto fosse falso il suo comportamento. Lo conoscevo fin troppo bene per non capire. L’odio scorreva in me con il sangue, devastando il mio essere. Vedevo l’astuzia scintillare in quegli occhi falsamente umidi, l’astuzia di chi sa di aver già vinto. Davvero? Pensava di aver vinto, di avermi vinta per sempre? Allora non mi conosceva! Bramavo vendetta. Avrei cancellato quel sorriso dolce ed ipocrita dalla faccia della terra, per sempre. L’amore mi aveva davvero offuscato la ragione. La mia rabbia, il mio dolore…tutto si era sublimato in quell’odio puro, senza confini. Mai più, mai più ho provato un sentimento così fortemente negativo. Non avrei mai più amato tanto da odiare. Il fuoco della vendetta mi ottenebrò i sensi. Ed allora, riguadagnai tutta la dignità perduta, la dignità di una belva in gabbia. In un attimo, capii cosa dovevo fare, e, in me, ne sorrisi. Il piano fu pronto, nella mia mente devastata. Lui, quell’elfo dai lunghi capelli biondi, e dallo sguardo falsamente sincero, me l’avrebbe pagata, per avermi presa in giro così impunemente. Aevo, quella stupida elfa rasata, me l’avrebbe pagata, per avermi rubato un’illusione, per aver avuto un figlio dall’unica creatura che, sfortunatamente, mi era capitato di amare così incondizionatamente. La mia Regina me l’avrebbe pagata, lei più di tutti. Mi avevano rubato la vita. Mi avevano rubato le mie illusioni. Mi avevano rubato l’innocenza. Mi avevano rubato la bellezza. Mi avevano rubato gli affetti. Mi avevano rubato tutto! Ed io, io cosa avevo fatto? Avevo strisciato al cospetto della Regina come un verme, mi ero concessa totalmente ad un bastardo impunito, avevo risparmiato la vita ad un’insulsa elfa, umiliandomi ancora di più! Venni assalita da una tremenda smania di uccidere. Chekaril mi aveva offerto la sua testa su un piatto d’argento, credendo di riuscire ad incantarmi, come aveva fatto tante volte in passato, con quelle parole piene di miele. Ma io ero cambiata. Il mondo attorno a me era cambiato. Non riuscivo a pensarci. Avevo lasciato Tijorn per cercarlo. Avevo lasciato il mio dolcissimo fratello solo, preoccupato a morte per me. Avevo lasciato l’elfo che mi era stato vicino, più di tutti, seguendo ogni mio passo con lo sguardo, pronto a sorreggermi ad ogni caduta, spronandomi ad andare avanti. Ed io l’avevo lasciato solo, ottenebrata da un’ossessione, che si era rivelata la mia rovina. L’avevo fatto soffrire immensamente. Magari non voleva nemmeno più vedermi. Non mi sarei stupita se fosse successo. Ovviamente, quando e se fossi tornata. Il pensiero di Tijorn acuì il dolore. Per chi l’avevo abbandonato? Per un debole fedifrago dalla mente perversa. Benedico, tuttora, la rabbia che mi offuscò il giudizio. Perché, se fossi stata lucida, non avrei potuto fare quello che ho fatto. Inorridisco al solo pensiero, sebbene cerco di ripetermi quanto quel gesto fosse necessario. La vendetta è sempre dolce, ma in quel caso, non fece altro che distruggere i resti della mia innocenza, della mia voglia di combattere, e vivere ancora. Forse ancora oggi amo Chekaril, ancora oggi soffro per la sua confessione, ancora oggi non voglio crederci. La spada di Eiron avrebbe dovuto assaggiare tanto sangue, prima di essere lavata d’ogni colpa. Ma, guardando il mio amato Principe, ancora inginocchiato di fronte a me, dentro di me scorreva solo gioia selvaggia, la gioia pregustata di una sadica vendetta. Non m’importava della mia anima. Volevo solo il suo sangue. Ero ferita, la mia anima a stento si teneva insieme, e lo sapevo. Chekaril giocava proprio su quello. Non aveva contato che una belva ferita, seppure sanguinante e sfinita, è ancora più pericolosa, proprio per il dolore che cova. Ribollendo d’ira selvaggia, sfoderai il mio, migliore, falso sorriso. Feci finta di cascare nell’ingenua trappola che mi avevano teso. Il primo passo verso l’annientamento. Lainay stava per pagare atrocemente tutti i suoi misfatti. “oh… quindi è tutto a posto, vero? Il Regno è salvo?”. Stupii i miei interlocutori con la mia voce calma, lievemente modulata, un tono che suggeriva una vaga, incredula, felicità. Chekaril ed Aevo si guardarono. Forse pensarono seriamente fossi impazzita. Mi trattenni giusto in tempo dal ghignare. Non sapevano quanto vicina fosse la loro fine. Il mio amato, poi, mi guardò, aggrottando lievemente un sopracciglio. Mi scrutò, cercò di capire quali fossero i miei pensieri. Una cosa che non doveva accadere, in nessun modo. Perché l’avrei solamente spaventato. Nascosi me stessa sotto un velo di freddo interesse, come un serpente divertito. Sapevo farlo molto bene, e lo feci. Non ero mai stanca di fingere. Non quando sarebbe stata l’ultima volta. Il piano era già completamente formato nella mia testa. Si trattava solo di metterlo in atto. “si, Lsyn…il Regno è salvo”. Quasi sorrisi al suo tono cauto. Oh, si: aveva capito benissimo che qualcosa non andava. Era una fortuna non sapesse cosa si agitava nella mia testa. Mi sentivo dileggiata, usata, tradita, trattata come una stracciona. Solo una volta ero stata presa in giro così vigliaccamente, quando ero ancora infante, e la mia vendetta era stata terribile. Una banda di Sharilar chiamava me e Tijorn straccioni, orfani, poveracci, figli di un ubriacone. Ci perseguitavano, ci tiravano bucce e scarti, urlavano al nostro passaggio frasi offensive, ogni volta che andavamo nel villaggio. Mio fratello, spesso e volentieri, si cacciava in assurde risse, dalla quale usciva sonoramente sconfitto, destinato a ricevere altre legnate dal Maestro, che non tollerava certi comportamenti. Ma lui non faceva altro che cercare di difendere me ed Amarto. Detestava, come me,  la nomea da alcolizzato del nostro Maestro, anche se sapeva quanto fosse vera. Odiava quando io, al termine di ogni gita, scoppiavo in lacrime di rabbia, conscia di non poter fare nulla. E perciò si cacciava, ogni volta che toccavamo il suolo della piccola città, in ogni sorta possibile ed immaginabile di guai. Io non reagii così. Aspettai, ed aspettai. Non feci altro che aspettare, aspettare il momento in cui sarei diventata una nuova Spia, ed avrei ricevuto il mio nome. E, quando finalmente divenni l’Ombra, e fui mandata con lo stesso Tijorn nella mia prima missione ufficiale, decisi di fare una piccola deviazione. Ebbi così la vendetta che tanto bramavo da anni. Sotto gli occhi sconcertati di mio fratello, feci fuori tutti i componenti della piccola banda che tanto ci aveva vessato, facendomi riconoscere da ognuno di loro. Avevo gioito, e tanto. Quella vendetta atroce aveva sancito, una volta e per tutte, la nascita dell’Ombra, della crudele Ombra, silenziosa ed implacabile. Perché quell’episodio mi veniva in mente così instancabilmente, lì, in quella stanza da letto buia? Perché le urla soffocate di terrore delle mie vittime, facevano da accompagnamento al mio piano? Ah, come gioivo! Trasformai la mia smorfia di rabbia in un sorriso luminoso, aperto e gioioso, tutto per Chekaril. Fu in quell’esatto momento che capii di averlo in mio potere. Perché, si, lui rispose al mio sorriso, con uno dei suoi irresistibili ghigni sghembi, e poi guardò Aevo, trionfante. Pensava di aver vinto, il caro principino. Barcollando un po’ si alzò, per poi sospirare, guardandomi con aria colpevole. “davvero, Lsyn…mi dispiace tanto”. Sussurrò, con fare confidenziale, avvicinandosi, e tendendo la mano verso la parte sfigurata del mio viso. Lo lasciai fare, nonostante mi ribellassi al solo pensiero, disgustata. Fui costretta a lasciarlo fare. Trovai il contatto repellente. Quante volte avevo sognato quelle carezze? Quante volte avevo agognato quel contatto così confidenziale con lui? Quanto ero stata stupida? Detestavo quelle moine false. Quelle mani delicate mi sembravano sporche di sangue, del mio sangue. Dovetti farmi forza, per non girarmi, e mordergli le dita a sangue, come una bestiolina selvatica. Ma non potevo. Avrei mandato il mio piano a monte. Così, mi limitai a sorridere dolcemente, cercando in ogni modo di apparire la sciocca Spia innamorata, com’ero stata fino a poco tempo prima. “non sono stato io a sfregiarti in questo modo orrendo…”. Oh, no, Chekaril. Lui aveva fatto di peggio: aveva distrutto la mia anima, l’aveva allegramente sfregiata, senza curarsene minimamente. “io non volevo. Come potrò mai sdebitarmi?”. Morendo, Chekaril, morendo. Ed io sapevo già il modo in cui l’avrebbe fatto, e la mano che l’avrebbe fatto. I due fratelli avrebbero pagato per ogni ferita che avevano inciso sul mio corpo, nella mia anima. Rimasi a guardarlo, mentre il suo viso si illuminava. Finalmente, con mio grande sollievo, mi lasciò stare, smettendo di toccarmi, e si girò verso Aevo. “dove hai messo il nostro Comunicatore?”. La cosa mi prese alla sprovvista. Cosa? Avevano un Comunicatore? Lainay gli aveva accordato quella fiducia? Ma a cosa serviva, poi? Chekaril non era in grado di usarlo: non aveva potuto regnare proprio per l’assenza di potere magico, la caratteristica dei regnanti elfici. Lo scettro era andato alla gemella, Lainay, e lui era stato destinato ad una brillante carriera militare, bruscamente interrotta a causa di un umano. Non avrei mai finito di benedirlo, solo per aver dato un tormento infinito a Chekaril, per averlo così astutamente torturato. Benedetto Regis. Benedetto. Perché Chekaril, un tempo, andava fiero della propria posizione, della propria bellezza perfetta. Rimasi a guardare la moglie del Principe saltar su, tremante, ed uscire di scatto fuori dalla camera. Che elfo furbo: aveva trovato un ottima cagna ammaestrata con la quale giocare. Non mi stupì più di tanto l’amore che provava per lei. Scommettevo l’avesse già tradita di nascosto, più di una volta, con le belle giovani del posto. Ero stata così stupida da non notare l’astuzia del mio amato? Ero stata così ottenebrata dall’amore? Chekaril, di nuovo, si girò verso di me. “è un regalo di Lainay”. Disse, cercando forse di spiegare tutto, tranquillo, tendendomi una mano, che io presi, cercando in ogni modo di non apparire rigida, o tesa, o arrabbiata, cercando di apparire piena di entusiasmo. “lo usiamo per mettere in contatto le Spie che vengono a controllarci con lei. Su, coraggio, cominciamo a prepararci…”. Mi condusse su una delle sedie, sulla quale mi fece sedere. Io fremevo, ma non di gioia. Già pregustavo il sangue che sarebbe scorso. No: non m’importava della piccola Roxen, non m’importava del piccolo Chekaril, non m’importava del dolore che avrei a loro recato. Sapevo già cosa fare. Li avrei portati dalla loro zia, come voleva, e poi sarei andata a morire da qualche parte, sola. La mia missione era pericolosamente al termine. E non vedevo futuro, oltre di essa. Vedevo solo oscurità, dolore, e morte. Era insopportabile il pensiero di una vita lunghissima, con un fardello del passato così pesante, troppo per poter sopportarlo. Il mondo era abbastanza grande per permettermi di sparire, di andare da qualche parte, per non comparire più, se non nella memoria labile di qualcuno. Dopo avermi fatta accomodare, Chekaril si posizionò di fronte a me, inginocchiandosi, in modo da trovarsi al mio livello. Ero così impegnata nel tentativo di concentrarmi, che quasi non lo notai. Mi venne un colpo quando me lo trovai a pochi centimetri dal mio viso. Mi guardava, ansioso. “perché mi stai fissando così, Chekaril?”. Domandai, con voce innocente. Oh, si: sospettava qualcosa. Non era certamente sciocco! Dovevo prepararmi a tutto. Lui sapeva usare benissimo la sua bellezza accecante come arma. Il Principe si avvicinò ancora di più al mio viso. Ebbi un pessimo presentimento. Il corpo mi tradì. Mi sentii arrossire, ed il cuore prese a battermi più velocemente. Maledizione. Lui se ne accorse, e sorrise dolcemente. “non vuoi tirarci qualche colpo basso, vero, Lsyn?”. Disse, fissandomi con i suoi intensi occhi viola. Dovetti farmi forza per non annegarmi dentro, incantata dalla bellezza di quell’elfo. Sapevo cosa stava facendo. Stava tentando di ammaliarmi, di far scemare la mia rabbia. Il problema era che ci stava quasi riuscendo. Cercai di appellarmi al mio buonsenso, e di dire qualcosa d’intelligente. Speranza vana. “no, Chekaril….dirò solo la verità”. Oh, dannazione. Come odiavo le promesse! Quello mi era sfuggito senza che io volessi. Sarei stata costretta ad infrangere un giuramento.  La cosa m’infastidì. Perché ero così dannatamente debole? Mi agitai, a disagio, quando lui mi sorrise, avvicinandosi ancora di più. Potevo sentire i suoi capelli solleticarmi il collo. “bene”. Sussurrò, con un sorriso astuto. Oh, no. Seppi subito cosa aveva intenzione di fare. Ma non ebbi il tempo di ritrarmi, di fuggire, di evitare quel gesto, che mi avrebbe perseguitato, e che mi perseguita tuttora. Un gesto incomprensibile, classificabile solo come ultimo, inutile, tentativo di asservirmi al suo potere. Lui sapeva che io gli stavo nascondendo qualcosa. Perché quel bastardo mi baciò. Mi baciò, un bacio freddo, calcolato, avido. Mi pietrificai, stupefatta, e lo lasciai fare. Ero troppo sorpresa per ribellarmi. Maledetto! Perché mi faceva questo? Perché? Tutta la rabbia, e l’odio, che avevo dentro, rimontarono con intensità doppia. L’unica cosa che m’impedì di schiaffeggiare il Principe, incurante delle conseguenze del mio gesto, fu l’arrivo di Aevo. Chekaril si ricompose poco prima la sua entrata, prendendo un atteggiamento casuale, e gioioso, come quello di prima, ed allontanandosi considerevolmente. Bastardo doppiogiochista. Io non riuscii a cambiare espressione. Quel gesto, all’apparenza così inconsulto, aveva finito per confondermi orribilmente. Oh, l’avrei ucciso. Nessuno si permetteva di usarmi a quel modo! E pensare che, solo pochi giorni prima, avrei pagato con la mia vita per un solo bacio di Chekaril. Strano, come il destino possa giocare scherzi sadici. La moglie non si accorse di nulla: era troppo ottusa per farlo, probabilmente. O forse troppo innamorata. Non appena fece un passo in quella stanza buia e calda, sentii la presenza del Comunicatore. L’avvertii, come avrebbe potuto avvertirla ogni elfo dotato di una stilla di potere magico. Quell’oggetto non era uno scettro, come quello che fino ad ora avevo usato io: era più che altro,  una grossa pietra grigia, a forma di uovo, liscia e screziata di nero. Correva, tutto intorno, un fregio, tipico in ogni Comunicatore. Mi vennero i brividi, e notai che anche l’altra elfa aveva la pelle d’oca. Aevo lo manteneva avvolto in un fazzoletto, con aria disgustata. Ottimo. Anche lei poteva percepirlo. Lei sapeva usarle la magia. Ciò che seguì, furono nient’altro che gesti ripetuti moltissime volte, come per ogni viaggio nel Piano. Ero così concentrata che precipitai immediatamente. Non ci volle che un attimo per la familiare esplosione luminosa, e, poi, per lo strano paesaggio buio, dove la luce non era altro che labile presenza, e dove i pensieri dei dormienti mi sfioravano l’anima.

La prima cosa che notai, fu che la mia Essenza stava cambiando. La cosa mi sconvolse, e per poco non mi persi: che mi stava succedendo? Cos’era cambiato, in me? L’ultima volta che ero andata nel piano ero uguale. Ed i cambiamenti non erano casuali. Dentro di me si stava sviluppando uno stravolgimento di cui io ero a malapena conscia. Non ero più il turbine buio, l’Ombra pericolosa ed indefinibile, non ero più…scura. Il nero si era trasformato in grigio, un grigio piacevole e perlato, quello della pallida bruma mattutina, destinata a scomparire al primo, timido, raggio di sole. La consistenza era impalpabile, una nube fragile. Tutto dava un’insolita aria di fragilità. Mi seccò mostrarmi a Lainay in quello stato, e cercai di apparire almeno più minacciosa. Provai a trasmettere la mia rabbia al mio aspetto. Nulla: ottenni solo di far diventare la bruma una nebbia compatta, e solida. Così andava meglio. Parzialmente soddisfatta, cominciai a cercare, febbrilmente. Non volevo lasciare il mio corpo indifeso per troppo tempo. Non mi fidavo di quella coppia diabolica. Finalmente, avvistai il familiare bagliore purpureo, e mi precipitai verso la Regina.

Qualcosa era cambiato anche in lei. Il gas luminoso si era trasformato in qualcosa di diverso… qualcosa d’indefinibile. Manteneva, di originario, solo il colore. Per il resto, avevo l’impressione di trovarmi al cospetto di una sezione di uovo, al cui interno splendeva un’informe cosa oscura, che mi diede l’impressione di…primordiale, di non ancora definito. Un cambiamento più grande in atto? O qualcosa di più? Cos’era successo, durante la mia assenza? Accantonai quasi immediatamente la questione. Non potevo distrarmi. In quel momento, quasi non ci feci caso. Sol dopo avrei compreso la natura terribile di quello stravolgimento, che ancora una volta, avrebbe travolto la mia vita, come un fiume in piena. Solo dopo avrei capito cosa significava quell’aspetto così insolito. Mi preparai alla mia pantomima. Non avevo mai mentito alla mia Signora, e la cosa mi risultò più difficile del previsto. Mia Regina! Mia Regina! Esordii, affannata. Anche la mia voce era cambiata: avevo l’impressione che a parlare fosse il vento. L’essenza regale non si scompose minimamente, al mio apparire. Sembrò quasi mi aspettasse. Ah...suppongo che tu sia Ombra. Esordì la voce, tranquilla come non mai, in tono casuale. Ah…come odiavo quel tono, così ricco di sottintesi! Gliel’avrei fatta amaramente pagare. La voce riprese il suo eloquio calmo. E suppongo anche che tu abbia scoperto di Chekaril… oh, poverina. Ancora non sapeva quanto la stessi giocando. Pregai che il mio aspetto non tradisse la bugia che stavo per dire. Ancora non sapeva quanto io fossi prossima a giocarla. Mi finsi affannata, disperata, spaesata. Tutte cose che ero, ma in un altro senso. Allora voi sapevate, Signora? Sapevate della sua ribellione e non avete ancora fatto nulla? Con quelle parole fintamente sdegnate, riuscii laddove in tanti avevano fallito: l’uovo perse la sua coesione per un attimo, preda di un’incredula furia. Solo il nucleo oscuro rimase al suo posto, tranquillo ed informe. La sua forma si dilatò, e scurì incredibilmente. Come, ribellione? Cosa sta tramando Chekaril, insieme a quella sgualdrina di Aevo, in quel covo di sporchi straccioni? Rispondimi! Ah, come mi piacquero quelle parole rabbiose, dette quasi in un ringhio. Stavo giocando con il fuoco, e lo sapevo. Ma tutto impallidiva di fronte alla mia tanto agognata vendetta. Non importava il Regno. No: non m’importava. Stavo riuscendo nel mio intento. Ma prima, le domande fondamentali. Cominciai a temporeggiare. Mi finsi incredibilmente ferita, il dolore di una Spia che sa di aver mancato, di non essere degna di fiducia, e presi la parola, timidamente. Mia Signora…ma perché non mi avete detto che lui era a Gerinti, sano e salvo? L’avrei controllato, avrei fatto di tutto per voi, avrei impedito tutto questo! Perché non mi avete accordato questa fiducia? Cosa ho fatto di male? Vidi l’essenza della Regina rimpicciolire pian piano, e calmarsi. Niente, Lsyn…niente. Mi disse, con una finta dolcezza che mi disgustò oltre ogni dire. Bastarda. Come faceva a fingere così bene? Eri già partita quando scoprii che lui si era liberato da solo… così lo mandai con Aevo a Gerinti, per farlo stare un po’ tranquillo…è così debole, povero fratello mio… Oh. Che dannata stronza! A quanto pare, non ero solo io ad avere un debole per le bugie. E come recitava bene! Come poteva farmi questo? Come poteva essere così schifosamente ipocrita con me? Cercai di dominare la mia rabbia, e chinai il capo, con fare comprensivo. Ma dimmi… esordì la voce, improvvisamente curiosa. Avevo acceso qualcosa in lei. Sapevo benissimo quanto odiasse le sfide al suo potere. La conoscevo. Ed era proprio in quello che speravo. Avevo fatto decisamente centro. Per poco non cominciai a saltare dalla gioia. Perché si sta ribellando? Tu dove sei, ora? Ah. Ora veniva il meglio. Feci finta di essere addolorata, di essere terrificata dal dolore. Cominciai a gemere, lievemente, e la mia anima si schiarì, espandendosi. L’ho scoperto ad una riunione, mia Regina… mi ha rapita! Ma sono riuscita a scoprire qualcosa… una pausa. La sentii fortemente a disagio. Ripresi a parlare, piena di fretta. Sta cercando di approfittare della mancanza di maschi umani per stabilire un’oligarchia elfica a Gerinti, e riunire anche Uruk sotto una sola bandiera… odio. Sentii solo odio provenire dalla figura di Lainay. Ero riuscita a farle credere una storia del tutto campata in aria, ma plausibile. Non sapevo tutti i retroscena, e che per poco non avrei causato un incidente politico di dimensioni colossali, e nemmeno m’importava. La mia vendetta stava riuscendo benissimo. Il mio obiettivo era solo quello. Lainay non aveva motivo di sospettare di me. Mi stavo comportando esattamente come una fedelissima spia leccapiedi. Sentii la soddisfazione farsi strada in me. Cominciai a gustare il sapore del sangue che sarebbe scorso. Poi…poi sono riuscita a sfuggirgli, mia Regina amata… mi sono rifugiata in una caverna a Gerinti, Signora! Sono lì, ora! Il silenzio che seguì mi parve un ottimo auspicio. Ancora non volevo crederci: avevo ingannato la mia sovrana! Non pensavo fosse così facile da circuire. Tutte illusioni, tremende illusioni. Non avevo capito un bel niente. Un bel niente! A volte, sono davvero candida come una bambina. Timidamente, nel Piano, ripresi la parola.  Cosa devo fare, ora, mia Signora? Quali sono i vostri ordini? La risposta fu immediata, e lapidaria. La porta d’accesso all’abisso. Ci sono dei bambini, con lui. Due infanti, un maschio e una femmina. Come se non lo sapessi! Ma mi credeva così ingenua? O forse mi stava prendendo in giro? Prendili, e portali da me. Ah. Avrei dovuto rapire Roxen e Chekaril. Più facile a dirsi, che a farsi. Ma quelli erano ordini. E non potevo discuterli. Quando la Regina dava ordini, era mio dovere obbedire. Era il Giuramento. Eravamo chiamati Cani proprio per quello. Cani perfettamente addestrati. Ma l’ordine che volevo era un altro. Decisamente un altro. Ed allora, tutti i miei scrupoli sarebbero svaniti. Mi preparai alla parte più divertente della mia finzione. E per il Principe, Signora? Cosa devo fare con lui? Una risata sadica, una sola, sadica e soddisfatta. Quanto fu bello, ascoltare quel suono. Uno scampanellio divino. Fremetti di gioia nell’udire le parole che seguirono quel riso affascinante. Quello che vuoi, Lsyn. Uccidilo come più ti aggrada. Uccidi anche Aevo. È un ordine.

 

 

 

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Capitolo 49
*** Fuoco di vendetta. ***


Dopo quel terribile ordine, che mi riempì di gioia ardente e selvaggia, la gioia dell’omicidio, tra me e Lainay non rimase nulla da dire

Dopo quel terribile ordine, che mi riempì di gioia ardente e selvaggia, la gioia dell’omicidio, tra me e Lainay non rimase nulla da dire. Assicurai alla Regina, stranamente calmissima, che avrei svolto la mia missione con entusiasmante perfezione. Era vero. Raramente mi era capitato di bramare vendetta come in quel momento, e tutte le volte erano state distruttive. E la mia capacità di sopportazione era giunta al limite estremo già da molto, molto tempo. Non rimanevano ostacoli a frapporsi tra me ed il mio obiettivo. Bramavo il sangue di Chekaril, e di Aevo. Bramavo vederli sconfitti, imploranti, doloranti. La sola idea bastava a riempirmi di suprema soddisfazione. Il mondo non sarebbe cambiato, dopo quell’omicidio, sarebbe andato avanti come sempre. Di questo non dubitavo, né mi facevo illusioni. Ma sarebbe stata fatta giustizia nel mio piccolo universo. E quello contava. Perché non si può tornare indietro? Perché decisi quel gesto? Ma cosa mi passava per la testa, in quei concitati momenti? Quanto può, l’odio? A cosa servì il mio giudizio arbitrario ed egoista, cieco e sordo agli altri? A portare altro dolore, altro sangue, una catena infinita di lutto e  di rimorsi, di cui ancora sento l’amarissimo sapore. Perché certe cose non cambiarono. Avrei dovuto pensarci. Andava tutto dannatamente troppo liscio. E Lainay non era stupida, anzi. Conosceva certi meccanismi molto meglio di me. Ed io non ero più la stessa. Ero stata fuori dal mondo per troppo tempo, e non ero più degna dell’appellativo di Spia. Nemmeno di Ombra. Anche la mia anima era cambiata. Cosa diventai? Cos’ero diventata? Non ero più la fredda Ombra, non ero più  Lsyn, incerta tra luce e buio: al mio posto, una belva assetata di morte, ottusa, incosciente. Il mio buonsenso? Perché, ne ho mai avuto uno? Le mie missioni non mi hanno insegnato alcuna consapevolezza, mai. Dovevo stare attenta: certi segnali erano fin troppo chiari. Avrei dovuto ragionare, rimanere a mente lucida, senza lasciarmi prendere dalla mia dannata avventatezza. Perché non tutto era ciò che sembrava. E troppi conti non tornavano ancora. Davvero troppi. E le conseguenze della mia rabbia accecante si ripercossero solamente su me, ed i miei cari. Su loro in particolare. Perché molto era destinato a cambiare, a mutare in modo irreversibile il proprio cammino. Ma niente sarebbe mutato in meglio. Scorse solo del sangue in più, sangue colpevole ed innocente. I segnali c’erano, e tanti. Avrei dovuto accorgermene. Lainay era troppo, troppo calma. E poi, perché aveva cambiato il suo aspetto? Cos’era successo alla sua Essenza? Cos’era quell’insolito nucleo oscuro? Oh, prima o poi l’avrei capito. Molto prima che poi. Era solo rovina. Rovina, solo ignara rovina. Rovina per tutti. Rovina innocente, rovina vittima.  Chi non lo fu, e chi ancora non lo è? Dovevo pensarci, oh, si. Dovevo pensarci prima. Dovevo lasciare tutto com’era, dimenticare, lasciarmi distruggere. Ma la portata del mio gesto mi fu chiara solamente dopo averlo compiuto. Tardivi sensi di colpa, tardivo pentimento. Tardiva consapevolezza. E fu quel ragionamento ad inghiottirmi in quell’abisso, quella spirale profonda e dolorosa, dalla quale è impossibile uscire. Sarebbe stato meglio morire di dolore, consumarsi per quell’orribile delusione, piuttosto che lasciare il fuoco si espandesse, e bruciasse tutto, tutto quello guadagnato in tre maledetti secoli di vita. Secoli sprecati, andati al vento ed alla cenere. Fui stupida, tanto stupida. Ma, ancora oggi, quando tante cose sono cambiate, non riesco a negare di non aver gioito. Fui felice, mostruosamente felice. Un breve attimo di felicità, prima di essere assalita da un orrore senza nome. Perché non ricordai, allora, il sogno del cigno?

Dopo i soliti convenevoli, stranamente pacati e cortesi, Lainay mi lasciò sola nel Piano, svanendo con un sussurro delicato. Mi sentii, cosa fin troppo insolita per me, in quel momento, in pace con me stessa. Stavo per compiere una delle azioni più assurdamente piacevoli e riprovevoli della mia carriera. Sentivo di avere tempo. Chekaril si fidava ciecamente di me: in tutta la sua astuta ingenuità, aveva probabilmente pensato che quel bacio indesiderato mi avesse ammorbidita. Ma chi pensava io fossi? Chissà cosa aveva pensato, di me, in tutto quel tempo. Ero stata una vittima? Ero stata uno strumento? Una perla rara? O una delle tante? La sua confessione, piuttosto che schiarirmi le idee, mi aveva confuso ancora di più. Ciò che provavo nei suoi confronti non era che rabbia, la rabbia dell’innamorato deluso. Mi sentivo volgarmente presa in giro. Ma come non amare quel sorriso ammaliante? Come non  perdersi in quegli occhi impenetrabili? Per cinquant’anni ero corsa dietro una fuggevole illusione, un’utopia, una trasfigurazione. L’avevo sognato, l’avevo pensato, l’avevo cercato, disperata. Avevo trasformato un  feroce lupo affamato in un tenero cucciolo paffuto. Un falco in un passerotto. Ed i miei sogni erano stati brutalmente infranti, in quel modo atroce. Il mio amore trasformato in odio, quell’odio irrazionale, incomprensibile per chi non l’ha mai provato, un incendio che divora il cuore. Con quella calma impossibile, che s’impadroniva di me ogni volta che c’era da uccidere qualcuno, quel freddo calcolo che pian piano m’invadeva la mente, calmando la mia rabbia, e trasformandola in cinismo, feci il punto della situazione. Bene, la priorità non era alta. Non c’era sospetto: le vittime, nella misura concessa dalla prudenza, si fidavano di me. Poveri sciocchi. Decisi così d’addormentarmi. Non avrei riposato molto, e sarei stata anche più lucida, una volta sveglia. Non serviva a niente buttarsi a capofitto nel mio corpo, per poi addormentarsi subito dopo, sfinita. Non avrei concluso nulla. Assolutamente nulla. Mi concentrai, dunque, sul processo inverso al ritorno.  Mi ci voleva molta concentrazione, più di quanta avrei dovuto usare per andarmene senza tappe intermedie. Un solo errore, e sarei svanita nel nulla, senza lasciare tracce, né nel mondo, né nel Piano, come se non fossi mai esistita. Ed il mio corpo fisico sarebbe morto. Così, mi preparai, fino a raggiungere la totale assenza di pensieri,  di distrazioni. Fu un’impresa titanica, ma ci riuscii. Immaginai così la mia Essenza espansa, espansa, sempre più espansa, fino ai limiti della coscienza di sé, fino al muro oltre il quale mai nessuno è andato. Il mondo parve cristallizzarsi, fondersi in un tutt’uno, e, per un attimo glorioso, mi parve di raggiungere la pura verità. E poi, senza quasi accorgermene, piombai nel buio più assoluto. Tutto si fece oblio, oblio fresco, e riposante. E, se sognai, non lo ricordo.

Al mio risveglio, trovai la casa stranamente silenziosa. Fu la prima cosa che avvertii. Ero di nuovo nella mia camera scura, stesa comodamente sul letto: qualcuno doveva avermi portato lì dopo che mi ero addormentata, togliendomi il mantello, ma lasciando al suo posto la spada. Doveva essere stato Chekaril. Tipico di lui, pensarmi ancora come la fiduciosa ed onorevole Spia che aveva conosciuto, e che non sopportava vedersi toccare le armi da mani estranee. Eppure mi aveva visto minacciare Aevo, sua moglie, senza la minima esitazione. Dei: com’ero cambiata, da quei tempi felici, e come sono ancora cambiata ora! Qualcosa non andava. Prima di andare nel Piano, avevo sentito, anche nei momenti di rabbia più intensa, le urla allegre e le risate di Roxen e del fratellastro, che giocavano nel giardino. Ora nulla: tutto era stranamente silenzioso, ovattato. Che mi avessero giocata? Che fossero spariti tutti? Cominciavo a preoccuparmi, quando un rumore di piatti mi rassicurò. Qualcuno era in casa, e si stava apparecchiando. Ma per pranzo o per cena? Che ore erano? Lì dentro era troppo buio per poter fare anche solo tentare d’indovinare. Spinta dalla fredda determinazione dell’omicidio, che non lasciava spazio a considerazioni oziose, mi alzai di scatto, scostando le coperte. Benedissi chiunque mi avesse tolto l’impiccio del mantello: lo vidi, non appena in piedi, avvolto in un cantuccio della camera. Lo ignorai, e mi diressi verso la porta. Ghignavo già, pregustando il piacere dell’omicidio, come si fa con un vino di buona qualità. Cominciai a fantasticare. Avrei colpito per prima Aevo, poi Chekaril, e poi… mi folgorò un pensiero terribile. Non stavo tenendo tutto in conto. Come avrei fatto con i piccoli? Come avrebbero reagito, se mi avessero vista piombare in una stanza, una figura mostruosa e sconosciuta? Come allontanarli, poi, dalla scena del delitto? Non potevo farli assistere all’omicidio dei loro genitori, o presunti tali! Non avevo la minima intenzione di turbare in qualche modo la mia piccola Roxen. Il mio fiore non andava toccato da cose così terribili, come una vendetta sanguinosa. Il fato le aveva permesso di vivere lontana da tutto quello, da tutti gli intrighi e da tutti gli omicidi delle Spie: non sarei stata io, che tanto avevo fatto per cercare di allontanarla dal mio ordine, a stravolgerle la vita. Avrebbe già dovuto sopportare tanti cambiamenti, con l’entrata nella corte di Lainay. Il solo pensiero mi provocò una fitta intensa di dolore. Non sarebbe mai stata mia. Non avrebbe mai saputo la vera identità della madre, a meno che la Regina non avesse ritenuto utile riferirgli l’intera storia. Ma ne dubitavo: se l’avesse fatto, sarebbe stato semmai per farmi odiare. Farmi odiare dalla mia stessa infante, dalla mia piccola innocente! Scacciai quel pensiero con rapidità. Faceva troppo male. Non furono solo quelli gli scrupoli morali. C’erano anche questioni di tipo meramente pratico: se mi avessero vista, così, senza maschera, orrenda e sfigurata, un mostro, uccidere a sangue freddo i loro amatissimi genitori, cosa avrebbero pensato di me? Come guadagnarsi, poi, la loro fiducia? Con loro, dovevo recitare la parte della benefattrice,  solo quella. E non mi andava di coinvolgere anche Roxen nelle mie questioni personali. Né lei, né il piccolo Chekaril dovevano entrare in quella fogna che era il mio inconscio. Moderai il mio entusiasmo, e, con la mano a mezz’aria, pronta ad afferrare la porta, decisi per il silenzio e la cautela, almeno finche non mi fossi resa conto della situazione.

In punta di piedi, sfruttando le zone d’ombra della casa, accogliente nel suo stile interamente di legno grezzo, mi avviai verso il punto in cui il rumore di stoviglie era più forte. Avvertii, man mano che mi avvicinavo, l’odore di cibo, a quanto pareva, carne. Feci una smorfia. Ho sempre odiato il sapore e l’odore della carne, in ogni sua forma, fin da piccolissima. Chekaril ne andava matto, specialmente quando era ben cucinata. Disgustoso. Fu quasi con sollievo, che ricordai di non doverla mangiare. Non mi serviva. Continuai a cercare segni di vita. Passando vicino ad una finestra, notai con sollievo che il sole era ancora alto. Non dovevo aver dormito che poche ore, per mia fortuna. Doveva essere, al massimo, primissimo pomeriggio. C’era tutto il tempo di agire. Arrivai, finalmente, percorrendo uno stretto e corto corridoio, ad una semplice porta chiara, socchiusa. Rimasi per qualche attimo ad ascoltare. Il rumore lì era più intenso, ma non provenivano  altri suoni. Niente chiacchiere, niente risate, niente di niente. Come se il cibo si stesse preparando da solo. Fui assalita dalla curiosità, lì, seminascosta dalla porta. Perché nessuno parlava? Lentamente, così, mi arrischiai a dare un’occhiata fugace all’interno. La stanza non differiva di molto da quella della casa di Xavier, solo che era molto più spaziosa, ed ordinata. C’erano più mobili, alle pareti erano appese verdure varie, ed il tavolo era più spazioso e pulito. Era una bella casa felice. Un vero peccato dover interrompere così quel falso idillio. La sola idea di spargere, per un attimo, sgomento e desolazione in quei paesani ottusi, mi riempì di gioia. Odiavo tutti, e, se avessi potuto compire una strage, l’avrei fatta. Mi sentivo nella disposizione d’animo adatta. Non appena notai le presenze in quella camera calda, mi calmai. Gli infanti non c’erano. Era apparecchiato per tre, già tutto pronto. Io dovevo essere al centro. Era il piatto con meno carne, e più verdure. Chekaril era già seduto, alla mia sinistra, in mano un bicchiere di quello che mi parve vino rosso, strano e divertente preludio, e fissava Aevo, mentre lei puliva. La scena mi parve appartenere ad un sogno. Nessuno di loro due parlava, nessuno di loro due sembrava teso, i loro movimenti erano torpidi. Ma c’era qualcosa che non andava. Stavano aspettando: Chekaril non si era ancora mosso, ed il bicchiere era pieno. Mi ritirai nel mio cantuccio, e cominciai a riflettere. La situazione era migliore di quanto pensassi. Sospirai di sollievo. I piccoli non c’erano. Era tutto a posto. Non avrei dovuto inventarmi strane cose per attirare le mie prede in trappola. Il problema sarebbe stato fuggire, una volta compiuto il misfatto, ma di quello me ne sarei preoccupata dopo. Guardando quella placida scenetta famigliare, mi venne un’idea diabolica, e, tra me e me, sorrisi. Perché non far gustare ai due un ultimo pranzo, dando loro false speranze? Perché non donar loro una parvenza di serenità, prima di colpirli a morte, così come avevano fatto per me? Decisi per quell’atroce finzione, ed imbastii un sorriso falso, allegro e rilassato, tutte cose che non ero. Facendo la parte dell’ingenua sollevata, aprii la porta, infischiandomene allegramente di tutto. Avevo voglia di giocare un po’. Ebbi il piacere di vedere entrambi sobbalzare, e girarsi verso di me. Chekaril si versò un po’ di vino sulla casacca. Abbassai lo sguardo, vergognosa. “vi ho spaventati?”. Mormorai, timidamente, alzando per un attimo lo sguardo, e controllare il Principe. Lui ed Aevo si guardarono, una frazione di secondo, con serietà, prima che il mio amato mi sorridesse. “ma cosa dici, Lsyn…su, vieni dentro. Ti stavamo aspettando per mangiare”. Disse, con un’allegria briosa che suonò quanto mai fuori posto con i suoi occhi sospettosi. Alzai lo sguardo, e mi avviai al mio posto, con un sorriso tranquillo stampato in viso. Eh, si: Chekaril era davvero, davvero, nervoso. Studiava il mio comportamento in maniera quasi spasmodica, analizzando ogni minimo gesto che facevo. Misurai attentamente le mie movenze, imponendomi una calma che non possedevo. Avvertii un movimento dietro le mie spalle, e tramestii vari. Con la mia solita immaginazione, fiutai una trappola inesistente, e mi voltai di scatto, ignorando quanto e come quel gesto potesse essere interpretato. Quello che vidi mi diede ulteriore motivo di gioire. Quella che potevo chiamare la loro sala da pranzo, era al piano terra, e dava direttamente sulla strada. C’era qualche finestra, ed una porta che interpretai come l’ingresso secondario. Eravamo in vista, ed io dovevo restare evidentemente nascosta: Aevo, in mano un mazzo di grosse chiavi dall’aspetto antico, stava chiudendo tutte le finestre, con dei pannelli di legno grezzo, e stava serrando la porta, guardandosi attorno con aria circospetta. Ottimo: non mi avrebbero notata, né avrebbero avuto via di scampo. Pensai che, nel caso di una visita di Spie, quel gesto era dovuto. Poteva destare sospetti la presenza di un estraneo, per giunta bizzarro come me, nella casa dell’intelligente e nobile Krish. Si fidavano così tanto di me? La cosa non mi dispiacque. Con un sorriso, per una volta genuino, dettato dalla sadica gioia che mi cresceva dentro, mi sedetti accanto a Chekaril. Fui raggiunta da Aevo qualche attimo dopo. La stanza era piombata nel buio, illuminato solo dall’onnipresente focolare.Mi ritrovai così, in mezzo alle mie due vittime, mentre loro mi guardavano, con un sorriso ed uno sguardo preoccupato. Chekaril, suadente, mi prese la mano destra, quella rovinata, tastando delicatamente tutte le cicatrici. Lo lasciai fare, e lo fissai, con curiosa educazione. Non fu difficile frenare la mia rabbia: la mia vendetta lo avrebbe colpito presto. “cosa ti ha detto Lainay?”. Domandò, con evidente cautela. Vidi nel suo sguardo profondo, l’ansia. Decisi di giocargli un ultimo tiro. Un ultimo tiro, prima del sangue che tanto stavo pregustando. Gli sorrisi gioiosamente, e risposi con calma. “ha detto che sei tanto debole, e che hai bisogno di riposo”. Oh, si. Riposo eterno. Ma quello era un particolare che poteva aspettare ancora un po’. Potevo giocare ancora, prima di mangiare il cibo. E come suonò falsa la mia voce, falsa perfino alle mie orecchie! I due sposi, stranamente, non se ne accorsero. Sentii vari sospiri di sollievo, ed il loro volto si distese. Dovevo averli convinti, con una sola frase. Chissà quante volte l’avevano sentita! Ancora oggi non mi capacito di come abbia potuto fare, per ingannarli con così tanta facilità. Ho solo una risposta, e penso sia giusta. Non erano, semplicemente, più abituati a sospettare. Si fidavano di Lainay, si fidavano dei suoi ordini. E Chekaril pensava, evidentemente, che il suo bacio mi avesse sedotta. E’ facile addormentare il sospetto, quando si vive in mezzo a contadini ottusi, per ben cinquant’anni, in una pace bucolica, piena di affetti e rispetto. Ed il Principe non era mai stato molto sospettoso, nei miei confronti. Credeva nella forza onnipotente della sua bellezza. E non aveva tutti i torti: più di una volta, mi aveva ricondotta al suo volere, come se niente fosse! Ma io ero cambiata, irrimediabilmente. Avevo passato quegli ultimi cinquant’anni in mezzo agli stenti ed agli inganni. Ero passata attraverso mille prove, mille sofferenze. Ed ero diffidente di natura. La rabbia, inoltre, aveva finito per offuscare la mia capacità di giudizio, ed ero tesa verso un solo obiettivo. Uccidere quei due. Anche Lainay me l’aveva ordinato! Ero, si, stata io ad averla ingannata, ed essermi ordinata da sola una cosa che già avevo intenzione di fare, ma avevo lo stesso ricevuto un ordine dall’alto. E gli ordini non si discutono. Mi ero, praticamente, lavata le mani, e messo la coscienza al sicuro. Avrei avuto tempo di pentirmi, tanto tempo. La tensione nella stanza diminuì considerevolmente: Chekaril mi sorrise, ed Aevo si girò verso il cibo. La imitai. Ottimo, davvero ottimo. Rabbrividisco al solo ricordo del pensiero gioioso che mi folgorò la mente. Ad un lato del piatto, le posate. Tra cui un coltello, di fattura artigianale, dal manico di legno, ma dall’aria estremamente malvagia. Ora, mancavano davvero pochissimi istanti al momento in cui avrei cominciato a giocare. E, si, mi sarei divertita molto. Dovevo, tuttavia, accertarmi di alcune cose. Feci passare qualche minuto di silenzio, il tempo di cominciare a mangiare. Feci finta di concentrarmi sul io piatto, ed afferrai spasmodicamente le posate. Notai che Chekaril usava quanto più possibile solo la mano sinistra. La destra era posata negligentemente sul tavolo, rilassata, troppo lontana. Dovevo colpire la sinistra, per metterlo fuori gioco. Ma, prima, qualche domanda. “Chekaril…”. Dissi, casualmente, alzando solo lo sguardo verso di lui, facendo finta d’inghiottire un pezzo di cibo. Lui mi guardò, incuriosito. Aevo continuò a mangiare, ormai a suo agio. Povera piccola. Se solo avesse saputo che quelli erano i suoi ultimi istanti di vita, non li avrebbe sprecati così. Ne sono certa. “ma i piccoli dove sono?”. Un sorriso apparve sul suo volto pallido. “prima li ho portati a vedere i pescatori. Poi…beh, abbiamo incontrato la moglie di Xavier, Sybil, ed i loro due infanti”. Il sorriso diventò una smorfia astuta, e quasi buffa. “loro li hanno invitati a casa loro per pranzo… come potevo rifiutare, sapendo che tu eri in casa, condannata a rimanere in una piccola stanza buia?”. Bastardo. Non voleva che io li vedessi. Non voleva che io li toccassi, che loro parlassero con me. Dovevo essere una figura completamente estranea. Voleva allontanarmi da Roxen. Non ci sarebbe riuscito, nemmeno volendo. Perché ora io esigevo mia figlia indietro. La rivolevo, con tutta me stessa. E non ci sarebbero stati dei capaci di farmi cambiare idea. “dovevo darti un minimo di libertà, no?”. Ridacchiò, e con lui Aevo. Io mi costrinsi a sorridere. Non so cosa mi trattenne. Non so cosa m’impedì di non strozzarlo. Però mi stava dando un’ottima notizia: un ostacolo in meno. M’imposi di aspettare, aspettare ancora qualche minuto, per amor della tortura, per aumentare ancora di più il mio astio. E così feci. Passammo il resto del pranzo in silenzio. Chekaril fu il primo a finire, seguito da Aevo. Soddisfatto, poggiò entrambe le mani sul ripiano, palmo all’ingiù. Era il mio momento. ci fu un ultimo attimo di silenzio assonnato. “ah…”. Dissi, smettendo di torturare il mio cibo, che non ero riuscita nemmeno a toccare, ed abbassando le posate, stringendo però il coltello più forte, fino a farmi dolere le nocche. Ormai pienamente a suo agio, Chekaril rivolse solo lo sguardo verso di me. “ho dimenticato di dirvi una cosa che Lainay mi ha ordinato!”. Oh, come mi batteva forte il cuore. Oh, quanta gioia dimorava nel mio petto! Riuscii a sembrare tranquilla, lievemente euforica, forse su di giri. Ma potevano interpretare il mio entusiasmo in tantissimi modi. E così fu: pensando evidentemente che fosse qualcosa di poco conto, Chekaril si lasciò sfuggire un sorriso sghembo, di scherno. Aevo mi guardava, interessata. C’era più di quello che sembrava, in quell’elfa. Era acuta: se solo fosse stata in allenamento, avrebbe sospettato qualcosa. Compensava Chekaril in un modo perfetto. Forse mi sbagliavo sul fatto dei tradimenti. Forse lui le era davvero fedele. Beh, non era certo il momento di pensarci. E la fedeltà non serve, quando si è morti. “ah, si? E cosa ti ha detto?”. Disse il mio amato, con uno strano tono irritante, come se parlasse con un bambino. Ed, in quel momento, io ero felice come una bambina in un negozio di bambole, come amava definirmi Tijorn in quelle situazioni. Quello che successe dopo, fu l’inizio di una perpetua rovina. “oh, beh…”. Dissi, scollandomi nelle spalle, sorridendo. Si: davvero Chekaril mi stava trattando come un’infante: scommettevo si rivolgesse a Roxen con meno condiscendenza. La cosa non m’irritò. Mi sarei presa la mia vendetta. Oh, si. Il fuoco della vendetta ruggiva in me, mi consumava. Ed io ne gioii. Mi preparai al colpo. “mi ha detto…questo!”. Digrignando i denti dalla rabbia che potevo mostrare, trasfigurata dall’ira, colpii. E fui fulminea. Il coltello affondò nella mano sinistra di Chekaril in un attimo, prima che lui si potesse accorgere di qualcosa. Sentii, giuro, il coltello intaccare l’osso, una lieve resistenza che subito cedette, e poi piantarsi nel tavolo, a fondo. L’arma improvvisata era così affilata, così perfetta, che tappò la stessa ferita. Usciva poco sangue, e la cosa non mi piacque. Ma io non dovevo fare solo quello. Quello era solo il preludio. Tutto successe in una frazione di secondo. L’atmosfera cambiò di colpo. Il Principe urlò di dolore, e si fece davvero pallidissimo. Contorcendosi sulla sedia, mi guardò, sbigottito, e vacuo, ancora troppo scioccato dal colpo improvviso per poter capire. Aevo saltò letteralmente, e mi guardò, soffocando un gridolino. Ghignai follemente, e mi alzai in piedi. Tutto quello che mi avevano fatto passare, tutte le sofferenze che avevo procurato e che mi erano state procurate, stavano per essere vendicate. Non posso descrivere l’acuto piacer di quei momenti, non posso descriver l’esaltazione folle che s’impadronì di me. Diventai un mostro, un essere sanguinario, una crudele. Cose che non ero mai stata. Avevo sempre preferito metodi puliti di esecuzione. Ed io avevo pura dei cadaveri, mi facevano orrore! Perché ero così tranquilla, di fronte all’elfo che avevo tanto amato, e che stavo per ammazzare così brutalmente? Con un ringhio disincarnato, una voce che non mi apparteneva, cominciai a parlare. “mi è stato ordinato il vostro omicidio, traditori”. Dissi, con voce atona, celando tutti i miei sentimenti, la mia più grande bugia. “perché voi mi avete mentito, e Lainay ha deliberato”. Quello che seguì fu il terrore più puro, un terrore cieco, paragonabile solo al sentimento che afferra le falene prigioniere alla luce. Perché loro sapevano che un ordine diretto della Regina non può essere discusso, e va eseguito, ad ogni costo. Le Spie sono addestrate per fare questo, obbedire senza chiedersi il perché. Ed io lo stavo facendo. Al loro terrore si mischiava l’incredulità. Sapevo che non mi avevano mentito. E quello, in seguito, fu per me il più grande tormento. Chekaril, con la mano destra afferrò il coltello, e cominciò, affannosamente, a tentare di toglierlo. Non ce la faceva. Il braccio destro era troppo debole, ed il coltello piantato troppo in profondità. L’unica reazione che sortì, fu la fuoriuscita di un po’ di sangue, e molto dolore. Nient’altro. Si stava torturando da solo. Ottimo. Mi avrebbe facilitato il compito. A lui avrei pensato dopo. Mi concentrai sulla mia altra vittima. Aevo era andata totalmente in panico: non aspettavo altro. Il volto trasformato in un’immagine di terrore, gli occhi pieni di lacrime, era scattata in piedi, e mi guardava, tremando evidentemente. Aveva in mano il mazzo di chiavi. Oh, no. Sapevo quello che stava per fare. E gliel’avrei impedito, ad ogni costo. Potevo andare con calma: ero quasi sicura lei non sapesse lottare. Ed una mente offuscata dalla paura è facile da confondere ulteriormente. Io ero lucidissima, lei no. Ah, quanti ricordi, di quante missioni! Quella, in un modo o nell’altro, sarebbe stata la mia ultima missione. Avrei portato i piccoli a Lainay, e poi me ne sarei andata per conto mio, vagando un po’. Dovevo essere presente, non perdermi nei miei pensieri! Mi concentrai sulla scena. Aevo aveva fatto un passo all’indietro, diretta verso la porta, guardandomi, tremando follemente. Io ero comunque più vicina. Avanzai di un po’. “ma dove vai, piccina…”. Canticchiai, con voce allegra, illuminata da una gioia folle, che non lasciava spazio a pensieri che non fossero collegati al sangue, alla morte, alla vendetta. Istintivamente, le mie mani corsero al pomo della spada. Povero Eiron, povera la sua memoria, tradita così brutalmente. Sempre fedele a cosa, al sangue? Non m’importò: sguainai la lunga, agile arma, con un solo movimento, e la portai al mio fianco. Ripresi ad avanzare. “gioca un po’ con Lsyn… non vuoi giocare con me? Così mi offendi…”. Aevo cedette del tutto. I suoi nervi non dovevano essere abituati ad essere minacciati di morte! Commise un gesto incredibilmente stupido. Con un grido, si slanciò contro la porta, brandendo le chiavi come un’arma. “Aevo! No!”. Gemette Chekaril, ancora inchiodato al tavolo, muovendosi con maggior lena, per liberarsi. Tutto invano. Sentii i singhiozzi convulsi di Aevo con perversa gioia. Era di spalle a me, tremando come una foglia,  stava cercando la chiave per la porta, probabilmente per andare fuori, e cercare aiuto. Uno sciocco pensiero. Ma dovevo sbrigarmi: non potevo giocare con il destino. Alzai la spada, di piatto, verso la schiena di quell’esserino singhiozzante. E la sbattei, delicatamente, due volte, su una spalla, come per indurla a girarsi. Dei, come mi divertivo! Udii i singhiozzi cessare di scatto. L’elfa smise di muoversi. Le punta l’arma. Senza che ordinassi niente, lei si girò, con un sospiro. Aveva il viso disfatto, pieno di lacrime, l’espressione di chi è stato tradito nei begli occhi, e tremava, al punto tale che le chiavi le caddero di mano, con un tintinnio. Sembrava ipnotizzata. Arriva, un momento, in cui sai di essere condannata, e che combattere non serve a nulla. Quello pensò Aevo. E Chekaril lo capì. “Lsyn, ti prego, no, Aevo no…”. Gemette, annunciandomi, con vari tramestii, che stava ancora cercando di liberarsi. Non mi girai verso di lui. “lascia stare Aevo! Prendi me, non lei! Lei non c’entra nulla!”. Lei mi guardava ancora con occhi vuoti. Sentii una fiammata di rabbia invadermi il petto. Strano come l’atmosfera fosse cambiata: meno di pochi minuti prima, stavamo mangiando tranquillamente. “oh, si che lei c’entra!”. Esclamai, puntando, con lentezza, la spada al centro del petto dell’elfa. Senza colpire ancora. Aevo si limitò a tremare. L’avevo schiantata, avevo schiantato la sua ragionevolezza. Era una bestiolina in mio potere, come quando costruivamo, io e Tijorn, trappole nel bosco per le lucertole. E loro lottavano, di divincolavano, ma poi capivano, e divenivano molli, e docili. Così era lei. “ti ha amato. E questo posso farlo solo io!”. Bah. Potevo essere di gran lunga più originale. Ma, dicendo la verità, non ne avevo granché voglia. Volevo solo uccidere. Solo quello.  Ed esaudii immediatamente alla mia brama. Senza ascoltare più le suppliche disperate di Chekaril, colpii, un solo affondo deciso. La lama penetrò senza alcuna difficoltà. Dagli occhi di Aevo trasparì solo una lieve sorpresa, null’altro. Lei emise un gorgoglio strozzato, spalancando lievemente gli occhi. Inatteso, un filo di sangue le uscì dalla bocca. Ma solo in quel momento sarebbe venuto il meglio. Perché avevo colpito un punto particolare, un punto che alcuni miei colleghi amavano colpire solo per il piacere del sangue. La lama stava tappando la ferita. Ero sorda a tutto, sorda al mondo, sorda agli urli disperati di Chekaril, dal cuore spezzato. Pensavo solo al corpo vagamente tremante dell’elfa, ed a me. Estrassi la spada con un solo movimento deciso. I miei umili abiti grigi si tinsero di rosso cupo. Sentii il familiare calore del sangue. Oh. Quella proprio non ci voleva! Per togliere il sangue, avrei dovuto faticare, e molto. Ma nulla valeva quanto la visione di Aevo, ancora viva, ma agonizzante, scivolare sul pavimento, lasciando una striscia di sangue sulla porta! Nulla, davvero nulla. La spada ancora gocciolante, rimasi a fissare la mia prima vittima. Era ancora viva, e tremava follemente, gorgogliando, ma non lo sarebbe stato per molto. Ora come in quel momento, di lei non poteva importarmene meno. Era ancora cosciente, e stava soffrendo in maniera atroce. Quello si che era soddisfacente! Ormai divenuta una tetra e macabra belva, accantonando la mia razionalità senza remore alcune, mi girai verso Chekaril. Era ancora inchiodato sul tavolo. Ormai la mano zuppa di sangue. Era in piedi, o almeno chino, e si stava divincolando come un animaletto preso dai legacci. Mi guardava, come se non riuscisse a credere ai proprio occhi, e borbottava, senza, forse, accorgersene, qualcosa, senza sosta. Era sconvolto. Riusciva a nascondere il proprio tremito, ma io notai lacrime scendere copiose sul suo viso più pallido del solito. Ci guardammo per un attimo. Lui, gradualmente, smise di muoversi, e mi sorrise. Un sorriso disperato. “su, bastarda…”. Mi disse, guardandomi schifato, con voce tremante. “uccidimi…cosa aspetti? Non vuoi questo?”. I suoi commenti disperati, l’ultima carta che provò a giocare per aver salva la sua orribile ed infima vita, andarono a vuoto. Ero troppo fuori di me per comprendere, per soffrire, ed, ormai, reagivo come una di quelle bambole meccaniche. Completamente fuori di me, anelavo solo la distruzione, pilotata da un essere che non era me. Risi, un riso folle, stridulo. Non era la mia risata. Non lo poteva essere. Ero impazzita, del tutto. “io? Bastarda io? Ma ti sei guardato, Chekaril?”. Ringhiai poi, smettendo di ridere in un attimo. Lui mi guardò come se fossi pazza. E probabilmente lo ero. Oh…ma perché feci tutto quello? Perché nessuno mi fermò? Cominciai ad avanzare verso Chekaril, invece, fino ad arrivargli vicinissimo. Ero letteralmente zuppa di sangue. Non dovevo offrire uno spettacolo superbo. Lui, infatti, distolse lo sguardo. “dove sono finite tutte le tue promesse? Ora devi morire, e lo sai. Ma…ti offro un’ultima possibilità di riscatto”. Come no. Volevo solo giocare, e nient’altro. Sapevo che lui non aveva più scampo, e lo sapeva lui. Ma doveva soffrire quanto più era possibile. Con un gesto violento, afferrai il coltello, e lo estrassi dalla ferita. Lui gemette, e si morse le labbra. Ci guardammo, per un attimo, prima che riprendessi a parlare. Gli porsi il coltello, dalla parte del manico, sporcandomi la mano di sangue, il suo sangue. Era un bel pensiero. “combatti, e vinci contro di me. Ti risparmierò”. I suoi occhi di ametista di spalancarono, e lui mi guardò con aria sbigottita. Sapeva quanto me che, con la mano destra, non sarebbe riuscito a combinare nulla. La sua ora era già scoccata. Lui, in un gesto avventato, fece per afferrare l’arma, ma poi esitò. “combatti!”. Quasi gridai, guardandolo con puro odio. Volevo ucciderlo, ucciderlo in quel momento, ma non potevo risparmiarmi la dolce tortura di vederlo soffrire ancora un po’. Un coltello, contro una spada. Un invalido contro una belva. Come poter fare un confronto? Sapevamo entrambi che lo scontro si sarebbe risolto con una carneficina. E non sarei stata io a morire. Lui, pensando probabilmente la stessa cosa. Regis? Benedetto mille volte, per avergli inferto quella ferita! Chekaril sospirò, e si morse le labbra. Finalmente, afferrò il coltello, e si mise in guardia. Mi avventai contro di lui con rabbia. Cominciammo uno strano duello. Il mio avversario contraccambiò un paio di colpi, ma non sembrava particolarmente entusiasta. Era evidentemente rassegnato a morire, e guardava, di tanto in tanto, il cadavere di Aevo, con aria molto addolorata. Voleva raggiungerla. E chi ero io per negargli un simile desiderio? Fui, però, assalita da una nuova rabbia. Lui non mi aveva mai amata così.  combatti!”. Urlai, finalmente, un urlo rabbioso, terrificante, che lo fece sobbalzare. In un impeto di nuovo orgoglio, mi guardò con rabbia, e dilatò le narici. La sua fine era vicina, davvero vicina. E l’energia che mi aveva supportata fino a quel momento stava scemando. Ci fermammo, per un attimo. Perché non mi lasciai morire allora? Perché non permisi a Lainay di avere quello che voleva? Invece no: con un urlo, ci slanciammo entrambi contro l’altro, brandendo le nostre armi. Riprendemmo a combattere, con furia raddoppiata, in giro per la stanza. All’improvviso, inciampai inavvertitamente in una sedia,  feci un paio di passi all’indietro per bilanciarmi nuovamente. Chekaril vide in quel movimento il momento adatto per colpire. Ed io mi vedevo già spacciata, illuminata solo da una rabbia accecante, quando successe il miracolo, che mi permise di metter la parola fine a quell’odiosa pantomima. Alzò il coltello, pronto a colpire. Forse, lui alzò troppo il braccio, non so. Fatto sta che, poco prima di vibrare il colpo, lui gemette, mordendosi a sangue le labbra, e lasciando cadere la sua arma con un tintinnio. Il braccio non aveva retto. Ed io approfittai di quel momento perfetto, e colpii. Incisi un terribile taglio sull’addome di Chekaril, un taglio che prese a sanguinare copiosamente. Tutto parve rallentare. Ci fermammo entrambi. Lui mi guardò, per un attimo, poi si guardò la ferita, stupito. E poi crollò in ginocchio. Sorrisi. “così, siamo alla fine”. Dissi, tranquillamente, brandendo la spada per un nuovo, mortale colpo. Lui mi guardò, fattosi improvvisamente malinconico. Fece uno strano sorriso, un sorriso dolorante e stentato. “lo sapevo…che prima o poi sarebbe successo”. Mormorò, tenendosi la ferita, guardandomi, vinto. Che gioia, vederlo così prostrato. “lui…lui me l’aveva detto. Me l’avrebbe fatta pagare se ti avessi fatto del male”. Lui chi? Regis? Quasi non potevo pensare lui fosse stato così gentile, nei miei confronti, era quello, il vero affetto? Lui mi considerava un’amica? Basta. Non potevo più stare ad ascoltare oltre Chekaril. avevo un’inspiegabile fretta di finire tutto. “io…dovevo immaginarlo…”. Lo interruppi, con un sorriso crudele. “oh, si”. Dissi, ghignando follemente. “dovevi proprio immaginarlo!”. Fu un attimo. Mi preparai ad un colpo rapido. Ed affondai la mia spada, un regalo che tanto mi era servito, nel collo morbido ed affusolato del mio unico amore. Un colpo mortale. Non ci fu nessun suono. Ancora lo sogno. Ancora sogno lo schizzo di sangue che m’investì il viso, caldo e vischioso. Ancora sogno il tonfo che fece il suo corpo, cadendo. Avevo ucciso il mio unico amore. Ero stata vendicata. Ma a che prezzo?

 

 

 

 

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Capitolo 50
*** Ma io? ***


Il cerchio si era concluso

Il cerchio si era concluso. Io, Lsyn Amarto, Allieva di Amarto Sindjisk, prima Ombra, poi Mostro, avevo vendicato tutti i torti  che erano stati commessi nei miei confronti. Il mio più grande errore. Rimasi qualche attimo immobile, il respiro affannoso, la spada ancora a mezz’aria, nel punto in cui avevo affondato il terribile colpo mortale, senza poterci credere. Non riuscivo a ragionare bene. I margini del mio campo visivo erano appannati. Passai un momento di assurdo delirio, che ricordo con impressionante lucidità. Ero ancora mente? Ero ancora corpo? O forse non ero? Cos’ero? Vivevo in un mondo di colori accesi, in cui il sangue, di cui era zuppa la cucina, aveva il colore di un esotico fiore. Esotico, allettante fiore ma era un mondo vero? Esisteva davvero un mondo in cui io avevo ucciso Chekaril? Chekaril era morto? Tutto mi sembrava irreale, staccato da me, appartenente ad un altro mondo. Rimasi per un bel po’ lì, in piedi nella cucina, la spada ancora alzata, ai miei piedi il cadavere dell’elfo da me un tempo amato. Il fuoco scoppiettava allegramente, ignaro ed impassibile davanti a quell’atroce tragedia che avevo commesso. Lui non poteva sapere di quello che avevo fatto! Perché, si, l’avevo fatto. L’avevo fatto. Dei. L’avevo fatto. Chekaril era morto. Freddo, immobile, giaceva ai miei piedi. Inerte, inerme. Il braccio non gli sarebbe mai più servito. Non avrebbe mai più parlato. Non avrebbe più abbracciato i suoi piccoli. Non mi avrebbe più ingannata! Aevo era morta, sofferente, inchiodata ad una parete, con il pensiero di non essere riuscita a salvare il suo amore. Era morta, agonizzando dolorosamente, come una bestia al macello, e non poteva più ostacolarmi. I bambini erano vivi, ed ancora non sapevano della terribile verità, del fatto che erano rimasti orfani, e che, di lì a poco li avrebbe aspettati un viaggio. Ma io? Io chi ero? Chi aveva ammazzato due creature a sangue freddo? E, soprattutto: chi aveva ammazzato il proprio amore, dopo averlo ingannato, dopo avergli dato una falsa sicurezza? Cos’ero io? Uccidere a sangue freddo uno sconosciuto è facile; un’altra cosa è quando la vittima è un essere che si è conosciuto, toccato, amato, con la quale parlavo. Io amavo Chekaril! Ma… perchè non ero contenta? Perchè non saltavo di gioia al pensiero di aver attuato la mia tremenda vendetta, di aver vendicato tutti gli inganni, i soprusi, l violenze della quale ero stata vittima incosciente? Perché non ero soddisfatta, nel vedere quei due viscidi bastardi vinti, sconfitti, uccisi, per permettere all’utopia elfica di realizzarsi, finalmente? No: io non stavo gioendo. Non era gioia, quel senso d’irrealtà crescente. Non era mio l’orrore che provavo, mentre spiavo interdetta l’abisso nella quale ero allegramente precipitata, ricca d’avventatezza. Io dovevo gioire per quell’omicidio: non poteva essere. O forse si? La scarsa prudenza mi aveva fatta sragionare. No: non avrei dovuto ucciderlo. Era stata una pessima idea: avrei dovuto portarlo dritto da Lainay, mentendole spudoratamente, o avrei dovuto lasciarlo stare. Ma non quello. Tutto, ma non quello. Mi sarei dovuta forse uccidere, pur di non combinare quello scempio. Chekaril era stato un bastardo, un maledetto bastardo, e mi aveva tradita in un modo inconcepibile, con una crudeltà che io avevo sempre pensato non gli appartenesse; mi aveva trattata come un giocattolo, come una perla, un gioiello, un cavallo, un’arma. Ero stata trattata come un oggetto. Non era giusto, però, averlo trattato in quel modo barbaro, ingannando, tradendo. Non sentivo come mio quel modo d’agire. Eppure avevo agito così per così lungo tempo!  Ero cambiata, si, e molto. Perché io non ero una Spia, non ero un’eroina. Non ero più Ombra, ma nemmeno Luce. Ero solo una povera derelitta sperduta, immersa ed ottenebrata da un tramonto perenne, che credeva di poter partecipare a giochi più grandi di lei, una mendicante che si credeva una regina. Ma perchè l’avevo ucciso? I saggi non si pongono mai a livello degli inferiori, a livello di tali, meschini individui. Io avevo fatto qualcosa di peggiore, spinta dal mio istinto focoso. Avevo ucciso colui che amavo, con tutta me stessa, più di tutta me stessa. Ed ora ne cominciavo a patirne le prime conseguenze. Qualcosa, in quella cucina insanguinata, scese, per opprimermi l’anima: una coltre invisibile, che quasi potevo sentire quando mi muovevo, che quasi mi curvava come una vecchia mortale. Mi soffocava, sempre presente e minacciosa, pesante come un macigno. Era senso di colpa? Forse. Non chiedetemi quale fu il pensiero che mi portò ad affondare, ad affondare sempre di più in un terribile baratro di colpe, quale fu il fantasma che ancora mi perseguita. Non ho la minima idea di cosa fu, a ridurmi così, in una cucina deserta, a parte me, insieme a due larve che avevo provveduto ad eliminare con una crudeltà quasi disumana. Il silenzio ed il buio opprimevano tutto. Sentivo solo un leggero gocciolio, gocce di qualcosa che cadevano in terra.  E nient’altro. Mi guardai intorno, con i movimenti torpidi che appartengono ai sogni. Il tavolo era intatto, nulla sembrava turbare la quiete di un pranzo appena interrotto: piatti, cibo, ed i fiaschi d’acqua e vino rosso, erano ancora al loro posto, come se nulla li avesse toccati,  come in attesa di una festa, che non sarebbe arrivata mai. C’era solo una piccola macchia di sangue, al posto di Chekaril, ed una scanalatura nel legno massiccio, lì dove il coltello aveva colpito. Chekaril. Chekaril, Chekaril. Non volevo guardarlo. Non volevo guardare i suoi occhi aperti, vuoti, il viso dall’espressione ancora sorpresa e dolorante, che mai si sarebbe trasformata in un sorriso. Lui non mi avrebbe più sorriso, con quel fantastico ghigno ammiccante che faceva cadere ai suoi piedi interi stuoli di elfe, ed umane. Quel sorriso che mi aveva piegata al suo volere più di una volta. Il sorriso che amavo. I suoi occhi non avrebbero più scintillato, quegli occhi d’ametista lavorata, così pieni di malizia e serietà. Non volevo vedere le terribili ferite che gli avevo inferto, non volevo vedere lo squarcio che gli avevo aperto in gola, così vivido, così largo, che ancora sanguinava. Non volevo vedere il coltello insanguinato, con il quale gli avevo compromesso ogni speranza di vita, con quella ferita sulla sua mano sinistra, che quasi non si vedeva, leggermente discosto da lui. Non volevo vedere Aevo, contorta dall’agonia, accasciata orrendamente vicino alla porta, in un lago del suo stesso sangue, che rigava la porta. Rimasi così ad osservare l’allegro fuocherello scoppiettante, con sopra, il bricco del tè che fumava. Come in un sogno, il fischio del tè che usciva mi strappò dalle mie considerazioni, un fischio acuto, penetrante, che fendette il silenzio, ferendomi le orecchie. Un fischio che a me, completamente stravolta dalla colpa, parve d’accusa. Non riuscivo a sopportarlo. “smettila!”. Urlai, rivolta a quella teiera diabolica. Ero arrivata al limite estremo della sopportazione. Quel maledetto fischio! Perché non  la smetteva di ripetere le mie colpe, snocciolandole una ad una come una cantilena malvagia? O forse ero io che immaginavo tutto? Il suono della mia stessa voce mi fece sobbalzare. Era secco, arido, doloroso come una frustata. Rammentava al popolo intero la mia colpa. La teiera continuò a fumare e sibilare, beffarda, una voce di denuncia. Si: mi pareva che stesse parlando, stesse sussurrando a tutti, malevolmente, la mia colpa. Lsyn, Lsyn, pazza Lsyn! Canticchiò allegramente, scoppiettando. Lsyn è impazzita! Si, guardate l’Ombra, che ha ucciso Chekaril, che ha fatto tanto per lei! Lui l’ha protetta, lei l’ha sgozzato. Lei ha rifiutato la sua unica speranza di redenzione. Sei perduta. Sei spergiura. Io so. Io ho visto tutto. Sono la tua coscienza, Lsyn Amarto. E ti accuso. Mostro! Il tè cominciò a fuoriuscire, bollendo, dal suo recipiente. Il fuoco avvampò, sfrigolando, a contatto con il liquido che fuoriusciva dalla graziosa teiera. Dei, penso di essere completamente impazzita, in quel momento. sentii degli strani rumori, come di gente che parlava in lontananza. La figura di Kyrre comparve alla mia coscienza, alta, autorevole ed alata. Lo ricordavo benissimo, quando mi aveva dato la spada con la quale avevo ucciso degli innocenti, quella spada così ben pulita. Quella spada era destinata all’onta. Quando ne lavava una, ne commetteva un’altra, ben peggiore. Quella spada era zuppa di sangue innocente. “Tieni fede a questa nuova dignità, Lsyn…”. Mi aveva detto Kyrre, solenne, in un angolo nascosto del villaggio, per impedire che la Matriarca ci vedesse, e soffrisse. Una girandola di volti, colori e voci, prese ad affastellarmi la mente, a riempirla, con le loro parole atroci, di terribile accusa, con il loro convulso e confuso turbinio. Quel ricordo ne diede vita a molti altri. E rivissi un bacio di Chekaril. Rividi Tijorn, che mi supplicava di rimanere. E mio fratello si trasformò in Isnark, che mi supplicava di lasciarlo stare. Lainay mi guardò, con l’accusa in viso, pallida, e tese un braccio verso di me, l’indice puntato contro il mio petto, in un gesto astioso. Roxen mi aprì una porta, sorridendo. Le voci, quelle voci totalmente immaginarie, mi  soverchiarono, ed io mi sentii girare la testa. Fui sul punto di cadere, di svenire,  di urlare dalla disperazione, ed indietreggiai di un paio di passi. Mi misi le mani sulle orecchie, e premetti forte, scuotendo intanto il capo, come un cane bagnato. Le voci diminuirono. Cominciai, gradualmente, a sentirmi meglio. Chiusi ed aprii gli occhi, in successione, un paio di volte. Dei, forse stavo davvero impazzendo, non so. Forse ero già pazza, o forse fu soltanto lo shock, a rendermi così sensibile, a farmi avere quelle strane allucinazioni, che non vivevano, se non nella mia testa. Fatto sta che furono poste le basi, tragiche, per quello che fu, in seguito, il mio terribile tentativo di mettere tutto a posto, cercando di riparare, in modo distorto ed insano, il torto che avevo commesso. E forse fu proprio in quel momento che capii appieno cosa avevo fatto. Non c’era modo di riparare alla morte. Non era più possibile tornare indietro: Chekaril ed Aevo non si sarebbero più rialzati, non avrebbero sentito le mie scuse, non mi avrebbero perdonata. I piccoli erano, ora, solo e totalmente nelle mie mani. Era mio, ora, il compito di prenderli, e portarli alla loro zia. Alla loro zia bastarda, alla Regina maledetta, colpevole anche lei di quell’omicidio, dalle mani sporche di sangue innocente come e più delle mie. Ed io ero zuppa di quel sangue, immersa in quell’omicidio brutale. Ma… un momento. Ero stata io ad ordinarmi di agire! Io avevo agito, avevo fatto tutto da sola! Lainay era solo un pretesto: chi aveva confessato alla Regina un falso tradimento? Io. E chi aveva chiesto cosa fare con Chekaril? io. Chi non aveva obiettato quando la Regina mi aveva dato il permesso di farlo fuori? Io. Io, io, sempre e solo io! La colpa era solo mia, e di nessun altro! La spada di Eiron mi cadde dalle mani, con un clangore sonoro. Il pianto cresceva, lo sentivo formarsi in gola, lottare per salire a galla, e per offuscarmi la ragione. Ero pietrificata letteralmente dall’orrore del gesto commesso. Avevo pensato di star agendo nel giusto, di star facendo la cosa giusta. Mai considerazione fu più sbagliata della mia. Le lacrime mi offuscarono gli occhi. Terrificata, prossima a scoppiare in un pianto dirotto, mi portai una mano alla bocca, forse per non gridare. La mia mano era viscida di sangue, e sapeva di ruggine e sale. Sangue contro sangue: il mio viso sporco di sangue, le mie mani zuppe di sangue. Cedetti, definitivamente. Quasi non mi accorsi di essere caduta in ginocchio, accanto al cadavere del mio amato elfo. Lacrime copiose presero a scendermi sulle guance luride. Mi resi conto di tremare come una folle. E forse folle ero. Finalmente, chinai il viso, costringendomi a guardare il volto sconvolto del dolce elfo traditore, che tanto avevo amato. Lui, vittima come tutti gli altri. Lui, vittima più di tutti.  Una lacrima cadde sul suo viso incredulo ed immobile. Poi un’altra. Entrambe scesero sulle guance dell’elfo come fossero state le proprie. Chekaril sembrava piangere. Ma stavo piangendo io. Un singhiozzo mi ferì la gola. Poi un altro. “Chekaril…”. sussurrai, piegandomi sul suo corpo disfatto. Dei…com’era freddo. Mi odiai, tanto, per questo. Ero stata stupida, avventata, un mostro, una bestia. E lui non mi avrebbe mai più sentita, non mi avrebbe mai più rassicurata. Quasi avevo dimenticato quanto mi avesse ferito, confessandomi di non avermi mai amata. Ma io l’amavo follemente. E l’avevo amato. C’era qualche differenza? Per qualcuno potrebbe non sembrare importante: per me si. Mi ero resa sua eguale, con quell’omicidio sconsiderato. “Chekaril…ti prego…”. Come no. E lui poteva ascoltarmi. Lui, quel guscio vuoto di cui ero stata colpevole. Cominciai a singhiozzare più forte, sempre più forte. Avrei voluto parlargli, confessargli di aver sbagliato, volergli chiedere scusa. Ma a che pro? Lui non mi avrebbe sentita. Lui era una larva, un corpo freddo e rigido come marmo. L’avevo perso per sempre. E non c’era più speranza di ritrovarlo. Come avrei voluto che lui mi rispondesse, mi rassicurasse, mi dicesse che era tutto era a posto, e che, anche se non mi aveva mai amata, mi avrebbe sostenuta ed incoraggiata, e tenuto la mano. Io avevo voluto solo questo! Io volevo solo essere amata! Ed ora, invece, mi ritrovavo sola al mondo. Perché io, ora, ero davvero sola. Non avrei mai più avuto il coraggio di presentarmi da qualcuno dei miei amici, o conoscenti. Ancora piangendo, mi sfiorai le piume di Tengu, che ancora erano al collo, impossibili da togliere. Cosa avrebbero pensato, i miei amici alati, nel vedermi conciata così, nel sapermi così crudele? La Matriarca, la dolcissima Gwen, si sarebbe più fidata di me come una volta? Tijorn avrebbe più avuto il coraggio di abbracciarmi, nel sapermi zuppa di sangue innocente? Junielle mi avrebbe ancora sgridata, avrebbe ancora lottato con e per me, dopo che fosse venuta a conoscenza della mia terribile colpa? Gli infanti si sarebbero mai fidati di me? Quel pensiero me ne fece venire un altro in mente. Avevo ancora una missione da svolgere. L’ultima missione prima di cadere nell’oblio, prima di ritirarmi definitivamente, e di isolarmi da tutti. La colpa bruciava, troppo vivida, nella mia mente. Meditare, solo, sarebbe stato troppo poco. Ma avrei capito cosa fare, a tempo debito. E l’avrei fatto. In un caso o nell’altro, nessuno della mia famiglia avrebbe più sentito parlare di me. Non li avrei contaminati con la mia bestialità  crudele. Loro erano troppo buoni, e puri. Dopo il mio ultimo dovere, sarei scomparsa, e nessuno avrebbe più sentito parlare di me. Ma ora dovevo  prepararmi: il piccolo Chekaril e Roxen mi attendevano, ancora ignari della loro sorte, ancora ignari di essere orfani. Con chissà quale aiuto di chissà quale dio, riuscii ad alzarmi faticosamente, ed ad evitare di guardare di nuovo Chekaril, e di piangere ancora. Tirai su con il naso. La colpa bruciava in me, terribile, divorando la mia anima, come aveva fatto il fuoco della vendetta. Ma era rimorso, quel rimorso che ancora non mi ha abbandonata, quel rimorso che ancora mi infesta i miei sogni, con il volto esangue di Chekaril, abbandonato, così, a terra, senza sepoltura alcuna, quel rimorso che ancora mi fa svegliare, ansimante ed in lacrime, quel rimorso che mi fa tenere, di notte, tutte le lampade accese. Forse ho fatto bene ad ucciderlo, forse no. Forse dovevo lasciarlo stare. O forse non c’è giusto, non c’è sbagliato. Forse lo dovevo fare. Forse il destino aveva deciso così. O forse ero stata io, con la mia avventatezza, a scegliere quella strada. Devo dire che, in quel momento, mentre mi avviavo, strascicando i piedi, verso la camera che era stata mia, per recuperare il mantello, non pensai affatto a quelle cose. Ero ancora troppo stordita dal pianto, troppo oppressa dal senso di colpa, troppo pensierosa. Ora, sapevo cosa dovevo fare. Nascondere i corpi, celare le prove fisiche del misfatto, che sarebbero rimaste sempre impresse nel mio spirito. La mia vendetta era compiuta. E solo gli dei sapevano quanto dolore mi desse quel pensiero!

 

 

 

 

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Capitolo 51
*** Era solo cenere. ***


Ero tornata in cucina, lottando strenuamente contro il pianto, avvolta strettamente nel mio nero mantello, nascondendo, a nessuno se non soltanto a me stessa, le prove del misfatto: quegli abiti, una volta grigi, ora rossi

Ero tornata in cucina, lottando strenuamente contro il pianto, avvolta strettamente nel mio nero mantello, nascondendo, a nessuno se non soltanto a me stessa, le prove del misfatto: quegli abiti, una volta grigi, ora rossi. Rossi di sangue, tintura malefica. Era una sensazione sgradevole, molto sgradevole, averli addosso. Nei punti meno colpiti, il sangue si era seccato, e crepitava lugubremente, o almeno così mi parve, intralciando ogni movimento, con una sensazione sgradevole. Non più piacevoli erano certamente le zone ancora zuppe, ormai fredde e viscide. Odiavo quel contatto repellente. Tuttavia, non mi ribellai. Avevo ben altri pensieri per la testa. Mi muovevo come una sonnambula, in uno stato che a malapena oserei definire sconvolto. Ero intorpidita, ed avevo un freddo tremendo. Ma non si trattava di una sensazione fisica. La mia anima pareva essersi congelata, frantumata in mille schegge di ghiaccio affilato, che mi tormentavano il cuore. La colpa affondava i suoi artigli crudeli nel mio collo, mozzandomi il respiro, rendendolo breve ed affannoso come l’ansimare di un cane accaldato. Passato il momento d’incredulità e di orrore, non mi rimaneva altro che un senso di stolida accettazione,un gesto quasi di sottomissione verso la bestia che sonnecchiava in me, con un occhio aperto, ed un disperato desiderio di nascondere le prove del delitto, annientarle, eliminarle. Quello era il sentimento che predominava in me, assoluto ed impellente. Avevo un bisogno disperato, animalesco, di fuggire da quelle cose orrende che avevo creato io stessa, quei cadaveri muti ed inetti. Forse, così, avrei potuto dimenticare, e forse, togliendo le prove fisiche di quello che era successo, tutto sarebbe tornato indietro. Si: la polvere non aveva un viso. Un frammento non era un occhio. Meno si vedeva, meglio era per me. Non esistevano prove, non esisteva la colpa, non esisteva il delitto. Logica semplicissima ed efficace. Nessuno poteva dire di essere stato testimone dell’omicidio di Chekaril ed Aevo, nessuno poteva dire che erano stati uccisi, perché io avrei impedito che succedesse. Doveva tutto sembrare un incidente. Io non ero mai entrata. Non ero mai esistita. A Gerinti non era arrivata alcuna Lsyn, alcuna vecchia matta. Dimenticate tutto, dimenticate gli ultimi giorni. Era solo cenere. O meglio, lo sarebbe ben presto diventata. Dovevo distruggere, distruggere, distruggere. Distruggere, distruggere, distruggere. Distruggere: quello era l’imperativo che ripetevo senza sosta nella mia mente, una cantilena che prese a non avere più senso, ad essere solo un insieme casuale di lettere, di suoni. Non so: forse sussurravo quella stessa parola ad alta voce, un fruscio che mi teneva compagnia, un rumore che mi aiutava a non perdere del tutto il contatto con la realtà. Pazza, sciocca, resa cieca, sorda e muta dal dolore. Non si può dimenticare, ed i miei non furono che gesti folli. Non mi rendevo ancora conto che è impossibile cancellare i ricordi, che è impossibile impedire che, di tanto in tanto, il viso pallido di Chekaril ricompaia nella mia memoria, monito perenne alla mia avventatezza, facendomi tremare dal terrore. E, nemmeno, posso impedirmi, nei sogni, di rivisitare le scene più atroci della mia vita, di rivivere il momento in cui  la mia spada affondava nel collo morbido del mio amore, con un tonfo sordo, ed uno schizzo di sangue scarlatto, che mi aveva inondato il viso. Ricordi che mi fanno svegliare di scatto, con il cuore che batte all’impazzata, e gli occhi sbarrati dal panico. Ricordi che mi fanno fissare il buio, ansiosa, che mi fanno temere che, da un momento all’altro, dalla quiete notturna compaiano i fantasmi evanescenti di coloro che ho ucciso, pronti a tendere le loro adunche mani accusatrici verso di me, per prendermi, e portarmi nel nulla, assieme a loro. Ed allora mi rannicchio, mi nascondo sotto le coperte, come un’infante che ha paura dei mostri che abitano la sua immaginazione, e serro gli occhi, cercando di non vedere, d’ignorare, di dimenticare. Ma, e questo ora mi è ben chiaro, è impossibile dimenticare. Impossibile. Potevo essere più sciocca, nel precipitarmi in quella cucina, in pieno giorno, e fare quello che ho fatto? Può darsi di si, può darsi di no. Non voglio saperlo, né voglio soffermarmi più di tanto su considerazioni oziose che distruggono il mio cuore già abbastanza lacerato. E fu così, che, in uno stato a metà tra il sonno e la veglia, tra il sogno e la realtà, mi avvicinai al tavolo, incespicando goffamente nelle mie stesse gambe, le mani leggermente avanti. In quei momenti, il mondo si fa completamente offuscato, e, davvero, non riesco a ricordare come ritrovai la mia spada di nuovo in mano. Dovevo essermi chinata vicino a Chekaril, ed aver avuto il coraggio di avvicinarmi al suo cadavere freddo e bianco. Lo ritenni quasi impossibile. Avevo compiuto un gesto del genere? E perché, poi? A cosa mi serviva quella spada sporca di sangue innocente, che mai si sarebbe lavato, quell’arma di sangue brunito? Stupita, guardai l’arma. La lama, seppure arrossata dal sangue che aveva assaggiato, era ancora splendente, e l’elsa d’argento filigranato risplendeva come fuoco freddo. Fuoco freddo. Le parole mi suggerirono un’idea, e continuai a ripetermi quella parola in mente, come per cercare un senso intrinseco, che non aveva. Fuoco, fuoco… Fuoco? La casa era fatta quasi interamente di legno. Il tavolo aveva un’aria impenetrabile, ma le sedie ed i muri non sembravano, poi, così resistenti. Specie le ultime, malandate e consunte. Facili da rompere, con una spada. Dovevano pur avere delle torce per la notte: erano abbastanza ricchi da permettersele. E quella era la stanza adatta per conservarle. In quei momenti, ebbi davvero la furbizia di una volpe, davvero. Nono ho mai capito perché sia stata così stupida. Forse fu il trauma, forse è qualcosa in me che non va. Vedevo addirittura i sostegni. Nel camino scoppiettava, allegro, il fuoco. Ed il legno brucia con il fuoco. Ovvio. Non è difficile che, una scintilla casuale sui muri, sia il preludio per una tragedia, in una casetta di contadini. La casa era grande, ma non troppo. Un solo piano. Il tetto, con tutta la ricchezza possibile, era sempre di paglia, e non pioveva da giorni. Dovevo solo essere lesta a fuggire, tutto qui. Il resto, poi, sarebbe stato facile, molto, molto facile. Non dovevo far altro che fingere, tutto qui. E non farmi notare da nessuno. Come un automa, una bambola meccanica, mi sporsi sul tavolo, ed afferrai i due fiaschi pieni. Davano una sensazione così…strana, polverosa, come un qualcosa di falso, di vuoto. Feci un passo all’indietro, portandomi di lato al tavolo, più vicina ad Aevo. E lasciai andare i due contenitori, veementemente, come se qualcuno li avesse lanciati. Con un ampio gesto, poi, percorrendo il tavolo, feci cadere tutto, mettendo in disordine, come se vi fosse stata, in quella camera, una colluttazione atroce. Non potevo contare solo sull’incendio. Certo, non ero stupida. Solo stordita. E dovevo incolpare qualcuno di un duplice omicidio, no? Vincendo così il mio terribile disgusto, presi il coltello insanguinato che avevo usato per trafiggere la mano di Chekaril, e nascosi così la ferita con esso, cercando di dare l’impressione che lui avesse prima ucciso Aevo, e poi si fosse suicidato. Un piano che faceva acqua da tutte le parti, lo ammetto. Erano, si, contadini, ma anche un idiota saprebbe distinguere un colpo di spada da uno di coltello, anche solo dalla dimensione. Il colpo al collo, nel punto d’incontro tra quest’ultimo e la clavicola, in direzione del cuore, era ben difficile da autoinfliggersi, per non parlare poi di quello sull’addome, che avrebbe dovuto implicare una posizione del polso tale da annullare la forza della spinta. Perché, poi colpire l’addome ed il collo? E, poi, che fine aveva fatto la vecchia matta che i due elfi avevano raccolto così pietosamente? Si era volatilizzata? Perché tutte quelle orme insanguinate? Non corrispondevano a Chekaril. Più ci penso, più quel piano mi pare assurdo. Ma, spaventata e tremante com’ero, non ero in grado di pensare a qualcosa di meglio. La mia ragionevolezza era completamente assente, rintanata in un cantuccio caldo della mia mente, senza la minima intenzione di uscirvi, peraltro. C’era solo da sperare che il fuoco attecchisse. Potevo sperare solo in quello. Sperai ardentemente nei pannelli che, seppur di legno grezzo, erano molto, molto sottili, non difficili da bruciare. Forse, a quello servivano, durante la penuria di legna, non so. Così, dopo aver imbastito la mia pietosa sceneggiata, mi diressi, barcollante, verso la sedia più malconcia, quella di Chekaril, ed alzai la spada. Fu più difficile del previsto, ma, alla fine, riuscii a staccare il legno nelle sue parti fondamentali. Per poco non scheggiai la mia spada, la mia meravigliosa spada, ma, alla fine, stanca morta, ce la feci. Passai così alle altre sedie. La prima, la mia, fece la stessa fine di quella di Chekaril; ma quella di Aevo, ed un’altra, forse quella di un piccolo, dall’aria più solida e nuova, fu complicata da rompere, e ci riuscii solo per metà. Portando via pezzo per pezzo, ed imprecando quando una scheggia s’infilò in un dito, riuscii a creare un piccolo mucchio di legno, vicino al camino, a fare un cerchio attorno ad una finestra. Dovevo solo sperare nella mia buona stella, ora: quella buona stella che mi aveva tradita più di una volta. Presa da una frenesia quasi incontrollabile, ripetendomi in continuazione il  piano nella mia mente, cominciai a frugare la stanza, mettendola sottosopra, in cerca di olio, torce, o qualcosa del genere. Niente. Cominciai a disperare: credevo i due così stupidi da mettere un qualcosa di potenzialmente infiammabile in una stanza dove si cucinava? Era così evidente la mia estrazione nobile? Cosa fare? Ero ad un punto morto: il mio lavoro affannoso mi aveva portato al nulla. Sbuffai: era solo, quella, un’insulsa perdita di tempo. Sussurrando la mia solita cantilena di distruzione, ormai completamente impazzita, uscii dalla stanza, aprendo ogni porta, e frugando dappertutto. Dovevano nascondere l’olio. Ovvio. Ovvio! Non poteva essere altrimenti! Cominciai ad esplorare. Era davvero una bella casa: molto semplice, dai letti comodi, ma rustici, e funzionale, tipica di un contadino abbastanza ricco. Entrai nella camera dei bambini, piena di giocattoli di legno che m’intenerirono. Erano oggetti di fattura evidentemente artigianale,  elementare e molto maldestra, niente a che vedere con i ninnoli delicati e colorati che avevo visto in mano a Manolìa e Nysha, oggetti di ottima fattura elfica, principalmente un regalo di Amarto, ma quasi mi commossero. Quei poveri piccoli, la mia povera Roxen, erano ormai orfani, e non avrebbero mai saputo che non era stato un incidente a portare via i loro amati genitori. Avevo visto, da quel piccolo scambio di battute, l’amore che c’era stato tra mia figlia ed il padre, e scommettevo fosse stato così anche per il piccolo Chekaril, il suo fratellastro. Il Principe, a dispetto di tutte le scuse che addiceva quando io gli parlavo di rivelare l’esistenza della piccola, cosa peraltro inutile, se l’era cavata davvero bene, e li aveva cresciuti a dovere. Quanto, quanto sarebbe cambiata la loro vita, in così poco tempo? Quanto presto avrebbero dovuto abbandonare l’infanzia, tutto per colpa mia? Quanto presto sarebbero venuti a contatto con l’orrore del Regno, le sporche ambizioni di Lainay? Quanto presto avrebbero dovuto subire le sue soffocanti attenzioni? Era colpa mia, tutta colpa mia. Dovevo a quei poveri infanti almeno qualcosa. Non potevo distruggere tutta la loro felicità. Con la stessa fretta che aveva caratterizzato i precedenti istanti, cominciai a cercare tra i giocattoli. Sui lettini, finalmente, vidi qualcosa che m’interessò: un cavallino dall’aria vetusta, di velluto marrone scolorito, di chiara provenienza dei migliori artigiani elfi di Galinne, a cui mancava un occhio di vetro, ed un cane di stoffa grigia, imbottito con quelle che mi sembravano piume, cucito alla meno peggio, con quelli che mi parevano bottoni come occhi. Sembrava un  piccolo cuscino con coda, zampe, orecchie e muso, ma aveva un’aria più nuova. Aveva un’inquietante somiglianza con la bestia feroce che possedevano, con quella specie di lupo lanoso, che mi aveva aggredita, e fatta scappare come un’idiota. Scommettevo fosse stata una creazione di Aevo. Quei due oggettini erano quelli dall’aria più vecchia, ed usata. Forse i loro giocattoli preferiti. Sarebbero stati contenti, quando li avrebbero rivisti. Avrebbero rammentato loro giorni belli e felici, nei periodi di buio apprendistato che sarebbero venuti. Si sarebbero addormentati sorridendo, pensando alla loro mamma ed al loro papà che li volevano, tutto sommato, ancora bene. Mi faceva male, pensarlo. Era un dolore troppo, troppo grande. Perché la madre di Roxen era un’altra. Ero io. E non potevo dirlo, non potevo confessarlo a nessuno! Quei gingilli, all’apparenza così sciocchi, era preziosi. Forse potevo farmeli buoni, ed amici, con quel regalo inaspettato. Forse sarebbero riusciti a volermi bene. Sarebbero stati le prime persone dopo lungo tempo a stimarmi in qualche modo. Il pensiero non fece altro che deprimermi. Tirai su con il naso. Sentivo un persistente groppo alla gola. Che avevo fatto? Cosa? Perché? Perchè avevo rubato alla mia piccola Roxen la felicità? Rimasi a guardare quella stanza semplice per un attimo soltanto, preda di un dolore troppo profondo per essere descritto. Che dannata egoista che ero stata! Dovevo, evitare, in ogni modo, di scoppiare in singhiozzi, nei singhiozzi più atroci. Bastarda, vile assassina! Poi, come un lampo, mi attraversò un pensiero. I piccoli non dovevano vedere quello scempio. Xavier, prima o poi, li avrebbe accompagnati a casa. Io mi dovevo sbrigare, prima che vedessero i loro genitori immersi nel sangue! Mi misi più dritta, come attraversata da una scossa elettrica, ed intascai i due balocchi, nella stessa, grande, tasca, dove avevo messo le due collane dei Celestiali che avevo così brutalmente ucciso, e la collanina di Chekaril. poi, affannosamente, uscii, ed aprii la porta accanto. Un’altra stanza da letto. Presumibilmente, quella di Chekaril ed Aevo, una stanza con un semplice letto, uno sgabello ed un piccolo armadio, che io spalancai, speranzosa. Nulla: con una certa delusione, notai che era pieno soltanto di vestiti di varie taglie. Abiti semplici, da contadini. C’era qualcosa anche per i bambini. Poteva servirmi qualcosa. Arraffai alcuni abiti da infante, per i piccoli, ed un paio di tuniche di cotone, che sapevo utili per altri scopi. Poi, sempre correndo come un’invasata, la mente ormai occupata dal bisogno impellente di nascondere, di non far vedere ai piccoli, ripresi la mia esplorazione. Stavo cominciando a disperare, disperare amaramente, quando giunse l’illuminazione. L’illuminazione sottoforma di piccola stanza buia. Era l’ultima del piccolo corridoio, e chiusa a chiave. Ci volle tutta la mia forza per aprirla. Quasi mi lussai una clavicola. La spalla faceva un male tremendo. Imprecai aspramente, arrabbiata. Sperai che le mie speranze non venissero deluse. Finalmente, riuscii a vedere cosa c’era dentro. E gioii: nella mia mente si aprì qualcosa, come una finestra, ed essa s’illuminò a festa. Quella stanzetta era un magazzino di generi di contrabbando. Cibo, medicine, ed altri oggetti proibiti in tempo di carestia o guerra, erano stipati in pile ordinate. Avevo dimenticato che Krish, per i paesani, era un abile mercante, un abile ladro e contrabbandiere. E, soprattutto, che la sua casa era un crocevia di ogni cosa, il mercato dell’impossibile. Krish, l’elfo dei miracoli. Quasi risi, alla mia battuta estremamente stupida. Ma ero davvero pazza, all’epoca, ero resa una belva dall’ansia di dimenticare. Non agivo come un essere senziente, bensì come un animale, come un infante vendicativo e distruttore. Rovistai un po’ nella bolgia infernale. E trovai ciò che cercavo. Olio. Olio da lampade, per la precisione, con ben dieci di esse accanto, pronte all’uso. Lampade grezze, dallo stoppino di stracci, ma più che ottime per ciò che dovevo fare. Ne afferrai solo una, ma presi la tanica di quell’olio. Accidenti, com’era pesante! La spalla del braccio con la quale trascinavo il grande contenitore urlò, protestando per il lavoro atroce. Mi morsi le labbra per non gemere. Ero presa da una frenesia incredibile, una gioia di distruzione, e non potevo arrendermi ora. Avevo trovato il metodo per eliminare tutte le prove. Sogghignai. Quale metodo migliore per alleggerire il barile, se non svuotarlo un po’?

 

Era fatta. Ero tornata, soddisfatta e ridacchiante, nella cucina, il contenitore dell’olio che si faceva, via via che proseguivo per ogni stanza, più leggero. Impregnai, con gioia perversa, i vestiti nell’armadio, ed il letto dei due maledetti sposi. Bastardi. Lì erano stati così felici. Lì Chekaril aveva avuto cos poco rispetto di me, come tutte le altre volte! Risi, a lungo, con piacere. Li avevo uccisi, ora! Con più rispetto, e quasi con dolore, procedetti nella camera dei bambini, e nello sgabuzzino dove avevo trovato un tesoro. Ero perfettamente conscia di stare per affamare molti contadini, e le loro famiglie. Stavo per rendere alla miseria un intero villaggio. La cosa mi fece quasi male, fino a quando non ricordai che, molto probabilmente, quelle erano solo le scorte della settimana, o del mese. Ci sarebbe stato qualcun altro a contrattare con i contrabbandieri, magari lo stesso Xavier, che, pur nella sua ingenuità, mi sembrava l’elfo adatto per svolgere il ruolo di diplomatico. E, forse, Chekaril aveva nascosto le altre cose in qualche grotta. Era impossibile che fosse tutto in quella stanzetta soffocante! E cosa m’importava, inoltre? Io, di cibo, ne avevo in abbondanza! Mi scrollai nelle spalle, ripetendomi inoltre che non era affar mio, e versai un po’ d’olio sulle cose, anche sulle pareti. Stavo creando il preludio per un inferno. Ed io, stolidamente, ero nel bel mezzo. Non riesco a ricordare se ci pensai, e quando. Forse il pensiero di rimanere imprigionata lì, in un ammasso di fuoco, non mi sfiorò neppure. Ero davvero sciocca. O forse troppo impazzita, troppo frettolosa, troppo impulsiva. Ridacchiando, e versando qua e là l’olio, ero arrivata in cucina. Per prima cosa, avevo rotto un vetro, quello di una delle finestre più discoste dalla strada principale. Era un buco abbastanza grande, minuta e piccina com’ero, per farmi passare, seppur facendomi qualche taglio. Ero protetta dalle sedie, dall’ammasso di sedie che non avevo oliato, rendendolo più lento, nella mia mente contorta, a bruciare.  Una soluzione stupida, molto stupida. Ma non avevo paura delle cicatrici. Non quando metà del mio corpo era un solo ammasso informe. Non quando le spalle erano segnate da lunghe linee doppie e curve, le ciocche dei miei capelli che si erano bruciate, e che mi avevano segnata, come frustate, in modo indelebile. Ancora presa da un’assurda fretta, senza alcun pensiero in mente, sparsi un po’ dappertutto l’olio, anche sui cadaveri, finendolo quasi. Con i rimasugli, impregnai le tuniche che avevo rubato dall’armadio dell’olio rimasto, e alacremente, le avvolsi attorno ad un pezzo lungo e secco di legno, abbastanza lungo e abbastanza resistente da permettermi di raggiungere il soffitto. Avevo intenzione di bruciare prima la paglia, e poi di versare la lampada, accesa, a terra, creando una sorta di reazione a catena. Avevo, nei miei piani, tutto il tempo di fuggire. Non avevo contato la velocità del fuoco, che divora tutto, insistentemente. E non previdi quello che, di lì a poco, mi parve ovvio. Immersi così, allegramente inconscia di stare finendo in una trappola da me stessa astutamente preparata, il panno nel fuoco del camino. Subito, il tessuto impregnato con l’olio, s’infiammò, una fiamma viva e potente. Ed io, ridacchiando come una matta, saltai su una sedia spaccata a metà, alzando il mio palo improvvisato, e conficcandolo nella paglia secca. Aspettai.  Vidi, dopo poco, alzarsi la prima lingua di fuoco. Aveva attecchito. Soffocai un urlo di gioia. Il mio piano aveva funzionato! Ridacchiai, estremamente felice, ancora di più, gioendo pazzamente. Si! Si! Tutto distrutto, tutto! Tutto sarebbe morto, non esistito, nullo! Ed io avrei, forse, dimenticato quello che non esisteva. Sciocca. Sciocca! Rimasi ancora un po’ ad osservare il mio trionfo, che sottoforma di fiammelle, si propagava velocemente sulla paglia. Un attimo solo, si. Mi piaceva così tanto vedere un mio piano finalmente andato in porto! Avrei voluto, così tanto, ridere! Rimasi in uno stato simile all’ipnosi per un bel po’. Uno scricchiolio strano mi riportò, finalmente, alla realtà. Sentii mancare un battito. Cosa stava succedendo? Cos’era quel rumore strano? La sedia stava…cedendo? Ero salita?... Non ebbi il tempo di pensarci. Fu troppo tardi il mio penoso tentativo di saltar via. Perché la sedia, della quale mi ero così stupidamente fidata, si ruppe sotto i miei piedi. Caddi, palo e panno infiammato, a terra. Non sarebbe stata un’altezza eccessiva, se non avessi incontrato qualcosa nella mia caduta. La mia testa urtò contro un oggetto spigoloso, e duro. Dolore immediato. Seguirono attimi di buio più assoluto. E non mi resi conto di aver lasciato andare una miccia nell’olio!

 

 

 

 

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Capitolo 52
*** Fuoco purificatore. ***


Dannazione: fui davvero, davvero, stupida

Dannazione: fui davvero, davvero, stupida. Ero stata presa follemente dal mio arcano desiderio di distruzione, un impeto quasi bestiale di rivalsa, e non avevo pensato alle conseguenze. Un gesto incauto che quasi mi costò la pelle. Le mie solite manie di protagonismo. Cosa avevo voluto dimostrare, spargendo olio dappertutto, mettendo a rischio la mia stessa vita inutile? Perché mi ero appollaiata su quella sedia mezza rotta, stupida e soddisfatta come una gallina sul trespolo, che chioccia contro l’intruso nel suo pollaio? A cosa mi era servita quella maledettissima messinscena? A procurarmi solo altro dolore, ecco tutto. Chi mi avrebbe notata, in fondo? Quale assurda pazzia mi aveva afferrata, così subdolamente? Mi stavo torturando, stavo andando allegramente al macello, fischiettando. L’unica cosa buona che avevo fatto, era stata quella di prendere due giocattoli per i piccoli. E la prospettiva di rallegrarmi nel fare visita a due sperduti orfanelli, portando loro vestigia di tempi felici, non era così allettante. Ero odiosa: la solita Lsyn, sciocca ed incauta, che prima commetteva un errore, poi ci piangeva su. E non sono cambiata, oh, anzi. Il dolore mi rese, mi ha reso e mi rende, pazza. Conosco l’inutilità di lamentarsi, rimproverandosi e tormentandosi per un passato che non cambia, né cambierà mai; perché passato, finito, fuori dalla portata perfino degli dei più potenti, semmai ne esiste qualcuno. Tuttavia, non ho mai cessato di farlo. E non lo farò mai. Vorrei, oh, così tanto, fuggire da questa prigione che io stessa mi sono creata, vorrei smettere di sognare, vorrei dimenticare. Ma non voglio. Non posso. I ricordi dei miei orribili misfatti mi accompagneranno sempre, sempre e sempre. Cosa ho imparato da tutte queste cose? Cosa so, ora? Nulla, non ho e non so, tutto qui. Sono più povera, in tutti i sensi, sebbene così non sembri, e più disperata. Condannata ad una vita di eterni rimpianti, troppo debole per scuotermi dalla mia cella fatta di torpore, per raddrizzare quella spirale che mi imprigiona in un dolore senza confini, che m’impedisce di vedere seriamente oltre me stessa. Dolore di cui è mia la colpa. E, tutto ciò che posso fare, tutto ciò che mi rimane da fare, è immaginare come sarebbe potuta andare, come sarei diventata altrimenti. Sarei tornata una Spia, se non avessi ucciso Chekaril? Sarei tornata dai Tengu? Sarei morta? Chi lo sa. Troppi interrogativi storpiano una mente oziosa, nei lunghi pomeriggi, in cui sono sola, quando non mi rimane altro da fare che sedermi al sole e pensare, riflettere, desiderare, sognare, scrivere, aspettando la sera, aspettando un altro giorno sempre uguale, senza ormai prendere coscienza di quanto sia preziosa la vita. E posso solo dedicarmi a quelle poche creature che non mi considerano un mostro, quei pochi esseri che riescono a parlare con me, ripetendo mille e mille volte gli stessi gesti e le stesse parole. Fui stupida, davvero. Ma la trovata del fuoco fu l’idea più idiota che mi fosse mai passata per quel rimasuglio d’intelligenza che avevo. Non ho mai concepito una trovata più assurda di quella. Arrampicarsi su una sedia rotta…che genialità! Da quando ero entrata in quella casa maledetta, la mia condotta era stata piena di errori, che si erano susseguiti l’uno dopo l’altro, e che ancora si susseguirono, impietosamente, infallibilmente. Avevo tradito il Regno. Avevo ucciso l’unico essere che mi ero permessa di amare. Avevo voluto, presa da un’ansia terribile, distruggere ogni prova nel modo più assoluto possibile, ed avevo dimenticato ogni norma di cautela. Tutti quegli sbagli, mi avevano portato lì, in quel piccolo angolo, svenuta, mentre l’intera casa stava andando a fuoco. Mi svegliai davvero dopo poco, o presumo sia stato così. Forse fu il caldo, ad accelerare il processo, non so, forse furono le prime grida, a strapparmi da quel disgraziato torpore, ed ad impedirmi di finire arrostita come un maiale nei giorni di festa, cosa che, a mio parere, reputo ancora la mia fine migliore, ed adatta. Fatto sta che, dopo quello che mi parve un attimo interminabile di oblio, riuscii ad aprire gli occhi. Faceva un caldo infernale, ed avevo un ruggito insistente nelle orecchie. Ruggiti e scoppiettii. All’inizio, mi spiegai questo fenomeno come conseguenza del trauma, e non me ne preoccupai. Ma quel rumore era ben altro, qualcosa di molto più inquietante. Avevo un mal di capo incredibile, come se una carica di cavalleria si stesse svolgendo nella mia testa, ed avevo la vista appannata. Ci volle un po’ per mettere a fuoco il tetto rosseggiante. Mi resi subito conto di essere nei guai più seri, ed il cuore saltò un battito. Panico: panico assoluto, il panico di una bestiolina in trappola. L’incendio aveva attecchito. Eccome se aveva attecchito!  La paglia era, ormai, completamente andata a fuoco. E cominciavo, lì, in quello spiazzo benedetto, che mi salvò così intempestivamente, ad intravedere le prime, alte, lingue di fuoco, che s’insinuavano nella mia labile barriera protettiva. Decisamente, avevo esagerato nel mettere in scena quell’inferno! Capii: dovevo sbrigarmi, prima di morire. C’era, si o no, ancora una via di fuga? La finestra era ancora aperta?  Saltai, immediatamente, a sedere, lasciandomi scappare uno squittio acuto, di paura, e di dolore. La testa aveva preso a martellare appena mi ero mossa, e non mi dava tregua. Sentivo qualcosa di bagnato corrermi per la nuca e le spalle, probabilmente sangue. Perfetto, davvero, davvero perfetto. Ci mancava solo quello. E, si, avevo un’enorme, naturalissima, fifa. Avrei dato, in quel momento, tutti i miei averi per poter sguazzare in una pozza d’acqua, al riparo da quel calore diabolico! Il fumo mi accecò, e m’impedì immediatamente di respirare bene, avvolgendomi, con il suo sentore acre e prepotente. Tossii convulsamente, capendo che, il ruggito che avevo nelle orecchie non era dovuto propriamente alla botta. Attorno a me si stava scatenando l’incendio più terribile che avessi mai visto. Tavolo, pareti, tetto: tutto bruciava allegramente, crollando in una massa carbonizzata. Solo il mio angolino era stato, per il momento, meno colpito: il tetto, però, stava davvero mostrando segni di cedimento. Ancora pochissimo tempo e sarei stata trasformata in un ammasso bruciacchiato e fumante, come avviava ad essere il tavolo, che era stato così solido, così all’apparenza impenetrabile. Tutto il contrario di quello che ero io, una stupida e fragile mortale, fatta di carne e sangue. Perfettamente combustibile, proprio come lo erano Chekaril ed Aevo, che stavano sicuramente già bruciando. Perlomeno, qualcosa del mio piano originario era andato a segno. Ma, dannazione, io dovevo fuggire subito! Non era previsto morissi anche io! Avvertivo, ad una distanza che mi sembrava quasi irreale, grida disperate, e rumori vari. I contadini, e le contadine, erano accorsi in massa, per poter vedere se c’era qualcosa da fare. Ma anche io, rinchiusa in quella topaia che si stava rivelando la mia tomba e gabbia, potevo distintamente vedere che, per quel rogo, l’unica cosa da fare era aspettare che il fuoco si esaurisse da sé. Altro non potevano fare, con i loro mezzi umili. Sperai quella fosse una giornata senza vento: no, davvero non meritavano, quei poveri elfi morti di fame, pagare per una colpa che non avevano. Non volevo che l’incendio si propagasse. Per fortuna, la casa di Chekaril non era attorniata da altre. Il cane, quell’orrido animale feroce che avevano legato al fianco, guaì disperatamente. Fu l’unico essere per il quale non mi dispiacque, davvero. Mi agitai, alzandomi a fatica in piedi. Ero dolorante. Non potevo crederci. Tutte le mie fatiche sarebbero state ripagate in quel modo? Tutti i miei peccati espiati da quel fuoco purificatore? Ma io? Dovevo bruciare miseramente, come un qualsiasi pezzente? Io avevo ancora da fare, non era giusto! Io dovevo portare il piccolo Chekaril e Roxen dalla loro zia, per poi viaggiare, alla ricerca di una comprensione che non sarebbe giunta. Dolci illusioni. Ma, in ogni modo, non potevo lasciarmi andare in quel modo, morire così, come un animale! Rinchiusa tra la morte ed una finestra tagliente, valutai con affanno le mie prospettive. Con sollievo, mi accorsi di poter ancora scappare, sempre che il fumo, che mi stava soffocando, non mi avesse ammazzata prima. D’accordo, molto probabilmente, se fossi fuggita, tutti mi avrebbero visto, e sarebbe stato difficile avvicinarsi ai fanciulli. Se non fossi fuggita, intrufolandomi in quello squarcio che avevo così fortunatamente aperto, beh…i piccoli non avrebbero avuto più nulla da temere, almeno da parte mia. Magari avrebbero potuto vivere un’altra decina di anni in pace, soli, dimenticando tutto quello che era successo. Ed io, almeno, avrei avuto l’oblio che mi meritavo, morendo lì, insieme al mio amato Chekaril. Magari, mi sarei gettata nel fuoco, io stessa, in cerca di ciò che rimaneva del mio amato, ed avrei spirato con lui, con il conforto ed il perdono di un morto. Non era una cattiva prospettiva, tutto sommato. Era terribilmente allettante. Cercai di distogliere il pensiero da quell’idea, concentrandomi sulle questioni pratiche. Ma nulla: niente poteva distogliere il mio sguardo ipnotizzato dalle fiamme che mi stavano quasi per lambire. Se fossi stata immobile per un altro po’, esse avrebbero attecchito sul mio corpo, e per me, se non mi fossi ribellata, non ci sarebbe stato più scampo. Le sedie stavano già ardendo allegramente, ed il fuoco mi aveva raggiunta quasi, ormai. Mi ritrovai a fare considerazioni strane, forse aiutata dalla botta tremenda alla testa, non so. Su di me, scese un’insolita calma, resa più bizzarra dal momento critico in cui mi trovavo. Stavo sudando, il mantello era zuppo quanto me. Ma non m’importava: nella mia mente, tutto era gelido calcolo, e lì era il mio paradiso. Mi lasciai andare ad una sorta d’ipnosi incantata, e penso di aver sorriso. Sprofondare nell’oblio, dimenticare, finalmente, del tutto, lasciarsi andare ad un sonno eterno. Mi piaceva. Inutilmente cercai di distogliermi da quelle idee. Ma, ne ero conscia, esse sarebbero divenute un’ossessione. Furono gettate le basi per quello che fu poi il futuro, per quello che fu di fronte ad uno specchio lontano, ed ancora ignaro. Faceva tanto male, essere bruciati? Era così doloroso? I ricordi erano lontani, in quel momento, i ricordi della mia terribile degenza in quel Lazzaretto, ustionata ed ormai sveglia, una creatura senza speranze e senza sogni, ed il dolore terribile, assoluto, che avevo provato quando ero ancora bendata, quel dolore che mi faceva urlare a pieni polmoni quando mi muovevo, quel dolore che aumentava quando anche solo sussurravo, quelle fiamme maledette che mi avevano devastato corpo e mente. Ma si, quella sensazione terribile sarebbe durata solo pochi attimi, niente più. Dopo, non ci sarebbero stati specchi delatori, non ci sarebbe stato un fratello che, vedendomi per la prima volta senza bende, mi avrebbe rassicurata sul fatto che niente si vedesse, per poi fuggire via, troppo scioccato per vedere la mia rapida presa di coscienza del mio nuovo aspetto, troppo ferito per poter sentire i gemiti ed i singhiozzi che sarebbero seguiti a quell’affermazione, quando avevo toccato per la prima volta quella pelle che sembrava crema rappresa. Non ci sarebbe stata una degenza interminabile, piena di fantasmi ed ossessioni, non ci sarebbe stata una maschera. Non ci sarebbe stato un viaggio. Solo oblio, fresco, riposante oblio. Niente più Chekaril, niente più Aevo, niente più doveri, niente più bisogni, niente più colpe. Si: fui davvero vicina a lasciarmi tentare da quel demone sottile, quella vocina che mi sussurrava insistentemente di abbandonare tutto. È vero, né Roxen, né il fratellastro, avrebbero avuto un futuro davvero sicuro, ma non m’importava. O almeno, cercai di non importarmene. Roxen era mia figlia! Avevo sofferto per lei, ed io ero la madre! Perché farla soffrire? Già sarebbe stata messa a dura prova per colpa della mia avventatezza, non potevo farle anche questo! Ma la mia voglia di dimenticare era troppo forte. E, se non potevo dimenticare per vie normali…tanto valeva andarsene. Tanto non sarei servita più a nessuno. A che pro continuare un’esistenza vuota, e falsa? Qualcosa era scattato nella mia mente. Dovevo morire.  Volevo morire. Non avevo nessuno per cui vivere.  Non potevo tornare più indietro. La via della mia salvezza era lì, a pochi centimetri, invitante… eppure io rimasi lì, impavida contro il fuoco incombente, persa nei miei pensieri, quasi incantata dalle fiamme che lambivano i miei piedi, e dai crepitii del tetto, che minacciava di crollare subito. Non mi accorsi nemmeno di aver cominciato l’inesorabile cammino che mi portò a non essere, mai più, Lsyn, l’Ombra, ed a fregiarmi di altri abiti, ed altri nomi, con quelle tre ampie ciocche bianche, che non mi lasceranno mai. Con la mano ferita, strinsi forte gli abiti dei bambini, che avevo ancora stretti a me. Mi erano, stranamente, di conforto, e di calore. Afferrai forte la spada, la spada di Eiron che, nonostante tutto, non mi aveva lasciata, e la rimisi nel fodero, ancora zuppa di sangue, legno e miseria. Sarebbe stata resa pura con me. Poi, tesi la stessa mano, la sinistra, la mano che ho sempre usato per combattere e scrivere, verso il fuoco. Volevo cominciare con l’arto che più mi era stato utile in quel terribile massacro. Feci un passo in avanti, pronta ad accogliere con gioia quel fuoco purificatore, quello strumento divino, quel mezzo per pacificarmi, una volta e per tutte. Il calore mi lambì le dita, il fumo mi avvolse. Tossii, di nuovo. La gola mi bruciava. Eh, si. Doveva finire: tutto doveva finire. E ne ero ben contenta. Il fuoco era vicino, sempre più vicino, terribilmente vicino. Tesi la mano, incantata. Un attimo di dolore, e poi sarei affondata nelle fiamme. Di me, non sarebbe rimasto nulla, solo polvere, che magari si sarebbe mischiata a quella di Chekaril,  in un abbraccio, obbligato ed eterno. Nulla della stupida mucca che ero, immeritevole di stare al mondo. Una fiammella intraprendente e tempestiva mi accarezzò un dito, uno di quelli sani, terribilmente affascinante, e vicina. Rimasi a guardarla per un attimo. Sembrava quasi non avermi fatto nulla. Era questo, allora, quello che mi aspettava? Niente di più sbagliato. Dopo poco, infatti, sentii un dolore lancinante, che si propagò dalla mano al braccio, un dolore che mi era disgraziatamente familiare. Fu allora l’istinto ad agire in vece mia. Non avrei sopportato quella tortura per altro tempo. Per quasi due mesi mi aveva tormentato, e non ero disposta a soffrire ancora per le ustioni. Avevo già fatto la mia parte. La mia mente venne invasa dal terrore, e dall’irrazionalità più pura. Mi girai, trasformata in una sorta di animaletto gemente e singhiozzante, e mi precipitai verso la finestra rotta,  il dito che bruciava e pulsava, ricordandomi quello che avevo fatto. Fui all’esterno, nel retro della casa, in un attimo, respirando l’aria pura, e tossendo. Non rimasi per altro tempo nell’ozio. Guidata solo dalla memoria, cominciai a correre disperatamente, barcollando ed inciampando, verso la radura dove avevo lasciato le mie cose. Era l’unico punto familiare, ora, l’unica cosa che mi confortasse, che mi potesse distogliere dal mio dolore, fisico e non. Lì c’era Tijorn, lì c’era la Mastra Guaritrice, lì c’erano i Tengu, tutti i miei amici. Se incontrai persone, se qualcuno cercò di capire chi fossi, non so, né ricordo. So solo che uscii dal villaggio, come se avessi alle calcagna un’intera orda di draghi, senza fermarmi a vedere lo scempio che avevo commesso, la casa di Chekaril che ardeva velocemente, ferocemente, cancellando tutti i miei misfatti dalla faccia della terra. Ma non dalla mia mente, purtroppo!

 

Terribilmente sfinita, e dolorante,  ancora tutta tremante ed impaurita, arrivai in quel piccolo boschetto dove avevo lasciato la borsa. Continuai a correre, piangendo senza accorgermene quasi, fino all’alberello cavo dove c’era la mia borsa. Ero partita tutto sommato allegra, piena di furia ed ardore. Tornavo, malconcia  disfatta, in tutti i sensi. La testa ed il dito dolevano terribilmente, mi ero tagliata il viso, fortunatamente dalla parte già sfregiata, e sanguinavo. Ero terrorizzata, spossata nel fisico e nell’anima, preda di uno shock senza limiti. Nessuno, fortunatamente mi aveva seguito. Ma io, di questo, non m’importai, né lo notai. Respiravo malissimo: continuavo a tossire, ed ansimavo a fatica. Mi sembrava di avere una strana oppressione al petto, un macigno sul cuore. E la mia mente, era completamente distrutta. Ero stata accecata da rabbia, potere, sete di distruzione, ossessioni, e mi ero ritrovata così, un fantasma dal mantello bruciacchiato, zuppo di sudore ed insanguinato, e dagli abiti crepitanti, piena di ferite, fisiche e non. Preda di una tosse che m’impediva di tirare anche solo un respiro decente, mi avvicinai, barcollando, all’albero. Ero stata, decisamente, una stupida. Avevo sprecato la mia più grande occasione di dimenticare tutto! Ora, tutto il coraggio che avevo avuto si era dissolto, lasciandomi solo tremito, ed un gran freddo, come se fossi su uno dei bellissimi ghiacciai delle montagne alte dei confini del vecchio territorio di Normar, dove girava voce vivessero ancora i draghi, e non su una tranquillissima isoletta in mezzo al mare, all’inizio dell’estate. Tremavo a tal punto che, una volta vicina all’albero, mi lasciai cadere, in ginocchio, singhiozzando di dolore, paura ed umiliazione. Con un gesto quasi automatico, strinsi la mano dolorante, stringendo i denti. Stupida, stupida Lsyn. Avevo avuto un’ottima occasione, e l’avevo sprecata. Mi sarei potuta ricongiungere a Chekaril, si. Per sempre. E lui non sarebbe scappato, perché non poteva. Avrei potuto, finalmente, rivendicarlo come mio. Perché lui era mio, lui, il mio Principe dolcissimo e premuroso, era stato di mia ed unica proprietà. Beate illusioni! Invece, cosa mi era rimasto? Tanti ricordi amari, tanta umiliazione forzata, tante ferite, ed un dolore che non accennava, né accennò mai, a scomparire, a guarire. Tossendo e piagnucolando, resa completamente folle, irrazionale dal dolore, serrai gli occhi, come un bambino che si nasconde per non vedere la cose brutte che accadono attorno a lui. Ma le brutture erano lì, impresse nella mia memoria, indelebili e beffarde. Mi sfuggivano, mi dileggiavano! Dannazione! Il colpo che avevo inferto ad Aevo. Il gorgoglio che aveva emesso. L’urlo disperato di Chekaril. I suoi rimpianti. La resistenza che aveva fatto la clavicola al mio colpo. Tutte queste immagini disgraziate ruotavano senza sosta nei miei occhi chiusi, presentandosi davanti come un atto di accusa continuo, pieno di morte e sangue. Tutte quelle immagini mi tormentavano, mi davano fastidio, mi uccidevano. Il cuore prese a battermi furiosamente, e lo stomaco si torse, andando ad aggiungersi alla lista dei dolori. Non potevo resistere un secondo di più. Volevo qualcuno vicino a me, dannazione! Volevo qualcuno a confortarmi, lì! Volevo Tijorn, e la sua pazienza, volevo i miei amici, i miei affetti! Avrei voluto perfino Akita, così saccente ed irritante, a ripetermi che avevo sbagliato, e che ero davvero una stupida capra come lei sospettava da sempre. Tutto il contrario di lei. Volevo perfino la sua compagnia! Avrei voluto perfino Isnark, che mi voleva sicuramente morta! Qualcuno, dannazione, qualcuno che mi offrisse una spalla su cui piangere, o qualcuno che mettesse fine alle mie sofferenze! Perché, perché ero così dannatamente, schifosamente, maledettamente sola? Perché gli altri erano felici, ed io no? Perché avevo commesso quegli sbagli? Perché mi ero imbarcata in quella stupidissima missione? Non lo sapevo, né lo seppi mai, affogata così in quella stupida, delirante autocommiserazione. Non capii quanto prezioso fosse il mio dolore, non lo capii ancora. In quel momento, con la gola dolorante, piena di tagli e bruciature, l’unica cosa che potevo fare era gridare. E così feci, dannazione, così feci, urlando a pieni polmoni tutto il mio dolore e tutte le imprecazioni che conoscevo, cercando, senza esito, di sfogarmi, senza timore che qualcuno mi scoprisse. Sarebbe stato meglio così, in fondo. Sarei morta. Quale prospettiva migliore di quella? Ormai immersa nelle mie lacrime, piena di dolori e contusioni, alzai lo sguardo offuscato. Soffrivo troppo. E quello che vidi non fece altro che aumentare la mia sofferenza. Perché Chekaril lì non poteva esserci, no?

 

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Capitolo 53
*** Se non ora, quando? ***


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Salve!

Un bel po’ di tempo che la voce di zia Aki non si fa sentire, eh? xD

Molto meglio, dite? Vi do pienamente ragione U_U

Insolitamente per me, ho aggiornato per due giorni di seguito.

Non posso ancora rivelare il motivo per il quale sto andando di fretta (e non sembrerebbe, da quello che scrivo!!! xD), ma giuro che vi sarà chiaro ben presto (e qualcuno già SA xD)!!!

Passiamo, dunque, ad alcuni ringraziamenti lampo:

per prima cosa, un applauso per il pazientissimo san Carlos Olivera (xD), che mi aiuta, mi suggerisce, mi commenta, e legge questi deliri da giovane adepta al manicomio qual sono xD da ben 53 capitoli (o 52?! O_o)!!!

grazie, carissimo *___* non finirò mai, mai di ringraziarti!

Inoltre, ringrazio Kylien e Selly, che, seppur non commentando, (spero stiano) seguono xD

Inspiegabilmente, qualcuno mi ha aggiunta tra i preferiti, ha aggiunto quest’assurda storia!! O_o

Ma… O_o

Sono onorata *-*

Cambaboy (no, non si scrive così, ma non ricordo la sequenza esatta maiuscole/minuscole O_o);

Eilinn;

Fantasy girl (questa la ricordo @__@)

Vi ringrazio xD ma…non è che mi lasciate un commentino, eh? *ç*

Ora, vi lascio al mio orrendo ed insulso capitolo xD

Ciao!

Akita

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Miei dei, quanto, quanto ero pazza! No: Chekaril, proprio lui, non poteva esserci. Io ero ancora zuppa del suo sangue. Lui era morto: io l’avevo ucciso. Un ragionamento semplicissimo. Ma che mi procurava un dolore tremendo, che aumentava di attimo in attimo, che mi riempiva la bocca con il suo sapore acido. L’avevo colpito, l’avevo bruciato, ne avevo gioito. Dannazione. Avevo usato tutta la mia astuzia, eh? Ma no: Chekaril non doveva stare lì. Stavo impazzendo. L’avevo appena ucciso, eliminato dalla faccia di quella terra come se non fosse mai esistito, no? No? Ma allora perché lo vedevo? Perché mi stava davanti? No: non poteva essere. Mi stavo sbagliando! Si: quella che stavo vedendo in quel momento, raggomitolata sotto quell’albero cavo e leggero, non poteva essere che un’allucinazione. Cosa non tanto strana, però, in quel momento non ci pensai. Tutte le idee, possibili e non, mi vennero in mente: avevo ucciso un’illusione; niente di quello che avevo fatto era vero; Chekaril stava bene, ora sarebbe venuto a farmi una meravigliosa ramanzina su ciò che è giusto e su ciò che non lo è. Poi, tutto sarebbe tornato al suo posto. Magari, oh, si, avrei fatto pace con Aevo, anche con lei. Mi avrebbero difeso, mi avrebbero protetto. Forse sarei potuta guarire. Mi sentivo nella disposizione d’animo adatta per essere amica con il mondo, per abbracciare amorosamente perfino un riccio. Tutto, pur di essere perdonata. Tutto, pur di far smettere quel sordo dolore al cuore. Tutto, pur di farmi tornare a respirare liberamente. Tutto, pur di non essere ossessionata da ricordi troppo terribili per essere rievocati. Non presi in considerazione altre idee: ero perfettamente convinta di aver ragione, di non aver ucciso il mio unico amore. Lui era ancora lì, materiale e severo, pronto a sgridarmi per la mia mancanza di giudizio! E con che gioia avrei accolto quell’ennesima ramanzina! Le mie mani erano ancora linde, ero ancora pura! Come, come fui illusa, come fui pazza. Ero troppo sconvolta, troppo indebolita per includere qualche possibilità più realistica, che comprendeva tutta la gamma di pazzia ed illusioni. E non è tanto normale vedere i fantasmi, no? Ebbi la netta sensazione che una lama mi stesse squarciando il petto. Rimasi lì, inerte, le lacrime che mi scorrevano sul viso. Lacrime di gioia, di dolore, non so. Io e Chekaril o almeno quello che mi pareva tale, ci guardammo. Mi stavo sbagliando, oh, si. Quale spiegazione logica c’è, ad un elfo ammazzato pochi minuti prima che ti guarda severamente? Ma chi diavolo avevo ucciso? Oh, dei. Oh, dei, dei. Lui indossava i suoi soliti vestiti gialli, della seta più fina, come usava vestirsi a corte, ed i capelli erano ben pettinati, ed ordinati. Il suo colorito era normale, ma gli occhi splendevano, infossati, come due gioielli in una cavità oscura. Ci fissammo, e lui mi sorrise, un sorriso che assomigliava più ad un ringhio. La paura, ed una folle speranza, presero a scorrermi, incessanti, delle vene. Quel colpo fu davvero duro da digerire. Allora lui non era morto! Mi sentii di colpo meglio, osservando quella figura non più materiale della polvere, e sentii un’allegria incredibile pervadermi il petto. Mi sentii più leggera, e tornai ad ascoltare il battito del cuore, leggermente affannato. Tutto parve scongelarsi, uscire esitante da un inverno stranamente troppo breve. Non tutto era perduto. Non tutto era perduto, io non ero perduta! Mi convinsi che, quello che avevo commesso fino a quel momento, niente era stato se non un complotto, ordito da elfi crudeli, per allontanare ogni Spia dal vero obiettivo. Obiettivo che era fuggito, ed era venuto da me! Ero libera? Mi avrebbe perdonato, il mio amore? Aveva bisogno di aiuto? Stava bene? Senza attendere oltre, scattai in piedi, barcollando. Non potevo rifiutare la mia unica occasione di riscatto possibile! Mi resi conto di tremare follemente, di non riuscire ad annodare i fili della mia ragionevolezza. Ero senza fiato: qualcosa m’impediva di respirare. “Chekaril…”. Mormorai, facendo un passo in avanti, piena di gioia, traboccante di felicità. Ero viva, finalmente viva. Ma…un momento. qualcosa non andava. Sentii le lacrime tornare, più forti di prima. Ma ora era solo dolore, e delusione cocente. Il tempo di un battito di ciglia, ed, al posto del mio amato Principe, non c’erano altro che un paio di tronchi dalla forma strana. Chekaril era sparito. Avevo immaginato tutto. L’inverno tornò prepotentemente a ghiacciare il mio cuore. Non lo sentii più, sebbene sapessi quanto e come battesse. Fu la delusione più terribile di tutte, mista ad un terrore acuto. Perché di lui non mi rimase che quello, polvere. Stavo impazzendo davvero? Era un’allucinazione, quella? O altro? Quello sguardo severo sarebbe stato il mio monito perenne, il dito puntato sulle mie colpe. E mi avrebbe spinta a prendere decisioni che sarebbero risultate la fine della persona che si fregiava il titolo di Ombra. Perché, perché? Perché anche la mia mente doveva perseguitarmi? Non ressi a tutti quie sentimenti, il mio animo non sopportò oltre. Dacché ero in piedi, barcollai pesantemente, così stordita da non riuscire a pensare, e caddi. Non sentii nemmeno l’urto sul terreno. Ero tutta intorpidita. Quell’ultima allucinazione crudele non ci voleva. Perché? Avevo speso la mia vita intera dietro una stupidissima ideologia, dietro qualcosa che mi aveva accoltellato alle spalle, che mi aveva volgarmente presa in giro. Mi ero innamorata di un incallito donnaiolo. Ero stata trattata come un gioiello di scarso valore senza  nemmeno accorgermene. Mi avevano strappato la mia piccola infante, la mia dolce Roxen, destinandola ad un futuro ignoto, senza che io sapessi nulla. Ero stata convinta che lei stesse crescendo come un’ottima Spia, mentre lei, allegra ed innocente, aveva un altro viso da indicare come quello della madre, un viso nuovo come fratellino. La dama di compagnia di Lainay, Aevo, aveva dato alla luce un piccolo bastardo, di cui ora dovevo occuparmi. Non ce l’avevo con l’infante, che intendevo proteggere con la mia stessa vita, se necessario: ma era quella maledetta che mi aveva ferita. Serpe in seno! Quante volte ci eravamo incrociate? Allora aveva i capelli lunghi, sempre sciolti, e vestiva in modo molto elegante. Era quello il motivo per la quale non l’avevo riconosciuta. Quella sottospecie di essere vivente aveva cresciuto mia figlia! Un’elfa che non mi conosceva, che aveva solo di rado visto il mio viso, che non sapeva nemmeno come fosse fatta Roxen appena nata, quanto fosse grande! E mi avevano mentito, in tutto! In cosa altro avrei dovuto dubitare di Lainay? Quante altre cose non mi aveva mai rivelato? Per chi avevo svolto il mestiere a cui fin dalla nascita ero stata destinata? Mi sarei dovuta preoccupare? Ed ecco il risultato, della mia cieca obbedienza. Due orfanelli sperduti, ed una mente schiantata. Due innocenti uccisi, e tante allucinazioni disperate. Ero sola, pazza, irrimediabilmente destinata ad un rapido declino. Avrei svolto solo un’altra, stolida missione, e poi mi sarei eclissata dalle scene. Qualcosa scattò in me, lì, riversa stupidamente su quel prato, sguardo fisso nel vuoto, totalmente sconvolta. La decisione accese un fuoco, in me, che ancora non si è estinto. Si: avrei svolto la missione. Ma a modo mio. E che nessuno osasse dire che Lsyn non sapeva gestire nemmeno sé stessa! Dovevo solo andare a recuperare i fanciulli, e tutto avrebbe cominciato un nuovo corso. Solo… non ne avevo il coraggio, ora. Non era il momento.. Stavano piangendo, si stavano disperando sicuramente, mentre Sybil e Xavier avrebbero discusso sul perché di quell’incidente, di quell’incendio così violento. Cosa mai era successo in quella casa? Una lampada accesa incautamente, il camino, una scintilla? Certamente, mai sarebbero giunti alla conclusione che la placida vecchietta senza nome, raccolta così per caso, si era rivelata una Spia sanguinaria! No: non avrei avuto il coraggio di sorridere davanti a loro, d’indossare la maschera per non spaventarli e mostrarmi allegra ed affabile, una sorta di buona cugina, venuta a portarli in un altro mondo felice, mentre loro si disperavano, mentre il loro dolore era ancora terribilmente vivo. E sarei stata anche stupida: scommettevo che i controlli per il villaggio si fossero intensificati incredibilmente. Erano contadini, ma non stupidi. Sybil, poco ma sicuro, avrebbe controllato i piccoli assiduamente per qualche giorno, per poi tranquillizzarsi. Dovevo stare alla larga da Gerinti per qualche tempo. Ma, dei, come mi era difficile! Volevo andare da Roxen! Volevo sentire la sua oce, accarezzarle il viso! Aspettare: solo, dovevo aspettare. Calma, Lsyn. Guarda in aria, e rilassati. Non pensare. Mi stesi sulla schiena, mollemente, ritrovandomi a fissare il cielo azzurro. Quel celeste così intenso, così puro, così dolce, così allegro, così privo di ogni ferita, ogni nuvola, ogni cicatrice. Così totalmente fuori posto con tutte le miserie che accadevano in quell’angolo sperduto di mondo, così indifferente ad un’elfa sfregiata di piccola statura che lo fissava così stupidamente. Chi poteva mai consolare, il cielo, trionfante ed irrimediabilmente superiore, calmo perfino quando lasciava che sulla terra si scatenasse il più atroce dei temporali? Cos’era, il cielo? Di cosa era mai fatto? Cosa aveva portato me stessa a fissarlo, cosa mi aveva portata a tutte quelle disgrazie? E perché soffrivo così tanto, perché non potevo fuggire? Cercai, oh, si, cercai di scappare da quel dolore acuto e sordo allo stesso tempo, quella sensazione così totale e totalizzante, così penosa. Quella tortura anche fisica, quel dolore che mi lasciava spiazzata, stordita, cieca e sorda al mondo. Si: dovevo aspettare. Aspettare, ed aspettare. Ed aspettai, cancellando totalmente me stessa. Non mi mossi da quella posizione, per non so quanto.

Il tempo smise di avere significato. Si allargava, e si restringeva, si dilatava e si compattava, ad ogni mio desiderio, senza recalcitrare, con un sorriso ipocrita. Furono i giorni più estenuanti di tutta la mia esistenza, secondi solo alla più grande perdita che il destino mi avrebbe riservato in futuro, a quella perdita che ancora avverto tormentosa, che ancora non riesco ad accettare, in tutta la sua terribile casualità. Passarono giorni, notti, eoni, ere, secoli. Rimasi lì, fissando il sole, la luna e le stelle, viaggiando per chilometri e chilometri con la fantasia, tornando indietro di anni, millenni, e poi andando avanti, fino a quando il mio inconscio non trovava un ostinato muro d’incomprensione, di futuri possibili e non. Se fossi rimasta con il mio dolce fratello, tutto quello non sarebbe successo. Non sarei rimasta imprigionata in quella rete così assurda di dolorosissime menzogne, di amarissimo sangue. Capii. Capii, tutto, in quello stato di delirio dormiente. Il Cigno era stato liberato, liberato dal suo fardello di colpe, bugie e mezze verità, di ricordi e di tormenti. Il Cigno era libero di volare, andarsene in un oblio senza ritorno, libero dal suo dovere di Principe, finalmente non più vittima, non più prigioniero. Aveva lasciato me, me, che con quel colpo di spada avevo reciso i lacci che l’avevano tenuto alla vita, facendoli inesorabilmente annodare alle mie caviglie, legandomi alla terra, ed alla colpa. Con un sorriso beffardo mi aveva conquistata, con un sorriso beffardo si era liberato di me, e del mondo crudele. Tutto il sogno, ora, quel sogno che avevo interpretato come una liberazione imminente da ogni mio male, aveva avuto un senso. E mi aveva fatta a pezzi, mi aveva distrutta. Avevo sbagliato. Non potevo essere libera, non quando avevo ingannato, bruciato, ucciso. Io; vittima, carnefice, stritolata dalle ruote del caso, del fato più crudele ed ignaro, e vincente allo stesso tempo sul carro. Io, irrimediabilmente prigioniera dei miei incubi peggiori. I giorni si slegarono, tutto smise di avere senso. Non ho la minima idea di quanto tempo passò dal momento in cui mi stesi per fissare il cielo azzurro, di quanti giorni lasciai passare, muovendomi solo per motivi urgenti, senza aspettare che il sole mi scottasse, mi toccasse, mi rivelasse. Avevo fatto così anche quando ero stata ferita, ed avevo scoperto il mio nuovo volto. Ora ero cambiata, di nuovo: ma non ero sicura che quello che vedevo mi fosse gradito. Divenni il fantasma del fantasma di me stessa. Una larva di una larva tra le larve. Perché, no: a nulla ero buona, se non a rimpiangere me stessa. E lo meritavo, meritavo l’odio, meritavo il dolore. Perché io ero destinata a quello, ed a nient’altro. Basta. Non mi rimaneva che versare tutte le lacrime di cui ero a disposizione, fino a seccarmi, fino a divenire una mummia, un essere fatto solo di cenere. Sarebbe stato bello, molto bello. Ma mi rimaneva ancora qualcosa da fare.

Fu proprio quel pensiero ad evitare mi perdessi del tutto nei labirinti che mi ero creata, fu proprio quello l’appiglio che mi riportò ad una relativa sanità, lo scoglio contro cui la mia ragionevolezza si artigliò, per non venire travolta dal fiume di pazzia che aveva invaso la mia mente. Roxen e Chekaril. I miei due piccoli protetti mi stavano aspettando. I miei due piccoli amici non vedevano l’ora che la loro nuova, breve tutrice, li venisse a prendere, di nascosto, portandoli verso un futuro che solo lei conosceva. E nessun altro. Perché l’embrione della mia nuova idea si stava appena formando nella mia mente: l’embrione di una rivoluzione, di una ribellione. Una delle poche cose buone che sono riuscita a fare, è stata proprio quella. E’ una delle cose di cui riesco ancora ad andare fiera. Era un pomeriggio nuvoloso ed afoso quando i giorni ripresero ad avere un senso. Mi ero raggomitolata sotto un cespuglio, debole e lurida, ad occhi chiusi. Non scelsi io di tornare alla ragione. Mi ricordo, solo, che, ancora ad occhi chiusi, ebbi il mio primo pensiero cosciente da chissà quanto tempo, e capii di essere Lsyn, e di trovarmi ancora a Gerinti. Fu come una piccola campanella suonata in un grande spazio vuoto. Mi svegliai a fatica dal mio torpore indotto. Mi sentivo affamata, stanca, troppo demoralizzata per poter anche pensare alle cose che avevo fatto, ma stranamente viva. E seppi il motivo di quell’anelito di vitalità. Dovevo ritrovare i piccoli. I tempi erano maturi per farlo. Dovevo svegliarmi, e presto! Riuscii, faticosamente, ad aprire gli occhi, costringendomi. Ero a pezzi. La testa mi girava, e mi sentivo fin troppo affaticata. Non riuscivo a ricordare se avessi dormito, o se avessi mangiato, in quel tempo indefinito in cui tutto era diventato fosco e buio. Era stato un periodo fin troppo incerto, fin troppo doloroso. Dovevo, però, lasciarmi alle spalle tutto quello, per aiutare gli unici esseri meritevoli di amore, tra i pochi meritevoli di amore. Avevo ucciso Chekaril, ed Aevo. Ma ora mi sentivo pronta per proseguire quel poco di vita che mi rimaneva. Mi sciolsi, lentamente, dal nodo in cui mi ero contratta. Tutte le articolazioni scricchiolarono, e mi diedero il benvenuto alcuni piccoli crampi. Stavo recuperando la mia fisicità, in modo piuttosto traumatico. Il mio corpo protestava per un’immobilità durata chissà quanto tempo. Mi sentivo come una neonata, incerta di fronte alle novità che la vita mi presentava. Ma ero decisa: quello stesso giorno, di notte, sarei andata dai piccoli. Non potevo attendere oltre: la tempesta era passata, e mi attendeva il buio ed il sonno. Non ci sarebbe più stata sorveglianza, e potevo portarli con me, anche se non sapevo ancora dove trovare i contrabbandieri. Li avrei cercati. Non era certo un ostacolo di poco conto come quello a fermarmi! Lentamente, girai il viso verso l’esterno, reprimendo un gemito. Doveva aver piovuto: il terreno, che io vedevo così vicino, era completamente zuppo. Cominciai, lentamente, a muovermi. Dovevo prepararmi, e dovevo mangiare qualcosa. Non osai nemmeno immaginare in che stato fossi, tutta inzaccherata, sparuta e tremante come un cane randagio. La testa prese a girarmi immediatamente, ed io mi fermai. Maledizione! Ero completamente devastata. Dovevo muovermi, in ogni modo ,anche se ero così debole. Non dovevo fermarmi. Perché stavo lasciando che il mio corpo mi sopraffacesse? Perché? Ringhiando, ormai illuminata dal fuoco benedetto della decisione, strisciai fuori dal mio nascondiglio, mettendomi poi in piedi a fatica. Mi tremavano follemente le gambe, ma sentivo la mia mente abbastanza stabile, per poter almeno frenare l’avanzata dell’orrore. Avevo superato una fase critica. Ne ero uscita, seppur malconcia e sfinita, con una cosa da fare. Il mio ultimo obiettivo. La prima cosa che feci, dopo essermi guardata attorno, ed aver inspirato una volta, profondamente, l’aria profumata, fu quella di barcollare fino all’albero cavo e di estrarne la mia borsa. Ancora assonnata, agendo meccanicamente, al mio movimento feci seguire l’azione per cui mi ero mossa: addentare un po’ delle provviste che mi erano rimaste. Dovevo usarle con parsimonia: ben presto non sarei stata più sola. Due piccole bocche affamate mi avrebbero accompagnata in quell’ultima, straziante parte di viaggio. Benedissi la dolce Mastra Guaritrice per l’ennesima volta. Fortunatamente, non mi sentivo traumatizzata come giorni prima: il dolore immediato si era nascosto in un cantuccio della mia mente, pronto a saltar fuori non appena gliene avessi dato l’occasione. Ma non ne avevo più paura: quella smania terribile di piangere che sentivo ancora in quel momento sarebbe svanita presto. Conoscevo ormai il mio futuro. Chekaril ed Aevo sarebbero stati vendicati, dalla stessa mano che li aveva uccisi. Spazzolai letteralmente quel poco cibo che mi concessi, frutta secca per la maggior parte, accompagnata da qualche sorso d’acqua, abbastanza per darmi un po’ di forza. Poi, rovistando nella mia borsa, estrassi i miei vecchi indumenti neri e la maschera, posandoli distrattamente da un lato. Senza fretta, presi i balocchi dei piccoli dalle tasche, quei due pupazzi allegri, così dolorosamente innocenti, e gli abiti che avevo raccattato, un po’ bruciacchiati ma ancora decenti, e li ficcai vicino a quei pochi unguenti che mi rimanvano. Richiusi il sacco, e lo rimisi diligentemente al suo posto, nascosto nel tronco. Sarei andata dopo a prenderlo. Mi sentivo ancora vagamente stordita. Sapevo, ovviamente, cosa fare, ma un’invincibile stanchezza mi attanagliava le membra. Ero triste, irrimediabilmente triste, quella tristezza docile che afferra talvolta, tranquillizzando la propria anima con una calma fittizia. Forse un po’ d’acqua mi avrebbe fatto bene. Un bel bagno: non importava se in acqua dolce o salata: dovevo togliere tutte le tracce di camuffamento, e tutta la sporcizia. Dovevo andare dai bambini, almeno, pulita. Non si sarebbero mai fidati di una sorta di vagabonda piena di sangue rappreso! Mi tolsi, stancamente, il mantello, e lo esaminai. Era terribilmente sporco, di terra, sangue e sudore. Cominciai a farmi schifo da sola. Beh…almeno quella reazione aiutò a farmi capire di essere ancora viva. Come ero potuta sprofondare in quell’abisso? Io, maniaca dell’ordine e della pulizia, avevo addirittura dimenticato di togliemi il sangue da dosso! Ero arrivata, davvero, ai limiti della decenza di ogni creatura senziente. Dov’era finito il mi orgoglio di elfa? Un elfo non si dovrebbe combinare come avevo fatto io. Non era dignitoso! Ero arrivata fino a quel punto, il dolore mi aveva fatto dimenticare chi ero? Eh, no. Quello proprio no. Seppure debole, stremata e parecchio triste, ebbi un improvviso moto di stizza, ed afferrai gli abiti. Dovevo sbrigarmi. Non avevo i mezzi adatti, ovviamente, ma promisi a me stessa di essere pulita entro un’ora. Dovevo. Non vedevo l’ora di trovare anche una piccola spiaggia isolata, attorniata dal mare. In quel momento, anche quell’infida massa d’acqua scura e torbida mi sembrò allettante. Non mi sarei, ovviamente, inoltrata oltre un certo livello, perché continuavo ad avere paura, ma l’istinto di lavarmi era più forte di qualunque cosa. Magari, se avessi fatto in fretta, avrei potuto anche dormire un po’, e presentarmi agli infanti proprio come volevo, linda, rilassata ed affabile. Ma dovevo muovermi. Per quanto fossi debole, il mondo non aspettava me. E, dice un proverbio, se non ora, quando?  Stringendo più forte la maschera, e gli abiti, mi alzai, mentre la testa mi girava, e cominciai ad avviarmi verso il mare. Ero troppo stanca ed ansiosa per formulare anche un solo pensiero decente. I piccoli aspettavano me. Li avrei portati nel mio futuro. Quella era l’unica cosa bella da pensare. Per il resto, vedevo, nel passato e nel futuro, una scia interminabile di sangue.

 

 

 

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Capitolo 54
*** Ciocche bianche. ***


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Salve a tutti!

Eccomi qui, con il capitolo 54. Strano, vero?

Ora, (finalmente direte voi, ed a ragione), le cose cominciano ad entrare nel vivo.

Ma non del tutto. Sono già 14 pagine di scritto, sono sopra questa robaccia dalle 14.00!!!!

Orrido capitolo, oorrido >___<

Vabbè.

Un saluto speciale, come sempre, ad i miei carissimi Selly e Carlos Olivera.

Mi fa un piacere dannato ricevere i vostri commenti, davvero.

Essi sono il motore della storia!!

GrazieJ

(ah, si, Selly: quando si è davvero innamorati, si è ciechi, sordi e muti al mondo, o almeno, è questo quello che penso. Hai voglia di dire (e dirti!!!): vedi, quello è così e così… il risultato più vivo è quello di farsi mandare a quel paese. Gli innamorati c’hanno delle bistecche alla fiorentina sugli occhi o.o E mica vai a pensare che il tuo amato ti sta prendendo per il culo, no? xD).

Ringrazio, inoltre, i tre che mi hanno messa tra i preferiti, come sempre ù__ù

ciao!

Akita

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Finalmente, ero pronta. Ci era voluto molto più tempo di quanto io avessi immaginato, per scovare una piccola spiaggia dal lato non abitato. Finalmente, a ridosso di una piccola grotta, trovai ciò che cercavo, ed iniziai il processo lungo che mi avrebbe fatta ritornare la giovane Lsyn Amarto, elfa, un tempo gloriosa Spia, ora derelitta tra i derelitti, vittima tra le vittime. Mentre camminavo, un senso di cieco calore si era impossessato della mia anima ormai inaridita, un sentimento che aveva sostituito il dolore immenso che provavo: l’impazienza. Non vedevo l’ora d’incontrare i due piccoli. Sapevo, esattamente, cosa fare con loro in quel momento, e come trattarli. Principi, piccoli principi sarebbero stati in mia compagnia. E che nessuno osasse anche solo sfiorare il loro faccino pulito! Dovevo però, per risultare l’amica rassicurante che per loro volevo essere, perdonarmi, perdonare la bestia che aveva osato interrompere la loro quiete bucolica, quel mostro che aveva commesso un atto dalla quale non c’era ritorno. Uccidere è sempre un avvenimento molto traumatico, che cambia per sempre la vita. E l’orrore che avevo creato andava al di là di un semplice omicidio. Ma dovevo perdonarmi, dovevo mettermi in pace, almeno per un po’. Avevo ancora moltissime cose da fare, e non potevo lasciare quei due innocenti in balia del destino. Gerinti non era un rifugio sicuro, per loro. Seppure io fossi tornata a mani vuote, cercando di proteggerli, ci sarebbe stata sempre un’altra Spia pronta a portarli alla Regina. Ed io non sapevo come avrebbe trattato Roxen! Potevo ovviare ad un’ulteriore catena di disgrazie solo in un modo. Prendendoli con me, e portandoli da qualche parte sicura. Ancora non ero decisa, ancora non sapevo quale sarebbe stata la loro definitiva dimora, se il castello di Galinne o un’umile casa di contadini. Ero molto combattuta tra antica fedeltà e l’amore, quell’amore che solo una madre può provare, misto ad un rimorso mai sopito. Sentivo già di adorare il piccolo Chekaril, quell’innocente frutto di un amore che mai avrei pensato si realizzasse, e che mi aveva fatta soffrire, che non era mio figlio, ma che aveva bisogno di me. E questa cosa mi rinfrancava. Sarei stata come una madre per lui, anche se sapevo di non poter imitare Aevo, di non poterla sostituire. Bizzarro, trovarsi in una situazione del genere, molto bizzarro. Farsi accettare, entrare negli affetti e nelle grazie di due candidi infanti, come fossero i più grandi sovrani del mondo. Ma io questo volevo: essere amata, essere accettata da qualcuno, senza domande e senza sospetti. Avrei avuto tempo per pensare alla futura sistemazione dei miei nuovi, graditi, compagni di viaggio. Avevo ancora tutto l’Impero da ripercorrere in senso contrario, ed in venti giorni ce la saremmo sbrigati, senza attraversare le montagne, e preferendo un percorso dritto, a tappe forzate. Avrei potuto decidere con tutta calma una sistemazione adatta. Poi, una volta visti sereni, ed al sicuro, sarei scomparsa dolcemente dalle loro vite, pronta a diventare un ricordo pallido, ed evanescente, di una strana signora mascherata che era stata così buona da portarli in una nuova, bella famiglia. Ed allora, avrei potuto ritornare ad essere assalita dai fantasmi. Ma, in quel momento affannato, non importava. I morti erano il mio ultimo pensiero. Dovevo eludere il Regno, non dovevo dare mie notizie fino a quando non mi fossi decisa su cosa fare. C’erano altri interrogativi, più immediati. Non sapevo ancora cosa avrei raccontato loro, per incantarli ed indurli ad avere fiducia di me, ma contavo sulla mia capacità d’improvvisare. Sperai solo che l’accoppiamento di colori da me prediletto non li spaventasse. Non è rassicurante, il nero, per un piccolo a cui si raccontano terrificanti storie di mostri sotto il letto per farlo stare buono. Il viaggio era un altro interrogativo. Dove trovare, poi, il capitano Paòl e la sua ciurma? Sarebbero bastate le provviste e l’acqua? Fino a che punto era, la guerra contro il Regno? Quanto saremmo stati visibili, un’elfa molto bassa completamente avvolta in abiti neri, con una maschera bianca a coprirle il viso, accompagnata da due infanti laceri e spaesati, che per la prima volta uscivano dal rifugio sicuro di un’isola? Non potevo sperare, inoltre, che i territori da me attraversati fossero intatti e poco sorvegliati, come all’andata. Ero rimasta fuori dal mondo per un lasso di tempo incredibile, ed avevo perso ogni contatto con la civiltà. Non sapevo come muovermi. Quanto successo aveva avuto il Regno? Quanto l’Impero? Fino a dove saremmo arrivati, prima di essere intercettati dai soldati? Sperai in un colpo di fortuna, una situazione di stallo, una tregua. Insomma, qualcosa che permettesse di evitare di percorrere zone in cui i bambini sarebbero stati continuamente esposti agli orrori della guerra. A me non importava, di sangue ne avevo visto fin troppo, e ne ero tragicamente abituata, ma loro? Come non sporcare la loro innocenza? Ancora non sapevo. Ma non m’importava. In silenzio, presa da questi interrogativi, cominciai a tornare decente. La prima cosa che feci fu quella di lavare almeno un po’ il mantello nero. Poi, lo misi ad asciugare. Passai dunque al resto del corpo. Certo, non avevo i mezzi necessari per profumare di rose, ma almeno non ero più simile, come odore e come aspetto, ad una capra scappata per sbaglio dal macello. Era un gran sollievo non sentire più il sangue incrostato sul viso. Il mare, inoltre, mi aveva traumatizzata. Era l’unica fonte d’acqua che avevo incontrato. Certamente, ci doveva essere qualche piccolo fiumiciattolo o pozzo d’acqua dolce, per i paesani, ma non ero sicuramente così sciocca da avvicinarmi ad un posto molto frequentato. Ero rimasta nell’acqua bassa, bassissima, sfidando il mio panico e la mia totale incapacità nel nuoto, ma ugualmente fu un’esperienza memorabile per la sua stranezza. Alle necessità la paura si doveva piegare. Con quella frase in mente misi una mano dentro. Come avevo contato, l’acqua era gelida, così fredda che avvertii una forte fitta. Ciò che mi sorprese, però, furono altre cose, molto più stupide. Mi ero aspettata un ambiente torbido, mostruoso, scuro come l’acqua che la Serpe Nera aveva solcato di notte, come l’acqua dell’unico lago che avevo visto in vita mia. Non credevo però fosse così limpida, così bella, ma, soprattutto, così salata. Certo, l’acqua marina non era dolce, e lo sapevo, ma non mi ero aspettata un sapore così sgradevole. Cercai di non inghiottirne, ma, la mia pelle, si portò il sale ed uno spiacevole odore salmastro, non appena asciutta. Era il mio primo contatto diretto con il mare, e mi parve naturale una simile meraviglia. Tutto sommato, però, fu un’esperienza che non mi piacque. Le onde mi davano fastidio, e la corrente, seppure debole, mi dava l’impressione di voler attentare alla mia vita. Non sapevo nuotare, giusto? Non era bello come un bagno caldo e profumato, al sicuro. Giurai, perciò, a me stessa, di non tornarci più dentro. Il colore dei capelli, quel grigio biancastro, sgradevole alla vista, se ne andò. Ma non del tutto, purtroppo. Il segnale che qualcosa stava accadendo nel mio fisico. Infatti, ad un certo punto, vidi il mio riflesso nell’acqua, cosa che, fino a quel momento, immersa nei miei pensieri, non avevo notato. Interessata, mi specchiai. Volevo vedere in che stato fossi, e come e quanto i camuffamenti se ne fossero andati. La curiosità prese il sopravvento. Era un bel po’ che non vedevo il mio visino sfregiato. I miei lineamenti erano distorti, e la visione non era chiara, ma quello che vidi mi spaventò. Avevo già capito di essere dimagrita in un modo pauroso, tanto da sembrare uno sparuto e casuale mucchietto di ossa e pelle, ma il viso era messo in condizioni orride. La parte sana mi sembrava terribilmente pallida e scavata, con grandi occhiaie che cerchiavano occhi stanchi, opachi ed un po’ spiritati. La bocca aveva, ma forse fu solo la mia immaginazione, una piega diversa, quasi amara. Per il resto, ero rimasta uguale, a metà tra bruttezza estrema e bellezza senza tempo, un po’ sfiorita. Ma furono i capelli a farmi fare un salto terribile. No! Cos’era successo ai miei bellissimi ricci neri? Una mano andò immediatamente a tastarsi le ciocche incriminate. Cercai, con la coda dell’occhio, di vedere i capelli. Sentii una fitta di panico gelido. Oh, no. Oh, no. Era solo il colore che non era andato bene via, era solo il riflesso, oppure io avevo davvero alcuni fili grigi tra i capelli ed un paio di piccole zone del tutto candide? Era la mia immaginazione o io assomigliavo davvero ad una giovane mortale invecchiata anzitempo? Pregai che non fosse così, che fosse solo un piccolo, innocente scherzo della tintura che mi aveva preparato Tijorn, che sarebbe andato via con il giusto trattamento. Ma sapevo di sbagliarmi. Non è un buon segno, quando i capelli diventano bianchi, o grigi, negli elfi, quei colori smorti che non sono tipici di qualche stirpe. Perdere capelli, o cominciare ad ingrigire, sono segni che spesso muovono a pietà chiunque, nella nostra razza. Non è normale, per niente. È segnale di pessima salute, com’era successo con il mio dolce Maestro, o di terribili problemi. Io non ero nel massimo della mia forma, e di problemi ne avevo avuti abbastanza per un’intera vita. Sospirai, e cercai in ogni modo di non pensarci. Cominciavano già a mancarmi i miei bei ricci neri, lucenti ed uniformi, che nemmeno il fuoco, nemmeno i viaggi erano riusciti a fare imbiancare. Ed ora, per colpa di uno stupidissimo elfo traditore, per colpa di un efferato omicidio, il bianco ed il grigio erano entrati nella tavolozza dei miei colori. Sperai ardentemente il processo non riprendesse, sperai che fosse solo o temporaneo o almeno che si bloccasse lì. Quei colori sono rimasti, fieri e fermi. Non penso se ne andranno mai, e sono il mio tormento. Ancora oggi, tra i miei timori principali c’è quello di vedere, giorno dopo giorno, i miei capelli divenire candidi, come quelli di una vecchia mortale, perché so benissimo che i guai attraverso cui sono passata sono abbastanza per trasformare ali di corvo in una bella massa di neve. Ancora oggi, nonostante io sappia che l’avanzata delle ciocche bianche, ormai leggermente più numerose della prima volta, sia ferma per sempre. Ma allora, ovviamente, cercai di non pensarci. Imputai tutta la colpa al mio fratello pasticcione, che in gioventù, durante i suoi primi esperimenti con erbe e cose varie, mi aveva ridotta ad avere per un paio di mesi degli assurdi capelli di un rosa vivo, un colore da me fortemente odiato. Boccoli rosa. Uno spettacolo orrendo. Akita mi aveva presa in giro crudelmente, fino a quando io, esasperata, non mi  ero tagliata i capelli, mettendo sopra la zazzera mista tra rosa e nero che mi ritrovavo, una normalissima parrucca castana, fino a quando i miei capelli non furono tornati ad un colore ed ad una lunghezza decenti. Finalmente, mi rivestii, con i miei bellissimi abiti neri. I cenci grigi, che avevano vissuto tante avventure, furono strappati e messi in un cantuccio. Erano inutilizzabili, completamente macchiati di sangue, ed un po’ bruciacchiati. Notai con disappunto che la casacca, come il resto, vestiti che un tempo mi andavano a pennello, erano così larghi da poterci nuotare dentro. Non era una bella cosa. Dovevo sembrare uno spaventapasseri di gusto un po’ cupo. Finalmente, passai all’ultimo tocco. La mia dolcissima maschera, la mia fidata amica, la mia silente compagna. Era un bel po’ di tempo che non la mettevo. La prima sensazione che provai, al contrario di quello che mi ero aspettata, fu quella di soffocamento. Avevo pensato di ricevere conforto da quell’oggetto, il conforto solito di un oggetto quotidiano. Non fu così. Certo, era rassicurante la presenza di un qualcosa di familiare, qualcosa che avevo dato per scontato negli anni, ma non ero più abituata al peso della ceramica, ormai un po’ scheggiata, e mi sentivo prigioniera. Soffocavo, ed avevo caldo. Pian piano, però, quella sensazione sgradevole sparì. Riuscii ad abituarmi al peso che un tempo portavo disinvoltamente, ma avvertivo sempre la presenza della maschera, come un ostacolo. Cosa m’importava, se la gente mi avesse vista mostruosa com’ero? Cosa importava agli altri, quando io avevo visto e provato orrori ben più grandi di un incidente? Cominciai, lentamente, a comprendere una cosa. C’erano avvenimenti ben più terribili di un corpo sfregiato a metà, un viso che non si distendeva bene, di una voce roca ed asessuata. Rimanere invalida, per esempio, in qualche modo. Accecarsi. Perdere tutto, essere spogliati di ogni illusione, di ogni speranza, com’era successo a me. Ed ora, vuota com’ero, sporca di un sangue immaginario che non voleva andare via, potevo vedere le mie cicatrici come la peggiore disgrazia capitatami? Proprio, proprio no. Mi sarei tolta la maschera, memento perenne alla mia diversa bruttezza, se fosse dipeso tutto da me.  Ma non potevo spaventare i piccoli. Loro certamente non avevano mai visto cose orrende come me. Ed il sembiante di pupazzo allegro a volte rassicura di più di un viso aperto, ma tremendo, da guardare. Decisi, così, di non togliermi mai la maschera davanti ai loro occhi, di far finta di non poterla togliere. Potevano crederci, no? Non avevano visto qualcuno come me, no? In preda a mille pensieri, ora tornata in un’attività fervente ed allegra che sapevo temporanea, afferrai il mantello, ancora bagnato, e tornai di corsa alla radura ed all’albero cavo, in tempo per  il tramonto. Niente, ovviamente, era stato toccato, ma fui ugualmente contenta di vedere tutto come l’avevo lasciato. La pulizia aveva portato più tempo del previsto. Il sole aveva squarciato le nuvole, colorandole di viola e giallo, ed era basso, di un colore intenso, un rosso meraviglioso, che tingeva il mare di mille e mille riflessi. Era ancora troppo presto per avventurarsi nel villaggio: sicuramente i contadini erano appena tornati,  e stavano mangiando nelle loro case. Avrei dovuto aspettare a notte fonda, quando tutto sarebbe stato tranquillo, e tutti avrebbero dormito sonni sereni. Quindi, mi rimaneva tempo per un breve riposo. Ne avevo bisogno, un grande bisogno. Ero anche io un essere vivente, una creatura cui gli ultimi accadimenti avevano tolto il sonno! Ed, inoltre, avevo ancora capelli e mantello fradici. Dovevo essere perfetta, al cospetto dei miei piccoli amici. Non potevo lasciarmi prendere dalla rabbia, né risultare inquietante, scorbutica o cose del genere. Dovevo essere allegra, con il sorriso nella voce, una presenza rassicurante e stabile. Qualcosa che non sentivo affatto, né che ho mai sentito. Ma ero costretta: tutto per Chekaril e Roxen. Una famiglia temporanea, ma pur sempre una famiglia. Ed io ne sarei stata la guida. Accidenti. Ora ricordavo ben perché avevo rifiutato categoricamente di essere una Mestra! Scivolando sfinita con la schiena sul tronco, illuminata dagli ultimi raggi gloriosi di un sole caldo, scivolai in un sonno leggerissimo, abbastanza per rimettermi in forze.

 

Era notte fonda, il momento in cui tutti dormono, anche gli elfi, quando io scivolai, silenziosa ed ormai più lucida, a Gerinti, ombra fra le ombre. Appena sveglia, poco tempo prima, mi ero fiondata per la strada che ormai conoscevo a memoria, piena di una fretta comprensibile. Il mio mantello, seppur un po’ rigido e ruvido al tatto, era asciutto, e così anche i capelli, bizzarramente più ricci ed ordinati, deliziosi da guardare. Avevo ripreso la mia borsa, ed ora la portavo con me. Non ricordavo fosse stata così pesante, e rumorosa. L’unica cosa che portavo fuori, a mano, erano i due piccoli giocattoli dei bambini, che stringevo forte. Li avevo messi bene in ordine, lisciandoli con le dita e spazzando via dal loro tessuto ogni traccia di sporco, ed erano perfetti. Sapevo benissimo quanta felicità avrei arrecato ai miei amici, una volta che avessero visto i loro amati ricordi. Sospirai quando oltrepassai le prime case. Sebbene fosse notte, avvertivo una certa aria di lutto in giro, un’ombra dolorosa e persistente, che sapeva di fumo. Ad una casa notai, addirittura, appeso uno straccio nero sulla porta. Krish era stato molto, molto amato. Se solo avessero saputo quale serpe si celava sotto le sembianze di un tranquillo esiliato, quella creatura da cui ero stata trattata così schifosamente! Scossi il capo, e passai avanti. Era davvero disgustoso. Ed i piccoli, quanto facilmente mi avrebbero seguita, mentre avevano la pietà di tutto un villaggio? Dovevo mettermi davvero d’impegno, e farmi amare davvero. Ripresi il cammino: per fortuna, sapevo come orientarmi fino alla casa di Xavier. Evitai intenzionalmente lo spiazzo bruciato che un tempo era stata una casa allegra e fiorente. Non avvo il coraggio per vedere i resti bruciati, quella cenere che sapevo mista a quella del mio amato. Rimarcai con sollievo che nessun altra abitazione era rimasta colpita da quel fuoco che avevo ferocemente appiccato. La casa di Chekaril era stata più discosta dalle altre, e questo era una fortuna. Inoltre, non sembravano esserci tracce di sorveglianza. Probabilmente, si erano davvero convinti che quello fosse stato un tremendo incidente, e che tutti, da Krish alla vecchia umana, ci avessero rimesso la vita. L’incendio doveva essere stato piuttosto rapido a divampare. Io stessa, con quel dito che ancora doleva, ne ero testimone. Probabilmente, cose del genere erano accadute, o accadevano. Insomma: il mio piano era felicemente riuscito. Mi rallegrai di ciò, mi rallegrai di aver allontanato da me ogni altrui colpa. Nessuno poteva risalire a me. Sarei stata libera, se solo la mia coscienza non mi avesse straziato in quel modo atroce! Avevo, però, modo di riscattarmi, almeno parzialmente. E fu con quello spirito che arrivai fino alla modesta casetta con il carro davanti. I piccoli erano lì, affranti e disperati. Ma io non avrei lasciato continuare a lungo quel clima di dolore. Li avrei condotti ad una nuova speranza. Feci, rapidamente, il giro della casa all’esterno. Benedissi il fatto che l’avevo già visitata, che ci ero entrata. Conoscevo a menadito il primo piano, ma non avevo mai visitato il secondo. Mi basai, allora, sul numero delle finestre, l’unico modo in cui sarei riuscita ad entrare nelle camere. Di sopra, ce n’erano cinque. Quattro di esse erano aperte. L’ultima, invece, sul lato destro, che dava su un grosso albero contorto, era chiusa, con una specie di fazzoletto che penzolava al lievissimo vento che proveniva dal mare. Reputai, o almeno, sperai, di aver capito quale fosse la stanza che Xavier e Sybil avevano dato ai piccoli. In caso contrario, ce n’erano altre due o tre da visitare. Ero abbastanza silenziosa per non svegliare nessuno. Quella, fortunatamente, grazie all’alto albero, che cresceva addosso al vetro, era la più facile da raggiungere. Mi arrampicai sulla grande pianta, dal legno straordinariamente ruvido e cavo, e dall’aria, nonostante tutta la sua grandezza, fragile, con lentezza. Ebbi l’improvviso timore che si rompesse, e procedetti con enorme calma. Finalmente, incuneata tra due grossi rami ad un palmo dalla finestra, guardai dentro. E gioii. Avevo capito tutto, al primo colpo. Beh…non era stato così difficile. La stanza era molto piccola, evidentemente una sistemazione di fortuna. I lettini non erano altro che miseri, ma ordinati e puliti, sacchi di fieno, o almeno così mi parve. La porta era chiusa. I piccoli erano svegli, e si tenevano abbracciati, davanti ad un piccolo lumicino schermato, che rischiarava debolmente la stanza. La scena mi addolorò immensamente, e dovetti farmi forza per non piangere. La mia piccola Roxen, vestita di un semplice abito rosso, di cotone stinto, abbracciava un bimbetto evidentemente di una decina d’anni più piccolo di lei, ancora in un’età incerta, dove la crescita tumultuosa dei quaranta anni non si è ancora avviata,  poco più basso di me, in lacrime. Quel piccolo magro, dai capelli, a quanto vedevo, chiari, e dal faccino delicato, mi fece pietrificare. Non me l’aspettavo, non aspettavo un colpo del genere. In fondo, però, avrei dovuto immaginarlo. Non l’avevo mai visto, e quel primo incontro fu illuminante. Oltre al nome, di Chekaril aveva anche l’aspetto. La somiglianza tra padre e figlio era spaventosa, quanto quella tra me e Roxen. Doveva, però il piccolo, ad un’analisi più attenta, avere i capelli più mossi, lievemente più scuri, di una sfumatura che sfociava del miele, e la pelle anemica della madre. Ma quello era un segno, un segno di quel destino in cui io non credevo. Non avevo protetto il padre, né mi ero fatta amare da lui. Possibile rifarsi con il figlio? Dentro la mia maschera, sorrisi pietosamente. Poveri piccoli. Che avevo fatto, cosa avevo combinato! Ero stata davvero crudele, avventata. Non potevo pensarci prima? Ogni singhiozzo che scuoteva la spalle strette dell’infante era una stilettata dritta nel mio cuore. Non potevo continuare così. Dovevo salvarli, salvare quegli innocenti da quel dolore che né Xavier né Sybil erano capaci di comprendere. Loro avevano una loro famiglia, dovevano importarsi per prima cosa dei loro figli, il loro bene più prezioso. Nella cultura elfica, è difficile trovare una madre bendisposta a curare i piccoli degli altri. La sterilità è una piaga diffusa tra la nostra gente, e proprio per questo gli infanti vengono curati in modo quasi spasmodico. Allevare un figlio come proprio, o allevare il proprio figlio, sono due cose diverse. Il proprio sangue che scorre nelle vene di un piccolo è diverso da quello sconosciuto. Sono credenze diffuse nella nostra società a carattere fortemente discriminatorio. Mi reputo fortunata a non aver avuto un’educazione elitaria e stupida come quella, a non aver avuto indottrinamento domestico di sorta. Mi permetteva di essere più naturale, e mi permette di fare cose che per gli altri elfi sono difficili da accettare. Per quanto ben curati, dunque, Roxen e Chekaril sarebbero sempre venuti secondi rispetto ai piccoli demoni della famiglia di Xavier, e non avrebbero mai avuto l’affetto di prima. Quello era il principale ostacolo che si poneva davanti al loro futuro. Abbandonarli in una famiglia sconosciuta, non se ne poteva parlare proprio per quel motivo. Lainay, io sapevo, li avrebbe trattati come principi, come re, li avrebbe coccolati e viziati. Per quanto bastarda, la Regina era perfettamente capace ed abile nel manipolare gli infanti, e la gente in generale. Ma io non volevo che Roxen fosse trasformata in un freddo burattino, come lo ero stata io. Chi, dannazione, chi, poteva amare i due come figli propri? Non avevo ancora la soluzione, e disperai, guardando quei piccoli piangere, e disperarsi. Avevano perso tutto. Tutto, per colpa mia. Sentii un’acuta fitta di dolore. Avrei voluto, tanto, piangere con loro. Ma non potevo. Io dovevo essere, almeno per un po’, la roccia contro la quale si sarebbero aggrappati. Preparai così la mia messinscena. Sorrisi, i miei occhi si riempirono di gioia, nonostante io olessi piangere con loro. Mi allungai un pochino, alzando il braccio e tendendo l’anulare. Due colpi leggeri al vetro. Vidi i due piccoli sobbalzare, ed allontanarsi l’uno dall’altro. Non dovevo spaventarli. Io dovevo essere buona, e dolce, e rassicurante. Tutto ciò che non ero, praticamente. Inclinando lievemente il viso, portandomi buffamente i capelli davanti alla maschera, ripetei l’azione, per attirare l’attenzione su di me. Altri due colpi. Roxen si girò verso di me. Che bel volto che aveva, così leggiadro! E quegli occhi di ametista, gli occhi del padre che sarebbero vissuti per sempre! Chekaril ripeté come uno specchio l’azione della sorellastra. Il volto pallido era inondato di lacrime, ma vedevo chiaramente che i suoi occhi non erano viola. Verde scuro, forse. Sospirai di sollievo. Non avrei sopportato oltre di avere un piccolo gemello del mio amore davanti a me per molti giorni. Sarei senz’altro scoppiata. Il volto del piccolo si riempì, immediato, di curiosità, e lui fece un passo avanti, forse per aprire la finestra. Roxen lo fermò immediatamente, e mi guardò con sospetto malcelato. Fu davvero doloroso vedere mia figlia così maldisposta verso di me. Peggio di ogni cosa. Mi frenai poco prima di abbassare il capo. Non potevo nemmeno lasciar intravedere il mio tormento, dannazione! Sarebbero stati giorni molto, molto lunghi. Avrebbe retto, il mio stomaco? In quel momento, da me disperatamente ignorato, stava dando un’atroce battaglia. Negli ultimi tempi, però, era diventata una sensazione familiare, e cercai di non preoccuparmene troppo. Ora dovevo solo incantare due piccoli amici.  Mi concentrai. Scossi il capo buffamente, di nuovo. E staccai le mani dall’albero, per agitarle in segno di saluto. Non avevo, intelligentemente, indossato i guanti. Dovevo sembrare un essere umano, almeno, solo un po’ bizzarro, non un mostro della notte. Ma io, con le inquietanti creature partorite dall’ingegno infantile, non avevo una seppu minima somiglianza. Non dovevo averla. Ero semplicemente una buffissima ed imbranata elfa, venuta da loro perché li voleva bene. Mi sbilanciai, e rischiai di cadere. In parte lo feci apposta, per far sorridere i piccoli, ma nulla mi preparò a frenare qualcosa che sarebbe sicuramente diventato una caduta, se solo non mi fossi appesa ad un ramo. Ero più vicina alla finestra, ora. Sbirciai di nuovo dentro. E sobbalzai. Tutti e due erano piantati ad un soffio da me, dall’altra parte del vetro, con il naso premuto contro di esso, guardandomi con curiosità, ed interesse, maggiori. Chekaril sorrideva, divertito, ed aveva smesso di piangere. Roxen pareva più sospettosa, ma non aveva più quello sguardo cattivo di prima. Mi assomigliava, anche negli atteggiamenti. Considerai quel cambiamento come un successo. Assurdamente piantata contro la finestra, ripetei di nuovo il gesto di saluto, con la mano sana. Vidi, con gioia crescente, un piccolo, pallido sorriso comparire sulle labbra piene di Roxen. Chekaril rise apertamente, innocente e lieto. Il mio cuore scoppiò, e mi sentii piena di una felicità che mi riscaldava come una buona tazza del tè che mi preprava Tijorn. Non stava più piangendo, il piccolo. Ero risuscita a farlo smettere di disperarsi! Era una cosa buona, ottima. Entrambi, finalmente, risposero al mio saluto. Toccai di nuovo il vetro con il dito, due volte, ed inclinai il capo. Sperai di riuscire rassicurante. L’albero scelse proprio quel momento per scricchiolare minacciosamente. Oh, oh. Io sapevo che quella pianta era fragile! Mi guardai indietro, preoccupata, poi mi girai verso i piccoli, guardandoli con crescente inquietudine. Vero, ero davvero leggerissima, ma nulla impediva all’albero di rompersi, e di uccidermi. E dopo…cosa sarebbe mai successo? Per fortuna, quei due avevano del senno da vendere. Mia figlia, a giudicare dal suo sguardo urgente, aveva capito. Ci fu un rapido, silenzioso per me, scambio di battute tra i due fratelli. Poi, inaspettatamente, la finestra si aprì di scatto, facendomi ruzzolare goffamente nella stanza.

 

 

 

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Capitolo 55
*** La speranza di un futuro migliore. ***


Non mi aspettavo quell’entrata così precipitosa, così subitanea, e, per un attimo, ne rimasi spiazzata

Non mi aspettavo quell’entrata così precipitosa, così subitanea, e, per un attimo, ne rimasi spiazzata. Dopo quella buffa caduta, mi ritrovai a pancia in su, a fissare stupidamente le rozze travi di legno del soffitto. Benedii me stessa per aver legato bene la maschera: non appena ferma, fu la prima cosa che controllai. Non si era mossa. Sospirai, e mi mossi un po’. Ero quasi finita con il naso nella paglia dei lettini, in una posizione piuttosto scomoda. Starnutii, infastidita, e poi scossi il capo: qualche filo mi stava dando enormemente fastidio. Sentii un coro di risatine soffocate, ed, immediatamente, le facce dei piccoli entrarono nel mio campo visivo. Roxen, finalmente, si era sciolta: mi guardava, con un gran sorriso stampato sul visino delicato. Potevo vedere con maggior precisione le fattezze del piccolo Chekaril. Sentii battere il cuore più forte, guardando quel volto pallido, ancora umido di lacrime, ma rischiarato da un bel ghigno. Era la mia possibilità di rivalsa contro quel destino, che ancora doveva riservarmi i giochi più crudeli. Oh, si: era davvero uguale al padre, fatta eccezione per gli occhi. Verdi, un colore molto raro già di sé per gli elfi, ma dalla strana tonalità, probabilmente presa dalla famiglia della madre. Nessuno degli antenati della stirpe reale aveva occhi verdi, anzi: tutti erano caratterizzati da sfumature miste tra il viola e l’azzurro, entrambi tinte piuttosto diffuse. Nessuno mi avrebbe preparata, né mai mi preparò, a quel colore insolito. Al buio mi era parso scuro, ma, ora, invece, ad una debole ma sufficiente luce, intravedevo tutti i toni del bosco, e scommettevo che ancora di più mi sarei sconvolta alla luce del sole. Ed ancora oggi rimango interdetta, stupefatta da un meraviglioso insieme della terra. Mentre ancora li fissavo, stregata da quei piccoli, ancora ferocemente disperata, in cerca di una via di redenzione che speravo arrivasse presto, ed una via d’uscita per quell’assurda situazione nella quale mi ero ficcata, sentii la voce di Roxen. Mi parvero un dolce scampanellio, quelle poche parole, dette in tono divertito, la più bella musica del mondo, e per poco non mi commossi. Mia figlia. Ero con mia figlia, che mai avrei sperato di rivedere, con la quale mai avrei sperato di parlare. Forse davvero poteva venire qualcosa di buono, da quell’atto atroce che avevo commesso. “ciao signora!”. Esclamò, con un bel sorriso. Il grosso era fatto: almeno, non era più sospettosa nei miei confronti. Sembrava, anzi, divertita. Ne fui quasi sorpresa: bastava così poco, per simpatizzare con un piccolo! Mi bastava promettere qualcosa per affascinarla, per condurla silenziosamente con me. Qualcosa di poco, solo quello. Ed allora, tutto si sarebbe avviato ad un nuovo, per me incerto, inizio. Scommettevo di aver già vinto il cuore del fratello, ancora troppo piccolo per non essere incantato da una buffa, piccola signora, venuta dal nulla con doni e promesse, con in mano la speranza di un futuro migliore.  “chi siete?”. Quelle parole infantili, quel misto di formalità ed informale ingenuità, mi offuscarono lo sguardo con amare lacrime. Povere, piccole creaturine. Erano ancora innocenti, e pure, dopotutto. Ed io ero venuta così ciecamente a distruggere le loro vite! No, dovevo riparare, anche se parzialmente, ai torti che avevo fatto.  Con un gesto rapido, mi misi seduta, e, facendo finta di riavviare i capelli con la mano sana, controllai i legacci della maschera. Era tutto a posto: non si erano mossi di un millimetro. Sospirai di sollievo. Almeno, non mi sarei dovuta preoccupare di celare il mio aspetto, con i piccoli, di dover continuamente sistemare una maschera dai legacci rotti. Non potevo, certamente, mostrar loro la mia bruttezza infinita. Era già una grande cosa. “sono un’amica, piccini, e mi chiamo Lsyn”. Dissi, con voce dolce, un po’ incerta. Temevo molte cose, e, con quelle prime parole, mi sarei giocata tutto. Tremai un po’, quando cominciai a parlare, e chiusi le mani a pugno per far in modo che i piccoli non se ne accorgessero. Ma presumevo che essi fossero stati attirati da ben altre cose. Sapevo benissimo l’effetto che avrebbe fatto il mio tono, rauco e molto aspro, un ringhio faticoso, e mi ero preparata ad ogni reazione. Se mi avessero accettata anche in quello, allora la strada era tutta in discesa. Sennò…avrei trovato un metodo, giusto? Mi aspettavo di tutto, dal disgusto alla sorpresa, e per poco non serrai gli occhi, come a non voler vedere, a dimenticare, a far finta di non esser lì. Ero davvero preparata a tutto. Ma niente mi preparò alla loro stupefacente reazione. I due piccoli non diedero segno alcuno di essersi accorti della mia strana voce, anzi. Continuavano a sorridere imperterriti, senza muoversi dalla loro postazione. Mi erano davvero vicini. Non si scambiarono nemmeno uno sguardo perplesso. O erano piccoli, o cominciavo a risultare gradevole, buffa, degna di fiducia. A quel punto, mostrare i pupazzi sarebbe stato dare il colpo di grazia ai sospetti già molto labili. La mia missione si prospettava più semplice del previsto. Fui contenta di non dover ricorrere a minacce, o a misure drastiche di emergenza. Perché io da lì me ne sarei andata con loro, volenti o nolenti. Non intendevo lasciare quel compito a nessun altra Spia. Roxen era mia figlia, Chekaril il figlio del mio povero principe, ed erano entrambi miei. Volevo essere amata da qualcuno, lasciare in qualcuno un bel ricordo. Ed ,a quanto pareva dai loro atteggiamenti, ci stavo riuscendo. Quella dimostrazione di mancanza di timore mi riscaldò, e mi spronò ad andare avanti, a concedere loro maggiore confidenza, sempre di più. Dovevo sembrare simpatica, in ogni modo. “potete anche darmi del tu, no?”. Aggiunsi, in modo molto più spigliato. Quella decisione presa era stata assai subitanea. Solo in quel modo sarei sembrata più…vicina a loro, solo in quel modo avrei perso quell’aura da adulta che portavo. Forse, e davvero lo pensai, i due avrebbero finito per considerarmi come loro pari, donando fiducia assoluta. Tanto, come statura già c’ero. Non finii nemmeno di parlare, che Chekaril m’interruppe, guardandomi in un modo fin troppo familiare. Mi stava studiando, era molto curioso. Quante, quante volte avevo visto quello sguardo allegro, e ben poco educato? Troppe, per non riconoscerlo. Strinsi la mascella, tesa. Avevo improvvisamente freddo. Molto freddo. Sentii brividi gelidi corrermi lungo la schiena. Quello a cui ero davanti aveva dell’inquietante, e molto. Il piccolo assomigliava, anche negli atteggiamenti, al padre, in una maniera quasi spettrale. Era come se il Principe si fosse reincarnato in quel bambino innocente, in una versione purificata. Vero, mancava qualcosa del Chekaril originario, una certa aria tronfia, o forse ero solo io suggestionata dall’aspetto molto simile al suo, non so. Fatto sta, che a quello sguardo desiderai fuggire. Come un’eco, risentii le urla disperate, di puro dolore, la voce del mio amato. No. Oh, no. Non ancora quei rumori, non ancora quelle sensazioni! Chiusi gli occhi per una frazione di secondo, giusto per schiarirmi la mente. Ma quell’impressionante copia era ancora lì, fiduciosa ed allegra. Desiderai, per un attimo, di fuggire, e fu solo la decisione di stare con i piccoli a tenermi ferma, lì, seduta, con loro di fronte a me, i candidi, i puri. E dovevo proteggerli, da tutti i mali, proteggerli anche a costo della mia vita. Io avevo rubato la loro felicità. Ora loro potevano prendere ogni cosa di me stessa. Lo sapevo, e ne ero intimamente molto felice. Era, come intendevo io, un segno del destino? Il caso mi permetteva una via d’uscita, un modo per redimermi, redimere quello scempio che avevo causato, cancellare quella macchia dai miei ricordi? Era impossibile, quella era davvero un’utopia, eliminare, estirpare il ricordo di uno schizzo violento di sangue in faccia, il ricordo di un coltello che, con un tonfo sordo, si piantava nella carne e nel legno. Impossibile eliminare quell’ostinata sensazione di solitudine, di veder passare il mondo davanti più veloce di quanto io possa andare, di tendere le mani e non poter afferrare, di affogare, di non aver un punto fisso nella mia vita. Ma, almeno, potevo seminare un po’ di luce, lasciare un frutto che forse non sarebbe andato perduto. Potevo farmi volere bene. “si…ma chi sei tu?”. Disse il piccolo Chekaril, allontanando con uno sbuffo una ciocca di capelli che era arrivata davanti al suo viso pallido. “perché sei qui da noi?”. Sorrisi, nella mia maschera. La recita doveva iniziare. Feci un gesto rapido con la mano, e la sbattei sul lettino che era dietro di me, quasi ad invitare i piccoli a sedersi. Poi, mentre i due mi obbedivano, guardandomi, ora curiosi, mi sistemai, e mi girai verso di loro. Ci trovammo a formare un bizzarro triangolo, ed io li ebbi entrambi di fronte. I loro visi riempirono il mio cuore di gioia. Potevo affidare la mia speranza a loro, almeno per un po’ di tempo. Rispondere a quelle domande, tuttavia, si rivelò più difficile del previsto. Cosa dirgli? Cosa rivelar loro? Decisi, almeno per un po’, di temporeggiare. “io sono una persona che vive nel continente…”. Tossicchiai, a disagio. Le espressioni dei piccoli, da incuriosite, si erano ghiacciate, ed entrambi si erano guardati, perplessi. Si stavano, molto probabilmente, chiedendo perché diamine io la stessi facendo così lunga. In realtà, non sapevo proprio cosa dire. Forse avevo proprio sbagliato tutto. Stavo esitando troppo. Dovevo giocare il tutto per tutto. Non potevo temporeggiare un minuto di più. Presi una decisione fulminea. Non dovevo stare a pensare, dovevo agire! Avrei rischiato. Forse, così, si sarebbero fidati di me. E, comunque sarebbe andata…mi restavano sempre alte carte da giocare, vero? Strinsi forte, sotto il mantello, i due pupazzi, per cercare di rassicurarmi. Sarebbe andato tutto bene. Mi tremavano le mani, e molto. “e…sono la sorella di vostra madre”. Dannazione. Non potevo scegliere bugia migliore di quella! Avevo pensato che un legame familiare in più li avrebbe rassicurati. Avevo torto. I loro sorrisi si erano trasformati in espressioni smarrite, tutto di un colpo, non appena ebbi finito di pronunciare quella frase. Chekaril aveva fatto un salto, e mi aveva guardato, incredulo. Roxen era, praticamente, rimasta pietrificata. Leggevo, nei loro occhi innocenti, la perplessità, il dolore. Fu una stilettata in pieno petto. Avevo sbagliato. O forse no. “ma la mamma se n’è andata via”. Mormorò mia figlia, abbassando lo sguardo. Chekaril si lasciò sfuggire un paio di lacrime. “mamma e papà sono andati via, e non torneranno da noi”. Dannazione. Perché mi sentivo così atrocemente in colpa? E non potevo svelar loro nulla! Stavo facendo loro del male, e la cosa mi diede fastidio. Sbaglio, o avevo promesso di proteggerli? Il loro dolore mi contagiò, e mi diede l’idea per continuare la mia pantomima nello stesso tempo. Sentii le lacrime pizzicarmi gli angoli degli occhi, lacrime totalmente genuine. Il rimorso, quell’amaro frutto di cui mi ero nutrita in quei giorni, tornò a farsi sentire, acerbo e pungente, devastandomi di nuovo l’anima. Cercai, inutilmente, di dominarmi. Ero io la causa di tutto quel dolore. Perché esistevo ancora? Perché? Nessun fulmine era caduto per uccidermi dopo quell’atroce misfatto. Eppure, era l’unica cosa mai desiderata da quel momento. lasciai che qualche lacrima sgorgasse dai miei occhi, inumidendo le guance nascoste dalla maschera, e facendole prudere. Mi portai una mano al viso, distratta dai miei stessi pensieri, e fu solo il contatto con la ceramica fredda a ricordarmi chi ero, e dov’ero. Sospirai. “lo so, lo so che non c’è più”. Dissi, con voce rotta, completamente genuina. Lo sapevo, benissimo. L’avevo uccisa io. Mi trattenni dal singhiozzare disperatamente. Dovevo andare avanti, dovevo aiutarli, quei poveri fanciulli. Ancora la vista annebbiata dalle lacrime, alzai lo sguardo verso di loro, addolorata. I loro volti si confusero in un turbinio di colori, ma io non distolsi lo sguardo. Subitaneo, mi folgorò un pensiero. Dovevo approfittare di quel momento delicato per distruggere ogni loro difesa. Era crudele, tanto crudele, e mi biasimai per quello che stavo per fare, ma dovevo. Dovevo. Altre Spie, al posto mio, li avrebbero rapiti, stordendoli di giorno, senza remora alcuna, prendendo ogni cautela. Ma io ero ormai troppo dentro al dolore, al tradimento, all’odio, al rimorso, per potermi considerare ancora una Spia effettiva. Amavo troppo quei piccoli di già, sebbene ben poco avessi parlato loro. Provavo sentimenti. E non tutti erano positivi. Ero stata maledettamente presa in giro, dalle creature che con più dedizione avevo servito. Chekaril e sua sorella erano stati per molti anni  i miei punti di riferimento, e li avevo amati, li avevo serviti anche a costo della mia stessa vita. Mi ero portata moltissime volte sulla soglia dalla quale non si torna, mi ero ammalata moltissime volte, per obbedire alle loro direttive. Avevo distrutto il mio aspetto per un’illusione, per una stupida illusione! Ed ora? Potevo solo vendicarmi. I piccoli sarebbero stati fedeli a me, ed in ogni modo dovevo riuscirvi. A me, a me, e solo a me. Non alla loro maledetta zia: forse, e solo forse, li avrei portati a lei. Ma non l’avrebbero mai amata come il mio ricordo, io sarei stata come una silente maestra, un aiuto della memoria. Dovevano volermi bene. Ed io ne avevo disperato bisogno. Oh, ma dov’era Tijorn, quando serviva? Perché non avevo giurato di tenermi in contatto con lui? Perché avevo lasciato che Akita lo ghermisse, me lo portasse via? Ora, cosa mi rimaneva? Un pugno di polvere. Oh, si: dovevo fingere, dovevo lasciare che i piccoli mi amassero, senza riserve. Mi sarei inventata una storia sopraffina. Ancora oggi stento a credere che a quelle parole false sarebbe scaturito un legame così forte da trascendere ogni limite, ogni ostacolo. Un legame che va al di là dell’amore, dell’affetto stesso, che si tramuta in vero e proprio annientamento del proprio essere. Rimango stupita nel ricordare quale effetto ebbero, quell’accozzaglia ben poco plausibile di menzogne. Ma ancora devo rendermi conto che plagiare un infante non è per nulla difficile. Basta parlargli come un essere adulto, come ad un amico, ed è fatta. Non ho mai avuto, in giovinezza, esperienze prolungate con gli infanti, e questo andò e va ancora a mio discapito. Esagero, e molto: o sono troppo melliflua, troppo convincente, o divento una belva. Nei brevi mesi passati con Roxen, era di norma Tijorn ad aiutarmi, a darmi consigli su consigli, su come allevare un piccolo, come tranquillizzarlo, eccetera eccetera. E’ sempre stato molto più bravo lui di me, in questo. Ma ora lui non era lì, con me. Tirando su con il naso, cominciai a parlare, mettendo insieme una pietosa, ma efficace, bugia. “io sono venuta qua…per dire a vostra madre di tornare. Sapete”. Tirai di nuovo su con il naso, un gesto del tutto genuino, e ripresi a parlare, spiegando con voce tremula, e triste. Il mio tono sapeva di rimpianto infinito. E forse era davvero così. Oh, quanto il rimorso stava scavando in me, quanto, subdolo come un verme in una noce. “noi eravamo molto legate, ma avevamo litigato. Io non volevo che lei venisse qui, ad abitare”. Confidai con tutta me stessa che Roxen non si ricordasse dei periodi di Scmen. In caso contrario, sarei stata davvero nei guai: mia figlia non era stupida. Dovevo vedere: quello sguardo appannato mi stava dando molto fastidio. Strinsi forte gli occhi, cercando di far scendere le lacrime, che presero a cadere, copiose. Le guance mi stavano facendo impazzire. In quel modo, tuttavia, mi schiarii lo sguardo. Era l’unico mezzo per farlo, per vedere bene. Dovevo osservare le loro reazioni. Di nuovo, mi stupii. Erano davvero tristi, ma qualcos’altro brillava nei loro begli occhi. Mi guardavano, commossi, ma stranamente felici. Chissà: forse pensavano di aver trovato qualcuno di famiglia, che li avrebbe portati alla felicità. Xavier e Sybil, in tutta la loro gentilezza, non potevano sostituire una zia, si sconosciuta, ma sempre una zia. Una manna caduta dal cielo. Oh, beh…da un albero, per essere più precisi. Ripresi a parlare, con voce smorta. “per un sacco di tempo non ci siamo sentite…poi, sapete, mi ha mandato una lettera, e mi ha fatto sapere di volermi vedere, così mi presentava voi”. Vidi Roxen sobbalzare, e guardarmi con interesse. Sperai che restassero esclusi dalle decisioni di casa meno importanti, come in una famiglia tradizionale elfica. Feci una pausa più lunga, per timore che qualcuno di loro volesse obiettare qualcosa. Ma non lo fecero: rimasero a guardarmi, impazienti di sapere il resto della storia. “ed allora, sono venuta, sapete…sono venuta due giorni fa, ma non ho trovato la casa…era tutto…tutto…”. Feci una pausa, sopraffatta dal dolore, e serrai gli occhi. Dannazione. Io ero la prima a soffrire! Il ricordo dei carboni ardenti mi perseguitava, il ricordo di quel fuoco atroce che avevo appiccato, di cui io stessa ero stata artefice. Un inferno, per coprire le prove di ben altro scempio. Ma quei poveri piccoli dall’aria sperduta, era meglio che quelle cose non le sapessero. Era meglio che quell’episodi orribile rimanesse sepolto nella mia memoria, rimanesse in me, per tormentarmi, tormentare me, e nessun altro. Ci fu una lunghissima pausa, in cui io, sopraffatta dai ricordi atroci, dimenticai la mia finzione, dimenticai di essere zia Lsyn, la buona, e tornai ad essere Lsyn, piena di rimorso, punita del suo comportamento dalle memorie, che mi tormentavano, straziandomi l’anima. Mi raggomitolai, presa da un dolore acuto al cuore, da un senso di sconfitta immanente. Non potevo farci niente. A che pro prendere quei poveri piccoli, ed estirparli da lì, da quel luogo felice? Perché? Perché tanta cattiveria? Non mi avrebbero creduta. Mai. Ed io avrei perso, li avrei visti al castello, portati lì da un’altra Spia, crudele magari come alcuni elementi del nostro ordine, che magari si sarebbe fatta amare, e li avrebbe plagiati. Ed io sarei stata sconfitta, per l’ennesima volta, sarei stata odiata ed etichettata come menzognera, ed omicida. Non so quanto tempo rimasi così, sperduta nella mia rassegnazione acuta, terribilmente sola, lasciando che la lacrime scorressero dentro la maschera, e mi facessero impazzire. So solo che, con quel comportamento spontaneo, la ebbi vinta. Chissà cosa videro, in me, in piccoli: forse un’amica, forse una compagna nel loro dolore, forse davvero un’ancora di salvezza. Fatto sta che, ad un certo punto, sentii un peso caldo e solido appoggiarsi a me, con tutto il suo peso. Seguito poi da un altro, ben più leggero. Tutto quello, mi ricordò la Matriarca, ed il suo disperato bisogno di aiuto. Riconobbi immediatamente quel segnale, senza spaventarmi. Aprii gli occhi di scatto. I due piccoli si erano avvicinai moltissimo a me, fino a toccarmi, e si erano raggomitolati, con fiducia, addosso a me. Forse volevano confortarmi, forse volevano confortare loro, non so. Quello che fu, comunque, mi riempì di gioia inaspettata. Ehi…forse davvero non tutto era perduto! Sentii un fiotto di calore invadermi la gola, e per poco non cominciai a singhiozzare. Un essere come me…come potevano amare una creatura brutta come me? Come? Come poter amare un essere abietto come Lsyn Amarto? Era la prima volta che incontravo mia figlia, e che la toccavo. Che si lasciavano toccare, come consci che non avrei fatto loro del male. E mai, mai e poi mai. Ero davvero loro zia, in un certo senso. Li amavo come una madre può amare i figli. Avrei voluto averli vicini per l’eternità, così. Stavo vincendo, davvero? Sorrisi, e strinsi i pupazzi. Quei due piccoli mi stavano davvero volendo bene? Decisi, instancabile, di giocare la mia ultima carta. Dovevo aver da loro la fiducia assoluta. Ma come fingere, mentre loro erano così vicini? Sospirai, e li cinsi con un braccio solo, o almeno ci provai. Riuscii, perlomeno, ad averli tutti e due vicini a me. “shhh…io ora sono qui, su…”. Mormorai, cercando in ogni modo di essere tranquillizzante. Mi stupii: avevo davvero vinto il loro cuore? O loro avevano vinto il mio? Forse ero io ad essere stata presa dai loro legacci. Non c’era altra soluzione all’enigma. Li amavo già troppo, più della mia stessa, infima vita. Mi sciolsi in una pozzo informe quando Roxen mi guardò, mentre Chekaril si stringeva più forte a me. Io  lei ci fissammo, uno sguardo infinito. Mi persi in quegli occhi viola, gli occhi del padre. Vidi in essi solo una strana gioia, e serietà infantile, acuta e pacata. Avevo ragione: era davvero eccezionale per i suoi cinquant’anni. Strano come una mano tesa possa fare la differenza, nei momenti di dolore. Lei si fidava di me, una sconosciuta. Ah, la potenza del sangue! E lei non sapeva, nemmeno lontanamente, cosa fosse per me. L’avevo aspettata, l’avevo desiderata, l’avevo curata, l’avevo abbandonata, ma avevo continuato a pensarla. Era la mia copia, il mio amore, la mia piccola protetta. Chekaril non lo era di meno.  Era si, non figlio mio, ma…non m’importava. Io non mi facevo di queste remore. In fondo, le Spie erano abituate ad allevare figli di altri. Ed io ero stata allenata proprio a quello, a non avere tradizioni sciocche di sorta. Contemplai mia figlia quasi con venerazione. Era bellissima, il mio fiore. Quasi indegna per un rospo come me. Roxen, dignitosamente, tirò su con il naso, ed alzò il mento, discostandosi un po’. Io la lasciai andare, e strinsi più forte Chekaril, che aveva gran bisogno di contatto, di calore. Mi sembrò di conoscerli da secoli, di averli già conosciuti prima che nascessero. Erano destinati a me. Lei prese a parlare, guardandomi dritta negli occhi, senza timore alcuno. “Xavier e Sybil sono buoni, però non ci vogliono bene”. Disse, seriamente, con maturità insospettabile per una piccola della sua età. Poverina. Non sapeva nemmeno quanto avesse ragione. “tu, Lsyn? Tu ci vuoi bene?”. Volerli bene? Dannazione: cosa, cosa potevo rispondere? Ero stregata, ormai e completamente, da loro. Il mio fosco destino era intrecciato a loro, avevo intrecciato la mia vita, avevo deciso di dedicare il resto della mia vita, quel breve intervallo che, di lì a poco, mi avrebbe portata alla fine, o quella che speravo fosse tale, a loro, quei candidi elfi, quei cuccioli. Avrei sacrificato me stessa, per loro. Tutta me stessa. E volerli bene era poco, era solo un eufemismo per esprimere l’affetto sconfinato che avvertivo nei loro confronti. Potevo essere ancora migliore, con loro. Potevo redimermi, almeno un po’. “si, piccoli”. Dissi, con voce tremante e dignitosa. Ma sincera. “io vi voglio bene. E, se volete, vi porterò con me”. Quelle parole furono una volatola di sfogo. Mi sentii libera, finalmente, libera e accettabilmente felice. Per altri giorni, li avrei avuti con me, insieme a me, avrei parlato con le creature più dolci del creato. Sorrisi mentre Chekaril si stringeva più forte a me, finalmente singhiozzando, un pianto liberatorio, e Roxen mi guardava, con uno stupore che, ben presto, si trasformò in un lieve cenno di assenso. Avevo vinto, avevo trionfato. E non mi erano nemmeno serviti i giocattoli!

 

 

 

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Capitolo 56
*** Oè, voi lì! ***


Dopo aver superato quell’ultimo scoglio, formato dalla loro stesa riluttanza, andarsene fu la cosa più facile del mondo

Dopo aver superato quell’ultimo scoglio, formato dalla loro stesa riluttanza, andarsene fu la cosa più facile del mondo. I due infanti furono davvero poco restii ad abbandonare la casa di Xavier, elfo gentile e premuroso, ma davvero imbranato. Avevano deciso non appena avevo loro detto di essere parente di sangue. Elfi piccoli si, ma dalle idee chiare. Scappammo davvero in fretta. Non appena si furono calmati un po’, insieme a me, dal cuore riscaldato e dal bisogno tremendo ed urgente di donare amore a qualcuno, progettammo in silenzio la partenza. Mentre Roxen raccoglieva tutte le scarse cose che avevano in quella stanza, tutti gli oggetti che erano stati donati loro, o che erano riusciti a raccattare dalle scarse rovine della casa, principalmente di valore simbolico, con diligenza da cosciente sorella maggiore, Chekaril, aggrappato a me come un bizzarro parassita, cominciò a parlare incessantemente, un fiume di parole che sembrava non volersi arrestare. Sembrava darmi la massima fiducia possibile, e sembrava aver deciso di volermi bene. Benedetta volubilità infantile! Non ci era voluto molto per farlo smettere di singhiozzare, ed aveva tutta l’aria di sentirsi rassicurato dalla mia presenza, in quel momento. Io lo stringevo dolcemente con una sola mano, per fargli sentire la mia presenza, delicata ed affettuosa come avrebbe potuto esserlo la madre, ed ascoltavo, l’unica cosa che potevo fare, deplorando più che mai il mio gesto. Non avrei avuto mai, mai il coraggio di fare quello che avevo fatto, se solo avessi conosciuto i piccoli prima. Mai, mai, mi sarei arrischiata d uccidere i genitori, se solo avessi visto prima la gioia che regnava nella loro casa. Mi ero innamorata di quei visi pallidi e addolorati, un amore sconfinato, a prima vista. Anche dell’infante, che era segno lampante, prova fin troppo materiale ed evidente del tradimento del Principe nei miei confronti. In fondo, lui era innocente, un semplice effetto di un gesto che non aveva fatto altro che irritari a morte. E che colpa aveva, il mio piccolo cucciolo, se suo padre era un dannato donnaiolo doppiogiochista? Nessuna. L’avrei protetto come avrei protetto Roxen. Lo sentivo quasi come mio. Avrei cercato di fare di tutto per la loro felicità. Avrei dato loro la mia vita per una sola risata, un solo sorriso. Li avrei protetti,  nel lungo viaggio che avremmo svolto insieme, da ogni avversità. Non potevo permettermi leggerezze, né lasciarmi prendere dall’ansia. Niente più colpi di testa, o inseguimenti di fantasmi. Ero tesa verso un solo obiettivo: portare al sicuro i piccoli. Sarebbe stato strano, avere qualcuno con cui parlare davanti al fuoco, la sera, qualcuno che avrebbe preso quel viaggio come un’enorme avventura, senza preoccuparsi del futuro. Sarebbe stato strano, tenere in conto altre bocche da sfamare, una presenza viva e cosciente con cui parlare. E che avrebbe risposto, soprattutto, a differenza di tutte le illusioni che mi ero creata durante i miei disperati viaggi solitari. Ci sarebbe stata più luce. Sarebbero stati bene con me, li avrei trattati come principi, come re, cessando anche di mangiare per far saziare loro. Si…ma dopo? Che fare? Tenerli con me, non se ne parlava. Non dovevano stare oltre a contatto con un essere immondo come me. Cosa avrebbero imparato, da un insetto della mia risma, che aveva ucciso i loro stessi genitori? Portarli da Tijorn? Niente da fare, abitava a Sharilar, ed era, ora, in compagnia di una ributtante quanto bastarda Spia, che avrebbe adorato i piccoli per il solo fatto di poterli portare alla Regina, che le avrebbe fatto una carezza su quella dannata testa vuota che si ritrovava. Non mi fidavo di lei. Portarli ad Uruk, dai ribelli? Come, quando? Dopo che avevo quasi ucciso Isnark, certamente non godevo di ottima fama, in quel luogo. L’unica cosa sicuramente benaccetta nel Matriarcato era la mia testa, magari  portata su un meraviglioso piatto d’argento filigranato, da esporre come pezzo unico. La testa di Lsyn, l’Ombra. Un dono raro e gradito. Scommettevo Nemys ce l’avesse a morte con me, per aver indebolito il suo Capitano. Magari era davvero la prima a volermi ridotta in cenere! Non ci avrebbe messo che uno schiocco di dita, per ordinare magari l’esecuzione dei piccoli, davanti ai miei stessi occhi, per torturarmi fino alla morte. Ed io ne sarei, sicuramente, morta. La immaginavo, davvero, come una copia di Lainay, versione buona. Trecento anni di servitù estrema mi avevano davvero fatto un lavaggio del cervello. Ma, questo, l’avrei scoperto solo dopo. Passai ad altre opzioni.  I Tengu? Troppo pericoloso: non dovevo sottovalutare le reazioni del Popolo Alato. Io in quel villaggio ero amata, ma loro erano estranei, e non avevano salvato la vita ad alcuno. Non avevo voglia d’inventarmi altre spiegazioni. Gli umani, mascherarli da servi ed affidarli agli Insathi, portarli in un villaggio Inu, dove gli elfi non si avvicinavano che per caso, oppure solo per razzia? Nemmeno a parlarne. Cosa fare, allora? Dovevo scegliere il meglio, per loro. Sarebbero stati bene da Lainay, che poteva, in ogni momento, ridurli a meri strumenti per il suo trono, a freddi burattini? Avrei dovuto portarli lì, o altrove? Mi tormentavo, mentre abbracciavo la piccola figura di Chekaril, che continuava a chiacchierare sottovoce. Tormentavo il futuro, sperando di poterlo ridurre a brandelli. Non smise di parlottare incessantemente, lieto di aver trovato un punto di riferimento, nemmeno quando li feci velocemente arrampicare sull’albero, mentre recuperavo la borsa, e mentre ci avviavamo nel punto dove mi avevano lasciata i contrabbandieri, furtivi come ladri. Nessuno si era accorto di nulla. Avevo agito nel più completo silenzio. Al loro risveglio, gli abitanti di Gerinti avrebbero contato altri due abitanti in meno. Noi saremmo fuggiti con i contrabbandieri, ed, allo spuntare dell’alba, saremmo stati a Scmen, in viaggio. Speravo fossero al molo, Paòl e la sua scatenata ciurma di avanzi di galera. Il piccolo sembrava aver trovato in me un’eccellente valvola di sfogo. Nei primi momenti della nostra conoscenza mi era parso silenzioso, quasi timido, ma ora ammisi di essermi davvero sbagliata. Era una macchina di parole. Parole, sue parole, su parole. Una raffica interminabile di ciance. Si era sbloccato, dopo quel pianto, e voleva farmi intendere in ogni modo, di trovarmi di suo estremo gradimento. Roxen non parlava, ma mi era vicina, e mi stringeva impaurita una mano. Avevo addirittura legato i pupazzi alla cintura, velocemente, per tenerla, per sentire la sua manina liscia nella mia. Mi stavano quasi per scivolare. Sperai ardentemente che non lo facessero. Sarebbe stato per loro un colpo troppo grande ricevere quei balocchi senza preavviso. La piccola sembrava quasi tesa, conscia di star vedendo Gerinti per l’ultima volta, e si guardava attorno con apprensione. Le strinsi la mano, una volta, per farle capire che ero vicina. Quel contatto mi faceva sentire completa. Mia figlia era lì, con me. Non mi bastava altro. Chekaril era troppo piccolo per capire la portata di quel cambiamento, e continuò a parlare, senza staccarsi da me nemmeno un attimo. Ad un certo momento, com’era prevedibile per me, da sempre stata piuttosto restia ai discorsi interminabili, quella vocina instancabile prese ad infastidirmi molto. Perché non la smetteva di raccontarmi quanto bravo, buono e bello fosse il loro cane, di cui apprezzavo solo il nome, strettamente legato ad un elfo nell’orbita della corte, che odiavo con tutto il cuore per la sua aliena crudeltà? Perché non smetteva di narrarmi tutte le gesta di suo padre, il grande, grosso ed astuto Krish, che tanto lo voleva bene, e che tanto idolatrava? Mi faceva male sentire parlare del padre, mi stava torturando atrocemente. Tuttavia, con un sorriso dolcissimo ed allegro, e con qualche commento neutro di tanto in tanto, non lo interruppi. Potevo fare solo questo. Immaginai fosse questa la mia punizione per l’omicidio commesso, il ricordo perenne. Lo lasciai parlare e parlare, senza interromperlo, fino a quando, ormai vicini al mio albero, non mi resi conto che stava blaterando qualcosa di molto importante. Da quelle chiacchiere futili appresi molte cose su Xavier, e molti retroscena. A quanto pareva dalle frasi infantili di Chekaril, lui e la moglie erano ottimi genitori, ma si erano ritrovati totalmente impreparati a gestire una situazione critica di quel genere, a dover prendere con sé anche i figli di un altro elfo, per quanto amato. Avevano cominciato ad allontanarsi, e le cose si sarebbero msse molto male per i due, se io non fossi venuta. Non erano cattivi, ma solo molto tradizionalisti. Ed, in più, la povertà aveva allungato le sue mani anche su di loro. Erano contadini, e nemmeno troppo ricchi. In quei tempi di magra, potevano farcela esclusivamente in quattro, e non di più, con i frutti che la terra dava loro. Persino io, nei panni di una vecchia mortale, ero stata portata da Krish, perché lui era più ricco, il più ricco di tutti, e poteva permettersi un’ospite. Xavier, da un po’ di tempo, si era legato moltissimo al Principe, e la sua famiglia aveva dipeso da lui, fungendo da vice comandante. Nelle sue mani erano ora tutti i traffici con la terra, con Scmen. Era stata, per loro, l’unica nota positiva. Avrebbero guadagnato molto di più, ora, e si avviavano ad essere la famiglia elfica più prestigiosa dell’isola. Ne fui quasi contenta: almeno, non avrebbero dovuto più patire la fame. Non poteva essere che una cosa positiva. Finalmente, dopo un lungo giro per evitare ai piccoli le spoglie della bambola meccanica e del suo occupante, arrivammo al piccolo molo. Ci fermammo. Presi a scrutare il mare, in attesa dei contrabbandieri. Speravo arrivassero. O sarei stata, la mattina dopo, in guai davvero seri. Chekaril, che mi stava confidando di essere stato lui a rompere il vaso della vecchia madama Swot, perché stava giocando nel suo giardino con i piccoli amici, si fermò, dubbioso, e si zittì, con grande gioia delle mie orecchie stanche. Fu imitato da Roxen, che mi guardò con aria perplessa. Risposi ai loro sguardi parlando con dolcezza. “vengono qui i contrabbandieri, vero?”. Dissi loro, con aria affabile, dolce come miele. “saranno loro a portarci sul continente, a Scmen”. Beh, almeno così speravo. Paòl aveva detto di essere lì ogni notte, vero? Vero? Stavano per arrivare, giusto? Mi sentivo tremendamente insicura. Avevo posto quella domanda proprio per rassicurarmi. E m’illuminai quando vidi il volto dei piccoli aprirsi d’innocente meraviglia. I due si guardarono. Chekaril splendeva come una torcia accesa. “andiamo con i contrabbandieri?”. Disse Roxen, a cui mancava solo una bocca spalancata per completare l’espressione di assoluta incredulità che aveva impressa in viso. “andiamo nel continente? Dove c’è la neve?”. Risi sommessamente, ed annuii. Quelle reazioni infantili erano assolutamente deliziose. Mi riempivano di gioia. Mi riscaldavano l’anima. Mi parve quasi strano sentirmi dire quelle parole. Non dovevano mai aver visto in vita loro una nevicata, una cosa che a me pareva quasi scontata. Promisi a me stessa che, in qualunque luogo li avrei portati, sarebbe stato un posto con tanta, tanta neve d’inverno, neve a iosa. Avrebbero potuto giocare, battagliare come facevamo io e Tijorn da piccoli, finendo ogni volta per malmenarci sul serio, suscitando l’ira incontrollata del Maestro, dalla quale fuggivamo ogni volta, misteriosamente tornati in perfetto accordo. Un posto abbastanza freddo, ma non gelido come l’estremo nord, in cui, in alcuni luoghi, la neve era perenne. Non avrebbero sopportato il freddo, loro, i figli del sole, come io non tolleravo il calore opprimente ed eccessivo della costa. “è troppo presto per la neve…”. Dissi, allegramente, fissando i loro volti curiosi. Dei, non me ne saziavo mai. Si: avrei sacrificato la mia vita, per loro. Per il tempo che mi rimaneva, avevo uno scopo per la quale vivere, qualcuno che mi amava, che ricambiava il mio interessamento. “ma, dove abito io, d’inverno nevica così tanto che non si può uscire di casa. Quando, smette, però…le strade diventano tutte bianche!”. Promisi in me che anche la loro infanzia, o quello che ne rimaneva, sarebbe stata serena come la mia. E, da adulti, sarebbero vissuti sereni, magari in qualche famiglia sterile di contadini, con me come immaginario angelo custode. Le mie parole allegre, così pietosamente su di giri, fecero urlare Chekaril di gioia. “la neve, Rox, la neve!”. Disse, lasciandomi per abbracciare la sorella, che ricambiò allegramente, senza perdermi tuttavia di vista. Mi strinsi nelle spalle, e le scossi allegramente, quando invece sentivo una spiacevole sensazione di freddo che mi attraversava il corpo. Quello sguardo era fin troppo consapevole. Roxen sembrava aver capito che qualcosa non andava. Mia figlia era fin troppo matura per la sua età. Dava l’idea di una piccola di settanta o ottanta anni, con il suo lieve cipiglio, leggermente annoiato, e tragicamente addolorato. Cercai di non pensarci. Se solo mi fossi soffermata un altro po’ in quello sguardo viola, sarei impazzita. Quella piccola, già troppo cresciuta per la sua esigua età, mi metteva i brividi e mi rassicurava, al tempo stesso. Era così diversa da me. Io non ero così intelligente a cinquant’anni, dannazione! Ero troppo impegnata, a dire la verità, a litigare selvaggiamente con mio fratello, di solito solo per puro divertimento, a scappare con lui nel bosco quando Amarto si arrabbiava sul serio, e poi a nasconderci quando lui veniva a cercarci per darci una sonora e dolorosa lezione, per il nostro comportamento scorretto e poco decoroso per due future Spie. Lei dava, bizzarramente, l’idea di una piccola mamma per il fratellino. Tra di noi scorreva, nonostante tutto, una strana complicità. Ci capivamo davvero bene. Il fratellastro non si era accorto del nostro silenzioso scambio di sguardi, e continuò ad esprimere la propria gioia. E qui, si lasciò scappare una piccola confessione involontaria. “hai visto che la nave andava nel continente? Hai visto che avevo ragione quando siamo scappati per vedere la barca che scaricava le cose per papà?”. Roxen arrossì terribilmente, e mi guardò, colpevole, mentre Chekaril non si accorse della cosa detta. Sospirai di sollievo. Non riuscii a non celare un sorriso compiaciuto. Ringraziai la maschera che coprì la mia espressione quasi tronfia. Almeno, nonostante la sua aria quasi adulta, Roxen faceva qualcosa di normale, era un’infante normale, che aveva fatto impazzire i genitori! Ero fiera di lei. Brava la mia piccola! Fuggire è un tonico, per i bambini, se è solo per pura voglia di conoscere, in un contesto tranquillo come quello. Una marachella ogni tanto era un gran bene. Ed io non potevo parlare, non potevo sgridarla, quando da piccola, assieme a Tijorn, complice più che entusiasta di malefatte, avevo combinato cose ben peggiori. Far ubriacare il mulo che avevamo nella stalla con la riserva di liquori del Maestro non era nemmeno lontanamente paragonabile ad una scappatella notturna per vedere le navi, vero? Come potevo parlare, io, che avevo fatto impazzire Amarto? Quindi, mi mostrai più che comprensiva, e le feci l’occhiolino. Dovevo sembrare molto rassicurante. Dovevo essere loro amica. Fu per questo che, in un lampo, mi vennero in mente i loro balocchi. Li avrei resi estremamente felici, eternamente grati. O forse no. Non potevo saperlo, ed i contrabbandieri erano ancora ben lungi dall’arrivare. Pazienza: almeno sarei stata lì per calmarli, in caso di pianti. Dovevo fare, però, in fretta, o mi sarebbe mancato il coraggio. Per attirare la loro attenzione, mi schiarii la voce. Il cuore mi batteva, furiosamente. Il gesto che stavo per compiere aveva molto dell’azzardato, e lo sapevo. Con un gorgoglio minaccioso, lo stomaco si torse. La mano sfregiata corse per afferrare i due giocattoli prima che mi perdessi di coraggio, stringendoli in una morsa spasmodica. Non dovetti attendere prima che i due smettessero di abbracciarsi. I miei gesti avevano subito attirato l’attenzione dei piccoli. Roxen mi guardò di nuovo, incuriosita, e Chekaril si staccò dall’abbraccio, girandosi verso di me, con una certa aria di aspettativa. Ora dovevo solo inventarmi qualcosa di plausibile, per giustificare la presenza di quei due animaletti di pezza. Pregai tutti gli dei, sconosciuti e non, di mandarmela buona, di non farli piangere di nuovo, né di farmi commuovere. Non dovevo piangere, non dovevo deprimermi, non dovevo essere scontrosa con loro. Dovevo essere una dolcissima madre, un surrogato di Aevo, per quanto mi era possibile. Dovevo. Lo dovevo al Principe, che avevo ammazzato. Lo dovevo all’elfa, e lo dovevo a me stessa. A me stessa soprattutto. Mi schiarii di nuovo la voce, ascoltando il pigro sciaguattare del madre. “allora…”. Esordii, guardando il terreno, stringendo con forza i balocchi. Perché, dannazione, sentivo così caldo? Perché mi sentivo così imbarazzata? Stavo morendo dalla vergogna, ed il senso di colpa minacciava di riaffiorare. Non ci voleva. Lo stomaco mi avrebbe fatta impazzire, prima o poi. “io…ieri notte…sono andata alla vostra casa, per vedere se qualcosa era rimasto ancora…”. Con la mano sana mi sistemai i capelli, senza guardare nessuno dei due, facendo una pausa. Non volevo vedere i loro sguardi addolorati, e curiosi. “ho trovato dei vestiti…sono bruciacchiati ma vanno bene, sapete? E poi…poi…ho trovato questi”. Dei. Ero terribilmente rossa sotto la maschera. Che mi stava succedendo? Basta: il tempo era mio nemico. Dovevo approfittare di quella parentesi per quel, speravo gradito, regalo. Una volta con Paòl, ogni speranza di dare i giocattoli sarebbe andata a vuoto. Dovevano sentire la casa vicina. Sperai di non essere troppo avventata, e pregai la mia buona stella. Senza altri intermezzi, poi, rivelai i giocattoli, ed alzai il viso nello stesso momento, per vedere le loro reazioni. Mi aspettavo, moltissimo, il dolore, la nostalgia, perfino le lacrime, o l’odio. Perfino il breve momento di sorpresa, quel silenzio ghiacciato che attraversò i loro volti, improvvisamente pallidi, mi rassicurò. Era normale. Non lo fu il seguito, per niente. Per quella volta, decisi che quei due piccoli non erano comuni creature mortali. O forse io troppo abituata alle reazioni adulte. Davvero, ero preparata a tutto. Ma non a quello, per l’ennesima volta. Senza nemmeno rendermene conto, mi trovai travolta da due infanti esagitati, pieni di gioia fino a scoppiare. Per qualche attimo, non capii niente, e mi sentii davvero disorientata. Ero immersa in un turbinio di abbracci gioiosi, ringraziamenti a profusione, lacrime quasi di sollievo. Ero spiazzata, totalmente spiazzata. Come potevano essere così felici, dopo aver visto un frammento della loro precedente esistenza? Come? Mi sentii quasi male. Non ero autorizzata ad assistere a queste manifestazioni così intim di sentimenti. Non lo ero. Finalmente, dopo non so quanto, i due piccoli si staccarono. Niente mi preparò a quegli sguardi pieni di gratitudine che mi rivolsero. Roxen aveva stretto a sé il cane grigio, con fare possessivo, mentre Chekaril si era asciugato le lacrime con il cavallino di pezza che aveva tra le mani, che era ora un po’ macchiato. Mia figlia mi guardò con un’occhiata che io interpretai come estrema gratitudine. “grazie, zia Lsyn, grazie!”. Disse, sorridendo senza posa. “mi mancava il mio cagnolino!”. Dovetti farmi forza per non tremare, e scoppiare in lacrime. Dolci, dolcissime parole infantili, che riparavano ogni crepa! Ero stata chiamata zia. Mi avevano ringraziato! Avevano ringraziato me, solo per aver donato loro di pezzi di passato, degli amici immaginari! Cosa c’era di più bello, quale gioiello valeva di più di quegli sguardi gioiosi, pieni di agitazione innocente? Mi sentii quasi morire, non so se per la gioia, o la tristezza infinita che provavo nei loro confronti, perché avevo rubato loro la felicità. Anche Chekaril si girò verso di me. “sai, zia…”. Disse, tirando su con il naso, e guardandomi con gratitudine. “io non riuscivo a dormire senza il cavallino…papà mi diceva sempre che mi avrebbe protetto, quando lui non c’era…magari così sta con me…”. Per poco non stramazzai a terra. Oh, dei. Oh, dei. Dannazione. Cominciavo a sentire le lacrime pizzicarmi gli angoli degli occhi.  Tutto quello era fin troppo doloroso per sopportarlo. Come, come avrei resistito per ben quindici giorni minimo, con quei piccoli innocenti? Come non morire di dolore? Sarei scoppiata in lacrime, lacrime amare, vedendo le loro facce graziose piene di amore ben presto. Il cuore mi sembrava di ghiaccio infranto, e faceva male. Fu solo una cosa a distogliermi dalla mia pena immensa, che mi svuotava il petto e rendeva difficile anche il solo respirare. “oè, voi lì!”. Disse una voce molto lontana, portata dal mare come in un sogno. Sobbalzai, e mi girai verso il mare. Conoscevo quella voce. Una voce che mi salvava dai miei pensieri neri. Esultai silenziosamente. Una nuova fase stava per avere inizio. La Serpe Nera scivolava elegantemente sull’acqua, diretta verso il molo. Il viaggio ricominciava. E stavolta, decisi improvvisamente, non mi sarei lasciata affascinare dal mero potere!

 

 

 

 

 

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Capitolo 57
*** Dall'altra parte del mare. ***


Il resto del viaggio non presentò particolari problemi, e si svolse con tranquillità

Il resto del viaggio non presentò particolari problemi, e si svolse con tranquillità. Il mare era calmo, ed i marinai curiosamente gentili verso i piccoli. Non me l’aspettai. Roxen e Chekaril, sotto il mio sguardo preoccupato, vennero issati a bordo con enorme facilità, e vennero coccolati per tutto il breve viaggio dall’intera ciurma, che sembrava trovare la loro presenza un piacevole diversivo dalla vita sempre monotona e incerta del mare. I piccoli, dopo l’iniziale reticenza, avevano cominciato ad operare il loro fascino anche su quei duri lupi, e cominciavano a divertirsi, stranamente. Furono circondati, in breve, da una vera e propria folla di sfaccendati, menestrelli e prestigiatori improvvisati. Storia diversa fu per me. Nessuno mi aiutò a salire, e dovetti farcela con le mie esigue forze. Nessuno fece caso a me. Né Chekaril né Roxen, in caso di attacco, avrebbero potuto contare su un mio seppur minimo aiuto. Ero appena salita sul ponte, infatti, quando il leggero beccheggiare della nave, a cui non ero per niente preparata, mi fece avvertire quasi immediatamente una vaga sensazione di malessere, che mi parve nettamente di cattivo auspicio. Non sbagliavo: dopo poco tempo dall’inizio della traversata,  mi ridussi ad un mucchio mugugnante ed informe di stracci, steso in mezzo ad alcuni sacchi di farina, dalla quale differivo, temo, solo per il colore, la testa appoggiata alla mia borsa. Stavo davvero malissimo. Dubito fortemente io riesca a superare una volta e per tutte il mio timore irrazionale verso l’acqua, e l’inguaribile mal di mare di cui soffro, ogni volta che mi trovo in qualcosa che abbia seppure la vaga somiglianza con una barca. In quella situazione a dir poco penosa, quasi mi dimenticai dei piccoli. Ero troppo occupata a decidere dove lo stomaco fosse finito, se a posto del cuore o in gola. Nelle prime parti tranquille del viaggio, per fortuna, tutti mi lasciarono stare, non so se per pietà o per disgusto. Non ero riuscita simpatica, durante il mio viaggio d’andata. Né suscita simpatia un’elfa mascherata e lievemente piagnucolosa, accasciata, inerte, con un braccio a coprirle il viso. Quella volta non mi portarono nella stiva. Non seppi se esserne contenta o meno. Cercavo in ogni modo di dominarmi, la mente completamente vuota, ed ascoltavo le risate ed il parlottio degli infanti. Almeno loro, mi dissi, erano sereni. Avrebbero dimenticato un po’ il dolore dell’essere orfani. Cosa che, peraltro, per Roxen non era vera. Ma si poteva dirle una cosa del genere, senza  sconvolgerle l’esistenza? Per niente. Ero condannata al silenzio, un silenzio che mi straziava il cuore. Per quel momento, la nausea terribile che provavo era una punizione più che sufficiente. Un’onda più forte fece rollare fieramente la nave. Gemetti, e strinsi gli occhi. Qualcuno dei due piccoli, forse Chekaril, ridacchiò, e disse qualcosa a voce alta, che non afferrai. Dannazione, come odiavo il mare! Gemetti di nuovo, e mi sistemai meglio sulla farina. “cerca di non rompermi niente, elfetta, eh…”. Brontolò una voce anziana e ben conosciuta, di fianco a me. Non mi arrischiai nemmeno a vedere chi fosse. Ormai conoscevo Paòl abbastanza per sapere i suoi tentati scherzi a memoria. “sto già abbastanza male senza che tu mi dica cosa fare, Paòl…”. Mormorai, ancora ad occhi chiusi. Ero troppo stanca per diventare l’elfa isterica che ero stata all’andata. Troppo stanca, troppo demoralizzata. Non avevo uno straccio di forza. Tutta la mia decisione era stata assorbita da una casa in fiamme. Avevo, inoltre, dormito solo poche ore, un riposo più che inadeguato dopo un viaggio spossante, un viaggio che mi aveva devastata, un viaggio a vuoto, e giorni di veglia atroce ed allucinata. Ci fu un momento di silenzio, un momento che benedissi. Poi, con voce roca, il capitano riprese a parlare. “ io conosco quei due bambini, Spia…”. Mi sussurrò, con voce incuriosita. Ero troppo distrutta per poter capire appieno le sue parole, decisamente troppo malmessa. L’unica cosa che mi limitai a fare fu spostare il braccio, quel tanto che mi permise di aprire un occhio e fissare il volto barbuto del vecchio. Volli osservarlo: la sua espressione mi avrebbe suggerito se preoccuparmi o no. Non c’era sospetto, non c’era preoccupazione. Notai solo un infinito interesse, quasi infantile. Decisi così di non essere in ansia prima del tempo, e richiusi l’occhio. Non volevo vedere la nave, le onde, il mare. Ne avevo troppa paura. Ed ero troppo stanca, troppo. Paòl riprese a parlare. “sono i figli del vecchio Krish, di Gerinti, vero? Dov’è quella vecchia volpe? Perché stai portando i suoi piccoli via?”. Sentii, improvviso, un moto di stizza acuta, e mi morsi il labbro inferiore per non ringhiare di rabbia. Perché diavolo non mi lasciava agonizzare in pace? Doveva pure infierire con quello stupidissimo nome? Senza aprire gli occhi, gli risposi, forse con voce più acuta ed aspra di quanto avessi voluto. “fatti gli affari tuoi, capitano”. Gli dissi, con una certa vena di scherno. Non mi sentivo davvero in vena di spiegazioni. Non in quel momento, in cui la testa mi pareva stesse fluttuando allegramente in una nebbia acida. “ciò che faccio io non è di tua competenza. Lasciami sbrigare la mia missione, e fai quello per il quale sei stato pagato!”. Bene. Davvero, davvero, ci voleva. Mi sentii lievemente sollevata, anche se il malessere non scomparve. Avevo dimenticato quanto soddisfacente fosse prendersela con gli scocciatori. Mi faceva davvero bene. Il capitano non ripose, forse piccato, chissà, e, dopo poco, un lieve rumore mi annunciò che se n’era andato. Nessun altro venne a darmi fastidio, con mio grande sollievo. Sospirai, e  cercai di rilassarmi. Non serviva a nulla torturarmi, ascoltando ciò che succedeva attorno, contando le ore, e saltando ad ogni piè sospinto. Inoltre, ero troppo stanca. In tre giorni avevo dormito in tutto tre o quattro ore, e ne stavo risentendo pesantemente. Dovevo riposare, o non sarei riuscita ad attraversare l’Impero. Finalmente libera di lasciarmi morire in pace, mi addormentai dunque dopo poco. Era l’unico modo per sfuggire al mal di mare, alla nausea che mi rendeva molto simile ad un mollusco bestemmiatore. Riuscii, fortunatamente, a dormire per tutto il viaggio, risparmiandomi la vista del mare aperto, paesaggio a cui sentivo di non essere ancora pronta. Mi risvegliai solo la mattina dopo, quando ormai eravamo quasi arrivati a Scmen, ed i marinai gridavano ordini, sacramentando. Sentivo due pesi caldi ai miei lati, pesi che non erano sacchi di farina. La mia prima reazione fu quella di aprire gli occhi di scatto, completamente convinta che qualche marinaio mi stesse giocando un brutto scherzo. Invece no: Roxen e Chekaril si erano addormentati accanto a me, rannicchiati contro di me, abbracciati ai loro giocattoli. La loro espressione era così placida, innocente e distesa che m’intenerì moltissimo. Dimenticai all’istante ogni allarme. Erano dei veri cuccioli. Erano voluti rimanere con me. Sentii un moto d’affetto verso di loro. Qualcuno, inoltre, ci aveva coperti con una sottile coperta di lino, che si era avvolta tutta intorno alla figura sottile di mia figlia. I marinai erano stati molto gentili nei loro confronti.  Nonostante tutto, forse, gli uomini che erano al soldo di Paòl non erano avanzi di galera, come avevo creduto. Dovevano odiare solo le Spie, che, in fondo, erano elfi e li dominavano a bacchetta. Almeno, avevano provato pietà nei confronti dei piccoli. Ed eravamo tutti e tre sani e salvi, dall’altra parte del mare, nel continente. Non era una piccola cosa, anzi. Rassicurata, continuai ad osservare i piccoli, con un minuscolo sorriso. Erano troppo dolci, offrivano uno spettacolo troppo delicato per farli svegliare. Sapevo che non avrebbero accettato bene questa cosa, abituati com’erano a poltrire fino a tardi. Ma si sarebbero dovuti abituare. C’era un viaggio urgente da fare, un intero Impero in guerra da attraversare. Io non ero esattamente grande e grossa, e non potevo portare nemmeno uno di loro in braccio. Forse sarebbe stato più plausibile il contrario. Roxen era addirittura più alta di me! Scuotendo il capo, cercando di vincere ancora la presente nausea, mi misi in ginocchio, guardando in basso per non finire a fissare il mare, e cominciai a scuoterli. Mi facevano pena, ma dovevo farlo. Entrambi uscirono dal sonno di malavoglia. “zia…”. Mugugnò Chekaril, strofinandosi gli occhi pesti, seduto dopo un po’, assurdamente, su un sacco. “siamo arrivati a casa?”. Scossi il capo, dolcemente, ed abbracciai entrambi. Non riuscii a resistere a quell’impulso: quei due infanti mi riducevano il cuore in poltiglia informe. Li amavo troppo. Erano l’unica fonte di luce nel baratro oscuro in cui ero caduta. Ancora stretta all’assonnata Roxen, beandomi del suo contatto per me rassicurante, presi a parlare. “no, piccoli, la mia casa è molto, molto lontana, su, nel nord”. Dissi, sospirando con rassegnazione. Portarli a casa mia? Come avrei spiegato loro che non potevo tenerli con me? Avrei dovuto inventarmi qualcosa, ed al più presto. Non potevo dir loro che forse sarebbero andati si da una zia, ma non me. Una zia crudele, che li avrebbe trattati come servi, come burattini. Una zia calcolatrice, che vedeva in loro meri strumenti del Regno. Roxen, la maggiore, sarebbe stata allenata per ricevere il trono, una volta adulta, Chekaril avrebbe, prima o poi, preso il posto del padre. Rabbrividii al pensiero di vederlo a capo del suo esercito, lo sguardo freddo ed inquisitore, astuto come quello di un gatto, senza sentimenti come quello di una serpe. Già vedevo Roxen, assisa sullo splendido trono d’argento del castello di Galinne, comandare a suo fratello uno sterminio d’innocenti, con un sorriso bieco. Entrambi resi folli e crudeli da quella maledetta che mi aveva rovinato il corpo, la vita, e mi aveva rapito l’anima, torturandola e piegandola, annullandomi. Un senso di gelo mi pervase il corpo. Volevo davvero quello? Volevo davvero obbedire alla mia signora? Cosa sarebbe successo, se non l’avessi fatto? Sarei morta? Si sarebbe svolta una caccia per trovare i piccoli? Cosa dovevo fare, allora? Non sapevo. Non volevo mettere a repentaglio la loro felice esistenza. Loro si meritavano una vita serena. Senza lavaggi del cervello. Presa da una brama incontrollata, brama di affetto, abbracciai di nuovo entrambi, con forza. Li amavo troppo. “viaggeremo per il continente!”. Dissi poi dolcemente, cercando di essere allegra, guardando i loro volti troppo assonnati per recepire la verità. “ora stiamo per sbarcare. Vedrete, piccoli, che tutto andrà bene. Su, forza! Sveglia!”.

Non ci volle molto per approdare a terra. Forse spinti da un impeto di umana bontà, o forse per fare bella figura davanti agli sguardi innocenti dei piccoli, finalmente svegli, i marinai non allestirono la sceneggiata che aveva contraddistinto il mio rovinoso arrivo a Gerinti, il mio arrivo piuttosto doloroso. A posto della passerella che mi aveva fatta cadere all’andata, c’era ora una decente lastra di legno, al posto giusto, che non ondeggiava, e ci permise una discesa agevole. Salutammo con gratitudine i contrabbandieri. In fondo, mi avevano aiutata. Erano stati uno dei mezzi per arrivare alla mia maledizione eterna. Aiutata si, ma a farmi capire cosa fossi davvero, o a devastarmi? Che avevano fatto? L’incertezza della situazione, tuttavia, non m’impedì di rivolgere un cenno brusco al capitano Paòl, che ci aveva accompagnati, scuro in viso, fino alla fine del molo, mentre i piccoli lo salutavano a gran voce. Lui non mi degnò di uno sguardo, e si limitò a fare il buffone con Roxen e Chekaril, salutandoli con cordialità, e poi andando a grandi passi verso una locanda a ridosso della banchisa. A me ed ai piccoli non rimase che fare il primo passo nel continente, un passo verso una meta incerta. Cominciammo così il viaggio, un interminabile cammino di ben venti giorni, in cui, praticamente, successe poco e nulla. Gli infanti rimasero storditi da Scmen, e dalle sue variopinte case. A Gerinti non esistevano cose di quel genere, e loro guardavano  le bancarelle dei venditori ambulanti, sentivano il vocio della gente che ci passava accanto, con l’ebbrezza che si prova nella prima esperienza di qualsiasi cosa. Era il modo giusto per far iniziare loro una vita diversa, un luogo dove la guerra non aveva mietuto il suo fio regolare di miseria. Risero molto guardando le strade, e, per me, quel suono allegro fu l’unguento più bello per le ferite del mio cuore, che ancora pulsavano crudelmente. Un unguento, purtroppo, non risolutivo. Non ero guarita da quel dolore acuto che mi aveva posseduta da quando avevo ucciso Chekaril, e quei momenti mi ossessionavano ancora, accantonati, ma non dimenticati. Non sarebbero guarite mai. Entusiasmo a parte, non li persi di vista, tenendoli per mano, con una stretta quasi per loro dolorosa. Scmen non è mai stata la città adatta per due infanti abituati alla vita placidamente bovina di Gerinti. I ladri ed i criminali avevano sempre abbondato, in quel maledetto e sordido buco, peggio di Zakadi, ma in quel momento di guerra sembravano più aggressivi del solito. Scmen era forse l’unica città a prosperare di tutto l’Impero, prosperare nei suoi commerci illegali. Lì la guerra era intesa come solo una breve parentesi, lì, per il popolo mai dormiente della città criminale. Una parentesi nella quale le carogne avrebbero abbondato, le carogne dove affondare i loro artigli avidi da avvoltoi. Ogni occasione era buona per guadagnare qualcosa per aumentare il lusso. Ed un momento di disattenzione mi sarebbe bastato per farne approfittare un rapitore, che avrebbe preso uno dei piccoli, per poi venderlo al mercato nero di schiavi, o peggio. Non volevo rompere in quel modo barbaro quella loro gioia. Se solo qualcuno si fosse avvicinato con cattive intenzioni, promisi a me stessa di farlo a pezzi. Ero nella disposizione d’animo adatta per farlo. Rimasi tesa come una corda per tutto l’attraversamento della città, guardandomi continuamente indietro per accertarmi di non essere seguita. Finalmente, uscimmo, incolumi, ed io mi rilassai. Nessuno ci aveva seguiti, nessuno si era importato di un’elfa e due piccoli. Il primo scoglio era stato superato. Rimanevano molti nodi da sciogliere ancora, a potevano attendere. All’ombra di un masso, feci così fermare per un po’ Roxen e Chekaril, ben poco abituati alla marcia massacrante che avevo svolto per un tempo superiore alla loro stessa vita, per farli riposare, e mangiammo.

Seguendo a ritroso il mio cammino dell’andata, cominciammo ad avvicinarci lentamente al Regno. Come detto, ci mettemmo ben venti giorni, prendendocela con la massima calma. Mi dovevo aspettare, tuttavia, quello che successe, davvero. Dovevo rendermi conto di essere ormai finita. Dopo la prima settimana, infatti, in cui mi mostrai il più entusiasta possibile, la vecchia tetraggine era ritornata alla carica, con forza raddoppiata. Non ebbi la forza per lottare contro di essa ancora una volta troppo debole, troppo debole anche per oppormi lievemente. Un velo di cupa rassegnazione scese su ogni mio gesto, opprimendomi con il suo peso fumoso. Presi a parlare solo quando stretto necessario, ed essere terribilmente affettuosa. Solo i piccoli riuscivano a rallegrarmi un po’, ma la flebile luce che loro emettevano cominciava ad affievolirsi girono dopo giorno. Affogavo in un mare di disperazione, e nessuna mano c’era ad afferrare la mia, per tirarmi su, e permettermi di respirare. Tutto mi sembrava tremendamente grigio e noioso, tutto aveva smesso di avere colore. Pian piano, smisi d’interessarmi anche a loro, e presi a passare sempre più tempo in un silenzio tombale. Mi ero ormai abituata alla loro compagnia, ai loro passi felpati durante il cammino, alla loro ombra assieme alla mia, e presi a dare per scontato la loro presenza, che finì per risultarmi quasi fastidiosa. I piccoli quasi non sembravano accorgersi del mio stato d’animo, fortunatamente, e continuavano a rimanere dietro di me fedelmente. Erano davvero troppo piccoli per capire che qualcosa cominciava davvero a non andare. Ma io capii. Non ce la facevo più. Avevo perso ogni gioia di vivere. Non riuscivo più a ricordare cosa fosse un sorriso. I gironi parevano tutti uguali. Cominciai a mangiare sempre meno. Chekaril prese ad infestare i miei sogni, ogni giorno con più aggressività, minando la mia resistenza. Spesso passavo notti intere sveglia, tremando, nonostante facesse molto caldo, mentre il piccolo mi teneva la mano nel sonno, per rassicurare lui. Io ero lì, presenza silente nelle loro vite, ma…chi avrebbe rassicurato me? Chi mi teneva la mano? Nessuno. Ero sola, sola contro le mie paura, sola la notte, quando le mie colpe affioravano dal terreno, puntando le loro dita adunche verso di me, sola contro il mio dolore. Non avevo la forza necessaria per lottare ancora. Cosa avrei fatto, dopo? Comunque agissi, tutto era irrimediabilmente perduto. Qualunque cosa facessi, dovunque io andassi, sarei rimasta lo stesso sola, separata dal mondo normale da un vetro impossibile da rompere, un vetro fatto della mia stessa bruttezza. Perché, si, la mia maschera pesava, pesava molto, ed ogni giorno che passava mi soffocava sempre di più. Desiderai liberarmene, liberarmene una volta e per tutte. Sparire dalla faccia della terra, in un viaggio senza fine, non sarebbe bastato. Con me sarebbero stati, a farmi compagnia, i fantasmi di un passato glorioso, ed incauto. Fantasmi di tempi in cui ero ancora amata, fantasmi dei tempi in cui ero una belva assetata di sangue. Sarei stata perseguitata per sempre da me stessa, anche nel luogo più lontano ed impervio. Capivo più che mai Eiron, ora, e la sua fierezza. Mi sentivo sola nel mondo, un mondo senza speranza, un mondo intriso di sangue, dove ognuno trovava un’ancora, ancora che io avevo stupidamente perduto. Più andavo avanti, più, inoltre, le ferite recenti della guerra si facevano evidenti, intristendomi. I bambini non lo notavano mai, ma io m’incupivo sempre, quando vedevo fumo nero alzarsi all’orizzonte. Ecco quello che era scaturito dalla mia sudicia fedeltà. Fumo, cenere, morte. La fedeltà…cos’era? Per chi avevo lottato? Su cosa s’innalzava il sistema dei miei valori? In cosa avevo creduto? Tutte le cose in cui avevo fermamente creduto, tutti i sentimenti alla quale avevo consacrato una dannata vita si erano sgretolati sotto i miei piedi, lasciandomi cadere in un vuoto senza fine. Non so far capire, né so analizzare, quello che mi successe in quel periodo. È difficile descrivere certi sentimenti per chi non li ha mai provati, sentimenti di vuoto assoluto, in cui si sa di essere andati oltre la soglia dove le lacrime non hanno più significato. Perché io ero vuota, mi sentivo vuota. Vuota. Non ero più Ombra, non ero Lsyn, né Nanetta…non ero, semplicemente. Non ce la facevo nemmeno ad odiare il fatto di sentirmi stanca, moralmente stanca. Avevo sempre lottato, mi ero sempre ribellata. Ma, ormai, qualcosa in me si era spezzato per sempre. Mi sentivo terribilmente…contingente, praticamente inutile, come una bambola rotta. In quel mondo grigio non volevo restare. In quel mondo di tormento l’unica via d’uscita era una sola, e la conoscevo. Presi a rimpiangere amaramente di non essermi buttata nel fuoco, quel giorno, ormai lontano, in cui avevo voluto nascondere le prove del mio delitto. Perlomeno, le mie sfortune avrebbero avuto fine, in quel momento. Se solo non si fosse messo in mezzo l’istinto, a quell’ora non avrei più penato. Invece, no. Per colpa di me stessa, per colpa della mia orrenda fisicità, il mio tormento continuava, facendomi trascinare a fatica in un mondo che non sapeva della mia esistenza, né che mi voleva. Ero spinta solo ed unicamente dalla presa di coscienza della missione. Non potevo lasciare le cose a mezzo. Rimaneva solo un’ultima cosa da fare. Non potevo lasciare incompiuta la mia ultima missione. No. Ma come, come compirla? Era quello il mio altro, grande tormento. Ci pensavo, ogni notte, ogni giorno, mentre trascinavo con me i piccoli stanchi, che si stringevano a me in cerca di un conforto che non potevo dare. Portarli da Lainay, nemmeno a parlarne. Avevo finalmente deciso. La mia Regina non si meritava un’offerta così da parte mia, un’ennesima offerta votiva. La mia esistenza bastava. Non mi sarei inchinata una volta di più a colei che mi aveva reso così priva di vita, che mi aveva prosciugata di ogni voglia di vivere, di ogni tipo di spinta ad andare avanti. Trecento anni buttati al vento, duecento anni di sudore e fatiche per quello, duecento anni di servile sottomissione, per finire calpestati nel fango, per finire come un verme. Per me, un guscio deambulante. Ero stata così stupida da non vederne le prime avvisaglie? Perché avevo continuato? Avrei desiderato, ardentemente, anche provare dolore, provare pena. Qualunque cosa, pur di svegliarmi. Ma ormai non esisteva persona al mondo capace di ricondurmi alla ragione. Ero arrivata oltre ogni sentimento, in una terra di nessuno dove nessuno vive, a parte le anime destinate a morire. Ed io tale ero, tale mi sentivo. O forse ero morta, ma non lo sapevo. Il viaggio continuò, una tortura ad ogni passo. Fu quasi al confine con il Regno, una serata tranquilla come le altre, che mi venne un’idea. Idea disperata, l’ultima idea, ma pur sempre un’idea. Conoscevo l’unica persona capace di amare i due come figli suoi, una persona abbastanza potente da poterli proteggere da Lainay, l’ultima persona che Roxen e Chekaril avrebbero dovuto vedere in vita loro. Qualcuno che non mi avrebbe potuto negare nulla. Una persona amica. C’era qualcuno capace di tirarmi fuori dagli impicci, qualcuno capace di amare, svicolato totalmente da ogni catena. Per la prima volta dopo lungo tempo, sentii un flebile palpito di speranza. C’era un modo per impedire l’inevitabile. I piccoli avrebbero amato Junielle alla follia. Ne ero certa. Il giorno dopo, mi dissi, saremmo dovuti andare verso Zakadi. Pregai ogni dio possibile ed immaginabile di mandarmela buona, e che la mia amica mezzelfa fosse ancora viva. O, che almeno, la città fosse ancora in piedi. Era tempo di guerra, non dovevo dimenticarlo. E di sangue ne sarebbe scorso a fiotti.

 

 

 

 

 

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Capitolo 58
*** Un modo per redimersi. ***


Arrivammo a Zakadi in una tarda sera d’inizio estate, stanchi morti

Arrivammo a Zakadi in una tarda sera d’inizio estate, stanchi morti. Era ormai il nostro ventiduesimo giorno di viaggio, ed eravamo sporchi e laceri. L’ultima parte di viaggio era stata davvero difficoltosa. Il territorio, che, quando io ero partita, era ancora parte dell’Impero, era pericoloso, e nemmeno uno dei più facili da attraversare: era tutto un saliscendi di colline pietrose. Cominciavo a notare i primi segni di affaticamento anche in Roxen e Chekaril. avevano cominciato a parlare molto di meno, ed a farsi trascinare da me, non meglio messa di loro, la sera, fino a quando io, impietosita, non li facevo salire su qualche albero, e riposare. Io avevo perso del tutto sonno ed appetito. Rimanevo sempre ai piedi dell’albero, tesa, di guardia, fino a quando un sonno leggero non mi coglieva, un sonno ben poco riposante. Erano stati giorni tremendi. Il confine portava, più che evidenti, i segni di una guerra fin troppo violenta. Solo la fortuna ci aveva impediti di finire dritti in un accampamento di soldati, molte volte. Avevo intravisto, chiaramente, e più di una volta, sventolare fieramente il giglio bianco, il vessillo della casa reale, ed il drago d’oro degli Immortali. Solo due volte ci eravamo imbattuti nel leone dell’Impero, ed avevo preferito cambiare strada. Di notte, si vedevano i bivacchi lungo tutte le colline, rosseggiare minacciosi, e l’eco di canti ebbri, un monito perenne ai pericoli che stavamo correndo. Non so quale fu la buona stella che impedì ai piccoli d’incappare in qualche campo di battaglia, e di farci finire nelle mani dell’Impero, o peggio, in quelle del Regno, di non far loro vedere morti o sangue. Eravamo circondati. Vedevo, negli sguardi di Roxen e Chekaril, l’orrore. Non riuscivano a capire, rimanevano spiazzati di fronte a quegli spettacoli che, nella loro terra, erano lontani, venivano usati come spauracchio per i bambini. Non sembravano più interessati di me alla superba vegetazione montana, uno spettacolo per loro inusuale come lo era per me il mare, e sembravano quasi essere stati contagiati dal mio allarme. Erano tesi quanto me, come specchio dei miei sentimenti meno nascosti. Una notte, quando eravamo ormai vicini a Zakadi, ed il controllo sembrava essersi allentato, Roxen non si addormentò. Seria, aspettò che il fratello cedesse al sonno, sull’albero dove li avevo piazzati, e dopo, scese silenziosamente vicino a me, che ero seduta a terra, le spalle appoggiate al tronco. “zia?”. Esordì, stringendosi a me, guardandomi con i suoi grandi occhi viola, i bellissimi occhi del padre, dall’espressione spaurita e sperduta, stringendo il cane di pezza, come se fosse un’ancora. Io, persa nei miei pensieri, mi limitai a guardarla, e la strinsi a me. Avevo bisogno di loro più di quanto immaginassero. Ero già stata trasformata in una mera bambola, senza sentimenti e senza emozioni, prosciugata da ogni cosa che non fosse il dolore. Stavo malissimo, ma non lo davo a vedere. “i grandi a Gerinti parlavano di una guerra…”. Proseguì mia figlia, affondando la sua testolina ricciuta nella mia spalla, in cerca di conforto. “noi stiamo andando dove c’è la guerra?”.  M’irrigidii. Cosa avevo fatto? Perché avevo strappato quelle anime innocenti dalla loro pace isolata, per portarli in un luogo dove, decisamente, la situazione non era rosea? Oh, dei. Come potevo dirle che eravamo nel bel mezzo di un territorio critico, e che non sapevo se Zakadi esisteva ancora? Poteva essere stata travolta dall’esercito di Galinne, poteva essere successo di tutto. Junielle poteva benissimo essere morta, per quanto ne sapevo. Quel pensiero mi fece sprofondare l’umore, già praticamente basso, sottoterra. Cercai di farmi forza, di non far vedere alla piccola il mio malessere, e di rassicurarla. Perché lei aveva gran bisogno di me. Lei doveva essere felice. Io ero ormai giunta troppo in basso per essere rassicurata. “dove vi porterò non c’è la guerra, non ti preoccupare, piccina mia… andrà tutto a posto”. Sentii un orrendo colpo al cuore nel dire quelle parole. Ero stata una bastarda. Per quella notte, Roxen rimase con me, troppo spaventata dal bosco per rimanere con suo fratello, per risalire sull’albero. Decise di farmi compagnia, e si accoccolò contro di me, il pupazzo stretto tra le braccia, per addormentarsi. Io provai a canticchiare qualcosa, una melodia che la rassicurasse, e le conciliasse il sonno ma smisi molto presto. Le note rotte che uscivano dalla mia bocca avevano qualcosa di beffardo, di odioso, violentavano l’aria notturna impunite, come cristalli  in frantumi. Mi limitai a stringere la figuretta di mia figlia, trasmettendole il mio calore, fino a quando non si fu addormentata, e oltre. Io, a differenza sua, quella notte non chiusi occhio. Poveri, poveri cuccioli. Il mio dolore, quel tedio assoluto che provavo, quella rabbia contro me stessa, giunsero all’acme. Rischiai d’impazzire di nuovo, persa in un modo di fantasmi. E fu in quel giorno che maturò la mia terribile decisione. Perché per me non c’era nulla da fare, in quel mondo tremendo, in quel mondo spietato, che io stessa avevo contribuito a costruire. Avevo rapito l’infanzia spensierata di due piccoli, portandoli verso un futuro incerto. Avevo agito spinta solo ed esclusivamente dalla pura e tremenda avventatezza. Mi ero ridotta ad uno straccio. Perché l’avevo fatto? Cosa avevo fatto? Per chi? Per me? O per la bestia assetata di sangue e morte che viveva in me? Tutti i momenti che mi avevano portata ad essere così disillusa, ogni azione che mi aveva lasciato una ferita, erano vividi nella mia mente. Rividi il lampo di luce dal quale era cominciato tutto. Rivissi in quella notte, agitandomi, tormentando un lembo del mantello fino a quando non si consumò del tutto, il mio tremendo mese di convalescenza, in cui avevo spinto mio fratello sull’orlo di una crisi di nervi, in un baratro di sconforto da cui mi ero stupita fosse riuscito ad uscire. Viaggiai tante e tante volte, ripetute e ripetute, per il Regno, battendo milioni di volte le stesse strade, diventando una bestia solitaria ed ossessionata, piena di rabbia ed odio. Chiamai Junielle sangue impuro mille e mille volte, fino a farmi quasi urlare dalla disperazione. Rividi Anì, la dolce Anì, Isnark, e le sue orrende ferite, i Celestiali innocenti che avevo ucciso a sangue freddo. Il momento in cui avevo dato il colpo di grazia ad Eiron.  Tutti i miei inganni, tutte le mie illusioni e crudeltà, mi sfilarono incessanti davanti agli occhi. E Chekaril ed Aevo erano lì, fissi nella mia mente, a capeggiare quell’atroce processione di misfatti. Il volto contorto dell’elfa era abbastanza per far rabbrividire anche le pietre. L’attimo in cui la mia lama era affondata nel collo morbido del mio amato era ancora vivido nella mia mente, potevo ancora sentirne il sordo rumore. Sarei impazzita, prima o poi. Ero davvero arrivata a quel punto? Avevo ucciso colui che amavo ed avevo sempre amato per…per cosa? Perché avevo davvero compiuto quel tremendo atto? Obbedienza? Obbedienza a cosa, se ero stata io a darmi l’ordine che mi aveva portato a quel punto di disperazione estrema? O solo pura e meschina vendetta? Meritavo più che mai l’appellativo di Mostro. Lui, è vero, mi aveva tradita, umiliata, trattata come uno straccio vecchio, ma non aveva meritato quella fine, anche solo perché stava allevando mia figlia lontano dalle Spie. Non aveva meritato di veder sfumare la propria felicità. Ed io, che tanto l’avevo cercata, che diritto avevo di toglierla, come una dea crudele? Che diritto avevo avuto, io di strappare vite come se niente fosse, beandomi nel sangue, esigendolo come per un sacrificio? Ero io, nel torto più atroce. Ancora oggi, ancora tuttora, questo pensiero mi dissuade dall’uccidere, è questo pensiero, soprattutto, che mi ha tolto ogni vena bellicosa, che ha estirpato quello che rimaneva della migliore Spia della Regina. Mi sembrava di scivolare in una spirale; di stare affogando e di essere in cerca di una vana mano amica. Era un forte senso d’oppressione al petto, una morsa che m’impediva di tirare anche un solo e semplice respiro. Mi dibattevo. Non erano sensi di colpa. Era puro e semplice orrore. Presi consapevolezza, in un lampo di un fatto, e tirai violentemente il fiato, stringendo più forte Roxen, tanto che mugugnò nel sonno. Ero stata io la causa di tutto! Ero stata io a rubare l’infanzia felice di due innocenti, io avevo ucciso tutte quelle persone, io avevo fatto soffrire tutte le persone che mi amavano, facendole irrimediabilmente allontanare da me! Io, io, io e solo io! Io ero un mostro! Un mostro! Perché, si, io, Lsyn, che tanto si compativa, che tanto provava dolore, la pura e la buona, l’obbediente e la fedele, avevo provato piacere nell’infliggere dolore. Si, perché non era stato che quello. La mia vita era stata solo un mezzo per infliggere dolore. Avevo ferito mio fratello, il mio dolce Tijorn. Infliggere dolore all’unico essere che io abbia mai amato. Infliggere dolore ad una dolce elfa innocente, che aveva come unica colpa l’aver amato la persona sbagliata. Infliggere dolore a quei poveri infanti, carne da macello per la Regina, se solo non fossi intervenuta. Infliggere dolore a mia figlia. Perché l’avevo fatto? Leggevo la mia colpa riflessa negli occhi di chi l’aveva subita, e me ne dolevo. Ero una creatura ignobile. Non riuscivo più a sopportare quella coltre informe che mi attanagliava il petto. Stavo lentamente agonizzando. Perché, perché non mi ero buttata in un crepaccio, quando era ancora possibile? Perché non mi ero lanciata nel fuoco? Perché non mi ero annegata? Perché? Di viaggiare, nemmeno a parlarne. Soffrivo troppo per andare via. Volevo vedere Tijorn, farmi coccolare da lui, ma non potevo. Volevo scherzare con Junielle, giocare stupidamente con lei, ma non potevo. Volevo dire chiaramente a Roxen che lei era mia figlia. Volevo addirittura litigare con Akita, farmi prendere crudelmente in giro da lei e dalla sua lingua biforcuta. Ma non potevo. Non potevo! Perché non avrei fatto altro che contaminarli con la mia essenza disgustosa. Tutti erano fin troppo innocenti per essere macchiati con la disgustosa essenza che ero. Potevo sparire in un altro modo, sparire dalla faccia di quel mondo. Mi folgorò, improvvisa, un’idea, un’idea terribile, enormemente terribile, e sogghignai, un sogghigno vuoto, vacuo, quasi feroce. Non tutto era perduto. Potevo redimermi, potevo lavare via tutti i miei peccati, e dimenticare tutto, ed essere dimenticata. Sarei stata egoista, forse, ma non importava. Tutte le persone che amavo sarebbero state al sicuro con qualcuno. E la bestia che era nata in me, un giorno lontano di primavera, poteva essere annientata. In un solo modo. Non mi ero lanciata nel fuoco, è vero. Ma non ero immortale.

Progettai tutto con estrema calma, nel silenzio dell’ultima parte del viaggio. Niente doveva andare storto. Aveva preso a piovere a dirotto, e presto c’inzuppammo tutti e tre fino al midollo. Roxen e Chekaril indossavano abiti troppo leggeri per quell’improvviso cambio di tempo, così frequente alle mie latitudini, e così li avevo protetti dalla pioggia e dal freddo notturno avvolgendoli nei lembi del mio largo mantello, tenendoli stretti. Mi faceva piacere averli più vicini, sentire il loro calore, per l’ultima volta. Mi confortava proteggere una particella dell’elfo che avevo assassinato. Perché l’avevo ucciso per troppo amore. E lo desideravo ancora, anelavo sentire per l’ultima volta il suo abbraccio rassicurante, i suoi baci sul mio viso. Anche quel bacio a tradimento che mi aveva donato, quel bacio così violento, sarebbe stato nella mia memoria come un ultimo attimo di quiete. Ma l’ultima immagine che avevo di lui sarebbe stata sempre un volto irrigidito dalla morte, ancora vagamente sorpreso, immerso nel proprio sangue. Niente baci, né abbracci, né carezze. Ma lui non aveva mai amato me, realmente. Dovevo ficcarlo bene in testa, no? Ma allora perché sentivo l’orribile smania di piangere? Perché ero solo confortata dall’idea della mia spada, che ben presto si sarebbe purificata da tutto quel terribile sangue innocente che l’aveva impregnata? Mi riscossi improvvisamente dai miei pensieri, e mi girai verso i piccoli, che mi guardarono, con aria infreddolita. Dovevo portarli al riparo, e subito. Ma prima dovevo fare un’ultima cosa. Zakadi era vicina, e, da lì, sapevo dove andare. “statemi incollati”. Dissi, severa, guardando quello che mi rimaneva di Chekaril, piangendo nel mio intimo. “questi posti sono pericolosi. Non vi mostrerò due volte quello che starete per vedere, quindi tenetelo bene a mente!”. Loro due annuirono, e mi strinsero. Percorremmo così l’ultimo tratto che ci separava dalla città. Fui immensamente sollevata di vedere ancora tutto in piedi. Zakadi, chissà perché, aveva continuato a mantenere la sua indipendenza, e la sua fama di città libera. Era più squallida che mai. I profughi, ormai divenuti troppo numerosi per le locande, infestavano le strade, che erano chiassose, puzzolenti, fangose, infestate da malvagie presenze che ridevano e gemevano. Uno spettacolo di miseria che mi disgustò. Chekaril mi guardò, con aria davvero terrorizzata, e si strinse a me. Roxen prese a guardare fissamente una famiglia di quelli che dovevano essere stati contadini che chiedeva l’elemosina. C’erano due piccoli sul ciglio della strada, magri e sparuti, che ricambiarono il suo sguardo curioso ed innocente con odio, prima di girarsi. Sentii i due piccoli appiccicarsi a me con tutte le loro forze. Perché non avrebbero dovuto farlo? In fondo…io ero stata la loro salvatrice, io ero venuta per portarli ad un futuro di gioia luminosa. Sentii qualcosa rompersi nel petto, come se il cuore si fosse trasformato in mille pezzetti di vetro affilato, pronte a lacerarmi. Avevo combinato una cosa tremenda. Quasi per fuggire da me stessa, aumentai il passo, fino a portarmi davanti al bordello di Junielle, stranamente malmesso, ma sempre vivo. Era una grande fortuna. Ora mi dovevo preparare alla mia ultima sceneggiata, la sceneggiata che mi avrebbe liberata da ogni male. Mi girai di nuovo verso i due piccoli, e mi chinai vicino alle loro piccole orecchie appuntite. “ora, bambini…”. Dissi, a voce bassa. “andremo in una locanda, per farvi mangiare. Domani non ci sarò, quindi tutto è nelle vostre mani, mi raccomando. Io devo partire, partire per chiedere…”. Esitai un momento, vedendo il volto di Roxen farsi sempre più amareggiato. “…a mio cugino di raggiungermi. È una persona bravissima e molto colta, e mi aiuterà ad allevarvi. Ma devo parlargli di persona. Quindi, domani mattina, venite qui e chiedete di Junielle. Di giorno non correrete pericoli, qui, e lei vi proteggerà. È una grande amica, e non rifiuterà di tenervi per un po’. Vi darò una lettera in cui spiego tutto. D’accordo?”. Chekaril e Roxen mi guardarono con meraviglia. “zia Lsyn!”. Esclamò il piccolo, aggrappandosi a me, quasi disperato, sporgendo il labbro inferiore. Sembrava stesse per piangere. L’avrei fatto volentieri anche io. “ma noi ti vogliamo bene così come sei! Poi torni, però, vero?”. Non riuscii a non farmi sfuggire un paio di lacrime, che furono nascoste dalla maschera, e carezzai il suo volto con dolcezza. “ovviamente, piccino…”. Mormorai, rassicurante, stringendoli e riprendendo a camminare. “ovviamente. Sarò qui prima che vi accorgiate della mia assenza!”. Sia Roxen che Chekaril sembrarono rassicurati. Ma non mi sfuggì l’occhiata misteriosa che si scambiarono ad un certo punto. Cercai di non farci caso, e li condussi in un posto che conoscevo bene. Arrivammo così, in una piccola locanda in una zona vicina al quartiere dove c’era Junielle, una zona più tranquilla. Era un posto in cui venivo spesso, tempo prima. Ci tornavo ancora, di tanto in tanto, e ci ero tornata ancora. Amavo quel posto piccolo, spesso semideserto, in cui potevo mangiare ogni cosa a prezzo moderato. Il mio porto preferito dopo le missioni. L’oste, Greg, un elfo rubizzo, dagli occhi azzurri, dalla spiccata somiglianza con un gatto arancione, mi conosceva bene: bastarono poche parole per organizzare il tutto. Era un bel posto, sebbene frequentato da gente di ogni tipo. Una locanda tutta in legno, fumosa e profumata di cibo, calda ed accogliente. Feci mangiare i piccoli, su un tavolo appartato, che divorarono tutto con avidità tipica della loro età. Io non mangiai nulla. Non potevo: avevo lo stomaco chiuso. L’evidenza di ciò che potevo fare era ormai assodata. Ci avessi pensato prima, avrei evitato tante disgrazie, e tante famiglie distrutte. Dallo stesso Greg, ad un certo punto, mi feci portare un foglio, ed un calamaio con piuma. La afferrai con la mano sana, e la strinsi forte. Stavo per compire un passo dalla quale non sarei più tornata indietro. Sospirai, ed intinsi la piuma nell’inchiostro nero. Poi, calai la mano con forza sulla carte. Ricordo ancora a memoria ciò che scrissi.

 

Junielle;

quando tu riceverai questa lettera, dalle mani di due innocenti che nulla sanno, io non ci sarò già più.

Sarò fuggita, fuggita con un fardello che mi strazia il cuore.

Junielle, ho trovato Chekaril, sai? Non pensavo che in questi mesi tutto cambiasse così radicalmente… ma è stato così.

L’ho ucciso, Junielle, con le mie stesse mani. È morto.

Non posso dirti né come, né dove, e nemmeno il perché, ma sappi che convivo con quest’orrore da molto tempo.

Quelli che vedi, sicuramente davanti a te, sono i suoi figli. Lainay  voleva che io li portassi a Galinne, da lei. Ma io non voglio. Non voglio donare quei cuccioli a quella pazza sadica, assetata di sangue.

Ti chiedo, allora, un enorme favore, amica mia. L’ultimo.

Tu hai le mani sporche quanto le mie, Junielle, non puoi rifiutarmi niente. Non questo. Ti supplico.

Sei stata mia amica, e sei potente. Sei l’unica capace di fare quello che sto per chiederti.

Portali con te, Junielle, nascondili. Fai in modo che il Regno non li trovi. Fuggi ad Uruk, se puoi, e rifatti una vita con loro.

So quanto tu ed il tuo compagno desiderate avere un figlio, un figlio che vi è negato per la tua stessa razza.

Ve ne offro due, amica mia, due.

Falli vivere felici, e sereni. Vivi serena anche tu.

Io non posso. Sono troppo contaminata per le loro anime pure.

Io scomparirò, scomparirò dalle vostre vite, e non mi vedrete più. Non cercatemi.

Junielle, ti chiedo solo questo, come ultimo favore.

Distruggi questa lettera, e scappa subito nel Matriarcato, dove sarete al sicuro dalle brame di Lainay.

Scappate. Non voltarti indietro.

Ti supplico, amica mia. Ti supplico.

Perdonami per ogni torto, e cerca di ricordarmi come la chiassosa Spia del nostro passato, che ti metteva a soqquadro la casa.

Fai sì che il mio ricordo sia di conforto per tutti voi.

Ti prego, Junielle. Solo tu puoi farlo.

Ti prego.

                  Lsyn.

 

Chiusi la lettera in quattro parti, e la affidai a Roxen, che aveva appena finito di mangiare. Mi doleva il cuore, a farlo. Ma era necessario. Lei l’accettò, senza guardarla né fare storie, una cosa che mi parve ben strana, e se la mise in una tasca. Finalmente, ci alzammo, e Greg ci venne incontro per condurci nelle nostre camere. Il cuore mi batteva forte. Giunse il momento degli addii. Un addio che per loro era un arrivederci. Avevo voluto due camere separate, ma a fianco. Si sarebbero sentiti più protetti, ma non mi avrebbero vista, in quello che stavo per fare. Li abbracciai dolcemente, a lungo, poi, con le lacrime agli occhi, mi scostai, per guardarli. Era l’ultima volta che lo facevo. Roxen, così simile a me, gli occhi ametista del padre, e Chekaril, la copia di quello che era stato Principe, malfattore, donnaiolo, eroe. Mi trattenni giusto in tempo dallo scoppiare in lacrime, seguendo il loro esempio. Strinsi i denti, e feci finta di essere la zia severa che li aveva portati d un futuro luminoso Ingiunsi loro di non venire a disturbarmi. Non capirono cosa tramavo, per fortuna, e promisero di obbedire. Mia figlia e suo fratello mi guardarono, afflitti. “torni presto, vero, zia Lsyn?”. Disse il piccolo, tirando su col naso, gli occhi rossi, guardandomi attraverso il velo dei capelli, un gesto che mi ricordò in maniera netta il padre, e che mi trafisse il cuore. Feci un buffo inchino, che lo fece sorridere. “ovviamente”. Dissi. Bugiarda. Non potevo mentire più spudoratamente. Augurai loro la buonanotte e chiusi la porta di schianto, fuggendo nella piccola camera ordinata, dal letto singolo, un piccolo comodino pieno di candele ed uno specchio, simile a quello che c’era nella casa di Junielle. Dimenticai di mettere la mandata. Avevo troppa fretta.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 59
*** Scampoli dell'Oltretomba. ***


Mi mossi in maniera febbrile, preparando tutta la messinscena con precisione maniacale, com’era mio solito

Mi mossi in maniera febbrile, preparando tutta la messinscena con precisione maniacale, com’era mio solito. Non avrei rinunciato, proprio facendo quell’atto estremo da cui sapevo non c’era più ritorno, alla vista della mia umiliazione finale. A distanza di tempo, quando ormai sono cambiate molte cose, pur restando le stesse, mi chiedo davvero cosa avessi nella testa, in quel momento. Trucioli, forse, o foglie secche. Le vere motivazioni di quel gesto, che fu una delle cause di una rovina futura, mi sono ancora oscure. Fu il dolore? L’incoscienza? L’egoismo? O forse una delle mie solite esagerazioni, dovute a manie di protagonismo non proprio nascoste? Io, ovviamente, non avevo avuto la seppur minima intenzione di partire, di dedicarmi  ad una vita solitaria e peregrina, vagando di terra in terra in cerca di una pace effimera, già dall’inizio. Semplicemente, ero troppo debole, troppo ferita per rialzare il capo, per rialzarsi e continuare a combattere. Ero stata schiantata, schiantata dalla mia stessa, tremenda, ingenuità, un topolino al servizio di un nido di vipere. Avevo tentennato quel girono, nel fuoco, ma non avrei ceduto ora, proprio in quel momento. mi sentivo matura per andarmene una volta e per sempre. Avevo anche vissuto ben tre vite umane, no?  Gli uomini avrebbero pagato per vivere anche solo metà della mia esistenza. Non potevo lamentarmi, e potevo decidere con tranquillità di morire, vero? Ero ancora giovane tra gli elfi, ma con questo? Ne ero pienamente conscia, anche in quel momento critico. Ero adulta, si, ma nemmeno a metà del percorso che ad un elfo è riservato. Dubitai, però, che un qualsiasi mio simile avesse subito l’ingiustizia ella vita come avevo fatto io. No: io non intendevo vivere ancora, umiliarmi di fronte alla vita, soffrire ancora, e far soffrire. Rimanere ancora viva era un’utopia, un dolce sogno. Non potevo più toccare uno solo dei miei affetti, perché ero sporca, impura, omicida. Potevo ancora sentirmi zuppa del sangue del mio amato. Non potevo vivere con gli altri, con i miei affetti, perché io non meritavo loro, semplicemente. Ero troppo meschina per i grandi cuori che avevano accompagnato la mia infanzia e giovinezza. Ogni cosa che avrei fatto, ogni secondo della mia esistenza, sarebbe stato scandito dalla solitudine estrema che io stessa avevo cercato. Non avrei potuto più vivere con Tijorn, che ormai aveva davvero trovato la sua ragione di esistere, e che certamente non avrebbe sopportato una zavorra com’ero io, o con Junielle, che sicuramente ancora ricordava con amarezza l’epiteto che le avevo affibbiato durante la mia ultima visita, solo perché ero una sciocca bestia, che non voleva farsi toccare. I piccoli non meritavano di passare l’infanzia, o quello che ne rimaneva, con me, non potevo allevare, egoisticamente, i figli di coloro che avevo ucciso. Non era mio diritto. Amarto era solo un vecchio elfo malato, e non sarei riuscita a fargli compagnia come meritava. Non ero più una Spia. I miei antichi compagni mi avrebbero rigettata ed ostacolata in ogni modo a loro possibile. Ero stata tradita dalla mia Regina, trattata come la più vile delle servette, umiliata come una schiava. I ribelli mi volevano morta, e mi avrebbero, probabilmente, anche torturata se fossi finita nelle loro mani. Tutte le altre persone che avrebbero potuto capirmi, capire il mio gesto, rimproverarmi, per poi accettarmi, senza orrore alcuno, erano certamente morte, o lontane. Era un senso di vuota desolazione, quello che provavo, come se fossi in mezzo ad un deserto, sola, un deserto che io stessa mi ero creata. E quello spiazzo bruciato, incenerito, ormai da tanto sterile, era la mia anima. Ero stata annientata, annichilita. Capii in un lampo ciò che mi aveva sempre voluto dire Eiron, il suo desiderio di essere ricordato in modo degno, di smettere di essere umiliato. Come lui non voleva vivere senz’ali, straniero tra la sua gente, io non volevo vivere con quel fardello che era la mia memoria, il fardello di quella che era stata un’ossessione, e mi aveva allontanata dagli affetti più cari. Avevo si, bruciato ogni traccia del mio terribile operato, ma nella mia memoria era tutto fin troppo nitido. Ero stata ridotta ad un niente, un guscio senza possibilità di salvezza. Ed io volevo precipitare, non volevo far altro che precipitare in un riposante oblio, non pensare più, essere fuori dalla portata di tutto e tutti, senza sensazioni, senza dolore, senza coscienza. Riposarsi, dormire, per sempre, e nulla più. Cercavo solo quello, ero in cerca solo della pace, che in ogni modo mi era stata negata in vita, nella mia esistenza per un vano, vuoto ideale. Avevo perso tutto, tranne la vita. Ed, in quel momento, ero io a volermene disfare.

Avendo già tutto progettato, agii in fretta, senza inutili pensieri, o preamboli, già gustando il nulla in cui sarei discesa. Libera, finalmente, da tutta la disperazione, tutto lo smarrimento e la sofferenza che avevo causato a me ed agli altri. Non ne vedevo l’ora. Accesi tutte le candele, una a una, posizionandole sul loro supporto, fino a quando l’intera, piccola camera, non fu illuminata a giorno. Dovevo vedere bene tutto quello che sarebbe accaduto. Dopo che l’ultimo stoppino cominciò ad ardere, afferrai i supporti e li posizionai in modo da formare un cerchio perfetto, di cui io sarei stata il centro. Suicidio si, ma con un minimo di eleganza. Il cerchio: da un cerchio era iniziato tutto, da un cerchio doveva finire. Non ero esente da uno sprazzo di pura pazzia. Suicidarsi è un atto che richiede fegato, molto fegato, ed un’incoscienza pura, incoscienza del valore della redenzione, della punizione, del pentimento. Strano scriverlo, io che l’ho cercato l’ho desiderato, l’ho invocato, io che ne ho gioito, io, che tante volte ci sono arrivata molto vicina. Tali sono i piani di una mente irrimediabilmente distorta. Solo ora capisco, dopo aver visto infinito orrore. Solo ora, dopo essermi torturata in una delle maniere più atroci che conoscessi, dopo aver sofferto infinitamente. Che ragionevolezza potevo provare, allora, com’ero ridotta, fermamente convinta di essere sola? Il mio unico pensiero, in quella camera illuminata, era quello di farla finita, subito, nel modo più doloroso che conoscessi. Perché, si, io dovevo soffrire, e molto, per quello che avevo fatto. Mi ero macchiata le mani di crimini terribili, e non potevo mettervi riparo. Ero, o sarei stata, perduta. Ed allora, solo per il puro desiderio di farlo, dovevo pagare tutto il male fatto. Basta, solo quello. Una volta messo lo specchio al centro, vicino al punto dove avevo deciso avrei passato gli ultimi istanti di consapevolezza, passai a questioni più terrene. Sapevo che Greg, il mattino dopo, avrebbe trovato uno scempio, e che, forse, la sua reputazione ne sarebbe stata rovinata. Non fa bene alla storia della locanda una suicida, soprattutto quando avrebbe lasciato un disastro dietro di sé, come prevedevo stesse per succedere. Dalla mia borsa, che avevo posato sul letto, estrassi tutti i pochi spiccioli che avevo, e li sparpagliai sulle lenzuola candide, mettendo anche il piccolo pugnale, che non mi sarebbe servito, e altri gingilli di qualche valore. Dovevo pagare il grande favore che mi stava facendo il grasso oste, no? Ed io gli ero grata, molto grata. Dopo aver sbrigato quell’ultimo affare, cominciai la sceneggiata vera e propria. Con calma esemplare, senza cambiare minimamente espressione, mi slacciai il lungo mantello nero che portavo, così vecchio e rattoppato un mio fedele compagno, e lasciai che scivolasse, con un debole fruscio, a terra. Non dovevo essere intralciata in nessun modo. Rimasi, così, solo con i miei abiti neri e comodi, lisi ed un po’ scoloriti. La seconda cosa che feci, fu quella di togliermi il cinturone a cui avevo assicurato la spada, lasciando che cadesse sul mantello. Qualcosa di esso, tuttavia, ancora mi serviva. Dal bellissimo fodero grigio satinato, estrassi la bellissima spada ricurva di Eiron, dall’elsa filigranata d’argento, e da quella lama larga, ma così leggera, con impresso su quel motto, che tanto mi era alieno. Ero stata sempre fedele a cosa? Avevo servito il sangue, la morte, fino all’ultimo respiro. Ma quella non era fedeltà: di niente si trattava, se non morboso attaccamento, e quasi di necessità. Una necessità che mi avrebbe portata alla tomba, ben presto. Fissai la spada, scintillante alla fievole luce rossastra delle candele. Era superba, sembrava quasi guardarmi, fredda ed altera. Sembrava quasi rilucere di sangue fantasma, il sangue di tutte le vittime innocenti, che era stata costretta ad assaggiare. Era un’arma maledetta: con questa avevo dato il colpo di grazia ad Eiron, ucciso Chekaril, ucciso Aevo, minacciato. Mai una cosa buona era scaturita dall’uso di quella spada, mai ero riuscita a tenere fede alla preghiera che Kyrre mi aveva fatto. Ma ben presto, con il mio stesso sangue, ogni peccato sarebbe stato lavato da quella magnifica lama, ogni errore ripagato con la mia sofferenza. E quell’arma, come sempre succedeva, non sarebbe stata tolta dal mio cadavere, e avrebbe finito di seminare miseria nel mondo. avrebbe riposato con me. Forse quello mi rendeva felice. Con la mano sana, strinsi  il pomo lavorato dell’ara, e sospirai. Stavo per fare il gesto che, se fossi vissuta ancora, mi avrebbe cambiato la vita. Perché io non volevo più vedermi con la maschera, quell’oggetto infernale, la causa di ogni mio male. Volevo essere com’ero, un mostro, sfregiata, orrenda. Ma me stessa. Avevo trovato, per quel gesto, un pizzico della dignità che per cinquant’anni non avevo avuto. Ero riuscita a vivere, in quel viaggio da incubo, senza maschera, e non ero stata allontanata anzi: ero stata accettata. Cosa importava, allora, nel momento della mia morte, se mi fossi vista o meno? Molto, molto più di quanto si possa pensare. Potevo, e dovevo, fare i conti con me stessa, con Lsyn, senza mediazioni, senza quella sorta di cuscinetto protettore che era la mia maschera. Dovevo uscire dalle mie illusioni, dal mio dolore e dalla mia stupidità quasi infantile, come avevo abbandonato la casa a Sharilar, e dovevo vedere cos’ero realmente diventata. Solo così potevo ammazzarmi avendo la piena consapevolezza del gesto commesso. E poi la maschera aveva cominciato a soffocarmi. Volevo essere libera. E quale giorno migliore di quello della mia morte? Era l’ultima volta che facevo quei gesti, che tante volte avevo ripetuto con così tanta negligenza. Gustai quegli ultimi attimi di libertà, quegli ultimi attimi di consapevolezza, ben conscia di star per morire, e mi slacciai la maschera con estrema lentezza, lasciando poi che cadesse, come se non l’avessi fatto apposta. Non feci nulla, nemmeno un movimento, quando cadde a terra. Non mi mossi, rimanendo a guardare, come stordita, nemmeno quando, con uno schianto sonoro, la maschera di frantumò in tre pezzi, che finirono sparpagliati per la stanza. Rimasi per un po’ a guardare il mio atto, all’apparenza così semplice. Lsyn, l’Ombra, il Mostro, era morta. Non c’era modo migliore per esprimerlo. Mi scollai di dosso la strana sensazione alla gola che cominciavo a provare e, muovendomi con velocità, ancora la spada stretta nella mano, andai vicino allo specchio, di fronte. Dovevo vedermi bene quando mi sarei trafitta. Rimirai la mia bruttezza, le mie cicatrici e, con una mano, le sfiorai. La sensazione di ruvido non mi disgustò. Non avevo più timore della mia immagine. Come presa da una debolezza improvvisa, crollai in ginocchio, la spada ben ferma in mano. La puntai così verso il ventre, afferrandola anche con l’altra mano, con mortale lentezza. Erano i miei ultimi atti, e dovevo gustarli fino in fondo. Avrei fatto in modo di avere una morte molto lenta, e dolorosa, dissanguandomi goccia a goccia. Non mi sarei compromessa organi vitali, ed avrei prolungato in questo modo l’agonia. Sapevo come fare. Una lunga, straziante agonia. Era quello che volevo. Mi fissai, lì, inginocchiata davanti allo specchio, un fantasma sfregiato, dallo sguardo lucente e pazzo. “dimmi un po’, Lsyn..”. Dissi così a me  stessa, a voce alta e gracchiante, guardandomi fissa negli occhi, guardando fisso il mio orrido riflesso, che mi osservava, sogghignante e tormentato. Sorridente ed orrendamente torto. Sfregiato e perfetto. Il boia e la vittima. Il problema era stabilire chi fosse chi. Il mio testamento. Un testamento che avrei ascoltato da sola. Un po’ matto, vero, ma non posso stabilire cosa fossi, allora.  “Quante vite hai spezzato? Quanti innocenti hai trucidato? Vedi bene, ora,che la stessa spada che colpì un morbido collo, ora si prenderà la sua vendetta, il suo tributo di sangue. È così che va il mondo, Lsyn. Devi assaporare l’amaro calice fino alla sua feccia, fino all’ultima goccia. Soffriamo, dunque, e da ciò ricaviamo gioia!”. Smisi di parlare, forse accorgendomi della vana vacuità delle mie parole, e chiusi gli occhi. Li serrai, digrignando i denti. Dovevo concentrarmi. Tra poco avrei smesso di soffrire. Ne fui felice. Alzai la spada con entrambe le mani. Rimasi per un attimo ferma, gustando quell’ultimo momento di tensione. Era venuto il momento di pagare per tutto. Rimasi per un altro attimo a gustarmi quel vibrante silenzio, che assentiva con la sua grandezza al mio atto. Poi, agii. Calai la spada che Eiron, con tanta previdenza, mi aveva donato, con forza, verso il mio addome. Senza paura. Nessuno mi fermò, stavolta, nessuno. Nemmeno me stessa. Sentii così senza esitazioni il morso gelido dell’acciaio temprato attraversarmi da parte a parte, ed un immediato, atroce dolore, impadronirsi di me, un dolore che avevo sempre collegato con i Tengu, ed i loro scettri.  Mi contrassi, stavolta senza più nessun pensiero in testa. Ancora rabbrividisco al ricordo di quella tremenda sensazione. Ma allora ne ero felice, molto felice. Ricavavo gioia da ogni stilla di tormento. Mi lasciai sfuggire un gemito, un gemito di puro dolore, involontario, e qualcosa di caldo si riversò fuori dalla mia bocca. Sentii un orribile sapore metallico in fondo alla gola, qualcosa di viscido ed amaro sulla lingua. Sangue? Si, sangue. Il mio sangue. Ridacchiai, felice. Stavo per smettere di soffrire. Non sentii di essere caduta in avanti, infrangendo lo specchio con gran fracasso. Non so quanto rimasi lì, ad agonizzare allegramente. La vista cominciò, finalmente, dopo un tempo che mi parve infinito. ad offuscarsi. Il dolore, dapprima presente e fastidioso, cominciò ad essere lontano ed ovattato. Volavo in un mare di soffice lanugine. In un tempo ed un luogo imprecisati, sentii una porta aprirsi, sbattendo e degli strilli di terrore. Qualcosa mi afferrò per le spalle. Mani delicate. Conoscevo quella stretta. Il mio amato Chekaril. “sei venuto a prendermi…”. Mormorai. E persi i sensi.

Da quel momento in poi, i miei ricordi si fanno sfumati, e non riesco a capire cosa sia realtà, e cosa, invece, dovuto solo al puro delirio.

Entrai così in un mondo dove luce, spazio tempo, non avevano significato. Quello che sognai fu solo il frutto di una mente folle.

Vidi un arcobaleno di colori, un magico caleidoscopio davanti ai miei occhi, e sentii strani rumori ai margini della mia coscienza.

Poi persi i sensi.

Sentii dopo un po’ qualcuno urlare, di nuovo. Dov’ero finita? Conoscevo quel viso strano, davanti a me. Era una mia amica, qualche secolo fa. La testa gli andava a fuoco, o forse sono i capelli. Erano così rossi. Forse urlano perché c’era un incendio, chissà. Ero tra le braccia di qualcuno. Chekaril, non fare lo spiritoso!

Ancora, svenni.

Chi mi aveva sdraiato su quella superficie dura? Che avevo combinato di brutto? Ero morta? Mi ero ubriacata? Quanto avevo bevuto? Strano, io ero astemia. Mi sentivo però così strana…così…leggera… come se avessi potuto prendere il volo da un momento all’altro, solo volendo. E faceva freddo. Tanto freddo. Chi era quell’’uomo barbuto, che incombeva su di me? Via, barbone, sciò! Che mi voleva fare? Cercai di agitarmi, ma i miei arti non mi rispondevano. Dov’ero? Dovevo essere in acqua. Era tutto così bagnato. Il barbuto si voltò verso una donna strana, dal viso sconvolto. Dovevo averla vista da qualche parte, tanto tempo fa. I capelli le stavano andando a fuoco. “è molto grave. Sta perdendo troppo sangue”. Disse l’uomo, serio. Chi era grave? I bambini stavano male? Li avevano attaccati? Ero un’irresponsabile…Lainay mi avrebbe staccato la testa dal collo se gli fosse successo qualcosa qualcosa! Accidenti, mi dovevo alzare! “cercherò di fare il possibile”. Girandosi di nuovo, il barbone si avventò su di me, con artigli da avvoltoio. Che voleva fare il mostro? Mi straziava il ventre, perché? Si stava cibando di me! Erano tutti mostri, quelli! Urlai qualcosa.

 Persi i sensi di nuovo.

C’era un tipo strano vicino a me. Era sdraiato accanto. Il collo gli pendeva, inerte. I mostri sicuramente l’avevano mangiato. Allora eravamo morti tutti e due. Lui mi sorrise, e mi accarezzò il viso. Aveva le mani gelide. Sorrise di nuovo. I suoi denti erano affilati, e lui si sporse per baciarmi, per mordermi. Urlai di nuovo.

Non capii più nulla, per un tempo indeterminato di tempo.

C’era solo dolore attorno a me. Cosa stava succedendo? Qualcuno avrebbe fatto meglio ad allontanare tutti quei folletti dispettosi dalla mia pancia. Mi stavano tirando, pizzicando, e facevano male. Mi agitai. Una nuova fitta, lancinante.

Poi solo buio.

Chi erano quei bambini dallo sguardo di cerbiatto, accanto a me? Dovevo averli visti qualche secolo prima. Sono i figli della rossa, lo so. Faceva caldo. Avevo caldo. Il maschietto mi disse qualcosa. Non lo capii. Però mi ricordava qualcuno. Di chi ero prigioniera? La sua mano si alzò. Mi gocciolò qualcosa dalla fronte. Era una bella sensazione.

Non capii più nulla.

Ero in un incendio. Ero in un fuoco e mi dovevo salvare. Mi stavano bruciando viva. C’erano tante mani che piovevano dal cielo, e tante voci che chiamavano, o chiamavano qualcuno, non so. Cosa? Lsyn? Chi sarà? Che strano nome. Mi ricordava un vecchio cieco intento a ballare con una bottiglia, chissà perché.

 Svenni.

Ero in un boschetto. Decisamente. Chissà come mi trovavo qui. Dovevo aver dormito a lungo. Che razza di sogni avevo fatto! Mi alzai, tranquilla, senza alcun pensiero e, come se sapessi già cosa fare, mi diressi verso un ruscello, che mormorava placido a poca distanza da me. Mi sedetti, e mi guardai nell’acqua. Ero proprio bella. Il mio viso era liscio come una pesca, senza cicatrici alcune. Mi stiracchiai. Era bello sentirsi liberi, e felici. Guardai per un po’ l’acqua limpida, fino a quando sentii qualcuno sedersi accanto a me, ed il suo riflesso baluginare. Mi girai. Chekaril! Stava bene. L’avevo ucciso, o no, allora? Era il giovane innamorato dei miei ricordi, quello che mi fissava con sguardo ferito, non l’eroe Krish, il donnaiolo crudele. Accettai la sua presenza come fatto normale. “ma tu sei morto”. Gli dissi, dopo un lungo silenzio passato ad osservarci. Non importava, niente affatto. Lui era lì, che mi stringeva a sé e mi donava un dolce bacio. Persi la cognizione del tempo, immersa in una felicità che va al di là della vita e della morte. Dopo quelli che sembrano secoli, ci guardammo di nuovo, ancora abbracciati teneramente.  Come lo amavo, per tutti gli dei! Lui sorrise, triste. “lo so, lo so. Dovresti esserlo anche tu, sai…”. Mi disse, accarezzandomi il viso. Annuii, consapevole ma serena, e lui sospirò. Era bello sentirlo così vicino. “sei stata una matta, Lsyn, una vera matta”. Mi sorrise, ma era un sorriso amaro, molto sarcastico. Mi strinsi a lui.  Non volevo perderlo nemmeno per un attimo. “perché, Lsyn?”. Mi domandò, con voce morbida come le fusa di un gatto. “che colpa avevi? Perché ti volevi suicidare?”. “io ti volevo raggiungere”. Replicai, con la massima naturalezza. Un altro attimo di silenzio. Sentii un’immensa sofferenza farsi strada nel mio petto. “ti amo, Chekaril. Non ho mai smesso di farlo. Come posso convivere con quello che ho fatto? Ti ho ucciso! Non posso sopravvivere con questo macigno sul cuore!”. “ oh si che puoi. Tu devi vivere, amore mio”. Mi rispose, l’espressione tragica, stringendomi forte. “non puoi morire per i tuoi fantasmi. La colpa è stata anche mia,  del mio egoismo e della mia superficialità. Sono stato un bastardo, a trattarti come un giocattolo, come un cavallo. Quando sono andato via, quanto ti ho costretta ad avere un figlio da me non ti ho tenuta in conto, e non ho tenuto in conto il tuo amore, e la tua forza, che è tanta, amore mio, più di quanto tu possa immaginare. Ma sapevo che saresti venuta, Lsyn, perché il tuo amore era troppo profondo, troppo complicato perché io potessi capirlo. Sono stato uno stronzo. Ti ho rubato il cuore, e anche l’aspetto. Mi sono preso tutto di te, e non ti ho lasciato altro che un’ossessione e tanti ricordi amari. Lainay non c’entra nulla. Ora lo so. Ora me ne rendo conto. Ero giovane, allora, giovane e sventato. Un donnaiolo, non credi?”. Mi ammiccò brevemente, prima di riprendere la sua aria seria. “Non ti ho amata come meritavi, ed ho avuto la mia punizione, non credi? Piccola mia…tu non puoi morire per me. Non posso rubarti anche la vita. Devi vivere. Per te, per i piccoli. Non permettere che Lainay faccia di loro uno strumento per il regno. Fatti valere, perché non è finita ancora. Vivi. Per Tijorn e Junielle. Devi vivere. Fallo per me”. Lo fissai, incuriosita. “ma tu non sei reale, vero?”. Domandai, con la morte nel cuore. Mi dispiaceva. Un Chekaril così non poteva esistere. Lui sorrise tristemente, di nuovo. “sono quello che tu immagini io sia, nient’altro”.

 

E poi, non ci fu più nulla. L’oblio stese su di me le sue pietose ali, ed io non vidi né sentii più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 60
*** La Revenante. ***


Stavo dormendo

Stavo dormendo? Ero morta? Cosa diavolo stava succedendo? Quelli furono i miei primi pensieri coerenti, dopo quel terribile tentativo di suicidio. Era stato, tuttavia, un processo molto lento e graduale. Dapprima non mi ero nemmeno resa conto di essere cosciente, anche se, ad un certo livello, lo ero già. Qualcosa, in un momento imprecisato della mia riposante non-esistenza consacrata al buio ed al riposo, era cambiato leggermente, all’improvviso. Non so dire quando esattamente mi ricordai, in un lampo, ancora immersa in un buio colloso, del fatto che io possedevo ancora un corpo. Successe, semplicemente, naturale come risvegliarsi da un lungo sonno. Ero ancora immersa in un’oscurità quasi asfissiante, ma il mondo stava cominciando a riprendere significato. Brandelli di pensieri mi  presero a vorticare nella mente a velocità assurda, disorientandomi. Ricordavo di essere quasi morta. Ricordavo uno specchio, vagamente, ed una spada. Ed un grande dolore.  Passò qualche attimo di confusione. Cercai di mettere insieme, affannosamente e, a quanto pareva, piuttosto inutilmente, gli scampoli di ciò che avevo fatto in quel tempo. Mi pareva fossero passate solo pochissime ore, e, nel contempo, secoli. Ero tutto il mondo, e nello stesso tempo, un granello di sabbia. La testa mi pareva staccata dal resto del corpo. In quel momento di sbandamento, tornarono tutte le sensazioni fisiche, e mi accorsi di essere ancora viva. Ero, forse, in un letto, stesa a pancia in su, ed ero coperta da un morbido strato, che mi teneva calda, e che era leggero, la testa appoggiata contro qualcosa di cedevole, un cuscino, forse. Doveva essere una bella giornata: sentivo un calore familiare, piacevole, inondarmi il viso. Il sole stava splendendo. Sentivo, ad una grande distanza, degli uccelli cinguettare. Il suono non mi arrivava bene: le orecchie sembravano quasi essersi tappate, riempite d’acqua, e non riuscivo a sentire come avrei dovuto. Mi sentivo sfinita, come dopo una lunga corsa. Mi accorsi di avere gli occhi chiusi: sentivo le palpebre, pesare come un macigno. La lingua era impastata, ed avevo un terribile sapore in bocca, un sapore di ferro, come se avessi mangiato un coltello, o un pezzo di carne ancora crudo, misto ad un altro, amaro e freddo, che non riuscii a riconoscere. Avevo freddo, ma nello stesso tempo un caldo infernale. Era una sensazione fastidiosa, un istinto che mi spingeva, nello stesso tempo, a rannicchiarmi e muovermi. Un terribile pungolo. Ma poi realizzai che quella non era decisamente la sensazione più orribile. Dolore. Un dolore, caldo e incessante, che mi arrivava, pulsando con il mio cuore lento, dalle parti circa della pancia. Era una sofferenza sorda, ma pressante. Faceva un male cane. In quel momento,rividi, nella mia mente, l’attimo tremendo in cui mi ero conficcata la mia spada in corpo. Tutto prese ad avere più senso. Mi sentii, immediatamente, inquieta. Qualcuno doveva avermi salvata. Ero ancora viva. Chi si era permesso di fare una cosa del genere, come erano riusciti a raggiungermi in tempo? Stanca, demoralizzata, e totalmente confusa com’ero, non riuscii a mantenere più a lungo quei sentimenti. tutto mi pareva enormemente fuori luogo, di fronte alla stanchezza mortale che percepivo in me. Volevo dormire, solo dormire, dimenticare. Provai a ricordarmi la sensazione del sonno, a rievocarlo, nella speranza che tornasse. Ma niente. Il dolore al ventre era troppo terribile, troppo forte per permettermi di scivolare nel mio oblio senza sogni. Avevo provato qualcosa di lontanamente simile quando era nata Roxen, ma non era la stessa cosa. Quella prima sensazione era infatti acuta, tremendamente viva e vera. Ciò che in quel momento provavo era qualcosa di più lontano, ma, nello stesso tempo, di più orrendamente fastidioso. Era sordo, e pulsava. Pulsava e tirava. La cosa, decisamente, non mi piaceva. Un rumore strano mi strappò alle mie considerazioni ancora leggermente deliranti, e calamitò la mia attenzione. Ero ancora ad occhi chiusi quando sentii, distintamente, un rumore che mi ricordò un gemito sommesso di dolore, un mormorio, ed un singhiozzo. Non era la mia voce: non era una donna, o un’elfa, chiaramente. Ed aveva qualcosa di molto familiare. Una voce sentita cento, mille volte, nei Lazzaretti che visitavo, una voce pronta ad ammonirmi, a consolarmi, a darmi consigli, a scherzare, a risollevarmi in caso di caduta. No, mi stavo sbagliando. Non era possibile. Dovevo sbagliarmi, di sicuro.   Come, come poteva essere lì? E, per giunta, dov’ero? Mi ero, per caso, sognata tutto? Ero stata male, al Lazzaretto, dopo una missione? Chekaril non mi aveva  mai tradito? Mia figlia non esisteva? Non avevo mai tentato il suicidio? Cinquant’anni di vita erano solo stati il sogno di una ferita?  Oppure non ero mai stata Lsyn, non ero mai stata una Spia? Avevo davvero fatto uno strano ed orrendo delirio? Qualche sedativo che mi avevano somministrato provocava allucinazioni? Sentii, più che mai pressante, l’esigenza di aprire gli occhi. Mi mossi leggermente, in silenzio, senza che il dolore aumentasse. Dovevo appurare, capire cosa diavolo stava succedendo. Perché mio fratello non poteva essere lì, dovunque io fossi stata. Era lontano da Zakadi, e, sicuramente, Akita non gli avrebbe permesso di venirmi a trovare. Quell’elfa sapeva come essere crudele, nei miei confronti. Ed era astuta, molto astuta. O forse non era mai esistita? E tijorn c’era davvero? Un altro singhiozzo, più debole, mi decise una volta e per tutte. Dovevo svegliarmi. Forse, magari, sarei riuscita a prendere sonno in seguito. Mi azzardai così a socchiudere gli occhi. La luce del sole li ferì immediatamente, con dolore, e li serrai. Fu solo dopo qualche secondo che arrischiai di nuovo. Stavolta non successe nulla. All’inizio, vedevo solo macchie indistinte, davanti a me, ma poi, pian piano, il mondo si rimise a fuoco. Mi ritrovai a fissare un elegante soffitto ocra, decorato ai lati da qualche elegante e discreta voluta in stucco più chiaro. Realizzai subito di non potermi trovare in un Lazzaretto, di qualsiasi specie. Nessuno aveva soffitti così sfarzosi, nessuno poteva permetterseli, nemmeno gli edifici nelle capitali. Tutti i fondi venivano investiti, o quasi, per i medicinali e cose varie. Quella, invece, mi sembrava una casa di un nobile, o, comunque, di una persona molto ricca. Senza ancora girarmi verso la fonte del rumore, timorosa di vedere ciò che ci avrei trovato, feci un po’ vagare lo sguardo per la stanza. Ero in un bel letto, dei toni del verde, e, di lato a me, avevo due grandi finestre a sesto acuto, che facevano entrare molta luce, chiarissima e pura, scomponendola in mille arabeschi, e rendendo visibile la polvere che fluttuava nell’aria. Era una camera davvero molto luminosa, dalle pareti dello stesso colore del soffitto. Era tutto molto semplice. Lo stile mi ricordò, in un certo senso, la casa di Junielle, quella che mostrava la sua vera, sobria facciata, e quella  che nessuno conosceva, ma che io che avevo visitato molte volte, per lo stretto legame che mi univa alla mezzelfa. Ebbi un brutto presentimento. Passò davvero poco tempo, quando esaurii le novità. Ancora un altro singhiozzo, un pianto soffocato a stento, come a non voler dare fastidio. Mi sentii, improvvisamente, irritata dalla mia stessa incertezza. Basta. Non dovevo comportarmi così. E poi ero curiosa. Magari tutto quello che sapevo essere accaduto era stato solo un incubo provocato dal delirio. Di sicuro la Regina non sarebbe potuta essere così crudele nei miei confronti, e nemmeno Chekaril. Così, presa da una nuova, leggera, forza, sospirai brevemente, e mi girai. Mi trovai davanti la figura di mio fratello, non c’erano dubbi. Era raggomitolato su una semplice sedia, vicino al mio viso, ed aveva la testa bassa, le mani tra i lunghi capelli neri, lisci e sottilissimi. La sorpresa fu tale che sobbalzai per lo spavento. D’accordo, me l’ero aspettavo, in un certo senso, ma mi spaventai lo stesso. Una fitta tremenda allo stomaco accolse questo movimento avventato. La ferita prese a pulsare Mi morsi le labbra, ma nulla m’impedì di farmi scappare un gemito di dolore. Tijorn ebbe una reazione immediata: sobbalzò, ed alzò il viso, preoccupato, verso di me. Un’ondata di vero e proprio dolore, non dovuto alla ferita, m’inondò il corpo. Qualunque cosa avessi fatto, ero stata tremendamente meschina. Era in condizioni davvero pietose. Non mi sarei stupita se anche a lui fossero uscite alcune ciocche bianche. Non doveva dormire da parecchio tempo: ne erano testimoni muti le sue tremende occhiaie, violacee e profonde, e l’aria sbattuta e tesa. I suoi bellissimi occhi grigi, grandi e profondi, erano iniettati di sangue, gonfi e lucidi per il sonno e per il pianto. I capelli, che tanto amava curare e spazzolare, erano diventati una matassa di seta annodata, arruffata, piena di polvere. Doveva averci passato le mani per un bel po’ di tempo, preso dal tormento. Il volto era pallido come quello di un cadavere, e sembrava aver passato mille anni di torture, tanto era contratto in una smorfia di disperazione pura. Il dettaglio che m’inquietò di più, fu, appunto, sul viso: l’ombra di barba scura che gli era cresciuta sul viso, trascurata da un bel po’ di tempo. Lui non permetteva mai che gli crescesse, mai. Diceva di odiarla, odiare la sensazione pungente che gli provocava quando si sfiorava il mento. Non l’avevo mai visto in condizioni così terribili. Perfino quando mi ero ferita, mi ero sfigurata, lui aveva mantenuto un’ombra di speranza e decenza. Ora no: qualcosa in lui sembrava essersi spezzato in maniera definitiva. Era lui, mio fratello, che soffriva tremendamente con me. Era lui, Tijorn, che, quando vedeva di non riuscire a proteggermi, cominciava a disperare, e tormentarsi, come stava facendo in quel momento. provai, immediata, una sensazione di vergogna. Cosa avevo fatto per meritarmi un simile tesoro, nella mia miserabile vita? Cosa? Allora qualcuno mi amava, davvero? Tijorn mi voleva bene? Anche se io ero stata così cattiva nei suoi confronti? Non ebbi il tempo di rimuginare ancora, di lasciarmi andare ai miei pensieri. Perché lui aveva notato che io ero sveglia. Vidi uno strano scintillio passare nei suoi occhi stanchi. Un’espressione di gioia assoluta che mai gli avevo visto in volto. Una gioia mista al dolore. Vidi, esterrefatta, troppo stupita per pensare, il suo labbro inferiore tremare leggermente, come se stesse per mettersi a piangere, fino a quando lui, ancora guardandomi, stupito, non se lo morse a sangue. Ci fissammo per un secondo ancora. Chissà, forse senza nemmeno accorgermene, lui scivolò dalla sedia, silenziosamente, rimanendo in ginocchio, arrivando davvero vicino, per guardarmi meglio. Aveva rinunciato a controllarsi, ed ora tremava, follemente. Non riusciva a credere ai suoi occhi. “Lsyn…”. Mormorò, con voce roca e spezzata. L’avevo totalmente distrutto. Mi si strinse il cuore. “sei sveglia…”. Un sorriso, debolissimo ed involontario, andò a disegnarsi sulle mie labbra. Si: ero sveglia, e viva. Il mo tentativo di suicidio non era andato a buon fine. Non ebbi il tempo di rispondere a quella che non mi pareva una domanda, ma che aveva tutta l’aria di pretendere qualche spiegazione. Vidi, negli occhi grigi ed arrossati di Tijorn, alla sorpresa e la felicità sostituirsi qualcos’altro, un sentimento che stavolta conoscevo fin troppo bene. Rabbia. Rabbia assoluta, e delusione. Il volto pallido divenne duro e rigido come una statua. Forse d’istinto, o forse senza nemmeno sapere cosa stesse facendo, mio fratello alzò una mano. Seppi già cosa aspettarmi, ma non mi ribellai. Me lo meritavo, perché ero stata cattiva. Così, quando lui mi appioppò un bel manrovescio sulla guancia sinistra, lo lasciai fare, limitandomi a farmi sfuggire un gemito. Era la prima volta che Tijorn si azzardava a picchiarmi sul serio, come un padre. Ma quella volta aveva ragione. Io avevo ucciso degli innocenti ,e fatto soffrire chi pensavo mi stesse più caro al mondo. e non riuscii a capire quanto gli costasse quel gesto, e che era stato solamente una sorta di…punizione, per quel gesto inconsulto che avevo commesso. Il trovarmi così, il sapere che mi ero infilzata senza remore con una spada, l’aveva annientato. Si sentiva in colpa, per avermi lasciato andare, penso. Ma non lo capii. Capii solo di aver sbagliato, ancora terribilmente debole e sconvolta, di essere nel torto, e di esserlo sempre stata. Dopo quel gesto liberatorio, il mio dolce fratello fece qualcosa che mi sconvolse, stavolta, nell’intimo. Scoppiò in singhiozzi, come non era mai scoppiato davanti a me, cedendo al dolore in modo praticamente assoluto. Era sempre stato piuttosto reticente a mostrarmi il suo dolore, per evitare che io mi dispiacessi per lui, e soffrissi, e perciò, in trecento anni di vita in comune, l’avevo visto versare qualche lacrima solo poche volte. aveva sempre preferito manifestare il suo disagio, i suoi sentimenti in maniera piuttosto pacata, affidandosi ad un linguaggio che doveva tutto agli sguardi, ai movimenti, alle azioni. Ed invece in quel momento me lo trovavo lì, la testa affondata vicino a me, afferrato da un tormento terrificante, che mai aveva osato mostrare. L’avevo fatto giungere al limite. Avrei tanto, tanto voluto confortare, accarezzargli la testa, fare qualcosa, ma non ci riuscii. Non volevo toccarlo. Era una cosa troppo pura, troppo dolce per poterla contaminare con il mio tocco impregnato di sangue innocente. Feci per muovermi, con lentezza mortale, ma poi rimasi con la mano a mezz’aria, senza osare toccare mio fratello, senza osare dare un segno di vita. Non parlammo per un bel po’ di tempo. Sentii qualche lacrima scendere sulle mie guance, anche sulle mie guance, dai miei occhi aridi. Non avevo avuto il minimo rispetto, per lui. Lo stavo facendo soffrire immensamente. Stavo facendo soffrire lui, il mio dolce fratello che era sempre con me, aiutandomi, sostenendomi e guarendomi. Mio fratello, che mi aveva amata. E forse ancora mi voleva bene. Non riuscii a pensarci. Finalmente, dopo un tempo che mi parve infinito, Tijorn si riprese, ed alzò il viso disfatto verso di me. Vide la mia mano tesa verso di lui prima che potessi ritirarla, e l’afferrò, stringendola con forza, accarezzando il dorso con le dita, una stretta che, mio malgrado, mi confortò terribilmente. Risposi alla sua stretta, debolmente, senza alcuna forza. Mi sentivo debole come un gattino appena nato. D’improvviso, lui alzò la mano libera verso di me, ed io temetti un altro schiaffo. Chiusi gli occhi, aspettandomi il colpo. Un colpo che non arrivò. Mi donò una carezza, invece, con tutto l’affetto che un fratello maggiore può dare. Una carezza che mi donò calore. Non potevo stare male se lui era bei paraggi, la mia camomilla personale. Riaprii gli occhi, e lo guardai di nuovo. Lui riprese a parlare, con voce stanca. “Nanetta…”. Disse, continuando ad accarezzarmi, la voce venata d’ira e preoccupazione. Era disperato, e pose le domande, solite e fatali, a cui  io non seppi rispondere. “perché? Perché, sorellina mia? Cosa ci volevi dimostrare, eh? Siamo morti di paura…perfino il Guaritore non voleva crederci quando la febbre si è abbassata…perfino lui”. Si morse di nuovo il labbro inferiore, e parve lì per scoppiare di nuovo in lacrime. Ma, quella volta, riuscì a trattenersi. Io, dal mio cantuccio, stavo cercando un po’ di fiato per parlare, cosa che, alla fine, mi riuscì. “da quanto sono qui?”. Chiesi, con voce roca e debole, resistendo all’impulso di assopirmi di nuovo, presa ad un terribile capogiro. La risposta non tardò ad arrivare. “otto giorni. Io sono qui da ieri”. Rimasi per un attimo in silenzio, valutando le informazioni. Otto giorni. Non era il mio record, ma era tanto. L’avevo scampata per un pelo. “chi mi ha salvata?”. Ci fu un attimo di esitazione. Tijorn mi guardò, pensieroso, prima di cominciare a raccontare con voce sommessa, come a volermi conciliare il sonno. Era stata tutta una tragica fatalità. Sia Roxen che Chekaril avevano capito al volo le mie intenzioni, anche se pensavano io volessi solo andarmene. Avevano, quindi, cercato un modo per mettermi alle strette. Appena avevo chiuso la mia porta, si erano così fiondati fuori, con grande coraggio, fino al bordello di Junielle, chiedendo di lei, dicendo di avere una lettera da consegnare da parte di Lsyn. La mia amica non si era fatta attendere, preoccupata che io non mi fossi fatta vedere, ed aveva letto la lettera. A dispetto dei due piccoli, li aveva intuito immediatamente le mie reali intenzioni. Mi conosceva fin troppo bene. Aveva pregato Fran di portare i piccoli nella sua casa, e, reclutando al volo il primo Guaritore che le era passato sottomano, era corsa fino alla mia stanza. Io avevo appena colpito, ma ero già immersa in un lago di sangue, semicosciente. Mentre Junielle, terrorizzata, aveva chiesto una carrozza, il Guaritore aveva prestato le prime cure del caso. Mi avevano portata nelle casa della mia amica, e lì, era riuscito a chiudere la ferita giusto in tempo. Ero rimasta a delirare per tutto il tempo, assistita da tutti loro, in una delle camere degli ospiti. Lì mi trovavo ancora. Roxen e Chekaril avevano visto la mia faccia. Stranamente, non ne erano rimasti particolarmente colpiti. Bimbi dallo stomaco forte, dicevo io! Finalmente, arrivammo alla fine del racconto. Rimanemmo per un po’ in silenzio, di nuovo. Bene. Non ero morta. Forse era davvero destino. Era stato tutto troppo assurdo per non pensarci. Forse avevo ancora qualcosa da fare. Mi aggrappai a quella speranza con le unghie e con i denti. Sapevo che non sarei mai più riuscita a racimolare il coraggio per un atto come quello. Mai più. Per distogliermi da quei pensieri, feci una domanda a mio fratello, anche solo per sentire la sua voce, per sapere che non era tutta un’illusione. “come sei arrivato qui? Chi ti ha avvisato?”. Domandai, socchiudendo gli occhi “e Amarto e le bambine?”. La risposta fu subitanea, anche se un po’ tentennante. “Junielle ha mandato uno dei suoi messaggeri, Lsyn. Mi sono precipitato qui. Amarto sa solo che sei stata molto male. Non sono venuti a trovarti, ma sono a Zakadi. È meno pericoloso”. Quelle ultime parole, scelte con cautela e dette con esitazione, mi riempirono d’inquietudine. Cos’era successo? Aprii di nuovo gli occhi, e mi voltai verso Tijorn. “che vuoi dire con è meno pericoloso, Tijorn?”. Chiesi di nuovo, con una nota di panico nella voce. Non mi rispose, ed evitò il mio sguardo. Un’ombra scura passò per il volto, insieme ad un’espressione che riconoscevo come disagio. Mi nascondeva qualcosa. Stava accadendo qualcosa di molto grave. Prima che potessimo parlare di nuovo, pria che potessi estorcergli almeno un indizio, la porta si aprì. Entrarono Junielle ed i due infanti, con cautela. Si accorsero subito di me. Nel vedermi sveglia, se non sana, la mia amica s’irrigidì, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime, mentre i due piccoli si precipitarono verso di me, senza nemmeno pensarci, urlando il mio nome. Tijorn, con un sorriso stanco, si alzò, e fece loro spazio. Un paio di uragani mi afferrarono le spalle ed il viso, strapazzandomi. Mi ritrovai sommersa di abbracci, gioia e lacrime. Cominciò, d’improvviso, a montare un orrido senso di nausea, ed il dolore si ripresentò ,più violento di prima. Mi lasciai sfuggire un gemito di dolore, che non passò inosservato. Qualcuno li spostò di peso, con mia grande felicità. Mi sentivo mancare il fiato. Il dolore pulsava, peggiorando di minuto in minuto. Mi sentivo tuttavia sorpresa, e sollevata. Loro mi volevano bene. Avevano perso i propri genitori e non avevano vacillato. Mi avevano vista, senza maschera, ed avevano fatto finta di nulla. Erano forti, i piccoli. Roxen era mia figlia. Decisi una cosa: non mi sarei uccisa di nuovo, solo per proteggere loro. Forse potevamo davvero fuggire. Lainay si doveva arrendere all’evidenza: non li avrei lasciati andare così facilmente. Avevo commesso un crimine enorme, ma potevo riscattarmi in qualche altro modo che non fosse il suicidio. Si: avevo deciso di adorarli. Com’erano piccoli, ma com’erano coraggiosi! Non sapevo, allora, che sarebbero stati, nei tempi a venire, tra le poche persone che mi avrebbero tenuta aggrappata alla vita, tra gli unici valori per il quale non avrei tentato di nuovo di ammazzarmi. Non sapevo. Ma allora, confusa e debole, sapevo solo di volerli bene. Ci fu un attimo di quiete, prima di essere aggredita di nuovo da una massa di gente felice. Il viso tirato della mia amica occupò all’improvviso tutto il mio campo visivo. Cercava di darsi il suo solito contegno vitale, ma non le riusciva tanto bene, con quelle occhiaie enormi che si ritrovava. Li avevo fatti soffrire, tutti quanti. “e allora, maledetta che non sei altro?”. Tuonò, così forte che mi rimbombarono le orecchie. Chiusi gli occhi di scatto, e digrignai i denti. La sua voce mi dava fastidio. Come accorta del suo errore, Junielle riprese a parlare in modo più pacato. “ti sei svegliata, eh, poltrona? Che volevi combinare, eh? Volevi lasciarci? Sappi che non è cosa facile, dannato mostriciattolo!”. Mi lasciai sfuggire un sorrisetto, ancora ad occhi chiusi, e seppi, chissà come, che anche loro stavano sorridendo, sollevati. Dei, io li volevo bene! Forse loro potevano odiarmi, ma io li volevo bene! Mi si riscaldò il cuore. Ci fu all’improvviso qualche attimo di silenzio, ed un parlottio. Qualcuno uscì. Rumore di sedia spostata, ed un corpo che ci si sedeva di peso. Tijorn mi posò una pezzuola bagnata in fronte, passandomela un paio di volte. Mi resi conto di bruciare. Non stavo affatto bene. “apri gli occhi, sorellina mia…”. Disse, con premura e tanta tenerezza. Gli obbedii, trovandomeli entrambi a fianco, con espressioni tristissime in viso. “detto tra noi, maledetta”. Cominciò Junielle, prendendomi la mano libera, che io strinsi debolmente. La sua finta vitalità era sparita, sostituita dalla stessa aria disperata e stanca di Tijorn. Mi fece male vederla così ridotta. “perché lo hai fatto? Perché? Cosa volevi fare? Cosa è successo per ridurti così?”. Oh, no. Ancora le stesse domande! Perché? Perché mi tormentavano così? Forse, se io avessi detto loro qualcosa, i sarebbero calmati un poi? Forse. Presi qualche momento per rispondere, e guardai il soffitto. Non avevo la forza necessaria per ribattere in modo adeguato. Si sarebbero dovuti arrendere all’evidenza. Cominciavo a perdere lucidità: tutto stava ridiventando tremendamente ovattato. Dovevo fare un altro sforzo, almeno per placare un po’ della loro curiosità. “ho obbedito alla mia Regina, quella bastarda, che sia maledetta in eterno”. Mormorai, afflitta. Un attimo si silenzio perplesso. “ho adempiuto alla mia missione, ma non tutto è andato al suo posto. Lei mi ha ordinato di uccidere Chekaril, e portarle i suoi figli. Ho obbedito”. Ci furono varie esclamazioni di stupore. “ciò non giustifica il tuo tentato suicidio, Lsyn”. Disse Tijorn, pensieroso, sfiorandosi il mento, fissandomi con i suoi occhi acuti, con una strana voce dura e secca. In quei momenti smetteva i panni del dolce elfo premuroso, e tornava ad essere il brutale assassino della sua giovinezza. “quello non era il tuo primo omicidio. Anche io ho ucciso, e lo farei senza il minimo rimorso altre milioni di volte, se solo me lo ordinassero. Non mi piace, e lo sai, ma un ordine non si discute. Ogni normale Spia lo farebbe. E tu non sei una Spia normale: sei stata la nostra punta di diamante. Hai compiuto azioni molto più disgustose e riprovevoli della maggior parte di noi. Cosa c’è in ballo?”. E bravo mio fratello. Era molto più sveglio di quanto avessi mai immaginato. Esitai, perplessa, rimanendo a fissare i loro volti curiosi. Dovevo dire loro qualcosa? Si, o li avrei tormentati in eterno. Sospirai, mentre mi arrivava dal ventre un’ennesima fitta. Repressi un gemito, ed andai avanti. Solo il cielo sapeva quanto mi stessero costando quelle rivelazioni. Mi preparai al colpo. “io lo amavo”. Dissi, semplicemente. Le loro espressioni sconvolte mi sarebbero rimaste impresse per sempre in mente. Tijorn era ad un passo dallo svenire. Junielle sembrava non credere alle proprie orecchie. “Chekaril…io lo amavo. Ma lui mi aveva presa in giro. E lui aveva mia figlia…nostra figlia…”. Non avevo la forza per dire di più. Quelle parole sconnesse furono tutto quello che fui capace di mettere insieme. Mi assalì, inaspettata, un’ondata di debolezza, e sentii girarmi la testa. Non ce la facevo a sostenere tutte quelle emozioni in una sola volta. Mi ero appena svegliata. Richiusi debolmente gli occhi, e lasciai che la mia voce sfumasse, fino a svanire, proprio quando i due stavano cominciando a fare un’infinità di domande. Le voci cominciarono a farsi più lontane. Entrambi tacquero subito, notando il mio comportamento. Poi Tijorn riprese la parola, parlando con tenerezza infinita, riprendendo il suo travestimento di paziente Maestro dalla casa in un bosco, tornano ad essere il mio dolcissimo e disperato fratello maggiore. Non per altro, nel nostro ambiente era chiamato Mille Maschere. “guardala…”. Disse, probabilmente rivolto alla mia amica, con tenerezza infinita. “è così debole… non penso sia il momento di approfondire l’argomento. Lasciamola riposare”. Non sentii la risposta. Quelle parole furono le ultime cose che udii prima di sprofondare nuovamente nel sonno profondo e appiccicoso della febbre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 61
*** Di nuovo nei guai. ***


Non voglio soffermarmi su quei tremendi giorni di riposo forzato, non voglio

Non voglio soffermarmi su quei tremendi giorni di riposo forzato, non voglio. Sono tuttora tra i ricordi più dolorosi che conservo, e tra i più umilianti. Nell’unica settimana che passai coscientemente nella casa di Junielle, in quella comoda stanza, tutto sembrò filare abbastanza liscio. Per i primi tre giorni dopo il mio risveglio, non fui nemmeno capace di mettermi un po’ più dritta, e non facevo altro che dormire, spesso sotto effetto di sedativi, svegliandomi ad intervalli irregolari. Miglioravo molto lentamente. La febbre era ancora presente, e fastidiosa, ed ancor più tremendo era il dolore, ma la terribile ferita che mi ero inflitta stava guarendo. Ebbi modo di conoscere, finalmente, il mio salvatore: un Guaritore piuttosto anziano di cui non ho mai saputo il nome;un uomo, dai tratti evidentemente meridionali, forse addirittura nomadi, dalla lunga barba scura, spruzzata di grigio e bianco. Era una creatura mite ed esperta, dall’infinita delicatezza. Veniva molto spesso, per controllarmi ed agire in caso ci fossero stati segni d’infezione, un fantasma tragicamente sempre presente, ed ogni volta mi parlava, in toni bassi e consolanti, trattandomi come se fossi una bambola di porcellana da riparare. E tale ero, per tutti, ed anche per me stessa. La mia mente era ben lungi dal ristabilirsi dai mostruosi accadimenti delle precedenti settimane, ed ancora vacillava, molto. Perfino io non capivo cosa mi stesse accadendo, né l’ho mai capito. Ero fragile, fragilissima, ed anche una parola fuori luogo era capace di scatenare reazioni inconsulte, che a me, peraltro, sembravano particolarmente legittime. Io avevo sofferto più di tutti, e non mi pareva strano che gli altri soffrissero con me, per me. Io dovevo creare dolore ovunque andassi, per farmi odiare, per far si che tutti si allontanassero da me, per farmi rimanere sola come la cagna che ero. Sprofondai in un abisso di autocommiserazione, ed egoismo. Ma non ero mai, mai sola, per quanto io cercassi di essere il più cattiva possibile. C’era sempre mio fratello, con me, pronto a coccolarmi o sgridarmi, come fossi una sua piccola allieva, o Junielle, che sembrava non reagire alle mie provocazioni. Temevano, chiaramente, un altro tentativo di suicidio. Rimanevano incollati a me, a turno, in ogni momento della giornata. Ero troppo offuscata, tuttavia, per capirlo, per ringraziarli. Nessuno di loro due toccò più, in quei giorni, l’argomento Chekaril. La mia amica mezzelfa ci provò, una volta, poco dopo il mio secondo risveglio; ma la reazione rabbiosa che ebbi, agitandomi tanto da far quasi riaprire la ferita e costringerli a chiamare il Guaritore, e farmi addormentare, li dissuase dal parlare ancora. Da quel momento, tutto, in mia presenza, veniva rallegrato da chiacchiere spensierate. Roxen e Chekaril non ebbero mai il permesso di venirmi a trovare. Sarebbero rimasti sconvolti, da quello che avrebbero visto. Ero troppo, troppo, fuori di me stessa. Tutti i traumi dovuti sopportare fino a quel momento si scaricarono in pochi giorni, con effetti terrificanti. Ed io non capii nulla di ciò che mi stava succedendo, anche se lo ricordo piuttosto bene, e la cosa non mi piace. Ci mancò davvero poco alla più completa pazzia. Forse la febbre mi stava squilibrando la mente, o, forse, era come aveva detto il mio Guaritore: una reazione ritardata a ciò che mi era successo. Era solo una cosa temporanea, mi dicevano. Fatto sta, che ero più ingestibile di un infante capriccioso. Prima mi muovevo a scatti, irrequieta, fino a farmi gemere per il dolore, poi arrivavo ad una fase di completa apatia. Passavo, in pochi attimi, dalla più cupa disperazione alla nera rabbia, sfociando poi in un’allegria isterica, o in un delirio elettrico e nebbioso, spesso nemmeno in quest’ordine. Mangiavo con entusiasmo, quel poco che mi era permesso, poi rifiutavo il cibo, e dovevano costringermi. Non m’importava di Tijorn, né di Junielle, o di Amarto, che ancora non avevo visto, e dei miei piccoli protetti: al centro del mio mondo c’ero io. Qualche volta, intervalli che si facevano sempre più frequenti con il passare dei giorni, riuscivo a riprendere il pieno controllo di me stessa, e tornavo la vecchia, paziente e martire Lsyn. Allora, mi rendevo conto di quello che stavo davvero facendo. Tijorn sembrava sul punto di collassare, quasi più matto di me, e qualche volta l’avevo visto crollare dal sonno mentre mi parlava. Altre volte era successo così: la mia permanenza al Lazzaretto, sconvolta e sfigurata, aveva sortito gli stessi effetti. Me ne ricordavo fin troppo bene. Allora, presa dal rimorso e dai sensi di colpa per quello che combinavo quando non ero in me, lo svegliavo e gli chiedevo scusa. Lui, immancabilmente, mi abbracciava, e mormorava che tutto andava bene, tutto sarebbe andato bene. Junielle mi guardava, e scuoteva la testa con un sospiro. Poi mi prendeva le mani, e le stringeva forte, in segno di vicinanza. Di più non faceva. Sembrava traumatizzata da quello che mi era successo, era davvero sconvolta. Non riusciva nemmeno a fingersi allegra, lei, che era un’abilissima bugiarda, lei, che mi aveva insegnato a mentire.  Allora, ogni volta che si presentava quello scenario, mi ripetevo che non ero degna di loro, che i miei dolci amici erano creature troppo perfette per sporcarsi con le mie drammatiche mancanze, il mio orrido comportamento. Io li stavo facendo soffrire terribilmente. Ed allora, cominciavo a singhiozzare, senza requie, nonostante loro mi abbracciassero, mi carezzassero e cercassero di consolarmi, fino a quando, desolati, non si trovavano costretti a farmi bere qualcosa di amaro, che mi trasportava di forza in un sonno senza sogni. Spesso era quello l’unico modo per dormire: gli incubi mi tormentavano, quando provavo ad addormentarmi da sola. Ed allora mi svegliavo di botto, gridando disperata, facendo immediatamente intervenire la sentinella di turno. Mi vergogno terribilmente a ricordare quel periodo, e spesso evito di pensarci. Ero così fiacca, piegata ed indebolita da una Regina bastarda, a cui avevo giurato fedeltà, a cui avevo donato tutto, che mi aveva mostrato una facciata di severa e composta giustizia, che si era rivelata nient’altro che una sadica approfittatrice, un’impunita omicida, da essere quasi impazzita. Ma, per fortuna, sono sempre stata forte. Fu la mia fortuna. Trovai, in me, qualcosa che mi fece risollevare lo sguardo, qualcosa che rese gli intervalli di lucidità sempre più lunghi. In ben quattro giorni, sprofondai e risalii dal più terribile abisso che io abbia mai provato. Toccai il fondo della mia desolazione, del mio meschino smarrimento, della mia miseria. Ma ne risalii, proprio in quel momento, il più buio. Ebbi il coraggio di dire basta, e di racimolare tutti i brandelli di me che mi erano rimasti, per cercare di metterli insieme, di ricomporli. Mi appigliai con forza all’unica cosa che aveva permesso di mantenermi viva. Bisognava proteggere Roxen e Chekaril. Ed ora anche Tijorn, il mio amato fratello, Junielle, Amarto, Manolìa, Nysha. Forse anche Akita. Bisognava che mi rimettessi il più presto possibile in forma, per fuggire, non sapevo dove, né come. Ma dovevamo fuggire. Non potevamo rimanere lì, con il rischio che il Regno ci prendesse. Pensai che, ormai, la Regina doveva aver capito le mie reali intenzioni, e fosse già alla disperata ricerca delle mie tracce. Dovevo sbrigarmi, e rimettermi in piedi, in uno stato mentale decente. Fu questo, quell’amore inconsulto ed infinito che provavo per la mia piccola famiglia, a riportarmi sulla strada della ragione, a farmi rinsavire.  E, ben presto, i momenti di lucidità si fecero sempre più lunghi, fino a quando non tornai, in un tempo sorprendentemente breve, la solita Lsyn, forse un po’ più ammaccata e malinconica del solito, ma sempre la stessa. Solo gli incubi rimasero al loro posto, invariati. Nessuno mi chiedeva mai cosa sognassi di così brutto, tanto da svegliarmi nel cuore della notte, strillando. Tijorn e Junielle si limitavano a confortarmi. Ragionandoci bene, non mi era andata così malaccio. D’accordo, avevo ucciso il mio amato. Lui mi aveva tradita. Avevo perso il mio punto di riferimento principale, il Regno. Ero una fuorilegge, ormai, per loro. Ma, in fondo, avevo avuto quello che volevo. I miei affetti, intatti. Chekaril non mi aveva mai amata, ma, forse, gli altri, si. Lo vedevo dalla speranza che brillava nei loro occhi ogni volta che mi notavano sorridere, quando mi vedevano tranquilla, quando scherzai per la prima volta con il Guaritore. Avevo, anzi, avuto qualcosa in più. Chekaril, il piccolo Chekaril, e Roxen. Mia figlia, l’ultima persona che mi sarei aspettata di rivedere al mondo. Entrambi i piccoli mi amavano alla follia. Cosa potevo aspettarmi di più, da una vita che ancora, forse, aveva riservato per me qualche sorriso? Mi misi davvero d’impegno, per uscire fuori dalla debolezza in cui ero precipitata. Ed, il quinto giorno dal mio risveglio, riuscii a mantenermi calma per tutta la giornata. Mio fratello sembrava fuori di sé dalla gioia, e così Junielle. Rimasi per un bel po’ a chiacchierare con loro, cercando di sembrare normale, di sorridere, anche se non ne avevo la minima voglia. Non mi sentivo sicura, mi sembrava strano che Tijorn non fosse marcato stretto da quel verme di Akita, pensavo che in realtà mi volesse bene meno di prima. Ma dovevo farlo per loro. Dovevo essere allegra per loro, solo per loro, le parti del mio cuore, le parti divise di me stessa. Fui dolce e tranquilla fino a sera, riuscii anche a mangiare senza alcuna storia, con finta allegria, e li convinsi. Ma nulla m’impedì, ad un certo punto, di sognare il corpo insanguinato di Chekaril che crollava a terra.

Il giorno dopo, la mattina, quando l’effetto del narcotico che qualcuno mi aveva propinato dopo che mi ero svegliata di scatto, piangendo e dimenandomi, svanì del tutto, lasciandomi la mente curiosamente sgombra ed un cattivo sapore in bocca, scoprii di essere sola con Tijorn. Lui era già sveglio, e mi guardava, carezzandomi le ciocche che ricordavo bianche. Sentivo uno strano odore che aleggiava attorno a me, come di pulito. Qualcuno doveva avermi lavata. Junielle, pensai. Fissai mio fratello di rimando. Si era accorto subito che ero sveglia. Mi mossi così, stiracchiandomi leggermente, quel poco  che mi permetteva la ferita, e sbadigliai. Mio fratello continuò a lisciarmi i capelli, con un sorriso incerto. Io gli risposi, ancora sonnecchiante. Avevo appena avuto un’idea. “buongiorno”. Sospirai, vagamente stordita dai postumi del calmante, guardandolo con un ghigno appena accennato. Lui sbuffò, apparendo immensamente sollevato, e mi fece l’occhiolino. Sembrava aver dormito un po’ di più, e si era sistemato i capelli, di nuovo ordinati e lucenti, legati, come ricordavo, nella sua solita coda ordinata, e tagliato la barba. Aveva un’aria più rilassata, e certamente più rispettabile, anche se nulla gli avrebbe tolto quello sguardo cauto. Temeva qualche mia piccola esplosione. Il Guaritore, quando era certo che io non sentissi, cosa che io invece stavo discretamente, ma ovviamente, facendo, l’aveva avvertito di essere delicato, perché ero ancora piuttosto instabile. Lo sapevo, ma, francamente, non m’importava. Avevo una missione troppo importante per trascurarla. “buongiorno, sorellina. Sempre dormigliona come al solito, eh?”. Mi disse, con voce leggera, e scherzosa. Io sorrisi ancora di più, debolmente, chiudendo gli occhi, come a far capire che accettavo la piccola, innocua presa in giro.  “non è certo colpa mia se sogno ogni notte la tua brutta faccia…”. Mormorai, ghignando. Lui rise dolcemente. Un suono che mi era mancato moltissimo. Ci fu un attimo di silenzio. “dov’è Junielle?”. Domandai, aprendo di nuovo gli occhi, e fissando il volto ancora pallido e tirato di mio fratello. Tijorn prese un’aria piuttosto casuale, un’aria che già conoscevo. “oh…niente”. Mi disse, alzando il mento in un gesto regale ed altero. Oh, si: mi stava nascondendo qualcosa. “è uscita, per fare…delle…commissioni”. Mi sorrise, furbescamente, innocente come un piccolo cucciolo paffuto. Stavano preparando qualcosa, quei due. Strinsi gli occhi sospettosa. “e che genere di commissioni?”. Chiesi, con una voce che mi uscì naturalmente vitale, e curiosa, senza forzature, come il giorno prima. Anche io ero più tranquilla, più serena. Ero stata pacificata dalla mia decisione. Mi rimaneva solo un unico, piccolo particolare da capire. L’espressione del mio dolce fratello s’illuminò, e lui mi fece una linguaccia scherzosa. “vedrai che lo capirai presto”. Disse poi, misterioso, scrutandomi con aria circospetta. Temeva, evidentemente, uno dei miei eccessi. Ma io, ben consapevole dei suoi pensieri, non feci altro che stringermi nelle spalle, e prendere un’aria indifferente. Quando sarebbe venuto il momento, l’avrei saputo. Era inutile forzare i tempi. Tijorn parve calmarsi, e mi scrutò, ansioso, riprendendo a giocare con i miei capelli. Quel tocco mi dava un conforto enorme, mi faceva sentire amata. Mi dava un senso infinito di pace. Rimasi un po’ in silenzio, imitato da lui. Dovevo fargli una domanda, una sola. Era troppo pressante. Perché, senza mio fratello, la mia vita era quasi inutile non sarebbe stata altro che un insieme buio di fatti casuali. Ed io l’amavo sopra me stessa, un amore inferiore solo a quello per mia figlia. Ma lui? Dovevo scoprirlo. Lo stomaco rischiava di torcersi al solo pensiero, e di farmi davvero male. Cercai di stare ragionevolmente calma. “Tijorn…”. Chiesi, di punto in bianco, guardandolo ansiosa. “ma tu mi vuoi ancora bene?”. Lui sobbalzò, sorpreso, e mi guardò, sbattendo le palpebre. Sembrava non aspettarsi una domanda del genere. Era confuso, molto confuso. Dopo un attimo che mi parve infinito, il suo volto si aprì in un sorriso enorme, e lui mi abbracciò di scatto, istintivamente. Non mi ritrassi. Mi sembrò che il cuore si stesse sciogliendo, con quel gesto, che stesse riprendendo a battere. Ebbi una voglia matta di ricambiare, ma non potevo, perché la ferita avrebbe tirato troppo, e mi sarei fatta del male. Riuscii solo ad appoggiare la mia testa alla sua spalla, e sorridere. Ancora così, lui riprese a parlare. A giudicare dal tono rotto, mi sembrava commosso. “ma che razza di pensieri fai, Nanetta mia?”. Mi disse, scuotendomi leggermente, quel tanto che bastava per non farmi male. Un altro fiotto di calore, all’altezza del cuore. Mi sentii finalmente libera, e completa, in pace con me stessa, o almeno in una situazione di estrema serenità. Con Tijorn era sempre così. Non saremmo potuti essere più uniti, nemmeno volendo. Avevamo bisogno l’uno dell’altra, e viceversa. Ed io, in sua compagnia, mi sentivo finalmente solida, forte, completa. Lui era la mia spalla. La mia spalla parlante. Un po’ noiosa, certe volte, asfissiante ed apprensiva. Ma era mio fratello. Una parte di me stessa. Mio fratello, il mio dolce fratello, riprese a parlare, ruggendo, quasi. Sembrava scoppiare di felicità. Sentivo addirittura il suo cuore battere. Era emozionato. Provai un moto d’istintivo divertimento, prima di rendermi conto di essere emozionata anch’io. “volerti bene? Solo volerti bene? Rinnegherei me stesso per te! Sei mia sorella, dannazione, no?”. Ovvio. Sentii una bizzarra sensazione di freddo. Ma l’elfastra dal naso lungo? Che fine aveva fatto quel cencio sporco di Akita? Perché non era lì a rovinare i miei affetti? Perché non aveva plagiato Tijorn, in modo che mi odiasse? Dovevo chiederglielo. Aspettai che si calmasse, e che si staccasse da me, rimanendo tuttavia con una mano intrecciata alla mia, prima di domandare. Mi schiarii la voce, improvvisamente seria, e lui mi guardò, preoccupato. E così, dopo essermi riguadagnata la sua attenzione, feci le domande che tanto mi premevano e m’inquietavano. “ma Akita? Che fine ha fatto, Tijorn? Perché non è con te?”. Ahi. Una stranissima ombra sofferente passò sul volto di mio fratello, e lui chiuse gli occhi mordendosi il labbro inferiore. Mi sentii immediatamente in colpa per averglielo chiesto. Quello era un tasto dolente, per lui, una ferita che ancora bruciava. Avrei dovuto immaginarlo. Cos’era successo, per separare i due amanti del secolo, la coppia più improbabile mai vista in vita mia? Chi era stato? Io? Akita era morta? A quel pensiero, quasi provai apprensione. Tijorn non si meritava tanto dolore, in vita sua. Sempre lui, a soffrire per gli altri, e mai un attimo di riposo. Guardai, incuriosita, mio fratello, che, ad un certo punto, aprì bocca. “non lo so”. Mi confessò, in un soffio. Quelle tre parole dovevano costargli molto.  “poco dopo che sono tornato a Sharilar, sai, mi ha mandato una lettera. Diceva di contattare te, Lsyn, di rintracciarti, al più presto. Diceva di aver scoperto qualcosa di orribile, di tremendo, roba grossa e pericolosa. Eravamo tutti in pericolo. Tu dovevi tornare subito, di nascosto, senza farlo sapere alla Regina. Dovevamo raggiungerla, tutti noi, e scappare. Mi ha detto che nel Regno si nascondeva del marcio. Non è stata più esplicita…non sono riuscito a scoprire cosa intendesse dire… le ho mandato un messaggio per vie segrete, volevo che fosse più chiara, che mi raggiungesse… ma lei, Nanetta…non ha più risposto”. Sentii freddo. Sapevo cosa Akita aveva scoperto, io lo sapevo. L’inganno perpetrato nei miei confronti. Aveva cercato di metterci in guardia, di farci fuggire prima che tutto precipitasse, e non ci era riuscita. Era stata, quasi di sicuro, scoperta a trafugare informazioni. E quella cosa costava caro. Sentii, inaspettato, un moto di gratitudine nei suoi confronti. Aveva messo a repentaglio la sua stessa vita, per me. Ed io che la odiavo così tanto! Provai quasi vergogna. Poi, tutto fu cancellato nel momento in cui Tijorn aprì gli occhi, carichi di un dolore immenso. “non ha più risposto, Lsyn…”. Mormorò, con voce sempre più spezzata, mentre riprendeva a tremare. Strinsi forte la mano che mi teneva, e, mi resi conto, di essere io a tenere lui, in quel momento. Ci ero già passata. L’amava davvero. Si era sacrificata per lui. “cosa le sarà successo? Sarà morta? Che avrà voluto dirmi? Cosa dovevo fare?”. Non risposi a quelle domande disperate. Sapevamo cosa succedeva alle Spie prese in castagna, beccate a violare il rigido regolamento di fedeltà. Sparivano. Punto e basta. Nessuno sentiva più parlare di loro. Puff, svanite, come se non fossero mai esistite. Lo sapevamo. Era un qualcosa molto più prossimo di quanto avessimo immaginato. E, fui sorpresa di sentire dolore quanto lui, alla notizia. Forse mi ero sbagliata a giudicare quello stecco dal naso lungo. Forse non era così egoista e perfida come avevo sempre immaginato, un’insopportabile saccente e presuntuosa. Forse mi ero sbagliata. Anche lei aveva avuto del buono. Si era sacrificata, per Tijorn, per me. Ci distrasse, improvviso, dal nostro muto dolore in comune, un bussare alla porta della camera. Sobbalzammo. Tijorn nascose subito il suo tormento dietro una maschera serena, e mi fece l’occhiolino. “Junielle, sei tu?”. Domandò, con voce allegra. Oh. La sorpresa stava arrivando? Provai curiosità, e alzai addirittura la testa dai cuscini per vedere meglio. Cosa mi avevano preparato, quei due mascalzoni? Mio fratello sembrava aver recuperato tutto il buonumore, e sorrideva apertamente, ora, in modo quasi naturale. Sorrisi quasi anch’io. Cambiammo entrambi espressione quando udimmo, dall’altro capo della porta, una voce gelida ed asessuata. Oh, no. Quella non era Junielle. Ci guardammo, ed impallidimmo. Non era Junielle. No che non lo era. Eravamo, più precisamente, nei guai fino al collo. “aprite, Tijorn e Lsyn Amarto”. Disse la voce ben conosciuta di un alto funzionario della corte di Lainay, uno dei più fedeli servitori e leccapiedi. Il Regno ci aveva trovati. Alla fine, tutte le nostre cautele non erano servite a nulla. Mi sentii male. “sappiamo che siete lì. Aprite, o butteremo giù la porta”.

 

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Capitolo 62
*** L'Ermafrodito. ***


Solo in un’altra occasione, poco più tardi, così drammaticamente presto, mi capitò di vedere mio fratello impallidire così tanto, diventando di una gentile sfumatura verdina

Solo in un’altra occasione, poco più tardi, così drammaticamente presto, mi capitò di vedere mio fratello impallidire così tanto, diventando di una gentile sfumatura verdina. Non l’avevo mai visto spaventato in quel modo, l’espressione serafica alterata in  una smorfia di puro terrore, gli occhi un po’ sgranati. Ed io non ero in condizioni migliori. Penso di non aver mai provato un simile terrore. Mai. Una fitta allo stomaco mi ricordò di respirare. Il tempo parve, per, me, congelarsi, cristallizzarsi in mille frammenti del ghiaccio più freddo, che mi perforavano il petto. Provai, per un attimo, dolore puro. Il mio campo visivo si restrinse. Sembrava che il mio mondo si fosse limitato a quella dannata porta. Non c’era più nulla al di fuori di essa. Mi sentii sola, sperduta in una landa desolata, dalla quale non c’è ritorno. Senza pensarci, comandata totalmente dall’istinto, mi girai verso mio fratello, che m’imitò, nello stesso momento. Le mani che prima ci stringevamo così dolcemente, per confortarci, si torsero una morsa spasmodica, dettata dal puro panico. Sapevamo di essere nei guai, nei guai più tremendi. Tijorn aveva sicuramente letto la lettera che avevo mandato a Junielle, e sapeva, almeno in parte, cosa avevo combinato. Inoltre, mi aveva dato una mano, a me, la traditrice. Così facendo, aveva infranto almeno la metà delle regole del nostro severissimo codice d’onore. Le più importanti, inoltre. Io ero, ormai, completamente fuori da ogni giurisdizione. Avevo rifiutato di obbedire alle direttive della Regina. E questo bastava per far di me la peggiore delle peggiori. Sarei dovuta essere unicamente condannata a morte. Il pensiero, dopo essere scampata ad un tentativo di suicidio, mi fece torcere lo stomaco, al punto tale da farmi boccheggiare del dolore. Ci avevano scoperti.  Il Regno, il Regno ci aveva trovati. Come mai? Perché? Cos’era successo? Domande necessarie, anche se drammaticamente inutili. Eravamo già in trappola, come topi invischiati. Tutto era troppo assurdo per poter implicare un tradimento di qualche genere. Era tutto troppo, troppo strano. Sentii Tijorn tremare, e mi accorsi di tremare anch’io. Respirai un paio di volte per calmarmi, profondamente, ma invano. La scelta del nostro prossimo carceriere di certo non aiutava. “Tijorn e Lsyn Amarto!”. Tuonò al di là dell’uscio chiuso della mia stanza quella voce, così conosciuta, dal timbro tremendamente familiare, e minaccioso. “questo è l’ultimo avvertimento! Aprite!”. Io e mio fratello ci fissammo con apprensione. Le occhiaie di Tijorn erano evidenti in modo orrendo, in quel volto reso esangue dalla paura. I suoi occhi sembravano due tane di coniglio, in fondo alle quali brillavano luci grigie. Era quasi inquietante. Ma nulla al confronto di chi ci aspettava al di là della porta. “potremmo fuggire dalla finestra…”. Pigolò quest’ultimo, con una voce così acuta che quasi non la riconobbi, proponendo debolmente una pazzesca via di fuga. Sapevamo entrambi che era impossibile. Io potevo a stento muovermi, e lui non poteva scalare un muro con me in braccio. Mi maledissi, per la mia stupidità, per  aver tentato di uccidermi, facendomi solo molto male. E, poi, c’erano Junielle e gli altri da avvisare. Il pensiero mi fece quasi svenire. Roxen. Chekaril. In mano al Regno, come pezzi di creta morbida, da modellare a proprio piacimento. Eravamo nei guai, guai seri. Io e Tijorn passammo un attimo infinito in silenzio. “i bambini…”. Gemetti a bassa voce, mentre, dall’altro lato, provenivano colpi, ed imprecazioni soffocate. Nessuno dei due aveva la seppur minima intenzione di alzarsi. Era una cosa già stabilita, senza neppure parlare. Che fossero venuti loro, da noi. Non avevamo intenzione di strisciare ancora, non alla presenza di un nostro quasi eguale. Vidi, per la prima volta, un pallido sorriso farsi strada sul volto di Tijorn. “se è di questo che ti preoccupi, sorellina…”. Disse, stringendomi ancora più forte la mano, quasi fino a farmi male, e guardandomi, rassicurante. “loro sono con Junielle, per Zakadi…dovevano andare a prendere Amarto, volevamo farti una sorpresa…”. Accidenti. E che sorpresa! Ma dov’era il compagno di Junielle, quando serviva? Che fine aveva fatto? Di solito, ci veniva sempre a salutare, ed aveva un ottimo rapporto con me, un po’ più venato di ostilità con Tijorn, seppure non fosse stato mai un individuo geloso. Ma, tutto sommato, ci voleva bene. Sentii, improvvisamente, freddo. Era lui il traditore? O era morto?. Un nuovo colpo, più forte, ed un cigolio, ci fecero sobbalzare, e voltare verso la porta. Un altro colpo ancora, ed essa cominciò a dare i primi segnali di cedimento. Le parole di Tijorn mi avevano sollevata. Per quanto dolore avessi dovuto patire, per quante torture, i piccini erano liberi, lontani dalle grinfie di Lainay. Junielle aveva provveduto, seppur inconsapevolmente, alla loro libertà. Lei avrebbe capito, tutto. E magari sarebbero fuggiti da qualche parte, magari ad Uruk, magari in qualche luogo sperduto, e si sarebbero rifatti una vita. E la prospettiva di morire per qualcuno, con Tijorn a fianco, non era poi così cattiva. Una stretta più forte della mano mi fece voltare. Mio fratello mi guardava, con un sorriso strano, forse rassegnato, forse esaltato. Difficile dirlo. “per quanto tu sia stata una vera pazza scriteriata per tutta la tua vita, Nanetta, per quanto tu mi abbia fatto penare non poco…”. Mormorò, consolante e tranquillo. Dannazione. Eravamo già arrivati alle ultime dichiarazioni, allora? Mancava davvero poco. Mi preparai, mentre arrivava un nuovo colpo, ed uno scricchiolio più forte dalla nostra unica, labile difesa. E non avevamo intenzione di erigerne altre. Saremmo morti. Morti, forse, per qualcosa di buono. Cosa fosse, il buono, non lo sapevo. E non lo so tuttora. “ti voglio bene, Nanetta, sempre te ne ho voluto e sempre te ne vorrò”. Sentii un sorriso involontario affiorare in volto. Oh, dei, se solo avesse saputo della mia totale adorazione, per quel fratello magico, dolce, premuroso, sempre presente! Lo avrei protetto a costo della mia miserevole vita. Ma non era il momento di  essere melodrammatici. “ora non esageriamo con le dichiarazioni d’amore eterno, Tijorn”. Ghignai, facendogli l’occhiolino. “magari è solo per una tortura… sai, non necessariamente si muore!”. Lo sentii ridere sommessamente, e quel suono fu musica per me. Far dello spirito in una situazione critica, con un matto sadico e furibondo a pochi metri di distanza. Un’impresa, un’impresa che nascondeva la nostra pacata disperazione. Non è bello sapere di dover morire. Ma, spesso, si riesce lo stesso a scherzarci su. “sei molto ottimista oggi, sorellina mia…”. Ridacchiò, mentre ci stringevamo spasmodicamente le mani, guardandoci con quieto timore. Se fossi sopravvissuta per un po’, scommettevo mi sarebbero usciti i lividi, e così anche a lui. “le tue parole mi scaldano la giornata!”. Non ebbi l’occasione, mai, di rispondergli a tono, di fingermi ancora rilassata ed allegra, quando dentro di me stavo urlando. Perché, in quel momento, con uno schianto sonoro, la porta di legno scuro cedette miseramente, sbattendo contro il muro. Trattenni il respiro, e sentii fievoli parole uscire dalla bocca di mio fratello. Eravamo finiti, totalmente finiti. Con la morte nel cuore, vidi entrare un’alta figura magra, vestita di un ricco abito di velluto blu notte, dal taglio strano, la blusa istoriata con ghirigori argentei, motivo ripreso nel mantello leggero dello stesso colore,  con al centro il giglio bianco di Normar, del Regno. La figura che avrebbe segnato la nostra morte. Quella belva ghignante era più che capace di ammazzarci a forza di torture, dopo una lentissima agonia. Era armato di un lungo coltello, in un fodero di uno strano grigio satinato, dall’elsa sottile. Tremammo. Seppure da sola, seppure poco armata e senza nessuno  proteggerla, l’elegante figura di quella creatura bastava a spaventare ogni essere senziente, a ridurlo ad una lumaca obbediente. E non era difficile comandare un’elfa convalescente, ancora fin troppo debole, e suo fratello disarmato ed insonnolito, entrambi paralizzati dalla paura. Lo conoscevamo, e sapevamo di doverlo temere. Jalim, lo stranissimo Jalim, il cane più feroce della muta della Regina. Sanguinario, pazzo, fedelissimo, misterioso. Nessuno lo conosceva, al punto che perfino i lati più risibili della sua identità ci rimanevano nascosti. Niente in lui parlava. Perfino il suo nome, un’accozzaglia ben studiata di suoni, non diceva nulla, sulle sue origini. Era già a fianco del Regno prima ancora che io nascessi. Ma, non per questo, non lo conoscevo di fama. Le voci nel quartier generale parlavano di una figura, comunque, controversa. Capriccioso fino ad un limite estremo, era un individuo da prendere con le pinze, e molti avevano sperimentato la sua furia incontrollabile. Ogni sua parola era da misurare attentamente, perché si trattava di un’affilata una lama a doppio taglio. Era tra i cuccioli più perversi mai usciti dall’allevamento di Lainay. Calmissimo, inquietante e malevolo, un attimo prima, sadico, rabbioso ed isterico, quello dopo. Ma sempre incomprensibile, una porta della quale nessuno aveva la chiave. La combinazione di vocali all’interno del nome Jalim era, ed è, tipica di un nome neutro. Ho sempre nutrito fondati e feroci sospetti che quella non fosse la sua vera identità. Ero sempre stata smaniosa di apprendere qualcosa su di lui, sul suo mistero. Ma, in ogni caso, evitavo quanto più possibile di parlargli. Una pazzia, peraltro, il chiedergli qualcosa. Ricordavo ancora con vivissimo orrore un mio conoscente, l’Occhio, e quello che Jalim gli aveva fatto, solo perché aveva osato insultarlo, a bassissima voce. Penso che quella creatura indemoniata abbia mangiato personalmente, con mio enorme disgusto, le labbra e la lingua che gli aveva strappato in presenza della Regina. Tijorn, nei suoi periodi da Spia, nella sua giovinezza, aveva avuto spesso contatti con lui, era stato costretto addirittura a lavorarci assieme, più di una volta. E l’impressione che ne aveva ricavato era facilmente arguibile, sia dalle orrende cicatrici di origine sconosciuta che gli correvano trasversalmente sulle spalle, ferite di cui si era sempre rifiutato di riferirmi la storia, sia dal panico puro che gli correva in viso ogni volta che Jalim si avvicinava. E mio fratello aveva più che ragione. Era una creatura ripugnante, un grosso ragno peloso, che tesseva la sua tela, senza fermarsi mai. In lui, ogni azione era tesa verso e per il Regno, verso la sua Lainay. Tutto quel mistero che faceva di se stesso m’infastidiva, e quella brama di sangue era anormale anche per quella che ero io un tempo, e mi metteva una gran fifa addosso. Solo Lainay sembrava conoscerlo, d’altronde. Non era un mistero la sua preferenza spiccata per Jalim, che consultava spesso, per ogni cosa. E sembrava amarlo, apprezzarlo, un amore malsano, una complicità che mi ha sempre fatto rabbrividire. L’impossibilità di capire cosa Jalim fosse, effettivamente, rendeva difficile classificare quell’attaccamento morboso, e fin troppo ricambiato. Ma scommettevo che la scelta del cieco Cyran come consorte non fosse dovuta solo a motivi politici, e di comando. Trasgredire, rompere giuramenti, schemi, e divertirsi, è sempre stata una prerogativa della mia Regina.  Tra me e me l’avevo sempre chiamato l’Ermafrodito, per motivi fin troppo ovvi. Quando parlava usava il maschile, o il femminile, indiscriminatamente, a suo piacimento. Il suo aspetto poteva essere benissimo quello di un’elfa, e quello di un elfo, nello stesso tempo. La sua voce, addirittura, aveva inflessioni sia maschili che femminili, una parlata lenta e strisciante, che avevo sempre fatto volentieri a meno di ascoltare. Ed il suo viso, dai toni quasi albini, incolori, anonimi, con quei capelli bianchi e mortalmente lisci, dai riflessi azzurrognoli, dalla pelle candida come marmo, e dagli svelti e sarcastici occhi di un azzurro chiarissimo, quasi bianco, o di un bianco quasi azzurro, aveva tratti così confusi da risultare androgini. Non mi sarebbe parso strano se qualcuno fosse venuto da me a raccontarmi come avesse alterato i suoi lineamenti per ottenere quell’effetto spettrale. Ed ora ce lo trovavamo davanti, il volto freddo ed inespressivo che avevamo tutti imparato ad associare al pericolo, le labbra tese e biancastre, unico segno della sua rabbia. Era ad un passo dall’esplodere. Tijorn tirò un gran respiro, e si zittì. “oh oh oh…”. Ridacchiò Jalim, con l’espressione fissa di un serpente divertito, la voce musicale ed incongrua che risuonava leziosa, come una miriade di campanellini. Mi si accapponò la pelle, e fremetti: avevo come la sensazione che volesse staccarsi, per correre in un posto sicuro. Quella creatura era da sempre una delle poche capaci di riempirmi di terrore. Conoscevo abbastanza bene l’ermafrodito maledetto per non riconoscere i suoi modi di fare. Quel tono dolcissimo ed ipnotico era più pericoloso di un urlo di rabbia. “a quanto pare, chi non muore si rivede…”. Non gli rispondemmo, attoniti, e lui fece un passo avanti. Risuonò in tutta la stanza, come se fosse stato un tuono, un tuono foriero di sventura. Jalim alzò così le mani, con un sorriso sarcastico, avanzando ancora lentamente verso di noi, scuotendo i capelli con fare leggiadro. “ma non scomodatevi, non alzatevi per me!”. Il suo comportamento era apparentemente cordiale, ma potevo benissimo vedere gli occhi freddi, fissi su di noi, lievemente scintillanti, di pazzia, o di delirio, forse. Sentii Tijorn rabbrividire violentemente, e lasciarmi la mano. Lui lo conosceva meglio di me. Lo guardai con la coda dell’occhio. Sembrava inchiodato alla sua sedia, bloccato lì come da una forza sovrannaturale, ogni muscolo teso, ed era pallidissimo. Le vene del collo spiccavano, come corde. Era più spaurito di me. Solo lui, Jalim, era capace di ridurlo in quello stato. Mio fratello non era mai stato un elfo vile, mai. Cercai di non pensare a cosa quel mostro gli avesse fatto per ammaestrarlo a quel modo. Ricordavo nettamente quando ci avevano avvisati, me ed il Maestro, ancora forte, sano ed indipendente, che lui era tornato ferito dalla missione intrapresa un mese prima, ed era al Lazzaretto di Galinne. Non avevano voluto dirci cosa avesse. Io ed Amarto ci eravamo preoccupati molto: sapevamo quanto fosse stata facile la missione, un compito quasi da novellini, ma ci aveva allarmato l’insistenza del pericoloso Jalim ad accompagnarlo, a controllarlo. L’avevamo pregato di stare attento ad ogni cosa, insieme a quell’orrendo esemplare di elfo, di non osare. Parole inutili. Fu la prima, e quasi unica, volta, in cui fui costretta a fare io da compagnia a Tijorn al Lazzaretto, una cosa che ho sempre odiato. Aveva riportato segni di origine sconosciuta un po’ su tutto il corpo, e si era rotto un paio di costole, come per una caduta violenta. Ma più inquietanti erano i quattro tagli sulla schiena, colpi profondi e netti che avevano tutta l’aria di essere stati inferti da un artigli molto, molto affilati. Non aveva voluto rivelare a nessuno l’origine di tutti quei malanni, nemmeno ai Guaritori. Nemmeno a me. La prima cosa che fece non appena fu in grado di alzarsi fu quella di correre al quartier generale per un colloquio con la Spia che aveva il compito di segnare le Spie disponibili, per una missione o per divenire Maestri. Dopo un po’, arrivò una lettera che lo avvertiva della nascita delle sue future allieve, e della data in cui le avrebbero portate da lui. Fu la missione che sancì il suo definitivo ritiro, che lo spinse a richiedere il permesso per divenire Maestro, uno dei tanti motivi che lo spinsero a ritirarsi a Sharilar. Ero rimasta spiazzata dal suo comportamento, ed avevo voluto conoscere il motivo della sua scelta. Lui era impallidito, ed aveva cambiato discorso. Sembrava spaventarsi a morte ogni volta che si tirava in ballo Jalim. Avevo deciso di lasciar perdere, ma rabbrividivo al solo pensiero di quali orrori fosse stato costretto a sopportare, in quella dannata missione. Trovarsi vicino,a pochi passi dal suo aguzzino, senza potersi muovere, doveva essere un’esperienza terribile, per lui.  Dovevo assomigliargli, quando i Tengu si avvicinavano con i loro scettri malefici. Non l’avevo mai visto con gli occhi così sgranati. L’elfo androgino parve accorgersene, e sorrise biecamente all’indirizzo di Tijorn, che batté le palpebre una volta, e si mosse impercettibilmente verso di me, come a volermi proteggere. Un gesto che mi riempì di tenerezza, mista ad allarme. Sprofondai nelle coperte, desiderando di sporgermi per abbracciare il mio spaventato fratello, senza poterlo fare, e cercai di nascondermi. Il fruscio che provocai fece guizzare per un attimo lo sguardo di Jalim verso di me. Poi, lui lo riportò a Tijorn. “ma come, tesoro caro…”. Disse, improvvisamente, fermandosi accanto a lui, e guardandolo, con un cipiglio sadicamente divertito. “non sei felice di vedermi? Ero così ansioso di vedere un così antico e buon compagno di squadra!”. Tijorn rabbrividì di nuovo, e spostò ancora di più la sedia verso di me, nascondendomi alla vista del pericoloso elfo. “Jalim…”. Disse, come saluto, con una voce fredda e piatta, che sapevo usava solo quando aveva da nascondere un forte sentimento. E sapevo, per una volta, cosa il mio povero fratello stesse sopportando, cosa si stesse agitando nei meandri della sua anima. “gentile, da parte tua, venirci a fare una visita…”. La risposta della creatura mi sconcertò. Lui scoppiò a ridere, una risata insopportabile, stridula come il suono di unghie sul vetro, lievemente folle, ed il suo viso esangue s’illuminò, colorando lievemente di rosso le guance. Rapida com’era venuta, la risata s’interruppe, e lui, ancora lievemente tinto da un pizzico di vita, si girò verso di me. Soffocai un gemito di terrore quando vidi i suoi occhi spettrali accendersi, un fuoco fatuo e malvagio che covava in bulbi pallidi e acuti. Il mio corpo reagì istantaneamente al pericolo che la mia mente aveva recepito già da un po’ di tempo. Provai l’impulso irrefrenabile di fuggire, e mi mossi un po’, a disagio. Avrei voluto avere un paio di ali, come quelle della Matriarca, per sfuggire ad una situazione così spinosa. Mi resi conto di tremare follemente, e di non riuscire a staccare lo sguardo da quel viso spaventoso.  Jalim fece un passo verso di me. Mi trattenni dall’urlare. “oh, Tijorn caro…”. Cinguettò, con calma mortale, ed un sorriso bieco stampato in viso. Poi proseguì, senza prendere fiato, fissandomi ancora con quello sguardo incandescente, ardente di furia a stento imbrigliata in una tranquilla apparenza. “è questa la tua piccola Sorella di Maestro? Ma certo, che sciocca che sono, la vedevo spesso al castello! Ma non mi avevi mai raccontato dei suoi occhi, caro!”. Eh? Cosa stava dicendo? I miei occhi? Cosa avevano i miei occhi, i miei normalissimi occhi del nero più profondo ed intenso, un colore che aveva ispirato al mio Maestro il mio nome, che non andava? E, soprattutto, perché quell’essere diabolico si metteva a cianciare dei miei occhi? Provai una fitta d’inquietudine, e sospirai. “superano addirittura i tuoi, Tijorn, il che è tutto dire…tu guarda, sono così neri che non si vede la pupilla! Sarà un grande piacere appropriarmene dopo che la mia Signora avrà finito con voi!”. Il sorriso perverso che si dipinse sul suo volto pallido ci fece scattare. Io sobbalzai, l’orrore che strisciava freddo in me, e Tijorn saltò in piedi, come se qualcuno l’avesse scosso, frapponendosi tra me ed il mostro. Fu un atto di enorme coraggio, un atto istintivo che ancora mi lascia di stucco, al solo ricordo. Jalim, tuttavia, fu più veloce di lui. Stava aspettando quel movimento, ne ero sicura. Ci aveva stuzzicati apposta. Sentii così un rumore strano, come di uno schiaffo, e mio fratello mi cadde quasi addosso, piombando seduto sui miei piedi, tenendosi una guancia, che il bastardo ermafrodito aveva sicuramente colpito. Tuttavia, la prima cosa che fu, fu quella di allungare l’altra mano, quella libera, e di stringere una delle mie, spasmodicamente, senza guardarmi. Fremetti di rabbia, impotente e momentanea. Come, come osava fare del male al mio dolce fratellino? Come osava schiaffeggiarlo? Maledetto! Perché infliggeva un simile trattamento a noi, come fossimo schiavi? Cos’era, ci credeva bambini imbelli, solo perché disarmati? Mi voltai di nuovo verso l’androgino, arrabbiata oltre ogni dire, decisa a dirgli qualcosa di pungente ma ogni istinto bellicoso fu soffocato, come fiammelle sotto un pesante panno di lana, dalla sua espressione. Jalim non sorrideva, né ridacchiava più. Ci fissava, muto, immobile e rigido come un cadavere, la mano sottile e femminea ancora alzata. Allargò le narici, e per un attimo sembrò più terribile che mai. “Tijorn e Lsyn Amarto, allievi di Amarto Sindjisk, detti Mille Maschere e l’Ombra”. Scandì, mentre la rabbia, finora trattenuta, fluiva dalle sue parole, impregnandole di fatalità da giorno finale, mentre ci fissava, spalancando lievemente gli occhi. Un comportamento che m’incuriosì, ed avrei riso per la sua stranezza, se non fossi stata così annientata dalla paura. Ma Tijorn sembrava sapere bene cosa stesse per venire, ed il suo atteggiamento me lo dimostrò in pieno. La mia mano venne stritolata da un fratello terribilmente impaurito. “siete stati accusati di: cospirazione, alto tradimento, avete infranto tutte le leggi del vostro Codice… alzatevi, e seguitemi, perché l’Altrove è il luogo del vostro pentimento”. L’Altrove. Così lo chiamavamo. Nessuno sapeva cosa, o dove, fosse. Avevo sempre pensato fosse una sentenza di morte, e che li ingannassero, per portarli a morire da qualche parte. Mi sbagliavo, ma allora non sapevo. Il mio cuore saltò un paio di battiti, e mi guardai a lungo con mio fratello. Vidi stampata sul suo viso un’espressione rassegnata, che sapevo riflessa in modo speculare sul mio. Quante, quante volte avevo sentito quelle parole, quelle formule che tanto ci spaventavano, rivolte magari ad una Spia insolvente? E quanto, quanto avevo deplorato la sua condizione, sapendo che sarebbe sparita, senza più dare notizie di sé? Quante volte avevo immaginato dove potesse finire, come potesse morire? Quante volte mi ero sentita fiera di non essere mai stata richiamata, di essere una delle poche Spie con la fedina immacolata? Ecco come mi ero ridotta. Per cercare di salvare la vita di due innocenti, ero condannata ad una pena di cui non conoscevo nemmeno l’esatta entità. Sarei morta. Però, inaspettata, sentii travolgermi un’ondata di speranza. Avevo adempiuto alla mia principale missione, che mi ero autoimposta. Chi s’importava, in quel momento, di Lainay, della maledetta? I piccoli era salvi, sani e salvi. Per quanto avessero potuto torturarmi, in quel maledetto Altrove, avrei avuto una luce a sorreggermi, un motivo per resistere. La mia bocca sarebbe rimasta serrata, mentre due infanti avrebbero giocato in un prato, ridendo, spensierati, con una mezzelfa amorevole a proteggerli. E, così, sarei forse morta felice. La cosa mi piaceva, molto. In fondo, la mia vita era servita a qualcosa, dopotutto. Avevo abbandonato quell’esistenza priva di nerbo e senso che era stata il mio fulcro per cos lungo tempo, quando svolgevo missioni senza cognizione di causa alcuna, senza valori e senza amore. Il mio destino si compiva. La scriteriata Ombra non era più. Lsyn aveva trionfato, con tutto il suo carico d’ingombrante sofferenza. Due piccoli erano salvi, pronti a vivere una nuova esistenza da ribelli.  Combattere per un ideale, giusto o sbagliato, non m’interessava. L’unico mio obiettivo era stato quello di far felici due creature innocenti, alle quali tenevo molto. Non avrei mai voluto che si sporcassero, si macchiassero come avevo fatto io. E ci ero riuscita. La mia dolce Roxen era scampata a quell’ingranaggio di bestialità che era il Regno. L’allegro Chekaril era sopravvissuto ad un nome ed un’armatura troppo stretti per lui, per il suo animo così buono. E tanto bastava, tanto bastava per rendermi felice. Non m’importava. Sarei morta piena, cosciente del mio unico, e raro, gesto buono, anche se estremamente egoista, e sarei morta con Tijorn. Cosa potevo volere di più? Mi lasciai prendere così in braccio da mio fratello, diventato inespressivo e stordito, mentre Jalim lo pungolava da dietro con quello che mi parve un coltello, lasciandomi avvolgere senza storie da una coperta leggera, e, mentre camminavamo, ebbi anche il coraggio di rivolgere un sorrisone al nostro aguzzino, un gesto che lo lasciò spiazzato. Risi, in me, per quel volto confuso. Pensavo di saperla più lunga di lui. Molto più lunga. Uscimmo dalla casa di Junielle, situata in un posto più discosto dalle altre, quell’edificio di così buongusto, dove ci aspettava, a cavallo, un drappello di enormi elfi montati su altrettanto minacciose cavalcature scure. Sentii mio fratello sobbalzare, e mormorare un’imprecazione sottovoce, stringendomi più forte. Non mi piacque quell’atteggiamento. Qualcosa era andato storto. Mi girai di scatto. Ed il mondo mi crollò addosso. In me si fece il vuoto più totale. Perché quei bastardi erano riusciti a catturare tutti, a mettere le loro mani sudice su tutti. Amarto, il vecchio cieco, già in sella ad un magro castrone, l’aria abbattuta e sconfitta, Manolìa e Nysha, confuse, che si tenevano strette su un baio, Junielle, con gli occhi verdi che scintillavano di rabbia, con un livido grosso quanto una mela sul collo, i capelli impolverati, legata ad un ciuco, tutti con le briglie saldamente assicurate nelle mani di quei terribili cavalieri, a noi nemici, che ci fissavano con aria ostile. C’era un enorme cavallo nero, dall’aria piuttosto inquieta, ad aspettare me e Tijorn. Se c’erano loro, allora sapevo anche che i piccoli erano perduti, per me. Lainay avrebbe vinto, per l’ennesima volta. Volevo piangere, solo piangere. Fallita. Con orrore crescente, mi voltai verso due soldati a piedi, dall’aria più esile, ma evidentemente Immortali, che tenevano avvinti strettamente ad essi, Chekaril e Roxen, che si dibattevano con aria ribelle, con tutte le loro forze. Ma non potevano far nulla contro due elfi addestrati. Avevo fallito. Lainay li avrebbe presi. No! No! Non pure quello, non poteva essere così, stavo sognando tutto! Un urlo rabbioso di Chekaril mi fece tremare. Stavano facendo loro del male? L’aria venne a mancarmi, e sentii uno strano rumore, come un pigolio. Dopo poco, mi resi conto di essere io a produrlo. All’improvviso, dopo un terribile attimo cristallizzato, mia figlia parve notarmi. “zia Lsyn!”. Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, tendendo le magre braccia verso di me. Mi riscossi, in un attimo. Vidi tutto rosso, e mi avvolse una furia incredibile. Non potevano permettersi di portare via i piccoli! Li avrei uccisi, uno per uno, se solo avessero provato!. Dimenticai di essere ferita, e praticamente inutile. Avrei potuto fare una strage di quei bastardi. “no!”. Ruggii, cercando di alzarmi, di divincolarmi dalla stretta rassicurante di Tijorn, e di correre verso di loro. Un dolore lancinante, insopportabile, al ventre accolse quel movimento avventato. E scivolai nel buio più assoluto.  

 

 

 

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Capitolo 63
*** Se Akita lascia un libro... ***


Essere legata come un salame a cavallo, costretta ad una posizione assurdamente immobile per ore, appiccicata ad un fratello ugualmente avvinto, il dolore in agguato ad ogni movimento della propria cavalcatura, la febbre che mi faceva rimbombare la testa

Essere legata come un salame a cavallo, costretta ad una posizione assurdamente immobile per ore, appiccicata ad un fratello ugualmente avvinto, il dolore in agguato ad ogni movimento della propria cavalcatura, la febbre che mi faceva rimbombare la testa come un gigantesco tamburo, non è un’esperienza che, in tutta sincerità, vorrei ripetere. E dire che passammo ben dieci giorni in viaggio, una colonna compatta e minacciosa di soldati e poveri prigionieri, preceduti da un grande carro coperto, in quelle condizioni. Non vidi più i miei piccoli, i miei poveri protetti, non riuscii a trovarli in tutta quella marmaglia, ma non mi stancai mai di cercare. Mai. Ero letteralmente pazza di rabbia, quando mi svegliai, a cavallo, le mani strettamente tenute contro la sella del nostro cavallo nero, con dietro Tijorn, che sopportò tutte le angherie con il suo solito stoicismo, a cui ero assurdamente legata. Entrambi non potevamo muoverci, nemmeno cambiare posizione. Potevamo solo girare la testa. Lo scoprii dopo essermi divincolata per un’ora buona, urlando con quel poco di fiato che avevo nei polmoni tutti gli insulti che conoscevo, contro i soldati, contro Jalim, contro il Regno, contro Lainay, contro il mondo, e, soprattutto, contro me stessa, fino a quando la febbre aveva preso il sopravvento. Ero stata, indubbiamente, una cretina. Un’imbecille poco previdente, come mio solito. Perché avevo cercato di suicidarmi? Perché avevo commesso un gesto così sciocco? Debole così com’ero, non potevo fare nulla per liberare e liberarmi, e, soprattutto, per trovare Chekaril e Roxen. Avevo fallito, anche in questo. Il solo pensiero mi riempiva di una smania orrenda, un pungolo doloroso, e praticamente inutile. Mi torturavo, pensando al mio incombente fallimento, a quel fallimento che si era riversato su tutti noi. Perché ero andata a Zakadi? Perché mi ero diretta in un posto così affollato, dove era fin troppo facile contattare le autorità di qualche regnante, dove erano frequentemente in allerta per l’arrivo di criminali e fuorilegge? Più ci pensavo, più mi pareva ovvio. Sarei potuta andare dai Tengu, con i piccoli. Avrei potuto infiltrarmi in qualche carovana Insathi,  ed eludere i confini, per andare nel deserto, o, non so, anche nelle zone polari del Regno, dove gli abitanti più ostili erano gli orsi. Ero stata enormemente stupida, a non pensarci prima. Quel pensiero mi rodeva, quel rimorso stava scavando in me in un odio devastante, profondissimo, e, ora che tutto è ancora cambiato, mi rode tuttora. Un odio verso me stessa, peraltro. Sarei stata io, in un modo o nell’altro, a consegnare ad una pazza i piccoli, per farne suoi piccoli diletti. Si sarebbe mostrata sicuramente per ciò che non era, tutta zucchero e miele, una vera mamma putativa, ed avrebbe plagiato quelle due menti giovani ed inesperte con la stessa facilità con la quale era stata traviata la mia, quella di Tijorn, di Akita, e tutte le altre Spie. Lainay, signora suprema del Nord, Regina beneamata del Regno Elfico, e bla bla bla, era infinitamente brava in quel genere di cose. Una vera serpe, tutta tesa verso un obiettivo che nessuno aveva mai compreso appieno. Ma, il solo pensiero della rovina che avevo causato mi faceva piangere, singhiozzare come una povera derelitta. Immaginavo Roxen, ormai adulta, a fianco di Lainay, gli occhi viola accesi dalla stessa luce delirante e gelida, mandare a morte degli innocenti;  Chekaril, diventato maledetto come il padre, giocare con le anime di mille e mille persone, e mi tormentavo.  Viaggiammo, così, dieci giorni, dieci giorni di vera e propria tortura, per me, e per gli altri. Per tutti, la sola idea di finire in un luogo di cui non si sapeva l’ubicazione, un luogo semplicemente chiamato Altrove, un’accezione generica che metteva i brividi, in tutta la sua potenza profetica, terrorizzava. Inoltre, ciliegina sulla torta, sia io che mio fratello, durante tutto il giorno, eravamo affidati a Jalim, che trottava a fianco del nostro cavallo, tenendo le briglie, più lunghe del normale, con fare disinvolto ed allegro, come se per lui quella non fosse altro che una gita di piacere, e forse, nella sua mentalità distorta, lo era, eccome. Penso, anzi, ho la certezza, che la scelta di Jalim come nostra guida non aveva del casuale. Ne erano, come prove fin troppo schiaccianti, il fatto che lui, eccitato come un infante alla vista di un balocco nuovo, non smetteva di parlarci, confondendosi con i generi molto più del solito, e sorridendo biecamente. E non erano belle cose, quello che cianciava a voce alta, per niente. Avevo sentito spesso Tijorn tremare, terrorizzato, ed io stessa avevo avuto la pelle d’oca più di una volta. Ed a ragione. Perché, no, non era da Jalim cicalare di cose normali per una qualsiasi creatura senziente, no. Troppo poco originale, e, soprattutto, sadico. Lui ci ripeteva entusiasticamente, ossessivamente, praticamente sempre, che la sua luminosa Regina gli aveva fatto un grandissimo regalo, l’aveva reso un essere felice, la creatura più felice del mondo. Gli aveva dato praticamente privilegi infiniti nella guerra, di cui ci ripeteva le fasi fino allo stremo, ed erano tutti suoi i prigionieri da torturare, e le mansioni più sanguinolente. Un lavoro che lo riempiva di gioia ebbra. Mi rivoltava il sentire, ogni dannatissimo giorno, fino a quando la luce calava, cosa aveva fatto ad ognuno delle sue sfortunate vittime, e cosa avrebbe fatto con noi, se solo la Regina gliel’avesse permesso. Poi ci confessava, con voce più bassa, e malvagia, facendolo evidentemente apposta, che, visto che eravamo condannati all’Altrove, all’oblio eterno, visto che eravamo traditori della patria e dell’onor elfico, eravamo comunque in suo potere. Tutti in suo potere. E lui avrebbe potuto fare tutto quello che gli fosse passato per quello strumento perverso di tortura, dove tutto usciva distorto come un cavaturaccioli, che si ritrovava come mente. E, dicendo così, guardava Tijorn, con uno strano scintillio malefico negli occhi. Lo sentivo deglutire, sempre, e non rispondere. Jalim doveva avergli fatto davvero del male, per spaventare il mio Tijorn in quella maniera. Potevo solo immaginare, e, di solito, non cose positive. Il vedere mio fratello così tremante mi riempiva d’angoscia. Era una tortura mentale, la nostra, insopportabile, d’altronde. Nei miei sogni, già abbastanza sconvolti dalla febbre, si andavano ad aggiungere anche le scene che evocava, quel bastardo ermafrodito, in deliri allucinanti che mi lasciavano spossata. E sapevo che nemmeno Tijorn dormiva molto. Era quello più colpito dei due, dalla vicinanza del suo antico aguzzino, dai suoi modi di fare e di dire atroci,  e, anche se non lo dava a vedere molto, stava soffrendo pene inimmaginabili. Era diventato, man mano che il viaggio procedeva verso nord, sempre più cupo, e poco reattivo. Negli occhi brillavano le fiamme del tormento, il dolore più puro. Gli ultimi giorni, nemmeno le promesse dell’ermafrodito di staccargli le orecchie se non gli avesse parlato, se non l’avesse celebrato come dovuto, funzionarono. Aveva resistito fino a quel momento, ma poi anche lui, che era di tempra piuttosto forte, aveva ceduto. Se il viaggio verso il luogo tanto temuto fosse stato più lungo, di sicuro si sarebbe lasciato morire. Gli ultimi periodi prese ad evitare addirittura il mio sguardo, preferendo fissare il vuoto, mentre si formava in mezzo la fronte, una piccola ruga che indicava quand’era assorto nei suoi pensieri, nelle sue fantasticherie. Cercava di fuggire a tutto quello, almeno con la mente. Mi sentii terribilmente in colpa. Per colpa mia, lui, che non c’entrava assolutamente niente con le mie beghe con il Regno, era stato trascinato nel suo incubo ad occhi aperti. Era tutta colpa mia. Sapevo quanto stesse soffrendo, e ne soffrivo anch’io. Più che altro, avrei volentieri cavato la lingua al maledetto, per offrirla a mio fratello, se solo avessi potuto. Potevano fare qualunque cosa a me, torturarmi in ogni modo possibile, ma Tijorn no. Non lui. Non era permesso, non era lecito! Come osava, Jalim, in tutto il suo sadismo accentuato ed estremizzato, far del male, o volerlo fare, quantomeno, ad una creatura buona come la mia adorata mamma chioccia? Come osava? Odiai più che mai quel pazzo. Era frustrante, oltretutto, il non poter fare nulla, nemmeno poter fuggire. E così, ogni volta che Jalim si permetteva di fare un’allusione al passato di Tijorn, io lo fulminavo con lo sguardo, dimenandomi, e digrignando i denti guadagnandomi nient’altro che una risatina ed un buffetto sulla guancia buona. Un paio di volte, cercai addirittura di morderglielo, quell’arto freddissimo e morbido, e fu l’unica volta che ottenni una reazione non da Jalim, ma da mio fratello, che mi sussurrò un no disperato, e cercò di divincolarsi a sua volta. La sofferenza contenuta in quell’unica parola, lo smarrimento, mi dissuasero dal ripetere quell’atteggiamento, molto più dell’occhiata assassina dell’ermafrodito. Il bastardo ci logorava, lavorando sull’unica leva che possedeva per tormentarci. Jalim sembrava preferirci, in una maniera possessiva e malsana, preferire entrambi, e gli occhi gli scintillavano ogni volta che giurava di voler i nostri, di occhi. Ed a me, quell’orrore si sommava alla tristezza infinita, al senso d’inutilità assoluta che provavo, nel vedere il carro incedere lento avanti a noi, carro in cui c’erano sicuramente i piccoli, che non scesero né si fecero vedere mai. Chissà cosa gli avevano raccontato, per farli stare buoni, per addolcire la loro prigionia. Temetti, ad un certo momento, che li stessero minacciando, che stessero usando tutto la loro potenza orribile per convincere Roxen e Chekaril a capitolare. Speravo ardentemente non fosse così. Furono dieci giorni di patimenti difficilmente narrabili, un orrore che la mia mente rifiutava, e rifiuta ancora, di ricordare. Patimenti non solo psichici: per dieci giorni fui tormentata dalla febbre, che imperversava specialmente di notte, e dal dolore. Viaggiavamo senza un Guaritore, e, i miei amici, cominciarono a temere il peggio. La ferita non era ancora guarita quando ci avevano prelevati così brutalmente. E quel trattamento disumano non mi faceva bene. Loro, d’altronde, non stavano meglio di me. Viaggiavamo legati ai cavalli per tutta la giornata, senza soste, senza mangiare né bere, fino alla sera, quando, sotto sorveglianza generalmente di qualche soldato nerboruto, eravamo sbattuti lontano dall’accampamento, all’aria aperta, e ci veniva dato un morso di pane, e carne affumicata, assieme ad un po’ d’acqua. Nei primi giorni, fu Tijorn il mio assistente, come aveva fatto sempre, sempre e sempre. Era lui che mi teneva in braccio, per riscaldarmi quando la febbre si alzava al punto tale che, nonostante fosse ormai estate anche lì, tremavo di freddo, avvolgendomi con il suo mantello, ed il mio. Era lui che sacrificava metà della sua razione d’acqua per me. Era lui che mi convinceva a mangiare un po’. Era lui che, vincendo il timore ed il suo naturale buonsenso prudente, andò a supplicare i rudi soldati, una notte in cui io stavo peggio del solito, di farmi avvicinare al falò che avevano creato nell’accampamento per cucinare, per riscaldarmi, o, quantomeno, accendere un fuocherello, perché non avevamo cattive intenzioni, ma erano preoccupati per la mia salute, che era già compromessa. Si beccò, come tutta risposta, un tremendo pugno nello stomaco, che lo fece cadere a terra, ed una sequela d’insulti. Non hanno pietà, per le Spie cadute in disgrazia, come noi non ne avevamo di loro durante le nostre missioni. Con il passare del tempo, man mano che Tijorn sprofondava sempre di più nella sua apatia, a lui si sostituirono Junielle, che veniva malmenata spesso, perché mezzelfa, ed Amarto, il mio dolce Maestro, che mi teneva stretta a sé, ripetendomi, a volte piangendo, che era tutta colpa sua. Ma, alle mie domande, non rispondeva mai. Povero, povero, vecchio mio. Sembrava eludere lo sguardo di tutti, nonostante non potesse vederci, e la sera non si addormentava se non aveva me, mio fratello, Nysha e Manolìa accanto, protetti dalla sua stretta. La sua famiglia. Una parola che mi sembrava strana, immensamente. Mi sembrò tanto di ritornare piccola, quando avevo un incubo ed il mio Maestro mi consolava. Volevo tanto ringraziare, ringraziare tanta bontà, e tanto affetto, ma non ce la facevo. Blateravo spesso dei piccoli, preda del delirio, e tutte le notti erano sogni strani. L’ermafrodito entrava in molti di questi. Ero terrorizzata da lui.  Ancora oggi, mentre scrivo queste parole, sento la pelle accapponarsi, e mi sembra quasi che Jalim venga, da me, a torturarmi ancora. È orribile pensare che, da quell’accadimento, sono passati più di dieci anni. Ancora fa fin troppo male per abituarsi al pensiero. Finalmente, dopo che ci ebbero bendati gli occhi, e fatti girare a lungo in tondo, arrivammo,  in un tardo pomeriggio estivo e caldo, in un gigantesco atrio, forse un’ex scuderia, dove c’era, ad aspettarci, un manipolo di soldatini imberbi. Dopo tutte quelle torture, ci sembrò un sollievo, essere affidati a quei giovani dallo sguardo inesperto. Era, forse, una loro tattica, quella di estenuare il prigioniero, prima di portarli lì? Cosa sarebbe successo, ora? Eravamo, comunque, arrivati. Come ho scoperto poi, l’Altrove non è altro che un antico castello di una delle monarchie antecedenti il Regno, molto vicino a quello che era il confine con Uruk, non lontano da Sharilar. Un luogo davvero carino, una costruzione regale immersa nella foresta, appollaiata su un monte come un’aquila, dove, fin dalle origini del nostro ordine, venivano portate le Spie macchiatesi di un terribile delitto, in attesa che il verdetto venisse reso definitivo, e pronunciato. Un luogo tutto sommato ancora sicuro, in quei tempi di guerra, proprio perché in una zona poco popolata, e tranquilla. Ma un posto pericoloso. Davvero pericoloso. Pericoloso per noi. Mentre eravamo ancora bendati, avevano allontanato il carro, con mio enorme dolore, e urla stridule.  Noi eravamo stati portati da un ingresso secondario, ad un atrio vicino agli alloggi del Guaritore. Ne avevamo un po’ tutti bisogno. Una volta smontati tutti, io in braccio a Tijorn, l’unico che non aveva le mani legate, con mia grande gioia, ci congedammo da Jalim e dalla sua terribile compagnia. Lui, rimontando a cavallo, come tutta risposta ai nostri sguardi sollevati fece un sorrisone, e l’occhiolino. “ci rivediamo presto, miei diletti!”. Tubò, agitando il braccio, voltando poi la sua cavalcatura, ed uscendo. Sentii mio fratello stringermi più forte, e girai lo sguardo verso di lui. Gli occhi erano sgranati al punto tale da sembrar sul punto di voler schizzare fuori dalle orbite. Era un piacere, tuttavia, vedere il terrore dipinto anche nei volti dei giovani elfi che ci dovevano scortare. Terrore, e disgusto. Tutto sommato, quei soldati semplici erano anime miti, gentili, normali guardie, che ancora conservavano la loro parte di umanità, per quanto umano possa essere un elfo. Creature rispettose, e meste, senza nome. Ci indicarono gentilmente la strada, ed aiutarono addirittura Junielle ed Amarto, i più provati dal lungo viaggio a cavallo. Un paio presero per mano Nysha e Manolìa, che non avevano parlato dall’inizio del viaggio, e si erano limitate a stare con il mio Maestro, e cominciarono a scherzare con loro, strappando dai loro visini sconvolti e smagriti un sorrisino. Qualcuno di loro si accorse del viso spento di mio fratello, e borbottarono tra loro, chiedendogli gentilmente se potevano portarmi, se lui aveva bisogno di aiuto. Lui non rispondeva a nessuno, e si limitava a stringermi più forte. In silenzio, ci dirigemmo verso l’uscita dell’atrio, entrando così in un lungo corridoio, sobrio e dai colori tenui, con un’unica porta in fondo. Una scena vagamente inquietante. Preceduti da due soldati, io e Tijorn fummo i primi ad avviarci. “dove stiamo andando?”. Squittì, da dietro, una vocina, forse Manolìa, quando eravamo quasi vicini alla porta. Una voce gentile, quella del capitano, un elfo smilzo ed abbronzato, che sembrava impacciato nella divisa, quanto un drago che vuole imitare una libellula, che dava tutta l’aria di essere stato strappato da poco ai campi. “dal Guaritore, piccola mia…”. Disse, sporgendosi per aprire la porta. Era scuro in viso. “è una tappa obbligata, visto le condizioni in cui siete ridotti… su forza, voi due, entrate…”. Si fece da parte, spalancando la porta, permettendo al fantasma di Tijorn, con me in braccio, di entrare nell’ampia stanza luminosa e tiepida, dal soffitto alto ed i colori chiari ed allegri, di forma rettangolare. C’erano ben due ampi finestre, che davano sulla foresta intera. In un lato, era tutto un affastellarsi di armadietti di varia forma e colore, mentre, dall’altro, c’erano alcuni letti, e poltroncine, dai colori vivaci, tutto tipico di una camera comune di un Lazzaretto. Una scena che, a me, era piuttosto familiare. Una sedia era occupata, da quella che mi sembrava un’elfa bionda e molto pallida, vestita di un bellissimo abito prugna. I capelli, liscissimi e luminosi, le cadevano a nascondere il viso, ora chino su un libro, aperto sulle sue ginocchia. Sentii Tijorn emettere un sospiro roco, e sobbalzare, preso di sorpresa. Mezza stordita dalla febbre, sulle prime non capii cosa avesse scatenato quella reazione. Ma poi, mi riempì nient’altro che la meraviglia, quando l’elfa, probabilmente incuriosita dal rumore, non alzò il viso. Il cuore mi si fermò per la sorpresa, ed io rimasi, sconvolta, a fissare il viso altrettanto sconvolto di Akita. Era lei. Impossibile sbagliarsi. Avevo visto infinite volte quel viso magro, dalla pelle diafana, quasi azzurrina, quegli occhi lievemente allungati, contornati da ciglia folte, di uno strano ed anonimo azzurro scambiato, ora spalancati per la sorpresa. Soprattutto, avevo preso in giro infinite volte il suo naso, un po’ lungo, ed adunco, un particolare che stonava drammaticamente con il resto del suo essere, che avrebbe potuto essere definito carino, se non fosse stato per quel particolare. Dimenticandosi del libro, quella che una volta era mia nemica acerrima scattò in piedi, rivelando la sua incredibile altezza, pari a quella di Tijorn. Mi aspettavo di trovarla magra come un chiodo, anemica, come l’ultima volta che l’avevo scorta, ma non mi sembrava, da quello che vedevo. Per niente. Era ingrassata un po’. E non le stava male, anche se mi pareva strano. Molto strano. Rimanemmo per una frazione di secondo ad osservarci. Strano, nel vederla, sentii gioia, quasi, e gratitudine immensa. Niente odio, niente acrimonia. La sua azione, il suo sacrificio, aveva cancellato tutto il mio astio nei suoi confronti. È bizzarro constatare come cambino le cose. Beh…almeno, non eravamo soli nell’ultima parte del nostro calvario. C’era lei a tener alto il morale di mio fratello. Lei mi avrebbe aiutata a fargli dimenticare l’orrore, lo sapevo. Si vedeva da come ci guardava, piena di spavento. “maledizione!”. Fu l’unica cosa che, penso, si sentì di dire, con la sua voce lievemente stridula, cominciando ad affrettarsi verso di noi, lasciando, cosa che mi stupì moltissimo, il libro a terra, aperto e capovolto. Se Akita lascia un libro, si diceva al quartier generale, preparati alla fine del mondo.

 

 

 

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Capitolo 64
*** Qualcosa cambia. ***


Ed alla fine del mondo ci saremmo dovuti preparare, se non altro per quello che sarebbe successo

Ed alla fine del mondo ci saremmo dovuti preparare, se non altro per quello che sarebbe successo. Che ci sarebbe successo. La fine del mondo, del nostro mondo, il termine di quella parte minuscola dell’esistenza globale, che tanto era per noi preziosa. Niente fu mai più come prima. Si è spento un sole, si sono accese mille candele. Ciò basta per rischiarare il nostro ottuso cammino. Ma la luce da loro emanata non è che pallido riflesso, mero fantasma, delle cose che furono, della grandezza passata. Tante piccole, timide fiammelle, sussurri tenui di speranza, che insieme riscaldano il cuore, riscaldano il cuore di noi, i superstiti. Ma, chi, allora, aveva speranza? Come avremmo potuto sperare, rinchiusi in un luogo di cui non sapevamo nemmeno l’ubicazione? Ci limitammo, ad andare avanti, a far finta di non essere condannati. Come se la nostra ora non fosse già scoccata, sottoforma di carro traballante, dove sedevano due piccoli elfi, innocenti e tremanti, la mia nuova ossessione. Rimanemmo così, ad osservare, impietriti, Akita correre verso di noi, pallida più del solito. Portava, cosa strana per lei, per la sua stessa natura non esattamente agile, un bel vestito prugna, di quello che mi sembrò lino, o comunque una stoffa molto leggera, trattenuto in alto da una fascia più scura, alquanto sottile, uno stile tipico di Galinne. La guardai, stupita. Non era esattamente la prima persona che mi sarei aspettata di ritrovare, in quel posto misterioso. Penso che Tijorn fosse dello stesso parere mio. Se non fossi stata tra le sue braccia, troppo debole per poter camminare da sola, si sarebbe precipitato dalla sua amata elfa. Glielo leggevo in faccia, negli occhi, quasi incantati, come quelli di un cieco a cui, improvvisamente, permettono di poter vedere il mondo, la luce, i colori. E, devo ammettere, anch’io ero piuttosto felice di vedere lì il Falco, quell’elfa con la quale ero stata nemica, la creatura che, quando le mie preoccupazioni non erano altro che quelle dovute ad una missione, cose che, in quei momenti drammatici, mi parevano stupidaggini, o ad un ballo, mi aveva presa crudelmente in giro, che non aveva sprecato un’occasione per dire la sua con quella lingua lunga ed affilata che si ritrovava. Akita, la mia casuale compagna di stanza, durante gli ultimi periodi dell’apprendistato, che abbiamo fatto assieme. Akita, che mi rendeva impossibile l’esistenza, che mi faceva scappare da Tijorn, esasperata. La buffona, l’eterna sfortunata. Aveva vissuto l’intera infanzia nel quartier generale, sola in mezzo ad indifferenti adulti, ma nessuno conosceva il motivo. L’insopportabile, l’affamata cronica. Spesso, presa dall’ispirazione che mi scorreva nelle vene, carogna come poche volte in vita mia, per vendicarmi dei suoi commenti urticanti ed acidi, fatti di solito in mensa in mezzo alla folla, spifferavo ai supervisori le sue sortite notturne in cucina, facendo sì che venisse punita. Finivamo spesso, dalle nostre schermaglie acide, a duelli veri e propri. Era stato un grandissimo sollievo quello di finire l’apprendistato, divenire Spia vera e propria, ed avere una camera nel quartier generale, tutta per me. Ma la rivalità era rimasta, e molto. L’ultima volta che l’avevo vista, era stato quando, ancora convalescente e piuttosto instabile, ero andata a recuperare alcune cose, nella mia camera, che sapevo di vedere per l’ultima volta. Anche lei stava per partire, per una meta che non conoscevo, né conobbi mai. Una missione segreta, segretissima.   Io, Spia ormai decaduta, che tutti ormai evitavano, stavo cercando i miei pochi averi davvero utili, intabarrata sotto strati di tessuto che nascondevano il mio corpo ormai sfigurato, quando l’avevo sentita, dalla porta, che avevo lasciato aperta, parlarmi. Cercò di stuzzicarmi, come faceva sempre, di provocare in me una qualche reazione che l’avrebbe soddisfatta, e mi diede dell’inetta, dell’inutile relitto. Mi bastò, allora, alzare lo sguardo per farla impallidire, e zittirla. Lei mi seguì all’interno di tutto il quartier generale. Mi sentii il suo sguardo addosso fino a quando non uscii dall’edificio, ma non la salutai. Fu l’ultima volta che la vidi di persona. Mi ero aspettata, dopo tutti quegli anni, che lei stesse facendo i salti dalla gioia, stesse progettando ogni modo possibile per abbattermi del tutto, di privarmi di tutte le cose che lei avrebbe fagocitato avidamente. Da giovane era perfettamente capace di farlo. Avevo pensato che Tijorn non fosse altro che un pretesto per farlo allontanare da me, per cercare di staccarmi dal mio stesso fratello tanto amato. Dei mi ero sbagliata, ed alla grande. Anche lei era cresciuta, e di molto. Akita, con tutti i suoi terribili difetti, conosceva la misericordia, la pietà. Era una creatura capace di amare, di comprendere ogni tipo di amore. E ne ebbi la conferma, in quel momento, tra le braccia di un fratello paralizzato dalla sorpresa, per metà stordita dalla febbre, per l’altra annebbiata dalla pena, ossessionata dal pensiero di Roxen e Chekaril, che erano sicuramente nel mio stesso edificio, per chissà quale motivo. Io e mio fratello fummo travolti da un’elfa preoccupata, e trepidante. Mi avvolse, d’improvviso, il profumo che da sempre usava, una mistura che io avevo giudicato sempre troppo stucchevole e pesante, ma che, in quel momento, mi riportò indietro, con la memoria, a tempi molto più felici. Socchiusi gli occhi, lasciandomi trasportare dall’ondata di ricordi. Anche la voce era perfettamente uguale a come la ricordavo. Per un attimo non capii più nulla. Qualcuno mi aveva abbracciato, qualcuno aveva abbracciato me e Tijorn. “per gli dei, maledizione! Per gli dei!”. Imprecò quella che una volta mi era stata nemica, staccandosi da noi. Riconobbi la nota di eccitazione febbrile, di agitazione estrema, nella sua voce acuta e familiare. Era un piacere ascoltare quel suono, anche se era piuttosto sgradevole. Mi riportava a momenti più felici. Mi metteva gioia, nonostante mi facesse rimbombare la testa. “Akita…”. Mormorò Tijorn, con una roca voce d’oltretomba, un basso latrato che quasi non gli apparteneva. Bene. Aveva ripreso a parlare. Riaprii gli occhi solo per guardarlo di nuovo in viso. Era, almeno, un po’ più vivo, animato. La vista della sua amata elfa sembrava averlo rinvigorito un po’, sembrava avergli strappato via quel velo impalpabile di apatia disperata che era sceso su di lui, alla vista di Jalim. Scostandosi con uno scatto impaziente del viso pallido i capelli, il Falco fece un gesto strano, allontanandosi. “non ora, Tijorn! Non è il momento!”. Cinguettò, urgente, guardandomi con ansia, girandosi verso un punto in cui gli armadietti s’interrompevano. Ricambiai stancamente il suo sguardo. Avevo una disperata voglia di dormire. La stessa febbre m’impediva, tuttavia, lo stesso dolore, di chiudere occhio. Ero davvero stanca. Non desideravo altro che dimenticare, per un po’, i miei guai. “mettila su uno dei letti, svelto! Max! Max!”. Le invidiai i polmoni di ferro. Aveva detto tutto quello senza nemmeno prendere fiato, urlando come un marinaio. Mi sentii percorrere da una fitta di dolore alla testa, per le stesse note acute del suo tono, e chiusi gli occhi, di scatto, irrigidendomi, e digrignando i denti. Sentii Tijorn muoversi, camminare, e chinare il viso verso di me. “coraggio Nanetta, coraggio…”. Mi bisbigliò, piuttosto preoccupato, posandomi poi su quello che interpretai come un letto. Alcuni rumori. Una porta cigolò. “e diamine, Akita, stavo lavorando!”. Brontolò una voce maschile, molto profonda e lenta, scandalizzata. Giudicai il suo tono molto, molto irritato. “cos’è che urli in questo modo barbaro? Li avevo sentiti, accidenti! Cosa credi che io sia, sordo? Invalido? Imbecille? Che fretta c’era…”. La voce misteriosa, mai sentita prima, sfumò nel nulla. Altri passi. Sentii, d’improvviso, qualcuno incombere su di me. Chi era? Max? Ma chi era Max, il Guaritore? Con la testa piena di strani echi, mi azzardai, presa dalla curiosità, ad aprire gli occhi. Se fossi stata meglio, penso che avrei apprezzato a pieno la stranezza della cosa. Davanti a me, indecifrabile e fosco, c’era il Guaritore meno Guaritore che avessi mai visto. Se di Guaritore si trattava, e non di boia. Nella mia lunga esperienza di Lazzaretti ed affini, avevo imparato ad associare al mestiere un viso dolce, spesso paffuto, dall’espressione speranzosa e bonaria. Quell’elfo non era esattamente così. Anzi, non lo era per niente. Era brutto, e rozzo, seppure avesse un fascino tutto suo. Su questo non c’era da discutere. Aveva capelli castani, che non doveva lavare forse da un secolo o due, tirati in uno stretto codino, che gli serviva, forse, a nascondere la calvizie così incipiente che io, seppur stesa e mezza addormentata, notai. Un elfo calvo. Disgustoso. Sembrava non concedersi un buon riposo da settimane, ed aveva il viso sfatto come quello di Tijorn, dalla barba lunga di qualche giorno. Due occhi castani mi fissavano, scrutatori ed indignati. Ci fu un attimo di silenzio. Con lo sguardo, mi spostai fino a guardare Tijorn ed Akita, ai piedi del letto, che erano un accanto all’altra, e mi guardavano, ansiosi. “beh, Akita, perché accidenti non hai fatto più in fretta, eh?”. Abbaiò lo strano elfo, girandosi verso di lei, in tono piuttosto seccato. La mia amica arrossì furiosamente, ed abbassò il capo. “ma sono appena venuti, Max…”. il Guaritore in questione, si staccò per un momento dal mio letto, sparendo dal mio campo visivo. Richiusi gli occhi sfinita. Sentii, come da una grande distanza, la voce di Max sibilare. Mi sembrava molto, molto seccato. “eh, sono appena venuti! Cosa credi, che io sia un novellino? Non cercare di difenderti!”. Di nuovo passi, e rumore di ferraglia. Silenzio. Beh? Quanto aspettava a curarmi, almeno, a darmi qualcosa che mi avrebbe trasportata nel mondo dei sogni? Qualcuno si schiarì la voce. “beh? Mi volete dire cos’ha questa, o devo andare a casaccio?”. Beh. Davvero non avevo mai incontrato un Guaritore più acido di quello. Senza parlare, qualcuno di scostò gli abiti, facendo vedere la tremenda ferita. Qualcuno, presumibilmente Akita, tirò il fiato. Max brontolò qualcosa d’indistinto, probabilmente bestemmie, e, senza preamboli alcuni mi toccò la ferita con un dito, premendo leggermente. Il dolore fu immediato, lancinante come se mi avessero di nuovo lanciato una palla di fuoco addosso. Fuoco, fuoco mi bruciava nelle viscere, fuoco mi bruciava sulla pelle. Ma perché accidenti mi ero conficcata una spada in corpo? Perché ero stata così idiota? In quel momento, sarei stata in piedi, magari sarei riuscita a fuggire con i piccoli, e la mia famiglia. Troppo tardi, per rimpianti stupidi. Tutto quello che potevo fare, era, come sempre, prendermela con il Guaritore, approfittando della sua gentilezza di fondo per non essere aggredita a mia volta. Fondamentalmente meschino, e molto infantile, ma dovevo pure bestemmiare contro qualcuno, no? Non misi in conto, quasi ovviamente, la natura insolita di Max, insolita per un mite Guaritore. Così, presa dal tormento, mentre lui ancora esaminava la ferita, provocandomi spesso atroci fitte, cercai di alzarmi, ed aprii gli occhi. Non avrei tollerato un secondo di più di essere trattata come una cavia. Così emisi un gemito strozzato, cercandomi di mettere dritta. Una fitta più forte delle altre mi dissuase, ed io mi morsi le labbra per non urlare, mormorando una bestemmia. Sentii, immediatamente, qualcuno cingermi le spalle, e cercare un modo per riaccompagnarmi sul materasso. Cercai di ribellarmi, ma chi mi teneva era più forte di me, e riuscì a piegarmi, ed a mantenermi. Era difficilissimo stare ferma. In tutto questo, l’elfo non si era mosso, e, armato di un grembiule macchiato, dalle mille tasche dalle quali fuoriuscivano oggetti dall’uso per me sconosciuto, continuava la sua accurata ispezione. Non volevo ammetterlo nemmeno a me stessa, ma ci sapeva fare. Era bravo. “lasciami stare!”. Implorai, con una voce sottile che non sembrava la mia. Parole fatali. Mi pentii immediatamente di aver parlato, e l’abbraccio asfissiante del quale ero prigioniera, divenne un rifugio accogliente. Calò il silenzio. Le mani fredde di Max smisero di tastarmi la pancia, e lui si girò. Mi sentii morire, sotto quello sguardo gelido, e sentii il viso in fiamme. Ci fu un terribile momento di silenzio. Mi morsi le labbra per non gemere ancora. Il dolore era insopportabile. “pretendi di fare il mio lavoro, elfa?”. Disse lentamente Max, con calma mortale. “cos’è che siete, voi Spie, tutte uguali?”. Rimasi letteralmente a corto di parole. Quello strano Guaritore m’intimoriva. Dovevo essere tremendamente rossa. Per la prima volta in tutta la mia vita, con mio grande stupore, abbassai lo sguardo, piena di vergogna, e umiliazione, guardando il mo abito macchiato come se fosse la cosa più bella del mondo, l’opera d’arte più inestimabile. Dopo un altro, imbarazzante, momento di silenzio, il terribile Guaritore parlò. “la ferita superficiale è leggermente irritata, niente di che, considerando il modo disumano con cui vi hanno portati qui...”. Disse, con tono professionale, abbandonando quell’aria di asprezza che l’aveva contraddistinto. “è gonfia, e qualche punto è saltato. Ma, per il resto, va molto bene. All’interno è quasi totalmente guarita, per fortuna. Chi l’ha curata prima ci sapeva fare.  È stata trafitta da una spada o una lancia, vero?”. Attimo di silenzio. Immaginai Tijorn annuire. La stretta che mi teneva immobilizzata si allentò, trasformandosi in un abbraccio rassicurante. Mi ritenni piuttosto al sicuro per poter richiudere gli occhi, e poggiai il capo su un braccio caldo e morbido. “mh”. Mugugnò Max, rovistando da qualche parte. “cercherò di toglierle i punti, e di cauterizzare ciò che resta della ferita”. Oh. Il panico mi avvolse, immediato, a quelle parole, e m’irrigidii di nuovo. Sapevo a cosa stavo per andare incontro. Dolore terribile, insopportabile. L’abbracciò tornò ad essere una stretta ferrea, presagendo che mi sarei mossa. Doveva essere Tijorn a mantenermi. Solo lui mi conosceva abbastanza bene da ricordare una per una le mie intemperanze di fronte ai Guaritori. Ed il dolore non era abbastanza per fermarmi, anzi. Più aumentava e più io divenivo una belva. Avrei voluto saltare vie, strisciare fino a qualche letto, e nascondermi sotto. Perché ero stata altre volte sottoposta a quel trattamento. E non mi piaceva, per niente. Non avevo voglia di farmi friggere un altro po’. Tutto quello che riuscii a fare, tuttavia, fu riaprire gli occhi, e voltarmi verso Max. “ti prego… non il fuoco…”. L’elfo bruno alzò gli occhi al soffitto. Il viso era mobile, dalle espressioni mutevoli. “cielo, un’altra!”. Esclamò, facendo un gesto nella mia direzione, indignato. “stai zitta e fammi fare il mio lavoro, ti ho detto!”. Se non fossi stata così stanca, molto probabilmente mi sarei sentita scandalizzata immensamente da quel comportamento così incivile e poco rispettoso nei miei confronti. Come si permetteva, lui, infimo Guaritore, di parlarmi in quella maniera? Mi ricordai di una cosa, e ricacciai in gola gli insulti che sentivo salire nella mia gola, come una fiammata. Ecco.. avevo dimenticato, per l’ennesima volta, di non essere più una potente Spia. Io, nel mondo, valevo meno di prima. Ero una nullità, ora, un’elfa tra le tante. Anzi: una paria, una traditrice, condannata ad una morte ancora misteriosa. Ed, ora come ora, quello strano Guaritore era infinitamente più superiore a me, di rango. Prenderne coscienza mi fece ancora una volta male. Sospirai, e richiusi la bocca. “scusatemi”. Mormorai, con voce incerta, concentrandomi, umiliata, sulla punta del naso dritto e corto del Guaritore. Lui non fece altro che sbuffare, la bocca socchiusa. “era ora!”. Tuonò, guardandomi fisso, con i suoi implacabili occhi castani. Implacabili, perché mi avevano fatto ricordare la mia inutilità, implacabili, perché mi mettevano di fronte alla mia meschina esistenza, al mio carattere impossibile. “Akita, prendi questa…”. Disse, dopo un breve attimo, il Guaritore, con una voce leggermente annoiata. “visto che la signorina qui non sopporta il dolore, fagliela bere tutta…”. Rialzai lo sguardo, solo per un attimo, piena di riconoscenza verso quell’elfo che, alla fine, aveva capito il mio strazio, ma vidi che Max non mi guardava. Si era girato, indifferente ed indaffarato, per preparare i suoi strumenti, spostai così lo sguardo verso Akita, che aveva appena stappato una fiala verdastra, e mi guardava, con un sorriso pietoso sul viso. Guardai, come in cerca di qualcosa di cui nemmeno io conoscevo l’esistenza, verso Tijorn, e lui mi restituì lo sguardo, dolcemente. Di nuovo, la stretta si allentò. Non mi ribellai alla fiala. Avrei fatto di tutto, pur di sfuggire per qualche tempo al dolore fisico, ma, soprattutto, alla disperazione che minacciava di travolgermi. Accolsi l’oblio, il cupo, riposante oblio, con gioia. Ben presto, sarei stata meglio, in tutti i sensi.

 

Sognavo. I piccoli mi stavano guardando, dietro ad una buia prigione, ed io avevo un mazzo di chiavi in mano. Dovevo lasciarli andare, dovevo liberarli, assolutamente. Così, poi, sarebbero fuggiti. Ma, no, non potevo muovermi. Cercavo di liberarmi dalle pastoie che mi tenevano inchiodata sul posto, ma non ci riuscivo. E rimanevo a guardarli, mentre loro m’imploravano di liberarli. Mi dispiace. Dissi loro, prima che il sogno di frantumasse in mille schegge colorate, lasciandomi solo una vaga sensazione di calore. Ritornai ad avere un corpo, un corpo libero. Ero sveglia. Qualcuno mi teneva al caldo. C’era qualcuno, a passarmi un panno umido sulla fronte. Ancora febbre? Davvero, davvero, non ne potevo più. Almeno, ero cosciente. Il dolore al ventre si era notevolmente attenuato, anche se rimaneva una vaga sensazione di bruciore. “dodici”. Disse, una voce allegra e querula, che proveniva da un punto al mio fianco. Sobbalzai lievemente, ed aprii gli occhi. Mi ritrovai davanti il viso pallido di Akita, che sorrideva. “oh, ben svegliata”. Mi disse, con un sorriso stanco. Io ricambiai quel sorriso, debolmente. “sei sola, qui?”. Mormorai, debolmente. Dov’era Tijorn? Avevo, assolutamente, bisogno di sentirlo vicino. Stava meglio? Aveva dormito un po’? Akita parve capire al volo quello che intendevo dire. “Tijorn è di sopra…l’ho mandato a dormire poco fa. Era distrutto, poverino…”. Il sorriso si trasformò in un’espressione dolcissima, innamorata, ma incredibilmente triste. Oh, era cambiata molto. Non era più la mia nemica acida. L’amore sembrava averle fuso il cervello. Era capitato anche a me. E anche l’aspetto era mutato. Il viso era più dolce. I lineamenti spigolosi di una volta erano diventati un ovale perfetto, grazioso e morbido. Il Falco, quell’elfa che un tempo avevo così odiato, aggrottò un sopracciglio. “non ti dispiace se ci sono solo io, vero?”. Mi disse, in tono molto meno sicuro. Un’ondata di stanchezza mi avvolse, e scossi il capo. No: non mi dispiaceva avere accanto colei che aveva tentato di salvare le mie illusioni, di farmi vivere intatta. “va tutto bene, allora…perché, sai, io volevo scambiare un paio di parole con te”. Capii subito cosa intendeva dire. Sentii un nocciolo di dura ritrosia farsi strada in me. “no, Akita”. Dissi, con insolita asprezza, guardando dritto nei suoi occhi, ora seri. “non ho intenzione di riesumare quello che ho fatto. I miei incubi mi bastano”. L’elfa sorrise amaramente. Sentii una mano delicata e fresca afferrare la mia. Sorpresa per un contatto così insolito da parte di lei, che mi odiava tanto, quasi mi ritrassi. Temevo quasi fosse tutta una presa in giro. Ma poi, riuscii a dominarmi, dominare l’istinto che mi supplicava di nascondermi, di evitare il Falco crudele. Ma lei non era più il Falco, come io non ero più l’Ombra. Strinsi anch’io, lievemente, un contatto che la fece sorridere. “me ne sono accorta dei tuoi incubi…”. Bofonchiò, tornando, per un attimo, ad essere quella di un tempo. Ma poi scosse il capo, e ritornò il mistero di prima. Alzò gli occhi verso di me, colmi di serietà. Si mordicchiò il labbro inferiore. “in realtà, Lsyn…”. Mormorò, con un sospiro, guardandomi dritta in volto. “quello che ti voglio dire è che mi dispiace. Dovevo contattarti io, direttamente. Ma temevo che mi odiassi, Lsyn, che non mi ascoltassi. Mi dispiace di essere stata così cattiva nei tuoi confronti. Sai, il problema era che io ero invidiosa di te…”. Mi confessò, senza prendere di nuovo fiato. Lo sguardo si fece improvvisamente duro. “tu eri così felice, con quel fratello che ti amava come una parte di se stesso, con un Maestro… il mio, sai, era un incosciente. Morì prima del mio decimo compleanno. Fu ucciso. E nessuno voleva accollarsi la mia responsabilità”. Il sorriso si torse in una smorfia. La capivo, benissimo. A volte, succedeva che un piccolo novizio rimanesse senza tutori. Ed allora, l’unica possibilità per farlo vivere era quella di allevarlo al quartier generale. Ma non era una bella vita. Nessuno amava quegli allievi di nessuno, e venivano ignorati appena possibile. Per Akita, l’allegra e ciarliera Akita, le cose non dovevano essere state belle. “sai… sono stata prossima a divenire una tua Sorella. Ma Amarto aveva già ben due allievi con sé, e voleva curarli bene… cos’ero io, al confronto della piccola stella che già prometteva bene, al confronto del piccolo sole che cominciava a splendere?”. Mi agitai, a disagio, con una strana sensazione al livello dello stomaco, quando vidi alcune lacrime scintillare sugli zigomi alti della mia migliore nemica. Non mi ero mai accorta di quanto soffrisse, di quanto la sua vita fosse già cominciata con un fallimento. “ed ho vissuto nel quartier generale…tutti quegli anni…sai cosa significa, Lsyn?”. Mormorò, lei, deglutendo, guardandomi con disperazione. Sembrava volersi togliere un peso da dosso. “lo sai? Lo sai che ero l’unica infante? Lo sai che potevo pure scomparire, per mesi, e nessuno se ne sarebbe mai accorto? Lo sai che è stato un maggiordomo paziente ad insegnarmi a leggere? Lo sai che vivevo con la servitù?”. Su quelle ultime parole, la voce si spezzò, e lei tirò su col naso. Oh, Akita… mi sentii tremendamente in colpa per averla trattata sempre così male. Avevo dato per scontato qualcosa che lei non aveva mai avuto. Degli affetti. La sensazione di essere amata. Qualcosa di cui mi ubriacavano. E lei, per tutto quel tempo, aveva vissuto al freddo, ed al buio. Le strinsi la mano, forte. Di più non potevo fare, e me ne rammaricai. Lei mi guardò, e sembrò prendere un po’ di coraggio. Riprese a parlare, con voce rotta. “e poi…e poi… poi vi ho visti arrivare, Lsyn, uno ad uno… nutriti, ben puliti, amati… e tu, che  litigavi con Tijorn, senza nemmeno renderti conto di quanto fosse prezioso! Di quanto fosse bello, essere amati…protetti… e tu, che non te ne rendevi conto! Ti odiai, e tanto”. Lei strinse le labbra, mentre gli occhi scialbi le splendevano di furia. “ti ho odiato tanto. Tu…avevi tutto. Io niente. Ho cercato di renderti la vita più difficile possibile, di farti vedere quanto orrenda fosse la vita reale… volevo primeggiare, in tutto, ricordi? E tu mi davi sempre sonore lezioni. Ed io ti invidiavo sempre di più, perché eri più abile, intelligente di me… ed io cos’ero, se non un rifiuto del destino?”. Basta. Non sopportai più quelle parole, che mi ferivano nel profondo, e feci per parlare. Volevo scusarmi, scusarmi per tutto, per tutto, per tutto. Ma lei, notando forse un mio movimento mi zittì, mentre io non potetti fare altro che rimanere a guardarla, le lacrime che le scendevano silenziose sulle guance. Poi mi accorsi di piangere anch’io. Difficile non farlo. Un pallido sorriso inondò il viso di Akita, illuminandolo debolmente. “Lsyn…so cosa vuoi dirmi”. Mi disse, con calma. “vuoi scusarti, e lo so. Ma tu non potevi sapere. Ho fatto di tutto, per scavalcarti. Dovrei essere io a scusarmi. Dei, com’ero superba, allora! Non sai com’ero felice, di sapere che tu eri stata ferita gravemente, con scarse possibilità di ripresa… ma quando ti vidi, avvolta in un telo, guardarmi con quegli occhi così vuoti…”. Rabbrividì, e mi strinse forte la mano che mi teneva. Risposi alla sua stretta, desiderando ardentemente abbracciarla. Non avevo mai conosciuto una persona così sfortunata. “ho capito che non ero l’unica a soffrire. Non ero l’unica ad aver perso tutto. Che poi…non era vero. E me ne sono accorta quando ho cominciato a prestare attenzione agli sguardi incantati di Tijorn”. Ridacchiò, tra le lacrime. Poi, prese un attimo per riprendere fiato. Approfittai di quel momento per dire la mia. Avevo capito una cosa fondamentale. Akita era parte del tessuto della mia vita. Lo era sempre stata. Solo che io non me n’ero mai accorta. Ma c’era ancora tempo per rimediare. E, forse, la fuga non era impossibile. “possiamo soffrire insieme, Akita”. Mormorai, facendola girare di scatto verso di me. Lei mi sorrise, illuminandosi. Aveva capito al volo. Risposi al suo sorriso, debolmente. “Tijorn sarà pure l’amore della tua vita…ma si ha sempre bisogno di una spalla su cui piangere, no?”. Ci guardammo. Lei sospirò, e, senza preavviso, mi abbracciò delicatamente. Di nuovo, quel profumo dolciastro mi avvolse, nauseandomi. Grazie agli dei, lei non poteva vedere la mia faccia, in quel momento. D’accordo, pace fatta. Ma quell’odore continuava a disgustarmi. “grazie, Lsyn…”. Mormorò Akita, spiazzandomi totalmente, prendendomi alla sprovvista. “ti voglio bene. Posso dirtelo ora, vero?”. Oh dei. La situazione era davvero assurda. Quattro mesi prima, le avevo dato del verme, della stupida. Ora l’abbracciavo. Ma, si, le volevo bene. Un po’ strano, dirlo. Il pensarlo mi fa ancora effetto. Strano come la sofferenza leghi due anime per nulla affini. Risi sommessamente, per non farmi male. “ovvio che me lo puoi dire, sciocca”. Le dissi, forse con tono un po’ più duro. Lei non se ne accorse, o fece finta di non accorgersene, e ridacchiò, staccandosi. Rimanemmo per un po’ in silenzio, a ridacchiare. Poi, d’improvviso, lei mi guardò, seria. “ho un enorme problema, Lsyn, enorme…ed è quello il vero motivo per il quale ho bisogno del tuo aiuto…cioè…uno dei tanti”. Mi sussurrò, mordendosi di nuovo le labbra. La guardai, incuriosita. Cosa le succedeva? Tutta la sua allegria era sparita, sostituita dall’ansia. E, forse, da una piccola parte di gioia. E senso di colpa. Lei, dopo essersi brevemente guardata attorno, mi strinse di nuovo la mano, e si avvicinò. “non l’ho detto a Tijorn”. Le sue parole rapide, dette in tono vagamente cospiratorio, mi fecero sospettare qualcosa. Possibile che…? La fissai negli occhi, apertamente, e lì vi riconobbi qualcosa. Uno sguardo fremente, quasi fanatico, che avevo avuto anch’io. Qualcosa scattò in me. Devo averle stritolato la mano, perchè lei si scostò. Quelle paroline mi ricordavano qualcosa. Eh si, che mi ricordavano qualcosa. Bene. Sospirai, poi fulminai con lo sguardo Akita, che arrossì. Tutto tornava. Perché, sennò, si sarebbe trovata dal Guaritore? Mi sarei espressa come lei, se solo avessi avuto qualche anima pia con la quale confidarmi di Roxen. Avevo un certo intuito per certe cose. “o almeno…non ancora”. Oh, basta. Che si fosse dato pane al pane, e vino al vino. Tanto, avevo capito. La guardai malissimo. Sentii uno strano miscuglio di sentimenti. gelosia, rabbia, divertimento, ansia, urgenza. Ero arrabbiata con Tijorn. Per un certo verso, l’aveva messa nei guai. Dovevamo fuggire da lì, con più motivazioni di prima. E dovevamo fare in fretta. “aspetti un figlio da lui, vero?”. Le sussurrai, duramente, cercando di reprimere l’astio che si avvertiva nella mia voce. Non mi stupì più di tanto il vederla annuire, chiudendo gli occhi e prendendo di nuovo a martoriarsi le labbra.

 

 

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Capitolo 65
*** Brutte gatte da pelare. ***


Per un attimo, in me si agitarono le sensazioni più contrastanti

Per un attimo, in me si agitarono le sensazioni più contrastanti. Guardavo Akita, e la sua espressione addolorata e mi sembrava di capirla misteriosamente. Ero passata anch’io attraverso quella fase tormentosa, in cui l’amore materno si combatteva con il senso del dovere. Mi faceva strano pensare Tijorn padre. Sapevo che non l’avrebbe presa molto bene, neanche in una situazione normale. In lui, l’amore sconfinato per Akita prevedeva anche il non aver figli, perché avrebbe sofferto troppo nel vederseli negati. Per saperli magari vicini, e non poter parlar loro, non poter osservare la loro crescita. Non avrebbe sopportato di vedere la sua amata martoriarsi al momento dell’abbandono. Era stata fin troppo dura per lui, stare accanto a me in certi momenti, quando mi abbandonavo allo sconforto, e deprimevo anche lui. Quasi sorrisi ad un pensiero subitaneo. Sarei stata zia, vera zia. Non solo la Sorella di Maestro del Maestro, a dirla tutta. Chi, meglio di Akita, poteva comprendere le mie ragioni, ora? Quella non era una situazione tipica, in cui la speranza di rivedere il piccolo era sempre alta, almeno di vederlo, di sfuggita, da adulto. Invece no. Saremmo morti, tutti. Akita a Tijorn non avrebbero avuto nemmeno la consolazione di tenerlo con loro, poter chiamarlo figlio, fino allo svezzamento. Io, per conto mio, non avevo intenzione di fare ulteriori regali a quella che era stata la mia padrona. Fuggire, ecco l’unica soluzione. Quella volta, non ebbi tentennamenti alcuni. Non avevo alcuna voglia di morire per una causa in cui non credevo più. Non ero la vecchia Lsyn, la Spia razzista e classista, dalla spada facile. Per niente. Avevo versato l’ultimo sangue innocente, e ne avevo pagato l’amarissimo scotto, e ne pago tuttora. Non volevo ricominciare tutto daccapo. Fuggire, magari dai Tengu. Quella si che era un’ottima idea! Akita era la prima a doverlo sapere. Ero sicura che, lì seduta, ad occhi chiusi, forse per non piangere di nuovo, sarebbe stata d’accordo con me. Per una volta, i nostri desideri coincidevano alla perfezione. Le Spie? Il senso del dovere? Roba passata. Avevo trovato un nuovo scopo a cui essere fedele. Sempre fedele. Solo ora ne capivo appieno il senso. Solo in quel momento capii il verso senso della fedeltà. Non pensiero meccanico, inculcato a forza, non costrizione. La fedeltà era la massima espressione del libero arbitrio. Un libero arbitrio che mi era da sempre negato. Ma noi eravamo esseri senzienti. Non avevo intenzione di farmi mettere i piedi in testa un’altra volta. Non sarei morta. No, non per una causa indegna, una causa infame. M’investì una fiammata potente di calore, che nulla aveva a che fare con la febbre. Proteggere Amarto, le piccole, Tijorn, Akita, ed il loro piccolo ancora non nato. Era quella la mia priorità. Con un sussulto, ricordai Roxen e Chekaril. i miei timidi piccoli chissà ora dov’erano, sotto esame accurato. Il pensiero del grande regalo fatto a Lainay m’infuriò ancora di più. Dovevano essere in quel castello. Per forza. Per forza! Non poteva averli portati già a Galinne! No, era impossibile. Accidenti a loro, se non li avrei trovati! Avrei fatto fuoco e fiamme, pur di riprendermi i miei piccoli. Non se ne parlava proprio, di lasciarli alla mercé di una matta! Se solo Lainay avesse avuto un figlio, avrebbe capito che intromettersi tra una madre ed i suoi bambini, putativi e non, era pericoloso quanto affrontare un orso a mani nude. E tale io mi sentivo, lì, riversa in quel letto, completamente sfatta dal dolore e dalla febbre. Dovevo guarire. E sperare, sperare soprattutto. Sperare che, almeno quella volta, tutto sarebbe andato bene. Prima cosa, dovevamo mettere un paio di fatti n chiaro.  Piena di quella nuova forza, che tanto mi pareva strana per la sua luce egoista, ripresi la mano di Akita, e la strinsi, con la massima forza che mi era concessa. “chi altro lo sa?”. Soffiai, con una voce trepidante che non sembrava la mia. Se qualcuno dei soldati ne fosse venuto a conoscenza…scappare era una cosa impossibile. Il Falco riaprì gli occhi. Dentro ardevano le fiamme, le fiamme della tortura. Povera piccola mia. Essere Spia e diventare madre è sempre un avvenimento troppo traumatico per essere raccontato a parole. Sentire un piccolo fiore sbocciare, aspettarlo con ansia, ed amarlo, seppur senza conoscerne l’aspetto, il carattere, così, a priori, e poi, vedertelo privare per sempre. Per sempre, senza speranza alcuna di rivederlo. Saperlo vivo, saperlo sano, sapere anche come trovarlo, e dove. Poterlo spiare. Ma non poterlo fare. Solo per una sciocca imposizione, e per nient’altro. È uno strazio. Dopo un sospiro, Akita mi rispose, sommessa. “Max. Lui è dalla nostra parte”. Potevo scommetterci, su quello. Con tutte le sue asprezze, il Guaritore mi sembrava un’ottima persona. “mi tiene informata su quello che accade dentro e fuori l’Altrove. Lui è stanco di tutti i morti, di tutte le povere Spie giustiziate solo perché desideravano vivere. Appena ha scoperto che ero incinta ha cercato di farmi fuggire”. Deglutendo sonoramente, lei tirò sul col naso. Sembrava sofferente, torturata. Odiai vederla così. Mi sembrava di vedere me, in altri tempi, in altri luoghi. “ma io… io volevo sapere vostre notizie! Non potevo andarmene senza conoscere cosa stava succedendo, e se tu eri caduta nella trappola che avevano teso per te!”. Un singulto le sfuggì dalle labbra, e lei chinò il viso. Mi fece una pena immensa. Era stata forte, a sopportare tutto quello per tutto quel tempo da sola. “io…io volevo Tijorn!”. Mi sembrò, per un momento, quasi un’infante sorpresa a mangiare marmellata di nascosto. Scossi debolmente il capo. Akita non aveva ancora imparato a non sentirsi in colpa per il solo e semplice fatto di amare. Le accarezzai, con un dito, il dorso della mano, e lei si voltò verso di me, guardandomi attraverso il velo dei lisci capelli chiari. Stava piangendo. “non potevo scappare senza di lui… come avrei allevato il piccolo, da sola? Io non sono forte come te, come lui…”. Mormorò, con voce rotta. Digrignai i denti, irritata. Perché buttarsi così giù? Il mondo le aveva distrutto la fiducia in se stessa. Cosa che nemmeno tutte le terribili prove a cui mi avevano sottoposta erano riuscite a far crollare. Non sopportavo le sue parole. Aveva, dunque, già smesso di lottare? Forse non aveva mai iniziato. “io non sono così abile! Io sono un’inetta…finisco sempre nei guai…non so fare niente! Non riesco in niente!”. Era quello, allora, che pensava di lei? Oh, dei, cosa le aveva riservato la vita, per renderla così dannatamente sottomessa? Ebbi la netta, nettissima, impressione di non conoscere per niente il Falco, la mia nuova amica. L’avevo sempre odiata, senza cognizione di causa. Ai miei occhi, era sempre stata una vipera troppo sicura di sé, superba nella sua sfortuna, fiera di essere un’appassionata di letture, e solo quello. Il guscio che aveva creato attorno a sé era stato così impenetrabile da impedirmi di capirla davvero, e di apprezzarla. Dovevo sbrigarmi. Sentii, a quelle parole, un’ondata improvvisa di rabbia. Aveva avuto la possibilità di mettere in salvo il suo piccino, e non l’aveva fatto? Beh…anch’io avevo ragionato così, d’altronde. Anch’io ero stata sciocca. Non ero nelle condizioni adatte per farle una paternale. Ed il mio danno era ben peggiore. “non piangere, Akita, su…”. Mi limitai a sussurrare, stringendole forte una mano, con il tremendo desiderio di starle più vicina. “l’importante è che la fuga ci è ancora possibile, no? A quanto…?”. Lei non mi fece nemmeno finire di parlare, e, con l’altra mano, fece un gesto strano, come per scacciare una mosca immaginaria, ancora a viso chino. “quarto mese, quasi…”. Mormorò, con un nuovo sospiro. Stava piangendo, e tanto. Accolsi le sue parole con un moto di sorpresa. Dovevo sbrigarmi a rimettermi in piedi. E subito. “ma il problema non è questo, Lsyn…”. Mormorò, mentre la mano prendeva leggermente a tremare. “dove andremo? La guerra è nelle sue fasi peggiori…gli elfi stavano perdendo, Lsyn… oh…”. I suoi singulti silenti divennero veri e propri singhiozzi, e lei si coprì la bocca con la mano libera. “e…Max mi ha detto che Uruk ed il Regno hanno stretto un patto… un patto! Un patto!”. Ahia. Di nuovo tradita in un modo atrocemente bastardo. Vero e proprio stupore m’invase, come una doccia fredda. Lainay si era alleata con Isnark, e Nemys, dopo che io avevo cercato di far fuori il primo? Come diavolo c’era riuscita? Maledetta Regina! Cosa diavolo aveva scoperto di così compromettente, per spingere anche quei ribelli a capitolare? Guardai la figura sussultante di Akita senza sapere cosa dire. Troppi interrogativi mi frullavano per la mente. Troppi. “dovrebbe essere un patto segreto…ma Max lo sa perché è stato lui a dover giustiziare la Spia che aveva concluso le trattative, e si è sfogato con me…”. Un patto segreto? La cosa si faceva ancora più grave del previsto. Sussultai. C’era qualcosa di grosso da nascondere. Una grossa gatta da pelare. Ne ero sicura. “Uruk fingerà di allearsi con l’Impero… e sfiderà il Regno… e poi…nella battaglia…cambierà schieramento”. Akita sospirò, e si girò verso di me. Poverina. Doveva aver tenuto quei problemi nascosti per troppo tempo. Non le faceva senz’altro bene soffrire in quella maniera. Pur nella preoccupazione, trovai il tempo per aver pietà di lei. Non c’era mai stato un attimo di pace, per il povero Falco, mai un ramo dove posare le sue stanche ali. Aveva il volto teso in una smorfia di dolore puro. “in caso di vittoria, tutta la zona di Sharilar passerà al Matriarcato…”. Mormorò, passandosi la mano libera in faccia, per tergere le lacrime, che continuavano a sgorgarle dagli occhi. “e non ci rimane molto tempo”. Ero d’accordo con lei, per l’ennesima volta. Non ci rimanevano che pochi scampoli di tempo. Ero quasi sicura che Lainay ci avrebbe uccisi prima dell’annessione, sicura. La clessidra correva. A quel pensiero, il cuore mi batté più forte, facendomi quasi male. Ci rimaneva davvero pochissimo. Dovevamo stabilire un limite, ed al più presto. “entro una settimana riuscirò a trascinarmi in piedi, Akita, e riusciremo a fuggire…”. Le dissi, mentre sentivo il viso farsi teso. Lei sussultò, sorpresa, e mi guardò, mentre gli occhi, suo malgrado, le si illuminavano. “o meglio, dobbiamo fuggire…non c’è castello che tenga, ed io sono ancora l’Ombra…”. Le sorrisi stancamente, con almeno uno straccio dell’antica fierezza a supportarmi. Nonostante tutto quello che mi era successo, il mio allenamento sarebbe stato sempre lì, a disposizione. Ero stata la migliore Spia della Corona. Ora, finalmente, lavoravo per me, per qualcosa in cui credevo profondamente. La salute e la felicità dei miei cari. Mi faceva male perdere Roxen e Chekaril, molto. Ma non sapevo dove fossero finiti. Forse, la mia prossima ricerca sarebbe stata proprio quella. Akita, alle mie parole, si fece sempre più speranzosa. Sembrava pendere dalle mie labbra. “ma… dove andremo?”. Domandò, pallida ed ansiosa. Io, trionfante, mi sfiorai le piume che avevo al collo. Lei, seguendo il mio sguardo, sgranò gli occhi. Doveva aver capito cosa intendevo fare. La sua cultura era troppo vasta per ignorare una cosa del genere, un tipico rito Tengu. “sono stata in un villaggio Tengu, e so come arrivarci”. Dissi, duramente. Avevo avuto sempre la soluzione, e l’avevo ignorata. Ma, forse, era stato un bene. Akita ed il suo piccolo si sarebbero salvati. E, poi, io sarei andata alla ricerca dei miei piccoli. “dobbiamo lavorare insieme a Max, ed abbiamo anche un pretesto…”. Mi guardai, guardai il mio corpo martoriato, emaciato e pallido. Ero proprio messa male. Ma non potevo lasciarmi andare. Per il riposo c’era tempo. Ora la mia guarigione sarebbe dovuta procedere a marce forzate. O quello, o nulla. Tutto era troppo urgente. Fissai severamente il volto speranzoso della mia amica. “devi dirlo a Tijorn, e lo sai”. Akita si fece molto seria, ed abbassò di nuovo il viso. “lasciamolo dormire un po’ in pace, Lsyn…”. Mormorò, lasciandomi la mano. “ha bisogno di riposo, e sai che non avrà requie, quando saprà di suo figlio, fino a quando io non sarò al sicuro, lontana dalle Spie… voglio lasciargli un’ultima notte tranquilla”. Solo gli dei, solo gli dei sapevano quanto quelle parole fossero vere.

 

Cacciai letteralmente Akita, dopo davvero poco. Io stavo benissimo, anche se ero un po’ dolorante,, e non mi sentivo stanca. Ma lei cascava dal sonno, chissà da quanto non dormiva, non si riposava. La redarguii aspramente: non doveva strapazzarsi così, nelle sue condizioni. Avremmo avuto ben altre occasioni di tormento, e lo sapevo. Molte altre notti insonni. Un po’ bofonchiando, brontolando e lamentandosi, dicendo di non essere una bambolina di porcellana delicata, lei mi obbedì docilmente. Se ne andò via, uscendo dalla porta da cui eravamo entrati. Io non avevo ancora avuto il piacere di vederla. Rimasi così sola nell’ampia stanza, dormicchiando fino all’alba, quando Max venne. Io gli parlai, gli raccontai del mio piano. Lui stette ad ascoltare in silenzio, e non mi diede né il suo assenso né il suo dissenso, ma prese a curarmi più alacremente, e, dopo essere sparito dopo un po’, mi portò in gran segreto una planimetria. Una planimetria del castello, completa di passaggi segreti, alcuni dei quali potevano esserci molto utili. In quella settimana, in cui io mi ristabilii quasi completamente dalla mia tremenda ferita, tutto il nostro gruppo cominciò a pianificare la fuga. Io e Junielle, io che non potevo muovermi e Junielle che, stranamente, si era isolata da tutti, ci occupammo dei passaggi segreti, di studiare tutte le piante che Max ci portava continuamente, per pianificare i percorsi. Max ed Amarto, adducendo come scuse la cecità del Maestro, facevano finta di perdersi, per giudicare il livello di sorveglianza che, a detta dell’acido Guaritore, era sensibilmente aumentato negli ultimi tempi, per aggiornarci sui sentieri percorribili. Tijorn, aiutato da un’Akita sempre più solare, che si occupava di Nysha e Manolìa quasi fossero figlie sue, cercava, prendendo varie fonti dalla biblioteca, di capire dove accidenti fossimo finiti, e come fare a raggiungere, secondo i miei racconti, la montagna dove abitavano i Tengu. Erano rimasti molto impressionati dal fatto che io fossi riuscita ad avere  la fiducia del Popolo Alato. Akita doveva aver detto subito del bambino a  mio fratello, la stessa mattina del nostro dialogo. L’avevo visto arrivare, scarmigliato e sconvolto, pallidissimo, marciando a passi lunghi, seguito da una nervosa Akita, che cercava di parlargli, di mediare. Ma lui, furente, nemmeno fosse colpa mia, era corso fino al mio letto, per poi piantarsi lì, teso e dritto come un fuso, le braccia sui fianchi. Dovetti farmi forza per non scoppiare a ridere come un’idiota. Si vedeva chiaramente che il mio fratellino non sapeva cosa accidenti combinare, quale sentimento provare. Quella mattina mi sentivo un po’ più forte, ed ero stata capace di mettermi quasi seduta, appoggiata ad una pila di cuscini gentilmente portatami da Max, dove nascondevo le planimetrie. Io e Tijorn ci guardammo, io sarcastica, lui praticamente fuori di sé. Lui prese un gran respiro, poi cerco di parlare. “ma tu…lui…lei…”. Farfugliò, prima di ridursi nuovamente al silenzio. Gli passò un’occhiata molto confusa nei bellissimi occhi grigi. Aggrottai un sopracciglio. Non pensavo che mio fratello fosse così impressionabile. “il guaio l’hai fatto tu”. Gli dissi, per il solo gusto di vederlo arrossire furiosamente. Ridacchiai sommessamente. Ancora non me la sentivo di ridere apertamente, ancora rischiava di uccidermi dal dolore, ancora piangevo per le mie colpe. Ma dovevo ridere. Era troppo buffo per non farlo. Tijorn, ancora rosso come un peperone, strinse gli occhi. “tu lo sapevi!”. Esclamò, indignato, guardando Akita, che abbassò lo sguardo, sempre più pallida. Temetti che, da un momento all’altro, scoppiasse a piangere. “tu lo sapevi prima di me!”. Scossi il capo. Mio fratello non cambiava mai. Beh… la notizia doveva avergli sconvolto tutti i piani. Sarebbe stato fuori di sé anche in condizioni normali, figuriamoci con una sentenza a morte che pendeva allegramente sopra le nostre teste. Perciò, gli parlai con una certa freddezza, per una volta io quella delle due con la testa sulle spalle. Io ci ero passata. Faceva un strano effetto vedere Tijorn smarrito a quel modo. “beh, è così terribile?”. Dissi, con una certa ironia. “potresti anche ringraziarmi, visto che, mentre tu dormivi, io cominciavo a pianificare la fuga…”. Il suo sguardo cambiò, di nuovo. Parve calmarsi. Il suo colorito tornò, lentamente, normale. Non avevo mai visto i suoi occhi scintillare in quel modo. Passò poco più di un minuto. Conoscevo fin troppo bene Tijorn per non capire quello che gli stava passando per la testa. Immaginava giorni felici, liberi, con il suo piccolo ed Akita a fianco, con me, finalmente pacificata. Sogghignai, e scossi di nuovo la testa. Come Tijorn non c’era nessuno. La sua amata elfa dal naso lungo non aveva, invece, capito. Lo guardava di sottecchi, sempre più preoccupata e triste, e le lacrime cominciavano ad addensarsi ai lati dei suoi begli occhi, inumidendo le ciglia. Senza preavviso alcuno, facendomi sobbalzare, Tijorn si girò, abbracciando Akita con tanta foga da alzarla da terra. “oh, Akita…”. Mormorò, il viso affondato dei folti capelli dell’elfa. Lei mi guardò, stupita, ed io sorrisi distogliendo lo sguardo. Non mi sembrava giusto, né delicato, osservarli. E mi faceva troppo male, inoltre. La ferita di Chekaril non si era ancora chiusa, né forse si chiuderà mai. Da quel momento in poi, Tijorn fu la creatura più premurosa del mondo con Akita. Non la lasciava mai, mai, mai. La sua apatia scomparve. La vista di Akita, e le ultime notizie che gli aveva dato, l’avevano tranquillizzato. La mia amica sembrò pacificarsi, ed era sempre più allegra. Rinacque, rinasceva ogni volta che il suo compagno la guardava con occhi innamorati, che parlava del loro futuro, che la baciava, non tanto di nascosto, che l’abbracciava, che suggeriva nomi. Mi dava una gioia mista ad un dolore atroce, il vederli così felici. Gioia, perché Tijorn era mio fratello, e non volevo nient’altro che la sua felicità. Dolore, perché io non ero mai stata amata in quel modo, da nessuno. Nessuno mi aveva mai amata così. Ero quasi in imbarazzo, quando ero con loro. E venne, dopo accurati piani vari, il momento in cui io riuscii ad alzarmi, e camminare, senza provare dolore alcuno. Fuggimmo, con Max ad accompagnarci, a notte fonda, quando la sorveglianza si allentava un po’. Il saggio Guaritore, ci portò, come ultimo regalo, alcuni vestiti, e le nostre armi, trafugate dall’armeria in cui erano state portate. Nessuno se n’era accorto. I soldati erano troppo giovani per saper fare bene il loro lavoro, ed erano stanchi quanto Max delle continue condanne a morte. La mia spada, argentata e superba, il mio piccolo coltellino, lo stocco di Tijorn ed i pugnali di Akita, tornarono a noi. Toccare di nuovo la spada di Eiron, la spada con cui avevo tentato di togliermi la vita, fu emozionante. La riprendevo in mano, dopo aver toccato il fondo, ed essere rinata come persona nuova.. Li nascondemmo, come sempre, nel mio letto. Io, ad ogni visita che i soldati, di tanto in tanto, facevano, recitavo la parte della morente, dell’agonizzante, e mi coprivo con un’infinità di coperte, sudando per il terribile caldo, facendo finta di delirare, mentre gli altri, prendendo un’aria mortalmente preoccupata, facevano capannello attorno a me. Il Guaritore sospirava con aria di compatimento, e diceva sempre che c’era una gravissima infezione, e che non c’era nulla da fare, se non cercare di alleviarmi il tormento. Io cercavo di non ridere, di fare la parte dell’incosciente, ma certe volte era davvero dura fingere. Ero sicura che lo facesse apposta. Akita si divertiva un mondo a fare quelle sceneggiate. Anche Tijorn, quando gli elfi se ne andavano, in punta di piedi per non disturbarmi, ridacchiava. Junielle era l’unica a non reagire a quelle situazioni. Sembrava morta, morta dentro. Un paio di volte, avevo sentito provenire da lei una zaffata pesante, che mi faceva girare la testa, del liquore da cui io prendevo il nome, il nerissimo liquore, in cui turbinavano pagliuzze ancora più scure, il colore dei miei occhi, che aveva deciso Amarto a chiamarmi Lsyn. Non ebbi il tempo per preoccuparmi. I preparativi proseguirono, alacri. Finalmente, una notte, ci vestimmo furtivamente, i sensi all’erta, e sgattaiolammo fuori lo stanzone, con Max che ci precedeva con un candelabro acceso. Una lunga processione di figure intabarrate. Io indossavo i miei soliti, sdruciti abiti neri, mentre gli altri si erano adattati con altre cose scure, che a volte producevano effetti esilaranti. Akita e Junielle si erano dovute arrangiare con le cose di Amarto e Tijorn, ed erano tremende a guardarsi. La prima era inciampata già un paio di volte, prontamente recuperata prima ancora di toccar terra da un compagno molto attento. C’inoltrammo nel castello, nel nostro percorso prefissato, con molta tranquillità. Nessuno si aspettava un’eventuale fuga, con me morente. Mi sentii fiera della nostra recitazione. C’erano cascati con tutte le scarpe. Proseguimmo, senza grandi intoppi, fino ad un grande ritratto in un corridoio, accanto ad una larga nicchia d’oscurità. Il passaggio segreto. Max, che era rimasto davanti a tutti, cominciò a borbottare strane parole, premendo in alcuni punti precisi del grosso quadro, un dipinto che raffigurava uno degli antenati della casata reale. Con uno scatto, ed uno scricchiolio, il quadro si aprì, rivelando un grosso buco scuro. Cominciammo ad entrare tutti, prima Akita con Amarto, che portava il candelabro, Nysha e Manolìa con Junielle. Tutti cominciarono ad avviarsi. Rimanemmo fuori solo io e Tijorn. Ero piena di gratitudine per quell’elfo coraggioso, Max, che stava rischiando la vita per noi. Lo guardai, sull’orlo delle lacrime. Lui sembrò non scomparsi minimamente. “Max…”. gli dissi, guardando il suo volto serio. “non sapremo mai come ringraziarti…perché non fuggi con noi?”. La solita espressione di sufficienza annoiata gli passò sul volto emaciato. Uno strano sorriso gli illuminò il viso. “sono stanco di vivere. Non preoccupatevi per me…”. Un rumore, un rumore di passi, ci fece sobbalzare. Era molto vicino, e proveniva dal corridoio accanto, di fronte a noi. Non ce n’eravamo accorti, così presi a fuggire. Era troppo tardi per fuggire impuniti, per sistemare tutto. Mentre Max sistemava il quadro, noi ci accucciammo nell’oscurità. Il cuore mi batteva in gola come impazzito. Oh, no. Non proprio ora, che avevo la libertà a portata di mano, la libertà di poter cercare Chekaril e mia figlia! Pregai ogni dio conosciuto e non che, chiunque fosse, non venisse lì, e ci scoprisse. Max ci raggiunse. Ci fu un momento terribile, di pura tensione, un momento in cui i passi si confondevano con i battiti dei nostri cuori impauriti. E finalmente si rivelarono, due soldati della scorta che ci aveva portati lì, sicuramente in ronda. Uno dei due portava una lampada, e sembrava annoiato. “certo che però…”. Borbottò l’altro, un tipo smilzo e scuro. Ci passarono davanti. Cercai di non balzare via, strillando. “fare queste ronde… cosa pensa, Lainay, che quelli raggiungano le sue camere sopra? Stiamo freschi! Ci sta l’elfetta nana, lì, che sta morendo…”. L’elfetta nana. Sarei saltata addosso a quei due solo per quello che stavano dicendo. Ma l’impulso a rivelarmi ed attaccare mi fu dato da un’altra cosa. Infatti, l’altro, dopo aver emesso un verso di disapprovazione, agitò la lampada. Il fascio di luce quasi ci raggiunse. Mi accorsi solo dopo un po’ di aver tirato il fiato. “certo che pure la Regina ha le sue belle gatte da pelare..”. mormorò, passando oltre, burbero. “si sente stanca, e quei due demonietti la fanno dannare…”. Cosa? I bambini? Lì? A portata di mano? Roxen con Lainay? Chekaril con Lainay? Lei stava mettendo le mani addosso ai miei piccoli? Non ci vidi più. Il mondo divenne, improvvisamente, orlato di rosso, ed io, con un ringhio arrabbiato, balzai fuori il mio nascondiglio, sguainando la spada. I bambini. Avevo l’occasione di riprenderli con me. E non me la sarei fatta sfuggire, quella volta, a costo di uccidere ancora.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 66
*** I tormenti delle anime. ***


Ah, i miei soliti colpi di testa

Ah, i miei soliti colpi di testa! Smetterò mai di essere così dannatamente avventata? Smetterò mai di piangere le mie azioni, guardando il futuro, con un occhio al passato? Oh…ma perché? Perché non usai la mia astuzia? Perché non agii da sola? Ero piena di furia, quell’ardore giovanile che ora, anche se è passato ben poco tempo, mi ha abbandonato, quella fiamma svanita così lentamente, agonizzando come un falò incustodito, quella furia che mi fece dimenticare tutto: la mia esistenza, i piani accurati di fuga, la stessa vita dei miei amici, del fratello premuroso che, fino all’istante prima, mi era stato di fianco. I bambini. Pensavo solo a loro, alla loro dolce innocenza, al fatto che, in quel momento, si trovassero con Lainay. E che, soprattutto, Lainay era . Non potevo quasi crederci. Io e la regina che tanto avevo servito con fedeltà, la fedeltà che mi aveva quasi ucciso più di una volta, eravamo nello stesso castello. Lì, a portata di mano, a di coltello, pronta per quella mia vendetta, quel pensiero che non mi aveva scossa, fino a quel momento. io, per lei, avevo ucciso Chekaril. Era stata lei a farmi finire in un Lazzaretto, distrutta nel fisico e nell’animo, sfregiata a vita, carica di ossessioni. E, per quelle mi ero conficcata una spada in corpo, per quelle avevo penato per giorni e giorni! Avevo rifiutato, per pura cecità, a tutte le occasioni di vita felice che mi erano state presentate: potevo proprio dire di aver voltato le spalle alla fortuna, di averle sputato addosso. Ah…se avessi accettato la supplica di Tijorn! Se fossi rimasta con i Tengu! Se fossi fuggita con i piccoli! Ecco, erano loro l’altro motivo di quella mia reazione inconsulta. Il solo pensiero di Roxen, Chekaril e Lainay nella stessa stanza mi faceva venire il sangue alla testa. Il mondo si tingeva di rosso, annegava in un mare di cremisi, se solo mi lasciavo tentare da quell’immagine. I piccoli erano miei. Miei, solo miei! Come osava, quella maledetta elfa, arrogarsi il diritto di averli con sé, solo per una stupida questione di sangue? Era sua zia, e allora? Lei si era mai arrampicata su un albero per andarli a trovare? Lei aveva avuto scrupoli di coscienza solo per pensare al loro benessere, per caso? Lei aveva agito nella loro più totale sicurezza? Li aveva mia stretti a sé per ripararli dalla pioggia e dagli sguardi rapaci ed indiscreti? Cosa aveva fatto, la loro zia, per loro? Mi aveva mandato, per chissà quale diabolica ragione, ad uccidere i loro genitori. Li aveva fatti rapire. Non mi ero mai chiesta il motivo, troppo presa dal mio tormento, ma perché? Molte volte mi tormento, per non averlo capito prima. Era così lampante, così ovvio. Lainay era troppo furba per non mettere in programma anche una mia eventuale diserzione. Mi conosceva, da quando io ero appena centenne, avevo appena cento, stupidissimi anni, e lei era già sul trono, già adulta e Regina. Mi aveva chiamata al suo cospetto moltissime volte. E non c’era da escludersi che, nei mesi della mia relazione con il fratello, mi avesse spiata di persona. Era la tipa da farlo. Quindi, se lei amava tanto Chekaril, perché mandare me? Qualcosa tramava, nell’ombra della sua mente contorta, una matassa troppo complicata da sbrogliare, c’era qualcosa d’importante ad occuparla, qualcosa che l’aveva distolta dai suoi piani originari, quali che fossero. La tela che lei costantemente tesseva era  sempre, maledettamente, perfetta, senza un filo fuori posto. C’era stato qualcosa, qualcosa l’aveva sbloccata, qualcosa che io non avevo recepito. Lainay non faceva mai, mai un passo falso, senza avere una solida base su cui poggiarsi. Era dannatamente furba, una volpe, ed imprevedibile. Quelle poche volte che aveva clamorosamente sbagliato, spesso o quasi sempre su questioni militari, sulle cui nozioni era beatamente digiuna, le erano state d’insegnamento supremo. Poco mi sarei stupita se non si fosse fatta dare lezioni di tattica. Trovava sempre il modo di risorgere, come un serpente a cui non viene tagliata la testa. Era tutto così drammaticamente ovvio. Così ovvio, l’essere stata presa per i fondelli dal primo all’ultimo atto della mia tragedia! Cosa avevo capito, in trecento, inutili, anni di vita? Niente, perfettamente niente sulla politica. Niente, della vera vita. Ero rimasta tale e quale alla mia infanzia: una pedante scavezzacollo dall’inimmaginabile amor proprio, viziata e superficiale.  Avevo beatamente vissuto nel mio mondo incantato e ristretto, una contadinotta ingenua travestita maldestramente da dura Spia. E pagai amaramente lo scotto, lo scotto di essere fagocitata tutta intera da persone più furbe di me. Io, che mi credevo così scaltra, ero stata inevitabilmente giocata. Senza nemmeno accorgermene, il che è per me fonte ulteriore di onta. Ovviamente, il pensiero di essere stata solo una pedina per tutto il tempo non mi sfiorò minimamente. Quello che volevo erano solo i bambini, quei due piccoli chiacchieroni che erano stati con me per tutto il viaggio di ritorno per l’Impero martoriato dalla guerra. Solo Roxe, la calmissima Roxen, e Chekaril così allegro e dolce. Solo loro. Lainay avrebbe pagato amaramente per aver separato una madre dai suoi figli. Perché io li consideravo così, e così li considero tuttora. Saltai fuori dal mio nascondiglio in un lampo, con un guizzo che nemmeno io credevo possibile, aizzata da tutta la disperazione che avevo compressa dentro. Sentii qualcuno cercare di trattenermi per il mantello, ma una serie di strappi m’indicarono che non c’era riuscito. Mi ritrovai così con la spada sguainata senza sapere quando, libera di muovermi, ad attaccare due guardie prese praticamente di sorpresa. Colpii il primo, quello che aveva la lanterna, in un attimo, presa da una furia difficilmente contenibile. Tutto ciò che ricordo di quell’attimo, fu il tintinnio del vetro infranto a terra, ed il buio che improvvisamente diveniva più fitto. Ed uccisi ancora, ancora una volta un innocente, con un colpo rapidissimo e crudele dritto al cuore, senza rimorsi alcuni. Rimorsi che tuttora non ho. Tendo sempre a giustificarmi, per quella morte ingiusta. Non era colpa sua, in fondo, se era stato usato, come me. L’avevo liberato da una prigionia ben peggiore di quella della vita. Mentre io, balzando come impazzita, avevo colpito il compagno, l’altro elfo si era organizzato, prendendo la sua grossa spada, e mettendosi in guardia. Io mi girai, ancora la spada in mano, gocciolante e tiepida di sangue altrui. Ci guardammo. Per un attimo, io non vidi nulla al di fuori della fonte d’informazioni che era a pochi passi di distanza. La mente, ridotta ormai a freddo e lucido mostro, calcolò rapidamente tutto quello che potevo fare. Niente mosse avventate, prima cosa da mettere in conto. Quello mi serviva vivo. Seconda cosa, assolutamente necessaria: non doveva urlare. Se solo avesse fiatato, ci saremmo trovati davvero nei guai. Una volta immobilizzato, avrei scelto cosa fare, come estorcergli quello che mi serviva. Ma dov’erano finiti Tijorn e Max? Mi avevano lasciata sola? Dannazione. Se avesse urlato? Ecco, esattamente. Quella mia esitazione per poco non mi costò molto caro. La guardia, infatti, con un sorriso maligno, aveva già preso fiato per gridare a pieni polmoni. Feci per lanciarmi contro di lui. L’avrei ucciso, ma non m’importava. Ancora prima di fare un passo, fortunatamente, un paio di mani sbucarono dal nulla, e, in un lampo, l’elfo si trovò avvinto ai corpi di due elfi molto, molto irritati, che gli misero entrambi una mano davanti alla bocca. Max si staccò immediatamente, e mi guardò, in cagnesco. Con un urlo soffocato, il soldato cercò di districarsi, ma inutilmente: era difficile scappare alla stretta di Tijorn, molto difficile. Aveva avuto anni per allenarsi con me, che sgusciavo come un’anguilla, e per lui era un gioco da ragazzi mantenerlo. Ad un certo punto, un coltellino spuntò da chissà dove, e venne puntato alla gola del malcapitato, che smise subito di fare storie. Non sembrava, ma mio fratello non era poi così tanto buono come sembrava, o voleva far sembrare. Diciamo che non era la persona migliore da far arrabbiare, lui, che non s’irritava mai. Tijorn era incluso nel genere di persone incapaci di esplodere per un nonnulla, innocue di solito ma davvero pericolose nei loro attacchi rarissimi d’ira.  Da piccola avevo paura di lui, quando se la prendeva con me davvero. Lo sguardo che mi lanciò, inviperito e collerico, gelido come ghiaccio, mi avrebbe fatta morire se solo fossi stata in condizioni normali. Stavo mettendo in pericolo me, lui Akita, suo figlio, Amarto ed il resto della brigata, per una stupidaggine. Ma, invece, mi limitai a fissare i due, alternativamente, ancora bollente d’ira. Bisognava muoversi! Uno schiaffo mi arrivò, improvviso e sonoro. Max mi aveva colpito. “ehi!”. Fui capace di dire, prima di essere travolta da un’ondata di rabbia dello schizzinoso Guaritore. “bella, questa!”. Ringhiò, guardando quello che avevo combinato. Alla faccia della fuga silenziosa! Ero stata in procinto di rovinare tutto. Mi sentii irritata. Perché non capiva? C’era Roxen lì, e non me la sarei fatta sfuggire. Cosa ne poteva sapere, lui? L’elfo continuò il suo panegirico rabbioso, guardandomi, gonfio come un gallo da combattimento. “ma cosa credi di fare, tu, giocare a carte? E saresti una Spia? Complimenti per l’acume! Cosa hai risolto, eh?”. “ora basta, Max”. Ringhiò la voce bassa di Tijorn, piena di rabbia a stento contenuta. Fu quel tono di voce, insolito per la voce morbida di mio fratello, a raffreddarmi un po’. Riuscii  così a guardarmi intorno. Era stato un miracolo se nessuno ci aveva scoperti. La mia vittima aveva schizzato tutto attorno, ed anch’io ero un po’ sporca. Perfetto: era diventata ormai una consuetudine. Tijorn, apparentemente calmo come sempre, ma dagli occhi brucianti di rabbia, tratteneva il soldato, immobile e terrorizzato, che mi guardava. Max aveva chiuso la bocca, e si era zittito. Abbassai lo sguardo verso terra. “Lsyn…”. Disse mio fratello, freddo. Non osai guardarlo in faccia, perchè sapevo che vi avrei letto accusa, solo accusa. Tijorn era davvero l’unico capace di ricondurmi alla ragione. “perché l’hai fatto? Cos’hai in testa?”. A quelle parole, tutta l’ansia che sentivo esplose, dilagando all’esterno. Alzai lo sguardo, improvvisamente frenetica. Ogni minuto che passava era un secolo in più lontano dai piccoli. “i bambini. Lainay!”. Dissi, avvicinandomi a mio fratello ed al soldato, con la disperata voglia di piangere. La mia voce tremò e si spezzò, incontrollabile. “sono qui, Tijorn…con lei! Non posso permettere che tutto ciò accada, Tijorn! Non posso convivere con un’altra colpa! Devo liberarli!”. Ci fu una pausa, dopo le mie parole isteriche. Mio fratello, il mio dolcissimo Tijorn, mi guardava, ora impassibile. Mi morsi le labbra per non urlare. Mi sarei giocata tutto, con un’altra azione sconsiderata. Affetto, amore fraterno, compassione, comprensione, amicizia. Glielo leggevo in faccia. Era molto pratico, Tijorn, in queste cose. E, quando si parlava di Akita e suo figlio, non sentiva ragioni. Strinsi i pugni. Senza di lui non avrei saputo come andare avanti. Era lui che riusciva a ricomporre i pezzi che ogni volta raccoglieva con amore, era lui l’unico collante della mia anima. Se lui mi avesse odiata, beh…la mia vita avrebbe smesso di avere senso, probabilmente. Ma non successe mai. Con un sospiro, guardandomi con maggiore calma, mio fratello si chinò verso l’orecchio della sua impotente vittima. Seppi di aver vinto, e sospirai di sollievo. Grazie, fratello mio. “ora…”. Sussurrò gelidamente Tijorn, stringendo di più la presa, e facendo si che una goccia di sangue scendesse dal collo della guardia, che sembrò terrorizzata ed urlò, gesto immediatamente soffocato dalla mano nervosa di Tijorn. Gioii di quello sguardo sperduto. Doveva temerci, ed a ragione. “dobbiamo farti solo una domanda, nient’altro. Se ti rifiuterai di rispondere…beh, andrai a fare compagnia al tuo compare. Ma se ci obbedisci, e non urli…allora può darsi che io sia in vena di sentirmi magnanimo”. Mi sentii soddisfatta. Tattica tipica di Tijorn, praticamente un classico. L’avrebbe ucciso, dopo, senza pietà alcuna. L’aveva sempre fatto. Ed io ero avevo partecipato con lui a troppe missioni per non riconoscere il suo tono, diventato suadente, studiato ad arte, e i suoi inganni. E sapevo bene quanto gli stesse costando quel gesto. “allora? Cosa fai, accetti di rispondere o no?”. Una strana sensazione di colare m’invase quando vidi lo sventurato annuire freneticamente, con le lacrime che gli si addensavano ai lati degli occhi. Era spezzato. Sembrava molto più forte. Era un povero elfo, ancora giovane. Dovevo averlo visto nel corpo di guardia che ci aveva accolti all’arrivo, ma non ricordavo bene. Era un peccato ucciderlo, un peccato necessario. Quasi sentii rimorso. Esitante, mio fratello tolse appena la mano. Cantò, il povero uccellino. Cantò, parlò, avrebbe fatto di tutto pur di salvarsi la vita, quella vita già perduta. Avrebbe recitato anche un salmo. Ci confessò tutto, ci svelò che Lainay, tronfia e sicura di sé, aveva preso alloggio in una delle camere del piano superiore, senza guardie accanto. Ci disse dov’era, anche come sfuggire alle ronde, unico mezzo di sicurezza. Si sentiva al sicuro, la bastarda, era al sicuro. Ci aveva sottovalutati, o era un’altra dimostrazione di astuzia? Ci spiegò che due infanti, due piccoli gufetti spaventati, erano costretti a seguirla giorno e notte. Avevano pensato fossero due schiavetti, perché erano laceri e sporchi, e spesso pieni di lividi, perché Lainay non si faceva remore a schiaffeggiarli malamente quando, secondo lei, si comportavano male. Io vidi rosso a quelle parole. Li aveva picchiati! Picchiati! Lui, notando la mia espressione raggelata, ci disse che lui non aveva colpe. Lui lavorava solo per mandare soldi alla sua famiglia, per farli mangiare, e basta. Non aveva mai fatto niente di male, non capiva perché dovessimo ucciderlo. Aveva dato ai piccoli, una volta che la Regina non vedeva, dei biscotti, perché gli era sembrato avessero fame. Gli aveva cercato i loro pupazzi, aveva letteralmente implorato la Regina di poter ridarglieli. Non avrebbe detto niente a nessuno, sicuro, la fuga sarebbe stata il suo segreto. Potevano tramortirlo, ma non ucciderlo. Avrebbe detto a tutti di non sapere niente. Povero, povero innocente. Smise d’implorare quando Tijorn, senza preavviso, gli tagliò la gola.

Eravamo quasi arrivati. Max era rimasto con i due cadaveri dei soldati, occupandosi di nasconderli nel passaggio segreto ed avvisare gli altri, che si sarebbero raccolti in un piccolo atrio verso la fine del tunnel che conduceva in piena foresta. Non c’era stato verso, invece, di staccare Tijorn da me, ed infatti, mi stava seguendo. Il gesto che cambiò il destino, forse. La rabbia era sbollita nell’istante esatto in cui il corpo del soldato gli era caduto, inerte, tra le braccia, e lui, con un’espressione terribile in viso, era schizzato in piedi, facendo un salto, con un debole squittio. Avevo visto il fantasma di un vecchio raccapriccio passargli in viso. Potevo intuire l’orrore che provava solo fissandolo. Mio fratello aveva fatto voto di non ammazzare più, se non per motivi fin troppo contingenti, per pura difesa personale. Non aveva mai amato il sangue, le morti. Soprattutto quelle ingiuste. Devo dire, anch’io mi sentivo scossa dalle parole dell’innocente soldatino. Era ancora imberbe, puro come acqua sorgiva. E noi l’avevamo ucciso, lui, che non c’entrava niente.  Mi ero però sporcata troppe volte le mani per essere sensibile come il mio eterno fratello. Certo, mi dispiaceva, ma, in quel momento, la cosa che mi premeva di più era quella di far pagare alla mia Regina amata tutte le cose brutte che aveva fatto, e liberare i piccoli, portarli con me. Non avevamo incontrato nessuno, o meglio, sporadiche coppie di guardai, che borbottavano di malumore e non si guardavano bene intorno. Tutti giovani, come lo sconosciuto. Ma io non avevo mai messo a posto la spada, che era in mano, pronta. Eravamo quasi arrivati alla porta che ci aveva indicato, al terzo piano, in un corridoio dall’apparenza anonima ed umile, quando Tijorn si fermò. Io, presa dai miei pensieri, andai un altro po’ avanti, prima di accorgermi che lui, silenziosa ombra, non era più al mio fianco. Mi girai. Tremai nel riconoscere lo sguardo che mi rivolse. Era vuoto. Oh, no. Non di nuovo. Non in quel momento. Sul suo viso pallido si agitavano la vergogna ed il terrore, l’odio verso se stesso e la sofferenza. Mi fermai. Sentii una morsa gelida afferrarmi lo stomaco. Avrei dovuto ammazzarlo io. Lui non aveva avuto mai così tanta forza da prendere una vita a sangue freddo, nemmeno nei primi periodi. Dopo un tempo che mi sembrò infinito, lui parlò. “mi sento un mostro”. Mormorò, distogliendo lo sguardo. Oh, Tijorn…feci un passo verso di lui, ma lui, con un gesto, m’impedì di andare avanti. Guardava il pavimento di pietra.  Un sorriso amaro gli torse il viso. “io pensavo di essere diverso”. Disse, scuotendo i capelli. “pensavo di poter provare pietà, pensavo di poter trattenermi dall’uccidere, pensavo che il lavaggio del cervello delle Spie non avesse attecchito su di me…”. Mi sentii sconvolta, e guardai i suoi occhi pieni di lacrime. Cosa? Pensava questo, di lui? Lui era diverso, dannazione! Chi, dannazione, chi avrebbe assistito una sorella ferita ed impazzita, più di una volta? Chi avrebbe deciso di salvare la propria compagna, ed il figlio che, secondo la nostra norma, sarebbe stato un grande onore affidare ad altri? Era questo, allora, quello che si agitava nel suo animo? Non si era reso conto di quanto fosse speciale, in confronto a me, che ero nient’altro che una bestia inumana? Scossi il capo, e feci un passo. Lui non me lo impedì, anzi: continuò a parlare. Sembrava che si stesse togliendo un grande peso dallo stomaco. Lasciai che si sfogasse. Non si era mai aperto così, con nessuno. Gli faceva bene. “anche quando…”. Esitò, e chiuse gli occhi. Quando parlò, la voce si fece più amara. “anche quando Jalim mi costringeva... mi torturava, per far si che uccidessi quelle povere persone…”. Solo gli dei sapevano quanto quelle parole mi stessero ferendo fin nel profondo. Mi avvicinai ulteriormente. Jalim doveva pagarla,anche lui. Come aveva osato toccare mio fratello? Oh, gliel’avrei fatta pagare, e carissima. Gli occhi grigi di Tijorn si riempirono di lacrime, che cominciarono a scorrere sulle guance, inarrestabili. La morte di quello sconosciuto lo aveva sconvolto, aveva aperto una parta della sua anima che io non conoscevo. Tijorn non era mai stato così fragile. O mi sbagliavo? Non conoscevo che una parte di mo fratello? Preferii non pensarci. “io pensavo di essere nel giusto…erano innocenti, quelli…perché avrei dovuto ucciderli? Perché mi sarei dovuto arrogare il diritto di togliere la vita a qualcuno, come un dio? Tu hai visto, prima?”. Cominciò a tremare. La sofferenza che si agitava in lui era troppo profonda. Ma io la capivo benissimo. “hai visto, no? Ho ucciso…avevo promesso di salvarlo, di risparmiargli la vita…ho ucciso, a sangue freddo!”. Sarebbe scoppiato a piangere in breve tempo, lo sapevo. E non c’era tempo da perdere. Non potevamo indebolirci così, proprio ora che la meta era così vicina. Così, senza pensarci, senza premeditarlo, lo abbracciai forte. “shh”. Sussurrai, piena dal suo dolore. Il mio povero fratellino. Era strano, consolarlo. Ma non per questo mi sarei rifiutata di farlo. Fortunatamente, lui rispose al mio abbraccio. Se non l’avesse fatto, non so come ce la saremmo cavata. Come me la sarei cavata. La mia voce risultò strana, un pigolio strozzato, un flusso inarrestabile di parole sommesse ed urgenti. Ma avevo qualcosa in gola che non mi faceva parlare bene. Un groppo insistente e fastidioso, un nodo inestricabile. “non pensarci, fratello mio, non pensarci… tu sei sempre stato diverso, tu sei diverso… tu sei la creatura più buona dell’intero mondo, Tijorn, lo capisci? Tu sei luce, lo sai? Pensa ad Akita… al piccolo… abbiamo tutti bisogno di te… coraggio Tijorn, non è successo niente, il mondo ti ammirerà come prima, noi ti vorremo per sempre bene, ed è questo che conta, no? Non è successo niente, hai agito nel giusto…lui sapeva le conseguenze della sua fedeltà, le sapeva… ti prego Tijorn… dai la colpa a me, se vuoi, odiami, disprezzami per quello che vi ho fatto, ma, ti prego, non odiarti! Non arrenderti! Non voglio vederti così, non voglio…tu sei forte, Tijorn…sei forte!”. Come sempre, le dichiarazioni di affetto, per noi, erano sempre strane. Quella volta, a pochi passi dalla porta che avrebbe segnato per sempre le nostre vite. Davvero bizzarro. Non fu facile calmare mio fratello, per niente. Rimanemmo abbracciati per un tempo che mi sembrò infinito. Amai quel momento. mi sembrava vicino come durante la nostra infanzia, vicino e comprensibile. Avevo cercato, da quando l’avevo ritrovato, il protettore di una volta, il forte scoglio al quale aggrapparmi per non essere portata via dalla marea. Avevo fatto di tutto purché Tijorn fosse il solito, la roccia, il secondo padre. Mi ero sbagliata. Cinquant’anni di vita ci avevano allontanati, e, seppure lui mi volesse bene, era troppo cambiato, era diventato troppo delicato, per essere ancora il pilastro della mia vita. Le cose potevano cambiare. Mi sembrava, tuttavia, di avere tempo per rimediare. Poco ma sicuro, avrei fatto di tutto per ritornare allo stato di prima. Sarei stata io la più forte e, sebbene ferita ed annientata come mai prima di quel momento, avrei fatto in modo da guarirci entrambi. Il mondo ci aveva piegati, ma noi ci saremmo rialzati. Ci saremmo rialzati. Ci saremmo aiutati a vicenda, nel farlo. Io l’avrei fatto per il solo amor fraterno, per vedere Tijorn sereno, giocare con il suo piccolo, vederlo crescere bene, in mezzo a persone sane. Vivevo solo per lui, ormai, e per la sua famiglia. Akita mi avrebbe aiutato, ne ero certa. Ero piena di futile speranza, allora, piena di quella che tutti chiamano fiducia. E così, riuscii almeno un po’ a guarire Tijorn, in quel momento così brutto, facendo si che smettesse di piangere, e si staccasse, seguendomi, silenzioso come me, vicino alla porta, e provando a forzarla. Essa si aprì senza problemi. Mi parve, ci parve, molto strano. Ma non ci ponemmo altri problemi, e, agili e veloci, entrammo dentro.

Ci ritrovammo in un piccolo stanzino buio un quadrato sui cui lati c’erano delle porte di legno chiaro. Sentii una strana stretta allo stomaco. Il momento della verità si avvicinava. Già pregustavo la vendetta. Io e mio fratello ci guardammo. “ora ci dividiamo, Tijorn”. Sussurrai, piena d’ansia. Lo stomaco  mi si stava torcendo in un modo impossibile. Cominciai ad essere nervosa. E, purtroppo, non potevo contare su di lui per rassicurarmi. Era il primo a necessitare di una mano, con quello sguardo triste, ferito, non da lui. Mi sembrò strano prendere le redini di tutto. Decisi di dargli il compito meno pericoloso e sanguinoso, meno aspro. “tu cerca i piccoli, tanto sono solo quattro stanze… dovrebbero essere trattati come servi, quindi fa’ un po’ tu…io vado da Lainay”. Tijorn annuì, e, scoccandomi uno sguardo preoccupato, si diresse verso la porta più vicina all’ingresso, quella che, secondo i canoni tipici di Galinne, portava all’ingresso dei piccoli alloggi dei servi. Io, senza guardarlo ulteriormente, mi diressi verso quella all’altro lato, di fronte. Ero esaltata. Avevamo fatto tutto quel percorso, e nessuno ci aveva notati! Liberi, liberi di muoverci, di fare tutto quello che volevamo! Allora, davvero Lainay aveva perso un po’ di smalto! Fui incauta, come sempre. Gioendo dentro di me, ma silenziosa come una vera Spia, aprii la porta, che non protestò con il minimo cigolio. Tutto era perfetto. Troppo perfetto. Mi trovai così in un’ampia stanza oscura, dai colori tenui, da un enorme letto a baldacchino  al centro, dove intravedevo una forma stesa. La Regina riposava, dormiva i suoi sogni pieni di sangue. Tutto era perfetto. Già mi vedevo, in viaggio con la mia famigliola, verso le montagne, finalmente liberi, e felici! Lainay era in mia mercé. Avrei potuto ucciderla, con un colpo di spada. Fu un pensiero che, devo ammetterlo, mi sfiorò. Ma poi, pensai sussultando, avrei combinato il caos, con un solo gesto. Agendo in quel modo avrei gettato nel panico la mia razza. Ed io l’amavo troppo per poter fare un gesto di odio così profondo nei suoi confronti. Pazza sadica o no, Lainay era pur sempre un baluardo contro le forze umane. No, non avrei fatto nulla: mi bastava il mio piccolo mondo, la mia piccola esistenza felice. Che mondi interi fossero caduti, che vite e vite fossero state disperse, non m’importava. Io volevo solo Chekaril e Roxen. Niente più. La vendetta poteva anche andare a quel paese. Non mi sarei giocata la mia piccola pace familiare per una cosa risibile come quella. Dovevo solo farle prendere una sonora paura, nient’altro. Una piccola lezioncina, solo per dire che Lsyn Amarto non scherzava. Così, in punta di piedi, mi avvicinai al lettone. Una bella paura: la medicina suprema contro la megalomania. Ero tremendamente felice: tutti i miei desideri si sarebbero realizzati, la mia pace attuata. E che il mio vecchio Chekaril se ne fosse andato via, con tutti i suoi fantasmi. Io avevo da vivere una vita, una vita per gli altri. Non importava la vendetta. Non importava. E fu con senso di esultanza puro che io tolsi via le coperte, con uno scatto, e puntai la spada contro un fantoccio di legno. Non ho mai provato un senso di gelo come quello. Era come venire congelati, come morire. Tutto il mio corpo gridava: allarme, allarme! Mai sottovalutare Lainay, astutissima Regina del Regno. Mai. Avevo fatto un errore fondamentale. E ne avrei pagato il prezzo. Sarei morta. Meglio morire, che quello. Il mio pensiero volò immediatamente a Tijorn. Come fare, per avvisarlo? Una risatina sommessa e malevola mi strappò dal mio panico incombente. Con lentezza esasperante, mi girai. Non volevo vedere quello che avrei visto. Ma fu ancora peggio. Non mi ero mai sentita così male, prima d’ora. Solo nel vedere Chekaril libero, forse. Si, perché aspettavo di trovarmi, a poca distanza da me, l’alta e smilza figura di Lainay, vestita di un abito candido di seta pregiata, bianco come la sua pelle lattea, un diadema di fini perle nere sulla sua fronte chiara, i lunghi capelli ondulati, dello stesso colore di Chekaril, raccolti in un’elaborata acconciatura, e gli occhi viola scintillanti per un sorriso soddisfatto e trionfante che le stirava le labbra piene, come quello che potrebbe avere un ragno quando sa di aver preso in trappola un moscerino, la bellezza sfolgorante e malvagia. Ma quello che per poco non mi fece svenire fu un altro particolare. Perché Lainay, che sempre, sempre, sempre, mi aveva parlato della sua sterilità, che mi aveva confessato di soffrirne, di esserne ossessionata, che voleva un figlio a tutti i costi, che aveva detto, in un momento un po’ rabbioso, che un figlio suo non sarebbe vissuto con un territorio appartenente agli umani, mi aveva tradita di nuovo, con le sue parole. Io mi ero fidata, avevo cercato Chekaril proprio per garantire una stabilità al Regno, che rischiava di rimanere senza eredi. Ma un erede c’era, oh si che c’era. O meglio, ci sarebbe stato, e non tra molto tempo. Gelai, e, per un attimo, non riuscii a respirare. Incinta. Lainay era…non volevo pensarlo. Non osavo pensarlo. Eppure era così, inequivocabilmente. La portata di un evento del genere era catastrofica. Lainay sarebbe stata una madre ottima, molto premurosa, ma il suo senso di protezione includeva una certa dosa di perversione. Per il futuro regnante, tutto sarebbe dovuto essere sicuro. Ed io sapevo il concetto distorto di sicurezza, per Lainay. Morte, sangue e distruzione. I possibili pretendenti uccisi. Mi furono chiare molte cose, in quel momento. La guerra, la guerra soprattutto. Lei si sentiva sicura di vincere. Tutto era perduto. Tutti i miei sogni potevano svanire. Perché quella pazza avrebbe trionfato, anche sulla mia piccola armonia. Lottai con me stessa per rimanere presente. Sperai che almeno Tijorn potesse fuggire. “ti aspettavo più presto, Lsyn”. Mi disse, con la sua dolcissima voce, terribile voce ipnotica. Un sorriso, più malvagio, le fece lampeggiare i denti, al buio. “credo che la tua simpatica metà, con la quale hai preso sicuramente un accordo, ti stia aspettando…non fa niente se sarà delusa, vero?”. Imprigionata nella mia morsa di terrore supremo, che mi teneva inchiodata lì, senza speranza di muovermi, provai un moto di sconcerto. Cosa stava dicendo, nel suo delirio di onnipotenza, che seguiva ogni suo successo? Lei vide il mio sguardo sperduto, forse, e sorrise ancora di più. “ma di cosa stai parlando?”. Riuscii a mormorare, sentendomi come un passerotto immobilizzato dalla presa sicura di un’aquila. Parole vuote di sfida, vane. Pallide in confronto a ciò che disse dopo, ciò che mi cambiò l’esistenza, anche se allora non lo sapevo. Perché lei aveva già vinto. Su questo non potevo discutere. Dovevo solo sperare in una morte onorevole. Di nuovo quella bassa risata, che mi fece accapponare la pelle. “ma come? Tu e lei, Lsyn…”. Mormorò, scuotendo il capo, ironicamente. “tu e Nemys, la conosci vero? Lo sai chi è? Sai chi è lei?”. Si girò verso di me, portandosi le mani alla schiena, soddisfatta come un gatto affamato. Provai timore istantaneo. Tragedia. Disperazione. Morte. Non potevo far altro che pensare ad essa. Ma lei, la bastarda, continuò a parlare. “lei è te, oh si…la tua Rinnegata!”.

 

 

 

 

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Capitolo 67
*** Epifania. ***


Non capii

Non capii. La confusione si era impossessata completamente di me, rendendo vane le parole, forse troppo affrettate, forse troppo dettate dall’orgoglio, di Lainay. Non reagii, forse, come lei si aspettava, a quella strana notizia. Era come avere un sasso nella testa. Un grosso sasso. Quella maledetta, spinta forse dalla folle presa di coscienza della vittoria, si era lasciata scappare una cosa strana, stava forse vaneggiando? Lei…era me. Impossibile: io ero io. Ero lì, non da un’altra parte, bruttina ma integra, e ricordavo perfettamente cosa avevo fatto fino all’attimo prima. Non ero pazza, dunque. Non così tanto da divenire allo stesso tempo la crudele Ombra ed il capo della fazione ribelle. Non avevo una doppia personalità. O meglio, ero sicura di non averne. Sulla pazzia non ci scommetterei poi tanto. Quella tremenda verità, perché di altro non si trattava, faceva parte di ciò che mi rifiutavo completamente di accettare da una vita intera. Non era possibile. Cioè…non avevo mai sentito parlare di una cosa del genere, a meno che non si trattasse di magia sperimentale o estremamente pericolosa, magia nera. Non avevo conoscenze approfondite di quella branca del sapere. Non mi erano mai stati dati chiarimenti a proposito, nonostante nel mio sangue scorresse una stilla di potere, una stilla appena necessaria a farmi fare qualche piccolo, facile, trucco, ed a farmi viaggiare nel Piano. Analizzai quel poco che sapevo. Uno sdoppiamento? Impossibile. Un… un cosa? Oh, cosa poteva mai essere? Non avevo, nella mia lunga vita, mai sentito parlare dei Rinnegati.  Meglio: quello era il nostro appellativo, noi Spie eravamo chiamate così, quando avevano intenzione di offenderci. E solo successivamente, dopo che furono successe molte altre disgrazie, qualcuno dal cuore grande mi spiegò cosa volesse dire la Regina con quelle parole convulse. Ma non lo dirò ora. Non adesso, non scriverò in questo momento di un dialogo, capitato non molto tempo dopo, con la mia guida, coli che liberò l’Ombra dalle ombre di un passato troppo pesante da sopportare, rendendo visibile e fastidiosa la luce del rimorso. Scriverò dei miei dubbi, i miei sciocchi dubbi. Perché allora non sapevo cosa pensare. Lainay era a conoscenza di questa mia ignoranza, ed aveva parlato in quel modo incauto apposta. Mi aveva gettato nella confusione più pura, nel panico senza uscita. Si riferiva ad un’altra Spia, una che dovevo conoscere, forse? Ma allora perché diceva che ero lei? Era mia sorella di sangue? Tijorn forse lo sapeva. Akita sicuramente: avrei dovuto chiederglielo, prima o poi. Pensieri inutili. Mi resi conto, con uno strano senso di fatale spossamento, che non l’avrei mai più rivista. Mai più. Non avrei mai conosciuto quello che c’era da conoscere, le realtà che non sapevo ancora. Secondo le mie previsioni più ottimistiche, ci andava bene se fossimo sopravvissuti fino al mattino dopo. Piansi, dentro di me, rendendomi conto che anche Tijorn, lui, così pieno di vita davanti, era stato condannato per la mia scarsa previdenza. Ancora una volta ero stata presa in trappola dal ragno, ancora una volta. E quella fu la peggiore. La peggiore, perché tutti i veli che fino a quel momento mi avevano avvolta, tenendomi separata dalla crudezza dal mondo reale, si strapparono, squarciandosi in mille brandelli non più riparabili. La peggiore perché tutto tornò al suo posto, drammaticamente. Compresi tutto, tutto ciò che avevo fatto, quello che stavo facendo e quello che avrei fatto. Per un attimo, glorioso e tremendo al tempo stesso, il mio cammino fu illuminato dal bagliore corrusco di un lampo. La mia epifania. Ancora paralizzata dal terrore e dai pensieri, rigida come una statua di sale, sentii una mano fredda stringere la mia. Lainay, la Regina, si era avvicinata, senza timore alcuno, senza timore della mia spada, che l’avrebbe potuta trafiggere, ponendo fine alla sua vita ed a quella del suo maledetto erede, che tanto aveva desiderato, mi aveva toccata. Quel contatto mi parve repellente, viscido come se a toccarmi fosse stato un serpente, altrettanto liscio e freddo. Mi sarei divincolata, se solo il mio corpo avesse risposto alle sollecitazioni. Ero gelata, completamente e totalmente gelata. Lsyn ed Ombra si combatterono, in quel momento, una battaglia atroce, senza esclusione di colpi. Un affastellamento confuso di pensieri si contorceva, si agitava nella mia mente. Sensazioni balenanti e contrastanti mi sfioravano, rendendomi instabile, un caleidoscopio disorientante, un labirinto inestricabile, che mi rese immobile, indifesa alla grande Lainay di Normar, ultima Regina di Normar, e prima sovrana del Regno, dal grande e potente Regno.

Odio.

Odiavo quella dannata figura, bellissima alla luce della luna, beffarda e fintamente dolce, una vedova nera, un ragno velenoso. Se non fosse stato per lei, io non avrei ucciso, Chekaril non sarebbe morto. Non avrei cercato l’annientamento finale. Era stata lei a dare inizio a tutto. Se lei non avesse voluto un erede da me, la storia con il Principe si sarebbe esaurita da sé, senza dolori e lacrime amare. Percepivo una strana sensazione di amaro in bocca, ogni volta che, per caso, i suoi occhi s’incrociavano ai miei.

Sete di vendetta.

Aveva distrutto tutta la mia vita, con un solo ordine. Aveva reso tutti schiavi, con quella folle voglia di dominio, con le sue manie di superiorità. Aveva reso me sfregiata, pazza e vagabonda, aveva creato il fantasma che ero stata per cinquant’anni, aveva mutilato il mio spirito. Mi aveva uccisa, torturata in ogni modo a lei concepibile, stritolata nelle sue spire, e ne aveva goduto. Tutto ciò non poteva essere. Non ero una bestia ottusa, io!

Rispetto.

In fondo, lei era l’unico baluardo contro il male, contro l’orda dilagante degli umani senza fantasia. Gli altri elfi erano stati corrotti dal loro potere, dalla loro astuzia. Non potevo non ribadire la completa giustizia delle sue idee. Le condividevo anch’io, in parte. Uruk non contava. Uruk non era nulla al confronto del potere del Regno. Se solo l’avessero capito, gli umani si sarebbero estinti in breve tempo.

Paura.

Poteva uccidermi in qualunque momento. Io, seppure avevo una spada in mano, non ero nulla al suo confronto. Non avevo il coraggio necessario per lanciarmi contro la Regina che per così tanto tempo avevo odiato. Non avevo, inoltre, mai avuto intenzione di ucciderla. Mai. E, d’altronde, aspettava anche lei un figlio, dopo chissà quali sacrifici. Era una mia nemica, ma non riuscivo a levarmi di dosso la spiacevole sensazione di avere in comune con lei qualcosa. Non potevo, da madre qual ero, toglierle quel piacere, quel nuovo balocco. L’aveva voluto tanto! Mi ricordava troppo Akita, quando la guardavo, sebbene con lei non c’entrasse niente. Ma non potevo uccidere a sangue freddo una creatura innocente. Non potevo. Avrei preferito farmi uccidere. Lei aveva in mano le vite dei miei piccoli. E lei lo sapeva.

E questi erano, i terribili pensieri che si agitavano nella mia mente, facendomi tremare, mentre tra di noi scorreva un attimo infinito di silenzio. Potevo sentire gli alberi, fuori, sussurrare al tiepido vento estivo. Ero stanca. Gli occhi mi dolevano, avevano preso, al mio giudizio, una strana consistenza cisposa. E non riuscivo a fermare lo sguardo da nessuna parte. Uno strano, fastidioso pungolo era cresciuto nel mio petto, uno sprone malefico. Qualcosa che m’impediva di stare ferma, e nello stesso modo, mi costringeva ad essere bloccata. Non sapevo assolutamente cosa fare. Mi limitai a guardare brevemente quella che era stata la mia dolce Regina, che mi guardava con uno strano sorriso. Il volto addolcito, reso assurdamente perfetto dal piccolo, futuro mostro che le cresceva dentro. Ebbi un lampo improvviso. Quella volta, nel Piano. Il nucleo oscuro, eccolo, quell’esserino ancora sconosciuto, non manifestato. Una volta, tempo prima, quando ancora ero piccola e non conoscevo la miseria, mi avevano raccontato di cosa succedeva all’Essenza, in quei casi. Perché, il nucleo oscuro? Sbagliavo a definirlo in quei termini. Era ancora qualcosa di piuttosto mal definito, senza alcuna personalità. Un piccolo, innocente esserino in potenza. E l’uovo, era fin troppo ovvio. Avrei dovuto pensarci prima. Avrei dovuto osservare, io la grande Spia. Ma chi, in quel momento tragico in cui avevo scoperto di essere stata presa in giro, avrebbe capito? E c’erano innumerevoli altre perplessità che mi ronzavano in testa, frenetiche,come api infuriate. Primo, con un erede non c’era bisogno di ulteriori pretendenti al trono, giusto? Ma allora…perché accidenti voleva i piccoli? Perché mi aveva pregato di portarli da lei, se non ne aveva più bisogno? Sapeva già, sicuramente, di aspettare un figlio quando Akita mi aveva avvertita di Chekaril. Perché lei non aveva mosso un dito per impedirmi di uccidere il fratello, se già sapeva tutto? Era fin troppo strano. Ed io sentii l’oscuro, incombente fantasma dell’ineluttabilità tragica incombere sopra di me, il destino crudele. Ebbi freddo, sebbene si morisse dal caldo. Abbandonando la sua aria da pazza sadica ed orgogliosa, la Regina socchiuse dolcemente gli occhi, una gatta soddisfatta. “mia cara, cara, Lsyn…”. Disse, stringendomi forte la mano. Sentii di non poter scappare, non poter divincolarmi a quella stretta fatale. Mi stava imprigionando, lei, sotto quello sguardo morbido e quel sorriso tranquillo. Non provai a divincolarmi. Avevo già, inconsciamente, rinunciato a lottare. Non avrei potuto fare niente, arrabbiarsi e combattere non serviva a niente. Sarei morta, punto. Mi dispiaceva solo di aver trascinato Tijorn nella mia rovina. Lei continuò a parlare, in tono infinitamente dolce. “cos’è quello sguardo? Sembri un passerotto infreddolito. Hai paura di me, vero? Perché? Dici la verità…vuoi scappare?”. Dei. Mi sembrava una madre ansiosa, pronta a sgridare una figlia un po’ troppo scapestrata, per farle capire con voce gentile di stare sbagliando, pronta a dare bei consigli. Ma, nel fondo dei suoi occhi ametista, gli occhi di Roxen, gli occhi di Chekaril, vedevo scintillare la malizia. Temetti quello sguardo. Non riuscivo a capire cosa le stesse passando per la mente. In che modo voleva uccidermi? Inconsciamente, presi a tremare. Lainay scosse il capo. “oh, piccola mia…”. Esclamò, teneramente, inclinando il capo. La stretta si fece più forte, decisa, ed, in un attimo, senza averlo voluto io, mi ritrovai seduta sul grande letto azzurro. Ecco. Ora mi avrebbe uccisa. Sarebbe tutto finito. Ed io non avrei nemmeno potuto rivedere mia figlia, o suo fratello. Mi sarebbe stato impedito, per sempre, persa nel mio vuoto oblio. Inaspettatamente, in quello trovai una briciola di coraggio, quel necessario per fare qualche domanda, per parlare. Una flebile brace. Magari Tijorn avrebbe capito tutto, ci avrebbe sentite, e sarebbe fuggito con i piccoli. Ecco, sarei morta, ma sarebbe stata la nostra vittoria. Una vittoria senza me, ma non m’importava. Racimolando tutto il fiato che trovavo, cercai di parlare, con una vocina flebile, a stento udibile anche nel totale silenzio che ci avvolgeva. “ma…ma…”. Balbettai, deglutendo. All’altezza dello stomaco, sentivo un’incredibile dolore. Come se un artiglio mi stesse squarciando da dentro. Volevo chiederle tutto. Volevo rendere conto di tutto. Volevo sapere. Dovevo sapere. La Regina, calma, prese una sedia piena di cuscini, e ci sprofondò sopra, apparentemente stanca. Ma il suo sguardo non mi lasciò mai, indagatore, nelle sua profondità si celava la più tremenda crudeltà. Perché lei aveva già architettato tutto, tutto fin dal primo momento. ancora non me ne ero accorta. Ho già detto di essere praticamente inerme di fronte a Lainay, di credere, incondizionatamente, a tutto, di non capirla, vero? Dopo un attimo di silenzio, ripresi. Avevo ancora la mano imprigionata in quella stretta solida. “ma…cosa volevi dire, prima, Lainay? Perché Nemys è me?”. Se la stessi offendendo dandole del tu, una strategia minima che avevo adottato per ribadire la mia ormai totale autonomia nelle sue scelte pazze, non lo dimostrò mai. Lei fece un gesto con la mano destra, come per scacciare una mosca molesta che le stesse ronzando attorno al capo, poi rimase con il braccio piegato, il gomito posato sul bracciolo, la mano molle e rilassata, e mi sorrise di nuovo. Era perfettamente naturale. “oh, niente…”. Asserì, in tono neutro e casuale, stringendosi le spalle. Era un’ottima bugiarda. Un’ottima bugiarda. O forse io non volevo credere alla verità delle sue parole, chissà. “volevo solo fare…una metafora. Volevo solo dire che stavi diventando come Nemys…sai chi è, Rinnegata, vero?”. Un’espressione di disappunto che mi parve totalmente genuina gli passò in volto. “mi dispiace che tu non sia riuscita a capire…ma io non stavo dicendo niente di particolare. Davvero”. Di nuovo quel sorriso, inusuale quanto familiare. La Regina non si era mai comportata così amorevolmente nei miei confronti. Cos’aveva da nascondermi? Perché si mostrava così disponibile? Presa da una diffidenza così forte da travalicare il brulichio di sentimenti che si agitava in me, cercai di togliere la mano dalla sua. Invano. Lei mi teneva. Era forte, anche se non lo dimostrava. Alzai il viso verso di lei. Sembrava dispiaciuta, fin quasi alle lacrime. “siamo arrivati dunque alla fine?”. Domandò, in un tono così rotto che mi avrebbe commosso, se solo non avessi visto lo scintillio malizioso nei suoi occhi. Era una bugiarda nata. Chissà cosa gli passava per quella testa contorta che si ritrovava, quali sadici piani! Lo avrei scoperto presto, molto presto. Molto più presto di quanto osavo immaginare. Il labbro inferiore le tremò impercettibilmente,quasi fosse vicina alle lacrime. Maledetta bastarda. Non le avrei creduto nemmeno se mi avesse supplicato di rimanere, strisciando come un verme, vestita solo del saio viola dei Puniti, di quelli che, nella nostra cultura, devono espiare una colpa tremenda.  “ma come, Ombra…tu hai salvato il mio Regno… hai salvato mio figlio da un traditore…”. Soddisfazione immediata. Allora ci era cascata, ed in pieno! Almeno in quello, non avevo fallito. Ero quasi allegra, dopo quella scoperta. Abbastanza allegra per essere un po’ più sboccata. Se lo meritava, tutto. Ma la rivelazione me la sarei gustata, fino all’ultimo. All’ultimo momento, le avrei detto che suo fratello non era mai stato un traditore. Potevo aspettare un po’. Lei riprese a parlare, quasi gemendo. “vuoi davvero fuggire?”. Dei, quanto m’infastidiva. Avrei voluto farla finita, ora e subito. Mi ricordai della spada, ancora una volta, ma la ritenevo ancora inutile. Minacciarla non sarebbe servito a nulla. “poche ciance, Lainay”. Sbottai allora, con una voce insolitamente dura, per me, e secca, cercando di conficcarle le unghie nella mano. La sentii fremere, ma non staccò la presa. Ci voleva. “Chekaril mi ha raccontato un paio di cose che possono interessarmi, ma non è quello il motivo di questa bella chiacchierata, vero?…dimmi un po’…perché volevi mia figlia e suo fratello?”. Ecco. Dritti al punto, come piaceva a me. Inutile girarci intorno. Quella era la domanda che mi premeva di più. Perché mi aveva fatto penare per ben quattro mesi, quando aveva già la chiave della salvezza del Regno nelle mani? La ma spavalderia svanì in un attimo, quando vidi, in un lampo, la Regina cambiare espressione. Da pacifico e quasi materno, il suo volto pallido divenne una maschera di gelo. Lei mi lasciò la mano, e, in un attimo, si ritrasformò nella Regina della mia giovinezza, gelida e perennemente cupa. Nei suoi occhi chiari passò un lampo di furia, subito represso. Fu un attimo. Dopo pochissimo, tanto da farmi dubitare di aver visto davvero la vecchia Lainay, tutto tornò come prima. Ma lei non mi riprese la mano. La sua voce non fu più musicale e conciliante come prima, però. Mi sembrò più che mai un roco sibilo. Da quella bocca sentii le cose più orrende che mi sia mai capitato di sentir, le verità più scabrose e tremende, la vera Lainay. Non sapevo perché si stesse confidando così, con me, in quel mondo. A meno che non intendesse uccidermi subito dopo averlo fatto. Ma forse, c’era ancora la speranza di un cambiamento. Suo figlio poteva averle ammorbidito il carattere. Ancora ho timore al ricordo. Non ho mai più avuto accesso ad una mente così terribile come la sua. “secondo te, idiota?”. Ringhiò, stringendo le labbra, gli occhi che mandavano lampi arrabbiati. Mai, mai, aveva perso così il controllo, davanti a me. Ebbi paura. Paura di uno schiaffo, io che ero armata. Cosa può fare l’abitudine. “questo piccolo è nato, eh? Lo vedi davanti a te, vivo e vegeto?”. La furia fosca che sembrava averla afferrata era incredibile. Sembrava una mamma orsa, che difende i suoi piccoli a costo della vita. Non guardava nemmeno più me. I suoi occhi erano fissi nel vuoto. Vidi le sue mani stringere spasmodicamente il bracciolo. Era una domanda sbagliata, molto sbagliata. Non richiesta, mi ricordai di una sciocchezza, un pettegolezzo di corte, di quella corte di cui, un tempo, ero stata assidua frequentatrice. Prima che girassero voci sulla sua sterilità, voci che poi vennero rafforzate dalla mancanza di un erede, quando io non ero ancora nata, e Lainay aveva la mia età, o forse meno ancora, dopo alcuni brutti episodi era nato un bambino, da un padre sconosciuto. Morto. Era già morto quando venne alla luce, povero piccolo. Si vociferava che, da quel terribile accadimento avesse sconvolto Lainay in modo pazzesco, trascinandola sull’orlo dell’esaurimento nervoso, della pazzia, e stravolgendole il carattere. Non ci avevo creduto, mai. Ma non potevo far altro che pensarci, vedendo i suoi occhi, dopo quelle parole, colmarsi di un dolore immenso, indescrivibile. Mi fece quasi pietà. In fondo, la Regina non era altro che una vittima, una vittima del destino, come noi tutti. Forse non voleva altro che un’esistenza felice, non voleva altro che cose semplici. E non ci era riuscita.  Era questa, forse, l’origine della sua megalomania? Rabbrividii quando vidi il suo sguardo posarsi su di me, e riempirsi di una furia quasi omicida. Ed allora tutta la verità venne a galla. Quella verità che mi sconvolse, mi addolorò immensamente, quelle cose a cui mai ebbi il tempo di pensare. Di nuovo, quel ringhio basso, e quello spasmodico movimento delle mani, come se volesse strozzarmi, ma non potesse. “ho fatto di tutto per ottenere questo risultato, per avere questo figlio, Lsyn…”. Mormorò, guardandomi con occhi gelidi, che mi fecero venir voglia di scappare, per nascondermi e non farmi trovare più. “Guaritori fidati, maghi ed ancora Guaritori…sono dieci anni che cercano di trovare un rimedio alla mia sterilità. La mia sterilità..”. strinse le labbra piene, lei, e tirò un respiro profondo. Mi sentii inchiodata al mio posto, paralizzata. Il suo dolore era troppo grande perché lo potessi capire appieno. C’era pazzia, dentro, e tanta, tanta frustrazione. Vidi alcune lacrime, che mi sconvolsero più di tutto, baluginare agli angoli dei suoi occhi. Lainay non piangeva mai. Perché si sentiva autorizzata a confidarmi tutto, proprio in quel momento? Ero convinta di dover morire, perciò non m’interessava. Ma la trappola era ben più grande, e ben congegnata di quanto io pensassi. Lei riprese, dopo una breve pausa, a parlare, mormorando tra i denti, la mascella serrata, per dominarsi. “quando sono stata sicura di essere incinta… non potevo lasciare nulla al caso. Speravo, e spero, che questa sia la volta buona che…”. La sua voce si spense, e lei sollevò il mento, un gesto che mi parve infinitamente simile a quello di Tijorn. La voce riprese a parlare, ipnotica e sommessa. Sembrò, per me, che non esistesse nient’altro. “ma non potevo lasciare nulla al caso. Nulla. Tutti i possibili nemici vanno eliminati, e lo sai. Voglio che il mio bambino cresca sereno, senza quella feccia di mortali ad attentare alla sua piccola vita…”. La sua voce si tinse di amarezza, ed io la guardai meglio. Si era girata verso l’unica, grande finestra, con aria assente. Sembrava star facendo il riassunto di qualcosa. Provai, per lei, una pietà immensa. Lei soffriva, come tutti. Non era fredda come le sue bambole meccaniche, allora. Forse si, forse no. E quello era tutto un trucco. Un trucco di cui io non m’avvidi. “certo, avevo ancora bisogno dei miei eredi contingenti, semplici piccoli, ma tutti i possibili nemici andavano annientati. Tutti. Perciò, Lsyn, avevo bisogno di te”. Scosse il capo, ed io avvertii una sensazione strana, come se lo scettro dei Tengu mi avesse colpita. Mi venne la pelle d’oca, ed, ancora una volta, mi sentii atrocemente dileggiata. Ma ero troppo occupata nel sentire il seguito, per prestare ancora attenzione ai miei pensieri. Tutto stava tornando. Capii che quella che il mio vecchio amore mi aveva raccontato era solo la sua verità. Ce n’era un’altra. Quasi temevo di scoprire quale. “si…sapevo che tu volevi ritrovare Chekaril, e sapevo della tua ossessione. Decisi così di giocare in mio favore. Mio fratello è sempre stato piuttosto pericoloso per il mio trono, sai? Amato dalla gente, ottimo guerriero, abile e prudente…ma aveva un solo difetto. Un solo, grande difetto”. Eh. Quel difetto mi era fin troppo conosciuto. L’incapacità di non correre dietro alle sottane delle belle elfe. La bugia facile. Come la sorella, d’altronde. Con una strana sensazione di gelo, accolsi le seguenti parole con incredulità. Ero stata presa in giro in modo atroce. Ed anche Chekaril. La cosa più divertente era proprio quella. “se, come previsto, lo avessi riaccolto nel Regno alla maggiore età di Roxen, con mio figlio vivo…posso scommetterci la pelle, sul fatto che si sarebbe scatenata una guerra civile, una ribellione. E mio figlio è quello che regnerà, senza se e senza ma”. Il suo sguardo feroce mi fece venire i conati di vomito. Sarebbe stata un’ottima madre. Ma, per proteggere il suo pargolo, non avrebbe esitato ad eseguire terribili stragi. E tutto solo per proteggerlo. Lainay era un soggetto pericoloso per la comunità. Ed era Regina. Bizzarro scherzo del fato, affidare una corona ad una psicopatica. “ma, nello stesso tempo, se…se fosse nato morto…”. Esitò a lungo su quella parla, mordicchiandosi il labbro. “avevo bisogno dei due eredi. Qui entravi tu, Lsyn”. Un sorriso, freddo e breve. Ebbi paura, di nuovo, e lo stomaco si torse. “il tuo amore per Chekaril era abbastanza forte da spingerti ad eccessi incredibili, una volta saputo tutto. Ho giocato sulla tua buona fede, lo ammetto. Ma non me ne dolgo. Sapevo che tu l’avresti ucciso, e, bizzarramente, la cosa non mi da fastidio”. Era un mostro. Quella creatura, dai dolci lineamenti elfici, era un mostro. Un mostro della peggior specie. Avevo l’incredibile voglia di piantarla in asso, e fuggirmene via. Impossibile farlo. Mi toccò ascoltare tutto, fino in fondo. Avevo i brividi, e l’incredibile voglia di piangere. Avevo passato anche lo sdegno. “sapevo, inoltre, che il tuo amore per la piccola ti avrebbe spinta a far di tutto per farti perdonare”. Scosse il capo, alzando gli occhi la cielo, e la voce si fece più leggera. “ti conosco benissimo, Lsyn. Sapevo anche che tu avresti tentato di allontanarli dal mio potere, e perciò ho messo di guardia, a Zakadi, dalla tua sporca mezzelfa ed a Sharilar, piccoli drappelli di guardia. È stata una fortuna che sia stato Jalim a trovarvi…”. Come no. Una grande e grossa fortuna. Avrei ballato di gioia. Amavo quell’elfo. O quell’elfa, quale che fosse. Maledetto ermafrodito. O forse no, chissà. Sul viso di Lainay, inaspettatamente, si disegno un sorriso beato, e scintillante, e lei mi guardò dritto negli occhi. Vidi qualcosa, qualcosa d’indefinibile, turbinare in quei malefici abissi, ma non riuscii a capire di cosa si trattasse. Era il male assoluto lei, il male assoluto, perché fatto per il bene di un singolo. E solo di quello. Bizzarro. Anche l’altruismo può essere pericoloso, specie se distorto a quel modo. Le successive parole mi fecero gelare, ancora di più. Perché lei disse una cosa tremenda, allegra e pimpante. “ma, per fortuna, tutto sta andando come previsto…stiamo entrando nel nono mese, ed il piccolo è sano e forte…”. Dei. La maternità può dare davvero, davvero alla testa. La fissai, scioccata. Se solo il bambino fosse stato un maschio…beh…allora la catastrofe sarebbe stata assicurata. Con una madre come Lainay, sarebbe cresciuto con i valori più distorti delle tradizioni, tradizioni esasperate e portate alle estreme conseguenze. Ed avrebbe avuto anche il comando delle armate. E, se fosse stato dotato di potenziale magico… potevamo allora aspettarci la morte e la tragedia con assoluta sicurezza. Chi avrebbe resistito, ad un mammone, sottomesso e perversamente crudele? Un infante, già trasformato nel più bel balocco della madre. Era terribile. D’improvviso, l’espressione di Lainay tornò fosca. “dovrebbe sopravvivere al parto, o almeno è questo quello che mi dicono…”. Buttò lì, stringendo gli occhi, e guardandomi come se fossi io la responsabile della sua salute. Con una mano, si sfiorò distrattamente i capelli, come per tranquillizzarsi. Poi, un sorriso perverso le tirò il viso bianco. “sono indecisa, Lsyn… Roxen e Chekaril possono essere i suoi servi personali…o li uccido?”. Il cuore saltò uno o due battiti, e mi si mozzò il fiato. I bambini no! Tutto, ma i piccoli non si toccavano! Era quello, allora? Quello, il prezzo di tutto? Senza nemmeno farla finire, con quella nocetta così mostruosamente tranquilla, e svagata, sobbalzai, mettendomi in piedi. “no!”. Urlai, facendomi per avventare contro Lainay, che non si mosse, né batté ciglio. Tremando come una pazza, mi fermai giusto in tempo. Non ero più padrona dei miei movimenti. Emisi un paio di gemiti strozzati, prima di bloccarmi, indecisa. Cosa fare? Aggredirla, compromettendo così la vita di un innocente con la sua, o stare ferma? Era una prova, quella? Era strano, il suo sguardo impassibile. Poi, improvvisamente, il sorriso sadico le si trasformò in un ghigno divertito. “li ami, a quanto pare”. Disse, secca come una frusta. La sua voce assurdamente dolce mi face rabbrividire, e quasi piangere. Volevo scappare, scappare da quella camera degli orrori. Volevo i miei piccoli, la mia famiglia. Solo quello. Furono le sue ultime parole a darmi un barlume di speranza, solo quelle. La trappola suprema. “d’accordo, d’accordo… Lsyn…prometti di non farti mai più rivedere nel Regno?”. Oh. Quello che mi chiedeva era scandalosamente ovvio. Ed avrei fatto di tutto, pur di avere di nuovo con me i miei piccoli, adorati bambini. Perciò fui cieca, quando annuii disperatamente, con la voglia tremenda di piangere, di disperarmi. Perciò fui cieca, quando udii il sospiro fintamente addolorato di Lainay. “e sia, allora. Tieniti quei maledetti marmocchi con te”. La sua voce, venata d’ira, oh, era il più dolce scampanellio, per me. Avrei potuto volare. Sentii, d’improvviso, il suo tono alzarsi. “porta qui i cosi, Jalim!”.

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Capitolo 68
*** Il coltello dalla parte del manico. ***


In quella fuga precipitosa, e così intrinsecamente tragica, in cui si consumò il rogo vero e proprio dell’Ombra, dapprima demonizzata in un corpo martoriato, poi odiata, torturata, ed alla fine uccisa, il mio pensiero fisso andò a proprio quella fatale d

In quella fuga precipitosa, e così intrinsecamente tragica, in cui si consumò il rogo vero e proprio dell’Ombra, dapprima demonizzata in un corpo martoriato, poi odiata, torturata, ed alla fine uccisa, il mio pensiero fisso andò a proprio quella fatale discussione, in cui tante cose mi furono chiarite, ma tante rimanevano da chiarire, ebbi modo di pensare, lamentando la mia disgrazia, di quanto qualcosa cominciato bene possa finire in tragedia. Il primo interrogativo, che mi tormentava, era quello delle prime parole che Lainay mi aveva rivolto, così sicure, trionfanti. Non credevo ad una parola di ciò che mi aveva detto per rassicurarmi, o per spaventarmi. Cosa stava dicendo, in realtà, in quel rigurgito d’orgoglio pazzoide, quando mi aveva vista arrivare? Chi era Nemys? Cosa voleva dire con quell’esclamazione trionfante? Perché sarei dovuta andare ad Uruk, dritta in bocca di quelli che una volta erano stati ribelli di un regno di Normar sempre più in espansione, e che volevano la mia testa quasi quanto quella della Regina? Pensava prima di parlare? Aveva considerato che, per servirla stupidamente, per servire la sua pazzia, avevo reso invalicabile, per me e la mia famigliola, il confine più sicuro di tutti?  Perché mi sarei dovuta fidare di Nemys, che sicuramente mi odiava, perché Isnark non mi avrebbe ucciso? Cosa stava a significare, in quel frangente, Rinnegata? Nemys non era stata una Spia. In caso contrario, l’avrei saputo. Non poteva essere così giovane da aver finito il noviziato e l’apprendistato in quei cinquant’anni in ci ero stata assente, per poi insediarsi come Alta Sacerdotessa e sovrana a Kyradon! La stessa sua storia, che poco conoscevo, mi confutava quell’ipotesi. Lei era…mistica, già dall’inizio. Non so come altro definirlo. Junielle mi aveva parlato, con inconsueta preoccupazione, di una creatura che credeva davvero in ciò che diceva. Una Spia non riceva insegnamento religioso di sorta, né io l’ho mai voluto, lo ripeto e sempre lo ripeterò. Sebbene stiano cercando di darmi qualche inconscia dritta, io la rifiuto. Ho sofferto troppo per credere ancora in qualcosa, per credere che ci sia qualcosa. Ma allora, i miei interrogativi erano parecchio più terreni. Mi ero forse sbagliata ad interpretare la frase? Lainay aveva forse voluto dirmi che, secondo la sua opinione, sia io che Nemys avevamo rinnegato ciò che era per lei l’orgoglio di elfo? Non reggeva. Ero in un vicolo cieco. Ero sempre andata fiera della mia razza, e l’ho sempre difesa ad ogni costo, contro il casuale grigiore della maggior parte degli umani. Allora, cosa voleva dire? Non lo sapevo, non lo volevo sapere. E, per il momento, quel dubbio rimase insoluto. Ciò che successe dopo fu troppo doloroso per riflettere ancora su pasticci forse meramente linguistici, tutto si svolse troppo velocemente per poter pensare ancora. I miei dubbi vennero svelati dalla persona più improbabile, a mio parere, che mi potesse capitare d’incontrare. Una creatura così strana, così fuori da ogni schema mortale, così eterea, ma così dolce ed umana, una fata delle favole, di quelle favole che Amarto ci raccontava, a me e Tijorn, nelle lunghe notti invernali, per farci stare calmi, e non distruggere la casetta, da rifuggire quasi ad ogni descrizione possibile. Chi cercò di guarirmi, di sollevarmi, di dare a me anche una minima parvenza di vita, per affrontare un futuro denso di nebbia, di nera nebbia di dolore, denso di ricordi, di un tempo passato che non tornerà. Oltre a quell’interrogativo, ce n’era un altro, molto, molto più urgente. Eh, si: ero sbiancata maledettamente quando Lainay aveva chiamato Jalim, ed avevo sentito lo stomaco torcersi in ogni direzione possibile. Mi bastava un salto, un solo salto, ed avrei posto fine a quella chiamata con enorme facilità. Ma non lo feci. Rimasi lì, bloccata da un gelo quasi innaturale, domandandomi disperatamente perché non riuscivo a muovere i piedi. Trappola. L’ennesima trappola. C’era Tijorn, dentro. Immaginai la sua espressione, faccia a faccia con quel mostro dannato con le orecchie a punta, il panico che l’avrebbe attanagliato, e mi venne voglia di uccidere qualcuno, di strillare, di muovermi, o anche solo di piangere. Magari  era già morto. Immaginare il mio dolce, caro fratello maggiore trapassato da una spada crudele, passato a fil di lama da un pazzo sadico che l’aveva torturato, che gli aveva sconvolto la mente, morto, defunto, oggetto inanimato e freddo buono solo per essere bruciato, per essere seppellito, per essere donato di nuovo alla natura, mi faceva venire i brividi. E dire quello era poco. Mi riempiva di un gelo interiore quasi innaturale, mi rendeva immensamente triste, mi annichiliva. Senza Tijorn, il mondo avrebbe smesso di avere una luce. Certo, la mia esistenza sarebbe continuata, per pura inerzia, avrei vissuto per Chekaril e Roxen, per Akita e mio nipote, per Junielle, Amarto e le piccole gemelle, ma, allo stesso modo di una pianta senza più sole, sarei vissuta, pallida e gracile, invisibile alle grandi foglie degli alberi, così fragile da farmi portare via da un soffio di vento. Mio fratello era la mia guida, il mio confidente, il mio migliore amico, compagno di malefatte, ricordi e dispetti, compagno di missioni, Guaritore improvvisato ed imbattibile erborista, il mio fornitore di camuffamenti preferito, il mio difensore, il mio difeso, semplicemente il mio amatissimo fratello. E senza di lui io ero niente. Niente! Perciò, il solo nome di colui che aveva osato farlo soffrire, mi riempiva di ulteriore disperazione. Ed i piccoli sarebbero stati con lui? Sarebbero morti anche loro? Caduta nell’inganno, nella trappola astutamente congegnata da quella serpe e quella volpe, sarei stata consegnata allo sciacallo, e prontamente torturata e divorata? Stupido ma reale pensiero, ebbi un lampo improvviso di Jalim, occhi affamati e bavaglio al collo, divoratore prontamente stereotipato, immergere un innocente cucchiaio, con aria distratta, in quello che la mia mente interpreto come una qualche parte del corpo, umano ed elfico. Un pensiero che mi avrebbe fatto ridere, tanto era buffo, ma che, in quel momento, non mi faceva che venir voglia di rompere la mia immobilità dettata dal panico, per uccidere, in qualche modo, la Regina. In quel terribile attimo di silenzio, mi resi conto di avere, ancora grondante di sangue, in mano la spada, la meravigliosa spada leggermente ricurva di Eiron. Era un peccato non potersi muovere, come avvinta da un incantesimo. E forse lo ero, forse no. Ciò che so, è che mi ribellai fieramente ai vincoli che il panico aveva creato per me, invano. La paura aveva vinto. Dopo davvero poco, lo spazio di un minuto, dall’ombra emersero ben quattro figure, tutte e quattro saldamente poggiate sulle proprie gambe. Dal panico, passai alla gioia più inebriante. Forse Lainay diceva la verità. Forse aveva intenzione di lasciarci andare. Non so perché, forse un sussulto di sagacia, ma quell’ultimo pensiero mi fece venire un sospetto. Non vista, cercando di non farmene rendere conto, guardai per un attimo la Regina, per osservare la sua espressione, per vedere cosa stava pensando. Aveva smesso di curarsi di me non appena chiamato Jalim, e, nello stesso mio modo, scrutava il buio della porta. Ciò che covava nel suo sguardo mi mise leggermente in allarme. Di solito Lainay era un’ottima bugiarda, ed era capace di far credere addirittura ad una gallina di poter volare con i falchi. Aveva un’ottima dialettica, ed uno sguardo freddo, imperscrutabile. Ma io la conoscevo troppo bene per non capirla. Avevo vissuto a stretto contatto con lei per un po’ di tempo, per le missioni. Intendevo ogni singolo lampo dei suoi occhi viola. Mi era stato insegnato, d’altronde, a fare quello. Obbedire la Regina anche solo da uno sguardo. Ed ecco, quella cosa mi stava tornando assai utile. Compresi l’inganno, ne sentii il sapore, e sobbalzai. La sua espressione era sempre neutra, dignitosa ed un po’ oltraggiata, ma io potevo vedere dietro le apparenze. Le spalle erano tese in una postura quasi innaturale, studiatamente rilassata, che mi ricordò nettamente di tutte le volte in cui avevo assistito a trattative di pace, dove lo scopo era solo uno: fagocitare quanto più possibile. Lo sguardo fintamente innocente covava un briciolo, solo un briciolo di malizia, qualcosa di facilmente interpretabile come aspettativa, attesa, il che le dava un’aria da gatto in caccia. Troppo naturale, troppo poco… Lainay, ecco. Se fosse stata normale, mi avrebbe cacciata, ed avrebbe fatto portare ciò che volevo da un servo, o un soldato di basso rango. Non si sarebbe così dolcemente intrattenuta, facendo la parte della mamma incompresa. Disturbarla mentre dormiva, soprattutto in uno stato delicato come quello in cui era ora, sarebbe potuto benissimo costarmi un calcio nelle costole, da lei in persona o qualcos’altro di molto doloroso, una punizione per il mio comportamento disdicevole. No: non avrebbe chiacchierato con me, mi avrebbe urlato contro. Ed i piccoli non sarebbero stati accompagnati dal suo cucciolo preferito, il suo perverso cagnolino, in persona! Un comportamento troppo civile per Lainay, che io avevo conosciuto nella sua vera faccia, lontana dalla propaganda che lei stessa si faceva. Perciò, con vero e proprio allarme, quando vidi entrare nella piccola stanza Tijorn, sano e salvo, con mio grandissimo sollievo, ma molto, molto spaventato, a braccetto con un sorridente Jalim, acconciato  e vestito come per un ballo di corte, cosa che più che mai mi fece rendere conto della strana situazione venuta a crearsi, mi scambiai un veloce sguardo con lui. Gli leggevo negli occhi lo stesso panico, la stessa cautela, e la stessa felicità mia, quando mi aveva guardato, viva. Lui fece uno strano gesto, inclinando lievemente la testa verso Jalim, con uno scatto, poi sgranò gli occhi. Intimava attenzione. Pericolo. Come se non l’avessi già capito! Non so se quell’atteggiamento fu notato o no. Rapida come un fulmine, la mia attenzione fu sviata da qualcun altro. Ed allora, la mia gioia toccò il culmine. Di nuovo insieme. Sempre, sempre e sempre. Saltando a piè pari tutto il formalismo di corte, all’improvviso, due piccole figure infagottate in cenci marroni, mi corsero incontro. “zia Lsyn! Zia Lsyn!”. Urlarono due piccole voci, prima che i proprietari mi si precipitassero addosso. Quasi caddi, travolta dalla loro stessa gioia, assaporandola quasi fosse materiale. Con una mano, spostai lievemente la spada indietro, in modo da non ferirli. Ero ad un passo dalle lacrime. Con il braccio libero, li andai ad abbracciare, o cercai di stringerli entrambi. Ero troppo piccina per poterli avvicinare di più al mio cuore. Roxen, mia figlia, il mio piccolo fiorellino coraggioso, era già più alta di me, e Chekaril prometteva di divenirlo. Ma avrei voluto, oh, tanto, proteggerli, incastonarli in un luogo sicuro e felice, e tenerli per sempre lì! Il destino, così crudele ad indifferente, aveva voluto altrimenti. E chissà quali e quanti patimenti quella maledetta aveva fatto sopportare loro! Presa quasi da una strana frenesia, pazza di gioia, in un certo senso pacificata, mentre loro ancora mi stringevano, come presa da urgenza, sollevai i loro volti e li guardai. Rapidissima, alla felicità subentrò un altro sentimento. Indignazione, credo, in larga parte, ma anche rabbia. Quei momenti sono troppo confusi, nella mia mente, per poterli ricordare bene. Ma rammento dettagliatamente, con singolare orrore, quello che vidi sui loro volti. Il livello a cui erano potuti arrivare. E forse fu allora che la furia sostituì il rispetto e la paura. Perché mai, mai, oltraggiare una madre, mai mettersi contro di ella. Mai, se si vuole rimanere ancora vivi per raccontarlo. Ed io ero sufficientemente pericolosa per rappresentare una minaccia concreta alla vita di Lainay, e del suo piccolo. Era stata una stupida a lasciami la spada, a non avermela tolta quando era ancora troppo stordita per intendere e per volere. Cosa credeva, che anche quell’ultimo affronto da me subito mi avrebbe fatto rimanere docile come un agnellino? Sciocca! Tutto, tutto, fuorché quelli che consideravo, ormai, figli miei. E Roxen lo era davvero. Gettai via tutti i miei sentimenti, tutto quello che ancora provavo per la Regina, quella fedeltà mescolata a ribrezzo, l’abbandonai totalmente. Perché a Roxen erano stati tagliati i capelli, ancora di più, quel casco di morbidi boccoli, nerissimi, ali di corvo come i miei, erano ora solo fitti riccioli, dritti come fusi, molto corti. Anche a Chekaril era stato riservato lo stesso trattamento, ed era stato quasi rapato a zero. Sul loro viso, tuttavia, trovai più evidenti, in un lampo, i segni dell’oltraggio che io stessa avevo subito. Poco ma sicuro, erano stati selvaggiamente picchiati. Me lo dicevano i loro occhi sperduti, la paura che potevo quasi toccare, il modo cauto con cui si stringevano a me. Potevo intuirlo dal fatto che non riuscivano a fissarmi, forse consci che, se il mio sguardo avesse incontrato il loro, tutti i soprusi subiti sarebbero venuti a galla, avrei indovinato tutto. Ma non era così difficile farlo lo stesso. Cosa significava, a parte un colpo violento, quell’enorme livido nero che attorniava l’occhio del piccolo Chekaril, che sembrava ad un passo dalle lacrime? Cosa poteva significare la guancia gonfia di mia figlia, il suo tremolio scomposto? Non notai di essermi contratta in una posizione quasi innaturale, di star stringendo i miei piccoli viaggiatori coraggiosi in una stretta distratta, di non confortarli minimamente. Il mio sguardo si posò, invece, su Jalim, che teneva ancora stretto Tijorn. Un ringhio sordo mi uscì dalle labbra. Nemmeno io so come riuscì a venirmi quel suono basso, e minaccioso. Forse fu la furia. Strinsi la spada con più forza, fino a quando la filigrana del pomo non sembrò imprimersi a fuoco sulla mia pelle. Ora non l’avrebbero passata liscia. Avevano passato il limite. Sentii i piccoli lasciarmi, nascondersi forse al mio fianco, e mi alzai, torreggiando in tutta la mia scarsa altezza. Ma sembrai ergermi per tre metri, ombrosa e terribile come una torre. Lo strano elfo mi guardò, ed aggrottò un sopracciglio, lasciando Tijorn. Brutto bastardo. Scommettevo fosse stato lui a far del male ai miei cuccioli in quel modo. “cos’è che mi guardi così? Che ti ho fatto di male?”. Chiocciò con la sua voce querula e frivola, guardandomi con innocenza. Ma per un attimo, il suo sguardo corse verso Lainay, ancora di fianco a me. Tirai un grosso respiro. Impenitente, anche. Mi avevano nascosto una cosa importantissima, lo stato dei piccoli: e, se mentivano su quello, non osavo immaginare cosa sarebbe potuto succedere se io, come nei piani, mi fossi fidata ciecamente di loro. Qualcuno stava bisbigliando, un suono che a me parve quello della coscienza. Ma la coscienza non poteva avere voce maschile, no? Guardai brevemente Tijorn. Scuoteva il capo, lui, e mormorava qualcosa, i pugni chiusi, teso come una corda di violino. Se non fosse stato così poco da mio fratello bestemmiare, giurerei di aver sentito provenire da lui, quella volta, qualche pesantissima imprecazione. “vedi i marmocchi, eh? Ma, fidati, Lsyn, amica mia, non sono stata io”. Storsi il viso a quella disgustosa smorfia, piena di falsità e miele. Si: non avevo, nemmeno nei miei sogni più assurdi, visto Jalim così disponibile, così poco sadico. Non aveva nemmeno infilato una volta nel discorso l’accenno a torture, minacce o cose del genere. La presa sulla spada divenne più forte. Era tanta, forse, la loro sicurezza di aver vinto , che mandavano al diavolo anche i minimi tentativi di fare scena. O forse ero io ad essere cambiata, a vedere l’ipocrisia  nei loro comportamenti. Ero sicura, tuttavia: non appena usciti da quella camera, saremmo stati attaccati e trucidati da qualcuno che era lì apposta. Poco ma sicuro. Dovevo stare in campana, e molto. Analizzare ogni singola parola. Ero indignata, e furiosa. Bene. Così mi trattavano, io, che avevo, per loro, speso trecento anni della mia misera vita, speso sangue, e bellezza. Avevo consegnato mia figlia ad una macchina perversa. La cosa  mi provocava uno strano sentimento rabbioso. Avevo sacrificato il mio amore, la mia maternità, per un’ottusa megalomane, ed il suo, o la sua, questo ancora non so, amante preferito. Udii ancora Jalim parlare, con la chiara consapevolezza che, se avesse cianciato un altro po’, l’avrei ucciso, per poi levarmi finalmente la curiosità di sapere cosa diavolo in realtà fosse. “fidati di me…io sono innocente e puro…davvero, stavolta, non ho fatto del male a quei cosi…”. Eh, no. Era troppo. Mancava solo un sorriso sadico alla sua espressione soddisfatta, e la sua sarebbe valsa come una confessione. O meglio, già lo era. Avevo sentito, ad un certo punto, il singhiozzo di mia figlia. Loro, una volta finito tutto, mi avrebbero confessato tutta la verità. Era stato lui a malmenarli , mentre Lainay li guardava, divertita. Lui li aveva picchiati per puro divertimento, li aveva presi a calci solo per il piacere di vedersi gratificato dalla sua amata regina. Era stato sempre sotto i suoi occhi che avevano tagliato loro i capelli, perché Lainay non prendesse malattie, da quei, come mi disse Chekaril, piangendo, sacchi di pulci. Sacchi di pulci, i miei bambini! Se solo avessi potuto, tutto quello sarebbe bastato a farmi tornare nel Regno, solo per infliggere una sonora lezione a quei due. Ucciderli, magari. O rapire il figlio di Lainay, per trattarlo esattamente come lei aveva trattato i miei piccoli. Ignobile, prendersela con un innocente…ma cosa aveva fatto, lei? Qualcuno mi fermò, allora, quando volli fungere, per una volta, da mano del destino. Mi preparai, mi preparai al colpo che avrei usato per tagliargli la testa, e feci un passo in avanti. Una mano fredda mi fermò, all’improvviso, tenendomi la spalla in una stretta ferrea. Allarmata mi girai, di scatto. Lainay mi aveva fermata. Mi guardava, con una sorta di apprensione negli occhi vuoti, da serpente divertito. Gioii. Cosa era passato loro per la testa, di farmi entrare armata? Ero così mutata, nei miei comportamenti? O forse  non si erano accorti che l’Ombra è inafferrabile, che non si fa mai prendere né controllare? Avevano superato ogni limite di decenza. Ero stufa. Stufa, e punto. È dire poco, aggiungerei. Stufa di essere trattata come una serva. Ero un’elfa, ed avevo dignità, io! Stufa, di dipendere, la vita e la morte, l’esistenza e la prigionia, da una pazza visionaria. Cosa credeva, che fossi una stupida? Stufa, di vedere i miei cari maltrattati allo stesso mio modo. Potevano farmi di tutto. Ma non toccare i miei affetti. Eh, no. Quelli mai. Erano proibiti. Chiunque avesse torto anche loro un capello, ne avrebbe dovuto rispondere con me. E forse Lainay non se n’era accorta. Non se n’era accorta, non aveva messo in conto la mia pericolosità latente. Ma forse, con quello sguardo stranamente apprensivo, stava capendo. Bene. Ero stufa. Stufa di tutti loro, della loro ipocrisia, della loro perversa violenza. Ero stufa di essere considerata ancora un’amica di Normar. Nel mio sguardo lei dovette leggere qualcosa, perché, alla preoccupazione si sostituì la paura. “su Lsyn…”. Mi disse, con una strana voce, di qualche tono più acuta. Oh, si: mi temeva, eccome. Lei era disarmata, ed incinta, fragile come una farfalla essiccata. Io ero piena di rabbia, inacidita da nuovi ed antichi torti, resa forte dai viaggi e dalle sofferenze. Cosa più importante, ero armata, e quel giorno avevo già ucciso. La mia spada sarebbe stata contenta di assaggiare, finalmente, per una volta nella sua esistenza, sangue colpevole. Ed io non vedevo l’ora di farlo. Mi dispiaceva solamente che ci sarebbe andato di mezzo un bambino. Era un gran peccato. Ma era figlio della madre sbagliata, su quello non c’era dubbio. Perciò, quella vocina ben poco sicura fu musica, per le mie orecchie. La sua presa sulla mia spalla, oh, era molto facile da togliere. Non era più la Lainay di una volta. O meglio, il suo stesso desiderio gliel’aveva impedito. Un sorriso strano si andò a formare sul viso pallido della Regina. “ora, sai cosa facciamo? Manderò a chiamare i miei soldati, così vi accompagneranno fuori, vi faranno da scorta, eh? Cosa ne dici, Lsyn? Non è un buon compromesso?”. Un altro singhiozzo, dalle parti dei piccoli. Eh, no. Non mi fregava così, oh no. Logica buona per l’Ombra, ma non per Lsyn. Non mi sarei accontentata della trappola. Perché era sicuramente quello, il piano originario. Poco, ma sicuro. Rimasi tuttavia in silenzio, come per valutare. Attaccare, l’unica soluzione. Dovevo ricordare che io ero sola, loro erano in due. E Jalim era pericoloso anche senz’armi alcune. Ed, inoltre, era un po’ improbabile che lui non si fosse portato qualcosa dietro, fosse pure un piccolo coltellino. Lo stava nascondendo. Per fortuna che Tijorn era libero, armato anche lui, ed anche piuttosto arrabbiato. Furioso era dire meglio. Sogghignai tra me e me. Come sempre, avevo trovato in lui un validissimo alleato. Perfetto. Pensai che sarebbe stato davvero felice di vendicarsi, di vendicarsi di tutte le torture subite. Glene offrivo l’occasione su un piatto d’argento. Lui intercettò il mio sguardo. E sogghignò apertamente. Mi aveva capita benissimo. Tese i muscoli del collo, e si girò verso Jalim. Lo imitai. Stringeva qualcosa tra le pieghe del su abito, senza dubbio un arma. Lui era suo. Messaggio chiaro, e tondo. Lainay era mia. Tutta mia. Potevo fare con lei quello che volevo, ora. Mi venne in mente un’idea. Potevamo andarcene senza uccidere nessuno, a testa alta, no? Un po’ di minacce non hanno mai fatto male a nessuno, su. Così, la spada che fino a quel momento pendeva con la punta a terra, si ritrovò puntata alla gola di Lainay. “decisamente non mi pare un buon compromesso!”. Sibilai, con una voce che non pareva la mia. Mai più vidi Lainay così terrorizzata, né la vidi mai. Stava impallidendo maledettamente. Da lì, precipitò tutto. Con un urlo belluino, non da lui vedendo minacciata la sua dolce Regina, Jalim, senza preoccuparsi delle conseguenze, balzò verso di me. I piccoli strillarono. Udii, chiaro e tondo, lo stridio di due lame che si cozzano. Tijorn lo aveva intercettato. Mi girai, per assicurarmi che tutto stesse andando per il verso giusto. Il loro duello era iniziato. Approfittando del mio breve momento di distrazione, la Regina cercò di scampare alla minaccia della mia arma. La sentii alzarsi, pronta a fuggire, per salvare la sua pellaccia, e quella del suo disgustoso bambino. Troppo lenta, e troppo goffa, per me, dai nervi tesi fino all’estremo. Ah…il regno l’aveva ammorbidita, e molto. E lei non aveva mai, in fondo, combattuto. Non so cosa feci, né come lo feci, ma, senza parlare, mi gettai a capofitto contro di lei, disposta pure a ferirla, per quello che volevo. Non intendevo essere mai più trattata come un giocattolo, mai più. Potevo essere un individuo, senziente ed indipendente. Ed ora, lo stavo mostrando a me stessa. La mia rivalsa era incominciata. Mi ritrovai, così, aggrappata alla figura esile di Lainay, e puntai la spada all’unico punto che riuscivo a raggiungere correttamente quando ero in piedi. Posai quindi la spada, il filo più tagliente, sul ventre gonfio. Un colpo, e tutto sarebbe finito. Avevo la maledetta voglia di farlo, ma mi trattenni giusto in tempo. La resistenza contro di me finì in un attimo. Era fiera, lei, era pazza, ma non stupida, anzi. Me ne sentii soddisfatta, molto. Con l’atra mano, presi a stringerle le mani in una morsa. Lei non si ribellò. “benissimo, Lainay…”. Sussurrai, con un sorriso involontario sulle labbra. La strinsi più forte, e la guardai. Si era cristallizzata, un’espressione davvero sdegnata, ma disperata, sul volto pallido. Aveva capito di essere in trappola. Jalim, la sua carta vincente, era ancora tenuto a bada da mio fratello. Lo dimostravano ancora i rumori di combattimento, provenienti alle nostre spalle. Era indifesa. Lei non era mai stata forte: basava tutta la sua potenza sul sopruso, sulla violenza psicologica. Ora, il compromesso. Non l’avrei uccisa. Non ancora. Ma volevo qualcosa in cambio. “ora…io voglio essere sicura della tua buona fede”. Oh…com’era terribile la mia voce! Me ne compiacqui. Così doveva essere. “ma, visto che fino ad ora sono sempre stata giocata da te, voglio una certezza…”. Lei non mi guardò. Non guardava nessuno, e niente. Tirò su col naso. Vinta. Vinta e stravinta. Non credevo fosse così facile. “cosa vuoi?”. Mi disse, con una voce fiera. Volevo ballare. Avevo vinto. Per una volta. “è semplice”. Le sussurrai, cercando di avvicinarmi al suo orecchio. Potevo essere più forte, ma ero davvero più bassa di lei. Rimpiansi, per l’ennesima volta, di non essere di dimensioni normali per un elfo, di essere così drammaticamente piccina. Per un umano poteva andare bene, ma per un elfo no. L’altezza: la mia grande fissazione. “voglio un lasciapassare. Non importa come lo scrivi, fosse anche con il sangue e le tue stesse dita. Voglio avere una sicurezza, mia cara Regina. Se accetti…beh, ce ne andremo, e tu non sentirai mai più parlare di noi, e potrai crescere il tuo marmocchio in pace. Sennò…beh…mi vedo costretta ad ucciderlo. E ad uccidere anche te, forse. Cosa scegli?” com’erano belle le mie parole dolcissime, e pericolose. Per farle capire che non scherzavo, premetti leggermente la spada sulla sua pelle. Doveva sentire la paura, di cos’era fatta, che odore aveva. Ci fu un debole tentativo di staccarsi da me, di liberarsi. Ma io ero stata resa forte dalla rabbia, la cieca rabbia che m’impediva di pensare coerentemente. Avevo io il coltello dalla parte del manico. E tanto bastava. Fu un gioco da ragazzi, per me, tenerla. Quella soddisfazione mi ripagò di tutte le umiliazioni subite in una vita intera. L’avrei schiaffeggiata, se tutto fosse andato come dicevo io, dopo. Poi, saremmo fuggiti alla velocità massima a noi consentita, schizzare come un lampo. Un lasciapassare, vero, garantiva immunità. Ma non permetteva di fare tutto. Scommettevo che, così inerme, avrebbe accettato. Ora, bisognava solo mettere fuori gioco Jalim, il suo braccio armato. A quello ci pensò Tijorn, diligente. L’ebbe vinta, sui suoi incubi, sul suo dolore, sul suo terrore. Perché, d’improvviso, vedemmo schizzare verso di noi un’arma strana, una sorta di coltello lungo, simile ad una fiamma. Spinsi Lainay per farla spostare, ed entrambe ci girammo verso i due combattenti. Tijorn, illeso, era in guardia, lo stocco ancora in mano, e guardava con aria compiaciuta un sorpreso Jalim, che aveva ancora la mano chiusa a pugno. Mano vuota. Gioii, in me. Eravamo in procinto di vincere. Fuori uno. E Tijorn era ancora vivo. La cosa più importante era quella. Ci fu un attimo di silenzio, in cui i due duellanti si guardarono. Sentii gemere debolmente Lainay. Lei doveva essere davvero preoccupata. Preoccupata per il suo tenero, perverso Jalim. Vidi, in un lampo, passare sul volto di Tijorn una strana espressione maliziosa. Temetti quello sguardo. O meglio. Dovevo temere per Jalim. Stava per combinare qualche tiro mancino nei suoi danni. Sicuro. Non sbagliai. Avevo più che ragione. Prima che l’elfo androgino si riprendesse, infatti, mio fratello aveva già agito. Chissà da quanto desiderava farlo, stringere la mano a pugno, e colpire, con tutta la frustrazione che aveva represso in anni, colpire la mascella dell’ermafrodito con tutta la sua forza, con un pugno ben assestato. Sarebbe stato un miracolo se non gliel’avesse rotta. Dolce e caro fratellino mio. Jalim crollò, completamente fuori gioco. La difesa, l’unica difesa di Lainay, era infatti svenuta, completamente venuta meno. Cadde a terra come un sacco vuoto. Davvero soddisfacente la vista. Sentii, così, la debole resistenza della Regina svanire. Era finita. Non poteva contare su nessun altro aiuto. Aveva contato su di me, sulla mia paura. Ed aveva fallito. Molto stupida, come cosa. Lei si morse le labbra, forse per non gridare. Guardai ancora per un attimo mio fratello incombere sul suo nemico, le mani sui fianchi, soddisfatto, dandogli un altro paio di calcetti sul capo bianco, forse per accertarsi non stesse fingendo, poi mi girai definitivamente verso la mia nemica, che non aveva ancora deciso. Ero impaziente. Potevo benissimo ucciderla, ora come ora. Sperai non fosse così stupida da rifiutare. “allora? Rispondi!”. Intimai, con voce aspra, la vidi sobbalzare, e girarsi quanto poteva per osservarmi. Aveva gli occhi pieni di una rabbia lacrimosa, una fierezza di una tigre calpestata e derisa. Sconfitta, ma ancora pericolosa. Dovevo avere quel lasciapassare per tutti noi, e subito. Ci fissammo, per un attimo. E poi, con mia grande gioia, la vidi annuire. Brava, Lainay. Incauta, per una volta, ma non stupida. “lo farò, Lsyn”. Mormorò, facendo una smorfia. “tu sei pazza, sei pazza… immagini che tutto quello che io ho detto siano sciocchezze, vero? Lo vedrai, maledetta…lo vedrai! Stai facendo la scelta sbagliata!”. Irritazione immediata. Lei aveva picchiato i miei piccoli, mi aveva umiliata in un modo pazzesco, inumano, e poi veniva a darmi dalla pazza? La strinsi più forte, rabbiosa. “cosa vuoi che me ne importi, eh?”. Ringhiai, torturandole le mani. Doveva soffrire,. Almeno un ombra di quello che avevo provato io. “quello che faccio è solo affar mio. Mio! Ora, se non ti spiace, vorrei andarmene con le persone a cui voglio bene, concetto che ti è, a quanto pare, oscuro, e non voglio cadere di nuovo nelle tua stupide trappole. Muoviti a fare quello che devi fare, e ce ne andremo!”.

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Capitolo 69
*** Volata verso la libertà! ***


Lei mi obbedì

Lei mi obbedì. Oh, si che mi obbedì. Avrebbe fatto di tutto pur di salvare il salvabile, la vita del suo disgustoso figlio, la sua vita. Non avrebbe potuto far altro. Avrebbe strisciato carponi, cantando canzoncine da osteria, se solo gliel’avessi chiesto. Una grande rivalsa, per me, tormentata, torturata, umiliata, derisa, per tutta la mia vita da Spia. Un’enorme rivalsa. Lei aveva fatto del male ai miei cari, ed a me stessa. Ci aveva trattati come bestie. Ed avrebbe pagato, oh si. Ma, in quel momento, e fu ciò che pensai, la cosa più importante da fare era assicurarsi che i piccoli, Tijorn, Akita, ed il resto della variegata ciurma, fossero al sicuro,assicurarsi un modo valido per fuggire, per andarcene via da quel silente luogo di dolore, per non ritornarvi più. Io e mio fratello sottomettemmo completamente Lainay. Jalim non si era ancora mosso, né si mosse durante la nostra poco pacifica conversazione. Il pugno di Tijorn lo aveva steso, e anche bene. Magia da parte di una persona, calmissima, posata ed allegra di solito, capace di ferire seriamente solo nei momenti di rabbia! Vidi un sogghigno soddisfatto sul suo volto pallido. E fui lui a zittire Lainay quando cominciò a fare storie perché non aveva materiale da scrittura. Le puntò addosso la sua arma, silenzioso e leggermente sogghignante. Lei si zittì, d’un colpo. Era docile come un agnellino, la cara Regina. La minacciammo nei modi più atroci, per noi assurdamente divertenti, giurandole di farle scrivere anche con il proprio sangue, basta che scrivesse, finche lei non cedette, e chiese a mio fratello di rovistare in un cassetto, e tirare fuori carta, piuma, calamaio e sigillo regio, tutti gli accessori da scrittura che lei teneva sempre da parte, per ogni evenienza. Vittoria, vittoria totale. Immaginare il nostro futuro non era mai stato più piacevole. Già mi vedevo, zia, madre, sorella ed amica felice. Una casetta nascosta, su, nelle montagne, inaccessibili per via dei Tengu che le abitavano. Inaccessibili, ma non per me. Loro erano creature amiche, per me. La Matriarca mi avrebbe accolta a braccia aperte, e si sarebbe fidata di me. Lsyn, l’amica dei Tengu. Suonava davvero bene, nella mia mente, mentre la ripetevo come una cantilena, guardando Lainay scrivere, mentre noi due incombevamo su di lei, per essere certi non stesse facendo sciocchezze, o ci stesse tradendo. Ma lei non fece nulla di tutto quello che temevamo. Mentre lei scriveva, la fronte solo lievemente imperlata di sudore freddo, i piccoli mi si erano avvicinati, e qualcuno dei due si era aggrappato al mantello, stringendolo in una morsa spasmodica. Leggevo nel loro sguardo l’ingenua speranza. Di nuovo insieme. Tutti insieme, come una grande famigliola felice. In fondo, era solo quello che volevo. Vivere in pace, circondata dai miei affetti, in una casa serena. Nuove piccole pesti a rallegrare un’esistenza parimenti allegra. Immaginavo così, la mia vita, ei miei sogni di pace. Sogni brutalmente infranti, sempre infranti, quando la mia ossessione era un cinico donnaiolo, quando mi ritrovai a fissare un paio di orbite vuote, ed occhi con quattro pupille, quando il modo smise di avere ogni sfumatura di colore, che non fosse un uniforme, tedioso grigio. Io volevo solo essere amata! Una vita senza scosse, senza persone che si ritraevano alla mia vista, al mio arrivo, fino a farmi arrossire, umiliata, accompagnata dal suono allegro di risate, dalla noia di giornate piene di calore, intrise di luce, tutte uguali, ma preziose perché facenti parte della stessa esistenza. Volevo solo un po’ di tranquillità. Il destino aveva deciso altrimenti, per me, ha deciso altrimenti. Questi dieci anni, passati dalle mie ultime tragedie, questi dieci anni che mi ci sono voluti per riuscire a nascondere almeno un po’ il mio dolore, sono calma apparente. Ed io lo so che si ci prepara a rovine future. Mi sto già preparando. Ma, allora, in quel momento dl trionfo assoluto del nostro pensiero, l’attimo in cui Lainay appose il sigillo reale alla pergamena, fitta della nostra speranza,cosa potevamo saperne? Sia io che Tijorn credevamo di aver ottenuto il lasciapassare per la libertà. E ne gioivamo, pazzamente, assurdamente. Bastava guardarci, fissarci negli occhi, leggere in lui la promessa di poter vedere suo figlio, di vederlo crescere, di poterlo tener con sé per sempre, per sentire un senso sottile d’esaltazione, una piacevole morsa allo stomaco, come brodo caldo. Mai più vincolati dal codice d’onore delle Spie, così rigido, così assurdo. Mai più. Finalmente liberi, liberi di scegliere la propria vita, liberi di scegliere la propria esistenza, liberi di fare scelte, liberi di morire come più ci aggradava. Non più schiavi di un’ideologia che, francamente, non aveva mai interessato davvero, o almeno, tale era per me. Perché potevo conservare il mio orgoglio anche non uccidendo, anche fuori da intrighi e rapimenti. L’avevo finalmente capito, dopo anni in cui ero andata a cercare una felicità effimera nel sangue. Potevo agire alla luce del sole, godere finalmente della vera essenza elfica, del vero onore. Perché non è mai, mai, dignitosa, una vita al servizio di qualcuno, non è mai dignitoso abbassarsi al livello di stupidi domestici. Io non ero una domestica. Ed ora, la spada puntata contro un corpo fragile, ed inerme, lo stavo dimostrando. Quella buia stanza mi pareva orlata da una luce perlata, segno della mia felicità. Avrei potuto dare a mia figlia, ed al suo fratellastro, un futuro degno di quel nome. Mi stavo riscattando dall’azione più abietta della mia vita.  Avevo ucciso Chekaril, vero. Ma avevo salvato i suoi piccoli, che mi amavano. Era la cosa più bella del mondo. Avessi saputo cosa sarebbe successo dopo, quello scontro tremendo e pauroso, quella figura mostruosa che ancora mi turba al solo pensiero, avrei ucciso quella maledetta, si. Mi sarei tolta lo sfizio di essere io, la mano del destino, di togliere io il giogo dagli oppressi! Ma reputavo i tempi non ancora maturi. Non c’era una figura abbastanza forte da poter prendere il governo, da saper governare un territorio così vasto, senza il rischio di guerre civili. Un polso saldo che ancora non esisteva. I ribelli avevano una guida troppo buona, troppo poco…sovrana. No: il mondo non era pronto alla morte di quella tiranna. Non potevo ancora ucciderla. Fu quello che m’impedì, in quella stanza buia, di premere una lama, di distruggere altre due vite. Mi limitai a spostarmi, quando Tijorn prese, con aria trionfante, la pergamena, contemplandola come se fosse un tesoro prezioso. Anch’io la guardai con sottile reverenza. Libertà. Lì c’era tutto. Lainay ci aveva sollevati dai nostri incarichi di Spie, ci aveva radiati tutti. Tuttavia, cosa contraria alle ferree regole della nostra casta, dove chi entrava non usciva più, non eravamo perseguibili, nessuno ci poteva uccidere. La stessa Regina ci proteggeva. Chiunque ci avesse anche solo infastiditi, sarebbe stato punibile con una morte atroce e dolorosissima. Lei ci stava dando il permesso di vivere come e dove ci aggradava, con la clausola di non tornare mai più nei territori del Regno, quei territori sempre più in espansione. Vivi, vivi e liberi. Chiunque aggregatosi fino a quel momento alla nostra compagnia, piccoli compresi, rientrava sotto la nostra protezione, ed era ugualmente immune. Questo voleva anche dire che avevamo salvato la vita allo scorbutico Max. Praticamente, eravamo tutti salvi. Troppo bello per credere fosse vero, quasi. Esaudita la nostra richiesta più che pressante, a me non rimase di far altro che allontanare la lama da Lainay, con un ghigno sprezzante, e guardarla fisso. Lei ricambiò il mio sguardo, gli occhi che navigavano in quelle lacrime di umiliazione che fin troppo spesso avevano solcato il mio viso. Me ne sentii soddisfatta. Era bello sapere di aver piegato una creatura che, fino a qualche tempo prima, mi aveva tenuta sotto controllo in ogni modo possibile, ed immaginabile. Gli stava bene. Lei scosse il capo, e crollò seduta sul letto, guardando la figura immobile di Jalim con preoccupazione. Poco ma sicuro, non appena spariti noi dalla vista, lei si sarebbe precipitata a soccorrerlo. Sospirò, un sospiro indignato. Mi fece quasi ridere. Con i piccoli alle calcagna, muti e mesti, mi allontanai da lei, affiancandomi a Tijorn, e la squadrai per bene. “sono onorata di avere avuto una simile conversazione con voi, mia signora venerata”. Dissi, beffarda, inchinandomi con cerimonia. Vidi un lampo di rabbia passare negli occhi di Lainay, rabbia e anche strano riconoscimento.  Sembrava che qualcosa le fosse passato per la mente. Preferii non sapere cosa, non cercare d’indovinare. Troppo pericoloso. “fare affari con la vostra attenta collaborazione è stato davvero, davvero un piacere. La mia spada ringrazia!”. Oh, per poco non risi quando il suo volto si deformò in una smorfia rabbiosa, quando lei digrignò i denti, impotente. Era legata mani e piedi dal suo stesso lasciapassare. “fuori dai piedi, Lsyn”. Ringhiò, facendo una strana smorfia. Rabbia forse. Non poteva farci nulla ,però. La cosa mi rincuorò. Sembrava capace di dilaniarci con le sue stesse mani. “sono stanca di te, e dei tuoi deboli compari. Pensavo che tu fossi tra le vincenti, che tu fossi davvero forte. Mi sbagliavo davvero. Non sei molto dissimile da un umano!”. Ehi! Quella era davvero, davvero, un’offesa grave. Quasi mi veniva voglia di torcerle il bel collo, lungo ed affusolato, o di piantarle una spada in corpo. Ma dovevo trattenermi. C’era il mio futuro ad aspettarmi, fuori. Per fortuna esistevano le parole, l’intelligenza, l’arguzia. Potevo farne uso, almeno per una volta nella mia vita. “beh…”. Dissi, in tono casuale, guardando un allarmato Tijorn, in attesa di una mia reazione rabbiosa, che non ci sarebbe stata. Gli feci l’occhiolino, e lo vidi rilassarsi istantaneamente. Potevamo giocare ancora da vincitori. “allora gli umani a cui mi paragoni saranno davvero fieri di avermi come metro di giudizio, me, un’elfa!”. Le sorrisi, ma più che un sorriso mi sembrò uno sfoderare minaccioso di denti. Mi stavo trattenendo dal saltarle addosso. Lei doveva saperlo, doveva averlo intuito comunque, perché sbiancò ulteriormente, e arretrò un po’. Una cosa che mi fece terribilmente piacere. Era bello vederla così sconfitta. Ci fu un ulteriore attimo di silenzio. “a quanto pare, il tuo umorismo è peggiorato, con gli anni…”. Ringhiò, trasformando la smorfia rabbiosa in un sorriso altrettanto pericoloso. Ma io non avevo più paura di lei. Non quando non poteva toccarmi. Non dovevo averne. Quel sussurro gelido non poteva più farmi crollare ai suoi piedi. Non quando mi aveva mandata ad uccidere a sangue freddo il mio amato, suo fratello. Non l’avevo mai creduta capace di tanto. Dovevo rendermi conto che il mondo non era tutto abitato da persone corrette, e, soprattutto, sane di mente. Di nuovo quel ghigno torse la sua bocca piena. “vai, vattene pure, tradisci la tua sovrana… cosa t’importa, in fondo? Cosa t’importa di perdere l’occasione di essere al mio fianco per costruire un ottimo futuro? Si… tu sei un’umana con le orecchie a punta! Solo una volta mi è capitato di vedere un umano…ma, si, tu sei come lui!”. Bah…roba vecchia, trita e ritrita. Chissà chi era, l’umano da lei incontrato. Potevo solo avere vaghi sospetti. Peccato fosse morto da un bel po’ di tempo, quasi di sicuro. Un gran peccato. Il mio debito nei suoi confronti aumentava. Essere paragonata ad un eroe…beh, mi stava facendo un gran bel complimento, senza nemmeno saperlo. Quasi annoiata, resistendo al folle impulso di sbadigliare apertamente, continuai ad ascoltarla, ascoltare i suoi inutili deliri. Era noioso. Non vedevo l’ora di fuggire, via, via dal regno, via dal mio passato. “stessa cecità, stessa assurda stupidità… per chi lavori, Lsyn? Per te stessa? O per il futuro? Io sono il futuro! Avevi tra le mani la gloria, e come quello stupido l’hai fatta scivolare via!”. Ah. Davvero? A me il futuro non interessava, a meno che i destini dei miei affetti non vi fossero necessariamente legati a doppio filo. A me interessava vivere tranquilla. Tutto qui. Che la gloria, il sangue, l’oro, se li prendessero gli altri. Volevo solo dormire, e svegliarmi sicura, con un piatto pronto, o da cucinare, senza terrore, senza attesa. Tutto qui. Fu per quello che risposi a Lainay con insolita dolcezza, prendendo la mano di Tijorn, e smettendola di guardare. Cercai infatti, con lo sguardo, i piccoli, che mi fissavano, speranzosi. Mentre parlavo, arruffai i capelli, o quello che ne restava, a Chekaril e Roxen, e sorrisi loro. Loro mi imitarono, timidamente. “oh no…ti sbagli, Lainay. Io lavoro per i miei cari. Hai presente il significato, vero?”. Mormorai, con aria distratta, mentre, la mia famigliola al seguito, mi avviavo verso l’uscita della camera. Mio fratello mi donò un’occhiata adorante, dolcissima, ed i piccoli si strinsero ancor di più a me. Mi sembrò di essere un faro, un sole. Per la prima volta, mi sentii una guida. Lì finì la mia fedeltà, il mio orgoglio deviato. Abbandonai lì il mio passato. O almeno mi sembrò di farlo. Non guardai per un’ultima volta la Regina, sicuramente arrabbiata, e preoccupata. Mi soffermai solo per un attimo sulla figura di Jalim, a cui Tijorn donò un altro paio di calcetti sulla testa mentre passava, come se non ne avesse mai abbastanza. E poi i miei occhi furono solo per i volti tumefatti dei piccoli. Il ritrovarli fu una festa, per i miei nervi tesi. Erano molto scossi, come d’altronde noi. Avrei preso a tremare, ne ero sicura, non appena ci saremmo ritrovati tutti al sicuro. Mio fratello mi stava stritolando la mano. Era lui che aveva il lasciapassare. Doveva essere terribilmente nervoso. “tu non sei il futuro…quello te lo puoi anche dimenticare”. Sulla soglia, mi raddrizzai, e mi voltai. Volevo far vedere per l’ultima volta a Lainay il mio odio nei suoi confronti. Perché, si, io bruciavo d’odio. Ardevo. Dei…la odiavo. Era stata capace di distruggere la mia vita con un solo ordine. Ed ora, inconsapevolmente, ne stava ricreando uno, giustamente. La giustizia aveva fatto il suo corso. Non guardai a lungo. Il mio fu solo uno sguardo sfuggente. Volevo avere fissa in mente la sua umiliazione, solo quello. Un balsamo per la mia anima addolorata, per il mio corpo sfregiato. Tutte ferite di cui lei era stata responsabile. “tu sei solo una grande pazza!”. Ed ecco. Il passo definitivo. Così, mano nella mano con mio fratello, aggrappati a me i piccoli per i quali avevo sacrificato tutto, anche una fuga normale, mi voltai. Voltai le spalle al mio passato. Voltai le spalle ad un legame di fedeltà e sottomissione, ormai definitivamente spezzato. Voltai le spalle a quella per cui, in passato, avevo ucciso, mentito, rubato, rapito. Me ne andai, accanto il mio futuro, la prospettiva di una vita tranquilla, che mai si sarebbe realizzata. Ma me ne andai, voltai le spalle ad una Regina infuriata ed un bastardo svenuto, e me ne andai, uscendo con i miei soli accanto. Come avevo previsto, una pattuglia ci aggredì subito dopo aver lasciato la camera. Noi eravamo tranquilli, ed a ragione. Fu una gran piacere, una grandissima soddisfazione, ficcar loro davanti gli occhi la prova della nostra immunità! Perché gli elfi, sadici, bastardi, o buoni e dolcissimi, hanno chiara una cosa: ai patti si tiene fede. Detta una cosa, fatta una promessa, non si può più infrangere. Perciò fu davvero bellissimo vedere i soldati arretrare, imbarazzati, e darci il via libera per scendere. Ebbri di gioia, velocissimi, corremmo tutti e quattro fino al passaggio segreto, senza altre complicazioni. Dovevamo andare ad avvertire gli altri. E poi, sarebbe stata un’intera, bellissima, volata verso la libertà!

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Capitolo 70
*** Agli occhi del cielo. ***


Correvamo

Correvamo. Correvamo, senza fare altro, sfiancati. Ecco dovevo immaginarlo. Non può andare tutto sempre dritto, no? Topi in gabbia. Ratti. Ecco in cosa ci aveva trasformati la paura. La vedevo, si poteva sentire, toccare quasi, un panico spesso e solido, che si rifletteva negli occhi di tutti.  A quegli schiocchi sordi, pesanti, lenti come la morte che stava sicuramente per arrivare, quel rumore che mi faceva sbattere i denti, quell’inesorabile clessidra che scandiva quel che restava della nostra esistenza, non si poteva sfuggire. Mi sentivo i suoi occhi addosso, occhi della Creatura. E tremavo. Si, tremavo mentre correvo, stretti a me Roxen e Chekaril. Sentivo i loro respiri affannosi. E, di tutti gli altri, nessuno stava meglio. Pensai a Tijorn, che correva poco dietro di me, che quasi trascinava Akita, impacciata e piuttosto lenta, e poi Junielle, con Amarto, e Max, con le gemelle. C’eravamo tutti. Ma nessuno poteva fuggire, nessuno poteva scappare. Agli occhi del cielo non si sfugge. Tutto quello che avevamo fatto, tutto quello che avevamo tentato di proteggere, sarebbe svanito, volatilizzato, come se non fossimo mai esistiti. Il nostro sforzo, vanificato. La cosa mi provocava frustrazione. Per colpa mia sarebbe morto mio fratello, mia figlia, mio nipote. Per colpa della mia stupida fedeltà. A cosa serviva, a cosa serviva, allora, cercare di redimersi? A cosa mi era servito? Come sarei potuta anche solo esistere per un altro secondo, con il pensiero di aver trascinato degli innocenti in un baratro senza fine? A cosa era servito rischiare la vita per cercare i piccoli, costringere Lainay a donarci l’immunità? Niente, assolutamente niente. La mia colpa sarebbe stata sempre lì, viva e vicina. Pronta ad assalirmi, a tormentarmi, non colpendomi direttamente,  perciò, torturandomi ancora di più. Le nostre speranze, i miei sogni? Una vita tranquilla dai Tengu? Futuro passato, ormai, svaporato come nebbia mattutina al levarsi del sole. Non ero stata in grado di proteggere i miei cari. Tra poco saremmo morti, e niente avrebbe avuto più d’importanza. Anche gli infanti, anche chi ancora non era nato. Il lasciapassare? Buono ormai per un falò. Correre, la nostra unica alternativa. Correre, sperando in un rifugio. Sentirsi una preda. Non ero mai stata dalla parte del cacciato. Sempre stata il cacciatore, il falco, il lupo, l’orso, l’aquila. Non mi era mai capitato di finire come un cerbiatto, un passerotto, fuggire con il cuore in gola, sentire l’alito gelido della morte dietro il collo. E la sensazione non mi piaceva, per niente. Ma non potevo farci nulla. Non potevamo farci nulla. Il nostro inseguitore non era compreso nei limiti mortali, nelle regole dei vivi. L’Aberrazione. Bastava un solo sguardo per capirlo. Non era un drago. Non era un grifone, o una qualsiasi altra creatura, immaginaria e non. Non poteva esserlo. E pensare che eravamo partirti con il morale così alto!

 

Chi avrebbe mai capito, alla nostra partenza dal passaggio segreto, la sventura futura che stava per accaderci? Chi avrebbe mai capito di aver innescato il processo che spense il nostro sole privato? Eravamo al settimo cielo, con quel lasciapassare in mano che sembrava, per noi, oro colato. Ci eravamo precipitati, io, Tijorn, ed i piccoli, nel corridoio del ritratto, in un attimo. Il cuore mi batteva pazzamente, folle di gioia. Libertà! Libertà! Mai più leggi, mai più obblighi, libera di aprire le mie ali, finalmente, di poter scrivere il mio destino. Avevo ancora pagine e pagine vuote, nel libro della mia vita, libera di poter riempire senza nessuna mano sulla mia, pronta a guidarmi. Veder crescere il proprio futuro. Nuova linfa si sarebbe aggiunta a quel vecchio albero rinsecchito che era la mia anima. E, forse, sarei nuovamente ringiovanita. Le ciocche bianche, quelle ciocche candide e grigie che percorrevano di striscio i miei capelli nerissimi, sarebbero sparite, sparite con tutto quello che significavano, tutto il retaggio di terrori e fatiche che avevo sopportato in cinquant’anni. Le mie tribolazioni sarebbero finite. Io e mio fratello eravamo sembrati dei bambini, sembravamo essere tornati infanti, mentre arrancavamo, con i bambini stretti a noi. Avevamo preso a ridacchiare follemente, saltellando di tanto in tanto, e, ad un certo punto, Tijorn mi aveva presa per mano, ed avevamo cominciato a correre a perdifiato. Un piccolo accesso di pazzia, dovuta all’incredibile felicità che ci attanagliava. Sentirsi completamente liberi dopo trecento anni circa di schiavitù, forzata e mascherata… beh, da’ un po’ alla testa.  I piccoli, man mano che scendevamo, avevano capito. Avevo spiegato loro, piena di lecita frenesia, baciando loro le gote morbide, piena di affetto, che sarebbero rimasti per sempre con me, stavolta, con la loro zia, e che saremmo fuggiti lontano, in un posto dove tutti mi erano amici, e ci avrebbero accolti bene. Mia figlia sarebbe stata con me, per sempre. Magari, un giorno, quando sarebbero stati grandi entrambi, avrei loro spiegato tutta la verità, raccontato che io non ero la loro zia. Ma quel momento poteva attendere. Ora il mio obiettivo era solo quello di portare al sicuro due infanti feriti e tristi, tremanti ancora di dolore, ed umiliazione. Feci di tutto per risollevare loro lo spirito, per strappargli un sorriso. Stavolta nessuno ci avrebbe impedito di stare insieme per sempre. Avrebbero visto la neve, per la prima volta nella loro vita, ed avrebbero conosciuto persone con le ali, che volavano come tanti gabbiani. Per tutta risposta, Chekaril e Roxen, senza smettere quell’aria dimessa, mi avevano abbracciata. “per fortuna che sei qui, zia…”. Mi disse Roxen, staccandosi, e prendendo una mano, che io strinsi forte. Cosa le aveva fatto Lainay, per provocarle un dolore del genere, a lei, che era forte? Povera figlia mia. Avrei fatto di tutto per farla guarire, toglierle di mente quello a cui aveva assistito, gli orrori che aveva subito, povera piccola mia. Dovevo essere forte per lei, solo per lei. Suo fratello le diede una gomitata tra le costole, e mi guardò, lievemente più sveglio, ed allegro. Lui mi stritolò l’altra mano libera. “ma io te lo avevo detto che non era morta! Visto che ho sempre ragione?”. Aveva chiocciato, saltellando, gli occhi ora luminosi. Tijorn era scoppiato a ridere, e gli aveva posato una mano sulla testa, come per scompigliargli i capelli. Lui si era teso per un attimo, forse in attesa di uno schiaffo che non sarebbe arrivato mai, non da mio fratello. Ma poi, comprendendo che quella era stata solo una coccola, aveva ricominciato a sorridere. Li avevo così abbracciati di nuovo, imprecando nella mia mente per la violenza estrema di Lainay, compiangendo suo figlio, e, nel frattempo, gioendo di averle dato un’umiliazione così pesante, e poi avevamo ripreso a camminare. Dopo poco i due infanti si erano lasciati prendere dal gioco, ed avevano corso con noi, mia figlia mano nella mano con me, Chekaril invece con Tijorn. Avevo visto, con mio grande sollievo, un lieve sorriso, appena accennato, disegnarsi sulle labbra della piccola. Era forte, ed intelligente. Avrebbe assimilato il trauma in pochissimo tempo, e , una volta arrivata dalla Matriarca, l’avrei vista giocare, spensierata, con il fratellino, come faceva a Gerinti. Mi venne in mente una piccola cosa: Andrei aveva un conto in sospeso con me. Avrebbe portato, per non essere preso di nuovo a calci nei punti più delicati del suo essere, i miei piccoli protetti a fare un bel volo per le montagne. Ero certa che avrebbero gradito. Sogghignai tra me e me. Il Mastro Artigiano non sarebbe potuto essere per niente allegro della mia ricomparsa. Ricomparsa, per giunta, eterna, o quasi. Una cosa molto buffa. Correndo come pazzi, avevamo infine raggiunto, in un piccolo stanzino nascosto, i nostri compagni, decantando ad alta voce la nostra vittoria totale, sbandierando il lasciapassare con aria trionfante. C’era stata un’esplosione totale di gioia. Quel semplice documento era passato di mano in mano, occhi increduli lo osservarono. Amarto scoppiò in lacrime, ed abbracciò le gemelle, che avevano preso a fissare i piccoli con aria interrogativa. Junielle era rimasta inattiva e passiva come negli ultimi giorni, senza cambiare espressione, cosa che mi aveva immensamente preoccupata, ed era stata abbracciata spasmodicamente da un Max un po’  su di giri, che aveva abbandonato la sua aria austera ed acida. Akita si era, già da quando eravamo arrivati, precipitata tra le braccia di Tijorn, e l’aveva quasi buttato a terra, dall’impeto dettato dall’entusiasmo, scoppiando in lacrime, e borbottando qualcosa a proposito della preoccupazione. Ne aveva pienamente ragione, povera elfa. I due non si erano staccati per un bel po’, ed erano rimasti, uno la continuazione dell’altra, abbracciati strettamente, almeno per una decina di minuti. Non andavamo di fretta: eravamo vittoriosi. Passata la confusione e la gioia, passati i primi attimi, ci fu, per un breve momento, la sorpresa. Chekaril  Roxen si erano stretti a me saldamente, mentre venivano guardati, specialmente da Max ed Akita, con interesse. Quest’ultima era sempre stata tremendamente curiosa, quasi un cucciolo di cane: mi aveva guardata, con aria stranita, e poi aveva fissato specialmente Roxen. Non era così stupida, e lei mi assomigliava davvero molto. L’aveva vista, appena nata, ed anche qualche mese dopo, ed aveva sempre giurato che io e lei potevamo essere scambiate per sorelle, tanto eravamo uguali. Aveva aperto la bocca per chiedere chissà cosa, ma l’avevo fulminata con uno sguardo, e lei aveva capito al volo. “ma che bei piccolini che siete…”. Aveva detto invece, con un sorriso caldo ed una voce rassicurante, chinandosi lievemente per guardarli meglio. “come vi chiamate?”. I due si erano stretti a me ancora di più, nascondendosi nelle pieghe del mio mantello, intimiditi, o forse pieni di paura, e non avevano spiccicato parola. Avevo sorriso, ed avevo posato entrambe le mani sulle loro teste, con una carezza leggera. “su…”. Avevo detto, con una voce tenera che quasi non mi apparteneva. Ma li amavo troppo. Quella era la realtà. Guardai tutti, e strinsi gli occhi, come per intimare loro il silenzio. Sapevo cosa sarebbe successo quando avrei detto il nome del piccolo. Un’omonimia spettrale. Una somiglianza altrettanto netta. “ su, Akita cara… ti presento la piccola Roxen, ed il piccolo Chekaril…”. Lei era sbiancata a quel nome, ma non aveva parlato. Ci scambiammo uno sguardo, ed io annuii lievemente. Akita strinse le labbra, e si avvicinò un po’. “dai, piccini…forza…salutate zia Akita…”. Entrambi alzarono di scatto il viso, sorpresi. “è tua sorella, zia Lsyn?”. Mormorò Roxen, timidamente. Akita, accanto a lei, sorrise. “è come se lo fossimo…ci sentiamo tutti fratelli, qui”. Dei. Non avevo mai sentito la sua voce così conciliante. Era davvero tenera. La prospettiva di stare per diventare madre la stava forse aiutando a mitigare quel caratteraccio che si ritrovava. Se fosse stata la vecchia mia nemica, in questo momento mi avrebbe risposto con una battuta di spirito all’aceto. Invece no. Non c’era traccia di umorismo nei suoi occhi chiari. Lei, invece, si chinò verso la piccola, mia figlia, e le sfiorò il naso con un dito. Lei non si ritrasse, anzi: cominciò a guardarla con maggior fiducia. Persino Chekaril si staccò un po’ da me, fissando di sottecchi la nuova arrivata. Lei, in fondo, era con Max l’unica estranea. Cominciai a sperare in una grande famiglia. Le premesse c’erano, tutte. “perciò, piccini…voglio che mi chiamiate zia...la stessa cosa per gli altri, no?”. Attimo di silenzio. Ma già vedevo l’approvazione tra tutti. Solo Junielle era apatica, come sempre. Mi chiesi cosa avesse per essere così…morta. Amarto sbuffò, scuotendo il capo. “io voglio essere il nonno!”. Asserì, con la sua voce tonante ed un sorriso, che fece ridere tutti. Persino me. Persino i piccoli. Una grande famiglia. Un po’ stramba, dove solo in pochi erano davvero parenti di sangue, dove c’era anche una mezzelfa, di norma razza piuttosto disprezzata dagli elfi, molto allargata. Ma non importava. Sentivo che non aveva importanza. Amavo tutti, in quello scalcinato insieme, in quel gruppo scompagnato di creature poco raccomandabili, o insospettabili. E stavolta sapevo di essere ricambiata. Ci saremmo aiutati l’uno con l’altro. Saremmo stati per sempre insieme. Illusioni inutili, e dolorose. Dopo un po’ di tempo passato a crogiolarci nella nostra vittoria, nella nostra gioia, cominciammo ad avviarci fuori. Era finalmente l’alba, l’alba di un nuovo giorno. Un giorno libero, felice, in cui tutte le promesse brillavano di una luce nuova. Libertà appena nata, che guardava sorridente all’avvenire, crogiolandosi nella luce, gialla e fievole, che rendeva tutto simile ad un sogno. Ci ritrovammo così in mezzo ad un bosco, che, come avevo dedotto dalle cartine che avevo studiato nei miei giorni di degenza, era alle propaggini settentrionali di Sharilar. Era nemmeno troppo lontano dalla casetta di Tijorn, a dire la verità. A metà tra questa ed il confine con il Matriarcato di Uruk, l’ultimo posto in cui avevamo bisogno di mettere piede. Eravamo davvero vicini a Kyradon, davvero. Poco più di una mezz’oretta a cavallo. Dovevamo costeggiare tutto il confine, per entrare nelle montagne, e poi, tutto si sarebbe affidato alla mia memoria. Poco importava se ci avesse trovati un altro clan di Tengu: le piume che avevo legate al collo bastavano per impedir loro di attaccarci. Avrebbero riconosciuto in me una loro amica, e mi avrebbero rispettata: facendo così, avrei garantito per i miei compagni, ed avrei chiesto delucidazioni sulla strada da seguire per trovare Gwen e compagnia. Il resto sarebbe stata una passeggiata. Tutto il viaggio non ci avrebbe dovuto portare più di una decina di giorni di viaggio. Come sfamarci, come proteggerci, non importava. Avremmo cacciato: dannazione, eravamo o non eravamo abituati a tutto? Era estate, e non faceva troppo freddo. Nessuno aveva, peraltro, voglia di tornare indietro per una sortita nelle cucine. Ci bastava aver rischiato una volta. Perciò, allegri e piuttosto incoscienti, ci avviammo, inoltrandoci nel bosco a passo tranquillo. Nessuno aveva fretta. Non potevamo essere toccati, in fondo. Il mio cuore viaggiava nell’aria. Camminavo, a fianco le creature per il quale avevo lottato strenuamente per un tempo incredibile, ed avevo le ali ai piedi. Avrei voluto cantare, esprimere la mia gioia in ogni modo possibile, ballare e ridere. Non provavo queste emozioni da un periodo immemorabile. Ero sempre stata così preda di dolore, pena, tormento e vergogna continui, da non ricordare neppure come si facesse ad essere felici. Ed, ora che lo ero, mi sembrava che mi avessero tolto un gran macigno dal cuore. Una nuova, brevissima, alba della mia vita. In quel momento, senza più maschera, il mio viso sfregiato che si beava dei primi, freddi raggi di sole estivo, senza maschera, senza finzioni, con un sorriso enorme sulle labbra, mi sentivo di nuovo pronta a vivere. Lasciati alle spalle la malinconia dell’autunno, i rigori dell’inverno, ed i primi, timidi sprazzi di colore della primavera, potevo rivivere la mia estate, ricca di luce, di calore. Un’estate infinita. Se solo avessi saputo quanto fragili erano le mie illusioni!

Accadde dopo qualche ora. Ancora ebbri di gioia, stavamo costeggiando cautamente il confine, ed eravamo in un punto un po’ pericoloso. I presidi non erano lontani, ma eravamo, ancora, innegabilmente, protetti, stranamente, dal Regno. Dovevamo solamente non essere visti. Tutto qui. Se non fossimo comparsi, a portata dei loro archi, non dovevamo temere da loro. In sostanza, quello non era ancora territorio del Matriarcato, e gli elfi ribelli dovevano farsi i fatti loro. A patto, ovviamente, di stare in silenzio. Sorridevamo ancora tutti, riscaldati dai raggi che filtravano dalle foglie verdi, federavamo ancora felici. Come sempre nei momenti di svago, Tijorn ed Akita si erano messi a chiacchierare, poco prima che il silenzio s’imponesse, del nome da dare al loro piccolo. Già ci stavano pensando. E già litigavano, scherzosamente, quasi fosse una loro sanissima abitudine. Mi divertiva vederli così affiatati, vedere  lo sguardo adorante che mio fratello indirizzava perennemente alla compagna, quasi fosse un oggetto prezioso. Devotamente, completamente innamorato. Esistevano poche creature così affettuose come lui, così fedeli. Mi sentii un po’ invidiosa di Akita, che aveva conosciuto la felicità al primo colpo, senza passare attraverso le sofferenze di un amato indifferente, com’era successo a me. Avrei voluto tanto, tanto essere amata un po’ di più, sapere di aver suscitato interesse in qualcuno, e ricambiarlo. Mi mancava quel fuoco, quell’incendio che divorava il cuore, che lo riscaldava, che dava uno stupido senso alla vita. Non avrei potuto provare quelle sensazioni, mai più. Ero solo una stupida sfregiata, brutta come la morte. Chi mai mi avrebbe vista non come un’amica, non come una confidente, ma una vera e propria compagna di vita? Scacciai rapidamente quei pensieri, che promettevano già di adombrarmi, d’immalinconirmi. Io non potevo lamentarmi. Ero circondata di affetti, di amicizie. Avevo dei piccoli da curare, dei fiori da coltivare, da far sbocciare in tutti i loro bellissimi colori. Avevo un fratello che mi adorava, un prossimo nipote da viziare. La mia vita era piena, avevo bevuto fino all’ultima goccia di latte e miele, ed ancora me ne restavano altri infiniti bicchieri. Avevo stretto a me i piccoli, ed avevo ascoltato, con un sorriso, i battibecchi allegri di Akita e Tijorn. L’elfa, la mia amica, aveva deciso di chiamare, maschio o femmina che fosse, il piccolo Machin. Un nome, anche a mio parere, sgraziato, asessuato. Si era decisamente impuntata, ed a nulla valevano le proposte del compagno, che sembrava, tuttavia, aver già accettato la scelta, tacitamente. Il loro, più che altro, era un gioco. E così avevamo riperso a camminare, allegri. Tutta la nostra gioia era destinata a svanire presto. Nessuno se ne accorse, fino alla fine. Stavamo attraversando una macchia di faggeti, alti e verdi, quando, all’improvviso, avevamo sentito stranissimi rumori. Due schiocchi, come di grosse ali, e poi un suono lontano, un invito, un sussurro dai mille toni, che riverberò nella mia anima. Mi sembrò di tremare, tremare all’interno. Non avevo mai sentito un suono simile. Non era umano, non era vivo. Non lo sembrava. Pareva quasi essere uscito da me stessa, da noi stessi, essersi materializzato come uno spettro tra noi. Un suono che mi fece rabbrividire. Sentii la pelle accapponarsi in un modo quasi bizzarro, quasi volesse fuggire, andare a nascondersi. Nello stesso tempo, provai una strana sensazione di fascino morboso, un uncino che mi afferrò lo stomaco, e lo strinse, una morsa misteriosamente calda. Non capii cosa stesse succedendo. Ma, istintivamente, mi misi in allarme. Non potevo ancora sapere che quella cosa sarebbe stata la nostra rovina. Tutti gli adulti si guardarono. Io fissai Tijorn, che mi parve il più allarmato di tutti. Aveva stretto il braccio ad Akita, e si era zittito a metà di una frase. Ci fu un momento di silenzio. Volti che, un attimo prima, avevano riflettuto la soddisfazione e la gioia di essere finalmente liberi, si colmarono d’apprensione. Ciascuno sentiva, in se stesso ,che quella non era una cosa normale. Fui io la prima a parlare, la prima a spezzare il silenzio che si era creato. Strano…il bosco era in silenzio, come noi. Prima degli strani suoni, ci avevano circondati cinguettii vari, e fruscii. Ora nulla. Gli animali tacevano. Più saggiamente di noi. Qualcosa era in caccia. “cos’era…quello?”. Bisbigliai, con una strana voce soffocata, guardando Tijorn, e stringendo a me i piccoli. Se ci fosse stato un pericolo, mi sarei sacrificata per loro tutti. Mio fratello guardò per un attimo in alto, e poi scosse il capo, stringendo Akita, che lo guardò, perplessa. “non ne sono sicuro…”. Sussurrò, palesemente pallidissimo, mordicchiandosi un labbro. E poi, tutto fu in discesa. Ogni illusione fu infranta. Ogni felicità, svanita. Ed io precipitai nel tormento, un tormento da cui ancor oggi non sono uscita. Rovina, dannazione, terrore, distruzione. Il mio animo ancora freme, nel ricordare l’abominio cui osservammo, e che fu origine di tanto dolore, dolore ancora presente. Spense il sole, spense il sole, spense il calore e la vita che mi erano rimasti. E, per lungo tempo, niente fui, dopo quello, se non creatura ottusa, che donava affetto per inerzia. Di nuovo, di nuovo, udimmo quel tremendo rumore. Stavolta il freddo s’impadronì di me, un freddo strano, che mai avevo provato. Innaturale. All’altezza degli alberi più grandi, ci fu un improvviso spostamento d’aria, che avvertimmo. Un fortissimo vento che ci spinse ad alzare tutti il capo. Per poco non urlammo. Una creatura enorme era planata a bassa quota, per poi risalire. Sembrava, a primo acchito, un enorme drago piumato, dalle ali come quelle dei pipistrelli, di un bizzarro ed intenso, a quanto avevo visto, colore rosso. Non era un drago. Non poteva esserlo. Nessun drago di cui io avevo mai sentito parlare aveva le piume. Nessuno. Di cosa si trattava, allora? Oh…qualcosa di ben peggiore, di ben più senziente di un rettile gigante. Solo dopo molte ricerche, ho scoperto la reale natura di quegli esseri. Creature innaturali, nate da un incantesimo, potente e proibito, che stacca l’anima dal corpo, dandole forma dell’Essenza. Non ho mai trovato ulteriori informazioni, ma, a quanto pare, si tratta di magia nera. È molto pericoloso. Perché Tijorn conoscesse quelle cose, mi è tuttora ignoto. Non è più possibile tornare indietro, e si rischia di dare il controllo alla creatura nata dall’essenza, sulla ragione. E, per motivi che non vengono mai ben esplicati, la cosa è fatale. Ma allora non sapevo. Sapevo, infatti, solo di aver paura. Qualcosa in me, infatti, aveva già registrato delle cose che mi sembravano sfuggite. Sentii, immediatamente, un terrore irrazionale invadermi, lo stesso terrore che deve provare la colomba alla vista dell’ombra d un’aquila incombente. Fummo, improvvisamente, investiti da un’onda di uno strano profumo, dolce ed amaro allo stesso tempo, un misto di fiori, cioccolato, neve, frutta e cannella, che inebriava e prendeva alla gola, nel medesimo tempo. Come pietrificati, rimanemmo per un attimo con lo sguardo verso l’altro, fino a quando la creatura non svanì del tutto. Poi ci fu un momento di silenzio. “dannazione!”. Imprecò Tijorn, prendendo saldamente per mano una spaventata Akita, che era a bocca aperta per lo stupore. Io sussultai, presa di sorpresa, e guardai mio fratello. Non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. “cosa…?”. Non ebbi nemmeno il tempo di finire la mia frase. Non lo ebbi mai. “corriamo, dannazione! Dobbiamo nasconderci! È in caccia! Ci ha puntati! Ci ha puntati!”. Le parole di mio fratello, parole così strane, che non capii minimamente, risvegliarono qualcosa in me. Terrore. Terrore puro. Strinsi più forte le mani fredde dei piccoli. Nessuno si mosse. Tijorn ci guardò, davvero spaventato. Poche volte lo avevo visto così esaltato. “non avete capito, vero?”. Domandò, con voce più calma. Ma non m’ingannava. Vedevo i suoi occhi guizzare, instancabili. Era nervoso. Rese più nervosa me, facendo in quel modo. Lui non attese le nostre reazioni, e prese a parlarci convulsamente. Ci disse, in parole brevi, che eravamo nei guai. Fu molto vago. Disse, rapidamente, che non era un drago, che era semplicemente…un non essere. Una Creatura, un Abominio. Ed era più pericoloso, che era materiale come me e lui. Bisognava nascondersi. Non lo capii, e, a giudicare dagli sguardi altrui, nemmeno gli altri lo capirono. Ma ogni domanda fu posticipata: di nuovo, come per farci sbrigare, la creatura passò sopra di noi, emettendo quel bizzarro rumore. E quello bastò per farci divenire istantaneamente isterici. Cominciammo a correre senza rendercene conto.

E così, ci avviammo verso una direzione sconosciuta, senza più senso né sentimento, pazzi di terrore. Fu tremendo. Ad intervalli regolari la Creatura, mente stavamo cambiando direzione, ci spingeva verso un'altra, sbarrandoci la strada, passandoci sopra. Stavamo facendo il suo volere senza nemmeno accorgercene. Mai, mia più provai un terrore del genere. Braccati. Dalla padella alla brace. Eravamo scampati ad una pazza isterica, per finire nelle fauci di un mostro di cui, allora, non sapevo l’origine! E tutto per colpa mia. Era quello ciò che mi ripetevo instancabilmente. Tutta colpa mia. Ero stata io a trascinare tutti in quell’incubo. Anche mia figlia. Anche suo fratello. Non so quanto quell’inseguimento penoso durò. Per me furono ore, giorni, secoli, si spensero lune, tramontarono soli, si distrussero stelle. Correvamo, spinti dall’urgenza e dalla paura, e per noi non c’era altro. Solo terrore cieco. Correre, correre, in cerca magari di un riparo, di una caverna dove ripararci, per fuggire, per nasconderci come parassiti. Io ero davanti a tutti. Pur essendo la più bassa, ho sempre avuto gambe piuttosto veloci. E perciò fui io la prima ad entrare in un’enorme radura erbosa, che dava su una grotta. Sospirai di sollievo. Eravamo salvi. Avremmo potuto respirare un po’, calmarci, ed attendere che il mostro finisse di cacciare, per fuggire nei boschi, e non ritornare più in quei luoghi maledetti. Avevo sempre detto che a Sharilar non si sa mai quello che si trova! Ma perché non potevamo vivere in un mondo più tranquillo? Per fortuna che esistevano i luoghi dove poterci nascondere! Presa così da uno strano sollievo, feci un passo in avanti, lasciando la sicura dimora degli alberi. Non so come il mostro riuscì a nascondere il suo arrivo, la sua picchiata. Fatto sta che cademmo in una trappola fatale. Ebbi appena il tempo di sentire il sole illuminarmi il volto, riscaldandolo, confortandomi l’anima, prima di sentire un tonfo sordo provenire da un punto di fronte a me. Una trappola. Era quello che la cosa voleva. Ne fui sicura, subito. Forse i piccoli urlarono. Forse no. Quello che so, è che la creatura mostruosa che ci sbarrò la via della felicità mi fece gelare. Mi guardò, con le sue orbite vuote. Non capii più nulla. Mi sembrò di essere, al cospetto di quel mostro bastardo, che ci aveva sicuramente attirati in una trappola, completamente vuota. Inesistente. Ero infinitamente piccola, ed infinitamente grande. Tutto, e niente. Non so spiegare cosa provai alla vista di quel coso impossibile, quell’abominio, quell’aberrazione. Perché tale la avrei definita, se fossi stata normale. Ma, in quel momento, mi pareva terribilmente affascinante. Un incanto. Mi aveva incantata? Qualcuno, dietro di noi, sibilò. Un sibilo di terrore. Sentii mormorare il mio nome. Ma ormai non pensavo più a nulla. Ero totalmente, irrimediabilmente incantata da quella creatura bizzarra. Era me, era Tijorn, era tutto il mondo. un mare di scelte si stendeva dinanzi a me, sottoforma di orrida creatura. Di nuovo, quella folata di strano vento profumato, che mi fece fare un passo in avanti. Quella cosa, per me, era la redenzione, vero? Era per qual motivo che ero stata davanti a tutti, no? Era un mostro bizzarro. Alto come il più grande degli abeti, aveva un lungo corpo da rettile, coperto da fini e sottili piume carminio, con lunghe ali listate d’osso, che sembravano fiamme vive. Erano chiuse, ora, e risplendevano di tutti i toni dell’arancio, del viola, del bruno, dell’oro, del rosso. Aveva una coda, lunga e robusta, che terminava in un lungo aculeo scuro. Quel maledetto aculeo. Lungo tutto il dorso correva una meravigliosa criniera cremisi, di quelli che mi sembravano fili di fiamme scure. Le zampe, lunghe e solide, dotate di tremendi artigli, erano scompagnate: le anteriori avevano tutta l’aria di essere quelle di un uccello, le posteriori di un felino. Ma il muso…il muso mi avrebbero rivoltata, se fossi stata in condizioni normali. Si appoggiava al lunghissimo collo piumato, incongruo e terribile. Rabbrividisco al solo ricordo di quell’orrore. Sembrava il cranio essiccato di un rapace, ricoperto di quello che mi pareva bruno cuoio vecchio. Le orbite erano totalmente vuote: nemmeno una luce, niente. Solo vuoti abissi. Sembrava un cadavere ambulante, lo ammetto. Il lungo becco ricurvo era aperto, e dalla parte inferiore penzolava una lunghissima lingua scura, simile a quella dei serpenti. La creatura non si muoveva. In un lampo, notai qualcosa, sul suo dorso del mostro, qualcosa che si mosse improvvisamente. Il coso non era solo. Mi sentii tirare indietro. Ehi! Perché mi toglievano da quella visione divina? Ero definitivamente andata, fino a quando sentii, netti, due schiaffi sul mio viso. Pian piano, riguadagnai contatto con la realtà. Ero di nuovo al sicuro, nel bosco, lontano dagli imbrogli del mostro. Mi sentii assalire dal freddo, e dall’orrore, dalla sensazione che qualcosa d’innaturale era all’opera, e tremai. Mi ritrovai davanti il volto preoccupato di Tijorn. Gli sorrisi debolmente. Come mai era lì? Dopo un attimo, tutti i ricordi, fortunatamente tornarono, ed io m’irrigidii. Il mio sguardo guizzò per un attimo verso il mostro, ed allora provai quello che dovevo provare. Era un essere ributtante, ed anormale. Il volto di tutti era cadaverico. Mi sentivo confusa. Avevo uno strano ronzio in testa. Scrollai il capo, la testa leggera. La sensazione di trovarmi nel posto sbagliato diminuì. “ma cosa diavolo…”. Dissi, barcollando un po’. Non riuscivo a stare bene in piedi. Tijorn mi guardò, serio e pallido. “ti ha soggiogata. Non guardare il nirim is’giroth negli occhi”. Una strana smorfia gli storse il viso, mentre sbirciava tra le foglie. “o almeno, nelle orbite. Bastardo…”. Mi sentii meravigliata. Cosa significavano quella parole? Si possono tradurre come manifestazione dell’essenza. Non c’entrava nulla. Quella era una creatura viva e vegeta come noi! Ma perché non ne avevo mai sentito parlare? Troppo proibito, troppo tremendo per parlarne, lo so. E quella non era viva. Era solo una proiezione. Una proiezione piuttosto pericolosa. Invulnerabile…a meno che il compagno fisico non venga colpito. Ed il compagno non poteva essere lontano dall’essenza, impossibile starne lontani: dov’era quello del mostriciattolo? Trasalimmo nel sentire una voce stranissima. Qualcuno di umano si era affiancato alla cosa, che non reagiva, non l’attaccava. Una strana figura vestita d’oro, con lunghi abiti dorati, dalle larghe maniche. Un’elfa, un’elfa dai lunghissimi capelli rossicci e scompigliati, e dalla pelle pallida. Gli occhi…beh. Mi sarebbe piaciuto scappare, per quello che vidi. Perché gli occhi erano tremendi. Aveva belle iridi castano intenso, dalla strana espressione fissa e vuota, come persa in un proprio mondo di perversa follia. Ma c’era qualcosa che permeava tutto l’occhio, che quasi lo copriva. Una sorta di altra pupilla gelatinosa, di colore giallo intenso, che guizzava da una parte all’altra, instancabile. Tijorn imprecò. “maledizione!”. Bisbigliò, fissando la creatura, che si era fermata poco avanti al mostro, ed aveva aperto le braccia, in segno di benvenuto. “non è in sé…”. Sobbalzai. Mio fratello sembrava sapere benissimo cosa stava succedendo. Lo guardai, meravigliata. Ancora oggi mi è rimasto impresso quel momento, un momento in cui lui dimostrò di avere conoscenze un po’ troppo pericolose, di sapere davvero troppo. Eppure lui non era uno stregone potente. Non molto, almeno, per un elfo. Conosceva troppo bene la magia proibita. La cosa non mi piaceva. Ogni domanda fu poi cancellata nel momento esatto in cui l’elfa aprì bocca. “tesoro tesoro!”. Cinguettò, con una voce di qualche tono troppo acuta, decisamente innaturale, un tono che mi fece rabbrividire. Vidi la pelle d’oca sul braccio teso di Tijorn. No: non era normale. Era tutto troppo orribile per poterlo descrivere. “perché vi nascondete? Venite a parlare con noi!”. Ci fu un momento di silenzio. Vidi una stranissima luce negli occhi di Tijorn. Un’espressione che non mi piacque. Non mi piacque per nulla. Lui si girò verso di noi. Gli avevo già visto impressa quell’espressione. aveva deciso di fare qualcosa di molto pericoloso. “io vado”. Mormorò, con voce sommessa. Sia io che Akita ci muovemmo nello stesso istante. No! No! Che gli passava per la testa? Fui invasa dalla preoccupazione, e dalla rabbia. Ma non si rendeva conto di quello che stava pensando? Era troppo pericoloso! Lui non avrebbe fatto un passo. La mia amica, con un salto, prima che lui potesse finire, gli si era incollata addosso, senza parlare. Dichiarazione muta d’immobilità. Se solo mi avesse lasciato un po’ più di spazio, l’avrei imitata. Mi avvicinai così ai due, e mi piantai di fronte a Tijorn, che non stringeva la compagna, ma guardava, nello sguardo la determinazione, avanti a sé. “tu…tu non vai da nessuna parte!”. Ululai, ringhiando. Non doveva permettersi. Lui era padre. Non doveva fare quei colpi di testa. Lui aveva un figlio a cui pensare, un futuro roseo. Voleva distruggerlo, distruggere tutti noi. Stupido eroe. Cosa diavolo pensava, di sopravvivere? Avevamo tutti visto di cosa era capace il coso, e ne avevamo avuto la prova materiale. M,io fratello mi guardò, disperato. Poi strinse forte Akita. “io devo, Lsyn…io so cos’è!”. Gemette, guardandomi, pieno di determinazione. Eh, no. Non si sarebbe azzardato. “e non mi guardare così…io devo andare, io devo… lui…loro cacciavano, sono in cerca di cibo e di anima… non posso lasciare un abominio del genere in giro!”. Eh, n. mio fratello non doveva pensare cose del genere. Come mi sarei sentita io, se lui fosse morto? Come avrebbe allevato il bambino Akita? Si rendeva conto delle sciocchezze? Da solo non ce l’avrebbe mai, mai fatta! Saremmo tutti morti senza la sua compagnia. Tutti. Ed io più di tutti. E forse fu per quello che l’aggredii malamente, stringendo i pugni per non picchiarlo. Stupido eroe. “ti ucciderai, Tijorn, ti ucciderai! Hai visto com’è forte, quella creatura? Più di te, di sicuro! Da solo non ce la farai mai!”. Un’idea mi attraversò la testa. Potevo aiutarlo. E fargli da scudo nel caso fosse stato nei guai. Un conto era far morire me, che non avevo nessuno, a parte due piccoli che speravo di saper curare, ma che avevo io stessa strappato alla pace. Un altro era far morire un futuro padre di famiglia, affettuoso ed amato da tutti. Io avevo ancora molti conti aperti con la vita. Lui era un elfo felice, e non meritava di morire. Non lo meritava. Lo amavo troppo per farlo soffrire, per negargli quello che era stato negato a me. Così proseguii, isterica. “vuoi andare? Vuoi? Ma non lo farai senza di me, fratellino! Non provare ad attaccare quel coso da solo! Io vengo con te!”. Si: insieme. Insieme, sempre e sempre. Per sempre. Insieme nell’infanzia, nella giovinezza, nel dolore e nell’allegria. Ed insieme anche in quella missione. Lui mi guardò stranito. Nei suoi bellissimi occhi grigi, quegli occhi che mi pacificavano, passò un lampo che non riuscii ad identificare. Ci fu un momento di silenzio. Io mi sentii tesa. Se non avesse accettato…beh…avremmo trovato un altro modo per fuggire. “dobbiamo proteggerli, Lsyn”. Mi disse, stringendo dolcemente Akita. Era deciso. Insieme, ancora una volta. Annuii, e strinsi le labbra. Un cupo trionfo scese su di me. La mia amica prese a tremare, ed ululò. “no! No!”. Gemette, stringendosi così forte che sembrò volersi fondere all’amato. “no! No andate! Vi ucciderà! Andate via! Scappiamo!”. Mentre lui sussurrava paroline dolci nell’orecchio di Akita, per confortarla, io mi girai verso i piccoli, e soffiai loro un bacio. Erano con Amarto, Manolìa e Nysha, e mi guardavano, con occhi sgranati. Mi fece una pena immensa vederli. Se solo li avessi guardati un altro po’, avrei rinunciato alla mia missione quasi suicida. Perciò mi girai verso la radura, tirando un bel respiro. Più velocemente si faceva, meno doloroso era per tutti. Guardai Tijorn. Lui annuì brevemente, poi guardò fisso Akita. “amore mio…”. Sussurrò, asciugandole le lacrime che cominciavano a correre copiose dal suo volto. Mi fece una pena immensa. Forse era davvero un bene, non amare. “tornerò, te lo giuro. Lasciami andare. Sarò vivo e vegeto, non preoccuparti…rimanete qui, spostatevi solo un po’…per non vedere. Ehi…non piangere…”. Lui le prese il volto tra le mani, e si fece guardare negli occhi. M’imbarazzò vedere quello che vidi, ma ero troppo impegnata a fare cenni spasmodici a Tijorn, per andare. Segni che lui ignorò, troppo preso a consolare la sua piangente compagna, con voce tenera, e consolante. “non piangere…ti prometto che tornerò, vivo e vegeto. Sennò come litigherai più per i nomi del piccino, eh?”. Lei ridacchiò, una risata stentata e tremula. E fu allora che Tijorn la baciò, un bacio tenero, indugiante, che sapeva d’addio. Scostai lo sguardo, e mi avvicinai alla radura. Le creature erano ancora in attesa, il mostro, e l’elfa con i quattro occhi. Sentii un singhiozzo, ed un gemito più forti. Tijorn doveva aver lasciato Akita. Ed infatti, dopo pochissimo me lo sentii accanto. Lui mi prese la mano destra, come quando eravamo bambini, e lui aveva paura del buio. Ed il nostro era un salto nel buio, il salto verso un mostro sotto il letto che esiste, e fa male. Entrambi, con quella libera, stringemmo le nostre armi. L’ultima missione insieme. Dovevamo essere coraggiosi. E vivere per i nostri cari. Facemmo un passo in avanti. In quel momento, svuotai la mia mente da ogni pensiero. Tutto quello che ricordo fu il battito del mio cuore, e le parole dell’elfa pazza. Mi concentrai per il combattimento, mano nella mano con il mio amato fratello. Il volto pallido dell’elfa si illuminò, quando noi entrammo nella radura. Fui per un momento accecata dalla luce del sole, ma poi notai che il mostro era rimasto lì, inerte, mentre l’elfa aveva girato la testa, in un modo innaturale, torcendola quasi fino ai limiti dell’impossibile, come se avesse il collo più lungo del normale. Sentii Tijorn schiarirsi la voce. “ebbene, ebbene, ebbene…”. Cinguettò la pazza, sorridendo, gli occhi castani fissi, quelli gialli, spettrali, guizzanti. Sentii un brivido di paura. E Tijorn mi strinse forte la mano. “eccovi qui… finalmente! Che begli elfetti che siete…”. Fremetti. Non sapevo perché, ma quelle parole suadenti mi mettevano addosso una gran paura. Strinsi di più la mia spada, per darmi coraggio. Mio fratello mi stritolò la mano. Uno sguardo mi fece capire che anche lui stava morendo di paura. Ma si stava contenendo. Accidenti. Non cera mai pace, per noi. Pregai ogni dio esistente che ce la mandasse buona. “chi sei, o Abominio che percorri l’etere?”. Disse Tijorn, con una strana voce solenne. Sembravano parole già costruite, formule che preludevano a qualcosa. Ed io sapevo cosa. Un duello, di cui solo due sarebbero risultati i vincitori. E vidi, infatti, l’elfa sobbalzare, e digrignare i denti. Cosa molto strana. “tu…tu ci conosci!”. Sibilò, torcendo il collo dall’altro lato. Rabbrividii, di nuovo, ed abbassai lo sguardo, per non fissarlo sulla creatura che l’elfa aveva a suo fianco. Avevo timore di essere di nuovo soggiogata. E stavolta mi sarebbe stata fatale, una simile imprudenza. “vuoi sapere cosa siamo? Ebbene…”. Uno strano sorriso si disegnò sulle labbra sottili dell’elfa, sottili ed esangui. Lei era morta. Mi sembrò tale, in quel momento. Una marionetta. “noi siamo…noi siamo la manifestazione d’essenza, cari, e d’esistenza. Ciò che siamo è ciò che sembra che siamo. Due, e uno, e uno, e due”. Bah. O era pazza, o stava parlando in un altro modo rispetto a noi. Non avevo capito nulla. Forse erano davvero solo parole vuote, che non significavano altro che: dite quello che volte, facciamo tanti preamboli, poi vi ucciderò.  Tijorn sospirò. Ci fu un momento di silenzio, poi lui riprese la parola. Si: vane frasi, solo puro galateo. Bah. Io, da parte mia, avrei già infilzato il mostriciattolo con la spada, senza ante leccate. Cose così. Non ho mai amato le moine cortesi. Tanto sempre da una parte si va a parare. “perché, o voi, ci date la caccia?”. Domandò, con la stessa voce modulata. Bah. Decisamente, decisamente un coso strano. L’ignoranza è una bruta bestia. L’elfa prese a camminare, avvicinandosi elegantemente alla creatura, come se le parole di Tijorn non l’avessero minimamente scalfita, e, una volta vicina alla spalla del mostro, saltò sul dorso con un balzo agile, sistemandosi come se quella, tra le scapole, fosse la sua posizione naturale. Il coso non si mosse ancora. Difficile stabilire chi fosse la marionetta di chi, ora. “non abbiamo forse il diritto di calcare il suolo e solcare i cieli, come e più di voi?”. Domandò poi la voce mielosa. Lontana. Dei…mi dava fastidio. Mi mossi leggermente. Tijorn mi strinse la mano, per dirmi forse di pazientare. “non è tutto nostro dominio, forse? La domanda…la caccia…la faremo noi a voi, perché è qui che cacciamo!”. Tijorn fremette. Capii, da tutte quelle parole insensate, una cosa. Il duello era vicino. Sentii uno strano rimescolio al pensiero. Lui, mio fratello, cercò di parare un po’ il colpo, di salvare il salvabile, ma fremette ancora, e parlò con voce meno limpida. Tolsi la sicura alla spada. Dovevamo essere il più veloci possibile. “noi veniamo in pace!”. Esclamò, in tono di supplica. L’elfa nascosta rise, ed a lungo. Rise pazzamente, una risata strana, sospirosa. “ma noi non conosciamo pace!”. Ghignò, dopo essersi calmata. Si, non mi sbagliavo: c’era una sottile vena d’aspettativa, di sadismo e di voglia di sangue, ora, in quella voce allegra. “per noi esiste solo un immenso terrore, e distruzione. Agli occhi del cielo noi siamo i Diversi, i Divisi. Diversi, e grandi nella loro diversità. Siamo due, voi siete due. Cosa vuoi, allora?”. Di nuovo mio fratello sospirò, e sguainò la sua arma. Dopo un attimo, lo imitai. Avevo il cuore in gola, fatto contribuito dal momento in cui lui mi lasciò la mano,ve si staccò lievemente da me. Ci guardammo, e lui fece uno strano gesto. Un gesto da Spie. Lo attaccherò da dietro, tieni la posizione. Voleva dire. Io annuii, e lui si girò nuovamente, di nuovo, sentii l’eccitazione impadronirsi di me. Di nuovo, eccomi a giocare a dadi con la morte. E non ero mai stata così vicina ad essa, all’annichilimento totale. Forse davvero le andavo a cercare. “allora io mi arrogo il diritto di duello!”. Tuonò Tijorn, mordendosi forte la labbra. Strinsi il pomo della spada di Eiron, mettendomi in guardai. Lo stesso fece lui. Di nuovo quella risata maleficamente dolce. “e duello sia!”.

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Capitolo 71
*** E' tutta colpa mia. ***


Poveri noi, che fummo tanto pazzi da duellare con quel mostro feroce

Poveri noi, che fummo tanto pazzi da duellare con quel mostro feroce! Perché? Perché lo facemmo, ci lasciammo così tanto tentare dalla sorte? Tremo, mentre rammento quei momenti convulsi. Tremo, perché rammento la sventura che seguì quella frase ghignante. La parabola discendente di quei brevi attimi che la felicità ci aveva concesso. Eravamo sfortunati, sfortunato il giorno in cui eravamo nati noi tutti! Perché non aspettammo un poco, perché non restammo nel bosco, dove il Diverso, dove l’elfa pazza non poteva arrivare? Perché lì, oh si, lì si consumò la vera e propria tragedia della mia vita. Un colpo così duro da poterlo a stento sopportare, da far divenire una vita intera un insieme casuale di cose e fatti, di nessuna importanza. Sapevamo, già allora, di stare giocando d’azzardo, con un prezzo molto, molto alto. Chissà, forse non c’importava, o forse avevamo qualcosa di più grande da proteggere. La nostra famiglia. Io e Tijorn eravamo gli unici capaci di farlo davvero. Essa era l’unica speranza che ci rimaneva, l’unica cosa che c’impedì di fuggire come conigli spaventati, da quella grande radura contornata di alberi. Ci eravamo arrogati il diritto di sfida, li avevamo sfidati. Non sapevo se, in caso di sconfitta, il nostro avversario avrebbe accettato solo uno di noi come vittima sacrificale, o forse no. Non importava. Ero più che decisa a salvare la vita di mio fratello ad ogni costo. Lasciarlo morire era fuori discussione. Non avevo nessun diritto di agire come la mano del destino, di dare acqua al mio mulino. Ma ci avrei provato, in ogni modo possibile. Tesi così i muscoli, l’eco del mio cuore che rimbombava nel petto. Tijorn si mosse lievemente, indietreggiando di un passo, senza perdere di vista il mostro, che non si era ancora mosso. Era rimasto lì, in silenzio tombale, senza modificare posizione, fermo come un pupazzo abbandonato. Sembrava innocuo, solo un’orrida statua, messa lì per puro caso. Vedevamo l’elfa dall’abito d’oro, protetta dal lungo collo della sua anima, cominciare a muoversi febbrilmente, indossando uno strano elmo scintillante, quasi una maschera, dorato come il resto dell’abbigliamento, a forma di testa di drago, un obbrobrio che lasciava scoperti solo gli occhi per mezzo di due buchi. Vidi chiaramente ogni procedimento. Allo stesso modo, s’infilò due guanti di tessuto lucente, e prese una strana arma da chissà dove, probabilmente un punto che noi non riuscivamo a vedere dal basso, una lunga lancia robusta, dalla lama strana, a forma di fiamma, forma che mi ricordò il lungo coltello di Jalim. Tirai un bel respiro. I giochi erano prossimi dal cominciare. Beh….la cosa mi provocava un sentimento misto tra preoccupazione ed eccitazione pura, un brivido che mi rendeva i movimenti più fluidi, la vista più acuta, che correva fino alla punta dei piedi, e mi faceva rizzare i capelli. Era tanto che non provavo l’ebbrezza del combattimento. Feci, rapidamente, due calcoli. Due elfi, due Spie ben addestrate, contro un’elfa fuori dalla nostra portata, ed un bizzarro essere, un miscuglio orrido e scheletrico di varie forme. Eravamo in netto svantaggio. Se solo avessimo avuto degli archi… Chissà se il coso si poteva ammazzare con mezzi normali. Avevamo bisogno della magia, o cos’altro? Per un attimo, ripresi a guardare Tijorn. Lui ricambiò mestamente il mio sguardo, e mi sorrise, come a dire di volermi bene, nonostante tutto. Ebbi un brutto presentimento. Sembrava che mio fratello si stesse congedando dal mondo. che cosa gli stava passando per la testa bacata che si ritrovava? Quale azione eroica? Sentii le mani divenirmi a poco a poco insensibili, mentre l’avversario ancora si preparava. Sperai solo di non dover fare salti mortali per impedire a quel pazzo che mi stava acanto mi suicidarsi. Aveva così fretta di abbandonare suo figlio, la sua compagna, una vita felice? Feci una smorfia a quei pensieri. In fondo, io non potevo parlare. Non quando mi ero conficcata una spada in corpo. “non provare a fare bravate, fratellino”. Gli sibilai, guardandolo, con astio. Per un attimo, esistette solo lui. Errore fatale. Persi completamente di vista il mio avversario. Ero troppo preoccupata. Non volevo che Tijorn morisse. Sarei morta anch’io, se solo fosse malauguratamente successo. E la possibilità mi faceva gelare il sangue. Mio fratello. Morto, bianco, freddo. Immobile. Era davvero troppo. Deglutii per scacciare l’orrido pensiero. Lui scosse la testa, ma il sorriso si allargò, sembrando un ghigno tragico. “non ne ho intenzione”. Sussurrò. Stringendo forte la lama, ed abbassando il viso. Un gesto che non mi piacque. Lo conoscevo troppo bene. C’era qualche inghippo. “tieni la posizione, distrailo. Fai tutto quello che è in tuo potere, ma non far arrabbiare il nirim. Non colpirlo troppo forte. Tanto non sentirebbe comunque nulla”. Sobbalzai, presa di sorpresa totale. Dannazione. Ci eravamo davvero infognati in una situazione schifosa. Non ne vedevo l’uscita. Come uccidere, come ferire una creatura invulnerabile, in fondo solo una proiezione troppo materiale? Non ne avevo la minima idea. Tijorn si morse troppo forte le labbra, e vidi chiaramente uscire una piccola goccia di sangue. Doveva essere nervoso quanto me ,se non di più. In fondo, lui aveva la precisa idea dei limiti e delle possibilità del coso, e del suo cavaliere dorato. Provai una subitanea fitta di dolore, al pensiero di Akita che l’aspettava ansiosa, nel bosco, al sicuro, aspettando di vederlo tornare, vittorioso o perdente, ma illeso. La decisione di proteggerlo ad ogni costo si fece più pressante.  Avrei dovuto spiarlo, spiare ogni suo movimento, ed accorrere quando si sarebbe messo nei guai. E, come stavano procedendo le cose, ero sicura che sarebbe successo presto. Dovevo distrarre il mostro, evitando di strafare, e tenere d’occhio mio fratello. C’era da sperare di arrivare almeno viva fino a metà scontro. Lui sospirò, è guardò avanti. “io cercherò di colpire la nalim. È l’unico modo per uscire vivi”. L’esistenza, l’elfa. Il brutto presentimento si trasformò in certezza. Era troppo difficile. Si sarebbe dovuto arrampicare, o chissà quale altra diavoleria. E non stavamo combattendo contro un idiota, questo era sicuro. Sperava di vivere? Di fare l’eroe? Cosa gli passava per la testa? Lui, elfo felice, perché non si affibbiava il compito meno pericoloso, cioè il mio? Perché no  lasciava che fossi io a compiere il lavoro sporco? Cercava di proteggermi? Mi sentii impallidire, e, contemporaneamente, m’invase l’irritazione. D’accordo, io l’avrei protetto, ma mi avrebbe dato davvero fastidio se lui si fosse cacciato volontariamente in qualche vespaio. Perché quella che doveva morire ero io, non lui. Sperai non si portasse dietro troppi sensi di colpa. Avvertii uno strano movimento, un fruscio. Ma non me ne importai, e, ignorando l’avversario, mossa molto stupida “no! Tu non farai niente del…”. Fu un momento. Prima ancora di riuscire a finire la frase, il nemico colpì. A lui andava il primo attacco. Nello spazio libero tra me e Tijorn piombò dall’alto, improvvisamente, la fine dell’enorme coda del mostro, piumata, e munita del lungo aculeo. Dalla punta dell’impropria arma, curva, quasi piegata verso l’interno, sprizzarono alcune goccioline trasparenti. Ottimo. Il coso era pure velenoso. Perfetto. Feci, istintivamente, un salto indietro, per fortuna, ed evitai per un pelo di essere toccata da quel liquido malefico. Mi girai in un lampo verso il nostro nemico. Il mostro si era mosso, e ci guardava, con aria malefica dalle sue orbite vuote, che io evitai accuratamente di fissare. Aveva chiuso il becco, e sembrava stranamente vivo. E molto, molto più pericoloso. Sul corpo magro guizzavano, in bella vista, i muscoli. Era piegato in un modo strano, quasi raggomitolato, le fantastiche ali colorate, semiaperte. Potevamo vedere l’elfa, il cavaliere, in bella vista, la lancia pronta. “attenta!”. Disse Tijorn, prima che la coda, con un guizzo, si muovesse di nuovo. Non era il momento di fare calcoli, né di pensare. In quel momento persi di vista mio fratello, e tutti i miei pensieri furono concentrati sul modo migliore per salvarmi la pelle. Almeno per un altro po’, per salvarla a Tijorn stesso. Sperai che se la stesse cavando. A spada sguainata, corsi verso sinistra, il mio lato libero, ed il coso si girò con me, con un suono strano. Dannazione. Era maledettamente veloce. Stava stranamente ignorando Tijorn. O forse aveva risorse che io non conoscevo. D’accordo. Era venuto il momento di fare un po’ di casino. Mi ritrovai sovrastata dal capo scarnificato del mostro, che mi fissava, o forse stava attendendo qualcosa. Aveva l’aria di divertirsi molto. Stava giocando con il cibo, lo sapevo. Per fortuna eravamo due. Sentii un’onda di vaga disperazione assalirmi, mentre alzavo la spada verso l’enorme becco aguzzo, e sogghignai. “ehilà, mostriciattolo!”. Dissi, ridacchiando pazzamente. Potevano essere le mie ultime parole. Uccidi solo me, uccidi solo me, lascia stare Tijorn. Era la cantilena che mi ripetevo senza sosta, disperata. Avevo paura. E molta. Ero di fronte a tutti i miei peggiori incubi, messa di fronte alle mie paure, da sconfiggere. O da accogliere. Questo non lo sapevo. “scommetto che non ce la fai a prendermi eh?”. Deglutii, e poi tirai la frecciata che mi avrebbe potuto trascinare nel buio in un attimo. “vero, brutto ammasso di lardo e piume?”. Ero pronta. Pronta a farmi attaccare, a far concentrare l’attenzione su di me, ad ogni costo. Ed il mostro accolse, lui accolse la mia sfida. Aprì il becco, in un attimo, emettendo un suono stridulo quanto innaturale, e, con un guizzo in avanti da serpente, si gettò verso me, pronto a dilaniarmi. Io fui più veloce di lui, però. Con un balzo, mi scostai di lato, ad un soffio dal muso, che morse la terra. Fremevo di terrore, il terrore più puro mai provato da una creatura vivente. Era troppo forte. Troppo. Solo la sua testa era grande quanto me. Per lui ero solo un assaggino.  Chissà cosa stava facendo Tijorn. Sperai se la stesse cavando meglio di me. Mi sentivo impacciata, resa impacciata dallo stesso terrore. Strinsi forte la spada, tanto da farmi quasi male, e feci una mossa che mi sarebbe potuta costare il braccio, o tranquillamente la vita. Con un fendente cercai di colpire il triangolo di pelle tra le orbite ed il becco. Invano. La mia spada non incontrò nulla, nemmeno la minima resistenza. Sembrò passare attraverso l’aria. Ed il coso non si smosse minimamente. Mi assalì il gelo. Oh, dei. Non era giusto. Era innaturale. Ed impari, soprattutto. Ecco perché non indossava alcuna armatura. Non ne aveva bisogno. Lui poteva colpire me. Io non potevo nemmeno fargli un graffio. Non era divertente. Non era per niente divertente. Di nuovo, il mostro, con quel grido sospiroso che parlava direttamente alla mia anima, facendole provare la paura più pura, la paura della preda davanti all’astuto cacciatore, alzò il muso da terra, e cercò di colpirmi di nuovo. Io mi spostai, e lui mi seguì con lo sguardo, dondolando il collo come un serpente. Poi colpì, ed io mi spostai. La scena si ripeté più volte. lui cercava di farla finita, io mi muovevo, e cercavo di colpirlo. Mi sentivo finita, finita, in quel orrido momento convulso. Il mio pensiero era tutto per Tijorn. Dovevo fare in modo che lui riuscisse nel suo intento. Cominciavo, però, ad essere stanca. E dovevo andarci piano. Non potevo permettermi d’irritare la bizzarra creatura. Se la sarebbe presa con Tijorn, altrimenti. O mi avrebbe fatta a pezzi anzitempo, prima che lui fosse riuscito a salire sulla sua groppa. Era un peccato avere la vista occupata dall’immensa mole del mostro. Non riuscivo a vedere cosa stava succedendo, dove si era andato a rintanare mio fratello, per sfuggire all’elfa, che chissà cosa stava facendo. Era palese il loro gioco. Lei si sarebbe occupata di Tijorn. Lui di me. Semplice. Guardai con preoccupazione il mostro. Ci eravamo girati, ed ora eravamo esattamente nel punto da cui eravamo partiti, di nuovo, da cui eravamo usciti dal bosco protettore. Avevo il respiro affannato, e quasi non riuscivo a prendere fiato. Quel gioco mortale, quel balletto assurdo, mi stava sfiancando. Ed era proprio quello che il mio avversario stava aspettando. Sicuro come la morte che sarebbe arrivata presto. Lui si stava spazientendo. Scuoteva il capo implume, infastidito, come da una mosca, ed emetteva brevi gridolino, attaccando con ferocia e velocità sempre maggiore. Avevo anche intravisto mio fratello, che si muoveva, furtivo, tra gli alberi. Stava raggiungendo la parte posteriore del mostro. Un paio di volte lui l’aveva intravisto e, lasciando per un attimo me a riprendere fiato, si era girato, ed aveva  dato un forte colpo di coda, nella speranza di prenderlo. Non lo stavo interessando abbastanza. Dovevo dargli un’ulteriore possibilità. Dovevo quindi cambiare strategia, ed in fretta. Guardai, sempre più stanca, il ventre, rosso e piumato, che stava a poca distanza da me. Ci poteva passare tranquillamente, sotto, un uomo di media statura. Io ci arrivavo solo con la punta della mia spada. Però ci passavo benissimo. Quello era un suicidio. Osservai con ansia le zampe possenti, dai grandi artigli, e valutai le possibilità. Potevo farlo impazzire un altro po’. Sospirai. Beh…dopo di quello, potevo dire addio al mondo. Sperai che Akita e Tijorn si prendessero bene cura di Roxen e Chekaril. Chissà, fosse nata una femmina avrebbe avuto il mio nome. Ora non importava. Gridai, e, brandendo la spada sopra di me, mi lanciai sotto il miscuglio, prima che lui capisse le mie intenzioni. “ora voglio vedere come fai!”. Urlai, stuzzicando, arrivata a destinazione fortunatamente incolume, le costole del mostro con la punta della spada. Mi sembrava di colpire il nulla ma, a quanto pare, la mia provocazione stava sortendo il suo effetto. Con un urlo acutissimo, che mi fece dolere i timpani per un bel po’, il mio avversario s’impennò lievemente, e cercò di arrivare a me grazie al suo lungo collo, agitando le zampe con furia. Cominciai a muovermi, fastidiosa e rapida come un’ape, una vespa, con il respiro sempre più affannato, in tondo, evitando, molto spesso per un pelo, di farmi colpire da qualche arto, o dallo stesso muso. Avevo catalizzato l’attenzione del coso, e, chissà, magari Tijorn era già su. Ma ero stanca. Ero diventata sempre più lenta, e schivare i colpi era divenuto sempre più difficile. I miei riflessi si erano sopiti, ed io cominciavo ad avvertire le prime avvisaglie di un collasso. No! Non potevo permetterlo, non ora! Sarei morta, e la cosa non m’importava, ma Tijorn avrebbe dovuto uccidere il mostro! Lui, almeno, doveva vincere. Mi sentii percorrere da una fitta di disperazione, e da una nuova, ultima energia. Gli ultimi sprazzi, prima di crollare. Ero al limite. Non riuscivo nemmeno a prendere fiato. Il mondo stava rallentando drammaticamente il suo corso. “no!”. Urlai, mentre mi trovavo in un posto piuttosto pericoloso, vicino alle rapaci zampe anteriori, dai grandi artigli, e, in un impeto di furia, conficcai con tutta la mia forza la spada di Eiron, come sempre a vuoto, nel grande petto. Ciò bastò. Fu un attimo, ed io non ero più così veloce da schivare il colpo. Un grido, un rumore di stoffa lacerata. Per un momento, non capii assolutamente più nulla. Poi mi trovai all’aperto, distesa sull’erba, un dolore atroce al braccio sinistro. Oh oh. Ero andata davvero troppo oltre. Mi guardai dove mi faceva male, e notai, per prima cosa, sangue fuoriuscire da una brutta ferita al braccio. Ahi. Non ci voleva. Cercai di trovare la forza necessaria per rimettermi in piedi, piena di disperazione. No. Non poteva finire così! Non era nulla. Non doveva essere nulla. Io dovevo combattere ancora, per la salvezza degli altri. Non riuscii a muovere un muscolo. Tremavo tutta, e la testa mi girava. Avevo perso il controllo del respiro, e mi sembrava di soffocare. Vedevo puntini neri al limite del mio capo visivo. Ero stata completamente, completamente vinta. Socchiusi gli occhi. Fa’ che la morte arrivi presto, per me, Lsyn Amarto. Fa’ che non senta dolore. Un’ombra incombeva su di me. La sentii, sentii il cambio lieve di temperatura, ed il profumo intenso. Un gorgoglio soddisfatto. Non potevo farci nulla. Sperai che gli altri se la cavassero meglio di me. Che Tijorn avesse avuto il buonsenso di squagliarsela. Lo sperai ardentemente. E poi aprii gli occhi, per guardare in faccia la mia fine. Strano, morire per gli altri. Ti da’ un senso insolito di realizzazione, il farlo. Mi ritrovai faccia a faccia con il mio assalitore mostruoso, che mi fissava a sua volta, il capo lievemente reclinato in un lato. Stavolta gli occhi vuoti non ebbero alcun effetto incantatorio su di me. Lui preferiva avermi così, vinta, beffarda, lucida, per gustare ancora meglio la vittoria. Lo sapevo. Lo guardai, guardai il suo muso bruno, le piume che si muovevano lievemente al vento. Ero affannata. Sperai in una fine rapida. Il coso sembrò soddisfatto dal mio stato di profonda prostrazione. Aspettai il buio ad occhi aperti. Il graffio che mi ero procurata, la ferita, faceva male, molto male. Ero giunta alla fine del mio lungo viaggio. Una fine da eroina. Sacrificatasi per altri. Buffo, per una tentata suicida. Quasi avrei ridacchiato, se non mi fosse mancato in quel modo il fiato. Ci fu ancora un attimo in cui ci osservammo, io vinta, lui vincitore. E poi, con un gemito da spezzare i timpani e le pietre, lui alzò il muso al cielo, vittorioso, ed aprì le ali, impennandosi sulle zampe posteriori. Sembrò, per un attimo, una fiamma viva. Guardai i lucenti artigli che mi avevano colpita, enormi alla luce del sole. Un colpo e via. Sarebbe tutto finito. Quell’attimo, l’attimo prima del colpo fatale, fu infinito. Tutto sembrò rallentare. Mi sentii, per una volta, pronta. Pronta a morire. Pronta ad essere uccisa. Almeno mio fratello sarebbe vissuto. Chiusi gli occhi, li serrai. Non c’era nemmeno da sperare di poter recuperare il mio corpo. Avrei risparmiato di far piangere molte persone. Passarono alcuni attimi. Poi ci fu un rumore strano, un'altra specie di brontolio. Il colpo che aspettavo non arrivò mai. Eh? Cos’era quella tortura? Si rendeva conto, il coso, che mi stava offrendo una possibilità di salvezza? Cominciavo a sentire sonno, molto sonno, ma non respiravo più senza controllo, non annaspavo in cerca d’aria. La ferita stava prendendo a fare meno male, e la testa non girava più. Se solo avesse aspettato un altro attimo, mi sarei rialzata, ed avrei ripreso a combattere fino al vero e proprio collasso, fino a farmi scoppiare il cuore. Ma cosa stava succedendo? Perché il colpo non veniva? Un altro mormorio. Che strano, il mostro sembrava non avere più interesse per me. Sentii un fruscio, ed un tonfo, il tonfo delle zampe, molto vicino a me. Il silenzio, a parte quello, era totale. Potevo sentire il fruscio delle foglie. Non mi toccò. Sembrava essersi dimenticato di me, totalmente. Come se qualcos’altro avesse attirato la sua attenzione. Qualcosa di molto strano, o molto più pericoloso. Cosa mai poteva essere? Ecco. In un lampo, capii la situazione. Tijorn non era scappato, come avevo sperato. Stava cercando di salvare me, forse. Lo stupidone. Di nuovo il presagio di futura sventura. Gelo assoluto. Le membra diventarono di ghiaccio, leggere come piume. No! No! No! Non so come, né perché, ma mi ritrovai in un attimo in piedi, barcollando lievemente a causa di un piccolo giramento di testa. Osservai il mostro. Ed i miei peggiori incubi furono confermati. Il cuore sembrò scoppiarmi in petto. Il coso era girato, girato verso un punto buio, di nuovo il muso inclinato in un lato, come in attesa. La punta della coda era alta, ed il pungiglione alla fine vibrava. Ci fu un momento di calma assoluta. Quello che successe dopo si contende i miei incubi con la vista di Chekaril morto, sanguinante, a terra. Ancora lo sogno, ancora piango al ricordo. Ancora vorrei strapparmi tutti i capelli, tanto è forte il dolore. Preferirei mille volte morire, divenire un’idiota senza senso, balbettante ed allegra, divenire pazza, piuttosto che essere costretta a rivivere ancora il medesimo incubo. La colpa mi tormenta, ancora, corrodendomi come acido. Perché quello che successe è colpa mia, colpa della mia disattenzione. Il momento in cui il mio mondo di speranze s’infranse per sempre. E da lì, smisi di sperare. Ed ancora fa più male la consapevolezza di non essere riuscita a far nulla. Rimasi immobile, gelata, terrificata, senza spada e muta. Vidi tutto, lo vidi,  e vidi la fine di tutto. Perché, con un grido ed un fruscio, Tijorn, armato e pieno di graffi, emerse dalla boscaglia, andando dritto verso la coda del mostro, con un salto. Lui riuscì ad aggrapparsi,  nel probabile tentativo di scalare, affondando le mani nella criniera, mentre l’avversario era sorpreso, e tenne forte la presa. Io volevo gridare. Urlare, urlare con tutte le mie forze che era pericoloso. Ma non ci riuscii. Non riuscii a parlare! Qualcosa mi si era impigliato in gola. Non volevo credere stesse succedendo davvero, che stesse succedendo a noi. Stupido! Pazzo! Tijorn, no! Perché? Perché lo fece? Perché non fuggì, approfittando della mia sconfitta? Perché doveva essere sempre così maledettamente altruista? Non sentii nemmeno le lacrime pizzicarmi gli angoli degli occhi. Non riuscivo a muovermi. Chissà. Se forse mi fossi mossa, se avessi attaccato il mostro, lui mi avrebbe sicuramente ricambiato il favore, e Tijorn sarebbe riuscito nel suo intento. Invece non feci nulla. Nulla! È colpa mia. Solo colpa mia. Solo ed esclusivamente colpa della mia disattenzione, della mia fretta. Non riesco a pensarci. Non ci riesco. Ancora il solo ricordo mi fa rabbrividire, e mi assale la smania, che mi fa venir voglia di muovermi, fare qualcosa, o anche solo di piangere, di disperarmi. Un lusso che non mi posso permettere. Non feci altro che rimanere lì, ferma ed incredula, vedendo sgretolarsi, una ad una, le illusioni di pace, la mia stessa giovinezza. Un fatto che avrebbe cambiato l’intero corso della mia vita, lo stesso mio essere. Perché, con un rumore sorpreso, la creatura sobbalzò, e, mentre Tijorn cercava di trovare un punto sicuro di appoggio, emise un suono furioso. Sbatté una della grandi zampe posteriori a terra, sollevando una nuvoletta di polvere. Poi tese il collo, girandosi per vedere meglio. Bastò solo un movimento. Uno solo. Un guizzo incredibile della coda, un movimento rapido e fluido. E Tijorn fu scagliato a terra, cadendo con un tonfo al suolo. Ero così immobilizzata da non riuscire nemmeno a trovare la forza di chiudere gli occhi. Forse il mostro mi aveva ipnotizzata di nuovo? O forse ero io, il dolore e la confusione che provavo, completamente assoluti, mai sentiti con tanta intensità, nemmeno nel momento in cui mi ero resa conto di aver ammazzato Chekaril, che mi avevano ghiacciata? Non saprei dirlo. So solo che mio fratello era alla mia portata, sarei riuscita ad arrivare vicino a lui, a buttarmi avanti e proteggerlo con il mio corpo da quello che successe dopo. Sono sicura che ce l’avrei fatta. Invece non feci nulla. Non trovai nemmeno la forza per gridare. Tijorn doveva aver sbattuto la testa in modo parecchio violento, e sembrava assai confuso, sbatteva le palpebre, e scuoteva leggermente il viso. Era a pancia in su, completamente riverso, ma si muoveva, cercava di mettersi in piedi. Sapeva quanto gli sarebbe costato rimanere così. Invece no. Invece non ce la fece. Non ce la faceva. Non riusciva a farcela. Vedevo il suo volto nitidamente, il suo volto pieno di fretta, di terrore, potevo quasi allungare il braccio e toccarlo. Mi sembrò così, allora, benché gli altri ripetano spesso che non avrei potuto mai coprire la distanza tra me e lui, perché il tempo in cui tutto finì fu troppo poco. Non c’era tempo. Io invece credo che ce l’avrei potuta fare. Ne sono sicura. E me ne tormento, e ne piango ancora. Tutto successe in un battito di ciglia. Un attimo prima, il mostro stava osservando mio fratello, il mio amato fratellino, l’altra parte di me stessa, l’elfo che mi curava, che mi confortava, che era sempre lì per donarmi un buffetto o una carezza, che faceva così tanto per me, mentre io non fui nemmeno capace di salvargli la vita. Lo osservava, con palese curiosità, ed una strana aria beffarda. Poi, fu un altro guizzo. E l’urlo tremendo di dolore che ne seguì, quell’urlo straziante, che mi spezzò per sempre, ancora mi perseguita, mi tormenta, mi fa disperare. Perché, girandosi leggermente per posizionare meglio la lunga coda vibrante, il mostro, come se fosse la cosa più semplice del mondo, come se fosse solo un’abitudine, come se stesse giocando a palla, con aria annoiata, trafisse Tijorn, sulla spalla destra, con il suo lungo, acuminato, aculeo avvelenato. Penso che mi piegai su me stessa, cercai di difendermi, capace solo di fare quello, quando mio fratello strillò di nuovo, contraendosi tutto, quando il nostro nemico, soddisfatto, tolse l’aculeo, e, con un mormorio, si avvicinò con il becco scarnificato alla sua figura tremante. L’elfa dall’abito dorato, nascosta nelle piume morbide della sua macchina di morte, rise. Lei trionfava, quella mattina. Lei aveva trionfato. Quella risata sadica, divertita, freddissima, mi riscosse. Riuscii a lacerare parzialmente il velo di stordimento che era sceso su di me, quel velo che m’impediva di impazzire dal dolore. Quella cortina trasparente, fatta di placida indifferenza, che mi divide dal mondo, che ancora non si è dissolta. Tijorn. Tijorn stava rischiando seriamente la vita. Per me. Io non stavo facendo nulla. Tijorn, mio fratello, che aveva una vita davanti, ben più che promettente, stava soffrendo. No! Cos’era, quell’ingiusto invertire i ruoli? Perché lui doveva soffrire? No. Quel maledetto l’avrebbe pagata. Mi sentii avvolgere da una cupa nube di determinata disperazione, e ricordai, in quel momento, di non aver ancora lasciato la spada, di averla ancora stretta nella mano. Avrei fatto di tutto per mio fratello, lì, riverso a terra, inerme, sofferente, tutto pur di allontanare il mostro da lui. Ma…ma poi? Cosa avremmo fatto? Lui era ferito, avvelenato probabilmente. Non doveva essere una sciocchezza, la sua ferita. Presi in considerazione l’idea terribile che sarebbe potuto benissimo morire, mentre io mi battevo per lui. Pregai chissà chi che lui resistesse, che trovasse la tempra necessaria per tener duro fino all’arrivo dei soccorsi. Si, ma…quali? Dove trovare persone amiche in grado di curarlo? I Tengu? Troppo lontani. I ribelli, Uruk? Certo che lo avrebbero aiutato. A passare all’altro mondo. Quello si che sarebbero stati felici di fare, sgozzarci uno ad uno come agnelli in un giorno di festa. Ma allora? Come salvarlo? Cosa fare? Come fare, soprattutto? Ah, ma cosa m’importava? Tijorn stava soffrendo. Provai una fitta di acuto dolore, quando lo sentii urlare di nuovo. Strinsi forte la spada, ignorando il dolore che la ferita mi faceva provare. A noi due, mostro. Ora potevo attaccarlo. Era chino su mio fratello, sinceramente interessato alla sua agonia, come un Guaritore di fronte ad una nuova malattia. Sperai che il veleno non fosse troppo rapido. Non avevo la minima idea di cosa fosse composto. Ma, a giudicare dalle urla di Tijorn, non doveva essere qualcosa di molto piacevole. Ogni strillo faceva male come una lama. Sentii, per la prima volta, l’ombra della colpa martoriarmi. Il nemico era distratto. Avrei completato io l’opera di distruzione, costasse quel che mi costasse. Vendetta. Pura e semplice vendetta. Forse che l’elfa aveva dimenticato che anche noi eravamo in due, e che io non avrei mollato l’osso per niente al mondo, non quando la salute e la vita del mio amatissimo fratello era appesa ad un filo per colpa sua? Eh, no, si stava sbagliando, di grosso pure. Stavolta non me la sarei fatta scappare, per niente. Sarebbe stato un enorme piacere sgozzare quella gola affusolata, bagnarmi del suo sangue. Eh no. Sostenuta solo da quello, dal pensiero di Tijorn, delle sue ferite, feci due passi in avanti. Il tempo sembrò sospendersi. Dovevo andarci piano. E, ad un certo punto, il mio destino fece, subitaneo, un altro passo verso quello che poi fu il mio futuro, così strano, così doloroso. Sentii, dietro di me, una strana sensazione. Un’increspatura, una piccola mutazione del tessuto della realtà. Qualcosa di percepibile a stento, come un vento caldo che percorreva la pelle. Ebbi un brivido. Riconobbi istantaneamente di cosa si trattava, quella sensazione umida e bollente, quasi viscida, che strattonava lo stomaco, lo riempiva di olio. Magia. Qualcuno stava usando la magia dietro di me. Cosa? Chi? Che diavolo… Non ebbi nemmeno il tempo di girarmi, di capire cosa diavolo stesse succedendo, che due sfere, delle dimensioni della mia testa, di quello che mi sembrava fuoco giallo vivo, corsero verso il mio nemico, dirette verso il collo. Ed ebbi un moto di sorpresa. Esse non svanirono come per magia, inghiottite da qualcosa di più forte di loro. Colpirono, infrangendosi, con un rumore sordo, sulla base della nuca del mostro, che strillò di dolore, un rumore orrendo, di vetri infranti. Chi stava colpendo aveva un potenziale magico altissimo. Oppure la magia poteva vincere il mostro. Stupido non averci pensato prima. Un essere di magia…colpito con la magia., tornava, a pensarci bene. Altri globi, prima ancora di riavermi dalla sorpresa, di dimensioni e colori variabili, sfrecciarono verso la creatura, colpendola in diverse parti, con uno strano rumore liquido. Dalle parti colpite si levava uno strano fumo traslucido, che prendeva forme umane, o di animali, o di cose, e che cambiava colore, svanendo. Nelle parti colpite rimaneva uno strano alone scuro, di un viola quasi nero, che non cambiava di nuovo in rosso. Ben presto nell’aria di diffuse uno strano odore asprigno, che tuttora non saprei definire. Di nuovo, il Diviso strillò, contorcendosi. Doveva provare dolore, anche l’elfa, perché sentii un urlo femminile sovrapporsi alla voce innaturale della sua Essenza. Di nuovo, altri globi, più grandi. Chi ci stava proteggendo non demordeva, anzi. D’un tratto, percepii chiaramente la situazione cambiare. Il mostro, che mi era parso così invincibile, così tremendo, con un gemito, cominciò ad indietreggiare, allontanandosi dalla figura riversa di Tijorn, raggomitolandosi su se stesso come un ragno piumato. I nostri misteriosi salvatori stavano vincendo. Ancora il mostro urlò, per l’ultima volta. Poi le sue grandi ali fiammeggianti si aprirono. Una spinta, poi un’altra. E ben presto fu alto nel cielo. Non l’ho mai più visto, infestare il mondo con la sua presenza. Forse è da qualche parte, a leccarsi le ferite, cercando di guarire, per attaccarci di nuovo. Forse ci sta aspettando, in cerca di una rivalsa. A me, tutto quello non importava. Persi totalmente il contatto con la realtà che mi circondava. Cominciai così a correre disperatamente verso Tijorn, stanca e zoppicante. Il mio cuore stava perdendo il ritmo, tanto batteva forte, e mi sembrava di esser sul punto di scoppiare. Stavo malissimo. La preoccupazione si era impadronita di me, gelandomi le membra. Non tutto era perduto. Dovevo essere positiva. Non tutto era perduto! Non so come, ma mi ritrovai in ginocchio accanto a mio fratello. I suoi abiti erano, da un lato, zuppi di sangue, e di una strana sostanza, che pareva acqua, e che aveva un odore dolciastro. Mi capitò di sfiorarne un po’, con la mano sinistra. Porto ancora l’ustione che ne seguì. Ma, in quel momento, non sentii il dolore. “Tijorn!”. Urlai, con una voce acutissima, che non sembrava la mia. Lui era ancora cosciente, ma tremava follemente. Da una parte, la sofferenza era troppa, era il veleno che imperversava nella mia mente. Il veleno del dolore. Dall’altra, tutto era ovattato, distante, tranne lui. Stava malissimo. Non l’avevo mai visto in uno stato simile. E quello mi fece capire che la situazione era davvero, davvero critica. Il volto era di un orrendo colore, un bianco quasi cianotico, e lui stava cercando disperatamente di prendere fiato. Ma tutto quello che gli riusciva erano solo una serie di rantolii sommessi. Stava soffocando. Ero così disperata di non accorgermi nemmeno di essere scoppiata in lacrime, disperata. Non sapevo assolutamente che fare. L’impotenza mi aveva afferrata, ed ero immobile, a fianco di mio fratello, che soffriva ed agonizzava. Una sensazione orrenda, vederlo morire, senza poter fare nulla. Mi consumava, come un gelido fuoco. Tutto quello che mi venne di fare fu un gesto. Gli posai entrambe le mani sul volto, e lo accarezzai.  La pelle era freddissima, e sudata. “stai calmo, Tijorn, calmo…”. Bisbigliai, chinandomi verso di lui, con una voce singhiozzante che non mi apparteneva. Io ero la prima a non essere calma. Ma stavo soffrendo. Troppo per poterlo raccontare, per poterlo scrivere. La mia era una tortura, bruciavo di fiamme. Le fiamme ardevano in me, mi tormentavano. Era straziante, era uno strazio, vederlo così. Lui, senza preavviso, ancora rantolando orrendamente, mi afferrò un braccio con la mano sinistra, e strinse forte. Mi fece male, ma non protestai. Faceva bene. Era colpa mia se lui era in quello stato pietoso. Solo colpa mia. Solo. Colpa. Mia. Lui si morse le labbra a sangue, in cerca di un po’ di energia, per poter anche solo parlare. “non riesco…”. Disse, con una voce sibilante, uno strano rumore di risucchio che non gli apparteneva. Fece una smorfia, di dolore puro, che mi trafisse come una pugnalata di ghiaccio, e poi inarcò lievemente la schiena. Mi parve un pessimo presagio, ma cercai di non pensarci. “non riesco a respirare…”. Dannazione. Digrignai i denti, senza nemmeno accorgersene. Era troppo penoso vedere mio fratello in quello stato. Troppo. Cerai di non piangere quando lui cominciò a tossire, peggiorando di attimo in attimo. Il veleno era davvero rapido. Ed io non potevo farci nulla! Nulla, assolutamente nulla! Sentii, ad un tratto, delle presenze attorno a me. Il terreno vibrò, e molte voci confusero il loro suono. Sembravano aver tutti fretta. Qualcuno urlò che c’era bisogno di un Guaritore. Sentii, d’improvviso, qualcun altro vicino a me, qualcuno singhiozzare, spostarmi di peso. Tanta gente. Mi stavano parlando, ma io non li capivo. Sbattei le palpebre, e mi accorsi di star piangendo anch’io. Non riuscivo a capire. Akita? Come c’era arrivata? Mi parve che tutto ciò che era successo si fosse cancellato dalla mia mente. Niente esisteva, a parte Tijorn. Ed anche la stanchezza stava facendo il suo corso. Il mio campo visivo si era ristretto. Ed, in fondo, avevo perso anch’io sangue, ero ferita. Mi sentii improvvisamente debolissima, e mi sentii girare la testa. No. Non ora. C’è Tijorn che non sta bene. Dovevamo… dovevamo andare. Si: dovevamo andare: ma non capivo più dove fosse il cielo, dove la terra. Non riuscivo nemmeno a sentire il terreno sotto le gambe. C’era Tijorn che stava male. Tijorn. Tijorn. Tijorn. Il suo nome sembrava rimbombarmi nella mente, ripetuto mille volte da echi lontani. Qualcuno mi afferrò per le ascelle, e mi tirò su. Gli occhi mi si chiudevano. Dovevo...dovevo muovermi. Ma ero troppo debole. Non ce la facevo. Riuscii appena a fare un passo. Davanti a me c’erano delle persone. Elfi, a giudicare, forse, vestiti di azzurro e blu, dalle armature argentate. Eravamo salvi, allora? Tutti? Chi erano? Li guardai stancamente. Non mi sfuggì un particolare. Molti portavano un grosso ciondolo al collo, di un rosso brillante, grosso come una noce. Oh…Celestiali di Uruk. Erano loro, vero? Si…io ricordavo di averne uccisi due. Avevano lo stesso abbigliamento. Arrivano i nostri, finalmente. Erano miei nemici, non mi amavano, ma non importava. Oh…avrebbero salvato Tijorn! E cosa importava, se mi avessero uccisa? Tanto mi sentivo già morire. Senza Tijorn, la mia vita avrebbe smesso di avere senso, sarebbe stata solo un’accozzaglia di fatti ben poco probabili. Loro dovevano salvarlo. Lui era un elfo felice. Era un elfo felice… un elfo felice. Non doveva morire così. No. Io dovevo morire. Io l’avevo fatto ferire. Io non ero stata attenta, e basta. Io, io e solo io. La colpa era mia. Solo mia. Mi trovai davanti, improvvisamente, il viso di un elfo, dai corti e ricci capelli castani, gli occhi scuri, e la bella pelle color legno, un colore compatto. Oh…ed un’espressione ben poco amichevole in viso. Sembrava grosso. Molto grosso. Era lui a tenermi? E come mi stava guardando! Sembrava volermi mangiare. Beh…poco male. L’importante era salvare mio fratello. Tutto qui. Lui stava male. Molto male. Per colpa mia. Solo mia. Non mi spaventai, alla vista della mia condanna a morte. Ero arrivata ad un punto limite, un punto di non ritorno. Ero così stordita da non provare più nulla. Solo un vago interesse. Ma solo perché erano arrivati a salvare il mio fratellino, lo stupidone. La mia mamma chioccia. Loro l’avrebbero salvato. Si: lui sarebbe vissuto, con la sua compagna, i miei piccoli, suo figlio, le sue allieve. Che io ci fossi o no, nel suo quadretto felice, era relativo. Io dovevo solo servire per farlo vivere. Una vita per la sua. Morire…bah. Che mi facessero morire…se solo gli fosse servito per vivere! Tijorn era l’unico dei due meritevole di un’altra occasione. Io no. Ero troppo cattiva, brutta, sporca. Ero una bestia, avevo ucciso senza remore. Il mondo per me non aveva più importanza. Non se l’avessero lasciato soffrire in quel modo. Avevo ancora nelle orecchie i suoi strilli acuti. “salvatelo…”. Mormorai, con una vocina sottile, stranissima. Mi domandai perché, nonostante non fossi appoggiata a terra, fossi in piedi. Non riuscivo a capire. La mia ragione sbatteva contro un soffice muro di lanugine. Il mondo era una cosa così strana. “lui è un elfo felice…un elfo…felice…”. Fu troppo per me. La testa cominciò a vorticare pericolosamente. Tutto si confuse in un turbinio assurdo di colori, luce e suoni. E poi non ricordo più nulla di quello che seguì.

 

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Capitolo 72
*** Di nuovo, un cambiamento. ***


Non so come, né so quando e perché, ma, ad un certo punto, mi accorsi di essere sveglia

Non so come, né so quando e perché, ma, ad un certo punto, mi accorsi di essere sveglia. Mi sentivo le palpebre pesanti, e non le aprii ancora. Avevo sonno, e mi sentivo stanchissima, come se avessi corso per ore. Il braccio sinistro pulsava, e sembrava stretto in strisce e strisce di quello che mi pareva tessuto. Qualcosa non quadrava. Ricordavo vagamente di aver corso molto, ed un viso sconosciuto che mi guardava storto. Non riuscivo a collegare quello con la mia situazione attuale. Ma non riuscivo a capire perché fossi stesa, stesa su qualcosa di piuttosto morbido, coperta da un panno caldo, o forse dal mio mantello. Era una sensazione magnifica, ma davvero non capivo. Il silenzio mi avvolgeva, caldo e piacevole. L’unico suono era un cigolio costante, ed un rumore come di ruote. Dovevamo essere in movimento. In movimento? Chi c’era con noi? La risposta era lì, pronta, ma sfuggente, e non riuscivo ad afferrarla. Era fastidioso. Che pace. Se non fosse stato per quella strana sensazione, come se il mio corpo avesse registrato e ricordato una situazione precedente a quella, ben più terribile, tutto sarebbe stato perfetto. Ma la certezza di dover rammentare qualcosa era molto forte. Dovevo ricordarmi di una cosa, una cosa piuttosto urgente ed importante che premeva agli estremi della mia coscienza. Ma mi sfuggiva continuamente. Corrugai leggermente la fronte. Perché i ricordi mi scappavano, sfuggivano via dalle mie mani, sgusciavano come acqua corrente? Che cosa c’era, di così pericoloso da ricordare? Di così triste? Fu un lampo. E rimpiansi subito di non riuscire a ricordare nulla. Tijorn! La fuga. Il Diverso, il duello. E l’immagine di mio fratello ferito a morte. A quell’ora…no. Non poteva essere. Dovevo stare calma, calmissima. L’avevano salvato. Dovevano. Ne ero sicura. Ma il mio corpo reagì istintivamente, prima ancora di aver completato il pensiero. “ah!”. Gridai, saltando immediatamente seduta, su quella che mi pareva una brandina, come svegliata da un orribile incubo. E tale era, il ricordo. Pensare alla morte di mio fratello era troppo terribile. Troppo. Ed eravamo anche nelle mani dei nemici, che ci volevano morti! La prospettiva che il mondo mi offriva non era esattamente ottima. Potevamo essere più sfortunati di quello? Eppure, avevamo solo chiesto una vita tranquilla. Il destino aveva deciso di trasformarci nel suo balocco preferito. Dovevo essere ancora debole, dopo lo scontro convulso e pazzo con il mostro, dopo essere stata scaraventata a terra da una zampa artigliata, o dovevo essere da molto tempo stesa, perché sentii, non appena fui seduta, un fortissimo capogiro, ed un senso tremendo di nausea. Il cuore mi saltò in gola, ronzando furioso, e nelle orecchie sentii un fischio acuto. Mi sentii malissimo, e chiusi gli occhi di scatto, ondeggiando. Qualcuno, prima che potessi fare anche solo un ulteriore gesto, mi abbracciò. Sentii subito un’ondata di profumo dolcissimo, penetrante, quasi stucchevole, avvolgermi. Un profumo molto familiare. Dei capelli mi solleticarono il volto. Akita. Dei…per fortuna, era viva. Sentii uno strano rimescolio nello stomaco, per nulla dovuto al malessere. Era colpa mia se il suo compagno era morto. Mio fratello. Dovevo superare quel momento di debolezza alla svelta. Era una fortuna che la testa stesse cominciando a girare di meno. “Lsyn…calma, tutto va bene, tutto va bene…”. Bisbigliò, con fare tranquillizzante, una voce acuta, leggermente rotta al pianto. Oh, no. No! Non poteva essere. Non poteva essere! La preoccupazione minacciò di soffocarmi, mi attanagliò la vita con una fitta tremenda. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Se Tijorn fosse morto, sarei morta anch’io. Di dolore. Già era troppo, troppo per essere sopportato. “è tutto a posto…stiamo tutti bene”. Tutti bene? Lo stava dicendo tanto per farmi stare tranquilla per un po’, perché, per loro, ero ancora la fragile larva di qualche tempo prima. Potevano dimenticarlo. Avevo deciso il mio futuro, deciso da che parte stare. E nessuno mi avrebbe ostacolata più. Aprii gli occhi. Vidi, attraverso i capelli chiarissimi della mia amica, il fondo di quello che doveva essere un carro chiuso. Ero a terra, su una piccola branda, in un angolo. Sentii un’improvvisa smania avvolgermi, e, per un attimo, tutto fu offuscato dalla paura. Paura di conoscere il mio futuro, il punto dove la mia stupidità aveva condotto tutti. Tijorn. Non sarei mai riuscita a togliermi dalla testa i suoi strilli di dolore, il suo viso pallidissimo, le sue parole soffocate. Ricordavo che non riusciva a respirare, e che era stato avvelenato. E tutto quello, per salvarmi. Se solo fosse morto…beh… potevo gettarmi con lui nel fuoco. Era stata tutta colpa mia, tutta. Non l’avrei mai finito di ripetere, né mai lo finirò. Dicono tutti che sono ossessionata, perseguitata dal mio passato. Ma non posso non esserlo. Non quando tutto quello è colpa mia. Non quando tanta sofferenza è nata per salvarmi. Io, che non meritavo altro che essere messa a morte, per quello che avevo fatto. Avevo ucciso innocenti, rubato, rapito, spiato. E tutto quello, per assecondare le manie di protagonismo di una pazza omicida. Ed ecco quello che mi rimaneva. Polvere, sangue, cenere, un odore amaro di sconfitta. Ma io dovevo sapere, dovevo saprei allora. Tutti i miei pensieri erano orientati su una sola persona, un solo individuo, allora. Tijorn. Lui stava soffrendo. “io…io…io…”. Dissi, con una vocina sottile, che decisamente non mi apparteneva. Bizzarro. Non mi ero nemmeno resa conto di essere di nuovo scoppiata in lacrime, in singhiozzi. Mi strinsi forte ad Akita, rubando un po’ del suo calore. Tutto quello che avevo posseduto, tutta la vita che era stata in me, si era ghiacciata, come la superficie di un fiume in inverno, quando nevica. Avevo freddo. O forse era solo una mia sensazione. La mia amica, il Falco, ricambiò la mia stretta. Sembrava volermi rassicurare. Rassicurare di cosa? Mio fratello stava male. Io me l’ero cavata con un graffietto da nulla, che sarebbe guarito senza lasciare segni. Un buffetto. E lui era stato avvelenato, la sua spalla trapassata da parte a parte da un maledetto aculeo velenoso. “Tijorn… dov’è Tijorn?”. Dei. Non avevo mai sentito la mia voce piena di quel tormento, quella fiamme di colpa che mi straziavano l’anima.  Fu allora, seduta su quella vecchia branda, abbracciata dolcemente da quella che un tempo avevo odiato più di ogni altra, che sentii una voce, un mormorio. C’era qualcun altro nel carro, oltre a noi due. Una mano gelida trovò la mia, e la strinse forte. Sobbalzai, e mi districai dalla stretta dell’elfa, che si fece da parte senza proteste. Notai di sfuggita un sorriso tremulo sul suo volto bianco. Chi era che mi stringeva?  Chi c’era, lì?Mi voltai, ed il sollievo mi riempì subito, piacevole, come acqua calda. Sollievo, misto a rammarico, e dolore, e poi ancora preoccupazione. Mi sentii più leggera, come se mi avessero tolto un gran peso dalle spalle. Perché mio fratello non era morto. Beh…era messo davvero male, ma non era morto. Era steso su una branda accanto alla mia, completamente riverso, senza forze. Era riuscito a malapena a raggiungere la mia mano, ma ora ero io a stringere lui. Era di uno spiacevole colorito azzurrino, quasi verdastro, e respirava a fatica, come se gli costasse molto, con un leggero sibilo. La ferita era bendata, un bendaggio di fortuna. Era vivo, vivo e cosciente, o quasi. Gli occhi erano socchiusi, più chiusi che aperti, a dire la verità,  e lui sembrava piuttosto confuso.  Ma mi stava guardando, con un pallido sorriso, una parvenza di sorriso, stampata sul volto. Presi a tremare, senza alcun controllo, e mi avvicinai ulteriormente, stritolandogli la mano. Non tutto era perduto, allora. Il mio cuore prese di nuovo a battere senza controllo, ma stavolta era dalla gioia. Non era successo nulla d’irreparabile. Potevo ancora sperare. Se solo avessi potuto, sarei scoppiata dalla gioia, esplosa in mille pezzetti. Mi sentii la creatura più felice del mondo. poco importava che eravamo tutti in mano ai nemici, che stessimo andando molto probabilmente ad Uruk, a Kyradon. Non importava. Io sarei potuta anche morire. Lui era salvo. Sarebbe sopravvissuto. Era troppo bello per sembrare vero. Cominciai a piangere più forte, fino a farmi dolere la gola, il petto. Mi avvicinai tantissimo a lui, quasi come a volerlo abbracciare, fino a trovarmi vicinissima al suo viso stanco. Volevo stringerlo a me, abbraccialo fino a schiantarmi. Ma non osavo. Sembrava debolissimo. Non osavo fare qualcosa che avrebbe potuto fargli più male che altro. Era strano, guardarlo così, ferito, quando di solito ero io a fare la parte della malata. Ero sempre stata io dall’altra parte del Lazzaretto, praticamente quasi sempre. Lui aveva avuto troppo buonsenso per fondarsi a corpo morto nelle missioni più difficili. Aveva sempre scelto questioni leggere, o facili, niente di troppo impegnativo, che imponesse la probabilità, anzi, la certezza, di un omicidio. Praticamente, tutto quello che io ero andata sempre a cercare, e che avevo trovato. Davvero strano vedere i ruoli così invertiti. Con un sospiro, mio fratello aprì bocca. “ciao, Lsyn…”. Disse, con un sussurro stentato che mi fece mordere il labbro inferiore, guardandomi, mettendo a fuoco lo sguardo. Non era morto, è vero, ma ci era andato davvero, davvero vicino. Ancora il respirare, la sola azione di respirare, gli costava una fatica immensa. Lui, infatti, subito dopo aver parlato, respirò profondamente, e poi, dopo una pausa, riprese a parlare. Sapevo che sarebbe stato meglio, per lui, non fare sforzi. Ero troppo stanca, troppo preoccupata per impedirglielo. E la gioia di sentire ancora la sua voce era troppa. Il mio stupidone. La mia mamma chioccia. “visto…che ce l’abbiamo fatta?”. Dei. Il suono della sua voce, distorta in quel rantolio roco, mi faceva male. Lui si zittì, e respirò profondamente. Gli sorrisi, dentro di me preoccupata, e gli strinsi ancora più forte la mano freddissima, e sudaticcia. Stava male, stava ancora molto male. Ma il peggio sembrava essere passato. Così parlai, con voce soffocata dalle lacrime che ancora mi scendevano, copiose, sulle guance. “già…ce l’abbiamo fatta”. Lui rispose al mio sorriso, e chiuse lentamente gli occhi, come se volesse addormentarsi. Sorrisi teneramente. Sentii un’ondata di pena, investirmi. Cosa non aveva fatto, per salvarmi? Doveva essere stanchissimo, povero fratellino mio. Glielo concedevo. Gli avrei concesso tutto, pur di farmi perdonare. Non ebbe il piacere di dimenticare per un po’ il dolore del mondo. Akita, immediatamente, si portò accanto a lui, e, con mio enorme sbalordimento, si chinò sul viso e gli schiaffeggiò con forza le guance, con aria molto preoccupata. Tutti i lineamenti del suo volto erano tesi, e sembrava aver pianto molto. Tijorn sobbalzò, ed aprì di nuovo gli occhi. Non guardò lei, né me.  I suoi occhi si persero nel vuoto, in alto, smarriti. Non mi piaceva vedere mio fratello così, il mio dolce fratellino in quello stato. Mi faceva troppo male. La compagna sembrò soddisfatta, e mi guardò, annuendo lievemente. Avevo sgranato gli occhi, senza voler credere a ciò che vedevo. Perché si era fiondata così su di lui, con tanta ferocia, e tanto sadismo? Non aveva diritto ad un po’ di riposo, ora che aveva salvato tutti? Non lo capiva? Lui aveva salvato anche lei, sacrificandosi. Ed invece lo tormentava. Mi sentii indignata, ed aprii la bocca per protestare. Esigevo una spiegazione per quel comportamento così stupido. Akita mi precedette, e sorrise stancamente. “i Guaritori mi hanno detto di tenerlo sveglio fino all’arrivo al Lazzaretto”. Spiegò, con aria stanca, guardando il compagno, che ancora mi teneva la mano. O meglio, a cui ancora tenevo la mano. Lui non mi stava stringendo, anzi. La sua mano era morbida e cedevole, come se non avesse forze. E forse le aveva sprecate per parlarmi. Sperai ardentemente che non fosse così. Akita continuò a parlare, sedendosi a terra, con un tonfo, e prendendo la mano libera del compagno, con dolcezza. “sono riusciti ad impedire che il veleno si diffondesse ancora, ma…”. Lei scosse il viso appuntito, ed i capelli le volarono da tutte le parti, indomiti. “ molte tracce sono ancora presenti. Ha bisogno di cure più approfondite.  Mi hanno detto che è un veleno subdolo, che agisce con maggiore rapidità e minore visibilità nel sonno. Lui non deve addormentarsi, almeno fino quando non gli sarà somministrato l’antidoto. Rischierebbe troppo”. Avvertii freddo, ed istantaneamente, andai a guardare mio fratello. D’improvviso, il prenderlo a schiaffi e tormentarlo non mi sembrava così una cattiva idea. L’avrei fatto senza sosta fino all’arrivo, se solo gli fosse servito a salvarsi la pelle. Mio fratello doveva meritarsi tutta la felicità del mondo, e non era giusto vederlo così sofferente. Tijorn aveva ancora quel sorriso stanco stampato in viso, un sorriso che mi sembrava, ora, quanto mai sciocco, e vuoto. Povero stupidone mio. Cercai un altro argomento, disperatamente, per distrarmi. Ma non persi di vista gli occhi semichiusi di mio fratello, in attesa che si chiudessero, per farlo svegliare. “dove siamo diretti?”. Dissi, con voce lievemente soffocata, tirando su con il naso, ed asciugandomi le lacrime. Non era ora di piangere, e di disperarsi. C’era troppo bisogno di me per farlo. Avrei pianto dopo, avrei singhiozzato dopo, in solitudine. Ci fu un attimo di silenzio. La risposta arrivò dopo un po’, esitante. “al Lazzaretto di Kyradon, Lsyn”. Mormorò lei, con voce soffocata, e preoccupata. Accidenti. Nella tana del lupo. E pensare che avevamo fatto tanto per evitare Uruk! Impossibile sfuggire al mio destino. Sentii un’ascia, l’ascia del boia, cigolare sopra di me. Beh…almeno avrei chiesto di lasciare stare i miei compagni. Loro odiavano solo me, ero io che mi attiravo tutto l’odio. In fondo, eravamo salvi, al sicuro. Cosa importava, poi, se io fossi morta? Assolutamente niente. Rimanemmo in silenzio per un po’, cullate solo dal rumore cigolante del carro. Cercai di non pensare, e rimasi tutto il tempo a fissare mio fratello. Lui sarebbe sopravvissuto. Forse era l’ultima volta che lo vedevo. Mi avrebbero uccisa subito, o no? Avrebbero aspettato la ripresa di Tijorn, per processarci tutti? Mi maledissi, maledissi me stessa. Stavo mandando al macello un sacco di innocenti. Chi era il Capitano dei Celestiali di Uruk, al momento? Forse un elfo dai capelli bianchi che mi odiava, di nome Isnark? Nel nostro ultimo incontro, non l’avevo attaccato, forse, rompendogli un braccio, drogandolo e ferendolo? Non avevo ucciso due suoi commilitoni? Non aveva, forse, tutto il diritto di pretendere una vendetta? Lui, certamente, sicuro come la morte, mi odiava terribilmente. Non aveva tutti i torti, in fondo. E Nemys? Nemys, con tutti i misteri che si portava dietro? Lei mi odiava, anche lei, per quello che avevo fatto al compagno. Mi avrebbe voluta vedere agonizzante, o meglio. Se mi avesse conosciuta a dovere, avrebbe torturato qualcuno dei miei affetti. Era il solo modo di farmi soffrire ancora di più, perché, orami, del mio corpo non me ne importava. Dovevo proteggerli, ad ogni costo. Fui presa da una strana frenesia. Alzai gli occhi verso Akita. Dovevo proteggerla, proteggere lei e tutti gli altri. Proteggere. Proteggere. Proteggere. “se vi chiedono qualcosa, Akita…”. Bisbigliai, con voce soffocata quasi quanto quella di Tijorn. Era tornato il groppo insistente alla gola, che mi tormentava, mi faceva del male. Era insopportabile. Pensare Roxen sofferente, di nuovo. Chekaril. Non potevo tradirli così, un’altra volta. Dovevo metterli al sicuro, mettere al sicuro tutti. “dici che tu non sai nulla,qualunque cosa ti chiedano. Tu non sai nulla, né sanno nulla gli altri. Nulla di nulla. Io vi ho costretti a seguirmi”. Akita, la mia carissima Akita, perspicace ed intelligente, alzò un sopracciglio, incuriosita. “ma che stai…”. Disse, indignata e sorpresa, prima che,con uno scossone, il carro si fermasse. Eravamo arrivati? O mi stavano prelevando, per ammazzarmi? Lo sguardo che entrambe ci scambiammo era pieno di preoccupazione. Passarono attimi tremendi. Sentii torcermi lo stomaco, insopportabile. E poi, vedemmo i lembi di tessuto che ci separavano dal mondo esterno aprirsi di scatto, rivelando il cortile bianco di un luogo, forse il Lazzaretto, ed il viso di tre elfi cupi. Uno di essi era quello che mi aveva salvato, l’elfo dalla pelle scura. Alla luce del sole, ora che ero ben più cosciente, e presente, sembrava più minaccioso che mai. Doveva essere altissimo, ben sopra la media degli elfi e nerboruto. Un gigante, un bestione. Il viso aveva lineamenti decisi, tratti molto marcati. Mi ero sbagliata decisamente sul colore dei capelli. Erano di un bel nero pieno. Pazienza. Non aveva importanza. Mi sentii intimidita, un cerbiatto di fronte ad un orso. Ero molto piccola già normalmente, ma, solo a guardare quell’elfo, sembravo minuscola. Un’infante. Gli altri due elfi, uno con il ciondolo, dai capelli lisci, di un bel rosso tiziano, l’altro senza, dai gelidi tratti spiccatamente nordici, erano ridicolmente gracili al suo confronto. Ma tutti e tre, senza distinzioni, ci fissavano con malcelata ostilità, ed una punta di disprezzo. Ci fissammo. Io deglutii. Un solo pugno del gigante e sarei stata poltiglia da dare in pasto ai maiali. La cosa non mi piaceva. “scendete”. Ordinò il bestione alto e scuro, con una voce profonda e calda, che sarebbe stata molto bella se non fosse tinta da quell’odio così profondo. Mi sentii a disagio, e vidi la paura nello sguardo della mia amica. Salvi, ma a che prezzo? Io ed Akita obbedimmo, avvicinandoci e prendendoci per mano. Uno dei due Celestiali l’aiutò a saltare dal carro, con premura. Io fui prontamente ignorata, e scesi in uno spiazzo porticato, addossato all’edificio, collegato ad esso per mezzo di alcune scale larghe. Mi sentii oggetto di sguardi irati non appena misi piede fuori. Nel piccolo ambiente, collegato  con l’esterno da un cancello di ferro battuto, ora chiuso, pieno di carrozze e carri, non potevano esserci che una decina, tra soldati e civili sconosciuti. Sentii tutti i loro sguardi addosso, in un attimo. Mi sentii piena d’imbarazzo, e strinsi forte la mano di Akita, addossandomi lievemente a lei. Tuttavia, mi sentivo sollevata. A quanto pare, l’odio non sembrava nei loro confronti. Tutti volevano fulminare solo me, ridurmi in piccoli pezzetti, fini come sabbia. Non era una grande perdita. Tutto sommato, mi sentivo sollevata. I miei cari erano al sicuro. Era quella la cosa più importane, solo quella. Sospirai, facendo qualche altro passo in avanti. Era ora di addossarsi tutte le colpe di una vita. Non potevo fingere che tutto andasse sempre bene, che io fossi innocente, perché non lo ero. Fu con uno strano senso di fatalità che mi lasciai abbracciare dai miei cari riuniti, accolsi solo con vaga, torpida felicità, i bambini, che si aggrapparono a me, e mi fecero cadere. E nello stesso modo indifferente li seguii, salendo le scale, quando alcuni Guaritori presero Tijorn, per portarlo dentro. Mi faceva male stare così, ma dovevo. Dovevo staccarmi da loro. Lo sapevo. Tanto, prima o poi, sarei morta. Me lo dicevano tutti gli sguardi. Ogni elfo che mi incrociava, che non fosse un Guaritore, si bloccava, fissandomi con astio, e, spesso, borbottando con il vicino. Sentivo i loro sguardi perforarmi la schiena, fino a quando non sparivano dalla mia vista. La cosa mi metteva a disagio, ma non gli davo molta importanza. Appena si fosse sparsa la voce della mia presenza lì, il popolo avrebbe chiesto a gran voce il mio sangue. Avevo già firmato, praticamente, la mia condanna a morte. Tutti mi odiavano, in quel luogo. Se solo i soldati, compreso il gigante, non ci avessero accompagnati, molto probabilmente sarei stata linciata dalla folla. Ma io preferivo una morte pulita, e veloce. Avevo sofferto troppo. Fu quindi con sollievo che entrai in una stanza vuota, dove ci fecero attendere che i Guaritori finissero di curare mio fratello. Ero solo un po’ in pensiero per lui. C’era solo quell’ostacolo a cui pensare. Dopo, sarei potuta morire in pace. Fu quindi con enorme sollievo, troppo stanca per poter piangere, come fece Akita, che accolsi la notizia che Tijorn era ormai fuori pericolo, e che si sarebbe rimesso presto. Era tutto a posto, ora. Tutti i miei cari erano salvi, al sicuro. Potevo attendere la mia fine in pace.

 

“ho detto che mi sento bene, Lsyn, accidenti a te!”. Disse la figura pallida di mio fratello, la schiena appoggiata ad una miriade di cuscini, il braccio tutto bendato, e sostenuto da una fascia. Erano passati ormai cinque giorni dal nostro arrivo. Non avevo fatto altro che stare al capezzale di mio fratello, a stento dormendo. Volevo passare quanto più tempo possibile con lui, volevo rimediare al mio errore prima di essere chiamata per un processo sommario, e mandata a morte. La situazione, in così poco tempo, si era ribaltata. Pochi giorni prima era lui a curare me, solerte e tranquillo, paziente e lievemente disperato. Ora ero io la mamma chioccia, e, devo dire, ero divenuta molto asfissiante. Ma ne avevo ben donde. Erano forse le ultime volte che vedevo Tijorn, e non potevo dirgli di quello che stava accadendo. Lui non sapeva ancora dove fossimo. Non l’aveva ancora capito. Nessuno ne aveva parlato in sua presenza, inoltre. Inoltre, ero l’unica abbastanza in forma per poter stare in piedi tutta una notte, per riuscire a sopportare tutto quello. Amarto era vecchio, e cieco. Non poteva fare nulla. Max mi aiutava, ma molto spesso, essendo Guaritore, aveva da fare da altre parti. Sembrava essere entrato nel suo elemento, e non era cambiato nulla, di lui. I Guaritori sono fatti così. Allenati a non avere pregiudizi di sorta, a vedere oltre le apparenze, per giudicare le ferite o la bravura. Un poveraccio, o un barone, può divenire Guaritore. Basta solo avere le capacità. Erano gli unici a non borbottare al mio passaggio, a non sembrare ostili. Io ero una tra le altre. Avevano liquidato la mia ferita in un attimo, e si erano precipitati su Tijorn con la ferocia di avvoltoi su una carcassa. Junielle…beh, temevo sinceramente che Junielle fosse impazzita. Non aveva parlato, né guardato nessuno, da un bel po’. Bisbigliava solo nell’orecchio di Max, con cui sembrava aver legato molto, e non parlava con nessun altro. Nemmeno con me. All’arrivo, si era seduta da una parte, e ci aveva seguiti con lo sguardo, come un cane randagio. Non era più la vivace, sboccata mezzelfa di sempre. Qualcosa sembrava averla spezzata, spezzato la sua tempra forte. Nessuno era riuscito a capire, tuttavia, cosa. Akita era fuori discussione. Era stata messa troppo sotto pressione, una cosa che nelle sue condizioni non era per niente positiva, e ne pativa le conseguenze. Poco dopo il nostro arrivo, infatti, una volta che tutto sembrava finito, non si era sentita per niente bene, e si era dovuta mettere a letto. Era ancora lì. I Guaritori non le permettevano nemmeno di alzare un dito, nonostante lei giurasse e spergiurasse che si era trattato solo di un malessere passeggero, perché lei non riusciva a sopportare il movimento del carro, delle navi, e l’ondeggiare in generale. Ma nessuno le credeva, poverina. Facevo la spola tra lei e Tijorn. Ero divenuta l’aiuto Guaritrice. Cominciavo a farmi una cultura su intrugli ed affini. La mia amica era piuttosto di malumore. Mi raccontava di non poter fare altro che leggere, leggere, leggere ed ancora leggere. In circostanze normali non le avrebbe fatto che piacere, questo, ma ora voleva vedere il compagno. Smaniava di parlargli. E non si poteva muovere. I Guaritori dicevano che era per il bene del piccolo, solo per il suo bene. Immancabilmente Akita borbottava di sapere benissimo dove il bene andava messo. E, di solito, aggiungeva un paio di bestemmie che mi facevano sorridere. Era tenerissima, era tenerissima la sua angoscia. Andava calmata, sempre. Allora la rassicuravo, dicevo che tutto andava a meraviglia, Tijorn stava bene, migliorava a vista d’occhio, dormiva sempre di meno, che aveva solo un po’ di febbre, e che doveva pensare solo a lei, ora. La salute di suo figlio era troppo importante per trascurare anche solo una piccola cosa, ed i Guaritori lo stavano facendo perché sapevano il fatto loro. Aveva patito troppo, in quel periodo, per non allarmarsi anche ad una piccola avvisaglia, anche se si trattava solo di un malessere dovuto al movimento del carro. Quasi sempre, dopo quelle parole, lei cominciava a ricoprirmi d’insulti. Mi chiamava loro alleata, e lo sputava come se fosse una cosa orrenda. Io sorridevo, e, lasciandola sfogare in silenzio, me ne andavo da Tijorn. Era lui il mio pensiero principale. Cominciava davvero a migliorare, moltissimo, di giorno in giorno. Era sempre più presente, e le tracce di veleno cominciavano a sparire. Respirava meglio ogni minuto che passava. L’unica cosa non molto positiva era la febbre, comparsa il secondo giorno, una febbricola bassa ed insistente, che lo sfiancava, ma i Guaritori non sembravano allarmati da essa. Era sempre una ferita profonda, insomma, ed era quasi naturale. Tuttavia, doveva bere un intruglio schifoso, una sorta di roba che assomigliava a fango verdastro, dall’odore orrendo, e dal sapore, a quanto pareva dalle sue smorfie, altrettanto disgustoso. Cercava di scampare alla tortura ogni volta che poteva. Ma contro di me non riusciva a fare nulla. Rimanevo lì, in silenzio, con il bicchiere teso, fino a quando lui, esasperato, non lo afferrava, e tracannava il contenuto, con aria abbattuta, senza prendere fiato. Ero davvero peggio di una mamma chioccia. Molto peggio. Ed allora, quel quinto giorno, ero lì, calmissima, il mio destino già prontamente accettato, indifferente, con quel bicchiere orrendo in mano, tesa verso Tijorn. Avevo preferito non pensare al mio futuro, alla mia prossima morte. Ormai, mi ero abituata a quel pensiero. Facevo quindi del mio meglio per stare con mio fratello, ogni attimo che passava, curandolo meglio che potevo. In fondo, non penso che qualcuno si sarebbe accollato quella responsabilità, dopo la mia morte. Dovevo fare di tutto, finché potevo. Quel giorno la febbre si era alzata un po’, ma lui era più forte che mai. Respirava liberamente, ormai, ed aveva ripreso colore. Era riuscito anche a mettersi seduto, povero fratellino mio, ed ora stava lì, appoggiato ad una pila di cuscini che gli avevo procurato, irritato. Non gli piaceva che gli dicessi cosa fare. Pazienza. Tra un po’ non l’avrei più infastidito. Lui, però, non lo sapeva. Gli avevo raccontato che eravamo stati salvati da cacciatori, ed eravamo ancora nel Regno. Non potevo dirgli che Kyradon era a poca distanza dalla sua camera. E che io sarei morta presto. “devi berlo, lo sai”. Mormorai, con voce dolce, ma ferma. Lui fece smorfia infastidita. Quanto ad amore per le medicine, lui non aveva nulla da invidiarmi. In quello eravamo davvero fratelli. Lui mi guardò malissimo, e deglutì sonoramente. “ma…ma è orrendo!”. Protestò, quasi implorando. Sorrisi, ma non risposi, rimanendo con il bicchiere teso. Ora capivo benissimo cosa voleva dirmi quando ripeteva che era per il mio bene. Sapevo che tra un po’ avrebbe capitolato, e, perciò, non cedetti alle sue suppliche. Quel giorno non fu diverso da tutti gli altri. Borbottando a proposito di un complotto, che tutto era uno schifo, Tijorn afferrò il bicchiere con la mano sana, e ne bevve docilmente il contenuto. Poi, con una smorfia nauseata, mi tese il contenitore vuoto, guardandomi storto. Era buffo quando faceva così. Tanto buffo, e tenero. E tanto dolce. Sarebbe vissuto a lungo, molto a lungo, più di me. Volevo che serbasse un bel ricordo della sua sorellina, della sua Nanetta. Quel giorno lo guardai, ricordo, e mi avvicinai a lui. Lo abbracciai forte, senza che facesse resistenza. Tijorn mugugnò un altro po’ sulla sua medicina, ma poi si zittì, e mi circondò la schiena con il suo braccio, restituendo l’abbraccio. Mi era mancato, molto. Era un gran peccato dover morire proprio in quel momento, quando tutto sembrava finito. Sentii una fitta di tristezza. Era brutto pensare di non rivederlo più. Lui, i piccoli, Amarto, Akita. Mi sarebbero mancati da morire. Beh, per quanto possano mancare gli affetti ad un morto. Mi sarebbe piaciuto anche vedere mio nipote, vedere il suo aspetto, tenerlo tra le braccia, coccolarlo. Non potevo farlo. Perché, perché sapevo così bene che la morte mi stava aspettando? Come facevo a saperlo? Era fin troppo arguibile. Ero lì, preda appetitosa ed inerme, per Nemys ed Isnark. Avrebbero goduto nel vedermi morta, almeno una nemica in meno. Non potevo dar loro torto. Ero stata cattiva, brutta, sporca. Avevo peccato, e dovevo pagare. Mi sembrava fin troppo normale. Mi sarei tolta io la vita, per risparmiare loro un’esecuzione pubblica, per risparmiarmi quell’umiliazione, se solo non avessi avuto tanta paura. Dopo aver sperimentato la vera e propria morte, non ne avevo il coraggio. Non potevo averlo. Avrei voluto confidarmi con io fratello, piangere sulla sua spalla. Ma non potevo. Lui era troppo debole, ancora malato. Per una volta, dovevo essere io forte per lui. “ti voglio bene”. Fu l’unica cosa che riuscii a confessargli, reprimendo un improvviso impulso di piangere. Non potevo, o lui avrebbe mangiato la foglia. Poco ma sicuro. Mio fratello non fece altro che stringermi più forte. Era caldo e solido, tra le mie braccia. L’ultimo abbraccio. L’ultima volta che lo vedevo. Sperai ancora che desse l mio nome ad una sua eventuale figlia. Non avevo il coraggio di chiederglielo. Ed ecco che il nostro destino si compì. Perché, ad un certo punto, sentimmo la porta aprirsi, e sobbalzammo entrambi, presi di sorpresa. Mi sciolsi dal suo abbraccio, e guardai indietro. Chi era che ci disturbava? Un Guaritore? Junielle o Max? uno dei piccoli? Amarto? Oppure Akita si era riuscita a liberare dalle presenze inquietanti, sottoforma di Guaritori preoccupati, che la costringevano a letto? Niente di tutto quello. Il mio destino era arrivato, sotto strane forme. Fissai, sorpresa, la figura di un giovanissimo elfo, probabilmente un aiutante, o un Tirocinante, dai capelli ricci e castani, sparati in tutte le direzioni, e dagli occhi scuri. Lui mi guardò con un certo timore, poi si schiarì la voce. “Lsyn Amarto?”. Domandò, con una voce giovanile e neutra, venata di strana soddisfazione. Capii in un lampo. Il mio cuore saltò di un battito, e, istantaneamente, sentii il mio stomaco contrarsi. Ecco. Mi stavano chiamando. Dovevo rimanere tranquilla. Feci un gran respiro, per non agitare Tijorn, e parlai con voce casuale, dolce ed indifferente. Ma dentro ribollivo. Rimpianto, paura, anche rabbia, senso di ribellione, senso di dovere. Dovevo morire per i miei sbagli. Ma era così tremendamente ingiusto. Pazienza. Sarei morta per una buona causa, almeno. Potevo mentire. Dire di non conoscerla. Magari non mi aveva riconosciuta. Invece non feci nulla di tutto quello. “sono io”. Dissi, con voce ferma, senza il minimo tremolio, e guardai di sottecchi Tijorn. Anche lui fissava il ragazzino, e sembrava più incuriosito che altro. Nessun sospetto. Ottimo. Il tipetto sorrise, soddisfatto. “potete uscire un momento? Abbiamo bisogno un momento di voi”. Ecco. Ora sarei stata incatenata, uccisa seduta stante, picchiata. Strinsi le labbra, e mi voltai verso mio fratello. Sentivo già le mie campane a morto. Fissai, per l’ultima volta, i suoi magnifici occhi grigi, e sperai che la prossima Lsyn li ereditasse. Erano troppo belli per andare perduti. Ci guardammo per un attimo, ed io sorrisi. Un sorriso quanto mai falso. “aspettami che torno subito”. Mentii, con voce rapida, incolore. Povero Tijorn. Non mi avrebbe mai più vista. Né io avrei più visto lui. Sentii un moto di affetto verso di lui. Gli volevo bene. Lo adoravo. Un sogghigno stese il volto sereno di mio fratello, il mio dolce stupidone. Non aveva intuito nulla. Sperai che non la prendesse troppo a male, quando avrebbe saputo della mia fine. Lo speravo ardentemente. Non avrebbe nemmeno avuto qualcosa su cui piangere, un mio ricordo, le mie ceneri, nulla. Sarei stata gettata in una fossa comune. Un grosso peccato. Ma non importava. Nono quando stavo per perdere i miei amati affetti. Dovevo essere forte. Fortissima. Sospirai, e sorrisi, un sorriso falso. Avrei voluto piangere, dimenarmi, urlare. Ma non potevo. “secondo te, Lsyn, dove posso andare?”. Mugugnò, con un sorrisone sul volto. Gli invidiai la sua felicità, ma fu solo un attimo. Fui felice, invece, per lui. La sua clessidra si era riempita: lui viveva nell’alba. Trasformai la smorfia che stava per nascere in un sorriso. Un sorriso falsissimo. Gli volevo bene. Non l’avrei mai finito di ripetere. Lascialo era un dolore troppo acuto, come se mi stessero recidendo il cuore. Orribile, doverlo lasciare, proprio dopo averlo ritrovato per sempre. “ti voglio bene, stupidone”. Ripetei, trattenendo a stento le lacrime. E poi l’abbracciai, permettendomi di fare una cosa che non facevo dall’infanzia, una cosa che mi aveva sempre imbarazzata, non so nemmeno io il perché. Lo baciai su una guancia, rapidamente, abbracciandolo forte forte per un attimo, e poi mi staccai, girandomi. Non l’avrei mai più visto. Oh, povera me. Non avevo resistito. Sentivo le lacrime corrermi sul volto, copiose. Non era giusto morire. Non quando avevo trovato la felicità. Raggiunsi in un attimo il giovane. Lui si fece da parte. Era molto, molto più alto di me. Dannazione. Non ce n’era mai uno da guardare dall’alto. D’improvviso, lontana dall’influenza benefica di mio fratello, cominciai a tremare. Sentii freddo, ed un malessere diffuso. Il nervosismo stava aumentando. In fondo, la mia vita era alla fine. Sbuffai, e guardai quello che mi aveva chiamata. Lui ricambiò il mio sguardo, incuriosito, senza ostilità. Poi chiuse la porta. Staccandomi per sempre da Tijorn, recidendo con lui ogni legame. No! Il mio fratellino! Scoppiai in singhiozzi senza nemmeno accorgermene. Perché non potevo vivere serena, con lui e gli altri? Volevo scherzare con Akita e Junielle, volevo punzecchiare Tijorn, parlare con Amarto come ai vecchi tempi. Giocare con i piccoli. Tenere in braccio il mio piccolo nipotino. Tutte cose che non avrei mai più potuto fare. Ero già morta, in un certo senso. Non importava quando mi avessero uccisa davvero. Avevo sprecato la mia vita per futilità. Ed ora ne pagavo il prezzo, pagavo il prezzo della mia supponenza. “è inutile fare questi piagnistei, Spia”. Disse una voce, profondissima e calma, venata di disprezzo. Una voce sconosciuta che mi fece sobbalzare, e girarmi verso la sua fonte. Al dolore si sostituì la paura. Erano quelle le mie guardie, coloro che mi avrebbero condotta al luogo del massacro? Perfetto, davvero perfetto. Perchè ero sovrastata da due giganti scuri. Uno era l’elfo che mi aveva salvata, il gigante, il bestione, vestito di abiti rossi, l’aria indifferente, con in mano delle corde dall’aria malefica. L’altro era, in un certo senso, più terrificante. Se il primo era scuro di pelle, un caldo e compatto color legno, quest’ultimo individuo lo era ancora di più. Un colore impossibile per un elfo, di un nero scurissimo, intenso oltre ogni dire, una pozza di oscurità. Eppure era un elfo quanto il suo compare. Strano. I colori estremi, bianchissimo e scurissimo, non erano tipici degli elfi, per niente. Sono rarissimi. Tremai. Non sembrava una creatura molto gentile, raccomandabile e disponibile. Un duro, sotto tutti gli aspetti. Aveva un’aria minacciosa, benché fosse molto meno muscoloso del compare, anche se più alto. Superava i due metri. Un gigante, che ai miei occhi appariva ancora più grande. Ero una nana, nei loro confronti. Non che non lo fossi normalmente, intendiamoci. Agli occhi di un umano potevo anche sembrare normale, forse solo un po’ piccina, ma per un elfo ero indiscutibilmente fuori dalla norma, malcresciuta. In pratica, una nana. Qualcuno aveva insinuato che fosse un difetto di crescita. Beh…senz’altro non era colpa mia, in ogni caso. Esilarante. Eravamo tutti fuori dagli schemi. Ero troppo spaventata per ridere della cosa. Proseguii nell’esame dell’elfo che aveva parlato. I capelli erano neri anch’essi, lunghi fino a metà schiena, ed acconciati in quelle che mi sembravano minuscole treccine, il che metteva in evidenza le orecchie a punta tipiche della nostra razza. Aveva dei lineamenti gentili, con un naso forse un po’ troppo affilato, ed enormi occhi obliqui. Questi ultimi mi sconvolsero, ed indietreggiai senza accorgermene. Il colore! Che colore era? Giallo. Posso solo descriverlo così. Era il colore del sole, il colore degli occhi degli Insat. Oro. Occhi stranissimi, innaturali come la pelle. Non avevo mai visto un elfo con quei toni fantastici addosso. Per il resto, era piuttosto normale. Era vestito di semplici abiti azzurro chiaro, ed al collo, cosa che non mi sfuggì, portava il ciondolo rosso, a differenza del compare, che pure era un Celestiale. Mi parve strano. Cos’era che li differenziava? Cosa aveva, il bestione, in meno o in più dell’altro gigante? Proprio, non ne avevo la minima idea. Spaventata, li guardai, stavo ancora piangendo, e mi morsi le labbra per non singhiozzare. Stavo malissimo. “Benagi, forse sarebbe meglio legarla…”. Disse il secondo, quello con il ciondolo, parlando al bestione. Lui annuì, stringendo le labbra. Socchiusi gli occhi, e sperai che non mi facessero troppo male. “dove stiamo andando?”. Domandai, con una voce piccola, e timidissima. Entrambi mi fulminano con lo sguardo. “la nostra venerabile Nemys vuole vederti, bastarda”. Disse l’elfo chiamato Benagi, con una smorfia di sufficienza, mentre mi legava. Mi odiava, e molto. Si vedeva, anche a distanza. “dice che deve parlarti. Perciò verrai con noi”. Accidenti. Nemys in persona voleva parlarmi! Cosa avevo fatto di così grave? Cosa c’era, di così importante, da rivelarmi? Previdi, non so perché, una morte veloce e dolorosa. Lo sapevo. Lei avrebbe voluto sapere il perché io avevo fatto del male ad Isnark. Chissà se era guarito, chissà. E mi avrebbe torturata, solo per pagare il fio. D’accordo. Se non fossi stata così preparata a morire, credo che mi sarei suicidata, seduta stante. Il problema era solo che mi avevano preso la spada, e non sapevo dove fosse. Un gran peccato. Una volta legate a dovere le mani dietro la schiena, ci muovemmo verso l’esterno del Lazzaretto, io nascosta tra i due elfi, invisibile di fronte alla loro incredibile mole. Il secondo, quello di cui non conoscevo il nome, zoppicava vistosamente. Si portava dietro la gamba destra, quasi inerte, e mi stupii non si aiutasse con un bastone. Così, uscendo dal Lazzaretto per la stessa porta della mia entrata, ci mescolammo senza essere notati alla gente che entrava in Kyradon, la città sacra. Come ogni Lazzaretto, anche questo era fuori le mura, in territorio neutro. Fui malamente portata in città, trascinata di malagrazia. Entrando nella prima cerchia, ci avviammo verso l’interno, chissà dove.

Kyradon è una città strana. Costruita in una pianura, è geometrica fino all’esaurimento, è fatta interamente, all’esterno di marmo bianco, o intonaco dello stesso colore. È tutto bianco. Case bianche, anche i palazzi dei poveri, anche i negozi, strade grigiastre. Nei vicoli stretti si sentiva un persistente e gradevolissimo odore di fiori. Ed i fiori erano dappertutto, nei balconi in ferro battuto dei ricchi, venduti per le strade, fiori di ogni genere, fiori di stagione, fiori provenienti dalle regioni più meridionali e temperate, o fiori invernali e gracili, di zona. Una città piena, pienissima, di fiori. Il profumo inebriava. Trassi un gran respiro dell’aroma concentrato e piacevole. Era forse l’unica cosa che mi rimaneva da fare. Osservai, interessata, la vita nella città. Tutto si svolgeva con una placida calma, mista ad una vitalità solenne. Molte persone che intravidi sorridevano, ed erano ben nutrite, anche tra i poveri, nonostante fossimo in tempo di guerra. È una città molto bella e pulita, costruita sull’unica collinetta presente nella pianura, un pendio dolce e erboso, ed è una città di media grandezza, secondo i modelli degli accampamenti Insathi. Tre cerchi di mura: nel più esterno, mercanti di basso rango, poveri, piccoli borghesi, eccetera, nel secondo i ricchi, nel terzo solo i sacerdoti, o il sovrano. Ed infatti la leggenda vuole che Kyradon  sia nata da un  elfo nomade, che viveva con una tribù. È una città sacra. Milioni, milioni di pellegrini vengono a visitare i suoi templi, di chissà quale culto, a me sinceramente sconosciuto. In primavera ed in estate la percentuale di stranieri supera addirittura gli abitanti. È quasi assurdo. Ed infatti la gente sciamava., gente di ogni razza, ma principalmente elfi. Ci dovevamo fare spazio a gomitate. Era una fortuna avere due tali giganti al mio fianco. Noi, camminando di buona lena, le mie guardie che mi nascondevano, ci dirigemmo verso la cima della piccola collina. Tremai di terrore. Sapevo cosa c’era, lì. Il palazzo, ed il tempio maggiore. Consacrato al dio del sole, e della luce, era la costruzione più importante di Kyradon, dove Nemys aveva istituito il suo rito. Un imponente edificio rettangolare di pietra bianca, soprelevato leggermente da terra grazie a tre bassi scalini, circondato da colonne bianche, dritte, dalle scanalature profonde, dal semplice capitello piatto, addossato ad un altro edificio in pietra chiara, forse il castello, il palazzo. Quello che era. Il tetto era di tegole dorate, che riflettevano la luce del sole in mille barbagli fantastici, l’unica nota di colore presente. Poco sotto di esso, sulla struttura tra i capitelli e il tetto stesso, correva un fregio strano. Era troppo in alto per vederlo bene, ma notai, chiaramente, che lo stile non assomigliava per niente ai templi presenti a Galinne. Il disegno di quest’ultima era continuo, colorato, e tutto era molto meno sobrio, ricco di oro ed orpelli vari. Lì mi pareva di notare, tra un disegno e l’altro, tre scanalature, come quelle delle colonne, che assomigliavano ai graffi paralleli di una belva feroce. “muoviti, maledetta”. Bisbigliò il tipo di nome Benagi, stringendo un po’ la corda. “ci perderemo il rito. Non vorrei essere nei tuoi panni, dopo!”. Sospirai di nuovo, e, docilmente, presi a trotterellare dietro di loro. Non era giusto. Avevano le gambe troppo lunghe. Continuammo a camminare. Dopo quelle che sembrarono ore, ci avvicinammo ulteriormente. Tutto quel biancore quasi dava fastidio agli occhi. L’ dentro c’era l’essenza pura della luce. Notai, mentre incespicavo, una cosa. La strada, man mano che andavamo avanti, si faceva deserta. Erano tutti all’interno, forse, o forse quel livello era solo per i sacerdoti, che erano dentro. Ad un certo punto, mentre venivo trascinata letteralmente dai due giganti verso la costruzione, sentii un rumore. Un canto. All’interno del tempio rettangolare, in ciò che c’era dentro, stavano cantando a squarciagola. Era molto bello, ed armonioso. Non riuscii ad intendere le parole, però, quel suono mi riempì di speranza. Sembrava volermi consolare, voler dire che tutto sarebbe andato bene, e che nessuno era lì per farmi del male. Mi piacque, e mi sentii stranamente rinfrancata. Sembrava parlare alle corde del mio cuore. Erano voci femminili, che cantavano in un ritmo solenne, pieno di gioia e di fiducia, con slancio notevole. Era un ringraziamento per la luce, per la vita, per la bellezza della stessa esistenza, un canto di perdono. Era un peccato non essere arrivati in tempo per ascoltarlo tutto. Sospirai, e mi affrettai assieme ai due. Avevo dovuto correre per tutto il tempo, e cominciavo a sentirmi stanca. Proprio mentre mettevamo piede sul primo scalino, il bellissimo canto s’interruppe. Mi sembrò di precipitare dalle nuvole. Il mio sole si era improvvisamente eclissato, ed ora sentivo di nuovo freddo. Stavano sacrificando qualcosa? E forse, ebbi un guizzo di notevole stupidità, la vittima sarei stata io? Stavano aspettando me? Tremai, e quasi caddi. Fui fermata solo dall’elfo dagli occhi d’oro, che mi mantenne un braccio, e mi trascinò di nuovo in piedi. “dovremmo affrettarci”. Mormorò lui, inquieto, guardando il compare. Lui annuì. Avvertii, non so perché, improvvisamente, senza motivo alcuno, una brutta, dolorosissima fitta allo stomaco. Sentii una bizzarra sensazione, come se dovessi andare avanti, come se ci fosse qualcosa lì, ad aspettarmi. Mi sentii, per un attimo, a casa. A casa? Ma se stavo per morire? Cosa andavo a pensare? Eppure, era così. Io dovevo stare lì. Era il posto giusto per me. Strano. Anzi: era inquietante. Molto inquietante. Finalmente, attraversando una zona d’ombra, tra le mura ed il vero e proprio edificio, entrammo, attraverso una porta di bronzo sorvegliata da due Celestiali armati di lance ai lati, ora aperta. Mi trovai davanti uno spettacolo incredibile. Per un attimo, i due si fermarono, per farmi ammirare. Ci trovavamo in una costruzione rettangolare, lunga e stretta, un po’ buia, perché senza finestre, ma illuminata da molte candele, appoggiate a candelieri attaccati alle pareti, circa all’altezza dei due giganti. Stranamente, non c’era fumo, né odore. Presi nota di quelle informazioni con una strana curiosità, e dimenticai per un attimo la mia situazione drammatica. Non avevo mai messo piede in un tempio, in fondo. Continuai ad osservare. Ai lati del rettangolo c’erano delle panche di legno, piene di persone, molte delle quali a capo chino, tutte in piedi, ora. Nessuno, tuttavia, sembrò notarmi, notare il nostro arrivo. Eravamo stati molto silenziosi, e la loro attenzione era concentrata su qualcos’altro. Esse erano separate dal piccolo corridoi che si creava tra le due ali da delle transenne mobili, sempre in legno scuro. Addossato alla parete, un altro piccolo corridoio, del tutto vuoto. Le persone, di diversa estrazione sciale, erano molto educate. Non volava una mosca. Ad un certo punto, sentii uno scampanellio. Un rumore strano, come di campanelle. Poi un altro scampanellio. E poi un altro, in successione. Io, che ero stata attirata dai disegni strani dei candelieri, sobbalzai, e guardai, finalmente, dove non volevo guardare, cioè all’altra estremità del rettangolo. E ci rimasi di sasso. Non potevo crederci. Su una piattaforma soprelevata, sempre di tre gradini, con avanti quattro soldati, due in piedi sul pavimento, due che si appoggiavano al primo scalino, tutti armati della strana lancia a forma di cuneo, in basso quelle che mi parevano sacerdoti e sacerdotesse, dodici in tutto, vestiti di tuniche del bianco più accecante, una persona vestita di color cenere inginocchiata ai suoi piedi, c’era Nemys. Deglutii, e mi sentii molto male. Di nuovo, lo stomaco si contrasse, più forte, e percepii la stranissima sensazione di essere…dove dovevo essere. Strano, perché lei era mia nemica. Eccola lì. Colei che mi avrebbe cambiato il futuro. Non mi sembrava una persona così inquietante, così cattiva. Era un’elfa molto delicata, di una bellezza luminosa, che sembrava sprizzare dolcezza e saggezza da tutti i pori. Era alta e magra, vestita di una tunica candida, orlata di oro, con, alla base, ghirigori dorati. Potevo notare i suoi capelli, di un bianco accecante come tutto intorno a lei, un bianco naturale come quello di Isnark o Jalim, dai mille riflessi pastello. Non riuscivo a vedere bene i lineamenti, a quella distanza, ma mi pareva che lei fosse ad occhi chiusi, e che stesse sorridendo dolcemente. Ero stranamente attirata da quella figura solenne. Non sapevo perché, né come mai, ma, all’improvviso, tutti i timori nei suoi confronti furono cancellati. Mi sembrava una creatura mite, incapace di far del male a qualcuno. Era così dolce, così carina! Per un momento mi persi, beatamente, nella mia osservazione. Sembrava una creatura incredibilmente rassicurante. Un’elfa totalmente e completamente dedicata agli altri, al bene. Immacolata, pura come il suo abito, e la città in cui viveva. Non so come lo seppi, ma, istantaneamente, vedendola, anche dal punto lontano in cui ero, capii che non mi avrebbe mai, mai uccisa. Forse mi avrebbe processata, forse sarei stata incarcerata, ma non sarei morta. Sentii un flebile palpito di speranza, e, per un momento, dimenticai Tijorn, la sua immagine che mi tormentava. Continuammo, tutti e re, ad osservare il rito. I sacerdoti, ad un certo punto, fecero tintinnare delle campanelle d’argento che avevano in mano, uno alla volta. Dodici tintinnii, dodici scampanellii musicali. Era una musica bellissima, che rinfrancava il cuore quasi quanto il canto. Era così la religione? Questo provava chi credeva, quel senso di pienezza, di dolcezza? Chi lo sa. Non ne ho la minima idea. Fatto sta che i miei due carcerieri mi lasciarono vedere tutto, fino ad un certo punto. Seguii ogni momento del rito, che non conoscevo, fino a quando non fui strappata brutalmente dalla mia contemplazione estatica, trascinata verso l’ignoto. Guardai bene la persona inginocchiata di fonte a Nemys. Sembrava poco più che un ragazzino, un umano, un elfo, non so, dai colori anonimi ed intermedi. Non aveva nulla di particolare. Chissà perché era lì. Il rito continuò. Di nuovo la serie di tintinnii, più veloce, stavolta. Nemys aprì le braccia, sorridendo di più. La folla, come un solo essere, ondeggiò, mormorando una preghiera inintelligibile, come un sol uomo. Di nuovo, lo scampanellio, sempre più veloce. Una piccola ruga si andò a formare sulla fronte liscia della sovrana del Matriarcato. Da quel momento in poi, quasi fosse stato un segnale, i sacerdoti fecero tintinnare le loro campanelle sempre più veloce, fino a quando non si fusero in un solo suono. La folla continuò a pregare, le voci che si fondevano in una sola, profonda, solenne, il suono di un corno da guerra. Era ipnotico. Ero incredula. Non avevo mai visto uno spettacolo così grandioso. Sentii girarmi la testa. Era tutto molto, molto strano. Lentamente, la sovrana andò a posare le sue mani, affusolate e lunghe, eleganti, sulla testa della persona, sempre ad occhi chiusi, con fare concentrato. Ma in che festività eravamo capitati? Forse…forse la designazione di un nuovo soldato, un nuovo sacerdote? Non lo sapevo. Qualcosa di ben più misterioso. Qualcosa che avrei scoperto in futuro. Sobbalzai, quando sentii, inconfondibile, l’addensarsi di un potere magico, una magia molto potente. Di nuovo lo scampanellio, ora frenetico, ma comunque armonioso. Mi tesi quando vidi una strana luce circondare la testa del supplice vestito di cenere, che rimase immobile. Cosa stava succedendo? Cos’era, quello? Non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Era un tipo di magia che non riuscivo ad identificare in nessun modo. Era stranissima. Prima che il rito finisse, mi sentii tirare. Mi girai, furiosa, dimenticando per un momento i due giganti che mi tenevano. Ehi! Perché non mi facevano vedere un altro po’? Ero curiosa, dannazione! Che mi lascino fare qualcosa, prima di morire! Niente. Fui condotta, prima di riuscire a protestare, al silenzio da un’occhiata intimidatoria dell’elfo senza nome. D’accordo…d’accordo. Mi arrendo. Sono tutta vostra. Avevo visto la cosa più bella del mondo. Ora potevo morire. Mi lasciai trascinare mollemente dai due, per il corridoio ai lati. Fino ad una porticina di legno. Scuro. Nessuno mi notò. Tutti erano troppo concentrati su quello che stava accadendo sulla piattaforma, troppo concentrati a pregare. Ero curiosa, ancora, di vedere cosa stava succedendo. Gli scampanelli continuavano, con un accenno festoso nella melodia. Mi misi in punta di piedi. Non riuscivo a guardare, attraverso tutte quelle test,e dannazione! Cercai di contorcermi, incuriosita ed estatica, per vedere meglio, ma non ci riuscii. Accolsi con delusione uno spintone dell’elfo chiamato Benagi, che mi fece segno di entrare attraverso la piccola porticina nera. Entrai, ancora legata, sola. La porta fu subito chiusa dietro di me, e tutti i rumori si smorzarono.  Sola. Finalmente. Se solo fossi stata libera di muovermi…tanto, lo stesso, ero chiusa. Ero in una camera piccina, scura, molto disordinata, ammobiliata solo da un divanetto, coperto di abiti e stole di ogni colore, una libreria stracolma, ed un tavolino con quattro sedie. Sul tavolino, una brocca di cristallo, piena d’acqua gelata fino all’orlo, e qualche bicchiere accanto. Deglutii. Lì dentro faceva caldo, ed io, dopo la passeggiata, cominciavo ad avere sete. Quella era una tortura. Doveva esserlo. Era estate, dannazione! Era una tentazione enorme. Ehi, ma…i due mostri non c’erano. Nemys nemmeno. Mi attraversò un’idea. Ero sola, no? Tutta sola. E, davanti a me, c’era un bel bicchiere di acqua fresca, pronto, che mi chiamava, ammiccando. Il difficile sarebbe stato liberarsi dalle corde. Pazienza. Potevo fare quello che volevo. Avevo i denti da usare, e la gambe libere. Mi guardai attorno, per essere sicura di non essere spiata. Cosa assurda, lo temevo. Temevo in qualche trucchetti da maga. Mi avvicinai, lentamente al tavolino. Poi, una volta lì, cercai di liberarmi dalle corde che mi tenevano prigioniera. Niente da fare. L’elfo che mi aveva legata sapeva davvero il fatto suo. Molto bene. Sospirai, rassegnata. Ero una condannata a morte. Perché mi tormentavano ancora, mettendomi una cosa ambita sotto il naso, senza poterla raggiungere. Perché? Sbuffai. Magari Benagi si era dimenticato di lasciarmi andare. Maledetto orso!  Mi allungai sul tavolino. Dovevo sembrare ridicola. Ah…cosa importava! Stavo morendo di sete. Arrivavo a stento al primo bicchiere. Aprii la bocca. Ora dovevo stare attenta, se non volevo riempirmi il muso di schegge di vetro. Delicatamente, con i denti e le labbra, cercai di portare il bicchiere da me. Non so quanto ci volle, per quel lavoro delicato. Solo so di essermi avvicinata lentamente al bicchiere vuoto, di averlo avvicinato con destrezza. Non so cosa intendessi fare, forse liberarmi con quello. Forse prendere la brocca con i denti. Non ne ho la minima idea. Mi allungai un altro po’. Cominciavo a sentire un vago senso d’oppressione. Ma volevo quell’acqua, accidenti! Era così bella, così invitante…. E non importava che il mio fosse un comportamento da infante. Non me ne importava un piffero. Ero in punto di morte. Potevo levarmi qualche sfizio, fosse anche stato quello di rubare l’acqua alla Sacerdotessa. Ha, ha, ha. Magari avrei rotto la brocca, dopo, solo per farle dispetto. Molto, idiota, lo so. Comunque, non ne ebbi mai occasione. Sentii delle voci provenire dietro la porticina nera, quella che si era richiusa dietro di me. “su, Benagi, Zipherias, aprite…voglio vederla”. Disse una voce musicale, dolcissima, rassicurante, che consolava da ogni male. Oh, no! Nemys! Sobbalzai, ed il bicchiere di cristallo mi sfuggì dal controllo. “no!”. Sussurrai, lasciandomi scappare il bicchiere, che cominciò a rotolare. Drammaticamente vicino al confine con il nulla, con l’aria. Avrebbe fatto un rumore infernale. E non avrei sopportato di fare una figura del genere, anche se prima ero pronta a farla. “maledizione…torna qui!”. Cercai anche di fare un salto. Ma senza mani non potevo fare nulla. Accidenti, accidenti! A nulla servirono i miei gemiti, e le mie suppliche. Il bicchiere cadde, birichino, dal tavolo, e, come se fosse normalissimo, andò ad infrangersi a terra, con un rumore infernale, spaccandosi in mille pezzi. Nello stesso momento, la porta si aprì. Una figura si stagliò, esile ma solenne. Come un’infante sorpresa a rubare nella dispensa, mi misi dritta, mentre il cuore mi batteva forte. Prima avevo avuto una possibilità d’ingraziarmi la buona sovrana. Ora, con quello che avevo combinato, ogni possibilità era andata a farsi friggere. Ero spacciata. Volevo piangere, piangere per la mia stupidità. Mi morsi il labbro inferiore. Non ci avevo pensato, come sempre. Evitai, così, di fissare, accuratamente, il volto di Nemys, nonostante fossi curiosa. Che faccia aveva, questa famosa elfa? Che faccia aveva, la nemica di Lainay? Che faccia aveva davvero? Mi risparmiai, per un po’, il colpo al cuore che mi aspettava. Non volevo che lei interpretasse la mia curiosità per sfida. Così, fissai il mio sguardo sul pavimento. Ero imbarazzata, e capii, in un attimo, di essere arrossita. Sentii la porta chiudersi. Eccomi di fronte l’ennesimo ostacolo, l’ennesima nemica. Nessuno voleva la mia felicità. Era terribilmente triste. Quanto mi sbagliavo. “Lsyn…” bisbigliò la sovrana, con una strana voce commossa. Non osai alzare lo sguardo. Poteva trattarsi di un trucco. “Lsyn…”. Disse solo quello, poi ci fu una pausa. Ehm…si, le avevo rotto un bicchiere. E le avevo ferito il compagno. Poteva odiarmi quanto voleva. Non successe esattamente così. Rumore di passi, di corsa. E poi non ci fu più spazio per nulla. Sobbalzando dalla sorpresa, incredula, sentii, dopo quei passi frettolosi, qualcuno stringermi a sé spasmodicamente, una stretta forte, spezza ossa. Eh? Era Nemys, quella?  Mi sentii, per un attimo, soffocare. Cosa? Mi stava… Nemys mi stava… abbracciando? Eh? Qualcosa mi sfuggiva. Che diavolo stava succedendo? Nemys, la mia nemica, che mi doveva odiare più di ogni altra cosa al mondo, mi abbracciava? Mi stava forse davvero soffocando? Oppure c’era qualcos’altro sotto? Sapevo solo una cosa, in qual momento. Mi stava facendo male, stringendo il braccio nel punto in cui mi ero ferita. Dannazione. Ma chi era, quella? Si poteva sapere cosa accidenti stava succedendo? Ero impazzita io o il mondo? O forse avevamo tutti imparato a camminare a testa in giù, ed io non me n’ero accorta?

 

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Capitolo 73
*** Un bicchiere è sempre un bicchiere. ***


Ancora tra le braccia della pallida elfa, immersa in quei lisci capelli bianchi che sapevano di fiori e miele, un distillato stesso dell’essenza della città, provai di nuovo quella bizzarra sensazione

Ancora tra le braccia della pallida elfa, immersa in quei lisci capelli bianchi che sapevano di fiori e miele, un distillato stesso dell’essenza della città, provai di nuovo quella bizzarra sensazione. Non so come descriverlo altrimenti, ma sentii il mio cuore. Quasi come se non lo avessi mai avuto finora, quasi come se lo avessi dato per scontato. Era una strana sensazione, di calore, di completezza, una sensazione a cui non saprei dare un nome. Quasi come se tutti i miei tormenti fossero spazzati via, tutti di un colpo. Come se fossi intera, integra, come se non avessi più il viso per metà rovinato, e cicatrici a devastarmi il corpo, a deturparmi del tutto collo e schiena. Come se tutte le umiliazioni, la stanchezza, il dolore da me provato non esistesse più. Era strano, ma non mi sentivo inquieta. Per niente. Non andai a pensare che quell’abbraccio poteva essere solo un trucco, che ero ancora legata, e che Nemys mi aveva completamente in suo potere. Che era la compagna di Isnark, che avevo quasi ucciso. Che era la proprietaria del bicchiere che avevo rotto, che chissà quanto costava. Una cosa del genere, a Galinne, mi sarebbe costata un paio di scudisciate, di sicuro, in caso che Lainay fosse di buonumore, beninteso. No: non andai a pensare quelle cose cattive, su di lei. Sapevo che era arrabbiata con me, perché ero stata una maledetta sciocca, ma, a primo acchito, non so come facessi a dirlo, non diedi per scontato la mia morte. Nemys mi ricordava in maniera netta la Matriarca, la sua dolcezza priva di quella cupa fierezza di razza. Sembrava quasi più piccola, portava in sé qualcosa di apertamente infantile, candido e saggio allo stesso tempo. Lì, tra quelle braccia estranee, in quella dolce stretta, mi sentii rassicurata, non so perché. Era quella la sovrana di Kyradon, quella che gli elfi del Regno disprezzavano tanto? Quell’insieme di fiori e luce, l’incarnazione vivente della sua città sacra? Era quello il faro opposto a Lainay, la sua più irriducibile nemica, che, misteriosamente, si era alleata con lei? Era lei quella che chiamavano la Rinnegata? E cosa aveva, di rinnegata? Non mi sembrava una creatura che sguazzava nell’odio, nel rimorso, nel dolore, nella solitudine, una senza patria, picchiata come un cane randagio da entrambi gli schieramenti, una persone condannata a vagare per sempre in un grigio limbo. Non era legata mani e piedi alle pastoie del passato. No. Quella ero io. La rinnegata ero io. Forse era quello che aveva voluto dire Lainay. Molto filosofico. Bah…oppure era pazza. Un’ipotesi che mi tentava terribilmente. Eppure, insieme a quell’ondata di calore, percepii un’insieme di sentimenti che mi fece sentire uno schifo, un essere d’infimo ordine. Io… io avevo le mani lorde di sangue innocente. Avevo ucciso il mio amato. Spinto mio fratello ad ammazzare, facendo tornare i suoi incubi, ciò che lui aveva fatto di tutto per dimenticare, rimestando il fondo oscuro della sua anima, che poco gli piaceva. Agito sempre e comunque come se non avessi una mente. I piccoli erano stati picchiati solo perché io ero egoista, tanto egoista. Il mio stupidone preferito era stato ferito gravemente solo per la mia disattenzione. Ero impura, una macchia di fango su un giglio, inadatta a quella luce. Io non dovevo stare lì! Quello non era il mio posto, quello era il posto per persone con la coscienza pulita e lo sguardo sereno, persone a cui non sfuggiva la vera essenza dell’amore. Io non potevo stare lì: avevo servito l’oscurità, ero l’Ombra. Ecco, era una reietta, e quello mi stava bene, perché lo meritavo. Ed ora ecco. Io, la più indegna di tutti, odiosa ed odiata, indegna perfino di stare con i proprio cari, con la gente che amava, per paura di contaminarli con la propria stupidità, l’essenza stessa dell’oscurità inetta, venivo accolta dalla luce come un’amica. Una sorella. Cinque giorni di sguardi storti, di persone che alla mensa del Lazzaretto si zittivano quando io sgattaiolavo lì per prendere qualcosa da portare ai piccoli, una chicca, o un po’ di cibo per Akita, di elfi che borbottavano ingiurie al mio passaggio, di uno dei cuochi che mi rifilava gli scarti di tutto, cinque giorni di sopportazione stoica, in cui non avevo detto una parola, in cui mi ero dedicata solo a curare i miei cari, senza mostrare una briciola di dolore, come se fossi la persona più soddisfatta e felice al mondo, facendo finta di fregarmi completamente di quello che dicevano gli altri, mentre per me ogni manifestazione d’odio era una stoccata, perché era quello che sapevo su di me che diveniva visibile, tangibile, ebbero la meglio. Fu forse perché, in presenza di quell’elfa che, a ben vedere, avrei dovuto odiare, che avrei dovuto addirittura temere quanto e più di Lainay, quella creatura così dolce che avevo disprezzato e dileggiato così a lungo, mi sentii stranamente al sicuro, libera da ogni vincolo, o forse fu perché lei era la prima persona da un bel po’ a non trattarmi come se fossi invisibile, come facevano i Guaritori, che parlavano solo ed esclusivamente di affari concernenti il loro mestiere, senza fare preferenze, oppure ad aver bisogno di me, o a non odiarmi, a non guardarmi male e cercare di far di tutto per ferirmi, non lo so. So solo che, ad un certo punto, sentii pizzicarmi gli angoli degli occhi, ed un persistente groppo in gola. E tutto quello successe in un attimo, il tempo di quel lungo abbraccio. Prima che Nemys mi lasciasse, infatti, ero già scoppiata in singhiozzi come non facevo da tempo, o forse come non mi ero mai permessa di fare. Non avevo mai permesso a me stessa di superare un certo limite in presenza degli altri, per la mia stessa fierezza che m’impediva di lasciarmi andare. Anche con Tijorn mi ero imposta un limite, anche con Chekaril, benché sorpassassi quel limite spesso e volentieri. Non avevo mai pianto così forte, quei singhiozzi dolorosi e secchi, quasi senza lacrime, che mi sarebbero tanto divenuti familiare in un seguito non così remoto. Un pianto di dolore, di sollievo, di rimorso, non lo so. Stordita dalle lacrime, mi sentii improvvisamente trascinare, una stretta dolce. Mi ritrovai seduta sul divanetto senza sapere come ci fossi arrivata, libera ormai da quell’abbracci, ancora gli occhi inondati di lacrime. Come potevo dire a Nemys che mi dispiaceva? Come potevo dirlo, che ero cambiata? Come potevo dirlo, come potevo confessare che era stata sempre e comunque colpa mia? Mi dispiaceva, di tutto. Di averla disprezzata, di averla dileggiata, io, la bestia più bestia di tutte. Di averle ferito il compagno, io, che ero stata così scottata dall’amore. Di essermi messa contro di lei. E, si, anche di averle rotto il bicchiere. Di nuovo, qualcuno mi abbracciò, rapidamente, e mi sentii, subito dopo, le mani libere. Fu una bella sensazione, non sentirsi più tirare all’indietro, non sentire più quel lieve dolore ad ogni movimento avventato. Tirai su con il naso, e, la prima cosa che feci con la manica, fu quella di asciugarmi gli occhi. Ma non ci riuscivo. Le lacrime erano troppe. Tutte le lacrime che avevo conservato per quel momento stavano uscendo fuori, imperiosamente, ed io non potevo farci nulla. Rimasi tutto il tempo a testa bassa, il petto squassato dai singhiozzi, al punto che mi faceva un male tremendo, come se volesse scoppiare, esplodere, senza potermi controllare. E non ne provai vergogna. Mi sembrò così giusto, così dolorosamente bello. Non trovavo nulla di riprovevole nel piangere di fronte ad una che avevo considerato una nemica, anzi. Oh, Nemys…come mi dispiaceva, di tutto. Ero stata io. Io e solo io, che non avevo fatto altro, nella mia esistenza, disturbare le vite altrui, distruggerle, io, che non a torto ero odiata da molti, sopportata da pochissimi, amata, credo, solo da un paio di creature. Ed ecco che veniva quella sovrana, amata, venerata e perfetta, l’antitesi della mia esistenza, e mi abbracciava. Sentii, d’improvviso, mentre ancora piangevo, squarciata da un dolore tanto intenso quanto liberatorio, qualcuno sedersi accanto a me, e mettermi qualcosa di duro e freddo in mano. Lo guardai, di sfuggita, e quasi risi. Un bicchiere colmo d’acqua. Deglutii. Nemys era così maledettamente gentile, con me. Un tesoro. Ed io, che avevo fatto di tutto per ostacolarla, era la beneficiaria di amore, da parte di una persona che avrebbe dovuto prendermi a calci, e sarebbe dovuta essere la prima a farlo, perché io le avevo causato danni oltre ogni dire. Avevo, incosciente del suo amore, preso il bicchiere e rotto la brocca, in senso metaforico, per puro divertimento, solo perché me l’aveva ordinato una parte di me che aveva smesso di esistere per sempre. Ero stata punita severamente di questo, come una monella. Strinsi forte l bicchiere freddo, e non bevvi. Respirai, invece, un paio di volte, profondamente, nel tentativo inutile di calmarmi. Non feci altro che prepararmi ad una nuova crisi di pianto. Lei mi lasciò sfogare, in silenzio, in un silenzio pacifico. Non si sentiva una mosca volare, solo i miei singulti. Dopo un po’, senza preavviso, ancora la vista offuscata dalle lacrime, sentii una mano posarsi sulla mia libera, leggera e fragile, quasi come le ali di una farfalla. Sobbalzai, e quasi mi ritrassi. Lei non tolse la mano, e m’impedì di ritirarla. “smetti di piangere, piccolo ragnetto…”. Mormorò, con quella voce melodiosa, addolorata, così assurdamente familiare, come se la conoscessi da una vita, come se fosse la mia più cara amica, la sorella persa da una vita. L’altra parte di me stessa. C’era qualcosa che mi sfuggiva. Un ricordo, che fluiva via come un ruscello. Sobbalzai. Quell’appellativo mi diceva qualcosa. Piccolo ragnetto. Piccolo ragnetto. Piccolo ragnetto? Mi sentii, istantaneamente, avvolgere dal gelo più acuto. Provai un senso d’irrealtà incombente.  Nemys aveva usato un soprannome da me ben conosciuto, e sapendo di usarlo. Come conosceva quelle cose? Come? Perché quell’appellativo, quel nomignolo con cui lei mi chiamò sempre, mi era familiare, fin troppo. Da piccola Amarto mi chiamava così, affettuosamente, ragnetto, piccolo ragnetto, perché già allora ero minuscola, ad agilissima, capace di cacciarmi ovunque per nascondermi. E lui ripeteva il mio soprannome come una cantilena, una ninnananna, quando non stavo bene, oppure facevo brutti sogni. La voce profonda del Maestro mi tranquillizzava sempre, quando lui mi prometteva che sarebbe stato sempre lì, per me, fino a quando non sarei stata meglio, ed io mi addormentavo, irresistibilmente. Era un ricordo vago, nebuloso, che mi riempiva di nostalgia. La mia infanzia era stata così assurdamente felice, se si escludevano le giornate in cui Amarto era praticamente sbronzo, quando dovevamo fuggire nella foresta, perché l’atmosfera diveniva pesante, così dannatamente piene di luce. Così irrecuperabili. Fu forse quel nomignolo a farmi smettere di piangere, o forse già mi stavo tranquillizzando da un po’. Però era strano. Troppo strano. Quel nome non era stato usato senza cognizione di causa. “non piangere su, è tutto a posto, tutto finito…”. Come volevo crederle. Come. Avrei fatto di tutto, pur di crederle, credere a quella creatura che sembrava leggermi nel pensiero, quell’elfa che ancora non avevo visto in viso. Cosa strana, vero? Non avevo mai visto Nemys. Solo da lontano, o attraverso la cortina umida delle lacrime. Pian piano, riguadagnai il controllo di me stessa. I singhiozzi si fecero più radi, le lacrime smisero di uscire. Mi sentivo triste, fragile, stanchissima. Ma un grosso fardello sembrava essersi scaricato dalle mie spalle, qualcuno lo aveva tolto. Mi sembrò strano, il fidarsi così completamente di una sconosciuta. Deglutii, ed arrossi leggermente. Mi ero lasciata andare, con lei, come non mi lasciavo andare con nessuno. Nemmeno Tijorn, mai, mi aveva visto piangere a quel modo di mia spontanea volontà. Mi aveva vista triste, dolorante, impazzita, sconvolta, ma non aveva mai avuto il permesso di toccarmi, o provare a consolarmi, in quei momenti delicati. Invece no. Permisi a quella che doveva essere la mia nemica numero due di abbracciarmi di nuovo, delicatamente. Ne avevo bisogno. E come sentivo atroce, il senso di colpa nei suoi confronti! Avrei voluto strisciare al suo cospetto, ed avrei fatto di tutto pur di farmi perdonare. Mi schiarii la gola, e, nello stesso momento, mi resi conto di avere ancora il bicchiere pieno in mano. Era buffo. Quella cosa che prima, quando credevo di star per morire, avevo desiderato così tanto, era stata accantonata non appena l’avevo avuta, con il permesso. Ridacchiai, e, senza ancora guardare Nemys, mi scolai tutto d’un fiato l’acqua, piacevolmente fresca. Scese giù che era una meraviglia: non c’è niente di meglio, dopo un pianto disperato, quando fa caldo, di un bel bicchiere freddo per calmarsi. Non so perché evitai di fissare l’altra elfa in viso, non lo so. Rispetto, forse, o forse timore. In fondo, non sapevo ancora se sarei morta o meno. Quello ancora non lo sapevo. Poteva essere tutto un trucco. Non so perché, ma non ero portata a pensarlo. Era un po’ troppo drastico per quella dolce elfa, che mi sembrava così familiare. E poi, stranamente, non sentivo il bisogno di guardarla. Qualcosa mi diceva, qualcosa all’interno del mio animo, che non sapevo capire, che lei era sempre stata lì, con me, che io la conoscevo da sempre, non c’era bisogno di uno sguardo incuriosito. Non provavo curiosità: essa era mitigata da quel sentimento caldo di conoscenza, di completezza. Strano da parte mia, da sempre una ficcanaso nata. Ero proprio una Spia scaduta: mi fidavo del primo che passava, e non l’andavo ad osservare nemmeno, per notare nei suoi occhi una scintilla di cattiveria nei miei confronti! Ed invece non lo feci: rimanemmo di nuovo in silenzio, io a testa bassa, con il bicchiere in mano, lei che mi accarezzava il dorso dell’altra mano, quella rovinata, come se non avessimo nulla da dirci, come se avessimo esaurito ogni discorso, dopo anni ed anni di chiacchiere instancabili. Come se la nostra amicizia fosse al tal punto profonda, da far parlare la quiete. Eppure io la conoscevo solo da pochi istanti, e già mi sembrava di aver a che fare con lei da una vita intera. Ero così semplice da capire? O forse lo era lei? Sentii, ad un certo punto, la smania incredibile di parlare. Volevo scusarmi: scusarmi per tutto il male che le avevo recato. Mi schiarii così la voce. Il suono spezzò la pace, come una frustata. Aprii e chiusi, incerta sulle parole giuste, la bocca un paio odi volte, come un pesce, prima di parlare. C’era un grosso problema. Non me la sentivo di chiamarla con qualche appellativo onorifico, mia signora o venerabile. Non avevo intenzione di venerare e servire strisciando nessuno. Avevo trovato la mia dignità, e non volevo buttarla al miglior offerente. Lei avrebbe avuto a mia stima solo quando avrebbe dimostrato di essere davvero quello che sembrava. Non volevo un’altra Lainay, che mi aveva accolta, quando io ero appena entrata come apprendista, con mille e mille moine, e che mi aveva trattata per tuta la mia esistenza come una schiava. Tuttavia, non potevo nemmeno chiamarla Nemys, come se fosse un’amica.  Era ancora, per certi versi, una sconosciuta, benché, in un certo senso, sentissi di conoscerla già, ad un livello molto più profondo di me stessa. Non sapevo cosa fare. Optai per una scelta neutra. “io..”. esordii, per poi richiudermi di nuovo nel mio temporaneo mutismo. Oh, bene. Come spiegarle il tumulto stanco che si agitava in me? Come affermare la mia indipendenza, e, nello stesso tempo, la mia servitù? Come dirle di essere cambiata del tutto? Come dirle che imploravo di vivere ancora, e di essere perdonata, di essere amata? Perché io quello desideravo. La vita tranquilla con i miei cari. Una vita che, prima desiderio irrealizzabile, stava di nuovo timidamente rilucendo, come una candela che cova una scintilla al soffiare del vento, e, non appena esso si è arrestato, riprende a bruciare come se nulla fosse. Forse, dopo, sarei potuta tornare a far da aiuto al mio fratellino, fino a quando non si sarebbe ripreso del tutto. Avrei aiutato Akita, a far nascere e crescere il piccolino. L’avrei preso in braccio, coccolato, viziato. Avrei allevato Roxen e Chekaril, li avrei ubriacati d’amore, fino a farli guarire, risanare le ferite che da tanto si portavano dietro, avrei dato loro tutto quello che io non avevo avuto, o che avevo avuto al tempo stesso. E poco importava che sarei stata odiata da tutti. Non avevo in programma di uscire di casa. Magari, non appena notato che io non ero più l’Ombra, si sarebbero tutti tranquillizzati, ed avrebbero cominciato ad accettarmi. Nell’attesa che succedesse, comunque, prevedevo di dedicarmi completamente alla famiglia per un po’. La prospettiva non era per nulla malvagia. Ma dovevo farmi perdonare. Mi sarei volentieri messa in ginocchio su vetri rotti pur di non essere uccisa. Ancora, scelsi il male minore. In fondo,  le avevo rotto un bicchiere. Anche per quello ci volevo un perdono. Sperai capisse. Non me la sentivo di dire che mi sarei fatta tutto quello che avevo combinato al compagno, se solo lo avesse chiesto, solo per un perdono. “mi dispiace…ho rotto il bicchiere”. Quanti significati, quel bicchiere. Una colpa. Un perdono. Nemys rise, una risata dolcissima, infantile quasi, che mi rinfrancò lo spirito. Lei mi lasciò la mano, e mise la mano sulla testa, giocherellando con i miei capelli. La lasciai fare. Non mi sentivo, stranamente, a disagio. Come se mi stesse toccando una madre. “un bicchiere è sempre un bicchiere”. Disse, con quella voce strana, tintinnante, come se stesse sul punto di mettersi a cantare. Sembrava divertita. Mi accarezzò di nuovo i capelli. “se tu non fossi stata legata, non l’avresti rotto, no?”. Annuii, con una strana sensazione di sollievo. Lei aveva capito. Dei, Nemys era così strana! Sembrava conoscermi a menadito, leggere dentro di me! Il mio bicchiere, la mia vita, ciò che le avevo fatto. Le tre cose s’intrecciavano. Ero stata legata da quello stupido giuramento, più forte della vita stessa, quella vita che aveva fatto in modo di distruggere completamente. Quella vita che ormai non mi apparteneva più. Ero stata liberata, sciolta da ogni fune. Annuii così lievemente, e ripresi a parlare, con voce sommessa. “ora però non sono più legata, mi hai liberato”. Liberato da Lainay. Non tutti i sovrani erano pazzi scatenati come lei. Era un piacere, sentirlo. Ed un peccato che quella pazza fosse così potente da costringerla a mettere da parte la sua ideologia, chiunque lei fosse. A quel punto, non m’interessava poi tanto. Era così bello, stare con lei, capirsi senza aver bisogno di parlare, ed anche così inquietante…un qualcosa che non avrei voluto che non finisse mai. Nemys rise, di nuovo. Lei sembrava sempre ridere. “quindi si suppone che tu non rompa più bicchieri!”. Oh, no. Non ne avevo bisogno. Libera dalle funi, potevo vivere la mia vita in pace, sorbire l’acqua della vita, così piacevole del torrido dolore, così gustosa. Avevo trovato la mia vita. Lei non aspettò la mia risposta, e mi abbracciò di nuovo. “oh, Lsyn…”. Disse poi, con una voce stranamente seria che m’inquietò. “tu non puoi sapere la bellezza dello stare qui, accanto a te…mi sento finalmente completa”. Bizzarre parole. Anche per me era la stessa cosa. Che lei fosse la mia gemella dimenticata? Sorrisi. Se solo avessi saputo la realtà, in quel momento, se solo avessi studiato un po’ di più, chiesto magari a quel topo mangia carta che era Akita, a quel punto avrei capito il perché di molte cose. Perché mi sentissi completa, innanzitutto. E perché Nemys sembrava saper comportarsi con me come se mi conoscesse da una vita. Perché mi sentissi così rassicurata in sua presenza. Perché, soprattutto, non riuscissi a togliermi di testa l’idea di essere a casa, esattamente dove dovevo essere. Lei continuò a parlare, mentre io abbassai ancora di più lo sguardo. Non riuscivo a sopportare la presenza di una creatura così pura, accanto a me. Oppure era il mio inconscio, che, avendo registrato ciò che a me era sfuggito, mi stava mettendo in guardia. Lei continuò a parlare, tranquilla. “sai…ho avuto paura per te. Un paio di volte ti percepivo molto poco, come se stessi per svanire. Mi sono spaventata davvero. Come avrei fatto, se tu fossi morta?”. Eh? Cosa? Lei stava insinuando di sapere tutti i miei colpi di testa? Accolsi quelle parole, quella sorta di confessione, un una sorta di curioso sconcerto. Provai un sentimento misto tra l’imbarazzo e la sdegnosa irritazione. Ehi, si fidava proprio tanto di me! Non riuscivo a capire un accidenti di quello che stava dicendo. Percepirmi? Mi aveva messo un aggeggio magico addosso, per spiarmi? Quasi mi sentii indignata. Mi sembrava così una brava persona…mi ero proprio sbagliata, nei suoi confronti! Ecco. Lei non era altro che una delle tante stupide sovrane in giro. Magari un po’ più pietosa. Ma sempre diffidente, nei miei confronti. Nessuno mi voleva bene davvero, per ciò che ero, Lsyn, l’avventata Lsyn. Stavo proprio sbagliando. Ma non era colpa mia. Io non ero a conoscenza di certe cose. Emisi uno strano rumore, e feci par parlare. Ma lei mi bloccò, con uno strano rumore. “lo so che non sai, Lsyn…”. Disse, con una voce morbidissima, calma e dolce. Ecco. Avrebbe fatto meglio a spiegarsi. Io volevo una spiegazione. Ero stanca di essere trattata come una stupida. “e lo so che sulle prime non mi crederai…strano, però. Pensavo che quella misera di Lainay te l’avesse detto… difficile per lei starsi zitta, su una chicca del genere…”. Ebbi una strana sensazione, come di ripetuto. Lainay c’entrava qualcosa? Stavo forse per scoprire cosa significava Rinnegato? Aguzzai le orecchie, in vista della confessione. Non avrei mai pensato, poi, che fosse una cosa tanto sconvolgente. Lei riprese a parlare, dopo una piccola pausa, in tono meditabondo. “e tu non hai detto nulla su di me…ne deduco che…”. Di nuovo, una pausa. Poi lei parlò, una preghiera affrettata che mi cambiò la vita per sempre. “Lsyn? Perché non mi guardi negli occhi, solo per un momento?”. Eh? Quella richiesta così strana mi fece sobbalzare, e, senza attendere oltre, le obbedii, del tutto inconsciamente. Volevo guardarla, capire perché mai lei volesse quello. Ero curiosa. Che richiesta assurda! Che c’era di strano, nel suo volto? Dovevo proprio guardarla, svelare i miei segreti a lei? Non era lei un’elfa come tutte? Oh…come mi sbagliavo. E lo capii subito dopo aver incontrato il volto più sconvolgente della mia intera esistenza. Cosa c’era di strano? Cosa c’era di strano? No: non c’era nulla di particolare negli occhi, bellissimi, di un piacevole azzurro limpido, il colore del cielo a prima mattina, un colore piuttosto comune negli elfi, contornati da lunghe ciglia curve, occhi che risplendevano di fede, speranza e dolcezza antica; o nella pelle, candida come il marmo delle mura del tempio, una pelle perfetta. Ciò che mi sconvolse fino all’inverosimile, seccandomi la bocca, e facendo battere il cuore, impazzito, facendomi emettere brevi pigolii insensati fu ben altra cosa: i lineamenti. Perché lei, Nemys, sovrana ed Alta Sacerdotessa del Matriarcato di Uruk, mi assomigliava a tal punto da poter essere scambiata per una sorella. Assomigliava a me, ad una reietta qual ero. Deglutii, e mi sentii girare la testa. Mi trovavo in una situazione da incubo.  Nemys…io…Nemys…Non volevo crederci. Era impossibile! Eravamo…oh, dei, eravamo quasi identiche! Lei era…lei era me, prima che un incidente malvagio mi sfregiasse in modo orrendo metà volto. Era me, senza malizia, senza cattiveria, senza oscurità nei miei colori. Era me. Non c’era nessun dubbio. Me, se solo Lsyn Amarto fosse stata alta e più dolce. Erano mie, le labbra, carnose, ben proporzionate. Mio, il naso, miei gli zigomi. Solo la forma del viso, più tonda, una spruzzata di lentiggini sulle guance bianche, le sopracciglia meno sottili ed arcuate, un piccolo neo dove io non ne avevo, erano differenti. Un viso molto gradevole, molto bello, giovanile. Ma…accidenti…io…  lei mi assomigliava. Non poteva essere un caso, quello, vero? No: io stavo delirando. Era tutto falso quello che vedevo. Si: era solo un incubo. Ben presto mi sarei svegliata, ed avrei scoperto che eravamo riusciti a fuggire dai Tengu. Niente di tutto quello esisteva. Si: doveva essere così. Qualcuno stava emettendo un piglio soffocato. Era un brutto rumore. Sapeva d’incredulità. Sapeva di bricco del tè, quel bricco da tè che mi aveva incolpata, quando io avevo ucciso degli innocenti. Ma io non stavo uccidendo nessuno. Forse me stessa, ma quello non importava. Mi sentii inchiodata al volto di Nemys, come se non potessi distogliere lo sguardo da lei. Cosa significava tutto quello? Lei era mia sorella? Mia sorella di sangue? Oppure si era modificata con la magia, per chissà quale scopo? Non  ero così lontana dalla verità. In fondo, lei aveva usato la magia. Ma in un altro senso. Poi mi accorsi di essere io a pigolare. Mi parve strano non essere svenuta. Avevo subito troppe emozioni, in quel maledetto periodo. Se solo fossi sopravvissuta anche a quello, mi sarei eclissata dal mondo per un po’, pronta a gestire una tranquilla vita domestica, senza scosse. Ma…era per quel motivo che lei mi aveva accolta così con benevolenza? E perché mi sembrava di conoscerla già? Cos’era, quella sensazione di agio che provavo, quella sicurezza che m’impediva di saltar via, e cominciare a strillare? O forse ero troppo sconvolta, addirittura così tanto di non riuscire a far altro che borbottare? C’erano troppe cose strane, troppe cose che non andavano. Non riuscivo a pensare. C’era qualcosa che m’impediva di metterle insieme. Era tutto troppo sconvolgente. Vidi, la cosa più assurda di questo mondo, le labbra di Nemys, le mie labbra, curvarsi in una smorfia strana, quasi di tristezza. Rimasi un altro po’ a fissarla. Non volevo credere ai miei occhi. Non riuscivo a crederci. Non so con quale coraggi racimolai un po’ di fiato, necessario per una stupidissima affermazione. Non ne ho la minima idea. Solo che sentivo che, se non avessi parlato, sarei davvero impazzita, e stavolta sul serio. “Nemys…”. Dissi, stavolta senza farmi remore sul suo nome. In fondo, lei mi assomigliava troppo. O mi stava prendendo in giro, o davvero era qualcuno a me legato. Legato si, in un modo che non avrei mai immaginato. “tu…tu…sei come me!”. Oh, dei. Potevo dire una cosa migliore, una battuta un po’ più intelligente. Ma ero troppo sconvolta per pensare ad altro. Uno strano sguardo dolce passò per gli occhi azzurri della mia misteriosa interlocutrice. Nemys, chi sei? Potevo fidarmi di lei, o stavo per essere nuovamente giocata? Ci fu un lungo attimo di silenzio. Potevo benissimo sentire il mio cuore battere, rimbombare nelle orecchie. E poi lei, con un mezzo sorriso stampato in volto, riprese a parlare. “no, Lsyn. Io non sono come te”. Sussurrò, con dolcezza infinita. Di nuovo un attimo di silenzio. E poi disse le parole che mi rimandarono alla memoria un altro momento, una fuga. “io sono te”. Ecco. Era troppo. Il bicchiere cadde a terra, con un sonoro strepito. Accidenti. Il secondo andato in pezzi!

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Capitolo 74
*** Lei era me. ***


Bizzarro

Bizzarro. Ebbi davvero una bizzarra reazione, piuttosto inconsulta, a dire la verità. Ero talmente pietrificata dall’incredulità, dall’assurdità che la stessa Nemys mi stava dicendo, quelle parole dolcissime, tristi, accompagnate da quello sguardo saggio, che sobbalzai malamente quando sentii il bicchiere che s’infrangeva a terra. Quel rumore ebbe il potere di ricondurmi, seppur parzialmente, alla ragione. Presi di colpo coscienza della mia corporeità. Che ero io, Lsyn Amarto, lì, seduta tranquillamente accanto ad una creatura che mi aveva detto una delle cose più strane che mi sia mai capitato d’ascoltare in vita mia. Ero lì. Repressi a stento l’impulso che mi suggeriva di toccarmi il volto, per vedere se c’ero davvero, se in quel mondo esistevo, o la stessa terra sulla quale poggiavo i piedi era solo un’illusione di un mago pazzo. O forse no? Che voleva dire con io sono te? Chi ero realmente? Chi era realmente lei? Cosa significava quell’ammasso del tutto casuale di lettere, così pregno di significato? Io ero stata creata da lei? O lei creata da me? Impossibile. L’avrei ricordato, se fosse stato così. Qualcosa mi sfuggiva, continuamente. Avevo immaginato tutto, ero solo il frutto dell’immaginazione di qualcuno, di lei? Non poteva essere dannazione! Io ero lì! Viva e vegeta! Avevo bevuto la stessa sua acqua, prima! Io ero materiale come lei! O forse lei immateriale come me? Non riuscivo a pensare. Mi sembrava di essere di nuovo immersa in quel lago gelato, prigioniera di una corrente contro la quale non avrei mai potuto vincere. Bene. La confusione regnava sovrana in me. Diciamo pure che avevo l’impressione di aver mandato il mio ragionamento a fare una lunga vacanza. E, tutto ciò che feci, la mente impegnata a ballare allegramente una giga, fu reagire in una maniera magnifica. Magnificamente inconsulta, per essere precisa. Perché avrei potuto fare di tutto, in quella situazione. In quel momento non ci pensai, ma ora capisco alla perfezione  come mai non ci fossimo sedute sulla sedia, o il perché lei fosse così tesa, come pronta a saltarmi addosso. Avrei potuto ucciderla senza fatica, oppure fare di peggio. Avrei potuto impazzire, cominciare ad urlare. Scoppiare in lacrime, cercare di fuggire, o, chissà, anche morire. Ridere, ridere pazzamente, burlarmi di lei, cercare di farmi del male. Avere un colpo, e rimanere immobile, come una sonnambula, per tanto tempo. Compiacermi per avere qualcuno che mi conoscesse bene, gioire per il fatto di non essere più sola, incomprensibile al mondo, imprevedibile a tutti, di avere qualcuno che mi capisse alla perfezione, quello che poi feci. Qualunque cosa. Invece no. Ero così stordita, così presa dalla stanchezza, dall’incredulità, dallo stesso ragionamento, che mi stava portando a trarre conclusioni sempre più assurde, mentre la soluzione era così dannatamente semplice, che mi comportai in maniera molto strana. Mi pareva di procedere in modo diverso dal resto del mondo, come se io scorressi più lentamente rispetto alle altre cose che mi circondavano. Uno sfasamento certamente non mitigato da quella sensazione di calore che ancora sentivo nello stomaco, quella morsa liquorosa che sembrava mettere pace tra me e la mia tormentosa esistenza, quel sentimento che mi metteva addosso una gran fifa. Non lo sapevo classificare: era come rendersi conto di avere un altro arto, come vedersi spuntare all’improvviso una coda, delle ali, e saperle usare, d’istinto. Era qualcosa di completamente nuovo. Non fastidio, non allegria, né rabbia, né apatia, né nervosismo, o qualunque altra sensazione umana. Fu quella particolare sensazione che mi spinse ad accettare a priori le parole di Nemys,  parole a cui, se le avessi sentite da un altro, non avrei creduto minimamente. Mi sarei fatta una gran bella risata. Invece no: qualcosa dentro di me, di sconosciuto e nel contempo familiare, sapeva che lei non poteva mentire. Avvertivo, non so cosa, come se fossi stata brutalmente messa davanti alla parti più nascoste del proprio essere. Come scoprire di avere una bestia feroce nascosta dentro, pronta a fuggire, ad artigliare. Quella certezza m’inquietava più di qualunque cosa. Soprattutto, mi gettava quasi nel panico il fatto di non aver paura. Stavo benissimo. Riuscivo a crederle, senza impazzire. O forse ero già troppo matta di mio per riuscire ancora a dare segni di squilibrio. O forse avevo accettato troppe stranezze nella mia vita per sorprendermi ancora. In fondo non mi aveva detto ancora tutto. Poteva esserci una spiegazione semplice a tutto quello, niente di drammatico. Qualcosa di piacevole, rassicurante. Doveva essere così. Non dovevo inquietarmi. Ma allora perché mi sentivo tanto debole, come se fossi malata? E, d’accordo, ero anche tremendamente curiosa, quella curiosità che uccide. Potevo avere una reazione più sveglia. Però, tutto quello che feci, del tutto ipnotizzata da chissà cosa, assentata per un po’dal mondo terreno, fu quello di, non appena sentii il bicchiere cadere, guardare in basso, con aria spaesata ed un po’ intontita. Ci fu un lungo attimo di silenzio. Forse diceva di essere me perché era mia sorella di sangue. Beh… non era una cosa così cattiva. Avrei dovuto dividere il mio dolce fratellino con un’altra persona, e nessuno sarebbe riuscito a superare la sua  bravura e dolcezza, né nessuno che non fosse Akita o i suoi figli me l’avrebbe rubato, ma non importava. Pazienza. Decisamente sarebbero state lontane tutte le strane supposizioni che avevo avuto. Ero così drammaticamente lontana dalla verità, quella verità che le avrebbe comprese tutte, quella tremenda confessione che mi spinse a fare domande che i avrebbero trascinata in un baratro d’incertezze, se solo non fosse capitato qualcos’altro, qualcosa che non sono lungi dal descrivere. Aprii la bocca. Non avevo mai sentito la mia voce così soffocata. Quasi mai. “il bicchiere… scusa, Nemys…”. Mormorai, allungandomi un po’, e tendendo la mano verso i frammenti dell’oggetto, come se fosse integro. “è rotto…”. Si: diedi più importanza al bicchiere che a quella rivelazione terribile. Non ho ancora capito perché la mia mente debba essere così stupidamente contorta. Forse fu un retaggio dei miei tempi con Lainay, quando ad una minima sollecitazione corrispondeva un sonoro ceffone. O forse fu un’altra cosa, un mio tentativo di allontanarmi, di distrarmi dal mio timore, da quella sensazione di gelido assoluto scesa su di me. Propendo per quest’ultima spiegazione. Non potevo essere così condizionata dalla mia vita, una vita che avevo lasciato cinquant’anni prima. Anche se qualche volta mi capita di avere qualche strana reazione, d’incassare la testa sulle spalle quando dico la mia, di camminare guardandomi sempre attorno, di non guardare mai fisso negli occhi alcuni interlocutori particolari, non penso che quella scusa fosse dovuta a quello. Ero semplicemente troppo scioccata per poterci ancora pensare. Punto. Prima ancora di sfiorare il vetro tagliente, sentii una mano forte stringersi sul mio polso, ed un’altra cingermi dolcemente. Mi sentii tirare da qualcuno, e mi ritrovai di nuovo a fissare il volto, ora animato da ansia trepida, di Nemys. Mi ritrovai, del tutto inconsciamente, di nuovo ipnotizzata dai suoi occhi. Erano dolcissimi, così dolci, una cura per il mio animo ferito. Sembravano guarire tutte le mie ferite. Era così bello, così piacevole, che mi sarei abbandonata in quella tregua in eterno. Quando ero con Nemys, confusione o dolore, pace o tristezza, svanivano. Restava quella sensazione di calma suprema, mi ritrovavo sola in una cappella ben protetta e silenziosa, dove nulla e nessuno poteva toccarmi. Sentii una mano fresca appoggiarsi al mio viso, poi un’altra. Fui costretta a guardare quella che sembrava la mia gemella fatta male. O io che ero fatta male su suo stampo, questo non saprei dirlo. Lei sembrava agitata. Io avevo quasi dimenticato il perché di tutto quello. Mi bastava essere tranquilla. Basta. Ne avevo abbastanza della guerra che il fato conduceva contro di me. “Lsyn…”. Mi disse, con voce ora solo lievemente affrettata, che mi parve lo stesso musica liquida. “calma…ora spiegherò tutto!”. Calma? Io ero calmissima. La stessa confusione aveva creato un bozzolo duro di lanugine, una coperta calda contro cui avvolgersi, per ripararsi dal gelo della realtà. Non volevo piombare in essa. Non volevo essere strappata dalla consapevolezza al mio stordimento. Ero piacevolmente confusa. Ci fu un lungo attimo di silenzio, in cui ci scrutammo negli occhi. Lei sembrava cercare di leggere qualcosa in me, di capire cosa mi passasse per la testa. Io mi beavo negli ultimi attimi di tranquillità. Sapevo che dopo avrei avuto troppo a cui pensare. “ora, piccolo ragnetto mio, ascoltami bene”. Disse, con uno strano tono conciliante. Sembrava trattarmi come un adulto si comporta con un’infante. Tale mi sembravo per lei, ma non ne avevo a male. Era un comportamento che mi rassicurava. Avevo bisogno di punti di riferimento. Tuttavia, ero perplessa. Gli occhi esprimevano troppa saggezza malinconica per essere quelli di una giovane, per essere quelli che dimostrava. Ma quanti anni aveva davvero Nemys? Quelle iridi azzurre mi parlavano di secoli, ere, millenni, di una tristezza che si può acquisire solo nell’età adulta. Eppure lei era così apparentemente giovane! Accidenti. Gli elfi non erano immortali, affatto. Certo, estremamente più longevi di ogni altra razza, antropomorfa e non, ma sempre mortali. Abbiamo solo una vita molto, molto lunga. Eppure quella giovane sembrava allo stesso tempo vecchissima. Una vecchia bambina. E quel suo tocco era così delicato, e deciso. Non mi stava facendo del male, ma mi obbligava a guardarla fisso in viso, quel viso dall’espressione dolce e mesta. Così lei cominciò a parlare, in tono conciliante, piuttosto solenne, e lento, come se stesse recitando una salmodia, un tono che m’ipnotizzò. “ho molte cose da dirti, poco tempo per dirlo. Il tempo stringe”. Di nuovo un sorriso, stranamente amaro. “Isnark voleva farti uccidere non appena ho capito che stavi arrivando, ma l’ho dissuaso. Tutti però vogliono una più chiara presa di posizione da parte tua, te lo dirò con schiettezza”. Accidenti. Mi fece piacere sapere che Isnark, seppure in tutto il suo odio nei miei confronti, era vivo e stava bene. Almeno, non avevo combinato altri guai. Ma quel fatto di prendere posizione non mi andava parecchio. Non intendevo legarmi con giuramenti di fedeltà eterna. Uno mi era bastato, e mi aveva scottata, rovinato la mia vita per sempre, in tutti i sensi. Non volevo tarparmi ancora le ali, proprio quando avevo riguadagnato la mia stabilità, fosse pure per una creatura incantevole, una fata di luce, come Nemys. Avevo un bel fratello, vivo e vegeto, mia figlia ed il suo fratellastro, quella pazza di Akita, il mio nipotino non ancora nato, il mio Maestro, i miei amici, con me. Io volevo solo una vita tranquilla, vivere serenamente con i miei cari. Un’esistenza senza scosse: proprio quella che mi era stata negata per la maggior parte della mia vita adulta, un’esistenza in cui sarei stata capace di poter prendere liberamente le mie scelte, senza condizionamenti di sorta. Mi era troppo cara la libertà, in quella breve parentesi di contentezza, per poterla donare ad un altro sovrano da servire. Se solo me l’avessero permesso, non appena Tijorn fosse stato bene ce ne saremmo andati via da Uruk, alla volta del villaggio Tengu. Perciò interruppi Nemys. “mi dispiace di averti dato così fastidio, a te ed ad Isnark”. Dissi, leggermente più presente ed attiva, la voce più dura del solito. “ ma io non ho alcuna intenzione di rimanere, Nemys. Non appena mio fratello starà bene, partiremo alla volta delle montagne Tengu, e non  ci vedrete più”. Una risata, dolce e squillante, quasi da bambina, stroncò il mio deciso discorso a metà. Nemys era scoppiata a ridere sommessamente. Poi mi aveva guardata, scuotendo lievemente il capo. “la situazione è brutta, Lsyn, dovresti averlo già compreso da te”. Mi rispose, scuotendo lievemente il capo bianco, ma senza distogliere lo sguardo dal mio. Lessi onestà sul suo volto pallido, ma anche tanto dolore. “fossi in me ti manderei dove vuoi, non posso. Tu dovresti essere libera, come tutti, come il vento, l’aria e l’acqua. Ma i tuoi stessi errori, errori che non potevi evitare, ti tengono incatenate le ali a terra. È una cosa troppo brutta per potervi pensare”. Sobbalzai. Violento come una mazzata, mi aveva assalito un ricordo. Il ricordo di un sogno, il sogno che mi aveva tormentato in un modo terribile per un sacco di tempo, quando ancora potevo chiamarmi a diritto l’Ombra. Il sogno del cigno. Il cigno, il mio Chekaril, se n’era volato via, l’avevo fatto volare via, libero ormai da ogni vincolo, di carne, sangue e fedeltà. Io ero rimasta incatenata al posto suo, o forse lo ero sempre stata. Il capro espiatorio. La vacca sacrificale. Ero prigioniera nelle maglie del mio stesso passato, della mia stessa essenza oscura. Il fatto di non poter scappare da essa mi colmava di rammarico. Per quanto io potessi fuggire, il ricordo era lì, infido e brutto, in agguato come una bestia feroce, pronto ad assalirmi ogni volta che mi distraevo. Una carezza rapida di Nemys riuscì a distogliere la mia attenzione da quei pensieri mesti, ed io concentrai di nuovo la mia attenzione sull’elfa che, contro ogni prospettiva, mi aveva accolto davvero benevolmente. Il suo viso era una maschera di dolore puro. “c’è la guerra, ragnetto mio, una guerra a cui noi non possiamo far a meno di partecipare, a meno di non voler essere schiacciati come scarafaggi”. Dei. Mi faceva male sentire la sua voce quasi incrinata. Lei soffriva, nel solo immaginare l’elemento in cui io avevo sguazzato dalla mia giovinezza. Lei mi scrollò lievemente la testa. La lasciai fare. Avevo visto un’ombra di pianto nei suoi occhi. Me ne rammaricai. Era una creatura troppo pura e buona per il sangue. La bestia, delle due, ero certamente io. “giovani muoiono, tanti valenti giovani si spengono, insensatamente, tante piccole fiammelle estinte da una folata improvvisa di vento, ed io non posso farci nulla, se non sperare che finisca presto”. Un sospiro,  lei strinse le labbra. Il suo dolore era tanto, e traspariva in ogni suo lineamento. Mi sentii anch’io triste a quello spettacolo, non so perché. Avevo considerato, consideravo e considero tuttora, la morte in guerra come una morte piena di onore. Avrei preferito mille e mille volte finire trafitta da una spada nemica, piuttosto che spegnermi in un letto, tra le lacrime dei familiari. Non davo fastidio a nessuno, non avrei dato troppo dolore, dolore prolungato nel vedermi appassire, piano piano. Me ne sarei andata via, così, improvvisamente, e combattendo con onore, senza dipendere da nessuno. A quanto pare, Nemys non condivideva la mia idea. I suoi occhi sembravano mandare saette, tanto scintillavano di lacrime e rabbia, e la voce era ormai rotta, commossa. “e tutto per i piani di quella misera….povera, povera Lainay, credere che la chiave di tutto sia nel dominio!”. D nuovo, lei scosse la testa. Quasi i suoi capelli mi finivano nel naso. Non potevo che essere d’accordo con lei, anche se non avrei mai chiamato la mia precedente sovrana misera, o povera. Bastarda, pazza o sgualdrina, come minimo, tanto per essere un po’ educata. Beh. Quella misteriosa Nemys era troppo buona. Non sembrava quasi odiarla. Solo compatirla, e tanto. Strana creatura. Uno sguardo severo di quest’ultima mi gelò. Sembrava volermi rimproverare di qualcosa, qualcosa di molto grave. Temetti quell’occhiata. No tanto per la sua carica minacciosa, del tutto assente, ma piuttosto come memento alla mia stupidità ed avventatezza. Dovunque andassi, ognuno si premurava di sottolineare la mia totale mancanza di buonsenso. Era una cosa che cominciavo ad odiare. “e poi tu… non voglio rimproverarti nulla, Lsyn… ma voglio solo che tu prenda coscienza di quello che hai fatto”. Cosa? Che avevo combinato? Mi sentii, per un momento, smarrita. Io non avevo fatto nulla, nulla! A meno che…rabbrividii, e cercai, inutilmente, di evitare lo sguardo severo della mia interlocutrice, fattasi più pacata. Lei mi costrinse a guardarla in viso. Mi contorsi, senza esito. Non volevo sapere cos’era successo nel Piano! Non volevo sapere cosa Lainay aveva scoperto da Isnark! Di nuovo lei mi carezzò sulla stessa guancia, dolcemente, come a volermi tranquillizzare. Poi si costrinse a sorridere, un sorriso tirato che mi agitò ancora di più. Stava per venire la tempesta. “so quanto ti sia costato, e so pure quello che hai fatto…”. Si: cercare di salvare il compagno, che mi odiava. Uccidere due innocenti. Bell’affare, vero? Ero stata davvero, davvero, sconsiderata. Di quegli omicidi me ne pentivo anch’io. Ascoltai con disperazione quello che stava per dire. Si, lo sapevo: era ancora tutta colpa mia. Io avevo mandato a monte chissà quale piano delicato. Avevo gioito, anche, gioito per servire quella matta di Lainay. Se solo avessi conosciuto prima di intraprendere quell’apprendistato che mi avrebbe dato di volta il cervello, riempiendomi di valori distorti che solo la colpa riuscì a dissipare, mi sarei donata anima e corpo a Nemys. Lei non mi avrebbe tradita in quel modo volgare, come aveva fatto la mia precedente sovrana, la bastarda. Mi sentii straordinariamente in colpa, quasi male, quasi scoppiai in lacrime. Chiedevo il suo perdono. Io non la conoscevo. Lei era la creatura perfetta, ed io non avrei mai osato fare qualcosa contro di lei. Lei non voleva il male degli elfi, al contrario. Lei voleva solo la vita. “ma, con quel maledetto gesto, hai eliminato ogni prospettiva, per noi, di rimanere neutrali di fronte a questa carneficina. Hai consentito, mandando Isnark nel Piano, che Lainay carpisse il più importante segreto custodito tra queste mura”. Cosa? Cosa? Un passaggio segreto? Un modo per vincerli? Ebbi un attimo d’illuminazione, in quella pausa breve. Oh…ma non dovevo comportarmi come una sciocca! C’entrava qualcosa con il fatto che lei era me, qualunque cosa volesse dire. Forse non era una cosa così rassicurante, per poterli ricattare. Ebbi improvvisamente paura di Nemys, una paura cieca. Sarei scomparsa volentieri, se solo avessi potuto. Serrai così gli occhi, come in attesa di un ceffone. “mi dispiace, Nemys…non volevo….non volevo!”. Dissi, con una strana voce stridula, cominciando già a tendere tutti i muscoli. Fu una reazione istintiva. Non volevo farmi troppo male. “non volevo!”. D’accordo. Avevo una fifa nera io ero in suo potere, totalmente. Non potevo davvero far nulla, se lei mi avesse voluta far male. Ed io quello mi aspettavo, perché quello che avevo fatto era troppo, troppo grave, per non meritarsi una punizione. Ma cosa era successo di tanto grave? Cosa c’era, sotto? Non riuscivo ad immaginarlo. Ma, sicuramente, sarebbe stata una cosa poco piacevole da sentire. Quasi mi tappai le orecchie. Un movimento interruppe il mio chiocciare indistinto. Percepii lo spostamento d’aria, e la mancanza di pressione sulle mie guance. Ecco. Ora mi sarei fatta male sul serio. Mi tesi ancora di più, fino a farmi dolere tutto il corpo. Ma non successe nulla del genere. Mi sentii invece abbracciare, e lei, la dolce sovrana di quel luogo, mi strinse a sé, disperata. Riaprii gli occhi, sorpresa. Era strano non vedersi tiranneggiata in quel modo, picchiata e ridotta al rango di servitrice. Forse non sarebbe stato tanto male servire una creatura del bene come Nemys. Non avevo mai incontrato qualcuno buono come lei. Servirla, sarebbe stato un grande onore, e non una mancanza di libertà. Forse potevo pensarci davvero. Mi lasciai tentare per un momento da quell’idea, mentre ero tra le braccia della Sacerdotessa. Era un bel sollievo non doverla guardare degli occhi. Avevo la sensazione di essermi tolta una grossa spina dal piede. Non sopportavo guardarla fisso. Era troppo dolce, troppo candida e quasi infantilmente saggia, per farla contaminare con il buio che conservavo in me. “oh, Lsyn, dimentico sempre…”. Mormorò lei, in tono consolante, mettendomi una mano sui capelli, e cominciando a carezzarmi. Era davvero piacevole essere trattata così. Nessuno mi aveva donato tanto affetto genuino, solo Tijorn, nemmeno Chekaril. Era bello sapere che qualcuno oltre alla mai famiglia mi voleva bene. Bello e strano. Mi sembrava di tornare ai miei vecchi tempi, alle mie antiche illusioni, e la cosa mi piaceva. “no, non ti farò del male…scusami, se ti sono sembrata troppo cattiva…il fatto è che, ragnetto mio, siamo stati ricattati”. Tipico di Lainay. Provai un’ennesima ondata di disgusto nei suoi confronti. Nemys, con la sua purezza, non la vedeva nemmeno lontanamente. Solo un po’ la Matriarca poteva assomigliarle, ma poco. La Sacerdotessa di Kyradon non aveva un orgoglio di ferro. Sapeva quando capitolare. Torsi la bocca. Mi sembrava di aver mangiato qualcosa di amaro. C’era mai del bene non contaminato dal male? Luce pura senza ombre, un mezzogiorno perpetuo e sfolgorante? Era così brutto, così sgraziato, pensare quella maniaca a contatto con la pura elfa che mi abbracciava ora. Era orrido da pensare. “ci stanno ricattando...vogliono farci combattere al loro fianco, tra qualche mese, quando tutto sarà pronto per dare la spallata finale all’Impero”. Un tempo sarei stata felice di tutto quello, di quella vittoria. Ora mi rammaricavo solo per i prossimi sudditi della pazza. Solo gli di sapevano quanta sventura stava per scendere su quei poveri umani. “fino a quel momento, dovremo rimanere neutrali. In cambio, ci daranno tutta la regione di Sharilar, tutti i boschi della zona…ma nessuno potrà ripagarci delle perdite che subiremo. E non possiamo farci nulla, oppure Lainay rivelerà a tutti il mio segreto!”. Di nuovo la voce andò a spezzarsi un po’. Tremai inconsapevolmente, qual era il terribile segreto che aveva legato mani e piedi quell’essere supremo? Sentii una strana sensazione di gelo farsi strada in me. C’era qualcosa di grosso sotto, di molto grosso. Sentii un’improvvisa urgenza di parlare. Dovevo chiedere. Dovevo sapere. Non c’era più tempo per temporeggiare. “Nemys…”. Mormorai, staccandomi da lei, cosa che mi riuscì incredibilmente facile,  prendendola a fissare, sena guardarla negli occhi direttamente. La temevo troppo per farlo. “ma….ho bisogno di alcune risposte. Tu mi hai detto di essere me, ma io…io non ho capito”. Arrossii lievemente, imbarazzata. Certo, non era colpa mia se alcune branche del sapere mi risultavano ostiche e sconosciute. Certamente non era colpa mia. Mi fermai per un momento. sul suo viso non lessi tracce di scherno alcuno. Non mi stava prendendo in giro. Mi sentii rinfrancata enormemente, e continuai. “Lainay mi aveva accennato qualcosa dei…dei… Rinnegati, una cosa simile…”. Ecco. La vidi sbiancare, e tendersi. Mi sembrò improvvisamente molto nervosa. Ecco. Avevo centrato il punto. Curiosamente, provai una bizzarra sensazione di sollievo. Stavo per scoprire quello che mi tormentava da un po’. “esattamente…cosa significa?” fui presa da un’ispirazione improvvisa. Poteva essere, dopotutto. “ma le due cose sono legate? Cos’è un Rinnegato?”. Ci fu un momento di silenzio ghiacciato. Quasi temetti di essere andata troppo oltre. Nemys era pallida, e, mentre avevo domandato, aveva chiuso gli occhi, e presa a mordicchiarsi il labbro inferiore. Mi sembrò terribilmente addolorata, addolorata per qualcosa che non capii mai. Lei sospirò un paio di volte. non osi interrompere il suo silenzio, il suo momento di riflessione. Ero certa che, prima o poi, le risposte che volevo sarebbero arrivate. Sarebbero arrivate, fin troppo pregnanti di significato. Ma, devo dire, non me ne dispiacque. Non era una cosa così brutta. Così rimasi in silenzio, tormentando di nascosto il lembo del mantello, nervosa anch’io, mentre attendevo, seduta sul divano, una risposta, una sola risposta, che mi avrebbe cambiato la vita. Dopo l’ennesimo sospiro, finalmente, lei parlò, tenendo ancora gli occhi chiusi. “un Rinnegato non è un elfo”. Mormorò, con una strana voce roca, che, nonostante il caldo, mi fece venire i brividi. Quelle parole avevano la forza di un’invocazione, una preghiera. Non mi piacque. “né un uomo, né qualunque altra razza tu possa immaginare. Un Rinnegato può solo assomigliare ad essi, ma non lo sarà mai veramente. Un Rinnegato non è vivo nel vero senso della parola, sebbene di vera vita ne abbiano bisogno, e con essa mascherino il proprio essere. Un Rinnegato è un parassita. Un Rinnegato è energia, creatura con più magia di un Insat nelle vene. Un Rinnegato è la parte più oscura dell’esistenza, l’abisso che ognuno ha, ma che i viventi si sforzano di nascondere al mondo”. Di nuovo, un sospiro dolente. Che strane parole. Non aveva nemmeno finito di parlare, e già avevo una ridda di domande in testa. Tutto quello che stava dicendo non c’entrava nulla. Erano cose curiose quelle, ma non capivo cosa c’entrassero con la sua persona così dolce. Rimasi in silenzio, tuttavia, nonostante fossi smaniosa di apprendere, ed attesi che lei finisse di parlare. Forse non aveva detto tutto. E così fu. Dopo un sorriso amaro, lei riprese il monologo. “sai come si creano i Rinnegati, Lsyn?”. Mi chiese, aprendo gli occhi. La guardai fisso, ora, e scoprii, in quel mare calmo, la disperazione. Non riuscii a comprenderne il motivo. Che strana razza, i Rinnegati. Non ne avevo mai incontrato uno, prima di quel momento. O forse mi sbagliavo, chissà. Feci un segno di diniego. Ma lei non sembrò nemmeno farci caso.  “i Rinnegati sono…sono la parte più oscura dell’anima di una persona, che si stacca, e forma un corpo a sé. Ma, per farlo, ci vuole un evento terribilmente traumatico. Una morte, un incidente, un oltraggio… alcune cose sono così forti da mandare in pezzi l’anima di un elfo, o un uomo, da staccarla in decine di frammenti, che si ricompongono sempre, in ordine inevitabilmente diverso. Ma, fatalmente, una piccola parte viene perduta”. Un sorriso amaro le torse il volto, un sorriso che reputai stranissimo. “ciò che il creatore vorrebbe nascondere al mondo. E, se questa parte è forte…può crearsi un corpo. Un corpo materiale, ma fittizio. Un involucro vivente, autonomo e parlante”. Sentii uno strano brivido. Non doveva essere così piacevole, essere staccati dalla propria casa, per venirsi catapultati fuori, al freddo, soli, senza più il resto di sé, espressione di qualcosa di nascosto, un aborto dell’anima. Non doveva essere così bello. Assomigliava quasi alla mia condizione. Provai pietà per quelle povere creature. In fondo, loro non avevano nessuna colpa, no? Di nuovo, la voce di Nemys s’incrinò. “non voglio fartela lunga…non capiresti la maggior parte delle cose…”. Per quello non avevo obiezioni alcune. “a volte ciò che si nasconde è pieno d’odio per il proprio creatore, che sente parte di sé, sempre e sempre e sempre… perché un Rinnegato non è davvero vivo, non è davvero morto, e deve usare l’energia per sostentarsi…la deve rubare al mondo…ed è una cosa così orrenda…”. Non mi piacque il tono di voce che usava Nemys, che stava usando in quel momento. mi caricava di presagi nefasti. Era perso, vuoto come i suoi occhi, un sussurro a malapena percettibile. Decisamente non mi piaceva. Era come se lei mi stesse nascondendo qualcosa. Cosa, non lo capivo. Disorientata, continuai ad ascoltare. Non riuscivo a dare un senso a tutto quello. Lei sapeva troppe cose. O io ne sapevo troppo poche. “così contro natura… qualche volte si crea un corpo davvero vivo, ma è così raro… a volte egli ama il proprio creatore, ma non succede spesso…il proprio creatore, quello che gli ha dato la vita…così, anche che il Rinnegato porti in sé sia ombra che luce, quasi come un vero essere umano… e non c’è possibilità alcuna di divenire vivi…”. La sua voce dolce, il suo canto gioioso, sfumò nel nulla, e lei rimase per un bel pezzo in silenzio. Ecco. Ora non me la stava contando proprio giusta. Aveva distolto la sguardo. Sembrava essere lei, in quel momento, a voler evitare me. Che strano. Non me la contava giusta. Fu un sospetto immediato. No, proprio no. Qualcosa mi stava nascondendo. Ma cosa? Non riuscivo a capirlo. Di nuovo, ci fu un gelido attimo di silenzio. Guardai l’atteggiamento nervoso di Nemys, e, in mezzo a tutto quel disorientamento, sentii accendermi un piccolo fuocherello di sospetto. Lei sapeva troppe cose. Troppe, per essere una normale creatura. Non mi piaceva. Un ricordo, di una regina pazza, che sventolava trionfante una cosa che non avevo capito, allora. Ebbi un tremendo sospetto, più forte degli altri. Qualcosa scattò in me, un attimo glorioso di totale comprensione. Sentii il colore svanire dalle mie guance, mi sentii divenire gelata, e dentro di me si aprì un buco. Molti ricordi andarono al loro posto. La testa cominciò a girarmi lievemente. Il volto trionfante di Lainay. Nemys, che mi assomigliava tanto. Nemys, che diceva di essere me. D’accordo. Un altro po’,  e sarei svenuta. Non poteva essere! Non poteva! Doveva esserci, per forza, un’altra spiegazione. Una spiegazione molto, molto plausibile. Io mi sentivo intera! Non poteva essere! Nemys non mi sembrava una creatura piena d’odio… ed io ero intera. Intera. Bah. Tutto mi sembrava così una colossale presa in giro che quasi sorrisi, che quasi risi. Ero incredula. La verità di quelle parole sconnesse si stava così avvicinando alle mie supposizioni da lasciarmi come dopo una doccia gelata in pieno inverno, come un salto in un lago ghiacciato. Dovevo fare qualche domanda. Dovevo domandare. Tutto quello era troppo terribile per essere vero. Dovevo essere sicura di quello che pensavo. Magari erano solo mie supposizioni. Ma, allora, perché Nemys mi aveva parlato dei Rinnegati? Non era stato un caso, vero? Non le andava solo di chiacchierare, no? Dovevo sapere. Dovevo sapere. Dovevo sapere se la mia anima era ancora intera, quello che significasse! Sentii la mia voce, tremante, tremula, incerta, un pigolio sommesso, parlare. Ma era come se io non stessi realmente partecipando a quello che mi era intorno. Come se fosse tutto finzione, un senso di alienazione totale. Parlai, guardando il volto triste e pallidissimo di Nemys, quell’elfa che forse non lo era, ma che era me. Un po’ complicato da esprimere come concetto, ma tutto sacrosantamente vero. “allora…Nemys… tu sai queste cose…perché…sei una Rinnegata?”. Ecco. Dovevo togliermi quel peso di dosso. C’erano troppe cose che corrispondevano, che andavano d’accordo tra di loro, prendendo in considerazione quell’ipotesi. Quel tono svagato, dolente, così triste, pieno di partecipazione. Troppo strano per non essere preso in considerazione. Troppo. Di nuovo, un sospiro, e lei, finalmente, mi guardò ancora negli occhi. Sembrò accennare un sorrisetto soddisfatto, e molto addolorato. “non farne parola ad anima viva”. Sussurrò, guardandomi bene. Ancora quel sorriso, tinto di amarezza. “perché io sono diversa da tutti gli altri. Mi odierebbero tutti, se solo sapessero cosa sono. Crederebbero nella mia malafede. Ma io non sono come tutti gli altri. Io ho luce. Io amo la vita…e chi mi ha creato”. Il cuore saltò un paio di battiti, ed il fiato mi mancò, tanto che dovetti sospirare parecchie volte per riguadagnare il controllo, almeno parziale, di me stessa. Lei mi guardò incuriosita, ma io feci finta di nulla. Ecco. quelle ultime tre parole erano per me d’importanza cruciale. Stavo per scoprire quanto fossi vera, e perché. Soprattutto, quanto fossi intera. “e…”. Chiesi di nuovo, in tono casuale, ma tremendamente timoroso, come quello di un pulcino bagnato, allontanandomi leggermente, affondando le mani nella morbida copertura di velluto del divano. Nemys mi fissò con rimpianto, ma non si mosse. Ebbi pena per lei. Ma dovevo vederci chiaro prima di fidarmi di quella creatura. Poteva non essere quello che sembrava. “chi è la tua creatrice?”. Repressi a stento, nell’istante di silenzio che seguì la mia domanda impertinente, l’impulso tremendo di chiudere gli occhi. Non volevo vedere. Magari, se avessi obbedito al mio corpo, tutto sarebbe svanito, e mi sarei accorta di aver solo sognato. Speranze inutili. Dovevo smetterla d’illudermi: non potevo creare la realtà a mio piacimento. Evitai intenzionalmente di guardare la Sacerdotessa. Ora che sapevo cosa realmente fosse, ero lievemente intimorita da lei. Era troppo strano il pensiero che andava creandosi in me. Il pensiero di essere di fronte a me stessa. Era troppo, troppo strano. Non riuscivo ancora ad accettare l’idea, così incredula da non riuscire ad avere paura. Sentii così la voce come provenire da un luogo lontano, venata di tremenda dolcezza. “era un’elfa, cattiva come la gramigna fuori, ma buona come il grano, dentro”. Sussurrò, con una strana dolcezza. Era strano sentir parlare di me in quel modo. Perché era di me che stava parlando. Potevo metterci la mano sul fuoco. “sotto la sua scorza di crudeltà era ancora candida come un’infante. Andò in cerca del suo amato Principe, e fu amaramente ingannata. Un colpo, un colpo tremendo di fuoco la spedì dritta verso un inferno da cui non pensai uscisse mai… ed io la vidi cadere, orrenda ed ustionata, fino a quando non la trovarono…fino a quando non capirono. Quell’elfa eri tu, Lsyn. Io sono la tua Rinnegata”.  La povera Nemys richiuse di nuovo gli occhi, mortificata. Sobbalzai. Ecco, l’aveva detto. Mi sentii tremendamente male, un gelo che mi bloccò i piedi, un gelo incredulo. Repressi a stento l’istinto di tastarmi il volto, il corpo, per vedere se fossi ancora intera. Mi morsi, però, le labbra a sangue. Tutto si spiegava. La somiglianza, il senso di familiarità, il calore che accanto a lei ricevevo. Lei era me, staccata da me stessa. Ma perché ero con lei? Perché mi aveva voluto vedere? Voleva forse la mia testa, perché l’avevo creata? E che colpa avevo, io, di tutto quello?  Un concetto troppo difficile per essere digerito in poco tempo. L’unica cosa che feci fu quella di alzare di scatto il viso verso Nemys, e fissarla negli occhi. Quello sguardo, così docile, innocente, candido e puro, scacciò tutte le nubi. No: lei stava dicendo la verità. Non era cattiva. Quasi quasi mi veniva da sorriderle. Ora, che so molte più cose di quel momento, che mi sono state spiegate più cose, posso dire una cosa con sicurezza: se non morii in quel momento, troppo spaventata per vivere ancora, fu proprio perché fui protetta dalla mia stessa ignoranza. Se solo avessi saputo, se solo fossi stata condizionata fin dalla nascita a pensarla in un certo modo, non avrei avuto la reazione che poi ebbi. I Rinnegati sono odiati, disprezzati, trattati come veri e propri parassiti, alla stregua di pidocchi. Li temono. Per me, sono l’unica categoria ad essere davvero priva di colpe. Sono solo poveri innocenti, i Rinnegati, costretti ad un’esistenza che nemmeno loro desiderano. Provo pietà per loro. Loro non hanno nessuna colpa. Esistono per la nostra leggerezza, per il nostro desiderio di cacciarsi nei guai. Ci odiano per questo. Perché abbiamo una vita, una vera vita, non siamo ombre

materiali di esseri viventi, e perché la sprechiamo. Non ho nulla da rimproverar loro, nulla. Fissando quel delizioso volto tondo e pallido, teso ed ansioso, in attesa della mia reazione, così graziosamente punteggiato di efelidi, capii una cosa. Non me ne importava davvero! Cosa significava, tutto quello? Nulla. Esisteva una me fuori da me. Una me che aveva lottato da sempre contro la Regina, una me che si era schierata dalla parte del bene, che era la creatura più pura mai incontrata al mondo. E fu per quello che ebbi la reazione che ebbi. Un moto di affetto incredibile, di attaccamento profondo verso quell’alta elfa. Lei era me, lei mi conosceva meglio di qualunque altro, meglio addirittura di Tijorn. Lei era la mia gemella. Anzi: era me stessa. La prova vivente che, una volta, c’era stato qualcosa di buono, in me, e che ora non c’era più, o forse c’era ancora. Ma era bello pensare che una parte di me si fosse salvata dall’incendio dell’anima, da quel rogo che mi distrusse in seguito. Io ero sporca, orrenda agli occhi di tutti, odiata. Ma c’era un’altra parte di me amata ed idolatrata, candida come una piuma d’oca. C’era qualcosa di me stessa, la vecchia, pazza Lsyn, che non era andato irrimediabilmente perduto, che viveva ancora in quella creatura luminosa. Potevo odiarmi quanto volevo: avevo compiuto una cosa buona nella mia vita, con la mia stessa sconsideratezza, che tanto mi aveva danneggiato. Nel fuoco avevo fatto nascere la speranza. L’amavo. Si: la amai immensamente. Avevo trovato una sorella. E lei, chissà, magari voleva bene me. Avevo trovato un’altra alleata. Una persona che avrei protetto a costo della vita. Perché rappresentava ciò ce di me era morto per sempre, ciò che era svanito nel fuoco che mi aveva deturpato il corpo. La gioia, l’amore, la vera vita. Non l’esistenza di larva piena di rimorsi che conducevo, e conduco ancora. Avevo ucciso me stessa. Ma dalle mie ceneri era nata una fata, la più bella fata del mondo. no: non mi sembrava così tremendo, che lei fosse una Rinnegata. Non ci vedevo nulla di male. E poi, lei era così irrimediabilmente buona! Mi aveva accettata, aveva accettato me, la sua creatrice, quando invece avrebbe dovuto odiarmi con tutta se stessa. Invece no. Mi amava. Ed io amavo lei. Non importava come, né quando. L’avrei servita con tutta me stessa, con la mia vita, se sarebbe servito. C’era una nuova arrivata in famiglia, ed era tra le più importanti. Io l’avevo accettata in pieno. Ma prima, mi sarei divertita un po’ a giocare con lei. Volevo tenerla sulle spine, così, tanto per ridacchiare un po’ dentro di me, e vendicarmi di tutto il periodo in cui non si era fatta sentire. Chissà, forse non ero matura per accettarla come lo ero ora, chissà, forse lei credeva che l’avrei odiata. Non importava. Ora dovevo godermi un po’ d’allegria. Così, cercai d dominare l’impulso che mi spingeva ad abbracciarla fino a soffocarci entrambe, e ridere fino a crepapelle, e presi un’aria svagata. “dimmi un po’, Nemys…”. Dissi, guardandola negli occhi ansiosi e disperati, quegli occhi bellissimi che m’ipnotizzavano, mi facevano sentire al sicuro. Come gli occhi di Tijorn. Con lei, niente sarebbe andato storto. “i Rinnegati conoscono i ricordi della vita passata con il creatore, insieme, quando si era ancora con lui?”. Ecco. Volevo solo divertirmi un po’, sentirmi raccontare cose che già sapevo. Perciò, ringalluzzii quando la vidi annuire mestamente, a stento trattenendo le lacrime. Chissà, forse pensava che la stessi odiando, quando invece chissà cosa m’impediva di chiamarla sorellina. L’avrei fatto, prima o poi. Ma dovevo levarmi quello sfizio, e poi tutto sarebbe andato al suo posto. “allora…dammi una prova che non stai mentendo, che non ti sei inventata tutto…”. Risi in me stessa quando vidi un lampo d’indignazione correre negli occhi chiari. Non aveva ancora capito che la stavo prendendo in giro, per fortuna. Rimasi un attimo in silenzio. Poi sorrisi. C’era solo un ricordo che conoscevo solo io. Solo e io e Tijorn. Un ricordo della mia luminosa infanzia. “ora dimmi. Cosa c’era sulla mensola della stanza da letto del Maestro?”. Era un ricordo divertente. Una delle solite nostre marachelle. Vidi Nemys fare una smorfia schifata. “una bottiglia di liquore, come al solito”. Rispose subito, sorridendo suo malgrado, nonostante negli occhi ci fossero le fiamme. “era sempre piena, lui provvedeva a riempirla quando si svuotava…quando la svuotava è meglio… era una bottiglia tonda e panciuta, dal vetro trasparente. Una volta che era piena noi e Tijorn la versammo nell’abbeveratoio del mulo. Eravamo stanchi di vedere sempre Amarto sbronzo”. Repressi una risata. La reazione del povero animale era stata tremendamente buffa. Un po’ meno quella del Maestro. Anche Nemys ridacchiò. Che belli, quegli ultimi istanti di pace. “mi ricordo che il Maestro ci rincorse per tutta la foresta, appena scoperto il fatto…”. Bisbigliò, sorridendo apertamente, sempre con quello strano cipiglio. Era un bel ricordo, pieno di luce e calore. Avevo scelto quello apposta. “ci diede tante di quelle legnate da lasciarci il segno per giorni. Dopo di quello abbiamo fatto sparire la bottiglia del laghetto, per vendetta”. Oh! La gioia stava diventando troppa. E non ce la facevo, a vedere la mia gemella così triste. Mi faceva troppo male. E poi…si, le volevo un bene incredibile. L’affetto che provavo nei suoi confronti era secondo solo a quello che provavo per Tijorn. Perché lei era me. Era me, purificata. Una Lsyn distillata, in cui tutto l’odio, l’acredine, venivano sconfitti. E lei rappresentava la vittoria di me stessa, contro quel fato bastardo che mi voleva morta ad ogni costo. Perciò, non resistetti. Era troppo. Scoppiai così a ridere, svelando finalmente lo scherzo, e mi fiondai ad abbracciarla, stringendola più forte che potevo. Lei era me. Lei era me. Lei era me.

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Capitolo 75
*** Rivelazioni. ***


Mi godetti in pieno quell’abbraccio soffocante, in quegli ultimi momenti d’illusione, quegli ultimi istanti prima che il velo della cruda realtà si fosse sollevato, spingendomi in un baratro di cui ancora non intravedo la fine

Mi godetti in pieno quell’abbraccio soffocante, in quegli ultimi momenti d’illusione, quegli ultimi istanti prima che il velo della cruda realtà si sollevasse, spingendomi in un baratro di cui ancora non intravedo la fine. Quell’eclissi perenne, quell’ulteriore scherzo del fato crudele e bastardo. Ma allora ancora non sapevo. Ancora prevedevo un futuro così roseo da quasi nausearmi. Non sarei morta. Non vedevo l’ora di raggiungere Tijorn! Strinsi Nemys a me con tutta la forza che avevo, delirante di gioia. Lei rappresentava tutto ciò che io ero stata, la gioia, l’amore, la speranza, l’innocenza che io avevo imparato a perdere così presto, ma a cui non avevo rinunciato mai. Era come avere una sorella, un faro in un mare in tempesta, una luce nella nebbia. Chissà. Non mi sarei mai abituata, in fondo, al pensiero di avere un Rinnegato, altro da me, ma legato ancora alla mia persona, un vincolo che si sarebbe potuto spezzare solo con la morte. Era strano pensare che Nemys fosse davvero me, in un certo senso, la me buona. Una me ancora inalterata, salvatasi miracolosamente da tutto il terrore di cinquant’anni, da tutte le ombre. Non che io non fossi cattiva, intendiamoci bene. Ero solo molto, molto sfortunata, legata inesorabilmente ad un destino di dolore, ad un passato che mi tormentava, e mi tormenta ancora. Ero stata sporcata dagli inganni e dalle fiamme che avevano straziato la mia carne, dalle macchi di menzogne, da cinquant’anni d’insensato vagabondaggio. Irrimediabilmente perduta, la vecchia Ombra, la vecchia, allegra, sfrontata, chiassosa Lsyn Amarto, spezzata in mille frammenti che mi tagliavano il cuore, me lo riducevano in brandelli. Ma l’idea che una parte di me si fosse salvata, che un pezzetto della mia antica essenza, il migliore, si fosse incarnato di quella creatura, figlia della speranza, la Sacerdotessa a capo dei ribelli, dei sediziosi, di quelli che, a lungo, erano stati gli unici abbastanza coraggiosi per opporsi alle brame di quella regina pazza che era Lainay, accecata al tal punto dal suo desiderio da averlo trasformato in brama di distruzione, riscattando in quel modo anche tutto il male che io avevo commesso….beh, mi rinfrancava enormemente. Forse, anche per me c’era una speranza, la speranza di ritornare senza pensieri, la speranza di godersi l’età adulta, quell’estate che ancora mi sorrideva, piena di allettanti promesse. Ora che sapevo che non sarei morta, la mia fantasia partì a tutta forza. Immaginai la mia esistenza felice e luminosa, finalmente libera da ogni costrizione. Non appena tornata al Lazzaretto, mi sarei dedicata ai miei cari con tutta la forza del mio essere. Non importava più quanti giuramenti di fedeltà o non belligeranza che avrei dovuto stringere. Sapevo a chi giurare. Nemys non si sarebbe mai approfittata della mia felicità. Mio fratello si sarebbe dovuto mettere in piedi presto: non sarebbe stato carino se lui si fosse legato ad Akita in ogni modo possibile per loro? Era piacevole immaginare la vita che mi aspettava. Nonostante quel piccolo contrattempo, quel mostro profumato e pericoloso, avevamo vinto. La felicità non ci sarebbe stata più preclusa, mai più. Avrei finalmente vissuto una vita degna di quel nome, con Tijorn, il mio caro, dolcissimo Tijorn, il mio stupido fratellino, la sua velenosa e simpaticissima compagna, ed il mio piccolo nipotino, che  già amavo, che non vedevo l’ora di stringere tra le mie braccia, quel mostriciattolo che non vedevo l’ora di coccolare fino alla nausea e viziare. Avrei riempito allo stesso modo di attenzioni i miei dolci protetti, e mia figlia, la mia piccola Roxen, le avrei fatto crescere i capelli fino a terra, per poi acconciarli in morbide trecce, da arrotolare sulla nuca, in un’acconciatura più bella di qualsiasi principessa. Avrei reso Chekaril un vero elfo, degno di portare quel nome altisonante, che al padre, quel verme schiavizzato dalla sorella, buono solo a darsi da fare per portare problemi, calzava solo in battaglia. Gli avrei insegnato, al mio piccolo, la compassione, il valore della libertà, tutte cose che io avevo sempre ignorato, facendolo apposta, e che desideravo più di ogni altra cosa, forse. Li avrei visti giocare con le gemelle, libere ancora prima di essere incatenate, per loro fortuna. Era mio desiderio fisso sentire le risate echeggiare ancora accanto a me, quelle risate allegre che io avevo sentito solo una volta. Magari avrei preso loro anche un altro cagnolino, magari una creatura della razza tipica delle montagne, bestie longeve, mansuete con i padroni, terribili con gli estranei indesiderati, fedeli fino alla morte. Enormi esseri lanosi e morbidi, addestrati a far la guardia fin dalla nascita, piccole collinette di pelo arruffato che mi avevano deliziata ed intimorita, perché, su due zampe, mi sovrastavano tranquillamente. Avrei avuto tutto quello, ed anche di più: ci sarebbe stata Nemys a proteggermi. Lei mi conosceva, sapeva che non avrei mai più fatto del male. L’idea di uccidere ancora mi atterriva, ed io aborrivo quella possibilità con ogni fibra del mio essere. Ero stanca del sangue, stanca di vederlo scorrere sempre per colpa mia, come se ne gioissi, e l’altra parte di me stessa lo sapeva, e fin troppo bene. Avrei voluto implorare perdono ad Isnark, scivolare in ginocchio al suo cospetto, rivelandogli che davvero non avevo voluto fare quello che avevo fatto, che i volti dei due elfi da me uccisi ogni tanto comparivano nei miei sogni per perseguitarmi assieme agli altri fantasmi, che davvero non avevo voluto sfregiargli il volto, perché conoscevo l’umiliazione e l’abbrutimento che una cicatrice portava, soprattutto se in bella vista come quella, che non intendevo affatto costringerli ad entrare in una guerra in cui loro non sarebbero voluti entrare per nulla al mondo, a fianco di un mostro che li ricattava senza remore alcune, che sicuramente aveva carpito da Isnark la reale identità di Nemys, gioendone pazzamente, sfruttandolo come un mezzo qualsiasi. Aveva preso tranquillamente le informazioni che le servivano, cose preziose, in quel viaggio nel Piano di cui io ero la responsabile. Se solo Uruk fosse caduta in disgrazia, sarebbe stato solo ed esclusivamente colpa mia. E gliel’avrei detto, l’avrei rivelato a quell’elfo che mi odiava, prima o poi, tutto il tormento che mi agitava. Io non l’avevo fatto apposta, accidenti! Come rivelarglielo? Mi sarei anche sfregiata l’altra metà del volto, per vendicare quello che avevo fatto. Per quel momento, non mi preoccupai di quello. C’era Nemys a proteggermi, quella creatura a cui, se solo fosse servito, mi sarei legata in ogni modo possibile, in modo da servirla e riverirla come tutti facevano. Lei era degno di rispetto, ai miei occhi, ancora di più. Era me, la me salva da ogni male, non intaccata dall’oscurità. Mi pareva bizzarro, e lo era. Io, Lsyn, avevo servito l’oscurità in ogni sua forma, ne ero stata l’espressione vivente. Lei era la luce, trionfante. Eravamo complementari, ci servivamo a vicenda, la luce per mettere in evidenza il buio, per evidenziarne la gloria oscura, il buio per far sperare nella luce sfavillante. Tuttavia, eravamo diverse. Mi parve così strano, mente abbracciavo Nemys fino a farmi dolere il costato, sentirla e vederla così simile, ma, nel contempo, così differente. A parte i lineamenti, ed il colore della pelle, io e lei non avevamo in comune nient’altro. Era davvero strano. Era forse in suo potere modificare il suo aspetto a suo piacimento? Chissà. Dovevo chiederglielo. Mi scostai così lievemente da lei, in modo da guardarla nuovamente in viso. Lei era felice, felicissima, si vedeva, ed anche un po’ commossa. Lo spettacolo dei suoi innocenti occhi chiari, scintillanti di lacrime, m’intenerì. Erano così diversi da quei pozzi senza fondo che mi ritrovavo, che Chekaril aveva definito così profondi da risultare degni di timore, quegli occhi in cui non trovavo davvero nulla di strano. Era così diversa l’espressione, così dolce, così saggia. Era strano. Perché i Rinnegati non assomigliavano come gocce d’acqua al loro creatore? Potevano scegliere cosa essere, cambiare il loro aspetto a piacimento? Era un fenomeno davvero curioso. Dovevo chiederglielo. Così, tenendole ancora le mani, che lei strinse con partecipe affetto, presi a parlare. Avevo la voce più roca del solito, quasi come se fossi sull’orlo delle lacrime. E forse stavo piangendo davvero. Ma non m’importava, affatto. “senti, Nemys…”. Dissi, con voce bassa, quasi timorosa di spezzare quell’incantesimo di pace che si era creato. Lei mi sorrise, e mi guardò con interesse. Sembrava sapere esattamente cosa mi stesse passando per la testa. Capii, non so come, che lei avrebbe risposto ad ogni mia perplessità. Mi sentii rassicurata da quel fatto. “cioè…perché sei diversa da me? Hai potuto scegliere il tuo aspetto?”. Lei ridacchiò, ed annuì. Accidenti. Repressi a stento l’impulso che m’imponeva di ridere con lei. Ma quel suono metteva gioia, quello scampanellio così simile alla musica del rito che aveva officiato, faceva sembrare il mondo solo una cosa positiva. Non riuscivo che a provare felicità, quando lei era nei paraggi. Era un po’ come Tijorn: stessa carica benevola, stesso affetto che sprizzava da ogni poro. Non si poteva disperare, quando c’era lei. Con voce conciliante, dopo un’altra risata scampanellante che mi mise ulteriormente di buon umore, lei riprese a parlare. Bevvi avidamente ogni sua parola, come un viandante appena tornato da un lungo viaggio nel deserto. Era piacevole potersi fidare così ciecamente di una sovrana. Ma lei non era come le altre. Lei era l’essenza della luce. Strano pensare fosse me, per sommi capi. Ma vero. “certamente!”. Esclamò, con un sorriso brillante e disinvolto, forse un po’ sarcastico.  “ognuno di noi Rinnegati può costruirsi un corpo a suo piacimento. Io volevo ricordarti, senza calcare troppo la mano. In fondo…tu hai sempre odiato la tua statura!”. Di nuovo, lei rise, quella risata altamente contagiosa, e mi abbracciò per un attimo. Non mi sentii oltraggiata per quella presa in giro, anzi: ridacchiai con lei. In fondo era vero. La mia piccola statura è sempre stata, per me, un’ossessione pura. Non dovevo prendermela. Lei aveva voluto solo rimarcare una cosa piuttosto ovvia. Mentre ancora ridacchiavamo, sostenendoci l’un l’altra, lei riprese a parlare. “molti di quelli che erano Rinnegati sono dissimili al loro creatore, da noi…” disse, ora con aria assorta. Mi sentii incredibilmente incuriosita. C’erano altri Rinnegati? Davvero? Decisamente, la curiosità si fece così spasmodica da prendermi allo stomaco, che si torse lievemente. Mi trattenni dal fare una smorfia. Odiavo quelle reazioni stupide. “prendi Zipherias…lui è l’esatta antitesi del suo creatore”. Un nuovo sorriso, apertamente di scherno, ma sempre dolce, le comparve sulle labbra. Zipherias? Strano. Quel nome mi sembrava familiare. Dove l’avevo sentito? Da qualche parte, lì quasi di sicuro. Ma l’esatta persona “mi ha raccontato di essersi staccato da un mercante della costa ovest… una creatura, a sua opinione, grassa, minuscola, viscida e pallida come uno spettro. E l’hai visto, no? Lui è un gigante… proprio chiaro, nemmeno!”. Di nuovo, lei ridacchiò. Qualcosa alle sue parole, andò a posto. Aha! Provai un moto improvviso di stupore. Il tipo con le treccine. Quello altissimo, che mi aveva squadrato tutto il tempo con un’aria di sufficienza che dava sui nervi. Quel mostro era un Rinnegato? Ricordavo dove avevo sentito quel bel nome, altisonante ed un po’ complesso. Lei aveva chiamato uno dei due elfi che mi avevano accompagnata lì Zipherias. Il più chiaro non poteva essere: l’altro l’aveva chiamato, in mia presenza, Benagi. Poteva essere solo quello con il ciondolo, quel tipaccio scurissimo e claudicante, dall’espressione perennemente annoiata ed aspra. Accidenti…ora si spiegava quel colore così…così nero!  Lui non era un elfo. Mi sentii istantaneamente intimorita ancora di più. Era strano pensare quel bastardo un Rinnegato, quel gigante solo un’ombra. Non corrispondeva alla materialità della sua stretta forte e dolorosa, quella stretta che mi avrebbe lasciato ben più di un livido. Era strano pensarlo un Rinnegato, davvero. Perché zoppicava così vistosamente? Conciliare la sua immagine minacciosa e torreggiante con quella della dolce Nemys mi sembrava un’impresa impossibile. Eppure, entrambi mi avevano tratta benissimo in inganno. Erano elfi. O almeno, tali sembravano. Accidenti. Quasi non ci potevo pensare. Zipherias, un Rinnegato. Ma quanti altri ce n’erano, nella sua cricca? Ero incredula, fortemente incredula. Ovviamente, non in un modo esagerato. Non conoscevo abbastanza il mostro scuro per potermi stupire di una cosa del genere. Stavo solamente facendo qualche calcolo. L’altra parte di me sorrise, di fronte allo smarrimento totale che sicuramente lasciavo intravedere, e scosse leggermente il capo, come se avesse detto troppo. Non sembrava rimpiangerlo, però. Dovevo parlare. Assolutamente. Accidenti, quella era roba davvero grossa! Quanti Rinnegati stavano con lei? Quanti facevano parte del suo esercito? Accidenti. E loro avevano avuto paura di Lainay? Loro? Quanto erano forti, i Rinnegati? Tutte quelle domande erano davvero troppe per me. Riuscii, di tutto quello che mi si agitava in testa, ad esternare solo un pensiero. Sotto lo sguardo protettivo ed innocente di Nemys, accanto a lei come avevo fatto con la Matriarca, come avevo fatto per una settimana con la mia amica Tengu, cominciai a parlare, in quel serrato botta e risposta, quel dialogo così pieno d’affetto. Odiai sentire la mia voce così debole e lontana. Ma lo stupore mi aveva davvero lasciata alla sprovvista. “quel tipo che mi ha accompagnata qui è un Rinnegato come te?”. Domandai, stupefatta. Una domanda stupida, ma che mi avrebbe rivelato nuove, piccole cose sconcertanti. Quante altre cose mi erano precluse? Quanti segreti covava, quella dolcissima me? A quelle parole, Nemys parve divenire piuttosto cauta. Si mordicchiò il labbro inferiore, guardando verso l’alto, eludendo il mio sguardo inquisitore, e sospirò. Il sorriso, quel sorriso dolce che aveva avuto per lungo tempo, da quando mi aveva confessato la sua identità, a pensarci bene, si smorzò, divenendo un’espressione sognante, ricca di soddisfazione. Mi domandai il perché. Non mi era sfuggito il lampo di esultanza comparso nei suoi chiari occhi. “non più, Lsyn”. Esclamò, guardando ancora verso l’alto, sognante, con la stessa voce che potrebbe avere una madre che parla di un figlio geniale. “ora lui è un elfo come te. Io l’ho reso tale”. Cosa? Se prima ero rimasta spiazzata, in quel momento mi aveva completamente presa di sorpresa. Penso che sbiancai, e sicuramente ebbi un sobbalzo, tanto che Nemys mi guardò di nuovo, e mi strinse forte le mani, come per volermi rassicurare, nei suoi occhi, ora l’ansia.  Ma non c’era nulla da fare per  tranquillizzarmi un po’. O meglio: non sarei mai scappata, non da quell’essere così puro, non dalla parte integra di me stessa, ma rischiavo di sentirmi male. Lo stomaco si torse con tale violenza da farmi gemere debolmente. Dei. Come lo odiavo! Mi sentii, per la prima volta, tremendamente in soggezione. Nemys aveva un potere tale da far divenire ombre di viventi viventi veri e propri? No: non le credevo. Era impossibile! Come poteva fare? E lei? Lei era una Rinnegata? E perché non si curava? Accidenti, accidenti, accidenti. Ecco cos’era, quell’esplosione di potere che mi aveva fatto rizzare i capelli sulla base della nuca, nel tempio! Ebbi un’improvvisa illuminazione, e mi diedi della stupida. Avrei dovuto capirlo prima, molto prima. Forse avevo capito cos’era andato a fare quella persona inginocchiata, nel tempio. Forse era quella, la spiegazione di quell’alone di luce. Come accidenti faceva? Beh…non erano noccioline, quelle, per spiegarsi bene. Nemmeno il più potente mago elfo ci sarebbe riuscito. Nessuno, accidenti! Come, come trasformare un corpo fatto di energia in uno fatto di carne? Ci voleva troppo dispendio d’energia! Troppo potere da sprecare! Era un’impresa sovrumana! Ora lei arrivava, fresca come una rosa appena colta dal giardino, e mi comunicava, come se niente fosse, di essere capace di creare così, un corpo dal nulla, di cambiare essenza ad un individuo costituito d’ombra. Tra un po’ che avrebbe fatto, mi avrebbe detto di saper resuscitare i morti, o cos’altro? Ero letteralmente impietrita. Oggi rido, nel ricordare la mia reazione. Dopo le cose tremende che seguirono, dopo la creatura che oggi è tra i miei protetti, quella creatura così dolce, ma così strana e pericolosa, non mi stupisco più di nulla. Non ho la forza per stupirmi. Ma in quel momento, io, abituata da secoli a maghi piuttosto mediocri, a stento capaci di entrare nel Piano, non riuscivo a concepire un’idea così devastante. Accidenti…era letteralmente assurdo. Penso di aver guardato Nemys con un’aria così stupita da apparire idiota, non so. Ora non ricordo alla perfezione, ma spero ardentemente di non aver aperto la bocca. Lo spero. Parlai come in un sogno, come immersa in una caligine turbinante. Ci voleva tempo per assimilare quello che mi stava dicendo. “tu…tu hai…sei…fai…”. Riuscii a squittire, con una voce tanto simile a quella di Aevo quando mi aveva guardato per la prima volta senza maschere. Era tutto quello che riusciva ad uscirmi, davvero. Lei annuì lievemente, e sorrise. Poi mi abbracciò forte, come per impedirmi di fuggire da lei. Ero esterrefatta. Ed esterrefatta è dire poco. Lei mi tenne dolcemente tra le sue braccia, come per rassicurarmi. Era bello, bello essere così vicina ad una persona così cara, ma, davvero, avevo bisogno di risposte. Quel potere tanto spaventoso mi turbava. Non lo credevo nemmeno possibile. “Lsyn, è il mio potere… è così perché sono una Rinnegata”. Mormorò, passandomi una mano tra i capelli. Sembrava quasi trattarmi come una bambina. Non era così spiacevole, m ami pareva una strana sensazione. Soprattutto se quella che mi trattava così aveva appena cinquant’anni. L’età di mia figlia. Eppure, sembrava vecchia di secoli, e millenni. Quegli occhi così dolci mi narravano di ere passate, di vento, di sabbia che spazza via il tempo, rendendolo cosa innominabile, rifiuto tra i rifiuti. Prestai spasmodica attenzione alla sua voce ansiosa, tornata di nuovo lievemente sofferente. Sembrava quasi aver paura che io la lasciassi, che prendessi ad odiarla.  Quasi sbuffai. Aveva così poca fiducia in me? Non l’avrei mai lasciata, mai. Era davvero esagerata: in fondo, ero solo un po’ turbata, niente più. Non c’era bisogno di fare tutte quelle storie. Mi aveva solo presa alla sprovvista, tutto qui. Non era poi così grave. La sua voce terrorizzata ed addolorata m’intenerì. “ho trasformato un sacco di gente…tutti quelli con il ciondolo rosso erano Rinnegati…io voglio solo la vita delle persone, che siano felici, nient’altro… non voglio far del male a nessuno!”. Accidenti. A giudicare dalla diffusione di quel ciondolo lei aveva donato alla vita un bel po’ di creature. Era davvero incredibile. Mi sentii invadere, all’improvviso, da una tenerezza e rispetto incalcolabili. La mia dolce Nemys. La mia sorellina, l’altra parte di me. Com’eravamo diverse, ma com’eravamo uguali! Davvero, davvero, davvero, non avevo mai incontrato una creatura come lei. Lei non voleva altro che la felicità altrui. In quello ci assomigliavamo. In fondo…che cos’era, quel potere, se non pura e semplice magia vecchio stile? Non comprendeva minacciose creature che facevano impazzire, né altre diavolerie del genere. Era una magia bianca, una magia che prevedeva gioia, luce vita. Niente di male, insomma. Perché mi spaventavo tanto, in fondo? Come potevo, io, dubitare di una creatura tanto buona? Non dovevo spaventarmi per una bazzecola del genere. Non avevo crollato di fronte alle più tremende atrocità…dovevo reagire come un pulcino spaventato solo per quello! Ignobile da parete mia, una fiera elfa del nord. Nonostante tutto, non avrei mai dimenticato la mia purezza razziale. Dovevo sentirmi meschina per quello. Io avrei dovuto far di tutto per l’unica parte di me stessa che si fosse salvata dall’agonia tremenda del fuoco. Io dovevo ammirare Nemys, che si sacrificava per gli altri. Io non avevo mai fatto tutto quello che lei faceva ogni giorno. Io non ero riuscita a tener testa a Lainay come aveva fatto lei, impedendole di conquistare anche quei territori, riuscendo a catalizzare la fedeltà e l’amore di popoli interi, creando uno stato libero e fecondo. Io non ero mai riuscita, né lo sarei mai stata, a fare nemmeno un po’ di quello che aveva fatto lei. Io ero riuscita solo a mettere nei guai me, e gli altri. Non avevo fatto altro che quello, né smisi mai di farlo. La consapevolezza di ciò mi gettò per un attimo nello sconforto. Era brutto pensare quelle cose, tremendo. Mi dava una certa sensazione di nullità, d’impotenza. Proprio in quel momento, tra le braccia, ancora una volta, della mia gemella, della mia sosia diversa, capii di aver accantonato la questione del potere come se non fosse mai esistita. Beh…davvero, non m’importò più. Mi ero calmata, finalmente. Era stata così sciocca, la mia reazione! Timidamente, sorrisi, e restituii l’abbraccio. La Rinnegata, la mia Rinnegata, mi strinse più forte. Restammo a lungo così, stretta, come per consolarci. Ricevetti una bizzarra sensazione di calore, da quell’abbraccio. Come se nulla potesse andare storto. Fu bella, e, per un breve, brevissimo momento, mi sentii al sicuro. Ed invece, le cose stavano per precipitare. Erano pronte per farlo. Ad un certo punto, non so dire come né quando, sentimmo qualcuno bussare la porta. Io e Nemys ci staccammo. La mia Rinnegata sembrava avere un’espressione alquanto confusa, e seccata. “chi sarà mai?”. Disse, con voce ora tranquillizzata, per fortuna, alzandosi dal divano. Io non la seguii. Stavo troppo bene, lì. In fondo, lei non se ne sarebbe andata. Mai più. Le due parti di me, i due lati della mia personalità, non dovevano andare divisi. “cosa sarà mai successo? Ho dato l’ordine di non disturbarci…”. Non ho mai creduto alle premonizioni, ma, davvero, quello che successe dopo ancora mi lascia stupita. Sentii uno strano rimescolio nello stomaco, e provai una sensazione poco familiare, ma tremenda. Non so perché, ma pensai immediatamente a mio fratello, al Lazzaretto, ad Akita. C’era qualcosa che non andava, quello era sicuro. D’un tratto, la sicurezza che avevo mostrato in quel colloquio svanì del tutto. Mi sentii di nuovo disperatamente sola. Avvertii freddo, un freddo indicibile. Oh, no. No. No. Non poteva andare tutto storto, vero? Certamente…poteva essere una questione d’infima importanza…ma io non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea di Tijorn. Non lo so perché. Sentii un indicibile dolore invadermi le membra. No. Era solo la mia immaginazione. No! Io volevo vivere! Volevo vivere, vivere, vivere! No! Non potevano rubarmi le mie speranze! Non in quel modo! Io dovevo essere felice! Cercai di respirare, ma mi accorsi di avere qualcosa bloccato in gola. Cercai di calmarmi. Inutilmente. Sentii battere il cuore come un uccellino indifeso in gabbia. Non stava succedendo. Dovevo rimanere calma. Non tutto era detto. Non tutto. Dopo essersi avvicinata un po’ alla porta, Nemys parlò. “chi è?”. Disse, con una voce svagata che mi parve molto strana. Mi ricordai, cosa stranissima, del momento in cui era cominciato tutto, di quando io e Tijorn eravamo nella stanza di Junielle, in attesa che lei portasse i piccoli ed Amarto da noi. La situazione mi sembrava la stessa. Quasi non mi resi conto di essere schizzata in piedi, tremante. Non mi resi quasi conto dell’occhiata preoccupata ed incuriosita che mi aveva lanciato Nemys. Dietro la porta massiccia, si sentì una voce soffocata. La voce del giovane che mi aveva chiamato quando ero da Tijorn. “venerabile Nemys, aprite!”. Disse, con una strana voce urgente. La voce che mi parve uno squillo di tromba, per me. Lo squillo finale. L’ultima battaglia per la mia felicità. “c’è bisogno del vostro aiuto!”.

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Capitolo 76
*** Giro di ruota. ***


Vennero a chiedere il suo aiuto urgente, definiamolo così, maledetto sia chi mi fece venire quel tremendo colpo al cuore, per una vera sciocchezza

Vennero a chiedere il suo aiuto urgente, definiamolo così, maledetto sia chi mi fece venire quel tremendo colpo al cuore, per una vera sciocchezza. O forse la reputo tale perché avevo interpretato quelle parole in modo sbagliato. Oh, molto sbagliato. Fatto sta, che io e Nemys, alzateci di scatto, lei pallida, con la morte in viso, io completamente fuori di me, piena di pensieri strani, lo stomaco che sembrava essersi infilato in una botte piena di acqua bollente, ci precipitammo fuori senza esitare. Quella voce era familiare, io avevo visto il giovane che mi aveva chiamata, nel Lazzaretto. Quel tipo sottile, dai capelli indomabili. Che fosse rimasto lì, a far da guardia ai miei amici? Che fosse rimasto da mio fratello? Insieme al terrore, sentii una fitta d’irritazione. Perché accidenti i guai dovevano capitare quando io non c’ero? A quel punto, la colpa non poteva essere per niente data a me. Erano gli altri ad essere una massa di caproni irresponsabili. Sapevano che per me Tijorn era come me stessa. La febbre non gli era ancora passata, e lui doveva stare a riposo. Era ancora convalescente, e doveva stare, completamente fermo in quel lettuccio. Era un ordine tassativo. Per gli incompetenti avrebbe pure potuto cominciare a fare piccole passeggiate, ma per me no. Mi sarei fidata di farlo muovere solo quando Max mi avesse dato il suo permesso. Era di lui che mi fidavo. Che i Guaritori di Kyradon, o qualche altro incompetente, l’avessero fatto alzare? E se il veleno non fosse stato estratto del tutto, da quella massa di idioti imbellettati? Quell’ultima possibilità mi fece quasi cadere, a contorcermi per il dolore allo stomaco, tanto che Nemys, giratasi per un momento verso di me, pallida , mi afferrò per un braccio, e mi tenne forte. Ma non caddi. Non ancora, almeno. La possibilità di vedere  Tijorn, il mio bel Tijorn, morire, era troppo orrenda per poterla contemplare. Già altre volte mi ero lasciata cullare da quelle terribili fantasticherie, che mi torturavano e mi tormentavano, ma mai come quel momento. Sentivo freddo dappertutto, ero tutta indolenzita. Il mio corpo era un blocco di ghiaccio. Mi pareva di essere come racchiusa in una camera molto stretta, senza potermi muovere. Quasi vedevo del nero agli angoli del mio campo visivo. Uscimmo dallo stanzino, dove con tanta felicità avevo conosciuto l’altra parte di me stessa, la mia Rinnegata, rapide come due frecce. Il giovane elfo, minuscolo in mezzo ai due giganti scuri, che lo affiancavano ci guardò con ansia, e si rivolse alla Matriarca, dopo un attimo di sconcerto, chissà, forse dovuto al fatto che lei mi stava mantenendo, toccandomi con gran confidenza. Mi sentivo talmente male da non riuscire quasi a camminare. Ero separata dall’oblio solo grazie a Nemys, che mi faceva sentire la sua presenza, tenendomi sottobraccio, e sostenendomi. Senza di lei avrei rischiato di stare peggio, molto peggio. Lei era la mia fonte di luce, che mi supportava quando io mancavo. Ed in quel momento tutto ero, tranne che presente. L’elfo castano pareva pieno di apprensione.  Lo guardai di sottecchi. Era nervoso, ma non mi sembrava poi così tanto addolorato.  “dovete venire, mia signora!”. Cinguettò, torcendosi le mani, guardandomi per un momento con rabbia. Cercai di ignorare quel segnale piuttosto negativo, di ciò che sarebbe seguito. Sembrava, in qualche modo, agitato. “i sacerdoti hanno bisogno di voi!”. Ed ora che c’entrava Nemys? Perchè sarebbe dovuta andare lei, e non io? Che significava tutto quello? Avvertii la pressione sul braccio che lei mi avevo stretto diminuire. Deglutii, e non guardai nessuno. Ero troppo concentrata a contare le bianche mattonelle, troppo concentrata a studiarne le venature del candido marmo. Sapevo che lasciare che l’ansia s’impadronisse di me era più che sbagliato. Se solo l’avessi fatto, sarei svenuta, o peggio. Sentivo il cuore in gola, battere con un tamburo. Tuttavia, non so perché, quando sentii la presa ferrea della Rinnegata allentarsi, mi sentii meglio. Forse non tutto era nero come mi era parso. Forse era tutto un trucco. Forse era successo qualcosa di meno grave. Oppure volevano Nemys davvero, non me. Mi sentii così trascinare e,  seguiti da Benagi e da Zipherias, due colossi neri, due statue minacciose, ci avviammo di nuovo verso l’interno del tempio, nei pressi dell’altare. Man mano che procedevamo, trovai la forza per alzare la testa. Il giovane elfo, che stava discorrendo animatamente con Nemys stava parlando di qualcosa inerente al tetto, a qualcosa che era caduto, di un incidente che richiedeva  assolutamente la presenza della Matriarca, in quanto era avvenuto proprio nei pressi dell’altare. Un cedimento del soffitto, qualcosa del genere. A quelle parole, mi sentii investita da una curiosa ondata di sollievo, accompagnata da una non meglio definita ira. Le fitte tremende allo stomaco si calmarono, lasciandomi preda di un dolore sordo, ma piuttosto sopportabile, anche se non prometteva nulla di buono. Sentii un vago sapore acidulo invadermi la gola, mordendola. Mi sentii la testa leggera, e capii, improvvisamente, di essere lì, di essere presente, come se non me ne fossi accorta, prima. Allora Tijorn stava bene. Era ancora lì, al Lazzaretto, sbuffante e tutto sommato sano, o almeno mi pareva così, ad attendermi con impazienza. Mi sentii invadere da un fiotto di energia e colore, che mi diede la forza necessaria per muovermi da sola. Nemys, tuttavia, non mi lasciò. Mi sembrò mi guardasse per un attimo, che mi scrutasse attentamente, come in cerca di qualche cedimento, ma io non ne capii il motivo. Le immagini morbose di Tijorn bianco, freddo ed immobile erano ormai svanite dalla mia mente. Mi sembrava che qualcuno mi avesse tolto un gran peso dalla schiena. Mi sentivo molto meglio, a parte quel dolore continuo, che dallo stomaco mi afferrava il petto, ed un certo stordimento. Era sempre stato così, e non me ne curai più di tanto. Certo, di solito non ero ancora mezza indebolita da una ferita che, secondo i miei piani, avrebbe dovuto uccidermi, e da una fuga precipitosa, ma riconoscevo quei sintomi. Mi succedeva, dopo attimi di nervosismo. Soprattutto quando mi facevano venire spaventi simili. Guardai, per un secondo, storto il giovane, che non sembrava far caso a me. L’avrei ammazzato, con le mie stesse mani. L’avrei davvero ucciso. Ma come si era permesso? Per una sciocchezza del genere, farci morire di paura! Come se mi avesse letto nel pensiero, Nemys, mentre ci avvicinavamo all’altare, si accostò al mio orecchio. “tranquilla, Lsyn…”. Disse, in tono dolce. Io non la guardai, ma preferii fissare in cagnesco l’elfo che mi aveva strappata alla mia pace. Una pace che mai più avrei potuto avere, un attimo beato, dopo tanto soffrire. Scoprire di essere ancora una persona, di non essere odiata a morte da tutto il mondo. La cosa mi recava un grande sollievo. E quella creatura infingarda, senza sapere cosa mi stava provocando, aveva interrotto un momento di pace! Si vedeva, oh se si vedeva, che lui non aveva mai sofferto davvero. Era da quando avevo tentato di suicidarmi, anzi, da quando avevo scoperto che Chekaril era ancora vivo, che non avevo tregua. La mia vita si era rivelata una serie infinita di torture, una peggio dell’altra. Mi pareva di aver trovato, finalmente, un equilibrio. Un equilibrio che quel maledetto era andato a spezzare. “Torterio è giovane, e si spaventa per poco. È sempre nervoso”. Grazie! E perché accidenti non era andato a tormentare qualcun altro? Avevo già avuto in abbondanza la mia razione di terribili notizie, ed avevo i nervi a fior di pelle. Era quasi una reazione normale, per una creatura abituata da sempre alle tragedie. Quel maledetto avrebbe dovuto pagare, prima o poi. Magari non l’avrei ucciso. Ma avrebbe sofferto, e molto. Non mi si spaventava in quel modo. Le gambe ancora mi tremavano follemente. Forse era davvero un bene che Nemys mi stesse sostenendo. Arrivammo, dopo poco, nel punto dove era accaduto l’incidente: nient’altro che un piccolo, minuscolo crollo. Tutta quella confusione non era accaduta altro che per una questione d’ordine infimo. Tre sacerdotesse erano lì, tutte e tre con il ciondolo rosso, vestite di abiti bianchi e lunghi, e  fluttuanti mantelli color argento, di quella che mi sembrava seta.. Le guardai con curiosità. D’un tratto, i monili dei due soldati che avevo ucciso, ancora al sicuro nel mantello, mi sembrarono più pesanti che mai. Avevo ucciso un essere che si meritava più di ogni altro di vivere. Cercai di non pensarci, e mi concentrai sulle tre elfe. Una delle tre era addirittura più bassa di me, cosa che fino ad allora avevo reputato davvero impossibile, ma l’altezza scarsa era compensata dalla straordinaria massa di riccioli fitti e corti, di un comune giallo paglierino. Attorno alla gola aveva legato, oltre al monile, quello che mi sembrava un nastro color oro. Le altre due non avevano connotati particolari, e mi sembravano quasi anonime, quasi fatte apposta per essere dimenticate. Il nastro, nel loro caso, era rosso acceso. Le tre, che confabulavano tra di loro, al nostro arrivo si girarono. Ed impietrirono. Impietrirono, davvero. Mi sentii trapassare da sei occhi increduli e molto ostili. Quasi mi sentii male anch’io, di nuovo, più di prima. Fino a quel momento l’astio vero e proprio mi era stato risparmiato, l’astio di quel popolo che aveva imparato a temermi. Fino a quel momento nessuno aveva notato il mio arrivo, a parte i Guaritori, che sembravano non darci tanto peso, e qualche sporadico paziente di turno. E già quelle occhiate di disgusto, quei sussurri che avevano accompagnato i giorni infiniti al Lazzaretto di Kyradon, mentre io mi affannavo dietro a Max, cercandolo di aiutarlo come potevo, andando avanti ed indietro piena di bende, strumenti vari e boccette d’intrugli, mentre andavo dai piccoli, che avevano dovuto stare a riposo per circa tre giorni per via dei colpi brutali ricevuti da Lainay e Jalim. E tutto quello che ricevevo come ringraziamento erano parole accoglienti come una trappola per lupi, insulti sussurrati, detti a mezza voce, ed, un paio di volte, addirittura urlati. Mi avevano chiamata in ogni modo possibile ed immaginabile, ed avevo dovuto sopportare, nonostante mi tormentassi. Dovevo sopportare tutto quello, perché me lo meritavo. Me lo meritavo ,per essere stata una cagna della Regina, e tutto quello. Me lo meritavo, perché era tutta colpa mia. Ma questo non voleva dire che la cosa non mi colpisse, anzi. Non ero così insensibile, così forte. Era orrendo vedere i frutti della mia atroce condotta, i frutti che tutta la mia esistenza aveva dato. Nessuno credeva che mi fossi ravveduta. Tutti pensavano che il mio non era altro che un vile trucco per uccidere, magari, o per trafugare informazioni preziose. La cosa era atroce. E provai un tremendo desiderio di piangere, di disperarmi, senza poter fare nulla. Il dolore, con mio grande allarme, raddoppiò, ed io mi sentii ancora più male. Nemys mi strinse di nuovo forte. Ci fermammo di fronte alle tre sacerdotesse, in silenzio. Potevo sentire la tensione nell’aria, toccarla, quasi. Una delle tre, la più piccina, quella bassa che mi sembrava un’infante, sibilò, e mi guardò storto. Sembrava ad un passo dal saltarmi addosso. Quella alla sua sinistra, senza smettere di fissarmi con gli occhi socchiusi, le mise una mano sulla spalla. Tutte e tre abbassarono la testa, s’inchinarono, al cospetto di Nemys. Ma non troppo. Sembravano avere un ruolo piuttosto importante, un ruolo di spicco. Le tre rialzarono subito il capo, e tornarono a fissarmi, quasi fossi una volpe in un pollaio. Mi strinsi, intimorita, a Nemys, quasi inconsciamente, come in cerca di protezione. Stavo tornando a sentirmi male. Desideravo il contatto con mio fratello, con Akita, più che mai. Volevo essere vicina ai miei cari. Lì, nonostante la Rinnegata mi volesse bene, mi sentivo un’estranea, una straniera, peraltro poco benvoluta. Deglutii. Il sapore acido stava diventando disgustoso. “mia signora, è successo un piccolo contrattempo”. Sussurrò la piccina, con una voce che cercava evidentemente di dissimulare la rabbia che stava provando nei miei confronti. Sentii Nemys tirare un sospiro, e la guardai. Era piuttosto pallida, ed aveva le labbra tirate in quella che mi pareva una smorfia di disapprovazione. Ci fu un lungo momento di silenzio. Non so perché, ma mi sentii di nuovo di troppo. In terribile imbarazzo. Lei stava rischiando per me. Il gioco non voleva la candela. Feci per parlare, ma fui zittita da un’occhiata ammonitrice della mia nuova sorella d’anima. Lei sorrise brevemente, poi si rivolse alle tre guardinghe sacerdotesse. “pace, amiche mie”. Disse, con la sua meravigliosa voce cristallina. Era così bella che aveva quasi il potere di calmarmi, di tranquillizzarmi. Ma le tre non sembrarono soddisfatte, e quella che aveva parlato strinse forte le labbra. “Lsyn è venuta qui in pace, e mi fido di lei. Conosco il suo cuore”. Nessuna delle tre, con mio grande rammarico, parve fidarsi delle sue parole. La castana, quella alla destra, digrignò i denti, e sibilò qualcosa troppo a bassa voce per poter essere udito. Non mi era mai capitato di essere odiata con quell’intensità. Certo,  non ero mai stata particolarmente amata dal popolo di Galinne, nei miei anni ruggenti: anche sotto la mia copertura ero molto sgradevole con gli umili. Ovviamente, tutti mi avevano evitato dopo che ero stata sfigurata, e mi avevano temuto. Ero sempre accompagnata da un velo di mitica paura, ma mai dall’odio. Nessuno aveva mai mostrato tanto astio nei miei confronti. Non sapevo assolutamente come comportarmi. Quasi mi sentii irritata, ed addolorata al tempo stesso. Che ne sapevano, quelle tre bigotte, dei rituali delle Spie? Cosa ne sapevano, del fatto che io, dal concepimento, ero stata destinata a esser quello che ero stata? Potevano rendersi conto del terribile ingranaggio di morte, che fagocitava coloro che finivano in mezzo ad esso, in cui ero stata schiacciata? Capivano che io non avevo mai auto il diritto di scegliere il mio futuro? Sapevano loro i tormenti che avevo patito? Avevano mai avuto un figlio, per poi vederselo strappare dalle braccia senza la speranza di rivederlo? Erano mai state crudelmente prese in giro, crudelmente picchiate dalla stessa sovrana, solo per aver detto una singola parola fuori posto? No, di sicuro. Eppure, non so perché, assieme allo sdegno provai anche una vergogna immensa. Vergogna per ciò che ero stata, per ciò che ero ancora. Avevo corteggiato le tenebre, non avevo mai cercato di sfuggirvi. Non ero stata come Tijorn, che si era prudentemente tenuto lontano dall’oscurità, che aveva scelto di non partecipare ai massacri ordinati, di dedicarsi alla vita tranquilla per cui era fatto. Io avevo gioito, un tempo, della mia vita crudele, avevo considerato la prigionia come un dono del cielo per ergersi in alto, sempre più in alto. Ed in quel momento, calpestata e derisa dal mio stesso orgoglio, vinta dal più semplice caso, meritavo tutto l’astio del mondo, solo perché non ero stata capace di ribellarmi ai lacci segretamente imposti. Ero stata una mucca legata ad un palo, libera di ruminare solo per la misura della catena, e ben felice di esserlo. Non riuscii a sopportare oltre quegli sguardi ostili. Mi pareva di essere in una tana di lupi. Ricordavo lo sguardo nemico di Benagi, lo sguardo pieno di rancore di Torterio, i sibili delle pie sacerdotesse, l’indifferenza cinica ed annoiata di Zipherias. Solo Nemys, per chissà quale motivo, mi voleva bene. E non sapevo nemmeno fino a che punto. Abbassai lo sguardo, di nuovo, sulle mattonelle. Ci fu un ennesimo momento di silenzio. Avrei voluto strapparmi la carne a morsi. Tutto, pur di farmi perdonare. Di nuovo una fitta di dolore, che quasi mi fece scappare un gemito. Non mi sarebbe mai, mai riuscito di vivere in pace con i miei cari, se prima non avessi deciso come legarmi a Nemys, in modo da mostrare quanto fosse reale la mia buonafede. Dovevo trovare un modo per fuggire da quella rete che il mio passato orrendo aveva creato, assolutamente. Io non volevo essere odiata così. Non ne avevo il diritto. Non volevo, nemmeno. Io desideravo solo essere amata, essere compresa. Tutto qui. Qualcuno che mi sostenesse, perché io non ce la facevo più. Qualcuno che mi tenesse per mano, che mi guidasse per la tempesta che stavo attraversando. La pena era immensa, la pena era troppo immensa per esser sopportata. All’improvviso, traditrice, senza preavviso, arrivò un ondata tremenda di malessere. La debolezza ancora presente, forse la ferita che ancora aveva qualcosa che non andava, il colpo che mi aveva fatto prendere il giovane elfo, nascosto ora tra i due giganti scuri e silenziosi, il nervosismo accumulato in giorni e giorni in cui mi era impedito di parlare del mio martirio con chicchessia, trovarono finalmente un valvola di sfogo. Un ennesimo fiotto di acido mi salì in gola, ed io tossii. La testa sembrò staccarsi dal corpo, e mi sembrò di essere immersa in una lanugine scura. L’ambiente attorno a me appariva e scompariva, quasi si stesse nascondendo di proposito. Mi parve che le gambe non mi reggessero più. Qualcuno mi sostenne. Il dolore esplose, maligno e crudele, il mio ennesimo torturatore, all’altezza dello stomaco, inondandomi il petto. Era una sensazione tremenda. Quasi urlai, e mi contrassi in un bozzolo, per cercare di sfuggire al tormento. Pace. Volevo solo pace. Volevo solo stare tranquilla. Delle mani fresche si posarono sul mio viso. Era un bella sensazione. Non capivo dove fossi, né chi fossi, quasi annichilita dal tormento. Forse ero stesa. Forse ancora in piedi, non lo sapevo, né m’importava. Volevo Tijorn, solo Tijorn. Volevo i miei bambini, volevo Akita, volevo Amarto, e persino Junielle, la nuova, apatica Junielle. Volevo stare con chi amava. Volevo che Nemys fosse amata da tutti, non che dovesse patire il sospetto generale. Lei non lo meritava. Qualcuno bisbigliò qualcosa, con aria spaventata.  Qualcun altro rispose. Non lo volli capire. Chiusi gli occhi, con disperazione. Non volli vedere. Non volevo fare niente. Solo rimanere, prigioniera del mio dolore, andarmene da lì. Non volevo più essere l’oggetto di sguardi indiscreti. Avevamo lasciato, io e Nemys, la calma dello stanzino in cui lei mi aveva rivelato la sua reale essenza. Lei doveva riprender il suo ruolo di Matriarca. Io da rinnegata qual ero, da odiata, da scarto della società. Con il pretesto di un solito doloretto da nervosismo, cercai di sfuggire al dolore più grande: la netta, nettissima, presa di coscienza della mia miseria, dell’abisso in cui ero precipitata. Avevo cercato di oppormi ad esso, avevo cercato di nuotare, ma le onde erano state troppo alte, e troppo forti. Il giro di ruota era arrivato al suo punto più basso. O almeno, era quello che credevo, quando sentii qualcuno afferrarmi, prendendomi in braccio, quando sentii Nemys sussurrare che sarebbe venuta da me molto presto, che tutto sarebbe andato bene, che sarei tornata dai miei cari, a riposarmi, perché avevo tanto bisogno di un po’ di riposo. Ma io non ero della stessa opinione. Se qualcosa si fosse smosso, si sarebbe smosso solo in senso negativo, quello era davvero sicuro. E quanto, quanto avevo ragione! Isnark avrebbe ordinato la mia condanna a morte. Sarei stata allontanata per sempre dai miei amati. Per sempre, e non vi sarebbe stato rimedio. Cercai di arginare il pianto, e, mentre ci muovevamo, mi concentrai sul dolore, per non impazzire. Tutto sommato, la mia era stata più scena che altro. Quelle braccia che mi tenevano a distanza erano sgradevoli, terribilmente sgradevoli. Sembravano fremere dalla voglia di buttarmi giù, di farmi del male. Del male che meritavo, che meritavo tutto, fino all’ultima goccia. Ed ancora non sapevo quanta, quanta sofferenza ci sarebbe stata, nel mio futuro! Ed io ancora non sapevo, ancora mi lamentavo per quelle che poi mi sarebbero sembrate stupidaggini! Rimasi, così, ad occhi chiusi, per un po’. Aspettavo il momento giusto per far finta di risvegliarmi, per rimettermi nei piedi, ma non volevo essere troppo in mezzo alla gente. Non volevo vedere altro rancore, altra rabbia. Perciò, rimasi immobile per un certo tempo nelle braccia del mio salvatore sconosciuto, che mi stava, di sicuro, portando al Lazzaretto. Faceva caldo. Evidentemente, ero coperta, per non essere vista. Così presa dai miei pensieri, non dovevo essermene accorta prima. Non importava. Cominciai, dopo un po’, a dimenarmi, impaziente. Ma quanto accidenti ci metteva, il tipo? Aprii gli occhi. Volevo vedere chi mi stava portando con così tanta stoica rassegnazione al proprio dovere. Braccia scure, forti. Uno dei due mostri, degli elfi alti. Quasi sicuramente, a giudicare dal passo fluido e non claudicante, si trattava di Benagi, il più piccino e chiaro. Sentii un’improvvisa fitta di disagio. Non mi piacevano, né Zipherias né Benagi, per niente. Troppo alti, troppo ostili nei miei confronti. Ne avevo quasi paura. Ad occhi aperti, il dolore finalmente quasi placato, mi dimenai un altro po’. Volevo far capire di voler scendere. “stai ferma, buona e zitta, cagna nana”. Mi sibilò una voce, una voce neutra che mi ferì. Odiavo essere trattata in quel modo. Io volevo solo un po’ d’affetto, un po’ di rispetto. Nient’altro. “arriveremo al Lazzaretto, e lì ti lascerò libera. La Matriarca non ti vuole morta. La gente, qui, ti lincerebbe. Siamo riusciti a nasconderti prima, però ora sono solo uno. Quindi, non agitarti, e fammi fare il mio mestiere”. Non mi piacquero quelle parole neutre, dette nel tono con cui si parlerebbe ad un bambino. Un tono che conteneva segrete promesse di minaccia. Benagi sembrava essere sul punto di stritolarmi nella sua stretta. Capivo che si stava trattenendo solo per amore della sua sovrana, nulla più. Ringraziai nella mia mente Nemys. Stava davvero rischiando il suo onore, per me. Sospirai, e non parlai, deglutendo il boccone amaro. Avevo una terribile voglia di piangere. Non potevo farmi vedere piagnucolosa, però, non da lui. Dovevo essere forte, almeno per un altro po’. Non potevo fare quella figura di fronte a quello sconosciuto che mi odiava. L’orgoglio bruciava ancora forte. Ci fu una lunghissima pausa di silenzio. Sentivo la vita della città scorrere attorno a me. Una vita a cui io non avrei mai potuto partecipare. Perché il destino non aveva deciso di farmi nascere fornaia, magari come Laila, l’identità fittizia che avevo assunto dai Tengu? Perché non avevo diritto ad una bella vita tranquilla? Cosa avevo fatto di male, se non nascere nella famiglia sbagliata? Cercai di parlare senza far intravedere la mia voce incrinata. “io non voglio essere odiata”. Mormorai, sperando che Benagi non mi sentisse. Speranza alquanto vana. “un po’ tardi per pensarci, bastarda. La Matriarca può anche fidarsi di te, ma io dico che il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Ringhiò l’elfo alto, stringendomi un po’, con ostilità più che tangibile. Mi sentii enormemente ferita dalle sue parole. “finché non ci sarà una prova della tua fedeltà, beh…dovrai solo rinchiuderti nei Lazzaretti per poter continuare a sopravvivere. Ti sgozzerei con le mie stesse mani per quello che hai fatto, ma non posso. Staremo a vedere cosa combinerai. Ma non aspettarti di trovare in me un alleato!”. Sapevo già, lo sapevo benissimo. Avrebbero potuto uccidermi con la facilità con cui si ammazza un pollastro. La cosa non poteva che farmi ancora più male. Cercai di non pensarci. Esistevano le persone che ancora credevano in me. Dovevo sperare in esse. Ma come, come avere la fiducia di quelle persone? Che dimostrazione di fedeltà dovevo fare, per farmi almeno rispettare un po’? come, come riscattare i miei infiniti errori? Ero inutile, completamente inutile. Oh…ma perché non ero morta? Perché il caso aveva deciso di farmi vivere, di farmi soffrire ancora? Fu con quei sentimenti amari che mi congedai dall’elfo scuro, nel cortiletto secondario del Lazzaretto. Fu con quei tremendi pensieri che mi avviai di nuovo verso la camera di Tijorn, con ansia, accompagnata dal silenzio che scendeva quando io passavo, dagli insulti a mezza bocca. Mi trattenni dal piangere. E che sollievo fu, entrare nella camera di mio fratello, dove lui mi aspettava, paziente ed ansioso! Lo guardai, commossa. Non si era ancora mosso. Lui, sobbalzando, ricambiò lo sguardo, e sorrise, un sorriso stanco, ma luminoso. Ed io che l’avevo immaginato pallido, livido, morto, bianco, freddo! Stava bene. Stava bene. Era solo indebolito dal veleno, della malattia. Era lì, un futuro padre di famiglia, un coraggioso uomo d’onore. Lui non era odiato. Almeno lui sarebbe potuto vivere in pace. Mi permisi di respirare più liberamente. Compresi, solo in quell’attimo, quanto fossi stata in pensiero per lui. Non ero abituata a saperlo ferito. In sua compagnia, i fantasmi se ne andavano, si volatilizzavano come nebbia. Lui mi tranquillizzava, riusciva a farmi sperare in qualcosa, fosse solo lui, o mio nipote, il mio nipotino che avrei sicuramente visto. L’avrei protetti, per sempre, da ogni avversità. Mi sarei fatta prendere a sassate per loro. Tutto, pur di farmi amare da qualcuno. Entrai nella camera con rapidità, e mi chiusi la porta alle spalle. Tornavo, ferita nel cuore, ma sostanzialmente sollevata. Lui era vivo. Gli altri stavano bene. Era solo quello che contava. Gli occhi grigi di mio fratello si appuntarono nei miei. Mi sentii turbata, come ogni volta che quei fari di un’anima buona e giusta mi fissavano. Lui mi scavava dentro. Era solo quello il modo giusto per descriverlo. Il ghigno si allargò. “sorellina mia…”. Disse lui, con affetto ed il poco fiato che aveva, liberando un braccio dalle coperte, quello buono, e tendendolo verso di me. Il suo sorriso mi sciolse il cuore, e sentii le lacrime pungermi gli occhi. Lui era lui. Non c’era altro da dire. Vederlo in via di guarigione mi riempiva di speranza. Il mio viaggio non era ancora a vuoto. Lui, dopo una piccola pausa per respirare, riprese a parlare. Mi avvicinai a lui con un po’ d’apprensione. Doveva essere stanco, molto stanco. In fondo, non si era ancora ripreso del tutto. Doveva stare tranquillo. “non avevi detto che saresti stata via…per poco?”. Perché, quanto ero stata via dal mio amato fratellino? A me anche un secondo pareva un secolo. Non riuscii a resistere. Dando ormai libero corso alle lacrime che mi premevano da tanto tempo, lacrime amare e salate, corsi verso di lui, abbracciandolo con la poca forza che mi rimaneva. Lui mi cinse con un braccio, mormorando qualcosa di rassicurante. Lasciai che i singhiozzi salissero a squassarmi petto e gola, quei singhiozzi che avevo tenuto nascosti così a lungo. Non ce la facevo più. Ero precipitata in un mondo brutto ed ostile, e volevo rifugiarmi vicino al solo che potesse capirmi. E fu lì, tenuta stretta dal mio eterno salvatore, che mi sentii davvero a casa, protetta da ogni sventura. Con lui ero me stessa, potevo essere m stessa senza venir giudicata, amata, odiata. Tijorn era Tijorn, e mi avrebbe protetta. Eravamo sempre insieme, nel bene e nel male. E c’era lui che mi voleva davvero bene. Avessi sperimentato prima, il vero gusto della solitudine!

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Capitolo 77
*** Caduta libera. ***


Fu in quel momento, mentre mi lasciavo consolare da Tijorn, che capii quanto fossi stata tesa nei giorni precedenti

Fu in quel momento, mentre mi lasciavo consolare da Tijorn, che capii quanto fossi stata tesa nei giorni precedenti. Era bello sentire la gioia sprigionarsi da ogni cosa, quella sensazione di sicurezza da cui io ero stata sempre estranea. Era bello rimanere stretta a lui, tenendolo come se fosse una statuetta di fragilissimo vetro, lasciandomi coccolare, lasciandomi dire che tutto era a posto. Ed io lo credevo davvero, credevo che davvero tutto fosse solo una passeggiata in discesa, nemmeno troppo difficile da fare. Una discesa che mi avrebbe portata alla pianura, monotona ma per questo più che preziosa, di una vita tranquilla, senza scosse. Il peggio era passato. Eravamo fuggiti da una dittatura sanguinaria. Eravamo scappati al nostro destino di more, tutti vivi. Era un peccato non poter andare dai Tengu, dove mi avrebbero trattata con enorme fiducia, ma a tutto si poteva trovare un rimedio. Lo scoglio più grande, la Matriarca, era superato ampiamente. Era una fortuna che Nemys fosse così saggia, così calma, così portata a non lasciarsi annebbiare da un giudizio irrimediabilmente offuscato da un astio antico. Dovevo solo trovare il metodo per far capire a tutti gli altri quanto fossi realmente cambiata. Il problema era essenzialmente lì. Fare beneficenza? Con quali soldi? Fuggendo, avevamo davvero abbandonato tutto. Eravamo poveracci. Non sapevo come ce la saremmo cavata dopo aver lasciato il Lazzaretto, né m’importava. Mendicare era fuori discussione. Forse, sia io che Tijorn, saremmo stati costretti a vivere facendo i maestri d’armi, Akita magari prestando servizio in case di nobili, divenendo la tutrice dei piccoli di famiglia. Aveva una solida cultura, per esserlo. In quel momento non importava. C’era un problema ben più tangibile da risolvere. Come farsi amico il popolo? Anche Nemys avrebbe rischiato di perderci la faccia, prestando a noi, vili Spie, un aiuto di qualsiasi tipo. Avevo sentito Benagi: solo la neutralità dei Guaritori, solo l’oasi di pace in cui trovavo rifugio, mi permetteva di non essere uccisa a forza di lanci di pietre e altri oggetti contundenti. Perfino Isnark, il nobile principe Isnark, mi odiava. Lui era quello che aveva, più di tutti, motivi per essere arrabbiato con me. Beh…. Chi non lo sarebbe stato, al suo posto? Avevo permesso che Lainay, quella maledetta, s’impossessasse di uno dei segreti più terribili, e meglio custoditi di tutto il Matriarcato. Mi odiavo per quello che avevo fatto. Quindi, ero davvero nei guai. In sostanza, su una popolazione di chissà quanti individui, fatta eccezione per la mia cricca, protetta dall’anonimato, e, in certi casi, dal rispetto, circa tre o quattro persone, a voler essere ottimista, credevano in me, nel mio pentimento più che sincero, sentito con ogni fibra del mio essere. E penso che solo una si fidasse ciecamente di quel fatto, per chissà quale motivo. Ci voleva qualcosa di molto spettacolare, e davvero vincolante, capace di andare oltre qualunque mio giuramento, di sorpassarli ed imporsi su di essi, annullandoli. Qualcosa di così potente da legarmi a vita. Ma cosa, accidenti? Cosa? Non volevo fare l’errore di divenire fedele alla Regina, ma non al Regno. Quello era stato il mio giuramento di Spia, un’arma affilata, a doppio taglio per me e per Lainay, e non aveva fatto altro che provocarmi danni, e dolore. Sarei stata fedele ad Uruk, al Matriarcato, legata al suo destino, qualunque esso fosse, fino alla morte. Non alla Matriarca. La cosa mi avrebbe donato un po’ più di autonomia, ed avrei combattuto per un vero ideale. Libertà, autonomia, vero desiderio di fare del bene, senza essere irrimediabilmente legata alle sorti di una creatura, libera di scegliere nei limiti, libera di far del bene senza dover dominare. Libera e serva, ma felice di esserlo. Ma come fare? Al momento non mi veniva in mente nessun giuramento così potente, che mi lasciasse prigioniera e al contempo libera d’agire. Beh, e non m’importava. Ci avrei pensato dopo, quando la felicità per la vicinanza di Tijorn fosse svanita, quando mi sarei sentita meglio, più calma, più disposta a ragionare, quando anche l’amarezza per il trattamento che stavo ricevendo si sarebbe attenuata. Certo non potevo pensare di venire accolta con canti e festeggiamenti…ma nemmeno con quell’astio atroce! In quel momento volevo solo essere abbracciata da Tijorn. Volevo solo attingere alla mia scorta di camomilla personale, volevo solo calmarmi, sentirmi bene. Sapere che lui era lì, vivo e vegeto. Ci tenemmo stretti a lungo, lui che mormorava parole confortanti, carezzandomi i capelli con il braccio buono, mentre io, seduta sul letto, singhiozzavo, abbracciandolo, in modo tale da non fargli male, però. Lo adoravo. Adoravo quella magnifica sensazione, di essere amata, di avere qualcuno che non mi avrebbe mai tradita. Mi piaceva crogiolarmi in quell’atmosfera così carica d’amore e di speranza. Non piansi a lungo: il mio fu solo uno sfogo momentaneo, dovuto alla frustrazione che covava da lungo tempo in me. Dopo poco, anch’io mi sentii contagiata da quel clima di ottimismo nascente. In fondo, eravamo tutti vivi. Certo, non sani, ma vivi. Ci saremmo rimessi presto. Tutto sarebbe andato bene. Mi sentivo in una botte di ferro, davvero. Finché ero lì, tanto, nessuno avrebbe potuto toccarmi, farmi del male. Avrei dedicato tutto il tempo che avevo ai miei cari, senza crucci. Avrei finalmente dato una tirata d’orecchie come si deve ad Akita, che tanto si lamentava di non potersi ancora alzare, che tanto smaniava di mettersi in piedi. M sarei precipitata dai piccini, per rassicurarli, per giocare un po’ con loro. Avevo una voglia matta di conoscere a fondo Roxen, d’impormi finalmente come una vera madre, senza essere un surrogato, peraltro pessimo, di Aevo, che l’aveva allevata per tutti quegli anni. In un certo senso, dovevo, a lei ed a quel fedifrago donnaiolo da strapazzo di suo marito, la vita di quelle due piccole stelline. Erano stati cresciuti in una maniera davvero superba. Mi sarei, finalmente, fatta valere. L’idea mi piaceva. Chissà: forse, un giorno nemmeno lontano, avrei trovato il coraggi odi rivelare alla mia piccola il mio vero ruolo. Ma c’era tempo: loro credevano io fossi la zia. C’era tempo per le domande, le recriminazioni, l’odio che forse sarebbe venuto, per la disperazione. Certamente non avrei mai rivelato loro la fine dei loro genitori, o presunti tali. Mi bastava la terribile somiglianza di Chekaril figlio con l’omonimo padre per farmi ricordare ogni mio errore, per farmi rimordere la coscienza peggio di un sogno. Forse, quella era proprio una prova che il destino mi mandava, per riscattarmi. Pazienza. Avevo ancora un sacco di tempo, per ricominciare a vivere, ed amare, come si deve. In fondo, avevo l’amicizia della Matriarca. Non rischiavo la vita per il solo fatto di esistere. Lei avrebbe calmato i bollenti spiriti di Isnark, e di tutti coloro che mi volevano morta. Era un peccato non poter andare da lei, a chiacchierare un altro po’. Decisamente, avevo bisogno di una personalità come lei, nella mia vita. Mi dispiaceva solo  non aver salutato bene Nemys, la mia cara, nuova sorella. Pensare che lei, in un certo senso, fosse me, mi dava una strana sensazione di benessere assoluto. Lei non era come tutti gli altri. Lei era una creatura a parte anche nella sua stessa razza. Perfino il suo aspetto, eccettuata quella somiglianza con me così spiccata da spaventare chiunque mi avesse conosciuta prima dell’incidente, era insolito. Quei colori, così chiari da farla sembrare quasi albina, quella dolcezza e saggia ragionevolezza, erano pacifiche armi davvero potenti, capaci di disarmare anche il più ostile dei nemici. Ne avrei parlato con Tijorn, quando le sue condizioni di salute avrebbero permesso un simile dialogo. Necessitavo di una bella chiacchierata chiarificatrice con la mia camomilla personale, quel fratello in cui stavo scoprendo un carattere estremamente complesso, sfaccettato come le facce del più bel diamante del mondo, prezioso ancora di più per quel preciso motivo. Avevo bisogno di sfogarmi con lui, molto, ma dovevo ancora aspettare. Mio fratello, il mio dolce stupidone, era debole, febbricitante, non riusciva ancora a spiccicare due frasi di fila senza prendere fiato. Non avrebbe mai potuto affrontare il fatto che la mia identità, per quanto strano fosse, si fosse scissa in due esseri senzienti, e che uno di essi fosse la Matriarca di Uruk. In quel momento, mi sembrava più che mai un infante da curare, fragile come un calice di cristallo. L’idea di poterlo assistere, stavolta senza impicci alcuni, di poterlo avviare al suo futuro, di cui anch’io avrei fatto parte, mi esaltava. Non ero più gelosa di lui. Akita per perfetta. Si compensavano a vicenda. L’assoluta mancanza di delicatezza con il tatto fatto elfo. Il perfido sarcasmo, e la velata ironia. Uniti erano un’arma micidiale, durante un litigio sicuramente spassosi. Dovevo stare ben attenta, negli anni che sarebbero seguiti!

Quante stupide illusioni. Se solo avessi capito…se solo avessi saputo. Lo so, sono parole inutili, sono rimpianti inutili. Tutti non fanno altro che ripetermelo, cercando invano di sollevarmi dalla prigione di nebbia, di quella caligine in cui mi sono nascosta per non soffrire. Tutti cercano di strapparmi la maschera immateriale che mi sono apposta sul viso, quella maschera fatta di malinconica dolcezza, di premura quasi asfissiante, di sorrisi appena accennati, di silenzi, di finta gioia, ma, finora, pochi ci sono riusciti davvero. Pochi mi hanno visto piangere, pochi conoscono, senza doverlo intuire, il dolore che mi si agita dentro. Qualcuno m’implora di credere, e ricominciare, costruire una torre sopra le macerie della prima. Io non mi sento ancora pronta, ho ancora una terribile paura. Paura di soffrire ancora, orgoglio mascherato da timidezza. Anche a dieci anni di distanza, anche dopo questo tempo, dopo che sono successe cose incredibili, dolorose e sublimi al tempo stesso, certe ferite fanno ancora male, bruciano come se qualcuno ci avesse messo il sale sopra. Non penso che smetteranno mai di dolere: alcuni colpi della vita non cicatrizzano mai. Rimangono lì, tagli incancreniti da rancore, rimpianto, dolore, e pizzicano, suppurano. Una perdita è come un arto amputato. Sai cosa ci dovrebbe essere, a posto di quel vuoto che ti stringe il cuore, ricordi la sensazione che si provava quando si era ancora sani. Vorresti usare l’arto perduto, e cerchi di muoverlo, lo cerchi, credendo di trovarlo, ma ne vedi solo il moncherino, un pezzo di pelle inutile, ricordo di un passato glorioso e bello,  che fa un male cane, che serve solo a procurarti dolore, quelle fitte improvvise a cui non si fa mai l’abitudine. E, per quanto si cerchi di dimenticare, la rimembranza è sempre lì, che perseguita come un fantasma, anche quando si cerca di non pensarvi. La perdita cuoce sempre. In un attimo di distrazione, può capitare, grazie alla forza malvagia e sadica dell’abitudine, di cercare la cosa perduta, l’oggetto perso che mai più si può scovare. E, quando si prende di nuovo coscienza della sua mancanza, quel pensiero è sufficientemente forte da impedire a chicchessia di vivere di nuovo, di annichilire anche un gigante di pietra. È questo ciò che provo. Un senso d’inutilità totale, ed incombente, terribile perché non mi lascia mai, ancor più terribile perché inaspettato. Come se si fosse spento il sole, così, d’improvviso, solo perché nessuno aveva il coraggio di alzare il volto e vedere che si stava spegnendo, di cercare di prevenire il tutto. Ma non successe nulla di quello.

E chi s’importava di guardare in aria, quel giorno? Io non avrei mai, mai potuto capire una cosa di quel genere. Non me ne intendevo abbastanza. Perciò, quella, fino a sera, sembrò una giornata più che normale. Dopo essermi calmata, avevo tenuto un altro po’ Tijorn stretto a me, poi mi ero scostata, asciugandomi le ultime lacrime. Già la gioia si stava trasformando in esultanza, che mi scorreva nelle vene come il più corroborante dei veleni. Avevo guardato mio fratello dritto in volto,  piena d’affetto. Lui mi aveva guardato, smarrito, ed aveva aggrottato le sopracciglia, come a volermi domandare cosa mai fosse successo per ridurmi in quello stato. Lui non capiva, non capiva che il mio pianto non era di dolore. Proprio no: il dolore era bel lungi dall’arrivare. Ero solo sul punto di mettermi a danzare, tutto qui. Gli avevo messo le mani sulle guance, meravigliandomi di quanto fosse caldo. Lo scrutai bene, ora un po’ più calma. Era pallido, un po’ più di quando l’avevo lasciato, in effetti, e sulla fronte c’era un leggero velo di sudore, ma non mi sembrava così grave. Non era molto grave. La febbre doveva essersi alzata ancora un po’, solo di poco, però. Quel pensiero catalizzò in un attimo la mia attenzione. In un attimo, la mia identità di aiuto Guaritrice che avevo assunto in quei giorni ritornò a galla. Perciò fu con tono distratto che gli parlai. “sto benissimo, stupidone”. Gli avevo detto dolcemente, mentre, con una mano, gli andavo a toccare la fronte. Eh, si: quella roba che gli avevo fatto ingurgitare non stava facendo per niente il suo lavoro. Avrei dovuto dire quattro paroline a Max. Quasi me ne sentii irritata. “piuttosto, tu…sei più caldo di prima…non hai fatto finta di bere, prima, vero?”. Mio fratello mi guardò malissimo, con quei grandi occhi grigi che m’incantavano, che mi facevano sentire amata, e sbuffò, scostandosi, e buttandosi di peso sui cuscini. Mi misi le mani sui fianchi, piccata. Non doveva comportarsi così. Ma accidenti, come gli volevo bene. Io lo facevo per il suo bene, nient’altro. “Lsyn, dannazione…”. Imprecò lui, a denti stretti, guardando il soffitto. Sbuffò di nuovo, senza guardarmi. Lo fissai con disapprovazione. Si stava comportando come un bambino. Un bambino che, peraltro, aveva bisogno di una bella sistemata. Sembrava esattamente ciò che era, un reduce. Non era per niente dignitoso: un altro po’ e l’avrei scambiato per un barbone, raccattato per pietà dalla strada. Proprio non mi piaceva. Dovevo procurarmi almeno una spazzola. Una spazzola, ed un’altra dose abbondante di quell’orribile medicina. Calcolai il tempo che avrei impiegato, andando a prendere il necessario, mentre lui mi parlava. Non potevo lasciarlo ancora solo. Lui aveva bisogno di me, certo, ma io avevo bisogno di lui ancora di più. Ero stufa di lasciarlo così, senza nemmeno un po’ di compagnia. “dimmi un po’…ti mentirei… riguardo quell’orrore che mi fai bere?”. Sibilò, molto irritato. Beh, certamente aveva ragione. Solo che io ero preoccupata. Non mi piaceva, quella febbre, nonostante Max cercasse di rassicurarmi. Continuavo a trovarla sospetta. Scossi così il capo, anche se, in realtà, non lo stavo quasi seguendo, troppo presa dai miei piani. Vediamo… Max non era sicuramente lontano. Avrei potuto chiedere a lui quel piacere. Io volevo stare un po’ con mio fratello. Ci fu un attimo di silenzio. Una spazzola sicuramente non sarebbe stata difficile da reperire. La medicina mi sarebbe arrivata in un lampo. Dovevo solo chiedere. Prima ancora di aprire bocca, entrambi udimmo la porta aprirsi con un cigolio. Sobbalzai, presa completamente alla sprovvista, e mi voltai.  Chi accidenti era? Che Max mi avesse letta nel pensiero, e stesse venendo per chiedermi se avessi bisogno di qualcosa? Sarebbe stata davvero una manna. Non appena vidi due teste, una bionda ed una bianca, fare capolino dalla porta, timidamente, capii che non si trattava del severo e burbero Guaritore. Tuttavia, non mi dispiacque, anzi. Erano sempre ospiti ben graditi. Soprattutto perché erano inattesi. “si può, vero?”. Chiocciò Akita, allegramente, portando sottobraccio il vecchio Amarto, il mio adorato Maestro, che aveva un’aria piuttosto preoccupata, quell’espressione che non si era tolto da quando Tijorn era stato ferito. Lui teneva a noi due quasi fossimo figli suoi. Nonostante i passati vizi, il Maestro era un grande elfo, dal cuore enorme. Non ci aveva mai trattati come un Maestro tratta i piccoli novizi a lui assegnati, con supponenza, aggressività, ed una certa dose di cattiveria. Mai. Eravamo davvero amati come sangue del suo sangue, e forse anche di più. Era un attaccamento strano, ma non per questo brutto, anzi. Lo ricambiavamo con tutto il cuore. Non ho mai conosciuto mio padre reale, ma davvero non importa. Ho sempre avuto lui, il miglior papà del mondo. Forse un po’ alcolizzato, ma la malattia aveva smussato molti dei suoi spigoli, ed eliminato quell’amore insano. Vederlo lì, abbigliato umilmente, gli occhi bianchi persi nel vuoto, l’espressione incredibilmente tesa, piena d’amore, mi faceva bene come un sorso d’acqua fresca in una giornata torrida. L’avevo un po’ messo da parte, in quei giorni concitati. Dovevo ricostruire il rapporto tra me e lui, assolutamente. E forse altrettanta gioia mia dava la vista dell’elfa che lo portava sottobraccio, premurosa come una figlia, quell’elfa che io avevo trovato così irrimediabilmente antipatica, a che ora adoravo. Quell’elfa che portava in grembo mio nipote, il mio nipotino tanto aspettato. Quel piccolo che sarebbe stato libero. Libero, e più che viziato. Guardai così entrambi con una gioia incredibile, una sorta di fuoco nel cuore, mentre si avvicinavano piano. Tijorn aveva cercato di mettersi più dritto, sobbalzando, ma non c’era riuscito, ed ora era mezzo disteso sui cuscini, che guardava i due con lo sguardo più estatico del mondo. Sapevo quanto stesse gioendo, dentro di sé. Sarebbe corso dalla compagna, baciandola ed abbracciandola, avrebbe stretto anche il Maestro, se solo si fosse potuto alzare. Purtroppo, l’unica cosa che, in quel momento, gli riusciva, era guardare, come un affamato guarda il cibo, i due. Mio fratello era, in quel momento, l’elfo più felice del mondo. Ed io godevo della sua felicità, la sua gioia contagiava anche me. Fissai però Akita con un po’ di sospetto. Che fosse scappata dal letto, approfittando della mia assenza? Non mi aspettavo che i Guaritori la tenessero così poco sott’occhio. Accidenti. Ma cosa, tutto andava a rotoli in mia assenza? Se solo avessi scoperto una sua fuga, l’avrei legata a quel letto che occupava, fino a quando il piccolo non fosse nato. Ma non capiva che non si trattava solo della sua vita, ora? Perciò, temo di averla scrutata con un pizzico d’ostilità. La mia dolce Akita, dolce come veleno.  “e tu che ci fai qui?”. Ringhiai, fissandola con disapprovazione. Quasi non sentii il mormorio scandalizzato di Amarto, né m’importai dell’occhiata nervosa di mio fratello. Mi concentrai solo su Akita, che contraccambiava lo sguardo, molto confusa. Sperai che non interpretasse le mie parole come una minaccia, come se fossi tornata normale, la solita Lsyn, che l’odiava, che la voleva separare dal suo amato. Come se mi fossi approfittata di lei, facendo finta di diventare sua amica solo per avere un aiuto. Nessuna supposizione era così sbagliata quanto quella. Mi preoccupavo solo di lei, e del suo bambino, nient’altro. Non avevo intenzione di vedere soffrire lei e mio fratello per una stupida fuga. “non dovevi stare a letto? Chi ti ha dato il permesso di muoverti?”. Udii un altro mormorio, ed un sospiro. Ma non avevo occhi che per la mia cara cognata, ora. La confusione, alle mie parole, svanì come nebbia al sole di mezzogiorno. Nei suoi occhi lampeggiò il divertimento, misto ad una certa dose d’irritazione. Non capii. Io non facevo altro che preoccuparmi per lei, nient’altro. “indovina, vecchia mucca?”. Mi disse, facendo sedere Amarto sulla sedia che, fino a poco tempo prima, avevo occupato io, di fianco a mio fratello, e sedendosi sul letto, di peso, guardandomi con la sua solita aria strafottente. Non mi resi nemmeno conto di averla imitata.  Ecco. Ora ricordavo perché non la sopportavo. A volte se ne usciva con cose davvero fuori dal mondo. Vecchia mucca. A me. Lei, che con quel naso sembrava un falco! Forse accorgendosi del mio fastidio, la mia amica proseguì in tono più morbido, mentre un sorriso dolce le compariva in viso. “Max mi ha visitato, ed ha detto che va tutto bene, che posso alzarmi. Non c’è più pericolo. Il piccino cresce sano e forte”. Lei disse le ultime parole con una certa aria soddisfatta e sorniona, da mamma gatta. Gli occhi azzurri le scintillarono. Poi prese la mano di Tijorn, che da un po’ di tempo cercava di raggiungere la sua, e la strinse forte. Mi sentii sollevata dalle sue parole. Akita non era così esperta, in fatto di menzogne, ed avrei capito subito un’eventuale bugia. Mi sentii rassicurata, e mi permisi di respirare più liberamente, e le restituii il sorriso. Lei mi fece l’occhiolino. “allora… lui…sta bene?”. Sussurrò Tijorn, intromettendosi nella breve discussione. Il suo tono di voce mi parve quanto mai strano. Vibrava d’emozione. Raramente l’avevo sentito così sopraffatto dalla gioia. Mi girai, distogliendo lo sguardo da Akita per fissarlo meglio. Repressi una risata, non del tutto. Mascherai il bizzarro rumore che avevo emesso con uno starnuto finto. Akita alzò brevemente gli occhi al cielo, poi mi rivolse un ghigno di complicità, che ricambiai. Negli occhi grigi di mio fratello brillava una sorta di bagliore fanatico, solo al pensiero di suo figlio. Sul viso gli aleggiava un’espressione a metà tra l’allegria più delirante e la trepidazione. Un’espressione propriamente da padre, l’espressione che ci sarebbe dovuta essere anche nello sguardo di Chekaril, quell’espressione che non c’era mai stata. Tijorn sarebbe stato un buon padre. Forse un po’ troppo impressionabile, ma comunque un buon padre. Non osai pensare a cosa ci avrebbe riservato il futuro. Ricordavo benissimo cosa era successo quando era nata Roxen. Io che mi dibattevo dal dolore terribile di un parto tutto sommato difficile; lui fu così preso dall’agitazione che, senza nemmeno essere il padre del piccolo, si era sentito così male da costringere Amarto, l’unico che in quel momento pareva padrone di tutta la situazione, a fargli scolare un paio di bicchieri di liquore forte per non fargli fare la fine di un pollo disossato. Era stata l’unica volta in cui Tijorn aveva bevuto. Penso che ancora il  Maestro ricordi le conseguenze di quel gesto. Lui, dopo aver delirato un po’, aveva dormito per un giorno intero. Fu addirittura tra gli ultimi a vedere mia figlia. Era un ricordo tremendamente divertente. Non osavo pensare la sua reazione il giorno in cui suo figlio fosse nato. L’avremmo dovuto legare, probabilmente, o rinchiuderlo da qualche parte. Era sempre stato lievemente impressionabile, nei riguardi di quelle cose, il mio fratellino. E non vedevo l’ora di vederlo alle prese con gli urli e gli strepiti notturni del primo anno. Aveva dato leggermente di matto nei quattro mesi di permanenza di Roxen. Certamente, era abituato alle follie delle gemelle, delle sue piccole allieve, ma non aveva mai avuto esperienze con infanti più piccoli. Mi aveva addirittura implorato di farmi aiutare, almeno una mano, solo per farla stare zitta nel cuore della notte. Penso che Akita immaginasse tutto quello. Un giorno o l’altro, pensai, gliel’avrei raccontato. Ci saremmo fatte un paio di risate in compagnia. Tijorn mi avrebbe ammazzata, ma poco importava. Amarto doveva tirar fuori la sua riserva di liquori ad alta gradazione. Guardai il mio Maestro. Anche lui stava cercando di mascherare un sorriso, invano. Doveva aver avuto anche lui certi pensieri. Mi dovevo far raccontare bene quello che era successo. Notavo la malizia brillare in quelle orbite bianche e vuote. C’era qualcosa che non sapevo. “certo che sta bene, Tijorn!”. Esclamò lei, girandosi verso di lui, e sfiorandogli il naso con la mano libera, in tono stranamente casuale e vezzoso. Non so perché, ma mi aspettai qualcosa, e sorrisi di più, anch’io. Avevo dimenticato il dolore delle ore precedenti. “sai, sta cominciando a muoversi… come potrebbe stare male?”. Presa lievemente di sorpresa, cercai di nuovo di soffocare una risata, invano. Risi come un pazza mentre guardavo l’espressione di mio fratello mutare, dall’incertezza, alla confusione, alla gioia incredula. Quasi mi strozzai con la mia stessa saliva. Sicuramente Akita gliel’aveva detto apposta, per fargli fare quella faccia tremendamente buffa, da pesce lesso. Davvero, era la verità: per quanto lui fosse intelligente, acuto, pieno di tatto ed intuizione, davanti a certe situazioni si comportava come chiunque. Penso che solo la debolezza derivante dalla sua condizione gli impedì di saltare come un pazzo, esultando. Una vocina in testa mi suggerì che quel momento era adatto per sparire per qualche attimo. Dovevo ancora prendere la spazzola, e la medicina. Inoltre, mi sentivo un po’ a disagio, quasi come se loro non appartenessero al mio mondo. Mi alzai così di scatto, mettendomi in piedi. Mi sentii due paia di occhi addosso in un attimo. Guardai i miei cari, tutti perplessi. Tijorn aveva ancora una tale faccia piena di gioia estatica, che preferii non fissarlo per non scoppiare a ridere davanti a lui. Negli occhi di Akita brillava una certa dose di divertimento, e, forse, emozione. Amarto sorrideva di nascosto. Ancora oggi quella visione di serenità è capace di risollevarmi lo spirito, di rendermi più allegra. In fondo, fu una degli ultimi momenti di vera gioia della mia esistenza. “io vado un momento a prendere delle cose…”. Dissi, facendo l’occhiolino ad Akita, che annuì. Doveva aver capito al volo quello che intendevo fare. Tijorn storse la bocca, mentre la gioia spariva dal suo viso, sostituita da un velato disgusto. “ma…Lsyn, io…”. Biascicò, in un estremo tentativo di evitare la medicina, implorante. Si zittì con rapidità allucinante quando Akita lo fulminò con lo sguardo. Preferii non fare commenti. Era divertente vedere mio fratello così succube. “sei caldo, Tijorn”. Disse, in u tono che non ammetteva repliche. Lui parve farsi piccolo sotto il suo sguardo implacabile. Di nuovo repressi un ghigno. “Lsyn lo sta facendo solo per il suo bene…ah, a proposito, cara”. Mi disse, con un gesto imperioso, verso di me. Aggrottai un sopracciglio. La mia cara cognata si stava immedesimando un po’ troppo nella parte della signora. “prendi pure una spazzola, che questo qui sembra un barbone..”. Quella era una delle mie intenzioni. Repressi a stento la vocina che mi diceva di fare una linguaccia ad Akita. “quello volevo fare…”. Dissi, cominciando ad allontanarmi verso la porta. Era bella, quella serenità. Era bello pensare che sarebbe durata ancora a lungo. È terribile pensare quanto mi stessi sbagliando. Arrivata vicino alla porta, in un impeto di giocosità, mi girai di scatto, tendendo braccio e un dito verso Akita, con fare ammonitore. “ricorda, topo di biblioteca che non sei altro…”. Dissi, in tono profetico. Mi piaceva, fare così la stupida. Mi ricordava che, da una parte, sepolta sotto strati di ricordi, c’era ancora vita. Repressi a stento la voglia di ridere. La mia voce vibrò. Guardai per un momento l’allegro terzetto, la mia famiglia, e gioii dall’amore che da essa si sprigionava. Mi crogiolai in esso, ed aggiunsi il mio. Valeva la pena di fare un po’ il giullare. Aprii la porta, ed uscii a mezzo. “preparati a ricevere da quel demonietto più calci di quanti tu ne abbia avuti in tutta la tua vita!”. Non resistetti. Ridacchiai e saltellai fuori, ignorando lo sguardo scandalizzato di un paio di passanti, richiudendo la porta, ed avviandomi verso il punto dove sapevo ci fosse Max. Non mi sentivo così viva da più di cinquant’anni.

 

Accadde la sera. Per tutto il pomeriggio eravamo stati insieme, io, Tijorn, Akita ed Amarto, chiacchierando tranquillamente, scambiandoci sfrecciatine e ricordi, ridendo allegri, presi dall’ebbrezza dello scampato pericolo. Max mi aveva accompagnata, ed aveva visitato velocemente mio fratello, decretando che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Era solo il veleno che doveva ancora essere assorbito del tutto, tutto qui. Con enormi smorfie da parte del mio stupidone, lui aveva deciso di fargli bere un po’ di più quell’orrendo intruglio, solo per sicurezza, per impedire che la febbre andasse fuori controllo. Mio fratello avrebbe dovuto sopportare un po’. Dopo quella pessima notizia, per lui, e dopo incredibili lamenti da parte sua, per ingurgitare quella roba viscida e schifosa, Akita gli prese a spazzolare i capelli, districando i nodi che si erano formati in quell’ammasso di lisci e sottili fili neri, morbidi come seta. Nemmeno uno era imbiancato, ottimo segno. Lui la lasciò fare: pettinargli i capelli era sempre un ottimo metodo per tenerlo buono, e zitto. Era una cosa che adorava. Chiacchierammo così del più e del meno, di ricordi e cose allegre, del fatto che Roxen e Nysha sembravano andare fin troppo d’accordo, e stavano facendo impazzire la vecchia Guaritrice che le aveva in custodia, di Junielle, e del suo comportamento strano, apatico. Akita, con una smorfia inquieta, aveva confessato di aver origliato, un paio di volte, delle conversazioni tra lei e Max, che non le erano piaciute per niente. Mi diceva che erano parole intrise d’odio profondo, innaturali per una creatura dolce come lei. Appresi quelle notizie con una vaga preoccupazione. Dovevo assolutamente parlarle. Lei non si era mai comportata così. Che cosa le aveva fatto Jalim, o uno dei soldati? Cos’era successo? Perché era così apatica, la mia cara amica? Cercai di non pensarci, almeno in quel momento. Ma dovevo parlarle. Il giorno dopo sarei sicuramente andata a cercarla, per avere risposte, per vedere cosa potevo fare per lei. In fondo, era anche giusto che lei si sfogasse con me, dopo cinquant’anni in cui era stata la mia spalla, no? Se solo avessi saputo cosa il giorno seguente mi stava per donare, quanto dolore… non lo sapevo. Non lo sapevo! Non riuscii a fare nulla! Noi quattro continuammo a parlare, mangiando lì il frugale pasto che Max ci portò. Verso pomeriggio inoltrato, Tijorn cominciò ad accusare vari segni di stanchezza. Era divenuto sempre più pallido e silenzioso, nelle ultime ore, povero fratellino mio, e spesso si era assopito, senza più prestare attenzione ai nostri discorsi. Aveva preso anche a non fare più battute di spirito, una cosa che non mi piacque. Sembrava covare qualcosa. Vidi riflessa negli occhi degli altri la preoccupazione: in fondo, Tijorn non stava ancora bene. Non stava per niente bene. Non era ottimo, per la sua salute, sforzarlo in quel modo. Aveva ancora la febbre. C’era troppa gente accanto a lui. Aveva bisogno di riposo. Amarto ed Akita avevano così deciso di lasciarci. Come ogni notte, sarei rimasta io a fianco del mio dolce fratello maggiore. La mia amica avrebbe voluto affiancarmi, stare con il suo amato, ma lo stesso Tijorn, anticipando tutti, la pregò di andare a riposare, per il bene del piccolo. Io ero l’unica capace di affrontare una notte quasi insonne, vegliando sul suo sonno, pronta ad intervenire in ogni caso, pronta a svegliarlo ogni quattro ore per propinargli quella roba schifosa che impediva alla febbre di salire. Così, verso il tramonto, Amarto ed Akita, dopo mille storie, ci avevano lasciati. Quasi avevo dovuto staccare i due piccioncini a forza. Decisamente Tijorn non era eroe quando affrontava il male fisico. Senza macchia e senza paura di solito, un fifone quando si trattava di se stesso, di una sua debolezza. Era un po’ come me, perciò lo capivo. Akita aveva lasciato la stanza quasi in lacrime. Non avrebbe voluto andare, e lo sapevo. Ma doveva. Doveva, se non dormire, almeno riposare. Amarto si offrì addirittura di farle compagnia, solo per l’amore che lo legava al suo piccolo Tijorn. Ebbi l’impressione che Amarto stesse cominciando a reputare la mia amica come un’altra figlia. La cosa non mi poteva fare che piacere, e vidi la stessa soddisfazione riflessa negli occhi stanchi di mio fratello. Eravamo così rimasti soli. Io, dopo essermi un po’ affaccendata, dopo aver costretto Tijorn a bere la sua medicina, che lui accettò senza protestare, mi ero seduta sulla solita sedia, quella occupata da Amarto, preoccupata. Ero inquieta. Decisamente, quello non era il comportamento normale di Tijorn. Da quando se n’erano andati i due, sembrava aver lasciato una maschera di finta vitalità. Era piombato sui cuscini, e me ne aveva fatti togliere tutti tranne uno, dicendo che non sopportava  di stare come stava, che preferiva stare steso perché respirava meglio. Sembrava non stare particolarmente bene. Si era rannicchiato così tra le coperte, su un lato, e non aveva parlato per un po’. Mi aveva chiesto, infine, di chiudere le tende, perché gli facevano male gli occhi a vedere la luce del sole, che era troppo forte. Quelle parole mi gelarono: no, decisamente non stava bene. Valutai per un momento l’idea di chiamare Max, o un qualsiasi Guaritore, ma lui me lo impedì. Dopo un po’, lui si era messo a sonnecchiare, svegliandosi ad intervalli. Mi ero così seduta accanto, e gli avevo preso una mano. Era freddissima. Avevo deglutito, preoccupata a morte. Non era mai stato così, nemmeno i primi gironi di convalescenza. Qualcosa, un male più oscuro e subdolo, sembrava averlo afferrato. Eppure, per tutto il girono, mi era sembrato in discreta forma. C’era qualcosa che non andava. Ma cosa? Lui mi sorrise, e mi guardò con stanchezza, socchiudendo gli occhi. “Tijorn…” Bisbigliai, guardandolo, con uno strano groppo alla gola. Ebbi un orribile presentimento.“cos’hai? Ti vedo stranissimo…ti senti bene?”. Di nuovo quel debole sorriso, quello che non mi piaceva. “sono solo un po’ stanco, Nanetta…”. Mi disse, stringendomi debolmente la mano. Ricambiai la stretta, con calore. “e questa febbre…m’indebolisce…”. La sua voce, già debole, andò a sfumare sempre di più, e lui richiuse gli occhi. Rimasi lì, tenendogli la mano, con una specie di nuvola d’inquietudine che mi gravava sulla testa. Cosa succedeva? Non riuscivo a capirlo. Era un comportamento strano, che non avevo mai visto in Tijorn. Di solito non reagiva così ad un po’ di febbre. Lo conoscevo troppo bene. Si sarebbe lamentato della sua piccola infermità, ed avrebbe fatto di tutto per convincermi di stare bene, come aveva fatto fino a quel momento. non era da lui quella debolezza. Mi nascondeva qualcosa. Cominciai così la veglia, che presagivo diversa dalle altre. Non so perché, ma sapevo che quella notte avrebbe portato qualcosa. Preferivo non pensare alla novità. Fino a sera inoltrata, lui non fece altro che svegliarsi ad intervalli, per poi addormentarsi dopo un veloce scambio di battute con me. Avevo preferito fargli bere una dose supplementare di quella pozione per la febbre, e, con mio grande orrore, avevo visto Tijorn, che tanto la odiava, berla quasi avidamente, come se fosse tè. Avevo cercato di toccargli la fronte, allora ma lui si era scostato, ed aveva bofonchiato che non era nulla, che si sentiva la febbre sotto controllo. Poi si era addormentato tenendo le coperte alte sul suo viso, per impedirmi di toccarlo. Il presentimento era divenuto certezza. Tijorn stava inspiegabilmente peggiorando, la febbre si stava portando fuori controllo. Non osai toccarlo, per quella volta, per paura di svegliarlo. Dovevo convincermi che non era nulla. Dovevo allontanare quella sensazione di gelo che mi permeava le membra. Non era nulla. Il mattino dopo si sarebbe rimesso. Era solo una reazione alla fatica del pomeriggio, a tutte le emozioni che aveva provato. Non avremmo dovuto metterlo così alla prova. Magari più tardi avrei chiamato Max, se solo fosse andato così. Doveva visitarlo. Troppo tardi per pensarci su. Quella pennichella fu più agitata delle altre, e dormì di meno. Dopo un po’, vegliato da me, si svegliò, e si scostò con orrore le coperte dal viso. Dopo essersi mosso un po’, Tijorn mi guardò, stanco. Notai con preoccupazione che aveva gli occhi molto lucidi, ed era pallidissimo. Sembrò tuttavia essere meno debole, e riuscì a puntellarsi sul braccio sano, per mettersi almeno più dritto. “sorellina mia…”. Disse, con un sospiro, tanto che dovetti avvicinarmi per sentirlo. “ho sete…non è che…potresti portarmi…un po’ d’acqua?”. Schizzai fuori in un attimo, obbediente. Tutto per mio fratello. Avevo notato che non parlava bene come i giorni precedenti. Sembrava avere qualcosa di grosso in gola. La cosa non mi piaceva. Quando tornai, un semplice calice di vetro pieno in mano, sobbalzai per la meraviglia. Tijorn era riuscito a sedersi. Non sembrava aver una gran cera, ma il fatto che fosse riuscito a mettersi in quella maniera da solo poteva significare un miglioramento in vista. Forse quel malessere diffuso era solo una piccola conseguenza, che sarebbe scomparsa presto. Illusioni, solo illusioni e nient’altro. Ci scambiammo uno sguardo, io preoccupata, lui quasi rassegnato, e tanto debole. Mi ringraziò con un bisbiglio, ed afferrò avidamente il bicchiere, senza toccarlo, guardandolo con una sorta di disgusto. Approfittai di quel momento per toccargli la fronte a tradimento. L’inquietudine si trasformò in panico. Tijorn scottava, nel vero senso della parola. Sobbalzai, mentre il cuore prendeva a battere come impazzito. Lui non ebbe nemmeno la forza di scostarsi, e strinse gli occhi. “Tijorn…tu bruci!”. Dissi, ritirando la mano, e voltandomi. Mi divincolai in un attimo quando lui cercò di tenermi. “Lsyn, non è nulla!”. Un mormorio, un mormorio che quasi non sentii. “sciocchezze, Tijorn! Io vado a chiamare Max! hai bisogno di cure!”. Affannata, piena di paura, cominciai ad avviarmi verso la porta, come quel momento allegro in cui avevo minacciato Akita, le avevo fatto quella giocosa previsione. L’umore era tutt’altro, in quel momento. La preoccupazione aveva scavato una tana solida, in me. Sentivo un freddo incredibile, nonostante fosse estate. Tremavo come una foglia, e non riuscivo a camminare bene, non riuscivo quasi a tenermi in piedi. Dovevo andare da Max. tijorn era peggiorato, senza motivo apparente. Arrivata vicino alla porta, una volta aperta sul corridoio, la mia vita cambiò di nuovo, e fu sempre un bicchiere ad annunciarmi la prossima svolta. Rumore, improvviso, di vetri infranti. Il cuore saltò un battito, ed io mi girai, sentendomi mancare. “Tijorn!”. Urlai, uno strillo acutissimo che, sicuramente, avrebbe svegliato un bel po’ di persone. Ma a me non importò. Non importò. Perché tutto il mondo si restrinse improvvisamente intorno ad una sola persona, in un solo letto. Mio fratello, che aveva lasciato cadere il calice, che si era rotto a terra, e si era afflosciato su di un lato. “Tijorn!”. No: quella non poteva essere la mia voce. Non avevo mai avuto una simile voce, così acuta, così fastidiosa. Non so come, ma mi trovai vicina a lui, cercandolo di scuotere. Aveva gli occhi chiusi, ed era bianco. Respirava ancora. Era vivo: quella era la prima cosa di cui mi ero sincerata. Vivo, ma non sapevo in che stato. Lo feci stendere, e presi la sua testa tra le mie braccia. Cercai di scuoterlo, inutilmente. Era incosciente. Non reagì nemmeno ai miei schiaffi, sempre più forti, penso, sempre più pieni di furia disperata. Mi sentii perduta, mi sentii perduta, vuota, nel buio, sola. E fu allora che cominciai ad urlare sul serio, implorando chissà chi, sperando che almeno qualcuno mi sentisse, perché di più non potevo fare. Tutto il mondo si era trasformato in un ammasso di disperazione pura ed assoluta. Non potevo muovermi. Ero incatenata lì. “Tijorn! Oh, dei, Tijorn! Aiuto! Qualcuno mi aiuti!”.

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Capitolo 78
*** Lo strazio. ***


Dopo quelle urla acute che lanciai, presa da un affanno che andava ben oltre la preoccupazione, non ci volle molto riempire di persone, curiosi e Guaritori, la piccola stanza

Dopo quelle urla acute che lanciai, presa da un affanno che andava ben oltre la preoccupazione, non ci volle molto riempire di persone, curiosi e Guaritori, la piccola stanza. Incatenata a mio fratello, mentre cercavo di urlare, chiamare ancora, finendo per emettere solo mugolii inarticolati, accarezzandogli febbrilmente il capo, trasformata in un solo monolito  di angoscia, un’angoscia così profonda che ancora non saprei descriverla a parole, sentii nell’ambiente la presenza di parecchie persone. Li ignorai: ero concentrata esclusivamente sul volto pallido di  Tijorn, il mio dolce Tijorn, sul suo respiro lieve e spezzato. Cos’era successo? Perché stava così male, improvvisamente? Non riuscivo a capire. Il veleno non si era diffuso, o perlomeno, era entrato in circolo solo in parte davvero minima, troppo poco per causare un peggioramento di quel genere. E poi erano passati giorni da quando era stato ferito! Non era possibile. Il veleno doveva essersi quasi assorbito. Era quello che mi aveva detto Max quando era venuto quella stessa mattina, a medicare un Tijorn ancora nel pieno delle sue forze, polemico ed allegro, la mia fonte di luce principale. E allora cosa diavolo stava succedendo? Il mio sole si stava inesorabilmente spegnendo. Sentii gli occhi pizzicarmi, e riempirsi di lacrime. Con un ultimo sforzo di volontà, cercai di resistere alle lacrime, che, imperiose, cercavano di uscire. Sapevo che se avessi cominciato a piangere non avrei finito più. Mi sentivo irrimediabilmente sola, come se una frattura mi avesse staccato dal resto del mondo, come se un bozzolo si fosse chiuso attorno a me, per proteggermi e ferirmi, per farmi stare ancora di più con la mia angoscia, con la mia premura. Era terribile. Terribile vedere il mio dolce fratello in quello stato. Terribile saperlo in quelle condizioni. Così terribile che fu un miracolo se non impazzii senza rimedio. Sentii, nel nido d’angosciosa urgenza che mi ero creata, dei mormorii, ed uno strano rumore di sottofondo, come un lamento acuto e prolungato. Mi dava molto fastidio, ma non avevo la forza necessaria per farlo smettere. D’improvviso, sentii qualcuno tirarmi indietro. Staccarmi dal mio stupidone. No! Come potevano farlo? Come osavano? Cercai di dibattermi, ma era come se fossi incatenata in un blocco di ghiaccio, come se il mio cuore non fosse altro che un ammasso rosso e gelato, come se fossi solo anima, senza corpo alcuno. Mi sentii stringere da braccia forti. Qualcuno mi bisbigliò all’orecchio parole che non intesi. Ero concentrata solo su Tijorn, il mio fratellino, il mio dolce fratellino, Tijorn, che mi aveva consolata, curata, considerata, amata, che aveva rischiato la vita per portarmi un po’ d’uva e farsi perdonare, che era stato il mio compagno di giochi e confidenze, di chiacchiere fatte su un albero o sulle rive di un laghetto, che era stato complice nelle numerose malefatte, che mi aveva assistito come testimone il giorno in cui pronunciai il giuramento per divenire Spia, che mi aveva accompagnato nella mia prima missione ufficiale, che mi aveva  fatto compagnia nelle lunghe degenze al Lazzaretto, che mi aveva visto piangere per Chekaril senza nemmeno sapere il motivo, e mi aveva confortata, che mi aveva accolto in casa sua quando fui sicura di aspettare un bambino, che mi aveva spiata durante il torneo a cui avevo partecipato, a distanza, come sempre, discreto e gentile, pronto ad accogliermi tra le sue braccia in caso di cadute rovinose, che mi aveva curato senza dire una parola, accettando il mio nuovo, mostruoso viso con un sorriso rassicurante, che non aveva mai nascosto di volermi bene come una sorella, come una gemella, come la sua migliore amica, che mi aveva aspettato per cinquant’anni con la sua solita fiducia, confidando in me, facendo della sua casa un porto sicuro, in caso io fossi voluta tornare da lui. Quell’elfo che, i giorni del nostro apprendistato assieme, e anche dopo, quando lui fu Spia ed io pronta a divenirlo, mi pregava di fargli parlare un po’ con Akita, mi supplicava di dargli il permesso di venire, la sera, a salutarci e fare quattro chiacchiere, facendo finta fosse una cosa casuale, che mi aveva fatto una testa piena di ciance a proposito della bellezza e dolcezza di quell’ammasso di veleno e coltelli che mi ritrovavo come compagna di camera. Quell’elfo che il mio tentativo di suicidio aveva sconvolto, quell’elfo precipitato in un baratro di apatia nel vedere il suo aguzzino, quell’elfo che era fuggito per la salvezza nostra, e di suo figlio. Quel bambino non ancora nato, che aveva avuto paura di non vedere. E che forse, come si stavano mettendo le cose, non avrebbe visto mai. Tijorn: un fratello, un amico, un confidente, un grande elfo, un eroe, dal cuore d’oro, e tuttavia, senza essere melenso, pieno di difetti e sfaccettature, e per questo ancora più prezioso. Mi sentii afferrare da un dolore senza confini. Quelle braccia calde e sconosciute mi tenevano saldamente, mi separavano da lui, impedivano che io gli fossi vicina, che m’impediva di tenergli la mano e confortarlo, fargli coraggio, anche se forse lui non mi avrebbe sentito. Braccia forti, dalla stretta neutra, che non mi consolavano. Mi tenevano per la vita, senza affetto, senza partecipazione, come se io fossi un sacco di patate. Non cercai nemmeno di dibattermi, di divincolarmi. Mi tesi solamente verso di lui, allungando le mani come una bambina spaventata. Ed ancora sentivo quello strano rumore, quel gemito disperato, quel lamento da cane abbattuto, quel guaito inarticolato, che saliva e scendeva di tono ed intensità, che si fermava per un attimo, per poi divenire più forte. Ero io. Mi resi conto improvvisamente di essere io a produrre quel suono disincarnato e disumano, e che stavo tremando follemente, del tutto fuori di me. Accantonai la questione in un attimo, e non m’importai più di questo. Alcune figure attorniarono il letto dove mio fratello era riverso, incosciente, e me lo nascosero alla vista. Guaritori, probabilmente, che si erano resi conto della situazione. Mi tesi ancora di più. La stretta divenne quasi insopportabile. O forse la sentivo tale perché la disperazione mi mordeva, mi rodeva come il più terribile dei veleni. No! Quello è mio fratello! Una fitta al cuore mi fece urlare, urlare nella maniera più straziante da me conosciuta. Con lui morivo anch’io. Se lui fosse morto, mi sarei spenta, l’avrei seguito, ad ogni costo. Non potevo vivere senza di lui. Mi sentii trascinare, allontanare dal mio piccolo stupidone, che aveva bisogno di me. Ed allora lottai, lottai come un pazza. Non dovevano osare. Loro cosa sapevano, cosa conoscevano della vera sofferenza? Di quel sentimento che stavo provando io, che mi distruggeva? Di quell’ansia tremenda che sembrava staccare la testa dal resto del corpo? Che ne sapevano, dell’entità della mia reale disperazione? Perché mi allontanavano da lui? Perché non permettevano che guardassi cosa stava succedendo? Il mio urlo mi fece dolere i polmoni. “no! Lasciami andare! Lasciami andare!”. Gemetti, con una voce che non sembrava la mia, come se fossi sotto tortura. “Tijorn!”. Di nuovo la persona che mi stava portando bisbigliò qualcosa, forse qualcosa di rassicurante, al mio orecchio. Ho un vago ricordo di aver attraversato, portata a braccia, trascinata dallo sconosciuto, un capannello di persone, infastidite, o scioccate. Poi tutto diventò offuscato, precipitai in un abisso di amaro dolore, che mi straziava il cuore, lo divideva a metà. Un tormento così forte che nemmeno dopo la morte di Chekaril avevo provato. Un sentimento estraneo a me, al mio modo di pensare, forse perché, fino a quel momento, le persone che amavo erano sempre state bene. Nessuno di loro era svenuto all’improvviso, così, dopo un rapidissimo peggioramento, dopo un meraviglioso pomeriggio passato a ridere, a ricordare i bei, vecchi tempi. Non capivo più nulla, forse non riuscii nemmeno a muovermi. Tutto quello che esisteva, nella mia mente, era il dolore, quel miagolio prolungato che emettevo, ed il volto di Tijorn, bianco e pallido come me l’ero immaginato nei giorni precedenti a quella sera tremenda. Avevo un freddo terribile. Mi sembrava di essere in mezzo ad una tempesta di neve, nel gelido nord estremo del Regno. Tremavo, ed avevo i brividi, nonostante fosse estate. Mi sentii, d’improvviso, sedere da qualche parte di morbido, ed avvolgere da una coperta. Continuai a fremere dal gelo. Al freddo del cuore non c’è rimedio che tenga. Non riuscivo a comprendere nulla. Qualcuno mi stava parlando, carezzando ripetutamente i capelli, una voce urgente, ed ora, al piagnucolio che emettevo, si erano sommate alcune voci, dei singhiozzi non tanto sommessi. C’era qualcuno accanto a me. Un vecchio elfo dai capelli bianchi, che mi carezzava i capelli, senza guardarmi, perché cieco, un’elfa bionda che si stava mordendo le labbra per non piangere, invano, ed un giovane dai capelli rossi ed ondulati, vestito di un’armatura leggera, dall’aria un po’ timida. Tutte persone che mi sembrava di dover conoscere. Eppure non le capivo. Non riuscivo a capire quello che stavano dicendo, quello che mi sussurravano. Aprivano e chiudevano le bocche, senza suono, o almeno così mi sembrava. Qualcuno mi prese una mano. Cercai di stringerla, di ricambiare la stretta, ma non penso mi riuscì.  Ad un tratto, il giovane elfo che era alla mia destra, stringendo le labbra, allungò una mano verso di me. Avvertii uno schiaffo. Poi un altro, a sinistra. Rimasi per un attimo senza fiato, senza capire assolutamente nulla, stordita. Ma quel gesto così violento mi fece bene. D’un tratto, presi coscienza di tutto. I veli che mi avevano tenuta separata dal mondo, proteggendomi dal mio terribile dolore, si squarciarono. Ed io percepii finalmente il mondo com’era, con tutti i suoni, e la materialità. Il lamento che emettevo s’interruppe, ed io sbattei le palpebre. Ero nella stanza della mia cognata, seduta molto probabilmente sul suo letto. Come ero finita lì? Mi sentivo ancora molto stordita, ma, la vicinanza di Amarto ed Akita sembrava farmi del bene. In loro presenza, il dolore si attenuava, per essere condiviso. Guardai stolidamente il giovane elfo dai capelli rossi, e straordinari occhi verdi, ancora più belli perché inusuali, che aveva tutta l’aria di essere una guardia. Lo riconobbi quasi all’istante. Doveva essere lui che mi aveva portata fin lì. Era una delle Guardie del Lazzaretto, il loro capo. Un ordine strano, il loro. Si occupano di mantenere nell’ordine più assoluto il Lazzaretto da loro custodito, ed impedire che qualcuno, preso da pazzia o solo un bastardo, rompa l’inviolabile consuetudine di non versare sangue nei Lazzaretti, nella neutralità considerata quasi tabù da infastidire. Elfi stranissimi, abili combattenti eppure fedeli all’idea di pace ed ordine, silenziosi e ligi. Quell’individuo non faceva eccezione. Si chiamava Capouille, ed era una delle creature più stravaganti mai conosciute. In tempi normali si occupava del Lazzaretto, della sua manutenzione e guardia. In tempi di guerra era un abilissimo stratega, dall’astuzia proverbiale. Ebbene, nella vita quotidiana era poco più di un mollusco. Difficilissimo farlo parlare, soprattutto in pubblico, ed affetto da una balbuzie irritante. Nonostante tutta la sua propensione per le armi si occupava di una mansione insolita e tutto sommato tranquilla come quella della Guardia di Lazzaretto, ed era l’individuo più mite del mondo, uno dei pochi che non mi squadrava con odio, o diffidenza, solo palese curiosità, una curiosità quasi scientifica. “be-bene, si-signorina”. Disse, con la sua voce incerta, tremula, torcendosi leggermente le mani. “vi…vi sentite m-me-meglio?”. Lo guardai per un attimo senza capire. Poi, non so quello che successe, né so come successe, ma mi ritrovai sulla spalla di Akita, singhiozzando come poche volte nella mia vita, facendomi dolere petto e gola. Lei mi avvolse con le sue lunghe e magre braccia, e posò il suo capo nell’incavo della mia spalla. Le nostre lacrime si mescolarono, condividemmo lo stesso dolore, perché in due era un fardello più leggero da sopportare. Anche Amarto soffriva. Mi sentii stringere la mano libera da un’altra callosa e fredda, una mano asciutta e vecchia. Rimanemmo così per un bel po’ di tempo, un tempo sospeso che non amo ricordare, pieno di interrogativi. Cos’era successo? Perché Tijorn si era sentito male, così all’improvviso? Perché non aveva dato segni alcuni di malessere, fino a poco tempo prima di svenire? Erano domande troppo pressanti per lasciarle da parte. Mentre piangevo disperatamente, preda di un dolore così profondo che non saprei narrare, erano quelle le questioni che mi ponevo. Non era possibile, non era logicamente possibile. Il mattino prima Tijorn era stato vivace, forse con un po’ di febbricola addosso, ma niente di preoccupante, vivo come sempre- mi assalì un terribile sospetto. La febbre poteva avere molte ragioni. Un nodo di panico si andò a formare in me. Avevo un’idea, un’idea troppo tremenda per venire concretizzata. Con una ferita di quel genere poteva benissimo essere successo. Infezione. Setticemia. Di lì non si usciva, quello era un vicolo che portava ad una sola destinazione, e nient’altro. Dovetti mordermi a sangue le labbra per non urlare.  Passammo nel terrore, nella disperazione più tremenda chissà quanto tempo. Ad un certo punto, sentimmo la porta aprirsi. Sobbalzammo, io ed Akita, e ci staccammo. Guardai per un attimo la mia amica. Povera piccola. Era davvero sconvolta: e dire che non poteva affaticarsi troppo, per via delle sue condizioni! Ogni pensiero pietoso scomparve quando vidi la figura di Max avvicinarsi, il Guaritore era stranamente in imbarazzo, e molto amareggiato. Stringeva le labbra spasmodicamente, e scuoteva di tanto in tanto il capo, guardandoci. Lo interpretai come un pessimo presagio, e, la morte nel cuore, guardai i miei compagni in quella sventura. Era bello non essere soli, era bello poter condividere le lacrime con qualcuno. Mi facevano sentire accettata, lenivano un po’ lo strazio. Perfino Capouille, rimasto lì forse per controllarci, forse per chissà cos’altro, si tese quando vide il burbero elfo entrare. Max si fermò in mezzo alla stanza, guardando altrove. Sembrava, più che altro, arrabbiato con se stesso, ma io non ne capii il motivo. Nel momento in cui era apparso avevo sentito un tuffo al cuore. Poteva dirmi di tutto. Quel volto era sempre stato, per me, difficile da interpretare.“Tijorn…”. Mormorai, guardandolo piena di chissà, non ricordo bene, speranza, o forse paura. Un miscuglio di sentimenti difficile da definire. Lui ci guardò, lugubre. “sono stato uno stupido”. Disse, amareggiato, con una voce d’oltretomba che mi fece fremere di terrore. Lo sguardo che ci scambiammo io ed Akita fu pieno di sottintesi. Temevamo entrambe la terribile notizia che si stava per dare. “un vero idiota”. Ci fu un breve, terribile attimo di silenzio, un silenzio penoso, poi il Guaritore tirò il respiro e, guardando i nostri volti tesi, riprese a parlare, con franchezza. Era molto pallido. “nella ferita c’è un focolaio d’infezione, che si sta diffondendo molto rapidamente”. Disse, tutto d’un fiato. Sentii Akita fremere e lasciarsi scappare un singulto, al mio fianco, e le strinsi forte il braccio. Dentro di me qualcosa cedette. La situazione era davvero, davvero critica, rischiavo di non vedere più mio fratello vivo, e lo sapevo. Con tutte le loro arti, i Guaritori non sono mai riusciti a scoprire un metodo per combattere efficacemente le infezioni, a parte la cauterizzazione della ferita, e piccole medicine che si limitano a curare i sintomi. Un’infezione può essere fatale, e chiunque lo sa. Cominciai ad avvertire un familiare nodo allo stomaco, formarsi, un nodo pieno di paura, ed apprensione. Guardai Max, improvvisamente piena di astio. Lui, il Guaritore tanto esperto, perché non si era accorto dei segnali premonitori, per agire quando la situazione era ancora sotto controllo? Perché non aveva fatto nulla per impedire quella terribile situazione, appesa in modo ridicolo ad un filo quanto mai precario? Ringhiai leggermente, e guardai storto Max, che deglutì. “non dirmi nulla, Lsyn”. Mormorò lui, l’atteggiamento di un animale ferito nel suo più profondo orgoglio. “il veleno ha contrastato il propagarsi dell’infezione, che non è una sciocchezza, a quanto pare… ma ora…che il veleno del mostro sta venendo assorbito…è più facile vincerlo, e contaminare il corpo… ed il veleno ha, nello stesso tempo, mascherato i sintomi…perciò nessuno se n’è accorto…”. L’irritazione si trasformò in rabbia cieca. Praticamente, quella era poco meno di una condanna a morte. Una condanna a morte per lui ,l’eroe, che si era lasciato ferire per proteggere me. Me e solo me. Mi sentii ancora più male quando realizzai che era colpa mia. Colpa mia se ora il mio dolce Tijorn stava per morire. Il freddo gelido tornò, più terribile di prima. Ripresi a tremare, ora però invasa da una rabbia pura. Max mi aveva detto che mio fratello stava meglio, stava migliorando ,e che la febbre non era nulla. Aveva…aveva sbagliato! Era Max, insieme a me, ad aver condannato Tijorn ad un’enorme sofferenza. La rabbia scorse in me come veleno, e guardai con uno sguardo così tremendo il Guaritore che lui rabbrividì. “spero che stiate facendo qualcosa per migliorare questa situazione, Guaritore di miei stivali…”. Mormorai, con una voce distante e atona che non era la mia. I Guaritori: tutti uguali. Avevo sbagliato a fidarmi di uno di essi. Sbagliavano sempre. Erano sempre nel torto. Max deglutì, ed annuì. “stanno cercando di cauterizzare, e togliere tutto il focolaio…”. Mormorò. Poi fu preso da un ripensamento, ed indirizzò altrove lo sguardo. “ma non sarà risolutivo. L’infezione si era già propagata. Tutto sarà nelle sue mani… nelle sue, e della sua voglia di vivere”. I soliti Guaritori. Buoni a nulla. Provai un dolore psichico così intenso da farmi boccheggiare. Piombò un silenzio tanto insopportabile quanto doloroso. Akita mi strinse ancora più forte il braccio, in una morsa che mi avrebbe lasciato dei lividi, e si morse le labbra sottili. Sapeva bene quanto me cosa volevano dire quelle parole. Niente speranze: la situazione era troppo critica per formularne anche solo una. Nella mia nebbia provocata dalla stessa pena, quel sentimento che mi avviluppava, impedendomi di soffrire troppo, sentii dei singhiozzi rotti, che non avevo mai udito in vita mia. Amarto piangeva, come un uomo dal cuore spezzato. “il mio bambino…”. Singhiozzò, mettendosi la testa tra le mani. Mi sentii ancora più male. Era insolito, era indecente. Di solito il mio Maestro era come un pilastro. Quando lui cedeva, allora era davvero grave. E non l’avevo mai sentito così disperato, così vinto. La cosa mi fece ancora più male, e desiderai di far sparire Max dalla faccia della terra, quel latore di cattive notizie, come se non fosse mai esistito. “il mio bambino… il mio piccolo Tijorn…cosa avete fatto al mio bambino?”. Ecco. Quella era una domanda lecita. Rimanemmo per un tremendo attimo in un silenzio tombale, rotto solo dai singhiozzi sconsolati del Maestro. Quel suo stesso, terribile strazio, mi fece invader di un’irritazione incredibile. Guardai il Guaritore, il colpevole di tutto. Mi ero fidata di lui, ed ora era lui che ci faceva sentire così. “ti conviene cercare di fare l’impossibile per lui, Max”. sentenziai, con un tono di voce così lugubre che fece sobbalzare anche Capouille, che, per tutto il tempo, aveva guardato altrove. Lui era avvezzo a quelle situazioni. Sentii gli sguardi catalizzarsi su di me. A me non importò. Ero troppo presa dalla mia cocente delusione. “se lui dovesse sfortunatamente morire, sarai tu a pagarne tutte le conseguenze…io ti ammazzerò. Fuggi dove vuoi, vai anche in capo al mondo, ma io ti seguirò, e ti farò pentire di non aver messo più attenzione in quello che fai!”. Max si morse le labbra, ed annuì, sempre più bianco.  A quelle parole, io non resistetti. Mi rannicchiai di nuovo accanto ad Akita, e, senza importarmi del mondo intero, quel dannato mondo che non mi voleva felice, scoppiai di nuovo in lacrime, più forti di prima. Il mio fratellino, il mio stupidone, stava morendo. Ed anch’io ne avevo la colpa. Era un pensiero troppo terribile. Sperai con tutto il cuore che ce la facesse. Dov’erano finite tutte le illusioni? Perché dovevano essere confutate così crudelmente?

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Capitolo 79
*** Una notte senz'alba. ***


Ero tornata da Tijorn

Salve a voi tutti, o miei lettori.

Con questo capitolo, vi faccio un magnifico regalo di natale. Vi lascio con un bel regalino di natale, perché a natale tutti sono più buoni, tranne me.

Certo che, però…si mangia, si ci strafoga, si festeggia…e qui ho scritto il capitolo più terribile, dopo il prossimo (che posterò domani. Sappiate che io non mi fermo nemmeno nei giorni di festa!! U_U). E’ amore.

Con questo, vi saluto.

Uno particolare a Carlos Olivera, Selly, i miei fedeli recensori. Che possiate passare un natale magnifico.

Un augurio anche alle persone che hanno messo questa storia tra i preferiti, e chi legge solo.

Un saluto ed un bacio appiccicoso a tutti.

Akita

 

 

 

 

Ero tornata da Tijorn. Ero sola, completamente sola, escludendo il Guaritore praticamente sempre presente, ma che non parlava e non mi dava fastidio. Ero lì da quando una Tirocinante era andata ad avvertire Max che c’era bisogno che qualcuno di noi fosse a fianco di mio fratello, facendogli compagnia, incoraggiandolo silenziosamente, che non potevamo entrare tutti insieme. Avevo costretto sia Amarto che Akita a non sobbarcarsi dei turni, ci sarei stata io e solo io. Li avremmo chiamati quando qualcosa si sarebbe smosso. Non volevo che si affaticassero, non volevo far aumentare loro la sofferenza, nel vedere il nostro caro Tijorn conciato in quel modo orribile. Akita era troppo fragile, Amarto solo un vecchio. Solo io potevo sopportare quell’ulteriore colpo. Ero l’unica a non avere nulla da perdere. C’era anche un altro motivo, ben più egoistico: volevo mio fratello tutto per me. Volevo essere io a sacrificarmi per lui, giorno dopo giorno, notte dopo notte, come aveva fatto lui quando io avevo tentato di uccidermi. Volevo, in un certo senso, ripagare il debito, mi sentivo in colpa per averlo trascinato in quell’inferno. E sapevo che, lontana da lui, sarei stata troppo male. Non riuscivo ad allontanarmi da lui anche di poco, e quando mi capitava, per motivi vari, il mio pensiero era lì, e sentivo un dolore tremendo farsi strada nel petto, uccidermi, stritolarmi. E così ero lì, seduta su una sedia, al suo fianco, tenendogli la mano, facendo il possibile per abbassargli una febbre che non dava cenni di voler scendere, sussurrandogli di tanto in tanto che mi dispiaceva, che non doveva lasciar perdere, che doveva vivere, che tutti erano in pensiero per lui, che avevamo bisogno di lui, lui era il nostro pilastro, che io non volevo vederlo morire. Parole inutili. Lui non aveva mai segno di avermi inteso, o quantomeno ascoltato. Pian piano, il dolore, come una lama aguzza, aveva reciso tutti i miei legami con il mondo terreno, rendendo tutto distante ed un po’ ovattato. La disperazione era cambiata, si era trasformata in qualcosa di più profondo, una stoica, cupa rassegnazione, una stolida tranquillità, una nebbia che impediva a qualunque sentimento di minacciare il mio equilibrio, che m’isolava dall’intero mondo, un muro elastico che rendeva torpido anche un singolo movimento. Il dolore si era trasformato in apatia, un apatia che mi difendeva dall’impazzire. Avevo toccato il fondo, e non riuscivo a trovare il modo per risalire. Non trovavo nemmeno la forza di piangere, di fare anche una minima cosa, e parlare era una fatica immensa, come spingere ogni volta un macigno in salita. Le mie lacrime si erano esaurite, e con esse anche ogni speranza. Il mio mondo incominciava e finiva con una mano fredda, quella mano che stringevo delicatamente, quella mano che, di tanto in tanto, si muoveva, fremeva. Le prime volte che succedeva avevo, ansiosamente, alzato lo sguardo verso il viso mortalmente pallido di mio fratello, in cerca di anche un minimo segno di risveglio. Ma niente. Mi ero abituata, anche a quella stupida speranza, come mi ero abituata  ai borbottii senza senso, ai colpi di tosse, ed altri piccoli segnali di vita. Avevo imparato a non reagire di soprassalto, a non lasciarmi invadere dal sollievo, per poi essere amaramente delusa. Sperare era un lusso che non potevo permettermi. Anche la speranza era troppo, anche il più flebile sussulto di attesa. Lo sapevo, lo vedevo negli sguardi neutri dei Guaritori che venivano, sguardi tranquilli, immuni ad ogni dolore. La vita si era ridotta a quello. Tenere una mano, lo sguardo fisso su di essa, senza avere il coraggio di alzarlo verso un volto che sai sofferente, troppo orrendo per te da vedere. Aspettare, ed aspettare, senza sapere bene cosa, senza avere nemmeno la forza per vivere un minuto, un secondo, ore e giorni tutti uguali, scandite dal cambio di guardia dei Guaritori, mai Max, che si era rifiutato di vedermi, forse preso dalla paura, dalle visite silenziose, dal sonno leggero e dai pasti che non riuscivo nemmeno a toccare. Mi ero insediata lì, un fungo nel terreno, un albero, un filo d’erba, un fuscello. Quando ero tornata nella stanza di Tijorn, il mio umore era ben diverso. Avevamo lottato, noi tre, mi avevano implorato di non fare quella pazzia. Ero fragile, troppo fragile per poter sopportare quel dolore. Avevo reagito con enorme fastidio. Forse mi credevano ancora la fanciulla indifesa che aveva tentato di uccidersi, perché piombata troppo bruscamente nel mondo della realtà? Amarto mi aveva pregato di non andare sola, mi aveva supplicato, perché non meritavo di stare così male, ancora, che stavo già facendo troppo per loro, mi stavo uccidendo lentamente, mi stavo comportando quasi come una serva, una cameriera, senza mai lamentarmi, che si erano fin troppo approfittati di me, che ce la facevano benissimo a sopportare dei turni, che io mi stavo sacrificando troppo per loro, che Tijorn era amato da tutti, ed io avevo bisogno di riposo, che, sconvolta come ero, non avrei retto che per poco tempo. Sciocchezze. Per cinquant’anni avevo ignorato totalmente il mio stupidone, come se fosse una presenza scontata nella mia vita, lo avevo odiato, ignorato, ero fuggita quando lui mi aveva pregato di rimanere con lui, ero andata in cerca di un’illusione, trovando solo sofferenza, fuggendo da me, fuggendo dai miei affetti, ed andando incontro solo alla voglia più pura di morire. Avevo lasciato che lui soffrisse, si umiliasse, mi aiutasse, senza una parola di ringraziamento. Ed ora, come lui si era sacrificato per me, attendendomi, curandomi, aiutandomi, così dovevo fare io nel momento in cui lui aveva più bisogno di me, di una mano che l’aiutasse. Ero io, solo ed esclusivamente io, ad avere il diritto ed il dovere di curarlo. Ero io che l’avevo spinto con me in quel maledetto castello. Ero io che, in quella battaglia maledetta contro quel mostro,  avevo permesso che lui si ferisse. Io ero sua sorella, dannazione! Sorella, non di sangue, certamente: ma il tempo aveva creato un vincolo ben più solido di quello, tra di noi. Io dovevo aiutarlo, ad ogni costo. Io, e nessun altro. Amarto ed Akita non c’entravano nulla. Loro dovevano solo riposare, riposare e stare tranquilli. Dovevo proteggere anche loro dall’angoscia, del dolore. Dovevo essere solo io a soffrire. Avevo cercato di rassicurarli, e, andando da Tijorn, avevo chiesto a Capouille, che mi aveva accompagnata, forse temendo qualche altra mia esagerazione dovuta allo sconvolgimento, di impedir loro di andare da mio fratello, che bastavo io, che quando ci sarebbe stato un cambiamento sarei stata io a chiedere di avvisarli. Lui aveva accettato, ed aveva promesso di stare di guardia, fuori, pronto a qualsiasi evenienza. Fui grata a quella Guardia. Era certo una strana creatura, balbuziente e all’apparenza incapace anche solo a tenere una spada in mano, ma dal cuore d’oro. Almeno non fremeva dall’orrore nel guardarmi, non mi fissava con paura, odio, disgusto, o quell’insopportabile indifferenza eterea da Guaritore, che si occupavano solo ed esclusivamente dei feriti, ignorando tutto il resto. Sembrava aperto, e franco, malgrado tutta la sua timidezza. Dietro l’aria sommessa covava un vero soldato, cosa impossibile ma vera. Mi piaceva. Non si perdeva in ciance inutili, e sembrava capirmi più che bene. Avevo sentito girarmi la testa, un piccolo mancamento, quando ero entrata da Tijorn. La prima impressione che mi aveva colpito era stata l’odore. Indefinibile, acre, un olezzo tremendo di erbe medicinali, mischiato a qualcosa di alcolico,  e qualcos’altro che non volli definire. Mi ritrovai su una sedia, accanto a mio fratello, senza nemmeno sapere come. La Guaritrice che era in quel momento lì, un’elfa dal volto grifagno,  mi aveva guardata, accigliata, e poi era tornata ad occuparsi di Tijorn, passandogli quella che mi sembrava una pezzuola bagnata sulla fronte. Con uno scatto repentino, gliel’avevo sfilata dalla mano, ed avevo continuato quello che lei stava facendo, senza più guardarla, prendendo una mano del mio caro fratello. Una mano che lui non aveva stretto. Mi ero dominata a fatica alla vista del suo viso, dominata per non scoppiare in lacrime, per dare a me stessa la dimostrazione di essere forte. L’avevo visto conciato male, molte volte nel corso della mia vita. In fondo, eravamo Spie, e, durante le missioni o i tornei, ferirsi era cosa praticamente normale. Certo, di solito ero io l’amica dei Lazzaretti, che finiva una missione si e una no in un letto, a lamentarsi dell’incapacità dei Guaritori, o a bestemmiare contro un fratello che mi faceva, puntualmente, una ben poco accetta lezione di comportamento, ma questo non voleva dire che Tijorn fosse invulnerabile. L’avevo visto bruciare di febbre, sfiancato dalle ferite, stanco, indebolito, avvelenato. L’avevo visto prostrato in vari gradi, ma mai in quello stato pietoso. Mai. Non aveva più nulla del sarcastico Tijorn che mi aveva accolto quella mattina con un flebile buongiorno, accompagnato da una sua solita battuta sul mio modo di dormire, sul fatto che io, pur stando bene, dormivo più di lui. Non aveva nemmeno più nulla del Tijorn di quel pomeriggio, quell’elfo che guardava la sua compagna, estasiato, quando tutto in lui proclamava la sua felicità. Era vinto. Non riesco a descriverlo altrimenti. Tremai nel vedere quel colorito malsano, non dissimile a quello che aveva avuto quando era stato colpito da quel mostro, ma più tendente verso il giallognolo, quel viso tirato, il suo respiro breve, spezzato, irregolare. Gli occhi chiusi, a forza, come se lui si stesse rifiutando di vedere, quell’abbandono che non mi faceva presagire nulla di buono. Cercando di non far tremare la voce, mi rivolsi alla Guaritrice, che si era intanto seduta all’altro lato, senza guardare né me né la stanza, mordendomi le labbra a sangue. “si riprenderà…vero?”. Domandai, con una voce flebile, quasi disincantata. Era una domanda stupida, stupidissima, ma avevo bisogno di rassicurazioni. Volevo che Tijorn si riprendesse. Lui non meritava di soffrire. Avevo sempre detto che a lui era dovuta tutta la felicità del mondo. Lui meritava di riprendersi, avere una vita serena, crescere suo figlio, avere magari anche altri bambini, invecchiare tranquillo con i suoi affetti. Una vita monotona, insomma, ma preziosa proprio per quella, per le piccole gioie quotidiane. Non meritava di soffrire, in bilico tra la vita e la morte, che si giocavano la sua esistenza ai dadi. Quella che doveva vivere in un eterno limbo ero io. Io avevo rischiato di far crollare il sogno d’indipendenza di un popolo, il loro sogno di libertà. Io avevo tradito, distrutto, ucciso, senza nemmeno prendere atto di tutto quello che avevo fatto. Avevo servito il male, lo conoscevo, e mi ero crogiolata in esso. Non avevo mai preso in considerazione una vita grigia, normale, e tutto quello, solo per una stupidissima illusione. La Guaritrice mi guardò in viso, con una leggera smorfia. “bisogna aspettare”. Disse, con una strana voce neutra, piombando  poi di nuovo nel silenzio, quel silenzio che non fu più turbato da alcunché. Ero troppo stanca per provare paura a quelle parole, per sentirmi avvolgere dal gelo. Fissai di nuovo il volto di Tijorn. Era completamente inespressivo. Non più gioia, non più felicità, non più nemmeno dolore. Un volto solo, di tanto in tanto, increspato da una piccola smorfia, non so se di dolore, di fastidio. Niente: calma totale. Nemmeno il delirio dovuto alla febbre. Nulla, nemmeno il più flebile segno di lotta. Qualcosa scattò in me. Mi sentii invadere da una strana calma, una calma in cui covava tanta terribile disperazione. Ma non avevo la forza per manifestarla. Qualcosa recise in me ogni sentimento, ogni speranza, una misericordia ben affilata. Ed io mi limitai ad aspettare.

Aspettare, si aspettare, senza chiedersi nulla, senza fare pronostici sul futuro, vivere al secondo, in quel piccolo mondo che finiva ed iniziava con un viso. Attesa stolida, rimbambita da un dolore così intenso da essere altro dal dolore, un dolore lontano, estraneo, come vedere immagini lontane, che non possono colpire direttamente. Persi il conto delle ore, dei minuti, dei giorni. L’attesa si trasformò in un ammasso di momenti tutti uguali, scanditi solo dal mio respiro, da quello di coloro che mi attorniavano, dai gesti ripetuti, sempre uguali, di Tijorn. Ore uguali, gesti uguali, facce uguali, momenti uguali, tutto uguale, tutto scandito da quelle visite rade dei Guaritori, che non facevano altro che cercare di pulire un po’ la ferita, per far si che non si chiudesse troppo in fretta, per cercare di salvare il salvabile. Era davvero un brutto taglio. Le prime volte mi ero rifiutata di vederlo, avevo abbassato lo sguardo ogni volta che lo curavano, ma poi mi ero abituata anche a quello, all’odore acre dei medicinali, della malattia. Ben presto tutto smise di avere importanza. Presi a non dare più importanza a nulla. Nulla era più importante. Nulla era più reale. Esisteva solo un viso sofferente, il viso di mio fratello, parole da dire, stesse frasi, sempre le stesse, sempre uguali, sempre più disincarnate, parole che prendevano pian piano vita propria, diventando solo un confuso ammasso di sillabe senza senso, contorcendosi e stiracchiandosi come gatti pigri, ed una mano da stringere, una mano fredda ed inerte, che non rispondeva mai. Il resto era solo cenere, polvere, che ben presto sarebbe volata via. Tutto quello che bisognava fare era aspettare. Ed io aspettai.

Odio ricordare quell’orribile periodo, quel tempo terribile, ore, minuti e giorni che mancavano completamente di un significato, il riassunto di tutta l’ingiustizia del destino, quel destino che divertiva a tormentarci. Non voglio, non voglio scriverne, non voglio costringere la mia mente a tornare indietro. Eppure lo faccio, analizzo ogni singolo secondo, rimasto in me con precisione assoluta nonostante il velo di stordimento che mi avvolse Tijorn non si svegliò, né diede segni di ripresa. Mi hanno detto che passarono ben quattro giorni da quella sera tremenda, quattro giorni in cui io non mi mossi, né reagii a ciò che mi circondava. Ero sfuggita al mondo sensibile, mi ero rifugiata in una dimensione dove la sofferenza, il dolore di vedere mio fratello agonizzante, completamente vinto da una ferita che si era dimostrata ben più grave del previsto, non esisteva, dove la disperazione si mutava in stoica rassegnazione. Un delirio elettrico, nebbioso, che m’impedì d’impazzire, una volta e per tutte.  Non ci fu giorno, né mattino, né pomeriggio. Per me, quel periodo infinito fu una sola notte. Una notte senz’alba. Senz’alba, perché non ci fu più sole per far vivere il mondo. Il mondo, il mondo come l’avevamo conosciuto noi, quel mondo tutto sommato ancora giovane in cui ci sollazzavamo, ancora infanti, ancora bambini, quel mondo in cui ci affacciavamo, timidi, avvizzì, per lasciarci in un vuoto ed in un buio senza fine, un vuoto gelido, in cui non rimane altro, della vita, che uno stolido terreno, polvere, polvere e terra da tenere in mano, per lasciare che voli via. Sballottati in un’eterna tempesta ghiacciata, che sapeva di morte, senza più requie, una nave che non trova il porto, un porto che non esiste più, infranto dal più atroce dei terremoti. Chiusi la mia mente al mondo. E non mi rimase altro che l’attesa.

Un giorno, forse poco dopo il mio arrivo, forse due giorni dopo, non so, arrivò Max come guardia. Il Guaritore di prima un anziano e dolce elfo, che aveva incitato alla vita Tijorn, con me, se n’era andato da poco, quando sentii la porta aprirsi, e qualcuno entrare in punta di piedi. Come sempre, non mi voltai. Non era una novità, quel comportamento. I Guaritori si comportavano sempre così, come se avessero paura di dare fastidio a qualcuno, di infastidirmi, nel mio dolore e nel mio abbandono pressoché totale, nel mio odio verso me stessa. Perciò, sobbalzai lievemente quando sentii una mano calda posarsi sulla mia spalla. Mi girai, e vidi il volto pallido di Max, il Guaritore che mi aveva strappato alla febbre, che ci aveva assistiti, e che aveva cercato di far tutto per Tijorn, venendo solo minacciato da me, minacciato per qualcosa che non aveva commesso. Nei suoi occhi brillava la colpa. Sapevo quanto gli dolesse il fatto di vederci così, di vederci abbattuti dal dolore, lui incosciente, io al di là di ogni percezione umana, per un suo errore. Nonostante tutto, però, avevo elaborato l’astio che provavo nei suoi confronti. Non riuscivo più ad odiarlo. Non riuscivo più ad odiare nessuno, se non me stessa. Ma non avevo la forza di compiangermi. Non avevo più la forza di fare nulla povero Max. doveva aver racimolato il coraggio per affrontarmi solo in quel momento. eppure non ero così terribile, io. “ciao, Lsyn”. Sussurrò il Guaritore,con aria stanca, sembrava non aver dormito anche lui, per chissà quanto tempo. I capelli erano più arruffati del solito, e la barba più lunga, le occhiaie più profonde. Aveva l’aria di uno spirito, di un perseguitato. Mi ricordò, alla lontana, lo sguardo di Chekaril, quello sguardo da volpe braccata, senza la sua malizia. Provai un empito di pietà nei suoi confronti. In fondo, non era colpa sua se il veleno aveva mascherato i sintomi della setticemia, anzi. Lui aveva fatto di tutto per farci stare bene. Forse si era affezionato a noi. Ed io lo ripagavo così? Con quell’astio, con quell’odio? Ed allora, cosa avrei dovuto provare, nei miei confronti, di me, che ero stata la matrice di tutta la disgrazia? Se fosse stato per me, Tijorn sarebbe stato bene. Io forse sarei morta, dilaniata da un mostro orrendo, ma poco importava. In fondo, a me nessuno teneva in modo irreparabile, non ero il pilastro di nessuna esistenza. Avrei causato dolore, certamente, ma si sarebbero tutti ripresi da esso. Se Tijorn fosse morto, invece, il colpo sarebbe stato così forte da non farci vivere più. Lui era l’elemento portante di tutto il gruppo. Senza di lui, tutte le nostre vite crollavano, senza il nostro pilastro. Guardai così Max con una sorta di maggior presenza. Credo di aver sorriso debolmente. Lui mi scompigliò i capelli, come un padre. Mi fece bene, quel comportamento. Voleva dire che lui non ce l’aveva con me, per quello che avevo fatto. Che bravo elfo, senza alcun rancore. “ho deciso di venire a farvi un po’ compagnia. Posso, vero?”. Annuii, senza forze. Nulla aveva davvero importanza, a parte mio fratello. Con un sospiro, il Guaritore, privo della sua solita aria scorbutica, che tanto lo rendeva particolare agli occhi altrui, si sedette sulla stessa sedia che aveva occupato il suo collega di prima, e cominciò la solita visita. Vidi la sua espressione farsi sempre più adombrata, man mano che andava avanti. Ero troppo stanca per provare qualcosa. Lo guardai, quasi stordita, quando lui alzò lo sguardo, mentre cambiava la benda, le labbra sottili e lo sguardo truce. Volevo sapere cosa stava succedendo, per renderlo così cupo. Lui mi capì al volo. “qui non si capisce niente, Lsyn”. Disse, con aria afflitta, risedendosi di colpo. “non riesco a capire niente.  Il veleno è stato assorbito…ma non saprei dire se questo è un buon segno, oppure no”. Di nuovo, cambiò qualcosa. Bene, ci siamo. O la va, o la spacca. Per un attimo, desiderai che Tijorn si riprendesse, o morisse. Non sopportavo più di vederlo così, agonizzante, pallido, febbricitante, un pupazzo malato. Non poteva soffrire in quel modo. Quella presa di coscienza mi affossò ulteriormente. Era bella, quella calma piatta che esisteva in quel momento, in me, quella calma che mi rendeva impossibile anche solo parlare. Non era disperazione. Era qualcosa di più penoso, e profondo. Una consapevolezza assoluta, una sorta di esaltazione, come se l’intero mondo fosse ai miei piedi, per tramare contro di me, ed ordire la mia morte. Sentii con un orecchio solo Max blaterare sul fatto che si sentiva in colpa, che era stata colpa sua, che in realtà non aveva voluto nulla di quello che era successo, e che dovevo perdonarlo. Mi sentii stanca di quelle chiacchiere, di quel monologo. Max stava dicendo solo un mucchio di stupidaggini senza senso, tutto qui. Avevo bisogno di silenzio,di tranquillità. Non sopportavo il suono della voce mortale. Volevo solo essere lasciata in pace, me ed i miei pensieri. Così, mentre ancora blaterava, con la mano libera andai a stringere quella di Max. Il flusso di parole angosciose s’interruppe di colpo. Accolsi quella pace benedetta con un sospiro.

Max rimase lì, con me, a farmi compagnia. Non avrei voluto un altro Guaritore a fianco del mio inerte fratello, non una di quelle creature senza sangue nelle vene, quelle persone che odiavo con tutta ma stessa. Solo Max mi capiva, solo Max era capace di comprendere la portata del fardello che mi portavo dietro. Fardello di colpa, di dolore, troppo pesante, che mi stava curvando senza rimedio. Lui fu l’unico capace di curare Tijorn, di cercare un rimedio per abbassargli la febbre, per trovare il rimedio che l’aiutasse a combattere quell’infezione terribile. Non avevamo più parlato, con mio grande sollievo, ma ci eravamo tenuti spesso per mano, nel tentativo inutile di trovare un po’ di sollievo nella reciproca compagnia. Niente era cambiato, tutto era dannatamente uguale. Eppure, mano mano che il tempo proseguiva, vedevo una strana espressione dipingersi sul volto di Max, una faccia che non gli avevo mai visto. Sembrava divenire ogni giorno più impenetrabile, più vago, più misterioso. Aveva preso a pulire la ferita meno spesso. Non so perché, ma capii al volo il motivo di quel comportamento. Non c’era più nulla da fare. Tijorn stava perdendo la battaglia. Per un ceto verso, me ne rallegrai. Avrebbe, finalmente, smesso di soffrire. Nello stordimento in cui mi ero imprigionata, riuscii a resistere alla voglia di fuggire, che era apparsa improvvisamente, il giorno in cui la febbre si era alzata ancora di più, e mio fratello aveva preso ad agitarsi. Era stata una cosa del tutto improvvisa. Era capitato un momento in cui la luce era forte, forse era giorno. Quelle urla, quelle suppliche sussurrate, minarono quello che restava della mia voglia di vederlo ancora vivo. Basta! Non volevo più vedere quella tortura, quel dolore, il dolore sfigurare il bel viso di mio fratello. Se fosse morto sarebbe stata una gran cosa. Morto, o vivo. Non morente. Presi a tapparmi le orecchie quando lui si lamentava, presi a rifiutarmi di passargli un panno bagnato in fronte, presi a rifiutarmi di toccarlo. Ogni manifestazione del dolore che lo tormentava era per me una staffilata dritta al cuore. Precipitai ancora di più nello scoramento. Volevo morire, morire con Tijorn, spegnermi con lui. Ogni suo dolore era una fitta di agonia. Non avrei vissuto con quel ricordo orrendo, che mi rifiuto di mettere per iscritto. Max, sempre più abbattuto, si era accollato anche tutte le mie responsabilità, in silenzio. Mi ero chiesta in silenzio perché Nemys non fosse venuta da me, conoscendo la mia sofferenza. Ma forse Isnark le stava impedendo di venire. Era molto probabile. Poi non mi feci più domande. Un gemito straziato scacciò tutta la vita che era rimasta in me, e la mia esistenza si trasformò in un ammasso di ferro incandescente, che mi feriva corpo e spirito.

Inaspettatamente, una mattina, tutto parve andare meglio. Fu tutto molto rapido. Quella notte non avevo dormito. Ero rimasta a supplicare Max di uccidere Tijorn in qualche maniera, avevo passato tutto il tempo ad implorare mio fratello, peraltro inutilmente, di vivere, di combattere ancora, di combattere quel male oscuro. Lui non mi aveva ascoltato, non aveva dato la minima impressione di avermi capito, ed aveva continuato a borbottare a proposito di chissà quale antico fatto, che la sua memoria stava rivangando. Avevo passato la notte a pregare chissà chi, chissà cosa, di far morire Tijorn. Non ne potevo più di quella terribile agonia. Non sopportavo vederlo così. Ogni lamento portava via un pezzo di vita, della mia vita. Era stata una nottata tremenda. Per fortuna, all’alba la situazione era andata migliorando. Quella mattina la febbre si era abbassata un po’, e mio fratello, il mio dolce fratellino, aveva smesso di agitarsi. Era piombato in un sonno malsano, sonno di febbre, il respiro stranamente più regolare e profondo, il volto più colorito. Avevamo, sia io che Max, avuto un palpito di speranza. Forse il peggio era passato. Forse si poteva ancora sperare nella vita. Forse Tijorn si stava per svegliare. Il mio amico Guaritore aveva controllato la ferita, e, con sollievo, aveva detto che sembrava andare meglio. Dopo quelli che mi parevano secoli, mi parve di sorridere. Avevo dimenticato come si facesse. Avevo, così, mangiato, dopo quello che mi pareva un secolo, e mi ero rimessa accanto a mio fratello, che sembrava lievemente più rilassato. Quell’espressione tranquilla squarciò in parte il velo di stordita apatia che mi ero creata. Mi ero sentita come rinascere, a quelle parole, ed avevo sospirato. Pensai immediatamente ad Akita, ed Amarto, che non avevo più visto. Quanto tempo era passato? Cos’era successo, in quella rapida discesa agli inferi e risalita? Non appena Tijorn si fosse svegliato, sarei andata in cerca dei miei amici. Forse potevo sperare ancora. Forse, davvero, il peggio era passato. Stupidi. Non capimmo che non si trattava altro che della quiete prima della tempesta. No presagimmo nulla della tragedia che ci stava per accadere. Dopo quello che mi parve un secolo, i nostri gesti si caricarono di gioia e vitalità nuova. Non avrei ancora sperato, non me la sentivo ancora, ma forse non era troppo tardi. Forse davvero non avrei mai visto Tijorn bianco e freddo, giacere su una pira, per essere bruciato. Sospirai di nuovo. Era il quarto giorno della mia agonia, e già mi sentivo tirare fuori dalla tomba. L’attesa si caricò di dolce gioia, una gioia soffusa. Avrei visto di nuovo gli occhi di mio fratello aprirsi, quegli straordinari fari grigi, che mi avevano sostenuta e guidata per un’intera esistenza, ed avrei potuto, nuovamente, parlare con lui. Quella prospettiva mi caricò di ottimismo. Forse davvero, non tutto era perduto. Forse, una volta che Max si fosse accertato del passato pericolo, avremmo potuto chiamare Amarto, ed Akita, e forse, un po’ più in là, anche i piccoli. Sarei tornata da Nemys, ed Isnark, ad implorare di essere perdonata, per poter vivere la mia esistenza in santa pace. Le ore passavano, e, pian piano, mi resi conto di alcuni piccoli particolari. Era giorno. Sembrava anche una bella giornata, una bella giornata calda. Cominciai ad avvertire la stanchezza di giorni passati a vegliare mio fratello. Mi concessi un breve sonno. Passò un po’ di tempo, un po’ di tempo in cui io mi godetti, finalmente, la luce. Max fece una battuta, ad un certo punto, ed io, per la prima volta da quelli che mi sembravano secoli, sorrisi genuinamente. Ripresi la mano di mio fratello, e sobbalzai quando me la sentii stringere. Non era una stretta meccanica, me ne resi subito conto. C’era una certa forza, anche se minima, ed una certa coscienza. Quello voleva dire una sola cosa. Mi sentii il cuore in gola. Ci fu un momento di silenzio. Ebbi quasi paura di alzare lo sguardo. Poi, finalmente, obbedii a quella voce interiore che mi comandava di guardare in viso Tijorn, una cosa che avevo accuratamente evitato di fare da giorni. Sentii istantaneamente gli occhi riempirsi di lacrime. Perché Tijorn era sveglio, e mi guardava.

Penso di essere scoppiata quasi in lacrime, quando vidi gli occhi di mio fratello aperti, stanchi, spossati. Tijorn era molto debole, ed aveva ancora la febbre. Avevo sentito un’incredibile gioia, e mi ero confortata in essa, quando lo avevo visto vivo, e sveglio. Era bellissimo vederlo così, anche malandato, malmesso, ma pur sempre vivo. Ero troppo stanca per essere davvero felice, ma, per quel momento, quella vaga allegria mi dava la forza necessaria per sopravvivere un poco di più. “buongiorno, fratellino…”. Gli avevo detto, carezzandogli i capelli, arruffati, sporchi, una matassa inestricabile di nodi. Forse se li sarebbe dovuti tagliare. Non importava: mi bastava che fosse vivo. Era solo quello l’importante. Lui mi aveva sorriso, un’ombra di sorriso, che mi aveva scaldato il cuore, quel cuore di cui, in quei terribili giorni, mi ero dimenticata l’esistenza. “Nanetta mia…”. Aveva detto, sussurrato, un sussurro flebile, venendo poi colto da un accesso di tosse che gli mozzò il fiato. Sospirai, e mi guardai con Max, che alzò gli occhi al cielo. Non potevo aspettarmi una ripresa subitanea, non dopo quella notte tremenda. Era normale, quindi. Tutto normale. Cercai di crogiolarmi in quell’impressione. “Tijorn…”. Disse il Guaritore quando lui si fu calmato. “come ti senti?”. Ci fu un attimo di silenzio. Un silenzio che, all’improvviso, mi parve pieno di cattivi presagi. Guardai il volto di mio fratello. Sembrava pensieroso, stranamente rilassato, quasi rassegnato. Era un’espressione che non mi piaceva. Sospirai per calmarmi, senza esito. Le parole che ci giunsero all’orecchio ci sembrarono oltremodo strane. “non soffro”. Disse mio fratello, laconico, guardando altrove, e richiudendo gli occhi. Di nuovo io  Max ci scambiammo uno sguardo. Il mio cuore saltò un battito. No. Non poteva essere! Non ora! Tijorn era vivo, e sveglio. Sveglio, soprattutto. Non doveva essere così, sicuramente. Si sbagliava. Era solo un modo di dire. Mi sentii morire silenziosamente. Di nuovo il panico montò in me. Per non urlare, mi morsi le nocche. Il dolore fisico che provai mi aiutò a scacciare la pena, la preoccupazione immensa che stava montando in me. Io e Max ci scambiammo un nuovo sguardo. Il Guaritore sembrava perplesso. Con discrezione, fece per avvicinarsi alla ferita, per esaminarla. Stava appena scostando le bende, quando mio fratello, aperti di nuovo gli occhi, lo fermò con la mano buona. Lui e Max si scambiarono uno strano sguardo. Poi il Guaritore strinse le labbra, e cercò di forzare, di allontanare il braccio che gli stringeva il polso, inutilmente. Io rimasi a guardare, come una sciocca. L’orrore stava montando, terribile, doloroso, pungente come veleno. Dovetti mordermi le labbra per non urlare. In me si aprì una voragine. Tirai il respiro come se stessi per soffocare. Sentii un grande peso nel etto, e la testa mi girò. Mi appoggiai al letto con una mano, per non cadere. Nessuno dei due fece caso a me. Io chiusi gli occhi. Non volevo vedere. Avevo già capito cosa stava succedendo. Non era la prima volta che vedevo feriti in punto di morte sentirsi improvvisamente meglio, e poi spirare dopo poco. Ed era quello che stava capitando a Tijorn, e lui lo sapeva fin troppo bene. Era stata una speranza volatile, vana e terribile, che non aveva avuto nemmeno il tempo di nascere, prima di essere stroncata. Non c’era più nulla da fare. Le mie preghiere erano state esaudite. Cercai di rimettere insieme il muro elastico che avevo creato prima, per non scoppiare a piangere, fino a consumarmi. Fu inutile. Tijorn, il mio fratellino. Il mio era un dolore che mozzava il fiato, che impediva anche solo di prendere il più piccolo respiro. Niente che le parole possono descrivere. Il lutto, la certezza della morte, è qualcosa di troppo grande per poterlo anche solo immaginare. “no”. Sentii sussurrare da mio fratello. Serrai gli occhi, e strinsi la coperta, come per volermi consolare. Ma non potevo. Non potevo fare nulla. Stavo cadendo in pezzi. “smetti di curarmi, Max… non fate più nulla, per me. Non sento nulla…non sento dolore. Fate finta che per me sia così. E’ inutile insistere ancora. Non voglio più soffrire”. Il tono di mio fratello mi produsse una scarica di dolore così forte da mozzarmi il fiato. Era il tono di un supplice, il tono di chi sapeva di non avere scelta, né decisione alcuna sulla sua vita, una foglia morta portata dal vento, ma, nello stesso tempo, un tono severo, inflessibile. Da eroe. Il mondo si fece buio, e freddo. Di me rimase solo una minima parte, a contatto con la realtà. Il freddo, quel freddo gelido dell’anima, tornò, ed io mi trovai a tremare come se fossi stata nuda in una tempesta di neve. Quell’alba era stata fin troppo breve. Il mondo era precipitato nel vuoto. Vuoto, buio, e senza senso. Niente aveva più senso. Era tutto dolore. Senza Tijorn…perché vivere ancora? Perché lui doveva morire? Perché non io? Perché? Vita. Vita. Cos’era la vita, senza il sole a riscaldarla? Una vuota apparenza, vana larva. Quello che poi io diventai, una nottola che ha il suo momento di gloria quando il sole non esiste, che, tuttavia, lamenta la sua mancanza, senza gioire di essa. Una vita vuota, vana, inutile. Senza Tijorn non ero nessuno. Mi morsi di nuovo le nocche. Volevo gridare, ruggire. Volevo donare la mia vita, correre al tempio per chiedere agli dei, chiunque essi fossero, di chiedere la mia vita in cambio di quella di Tijorn. Io sarei morta, Tijorn sarebbe vissuto. Ma non ebbi la forza di fare nulla. Rimasi lì, riuscendo solo ad emettere piccoli pigolii, come un pulcino spaventato. Sapevo che da lì non sarebbe stato facile uscire. Ci fu un momento di silenzio. “Max”. Disse Tijorn, con una strana voce soffocata. “vai a chiamare Akita, ed Amarto. Li voglio qui, con me. Voglio stare solo con Lsyn”. Ecco. Era finita. I pigolii si trasformarono nel monotono lamento della sera in cui lui si era sentito male. Serrai ancora di più gli occhi, come una bambina che non vuole più vedere, come una bambina che ha paura dei mostri sotto il letto. Ma di mostri lì non ce n’erano mai. Invece, in quella stanza satura dell’odore tremendo delle erbe, il mostro c’era, eccome. Era la morte. La morte di una parte di me stessa. Non pensai sarei riuscita a sopportarlo. E forse sono morta, sono morta allora, e tutto il resto, da quel momento in poi, fu solo sogno vano. Ero immersa, immersa in un oceano di dolore, in cui non sapevo nuotare. Quella era una sofferenza nuova. Avevo ucciso Chekaril, era vero, avevo perduto la mia innocenza. Ma mai, mai avrei immaginato di perdere la mia stessa esistenza in quel modo assurdo. Mi rammentai della Matriarca, di Gwen, e di come si era sentita quando Eiron era morto, aveva deciso di dover morire. Ecco. Più o meno io mi sentivo così. Completamente disfatta dal destino, un destino più forte di me. Sentii dei piccoli passi affrettati, Max, probabilmente, e la porta chiudersi. Rimasi sola con Tijorn. Il mugolio si trasformò in un pianto vero e proprio, ed io cominciai a singhiozzare senza requie. Il mio fratellino, Tijorn. Non l’avrei mai più visto. Mai più mi sarei fatta abbracciare da lui, mai più l’avrei preso in giro. Non ci sarebbero state mai più confidenze allegre, non avrebbe mai visto il suo bambino nascere, sentendosi male di conseguenza, come poteva essere prevedibile. Non avrei mai più litigato con lui, lui non sarebbe stato mai più lì per farsi perdonare, o per perdonare. Non avremmo mai più rivangato i bei vecchi tempi. Non avrei mai più potuto costruire un futuro dove egli fosse stato presente. E, vedere un mondo senza di lui, ancora mi era impossibile. Lui era sempre stato lì, con me a consolarmi, confortarmi, lì, silenziosa presenza, sarcastica, un mio secondo padre. La sua assenza faceva più male di mille coltelli. C’erano tante cose da dire, da fare, cose non dette, recriminazioni, promesse lasciate pendere nel vuoto. E tutto quello sarebbe svanito. Niente, perduto, come se non fosse mai esistito. Il dolore al petto si fece più intenso. I miei lamenti mi parevano guaiti. Ad un certo punto, non so come, non so quando, sentii una mano posarsi sulla mia. Tijorn. Aprii gli occhi di scatto, divenuta una bambola preda del dolore, dilaniata, squarciata dal dolore più intenso che si possa mai immaginare. E poi mi ritrovai avviluppata a mio fratello, stringendolo, stringendolo forte per non farlo andare via. L’avrei mantenuto. L’avrei mantenuto, mi sarei aggrappata e lui, e lui non mi avrebbe lasciata. Era tutta una finta, quella. Magari lui stava meglio, solo che non se ne accorgeva. Magari Max, se solo l’avesse visitato, sarebbe riuscito a tirarlo fuori da quella situazione. Invece nulla. Erano solo illusioni, le mie. Nient’altro. Sentii una mano fresca posarsi sui miei capelli. “Nanetta…”. Bisbigliò Tijorn, un bisbiglio ancora più soffocato, che mi fece piangere ancora di più. “Nanetta, non fare così…non piangere… va tutto bene… è sempre andato tutto bene…”. Parole inutili. Trovai, finalmente, un po’ di fiato per parlare. E mi allontanai dall’incavo della spalla sana di mio fratello. Per guardarlo in viso. Aveva davvero una pessima cera. Gli occhi sembravano già fissare qualcosa al di là del mondo, come se lui stesse facendo uno sforzo per rimanere vivo. E forse era realmente così. Maledissi quell’uccellaccio del malaugurio. Dovunque si fosse nascosto, un giorno sarei andata a cercarlo, per rendergli la sofferenza che lui aveva reso a noi. L’avrei ucciso, ucciso lui e la sua compagna, quella folle elfa vestita d’oro. Pensai in un lampo ad Akita, ed al suo bambino. Orfano senza nemmeno conoscere suo padre. Era una cosa troppo terribile per poterla pensare. Era ingiusto, ed egoista, pensare che Tijorn stesse per andare via, stesse per lasciarci per sempre. Io e lui ci fissammo, e lui sorrise lievemente. “sembra che siamo alla fine…”. Sussurrò, portando la mano sulla mia guancia offesa, con una strana calma. Non sembrava tanto addolorato. Trasalii. La sua mano era incredibilmente fredda. “è venuto il tempo dei saluti… una volta per tutte… noi ci salutiamo”. Mi fecero un male immenso quelle parole. Un senso incredibile di solitudine si fece strada in me. Solitudine immensa, come essere su una rupe, e gridare, senza essere sentita da altri che dal cielo. Ripresi a tremare. “Tijorn…ti prego…”. Sussurrai, con una voce roca e spezzata che non sembrava la mia. Che vana speranza, quella di credere che si fosse ripreso. Era un’agonia troppo orribile per poterla anche solo rievocare. Tuttora, scrivendo queste parole, tremo, e piango, e riesco a scrivere solo poco più di una frase, prima di versare tutto l’inchiostro a terra, tanto che il tremito si fa forte. Lui mi zittì con una strana occhiata. “Lsyn…non sono sveglio per parlarti di stupidaggini”. Disse, con uno sguardo duro, che celava tanta sofferenza. “ma voglio dirti una cosa. Nel mio mantello…”. Lui si fermò un attimo, riprendendo a tossire convulsamente. Lo sostenni, e l’aiutai a rimettersi un po’ meglio steso. Trasalii quando vidi del sangue colorare le labbra esangui di mio fratello. Lui sembrò quasi non accorgersene, e si passò una manica sulle labbra, con fare regale, ignorando totalmente la spiacevole novità. Aveva un coraggio incredibile. Poi, come se nulla fosse stato, lui riprese a parlare. “nel mio mantello, in una tasca, ci sono delle lettere. Sono per…per tutti voi. Non ho tempo…non ho tempo per dire a tutti delle cose…”. Lui aprì e chiuse gli occhi, e sembrò, per un attimo, essersi riaddormentato. Continuai a singhiozzare, mordendomi il labbro inferiore, per non fare rumore. Passò poco più di un minuto. Poi lui riaprì gli occhi, e sorrise. Un sorriso dolcissimo. Di nuovo mi carezzò la guancia. “è un peccato non poter vedere mio figlio crescere”. Disse, con genuino rimpianto, guardando le travi a vista del soffitto. Mi morsi la lingua per non urlare. “ma sai…è bello sapere che ci sei tu, con lui. In un certo senso…tu proteggerai me”. Lo sguardo,   quel magnifico sguardo grigio, si posò su di me, carico di una dolcezza insostenibile. “non dubitare, fratellino mio”. Mormorai, appoggiandomi con tutto il peso alla sua mano. Volevo sentirlo vicino ,almeno un altro po’. Quel poco che mi rimaneva. Il solo pensiero bastava a gettarmi nella disperazione più pura. “io non ho mai dubitato di te”. Quel sussurro stentato mise a dura prova il mio autocontrollo. Lui…non aveva mai dubitato di me? Mi voleva bene? Sospirai, un sospiro tremulo. E poi non resistetti. Mi buttai di nuovo con le braccia al suo collo. Lui mi cinse leggermente con il braccio, buono, mormorando qualcosa. “non andare, Tijorn…”. Parole vane, vuote. Chissà quante volte altre persone, altre sorelle, avevano detto questo alle loro persone care. Ma alla morte non c’era rimedio. Essa è la sola che ci afferra, senza speranza di tornare indietro. Chiedere ad un morente di non andare via è come chiedere al sole di arrestare il proprio corso. È l’atroce natura delle cose. E’ quando un caro è nei panni dell’agonizzante, che ci si dimentica sempre di quella cosa. Non si può fuggire alla natura. Tijorn non rispose, e mi lasciò sfogare un po’. Eravamo ancora soli, lì, abbracciati, per l’ultima volta. Non mi pareva che stesse venendo nessuno. Ma dove diavolo era finito, Max? Strano. Di solito lui era molto, molto veloce. Apprezzai quel piccolo, inaspettato regalo. Volevo Tijorn tutto per me, solo per me. Volevo tenerlo fino a quando non mi avrebbe sentito più, e anche oltre. Volevo essere bruciata con lui, nella pira. Il dolore era abbastanza forte da uccidermi, o da bruciarmi, un fuoco a cui non c’era via di scampo. Tremavo. Avevo un freddo incredibile. “ti voglio bene, Nanetta”. Disse ad un certo punto mio fratello, con un sospiro tremulo. Capii che se ne stava per andare. Era lì, vicina, lo capivo da come mi parlava. Lo strinsi ancora più forte, ma lui non rispose al mio abbraccio. “lasciami andare…non stringermi. Tienimi solo una mano…”. La sua era una morte orrenda, ed infelice. Ucciso, nel fiore degli anni, da una stupidissima ferita. Ucciso nel suo maggiore momento di gloria. Ucciso quando tutto pronosticava una vittoria. Era insopportabile. Non capivo come si potesse vivere, senza di lui. Senza di lui, il mio sole. Gli obbedii all’istante, senza parlare. Non riuscivo a parlare, non riuscivo ad esprimermi. Tutto riprese a non avere un senso. Non potevo negargli l’ultimo desiderio. Lui non desiderava il dolore di nessuno. Forse era per quello che Max tardava tanto. Era troppo orgoglioso per farsi vedere in quello stato. Quello che successe dopo fu troppo breve per potersene bene rendere conto, ed ancora fa troppo male ricordare. Cercai di non piangere, perlomeno fino a quando lui mi avesse sentita. Dovevo essere forte, per lui. Non dovevo recargli sofferenza. Così mi morsi il labbro inferiore, fino a quando non sentii il sapore salato del sangue. Non dovetti trattenermi a lungo, trattenere quegli ululati che minacciavano di uscire, gli ululati di un cuore spezzato. Mio fratello mi sorrise debolmente, un sorriso a cui io mi sforzai di rispondere. Non potevo farlo soffrire, fare vedere che soffrivo. Non se lo meritava. Tijorn, grande fratello, grande eroe, grande amico, grande e basta. Il mio fratellone. Il sorriso si spense subito quando lui chiuse gli occhi. E non li avrebbe mai più riaperti. Il resto si svolse con incredibile rapidità. Vidi, pian piano, il petto di Tijorn abbassarsi ed alzarsi sempre con maggior fatica. Permisi a qualche lacrima di scendere giù, ed il sorriso si cancellò dal mio volto. Sentii un dolore acuto al petto, come mille coltelli che mi stessero trafiggendo tra le costole. Davanti agli occhi mi passarono tanti ricordi. Quando mi aveva buttata nel laghetto. Quando ci prendevamo a capelli. Quando avevamo catturato una faina, una notte, e lui era stato morso. Quando ci eravamo ritrovati come avversari nello stesso gruppo, ed io lo avevo malmenato. Tutte le volte che, di notte, io andavo da lui, perché avevo paura dei mostri cattivi che mangiavano i bambini. Quando mi aveva trovata sulla soglia di casa sua, con una strana notizia, che l’aveva lasciato con tanto d’occhi. Quando era nata Roxen, e lui mi aveva regalato un vestito nuovo, del mio colore preferito. Quando, la notte, lui mi aiutava, cullando la piccola, facendola addormentare. Il giorno in cui avevo dovuto darla via mi aveva preparato una buonissima cioccolata calda, che mi aveva portato a letto. Quando aveva scoperto che stavo piangendo mi aveva messo Nysha in braccio, ed era venuto a dormire con me, per farmi compagnia, per non farmi stare sola. Tutte le paternali che mi aveva fatto, tutte le volte che mi aveva rimproverato di avere una testa vuota. La nostra prima missione. Quando ridevamo, da piccoli, per così poco, e così a lungo, da farci dolere la pancia. Tutte le missioni di ladrocinio che facevamo ai danni della dispensa di Amarto. Tutte le mele rubate. L’asino ubriaco. La prima volta che eravamo andati in un accampamento Insathi, e lui si era lasciato coinvolgere in una rissa con dei nomadi umani, perché avevano osato darmi fastidio. Tute le piccole cose, i piccoli gesti, i regali che ci eravamo scambiati, i duelli che avevamo fatto, i nostri furibondi litigi, che si concludevano sempre con una tazza di tè. Anzi: tazza di tè? Era divenuto il nostro modo preferito di dire, quando volevamo mettere pace tra di noi. Le poche volte che avevamo litigato seriamente. Quando l’avevo lasciato. Quando mi aveva regalato la maschera, ed io avevo pianto di gioia. Quando ci eravamo separati l’ultima volta. Tutto quello non era servito a nulla, solo a recare altro dolore. Perché il respiro si stava facendo sempre più debole, la stretta di mano quasi non c’era più. Digrignai i denti, ringhiando, presa da un tormento così atroce che non riuscivo nemmeno ad urlare. Gli strinsi forte la mano, così forte da fargli male, se solo mi avesse sentito. Ma lui non diede cenni di avermi inteso. Rimase lì, inerte come una bambola, il respiro sempre più debole, un respiro che, ad un certo punto, cessò. Cessò, senza il minimo avvertimento, così, come se non fosse mai esistito. Tijorn era morte, e non mi avrebbe mai più sentito. In quell’esatto momento, mi avvolse un tale sudario di dolor, che credetti d’impazzire. Ed urlai: mi permisi di piangere come mai avevo fatto in vita mia. Ma nulla aveva più senso, ora. Nulla, fuorché lui. Ma lui era morto. Ed io sarei morta con lui.

 

 

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Capitolo 80
*** Bianco. ***


Non penso di poter descrivere, di riuscire a descrivere la pena immensa che mi attanagliò in quel momento, quando vidi Tijorn morto

Non penso di poter descrivere, di riuscire a descrivere la pena immensa che mi attanagliò in quel momento, quando vidi Tijorn morto. Immobile, come se non esistesse davvero, come se fosse solo una bambola. Tijorn. Quel fratellino che, in trecento, maledetti, anni di vita, era sempre stato una presenza certa della mia esistenza: a volte, certo, un po’ fastidiosa, una sorta di mia coscienza supplementare, che mi rammentava dei miei limiti di mortale, molto più spesso un complice di malefatte, di scherzi, o un confidente. L’unica persona, o quantomeno una delle poche, capace di prendermi per il verso giusto, abile a capire quando tenermi con sé, o quando lasciarmi andare. E non esistono parole capaci di descrivere i sentimenti di una persona colpita da un simile lutto. È come essere abbandonati all’improvviso da una gamba, da un braccio, essere allontanati da una parte vitale di se stessi, essere lasciati soli in un abisso buio e freddo. Vuoto. Bianco. Potrei sprecare pagine e pagine per descrivere ciò che sentii in quel momento, lo strappo atroce che si formò tra la mia vita di un tempo, che mi pareva così dolce, ed innocente, anche nei suoi momenti peggiori, e la vita che si prospettava senza mio fratello. Ma non posso, non posso ancora. Dopo dieci anni, il dolore è ancora vivo, e presente, una ferita in cui si butta continuamente sale. Come essere catapultati in un mondo ostile ed estraneo, senza istruzione alcuna. Avevo ucciso Chekaril, certo, ma c’era sempre  stato Tijorn, per quanto avessi dubitato di lui, con cui parlare, un bastone su cui appoggiarsi per camminare. Avevo agito in un  modo crudele, disumano. Ma c’era sempre stato Tijorn, a consolarmi e capirmi. Avevo tentato di suicidarmi. Ma Tijorn mi aveva accolta, consolata, e fatto capire che c’era ancora una vita che valeva di vivere, ad aspettarmi. Il mio intero corpo era per metà coperto da abominevoli cicatrici da ustione, il volto per metà ridotto ad un ammasso di cera sciolta, la voce trasformata in un ringhio cupo di belva. Tijorn non aveva mai cambiato il suo modo di porsi con me, a volte donandomi una carezza, a volte svegliandomi brutalmente dall’autocommiserazione in cui sprofondavo. Solo altre due persone che mi conoscevano prima che un incidente orrendo mi sfigurasse erano state capaci di non prendere a trattarmi come una bambolina fragile, agendo come se non mi fossi mai ferita, come se quei segni orrendi non fossero mai esistiti. Junielle, la mezzelfa irrimediabilmente bugiarda, ma mai con me, eclettica, un po’ pazzoide, vivace, un’attrice nata, che era o impazzita del tutto, o talmente sconvolta dall’odio da essere cambiata per sempre. Regis, quell’umano che mi aveva sfidata più che volentieri ben più di una volta, che mi aveva insegnato molto, cavaliere e umano insolito, misterioso, pieno d’onore, una leggenda, che mi aveva umiliata così profondamente al Lazzaretto, per dimostrarmi che non cambiavo mai, né sarei cambiata. Ma era morto, scomparso, o così vecchio da essersi rimbambito, dopo cinquant’anni. Tutti gli altri non mi avevano mai realmente conosciuto. Amarto: un vecchio elfo malato, annegato nei ricordi di una gioventù che io non conoscevo. Akita: dopo la morte di Tijorn non sapevo quanto riuscisse a sopportare. Sperai che resistesse, se non altro per la salute di suo figlio. Se avesse perso il bambino dopo quella tragedia, ne sarei morta. Mio nipote era troppo importante per me. Era tutto quello che mi rimaneva, con Nysha e Manolìa, di mio fratello. I bambini erano bambini. Troppo piccoli per comprendere la portata di ciò che era successo. Max era solo un Guaritore. Rimaneva solo Nemys, Nemys, che sicuramente mi avrebbe compresa come mai nessuno, oltre Tijorn, era riuscito a fare. Ma lei era la Matriarca di un paese che mi odiava. Solo un giuramento inossidabile sarebbe riuscito a pacificare, o almeno sedare, gli animi nei confronti miei. E davvero non aveva più importanza, non m’importava più di legarmi ad Uruk, dopo la morte di mio fratello. Tutto aveva smesso di avere importanza, tutto aveva smesso di portare vita dentro di sé. L’avrei fatto, per pura inerzia, puro calcolo. Non avevo più nulla da perdere, ed ora ero io a dover proteggere gli altri, non gli altri a proteggere me. Dovevo mettere al sicuro la mia famiglia, per prima cosa. Ora dovevo accollarmi le responsabilità di capofamiglia che erano state di Tijorn e che ora, lo sapevo, erano delegate a me. Io, che poco tempo prima avevo cercato di uccidermi. Era quasi buffo da pensare. Ma, in quel momento esatto, quella mattina di un giorno che per il resto delle creature viventi, quelle creature innocenti che non avevano mai sperimentato il vero prezzo della superbia, la punizione che colpisce chi s’è vantato, o si vanta, quel caro fio di dolore, quel fardello di colpe e recriminazioni che non sarà mai alleviato, non lo pensavo. Certe volte, ovviamente, la pena è meno presente. Alcune volte si può anche far finta di aver dimenticato, di aver superato quello che è successo. Ma non si tratta che di una maschera, come quella che io avevo indossato per tanti anni. Il ricordo è sempre lì, in agguato, pronto  ad assalirti quando meno te lo aspetti, quando credi di aver vinto. Ed era in quel momento, tuttavia, che la pena era più cocente, come se mi avessero strappato un dito, una mano, un braccio. Era anche dolore fisico, un dolore acuto, come una coltellata al petto, che non riusciva a farmi prendere fiato. Non riuscii a fare altro che crollare, aggrapparmi a quello che una volta era stato un fratello vivo, pieno di speranze e di calore da donare, ma che ora era destinato a diventare solo un mucchio di cenere, crollare, singhiozzando come mai nella mia vita. Non avevo mai pianto così, mai, nemmeno quando avevo ucciso Chekaril. non mi rimase altro che quello, piangere, lamentarmi come se fossi stata ferita a morte, con ululati che non avevano nulla d’umano, gemiti di un cuore spezzato, quel grido che avevo trattenuto prima, e che ora poteva uscire con tutta la sua forza. On riuscivo a capire più nulla. Nulla aveva un significato. Sentivo la mia guancia posare sulle coperte, le mie mani artigliare il vuoto. Ma era nello stesso tempo come se nulla esistesse, come se nulla avesse un vero senso. Tutto smise di avere significato, perfino il tempo stesso. Ore, minuti, settimane, giorni. Tutto passò, tutto accadde in pochissimo tempo. Sentii, in un angolo nascosto della mia mente, una porta aprirsi, e qualcuno precipitarsi verso di me. Era così insensato, così insensato quell’affannarsi. Tijorn era morto. Ed ora non ci sarebbe stata forza capace di farlo tornare indietro. Sarebbe stato bello, bellissimo, tornare indietro nel tempo, tornare indietro ed impedire a mio fratello di agire, di aggrapparsi a quella coda maledetta per salvarmi. Se solo ci fosse stato un metodo, l’avrei fatto, e di corsa. Sentii altri singhiozzi, dei gemiti a stento trattenuti. Ma, nella piccola bolla di dolore che mi ero creata, non c’era altro che il corpo di mio fratello, inerte, e già meno caldo, non c’eravamo altro che noi due, le mie urla, i miei singhiozzi disperati. Sentii il cuore essere sul punto di scoppiare, come se stessi morendo io, con lui. E non sarebbe stato un male, non mi sarebbe dispiaciuto morire. Tijorn era morto. Sarebbe stato gusto che fossi morta io, così oberata dalla colpa, così piena di malvagità commesse. Ma forse era quella la mia punizione. Veder morire i miei cari senza poterci fare nulla, vedere la more passarmi accanto, sfiorarmi senza mai prendermi, facendosi beffe di me, farmi rimanere sola con il mio dolore, annichilita, incapace di andare avanti. Come avrei potuto proseguire, senza una guida a rischiararmi la strada? Come avrei potuto continuare il mio cammino, senza il mio sole a riscaldarmi? Non ce la facevo. Perdere Tijorn era come perdere un pezzo della mia anima. Era perdere un pezzo intero della mia esistenza. Non potevo vivere senza di lui. La mia esistenza priva di una luce sarebbe stato un misero sopravvivere, come una pianta fatta crescere al buio. Tirare avanti, senza scopi, senza obiettivi alcuni, tranne quello di proteggere la mia famiglia, o quello che ne restava, proteggerla da altri dolori, impedire che si sfaldasse irrimediabilmente, come dei petali senza lo stelo a sostenerli. Era incredibilmente doloroso prendere atto che non ci sarebbe stato più nessuno a mantenermi, fino a quando non sarei stata capace di volare di nuovo, nessuno che, in caso di caduta, sarebbe stato lì, pronto a risollevarmi con carezze e parole ragionevoli, o con sgridate colossali. Non avrei mai più avuto un punto di riferimento, un confidente come lui. La mia vita sarebbe stata destabilizzata, non avrei potuto contare su altri che su me stessa. Impossibile vivere davvero. Sarebbe stato incredibilmente difficile andare avanti senza di lui- dubitavo di potercela fare. Sentii qualcuno, lì, riversa su quel letto disfatto, senza capire più nulla, senza avvertire più nulla che uno strazio difficile da raccontare, impossibile da raccontare, uno strazio che ancora oggi permane, sempre presente, una traccia impossibile da lavare via. Qualcuno mi tirò all’indietro, ed io ebbi una fugace visione di Akita, in piedi, dal volto così pieno d’orrore, e così pallido, da far risaltare ogni segno della pelle, ma poi gli occhi si riempirono di nuovo di lacrime, ed io vidi solo un ammasso confuso di colori. Delle braccia forti cercarono di staccarmi da mio fratello. Gridai con tutto il fiato che avevo, presa da un panico incredibile, un urlo belluino, stridulo. No! Non volevo abbandonare Tijorn, non volevo lasciarlo solo! Volevo stringerlo a me, così non se ne sarebbe andato, così non mi sarebbe scivolato più via, ed io sarei rimasta per sempre con lui, una sola cosa con il mio dolce stupidone, il mio fratellino, brontolone e speciale. Di nuovo quel freddo dell’anima, terribile ancora di più perché impossibile da arginare, mi assalì, ed io presi a tremare come presa dalle convulsioni. Qualcuno mi tenne ferma ed io urlai ancora di più.  Qualcuno parlò, parole che io non compresi. Sentii una boccetta, piena di qualcosa dall’odore pesante e speziato, avvicinarsi alle mie labbra. Chi mi teneva mi strinse ancora più forte. Serrai le labbra, e chiusi gli occhi, dibattendomi come una pazza. Volevo raggiungere Tijorn, raggiungerlo e abbracciarlo, rimanere con lui fino alla fine, anche se non lo sopportavo. Non volevo dormire: perché sapevo che quello che mi volevano dare era un sonnifero, o quantomeno un potente calmante, per stordirmi, per aiutarmi ad accettare, almeno un po’, il lutto tremendo. Io non volevo dormire: volevo stare vicino a mio fratello per sempre. Quasi non riuscii a muovermi. Gridai, di nuovo, un miagolio tremendo, di bestia ferita a morte. Quel qualcuno approfittò di quel momento per buttarmi qualcosa di gola, un liquido amaro e freddo, che mi ricordò il sapore che avevo ogni giorno in bocca quando ero ferita. Calmante. Inavvertitamente, lo inghiottii. Quell’orrendo sapore scivolò in gola. Mi avevano giocata. “no…”. Mormorai, ma già il torpore si stava impadronendo di me. Cominciai a non comprendere quello che mi stava accadendo intorno. La vista tremolò, e si spense. Scivolai in men che non si dica in un buio infinito, buio, freddo e vuoto come quello che sentivo in me.

Quando mi svegliai, era pomeriggio inoltrato. Ero stesa su di una poltrona in quella che aveva l’aria di essere un’anticamera, una piccola stanzetta buia, con due porte, e c’era qualcuno accanto a me. Sentivo provenire, da dentro, singhiozzi sporadici, e qualcuno mormorare. Mi sentivo ancora molto stordita, segno che il calmante era ancora attivo. Il dolore per Tijorn mi appariva lontano, irreale, come se non mi colpisse davvero, come se fosse tutto un sogno. Non mi feci domande, né sentii la sofferenza che mi aspettavo di sentire. I pensieri erano confusi, ovattati, come se non arrivassero realmente alla loro destinazione. Cercai di mettermi seduta, ma un lieve giramento di testa me lo impedì. Non riuscivo a ricordare tutto quello che era successo. Quel qualcuno che era accanto a me si mosse subito, e mi mise una mano sulla spalla. Una cascata di capelli rossi scese a solleticarmi il viso. Era Capouille, pallido e piuttosto afflitto. “fa-fa-fate pi-piano, si-signo-signorina…”. Disse, balbettando più del solito, facendomi mettere seduta, cingendomi la vita per non cadere. Balbettava più del solito, segno che era parecchio agitato. Lo guardai con un misto di curiosità, e vago dolore. Tijorn era morto. Già. Era strano, pensarlo. Sentii qualcosa sulle labbra, qualcosa di duro, piatto e freddo, ed abbassai lo sguardo, verso un calice pieno di un liquido profumato, che Capouille mi porgeva teneramente. Non era l’orribile odore intenso del sonnifero. Sembrava più un aroma di fiori. Mi piacque molto, anche se non riuscivo a  capire a cosa servisse. Guardai interrogativa la Guardia, che sorrise dolcemente. “va tu-tutto bene…”. Mi disse, carezzandomi, con la mano del braccio con cui mi teneva, i capelli. “be-bevete che vi….vi…vi se-sentirete me-meglio”. Gli obbedii docilmente. Magari quel mal di testa pulsante, persistente, come se dovessi ricordare qualcosa che mi sfuggiva, se ne sarebbe andato. Aveva un buon sapore, denso, agrodolce, dissetante. Il dolore dietro gli occhi scomparve quasi subito, ed io mi sentii piuttosto lucida. Cominciai a ricordare ciò che era successo, e provai un senso strano di nausea, anche se c’era sempre qualcosa che la teneva a bada. Tijorn. Tijorn. Morto. Defunto. Freddo. Bianco. La sofferenza era meno lancinante di prima, ma c’era, c’era sempre, come il dolore per la perdita di un arto fantasma. Probabilmente, quello che Capouille mi aveva fatto bere era un calmante leggero, che mi avrebbe permesso di sopportare la veglia. Cominciai a ragionare un po’ meglio. Mi sentivo abbastanza lucida per non dare di matto di nuovo, come avevo fatto prima. Mi assalì un disagio incredibile. Probabilmente, a quell’ora, mio fratello era già stato composto, pronto per la veglia, e per poi essere cremato, come era usanza tra le Spie. Non sopportai l’idea non poter più vedere il mio pazzo preferito. Dovevo almeno andare un po’ di là, a fargli compagnia. Anche se non mi poteva vedere, anche se non mi poteva sentire. Mi aggrappai alla Guardia, un senso vago di disperazione. Ringraziai il calmante, che mi permetteva di essere un po’ più lucida, che mi permetteva di ragionare, di non essere presa dal dolore più acuto mai provato in vita mia. Capouille mi guardò, pietoso. “voglio andare da Tijorn”. Mormorai, come ipnotizzata, cercando nuovamente di alzarmi, di nuovo presa da quel giramento che per poco non mi fece cadere. La Guardia sorrise di nuovo, e, come se non pesassi nulla, come se fossi solo un fuscello, mi ritrovai trasportata a braccia. Ero troppo bassa per poter essere solo aiutata: la differenza, tra me e la smilza Guardia, era troppa. Sentii un colpo al cuore, attenuato ma sempre presente, quando entrammo nella piccola stanzetta, e digrignai i denti, cercando di resistere al dolore, che, nonostante il calmante leggero, minacciava di sopraffarmi. Tijorn era stato sistemato su un lettino, vestito con gli abiti scuri con cui era partito dall’Altrove con noi, e sembrava dormire. L’avevano pettinato, pettinato i suoi lunghi, fantastici capelli, neri come i miei, e li avevano legati in una coda, la sua solita coda ordinata. Era pallido, bianco come me l’ero sempre immaginato. E gli occhi, quegli occhi che tante volte mi avevano rimproverata, consolata, guardata con attenzione, sarcasmo, divertimento, affetto, erano chiusi, e non si sarebbero mai più riaperti. Mi mori il labbro fino a farlo sanguinare, fino a riaprire le ferite che mi ero procurata prima ,e distolsi lo sguardo da quello spettacolo che minacciava di farmi impazzire. Mi guardai quindi intorno. Tutti si erano accorti del mio arrivo, ma nessun pareva farci caso più di tanto. C’era Max, che aveva un’aria amareggiata, e piuttosto avvilita, assieme ad una pensierosa Junielle, sempre quello sguardo ostile in volto, quel lampo d’odio, che guardava il vuoto, corrucciata. C’era Amarto, l’aria di un uomo che ha passato mille e mille anni di tormenti, e perfino i piccini, con un’aria così spaventata in volto da sembrare quattro pulcini bagnati, tutti raccolti attorno al mio Maestro. Roxen e Chekaril stringevano i loro pupazzi che, chissà come, erano riusciti a salvare da Lainay, mentre Manolìa e Nysha si tenevano abbracciate. Della nostra compagnia, mancava solo Akita. Povera piccola. Pensai che l’avessero sedata. Non ce l’avrebbe mai fatta, fragile com’era, a vedere il suo compagno morto. Poi sobbalzai, presa di sorpresa. Nell’angolo più discosto, seduti su semplici sgabelli come tutti, c’erano Benagi, Zipherias, il primo calmo, il secondo sempre lievemente annoiato, come se quella fosse una scena risaputa, e poi, cosa che mi face morire silenziosamente, Isnark con Nemys. Il primo, al mio ingesso, mi aveva guardato con un volto iroso, le cicatrici che gli avevo lasciato sulla guancia che scintillavano alla luce del sole, aveva fatto una smorfia e si era girato dall’altro lato, facendo come se non esistessi. Doveva ancora avercela a morte con me. La Matriarca, invece, che sembrava aver pianto di recente, gli occhi azzurri un po’ rossi ,e gonfi, si era alzata di scatto. Non reagii a nessuna delle reazioni. Non ne avevo la forza. Il volto di Nemys espresse, ad un certo punto, confusione, poi pietà, poi ancora dolore. Capivo come si sentiva, perfettamente. In fondo, Tijorn era anche suo fratello. Guardai altrove. Non avevo il coraggio di fissare nessun altro. Capouille mi fece così sedere su uno sgabello tra Amarto e Nemys, accanto al letto dove era posato Tijorn, dove io quasi mi accasciai. La mano forte ed asciutta di Amarto, e quella sottile e morbida di Nemys mi fermarono giusto in tempo, prendendomi per le spalle. Mi lasciai così, nel silenzio tombale della veglia, andare a strane associazioni d’idee, come quelle che si fanno prima di addormentarsi. Ebbi un’idea, così, improvvisa. Nemys. Dovevo legarmi a lei, per sempre. Anzi, cosa migliore: legarmi al Matriarcato. Avrei guadagnato la fiducia di tutti. Volevo farlo. Mi sentii pronta per quella decisione. Potevo fidarmi di Nemys. Ebbi, in un lampo, l’idea esatta di cosa fare. M’immaginai l’abito viola, l’abito che avrei indossato, e che poi sarebbe diventata la mia livrea. Ben presto, tutti i tasselli del piano andarono al loro posto. Fissai, come in un sogno, la mano abbandonata di mio fratello, e, presa da una strana, distante frenesia, mi allungai per toccarla. Per un attimo quasi credetti si fosse mossa, e dentro di me sentii il cuore in gola. Sarebbe stato buffo, se fosse stato così. Tijorn redivivo, che si alzava e diceva di stare bene, che si era sentito malissimo per un po’, ma ora era pronto per vivere ancora. Invece nulla. Rabbrividii quando sentii la mano di Tijorn, fredda, rigida e cedevole allo stesso tempo, abbandonata lì. Cosa morta ed inanimata. Rabbrividii, presa da un orrore indicibile, e, con le lacrime agli occhi, ritirai la mano. Non ebbi più il coraggio di sfiorarlo. Avrei fatto i paragoni con lui vivo, la sua mano sicura e calda, la sua stretta forte, ed avrei pianto, nonostante il calmante frenasse di molto il dolore. Sperai ardentemente che non lo ricordassi così, muto, freddo, morto, quel colorito così orribile, quell’aspetto di abbandono finale che mi faceva rizzare i capelli. Ora so che i ricordi di luce che ho sono troppo forti per lasciare che il ricordo di lui si offuschi in quel modo. Trecento anni non sono noccioline. Aprii la bocca. Dovevo solo chiedere a Nemys una cosa. La voce m uscì strana, distorta, sussurrata, lei si chinò verso di me per sentire. “Nemys…”. Mormorai, abbassando lo sguardo sul pavimento bianco. “dopo il funerale… voglio aspettare la Notte. Domani mattina…voglio legarmi a te, a tutti voi”. Un abito viola, una spada, un giuramento che mi avrebbe legata a vita, roba  che faceva sembrare il giuramento delle Spie cose da infanti. Sapevo cosa fare. Sentii lei fremere, e guardarmi con ansia. Abbassai ancora di più il tono di voce, affinché solo li mi sentisse. “voglio essere Ch’argon”. Una sola parola, abbastanza per descrivere quello che stavo per fare, il passo tremendo che stavo per compiere. Una parola che significa, nella nostra lingua, non letteralmente, il messo. Quello per divenire Ch’argon di un Regno e’ una procedura complessa, che richiede la massima buonafede, e la massima buona volontà. Legata al Matriarcato, per il suo benessere, fino alla fine. E con esso sarei caduta, se solo esso l’avrebbe fatto. Il più fedele, non al sovrano, ma al benessere di tutti. E’ un titolo che permette atroci restrizioni, ma maggiore libertà. Permette di giudicare un sovrano, se è tiranno o meno. Permette di essergli fedele, o complottargli contro. Tutto per la libertà del regno a cui si appartiene. Non sono fanatici, i Ch’argonai, i messi. Sono più che altro un giudice sopra ogni parte, dalla mente solida, e dalle idee chiare. Si distinguono per gli abiti color porpora, e l’intero ordine è il Porporato. Fregiarsi di quel titolo equivaleva a cambiare una vita, senza possibilità di scampo. Ed io ero disposta a legarmi così ad un territorio. Non avevo nulla da perdere. Tutti mi avrebbero creduto, dal momento in cui mi sarei legata in poi. Ero disposta a fare un simile paso. Era l’unico metodo per proteggere la mia famiglia. Non potevo essere libera. Ma potevo lavorare contro quella che mi aveva tolto ogni libertà, che aveva ucciso i miei affetti, che mi aveva ferita. Ero disposta a mettere in gioco la mai stessa vita, per quello. Sentii Nemys tremare, e la stretta si fece più forte. “Lsyn…” bisbigliò, piena di paura. “ne sei sicura? Non penso sia il momento di decidere, sei confusa…”. La zitti con un gesto, e la guardai male. Niente confusione. Ero un po’ stordita, ma sapevo quello che facevo. Avevo preso una decisione. Come aveva detto Benagi, non potevo rimanere rintanata nei Lazzaretti a vita. Dovevo prendere una decisione. E, senza Tijorn, senza il mio sole, quella era l’unica direzione. Direzione obbligata, direi. Lei abbassò lo sguardo sotto il mio. “stasera prepareremo tutto”. Disse, per poi allontanarsi. Sembrò aver capito. Sentii una vaga soddisfazione, un sentimento che non provavo da un bel po’. Avrei vegliato una notte, con il mio Compare, che magari sarebbe stato lei,  poi sarei divenuta un’altra persona. Lo dovevo. Lo dovevo a tutti, a Tijorn, ad Akita, per la salvezza sua e del suo piccolo. Lo dovevo ad Amarto, ai miei piccoli. Non mi pareva una decisione affrettata. Forse covava già in me da un po’, solo che non me n’ero mai accorta. Tutto per contrastare il Regno, e le sue manie d’espansione. Tutto per contrastare quella pazza che aveva contrastato la mia vita. Un po’ più pacificata, con l’impressione di aver messo a posto un bel po’ di cose nella mia vita, ripresi a fissare Tijorn, per quello che mi parve un tempo indefinito. E tutto smise di avere significato, ancora una volta. Nemys bisbigliò qualcosa, ma io quasi non la sentii. Non so quanto rimasi così, con quel rumore nell’orecchio. Ero troppo occupata a fissare il volto pallido di mio fratello, ricordando quand’era animato, quando mi sorrideva, quando giocava e scherzava, quando soffriva. C’era un vago sorriso sul suo volto morto. O forse era solo la mia immaginazione. Era un bel sorriso, un sorriso sereno, di una persona pacificata. Mi avrebbe stroncata dal dolore, se solo non ci fosse stato quel benedetto calmante. Sembrava quasi dire che si fidava delle persone che erano rimaste, che tutto sarebbe andato per il meglio. Ma come poteva andare tutto bene, se lui non c’era più? Ricacciai le lacrime, che minacciavano di scendere, lontano. Non dovevo piangere. Non in quel momento. dovevo essere forte, dovevo mostrarmi forte, per quelli che mi attorniavano. Ad un certo punto, qualcuno mi diede una gomitata, che mi face sobbalzare. Ero stata così presa nei miei pensieri da non accorgermi che Nemys mi stava chiamando. Ecco cos’era quel bisbiglio… interrogativa, la guardai. Mi stava porgendo qualcosa, con aria immensamente afflitta. Sembrava un foglio di carta piegato. Su uno dei lati c’era scritto il mio nome, con una calligrafia familiare. Una calligrafia rotondeggiante e molto calcata. Mi mancò il respiro. Quella era la calligrafia di Tijorn. Ricordai in un attimo le sue ultime parole. Qualcuno doveva aver trovato nel mantello, che ora indossava, quello che avrei dovuto trovare io. Doveva aver messo tutto molto in vista, per dare a tutti la possibilità di vederlo. Chissà chi l’aveva trovato. Sentii di tremare. Quella era una lettera. Una lettera indirizzata a me. Con uno scatto, la presi dalle mani della mia Rinnegata, che ancora mi teneva per una spalla, e l’aprii.  C’era un’intera pagina di pergamena, strappata chissà dove, fitta della sua scrittura.Tremavo a tal punto, che qualcuno mi carezzò, rassicurante. Mi avvolse, all’improvviso, un profumo che avevo imparato ad associare a Tijorn. Carta nuova, ed inchiostro. Sentii un fiotto di calore all’altezza del cuore. Fu come se Tijorn fosse lì, e mi stesse parlando. Come se mi stesse abbracciando, e consolando. Tremante, cominciai a leggere. Le parole di mio fratello, la sua cadenza frizzante e profonda, mi riempirono la mente. Mi sembrò per un attimo di averlo davanti, non il cadavere muto, ma l’elfo vivo e felice di qualche tempo prima, tempi che mi sembravano secoli. Ho ancora la lettere, e qualche volta la leggo, e la annuso, per non dimenticare mio fratello, per rinfrescarmi un po’ la memoria. E’ bello. Come se Tijorn fosse con me, ogni volta. Forse non se n’è mai andato davvero. Il suo spirito aleggia intorno a noi, per proteggerci e guidarci.  Voglio riportare qui ciò che scrisse, perché quelle ultime parole vergate di suo pugno ancora mi commuovono, e sono il ricordo più tangibile che ho di lui.

 

Nanetta mia, mia dolce sorellina, piccola Lsyn;

Si, lo so, cominciare in questo modo è incredibilmente fastidioso. Mi sa di già detto, mille e mille volte. Però, sai, non trovo altre parole per dirlo.

Se stai leggendo questo, sarò sicuramente morto (spero in un modo poco doloroso, ma, sai, non ci conto tanto. In quanto a fortuna siamo proprio fratelli).

Scontato, eh?

Ecco. Non sono mai stato molto bravo con le parole.

Non chiamarmi oracolo, ma me l’aspettavo. Non poteva andarmi tutto così liscio. Diciamo che avevo fondati motivi per sospettare quello che poi è successo (come è successo non m’importa, né m’importerà sicuramente quando sarò defunto…tanto…sarò defunto, no?).

Avrei preferito che a schiattare fosse stata Lainay, o quel pazzo furioso di Jalim….ma non tutto può andare bene nella vita, non credi?

Ora, ti sei sicuramente chiesta come io faccia a fare dello spirito sulla mia morte.

Preferisco divertirmi, farci battute su, fare sorridere te e gli altri, piuttosto che fare la vittima. Se sono morto, sicuramente così doveva andare. In caso contrario, brucerò queste lettere quanto prima, e ti dirò certe cose a voce.

Lsyn, ti supplico, non piangere per me. Lo so, so quanto è difficile, ti conosco abbastanza bene. Ma, ti supplico, vivi una vita tutta tua. Ti è stata rubata sempre, tutti non hanno fatto altro che prenderti in giro.

Non ho mai sopportato di vederti piangere, Lsyn, ed ogni tuo singhiozzo era per me un colpo al cuore. Vivi, Lsyn. Non morire per me.

Sei sempre stata la sorella che ho sempre voluto, vedere te era come vedere me stesso.

Ti voglio bene, ti ho voluto sempre bene. Quando ti ho visto andartene, ferita nel corpo e nello spirito, andartene per cinquant’anni, mi sono disperato.

Come avrei fatto senza la mia Nana preferita?

Piano piano, però, ho capito una cosa. Sei mia sorella, Lsyn, se non di sangue,  legata a me in mille altri modi, ben più profondi.

Io mi fido di te. Mi sono sempre fidato.

Ci siamo sempre fidati l’uno dell’altra, no?

Quando ti ho vista arrivare, ferita, impazzita dal dolore, allora davvero ho temuto per te. Ma ora, come sei ora, la vecchia Lsyn, senza nemmeno più quell’orribile maschera che celava il tuo bel viso al mondo (perché quelle cicatrici non contano un accidenti. Sarai sempre la più bella. Dopo Akita, s’intende), posso davvero sperare, contare su di te come facevo prima e coem ho fatto sempre.

Ti chiedo solo un favore, piccola.

Ti chiedo solamente di vegliare su Akita, la mia dolce Akita, e su mio figlio. Avrei voluto passare molto più tempo con loro due, ma non ho potuto. La cosa mi provoca un dolore immenso, ma cerco di non pensarci. Almeno, qualcosa di me resterà in questo mondo.

Mio figlio. Mio figlio. Sembra strano dirlo, non credi? Io ancora non mi ci sono abituato, all’idea, né mi abituerò mai. Qualche volta, al buio, sussurro queste due parole. Hanno un suono particolare, sanno di cannella e cioccolato.

Non vedo l’ora di stringerlo fra le braccia, di coccolarlo, d’insegnargli a fare i dispetti alla sua zia nana.

In caso sono morto, Lsyn, non vi azzardate a dargli il mio nome, in caso sia maschio. Fai scegliere Akita (lei sa cosa deve fare…gliel’ho scritto, no?), e scegli anche tu. Non voglio che mio figlio sia considerato come una mia continuazione (perché, se sarà, malauguratamente, un misto tra la madre e la zia…allora il mio nome sarà irrimediabilmente infangato!), non voglio che segua i miei passi.

Ho commesso una caterva di errori, Lsyn. So che protesterai a queste parole. Ma sono sicuro che mi capirai.

Sono stato cieco, e sordo, e non ti ho costretta a fuggire quando potevamo.

Chekaril…ho sempre schifato quell’elfo. Come poteva, accidenti, stare con te quando le sue tresche erano pubbliche, visibili al mondo intero? Come ha potuto avere un figlio da te, quella bellissima bambina, la piccola Roxen, il mio piccolo tesoro, che ti prego di viziare quanto più puoi da parte del suo zietto preferito? Come? Come ho potuto non accorgermi di nulla, lasciare che soffrissi senza indagare?

Dico: perché non mi sono mai accorto di nulla? Perché non mi hai confidato mai nulla?

Non voglio incolparti di niente, Lsyn. Non conosco tutta la storia, né voglio conoscerla. Mi è bastato vedere i tuoi capelli, e quello squarcio che hai sulla pancia per capire la tua sofferenza.

Ora guardo fuor dalle finestre dell’Altrove, Lsyn, nella stanza che condivido con Akita, e mi sento tremendamente in colpa. In colpa, perché non ho saputo proteggerti da tutto il male del mondo, quel male che ha tramato contro di te, che ti ha fatto tanto soffrire.

Non ho saputo proteggere nessuno.

Né Akita, né Amarto, né te, né le mie piccole allieve gemelle. E nemmeno il piccolo.

Ho fallito, e la cosa mi fa soffrire.

Ti prego, Lsyn, ora che sono morto, e ti sto parlando solo attraverso uno stupido pezzo di carta, fallo per me.

Proteggili. Veglia su di loro.

So di chiederti troppo, so che ora come ora non riuscirai a fare nulla, ma, ti prego, guarisci, e veglia anche su te stessa.

Io veglierò su di voi, su di te, per quanto mi sia possibile. Se sono vivo…beh.

Farò leggere queste lettere che scrivo, qui, prima di partire per un viaggio che forse mi costerà caro, forse no, a me stesso. E mi farò quattro risate, mentre le brucerò. Perché, in caso sono vivo…ho tutta l’intenzione di proteggervi, appiccicoso come quei dolci che preparavamo in autunno.

Ho tutta l’intenzione di diventare un grasso, pigro padre di famiglia, oppure un buon maestro d’armi. Mi piacerebbe insegnare ai giovani come difendersi. Che dici, Lsyn? Ci mettiamo in affari assieme?

Ah, beate illusioni. Questo castello è una trappola. Uscirne vivi sarà un miracolo.

Ieri notte, Lsyn, ho sentito degli strani rumori, rumori che non mi sono piaciuti.

Conosco la creatura che li provoca, e, se le mie supposizioni sono giuste…siamo fregati.

Non so se quel coso sia al servizio di Lainay, anche se non credo, o se questo sia il suo territorio di caccia.

In ogni caso, sappi che vi proteggerò come mai ho fatto in tutta la mia vita.

Non permetterò ad un mostriciattolo di ferire qualcuno di voi, anche a costo di morire.

Bah. Ho il netto presentimento che sarà proprio lui la causa della mia dipartita verso luoghi più ameni, eh?

Pazienza. Avrò salvato tutti voi, almeno.

Ora stiamo per partire, Lsyn. Akita si sta svegliando, e tra poco scenderemo da te.

Non so cosa succederà, né come. Perciò ho scritto queste lettere, per tutti voi, e le metterò in un posto dove chiunque le può trovare, e leggere.

Ah, un’ultima cosa. Non azzardare a tentare di nuovo il suicidio o vengo dall’aldilà e ti strozzo io, di persona. Già una volta è stato sufficiente.

Ti voglio bene, Lsyn. Sarai sempre nel mio cuore, nel mio spirito, nella mia anima, nei miei pensieri.

Sorellina mia, mia piccola nana, la mia complice preferita, la mia pazza.

Qui ci salutiamo, ma non sarà l’ultima volta. Questa lettera è sempre qui, per rinfrancarti. Leggila quanto vuoi.

Abbi cura di te, e di tuo nipote. Lui o lei è me, in un certo senso.

Riguardati, e cerca di far ragionare Akita, ed Amarto. Il Maestro ha bisogno di essere amato. Tienilo lontano dalle bottiglie.

Cerca di non farti ammazzare da Junielle. L’ho vista strana, negli ultimi tempi.

Fidati di Max. Cerca di non ammazzare lui.

Ti voglio bene, Lsyn. Non so come finire altrimenti.

Ecco. Preferisco staccare qui, altrimenti finirò per commuovermi.

Fa strano sentirsi di morire, eh?

Non dare colpi di testa, anche se so che è inutile dirtelo. Sei peggio di un muro di ferro. Pazienza.

Sarò sempre nel tuo cuore.

                                                     Tijorn.

(l’ho già detto che sei la mia Nana preferita, vero?)

 

Sulle ultime parole, non resistetti. Un paio di lacrime, calde e salate, scivolarono dai miei occhi, per finire sulla carta. Mi morsi le labbra. Il mio stupidone. Amarto mi strinse forte la spalla. “le ha scritte a tutti noi…”. Disse, con una voce spezzata, chiudendo gli occhi ciechi. Deglutii, sentendomi afferrare da un dolore incredibile. Vidi le ultime parole sbavarsi, inumidite dal mio pianto. E strinsi forte la lettera. Il mio fratellino. Il mio dolce fratellino. Strinsi a me quello stupido foglietto di carta, insignificante, ma così pieno di significato nel tempo stesso, prezioso e dozzinale. Quante cose Tijorn sapeva, Tijorn aveva capito? Quante cose avrebbe saputo? Con un movimento repentino, strinsi a me quel foglio stropicciato. Quasi mi parve di abbracciare mio fratello. Quell’inerte foglio era l’ultima prova tangibile della sua esistenza. Quel cadavere freddo non importava. Quello non era Tijorn. Era solo una sua larva, sfiancata dalla sofferenza di una setticemia. Il vero Tijorn, sarcastico, puro e vero, il mio eroe preferito, era lì, in quella lettera. Quella lettera tutta per me. “anch’io ti voglio bene, Tijorn”. Mormorai, le lacrime agli occhi. E poi nemmeno il sedativo m’impedì di piangere, di sfogare tutto il dolore che avevo dentro. Perché Tijorn era morto. Mi sarebbe mancato da morire.

 

 

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Capitolo 81
*** Non volevo farvi del male. ***


Il funerale ebbe luogo al tramonto, quasi a sera, dopo le consuete, tradizionali, dodici ore di veglia

Il funerale ebbe luogo al tramonto, quasi a sera, dopo le consuete, tradizionali, dodici ore di veglia. Era consuetudine delle Spie: sebbene non fossimo più tali, Tijorn non aveva diritto ad una cerimonia religiosa che pure, a quanto avevo arguito, e da quanto ne sapevo, non era tanto dissimile, solo più lunghe. Come avrò già detto più di una volta, l’addestramento di Spia non prevede indottrinamento religioso di sorta, anzi: eravamo stati spinti a disprezzare ogni tipo di religione, a crederle solo buone per il popolo, per le masse incompetenti. Toccando storie ed usanze di altri popoli, senza divieto di approfondimento alcuno, essere abituate ad un credo, per le Spie, può essere estremamente pericoloso per la stabilità dell’ordine stesso. E’ facile disprezzare tutte le religioni, non essere tentati da altri credi che non siano collegati alla fedeltà, alla materialità, alla vita vista come continua conquista, quando fin da piccoli viene insegnato che appartenere ad una religione vuol dire solo essere vittime di pregiudizi che possono compromettere l’esistenza stessa. Le dispute vanno bene per le masse e quei bruti contadini che sono i sacerdoti. Così mi è stato insegnato, ed in questo credo tuttora. E’ facile non sentire la mancanza di una cosa, se non la si è mai avuta. Una pratica semplice, ma efficace, che tutti i sovrani adottano. Nemys mi aveva confidato che c’era stata una piccola disputa tra lei ed Isnark, in questo proposito. Erano stati loro a decider il tutto, in mancanza di me, troppo stordita per poter fare una cosa del genere, una preparazione che non mi sarei mai sentita di fare. Il principe avrebbe voluto una cerimonia solenne, degna di un alto dignitario o di un re, ma la stessa mia Rinnegata si era fermamente opposta, nonostante fosse una fervente fedele del loro dio. Conosceva il mio modo di pensare, e sapeva che una cosa del genere non sarebbe piaciuta né a me, né a Tijorn, se solo avesse potuto esprimere le propria opinione, né al nostro piccolo gruppo. Avevano quindi ripiegato su una cerimonia antica come quella delle Spie, un ordine a cui, in fondo, eravamo da sempre appartenuti, lievemente edulcorata, sfrondata da tutte quelle assurdità ideologiche a cui eravamo sempre stati insofferenti, degno retaggio di un Maestro come Amarto. Rimanemmo così per tutta la veglia, io mano nella mano con Amarto, che sembrava quasi aggrapparsi a me come se fossi un’ancora di salvezza in mezzo al mare in tempesta, e Nemys, che sembrava sorreggere me. Anche lei era addolorata per tutto quello che stava succedendo, glielo leggevo negli occhi chiari, che mi guardavano con compassione infinita, e tanta, tanta partecipazione. In fondo, anche lei aveva tanti ricordi di Tijorn, lo ricordava bene quanto me, e sapeva benissimo cosa stessi passando. Forse, chissà, anche lei soffriva. Difficile non farlo quando si hanno tante rimembranze di una persona magnifica quanto il mio dolce stupidone. Io non riuscii a fissarlo, non riuscivo a guardarlo. Feci così scorrere il mio sguardo sui presenti. C’erano davvero tutti, tutti quelli che, fino a quel momento, avevo incontrato nel Matriarcato. Mancava solo Akita, che, poverina, doveva stare ancora male. Ricordavo ancora fin troppo bene quando lei mi aveva confidato di non riuscire a fare un passo senza il suo compagno. Chissà quanti di loro erano stati drogati, di volontà o a forza, per sopportare quella veglia,che era sempre dolorosa. C’era Isnark, che faceva finta io non esistessi, Benagi, che mi fissava ancora ostile, Capouille, che sembrava scrutarmi con preoccupazione. Addirittura c’era Zipherias, poco lontano da me, all’apparenza tranquillo e lievemente, cinicamente annoiato come suo solito. L’avevo sorpreso, tuttavia, un paio di volte, a guardare dalla mia parte, uno sguardo strano in quegli insoliti occhi color dell’oro. Sembrava quasi interessato, lievemente preoccupato, come se si aspettasse chissà quale reazione da parte mia. C’era tutto il mio gruppo di sopravvissuti, esclusa la mia povera amica, che, a quanto pareva, aveva avuto un crollo nervoso poco prima che mi svegliassi, ed ora la tenevano sotto controllo, sparando che, dopo tutto quel trambusto, non succedesse nulla d’irreparabile al piccolo. E poi c’era io, la piccola, insignificante Lsyn, un’elfa come tante, un’elfa che stava per sovvertire la sua stessa esistenza, legandosi, senza possibilità di scampo, ad un regno di cui fino a poco tempo prima era stata ferocemente nemica. In quanto a logica non mi batteva nessuno. Una piccola elfa, resa orrenda da tante cicatrici che le straziavano il corpo, bassa e molto magra, in disordine, sporca, afflitta, stordita da un sedativo che svolgeva il suo compito alla perfezione. E c’era Tijorn, il vero protagonista di tutta quella messinscena. Rubava a tutti la scena, con quella sua presenza silenziosa, catalizzava l’attenzione come solo un attore sa fare. Eppure lui non stava fingendo. Era morto, davvero. Non so cosa mi spinse a fare quei pensieri a dir poco strani. Forse fu la stanchezza, forse il calmante che, nonostante tutto, era una droga. Dimenticai presto quelle stanche elucubrazioni. Sprofondai in un grigiore assoluto, in un nulla piacevole, che allontanava tutti i pensieri, che li rendeva meno appuntiti, che smussava ogni spigolo. Guardavo il lembo di coperta davanti a me come se fosse la cosa più interessante del mondo. lo guardai finché non smise di avere senso, finché non fu altro che un ammasso di tessuto dai colori neutri. Ma non volevo vedere Tijorn. Non ce l’avrei fatta. Qualcuno, ad un certo momento, mi mise in mano un altro calice pieno di quella roba profumata. Lo mandai giù senza una parola, inerte, incosciente. Ben presto fui di nuovo avvolta da quella calma innaturale, che mi permetteva di superare quella giornata quasi indenne, come se in realtà non fosse successo nulla. La luce, dalle finestre aperte, che davano sul placido giardino interno del Lazzaretto, immerso nella sonnacchiosa quiete estiva, cambiò, mano a mano che il tempo passava. Quasi non mi accorsi del suo trascorrere, inerte e senza coscienza alcuna, incapace di svegliarmi, di darmi una mossa. Non sobbalzai nemmeno quando, silenziosamente, entrarono due giovani, uno dei quali era Torterio, che ancora non avevo capito che mansione svolgesse, visto che era sempre dappertutto, come se si potesse sdoppiare o triplicare, con aria intimidita. Entrambi evitarono di far posare lo sguardo verso di me, o Tijorn. Il giovane elfo che conoscevo si rivolse a Nemys ed Isnark, al mio fianco, facendosi avanti, mentre l’altro rimase un po’ discosto, portando qualcosa. Fece un buffo inchino, reso ancora più strano dalla sua goffaggine. “miei signori…”. Bisbigliò, fissando a terra. “è tutto pronto”. Il principe, quell’elfo che avevo tentato di uccidere, annuì bruscamente, un atteggiamento che non gli avevo mai visto,  mentre Nemys mi cinse la vita, stringendomi forte, guardandomi per un attimo con incredibile affetto, un affetto che mi rassicurò, e mi diede la forza di sopportare quello che sarebbe successo in seguito. “bene”. Sussurrò Isnark, stringendo le labbra, stranamente rigido. Mi sentii afferrare da una coltre di apprensione. “portatela dentro”. A quelle parole, Amarto prese a singhiozzare senza ritegno alcuno, e mi lasciò andare. Povero Maestro mio. Sicuramente, per come lo conoscevo io, non aveva preso nulla per attenuare il dolore di quel lutto tremendo. Con la coda dell’occhio, lo vidi stringere Manolìa e Nysha, che guardavano la scena, senza capire, con lo stesso sguardo attonito di Roxen e Chekaril. capii subito cosa volessero dire tutti con quello strano sguardo quando vidi una barella entrare. Mi assalì un senso di freddo acuto, terrificante, e sentii un conato. Tra poco tempo, uno schiocco di dita, mio fratello non sarebbe stato altro che cenere, cenere e polvere con cui nutrire la terra. Sentii Nemys stringermi ancora di più, e poi alzarsi, con me al seguito. Non riuscii ad oppormi. Le gambe non mi reggevano, e non avevo più forze di un gattino. Ricominciai a tremare follemente. Non volevo vedere quello che stava per accadere. “su, ragnetto, su, non tremare…”. Mi disse la Rinnegata, stringendomi forte, posando il suo viso sul mio capo. Io chiusi gli occhi, li serrai. Non volevo vedere. Non volevo vedere quello chetava per accadere. Qualcuno cominciò a trascinarmi fuori. Non mi opposi. Fui anzi, molto felice che qualcuno mi stesse allontanando da lì. “lo so, lo so che è difficile…bambini”. Disse poi, rivolgendosi evidentemente ai piccoli, che forse stavano ancora vicino a noi due. Sentii un fruscio, e premetti il mio capo contro la Rinnegata, come una bambina spaventata. E tale mi sentivo. Tale ero. “su forza, venite con noi…c’è Dae che vi aspetta fuori… ora che avete salutato per bene lo zio Tijorn dovete andare con lei, su…”. Sapevo che i piccoli non si sarebbero fatti pregare più di una volta. Volevano risparmiare loro il tormento di vedere bruciare Tijorn, e li avevano affidati nelle mani migliori. Dae. La materna, dolcissima balia del Lazzaretto, una delle più brave con gli infanti, che li aveva presi molto in simpatia, e che, in quei giorni, si era presa cura di loro. L’avevo incontrata, prima che succedesse tutta quell’incredibile epopea tragica. Ero andata a vedere come stavano i miei dolci infanti, e l’avevo incontrata all’ingresso della loro stanza, che cercava qualcosa. Era una creatura anziana, che non ci vedeva molto bene, un’elfa alta e robusta, che mi dava l’impressione di poter sollevare un cavallo con una mano, che, quando ero arrivata, mi aveva scambiata per un’infante, per poi rendersi conto del terribile equivoco quando mi ero girata, e l’avevo guardata male. Mi ero aspettata una caterva di scuse, come tutte le balie che fino a quel momento avevano guardato i piccoli, scuse intimorite, e poi una fuga rapida. Quella rude elfa non aveva fatto nulla di quello che mi aspettavo, anzi. Mi aveva così fissata per un attimo, senza scomporsi, la calma assoluta su quel viso solido. Si era poi girata, ed aveva rovistato in una specie di cilindro, estraendone  un biscotto, dandomelo senza tanti preamboli. Aveva detto che ne avevo bisogno, perché ero magra come un chiodo, che la pelle sembrava appendersi alle ossa, e mi aveva raccomandato di mangiarlo tutto. Poi si era girata, come se niente fosse, trattandomi davvero come un’infante. E forse per lei, molto più vecchia di me, ero davvero tale. Avevo accolto quello strano comportamento a bocca aperta. Poi mi ero affezionata terribilmente a quella vecchia bisbetica, che tutti i piccoli, specialmente Chekaril, adoravano. Avevo voluto solo lei come balia, ed era divenuta la guardiana ufficiale dei quattro infanti del nostro gruppo. Lei stessa non avrebbe permesso a nessuno di curare i suoi cuccioli, come li definiva. Era un’elfa semplicemente straordinaria, placida come un ruminante, quando serve, terribile come una tempesta il momento dopo. Ma sempre pronta a dare un consiglio, con quei modi da vecchia vedova gentile. Era la persona adatta per tenere un po’ i piccoli. Cominciammo così ad avviarci fuori, io, aggrappata a Nemys, quasi trascinata da lei, tremante e terrorizzata. Avvertivo che il calmante stava cominciando a svanire, ed i suoi effetti mi sembravano sempre meno duraturi. Cominciai a tremare così forte da fare tintinnare i miei denti. Un singhiozzo uscì dalla mia gola, me la squarciò. Poi un altro. La Rinnegata mormorò qualcosa di rassicurante, e poi aprì la porta, facendo un paio di passi avanti, richiudendola dietro di sé. Mi azzardai a sollevare il viso dalla sua veste, esitante. Davanti a me c’erano un paio di Guaritori, uno dei quali portava una grossa borsa con sé, e Dae, a cui i piccoli si erano già tenacemente attaccati, chiocciando sollevati. La balia ci guardò, mi guardò, con uno sguardo d’immensa pietà, accarezzando la testa scura di Roxen, che le si era appiccicata addosso. Mia figlia sembrava avere una particolare predilezione per quell’elfa gigantesca. Io continuai a tremare. Avevo la testa ostinatamente vuota, ed il petto trafitto da una spina enorme di dolore. Volevo del sedativo, ne volevo dell’altro. Non sarei sopravvissuta senza. Dovevo andare avanti così almeno fino a quella sera, quando sarebbe cominciata la veglia per divenire Ch’argon. Dopo di quella, sarei riuscita ad andare avanti, perché avevo un obiettivo. Ma sarei sicuramente crollata al funerale. Non avrei potuto resistere, mentre cremavano mio fratello, io mio amato Tijorn. “mi dispiace”. Mimò Dae, silenziosamente, mentre uno dei Guaritori, quello con la borsa, quasi leggendomi nel pensiero, rovistava nella borsa. Poi, l’anziana e robusta elfa si rivolse ai piccoli, con una voce tenera, non tinta da dolore alcuno, portandoli con sé nel corridoio, diretta in giardino. Nysha e Manolìa la seguirono docilmente, ma Roxen e Chekaril rimasero a guardarmi per un attimo, smarriti. Sembravano sperare che io li accompagnassi. Io mi costrinsi a sorridere, a frenare per un istante il mio tremore. Non dovevano soffrire con me. Io dovevo andare da una parte, a svolgere un compito tremendo. Erano degli innocenti, a cui avevano rubato fin troppo. Feci loro segno di andare, con un occhiolino. Senti le lacrime addensarsi ai lati dei miei occhi. Non avevano smesso di fidarsi di me. Probabilmente il mio sorriso forzato riuscì come genuino ai due, che mi risposero, un attimo che mi illuminò di luce gloriosa, che mi riscaldò, e, pacificati, i miei piccoli trotterellarono dietro la loro chioccia, come due piccoli, graziosi pulcini. Appena sparirono dalla mia vista, mi sentii assalire nuovamente dal freddo, e dal terrore. Ripresi a tremare come se quella breve parentesi non fosse mai esistita.  Nemys mi strinse forte. Non mi ero accorta che stava parlando con i due. Uno dei Guaritori estrasse una boccetta piena di un liquido scuro dalla sua borsa. La alzò, e la scosse con un dito. “questa dovrebbe andare bene”. Mormorò, come a se stesso. Poi si rivolse alla Matriarca. “mia signora, questo è un po’ più forte. La stordirà  più a lungo, e più efficacemente, ma non sarà in grado di camminare, e penso che dobbiate portarla in braccio….se questa non è un’umiliazione, per voi, ovviamente”. Quella notizia mi diede leggermente fastidio. Ero stanca di essere portata come una lattante, stanca di sentir parlare attorno a me come se non ci fossi. Cercai di parlare, di lamentarmi per quello. Ma non riuscii ad emettere altro che un mugolio indistinto. La testa prese a girarmi vorticosamente, ed io chiusi gli occhi, lasciandomi andare, lasciandomi tenere tutta da Nemys, la cui presa rimase salda. Lei parlò, con una voce seria, un po’ severa, ma triste. “sono abbastanza forte per farlo. E non è un’umiliazione aiutare chi ne ha disperatamente bisogno. Conosco la sua anima, e conoscevo suo fratello. Quella che voi giudicate come una Spia sanguinaria sta soffrendo come mai avete fatto in vita vostra. Vi prego di aspettare solo un attimo”. Sentii la sua figura chinarsi verso il mio orecchio, i suoi capelli solleticare il mio viso. “Lsyn…sei sicura di quello che vuoi fare domani mattina?”. Bisbigliò, abbastanza piano da non essere udita da quei due lì vicino. Non ci pensai nemmeno per una frazione di secondo. Divenire Ch’argon. Legarsi indissolubilmente al Matriarcato. Proteggere la mia famiglia. Era tutto ciò che volevo. Annuii così, stancamente. Ora volevo solo un po’ di stordimento, un po’ di pace. Non volevo soffrire in quel modo. Sentii sotto il naso qualcosa dall’odore penetrante, e piuttosto sgradevole. La mia unica salvezza. Erano lontani i tempi in cui rifiutavo qualsiasi medicina, convinta fermamente di dover contare solo sul mio corpo. Ora ero stata tradita anche da lui. Ero debole, debole e senza volontà. Mandai giù quel liquido amaro, non piacevole e profumato come l’altro, in un solo sorso. Nemys mi prese subito in braccio. Sentii, subito, una grande calma impadronirsi di me, mista ad un certo torpore, a cui avrei certamente ceduto, se solo avessi continuato a tenere gli occhi chiusi. Riaprii gli occhi, per trovarmi a poca distanza il volto pallido e spruzzato di lentiggini di Nemys, che mi fissava con doloroso affetto. Non riuscii a provare nulla per lei. In realtà non riuscivo a provare nulla, per niente e nessuno. Era come se fossi in una bolla di felicità tutta mia, una bolla di benessere dove nulla poteva toccarmi. Non ricordavo quasi chi fossi, cosa fossi, come fossi, e perché fossi lì. Nemmeno la vista, poco tempo dopo, di Tijorn, riverso sulla barella, portato da Max ed Isnark, seguiti da tutti gli altri, riuscì a farmi del male. Ero ad un passo dal non capire più nulla. Nemys si accodò così a fianco di Amarto, il vecchio che si appoggiava ad un’apatica Junielle, che mi prese una mano, e sorrise, un sorriso triste e tremulo. Io risposi appena, e ci avviammo verso il luogo in cui tutto sarebbe ormai finito.

Ancora oggi non riesco a descrivere quello che seguì. Se allora non provavo nulla, stordita decisamente da una medicina potente, oggi quei ricordi mi fanno male, un dolore diverso, più lontano, che ancora mi fa sentire un’ombra del freddo gelido che sentii allora. Non ho la minima intenzione di soffermarmi su rimembranze troppo dolorose per poter essere ancora affrontate. Un certo senso di ineluttabilità scende su di me, quando ripenso a tutto quello che accadde. La morte fa questo effetto, quando ci fa sentire il suo alito freddo ci fa rendere conto della nostra irreversibile caducità. Che si viva cento anni, sessanta, duecento, cinquecento o più di mille, sempre poi bisogna sottostare all’unica regola valida per tutte le razze, ed è quello che fa molto male. L’intera cerimonia si svolse nel silenzio più assoluto. Eravamo in un loggiato, aperto sul bosco all’esterno, adibito sempre a quel tipo di cerimonie, inondato dalla luce del tramonto. Il tempo passò come in un lampo. Ci avevano atteso due elfe identiche, dai lunghi e lisci capelli neri, vestite a lutto, che portavano, ciascuna di esse, due fiaccole accese ed una grossa ciotola con dell’olio. E ci attendeva la pira, intrico di legni profumati e già intrisi di quel liquido infiammabile, dove Tijorn fu messo. L’ultima volta che lo vidi. Feci scorrere il mio sguardo su di lui, inerte, inconscia, confusa, mentre una delle due buttava elegantemente l’olio addosso a lui, intridendo abiti e capelli. Per farlo andare a fuoco meglio. Rabbrividisco ancora, se penso al seguito. Amarto, il Maestro, ed io, la Sorella, saremmo dovuti essere quelli che avrebbero appiccato il fuoco. Eravamo i più vicini a lui, al nostro piccolo Tijorn. Il mio vecchio elfo preferito si assunse diligentemente quel compito. Io fui aiutata da Nemys, che strinse con me la fiaccola. Non mi aveva più messa giù, e mi teneva, come se fossi un’infante, come se fossi malata. Io non protestai, non ci sarei mai riuscita, ed obbedii docilmente. Con la mano libera, strinsi la lettera al mio cuore, inconsciamente. Volevo avere Tijorn vicino, quel Tijorn che sarebbe andato alle nuvole. Vidi il legno prendere fuoco con una sorta di vuoto nel cuore. Avvertivo quell’assenza, la notavo. Un buco che, più passano gli anni, più diventa grande, un abisso di dolore che non riesco a sondare. Nemys mi fece lasciar andare la fiaccola. Ed alla luce, rossa e calda, di quel tramonto estivo, si aggiunse quella del grande incendio, che avrebbe portato via, per sempre, il mio dolce Tijorn, il mio fratellino. Prima che tutto finisse, però, io non stavo già guardando. Nemys, ad un certo punto, cosa di cui sono molto grata, si girò dall’altro lato, stringendo le labbra. Io non riuscii a capire, anche se ne fui segretamente grata. Non mi piaceva quello che era successo, non mi era per niente piaciuto. Mi sentii avvolgere da qualcosa, che mi tenne incredibilmente caldo. Qualcuno parlò alla mia Rinnegata, dicendole parole che non afferrai. Cominciai a sentire un’incredibile sonnolenza, a cui obbedii, chiudendo gli occhi con piacere. Scivolai, aiutata soprattutto dal forte calmane, in un mondo senza sogni, che mi avrebbe, perlomeno, ristorata un po’. Sentivo di dover fare qualcosa, il girono dopo, qualcosa di molto importante. Mi meritavo in pieno quel sonno malsano, anche se non capivo esattamente perché. Però, ero sicura di meritarmelo. Ed era piacevole, così piacevole, abbandonarsi a delle braccia amiche!

Quando mi svegliai, era notte fonda. Sentivo che l’effetto del calmante era completamente svanito, lasciandomi lucida. Ero in un letto, e c’era qualcuno attorno a me, qualcuno che bisbigliava. Avevo ancora stretta a me la lettera. Tijorn. Povero fratellino mio. In quel momento, sicuramente, tutto quello che rimaneva di lui era in un’urna, che chissà chi si era preso l’onere di conservare. Per un attimo, lasciai che il dolore tornasse di nuovo, straziante, mi permisi di crogiolarmi un altro po’ nella sofferenza. Il dolore per Tijorn era come un ago incandescente sotto la pelle. Bruciava, tirava, faceva un male da impazzire. Qualcosa, però, m’impediva di dare sfogo a tutta la mia pena. Ricordavo che c’era qualcosa da fare, qualcosa d’importante. Di molto importante. Dov’ero finita? La mia mente si rifiutava di ricordare gli avvenimenti di poco tempo prima. Ma cosa era successo? Che ore erano? All’improvviso, come se mi avessero colpito i Tengu con i loro scettri, mi ricordai. La cerimonia. Il girono dopo sarei divenuta Ch’argon. Il dolore si dileguò, in un attimo. Dovevo preparami! La pena avrebbe aspettato. Aprii gli occhi di scatto, e mi misi con altrettanta rapidità seduta. Io e Zipherias facemmo quasi testa e testa. Rimasi a guardare l’elfo scuro con enorme curiosità, e paura. Il cuore aveva perso a battere furiosamente. Anche l’altro sembrava essersi un po’ allarmato. Non mi ero aspettata che uno dei Tre Compari fosse lui. Chissà se si fosse messa in mezzo Nemys, o era una sua iniziativa. “ben svegliata, piccolina mia”. Disse all’improvviso una voce un po’ cigolante, una voce vecchia che conoscevo bene. Ancora sentii un colpo al cuore, e mi girai. Accanto a me, seduti su delle sedie, Amarto, le rughe del volto addolcite da un’espressione tenera, anche se ancora molto spossato, e triste, e Junielle, che non si era ancora resa conto di dover cambiare espressione. I miei Tre Compari, quelli che mi avrebbero dovuto vegliare per tutto il tempo, per tutta la notte prima del Giuramento. Mi guardai attorno, smarrita. Ero in una bella stanza, una stanza da letto, illuminata da un paio di torce. Non riuscivo, tuttavia, a distinguere colore alcuno. C’era una porticina, dal lato di fronte al mio, una porticina da cui filtrava tanta luce, ed alcuni rumori. Guardai i tre con aria interrogativa. Decisi di non pensare. Era un momento troppo importante per lasciarmi irretire dal dolore. Non potevo lasciarmi andare proprio in quel momento, cruciale per il dopo. Zipherias sorrise, mentre Junielle m’indirizzò uno sguardo ostile. “a quanto pare hanno deciso che hai bisogno di una bella strigliata”. Disse l’elfo scuro ed enorme, facendomi un assurdo occhiolino, totalmente fuori luogo per quel contesto. Mi sembrò tremendamente buffo. Quasi istintivamente, con la mano libera mi andai a toccare i capelli, i miei ricci scuri. Quello che trovai mi fece gemere di disperazione. I capelli ricci sono difficili da domare, ed hanno bisogno sempre di molte cure. Perfino nei miei vagabondaggi avevo avuto cura di pettinarli ogni giorno, per far si che non si compattassero in un intrico di nodi difficilmente districabile. Gli avvenimenti di quell’ultimo periodo mi avevano fatto totalmente dimenticare le mie incombenze. Avevo perso il conto dell’ultimo giorno in cui mi ero curata i capelli. Capelli che, ovviamente, erano in uno stato disastroso. Erano un solo cespuglio, praticamente. Un cespuglio orrendo, secco ed intricato. Un cespuglio di rovi. Mi morsi leggermente le labbra. Avrei penato a lungo. Mi aspettava una bella tortura. Davanti a me c’era una bella tortura. Aspettammo in silenzio un altro po’, sentendo i rumori provenienti da quella che, probabilmente, era la stanza delle torture, ecco. Già una volta mi era capitato, e quello che era successo mi aveva fatto strillare dal dolore. Mi sarei trovata i miei capelli molto più corti, dopo. Peccato. Intuendo il mio disagio, ed avendomi allevata per un sacco di tempo, Amarto mi prese una mano. “ragnetto mio”. Mi disse, conciliante, passandomi una mano sul volto, una carezza che mi fece immensamente bene. Io per quello vivevo. Per quelle carezze, quelle piccole dimostrazioni di affetto da parte dei miei cari. Tijorn non c’era più, quello era vero. Ma c’erano tutti gli altri da proteggere. Dovevo essere forte per loro, solo per loro. Sorrisi, un vero sorriso. Era bello quel contatto con il mio Maestro. “non ti faranno niente che non vuoi”. Per trecento anni mi avevano fatto fare quello che non volevo. Ora che volevo una cosa non la dovevano fare? I miei capelli avevano bisogno di una pulita solenne. Mi appoggiai un po’ alla mano del Maestro, che sorrise ancora di più. “i miei capelli hanno bisogno di essere lavati”. Lui non rispose, ma il sorriso gli rimase sul volto, e non se ne andò più. Mi parve di vedere un accenno di commozione nei suoi occhi bianchi, ma forse me l’ero solo immaginato. Junielle sbuffò. “hai tanti vizi quanti riccioli, Lsyn…”. Ringhiò, parlandomi per la prima volta da quelli che mi sembravano secoli. “ed ancora meno cervello, devo dire…”. Sobbalzai, a quelle parole atrocemente amare. No. Quella non era Junielle. La dolce, buona Junielle…che fine aveva fatto? Quelle parole, ostili come una trappola per lupi, non potevano essere sue. Non lo erano. La guardai, incredibilmente sorpresa. “che ti prende, Junielle?”. Domandai, stupefatta. Amarto ritirò la mano e la guardò male, o almeno….guardò male il vuoto. Junielle ringhiò di nuovo, ostile. “che mi prende?”. Ruggì, facendomi sobbalzare. Non avevo mai visto la mia dolce amica mezzelfa in quello stato. “che mi prende? Cosa vuoi che ti risponda, eh? Sto bene, Lsyn, non fare caso a me? Oppure, niente di cui preoccuparsi? Credi che io sia come il tuo amato fratellino, che si è lasciato morire così, come lo stupido quale era?”. Ringhiai senza rendermene conto, un ringhio che non aveva nulla di umano, e la interruppi. Quella bastarda! Come si permetteva? Come si permetteva di infangare così la memoria di mio fratello, l’eroe, l’elfo più buono di tutti? Come si permetteva, lei? Aveva visto il suo funerale…aveva visto quello che era successo. Lei era stata salvata da lui, come tutti. Eppure, non sembrava nemmeno un po’ scalfita dalla mia reazione, e da quella di Amarto, che aveva borbottato. “come ti permetti…tu…”. Balbettai, stravolta dall’ira, che scorreva come fuoco liquido nelle mie vene, ed aumentava, mano a mano che vedevo il volto, impassibile e beffardo, della mezzelfa. “tu…cosa? Non ti ricordi che lui ti ha salvata, come a noi tutti? Fai o no parte della nostra famiglia?”. Lei rise, una risata che mi fece quasi scattare, una risata acuta, quasi demente. “ha! Ha! Salvare! Ha!”. Esclamò lei, ridendo come una pazza. Poi si rivolse a tutti noi, con gli occhi che le scintillavano. Non l’avevo mai vista in quelle condizioni. Chi fine aveva fatto la mia amica forte? Cosa accidenti le era successo che a noi non era accaduto? Ero praticamente troppo sconvolta per pensare lucidamente. Allungandosi verso di me, lei digrignò i denti, ferocemente. Solo Zipherias le impedì di avanzare. “quello che non sapevi, o non hai mai saputo, Lsyn… è che tuo fratello non è mai stato un santarellino come tu credevi”. Ghignò. Uno strano senso di  gelo mi avvolse. Strinsi forte la mano di Amarto, che donò un’altra occhiataccia alla mezzelfa, che non si mosse. Sembrava molto a disagio, un disagio che non compresi. Junielle era capace di rivangare storie antichissime, per di far avere la ragione dalla sua. Ero pronta a tutto. “tu sai che tanti anni fa siamo stati amanti per un bel po’ di tempo, ricordi?”. Non era un bel ricordo. Tijorn aveva sofferto molto, in quel periodo, dilaniato dall’interesse che provava, tutto sommato, per Junielle, e l’amore folle e non contraccambiato per Akita. Aveva tentato di dimenticarla, ma più passavano i giorni, meno ci riusciva. Si era ritrovato legato a Junielle, quasi per caso, e non sapeva come allontanarsi da lei. Non ci riusciva. Alla fine la mezzelfa aveva capito, e tutto si era risolto in un certo senso bene, esaurendosi da sé. Ma io sapevo che ancora lei ci soffriva. Non mi pareva molto intelligente, però, l’odiare tutti noi dopo tutto quel tempo. In un certo senso non era stata nemmeno colpa di Tijorn. Era stato solo, per sua spontanea ammissione, un gran cretino. Mio fratello non ha mai amato la sofferenza, e non è mai stato un dongiovanni. Era capitato, tutto qui. Uno dei pochi errori della sua vita, ampiamente riparato. Ha sempre cercato di farsi perdonare, da lei. Annuii, e Junielle ripeté il mio gesto, lentamente, dileggiatrice e soddisfatta. “bene…sai, non che m’importasse tanto, in fondo Tijorn è sempre stato un gran bravo elfo, ma quel pazzo maledetto di Jalim, chissà come, lo sapeva…”. Sobbalzai, e guardai Amarto, in cerca di protezione, quasi, terrorizzata. Il mio Maestro era impietrito. Com’era successo? Perché quel pazzo ci teneva d’occhio? Da tutto quel tempo, poi? Non riuscivo a crederci, e guardai Junielle, come in cerca di una risposta. Ero smarrita. Lei mi fissò, trionfante. “questo suppongo ti fosse sconosciuto, eh?”. Sbottò, aspra, digrignando i denti. Ero troppo spaesata per avere una reazione decente. Ma che fine aveva fatto la mia dolce amica? Era solo quello che riuscivo a chiedermi. Junielle rise di nuovo, quella risata acuta. Decisamente, la preferivo immobile e tranquilla, mortalmente tranquilla, rispetto a quella dimostrazione di odio profondo. “e suppongo anche che tu non sappia quello che è successo nel viaggio verso l’Altrove…”. Sibilò, guardando da un’altra parte. Ma perfino io vidi tracce di lacrime nei suoi occhi. Ricordavo vagamente di aver visto orrendi lividi addosso a lei, nel periodo in cui io non stavo bene. Riuscivo ad immaginare perfettamente quello che le avevano fatto. Lei riprese a parlare,con voce più bassa. Perfino Zipherias rimase scioccato, in seguito. “no…tu non puoi saperlo, stavi male… male per tua stessa colpa…tu non sai…tu non sai…”. Alzò il mento, mentre alcune lacrime le scorrevano sul volto. Feci per allungarmi verso di lei, ma Amarto mi trattenne. Sembrava parecchio allarmato, ed incredibilmente a disagio, tormentato da qualcosa. “la notte, a notte fonda, quando dormivate tutti, e non vi rendevate conto di quello che succedeva, perché Jalim drogava la vostra dose di pane ed acqua… tutti, tranne quella mia e di Tijorn…e ci prendeva…e ci portava, lui e qualche soldato…in qualche posto riparato…e lo legavano da qualche parte, mentre quel matto lo costringeva a guardarmi…mentre…mentre…mi facevano le cose più orrende…”. La sua voce si spense per un attimo, e lei serrò gli occhi. Tutti e tre ci guardammo, sbalorditi. Ciò che era successo alla mia povera amica era praticamente al di là di ogni giudizio. Quel bastardo di Jalim avrebbe pagato tutto quello che ci aveva fatto. L’apatia di mio fratello si spiegò in un attimo. La compresi all’istante. Difficile sopravvivere a certe visioni indenni. Ma perché ce l’aveva tanto con noi, quella creatura? Mi invase un sentimento misto di pietà, orrore, smarrimento più totale. Non sapevo assolutamente come comportarmi. Povero Tijorn. Povera Junielle. Cercai di allungarmi di nuovo verso la mia amica, cercando inutilmente di raggiungerla, di stringerla a me, di consolarla, ma ancora Amarto mi bloccò. Lo guardai di nuovo. Dal tormento, negli occhi avevano preso a bruciare le fiamme della tortura. Lui si agitò, a disagio. Sembrava covare qualcosa. Dopo alcuni attimi, lei riprese a parlare, con voce ancora più sommessa. “e dicevano… lui diceva….quel matto...che non dovevamo strillare, sennò ci avrebbero uccisi…e che…che…che ci avrebbero lasciati andare, senza farci pi nulla, liberi e felici, se solo lui avesse accettato di uccidere di sua mano te ed Amarto…e lui…lui rifiutava sempre! Lui ha rifiutato la mia salvezza, e la sua! Ed ora è morto!”. Non riuscii a credere alle sue parole. Erano cose troppo grandi per essere espresse. Amarto mi lasciò andare la mano, e si contorse, con una smorfia orrenda in volto, di pura sofferenza. Io non sapevo cosa fare. Tijorn era stato costretto a subire la più atroce delle torture. Aveva rifiutato la salvezza, sua e della nostra amica, per non uccidere me ed il Maestro. Ogni attimo che passava, la mia convinzione di fondo, che lui fosse un eroe, si rafforzava. Chiunque avrebbe ceduto, alla vista di quegli orrori che sicuramente avevano fatto patire a Junielle. Non osavo nemmeno immaginare cosa le avessero fatto. Solo a pensarci mi sentivo assalire dalla nausea. Junielle era un’egoista, e questo lo sapevo. Non mi scandalizzavano più di tanto le sue parole. Capii il perché di quell’odio nei nostri confronti. Lei aveva sofferto, tutto sommato, per non far soffrire noi. Ci fu un terribile attimo di silenzio, un attimo in cui ciascuno si guardò, dentro e con gli altri. Io mi scambiai un lungo sguardo con Zipherias, che, sotto la pelle scurissima, era impallidito mortalmente, e sembrava lì lì per dare di stomaco. Alla faccia del guerriero senza macchia e senza paura. Poi Junielle sospirò, una sola volta, e cominciò a singhiozzare disperatamente. Stavolta fui io a non volerla abbracciare. Avevo capito. Lei mi odiava, perché lei aveva sofferto per me, per una cosa inutile. Non potevo toccarla. Mi assalì un senso incredibile di ingiustizia. Perché, accidenti, il Regno ce l’aveva particolarmente con noi? Perché ci facevano così del male, si divertivano a tormentarci? Desolata com’ero, non riuscii a trovare una spiegazione decente. Ai singhiozzi silenziosi della mia amica si aggiunsero, ad un certo punto, i lamenti desolanti di Amarto. Sobbalzai, e mi girai a guardarlo, di scatto. Si stava nascondendo la testa tra le mani, e si artigliava i capelli. Non compresi quel comportamento. Mi sentii enormemente confusa. Amarto non era mai stato molto fragile, molto sensibile. Non riuscivo a capire il movente di quel pianto dirotto e tormentato. “Maestro…”. Bisbigliai, con una voce tremula che non sembrava la mia. Ci fu un attimo di silenzio, poi il vecchio sospirò. “è tutta colpa mia…è sempre stata tutta colpa mia…”. Mormorò, tra le lacrime. Io non capii. In che senso era colpa sua? Il mondo si era rivoltato, o cosa? Che c’entrava, lui? Feci per parlare, assalita dallo stesso stordimento di quando Chekaril mi aveva rivelato l’inganno nei miei confronti, ma lui mi bloccò, alzando il viso. Il suo era il volto di un uomo tormentato. Perfino Junielle smise di piangere, e lo guardò, spaesata. Amarto fece una smorfia, come se avesse inghiottito un limone, ed abbassò lo sguardo. “non odiarmi, Lsyn…non odiarmi per questo”. Disse, prendendomi di nuovo la mano, che io strinsi forte. No. Io non avrei odiato mai il Maestro, per tutto quello che poteva dirmi. Non dovevo odiarlo. Non potevo. Lui era la mia famiglia. Non avevo ancora compreso cosa mi stava per dire. “ma io ho da rivelarti molte, molte cose….accomodatevi. Ma non odiatemi. Non volevo farvi del male”.

 

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Capitolo 82
*** Anime spezzate. ***


In quel momento, on capii

In quel momento, on capii. Mi assalì la perplessità, e mi guardai di nuovo con Zipherias, senza sapere che fare. Non riuscivo a mettere insieme l’idea del mio Maestro colpevole di qualcosa, il mio Amarto, che, per cento, lunghi anni, aveva tenuto pazientemente due piccoli diavoli in casa, abilissimi nello gettare scompiglio, mettere a soqquadro le cose, a dargli lezioni infantili quando esagerava. Il nostro paziente Maestro, che, quando io avevo appena dodici anni, e Tijorn quasi diciotto, quando eravamo ancora entrambi nel cuore dell’infanzia, aveva preso, lui, che aveva smesso per curarci bene, a bere tanto, e non aveva più smesso fino a quella malattia che gli aveva portato via anche la vista. Il Maestro, che una volta alla settimana, almeno, era sbronzo marcio, sempre però la sera, prima o dopo che noi eravamo andati a letto. Quell’elfo che ci aveva insegnato a leggere, a pensare, che ci teneva inchiodati ore ed ore alla sedia per farci imparare tante, noiose, nozioni, quell’elfo severo che avrebbe dato la vita per noi, che ci raccontava favole strane, evidentemente inventate da lui sul momento, la notte, per farci dormire, e sbuffava quando gli chiedevamo di ripetere, che ci trattava come figli, e non come allievi. Come poteva, lui, dolcissimo e premuroso, che mi faceva sempre compagnia quando ero al Lazzaretto, insieme a mio fratello, che aveva sempre vegliato ogni nostro passo, vinto ora dalla vecchiaia e dal dolore di vivere, dal dolore di aver visto morire uno dei suoi amati pulcini, essere in combutta con quei pazzi del Regno? Come poteva, lui, che tanto ci amava, e tanto ci aveva amati, essere la matrice di tutta la nostra sofferenza? Cosa c’era, nel suo passato? Quali ombre? Quali sofferenze? Quale passato, soprattutto? Era una cosa troppo strana per poterla accettare. Mi limitai così a tenergli la mano, sconvolta, immobilizzata dalla sorpresa, in un silenzio gravido di attesa, mentre lui scuoteva il capo canuto, annientato dal dolore. Sentii una fitta di pietà. Povero vecchio mio, mio adorato Maestro. Lui, dopo un sospiro, strinse forte la mia mano, e, guardando in basso, cominciò a parlare, sommessamente, la voce rotta, dicendo una delle cose più strane che mi sia mai capitata di ascoltare dalle sue labbra, ancora più strana della favola del  principe drago e del suo unicorno blu. In fondo, non avevo mai osato chiedere a quel vecchio, un tempo elfo tanto grande, ed intimidatorio, con quella zazzera di capelli scuri ora tutti bianchi,  quegli occhi castani che mandavano lampi, quel naso lungo ed importante, qualcosa del suo passato. Non avevamo mai osato. Era una cosa quasi proibita, da chiedere. Non avrei mai avuto il coraggio di farlo. “quando mi ritirai…quando decisi di divenire Maestro… non avrei mai pensato che finisse così, che quella maledetta se la prendesse anche con voi, oltre che con me…”. Sospirò di nuovo, e si mordicchiò le labbra. Sembrava che stesse, piuttosto, parlando con se stesso, più che con noi. Aggrottai le sopracciglia. Non riuscivo a comprendere dove fosse il succo del discorso, quale fosse realmente. Cercai di parlare, ma un brusco gesto di Zipherias mi frenò. Lui guardava Amarto in un modo quasi ostile, come se fosse insospettito da quelle parole. Junielle si limitava a fissarci, vuota, piangendo ancora. Una magnifica Veglia davvero. “eppure non era così una volta… Io non ho mai fatto nulla, davvero…non è colpa mia se è andata a finire così…”. A quel punto, non riuscii a frenare la lingua. “così come, Maestro?”. Domandai, con una strana voce sottile. Lui serrò gli occhi. “cosa mi volete dire, con tutto questo?”. Ci fu un lungo attimo di silenzio. Sentivo il cuore battere. Mi aspettavo una terribile rivelazione, di quelle che facevano cascare le braccia, come quella che mi aveva detto Chekaril. E forse per Amarto era davvero così, una terribile novità per me no, in sostanza non cambiò nulla, attenuò solo l’odio. Mi aiutò solo a capire delle cose, a capire che mai nessuno è realmente crudele, mai nessuno realmente cattivo. Lo si diventa, con il tempo, con le sofferenze che induriscono il cuore, o aiutano a comprendere il bene. Ma nessuno è realmente meritevole di essere ucciso, di essere odiato a morte. Amarto, sommesso, riprese a parlare. E stavolta non lo interruppi più. “voglio solo dire che io conosco perché Lainay e la sua cricca se la prendono tanto con voi. E’ nel vostro stesso cognome, nel vostro stesso nome, le ragioni di tanto astio. La colpa è mia. La Regina mi porta molto rancore…ma io non ho mai fatto mai realmente nulla. Non è mai stata colpa mia”. Un nuovo sospiro. Ancora non riuscivo a capire. Non c’entrava nulla, quello, con la sua decisione di divenire Maestro, con la sua decisione di ritirarsi in un luogo remoto di Normar, per allevarci in un bosco, e non a Galinne, o in qualche altra città prossima al quartier generale. Ricordavo Amarto come una persona piuttosto popolare tra le Spie che ogni tanto passavano per Sharilar, piuttosto amata e benvoluta. Non c’erano mai state ragioni per quell’amore per l’alcol, per quell’isolamento beato in cui eravamo cresciuti. Non osavo interrompere il mio caro Maestro, anche se non capivo un accidente di quello che mi stava dicendo. Lui, finalmente, riprese a parlare. Vidi una lacrima sul suo viso. “un tempo, sapete, quella che sarebbe divenuta la sovrana di Normar, e poi del Regno, era diversa. Tanto diversa… voi non ve lo ricordate, siete troppo giovani… ma tutto iniziò venti anni prima della nascita di Tijorn. All’epoca, sai… l’erede al trono di Galinne, Lainay, era una grande promessa per la prosperità dei domini di quella stirpe”. Una risatina sgorgò dalla bocca sottile del mio dolce Amarto. Ero come ipnotizzata dalle sue parole lente. Era incredibilmente interessante. “dotata di acume ed intelligenza davvero fuori dal comune, già molto abile, astuta come una donnola,  sembrava essere la sovrana ideale per un lungo periodo di pace e  prosperità. Amava davvero la sua razza, e non si dimostrava ostile verso le altre”. Sobbalzai. Quella non poteva essere Lainay, la fredda, crudele, sanguinaria Lainay, che aveva condannato popoli e popoli sotto il suo giogo astuto. Cosa poteva aver generato quel cambiamento? Ascoltai avidamente il resto. Intendevo andare a fondo di quell’abisso, fino in fondo. Tanto, non avevo nulla da perdere. E dovevo conoscere meglio il mio nemico, quella che, il giorno dopo, sarebbe divenuta la mia acerrima rivale. “certo, certo… la sua ambizione sfiorava il desiderio di onnipotenza già da allora, e la spregiudicatezza di cui era dotata rasentava l’imprudenza… ma, devo dire, era rivolta ad un obiettivo molto positivo, non malsano come ora. Il suo sogno era quello di far divenire Normar la nazione più ricca, pacifica, colta di tutto il continente, un gioiello di montagna capace di rivaleggiare con le più fiorenti corti umane, dove gli artisti ed i filosofi sarebbero arrivati a frotte, dove i domini vicini sarebbero stati nostri amici, e dove menestrelli avrebbero cantato in strade pulite, sicure, in cui la povertà non esisteva. Lainay aveva intenzione di trasformare Galinne in un paradiso”. Un’altra lacrima scese sulla guancia di Amarto, del mio povero Amarto. Nei suoi occhi bruciavano le fiamme, le fiamme della tortura. Provai una grande pena per lui. Non era il solo a portare il peso di un passato ingombrante. “le era stata già data carta bianca in alcune opere, dal padre, ed aveva mostrato una perizia davvero stupefacente. Il suo sogno non era soltanto a parole: aveva poco meno di duecento anni, e già era riuscita a bonificare un luogo totalmente ingestibile. Io, allora, ero una giovane Spia, ma avevo già dato prova della mia abilità in più di una missione. Mi avevano così incaricato di divenire il referente personale della giovane erede, che cominciava ad addentrarsi in un mondo di cui poi, una volta divenuta Regina, sarebbe stata a capo”. S’interruppe all’improvviso, e digrignò i denti, una smorfia di dolore puro, di pena immensa, e gemette sommessamente. Io non resistetti, ed abbracciai il mio Maestro, il mio povero Maestro, di scatto, lasciandogli la mano. Non sopportavo di vederlo così. Lui immerse il viso nei miei capelli, accarezzandoli con una mano, e poi mi scostò, permettendo che io gli cingessi le spalle. Ero preoccupata. Tutta quel dolore non gli faceva bene. Se solo ci fosse stato Tijorn, che sapeva come comportarsi con lui….sobbalzai, e deglutii. Dovevo smetterla di pensare al mio dolce fratello. Lui era nient’altro che cenere, allora. Ricacciai indietro le lacrime che stavano per uscire, ed, accarezzando una spalla del mio povero, vecchio Amarto, ripresi a sentire la storia, quella storia che già preannunciava qualcosa di molto diverso da un lieto fine. Lui riprese a parlare, sommesso. “ i nostri incontri sarebbero stati segreti, per abituare la disinvolta erede alla riservatezza più assoluta, anche rispetto al suo amatissimo fratello gemello, che all’epoca era ancora nel castello”. Chekaril. il mio amato Chekaril. Il Principe che avevo ucciso con tanta facilità, di cui lei si era servita con tanta noncuranza. E ‘aveva amato tanto. Lainay era proprio cambiata. Quasi presagivo quello che stava per dirmi il Maestro. “puoi capirmi, Lsyn…voi potete capirmi…il nostro primo incontro fu un vero e proprio colpo di fulmine. Ebbi la netta impressione che lei fosse l’unica elfa esistente al mondo. e lei, come mi resi ben presto conto, ricambiava con tutto il cuore. All’epoca non era una fredda calcolatrice. Era ancora capace di provare sentimenti. intrecciammo la relazione più tranquilla e dolce del mondo. Quasi subito le questioni politiche strettamente riservate andarono in secondo piano. Il padre e la madre erano contenti di vedere che la loro, giovane erede, si stesse abituando così in fretta ad un regime di segretezza assoluta”. Sobbalzai, e nella stanza, per un attimo, scese il silenzio più tombale. Non riuscivo a crederci. Amarto, il mio Maestro, accidenti, e Lainay, la crudele Lainay, che si divertiva a giocare con i sentimenti quasi fossimo tutti giocattoli costruiti per il suo divertimento, erano stati amanti. Non poteva essere più chiaro di così. Come, come, per tutti gli dei, quella creatura appassionata e sincera, Regina modello, era divenuta una belva crudele? Com’era potuto accadere? Come? Io e Zipherias ci guardammo ancora. Il grosso elfo era completamente attonito. Battei la spalla del mio Maestro quasi con distrazione. Non potevo, assolutamente, crederci. Qualcosa in me si rifiutava. Era troppo strano per potervi credere, troppo. Era strano mettere insieme il mio stanco, canuto, sfiancato Amarto con la bellissima e pericolosa Lainay, tanto orgogliosa, dall’orgoglio distorto, tanto astuta, sanguinaria. Ascoltai le altre parole dolorose, del vecchio, sillaba dopo sillaba, come se fossero spremute a forza, con una sorta di ottundimento, senza voler capire realmente. Era davvero una grossa novità, quella, anche se ancora non riuscivo a capire tutto quell’accanimento. “passammo una decina di anni nella più completa felicità. Cominciarono a cambiare alcune cose.  Sua madre morì dopo poco, e Chekaril, il Principe, si accollò la responsabilità degli Immortali, cominciando a girare i campi di battaglia, e tornare di rado. Nel castello rimasero solo Lainay, ed il padre, il suo amato padre, che tanto le assomigliava, con cui andava d’accordo tanto da farli sembrare fratelli, piuttosto che padre e figlia. Per Normar furono tempi d’oro”. Una smorfia, una smorfia amara, distorse il volto anziano del mio vecchio elfo. Quei tempi d’oro sarebbero finiti presto, io lo sapevo. Sarebbe venuta l’epoca della pazzia, l’epoca del terrore. “io e Lainay ci amavamo come mai nella nostra esistenza. Il Re, chissà come, era venuto a conoscenza di questa relazione, e la approvava. Avrebbe fatto di tutto per quella piccola da lui tanto adorata. Così, non fummo più costretti a vederci di nascosto. Tutto salì a galla, alla luce del sole, ed a nessuno dispiaceva”. Un idillio, praticamente. Cominciavo a capire perché Lainay avesse ostacolato in quel modo la relazione tra me e Chekaril. Assomigliava troppo alla sua. Sospirai. Pensare a quell’elfo ancora faceva molto male. Ero stata presa atrocemente in giro. Ascoltai, addolorata, le altre parole di Amarto. Parole che mi avrebbero chiarito molte cose. “ben presto, la mia amata mi mise a conoscenza del suo sogno più grande, di quello che avrebbe voluto sopra ogni cosa, e che ancora vuole, e che non spero avrà. L’erede al trono di Normar, potente oltre ogni dire, una speranza per il nostro popolo, non avrebbe voluto altro che un figlio tutto suo, un infante da accudire, da viziare, a cui insegnare tante cose. Voleva un figlio da me. Ed io acconsentii con emozione: sarebbe stata una bellissima cosa, essere il padre di un piccolo che avrebbe portato anche il sangue di quell’elfa che amavo così tanto. Dopo un po’, si sparse la voce che la giovane Lainay, erede al trono, avrebbe avuto un piccolo principe. E da lì cominciò tutto”. Oh oh.  Stavolta fummo io e Junielle a scambiarci un’occhiata terrorizzata. Ora si spiegavano molte, molte cose. Quasi non volli sentire il seguito. Sapevo che per Amarto era un grande strazio, dover ricordare quegli avvenimenti. Lo capivo dal modo in cui respirava, affannosamente, come se stesse per mettersi a piangere, dal dolore che covava nei suoi occhi bianchi. Mi preparai a tutto. Le seguenti parole furono intrise disperazione. “la prima gravidanza non andò bene. Al quinto mese…lei perse il bambino. Era, ed è, così dannatamente facile…ed io le dicevo sempre che si stava sacrificando troppo. Fu un grande dolore, per tutti noi, ma specialmente per lei. Era tutto quello che voleva, un figlio, tutto quello che desiderava…un sogno che le era stato negato. Dopo un po’, io ed il padre riuscimmo a farla guarire, e lei sembrò tornare l’elfa allegra di sempre”. Amarto chiuse gli occhi. Mi aspettavo una cosa ben peggiore di quella. Ed avevo ragione. Il tono di voce del racconto che seguì sapeva di vetro spezzato. “dopo un po’, fu lei a supplicarmi di provare di nuovo, perché non voleva mollare quel grande sogno…e, quella volta, tutto sembrò procedere per il meglio. Lei ascoltò il mio consiglio, e si mise a letto,  assistita solo da me, la sua cameriera personale, Aevo, ed una giovane guardia dal passato lievemente torbido, Jalim”. Sobbalzammo tutti e quattro a quella notizia, ma io specialmente. Tutto tornava. C’erano tutti. Decisamente non era una cosa che mi aspettavo. Ci scambiammo uno sguardo spaventato. Il passato di Amarto non era una cosa bella da sentire. Abbracciai di nuovo il Maestro, cingendolo per le spalle, e lui si lasciò stringere, continuando a parlare con quella voce stridula. “era stato un regalo di Chekaril, quel giovane strano, asessuato, pallidissimo…aveva detto che doveva mettersi in riga, che imparare un po’ di fedeltà in quel modo gli avrebbe fatto bene. E sembrava così. Quel giovane si legò in modo straordinario a Lainay, diventando quasi il suo schiavo personale. Migliorò moltissimo il suo caratteraccio, o almeno così sembrava. La mia piccola gli era molto legata. Il fatto che sembrasse ermafrodito la divertiva moltissimo, e lei si divertiva un mondo a punzecchiarlo. Ma amava sempre me. Mi aveva vietato di lasciarla anche per un poco, ed ero divenuto una presenza fissa nel castello. Il padre aveva preso a simpatizzare per me, ed aveva chiuso entrambi gli occhi. Tutto, per la luce dei suoi occhi. Passarono, in quel modo pacifico, otto mesi”. Ebbi un pessimo presentimento. Il peggio stava per arrivare, e lo sapevo. Povero Maestro mio. Non era colpa sua se Lainay era impazzita. “un giorno, arrivò la richiesta di aiuto di un regno vicino, che era stato attaccato dagli umani per alcune questioni doganali…il Re fu costretto a mettersi lui stesso a capo delle truppe, e partire. Lainay era molto agitata per questo fatto, temeva che il suo amato papà potesse farsi del male. Lei amava suo padre. Era sempre stata molto legata alla sua figura, e lui a lei. Cercai di rassicurarla, di tenerla al sicuro, noi tre della cerchia più stretta facevamo di tutto per tranquillizzarla, ma lei, niente, sembrava presa da un presagio oscuro. E…e così fu, come lei prevedeva. Dopo una settimana appena, arrivò la notizia che il caro re si era estinto per le ferite di guerra. Potete immaginare il dolore pazzesco che provò la mia dolce Lainay… così forte, in effetti, che il piccolo, suo figlio, nostro figlio, nacque un paio di giorni dopo. Nacque morto. Era un maschietto…e mi assomigliava tanto”. Cadde improvvisamente il silenzio, ed alcune lacrime sgorgarono dagli occhi ciechi e chiusi del mio Maestro. Sentii una fitta terribile al cuore. Povero, povero Amarto. E povera Lainay, così irrimediabilmente sfortunata, non c’era da stupirsi che fosse successo tutto quello, dopo. Era facile che la costrizione a Chekaril di farmi avere un figlio, me, la Spia, non fosse casuale. Una vendetta. Ed io che avevo immaginato che lei fosse felice di avere un erede! Ringraziai il cielo di aver rapito Roxen. Quella pazza, quella mente contorta, era capace di fare chissà cosa alla sua nipotina, solo per soddisfare il suo desiderio di maternità irrimediabilmente distorto, trasformato in quella mente contorta dalla sofferenza, in chissà che cosa. Povero piccolo non ancora nato. Sperai ardentemente morisse anche lui. Non si meritava una madre pazza, resa pazza dal suo stesso sogno. Non era giusto, non era per niente giusto. Mi morsi e labbra. Io, che ero madre, potevo capire benissimo lo strazio tremendo di Lainay, nel vedere il suo bambino, il suo piccolo tanto atteso e desiderato, morto. Non mi stupii più di tanto, poi, per ciò che divenne in seguito. Sentii, anzi, un empito di compassione nei suoi confronti. Lei non meritava il mio odio. Lei era una vittima, come noi tutti. Vittima dei suoi stessi sogni, delle sue stesse illusioni. Amarto rimase in silenzio per qualche momento. Io lo abbracciai forte. Povero mio Maestro. Ora capivo il perché ci trattasse come figli suoi, quei bambini che aveva perduto. Ora capivo perché, di tanto in tanto, si desse all’alcol. I ricordi erano troppo duri da sopportare. Lo capivo benissimo. Sentii le ultime battute della triste storia con un certo orrore. Amarto aveva sopportato troppo, nella sua vita. “non voglio descrivervi più nulla…non ce la faccio. Ma sappiate che, da quel momento, Lainay non mi volle più vedere. Impazzì, la sua mente distorse il suo carattere, la sua mente divenne quella fornace di cattiveria che è ora. Ed in questo, io ne sono certo, fu aiutata da Jalim, quella serpe, che possa bruciare in eterno. Fu Jalim ad approfittarsi ,a fare da Maestro e consolatore quando lei mi cacciò dalla sua stanza, stravolta. Il suo sogno la uccise, uccise la principessa allegra e promettente che era stata. Io aspettai, fidandomi della guardia… non potevo sapere ciò che stava tramando contro di me. Quando fui invitato a tornare, da lui stesso, vidi uno spettacolo che non volevo veder mai. Lainay non era guarita. Qualcosa sembrava averla oscurata. Era assisa sul suo trono, rigida, oscura, ancora pallidissima, Jalim al suo fianco… quell’elfo che poi divenne il suo più fedele servitore…e mi cacciò. Mi trattò come una qualunque Spia, e mi disse che, d’ora in quel momento, sarei stato un Maestro, e mi giurò che avrei sofferto per essere stato il padre di quei poveri bambini morti. I suoi occhi…quegli occhi viola, ametista, così straordinari…erano pozzi d’ombra, sembravano le gemme di cui avevano il colore. Ed io, ancora innamorato, obbedii, con la morte nel cuore per aver perso la mia amata, l’amore della mia vita… ma io sapevo. Avevo già capito quello che lei intendeva fare. Presi con me due infanti, voi. Tanti quanti i bambini che avevo perso, i miei figli. Allevai te e Tijorn come avrei fatto per i miei poveri piccoli senza nome… quegli spiriti che ancora mi porto nell’anima, per i quali ancora soffro… ma io sapevo.  Sapevo che Lainay si sarebbe vendicata attraverso voi, di me. Sapevo che vi avrebbe fatto soffrire atrocemente. E ne ebbi la conferma quando, ad ogni conferma, ad ogni Giuramento…lei mi faceva un occhiolino. E quando tu diventasti il Cane più importante della Regina, quando Tijorn fu torturato dallo stesso Jalim, sicuramente su ordine di quella pazza…bene…io avrei voluto uccidermi. Perché ogni ferita, ogni colpo, ogni lacrima da voi versata sarebbe stato per colpa mia. Junielle ha visto quegli orrori per colpa mia…tu hai tentato il suicidio per colpa mia…”. Una smorfia, una smorfia terribile, distorse il volto anziano di Amarto. Sentii un dolore immenso farsi strada in me. Non doveva pensare così. Lui non c’entrava nulla. “Tijorn è morto…per colpa mia…oh…”. Amarto scoppiò in singhiozzi. Erano singhiozzi terrificanti, i suoi, quelli di un cuore del tutto infranto. Provai un immediato empito di rabbia. Non nei suoi confronti, ma per coloro che l’avevano ridotto così, per Jalim, soprattutto. Lainay, in fondo in fondo, non c’entrava proprio nulla. Era solo una povera pazza, prima strumentalizzata da una creatura più furba di lei, poi divenuta anche superiore allo stesso maestro, che si era ridotto a farle da servo. Decisamente, eravamo entrati in un gioco troppo grande per noi. Destinati a soffrire, già dalla nostra nascita. Era buono che ora fossimo al riparo da tutto quello. C’era stato un motivo, allora, a tutto quell’accanimento del destino. C’era un motivo alla mia sofferenza, alla mie prese in giro, alle tortura di Tijorn. Stranamente, quella cosa mi rinfrancò. Non erano stati solo i miei errori, a condannare tutti, allora. C’era qualcun altro con cui condividere il mio fardello. Povero, povero Maestro mio. Aveva davvero sofferto tantissimo, in vita mia. Tra i singhiozzi, Amarto bisbigliava che era colpa sua, solo ed esclusivamente colpa sua. Mi avvolse una pena immensa per quell’elfo straordinario. Povero Maestro mio, mio padre, non di sangue, ma più bravo di mille parenti. D’istinto, lo abbracciai, un abbraccio soffocante. Conoscevo ogni suo sentimento, e lui non doveva soffrire così. Lui era una vittima, come tutti. Avevamo tutti e due, anime spezzate, bisogno di un po’ di affetto. Ed io, davvero, davvero, gli volevo bene più e quanto una figlia. Sentii una fitta di rammarico per quei piccoli morti, bambini perduti di un tempo altrettanto finito, figli di una felicità del tutto preclusa. Poveri piccoli. Nessuno avrebbe saputo mai la loro storia, il loro futuro, la loro voce. Non avevano nemmeno avuto il tempo di tirare un respiro, di vedere, per la prima volta, la bellezza del mondo, di quel mondo irrimediabilmente crudele. Poveri piccini. Sperai di averne conservato bene la memoria, anche se non ci contavo. “non è colpa vostra, mio Maestro, mio amato Maestro”. Bisbigliai, stringendomi a lui come una figlia si può stringere al padre. “non è mai stata colpa di nessuno”. Era vero. Non era stata colpa di Lainay, povera Lainay. Era strano pensarlo, ma, davvero non mi sentivo più di odiarla, non dopo tutto quello che avevo sentito. Povera, povera Lainay, una vittima del fato come noi tutti. Non era stata colpa, chissà, di Jalim, di cui non sapevamo nulla. Mi sembrava tutto un disegno orrendo, un disegno terribile per farci soffrire. Il destino ce l’aveva con noi, per chissà quale strano motivo. Era anch’egli una vittima, o era lui il Gran Comandante di tutte le cose? Il fato crudele? O qualcun altro, o qualche dio dal pessimo senso dell’umorismo? Affondata nei bianchi capelli di Amarto, che, dopo un po’, rispose al mio abbraccio, piangendo finalmente, un pianto liberatorio, guardai Zipherias e Junielle. Tutti e due risposero al mio sguardo afflitto, scioccati. Era davvero una cosa incredibile da ascoltare, una cosa davvero tremenda. Una storia orrenda, come quelle di tutte noi. Non eravamo i prediletti del fato. In quel momento, la porta si aprì, quella porticina, e venimmo investiti da una nuvola di vapore, e da un bel po’ di luce. Io ed Amarto ci staccammo, mentre lui, in fretta e furia, si tergeva le lacrime, con un sorriso, un sorriso dolce, tutto per me. Sembrava essersi pacificato, ma ancora un’ombra delle fiamme ardeva nei suoi occhi, un’ombra che non se ne sarebbe andata mai più. Lui si sentiva colpevole. Ed io non sapevo il modo per alleviare il suo senso di colpa, perché ero nella stessa sua barca. Io gli strinsi la mano. Non poteva vedere anche il mio sorriso commosso. Il mio povero Maestro. L’avrei curato, ora, con tutti i mezzi che conoscevo. Ero stata ingiusta con lui, nell’averlo ignorato per tutti quegli anni, per averlo reputato solo il mio Maestro, e basta. E lui che mi reputava una figlia! Osservai così con curiosità, allora, un’anziana serva, un’elfa, uscire da quella stanza, probabilmente il bagno, dov’era pronta chissà quale tortura tutta per me. Lei, magra come uno stecco, dal viso arcigno, si guardò intorno, con indifferenza. “chi di voi è Lsyn Amarto?”. Borbottò, con una strana voce cigolante, che mi mise i brividi. Io mi alzai, lasciando la mano di Amarto, senza più guardare nessuno. La mia metamorfosi stava per avere inizio. La mia ultima metamorfosi, la mia metamorfosi principale, che mi avrebbe trasformata nella più fedele serva del Regno. Strano che lei non conoscesse il mio nome. Ci guardammo, lei con indifferenza suprema, io con curiosità. Che strana creatura. Sembrava non essersi sconvolta alla vista del mio viso sfregiato. Anzi: sembrava proprio non essersene accorta, sebbene il mio viso fosse tutto in luce. Era una grande cosa. Una piccola luce. Era bello non essere additata come un mostro. Lei fece un cenno verso l’interno. Ebbi un lampo di una vasca piena e fumante, di uno sgabello con su dei vestiti chiari, e di uno specchio appannato. Il mio cuore saltò in gola per la gioia. Acqua. Un bagno. Acqua calda, profumata, limpida, sicura, dove sarei potuta entrare con sicurezza. Acqua calda, e fumante. Dopo sarei stata pulita come dicevo io. Lavarmi i capelli. Una delizia a cui non potevo rinunciare. Non sarebbe mai morta, la nobile un po’ schizzinosa che era in me. “il bagno è pronto…”. Disse la vecchia serva, ma io quasi non l’ascoltai. Mi ero già fiondata all’interno del bagno, chiudendo la porta dietro di me, l’eco di una risatine nelle orecchie. Avevo troppa fretta. Era un sacco di tempo che non mi concedevo un lusso come quello.

Ringraziai il cielo che fosse estate, e che facesse caldo: quando mi fui vestita, con una sorta di lunga veste bianca, che la mattina dopo avrei sostituito con la tunica viola del Porporato, i capelli erano ancora fradici. Mi sentivo estremamente soddisfatta di me stessa. Del mio vestiario avevo conservato solo le quattro piume dei Tengu, che nessuno poteva toccare all’infuori di me, e che io non avevo intenzione di togliere, una fonte vibrante di energia magica, ed i ciondoli che avevo rubato nel corso dei miei viaggi. Dovevo ancora trovare le persone giuste alle quali donare quei pegni di amore eterno. Avevo una mezza idea: ma dovevo svilupparla meglio. Il resto, i miei vecchi stracci neri, sarebbero andati perduti per sempre. Le ultime vestigia dell’Ombra, svanite. Ne ero contenta. Non volevo aver niente più a che fare con il Regno. In quel momento, la mia preoccupazione principale erano i capelli. Erano semplicemente un cespuglio impossibile da districare. Sperai che la serva avesse un pettine, o qualcosa di simile. I capelli. Da nero corvino, si erano ulteriormente imbiancati: ora le ciocche candide erano più larghe, e sembravo più matura. La parte buona del viso era scavata, tormentata, magrissima, gli occhi scure pozze di tristezza. Non mi ero spaventata: era normale fosse così. Ero divenuta praticamente uno scheletro: l’unica cosa che in quel momento mi sosteneva era il pensiero, la tensione di dover cambiare per l’ennesima volta la mia vita. Quella veste, con cui avevo litigato per un bel po’ di tempo per via degli innumerevoli lacci, mi pendeva praticamente di dosso. Ero però soddisfatta: nulla era capace di rilassarmi come un bel bagno caldo. Ero ora capace di lasciarmi indietro tutte le sozzure della mia precedente esistenza, libera da ogni peccato, anche se non dal loro doloroso ricordo. Mi ero schiarita anche le idee: ero più che mai certa della mia scelta. Ero così uscita fuori, preoccupata. I miei poveri capelli erano una massa inestricabile. Già sapevo il dolore che avrei provato. Ad attendermi, oltre ai miei tre Compari, c’erano anche due serve, entrambe con in mano dei grandi pettini. Guardai entrambe con sospetto. Ora arrivava la tortura vera e propria. Feci una smorfia, e guardai i miei Compari. Amarto sorrideva sotto i baffi, all’apparenza più sereno. Junielle era sempre con quel cipiglio. Zipherias aveva distolto lo sguardo da me, e sono sicura che fosse arrossito, per chissà qualche motivo. La sua pelle, già nera, era divenuta scurissima. “su forza…”. Disse una delle due serve, quella anziana, facendo un cenno verso una sedia. “vediamo di sistemare quel nido che avete in testa…”. Io gemetti, e mi morsi il labbro, obbedendo senza fiatare. Ero certamente contenta di quel trattamento…ma, sicuramente, lo ero molto meno del dolore che avrei provato!

In fondo, andò tutto bene. Le due care domestiche furono molto gentili ,e cercarono di farmi meno male possibile, anche se, alla fine, avevo tutta la pelle della testa formicolante ed indolenzita. Cercai di non lamentarmi, anche se mi face davvero male. Rompemmo due pettini, verissimo, e furono costrette a tagliarmi qualche ciocca, anche questo è vero, ma, alla fine, mi trovai, per la prima volta dopo chissà quanti mesi, i miei capelli completamente districati, già quasi asciutti, puliti. Ero sbalordita. Erano divenuti davvero lunghi, in quel periodo. Non me n’ero accorta. L’ultimo taglio, che avevo fatto per necessità circa tre anni prima con la mia spada, provocando un disastro, li aveva lasciati da mezza spalla a più su. Ora erano quasi del tutto uniformi, e mi arrivavano alla fine della schiena, lucenti, e già pronti ad arriccarsi di nuovo. Le due domestiche furono più veloci. Facendo un qualcosa che mi lasciò praticamente a bocca aperta, perché non avevo mai visto una cosa del genere, mi misero quasi a testa in giù, e cominciarono ad armeggiare con i miei poveri capelli, ungendoli con chissà cosa, e passandoci qualcosa di molto caldo su. Non riuscii a vedere nulla di quello che stavano facendo. Alla fine, mi fecero alzare, ed avvicinare ad uno specchio. Rimasi così sbalordita, così senza fiato da cercare, istintivamente, con lo sguardo Amarto, che non mi vedeva, e Junielle, che faceva finta di nulla. Solo Zipherias, lo sconosciuto Zipherias, aveva sorriso leggermente. Poi si era girato di nuovo, facendo finta di trovare molto interessante lo stipite della porta d’ingresso. Non riuscii a capire il suo comportamento. Davvero, era molto strano. Mi concentrai, davvero stupefatta, sui miei capelli, guardando, piena di gratitudine, le due servette, distrutte, e sorrisi loro, grata. Non so in quale maniera astrusa, con qualche metodo inventato scuramente nei miei cinquant’anni di assenza, mi avevano fatto divenire i capelli uno scuro e morbido ammasso liscio. I miei ricci, spariti, come se non fossero mai esistiti. Le ciocche bianche e grigie erano più visibili, ora. Non era, stranamente, un cattivo spettacolo. Se solo non avessi avuto metà viso ridotto ad un ammasso di cicatrici, sarei stata molto bella. Era un grosso peccato. Pensai a Tijorn. Chissà quanto avrebbe riso, guardandomi conciata in quel modo. Mi morsi il labbro per svegliarmi. Non dovevo pensare a lui. La vecchia si era lasciata andare ad un sorrisetto. “non durerà molto a lungo…tra un paio di giorni lo dovremo ripetere”. Io avevo annuito, contenta. Era strano vedermi così. Non ci ero ancora abituata. Le due, allora, mi avevano fatto legare i capelli in una comoda coda, che mi aveva lasciato scoperto il collo, e se n’erano andate. Avevo accolto quell’acconciatura con disagio. Collo e spalle erano le parti del mio corpo più devastate, per via dei capelli che si erano bruciati, ed attaccati alla pelle. Presentavano cicatrici spesse come corde, soprattutto sulla nuca, sulle spalle, orrende da vedersi, e sulla schiena. L’orecchio destro sembrava orrendo per la nostra razza. Era devastato a tal punto da sembrare rotondo. Superai, o almeno cercai di superare, quel momento d’imbarazzo in fretta. Deglutii, e guardai i miei compari. Zipherias mi aveva fatto un cenno d’incoraggiamento, guardandomi come se nulla fosse. Gli avevo sorriso, per ringraziarlo, e lui aveva fatto un cenno. Mi ero così andata a rifugiare nelle braccia del mio Maestro, che mi aveva stretta con forza a sé, bisbigliandomi che era fiero di quello che stavo diventando. E si. Ero fiera anch’io. E così passò la notte, una notte che per persone normali sarebbe dovuta essere di preghiera, mentre per me fu solamente di meditazione. Ricordai tutte le persone che mi avevano fatto com’ero. Chekaril, che avevo ucciso. Tijorn, il mio povero fratello, che era morto, e che ancora mi faceva un male tremendo ricordare. Lainay, la povera Lainay, Regina pazza, sadica, per un solo sogno. Jalim, un mostro. Roxen. Mia figlia. Nemys la mia dolce Rinnegata. Isnark. Dovevo farmi perdonare da lui. Regis, che mi aveva fatto così tanto da maestro, da amico. I Tengu. La mia vita era stata strana. Un giro in altalena, pieno di alti e bassi. E stavo per cambiare la mia vita di nuovo, in un modo totalmente inaspettato. Avevo sofferto, avevo penato, avevo sanguinato, avevo gioito. Ed il futuro…cosa mi avrebbe atteso, in futuro? Quali altri intrighi? Si: che la Veglia incominci, mia anima spezzata.

 

 

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Capitolo 83
*** Il Giuramento. ***


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Ringraziando tutti del loro continuo supporto, perché senza di voi chissà come sarebbe andata a finire (io non lo voglio sapere, voi?), devo proprio fare nota di una cosa.

Fate tutti gli auguri al caro, lettore più fedele di questa storia, a cui devo voi non sapete quanto in termini di idee, aiuti, supporto, tanto che dovrei fargli una statua d’oro, davvero, Carlos Olivera. Io glieli faccio, gli auguri, perché oggi è il suo compleanno (erro? O__o ti prego, non dirmi che sto facendo una figuraccia… io e le ricorrenze viaggiamo su due binari paralleli ò_O)  xD

Grazie, grazie, grazie, ed auguri ancora.

Cerca di non esaurirti, troppo, oggi xD

Colla attack per bocca impertinente o siringa di valium?

Su, caro, non hai di che scegliere.

Oh, basta. Non avrò mai abbastanza parole per ringraziare e fare gli auguri alla persona meravigliosa che sei, visto che sopporti e sorbisci questa storia dalla primavera scorsa xD

Auguro a tutti gli altri una piacevole lettura (io me la rido, intanto. Ma il perché, lo dovete sapere solo leggendo. Si, lo so, sono una maledetta sadica <__<), e blablabla.

Auguri ancora, mio fedele lettore. Passa una bella giornata (o quello che ne resta!!). J

Ciao a tutti!

Akita

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Il mattino arrivò presto, molto più presto di quanto io mi fossi mai aspettata. Eravamo rimasti tutto il tempo in silenzio, così come voleva la cerimonia, o almeno era quello che mi avevano insegnato. L’intero procedimento per divenire Ch’argon era lungo, e complesso. Ne avevo letto, un giorno, durante le mie lezioni del noviziato, a Galinne. Era solo un appunto, solo un appunto nel libro che stavamo leggendo a turno, un appunto che  asseriva la difficoltà del rito, e la sua alta pericolosità in caso di malafede dell’individuo. Avevo chiesto delucidazioni al maestro che ci faceva lezione in quel momento, ma avevo ricevuto da lui solo un’occhiataccia, e l’intimazione di stare in silenzio e farmi gli affari miei. Non ci voleva altro per farmi partire come un lampo, di notte, verso la biblioteca, in cerca di libri più chiari da trafugare. Avevo ricattato Akita per farmi accompagnare, le avevo giurato di spifferare tutte le sue sortite notturne, ed il libro proibito che teneva sotto il materasso, se non mi avesse accompagnata, ed aiutata. Lei conosceva quell’ambiente come le sue tasche, e più di una volta aveva rubato libri troppo pericolosi, a detta dei maestri, per noi giovani da leggere. Ho sempre pensato che quel divieto non fosse altro che un sistema per acuire il nostro ingegno ed intuito, per abituarci a non prendere tutto per oro colato, per allenare la libera iniziativa, e per capire quali fossero gli individui più interessanti dal punto di vista dell’abilità a passare inosservati. Comunque le punizioni, in caso di scoperta delle malefatte, erano tra le più severe. In ogni caso non mi andava di finire in cucina a pulire pavimenti, momentaneamente degradata al rango della più infima servitù, per il resto del mese che sarebbe venuto. Insomma, riuscii a rubare uno di quei libri e passare inosservata, anche se Akita quasi ci andò di mezzo, non per colpa mia, ma per la sua stupida curiosità. Avevo passato qualche notte a leggere le pagine che riguardavano i Ch’argon, ed il rito per diventarlo. Il maestro non sbagliava. Era davvero roba pericolosa, quella. Me ne resi conto man mano che andavo avanti nella lettura. Un rito che, in ogni caso, indebolisce, comunque irreversibile. Anche controvoglia, un Ch’argon deve sempre fare quello che è bene per il regno, anche uccidere il sovrano di cui è amico, ma che è un tiranno ed ostacola la crescita stessa del paese, dopo averlo vanamente consigliato sul da farsi, s’intende. Perciò, è pericoloso avere uno del Porporato al proprio servizio: è sempre un po’ il consigliere più disinteressato, la vocina irritante della coscienza, limitata, ovviamente, al suo intuito e alla sua abilità politica. Non esiste cosa in grado di potenziare l’intelligenza di un individuo, affatto. Di Ch’argonai ce ne sono più e meno abili. Un Ch’argon non ha mai ambizione. Non si arrogherebbe mai una corona che non gli appartiene, ma sceglierebbe sempre la persona giusta per reggere ciò a cui è legato. È, in un certo senso, una schiavitù a vita, e la più grande delle libertà. Permette una vita privata, ma che non interferisca mai con i fatti del regno di appartenenza. Ero sicura che Nemys ricordasse bene quanto me il procedimento, sennò non avrebbe mai tremato. Il motivo di quella rimembranza così netta era molto semplice. Ero rimasta così affascinata dal rito in sé, che avevo imparato a memoria, e avevo addirittura segnato su un foglio, in caso mi servisse. Più di una volta, al servizio di Lainay, ero stata tentata dal legarmi ancora di più a lei, al suo dominio. Qualcosa, forse la certezza della mia malafede, una vocina che mi diceva che quella non era sicuramente la cosa giusta, che ero una Spia e più legata di quella alle brame di una creatura non si poteva, la certezza che non sarei mai stata così altruista, e che ancora l’egoismo era parte di me, mi aveva impedito di fare quello che intendevo, di agire, per fortuna. Ma ora mi sentivo pronta per cambiare in modo immutabile la mia esistenza. Non avevo nulla da perdere, e tutto da guadagnare. Era quello, l’unico modo per rompere definitivamente il patto delle Spie, quello l’unico modo per rendermi indipendente dal Regno, per vanificare tutti gli sforzi di Lainay per rendermi una persona ignobile. Ora l’avevo capito: non bastava rimpiangere i giorni perduti, non bastava pentirsi all’interno di se stessi. C’era bisogno di una prova che dimostrasse a tutti che io ero davvero cambiata. Era quello l’unico modo per proteggere la mia piccola famiglia dall’odio popolare, ora che Tijorn, il pilastro della nostra esistenza, senz’altro il più amato, era morto, l’unico che avrebbe potuto giurare senza essere ridicolizzato sulla nostra buona fede. Era l’unico modo per legarmi a Nemys, la mia Rinnegata, e per convincere tutti che ero divenuta, finalmente, una persona diversa, perché tutti credono ad un Ch’argon. Era l’unico modo per mondare la mia spada da tutte quelle morti innocenti che aveva mietuto. Mondare la mia spada, ed il mio animo. Non bastava pulire la propria spada con il proprio sangue, come avevo pensato: c’era bisogno di un sacrificio ben più grande, che comunque non avrebbe mai placato il mio animo dal rimorso. E quello era l’unico modo. Sarebbe stato doloroso, ma utile per tutti. Avrei protetto i miei cari, in quel modo. Dopo la morte di mio fratello non potevo fare altro. La fine di Tijorn era stata anche la fine di una parte di me stessa, quella parte connessa con la speranza di una libertà assoluta, quella parte connessa con la felicità quasi infantile, connessa all’infanzia stessa. Ero sempre stata un po’ protetta da lui, come se fossi ancora una bambina, una piccola infante capricciosa e volubile. E forse realmente lo ero stata. Era tempo di abbandonare quei rimpianti di un tempo che non sarebbe venuto mai più, e di accettare il rimorso ed il dolore che i miei terribili errori avevano irrimediabilmente portato. Era tempo di divenire adulti, e non solo di sembrare tale, il tempo di portare un fardello senza tentare di scaricarlo su altrui spalle, senza giustificazioni, accettando un destino che non mi voleva felice, rinunciando ad ogni altra pretesa di fuga, di gioventù, prendendosi quelle responsabilità che non avevo mai voluto accettare. Era finito il tempo dell’estate, ed avevo mietuto i frutti del mio lavoro terribile. Era il tempo di preparare un nuovo campo, per un nuovo futuro, per altri frutti, per un altro destino. Ed ora non avevo rimpianti, a parte quello di non essermi resa conto prima del gioco perverso in cui ero stata schiacciata. Avrei potuto fare tutto quello molto prima, salvare anche Tijorn… ma era andata così. Il destino aveva voluto così, e non c’era nulla più da fare, anche se avrei voluto tanto cambiare il passato. Se solo ci fosse stato un modo, l’avrei fatto di corsa. Ora dovevo solo pensare a quella Veglia. Il giorno dopo mi avrebbe accolta come una persona migliore.

Ai primi bagliori dell’alba, quando la luce aumentò senza che il sole sorgesse ancora, bussarono alla porta. Abituati ad ore di silenzio, ad aver trascorso il tempo guardandoci senza parlare, ammettendo silenziosamente ognuno le colpe dell’altro, facendoci compagnia, rendendo meno aspra una notte che sarebbe stata comunque terribile, in cui tutti gli sbagli da me commessi  si mostrarono in tutta ala loro crudezza, sobbalzammo. Accettai in quel momento ciò che avevo fatto, e l’elaborai per non errare più. Ci guardammo, un lungo attimo. Poi Zipherias si alzò. “vado ad aprire”. Sussurrò, un sussurro che sembrò un urlo nel silenzio che si era creato. Annuii, ed abbassai lo sguardo. Il momento in cui sarebbe cambiato tutto si stava avvicinando. Rimasi a testa bassa fino a quando non sentii i passi dell’elfo avvicinarsi ancora, ed un rumore morbido, di stoffa che si posa contro stoffa. Un ulteriore attimo di silenzio. Ora sapevo cosa sarebbe successo. Sarei stata sola, davvero sola, fino a quando non mi avessero chiamata. “ora noi andiamo”. Annuii di nuovo, ed alzai lo sguardo. Junielle e lui mi guardavano. Per la prima volta, vidi un lampo di pietà negli occhi della mezzelfa. Chissà cosa stava pensando, immersa nel suo egoismo. Mi stava compiangendo o altro? La scura ed enorme guardai mi sorrise, incoraggiante, e fece un cenno. Tutto l’astio nei miei confronti sembrava misteriosamente svanito, per chissà quale motivo. Gli sorrisi lievemente. Amarto aveva una strana espressione in viso. Lo abbracciai. Era bello stringermi al mio caro Maestro, sentire che lui c’era ancora, e ci sarebbe stato a lungo, e che l’avrei protetto. “non dubitare mai delle tue scelte, Lsyn, mia piccola”. Mi sussurrò all’orecchio, stringendomi forte. “potrai sbagliare, ma esse saranno sempre giuste, perché tue. Non lasciarti influenzare dagli altri. Non ne vale la pena”. Annuii. Era una cosa che già sapevo. Era per quello che divenivo Ch’argon. Non riuscivo a capire perché mi stesse dicendo quelle cose. Amarto era un mistero insondabile. Non l’avevo mai capito veramente, nonostante avessi passato anni ed anni a stretto contatto con lui. Dopo un altro abbraccio che mi mozzò il fiato, tanto era forte, lui si staccò. Lo guardai, guardai il suo viso commosso. Era per lui, anche per lui, che stavo facendo tutto quello. Speravo che se ne accorgesse, anche se ero certa di si. Sospirai, e distolsi lo sguardo, guardando di nuovo il semplice pavimento. Sentii alcuni fruscii. Rumore di passi. “ti aspetto fuori, Lsyn…ti verrò a chiamare quando tutto sarà pronto”. Disse Zipherias, e, prima che potessi rispondere, si chiuse la porta dietro di sé. Rimasi sola. Sola, dopo chissà quanto tempo, realmente sola. Non c’era più nessuno che mi avrebbe mantenuta, tenuto le ali mentre volavo. Era ancora difficile abituarsi al pensiero. Racimolai tutto il coraggio di cui ero dotata, ben poca cosa rispetto all’ardore di tanto tempo prima, quell’ardore bruciato insieme ad una casa a Gerinti, e guardai verso il punto in cui Zipherias aveva poggiato gli abiti. I miei abiti. I miei nuovi abiti. Rimasi a fissare un mucchio informe di viola scuro per un bel po’ di tempo. Era strano, indossare, essere costretta ad indossare, un colore che non avevo mai amato particolarmente, proprio per il significato che portava, quella riservatezza del Porporato che li rendeva molto, molto simili a sacerdoti, quella sua connessione ad una sacralità profana. Avevo sempre preferito colori scuri, ma mai quello, troppo carico di mistero e di spirito per i miei gusti, troppo ambiguo. Sospirai. Ero stanca di stupide dissertazioni. Mi conoscevo abbastanza bene per sapere che, di lì a poco, avrei cominciato a pensare a mio fratello, e da lì non sarei più uscita. Non avevo abbastanza forze per pensare troppo a lungo. Se solo non avessi agito, sarei rimasta lì, su quella sedia su cui ero rimasta per tutta la notte, per sempre, e non mi sarei mossa più. Sospirai di nuovo, e mi alzai. “andiamo, vecchia mucca…”. Sibilai, a me stessa, un’abitudine che avevo preso nel corso dei miei viaggi, e che non mi piaceva particolarmente. “l’hai voluto tu…”. Feci un passo. Mi costrinsi a fare un altro. Guardai storto quegli abiti, che si vedeva, erano di pregiata fattura, anche se molto semplici. Nemys era stata molto buona, con me. Poi ringhiai. Ero stufa marcia di tutta quell’esitazione. Presi così il primo capo, una lunga tunica leggera, un abito da sacerdotessa, che sicuramente mi avrebbe fatto inciampare come una stupida, e, borbottando sulla stupidità di certi riti, io, che non avrei mai e poi mai ceduto la mia decisione di divenire Ch’argon, e che mi lamentavo per la livrea ufficiale che, d’ora in poi, avrei indossato, cominciai a vestirmi. Indossai, con un brivido, quella strana tunica porpora, sopra quella sottoveste bianca che avevo portato fino a quel momento, una tunica con un larghissimo cappuccio bordato di viola scuro, che avrebbe nascosto agli sguardi di tutti il mio viso nelle cerimonie, perché un Ch’argon raramente può mostrare la sua identità in pubblico, in mezzo ad una folla, anche se tutti sanno chi è. Fino al momento in cui Nemys mi avrebbe accettata come Ch’argon del Matriarcato, sarei dovuta o essere a volto scoperto, o, come in quel caso, coprirmi con un altro capo. Sperai che Zipherias pensasse a tutto. Non volevo essere linciata da una folla inferocita, mentre arrivavo nella sala dove si sarebbe svolto tutto. Era un grosso peccato fosse estate: avrei avuto un caldo tremendo. Grugnii, insoddisfatta, quando vidi la tunica andarmi straordinariamente larga, e lunga. Mi arrivava fino ai piedi. Assomigliavo ad uno spaventapasseri, ed il paragone non era lusinghiero. Sperai di nuovo di non inciampare, e benedissi il fatto che, nel vestiario, ci fosse anche una corda, una corda strana, con cui stringere l’abito in vita, dallo stesso colore del mantello lungo, di un materiale scivoloso, che sembrava quasi seta, ma che non era così cedevole sulla stoffa, forse velluto lavorato, chi lo sa sperai che ci si potesse assicurare la mia spada. Ancora non la vedevo, da un bel po’ di tempo. Ci avevano requisito le armi, quando ci avevano salvato da quel coso. Aggiunsi a tutto quello un mantello senza cappuccio, di un viola più scuro, che mi andava drammaticamente largo e lungo, quasi più della tunica. Indossai anche l’unica cosa che mi era rimasta del mio vecchio modo di vestire, i miei stivaletti di pelle nera. Erano l’unica cosa perfetta. Bofonchiai, irritata. Per gli abiti invernali mi sarei fatta fare qualcosa di decisamente più comodo. Non ero a mio agio vestita da baciapile. Pazienza. Incuriosita dal mio nuovo aspetto, andai a vedermi nello specchio. Decisamente, quella non ero io. Un tempo, mi aveva sempre restituito lo sguardo un’audace Spia vestita di colori scuri, o di un bel vestito da ballo, dai lunghi capelli ricci, boccoli fitti e vaporosi, e neri, e dal viso pulito e sano, gli occhi brillanti di sfida. Ero passata dal mostro in nero, nascosto da una maschera che ormai era andata in frantumi, a quello. Sembravo decisamente più vecchia, dall’ultima volta che, nella casa di Junielle, mi ero specchiata decentemente. Forse era per colpa dei capelli dalle ciocche grigie e bianche confuse al nero corvino, più evidenti grazie ai capelli lisci, o dello sguardo stanco, sconfitto, che baluginava nei miei occhi neri. Quella che era una volta Lsyn era scomparsa, inghiottita da una creatura magra, sparuta e dolente vestita con abiti più grandi di lei, in tutti i sensi, dalla parte sana del viso scavata, pallidissima, dove le occhiaie di innumerevoli notti quasi insonni spiccavano come ombre, come buchi, vuoti abissi. Sospirai di nuovo, e mi girai, abbracciando con lo sguardo la stanza dove avevo passato tutta la notte. Non mi piaceva quello che avevo visto. Dimostrava quanto in realtà fossi stata vinta, quanto gli avvenimenti mi avessero sconfitta. E, dopo la morte di Tijorn, era una cosa che quasi mi aspettavo. Mi morsi il labbro, fino a riaprire, per l’ennesima volta, quelle ferite. Ero ossessionata da mio fratello. Mi stava perseguitando, mi uccideva con i suoi ricordi. Sentii gli occhi pieni di lacrime. Era troppo presto per ignorarli. Non dopo che avevo visto, meno di un giorno prima, il suo respiro fermarsi per sempre. Per fortuna, con ottimo tempismo, sentii bussare la porta. “Lsyn?”. La voce di Zipherias. Cercai di darmi un contegno più che mai fiero. Non doveva vedermi nessuno così sconfitta: tutti dovevano avere un’idea di me molto positiva, dell’orgoglio fatto elfa, dell’intelligente rimorso, rivolto al bene altrui. Nessuno doveva conoscere veramente la piccola, meschina, egoista Lsyn Amarto, che aveva fatto tutto quello per proteggere la sua famiglia, e se stessa, per essere amata senza essere disturbata. “vieni. Ti aspettano tutti, nella sala delle udienze”. Tutti? Sala delle udienze? Nemys aveva deciso davvero di fare le cose in grande. Forse faceva bene. Strinsi i denti, per non piangere. Piccola, meschina Lsyn, un puntino nell’universo, la stella più insignificante. “arrivo”. Quanti significati, in una sola parola? Cosa mi aspettava, dietro quella porta, in quella sala? Quali nuove avventure? Lentamente, andai ad aprire la porta. Un grande cambiamento mi aspettava. Mi attendevano, lì fuori, Zipherias, Benagi, i due giganti scuri, il primo con in mano un involto scuro ed in viso un’espressione indecifrabile, tuttavia rassicurante, il secondo mi fissava invece con curiosità, ed, assurdamente, Capouille, la timida Guardia del Lazzaretto, l’eccellente soldato. Non aveva la solita espressione schiva, e timorosa. Sembrava esserci qualcun altro, dietro quei magnifici occhi verdi. Un qualcuno di molto più deciso, e fiero. Il giovane dai capelli rossi mi fece un cenno elegante. Davvero non mi sembrava lui. Era uno strano cosa di doppia personalità, certamente, o, la sua balbuzie ed incapacità, solo una maschera, eretta per chissà quale motivo. Il mio amico dagli occhi d’oro mi fece l’occhiolino, ed aprì l’involto. Sobbalzai. Si trattava di un mantello nero, semplicemente enorme. Doveva essere il doppio di me. Cosa accidenti ci dovevo fare? Guardai l’elfo con una strana aria sperduta. Mi sentivo sperduta. Non riuscivo a capire cosa mi volesse dire. “mettitelo”. Disse lui, laconico, porgendomelo. “è meglio che tu ti nasconda prima di entrare nella sala. C’è un po’ di folla”. Lo guardai male. Con quel coso addosso, sarei semplicemente risultata ridicola. “non vorrai che io inciampi, spero…”. Mugugnai, di cattivo umore. Cominciavo ad essere nervosa. Non ero abituata ai bagni di folla. Zipherias sogghignò, cattivo. “questo non mi sembra tanto diverso dal lenzuolo che indossi tu, eh…”. Arrossi tremendamente. Ero davvero così ridicola? Anche Benagi, suo malgrado, sorrise. A quel punto mi trovai costretta, praticamente, ad indossare quella sorta di grezzo mantello, sicuramente di possesso di uno dei due giganti. Avevo addirittura lo strascico. Ci navigavo praticamente dentro: il cappuccio quasi mi nascondeva il paesaggio alla vista. Ero costretta a camminare con il naso in terra. Capouille mi fissò, meditativo. “forse è davvero troppo grande, non credi, Zipherias?”. Disse, con una voce sicura, senza balbettare nemmeno su una sillaba. Lo guardai, meravigliata. Un’intera frase detta senza incespicare sulle parole. Davvero incredibile per uno come lui. L’ipotesi della doppia personalità si rafforzò. Oppure era solo un elfo molto, molto strano. La Guardia si strinse nelle spalle. “o questo, o la massacrano prima di scoprire cos’ha da dire…”. Perfetto. Davvero perfetto. Sbuffai. “andiamo o da qui non mi muovo più”. Dissi, con una strana voce tesa. Ero davvero nervosa: lo stomaco stava cominciano a borbottare, ed il fiato mi mancava ad ogni respiro. In quel modo, stroncai il battibecco che stava per nascere tra i due elfi. Non so perché, ma intuii che tra Capouille e Zipherias non corresse buon sangue. C’era una certa rivalità sottintesa. Si vedeva dagli sguardi di fuoco che si lanciavano. Chissà perché erano così. Quei due erano proprio strani. Cominciammo così ad avviarci, finalmente in un silenzio benedetto. Presi così, nel frattempo, a recitare in me stessa ciò che avrei dovuto fare. Fui contenta  di ricordare tutto. Sarebbe stata una figura troppo orrenda quella di rimanere in silenzio nel bel mezzo del Giuramento!

Era finalmente tutto pronto. Davvero, la voce si era sparsa molto in fretta: la sala delle udienze, una luminosa costruzione rettangolare, di pietra chiara, dalle volte alte e puntute, dalle finestre lunghe e arcuate, sottili, eleganti, una sala semplice  che portava ai due troni, semplici scranni di legno, della Matriarca e del compagno Isnark, era gremita di persone, in maggioranza nobili di alto lignaggio e mercanti ricchi, ma anche gente comune, che avrebbe sparso la voce della novità, stipati su panche di fortuna. C’erano molti Celestiali a partecipare all’evento, sicuramente per impedire a qualcuno di ammazzarmi prima del tempo. Formavano un cordone in mezzo, creando un piccolo corridoio, dove sarei passata. Non appena fui sulla porta, mi tolsi l’ingombro del sudario nero che avevo come mantello, una cautela inutile, visto che non avevamo incontrato nessuno, e fulminai con un’occhiata velenosa Zipherias. Ero inciampata tre volte, una addirittura per le scale, rischiandomi di rompere l’osso del collo. Dovevo avere un ginocchio delle dimensioni di un melograno maturo. Lui fece un sorriso maledetto, falsamente angelico, e schizzò dentro, percorrendo il corridoio riservato a me. Gli altri due della scorta sgattaiolarono silenziosamente ai lati, per far compagnia alle altre Guardie, o Celestiali, che presiedevano la sala. Il brusio della gente, non appena entrò Zipherias per annunciarmi, svanì di colpo. Calò un silenzio ostile. Sospirai, nervosa fino allo stremo. Lo stomaco stava dando battaglia, e la cosa non mi piaceva. Guardai avanti a me. Dovevo essere coraggiosa. Dovevo avere coraggio. Mi concentrai così sul posto da raggiungere. Seduti sugli scranni, c’erano Isnark, rigido come una statua, gli occhi che sicuramente stavano mandando lampi, e Nemys, candida come un cigno, meravigliosa. Era evidentemente nervosa: stava giocherellando con una ciocca di capelli in un modo che mi era familiare. Sotto, c’erano Junielle ed Amarto, il secondo con in mano un cuscino, dove c’era la mia spada. La spada di Eiron, l’avrei chiamata sempre così. Zipherias si mise di fianco a loro, e, guardando verso di me, fece un cenno. Oh, accidenti. Sentivo le gambe molli come se fossero fatte di formaggio appena fatto. Tremante, feci un passo in avanti. Catalizzai così l’attenzione generale, non appena entrai lì. Nel silenzio sentii le occhiate di tutti addosso, occhiate per niente gentili. Qualcuno digrignò i denti. Abbassai lo sguardo. Sussurri. Non ero amata. Qualcuno stava imprecando contro di me. Sperai che, con quel gesto, tutto quell’astio sarebbe svanito. Oh, accidenti. Però non mi aiutavano, nessuno. Guardai, sperduta, l’unica mia fonte di luce, Nemys, che sorrise lievemente. Ora ero solo io a dover decidere. Sarei potuta fuggire, subito. Ma tanto valeva che mi gettassi giù dalla torre più alta. Una mia fuga eventuale avrebbe sortito lo stesso effetto. Morte sicura. Continuai così a tenere stretto il labbro inferiore, e cominciai a camminare. Oh, accidenti, inciampai per ben quattro o cinque volte in quel breve percorso. Maledetto abito lungo, e maledette le mie gambe. Accidenti. Sentii le risatine della gente. Ero orrendo essere trattata in quel modo. Incespicando, nervosa e tremante come un budino, arrivai finalmente dove dovevo, di fronte alla Matriarca, ad implorare perdono di tutte le mie azioni, per divenire una persona migliore. Abbassai lo sguardo. Ci fu una lunga pausa, nella quale calò finalmente il silenzio. Sospirai. Il mio futuro stava per cambiare. Strinsi i pugni, fino a conficcarmi le unghie nei palmi. Quel lieve dolore aiutò a calmarmi, a schiarirmi le idee. Stavo per divenire una persona migliore. Quello era sufficiente anche per il più cattivo dei miei persecutori. Sospirai di nuovo. Sentivo un certo dolore al petto, un’oppressione orrenda. Lo stomaco brontolò. Arrossii, e guardai per un attimo Nemys. Lei mi fece un sorriso consolatorio. Si era alzata, ed ora mi sovrastava. Si capiva bene quanto si stesse frenando, per non posarmi una mano sul capo, o abbracciarmi. Non poteva. Quella era una cerimonia ufficiale. Una cerimonia in cui io sarei diventata la sua più fedele servitrice. Era ora di cominciare una nuova era. “perché sei qui, Lsyn Amarto?”. Disse, con la sua voce pura come acqua sorgiva, solenne come un canto liturgico. Presi fiato. Ci fu un ulteriore momento di silenzio. Era ora di spiegare le mie ragioni. “sono qui perché voglio essere una persona nuova”. Risposi, secca. La mia voce sembrò assurdamente spiacevole in confronto alla sua. Un gracchiare di corvo dopo il canto di un usignolo. “so di aver sbagliato, e di questo chiedo perdono, anche se so che le parole sono inutili, di fronte a tutto l’orrore di cui sono stata l’artefice”. Di nuovo dei borbottii. M’imposi di non pensarci. Ero già abbastanza nervosa di mio. “ho sbagliato, e molto anche, ed il marchio di questa infamia mi rimarrà impresso per sempre nel corpo e nello spirito. Ho sbagliato, e so che tutti i morti, tutte le ferite da me causate non possono guarire, o tornare indietro. Il rimorso delle mie azioni mi roderà come un tarlo fa con il legno. Sono stata cieca come una talpa, la talpa più cieca di tutte, ed ora imploro di non essere odiata. Ho capito la portata dei miei errori, e voglio rimediare ad essi”. Presa da un empito di coraggio, guardai in alto. Nemys mi fissava, un’ombra di dolore negli occhi chiari.  Non approvava le mie scelte. Lo sapevo, ma nessuno era capace di fidarsi del prossimo come lei. Tutto quello che stava facendo era doloroso, ma necessario. Isnark si era girato verso di me, e mi stava osservando con sospetto, curiosità, e sorpresa. Fui contenta di aver generato qualche altro sentimento in lui, che non fosse l’odio che provava nei miei confronti. Lui si accarezzò le cicatrici che gli avevo lasciato su una delle guance, un gesto più eloquente di mille parole, e poi mi guardò storto. Lui non mi avrebbe mai perdonato per quello che gli avevo fatto. Deglutii, e tornai immediatamente a guardare Nemys. Avrei dovuto temere quell’elfo, sempre. Non sarebbe mai stato mio amico, lo sapevo. Avrebbe cercato di ostacolarmi, e ne ero cosciente. Maledizione. Dopo una breve pausa, in cui i bisbigli divennero più forti, un ronzio di alveare disturbato, Nemys riprese a parlare. Calò il silenzio. “cosa vuoi fare, allora, Lsyn Amarto, per ripagare tutti i debiti che hai con noi?”. Domandò, formale e solenne come prima. Digrignai i denti, e lasciai passare qualche attimo. Quello che stavo per dire era incredibilmente difficile da dire. Stavo per rifiutare una vita intera. “rinnego la mia identità d’Ombra, Spia del Regno”. Quelle parole tremanti ebbero un effetto terrificante. Esplosero commenti ad alta voce, risatine, niente di particolarmente amabile nei miei confronti. Qualcuno m’insultò. Strinsi gli occhi. Era orribile essere trattata così. Era umiliante. Faceva più male di mille coltelli. Io volevo solo essere amata, essere accettata. Sentii dei rumori vari. D’improvviso, ci fu di nuovo calma. Ancora ad occhi chiusi, trattenendo a stento le lacrime di umiliazione che minacciavano di uscire, proseguii. La mia voce era lievemente spezzata. Non potevo farci nulla. “rinnego i miei abiti scuri, per indossare l’identità viola del Porporato”. Il silenzio si caricò di stupore. Lo sentivo, lo avvertivo. Non si sentiva più nemmeno un fruscio. Dovevo aver colto di sorpresa tutti. Era bello saperlo. “Io chiedo umilmente di essere accettata, da voi, Matriarca, e dal popolo tutto, di cui ora è presente una parte. Rinnego la mia esistenza, e vi dono la vita. Chiedo di poter diventare la Ch’argon di Uruk, e con questo, legare la vita a voi, divenire la vostra più fedele servitrice. Rinnego la mia fedeltà a Lainay di Normar, usurpatrice ed omicida”. Le mie parole stavano finalmente prendendo il colore che avrei sempre voluto. Si stavano riempiendo di genuina passione. E con questo che crepino tutte le Spie che mi stavano sicuramente sentendo. Mi morsi la lingua per non peggiorare la mia situazione con epiteti più forti. Avrei tanto voluto insultare Lainay. Sarebbe stato troppo divertente. Ma non potevo infrangere la formale sacralità del rito con qualche bestemmia. “rinnego la mia stessa autonoma esistenza”. Riaprii gli occhi, e lanciai uno sguardo carico di fuoco, di sfida, a Nemys. Lei si stava mordendo le labbra, la pelle intorno agli occhi divenuta sottile ed ancora più pallida. Ci fu un vero e proprio boato. Non mi girai a vedere le reazioni di tutti. Mi bastava vedere Isnark, praticamente pietrificato al suo posto, rigido come una statua. Era già abbastanza soddisfacente. Gli scoccai un’occhiata supplichevole, anche se caricata di una certa ironia. I tagli che gli avevo lasciato scintillarono al sole, alla luce del bel mattino estivo, quando lui strinse lo sguardo, con una smorfia di disprezzo stampata in volto. Non si fidava ancora di me. E forse non si sarebbe mai fidato. Deglutii, e riportai lo sguardo su di Nemys. Qualcuno stava ripristinando il silenzio. Nei suoi occhi azzurri c’erano ora le lacrime. Ci scambiammo un sorriso, lei un sorriso tremulo, io trionfante. Il vero divertimento stava per iniziare. Mi preparai al dolore che sarebbe venuto. Sapevo che non si trattava di una cerimonia semplice, ma ne ero contenta. Meritavo tutto quello. Lo meritavo, per trecento anni di stupidità. Tirai un grande respiro. Ben presto, tornò la calma. Mi scambiai un altro sguardo con Nemys. Lei sembrava ora implorante. Sapevo che mi stava chiedendo in silenzio di rifiutare tutto quello. Feci un leggero segno di diniego. Lei socchiuse gli occhi. Sospirai di nuovo. Quello era l’unico modo per scampare all’odio, per guadagnare la fiducia di tutto il Matriarcato. Ebbe così inizio un antico rito, quel rito che, anni prima, nella mia innocente giovinezza, mi aveva affascinato molto. La Matriarca parlò. “sei di cuore puro e di solida volontà?”. Disse, guardando tutti, cercando di mantenere un contegno. Sapeva anche lei quello che sarebbe venuto dopo, e la sua parte non sarebbe stata la più piacevole. Decisamente io non avevo quelle qualità. Le sue parole erano vane, messe a mio confronto, a confronto della creatura debole che ero. Dovevo essere sincera, d’ora in poi. Quel giuramento, in caso di anche una sola bugia, per quanto minuscola fosse, mi sarebbe costato la vita. “non ho cuore puro, e la mia volontà ha fin troppe volte vacillato. Ciò che sono stata ha distrutto i residui della mia innocenza”. Dissi, con un tono molto amaro di voce. Sentii un mugugno. Sembrava la voce di Isnark. Beh…aveva i suoi motivi per essere scettico. Quasi quasi lo ero anch’io. “quello che ho da offrire è solo la fedeltà, la fedeltà senza confini, e la mia buona fede e buona volontà”. Dopo di quello, la Matriarca si rivolse ai miei tre Compari, chiedendo, a ciascuno di loro, se qualcuno mi avesse costretta a giurare, o se la mia volontà fosse davvero limpida, quando avevo deciso. Le tre risposte furono tutte affermative. Tremai un attimo quando fu il turno di Junielle, che esitò un po’ troppo a lungo, prima di decidersi a rispondere, ma poi tirai un sospiro di sollievo. La parte più semplice era fatta. Rimasi a guardare, tesa come una corda di violino, Nemys che, mordendosi il labbro, più tesa di me, prendeva la mia spada dal cuscino, e la sguainava. Tenendo la spada di Eiron come se fosse un serpente velenoso, con una strana, buffa smorfia in viso, la Matriarca tornò di fronte a me. “ed allora, con i doni che hai…”. Disse, con voce davvero tremante, deglutendo un paio di volte, nervosa, porgendomi la spada, una voce che sembrò acuta nel silenzio carico di aspettativa che si era creato. Isnark si protese dal suo scranno. Mi sembrò un falco dal suo nido, un falco interessato. Sogghignai lievemente. Era un paragone davvero adatto. “giura”. Io afferrai la spada, afferrai la sua elsa filigranata, la strinsi forte. Quasi mi sentii tornare quella di un tempo. Lo stomaco si calmò. Sentii il freddo dell’acciaio e dell’argento, la compagnia del mio alato, defunto amico, e sentii il coraggio tornare. Quella sarebbe stata la parte più dolorosa, io lo sapevo. Mi aspettavo di sentire una sofferenza pari a ferro fuso riversato nelle vene. Strinsi i denti, e caddi in ginocchio.  Quello su cui ero caduta protestò vivacemente, ma io, quasi non me ne accorsi. Con l’altra mano, mi scostai il mantello, e mi arrotolai la manica del braccio sano, protendendolo verso Nemys. Non volevo aggiungere cicatrici alle cicatrici. E quella era troppo importante per mischiarla. Il segno di riconoscimento del Porporato. Poi, digrignando i denti, passai la spada a quella mano, la mano ferita, la mia mano destra. Guardai verso Nemys. Aveva gli occhi socchiusi. Era ora di cominciare un antico rito, un rito che aveva radici nella notte dei tempi. Mormorai, tra me e me, una parola, che risuonò, carica di quel poco di magia che avevo. Sentii, immediatamente, incombere su di me una coltre opprimente e dolorosa. Era orribile, una sensazione tremenda, come essere schiacciata. Mi si mozzò il fiato. “io giuro…”. Ansimai, abbassando lo sguardo, per non vedere il viso preoccupato di Nemys. Sapeva quanto io stessi soffrendo. Ed ero solo all’inizio.“di legarmi…al Matriarcato di Uruk, come Ch’argon, come messo…di legarmi da esso… a vita, e che… la vita fugga da me…in caso di bugia e tradimento. Sangue al sangue, aggiungo…perché il messaggio penetri in fondo al mio essere, per essere… legata a questo regno”. Di nuovo, borbottai una parola, una delle altre quattro parole che avrei dovuto pronunciare. Il dolore aumentò, l’oppressione al petto. Sentii il cuore rombare nelle vene. Mi sembrava di soffocare. Allora colpii, colpii il braccio, con un taglio orizzontale, non troppo profondo, ma che avrebbe lasciato comunque il segno. Chiusi gli occhi, e gemetti, trattenendomi a stento dall’urlare. Sembrava che il mio braccio stesse andando a fuoco. Era orribile, orrendo, non lo sopportavo. Oh, dei…fate che finisca presto. Mi costrinsi a mormorare un’altra parola. Il dolore aumentò, espandendosi allo stomaco, boccheggiai. Non riuscivo a respirare. Era sempre così. Se solo avessi mentito, quella sarebbe stato capace di uccidermi. Ma non successe nulla. Sentii la gente tirare il fiato. E, per un attimo, mi aspettai anch’io di morire. Ed invece non successe nulla. Nell’inferno in cui ero precipitata, gioii per un attimo. Qualcuno, presumibilmente Nemys, mi aveva preso la spada di mano. Dei. Altre tre parole. Solo altre tre. Solo altre tre. Ma già era insopportabile. Mi morsi la lingua, e digrignai di nuovo i denti. Il peggio stava per arrivare. “giuri così, Lsyn Amarto, di servire Uruk sempre ed in ogni caso?”. Domandò Nemys, la voce che le tremava. Ovviamente, che lo giuravo. Tijorn, perché non eri lì? Sperai che, dovunque egli fosse, mi stesse guardando, e che fosse fiero di me, di quello che stavo diventando. Ero sicura che ora se la stesse ridendo, orgoglioso della sua Nanetta. “lo giuro…”. Mormorai, con una voce soffocata, gli occhi serrati e la testa bassa, il braccio proteso, sotto tortura per mia stessa volontà. Sussurrai una delle altre tre parole nello stesso momento in cui Nemys m’infliggeva un altro taglio, perpendicolare al primo. Il dolore aumentò, fino a farmi sembrare di essere immersa in un fuoco di drago. Oh, dei. Fatemi morire. Solo altre due parole, solo altre due…poi sarebbe finito tutto. Solo altre due. Poi sarei stata amata ed accettata da tutti. Fu solo quel pensiero che m’impedì di ritirare il braccio, che scottava e sembrava gonfio, e di fuggire, tra il dileggio generale, e di piangere. Sentii il sangue scorrere, gocciolare in terra. Dopo una piccola pausa, incespicando sulle parole, la Matriarca continuò. Sembrava anche lei soffrire per me, a giudicare dal tono rotto di voce. Dovevo avere un’espressione orrenda. “giuri così di mai tramare il male, di fare del tuo meglio per il benessere di Uruk, e solo di Uruk, libera da ogni fedeltà al sovrano, di difenderlo con tutte le tue forze?”. Una domanda praticamente scontata. Mi morsi più forte la lingua, e cercai di prendere fiato. “lo giuro…”. La mia voce era soffocata, orrenda da sentire, piena di dolore immenso. Ed ogni parola era una fatica. La gola formicolava. Mormorai la parola. E poi gemetti forte quando lei m’incise il terzo taglio, tra i primi due, quasi urlai. La gola sembrò andare a fuoco. Mi morsi le labbra per non cominciare a singhiozzare. Ma era davvero troppo, davvero troppo, una sofferenza tremenda da sopportare. L’ultima. L’ultima, e sarei stata libera. Sarebbe tutto finito. Tutto finito. Non avrei sofferto più. Sarei stata felice. Dovevo essere contenta di non essere morta alla terza parola. Quello voleva dire che ero in buona fede, che non avevo mentito. Quella sofferenza atroce ripagava tutte quelle che avevo causato a quelle povere persone. Le parole seguenti di Nemys furono davvero rotte. Anche lei stava soffrendo terribilmente, con me. Forse stava piangendo, tute le lacrime che stavo trattenendo io. L’odore metallico del sangue era orribile, e mi stava nauseando. Coraggio. Solo un’altra parola. Poi sarebbe finito tutto. Ma mi sembrava di andare a fuoco, stavo andando a fuoco. Avevo provato un dolore simile solo quando ero stata ferita, solo quando mi ero svegliata, bendata da capo a piedi. Solo quella volta. Quella era la sofferenza della magia. Sofferenza da potere. Insopportabile era dire poco. Lo stomaco era contratto all’inverosimile. Ringraziai di non aver voluto mangiare. E così, l’ultima parte del giuramento si concluse. Aspettavo con ansia quel momento. Tutto sarebbe finito. Tutto. Solo un’altra parolina, una sola. “giuri”. Singhiozzò Nemys, stravolta dal mio dolore. “di rimanere legata ad Uruk fino alla tua morte, senza possibilità di scampo, o fino alla caduta di esso, fino a quando l’ultima persona smetterà di credere nel Matriarcato e nell’ideologia che esso porta?”. Ecco. Ora sarebbe arrivato il peggio. Sapevo cosa sarebbe successo, e non m’importava, davvero. La mia voce era un sussurro pieno di dolore tremendo. “lo giuro…”. Sibilai, prima che Nemys m’incidesse l’ultimo taglio, perpendicolare al terzo, in modo da formare una piccola stella sul braccio, un segno fin troppo evidente di ciò che ero diventata, e prima che mormorassi l’ultima parola, il sigillo a quello che avevo finora detto. La sofferenza più enorme, insopportabile, terribile, m’invase, superiore ad ogni prova mai superata fino a quel momento. Il braccio parve esplodere, tanto era forte la pena, ed una specie di scarica simile a quella del Tengu si propagò lungo la mia schiena, un gelo che mi fece venire la pelle d’oca. Mi contorsi dal dolore, ed urlai, ululai, lasciando che le lacrime scorressero libere sul mio viso. Oh. Volevo morire. Volevo morire. Singhiozzai. Sentivo il potere avvolgermi, strozzarmi, facendomi mancare il fiato, uccidendomi. Tutto il corpo era ormai andato a fuoco. Mi sembrava di essere di nuovo nel Lazzaretto,  combattere con delle tremende ferite, che mi facevano urlare e dibattere, aumentando ancora la pena. Quella sofferenza sembrò aumentare, aumentare, aumentare, un inferno senza tempo, facendomi desiderare nient’altro che l’oblio. Ad un certo punto, cosa strana, com’era venuta, la sofferenza scomparve. Scomparve così, d’incanto, senza dare nemmeno il minimo preavviso. Mi sentii, così, improvvisamente, bene. Aprii gli occhi, e fissai, sbalordita, la ferita. Era rimarginata, completamente. Di essa rimanevano solo quattro cicatrici argentee, unite a formare una specie di asterisco, una stella. Ancora in lacrime, sorpresa, la testa leggera, stordita e debole, il cuore che batteva come impazziva, uno scroscio nelle orecchie, alzai così lo sguardo. Nemys mi stava guardando, le braccia tese verso di me, senza potermi aiutare, sul viso impressa un’orrenda espressione, come se fosse lei sotto tortura. Isnark, dietro di lei, aveva gli occhi sgranati, e mi guardava, spaesato. C’era un silenzio di tomba. Io mi sentivo malissimo. Vedevo tutto offuscato, e la testa mi girava. Era logico, fino troppo logico. Non dormivo bene da gironi, e non mangiavo da chissà quanto. Mi sentivo di svenire. Stavo per svenire: lo avvertivo chiaramente. Cominciai a non capire più nulla. Mi forzai così a dire le ultime parole, una voce sottile, sofferente, affannata. Non trovavo più il fiato per parlare. “e che questo…”. Sibilai, annaspando. Mi sentivo malferma. Le orecchie erano piene di un ringhio di drago, di un ruggito. Era fastidioso. Sbattei gli occhi. Cominciavo ad essere stanca, molto stanca. La sofferenza aveva dato il colpo di grazia. Oh, Tijorn, questo l’ho fatto per proteggere la nostra famiglia, i nostri cari. Perché era morto? Non avrei sofferto così. Ma ora era troppo tardi. Ero divenuta una Ch’argon, la Ch’argon di Uruk. Tutti si sarebbero dovuti fidare di me. Perché io non mentivo. Non avevo mai mentito. Se solo l’avessi fatto, sarei già morta. Stavo malissimo. Non era una passeggiata, quel rito. Decisamente molto doloroso. “e che questo sia…faccia… da suggello…per ciò che sono diventata”. Mi assalì, non appena completai il rito, un giramento di testa più forte degli altri. Mi sentii crollare. E poi non ci fu altro che il buio, di nuovo. Stavo prendendo a svenire un po’ troppo spesso. Ma ero troppo debole per superare quella terribile prova indenne. Ero contenta, però: avevo dimostrato la mia fedeltà. Non c’era cosa migliore. Avrei protetto tutti. Ed il mio ultimo pensiero, prima di svanire in quel riposante oblio, che mi avrebbe fatto dimenticare per un po’ la mia identità, fu per Tijorn. Si: doveva essere fiero di me. Avrei costruito un grande futuro, per il suo piccolo.

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Capitolo 84
*** Cronaca di un Cambiamento. ***


Per un tempo che mi parve infinito, non ci fu nulla

Per un tempo che mi parve infinito, non ci fu nulla. Né sogni, né incubi, né la percezione di esistere. Rimasi nell’oblio per un sacco di tempo. Il rito mi aveva rubato le ultime forze, quelle ultime forze che avevo conservato strenuamente, e che erano state saccheggiate da quella cerimonia pericolosa. Non mangiavo decentemente, fatta eccezione per un po’ di pane ed acqua, da un sacco di tempo, né dormivo bene. Avevo passato quattro mesi terribili, di viaggi, sofferenze, ferite,  il riassunto di cinquant’anni da Mostro. A parte qualche breve parentesi di pace, il mio peregrinare non era stato altro che una somma di sofferenze immani. Cinquant’anni in cui sono stata rifiutata dalla gente, cinquant’anni in cui non ho fatto altro che sentirmi poco accettata, rinnegando la stessa me, la mia essenza, dimenticando la mia umanità, divenendo un blocco freddo di  dogmatica fedeltà. Cinquant’anni in cui non ero stata altro che un ammasso di illusioni e ghiaccio, in cui avevo volontariamente bandito tutti i buoni sentimenti, tutto l’amore ed il dolore, in cui avevo ignorato il mio caro fratello. Tijorn, la mia nuova ossessione, quell’elfo meraviglioso, sempre umano, illimitato nei suoi limiti di mortale, quel fratello prezioso, complice, l’idealista dalla ragione sempre dalla sua, il realista dal cuore d’oro. Tijorn, quell’elfo che era morto nel sacrificio, per salvarmi. Era giusto che anch’io mi sacrificassi per coloro che lui aveva salvato, e per ciò che rimaneva di lui, per le sue illusioni ed i ricordi che questi elfi cari portavano con me. Amarto, il Maestro che ci aveva allevati, colui che consideravo come un padre, Nysha e Manolìa, le gemelle che erano state allevate da lui per sessant’anni, che portavano il marchio della sua educazione, Akita, la sua compagna, ed il piccolo senza nome che sarebbe nato in inverno, nel gelo, quell’infante che la mia cara amica voleva chiamare Machin* a tutti i costi. Io dovevo proteggere loro, ed era giusto che mi sacrificassi per il loro benessere. Perché, dopo essermi quasi uccisa per divenire Ch’argon, dopo che avevo passato degli attimi nel fuoco più terribile e purificatore, tutti mi avrebbero amata, si sarebbero fidati di me, e dei miei compagni. Quando mi risvegliai, mi ritrovai in un altro letto, un’altra stanza, le camere che poi sarebbero divenute mie, dove sarei rimasta per un tempo incalcolabile, per mesi e mesi e mesi. È un bel posto, dai colori tenui e rilassanti, una camera da letto che da su un balcone, una piccola balconata sul lato nord di Kyradon, dove si vedono le montagne, le montagne da me tanto amate, che avrei voluto raggiungere solo poco tempo prima, con un piccolo studiolo di legno chiaro, ed un bagno, il mio rifugio quando non voglio essere trovata da nessuno. È un luogo che, quando sono qui, nel castello di Kyradon, è divenuto la mia tana, insieme alla biblioteca. Mi sembra strano che io, elfa un tempo appassionata, piena di forze e smaniosa di entrare in azione, sia divenuta così, una sorta di caricatura ferita di Akita, che nulla m’importasse, tranne la salute dei miei piccoli, i miei protetti, e la compagnia di un buon libro, sempre. O scrivere, scrivere, scrivere, dare corpo ai fantasmi che m’infestano la mente, che mi fiaccano, che mi turbano il sonno. Stavo malissimo. Qualcuno era accanto a me, che mi accarezzava, e mormorava il mio nome, una voce dolce, femminile, che mi riscaldava il cuore. Quando aprii gli occhi trovai l’intera brigata ad aspettare il mio risveglio. La mia camera da letto era divenuta piuttosto affollata. C’erano Max, Junielle, Amarto, i piccini con Dae, Zipherias e Capouille, entrambi piuttosto ansiosi, il primo che si appoggiava pesantemente ad un bastone, stanco, il secondo tornato il verme timido di sempre, il monolitico Benagi, e, in disparte, perfino Isnark, che sembrava molto concentrato a far finta che non esistessi. Fu una sorpresa enorme notare chi c’era più vicino a me. Le mie elfe preferite. Nemys, con le lacrime agli occhi, sconvolta, che si scusò e scusò per avermi costretta a fare quello che avevo fatto, che avrebbe fatto di tutto per me, che continuò a ciarlare e ciarlare, addolorata, spaventata, abbandonando tutta la solenne sicurezza che l’aveva da sempre contraddistinta, da quando la conoscevo, sembrando quasi una bambina, fino a quando io, scocciata, non le posi una mano davanti alla bocca, con sforzo enorme, e non le sorrisi, ed Akita. Sobbalzai quando la vidi. Si era vestita totalmente di nero, un colore che non aveva indossato mai, un colore che aveva sempre odiato, ed aveva i capelli legati. Rabbrividii: sembrava una figura d’incubo. Dov’era finita la mia Akita giocherellona? Era morta insieme al compagno, o solo momentaneamente seppellita? Era abbastanza pallida, l’aria sbattuta e tirata, l’espressione di chi si aggrappa solo ad un sassolino per non cadere nel burrone della disperazione più assoluta. Mi sentii estremamente ansiosa appena la vidi. In fondo, era la compagna di Tijorn. Solo lei poteva capire il mio dolore, la mia scelta, ma solo lei poteva odiarmi per ciò che avevo fatto al suo amato. Ma lei mi stava guardando, preoccupata, ma seria, come se la cosa, come se quella faccenda umana non la toccasse più di tanto.  Nei suoi occhi chiari, quel colore anonimo e slavato, quell’azzurro acquoso, non c’era più  quell’espressione da eterna bambina, un po’ innocente, un po’ maliziosa, tanto ingenua, che l’aveva da sempre caratterizzata, quell’espressine di chi non smette mai di sperare in un futuro migliore. I suoi occhi erano quelli di una donna adulta, ormai. C’era disillusione, dentro, e tanta, tanta durezza, rassegnazione, ma una speranza feroce, qualcosa che le brillava dentro come cani rabbiosi in fondo a tane profonde. Povera piccola mia. La sofferenza doveva essere stata tanta anche per lei. Lei era la sola in grado di capirmi. Ci bastò un solo sguardo. Lei non odiava me. Non sembrava in grado di odiare nessuno, tanto era il grado della sua sottomissione, della sua passività. Sembrava attendere qualcosa, attendere un’epifania, che le avrebbe mostrato la sua strada, una strada che forse stava già percorrendo. Rivolte a lei furono le mie prime parole, che mi fecero girare la testa, e chiudere gli occhi. Le chiesi del bambino, e di come stesse lei. Lei eluse la seconda domanda, carezzandomi i capelli, che erano divenuti, a quanto mi sembrava, una massa né riccia né liscia, ma almeno, a detta sua, il piccolo stava bene. Non aveva subito danni per il trauma che aveva colpito la madre, il trauma della morte di Tijorn, senza il quale non faceva mai un passo, e, a detta di tutti i Guaritori, indistintamente, da cui era stata visitata, perché Max non riusciva più a fidarsi del suo giudizio, non ci sarebbe mai stato pericolo per lui, perché lei era forte. La voce le tremò dopo quelle poche parole, e si spense. Mi sentii preoccupata, e sollevata al tempo stesso. Il mio nipotino stava bene, ed era una cosa importante. Ero divenuta Ch’argon per lui, per lui soprattutto. Akita invece, mi dava a pensare. Sembrava non aver più vita, agire per pura inerzia. Sperai che si riprendesse, che la vita che fioriva in lei le desse una speranza, una forza per ricominciare, per ricostruire qualcosa sopra le macerie che la morte del suo compagno aveva lasciato. Sperai che fosse davvero forte per sopportare tutto quello. Poi non mi chiesi più nulla. Cominciai a sentirmi di nuovo male. Il braccio riprese a pulsare.

Dopotutto, non mi andò così malaccio. Tutto sommato, rimasi a letto solo per una decina di giorni, costretta a riposo assoluto dopo che, il quinto giorno, avevo insistito per officiare insieme alla Matriarca alle udienze settimanali, per prendere finalmente il mio posto come Ch’argon. Avevo smaniato per giorni. Dovevo guarire, dovevo mettermi in piedi. Era gratificante vedere la soggezione in cui erano le persone quando mi guardavano, ed il nuovo rispetto nei loro occhi. Solo pochi irriducibili, a detta della Matriarca, ancora mi detestavano. Purtroppo, tra loro, c’era ancora Isnark. Sebbene fossi divenuta la loro più fedele servitrice, ancora non si fidava di me. Diceva di non potermi perdonare le sue ferite. Tuttavia, nonostante tutte le mie preghiere per alzarmi, stavo ancora maluccio. Ero svenuta a metà mattina, troppo debole per affrontare altro, ed ero rimasta incosciente per tutto il giorno. Da quel momento in poi Nemys decretò che, fino alla mia guarigione completa, sarei rimasta a riposare, con limitate possibilità di movimento, e solo nelle mie stanze, ma non nello scrittoio, che a detta della mia asfissiante Matriarca era troppo freddo, troppo ventilato, troppo umido, eccetera eccetera eccetera. Quella Rinnegata teneva davvero a me in un modo incredibile. Era strano vedere una persona così affezionata a me. Ben presto, lei divenne il mio punto principale di riferimento. Scoprii, nella mia degenza, imprigionata da un’ennesima mamma chioccia, che la stima, anche l’amore, a volte, nei miei confronti, stava aumentando. Sempre più persone si fidavano di me, e non mi odiavano più. Avevo dimostrato il mio cambiamento, il mio sacrificio, nel modo più efficace, ed ora tutti avevano compreso. Le cameriere che venivano la mattina, per svegliare me e le persone che mi stavano accanto la notte, avevano preso, dopo il secondo malore, a parlarmi, a chiedermi come stessi, ad informarmi del tempo. Prima avevano solo parlato con la guardia di turno, e mi avevano sempre ignorata. Giudicai positivo quel cambiamento, e ne gioii. Non ero mai sola. Di solito, ruotavano tutti, ma Akita era sempre con me. Si aggrappava a me, sebbene non lo dicesse apertamente, come il muschio fa sui tronchi degli alberi, decisa. Si era fatta portare pure una comoda branda, e si era accampata lì. Non parlava volentieri, e mi teneva sempre la mano, a volte chiedendomi di raccontarle qualche episodio della mia vita, qualcosa di divertente, dove però Tijorn non ci fosse, qualcosa di molto difficile da fare, visto che avevamo sempre agito come due organi di uno stesso corpo. Non volle mai parlare di lui. Allora io cercavo di farla ridere, di raccontarle le mie fughe solitarie dal quartier generale, fughe di cui non sapeva nulla, delle mie missioni più buffe, delle volte in cui avevo impersonato degli infanti, con Spie anziane a farmi da “padre”, delle volte in cui avevo combinato dei guai tremendi, dei pranzi con re e regine, delle contrattazioni, del mio tuffo nel lago ghiacciato. Lei non reagiva. Non rideva né piangeva mai, o non davanti a me. Si limitava, quando io avevo finito, a chiudere gli occhi, e sospirare, a volte rimanendo in silenzio, a volte dicendo semplicemente. “un’altra”. Io obbedivo, con la morte nel cuore. Era terribile vedere la vivace Akita così. Spesso, quasi sempre quando eravamo sole, si sedeva fuori, godendosi il sole, per ore ed ore, abbracciando assente il ventre che cresceva. Allora borbottava qualcosa, e guardava l’orizzonte. Non riuscivo mai a vederla così sconfitta, mai. Così mi alzavo, vincendo la debolezza, e la raggiungevo, sedendomi a terra. Ed allora ci prendevamo per mano, per sostenerci, e guardavamo entrambe le alte montagne, dalle punte sempre innevate. Il nostro dolore era lo stesso. Condividevamo lo stesso destino, o stesso ricordo, la stessa persona da piangere. Ma nessuna delle due lasciava che l’altra vedesse le lacrime. Eravamo troppo orgogliose. Sperai ardentemente che la mia dolce amica si riprendesse. Avrei fatto di tutto per aiutarla. Quando eravamo in compagnia, lei, seppure sempre più silenziosa del solito, cercava di parlare, di fare battute, con scarso esito. Era sempre più amara ed aggressiva del solito. Sapevo cosa avesse, lo sapevamo tutti. Nessuno si offendeva quando lei ci attaccava, sarcastica, sardonica, ironica, mordace. Il lutto le aveva affilato gli artigli, creato un guscio che tutti ignoravano, ma che tutti cercavano, allo stesso tempo, d’infrangere. Io aspettavo. Sapevo che, prima o poi, lei avrebbe superato tutto, forse un po’ più ammaccata, ma avrebbe superato. E, anche se io piangevo, anche se mi tormentavo, mi uccidevo, la notte cercando di non dormire molto per non spaventare nessuno con i miei incubi, i miei strilli disperati, com’era successo un paio di volte, non lo davo a vedere. Dovevo superare la morte di Tijorn, per il bene di tutti. Dovevo riuscirci. Dovevo essere io forte. Tra le persone che più spesso mi venivano a far visita c’erano piccoli, presenza fissa il pomeriggio, con cui io ed Akita giocavamo, sotto lo sguardo vigile di Dae, e che cominciavano a fidarsi sempre più di noi, fatta eccezione per Nysha, l’allieva silenziosamente preferita da Tijorn, che aveva da sempre un debole per lei, perché diceva che fosse identica a me da piccola. L’infante sembrava staccarsi praticamente da tutti, anche dalla gemella, che sembrava soffrirne. Cercai di essere buona e dolce anche con lei. Aveva bisogno di tempo per elaborare il lutto, anche lei. Aveva voluto molto bene al Maestro. Manolìa era sempre stata più dolce, ma molto più forte di lei, e più indipendente, nonostante non sembrasse. Era dura staccare Roxen e Chekaril da me. I miei guardiani preferiti erano Zipherias e Capouille, sicuramente. Sembravano avere entrambi una certa simpatia per me, anche se ognuno dei due non sopportava l’altro. Io adoravo principalmente il primo, il calmo ed ironico Zipherias, galante sia con me che con Akita, una roccia su cui potersi aggrappare sempre, un po’ cinico, delle volte, e testardo come un mulo, orgoglioso, ma decisamente pieno di volontà ed intuito. Ci aveva raccontato, una notte, di come si fosse azzoppato. Era stato durante un agguato, nei primi tempi della sua vita da elfo vero. Ammetteva senza problemi di essere stato un Rinnegato, e non se ne faceva un cruccio, perché ormai non lo era più, anche se odiava parlare del suo creatore, cosa che non fece mai, nonostante tutte le domande che gli ponessi. In quell’orribile carneficina, come ci disse con una strana indifferenza, era morta la sua compagna, Sinyel. Era stata una Rinnegata come lui, ed insieme avevano oltrepassato i secoli. Fui meravigliata di apprendere la sua età. Era, secondo il calcolo degli elfi, un anziano, anzi, sarebbe dovuto morire, mentre appariva un giovane, poco più vecchio di me ed Akita. Con una scrollata di spalle, il gigante scuro disse che era normale, e che davvero per un elfo aveva quanto me. Poi aveva continuato con la sua storia, terribile come sempre. Una pattuglia quotidiana era divenuta un massacro. Erano stati elfi del Regno. Nel tentativo di salvare Sinyel, un soldato come lui,, si era esposto, lui, a cavallo, un po’ troppo. La sua cavalcatura, uno dei bestioni tipici del meridione, cavalli enormi, robusti e dai manti scuri, su cui non sarei mai potuta salire, era stata colpita da una freccia vagante, ed era caduta, trascinando lui sotto. L’impatto era stato così forte, e la bestia così pesante, che si era rotto una gamba in più punti, ed era stato un miracolo che il bacino non si fosse polverizzato. Era così conciato male che i Guaritori avevano temuto rimanesse paralizzato. Se l’era cavata con una zoppia molto marcato, ma, da allora, preferiva entrare in guerra solo in casi estremi. Sarebbe dovuto essere il mio più grande detrattore, perché Normar gli aveva portato via la compagna, invece non m sembrava così, e fu una cosa che gli chiesi. Ammiravo la sua freddezza, la sua indifferenza totale. Lui mi rispose che non odiava chi conosceva il lutto, chi conosceva quel dolore immenso. Poi si zittì, e non parlammo più. Amavo davvero la sua compagnia. Sembrava capirci, capirci alla perfezione. Capouille era sempre troppo silenzioso, troppo nervoso, troppo preoccupato di dire la cosa sbagliata, e spesso rimaneva in un silenzio agitato, o balbettava tanto da rendere incomprensibili le sue parole. Akita non lo sopportava. Andava a dormire ogni volta che lo vedeva arrivare, per il turno notturno. Ben presto, anche Amarto e Benagi presero a farmi compagnia. L’elfo scuro sembrava aver preso in simpatia il vecchio, e non mi guardava più con ostilità. Finalmente, mi ripresi. Fu una vera gioia, un giorno, andare a passeggiare per il castello, ed il tempio, senza debolezza, intabarrata nella mia livrea scura, attorniata dagli sguardi rispettosi delle persone che m’incrociavano, senza che mormorassero al mio passaggio. Pian piano, la stima si trasformò in amore. Furono mesi convulsi, in cui non ebbi il tempo di pensare a me stessa. Il mio ruolo di mamma, zia, Ch’argon di Uruk, amica, confidente, aiuto, spalla su cui piangere, eccetera, mi assorbiva troppo per pensare alla mia pena segreta, ai miei incubi notturni, al mio tormento, al mio rimorso, che non se ne sarebbe andato mai. Cominciai ad occuparmi della protezione degli affari privati, cominciai a dare dritte all’esercito ed alle guardie sui trucchi delle Spie, tradii, io, Akita ed Amarto, tutti gli informatori di Uruk, che la mia amica conosceva, svelammo i segreti più reconditi dell’ordine. Diventammo tutti e tre persone molto scomode per il Regno. Cominciammo ad essere protetti. Ma nessuno osava toccarci, cosa molto strana. Non ricevemmo minacce, segno che non ci consideravano un pericolo. Il castello di Uruk divenne, pian piano, uno dei luoghi più impenetrabili e difficili da spiare, per gli elfi che comandava quella bastarda di Lainay. Ma non ci furono ritorsioni. La Regina doveva aver saputo quello che gli interessava. O forse aveva ben altre mire. La guerra, in quel periodo, era divenuta sempre più difficile. Avevamo ricevuto anche una delegazione segreta dell’Impero, umani che c’imploravano di andare in loro aiuto. Eravamo rimasti spiazzati, in una situazione di stallo che non piaceva a nessuno. Nemys sembrava essere sempre più nervosa, di malumore. Sembrava arrabbiata con se stessa, chissà per quale motivo. Al termine del mese successivo, ci pervenne la notizia più terribile del mondo, una disgrazia, per noi.  Quella maledetta aveva avuto quello che voleva. L’erede al trono del Regno, figlio di Lainay, era venuto al mondo. Contrariamente a tutte le nostre speranze, non era nato morto, né debole. Era un maschietto, sanissimo e robusto, che, a detta dei nostri infiltrati nel castello di Galinne, assomigliava molto a Lainay, con i suoi occhi, prometteva di divenire simile a Chekaril, con la stessa corporatura alta e maestosa,  ma aveva dei colori più scuri, che non erano quelli di Cyran, il Re. Era quasi scontato che lui non fosse il padre. Difficile pensare Lainay fedele al marito. L’identità del padre del bambino è tuttora sconosciuta. Gli fu dato nome Kamarducil, erede di maestà, il nome del nonno. Furono giorni molto duri per Amarto, che prese a lamentarsi con me del suo destino, a ripetere quanto la sua amata non fosse altro che una maledetta prostituta, e che non meritava quel regalo, quel piccolo, destinato a chissà cosa. Non era giusto che lei avesse tutto, e noi niente. La guerra cominciò a farsi più orribile, e più convulsa. Arrivarono richieste di aiuto rinnovate da parte del Regno e dell’Impero. Dopo quella nascita, Nemys divenne più cupa che mai. Prese a stare ore in biblioteca, un posto che anch’io avevo preso ad amare tanto, dove ero divenuta amica con il vecchio Yufrek, il bibliotecario, cieco ed incredibilmente colto. Avevo letto una quantità enorme di libri, di tutti i tipi. Ero rimasta affascinata da tutti quegli accadimenti, guerre, intrighi, la storia. Mi stavo facendo una grande cultura, e la cosa non mi dispiaceva. Ma il comportamento della Rinnegata mi lasciava perplessa. Non voleva essere infastidita da nessuno, e ritirava il libro quando ci avvicinavamo. Perfino Yufrek aveva l’assoluto divieto di avvicinarsi a lei. Dopo un po’, la Matriarca, dopo un paio di giorni passati a confabulare con Max, che si rifiutò di dirmi cosa avesse lei, prese a chiudersi, ogni sera, per un paio di ore nei suoi appartamenti, rifiutandosi di ricevere chicchessia. Perfino Isnark e me eravamo banditi. Un paio di volte ci eravamo guardati, mentre eravamo cacciati via di malo modo. Eravamo entrambi interdetti. Nessuno sapeva cosa stesse passando per la testa della mia Rinnegata. Avevo cercato di parlarle, di capire cosa stesse tramando. Ma avevo avuto solo un’occhiataccia, come risultato di tutto, ed un’intimazione a stare al mio posto. Avevo minacciato Nemys, per la prima volta. La carica che ricoprivo imponeva che io le dessi un consiglio, un ammonimento. Le dissi che, se ciò che faceva avesse danneggiato il Regno, io sarei stata costretta ad usare le maniere forti, e lei lo sapeva. A quel punto, Nemys mi rassicurò. Aveva gli occhi che le brillavano in un modo strano quando mi abbracciò, rassicurandomi. Non dovevo temere nulla. Avevo avuto un brutto presentimento. I rapporti tra me ed il Principe erano molto tesi, dopotutto. Quando c’ero io, lui spariva misteriosamente dalla stanza in cui ero entrata. Non ci parlavamo mai. Dopo la nascita di Kamarducil, Akita prese a campeggiare nella mia stanza. Non se ne andò più di lì. Non sembrava capace di stare da sola. Non guariva dal suo lutto, e la cos mi preoccupava. Aveva bisogno del suo tempo, ma pareva più fragile che mai. La prima volta che sentì un calcio dal piccolo, una sera, prese a piangere, e non si calmò per un bel po’ di tempo, fino a quando io non fui costretta a chiamare rinforzi. Da allora, rimase sempre in silenzio, o parlando con me raramente. Ma non voleva lasciarmi, mai. Qualche settimana dopo, era accaduto un terribile incidente, che dell’incidente aveva ben poco. Durante una battuta di caccia, il Re del Regno, il grande ed inetto Cyran, era stato ucciso da un cinghiale, o almeno così sembrava. Io e Nemys discutemmo a lungo su questo fatto. La Matriarca sembrava molo preoccupata. Io ero tranquilla, e glielo dissi. Non avevamo da temere da Lainay. Lei aveva quello che voleva. Povero, povero sciocco. Ci chiedemmo tutti come riuscisse Lainay a far credere tutte quelle cose al popolo, ed ai nobili. Era davvero astuta, ed, in più, aveva dalla sua le Spie. Ora che aveva un figlio, vivo e sano, lui non serviva più, anzi, le era d’intralcio. Povero sciocco. Ho sempre provato una pena immensa per quello stupido elfo. Passò un altro po’ di tempo, un altro mese. E la data della battaglia campale cominciò ad avvicinarsi. Grazie al mio status di Ch’argon, io ero l’unica a stare tranquilla, anche se a soffrire moltissimo. Dovunque ci fossimo schierati, visto che, a quanto pareva, il nostro aiuto era indispensabile per tutti e due gli eserciti, Uruk sarebbe stata al sicuro. Qualcosa mi diceva che, quella volta, un aiuto al Regno era molto più vantaggioso per tutti noi. Quel sesto senso che si era accresciuto con quella stella, quella sicurezza per certi affari che contraddistingueva il Porporato, mi spinsero a parlarne con Isnark. Tutto quello che ottenni fu un’occhiata meditabonda, ed un cenno. Poi di nuovo lui mi aveva guardata malissimo. Ero fuggita. Quell’elfo mi spaventava, e molto. Nel castello di Uruk, più i giorni passano, più la tensione aumentava. C’era stata una chiamata alle armi collettiva, ed anche molte guardie, tra le quali Capouille, Benagi e Zipherias, erano state reclutate. Avevo pregato a tutti e tre di fare attenzione, e di non morire. Non avrei sopportato vederli feriti o morti. Tenevo ormai troppo, a quei tre elfi, tutti e tre strani. Il primo mi aveva guardato male, ed aveva detto, con voce sicura, che solo in guerra lui si sentiva bene. Il secondo mi aveva fatto un occhiolino, ed aveva detto che lui era forte, e che già combatteva da un po’. Il terzo mi aveva sorriso, e, per la prima volta, mi aveva abbracciata, dicendo che tutto sarebbe andato bene. Quel contatto mi turbò. Non ero più abituata  a quei gesti d’affetto. Persino Nemys, nella sua strana cupezza, malinconia, come se qualcosa la rodesse da dentro, aveva preso ad essere più distante, una cosa di cui soffrivo. Ma la capivo: stava soffrendo per il suo popolo, ed era in pensiero per il suo compagno, che avrebbe comandato l’attacco, a chissà quale fronte. Avrebbe deciso sul posto. E venne il giorno della partenza, quasi in autunno, dopo la vendemmia: un giorno di lutto per Uruk. Io, insieme ad Akita, eravamo le uniche a non reagire. Io ero troppo preoccupata per i miei amici. Se uno dei tre, di quei tre matti, fosse morto, io avrei ricevuto un colpo troppo grande. Tijorn era sempre lì, in un angolo della mia mente. Facevo sempre paragoni con lui, instauravo conversazioni mentali con lui, me le inventavo, cercavo sempre di agire come lui avrebbe fatto, e voluto da me. La mia amica era troppo apatica. Man mano che il piccolo cresceva, lei diveniva sempre più distante, sempre più cupa. Sembrava stesse attendendo qualcosa, o qualcuno. Parlava sempre meno. Non riuscivo a capire perché stesse succedendo tutto quello. Non mi pareva un buon segno, ed avevo un brutto presentimento. Ma cercavo di non pensarci. In quei gironi terribili, inferni pieni d’ansia ed incertezza, la vita ad Uruk si cristallizzò. Coloro che erano rimasti diminuirono le loro attività. Kyradon divenne stranamente silenziosa. Perfino Nemys smise di avere quell’aria cupa, sempre un po’ tormentata, apparendo soddisfatta, anche se tremendamente preoccupata per il suo amatissimo compagno. Smise di rinchiudersi la sera nelle sue stanze, e prese di nuovo a coccolarmi, ad appoggiarmi come una bambina, a giocare con i miei piccoli protetti, l’unica ventata di vitalità in quel tempo, e, come Akita, si accampò da me per tutta l’assenza dell’esercito. Divenne di nuovo la Rinnegata dolcissima di un tempo, e la cosa non mi fece che piacere. Era bello averla di nuovo con me. Facevamo uno strano trio. Una Ch’argon sfregiata, indaffarata ed un po’ esaurita com’ero io all’epoca, una silenziosa elfa incinta, amara e sempre più dura e silenziosa, ed una Rinnegata gentile, e buona, la Matriarca di Uruk, che la sera si faceva spazzolare i capelli, mentre chiacchieravamo della giornata trascorsa. Non voglio parlare di quella battaglia, che è una cosa ignobile, che decisamente non mi piace. Posso solo dire che Lainay, il Regno, vinse, che estese il suo dominio per tutto l’Impero, donando terre ai piccoli regni umani rimasti neutrali, grazie all’aiuto di quelle orribili bambole meccaniche, tenute segrete fino a quel momento, che fecero una strage grazie alla loro strana magia, o quello che fosse, annientando l’esercito umano. Le mie previsioni di Ch’argon si rivelarono azzeccate. Isnark si alleò, alla fine, con il Regno, ricevendo, in cambio della fedeltà, la promessa di non attaccarci mai, e tutto il territorio di Sharilar. Non ci parve una grande vittoria. Era orribile aver dovuto combattere a fianco di quel mostro di Lainay. Alla notizia, Nemys pianse, a lungo. Per poco non la imitai. Era colpa mia se era successo tutto quello. Senza la mia soffiata, il Regno ci avrebbe pregato solo di rimanere neutrale, cosa che avrebbero fatto con piacere, o ci saremmo schierati con l’Impero. Invece, la nostra fu una scelta dolorosa ed obbligata. La colpa mi tormentò per giorni e giorni. Fui consolata dalla stessa Nemys, che mi pregò di non tormentarmi, perché avevo riparato a tutti i miei errori. Non riuscii a stare più calma. Passai un bel po’ nella biblioteca, confortata dai libri e da Yufrek, che sembrava avermi preso in simpatia. Dopo qualche giorno, finalmente, arrivarono i nostri. L’esercito di Uruk non aveva avuto molte perdite, e ben pochi feriti. Tuttavia, Isnark sembrava invecchiato di secoli quando tornò, buttandosi, per prima cosa, tra le braccia della compagna, e poi guardandomi con rassegnazione. Mi strinsi nelle spalle, poi corsi a cercare i miei tre amici. Zipherias, il mio carissimo Zipherias, e Benagi, erano quasi illesi, anche se molto stanchi. Erano tutti e tre al Lazzaretto perché avevano dovuto trasportare Capouille, confuso da una brutta ferita in testa, che rimase lì come paziente per un bel po’. Sospirai di sollievo nel vedere tutti e tre vivi, e li abbracciai. Tutti, a parte Capouille, che non fece che canticchiare una marcia allegra, completamente rimbecillito dal colpo in testa, mi ricambiarono con calore. La cosa successiva che feci fu quella di andare a cercare Max, e di trascinarlo per le orecchie, letteralmente, dal mio amico dai capelli rossi, preoccupata che quella confusione fosse permanente. Il burbero elfo mi rassicurò. Sarebbe tornato, come in effetti fece, normale in poco tempo. E così, anche la guerra, che per tanto si era trascinata, si concluse. Gli umani, quei poveri umani, furono ridotti, come l’Utopia perversa del Regno voleva, al rango di schiavi, sottomessi ad una Regina pazza. Era una cosa ingiusta. Non era giusto, davvero, che Lainay vincesse, che avesse tutto. Ma doveva essere così. L’importante era che tutti i miei protetti stessero bene, e che Uruk fosse ancora libera. Le rivolte umane che scoppiarono nei primi tempi furono sedate con un bagno di sangue. Dopo di allora, i dissidenti fuggirono nei rimanenti regni liberi. Poveri conigli spauriti. Disprezzo fortemente i ribelli umani. Sono solo buoni a nulla.. Tra noi, dopo aver ricevuto Sharilar come promesso, piombò una pace vigile, come c’era tra gli altri regni. La potenza di Lainay turbava tutti. Era meglio non svegliare il cane che, satollo, dormiva. Avrebbe potuto schiacciarci tutti come insetti minuscoli. Allearsi era praticamente impossibile. Tutti diffidavano di noi,  le Spie, nei territori di Lainay, erano più attive che mai. Un ambasciatore umano era morto nel tentativo di raggiungerci. Dopo quell’episodio, il Regno ci inviò la richiesta cortese di rimanere neutrali. Non era proficuo, combattere. Era una minaccia bella e buona, e nel castello ci fu tumulto per un po’. Passarono così re mesi. Io non raggiunsi Sharilar, non raggiunsi la casa di Tijorn, come volevo fare. Akita era troppo debole per affrontare un simile viaggio. Più passava il tempo, più diveniva silenziosa e riflessiva, aspettando chissà cosa. Non mi piaceva quell’atteggiamento. Il piccolo cresceva forte, e sano. Sarebbe nato nell’inverno. L’inverno, inverno di sentimenti, doloroso, freddo, in cui tutto cambiò. Max e Junielle ci lasciarono. Partirono insieme, per un altro Lazzaretto, perché l’elfo si sentiva ancora in colpa per la morte di Tijorn, e voleva allontanarsi per un po’, riflettere, mentre la mezzelfa semplicemente non ce la faceva a sopportarmi. Il loro rapporto era divenuto molto stretto, erano diventati compagni. Si consolavano a vicenda, poverini. Per me fu doloroso vederli partire. Tuttora mi sono rifiutata di chiedere ai Guaritori la loro destinazione. È brutto vedere un’amica allontanarsi da te, sempre. Per qualche girono, mi sentii davvero perduta. Non so cosa avrei fatto, senza i miei tre amici, e Nemys. I tre soldati cominciarono ad affezionarsi in modo terribile a me, ed io a loro. Scoprii in loro delle persone meravigliose, compreso Capouille, che non era il verme che sembrava. Aveva una grandissima sensibilità, e, cosa che nessuno sapeva, amava dipingere, suonare, scrivere, comporre poesie che nessuno leggeva. Nessuno, tranne me. Lui si fidava davvero della mia persona, una cosa che mi lusingava. Era strano vedersi accettata in quel modo. Mi piaceva, mi riscaldava il cuore.  Era davvero dotato, quell’elfo timido, ma speciale. Il mio preferito, tuttavia, rimaneva sempre Zipherias. Adoravo il suo cinismo, il suo modo a volte un po’ brutale di esporre la verità dei fatti, la sua calma invidiabile. Avevo capito che quella rivalità tra Zipherias e Capouille non era altro che una grande amicizia mascherata. Stare insieme a quei tre era davvero un balsamo per la mia anima ferita. Anche ad Akita piaceva la loro compagnia. Io e lei eravamo sempre insieme. Lei aveva preso ad appoggiarsi a me, come se fossi la sua roccia. La mia amica non parlava mai. Era sempre più triste, pallida, sempre meno loquace, dura come una pietra. L’unica cosa che davvero le importava era il piccolo che portava in sé. Era l’unica cosa che pareva darle un po’ di vita. Ne avevo parlato a Nemys, preoccupata, che mi aveva rassicurata. Una volta nato, il bambino avrebbe cambiato Akita. Ne era certa. La Matriarca aveva cominciato a passare molto tempo con me, parlandomi, confortandomi. Era l’unica a cui confidavo i miei incubi, i miei tormenti, era il mio punto di riferimento. Il rapporto tra lei ed Isnark sembrava essersi stranamente incrinato. Non si parlavano molto, ed il Principe sembrava sempre un po’ accigliato, come se qualcosa lo turbasse. Su questo, la Rinnegata era stata parecchio evasiva. Non avevo voluto inferire. Non mi piaceva costringere qualcuno a confessare tutto, soprattutto riguardo quell’ambito dei sentimenti. Dopo Chekaril non lo facevo mai. E cadde la neve. Sostituii il mio abito di cotone con un altro più pesante, con un pantalone, ed il mantello bordato di pelliccia scura. Tra i due sovrani scese, all’improvviso, di nuovo la pace. Isnark prese ad essere incredibilmente premuroso con la compagna, a fare di tutto per lei. Cominciò a sopportare anche la mia presenza. Sospettai che lui avesse tradito, chissà quando, la Matriarca, o qualcosa del genere. Non potevo più essere lontana dalla verità. Si avvicinò, così, pian piano, la data prevista per la nascita del mio nipotino. Akita prese ad essere stranamente nervosa, quasi frenetica. Cominciò a farmi discorsi strani. Una sera, mentre guardava la neve cadere, nella stanza da letto, dove c’era anche un piccolo camino acceso, mentre io ero indaffarata a preparare delle carte e scartoffie, lei si girò. “se io morissi…”. Disse, aggrottando le sopracciglia. Sobbalzai. Non mi piacevano quei pensieri. Le facevano male. “se io morissi tu baderesti a Machin?”. Aveva deciso di chiamarlo, o chiamarla, così. Era un nome che le ricordava i tempi felici passati con Tijorn, le loro schermaglie. Non avevo osato contraddirla. A quelle parole, l’avevo guardato storto. “stupida”. Sibilai, alzando lo sguardo dalle scartoffie, e guardando il volto serio e concentrato, arrotondato un po’. “non pensare a queste cose. E poi mi pare ovvio. Stai parlando di mio o mia nipote, cara!”. Akita sorrise, come pacificata, e si girò di nuovo. Io la guardai a lungo, inquieta. Per quel giorno non parlammo più. Ero nervosa per lei. Non mi piaceva quel terribile comportamento. Mi faceva venire pensieri strani in mente. Era come se lei non stesse aspettando che la morte, per poter raggiungere Tijorn. Non mi piacevano quei discorsi. Il giorno dopo, andai a parlare con Dae. Akita voleva che fosse lei a fare da levatrice. Si fidava molto della vecchia elfa. Lei acconsentì, e si trasferì, per quelle ultime settimane, accanto a noi, chiedendo umilmente a Nemys il permesso, cosa che lei fu ben felice di dare. Il tempo previsto era agli sgoccioli. Prese a fare molto più freddo. Passarono così un paio di settimane. Una sera, nel mio scrittoio, mentre ero quasi pronta per decidere di andare a letto, sentii qualcuno bussare spasmodicamente alla porta che collegava alla stanza da letto la stanza in cui, come sempre, mi dedicavo ai documenti quotidiani. Ero divenuta una sorta di consigliera di Nemys, e quel compito mi toccava. Tuttavia, capii immediatamente qual era la ragione di tutta quella fretta, schizzai ad aprire, con il cuore in gola. Mi ritrovai, come un pensiero improvviso mi aveva detto, di fronte Akita, una strana espressione sul volto, leggermente curva. Oh oh. Mi sentii sbiancare. Ebbi l’impressione che, tra poco, avrei conosciuto il mio nipotino. Mi assalì, immediata, l’ansia, un’ansia che mi rese stranamente limpida. Io ed Akita ci guardammo. “Dae, eh?”. Dissi, con una strana voce acuta. Mi sentii terribilmente nervosa. Lei sorrise, ed annuì, mentre il lieve sorriso si stirava in una smorfia terribile di dolore. Agii in un lampo. Sapevo perfettamente cosa fare. Feci stendere Akita, aiutandola nonostante fossi molto più bassa di lei, e poi corsi dalla vecchia elfa, che mi raggiunse in un attimo. Mentre lei preparava il tutto, io raggiunsi la guardia notturna. Le chiesi di avvisare l’intero gruppo. Lui obbedì, scattando. Poi tornai da Akita, e le strinsi forte la mano. Lei m’implorò di non lasciarla, perché aveva una gran fifa. Ben presto, tutto fu pronto per accogliere il nuovo arrivato. Tutto precipitò con incredibile rapidità, com’era successo con Tijorn. Mi toccò sopportare le urla tremende di Akita, rese ancor più strazianti dal fatto che, tra i singhiozzi, lei chiamasse Tijorn, il suo compagno, chiedendogli perché lui non fosse lì con lei. Odio ricordare quei momenti. Sembrava che quei  cinque mesi di apatia si stessero tutti scaricando in quel momento. Era terribile dover ascoltarla, dovere tranquillizzarla. Me lo chiedevo anch’io. Perché Tijorn non era lì? Perché non era lì a vedere il suo piccino nascere? Era tormentoso, orribile. Non amo ricordare quei momenti, anche per un’altra cosa. Ciò che successe fu del tutto inaspettato, e perciò molto più doloroso. Non ebbi nemmeno il tempo di prepararmi. Finalmente, alle implorazioni terribili di Akita, si sommò, ad un certo punto, a notte fonda, ormai, un pianto vigoroso, un po’ arrabbiato. Eccolo lì, il piccolo diavolo. Sembrava già volersi affermare, il frugoletto. Sorrisi, lasciandomi avvolgere da un’incredibile gioia. Tijorn, guardaci. Guarda il tuo bambino. Tutto era stato piuttosto rapido. Io, per fare nascere quella maledetta di Roxen, che se l’era presa comoda, ci avevo impiegato un giorno intero, ed avevo sofferto in un modo assurdo. Lei se l’era cavata con qualche ora di pena. Io ed Akita ci guardammo. La mia amica era crollata, esausta, sui cuscini che le avevo messo, ed ora mi guardava con gli occhi socchiusi ed un vago sorriso soddisfatto. “ce l’ho fatta…”. Sussurrò, quasi a se stessa, tronfia. Poi chiuse gli occhi. Io scossi il capo divertita. “e cosa, ne dubitavi?”. Domandai, lasciandomi prendere da un senso di leggerezza. Era nato, il piccolo Machin. Non c’era più nulla da temere. Akita non mi rispose, e scosse il capo. Poverina. Doveva essere distrutta. Quasi subito, quel pianto si era calmato, sostituito da un lamento sommesso. Dae, tenendo quel fagottino in braccio, avvolto in un panno bianco, ci guardò. “è un bel maschietto”. Annunciò, sorridendo. Sorrisi anch’io, di nuovo. Era bello sapere che la vita continuava, ancora. Era davvero bello. La levatrice, indaffarata, si avvicinò al capezzale della nuova madre, e le porse il fagottino. Ebbi un improvviso lampo di un ciuffo rado e sparato in aria di capelli chiari. Peccato. Il colore di Tijorn era andato perduto. Doveva avere il colore di Akita, forse, ma ancora non si capiva. Ero curiosa, davvero. Com’era il mio nipotino? Non vedevo l’ora di fissarlo in faccia, di vederlo insieme alla madre, di vedere Akita sorridere di nuovo. Invece successe una cosa stranissima. L’elfa scosse il capo, socchiudendo gli occhi, priva di ogni forza. “no”. Sussurrò, con una voce sottilissima. Io e Dae ci guardammo, interdette. Non mi piacque quel fatto. Non era da lei. “dallo prima…dallo prima a Lsyn…”. Sobbalzai, presa completamente di sorpresa. Cosa? Io, la prima? Voleva da me quest’onore? Fui zittita da un’occhiataccia della balia, era quello il suo volere. Lei voleva così, e non era salutare dirle di no. Così, presi con delicatezza quel piccolo fagotto, che già prometteva di diventare alto, sotto lo sguardo attento della balia. Dimenticammo per un attimo Akita, grande errore. Mi sentii travolgere da un’ondata di emozione. Machin. Ciao, piccolo. Ero la zia. La prima ad avere l’onore di prenderlo in braccio, di stringerlo a sé. Lo guardai, presa da una felicità immensa. Akita mi aveva fatto un grande regalo. La mia vita era piena, ora, e completa. Il figlio di Tijorn, tanto amato, protetto ed atteso, era lì. Lo guardai. Era tutto rosso, ed aveva gli occhi chiusi, i lineamenti contratti, ma già vedevo quanto assomigliasse ad entrambi i genitori. Mi sentii incantata. Lì c’era Tijorn. Era lì con noi. “non ha il tuo naso, Akita…”. Dissi, scherzosa, senza staccare lo sguardo dal piccolo, incantata dal suo visino delicato. Non ebbi risposta. Mi sentii travolgere da una strana ondata di freddo. “Akita?”. Sussurrai, alzando lo sguardo. Sentii Dae imprecare, e tirare il fiato. Qualcosa, in me, si ruppe. Di nuovo, quel vecchio panico. Capii in un attimo perché lei aveva voluto che fossi io la prima a tenere Machin. Perché quello che sicuramente stava sperando da giorni, da mesi, che aveva progettato da tempo, che aveva sperato, era accaduto. Akita aveva finalmente raggiunto il suo amato Tijorn. Era morta, morta dopo aver dato alla luce il suo piccolo, che tanto aveva desiderato proteggere. Non c’era più nulla da fare. Mi sentii terribilmente male. Non poteva avermi lasciato anche lei!

 

 

Augurando velocemente a tutti un magnifico anno nuovo, perché non ho tempo, vi faccio una piccola precisazione:

*non sapevo che “machin” fosse un sostantivo francese. Ha più o meno la valenza di “coso”  “affare” in italiano. Non ridete di me. È che mi piaceva ç__ç

Con l’augurio a tutti, specialmente a chi legge e commenta, di un buon anno nuovo, vi lascio xD

All’anno prossimo xD

Akita.

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Capitolo 85
*** Machin. ***


Salve a tutti, belli e brutti

Salve a tutti, belli e brutti!

Bene. Faccio una piccolissima nota:

tutti i morti che ci sono stati finora, e che ci saranno ancora (questo lo dico per avvisarvi), sono stati pensati fin dal primo momento così. So quanto possa dare fastidio, e far sembrare le Memorie una puntata speciale di cronaca nera, ma, detto sinceramente, è meglio così.

Non sarebbe stato lo stesso, ed avrei infranto i miei principi, se avessi fatto sopravvivere anche uno solo di loro.

Sono un po’ come Eiron. Carne già morta. È orrendo dirlo così, ne sono cosciente, ma è quello che penso. Non riesco ad immaginarmi le Memorie con Tijorn, Akita e Machin, uniti insieme come una famigliola felice, Lsyn a presiedere il tutto come una dea soddisfatta.

Non mi piace, ed ha del ridicolo. Si: non sono fatta per i finali completamente allegri.

Ma confortatevi: questo non è che il primo di tre. Già nel prossimo ci saranno meno schiattati, promesso xD

Devo solo finire di mattare una, di cui qualcuno già sa la fine...poi l’elenco è finito ò_O

Ecco, ho detto quello che volevo dire. È che mi premeva xD

Passo velocemente ai saluti:

un saluto e tanti baci ai miei fedelissimi, Carlos Olivera e Selly. Come farei senza i vostri commenti, le vostre idee, le vostre sgridate che mi divertono tanto? =P

grazie alle 9 persone che hanno inserito la storia nei preferiti. Non so se la stiano leggendo, ed in caso contrario un po’ me ne duole, ma vi ringrazio lo stesso. Vedere questa storia accettata mi fa felice. Ma un commentino, ogni tanto, giusto per segnalare la vostra presenza ed i vostri pensieri, no?

Vabbè xD

Un altro saluto a chi legge, solamente. Mi farebbe piacere sentire le vostre opinioni. I commenti esistono per scriverli, e le storie per essere commentate =P

Augurandovi buon divertimento con quest’ennesimo capitolo leggero e divertente, che non ho avuto la forza di continuare fin dove dovevo, colpa mal di testa, vi lascio.

A domani!

Akita

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Non ci fu nulla da fare. Per quando Dae si sforzasse, per quanto tutti facessero del loro meglio per riprenderla dalla tomba, Akita non ce la fece. Uccisa da un’emorragia interna, a quanto pare, causatale dalla posizione del piccolo Machin. Bugie, incanti da Guaritore. Io non ero d’accordo con loro, né lo sono tuttora. E’ molto più probabile che, dalla morte di Tijorn, della mia dolce amica, che tanto aveva sofferto negli ultimi mesi,  non fosse rimasto che il corpo, che la vitalità si conservasse per pura inerzia, per una sorta di amore materno. La fine del suo compagno aveva sancito anche la sua: della mia amica era rimasto nulla fuorché l’involucro. Quella che aveva vegetato fino a quel momento non era Akita, né lo era mai stata. Ciò che rimaneva di lei aveva solo atteso la nascita di Machin, la nascita di quel bambino che portava in sé una parte di mio fratello, quel piccolo che già sentivo di amare come se fossi la madre, e forse anche di più, un amore feroce, protettivo, da mamma orsa, quell’infante che Tijorn aveva cercato di proteggere con la sua vita, per poi andarsene. Era strano pensarlo. Akita se n’era andata. Andarsene, volare via, raggiungere il suo caro amore, stare con lui per sempre, stavolta, nell’oblio, nel buio, o altrove. Non era più sola. Tra tutte, tra tutte le disgrazie che mi hanno inflitto, questa è stata davvero la morte che ho accettato di più, anche se non se ne andrà mai l’amarezza per mio nipote, per il fatto che sia rimasto orfano senza nemmeno poter ricevere una carezza da parte dei suoi genitori, elfi grandi, dal cuore d’oro, leggende ormai di famiglia, questa nostra famiglia sgangherata, dove nessuno è realmente parente di nessuno, o almeno nessuno è quello che si pensa sia. Una zia che non lo è davvero, o è la madre di quella che il mondo reputa sua nipote, la cosa più terribile, per me, da sopportare. Vorrei parlare a Roxen, ma so di non potere. Forse quando sarà grande, rivelerò a lei ed a Chekaril la realtà delle cose. Ma che per ora mi pensino la loro dolce zia, venuta a salvarli da una condizione orribile, dall’essere rimasti orfani. Zii e zie che spuntano dovunque, come funghi. E pensare che Machin chiama zio Zipherias. Immaginare quel piccolo chiaro di pelle, occhi e capelli, delicato e scapestrato, imparentato con quel gigante scuro, calmo fino all’inverosimile, mi fa quasi ridere. Ma davvero: tra tutte, la morte di Akita è quella che comprendo di più, quella che ho sempre capito. Lei mi fa tuttora una grandissima pena. Povera mia sfortunata, perseguitata fino alla fine. Mai un attimo di felicità, per lei. La capisco. Isnark, con il suo cinismo di fabbricazione recente, qualche volta mi fa notare che il suo comportamento ha avuto dell’egoista. Mi ha sbolognato un marmocchio, l’ennesimo che avrei dovuto allevare, un altro cucciolo al mio nutrito branco, e nemmeno l’ultimo, senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo in viso, senza nemmeno abbracciarlo. Quando fa queste considerazioni di solito lo caccio di casa, un paio di volte a calci. Non deve permettersi di giudicare la mia Akita così, la mia sfortunata Akita. Io la capisco. Dopo una vita di sfortune, dopo un’infanzia orribile, dopo un’intera esistenza in cui era stata un po’ messa da parte, un po’ fraintesa, un po’ odiata, un po’ sfruttata, aveva trovato la sua pace in un elfo che era morto per lei. Un elfo che l’aveva amata silenziosamente per anni, secoli, dal primo momento in cui l’aveva vista, un elfo che, nei loro brevi momenti di pace, l’aveva sicuramente fatta sentire speciale, unica, adorata. Com’era fatto Tijorn, scommettevo che avesse fatto i salti mortali, per lei. E tutto quello le era stato portato via.  Se solo fossi stata al suo posto, penso che avrei fatto la stessa cosa anch’io. Avevo o non avevo cercato il suicidio dopo aver ammazzato l’elfo che amavo tanto? Ma, quando vidi Akita lì, fredda, immobile, incosciente, in braccio quel fagottino che si agitava debolmente, che lei mi aveva messo tra le braccia, provai ben altre sensazioni. Alla disperazione assoluta che seguì, quella disperazione che mi fece uscire dalla camera che condividevamo, noi povere elfe sole, come una sonnambula, annunciando la notizia, guardando fisso un punto avanti a me, si aggiunse un altro sentimento. Attaccamento, l’attaccamento irresistibile e materno, che provavo verso Machin. Io ero stata la prima a prenderlo in braccio dopo Dae. Io avevo avuto quell’onore, precedendo addirittura Akita, che aveva spirato prima ancora di vedere suo figlio in viso. Io, io, solo io. Io avevo giurato di proteggerlo da tutto, in una serata gelida, mentre la madre guardava la neve cadere, quella neve che permeava Kyradon come una fredda coperta. Io ero, insieme ad Amarto, ciò che rimaneva del passato di Tijorn, del padre di quel piccino, quel fratello che mi avrebbe per sempre ossessionata. Io avrei dovuto fare le veci della madre, del padre, io ero la prima ad averlo stretto a me, ad averlo salutato. Era un feroce senso materno, il mio, esclusivo e possessivo, diffidente e pieno d’amore. A me andava quell’onore. Ero io a dover proteggere Machin, la luce dei miei occhi. Solo io. E fu per quello, per quell’esatto motivo, che, quando tutta la brigata presente lì, davvero tutti, si alzarono di scatto, stupefatti ed addolorati, cercando di abbracciarmi, di prendermi, mentre Nemys cercava di togliermi il piccolo dalle braccia, che io reagii in un modo che penso nessuno si dimenticherà. Mi ritirai, aspra, divincolandomi, guardando la mia Rinnegata come se fosse il peggior nemico della mia vita, rintanandomi in un angolo e guardando tutti con astio, mentre il piccino cominciava, spaventato dal clamore, a lamentarsi di nuovo. Akita aveva voluto fossi io a fargli da madre. Io, e nessun altro. Io ero stata a prenderlo in braccio, ad accoglierlo al mondo. Nel corridoio dove si erano assiepati tutti del mio gruppetto, infanti esclusi, calò un silenzio gelido, rotto solamente dal pianto del mio nipotino, quel nipotino per cui ero divenuta Ch’argon. Mi lasciai sfuggire un ringhio sommesso, un avvertimento irrazionale, prima di cominciare a cullare distrattamente quel fagotto che avevo in braccio, quel fagottino caldo e vivo, quella parte di Tijorn e di Akita che non intendevo mollare per nulla al mondo, fissando ancora tutti, a turno. Nemys e Isnark si cambiarono una strana occhiata, e le labbra del Principe sbiancarono, mentre lui le ritirava in una smorfia di disapprovazione, mentre la Rinnegata non sapeva assolutamente che fare. Capouille e Zipherias si erano scambiati un’occhiata terrorizzata, e mi guardavano con enorme apprensione. Benagi, sotto la pelle scura, era divenuto di uno spiacevole color marroncino, e teneva saldamente la spalla di Amarto, che aveva una mano tra i capelli, ed era l’unico a sembrare addolorato per la cara elfa che aveva perso la vita lì dentro. Per un momento, mi sentii perduta. Ero io, io e solo io, io a dover fronteggiare tutte quelle persone, che tutto mi volevano, tranne che bene. Ero rimasta sola, ero sola, perduta nel buio, vuoto abisso della mia stessa disperazione. Avevo solo quel piccolo cosino, quel piccolo cosino ed i bambini che stavano sicuramente dormendo. Ero io la sola a poter proteggere e curare Machin. Per un momento, sentii le lacrime pizzicarmi gli angoli degli occhi. Ma poi la solita fierezza m’impedì di esternare così i miei pensieri. A quel lutto non reagii, in un primo momento, con l’abbandono doloroso che mi aveva afferrato nel momento in cui il mio stupidone aveva smesso di respirare. La morte di Tijorn aveva indurito anche il mio cuore. Dopo quella sofferenza, tutte quelle mi sembravano relative, pesi che non facevano altro che aggiungersi a quel grande macigno che pesava sul mio cuore. Dopo l’iniziale momento di sgomento, Nemys stava già cominciando a riprendersi. Il suo volto si distese in un sorriso triste, tremulo, mentre negli occhi le guizzava una strana angoscia. Giudicai quel comportamento come una reazione alla perdita. Era vero, era anche quello, ma, più che altro, la Matriarca aveva altri pensieri per la testa, ben peggiori. Con la voce malferma, Nemys mi parlò, con strana dolcezza cauta. “Lsyn, tesoro mio…”. Disse, allungando con cautela le braccia verso di me, ed il bambino. Io mi addossai ancora di più al muro, una smorfia d’odio in viso, quell’odio nuovo nei suoi confronti, che mi scorreva nelle vene, amaro come veleno. Quell’odio tremendo misto alla rabbia più pura. Rabbia nei miei confronti, per me, che non ero riuscita a salvare anche la mia cara amica, che se n’era andata, lasciandomi sola con quel piccino, rabbia per il destino che, in qualche modo, sembrava avercela molto con me. Machin era la mia sola luce. Mi aggrappavo a lui, come avevo fatto con i miei amici, cercando un conforto in quella figura di neonato, che cullavo, e che stava cominciando ad addormentarsi. Quel neonato ancora non esattamente pulito, infagottato in una coperta tenuta tiepida per lui, affamato sicuramente. Già. Io non potevo nutrirlo. C’era bisogno di qualcuno. Dovevo pensare a quello. Se solo mi avessero lasciata in pace, l’avrei fatto subito. Avrei trascinato qualche giovane nutrice da me, promettendole quel lauto compenso che potevo darle, in cambio di un amore incondizionato per il cucciolo che le stavo per affidare, per un tempo brevissimo, e sempre in mia presenza, perché non mi sarei fidata di lei per nulla al mondo. solo che ero assediata da quelli che si professavano miei amici. Erano tutti molto più alti di me, e con la loro mole, mi soffocavano. Fissai così Nemys con odio malcelato. Lei non distolse lo sguardo dal mio. Vi lessi grandissimo dolore, in quegli occhi chiari, un dolore difficilmente esprimibile a parole. Lei continuò a parlare con voce più sottile, con atteggiamento rassicurante, tentando di essere la roccia a cui spesso mi ero aggrappata nei mesi passati. Ma non riuscivo, in quel momento, a pensare al suo conforto. I miei pensieri erano proiettati in due parti. In quella camera da letto, dove piangevo per la scomparsa dell’amata di mio fratello, che avevo giurato di proteggere da tutto, e lì, dove dormiva quel piccino. Lei cercò di essere dolcissima, una guida, invano. Nulla poteva contro quella che ero divenuta, stravolta dal dolore, trasformato in oscuro senso di protezione “coraggio, ragnetto mio….il bambino ha bisogno di essere lavato, su… bisogna trovare una nutrice…perché non me lo dai in braccio, così ti riposi? Magari puoi andare a dormire da Roxen ed i piccoli…hai un’aria così stanca e sconvolta, che…”. Io la interruppi con un’occhiata di fuoco. Non doveva permettersi di toccare il mio nipotino. Non lei. Lei non aveva dovuto sentire quello che avevo udito io, quelle suppliche terribili uscite dalla bocca di Akita. Lei non aveva dovuto assistere alla morte di un altro pezzo della propria esistenza. Lei non conosceva la forza dell’amore materno, no. Lo conosceva solo attraverso me, solo attraverso quello che avevamo provato nei brevi mesi con Roxen. Non l’aveva mai sperimentato davvero di persona. Era sempre rimasta rintanata lì, in un luogo recondito del mio spirito, o in quel posto, soffrendo per uno stupido ideale. Non pensavo davvero quelle cose, ma gliele dissi. Oh, si che parlai. Non penso che ci fu un altro momento in cui la ferii di più. Stringendo a me Machin, godendo del suo tepore, della sua materialità, il lumicino che m’impediva di precipitare nel vuoto, parlai. Le mie parole furono amare, sarcastiche, venate di sottilissimo disprezzo, e di un’evidente disperazione, che mi aveva sconvolto l’anima, che quasi m stava facendo impazzire, stava annientando quello che rimaneva di me, facendomi divenire la larva che sono. “tutto questo lo faccio io”. Quasi sputai, guardando la Rinnegata con una tale carica d’odio che lei ritirò le mani, ed indietreggiò fino ad Isnark, che, silenziosamente, pose una mano sul pomo della spada, pronto ad intervenire se solo l’avessi attaccata. Poveri stupidi. Capouille fece un passo verso di me, ma fu frenato di Zipherias. Entrambi mi fissavano con immenso dolore, anche se il secondo non mi compativa. “tutto questo lo faccio io, e tu non me lo puoi impedire… vai ad occuparti degli urgenti affari del Matriarcato, vai, che è l’unica cosa che sai fare bene, tu…occupati degli altri, quel popolo che ti ama, quel popolo da cui ti nascondi come un coniglio impaurito, e lascia fare a me la zia. Non immischiarti nei miei affari. Machin è mio”. Di nuovo, il silenzio. L’odio traboccava in me, fuoriusciva da me in ondate tremende. Nemys sembrò più che mai ferita. Un paio di lacrime le scesero sul volto candido. Sapevo di averla ferita enormemente. Ma io non capivo. Non capivo, anche se tuttora vorrei mangiarmi le mani per quello che dissi. Ero troppo sconvolta dal dolore. Non volevo essere toccata. Non volevo essere compatita. La mia dolcissima Rinnegata, mordendosi le labbra, fece un passo verso di me, di nuovo. Eh, no. Non doveva toccarmi. Le voleva rubarmi il mio piccolo nipotino. Io mi ritirai ulteriormente, e ringhiai. Ma già all’odio si stava sostituendo il dolore. Avevo perso Akita. Era morta. Mi rimanevano solo loro. “vattene!”. Quasi urlai, con una voce che, mio malgrado, stava cominciando ad incrinarsi. Nemys, ora decisa, fece un altro passo. Mi sentii, d’improvviso, prendere da un dolore senza confini, un affetto irrazionale. Un lampo di ragione. Mi stavo comportando come una stupida. Stavo facendo del male a tutti, Machin compreso, ma soprattutto a Nemys. Nemys, che si era fidata di me, che mi aveva accolto a braccia aperte, che tante volte mi aveva coccolata, rimproverata, dolce e gentile, come la brezza, solenne come una montagna innevata. Perché stavo diffidando di lei? Cosa mi aveva fatto? Perché dovevo ferirla in quel modo? Tremai, ed il piccino cominciò a lamentarsi. Oh, piccolo Machin. Con quello stupido attaccamento gli stavo facendo del male, molto del male. Aveva bisogno di mangiare, essere pulito, dormire. Tutte cose che, nella nebbia del mio dolore, gli stavo negando. Non reagii, perciò, quando Nemys fece un altro passo. Tentai di nuovo di ritirarmi, mentre si formava di nuovo un groppo alla gola. Cominciai a vedere tutto offuscato da quelle lacrime che stavo tentando di frenare. “vattene…”. Mormorai, con voce liquida, tremante. Povera Akita. Poveri tutti. Perché il destino ce l’aveva tanto con noi? Cosa avevamo fatto di così male? Eppure, tutto quello che volevamo era vivere. Solo vivere. Quello era il premio di una volontà così umile. Deglutii quando lei tese di nuovo le braccia, avvicinandosi con un sorriso rassicurante, senza essersela, apparentemente, presa. Nemys. Lei era il mio porto sicuro, la mia ancora nella tempesta, il falò nella neve. Io l’avevo ferita, non avevo saputo fare altro che quello. Non sapevo far altro che quello. Ferire, tagliare, uccidere, odiare. Mi tremò il labbro inferiore. Non mi mossi quando lei mi sfilò il mio nipotino dalle braccia, prendendolo come se fosse una reliquia preziosa, e girandosi verso qualcuno, probabilmente uno dei miei amici. Mi sentii abbandonata, di nuovo. Completamente sola. Machin non era mio. Non lo sarebbe mai stato, d’altronde. Io non ero sua madre. Sentii un dolore straziante al livello del cuore. Tijorn non c’era. Non c’era, per guidarmi, per aiutarmi. Ero sola. Completamente sola. “Capouille, portalo da Dae, dentro, e fallo lavare”. Disse Nemys, ordinando, perentoria, ancora una traccia di turbamento della voce, tornata la sovrana di sempre. Abbassai il viso, e mi accoccolai lì, in quell’angolo, posando le spalle contro il muro. Qualcuno mi stava ancora guardando. Zipherias, sicuramente, con chissà che espressione, Benagi, e forse anche Isnark, che mi odiava a morte. Sentii di nuovo il gelo, quel freddo immenso che mi aveva afferrata alla morte di Tijorn. Ignorata, negletta, come una cosa rotta, cominciai a tremare. Ascoltai quelle parole perentorie con un groppo in gola, e le lacrime che ancora minacciavano di sgorgare. Nessuno mi toccava, nessuno faceva caso a me. Ero sola, sola in mezzo ad estranei. “dille anche che quando ha finito deve portarlo a fianco. Poi corri al Lazzaretto, e cerca una delle nutrici. Voi altri cominciate a…ad organizzare per la veglia. A lei ci penso io”. Che brutte parole. Un’altra veglia. Un altro funerale. Non avrei partecipato. Già ora non riuscivo più a tenermi in piedi. Non avrei sopportato di vedere altre fiamme lambire la carne. Sarebbe stato troppo, per me. Per chissà quanto, rimasi in silenzio. Mormorii, un singhiozzo soffocato, rumore di passi rapidi. Per un tempo infinito, rimasi sola, lì, spalle al muro, sull’orlo delle lacrime. Vuoto. Buio. Freddo. Di nuovo quelle odiose sensazioni, che mi avevano perseguitata alla morte di Tijorn. Non c’era nulla in grado di salvarmi. Nulla. Ero destinata ad essere annientata dall’odio come sempre. Ad un certo punto. Sentii, a testa bassa, uno spostamento d’aria, e mi contrassi. Non so perché, ma ricordai Lainay, ancora una volta, ed i suoi schiaffi tremendi, quando io non obbedivo ad un suo ordine. Immaginai che Nemys, finalmente, mi volesse donare almeno un buffetto. Io lo meritavo. Come al solito, lei non si permise nulla del genere. Quel ricordo mi ossessionerà per sempre. Il riflesso di ritirarmi ad ogni movimento brusco mi rimarrà, ennesima cicatrice lasciatami da quella maledetta. Non penso se ne andrà mai. Ad un certo punto, ancora tremante, infreddolita ed addolorata, sentii un abbraccio avvolgente, delle dolci carezze. Mi avvolse un bel profumo, di fiori, cannella e neve, il profumo di Nemys. Dopo tutte quelle parole cattive, dopo quella rabbia che le avevo scaricato ingiustamente addosso, tutto quell’astio, lei mi abbracciava. Si permetteva di abbracciarmi, come se nulla fosse accaduto. A me, l’anima sporca, la creatura più orribile, disgustosa, meschina dell’universo intero. Io davvero non la meritavo, per quanto cercassi di espiare la mia colpa. Io non meritavo nessuno di quelli che mi stavano accanto. Non riuscii a reggere altro. Scoppiai in lacrime, lasciando libero sfogo alla mia disperazione, aggrappandomi a lei come una bambina, tremando come se fossi nuda in mezzo ad una tempesta di neve.

Quando mi calmai un poco, quando il dolore acuto si trasformò in una sorta di accettazione vaga, mi ritrovai nella stanza da letto che nelle ultime settimane era stata di Dae. Nemys, dopo avere cercato inutilmente di confortarmi, mi aveva trascinata lì dentro, facendomi sedere su una sedia vicino al fuoco, visto che tremavo come se fossi sotto chissà quale effetto, e mi aveva avvolta in una coperta, continuando a tenermi stretta, come per non lasciarmi andare. Il tremito non si era calmato. Avevo un freddo terribile, un freddo che non veniva dal corpo, ed era come se avessi la febbre. Una febbre dello spirito, che non si poteva curare. Volevo Machin. Volevo il mio piccolo nipotino. Non sopportavo quel vuoto tra le mie braccia. La mia Rinnegata si era preoccupata, moltissimo. Quando Capouille era tornato, accompagnato da una giovane elfa, chiamata Quais, l’aveva subito rimandato indietro, a chiamare il primo Guaritore che gli fosse capitato sottomano. Era preoccupata per me, glielo si leggeva in faccia. Aveva quindi mandato la giovane dai capelli chiari dentro, da Dae, ed avevamo aspettato. Io tremavo al punto tale da far tintinnare i denti. Ero incredibilmente vuota. Stavo malissimo. Dov’era, Tijorn? Dov’era, Akita? Perché tutti mi avevano lasciata sola, a fare qualcosa che non sarei riuscita a fare? Perché mi avevano lasciata a fare da guida, io, che non sapevo nemmeno guidare me stessa? Dovetti frenare il pianto, quel pianto che da poco si era calmato. Le me lacrime sembravano infinite. “perché tutti mi hanno lasciata sola?”. Chiesi, al vuoto, o forse a Nemys, con una voce lamentosa che non era la mia, cercando di non piangere. Lei non rispose, e si limitò ad accarezzarmi i capelli, lisci come li portavo ormai più spesso. Sorrise, un sorriso tutt’altro che allegro, e poi si alzò. Il Guaritore, un elfo anziano che non avevo mai visto, venne poco dopo. La visita fu molto rapida. Ero solo in stato confusionale, e presto sarei tornata normale. No, non potevo prendere nulla, nessuno sonnifero per aiutarmi a superare quell’ennesimo trauma. Rischiavo di esserne assuefatta: dovevo superare tutto da sola. Dopo che il vecchio se ne fu andato, Nemys, dopo essere sparita per un po’, mi fece stendere sul letto. Mi coprì con delle coperte, e si sedette a fianco. Cominciò a parlarmi, parlarmi, non fare altro che parlarmi. Cominciò a ricordarmi della nostra infanzia, dolci ricordi comuni, cominciò a dire che sarebbero sempre stati tutti con me, nei miei ricordi, e che lì li avrei trovati sempre, impossibili da uccidere, cominciò ad accarezzarmi il viso dicendo che no, non se l’era presa, che era giusto fossi così addolorata, era giusto. Sembrava stranamente turbata quando diceva quelle cose, mentre mi confortava, come se avesse qualcosa di nascosto da mantenere, da non potermi dire, ma morendo dalla voglia di parlare. La mia Rinnegata era preziosa. Sapeva esattamente cosa mi stesse passando per la testa, e sapeva come porvi rimedio. A poco a poco, il tremito si calmò. Cominciai a sentirmi meglio, molto più lucida. Alla disperazione per il mio lutto, si sostituì la voglia di rivedere mio nipote. Era per lui che avevo penato, era per lui che era successo tutto quello, era per lui che vivevo. Cominciai ad essere insistente, fare domande su domande, mettere Machin in ogni pensiero, in ogni parola. Cercai anche di alzarmi, ma fui bloccata. Dopo un po’, Nemys, esasperata, andò per un attimo fuori. Rimasi ad attenderla, ansiosa. Non volevo essere lasciata sola. In solitudine, tutti i fantasmi tornavano, insistenti, e mi sentivo di nuovo male. Per fortuna, quella parentesi di disperazione fu brevissima. Non appena vidi la mia Rinnegata tornare, alle calcagna la guardinga Dae, che mi guardò con compassione, e la spaventata Quais, in braccio un bel fagottino di coperte, mi sentii balzare il cuore in gola. Mi sarei alzata di scatto, se solo lei non mi avesse fulminato con uno sguardo ammonitore. Machin. Eccolo lì, il mio dolce e piccolo nipote. Sentii un’ondata di enorme affetto farsi strada in me. Sulle mie labbra comparve un piccolo sorriso, e vidi il volto pallido e corrucciato della mia amica distendersi. Già. La vita continuava. In un modo o nell’altro, Tijorn ed Akita erano sempre con me. Sarebbero rimasti insieme, loro che avevano dato la vita per lui, in quel piccolo, mescolati ad art. mi avvolse un certo calore, e la trepidazione. Il gelo che avevo provato scomparve del tutto. Quasi non mi sentivo più sola. C’era Machin con me. Ed anche Nemys. Nemys, che mi capiva come nessuno nella mia vita, perché era me stessa. “eccolo qui, il mascalzone…”. Disse, con affetto, la Rinnegata, sedendosi al mio fianco, sul letto, guardando il piccolo con amore, ed una certa aria di aspettativa dolente. Nel brodo di giuggiole in cui ero affondata nel vedere quel piccolo, trovai strano quel comportamento, ma non ci badai più di tanto. Probabilmente, la Rinnegata si stava chiedendo perché quel piccino dovesse soffrire già della perdita dei genitori, e che non fosse una cosa giusta. Ero d’accordo, anche se non potevamo farci nulla. Il destino sembrava arridere, come sempre, a quelli che la massa crede malvagi. Cancellai presto quei pensieri. C’era solo mio nipote, solo lui, ora. Avrei fatto di tutto per proteggerlo. Di tutto. Magari, quando sarebbe stato abbastanza grande, l’avrei portato a Sharilar con tutti i piccoli, per fargli fare una vita serena. Non meritava di soffrire, lui. Avrei cercato di rimediare alla mancanza di Tijorn ed Akita sommergendolo d’affetto. Avrei cercato l’aiuto di Amarto per farlo divenire un elfo sano, perfetto, felice. Gli avrei dato tutto quello che io non avevo avuto. Libertà, amore, libero arbitrio. Tutto quello per cui i genitori avevano lottato. Sarebbe divenuto un elfo bravissimo, con tutte le doti dei genitori. L’avrei allevato come se fosse stato mio figlio. E tale lo sentivo. Quasi subito, Nemys, ancora sorridendo mestamente, mi mise il piccino in bracci. Per un attimo, fui soffocata dall’emozione. Il mio piccolo nipotino. Piccolo mio. Lo guardai. Sotto la coperta che lo avvolgeva, proteggendolo dal freddo intenso della notte invernale, era vestito di un abito che avevano scovato chissà dove, di lana gialla, che gli andava un poco piccolo. Era davvero un bel neonato, lo ammettevo. Davvero un bellissimo neonato. Non assomigliava ad una ranocchia come era Roxen appena nata. Aveva solo un ciuffo di primi capelli, quei capelli che sarebbero spariti presto, di, già si vedeva, uno strano colore, un biondo che riluceva di riflessi rossastri ed aranciati, forse un po’ più chiaro di quello di Akita. Nel viso si potevano già scorgere i lineamenti di entrambi i genitori, mescolati in un modo davvero interessante. Li vedevo, vedevo la linea decisa ma delicata della mascella di Tijorn, gli zigomi alti e signorili di Akita, e tanti altri piccoli particolari. Ancora non si vedeva bene, ma mi sembrava che avesse preso davvero molto dal padre. Le sembianze della madre erano solo accennate, andando a compensare lì dove Tijorn aveva avuto difetti. Il mio piccolo paffuto stava sonnecchiando, soddisfatto. “farà strage di elfette, lui…”. Mormorai, con uno strano tono querulo di voce, un tono che avrei giudicato irritante, se solo non fossi così immersa nella contemplazione di quel minuscolo tesoro, di quella piccola candela di speranza. Gli sfiorai la guancia, con un dito, una carezza leggera , di cui lui non s’avvide. Non intendevo svegliarlo. “il mio piccolo Machin…non è vero, eh, che sei bellissimo? Ha preso tutto dal papà…eh, si. Te lo dice la zia!”. Dei. Mi stavo comportando come una mamma chioccia. Se solo fossero stati lì, Tijorn ed Akita avrebbero ironizzato molto su quel fatto. Mio fratello avrebbe bofonchiato qualcosa. La mia amica avrebbe candidamente tradotto, con un sorriso ironico, dicendo che sembravo una cretina. Quasi potevo sentirli, sentire le loro voci  nella mia testa. Si: loro non mi avrebbero mai abbandonata. Sarei rimasta per sempre con loro, presenze silenziosi, ma sempre lo stesso presenti., con un sorriso dolce, guardai Nemys. Mi fissava, più rilassata, ma ugualmente triste. Lei si costrinse a ricambiare il mio sorriso, poi socchiuse gli occhi. Davvero, sembrava turbata per qualcosa. Al momento non ci feci caso. Ero troppo incantata da Machin. Così, pian piano, avvolgendo con un lembo della coperta che avevo indosso anche il piccolo, coprendolo ancora di più, temendo che prendesse freddo, mi alzai dal letto, senza che nessuno mi ostacolasse. Forse, si, potevo vivere. Avevo un motivo, in fondo. In punta di piedi, mi avvicinai al camino acceso, e mi sedetti sulla sedia che era lì vicino. Machin non doveva prendere freddo. Il mio nipotino sarebbe stato protetto da ogni sventura. E poco importava che per proteggerlo mi sarei dovuta sacrificare io.

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Capitolo 86
*** La realtà delle cose. ***


Per qualche giorno non riuscii a muovermi da lì, da quella stanza

Per qualche giorno non riuscii a muovermi da lì, da quella stanza. Praticamente non uscii. Non avevo ancora il coraggio per tornare nella mia camera, la camera che per tanti mesi avevo condiviso con Akita, che era morta nel mio letto, tra l’altro, non sentivo ancora la forza per farlo. Rimasi con Dae, Quais ed il bambino nella stanza della balia, coccolandolo, vezzeggiandolo, facendo di tutto per non farlo sentire orfano e solo. C’innamorammo di quel galletto pestifero, che c’illuminò piacevolmente la vita. Io ero completamente innamorata di lui, il mio piccino. Già facevo progetti, m’immaginavo di crescerlo, di tenerlo con me, di parlargli. Mi sembrava una grande promessa di speranza futura, un incitamento ad andare avanti, a dire che la vita continuava. E che vita. Quel marmocchio era sempre tra le braccia di qualcuno, quel mio piccolo sole, il mio sole in erba. I primi due o tre giorni non fece altro che dormire, dormire e mangiare. Poi cominciò a svegliarsi. Ed allora cominciò il vero divertimento. Non toccava mai la culla che avevano scovato chissà dove, o almeno, quasi mai. Quando io dormivo, quando mi permettevo di riposare, c’era Dae a tenerlo, giocandoci, cullandolo, oppure contemplandolo solo, parlandogli, oppure Quais, che aveva il ruolo più importante di tutte e tre, che svolgeva con efficienza. Da quanto avevo capito dalle sue rare parole, l’elfa, quieta, dolce e silenziosa, dagli occhi di un blu profondo ed i capelli color miele, lei era fuggita dal Regno alla morte di suo marito, che svolgeva segrete attività ribelli, da cui aveva avuto un figlio che era morto pochi giorni dopo la nascita, per il freddo e gli stenti della madre, che aveva deciso così di divenire nutrice. Non sembrava soffrire molto. Aveva una pazienza infinita, anche se un senso materno poco sviluppato. Evitava di stringere a sé Machin più del necessario. Così eravamo io e Dae a viziarlo. Quasi sempre, con noi, c’era anche Nemys, che si contendeva il diritto di stringere il piccolo con noi due, oppure Isnark, che veniva solo per far compagnia alla Rinnegata, che non lasciava un attimo sola, preoccupato, guardandomi sempre come se fossi una nuova razza di parassiti, o i miei amici, o Amarto, o i bambini, che avevano ripreso a venire di pomeriggio. Non partecipai alla veglia. Fu grazie a loro che riuscii a superare la morte di Akita, una ferita segreta che si aggiunse alle altre, che cominciò a disturbare il mio sonno. Era una fortuna che il piccolo, spesso, mi svegliasse con il suo pianto deciso. Era molto abile ad intervenire nei momenti meno opportuni. Se solo ci fossero stati i suoi genitori con lui, allora davvero sarebbero impazziti, ed io, la zia, avrei comunque dovuto fare gli straordinari. Era già una piccola peste. Nei rari momenti in cui era nella culla, semplice e spoglia, vicino al camino per non fargli prendere freddo, coperto da una coperta imbottita di piume, insieme ad un nugolo di lenzuola, trovava sempre il modo per farsi sentire. Un neonato di pochi giorni, ma già dalle idee chiare. Io ero ben felice di assecondarlo, almeno per il momento. Sarebbe venuto troppo presto il giorno in cui avrei dovuto smettere di viziarlo, per imparargli la reale vita. Perciò mi godevo il suo tepore, ridacchiavo anche quando, con il suo pugnetto, stringeva una ciocca di capelli e non la lasciava andare finche non si addormentava, o io ero costretta a tirare, oppure svolgevo volentieri anche le mansioni meno piacevoli. Molti miei capelli avevano fatto quella fine, anche se la preferita da spennare era Nemys che aveva preso a legare i capelli in una coda.  Mio nipote cominciò ben presto a fare preferenze. Cominciava a strillare se solo Amarto, che si era un po’ offeso per quello, o Isnark, quelle rare volte che si permetteva di prenderlo in braccio, lo tenevano per un momento, mentre aveva preso ad amare Capouille, che qualche volta Dae fu costretta a chiamare per distrarre Machin. Ma i preferiti eravamo io, Nemys e Zipherias. Soprattutto io, con mio enorme piacere. Ero stata eletta la culla d’eccezione. Lui sembrava amare il suono della mia voce orribile e roca. Sembrava che lo trovasse rassicurante. Quella era una delle gioie maggiori. Gli altri infanti avevano accolto l’arrivo di quel piccolo con enorme curiosità. Nysha e Manolìa, che si erano finalmente tolte il vizio di chiamarmi Zia Maestra, e di darmi del voi, preferendo un più semplice zia, ed il tu, erano rimaste completamente spiazzate, così come Chekaril, che lo guardava sempre con tanto d’occhi, ad un palmo dal suo viso, finendo un paio di volte ghermito da delle manine curiose, mentre Roxen, con aria saputa, aveva preso a raccontare a tutti che sicuramente mentre dormivano era venuta uno gnomo curioso, che dentro un grande fiore aveva portato quel coso, scambiandolo per dei tesori. La prima volta che tirò fuori questa storiella, sicuramente raccontatale da Chekaril padre chissà quando, forse alla nascita del fratellastro, mi chiesi, spiazzata, cosa avessero quei due in testa per inventarsi una cosa simile. Una grande fantasia, sicuramente, ed una grande memoria. Beh, sicuramente la piccola mi aveva evitato una grande incombenza. Passarono circa un paio di settimane tranquillissime, scandite da Machin, dalle visite degli amici, dai documenti che avevo ripreso, la mattina, quando mio nipote dormiva tra le braccia di Dae, a consultare, dalle letture, dalle chiacchiere con Nemys che avevano ripreso vigore e frequenza. Ancora non mi perdonavo per le cose terribili che le avevo detto, e, più volte, glielo dissi. Ero davvero impazzita quando Akita era morta. La Rinnegata sembrò capirmi. Sorrideva sempre, quando tentavo di scusarmi, dicendo che non c’era bisogno, che sapeva che io non pensavo davvero quelle cose. Ma l’angoscia che le avevo visto il primo giorno di vita del nostro nipotino in viso non scomparve, anzi: ogni volta, ogni mattina che faceva capolino dalla porta della stanza, aumentava. Temetti di esserne io la causa, temetti di essere io la causa delle occhiate indecifrabili che i due compagni si lanciavano, temetti io di essere la causa delle sempre più frequenti presenze di Isnark, che non lasciava un momento la Matriarca, quasi ansioso, guardandomi con una strana aria, tra lo speranzoso ed il riluttante. Perciò ero sempre più a disagio quando stavano insieme. Nemys mi ripeteva che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che era solo un piccolo litigio tra loro due, che lui stava febbrilmente cercando di farsi perdonare. Ma io non le credevo. Vedevo sempre la menzogna brillare in quegli occhi praticamente incapaci di mentire. Cominciai a sospettare di lei. Cercavo così di essere dolce e gentile, di far vedere che stavo guarendo, di scusarmi sempre, ma non vedevo miglioramenti. C’era qualcosa che non andava, e la cosa mi era chiara. Cosa, non avrei mai saputo dirlo. Ma potevo riparare a ciò che era successo? Ero io la causa di tutto quello, le mie parole folli ed incaute? O qualcos’altro? Non avrei saputo mai dirlo, o l’avrei saputo troppo tardi, se solo, una sera, qualcuno, la persona più insospettabile del mondo, non fosse venuta a dirmelo, a confessare, per cercare chissà cosa, ferendomi sempre di più. Mi sentii di nuovo terribilmente sola, con quella confessione, come se nessuno si fidasse mai veramente di me. Mi sentii uno strumento, da usare e coccolare quando necessario. Ed ora spiegherò il perché, il perché la realtà delle cose finisse sempre per sconvolgermi, il perché decisi che il destino aveva congiurato per me, per tormentarmi sempre di più, e perché capii di dovermi solo conformare a ciò che sarebbe successo.

Era una sera, il sole era appena tramontato. Dae e Quais erano andate a riposare, a fianco, e Machin aveva appena mangiato, e si stava addormentando. Come ogni giorno, la responsabile per la nanna ero io. Solo con me il mio dolce nipotino dormiva. Se solo fosse stato tra le braccia di altri, si sarebbe svegliato immediatamente. Non riuscivo a capire come riconoscesse, ancora quasi cieco, la nostra identità, ma ero davvero contenta che lui mi accettasse in quella maniera, che, nella sua semplicità infantile, mi amasse già, come una madre. Mi ero così accoccolata sulla mia solita sedia, avvolgendo con la solita coperta ampia me e l’ammasso di lenzuola che era Machin, vicino al camino, cominciando a cullarlo, cantandogli una canzoncina, quella che amavo sempre canticchiare, quella che avevo in testa praticamente da sempre, che pensavo di avere inventato io, e così penso tuttora. Il piccolo, sazio, pulito, caldo, felice e soddisfatto, si era addormentato subito, ed io stavo cominciando, come sempre, ad imitarlo, presa dal calore, e dal mio mormorio, dall’incanto di guardare quella creatura così perfetta, che cominciava ad avere il colorito di pelle di Akita, quel colore dell’alabastro, lievemente azzurrino, delicato e nobile. Quelle volte che aveva aperto gli occhi mi ero resa conto che il taglio era a metà tra i due genitori. Ciglia e sopracciglia erano sicuramente della madre, eleganti, ma la forma degli occhi era quella di Tijorn. La prima volta che l’avevo vista ero rimasta senza fiato. Il colore non era ancora percettibile, quel colore che sarebbe cambiato con il tempo, che stava già virando verso un promettente grigio, ma avevo l’impressione che gli occhi di Tijorn mi guardassero attraverso il tempo. Ero rimasta praticamente così ipnotizzata che mi avevano dovuta scuotere. Tijorn non era mai morto. Tijorn viveva in quel marmocchio birbante. Era una cosa troppo bella per essere vera. Insomma, quella sera, troppo impegnata a contemplare il mio bellissimo nipotino, mi ero quasi addormentata sulla sedia, come facevo una sera si e una no. Ad un certo punto, mi aveva svegliato un bussare insistente alla porta. Avevo sobbalzato, e per poco non avevo svegliato il piccolo. “chi è?”. Domandai, con voce calma, non troppo alta. La riposta che venne dall’altra parte mi fece sobbalzare. Una voce maschile e profonda, lievemente strascicata per l’accento della costa sud-occidentale del Regno. La voce annoiata di una persona che temevo moltissimo. “sono Isnark, parassita”. Disse l’elfo, con una punta di cattiveria. M’imposi di non tremare solo per non svegliare il piccolo. Deglutii. Sperai che non avesse intenzione di farmi del male, non ora. Dovevo proteggere il piccino, lo strinsi ancora di più. Non avevo intenzione di farlo entrare. Ci fu un attimo di silenzio. “non ho intenzione di sfondare la porta”. Disse la voce, un po’ più irritata. “ma lo farò se continui a stare in silenzio. Ho bisogno di parlarti. È urgente”. Mi avvolse la curiosità. Isnark voleva parlarmi? A proposito di cosa? Ci fu un empito di ansia. Probabilmente, voleva spiegarmi il perché del loro comportamento strano. O chiedermi aiuto per riconquistare la sua amata, chissà. Oppure scusarsi, voleva parlarmi, per fare magari pace. Volli sapere. Non ce la facevo con quell’interrogativo. Sperai che non fosse tutto un trucco. Ma Isnark non era così viscido e vile: lui era un elfo pieno d’onore. “ah…entra pure”. Dissi, con una voce che facevo di tutto per far risultare calma, padrona di sé, ma che non riusciva per nulla tale. Isnark non se lo fece ripetere due volte. Entrò, i lunghi capelli bianchi raccolti nella sua solita coda bassa, il volto ieratico impassibile, ma lievemente irritato. La prima cosa che andai a cercare, nel suo abbigliamento semplice, fu la sua spada, che non trovai. Mi sembrava totalmente disarmato. Mi concessi un sospiro di sollievo. Stringeva in una mano qualcosa avvolto in un drappo color velluto scuro. Poi ci guardammo. Seguì un ennesimo momento di silenzio, mentre la porta si chiudeva dietro di lui. Il Principe fece un cenno nella mia direzione. “dai il marmocchio a qualcuna delle tue aiutanti”. Disse, con una voce che non ammetteva repliche, né disobbedienze. “ho bisogno di parlarti di una cosa importante. Sbrigati, parassita”. Obbedii in silenzio. In un certo senso ero a lui subordinata. Avvolgendo il piccolo, con cautela, nella coperta che amavo tanto, come alcune volte avevo fatto per non farlo svegliare, portai Machin di là, da Dae, con la morte nel cuore. Spiegai alla vecchia balia, in tono sommesso, tutta la situazione. Lei accettò di tenere il piccino con sé, e lo strinse forte. Sentendomi vagamente intimorita, spaventata, addolorata per la scarsa fiducia e per l’odio che l’elfo covava nei miei confronti, tornai nella stanza. Con aria assente, Isnark si era seduto al mio posto, tra le braccia quel fagotto strano, grosso ed informe, accarezzandosi, com’era sua abitudine, le cicatrici che gli avevo lasciato sul volto. Sembrava volermi sempre ricordare i miei errori. Il dolore fu come una pugnalata in petto. In punta di piedi, avvolta nei miei abiti viola da Ch’argon, mi avvicinai a lui. Di nuovo, lui mi guardò, con i suoi pensierosi occhi castani. Aggrottò lievemente le sopracciglia. “bene. Vieni più vicina, ho bisogno di guardarti bene in viso quando ti parlo. Non mi fido di averti alle spalle”. Ero praticamente indignata. Ma come si permetteva? Cosa pensava, lui? Come osava, trattarmi in quel modo? Non aveva ancora imparato a fidarsi di me? Non aveva capito che io non ero più la Spia crudele? Tuttavia, gli obbedii. Mi sedetti a terra, di fronte a lui, al freddo, a gambe incrociate. Rabbrividii, ma lui non sembrò avvedersene. Mi fissò ancora per un attimo, prima di cominciare a togliere quel drappo da quella cosa. Lo osservai, incuriosita. Chissà perché, mi assalì uno strano presentimento. Presentimento che poi si concretizzò, quando vidi quell’urna di ceramica decorata e ferro battuto, avvolta da volute eleganti e spirali, ed il gelo mi avvolse. Mi morsi il labbro inferiore. Lì c’era quello che mi rimaneva di due delle persone a cui avevo tenuto di più al mondo. Isnark, mentre io guardavo quell’urna, presa dal dolore, un dolore strano, sordo, lontano, una sorta di smania a far scomparire quella cosa, cominciò a parlare. “qui dentro ci sono le ceneri di Tijorn ed Akita”. Disse, indifferente alla mia pena, a quelle parole che mi stavano tagliando più di mille spade, porgendomi con attenzione quell’anfora chiusa, ancora mezza avvolta in quel drappo. Sentii un dolore fisico, quasi materiale. Mio fratello, la sua compagna, erano lì. Mescolati per sempre in un abbraccio non districabile, polvere nella polvere, per sempre insieme. I loro corpi erano lì, senza possibilità di poter rivederli, senza la possibilità di parlarci. Non era particolarmente piacevole pensarlo, tutt’altro. “Nemys non voleva dartela prima di qualche tempo, ma, visto che dovevo venire qui lo stesso, ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Fanne ciò che vuoi”. Bastardo maledetto. Non solo non riusciva a fidarsi di me, non solo mi odiava a morte, ma godeva anche nel vedermi soffrire. Afferrai quella cosa con mani tremanti. Ci fu un ennesimo attimo di silenzio. Addolorata, piena di pena, per un attimo non riuscii a fare altro che osservare ciò che conteneva mio fratello ed Akita, il dolore che cresceva in maniera esponenziale. Presi, come avevo cominciato a fare un po’ troppo spesso, ad abbracciarmi, come per cercare di tenere insieme il cuore che si andava spezzando, e posai l’urna a terra. No. Non volevo vederla. Non ci riuscivo. Era troppo. Con un gesto veemente, andai di nuovo a coprirla. Mi sentii un po’ meglio, e riuscii a prendere fiato. Ero davvero arrabbiata con quell’elfo che stava stravaccato a fianco a me, su quella sedia. Era meschino e bastardo. Mi odiava, e faceva di tutto per farmi soffrire. Ed ancora non avevo idea di quello che avrei passato, sempre per colpa sua. “hai qualcos’altro da dirmi, Isnark?”. Domandai, con una voce malferma, orribilmente sull’orlo delle lacrime. La vista dell’urna mi aveva sconvolta. Cercai di non guardarla, e mi concentrai sul viso beffardo del mio nemico. Non era giusto. Per niente giusto, che io fossi trattata in quel modo, io, che avevo sofferto tanto, che mi ero sacrificata tanto per tutti loro. “oppure quello di venire qui è stato solo un pretesto per ferirmi ancor di più di quanto io non sia già? Cosa vuoi da me, ancora?”. Il Principe si mise più dritto, e mi guardò male. “ho bisogno di te, Lsyn”. Mi rispose, dopo avermi lanciato un’occhiata di fuoco che m’intimorì. “tu sei l’unica che mi puoi aiutare”. Opportunista dei miei stivali. Per un attimo, stringendo gli occhi, fui tentata di rifiutare. Ma poi vidi qualcosa negli occhi cupi del mio nemico, quegli occhi fieri, da falco, che mi guardavano storto. Infelicità. Dolore, più che altro. Un dolore misto ad una luce di strana speranza, ed umiliazione. Mi chiesi cosa fosse stato per provocare in lui quei sentimenti. decisi di mordermi la lingua, così, e stare zitta. Feci un cenno, in silenzio, come per intimargli di continuare. Lui strinse ancora di più le labbra. Ci fu un lungo momento di tensione. Mi sentii inquieta. Cosa c’era, che non andava? Cosa c’era? Sospettai che le cose tra lui e Nemys stessero andando più male del previsto. Eppure non mi erano sembrati così irritati l’uno con l’altro, quando erano insieme, tutt’altro. Non erano mai stati così uniti. Bah. Vai a capire le dinamiche dell’amore. Non mi piaceva quel silenzio. Non presagiva nulla di buono. Com’erano testardi quei due, non mi sarei stupita se avessero litigato per qualcosa di molto stupido. Non mi rimaneva che ascoltare. Isnark sembrò, per un tempo infinito, raccogliere i pensieri, lì, seduto rigidamente, agitato, su quella sedia, tanto che fui sul punto di sbottare, arrabbiata, irritata da quel silenzio e da quella tensione prolungati. Finalmente, si decise a parlare. Lo fece con un tono lugubre, acido come un limone, un tono aspro che suonava strano con quelle parole. Fui tentata di ammazzarlo, davvero. “Nemys…Nemys aspetta un bambino”. Disse, guardando altrove, fiero e cupo come la statua di un dio cattivo. Ebbi la netta sensazione che le braccia mi stessero cascando, andando in pezzi. Allora era per quello! Beh? Tutto lì? Era tutto lì davvero? Era per quello quella faccia da funerale, per quella notizia stupenda? Ma cosa stava diventando Isnark, matto? Per un attimo, esultai. Perfetto. Un altro bel nipotino da viziare. Non mi sarei dovuta muovere da lì fino alla nascita, lo sapevo, e lo volevo, ma non mi pesava. Non per quella bellissima cosa. Cosa c’era di così strano? Perché Isnark sembrava così infelice, così tormentato dalla cosa? A meno che…strinsi gli occhi. Mi assalì un sospetto. Era strano che io non fossi stata la prima a saperlo. Ma forse la mia Rinnegata non voleva sconvolgermi ancora di più, o aveva qualcosa da nascondere. O quello, o davvero quell’elfo aveva preso una brutta botta in testa. “sei tu il padre, vero?”. Dissi, colta da un timore improvviso. Ecco, anche se m sembrava strano un tradimento da parte di Nemys, nulla era impossibile. Come ho già scritto, è impossibile comprendere le dinamiche dell’amore. Fu con sollievo che vidi l’elfo fare un cenno di assenso. Ma poi mi sentii ugualmente perplessa. Che cosa stava succedendo? Udii il mormorio di Isnark con un certo senso di stupore. Cercai di controllare la mia espressione. non intendevo rimanere a bocca aperta lì, davanti a quel bastardo. “purtroppo si”. Eh? Qualcosa mi sfuggiva. Come purtroppo si? Ma che razza di cose stava dicendo? Proprio non lo capivo. Perché si confidava con me? Che c’entravo in quelle beghe familiari? Forse era lui che non amava più lei? In quel caso, che cavolo voleva da me? Voleva una complice? In quel caso, aveva trovato proprio una cattiva compagna. Non intendevo far soffrire Nemys, la mia cara Nemys. Fu per quello che mi rivolsi a lui con una certa asprezza. Non avevo intenzione di aiutare un emulo fedifrago di Chekaril, un verme come lui, per niente. “ed allora, Isnark?”. Chiesi, tendendomi verso di lui, sentendomi invadere dall’ira. Non capivo. Non riuscivo a capire. “che vuoi da me? Che vuoi che faccia, io? Non sei contento di divenire padre? Non…”. Lui interruppe la mia invettiva, scattando con le mani in avanti. Le nostre voci, per un attimo più alte, s’intrecciarono. Poi, con un’occhiataccia, feci si che lui sussurrasse. “non è questo che intendo, idiota!”. Ringhiò, molto contrariato. Mi dovetti frenare per non saltargli addosso, per rompergli sulla testa la prima cosa che mi fosse capitata sottomano. Forse così rinsaviva. Lui continuò a parlare, disperatamente. E mano mano, presi a comprendere la disperazione, ed a condividerla, e sentirmi, per l’ennesima volta, amaramente tradita. Perché lei, la mia dolce Rinnegata, che tanto mi voleva bene, mi aveva nascosto una cosa fondamentale. Mi aveva taciuto una cosa importantissima. Come se io non fossi nessuno, come se fossi ancora una bambina. “non voglio dire questo…gli dei sanno solo loro quanto io frema dall’idea di avere un figlio, ma…è Nemys il problema!”. Battei gli occhi più volte, perplessa. Lui mi aveva afferrato un polso, con forza tremenda, e mi stava finalmente, dopo tantissimo tempo, guardando negli occhi. Risposi al suo sguardo, confusa. Non riuscivo a capire. Era Nemys che non voleva il piccolo? Mi pareva strano. Era lei che non si sentiva pronta? Lui mi guardò, con disperazione ora quasi tangibile, la disperazione di un uomo che sa già come tutto andrà a finire. Non mi piacque quello sguardo. Aveva del pazzo. “in che senso, Isnark?”. Mormorai, cercando di tranquillizzarlo. Mi stava davvero facendo male, ma quasi non se ne rendeva conto. “cosa vuoi dire?”. Lui mi guardò male per un secondo, prima di ridere. Ridere, ridere come un pazzo, senza lasciarmi il polso, ma stringendolo ancora di più, una risata stridula, acuta, che non mi piacque. Davvero. Isnark sembrava essere totalmente impazzito. Dopo un po’ lui smise di ridere, tornando immediatamente cupo come sempre. “scommettevo che lei non ti avesse detto nulla, in proposito!”. Esultò, beffardo, con una strana smorfia in viso, ed una strana voce. “la povera, piccola, derelitta Lsyn, che non deve soffrire, che ha già sofferto tanto, poverina!”. Dei, com’era irritante quella voce. Cercai di parlare, d’intervenire, ma lui me lo impedì, con un’occhiata disperata. Lui era un elfo disperato. Mi zittì. “Lsyn, Nemys non deve avere questo figlio”. Disse, improvvisamente ansioso, terrorizzato. Quei sentimenti contagiarono anche me, chissà perché. Sentivo che qualcosa non stava andando come doveva, lo avvertivo. Perché quello che disse mi sconvolse, del tutto. “non fraintendermi, Lsyn….non fraintendermi. Io vorrei questo bambino, e lei pure….ma non possiamo. Lei si è intestardita con questo desiderio dal giorno in cui Lainay ha scoperto la sua identità…sa che questo figlio sarà un elfo, ma con tutti i poteri da Rinnegato, e…sarà un grande elfo, ma è pericoloso. Per lei è pericoloso. Rischia la morte”. Mi sentii  balzare il cuore in petto. No. Lei no. Mi sentii malissimo. Non anche lei. Lei mi aveva mentito, mi aveva tenuto nascosto tutto quello. Mi sentii tremendamente sola, ed arrabbiata. Pensava fossi una bambina, io? Pensava fossi così stupida? Mi divincolai. Non sopportavo il contatto con quel latore di cattive notizie. Lui mi lasciò fare. M rannicchiai in un angolo. No. Non volevo essere toccata. Se solo mi avessero sfiorata, sarei andata in pezzi. Parlai con una voce terribile, incrinata. Mi sentivo tradita, tradita dalla stessa parte di me stessa. Era una sensazione terribile. Non volevo perdere anche lei. Non volevo. No: decisamente questo figlio non era la soluzione migliore. “la…morte?”. Sussurrai, con una vocina sottile, fissando Isnark come istupidita. Non volevo crederci. Nemys non poteva sacrificarsi così. Non doveva. Io avevo ancora tanto bisogno di lei. Non ero pronta a lasciarla, né lo sarei stata mai. Non poteva andarsene anche lei. L’elfo che mi stava accanto si mordicchiò il labbro, e poi annuì. “la sua stessa natura la metterà in pericolo non appena questo piccolo nascerà… lei si è intestardita, dice che è meglio farla morire che continuare ad essere schiavi di Lainay in quel modo, che nostro figlio sarà libero da  ogni giogo, e potente oltre ogni dire… ma che lei dovrà probabilmente morire. E lei vuole morire, purché sia per questo motivo. Lei dice che non c’è onore più grande”. No! Nemys, perché? Sentii una staffilata di dolore acutissimo, e digrignai i denti. Egoista. Maledetta egoista. Questo era, lei. Solo ed esclusivamente un’egoista. Pensava ad uno stupido ideale, a nient’altro. Non pensava ad un orfano, alla sua famiglia addolorata. Pensava a degli stupidi sconosciuti, ai Rinnegati, al suo popolo. Mi ero sbagliata sul suo conto. Era solo un’idealista, e basta, tutto qui. Lei non mi amava. Per lei io ero uno strumento come un altro. Lei non era così tanto diversa da Lainay. Eppure, io mi ero legata a lei per sempre, senza possibilità di scampo! Mi sentii attraversare da una strana sensazione. Mi sentii improvvisamente in gabbia, rinchiusa in uno spazio troppo piccolo per me. Mi sentii soffocare. Tradita. Tradita senza possibilità di scampo. Lei non si era fidata di me, non abbastanza per dirmi quella cosa, per chiedermi un consiglio, che avrei dato. Non c’entrava il mio dolore nei confronti di Akita. Era più grande quello del tradimento. Già instabile com’ero, quello fu un colpo tremendo. Come si era permessa? Perché tutte a me? Perché il destino aveva come unico obiettivo quello di ferirmi a morte? Vidi l’espressione di Isnark riflettere la stessa rabbia che provavo io, la stessa impotenza. Sentii un enorme fiotto di rabbia. Lì tutti si mettevano d’accordo per ferirmi. L’elfo aggrottò le sopracciglia, vedendo chissà cosa nel mio volto. “io ho bisogno di te, Lsyn”. Dichiarò, serio e severo, cupo come non mai,. Ecco l’altro egoista. “per quanto tu possa essere una nana patetica e disgustosa, Nemys ti tiene parecchio in credito. Si fida molto di te”. Eccome. L’avevo visto. Ringhiai sommessamente, irritata. Dopo un attimo di silenzio, lui riprese a parlare. “perciò, voglio che tu provassi dove io ho fallito. Voglio che tu le chieda di…”. Chiuse gli occhi, con evidente pena, ed esitò. Bastardo egoista maledetto. Non farò mai nulla per te. “di… di sbarazzarsi di questo bambino, Lsyn. È troppo pericoloso per lei…continuare ancora questa stupidaggine”. Ringhiai più forte, ormai divenuta un solo blocco di rabbia glaciale. Bene. Era così che mi trattavano, come una cameriera. Lainay non era poi così diversa da loro. Io ero sempre la povera servetta, che doveva correre avanti ed indietro per aiutarli. Nemys mi voleva lasciare. Ed io non lo sopportavo. Non sopportavo quel pensiero. Non sopportavo di rimanere sola. Il problema era essenzialmente lì. Non volevo che lei se ne andasse per sempre, solo per aiutare gli altri. Ero meschina, ero egoista. Ma non volevo soffrire ancora. Guardai, sperduta, l’urna che conteneva Tijorn ed Akita. Rivolevo indietro tutti i miei affetti. Li rivolevo indietro, volevo parlare ancora con loro, discutere, chiedere il loro aiuto. Invece ero sola, irrimediabilmente e schifosamente sola. Io mi sacrificavo per gli altri. Ma nessuno si sacrificava per me. E così, agguantando, irosa, l’urna di ferro e ceramica, alzandomi di scatto, e tenendola stretta al cuore, guardando, minacciando di piangere, Isnark, che sembrava sinceramente stupito, feci un ennesimo gesto stupido. “bene”. Dissi, con una voce tremante, addolorata, con un senso di vuoto incombente. “benissimo. Te lo scordi, Isnark. Io non farò mai nulla per voi. Non mi sacrifico per gli egoisti…non più!”. Rifiutandomi di guardare ancora tutto, tutti, mi precipitai fuori, correndo, sbattendo la porta. Il dolore mi aveva sopraffatta. E cominciai a dare libero sfogo alle mie lacrime. Volevo andarmene, fuggire. Era l’unica cosa che riuscivo a fare, in quel momento.

Scendendo alle stalle, correndo alla cieca, addolorata, cercando di non singhiozzare, l’urna stretta al cuore, vuota, tradita, desolata, presi la decisione di fuggire per un po’. Non sapevo dove sarei andata. Non m’importava. Volevo solo un posto sicuro dove pensare, dove poter lasciare spazio ai miei sentimenti. Era orribile quello che era successo. Non mi sentivo tanto preoccupata per la gravidanza di Nemys, e per i pericoli che lei correva. Se lei si fidava, se lei si era intestardita, allora tutto era destinato, in un modo o nell’altro, ad andare bene. I problemi che si faceva Isnark non esistevano. Non sarebbe successo nulla di male. Quello che mi feriva maggiormente era il fatto che mi avesse tenuto nascosta una cosa del genere. Mi sentivo trattata come una schiava, davvero. Io facevo tutto per lei, di tutto, mi sacrificavo, passavo mattine e mattine a compilare scartoffie,  mi confidavo con lei, facevo un sacco di cose per lei. Tutto quello che avevo ricevuto in cambio erano solo un paio di parole vuote, vane consolazioni. E basta. Lei non mi metteva a conoscenza dei suoi segreti, dei suoi pensieri. Mi era parso che lei si fidasse di me. Invece non era che una facciata. Lei mi trattava come una bambina. Ed io non me n’era mai accorta. Perché Tijorn se n’era andato? Perché Akita era stata così debole da seguirlo? Perché non mi potevano più sentire? Perché? Perché? Sotto gli occhi stupiti della servitù, raggiunsi, disperata, avvolta da quel senso orribile di perdita e tradimento, alle stalle, dove raggiunsi lo scudiero, e mi feci preparare il mio cavallo, quello che Nemys mi aveva regalato, una bestia agile e non eccessivamente grande, veloce e resistente, dal bel mantello sauro, in tutta fretta. Senza che nessuno mi disturbasse, ancora stringendo l’urna al petto, disperata, mi avviai al galoppo verso l’uscita di Kyradon. Mi parve che qualcuno stesse urlando il mio nome, ma non me ne importai, e continuai. Continuai a cavalcare, in una direzione sconosciuta, per i boschi, accecata dal dolore. Volevo andarmene. Non m’importava di Machin. Non m’importava di nulla, ormai. Lui aveva le persone che gli volevano bene. Io no. Io ero stata tradita in tutta la mia vita, e gli unici che davvero mi avevano capito erano lì, con me, trasformati in cenere muta. Continuai a cavalcare per una ventina di minuti, incerta.  Il cavallo mi obbediva, ma ero io a non essere molto sicura. Ammetto di non essermela mai cavata granché nell’equitazione. Ed ero decisamente molto sconvolta, accecata dalle lacrime, dal dolore. Ad un certo punto, per chissà quale motivo, quella bestia maledetta, spaventata da chissà cosa, scartò, ed io, che mi tenevo con una sola mano, scivolai. Gridai mentre cadevo, come unico pensiero quello di non rompere l’urna. Non m’importava se mi fossi fatta male. Non importava a me, figuriamoci agli altri. Ci fu un assurdo momento in cui non capii più nulla. E poi avvertii un dolore lancinante dappertutto, qualcosa che mi teneva, che mi tratteneva, più propriamente, che impediva ad una parte del mio corpo che andassi a terra. Ma faceva male. Il rumore di zoccoli rallentò, poi si fermò. Maledetta bestia…anche lei ce l’aveva con me! Aprii gli occhi. Ero finita in un cespuglio di rovi. Ero già piena di spine. Grugnii, e cercai di divincolarmi. Per fortuna, l’urna era lì, intatta. Dopo un po’, riuscii a liberarmi. Contusa e piena di graffi, rialzandomi, mi guardai attorno. Quel posto mi era familiare. Era stato un tempo territorio del Regno, una propaggine estrema del bosco di Sharilar, dove esistevano strane rovine che avevo visto da giovane, e che mi erano sembrate quelle di una casa. Un portale, un altare…cose strane, millenarie, di cui avevo letto, ma non avevo capito quasi nulla. Ero in una piccola radura poco distante da lì. Mi scrollai di dosso la neve. Faceva freddo, davvero freddo. Mi strinsi alla ceramica fredda, tremando. Quel cavallo maledetto, sbuffando, mi guardò, incuriosito, poi scalpitò. Era fermo, mi aspettava. Ma io non avevo più la forza di muovermi. La notte era quieta. Bella, limpida, perfetta. On c’era nemmeno una nuvola, nel cielo stellato. Sola, mi sentii afferrare dal panico. Tradita. Ero la Ch’argon del Matriarcato, ma non potevo lavorare per esso. Nemys sicuramente ora mi stava odiando per quello che avevo fatto, per la stupidità che avevo fatto.  Forse aveva davvero temuto quella mia reazione. Forse non aveva avuto tutti i torti, per nascondermi quel fatto. Avevo reagito in un modo estremamente immaturo ed avventato, com’era mio solito. Ero anche disarmata. Se solo qualcuno mi avesse voluto attaccare, sarei stata completamente alla sua mercé, senza potervi fare nulla. Ero praticamente in un vicolo cieco. Mi venne il singhiozzo. Benissimo. Ma che imbecille che ero! Magari Isnark l’aveva fatto apposta, a farmi del male. Magari voleva proprio quello. Era un peccato che non sapessi tornare. Avvicinandomi al cavallo, presi ad accarezzargli il muso. Era piacevolmente caldo, e mi confortò. Ero stata una sciocca a fuggire così, senza mantello e senza spada. D’ora in poi, se solo fossi tornata, mi sarei portata sempre tutto dietro. Ma non mi sentivo ancora abbastanza coraggiosa da tornare. Ero ancora piuttosto scombussolata, ed addolorata. Se solo Tijorn avesse potuto parlarmi. Se solo Akita mi avesse confortata. Beh…se i due fossero stati ancora vivi, mi avrebbero dato della stupida. Mi meritavo uno scappellotto. Ma loro erano morti. Dovevo smettere di pensarci. Stavo impazzendo. Dovevo sbarazzarmi di quell’urna, creare magari una bella lapide, dove sarebbero stati al sicuro, e lontani. Davvero, inoltre, quella vicinanza con le ceneri dei miei cari mi stava snervando. Non era una cosa bellissima. Mi venne, improvvisa, un’illuminazione. Sarebbe stato bello, fare quello che intendevo fare. Prendendo il cavallo per le redini, mi avviai, zoppicando, dolorante, piena di spine, anche nei capelli, verso una direzione casuale, alla cieca. Ben presto, chissà come, arrivai ad un piccolo spiazzo protetto dalla neve da un intrico di rami resi pesanti, con un gigantesco albero al alto, dal tronco evidentemente cavo. Sorrisi debolmente, poi legai il cavallo. Mi chinai verso una piccola tana sotto l’albero, una tana che mi assicurai essere vuota. Ecco ciò che cercavo. Sospirai. Tijorn ed Akita avevano bisogno della loro casa dove riposare. Era doloroso allontanarsi da loro, ma necessario. Quelle ceneri mi avrebbero fatto impazzire, prima o poi. Così, nascosi l’urna, avvolta nel drappo rosso, sotto l’albero, e poi, rompendomi le unghie contro il terreno reso duro dal gelo, strappai qualche zolla, polverizzandola sotto le mie dita sanguinanti, e copersi quella strana tomba improvvisata. Sospirai, di nuovo. Tutto il dolore che mi ero provocata era lecito, e normale. Me lo meritavo tutto, fino all’ultimo. Perché ero stata stupida. Avevo creduto ad Isnark. Magari tutto non era come avevo pensato. Avevo pensato male come al mio solito, ma non sapevo tornare. Non sarei riuscita a tornare. Mi sarei persa a Sharilar. Digrignai i denti, e poi mi sedetti sul terreno gelido. Dannazione. Avevo freddo, ero stordita, dolorante, piena di spine, le mani non mi rispondevano, mi ero persa. Ero stata una stupida. Andare a parlare con la Rinnegata, no, eh? Mi ero fidata di quel maledetto di Isnark. Ed ecco quello che mi era successo. Borbottai di nuovo, poi mi mossi, a disagio. Avventata e stupida, come sempre. Non volevo morire. Sperai che la mattina mi avrebbe portato nuove rassicuranti. Per i momento, era poco saggio, avventurarsi da qualche parte. Mi raggomitolai, guardando il buco dove c’erano mio fratello, il mio amato fratello, e la sua compagna. Ero sola. Orrendamente sola. Quasi sentii di nuovo le lacrime farsi strada, ma mi bloccai. Quello l’avevo voluto io. Avevo voluto io quella tremenda solitudine. Solo perché ero una stupida, una maledetta istintiva, avevo combinato quel guaio. Sperai di sopravvivere alla notte. Faceva già troppo freddo. Ma non avevo la forza di muovermi. Non so come, ma riuscii ad alzarmi, e mi avvicinai di nuovo al cavallo. Vi salii, a fatica, poi mi raggomitolai lì, senza essere capace di muovermi, rabbrividendo. Avevo freddo. Sentivo un freddo tremendo. Come mi avrebbero salvata? Meritavo di morire. Ero stata una sciocca. Una dannata sciocca. Ma avevo ancora paura di essere stata volgarmente tradita.

Non so quanto rimasi, lì, intirizzita, piena di dolore, aggrappata ad un cavallo perplesso, rubando il suo calore. Ancora a notte fonda, lo so perché cercai di non fare la stupidaggine estrema di addormentarmi, e di rischiare di morire assiderata di conseguenza, sentii dei passi, qualcuno chiamarmi. Mi riscossi dal torpore ipnotico in cui ero caduta, e gemetti quando tutti i muscoli protestarono. Chi mi chiamava? Stavo impazzendo, per caso? No: i richiami erano più vicini, ora, e vedevo, lontane, delle luci. Sentii il cuore balzarmi in gola. Mi stavano salvando. Stavano cercando me, la sciocca credulona, la bambina. Nemys aveva avuto ragione a trattarmi così, a non mettermi a conoscenza dei suoi più grandi segreti. Dopo tuta quella sofferenza che avevo passato ero regredita ad uno stato quasi infantile, di sicuro molto più egoista di lei, quella che avevo reputato tale. Ero un’ingrata. Un’ingrata, e basta. Ma allora non lo pensai affatto. Presa da un’incredibile speranza, cominciai a chiamare anch’io, con una voce roca e fievole, mettendomi seduta, fino a quando qualcuno non si precipitò da me. Mi balzò il cuore in petto, povera, povera Nemys. Fino a che punto l’avrei fatta soffrire? Aveva uno sguardo tremendo, sperduto, addolorato, che si riscosse lievemente quando mi vide. Era con Zipherias, che sembrò immensamente sollevato, nel vedermi viva. Se davvero quello che mi aveva detto Isnark era vero, allora aveva rischiato davvero molto, lei, nel venire lì. Io ero stata una sciocca. Avevo creduto nelle stupide parole di lui, che mi odiava. La mia dolcissima Rinnegata si precipitò da me, abbracciandomi, avvolgendomi con il suo tepore. Si spaventò nel vedermi così fredda, così gelida, così piena di spine, le mani sporche di terriccio e sanguinanti. Diceva che avevo le labbra viola. Poi mi disse che ero stata un’emerita sciocca. Ci fu un attimo di silenzio. Sentii un debole colpo al cuore. Dovevo dirglielo. “dimmi che non me l’hai detto perché hai paura di farmi del male, Nemys”. Dissi, con una strana voce disperata, prendendola per il colletto, guardandola, con il viso offuscato. Sentivo le lacrime scorrere. Quella cosa mi faceva ancora male. “dimmi che ti fidi di me…”. Lei scoppiò a piangere, e mi abbracciò. Mi disse che Isnark era stato uno stupido, che non doveva dirmelo così, che se n’era reso conto appena mi aveva vista fuggire. Era vero, rischiava molto, per quello stupido sogno, ma non era detto che sarebbe morta. In quella, si guardò brevemente con Zipherias, una cosa di cui quasi non mi avvidi. Io capivo il suo desiderio di maternità, lo capivo benissimo. Capivo il suo volere, e lo accettavo. Sarebbe stato pericoloso, ma davvero non importava. Anche nel mio caso ad un certo punto era divenuto molto difficile, avevo rischiato di rimanerci lì, io e mia figlia. Ma io avevo paura di non essere amata. Era quello che mi premeva. Temevo di non essere accettata da lei. Lo temevo ancora, malgrado tutti quei mesi. Avevo passato troppi anni odiata ed abbandonata da tutti. Ero come un cane, un povero cane randagio, abituato alle bastonate ed ai morsi, che quando trova una mano amica non si fida di lei. Poi Nemys disse che aveva avuto paura. Qualcuno mi sollevò da cavallo, ma io ero troppo impegnata ad abbracciare la mia Rinnegata come una disperata. Mi sentii avvolgere da qualcosa di caldo. Mi disse che, quando Isnark l’aveva raggiunta, confessandole tutto, spaventato, era corsa assieme a Zipherias sulle mie tracce. Avevano avuto paura fossi morta. Lei aveva sentito il legame con me divenire, ad un certo punto, molto debole. Mi dispiacque averla ferita in quel modo, e glielo dissi. Lei mi rispose che ero davvero un’imbecille, e che dovevo fidarmi di lei. Lei stava aspettando solo il momento più propizio per dirmelo. Vedeva che ero così felice, e non voleva preoccuparmi, ora che sembravo aver guadagnato un certo equilibrio. Scoppiai in lacrime. Ero stata sciocca a non fidarmi di lei. Sarei potuta andare da lei a chiedere spiegazioni ,senza fuggire al gelo. Ero stata stupida. Ne ero pienamente cosciente. Stupida, ed avventata. Meritavo davvero quell’appellativo.

Brontolai, ad un certo punto, sul fatto dell’urna. Nemys promise di non dimenticare dove fosse. Ero intorpidita. Poi lei mi sussurrò che mi voleva bene, comunque andasse, che lei sarebbe stata sempre con me, come una sorella. Mi aggrappai a lei come se fosse il relitto di una nave, l’ultima speranza del naufrago. E poi le sussurrai che le volevo bene anch’io.

Arrivammo, chissà come, al castello. Nelle stalle, ad aspettarci, c’erano Benagi, Capouille ed Isnark, che si preoccuparono immediatamente appena mi videro in quelle condizioni. Fino a quel momento, per non affaticare Nemys, ero stata in braccio a Zipherias, incapace di muovermi, tremando, gelata, e lo sentivo lamentarsi sommessamente ogni volta che faceva forza sulla gamba zoppa, ma poi passai subito in braccio all’altro gigante, Benagi, che mi chiese se stessi bene. Io mormorai di si, in un modo non proprio convincente. La Rinnegata, rabbiosa, mi aveva fatto salire di corsa nella mia camera, la camera che non avevo voluto vedere, e mi aveva fatto fare un bagno bollente. Mi ero gradualmente sentita meglio, molto meglio sia fisicamente che spiritualmente. Non ero stata tradita, allora. Era una grande cosa. Non appena mi fui vestita con delle cose calde e molto pesanti, ed entrai, riluttante, nella camera da letto, dal camino acceso, lei mi si precipitò contro, armata di pinzetta. Passai una mezz’ora di punizione vera e propria, mentre Nemys mi toglieva, una ad una, le spine del cespuglio in cui ero rimasta conficcata, mentre mi pettinava i capelli, ripetendomi che ero una cretina. Ad un certo punto soggiunse, con soddisfazione, che Isnark aveva avuto la punizione che si meritava per aver distorto la realtà in quel modo. Avrebbe badato a Machin per qualche giorno. Sapevo quanto fosse difficoltoso per lui, e sorrisi. Poi ripetei che mi dispiaceva, che avevo capito subito di aver fatto una stupidaggine. Nemys non mi rispose, e mi disse che era normale, che mi capiva, che ero sotto stress da troppo tempo. Mi misi a letto poco dopo. Ero stanchissima, e mi bruciavano gli occhi. Mi addormentai subito. Quella notte, Nemys non mi lasciò. Diceva di sentirsi in colpa di non avermelo detto prima. Liquidai quella cosa con un gesto. Poi dissi qualcosa a proposito dell’urna, e mi addormentai.

Per cinque o sei giorni non ricevetti visite da nessuno, a parte qualche Guaritore. Pensai di essermelo meritato. La ragione era semplice: nonostante tutte le precauzioni che avevano adottato, avevo comunque beccato una bella febbre da cavallo, così come mi meritavo. Tradimento. Bah. Ma come diavolo mi era venuto in mente? Sinceramente, non lo sapevo. Avevo diffidato un po’ troppo a lungo della gente, per capire quando facevano tutto per proteggermi, e quando invece lo facevano per farmi del male. Quando mi fui rimessa, avevo capito appieno la stupidità del mio comportamento. Ero una cretina, ed a questo nessuno poteva obiettare. Cercai di fare di tutto per porvi rimedio. Oltre a Machin, cominciai ad occuparmi assiduamente anche di Nemys, per i mesi che seguirono. Mi resi subito conto che c’era qualcosa che non andava. I riti di purificazione dei Rinnegati andarono poco a poco diradandosi, man mano che la gravidanza andava avanti. Lei cominciò ad essere sempre più stanca, silenziosa, mesta, e non faceva altro che sonnecchiare per tutto il giorno, oppure rimanere semplicemente ad ascoltarmi parlare. Le udienze furono fatte solo da me e dal Principe. Nemys cominciava a non farcela più. Qualcosa sembrava rubarle sempre di più l’energia, qualcosa che cresceva, che lei amava già. Il compagno aveva preso ad essere sempre più rassegnato, in materia. Isnark era sempre di umore più cupo, ma non lasciava mai la compagna. I rapporti tra me e lui, dopo un ennesimo momento di crisi, andarono a migliorare. Perlomeno, non mi prese a chiamare più parassita, e prendemmo a fare qualche dialogo civile. Avevamo qualcosa in comune: il benessere della Rinnegata. Presi a fare di tutto per lei. Se le prime volte aveva cercato di schermirsi, o di lamentarsi, poi prese a non fare più commenti, anzi, a ringraziarmi. Divenni una frequentatrice abituale delle sue stanze, poste in una magnifica torre, da cui si accedeva per un corridoio sospeso per aria. Capii che davvero qualcosa cominciava ad andare storto: tuttavia, vedevo Nemys ottimista, o falsamente tale, e lo ero anch’io. Lei si fidava, ed io non potevo far altro che fidarmi. Dovevo avere fiducia in lei. I Guaritori non riuscivano a spiegarsi quella strana debolezza. Imputarono tutto alla fatica. Passarono sei mesi. Se non altro, l’amicizia con i miei tre giganti non si era per nulla scalfita. Quei tra soldati cominciarono, anzi, ad essermi sempre più legati, soprattutto Zipherias, che prendeva spesso a farmi compagnia. Machin crebbe. Cominciò a divenire davvero un bellissimo bambino, e, qualche volta che eravamo andati a fare una passeggiata, lui in braccio, io, e qualcuno degli amici di turno che si sorbiva qualche ora con me, avevo ricevuto i complimenti. Mi lusingavano quasi fossi la madre. I capelli erano cresciuti un po’, ed erano di un colore stranissimo, un color oro rosso, giallo con sfumature aranciate e rossicce, meravigliosi. Gli occhi avevano cambiato colore. Grigio, quel grigio di mio fratello, chiaro, profondo, espressivo. Erano gli occhi di Tijorn, in tutto e per tutto. Non mi stancavo mai di guardarli. Lui, a parte qualche particolare tutto della mamma, come la pelle alabastrina, le sopracciglia delicate, il viso sottile, gli assomigliava molto, d’altronde. Era un bambino buono, vivace ed intelligente, anche se una vera e propria peste. Amava ridere, e combinare guai. Aveva una vera e propria passione per me, che io contraccambiavo teneramente. Il mio nipotino. Amavo moltissimo circondarmi di marmocchi, dei miei protetti, e fare un giro, andare nel bosco, oppure solamente giocare. Nemys diceva che avevo un’incredibile propensione ad amarli. Poi aggiungeva che ero obbligata ad amare anche suo figlio, perché, in un certo senso, era figlio mio. Quando ci pensavo mi sentivo un po’ strana. Già. Mi avrebbe chiamato zia. Ma io non ero propriamente tale. Ero un po’ la madre. Che strano. Ma come spiegarlo ad un infante? Allora facevo una battuta, e noi due ridevamo. A quel punto, per sottolineare il divertimento della situazione, Machin afferrava i capelli di chi lo teneva in braccio, solitamente io, e tirava, ridendo con la sua bocca dai due denti. Ma, appena io mi lamentavo, lasciava la presa, con una buffa faccia contrita, e sporgeva il labbro inferiore, addolorato, come a volersi far perdonare. Io lo abbracciavo. Allora lui si accoccolava contro di me, e non si muoveva più, soddisfatto, spesso addormentandosi. Era adorabile. Avevamo preso a benvolerlo tutti. Anche Isnark, per il quale lui non aveva una grande simpatia. Gridava ogni volta che lui voleva giocare un po’, con sua grande delusione e nostro enorme divertimento. Per Amarto aveva superato l’odio, per fortuna. Si lasciava coccolare tranquillamente. Tornai più di una volta nel luogo in cui avevo seppellito ciò che rimaneva di Tijorn ed Akita. Quel luogo divenne un vero e proprio santuario. Vi piantai dei bellissimi gigli, gigli  e rose, di persona, in modo che coprissero l’entrata, e poi, com’era tradizione lì, attaccai due file di campanelle a due rami secchi e robusti, e li piantai proprio all’ingresso della tana in cui, una notte di disperazione, avevo nascosto un’urna che mi ossessionava, facendo in modo che, ad ogni soffio di vento, ad ogni movimento, le campanelle tintinnassero, dolcemente, come se in quel luogo ci fossero gli spiriti. Passò altro tempo. Il bambino di Nemys cresceva, e lei era sempre più stanca, quasi dolorante. Cominciai pian piano a capire come stavano andando le cose. Nemys non ce la faceva. Qualcosa era troppo debole. In lei. Fino all’ultimo momento, io speravo. Speravo in lei, confidavo nella sua forza. Non volevo che mi abbandonasse. Non avrei saputo cosa fare. Perciò, dovevo solo sperare. Solo sperare. Di solito, quando ci pensavo, mi sentivo assalire dal freddo. E tornò l’estate. Era strano pensare a tutto quello che era successo l’anno prima, in quel periodo, come la mia vita fosse cambiata. Passò un anno dalla morte di Tijorn. Io rimasi quasi un giorno intero a parlargli, lì, alla sua tomba. Mi mancava. Mi mancava tutto di lui. Era una ferita che ancora faceva male. Passò un anno da che diventai Ch’argon. La data del parto cominciò ad avvicinarsi. I riti divennero sempre più radi. Io ed Isnark eravamo sempre dalla stanca Nemys, che ormai non faceva altro che riposare, o scrivere, o aspettare. Aspettava qualcuno, diceva. Ma di solito, quando gli chiedevo chi, lei mi diceva semplicemente di aspettare con lei. Ed io aspettai. Sicuramente, non mi aspettavo decisamente quello che successe. Una delle cose più strane mai capitate in vita mia. È particolare pensare a come cambiò la mia vita da quel momento  esatto, come cambiò di nuovo.

Ero alla tomba di Tijorn ed Akita. Quel giorno mi sentivo molto strana. Avevo bisogno di stare un po’ da sola, come mi succedeva spesso. Cinquant’anni di solitudine mi avevano cambiato molto. Non sopportavo più la folla ed il caos di Kyradon, ed ogni tanto avevo bisogno di raccogliere le idee, di andare dove amavo andare. Mancavano due settimane alla data prefissata per il parto, tuttavia, ed ero stata riluttante ad andare. Poteva capitare di tutto. Nemys mi aveva rassicurata. Aveva detto che non sarebbe successo nulla, che era ancora tutto lontano. Si sentiva una meraviglia. Quel giorno ci sarebbe dovuto essere un rito, quindi io mi sarei annoiata, sarei stata da sola. Dunque, era meglio che andassi un po’ via, se mi sentivo così a disagio. Sennò, com’era successo un paio di volte, risultavo sgradevole a tutti, risultavo cattiva. Mi ero sentita tranquillizzata, e mi ero fiondata nella foresta. Avevo cavalcato a lungo, godendomi il tepore estivo, abbigliata della tunica viola che avevo sempre avuto, quella estiva, e così, legando il cavallo un po’ lontana, ero andata dai miei cari. Era una bella mattina luminosa, che prometteva tante belle cose per i vivi. Io avevo a lungo parlato con Tijorn ed Akita. Avevo descritto loro i progressi di Machin, che stava cominciando a gattonare, ed a procurarmi un sacco di guai, che aveva rischiato di rompere un vaso costoso, che la notte piangeva se non dormiva con me o con Dae, che Nemys mi era parsa strana in quei giorni, che ero riuscita a non litigare con Isnark, che davvero Zipherias stava prendendo ad essere un po’ troppo appiccicoso, e tante altre piccole cose quotidiane. Nessuna risposta, dalla cruda e nuda terra. Solo un vago tintinnio di campanelle. Mi sentii, come sempre, orrendamente sola. Nessuno mi poteva capire. Nessuno. Nemys stava troppo male per potermi ascoltare, per poter ascoltare le mie lamentele. I miei amici in fondo a volte non mi capivano. I bambini erano troppo piccini. Loro erano morti, gli unici capaci di riuscire a comprendermi. Quasi mi misi a piangere. Implorai loro di rispondermi, di tornare. Sussurrai mille e mille preghiere, senza esito. Ero sola. E poi rimasi di nuovo in silenzio, addolorata. Avvertii degli strani rumori. Sobbalzai. Cos’era? Rimasi con l’orecchio teso un altro po’. Ancora rumori. Accidenti. Mi sentii avvolgere da ogni sorta di pensieri. Quella era sempre una regione piuttosto tranquilla, ma non si poteva mai sapere. Nemici. Ferite. Morte. Solitudine. Eh, no. Non intendevo morire. Dovevo curare i miei cari. Estrassi la spada, in silenzio. Potevo sentire il cuore che mi batteva fortissimo, l’ebbrezza dell’agguato sciogliermi il sangue. Di nuovo, il tintinnio di campanelle. Maledissi quel rumore, e sgattaiolai via, verso un albero vicino, addossandomi al tronco. Ero pronta a far fuori qualunque nemico. Se solo avessi saputo quale sorpresa mi si stava preparando…con la mano libera dalla spada, mi tirai il cappuccio. Nessuno doveva vedermi, nessun nemico. I rumori si ripeterono, più vicini. Ad un certo punto, vidi una figura, di soppiatto, che si avvicinava. Aveva una spada meravigliosa, scintillante, che mi stupì, che emanava potere da ogni parte della struttura, ed era nascosto dal mantello. Doveva essere un giovane uomo, però. Nessuno della razza degli elfi era così poco cauto. Chissà chi era. In ogni caso, ero prontissima a farlo fuori. Agile come una gatta selvatica, mi preparai, strinsi forte il pomo della spada. Sentii il fruscio debole dei passi dell’uomo fermarsi. Lo sentii molto vicino. Il potere della spada non mi mentiva. Bravo, il tipo. Conoscevo poche persone in grado di avvicinarsi così ad una Spia. Rimanemmo per un attimo così, uno dal lato opposto all’altro, pronti all’agguato. E poi agimmo nello stesso momento. puntai la lama alla gola dello sconosciuto, alto e sottile, e sentii che lui mi imitava. Buffo. Davvero buffo. Ebbi un lampo di capelli lisci e neri, una carnagione scurita dai viaggi, occhi scuri e lineamenti che mi erano curiosamente familiari. Quel tipo mi ricordava qualcosa. Ci guardammo per una frazione di secondo. Vidi la sorpresa montare nei suoi occhi duri, indomiti. Si: quell’uomo mi diceva qualcosa. Non riuscivo a capire cosa, però. Sentii, improvvisamente, la lama scostarsi dalla mia gola. Eh? Che succedeva? Stupido sciocco. Io non mi mossi. Credeva io fossi inerme? Ero piccina, bassa, è vero. Ma ero stata una Spia. A me non la sia faceva franca. Il motivo di quel comportamento era però un altro. Scrutandomi come se non credesse ai propri occhi, il giovane esclamò, con una voce venata d’incredulità che mi riportò a tempi lontani, che ricacciai subito indietro nella mia memoria, troppo concentrata sullo scontro che mi pareva imminente. “Lsyn!”. Disse, guardandomi come se fossi impazzita, o chissà quale prodigio. Mi sentii avvolgere dal freddo, e dalla sorpresa. Chi era? Che cosa stava succedendo? Io non conoscevo umani. Chi era quella creatura così familiare che conosceva il mio nome? Cosa stava succedendo, dannazione?

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Capitolo 87
*** Ai confini dell'irrealtà-Una parte del passato. ***


Salve a tutti, miei lettori

Salve a tutti, miei lettori. A quanto pare, questi avvisi stanno tornando xD

Beh, non vi ci abituate. La scuola è vicina ç__ç

Povera me, povera me. Per questo, vi dirò che forse gli aggiornamenti si diraderanno, dopo il 7, purtroppo .__.

Gennaio è gennaio .__. E questo è il 5 anno .__.

Vabbè, lasciamo perdere.

Saluto tutti, soprattutto chi legge e commenta (i miei adorati Carlos Olivera e Selly -farei loro una statua d’oro, che ne dite? xD), mandando ad essi un grande bacioJ

Disclaimer praticamente fondamentale. Poi non mi venite a dire che non ve l’ho detto!

 

Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio! È solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di tempo, con il consenso di entrambi! xD

Dunque, molte delle situazioni, la maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia “indipendenza letteraria” (xD)-), e, soprattutto, il personaggio di Regis appartengono all’anzidetto Carlos Olivera, ed alla sua opera xD

 

Ecco. Quello che avevo da dire l’ho detto!

Grazie a tutti, perché sono qui, ma soprattutto a chi si fa sentire, a chi mi aiuta, a chi mi sprona ad andare avanti.

Grazie. Senza di voi proprio non so dove sarei xD

A presto!

Akita

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Ma chi era, quel giovane umano che mi stava guardando? Davvero, mi diceva qualcosa. I suoi lineamenti non erano per nulla sconosciuti, ad una parte di me che cercava di farsi notare, cercava di darmi una dritta. C’era una parte profonda, in me stessa, sepolta sotto strati e strati di dolore, che continuava a ripetermi che io conoscevo quel tizio, quel tizio che mi guardava con una sorta di gioia perplessa, quel tizio che mi sembrava di conoscere da tutta la mia vita. Eppure era strano. Non conoscevo umani così giovani, come lui. L’unico umano con il quale avessi stretto un legame….beh, avrebbe dovuto avere più di settant’anni, un’età per noi che corrisponde all’infanzia, per loro alla più infame delle vecchiaie. Tra le razze, gli unici a rimbecillirsi totalmente una volta anziani sono proprio gli umani. Le razze non antropomorfe passano un periodo relativamente breve di anzianità, un periodo in cui la loro forza svanisce rapidamente, lasciando però la mente lucida ed un corpo senza acciacchi, mentre per gli elfi, più semplicemente, l’invecchiamento dovuto al tempo semplicemente non esiste. Un elfo che vive una vita tranquilla e sana può superare praticamente indenne i secoli, arrivando in punto di morte con l’aspetto senza età che trova riscontro nei più anziani, quegli occhi calmi ed il volto antico e liscio al tempo stesso. Sono piccoli particolari come quelli che svelano la vera età di un elfo. I capelli bianchi e quelle che sembrano rughe possono apparire anche in un giovane, com’ero in sostanza io, che avevo i capelli ingrigiti a soli trecento anni di vita, la prima età adulta per la mia razza, se sollecitato nella maniera sbagliata. Insomma, quel volto liscio da giovane uomo non corrispondeva a nessuno degli umani che conoscevo, tutti morti e sepolti o irrimediabilmente rovinati dal tempo crudele. Eppure qualcosa mi sussurrava che non era del tutto sconosciuto. Mi assalì un terribile sospetto, e, in quell’istante in cui ci scrutammo, io piena di sospetto, lui stupito e felice, feci tutte le congetture del caso, tutte drammaticamente errate. Che fosse un ambasciatore dei regni lontani, o un ribelle venuto a cercare rifugio? Che fosse un profugo, o un brigante? Come al solito, ero ben lontana dalla verità. Ma, certe volte, quando il tempo gioca brutti scherzi come quello, che sembrano quasi segni del destino, segni di un cambiamento profondo in me e negli altri, segni del tramontare di un’epoca, e del volgersi alla nascita di un’altra, quando la corrente di quell’oscuro fiume che è il tempo che scorre in circolo, le cui acque sono sempre smosse e sempre mutevoli, è impossibile capire. Certe volte la verità viene, più forte di una mazzata. E sono sicura che per lui fu molto peggio. Io, sotto non tanto sotto, fui davvero felice di vedere quella persona, lì, in quel tempo, in quel momento così delicato per me. Quasi un segno del destino, che mi voleva risollevare dalla disperazione in cui ero caduta. Ma allora non mi feci prendere dalla fantasia, che mi suggeriva di aprirmi a nuovi orizzonti, e di non giudicare quell’accadimento con la mia solita grettezza. Ma non feci attenzione. Grave errore.  Così parlai, con la mia solita voce roca, cattiva, in allarme, pronta a fare secco un giovane che tutto pareva fuorché animato da cattive intenzioni, e che sembrava molto contento di vedermi. “tu…”. Dissi, facendo in modo, con la spada ancora puntata alla sua gola, che lui abbassasse il viso meglio verso di me. C’era solo una persona che assomigliava a quella così. Sentii una strana sensazione, come se avessi la pelle d’oca. Scacciai brutti pensieri in un attimo. Per un momento, guardando negli occhi quell’uomo, mi parve di ritornare indietro nel tempo, in quei periodi in cui ero l’Ombra, la nobile Rian Askerat, Lsyn Amarto, la Spia di Normar, quando ancora non conoscevo dolore, e sapevo come essere contenta. Quello sguardo fiero, ora venato di perplessità. Quei lineamenti, contratti in un sorriso di sollievo, appena accennato. Ma non doveva essere. Non poteva essere. Io mi stavo sicuramente sbagliando. “chi sei? Come conosci il mio nome?”. Il giovane parve smarrito, per un attimo, e mi guardò, sbattendo gli occhi. Dannazione, mi era tremendamente familiare, quello sguardo perplesso, che mi guardava come se fossi ammattita. No. Ancora quella sensazione, quell’inquietudine. Quel tipo mi era troppo familiare. Come se fosse stato accanto a me dall’infanzia. Non capivo. Non riuscivo assolutamente a capire. Il sorriso sollevato dell’uomo si trasformò in uno di compatimento, e gli occhi tornarono insondabili. Lui sembrava saperla molto più lunga di me. Eh, no. A me non la si fa. Strinsi la presa sulla spada, pronta ad usarla in ogni caso. E poi, con voce più gentile, quasi come se stesse parlando ad una bambina, lui disse la cosa più strana del mondo. Una cosa che mi scombussolò ad un punto tale che non sono sicura che gli avvenimenti del paio di giorni che seguirono siano stati reali, o solo uno stranissimo sogno. “ma come, Lsyn, non mi riconosci?”. Domandò lui, gentilmente, a voce ora normale, completamente padrone di sé. Attraversai un altro brevissimo momento di confusione. No. Io non lo conoscevo. Per un attimo, il suo volto si sovrappose a quello di un ricordo. Un ricordo non particolarmente piacevole, né per me, né per lui, ne sono certa. Un Lazzaretto, io, orribile più che mai, isterica e debole, lui, che mi sovrastava, superbo, che mi aveva inflitto una durissima umiliazione, che ancora bruciava come fuoco. Un duello, il momento in cui mi aveva dato una solenne lezione, il momento in cui mi aveva fatto rendere conto del mio più grande difetto, il momento in cui, per un attimo, Chekaril era stato spazzato via, come nebbia mattutina al sorgere del sole, l’ennesima volta in cui mi aveva sconfitto. Un combattimento, la prima volta che avevo visto quelle cose, quelle bambole meccaniche che tanto avevano seminato distruzione, il momento in cui avevo confidato un segreto che per me era troppo prezioso. Quando avevo cominciato a considerarlo, nei lunghi anni di solitudine, passati a  viaggiare senza senso, a soffrire per delle stupide illusioni, uno dei miei amici invisibili, da coccolare nei miei ricordi. Ma scacciai subito quei rimpianti. Non poteva essere, e basta. Erano passati cinquant’anni, che per un uomo sono tanti. Come no. Le parole che seguirono mi confutarono tutte le false rassicurazioni che mi ero creata. Con uno scatto della testa, lui si tolse tranquillamente qualche ciocca di capelli scuri che mi aveva, per un po’ di tempo, lasciato il margine del dubbio sulla sua identità. Sentii praticamente il cuore fermarsi. “sono io, Regis…”. Cosa? Mi sentii immediatamente mancare il fiato. No. La mia memoria aveva ragione, come sempre. Non mi ero sbagliata. Regis. Subito mi sentii attraversare dall’incredulità, da una confusione che mi fece girare la testa, da un certo malessere. Non era possibile. Era praticamente impossibile! Come poteva? Come accidenti poteva essere che una persona come quella, che cinquant’anni prima era stato un uomo nel fiore dei suoi anni, attraversare lo scorrere del tempo praticamente intatto? Era uguale a come l’avevo conosciuto, identico. Solo la spada era molto diversa, un’arma quasi da sogno, come se on appartenesse a questo mondo. sfrigolava di potere, e la cosa non mi piaceva. Non mi è mai piaciuto essere nelle vicinanze di un oggetto caricato di magia come quello. Mi sa di strano. Di malvagio, quasi. Ma quella era la cosa minore. Lo guardai meglio. Si: era proprio lui. Non era cambiato minimamente: stessi lineamenti fieri, stessi occhi scuri e limpidi, stessa espressione franca, stessi capelli per nulla toccati dalla neve dell’età. Mi sentii avvolgere da una sensazione di panico, e di gelo totale. Era innaturale. Se solo non conoscessi Regis per quello che era, avrei pensato che lui avesse fatto chissà che sortilegio per mantenersi giovane, un qualcosa che avesse impedito al suo tempo crudele di scorrere, di erodere lentamente la roccia della sua identità. Ma era impossibile. Quello che pensai dopo mi fece fremere, e persi il controllo, dopo aver esclamato chissà che cosa, della spada, che sentii cadere a terra. Ero forse di fronte ad un fantasma? Quello che vedevo non era che uno spirito di un morto? Allora esistevano davvero? Lui era morto lì, in chissà che epoca? Oppure quella non era altro che una proiezione malefica, qualcosa di oscuro, una trappola? Mi sentii ancora più male, e cercai di parlare. Dovevo sapere. Se solo fosse stato una mera proiezione non mi avrebbe più risposto, no? Così parlai, con una vocina piccola piccola, con chissà che faccia. Ma io mi sentivo strana, come staccata dal proprio corpo. “no…tu…non puoi…non può essere. Tu non sei Regis!”. Esclamai, allontanandomi di un passo, stupefatta, completamente terrorizzata. Era tutto troppo innaturale. Cos’è, lo spirito del passato venuto ad ammonirmi, a parlarmi? Quasi risi. Ma poi ogni accenno d’ilarità scomparve, quando vidi l’espressione del mio umano preferito. Era lui a sembrare incredibilmente confuso, quasi pieno di compassione. Aggrottò le sopracciglia, preso in contropiede. Sembrava esattamente nella stessa mia barca. “Lsyn, si può sapere che ti prende?”. Domandò, quasi infastidito, da chissà cosa. Lui…infastidito. Lui…sembrava quasi offeso, quasi come se fossi io a prendere in giro lui. Bene. La situazione stava davvero peggiorando. Resistetti all’impulso di prendermi a schiaffi, per vedere se quello non fosse tutto un sogno. Doveva esserlo. Mi mordicchiai il labbro. Dolore. Ecco. No: non era un sogno. Accidenti…tra poco gli sarei saltata addosso per vedere se lui fosse davvero materiale. Uno schiaffo bastava? O dovevo ficcargli una spada in corpo? Decisamente la cosa non mi andava. Se solo fosse stato reale, per quanto mi paresse strano, avrei combinato un bel guaio. E rammentavo fin troppo bene tutte le volte che mi ero scontrata con lui chi era stato ad avere la peggio. “certo che sono io! Cos’è, d’improvviso ti sei dimenticata di me?”. Quasi mi strozzai con la saliva. Ma tu sentilo, il presuntuoso! Certo, era difficile scordarsi di lui, delle sue eterne manie da primadonna,  Dimenticarsi di lui. E lui che lo diceva come se fosse la cosa più strana del mondo, come se mi fosse andato di volta il cervello! Ma si vedeva? Cinquant’anni dopo averlo visto era ancora un bel giovane orecchie-tonde. Certo, se li portava bene, gli anni. O era un elfo in incognito, o gli umani provenienti da dove veniva lui erano ben strani. No. Dovevo parlare. La situazione era troppo strana. Ecco. Lui non doveva essere lì. Io dovevo parlare. “ma come…tu…io…Regis”. Dissi, cercando di racimolare quel poco di idee e fiato che avevo. Ma era difficile. Molto difficile. Beh…non capita tutti i giorni di vedere comparire davanti un antico amico, bello, fresco come una rosa, piombato dalle nuvolette in cui abita. “ascoltami. Tu non sei qui. Cioè…tu…tu non dovresti essere qui”. Perfetto. Avevo detto qualcosa che non aveva assolutamente senso. Non mi stupì lo sguardo perplesso del giovane, che mi fissò davvero come se fossi impazzita. Non gli davo tutti i torti. La situazione, a ripensarci, era comica. Nella mia confusione stavo dando fondo a tutto il mio umorismo nascosto. Peccato che fossi spaventata e confusa, per nulla in vena di chiacchiere e giochi stupidi. “ma che stai dicendo?”. Bella domanda, Regis. Non lo sapevo neppure io. Ero troppo terrorizzata da lui, per pensarci. E lui mi pareva praticamente stupefatto dalle mie parole. Aveva un’espressione stranissima, un po’ preoccupata. Per me. La voglia di prenderlo a schiaffi per vedere se fosse reale aumentò. Ed allora la situazione andò a degenerare drammaticamente. “mi dici perché non dovrei essere qui? Tu, piuttosto”. La sua voce si fece un po’ più seria. Cominciai a pensare che quello fosse davvero uno spirito inconsapevole di essere morto. Macabro. “che ci fai in giro per la foresta?”. Non era mio diritto, per caso? Decisamente, la situazione che qualcosa non quadrava si fece più forte. O ero pazza io, o lo era lui. Magari stavo parlando con il nulla. “non dovresti essere ancora al Lazzaretto”’. Quasi mi cascò la mascella. Al Lazzaretto? A fare cosa? Non andavo in un Lazzaretto come paziente da un bel po’ di tempo. L’ultima volta che ci ero stata era per…un momento. mi sentii attraversare da un sospetto. Possibile che...? Lo guardai, quasi con pietà. Ora era lui ad apparire un po’ sgomento. Ma mai quanto me. Avevo ancora il cuore che mi batteva impazzito. “al Lazzaretto?”. Domandai, con una certa voce stupita. Vidi, negli occhi scuri di Regis, passare lo smarrimento. Decisamente, mi pareva un po’ diverso da come mi era apparso sempre. Sicuramente meno freddo, più…umano, ecco. Meno dignitoso, più stranamente insicuro. Meno deciso a nascondere tutto di se stesso. Era strano. Molto strano. Quella discussione stava prendendo una piega tutta particolare. Ad un tratto, l’espressione di Regis sembrò trapelare sicurezza. Sembrò trattarmi come una bambina. Sicuramente, qualcosa non andava. Stavamo parlando come due lingue diverse, due registri diversi. Era stranissimo. “ti sei ripresa in fretta…solo pochi giorni fa sembravi moribonda!”. Di nuovo, provai sgomento, insieme ad una punta di inquieto divertimento. La situazione era surreale. Sembrava che per lui il tempo non fosse realmente passato. La cosa aveva del bizzarro. Moribonda. Che avevo fatto pochi giorni prima? Niente di particolare. La cosa più dolorosa che mi era capitata era stata andare a sbattere con la fronte su uno spigolo mentre rincorrevo uno scatenato Machin, tutto qui. Mah. Magari quella cosa mi aveva fatta impazzire. Era tutto frutto della mia testa. Tutto. Io non stavo parlando con nessuno. Con nessuno. Dovevo rendermi conto di quello. Era davvero strano. Ero pazza. Dovevo esserlo. Beh…avevo belle allucinazioni. Ero contenta di rivedere quel tipaccio. Me le aveva suonate più di una volta, ma mi rassicurava. Mi ricordava quella che ero stata. Mi andava bene, come amico immaginario. Davvero bene. “Regis, ma che stai dicendo?”. Dissi, con voce ora più sicura. Beh…dovevo lo stesso indagare. E, soprattutto. Non mi piaceva quello guardo paralizzato dallo stupore che apparve nei suoi occhi. Sembrava ora lui il confuso, io la sicura. Era tutta immaginazione. Nulla di quello che stava succedendo era reale. “come di che sto parlando?”. Domandò, confuso e perplesso. “di quando sono venuto a trovarti…cos’è stato…tre giorni fa?”. Cosa? Ebbi un’illuminazione improvvisa. Regis era rimasto a quella volta in cui ci eravamo incontrati al Lazzaretto. Ebbi l’impressione che gli fosse successo qualcosa di grave, di molto grave. No: non era la mia immaginazione. Peccato, un grosso peccato. Ma averlo lì, lui, così simile a Tijorn, che mi rassicurava tanto, mi piaceva. Ero egoista, maledettamente egoista, lo sapevo, ma non m’importava. Era bello avere di nuovo con sé una parte del passato. Quando io lo guardai in modo strano, lui sembrò confondersi ancora di più. Il mio sospetto diventò certezza. Non tutto quello che sembrava era come sembrava*. Lui deglutì vistosamente. Sembrava essersi reso conto della situazione ai confini dell’irrealtà. Mormorò il mio nome, guardandomi, come un bambino precipitato in un mondo praticamente sconosciuto. Ed io seppi subito che fare. Era meglio non nascondergli nulla. Meglio, soprattutto perché io non sapevo cosa stava succedendo. Sospirai. Ora veniva la parte difficile. “Regis…”. Dissi, con gentilezza estrema. Sperai davvero che fosse materiale. Almeno l’avrei avuto un po’ con me. “da quel giorno…sono passati più di cinquant’anni”. Ecco. L’ora della verità.

Per poco non fu lui a rimanerci secco. Strano come i ruoli si fossero invertiti. Lui scosse la testa, praticamente stupefatto, attonito. Negli occhi c’era, evidente, la disperazione. Provai un empito di pena nei suoi confronti. Beh. Per lui non doveva essere facile. Io intanto ero contenta che fosse lì, illusione o meno. Ma mi riuscivano insopportabili i sentimenti che si agitavano in quello sguardo un tempo impassibile. Incertezza. Terrore. Confusione. Rabbia. Povero piccolo umano. Quasi come ipnotizzato, lui fece qualche passo in avanti, per poi crollare seduto su un tronco caduto. Povero Regis. Era dura, per lui, rendersi conto di certe cose. Anche se nessuno avrebbe potuto togliermi la curiosità del perché accidenti fosse successo tutto quello, odiai quei cattivi sentimenti che si agitavano in quell’umano che mi aveva tanto aiutata. Recuperando la spada, mi andai a sedermi vicino. Di nuovo fui tentata di prendergli la mano, per vedere se fosse materiale, per sentire di nuovo la vicinanza di quel caro, vecchio amico. Non tanto vecchio, in un certo senso. Non riuscivo a capire come fosse accaduto quel prodigio. Era praticamente assurdo. Mi frenai giusto in tempo. Per attimi che parvero infiniti, non facemmo altro che scrutarci a vicenda, nel silenzio creato, s’instaurò una specie di tensione, una tensione fatta di domande non fatte, cose non dette, azioni irrisolte. Quell’umano. Era davvero un segno del destino, l’averlo ritrovato. Mi si fece strada un’idea, in mente. Non sarebbe stato male, sfidarlo. Lui mi aveva umiliata, in quel Lazzaretto, quando io ero ferita. Ed io vedevo, ora, tante ferite nel suo sguardo, tante incertezze e tanto mistero, qualcosa che prima non c’era stato, o che forse non avevo mai notato. Lo vidi quasi sperduto, sconsolato, arrabbiato con se stesso. Perciò, non osai fargli quella richiesta. Mi bastava anche solo averlo un po’ vicino. Mi faceva bene avere accanto qualcuno che non stesse per morire, o che non fosse di umore nero. Poverino. Mi ricordava tanto tempi più felici, quel fiero umano, che, in un certo senso, stare con lui era una dolcissima tortura. Lui apparteneva ad un’altra epoca. Momenti in cui io ero stata felice, momenti in cui ero stata sana, momenti in cui Tijorn era stato vivo. Mi venne voglia di sfogarmi con lui. Ero sola, mi sentivo sola, e non c’era di meglio di un vecchio amico per parlare. Chissà Tijorn cosa avrebbe pensato di me. Ma non potevo. Lui mi sembrava già troppo turbato di suo. Anche lui mi scrutava, chissà, forse meravigliandosi dei miei cambiamenti. Non lo so, sinceramente. Dopo un po’, noi due riprendemmo a parlare. Sembrò volersi confessare con me, mi raccontò una storia molto strana, di soldati umani in mezzo a Normar, di un portale che si era acceso, e che li aveva fatti tutti ritrovare lì. Più parlava, più sembrava sconfortato. Mi confessò di non sapere come uscire da quella situazione. Povero, povero Regis. Non riuscivo ad essere completamente dispiaciuta, però, nonostante non lo dessi a vedere. Era bello, in un modo o nell’altro, averlo accanto, e, soprattutto, sapere di non essere impazzita. Era davvero strano. Lui mi voleva dire che aveva viaggiato...nel tempo? Nello spazio? Che tutti lo potevano fare? Mi venne in mente una cosa. Una cosa che feci presto a scacciare. Ma era una possibilità troppo allettante. Poter tornare indietro. Poter avvisare la vecchia Lsyn di non cascarci con tutte le scarpe, in quell’inganno orrendo, poterle dire di fuggire con suo fratello e con Akita. Sarei stata allora felice, con tutti al mio fianco. Magari non mi sarei trovata invischiata in quella orribile situazione. Dopo un attimo di silenzio, in cui entrambi rimanemmo a rimuginare, lui sconfortato, io presa da una speranza quasi illogica, lui fece una cosa che, a detta mia, non avrebbe mai dovuto fare. Il curioso. Cominciò a farmi qualche domanda, guardandomi con la sua solita aria rilassata ed osservatrice, leggermente perplesso, come se non mi riconoscesse più. Ad un certo punto, mi sentii infastidita. Io lo volevo solo vicino. Non volevo che lui cercasse di sapere quello che mi era successo. Io mi vergognavo della mia condotta. Non volevo parlarne con lui, che mi avrebbe sicuramente rimproverata. Ed io non volevo essere messa di fronte ai miei sbagli. Non volevo confessargli tutte le mie colpe, non volevo confessargli di essere stata la colpevole della morte di mio fratello, che, a quanto mi era sempre parso, anche lui stimava. Non volevo parlare del passato con lui. Il mio passato era ancora troppo recente, troppo schifosamente ustionante. Erano ferite invisibili, le mie, di cui nessuno poteva rendersi conto. E che facevano ancora terribilmente male. Avvertii, improvvise, la lacrime arrivare. Cercai di ricacciarle. Cercai di essere vaga, di svicolare da quell’orrenda situazione, di cercare di evitare il pianto del cuore che stava per sgorgare, quel lamento terribile di cui mi vergognavo. Non volevo fare vedere tutta la mia debolezza. Ma, accidenti, avrei voluto. Non sapevo perché, ma mi fidavo ciecamente di Regis. Mi sembrava quasi di conoscerlo da una vita intera, come se fosse sempre stato dall’altra parte di uno specchio, la sua vita perfettamente visibile alla mia. Quell’umano mi sembrava oltremodo allettante. Lui sapeva bene cosa significava soffrire. Era come un porto sicuro, per me, anche se non l’avrei mai, mai confessato ad anima viva. Cercai di resistere al pianto quanto più potevo. Ma lui, sfortunatamente, dopo un ennesimo scambio innocente, per lui sicuramente, di parole, se ne accorse. Mi fissò, immensamente preoccupato, quasi senza fiato, indignato, e cercò di strapparmi qualche parole, innocente, su chi fosse stato a ridurmi così. Ma allora se n’era accorto! Aveva compreso la mia rabbia, il mio dolore acuto, aveva notato, nella sua intelligenza, il mio turbamento. Ed allora ebbi una reazione rabbiosa, e spropositata, che prese di sorpresa entrambi. mi sentii avvolgere, debole e mutevole com’ero in quel periodo, da un’immensa rabbia, caldissima. Rabbia verso me stessa, verso la debole che ero, verso il ratto di fogna che ero stata e che ero tuttora. Lui non doveva essere così buono nei miei confronti. Io non me lo meritavo. E lui…perché lui era venuto? Perché era venuto a scompigliare il mio fragile equilibrio, quando io ero così serena, con tutto il carico di ricordi che portava dietro, inevitabilmente? La mia reazione fu di dolore mascherato. Mi dispiace ancora per quello che feci, perché non ero in me. Reagii come quella volta che ero scappata da Uruk, finendo per fare del male a me ed agli altri. Strinsi forte la spada, mentre lui era sinceramente addolorato per me, quel magnifico umano. E poi colpii, senza pensarci su, totalmente fatta d’istinto. Menai un fendente che gli avrebbe fatto davvero del male, se solo non si fosse spostato giusto in tempo. Una parte di me, quella ragione che avevo tranquillamente messo da parte, si dispiacque di quel gesto stupido. Un’altra, invece, esultò. Lui mi guardò come se fossi una pazza, ma, immediatamente, senza troppo entusiasmo, si mise in guardia. Cominciammo il primo scambio di colpi, conclusosi senza vincitori, né vinti. Mi sentivo esaltata. Sembrò a lui, dalle mie parole, che quello fosse una resa dei conti, fatta solo perché io ero una stupida elfa vanesia. Sbagliato, si sbagliava se la pensava così. Io gli volevo bene, come un amico. Lui era stata spesso la mia ancora per non cadere nel buio. Lui mi aveva segretamente, a sua insaputa, aiutata, e molto. Io non ce l’avevo con lui. Quel duello che, all’apparenza così irrazionalmente mi ero andata a cercare, era solo un modo per dirgli che stavo male, che avevo bisogno di sentirmi viva, in qualche modo. Quel canto di lame mi faceva bene. Forse era davvero quello, l’unico modo di dialogare con Regis. Non m’importava se fossi stata perdente, davvero, come succedeva spesso. Volevo solo battermi con qualcuno, sentire di essere ancora viva, non il relitto orribile che ero sempre. Era un sacco di tempo che non duellavo con qualcuno, era una sacco di tempo che preferivo, alle armi che tanto amavo, la diplomazia che non sapevo usare. Tornare a maneggiare la spada di Eiron, con la quale avevo passato tante avventure, mi confortava. Era un balsamo per la mia anima ferita. Era l’unico mezzo per non piangere disperatamente sopra il latte già versato. Prima di riprendere a lottare, lo provocai un po’. Era bello vederlo così calmo, ma allora stesso tempo stupito delle mie parole. Sembrava aver capito che nemmeno io ci credevo, ma non lo dava a vedere, o almeno provava. Era evidente, come appresi dal secondo scambio di colpi, che c’era qualcosa che turbava il grande Regis di Fiya, quel misterioso uomo che diceva di provenire da un altro mondo. Chissà cosa si stava agitando in quella giovane testolina. Contrariamente alle altre volte, ora era lui a non metterci più di tanto impegno nel combattimento, ed a distrarsi, quasi sperasse che io non facessi sul serio. Stava sbagliando, e di grosso. Approfittando di una falla nella sua difesa, ad un certo punto, gli menai un calcio così forte da farlo quasi arrivare a terra. Mi sentii soddisfatta segretamente. Ah. Mai nulla fa più bene che picchiare qualcuno. Mi piaceva, quella situazione. Per una volta ero io a vincere. Per una volta era lui a terra, dolorate. Un balsamo per la mia autostima a terra. Lui cercò di riprendersi, ancora meno motivato di prima, dolorante, e per me, e disarmarlo finalmente, quella sua spada meravigliosa che un po’ mi spaventava, e farlo cadere a terra furono una sola cosa, un gioco da ragazzi. Mi sentii trionfante. Avevo vinto. Decisamente, non c’era nessuno migliore di me. Così, solo per vantarmi un po’, gli puntai la spada alla gola, come per minacciarlo di morte. Ci guardammo, lui pieno di falsa sfida e sicurezza vacillante. Sembrava non fidarsi tanto di me, essere quasi spiazzato da quel cambiamento. E fu per quel motivo che io non mi mossi. Ben presto, all’ardore del combattimento, nella mia mente si sostituì il panico. Cominciai a tremare. Ero stata stupida. L’avevo attaccato, lui, che mi aveva aiutata tante volte, così, per gioco. La vittoria prese a sapere di sale e cenere. Come scusarmi, ora? Che fare? Come fare, soprattutto? Oh, accidenti. Ero stata di nuovo stupida. Avevo di nuovo agito come una stupida avventata. Avevano ragione, tutti, a chiamarmi così. Per un lungo momento, ci guardammo, io indecisa, timorosa, timorosa anche di avergli fatto del male, perché se fosse stato così non me lo sarei mai perdonato. Fare del male a lui, il mio amico Regis, che aveva tentato tante volte di risollevarmi dal baratro in cui ero caduta, quell’umano decisamente fuori da ogni schema. Decisamente, non ci fu tempo per fare nulla. Ci guardammo per davvero poco tempo, prima che la situazione si ribaltasse di nuovo. Udii uno strano rumore, come di scatto, e mi raddrizzai, allarmata. Non avevo mai sentito una cosa di quel genere. Cos’era? Che stava succedendo? C’era, evidentemente, qualcosa di strano. Altri rumori. Mi misi in guardia. Attacco probabile. Non mi piaceva, quella situazione. Seguì un secondo di puro silenzio. Ad un certo punto, una serie di stranissimi scoppi, davvero insoliti, come qualcosa costretto a fatica in un tubo con dentro dell’aria compressa, ma più metallico. Sentii, distintamente, qualcosa tintinnare, colpire la mia spada, a grande velocità e con grande forza, quasi strappandomela dalle mani. Quasi nello stesso momento, con mia grande sorpresa, sentii un dolore orribile all’avambraccio in cui tenevo la spada, un dolore terrificante, mai provato. Quasi come se un uncino di fuoco mi stesse trapassando la pelle. Non era una spada. Non era fuoco. Era più circoscritto, ma più intenso. Sentii subito l’odore metallico del mio sangue, e qualcosa di bagnato corrermi sul braccio. Gridai, tenendomi la ferita. Quel coso mordeva! Mordeva, feriva, era insopportabile. Raramente sono stata costretta a sopportare una cosa di quel genere. No era nemmeno un coltello. Come un sassolino buttatomi addosso, ma molto più tagliente e veloce, e più forte. Che roba era? Mi sentii, persa nella nebbia di dolore, allontanare da Regis con un calcio. Si: io me lo meritavo. Mi meritavo quella brutta punizione, per aver fatto quello che avevo fatto. Caddi: le gambe, dal trauma, non riuscivano più a mantenermi. Sentii delle parole, delle voci, una lingua che non conoscevo. La voce di Regis, più distinta delle altre, che rispondeva nello stesso idioma. Cominciai a non vederci più bene, riversa chissà dove. I pensieri non fluivano più con la stessa coerenza, il dolore mi stava facendo impazzire. Avrei voluto darmela a gambe: ma non potevo. Non riuscivo a muovermi. Mi sentivo sempre più stanca, sempre meno presente: stavo perdendo i sensi, e lo sapevo. Sperai solo di non morire. Mi rimanevano troppe cose da fare. Di nuovo uno scambio di parole. Poi qualcuno mi si avvicinò, e cominciò a darmi dei colpetti in faccia. Avrei voluto allontanarmi, da lui. Ma non ci riuscivo. Forse era Regis. Ma non mi pareva lui. Era più scuro e tarchiato. Altre parole. Poi, ad un certo punto, come se non ci fosse mai stato, il dolore svanì. Venne risucchiato a poco a poco, lasciando al suo posto uno strano formicolio. Tentai di vedere cosa stesse succedendo, ma non riuscivo a muovermi. Non ce la facevo. Mi sentivo ancora troppo debole. Cominciò ad avvolgermi uno strano torpore, dovuto probabilmente alla brutta ferita, al trauma, alla perdita di sangue, che, come avvertivo, non era poca. Sentii degli strani movimenti, uno strano formicolio. Come se qualcosa mi stesse toccando la ferita, la senza farmi male. Non capii. Era fin troppo strano. Era irreale, soprattutto. Ma cominciavo a sentirmi sempre più male. Chiusi gli occhi sul mondo, che ormai vedevo offuscato, e cominciai a precipitare nel buio. Oh, Regis. Mi avrebbe mai potuto perdonare di quella stupidaggine che avevo commesso ,con la mia solita avventatezza? Avrebbe potuto mai capirmi? Avrei avuto un’altra possibilità di parlargli, soprattutto? Non stavo morendo, vero? Lo speravo. Ma poi, non mi chiesi più nulla. Piombai in un sonno profondo, in un buio accogliente. Che strana mattinata. Il sole era sorto da così poco ,ed io avevo rivisto un amico che credevo invecchiato e morto, avevo duellato con lui, mi ero sentita di nuovo viva, ero stata colpita da chissà cosa, forse un’arma sconosciuta. Ma chi erano, quegli altri? Cosa accidenti stava succedendo? Cosa mi aveva colpito, soprattutto? Ma quelle domane potevano attendere. Mi addormentai: ero troppo stanca, turbata da quell’orribile trauma, per poter pensare ancora ad altro.

 

* si, sono il Genio Delle Frasi Contorte U__U

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Capitolo 88
*** Ai confini dell'irrealtà-Dal tempo crudele. ***


Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni

Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio! È solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di tempo, con il consenso di entrambi! xD

Dunque, molte delle situazioni, la maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia “indipendenza letteraria” (xD)-), e, soprattutto, il personaggio di Regis appartengono all’anzidetto Carlos Olivera, ed alla sua opera xD

 

 

Non dovetti rimanere molto tempo addormentata, non so. Diciamo che non ne ho la minima idea, né mi sono mai premurata di scoprirlo. E’ un fatto molto marginale rispetto agli accadimenti assurdi a cui dovetti assistere poco dopo essermi resa conto di aver ripreso coscienza. Quando mi svegliai, ero in un posto in un certo senso diverso da quello che avevo lasciato, un posto per un verso parecchio strano. Nulla di quello che mi ero successo, e quello che ancora mi stava succedendo, pareva avere qualcosa di reale. Avevo rivisto un mio vecchio amico, che tanto vecchio non era. Ero stata colpita da qualcosa di sconosciuto. Da quello che avevo capito, c’era altra gente. Ed ancora, ad occhi chiusi, avvertivo voci non tanto lontane. La cosa più strana, era che non stavo male. Niente pena. Strano. Niente tortura. Non mi sembrava di avvertire dolore: all’altezza di quella specie di morso sentivo solo un vago formicolio, ma era come se non avessi quel pezzo di pelle. Era inquietante. Dovevo essere stesa su qualcosa di molto ruvido, dalla consistenza strana. Mi sembrava di essere ancora nel bosco, o almeno la percezione di temperatura era quella, l’odore fresco di inizio autunno, quando l’aria, dopo mesi di caldo, comincia a rinfrescarsi, e divenire limpida, prendendo quell’aroma tutto particolare, che già presagisce una lontana neve, i rumori erano i soliti, lievemente attutiti. Accanto a me, c’era qualcuno. Sentivo la sua presenza, e strani rumori, come di metallo che colpisce il legno. Aspettai un po’ prima di annunciare il mio risveglio. Ero stata proprio una sciocca. Combattere per una simile stupidità una persona che mi voleva bene, e che rispettavo…bah. Il dolore mi stava squilibrando la mente. Povero Regis, che non aveva fatto altro che chiedermi cosa stesse andando di male! Fossi stato in lui, non avrei lasciato andare quell’elfa pazza che l’aveva quasi voluto uccidere. Io mi sarei uccisa, al posto suo. Devo dire che me lo meritavo. Altro rumore di voci, dal suono amichevole. Voci maschili. Una lingua sconosciuta. Sembravano parlare tra di loro, ma non capivo una parola del discorso, né quel linguaggio mi sembrava simile a qualcuno di quelli umani, uno dei loro dialetti. Decisamente troppo nasale per gli idiomi umani, dai suoni duri, ed aspirati. Eh, no. Ma in che razza di mani ero finita? Con chi se la faceva, Regis? Eravamo stati fatti prigionieri da una tribù a me sconosciuta, che passava di lì? Oppure un altro di quei maledetti misteri che quella dannatissima primadonna si portava dietro, come tanti cagnolini fedeli? Beh, senz’altro quella cosa da cui ero stata colpita non era un’arma conosciuta. Non era nemmeno qualcosa di magico, perché, in caso contrario, avrei avvertito qualcosa, perché sono poche le armi magiche che quando si attivano non rilasciano la loro energia, peraltro percepibile alla perfezione da elfi, creature non antropomorfe e maghi umani molto abili. Beh, a dire la verità, solo le trappole, come quella in cui ero cascata, e che mi era costata terribili ustioni, ed altrettanto orride cicatrici, sono fatte per essere invisibili. Comunque, non era una trappola. Sennò saremmo morti entrambi. e soprattutto io non sarei stata ancora una volta viva. Non osavo pensare ad un’altra simile sfortuna, nella sfortuna. E se invece fosse successo davvero così? Che mi avevano fatto, quella volta? Avevo il naso rotto? Ero cieca, o chissà quale altra diavoleria? Ma non sentivo dolore. Allora, che diavolo, volevo assolutamente scoprire cosa accidenti quel giovane si fosse portato appresso in quel viaggio assurdo. Già aveva superato se stesso tornando da cinquant’anni nel passato. Volevo proprio scoprire quale sorpresa era in serbo. L’ultima volta erano stati grossi scatoloni di ferro che galleggiavano in aria…ora? Decisamente, la mia immaginazione si rifiutava di andare oltre quei cosi. Cosa ci poteva essere di più strano? Eh no. Non potevo resistere. Aprii gli occhi. Al momento non c’era nulla di così spettacolare in giro, e rimasi un po’ delusa. Ero stesa su una specie di telo dagli strani colori, e, con la coda dell’occhio, intravedevo qualcuno di familiare accanto a me, seduto. Un pochino mugugnando, disturbata da un piccolo giramento di testa, mi misi seduta. Il sospetto che avevo avuto era stato confermato: la persona accanto a me era Regis, che, con calma invidiabile, come se non lo avessi mai sfiorato, giocherellava con un ramo, affilandolo con la sua spada, completamente indifferente al mondo che gli scorreva attorno. Forse aveva voluto dargli una forma interessante, chissà, ma tutto quello che gli era riuscito era una specie di rettangolo ubriaco. Appena dovette avvertire il mio movimento, fatto con calma, perché temevo qualche altro  giramento di testa dovuto alla debolezza, alla perdita di sangue, cosa che non si verificò, lui si girò, ed un piccolo sorriso si disegnò sul volto giovanile. Mh. Sobbalzai. Aveva un brutto segnaccio lì dove dovevo averlo graffiato con la spada nel momento in cui ero stata colpita. Ci ero andata proprio pesante. Il sorriso che si disegnò sul mio volto orribile in risposta al suo era sicuramente qualcosa di sforzato e sciocco. Dovevo sembrare un’idiota. “ben svegliata”. Deglutii. La sua voce non mi sembrava per nulla  arrabbiata. Non mi guardava con ostilità. Non c’era astio nei suoi occhi scuri e calmi. Nemmeno sveglia, e già mi ritrovai di nuovo disarmata, completamente  spiazzata da quell’umano che, in teoria, avrei dovuto disprezzare per la sua razza, cosa che in pratica era impossibile da fare. Casomai, sarebbe dovuto essere il contrario. Ero io la sciocca e la fragile, la mezza pazza da disprezzare. Eppure lui non lo faceva, anzi. Sembrava sempre trovare gradevole la mia compagnia. Com’era complesso, Regis. Di solito gli umani sono piuttosto semplici di leggere. Creature preoccupate e perennemente alla ricerca di qualcosa, che la loro stessa breve vita gli impediva di realizzare. Creatura piccole come formiche, del tutto sprovviste di orgoglio, quell’orgoglio proverbiale della nostra razza. Presi da soli sono molto interessanti: profondi come l’oceano, ingenui come un bambino al tempo stesso, anche quando sono immersi nel male più assoluto, anche quando solo contadini ignoranti. Più versatili, più svelti, specialmente durante l’infanzia. Siamo noi che impariamo più cose, noi elfi. Ma generalmente sono gli uomini a mettere in pratica la nostra teoria. Un gruppo di esseri umani è devastante. La forza bruta alla millesima potenza, che perde la propria ragione, diventando moltitudine animale senza ideali. Lui mi è sempre sembrato un elfo, per certi comportamenti, per la profondità assurda delle sue idee, per la complessità di quel carattere che non ho mai capito appieno, forse perché era troppo simile al mio, in un tempo lontano, se fossi stata una persona diversa, se l’educazione da Spia non mi avesse irrimediabilmente orientato verso un tipo di esistenza. Mi era sempre sembrato più vecchio degli anni che mostrava, più maturo, uno stagno troppo torbido per vederne il fondo. Mi ero sentita drammaticamente poco all’altezza nei suoi confronti, e non dico fisicamente. Anche lui aveva avuto le proprie sofferenze, anche lui aveva i propri pensieri dietro quell’aspetto calmo ed acuto, fiero, da guerriero solitario, scommettevo che anche lui avesse avuto i propri lutti, e tanti. Se la storia della sua estraneità al nostro mondo, cosa così strana da non poterla nemmeno concepire, era vera, allora doveva davvero aver lasciato tutti dall’altra parte, i suoi amici, i suoi affetti, chissà, magari anche la sua famiglia. Chissà da quanto vagava, sprecando la sua giovinezza, alla ricerca di un modo per ritornare indietro, chissà da quanto soffriva! Avevo visto preoccupazione, smarrimento totale nel suo viso, ma anche una certa voglia di combattere quell’ennesimo scherzo del suo destino, di quella rete intricata che era la sua vita. Non avrebbe smesso di trovare un modo per tornare nel suo tempo. E quella era la cosa che ci differenziava. Nel suo sguardo c’era ancora l’ardimento, la tenacia di un’anima che non ha smesso mai di snudare gli artigli, ed attaccare, una creatura che non si è mai rintanata nel suo buco, per non uscirne mai più. Lui aveva imparato da tutti i suoi errori. Ne aveva tratto una morale, per crescere, per divenire una persona ancora migliore, ancora più speciale. Io no. Avevo definitivamente rinunciato a lottare, vivendo per pura inerzia, per puro amore verso i cari che mi rimanevano. Ero caduta, e, anche sapevo quanto fosse sbagliato, non mi risollevavo più. I miei errori non avevano portato altro che a disgrazie. Non avevo imparato nulla da tutti i miei lutti: mi portavano solo incubi, e tanti ricordi amarissimi. E comunque andasse, la mia vita era una sequela impressionante di fallimenti. L’unica cosa buona che avevo fatto, creare Nemys, non era stata nemmeno per mia volontà. Che buffo. Lainay si era creata da sola la propria nemica. Insomma, tirando le somme ero indegna, io, l’elfa, di stare anche solo vicino a Regis, anche solo di sfiorarlo. Sarebbe stato giusto che lui mi avesse allontanata, schiacciata come lo scarafaggio sporco che ero. Invece non era così: lui si limitava a sorridermi gentilmente, guardandomi con un certo affetto divertito, come se sapesse che io non cambiavo mai, e ne fosse felice. Aprii la bocca per parlare. Avrei voluto dire molte cose, quanto davvero mi dispiacesse, quanto sapessi di essere una vera sciocca. Ma non ci riuscii. Mi limitai a chiedere cosa fosse successo, nonostante la cosa ben poco m’importasse. Lui scosse lievemente la testa, ed ebbi la netta impressione che avesse capito quello che avevo da dirgli. Non riuscii a dirgli oltre che uno stupido “mi dispiace”. Trasalii subito dopo aver parlato. In quanto a genialità, battevo Paòl. Mi sarei presa a sassate da sola, per l’ovvietà che mi era uscita di bocca. Beh. Povero Regis. Aveva un bel graffio sul collo, di forma misteriosamente irregolare, l’avevo preso allegramente a calci, nella foga del combattimento rabbioso. E ancora mi guardava con affetto calmo, come se avesse capito tutto, con quella sottile ironia che traspariva da ogni angolo del suo viso, come se mi capisse, davvero. Bah. Chi lo capiva era bravo. Mi sarei ammazzata da sola, per le scempiaggini che uscivano dalla mia bocca. Stupida vecchia capra. Sobbalzai quando mi venne in mente un pensiero. E la mia spada? Mi era caduta di mano, lo ricordavo benissimo, quando ero stata colpita, sopraffatta dal dolore. Lo ricordavo. Mi cominciò a battere forte il cuore. Non dovevo assolutamente perdere quella meravigliosa spada, il ricordo così vivido di un caro amico, quella spada che aveva lavato via le mie colpe con il mio sangue, che aveva assaggiato come me l’umiliazione e una dolorosa rinascita. Per fortuna, sotto lo sguardo curioso e benevolo, ed il piccolo sorriso di Regis, che era stranamente più tranquillo di prima, che scuoteva nuovamente il capo, divertito, con chissà quale pensiero sotto quella zazzera scura che portava ancora i segni di quel taglio maldestro al tempo del torneo, per quanto strano potesse sembrare pensarlo, quanto straniante, la trovai accanto a me, subito, stesa a riposare con la proprio padrona che ancora non si riconosceva come tale. Mi sentii rinfrancata. Regis doveva aver pensato anche a quello. Lo guardai, riconoscente, mentre rinfoderavo quell’arma preziosa, preziosa sia come spada in sé, che come valore affettivo. L’incisione sempre fedele brillò per un attimo alla luce del sole. Mi sentii stranamente meritevole di quella scritta. Stavo tenendo fede alla mia promessa. Beh, almeno era una cosa. L’interesse con il quale l’umano aveva seguito i miei movimenti m’inquietò, e mi mise una strana sensazione addosso. Non mi piaceva essere sommersa da una valanga di domande da quel ficcanaso, che peraltro non aveva imparato la lezione. Ero troppo stanca di fingere forza, troppo fragile dentro per poter continuare la mia pantomima di persona pacificata. Quella recita che stavo imbastendo durava da fin troppo, dalla morte di Akita, quando nessuno aveva deciso di chiedermi più nulla su di me, quando tutti sapevano di ciò che facevo. Provai uno strano bisogno di sfogarmi con qualcuno. Nemys, in quel periodo, era sempre troppo assorbita da se stessa, dalla sua gravidanza difficile e dall’esito purtroppo scontato, che sapevo aveva tentato in ogni modo di nascondermi, ma che io implicitamente sospettavo. Il mio Maestro,beh… non potevo dirgli certe cose. I miei tre amici non mi capivano ancora bene, mi conoscevano da troppo poco tempo. C’era solo lui, Regis. Quell’umano a cui mi sentivo tanto affine, come se fosse mio amico da secoli. Era davvero una sensazione strana, che avevo provato dalla prima volta che l’avevo visto. Come se l’avessi sempre conosciuto, come se avessi passato la mia vita con lui. Qualcosa, in me, diceva che potevo fidarmi ciecamente di lui, io, la persona che, specialmente in gioventù, non si fidava nemmeno del suo riflesso, di potermi confidare con lui, unica persona in grado di capire l’inferno in cui ero precipitata. E così feci, approfittando di una sua ennesima domanda casuale, sul costruttore della mia bellissima spada. Non riuscii, come mi era sempre capitato, ad aprirmi totalmente, e dissi solo qualcosa, a spizzichi e bocconi, immersa in un pianto silenzioso. A dire il vero la cosa più eclatante che gli dissi fu quella della cambiata geografia di Uruk, al suo tempo molto più piccola. Accolse con stupore quella notizia, informandosi su chi fosse a nostro capo. Ed io gli parlai di Nemys, un po’. Ancora non potevo rivelargli che si trattava della mia Rinnegata. Non mi sentivo pronta. Ma in quel momento lui era già riuscito a farmi calmare, a forza di sussurri pieni di forza, mentre mi carezzava con una mano i capelli con dolcezza, delicatissimo, per rinfrancarmi, per farmi sapere che lui mi era vicino. Ed io che avevo cercato di fargli del male, di umiliarlo come lui aveva umiliato, a ragione, me! Ho sempre adorato Regis. E dire che io, fino a poco tempo prima, avevo tentato di ammazzarlo. Quell’uomo era capace di sconvolgere lo stesso tessuto del destino. In tutto il mio dolore che si stava riversando fuori come lava, mi sentii turbata da quel gesto, anche se non lo diedi a vedere. Quel contatto così ravvicinato mi confondeva, mi stava confondendo. Era terribilmente piacevole, forse davvero un po’ troppo. Mi piaceva essere trattata con tutta quella familiarità. Era bello vedere qualcuno agire come se le mie cicatrici, che mi deturpavano il corpo, non esistessero. Con quella sua innata dolcezza, uno scoglio al quale aggrapparsi nella tempesta, riuscì a placare il mio pianto, a distrarmi, parlando di altre cose. Ma lui non tolse la mano dalla mia spalla, un contatto che trovavo oltremodo confortante. Gliene fui immensamente grata. Avevo bisogno di una persona cara nella mia vita. E poco male che lui non fosse riuscito a tornare nel suo tempo. Devo dire, che proprio quella era una cosa che non mi dispiaceva. Se fosse rimasto qui, la cosa mi sarebbe piaciuta moltissimo, nonostante fosse una cosa che cercavo di nascondere anche a me stessa. Certo, avrei fatto di tutto per vedere felice quell’amico speciale, che, comunque andasse, era destinato a morire molto prima di me, avvizzendo terribilmente, ma se solo si fosse presentata l’occasione non avrei sprecato il mio tempo con lui solo per duelli futili. Quel tempo concessomi quando tutto cambiò di nuovo era un dono degli dei, qualunque essi fossero. Quando il vento della mia vita mutava ancora direzione, c’era lui. C’era stato lui quando mi ero resa conto di essere ancora forte. C’era stato lui nel momento più orribile della mia esistenza. Indirettamente, c’era stato lui un altro milione di volte, ed ora era lì, davanti a me, calmo e tranquillo, una morbida roccia in mezzo alla tempesta della mia vita. Dovevo essergli grata. Bah….ma che razza di pensieri mi stavano venendo in mente? La sua presenza era solo innaturale qui, e basta. Però, averlo vicino…oh. Scacciai tutti quei pensieri con veemenza. Lui non si accorse del mio strano comportamento. Decisamente mi stavo comportando come una stupida. Non dovevo volere così bene ad un umano dalla vita breve. Mi sarei solo fatta del male. Un po’ troppo tardi, per pensarlo. Avevo già stretto una solida amicizia con quella creatura così strana, fedele e fiera, così nobile. Quell’animo così affine, che sentivo vicino, eppure lontano, come il riflesso di uno specchio. Era strano, pensare a noi due. Come le facce di una stessa medaglia, unite, ma costretta a guardare in due lati completamente differenti, senza incrociarsi mai. La nostra vicinanza mi dava uno strano sentore, di attrazione fatale e repulsione al tempo stesso. Come se non dovessimo incontrarci, come se la nostra amicizia fosse qualcosa di contro il mondo. Eppure, qualcosa in me smaniava di parlargli, anche solo di stargli vicino. Riconoscevo ad un livello troppo profondo l’affinità che lui aveva con me, ed io con lui. E decisamente, in tutto il tempo che lui fu con me, essa prevalse, ed il nostro rapporto, quello strano rapporto che alternava momenti di confidenze, amicizia gradevole ed aiuto, ad altri in cui ci scannavamo peggio di due cani randagi per un osso, fu destinato a mutare ancora, in un modo assurdo, imprevedibile, seppure innegabilmente interessante. Devo ringraziare  lui se, per un certo verso, guarii, lui e tutto il bagaglio di strani personaggi che si portava dietro. Dopo un po’, finalmente, il nostro discorso si era tramutato in un dialogo civile, serio. Mi assorbii totalmente in quello scambio di parole così raro con quello strano umano. Mi piaceva. Ad un certo punto, sentimmo qualcuno raschiarsi la gola per ottenere la nostra attenzione. Lui si girò, tranquillo, ed io lo imitai, un po’ allarmata. Sobbalzai. Decisamente, questo era un po’ strano. Mi era familiare.  Guardai storto Regis, che aggrottò lievemente le sopracciglia, disorientato dal mio cambio di umore. Ero perplessa. Decisamente quell’umano mio amico aveva tanti assi nella sua manica. Riusciva a stupirmi sempre. Che strana creatura. Era un uomo, un po’ bassino, più tarchiato e scuro di Regis, dalla faccia affabile, un po’ tonda, dai capelli ed occhi di un bel castano intenso. Sembrava un po’ a disagio, ma ben deciso a proseguire il suo compito, quale che fosse. Indossava strani abiti, di uno strano materiale, di colore davvero insolito, interessante per mimetizzarsi nel bosco, ed aveva in mano una sorta di cassetta, all’apparenza pesante e piena. A tracolla portava uno stranissimo oggetto nero, lungo e stretto, un po’ come una faretra di un arco, ma dalla forma totalmente diversa. Lo guardai con curiosità. Chissà a cosa serviva sicuramente non aveva un aspetto così benevolo. Guardai Regis con curiosità. Lui non sembrava spaventato dal nuovo arrivo, quindi deciso di non esserlo nemmeno io. Mi fidavo di , e lui sembrava a suo agio con quelle persone. Fui assalita dalla curiosità. Ero davvero impaziente. Quello strano umano era una novità fin troppo golosa, per me. E, di solito, quelle che portava Regis erano particolarmente ghiotte. “chi è?”. Chiesi, guardando con interesse lo strano atteggiamento dell’uomo, professionale e sicuro di sé, ma comunque molto discreto. Il mio amico sorrise leggermente, e fece un cenno verso di lui. Sembrava conoscerlo. Che strano. “è un medico”. Mi rispose, con voce calma, non diversa da come mi aveva parlato per tutto il tempo, trattandomi sempre nello stesso modo, nonostante io avessi cercato di ammazzarlo. Che bravo umano. Medico. Strano termine. Ricordavo vagamente che spesso gli umani chiamavano così i Guaritori. Suonava n un modo quasi brutto. “si chiama Masato. Ti ha curata lui”. Oh, tu guarda. Mi aveva curata lui. Dovevo proprio ringraziarlo: era lui che non mi aveva fatto sentire dolore, era lui che aveva impedito a quella cosa che si era piantata nel mio braccio di mordermi ancora. Bah, però. Il suono del nome era proprio orribile. O meglio. Era un pessimo nome. Ed io che mi ero lamentata di Roxen! Che gusti avevano, gli umani del posto in cui proveniva la mia primadonna preferita? Erano forse tutti  matti come cavalli, come lui? Nemmeno un minimo di eleganza. Sembrava il nome di una cosa. Non ero abituata a quei suoni strani. Ricambiai riluttante il cenno del soldato. Il mio amico sogghignò, con sarcasmo, davvero divertito. Io gli rivolsi un’occhiataccia. Lui m’ignorò, e si concentrò sul tipo. Con una bella voce tenorile, l’uomo cominciò a parlare, in quella lingua nasale che avevo già ascoltato. Sbattei più volte gli occhi, stranita. Ma che strana cosa. Mi sentii davvero molto perplessa. Chissà che stava dicendo. Qualcuno lo stava capendo? Con mio enorme stupore, girandomi così velocemente da farmi schioccare le vertebre del collo, sentii Regis rispondere tranquillamente, con tono calmo, nello stesso medesimo idioma. Lo guardai come se fosse un cane con dieci zampe appena sbucato davanti a me. Non potevo crederci. Lui li capiva! Lui era in combutta con loro! Sperai ardentemente che non fosse così. Non mi sarebbe piaciuto se mi avessero imprigionati assieme. Cominciai ad escogitare qualcosa di molto doloroso per il mio amico in caso fosse stato così. Ero davvero stupida. Cominciarono ad affollarsi nella mia mente un sacco di domande. “ma che lingua è? Che state dicendo?”. Domandai a bruciapelo, verso il mio amico, protendendomi, curiosa, verso di lui, in un lampo. Era più vicino di quanto pensassi. Quella fu la prima delle situazioni potenzialmente imbarazzanti che si andarono a creare, molto per colpa mia. Mh. Capii subito di aver fatto una cosa leggermente sbagliata. Quasi quasi i nostri nasi si toccavano. Forse eravamo un po’ troppo vicini. Cercai di ignorarlo. Ma mi sentii stranamente tesa, una tensione particolare, che mi faceva brontolare lo stomaco, e forse così lui, che, con un’espressione enigmatica, ma uno strano tumulto negli occhi, si allontanò un po’, girandosi con perfetta naturalezza. Mh. Mi sentii contrariata, da lui e da me. Non potevo comportarmi in quella maniera. Per inciso, non sapevo nemmeno il perché stessi agendo così. E lui che faceva finta di niente! Perché non mi rispondeva con una battutina sarcastica sulla mia foga nel muovermi, sulla mia scarsa attenzione che ci aveva quasi fatti andare testa contro testa? Tanto quella specie di creatura dalla forma di rapa non ci avrebbe capiti. Invece no. Il massimo che si era permesso fu un sorrisino. Certe volte lo detestavo con tutto il cuore, quando faceva così. Arrossii come una mela matura. Mh.“diciamo che abbiamo molte cose in comune”. Disse, scrollandosi nelle spalle, indifferente. Ma non mi fregava più, non da quando avevo imparato a conoscerlo. Era inquieto. Aveva uno strano cipiglio. Eh no. Non ero più la sprovveduta che ci cascava quando voleva fare la parte dell’eroe senza macchia e senza paura. Mh. Forse quel periodo insieme non sarebbe stato così noioso. C’erano tante cose da scoprire ancora. Magari era così solo perché era rimasto colpito dalle mie cicatrici. Che pessima eventualità: essere temuta anche da Regis mi avrebbe schiantata. Avrei dovuto parlarne con lui, quando se ne fosse presentata l’occasione. Sentii, senza preavviso, tirarmi la ferita, qualcosa che non mi fece eccessivamente male. La guardai, perplessa. La manica era sollevata, e vedevo chiaramente che qualcuno aveva fasciato il mio braccio con delle bende candide, lievemente macchiate di sangue. Eppure non faceva male. Cominciai a muovere il braccio. Vidi l’allarme sul volto di Masato, ed una sorta d’insofferenza divertita in Regis, che alzò gli occhi al cielo. Bah. Era strano. Lui allora mi parlò di una pratica strana, che mi faceva capire che i suoi amici venivano dal suo mondo. una pratica che non faceva sentire dolore, che calmava il dolore. Interessante, davvero interessante. Lui la chiamò in un modo strano: anetestia, astenetia, asne…boh. Forse anestesia, ma non penso proprio. Era un nome più strano. Erano davvero avanzati, in termini di medicina. Chissà fino a che punto potevano arrivare, chissà. Mi venne uno strano pensiero. Forse, se solo Tijorn fosse stato in mano loro…magari non sarebbe morto. Cacciai quel pensiero con stizza. Non erano venuti, e basta. Doveva morire. Doveva lasciarmi. Era giusto che fosse così, che fossi io a soffrire per tutti, e basta. Poco dopo, dopo un altro scambio di parole, in una lingua di cui lui mi rivelò il nome, ma che al momento non ricordo, Regis mi chiese uno strano permesso, con paziente calma, e prudenza. Il medico mi chiedeva di fare una cosa strana. Voleva il mio sangue. Per un momento rimasi impressionata da ciò che mi stava dicendo, e non capii assolutamente nulla. Voleva farmi qualcosa che si chiamava prelievo, qualunque cosa fosse. Per analizzare il mio sangue in seguito. Rimasi spiazzata, e guardai in un modo così buffo Regis che lui mi fece un occhiolino, sorridendo divertito. Chissà cosa voleva farmi. Ma io mi dovevo fidare di Regis. In fondo non mi aveva mai fatto qualcosa di male, ero sempre stata io a travisare le sue azioni generose. Poi quel ranocchio non mi sembrava così cattivo. Aveva una faccia buona. Dovevo fidarmi del mio amico, no? Lui si era fidato di me. Se poi mi avessero fatto del male, li avrei ammazzati. Semplice. Tanto avevo con me la spada. Ah. Ma che stavo dicendo? Ebbi un moto di ripulsa verso me stessa. Ma mi dovevo comportare sempre così? Dovevo sempre essere così sanguinaria? Bah. Accettai così, riluttante, ancora perplessa. Ci fu un altro scambio di battute tra i due, detti nella loro lingua strana. Non mi piacque un certo sorrisetto familiare. Conoscevo molto bene i miei polli. Cominciai a temere uno scherzetto, ma lui non era tipo da fare così. Sdrammatizzava solo, ma non era un tipo molto giocoso. Un tiro mancino del genere me lo sarei dovuto aspettare da Tijorn, non  da quel serio guerriero. Regis così si alzò, lasciando spazio a quel tipo, che si sedette, e cominciò a rovistare nella sua borsa, dove c’erano tanti oggetti strani. Dopo un cenno nei nostri confronti, il mio amico si allontanò, sparendo, con mio grande rammarico, dal mio campo visivo. Ci scambiammo un altro sguardo. Era indecifrabile, e pensieroso, di nuovo. Distolsi subito lo sguardo, a disagio. Non mi piaceva quando i nostri sguardi s’incontravano. Poco prima l’avevo trovato rassicurante, ma ora mi metteva in soggezione. Mi turbava. C’erano troppe cose non dette, azioni non fatte. Preferii concentrarmi sulle azioni del giovane medico, che stava maneggiando qualcosa. Ebbi un lampo di argento. Sentii immediatamente la mancanza di Regis, e mi guardai inutilmente attorno per cercarlo. Peccato. Mi rinfrancava averlo vicino. Era rassicurante la sua presenza matura. Di nuovo un bagliore, e Masato parve farsi minuscolo. Accolsi con sospetto quel movimento, soprattutto collegato alle parole scherzose, incomprensibili, che lui aveva detto al tipo, guardandomi. Capii subito il perché quando il medico, facendomi continuamente cenni di non preoccuparmi, con prudenza, come se fossi una bestiaccia pericolosa, tirò fuori uno strano aggeggio dalla punta lucente ed acuminata. Sgranai gli occhi. Cosa diavolo era quel coso? Era malefico, nonché antiestetico al massimo. Mi sembrava una specie di contenitore di vetro lungo e stretto, con quel piccolo ago malefico. Guardai così male il povero tipo che lui sobbalzò, e si guardò intorno ansioso, alla ricerca di Regis. Quel comportamento m’insospettì. Chissà che cosa aveva detto nei miei confronti di offensivo, o solo di divertente, che aveva preso come una battuta. Probabilmente che fossi un po’ mordace. Era capace di dire una cattiveria simile. Sbuffai, dovevo fare la brava elfa. Solo per non darla vinta a quell’umano ironico. Tanto, lui mi aveva curato. Non mi poteva fare così male. Tesi il braccio con insofferenza, proprio sotto al naso del tipo. Lui mi guardò con ansia, poi si preparò, le mani leggermente malferme, a conficcarmi l’ago nel braccio.

Tuttavia, non fu qualcosa di doloroso, anzi. Una piccola puntura veloce. Finì presto. Vidi con fascino il contenitore riempirsi di sangue, il mio sangue scuro, dal colore diverso da quello umano, più intenso e compatto, una tonalità che fece sgranare gli occhi a Masato, quel sangue che diveniva subito nero poco dopo la morte, sempre di consistenza strana, più fluida di tutte le razze, qualcosa che affascinò in maniera ossessiva il medico, che, eccitato dalla novità, mise il mio sangue in una bottiglietta, e poi mi sorrise, grato, guardandolo in controluce, come se fosse un tesoro, e poi rimettendolo con mille cure nella borsa, affaccendato. Lo guardai, perplessa. Che persona strana. Decisamente gli umani del mondo di Regis erano una massa di nevrotici. Con un cenno, Masato mi fece capire che tutto era finito. Gli scoccai un’occhiata incredula. Era tutto lì? Il prelievo? Da come me ne aveva parlato mi era sembrato tutto più sanguinoso e doloroso. Era stato una puntura d’insetto. Una zanzara più o meno avrebbe sortito lo stesso effetto. Se solo mi fosse capitata l’occasione avrei fatto prendere un colpo a Regis, anche se scommettevo che non ci sarei mai riuscita. Gli avrei raccontato una storia strana e falsa su qualcosa, solo per fargli prendere un po’ di paura. Bah. Non pensavo di riuscirci. Ecco. Mi sentii, d’improvviso, sola. Volevo Regis con me. Ero in mezzo ad umani strani e sconosciuti. Non ce la facevo nemmeno più a stare lì, seduta su quella branda. Volevo cercare il mio unico punto di riferimento. Ne avevo un gran bisogno, ora che era con me. Mi aiutava a camminare con le mie gambe. Mi alzai così, senza più rivolgere l’attenzione al medico, e, aiutandomi con il suono della sua voce, accompagnata dagli sguardi curiosi, a volte ostili, degli altri tipi, che mi sembravano, drammaticamente, tutti gemelli, arrivai in uno strano luogo, uno spiazzo. Regis era lì, vicino ad un arco rovinato dal tempo, chissà, forse il portale, accanto ad un uomo dall’aria giovanile, alto, dai colori chiari e l’aria furba, l’unico a distinguersi con quella sua espressione scanzonata, che mi guardò con interesse, squadrandomi dall’alto in basso, quando arrivai. Da quello che mi disse il mio amico, che ridacchiò quando io gli scoccai un’occhiataccia, senza parlargli, erano arrivati da lì, da quella rovina. Provai un nuovo empito di speranza. Quel coso poteva viaggiare nello spazio, e nel tempo. Tornare indietro. Forse fu allora che mi venne quell’idea. Tornare da Tijorn. Parlargli di nuovo. Cambiare la mia vita. Non era una cattiva idea. Avrei potuto seguirlo. Forse il mio amico parve capire cosa mi stesse passando per la mente, chissà. Mi guardò in maniera strana quando io azzardai un’esclamazione un po’ più sorpresa. Mi venne in mente una cosa. Quell’arco non mi era del tutto sconosciuto. Avevo sentito parlare di quelle rovine, in tempi recenti, a Kyradon. Era in un libro che avevo letto, sulla storia di strane costruzioni che erano qui dalla notte dei tempi, dalla fabbricazione sconosciuta, dal grande potere magico, che era capace di uccidere un elfo sul colpo alla sua attivazione, un libro pieno, ad un certo punto, di disegni e parole strane, che non ero riuscita a capire. Quando ne avevo parlato al bibliotecario, al saggio Yufrek, lui mi aveva requisito il libro, e non me l’aveva dato più. Chissà. Magari poteva essere d’aiuto. Magari capivano quelle iscrizioni. Quel tipo, che Regis mi aveva presentato come Peter, mi sembrava abbastanza intelligente. Negli occhi azzurri brillava una certa malizia, soprattutto mentre guardava me ed il mio amico. Sembrava vedere qualcosa che non c’era. Bah. Peter. Storsi il naso quando sentii quel nome. Un altro nome terribile, da donna per me, che mi aveva di nuovo spinta a chiedermi se tutti avessero quel pessimo gusto, e guardare Regis, chiedendomi se quello fosse il suo vero nome, anche se altre volte l’avevo sentito chiamare in un altro modo, o se avesse uno di quei cosi strani. Regis era molto più bello. E poi quei due, o meglio tutti, mi sembravano sconfortati nel trovarsi lì, anche il mio amico. Non mi piaceva vederlo così. Avrei fatto di tutto per aiutarlo. Non mi piaceva vederlo così. Volevo vederlo sorridere, quel sorriso pieno di misteri che m’intrigava. Odiavo vederlo con quello sguardo fosco. Tanto…prima o poi sarei dovuta tornare a casa, al castello. Nemys mi aspettava, Machin mi aspettava. Senza di me quella peste non mangiava, e si limitava ad urlare, chiamandomi con quel balbettio che mi contraddistingueva, quel nomignolo con cui mi avrebbe chiamata sempre, nomignolo oltremodo ridicolo. Lalla. Ancora oggi mi chiama così. Zia Lalla. Dice di trovare difficile il mio nome da dire, e che gli piace Lalla. Non penso smetterà mai, con mio grande rammarico. È decisamente il soprannome peggiore mai capitato in vita mia. Quasi quasi preferivo Nanetta. E’ di famiglia il vizio di trovare epiteti ridicoli ed infamanti alla mie persona. Io, che farei di tutto per mio nipote, sto zitta, anche se rabbrividisco ogni volta. Zipherias lo trova oltremodo divertente. Un paio di volte ha provato a chiamarmi così, ma l’ho dissuaso, in modi molto efficaci. Diciamo che so trovare i centri nevralgici di un elfo, o di un uomo. È facilissimo, soprattutto quando il suddetto non se lo aspetta. Penso di averlo fatto camminare a gambe larghe per giorni. Ma se lo merita. Davvero gli è stato di lezione. Mi sento soddisfatta ogni volta che ci ripenso. Insomma. A casa c’era bisogno di me. E, se mi avesse seguito Regis, mi sarebbe incredibilmente piaciuto. Trovavo ottima la sua compagnia, una balsamo per la mia anima ferita, e fargli un regalo, come la possibilità di tornare indietro, in un tempo che di sicuro amava, mi piaceva. Avrei dimostrato così il mio affetto nei suoi confronti. Tutto per aiutarlo, per aiutare il mio amico. Alla mia notizia di avere forse una soluzione, gli occhi dell’umano si illuminarono. “davvero?”. Mi disse, guardandomi con una nuova speranza. “sono tutt’orecchi”. Io allora gli esposi ciò che mi ero ricordata. Non ero sicura che quelle iscrizioni gli potessero servire, ma lo feci lo stesso, senza dargli false speranze. Certo, magari potevano essere solo istruzioni su come prepararsi un rimedio contro il raffreddore, ma non potevamo saperlo. Appena terminai, gli occhi scuri traboccavano di gioia, ed io gioii con lui. Era bello vederlo così felice. “può darsi che le pagine contengano suggerimenti su come tornare indietro”. Rimuginò, apparendo, sotto lo strato impermeabile di tranquillità che adottava sempre, praticamente esaltato. Lo conoscevo troppo bene per non capirlo. “gran bella idea, Lsyn”. Lui sorrise, ed io arrossii leggermente, senza preavviso, compiaciuta. Aveva detto gran bella idea. Era d’accordo con me. Quindi avevo detto una cosa intelligente. Quindi lui approvava la mia idea. Quindi mi avrebbe seguita a Kyradon, e sarebbe stato un altro po’ con me, ed avremmo parlato, e gli avrei confidato tante altre cose. Provai subito un empito di vergogna. Mi stavo comportando come una sciocca. Non mi capivo più. Ero così ansiosa di vedere quella primadonna felice di aver commesso una piccola sciocchezza. Mi sentii imbarazzata. Sperai che nessuno avesse notato il mio rossore: avrebbero potuto fraintendere. Ma nemmeno Regis si era accorto di quel fatto. Era troppo preso dall’idea. Troppo infervorato, arrovellandosi su chissà quali fatti. Sospirai di sollievo. Avevo le guance in fiamme. Lui non si era accorto della mia stranissima reazione. Era subito stato interpellato da uno degli uomini, e chissà, forse gli aveva spiegato la situazione. Si era diffusa immediatamente una strana aria di eccitazione, un’eccitazione che durò poco. Ad un certo punto, senza preavviso, un’esclamazione di allarme, nella loro lingua, incomprensibile come il verso di uno strano animale. Vidi, immediatamente, tutti, tranne Regis che non era armato con quei cosi, afferrare quelle armi lunghe e sottili, e brandirle verso un punto definito. Mi concentrai. Si: avvertivo strani rumori, fruscii perfettamente avvertibili anche da un umano allenato. Mi tesi. Non si poteva mai sapere: quello non era ancora un posto molto tranquillo. Sperai non ci fossero molti morti. Avevo l’impressione che quei cosi così innocui potessero fare davvero molto male. Sospettai che fosse stata una di quelle armi a mordermi il braccio. Mi scambiai una fugace occhiata allarmata con Regis, poi entrambi continuammo a fissare la boscaglia. Altri fruscii. Ad un certo punto, con mio enorme stupore, dal sottobosco emerse una figura ben conosciuta, accompagnata da altre quattro persone. Tutti elfi, vestiti di azzurro, con al collo un grosso ciondolo. Il primo ad uscire era stato un elfo altissimo, scuro di pelle, grosso come un gigante, il mio elfo dagli occhi d’oro. Zipherias. Vidi gli sguardi spaventati degli umani, anche di Regis, che non lo conosceva, e capii all’istante di dover agire. Non volevo che il mio amico si facesse del male. Se solo fosse successo, se solo fosse morto per una mia disattenzione, non me lo sarei mai perdonato. Ma…cosa diamine ci faceva, lì, Zipherias, che zoppicava tanto nell’ultimo periodo, perché la pioggia e l’umidità di fine estate lo facevano dannare? Aveva una strana espressione. Quasi turbata. Mi sentii afferrare da una mano gelida. Non era mai così sconcertato, lui. Il mio amico era sempre calmo, qualunque cosa succedesse. Stava accadendo qualcosa di grave. Ebbi un pensiero improvviso. Nemys. Machin. Qualcuno era morto. Qualcuno era ferito. Capouille era stato attaccato da qualcuno. Amarto non si era sentito bene. Era vecchio, e poteva succedere. I miei bambini. Roxen era caduta e si era rotta qualcosa. Chekaril si era tagliato e stava morendo, come Tijorn, come mio fratello. Mi sentii ghiacciare. La situazione stava volgendo al peggio.  Silenzio. Uomini ed elfi si guardarono. Zipherias era interdetto. Due dei suoi sottoposti si guardarono, sconvolti. Vidi qualcosa muoversi. Scattai, immediatamente. Non doveva succedere nulla. “no! No! Fermi!”. Gridai, isterica, guadagnandomi un’occhiata perplessa e preoccupata di Regis, ed una sorta di sguardo sollevato di Zipherias. Sembrava contento di avermi trovata. La cosa non mi piacque. Lui non mi disturbava mai quando venivo nel bosco, da Tijorn ed Akita. La situazione era critica. “sono amici miei!”. Per fortuna, il mio amico umano fu abbastanza rapido nel comunicare la cosa, ed il peggio passò subito. Quei cosi maledetti furono abbassati, con titubanza, però, ed i miei compagni di avvicinarono subito. I cinque elfi si guardarono intorno, spaesati, probabilmente dalla stranezza di vedere umani così strani in giro, ma poi Zipherias si fiondò subito verso di me, cosa che io imitai. Cercai di darmi un briciolo di decenza. Avrei voluto tanto abbracciarlo, farmi consolare. Ma non potevo. Non davanti a Regis. Ah. Stavo avendo strani pensieri, da un po’ di tempo. La solitudine mi stava facendo impazzire. “Zipherias…”. Cominciai, preoccupata, con una strana voce angustiata, ma lui mi precedette, prendendomi le mani, e guardandomi ansioso, con mille domande che gli navigavano nel mare d’oro che aveva a posto delle iridi. “ero certo di trovarti qui…”. Mormorò, con una voce un po’ malferma. Non mi piacque. Lui non era mai sconvolto. “ma chi sono questi umani, tutti qui?”. Ma perché stava temporeggiando in questo modo? Era chiaro che stava tentando di prendere tempo. Accolsi quella domanda con irritazione. A quanto pare o stavo io travisando la cosa, o davvero la situazione era gravissima. “non lo so nemmeno io”. Risposi, con uno scatto del viso, infastidita. “non chiedermelo”. Ci fu un attimo di silenzio. Rimasi ad ascoltare il tumulto del mio cuore, che batteva come impazzito. Cercai di tenere a bada il mio corpo. Zipherias sembrava ugualmente agitato. Mi strinse ancora più forte le mani. “bene, ne parleremo dopo…”. Disse, con una stranissima aria svagata. Tremai. Ecco che stava per venire la mazzata. Mi preparai. “sono venuto qui per avvisarti di una cosa molto grave”. Ah, come odiavo a volte Zipherias. Perché non si decideva? A volte tirargli fuori le risposte era più difficile che imparare a Machin che la pappa non era un gioco, e che noi non eravamo bersagli o sputacchiere. Nervosa oltre ogni dire, sottraendomi al contatto con il mio amico, troppo tesa per voler essere toccata, parlai. E fu la fine di tutto. “e…di che si tratta?”. Domandai, con una strana voce tremula. “cosa succede?”. Niente, niente riuscì a prepararmi a quello che stava per dire. Ero partita con la consapevolezza che non sarebbe successo nulla. Ero partita serena! Perché tutto doveva succedere quando io non c’ero, così, all’improvviso? Zipherias sospirò. “è la Matriarca”. Disse, con una strana aria cupa. “è in travaglio”.

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Capitolo 89
*** Ai confini dell'irrealtà-Quello che mi ossessiona. ***


Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni

Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio! È solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di tempo, con il consenso di entrambi! xD

Dunque, molte delle situazioni, la maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia “indipendenza letteraria” (xD)-), e, soprattutto, il personaggio di Regis appartengono all’anzidetto Carlos Olivera, ed alla sua opera xD

 

 

“in…travaglio?”. Ripetei, con una stranissima voce stridula. Il mondo ondeggiò per un attimo, prima di ritornare alla sua posizione di prima. Tutto si fece freddo, anche l’aria che quel mattino avevo giudicata perfetta, mite, una giornata ideale per stare fuori casa. Ma Nemys….lei i aveva rassicurata! Aveva detto che non le sarebbe successo nulla, accidenti a me! Ma perché tutto doveva succedere proprio quando io decidevo di andarmene, proprio quando la mia attenzione si allentava? Perché la paura, l’ansia, il dolore, mi dovevano cogliere proprio in un momento di pace? Eppure tutto sembrava essersi messo così per il meglio. La mia Rinnegata da un paio di giorni si sentiva molto meglio, ed era molto più forte, ed aveva deciso di officiare ad un rito, che sapevamo già l’ultimo, comunque sarebbe andato il parto. Avevo finalmente trovato un equilibrio tra ricordi e realtà. Io avevo rivisto un vecchio amico che credevo morto, oppure vecchio, decrepito, nel fiore degli anni, ancora bello e forte come lo avevo lasciato. Ed ecco che la situazione degenerava, diveniva tremendamente pericolosa. Nemys era in pericolo di morte, e lo sapevo. Se solo l’avessi persa… non osai pensarlo. Sarebbe stato troppo per me. Provai un empito momentaneo di odio verso quell’infante non ancora nato, un odio bruciante, perché lui stava uccidendo la mia dolce amica, l’altra parte di me stessa, ma fu solo un attimo. Mi vergognai di quello che stavo pensando. Povero cuccioletto. Su di lui, o su di lei, si erano andate a creare enormi aspettative. Non so per quale strana leggenda, qualche incarnazione dell’incarnazione dell’incarnazione di un dio o cose del genere, roba zuppa di superstizione  che mi ero rifiutata categoricamente di approfondire, disgustata, molti vedevano nell’erede prossimo al trono di Uruk un liberatore. Era riprovevole. Sarebbe stato solo un neonato come tanti, accidenti. Affamato, chiassoso, fastidioso e tenerissimo. Poi sarebbe divenuto infante, ed avrebbe meritato solo di giocare, spensierato, e di studiare, senza fastidio alcuno, come un elfo normale. Poi sarebbe cresciuto, sarebbe diventato un bel giovane, ed avrebbe cominciato a trovare la sua strada. Non accettavo che il suo cammino fosse già predefinito verso il trono. Non era giusto. Era un capro espiatorio, nient’altro. Mio nipote, per un certo verso, mio figlio per un altro. Sarebbe stato speciale più di ogni altro, un elfo con una parte di Rinnegato, con chissà che abilità, ma aveva il diritto ad una vita, serena. Non potevano farne uno strumento. Non lo accettavo, non quando la stessa cosa era stata fatta a me. Era per questo che Nemys aveva voluto questo bambino? Per opporsi a Lainay ed a Kamarducil, quell’altra povera vittima di una vittima? Mi avvolse l’amarezza. Che solo ci avessero provato. L’avrei difeso con le unghie e con i denti, una mamma orsa. Isnark poteva benissimo regnare da solo. Se poi il piccino avesse voluto diventare re…beh…almeno sarebbe stata una sua scelta e basta. In caso contrario, c’ero io a difendere le sue scelte. Guardai Zipherias, furente e preoccupata, e lui ricambiò lo sguardo, interrogativo. “è successo stamattina, poco dopo il rito”. Mormorò il gigante, guardando a terra. Accidenti. Ero andata via davvero da poco. Ma perché nessuno mi aveva raggiunta? Donai un’occhiataccia al gigantesco elfo, che sembrò farsi piccolo piccolo. “Nemys non voleva disturbarti, visto che la cosa andava per le lunghe…”. Replicò, in tono casuale. “ma poi ci sono state complicazioni, e mi ha ordinato di venire a cercarti, e portarti a da lei. Devi venire, subito”. Deglutii, improvvisamente con la gola secca e riarsa come se avessi camminato giorni e giorni sotto il sole cocente del deserto. Complicazioni. La sola parola mi faceva venire i brividi addosso. Si cominciava a partire con il piede sbagliato. Perfetto. L’apprensione tornò, una nuvola che oscurava il mio giudizio. Deglutii di nuovo. Annuii, quasi incapace di parlare. Poi la voce mi uscì, straordinariamente distorta. “si…naturalmente”. Dissi, e poi feci per giurarmi subito verso il mio amico. Dovevamo andare. A casa avevano tutti bisogno di me. Dovevo vedere la mia amica. Dovevo aiutarla, come avevo fatto con Akita. Fui sorpresa di trovarmelo vicinissimo, a malapena un passo da me. Per la seconda volta, fummo sul punto di scontrarci testa e testa. Feci un salto all’indietro. Accidenti. Era silenzioso, il mio amico. Lui mi guardò con una certa apprensione, vedendo chissà cosa nel mio sguardo. Paura, ansia, forse. Mi sorrise dolcemente, un sorriso rapido, e poi si rivolse a Zipherias, con la sua solita aria rilassata e cordiale, velatamente ironica. Guardai il mio amico dagli occhi d’oro. Decisamente, non mi sembrava molto bendisposto, lui, verso il nuovo arrivato. Lo guardava con una certa aria sospettosa, e molto acida. Vedevo aleggiare la gelosia nei suoi tratti. Alzai gli occhi al cielo. Certe volte era asfissiante, davvero. Si comportava come il mio compagno. Perfino, qualche volte se l’era presa con Capouille, uno dei loro soliti litigi giocosi. Bah. Non lo capivo. Sul suo volto scuro si dipinse un sorriso sarcastico, superiore, che mantenne per tutto il tempo. Regis, saggio umano, lo ignorò di bella posta. Ed io ero troppo seccata, troppo piena di preoccupazione per placare gli animi, volevo raggiungere Nemys. Dovevo. Li aveva bisogno di me. Avevo il cuore in gola. L’urgenza di andare via mi stava stringendo in una morsa orrenda lo stomaco. Avevo allontanato da me ogni piccolo problema. D’accordo, non riuscivo a capire cosa stessi facendo con Regis, perché sembrassi civettare un po’ quando lui era nei paraggi. Oh, d’accordo, lo immaginavo, ma non avevo il coraggio di pensarlo. Non ancora. Si era presentato anche un grosso dilemma. Tornare indietro nel tempo. La prospettiva mi deliziò. Era una tentazione troppo forte per poterla ignorare. Avvisare me stessa del terribile destino a cui stava andando incontro. Avvisare Tijorn, Akita, anche Junielle, fuggire via insieme ad Uruk. Una vita perfetta. Andare a rapire da Chekaril la mia Roxen, che mi avrebbe chiamata mamma. Mio fratello sarebbe stato vivo, e con lui tutti i miei affetti. Allontanai in fretta quel pensiero. Al momento dovevo concentrarmi sul mio terribile presente. Regis, calmo come un laghetto limpido, si era rivolto al mio enorme amico, senza la minima traccia di timore, nonostante la sommità della sua testa non arrivasse nemmeno alla sua spalla. Forse quella era un’altra cosa che indispettiva il mio scuro elfo. Amava spaventare un po’ con la sua mole terribile. Quell’umano lo stava apertamente sfidando. Sperai che non gli venissero in mente strane idee. Duelli, combattimenti, cose così. Misi in conto di avvertirlo, prima o poi. Non volevo che Zipherias finisse spiaccicato per la sua boria, che a volte era davvero esagerata, da quell’acqua cheta di Regis. Mi preoccupavo seriamente per lui. E poi non volevo vederli combattere. “sbaglio o la vostra Matriarca è in travaglio?”. Domando l’umano, con aria casuale, con quel suo solito modo di girare attorno una cosa. Lo guardai, interessata, e lui, per un attimo, ricambiò il mio sguardo. Ha. Ormai lo conoscevo. Aveva qualcosa in mente. Inutile affrettare i tempi. L’avrebbe detta, prima o poi, quella sua idea geniale. Zipherias non sembrò capire, e il suo sarcasmo divenne evidente. “acuto osservatore dell’ovvio, direi. Dovrei complimentarmi”. Rispose, con uno strano cipiglio divertito. Fui tentata di coprirmi il volto con le mani, esasperata. Oh, no. Ma perché doveva essere così maledettamente cretino? Ma che gli passava per quell’acino d’uva che aveva nella testa? Rischiava di mettercelo contro. Di mettermelo contro. Ed io non volevo che Regis si allontanasse da me. Era troppo bello averlo vicino, a portata di voce e mano. Una persona che mi conosceva anche come Lsyn l’Ombra, com’ero stata prima di divenire Mostro, e poi Ch’argon. Mi era troppo caro. Era l’unica persone che mi poteva aiutare. Lo guardai, apprensiva, e sospirai di sollievo. Non sembrava essersi irritato. Era solo un po’ contrariato, e non con me. Beh. Se avesse dato una bella lezione a Zipherias non gli sarei stata che grata. A volte era insopportabile. Sul bel volto dell’umano si aprì uno stranissimo sorriso. “fai meno lo spiritoso”. Disse, guardando me, con una strana aria beffarda. Sembrava aver capito qualcosa che a me era sfuggito. Lo guardai, interrogativa. L’unica cosa che ebbi come risposta fu un non tanto velato occhiolino. Ebbi la netta impressione che stesse provocando apposta il mio grosso amico. Beh, non avevo nulla da obiettare. Proprio nulla. E devo dire che, nonostante la situazione, quel gesto mi fece piacere. Era bella la complicità che si era andata a creare, tra noi due, come se fossimo amici da sempre. Arrivammo ben presto ad un compromesso. Un compromesso che mi fece ben sperare che tutto si risolvesse per il meglio. Regis, in cambio di un’occhiata a quel libro di cui gli avevo parlato poco prima, ci avrebbe dato un aiuto per Nemys. Il tipo, il medico, Masato, avrebbe tentato di far tutto per lei. Non so perché, ma mi sentii meglio. Se era capace di fare quello che avevo visto, curarmi senza farmi sentire dolore, sicuramente la mia Rinnegata sarebbe riuscita a sopravvivere. Sicuro. Tentai di aggrapparmi a quella seppur labile speranza, e mi sentii invadere da una certa calma. Non avrei combinato nulla, se mi fossi agitata troppo. Avrei finito per fare come durante la veglia per Tijorn. Stordita dai sedativi, e basta. Dovevo tenere il sangue freddo. Non potevo reagire male. Nemys aveva bisogno di me. Stava sicuramente passando una pena incredibile, una tortura difficilmente comprensibile. Si: Regis ed i suoi amici ci avrebbero aiutati, e tutto sarebbe andato a frinire per il meglio. Riuscii ad essere anche lievemente entusiasta della cosa. Ah, Regis. Se solo fosse arrivato prima, con le sue meraviglie, avrebbe salvato la vita anche a Tijorn. Ma ormai era troppo tardi per pensarlo. Zipherias, specialmente dopo che ebbi fatto le presentazioni, ed accolto l’ondata di stupore che si propagò a quella stramba notizia, sembrò fidarsi sempre meno dell’umano, rimasto a guardarlo con aria sottilmente beffarda, sicura di sé, o almeno falsamente tale, e mi scoccò un’occhiata furente. Sembrava sempre meno contento, ma fu costretto ad accettare. Tre dei suoi soldati sarebbero rimasti a guardia degli altri umani, perché il luogo era ancora abbastanza irto di pericoli, mentre Regis, Peter, con quella sua aria strafottente e sicura di sé, ed il mite Masato, con un borsone dietro che mi fece sgranare gli occhi dallo stupore, sarebbero venuti con noi. Velocemente, andammo nel luogo dove avevano tutti radunato le proprie cavalcature, compresa la mia testarda cavalla saura, che avevo deciso di chiamare Nina*. Ci fu un attimo di confusione, mentre tutti si sistemavano. Io salii in fretta su Nina, che alzò il muso e mi guardò, perplessa. Si era abituata alle mie stranezze, perciò non ci fece molto caso, e riprese a brucare. Cominciai a risentire l’apprensione in me, mentre quell’effimera ondata di speranza svaniva, mentre aspettavo che tutti fossero pronti. Accidenti. Sperai che tutto andasse bene. Mi guardai attorno. Zipherias era già montato sul suo gigantesco cavallo nero, un veterano di mille guerre pieno di cicatrici, calmo come il padrone, e mi stava guardando male. Mi chiesi vagamente cosa avesse contro di me. Gli restituii lo sguardo, interrogativa, ma lui non fece altro che girarsi con una smorfia. Beh. Io a volte proprio non lo capivo. Regis ed i due umani avevano preso in prestito le cavalcature di quegli elfi che erano andati a fare da guardia ai loro compagni. Il mio amico si stava sistemando sulla mite ed irsuta cavalla dal manto isabella di un mio conoscente, di cui non sapevo nemmeno il nome, e sembrava nato a cavallo. Cercai di non ridere mentre vedevo i suoi due amici. Della mia primadonna non avevano proprio nulla. Era evidente che di un cavallo avevano visto solo le bistecche, in tutta la loro vita. Avevano insistito per montare su un solo cavallo, un baio nervoso che già cominciava ad irritarsi e scalpitare, e stavano in groppa come due interessanti sacchi di sabbia. Nemmeno io ero stata così goffa, la prima volta. Un elfo dovette spiegar loro come funzionavano le briglie. Poi decise di portare lui il cavallo, e lo legò alla sella della sua cavalcatura. Mi chiesi perché mai Zipherias non avesse obiettato nella loro scelta. Il cavallo pezzato che era stato declassato a mulo, per i momento, era molto più tranquillo. Ebbi la netta impressione che si stesse divertendo molto. Bah. Chi lo capiva era bravo. Io non ne avevo la minima intenzione. Non in quel momento. finalmente, prendemmo a camminare. Io, per colpa di quella maledetta testarda che decideva sempre di muoversi solo quando e come lo diceva lei, nonostante le mie ripetute implorazioni, rimasi un po’ indietro, e mi feci tutto il viaggio con Regis. Lui cercò di farmi coraggio, di dire che sarebbe andato tutto bene. Sembrava aver capito bene la mia paura. Gli fui grata per quelle parole. Era sempre meraviglioso, quando faceva così. Mi riscaldava il cuore, quando qualcuno s’importava di me in quel modo. Quel momento rilassato tra noi due fu interrotto da una battutaccia di Zipherias, che, a quanto pareva, ci stava guardando. Quella fu la prima, e non ultima, volta in cui lo supplicai di chiudere il becco. I miei sospetti erano confermati. Era invidioso. Marcio di gelosia. Eppure, io e Regis non eravamo certo compagni o amanti. Certo che no! Cercai di non arrossire a quel pensiero. Non era una cattivissima idea, proprio no. Sobbalzai, e mi concentrai sul percorso. Accidenti, me lo dovevo mettere in testa: quello che pensavo era proibito. Tra un umano ed un’elfa al di là dell’amicizia nulla può nascere. Solo amici. Solo ed esclusivamente due buoni amici che si rincontrano dopo tanto tempo. Quell’elfo  doveva avere un’idea molto strana ed esclusiva di amicizia. Ma io lo conoscevo da molto più tempo di lui. E gli volevo un mondo di bene. Era bello averlo di nuovo con me. Lui non sapeva cosa significasse Regis per me. Un passato, un passato che non voleva sapere di andarsene via, di svanire. Una felicità intermittente. Eppure, avevo la netta impressione che proprio lui fosse lì per mettere pace in me stessa. Tutte le volte che l’avevo incontrato era stato così. Non ci sarebbe stato nulla di strano se anche quella volta mi avrebbe aiutata a trovare un reale motivo per vivere, per tornare a vivere, senza vegetare. Era come se nessuno tranne lui mi capisse davvero. Provavo una strana affinità con quell’umano. Era come vedere me stessa in un altro momento, in un altro contesto, in un altro mondo, con un altro ruolo. Non mi sapevo spiegare cosa fosse quella grande familiarità, quella sorta di attrazione che provavo per lui. Qualcosa che mi spingeva sempre a gravitare attorno a lui, quando era presente, a pensarci spesso, quando non c’era. Beh. Proprio un umano, tra tutti. Sperai silenziosamente che non se ne andasse. Tutto sarebbe stato meno amaro, con lui presente a sostenermi. Se solo qualcosa fosse andato storto con Nemys, senza di lui sarei stata malissimo. Mi avrebbe aiutata, ne ero certa. Ci contavo. Finalmente, dopo vari battibecchi tra me e Zipherias, quest’ultimo si zittì, e, mestamente, prese a guardare avanti. Per un po’ ci fu il silenzio più completo, rotto solo dal rumore degli zoccoli, dal fruscio, dal respiro dei cavalli, dal cinguettio degli uccelli. Finalmente, io e Regis, poi, riuscimmo a parlare per un po’. E, in modo molto indiretto, ebbi la vendetta che tanto sospiravo contro il mio odiato Isnark. Ignorando un’occhiata ammonitrice del mio scuro amico, che sembrava per chissà quale motivo allarmato dalle mie parole, cominciai a raccontargli della terribile battaglia finale. Era stata un’orribile carneficina, per gli umani. Dopo un po’, mi resi conto che avevo sbagliato a tirare fuori quella storia di cui anch’io sapevo ben poco. Vidi l’orrore montare poco a poco sul viso sempre calmo del mio amico. Provai un enorme empito di vergogna a raccontare di come Uruk avesse tradito i suoi ideali, per una minaccia che non potevo dirgli. Anche lui, in fondo, aveva sicuramente i suoi pregiudizi contro i Rinnegati. Sul fondo di quegli occhi di norma sempre limpidi, vidi addensarsi la rabbia. Ahi. Presagii guai per Isnark. Certe volte, quell’umano sapeva essere terribile. Beh, mi bastava che non l’avesse ucciso. Poi mi sarei divertita a vederlo pestato. Man mano che proseguii la storia, vidi ciò che avevo temuto ed aspettato nello stesso tempo addensarsi sul viso un po’ più pallido del mio amico. Incredulità. Frustrazione, la frustrazione di non essere sicuramente arrivato in tempo per salvare anche quella situazione. Beh. La primadonna, mio caro Regis, non si può far sempre. Arrivano momenti in cui il fato è così beffardo, e decide di giocare in un modo così sadico con noi, che non possiamo farci nulla. Solo arrenderci alla tempesta, e sperare che passi presto. Poi, mentre proseguivamo verso Kyradon, cavalcando fianco a fianco tra i due sacchi di patate dalle orecchie tonde, aggrappati disperatamente all’indocile baio che Zipherias si era divertito a dar loro, ed i soldati, vidi piano piano il mio amico divenire nero di rabbia. Lo capivo. Avrei provato anch’io le stesse sensazioni, se solo non fossi stata al corrente di tutto. La sensazione di essere con le mani legate…senza potersi liberare, pur cercando di dibattersi. Nonostante tutta la mia apprensione per quell’espressione sul suo viso familiare, che man mano che proseguiva il tempo mi nascondeva sempre meno, mi venne in mente un’idea. Una bella idea. Sogghignai. Se avesse pestato quel bastardo in erba di Isnark mi avrebbe fatto un enorme piacere. Era un bel po’ di tempo che io lo volevo fare, ma mi ero trattenuta per ovvi motivi. Certo, non era il momento più adatto per una zuffa in piena regola, con Nemys in quella brutta situazione, ma mi sarei divertita un mondo anche con un piccolo pugno. Almeno la giornata avrebbe avuto qualcosa di positivo per cui essere ricordata. Morivo dalla voglia di vedere Isnark picchiato. Morivo, davvero. Quando io finii di parlare, ci fu un attimo di silenzio teso, rotto solo dallo scalpitio affannoso degli zoccoli, attutito dalla terra. Guardai avanti a me, concentrandomi sul percorso da fare, nonostante Nina conoscesse già a memoria ogni sasso. L’avrei potuta far andare tranquillamente a briglie sciolte, e sarebbe tornata a casa senza nemmeno perdersi una volta. Ma comunque feci finta di concentrarmi, per non disturbare il mio amico. Aveva davvero un’espressione fosca. Addirittura intercettai Zipherias, che si era girato per un’ennesima battutaccia all’acido, preda di quell’antipatia mista a quello che giuravo fosse gelosia pura, si bloccò a mezz’aria, non appena vide la sua faccia cupa, e chiuse il becco, guardandomi con una certa aria stranita che mi divertì. Mi scrollai nelle spalle, poi mi girai per spiare un po’ la situazione. Mh. Qualcosa mi diceva che per una certa creatura prossima ad essere picchiata a sangue il futuro non sarebbe stato proprio roseo. Isnark se la stava per passare davvero male. Glielo leggevo in faccia, sul volto teso e pallido di Regis: propositi omicidi per un elfo idiota. Non ero proprio contraria, però…povero bambino. Mi vennero gli scrupoli di coscienza. Mh. Forse era davvero dire un paio di paroline a Regis, magari per farlo calmare un pochino. Era proprio il caso. Nemys ci avrebbe staccato la testa di persona, a me in particolare, se solo avesse scoperto la morte del suo compagno proprio quando stava per tirare probabilmente le penne pure lei. Mi venne freddo. No. Non dovevo pensare una cosa del genere. Preferii così rivolgermi a Regis, per distrarmi. Se solo avessi lasciato correre i pensieri, non mi sarei più mossa da lì. “so cosa stai pensando, Regis”. Oh, si, che lo so. Lui si girò, e rabbrividii. Accidenti, quando voleva essere pauroso, lo era, eccome. Sprizzava minaccia da tutti i pori. Oh. Ci guardammo con una sorta di aria di sfida. C’era anche dolore, in quegli abissi scuri che pochi sapevano sondare. Un dolore che non capivo. “e ti prego…non essere in collera con Isnark”. Anche perché poi la colpa sarebbe ricaduta su di me. Nemys mi avrebbe staccato la testa. Fa’ un po’ i conti tu… di nuovo, ci guardammo. Lui abbassò lo sguardo. Povero Regis. M’infastidiva vederlo così pensieroso. Amavo il suo sorriso, fin troppo, i suoi scherzi. Passammo un piccolo momento di silenzio. Vedevo già approssimarsi le mura di Kyradon. Sentii uno gradevolissimo strappo in fondo allo stomaco. Nervosismo. Chissà Nemys come stava. Zipherias aveva detto che c’erano complicazioni. Non ne ero tanto sorpresa, chissà perché, ma mi preoccupavano molto. Non mi piaceva,  come cosa. Finalmente, vidi la bocca serrata di Regis aprirsi. Mi dovetti sporgere da cavallo per sentire il mormorio dolente che disse. “che ne è stato di Fiya?”. Domandò, come se non volesse realmente saperlo. Aah. Capii al volo. Era quello ciò che lo angustiava. Il regno da cui veniva. Beh. Se era per quello, avevo buone notizie per lui. La regina attualmente sul trono era stata una delle poche persone, munite di buonsenso, a restare neutrale. Aveva anche avuto concessioni territoriali, ed era in ottimi rapporti con Normar, senza pericolo di  attacco, nonostante molti della sedicente resistenza si stessero rintanando lì. Sorrisi lievemente, sollevata. Dargli una brutta notizia mi avrebbe fatto molto del male. Volevo vederlo stare un po’ meglio. “per Fiya non devi preoccuparti”. Dissi, tranquilla. Vidi la sua espressone rischiararsi leggermente. Ci scambiammo un lievissimo, fugace sorriso. “nonostante la ristrettezza dei suoi domini rispetto a cinquant’anni fa il tuo regno è rimasto intatto. Non faceva parte dell’Impero, e si è salvato”. Lo vidi chiaramente sospirare di sollievo. Mi sentii più sollevata anch’io. Almeno non avrebbe torto il collo ad Isnark. “secondo alcuni costituirà la prossima linea difensiva contro Lainay…ma è troppo presto per dirlo”. In silenzio procedemmo nell’ultima parte del viaggio. Fui intimamente contenta di aver sollevato almeno un po’ lo spirito al mio amico. Aveva certo un bel cipiglio arrabbiato, ma nulla mi avrebbe fatto più bene di vedere pestato Isnark. Mi sarei vendicata anche solo a vederlo. In quello gli lasciavo briglia sciolta: mi bastava che non lo uccidesse. Riportai così lo sguardo verso il paesaggio. Eravamo ormai entrati in Kyradon, la mia città. Era strano pensarlo, dopo che per più di un secolo avevo vissuto nella graziosa Galinne dalle guglie di diamante. Cominciai a sentirmi ancora più nervosa. Avrei voluto spronare Nina, ma sapevo che avrei perso di vista Regis, e la cavalla non mi avrebbe di certo obbedito. A volte combattere con quella maledetta era una sfida persa in partenza. Nemys. Dovevo assolutamente arrivare da lei. Chissà quanto stava soffrendo. Era successo pure a me. Comprendevo benissimo il dolore d’inferno che stava provando. E sapevo quanto la situazione fosse davvero delicata. In silenzio, il mio amico ancora a fianco, percorremmo tutti i tre livelli concentrici, seguiti dagli sguardi curiosi degli abitanti che incontravamo. L’unico momento in cui mi girai verso Regis, in cerca di un conforto che sapevo impossibile, lo vidi a metà ancora irritato, per l’altra metà assorto a contemplare la mia città, affascinato dal candore e dall’oro. Ed era davvero uno spettacolo imponente, ne ero sicura. Nonostante il caos, amavo Kyradon, città sacra e capitale di Uruk. Mi guardai per un momento così con Zipherias. Il mio amico scuro fece una strana smorfia, e si girò in avanti. Oh, perfetto. Anche l’elfo ostile e geloso. Ma io che avevo fatto con Regis? L’avevo baciato davanti a lui, per caso? No. Era solo un mio amico. Solo un mio innocentissimo amico. Scossi il capo più volte per liberarmi dell’assurdo rimpianto che mi aveva afferrato al pensiero. Dovevo mettermelo bene in testa. Niente pensieri strani. Amico. Solo un amico. Era umano,e fare anche solo certi pensieri era proibito. Pericoloso, direi. Ah. Mi misi più dritta. Fortuna che eravamo arrivati nel piazzale familiare, quello del tempio. Cominciammo a rallentare. Vidi la zazzera arruffata e chiarissima di Isnark prima ancora di vedere lui. Eccolo lì, il futuro padre. Devo dire che la stava prendendo piuttosto bene. Perlomeno non si era preso a strappare i capelli come un soldato di cui mi avevano raccontato le gesta, oppure non era approdato felicemente nelle terre sane e pure del delirio com’era successo a Tijorn il giorno della nascita di sua nipote, di mia figlia. Beh: umani o elfi che siano, antropomorfi o meno, i maschi sono sempre tutti uguali. Posso giurare di aver visto quei capelli indomabili del mio amico-nemico ritti in testa, quasi, per tutte le volte che ci doveva aver passato in mezzo le mani. Fermammo i cavalli poco vicino a lui, e smontammo. Accidenti. Davvero non avevo previsto la scenetta che accadde, che mi ripagò di mesi di torture psichiche da parte di quel bastardo che mi chiamava parassita. Davvero senza prezzo. A testa bassa, dritto e inesorabile come una nave con le vele spiegate, una faccia che, se non fosse stata così terribile, sarebbe stata incredibilmente divertente, prima ancora che ci riavessimo tutti dalla sorpresa, Isnark compreso, che sembrava essere stato messo di fronte ad un misto tra un fantasma ed i suoi peggior incubi, ed era pallido come un cadavere, Regis si portò di fronte all’amico, in silenzio, senza nemmeno uno straccio di saluto. Oh, si. Sangue. Ci fu un attimo in cui i due si squadrarono. Mi conficcai le unghie nei palmi, e mi morsi il labbro inferiore per non ridacchiare. La situazione non lo richiedeva. Ma era così dolce la vendetta, così innegabilmente zuccherina. Su, Regis. Picchialo. A sangue. Mi avrebbe fatto un enorme piacere, oh si. Beh. L’ammontare dei debiti con il mio carissimo amico sarebbe ammontato ancora di più. “tu…”. Bisbigliò Isnark, in quel silenzio tombale che si era creato. Vedevo tutti tesi, i due umani avevano messo mano a quelle strane cose che avevano in spalla, e si guardavano intorno, guardinghi. Preferii allontanarmi di un passo. Vigliacca, vero…ma era necessario. Non tirava buona aria. Preferii nascondermi a mezzo, esultando dentro di me. Oh, si. Vedevo affiorare l’ira in Regis, in ogni muscolo che aveva teso. Bene. “non puoi essere…”. Non ebbe nemmeno il tempo di finire. Con mia enorme felicità, mettendo a dura prova il mio autocontrollo, che m’impediva per poco di non saltare dalla gioia, il mio umano preferito agì. Oh si, se agì. Mi ripagò di tutti i torti che quel lurido, schifoso contadino divenuto principe mi aveva fatto. Un bel pugno. Ben piazzato. Sullo zigomo delle cicatrici che io gli avevo lasciato. Mi sentii enormemente soddisfatta quando lo vidi cadere sedere a terra. Mi ripagava di tutto, eccome se lo faceva. Mi morsi il labbro per non ridere, e non intervenni. Com’era bello vederlo a terra, a mangiare la polvere. Bastardo. Regis aveva ragione. Avrebbe, secondo quel principio, dovuto picchiare anche me, ma io non c’entravo nulla. Chissà perché ce l’aveva tanto con lui. Non mi risultava che si conoscessero bene, chissà. Io non lo sapevo. Sobbalzai, strappata brutalmente alla mia estasi di vendetta ricevuta, quando la situazione precipitò, in un attimo. I due non si erano nemmeno staccati che, con notevole tempismo, Zipherias ed i suoi stavano per saltare addosso al mio amico. Mi mossi anch’io, presa da un istinto più forte di qualunque cosa. Mi mossi in direzione opposta a quella dei miei amici elfi. Per proteggere un umano, un volgarissimo umano. Non intendevano mica ferirlo, vero? Io mi sarei messa in mezzo. Lui aveva ragione, e punto, qualunque cosa avesse fatto Isnark. Il Principe era ideologicamente nel torto, e basta. Non dovevano toccare il mio amico. Mi era troppo caro. I due amici umani, che mi erano sembrati tanto goffi, agirono ben prima di me. Erano più vicini a Regis, e si piazzarono a proteggergli le spalle, alzando quelle strane cose nere. Così, ebbi un’altra risposta ai miei interrogativi. Bene. Quelle cose non sono innocue. Per niente. Sobbalzai quando sentii degli stranissimi rumori, simili a quelli che avevo udito prima di essere colpita. Mi spaventai in una maniera spropositata, e mi rannicchiai da chissà quale parte, forse mezza protetta a terra, terrorizzata. Non volevo essere morsa di nuovo. Ebbi la netta impressione che quei cosi mi potessero uccidere prima di fare un passo. Però non valeva. Era sleale. Beh. Almeno gli altri si erano fermati. Che difesa efficace. Non udivo più nessuno scalpiccio. Mi allungai per vedere cosa stesse succedendo. I due umani erano ancora con le armi levate, dalla cui sommità usciva un po’ di fumo. Regis sovrastava un pallido ed addolorato Isnark, furioso. Davvero, temetti per quell’elfo. Non avevo mai visto il mio amico così arrabbiato. Non mi sarei stupita se fosse esploso di rabbia. Qualcosa gli era andato storto, oh, si. Però era bello vedere Isnark così conciato. Gli sarebbe rimasto un livido fantastico. Come avrei voluto essere io a fargliene un altro su quel bel faccino! Beh, inutile dire che mi piacque da impazzire quando Regis scaricò addosso al povero, povero elfo tutto l’astio nei suoi confronti. Compresi perché il mio amico era così arrabbiato nei suoi confronti. Chissà quando, in che momento della loro esistenza, si erano incontrati, ed Isnark aveva fatto la promessa di schierarsi contro Lainay. Promessa che aveva prontamente disatteso. L’ira del mio amico sembrava incontenibile. Erompeva violenta, una fiammata in un tubo. Lui si fermò solo quando Isnark non fu quasi sul punto di piangere. Ah, che bello. Vederlo ridotto così era gratificante, anche se condividevo la sua umiliazione in qualche maniera. Era stato l’unico modo per uscire vivi da quella situazione. Non potevamo fare altrimenti. La minaccia di Lainay era troppo terribile. Non potevamo rischiare, con lei che sapeva quell’enorme segreto. E metterne a conoscenza anche Regis, quando la situazione si fu calmata e Zipherias, che era uno dei pochi a conoscenza del fatto che Nemys fosse in realtà una Rinnegata, ebbe mandato via tutti i soldati, fu ‘unica via possibile per Isnark di uscire da quella situazione, l’unico modo per placare un po’ la sua rabbia. Io uscii dal mio nascondiglio, seguita da un’occhiata ironica del mio amico elfo, ed entrai nella conversazione tra i due, ora che il pericolo di quelle strane armi sembrava lontano. Fu una grossa fortuna che Regis fosse così aperto mentalmente. Non sembrò maldisposto contro Nemys, anzi, si limitò a borbottare qualcosa di non comprensibile, dopo il primo momento di sorpresa. Sembrava anche piuttosto incuriosito. Ritenni non opportuno confessargli di chi lei fosse la Rinnegata. L’avrebbe capito da sé, ci scommettevo. Dopo quel momento tanto buffo e terribile al tempo stesso, al situazione si calmò un poco. Isnark e Regis, con mio sollievo, fecero pace, e, finalmente, ci decidemmo ad andare da Nemys, quando di nuovo tornò la relativa tranquillità. Fui contagiata subito dall’apprensione dell’elfo dai capelli bianchi. Io quasi corsi avanti, tanta era grande l’ansia, insieme a lui. Quasi gli altri non riuscivano a tenere il nostro passo. Ma nessuno disse nulla, a proposito. Nessuno commentò. Regis, guardandomi, cercò di trasmettermi calma, sorridendo con tranquillità. Io deglutii. Non riuscivo a calmarmi. Proprio non ce la facevo. Il mio cuore batteva forte come un tamburo. No. Non volevo che Nemys morisse. Non l’avrei sopportato. Per niente. Finalmente, dopo quello che parve un secolo, arrivammo nella bella camera di Nemys, dai toni chiari che le piacevano tanto. Entrammo in punta di pied9i. io fui l’ultima, dopo Regis. Vidi accadere una cosa davvero strana. Con la mia amata Rinnegata, a letto, c’era un tipo. Mi sembrava vagamente umano, anche se non riuscivo a definirlo. Era cestito con abiti strani, dalla foggia sconosciuta, di colore molto scuro, forse nero, ed era alto, e smilzo. Aveva degli strani, e lunghi, capelli argentei. Regis, non appena lo vide, s’immobilizzò. Lo vidi, di spalle a lui com’ero, sobbalzare. “Erik!”.  Esclamò lui, con una stranissima voce, evidentemente spaventata. Mi sentii immediatamente inquieta, e mi spostai per vedere meglio. Si: Regis era intimorito da quella creatura. Mi chiesi chi diavolo potesse essere per metterlo così a disagio. Qualcuno di formidabile, senza dubbio. Provai un empito di protezione verso il mio umano. Avrebbe pagato, l’avrebbe pagata davvero cara se solo si fosse azzardato a toccarlo con un dito. Lo strano essere si girò. Per conto mio rimasi davvero interdetta. Scossi il capo più volte per accertarmene. Accidentaccio. Quel tipo assomigliava a Regis, oh si che gli assomigliava. Avrebbe potuto essere scambiato per suo fratello. Un fratello dai lineamenti più cupi, dagli occhi, se possibile, più foschi, dall’espressione ora un po’ confusa, e tanto amara. Ebbi la netta impressione di vedere come l’ombra del mio amico umano. Devo dire che quel tipo non mi piaceva particolarmente. Non aveva fatto nulla di male, non mi aveva davvero fatto nulla, ma io non mi fidavo. Anche se non si stava muovendo, limitandosi a guardare Regis con un certo astio, se solo avesse fatto del male a qualcuno l’avrei ammazzato con le mie stesse mani. Però era strano che si trovasse lì, trattando Nemys con evidente familiarità. Ma chi diavolo era? Cosa ci faceva da Nemys? Perché Regis lo conosceva? Non so. A parte il suo nome, so davvero pochissimo di lui. Non l’ho mai più visto, a parte quella giornata. Chissà chi era. Ho l’impressione che anche il mio amico umano avesse certi scheletri da nascondere nel suo armadio. Quei due avevano l’aria di due gatti pronti a saltarsi addosso. Bah, maschi. Non sanno cos’è la mediazione. Comunque, la mia Rinnegata intervenne presto, ed il tipo di nome Erik si scostò. La vedemmo tutti. Sentii un colpo al cuore, e feci un passo in avanti. Povera mia amica, mia sorella. Il suo volto pallido era contorto dalla sofferenza, teso in una smorfia di puro dolore. Mi sentii sull’orlo delle lacrime, e socchiusi gli occhi. No. Avrei voluto, tanto, correre da lei come una bambina, consolarla, implorarla di tener duro, di non lasciarmi, piangere, ma non potevo. Ero in pubblico. Mi sarei sfogata una volta sola. Dovevo resistere. Avevo ancora un briciolo di orgoglio. E poi c’era quello sconosciuto lì. Io ero la Ch’argon. Al popolo dovevo dare l’impressione di essere forte, anche se non lo ero. Dovevo sembrare forte. Lo dovevo per tutti. Istantanea com’era venuta, l’ondata di pena se ne andò. La seppellii prontamente sotto altri mille pensieri. Ecco. Era meglio. Era molto meglio. Sentii, accanto a me, Regis tirare il fiato, e guardare la mia Rinnegata con stupore. Arrossii. Mi sa che aveva capito. La somiglianza tra noi due era molto netta. Un po’ come quella tra lui ed il tizio. Ebbi un improvviso lampo, e lo guardai, stupita. Poteva essere. E chi l’avrebbe mai detto. Regis, avere un Rinnegato. Non tutti erano così puliti come sembrava. Perciò non si era stupito più di tanto! Non mi sembrava però così cattivo, così pauroso. Solo un po’ triste, tormentato. I suoi occhi guizzavano da una parte all’altra, inquieti. Anche lui mi guardò, annuendo tra sé e sé, chissà perchè. Distolsi subito lo sguardo. Mi parve quasi indelicato fissarlo. Che strana creatura. Schiarendosi un po’ la gola, nel silenzio teso che si era creato, Isnark presentò Regis. Ma Nemys lo interruppe subito. Lo conosceva, attraverso me. Aveva vissuto il torneo con me. Le sue parole fecero girare immediatamente il mio amico verso di me. Arrossi di nuovo. Era davvero stupito. Beh. A lui doveva apparire davvero una cosa stranissima, quella. Chissà dove si era mai visto una Rinnegata e la sua creatrice pappa e ciccia come noi. Annuii, e poi feci un passo in avanti. Quel gesto sembrò svegliare un po’ tutti. Isnark, Zipherias e Peter sgattaiolarono fuori, verso la biblioteca, penso. Masato ed io, lui riluttante, io preoccupata, ci avvicinammo a Nemys. Erik e Regis rimasero indietro. Li guardai brevemente. Stavano guardandosi in cagnesco, ma non parlavano. Mi fissai con Nemys. Lei cercò di sorridermi, ma le venne fuori una brutta smorfia di dolore. Deglutii, di nuovo, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Guardai, implorante, Masato. Tutto quello che avrebbe potuto fare, l’avrebbe fatto, non importava a che razza di prezzo. Non m’importava. Lei doveva vivere. Senza le sue parole dolci, il suo sorriso confortante…come avrei fatto? Come sarei andata avanti? Cercai di reprimere la disperazione che minacciava di soffocarmi. Andai al capezzale della mia Rinnegata, e le tenni la mano. Lei mi sorrise di nuovo, e mi carezzò il dorso della mano. Sembrava molto tranquilla. Come se non fosse in punto di morte, forse e quasi. Come se, nonostante il dolore, fosse felice Il dottore cominciò la visita. A parte un momento di puro stupore, dovuto allo sfoggio di uno dei tanti poteri di Nemys, un potere della sua natura da Rinnegata che conoscevo, che le permetteva di parlare in qualsiasi lingua, in chissà che maniera, parlando direttamente all’anima della persona, quel momento non fece altro che aumentare la mia disperazione, e quella di Isnark, che nel frattempo era tornato. Nemys stava male. Per la prima volta ebbe un quadro completo di ciò che le stava accadendo. Il dolore che la scuoteva era davvero tanto, e più di una volta Masato si era dovuto fermare. Mi sentii disperata. Per una volta, mi sentii vicina ad Isnark, angustiato come me. Cercai Regis con lo sguardo. Era l’unico che mi poteva salvare, in quella situazione. Ma lui non prestava attenzione a quello che gli capitava intorno. Stava confabulando con quel tipo sinistro, senza smettere di guardarlo con circospezione, attento. Davvero. Sembravano due gatti rivali, due bestie selvagge. Davvero, quei due non si volevano molto bene. Il tipo dai capelli d’argento se ne andò dopo poco, per fortuna. Saperlo vicino al mio caro amico mi spaventava, soprattutto da quando avevo visto gli occhi scuri di Regis riempirsi di apprensione nel vederlo. Dopo un po’, Masato diede le sue amarissime conclusioni. Bisognava aspettare ancora. Nonostante tutto il dolore, comunque lui avesse agito, Nemys avrebbe rischiato di morire. Anzi: in ogni caso sarebbe morta. Ed allora, capii finalmente la verità. Lei era sempre stata cosciente di questo, del fatto che sarebbe sempre e comunque morta, e così Isnark. Ero io l’unica stupida a sperare ancora. Da quando aveva scoperto di essere incinta, Nemys aveva capito di avere il destino segnato. Mi aveva tenuto tutto nascosto, di nuovo, per proteggermi, presumo. Mi sentii malissimo. Ero troppo stanca per soffrire per quel fatto. Nemys. Morta. Niente più coccole, niente più sorrisi. Sarei stata di nuovo, tremendamente, sola. E stavolta, senza più ritorno. Erano morti. Tutti. L’unica persona rimasta in grado di capirmi sarebbe svanita anche lei. Cercai di non scoppiare in lacrime, e guardai Regis, in cerca di un appiglio. Per fortuna c’era lui. In quel momento, mi ritrovai a sperare che non se ne andasse, o ,quantomeno, mi portasse con lui. Sarebbe stato bello tornare indietro e mettere tutto a posto, per poi tornare con ricordi cambiati, e tutti vivi. Troppo bello per essere vero.  Non sarei stata la ferita, la mutilata nell’animo, la vita soffocata e spezzata in mille frammenti, che come specchi riflettevano parti staccate di me, mille volti distorti e diversi, senza un intero che mi desse calore e conforto. Quella volta fu davvero dura, non piangere. Mi allontanai da tutti, deglutendo senza posa, il volto teso, in una posa fiera. Solo Nemys e Regis parvero capire. La Rinnegata distolse il volto, tutta presa dall’unica maniera, un sedativo forte, che, in piccole dosi, le avrebbe placato il dolore  senza farla delirare, per aspettare che le sue condizioni fossero un po’ migliori, mentre il mio amico, con un’espressione indecifrabile, stranamente profonda, a disagio, piena di compassione, fece un passo involontario in avanti, guardandomi, per poi raddrizzarsi, rimettendosi la sua maschera composta. Era meglio così. Se solo qualcuno mi avesse toccata, avrei cominciato a singhiozzare senza finire più.

Una volta che Masato le ebbe dato quella sorta di sedativo, con lo stesso aggeggio infernale con cui aveva tirato a me il sangue, ebbe inizio la lunghissima attesa. Senza pietà, tutti fummo cacciati via dalla sua stanza, anch’io ed Isnark, che sparì immediatamente dalla circolazione, il volto di un uomo con mille e mille anni di tormenti alle spalle, il volto di un uomo sul rogo. Nemys aveva bisogno di assoluto riposo. Nessuno doveva disturbarla. Io mi premurai di non guardarla in viso. Non ce la facevo. Faceva troppo male. Ci disperdemmo subito. Io, addolorata, disperata, corsi via in un lampo, fermandomi solo per spiare Regis, che andava verso la biblioteca. Ma non avevo voglia di seguirlo. Non ancora. Quella orribile notizia mi aveva snervata, benché vi fossi preparata da tempo. Mi sentivo completamente vuota. Era orribile non avere più speranze. Orribile. E Nemys non mi aveva detto nulla! Aveva preferito nascondere tutto sotto un velo di menzogna! Presa dalla rabbia, ricaccia indietro, tirando su con il naso, le lacrime che minacciavano di uscire. Sola, di nuovo, senza possibilità di scampo. Avevo passato un periodo brevissimo in compagnia di me stessa, una persona che mi aveva fatto vedere quanto io in realtà in me avessi anche del buono, che mi aveva aiutata a camminare sui miei piedi, che mi aveva consolata quando ero triste, sgridata quando facevo una stupidaggine. Ed ora mi lasciava, con un ennesimo marmocchio da curare, ed altri ricordi agrodolci. Ed io non potevo nemmeno essere arrabbiata con lei. Non ora. Non ora, che era l’ultimo giorno in cui l’avrei vista da viva. Nessuno mi avrebbe più capita da uno sguardo. Nessuno. Amarto ormai era troppo vecchio. I miei amici erano morti, o lontani. C’era solo Regis. Si: dovevo, in ogni caso, andarmene con lui, o convincerlo a rimanere con me. Era l’unica mia ancora a quello che ero stata. Senza di lui, sarei andata alla deriva, vegetando per servire gli altri. Persa nei miei pensieri, raggiunsi le camere di Dae, e del mio pulcino. Il mio piccolo Machin. Era l’ora della pappa, quella. La nutrice aveva sicuramente bisogno di me, nel tiro a bersaglio che era divenuto dare da mangiare alla peste. Mi diedi un’apparenza allegra: ero divenuta brava, con le maschere. Pensai che andare con Regis era necessario anche per il piccolo. Sarei tornata indietro nel tempo anche per lui. Quando sarei tornata, lui non sarebbe più stato orfano. Sarebbe cresciuto con i suoi genitori, e magari un nugolo di fratellini. Una vita molto più felice di quella che si prospettava con me. Sorrisi lievemente, un po’ rasserenata, fiduciosa di poter cambiare tutto, ed entrai. Nel piccolo salottino, seduti su due poltrone, c’erano Dae ed Amarto, che erano divenuti buoni amici, che osservavano, o almeno la nutrice osservava, la figura  bionda del piccolo Machin, seduto sul tappeto di lana a terra. “buongiorno…”. Dissi, entrando. Tutti e tre alzarono la testa. I due vecchi sorrisero, e mi fecero un cenno. Dei. Mio nipote aveva anche lo stesso atteggiamento di Tijorn, regale, un po’ rapace. Alzava la testa come lui. Sul volto, però, gli si disegnò un sorriso sdentato e sghembo che era tutto sua madre. M’indicò, imperioso, mettendosi a sedere. Nella manina paffuta stringeva un giocattolo che gli avevo regalato io, un coniglio morbido, di stoffa imbottita e resistente, che lui si divertiva a mordicchiare. Era tutto intriso di bava. Sentii un lieve moto di disgusto. Bleah. “La!”. Urlò lui, tutto contento, scalciando con quei deliziosi pedini, e guardandomi con quegli occhi che erano uguali a quelli del padre, stessa profondità. Mi sentii invadere da un mesto buonumore. Almeno, c’era qualcuno che era contento di vedermi. Sorrisi. “ciao, piccolo marmocchio…”. Dissi, cercando di non mostrare il mio dolore profondo, abbassandomi e prendendo mio nipote in braccio. Stava diventando bello pesante. Ma era meraviglioso, con quella pelle di panna e rosa,  quei capelli dal misterioso colore aranciato, tutto paffuto. “come stiamo, eh? Come sta il mio tesoro?”. Bah. A volte mi stupivo della mia vocina idiota. Però era gratificante vedere Machin che, senza avermi capito, si accoccolava contro di me, ripetendo una salva di lalala continui, fermandosi solo per prendere fiato, sgambettando allegramente, pieno di vita. Era bello, vedere quell’innocenza estrema. Non avrei mai, mai permesso che lui fosse sporcato dalla stessa ombra in cui io avevo sguazzato. Mai. Chiunque avesse voluto fargli del male, sarebbe dovuto prima passare sul mio cadavere. Anzi, sulle mie ceneri, perché nemmeno da morta mi sarei arresa all’eventualità di perdere Machin. No. Scambiai un paio di vivaci parole con Dae e Amarto. Nessuno dei due, pur guardandomi con dolcezza, mi fece domande su Nemys. Conoscevano l’entità della mia pena. Giocai un po’ con Machin, tenendolo stretto e solleticandogli la pancia, facendolo ridere in ogni modo a me conosciuto. Quelle risate a squarciagola, così infantili ed innocenti, riuscirono a mettermi un po’ di buonumore. Venne così l’ora della pappa, la minacciosa ora della pappa. Tenendo stretto il mio guizzante nipotino, pieno di vita come si addiceva ad un infante della sua età, andammo di là tutti e tre, per farlo mangiare. Era una parte un po’ difficile della giornata: Machin non aveva ancora capito che quella roba tritata che gli davamo non era un gioco. Era lungo e spossante, costringerlo ad aprire la bocca. Che poi il piccolo già sembrava dotato dell’umorismo perverso della madre, era cosa risaputa. Ero stata colpita a tradimento più di una volta dal cibo che lui mi aveva sputato in faccia, quando credevo che avesse inghiottito il boccone, oppure ero stata presa per i capelli da un bambino ridente,e quasi portata con la faccia nella ciotola, lacrimando dal dolore. Stare con Machin era bellissimo, ma sfiancava. Era inutile rimproverarlo, dirgli di smetterla. Lui lo faceva solo per vederti con la faccia piena di orribile sbobba dal colore incerto. Amarto diceva sempre che Tijorn era come lui, da piccolo, solo un po’ più calmo. Sembrava aver ereditato la natura esagitata di Akita. Quella volta non fu da meno. Fui costretta, una volta averlo messo a nanna, cosa che fece docilmente, addormentandosi senza problemi, a tornare nella mia camera, per cambiarmi con un altro abito, sempre del mio solito viola, un po’ più pesante perché faceva freddo. Quando mi allontanai da mio nipote, il buonumore che avevo avuto svanì come neve al sole, si sciolse. Sentii di nuovo affiorare il panico, il dolore terribile di essere sola, la curiosità, il desiderio di tornare indietro. Volevo Regis. Volevo stare un po’ con lui. Vederlo, almeno, anche senza parlargli. Non appena fui un po’ più presentabile quella fu la prima cosa che feci. Sgattaiolai come un topolino, silenziosa, in biblioteca. Almeno vederlo. Almeno vedere il suo viso delicato, vederlo aggrottare le sopracciglia quand’era nervoso, e tanti altri piccoli gesti a me divenuti familiari. Almeno ricevere il conforto di un viso amico. E poi volevo vedere a che punto fosse della sua ricerca. Comunque fosse andata, sarei stata con lui, sempre. La cosa non poteva farmi che piacere. Oh, d’accordo. Non mi era indifferente. Ero molto affezionata a lui, fin troppo. Quell’umano mi attirava in un modo che non avrei mai creduto possibile. Era come una calamita. Impossibile resistervi. Accidenti. Mi morsi il labbro per non imprecare, mentre salivo a passi svelti le scale della biblioteca, agile e silenziosa come solo una Spia sa fare. Sfruttando le ombre, passai inosservata al vecchio Yufrek, il vecchio barbuto e quasi cieco che era il bibliotecario, e che aveva preso a benvolermi, e salii su, dove sentivo delle parole. Passando, non vista, di banco in banco, di schiera in schiera di libri, arrivai su una scrivania ingombra poco distante da loro. Eccolo lì. Lui, e Peter, il biondino, che cercava di parlare con il giovanissimo assistente del bibliotecario, ancora un infante, cercando di imparare i rudimenti della nostra lingua. Regis invece studiava, in un silenzio quasi religioso. Mi accoccolai tra i libri, il naso in un enorme volume aperto, nascosta dalle ombre. Si era immerso nella traduzione del libro, ed era molto impegnato. I capelli scuri, già più lunghi dell’ultima volta che lo avevo visto al Lazzaretto, gli coprivano il volto con un’ombra. Di tanto in tanto mormorava qualcosa tra sé e sé, e poi passava avanti, sfogliando le pagine con attenzione da studioso. A differenza del tipo a lui vicino, facilmente riconoscibile per umano, che mi sembrava tanto un bambino, ai miei occhi, lui sembrava, ancora una volta, vecchio di secoli. Provai l’irresistibile tentazione di mostrarmi. Volevo stargli vicino, sentire il calore della sua compagnia. Volevo guardarlo bene in volto, sorridergli, dimenticare per un attimo di essere un’orribile elfa sfregiata, per tornare ad essere Lsyn. Mi trattenni giusto in tempo. Stava lavorando. Non era giusto che lo distraessi. Rimasi per un tempo infinito a guardarlo, nell’animo un sentimento misto a timore e attrazione. Per i canoni umani era bello, altroché. Anche per i canoni degli elfi. Era abbastanza delicato per piacere un po’ a tutte. Poteva davvero rivaleggiare con Chekaril. Arrossii, per la terza volta in una giornata, e mi morsi il labbro. Ora capivo benissimo perché esistessero i mezz’elfi. Prima di quel momento, mi ero sempre chiesta come umani ed elfi potessero amarsi. Oh. Era possibile? Era davvero possibile per due razze così diverse, ma così uguali? Era possibile, per me, essere attratta da lui? Troppo complesso. Lui meritava di meglio, di meglio di me. E, dopo Chekaril, non volevo più essere presa in giro. Non più. Digrignai i denti, e, silenziosamente, mi alzai, distogliendo lo sguardo, con grande fatica. Era come se fossi calamitata da lui. Avvicinarmi, lasciarmi stringere, lasciare che lui mi baciasse. No. Non dovevo pensarlo. Io ero brutta. Orribile. Mostruosa. Quel sentimento sicuramente non era corrisposto. Cosa aveva da guadagnarci, lui, ad amarmi? Probabilmente mi considerava un’amica, una buona amica, nulla più. Scappai via da quel luogo, con un groppo in gola. Non era assolutamente il momento di pensare a certe cose. Nemys stava morendo. Stava morendo. Fuggii nel chiostro del tempio, un luogo a quell’ora deserto, perché mi dovevo sfogare. Piansi come non facevo da mesi. Così orribile, così orribile la sconfitta. E non potevo farci nulla, nulla, come sempre. Sarei tornata indietro per salvare i miei cari. Ma nulla mi avrebbe dato l’amore di chi amavo.

Ero ormai calmissima, ed ero rientrata, di sera, piena di uno strano senso di accettazione quando Zipherias mi venne a chiamare. Nemys aveva bisogno di me, a quanto pareva. Ansiosa, lo seguii. Non ci scambiammo una parola. Entrambi eravamo troppo, troppo nervosi, e il mio amico sembrava ancora avercela con me. Entrai nella camera sua in un lampo. Cosa mi voleva dire? Scuse? Consolazioni? Intimazioni ad essere forte? Ero curiosa, e tanto tesa. Un segreto?. Eravamo sole. Lei era circondata da quelle strane scatole che Masato aveva portato, le scatole luccicanti, che chissà a cosa servivano, e mi stava guardando. Di fianco a lei, al letto, c’era il suo enorme specchio. Chissà chi gliel’aveva messo lì. E chissà a cosa serviva. Di certo lei non aveva una bella cera. Era pallida e dolorante, dal viso tanto severo. Il motivo di quella chiamata mi fu chiaro ben presto. Un rimprovero. Lei non volava dirmi belle parole d’addio, non voleva confortarmi. Solo sgridarmi. E tutto quello, perché? Perché avevo detto a Regis delle cose sulla storia che non dovevo dirgli. Assurdo, davvero assurdo. Mi sentii minuscola al suo cospetto, e di nuovo fui sul punto di piangere. Eccomi trattata come la servetta, una bambina. Non ero niente di diverso. Non capii nulla del suo discorso, troppo contorto per le mie conoscenze. Parlò del fatto che, la conoscenza del futuro di Regis avrebbe potuto influire su quel presente, ed altre stranissime parole, troppo difficili per comprenderle, per me, che avevo, tutto sommato, una preparazione degna di quel mondo, ma inadeguata per quelle strane situazioni. Mi chiesi come conoscesse tutti quei termini strani. Poi lei si ammorbidì, e mi chiese di venire vicino a lei. Abbassai lo sguardo, senza riuscire ad incontrare il suo. “Lsyn…c’è per caso qualcosa che t’inquieta?”. Mi chiese, indagatrice e dolce. Mi sentii a disagio, come trafitta da mille aghi. Accidenti. Volevo tornare indietro nel tempo, riparare a tutti i miei errori. Amavo la persona più proibita al mondo. Mi sentivo male, perché ero trattata da serva, sempre e sempre. Con la scusa di proteggermi mi usavano. Eppure, quella domanda di Nemys mi prese in contropiede. “come?”. Dissi, interdetta, guardandola finalmente negli occhi. Lei sorrise dolcemente, un sorriso normale, come se non stesse morendo, come se quello fosse tutto un sogno. “lo sai che con me puoi parlare”. Bisbigliò, tornata l’elfa complice di sempre, la mia confidente, che mi aveva vista piangere, disperarmi, a lutto, allegra. Mi sentii a disagio, e mi agitai, torcendomi le mani. Mi premeva dirle troppe cose. Troppe. E lei capì. Lei capì tutto. Fu molto dolce, con me. Lei sapeva quanto e quale fosse il mio turbamento. Ma nulla poteva porvi rimedio. Non potevo tornare indietro nel tempo, la cosa era semplice. Avevo fatto una scelta, e quella sarebbe stata, per sempre. Se solo ci avessi provato, sarei morta, persa per sempre nelle pieghe immense del tempo, eterna viandante. Tijorn sarebbe rimasto nella tomba, e così gli altri. Non potevo cambiare nulla. Regis sarebbe andato via, senza di me. Mi sentii avvolgere da un incredibile senso di disperata sconfitta, e, di nuovo, mi assalì lo strazio. Avevo fallito in tutto, nella mia vita. In tutto. Non ero riuscita a proteggere chi amavo. Avevo perso ogni cosa. Ero sola, del tutto sola. La tristezza che mi assalì fu tanta, così tanta, così straziante, che non resistetti più. Tutto il dolore che avevo dentro esplose, tutto il senso d’inutilità. E scoppiai a piangere, lì, aggrappata disperatamente a Nemys, come una naufraga, sperando che almeno lei non mi lasciasse. Non l’avrei sopportato. Ne sarei morta. Lei, carezzandomi  i capelli, roccia al mio dolore come sempre, giurò che, in un modo o nell’altro, mi avrebbe accompagnata sempre, perché io ero in lei, e lei era in me. Noi eravamo una sola cosa. Non so perché, ma mi sentii lievemente rinfrancata da quelle parole. Era bello pensare che almeno lei, pur non sentendola fisicamente, non mi avrebbe mai e poi mai lasciato. Insieme, fino alla mia fine, fino alla tomba. Così, con quel pensiero, riuscii di nuovo a dominarmi. Avevo una voglia matta di stare un po’ da sola. Avevo bisogno di riflettere. Tuttavia, fui riluttante ad andare via, quando Zipherias mi cacciò letteralmente fuori. Forse quella era l’ultima volta che vedevo la mia Rinnegata viva, che le parlavo. Uscii fuori così, persa nella mia mestizia, triste oltre ogni dire. E fui colta di sorpresa. Erik, quel giovane dai capelli d’argento, doveva aver origliato. M’interpellò, asserendo che Nemys aveva ragione. Alla confusione ed al timore per una persona così strana, che davvero metteva in soggezione, si sostituì il fastidio. Ma chi era? Come si permetteva di parlarmi in quel modo? Lui non sembrò avvedersi del mio fastidio, anzi. Continuò a parlarmi. E spesso ho usato alcune delle sue parole come appiglio per i momenti difficili. Non ricordo proprio tutto quello che mi disse. Erano belle parole, piene di immenso dolore, di quella persona così intimidatoria, ma così piena di una sorta d’intrinseca bontà, senza eroismo, senza boria, ma con umiltà e tanto dolore. Non so perché, ma lo sentivo vicino, tanto vicino. Mi ero simpatico, così, a pelle. Era uno strano animaletto. Era strano che Regis lo temesse così. Di tutti i suoi consigli, lo ammetto, uno solo mi rimase impresso, ed a quello obbedii. Con quell’aria saggia ed infantile al tempo stesso, confusa e decisa, lui mi disse parole preziose, che qui riporto testualmente, perché così mi rimasero impresse.

“Scrivi.  C’è un limite alla quantità di dolore e di sofferenza che la mente può sopportare; i vecchi dolori fanno posto ai nuovi, ma anche se la mente non li ricorda essi restano lì, nel cuore, e non smettono di fare male; esternarli in qualche modo, magari imprimendoli sulla carta, è l’unica cosa che può farli uscire allo scoperto.  Sarà un’esperienza difficile, molto dolorosa, perché ti costringerà a confrontarti una volta per tutte col peso del tuo passato, ma una volta che sarai giunta alla fine avrai tratto da esso tutti gli insegnamenti necessari ad andare avanti, e allora potrai anche lasciartelo alle spalle.”

Sono grata ad Erik per ciò che disse. Sono parole preziosa, parole d’oro, un faro nella tempesta. Ed ora più che mai posso dargli ragione. Ma tirerò le somme più avanti. Devo solo dire che, tra tutte le persone incontrate in quel giorno convulso, quel ragazzo, che tanto sospettavo fosse il Rinnegato di Regis, lui più di tutti mi donò un insegnamento. Speranza, senza illusione. Forza, pura e dura, decisa e piena di fuoco. Quello che mi aiuta ad andare avanti, quelle parole. Quello che mi ossessiona. Lasciai quel tipo con uno strano senso di calore. Era inquietante, era sinistro, però mi era simpatico. Sentivo che avevamo tanto in comune, lui ed io. Non l’ho mai più visto. È un gran peccato. Vorrei parlargli ancora, ringraziarlo, dire che aveva ragione. Ma non posso. Non so dove sia. Tuttavia lo devo ringraziare, se andai nelle mie stanze con più tranquillità. Riuscii a dominare il pianto, ancora per un po’. Sospirai. Nulla stava andando come previsto. Nulla andava mai come previsto. Disgrazie, come sempre. Questo mi aspettava, nel mio cammino. Avrei dovuto abituarci. Ma ora non potevo fare nient’altro che aspettare. Aspettare, ed aspettare, che la clessidra smettesse il suo stillicidio, che anche Nemys mi lasciasse, che Regis se ne andasse, senza sapere quanto io avessi cominciato a guardarlo con occhi diversi dall’amicizia, che forse non era proprio un male, che tutti della vecchia brigata se ne andassero, lasciando la mia anima ulcerata, piena di tristezza. Sola. Tutto ciò che potevo fare, era solo sperare. Sperare di proteggere chi sarebbe venuto. Non appena arrivai nella mia stanza, buia, mi andai a sedere sul balcone, guardando le montagne alte. E così, il vento, il vento freddo del nord, il Respiro di Drago, cominciò a soffiare, portando via ogni impurità. E le mie lacrime si mischiarono al morso del primo, limpido gelo, di quella notte senza nuvole.

 

*nome strettamente autobiografico. Nina era la baia testarda su cui facevo equitazione o__o fino a quel momento non sapevo che anche i cavalli avessero i tic nervosi. Davvero. Era una cavalla frustrata, quella! O__O

 

 

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Capitolo 90
*** Ai confini dell'irrealtà-Ci eravamo sentiti dei. ***


Oltre al solito disclaimer, vorrei farvi partecipi di una piccola, minuscola poesia, di Edgar Lee Masters e la sua magnifica “Antologia di Spoon River”, che mi ha ispirato grande parte di questo capitolo, che dedico tutto a Carlos Olivera, che saluto, ed

Oltre al solito disclaimer, vorrei farvi partecipi di una piccola, minuscola poesia, di Edgar Lee Masters e la sua magnifica “Antologia di Spoon River”, che mi ha ispirato grande parte di questo capitolo, che dedico tutto a Carlos Olivera, che saluto, ed a cui auguro ancora in bocca al lupo xD

Un saluto a tutti, miei lettori fedelissimi e meno fedeli J

Akita

 

Faith Matherny

Al principio non riuscirai a capire cosa significano,

e forse non lo capirai mai,

e forse non te lo dirò mai: -

questi bagliori improvvisi nell’anima,

come fulmini guizzanti su nubi di neve

a mezzanotte quando la luna è piena.

Arrivano nella solitudine, o forse

Mentre siedi con un amico e all’improvviso

Cade il silenzio nel discorso e i suoi occhi

Senza batter ciglio ardono verso di te:-

Voi due avete visto insieme il segreto,

lui lo vede in te e tu in lui.

E state lì seduti, impauriti che il Mistero

Sorga davanti a voi e vi colpisca a morte

Con uno splendore simile a quello del sole.

Abbiate coraggio, voi anime che tutte avete simili visioni!

Come il vostro corpo è vivo e il mio è morto

Voi state afferrando un minuscolo soffio dell’etere

Riservato proprio a Dio.

                                              Edgar Lee Masters.

 

Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio! È solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di tempo, con il consenso di entrambi! xD

Dunque, molte delle situazioni, la maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia “indipendenza letteraria” (xD)-), e, soprattutto, il personaggio di Regis appartengono all’anzidetto Carlos Olivera, ed alla sua opera xD

 

 

Come ormai tante persone sicuramente stavano facendo, anch’io aspettai, immersa nel buio del balcone. L’unica luce che proveniva dalla mia stanza da letto, le lampade ad olio che la sera tenevo sempre accese, bastava a rischiarare quanto bastava per non farmi finire gambe all’aria se avessi voluto raggiungere il letto, rientrare dentro. Per la stessa spinta del forte vento freddo, un’anta della grande porta a vetro che collegava la stanza da letto, l’ingresso del mio piccolo appartamento privato, si era spalancata, ed aveva messo in disordine la pila di carte che avevo vicino al camino, che frusciavano e danzavano, sparse dappertutto sul pavimento, gonfiando la pesante tenda scura come un grosso e sinistro fantasma, che si muoveva come fosse vivo. Non me n’ero curata. Non importava, con una notte così bella e limpida, l’ultima notte di Nemys sulla terra, non m’importavano quelle futili faccende terrene. Il dolore a quel pensiero era davvero troppo. Fino a quel momento avevo creduto di essere davvero sola, ma solo in quel momento capivo davvero cosa fosse la solitudine. Non ci sarebbe stato più nessuno in grado di capirmi davvero, a non avermi visto prima dell’incidente. La mia vita era stata spezzata a metà da quell’orribile accadimento, spezzata a metà com’era il mio corpo. E da una parte c’era il Passato, liscio e bello, perfetto, dai colori tenui, una morbida e calda pianura. Dall’altra il Presente, devastato, un intrico di orribile asprezza, deformante come uno specchio rotto, pauroso, le irte montagne che un tempo avevo scalato, quelle bellissime, maestose montagne, che mi stavano davanti, coperte di boschi e neve. E da una parte c’era stata Lsyn, la Nanetta di Tijorn, il piccolo ragnetto di Amarto, dolci ricordi con cui consolarsi nelle notti insonni. Dall’altra non c’era più nessuno. Nulla. Nulla e buio, come in quella notte. E su quello mi ero concentrata per scacciare la malinconia, sul silenzio fischiante e desolato, sul paesaggio che quella collina, di cui il castello costituiva la sommità, da cui vedevo tutta la mia adorata Kyradon, scintillante come un cumulo di neve perenne, la pianura, e poi le aspre montagne su cui vivevano serenamente i miei fieri amici alati. Un girono li avrei raggiunti. Li avrei raggiunti, ed avrei raccontato a Kyrre di essere divenuta una persona migliore. Sospirai, triste. Non ero l’unica a vegliare, ad attendere una fine inevitabile. Tantissime luci, nelle belle case dei ricchi, o nelle umili capanne dei più poveri, o addirittura negli alloggi dei pellegrini, erano accese, tante piccole e luminose gemme di speranza. Sentivo, di tanto in tanto, canti, o cori di preghiere, chiaramente pieni di speranza, giungere fino a me, frammenti che rendevano più desolante l’attesa. Il popolo aspettava come me. Ma c’era una differenza. Il mio era il solo, straziante lamento funebre che si levava al cielo. Nemys era amata, ma ancora di più lo sarebbe stato suo figlio. Avrei preferito una morte subitanea a quella lunga agonia. Se solo fosse successo così anche con Tijorn ed Akita, allora non avrei resistito. Da un lato, era stato meglio così. Non sopportavo quell’attesa, quella tortura prolungata. Da un lato però, speravo che il mio nipotino si facesse attendere ancora un altro po’. Ora che dovevo aspettare, non ero pronta a lasciare la mia dolce Rinnegata. Non ancora. Volevo un altro po’ di pace. Sospirai ancora, il vento delle orecchie, che gemeva per me. Mi alzai: le gambe mi si stavano intorpidendo. Mi appoggiai così alla balaustra, in piedi, guardando ancora la città. Invidiai le persone che, in quel momento, erano riunite, lì, con la loro famiglia, al caldo, piene di speranza fino all’orlo, trepidanti, pregando con fervore. Pregare. Avrei voluto avere io, in quel momento, qualcosa a cui aggrapparmi. Di solito tendevo a considerare la religione come uno stupido ammasso di  credenze, superstizioni che avevano lo stesso valore dell’oppio per un drogato,  ma quella volta rimpiansi seriamente di non avere un dio a cui credere. Mi sentivo davvero persa, sola, piccola come una formica, lì, schiacciata dalle imponenti montagne e da quella notte limpida e fredda. Si: mi sarebbe piaciuto pregare per qualcosa, ma non potevo. Non sapevo in chi e cosa sperare. Qualcosa in me rifuggiva quell’atto di contrizione. Mi sarei sentita legata a qualcosa di cui non avevo fatto parte: sarebbe stato come un insulto per quelle persone che da sempre credevano in qualcosa. E così ero condannata dalla mia stessa intelligenza ad una solitudine non so quanto bella. Provai per un attimo ad immaginare come sarebbe stata la mia vita se non fossi stata una Spia, magari Laila, la fornaia. Una famiglia, una famiglia di sangue, la cosa che decisamente mi mancava meno. Una vita tranquilla, da analfabeta o quasi tale, punteggiata dal lavoro e dalla religione. Una vita modesta, senza chiedermi nulla, senza soffrire. Un marito, che forse avrei amato, dei figli. Un viso sano. Le leggende avrebbero camminato lungi da me, ed io avrei continuato la mia esistenza candida, in un piccolo, ottuso paese. E poi mi oscurai. La guerra. la fame. La morte. Tutto quello mi avrebbe perseguitato anche lì. E forse il mio destino sarebbe stato lo stesso. Al caso predefinito non si poteva fuggire. Ciò implicitamente già scritto per me sarebbe accaduto comunque, tutte le disgrazie, quali sarebbero state le mie decisioni. Quello sarebbe stato, e basta. Quel vento freddo, che scendeva dalle montagne e sapeva quasi di neve, che puliva il cielo dell’afa estiva, rendendo e stelle più che mai brillanti, diamanti su un mare di velluto, mi s’insinuò nei vestiti, scompigliandomi i capelli, che erano ancora in quella coda scombinata in cui li avevo legati quella mattina, togliendomi il cappuccio che avevo alzato per riparami dal freddo autunnale. Rabbrividii, e mi strinsi al metallo freddo della balaustra, in cerca di un impossibile calore. Mi sembrava di buon augurio per Nemys, quel vento, e nello stesso tempo un tragico avvertimento. Ricordavo una vecchia leggenda che Amarto mi aveva raccontato da piccola, quando io, lui e Tijorn eravamo stretti intorno al braciere in giornate come quelle, mangiando noci e nocciole. Quel vento era chiamato Respiro di Drago perché rappresentava il soffio gelido di questi ultimi, dei bianchi draghi alati del Nord, le creature più vicine in assoluto alla perfezione divina. Con il loro soffio essi salutavano la morte di una persona desinata a legarsi in qualche modo ai loro ranghi, a divenire bella come loro. Da allora, ogni volta che il vento cantava, io scappavo fuori, naso in su, come nella speranza di vedere il nuovo Bianco librarsi in cielo. Era davvero una strana credenza, di cui avevo trovato tracce in antichi tomi della Biblioteca sia di Kyradon che del Quartier Generale, che affondava le sue radici nella notte dei tempi. Cominciai a viaggiare con l’immaginazione. Chissà come sarebbe stata, Nemys, come drago, se ancora ci avesse ricordati, oppure se si ritirasse, come i suoi simili, nelle candide e lucenti caverne di diamante dove la leggenda tramandava abitassero i draghi bianchi, per uscire a caccia nelle notti di luna piena, immemore e piena di nuova saggezza. Bella, sicuramente, degna ancora di maggior rispetto. Finalmente un essere vivente, non più legato alla sua essenza, un essere perfetto, degno di essere venerato come un dio. Ma scacciai in fretta quelle fantasticherie, dolente. I draghi non esistevano. Quella era solo una mera leggenda. Nemys sarebbe morte, e la sua essenza si sarebbe dispersa nell’etere. Non mi avrebbe più parlato. Non mi avrebbe più confortato. Avrei dovuto trovare la forza, da sola, per andare avanti. Una forza che sapevo di non avere. Chiusi gli occhi, stringendo i pugni. Non ce l’avrei fatta. Non ci sarei riuscita mai. Fui assalita dalla smania. Basta. Non potevo più stare lì, fuori, con il rischio di prendermi di nuovo un bel febbrone da cavallo, ridotta a letto proprio in un momento poco opportuno. Sospirai ancora, e feci per girarmi. Avrei dormito un po’. Quasi nello stesso momento, cogliendomi di sorpresa, e facendomi sobbalzare, la porta d’ingresso della mia camera si aprì, cigolando. Mi misi immediatamente in posizione di guardia. Chi accidenti era che entrava in quel modo barbaro senza bussare? Stava succedendo qualcosa? Alla preoccupazione si sostituì la sorpresa, quando vidi spuntare dallo spiraglio aperto il volto esitante di Regis, che si guardava attorno, lievemente spaesato. Quando mi vide impietrì, sorpreso. Restituii il suo sguardo, interdetta. Accidenti, proprio non ci voleva. Non lui, e soprattutto non ora. Non doveva vedermi così. Il giovane mi sembrò lievemente imbarazzato. Sfido io, doveva essersi sicuramente perso. Cercai di sorridergli, ma non ero in vena. Quello ce mi uscì fu una smorfia desolata. Lui, stranamente sereno, anche se un po’ a disagio, fece per ritirarsi. “scusa, Lsyn”. Disse, guardandomi. Mi sarebbe piaciuto stare un po’ con lui. Avevo come l’impressione che quella sarebbe stata l’ultima volta che gli avrei potuto parlare. E volevo farlo, accidenti, volevo godere un po’ della sua attraente compagnia. Mi piaceva tanto parlare con lui. Aveva idee così interessanti. Mi mancava un po’ il coraggio, però. Era un invito che si prestava a molteplici interpretazioni. Lottai per non arrossire di nuovo. Decisamente ero fuori di testa.“devo aver sbagliato camera…ti lascio sola”. Sobbalzai. No! Non volevo se ne andasse. Volevo stare un po’ con lui. Lui era l’unica persone che mi capisse davvero, in quel momento. feci un passo in avanti, prima che lui potesse sparire per sempre dalla mia vita. “no, aspetta!”. Esclamai, forse con troppa veemenza. Lui mi fissò negli occhi, sorpreso. Ma almeno smise di andare via. Proseguii con voce più calma, venata di casualità. “resta un po’ con me. Non voglio rimanere sola. Non stanotte”. Mi mordicchiai il labbro inferiore, mentre attendevo, in quel breve istante, la risposta. Ero cercata di sembrare il più innocente possibile, ma vedevo la lieve sorpresa, l’esitazione sul volto dell’uomo. Beh, io di certo non mordevo, né l’avrei assalito. Volevo solo un po’ di conforto, tutto qui. Regis era il solo che mi conoscesse anche da prima. E poi lo volevo accanto. Mi era proibito, era un frutto ancora più proibito di Chekaril da cogliere, per la sua stessa razza, ma non avrei rinunciato per niente al mondo a qualche ora  di innocenti chiacchiere. Anche solo guardarlo, spiarlo di nascosto, spiare di nascosto la linea delicata del suo profilo, i suoi occhi scuri che mi guardavano con cordialità neutra, quella zazzera che a malapena gli arrivava alla nuca, dove era tagliata bene, s’intende. Era bello parlare con lui, mi piaceva. M’irritava vedermi così fraintesa. Non volevo fare nulla. Non covavo cattive intenzioni. Ero troppo triste, troppo giù di morale, per pensare cose del genere. Probabilmente Regis dovette pensare che non c’erano molti problemi, con me, io non ero moralmente e socialmente pericolosa, o che davvero avevo bisogno di essere confortata un po’, e così, entrò, richiudendosi attentamente, senza fare rumore, la porta dietro di sé, e raggiungendomi in punta di piedi sulla balaustra, guardando, preoccupato, il caos che aleggiava nella camera da letto. Sorrisi stancamente, e mi girai di nuovo, per appoggiarmi alla balaustra. Lui mi raggiunse dopo poco. Ecco. Era bello così. In silenzio, due anime sole, ad osservare il paesaggio, dicendo però tante cose, nella nostra mente, parlando con i soli gesti. Lui si era rilassato, era tranquillo. Io no. La sua vicinanza mi stava lievemente mandando in confusione. Ecco…forse non era stata un’ottima idea quella di invitarlo dentro. Davvero la tentazione di saltargli addosso si stava facendo troppo forte. Accidenti, e lui era così tranquillo! Arrischiai un’occhiata dalla sua parte. Stava guardando le montagne, perso in chissà che pensieri. Lo invidiai. Lui non stava per perdere nessuno. Per lui, Nemys era un nome. No: decisamente non era il momento giusto per quei pensieri. Nemys, stava morendo, mi stava lasciando per sempre. In quella quiete, mi sentii di nuovo prendere dalla smania. Battei i piedi in terra, inquieta, per liberarmi dal freddo che sentivo. Cominciai a canticchiare sommessamente. Non sopportavo quel silenzio. Avevo preso a non sopportarlo più. Dovevo fare assolutamente qualcosa, o davvero avrei cominciato a singhiozzare, per non smetterla. Non mi sarei calmata per niente al mondo. Solo quella canzoncina aveva il potere di calmarmi. Era come se fosse parte di me. Guardai apertamente Regis, sentendolo sobbalzare come se fosse stato morso da un serpente. Chissà perché mi guardò con una faccia strana, battendo per un paio di volte gli occhi, come se mi vedesse per la prima volta. Con il pretesto della mia canzoncina stupida, prendemmo finalmente a chiacchierare, vuote e vane parole, che non avevano quasi senso, per me. Sentivo la freddezza di lui, o meglio, l’amicizia che covava dietro la sua falsamente fragile umanità. Ben presto ricademmo in un mesto silenzio. Ero troppo malinconica per poter ammantare di vivacità la nostra conversazione. Era sempre stato così. Quando eravamo soli, prima o poi non riuscivamo a trovare l’argomento di cui parlare. Entrambi troppo schivi, o troppo fieri, troppo cauti per aprirci veramente, nonostante fossimo amici, una bizzarra amicizia tra lupi solitari. Cominciai a rimpiangere di aver invitato quell’umano da me. Accidenti. Il desiderio di farmi abbracciare, farmi consolare era davvero troppo forte. No, non potevo crollare, non davanti a lui. Era stato un enorme errore. Lui era una delle tante fonti del mio tormento. Quello che provavo verso di lui non era classificabile. No: non ero innamorata. Dopo quello che era successo con Chekaril non mi sentivo pronta ad amare ancora. Né mi era amico, certamente. Non facevo strani pensieri per un amico. Era qualcosa di strano, un’attrazione che si mischiava a repulsione. Ben presto il silenzio diventò tombale. Un silenzio, stranamente, pieno d’imbarazzo. Bah. Forse ero io che mi stavo immaginando un po’ troppe cose, ma l’avevo visto guardarmi. Percepii una strana tensione accumularsi, quella stessa tensione che più volte mi aveva preso allo stomaco in sua compagnia.  Eravamo tanto simili. Lui però aveva da sempre quello che io non avevo mai avuto. La libertà. Il suo destino era fatto per essere insondabile, e completamente nelle sue mani. Lo invidiavo, tanto. Lo fissai, desolata. Strano. Anche lui mi guardava, ora apertamente, senza imbarazzo, con quella solita aria sorniona, seria e vagamente interessata al tempo stesso, un’espressione insondabile. Non cercò di eludere il mio sguardo come prima. Mi osservava, attentamente, come se stesse valutando qualcosa, come un felino tra l’erba. E cosa stava valutando, quanto fossi orribile? Quanto dolore avessi in me? Quanto fossi capace di essere dileggiata, con quelle orribili cicatrici che mi rendevano l’essere più ributtante dell’universo? Sentii crescere un minaccioso groppo alla gola. Ciò che provavo per Regis scivolò in fondo ai miei pensieri, almeno per un breve momento. Lui se ne sarebbe dovuto andare, via per sempre, ed anche l’ultimo amico mi avrebbe abbandonata. Ero così schifosamente sola. Non potevo nemmeno tornare indietro, per salvare le persone che erano morte per colpa mia. Era impossibile, decisamene impossibile, perché avrei perso me stessa, e fatto del male anche agli altri. Non potevo fare nulla, ed avevo perso tutto. Anche Nemys sarebbe andata via per sempre, ed io sarei rimasta con dei bambini che non sapevo proteggere, che avevo a volte condannato senza saperlo, bambini che non riuscivo ad amare come si meritavano. Sarei rimasta sola in una tempesta gelida di neve, in una tormenta, senza potermi salvare, senza poter trovare il lumicino della porta della mia casa. Un esilio volontario mi aspettava, a Sharilar, io, che avevo vissuto serena, che un tempo era stata felice e ricca, che ero stata bella, che avevo avuto tanti amici che m’invidiavano. Un maledetto incidente mi aveva rovinata, aveva rovinato quella che ero stata. Ma forse così voleva il destino. Anche lui, quell’uomo che mi stava guardando, con cui mi stavo guardando, nero stemperato nel nero, il mio colore di tenebra mescolato al suo, più caldo, aveva passato i suoi dolori, però. Ne ero certa: non mi avrebbe capita così bene, in caso contrario. Però lui era così forte, era riuscito a superare tutto, e davanti a lui si stendeva un futuro tanto ignoto quanto eccitante. Eravamo andati a finire in modo così diverso, io e lui. Ebbi improvvisamente paura, un terrore tremendo, lo spavento del buio. La prossima sera che avrei passato, l’avrei passata in reale solitudine. A nulla mi servivano Capouille, il timido Capouille, Zipherias e Benagi, Roxen, Amarto, Dae, eccetera eccetera eccetera. Io sarei stata sola. Nemmeno Regis ci sarebbe più stato. Lui avrebbe proseguito il suo cammino, in un altro tempo, in un altro luogo. Ed io non l’avrei rivisto mai più. Era un dolore troppo grande per poter essere sopportato, l’idea di perdere anche quel giovane che mi fissava, in quel silenzio carico di religione, con quello sguardo che voleva dire tutto e niente. Non avrei mai più potuto parlare con nessuno, mai più sfogarmi. Perché nessuno mi capiva veramente. Non riuscii a resistere al pianto che avanzava, che mi premeva agli angoli degli occhi, che me li faceva bruciare. Sentii, senza poterci fare nulla, le lacrime offuscarmi la vista, e scorrermi sulle guance. Il volto del mio amico tremolò, e poi si confuse in un turbinio di colori accesi. Cercai di girarmi dall’altro lato, di mordermi le labbra per non singhiozzare. Ma fu tutto inutile. L’uomo si accorse che io stavo piangendo. Accidenti. Me lo sentii subito più vicino. Abbassai il capo, in un tentativo di non farmi vedere. Ero troppo pietosa. Ero in uno stato troppo orribile per stare vicino a lui. Non si meritava di vedermi così giù. In fondo, io non conoscevo le sue sofferenze. Le mie potevano essere solo fissazioni di un’egocentrica. Eppure non potevo smettere di provare terrore, che mi mozzava il fiato, martoriandomi con singhiozzi umidi. Non volevo stare sola. Non volevo. Sarebbe stato bello, se lui fosse rimasto lì, con me, per sempre. Ma non potevo neppure sperare quello. Lui era umano. Sarebbe morto dopo un tempo che per me era insignificante. Non avrei mai, mai potuto averlo, né come amico, né come compagno. Era praticamente impossibile “Lsyn…”. Era solo un sussurro, nient’altro. Un sussurro che solo io avrei potuto sentire, in quel silenzio, in quella note limpida, con quella luna piena così fredda, indifferente alle nostre sorti di mortali, che ci guardava annaspare come formiche, come creazioni di un sapiente pazzo, che ci usava solo per suo personale divertimento, che ci guardava affannarci dietro un obiettivo vano, raccogliendo sassolini su sassolini di giorni tutti uguali, levigati dal tempo che li poliva da ogni impurità. Solo un nome, il mio nome. Eppure c’era tanta preoccupazione dentro. Tanti significati nascosti. Non riuscii più a trattenermi. Non riuscivo più a trattenere quello strazio che conservavo dentro da troppo tempo, ormai. Ancora a testa bassa, immersa in un mare di lacrime, così, cominciai a parlare. “ho paura, Regis”. Confessai, con una stranissima voce soffocata, tremando leggermente. Di nuovo, stava arrivando quel freddo, quel freddo dell’anima che non potevo combattere in nessun modo. Sperai che il mio amico non mi vedesse in quello stato orribile, tremante come se avessi la febbre. Volevo cacciarlo, ma non ne avevo la forza. Volevo solo parlare, ora. Solo sfogare il dolore che avevo compresso, nascosto in un bell’angolino della mia essenza, in mesi ed anni di vita. La mia esistenza era stata inutile. Non ero mai servita a nessuno. Non ero mai riuscita a proteggere nessuno. “io non ho più nulla…ciò che avevo di più caro mi è stato portato via, come se non fosse mai esistito. Le persone a cui volevo bene non ci sono più…”. Mi fermai per riprendere fiato. Cercai di dominare i miei singhiozzi, ma non ci riuscivo. Ora che avevo cominciato, le parole stavano quasi fluendo da sole, inarrestabili come un fiume in piena. “e ora…ora anche Nemys se ne andrà via. A cosa è servita la mia vita? Come farò ad andare avanti, Regis? Perché il destino si sta divertendo a torturarmi tanto?”. Cercai di tergermi le lacrime con una manica. Ma non riuscivo a frenarmi. Ebbi una vaga impressione di un Regis pietrificato dalla stessa compassione, dallo stesso sdegno, ma poi di nuovo non vidi più nulla. “Cosa gli ho fatto, io? Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”. Le ultime parole furono soffocate da un’ondata più forte di pianto, ed i miei singhiozzi si trasformarono in lamenti sommessi. Non ce la facevo più. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare, con cu liberare quella parte di me che avevo dovuto nascondere per così tanto tempo. Regis era il più adatto. Non c’era altra persona che mi capisse così bene, che mi volesse così bene a disposizione. E poi ne avevo bisogno. Ma non gli potevo dire che piangevo anche per lui, per qualcosa che non riuscivo a capire. Era proibito. L’avrei fatto allontanare, e lui mi avrebbe detto che tra noi due nulla era possibile. Ed era, quella, una cosa che sapevo già di mio. Io elfa, lui umano. Troppo pericoloso per noi, a rischio di terribile sofferenza. Poi lui se ne sarebbe dovuto andare. Non avevamo speranze. La nostra amicizia era destinata a rimanere solo nei ricordi. Non c’era più mezzo per metterci in contatto. Non c’era spazio per noi. Il mondo non ne aveva. Improvvisamente, mentre ancora singhiozzavo, lo sentii vicinissimo. Sentii un vago movimento nell’aria, lo percepii, ma non ebbi paura. Mi fidavo ciecamente di Regis. Sentii le sue mani, mani callose, da guerriero, e tuttavia così delicate, ansiose, posarsi sul mio viso, carezzandomi le guance, senza temere la mia mostruosità. Quasi mi ritrassi. Ma quel contatto era innegabilmente dolce, come miele. Mi riempì d’inaspettato calore. Tirai su con il naso. Dovevo calmarmi. Stavo offrendo a lui uno spettacolo indecente. “Lsyn…”. Ripeté di nuovo, dicendo il mio nome con un’intensità nuova, colma fino all’orlo di preoccupazione pura. Era un tono quasi urgente, e stranamente partecipe, addolorato. Soffriva lui con me. Sentii la lieve carezza delle sue mani diventare più salda. Stranamente, mi confortò. Era come una roccia a cui aggrapparsi, di nuovo. Cercai di smettere di singhiozzare, invano. Perlomeno, cominciai a piangere di meno. “Lsyn, guardami…”. Deglutii, ed aprii gli occhi, sbattendoli più volte per liberarli dalle lacrime che continuavano a scendere. Mi sentii un po’ intimidita, e fui un po’ riluttante nell’obbedirgli. Non volevo che leggesse quella piccola verità che gli tenevo nascosta, quell’attrazione che comunque provavo per lui. Era qualcosa di troppo segreto. Riottosa, incrociai il suo sguardo, caldo, forte, pieno di quella vita che a me era negata. Erano occhi così belli, anche senza essere particolari. Esprimevano tante cose, come quelli di Tijorn. Ci guardammo. Deglutii di nuovo. Lui mi stava fissando con una strana luce negli occhi, devo ammetterlo. C’era dolore, dolore per me, e anche qualcosa che non riuscii, in quel momento, ad identificare. Lui teneva a me, non c’era dubbio. Lui mi carezzò dolcemente la guancia sfregiata, con tenerezza, togliendo le lacrime. “non puoi arrenderti, Lsyn”. Mi disse, in tono morbido, consolatorio, una coperta in cui avvolgersi. Tirai di nuovo su con il naso. “non sei sola, e non lo sarai mai. Ci sono persone che ti vogliono bene, e che avranno bisogno di te ancora di più in futuro. Non arrenderti, non ora che hai superato tante cose più brutte di questa”. Non so perché, ma quelle parole sommesse, dette con tanta forza, riuscirono almeno a placarmi un po’, o forse già mi stavo calmando prima. Ed era impossibile stare male, quando lui mi coccolava in quel modo. Difficile dirlo, confessarlo, ma mi piaceva, e molto. Lui sorrise, un sorriso tenerissimo, e mi terse le ultime lacrime, con delicatezza. Feci per parlare. Non so cosa volessi davvero dire. Ma lui mi mise un dito davanti le labbra prima ancora che potessi parlare. Sentii il battito del mio cuore accelerare. Oh, non ora. Non volevo patemi da ragazzina sciocca, io, l’elfa adulta. Cercai di schiodare lo sguardo dal suo. Fin troppo difficile. Ero ipnotizzata da quegli occhi scuri. Di nuovo, ci guardammo. “il destino non esiste, Lsyn”. Mormorò, senza cambiare tono di voce. E sembrava credere fermamente, in quello che diceva. Sentii di appigliarmi a quelle parole in modo disperato. “il futuro ce lo costruiamo noi, solo noi, con le nostre mani”. Bello lui, che faceva tutto così semplice. Non tutti avevano la sua fortuna, non tutti. Il mio sorriso fu amaro, ed ancora umido di lacrime. Ero ancora triste, fin troppo. Ma quel contatto, quelle mani che ancora mi carezzavano, erano la cosa più bella del mondo. “come puoi saperlo, Regis?”. Gli domandai, forse con un tono lievemente di sfida, senza però staccare gli occhi dai suoi. Ma ormai quasi non ricordavo più cosa stavo dicendo. Qualcosa sembrava aver cancellato tutto il mondo, tutta l’esistenza. C’era solo lui, il suo viso. E, ad un certo punto, capii una cosa. Fu un lampo, come uno di quei lampi sulle montagne piene di neve, i gironi di tempesta, che illuminano tutto il cielo scuro, un guizzo. Non aveva cambiato espressione, non aveva minimamente battuto ciglio. Ma, ad un certo punto, mi sentii ricambiata. Vidi lo stesso segreto che covava nei miei occhi riflettersi nei suoi. Sentii qualcosa, una sorta di corrente, attirarci. Niente di magico, o di strano. Pura e semplice attrazione vecchio stile. E lui sembrava incantato da me come lo ero io da lui. Accidenti. Davvero non riuscivo più a conservare un minimo di decenza. Lui mi rispose. Ma anche il suo fu, più che altro, un mormorio assente. Lui guardava me, me e solo me. Qualcosa sembrava essere scattato, una sottile alchimia, un’affinità che quasi temevo. “a suo tempo, anch’io ho fatto un scelta che mi ha cambiato la vita”. Mormorò, assorto. Mi resi conto, che, piano piano, ci stavamo avvicinando sempre di più. Era qualcosa d’istintivo, d’incomprensibile. Eppure, così bello. “e sono stato io a prenderla, senza guide o mediazioni”. La sua voce si abbassò ancora di più, ormai un sussurro appena intelligibile. “non esistono strade predeterminate”. Deglutii. Eravamo a pochissima distanza, di nuovo ci stavamo sfiorando. Immaginai che subito lui si scostasse. Invece non fu così. Anche lui sembrava stanco delle finzioni che avevamo imbastito fino a quel momento. Deglutii. Forse era meglio non andare così oltre. Non sarei stata capace di sopportare un addio, se solo il nostro legame si fosse rinsaldato in quel modo. “Regis, io…”. Mormorai, presa da un attimo di lucidità. Ma lui non si mosse, ed io non mi scostai. Sembravamo aver imboccato una strada per noi già prefissata. Alla faccia delle scelte, accidenti. E prima che qualcuno di noi due potesse riprendere un briciolo di razionalità, successe quello che non sarebbe mai dovuto accadere. Non so come, non so perché, ma mi ritrovai a baciarlo, senza potermi controllare. Sentii il cuore battermi all’impazzata, sentii quasi sciogliermi, mentre la ragione andava a farsi una lunga passeggiata in luoghi lontani ed esotici. Accidenti. Immaginai che mi stesse odiando in quel momento, e poggiai delicatamente, ancora incatenata a lui, le mie mani sulle sue spalle, forse per staccarlo da me, non so, anche se penso fu più che altro un riflesso istintivo. Lui non mi permise di fare niente, e devo dire che non mi ribellai. Dolcemente, mi cinse la vita, imprigionandomi in un abbraccio in cui mi ero consegnata volontariamente, e mi tirò verso di lui, annullando quella labile distanza che ci separava prima. A quel punto, decisi di mandare all’aria tutti i miei sani principi razziali, e mi strinsi a lui con forza. Ero un’elfa, lui era un uomo, stavamo facendo qualcosa di puramente scandaloso e riprovevole per entrambe le razze, ma me ne fregava altamente. Era quello che desideravo, era quello che almeno apparentemente, anche lui desiderava. Quel bacio, dapprima tutto sommato innocente, si trasformò in qualcosa di più passionale. Capii, in un lampo, quello che stava succedendo. E chi l’avrebbe mai detto. Eravamo stati nemici, una volta. Ci eravamo scontrati in un duello all’ultimo sangue, tutte le volte che ci eravamo visti. Non riuscii a fare a meno di pensare che quello aveva a che fare con un duello, ma d ben altro genere. Si vedeva che doveva finire così, ecco. Alla faccia delle belle parole. E chi l’avrebbe mai detto. Lui, così silenzioso… ah, la mia acqua cheta, che rovina i ponti. Non era proprio un momento adatto, ma anche quella era una cosa che tutto poteva farmi, fuorché importarmi. Avevo bisogno di lui. Per un attimo, ci staccammo, per guardarci. Sapevo che se avessimo continuato, non avremmo più smesso. Sapevo qual era il mio limite, e sapevo anche che lo stavamo per superare, di molto. Ma l’occhiata ardente che ci scambiammo bastò a fugare ogni dubbio. Di nuovo, ci baciammo, un bacio che con quello di prima non aveva nulla a che vedere. Cominciai a trovare orribilmente d’impaccio i vestiti che ci coprivano. Da quel momento in poi, ad agire per me fu solo l’istinto, quell’istinto che chiunque di noi possiede. Non riesco a capire ancora come arrivammo dentro, né chi chiuse la finestra, forse qualcuno di noi, a tentoni, né chi prese l’iniziativa, forse tutti e due. Ben presto i nostri abiti andarono a far compagnia al pavimento. Passai un momento di assoluto e profondissimo imbarazzo quando lui mi vide senza niente addosso, l’entità dei danni da fuoco ben visibile, tutta la mia schiena rovinata, e le altre cicatrici che il tempo mi aveva procurato. Temetti quasi per un attimo che lui si ritraesse, guardandomi per la prima volta senza mediazione alcuna, di abiti che potevano nascondere la mia orripilante bruttezza. Ma lui non sembrava essersene accorto. Mi sorrise, un sorriso che voleva dire tante cose, e poi mi baciò, dolcemente, un bacio a cui poi se ne aggiunse un altro, poco sotto il mio orecchio orrendamente mutilato per via del fuoco, come se le cicatrici non esistessero. La paura, la ritrosia, scomparve d’incanto. Sentii un nodo di fuoco all’altezza dello stomaco, e non pensai più a nulla, se non all’uomo che mi stava regalando una nuova, inaspettata, giovinezza, ricreando una fiducia nel mio corpo che credevo di aver perduto per sempre. Conservo ancora di quei momenti ogni attimo, nella mia memoria, ogni carezza ed ogni sospiro, ogni mormorio, e ciò che ci dicemmo in quelle ore, senza mai parlare, è tra i miei ricordi più belli e strazianti, che serberò per sempre solo per me. Ci amammo, con tutta la tenerezza che avevamo, dimenticando per un po’ il nostro posto nel mondo, chi eravamo. Era come una corsa, libera e felice, in una discesa, attimi di spensieratezza impagabili, che non ritorneranno più, che mi riempiono di dolcissima malinconia. In quei momenti fummo capaci di allontanare da noi, una bolla di pace, fragile e bellissima, tutta la desolazione, la tristezza, l’incertezza che covavamo dentro di noi. Dimenticare, dimenticare tutto, affidarsi solo ai baci ed alle carezze di una persona amata, unirsi in una notte dove dovunque c’era dolore. E quando quel fuoco che aveva arso le nostre essenze cominciò ad estinguersi, ed il sonno ebbe la meglio, ebbi la netta impressione di essere amata. Sperai di non sbagliarmi. Perché Regis, mi è stato tutto. Nemico, avversario, conoscente, compagno d’armi, aiutante, amico, confidente, spalla su cui piangere, amante, per un tempo perfetto e drammaticamente breve al tempo stesso. La sua compagnia mi ha insegnato tanto. Scivolai nel sonno quasi con rimpianto, temendo già un risveglio brusco che mi avrebbe gettato violentemente nella cruda realtà. Per una notte, ci eravamo sentiti dei.

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Capitolo 91
*** Ai confini dell'irrealtà-Quando tutto cambia. ***


Fu forse uno spiffero di vento, passato da chissà dove, a svegliarmi

Per chi abbia letto Millennium War-Rebirth, questo e gli altri capitoli che seguiranno hanno del familiare, dialoghi quanto situazioni. Niente paura, non si tratta di plagio! È solo un piccolo scambio di situazioni tra me e Carlos Olivera, una cosa che era pianificata da un bel po’ di tempo, con il consenso di entrambi! xD

Dunque, molte delle situazioni, la maggior parte dei dialoghi (che io ho cambiato un po’ –non ve la prendete a male. Ma la vedevo come cosa necessaria per la mia “indipendenza letteraria” (xD)-), e, soprattutto, il personaggio di Regis appartengono all’anzidetto Carlos Olivera, ed alla sua opera xD

 

Ps: Carlos Olivera, ho cercato di seguire i tuoi consigliJ grazie…

A presto!

Akita.

 

Fu forse uno spiffero di vento, passato da chissà dove, a svegliarmi.

Ero avvolta dalle mie morbide coperte, accoccolata come sempre sul lato destro, quello menomato, quasi come per nascondermi.

Non mi mossi ancora. Qualcosa m’impediva di farlo. Ero tranquilla, una sensazione di piacevole stordimento, e serena. Sentivo qualcuno vicino a me. Feci subito mente locale, e, sotto i baffi, sorrisi leggermente, mentre il cuore prendeva a battermi più velocemente.

Ci misi un secondo per capire dove fossi, se, soprattutto, con chi fossi.

Decisi in un lampo di non aprire ancora gli occhi, di non dare indizi che fossi sveglia. Mi concessi il lusso di rimanere a pensare un po’.

Accidenti. Il mio mondo aveva subito una svolta terribile, l'ennesima, la meno inaspettata, da me voluta...ma non ne ero pentita. Affatto. Non ero così felice da tempo, magra consolazione pensando al dolore che mi attendeva. Quell’uomo aveva l’indubbio potere di sconvolgermi la vita. E, stavolta gliene ero davvero grata.

Quello che era successo tra me e Regis aveva  rimesso nella prospettiva giusta parecchie cose, parecchi conti che avevo in sospeso con me stessa.

Era stato bello, per quel tempo infinitamente lungo ed infinitamente breve, riprendere ad essere Lsyn, a sentirmi davvero viva, sentire di esistere, davvero, senza essere un’accezione casuale nel tempo. La prospettiva di dovermi svegliare, quando mi attendeva un mondo sadico e spaventoso, non mi allettava. Non volevo saltare nel buio, non ancora, non volevo spezzare quell’incantesimo, quella bolla di pace.

Non avevo la minima voglia di ritornare un mondo bugiardo, falso e doloroso, non dopo quello che era successo in quelle ore meravigliose.

Non volevo ritornare ad essere la vecchia Lsyn; sentirmi compatita, mai trattata per ciò che ero veramente, sempre tenuta come una bambola fragile, su una mensola, da guardare, da contemplare, ma mai da scuotere o stringere a sé.

Ero un'elfa, adulta per di più, accidenti, non ero  una bambina!

Se c'era una cosa che un certo umano, che era accanto a me, mi aveva fatto comprendere, era proprio quella. Non potevo lasciarmi andare al dolore, come una fanciulla inesperta, patire come se non avessi mezzi per lottare contro l’abisso amaro fermamente intenzionato ad inghiottirmi per sempre.

La sofferenza che avevo subito era tanta, le ingiustizie troppe anche per una Spia com'ero stata.

Troppi lutti avevano devastato, il mio cuore, troppe perdite.

Ma dovevo lottare. Se non altro, per quelli che erano ancora con me. Per i miei amici, i miei protetti, i miei nipoti, mia figlia.

Non mi sentivo ancora pronta ad andare avanti, a sfoderare del tutto gli artigli per farmi spazio nel mondo. Ma, almeno, potevo dire di aver avuto il coraggio di alzare la testa, e guardarmi intorno.

Non era determinazione, né quel fuoco ardente che mi aveva supportato per tutto il mio viaggio, no.

Qualcosa di più lento, che mi distruggeva meno i nervi, più malinconico. Non avrei mai superato il rimorso ed il dolore per i miei cari perduti. Mai dimenticato di essere stata, un tempo, un’elfa felice. Non ero ancora moralmente pronta ad immergermi nuovamente in quell’oscuro fiume tumultuoso che è l’esistenza piena di una creatura senziente. Preferivo rimanere lì, in un angolo, ad ascoltare ciò che succedeva nel mondo, dall’altra parte di un vetro che mi separava dalla mondanità. E così feci anche per quella volta. Rimasi ad occhi chiusi, immobile come una statua, regolando il respiro per non sembrare quello che ero, sveglia.

Temevo il risveglio, temevo la morte di Nemys. Non volevo soffrire dopo tanta felicità, volevo ancora della quiete da assaporare, il pensiero di non aver sbagliato, quella volta, per quanto ne potessero dire i moralisti.

Io ero elfa, lui era umano, due razze simili, ma agli antipodi, chissà quanto accidenti avevamo di differenza, ma eravamo entrambi senzienti ed adulti, e lo avevamo voluto fortemente. O, almeno, io lo avevo voluto. Proprio quello mi spingeva nell’incertezza. Ma era una cosa, soprattutto una cosa, a dissuadermi.

Cosa mi avrebbe detto Regis, non appena mi fossi svegliata? Quali parole aveva in serbo per me, dopo quella notte?

Mi avrebbe detto che era stato tutto bellissimo, ma che lui aveva fatto un grosso errore, perché non mi amava, che era stato un impulso dovuto alla disperazione di essere catapultato in un altro mondo? Che per lui ero solo stata un’eccezione, un breve momento di svago, come avrebbe potuto dire Chekaril, pensiero stupido che cacciai via subito?

Si era già pentito di avermi baciata, di avermi stretta a sé con tanta dolcezza, come se fossi la cosa più preziosa a questo mondo?

Aveva fatto tutto quello, perché?  Solo perché io ero un punto di riferimento in quel mondo che non gli apparteneva?

Forse…beh, Regis non mi era mai sembrato donnaiolo o approfittatore. Il suo codice morale era severissimo, e lui era una persona incredibilmente seria, soprattutto per questioni delicate come quelle, che coinvolgevano  persone e sentimenti, e mi mettevano di fronte ad un rischio inevitabile.

Ormai era troppo tardi per pensare, per i rimorsi. Non c’era verso e non c’era verso di tornare indietro.

Beh, io mi sarei rifiutata di farlo, inoltre. Seppure quella notte mi avesse lasciato qualcosa di più di meri ricordi, esponendomi ad un pericolo potenzialmente mortale per me, non mi sarei tirata indietro.

Però…non si ci poteva mai fidare dell’istinto mutevole degli umani.

Oh, d’accordo. Ad un certo punto ero stata io a decidermi, ero stata io a fargli capire quanto in realtà lo desiderassi, qualcosa che aveva ben poco a che fare con l’amicizia, ero stata io l’irrazionale.

Potevo sperare, dunque, nel fatto di avere ricambiato il mio interesse?

Davvero mi amava? Amava, me, il mostro che avrebbe in ogni caso lasciato?

Oppure io non mi ero resa conto della sua riluttanza? Era rimasto colpito dalle cicatrici, quegli orribili segni irregolari che mi sfregiavano il corpo?

Beh, almeno di quello potevo stare sicura. Regis era stato impegnato a fare ben altro che rendersi conto di quelle mostruosità, e tutto mi era parso fuorché riluttante.

Però, l’interrogativo rimaneva, e tanto.

Quell’uomo mi amava, o avevamo fatto un madornale errore? Avevo compromesso un’amicizia, che, se non ci fossimo saltati addosso come idioti senza cervello, sarebbe rimasta meravigliosa, nei ricordi?

Stavo per piombare in un incubo ad occhi aperti?

Beh, non so quanto rimasi, tormentata, a pensare, cercando di non sospirare, di non fare niente, per non svegliarlo o disturbare il suo elucubrare. Per non spezzare la magia.

Sarei rimasta, lo confesso, un’infinità a tormentarmi, se qualcosa non avesse smosso la situazione, e mi avesse convinto ad aprire gli occhi.

All’improvviso, infatti, senza nemmeno un fruscio o un rumore che m’indicasse l’imminenza del gesto, sentii una lievissima pressione sulla guancia. Un dito, che mi sfiorava appena. Mi concentrai per non irrigidirmi. Una carezza, inconfondibile, che scese, lenta, fino alla base del collo, per poi sfiorarmi i capelli. Dolce, tenerissima, come per non volermi disturbare, come per non volermi svegliare, ma piena di affetto.

Mi sentii improvvisamente riscaldare il cuore. Se solo avesse provato qualche sentimento negativo, Regis non mi avrebbe coccolata così, credendo di sicuro io fossi ancora addormentata. Lui non avrebbe fatto così. Avrebbe evitato il contatto fisico, cosa che non mi pareva stesse facendo.

Sorrisi di nuovo, lievemente. Era bello sentirsi così considerata, avere qualcuno su cui contare in un modo o nell’altro.

Mi sentii pronta per subire qualunque colpo. In ogni caso, lui mi sarebbe rimasto amico. Avrei voluto che lui mi corrispondesse in quella strana attrazione che provavo per lui, ma non era possibile. Almeno lo avrei avuto accanto negli ultimi momenti della mia Rinnegata.

Aprii così gli occhi. Ero dalla parte sinistra del letto, e così mi ritrovai a fissare la finestra malamente chiusa, da cui proveniva la fioca luce della luna e molti spifferi freddi, che mi davano fastidio. Era ancora notte fonda: non avevamo dormito molto.

Sentii sfrigolare la mia lampada ad olio. Regis doveva averla accesa da un po’. A pensarci bene, sin dal mio risveglio, la notte era stata troppo luminosa per la sola luna.

Attesi che lui smettesse di carezzarmi, per non dargli l’impressione che mi avesse svegliata.

Intanto, presi a raccogliere le idee.

C’era solo una domanda possibile, da fare, una sola, che mi avrebbe risolto ogni dubbio. Sospirai, e mi mossi un po’. Mi morsicai leggermente il labbro, ripetendomi che, comunque andasse, lui non mi odiava. Non ancora, almeno.

“voglio che tu mi risponda sinceramente”. Dissi, seria, guardando fisso il cielo fuori, blu scuro, senza salutarlo, senza muovermi. Non avevo il coraggio di girarmi, e guardarlo in viso. Non volevo sentirmi dire che lui non mi amava fissando quel volto di cui ormai conoscevo i dettagli. “lo hai fatto perché mi ami?”.

Ero pronta ad attendere una risposta dolce, ma conciliante, o quantomeno un’esitazione lunga, seguita dalla straziante verità. Ma non successe nulla del genere. Sentii una nuova, rapida carezza, ugualmente dolce. E lui mi rispose subito, sicuro, con voce limpida, senza che avessi il tempo di prepararmi al peggio.

“si”. Un monosillabo, una sola parola, eppure mi riempì di gioia selvaggia. Lui ricambiava il mio amore. Non c’era cosa più bella da sentire, quasi come se mi avessero dato la notizia che Tijorn ed Akita erano resuscitati. Aveva fatto tutto quello senza stupidaggini. Mi diedi della stupida. Non dovevo pensare di lui così male.  Beh. Dopo l’esperienza di Chekaril, e pensando soprattutto che lui era umano molto più di me… la mia diffidenza era comprensibile. Lui continuò. “e questo un po’ mi spaventa”.

Sbattei le palpebre, improvvisamente calma e perplessa. Non aveva senso, quello che mi aveva detto. Assolutamente no. Mi amava, ma aveva paura di quello. Quella risposta mi ricordava un modo di scaricare molto sottile e meschino.

Se solo Regis non fosse stato quell’uomo serio e fiero che era, avrei cominciato a sospettare.

Ma non feci altro che girarmi, ricordandomi vagamente che stavo per mostrare la mia parte più menomata, ma senza timore.

Lui era disteso a pancia in su, ugualmente avviluppato sotto le coperte per proteggersi dal vento freddo, e mi guardava. Mi sentii sciogliere non appena incrociai il suo sguardo scuro. Non c’era altro che amore per me, lì, dolcezza. Un bel sorriso si dipinse sul suo volto rilassato, un sorriso aperto e franco, quel sorriso che amavo. Non c’era spazio per l’inganno. Mi sentii stupida per aver dubitato di lui. Ma c’era una domanda da fagli. Era urgente.

“perché?”. Gli domandai, con una strana voce addolorata, fissandolo preoccupata. Non mi piacevano quelle risposte a mezzo. Avrei voluto abbracciarlo, farmi stringere, aggrapparmi a lui, sentirlo vicino, ma non ne avevo ancora il coraggio. Ora avevo bisogno di chiarimenti.

Il suo sorriso si allargò ancora di più, lasciando intravedere i denti bianchi e regolari, e lui allungò una mano verso di me, carezzandomi con la punta delle dita la guancia sfregiata, ripetendo gli stessi gesti che aveva fatto con l’altra. Poi parlò, un sussurro sincero, ma tenero.

“tempo fa, promisi di donare il mio amore ad una sola persona”. Mi sentii invadere da una punta di gelosia. Senz’altro, chiunque fosse doveva essere ben fortunata. Chissà chi era. Mi sarebbe piaciuto conoscerla, solo per avere l’estremo piacere d sbattergli in faccia la verità. Beh, ero meschina. Molto. Ma non m’importava. “tu, però, sei stata in grado di farmi dimenticare quella promessa”.

Ah, beh. La gelosia si trasformò in una strana, cauta allegria. Mi sentivo davvero lusingata. Sicuramente, quella che aveva attratto il severo Regis non era una persona comune. Ed io l’avevo battuta, anche se per un tempo insignificante. Ha. Una piccola vittoria per il mostro.

Non mi sentii, tuttavia, del tutto pacificata. Avevo bisogno di sapere un’altra cosa.

Mi tremò un po’ la voce quando gli posi la questione principale.

“sei pentito di quello che abbiamo fatto?”. Domandai, guardandolo, mordicchiandomi subito il labbro, presa da una preoccupazione improvvisa. In fondo, non sapevo come realmente l’avesse presa. Poteva anche essersene pentito, benissimo. In fondo io ero un’elfa.

Beh, se solo, malauguratamente, qualcuno fosse venuto a sapere della cosa, o la cosa fosse divenuta così palese da non poterla nascondere, mi potevo giocare la fiducia di molti, e nel secondo caso, anche la mia stessa salute. E lui non avrebbe potuto far nulla a proposito, perché sarebbe stato già lontano. A me non importava minimamente, ma a lui?

Ma lui non sembrava pensarci più di tanto. Il sorriso, da tenero, si trasformò in derisorio, un sorriso che mi ricordò tanto Tijorn, ed anche vagamente esasperato, in senso buono.

“no”. Disse semplicemente, facendomi l’occhiolino, che, come al solito, ebbe il potere di farmi arrossire come una cretina. Fui tentata di dargli un buffetto, o un piccolo calcio per farlo smettere. Ma la felicità estrema che mi aveva afferrato m’impedì di fare qualsiasi cosa. “tu?”.

Lo guardai male. Sperai intensamente che scherzasse. Il suo sorriso furbo non scomparve. E poi mi resi conto di stargli sorridendo anch’io.

Era così bella, la sensazione di essere amata. Meravigliosa. Mi spediva dritta in cielo.

Io, il mostro, ero amata. Era strano, pensarlo, era strano non fare ribrezzo.

Mi accoccolai così contro di lui, quello che avevo desiderato fare dal momento in cui mi ero svegliata, posando la testa tra la spalla ed il torace. Lui mi lasciò fare, e poi mi abbracciò, tenendomi stretta, una abbraccio saldo e dolce, che non mi faceva male e non mi soffocava. Sembrava che lui stesse stringendo a sé  qualcosa di prezioso, fragile e delicato come ali d’insetto. Era sempre stato così, anche prima.

Era così diverso, da Chekaril, quei momenti in cui eravamo stati insieme, da lui che, anche nei primi periodi, quando forse un po’ mi amava, mi faceva sempre male in qualche modo, forse inavvertitamente,  forse perché di me realmente non s’importava di me.

Ed era un’altra cosa che avevo temuto, quella, il dolore, in ogni momento di quelle ore, un terrore segreto che non si era mai avverato. E perciò, anche per quello, ero felice.

Ritenni opportuno farlo partecipe della mia gioia.

“nessuno mi ha mai amata in tutta la mia vita, e lo capisco solo ora”. Confidai, accoccolandomi ancora di più, beandomi della sua tiepida e solida presenza. Lui mi sfiorò dolcemente un braccio, come a volermi consolare. Ma io non ero triste. Impossibile esserlo. “ora però so cosa significa poter contare sull’affetto di chi si ama”.

La stretta diventò più forte, come se lui non volesse lasciarmi scappare. Mi sentivo incredibilmente al sicuro tra quelle braccia forti, come se nulla avesse potuto toccarmi finché c’era lui.

“il mio affetto lo hai sempre avuto, e lo avrai sempre, Lsyn”. Sussurrò Regis, da qualche parte vicino ai miei capelli. Sorrisi ancora, e mi sistemai meglio. “di questo puoi essere sicura”.

Adoravo quelle parole dolcissime, e sicure, che davano l’impressione di poter spostare un masso e fermare il tempo.

Sospirai di nuovo. Era raro, per me, toccare quelle vette di felicità. Era tempo che non mi sentivo così protetta. Gustare il calice della gioia. Era tanto che mi veniva crudelmente proibito.

“lo so, Regis”. Mormorai, alzando il viso verso di lui, ed allungando una mano per sfiorare la sua guancia, trattenendo l’impulso di baciarlo. “l’ho sempre saputo”.

Ed era vero. Qualcosa, in me, sapeva che lui mi voleva bene. Non fino a questo punto, ovviamente, ma lui mi ha sempre considerato un’amica. Ora scoprivo che eravamo davvero legati, in un altro modo, più di quanto mi aspettassi. Ma l’affetto nei miei confronti non l’avevo mai messo in dubbio.

Rimanemmo per un po’ così, abbracciati, le nostre mani intrecciate, beandoci solamente della nostra presenza, così, semplicemente, dimenticando i nostri doveri, le nostre stesse identità, in un momento di quiete assoluta, dimenticando il dolore del mondo, i nostri cuori che battevano lenti, all’unisono.

Nessuno dei due era intenzionato a staccarsi dall’altro, almeno non volontariamente. Se solo ci avessero dato più tempo, forse ci saremmo addormentati di nuovo, pacificati, o avremmo parlato, di cose che non si dicono tra chi è realmente sicuro e vivo.

Io, almeno, ero sul punto di assopirmi di nuovo, tranquillizzata da Regis, dalle sue lievi carezze, e stavo sonnecchiando già, quando, beffardo e terribilmente calcolato, qualcuno bussò alla porta, violentemente.

Letteralmente, saltai, rannicchiandomi ancora di più nelle coperte, e staccandomi da Regis, che sobbalzò come me, preso di sorpresa, e si mise più dritto.

Oh, accidenti. Chi poteva essere a quell’ora tardissima? Deglutii, e mi guardai con Regis, che era ugualmente preoccupato.

Quella relazione che si era istaurata tra di noi doveva rimanere segreta.

Se fosse stato qualcuno che voleva entrare, Dae per qualche capriccio di Machin, o addirittura Amarto, Capouille o Zipherias, Isnark nella peggiore delle ipotesi, allora eravamo davvero, davvero nei guai.

Un uomo adulto non si può mica nascondere sotto un letto, eh.

Mettendo pure il fatto che eravamo entrambi nudi come vermi, e che i nostri vestiti erano sparpagliati un po’ dovunque per la stanza… beh.

Certo non ci voleva un ingegno acuto per capire la situazione.

E la cosa non si poteva camuffare come una discussione amichevole tra vecchi amici, proprio no.

Temetti per un attimo per la nostra incolumità, per quella di Regis soprattutto.

Primo, era disarmato.

Secondo, se solo fosse entrato Zipherias, l’avrebbe fatto a polpette.

L’ho già detto, vero, che quell’elfo è irrazionalmente geloso verso di me?

Bene. Se solo avesse scoperto cosa avevo fatto con un umano… preferisco lasciare la frase in sospeso.

Insomma, chi ha orecchie per intendere, intenda.

“chi è?”. Domandai, con una voce tremante, guardando, oltre Regis, la porta, ansiosa, il cuore che mi batteva forte, mettendomi a sedere. Temevo chissà chi, e chissà cosa.

E di nuovo, prevedibilmente, la mia vita cambiò. Sentimmo una voce affannosa, preoccupata, quasi rotta, una voce giovanile, provenire da fuori. Impallidii.

Torterio. Il messaggero che, fino a quel momento, era venuto sempre ad interrompere i miei momenti di pace con annunci colmi di sventura. Deglutii.

“Lsyn, sei qui, finalmente…ti stavo cercando da un sacco di tempo!”. Chiamò la voce, quasi disperata. Non l’avevo mai sentito così, e la cosa non mi piacque. “Lsyn, devi venire, subito!”.

Ebbi un lampo improvviso, e mi guardai con Regis. Ci capimmo al volo. Bisognava andare, subito. Tutti e due capimmo subito cosa stava succedendo. Nemys. Era arrivato il momento tanto temuto. Il momento in cui tutto di nuovo cambia.

“si…”. Dissi, con una strana voce preoccupata, schizzando immediatamente fuori dal letto, come un lampo, ed adocchiando i miei abiti. “arrivo subito…”.

Le mie parole si spensero in un mormorio angosciato, e sfumarono nel nulla. Ma perché tutto doveva sempre accadere quando io ero più felice? Perché, quando mi pareva di aver trovato una nuova forza, essa era messa così duramente alla prova?

Con Tijorn era stato così. Con Akita era stato così. Era stato così per tutto. Non era giusto, non era per niente giusto.

Non mi piaceva soffrire così. Io volevo solo rimanere un po’ in pace, dannazione!

Dovevo arrendermi, allora? Eh, no. Al destino non volevo dargli quest’ennesima soddisfazione.

Non sarei più sprofondata nella monotona passività.

Avrei trasformato il mio dolore in qualcosa di buono. Alla faccia del fato, ha.

Sentii un fruscio dall’altra parte del letto, e vidi, con la coda dell’occhio, Regis che cominciava frettolosamente a raccattare i suoi abiti da terra.

Ci vestimmo, in un silenzio tombale e teso, preoccupati, in fretta. L’incanto di pochi minuti prima era stato irrimediabilmente spezzato. La pace era volata via, verso altre persone, altre coppie, altri singoli.

Mi sentii invadere dalla tensione, dalla frustrazione e dalla solita, gelida paura. Cominciai ad essere sempre meno fiduciosa, sempre meno sicura di me. In fondo, il mondo stava tramando contro di me. Non potevo sperare che tutto andasse bene.

Era terribile il pensiero di dover lasciare Nemys per sempre, era qualcosa che faceva un male incredibile.

Mentre mi rivestivo, presi, come al solito, a tremare involontariamente. Mi sentii lo sguardo di Regis addosso, mentre mi vedeva sicuramente in difficoltà, forse sull’orlo delle lacrime. Ma io non volevo piangere. Non volevo dare questa soddisfazione. A chi, non lo so. Chissà cosa vide, nei miei occhi scuri. Io non lo vedevo. Ero solo preoccupata per Nemys. Lei stava soffrendo .e tra poco non ci sarebbe stata più, lasciando un altro orfano a questo mondo.

Farmi la coda di cavallo, visto che i miei capelli, in principio resi lisci dal solito sistema, ma poi gonfiatisi ed arricciatisi senza prendere forma definita peggio che ad ogni fine di giornata, mi risultò praticamente impossibile.

Tremavo così tanto che le mani non stavano ferme, e saltellavano come rane allegre. Regis dovette aiutarmi. Mi bloccò le mani con fermezza, prese il nastro, e, dolcemente, senza tirarmi nemmeno una ciocca, mi sistemò i capelli.

Sospirai, e chiusi le mani a pugno. Dovevo stare calma. Lui mi guardò, preoccupato dietro la sua solita maschera seria, e mi strinse brevemente una mano. Quel contatto fugace mi fece un bene immenso. Riuscii a recuperare almeno un po’ il controllo che avevo di me stessa. Cercai di farmi forza.

Tutti e due, uscimmo insieme dalla mia stanza, senza preoccuparci dei significati intrinseci della cosa.

Appena uscimmo, Torterio ci guardò con tanto d’occhi, ma non fece domande.

In silenzio, un silenzio terribile, ci avviammo verso la stanza della mia adorata Matriarca, la morte nel cuore, correndo più che potevamo.

Il castello era un formicaio impazzito. Non avevo mai visto i rilassati domestici così agitati, così frenetici. Capii: l’ora era più che mai vicina. Rischiai d’inciampare per quel pensiero, e ci fu solo Regis che impedì di schiantarmi malamente a terra. Io ero troppo preoccupata per ringraziarlo, e ripresi a correre.

Fu quando arrivammo, tutti e tre, nei pressi della bella camera di Nemys, che la situazione si presentò in tutta la sua drammaticità. Il primo indizio che ci fu dato, furono i suoni. O meglio, il suono.

Un urlo straziante, di dolore puro, che faceva sembrare gli strilli di Akita deboli stridi. Gemetti, ed aumentai il passo. Povera Nemys, costretta a  subire in quel modo, inesorabilmente proiettata verso la morte. Torterio si fermò lì, e ci guardò. Sembrò capire qualcosa, poi scosse la testa, e corse altrove. Chissà dove serviva.

Quando entrammo, sbattendo la porta, io con la morte nel cuore, che mi stava per scoppiare violentemente, tremante, Regis con me, vicino a me, che m’infondeva coraggio con la sua presenza solida, vedemmo la reale situazione com’era. Se non ci fosse stato lui, non so come avrei fatto. Sarei andata fuori di testa come quando era toccato ad Akita, penso.

Le condizioni di Nemys erano davvero pessime. Lei era sempre stata in grado di sopportare bene il dolore, e non l’avevo mai vista con una smorfia di sofferenza in volto. Ora il suo viso così pallido e delicato era letteralmente sfigurato, come se fosse sotto tortura. Bene. Da me non aveva preso solo la faccia. Era stato così per me. Solo che io non ero morta. Lei lo sarebbe stata. Era orribile da pensare.

Nella stanza c’erano Zipherias, in un angolo, con gli occhi sbarrati, che sembrava tanto un bambinone messo di fronte ad una situazione troppo grande per lui, Masato ed alcune levatrici, che sciamavano attorno alla figura della Matriarca, preoccupati, ed Isnark, che mi guardò, terrorizzato, quando entrai, lo sguardo di un uomo che sta per perdere tutto.

Gli feci un cenno incoraggiante, anche se non mi sentivo in grado di sostenere chicchessia, ma lui non se ne accorse, e continuò a fissarmi, sperduto. Ma almeno, noi, per la prima volta, ci capivamo.

Poi, qualcos’altro mi distrasse. Odore, seppure fievole, impossibile da carpire per un umano, di sangue. Sangue vero, metallico, dolciastro. Guardai terrorizzata Nemys. La situazione era peggio di quanto immaginassimo.

Tutto sommato, non fu qualcosa di eccessivamente lungo, anche se lo porto dentro come una delle mie tante ferite, non la peggiore, perché ho sempre saputo che qualcosa di Nemys è ancora in me, e che lei non se n’è andata del tutto.

Dopo poco che entrai, rimanemmo solo in quattro. Masato fungeva da levatrice, povero uomo, ed era bianco come un cencio, letteralmente sconvolto, tanto che temetti che stesse per svenire,  mentre Regis attendeva un po’ discosto, paziente, con un panno bianco in mano, un panno tiepido che avrebbe accolto il nuovo arrivato, dopo essere stato lavato nella piccola tinozza calda che lo aspettava. Io ed Isnark ci mettemmo ai due lati di Nemys, al suo capezzale.

Il suo compagno le tenne la mano, guardandola con disperazione, senza un briciolo di felicità per il suo bambino, o guardando me, stranamente complice, mentre io, sistemata accanto alle scatole luccicanti e tintinnanti di Masato, mi lasciai prendere il braccio, che lei strinse così forte che mi lasciò lividi che durarono giorni, confortandola, parlandole dolcemente, sussurrandole cosa fare.

Dubito che mi sentì. Era troppo occupata ad urlare.

Non so quanto tempo durò quella terribile tortura, che mi faceva lacrimare gli occhi, guardare Regis, sperduta, facendomi consolare da lui con gli occhi, che cercavano di sostenermi.

E poi, finalmente,  con mio enorme sollievo,dopo un momento di terribile incertezza, orribile perché sia Nemys che suo figlio furono sul punto di lasciarci le penne, colpa di chissà cosa,  e dopo un urlo più forte di tutti, sentimmo tutti un pianto che a me parve terribilmente familiare.

Feci una smorfia, e mi allungai meglio per vedere. Dal volume e dal suono deciso del pianto, simile per certi versi a quello di Machin, mi aspettavo un altro demone incarnato. Cominciai a temere i mesi a venire. Non volevo fare un’altra volta le nottate. Per fortuna c’era il papà.

Sperai che non fosse maschio. C’era bisogno di una presenza femminile, in quel castello, nelle nostre vite.

Ed infatti, così fu. Ad essere venuta al mondo, era una bella bambina. Sentii sollievo.

Poi abbassai lo sguardo verso Nemys. Lei aveva gli occhi socchiusi, ma non sembrava ancora intenzionata ad andarsene.

Dimenticai subito le mie elucubrazioni a proposito della nuova arrivata, e di altre futilità, quando la presa sul mio braccio si allentò e svanì, mentre la mano le cadeva sul materasso. Fissai Isnark e poi la mai Rinnegata con terrore puro. Lei era ancora viva, ma sembrava più debole di momento in momento.

La piccola fu subito depositata tra le sue braccia. E lei, diversamente da Akita, non la rifiutò. La prese con dolcezza, spossata, mentre delle lacrime di gioia, o forse no, le scendevano sul viso. Guardai, piena di dolore, di nuovo Isnark. Era pietrificato, ed osservava le donne della sua vita come stordito. Teneva la mano della compagna quasi con distrazione.

“Nilyan…”. Sussurrò la mia Rinnegata, allo stremo delle forze, sfiorando con un dito il visino delicato della piccola. Aveva gli occhi aperti, a differenza di Machin, sul mondo. Il suo pianto non era durato a lungo, e non si stava lamentando.

Brava, bimba. Sicuramente non ci avrebbe fatto dannare come il cuginetto.

Mi mancò quasi il fiato, quando la osservai bene, e, per un attimo, dimenticai il mio dolore nel vedere Nemys andarsene per sempre.

Aveva la pelle olivastra del padre, già si poteva vedere benissimo, nonostante non fosse che un esserino rugoso, mani lunghissime e delicate, dalle unghie sottili e lucenti, incantevoli, e non aveva un capello, nemmeno un ciuffo sparato in aria. Gli occhi erano quelli azzurri della madre, era un colore che pareva certo, il taglio del padre. Ma il viso era il nostro. Il mio e di Nemys. Ci assomigliava molto, anche se i suoi tratti erano affilati da qualche dettaglio di Isnark, il che le dava già un vago aspetto da falchetto. Era una piccola davvero bella. Avrebbe fatto strage di cuori. Non sembrava aver patito gli sforzi del parto, ed era in piena forma, grassoccia e ben pasciuta.

Eccola lì, la mia nipote, la mia figlia. Comodo, però. Avere figli senza patire niente.

Guardai, addolorata, Nemys. Vedevo la stanchezza addensarsi nei suoi occhi chiari. Io e lei ci guardammo, serie. Ed io carpii un certo incitamento ad essere forte, da parte di quella straordinaria creatura. La capii, ed annuii.

Potevo essere forte. Dovevo esserlo. Ero costretta. Dovevo crescere una volta e per tutte.

Ci sorridemmo stancamente. Poi lei mi mise in braccio la mia piccola Nilyan.

La accettai come se fosse la cosa più delicata del mondo, un tocco esperto, dopo tutta la pratica che avevo fatto con Machin. La mia piccola, dolce nipotina si divincolò un po’, disorientata, ma poi si calmò, mentre io la cullavo, mormorandole paroline dolci. Si doveva fare così, con gli infanti.

Lei, infatti, si calmò immediatamente, se si accoccolò contro di me.

Sentii un’ondata fortissima di emozione,e dovetti abbassare lo sguardo per non fare vedere a nessuno le lacrime che covavano dentro. Di nuovo, eccomi stregata da una bambina. L’avrei allevata come fosse mia.

“Crescila meglio che puoi, Lsyn…”. Mi disse Nemys, la mia dolce Nemys, con una strana voce fievole, sussurro stanco. Non la guardai. Non avevo il coraggi. In fondo, un’altra parte di me stessa stava per andare via per sempre. “tu…è come fossi sua madre…”.

Alzai il capo, fiera. Non mi vergognai delle lacrime che scorsero, inevitabili. Mi sentivo forte dentro. Quella volta non sarei crollata. Lo dovevo a Nemys.

“lo farò…”. La rassicurai, con voce ferma, e lei mi sorrise dolcemente, girandosi poi verso il suo compagno.

Non avevo mai visto Isnark così distrutto, e vederlo mi fece stranamente male. Non riusciva a frenare le lacrime, e piangeva come forse quasi mai nella sua vita. Era spezzato, spezzato irrimediabilmente dentro, come lo ero stata io alla morte di Tijorn, a quella di Akita. Sapevo come comportarmi con lui. Provai tanta pena per quell’elfo che mi era stato nemico, e strinsi a me Nilyan, sua figlia.

L’elfo dai capelli bianchi si portò alle labbra, cercando di non singhiozzare troppo, la mano di Nemys che stringeva spasmodicamente come a impedirle di andarsene, posandola poi sulla sua guancia ferita. Lei lo lasciò fare, ed il suo sorriso si trasformò in qualcosa di complice, come se volesse riprendere una discorso interrotto.

Sapevo che per lui non era facile. Perdeva la sua amata, ed io lo capivo.

Perdevo qualcuno anch’io. Mia sorella. Sentii una fitta di strazio, e digrignai i denti, piano, per non farmene accorgere.

“io sono sicura che sarà come te…”. Sussurrò Nemys, socchiudendo gli occhi. “stesso ardore…stessa grinta…”.

Povero Isnark, povero amico mio. Era strano pensarlo così. Ma quando lo vidi tremare, trattenendo  a stento i gemiti che gli uscivano dalle labbra, lo sentii incredibilmente vicino. L’avrei fatto anch’io, se solo non avessi avuto qualcuno da proteggere dal mio dolore.

Di nuovo, una strana espressione passò sul volto bianco, pallidissimo, della mia Rinnegata. La pressione sul viso del compagno divenne una carezza.

“non piangere…”. Sussurrò ancora, con una voce tormentata. “sapevamo tutti che sarebbe finita così”. Tutti tranne me. Bell’affare. “non voglio lacrime…sono felice di avervi potuti avere qui, con me…al mio fianco… e così mi basta”. Ma Isnark non si calmò. Non sentiva, secondo me, nemmeno le cose che gli diceva. Era troppo sconvolto dal dolore.

E anche io non scherzavo. Il mio tormento era meno violento, più calmo, quasi rassegnato, perché in fondo già me lo aspettavo, ed avevo quasi fatto il callo a tutte quelle morti, per quanto brutto potesse essere dirlo.

Perciò, mi concentrai sulla piccola Nilyan per non piangere. Volevo obbedire alla mai Matriarca, il suo ultimo desiderio. La mia piccola nipotina. La strinsi a me, protettiva. Sarei stata, per lei, una madre. E guai a chi avesse cercato di togliermela dalle braccia. Sarei stata una mamma orsa. Lei aveva bisogno di tutta la felicità possibile. Perché se lo meritava. Già il suo futuro era fosco, pieno di nuvole, così piccola e già strumento per il Matriarcato. Io avrei fatto in modo che lei crescesse libera, e che quello non accadesse. Ero pronta a difenderla con gli artigli, se solo ci avessero provato, se avessero osato.

Nemys parlò anche a Regis, brevemente, rassicurandolo su chissà cosa. Poi ci fu un omento di silenzio.

Improvvisamente, uno strano sorriso si dipinse sul volto stanchissimo della Matriarca, un sorriso quasi liberatorio. Poi lei mi guardò, uno sguardo breve, con gli occhi che già le si chiudevano, occhi pieni di luce, come a volermi spronare ad andare avanti.

Per un attimo, io e lei ci fissammo. Io annuii lievemente. Lei sospirò, ed il sorriso divenne qualcosa di strano.

E così, chiudendo definitivamente, gli occhi, mentre la mano che Isnark teneva scivolava via, inerte, mentre lei cadeva dolcemente sul cuscino, molle come una foglia d’autunno, quelle foglie bellissime e dorate che devono morire, o come un fiore di albicocco, che cade per lasciare spazio al frutto che cresce, anche Nemys, mia Rinnegata, colei che meglio mi conosceva, passò al di là del mondo delle cose reali, piombando nel nulla.

Il sacrificio supremo era stato compiuto. Nemys era morta per ciò per cui aveva vissuto, in cui aveva creduto. Senza rimpianti, senza dolore. Lasciando a tutti la forza di andare avanti.

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Capitolo 92
*** Ai confini dell'irrealtà-Un raggio di sole. ***


Raramente ho visto un dolore come quello che vidi in quel momento negli occhi scuri di Isnark, ed essere abbastanza lucida, non toccata dal dolore per poterlo riferire, soprattutto

Mi SCUSO immensamente per questo ritardissimo!

Chiedo umilmente perdono >__<

Internet non funzionava. Mi dispiace ç__ç

Questo capitolo non è nemmeno tutto quello che volevo scrivere, ma…pazienza.

Ci rifaremo in seguito, e siamo alle battute finali J

Vi aspetto al prossimo, mi raccomando :P

Vabbè, ora vi lascio al capitolo, velocemente.

Vi ringrazio, ed un bacio infinito a tutti, ma tre a chi commenta! =*

Ciao!

Akita

 

Raramente ho visto un dolore come quello che vidi in quel momento negli occhi scuri di Isnark, ed essere abbastanza lucida, non toccata dal dolore per poterlo riferire, soprattutto. E per poterlo guardare. Non vorrò farlo mai più. Mai più. Fu terribile, ancora più doloroso che vedere Nemys morire. Isnark mi era nemico, non eravamo per niente amici l’uno dell’altro. Ci detestavamo, non riuscivamo a parlare senza litigare o cominciare a punzecchiarci, e quelle volte che instauravamo una conversazione civile era perché non potevamo fare altrimenti. Ma vedere lo strazio affiorare su quel volto pallidissimo, solcato dalle lacrime che io non avrei mai dovuto vedere, singhiozzi che non avrei mai dovuto sentire, mi fece star male per lui. Ancora oggi non riesco ad inferire su qualcuno che soffre, fosse anche Lainay. Non dopo quello che ho passato. Ho la ferma convinzione che noi tutti non siamo altro che vittime di un destino crudele, per quanto Regis abbia cercato di farmi mettere in testa il contrario. Per quanto egli abbia potuto parlare, io sono di questa ferma opinione. Esiste un destino per noi. Suo compito è metterci alla prova, svegliarci, e farci vedere quanto sia stranamente bella la vita, a cosa serva. La sofferenza per svegliare la felicità. È strano pensarlo. Io, in quel momento in cui tutti versarono qualche lacrima, anche il falsamente impassibile Regis, e quel bonaccione del medico, fui forse l’unica ad essere forte. Dovevo essere realistica e non lasciarmi prendere da un’inutile disperazione come tutte le volte. quello che era successo in appena un giorno aveva schiarito decisamente le mie idee. Non mi sentivo pronta a vivere, potevo solo sopravvivere, ma sopravvivere bene. Tijorn ed Akita non erano tornati per asciugare le mie lacrime. Vorrei tanto che lo facessero, anche solo per un attimo, anche solo per chiedere loro scusa, perdono per averli fatti morire in quel modo stupido, ma era impossibile. Dunque, piangere non serviva proprio a niente, solo a sfiancarmi. In fondo, Nemys non se n’era andata totalmente. Era la mia Rinnegata, dopotutto. Prima o poi, il destino ci avrebbe fatti di nuovo rincontrare, se davvero lei fosse esistita nuovamente, sotto altre spoglie. Ma qualcosa di lei rimaneva, in ogni caso. Rimaneva in me, la sua creatrice, nonostante tutto, ed in quella piccola creatura che mi stava tra le braccia, che io tenevo con delicatezza, che aveva appena afferrato un lembo del panno tiepido che l’avvolgeva, e cominciava a chiudere gli occhi, stanca. Sorrisi dolcemente, guardandola, e sfiorandole le guance lisce con un dito, senza disturbarla. Nilyan. Una neonata, lunga più o meno come una grossa forma di formaggio, tranquilla, sicuramente affamata, appena nata, ma già bellissima. Una principessa, in ogni senso. E lei, povero cucciolo, aveva tante responsabilità sulle spalle! Avevano fatto scaricabarile su quel piccolo, esile corpicino. Mi sentii invadere da un profondo senso d’ingiustizia. A che serviva, odiare le Spie, se poi si faceva la stessa cosa su quella neonata? Un tesoro delicato come lei non sarebbe mai riuscita a sopportare una simile esistenza. Protetta, scortata per sempre, senza uno straccio di possibilità di una vita normale. Perché doveva diventare il segnacolo della resistenza contro un enorme Regno? Nessuno ce l’avrebbe fatta, nessuno. Una piccola allenata fin dall’infanzia ad essere la sovrana della luce, per dirne una, nemmeno poteva. Ci voleva un dio per fermare Lainay, potente oltre ogni dire. Questa frase penso basti molto bene a spiegare come ormai stanno le cose. Cosa pensavano che fosse, Nilyan? Un oggetto? L’emanazione in terra di una divinità? Sciocchezze. A meno che un dio non sia così sadico da reincarnarsi in una creatura in partenza minuscola, praticamente senza nessuna utilità, un fastidio notturno, brava sola a mangiare e dormire, una creatura fragilissima e mortale…beh. Il dio dovrebbe essere anche poco sano di mente. Plagiare le anime di povere genti adoranti perché venerino un mucchietto di stracci. Assurdo. Ma prendere direttamente fattezze adulte, no? Più ci pensavo, più ero scettica. Avessero solo osato toccare con un dito Nilyan, chiamarla nuova dea e blablabla… avrei toccato loro qualche altra cosa. Strappandogliela. Strinsi a me dolcemente quel fagottino tiepido. Sentivo lei e Machin come figli miei. Toccarli era proibito, ed avrebbe scatenato la mia collera. E la collera di un’ex Spia non è mai perfettamente indolore, ancora meno a parole. Ancora lì, in piedi vicino a quel corpo di Nemys, che, come lei mi aveva descritto una volta, per la sua natura si dissolse in luce, donandomi nuova speranza, decisi una cosa. Nessuno mi avrebbe mai tolto Nilyan. La mia bambina non avrebbe mai sofferto. Venni assalita da un silenzioso panico, e deglutii. Lainay. Se solo avesse saputo della nascita della piccola, beh… l’avrebbe uccisa di sicuro. Deglutii di nuovo, e guardai Regis, che osservava con interesse il punto in cui Nemys era stata una volta, chissà, forse in cerca di un appoggio. Capii, così, n un lampo, una cosa. Non ci sarebbe stato più nessuno, una volta partito lui, ad trattenermi in quel meraviglioso castello, dove avevo lasciato un frammento della mia esistenza. Ero libera. Non c’era più una Nemys da curare. Machin era abbastanza grande per potermela cavare da sola, ed avrei potuto portare Dae con me. Si trattava solo di sistemare un po’ la casetta di Sharilar, che tanto volevo raggiungere, la casa che il mio amato Tijorn mi aveva lasciato, drammaticamente desolata. Avrei portato con me Amarto, Dae, e tutti i piccoli. Nilyan compresa, magari una volta svezzata. Dovevo solo aspettare qualche mese. Non era lontana da suo padre, ed era al sicuro da qualunque attacco, perché aveva me, peggio di mille cani da guardia, pronta a triturare in pezzetti microscopici anche il più innocente dei malintenzionati con la sola forza delle braccia. Perché i bambini erano miei, miei e di nessun altro. Io dovevo fungere loro da madre, proteggerli come solo una Spia sa fare, amarli, crescerli. Era un buona idea. Me ne sarei andata via, per quanto Isnark potesse sicuramente protestare. Mi sarei ritirata, per vivere in tranquillità il mio nuovo ruolo da tutrice responsabile, avrei imparato a vivere, pronta per rientrare in gioco quando il momento fosse stato opportuno. Mi riscossi un poco, e mi guardai attorno. Era odioso, vedere tutto quel dolore, sentire di essere partecipe e nello stesso momento distante. Avevo eretto un muro tra me ed il mondo, e, anche se avevo voglia di piangere, non potevo. Il mio stesso orgoglio da poco nato me lo impediva, la mia stessa  ferocia da poco risvegliata, quell’ardore che s’indirizzava verso un unico scopo. Proteggere Machin, Nilyan, e tutti i piccini, proteggere le persone da me amate. Tirai così un bel respiro, e ricacciai tutte le lacrime indietro, rimangiandomele. Osservai quello che stava accadendo.  Era quasi l’alba. In quella stanza mi sembrava ancora notte fonda, nonostante tutto. Deglutii per non essere afferrata dallo strazio. Dopo le urla della mia mata parte di me stessa, era piombato un silenzio tra l’addolorato ed i sereno, rotto solo da strani fruscii spezzati, la cui origine mi fu chiara poco dopo. Era strano, inquietante, quella calma apparente. Masato stava prendendo, ancora piuttosto scosso, i macchinari, e non guardava nessuno, perso in chissà che razza di pensieri. Sentivo lo sguardo di Regis posarsi insistente addosso. Ci guardammo. Lui, le labbra strette, si permise di sorridere un poco, all’apparenza sollevato, forse dal non vedermi distrutta. Sarebbe stato terribile, per lui e per me, se fossi piombata in quello stato disperato che seguì la morte di Akita. Ero preparata per quell’eventualità, quel colpo, che però non arrivò mai, con mio enorme sollievo. Annuii stancamente, e feci un passo verso di lui, spostandomi per far passare lo strano medico. Poi guardai Isnark. Strinsi i denti, e mi venne la pelle d’oca. Guardava, completamente disfatto, il posto dove fino a poco tempo fa c’era stata la sua amata, ed aveva il volto di una creatura torturata. Ripeteva a fior di labbra chissà cosa, le lacrime che ancora scorrevano, senza che lui se ne accorgesse, ed era pallido come un morto. Dovevo aver avuto la stessa faccia io, quand’era morto Tijorn. Sembrava non accorgersi che il mondo era ancora lì, al suo posto, che, nonostante la morte di una creatura che amavamo tutti, nulla si era fermato, non si era nemmeno reso conto della nascita di sua figlia. La sua mano era ancora lì, a stringere il vuoto come aveva fatto per la mano della sua amata, come se Nemys fosse ancora lì. Ed allora compresi appieno la portata del suo dolore, del suo terribile strazio. L’aveva nascosto, per tutti quei mesi, per non far del male alla compagna. Ma in quel momento capii, capii Isnark come non mi era mai capitato. E forse fu proprio quel momento a farmi capire che non covavo più paura o risentimento nei suoi confronti. Volevo solo pace. Era il momento adatto per farmi perdonare di tutto, per diventare amica di quell’elfo sotto sotto straordinario. Capii Isnark. Non doveva essere stato facile vivere tutti quei mesi con quel dolore che cresceva ogni giorno. Vedere Nemys indebolirsi giorno dopo giorno, per colpa di qualcosa che non sapeva se amare o odiare, per colpa di un figlio che era suo. Vedere crescere silenziosamente il frutto del loro amore, senza poterne gioire, perché sapeva che la sua nascita avrebbe sancito la fine dell’amatissima compagna, per la quale aveva fatto di tutto, sempre. Mi sentii afferrare un po’ dal disagio. Che diritto avevo, io, di abbracciare sua figlia, io, che non sapevo nulla di lui? Che diritto avevo, io, di considerarla come mia? Sperai intensamente che Isnark l’accettasse, e, soprattutto, accettasse Nilyan. Sarebbe stato terribile se avesse imputato a lei la morte della compagna. Di nuovo, terrorizzata, stavolta, mi scambiai un’occhiata con Regis, una lunga occhiata supplichevole. Non sapevo assolutamente che fare, come muovermi. La situazione di Isnark era troppo, troppo delicata. Strinsi a me Nilyan come sperduta. L’umano, il mio amato umano, la mia primadonna preferita, sorrise lievemente, un sorriso tutto sommato triste. Poi fece un cenno verso di Isnark, come a consigliarmi di avvicinarlo, di avvicinarmi. Feci un passo in avanti, esitante, verso l’elfo dagli spettinati capelli bianchi, e poi guardai di nuovo Regis, in cerca di un segno d’incoraggiamento. Lui alzò gli occhi al cielo. Lo interpretai come un sintomo di fastidio, ed arrossii leggermente. Aveva ragione: mi stavo comportando da stupida. Ero adulta, e responsabile. Se solo mi fossi affidata ad altri, non avrei saputo vivere quando essi sarebbero venuti a mancare, com’era successo per Tijorn. E Regis se ne sarebbe andato. Nessuno mi avrebbe detto cosa fare. Cullando dolcemente la mia piccola nipote, mi decisi così a coprire la labile distanza che mi separava dall’addolorato Isnark con un paio di passi, guardando solo lui. Non sembrò essersi accorto del mio arrivo. Non sembrava accorgersi di nulla. Sospirai. Povero elfo. Era totalmente distrutto. Sperai intensamente che ce la facesse. Sapevo che era difficile. Ma doveva farlo per il bene della piccola che riposava nelle mie braccia. “Isnark…”. Sussurrai, con voce stranamente dolce, posandogli una mano sulla spalla, esitante. L’ultima volta che l avevo fatto per poco non era saltato su, come morso da uno scorpione, e si era divincolato. Lui non si mosse. Non sembrò sentirmi, e continuò a fissare, straniato, il cuscino stropicciato, la leggera e lunghissima camicia da notte bianca, macchiata di sangue, che era rimasta dopo che Nemys si era dissolta. Sentii una stretta al cuore. Avrei preferito sentirmi chiamare parassita, piuttosto che quello. Sospirai, e mi feci coraggio. Dovevo farlo. “Isnark…”. Ripetei, la voce più incerta, passando la mano sul suo viso, come a carezzarlo, a confortarlo. Ed allora lui alzò lo sguardo verso di me. Non lessi in lui né astio, né odio, né disgusto nei miei confronti. Lui era vuoto. Qualcosa gli aveva strappato via tutta la sua carica combattiva. Sorrisi tristemente, dolcemente, come a volerlo confortare. Non importava se lui si fosse comportato male nei miei confronti. Non aveva più importanza, non di fronte a quel tremendo spettacolo. Non tolsi la mano dal suo viso, da quello zigomo che portava ancora i segni del pugno feroce di Regis, e delle cicatrici delle ferite che gli avevo inferto quando ancora eravamo nemici. “coraggio, alzati. Stanno aspettando tutti Nilyan”. Non sapevo se fosse vero. Non importava, dopotutto. Ma era l’unico modo per svegliarlo da quel terribile torpore che l’aveva pervaso. “su, forza, usciamo”. Lui sbatté gli occhi, liberandoli dalle ultime lacrime, e sembrò svegliarsi un po’. Annuì, lievemente, poi si alzò. Mi scostai da lui, sorridendo mestamente, ed aspettai che mi sovrastasse. Non stava dritto. Era curvo, come se qualcosa lo avesse spezzato dentro. Per molti giorni camminò, nel castello ,quando nessuno lo poteva vedere, con lo sguardo basso, e quando lo alzava, chiunque avrebbe potuto leggervi il vuoto assoluto che vi covava dentro. Sospirai, e gli tesi, dolcemente, senza muoverla troppo, Nilyan. Ebbi un attimo di terrore quando lui la guardò, vacuo, per un momento senza nemmeno toccarla, e passai un momento terrificante. Ma poi lui tese le braccia, goffamente, e la prese. Lo sentii sospirare, e mormorare il nome della figlia, ma feci finta di non accorgermene. Lui la strinse subito a sé, guardandola con una piccola scintilla di vita. Ma non parlò. Non sembrava averne la forza. Si voltò, bruscamente, ed aprì la porta. Trotterellando, io lo seguii, e così fece anche Regis. Quando mi passò a fianco, mi sfiorò una mano,  dolcemente, riempiendomi di un lieve calore, che mi diede la forza di non rimanere lì impalata. Ognuno di noi due si mise a fianco del triste elfo, pronto ad aiutarlo in ogni caso. Riluttante, io mi alzai il cappuccio. Ero pur sempre la Ch’argon del Matriarcato, e dovevo avere una certa dignità.

Dare certi annunci non è mai facile come sembra. Mai facile come raccontare, come descrivere l’espressione di dolore puro che vidi sul volto di Zipherias, con una fascia nera del lutto al collo, o nel vedere Benagi chiedere ad Isnark se tutto andasse bene, se lui avesse bisogno di qualcosa, e non ricevere risposta alcuna, da quell’elfo che per quasi un mese spiccicò pochissime parole al giorno, elfo trasformato in larva dallo sguardo freddissimo e a volte fisso. Ritengo ancora un vero e proprio colpo di fortuna il fatto che lui abbia trovato la forza in sé per risvegliarsi, per divenire il papà premuroso ed un po’asfissiante, l’amico un po’ cinico ma saggio, il regnante lungimirante e prudente che è adesso. Non è facile ricordare che fummo costretti, io, Isnark con in braccio la piccola, che dormiva, e Regis, ognuno di fianco all’altro, facendoci forza a vicenda, ad uscire fuori, mentre il sole ancora non era sorto, per sbrigare una cosa che decisamente non mi piacque. Andare a presentare Nilyan al popolo, che, come ci aveva annunciato il mio amico dagli occhi d’oro, si era affollato all’ingresso del tempio, appena si era sparsa la voce del parto. Mi sentii invadere da uno strano fastidio. Era così che intendevano quella piccola? Un capro espiatorio? Una dea da venerare e mandare la martirio? Mi mossi, irritata, proprio appena eravamo usciti. Zipherias mi guardò e sorrise leggermente, così come Regis. Poi entrambi si guardarono. Uno strano sorrisetto comparve sul bellissimo volto dell’umano, un sorriso che, se non l’avessi conosciuto così bene, avrei giurato fosse di scherno, un sorriso stranamente e sottilmente possessivo. Ma mi stavo sbagliando. Sicuro. Il grande elfo scuro lo fulmino con un’occhiataccia, e poi guardò me, allarmato. Io feci finta di niente, e guardai allegramente per aria, stranamente attirata dai colori dell’alba che avanzava. Poi guardai la folla. C’erano davvero tantissime persone. Ricchi, aristocratici e borghesi, mercanti, artigiani, pellegrini, sicuramente anche Spie, soldati, uomini, elfi, donne, e, se non sbaglio, anche uno o due Insathi. Tutta quella marea di gente si era affollata per vedere la piccola, nuova arrivata. Mi sentii gelosa. Per Machin non c’era stata tutta quella festa, eppure ne aveva ugualmente diritto. Mh. Dovevo provvedere, e subito. Quando sarebbe stato un po’ più grande, gli avrei fatto un grande regalo. Uguale per tutti, ovviamente. Non potevo fare preferenze. Guardai tutta quella gente, sentendomi un po’ sperduta. Tutti fedelissimi, tutti incredibilmente in attesa. Dovevano essere stati in attesa fervente tutta la notte. La stessa gente che avevo sentito pregare prima, tutti fedeli entusiasti, che piangevano una Matriarca e ne festeggiavano una nuova. Tuttavia, mi tesi lo stesso. Ero pronta a qualunque attacco, un attacco che non venne. Non potevo sapere cosa sarebbe successo. Tuttavia, nessuno osò attaccare la mia bambina. Mi guardai attorno, guardinga. La figura più conosciuta che intravidi, nascosta in un angolo, appena appena visibile, fu, penso, quella di Erik, quell’inquietante giovane che tanto assomigliava a Regis. Lo guardai, e anche lui sembrò fissarmi: forse mi fece un cenno, per salutarmi, o come monito, qualcosa che io fraintesi forse, o compresi. Poi non lo vidi più. Sorrisi lievemente. Quella creatura mi avrebbe insegnato molto. Poi fissai la mia piccola nipote.  Isnark la presentò al popolo, mentre il sole sorgeva, festoso, squarciando le basse nuvole ed illuminandoci di una luce gioiosa, una luce piena di promesse e speranze per noi, che eravamo ancora vivi, che avevamo ancora il coraggio di andare avanti. E la luce inondò il viso delicato della mia piccolina, che si mosse, infastidita. La fissai con tenerezza. La mia dolce Nilyan. Avrei fatto di tutto, per lei.

Passò anche quel giorno. Per mantenere le apparenze, imbastimmo anche la finzione suprema, la finzione delle finzioni: il funerale di Nemys. Come venni a sapere nel pomeriggio, la mia Rinnegata aveva già preparato tutto, accuratamente, da chissà dove fu fatto uscire un pupazzo di paglia, dalle stesse dimensioni e forme di Nemys, addirittura dalla parrucca bianca, avvolto accuratamente in un sudario. La cosa mi diede fastidio: la Rinnegata aveva preparato tutto, senza dirmi nulla. Ma gliene fui molto grata. Non so se me l’avesse detto quanto avrei sopportato. Forse sarei crollata prima. Tutto s’incastrava, preciso come gli ingranaggi di un orologio. Fantoccio o no, comunque, non riuscii a sopportare la veglia. Aspettare fino al tramonto, un’ora tipica per i fedeli a quel loro culto, seduta a piangere mi era impossibile. Ero allergica a quelle cose, dopo quello che avevo visto con Tijorn. Disertai allora quell’orribile funzione, inutile, per di più, perché non ce l’avrei fatta in ogni modo. Lasciai così Isnark, che comunque volle vegliare quel simulacro a tutti i costi, stordito, avvolto da una nube di tristezza che era impossibile eliminare, buttato in un angolo come un mucchio di stracci, malinconico e silenzioso, e mi rivolsi lì dove c’era più vita. Avevo bisogno di questo, in quei momenti, di urla, di pianti e strepiti, di risate, di combattimenti per fare la pappa. Volevo far vedere a Dae ed Amarto che non ero crollata. Ero fiera di me stessa, di quello che stavo diventando. E di quello dovevo ringraziare Regis, solo Regis, intervenuto per l’ennesima volta a salvarmi dall’abisso in cui stavo annegando, a tendermi una mano. Per quel pomeriggio non ci vedemmo più. Avevo ancora bisogno di lui, e, quando, dopo l’alba, mi aveva confidato che il girono dopo se ne sarebbe dovuto andare, ci ero rimasta un po’ male. Volevo ancora averlo un po’ con me. Era l’unico che mi separava dalle tenebre. Avevo accolto quella notizia anche con rassegnazione. Sarebbe stato bello se lui fosse rimasto con me un altro po’, soprattutto dopo che la situazione tra di noi si era chiarita, in modo così inaspettato, ma si era chiarita. Sarebbe stato bello averlo con me un altro po’. Ma quello sarebbe rimasto tra i congiuntivi e condizionali, e perciò me ne feci una ragione. Le nostre vite sarebbero scorse per sempre parallele, strade che s’incrociavano solo per cambiare la vita di uno di noi due, e basta. Perciò, non avevo sofferto molto. Certo, mi ero crogiolata un po’ in labili patemi da amante disperata, ma poi non ci feci più caso. Ero abituata a confrontarmi con dolori così grandi che quello mi parve un gioco da ragazzi, così stupido da poter essere affrontato senza problemi. Così ero stata tutto il pomeriggio con i vecchi, che erano stati felici di vedermi nuovamente vitali, con Machin, scatenato più che mai, con gli altri bambini, con la nuova nutrice, e, soprattutto, con Nilyan. Machin aveva accolto la nuova arrivata con enorme curiosità. Si era sporto verso la culla, mentre era in braccio a me, ed aveva indicato la neonata, che dormiva, emettendo uno strano verso. Aveva cercato anche di allungarsi verso di lei, curioso, ma io glielo avevo impedito, ignorando le sue sonore proteste. Sarebbe venuto ben presto il momento in cui i due avrebbero giocato assieme. M’innamorai, com’era successo con Machin, della mia piccola nipote. Non potevo tenerla troppo in braccio, perché l’altro nipotino era davvero geloso di me, possessivo in modo buffo, ma la fissavo, incantata, stupefatta. Era bellissima. Stupenda. Perfetta. L’avrei protetta a costo della mia vita. Il pomeriggio era passato in fretta, e mi aveva aiutato a non pensare. Li avevo lasciati la sera con un grosso senso di rimpianto ed un peso nel cuore, e mi ero recata, con Nilyan, nel piazzale antistante al tempio, dove mi aspettava Isnark, e Regis, con il quale mi scambiai una lunghissima occhiata, indecifrabile ed ardente al tempo stesso. mi accorsi spesso che lui mi fissava. E, non lo nego, lo facevo anch’io. Spesso, durante la lunghissima, tediosa cerimonia, m’incantavo ad osservare sul suo viso giovanile i giochi di luce, desiderando pazzamente di stargli un po’ più vicina. Isnark si prese sua figlia dalle mie braccia con un curioso senso di gratitudine. Mi ringraziò con voce fievole, addirittura. Poi mi sorrise, triste. Mi sentii invadere dalla speranza. Forse con lui non tutto era perduto. Forse potevamo costruire qualcosa, un’amicizia che sarebbe durata a lungo. Poi mi sedetti sul mio basso scranno, e guardai il piazzale, di cui avevo un’ottima visuale. La gente, piangente e vestita a lutto, si poteva contare a migliaia. Era un alveare silenzioso o singhiozzante, tristissimo da guardare. Buffo. Sulla pira, allestita al centro e protetta da Celestiali, tra i quali vidi un incarognito Zipherias, ancora marcio di gelosia per me, c’era un mucchio di stracci. Mi permisi di sorridere. Poi aspettai impaziente la fine del sermone, lunghe frasi che non dicevano nulla, solo vuoto e vano elogio. Sbadigliai, annoiata, poi guardai la pira. Addio, Nemys. Forse un giorno ci rincontreremo, forse no. Ma per sempre la ricorderò come colei che mi ha salvato, che mi ha aiutato, che mi ha teso una mano quando tutti mi bastonavano. Colei che mi ha insegnato ad essere una persona migliore. E quando la sacerdotessa, con un incantesimo, fece sparire tutto, una prerogativa della nobiltà religiosa, sospirai, imitata da Isnark. Con lei. Se ne andavano tantissime cose. Ma, per fortuna, la forza sarebbe rimasta, per sempre. Se c’era una lezione che Nemys mi aveva inculcato, era proprio quella di andare avanti. Ed io intendevo seguirla a tutti i costi.

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Capitolo 93
*** I corsi e ricorsi della memoria. ***


Quella sera raggiunsi di nuovo i bambini, perché avevo un matto bisogno di loro

Quella sera raggiunsi di nuovo i bambini, perché avevo un matto bisogno di loro. Volevo vedere un po’ di persone felici, ignare della sofferenza del mondo. Non ce la facevo più ad essere attorniata da gente che piangeva e si strappava i capelli dalla disperazione. Nemys non voleva pianti, non voleva sceneggiate tragiche. Non li aveva mai voluti. Mi resi conto, oziosamente, di star considerando la mia Rinnegata ancora viva. Non ho mai smesso di cercare lei in me, forse fu per questo. Forse l’ho anche trovata. Forse Nilyan mi ha donato una stilla di forza di vivere, lei, i piccoli, Regis, che, con le sue parole dolci o secche, con il suo amore, mi aveva fatto rendere conto di essere ancora stranamente viva. Quindi, appena concluso il funerale, prendendo la piccola dalle braccia del padre, che aveva ancora qualcosa da sbrigare, forse organizzare la partenza di Regis e compagnia, mi avviai dentro, diretta verso il castello. Salutai il mio umano preferito con una lunga occhiata, che lui intercettò, ed alla quale rispose, guardandomi con quegli strani occhi scuri ed impassibili, vecchi e giovani al tempo stesso. Poi mi girai, velocemente, cercando di resistere alla smania che mi sussurrava di lasciarmi abbracciare da quella creatura che non voleva altro che il mio bene, e andai dentro. Inoltre, Nilyan aveva cominciato a farsi sentire. Doveva avere di nuovo fame, cosa più che comprensibile, povera piccina mia. La rubai agli sguardi adoranti dei sacerdoti, guardandoli male uno per uno, ed andai via a passo veloce. Raggiunsi così il piccolo appartamento che Dae condivideva con tutti i piccini, accompagnata spesso e volentieri da un Amarto pazzo di contentezza per il suo nuovo e gradito ruolo di nonno, ed entrai. Come sempre, in quel piccolo posto regnava una caotica pace. Il Maestro si era impossessato di Machin, e gli stava facendo il solletico, mentre lui rideva come un pazzo. Dae e la nuova nutrice chiacchieravano placidamente tra di loro, mentre la vecchia balia pettinava i capelli di Manolìa. Nysha, Roxen e Chekaril, che giocavano in un angolo, furono i primi a vedermi, vedere la loro piccola zia, e mi si precipitarono contro, avvolgendomi in un abbraccio soffocante. L’unico a non avermi superato era ormai il piccolo, che però prometteva di farlo molto presto. Mia figlia, al contrario di me, sarebbe diventata molto, molto alta, come il padre. Restituii il loro affetto con dolcezza. Passai l’intera sera cercando di dimenticare la tristezza che mi aveva assalito alla morte di Nemys, quel vago senso di solitudine che non prometteva nulla di buono. Rimasi lì, a lottare con Machin per impedirgli di andare fuori, ad addormentare Nilyan, a giocare con Nysha, Manolìa, Chekaril e Roxen fino a che non fu buio fitto. I quattro più grandi avevano ricevuto in regalo, da un nonno benevolo, dai nuovi giocattoli, e furono molto restii a mettersi a letto, ad addormentarsi. Fui costretta a seguirli, come accadeva ormai molto spesso, rimboccare premurosamente loro le coperte, e cominciare a raccontare una favola, tra quelle che mi erano rimaste più impresse dei deliri che s’inventava il Maestro. A loro piacevano, ed io, ogni volta che avevo successo con loro, ero sempre più elettrizzata. Avrei fatto di loro magnifici elfi, sereni, consapevoli, e, soprattutto, liberi. Non avrei mai e poi mai permesso che soffrissero ancora, che soffrissero come me. Li avrei protetti da ogni sventura, da ogni cosa, da ogni malattia. Avrei sacrificato la vita per le loro anime innocenti. Ero quindi tornata, dopo che anche l’ultimo si fu addormentato, nel piccolo salottino. Dae era andata ad addormentare Machin, molto probabilmente, e rimanevano Amarto e la nutrice, insieme ad un’altra persona che mi dava le spalle. Mi avvicinai, in silenzio, per scrutarla meglio. Solo Amarto e la nutrice si accorsero di me, ma non lo diedero a vedere. Sobbalzai quando notai che si trattava di Isnark. Teneva in braccio la figlia, seduto, guardandola con dolcezza, ipnotizzato. Non sembrò nemmeno notare il mio arrivo. Sospirai un po’, andando a rifarmi la coda con un gesto sicuro. Sperai che l’elfo stesse un po’ meglio di quella mattina. Al funerale lo avevo visto terribilmente frustrato e prostrato. Mi aveva ringraziato addirittura, un comportamento decisamente non da lui. Ci mancava solo che mi chiamasse Lsyn: se fosse successo, allora davvero quella sarebbe stata una data storica. Il timore nei suoi confronti comunque rimaneva. Forse non se ne sarebbe mai andato. Va bene: avevo paura che lui mi ferisse ancora. L’aveva fatto troppe volte, e ne aveva goduto. Ero diffidente, e mi avvicinai a lui come un gatto si avvicina alla sua preda. Mi fermai a distanza di sicurezza, senza perderlo d’occhio. Poteva scaricare il suo odio nei miei confronti ora. Feci un flebile rumore per annunciare la mia presenza. Lui non si mosse nemmeno. “Isnark?”. Chiamai, timidamente, avvicinandomi al Maestro, che mi prese una mano, e le strinse, dolce e protettivo. Guardai quello che pochi giorni prima mi aveva urlato contro, dicendo che provocavo solo disastri, solo perché avevo lasciato cadere una tazza vuota a terra, con il gomito, inavvertitamente, e che ora stava lì, immobile sulla poltrona, tenendo delicatamente sua figlia, che stringeva un suo pollice, addormentata, avvolta in una copertina colorata. Ancora lui non alzò lo sguardo verso di me. Aveva davvero i capelli fuori posto, ed indossava gli abiti che gli avevo visto la mattina prima, sgualciti, macchiati e stropicciati. Non sembrava rendersene conto. “è bellissima”. Sussurrò, senza preamboli, senza dire altro, incantato, senza cambiare posizione. “ci assomiglia. Assomiglia a Ne…a lei”. Sobbalzai quando mi resi conto che lui non riusciva a pronunciare il nome della compagna, quasi timoroso d’infangarne la memoria. Intercettai lo sguardo della nutrice, la segaligna e scura Wynet, che lo guardava, interdetta e preoccupata. Amarto scosse la testa, rassegnato. Mi sentii un po’ inquieta, e preoccupata, molto. Non era da Isnark comportarsi in quel modo. Non era da lui rinunciare a combattere. Solo in quel momento mi fu esattamente chiaro quanto Nemys fosse importante per lui, quanto lui vivesse per lei. La sua morte lo aveva distrutto. Aveva fatto anche a me del male. Ma io avevo imparato a rivolgere la mia pena altrove, a trasformarla in amore. Lui non sapeva farlo, era evidente. Sembrava uno di quei gusci d’insetto vuoti, una pelle di serpente lasciata lì dopo una muta. Si trascinava per pura inerzia. Riconobbi quel comportamento. Era stato anche mio, in un tempo remoto. Feci per parlare, per cercare di confortarlo, senza muovermi da vicino ad Amarto, sempre leggermente spaventata, ma lui mi precedette. Alzò finalmente lo sguardo, schiodandolo dalla paffuta figura delle neonata che aveva in braccio, e mi guardò. Tremai. Negli occhi scuri c’era tantissima disperazione. Disperazione, un dolore cupo, misurato, ed anche orgoglio. Mi fissò come un falco fa con la sua preda. Avevo spesso l’impressione, quando ero con Isnark, di stare davanti ad un uccello rapace, un falco pellegrino o un’aquila. Quello sguardo feroce aumentava quell’impressione che avevo di lui. Deglutii. Mi spaventava, così fosco, cupo, addolorato. In lui non vedevo un minimo segno di speranza. Era troppo presto per cercare di farlo uscire fuori dal suo guscio, lo sapevo, ma, se fosse continuato così   sarei stata costretta ad intervenire. Ci fissammo per un attimo infinito. Poi lui aprì la bocca. Quelle parole sembrarono uscirgli a forza. “devo ammettere che mi dispiace, Lsyn”. Disse, con dignità, stanco. Oh. Mi aveva chiamato per nome. Annotai in mentre la giornata. Casomai qualcuno mi avesse rinfacciato qualcosa, ecco. “ho l’impressione di aver sbagliato, con te”. Di nuovo un attimo di pausa. Lui strinse forte gli occhi, poi li riaprì. Ci vidi più dolore. Feci un gesto, per farlo smettere, ma lui non mi obbedì. Era orribile vedere quello strazio sul suo viso. “…lei…me lo diceva sempre. Lo diceva, che ero troppo crudele con te, che eri cambiata tanto”. Di nuovo quello sguardo penetrante. Ebbi una voglia matta di scappare a quell’indagine. Isnark mi ha sempre intimorito.  Mi addossai allo schienale della poltrona di Amarto. E per fortuna che se n’era accorto! Non riuscivo, però, ad essere felice, a gioire di quelle scuse. Avevo superato l’astio nei suoi confronti. “sono stato cieco. Ti ho vista distrutta dal lutto, quasi pazza di dolore…e non ho capito. Mi sono permesso di odiarti anche quando ti sei ridotta a letto per giorni, solo per diventare Ch’argon”. Scosse la testa, stringendo le labbra. Sentii una vera e propria pena farsi strada in me. Non c’era bisogno di quelle parole. Avevo capito. Non volevo che lui mi chiedesse scusa. Non ce n’era più bisogno. Feci per parlare, ma lui mi bloccò, con una strana occhiata. Ci guardammo, e lui strinse ancora di più le labbra. “ti ho vista disperata, cercare di nascondere il tuo dolore a tutti, per non farci del male… ed io ti facevo male ancora di più. Ogni volta che mi avvicino ti ritrai, ti tendi come se fossi pronta a ricevere uno schiaffo. Hai paura di me, vero?”. Accidenti, non lo facevo così perspicace. L’aveva capito, da chissà quanto. Mi diedi della stupida, mentre facevo segno di no, scuotendo freneticamente il volto, e nel contempo facevo un passo all’indietro. Non riuscivo più a nascondere certe cose. Beh. Intanto non mi sarei aspettata delle simili cose dette da lui. Se fossi stata normale, davvero gli avrei misurato la febbre. La gente doveva morire più spesso, o quanto meno i suoi amici. Forse davvero lui si rendeva conto del mondo reale solo in quel modo. Bah. Sul suo volto si dipinse un sorriso un po’ assente. Poi parlò, con voce più flebile. “non dico che tu non abbia fatto i tuoi errori”. Ecco. Se avesse continuato in quel modo, mi sarei davvero preoccupata. Un Isnark che rinuncia al suo orgoglio sta davvero malissimo. “anzi, metà della tua vita è stata un errore bello e buono…però devo dire di essere stato cieco al tuo cambiamento. Pensavo che tu fossi davvero l’ultima sul mondo a poter cambiare, tu, la bastarda che ha ucciso un caro amico e quasi ucciso me…”. Oh. Sbuffai. Beh, non c’era da disperare per lui. Rimaneva sempre la solita testa dura. Ma non avrebbe mai smesso di rinfacciarmi quelle cose? Accolsi quelle parole con una fitta di disagio, e mi mossi, facendo chissà che smorfia. Io non volevo ricordare quelle cose. Erano troppo brutte. Non volevo ricordare di essere stata una Spia. Lui scosse la testa, e l’abbassò nuovamente verso la figlia, che si era mossa un po’. Le accarezzò lievemente la guancia rosea. “però mi sbagliavo”. Ecco. Una cosa di quel genere, detta da lui, che non ammetteva mai certe cose, si poteva paragonare ad un tentativo di perdono strisciando in ginocchio. Alzai gli occhi al cielo. Perlomeno, il dolore non lo aveva devastato troppo. Era pur sempre un elfo molto forte. E dovevo anche dargli ragione, perché, in quanto al fatto dei miei errori, ne avevo fatti, e tanti. Chiunque ne faceva nella propria vita. Cercai dunque di sorridere. Ero a metà tra il timore ed una strana voglia di fare pace. Era un momento perfetto. Ed avrei fatto di tutto, pur di far vivere serena Nilyan. Lui magari, così, avrebbe accettato la mia idea di portarla a Sharilar con me. Non era il momento di dirglielo, ma un’atmosfera tra noi due più rilassata poteva essere possibile. Dovevo però approfittare di quell’occasione troppo bella per essere sprecata. Dovevo. Vincendo il naturale timore nei confronti di quell’elfo curvo e mesto, mi allungai verso di lui, staccandomi dal Maestro, e facendo un passo in avanti, seguito poi da un secondo. Sentii un vero e proprio senso di panico farsi strada in me. Ora tutto sarebbe cambiato. Dovevo essere fiduciosa di me stessa. Mi resi conto di tremare leggermente. Mi avvicinai a lui, tremante, e gli posai, cauta, una mano su una spalla. Lui non si ritirò, né si mosse. Mi rilassai un po’. Sospirai. “quindi…amici?”. Dissi, timorosa, con una stranissima vocetta. Qualcosa in me si riempì d’irritazione. Mi stavo comportando davvero come una cretina. Avevo un modo idiota di fare, molto cretino. Ed avevo anche paura. Non potevo fare a meno di pensare che quella non fosse altro che una trappola. Mi sentivo sempre di più simile ad un animaletto selvatico, addomesticato a stento e timoroso. Mi sentii avvolgere da un fiotto di calore, e da una sorta di rilassamento, quando vidi l’altro elfo annuire debolmente. Qualcosa nella mia vita sembrò tornare al suo posto. In effetti, quell’inimicizia mi aveva sempre fatto un po’ male. Il rimorso per quello che gli avevo provocato era vivo, ma lui non lo capiva, o meglio, non lo aveva capito prima. Era bello vedere che anche lui poteva rimangiarsi le sue parole. Dopo un altro attimo, mi ero però scostata, ed ero andata a sedermi sul bracciolo della poltrona di Amarto. Non mi fidavo ancora abbastanza. Rimanemmo in silenzio, per quella sera, riposando. C’era un vuoto tra di noi, un vuoto che pesava più di una presenza. Nemys sembrava non averci lasciato. Io ed Isnark condividevamo lo stesso dolore, e partecipavamo silenziosamente ognuno al lamento dell’altro. Avevamo perso entrambi una parte importantissima della nostra vita, e ci capivamo. Forse è quello che ci lega tuttora. Rimanemmo fino a sera inoltrata lì, in silenzio, parlando con gli sguardi, fino a quando Isnark non si addormentò sulla poltrona, ancora in braccio la figlia, che fu presa prontamente dalla nutrice, ai primi segni di veglia. Amarto ci lasciò, dicendo che aveva sonno, e Wynet andò con la piccola nella sua stanza, perché aveva fame. Io mi misi al posto del Maestro, chiedendomi vagamente dove diavolo fosse Dae con Machin. Il salotto era così tranquillo, silenzioso a parte il lieve russare di uno stanchissimo Isnark, crollato letteralmente dopo quei giorni orribili, che fui sul punto di addormentarmi anch’io. Stavo oziosamente prendendo in considerazione l’idea di andarmene nella mia camera, di farmi un bel bagno caldo e rilassante, e di mettermi a letto, visto che non avevo dormito granché la notte precedente, quando sentii Dae entrare, e qualcuno piangere. Mi svegliai di soprassalto, imitata da Isnark. Sobbalzai quando vidi la gigantesca balia cullare il mio piccolo nipotino, che singhiozzava, disperato, una manina in bocca, e mi alzai di scatto. “che?...”. cominciai, sconvolta. Odiavo vedere il mio piccino disperarsi così terribilmente. Era terribile. Faceva venire voglia di piangere anche a me. Isnark mi guardò, confuso, poi fissò il bambino. Dae alzò gli occhi al cielo, tendendomi il marmocchio, che si divincolò, piangendo, accoccolandosi contro di me. Lo cullai, distrattamente. Che diavolo era successo? Dae di nuovo alzò gli occhi al cielo, poi parlò. “i denti”. Mugugnò, semplicemente. Io gemetti. Oh, no. Gli stavano sicuramente uscendo i denti, di nuovo. Prevedevo una notte completamente insonne. Quella notte compresi davvero il significato di “essere genitore responsabile”. Borbottando una ninnananna inventata sul momento, andando avanti ed indietro, fui costretta a tranquillizzare il mio nipotino, aiutata a turno da Dae, e, da, addirittura, da Isnark, che sembrò prendere il piccolo come se fosse un cucciolo di drago, stranito. Per una volta, mio nipote non sembrò fare la differenza. Tanto, a parte qualche sonno di un’ora al massimo, non faceva altro che lamentarsi. Svegliò addirittura Nysha e Chekaril, che vennero addirittura dentro per vedere cosa stesse succedendo, assonnati. Affidando Machin a Dae mi affrettai a riportarli a letto, distrutta, calmandoli con paroline dolci. Accidenti. Ero un’elfa, dormivo poco anche di mio, ma non ero certo una creatura indistruttibile.  Non vedevo l’ora che crescessero tutti, che divenissero tutti bambini come loro. davano più soddisfazioni, e meno fastidio. Per fortuna i due piombarono presto in un sonno senza sogni. Mi assicurai che Roxen e Manolìa dormissero, ghiri in letargo come sempre, e poi tornai dal mio piccolino. Ci diede tregua solo verso l’alba, assopendosi tra le mie braccia, stanco. Ero stanchissima anch’io. Mi si chiudevano gli occhi. Non sapevo come avrei fatto da sola, a Sharilar, o al massimo con Amarto. Proprio non sapevo. Magari avrei chiesto a Dae di venire con me. Era l’unico modo per sbrigarsela. Mi ero dunque assopita sulla poltrona, mentre il povero Isnark, capitato di sicuro in una brutta situazione, andava a vedere come stesse la sua piccola. Avrei davvero voluto imitarlo, ma non ce la facevo. Ancora in braccio il mio piccolo, mi addormentai. Avrei riposato poco, lo sapevo. Per il pomeriggio, dovevamo accompagnare Regis al punto in cui era venuto, per farlo tornare indietro. Brutto pensarlo, abbandonare quell’umano in quel modo, ma  era purtroppo necessario. Lui doveva tornare da dove veniva. Quello non era il suo posto, quella non era la sua gente. Preferivo lasciarlo andare che vederlo infelice. Avrebbe fatto troppo del male anche a me.

Il mattino dopo, ormai quasi verso il pomeriggio, ancora prostrata per la notte orribile, mi svegliai con un mal di testa colossale. Mugugnando, mi trascinai fino alla mia camera, dopo essermi messa d’accordo con Isnark, ugualmente sconvolto, con gli occhi iniettati di sangue, per l’ora in cui avremmo dovuto accompagnare Regis, per salutarlo un’ultima volta, con l’idea fissa di un bel bagno caldo. L’acqua pulita e profumata mi aiutò a schiarirmi le idee. Era una bella giornata, più calda della norma. Riuscii anche a mettermi degli abiti più freschi. Pettinarmi fu davvero un’impresa impossibile. Mi limitai a fare una coda di cavallo, semplice ed ordinata. Lasciare il mio collo scoperto, stranamente, non mi dava più fastidio. Avevo imparato a non avere paura delle mie cicatrici, che facevano parte di me, monito perenne ai miei errori. Non potevo fingere di non essere accettata, non dopo che nessuno si scomponeva più, e, soprattutto, non dopo quella notte passata con Regis. Chissà se lui si era reso conto del valore che lui aveva avuto per me. Ho l’impressione di si, anche se non voglio ammetterlo nemmeno a me stessa, qualche volta. Mi guardai ugualmente nello specchio con una smorfia. Poi sfiorai la guancia deturpata. “sei davvero bellissima, tesoro”. Cinguettai, infastidita, per poi voltarmi. Evitai intenzionalmente di posare il mio sguardo sul letto ancora disfatto, ed uscii fuori. Per un po’, vagai senza meta, gironzolando per il castello senza pensieri. Non avevo voglia di far nulla, e volevo solo muovermi. Non era una bella giornata, per me, nonostante ci fosse un bellissimo sole. Regis se ne stava per andare. Non avremmo più potuto parlare, non avrei più potuto contattarlo. Se solo mi fosse successo qualcosa, lui non ne avrebbe saputo nulla. Né, ovviamente, io avrei saputo nulla di lui. Conoscevo poco del suo futuro, mi ero rifiutata di approfondire la questione. Insomma, non sarei mai più riuscita a vederlo, a toccarlo, a parlare con lui. Mi faceva molto male come cosa. Di lui mi sarebbero rimasti solo ricordi agrodolci, o forse speravo solo quello. Non volevo dare la vita ad un mezzelfo, per niente. La prospettiva m’inquietava, mi metteva una strana repulsione addosso. Avevo visto Junielle, il suo destino. Non sarebbe stato amato, sarebbe stato sempre dileggiato. Io avrei rischiato moltissimo per metterlo al mondo, la mia stessa vita. C’è una ragione per la quale le madri di mezzelfi sono per la maggior parte umane. La metà delle elfe che decide di non sbarazzarsi di un mezzelfo muore, di parto o per qualche altro motivo. Sotto questo punto di vista, siamo fin troppo fragili. Se solo fosse successo qualcosa, davvero non avrei saputo che pesci prendere. Non avrei avuto il coraggio di disfarmi di un eventuale figlio di Regis. L’avrei amato troppo. Nello stesso tempo, avrei messo in pericolo me, e lui. Pregai chissà chi che non fosse successo nulla. Non doveva succedere nulla. Non ci sarebbe stato nessuno che mi avrebbe appoggiata. Zipherias mi avrebbe strozzata. Isnark si sarebbe allontanato. Anche Capouille mi avrebbe disprezzata. E la prospettiva di una battaglia di quel genere mi metteva davvero poca forza in corpo. Non potevo mettermi a letto, sola, per non morire. Non in quel momento in cui tutti avevano bisogno di me. Mugugnai di nuovo. Ero stata avventata. Eravamo stati avventati. No, non dovevo avere simili pensieri. Non era successo niente, e basta. Dovevo convincermene. Non mi sarebbe accaduto niente di male. Nessuno sarebbe venuto a conoscenza di quello che era successo tra me e quel giovane umano. Sarebbe rimasto tutto nei miei ricordi. Tutto. Dovevo convincermene. Aumentai il passo per sfuggire a quei pensieri sgradevoli. Vidi Capouille, il mio amico dai capelli rossi, in lontananza, attorniato da due elfi più anziani, i suoi genitori, che avevo conosciuto per sbaglio. Dalla madre avevo capito perché il figlio era venuto fuori così. Lui era l’ultimo, il più piccino. E lei era asfissiante. Anche con me, mi aveva guardato malissimo, poi aveva detto a Capouille che doveva proteggermi da li. Il mio amico dai capelli rossi in quei giorni balbettava più del solito, ed era nervoso e goffo. Madre velenosa, acida, che per poco non avevo ammazzato. Preferii cambiare strada. Mi accorsi così che era quasi l’ora. Correndo, mi fiondai verso le stalle, in cui già vi trovai Regis, Peter, che mi fece l’occhiolino, Masato, che mi salutò con bonarietà, ed Isnark, già a cavallo. Mi guardai con il mio amico umano, attimi infiniti. I suoi occhi scuri mi stavano dicendo tantissime cose. Deglutii. Era bello. Bello, intoccabile, ora. Avrei voluto salutarlo degnamente, donargli un ultimo bacio, aggrapparmi a lui ed implorarlo di non dimenticarmi mai. Ma non potevo. Così distolsi lo sguardo, addolorata, e mi avviai verso Nina, che, già bardata, mi aspettava.

La cavalcata verso il luogo dove Regis e gli altri erano arrivati fu stranamente breve. Solo Peter e Masato parlavano tra di loro, nel loro linguaggio, mentre Regis ed Isnark confabulavano raramente. Io non riuscivo a parlare. Cavalcai tutto il tempo in coda alla piccola fila, gli occhi fissi sulla nuca del mio umano preferito. Mi sarebbe mancato moltissimo, troppo. Volevo baciarlo un’ultima volta, sentire il suo profumo fresco. Cose che mi erano tutte proibite, non di fronte a tutti loro. Arrivammo nei pressi di quella specie di arco, ora debolmente illuminato, in un lampo, o almeno mi sembrò così. Scendemmo da cavallo. Gli altri soldati salutarono i tre con allegria, e me con un cenno del capo. Si sbrigarono in fretta a passare dall’altro lato. Sparirono tutti nella luce. Sentii strisciare, sgradevole, sulla pelle il sentore della magia. Non mi piaceva. Odiavo quella sensazione di malessere viscido. Mi prendeva allo stomaco, e me lo chiudeva. In breve, rimanemmo solo io, Isnark e Regis. Con un’occhiata indecifrabile verso di me, lui si allontanò un attimo, con la scusa di controllare i cavalli. Rimanemmo solo io ed il mio amato umano. Ci scrutammo, ognuno incatenato negli occhi dell’altro. Mi schiarii la voce, imbarazzata. Odiavo gli addii. Dei, come volevo dirgli che lo amavo, e l’avrei sempre amato! Non potevo. Solo un bacio. Solo un bacio, poi potrò morire in pace. “ti auguro di trovare le risposte che cerchi”. Brontolai, con una stranissima voce triste. Non mi sembrava tanto un augurio. Tra di noi correvano milioni di cose non dette. Ed io vedevo che anche lui era infastidito da quelle sceneggiate. Sul suo viso s disegnò un piccolo sorriso. Sospirai. “anch’io a te, Lsyn”. Disse, in tono morbido e neutro, senza staccare gli occhi dai miei. “il nostro viaggio è appena all’inizio. Non sarà semplice”. Scossi il capo, mesta. “ogni viaggio è difficile, Regis”. Dissi, stringendo le labbra. Perché non potevamo impegnare il nostro tempo in maniera più proficua? Un bacio, per esempio? Un abbraccio? Io avevo bisogno di lui. Impazzivo, con lui, ma senza nel frattempo. Era straziante vederlo andare senza poter fare altrimenti, senza poterci fare niente. “ma forse il mio non sarà così arduo”. Sorrisi, misteriosa. Bene, io sapevo qualcosa che lui non sapeva. Sarebbe rimasto un pezzo di lui, in quella terra. E,  alle sue domande, alla sua richiesta di spiegazioni, io gli parlai di quella che era a metà tra una leggenda e la verità. C’era qualcosa di lui che rimaneva. Una spada, in un posto che per gli umani aveva la valenza di un santuario. Se solo avessero saputo che Regis aveva appoggiato la nostra causa, ci avrebbero seguiti contro Lainay. Bisognava solo attendere, attendere che i tempi fossero maturi per le coscienze timorose ed addormentate degli uomini. Lui sembrò incredulo, ma si scrollò nelle spalle. A tempo debito, anche lui avrebbe saputo, e più di noi. Poi ci fu un attimo di silenzio. “ora…io devo andare”. Mormorò alla fine, con un sospiro. Sentii mille frecce distruggere il mio fragile cuore, strapparlo e capovolgerlo. Quasi mi si riempirono gli occhi di lacrime. Era necessario. Doveva esserlo. Un sorrisino triste si disegnò sul viso mesto di Regis. Ci guardammo, a lungo, parlando senza parlare. Poi decidemmo, per l’ultima volta, ad annullare le distanza che ci separavano. Il nostro ultimo bacio. Mi tornò in mente Tijorn, quando, in quel bosco, aveva baciato Akita con quel disperato trasporto. Era quello che stavamo facendo noi, baciarci come se fosse l’ultima ora del mondo, un lungo bacio che rimarrà nel mio cuore come una dolorosa stilettata. Ci staccammo, riluttanti, guardandoci con immensa tristezza. Regis. Mi sarebbe mancato, moltissimo. Ma ora doveva andare. Lui si girò, e fece per fare qualche passo. Poi mi guardò di nuovo, stavolta con un sorriso. “ah”. Disse, tornando ad essere sornione e impassibile come sempre. “dimenticavo…”. Mise una mano in tasca, e rovistò per un po’. Lo guardai, curiosa. Che voleva darmi? Finalmente, lui estrasse qualcosa di luccicante, e me lo lanciò al volo al grido di “prendi, Lsyn!”. Con i miei ottimi riflessi da elfo, obbedii, e poi aprii il pugno. Mi ritrovai a fissare uno strano monile, una sorta di anello lavorato, appeso ad una catenina. Era bello, ed era caldo. Sorrisi vagamente. Un ricordo. Di tutto. Mi sentii più felice. Di poco. “cos’è?”. Dissi, guardando verso Regis. Lui mi guardava, ed era arrivato ad un passo dal portale. Sorrise, indecifrabile. Mi salirono le lacrime agli occhi. Ero vicina dal non vederlo più. “è il ricordo di una persona cara”. Il suo sorriso si allargò. Non capii, e lo guardai, vacua. “una persona cara?”. Era suo, quel ricordo? Oppure chi? Non riuscivo a ricordare nessuno che indossasse quel bel monile. Nessuno. Lui sospirò, misterioso.“quando la tempesta del tuo cuore si sarà placata almeno un po’”. Disse, calmo. Sembrava volermi spiegare qualcosa, senza poterlo fare. Mandai bene a mente quelle parole. Non ho ancora obbedito, ma lo farò presto. Lo giuro su di lui. “vai al villaggio di Yamaura. Lì troverai le risposte che vuoi”. Lo guardai, stranita, e lui mi fece un occhiolino. Non avevo mai sentito parlare di un villaggio del genere. Avrei dovuto cercare a lungo. Chissà perché voleva che io andassi lì. Dovevo farlo però. Un giorno o l’altro, l’avrei fatto. È ancora una promessa non risolta. Ma lo farò presto, quando capirò dov’è Yamaura, o cos’è. Sono molto curiosa. Odio gli enigmi irrisolti. Ci scambiammo un ultimo sorriso, e mi sentii Isnark vicino. Sperai che non ci avesse visti baciarci con confidenza e trasporto, un bacio decisamente non amicale. “addio, Lsyn!”. Le sue ultime parole. Con un lampo di luce, anche lui fu inghiottito da quel portale, per non uscirne mai più. Strinsi forte a me quell’anello. Domande o no, sarebbe rimasto per sempre il ricordo di un umano che ho amato con tutta me stessa. Non so che fine abbia fatto, non so dove e come sia morto. Ma spero che abbia trovato pace. Voglio che sia così. Strazianti, dolci ricordi accompagnano la sua figura. È lui che mi ha donato la forza di andare avanti. Lui che mi ha tirata fuori dall’abisso. Lui che mi ha insegnato a non odiarmi. Ed io non odierò lui mai più. Sarà sempre, per me, tra le figure più importanti della mia vita, che l’hanno rivoltata come un calzino, che l’hanno trasformata in qualcosa d migliore con la loro presenza. Auguro ogni bene a Regis. Il mio pensiero è fisso molto spesso a lui. Forse non se ne andrà mai dalla mia memoria. Lì vive ancora. E per sempre vivrà, fino a quando, almeno, io non morirò. Ho amato Regis, e lo amerò per sempre. Difficile non farlo, con una persona simile. Spero tanto che non gli sia accaduto nulla di male, nella vita, e che abbia trovato la sua strada. Pochi come lui lo meritano.

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Capitolo 94
*** Aprire gli occhi. ***


Ci apprestammo, a tornare, io ed Isnark, nel silenzio tombale che si era andato a creare dopo che Regis era scomparso, se n’era andato, facendo tornare tutto a quella normalità che tutto era tranne che normale, avviandoci di malavoglia verso i cavalli

T___________T

Il prossimo capitolo, beh, mi duole dirlo…

FINIRO’!!

xD

il prossimo sarà l’epilogo, perciò la storia in sé per sé finisce qui.

Ma attenti, perché ci sarà un seguito…e lì Lsyn ne vedrà delle belle xD preparatevi a ricevere altre mazzate con il, chiamiamolo “libro secondo” xD xD

Vi saluto tutti, e vi dico di non perdervi la prossima puntata xD

Nel prossimo capitolo provvederò a ringraziarvi per il vostro supporto, ma ora vi dono un bacio =*

Alla prossima!

Akita

 

 

Ci apprestammo, a tornare, io ed Isnark, nel silenzio tombale che si era andato a creare dopo che Regis era scomparso, se n’era andato, facendo tornare tutto a quella normalità che tutto era tranne che normale, avviandoci di malavoglia verso i cavalli. Io stringevo ancora in mano quello strano anello istoriato, mantenuto da quella semplice catenina, e mi sentivo quasi stordita. Era strano, quasi fantastico, quello che era accaduto in quei giorni convulsi. Di nuovo, la mia vita aveva subito un cambiamento drastico, in così poco tempo. Di nuovo, qualcuno a cui tenevo molto mi aveva lascito. Nemys se n’era andata, l’ultima mia ancora. La parte più pura di me era volata via, lasciandomi definitivamente sola. Dovevo ancora metabolizzare la cosa, pensare che non ci sarebbe stato mai più nessuno a guidarmi, ma che sarei stata io a dover guidare, senza spalle forti dietro. Avrei dovuto imparare ad usare le ali che mi erano state donate senza più sostegno. Non capivo ancora come fare, non lo nego. Né, tra l’altro, ancora l’ho capito. Come posso vivere una vita autonoma quando non mi è mai stato insegnato come si fa? Sono sempre stata di altri. Ombra, Nanetta, anche Mostro, Ch’argon. Mai Lsyn, mai di me stessa, in una vita tranquilla in cui tutti mi temevano e nessuno poteva osare mettermi i piedi in testa. Fondamentalmente, ero sempre esistita in virtù di una sfida ben più grande di me. Non so ancora vivere nella banale quotidianità, non so ancora rapportarmi in maniera sana con le persone, una nobile improvvisamente declassata al rango di contadina, non so ancora come non sprofondare nella vergogna tutte le volte che gli sguardi si posano sul mio viso disfatto, i mormorii pietosi che mi fanno andare su tutte le furie. Non riesco ancora a vivere, e tutto quello che riesco a fare è crescere dei piccoli in modo che siano autonomi ed indipendenti, mai plagiati da qualcuno più grande di loro, più potente, com’era successo a me. Su questo, sono intransigente. Quando Isnark mi parla di cominciare ad insegnare a Nilyan i precetti del governo, dando maggior importanza ad essi che magari ad altre cose, gli vorrei staccare la testa. Spesso gli rispondo che se vuole un re se lo va a cercare, e che non deve plagiare qualcuno che deve crescere sano e protetto. Ripetono sempre che quello che sto facendo ha davvero del bello, che davvero sono cambiata, nel meglio. Ma io non riesco a vedere questi cambiamenti. Sono ancora ossessionata, ossessionata da quel passato che non vuole saperne di andare via, di svanire una volta e per tutte, di farsi meno doloroso. Ancora, ad intervalli ora radi, ora fitti, mi vengono a visitare gli incubi più orribili. Sogno Chekaril, Tijorn, tutti i miei errori, tutte le mie perdite, né riuscirò mai a guarire quelle ferite che solcano il mio animo, numerose quanto quelle che mi sfigurano. Però cerco di non darlo a vedere. Mi sono rassegnata alla mia vita, rinunciando all’ambizione di brillare ad ogni costo, rinunciando al mio orgoglio, piegandomi docile al destino, una canna palustre al vento. Eppure, devo e dovevo vivere. Anche solo per chi è morto per farmi questo regalo. Anche solo per dispetto nei confronti di Lainay. Eppure, non mi farò vedere mai più ad una cerimonia a volto scoperto, né cercherò di legarmi a qualcuno che non siano i piccoli. Ho rinunciato alla maschera, ho rinunciato ad isolarmi completamente dalla vita, ma metto sempre una certa distanza tra essa e me. In fondo, ho sempre vissuto la bellezza di cinquant’anni in perfetta solitudine, no? Non mi sento pronta a vivere di nuovo, ad aprire gli occhi. Forse un giorno troverò la forza, forse no, affossandomi in un’esistenza senza vita, un’esistenza spesa solo per far vivere gli altri, tenere il proprio mantello affinché gli altri lo possano usare come tappeto per non sporcarsi i piedi. Eppure, quell’umano mi ha donato una speranza che ancora perdura. Mi ha fatto capire che sono ancora un essere senziente, che provo emozioni, che posso essere anche felice. Per quanto la gioia sia sempre funestata dalla tristezza, per quanto non esista mai una vera felicità, essere serena, per me, è possibile. Si tratta solo di me, ora, solo ed esclusivamente di me. Raggiungere una calma interiore, in quel mare che è ora in tempesta, potervi tornare a navigare con il vento in poppa. Questo pensiero mi fa sempre sentire vicina all’obiettivo, e, nello stesso tempo, diametralmente all’opposto di esso. Vedo la gioia vicinissima, e lontana come l’orizzonte. La vedo come una chimera vivente. Ho l’impressione che essa sia nascosta dietro un velo, e che basti un solo passo per sollevarlo e raggiungerlo. Eppure, ci sono ancora delle catene che bloccano le mie ali. Qualcosa non è mai morto, e lo stesso rimorso m’impedisce di essere felice, lo stesso senso di colpa. In quel momento, in quel bel pomeriggio caldo, in cui, assonnata, osservavo quelle rovine ormai vuote, mi sentivo così. Avvertivo la pace vicina, a portata della mia mano, ma non riuscivo a raggiungerla. Non riuscivo a rendere reale la lezione che Regis mi aveva dato. Non riuscivo a trasformare in sorrisi la speranza. E poi avevo troppo da fare. I bambini mi avrebbero aspettato per la notte, perché io li facessi addormentare, e dovevo riposarmi, se non volevo crollare prima di loro. Machin sicuramente stava ancora un po’ male per il dente, povero piccolo. Così, io fui la prima a scrollarmi, a muovermi. Guardai brevemente il monile che Regis mi aveva lasciato, incuriosita, facendolo scintillare alla luce del sole. Poi lo misi in tasca. Non l’avrei indossato fino a quando il  mistero sulla sua origine non si fosse chiarito. Chi era quella persona cara di cui mi aveva accennato? Che c’entrava, poi, quel villaggio dal nome così strano, sperduto chissà in quel buco montano? Cosa significava quell’anello? Non ne avevo la minima idea. Certamente, non avevo mai visto qualcuno con indosso un gioiello del genere. Un oggettino delicato, argenteo, di fattura più che elfica. Avevo visto cose simili a Galinne, ma più ci pensavo, meno la cosa mi convinceva. Non aveva senso. Io non conoscevo nessuno di Galinne. Mi risvegliò dai miei pensieri Isnark, ancora vagamente stordito. “dovremmo andare”. Io annuii. Nilyan era rimasta scoperta per troppo tempo. Era pericoloso: Lainay poteva approfittarsi di quel momento in cui Uruk era relativamente debole per attentare alla vita della giovane principessa, della minuscola principessa. Sangue di Rinnegato o no, era nata da poche ore, e certamente non poteva ammazzare le eventuali Spie a colpi di magia, cosa ridicola da pensare. Una neonata non è così difficile da uccidere, benché io l’avessi affidata nelle mani di Dae e di Amarto, che controllava come un cane da caccia benché fosse cieco, e da Zipherias. D’accordo che l’ultima persona era stata lievemente minacciata, perché se solo fosse successo qualcosa anche di minimo alla mia nipotina gli avrei cavato gli occhi dalle orbite con le mie mani, ma la cosa aveva lo stesso senso. Eravamo quindi in una situazione parecchio destabilizzante in potenza. Era quasi ora di parlare ad Isnark del mio piano. Magari sarebbe stata solo una soluzione momentanea, ma efficace. Quando era sola con me, potevo mettere una mano sul fuoco che sarebbe stata protetta da tutte le Spie. Non le avrei permesso di allontanarsi nel bosco di più di qualche metro. Sarei stata peggio di qualcosa di una mamma chioccia. Sperai solo che non ereditasse la mia natura. Di solito, da piccola, quando Amarto mi diceva di non fare qualcosa, di solito era quella la prima cosa che facevo. Alla fine nemmeno le bastonate servirono per correggere questo piccolo vizio. Me lo levai solo all’epoca del noviziato, quando ad ogni sgarro poteva corrispondere da una settimana a due mesi di servaggio, una cosa che proprio non mi andava giù, o punizioni decisamente peggiori, ed umilianti. Insomma, se solo Nilyan fosse stata una testa calda come me, proprio non avrei saputo che fare. Bisognava renderla responsabile ben presto. Tra me ed Isnark, il mio nuovo, insospettabile amico, c fu un altro momento di silenzio meditabondo. Chissà che cosa stava pensando. Io non lo guardavo nemmeno, tutta presa a pensare al futuro dei marmocchi. Alla fine, si rivolse di nuovo a me. Mi anticipò, ed io mi ritenni subito fortunata. Non so come avrei fatto a descrivere ad Isnark la mai idea di allontanare sua figlia per un po’ da Kyradon, dalle sue braccia. Sarebbe stato capace di sgozzarmi. M’intimoriva ancora molto. “ho parlato con i sacerdoti”. Disse, in un mormorio. Mi girai verso di lui, incuriosita. Mi stava fissando, con un’aria che m’insospettì. Sembrava cominciare a girare intorno ad una cosa, per poi dirla. Sembrava volermi dire qualcosa, e, nello stesso tempo, rifiutarsi di confidarmi quello che gli passava per la mente. Lo guardai, temo, in un modo un po’ strano. Voleva qualcosa da me, ne ero certa, ma non riuscivo a capire cosa. Le seguenti parole mi chiarirono di più la situazione. “sono tutti dell’opinione che sarebbe più saggio allontanare Nilyan per un po’ da Kyradon. Tu cosa ne pensi?”. Ah…ora capivo! Dovetti reprimere a stento un sorrisetto. Bene. Mi ero fatta tanti problemi per nulla. A quanto pareva, lui doveva essere arrivato alle mie stesse conclusioni. O era una cosa ovvia, o davvero era l’unica soluzione possibile al problema. Cercai di non dare a vedere che avevo capito. Temo, in questo, di aver miseramente fallito. L’elfo mi guardò alzando lievemente gli occhi al cielo. Gli risposi con una certa aria casuale, guardando la chioma di un albero a caso. “già… Lainay potrebbe ucciderla…non si sa mai”. Lui scosse un po’ il capo, come per dirmi che aveva capito che avevo compreso il suo gioco, e sapevo esattamente dove mi voleva portare. Arrossi lievemente, e non lo guardai più. Oh. Ma non doveva essere altro che felice, lui, di avermi fatto capire quello che voleva. Doveva essere contento di avere una Ch’argon così sveglia. Bah. A mio parere, solo gli dei devono sapere quanto stesse soffrendo in quel momento ad affidarmi la sua piccola gemma. Beh...era necessario. A ben pensarci se pure Nilyan avesse ereditato la propensione alla magia della madre, non sarebbe riuscita ad utilizzarla almeno per i primi vent’anni di vita, nemmeno involontariamente. Le capacità magiche, nei nostri piccoli,  sono completamente sopite fino a quell’età circa, per poi arrivare alla massima potenza al raggiungimento della maturità. Insomma: era come qualunque bambina umana, completamente inerme. Ci voleva qualcuno che la proteggesse almeno fino ai primi due o tre anni, anche se quel qualcuno non era altro che una maga da strapazzo, buona solo in semplicissimi trucchetti da Spia, e nient’altro, dalle dimensioni microscopiche, un ragno scheletrico, con tutta la sua forza nella protettiva buona volontà che si portava dietro. Davvero un’ottima guardia del corpo. Eppure, Isnark doveva fidarsi di me più di mille sacerdoti, per affidarmi quell’onere. Era davvero incredibile, e la cosa mi riempiva di gratitudine. Se solo mi avessero detto che un giorno quell’elfo mi avrebbe colmato di fiducia, beh, credo proprio che sarei scoppiata a ridere in faccia al malcapitato interlocutore. Beh. Il mondo girava davvero come voleva. Il sovrano di Uruk assunse la mia stessa aria, ben poco convincente. Cominciammo, così, ad avviarci verso i nostri cavalli, che ci aspettavano docili, legati ad un albero. “beh…il problema è uno”. Disse, guardando in aria. Ma che bravo attore innocente. “dove possiamo nasconderla?”. Oh, guarda. Proprio non mi ero accorta dove voleva arrivare. Saltai su Nina con aria sicura. Se Isnark me lo chiedeva…ma proprio… l’avrei fatto, certo. Decisi così, mentre il mio amico si sistemava sulla sua cavalcatura grigia, di abbandonare ogni finzione. Mentre ci avviavamo a passo lento verso il castello, tranquilli, inondati dalla calda luce del sole del primo pomeriggio, nella quiete del bosco di Sharilar, parlai, seria, sottovoce, come a non voler disturbare ciò che mi era attorno. “ci ho già pensato”. Dissi, guardando stavolta fisso Isnark, che non rifuggì il mio sguardo. “potrei portarla con me, a Sharilar…avevo intenzione di trasferirmi lì da un po’”. Arrossii di nuovo, lievemente. La mia idea era sempre stata quella, tornare nel luogo della mia infanzia, per vivere le ultime gocce di pace dorata, da assaporare prima di immergersi nuovamente nella vita tumultuosa.  Dovevo solo sistemare un po’ la casetta di Tijorn e poi tutto sarebbe andato al suo posto. Io lì ci ero cresciuta. Non esisteva luogo più bello. Affrettai così a spiegare la mia scelta, parlando rapidissima. “È vicino, a portata di mano in caso di pericolo, ma sufficientemente tranquillo per un bambino”. Isnark fece una smorfia. Sicuramente non doveva piacergli l’idea di separarsi dall’ultimo pezzetto di Nemys sulla terra per un po’. Ma era purtroppo necessario: era brutto, però, leggergli negli occhi il dolore. Dovevo trovare una soluzione, una via di mezzo. Sicuramente c’era. Non potevo privare il padre della figlia. “non è una cattiva idea”. Quelle parole parvero uscirgli di forza dalla bocca, come se le sputasse. Perlomeno, non sembrava avercela con me, affatto. “io avrò comunque da fare. Bisogna organizzare le difese: Lainay non starà per sempre a grattarsi la pancia”. Cosa purtroppo vera. C’erano ancora altri regni da aggredire, da fagocitare. Tra di essi, Uruk. Il mio stesso essere Ch’argon mi faceva annaspare come un passerotto in una trappola al solo pensiero. Il Regno non era mai sazio. Erano state fatte promesse su promesse, era vero. Impossibile sapere però quante e quali di esse fossero vere. Mai fidarsi del serpente che dorme. Il problema è che eravamo in una situazione difficile, per non dire drammatica. Avvolti, praticamente, nel Regno neonato. Strozzati. Un minimo passo falso, e ci saremmo trovati le armate degli Immortali a devastare la bianca Kyradon. Era un orrore pensare a quell’eventualità. I regni umani erano troppo deboli, spauriti, o lontani. I tempi non erano ancora maturi. “già…”. Asserii, sospirando, malinconica. Era così ingiusto che quella pazza avesse tutto. O non avevo fatto nulla di male, intenzionalmente, a qualcuno. D’accordo. Ammazzare Chekaril era stata una mia iniziativa. Ma penso di aver scontato abbastanza per quello, no? Perché accidenti a chi tutto ed a chi niente? Il mondo è cieco. “ma ora come ora sarà difficile. Dove trovare altri alleati? Nessuno ha il coraggio di mettersi contro il trono di Galinne”. Conclusi, amara. Lainay aveva i suo Cani, che la circondavano dappertutto, fedeli. Aveva un figlio intoccabile. Noi eravamo disperati. Combattevamo per un ideale ormai morto. E tutto questo, solo per sopravvivere. Era squallida, quella lotta senza valori di fondo. E pure così terribilmente vera. Nessuna guerra ha motivi di fondo. Solo stupide mire economiche. Vite e vite, per soddisfare la sete di potere di qualcuno, capace di trasformare i sogni sadici esistenti in tutti gli esseri viventi in una terribile realtà. Eravamo stretti in una morsa terribile. Come uscire da quella orribile situazione? Guardando Isnark, triste, mi accorsi di una certa aria meditabonda. Chissà cosa stava pensando. Non lo so ancora, né ho mai approfondito la questione. Non ne ho voglia. “se serve, chiederemo anche aiuto alle leggende, Lsyn…”. Sentenziò, solenne. Poi spronò il suo cavallo, in modo che non potessimo più parlare.

 

Il mese seguente fu tutto impegnato per rifinire il piano che avevamo costruito quel pomeriggio. Impedendomi di mettere piede in un luogo dove i ricordi mi avrebbero fatta annegare, Capouille, Benagi e Zipherias si accollarono la responsabilità di mettere un po’ a posto la casa di Tijorn, che non doveva essere altro che un rudere un po’ abbandonato, un focolaio freddo, gelido, senza il sole che l’aveva illuminato. Non vollero categoricamente farmi entrare, dicendo che mi sarei davvero distrutta, e che non ce n’era bisogno. Li vedevo molto di rado, immersa in una mole di lavoro che sembrava aumentare di giorno in giorno, ma ogni incontro era sempre molto bello. Tra me ed Isnark, dal rapporto cordiale che si era instaurato precedentemente, si andò a creare una certa confidenza, per non dire complicità. Avevamo subito entrambi lo stesso dolore, e lui si aggrappava a me per uscire dal baratro che il lutto gli aveva aperto sotto i piedi. Cercava di vivere, sopravvivere per la sua principessina, ed ogni giorno che passava sembrava cavarsela un po’ meglio. Non sentii mai più dalla sua bocca il nome di Nemys, e lui si rifiutò di andare a dormire nella loro camera, cambiando stanze, in un’altra ala del castello, togliendo di mezzo ogni cosa che potesse anche solo ricordargli vagamente l’amata, ma almeno sorrideva un po’ più spesso, senza quello sguardo perso nel vuoto, e si occupava alacre dei suoi affari da sovrano, aiutata da una solerte Ch’argon. Dovevamo ringraziare Nilyan, la piccola figlia, per quella ripresa veloce. Senza, penso proprio che non ce l’avrebbe fatta. La piccola diventava ogni momento più bella. Mi assomigliava molto, identica per molti versi a Nemys, per altri al padre, ed aveva una bella e liscia pelle olivastra, il colore di Isnark. Era una bambina tranquilla, tutto il contrario di quella peste di Machin, il piccolo che aveva imparato presto a darmi molte grane, che accettavo con entusiasmo. Piangeva proprio quando era altamente indispensabile. Se non altro, proprio come il cugino, non stava mai nella culla. Di solito, quando io arrivavo all’ora della pappa di Machin la trovavo sempre o tra le braccia di Amarto, di Dae o di Wynet, tutti innamorati. Il mio nipotino si era sentito un po’ trascurato in quell’ultimo periodo, ed ogni volta che mi vedeva, strillava forte. Avevo imparato a prendere in braccio e salutare sempre prima lui. Quando non lo facevo, mi tirava i capelli. Era già geloso in maniera parossistica. Di me, solo di me. Lo trovavo divertente. Metà della giornata la passavo così in mezzo ai bambini, giocando con Chekaril, Roxen e le gemelle, addormentando Nilyan, oppure battagliando aspramente per dare da mangiare alla peste, che ancora non riusciva a capire la differenza tra cibo e gioco. L’altra metà riempivo scartoffie o davo udienza con Isnark, una mansione seccante. Era una fortuna che, per un po’, mi sarei assentata. Odiavo ascoltare lamentele futili e varie, e dovevo anche essere gentile e giusta. Era sfiancante. Isnark era sempre più diverso da quell’elfo ostile che mi aveva accolta, ferita e disperata. Spesso, la sera, quando lui raggiungeva la figlia per stare un po’ con lei, parlavamo dei vecchi tempi, ci raccontavamo cose e storie. Lui era pazzo di Nilyan. Quelle volte che piangeva saltava immediatamente su, preoccupato come se fosse una cosa mortale. Per fortuna, mia principalmente, di Regis non rimasero altro che ricordi dolci. Era per un certo verso un sollievo enorme. La vita continuava, placida. Nessuno avrebbe mai saputo nulla. Beh. Tanto placida non fu. Io fui ad un soffio dal cadere in un agguato, dal quale me ne uscii solo con lividi, graffi, ed un’intera ciocca di capelli strappata via. Si trattava, quasi sicuramente, di Spie, venute ad uccidermi. Peccato che furono uccise loro, da me in persona, che, per fortuna, ancora so come si maneggia una spada, ed ancora so giocare sporco quando posso. Da allora nessuno mi ha più torto un capello. Bizzarro. Decidemmo così la compagnia che, per tre anni, si sarebbe dovuta eclissare da Kyradon. Io, ovviamente, I bambini tutti, Amarto e Dae. Ogni tre giorni Isnark, molto contrariato, ci sarebbe venuto a trovare, con una delle guardie preferite a rotazione. Venne così, un giorno freddo d’inverno, in cui ancora non era caduta la neve, ma gli alberi erano completamente spogli, in un tramonto nuvoloso, in cui tutto fu pronto. Zipherias mi venne ad avvisare che la casa era pronta. Ci muovemmo, con un carro che ancora è mio, un ronzino attaccato avanti, pieno delle nostre povere cose, tutti abiti. Gli oggetti più pesanti erano già stati portati via. Lasciai Kyradon quasi con gioia. Non vedevo l’ora di cominciare la mia nuova vita. Nella luce rossa della sera, guardai tutti, quelli che ci accompagnavano ed i miei futuri coinquilini. Nessuno di questi ultimi era triste. Roxen era invece eccitatissima: gli avevo descritto la casetta come un paradiso in mezzo al bosco. Non vedeva l’ora, lei ed il fratello, che scendesse la neve. Io avevo già dato loro via libera per i dintorni della casa, a patto che restassero sempre tutti insieme. Cicalava con un tranquillo, pacificato Amarto, chiamandolo nonnino, un appellativo che gli piaceva da impazzire. Io, a cavallo di Nina, ero un po’ nervosa. Non sapevo come avrei reagito alla vista della casa della mia infanzia, che avevo lasciato quando ancora Tijorn era vivo, felice e vegeto. Zipherias, che era quello pi di malumore di tutti insieme ad Isnark, mi cavalcò vicino tutto il tempo, facendomi sentire la sua vicinanza. Per poco, quando vidi la mia casa, non scoppiai in lacrime. Lasciai che tutti andassero avanti, ed ammirai l’esterno. Non era cambiato nemmeno una virgola. Era certo più grande, più spaziosa, perché avrebbe dovuto ospitare una tribù, ma nulla era cambiato dal giorno di primavera in cui me n’ero andata l’ultima volta. Ero rimasta così ipnotizzata che mi ero quasi aspettata di vedere uscire fuori un arrabbiato Tijorn, che mi diceva di farla finita con quei piagnistei, e di venire per una buona volta dentro perché si stava facendo tardi. Invece dalla porta emerse il timido Capouille, che mi abbracciò dolcemente, trascinandomi dentro senza parlare. Vissi quella sera come una sonnambula. Tutto era rimasto identico. Cambiava solo l’ordine delle stanze. Quella mia era stata trasformata in quella di Chekaril e Roxen. Manolìa e Nysha erano sempre al loro posto. Wynet, poverina, si sarebbe dovuta stringere un po’, ma la cosa non le dispiaceva. Amarto e Dae erano insieme. Facile prevederlo. Il Maestro non avrebbe mai superato l’oltraggio e l’amore per Lainay, ma almeno quell’elfa gli faceva del bene ai nervi. Il loro era una affetto davvero profondo, un’intesa incredibile. La mia era quella di Tijorn. Non so perché vollero farmi quel regalo. Quando lo seppi fui sul punto di sentirmi male. Mio fratello mi avrebbe perseguitata, per sempre. Quella sera mi ritirai senza mangiare, salutando tutti con un vago senso d’irrealtà. Zipherias mi aveva abbracciata forte, Isnark mi aveva stretto una spalla. Capouille aveva balbettato che era tutto diverso. Non m’importava. Raggiunsi la mia camera trascinando i piedi. Quando aprii la porta, fui assalita da un senso di sollievo, misto a dolore: più o meno era rimasto tutto identico, ma ciò che caratterizzava Tijorn era scomparso. I suoi abiti erano via, finiti chissà dove, quel quadro, la crosta che tanto amava, sparita. Al suo posto, una carta incorniciata. Il letto era stato spostato vicino al muro, per far posto alla scrivania ingombra già di scartoffie varie. Ma fu guardando quella carta appesa che mi venne un groppo in gola. Riconobbi immediatamente la lettera che mio fratello, il mio stupidone, mi aveva scritto prima di morire, prima che scappassimo così avventatamente. Mi sedetti sul letto con le lacrime che scorrevano silenziosamente. I ricordi, tanti ricordi, mi assalirono in un attimo. E mi sentii persa. La mia luminosa infanzia, e quello che ero ora. Così brutto, così orribile. Mi rannicchiai così sul letto, sospirando. Mi avvolse un bel profumo, di lavanda e ginestre. Quel profumo mi avvolse, come un abbraccio. Ed io mi sentii consolata. Tijorn usava quella mistura per allontanare le tarme.  Quello, stranamente, mi diede la voglia di continuare a lottare. In fondo, la vita continuava, che io lo volessi o no.“sono tornata”.  Dissi, ad alta voce. Il mio gracchiare di corvo fendette il silenzio. E mi risposero i rumori allegri che venivano di là, dove i bambini giocavano. Sorrisi debolmente. Avevo, perlomeno, qualcosa da fare. La mattina dopo avrei avuto un gran daffare. Avevo i miei amici, i miei affetti. Potevo tentare di raccogliere le macerie della mia vita. Forse ne sarebbe uscito qualcosa di buono. Così, affondata tra le coperte ed il cuscino, mi addormentai, cullata da quel profumo familiare. Quello era il primo giorno della mia vita.

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Capitolo 95
*** Epilogo. ***


E’ strano pensare che siano già passati dieci anni da quel giorno, in cui tornai lì dove era cominciato tutto

Miei cari lettori e lettrici.

Vi comunico ufficialmente che Memorie dei Rinnegati-La Figlia Delle Spie, dopo ben nove mesi (oddio mio, è una coincidenza orribile xD) di lavoro, tra contrattempi ed incidenti vari, è giusta finalmente al suo epilogo.

Epilogo, però, solo della prima storia.

Riceverete ben presto notizie di me, e…non perdete d’occhio la sezione Originali-Fantasy, perché un seguito è presto in arrivo, e se mi lasciate io vengo lì da voi e vi strozzo xD

Oh, mi sento strana.

In questa stupidaggine ci ho messo davvero la ma anima, il mio spirito.

Mi sento male a mettere “completa” la storia.

Beh, so che ne scriverò un’altra…ma è difficile staccarsi dai miei “figli” xD

Da Chekaril, Tijorn (il mio preferitoL), ma soprattutto da Lsyn.

Sarà strano ricominciare daccapo.

Mi sarete fedeli, vero?

Io ho bisogno di voi, più che mai.

Vi ringrazio, mille volte.

 

Un primo ringraziamento va a Carlos Olivera. Accidenti, udite udite!  Mi ha sopportato fin dal primo capitolo, commentandoli tutti con sincerità, la miglior qualità al mondo! xD

Inchiniamoci tutti alla sua smisurata pazienza!

È stato lui il mio lettore più assiduo e fedele, e devo ringraziare lui se non mi sono bloccata, se la storia è risultata lunga com’è.

95 capitoli. Accidenti, è molta roba, eh?

Senza di te, mio caro, non ci sarebbero state un mucchio di cose.

È alla tua inventiva vulcanica che devo una buona parte delle Memorie, e anche ai tuoi consigli indiretti.

Ed a quanto pare anche qualcosa (molto) del secondo episodio, eh? xD

Non so proprio come ringraziarti, come…mah. Ti devo tantissimo o.o

Grazie è troppo poco!

Sappi che, per qualunque problema, io sono qui.

Ora mi commuovo xD

 

Un ringraziamento tutto speciale va anche a Selly, che mi è stata ugualmente fedele, e, anche se lei non lo sa, mi ha dato parecchi spunti xD

In bocca al lupo con lo studio, e grazie per i tuoi commenti veementi, che mi divertono, e che mi motivano ancora di più. Grazie, grazie, grazie.

 

Voi due siete stati il mio motore! Mi seguirete fino in fondo, vero? Un miliardo di baci, anche solo per avermi seguita in una missione omicida come questa x.x =*

 

Altro ringraziamento va a kylien, che, semplicemente, è lei. Zitta zitta se ne va, ma mi stava minacciando di morte in caso tardassi ad aggiornare. Carino alludere a cose, in una sera fredda in cui tutto era sabbia (xD), di cui un terzo era all’oscuro, eh? xD coltelli e coccole a te =* spero che mi seguirai ancora xD

 

Grazie, alle otto persone che mi hanno messa tra i preferiti. Mi dispiace non mettervi tutti per nome, uno ad uno (scrivo i ringraziamenti senza essere connessa, e mi secca mettere il filo prima del tempo), ma sappiate che tengo a voi, moltissimo. Grazie solo per aver letto.

 

Grazie anche ai semplici lettori casuali.

 

Inoltre, un ringraziamento tutto particolare e personale, per meriti tutti loro, va alle mie Tre Marie, le mie Tre Caravelle: la Nana, la Nipota, e l’altra parte di me stessa XD

Anche se non hanno letto tutto questo sproloquio, le devo ringraziare solo per avermi donato mille e mille spunti.

E’ grazie a loro, e grazie al mondo che mi circonda, se è nata Lsyn ed il suo mondo.

E’ grazie alla mia sorellina spirituale se Lsyn da’ calci nelle parti basse quando offesa. E’ grazie alle occasioni che mi offrono di psicanalizzarle che Tijorn è così maledettamente mamma chioccia.
grazie a loro, solo perché mi fanno morire dalle risate. Solo perché terrorizzo quando guido, solo perché la professoressa di spagnolo assomiglia così tanto ad un carlino, solo per le allusioni e perché gli uomini partoriscono macchinine pelose.

Grazie a loro di mille altre cose.

Grazie a loro semplicemente perché ci sono, e perché semplicemente io ci sarò per loro, comunque vada.

 

E grazie di nuovo a tutti!

 

Con la speranza che mi seguiate…beh…ci si vede al prossimo, che ben presto arriverà (promesso!).

 

Vostra oggi appiccicosa;

Akita.

 

 

 

 

E’ strano pensare che siano già passati dieci anni da quel giorno, in cui tornai lì dove era cominciato tutto. Dieci anni. Se confrontati con la mia lunga vita non sono altro che polvere nel vento, ma, come i cinquant’anni del mio lungo peregrinare vacuo ed invano, significano molte cose. E’ strano, pensare che sola ora io trovi il coraggio di scrivere, di prendere penna ed inchiostro e cantare le mie fallimentari gesta. Strano, fare paralleli tra quella che fui una volta, e quella che ora sono.

Di tempo ne è passato. È stato bello, veder crescere i propri affetti, vederli maturare, in quella vita  tranquilla e piena di sole che è la nostra.

Questi dieci anni sono passati a fare da zia, e da maestra. I piccoli sono cresciuti, e tanto, con mia enorme gioia.

Machin si è fatto davvero un bambino stupendo. Ha quei capelli di uno strano biondo rossiccio, con sfumature arancione, ed assomiglia tanto al padre. Ogni volta che lo guardo mi sembra di fissare Tijorn attraverso il tempo. Ogni volta che i suoi occhi mi fissano, mi viene un groppo alla gola. È un piccino vivace, un monello, forse un po’ troppo. Tuttavia, sa perfettamente quali sono i suoi limiti. Ci fa dannare, impazzire, ma, quando capisce di esser andato troppo in là, fa di tutto per farsi perdonare. È un gran coccolone, affettuoso e tenerissimo. Quando, un paio di volte, mi ha sentito piangere, ora che è più grande corre subito per vedere cosa è successo, e mi consola. Lo adoro, anche se è un po’ mattacchione, ed adora fare scherzi, soprattutto ai danni degli altri, poveri, piccoli. Mi duole dire che più di una volta sono stata costretta ad usare il bastone, con lui. Gli devo insegnare almeno un po’ di disciplina. Anche se non riesco ad essere dura, né ci riesce Amarto. Machin assomiglia tanto a me quando ero piccola!

È cresciuta anche Nilyan. È bella, una bella bambina, ed assomiglia tanto alla madre, ma ha i colori del padre, se si escludono gli occhi azzurri. Isnark la adora, tanto che, dopo il primo anno passato da me, non ce l’ha fatta, e mi ha costretto ad andare, per quattro giorni su sette, al castello, con tutta la tribù. Per i piccoli queste due case sono il massimo. Stare a Kyradon piace moltissimo soprattutto alla mia piccola Nilyan. A Sharilar, nella nostra casetta, non la lascio mai allontanarsi troppo con i grandi, nel bosco. Nel castello, invece, ha un esercito pronto a difenderla anche solo se qualcuno osi sfiorarle una guancia. Ha un carattere davvero particolare. Ama seguirmi, a casa, disegnare con me, oppure lasciare che io le insegni a leggere, è molto dolce, ma, quando si sfrena con mio nipote, diventa incontrollabile. Quei due sono come gemelli. Si coprono a vicenda, si difendono, e se qualcuno osa fare del male a Nilyan, Machin diventa aggressivo, e viceversa. Le punizioni sono sempre in due. Ci fanno impazzire. Un paio di volte li ho trovati appollaiati sul tetto della casa, a mangiare mele e sputare i semi quando qualcuno di noi passava. Quella volta non l’ha passata liscia,come non l’ha scampata Machin. Poi, nelle cucine del castello, hanno rubato un pollo arrostito. Nessuno sa che fine abbia fatto. Sono l’incubo della mia vecchia Nina, che comincia a fare i peli bianchi. Qualche volta le hanno mozzato la coda, povera, paziente cavalla. Quei due sono terribili, messi assieme. Peggio di me e Tijorn, un’associazione pura a delinquere. Anche se, lo confesso, un paio di volte sono stata io a punzecchiarli. Sono stata io, lo confesso, che ho dato loro l’idea di appendere ad un filo sottile il parrucchino di un Sacerdote, per poi sfilarlo durante una funzione. Ho riso tanto da farmi dolere la pancia. Isnark dice che per certi versi non crescerò mai. Però sono straconvinta che sia stato lui ad ordire la sparizione del pollo. Sono stata io, un paio di volte, a fuggire con loro, la zia mattacchiona. Ogni tanto mi diverto così. È bello non togliersi i semplici piaceri della vita. Ho voglia di ritornare ad essere un po’ bambina. E poi, un paio di volte sono stata aiutata da Amarto. Anche lui si diverte, dice che così ritorna giovane. Mi dice sempre che il ruolo di nonno gli si confà molto. Al che Dae gli da uno scappellotto sulla nuca. Mi sono abituata alla presenza solida dell’elfa. Mi aiuta molto, quando sono triste. Mi aiuta a stamparmi in faccia un sorriso, e riprendere a lottare.

Roxen e Chekaril sono i piccoli più belli del mondo. Mia figlia è cresciuta, in questi anni, in una maniera impressionante, e sta cominciando, lentamente, a sbocciare in una bellissima giovane. Ora che i tratti infantili cominciano a svanire, mi assomiglia sempre di più. Ogni mese le devo allungare gli abiti. Tra qualche anno raggiungerà il Maestro. Porta sempre i capelli molto lunghi, ricci e neri come i miei. Ama stare con me, chiacchierare con me, aiutarmi con i più piccoli. Non è, tuttavia, una persona molto dolce. Ha una forza spaventosa, una volontà ferrea e cieca. Come me, la sua forza magica è quasi assente. Maga da strapazzo come la madre. E’ testarda come un mulo, e non si lascia influenzare da nessuno. Mi rende fiera. Quando la vedo mi ringalluzzisco. A lei, oltre che a Nysha e Manolìa, sto cominciando a dare rudimenti di scherma. Dopo le prime volte, disastrose sotto ogni punto di vista, ci sta provando gusto. Mi ha assestato un paio di colpi niente male. Si vede l’influenza materna, altroché. Mi rende così fiera, così felice, che stia seguendo i miei passi, in modo sano. Mia figlia diventerà un’elfa felice, nonostante tutto il dolore che ha sopportato. Sto recuperando, lentamente, il tempo che come madre non ho avuto, con successo. Si fida ciecamente di me, come il fratello, anche se mi chiama ancora zia. Anche Chekaril sta crescendo. Diventerà un bellissimo giovane. Ahimè, anche lui mi sta superando in altezza. Tra breve ritornerò la più piccina della famiglia. La cosa non mi piace, visto che sia Machin che Nilyan sono già alti quanto me. Da un po’ di tempo, il mio piccolo mi sta innervosendo. Non mostra minimamente propensioni per le armi, e non riesce nemmeno a sfiorare un bastone senza farsi del male. È tutto il contrario del padre. L’ho visto, minacciosamente, interessato molto alle erbe, alle pozioni, e tutti gli altri trucchi da Guaritore. Temo il giorno in cui mi verrà a chiedere il permesso per entrare nel Lazzaretto, un luogo che lui, quando siamo a Kyradon, frequenta assiduamente. Spero solo che sia un’infatuazione momentanea. Tuttavia, quando verrà il momento, non impedirò nulla. È la strada che lui si è scelto. Ed io sarò comunque fiera di lui. So che sarà il migliore di tutti. Mi fido di lui, ciecamente.

Amarto sta invecchiando. L’ho visto, l’altro giorno, tenersi la schiena.

Sto invecchiando anch’io, lentamente.

Ho appena tre secoli e dieci anni, ma mi sembra di essere vissuta per millenni. Mi sento stanchissima, e vecchia, decrepita.

Stiamo, per il resto, tutti bene.

Isnark si è ripreso dal suo lutto. Si comporta davvero bene, come papà e come sovrano. Non ho nulla da rinfacciargli, come Ch’argon e come amica. Sono quasi riuscita a superare la paura nei suoi confronti: ormai parliamo come vecchi amici. Sono davvero contenta, di questo. Abbiamo entrambi a cuore la sorte di Nilyan. Lui è davvero iper protettivo nei confronti della figlia, una seconda mamma chioccia. La prima, ovviamente, sono io. Poi c’è anche Dae. Tutti e tre, tuttavia, non riusciamo a capire perché accidenti lei riesca, con Machin, a svicolare sempre dai nostri controlli. Qualche volte li abbiamo dovuti ripescare per le orecchie addirittura dal Lazzaretto. Le punizioni sembrano sortire sempre l’effetto contrario. Spero solo che, crescendo, si calmino un po’.

I miei amici, Capouille, Zipherias e Benagi, sono sempre gli stessi. Sono i tre zii dei piccoli. Nella loro innocente crudeltà, spesso, Nilyan e Chekaril prendono di mira il mio povero, timidissimo amico dai capelli rossi, e lo prendono in giro. Lui non sa come difendersi. Ma so che i bambini lo adorano. È sempre lui che li vizia con qualche chicca. Sembra non potervi resistere. Zipherias è più burbero, ma io so che li adora. I piccini non osano giocare sulla sua zoppia. L’ultima volta che l’hanno fatto hanno ricevuto una bastonata a tradimento. Eppure, il grande elfo dagli occhi d’oro è il loro perenne guardiano. Non li lascia mai. Spesso io e lui siamo gli addetti alle favole della buonanotte. Tutti e tre mi vogliono bene come sempre. Benagi è paziente come sempre, Capouille si fida di me, Zipherias è morboso. Ma tutti e tre mi proteggono, mi sostengono, e mi amano. La loro compagnia mi fa bene.

Da un punto di vista strettamente territoriale, la vita non va così bene. Siamo sempre in pace vigile con il Regno, satollo, preoccupato solo di consolidare i propri confini. Ultimamente abbiamo avuto un’invasione di esseri umani. Essi ci raccontano le storie più terribili. Villaggi bruciati, messi a fuoco, uomini e ragazzi massacrati senza pietà, o mandati a fare gli schiavi. Famiglie senza più casa, perché la loro abitazione è stata presa da degli elfi. Qualcuno ci ha raccontato di uomini portati a Galinne, dove non si sa più niente di loro. Conosco voci agghiaccianti in merito. A quanto pare, la sperimentazione di nuove tecnologie avviene su cavie umane. L’usanza, ormai consolidata, d’istituire duelli tra uomini o combattimenti con delle bestie, nelle capitali elfiche, bagni di sangue spaventosi, ha grande seguito. Quando mi hanno raccontato di uno di quegli spettacoli mi sono sentita male. La miseria regna sovrana. È una situazione difficile, orribile. I regni umani rimasti integri sono sempre più poveri. Tuttavia, a quanto pare, si sta formando un nucleo molto forte di resistenza, concentrato soprattutto nella vecchia patria di Regis, Fiya. È incredibile la forza di volontà di quegli insetti. Gli umani liberi si stanno dando molto da fare. Sotto sotto, la tecnologia bellica sta facendo passi da gigante. Comincio a temere una nuova, devastante guerra, prima che i piccini abbiano completato la loro crescita. Io ed Isnark stiamo cercando di essere il più diplomatici possibile, ma è difficile. Per fortuna, Lainay non fa molto caso al mondo esterno. Le spie a palazzo ci dicono che è sempre molto assorbita nell’allevare il suo piccino, proteggendolo come se fosse un tesoro prezioso. A quanto pare, il povero Kamarducil non ha il permesso di uscire, né di imparare a combattere. Lainay lo vizia, lo fa vivere nella bambagia. Dicono che gli assomigli molto, ma che abbia un bel carattere. Dicono che sia molto gentile, buonissimo, educato. La madre non sa dirgli di no. È innamorata di lui. Il padre è rimasto sconosciuto, tuttora. Spero che questa situazione duri a lungo. In ogni caso, ci aspettano ancora molti anni di pace, ed io ne voglio approfittare. I miei piccoli devono vivere sereni.

Fino a pochi mesi fa, non avevo minimamente intenzione di riprendere a scrivere. La mia vita era assorbita dalle piccole faccende quotidiane, ed ero troppo stanca. In quel periodo, tuttavia, gli incubi si erano intensificati, ed avevo preso a stordirmi ogni volta, all’insaputa di tutti, con del sonnifero. Ogni volta ce ne voleva sempre di più, ed io non sapevo cosa fare, assolutamente. Stavo sempre peggio, ed avevo preso a trattare male anche i bambini. Nessuno capiva cosa avessi. Avevo dimenticato le parole di quel saggio giovane dai capelli d’argento, avevo dimenticato l’infusione di vita che era stato l’ultimo regalo di Regis. Avevo dimenticato cosa voleva dire aprirsi al mondo. non parlavo di Tijorn da un bel po’ di tempo. Quando andavo da lui ed Akita non parlavo. Spendevo tutta la mia forza per piangere. Mi sentivo più debole che mai. Una sera, davanti al camino acceso, stavo ascoltando Nilyan leggere. Avevo preso gusto per un libro che nel Regno era proibito, un libro che io mi ero nettamente rifiutata di leggere. A quando avevo capito, lì si parlava di Regis, delle sue gesta nella sua permanenza da noi. Non volevo sapere nulla su di lui. Non volevo sapere com’era andata a finire. Volevo ricordarmi di lui come un’ombra venuta a donarmi la vita. Così, usavo quel libro, che mi ero rifiutata anche di toccare, come allenamento per Nilyan, che doveva imparare a leggere. Così, stravaccata sul divanetto, l’ascoltavo incespicare, correggendola di tanto in tanto. Doveva essere l’ultima pagina, o almeno una delle ultime. La sua vocina acuta m’ipnotizzava.“…l’abbiamo…chia…chiamata…Atla…Atala…zia?”. Mi chiese lei, improvvisamente curiosa. Io mi voltai verso di lei. Il suo visino tondo mi fissava, illuminato dal camino, circondata dalla sua zazzera di capelli crespi e bianchi. “cos’è Atlantis?”. Mi scrollai nelle spalle. Non so perché, ma non avevo la minima curiosità per quel luogo, dovunque fosse. Bah. Mera leggenda. Doveva avere qualche fondo di verità, ma non era la città perfetta in mezzo al mare che tutti descrivevano. Mah. Io ero perplessa. “non lo so, tesoro”. Dissi, schietta, con un sorriso stanco. Il suo entusiasmo non parve frenarsi, anzi. “ma secondo me dev’essere bellissima”. Affermò lei, sicura. Io scrollai leggermente il capo. Nilyan era una sognatrice. Era una bambina, in fondo. “quando sarò grande ci andrò!”. Io annuii lievemente, distratta dal nulla, senza più prestare attenzione, e le feci cenno di continuare. Lei obbedì, docilmente. Ascoltai il resto con un orecchio solo, distratta. Prima o poi, anche lei si sarebbe dovuta confrontare on la realtà, lo sapevo. Sentii, sempre di più, man mano che andava avanti, uno strano senso di disagio. C’era qualcosa che premeva agli angoli del cervello. Qualcosa che mi sfuggiva in continuazione. Ascoltai Nilyan muovendomi a disagio sulla sedia. C’era un pungolo che non voleva lasciarmi andare. “…permettere che…il rico…ricordo del maestro…”. Incespicò Nilyan. Io deglutii. Il maestro. Regis. Scossi la testa quando m’invasero centinaia di ricordi, io avevo conosciuto quell’uomo, l’avevo amato. Il ricordo dei suoi baci era ancora rovente in me, faceva ancora male e bene allo stesso tempo. E di tutte le cose che mi aveva detto. Presi ad immergermi nei ricordi dell’ultimo girono in cui l’avevo visto, di quegli ultimi attimi preziosi. “e di ciò che ha fat…fatto per tutti noi si per…perda nel tempo”. M’irrigidii. Non solo quello che egli aveva fatto. C’era stato anche qualcun altro che mi aveva dato una solenne lezione di vita. Scrivere. Che cosa buffa, che tipo buffo, quell’Erik. Al momento non avevo quasi fatto caso alle sue parole, quelle sagge parole che, com’è ovvio, per un attimo non si capiscono. Però ora sentivo di essere matura per quell’insegnamento. Non feci più caso a ciò che disse Nilyan. Scrivere. Avevo una notte intera per confessarmi sulla carta, per raccontare le mie meschine disgrazie a quel testimone muto. Avevo una notte intera, e altre notti, altre notti ancora. La mia storia attendeva solo di essere scritta. Misi a letto la piccina con uno strano senso di stordimento, dopo essermi complimentata con lei. Il mio cuore aveva bisogno di essere messo in ordine. Dovevo capire cosa provavo. Dovevo capire perché ero così, o sarei morta di crepacuore. Raggiunsi la mia camera in un lampo.

Mi sedetti, e presi un foglio intonso. La penna era già intrisa d’inchiostro.

Il cuore mi batteva come un tamburo. Sapevo che, prima o poi, sarebbe stato più tranquillo.

Ben presto, mi resi conto che le parole sgorgavano a fiotti, come le lacrime.

Non smisi più di scrivere, alternando gironi amorevoli con notti furiose, disperate, tristi o divertenti.

La mia vita.

Cinquant’anni di vita.

E così, mi confrontai con me stessa, senza mediazioni o dolcezze.

Capii così, cos’ero un tempo, e cosa sono ora.

 

Un tempo ero Lsyn Amarto, altresì chiamata Ombra. Un terribile incidente mi rovinò la vita, un incidente che ora reputo quasi benedetto, che mi stravolse e mi distrusse. Distrusse la bestia ricca e tronfia che ero. Fui Nanetta, ragnetto, la bambina da proteggere sempre. Quanto il tempo cambia le cose. Ora sono qui, e solo ora l’ho capito. Sono Lsyn, Lsyn Amarto, ma non sono più una Spia, un cane. Ho sacrificato la mia vita per salvare i miei familiari. Ora sono zia, e madre. Ora sono Ch’argon di Uruk. E me ne vanto.

Un tempo ero libera, libera come il vento, o almeno così mi pareva. Capisco che quello, in quel tempo, non era altro che una gabbia più grande delle altre, una gabbia dorata. Potrei, ora, sembrare prigioniera. Ma le catene che mi sono imposta da sola mi rendono più felice e libera di molte altre persone.

Un tempo servivo una tiranna pazza, che mi usava come suo personale gingillo, e di un fratello che io amavo, ma che non mi amava, e mi usava. Ora servo solo me stessa, me stessa e le persone che amo.

Quel viaggio, quel viaggio che io avevo a tutti i costi cercato di concludere, era finito in tragedia. Molti punti rimangono irrisolti, e tanti altri restano ancora, per noi, un mistero.

Ciò che è accaduto in soli cinquant’anni ha avuto il pregio ed il difetto di distruggermi, di schiantarmi completamente.

Ma non mi sono arresa. Ho imparato dai miei errori che cercare di finire una vita, uccidersi, in mille modi, è una cosa praticamente inutile. Perché gli incubi vengono a tormentarti anche nella morte.

Ora vago, vago tra le macerie di quella che un tempo fui, cercando d’intravedere qualcosa, una luce a cui aggrapparsi per edificare un nuovo, meraviglioso palazzo, cento e cento volte più bello di quello di prima. È ancora lungo, quel processo che mi poterà alla fine, ed il mio viaggio è ancora tutto all’inizio, un viaggio che è lungo quanto la mia vita.

Ciò che mi è accaduto, il fuoco, sangue, cenere e lutto che ho provocato e che mi hanno provocato non mi hanno tarpato le ali. Avrei potuto chiudermi in un silenzio volontario, impazzire, ma non l’ho fatto.

Ho deciso, quando è stato troppo, di aprire il mio cuore ad un pezzo di carta, ad un calamaio pieno d’inchiostro.

Ho voluto riportare quello che mi è successo, sanguinando nel cuore per vecchie ferite che non si chiuderanno mai.

Ho voluto seguire un consiglio che mi fu dato anni fa, quando uno strano giovane m’interpellò, un giovane dai capelli d’argento che era venuto e tornato al nulla nello spazio di pochissime ore. Una flebile luce, in un momento che altresì sarebbe stato il più oscuro della mia intera esistenza, che nel buio ci ha navigato.

Ho scritto, mettendo sulla carta le mie cicatrici, senza nemmeno sapere perché, senza nessuno scopo, tranne quello di mettere ordine nel mio cuore.

Non è stato bello. Ho penato, china sul mio scrittoio, ho tremato, pianto addirittura. Mille e mille volte ho gettato tutto via in un impeto di rabbia pura, di dolore, e spesso tutto quello che mi faceva calmare era un abbraccio ed un sorso di amaro tranquillante. È stato difficile, questo viaggio a ritroso nei miei errori, negli incubi che ancora mi fanno svegliare, urlando, di notte.

Perché io non ho dimenticato, né dimenticherò mai. Nella mia vita si aggirano troppi fantasmi.

Mi chiamo Lsyn Amarto, ed un tempo ero una figlia delle Spie. Un tempo amavo un Principe, che teneva a me come alla migliore delle sue concubine. Questo principe è morto sotto i colpi della mia crudele spada.

Lsyn Amarto un tempo aveva un bel fratello maggiore, che l’amava come se stesso.

Ora questo fratello è cenere, cenere muta e fredda, stretta in un immortale abbraccio con l’elfa che per suo figlio ha donato la vita.

Un tempo ero adulata.

Ora sono io a rifuggire la vita mondana. Rinuncio, rinuncio a qualunque forma di vita personale, tutto in favore di quegli adorabili marmocchi, quelle creature che stanno crescendo libere e serene, libere di vivere come a loro aggrada.

Rinuncio a me stessa. Sto rinunciando a me stessa.

Eppure, non mi abbatterò mai.

Aspetto. Cosa, non lo so, forse che il mio destino si riveli, palese come un filone d’oro, o forse che i tempi maturino abbastanza da permettermi di fare capolino di nuovo nella vita a cui rinuncio volontariamente.

Ciò che posso fare è combattere, combattere nell’attesa che il momento della rivalsa giunga.

Ed io lo sento. Sento che questo momento di anno in anno si fa più vicino.

Ineluttabile, fredda, inesorabile, la resa dei conti si avvicina, ghignando.

Io l’aspetto. L’aspetto con un sorriso sul volto, alle spalle la mia famiglia.

Per cinquant’anni sono stata la pellegrina, l’oscura viaggiatrice.

Ora sono e sarò qualcos’altro. Il mio cammino è ancora per la maggior parte oscuro, ma io mi sono portata una lampada dietro.

Il destino non mi frega. Non più.

Ed ho capito una cosa, la sola cosa che vale davvero in questo mondo.

La fedeltà non vale ad un accidenti.

L’onore è un vanto per gli sciocchi.

L’amore non è altro che rinuncia, rinuncia per gli altri.

L’altruismo non è altro che far star bene il prossimo per stare bene.

La rassegnazione è solo consolazione per le anime deboli.

Il dolore spinge a lottare, ad interrogarsi.

Ad interrogarsi per la vita, a combattere con le unghie e con i denti per conquistarsi un posticino in un mondo che è indifferente nei tuoi confronti, e tanto può elevarti nella luce, quanto, nell’attimo dopo, buttarti nel più sudicio fango.

Il dolore incita a non abbandonarsi al dolore.

E’ questo quello che ho imparato nella mia vita, nelle lunghe notti insonni, passate a riempire pagine e pagine di inutili parole, notti in cui mi addormentavo con il naso sul piccolo e rozzo diario, notti rischiarate da un’unica, debole, candela.

Giorni in cui mi vedevo nello specchio, e vedevo una creatura a metà trasformata in un mostro.

Non mi sento meglio, ora che so di aver finito.

Perché nulla è finito.

Il mio viaggio è solo all’inizio.

Ed io lo so.

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