Pezzi di nastro

di phoenix_esmeralda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Accettata ***
Capitolo 2: *** Una buona dose di pazienza ***
Capitolo 3: *** Ostinato incosciente ***
Capitolo 4: *** Malattia ***
Capitolo 5: *** Nessuna pietà ***
Capitolo 6: *** Costo a sorpresa ***
Capitolo 7: *** Pezzi di nastro ***
Capitolo 8: *** Quello che è giusto ***
Capitolo 9: *** La Roccaforte ***
Capitolo 10: *** Il Granduca ***
Capitolo 11: *** Il senso di un sacrificio ***
Capitolo 12: *** Promessa ***
Capitolo 13: *** Carte e dadi ***
Capitolo 14: *** Il giorno dopo ***
Capitolo 15: *** L'ultima fasciatura ***
Capitolo 16: *** Quel bene che ritorna ***
Capitolo 17: *** Rispetto ***



Capitolo 1
*** Accettata ***


L’aggressività è il più grande segno di debolezza che un uomo possa mostrare. Se si comporta in modo aggressivo con te, significa che si sente talmente vulnerabile, da attaccare prima che tu possa anche solo pensare di ferirlo.”

 

“Sì, mamma”

 

“Ricordati, Helaida, che dietro ai comportamenti delle persone si nascondono sempre i loro pensieri, i loro sentimenti, la loro esperienza di vita. È fondamentale tenere presente  questo, per comprendere veramente il significato dei loro gesti. Altrimenti giudicherai sempre male.”

 

“Papà, me lo ricorderò.”

 

“E se il male genera altro male, perché il bene non dovrebbe produrre del bene?”

 

“Non c’è motivo per cui non lo faccia.”

 

 

Crebbi in compagnia di queste parole: insegnamenti che, nella mia famiglia, erano supportati da tanto fervore e tanta abnegazione da impregnare le pareti dei muri di casa, il cibo che mangiavamo e i sentimenti di tutte noi.

Non avevo mai viaggiato né incontrato persone al di fuori della cerchia più stretta delle mie conoscenze: gente mite che rinforzava la visione della vita trasmessami dai miei genitori.

Non sapevo potesse esistere qualcuno che, con tutta la sua forza, si imponeva di percorrere una strada completamente opposta.

Né sapevo, allora, che le parole dei miei genitori mi avrebbero salvato la vita.

 

 

1

 

- Helaida... il Granduca ti ha accettata!

Sollievo e orrore mi travolsero in egual misura, costringendomi a cercare un sostegno nella credenza alle mie spalle.

- Hai origliato, Lana?

- Non ho potuto farne a meno... ero talmente in ansia!

Non mentiva, lo sapevo: Lana era la sorella a me più vicina - ci separava solo un anno e mezzo - e la maggior parte delle esperienze dei miei diciotto anni di vita l’avevo vissuta accanto a lei.

- Dunque è deciso?

- Sì, ma... Hela, quell’uomo che è venuto a parlare con mamma e papà dice che dovete partire immediatamente!

- Oggi?

Annuì, con gli occhi chiari sfumati d’angoscia.

- Non piangere, Lana, lo sai che è la cosa giusta.

Deglutì e fece un cenno d’assenso con il capo.

- E poi non ho bisogno di tempo per prepararmi – aggiunsi – Non ho nulla da portare con me, se non un cambio d’abito e un paio di libri.

Se io, che ero la figlia del barone, mi ritrovavo talmente povera da non avere bagaglio, quanto più doveva soffrire la gente delle mie terre?

Mio padre raggiungeva ogni giorno a cavallo i nostri affittuari, lavorava con loro, divideva equamente tra le famiglie i frutti dei campi; ma il Granduca chiedeva sempre di più ogni mese: aumentava le tasse, affamava la nostra gente e puniva severamente chiunque tentasse di opporsi al suo volere.

Dieci anni fa aveva acquisito le nostre terre e tutte quelle confinanti quando, alla fine di una lunga guerra, il nostro vecchio sovrano aveva dovuto cedere buona parte dei suoi possedimenti. Da allora ci eravamo impoveriti, ogni anno sempre più, fino ad arrivare a una condizione di tale indigenza da dover assistere impotenti alla miseria più completa e devastante della nostra gente.

Il popolo iniziava a morire di fame. A morire davvero.

- Hela...

Rika mi scrutava dalla soglia della porta, gli occhi acquosi di lacrime, il mento tremante.

- Mamma e papà ti vogliono di là.

- Vado.

- Hela... non lasciarti portare via subito!

Scossi la testa, cercando di darmi un’aria insofferente – Anche tu hai origliato? Ma le buone maniere che vi hanno insegnato con tanta cura dove sono finite?

Il mento le tremò con maggior violenza e immediatamente accantonai ogni proposito di rimprovero.

- Oh, Rika, se è necessario che io parta immediatamente, partirò. Non dobbiamo irritare il Granduca, sai, dobbiamo pensare alla nostra gente.

Aveva solo undici anni, ma sapevo che poteva comprendere: non aveva vissuto alcuna infanzia rosea lei, era nata durante la guerra e cresciuta tra privazioni di anno in anno sempre più acerbe.

La lasciai con un sorriso di incoraggiamento e mi diressi verso il salone, davanti alla porta chiusa del quale, accovacciate e con l’orecchio attento oltre l’uscio, scorsi altre tre delle mie sorelle: Alama, tredici anni, Jolanda, nove, e Sophia, sette. Rowanda mancava solamente perché, a tre anni, non nutriva ancora sufficiente cognizione da comprendere cosa stesse accadendo.

Gettai a tutte quante occhiatacce di disapprovazione e le allontanai a suon di smorfie, sistemai il vestito, raddrizzai le spalle e attraversai la soglia incontro al mio destino.

- Helaida, avvicinati.

Mio padre indossava il migliore dei suoi vestiti che, tuttavia, non era scevro di rattoppi sui gomiti e lungo gli orli; mia madre invece, meno incline a scorazzare per i campi, vantava un aspetto più curato e meno sdrucito.

- Il Granduca ha accettato la nostra richiesta – proseguì, cercando di mantenersi calmo quando invece nel suo sguardo scorgevo tanta eccitazione quanta disperazione – Abbiamo patteggiato meno tasse, più cibo, più libertà. Lo scambio è vantaggioso e risolleverà le sorti della nostra gente.

Annuii, sforzandomi di sorridere. Quello che mio padre stava dicendo era che ce l’avevamo fatta. E che io ero perduta.

- Questo è il signor Tristan Arsediel – aggiunse mia madre, portando finalmente la mia attenzione all’uomo in piedi di fronte a loro – È stato inviato dal Granduca a riferirci la notizia e ti scorterà fino a lui.

Chinai il capo verso l’uomo in segno di rispettoso saluto, ma lui non ricambiò. Mi gettò un’unica occhiata indifferente, sporcata di un’arroganza che mi indispettì.

Era alto e asciutto, la pelle scurita dal sole; i capelli folti e scompigliati, neri come la notte, gli incorniciavano selvaggiamente il volto. Aveva occhi torbidi: non neri, mi accorsi, ma piuttosto fumosi come un falò di legna bagnata.

Non era una persona in grado di far sentire gli altri a proprio agio, si presentiva in lui un temperamento nervoso, quasi violento. La mascella contratta, i muscoli tesi pronti a scattare, lo rendevano minaccioso nonostante l’apparente immobilità.

Non doveva avere più di trent’anni, probabilmente meno, e tuttavia c’era qualcosa in lui che lo faceva sembrare molto più vecchio della sua età. Non nell’aspetto fisico, no... Piuttosto nello spirito. Uno spirito invecchiato all’improvviso.

- Helaida?

La voce di mia madre mi riscosse da quell’analisi. Avevo fissato quell’estraneo troppo a lungo e troppo apertamente, dando modo di apparirgli maleducata. Ma lui sembrava non aver neppure notato il mio sguardo.

- Vi ringrazio di essere venuto – dissi, incerta su come comportarmi in quel frangente – Quanto tempo mi date per prepararmi?

Il suo sguardo mi raggiunse ancora per un solo, brevissimo istante. Sembrava che i suoi occhi non riuscissero a restare sullo stesso soggetto per più di qualche secondo.

- Una mezzora vi sarà sufficiente – rispose. Il suo tono non ammetteva possibilità di repliche e così non replicai. Chinai il capo in cenno d’assenso e uscii.

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Capitolo 2
*** Una buona dose di pazienza ***


2

 

- Hela, abbiamo una cosa per te.

Le mie sorelle, tutte e sei dalla più piccola alla più grande, entrarono in fila indiana nella mia stanza. Le osservai posizionarsi composte davanti a me, una serie di testoline brune, alcune più scure, altre più sfumate, in silenziosa attesa. Erano giorni che cercavo di abituarmi all’idea di perderle, ma non ero ancora venuta a patti con questa realtà.

- Abbiamo messo insieme tutti i nostri averi, ma non siamo riuscite a prenderti che questo.

Lana alzò le mani e mi mostrò un nastro turchese nuovo, lucente. Ricacciai le lacrime in fondo al cuore e le abbracciai tutte una a una, non riuscivo a credere che non le avrei riviste mai più.

 

Salutare i miei genitori non fu più semplice: eravamo una famiglia affettuosa, abituata alla compagnia e al contatto fisico, non c’erano mai state separazioni, né brevi né lunghe e questo addio fra di noi suonava come qualcosa di alieno.

- Il bene che stai facendo tornerà egli stesso a ricompensarti, Helaida – disse mio padre, in un ultimo abbraccio.

- E qualunque cosa accada, non dimenticarti chi sei e come sei – aggiunse mia madre. Nutrivano uno sviscerato attaccamento per le frasi intense e io mi ero sempre imbevuta di esse. Raccolsi a coppa le loro ultime parole nelle mie mani e le riversai nel mio animo.

E, a quel punto, non restò che andarmene.

 

L’occhiata che mi riservò Tristan Arsediel la disse lunga sul mio lungo abito sdrucito, sui miei capelli mossi legati con il nastro azzurro in una coda alta e disordinata e sulla minuscola borsa che rappresentava il mio bagaglio.

- Il vostro cavallo? – domandò sprezzante.

- Non ho un cavallo, l’unico che possediamo serve a mio padre.

- E come pensate di viaggiare?

Lui teneva per le briglie un esemplare splendido: imponente, dal pelo lucido e di forma smagliante. Avrebbe sostenuto entrambi senza difficoltà, ma pareva evidente che non intendeva offrirmi aiuto.

- Andrò a piedi – dissi, stringendomi nelle spalle.

Lui rise, ma di un ghigno sarcastico che mi fece rabbrividire.

- Siete pietosa! Molto bene, camminate, ma non azzardatevi a lamentarvi per la stanchezza, il mal di piedi, la sete o il caldo, o qualunque altra cosa possa risultarvi spiacevole. Vi assicuro che non sono un compagno di viaggio gradevole e basterà molto poco per farmi irritare.

- Non mi è difficile immaginarlo.

Mi afferrò un polso con violenza e mi strattonò verso di sé.

- Non siate arrogante con me, ragazzina. Da voi pretendo occhi bassi e bocca chiusa, obbedienza cieca e rispetto; questo inizierà a mettervi dell’avviso di ciò che vi accadrà alla Roccaforte.

Mi strappò di mano la borsa, legandola al fianco della cavalcatura; poi montò in sella e mandò il cavallo al passo.

Ero abituata a camminare a lungo: le passeggiate erano tra i pochi svaghi che mi erano rimasti, poiché non costavano nulla. Così mi affrettai a seguire il cavallo ad andatura sostenuta, badando di mordermi la lingua per non replicare alle male parole di Tristan Arsediel.

 

La possibilità di offrirmi al Granduca era stata a lungo discussa, prima di arrivare alla sofferta, soffertissima, decisione finale. 

Ciò che il Granduca Roman Fedar chiedeva ai baroni e ai conti delle sue nuove terre acquisite era la più completa sottomissione, che si riconduceva all’offerta delle proprie primogenite per il suo già gremito harem. Chiunque negasse il proprio personale contributo, veniva oppresso e schiacciato fino a ridursi a veder morire di fame la propria gente. Così, uno alla volta, tutti i signori si erano ritrovati a cedere e ad offrire le proprie figlie in sacrificio per il bene delle proprie terre; erano rimasti in pochi ancora a resistere e mio padre era stato, fino a pochi giorni fa, tra quelli. Ma la situazione si era fatta insostenibile e, dopo lunghe riunioni familiari, era stato decretato il mio sacrificio.

Le voci che arrivavano dalla Roccaforte circa la crudeltà del Granduca Roman Fedar non avevano facilitato la decisione: non si trattava solo di offrirmi a un harem, ma ad una vera e propria vita di supplizio. L’avevo accettato, certo, mi sentivo pronta. Ma anche terribilmente spaventata.

 

Per mia fortuna non mancavo di ostinazione, così, quando i miei piedi da indolenziti si fecero insopportabilmente doloranti, strinsi le labbra e continuai a camminare. La velocità, la mancanza di soste e di acqua e le distanze che mai si colmavano mi avevano sfinita fin quasi a perdere i sensi, e tuttavia non cedevo: l’arroganza di Tristan Arsediel e la sua cafoneria mi avevano a tal punto indisposta da preferire i piedi sanguinanti alla prospettiva di dargli soddisfazione.

Quando, al tramonto, entrammo in un villaggio e ci fermammo presto un’osteria per la cena, per poco non svenni dal sollievo. Ma non avevo previsto quello che sarebbe venuto.

- Avete soldi per pagarvi la cena? – mi domandò gelidamente il mio compagno di viaggio, mentre sedevamo a un tavolo.

Alzai su di lui un paio di occhi sgranati che dicevano, con tutta chiarezza, che non avevo una sola moneta in tasca. Pensavo avrebbe pagato lui... Ero o non ero diventata proprietà del Granduca?

Beh, evidentemente non ancora, perché Tristan Arsediel ordinò minestra e carne per sé lasciandomi a bocca asciutta.

- Se non avete i soldi per comprarvi da mangiare, digiunerete – commentò, nella più assoluta indifferenza – Ma se non potete neppure pagarvi una stanza per la notte, dovremo ripartire e cercare un luogo dove accamparci.

Le sue parole mi scivolarono lungo la schiena come ghiaccio e non potei trattenere un sussulto di sconforto: ero affamata, affamata da morire dopo tanto cammino, e andando a piedi mancavano ancora giorni all’arrivo alla Roccaforte. Avrei dovuto digiunare tutto il tempo?

L’indifferenza con cui Tristan Arsediel masticava davanti al mio sguardo sofferente mi diceva che sì, avrei digiunato, a meno che non mi fossi messa a raccogliere radici e bacche per strada sperando di non morire avvelenata.

- E voi, figliola, non mangiate? Sembrate così stanca, dovreste mandare giù qualcosa!

La locandiera, paffuta e gioviale, mi rivolse uno sguardo di comprensione. Appoggiò la caraffa di vino di fronte a Tristan e aspettò una risposta che le mie labbra si rifiutarono di dare.

- Non ha soldi per pagare – disse lui, al posto mio.

- Non ha soldi per pagare? – La locandiera mostrò con evidenza tutta la sua costernazione – E voi non potete offrirle qualcosa, giovanotto? Non posso certo credere che la lascerete patire la fame, mentre voi v’ingozzate!

- Potete crederlo, invece.

Il tono di lui era sufficiente a smorzare ogni dissenso, la sua voce si colorava di una perentorietà che sfiorava senza malintesi la minaccia.

- Oh, bene! – lo rimbrottò la donna, incrociando le braccia sopra il seno – Vorrà dire che farò io la vostra parte e offrirò di mio pugno la cena alla vostra accompagnatrice!

Non credetti ai miei occhi, quando un piatto ricolmo comparve davanti alla voragine del mio stomaco. Tristan non commentò, mentre divoravo tutto ciò che la donna mi offriva né disse nulla quando mi sperticai in ringraziamenti, ma fui certa di scorgere del disappunto sul suo viso.

Per qualche motivo, l’uomo inviato a scortarmi dal Granduca mi disprezzava. Non poteva trattarsi di qualcosa di personale: mi aveva detestata dal primo momento in cui aveva posato su di me il suo sguardo, prima ancora che io avessi aperto bocca o fatto alcunché, e questo lo rendeva pericoloso, poiché godeva nell’umiliarmi e nel mettermi in difficoltà.

Credevo che le mie pene avrebbero avuto inizio con l’arrivo alla Roccaforte, ma era chiaro che già questo viaggio mi avrebbe fatto consumare una buona dose di pazienza.

 

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Capitolo 3
*** Ostinato incosciente ***


3

 

 

Dopo una notte all’addiaccio, tornare a camminare a passo sostenuto dietro alla cavalcatura di Tristan Arsediel nel mezzo di un bosco fu un tormento; ma ancora di più lo fu il momento del pranzo, quando ci accampammo per riposare e lui mangiò pane e formaggio di fronte a me, senza offrirmene un solo pezzetto. Potei solo bere l’acqua del torrente che stavamo fiancheggiando e quello dovette bastarmi.

- Avete fame? – mi schernì, mentre cercavo di non dargli a vedere il mio disagio – Dovete solo incolparne i vostri genitori, che non hanno avuto il buon senso di darvi neppure una moneta.

- Sapete perfettamente, perché non avevano soldi da darmi – ribattei, respirando a fondo per non cedere all’ira.

- Sciocchezze. È evidente che, con sette figlie femmine, una in meno non può che fare comodo. Si sono liberati di voi come di un fardello, senza preoccuparsi se durante il viaggio sareste stata bene o meno. Se mi sforzassi, potrei quasi provare compassione per voi, Helaida.

Non comprendevo il suo atteggiamento ostile. Come poteva accusare i miei genitori di freddezza, quando il suo padrone aveva stretto le nostre terre nella morsa di un assedio senza speranza?

- Tristan, guardatemi. Nel mio bagaglio ho un solo vestito e un libro che appartiene alla mia infanzia, le mie sorelle hanno messo insieme tutti i loro averi per comprarmi il nastro che ho tra i capelli.... e la mia famiglia è la più ricca del paese. Come pensate vivesse il resto del paese? Credete davvero che i miei genitori abbiano sbagliato?

Un sorriso di scherno gli tirò gli angoli della bocca – Ne riparleremo dopo che avrete incontrato il Granduca, damigella. Se siete così tranquilla, è solo perché non avete sentito le voci che girano sul suo conto.

- Le ho sentite, invece.

- Oh, davvero? Roman Fedar è un uomo violento, Helaida, sadico e privo di morale: ciò che vi attende è l’inferno.

Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo.

- Lo so. Lo so, ma il mio è un sacrificio, giusto? E non ci si aspetta che sia piacevole. È così che deve essere, non credete?

- Voi siete matta. Penosa e matta.

Si alzò in piedi ricomponendo la sacca, poi si avvicinò al cavallo per riporla, ma proprio in quel momento qualcosa di terribilmente grosso e rapido sbucò dagli alberi, passando in mezzo a noi a zigzag.

Riconobbi a malapena un cinghiale spaventato, prima che la macchia grigia tornasse a infossarsi tra la vegetazione, ma ciò fu sufficiente al cavallo di Tristan per imbizzarrirsi e impennare atterrito.

- Fermo, Focus, buono! Fermo, non era nulla!

Nulla?

Scrutai fra gli alberi alla ricerca del cinghiale, ma doveva ormai essere lontano, considerata la velocità cui correva.

- Focus, buono!

Tristan teneva le briglie ferme, ma il cavallo continuava a impennare e a scuotere la testa; avanzò di qualche passo, trattenuto dal padrone, ma di punto in bianco le gambe di Tristan cedettero. Urlò, cadendo a terra, mentre Focus, finalmente libero, partiva al galoppo scomparendo fra gli alberi.

- Maledizione! Maledizione!

Mi avvicinai, spaventata da quelle imprecazioni che mascheravano ben più che un dolore temporaneo: Tristan era ancora steso a terra, si teneva la gamba destra fra le mani stringendo i denti e respirando a rantoli soffocati.

- Ma che cosa... – diedi in un gemito strozzato, quando mi accorsi di cos’era accaduto. La caviglia del giovane era intrappolata fra i denti acuminati di una tagliola, i quali gli mordevano impietosamente la carne sputando una quantità di sangue sufficiente a farmi girare la testa.

- Un bastone... – sibilò lui, girandosi bocconi. Allungò una mano verso un ramo e cercò di usarlo come leva per aprire la tagliola, ma il legno si spezzò sotto la morsa.

- Aspettate, ne cerco uno migliore  – dissi, ma lui mi fermò all’istante.

-  Non t’immischiare, lasciami in pace.

- Voglio solamente aiutarvi...

- Ti ho detto di lasciarmi stare!

Con la sola forza di volontà si levò in ginocchio e strisciò fin sotto un albero, selezionando a denti stretti il ramo più robusto. Lo osservai con il fiato sospeso, mentre faceva leva per allentare la stretta della tagliola soffocando gemiti di dolore; usò tutta la forza che aveva, sbagliando e ritentando e perdendo sangue a rigagnoli.

Alla fine i denti della tagliola si aprirono con un clangore metallico, rilucendo scarlatti sotto il bagliore del sole; rimasi senza fiato a contemplare la caviglia martoriata che Tristan, con lestezza, fasciò strettamente con un fazzoletto. La stoffa si inzuppò immediatamente, iniziando a colare strisce di sangue sul terreno.

- Andiamo – disse, con il fiato spezzato – Focus si sarà fermato al primo villaggio abitato, sono certo che lo ritroveremo là.

Cercò di alzarsi in piedi e ricrollò pesantemente sulle ginocchia.

- Non puoi camminare, stai sanguinando troppo, lascia che chiami aiuto – provai.

- Non ho bisogno di aiuto, non da te – riprovò un’altra volta e, sorreggendosi contro il tronco di un albero, riuscì ad alzarsi in piedi.

- Appoggiati almeno a me, non riuscirai a usare quel piede.

- Ti ho detto di starmi lontano!

Urlò talmente forte da farmi sobbalzare. Rimasi a osservarlo a distanza mentre muoveva alcuni passi arrancando, fermandosi, ansimando.

- Andiamo.

Gli camminai a fianco tenendo d’occhio il flusso di sangue che diminuiva ma non cessava, così, quando lo vidi vacillare, mi accostai per sostenerlo. Riuscii a malapena a sfiorargli un braccio, prima che mi si rivoltasse contro con furore.

- Ti ho detto... di non...toccarmi! – urlò a squarciagola. Afferrò con entrambe le mani i lembi del mio colletto e tirò, squarciandomi il vestito sul petto e mettendomi a nudo il seno. Mi coprii con uno strillo, arretrando, mentre lui si appoggiava ansimante a un albero.

- Avvicinati ancora una volta e te ne andrai in giro completamente nuda! – mi minacciò e seppi con certezza che l’avrebbe fatto davvero.

Mi feci schermo con le mani e cercai di legare insieme i resti dell’abito per restare coperta il più possibile. Mi sentivo umiliata, impaurita e furibonda al contempo; per un istante sperai che stramazzasse al suolo dissanguato.

Camminammo tutto il pomeriggio in quelle condizioni, lui non si fermava mai, non riposava, stringeva i denti fino a farsi sanguinare le labbra: era ostinato e incosciente come un bambino, ma tuttavia sapevo che non avrebbe retto a lungo, non sarebbe stato umanamente possibile.

Certo, ora non ero più costretta a correre dietro a un cavallo, e in qualche modo avrei potuto ritenermi ripagata di quello che mi aveva fatto patire, ma, a conti fatti, ero più inquieta che soddisfatta.

E infatti, poco prima del tramonto, Tristan Arsediel cadde a terra come un sacco morto, senza un gemito di preavviso. Mi ci vollero alcuni istanti per prendere coraggio ed avvicinarmi, ma immediatamente mi fu chiaro che il mio aguzzino non avrebbe avuto modo di aggredirmi: bruciava di una febbre feroce, provocata senza dubbio da un’infezione alla ferita. Così feci quello che avrei dovuto fare da parecchie ore: corsi alla massima velocità possibile verso il villaggio, ormai prossimo, in cerca di un aiuto più valido del mio.

 

 

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Capitolo 4
*** Malattia ***


4

 

La prima notte pensai che non sarebbe arrivato al mattino.

Gli uomini cui avevo domandato soccorso trasportarono Tristan fino al villaggio, alla prima locanda che incontrarono lungo il tragitto; lì venne chiamato il medico che, dopo aver liberato la caviglia dallo stivale e dall’orlo dei calzoni, non si fece scrupolo di spiegarmi la gravità della situazione. Tristan rischiava di perdere la gamba. L’unico modo per contrastare l’avanzare dell’infezione era quello di cambiare le bende, disinfettare e coprire con impacchi di un decotto d’erbe la caviglia ogni due ore, senza sgarrare. Ordinò alla locandiera di preparare ogni sei ore un infuso per tenere a bada la febbre e combattere l’infezione e a quel punto, prima di accomiatarsi, mi appoggiò una mano sulla spalla.

- Di qualunque cosa abbiate bisogno non esitate a chiamarmi, io tornerò domattina. Fatevi forza, questo giovane ha bisogno del vostro aiuto.

Malgrado la tensione, mi sfuggì un sorriso: non osavo immagine come avrebbe reagito Tristan, se fosse stato in grado di sentire quelle raccomandazioni.

Rimasta sola, decisi di togliergli quello che restava dei suoi abiti, ormai inzuppati di sudore, sporcizia e sangue. Cercai un coltello nel suo bagaglio e trovai con esso anche una borsa colma di monete.

Mi sembra uno scambio equo, pensai, sorridendo, Le mie cure, in cambio del cibo che può offrirmi il suo denaro.

Così ordinai la cena in camera e, in attesa di mangiare, tagliai accuratamente gli abiti del giovane sfilandoli dal suo corpo e dal materasso.

Non avevo mai visto un uomo nudo - sei sorelle non sono d’aiuto allo studio dell’anatomia maschile - tuttavia mi ero fatta già un’idea piuttosto precisa, parlando con amiche più disinibite di me.

Mi presi il tempo necessario a studiare quel corpo con il compiacimento di trovarmi, per una volta, nella posizione di vantaggio: aveva minacciato di spogliarmi nuda ed ora era lui quello senza abiti; non potei fare a meno di pensare  che in un certo qual modo si fosse tirato addosso quel destino.

A turbarmi furono invece i segni che trovai sul suo torace, sul suo dorso, sulle spalle, lungo le braccia e giù, fino alle gambe: cicatrici profonde e biancastre che attraversavano la sua pelle come solchi sul terreno e raccontavano di un passato fosco e ben celato. Le accarezzai, cercando di immaginarne la storia, le seguii lungo tutto il loro tracciato.

Lavai quel corpo con attenzione, con sapone ed acqua tiepida, familiarizzando a poco a poco con quelle braccia lunghe e nervose, con il torace sodo, le gambe forti, e con quelle parti di lui che mai avrei creduto di vedere.

La sua pelle bruciava di una febbre senza riposo che gli rendeva il respiro affannoso e che disturbava, nell’incoscienza, il suo sonno profondo.

La locandiera bussò, portando la mia cena assieme all’infuso che il medico si era raccomandato di somministrare a Tristan: avrebbe combattuto la febbre e alleviato il dolore per qualche ora. L’agitazione che il giovane mostrava, nonostante il sonno, mi faceva comprendere che, malgrado l’incoscienza, il fuoco che aveva nella caviglia raggiungeva i suoi sensi facendoli spasimare.

Aggiustai i cuscini dietro la sua schiena in modo da tenerlo in una posizione più eretta, ma nello spostamento mosse la gamba e mandò un grido di dolore.

- Pietà... – sussurrò – Pietà.

- Perdonami, non volevo. – Accostai la tazza alle sue labbra per farlo bere – Devi mandare giù questa, ti farà stare meglio.

Aprì gli occhi grigi, scuri nella luce fioca della stanza, e compresi che non mi stava vedendo. Erano occhi che guardavano altrove, ai deliri ispirati dalla febbre.

- Vi supplico, abbiate pietà.

- Bevi – mormorai, cercando di sembrare rassicurante – Ti farà passare il dolore.

Riuscii a fargliela ingollare a piccoli sorsi, mentre i suoi occhi sperduti giravano a vuoto nella stanza. Vederlo in tale stato mi dava i brividi: non sembrava più l’uomo arrogante, inavvicinabile che avevo conosciuto, ma piuttosto un ragazzino inerme, spaventato.

L’infuso fece effetto nel giro di una mezzora e, anche se la temperatura non sembrò abbassarsi, rese il suo sonno più tranquillo.

Approfittai del momento per cambiargli le bende alla caviglia, fare un nuovo impacco, pulire la ferita; poi nuovamente gli rinfrescai il corpo con pezze bagnate e infine crollai sul letto accanto al suo e mangiai la mia cena, ormai completamente fredda. Non potevo rischiare di addormentarmi, stanca com’ero  non sarei riuscita a svegliarmi ogni due ore per occuparmi della sua caviglia. Così tenni posizioni scomode, mi alzai a momenti alterni a camminare e, per tutta la notte, lo vegliai temendo in ogni istante di sentire spegnersi il suo respiro. Stava così male che ogni attimo poteva essere quello terminale.

Invece non lo fu, e faticosamente arrivammo al mattino.

 

 

Per tre giorni dormii poco o niente, affannata tra le bende e i decotti, le pezze fresche e l’infuso; persi il senso del giorno e della notte, il mio tempo era scandito dalle necessità regolari di Tristan, della sua caviglia, dei suoi gemiti di dolore. Non riprese mai conoscenza, dovevo dargli da mangiare e da bere a forza e aiutarlo a cambiare regolarmente posizione. Il medico venne con costanza ogni giorno, al mattino e nel tardo pomeriggio: controllava che la caviglia fosse sempre ben pulita e mi dava i consigli del caso; a un certo punto mi chiese di massaggiare quotidianamente le spalle e la schiena di Tristan per ammorbidirgli i muscoli.

Mi chiedevo cosa avrebbe pensato il giovane al suo risveglio, lui, che non si lasciava sfiorare neppure per errore; non aveva voluto che per nessuna ragione toccassi quel suo corpo che, adesso, mi diveniva di ora in ora sempre più familiare.

- State facendo un lavoro eccellente – mi disse il medico, a un certo punto – Dovete volergli molto bene per prendervi cura a questo modo di lui.

Sorrisi, imbarazzata, e non risposi. Poi, mentre il dottore se ne andava, sedetti accanto Tristan, riflettendo sulle parole che mi erano state rivolte.

Non era possibile, per me, provare affetto per questo giovane: non avevo avuto modo di conoscerlo e per quel poco che eravamo stati insieme, lui si era comportato in modo ignobile. Ma non mi sarebbe mai stato possibile abbandonarlo a se stesso o fare qualcosa di meno di ciò che stavo facendo: la pietà umana mi era stata insegnata fin da bambina ed era uno dei valori sui quali la mia famiglia aveva poggiato le sue basi. Ed era strano che un medico se ne sorprendesse.

Rimasi in silenzio osservando il respiro veloce di Tristan, le lunghe ciglia umide di sudore, la pelle abbronzata e lucida: questo Tristan, assente nella coscienza, ma tanto presente nella malattia, stava per me diventando più familiare... più reale dello scontroso accompagnatore che mi aveva negato persino un tozzo del suo cibo.

Mi accostai a lui e controllai ancora una volta la ferita; dovetti fargli male, perché prese ad agitarsi – Pietà – implorò nuovamente, facendomi sobbalzare – Vi supplico, abbiate pietà! Almeno di lei. Almeno non fate questo anche a lei!

Presi immediatamente l’infuso dal comodino e glielo accostai alla bocca.

- Lasciatela stare, vi prego!

I suoi occhi spalancati, ancora una volta non mi vedevano veramente.

- Bevi, bevi questo e vedrai che starai meglio.

- Vi scongiuro... vi scongiuro!

Gli scostai dalla fronte i capelli sudati e feci in modo che ingoiasse buona parte della tisana. Questo, dopo una manciata di minuti, lo aiutò a calmarsi.

Ero stanca, infinitamente stanca e la mia sensazione era che Tristan non sarebbe mai tornato in questo mondo.

 

- La febbre sta calando e la caviglia ha iniziato a guarire, possiamo dichiararlo definitivamente fuori pericolo.

- Ne siete certo?

- Non siete più costretta a controllarlo costantemente, probabilmente si sveglierà presto. Oh, ci vorranno giorni perché recuperi le forze, ma pian piano si rimetterà. Ora fatevi una buona dormita, ne avete bisogno.

Non me lo feci ripetere, appena il medico uscì dalla stanza crollai sul letto accanto a quello di Tristan e dormii per nove ore a fila.

 

Quando mi svegliai, Tristan aveva gli occhi socchiusi. Osservava la stanza confuso e il suo sguardo, sebbene sfinito, non era più velato dal delirio. Quando i suoi occhi si appoggiarono su di me, capii che mi aveva riconosciuta. Aprì le labbra per parlare, ma non ne uscì alcun suono e un istante dopo crollò nuovamente addormentato.

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Capitolo 5
*** Nessuna pietà ***


5

 

 

Impiegò ancora diverse ore per restare sveglio quel tanto da iniziare a domandarsi dove si trovasse; ma, quando accadde, non ebbi dubbi in proposito: il suo volto tornò all’improvviso a dipingersi di disprezzo e furore.

Mi accorsi che cercava di muoversi, ma era talmente tanta la spossatezza lasciata dalla febbre, che non riusciva neppure a sollevare un braccio: solamente i suoi occhi roteavano per la stanza registrando i dettagli, alla ricerca di indizi.

Quando caddi nel suo campo visivo, mi parve di vederlo vacillare.

- Cosa... è successo?

- La caviglia ha fatto infezione, hai avuto la febbre molto alta. Ricordi la tagliola, vero?

Lo sconcerto prese forma tra i lineamenti del suo viso, finché, di colpo, si trasformò in consapevolezza.

- Quanto è passato?

- Siamo qui da quattro giorni, sei rimasto incosciente per tutto questo tempo.

La notizia lo scosse, ebbe l’impulso di balzare in piedi e recuperare le ore perse, ma riuscì solo a far tremare il bordo del lenzuolo: non aveva la forza di sollevare neppure una mano.

Afferrai la tazza con l’infuso dal comodino e mi avvicinai a lui.

- Sei troppo debole e lo sarai ancora per un po’ di tempo, ma il medico pensa che ti riprenderai del tutto. Devi continuare però a prendere le medicine.

- Stammi lontana.

- È importante che tu prende l’infuso.

- Ti ho detto di starmi lontana!

- Se non ti curi, non riuscirai mai a ripartire.

Mi sporsi verso di lui con la tazza, ma serrò le labbra e chiuse gli occhi.

- Non ti voglio vicino a me. Non devi toccarmi, hai capito?

A quel punto non potei evitare che un sorrisetto divertito mi scappasse dalle labbra.

- Non devo toccarti? E cosa credi che abbia fatto in questi giorni? Come pensi che abbia fatto a lavarti, medicarti, nutrirti, aiutarti a svolgere le tue funzioni corporali? Credi che ci sia riuscita senza toccarti?

Fu in quell’esatto momento che si rese davvero conto delle sue condizioni. Prese consapevolezza di essere completamente nudo, medicato, fasciato, pulito e debole come un bambino.

Gli si mozzò il respiro e a quel punto chiuse gli occhi, serrò i denti e restò immobile, estraniandosi, come morto.

Così decisi, per quel primo momento, di lasciar perdere.

 

La debolezza era tale, che continuò a dormire ancora per ore; la volta successiva in cui riprese coscienza, fu a causa del dolore. Stavo medicandogli la caviglia, quando la sua gamba sussultò all’improvviso; lo sentì trattenere il respiro e le lenzuola presero la forma dei suoi pugni chiusi. Se non altro stava recuperando le forze.

- Ho quasi finito – lo avvertii – Ti darò immediatamente l’infuso d’erbe anestetizzanti, vedrai che ti porterà un po’ di sollievo.

- Voglio solo... che tu stia... lontana da me.

Mi girai di scatto e lo guardai: la bocca contratta, gli occhi scuri annebbiati di dolore, eppure quell’espressione di disprezzo era ancora presente, ancora immutata.

- Non posso stare lontana da te: se vuoi rimetterti in piedi devi lasciarmi fare. Hai il compito di scortarmi dal Granduca, non ricordi? Ho incaricato un messo di avvisarlo che avremmo tardato, ma se non mi permetti di aiutarti, non lo raggiungeremo mai!

Fece per ribattere, ma si morse le labbra e infine distolse lo sguardo; così finii di fasciargli la caviglia e presi l’infuso dal comodino.

- Non lo voglio – mi disse.

Contai lentamente fino a trenta per evitare di rovesciargli la tazza in testa.

- Ti stai comportando come un bambino cocciuto, neppure la minore delle mie sorelle fa capricci tali ai tuoi!

I suoi occhi saettarono sul mio viso, si assottigliarono scrutandomi con intensità e seppi che avrei dovuto subire un attacco.

- Com’è possibile che il Granduca ti abbia accettata?

Scossi la testa, per indicare che non avevo capito. In realtà comprendevo fin troppo.

- Tu non sei il tipo di donna che possa piacergli. Ama le donne formose, dalle labbra procaci e dalle ciglia lunghe. Sei troppo minuta, troppo scura di capelli, poco voluttuosa e... quella pettinatura assurda...

Istintivamente mi portai una mano al nastro turchese che tratteneva i miei capelli in una coda alta, scompigliata.

- Non sei bella – aggiunse – Non abbastanza per Roman Fedar. Non gli hai mandato il tuo ritratto, vero? Devi averlo ingannato.

Avrei preso volentieri a schiaffi quel sorrisetto sardonico, ma il punto era... che Tristan aveva ragione.

- Gli ho inviato il ritratto di mia sorella Lana – Non abbassai lo sguardo, non mi vergognavo del mio aspetto – Non potevo rischiare che mi rifiutasse.

Scoppiò in una risata secca, irritante.

- Lo immaginavo, il Granduca non avrebbe mai potuto desiderarti... – una fitta di dolore gli spezzò la voce, facendolo ritrarre su se stesso.

- Tieni, bevi – dissi, infilandogli la tazza fra le mani.

- Potrebbe essere avvelenata, per quello che ne so.

Scrollai le spalle – Non ho interesse a vederti soffrire, Tristan Arsediel. Ho interesse solo che tu guarisca e mi porti a destinazione.

Lui finalmente bevve una sorsata, fece una smorfia di disgusto e mi osservò con cupezza – Quando ti troverai al cospetto del Granduca, rimpiangerai di essere arrivata con tanta rapidità. Non apprezzerà che tu l’abbia ingannato, ti pentirai molto rapidamente delle tue azioni, credimi. La mia cattiveria ti parrà gentilezza, al confronto con la sua crudeltà.

Sembrava quasi godere, nel dirmi questo.

- Era lui che invocavi durante il delirio della febbre?

Tristan sussultò.

- Imploravi pietà – spiegai – Per te e per qualcun altro. Era a lui che la chiedevi?

Rimase zitto molto a lungo, davvero molto. Infine sputò – Sì.

- E ha avuto pietà, alla fine?

I suoi occhi foschi divennero ancora più scuri, più torbidi – No. E non ne avrà neanche di te.

Annuii. Non facevo fatica a credergli, ma non volevo pensarci, non ancora. Non finché non ne fossi stata costretta. A quel punto avrei accettato ogni cosa, anche la più bassa e repellente, perché questo era il sacrificio per cui mi ero offerta.

- Bevi tutto l’infuso – dissi. E poi uscii per stare un po’ sola con i miei pensieri.

 

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Ciao a tutti, ho pubblicato un giorno in anticipo, perché domani vado a Torino alla festa del cioccolato (*__*) e starò via tutto il giorno!!!
Grazie a tutti voi che mi state seguendooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!!! *corre verso il cioccolato*

 

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Capitolo 6
*** Costo a sorpresa ***


6

 

“Era lui che invocavi durante il delirio della febbre?”

Tristan chiuse gli occhi, strinse i pugni, le labbra, il cuore.

Non pensava che, dopo tanto tempo, i suoi sogni sarebbero tornati là, a ripescare nel torbido. Da anni teneva le sue memorie sigillate e non permetteva a uno solo dei suoi pensieri di deviare dal presente. Ma appena la coscienza era venuta meno, ecco che la parte più ripugnante di lui era tornata a galla, come un cadavere sull’acqua.

- Che schifo.

Posò una mano sul comodino e con un colpo secco gettò a terra la tazza in cui aveva bevuto l’infuso.  Si ruppe in pezzi taglienti, affilati come la repulsione che stagnava nel suo animo.

Che schifo, pensò di nuovo. Era tutto solamente uno schifo.

 

 

Vide il medico il mattino dopo.  Lo osservò accigliato, mentre gli slegava le bende e controllava la cicatrizzazione della ferita; sopportò il dolore stringendo la mascella, irrigidendo allo spasimo ogni muscolo del corpo.

- Sta guarendo – fu la sentenza, infine – Dovrete pazientare ancora diversi giorni, prima che il dolore si acquieti, ma senza dubbio la vostra caviglia è salva. Ammetto di aver nutrito ben poche speranze, in principio: pensavo che sareste morto d’infezione o che, nel migliore dei casi, avrei dovuto amputarvi la gamba. Ma la vostra accompagnatrice non si è arresa, ha rinunciato a diverse notti di sonno per medicarvi.

- Non sono certo io ad averglielo domandato.

Il medico alzò su di lui occhi pensosi, che lo misero a disagio. Alla sua aggressività, la gente rispondeva attaccando o fuggendo, ma quel dottore no... Quel dottore sembrava piuttosto desideroso di capire.

- Helaida – disse, rivolgendosi alla ragazza lì accanto - Sarà necessario un nuovo massaggio per evitare che i muscoli si irrigidiscano ulteriormente.

Tristan fissò il medico sconcertato – Massaggio? Non ho intenzione di farmi fare niente del genere.

- Sono giorni che questa ragazza lavora sui vostri muscoli, non credo esista una parte del vostro corpo che non conosca ormai nel dettaglio.

Inverosimilmente, sentì che correva il rischio di arrossire. Il pensiero che quella ragazza avesse disposto del suo corpo mentre lui era incosciente lo faceva sentire al contempo imbarazzato e nauseato. Peggio: terrorizzato. Un’emozione che detestava provare.

- Prima non ero nelle condizioni di rifiutare – sibilò – Ma ora non potete costringermi ad accettare ancora aiuto da lei.

Il medico strinse gli occhi e si voltò verso la ragazza – Per favore, andate a prendere l’olio per il massaggio.

Lei, obbediente, uscì dalla stanza.

- Ascoltatemi, giovanotto – gli disse, appena furono soli – Ho visto le cicatrici che avete sul corpo e sono segni che parlano di tortura, di prigionia e di umiliazioni. Immagino che per voi, in questo momento, ritrovarvi così debole e alla mercé di chiunque possa essere spaventoso; ma voglio rassicurarvi sul fatto che non correte alcun pericolo. Quella ragazza si è occupata di voi come pochi altri avrebbero fatto: è merito suo se potrete ancora camminare su due gambe e, credetemi, non ho mai visto nessuno trattare il corpo altrui con tanto rispetto. Dunque, non fatele del male. Non rifiutatela, lasciate che continui ad aiutarvi. Avete bisogno di quel massaggio per rimettervi in piedi e proseguire quanto prima il vostro viaggio.

Tristan rimase in silenzio, spiazzato da quell’imprevisto discorso.

- Datemi ascolto – ribadì il medico – Anche se avete sofferto, non siete costretto a restituire quella sofferenza a chi vi ha fatto solo del bene.

Lui si morse il labbro e abbassò lo sguardo. Non voleva ripensarci e non voleva ricordare. Ma quando un pensiero si incanala è così difficile fermarlo. E Tristan all’improvviso era già là, in quel tempo e quel luogo marchiati a fuoco nella sua anima.

 

Quando il Granduca  lo fece prigioniero lui, non aveva che diciotto anni.

Gli uomini di Roman Fedar accerchiarono il castello, lo presero d’assedio e infine penetrarono le mura; entrarono, sbaragliarono, uccisero. Tristan non era tra quelli che riuscì a fuggire, lui e sua sorella vennero presi in ostaggio e portati alla Roccaforte come bottino di guerra; come prede su cui sfogare una sete di dominio malata, perversa.

Lo torturarono per giorni, senza lasciargli lo spazio di un respiro. Il suo corpo urlava, tutto intero, come un unico coagulo di dolore; scongiurava, supplicava, anelava a un respiro, un solo respiro privo di sofferenza.

Chiese pietà. La chiese per sé e per sua sorella. “Ditemi che non le state facendo la stessa cosa!”, pregava, ma nessuno mai gli rispondeva. Infierivano, infierivano e basta sul suo corpo agonizzante, solo per sentirlo urlare, per vederlo strisciare; perché quello piaceva al Granduca: possedere interamente la vita altrui.

Tristan perse ogni dignità, si prostrò ai piedi di Roman Fedar iimplorando pietà, implorando riposo, implorando, implorando, implorando.

E un giorno smise di torturarlo.

- Ho esaudito la tua richiesta – gli disse, con un sorriso cattivo che era il suo unico sorriso – Smetterò di tormentarti, ragazzo. Non rifiuto mai di soddisfare un desiderio, ma ogni desiderio ha un costo; il costo di  una vita. Non dimenticarlo, la prossima volta che mi domanderai qualche cosa.

Impiegò qualche istante a comprendere che aveva ucciso sua sorella.

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Anche questa settimana sono in anticipo, stavolta perché.... Beh, perché mi va! xD
E' quasi Natale e mi gira così! Buon venerdì a tutti!!

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Capitolo 7
*** Pezzi di nastro ***


7

 

 

Quando rientrai nella stanza con l’olio per i massaggi, Tristan aveva lo sguardo perso nel vuoto. Il dottore annuì, intimandomi di affrontare un’esperienza di cui avrei fatto volentieri a meno.

Tristan, tuttavia, quando mi misi alle sue spalle  non reagì. Mi ero aspettata un fiume di improperi, invece rimase muto, immobile.

- Non impiegherò molto – lo rassicurai, ungendomi le mani. Ma quando le appoggiai sulle sue spalle, i suoi muscoli si irrigidirono all’improvviso, indurendosi come roccia.

- Cerca di rilassarti – gli dissi, staccandomi – Non ti farò del male, cercherò soltanto di sciogliere la tensione.

Aspettai un istante, finché le spalle non tornarono ad allentarsi, ma appena toccai la sua pelle fredda come marmo, i muscoli tornarono a irrigidirsi.

Mi bloccai e guardai il dottore, sconsolata.

- Abbiate pazienza, Helaida. Chiunque sia stato torturato come questo giovane troverebbe ansiogeno essere toccato alle spalle, mentre è costretto immobilizzato a letto.

Fu solo in quel momento che compresi. Mi alzai e girai intorno a lui, andando a sedermi sul bordo del letto, di fronte al suo viso.

- Guardami in faccia – gli dissi – Non mi perderai di vista un solo istante. Ora ti toccherò le spalle e ti massaggerò i muscoli, ti basterà una sola parola per fermarmi.

- Non ho paura di te  – mi rispose, secco – Non temo di averti alle spalle.

Gli sorrisi, perché tanta arroganza in quel momento sembrava più divertente che irritante.

- Preferisco massaggiarti da qui.

Confidavo che, restandogli di fronte, non avrei rischiato di risvegliare quegli istinti primordiali che lo portavano a difendersi in modo automatico. E funzionò.

Gli toccai le spalle e, non ottenendo risposte di tensione, iniziai a massaggiargli i muscoli con calma, scaldandogli la pelle gelata. Lui teneva il viso rivolto di lato, non mi guardava, non commentava, come se io non fossi presente.

Era la stessa persona che, giorni prima, non mi aveva permesso di sfiorarla neppure avendo un piede incastrato in una tagliola. Oggi lasciava che l’aiutassi, ma solamente – e non nutrivo dubbi al riguardo – perché non aveva altra scelta.

Il medico annuì, mi strizzò l’occhio mentre Tristan non guardava, e ci lasciò soli.

- In questo modo non avrai mal di schiena – dissi, per rinvigorire l’idea che i suoi sforzi non fossero vani – Ancora un poco e sarai a posto.

Ma gli toccai un punto dolente e, sorpreso, sobbalzò; il movimento finì per riflettersi sulla caviglia e provocargli un gemito di dolore.

- L’effetto del calmante dev’essere terminato, ti darò ancora un po’ di tisana.

- Perché? – mi domandò lui, con un tono di voce in cui riconobbi sì, diffidenza, ma anche una vena di autentica incomprensione.

- Perché così ti passerà il male – risposi, perplessa.

- Voglio sapere perché ti ostini a fare così... maledettamente la buona. Come se questo cambiasse qualcosa. Come se cambiasse il fatto che i tuoi genitori ti hanno venduta a un pazzo sadico, o come se questo potesse intenerire me, che a malapena sopporto la tua vista, o come se potesse ottenerti qualcosa da un futuro che, te lo posso giurare, sarà solamente un intollerabile inferno. Non ti servirà a nulla, dove andremo, la tua gentilezza. Puoi risparmiartela, Helaida!

Le sue parole, come ogni volta, aprirono il baratro nero del mio futuro, facendomi risalire lungo la gola l’acido sapore dell’angoscia.

- Lo so. Lo so, ma è così che sono stata cresciuta: credendo che il bene generi altro bene e che il male porti solo il male. È il fondamento su cui la mia famiglia ha basato la sua esistenza e il suo governo e io non posso fare a meno di crederci, perché al di fuori non mi resta altro!

Sorrise di scherno alle mie parole, come se avessi detto che la mia gentilezza avrebbe fatto piovere rose.

- Il tuo bene non genererà altro bene, è solamente irritante. Mi stai irritando, capisci? E sarò con te ancora più sgradevole, se possibile; quindi la tua sciocca equazione è fallimentare. Non diventerò gentile con te, Helaida, te lo ripeto un’altra volta.

Mi strinsi nelle spalle – Questo l’ho capito. Ma anche se questo... bene, che tanto ti irrita, non mi tornasse indietro, resterà comunque su di te. E, solo per questo, la mia esistenza avrà avuto un minimo di senso.

La mia risposta lo fece infuriare, lo compresi. Afferrò la tazza della tisana e la sbatté a terra, spargendo in una larga chiazza frammenti di coccio e liquido scuro. Poi, senza che avessi il tempo di prevederne la reazione, si sporse verso di me e sciolse il nastro turchese che portavo fra i capelli, portandomelo via.

Sobbalzai, quando lo vidi afferrare dal comodino il coltello del pane e girarlo verso la striscia di tessuto.

- Fermati, cosa vuoi fare?

- Voglio tagliarlo e rendere inutilizzabile l’unica preziosissima cosa che ti è rimasta della tua famiglia! – scimmiottò, con odiosa strafottenza – Te l’hanno regalato le tue sorelle, vero?

- Me l’hanno regalato spendendo tutti i loro soldi – esclamai – Non hai alcun motivo per rovinarlo, se non quello di farmi del male.

La punta del coltello scalfì il nastro, sfilacciandone l’orlo. Trattenni il respiro, paralizzata. Sapevo cosa stava facendo, che cosa sperava di ottenere.

Voleva farmi arrabbiare.

Voleva frantumare il mio autocontrollo, la mia compostezza, la gentilezza che, nonostante tutto, mi ostinavo a rivolgergli. E dimostrarmi che non avrei retto un solo giorno, una volta arrivata dal Granduca.

Rimasi immobile, paralizzata dall’indecisione.

- Farti del male è esattamente ciò che voglio – mi disse. E tagliò il nastro a metà.

- No, fermati! – mi gettai su di lui, che alzò le braccia: il coltello in una mano, i pezzi di nastro nell’altra – Fermati, smettila! Smettila, quel nastro è tutto ciò che ho! Non farlo!

Mi scansò e con un gesto fulmineo tagliò in due un’altra metà del nastro, mentre gli cadevo addosso e tentavo di fermare le sue braccia muscolose, forti come l’acciaio nonostante la malattia.

Sentii le lacrime scivolarmi lungo il viso e la mia voce si ruppe in singhiozzi, mentre, finalmente, riuscivo a riprendere i brandelli del nastro che le mie sorelle avevano ottenuto con tanto sacrificio.

- Se non fossi stata così gentile, ora il tuo nastro sarebbe ancora tutto intero – mi disse lui, con un sorriso cattivo.

Lo fissai per un istante, le lacrime che ancora mi grondavano dagli occhi, poi mi strinsi al petto il nastro e scappai fuori dalla stanza.

 

Mi accovacciai sotto un albero, nascosta ai passanti, ripiegata in due su uno spasimo che era più angoscia, più asfissia, più...

...dolore.

Come una punta che  trapana la gola e fa male, così male che vorresti cacciarla giù o sputarla fuori e invece è la tua angoscia, quella che stai sentendo e nessuno te la può cavare via.

Piansi su quei  pezzi di stoffa così a lungo da svuotarmi la gola da tutta la voce che avevo, finché i singhiozzi divennero muti e affamati d’aria. Picchiai i pugni a terra, per prendere a sberle il viso arrogante di Tristan Arsediel, e imprecai contro di lui e la sua infrangibile insensibilità. Sputai odio e disperazione in egual misura e la sofferenza si allargò al mio destino tutto intero, perché, quando lasci che il dolore trattenuto si sfoghi tutto d’un colpo, la negatività prende il sopravvento e ogni pensiero è un nuovo pensiero per piangere.

E lo feci, di piangere, così tanto che in me non rimase un solo fiato di forza.

Allora mi alzai, tornai alla locanda e mangiai una zuppa calda, evitando lo sguardo curioso della padrona del locale. Le domandai, finito il pasto, la cortesia di prestarmi ago e filo e trascorsi il tempo successivo seduta sotto al portico, ricucendo assieme, con minuziosa attenzione, i brandelli del mio nastro.

Tornò come nuovo: rammendato, sì, ma talmente bene da notarsi a malapena. Ero sempre stata brava nel cucito e ritrovare il mio oggetto perduto diede una nuova impronta di positività al mio spirito afflitto.

Per quasi tutto il pomeriggio avevo meditato di farmi accompagnare alla Roccaforte da un corriere qualsiasi, abbandonando Tristan al suo destino. Ma ora, più calma, mi rendevo conto in maniera lucida di ciò che era accaduto.

L’uomo che aggredisce è debole, questo mi aveva insegnato mio padre. Come una bestia in svantaggio, così anche l’essere umano attacca tanto più quanto vede prossima la possibilità di essere ferito per primo.

I miei genitori mi avrebbero consigliato di capire, empatizzare, perdonare. Non ero ancora pronta a farlo e per questo rimasi lì, seduta sotto al portico, a pensare a quanto sarebbe stato più liberatorio abbandonare Tristan o insultarlo o... beh, picchiarlo. Sorrisi, immaginando ognuna di queste possibilità. Ma man mano che le ore trascorrevano, mi rendevo conto che la soddisfazione che ne avrei tratto sarebbe stata ben futile.

Tristan era un uomo amareggiato, diffidente, duro; ma portava su di sé i segni di torture che certamente non aveva cercato per sé. Questo, non potevo scordarlo.

 

 

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Capitolo 8
*** Quello che è giusto ***


8

 

 

La luce del giorno si smorzò lentamente, mentre Tristan, solo nel letto con i suoi pensieri e il pulsare della caviglia, sentiva su di sé il peso delle ore che scorrevano.

Quel pomeriggio impiegò un’infinità a consumarsi e, quando finalmente si mutò in sera, anche quella si presentò lenta come la più prudente delle tartarughe. La locandiera si mostrò con il vassoio della cena e, vedendo lo sfacelo sul pavimento, si fermò a raccogliere i cocci e a pulire per terra, mentre Tristan cincischiava con il cibo, fingendo di mangiare.

Non intendeva sentirsi in colpa per il comportamento avuto con Helaida, e tuttavia, in fondo allo stomaco, non riusciva a scacciare quella punta di vergogna che gli rendeva acida la cena e lo faceva sentire frustrato, insoddisfatto.

Aveva reagito d’istinto, con la ragazza: l’aveva ferita per smascherarne la rabbia, la cattiveria che, in fondo il cuore, tutti quanti provano, e riportarla a un piano di realtà che lui riconosceva e sapeva affrontare; scioccamente non aveva considerato che si sarebbe messa a piangere e quelle lacrime, sbigottite e dolorose, lo avevano schiaffeggiato.

Ma io non sono sensibile al pianto delle donne.

In qualche modo, se lo era dovuto ricordare.

C’era stato un periodo in cui le lacrime delle ragazze destinate al Granduca erano state la sua tortura.

Tristan era stato costretto a giurare fedeltà all’uomo che aveva ucciso sua sorella: se si fosse rifiutato, anche la vita di suo fratello minore sarebbe stata presa da Roman Fedar. Quell’uomo aveva costruito il suo potere sull’asservimento completo dei suoi sottoposti, governava con le minacce, la paura e il dolore; cresceva sull’umiliazione altrui. Costringerlo a servirlo non era stata che una riprova dei mezzi di cui si serviva.

Tristan aveva scortato fin dall’inizio le ragazze sacrificate al Granduca, e in principio si era lasciato intenerire dalla loro paura, dalle loro sofferenze. Aveva offerto loro conforto, per quel che aveva potuto; ma in cambio ne aveva avuto solo lo strazio dei tormenti loro inferti. Se ogni ragazza soffriva per sé e per il proprio destino, Tristan soffriva per ciascuna di loro e a un certo punto tutto quel dolore, quell’umiliazione, quella paura, erano diventate insopportabili.

Il Granduca aveva riso, di fronte a tanto sgomento.

- Non mi trovi giusto, Tristan? Eppure vedi, io sono potente, ottengo tutto ciò che voglio. Qual è la verità? La verità è che è giusto ciò che ti fa stare bene, e io sto bene!

La sua risata grossolana lo aveva urtato nell’intimo, ma anche se aveva rifiutato a pelle le sue parole, non aveva potuto fare a meno di portarsele accanto durante ogni viaggio, e di rigirarsele in testa quando l’ennesima ragazza spaventata arrivava alle soglie della Roccaforte.

Era giusto avere compassione, gli avevano insegnato. Erano buona cosa il rispetto, l’equità e la magnanimità.

Ma come poteva vederne ancora il senso, quando tutta la sua pietà non aveva il potere di cambiare un solo istante nel martirio di quelle ragazze?

Fu allora, dopo l’ennesimo strazio, che chiuse il suo cuore alla compassione e fece diventare falso tutto ciò che era stato vero, e considerò ingiustizia ciò che era stata giustizia.

Era ingiusto che soffrisse sempre, costantemente e fino a quel punto, per gli altri. Così smise di farlo.

 

La candela si era quasi consumata, quando Helaida rientrò.

Non sapeva cosa aspettarsi dopo l’episodio di quel pomeriggio e si stupì quando le vide in mano una tazza di tisana fumante. Il vestito da viaggio era stropicciato e i capelli le scendevano liberi sulle spalle, in onde che potevano essere riccioli, ma per poco non lo erano. I capelli castani erano quasi chiari sotto la luce del sole, ma in quel momento sembravano scuri, opachi, in contrasto con gli occhi verde acqua così limpidi da sembrare trasparenti.

Occhi che non si abbassavano, perché – per qualche assurdo motivo – lei non aveva paura di lui. Non aveva paura di lasciarsi ferire.

Helaida si avvicinò al comodino e appoggiò la tazza con delicatezza.

- Aspetta che si raffreddi, prima di berla – si raccomandò, senza che dalla sua voce trasparisse il minimo accenno di rabbia, di offesa, di risentimento.

Andò dritta al letto accanto al suo, si sdraiò e chiuse gli occhi; con costernazione di Tristan, la sua respirazione rallentò quasi immediatamente.

Si era addormentata in un istante, come chi non ha pensieri per la testa, non rimugina e non trattiene rancori; e ora riposava a poche spanne da lui, forte della sua mitezza.

Da una tasca le vide spuntare un lembo di nastro e notò i segni delle cuciture, fini e accurate, a malapena visibili. Per un istante meditò di sottrarle nuovamente quel ricordo così prezioso e di gettarlo nel camino, ma il pensiero delle sue lacrime lo fermò.

Giusto è tutto ciò che ti fa star bene, aveva detto il Granduca. E in quel momento, si rese conto, veder piangere Helaida un’altra volta non l’avrebbe fatto stare bene neppure un po’.

 

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Capitolo 9
*** La Roccaforte ***


9

 

 

Ci vollero altri due giorni di silenzi smozzicati, prima che il dottore ci desse la tanto sospirata buona notizia: saremmo potuti ripartire, a patto che Tristan andasse sempre a cavallo e che facesse numerose soste.

Il suo animale, come previsto, era stato ritrovato in paese e portato alla locanda; così, visto l’ormai avanzato ritardo in cui ci trovavamo, Tristan acconsentì al fatto che gli salissimo entrambi in sella in modo da velocizzare il viaggio.

Portammo con noi le provviste necessarie al giorno e mezzo che avremmo impiegato a raggiungere la Roccaforte e, quando pagai il tutto con i suoi soldi, Tristan non disse nulla: si limitò ad un’occhiata accigliata.

Sedetti davanti a lui sulla sella, in principio rigidamente per evitare di toccarlo, ma ben presto, tuttavia, dovetti rassegnarmi alla vicinanza forzata che il galoppo imponeva. L’attenzione di lui, d’altronde, era troppo concentrata sulla sopportazione del dolore fisico che la caviglia gli procurava per potersi accorgere veramente della mia presenza.

Così il primo giorno di viaggio trascorse in silenzio, con piccole e altrettanto silenziose soste, fino alla sera. Ci accompagnò, quella stessa quiete, anche quando ci sedemmo attorno al fuoco sbocconcellando pane e salame e a un certo punto ne fui nauseata. Quando vivi con sei sorelle, il silenzio è una condizione ignota che può diventare veramente pesante se ti ritrovi a doverla improvvisamente subire.

- Devo medicarti la ferita – dissi, solo per rompere quell’asfissiante  monotonia. Ne ricevetti in cambio un’occhiata di disapprovazione che non poté però esprimersi a parole: il medico ci aveva dato il permesso di partire solo dopo una lunghissima ramanzina sull’importanza di rifare spesso la medicazione.

Sapevo che l’essermi debitore di cure rendeva Tristan arrabbiato, esasperato; così come il fatto di essersi trovato debole alla mia mercé per tanto tempo e di essere stato in qualche modo violato nella sua intimità. Tuttavia mi ero abituata alla sua scontrosità e per quanto il suo comportamento di  tre giorni prima mi avesse ferita,  stavo cominciando a considerarlo al pari di un vecchio burbero e inacidito, come certi individui arcigni che abitavano le mie terre. Se fossi riuscita a guardare a quel suo lato con distacco, con benevolenza, forse sarei stata in grado di sorriderne, più che di lamentarmene.

Tristan si sfilò lo stivale e iniziò a disfare la fasciatura con malagrazia, così gli scostai le mani e presi il suo posto. Usai tutta la delicatezza di cui fui capace, ma ugualmente gli feci male, come mi dissero i suoi muscoli tesi e i denti digrignati.

- Dovrai portare ancora un po’ di pazienza, si sta rimarginando poco alla volta.

- Io porto pazienza – ansimò, con una punta di cattiveria – Sarai tu che da domani avrai difficoltà a farlo.

La paura mi ghiacciò le ossa come neve fredda: ero riuscita, fino a quel momento, a posticipare a data futura le preoccupazioni per il mio arrivo alla roccaforte; ma ora la consapevolezza mi cadeva addosso come una cappa pesante.

- Cosa succederà quando arriveremo? Come... come si svolgono...i...

Convenevoli?

Non sapevo neppure come chiamarli!

- Quando arriveremo alla Roccaforte, verrai immediatamente ricevuta dal Granduca – rispose lui, in tono incolore – Entrerai nella sua stanza per pochi minuti e in quegli istanti lui deciderà se accettarti o meno nel suo harem. Se verrai rifiutata, sarai immediatamente uccisa.

Il suo sguardo scivolò sul mio corpo con commiserazione, ripensando probabilmente alla truffa in cui ero coinvolta, al mio ritratto inviato a Roman Fedar che non era veramente mio.

- Questo... non lo sapevo.

- È accaduto solo due volte, finora. Sai, non molta gente ha il coraggio di ingannare il Granduca, è più frequente che lui si trovi di fronte esattamente quello che si era aspettato.

Deglutii.

E decisi che non avrei più fatto domande.

Fasciai stretta la caviglia e afferrai la coperta dalla sacca.

- Va bene... dormiamo.

 

***

 

Quando la Roccaforte si stagliò di fronte a loro, Tristan riuscì a sentire la scarica di tensione che attraversò il corpo di Helaida: la percorse irrigidendole la schiena e facendole raddrizzare le spalle di colpo. Sbatté contro di lui, seduto in sella alle sue spalle, e immediatamente si ritrasse, quasi vergognosa dei suoi timori.

Non poteva negare  che la ragazza stesse dando prova di coraggio: l’aveva seguito lungo tutto il tragitto senza lamentele e piagnistei; ma Tristan ne aveva accompagnate altre come lei. Helaida era la trentanovesima, la trentanovesima di altrettante vittime che, una dopo l’altra, lui aveva condotto al martirio. Alcune avevano pianto per tutto il tragitto e, qualche volta, avevano cercato di fuggire; altre avevano mantenuto un dignitoso contegno che era sfociato nella freddezza e nel disprezzo, altre ancora avevano dissimulato il nervosismo e la paura con un approccio affabile ed eccessivamente ciarliero che lui, prontamente, aveva smorzato.

Ma, indipendentemente dal modo in cui si erano condotte durante il viaggio, la loro reazione dopo il primo rapido incontro con il Granduca si era sempre irrimediabilmente risolta in un crollo emotivo. Uscivano da quella stanza distrutte nello spirito, in lacrime e disperate; allora cercavano di attaccarsi a lui, a Tristan: si gettavano ai suoi piedi supplicandolo di salvarle, di portarle via o di ucciderle. Ed era in quel momento che lui diventava cattivo, più cattivo di prima e le abbandonava con indifferenza al loro destino.

Helaida non avrebbe costituito eccezione per quanto adesso tentasse di mostrarsi coraggiosa: sarebbe uscita dalla stanza del Granduca fatta a pezzi. Se ne fosse uscita.

Lasciò il cavallo allo stalliere e scortò la ragazza fra i corridoi a passo spedito, notava che l’andatura di Helaida tendeva a rallentare e per questo la forzava a una velocità ancora maggiore: l’avrebbe costretta ad affrontare la realtà e a diventare, finalmente, una delle tante disperate vittime di Roman Fedar. E tanti saluti alla sua gentilezza e ai suoi discorsi sul bene che va e che ritorna. I suoi genitori avrebbero dovuto prepararla ad affrontare la crudeltà umana più che a credere alle favole.

- Annunciate al Granduca l’arrivo di Helaida d’Orca!

L’uomo a guardia delle stanze di Roman Fedar sparì dietro la porta, lasciando loro ancora qualche istante d’attesa.

Helaida teneva la mascella serrata e le braccia incrociate sul petto,  Tristan era certo che, se l’avesse toccata, avrebbe sentito il tremito del suo corpo.

- Cosa succederà là dentro? – gli chiese all’improvviso.

Lui alzò le spalle, in un gesto insofferente – Lo saprai fra pochi secondi.

- Mi spoglierà?

Lo sorprese il modo diretto in cui gliel’aveva domandato, senza fremiti nella voce, senza abbassare il tono.

- È probabile, in genere le ragazze escono con gli abiti a brandelli.

Si aspettava che la sua risposta avrebbe peggiorato il suo stato d’animo, invece Helaida annuì e sembrò prendere coraggio, come se all’improvviso si fosse ricordata che non voleva avere paura.

La porta si spalancò,

- Venite, entrate!

Helaida prese un lungo respiro e con passo deciso attraversò la soglia.

Non ti servirà a nulla tutto questo coraggio. Il Granduca se ne nutre, se ne nutre fino a non lasciartene più neppure un granello.

 

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Capitolo 10
*** Il Granduca ***


10

 

Il Granduca era un colosso.

Avendoci privato di tutte le nostre ricchezze, mi ero immaginata un uomo circondato dal lusso, azzimato ed effemminato e non avevo riflettuto che Roman Fedar era, in primo luogo, un comandante e un guerriero.

Mi sovrastava con la sua altezza sostenuta da un’ossatura imponente e da muscoli forti, allenati; aveva capelli scuri leggermente diradati sulle tempie, una mascella quadrata e occhi duri, cattivi.

Mi squadrò da cima a fondo con un’unica occhiata sprezzante che sembrò sezionare ogni angolo del mio corpo e poi la sua bocca si aprì in un ghigno asimmetrico.

- E tu chi saresti? Non la ragazza che ho visto nel ritratto!

Avevo immaginato per giorni quel momento, mi ero preparata al peggio e al peggio del peggio. Ero pronta ad affrontare qualunque bruttura.

- Avete visto il ritratto di mia sorella, ma la primogenita sono io.

- Dunque, tuo padre mi ha ingannato.

- Io sono qui per servirvi, signore.

In due passi mi fu di fronte, mi afferrò per la nuca tirandomi verso di sé e sibilò – Vediamo di che pasta sei fatta.

Con le due mani prese il mio vestito e lo aprì in due, letteralmente. Mi cadde di dosso come acqua scivolosa e non feci neppure in tempo a replicare, che anche la mia biancheria intima seguì lo stesso percorso.

Ero nuda di fronte a lui e costernata per la velocità con cui tutto era avvenuto.

Non agitarti, sapevi che sarebbe successo. Sei pronta.

Mi ero preparata a quel momento e ora mi estraniai da qualunque sentimento di vergogna o di ribrezzo: questo era il destino a cui  mi ero venduta per salvare la mia gente e non dovevo lasciarmi sopraffare.

Roman Fedar fece scivolare una mano lungo la mia schiena, fino alle natiche. Le accarezzò con foga, poi scivolò davanti, mi aprì le gambe e mi toccò dove nessuno l’aveva mai fatto. Chiusi gli occhi un istante e quando li riaprii avevo ritrovato un sufficiente distacco.

Lui mi spinse indietro e mi fissò, un sorriso cattivo gli tirò le labbra.

- Docile, ma non sottomessa – disse, come se assaporasse con gusto quelle parole – Sei sufficientemente attraente e sarà un piacere umiliarti fino a scomporre il tuo ridicolo contegno. Ora raccogli i tuoi stracci e dì a Tristan di sistemarti e di tornare immediatamente da me.

Annuii e cercai in qualche modo di infilarmi il vestito lacero, tenendone i lembi chiusi con le mani; poi aprii la porta e fui finalmente fuori.

 

 

 

 

Helaida non stette nelle stanze del Granduca a lungo, non più di chiunque altra; ne emerse con gli abiti in pezzi, tenuti insieme a malapena dalle sue braccia incrociate.

Appena fu fuori respirò a fondo e scrollò velocemente le spalle, come a lasciar cadere qualcosa di fastidioso.

- Ha detto di sistemarmi e poi di tornare da lui – annunciò, la voce leggermente tremante ma alta, decisa.

Tristan rimase spiazzato. Aspettò qualche istante che avvenisse il crollo, ma lei, vedendolo immobile, alzò su di lui due occhi perplessi – Non andiamo?

-  Sì... Seguimi.

Le fece strada in preda a una nuova confusione.

- Credi che troverò ago e filo nella mia stanza? Per ricucire l’abito?

Lui le lanciò un’occhiata confusa  – Gli abiti non ti mancheranno, credimi.

- Questo vestito l’aveva fatto mia madre. Vorrei tenerlo, anche se non lo indosserò più.

- Dunque sei piaciuta al Granduca?

- Gli piacerà umiliarmi, ha detto. Mi ha trovato troppo... contegnosa.

Tristan si voltò di scatto.

- Contegnosa... Sei stata contegnosa, mentre ti spogliava e ti metteva le mani addosso?

- Ecco... sì. Avrei dovuto sentirmi più umiliata, credo, mostrarmi vergognosa. Temo di non avergli dato la soddisfazione che cercava.

- Gli hai fatto la predica? – la schernì, sarcastico – Gli hai detto che lo perdonavi per averti tolto ogni dignità? Oh, forse questo non mi stupirebbe!

- Non gli ho fatto nessuna predica e lui non mi ha affatto tolto la dignità, per cui puoi rilassarti, Tristan Arsediel.

- Davvero? Il tuo onore non è caduto in pezzi insieme a quell’abito? – rise lui, cattivo. Quella ragazza lo rendeva aggressivo, scatenava in lui una rabbia difficile da controllare.

- Il mio onore non cadrà in pezzi qualunque cosa quell’uomo decida di farmi – i suoi occhi verde chiaro sembrarono quasi sfidarlo, sfidarlo a dimostrarle il contrario di ciò che stava affermando.

- Temo che tu sia impazzita, Helaida d’Orca, forse incontrare il granduca ti ha fatto perdere completamente il senno.

Aprì una porta, facendole cenno di entrare. Lei obbedì, varcando la soglia della sua nuova stanza: una camera tanto lussuosa quanto degradante sarebbe diventata la vita della sua inquilina.

Ma si sorprese quando Helaida gli afferrò un polso all’improvviso, costringendolo a fissarla negli occhi.

- Mi sono offerta spontaneamente in sacrificio – gli disse, con calma – E nel sacrificio c’è onore, poiché si offre la propria vita per il bene altrui. Qualunque cosa vorrà farmi il Granduca, io non mi coprirò di vergogna: la vergogna cadrà sul capo di chi mi farà volontariamente del male. Io ora sono una martire, Tristan. E non ho nulla di cui vergognarmi.

Qualcosa, nelle sue parole, sembrò colpire la parte più scoperta del suo animo.

No, non è così..

È giusto che io mi protegga, che mi difenda, che mi salvi.

E lei mente. Lei non sa, non sa ancora quanto lui le cambierà gli occhi, la testa, il cuore.

- Va bene, ragazza – disse, glaciale – Adesso levati quegli abiti stracciati.

- Dove posso cambiarmi?

Lui rimase in silenzio, fissandola in modo eloquente.

- Vuoi che mi spogli davanti a te?

- Io mi occupo direttamente di ognuna delle fanciulle destinate al granduca – sorrise con consapevole meschinità – Devo avere un’idea ben precisa delle potenzialità di ciascuna di loro e valutare eventuali migliorie da apportare. Avanti, togliti quella roba.

Si aspettava un’ombra di smarrimento, di paura... di vergogna, sì, proprio quella.

Invece il viso di lei si accese di furore – Non credere di ingannarmi, Tristan, so perfettamente quello che stai facendo. Vuoi degradarmi, umiliarmi per dimostrarmi che ho torto, che la mia dignità è perduta tanto quanto la tua!

Lui arretrò come sotto uno schiaffo violento.

- Che cosa...

- Vuoi che mi spogli? Ecco!

Con un’unica mossa si fece scivolare dalle spalle il vestito a brandelli e rimase nuda di fronte a lui. Piccola, tremante di rabbia o chissà che altro, con gli occhi verdi grandi e i capelli disordinati sulle spalle. E, senza gli abiti addosso a coprirla, meglio ben fatta di quanto avesse creduto.

- Ti senti forte adesso? – gli chiese, rossa in volto per l’imbarazzo – Non avresti bisogno di questo, se fossi un po’ più consapevole del tuo valore. Invece sei debole, Tristan, sei la persona più ferita che io abbia mai incontrato.

Il fiato gli mancò completamente.

E tutta la sua debolezza, quella che Helaida aveva scoperchiato, lo sopraffece.

Come poteva sentirsi in svantaggio davanti a quella ragazza esile, impotente e completamente nuda? Eppure era lui ad aver paura in quel momento.

Girò le spalle e se ne andò.

 

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Capitolo 11
*** Il senso di un sacrificio ***


11

 

 

Mi piegai, rannicchiandomi su me stessa.

Avevo avuto paura, una paura tremenda che Tristan mi aggredisse; non mi ci era voluto molto per comprendere che avevo toccato un nervo scoperto. E ogni volta che mi avvicinavo troppo, lui diventava violento.

Mi abbracciai le gambe e lasciai che le lacrime mi scivolassero sul volto: dovevo permettere alla tensione di quelle ultime ore di sfogarsi, altrimenti non sarei sopravvissuta, non sarebbe sopravvissuta la mia mente.

Va tutto bene, va tutto bene.

Aggirandomi per la stanza sontuosa, scovai il necessario per un bagno caldo e me lo concessi. Poi spazzolai i capelli fino a renderli vaporosi e, aprendo l’armadio di fronte al letto, scovai un abito verde acqua che giudicai mi sarebbe stato bene. Il corpetto arricciato si allacciava dietro al collo e si stringeva sotto il seno, permettendo alla stoffa di scendermi libera lungo i fianchi. Nello specchio, quasi non mi riconobbi: erano anni che non potevo permettermi un lusso di tal genere.

Mi aspettavo che, a un certo punto, la mia mente mi avrebbe tradita rimandandomi con il pensiero al mio incontro con il Granduca; ma per il momento non era ancora accaduto, come se, preparandomi in anticipo a ciò che sarebbe successo, fossi veramente riuscita a prevenire il trauma.

Allora mi diressi alla porta finestra sulla parete sud della stanza e mi accorsi che si affacciava su un giardino interno circolare. Molte ragazze erano sedute sull’erba o sulle panche di pietra, alcune chiacchieravano vicino al pozzo al centro del cerchio; altre riposavano all’ombra di alcuni salici, altre ancora, in mezzo ai fiori, disegnavano su blocchi di carta.

Il giardino era circondato da portefinestre uguali alla mia... ciascuna delle quali apparteneva alla camera delle ragazze destinate al Granduca.

Siamo tutte qui, mi resi conto. Viviamo tutte assieme.

Una ragazza riccia, piuttosto alta, mi scorse.

- Guardate, è arrivata quella nuova!

Molte di loro iniziarono a venirmi incontro: una, due, cinque, dieci... E tutte con la stessa espressione di triste compassione.

- Ben arrivata – mi disse la riccia. E mi abbracciò stretta.

 

 

Come gli era stato ordinato, Tristan si diresse immediatamente dal Granduca raggiungendolo nel salone.

- Oh, eccoti! – gli disse l’uomo, con un sorriso affabile che gli chiuse lo stomaco. Se avesse dovuto assecondare i suoi istinti, Tristan avrebbe vomitato lì, sul momento. Ogni volta pensava quello. Che avrebbe voluto vomitare.

Vomitare e strangolare Roman Fedar.

O forse prima strangolarlo e poi vomitare.

- La ragazza mi piace – disse il granduca – Crede di essermi superiore, glielo leggo negli occhi. Mentre io la guardo, la sua testolina vaga altrove, non si accorge quasi che la sto toccando. Pensa di sfuggirmi così.

Che stupida che sei, Helaida.

Roman Fedar era un uomo perverso, perverso e sadico. L’atteggiamento della ragazza lo aveva eccitato e ora le cose sarebbero andate sempre peggio, peggio addirittura di quanto lo fossero già in precedenza.

- Stanotte ho già prenotato un paio di ragazze – proseguì il Granduca – Ma lei... Lei la voglio per domani sera. Avrò ospiti e giocheremo a carte... sarà un’ottima occasione per inaugurarla – Sul suo viso si dipinse un’espressione vorace – Carte e dadi.

Tristan si sentì gelare. Sapeva cosa significava.

Te la sei cercata, Helaida. Adesso sono fatti tuoi!

- Me la porterai dopo cena nel salone. La voglio completamente nuda, con bracciali d’oro ai polsi e alle caviglie. E i capelli sciolti. Dille di profumarsi con essenza di gelsomino.

Tristan aveva freddo, come se ghiaccio sciolto stesse colando lungo i muri.

- Sì, signore.

- Istruiscila su ciò che ci aspetteremo da lei. – Sorrise perversamente – Vedremo quanto resisterà, prima di iniziare a piangere e supplicare.

Tristan arretrò – Allora vado.

- No, aspetta. – Ora, lo sguardo maligno del Granduca era su di lui. Per lui – Ho atteso la ragazza a lungo, sei arrivato in ritardo.

- Ho avuto un incidente.

- L’ho saputo, ma per quel che mi riguarda non è una scusante. Chiedimi perdono.

Sporse in avanti il piede destro e Tristan comprese.

Si morse le labbra per trattenere il conato di vomito, respirò a fondo.

- Tristan?

- Sì... – Piegò un ginocchio, poi l’altro; chinò la schiena e baciò lo stivale del Granduca. La bile gli grattò l’esofago.

- Bravo, e ora prostrati.

Chinò la fronte fino a toccare il pavimento e rimase così.

- Perdonatemi, signore – sputò, a forza. Dentro di lui, l’umiliazione bruciava come acido nella gola. – Vi supplico di avere pietà.

Il Granduca rise. Rise, perché solo la vergogna altrui lo faceva sentire potente e quando il mondo si inchinava al suo potere, egli si innalzava in tutta la sua forza.

Appoggiò il piede alla sua nuca e spinse a terra, schiacciando il viso di Tristan al pavimento.

Lui strinse i pugni, si fece violenza per trattenersi. Per mantenere in vita suo fratello, che Roman Fedar avrebbe ucciso davanti ai suoi occhi con piena soddisfazione, se solo gli avesse disobbedito una singola volta.

Se non fosse per quello...

E fu in quel momento, in quel preciso istante, che le parole di Helaida gli suonarono nella testa forti come un grido .

“E nel sacrificio c’è onore, poiché si offre la propria vita per il bene altrui.”

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Capitolo 12
*** Promessa ***


12

 

 

La cena venne apparecchiata nel giardino rotondo, sopra un enorme tavolo su cui vennero posate pietanze, frutta, acqua e vino. Mangiammo sedute nell’erba a gruppi più o meno numerosi, mentre pian piano prendevo confidenza con la vita di quel luogo. Le ragazze cercavano di mettermi a mio agio, si presentavano a turno e offrivano informazioni, spiegazioni, conforto e incoraggiamenti; capivo che non volevano spaventarmi eccessivamente, ma era chiaro dai loro discorsi che Tristan non aveva esagerato quando mi aveva descritto il Granduca. Ciascuna di loro era, a suo modo, traumatizzata da Roman Fedar; alcune al punto da scoppiare a piangere ogni volta che veniva nominato.

Restammo a parlare sotto i salici anche dopo il pasto, con la luce del giorno che sbiadiva lentamente rendendo difficoltoso il lavoro di cucito che stavo facendo sul mio abito, dopo aver recuperato da una delle ragazze ago e filo.

Fu in uno dei quei momenti fra il chiaro e lo scuro che Tristan apparve. Mi individuò con lo sguardo, ma non si fece vicino; si indirizzò invece verso un altro gruppo di ragazze. Mi fu chiaro solo in quel momento che ciascuna di loro aveva vissuto, con lui, la mia stessa esperienza. Non era il Tristan che mi aveva accompagnata lì... Lui era il “Tristan di tutte”. E, mi resi conto, non esisteva alcun motivo per cui dovesse considerarmi in modo speciale rispetto alle altre.

Questa riflessione mi infastidì, sebbene non ne comprendessi appieno il motivo. Forse quello che avevamo vissuto assieme: il viaggio, la tagliola, la sua malattia, i nostri litigi, mi avevano dato la parvenza di una sorta di intimità fra noi. Concetto assurdo di per sé, considerato che nessuno di noi due aveva rivelato all’altro un solo pensiero intimo. E tuttavia...

- Tocca a Suhanna stasera – mi sussurrò Geranna, la ragazza riccia che mi aveva accolta all’inizio. Solo in quell’istante mi resi conto che, per tutto il giardino, era sceso un mortale silenzio. La tensione aveva avvolto in spirali tutte le presenti, fino a che non si erano rese conto di poter respirare... di non essere, per quella sera, le prescelte.

A parte Suhanna, naturalmente.

Lei cominciò a gridare, a gridare così forte che tutte quante sussultammo, mentre lei,balzando in piedi, cercava in qualche modo di scappare. Tristan l’afferrò per un braccio e le diede uno schiaffo in viso, non tanto forte da farle veramente male, ma sufficiente ad ammutolirla, a farla rientrare un istante in sé.

- Smettila, Suhanna!

- No, ti prego! Ti prego, no! Non vengo, non stanotte, non portarmi da lui, ti prego Tristan, ti prego, ti prego!

Lui la trascinò in piedi, le mise un braccio attorno alla vita e la spinse con decisione verso la sua camera.

- Devi cambiarti e prepararti – le disse, freddo.

- Tristan, ti prego! – le lacrime le scivolavano in rigagnoli sulle guance e tremava talmente tanto da spezzare il cuore.

Tuttavia, lui la condusse senza un tentennamento alla sua camera, chiudendo la portafinestra dietro di loro.

- Tristan non ha cuore - commentò una delle ragazze del mio gruppo, con la voce incrinata – Davanti a una scena simile... e sapendo quello che a cui lei deve andare incontro... io non sarei mai riuscita a costringerla.

- Non ha pietà – aggiunse un’altra – Non c’è niente che puoi dire o fare che lo muova a compassione, l’ho sperimentato sulla mia pelle...  – La voce le si ruppe in un singhiozzo.

- Ma non è stato sempre così.

Una ragazza rossa di capelli, pallida come un cencio, si strinse nelle braccia a fermare un tremito.

- Io sono stata la prima a venire qui, la prima che Tristan ha accompagnato e di cui si è occupato... E posso assicurarvi che non si era comportato in quel modo allora. Né con me né con le ragazze immediatamente successive. Aveva cercato di supportarci, di consolarci, persino di intercedere per noi; ma la verità è che non può fare nulla per aiutarci e questo lo tormentava giorno e notte. Alla fine si è indurito... Per sopravvivere, capite?

- Non ne sono convinta – commentò, la prima che aveva parlato – Non avrebbe accettato questo incarico se lo fa tanto soffrire, no?

- Non si è scelto questo lavoro, è costretto a farlo – replicò la rossa seccamente – Il Granduca ha minacciato di uccidere suo fratello se solo Tristan prova a disobbedirgli una volta. Dovreste conoscere ormai Roman Fedar: si sente forte solo quando può imporre il suo volere sulla vita degli altri, e costringere Tristan a servirlo in questo modo non è altro che uno dei suoi meschini espedienti!

Il tono della ragazza mi sorprese: il disprezzo che mal celava raccontando ciò che sapeva e i dettagli privati della vita di Tristan di cui era a conoscenza, mi dicevano a chiare lettere che realmente, tra loro, doveva esserci stato un rapporto stretto. Tristan, durante il nostro viaggio, non si sarebbe mai sognato di rivelarmi alcunché, anzi... Già solo sfiorarmi, guardarmi, essere consapevole della mia presenza sembrava provocargli una costante irritazione.

- Posso capirlo – meditai ad alta voce – Se ogni giorno è costretto a sopportare scene come quella a cui ho appena assistito...

- Non provare pena per lui –  intervenne Noira – Provane per te stessa.

- Non mancherò – sorrisi amaramente.

 

Rimasi in silenzio a lungo sdraiata nel letto, le orecchie all’erta in cerca di un suono, un indizio.

Finalmente, verso le due del mattino, un rumore soffocato in corridoio mi indicò la presenza di qualcuno; uscii silenziosamente dalla camera e mi sporsi a guardare oltre l’uscio. Il corridoio era illuminato da fiaccole accese appese lungo la parete, che mi permisero di mettere a fuoco le figure ferme qualche porta oltre la mia.

Tristan era davanti a una delle stanze e teneva Suhanna in braccio, quasi del tutto nuda nei suoi abiti stracciati; lei gli stringeva le braccia al collo, piangeva e singhiozzava, avvinghiandosi a lui. Mormorava qualcosa, ma a voce troppo bassa. Dovetti sforzarmi a lungo per comprendere il significato del suo sussurrare.

- Uccidimi, ti prego – bisbigliava tra i singhiozzi – Non ce la faccio più, ti prego, uccidimi.

- Smettila – rispose lui – Ora ti farai un bagno caldo e berrai una camomilla, ti metterai tranquilla e riuscirai a riposare.

- Non è vero, io non riesco più a dormire... Ho incubi, faccio incubi tutto il tempo, io non resisto più qui, Tristan ti prego, fa qualcosa...

Lui spalancò la porta della camera e attraversò la soglia.

- Guarda, ti ho già fatto preparare il bagno. Dopo starai meglio.

Il suo tono rasentava l’indifferenza, ma scavandolo a fondo riuscivo a sentire una vibrazione che era quasi un tremito. Un tremito di compassione, di sconforto, di disperazione, che Tristan si rifiutava di provare. Che chiudeva fuori da sé, per non essere costretto a viverlo.

Ricomparve in corridoio chiudendo la porta alle sue spalle, lasciando dietro sé i singhiozzi strappacuore di Suhanna. Appena alzò lo sguardo, mi vide.

- Cosa ci fai qua fuori? – si guardò intorno sospettoso – Non starai già cercando di scappare?

Scossi la testa e mi sforzai di sorridere, di rendere quel momento più leggero di qualche grammo – Ti stavo aspettando per cambiarti la medicazione.

Lo sbigottimento sul suo viso mi fece quasi scoppiare a ridere.

- Scommetto che da solo non ci hai pensato: sembri dimenticare in continuazione di avere una caviglia in convalescenza... Per non parlare poi dei tuoi comportamenti sconsiderati. Come sei riuscito a portare Suhanna in braccio, se a malapena riesci ad appoggiare il piede?

Lui scosse la testa, ancora costernato.

- Non sarebbe mai riuscita a tornare sulle sue gambe. Comunque sto meglio, non ho più bisogno di medicazioni.

- Non essere sciocco, solo qualche giorno fa hai rischiato l’amputazione! Ho trovato in stanza tutto l’occorrente per cambiarti la fasciatura, quindi vieni con me.

Lo fece, penso che fosse troppo stanco per ribattere ancora e finì che invece di restare in camera ci posizionammo nel giardino, sotto a un lampione che Tristan accese con una torcia. Sedette sfinito su una panca e mi lasciò trafficare con il suo piede: ero ormai talmente abituata a cambiare la fasciatura, che non avevo quasi più bisogno di luce per occuparmene.

- Ti sembra che faccia meno male?

Lui si strinse nelle spalle – Sta migliorando, credo.

La temperatura era mite quella sera, così come mite sembrava il suo sguardo. Era troppo esausto per litigare, per attaccare; mi lasciava fare mentre riposava il suo spirito.

Dopo ciò che avevo visto, riuscivo a comprendere almeno parte della sua amarezza, del sarcasmo dietro cui criptava il suo vero animo.

- Io non ti farò questo, te lo prometto.

- Cosa stai dicendo? – mi fissò quasi con compassione, come se fossi irrimediabilmente matta e non potessi esprimere un solo concetto sensato.

- Dovermi strappare a forza per portarmi al Granduca... piangere, supplicarti, combattere. Ti prometto che non lo farò, cercherò di esserti di peso il meno possibile.

Lui scosse la testa, come se io non potessi capire.

- L’ho visto succedere già trentotto volte, Helaida, e con te non sarà diverso.

- Farò comunque del mio meglio.

Si girò a fissarmi, mi guardò come se fossi un rebus complicato.

- Ma perché? – chiese infine.

- Perché non possiamo scaricarti addosso il peso di tutte quante noi, non è giusto.

- Io so proteggermi, so perfettamente cosa è giusto o ingiusto per me. A te invece domani sera non importerà più, credimi.

- Domani sera... toccherà a me?

Lui esitò. Non aveva mai lesinato di sbattermi in faccia il peggio e questo mi fece comprendere la portata di ciò che dovevo ancora scoprire.

- Preferisco sapere. Per favore...

- Roman Fedar ha invitato degli amici a giocare e tu... farai parte del loro gioco. Ha un mazzo di carte speciali in cui vengono descritte... le cose che ti faranno. Giocheranno a dadi, e il vincitore di ogni mano avrà il diritto di pescare una carta. Tu sarai completamente nuda.

Tirai un respiro profondo.

SonoprontaSonoprontaSonoprontaSonopronta

- Va bene.

Lui sorrise e stavolta la cattiveria tornò a modellargli i lineamenti.

- Va bene? Raccontamelo ancora domani notte, Helaida, che va bene! Vienimi ancora a dire che non piangerai e non supplicherai e che non avrai paura!

- Non ho mai detto che non ho paura. Ma non posso ribellarmi, non avrebbe avuto senso, allora, offrirmi per venire fino a qui! Non ho mai creduto che sarebbe stato facile.

Lui scivolò dalla panca e sedette sull’erba, a fianco a me.

- Per il Granduca tu sei una sfida, non ti lascerà in pace finché non avrà distrutto completamente il tuo spirito. Vuole un harem di ragazze disperate, terrorizzate, alla sua mercé. Siete il simbolo delle terre che ha sottomesso, la vostra sofferenza lo fa sentire forte. E io sono come lui, quindi non devi preoccuparti di ferirmi!

- Tu sei come lui? E questa da dove l’hai tirata fuori?

- Mi ha fatto diventare come lui, mi ha fatto vedere la realtà con i suoi occhi. Se la guardo con i suoi occhi, niente può farmi stare male.

- Tristan... se hai deciso di diventare come lui per non soffrire, significa che ti ha già ferito a morte.

Lui non rispose. Ma non fuggì neppure.

Questa sera sembrava troppo stanco per tutto, persino per difendersi.

- So che sei stato torturato e so che il Granduca ti tiene in scacco con la vita di tuo fratello... – lo vidi sussultare – Ma io credo che ci sia anche dell’altro.

Trattenne il respiro uno, cinque, dieci secondi. Quando parlò, fu come se stesse scagliando un proiettile.

- Ho ucciso mia sorella.

- Che... Cosa significa?

- Quando mi torturava, lo supplicavo di smettere, di avere pietà. Allora mi ha esaudito. Ma ogni richiesta, per il Granduca, vale una vita. Ha ucciso lei, per smettere di torturare me. E poi me l’ha detto, per farmi comprendere che l’avevo ammazzata io. Quindi non chiedergli mai niente, Helaida, non fargli richieste, perché se le esaudirà, vorrà dire che avrai la morte di qualcuno sulla coscienza.

Lo sgomento mi ammutolì. Gli occhi mi si inumidirono, perché se c’era qualcosa che comprendevo era l’affetto per una sorella e il dolore atroce che la sua mancanza – la loro mancanza! – mi procurava.

- Non perdere tempo a compatirmi, ora – mi riprese lui, bruscamente – Non sono più quello di una volta, ho dato un taglio ai sentimentalismi, agli ideali, al buonismo. Io sono quello che ha fatto a pezzi l’unico ricordo delle tue sorelle, non dimenticartelo. Credo solo in ciò che mi fa stare bene, questa è la mia filosofia di vita, frutto delle catechesi del Granduca. E tu dovresti smetterla di impicciarti delle mie cose e pensare alle tue... perché domani sera il problema sarà tuo,  non mio.

- Lo so – Non voglio pensare a domani, non voglio pensarci, non ancora, nonancoranonancora... – Però, Tristan, tu sei qui per salvare la vita a tuo fratello. Questo ci rende simili, non credi?

Lui si alzò di scatto, si passò le mani sui pantaloni e mi diede le spalle – Sono stanco, ho bisogno di dormire. Buona notte, Helaida.

Spense la torcia infilata nel lampione e se ne andò, lasciandomi al buio.

 

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Capitolo 13
*** Carte e dadi ***


13

 

 

È necessario dirlo che il mio secondo giorno alla Roccaforte, in attesa di quella mia nottata con il Granduca, fu un’agonia?

Sono pronta, era il mio grido di battaglia, il mio mantra, il mio dispensatore di certezze. Ma ero pronta veramente? Come poteva sentirmi preparata a qualcosa che non avevo mai vissuto in vita mia?

Non sapevo davvero cosa sarebbe accaduto, come mi sarei sentita, cosa sarei diventata dopo.

Così non potei fare altro che aggrapparmi alle mie poche certezze: all’importanza del mio sacrificio, della salvezza del mio popolo, della mia dignità.

Immaginai tutto ciò che sarebbe accaduto, il peggio che potessi ideare; lo anticipai con la mente così da essere pronta, da non restare sconvolta quando mi ci fossi trovata dentro. Non potevo fare altro, se non costruirmi scudi e barriere mentali.

Durante il pomeriggio, così come mi fu ordinato, feci lunghi bagni con lozioni profumate e resi vaporosi i miei capelli; le altre ragazze, vedendo i miei preparativi, da un lato mi commiseravano e dall’altro non potevano fare a meno di sentirsi sollevate perché non toccava a loro. Non quella sera.

Alla fine fu Tristan a venirmi a prendere. Ero seduta sul mio letto, a stomaco vuoto perché non ero riuscita a ingerire nulla, avvolta nel mio vestito verde chiaro che non ero riuscita ad accantonare, nonostante le chiare indicazioni di dovermi presentare senza abiti. Avevo indossato bracciali d’oro alle caviglie e ai polsi, avevo i capelli sciolti sulle spalle, ma quell’abito proprio non voleva cadermi di dosso.

Tristan entrò senza bussare e mi trovò in quella posizione.

- Non sei pronta – constatò, fissandomi a occhi stretti.

Mi alzai lentamente – Sì, la sono. Devo solo togliermi il vestito.

Lo dissi, ma non lo feci. Era come se il mio corpo si fosse improvvisamente incollato all’aria impedendomi di muovermi.

- Helaida... – cominciò lui, e riconobbi il tono che aveva usato la sera prima con Suhanna. Ricordai anche che mi ero ripromessa che con me non sarebbe accaduto.

- Ci sono.

Slacciai l’abito e lo feci cadere sul letto, restando completamente svestita, esposta agli sguardi di chiunque avremmo incrociato lungo il tragitto e, peggio, - mille volte peggio -a quelli degli amici del Granduca.

Sono pronta. Stringerò i denti, fingerò di essere altrove, conterò i minuti e questa serata passerà. Il tempo scorre in un soffio, ora ho paura e fra un istante sarà  tutto finito.

Mi sono preparata, ce la posso fare.

Rivolsi un sorriso imbarazzato a Tristan, perché il suo sguardo su di me era forse il più pesante.

- Vado bene?

Lui mi squadrò con occhio analitico, non come si guarda una donna nuda, ma una portata che si sta per servire in tavola.

- Mi sembra tutto a posto – disse, e mi fece cenno di seguirlo.

Uscire dalla stanza fu il passo più difficile, ma lo feci come se non mi stesse costando nulla. Avrei fatto ogni cosa come se fosse stata la normalità, ignorando le mie emozioni, i miei pensieri, le mie sensazioni.

Arriverò in fondo a tutto questo.

Vacillai, quando entrammo nel salone. Il Granduca era seduto a un tavolo assieme ad altri cinque uomini e gli occhi avidi di ciascuno di loro strisciarono lentamente su ogni centimetro della mia pelle.

Posso farcela, durerà poco, durerà solo per questa sera, poi sarò in camera, sarò sola. Posso farcela.

- Vieni ragazza, vieni in mezzo a noi.

La voce del Granduca era rivestita di una dolcezza così falsa da risultare stomachevole. Mi aspettavo che Tristan mi avrebbe lasciata e se ne sarebbe andato, invece rimase a pochi metri di distanza, appoggiato di schiena a una colonna, a braccia conserte.

- Iniziamo a giocare? – propose Roman Fedar.

 

 

La bellezza di Helaida non era fatta per il Granduca.

Questo aveva pensato Tristan, quando l’aveva esaminata fingendo di avere di fronte un dipinto, non una donna vera.

La bellezza di Helaida, casta, naturale, spontanea, non aveva nulla a che fare con le artificiosità, le perversioni e la grossolanità di Roman Fedar.

Non è fatta per lui.

È fatta per me.

Quest’ultimo pensiero era nato senza permesso e scivolato fuori appresso agli altri, prima che lui potesse notarlo e fermarlo.

Quel pensiero, tuttavia, non gli era di alcuna utilità, poiché Helaida apparteneva al Granduca e lui la stava usando a suo piacimento nel tentativo di sporcarla, macchiarla, spezzarla, renderla più simile a lui e molto meno – quasi per niente – a se stessa.

La toccarono in molti modi, in ogni parte del corpo, senza pudori né vergogna. Non la penetrarono, perché questo non faceva parte del gioco, ma la stimolarono e tormentarono e umiliarono con tutti i mezzi consentiti dalle carte, per tutte le due ore che durò il passatempo.

Tristan tenne le braccia incrociate sul petto tutto il tempo, le unghie conficcate nella propria carne, i denti stretti, chiedendosi perché mai, perché mai, perché accidenti mai, un pugno di ferro gli stringeva la gola, gli spezzava il respiro, gli sconquassava lo stomaco. Lui, che aveva assistito ad ogni atrocità in quel palazzo, lui che aveva smesso di reagire, di soffrire, di compatire, di commuoversi; lui, che aveva fatto sì che ogni ingiustizia perpetrata dal Granduca diventasse giustizia ai suoi occhi, perché sì, perché così non avrebbe sentito male. Lui, che aveva scelto come unica verità quella di non soffrire.

Perché lui si sentiva morire?

Morire al posto di Helaida, che non si oppose a nulla, non pianse e non supplicò. Gemette morsicandosi le labbra e ansimò, tutt’al più, ma non urlò mai, non cedette a implorazioni strazianti e non chiese una sola volta di essere risparmiata.

Si accanirono su di lei proprio per questo, ma non ottennero nulla di più. Stringeva gli occhi e i denti e aspettava, passivamente, che il ciclone si ritirasse dalla sua testa.

- Basta così, siamo stanchi!

Il Granduca gli fece cenno con il capo di riprenderla e portarla via e Tristan si chinò su di lei per prenderla in braccio.

- La tua caviglia... – mormorò lei, in un filo di voce tanto sottile che si perse nel niente. Lui la sollevò e la strinse contro di sé, appoggiandosi il suo capo sul petto. Aveva le braccia a penzoloni, ma a un certo punto, mentre la portava lungo i corridoi, gliele passò attorno al collo.

Stava in silenzio, distratta, come se fosse partita per un luogo da cui faceva fatica a tornare.

Tristan si fermò quando fu di fronte alla porta della sua stanza, indeciso sul da farsi.

Fu allora che lei parlò in un soffio di voce.

- Sei costretto ad assistere ogni volta?

Lui aveva la bocca secca.

- Abbastanza spesso – mormorò.

- Allora capisco.

Non le chiese che cosa capiva, si limitò ad aprire la porta della stanza e ad accompagnarla alla vasca che, come aveva chiesto, era stata riempita di acqua tenuta in caldo.

Ce la adagiò dentro lentamente, bagnandosi le maniche della maglia, e poi rimase lì fermo, senza sapere cosa fare, cosa dire.

Vado,

resto.

Scappo,

starò qui finché ti sarai ripresa.

Ogni soluzione gli sembrava sbagliata, orrenda per lei, per se stesso.

- Come stai?

Che domanda stupida.

Gli occhi di lei, di solito così trasparenti, erano colmi delle ombre della stanza.

- È finito – gli sussurrò – Adesso starò bene.

Ma rabbrividiva e tremava forte. Aveva le lacrime nascoste agli angoli degli occhi, eppure non piangeva.

- Strofinati con il sapone, ti aiuterà a sentirti meglio.

Lei scosse la testa.

- Davvero, Helaida, ti farà bene.

- Non ora. Non riesco... a toccarmi. Non voglio più sentirmi il corpo.

La risposta lo ammutolì. Rimase in silenzio a fissarla, ancora una volta sull’orlo di due decisioni divergenti.

Me ne vado più velocemente possibile,

starò con lei finché non ritorna se stessa.

- Helaida, puoi piangere – le disse allora –  Non devi trattenerti solo perché ci sono io... È normale piangere.

- Tu non lo fai mai.

Tristan distolse lo sguardo, chiedendosi perché girava l’attenzione su di lui in quel momento.

- Ho smesso quando è morta mia sorella. Ho congelato le lacrime e le ho lasciate lì.

Lei lo guardò in un modo strano – Allora posso farlo anch’io.

No, tu no.

Tristan afferrò il sapone, lo fece diventare schiuma e, con delicatezza, iniziò a passarlo sul corpo di Helaida. Lei non disse nulla, lo lasciò fare; ma non come aveva lasciato fare al Granduca e ai suoi amici – estraniandosi e tollerando - bensì con lo sfinimento di chi non ha più la forza di gestire la propria vita e lascia che siano gli altri a condurla.

- Mi dispiace – la sentì sussurrare.

- Di cosa?

- Di non essere più forte. Non volevo che finisse così, che tu dovessi spartire con me il peso di quello che è accaduto. Ti avevo promesso che non sarebbe accaduto.

- Ti sei comportata bene. Sei stata forte come nessun’altra avevo mai visto.

- Ma non abbastanza.

- Helaida...

- Ho capito perché le altre urlano, quando arriva il loro turno.

No, ti prego, non dirmelo. Non diventare anche tu come loro.

 Non diventare come me.

La fece alzare e la avvolse in un telo, poi si scostò, mentre si asciugava. Meccanicamente lei tornò verso il letto, dove aveva lasciato l’abito verde; rimase in silenzio a fissarlo e lui si domandò a cosa stesse pensando. Poi lei lasciò cadere a terra l’asciugamano e iniziò a spazzolarsi i capelli.

- Helaida...

Lei si girò. Il suo corpo era chiaro, nella semioscurità della stanza.

- Non devi restare nuda di fronte a me, come se fosse normale. Dovresti chiedermi di girarmi.

- E perché? Non conosci a memoria il mio corpo, dopo questa sera?

Lui ebbe un brivido. Ti prego, tu non sei così.

Lei si infilò l’abito dalla testa, in un unico movimento.

- Anche se così fosse, non significa che non rispetterò più la tua intimità.

Gli sorrise, triste  – Come se tu l’avessi mai fatto.

- Quello che voglio dire...

- Ho capito quello che vuoi dire. Ma stanotte mi sembra tutto strano, tutto sottosopra... e non ho più la percezione normale delle cose, io... – fece una pausa, diede in un singhiozzo e poi si voltò – Puoi andartene, per favore? Ho provato a non piangere, ma non ci riesco... e mi sa che... – La voce le si ruppe e, pur vedendo di lei solo la schiena, seppe che le sue guance erano inondate di lacrime.

Era il momento di andarsene.

Già da molto, sarebbe dovuto uscire da quella stanza. Ma ancora una volta non si mosse. Non poteva muoversi senza aver prima capito chi era la persona di fronte a lui: Helaida, nella sua forza, nella sua innocenza irremovibile; oppure una fanciulla spezzata nel corpo e nello spirito. Oppure, ancora, la versione indurita che lui stesso ormai era diventato.

Non poteva andarsene senza una risposta.

La fece voltare e guardò le sue lacrime.

- Di cosa hai bisogno, Helaida?

Lei scosse la testa, piangendo in silenzio.

- Voglio... il mio nastro...

Lui vide il suo vecchio vestito piegato su una sedia, cercò nella tasca e ci trovò il nastro azzurro ricucito. Quando glielo porse, Helaida se lo strinse al petto e le lacrime uscirono accompagnate da singhiozzi forti, rumorosi.

Perché rimani qui, Tristan?

Lei non voleva mostrarsi in quel modo né lui voleva davvero vederla in quello stato. Ma non si mosse neppure allora.

Le appoggiò una mano dietro alla schiena e la tirò verso di sé, per darle quel conforto che tutte le ragazze gli avevano domandato e che lui aveva sempre negato loro.

Helaida si appoggiò a lui e rimase così, mentre i singhiozzi rotti si trasformavano lentamente in respiri smozzicati, in piccoli singulti e, infine, in un breve sussulto ogni tanto.

- Questa d’ora in poi sarà la mia vita, vero?

Lui annuì, senza avere il coraggio di rispondere a voce alta.

- Va bene. Va bene, è ciò che ho voluto, ciò che salverà il mio popolo, la mia terra... i miei genitori e le mie sorelle. In fondo... è quello che stai facendo anche tu.

Quell’ultima affermazione lo provò nel profondo e, all’improvviso, sentì qualcosa di umido pungergli gli occhi.

No, ti prego, non farlo. Avevi smesso, avevi smesso, avevi smesso.

- Anche tu stai vivendo nel tormento per il bene di una persona che ami... – bisbigliò lei.

- Helaida, non...

- E non c’è nessuno che ti conforta, nessuno a cui puoi appoggiarti.

Le lacrime travasarono e lui rimase immobile a sentirle scorrere calde sulla pelle.

- Vedi che sai piangere anche tu? – gli sussurrò lei – Vedi che in fondo non sei cambiato?

- Ti prego... non farlo – la implorò, in un bisbiglio – Non farmi tornare indietro. Se torno indietro, io non sopravvivrò... Non ce la faccio a resistere.

Lei sollevò il viso sul suo, si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò con una delicatezza disarmante.

Quella dolcezza sfondò le ultime barriere, inondando di lacrime i suoi occhi.

- Non posso tornare a sentire – le disse, soffocato dal pianto – Non riportarmi indietro.

- Se non vuoi tornare indietro, allora fammi essere come te.

Lui la fissò sgomento e la paura gli invase il cuore.

 

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Capitolo 14
*** Il giorno dopo ***


14

 

 

Fu strano, quel giorno dopo.

Mi sentivo io, ma non ero più io. Sporca per ciò che avevo subito, pulita per il sacrificio cui avevo tenuto fede; disgustata di me, di com’ero stata di fronte al Granduca, ma commossa della vicinanza che mi aveva offerto Tristan. Ossessionata dalla violenza di quelle due ore di supplizio, ma perseguitata dalla delicatezza del bacio restituitomi da Tristan.

Angosciata e annebbiata, malinconica e terrorizzata, sognante e agitata.

E lo vidi molte volte, quel giorno. Trovava ogni scusa per entrare nel giardino, per fare qualcosa che riguardava l’harem, per lanciarmi uno sguardo da lontano. Uno sguardo preoccupato, protettivo, indagatore.

Io ricambiavo ed ogni sensazione confusa, invece di disperdersi, si amplificava.

 

 

Non riusciva a starle lontano, quel giorno. Non riusciva a liberarsi di ciò che era accaduto, delle lacrime che aveva pianto e delle parole che aveva detto, di ciò che era stato ancora per una volta, quella notte.

La guardava e tutto gli tornava alla mente, così scappava. Ma là fuori, lontano da lei, la sua ansia aumentava: aveva bisogno di vederla, di tenerla d’occhio, di sapere in ogni istante cosa stava facendo.

Così ritornava ancora una volta nel giardino, senza avere il coraggio di avvicinarsi davvero.

 

 

Mi aggrappai al mio nastro azzurro, quel giorno, come alla zattera che mi avrebbe tenuta a galla. Era tutto ciò che poteva ancorarmi a quello che ero stata e che ancora, nonostante tutto, volevo essere. E gli occhi di Tristan, che andavano e venivano dalla mia visuale, mi dicevano che sì, avevano giocato a disprezzarmi in passato, ma ora mi rivolevano per quella che un tempo ero stata, per come mi avevano conosciuta prima che incontrassi il Granduca.

 

 

Ciò che le avevano fatto lo perseguitava. Le scene cui era stato costretto ad assistere gli tornavano davanti agli occhi come i primi tempi in cui aveva lavorato per Roman Fedar, quando ancora riusciva a soffrire per quello  che faceva alle ragazze.

Oggi era come allora: si sentiva indifeso di fronte all’ingiustizia perpetrata ad Helaida e non riusciva più a concepirla normale e a distanziarsi.

Il coraggio con cui lei aveva affrontato quei momenti gli faceva quasi male, così come il ricordo di come si fosse preoccupata per tutto il tempo di lui.

La caviglia, il fatto che fosse costretto ad assistere, i tentativi di non piangere, quel bacio...

E non era stata l’unica volta: si era presa cura di lui per giorni. Ma nessuno avrebbe salvato lei.

 

L’importante è non proiettarsi nel futuro.

Così mi dissero le altre ragazze, sedute con me nel giardino.

Vivi il presente, l’attimo in cui sei qui con noi, e non pensare mai alla prossima volta che vedrai il Granduca.

Così iniziai a esercitarmi.

 

 

No, nessuno l’avrebbe salvata.

E non poteva rifiutarsi, scappare, tirarsi indietro; perché il suo popolo ne avrebbe pagato le conseguenze.

Se lui l’avesse aiutata a fuggire, gli accordi tra il Granduca e la sua terra sarebbero saltati.

Se lei si fosse uccisa, il Granduca avrebbe chiesto in cambio sua sorella.

E lui, Tristan, aveva le mani legate; legate alla vita di suo fratello.

Non c’era niente che lui o lei potessero fare per evitarle l’inferno in terra.

 

 

Vederlo da lontano, mi faceva sentire meno sola. Ricordavo il suo abbraccio, la sua vicinanza, l’aiuto e il conforto che mi aveva offerto quando più mi ero sentita fragile, in scarso equilibrio sul filo di un baratro nero come pece.

Non era più l’uomo crudele che mi aveva insultata, affamata, umiliata, rifiutata. Era qualcosa di nuovo, qualcosa che era emerso tra le macerie di un cuore distrutto.

Mi aveva chiesto di non riportarlo indietro, e invece io mi ero aggrappata a lui. Mi chiedevo se fossi riuscita a farlo restare.

 

 

Adesso, Tristan era fragile. Le false verità di cui si era vestito erano cadute a terra lacere e il mondo si era ribaltato un’altra volta.

Adesso il suo cuore era esposto a tutta quella gentilezza che Helaida gli aveva offerto durante il viaggio, quella che lui aveva disprezzato e allontanato da sé come veleno. Ricordò il modo in cui le aveva spezzato il nastro e quello in cui lei l’aveva perdonato; rammentò le sue parole, la sua fiducia nel fatto che il bene avrebbe generato altro bene.

Invece le stava tornando solo del male, un male perverso, oscuro, che l’avrebbe soffocata trasformando la sua luce in disperazione.

 


Alla fine della giornata, erano solo i suoi occhi che cercavo. I soli in grado di darmi un misero alito di conforto.

 

 

Alla fine della giornata, sapeva che non avrebbe accettato di vederla cambiata. Sapeva che al suo bene sarebbe dovuto corrispondere solo altro bene.


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Vorrei spendere due parole in ringraziamenti, perché arrivati ormai prossimi al finale, mi rendo conto del nutrito seguito che, inaspettatamente, ha richiamato
questa storia.  Al momento attuale risulta che 8 persone l'abbiano messa tra le Ricordate, 23 tra le Preferite e ben 62 nelle Seguite.
Che dire, se non GRAZIE della vostra assiduità?
E mille volte grazie, anche a tutti coloro che ogni volta si spendono per lasciarmi una recensione!
Alla prossima settimana!

phoenix_esmeralda

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Capitolo 15
*** L'ultima fasciatura ***


 

15

 

 

Dopo cena rimasi nel giardino a guardar scendere il sole. Portai con me l’abito che dovevo ancora terminare di cucire e mi isolai dal resto delle ragazze, in cerca di quiete.

Vidi Tristan arrivare e prendere la ragazza di turno – non io – e lo immaginai assistere a un’altra scena come quella della sera prima, per lui l’ennesima di una sfilza ormai incalcolabile.

Appena si accorsero di aver scampato il pericolo, le mie compagne, una dopo l’altra, se ne andarono a letto e in capo a una mezzora rimasi da sola; fu allora che Tristan riemerse nel giardino sotto la luce screziata del crepuscolo.

Mi cercò con lo sguardo e mi venne incontro.

- Non devi... restare là stasera? – gli domandai, piano, mentre arrivava.

- Non subito. Tra un po’.

Rimase fermo in piedi davanti a me, passando il peso da un piede all’altro, a disagio probabilmente quanto la ero io.

Era difficile parlarsi, adesso, superare la barriera di quanto era accaduto ieri notte. Lui aveva assistito alla mia umiliazione, aveva visto con i suoi ciò che io non riuscivo a riguardare neppure con la mente.

E io... io lo avevo visto piangere. La sua voce incrinata, supplicante, bisbigliava ancora tra i miei ricordi.

E poi c’eravamo baciati.

Dopo quel bacio, dopo quel lungo abbraccio, Tristan se n’era andato e tutto questo, ora, pesava tra di noi alla luce di un nuovo giorno. Era quello che ci aveva tenuti a distanza per tutte queste ore, nonostante Tristan fosse capitato innumerevoli volte nei miei spazi.

Provai a dirgli qualcosa, ma le parole non venivano: ero prigioniera del vuoto.

- Potresti cambiarmi la fasciatura?

Ci mancò poco che lo fissassi a bocca aperta.

- Sì... certo.

Corsi a prendere il necessario in camera e quando tornai lo trovai già seduto sulla panca, lo stivale rovesciato sul terreno. Sembrava tranquillo, per la prima volta privo di rabbia, di cattiveria... di disperazione.  I capelli neri gli cadevano sul viso incorniciandolo come un bel dipinto, perché bello lo era, in quel momento. Bello come può essere solo un volto sereno.

Mi chinai davanti a lui e svolsi la fasciatura dalla caviglia, trovandola finalmente pulita. La pelle si stava rimarginando e presto si sarebbe cristallizzata in una cicatrice stabile.

- Credo che non ci sia più bisogno di fasciarla, Tristan. Ora puoi lasciare la pelle all’aria.

Lui abbassò lo sguardo su di me, annuendo.

- Fallo ugualmente, ancora per stasera. Per l’ultima volta.

Mi parve una richiesta bizzarra, ma lui, oggettivamente, bizzarro lo era; quindi lo accontentai. Avevo fatto una benda con la stoffa verde avanzata dal mio vestito, la presi e gliela assicurai attorno alla caviglia, poi mi sedetti sulla panca al suo fianco. Lui mi fissava, come a cercarmi qualcosa addosso che avrebbe dovuto essere visibile, ma non lo era.

- Cosa c’è? – domandai.

- Nulla. È che... temevo che ti avrei trovata cambiata.

- Non sono cambiata. Sei tu che sei diverso, oggi.

- Perché non ti offendo?

Mi strinsi nelle spalle – Fra le altre cose.

Sorrise, ma la piega della sua bocca restò dalla parte dell’ironia, non scivolò fino al sarcasmo.

- Allora goditi il momento – mi disse.

E io lo feci sul serio, perché la quiete della sera che calava si accostava alla tranquillità di Tristan, donandomi una calma che non avrei creduto possibile.

Restammo a guardare in silenzio gli ultimi bagliori del crepuscolo spegnersi nell’oscurità e quando la notte si fu impossessata di ogni angolo del giardino, lui si alzò.

- Helaida, ti sei pentita del tuo sacrificio ora?

Scossi la testa, senza incertezze.

- E continui a credere che sia meglio perdonare che distruggere, e che il bene sia la migliore risposta in ogni situazione?

- Lo credo, Tristan. È l’unica forza che mi tiene ancora in piedi.

Lui infilò le mani nelle tasche, stringendosi nelle spalle.

- Devo tornare dal Granduca.

Mi alzai a mia volta – Allora.... a domani.

Istintivamente gli scostai i capelli e gli feci una carezza sul viso. Non so da dove mi venne, ma fu assolutamente naturale.

Lui mi afferrò la mano che lo accarezzava e la strinse per un momento.

- Questa è la parte di te che non devi mai lasciar andare – mi disse. Poi aprì il palmo e, con un cenno di saluto, si allontanò.

 

 

Tristan tornò verso le stanze del Granduca subito dopo aver riaccompagnato Kaila in camera. Sapeva per esperienza che, dopo aver trascorso la serata con una ragazza, la disposizione d’animo di Roman Fedar era di gran lunga migliore che in qualsiasi altro momento della giornata.

E lui aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile, perché non poteva permettersi di fallire.

La sconfitta era fuori discussione.

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Capitolo 16
*** Quel bene che ritorna ***


16

 

 

L’uomo entrò di prepotenza nella mia stanza, subito dopo la colazione. Era sulla trentina, biondiccio, con le guance scavate e le braccia eccessivamente muscolose.

- Prepara i tuoi bagagli – mi disse, secco – Parti fra mezzora.

Pensai che avesse sbagliato stanza, sbagliato persona.

- Io sono Helaida d’Orca, tu chi cerchi? Sono qua solamente da quattro giorni.

-  E resteranno i tuoi unici quattro giorni, ti riporto a casa. Forza, metti insieme le tue cose!

Io invece rimasi immobile, imbambolata.

- Avanti ragazza, non ho molto tempo da perdere! Il Granduca ci mette a disposizione il calesse con i cavalli più veloci per accelerare i tempi del nostro viaggio: devo tornare il prima possibile per prendere in mano la gestione dell’harem.

- La prendi in mano tu? E... Tristan?

Lui fece un cenno dispersivo con il braccio e mi spinse verso l’armadio.

- Muoviti, adesso, ritorno fra poco.

- Ma se torno a casa, il mio popolo morirà di fame!

-  No, le condizioni resteranno le stesse. E ora sbrigati!

Se ne andò sbattendo la porta e lasciandomi nel più completo stato confusionale.

Andare a casa. Le condizioni non cambiano. Tristan... destituito.

Ma che cosa sta succedendo?

Mettere insieme le mie cose fu questione di qualche minuto: ero arrivata con poco, me ne andavo con ancora meno. Indossai il mio vecchio vestito, ormai ricucito, e legai i capelli con il mio nastro azzurro... ricucito anch’esso. Le altre ragazze però iniziarono ad affollarsi alla mia portafinestra, curiosando, chiedendo prima in modo discreto, poi sempre più diretto.

- Non lo so, non capisco – ripetevo io, stralunata – Non mi ha spiegato niente!

Poi Suhanna fece capolino fra le altre – Ho sentito io delle voci, mentre stamattina ci servivano la colazione... Sembra che Tristan abbia fatto uno scambio con il Granduca, per liberare Helaida.

Trasalii – Quale tipo di scambio?

- Io ho sentito solo questo – rispose, scuotendo la testa - Ieri sera è andato sul tardi nelle stanze di Roman Fedar e hanno stilato un patto. Da quel momento, nessuno ha più visto Tristan.

Non feci in tempo a elaborare la notizia, perché il tizio biondiccio tornò come un ciclone nella mia stanza.

- Sei pronta? I cavalli ci aspettano.

Non mi lasciò neppure il tempo di congedarmi dalle mie compagne, mi appoggiò le dita alla schiena sospingendomi lungo i corridoi e tenendo con l’altra mano la mia borsa semivuota.

- È vero che è stato Tristan a volermi libera? Che cosa gli è successo? – domandavo a ripetizione, ma quell’uomo, di cui neppure conoscevo il nome, mi incitava a fare presto senza dare una sola risposta.

Il calesse ci aspettava con i cavalli già attaccati e, spronata dal mio accompagnatore biondo, stavo per montare, quando dal nulla un ricordo mi attraversò la mente.

“Ogni richiesta, per il Granduca, vale una vita. Ha ucciso mia sorella,, per smettere di torturare me. E poi me l’ha detto, per farmi comprendere che l’avevo ammazzata io. Quindi non chiedergli mai niente, Helaida, non fargli richieste, perché se le esaudirà, vorrà dire che avrai la morte di qualcuno sulla coscienza.”

Mi bloccai all’improvviso, raddrizzando la schiena e costringendo il mio accompagnatore a lasciarmi.

- Morirà, vero? – gridai – Ha accettato di morire per liberarmi? O è già morto? Oh, ti prego...!

Lui cercò di afferrarmi per le braccia, ma mi dimenai – Dimmi la verità, devo saperlo, ho bisogno di sapere!

- Non è ancora morto – sibilò lui – Ma sì, lo sarà presto: ha fatto uno scambio con il Granduca per poterti liberare. Quindi sii contenta del dono che ti è stato fatto e smettila di agitarti, ti conviene tenere un profilo basso e dartela a gambe il prima possibile.

- Voglio vederlo.

- Dobbiamo partire, Helaida. Il Granduca non mi ha dato molto tempo.

- Ho bisogno di vederlo, altrimenti non partirò! 

Mi scostai da lui e feci per scappare via, ma mi afferrò per il vestito.

- Sei stupida? Qualunque ragazza dell’harem di Roman Fedar pagherebbe con il sangue per salire su quel calesse. Vuoi andartene sì o no?

- Certo che voglio andarmene – dissi, mentre le lacrime iniziavano a inondarmi il viso – Ma non a costo della vita di Tristan. Fammi parlare con lui, fammelo vedere...

I singhiozzi funzionarono più della mia furia, l’uomo si guardò intorno e poi, prendendomi per un braccio, mi guidò lungo le mura del palazzo.

- Seguimi e fai silenzio, ti porterò da lui, ma dovrai salutarlo velocemente.

Mi fece girare lungo le mura, tra l’erba, finché mi indicò alcune fessure nella parte più bassa della parete - Queste sono le feritoie della prigione, ti farò entrare, ma non ti aspetterò a lungo.

Scendemmo alcuni scalini nascosti tra l’erba e aprimmo un piccolo cancelletto cigolante, entrando nei sotterranei della Roccaforte.

Un uomo grosso, dalla fronte alta e arrossata, ci venne incontro.

- Lascia entrare la ragazza – disse il mio accompagnatore – Vuole salutare Tristan.

Lui mi lanciò un’occhiata sbilenca – È la ragazza che ha salvato? La lascio entrare, ma la responsabilità è tua.

Aprì una porta bassa e stretta, pesante quanto scura, facendomi accedere ad una stanzetta minuscola, buia e carica di umidità.

- Tristan?

Un movimento nell’angolo destro attrasse la mia attenzione.

-  ...Helaida?

Lo vidi accartocciato contro il muro, una massa informe, priva di contorni.

- Tieni  – Alle mie spalle, l’uomo biondo mi passò una candela accesa – Ti aspetto fuori.

Appoggiai la candela a terra e osservai la figura di fronte a me farsi pian piano più distinta: i capelli di Tristan, poi i contorni del suo viso, gli occhi, scurissimi a quella poca luce. E il sangue. Sangue sui suoi vestiti e sul pavimento attorno a lui.

Diedi in un gemito strozzato e mi coprii la bocca con le mani, ma le lacrime tornarono a scorrermi a fiumi dagli occhi.

- Helaida, smettila – mormorò lui, in un filo di voce – Ho fatto questo per vederti sorridere, non piangere.

Questo non fece che aumentare i miei singhiozzi, la mia tristezza.

- Basta, piangere – ripeté lui, stavolta con più forza – Non sopporto più di sentir delle ragazze piangere.

Cercai di trattenermi, respirai a fondo e rimangiai i singhiozzi come potei; ma vederlo in quelle condizioni mi straziava più di quanto avessi ritenuto possibile.

- Che cosa hai fatto? – sussurrai – Perché ti ritrovo qui? Perché mi riportano a casa? E tuo fratello, Tristan?

- Ho scambiato la mia vita per la tua liberazione, e ci ho aggiunto una buona dose di sofferenza per la certezza che nessuno avrebbe toccato mio fratello – lo vidi sorridere, ironico nonostante tutto – Non potevo offrire due vite, sai.

- Ma perché?

Allungò una mano verso di me e l’afferrai, stringendola delicatamente perché tutto in lui vibrava di dolore.

- Alla fine ho capito quello che intendevi dire. Ho trascorso gli ultimi anni assimilandomi alla mentalità di Roman Fedar, trasformando la sua verità nella mia, convinto che fosse la strada giusta per sopravvivere, per non soffrire. Ma, così facendo, ho perso il rispetto per me stesso. E me l’hai detto tu, Helaida.

- Ero arrabbiata, quando te l’ho detto – protestai.

- Ma tu non lasci mai che la rabbia inquini le tue parole. Ho capito che avevi ragione, quando ho visto come affrontavi il Granduca, i suoi tormenti... e  persino i miei. Non voglio più vivere come ho fatto finora, voglio riguadagnare il rispetto di me stesso, la mia dignità.

- Non è  necessario morire, per ottenere questo!

-  “Nel sacrificio c’è onore, poiché si offre la propria vita per il bene altrui.”  Sono parole tue, lo ricordi? Aspiro a questo... e non solo.

Fece una pausa, respirando velocemente per tenere a bada il dolore che sentiva.

O forse, soltanto per trovare le parole giuste. Quelle che seguirono.

- Non sopporto che il Granduca ti sfiori. Voglio saperti al sicuro con la tua famiglia... Quella tua famiglia pazza che crede che il bene produca altro bene, che il perdono sia più importante dell’odio e che un nastro di poco prezzo valga quanto un tesoro inestimabile. È là che devi restare: amata, inviolata... E fare del bene come solo tu lo sai fare, Helaida.

Altre lacrime cominciarono a uscire, il cuore mi faceva male come se qualcuno mi martellasse il petto con un sasso acuminato.

- Avevi ragione tu, vedi? – riprese – Persino da me, ti ritorna quel bene che mi hai dato. Da me, che ero diventato vuoto e freddo e sterile.

Scossi la testa, quasi senza respiro.

- Come faccio ad andarmene lasciandoti qui? Senza sapere per quanto dovrai soffrire o fino a quando vivrai?

- Pensa che sono in pace, solo quello.

- Non avrei dovuto parlarti, non avrei dovuto dirti niente!

Un po’ di quell’antico scherno gli comparve sul volto – Vedo che avere ragione non ti dà proprio soddisfazione - Allungò un braccio e mi accarezzò il viso – Se hai voglia di fare qualcosa per ringraziarmi, lasciami quel nastro.

Annuii fra le lacrime e me lo sfilai dai capelli, poi lo girai attorno al polso di Tristan una, due, tre volte e lo fermai con un nodo.

Lui lo osservò qualche istante e poi si chinò in avanti, slacciandosi dalla caviglia quella benda di stoffa che gli avevo legato solo la sera prima. Era ancora pulita, perché la sua gamba era ormai guarita; me la porse e io mi acconciai i capelli con quella.

Non c’era altro che potessimo offrirci l’un l’altra, in ricordo di un legame nato in silenzio e d’improvviso così intenso, così importante da valere una vita.

- Ragazza, sbrigati, dobbiamo partire! – urlò la voce del tizio biondo, appena fuori dalla porta.

L’ansia mi sopraffece.

- Le tue ferite...posso fare qualcosa per te? Posso...

- Helaida – la sua voce era grave, ma gli occhi lo tradivano – Non hai intenzione di andartene senza baciarmi, vero?

Scossi il capo, sbigottita.

Con cautela mi accostai a lui; sapevo che doveva sentir male, ma mi strinse, imbrattandomi di polvere e sangue. Non ero mai stata abbracciata con tanta forza e non avevo idea che il corpo di un uomo potesse essere così solido, così vigoroso e  nel contempo trasmettere protezione... e dolcezza.

Lo baciai, o mi baciò lui, non compresi bene ciò che accadde, ma ci perdemmo in sensazioni  violente, così struggenti da squarciarmi il petto.

- Adesso è proprio ora di andare! – tuonò il mio accompagnatore biondo, piombando nella cella.

Ci staccammo a fatica, il corpo di Tristan sembrava essersi incollato al mio.

- Ti prego, sii contenta, Helaida – mi sussurrò, lasciandomi andare – Voglio pensarti felice.

Annuii, ricacciando il nodo d’angoscia dalla gola allo stomaco... E poi qualcuno mi prese per le braccia e all’improvviso ero fuori di lì, fuori dalla cella e fuori dalla Roccaforte, in bilico su un calesse lanciato a tutta velocità.

Per molte ore, il cuore mi rotolò nel petto così dolorosamente da offuscarmi la vista e il pensiero. Mi accucciai, nella notte, tenendomi aggrappata a quella fascia che Tristan mi aveva lasciato e, nell’oscurità, non mi accorsi di nulla di insolito.

Solo alla luce del sole, il mattino dopo, vidi che non era esattamente come quando gliel’avevo data.

 

 

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Capitolo 17
*** Rispetto ***


17

 

 

Tristan si ritrovò in quella cella buia, ancora, dopo l’ennesimo supplizio che il Granduca si era divertito a infliggergli. Godeva, Roman Fedar, di quelle sofferenze che era autorizzato a comminargli; credeva di schiacciarlo sempre più a fondo, di precipitarlo sempre più in basso. Non sapeva, quell’uomo, che la luce non lasciava un istante l’animo di Tristan. Ora il mondo si era raddrizzato, era tornato al posto giusto. C’era stato un momento, un momento durato otto anni in cui, dopo tanta agonia,  ciò che agli altri era sembrata la verità, in lui si era trasformata in falsità; ciò che era stata giustizia per tutti, per lui era diventata ingiustizia.

Aveva vissuto al contrario, sottosopra, alla rovescio.

E ora, all’improvviso, il cielo e la terra erano tornati al posto giusto.

Nessuno avrebbe più toccato Helaida né avrebbe violato la sua anima. E nessuno avrebbe più toccato lui: la sua dignità era salva, il suo cuore colmo. Portò il polso al viso, baciando il nastro che portava ancora al braccio.

- Sii felice, Helaida.

 

 

Il calesse mi scaricò davanti al portone del palazzo e ripartì all’istante, senza darmi neppure il tempo di un saluto.

Casa.

Ero davvero tornata a casa.

Le grida delle mie sorelle, la voce di mamma, la gentilezza di papà, la routine della nostra casa, i fiori del giardino, i gatti sulle scale, la bellezza delle nostre terre... Tutto, mi era stato restituito tutto.

Lasciai scorrere le lacrime, decidendo che quella sarebbe stata l’ultima – l’ultimissima – volta in cui mi sarei lasciata andare al pianto.

Poi sorriderò, Tristan. Sorriderò pensando a te.

A te, che hai consacrato la tua vita ad un gesto d’amore e ora brillerai per sempre nella mia anima.

Pensai al nastro che portavo nei capelli, alla scritta che ci avevo trovato all’interno. Doveva aver previsto, Tristan, che avrei pestato i piedi per raggiungerlo in carcere, che avrei trovato il modo di salutarlo prima di partire. Perché quella scritta era già lì, quando ero entrata nella sua cella, era già lì che mi aspettava.

Hai imparato davvero a conoscermi così bene?

Aveva deriso, in principio, gli insegnamenti dei miei genitori, ma ora essi ci avevano salvati entrambi: avevano salvato me, che avevo seminato bene e del bene avevo raccolto, infine.

Ma avevano salvato anche lui, anche Tristan. Riportandolo a dare un senso alla sua vita, a guardare di nuovo in faccia se stesso con rispetto.

Era così, perché se così non fosse stato, non mi avrebbe lasciata sorridendo.

Non mi avrebbe lasciato scritto sul nastro quell’unica, confortante parola.

“Grazie”.



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Allora... da dove comincio?
Ringraziando le tantissime persone che hanno messo questa storia nelle Seguite, Ricordate e Preferite?
Sicuramente, un enorme grazie se lo meritano!
O incensando tutti coloro che hanno impiegato parte del loro tempo a lasciare una recensione?
Anche voi avete tutta la mia gratitudine!
E poi... 2 parole a chi è rimasto deluso dalla reazione di Helaida, perché si sarebbe aspettato un suo disperato tentativo di salvare Tristan.
Helaida non è una combattente. Helaida crede nell'amore ad ogni costo, nel sacrificio, nel rispetto e nella dignità. Il gesto di Tristan le spezza il cuore, ma capisce che
è ciò che lo salverà dalla disperazione e  lo accetta. Non è che sia felice, intendiamoci, ma ne capisce il senso e sa, in coscienza, che ciò che è accaduto ha un significato profondo per lei e per Tristan.

Tolto questo, prima che mi uccidiate per questo finale...
... vi confesso...
...
...
...
che Tristan non è morto.
Ebbene sì... in realtà il Granduca non lo ucciderà e lui ed Helaida, un paio di anni dopo, avranno modo di ricontrarsi.
Non ho scritto il seguito, ma ho in mente qualcosina. Non so se raggiungerà mai la carta, però volevo rassicurarvi del fatto che questo finale è meno tragico di
quanto appaia. :)
E ora, rinnovandomi i miei infiniti ringraziamenti, mi smaterializzo nella notte!!
Addiooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo.................

phoenix_esmeralda

 

 

 

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