Pezzi di nastro di phoenix_esmeralda (/viewuser.php?uid=178541)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Accettata ***
Capitolo 2: *** Una buona dose di pazienza ***
Capitolo 3: *** Ostinato incosciente ***
Capitolo 4: *** Malattia ***
Capitolo 5: *** Nessuna pietà ***
Capitolo 6: *** Costo a sorpresa ***
Capitolo 7: *** Pezzi di nastro ***
Capitolo 8: *** Quello che è giusto ***
Capitolo 9: *** La Roccaforte ***
Capitolo 10: *** Il Granduca ***
Capitolo 11: *** Il senso di un sacrificio ***
Capitolo 12: *** Promessa ***
Capitolo 13: *** Carte e dadi ***
Capitolo 14: *** Il giorno dopo ***
Capitolo 15: *** L'ultima fasciatura ***
Capitolo 16: *** Quel bene che ritorna ***
Capitolo 17: *** Rispetto ***
Capitolo 1 *** Accettata ***
“L’aggressività
è
il più grande segno di debolezza che un uomo possa mostrare.
Se si comporta in
modo aggressivo con te, significa che si sente talmente vulnerabile, da
attaccare prima che tu possa anche solo pensare di ferirlo.”
“Sì, mamma”
“Ricordati,
Helaida, che dietro ai comportamenti delle persone si nascondono sempre
i loro
pensieri, i loro sentimenti, la loro esperienza di vita. È
fondamentale tenere
presente questo,
per comprendere
veramente il significato dei loro gesti. Altrimenti giudicherai sempre
male.”
“Papà, me lo
ricorderò.”
“E se il male
genera altro male, perché il bene non dovrebbe produrre del
bene?”
“Non c’è motivo per
cui non
lo faccia.”
Crebbi in compagnia di
queste parole: insegnamenti che, nella mia famiglia, erano supportati
da tanto
fervore e tanta abnegazione da impregnare le pareti dei muri di casa,
il cibo
che mangiavamo e i sentimenti di tutte noi.
Non avevo mai viaggiato né
incontrato persone al di fuori della cerchia più stretta
delle mie conoscenze:
gente mite che rinforzava la visione della vita trasmessami dai miei
genitori.
Non sapevo potesse esistere
qualcuno che, con tutta la sua forza, si imponeva di percorrere una
strada
completamente opposta.
Né sapevo, allora, che le
parole dei miei genitori mi avrebbero salvato la vita.
1
- Helaida... il Granduca ti
ha accettata!
Sollievo e orrore mi
travolsero in egual misura, costringendomi a cercare un sostegno nella
credenza
alle mie spalle.
- Hai origliato, Lana?
- Non ho potuto farne a
meno... ero talmente in ansia!
Non mentiva, lo sapevo: Lana
era la sorella a me più vicina - ci separava solo un anno e
mezzo - e la
maggior parte delle esperienze dei miei diciotto anni di vita
l’avevo vissuta
accanto a lei.
- Dunque è deciso?
- Sì, ma... Hela, quell’uomo
che è venuto a parlare con mamma e papà dice che
dovete partire immediatamente!
- Oggi?
Annuì, con gli occhi chiari
sfumati d’angoscia.
- Non piangere, Lana, lo sai
che è la cosa giusta.
Deglutì e fece un cenno
d’assenso con il capo.
- E poi non ho bisogno di
tempo per prepararmi – aggiunsi – Non ho nulla da
portare con me, se non un
cambio d’abito e un paio di libri.
Se io, che ero la figlia del
barone, mi ritrovavo talmente povera da non avere bagaglio, quanto
più doveva
soffrire la gente delle mie terre?
Mio padre raggiungeva ogni
giorno a cavallo i nostri affittuari, lavorava con loro, divideva
equamente tra
le famiglie i frutti dei campi; ma il Granduca chiedeva sempre di
più ogni mese:
aumentava le tasse, affamava la nostra gente e puniva severamente
chiunque
tentasse di opporsi al suo volere.
Dieci anni fa aveva
acquisito le nostre terre e tutte quelle confinanti quando, alla fine
di una
lunga guerra, il nostro vecchio sovrano aveva dovuto cedere buona parte
dei
suoi possedimenti. Da allora ci eravamo impoveriti, ogni anno sempre
più, fino
ad arrivare a una condizione di tale indigenza da dover assistere
impotenti
alla miseria più completa e devastante della nostra gente.
Il popolo iniziava a morire
di fame. A morire davvero.
- Hela...
Rika mi scrutava dalla
soglia della porta, gli occhi acquosi di lacrime, il mento tremante.
- Mamma e papà ti vogliono
di là.
- Vado.
- Hela... non lasciarti
portare via subito!
Scossi la testa, cercando di
darmi un’aria insofferente – Anche tu hai
origliato? Ma le buone maniere che vi
hanno insegnato con tanta cura dove sono finite?
Il mento le tremò con
maggior violenza e immediatamente accantonai ogni proposito di
rimprovero.
- Oh, Rika, se è necessario
che io parta immediatamente, partirò. Non dobbiamo irritare
il Granduca, sai,
dobbiamo pensare alla nostra gente.
Aveva solo undici anni, ma sapevo
che poteva comprendere: non aveva vissuto alcuna infanzia rosea lei,
era nata
durante la guerra e cresciuta tra privazioni di anno in anno sempre
più acerbe.
La lasciai con un sorriso di
incoraggiamento e mi diressi verso il salone, davanti alla porta chiusa
del
quale, accovacciate e con l’orecchio attento oltre
l’uscio, scorsi altre tre
delle mie sorelle: Alama, tredici anni, Jolanda, nove, e Sophia, sette.
Rowanda
mancava solamente perché, a tre anni, non nutriva ancora
sufficiente cognizione
da comprendere cosa stesse accadendo.
Gettai a tutte quante
occhiatacce di disapprovazione e le allontanai a suon di smorfie,
sistemai il
vestito, raddrizzai le spalle e attraversai la soglia incontro al mio
destino.
- Helaida, avvicinati.
Mio padre indossava il
migliore dei suoi vestiti che, tuttavia, non era scevro di rattoppi sui
gomiti
e lungo gli orli; mia madre invece, meno incline a scorazzare per i
campi, vantava
un aspetto più curato e meno sdrucito.
- Il Granduca ha accettato la
nostra richiesta – proseguì, cercando di
mantenersi calmo quando invece nel suo
sguardo scorgevo tanta eccitazione quanta disperazione –
Abbiamo patteggiato
meno tasse, più cibo, più libertà. Lo
scambio è vantaggioso e risolleverà le
sorti della nostra gente.
Annuii, sforzandomi di
sorridere. Quello che mio padre stava dicendo era che ce
l’avevamo fatta. E che
io ero perduta.
- Questo è il signor Tristan
Arsediel – aggiunse mia madre, portando finalmente la mia
attenzione all’uomo
in piedi di fronte a loro – È stato inviato dal
Granduca a riferirci la notizia
e ti scorterà fino a lui.
Chinai il capo verso l’uomo
in segno di rispettoso saluto, ma lui non ricambiò. Mi
gettò un’unica occhiata
indifferente, sporcata di un’arroganza che mi
indispettì.
Era alto e asciutto, la
pelle scurita dal sole; i capelli folti e scompigliati, neri come la
notte, gli
incorniciavano selvaggiamente il volto. Aveva occhi torbidi: non neri,
mi
accorsi, ma piuttosto fumosi come un falò di legna bagnata.
Non era una persona in grado
di far sentire gli altri a proprio agio, si presentiva in lui un
temperamento
nervoso, quasi violento. La mascella contratta, i muscoli tesi pronti a
scattare,
lo rendevano minaccioso nonostante l’apparente
immobilità.
Non doveva avere più di
trent’anni, probabilmente meno, e tuttavia c’era
qualcosa in lui che lo faceva
sembrare molto più vecchio della sua età. Non
nell’aspetto fisico, no...
Piuttosto nello spirito. Uno spirito invecchiato
all’improvviso.
- Helaida?
La voce di mia madre mi
riscosse da quell’analisi. Avevo fissato
quell’estraneo troppo a lungo e troppo
apertamente, dando modo di apparirgli maleducata. Ma lui sembrava non
aver
neppure notato il mio sguardo.
- Vi ringrazio di essere
venuto – dissi, incerta su come comportarmi in quel frangente
– Quanto tempo mi
date per prepararmi?
Il suo sguardo mi raggiunse
ancora per un solo, brevissimo istante. Sembrava che i suoi occhi non
riuscissero a restare sullo stesso soggetto per più di
qualche secondo.
-
Una mezzora vi sarà
sufficiente – rispose. Il suo tono non ammetteva
possibilità di repliche e così
non replicai. Chinai il capo in cenno d’assenso e uscii.
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Capitolo 2 *** Una buona dose di pazienza ***
2
- Hela, abbiamo una cosa per
te.
Le mie sorelle, tutte e sei
dalla più piccola alla più grande, entrarono in
fila indiana nella mia stanza.
Le osservai posizionarsi composte davanti a me, una serie di testoline
brune,
alcune più scure, altre più sfumate, in
silenziosa attesa. Erano giorni che
cercavo di abituarmi all’idea di perderle, ma non ero ancora
venuta a patti con
questa realtà.
- Abbiamo messo insieme
tutti i nostri averi, ma non siamo riuscite a prenderti che questo.
Lana alzò le mani e mi
mostrò un nastro turchese nuovo, lucente. Ricacciai le
lacrime in fondo al
cuore e le abbracciai tutte una a una, non riuscivo a credere che non
le avrei
riviste mai più.
Salutare i miei genitori non
fu più semplice: eravamo una famiglia affettuosa, abituata
alla compagnia e al
contatto fisico, non c’erano mai state separazioni,
né brevi né lunghe e questo
addio fra di noi suonava come qualcosa di alieno.
- Il bene che stai facendo
tornerà egli stesso a ricompensarti, Helaida –
disse mio padre, in un ultimo
abbraccio.
- E qualunque cosa accada,
non dimenticarti chi sei e come sei – aggiunse mia madre.
Nutrivano uno
sviscerato attaccamento per le frasi intense e io mi ero sempre
imbevuta di
esse. Raccolsi a coppa le loro ultime parole nelle mie mani e le
riversai nel
mio animo.
E, a quel punto, non restò
che andarmene.
L’occhiata che mi riservò
Tristan Arsediel la disse lunga sul mio lungo abito sdrucito, sui miei
capelli
mossi legati con il nastro azzurro in una coda alta e disordinata e
sulla
minuscola borsa che rappresentava il mio bagaglio.
- Il vostro cavallo? –
domandò sprezzante.
- Non ho un cavallo, l’unico
che possediamo serve a mio padre.
- E come pensate di
viaggiare?
Lui teneva per le briglie un
esemplare splendido: imponente, dal pelo lucido e di forma smagliante.
Avrebbe
sostenuto entrambi senza difficoltà, ma pareva evidente che
non intendeva
offrirmi aiuto.
- Andrò a piedi – dissi,
stringendomi
nelle spalle.
Lui rise, ma di un ghigno
sarcastico che mi fece rabbrividire.
- Siete pietosa! Molto bene,
camminate, ma non azzardatevi a lamentarvi per la stanchezza, il mal di
piedi,
la sete o il caldo, o qualunque altra cosa possa risultarvi spiacevole.
Vi
assicuro che non sono un compagno di viaggio gradevole e
basterà molto poco per
farmi irritare.
- Non mi è difficile
immaginarlo.
Mi afferrò un polso con
violenza e mi strattonò verso di sé.
- Non siate arrogante con
me, ragazzina. Da voi pretendo occhi bassi e bocca chiusa, obbedienza
cieca e
rispetto; questo inizierà a mettervi dell’avviso
di ciò che vi accadrà alla Roccaforte.
Mi strappò di mano la borsa,
legandola al fianco della cavalcatura; poi montò in sella e
mandò il cavallo al
passo.
Ero abituata a camminare a
lungo: le passeggiate erano tra i pochi svaghi che mi erano rimasti,
poiché non
costavano nulla. Così mi affrettai a seguire il cavallo ad
andatura sostenuta,
badando di mordermi la lingua per non replicare alle male parole di
Tristan
Arsediel.
La possibilità di offrirmi al
Granduca era stata a lungo discussa, prima di arrivare alla sofferta,
soffertissima, decisione finale.
Ciò che il Granduca Roman
Fedar chiedeva ai baroni e ai conti delle sue nuove terre acquisite era
la più
completa sottomissione, che si riconduceva all’offerta delle
proprie
primogenite per il suo già gremito harem. Chiunque negasse
il proprio personale
contributo, veniva oppresso e schiacciato fino a ridursi a veder morire
di fame
la propria gente. Così, uno alla volta, tutti i signori si
erano ritrovati a
cedere e ad offrire le proprie figlie in sacrificio per il bene delle
proprie
terre; erano rimasti in pochi ancora a resistere e mio padre era stato,
fino a
pochi giorni fa, tra quelli. Ma la situazione si era fatta
insostenibile e,
dopo lunghe riunioni familiari, era stato decretato il mio sacrificio.
Le voci che arrivavano dalla
Roccaforte circa la crudeltà del Granduca Roman Fedar non
avevano facilitato la
decisione: non si trattava solo di offrirmi a un harem, ma ad una vera
e
propria vita di supplizio. L’avevo accettato, certo, mi
sentivo pronta. Ma
anche terribilmente spaventata.
Per mia fortuna non mancavo
di ostinazione, così, quando i miei piedi da indolenziti si
fecero
insopportabilmente doloranti, strinsi le labbra e continuai a
camminare. La
velocità, la mancanza di soste e di acqua e le distanze che
mai si colmavano mi
avevano sfinita fin quasi a perdere i sensi, e tuttavia non cedevo:
l’arroganza
di Tristan Arsediel e la sua cafoneria mi avevano a tal punto
indisposta da
preferire i piedi sanguinanti alla prospettiva di dargli soddisfazione.
Quando, al tramonto,
entrammo in un villaggio e ci fermammo presto un’osteria per
la cena, per poco
non svenni dal sollievo. Ma non avevo previsto quello che sarebbe
venuto.
- Avete soldi per pagarvi la
cena? – mi domandò gelidamente il mio compagno di
viaggio, mentre sedevamo a un
tavolo.
Alzai su di lui un paio di
occhi sgranati che dicevano, con tutta chiarezza, che non avevo una
sola moneta
in tasca. Pensavo avrebbe pagato lui... Ero o non ero diventata
proprietà del
Granduca?
Beh, evidentemente non
ancora, perché Tristan Arsediel ordinò minestra e
carne per sé lasciandomi a
bocca asciutta.
- Se non avete i soldi per
comprarvi da mangiare, digiunerete – commentò,
nella più assoluta indifferenza
– Ma se non potete neppure pagarvi una stanza per la notte,
dovremo ripartire e
cercare un luogo dove accamparci.
Le sue parole mi scivolarono
lungo la schiena come ghiaccio e non potei trattenere un sussulto di
sconforto:
ero affamata, affamata da morire dopo tanto cammino, e andando a piedi
mancavano ancora giorni all’arrivo alla Roccaforte. Avrei
dovuto digiunare
tutto il tempo?
L’indifferenza con cui
Tristan Arsediel masticava davanti al mio sguardo sofferente mi diceva
che sì,
avrei digiunato, a meno che non mi fossi messa a raccogliere radici e
bacche
per strada sperando di non morire avvelenata.
- E voi, figliola, non
mangiate? Sembrate così stanca, dovreste mandare
giù qualcosa!
La locandiera, paffuta e gioviale,
mi rivolse uno sguardo di comprensione. Appoggiò la caraffa
di vino di fronte a
Tristan e aspettò una risposta che le mie labbra si
rifiutarono di dare.
- Non ha soldi per pagare –
disse lui, al posto mio.
- Non ha soldi per pagare? –
La locandiera mostrò con evidenza tutta la sua costernazione
– E voi non potete
offrirle qualcosa, giovanotto? Non posso certo credere che la lascerete
patire
la fame, mentre voi v’ingozzate!
- Potete crederlo, invece.
Il tono di lui era
sufficiente a smorzare ogni dissenso, la sua voce si colorava di una
perentorietà che sfiorava senza malintesi la minaccia.
- Oh, bene! – lo rimbrottò
la donna, incrociando le braccia sopra il seno –
Vorrà dire che farò io la
vostra parte e offrirò di mio pugno la cena alla vostra
accompagnatrice!
Non credetti ai miei occhi,
quando un piatto ricolmo comparve davanti alla voragine del mio
stomaco. Tristan
non commentò, mentre divoravo tutto ciò che la
donna mi offriva né disse nulla
quando mi sperticai in ringraziamenti, ma fui certa di scorgere del
disappunto
sul suo viso.
Per qualche motivo, l’uomo
inviato a scortarmi dal Granduca mi disprezzava. Non poteva trattarsi
di
qualcosa di personale: mi aveva detestata dal primo momento in cui
aveva posato
su di me il suo sguardo, prima ancora che io avessi aperto bocca o
fatto
alcunché, e questo lo rendeva pericoloso, poiché
godeva nell’umiliarmi e nel
mettermi in difficoltà.
Credevo che le mie pene
avrebbero avuto inizio con l’arrivo alla Roccaforte, ma era
chiaro che già
questo viaggio mi avrebbe fatto consumare una buona dose di pazienza.
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Capitolo 3 *** Ostinato incosciente ***
3
Dopo una notte
all’addiaccio, tornare a camminare a passo sostenuto dietro
alla cavalcatura di
Tristan Arsediel nel mezzo di un bosco fu un tormento; ma ancora di
più lo fu
il momento del pranzo, quando ci accampammo per riposare e lui
mangiò pane e
formaggio di fronte a me, senza offrirmene un solo pezzetto. Potei solo
bere
l’acqua del torrente che stavamo fiancheggiando e quello
dovette bastarmi.
- Avete fame? – mi schernì,
mentre cercavo di non dargli a vedere il mio disagio – Dovete
solo incolparne i
vostri genitori, che non hanno avuto il buon senso di darvi neppure una
moneta.
- Sapete perfettamente,
perché non avevano soldi da darmi – ribattei,
respirando a fondo per non cedere
all’ira.
- Sciocchezze. È evidente
che, con sette figlie femmine, una in meno non può che fare
comodo. Si sono
liberati di voi come di un fardello, senza preoccuparsi se durante il
viaggio
sareste stata bene o meno. Se mi sforzassi, potrei quasi provare
compassione
per voi, Helaida.
Non comprendevo il suo
atteggiamento ostile. Come poteva accusare i miei genitori di
freddezza, quando
il suo padrone aveva stretto le nostre terre nella morsa di un assedio
senza
speranza?
- Tristan, guardatemi. Nel
mio bagaglio ho un solo vestito e un libro che appartiene alla mia
infanzia, le
mie sorelle hanno messo insieme tutti i loro averi per comprarmi il
nastro che
ho tra i capelli.... e la mia famiglia è la più
ricca del paese. Come pensate
vivesse il resto del paese? Credete davvero che i miei genitori abbiano
sbagliato?
Un sorriso di scherno gli
tirò gli angoli della bocca – Ne riparleremo dopo
che avrete incontrato il
Granduca, damigella. Se siete così tranquilla, è
solo perché non avete sentito
le voci che girano sul suo conto.
- Le ho sentite, invece.
- Oh, davvero? Roman Fedar è
un uomo violento, Helaida, sadico e privo di morale: ciò che
vi attende è
l’inferno.
Chiusi gli occhi e presi un
respiro profondo.
- Lo so. Lo so, ma il mio è
un sacrificio, giusto? E non ci si aspetta che sia piacevole.
È così che deve
essere, non credete?
- Voi siete matta. Penosa e
matta.
Si alzò in piedi
ricomponendo la sacca, poi si avvicinò al cavallo per
riporla, ma proprio in
quel momento qualcosa di terribilmente grosso e rapido sbucò
dagli alberi,
passando in mezzo a noi a zigzag.
Riconobbi a malapena un
cinghiale spaventato, prima che la macchia grigia tornasse a infossarsi
tra la
vegetazione, ma ciò fu sufficiente al cavallo di Tristan per
imbizzarrirsi e
impennare atterrito.
- Fermo, Focus, buono! Fermo,
non era nulla!
Nulla?
Scrutai fra gli alberi alla
ricerca del cinghiale, ma doveva ormai essere lontano, considerata la
velocità
cui correva.
- Focus, buono!
Tristan teneva le briglie
ferme, ma il cavallo continuava a impennare e a scuotere la testa;
avanzò di
qualche passo, trattenuto dal padrone, ma di punto in bianco le gambe
di
Tristan cedettero. Urlò, cadendo a terra, mentre Focus,
finalmente libero,
partiva al galoppo scomparendo fra gli alberi.
- Maledizione! Maledizione!
Mi avvicinai, spaventata da
quelle imprecazioni che mascheravano ben più che un dolore
temporaneo: Tristan
era ancora steso a terra, si teneva la gamba destra fra le mani
stringendo i
denti e respirando a rantoli soffocati.
- Ma che cosa... – diedi in
un gemito strozzato, quando mi accorsi di cos’era accaduto.
La caviglia del
giovane era intrappolata fra i denti acuminati di una tagliola, i quali
gli
mordevano impietosamente la carne sputando una quantità di
sangue sufficiente a
farmi girare la testa.
- Un bastone... – sibilò lui,
girandosi bocconi. Allungò una mano verso un ramo e
cercò di usarlo come leva
per aprire la tagliola, ma il legno si spezzò sotto la morsa.
- Aspettate, ne cerco uno
migliore –
dissi, ma lui mi fermò
all’istante.
- Non
t’immischiare, lasciami in pace.
- Voglio solamente
aiutarvi...
- Ti ho detto di lasciarmi
stare!
Con la sola forza di volontà
si levò in ginocchio e strisciò fin sotto un
albero, selezionando a denti
stretti il ramo più robusto. Lo osservai con il fiato
sospeso, mentre faceva
leva per allentare la stretta della tagliola soffocando gemiti di
dolore; usò
tutta la forza che aveva, sbagliando e ritentando e perdendo sangue a
rigagnoli.
Alla fine i denti della
tagliola si aprirono con un clangore metallico, rilucendo scarlatti
sotto il
bagliore del sole; rimasi senza fiato a contemplare la caviglia
martoriata che
Tristan, con lestezza, fasciò strettamente con un
fazzoletto. La stoffa si
inzuppò immediatamente, iniziando a colare strisce di sangue
sul terreno.
- Andiamo – disse, con il
fiato spezzato – Focus si sarà fermato al primo
villaggio abitato, sono certo
che lo ritroveremo là.
Cercò di alzarsi in piedi e
ricrollò pesantemente sulle ginocchia.
- Non puoi camminare, stai
sanguinando troppo, lascia che chiami aiuto – provai.
- Non ho bisogno di aiuto,
non da te – riprovò un’altra volta e,
sorreggendosi contro il tronco di un
albero, riuscì ad alzarsi in piedi.
- Appoggiati almeno a me, non
riuscirai a usare quel piede.
- Ti ho detto di starmi
lontano!
Urlò talmente forte da farmi
sobbalzare. Rimasi a osservarlo a distanza mentre muoveva alcuni passi
arrancando, fermandosi, ansimando.
- Andiamo.
Gli camminai a fianco
tenendo d’occhio il flusso di sangue che diminuiva ma non
cessava, così, quando
lo vidi vacillare, mi accostai per sostenerlo. Riuscii a malapena a
sfiorargli
un braccio, prima che mi si rivoltasse contro con furore.
- Ti ho detto... di
non...toccarmi! – urlò a squarciagola.
Afferrò con entrambe le mani i lembi del
mio colletto e tirò, squarciandomi il vestito sul petto e
mettendomi a nudo il
seno. Mi coprii con uno strillo, arretrando, mentre lui si appoggiava
ansimante
a un albero.
- Avvicinati ancora una
volta e te ne andrai in giro completamente nuda! – mi
minacciò e seppi con
certezza che l’avrebbe fatto davvero.
Mi feci schermo con le mani
e cercai di legare insieme i resti dell’abito per restare
coperta il più
possibile. Mi sentivo umiliata, impaurita e furibonda al contempo; per
un
istante sperai che stramazzasse al suolo dissanguato.
Camminammo tutto il
pomeriggio in quelle condizioni, lui non si fermava mai, non riposava,
stringeva i denti fino a farsi sanguinare le labbra: era ostinato e
incosciente
come un bambino, ma tuttavia sapevo che non avrebbe retto a lungo, non
sarebbe
stato umanamente possibile.
Certo, ora non ero più
costretta a correre dietro a un cavallo, e in qualche modo avrei potuto
ritenermi ripagata di quello che mi aveva fatto patire, ma, a conti
fatti, ero
più inquieta che soddisfatta.
E infatti, poco prima del
tramonto, Tristan Arsediel cadde a terra come un sacco morto, senza un
gemito
di preavviso. Mi ci vollero alcuni istanti per prendere coraggio ed
avvicinarmi, ma immediatamente mi fu chiaro che il mio aguzzino non
avrebbe
avuto modo di aggredirmi: bruciava di una febbre feroce, provocata
senza dubbio
da un’infezione alla ferita. Così feci quello che
avrei dovuto fare da
parecchie ore: corsi alla massima velocità possibile verso
il villaggio, ormai
prossimo, in cerca di un aiuto più valido del mio.
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Capitolo 4 *** Malattia ***
4
La prima notte pensai che
non sarebbe arrivato al mattino.
Gli uomini cui avevo
domandato soccorso trasportarono Tristan fino al villaggio, alla prima
locanda
che incontrarono lungo il tragitto; lì venne chiamato il
medico che, dopo aver
liberato la caviglia dallo stivale e dall’orlo dei calzoni,
non si fece
scrupolo di spiegarmi la gravità della situazione. Tristan
rischiava di perdere
la gamba. L’unico modo per contrastare l’avanzare
dell’infezione era quello di
cambiare le bende, disinfettare e coprire con impacchi di un decotto
d’erbe la
caviglia ogni due ore, senza sgarrare. Ordinò alla
locandiera di preparare ogni
sei ore un infuso per tenere a bada la febbre e combattere
l’infezione e a quel
punto, prima di accomiatarsi, mi appoggiò una mano sulla
spalla.
- Di qualunque cosa abbiate
bisogno non esitate a chiamarmi, io tornerò domattina.
Fatevi forza, questo
giovane ha bisogno del vostro aiuto.
Malgrado la tensione, mi
sfuggì un sorriso: non osavo immagine come avrebbe reagito
Tristan, se fosse
stato in grado di sentire quelle raccomandazioni.
Rimasta sola, decisi di
togliergli quello che restava dei suoi abiti, ormai inzuppati di
sudore,
sporcizia e sangue. Cercai un coltello nel suo bagaglio e trovai con
esso anche
una borsa colma di monete.
Mi
sembra uno scambio equo,
pensai, sorridendo, Le mie cure, in
cambio del cibo che può offrirmi il suo denaro.
Così ordinai la cena in
camera e, in attesa di mangiare, tagliai accuratamente gli abiti del
giovane
sfilandoli dal suo corpo e dal materasso.
Non avevo mai visto un uomo
nudo - sei sorelle non sono d’aiuto allo studio
dell’anatomia maschile -
tuttavia mi ero fatta già un’idea piuttosto
precisa, parlando con amiche più
disinibite di me.
Mi presi il tempo necessario
a studiare quel corpo con il compiacimento di trovarmi, per una volta,
nella
posizione di vantaggio: aveva minacciato di spogliarmi nuda ed ora era
lui
quello senza abiti; non potei fare a meno di pensare
che in un certo qual modo si fosse tirato
addosso quel destino.
A turbarmi furono invece i
segni che trovai sul suo torace, sul suo dorso, sulle spalle, lungo le
braccia
e giù, fino alle gambe: cicatrici profonde e biancastre che
attraversavano la
sua pelle come solchi sul terreno e raccontavano di un passato fosco e
ben
celato. Le accarezzai, cercando di immaginarne la storia, le seguii
lungo tutto
il loro tracciato.
Lavai quel corpo con
attenzione, con sapone ed acqua tiepida, familiarizzando a poco a poco
con
quelle braccia lunghe e nervose, con il torace sodo, le gambe forti, e
con
quelle parti di lui che mai avrei creduto di vedere.
La sua pelle bruciava di una
febbre senza riposo che gli rendeva il respiro affannoso e che
disturbava,
nell’incoscienza, il suo sonno profondo.
La locandiera bussò,
portando la mia cena assieme all’infuso che il medico si era
raccomandato di
somministrare a Tristan: avrebbe combattuto la febbre e alleviato il
dolore per
qualche ora. L’agitazione che il giovane mostrava, nonostante
il sonno, mi
faceva comprendere che, malgrado l’incoscienza, il fuoco che
aveva nella
caviglia raggiungeva i suoi sensi facendoli spasimare.
Aggiustai i cuscini dietro
la sua schiena in modo da tenerlo in una posizione più
eretta, ma nello
spostamento mosse la gamba e mandò un grido di dolore.
- Pietà... –
sussurrò –
Pietà.
- Perdonami, non volevo. –
Accostai la tazza alle sue labbra per farlo bere – Devi
mandare giù questa, ti
farà stare meglio.
Aprì gli occhi grigi, scuri
nella luce fioca della stanza, e compresi che non mi stava vedendo.
Erano occhi
che guardavano altrove, ai deliri ispirati dalla febbre.
- Vi supplico, abbiate pietà.
- Bevi – mormorai, cercando
di sembrare rassicurante – Ti farà passare il
dolore.
Riuscii a fargliela
ingollare a piccoli sorsi, mentre i suoi occhi sperduti giravano a
vuoto nella
stanza. Vederlo in tale stato mi dava i brividi: non sembrava
più l’uomo arrogante,
inavvicinabile che avevo conosciuto, ma piuttosto un ragazzino inerme,
spaventato.
L’infuso fece effetto nel
giro di una mezzora e, anche se la temperatura non sembrò
abbassarsi, rese il
suo sonno più tranquillo.
Approfittai del momento per
cambiargli le bende alla caviglia, fare un nuovo impacco, pulire la
ferita; poi
nuovamente gli rinfrescai il corpo con pezze bagnate e infine crollai
sul letto
accanto al suo e mangiai la mia cena, ormai completamente fredda. Non
potevo
rischiare di addormentarmi, stanca com’ero
non sarei riuscita a svegliarmi ogni due ore per occuparmi
della sua
caviglia. Così tenni posizioni scomode, mi alzai a momenti
alterni a camminare
e, per tutta la notte, lo vegliai temendo in ogni istante di sentire
spegnersi
il suo respiro. Stava così male che ogni attimo poteva
essere quello terminale.
Invece non lo fu, e
faticosamente arrivammo al mattino.
Per tre giorni dormii poco o
niente, affannata tra le bende e i decotti, le pezze fresche e
l’infuso; persi
il senso del giorno e della notte, il mio tempo era scandito dalle
necessità
regolari di Tristan, della sua caviglia, dei suoi gemiti di dolore. Non
riprese
mai conoscenza, dovevo dargli da mangiare e da bere a forza e aiutarlo
a
cambiare regolarmente posizione. Il medico venne con costanza ogni
giorno, al
mattino e nel tardo pomeriggio: controllava che la caviglia fosse
sempre ben
pulita e mi dava i consigli del caso; a un certo punto mi chiese di
massaggiare
quotidianamente le spalle e la schiena di Tristan per ammorbidirgli i
muscoli.
Mi chiedevo cosa avrebbe
pensato il giovane al suo risveglio, lui, che non si lasciava sfiorare
neppure
per errore; non aveva voluto che per nessuna ragione toccassi quel suo
corpo
che, adesso, mi diveniva di ora in ora sempre più familiare.
- State facendo un lavoro
eccellente – mi disse il medico, a un certo punto –
Dovete volergli molto bene
per prendervi cura a questo modo di lui.
Sorrisi, imbarazzata, e non
risposi. Poi, mentre il dottore se ne andava, sedetti accanto Tristan,
riflettendo sulle parole che mi erano state rivolte.
Non era possibile, per me,
provare affetto per questo giovane: non avevo avuto modo di conoscerlo
e per
quel poco che eravamo stati insieme, lui si era comportato in modo
ignobile. Ma
non mi sarebbe mai stato possibile abbandonarlo a se stesso o fare
qualcosa di
meno di ciò che stavo facendo: la pietà umana mi
era stata insegnata fin da
bambina ed era uno dei valori sui quali la mia famiglia aveva poggiato
le sue
basi. Ed era strano che un medico se ne sorprendesse.
Rimasi in silenzio
osservando il respiro veloce di Tristan, le lunghe ciglia umide di
sudore, la
pelle abbronzata e lucida: questo Tristan, assente nella coscienza, ma
tanto
presente nella malattia, stava per me diventando più
familiare... più reale dello
scontroso accompagnatore che mi aveva negato persino un tozzo del suo
cibo.
Mi accostai a lui e
controllai ancora una volta la ferita; dovetti fargli male,
perché prese ad
agitarsi – Pietà – implorò
nuovamente, facendomi sobbalzare – Vi supplico,
abbiate pietà! Almeno di lei. Almeno non fate questo anche a
lei!
Presi immediatamente
l’infuso dal comodino e glielo accostai alla bocca.
- Lasciatela stare, vi
prego!
I suoi occhi spalancati,
ancora una volta non mi vedevano veramente.
- Bevi, bevi questo e vedrai
che starai meglio.
- Vi scongiuro... vi
scongiuro!
Gli scostai dalla fronte i
capelli sudati e feci in modo che ingoiasse buona parte della tisana.
Questo,
dopo una manciata di minuti, lo aiutò a calmarsi.
Ero stanca, infinitamente
stanca e la mia sensazione era che Tristan non sarebbe mai tornato in
questo
mondo.
- La febbre sta calando e la
caviglia ha iniziato a guarire, possiamo dichiararlo definitivamente
fuori
pericolo.
- Ne siete certo?
- Non siete più costretta a
controllarlo costantemente, probabilmente si sveglierà
presto. Oh, ci vorranno
giorni perché recuperi le forze, ma pian piano si
rimetterà. Ora fatevi una buona
dormita, ne avete bisogno.
Non me lo feci ripetere,
appena il medico uscì dalla stanza crollai sul letto accanto
a quello di Tristan
e dormii per nove ore a fila.
Quando mi svegliai, Tristan
aveva gli occhi socchiusi. Osservava la stanza confuso e il suo
sguardo,
sebbene sfinito, non era più velato dal delirio. Quando i
suoi occhi si
appoggiarono su di me, capii che mi aveva riconosciuta. Aprì
le labbra per
parlare, ma non ne uscì alcun suono e un istante dopo
crollò nuovamente
addormentato.
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Capitolo 5 *** Nessuna pietà ***
5
Impiegò ancora diverse ore
per restare sveglio quel tanto da iniziare a domandarsi dove si
trovasse; ma,
quando accadde, non ebbi dubbi in proposito: il suo volto
tornò all’improvviso
a dipingersi di disprezzo e furore.
Mi accorsi che cercava di
muoversi, ma era talmente tanta la spossatezza lasciata dalla febbre,
che non
riusciva neppure a sollevare un braccio: solamente i suoi occhi
roteavano per
la stanza registrando i dettagli, alla ricerca di indizi.
Quando caddi nel suo campo
visivo, mi parve di vederlo vacillare.
- Cosa... è successo?
- La caviglia ha fatto
infezione, hai avuto la febbre molto alta. Ricordi la tagliola, vero?
Lo sconcerto prese forma tra
i lineamenti del suo viso, finché, di colpo, si
trasformò in consapevolezza.
- Quanto è passato?
- Siamo qui da quattro
giorni, sei rimasto incosciente per tutto questo tempo.
La notizia lo scosse, ebbe
l’impulso di balzare in piedi e recuperare le ore perse, ma
riuscì solo a far
tremare il bordo del lenzuolo: non aveva la forza di sollevare neppure
una mano.
Afferrai la tazza con
l’infuso dal comodino e mi avvicinai a lui.
- Sei troppo debole e lo
sarai ancora per un po’ di tempo, ma il medico pensa che ti
riprenderai del
tutto. Devi continuare però a prendere le medicine.
- Stammi lontana.
- È importante che tu prende
l’infuso.
- Ti ho detto di starmi
lontana!
- Se non ti curi, non
riuscirai mai a ripartire.
Mi sporsi verso di lui con
la tazza, ma serrò le labbra e chiuse gli occhi.
- Non ti voglio vicino a me.
Non devi toccarmi, hai capito?
A quel punto non potei
evitare che un sorrisetto divertito mi scappasse dalle labbra.
- Non devo toccarti? E cosa
credi che abbia fatto in questi giorni? Come pensi che abbia fatto a
lavarti,
medicarti, nutrirti, aiutarti a svolgere le tue funzioni corporali?
Credi che
ci sia riuscita senza toccarti?
Fu in quell’esatto momento
che si rese davvero conto delle sue condizioni. Prese consapevolezza di
essere
completamente nudo, medicato, fasciato, pulito e debole come un bambino.
Gli si mozzò il respiro e a
quel punto chiuse gli occhi, serrò i denti e
restò immobile, estraniandosi,
come morto.
Così decisi, per quel primo
momento, di lasciar perdere.
La debolezza era tale, che
continuò a dormire ancora per ore; la volta successiva in
cui riprese
coscienza, fu a causa del dolore. Stavo medicandogli la caviglia,
quando la sua
gamba sussultò all’improvviso; lo sentì
trattenere il respiro e le lenzuola presero
la forma dei suoi pugni chiusi. Se non altro stava recuperando le forze.
- Ho quasi finito – lo
avvertii – Ti darò immediatamente
l’infuso d’erbe anestetizzanti, vedrai che ti
porterà un po’ di sollievo.
- Voglio solo... che tu
stia... lontana da me.
Mi girai di scatto e lo
guardai: la bocca contratta, gli occhi scuri annebbiati di dolore,
eppure
quell’espressione di disprezzo era ancora presente, ancora
immutata.
- Non posso stare lontana da
te: se vuoi rimetterti in piedi devi lasciarmi fare. Hai il compito di
scortarmi dal Granduca, non ricordi? Ho incaricato un messo di
avvisarlo che
avremmo tardato, ma se non mi permetti di aiutarti, non lo
raggiungeremo mai!
Fece per ribattere, ma si
morse le labbra e infine distolse lo sguardo; così finii di
fasciargli la
caviglia e presi l’infuso dal comodino.
- Non lo voglio – mi disse.
Contai lentamente fino a
trenta per evitare di rovesciargli la tazza in testa.
- Ti stai comportando come
un bambino cocciuto, neppure la minore delle mie sorelle fa capricci
tali ai
tuoi!
I suoi occhi saettarono sul
mio viso, si assottigliarono scrutandomi con intensità e
seppi che avrei dovuto
subire un attacco.
- Com’è possibile che il
Granduca ti abbia accettata?
Scossi la testa, per
indicare che non avevo capito. In realtà comprendevo fin
troppo.
- Tu non sei il tipo di
donna che possa piacergli. Ama le donne formose, dalle labbra procaci e
dalle
ciglia lunghe. Sei troppo minuta, troppo scura di capelli, poco
voluttuosa e...
quella pettinatura assurda...
Istintivamente mi portai una
mano al nastro turchese che tratteneva i miei capelli in una coda alta,
scompigliata.
- Non sei bella – aggiunse –
Non abbastanza per Roman Fedar. Non gli hai mandato il tuo ritratto,
vero? Devi
averlo ingannato.
Avrei preso volentieri a
schiaffi quel sorrisetto sardonico, ma il punto era... che Tristan
aveva
ragione.
- Gli ho inviato il ritratto
di mia sorella Lana – Non abbassai lo sguardo, non mi
vergognavo del mio
aspetto – Non potevo rischiare che mi rifiutasse.
Scoppiò in una risata secca,
irritante.
- Lo immaginavo, il Granduca
non avrebbe mai potuto desiderarti... – una fitta di dolore
gli spezzò la voce,
facendolo ritrarre su se stesso.
- Tieni, bevi – dissi,
infilandogli la tazza fra le mani.
- Potrebbe essere
avvelenata, per quello che ne so.
Scrollai le spalle – Non ho
interesse a vederti soffrire, Tristan Arsediel. Ho interesse solo che
tu
guarisca e mi porti a destinazione.
Lui finalmente bevve una
sorsata, fece una smorfia di disgusto e mi osservò con
cupezza – Quando ti
troverai al cospetto del Granduca, rimpiangerai di essere arrivata con
tanta
rapidità. Non apprezzerà che tu l’abbia
ingannato, ti pentirai molto
rapidamente delle tue azioni, credimi. La mia cattiveria ti
parrà gentilezza,
al confronto con la sua crudeltà.
Sembrava quasi godere, nel
dirmi questo.
- Era lui che invocavi
durante il delirio della febbre?
Tristan sussultò.
- Imploravi pietà – spiegai
– Per te e per qualcun altro. Era a lui che la chiedevi?
Rimase zitto molto a lungo,
davvero molto. Infine sputò – Sì.
- E ha avuto pietà, alla
fine?
I suoi occhi foschi
divennero ancora più scuri, più torbidi
– No. E non ne avrà neanche di te.
Annuii. Non facevo fatica a
credergli, ma non volevo pensarci, non ancora. Non finché
non ne fossi stata
costretta. A quel punto avrei accettato ogni cosa, anche la
più bassa e
repellente, perché questo era il sacrificio per cui mi ero
offerta.
- Bevi tutto l’infuso –
dissi. E poi uscii per stare un po’ sola con i miei pensieri.
******************************************************************************
Ciao a tutti, ho pubblicato un
giorno in anticipo, perché domani vado a Torino alla festa
del cioccolato (*__*) e starò via tutto il giorno!!!
Grazie a tutti voi che mi state
seguendooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!!! *corre verso il
cioccolato*
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Capitolo 6 *** Costo a sorpresa ***
6
“Era
lui che invocavi durante il delirio della febbre?”
Tristan chiuse gli occhi,
strinse i pugni, le labbra, il cuore.
Non pensava che, dopo tanto
tempo, i suoi sogni sarebbero tornati là, a ripescare nel
torbido. Da anni
teneva le sue memorie sigillate e non permetteva a uno solo dei suoi
pensieri
di deviare dal presente. Ma appena la coscienza era venuta meno, ecco
che la
parte più ripugnante di lui era tornata a galla, come un
cadavere sull’acqua.
- Che schifo.
Posò una mano sul comodino e
con un colpo secco gettò a terra la tazza in cui aveva
bevuto l’infuso. Si
ruppe in pezzi taglienti, affilati come la repulsione
che stagnava nel suo animo.
Che
schifo,
pensò di nuovo. Era tutto solamente uno schifo.
Vide il medico il mattino
dopo. Lo
osservò accigliato, mentre gli
slegava le bende e controllava la cicatrizzazione della ferita;
sopportò il
dolore stringendo la mascella, irrigidendo allo spasimo ogni muscolo
del corpo.
- Sta guarendo – fu la
sentenza, infine – Dovrete pazientare ancora diversi giorni,
prima che il
dolore si acquieti, ma senza dubbio la vostra caviglia è
salva. Ammetto di aver
nutrito ben poche speranze, in principio: pensavo che sareste morto
d’infezione
o che, nel migliore dei casi, avrei dovuto amputarvi la gamba. Ma la
vostra
accompagnatrice non si è arresa, ha rinunciato a diverse
notti di sonno per
medicarvi.
- Non sono certo io ad
averglielo domandato.
Il medico alzò su di lui
occhi pensosi, che lo misero a disagio. Alla sua
aggressività, la gente
rispondeva attaccando o fuggendo, ma quel dottore no... Quel dottore
sembrava
piuttosto desideroso di capire.
- Helaida – disse,
rivolgendosi alla ragazza lì accanto - Sarà
necessario un nuovo massaggio per
evitare che i muscoli si irrigidiscano ulteriormente.
Tristan fissò il medico
sconcertato – Massaggio? Non ho intenzione di farmi fare
niente del genere.
- Sono giorni che questa
ragazza lavora sui vostri muscoli, non credo esista una parte del
vostro corpo che
non conosca ormai nel dettaglio.
Inverosimilmente, sentì che
correva il rischio di arrossire. Il pensiero che quella ragazza avesse
disposto
del suo corpo mentre lui era incosciente lo faceva sentire al contempo
imbarazzato e nauseato. Peggio: terrorizzato. Un’emozione che
detestava
provare.
- Prima non ero nelle
condizioni di rifiutare – sibilò – Ma
ora non potete costringermi ad accettare
ancora aiuto da lei.
Il medico strinse gli occhi
e si voltò verso la ragazza – Per favore, andate a
prendere l’olio per il
massaggio.
Lei, obbediente, uscì dalla
stanza.
- Ascoltatemi, giovanotto –
gli disse, appena furono soli – Ho visto le cicatrici che
avete sul corpo e
sono segni che parlano di tortura, di prigionia e di umiliazioni.
Immagino che
per voi, in questo momento, ritrovarvi così debole e alla
mercé di chiunque
possa essere spaventoso; ma voglio rassicurarvi sul fatto che non
correte alcun
pericolo. Quella ragazza si è occupata di voi come pochi
altri avrebbero fatto:
è merito suo se potrete ancora camminare su due gambe e,
credetemi, non ho mai
visto nessuno trattare il corpo altrui con tanto rispetto. Dunque, non
fatele
del male. Non rifiutatela, lasciate che continui ad aiutarvi. Avete
bisogno di
quel massaggio per rimettervi in piedi e proseguire quanto prima il
vostro
viaggio.
Tristan rimase in silenzio,
spiazzato da quell’imprevisto discorso.
- Datemi ascolto – ribadì il
medico – Anche se avete sofferto, non siete costretto a
restituire quella
sofferenza a chi vi ha fatto solo del bene.
Lui si morse il labbro e
abbassò lo sguardo. Non voleva ripensarci e non voleva
ricordare. Ma quando un
pensiero si incanala è così difficile fermarlo. E
Tristan all’improvviso era
già là, in quel tempo e quel luogo marchiati a
fuoco nella sua anima.
Quando
il Granduca lo fece
prigioniero lui, non
aveva che diciotto anni.
Gli
uomini di Roman Fedar accerchiarono il castello, lo presero
d’assedio e infine
penetrarono le mura; entrarono, sbaragliarono, uccisero. Tristan non
era tra
quelli che riuscì a fuggire, lui e sua sorella vennero presi
in ostaggio e
portati alla Roccaforte come bottino di guerra; come prede su cui
sfogare una
sete di dominio malata, perversa.
Lo
torturarono per giorni, senza lasciargli lo spazio di un respiro. Il
suo corpo
urlava, tutto intero, come un unico coagulo di dolore; scongiurava,
supplicava,
anelava a un respiro, un solo respiro privo di sofferenza.
Chiese
pietà. La chiese per sé e per sua sorella.
“Ditemi che non le state facendo la
stessa cosa!”, pregava, ma nessuno mai gli rispondeva.
Infierivano, infierivano
e basta sul suo corpo agonizzante, solo per sentirlo urlare, per
vederlo
strisciare; perché quello piaceva al Granduca: possedere
interamente la vita
altrui.
Tristan
perse ogni dignità, si prostrò ai piedi di Roman
Fedar iimplorando pietà,
implorando riposo, implorando, implorando, implorando.
E
un giorno smise di torturarlo.
-
Ho esaudito la tua richiesta – gli disse, con un sorriso
cattivo che era il suo
unico sorriso – Smetterò di tormentarti, ragazzo.
Non rifiuto mai di soddisfare
un desiderio, ma ogni desiderio ha un costo; il costo di una vita. Non
dimenticarlo, la prossima volta
che mi domanderai qualche cosa.
Impiegò
qualche istante a comprendere che aveva ucciso sua sorella.
*************************************************************************
Anche questa settimana sono in anticipo, stavolta perché....
Beh, perché mi va! xD
E' quasi Natale e mi gira così! Buon venerdì a
tutti!!
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Capitolo 7 *** Pezzi di nastro ***
7
Quando rientrai nella stanza
con l’olio per i massaggi, Tristan aveva lo sguardo perso nel
vuoto. Il dottore
annuì, intimandomi di affrontare un’esperienza di
cui avrei fatto volentieri a
meno.
Tristan, tuttavia, quando mi
misi alle sue spalle non
reagì. Mi ero
aspettata un fiume di improperi, invece rimase muto, immobile.
- Non impiegherò molto – lo
rassicurai, ungendomi le mani. Ma quando le appoggiai sulle sue spalle,
i suoi
muscoli si irrigidirono all’improvviso, indurendosi come
roccia.
- Cerca di rilassarti – gli
dissi, staccandomi – Non ti farò del male,
cercherò soltanto di sciogliere la
tensione.
Aspettai un istante, finché
le spalle non tornarono ad allentarsi, ma appena toccai la sua pelle
fredda
come marmo, i muscoli tornarono a irrigidirsi.
Mi bloccai e guardai il
dottore, sconsolata.
- Abbiate pazienza, Helaida.
Chiunque sia stato torturato come questo giovane troverebbe ansiogeno
essere
toccato alle spalle, mentre è costretto immobilizzato a
letto.
Fu solo in quel momento che
compresi. Mi alzai e girai intorno a lui, andando a sedermi sul bordo
del
letto, di fronte al suo viso.
- Guardami in faccia – gli
dissi – Non mi perderai di vista un solo istante. Ora ti
toccherò le spalle e
ti massaggerò i muscoli, ti basterà una sola
parola per fermarmi.
- Non ho paura di te –
mi rispose, secco – Non temo di averti alle
spalle.
Gli sorrisi, perché tanta
arroganza in quel momento sembrava più divertente che
irritante.
- Preferisco massaggiarti da
qui.
Confidavo che, restandogli
di fronte, non avrei rischiato di risvegliare quegli istinti
primordiali che lo
portavano a difendersi in modo automatico. E funzionò.
Gli toccai le spalle e, non
ottenendo risposte di tensione, iniziai a massaggiargli i muscoli con
calma,
scaldandogli la pelle gelata. Lui teneva il viso rivolto di lato, non
mi
guardava, non commentava, come se io non fossi presente.
Era la stessa persona che,
giorni prima, non mi aveva permesso di sfiorarla neppure avendo un
piede
incastrato in una tagliola. Oggi lasciava che l’aiutassi, ma
solamente – e non
nutrivo dubbi al riguardo – perché non aveva altra
scelta.
Il medico annuì, mi strizzò
l’occhio mentre Tristan non guardava, e ci lasciò
soli.
- In questo modo non avrai
mal di schiena – dissi, per rinvigorire l’idea che
i suoi sforzi non fossero
vani – Ancora un poco e sarai a posto.
Ma gli toccai un punto
dolente e, sorpreso, sobbalzò; il movimento finì
per riflettersi sulla caviglia
e provocargli un gemito di dolore.
- L’effetto del calmante
dev’essere terminato, ti darò ancora un
po’ di tisana.
- Perché? – mi
domandò lui,
con un tono di voce in cui riconobbi sì, diffidenza, ma
anche una vena di
autentica incomprensione.
- Perché così ti
passerà il
male – risposi, perplessa.
- Voglio sapere perché ti
ostini a fare così... maledettamente la buona.
Come se questo cambiasse qualcosa. Come se cambiasse il fatto che i
tuoi
genitori ti hanno venduta a un pazzo sadico, o come se questo potesse
intenerire me, che a malapena sopporto la tua vista, o come se potesse
ottenerti qualcosa da un futuro che, te lo posso giurare,
sarà solamente un
intollerabile inferno. Non ti servirà a nulla, dove andremo,
la tua gentilezza.
Puoi risparmiartela, Helaida!
Le sue parole, come ogni
volta, aprirono il baratro nero del mio futuro, facendomi risalire
lungo la
gola l’acido sapore dell’angoscia.
- Lo so. Lo so, ma è così
che sono stata cresciuta: credendo che il bene generi altro bene e che
il male
porti solo il male. È il fondamento su cui la mia famiglia
ha basato la sua
esistenza e il suo governo e io non posso fare a meno di crederci,
perché al di
fuori non mi resta altro!
Sorrise di scherno alle mie
parole, come se avessi detto che la mia gentilezza avrebbe fatto
piovere rose.
- Il tuo bene
non genererà altro bene, è
solamente irritante. Mi stai irritando,
capisci? E sarò con te ancora più sgradevole, se
possibile; quindi la tua
sciocca equazione è fallimentare. Non diventerò
gentile con te, Helaida, te lo
ripeto un’altra volta.
Mi strinsi nelle spalle – Questo
l’ho capito. Ma anche se questo... bene,
che tanto ti irrita, non mi tornasse indietro, resterà
comunque su di te. E, solo
per questo, la mia esistenza avrà avuto un minimo di senso.
La mia risposta lo fece
infuriare, lo compresi. Afferrò la tazza della tisana e la
sbatté a terra,
spargendo in una larga chiazza frammenti di coccio e liquido scuro.
Poi, senza
che avessi il tempo di prevederne la reazione, si sporse verso di me e
sciolse
il nastro turchese che portavo fra i capelli, portandomelo via.
Sobbalzai, quando lo vidi
afferrare dal comodino il coltello del pane e girarlo verso la striscia
di
tessuto.
- Fermati, cosa vuoi fare?
- Voglio tagliarlo e rendere
inutilizzabile l’unica preziosissima cosa che ti è
rimasta della tua famiglia!
– scimmiottò, con odiosa strafottenza –
Te l’hanno regalato le tue sorelle,
vero?
- Me l’hanno regalato
spendendo tutti i loro soldi – esclamai – Non hai
alcun motivo per rovinarlo,
se non quello di farmi del male.
La punta del coltello scalfì
il nastro, sfilacciandone l’orlo. Trattenni il respiro,
paralizzata. Sapevo
cosa stava facendo, che cosa sperava di ottenere.
Voleva
farmi arrabbiare.
Voleva frantumare il mio autocontrollo,
la mia compostezza, la gentilezza
che, nonostante tutto, mi ostinavo a rivolgergli. E dimostrarmi che non
avrei
retto un solo giorno, una volta arrivata dal Granduca.
Rimasi immobile, paralizzata
dall’indecisione.
- Farti del male è
esattamente ciò che voglio – mi disse. E
tagliò il nastro a metà.
- No, fermati! – mi gettai
su di lui, che alzò le braccia: il coltello in una mano, i
pezzi di nastro
nell’altra – Fermati, smettila! Smettila, quel
nastro è tutto ciò che ho! Non
farlo!
Mi scansò e con un gesto
fulmineo tagliò in due un’altra metà
del nastro, mentre gli cadevo addosso e
tentavo di fermare le sue braccia muscolose, forti come
l’acciaio nonostante la
malattia.
Sentii le lacrime scivolarmi
lungo il viso e la mia voce si ruppe in singhiozzi, mentre, finalmente,
riuscivo a riprendere i brandelli del nastro che le mie sorelle avevano
ottenuto con tanto sacrificio.
- Se non fossi stata così gentile,
ora il tuo nastro sarebbe
ancora tutto intero – mi disse lui, con un sorriso cattivo.
Lo fissai per un istante, le
lacrime che ancora mi grondavano dagli occhi, poi mi strinsi al petto
il nastro
e scappai fuori dalla stanza.
Mi accovacciai sotto un
albero, nascosta ai passanti, ripiegata in due su uno spasimo che era
più
angoscia, più asfissia, più...
...dolore.
Come una punta che trapana
la gola e fa male, così male che
vorresti cacciarla giù o sputarla fuori e invece
è la tua angoscia, quella che
stai sentendo e nessuno te la può cavare via.
Piansi su quei
pezzi di stoffa così a lungo da svuotarmi la
gola da tutta la voce che avevo, finché i singhiozzi
divennero muti e affamati
d’aria. Picchiai i pugni a terra, per prendere a sberle il
viso arrogante di
Tristan Arsediel, e imprecai contro di lui e la sua infrangibile
insensibilità.
Sputai odio e disperazione in egual misura e la sofferenza si
allargò al mio
destino tutto intero, perché, quando lasci che il dolore
trattenuto si sfoghi
tutto d’un colpo, la negatività prende il
sopravvento e ogni pensiero è un
nuovo pensiero per piangere.
E lo feci, di piangere, così
tanto che in me non rimase un solo fiato di forza.
Allora mi alzai, tornai alla
locanda e mangiai una zuppa calda, evitando lo sguardo curioso della
padrona
del locale. Le domandai, finito il pasto, la cortesia di prestarmi ago
e filo e
trascorsi il tempo successivo seduta sotto al portico, ricucendo
assieme, con
minuziosa attenzione, i brandelli del mio nastro.
Tornò come nuovo:
rammendato, sì, ma talmente bene da notarsi a malapena. Ero
sempre stata brava
nel cucito e ritrovare il mio oggetto perduto diede una nuova impronta
di
positività al mio spirito afflitto.
Per quasi tutto il
pomeriggio avevo meditato di farmi accompagnare alla Roccaforte da un
corriere
qualsiasi, abbandonando Tristan al suo destino. Ma ora, più
calma, mi rendevo
conto in maniera lucida di ciò che era accaduto.
L’uomo che aggredisce è
debole, questo mi aveva insegnato mio padre. Come una bestia in
svantaggio,
così anche l’essere umano attacca tanto
più quanto vede prossima la possibilità
di essere ferito per primo.
I miei genitori mi avrebbero
consigliato di capire, empatizzare, perdonare. Non ero ancora pronta a
farlo e
per questo rimasi lì, seduta sotto al portico, a pensare a
quanto sarebbe stato
più liberatorio abbandonare Tristan o insultarlo o... beh,
picchiarlo. Sorrisi,
immaginando ognuna di queste possibilità. Ma man mano che le
ore trascorrevano,
mi rendevo conto che la soddisfazione che ne avrei tratto sarebbe stata
ben
futile.
Tristan era un uomo
amareggiato, diffidente, duro; ma portava su di sé i segni
di torture che
certamente non aveva cercato per sé. Questo, non potevo
scordarlo.
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Capitolo 8 *** Quello che è giusto ***
8
La luce del giorno si smorzò
lentamente, mentre Tristan, solo nel letto con i suoi pensieri e il
pulsare
della caviglia, sentiva su di sé il peso delle ore che
scorrevano.
Quel pomeriggio impiegò
un’infinità a consumarsi e, quando finalmente si
mutò in sera, anche quella si
presentò lenta come la più prudente delle
tartarughe. La locandiera si mostrò
con il vassoio della cena e, vedendo lo sfacelo sul pavimento, si
fermò a
raccogliere i cocci e a pulire per terra, mentre Tristan cincischiava
con il
cibo, fingendo di mangiare.
Non intendeva sentirsi in
colpa per il comportamento avuto con Helaida, e tuttavia, in fondo allo
stomaco, non riusciva a scacciare quella punta di vergogna che gli
rendeva
acida la cena e lo faceva sentire frustrato, insoddisfatto.
Aveva reagito d’istinto, con
la ragazza: l’aveva ferita per smascherarne la rabbia, la
cattiveria che, in
fondo il cuore, tutti quanti provano, e riportarla a un piano di
realtà che lui
riconosceva e sapeva affrontare; scioccamente non aveva considerato che
si
sarebbe messa a piangere e quelle lacrime, sbigottite e dolorose, lo
avevano
schiaffeggiato.
Ma
io non sono sensibile al pianto delle donne.
In qualche modo, se lo era
dovuto ricordare.
C’era stato un periodo in
cui le lacrime delle ragazze destinate al Granduca erano state la sua
tortura.
Tristan era stato costretto
a giurare fedeltà all’uomo che aveva ucciso sua
sorella: se si fosse rifiutato,
anche la vita di suo fratello minore sarebbe stata presa da Roman
Fedar. Quell’uomo
aveva costruito il suo potere sull’asservimento completo dei
suoi sottoposti,
governava con le minacce, la paura e il dolore; cresceva
sull’umiliazione
altrui. Costringerlo a servirlo non era stata che una riprova dei mezzi
di cui
si serviva.
Tristan aveva scortato fin
dall’inizio le ragazze sacrificate al Granduca, e in
principio si era lasciato
intenerire dalla loro paura, dalle loro sofferenze. Aveva offerto loro
conforto, per quel che aveva potuto; ma in cambio ne aveva avuto solo
lo
strazio dei tormenti loro inferti. Se ogni ragazza soffriva per
sé e per il
proprio destino, Tristan soffriva per ciascuna di loro e a un certo
punto tutto
quel dolore, quell’umiliazione, quella paura, erano diventate
insopportabili.
Il Granduca aveva riso, di
fronte a tanto sgomento.
- Non mi trovi giusto,
Tristan? Eppure vedi, io sono potente, ottengo tutto ciò che
voglio. Qual è la
verità? La verità è che è
giusto ciò che ti fa stare bene, e io sto bene!
La sua risata grossolana lo
aveva urtato nell’intimo, ma anche se aveva rifiutato a pelle
le sue parole,
non aveva potuto fare a meno di portarsele accanto durante ogni
viaggio, e di
rigirarsele in testa quando l’ennesima ragazza spaventata
arrivava alle soglie
della Roccaforte.
Era giusto avere
compassione, gli avevano insegnato. Erano buona cosa il rispetto,
l’equità e la
magnanimità.
Ma come poteva vederne
ancora il senso, quando tutta la sua pietà non aveva il
potere di cambiare un
solo istante nel martirio di quelle ragazze?
Fu allora, dopo l’ennesimo
strazio, che chiuse il suo cuore alla compassione e fece diventare
falso tutto
ciò che era stato vero, e considerò ingiustizia
ciò che era stata giustizia.
Era ingiusto che soffrisse sempre,
costantemente e fino a quel punto, per gli altri. Così smise
di farlo.
La candela si era quasi
consumata, quando Helaida rientrò.
Non sapeva cosa aspettarsi
dopo l’episodio di quel pomeriggio e si stupì
quando le vide in mano una tazza
di tisana fumante. Il vestito da viaggio era stropicciato e i capelli
le
scendevano liberi sulle spalle, in onde che potevano essere riccioli,
ma per
poco non lo erano. I capelli castani erano quasi chiari sotto la luce
del sole,
ma in quel momento sembravano scuri, opachi, in contrasto con gli occhi
verde
acqua così limpidi da sembrare trasparenti.
Occhi che non si
abbassavano, perché – per qualche assurdo motivo
– lei non aveva paura di lui.
Non aveva paura di lasciarsi ferire.
Helaida si avvicinò al
comodino e appoggiò la tazza con delicatezza.
- Aspetta che si raffreddi,
prima di berla – si raccomandò, senza che dalla
sua voce trasparisse il minimo accenno
di rabbia, di offesa, di risentimento.
Andò dritta al letto accanto
al suo, si sdraiò e chiuse gli occhi; con costernazione di
Tristan, la sua
respirazione rallentò quasi immediatamente.
Si era addormentata in un
istante, come chi non ha pensieri per la testa, non rimugina e non
trattiene
rancori; e ora riposava a poche spanne da lui, forte della sua mitezza.
Da una tasca le vide
spuntare un lembo di nastro e notò i segni delle cuciture,
fini e accurate, a
malapena visibili. Per un istante meditò di sottrarle
nuovamente quel ricordo
così prezioso e di gettarlo nel camino, ma il pensiero delle
sue lacrime lo
fermò.
Giusto è tutto ciò che ti fa
star bene, aveva detto il Granduca. E in quel momento, si rese conto,
veder
piangere Helaida un’altra volta non l’avrebbe fatto
stare bene neppure un po’.
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Capitolo 9 *** La Roccaforte ***
9
Ci vollero altri due giorni
di silenzi smozzicati, prima che il dottore ci desse la tanto sospirata
buona
notizia: saremmo potuti ripartire, a patto che Tristan andasse sempre a
cavallo
e che facesse numerose soste.
Il suo animale, come
previsto, era stato ritrovato in paese e portato alla locanda;
così, visto
l’ormai avanzato ritardo in cui ci trovavamo, Tristan
acconsentì al fatto che
gli salissimo entrambi in sella in modo da velocizzare il viaggio.
Portammo con noi le
provviste necessarie al giorno e mezzo che avremmo impiegato a
raggiungere la Roccaforte
e, quando pagai il tutto con i suoi soldi, Tristan non disse nulla: si
limitò ad
un’occhiata accigliata.
Sedetti davanti a lui sulla
sella, in principio rigidamente per evitare di toccarlo, ma ben presto,
tuttavia, dovetti rassegnarmi alla vicinanza forzata che il galoppo
imponeva.
L’attenzione di lui, d’altronde, era troppo
concentrata sulla sopportazione del
dolore fisico che la caviglia gli procurava per potersi accorgere
veramente
della mia presenza.
Così il primo giorno di
viaggio trascorse in silenzio, con piccole e altrettanto silenziose
soste, fino
alla sera. Ci accompagnò, quella stessa quiete, anche quando
ci sedemmo attorno
al fuoco sbocconcellando pane e salame e a un certo punto ne fui
nauseata.
Quando vivi con sei sorelle, il silenzio è una condizione
ignota che può
diventare veramente pesante se ti ritrovi a doverla improvvisamente
subire.
- Devo medicarti la ferita –
dissi, solo per rompere quell’asfissiante
monotonia. Ne ricevetti in cambio un’occhiata di
disapprovazione che non
poté però esprimersi a parole: il medico ci aveva
dato il permesso di partire
solo dopo una lunghissima ramanzina sull’importanza di rifare
spesso la
medicazione.
Sapevo che l’essermi
debitore di cure rendeva Tristan arrabbiato, esasperato;
così come il fatto di
essersi trovato debole alla mia mercé per tanto tempo e di
essere stato in
qualche modo violato nella sua intimità. Tuttavia mi ero
abituata alla sua
scontrosità e per quanto il suo comportamento di tre giorni prima mi avesse
ferita, stavo
cominciando a considerarlo al pari di un
vecchio burbero e inacidito, come certi individui arcigni che abitavano
le mie
terre. Se fossi riuscita a guardare a quel suo lato con distacco, con
benevolenza, forse sarei stata in grado di sorriderne, più
che di lamentarmene.
Tristan si sfilò lo stivale
e iniziò a disfare la fasciatura con malagrazia,
così gli scostai le mani e
presi il suo posto. Usai tutta la delicatezza di cui fui capace, ma
ugualmente
gli feci male, come mi dissero i suoi muscoli tesi e i denti digrignati.
- Dovrai portare ancora un
po’ di pazienza, si sta rimarginando poco alla volta.
- Io porto pazienza –
ansimò, con una punta di cattiveria – Sarai tu che
da domani avrai difficoltà a
farlo.
La paura mi ghiacciò le ossa
come neve fredda: ero riuscita, fino a quel momento, a posticipare a
data
futura le preoccupazioni per il mio arrivo alla roccaforte; ma ora la
consapevolezza mi cadeva addosso come una cappa pesante.
- Cosa succederà quando
arriveremo? Come... come si svolgono...i...
Convenevoli?
Non sapevo neppure come
chiamarli!
- Quando arriveremo alla Roccaforte,
verrai immediatamente ricevuta dal Granduca – rispose lui, in
tono incolore –
Entrerai nella sua stanza per pochi minuti e in quegli istanti lui
deciderà se
accettarti o meno nel suo harem. Se verrai rifiutata, sarai
immediatamente
uccisa.
Il suo sguardo scivolò sul
mio corpo con commiserazione, ripensando probabilmente alla truffa in
cui ero
coinvolta, al mio ritratto inviato a Roman Fedar che non era veramente
mio.
- Questo... non lo sapevo.
- È accaduto solo due volte,
finora. Sai, non molta gente ha il coraggio di ingannare il Granduca,
è più
frequente che lui si trovi di fronte esattamente quello che si era
aspettato.
Deglutii.
E decisi che non avrei più
fatto domande.
Fasciai stretta la caviglia
e afferrai la coperta dalla sacca.
- Va bene... dormiamo.
***
Quando la Roccaforte si
stagliò di fronte a loro, Tristan riuscì a
sentire la scarica di tensione che
attraversò il corpo di Helaida: la percorse irrigidendole la
schiena e
facendole raddrizzare le spalle di colpo. Sbatté contro di
lui, seduto in sella
alle sue spalle, e immediatamente si ritrasse, quasi vergognosa dei
suoi
timori.
Non poteva negare
che la ragazza stesse dando prova di coraggio:
l’aveva seguito lungo tutto il tragitto senza lamentele e
piagnistei; ma
Tristan ne aveva accompagnate altre come lei. Helaida era la
trentanovesima, la
trentanovesima di altrettante vittime che, una dopo l’altra,
lui aveva condotto
al martirio. Alcune avevano pianto per tutto il tragitto e, qualche
volta, avevano
cercato di fuggire; altre avevano mantenuto un dignitoso contegno che
era
sfociato nella freddezza e nel disprezzo, altre ancora avevano
dissimulato il
nervosismo e la paura con un approccio affabile ed eccessivamente
ciarliero che
lui, prontamente, aveva smorzato.
Ma, indipendentemente dal
modo in cui si erano condotte durante il viaggio, la loro reazione dopo
il primo
rapido incontro con il Granduca si era sempre irrimediabilmente risolta
in un
crollo emotivo. Uscivano da quella stanza distrutte nello spirito, in
lacrime e
disperate; allora cercavano di attaccarsi a lui, a Tristan: si
gettavano ai
suoi piedi supplicandolo di salvarle, di portarle via o di ucciderle.
Ed era in
quel momento che lui diventava cattivo, più cattivo di prima
e le abbandonava
con indifferenza al loro destino.
Helaida non avrebbe
costituito eccezione per quanto adesso tentasse di mostrarsi
coraggiosa: sarebbe
uscita dalla stanza del Granduca fatta a pezzi. Se
ne fosse uscita.
Lasciò il cavallo allo
stalliere e scortò la ragazza fra i corridoi a passo
spedito, notava che
l’andatura di Helaida tendeva a rallentare e per questo la
forzava a una
velocità ancora maggiore: l’avrebbe costretta ad
affrontare la realtà e a
diventare, finalmente, una delle tante disperate vittime di Roman
Fedar. E
tanti saluti alla sua gentilezza e ai suoi discorsi sul bene che va e
che
ritorna. I suoi genitori avrebbero dovuto prepararla ad affrontare la
crudeltà
umana più che a credere alle favole.
- Annunciate al Granduca
l’arrivo di Helaida d’Orca!
L’uomo a guardia delle
stanze di Roman Fedar sparì dietro la porta, lasciando loro
ancora qualche
istante d’attesa.
Helaida teneva la mascella
serrata e le braccia incrociate sul petto,
Tristan era certo che, se l’avesse toccata,
avrebbe sentito il tremito
del suo corpo.
- Cosa succederà là dentro?
– gli chiese all’improvviso.
Lui alzò le spalle, in un
gesto insofferente – Lo saprai fra pochi secondi.
- Mi spoglierà?
Lo sorprese il modo diretto
in cui gliel’aveva domandato, senza fremiti nella voce, senza
abbassare il
tono.
- È probabile, in genere le
ragazze escono con gli abiti a brandelli.
Si aspettava che la sua
risposta avrebbe peggiorato il suo stato d’animo, invece
Helaida annuì e sembrò
prendere coraggio, come se all’improvviso si fosse ricordata
che non voleva
avere paura.
La porta si spalancò,
- Venite, entrate!
Helaida prese un lungo
respiro e con passo deciso attraversò la soglia.
Non
ti servirà a nulla tutto questo coraggio. Il Granduca se ne
nutre, se ne nutre
fino a non lasciartene più neppure un granello.
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Capitolo 10 *** Il Granduca ***
10
Il Granduca era un colosso.
Avendoci privato di tutte le
nostre ricchezze, mi ero immaginata un uomo circondato dal lusso,
azzimato ed
effemminato e non avevo riflettuto che Roman Fedar era, in primo luogo,
un
comandante e un guerriero.
Mi sovrastava con la sua
altezza sostenuta da un’ossatura imponente e da muscoli
forti, allenati; aveva
capelli scuri leggermente diradati sulle tempie, una mascella quadrata
e occhi
duri, cattivi.
Mi squadrò da cima a fondo
con un’unica occhiata sprezzante che sembrò
sezionare ogni angolo del mio corpo
e poi la sua bocca si aprì in un ghigno asimmetrico.
- E tu chi saresti? Non la
ragazza che ho visto nel ritratto!
Avevo immaginato per giorni
quel momento, mi ero preparata al peggio e al peggio del peggio. Ero
pronta ad
affrontare qualunque bruttura.
- Avete visto il ritratto di
mia sorella, ma la primogenita sono io.
- Dunque, tuo padre mi ha
ingannato.
- Io sono qui per servirvi,
signore.
In due passi mi fu di
fronte, mi afferrò per la nuca tirandomi verso di
sé e sibilò – Vediamo di che
pasta sei fatta.
Con le due mani prese il mio
vestito e lo aprì in due, letteralmente. Mi cadde di dosso
come acqua scivolosa
e non feci neppure in tempo a replicare, che anche la mia biancheria
intima
seguì lo stesso percorso.
Ero nuda di fronte a lui e
costernata per la velocità con cui tutto era avvenuto.
Non
agitarti, sapevi che sarebbe successo. Sei pronta.
Mi ero preparata a quel
momento e ora mi estraniai da qualunque sentimento di vergogna o di
ribrezzo:
questo era il destino a cui mi
ero
venduta per salvare la mia gente e non dovevo lasciarmi sopraffare.
Roman Fedar fece scivolare
una mano lungo la mia schiena, fino alle natiche. Le
accarezzò con foga, poi
scivolò davanti, mi aprì le gambe e mi
toccò dove nessuno l’aveva mai fatto.
Chiusi gli occhi un istante e quando li riaprii avevo ritrovato un
sufficiente
distacco.
Lui mi spinse indietro e mi
fissò, un sorriso cattivo gli tirò le labbra.
- Docile, ma non sottomessa
– disse, come se assaporasse con gusto quelle parole
– Sei sufficientemente
attraente e sarà un piacere umiliarti fino a scomporre il
tuo ridicolo
contegno. Ora raccogli i tuoi stracci e dì a Tristan di
sistemarti e di tornare
immediatamente da me.
Annuii e cercai in qualche
modo di infilarmi il vestito lacero, tenendone i lembi chiusi con le
mani; poi
aprii la porta e fui finalmente fuori.
Helaida non stette nelle
stanze del Granduca a lungo, non più di chiunque altra; ne
emerse con gli abiti
in pezzi, tenuti insieme a malapena dalle sue braccia incrociate.
Appena fu fuori respirò a
fondo e scrollò velocemente le spalle, come a lasciar cadere
qualcosa di
fastidioso.
- Ha detto di sistemarmi e
poi di tornare da lui – annunciò, la voce
leggermente tremante ma alta, decisa.
Tristan rimase spiazzato.
Aspettò qualche istante che avvenisse il crollo, ma lei,
vedendolo immobile,
alzò su di lui due occhi perplessi – Non andiamo?
- Sì...
Seguimi.
Le fece strada in preda a
una nuova confusione.
- Credi che troverò ago e
filo nella mia stanza? Per ricucire l’abito?
Lui le lanciò un’occhiata
confusa
– Gli
abiti non ti mancheranno, credimi.
- Questo vestito l’aveva
fatto mia madre. Vorrei tenerlo, anche se non lo indosserò
più.
- Dunque sei piaciuta al Granduca?
- Gli piacerà umiliarmi, ha
detto. Mi ha trovato troppo... contegnosa.
Tristan si voltò di scatto.
- Contegnosa... Sei stata
contegnosa, mentre ti spogliava e ti metteva le mani addosso?
- Ecco... sì. Avrei dovuto
sentirmi più umiliata, credo, mostrarmi vergognosa. Temo di
non avergli dato la
soddisfazione che cercava.
- Gli hai fatto la predica?
– la schernì, sarcastico – Gli hai detto
che lo perdonavi per averti tolto ogni
dignità? Oh, forse questo non mi stupirebbe!
- Non gli ho fatto nessuna
predica e lui non mi ha affatto tolto la dignità, per cui
puoi rilassarti,
Tristan Arsediel.
- Davvero? Il tuo onore non
è caduto in pezzi insieme a quell’abito?
– rise lui, cattivo. Quella ragazza lo
rendeva aggressivo, scatenava in lui una rabbia difficile da
controllare.
- Il mio onore non cadrà in
pezzi qualunque cosa quell’uomo decida di farmi – i
suoi occhi verde chiaro
sembrarono quasi sfidarlo, sfidarlo a dimostrarle il contrario di
ciò che stava
affermando.
- Temo che tu sia impazzita,
Helaida d’Orca, forse incontrare il granduca ti ha fatto
perdere completamente
il senno.
Aprì una porta, facendole
cenno di entrare. Lei obbedì, varcando la soglia della sua
nuova stanza: una
camera tanto lussuosa quanto degradante sarebbe diventata la vita della
sua
inquilina.
Ma si sorprese quando
Helaida gli afferrò un polso all’improvviso,
costringendolo a fissarla negli
occhi.
- Mi sono offerta
spontaneamente in sacrificio – gli disse, con calma
– E nel sacrificio c’è
onore, poiché si offre la propria vita per il bene altrui.
Qualunque cosa vorrà
farmi il Granduca, io non mi coprirò di vergogna: la
vergogna cadrà sul capo di
chi mi farà volontariamente del male. Io ora sono una
martire, Tristan. E non
ho nulla di cui vergognarmi.
Qualcosa, nelle sue parole,
sembrò colpire la parte più scoperta del suo
animo.
No,
non è così..
È
giusto che io mi protegga, che mi difenda, che mi salvi.
E
lei mente. Lei non sa, non sa ancora quanto lui le cambierà
gli occhi, la
testa, il cuore.
- Va bene, ragazza – disse,
glaciale – Adesso levati quegli abiti stracciati.
- Dove posso cambiarmi?
Lui rimase in silenzio,
fissandola in modo eloquente.
- Vuoi che mi spogli davanti
a te?
- Io mi occupo direttamente
di ognuna delle fanciulle destinate al granduca – sorrise con
consapevole
meschinità – Devo avere un’idea ben
precisa delle potenzialità di ciascuna di
loro e valutare eventuali migliorie da apportare. Avanti, togliti
quella roba.
Si aspettava un’ombra di smarrimento,
di paura... di vergogna, sì, proprio quella.
Invece il viso di lei si
accese di furore – Non credere di ingannarmi, Tristan, so
perfettamente quello
che stai facendo. Vuoi degradarmi, umiliarmi per dimostrarmi che ho
torto, che
la mia dignità è perduta tanto quanto la tua!
Lui arretrò come sotto uno
schiaffo violento.
- Che cosa...
- Vuoi che mi spogli? Ecco!
Con un’unica mossa si fece
scivolare dalle spalle il vestito a brandelli e rimase nuda di fronte a
lui.
Piccola, tremante di rabbia o chissà che altro, con gli
occhi verdi grandi e i
capelli disordinati sulle spalle. E, senza gli abiti addosso a
coprirla, meglio
ben fatta di quanto avesse creduto.
- Ti senti forte adesso? –
gli chiese, rossa in volto per l’imbarazzo – Non
avresti bisogno di questo, se
fossi un po’ più consapevole del tuo valore.
Invece sei debole, Tristan, sei la
persona più ferita che io abbia mai incontrato.
Il fiato gli mancò
completamente.
E tutta la sua debolezza,
quella che Helaida aveva scoperchiato, lo sopraffece.
Come poteva sentirsi in
svantaggio davanti a quella ragazza esile, impotente e completamente
nuda?
Eppure era lui ad aver paura in quel momento.
Girò le spalle e se ne andò.
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Capitolo 11 *** Il senso di un sacrificio ***
11
Mi piegai, rannicchiandomi
su me stessa.
Avevo avuto paura, una paura
tremenda che Tristan mi aggredisse; non mi ci era voluto molto per
comprendere
che avevo toccato un nervo scoperto. E ogni volta che mi avvicinavo
troppo, lui
diventava violento.
Mi abbracciai le gambe e
lasciai che le lacrime mi scivolassero sul volto: dovevo permettere
alla
tensione di quelle ultime ore di sfogarsi, altrimenti non sarei
sopravvissuta,
non sarebbe sopravvissuta la mia mente.
Va
tutto bene, va tutto bene.
Aggirandomi per la stanza
sontuosa, scovai il necessario per un bagno caldo e me lo concessi. Poi
spazzolai i capelli fino a renderli vaporosi e, aprendo
l’armadio di fronte al
letto, scovai un abito verde acqua che giudicai mi sarebbe stato bene.
Il
corpetto arricciato si allacciava dietro al collo e si stringeva sotto
il seno,
permettendo alla stoffa di scendermi libera lungo i fianchi. Nello
specchio,
quasi non mi riconobbi: erano anni che non potevo permettermi un lusso
di tal
genere.
Mi aspettavo che, a un certo
punto, la mia mente mi avrebbe tradita rimandandomi con il pensiero al
mio
incontro con il Granduca; ma per il momento non era ancora accaduto,
come se,
preparandomi in anticipo a ciò che sarebbe successo, fossi
veramente riuscita a
prevenire il trauma.
Allora mi diressi alla porta
finestra sulla parete sud della stanza e mi accorsi che si affacciava
su un
giardino interno circolare. Molte ragazze erano sedute
sull’erba o sulle panche
di pietra, alcune chiacchieravano vicino al pozzo al centro del
cerchio; altre
riposavano all’ombra di alcuni salici, altre ancora, in mezzo
ai fiori, disegnavano
su blocchi di carta.
Il giardino era circondato
da portefinestre uguali alla mia... ciascuna delle quali apparteneva
alla camera
delle ragazze destinate al Granduca.
Siamo
tutte qui, mi
resi conto. Viviamo tutte assieme.
Una ragazza riccia, piuttosto
alta, mi scorse.
- Guardate, è arrivata
quella nuova!
Molte di loro iniziarono a
venirmi incontro: una, due, cinque, dieci... E tutte con la stessa
espressione
di triste compassione.
- Ben arrivata – mi disse la
riccia. E mi abbracciò stretta.
Come gli era stato ordinato,
Tristan si diresse immediatamente dal Granduca raggiungendolo nel
salone.
- Oh, eccoti! – gli disse
l’uomo, con un sorriso affabile che gli chiuse lo stomaco. Se
avesse dovuto
assecondare i suoi istinti, Tristan avrebbe vomitato lì, sul
momento. Ogni
volta pensava quello. Che avrebbe voluto vomitare.
Vomitare e strangolare Roman
Fedar.
O forse prima strangolarlo e
poi vomitare.
- La ragazza mi piace –
disse il granduca – Crede di essermi superiore, glielo leggo
negli occhi.
Mentre io la guardo, la sua testolina vaga altrove, non si accorge
quasi che la
sto toccando. Pensa di sfuggirmi così.
Che
stupida che sei, Helaida.
Roman Fedar era un uomo
perverso, perverso e sadico. L’atteggiamento della ragazza lo
aveva eccitato e
ora le cose sarebbero andate sempre peggio, peggio addirittura di
quanto lo
fossero già in precedenza.
- Stanotte ho già prenotato
un paio di ragazze – proseguì il Granduca
– Ma lei... Lei la voglio per domani
sera. Avrò ospiti e giocheremo a carte... sarà
un’ottima occasione per
inaugurarla – Sul suo viso si dipinse
un’espressione vorace – Carte e dadi.
Tristan si sentì gelare.
Sapeva cosa significava.
Te
la sei cercata, Helaida. Adesso sono fatti tuoi!
- Me la porterai dopo cena
nel salone. La voglio completamente nuda, con bracciali d’oro
ai polsi e alle
caviglie. E i capelli sciolti. Dille di profumarsi con essenza di
gelsomino.
Tristan aveva freddo, come
se ghiaccio sciolto stesse colando lungo i muri.
- Sì, signore.
- Istruiscila su ciò che ci
aspetteremo da lei. – Sorrise perversamente –
Vedremo quanto resisterà, prima
di iniziare a piangere e supplicare.
Tristan arretrò – Allora
vado.
- No, aspetta. – Ora, lo
sguardo maligno del Granduca era su di lui. Per
lui – Ho atteso la ragazza a lungo, sei arrivato in
ritardo.
- Ho avuto un incidente.
- L’ho saputo, ma per quel
che mi riguarda non è una scusante. Chiedimi perdono.
Sporse in avanti il piede
destro e Tristan comprese.
Si morse le labbra per
trattenere il conato di vomito, respirò a fondo.
- Tristan?
- Sì... – Piegò un
ginocchio, poi l’altro; chinò la schiena e
baciò lo stivale del Granduca. La
bile gli grattò l’esofago.
- Bravo, e ora prostrati.
Chinò la fronte fino a
toccare il pavimento e rimase così.
- Perdonatemi, signore –
sputò, a forza. Dentro di lui, l’umiliazione
bruciava come acido nella gola. –
Vi supplico di avere pietà.
Il Granduca rise. Rise,
perché solo la vergogna altrui lo faceva sentire potente e
quando il mondo si
inchinava al suo potere, egli si innalzava in tutta la sua forza.
Appoggiò il piede alla sua
nuca e spinse a terra, schiacciando il viso di Tristan al pavimento.
Lui strinse i pugni, si fece
violenza per trattenersi. Per mantenere in vita suo fratello, che Roman
Fedar avrebbe
ucciso davanti ai suoi occhi con piena soddisfazione, se solo gli
avesse
disobbedito una singola volta.
Se
non fosse per quello...
E fu in quel momento, in
quel preciso istante, che le parole di Helaida gli suonarono nella
testa forti
come un grido .
“E
nel sacrificio c’è onore, poiché si
offre la propria vita per il bene altrui.”
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Capitolo 12 *** Promessa ***
12
La cena venne apparecchiata
nel giardino rotondo, sopra un enorme tavolo su cui vennero posate
pietanze,
frutta, acqua e vino. Mangiammo sedute nell’erba a gruppi
più o meno numerosi,
mentre pian piano prendevo confidenza con la vita di quel luogo. Le
ragazze cercavano
di mettermi a mio agio, si presentavano a turno e offrivano
informazioni,
spiegazioni, conforto e incoraggiamenti; capivo che non volevano
spaventarmi
eccessivamente, ma era chiaro dai loro discorsi che Tristan non aveva
esagerato
quando mi aveva descritto il Granduca. Ciascuna di loro era, a suo
modo,
traumatizzata da Roman Fedar; alcune al punto da scoppiare a piangere
ogni
volta che veniva nominato.
Restammo a parlare sotto i
salici anche dopo il pasto, con la luce del giorno che sbiadiva
lentamente
rendendo difficoltoso il lavoro di cucito che stavo facendo sul mio
abito, dopo
aver recuperato da una delle ragazze ago e filo.
Fu in uno dei quei momenti
fra il chiaro e lo scuro che Tristan apparve. Mi individuò
con lo sguardo, ma
non si fece vicino; si indirizzò invece verso un altro
gruppo di ragazze. Mi fu
chiaro solo in quel momento che ciascuna di loro aveva vissuto, con
lui, la mia
stessa esperienza. Non era il Tristan che mi aveva accompagnata
lì... Lui era
il “Tristan di tutte”. E, mi resi conto, non
esisteva alcun motivo per cui
dovesse considerarmi in modo speciale rispetto alle altre.
Questa riflessione mi
infastidì, sebbene non ne comprendessi appieno il motivo.
Forse quello che
avevamo vissuto assieme: il viaggio, la tagliola, la sua malattia, i
nostri
litigi, mi avevano dato la parvenza di una sorta di intimità
fra noi. Concetto
assurdo di per sé, considerato che nessuno di noi due aveva
rivelato all’altro
un solo pensiero intimo. E tuttavia...
- Tocca a Suhanna stasera –
mi sussurrò Geranna, la ragazza riccia che mi aveva accolta
all’inizio. Solo in
quell’istante mi resi conto che, per tutto il giardino, era
sceso un mortale
silenzio. La tensione aveva avvolto in spirali tutte le presenti, fino
a che
non si erano rese conto di poter respirare... di non essere, per quella
sera,
le prescelte.
A parte Suhanna,
naturalmente.
Lei cominciò a gridare, a
gridare così forte che tutte quante sussultammo, mentre
lei,balzando in piedi,
cercava in qualche modo di scappare. Tristan
l’afferrò per un braccio e le
diede uno schiaffo in viso, non tanto forte da farle veramente male, ma
sufficiente ad ammutolirla, a farla rientrare un istante in
sé.
- Smettila, Suhanna!
- No, ti prego! Ti prego,
no! Non vengo, non stanotte, non portarmi da lui, ti prego Tristan, ti
prego,
ti prego!
Lui la trascinò in piedi, le
mise un braccio attorno alla vita e la spinse con decisione verso la
sua
camera.
- Devi cambiarti e
prepararti – le disse, freddo.
- Tristan, ti prego! – le
lacrime le scivolavano in rigagnoli sulle guance e tremava talmente
tanto da
spezzare il cuore.
Tuttavia, lui la condusse
senza un tentennamento alla sua camera, chiudendo la portafinestra
dietro di
loro.
- Tristan non ha cuore - commentò
una delle ragazze del mio gruppo, con la voce incrinata –
Davanti a una scena
simile... e sapendo quello che a cui lei deve andare incontro... io non
sarei
mai riuscita a costringerla.
- Non ha pietà – aggiunse
un’altra – Non c’è niente che
puoi dire o fare che lo muova a compassione, l’ho
sperimentato sulla mia pelle... –
La
voce le si ruppe in un singhiozzo.
- Ma non è stato sempre
così.
Una ragazza rossa di
capelli, pallida come un cencio, si strinse nelle braccia a fermare un
tremito.
- Io sono stata la prima a
venire qui, la prima che Tristan ha accompagnato e di cui si
è occupato... E
posso assicurarvi che non si era comportato in quel modo allora.
Né con me né
con le ragazze immediatamente successive. Aveva cercato di supportarci,
di
consolarci, persino di intercedere per noi; ma la verità
è che non può fare
nulla per aiutarci e questo lo tormentava giorno e notte. Alla fine si
è
indurito... Per sopravvivere, capite?
- Non ne sono convinta –
commentò, la prima che aveva parlato – Non avrebbe
accettato questo incarico se
lo fa tanto soffrire, no?
- Non si è scelto questo
lavoro, è costretto a farlo – replicò
la rossa seccamente – Il Granduca ha
minacciato di uccidere suo fratello se solo Tristan prova a
disobbedirgli una
volta. Dovreste conoscere ormai Roman Fedar: si sente forte solo quando
può
imporre il suo volere sulla vita degli altri, e costringere Tristan a
servirlo
in questo modo non è altro che uno dei suoi meschini
espedienti!
Il tono della ragazza mi
sorprese: il disprezzo che mal celava raccontando ciò che
sapeva e i dettagli
privati della vita di Tristan di cui era a conoscenza, mi dicevano a
chiare
lettere che realmente, tra loro, doveva esserci stato un rapporto
stretto.
Tristan, durante il nostro viaggio, non si sarebbe mai sognato di
rivelarmi
alcunché, anzi... Già solo sfiorarmi, guardarmi,
essere consapevole della mia
presenza sembrava provocargli una costante irritazione.
- Posso capirlo – meditai ad
alta voce – Se ogni giorno è costretto a
sopportare scene come quella a cui ho
appena assistito...
- Non provare pena per lui
– intervenne
Noira – Provane per te
stessa.
- Non mancherò – sorrisi
amaramente.
Rimasi in silenzio a lungo
sdraiata nel letto, le orecchie all’erta in cerca di un
suono, un indizio.
Finalmente, verso le due del
mattino, un rumore soffocato in corridoio mi indicò la
presenza di qualcuno;
uscii silenziosamente dalla camera e mi sporsi a guardare oltre
l’uscio. Il
corridoio era illuminato da fiaccole accese appese lungo la parete, che
mi
permisero di mettere a fuoco le figure ferme qualche porta oltre la mia.
Tristan era davanti a una
delle stanze e teneva Suhanna in braccio, quasi del tutto nuda nei suoi
abiti
stracciati; lei gli stringeva le braccia al collo, piangeva e
singhiozzava,
avvinghiandosi a lui. Mormorava qualcosa, ma a voce troppo bassa.
Dovetti
sforzarmi a lungo per comprendere il significato del suo sussurrare.
- Uccidimi, ti prego –
bisbigliava tra i singhiozzi – Non ce la faccio
più, ti prego, uccidimi.
- Smettila – rispose lui –
Ora ti farai un bagno caldo e berrai una camomilla, ti metterai
tranquilla e
riuscirai a riposare.
- Non è vero, io non riesco
più a dormire... Ho incubi, faccio incubi tutto il tempo, io
non resisto più
qui, Tristan ti prego, fa qualcosa...
Lui spalancò la porta della
camera e attraversò la soglia.
- Guarda, ti ho già fatto
preparare il bagno. Dopo starai meglio.
Il suo tono rasentava
l’indifferenza, ma scavandolo a fondo riuscivo a sentire una
vibrazione che era
quasi un tremito. Un tremito di compassione, di sconforto, di
disperazione, che
Tristan si rifiutava di provare. Che chiudeva fuori da sé,
per non essere
costretto a viverlo.
Ricomparve in corridoio
chiudendo la porta alle sue spalle, lasciando dietro sé i
singhiozzi
strappacuore di Suhanna. Appena alzò lo sguardo, mi vide.
- Cosa ci fai qua fuori? –
si guardò intorno sospettoso – Non starai
già cercando di scappare?
Scossi la testa e mi sforzai
di sorridere, di rendere quel momento più leggero di qualche
grammo – Ti stavo
aspettando per cambiarti la medicazione.
Lo sbigottimento sul suo
viso mi fece quasi scoppiare a ridere.
- Scommetto che da solo non
ci hai pensato: sembri dimenticare in continuazione di avere una
caviglia in
convalescenza... Per non parlare poi dei tuoi comportamenti
sconsiderati. Come
sei riuscito a portare Suhanna in braccio, se a malapena riesci ad
appoggiare
il piede?
Lui scosse la testa, ancora
costernato.
- Non sarebbe mai riuscita a
tornare sulle sue gambe. Comunque sto meglio, non ho più
bisogno di
medicazioni.
- Non essere sciocco, solo
qualche giorno fa hai rischiato l’amputazione! Ho trovato in
stanza tutto
l’occorrente per cambiarti la fasciatura, quindi vieni con me.
Lo fece, penso che fosse
troppo stanco per ribattere ancora e finì che invece di
restare in camera ci
posizionammo nel giardino, sotto a un lampione che Tristan accese con
una
torcia. Sedette sfinito su una panca e mi lasciò trafficare
con il suo piede:
ero ormai talmente abituata a cambiare la fasciatura, che non avevo
quasi più
bisogno di luce per occuparmene.
- Ti sembra che faccia meno
male?
Lui si strinse nelle spalle
– Sta migliorando, credo.
La temperatura era mite
quella sera, così come mite sembrava il suo sguardo. Era
troppo esausto per
litigare, per attaccare; mi lasciava fare mentre riposava il suo
spirito.
Dopo ciò che avevo visto,
riuscivo a comprendere almeno parte della sua amarezza, del sarcasmo
dietro cui
criptava il suo vero animo.
- Io non ti farò questo, te
lo prometto.
- Cosa stai dicendo? – mi
fissò quasi con compassione, come se fossi irrimediabilmente
matta e non
potessi esprimere un solo concetto sensato.
- Dovermi strappare a forza
per portarmi al Granduca... piangere, supplicarti, combattere. Ti
prometto che
non lo farò, cercherò di esserti di peso il meno
possibile.
Lui scosse la testa, come se
io non potessi capire.
- L’ho visto succedere già
trentotto volte, Helaida, e con te non sarà diverso.
- Farò comunque del mio
meglio.
Si girò a fissarmi, mi
guardò come se fossi un rebus complicato.
- Ma perché? – chiese
infine.
- Perché non possiamo
scaricarti addosso il peso di tutte quante noi, non è giusto.
- Io so proteggermi, so
perfettamente cosa è giusto o ingiusto per me. A te invece
domani sera non
importerà più, credimi.
- Domani sera... toccherà a
me?
Lui esitò. Non aveva mai
lesinato di sbattermi in faccia il peggio e questo mi fece comprendere
la
portata di ciò che dovevo ancora scoprire.
- Preferisco sapere. Per
favore...
- Roman Fedar ha invitato
degli amici a giocare e tu... farai parte del loro gioco. Ha un mazzo
di carte
speciali in cui vengono descritte... le cose che ti faranno.
Giocheranno a
dadi, e il vincitore di ogni mano avrà il diritto di pescare
una carta. Tu
sarai completamente nuda.
Tirai un respiro profondo.
SonoprontaSonoprontaSonoprontaSonopronta
- Va bene.
Lui sorrise e stavolta la
cattiveria tornò a modellargli i lineamenti.
- Va bene? Raccontamelo
ancora domani notte, Helaida, che va bene! Vienimi ancora a dire che
non
piangerai e non supplicherai e che non avrai paura!
- Non ho mai detto che non
ho paura. Ma non posso ribellarmi, non avrebbe avuto senso, allora,
offrirmi
per venire fino a qui! Non ho mai creduto che sarebbe stato facile.
Lui scivolò dalla panca e
sedette sull’erba, a fianco a me.
- Per il Granduca tu sei una
sfida, non ti lascerà in pace finché non
avrà distrutto completamente il tuo
spirito. Vuole un harem di ragazze disperate, terrorizzate, alla sua
mercé.
Siete il simbolo delle terre che ha sottomesso, la vostra sofferenza lo
fa
sentire forte. E io sono come lui, quindi non devi preoccuparti di
ferirmi!
- Tu sei come lui? E questa
da dove l’hai tirata fuori?
- Mi ha fatto diventare come
lui, mi ha fatto vedere la realtà con i suoi occhi. Se la
guardo con i suoi
occhi, niente può farmi stare male.
- Tristan... se hai deciso
di diventare come lui per non soffrire, significa che ti ha
già ferito a morte.
Lui non rispose. Ma non
fuggì neppure.
Questa sera sembrava troppo
stanco per tutto, persino per difendersi.
- So che sei stato torturato
e so che il Granduca ti tiene in scacco con la vita di tuo fratello...
– lo
vidi sussultare – Ma io credo che ci sia anche
dell’altro.
Trattenne il respiro uno,
cinque, dieci secondi. Quando parlò, fu come se stesse
scagliando un
proiettile.
- Ho ucciso mia sorella.
- Che... Cosa significa?
- Quando mi torturava, lo
supplicavo di smettere, di avere pietà. Allora mi ha
esaudito. Ma ogni
richiesta, per il Granduca, vale una vita. Ha ucciso lei, per smettere
di
torturare me. E poi me l’ha detto, per farmi comprendere che
l’avevo ammazzata
io. Quindi non chiedergli mai niente, Helaida, non fargli richieste,
perché se
le esaudirà, vorrà dire che avrai la morte di
qualcuno sulla coscienza.
Lo sgomento mi ammutolì. Gli
occhi mi si inumidirono, perché se c’era qualcosa
che comprendevo era l’affetto
per una sorella e il dolore atroce che la sua mancanza – la
loro mancanza! – mi
procurava.
- Non perdere tempo a
compatirmi, ora – mi riprese lui, bruscamente – Non
sono più quello di una
volta, ho dato un taglio ai sentimentalismi, agli ideali, al buonismo.
Io sono
quello che ha fatto a pezzi l’unico ricordo delle tue
sorelle, non
dimenticartelo. Credo solo in ciò che mi fa stare bene,
questa è la mia
filosofia di vita, frutto delle catechesi del Granduca. E tu dovresti
smetterla
di impicciarti delle mie cose e pensare alle tue... perché
domani sera il
problema sarà tuo, non
mio.
- Lo so – Non
voglio pensare a domani, non voglio
pensarci, non ancora, nonancoranonancora... –
Però, Tristan, tu sei qui per
salvare la vita a tuo fratello. Questo ci rende simili, non credi?
Lui si alzò di scatto, si
passò le mani sui pantaloni e mi diede le spalle –
Sono stanco, ho bisogno di
dormire. Buona notte, Helaida.
Spense la torcia infilata
nel lampione e se ne andò, lasciandomi al buio.
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Capitolo 13 *** Carte e dadi ***
13
È necessario dirlo che il
mio secondo giorno alla Roccaforte, in attesa di quella mia nottata con
il Granduca,
fu un’agonia?
Sono
pronta, era
il mio grido di battaglia, il mio mantra, il mio dispensatore di
certezze. Ma
ero pronta veramente? Come poteva sentirmi preparata a qualcosa che non
avevo
mai vissuto in vita mia?
Non sapevo davvero cosa
sarebbe accaduto, come mi sarei sentita, cosa sarei diventata dopo.
Così non potei fare altro
che aggrapparmi alle mie poche certezze: all’importanza del
mio sacrificio, della
salvezza del mio popolo, della mia dignità.
Immaginai tutto ciò che
sarebbe accaduto, il peggio che potessi ideare; lo anticipai con la
mente così
da essere pronta, da non restare sconvolta quando mi ci fossi trovata
dentro.
Non potevo fare altro, se non costruirmi scudi e barriere mentali.
Durante il pomeriggio, così
come mi fu ordinato, feci lunghi bagni con lozioni profumate e resi
vaporosi i
miei capelli; le altre ragazze, vedendo i miei preparativi, da un lato
mi
commiseravano e dall’altro non potevano fare a meno di
sentirsi sollevate
perché non toccava a loro. Non quella sera.
Alla fine fu Tristan a
venirmi a prendere. Ero seduta sul mio letto, a stomaco vuoto
perché non ero
riuscita a ingerire nulla, avvolta nel mio vestito verde chiaro che non
ero
riuscita ad accantonare, nonostante le chiare indicazioni di dovermi
presentare
senza abiti. Avevo indossato bracciali d’oro alle caviglie e
ai polsi, avevo i
capelli sciolti sulle spalle, ma quell’abito proprio non
voleva cadermi di
dosso.
Tristan entrò senza bussare
e mi trovò in quella posizione.
- Non sei pronta – constatò,
fissandomi a occhi stretti.
Mi alzai lentamente – Sì, la
sono. Devo solo togliermi il vestito.
Lo dissi, ma non lo feci.
Era come se il mio corpo si fosse improvvisamente incollato
all’aria
impedendomi di muovermi.
- Helaida... – cominciò lui,
e riconobbi il tono che aveva usato la sera prima con Suhanna. Ricordai
anche
che mi ero ripromessa che con me non sarebbe accaduto.
- Ci sono.
Slacciai l’abito e lo feci
cadere sul letto, restando completamente svestita, esposta agli sguardi
di
chiunque avremmo incrociato lungo il tragitto e, peggio, - mille volte
peggio -a
quelli degli amici del Granduca.
Sono
pronta. Stringerò i denti, fingerò di essere
altrove, conterò i minuti e questa
serata passerà. Il tempo scorre in un soffio, ora ho paura e
fra un istante
sarà tutto
finito.
Mi
sono preparata, ce la posso fare.
Rivolsi un sorriso
imbarazzato a Tristan, perché il suo sguardo su di me era
forse il più pesante.
- Vado bene?
Lui mi squadrò con occhio
analitico, non come si guarda una donna nuda, ma una portata che si sta
per
servire in tavola.
- Mi sembra tutto a posto –
disse, e mi fece cenno di seguirlo.
Uscire dalla stanza fu il
passo più difficile, ma lo feci come se non mi stesse
costando nulla. Avrei
fatto ogni cosa come se fosse stata la normalità, ignorando
le mie emozioni, i miei
pensieri, le mie sensazioni.
Arriverò
in fondo a tutto questo.
Vacillai, quando entrammo
nel salone. Il Granduca era seduto a un tavolo assieme ad altri cinque
uomini e
gli occhi avidi di ciascuno di loro strisciarono lentamente su ogni
centimetro
della mia pelle.
Posso
farcela, durerà poco, durerà solo per questa
sera, poi sarò in camera, sarò
sola. Posso farcela.
- Vieni ragazza, vieni in
mezzo a noi.
La voce del Granduca era
rivestita di una dolcezza così falsa da risultare
stomachevole. Mi aspettavo
che Tristan mi avrebbe lasciata e se ne sarebbe andato, invece rimase a
pochi
metri di distanza, appoggiato di schiena a una colonna, a braccia
conserte.
- Iniziamo a giocare? –
propose Roman Fedar.
La bellezza di Helaida non
era fatta per il Granduca.
Questo aveva pensato
Tristan, quando l’aveva esaminata fingendo di avere di fronte
un dipinto, non
una donna vera.
La bellezza di Helaida,
casta, naturale, spontanea, non aveva nulla a che fare con le
artificiosità, le
perversioni e la grossolanità di Roman Fedar.
Non
è fatta per lui.
È
fatta per me.
Quest’ultimo pensiero era
nato senza permesso e scivolato fuori appresso agli altri, prima che
lui
potesse notarlo e fermarlo.
Quel pensiero, tuttavia, non
gli era di alcuna utilità, poiché Helaida
apparteneva al Granduca e lui la
stava usando a suo piacimento nel tentativo di sporcarla, macchiarla,
spezzarla, renderla più simile a lui e molto meno
– quasi per niente – a se
stessa.
La toccarono in molti modi,
in ogni parte del corpo, senza pudori né vergogna. Non la
penetrarono, perché
questo non faceva parte del gioco, ma la stimolarono e tormentarono e
umiliarono con tutti i mezzi consentiti dalle carte, per tutte le due
ore che
durò il passatempo.
Tristan tenne le braccia
incrociate sul petto tutto il tempo, le unghie conficcate nella propria
carne,
i denti stretti, chiedendosi perché mai, perché
mai, perché accidenti mai,
un pugno di ferro gli
stringeva la gola, gli spezzava il respiro, gli sconquassava lo
stomaco. Lui,
che aveva assistito ad ogni atrocità in quel palazzo, lui
che aveva smesso di
reagire, di soffrire, di compatire, di commuoversi; lui, che aveva
fatto sì che
ogni ingiustizia perpetrata dal Granduca diventasse giustizia ai suoi
occhi,
perché sì, perché così non
avrebbe sentito male. Lui, che aveva scelto come
unica verità quella di non soffrire.
Perché lui si sentiva
morire?
Morire al posto di Helaida,
che non si oppose a nulla, non pianse e non supplicò.
Gemette morsicandosi le
labbra e ansimò, tutt’al più, ma non
urlò mai, non cedette a implorazioni
strazianti e non chiese una sola volta di essere risparmiata.
Si accanirono su di lei
proprio per questo, ma non ottennero nulla di più. Stringeva
gli occhi e i
denti e aspettava, passivamente, che il ciclone si ritirasse dalla sua
testa.
- Basta così, siamo stanchi!
Il Granduca gli fece cenno
con il capo di riprenderla e portarla via e Tristan si chinò
su di lei per
prenderla in braccio.
- La tua caviglia... –
mormorò lei, in un filo di voce tanto sottile che si perse
nel niente. Lui la
sollevò e la strinse contro di sé, appoggiandosi
il suo capo sul petto. Aveva
le braccia a penzoloni, ma a un certo punto, mentre la portava lungo i
corridoi, gliele passò attorno al collo.
Stava in silenzio,
distratta, come se fosse partita per un luogo da cui faceva fatica a
tornare.
Tristan si fermò quando fu
di fronte alla porta della sua stanza, indeciso sul da farsi.
Fu allora che lei parlò in
un soffio di voce.
- Sei costretto ad assistere
ogni volta?
Lui aveva la bocca secca.
- Abbastanza spesso –
mormorò.
- Allora capisco.
Non le chiese che cosa
capiva, si limitò ad aprire la porta della stanza e ad
accompagnarla alla vasca
che, come aveva chiesto, era stata riempita di acqua tenuta in caldo.
Ce la adagiò dentro
lentamente, bagnandosi le maniche della maglia, e poi rimase
lì fermo, senza
sapere cosa fare, cosa dire.
Vado,
resto.
Scappo,
starò
qui finché ti sarai ripresa.
Ogni soluzione gli sembrava
sbagliata, orrenda per lei, per se stesso.
- Come stai?
Che domanda stupida.
Gli occhi di lei, di solito
così trasparenti, erano colmi delle ombre della stanza.
- È finito – gli
sussurrò –
Adesso starò bene.
Ma rabbrividiva e tremava
forte. Aveva le lacrime nascoste agli angoli degli occhi, eppure non
piangeva.
- Strofinati con il sapone,
ti aiuterà a sentirti meglio.
Lei scosse la testa.
- Davvero, Helaida, ti farà
bene.
- Non ora. Non riesco... a
toccarmi. Non voglio più sentirmi il corpo.
La risposta lo ammutolì.
Rimase in silenzio a fissarla, ancora una volta sull’orlo di
due decisioni
divergenti.
Me
ne vado più velocemente possibile,
starò
con lei finché non ritorna se stessa.
- Helaida, puoi piangere –
le disse allora – Non
devi trattenerti
solo perché ci sono io... È normale piangere.
- Tu non lo fai mai.
Tristan distolse lo sguardo,
chiedendosi perché girava l’attenzione su di lui
in quel momento.
- Ho smesso quando è morta
mia sorella. Ho congelato le lacrime e le ho lasciate lì.
Lei lo guardò in un modo
strano – Allora posso farlo anch’io.
No,
tu no.
Tristan afferrò il sapone,
lo fece diventare schiuma e, con delicatezza, iniziò a
passarlo sul corpo di
Helaida. Lei non disse nulla, lo lasciò fare; ma non come
aveva lasciato fare
al Granduca e ai suoi amici – estraniandosi e tollerando -
bensì con lo
sfinimento di chi non ha più la forza di gestire la propria
vita e lascia che
siano gli altri a condurla.
- Mi dispiace – la sentì
sussurrare.
- Di cosa?
- Di non essere più forte.
Non volevo che finisse così, che tu dovessi spartire con me
il peso di quello
che è accaduto. Ti avevo promesso che non sarebbe accaduto.
- Ti sei comportata bene.
Sei stata forte come nessun’altra avevo mai visto.
- Ma non abbastanza.
- Helaida...
- Ho capito perché le altre
urlano, quando arriva il loro turno.
No,
ti prego, non dirmelo. Non diventare anche tu come loro.
Non
diventare come me.
La fece alzare e la avvolse
in un telo, poi si scostò, mentre si asciugava.
Meccanicamente lei tornò verso
il letto, dove aveva lasciato l’abito verde; rimase in
silenzio a fissarlo e
lui si domandò a cosa stesse pensando. Poi lei
lasciò cadere a terra
l’asciugamano e iniziò a spazzolarsi i capelli.
- Helaida...
Lei si girò. Il suo corpo
era chiaro, nella semioscurità della stanza.
- Non devi restare nuda di
fronte a me, come se fosse normale. Dovresti chiedermi di girarmi.
- E perché? Non conosci a
memoria il mio corpo, dopo questa sera?
Lui ebbe un brivido. Ti
prego, tu non sei così.
Lei si infilò l’abito dalla
testa, in un unico movimento.
- Anche se così fosse, non
significa che non rispetterò più la tua
intimità.
Gli sorrise, triste –
Come se tu l’avessi mai fatto.
- Quello che voglio dire...
- Ho capito quello che vuoi
dire. Ma stanotte mi sembra tutto strano, tutto sottosopra... e non ho
più la
percezione normale delle cose, io... – fece una pausa, diede
in un singhiozzo e
poi si voltò – Puoi andartene, per favore? Ho
provato a non piangere, ma non ci
riesco... e mi sa che... – La voce le si ruppe e, pur vedendo
di lei solo la
schiena, seppe che le sue guance erano inondate di lacrime.
Era il momento di andarsene.
Già da molto, sarebbe dovuto
uscire da quella stanza. Ma ancora una volta non si mosse. Non poteva
muoversi
senza aver prima capito chi era la persona di fronte a lui: Helaida,
nella sua
forza, nella sua innocenza irremovibile; oppure una fanciulla spezzata
nel
corpo e nello spirito. Oppure, ancora, la versione indurita che lui
stesso
ormai era diventato.
Non poteva andarsene senza
una risposta.
La fece voltare e guardò le
sue lacrime.
- Di cosa hai bisogno,
Helaida?
Lei scosse la testa,
piangendo in silenzio.
- Voglio... il mio nastro...
Lui vide il suo vecchio
vestito piegato su una sedia, cercò nella tasca e ci
trovò il nastro azzurro
ricucito. Quando glielo porse, Helaida se lo strinse al petto e le
lacrime
uscirono accompagnate da singhiozzi forti, rumorosi.
Perché
rimani qui, Tristan?
Lei non voleva mostrarsi in
quel modo né lui voleva davvero vederla in quello stato. Ma
non si mosse
neppure allora.
Le appoggiò una mano dietro
alla schiena e la tirò verso di sé, per darle
quel conforto che tutte le
ragazze gli avevano domandato e che lui aveva sempre negato loro.
Helaida si appoggiò a lui e
rimase così, mentre i singhiozzi rotti si trasformavano
lentamente in respiri
smozzicati, in piccoli singulti e, infine, in un breve sussulto ogni
tanto.
- Questa d’ora in poi sarà
la mia vita, vero?
Lui annuì, senza avere il
coraggio di rispondere a voce alta.
- Va bene. Va bene, è ciò
che ho voluto, ciò che salverà il mio popolo, la
mia terra... i miei genitori e
le mie sorelle. In fondo... è quello che stai facendo anche
tu.
Quell’ultima affermazione lo
provò nel profondo e, all’improvviso,
sentì qualcosa di umido pungergli gli
occhi.
No,
ti prego, non farlo. Avevi smesso, avevi smesso, avevi smesso.
- Anche tu stai vivendo nel
tormento per il bene di una persona che ami... –
bisbigliò lei.
- Helaida, non...
- E non c’è nessuno che ti
conforta, nessuno a cui puoi appoggiarti.
Le lacrime travasarono e lui
rimase immobile a sentirle scorrere calde sulla pelle.
- Vedi che sai piangere
anche tu? – gli sussurrò lei – Vedi che
in fondo non sei cambiato?
- Ti prego... non farlo – la
implorò, in un bisbiglio – Non farmi tornare
indietro. Se torno indietro, io
non sopravvivrò... Non ce la faccio a resistere.
Lei sollevò il viso sul suo,
si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò con una
delicatezza disarmante.
Quella dolcezza sfondò le
ultime barriere, inondando di lacrime i suoi occhi.
- Non posso tornare a
sentire – le disse, soffocato dal pianto – Non
riportarmi indietro.
- Se non vuoi tornare
indietro, allora fammi essere come te.
Lui la fissò sgomento e la
paura gli invase il cuore.
|
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Capitolo 14 *** Il giorno dopo ***
14
Fu strano, quel giorno dopo.
Mi sentivo io, ma non ero
più io. Sporca per ciò che avevo subito, pulita
per il sacrificio cui avevo
tenuto fede; disgustata di me, di com’ero stata di fronte al
Granduca, ma
commossa della vicinanza che mi aveva offerto Tristan. Ossessionata
dalla
violenza di quelle due ore di supplizio, ma perseguitata dalla
delicatezza del
bacio restituitomi da Tristan.
Angosciata e annebbiata,
malinconica e terrorizzata, sognante e agitata.
E lo vidi molte volte, quel
giorno. Trovava ogni scusa per entrare nel giardino, per fare qualcosa
che
riguardava l’harem, per lanciarmi uno sguardo da lontano. Uno
sguardo
preoccupato, protettivo, indagatore.
Io ricambiavo ed ogni
sensazione confusa, invece di disperdersi, si amplificava.
Non riusciva a starle
lontano, quel giorno. Non riusciva a liberarsi di ciò che
era accaduto, delle
lacrime che aveva pianto e delle parole che aveva detto, di
ciò che era stato
ancora per una volta, quella notte.
La guardava e tutto gli
tornava alla mente, così scappava. Ma là fuori,
lontano da lei, la sua ansia
aumentava: aveva bisogno di vederla, di tenerla d’occhio, di
sapere in ogni
istante cosa stava facendo.
Così ritornava ancora una
volta nel giardino, senza avere il coraggio di avvicinarsi davvero.
Mi aggrappai al mio nastro
azzurro, quel giorno, come alla zattera che mi avrebbe tenuta a galla.
Era
tutto ciò che poteva ancorarmi a quello che ero stata e che
ancora, nonostante
tutto, volevo essere. E gli occhi di Tristan, che andavano e venivano
dalla mia
visuale, mi dicevano che sì, avevano giocato a disprezzarmi
in passato, ma ora
mi rivolevano per quella che un tempo ero stata, per come mi avevano
conosciuta
prima che incontrassi il Granduca.
Ciò che le avevano fatto lo
perseguitava. Le scene cui era stato costretto ad assistere gli
tornavano
davanti agli occhi come i primi tempi in cui aveva lavorato per Roman
Fedar,
quando ancora riusciva a soffrire per quello
che faceva alle ragazze.
Oggi era come allora: si
sentiva indifeso di fronte all’ingiustizia perpetrata ad
Helaida e non riusciva
più a concepirla normale
e a
distanziarsi.
Il coraggio con cui lei
aveva affrontato quei momenti gli faceva quasi male, così
come il ricordo di
come si fosse preoccupata per tutto il tempo di lui.
La caviglia, il fatto che
fosse costretto ad assistere, i tentativi di non piangere, quel bacio...
E non era stata l’unica
volta: si era presa cura di lui per giorni. Ma nessuno avrebbe salvato
lei.
L’importante è non
proiettarsi nel futuro.
Così mi dissero le altre
ragazze, sedute con me nel giardino.
Vivi il presente, l’attimo
in cui sei qui con noi, e non pensare mai alla prossima volta che
vedrai il Granduca.
Così iniziai a esercitarmi.
No, nessuno l’avrebbe
salvata.
E non poteva rifiutarsi,
scappare, tirarsi indietro; perché il suo popolo ne avrebbe
pagato le
conseguenze.
Se lui l’avesse aiutata a
fuggire, gli accordi tra il Granduca e la sua terra sarebbero saltati.
Se lei si fosse uccisa, il Granduca
avrebbe chiesto in cambio sua sorella.
E lui, Tristan, aveva le
mani legate; legate alla vita di suo fratello.
Non c’era niente che lui o
lei potessero fare per evitarle l’inferno in terra.
Vederlo da lontano, mi
faceva sentire meno sola. Ricordavo il suo abbraccio, la sua vicinanza,
l’aiuto
e il conforto che mi aveva offerto quando più mi ero sentita
fragile, in scarso
equilibrio sul filo di un baratro nero come pece.
Non era più l’uomo crudele
che mi aveva insultata, affamata, umiliata, rifiutata. Era qualcosa di
nuovo,
qualcosa che era emerso tra le macerie di un cuore distrutto.
Mi aveva chiesto di non
riportarlo indietro, e invece io mi ero aggrappata a lui. Mi chiedevo
se fossi
riuscita a farlo restare.
Adesso, Tristan era fragile.
Le false verità di cui si era vestito erano cadute a terra
lacere e il mondo si
era ribaltato un’altra volta.
Adesso il suo cuore era
esposto a tutta quella gentilezza che Helaida gli aveva offerto durante
il
viaggio, quella che lui aveva disprezzato e allontanato da
sé come veleno.
Ricordò il modo in cui le aveva spezzato il nastro e quello
in cui lei l’aveva
perdonato; rammentò le sue parole, la sua fiducia nel fatto
che il bene avrebbe
generato altro bene.
Invece le stava tornando
solo del male, un male perverso, oscuro, che l’avrebbe
soffocata trasformando
la sua luce in disperazione.
Alla fine della giornata,
erano solo i suoi occhi che cercavo. I soli in grado di darmi un misero
alito
di conforto.
Alla
fine della giornata, sapeva che non avrebbe accettato di vederla
cambiata. Sapeva che al suo bene sarebbe dovuto corrispondere solo
altro bene.
*************************************************************************************************
Vorrei
spendere due parole in ringraziamenti, perché arrivati ormai
prossimi al finale, mi rendo conto del nutrito seguito che,
inaspettatamente, ha richiamato
questa
storia. Al momento attuale risulta che 8 persone l'abbiano
messa tra le Ricordate, 23 tra le Preferite e ben 62 nelle Seguite.
Che
dire, se non GRAZIE della vostra assiduità?
E
mille volte grazie, anche a tutti coloro che ogni volta si spendono per
lasciarmi una recensione!
Alla
prossima settimana!
phoenix_esmeralda
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Capitolo 15 *** L'ultima fasciatura ***
15
Dopo cena rimasi nel
giardino a guardar scendere il sole. Portai con me l’abito
che dovevo ancora
terminare di cucire e mi isolai dal resto delle ragazze, in cerca di
quiete.
Vidi Tristan arrivare e
prendere la ragazza di turno – non io – e lo
immaginai assistere a un’altra
scena come quella della sera prima, per lui l’ennesima di una
sfilza ormai
incalcolabile.
Appena si accorsero di aver
scampato il pericolo, le mie compagne, una dopo l’altra, se
ne andarono a letto
e in capo a una mezzora rimasi da sola; fu allora che Tristan riemerse
nel
giardino sotto la luce screziata del crepuscolo.
Mi cercò con lo sguardo e mi
venne incontro.
- Non devi... restare là
stasera? – gli domandai, piano, mentre arrivava.
- Non subito. Tra un po’.
Rimase fermo in piedi
davanti a me, passando il peso da un piede all’altro, a
disagio probabilmente
quanto la ero io.
Era difficile parlarsi,
adesso, superare la barriera di quanto era accaduto ieri notte. Lui
aveva assistito
alla mia umiliazione, aveva visto con i suoi ciò che io non
riuscivo a
riguardare neppure con la mente.
E io... io lo avevo visto
piangere. La sua voce incrinata, supplicante, bisbigliava ancora tra i
miei
ricordi.
E poi c’eravamo baciati.
Dopo quel bacio, dopo quel
lungo abbraccio, Tristan se n’era andato e tutto questo, ora,
pesava tra di noi
alla luce di un nuovo giorno. Era quello che ci aveva tenuti a distanza
per
tutte queste ore, nonostante Tristan fosse capitato innumerevoli volte
nei miei
spazi.
Provai a dirgli qualcosa, ma
le parole non venivano: ero prigioniera del vuoto.
- Potresti cambiarmi la
fasciatura?
Ci mancò poco che lo
fissassi a bocca aperta.
- Sì... certo.
Corsi a prendere il
necessario in camera e quando tornai lo trovai già seduto
sulla panca, lo
stivale rovesciato sul terreno. Sembrava tranquillo, per la prima volta
privo
di rabbia, di cattiveria... di disperazione.
I capelli neri gli cadevano sul viso incorniciandolo come
un bel
dipinto, perché bello lo era, in quel momento. Bello come
può essere solo un
volto sereno.
Mi chinai davanti a lui e
svolsi la fasciatura dalla caviglia, trovandola finalmente pulita. La
pelle si
stava rimarginando e presto si sarebbe cristallizzata in una cicatrice
stabile.
- Credo che non ci sia più bisogno
di fasciarla, Tristan. Ora puoi lasciare la pelle all’aria.
Lui abbassò lo sguardo su di
me, annuendo.
- Fallo ugualmente, ancora
per stasera. Per l’ultima volta.
Mi parve una richiesta
bizzarra, ma lui, oggettivamente, bizzarro lo era; quindi lo
accontentai. Avevo
fatto una benda con la stoffa verde avanzata dal mio vestito, la presi
e gliela
assicurai attorno alla caviglia, poi mi sedetti sulla panca al suo
fianco. Lui
mi fissava, come a cercarmi qualcosa addosso che avrebbe dovuto essere
visibile, ma non lo era.
- Cosa c’è? –
domandai.
- Nulla. È che... temevo che
ti avrei trovata cambiata.
- Non sono cambiata. Sei tu
che sei diverso, oggi.
- Perché non ti offendo?
Mi strinsi nelle spalle –
Fra le altre cose.
Sorrise, ma la piega della
sua bocca restò dalla parte dell’ironia, non
scivolò fino al sarcasmo.
- Allora goditi il momento –
mi disse.
E io lo feci sul serio,
perché la quiete della sera che calava si accostava alla
tranquillità di
Tristan, donandomi una calma che non avrei creduto possibile.
Restammo a guardare in
silenzio gli ultimi bagliori del crepuscolo spegnersi
nell’oscurità e quando la
notte si fu impossessata di ogni angolo del giardino, lui si
alzò.
- Helaida, ti sei pentita
del tuo sacrificio ora?
Scossi la testa, senza
incertezze.
- E continui a credere che
sia meglio perdonare che distruggere, e che il bene sia la migliore
risposta in
ogni situazione?
- Lo credo, Tristan. È
l’unica forza che mi tiene ancora in piedi.
Lui infilò le mani nelle
tasche, stringendosi nelle spalle.
- Devo tornare dal Granduca.
Mi alzai a mia volta –
Allora.... a domani.
Istintivamente gli scostai i
capelli e gli feci una carezza sul viso. Non so da dove mi venne, ma fu
assolutamente naturale.
Lui mi afferrò la mano che
lo accarezzava e la strinse per un momento.
- Questa è la parte di te
che non devi mai lasciar andare – mi disse. Poi
aprì il palmo e, con un cenno
di saluto, si allontanò.
Tristan tornò verso le
stanze del Granduca subito dopo aver riaccompagnato Kaila in camera.
Sapeva per
esperienza che, dopo aver trascorso la serata con una ragazza, la
disposizione
d’animo di Roman Fedar era di gran lunga migliore che in
qualsiasi altro
momento della giornata.
E lui aveva bisogno di tutto
l’aiuto possibile, perché non poteva permettersi
di fallire.
La sconfitta era fuori
discussione.
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Capitolo 16 *** Quel bene che ritorna ***
16
L’uomo
entrò di prepotenza nella mia stanza, subito dopo la
colazione. Era sulla
trentina, biondiccio, con le guance scavate e le braccia eccessivamente
muscolose.
-
Prepara i tuoi bagagli – mi disse, secco – Parti
fra mezzora.
Pensai
che avesse sbagliato stanza, sbagliato persona.
- Io
sono Helaida d’Orca, tu chi cerchi? Sono qua solamente da
quattro giorni.
- E
resteranno i tuoi unici quattro giorni, ti
riporto a casa. Forza, metti insieme le tue cose!
Io
invece rimasi immobile, imbambolata.
-
Avanti ragazza, non ho molto tempo da perdere! Il Granduca ci mette a
disposizione il calesse con i cavalli più veloci per
accelerare i tempi del
nostro viaggio: devo tornare il prima possibile per prendere in mano la
gestione
dell’harem.
- La
prendi in mano tu? E... Tristan?
Lui
fece un cenno dispersivo con il braccio e mi spinse verso
l’armadio.
-
Muoviti, adesso, ritorno fra poco.
- Ma
se torno a casa, il mio popolo morirà di fame!
- No,
le condizioni resteranno le stesse. E ora
sbrigati!
Se
ne andò sbattendo la porta e lasciandomi nel più
completo stato confusionale.
Andare
a casa. Le condizioni non cambiano. Tristan... destituito.
Ma che cosa sta
succedendo?
Mettere
insieme le mie cose fu questione di qualche minuto: ero arrivata con
poco, me
ne andavo con ancora meno. Indossai il mio vecchio vestito, ormai
ricucito, e
legai i capelli con il mio nastro azzurro... ricucito
anch’esso. Le altre
ragazze però iniziarono ad affollarsi alla mia
portafinestra, curiosando,
chiedendo prima in modo discreto, poi sempre più diretto.
-
Non lo so, non capisco – ripetevo io, stralunata –
Non mi ha spiegato niente!
Poi
Suhanna fece capolino fra le altre – Ho sentito io delle
voci, mentre
stamattina ci servivano la colazione... Sembra che Tristan abbia fatto
uno
scambio con il Granduca, per liberare Helaida.
Trasalii
– Quale tipo di scambio?
- Io
ho sentito solo questo – rispose, scuotendo la testa - Ieri
sera è andato sul
tardi nelle stanze di Roman Fedar e hanno stilato un patto. Da quel
momento,
nessuno ha più visto Tristan.
Non
feci in tempo a elaborare la notizia, perché il tizio
biondiccio tornò come un
ciclone nella mia stanza.
-
Sei pronta? I cavalli ci aspettano.
Non
mi lasciò neppure il tempo di congedarmi dalle mie compagne,
mi appoggiò le
dita alla schiena sospingendomi lungo i corridoi e tenendo con
l’altra mano la
mia borsa semivuota.
- È
vero che è stato Tristan a volermi libera? Che cosa gli
è successo? – domandavo
a ripetizione, ma quell’uomo, di cui neppure conoscevo il
nome, mi incitava a
fare presto senza dare una sola risposta.
Il
calesse ci aspettava con i cavalli già attaccati e, spronata
dal mio
accompagnatore biondo, stavo per montare, quando dal nulla un ricordo
mi
attraversò la mente.
“Ogni
richiesta, per il Granduca, vale una vita. Ha ucciso
mia sorella,, per smettere di torturare me. E poi me l’ha
detto, per farmi
comprendere che l’avevo ammazzata io. Quindi non chiedergli
mai niente,
Helaida, non fargli richieste, perché se le
esaudirà, vorrà dire che avrai la
morte di qualcuno sulla coscienza.”
Mi
bloccai all’improvviso, raddrizzando la schiena e
costringendo il mio
accompagnatore a lasciarmi.
-
Morirà, vero? – gridai – Ha accettato di
morire per liberarmi? O è già morto?
Oh, ti prego...!
Lui
cercò di afferrarmi per le braccia, ma mi dimenai
– Dimmi la verità, devo
saperlo, ho bisogno di sapere!
-
Non è ancora morto – sibilò lui
– Ma sì, lo sarà presto: ha fatto uno
scambio
con il Granduca per poterti liberare. Quindi sii contenta del dono che
ti è
stato fatto e smettila di agitarti, ti conviene tenere un profilo basso
e
dartela a gambe il prima possibile.
-
Voglio vederlo.
-
Dobbiamo partire, Helaida. Il Granduca non mi ha dato molto tempo.
- Ho
bisogno di vederlo, altrimenti non partirò!
Mi
scostai da lui e feci per scappare via, ma mi afferrò per il
vestito.
-
Sei stupida? Qualunque ragazza dell’harem di Roman Fedar
pagherebbe con il
sangue per salire su quel calesse. Vuoi andartene sì o no?
-
Certo che voglio andarmene – dissi, mentre le lacrime
iniziavano a inondarmi il
viso – Ma non a costo della vita di Tristan. Fammi parlare
con lui, fammelo
vedere...
I
singhiozzi funzionarono più della mia furia,
l’uomo si guardò intorno e poi,
prendendomi per un braccio, mi guidò lungo le mura del
palazzo.
-
Seguimi e fai silenzio, ti porterò da lui, ma dovrai
salutarlo velocemente.
Mi
fece girare lungo le mura, tra l’erba, finché mi
indicò alcune fessure nella
parte più bassa della parete - Queste sono le feritoie della
prigione, ti farò
entrare, ma non ti aspetterò a lungo.
Scendemmo
alcuni scalini nascosti tra l’erba e aprimmo un piccolo
cancelletto cigolante, entrando
nei sotterranei della Roccaforte.
Un
uomo grosso, dalla fronte alta e arrossata, ci venne incontro.
-
Lascia entrare la ragazza – disse il mio accompagnatore
– Vuole salutare
Tristan.
Lui
mi lanciò un’occhiata sbilenca –
È la ragazza che ha salvato? La lascio
entrare, ma la responsabilità è tua.
Aprì
una porta bassa e stretta, pesante quanto scura, facendomi accedere ad
una
stanzetta minuscola, buia e carica di umidità.
-
Tristan?
Un
movimento nell’angolo destro attrasse la mia attenzione.
- ...Helaida?
Lo
vidi accartocciato contro il muro, una massa informe, priva di contorni.
- Tieni
– Alle mie
spalle, l’uomo biondo mi
passò una candela accesa – Ti aspetto fuori.
Appoggiai
la candela a terra e osservai la figura di fronte a me farsi pian piano
più
distinta: i capelli di Tristan, poi i contorni del suo viso, gli occhi,
scurissimi
a quella poca luce. E il sangue. Sangue sui suoi vestiti e sul
pavimento attorno
a lui.
Diedi
in un gemito strozzato e mi coprii la bocca con le mani, ma le lacrime
tornarono a scorrermi a fiumi dagli occhi.
-
Helaida, smettila – mormorò lui, in un filo di
voce – Ho fatto questo per
vederti sorridere, non piangere.
Questo
non fece che aumentare i miei singhiozzi, la mia tristezza.
-
Basta, piangere – ripeté lui, stavolta con
più forza – Non sopporto più di
sentir delle ragazze piangere.
Cercai
di trattenermi, respirai a fondo e rimangiai i singhiozzi come potei;
ma
vederlo in quelle condizioni mi straziava più di quanto
avessi ritenuto
possibile.
-
Che cosa hai fatto? – sussurrai – Perché
ti ritrovo qui? Perché mi riportano a
casa? E tuo fratello, Tristan?
- Ho
scambiato la mia vita per la tua liberazione, e ci ho aggiunto una
buona dose
di sofferenza per la certezza che nessuno avrebbe toccato mio fratello
– lo
vidi sorridere, ironico nonostante tutto – Non potevo offrire
due vite, sai.
- Ma
perché?
Allungò
una mano verso di me e l’afferrai, stringendola delicatamente
perché tutto in lui
vibrava di dolore.
-
Alla fine ho capito quello che intendevi dire. Ho trascorso gli ultimi
anni
assimilandomi alla mentalità di Roman Fedar, trasformando la
sua verità nella
mia, convinto che fosse la strada giusta per sopravvivere, per non
soffrire. Ma,
così facendo, ho perso il rispetto per me stesso. E me
l’hai detto tu, Helaida.
-
Ero arrabbiata, quando te l’ho detto – protestai.
- Ma
tu non lasci mai che la rabbia inquini le tue parole. Ho capito che
avevi
ragione, quando ho visto come affrontavi il Granduca, i suoi
tormenti... e persino
i miei. Non voglio più vivere come ho
fatto finora, voglio riguadagnare il rispetto di me stesso, la mia
dignità.
-
Non è necessario
morire, per ottenere
questo!
- “Nel
sacrificio c’è onore, poiché si offre
la
propria vita per il bene altrui.”
Sono
parole tue, lo ricordi? Aspiro a questo... e non solo.
Fece
una pausa, respirando velocemente per tenere a bada il dolore che
sentiva.
O
forse, soltanto per trovare le parole giuste. Quelle che seguirono.
- Non
sopporto che il Granduca ti sfiori. Voglio saperti al sicuro con la tua
famiglia... Quella tua famiglia pazza che crede che il bene produca
altro bene,
che il perdono sia più importante dell’odio e che
un nastro di poco prezzo
valga quanto un tesoro inestimabile. È là che
devi restare: amata, inviolata...
E fare del bene come solo tu lo sai fare, Helaida.
Altre
lacrime cominciarono a uscire, il cuore mi faceva male come se qualcuno
mi
martellasse il petto con un sasso acuminato.
-
Avevi ragione tu, vedi? – riprese – Persino da me,
ti ritorna quel bene che mi
hai dato. Da me, che ero diventato vuoto e freddo e sterile.
Scossi
la testa, quasi senza respiro.
-
Come faccio ad andarmene lasciandoti qui? Senza sapere per quanto
dovrai
soffrire o fino a quando vivrai?
-
Pensa che sono in pace, solo quello.
-
Non avrei dovuto parlarti, non avrei dovuto dirti niente!
Un
po’ di quell’antico scherno gli comparve sul volto
– Vedo che avere ragione non
ti dà proprio soddisfazione - Allungò un braccio
e mi accarezzò il viso – Se
hai voglia di fare qualcosa per ringraziarmi, lasciami quel nastro.
Annuii
fra le lacrime e me lo sfilai dai capelli, poi lo girai attorno al
polso di
Tristan una, due, tre volte e lo fermai con un nodo.
Lui
lo osservò qualche istante e poi si chinò in
avanti, slacciandosi dalla
caviglia quella benda di stoffa che gli avevo legato solo la sera
prima. Era ancora
pulita, perché la sua gamba era ormai guarita; me la porse e
io mi acconciai i
capelli con quella.
Non
c’era altro che potessimo offrirci l’un
l’altra, in ricordo di un legame nato in
silenzio e d’improvviso così intenso,
così importante da valere una vita.
-
Ragazza, sbrigati, dobbiamo partire! – urlò la
voce del tizio biondo, appena
fuori dalla porta.
L’ansia
mi sopraffece.
- Le
tue ferite...posso fare qualcosa per te? Posso...
-
Helaida – la sua voce era grave, ma gli occhi lo tradivano
– Non hai intenzione
di andartene senza baciarmi, vero?
Scossi
il capo, sbigottita.
Con
cautela mi accostai a lui; sapevo che doveva sentir male, ma mi
strinse, imbrattandomi
di polvere e sangue. Non ero mai stata abbracciata con tanta forza e
non avevo
idea che il corpo di un uomo potesse essere così solido,
così vigoroso e nel
contempo trasmettere protezione... e
dolcezza.
Lo
baciai, o mi baciò lui, non compresi bene ciò che
accadde, ma ci perdemmo in
sensazioni violente,
così struggenti da
squarciarmi il petto.
-
Adesso è proprio ora di andare! – tuonò
il mio accompagnatore biondo, piombando
nella cella.
Ci
staccammo a fatica, il corpo di Tristan sembrava essersi incollato al
mio.
- Ti
prego, sii contenta, Helaida – mi sussurrò,
lasciandomi andare – Voglio
pensarti felice.
Annuii,
ricacciando il nodo d’angoscia dalla gola allo stomaco... E
poi qualcuno mi
prese per le braccia e all’improvviso ero fuori di
lì, fuori dalla cella e
fuori dalla Roccaforte, in bilico su un calesse lanciato a tutta
velocità.
Per
molte ore, il cuore mi rotolò nel petto così
dolorosamente da offuscarmi la
vista e il pensiero. Mi accucciai, nella notte, tenendomi aggrappata a
quella
fascia che Tristan mi aveva lasciato e,
nell’oscurità, non mi accorsi di nulla
di insolito.
Solo
alla luce del sole, il mattino dopo, vidi che non era esattamente come
quando
gliel’avevo data.
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Capitolo 17 *** Rispetto ***
17
Tristan
si ritrovò in quella cella buia, ancora, dopo
l’ennesimo supplizio che il Granduca
si era divertito a infliggergli. Godeva, Roman Fedar, di quelle
sofferenze che
era autorizzato a comminargli; credeva di schiacciarlo sempre
più a fondo, di
precipitarlo sempre più in basso. Non sapeva,
quell’uomo, che la luce non
lasciava un istante l’animo di Tristan. Ora il mondo si era
raddrizzato, era
tornato al posto giusto. C’era stato un momento, un momento
durato otto anni in
cui, dopo tanta agonia, ciò
che agli
altri era sembrata la verità, in lui si era trasformata in
falsità; ciò che era
stata giustizia per tutti, per lui era diventata ingiustizia.
Aveva
vissuto al contrario, sottosopra, alla rovescio.
E
ora, all’improvviso, il cielo e la terra erano tornati al
posto giusto.
Nessuno
avrebbe più toccato Helaida né avrebbe violato la
sua anima. E nessuno avrebbe
più toccato lui: la sua dignità era salva, il suo
cuore colmo. Portò il polso
al viso, baciando il nastro che portava ancora al braccio.
-
Sii felice, Helaida.
Il
calesse mi scaricò davanti al portone del palazzo e
ripartì all’istante, senza
darmi neppure il tempo di un saluto.
Casa.
Ero
davvero tornata a casa.
Le
grida delle mie sorelle, la voce di mamma, la gentilezza di
papà, la routine
della nostra casa, i fiori del giardino, i gatti sulle scale, la
bellezza delle
nostre terre... Tutto, mi era stato restituito tutto.
Lasciai
scorrere le lacrime, decidendo che quella sarebbe stata
l’ultima –
l’ultimissima – volta in cui mi sarei lasciata
andare al pianto.
Poi
sorriderò, Tristan. Sorriderò pensando a te.
A te, che hai
consacrato la tua vita ad un gesto d’amore e
ora brillerai per sempre nella mia anima.
Pensai
al nastro che portavo nei capelli, alla scritta che ci avevo trovato
all’interno. Doveva aver previsto, Tristan, che avrei pestato
i piedi per
raggiungerlo in carcere, che avrei trovato il modo di salutarlo prima
di
partire. Perché quella scritta era già
lì, quando ero entrata nella sua cella,
era già lì che mi aspettava.
Hai imparato davvero a
conoscermi così bene?
Aveva
deriso, in principio, gli insegnamenti dei miei genitori, ma ora essi
ci
avevano salvati entrambi: avevano salvato me, che avevo seminato bene e
del
bene avevo raccolto, infine.
Ma
avevano salvato anche lui, anche Tristan. Riportandolo a dare un senso
alla sua
vita, a guardare di nuovo in faccia se stesso con rispetto.
Era
così, perché se così non fosse stato,
non mi avrebbe lasciata sorridendo.
Non
mi avrebbe lasciato scritto sul nastro quell’unica,
confortante parola.
“Grazie”.
************************************************************************************
Allora... da dove
comincio?
Ringraziando le tantissime persone che hanno messo questa storia nelle
Seguite, Ricordate e Preferite?
Sicuramente, un enorme grazie se lo meritano!
O incensando tutti coloro che hanno impiegato parte del loro tempo a
lasciare una recensione?
Anche voi avete tutta la mia gratitudine!
E poi... 2 parole a chi è rimasto deluso dalla reazione di
Helaida, perché si sarebbe aspettato un suo disperato
tentativo di salvare Tristan.
Helaida non è una combattente. Helaida crede nell'amore ad
ogni costo, nel sacrificio, nel rispetto e nella dignità. Il
gesto di Tristan le spezza il cuore, ma capisce che
è ciò che lo salverà dalla
disperazione e lo accetta. Non è che sia felice,
intendiamoci, ma ne capisce il senso e sa, in coscienza, che
ciò che è accaduto ha un significato profondo per
lei e per Tristan.
Tolto questo, prima che mi uccidiate per questo finale...
... vi confesso...
...
...
...
che Tristan non è morto.
Ebbene sì... in realtà il Granduca non lo
ucciderà e lui ed Helaida, un paio di anni dopo, avranno
modo di ricontrarsi.
Non ho scritto il seguito, ma ho in mente qualcosina. Non so se
raggiungerà mai la carta, però volevo
rassicurarvi del fatto che questo finale è meno tragico di
quanto appaia. :)
E ora, rinnovandomi i miei infiniti ringraziamenti, mi smaterializzo
nella notte!!
Addiooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo.................
phoenix_esmeralda
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