Fiori d'arancio marini di Gogol (/viewuser.php?uid=49515)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Matrimonio Uccide? ***
Capitolo 2: *** Il Sangue Non è Acqua? ***
Capitolo 3: *** Dalla Cina con furore! ***
Capitolo 1 *** Il Matrimonio Uccide? ***
<< No! >>
Il grido è secco, acuto. A quel suono, le lucide bolle
d’acqua emesse dalle orchidee marine scoppiano con piccoli e
umidi plop.
Negli appartamenti privati del Palazzo reale di Atlantica,
l’atmosfera incomincia a farsi frizzante.
Eric la guarda, guarda Ariel. E ovviamente si domanda, come
chissà quanti hanno fatto prima di lui, perché la
sorte non ha voluto concedergli di essere divorato dalle murene.
I capelli rosso fiamma della giovane sirena sono scompigliati e
spettinati, ricadono disordinatamente sulla piccola fronte aggrottata.
Da quanto, dopo la notizia, non hanno più visto un pettine?
Probabilmente sua moglie troverà il modo di addossargli
anche quella colpa, ne è sicuro. Eric, dannazione,
perché non hai riflettuto? Ma è inutile piangere
sul salemarino versato. La verità è che lui, il
principe di terraferma giovane e bello, non ha mai saputo resistere ad
un bel faccino. Era sembrato tutto perfetto, all’epoca.
All’epoca, come pensava, doveva amare davvero la figlia del
lord dei Mari. Altrimenti non avrebbe saputo spiegarsi come aveva fatto
a sollevare il Tridente, il simbolo stesso della monarchia dei
tritonidi, ed a conficcarlo con un lancio da maestro dritto nel cuore
di Ursula, dopo che Sora aveva ingaggiato con la Strega una violenta
lotta. Un altro dei suoi pensieri ricorrenti, negli ultimi mesi, era
che forse avrebbe fatto meglio a lanciarsi dritto fra i tentacoli
dell’obesa cecaela. Eric si sforza di rimanere
calmo, di essere per l’ennesima volta ragionevole.
<< Non è colpa di noi due se Myde è
diventato quello che è, Ariel. E’ semplicemente
… è semplicemente successo. Lo abbiamo
educato come meglio abbiamo potuto. >> L’ho
educato. Posso contare sulle dite di una mano tutte le volte che Myde
ha visto sua madre! Cosa pensava fosse, un cagnolino?
La sirenetta sibila, inviperita. << Non dire …
non dirlo, e addossati le tue responsabilità!
>>
Le – tue – responsabilità. Addossarsi le
… << Questo NON ha senso! >>
esclama il principe consorte passandosi sconvolto le dita fra i capelli
bruni. << Ariel, non puoi dirmi questo. Ci siamo
sforzati, lo abbiamo cresciuto. Il Regno mi sia testimone, pensi
che potessimo evitare quello che è successo a Myde?
Sta alzando la voce. E’ qualcosa di pericoloso, anche per il
principe consorte, alzare la voce con la futura regina destinata a
sedere sul Trono del Mare, ma a questo punto Eric sta perdendo il
controllo. Lo sta perdendo dopo anni di asservimento, di cerimonie di
corte alle quali era puntualmente messo in ridicolo e lo è
ancora oggi, dopo vent’anni – vent’anni!
– di asservimento totale e completo a quella donna
– ragazzina che un vecchio decrepito gli ha fatto sposare
sulla tolda di una nave. Adesso è pericolosamente vicino al
punto di rottura. Vent’anni buttati al vento, chi avrebbe
pensato che fosse così facile rendere la sua vita un inferno?
Era cominciato tutto con capricci di poco conto, tranquillamente
ignorabili. Probabilmente è nervosa, ricordava confusamente
di aver pensato Eric. Era così che lei lo aveva fregato.
Per piacere, puoi dire al maggiordomo di mettere meno zucchero nel
cappuccino? Oh, questa musica è assolutamente orribile,
Sebastian sta decisamente perdendo il suo tocco. Eric caro, mi
compreresti quella nuova perla? Da abbinare alla collana di granato
rosso, s’intende! Che cosa pensavi, si può sapere!
Ah, e voglio anche …
Era diventata imperativa in poco tempo, ma lui aveva subodorato la
fregatura troppo tardi. C’erano state le lamentele sul cane,
sul maggiordomo, sui fiori marini e terrestri che le regalava in segno
di riappacificazione. Il loro rapporto andava disgregandosi, se non
velocemente, a ritmo sostenuto.
Affrontando attentamente la questione, Ariel doveva aver preso lezioni
contrattuali dalla Strega del Mare prima che lui la infilzasse con il
tridente. Quale moglie avrebbe stilato un contratto matrimoniale in cui
le righe piccole lo legavano a lei a vita?
C’ è stata la cacciata di Max. Come aveva potuto
lasciare che Max venisse spedito lontano dal palazzo, in un qualche
lurido canile? Lo stesso cane che aveva salvato dall’incendio
della nave e che lo aveva sempre accompagnato. Poi anche James,
l’anziano capo dei servitori. Troppo anziano, a sentire Ariel.
Eric adesso è davvero arrabbiato. E ha deciso di ribellarsi.
Ariel non ha ancora finito di parlare. Gli sta riversando addosso
insulti su insulti, grida isteriche, recriminazioni.
<< Non ce la faccio più, ti ho dato
Atlantica, ti … >>
<< Ariel, basta. >>
<< … tutto e tu niente, non hai neanche saputo
e … >>
<< Basta. >>
<< … are Myde co … >>
<< Basta! >>
<< … si deve, brutto st …
>>
<< BASTA !!!!! >>
Ariel arretra sconvolta. << E- Eric, io …
>> Ma lui non si ferma ha sopportato troppo. Come lei ha
detto più di una volta, per rimprovero, con quel suo tono
irritante, ha decisamente sopportato troppo. <<
Tu NON hai educato Myde. L’unico che ci ha provato sono stato
io, mentre tu te la spassavi con i tuoi amanti sia in terra che in
mare. Per te Myde era solo uno svago. E adesso che va in giro
a rubare cuori, adesso che è diventato tutto quello che
abbiamo sempre detestato, tu non piangi per lui. Tu sei soltanto
preoccupata della tua **** di REPUTAZIONE!!! >>
Silenzio. Eric ansima, sbuffa, riprende fiato. Ariel lo sta fissando
con i suoi occhi blu mare, con uno sguardo talmente glaciale che
potrebbe sigillare Atlantica sotto un pack.
Si è spinto troppo oltre e lo sa. Ma sa anche che questo
momento doveva, prima o poi, arrivare. Lo aveva saputo da quando aveva
scoperto che Ariel aveva più di una dozzina di amanti.
Eppure aveva voluto pensare che qualcosa fosse ancora a posto. Che si
potesse ricominciare. Che concetto stupido.
Ariel lancia un piccolo strillo spezzato e guizza via dalla stanza,
infilando la porta aperta con un colpo di pinna. In questo momento,
tanto Eric è furiosotristedeluso, le sottili tessiture
magiche che gli permettono di respirare sott’acqua potrebbero
esplodergli in faccia.
<< Ariel! Fermati! >> La sua voce rimbomba
per i corridoi e per i colonnati del palazzo. Eric arresta la sua corsa
e si appoggia ad una colonna, ansimando. La sirenetta volteggia sopra
di lui, con un cipiglio bizzoso.
Myde era nato dall’unione di un umano e di una sirena. Da
Eric aveva ereditato l’aspetto, da Ariel
l’eredità della magia innata di manipolazione. Il
principe ricorda. Myde sapeva controllare l’acqua con una
potenza ed una precisione del tutto fuori dal comune. Era in grado di
plasmarla in qualsiasi foggia, di concentrarla così tanto da
renderla solida. Forse anche i geni di Re Tritone avevano
fatto la loro parte, trasmettendo al nascituro una parte della magia
del Tridente che il sommo lord di Atlantica controllava. Eric non si
intende di magia, non è uno dei Signori del mare, il titolo
attribuito al popolo che da sempre domina sulle specie marine
inferiori, ma sa che il potere di Myde sarebbe dovuto essere
controllato in modo corretto. Non con campi di contenimento e
limitatori, come aveva voluto, fuori di sé, Ariel. Se Myde
fosse cresciuto bene, un giorno avrebbe potuto diventare qualcuno di
importante. Un lord, un potente … ma era umano. Myde aveva
aspirato da sempre al possesso del Tridente. Aveva un regno e non
poteva ottenerlo tutto per sé. Il Trono del mare spettava
solo al Popolo del mare, non a un ibrido fra due razze. Ad un umano con
la scintilla innata che sarebbe dovuta appartenere unicamente a sirene
e tritoni. Forse se n’era andato per quello.
Anche Ariel, come tutte le sirene, possedeva la capacità di
usare quel tipo di magia. Gran parte di essa si era manifestata
retroattivamente, confluendo nella sua splendida voce. La principessa
era in grado di tessere veri e propri universi con le sue meravigliose
melodie, o meglio lo sarebbe stata se avesse deciso di applicarsi
seriamente almeno al canto. Non lo aveva, ovviamente, fatto. Buffo, o
forse non poi tanto, che Myde potesse controllare le sue creazioni
tramite il suono emesso da un citar. Aveva tutto della madre, Myde.
Quel che aveva avuto dal padre, era stata la sua maledizione.
Comunque, anche la sirenetta poteva usare qualche banale trucco con la
magia. Volteggiava beffarda attorno ad Eric, il visetto lacrimoso
trasformato in una maschera di disappunto vivente.
<< Ariel … >>
Non lo ascoltò. Non l’aveva mai fatto. Una bolla,
che Eric seppe in anticipo essere dura come il granito,
slittò verso di lui.
Eric era steso a terra. Percepiva confusamente la presenza di molti
tritoni attorno a lui, e la voce di Ariel che strillava. Adesso era
acuta e dissonante.
Non seppe mai dove lo portarono; da quel momento la sua vita divenne
una nebulosa indefinita.
*
Ebbe solo un unico sprazzo di lucidità. Si trovava in un
piccolo spazio chiuso, assieme a sua moglie. Si sentiva la lingua
impastata. Cercò di parlare, ma solo quando la sirena gli
rispose capì di essere riuscito a parlare davvero.
<< Il contratto a vita? Fossi in te, caro, non mi
preoccuperei di questo. >>
Scivolò con grazia impareggiabile fuori dalla cella, e
chiuse la porta dietro di sé.
**
Il Keyblade intercettò in volo il primo Heartless,
disgregandolo in una manciata di pulviscolo. Sora balzò in
avanti, la Catena regale in pugno, e gli Shadow si lanciarono in massa
verso di lui.
Il Custode si mosse fluido, intercettando le goffe zampate degli
esserini neri con l’elsa della sua arma. Le ombre
indietreggiarono frenetiche mentre i loro cuori luminosi, liberati
dall’involucro di tenebra, si levavano verso il cielo. Sora
mulinò il Keyblade e portò una spazzata verso
terra come diretta prosecuzione del gesto, slittando verso
l’ultimo Heartless rimasto. Questi emise un gridolino,
sollevando le antenne, poi il Keyblade lo falciò con
metodica precisione, dissolvendolo.
Era finita. Sora sbuffò, lasciando scomparire la sua arma
con uno sprazzo di luce. <>
<< Ahyuck! >> La voce profonda e
familiare del Capitano dei Cavalieri reali lo raggiunse da dietro le
spalle. << Quello era l’ultimo sopravvissuto.
>>
Sora, a quel punto, potè tirare il fiato mentre si voltava
verso il compagno. Pippo, allampanato ed esageratamente alto come
sempre, contrasse i suoi buffi lineamenti da cane antropomorfo in un
sorriso di comprensione mentre legava il suo scudo dietro le spalle.
L’uniforme verde, strapiena di tasche dell’amico
era spiegazzata, e capello ed occhialoni da pilota ricadevano di
sghembo sul lungo naso. Poco più in là, Paperino
stava caracollando sulle sue zampe palmate arancioni verso di loro;
ovviamente, stava sbraitando d’ irritazione. Il Mago di corte
li raggiunse, incurante delle piume biancastre talmente arruffate da
far sembrare il suo piccolo corpo tondeggiante un quadrato.
L’abito azzurro era strappato in più punti, e lo
scettro che il pennuto brandiva era in più parti scalfito e
pieno di tacche; anche il becco era cosparso di piccole bruciature.
Osservando i suoi due compagni di viaggio, Sora dovette ammettere che
erano davvero malridotti. Da più di sette anni erravano
insieme per i mondi, combattendo gli Heartless e portando soccorso a
chi era afflitto dalla piaga dell’ombra. Adesso il Custode
del Keyblade aveva diciotto anni; gli anni di combattimenti lo avevano
reso temprato e irrobustito. I suoi lineamenti si erano induriti, ed
avevano da perso da tempo i tratti giovanili.
Lo Shadow che Sora aveva appena ucciso era l’ultimo esponente
di una fastidiosa infiltrazione nei pressi della Terra dei Dragoni. In
realtà erano poco più che una banda
disorganizzata, tuttavia, complice il terreno accidentato ed ideale per
gli attacchi improvvisi, erano riusciti a spazzare via due campi dei
soldati di frontiera e a minacciare da vicino la Città
Imperiale. Sora aveva perso il conto di quante schermaglie simili si
erano consumate da quando aveva ottenuto il Keyblade.
<< … dovremmo rimetterci in sesto!
>> Paperino terminò la frase, sbuffando
rumorosamente. Il Custode si riscosse dai suoi pensieri.
Anche lui aveva riportato delle ferite non gravi, che tuttavia gli
dolevano.
<< Il Palazzo reale non ci negherà
ospitalità, dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro
>> Aggiunse pensieroso Pippo. << Che ne
dici, Sora, è una buona idea? >>
Il Custode rifletté. Non potevano continuare a combattere ed
a lottare in eterno. Potevano prendersi uno o due giorni di riposo.
Curarsi le ferite, trovare un Moguri che riparasse le armi e poi
ripartire. Di certo, non si sarebbero fermati poi così
tanto, no?
Sospirò. << E sia. Cerchiamo di raggiungere
per tempo la capitale. >>
Paperino e Pippo esultarono gioiosi.
***
Mal di testa. Stanchezza. Mal di testa.
Sora aveva affondato la faccia in uno dei cuscini, la mente ancora
rimbombante del suono dei tamburi e delle trombe. Stava disteso su di
un grande letto a baldacchino con cortine di seta, il materasso
talmente morbido che era pressoché certo che ci sarebbe
annegato.
La Città imperiale, se ne era ricordato troppo tardi, non
era il luogo perfetto per ottenere un accoglienza rapida e discreta.
L’arrivo del Custode del Keyblade, salvatore dei Mondi, e dei
suoi fidi amici, gli Onorevolissimi Pippo e Paperino, aveva richiesto
oltre due ore di cerimonie, presentazioni, interminabili protocolli.
Adesso che finalmente Sora era disteso sul letto, dovette costringersi
a tirarsi su. Prima di dormire doveva curarsi le ferite, e lo
imbarazzava lasciare che a farlo fosse una delle cortigiane che
l’Imperatore gli aveva messo a completa disposizione. Aveva
sempre fatto da solo. Questa volta sarebbe stato uguale.
Scese dal letto a piedi nudi e sobbalzò quando
udì bussare alla porta. Dio, chi sarebbe arrivato quella
volta?
<< Lord Sora, chiedo umilmente il Vostro munifico
perdono! E’ giunta una missiva indirizzata esplicitamente a
Voi con grande urgenza, il cui contenuto non mi è dato
sapere … >>
Sora aprì la porta bruscamente. Desiderava solo prepararsi
un impacco di foglie di Paopu e bambù, e poi dormire.
Davanti a lui, quello che sembrava una sorta di scoiattolo troppo
cresciuto dai lineamenti orientali si inchinò –
almeno la coda gli mancava, notò Sora – e gli
porse la lettera. Il Custode ringraziò ed arginò
con un cenno della mano gli innumerevoli ossequi che il tizio stava
riversandogli addosso. Quando venne bruscamente congedato, troppo per
le intenzioni di Sora, il paggio sembrò più che
felice. Schizzò via nel corridoio, ciabattando con
un’agitazione che Sora trovò amaramente comica.
Gettò un’occhiata alla lettera mentre applicava il
suo unguento curativo sulle gambe e sulle braccia.
Ma che … ?
Sora, ti prego. E’ successa una cosa terribile. Ti prego,
vieni subito ad Atlantica.
Se non lo farai, non so cosa mi accadrà.
Era firmata semplicemente “Ariel”.
Oh, mer …
****
I turboreattori della gummiship, la tozza navetta di trasporto per i
viaggi intergalattici di Sora, ruggirono un’ultima volta
prima di spegnersi. La navicella planò lentamente sulla
spiaggia, i supporti metallici d’atterraggio sbriciolarono i
sassi piegandosi su sé stessi per favorire
l’atterraggio.
Sora staccò le mani dai comandi, sforzandosi di non
vomitare. Paperino era il dannatissimo pilota, non lui. Ma i suoi due
compagni di viaggio avevano avuto la brillantissima idea di avere
… una reazione allergica alle fragole? Tutti e due?
Probabilmente, considerò scendendo la scaletta della
gummiship verso terra, i suoi grandi amici lo avevano fregato. Sora era
dolorosamente consapevole di non essere quel che si dice una mente
brillante; loro due di certo ne avevano, per una volta, approfittato.
D’altro canto, chi avrebbe potuto biasimarli? Loro non erano
obbligati a seguirlo se non dal giuramento di Re Topolino, ed il Re era
morto molto tempo prima. Sora li aveva trascinati in due settimane di
battaglie e scontri all’ultimo sangue contro Heartless e
cattivoni locali vari. Forse era giusto che, a questo punto, che la
loro lealtà si prendesse una vacanza.
Questo pensiero non gli impedì di imprecare ad alta voce
quando, arrivato a terra, la testa iniziò a girargli.
Maledizione. Sforzandosi di non vomitare, diede il segnale vocale di
stop alla gummiship ed iniziò a risalire l’erta
davanti a lui.
Ariel lo aspettava nella grande casa colonica che si ergeva sulla
collinetta della spiaggia, un maniero terrazzato ed arredato riccamente
che un tempo era stata la dimora di suo marito, Eric. Sora si
domandò cosa fosse successo. Ariel era stata esiliata dal
mondo marino? Gli Heartless avevano sterminato il popolo marino e lei
era l’unica sopravvissuta? Una morsa d’angoscia gli
strinse il cuore. Non essere ridicolo, si impose mentalmente.
Respirò. Perché diamine era così
nervoso?
Prese coraggio e, raggiunto il portone della villa, bussò.
*****
Toc. Toc.
Appena i battenti del portone ebbero risuonato, il cuore
balzò in gola a Sora. Ariel. Che cosa poteva esserle
successo? Si sentiva nervoso, e per qualche ragione desiderò
che non fosse Eric ad aprire. Ma … stupido, stupido, dannato
stupido, esplose fra sé e sé. Che cosa stava
pensando di …
La porta si spalancò, e Sora dovette richiudere la bocca.
Ariel era bellissima, ancora più bella di come la ricordava
quando era poco più di una bambina. Avanzò
composta verso di lui, il viso serio, come a lutto. Era nella sua forma
umana, rilevò Sora, ma questo non la rendeva meno
meravigliosa. Un ampio vestito le copriva il corpo, insolitamente
sobrio. Ariel era sempre stata una donna appariscente. Piccoli orli
azzurri si intravedevano fra le maniche a sbuffo, simili a tante
piccole lacrime. I capelli rossi erano lucenti, pettinati in una coda
di cavallo che le ricadeva fin sulle spalle nude.
E, d’un tratto, Sora credette di sapere cosa fare. La
raggiunse, e le prese le mani.
<< Ariel, che cosa è successo. Sono
… sono venuto appena ho potuto. Come stai? >>
I grandi occhi azzurri della principessa si spalancarono e Sora vi
colse contentezza, ma anche mestizia. << Ariel
>> Ripeté, più deciso
<< che cosa è successo? >>
La sirena in forma umana si avvicinò ancora. Sora poteva
sentire il suo profumo sulla pelle.
<< E- Eric se n’è andato. Qualche
giorno fa. Mi ha- mi ha lasciato, ed io … >>
La sua voce si fece tremante, e lacrime simili a zaffiri spuntarono nei
suoi occhi che avrebbero potuto annegare anime.
In quel momento, Sora non pensò che nessun pericolo
imminente minacciava Atlantica, che nessun Heartless era spuntato
nemmeno a pagarlo, che aveva lasciato il suo breve e meritatissimo
periodo di riposo per quello che molti avrebbero giudicato un falso
allarme.
Non pensò nulla di tutto questo. Invece, la
abbracciò stretta e si fece condurre, in silenzio, nella
casa.
******
Erano seduti su un divano, sulla terrazza più grande della
villa intera. Un divano in una terrazza? Sora non ebbe tempo per simili
interrogativi. Portò un po’ del vino alle labbra,
mentre ascoltava la voce spezzata della sirena raccontare quello che
era successo.
Aveva già dimenticato la chiamata fin tropo brusca. Ora, era
capace solo di ascoltare.
Ascoltò e sentì tutto. Sentì del suo
rapporto con Eric, di come lui bevesse fin troppo. Incredulo e
scandalizzato la ascoltò parlargli delle sue amanti, dei
suoi affari sottobanco con alcuni tritoni infidi, delle sue giornate
intere passate in bettole e bordelli. Quando arrivò a Myde,
raccontandogli con voce incrinata come Eric avesse lasciato che
fuggisse dal palazzo reale e lo avesse incitato a non dire nulla a sua
madre, Sora spezzò il bicchiere in due.
<< Bastardo >> Mormorò, prima di
rendersene conto. Ariel lo osservò con espressione spaesata,
e Sora si rese conto con orrore di aver distrutto uno dei bicchieri del
servizio buono. <> Idiota! Idiota! Idiota!
<< Non preoccuparti >> sussurrò
la sirena, avvicinandosi a lui e premendosi contro il suo fianco.
<< Lui … mi ha lasciata, per fortuna.
>>
Sora non sapeva cosa fosse più forte, se le emozioni
contrastanti che Ariel gli provocava o la furia ed il ribrezzo che
provava nei confronti di Eric, quel giovane gentiluomo che si era
dimostrato un ubriacone irresponsabile e malvagio. Prima che se ne
rendesse conto, aprì la bocca e gli diede fiato.
<< Eric ha perso un tesoro, Ariel. >>
Inorridì. Lo aveva detto davvero? La vista cominciava ad
annebbiarglisi. Aveva bevuto pochissimo vino, smettendo non appena
Ariel gli aveva parlato dell’alcolismo di Eric. Le palpebre
diventarono pesanti. Mentre la sua mente cosciente sprofondava
chissà dove, senti Ariel dirgli che andava …
tutto … bene ….
*******
La prima cosa che emerse dal bianco fu altro bianco, quello delle
lenzuola. Un piccolo, minuscolo frammento di coscienza
ritornò alla sua mente.
Che … cosa …
Passarono diversi minuti prima che il suo cervello riuscisse ad
elaborare un pensiero coerente, e con esso l’ordine di
muoversi. Sora stiracchiò le gambe. Il battito ritmico del
suo cuore gli rimbombava nelle orecchie. Si sentiva intorpidito, i
piedi gli formicolavano. Era come se non avesse più del
tutto il controllo di sé.
Soffocando uno sbadiglio si girò, confusamente.
Oh mio – !!!!
Ariel era distesa accanto a lui, coperta da niente altro che le
lenzuola bianche.
Il cuore di Sora perse un battito. Con orrore, senza neanche respirare,
il Custode si ritrasse come se avesse visto un serpente a sonagli. NO!
NO, NO, NO!
Idiota, stava sussurrandogli una vocina insistente in testa.
Freneticamente Sora spalancò gli archivi della sua memoria.
Non poteva essere! Che cosa avevano …
Insomma, la risposta era ovvia.
Ma nella sua mente c’era solo il bianco, quello
dell’incoscienza. Troppo idiota per ricordare qualcosa .
Troppo idiota e troppo ubriaco. La vocina continuava a martellargli in
testa.
Impietosa.
Assillante.
<> Ululò Sora, e si
precipitò fuori dalla stanza.
Si fiondò giù dalle scale con il rischio di
spezzarsi il collo, scansando sedie e vasi ingombranti. Un rumore di
cocci risuonò alle sue spalle. Sora si ficcò le
mani fra i capelli, e fuggì verso la gummiship.
********
Il volto di Riku, sgranato dal megaschermo ovale della sala video della
gummiship, si spalancò in un’espressione di
sorpresa. Sora riprese fiato, esausto. La porta d’ingresso
della gummiship era sbarrata da un lucchetto e da una grossa spranga di
ferro. Sembrava appena uscito da un incubo il Custode, i capelli
sporchi e spettinati, la faccia stravolta in una smorfia di
orroredisgustospaventoterrore. Sul megaschermo, il viso di Riku
sembrava un identica copia di quello di Sora.
<< Ti sei risvegliato. >> Riku sembrava
star saggiando le parole. << Nel suo letto.
>> << E … >>
<< SI! >> Esplose Sora, allargando le
braccia. << Lo abbiamo fatto, ti rendi conto? Lo abbiamo
… >>
Sora si sarebbe aspettato quasi tutte le reazioni possibili. Stupore,
spavento, freddezza, irritazione, terrore. Ma non fu assolutamente
preparato quando Riku scoppiò in una risata clamorosa.
<< Senza Paperino e Pippo a farti da balia ti cacci in
guai grossi, eh? >> Sora boccheggiò. Bastardo!
<< Ti ho chiesto di darmi un consiglio, **** ! Che devo
fare?!? >>
Era esausto. Lui, il Custode del Keyblade, il salvatore dei mondi, era
in crisi a causa di una notte con una sirenetta. << Riku
… ti prego. >> Era incredulo. Era …
era sull’ orlo del pianto, dio! Come poteva lui, Sora,
sentirsi così?
Anche Riku, a giudicare dalla faccia sgranata che lo osservava dallo
schermo, sembrava piuttosto sorpreso.
<< OK Sora, OK. >> Quelle parole furono
come nettare per lui. Riku aveva di sicuro avuto a che fare con le
donne in quella maniera, prima di quel momento! Lui lo avrebbe potuto
aiutare …
<< Resta calmo, Sora. Resta – calmo.
>> Quasi come se l’amico fosse un esperto
psicoterapeuta, Sora prese un gran respiro tendendo le braccia in basso.
<< Ariel era sconvolta, a quanto mi dici. Tu, Sora, hai
fatto la cosa peggiore che potessi fare. Insomma, sapevo che eri
ottuso, ma non TALMENTE TANTO! >> Sora era come
inchiodato sulla poltrona da cui osservava lo schermo.
<< Tu gli hai dato una speranza, e poi l’hai
abbandonata. Aveva bisogno di conforto, tu le hai offerto una nottata e
… sarai stato come Eric, ai suoi occhi. L’hai
abbandonata. Ancora. >>
Schiacciò il tasto destro del telecomando prima di
rendersene conto. Riku aprì la bocca, e lo schermo divenne
nero.
Sei come Eric. L’hai illusa. L’hai ingannata.
Doveva tornare da lei.
Ariel!
Non pensò a quello che faceva. Squarciò la porta
e i suoi cardini con un lampo, evocando il Keyblade con
intensità quasi dolorosa. Si fece strada tra i frammenti di
lucchetti, catene e sbarre; balzò sulla sabbia della
terraferma, perse l’equilibrio, cadde.
Ariel!
Si rialzò, inzaccherato fino al midollo. Barcollò
e si lanciò verso la villa, con la velocità
massima che poteva sostenere.
Oh Dio, Ariel, aspettami!
*********
<< SORA !!!! >>
La voce lacera l’aria. IL Custode si arresta, mentre il
Keyblade si smaterializza dal suo palmo.
Ariel.
Adesso il profumo di lei, la sua voce, il suo corpo, invade tutti i
pensieri di Sora. La vede precipitarsi giù verso di lui.
Sorride di speranza, l’abito strappato in più
punti.
Si raggiungono e si abbracciano al centro esatto della spiaggia, e Sora
non ha il tempo di pensare all’assurdità
dell’intera situazione, dalla nottata di sesso a questo. Gli
sembra di trovarsi dentro un telefilm di seconda mano, eppure si
ritrova a stringere Ariel con tutta la sua forza, premendo la bocca
contro la sua.
Quando si staccano, lei lo guarda intensamente.
<< Ho avuto paura che tu avessi fatto come lui.
>>
Lo guarda. Lo guarda, e non c’è nessun bisogno di
specificare chi sia questo lui.
<< Non lo avrei mai fatto >> sussurra Sora,
con voce roca. E’ completamente sedotto, incantato.
<< Io ti amo, Ariel. >> Ecco.
L’ha detto. Non si rende conto che forse quella è
solo attrazione fisica, che una notte di sesso (lo avranno davvero
fatto, poi?) non basta per legarsi ad una persona.
Tristemente, se ne rende conto quando è troppo tardi.
<< Sora … vuoi sposarmi? >>
Oh, ca …
Non è stata una reazione volontaria, spingerla via da
sé. Ora è Sora a fissare sconvolto la
sirena. Finalmente, l’inverosimiglianza della situazione gli
entrata in testa, a suon di martellate parrebbe.
Ariel indietreggia oltraggiata. << Sora. >>
Il tono è più freddo, duro. Il giovane aggrotta
la fronte. << Vuoi – sposarmi? >>
Ora sì che, Sora è certo, la sua voce ha assunto
un tono pericolosamente minaccioso e metallico.
Rifletti, dannazione. Rifletti, rifletti, rifletti …
Nella mente del Custode, un lampo squarcia le tenebre. C’
è una possibilità! Assume quella che dovrebbe
sembrare un’aria piuttosto adulta, e superiore a tutto.
<< Ariel, >> incomincia, misurando bene le
parole << una notte di sesso non basta per decidere di
andare all’altare. So che sei ancora sconvolta per quello che
ti ha fatto Eric, ma … >>
Esasperata, la sirena scuote la testa. Incredulo, Sora la sente
imprecare oscenamente, come probabilmente nemmeno quell’Eric
avrebbe mai fatto.
<< Pensavo che sarebbe bastato chiamarti per farti cadere
fra le mie braccia. >> Mormora con tono leggermente
isterico. Respira troppo velocemente. << Ma tu dovevi
fare il pesce lesso, vero? >> Scuote la chioma rossa.
<< Ho drogato il tuo vino, mi sono spogliata e mi sono
messa a letto accanto a te. Ma questo NON poteva ancora bastarti, vero?
TU, SORA, mi sposerai e rimpiazzerai ERIC!!!! >>
Sora è sconvolto, ma almeno ha recuperato un pizzico di
lucidità. <>
Sul bel visetto della sirena si fa strada un sorriso molto simile ad un
sogghigno. Le onde del mare lambiscono la spiaggia e si increspano;
spruzzi di spuma schizzano in alto nel cielo.
Sora vede avanzare quello che inequivocabilmente è un
tritone in forma umana in mezzo alle onde. Poi ne sorgono altri due
dalle acque. Tre. Quattro. Una moltitudine di tritoni che avanzano
sulla spiaggia, lance, spade e gladi in mano.
<< Allora, Sora? Ci hai ripensato? >>
Sora guarda Ariel, e capisce che l’addio al celibato non
sarà proprio come se lo è immaginato.
|
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Capitolo 2 *** Il Sangue Non è Acqua? ***
II.
Un’altra
nota e l’acqua si levò, catturando i raggi del
sole
e rifrangendoli sulla spiaggia, mentre i tratti liquidi si modellavano
fino a
formare la sagoma appena abbozzata di un volto umano. La melodia si
articolò sui
vari livelli, trillando armoniosa, facendo fremere
l’atmosfera stessa d’aspettativa.
Le dita di Myde
danzavano come un’entità viva sul citar,
pizzicando con infallibile delicatezza le corde, sfiorandole quasi alla
maniera
di un amante. Attorno a lui, mentre i flussi di magia manipolatrice si
espandevano e si intrecciavano condotte dalla musica, altre figure
traslucide
sorsero sulla battigia. Il mare cantava assieme al giovane e le loro
voci si
unirono, l’una leggera e fresca, l’altra profonda
ed ancestrale come il tempo
stesso. Myde eseguì una scala con velocità
inconcepibile, eppure note ed acqua
si levarono cristalline e chiaramente percepibili all’udito
umano, trillando
con energia. Il giovane elevò la sua musica con un
virtuosismo incredibile,
portandola a sfiorare i cieli, le nubi, il Sole ardente ed i pianeti
scintillanti, ruggendo la sua superiorità su tutti loro.
Myde raffinò ancora i
flussi che si diramavano da lui, manipolando l’acqua con una
facilità
impressionante mentre questa lo avvolgeva in un involucro scintillante,
rilucente fino a sembrare un enorme sfera di luce.
A quel punto,
sulla spiaggia non c’era più nessun essere
umano vivo.
I flussi
così finemente modellati si afflosciarono su sé
stessi,
crollando l’uno sull’altro come un gigantesco
castello di carte, sfasciando il
finissimo intrico della manipolazione elementare, facendo rifluire
l’acqua
sulla sabbia bagnata. Myde ansimò in cerca d’aria,
i polmoni in fiamme, il
citar già evanescente nelle sue mani. E il cuore che faceva
male. Molto male.
Si
alzò soffocando un grido di dolore. Alberi abbattuti dalla
pura forza delle onde languivano squarciati e strappati dalle loro
radici
secolari, semi affondati nei crateri che avevano sconvolto
l’intero panorama.
Poco lontano la
spiaggia distrutta, là dove la foresta
tropicale un tempo sbarrava l’accesso al piccolo villaggio di
palafitte,
piccole pozze d’acqua si scorgono a malapena attraverso
l’intrico di rovi e
piante carbonizzate, violentate dalla pura rabbia del fuoco. I polmoni
di Myde
erano trafitti da mille spilli di ghiaccio acuminati. Quella non era
stata la
parte più faticosa. Quando era al pieno delle sue forze, era
facile per lui
manipolare i corpi stessi, aumentando il livello di acqua nel corpo
fino a
farlo sciogliere in minuscole goccioline.
I piedi del
giovane affondavano nella sabbia bagnata. Myde
procedeva curvo e faticava a reggersi in piedi, ma sarebbe passata. La
vista
gli si sarebbe snebbiata dopo poco, bastava non farsi vedere in quello
stato da
Axel. Avanzò lentamente verso il varco aperto fra gli
alberi, in mezzo al fumo
che si espandeva in larghe volute. Merda,
imprecò fra sé. Quella sensazione stava tornando
di nuovo a strisciare in lui,
piccola e subdola come una delle murene di Ursula. Myde sperava che,
una volta
pronto, il senso di colpa sarebbe sparito del tutto.
Anche senza
saper percepire le aure, tecnica basilare che
Myde non aveva ancora imparato, era facile accorgersi che Axel si
trovava a
poca distanza. L’odore acre del fumo fece lacrimare gli occhi
al suonatore; per
uno come lui, abituato alla frescura e al refrigerio del mare
sterminato, il
caldo poteva diventare anche un’arma mortale.
Calpestò alcune foglie secche e
bruciacchiate, che si sbriciolarono non appena il piede, coperto dalla
lunga
veste di stoffa nera, le calpestò.
<<
Axel? >> Chiamò, esitante. Il fumo stava
cominciando a fargli perdere l’orientamento. <<
Axel! >> Myde si
porto una mano coperta dal guanto sulla fronte imperlata di sudore. I
capelli
biondo rame si erano incollati alla nuca, ed il solito ciuffo ribelle
penzolava
moscio sulla fronte, coprendogli la visuale. Diede un colpo di tosse,
poi un
altro.
<<
Axel!
>>
Quasi
impercettibilmente, il fumo cominciò a diradarsi. La
gola di Myde bruciava.
<<
Axel! >>
Questa volta non
fu lui a parlare. Il pirocinetico fendette
il fumo verso di lui. Corpo magro, atletico e scattante, Axel
reclinò indietro
la testa e rise sonoramente in un lampo di denti bianchi. Fiammelle
evanescenti
guizzavano attorno al suo viso, schizzando tanto rapidamente che a Myde
sarebbe
venuta la nausea, se li avesse guardati a lungo. Il Numero VIII lo
chiamò
ancora in falsetto, gli occhi verdi che brillavano divertiti. No, si rese disperatamente conto Myde,
questa volta la debolezza non sarebbe passata tanto in fretta. Sentiva
l’enorme
sforzo occorsogli inaridirlo dentro, prosciugarlo, anche se in teoria
il suo
elemento avrebbe dovuto essere l’acqua. Il dolore acuto
continuava, ma questa
volta stava espandendosi. Myde
strinse disperatamente i denti, tremando. La voce beffarda di Axel
risuonò
lontana.
<<
Non dovresti sforzarti così, piccolo mezzosangue.
>>
L’appellativo
lo ferì ancora di più del dolore sordo ed
ottundente. La magia di manipolazione lo seccava dentro ogni volta di
più. Myde
sentiva con devastante i chiarezza i suoi geni umani cercare di
ribellarsi,
contaminati da una magia incompatibile con loro. E il risultato era
sempre
dolore.
<<
Dà - … >> Stava per chiederglielo.
La sua mente era annebbiata, lo sentiva benissimo.
No.
Non lo avrebbe
fatto.
Qualsiasi cosa
succeda, non avrebbe accettato la pietà di
Axel. Si sarebbe rialzato da solo.
<<
Che cosa, bambolo? Non ce la fai più? >>
Frustrazione. Crepa, Axel.
E
’stata colpa di quegli idioti dei suoi genitori. No
– delle
persone che lo hanno fatto
nascere. Ariel ed Eric non
sarebbero stati mai i suoi veri genitori.
Era nato
così, Myde lo sapeva. Mezzosangue. Tritonide ed
umano al tempo stesso. Dio, ci aveva provato. Lui, da solo, sarebbe
stato in
grado di controllare e centuplicare la potenza del Tridente. Avrebbe
potuto
regnare su terra e mare insieme, ed era più potente di
quanto lo stesso Tritone
non avrebbe mai potuto sognare. Lo era stato, e lo era diventato ancora
di più.
Ci aveva provato, ma era difficile farsi accettare come sé
stesso – vale a dire
come un ibrido – se ti
trovi in una
società rigida, classista e purista, che spesso e volentieri
organizza
sposalizi fra cugini per mantenere puro il sangue. Ovviamente
è ancora più
difficile se sei rinchiuso per metà del giorno in un campo
di contenzione, come
una bestia pericolosa, e con delle limitazioni magiche programmate per
forze
molto inferiori – cosa che, lui lo sa, può
provocarti un male cane.
Sfortunatamente,
questa banale associazione di idee non è mai
stata del tutto chiara a sua madre, che comunque avrà visto
si è no una
manciata di volte in tutto l’arco della sua vita.
Logicamente, non poteva
importargli che un potere così avrebbe potuto ucciderlo. A chi mai sarebbe importato?
<<
Vattene, Axel. >> Myde tentò di rialzarsi. Il
dolore andava poco a poco scemando, ma lui era ancora troppo debole.
<<
Vattene! >>
Rialzò
lo sguardo. Pian piano sentiva il dolore scemare, ma
la debolezza lo invadeva ancora. Si accorse di avere la mascella
serrata per la
rabbia, rabbia che lo travolgeva.
In
più, Axel doveva essersene già andato da un pezzo.
Come la
stanchezza ed il dolore, anche il fumo si stava
diradando. Appoggiato ad uno dei tronchi, mentre i rumori degli altri
membri
che ingaggiavano battaglia sul mondo da conquistare arrivavano
attutiti, Myde
si rimise in piedi. Compì tutto il tragitto inverso,
superando di nuovo i
crateri, le pozze d’acqua, la spiaggia distrutta e la
battigia. Proseguì,
immergendo i piedi nel mare, poi il torso. La veste dei neofiti era
pesante e
bagnata.
Myde
tuffò la testa sott’acqua e subito dopo prese un
gran
respiro. I fondali marini si spalancavano vividamente davanti a lui.
Soffocò la
rabbia. Come ogni altra cosa, ogni altra dannata battaglia, sarebbe
passata. Si
strinse il petto con amarezza, più forte, sempre
più forte. Come se potesse
togliersi il cuore e gettarlo in acqua.
*
Aveva chiuso gli
occhi. Come sempre, da quando era bambino,
tentava istintivamente di resistere al sonno, di opporsi alla disperata
pesantezza delle palpebre. Alla fine però si era rassegnato;
come per magia,
aveva cominciato a respirare nel tipico modo dei dormienti, e la sua
mente fu
avvolta nell’incoscienza dopo un ultimo pensiero.
Forse
stavolta non
verrà.
Ovviamente,
venne.
*
Come ogni volta,
era inconsapevole che si trattasse di un
sogno. Sentiva la vaga sensazione di immaterialità, di
indefinito propria dei
sogni, aleggiare attorno a lui, ma la sua mente semicosciente si
rifiutava di
fare il collegamento.
Come in molti
dei sogni, era piccolo. Quella volta stava
seduto a gambe incrociate sull’ampio letto a baldacchino
degli appartamenti
reali, le gambette che affondavano nel morbido materasso. Indossava un
piccolo
farsetto verde brillante, riadattato appositamente per le sue forme di
bambino
florido; dal colletto, che quasi gli sfiorava le guance paffute, un
gigantesco
foulard dorato erompeva come un fiume in piena che avesse rotto gli
argini. Il
ragazzino era fastidiosamente consapevole dei bottoni pericolosamente
tesi a
tenere insieme il voluminoso panciotto che portava al di sopra del
farsetto.
Si stava
annoiando. Myde sbuffò e si afferrò le ginocchia
con
le mani, dondolandosi simile ad una palla per qualche minuto. Intanto,
la porta
verde continuava a rimanere chiusa: nessuno che la aprisse o che
entrasse anche
solo a dare un’occhiata. Lena, magari, ma non Greta, no ( vecchia arpia pelosa ), Lena era giovane
e simpatica e gentile, con
un sorriso che illuminava Myde da cima a fondo. Greta invece era
adunca, magra
come uno stecco, e spesso lo guardava con manifesto disprezzo. La sera
prima
Myde gli aveva rovesciato addosso la zuppa, dopo che lei aveva
ridacchiato ed
aveva detto non ricordava più cosa fra sé e
sé.
Lei lo aveva fulminato con uno sguardo che avrebbe fatto
intimidire suo
nonno e aveva borbottato qualcosa sui ragazzini viziati e ibridi, qualsiasi cosa volesse dire. Per
un po’ il bambino aveva
temuto che lei lo andasse a raccontare a qualcuno, poi si era ricordato
di
essere un nobiluomo. Come si diceva nel suo caso, nobilbimbo?
Aggrottò le
sopracciglia perplesso e i suoi occhietti verde mare sembrarono
affondare nelle
guance. Non lo sapeva.
Dopo un
po’ di tempo Myde avrebbe visto volentieri anche
Greta, se non altro per rovesciargli addosso altra zuppa (
Andava tutta giù per i capelli!). La camera era
silenziosa, come
se fosse stata in un altro mondo. Sopra il tripudio di pizzi e coperte
del
letto a baldacchino, gli arazzi verdi intarsiati d’oro, con
il Tridente e le
Sirene Gemelle simbolo della Monarchia del mare, frusciavano agitati da
una
lieve brezza. Una grande finestra di corallo trasparente, che occupava
quasi
tutta una parete, mostrava l’oceano.
Myde ci
andò davanti e vi appiccicò il viso grassoccio,
ammirato come sempre. Davanti a lui, centinaia di pesci, granchi, carpe
di ogni
forma e colore formavano un enorme serpente colorato, prima rosso poi
blu poi (
E’ bellissimo! Wow! )
giallo poi
verde …
Piccole
macchioline stavano ballando negli occhi di Myde. Il
ragazzino distolse lo sguardo, leggermente stordito. Quello era solo il
traffico minore, quello dei piani più bassi delle altissime
torri affusolate.
Guardando sotto il davanzale Myde vedeva, attraverso la finestra ed il
blu
scuro del mare, le pietre lucide della base della costruzione affondare
con
decisione nella sabbia molle, già assediata dalle alghe. In
alto, invece, la
luce cominciava a filtrare maggiormente.
Lunghi ponti di cristallo, alti ed affusolati, si inarcavano
innumerevoli
attraverso le torri sottili, intersecandosi in tutti modi possibili (
Bellissimo!!!! ) ed immaginabili attraverso quella perfetta
città, in
quelle architetture ardite edificate contro le leggi della fisica e dei
Mondi
dai Nuovi Tritonidi.
Questa
è Atlantica.
Bellezza. Purezza. E torri.
Non sembrava un
pensiero suo e Myde si chiese da dove fosse
uscito, ma era vero. Le torri, oh, le torri! Prive di merli, lisce,
affusolate,
così sottili che di profilo sarebbero potute scomparire,
cilindri con aree
quasi inesistenti, protese come dita di una bellissima creatura verso
la
superficie! Le torri così pure, così belle,
spaventosamente prive di
imperfezioni, monumento al potere del Popolo del mare!
In
realtà, tutti questi pensieri avrebbero potuto essere
riassunti, nella testolina di Myde, come un puro e semplice Wow! . Ma il significato era lo stesso.
Myde amava – no, adorava
– Atlantica,
la più bella città del mondo, il fulcro della
potenza degli abitatori del mare.
Nessuna città sulla terraferma, Myde ne era convinto, la
eguagliava.
Ovviamente,
erano ancora i primissimi tempi.
Qualcuno
bussò alla porta.
**
Si
rizzò a sedere sul letto, la camicia appiccicata al petto,
la bocca spalancata. Piccoli rivoli di sudore gli colavano dalla
fronte,
brividi di freddo lo scuotevano. Myde afferrò
l’orlo delle lenzuola scomposte,
tremando come una foglia.
Calma,
adesso. Calma.
Scostò
i capelli biondi dal viso, respirando a più riprese.
Aveva ricominciato coi sogni, e questo non era affatto un bene.
Scostò
i capelli biondi dal viso, respirando a più riprese.
Aveva ricominciato coi sogni, e questo non era affatto un bene. A
tentoni cercò
il lucciglobo vicino alla sponda del letto, lo trovò e vi
poggiò sopra una
mano. Dopo qualche secondo, la piccola sfera cominciò ad
emettere una lieve
luce soffusa, che a poco a poco rischiarò la stanza. Il
giovane si liberò delle
lenzuolo con un gesto infastidito, scuotendo la testa per abituarsi
alla luce.
Il lucciglobo era quasi giunto alla fine del suo ciclo vitale, si rese
conto
Myde guardando la sfera le cui onde luminose si facevano più
flebili di minuto
in minuto. Le pulsazioni vitali che l’oggetto emetteva
rischiaravano una stanza
in penombra, che aveva come unica mobilia il letto ed un tavolino con
qualche
sedia. Magliette e pantaloni erano sparsi spiegazzati o appallottolati
nel poco
spazio rimanente, formando una pila di vestiti pericolosamente in
bilico.
Avrebbe dovuto decidersi a mettere tutto a posto ( dove,
poi? ) ma non sarebbe poi cambiato molto. I vestiti sporchi
si sarebbero accumulati nuovamente prima o poi, no? Sbadigliando
ancora, Myde
aprì gli scuri malandati e lasciò che la luce del
giorno filtrasse attraverso
la camera.
Come
sempre un’onda di
suoni, odori e voci si riversò dalla finestra assieme alla
luce; una profusione
mescolata di profumo di torte di mele, richiami, suoni fruscii
incredibilmente
rimbombanti, sprazzi di luce che non provenivano dal sole o dai
lucciglobi
scassati ai lati delle strade. Nel suo solito modo chiassoso e
rimbombante, la
Città di Mezzo salutava gioiosamente il risveglio di Myde.
Il sole investiva la
piazza al di sotto dell’albergo scacciando le poche nubi in
cielo, posando i
suoi raggi sulla moltitudine di persone di ogni razza, etnia e colore
che
brulicava per le vie. Bancarelle sgangherate proliferavano come funghi
in ogni
spazio disponibile, a ridosso delle costruzioni, l’una
addossata all’altra,
persino in prossimità dei canali di scolo; sostenute con
assi di legno, casse,
o persino con la merce particolarmente resistente. Da un piccolo gazebo
fiori
di ogni sorta si avviluppavano indolenti sulla tenda e sui negozi degli
altri
commercianti, sfiorando le gabbiette appese a travi di legno in cui
esserini
simili a canarini e topi cinguettavano e squittivano, o trespoli dove
grandi
uccelli dai becchi adunche e le piume blu rosate scrutavano i passanti
con sguardo
arcigno. Decine di Moguri strillavano petulanti sopra le loro mercanzie
ammassate in ogni pertugio disponibile, piccoli batuffoli rosati che
parevano
in preda ad un ictus per quanto si agitavano. Una insettoide dal corpo
sottile
e le ali trasparenti si fece largo fra le bancarelle di legno scostando
bruscamente un uomo malmesso, che le imprecò dietro. La sua
voce si perse nella
cacofonia della piazza, il suono delle campane della torre, gli strilli
isterici dei Moguri. A Myde venne in mente il sogno che aveva fatto; se
Atlantica era il trionfo della bellezza razionale e cristallina, la
Città di
Mezzo era dominata dai vicoli, i mercati, il disordine che celava
segreti.
Inizialmente, la
futura città era composta da non più di
quattro case in croce, e neanche si sarebbe potuta chiamare villaggio
di
frontiera. Per quasi cinquant’anni della sua fondazione era
vissuta nel suo
polveroso isolamento, rinchiusa dalle barriere dei Mondi. Quei pochi
che la abitavano
erano ignoranti, rozzi, senza alcuna capacità degna di nota.
Il villaggio aveva
continuato ad esistere senza fare rumore, e non ne aveva in effetti
fatto.
Poi era arrivata
la rottura delle barriere. Di colpo le Vie
delle Stelle si erano riaperte, tracciando nuove rotte di collegamento
fra i
Mondi; le navi a reattore avevano pian piano tracciato una mappa dei
collegamenti fra gli Universi, e come risultato quelle quattro casupole
si
erano venute a trovare in un crocevia di collegamenti galattici.
Cosa
può succedere ad un villaggio che d’improvviso si
trova
in uno dei punti più importanti delle intere galassie?
Potrebbe venire
soppiantato rapidamente dalla miscela di usi, etnie e culture diverse
che
inevitabilmente convergeranno lì nei loro viaggi nel cosmo,
alla ricerca di
commerci e ricchezze. Oppure, come era successo a quel particolare
insediamento, avrebbe potuto trarre vantaggio dalla situazione.
Assorbire le
caratteristiche di un grande e brutto fungo creato mescolando senza
ritegno i
costumi più diversi in un calderone in procinto di esplodere
da un momento
all’altro. Così adesso la Città di
Mezzo era diventata potente, e ricca; una
disordinata metropoli variopinta di ogni colore ed abitata da ogni
razza. La
sua apertura quasi totale ai nuovi venuti che potessero permettersi
anche solo
un soldo di rame aveva fatto sì che centinaia –
migliaia – di persone di ogni
razza e colore si riversassero là, edificando capanne e case
di mattoni con i
materiali che trovavano, pronte in tutto e per tutto a ricominciare una
nuova
vita. Nella città si nascondevano reietti, ribelli,
agitatori sociali e
qualsiasi ogni altra classe scomoda nelle strutture politiche dei loro
mondi.
Si nascondevano negli alberghetti sgangherati, per le strade ed i
vicoli
illuminati fiocamente da lucciglobi, dormivano nelle casse o sulle
stesse
bancarelle che riuscivano a mettere su. In pochi anni la
Città di Mezzo aveva
decuplicato le sue dimensioni, e cresceva. Cresceva ancora, inglobando
villaggi
vicini, occupando terre. E ancora non si era fermata.
Con un sospiro,
Myde aprì la porta della pensione stretta fra
due grossi edifici di malta e mattoni immergendosi nella folla a
spintoni.
Spesso, nella Città di Mezzo, era l’unico modo per
crearsi una via da
percorrere nella calca. Un essere simile ad un rettile lo
fissò sospettosamente
torcendosi le dita artigliate ed unte, quindi tornò alla sua
bancarella con un
passo goffo ed ingobbito. Il giovane scostò uno degli
invadenti germogli rosa
che stringevano l’assedio attorno all’esercizio del
loro coltivatore e si
diresse a passo veloce verso uno dei vicoli che si irradiavano dalla
piazza
principale come vene sottili. Una vera e propria cascata di lucciglobi
legati
fra loro e in quantità tale da coprire quasi tutto lo spazio
aereo fra i due
marciapiedi della stradina ronzavano intermittenti, a tratti
spegnendosi come
quello della sua camera. Verso la fine del vicoletto alcuni palazzi
fatiscenti
proiettavano ombre sinistre sul selciato sterrato. Myde
imboccò con sicurezza
una svolta dietro l’altra, fino a compiere un largo giro.
Molte delle botteghe
erano ancora aperte anche quella sera, ma alcune avevano già
chiuso i battenti.
Un’insegna monca penzolava tristemente da una porta di legno
scheggiata.
Si rese conto,
d’improvviso, di essere solo nella via. Il
buio stava già iniziando a calare, a strisciare lungo i
sentieri sterrati o
ricoperti di selciato che fossero. Perché era rimasto chiuso
in casa? E perché
aveva dormito così tanto?
Interrogativi a
cui Myde non avrebbe saputo dare una
risposta. Continuò a camminare, accelerando il passo. La
bottega Struggle non
si trovava da nessuna parte. Iniziò ad innervosirsi.
Fortunatamente
per lui conosceva abbastanza bene quella parte
della città. Presto le squallide bottegucce lasciarono il
posto ai lucciglobi
ben funzionanti della piazza del mercato, ancora ammassata su
sé stessa come un
enorme animale. Il negoziante rettile stava cercando di convincere
l’essere
farfalla di poco prima ed un batuffolo di pelo con grandi orecchie
rosate a
comprare una sorta di germoglio avvizzito dal quale si sprigionavano
esalazioni
verdastre. Alcuni Moguri si stavano apprestando a disfare la merce
ancora
invenduta, stipando cristalli e fialette apparentemente fragili in
sacchi di
juta più grossi di loro. Vicino le fondamenta della grande
torre campanaria di
pietra, un orologiaio umano dai capelli paglierini e lo sguardo
intristito
stava rimettendo, con cura, i suoi strumenti in piccole fodere
malmesse. Myde
si avvicinò distrattamente. La pensione era proprio
là vicino. Alzò una mano
per salutare l’uomo e
Un
ronzio.
Era un suono
appena percettibile, eppure gli esplose in testa
con la violenza di un allarme antincendio. Frenetico, si
guardò intorno. La
donna farfalla emise un gridolino civettuolo e si avviò a
grandi passi verso un
viottolo laterale, mentre il rettile batteva le zampe squamate sul
legno della
sua bancarella e le vomitava addosso insulti.
Ed eccolo di
nuovo, quel ronzio, appena più persistente di
prima. Si modulò attraverso i tetti, i comignoli, le strade.
Myde, piano piano
…
Lo
identificò. Lo fece nello stesso momento in cui la donna
farfalla si irrigidiva ed emetteva un gridolino strozzato, nello stesso
istante
in cui il rettile, spalancando gli occhietti neri per la sorpresa,
lasciava
cadere la sua pianta e freneticamente si lanciava oltre il bancone,
sibilando.
Varchi oscuri
aperti nella città.
***
I bicchieri
tintinnarono sonoramente, accompagnati da una
risata nasale e sguaiata.
Paperino si
abbandonò scompostamente sull’ampio divano
laccato, affondato letteralmente fra i cuscini e le decorazioni
eccessive dei
vestiti donatigli. Gli abiti sontuosi ed eleganti costituivano un
bizzarro
contrappunto alla corporatura tozza e tondeggiante del piccolo
palmipede, ma
era evidente che lui non se ne preoccupava troppo, inebriato
com’era
dall’improvvisa fusione delle sue penne e piume con il lusso
di cui i signori
del palazzo gli avevano fatto dono. Sembrava leggermente avvinazzato.
Pippo
brindò con una certa perplessità. A differenza
del suo
compagno, l’allampanato Capitano dei Cavalieri aveva scelto
per la serata la
sua solita uniforme verde ricolma di tasche, stirata e pulita quanto
bastava.
Il suo lungo muso pieghettato si agitò esprimendo buffamente
il suo disagio.
Non doveva essere del semplice succo di fragole quello che stavano
bevendo? Per
sicurezza, non toccò il bicchiere. Paperino lo
scrutò perplesso per un attimo
da dietro il piumaggio arruffato, alzandosi per osservare il volto di
Pippo che
lo superava di quasi tutto il busto. Con una scrollata di spalle
mandò giù
l’intero contenuto del bicchiere, il pomo d’Adamo
che si alzava e si abbassava.
<<
Paperino … >> tentò Pippo con poca
convinzione. L’ex- Mago di Corte appoggiò il
bicchiere sul tavolino della Sala
degli Ospiti e sorrise. << Goditi la vita una volta
tanto! Quando ci
ricapiterà un’occasione del genere? Una mano si
agitò eloquentemente nell’aria
sbucando dalle maniche larghe a sbuffo. Vedendo che il compagno non
smetteva di
fissarlo serio, aggrottò la fronte.
<<
E’ solo per due giorni, no? Due giorni e poi ce ne
ritorniamo alle battaglie ed ai combattimenti. Tu con il tuo scudo, io
con il
mio scettro. E Sora con il suo Keyblade. Atlantica è un
mondo isolato dal resto
delle connessioni spaziotemporali, no? Di cosa ti preoccupi! Un qualche
Heartless
di frontiera ed avrà risolto tutto. >>
Pippo
annuì, di nuovo. Non l’avrebbe ammesso neppure con
sé
stesso, ma era preoccupato. Erano arrivati al punto di abbandonare Sora
per due
bicchieri dal dubbio contenuto? Preoccupato, e in colpa.
La promessa che
li legava a doppio vincolo al Custode, però
non c’era più. Era svanita assieme con Re
Topolino, l’ultimo sovrano del Trono
Bianco, Sua Maestà. Vincolati dal giuramento, i due
più fedeli servitori della
Monarchia Augusta avevano combattuto Heartless e Nessuno, salvato la
vita a
Sora innumerevoli volte … almeno quanto lui
l’aveva salvata a loro. Ricordò
Larxene che troneggiava su Sora, un sorriso crudele sul volto perfetto,
i
pugnali che le danzavano fra le dita affusolate. Si era lanciato
all’attacco, lo
scudo alzato, contro la malvagia figlia del fulmine pur di salvare il
Custode,
mentre la luce verde dell’incantesimo curante di Paperino
lampeggiava su di lui
steso a terra.
Marluxia.
Ricordò la sua falce arcuata sibilare verso Sora e
la Copia di Riku, ed il suo scudo segnato dalle tacche che la
intercettava con
le forze rimaste.
Poi si era anche
preso quella brutta botta in testa, alla
battaglia per la Fortezza Oscura che in seguito sarebbe stata chiamata
col nome
di Giardino Radioso, l’antico paradiso decaduto che Ansem il
Saggio aveva
costruito e che era stato distrutto e profanato dai suoi sei allievi
traditori
che avevano poi fondato l’Organizzazione XIII. Pippo aveva
affrontato quello e
molto di più.
La
verità era che si sentiva stanco. L’età
per certe cose non
l’aveva quasi più, e la mancanza della promessa
svanita assieme al Castello
Reale rendeva la tentazione di riposarsi ogni giorno più
forte. Quando l’occasione
si era presentata, Paperino non aveva esitato, e lui lo aveva seguito.
C’era
solo un piccolissimo difetto.
Sora aveva due
giorni di ritardo.
<<
Non è nulla >> aveva minimizzato Paperino
all’inizio.
Sora era sopravvissuto a centinaia di combattimenti, uno o due giorni
non
facevano la differenza. Ora che, all’imbrunire, non si era
ancora ripresentato,
Pippo cominciava a nutrire seri dubbi sulla sua incolumità.
<<
Oh, e va bene! >> Esplose Paperino,
innervosito. Sbatté il bicchiere sul tavolino corrugando la
fronte e balzò a
terra sulle zampe palmate arancioni. << Vuoi cercare quel
marmocchio?
>>
Il Capitano
annuì serio.
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Capitolo 3 *** Dalla Cina con furore! ***
KH2
Cavalcarono
furiosamente per tutto il giorno, dall’alba al tramonto, come
falchi che si tuffino sulla loro preda incuranti della lontananza.
Solo che, forse, i falchi non avevano piaghe sul sedere.
Due creature galoppavano sulla strada sterrata tra sobbalzi e scossoni,
schiumanti per lo sforzo e il caldo appena attenuato dal calare della
sera. Quello a destra sembrava – e in effetti era – un
cavallo sauro dal pelame scuro lanciato in corsa; a sinistra, invece,
saltava e zampettava un grosso essere simile ad uno struzzo ma
ricoperto di piume dal lungo becco ricurvo alle zampe unghiute da
uccello. Sulla groppa di quest’ultimo era seduto un altro
volatile, dalle fattezze antropomorfe che ricordavano quelle di
un’oca. Tuttavia, così come i falchi non soffrono di
emorroidi, le oche probabilmente non imprecano a tutto spiano.
Paperino finì di tirar giù dalle dimore celesti
l’altra metà del pantheon proprio quando Pippo aveva
deciso di essere sul punto di ammazzarlo con un colpo di scudo. Almeno
il mago pennuto era appoggiato su di un soffice cuscino di piume viola
bluastre e le ali da pollo del Chocobo lo proteggevano ai fianchi come
in un’alcova; il Capitano doveva accontentarsi di una sella di
cuoio consunta per il cavallo. << Ahyuck. Non è
preoccupante che nella capitale di un impero non dispongano di navi
funzionanti? >> Commentò tanto per dire qualcosa.
Paperino rispose con un grugnito intellegibile. Pippo ripeté a
beneficio del compagno, il quale si mostrò un po’
più reattivo rivolgendogli un gesto volgare col braccio.
<< Sei di buonumore, vedo. >> A quasi mille chilometri dal
posto di guardia più vicino, senza un letto e con gallette
indurite come unico cibo, anche il Capitano cominciava ad avere dubbi
sulla sensatezza della loro fuga dal Palazzo dei draghi. Aveva
svegliato l’amico in piena notte, lo aveva fatto vestire e
sellare uno degli animali nei box delle scuderie. Paperino non aveva
protestato, ancora stordito dall’alcool e dal sonno; la sera
prima era parso convinto delle ragioni del Capitano, ma Pippo sapeva
che anche soltanto dieci minuti di ritardo avrebbero significato altri
protocolli, ore e ore di cerimonie d’addio e parate militari
indette dal vecchio imperatore. Così avevano cavalcato e
cavalcavano, diretti verso l’unico punto d’approdo del
pianeta.
L’alba del giorno successivo apparve grigia e smorta sulle
colline. La sagoma nera della torre di guardia era un punto lontano
incassato fra due pareti di roccia scistosa.
Il Capitano non aveva dormito quasi per nulla nelle ore che lo
separavano dal suo turno di guardia al bivacco. Sentiva le palpebre
pesanti e più di una volta si era sorpreso a scivolare nel
sonno, col pericolo di un ruzzolone ben più concreto dalla
groppa del cavallo. Paperino era più in forma, complice il fatto
che aveva dormito per buona parte del suo turno. Eppure… Pippo
corrugò la fronte. Un tempo non molto lontano avrebbe potuto
reggere quei ritmi per tre giorni consecutivi; adesso …
Adesso non è qualche anno fa. La semplice verità
contenuta in quel pensiero lo intristì. Pochi anni, così
tante cose cambiate …
Qualche – anno – fa.
Qualche anno fa il Re era morto. A scoprirlo, che sembrava addormentato
sul trono, era stata una delle domestiche. Avrebbe dovuto essere Pippo;
ma il Capitano non era nella Sala della Prima pietra. Quella mattina
Jeromhe, una recluta fra le più giovani dei Cavalieri, si era
presentato chiedendo il parere di Pippo riguardo a un crollo
nell’Ala Est. Crollo…. In realtà si trattava
semplicemente di un cedimento nel colonnato a causa di una rastrematura
male eseguita, e la squadra di carpentieri e architetti di stanza al
Castello era subito accorsa armata di cazzuole e scalpelli. Forse la
colonna era stata danneggiata durante l’incursione degli
Heartless di sei anni prima, oppure era stata l’imperizia degli
architetti. La cosa in sé non costituiva comunque una fonte di
pericolo, ma col passare del tempo la stabilità del pilone
avrebbe potuto risentirne. Jeromhe, ricordava Pippo con un misto di
orgoglio e amarezza, sarebbe stato al centro dell’attenzione fra
i suoi compagni se la morte del Re non avesse spazzato via tutto come
un castello di carte …
Sentì di nuovo le palpebre chiudersi. Poco avanti a lui Paperino
era una sagoma indistinta e persino la creatura artigliata
ballonzolante al suo fianco aveva i contorni
( sfocati )
Creatura artigliata!
Il terreno esplose con un boato che assordò Pippo e il mondo. Il
baio s’impennò nitrendo e scalciando e il Capitano fu
scaraventato giù dalla sella assieme a staffe e briglie e
finimenti in un intrico di cuoio, polvere e sassi. Pap …
Gridò o almeno credette di gridare mentre nuvole di terra gli
vorticavano attorno, penetrandogli negli occhi e nel naso. Vide
confusamente ombre zannute, cornute, dagli occhi gialli. Lo scudo
giaceva abbandonato a terra, appena fuori dalla sua portata. Il primo
Heartless si protese verso di lui e Pippo chiuse gli occhi,
preparandosi a sentire le zanne nella pelle della gola.
Ciò che senti fu i peli delle braccia che si rizzavano.
La testa dell’Heartless scoppiò e fu letteralmente
sradicata dal resto del corpo, che scattò all’indietro
affondando nella luce del fulmine. Scomparve in brandelli di nembi neri.
<< Indietro! >>
Paperino era piazzato a zampe larghe al centro del sentiero devastato,
ginocchia piegate e braccia tese coi palmi rivolti al cielo. Sembrava
un’apparizione sputata fuori dall’inferno dei paperi, se ne
esisteva uno. L’Heartless più vicino, un omuncolo
disossato e molle come muco scuro, tentò senza troppa
convinzione una finta e artigliò l’aria. Paperino
arretrò saltellando e strillando fiumi di insulti mentre
l’ombra avanzava di un passo prima che una tagliola invisibile lo
inchiodasse a terra con uno scatto. Dai cespugli intricati ai lati
della strada balzarono fuori altri due mozziconi di candela ad artigli
snudati, costringendo il mago a compiere una giravolta su se stesso,
destra, sinistra, danzando goffo per riparare il fianco scoperto dagli
attacchi. Puntò l’indice contro uno degli assalitori e
rilasciò una stilettata di energia pura che lo scagliò
inerte a qualche metro di distanza. L’Heartless rimanente
gnaulò di rabbia e s’avventò; ma il mago
reagì troppo tardi. Si voltò tentando di parlare, il
becco si mosse su e giù: un lampo nero e un pezzo della giubba
azzurra di Paperino volteggiò nell’aria, con
l’artiglio del mostro che mancava di un pelo la carne. Paperino
crollò in ginocchio, l’Heartless sembrò farsi
più grande e tentacoli violacei e guizzanti gli spuntarono dalla
schiena curva. Non avrebbe avuto una seconda possibilità.
Pippo dispiegò il braccio destro in un movimento fluido,
rilasciando lo scudo tondo che fischiò nell’aria e nella
polvere come un disco olimpionico e centrò l’ombra fra
collo e clavicole – o meglio, nel punto in cui sarebbero state le
clavicole di un essere umano o almeno un tantino antropomorfo –
ma la mossa fu efficace lo stesso. La testa dell’Heartless
schizzò via dal resto del corpo e lo scudo roteante passò
in volo un centimetro sopra la testa del papero in ginocchio, brillando
contro il sole di mezzogiorno.
<< Paperino … Andiamo! Andiamo… >>
Ora il mago si era rialzato, sostenendosi con la destra stretta
all’impugnatura dello scettro di legno-ferro. Dietro di lui, lo
scudo compì un semicerchio nell’aria come un uccello in
vena di esibizioni e ridiscese a tutta birra verso il Capitano, le cui
mani guantate di bianco si serrarono sul bordo zigrinato. Più
avanti i due Heartless sopravvissuti stavano fuggendo, uno saltando su
lunghi trampoli, l’altro strisciando come un razzo fra i sassi.
Pippo si guardò intorno, frenetico
( oh, grazie )
E vide cavallo e Chocobo che nitrivano e starnazzavano poco più in là, privi di sella e bruciacchiati ma vivi.
Poi un viluppo di tenebre sorse da terra contraendosi e ribollendo come
un calderone, sputando fuori altre forme nere e ringhianti; sembrava le
espellesse da se stessa. Il Capitano ed il Mago di corte si scambiarono
un’occhiata rassegnata e carica di significato.
L’istante dopo filavano tutti e due verso le rispettive montature.
Pippo saltò sopra un Heartless semiliquido, ne dribblò un
altro fintando a sinistra e in quattro rapide falcate ondeggianti fu
davanti al baio. Una decina di guizzi e un manipolo di Heartless
circondò Paperino, che con le sue tozze zampette da palmipede
era riuscito a coprire solo la metà della distanza. Il mago
urlicchiò e rilasciò dallo scettro tenuto in orizzontale
uno strale di bianco accecante che si disintegrò in migliaia di
piccole fiammate azzurrine, avvolgendo e consumando le ombre che gli
sbarravano la strada.
Con uno strappo liquido, l’Heartless candela era riuscito a
liberarsi dalla tagliola d’Aria: ringhiava e sbavava,
trascinandosi dietro il moncone di gamba che terminava in un ammasso
informe di brandelli neri fluttuanti. Paperino balzò davanti al
Chocobo, ma il grido del Capitano fu superfluo; il papero
afferrò lo scettro con entrambe le mani e l’Heartless
aprì la cavità che aveva per bocca in un ghigno storto,
di trionfo.
Paperino calò il bastone sul cranio bulboso della creatura e
glielo divise in due, sollevando spruzzi violacei e corrosivi che
piovvero come una fontana attorno ai combattenti. Il mago si
disimpegnò mentre ancora l’Heartless stava svanendo e
agguantò un fianco del Chocobo ignorando i suoi strilli
indignati nel cacciargli i talloni nella carne.
<< Iiiiiiiiiiiiii-yaahh! >>
Pippo era chinato sulla groppa del cavallo e galoppava a pelo,
tenendosi basso per schivare piccoli globi neri che gli schizzavano
tutto attorno. Aveva perduto il cappello giallo e l’uniforme era
attraversata da vistosi squarci. Paperino si azzardò a girarsi;
le due cavalcature stavano distanziando gli Heartless, ma quelli non
mollavano. Chocobo e cavallo piombarono in mezzo alle sterpaglie dei
cambi incolti; un nitrito trafisse l’aria mentre il baio
scivolava affondando gli zoccoli nel terreno umido in una corona di
schizzi fangosi. Trascinata dal peso di Pippo la bestia ricadde di
fianco fino a sfiorare l’erba coi quarti posteriori, poi
incredibilmente riuscì a trovare la forza di scattare in avanti,
attingendo a chissà quale ultima risorsa. Galoppò
in maniera scoordinata dietro al Chocobo in corsa con dietro cinque
pantere dai tratti appena abbozzati che lo puntavano, schiumante di
saliva e sudore, gemendo quando uno degli animali ombra lo colpì
di striscio lasciandogli una striatura rossa sul fianco destro.
Anche Paperino sentiva che non sarebbe durata a lungo. Il Chocobo
cominciava a dare segni di sfinimento, ma gli Heartless non sentivano
fatica e …
L’urlo fu tanto improvviso quanto lacerante. Le pantere ombra si
fermarono di botto, inciamparono, si azzannarono tra di loro. Ma cosa
…
In mezzo alle macerie della strada maestra, su di una collina poco
lontana dal luogo dell’agguato, brulicanti forme nere ricoprivano
qualcosa
( Qualcuno! Qual )
Qualcosa che gridava e si dibatteva, indistinguibile da quella
distanza. Eppure Paperino aveva già vissuto questa situazione.
Era stato tempo prima, ma lo ricordava bene, oh…
Vide tutta la scena con gli occhi della mente. Lo stregone che urlava
di rabbia, gli Heartless che gli si ammassavano attorno. I suoi
comandi. Il suo terrore. Il dolore.
Le pantere ombra parevano aver perso ogni interesse per le loro prede.
Gironzolavano svagate in mezzo all’erba incolta, ogni tanto
barcollavano come stordite.
Pippo cercò di dire qualcosa, ma richiuse la bocca. Paperino respirò, un respiro lungo, sibilante.
<< Avanti! >> Pippo lo guardò come se fosse
impazzito. Il mago assunse un’aria esasperata. Come si poteva
essere così … così …
<< Avanti! Pensi che rimarranno così in eterno! Dobbiamo andarcene di qui! Avanti, pezzo d’idiota! >>
Questo sembrò sortire qualche effetto. Il Capitano socchiuse un
occhio pesto e finalmente annuì. La sua espressione era un punto
interrogativo vivente … e nonostante la situazione, Paperino
sentì il bisogno assurdo e incontenibile di ridere.
<< Per gli dei, grosso scemo >> Ansimò << Togliamoci da questo posto! >>
E lo fecero.
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