Be my fairy tale di Kiki87 (/viewuser.php?uid=289)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Premessa per la lettura: tra gli
avvertimenti ho selezionato OOC, riferendomi alla
caratterizzazione dei
personaggi: non conoscendo nulla del passato di Hunter e
avendolo visto
così poco in azione, non si pone molto
il problema; discorso diverso per
Brittany la cui personalità nelle
stagioni ha accentuato aspetti molto
diversi (e a mio modesto parere spesso contraddittori). In alcuni aneddoti vi
ricorderà la ragazza di Glee,
probabilmente, ma avrà un background completamente diverso e
da lì la decisione
di catalogarla come OOC.
Ringrazio di cuore la
meravigliosa @therentgirl che mi ha
dato un pretesto
felicissimo per modificare questa introduzione, per la meravigliosa
copertina
che ha realizzato, ispirata a questa fanfiction. Se già
è un’emozione vedere
questo accostamento con la scelta di due fotografie perfette (nel caso
di
Brittany a coglierne l’essenza più innocente e
infantile, nel caso di
Hunter/Nolan usando una delle mie immagini preferite), il tutto diventa
persino
più meraviglioso scorgendo la location ideale e
una frase che è perfetto sunto
di questa mia “favola”.
Sono ancora commossa e non smetterò
facilmente di contemplare questa immagine *-*
A
chi crede nelle favole
e
attende il suo “e vissero per sempre felici e
contenti”.
A
chi
non si crede una Principessa,
perché
scorga meglio il proprio riflesso.
A
chi ancora cerca il suo Principe Azzurro,
perché
talvolta è mascherato ma l'incanto
può
sempre sprigionarsi.
“Le favole
sono molto
più di semplici racconti della buonanotte,”
continuò l'insegnante.
“La soluzione a quasi tutti i problemi immaginabili,
può essere dedotta da
una favola. Le favole sono lezioni di vita, camuffate da
personaggi e
situazioni pittoresche”.
(The Land Of Stories:
The Wishing Spell” -
Chris Colfer).[1]
Prologo.
New York.
La sua voce
era una dolce
rassicurazione: era il suono più piacevole che si potesse
ascoltare prima di
lasciarsi avvolgere dal torpore del sonno. Era come se tra loro vi
fosse una
magia: le parole recitate si traducevano in una piacevolissima ninna
nanna
parlata a cui era semplice abbandonarsi.
Chiudeva gli
occhi e ogni singola
volta, a poco a poco, i suoni sfumavano lentamente fino al nulla.
A volte si
trovava nel castello
di Biancaneve, a volte nella casetta dei nani in mezzo al bosco; a
volte nella
libreria preferita di Belle; nella cameretta in mansarda di Cenerentola
o
persino sulla Torre di Raperonzolo. Ognuna di loro era una principessa
e sapeva
che le avrebbero insegnato qualcosa, seppur ancora non fosse abbastanza
grande
da considerarsi una di loro.
Ma un giorno,
le ripeteva la
stessa melodica e soffusa voce, anche lei lo sarebbe stata e,
finalmente,
avrebbe compreso tutto.
“Anche
io ho un Principe?” la
vocina pigolante aveva interrotto la narrazione: il povero e vecchio
padre di
Belle stava vagando tra i boschi in una brutta notte di temporale,
cercando un
rifugio confortevole per la notte.
Suo padre, un
vago sorriso sulle
labbra e il viso inclinato di un lato, aveva socchiuso il libricino e
l'aveva
guardata: gli occhioni azzurri scintillavano alla ricerca di una
risposta, le
labbra schiuse ma l'espressione attenta a coglierne le parole per
comprenderne
completamente il significato.
Aveva sorriso,
William, e
Brittany comprese, apparentemente senza motivo, che quel particolare
sorriso lo
avrebbe ricordato per tutta la vita. Quasi come un dipinto da tenere
sulla
mensola del camino, l'angolo più luminoso della stanza nel
quale rifugiarsi.
“Certo,
ogni principessa ne ha
uno. Deve solo crescere, moooolto lentamente, prima di
incontrarlo” le
aveva spiegato, parlando in un sussurro ed enfatizzando su come
ciò non sarebbe
avvenuto molto presto.
La risposta
parve compiacerla ma
il sonno sembrava completamente dimentico quella sera: al contrario, la
conversazione sembrava aver catturato la sua attenzione, a dispetto
della
curiosità circa la sorte del povero padre di Belle, laddove
la minaccia dei
lupi rendeva la sua permanenza nel bosco ancora più
pericolosa.
“E
come si fa a sapere che lo hai
trovato?” era stata la seconda domanda che aveva fatto
impensierire suo padre.
Si era
appoggiato maggiormente
allo schienale della sua poltroncina e aveva scrutato la bambina, il
viso
inclinato di un lato mentre lo sguardo sembrava perso in un punto
indefinito.
“Non
esiste un solo modo: ognuno
lo capisce quando è il momento giusto.” aveva
esordito e aveva visto le
sopracciglia bionde corrugarsi appena, la fronte incresparsi nel
tentativo di
seguirne il discorso. “Che sia il suo sorriso, o il suo
sguardo o le farfalle
nello stomaco” aveva allungato una mano verso il pancino
della bambina,
facendola ridere per il solletico.
Aveva
sospirato l'uomo e si era
di nuovo fatto serio. “Ma quando sarà il tuo
momento, sarà impossibile non
sentirlo qui dentro”. Le aveva indicato il cuore e la mano
della bambina si era
appoggiata contro quel battito regolare.
Non parve del
tutto convinta. O
almeno, sì, le sue erano belle parole ma c'erano ancora
tante domande che le
ronzavano nella mente.
“E
dov'è adesso il mio principe?”
domandò sospettosa. Aurora non era già destinata
a Filippo, quando era ancora
una neonata e lui aveva appena sette anni? Lei avrebbe compiuto sette
anni la
settimana dopo, dopotutto, o forse sette anni prima avevano
già deciso per lei?
Suo padre
aveva scosso il capo,
il sorriso ancora sulle labbra. “Scommetto che lui sta
già dormendo” l'aveva
ammonita dolcemente, pizzicandole il naso. Aveva di nuovo aperto il
libro ma
l'aveva indotta a stendersi dopo aver posto le mani sulle sue spalle
con una
lieve e delicata pressione. “Sai chi è
più importante del principe in persona?”
le aveva chiesto e Brittany sgranò gli occhi.
“Chi?!”
chiese evidentemente
interessata.
“Il
padre della principessa,
ovviamente” era un sorriso più ironico quello che
curvava le labbra di William
e Brittany rise, complice di quell'esclamazione più
scherzosa.
“Il
re?”.
L'uomo
annuì. “Il tuo re ti
ordina di addormentarti mentre riprende
la lettura”.
La sua voce
parve più distante
rispetto all'inizio del racconto ma era proprio quell'intonazione soave
e
conosciuta che la fece rilassare e socchiuse lentamente gli occhi:
cercò di
immaginare le scene che lui raccontava, fino a quando la stanchezza non
ebbe la
meglio.
Non riusciva
più a sentirne le
parole, stava già fluttuando verso nuvole colorate e
unicorni alati quando le
labbra dell'uomo si posarono sulla sua fronte.
“Cerca
un principe diverso da
me”.
~
New York, dieci anni
dopo.
Scosse il capo, le
labbra serrate
in una smorfia mentre carezzava la copertina del libro. Un libro mai
concluso:
ne conosceva la vicenda per sommi capi ma, anche molto tempo dopo
quella notte,
non aveva mai desiderato aprirne nuovamente le pagine. Si limitava a
sfiorarne
la copertina e, ogni tanto, lo schiudeva per soffermarsi sul
frontespizio e
leggerne la dedica impressa. L'inchiostro della penna stilografica
sembrava
sbiadirsi col tempo ma erano incise nella sua memoria. Ciononostante
continuava
a leggerle, quasi sperando che una volta o l'altra avrebbe compreso il
loro
arcano significato.
Sfiorava
il punto in cui le sue
grandi mani avevano impresso quelle lettere e quasi, socchiudendo gli
occhi,
riusciva a sentirne nuovamente l'eco della voce.
Ancora
una volta, le dita
tremanti, lasciò cadere lo sguardo sulla pagina.
Perché
questo libro ti guidi alla ricerca del tuo
principe. Un principe che questo re avrebbe voluto al tuo fianco.
Perché ti
ricordi che qualunque cosa accada, questo vecchio re non
smetterà mai di amarti
e tutto andrà bene. Te lo prometto.
Non smettere di
leggere le nostre favole.
“Britty
Woman[2],
ancora non hai finito con la valigia?”. La voce di sua madre,
Shirley, la fece
trasalire.
Si volse ad
osservarla, Brittany:
per quanto suo padre si fosse ostinato a chiamarla
“principessa”, non era mai
riuscita ad attribuirsi quel titolo. Non quando vi era un'unica figura
fiabesca
ai suoi occhi ed era proprio la donna che le stava di fronte: aveva
sempre
un'innata eleganza nelle movenze (sicuramente dovute al suo passato di
ballerina) che ben si confaceva a quella dei lineamenti pregiati. Lo
sguardo
azzurro che brillava, spesso per grazia del sorriso più
giocoso e dolce che le
sfiorava le labbra. Il solo averla vicino lasciava scaturire il buon
umore per
quella sua esuberanza e allegria che sapeva conquistare l'attenzione e
l'affetto di chiunque avesse attorno.
A volte
immaginava quanto
difficile dovesse esser stata la sua vita: la gravidanza imprevista
quando era
solo una liceale con il sogno di divenire una ballerina professionista,
le
nozze con un laureando in giurisprudenza e... tutto ciò che
era seguito. Ma
anche nei momenti più difficili, sembrava nascondere il suo
dolore e mostrarle
quel sorriso nel quale avrebbe sempre trovato conforto e fiducia.
Tenne il libro
nascosto dietro la
schiena e lo lasciò cadere nella scatola adagiata sul letto.
Sorrise, il viso
inclinato di un lato e uno sguardo appena più accattivante,
come ogni qual
volta che, da bambina, volesse sfuggire a qualche punizione, in seguito
ad un
guaio che spesso coinvolgeva un vaso di biscotti strategicamente
appostato su
uno scaffale alto della credenza.
“Ho
quasi finito”.
La donna aveva
annuito, lo
sguardo aveva vagato sugli scatoloni nei quali avevano già
impacchettato la
maggior parte dei loro oggetti. Si era mossa in sua direzione e le
aveva
sfiorato la guancia con una carezza.
“So
che sei preoccupata” aveva
sussurrato e Brittany era trasalita seppur avrebbe dovuto sapere che
fosse
impossibile nasconderle la verità. “Ma non devi
preoccuparti, Colorado Springs
ti piacerà: avremo una nuova vita e Neal si
prenderà cura di noi, lo sai,
vero?” era parsa ansiosa di averne una risposta sincera e,
ancora una volta,
Brittany seppe che sua madre sarebbe stata disposta a sacrificare
tutto. Un suo
solo dubbio o timore e non avrebbe esitato a mettere da parte le sue
esigenze o
i suoi sentimenti e con lo stesso sorriso. Ma, altrettanto
intensamente, sapeva
di non poterglielo permettere. Non un'altra volta.
“Farei
di tutto perché tu possa
essere felice” aveva sussurrato in risposta, uno scintillio
più dolce nello
sguardo e Shirley l'aveva stretta tra le braccia.
Brittany aveva
affondato il viso
contro la sua spalla, lo sguardo velato nell'abbracciare le pareti di
quella
camera che l'avevano accompagnata fino a quel giorno.
Bastava
crederlo, tutto sarebbe
andato bene.
~
Colorado Springs.
Accarezzò
la targhetta dorata,
quasi faticasse a credere a ciò che stringeva tra la mani e
ciò che significava
trovarsi in quella stanza dalle ampie finestre che si affacciavano su
campi
d'addestramento. Era tutto silenzioso ma da lì a pochi
giorni, l'Accademia
sarebbe pullulata di studenti e la tromba avrebbe sancito i momenti
peculiari
della giornata.
Tutto sarebbe
iniziato da lì e
non soltanto la svolta nella sua carriera e la nomina di Preside. Uno
sguardo
all'orologio e un sorriso ne sfiorò le labbra prima di
osservare l'anello e la
promessa che esso racchiudeva in sé. Poche ore e pochi mesi
e la sua vita
sarebbe completamente cambiata.
Sospirò
nel carezzare la cornice
con la fotografia della fidanzata.
Si riscosse al
sentire bussare
alla porta.
“Avanti”
sulla soglia vi erano un
uomo e un ragazzo: entrambi alti e dal fisico possente, forgiato
dall'allenamento quotidiano. Pur non indossando (ancora) la divisa,
sembravano
avere un particolare contegno nella postura dritta e vi era un'aria di
riserbo
sul volto del ragazzo i cui lineamenti apparivano rigidi. Un sorriso
sfiorava,
invece, le labbra dell'uomo, ammorbidendone i tratti. Avevano la stessa
mascella pronunciata e lo sguardo di quella sfumatura chiara di verde.
Neal sorrise e
si alzò dalla
poltrona, facendo loro cenno di entrare e affrettandosi a
circumnavigare la
scrivania per stringere la mano dell'uomo e appoggiargli la mano sulla
spalla.
Erano entrambi
più alti di Neal:
se con il giovane la differenza era di pochi centimetri, la figura
dell'uomo
sembrava dominare la stanza; probabilmente di primo acchito non si
sarebbe
creduto che Neal e Jonathan fossero coetanei. Se anche Neal avesse
avuto lo
stesso addestramento, era sempre stato più smilzo dell'altro
uomo ma vi era
anche un'evidente differenza di contegno. Con quel sorriso
più gioviale e
sbarazzino, infatti, Neal sembrava un eterno adolescente, pur avendo
superato i
quarant'anni. Il contrasto con l'aria compunta e seria del ragazzo che
aveva di
fronte era quasi stridente.
Dopo la
stretta di mano, i due
uomini si erano concessi un abbraccio più fraterno.
“Jonathan
Clarington, è un
piacere rivederti, finalmente”.
“Neal,
finalmente hai accettato”
ricalcò l'uomo con un sorriso: lo sguardo verde
guizzò verso la targa sulla
scrivania di mogano e Neal seguì il suo sguardo prima di
annuire.
“Sì,
è il momento di stabilizzarsi
anche per me: Shirley e io ci sposeremo l'anno prossimo” lo
informò e l'uomo
sembrò colto da un lampo di sorpresa ma era evidente dal
sorriso quanto quella
notizia lo rendesse sinceramente felice.
“Congratulazioni,
è una notizia
meravigliosa: si trasferirà qui, quindi”.
Uno scintillio
emozionato
baluginò nello sguardo di Neal. “Sì,
lei e sua figlia prenderanno il volo
questo pomeriggio: non vedo l'ora di presentartele”.
Aveva
continuato a sorridere
Jonathan, il viso inclinato di un lato e le sopracciglia inarcate in
un'espressione più complice e divertita. “Una
figlia adolescente: non ti
invidio per nulla”.
“Neppure
dovresti: devo desumere
che questo giovane uomo sia tuo figlio. Sembra passato un secolo
dall'ultima
volta che ci siamo visti” rispose Neal e, per la prima volta,
si volsero
entrambi ad osservare il ragazzo che era rimasto rispettosamente un
passo
indietro. Questi non esitò ad avvicinarsi: le sue labbra
sembrarono curvarsi
lievemente in una parvenza di sorriso ma i lineamenti sembravano ancora
granitici. Quasi fossero stati scalfiti in quel cipiglio pensieroso.
Aveva sorriso
Jonathan, una
traccia di orgoglio mentre il giovane allungava la mano verso Neal.
“Signore”
lo aveva apostrofato,
il tono formale, le sopracciglia appena contratte ma Neal gli sorrise
sbarazzino e ne strinse la spalla.
“Puoi
chiamarmi Neal: l'anno
scolastico non è ancora iniziato ma non dovrebbero esserci
formalismi tra noi.
Ero presente il giorno in cui sei nato”.
Nuovamente le
sue labbra si erano
increspate in quello che avrebbe dovuto somigliare ad un sorriso ma lo
sguardo
era distante, era parso persino irrigidirsi alla menzione di un ricordo
così
personale. L'attimo dopo annuì. “Sono venuto a
ringraziarla per aver confermato
il mio ruolo: non la deluderò” riconobbe nello
sguardo verde la stessa
determinazione che spesso aveva scalfito quello del padre e Neal
annuì.
“Ne
sono certo, sarai un ottimo
Capitano, come lo era tuo padre d'altronde”.
Aveva annuito
nuovamente il
ragazzo, ma pareva ansioso di lasciare la stanza. “Con
permesso, mi congedo,
Signore”.
“Permesso
accordato” rispose
Neal, un vago divertimento nelle iridi. “Lieto di averti
rivisto, Hunter”
aggiunse ma il giovane aveva soltanto fatto un vago cenno ad entrambi e
si era
voltato: con ampie falcate aveva attraversato la stanza e, poco dopo,
si era
chiuso la porta alle spalle, lasciandoli soli.
“Devi
esserne fiero” commentò
Neal.
“Lo
sono,” fu la spontanea
risposta del padre. “ma sempre più spesso mi
domando se non abbia proiettato su
di lui le mie aspettative.” un lampo di sorpresa aveva
attraversato lo sguardo
di Neal e Jonathan stesso sembrò sorpreso di aver realmente
pronunciato quelle
parole. Scosse appena il capo e sorrise, quasi a sminuire l'importanza
di
quanto appena detto.
“Non
fraintendermi: è un ottimo
soldato e un ottimo figlio ma a volte temo ne abbia rimesso in
spensieratezza.
Più lo guardo e più mi sembra un uomo cresciuto
fin troppo in fretta” la voce
era parsa spegnersi sul finire del discorso e lui e Neal avevano
sospirato.
Seppur nessuno ne avesse fatto esplicita menzione, era evidente che il
loro
pensiero comune fosse volto ad una terza persona.
“Non
dire così: sei stato un
padre eccezionale e poi” aveva cercato di smussare i toni, il
sorriso
nuovamente giocoso. “conto su di te per i consigli da
padre... patrigno,
insomma” un vago cenno di imbarazzo nella specificazione e
Jonathan aveva
sorriso incuriosito.
“Come
vanno le cose con la figlia
acquisita?”.
Aveva
sospirato, Neal. “Amo
Shirley con tutto il mio cuore e Brittany è una ragazza
molto dolce e molto
legata a sua madre. Sa che non la ferirei mai ma è come se
mi tenesse sempre a
distanza: naturalmente non voglio forzarla e aspetterò i
suoi tempi,” aveva
precisato seppur un'ombra ne avesse oscurato lo sguardo. “ma
credo che, malgrado
tutto, continuerà a considerare William il suo unico e
legittimo padre”.
Aveva annuito,
Jonathan. “Devi
solo aspettare che sia lei a fare il primo passo. E di questo William
non si è
più saputo nulla?”.
“No,”
aveva scosso il capo, Neal
e la mascella si era contratta. “mai una lettera o un
tentativo di contattarle:
se n'è semplicemente andato” era evidente il
disprezzo nella sua voce ad
alternarne i lineamenti e anche l'altro uomo aggrottò le
sopracciglia.
“Che
razza di uomo può agire in
tal modo e reputarsi tale?”. Era stata l'aspra critica.
“Spero
solo che, prima o poi,
Brittany mi dia un'occasione” era stato il commento
più sospirato di Neal.
~
Aveva contemplato le
pareti della
nuova camera con un sospiro: malgrado tutto il tempo impiegato
a svuotare gli scatoloni e decorarla perché
fosse rassomigliante a quella di New York, non era certa che sarebbe
stata la
stessa cosa. Lo stesso ambiente personale nel quale sentirsi a casa.
Carezzò
delicatamente il micio
tigrato: Lord Tubbington si sfregò contro il suo mento ed
emise un soffuso
miagolio che la giovane interpretò come una sorta di
consolazione. Ne baciò il
musetto.
“Andrà
tutto bene” gli disse,
sfiorandone il capo tra le orecchie e continuando a stringerlo contro
di sé,
confortata dal suo calore e dalla sua presenza. “La mamma
è felice e lo saremo anche noi”
sembrò voler
convincere se stessa.
Depositò
delicatamente il micio
sul proprio letto e si alzò: Shirley e Neal l'attendevano in
salotto. Lo
sguardo si era concentrato sull'uomo che sedeva accanto alla mamma: un
braccio
avvolto intorno alle sue spalle e lo sguardo adorante nel rimirarla e
quel
sorriso speciale che lei esibiva soltanto per lui. Persino in una scena
così
quotidiana era evidente quanto fossero innamorati.
La prima
impressione che aveva
avuto di Neal era stata quella di un orso bruno da brava amante degli
animali.
O qualcosa di simile: era alto e, con la divisa, faceva davvero
impressione ma
aveva i capelli quasi sempre scombinati. La barba le pungeva la guancia
quando
cercava di baciarla ma aveva uno sguardo dolce e il sorriso da bambino.
Ispirava un'innata simpatia ma spesso si sentiva a disagio quando erano
soli e
non sapeva come rompere il silenzio, se non con qualche chiacchierata
superficiale e casuale.
“Britty
Woman, Neal ha splendide
notizie per te” aveva esordito la madre quando l'aveva scorta
e Brittany si era
seduta sul divano, in attesa.
Le aveva
sorriso anche Neal,
prima di volgersi alla donna. “Diglielo tu”
sembrò esortarla ma ella scosse il
capo, facendo mulinare i lunghi capelli biondi.
“No,
è tuo dovere, Preside” gli
ricordò, uno sguardo più allusivo e divertito e
Neal tornò ad osservare la
ragazza: improvvisamente non sembrava più molto sicuro
mentre Brittany
silenziava, educatamente in attesa di scoprire le cosiddette splendide
notizie.
“D'accordo”
era intervenuta la
madre, allegramente. “Britty Woman, ricordi che Neal
è diventato Preside di
un'Accademia militare? Una delle più famose di Colorando
Springs?[3]”.
Aveva annuito,
Brittany: era
quello, dopotutto, il motivo del loro trasferimento ma non riusciva a
comprendere perché avrebbe dovuto sentirsi coinvolta, tanto
meno che cosa vi
potesse essere di meraviglioso per lei. A parte la
felicità della madre,
aggiunse tra sé, morsicandosi appena il labbro per un remoto
senso di colpa.
“E
visto che dovevamo cercare un
college per te: che ne diresti di frequentare la sua
Accademia?”.
To be Continued...
Credo sia doveroso
ringraziare chiunque sia
arrivato alla conclusione di questo prologo: ebbene sì, se
ho già sperimentato
una versione della coppia che si potesse svolgere nella versione
ufficiale di
Glee (e colgo l'occasione per ringraziare nuovamente chi ha letto e
recensito
la mia precedente one shot, “Addicted”);
quest'estate ho cominciato a tessere
le trame di un altro intrigo che avesse principale svolgimento a
Colorado
Springs.
Spero che
questo prologo possa incuriosirvi
abbastanza da continuare la lettura, ma ecco qualche anticipazione di
quanto
accadrà nel prossimo capitolo:
“Mi
stavo nascondendo dal mio Capitano, è un tipo
orribile!”
“Posso
averla di un altro colore, per favore?”
“Magari rosa e coi glitter?” “Rosa
sarebbe bellissima ma senza glitter”.
“Prendi la tua divisa e sparisci”.
“La
nostalgia passerà prima o poi e se non
passasse, dovrai fingere”.
Angolo dei
presta-volto: sono
solita, quando scrivo, immaginare le scene, ragion per cui mi sono
facilitata
nell'individuare dei volti a ricoprire i ruoli principali tra i
personaggi
inventati ed ecco le mie scelte, qualora vi aiutasse a visualizzare
meglio gli
eventi:
Gwyneth
Paltrow come Shirley
William
Baldwin nella parte di William
Pierce
Jude Law
nella parte di Neal Johnson. Ammetto che
è stata la scelta più conflittuale,
perché avevo immaginato molti altri volti
ma alla fine, sia per fisicità che per simpatia, credo sia
l’alternativa
migliore e scusate se è poco :D
Neal
Ed ecco la
felice coppietta :D
Neal
& Shirley
E, infine, ma non
per importanza (io già lo adoro
*-*), Sasha Roiz nella parte di Jonathan
Clarington
Grazie
ancora a tutti dell'attenzione e vi auguro
un buon weekend :)
Kiki87
[1] Non ho
(ancora) comprato la traduzione in italiano del libro di
Chris, per cui è una traduzione personale e a senso di
quelle righe; la
traduzione può differire (sicuramente) da quella
“originale” ma non mi sono
discostata dal significato della frase :)
[2] Se non
si fosse capito, è un nomignolo scherzoso che si
rifà a
“Pritty Woman” ma usando Britty, come diminutivo
del nome Brittany :D
[3] In
effetti la città è nota per le sue Accademie ed
è l'unica
notizia degna di interesse che Murphy ci ha fatto sapere circa il
passato di
Hunter. Ho cercato di documentarmi al riguardo ma non è
stato molto semplice,
ragion per cui ho preferito non citare nomi di Accademie e basarmi
soprattutto
sulla mia fantasia ed esigenze di copione, ogni volta che si
alluderà
all'Accademia stessa :D
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
“Ma
qui ci si sente soli!” disse Alice con voce malinconica; e al
pensiero della propria solitudine due lacrimoni le scesero per le
guance.
“Oh
non fare così!” esclamò la povera
Regina, torcendosi le mani
dalla disperazione. “Pensa che sei una bambina grande. Pensa
a
quanta strada hai fatto oggi. Pensa a che ore sono. Pensa a quello
che vuoi ma non piangere! [...]”.
(“Alice
nel paese delle meraviglie”, Lewis Carroll).
Capitolo
1
Quelle
parole sembrarono riecheggiare nel silenzio del salotto e Brittany
ebbe la sensazione di star vivendo in un sogno, qualcosa di surreale.
Assurdo.
Soprattutto
se si soffermava ad osservare le espressioni dei due adulti: il
sorriso entusiasta di Neal, che sembrava persino più allegro
del
solito, e quello altrettanto emozionato ma fiducioso di sua madre,
quasi quella proposta fosse stata la soluzione ideale ai suoi dubbi e
tormenti. Una sicurezza che era proporzionale
all'incredulità della
giovane la cui mente sembrò spegnersi. Letteralmente.
“L'Accademia?”
ripeté, la voce più tremula nel cercare un
appiglio nei loro
sguardi: poteva comprendere che Neal fosse più che felice, visto
il suo passato in quella stessa istituzione;
ma
non come
sua madre potesse ritenerlo adatto a lei e al tipo di vita che aveva
avuto. Almeno fino a quando non era arrivato Neal.
Quasi
avesse letto i suoi pensieri o ne avesse intuito i dubbi, Shirley le
aveva sorriso ancora più incoraggiante, sporgendosi dal
divano a
cingerle la mano. “E' una magnifica idea: tu e Neal passerete
molto
più tempo insieme e potrete conoscervi meglio”.
“Ma
io non voglio andare in guerra” era stato il pigolio che le
era
uscito dalle labbra e quasi sembrò ritirarsi nella
poltroncina,
mentre lentamente la tensione nella stanza sembrava dissiparsi. Se di
primo acchito la coppia sembrò congelarsi sul posto,
l'attimo dopo
risero entrambi.
Shirley
la esortò
dolcemente ad alzarsi e a sedere tra loro: Neal fu lesto a spostarsi
di lato. Per un attimo parve intenzionato ad appoggiare la mano sulla
spalla della giovane, ma sembrò cambiare idea. Non
mancò, tuttavia,
di rassicurarla a sua volta.
“E'
un college come gli altri, a parte i metodi e l'addestramento fisico.
Ma abbiamo molte altre attività che ti saranno
più familiari: un
Glee Club, un club di scrittura creativa e molte altre cose che
potrebbero piacerti. Naturalmente ci sono le materie più
importanti,
ma alcune potrebbero essere diverse dal tipico programma: storia per
esempio”.
Oh,
meglio così. Mai piaciuta la storia. Fu
lo spontaneo pensiero della ragazza la cui ansia sembrava essersi
notevolmente ridotta alla consapevolezza che non
stavano per mandarla in qualche
missione pericolosa e che, a parte l'allenamento quotidiano
(addominali e corsa? Poteva anche farcela), ci sarebbe stata la
possibilità di continuare a praticare la sua passione per il
ballo.
Tuttavia,
c'era ancora qualcosa che non la convinceva: incrociò le
braccia al
letto e raggrinzò leggermente il naso, guardando dall'uno
all'altra.
S’imbronciò appena, un cipiglio più
infantile. “Ma credete che
io mi comporti male?” aveva chiesto nuovamente con un
pigolio. In
fondo, non era la tipica minaccia
delle
madri esasperate nei confronti dei figli disobbedienti, quella di
iscriverli in una scuola di quel genere?
Neal
aveva sorriso di quel sorriso dolce e gentile e aveva allungato la
mano a pizzicarle
la punta del naso:
c'era sempre qualcosa di complice in quel gesto e spesso Brittany si
era domandata se non avesse dovuto abbracciarlo o ringraziarlo per
essere sempre così disponibile e per rendere la mamma
così felice.
Eppure qualcosa le diceva che lui avrebbe capito cosa provava. E che
quando sarebbe stato giusto, sarebbe riuscita ad abbracciarlo con la
stessa spontaneità con cui ricercava spesso il calore del
corpo di
sua madre.
“Certo
che no,” le rispose, prontamente, per poi inclinare il viso
di un
lato, parlando con voce più complice. “ma sarei
immensamente
onorato” e a dimostrarlo, si era portato la mano al petto
“se tu
provassi a frequentarla per un semestre. Se poi non ti
piacerà,
ovviamente non ti obbligheremo”.
Bastava
osservarlo negli occhi per comprendere che lui sarebbe stato davvero
entusiasta alla prospettiva della sua permanenza;
ma altrettanto era credibile che non avrebbe mai fatto quella
proposta con l'intento di metterla in una brutta situazione e che
sarebbe stato comprensivo e gentile. Come sempre.
Ma
restava il fatto che, aldilà di quei pensieri, una vocina
nella sua
testa era allarmata e continuava a dirle che avrebbe dovuto rifiutare
subito. Prima di illuderli entrambi e prima di trovarsi a stringere
una promessa che non era convinta di poter mantenere. Neppure per la
mamma.
“Che
ne dici, tesoro?” la incalzò quest'ultima.
Brittany
la guardò per un lungo istante nel quale si
soffermò sul sorriso
che ne faceva brillare gli occhi. Si era domandata, ancora una volta,
come avrebbe potuto esprimere il suo disagio o i suoi dubbi? Come
avrebbe potuto negarle, per la prima volta, un favore che avrebbe
potuto rendere la vita familiare ancora più piacevole per
entrambi?
Come avrebbe potuto essere così egoista, quando era evidente
che
entrambi prendessero decisioni e si consultassero anche e per amor
suo. E se entrambi erano convinti che avrebbe potuto farcela...
Ciò
che era indubbio era che sua madre non era mai stata così
serena e
non avrebbe permesso che quel sorriso sparisse.
Si
decise ed annuì. “Sarà un piacere,
Neal, grazie tante”.
Lasciò
che la madre l'abbracciasse e che Neal, dopo aver allargato le
braccia in (vana) attesa, le stringesse formalmente la mano. Neppure
lo sentì fare un commento su un brindisi per festeggiare la
splendida notizia e neppure sentì sua madre fare un commento
più
malizioso, appena Neal fu entrato in cucina, alludendo a
“chissà
quanti bei ragazzi in divisa: potrei spacciarmi per tua sorella
maggiore una volta o l'altra”.
Continuò
ad osservarli per tutta la serata, rise con loro ma, ancora una
volta, si sentì semplice spettatrice della sua vita. Forse
era
questo che significava crescere e prendere decisioni non soltanto per
la propria felicità.
Andrà
tutto bene,
ripeté tra sé quelle
parole impresse da suo padre con l'inchiostro.
Rilasciò
il respiro.
~
Rimirò
la struttura con occhi sgranati: quel luogo era assolutamente...
spaventoso e il fatto che i nuvoloni scuri, all'orizzonte,
promettessero pioggia o temporale, non migliorava l'atmosfera che si
respirava al suo camminare verso la costruzione. L'edificio era
imponente e di un colore così triste ed amorfo (niente a che
vedere
con le belle università che si vedevano nei telefilm,
magari con
dei parchi immensi in cui sedere a bere caffé o fare compiti
all'aperto) che sembrava più simile ad una prigione.
Non c'erano neppure quei tipici oggetti che rendevano una casa
presentabile: pareti colorate, un giardino fiorito o un dondolo
all'esterno su cui sedersi a rimirare le stelle. Era circondato da
immensi campi – rabbrividì –
d'addestramento predisposti per la
corsa, percorsi più elaborati che comprendevano anche
ostacoli e
strane attrezzature di cui Brittany avrebbe
voluto continuare
ad ignorarne l'esistenza. In lontananza riuscì a scorgere un
plotone
di giovani, in orribili tute verdi con chiazze color marrone e
gialle, che stavano intonando una strana canzone mentre
correvano (no, non sembrava una delle
filastrocche che conosceva a memoria); più lontano un altro
gruppo
era impegnato
in uno di quei pericolosi
percorsi, scalando alture o procedendo a carponi sotto del filo
spinato.
Si
morsicò il labbro, prima di scuotere il capo: ovviamente
quelli erano esercizi destinati esclusivamente a coloro che volevano
davvero
entrare nell'esercito. E a quanto pareva, non erano neppure pochi.
Prese
un profondo respiro e riprese il cammino, trascinando il trolley: la
tintura rosa shocking dello stesso spiccava in modo quasi accecante
rispetto ai colori tetri e smunti del paesaggio, così come
la sua
mise dai colori estivi. Mano a mano che si avvicinava all'edificio,
ed ignorava gli sguardi che stava cominciando ad attirare tra i
giovani che correvano lì intorno, cominciò ad
insinuarsi il dubbio
che vi fosse stato un qualche equivoco. Sì, insomma, aveva
capito
che si trattava pur sempre di una scuola che usava dei metodi
più
rigidi rispetto ai college tradizionali; ma non aveva ancora scorto
alcuna ragazza. O forse vi era una caserma tutta al femminile con
pareti rosa e un bel campo fiorito su cui fare esercizi di yoga o,
meglio ancora, danza e pilates.
Forse
avrebbe dovuto telefonare a Neal e chiedergli di scortarla
personalmente al giusto indirizzo: stava estraendo il cellulare (se
solo lo avesse trovato nella borsetta che le pendeva dalla spalla)
per comporne il numero, quando sentì uno scalpiccio di passi
in
avvicinamento.
Il
giovane che si stava avvicinando (anche lui con quella brutta tuta
addosso), sembrava un gigante:
era
persino più alto di Neal, aveva i capelli scuri e
scombinati, la
fronte alta e imperlata di sudore, il viso arrossato per lo sforzo
mentre si chinava sulle ginocchia, cercando di recuperare respiro.
Malgrado la corporatura che avrebbe potuto impressionare, vi era
qualcosa di simpatico nei lineamenti da bambinone e in quel sorriso
con cui l'accolse, appena sollevò il capo e la scorse, dopo
un
momento di puro e semplice stordimento. Sembrava non aver mai visto
una ragazza in carne ed ossa, il che sembrava rafforzare l'ipotesi
che avesse sbagliato indirizzo.
Fu
naturale sorridergli di rimando (magari avrebbe potuto chiedere aiuto
a lui) e lui sembrò persino arrossire, dopo aver assunto,
nuovamente, quella faccia d’incredula sorpresa e di
compiacimento.
Si strofinò goffamente la nuca e sembrò
ringalluzzirsi
nell'assumere una posa più impettita e decorosa.
“Mi
sto nascondendo dal mio Capitano,” le disse in tono
confidenziale,
inclinando il viso di un lato e gettando un'occhiata alle proprie
spalle, ad assicurarsi che il suddetto non fosse a portata d'orecchio
ma abbassò comunque ulteriormente la voce.
“è un tipo orribile”
si lasciò cadere sull'erba per riallacciarsi gli
stivali e la
guardò dal
basso con lo stesso sorriso beato.
“Sei nuova, vero?”.
Brittany
annuì, continuando a guardarsi attorno curiosamente.
“Ma credo di
aver sbagliato posto” ammise e non ebbe timore che quel
ragazzone
potesse schernirla al riguardo.
“Io
spero proprio di no” sembrò gongolare tra
sé e sé, lo stesso
sorriso più puerile, prima di ergersi in piedi e Brittany fu
impressionata dalla differenza d'altezza tra loro e ne
osservò la
mano che le veniva porta. “Ben arrivata, come ti
chiami?” le
chiese, la stessa espressione allegra.
“Brittany,
Brittany Pierce” gli strinse la mano e il ragazzo
sembrò
particolarmente attento a non stringerla troppo per non procurarle
dolore.
“E'
un piacere, Brittany” sembrò sospirare al tocco
della sua mano più
esile, prima di schiarirsi la gola e, nuovamente, assumere quella
postura più precisa. “Io sono Finn e-”.
L'acuto
suono di un fischio li interruppe e il ragazzo soffiò
un'imprecazione, ma Brittany non ebbe tempo di rimproverarlo al
riguardo: ne seguì lo sguardo e scorse una terza figura che
si stava
inevitabilmente avvicinando. Camminava in rapide falcate che facevano
intuire un atteggiamento autoritario e probabilmente anche
notevolmente irritato.
Anch'egli
indossava la divisa con gli stessi colori ma sulle spalle si notavano
delle strisce con motivi stellati (questa sì che era una
bella idea:
decorare una divisa con delle stelle!
Anche se la sarta avrebbe
potuto
scegliere un colore più vivace
anziché
il nero!) e un fischietto che pendeva dalla collana di cuoio.
L'espressione sembrava, a dir poco, infuriata: le labbra erano
serrate in una smorfia e le sopracciglia aggrottate mentre fissava
Finn.
Quest'ultimo
sembrò vacillare nervosamente: da che lo sconosciuto aveva
fischiato, si era stretto nelle spalle, quasi temesse di essere
accoltellato da un istante all'altro. Aveva chiuso gli occhi e
stretto le palpebre. Curioso come, malgrado lo superasse in altezza
di almeno dieci centimetri, e la sua mano fosse grande almeno quanto
la sua faccia; il nuovo arrivato sembrasse incutergli puro e semplice
terrore.
Brittany
intuì istintivamente che non
poteva essere lui il suo Capitano “orribile”: non
per il suo
aspetto (anzi, doveva ammettere che avrebbe potuto definirlo molto
più che carino, se magari avesse abbandonato quella faccia
arrabbiata e avesse provato a sorridere), anche se forse Finn
alludeva a quell'espressione di chi sia sempre estremamente serio
e... infuriato.
“S-Signore”
balbettò goffamente il ragazzone e cercò di
sorridergli ad una
maniera accattivante. L'altro non ricambiò minimamente il
gesto di
cortesia.
“Ti
avevo espressamente ordinato di fare cinquanta giri intorno al
perimetro del campus” sembrava parlare a scatti, la voce
imperiosa
e piuttosto alta e distorta dalla rabbia: una vena pulsava minacciosa
sul collo e, malgrado fosse più basso, sembrò
quasi prolungarsi per
urlare quelle parole in faccia al suo subordinato.
“I-Io
avevo iniziato, Signore, ma” si guardò attorno
disperatamente,
cercando una scusa qualsiasi per potersi liberare dalla sua nefasta
rabbia. “... ho incontrato Brittany!”
esclamò, infine, un
sorriso più gioviale nell'indicargli la ragazza che era
rimasta ad
osservarli evidentemente incuriosita da quel siparietto.
Lo
sguardo verde che ancora stava incenerendo il suo sottoposto, il
“Signore” lentamente volse il capo e
sembrò solo allora
concentrarsi realmente sulla giovane e laddove prima la sua
espressione era tutt'altro che cordiale e pacifica; l'autentica
sorpresa ne fece alterare i lineamenti in un frammento
d’istante. O
forse era stato il colore vivace delle vesti della giovane a
procurare un impatto notevole con le sue retine.
Qualunque
fosse il motivo dell'evidente cambiamento d’espressione,
Brittany
avvertì uno strano contorcimento all'altezza dello stomaco
(quante
caramelle aveva mangiato prima di entrare nell'auto di sua madre?) ma
il ragazzo inarcò il sopracciglio e si volse nuovamente al
suo
sottoposto.
“Mi
stava parlando di un Capitano” sorrise, Brittany in un
evidente
tentativo di scagionare Finn e dimostrare la severità con
cui era
trattato, così magari avrebbe smesso di urlargli addosso.
“... ha
detto che è orribile,
tu lo conosci?” gli aveva chiesto allegramente, ma sembrarono
entrambi congelarsi.
Il
nuovo arrivato aveva sgranato gli occhi prima che, con straordinaria
velocità, i suoi lineamenti si contraessero di nuovo, una
sfumatura
rossastra ne colorò il viso e strinse i pugni, contrasse la
mascella
e si girò di scatto verso il ragazzone che aveva ripreso a
tremare
visibilmente.
“E-Era
solo una battuta, Signore: Brittany mi ha frainteso”.
Aveva
stretto le braccia al petto, Brittany, l'espressione evidentemente
risentita: non soltanto aveva cercato di procurargli una bella figura
(insomma, il suo 'Signore' avrebbe dovuto essere fiero
perché
ovviamente non era lui
la
persona orribile di cui stava parlando prima; e magari anche
sforzarsi d’essere più gentile) ma adesso sembrava
persino dire
che era lei
a non aver capito la situazione.
“Allora
perché non
sto ridendo?”
“Non
sembri farlo molto spesso” aveva soggiunto, Brittany, a mezza
voce,
ma il nuovo arrivato – seppur si fosse irrigidito
ulteriormente -
sembrò volerla ignorare. Ma si premunì di
calpestare il piede di
Finn che si era lasciato sfuggire una risatina fino a farlo ululare
letteralmente di dolore. “Sei un incapace, Hudson,”
sibilò
contro il ragazzo, circumnavigandolo e fermandosi al suo fianco.
Quest'ultimo, in un chiaro tentativo di migliorare la sua condizione,
si era messo dritto, le braccia puntellate sui fianchi.
“prendi i
tuoi cento chili di stupidità e comincia a correre, fino a
quando
non ti scoppierà la milza o questa volta sarò io
stesso a
spararti a quelle scialuppe
che definisci piedi, e ti assicuro che non sarà un
incidente”.
“Signorsì,
Signore!” commentò, rivoli di sudore freddo a
scivolare lungo la
spina dorsale, premunendosi di non incrociarne lo sguardo.
“Non
ti ho sentito!” infierì a voce persino
più alta.
“SIGNORSI',
SIGNORE!” gridò allora.
Ma
era sordo per caso? Brittany
gemette
nel portarsi la mano all'orecchio.
“Inizia,
MARSCH!” sibilò e Finn, un vago cenno del mento a
Brittany, si
volse, pronto a correre.
“Ciao
Finn!” lo salutò allegramente lei, sollevando la
mano: fu con un
sorriso goffo che Finn riprese a correre ma, troppo intento a
ricambiare lo sguardo della ragazza, non si accorse dell'ostacolo e
vi inciampò, finendo steso sul prato a gambe all'aria.
Gemette,
Brittany, e persino l'altro ragazzo sembrò indeciso se
ignorarlo o
se apparire altrettanto sconvolto e turbato.
“Sto
bene!” li informò, Finn, che –
intercettato lo sguardo
dell'altro – riprese a correre e soltanto quando scomparve
dalla
loro vista, il ragazzo si volse nuovamente ad osservare Brittany.
Inarcò le sopracciglia e la scrutò incuriosito ma
con aria
interrogativa mentre la giovane gli sorrideva nuovamente con
simpatia, dondolandosi appena sui piedi calzati nelle scarpe con
tacco (e sporche di fango per aver involontariamente immerso il piede
nudo in una pozzanghera, appena scesa dall'auto).
Dopo
qualche secondo di silenzio, il ragazzo sembrò aver esaurito
la
pazienza e rilasciò un sospiro quasi stanco ed esasperato.
“Spiacente, non è giorno di visite”.
Brittany
parve confusa, inarcò le sopracciglia e si volse quasi a
sincerarsi
che stesse parlando con qualcun altro per poi scostarsi i capelli
sciolti dal viso e sorridergli nuovamente.
“Non
sono in visita” spiegò con voce candida e il
cipiglio corrugato
dell'altro si estese. “Ho conosciuto Finn poco fa”
si era stretta
nelle spalle a spiegare l'equivoco ma il ragazzo parve ancora
più
interdetto, mentre ne studiava nuovamente l'abbigliamento per poi
concentrarsi sulla valigia.
“Beh,”
incrociò
le braccia al petto e la fissò
dall'alto a basso. “non so come tu abbia potuto entrare senza
autorizzazione e non notare i cartelli ma-”.
“Sono
venuta con la mia mamma” spiegò con altrettanta
semplicità. “Mi
hanno fatta passare: io sono iscritta qui” indicò
la struttura ma,
repentinamente, una smorfia le alterò i lineamenti.
“O almeno
credo: è questa, vero, l'Accademia di Neal
Johnson?”.
Sembrò
rimasto senza parole: aveva persino sciolto la postura più
rigida,
ma lo sguardo verde scrutò nuovamente la giovane come la
vedesse per
la prima volta. Si soffermò sul viso truccato, l'abito dai
colori
estivi, i piedi calzati nelle scarpe eleganti e il trolley di un
colore altrettanto vivace.
“Oh,
il mio patrigno, Neal, mi ha dato questo” si era illuminata
prima
di chinarsi verso il suo bagaglio: cominciò ad estrarre
oggetti su
oggetti (dal beauty case alle riviste di moda, al phon, al pigiama e
altri indumenti) mentre il ragazzo sbatteva le palpebre e distoglieva
lo sguardo. Evidentemente presa dalla ricerca, la ragazza non si
fosse minimamente accorta di stargli offrendo una visuale
più che
confidenziale del suo fondoschiena.
Finalmente
si drizzò a porgergli un foglio stropicciato che il ragazzo,
l'ennesimo sguardo perplesso e inebetito, dispiegò.
Brittany, nel
frattempo, si sollevò sulle punte a contare le stelle
disegnate
sulle targhette. Chissà se avrebbe potuto farne applicare a
sua
volta, forse bisognava pagare una tassa aggiuntiva, perché
non ci aveva pensato prima?
Il
ragazzo, evidentemente esaurita la giornaliera quota di sopportazione
e di comprensione delle stramberie cui era sottoposto
quotidianamente, indugiò con lo sguardo sul modulo compilato
e la
firma di quello che, senza dubbio, era il Preside stesso.
Nel
frattempo, con grande sorpresa e sgomento di Brittany, un gruppo di
ragazze, impegnate nella corsa come i ragazzi, stavano passando loro
vicino e ciò destò l'attenzione del suo
interlocutore che levò lo
sguardo dal foglio.
“Kitty!”
alzò leggermente la voce per attirare l'attenzione di una di
loro:
colei che, a differenza del gruppo, si muoveva indietreggiando. Al
richiamo del ragazzo, fischiò e tutto il gruppo si
fermò in quello
che sembrò un movimento unico e collettivo.
Si
scostò dalle altre e prese a camminare in loro direzione:
Brittany
notò subito che anch'ella aveva sulle spalle le targhette
con le
stelle. Aveva i capelli biondi e legati in uno stretto chignon che
non le donava particolarmente: aveva zigomi pronunciati e labbra
molto carnose che piegò in un sorrisetto allusivo mentre si
avvicinava al giovane.
“Sì,
Hunter?” cinguettò in sua direzione, sbattendo le
ciglia
incredibilmente lunghe in sua direzione, ma il ragazzo si
limitò a
consegnarle il foglio, prima di indicarle Brittany con un cenno del
mento.
“La
tua nuova recluta” l'apostrofò.
Fu
allora che Kitty si volse a fissarla e, a meno che l'immaginazione di
Brittany non le stesse giocando un brutto scherzo, sembrò volerla
uccidere
con la sola intensità
dello sguardo; le sue labbra si erano istintivamente serrate. Era
inquietante il modo in cui il suo sorriso si era spento
repentinamente nonché la rapidità con cui i suoi
occhi guizzarono
sulla sua figura, quasi ad individuarne i difetti, indugiando sul suo
abbigliamento con la stessa espressione schifata che avrebbe
probabilmente rivolto a qualcosa di ripugnante.
Brittany
le sorrise di cuore e le porse la mano con un gesto fluido.
“Io
adoro
'Hello Kitty', sono sicura che saremo grandi amiche!” aveva
commentato, immaginando che un complimento potesse scaldarle il cuore
e magari riuscire a strapparle un'espressione meno severa.
Forse
c'era qualcosa che non andava nell'aria di quel luogo: erano tutti
così maledettamente musoni. E poi erano incredibilmente
silenziosi:
la stavano entrambi guardando come se fosse stata un unicorno o
qualcosa di altrettanto incredibile.
Sbatté
le palpebre, Kitty, prima di voltarsi bruscamente verso il ragazzo.
“E' uno scherzo, vero?”.
Quest'ultimo
scosse il capo per poi dire, a mo' di spiegazione, la voce
più
bassa. “E' la figlioccia di Johnson”.
Evidentemente
questa non parve una rassicurazione, se possibile lo sguardo della
ragazza s’indurì ulteriormente, ma
evitò di incrociare lo sguardo
della cosiddetta nuova recluta.
Brittany,
confusa, abbassò la mano e si morsicò il labbro
guardando dall'uno
all'altra e attendendo che qualcuno finalmente le dicesse cosa
dovesse fare.
“Una
Barbie nel
mio plotone? E come-”.
“Mi
dispiace,” si era morsicata il labbro, Brittany ed entrambi
si
erano volti ad osservarne l'espressione mortificata mentre si
stringeva le mani in grembo. “ho lasciato la mia a casa ma
posso
riportarle Lunedì, tornerò a casa nel
weekend” la informò con lo
stesso sorriso allegro e confidenziale.
“Non...
può... essere... vero” sibilò, Kitty,
masticando letteralmente
quelle parole, ma il ragazzo le concesse un vago cenno del capo.
“Buona
fortuna, io ho già Hudson di cui occuparmi” si era
voltato, lo
sguardo che saettava alla ricerca del suddetto ragazzo, prima di
incamminarsi in tale direzione, senza altra formula di congedo.
“Hunter!
Non puoi lasciarmi qui con lei!” protestò
indignata la ragazza, le
mani sui fianchi.
Brittany
si affrettò a sollevarsi sulle punte per continuare ad
osservarlo.
“E'
stato un piacere, ciao!” lo salutò, alzando
leggermente la voce
per poi tornare ad osservare la ragazza con la stessa espressione
solare. Kitty la fissò scornata, stritolando tra le dita il
modulo
della sua iscrizione, ma non disse nulla: parve riflettere
silenziosamente ed altrettanto rapidamente, la fronte aggrottata.
“Benvenuta,”
il modo in cui le sorrise, subito dopo, non sembrava essere affatto
caloroso: era come se quel gesto non riuscisse a renderne lo sguardo
più amichevole; al contrario le conferiva un aspetto persino
più
minaccioso. “inizieremo domani: intanto fatti dare qualcosa...
da metterti addosso” aveva scrutato il suo abito con una
smorfia.
Brittany
non parve prendersela a male, ma era autentica sorpresa quella che le
fece morsicare il labbro nell'osservare nuovamente il suo vestito.
L'altra non disse altro: le restituì il foglio e
tornò verso le
altre ragazze. Un altro fischio e tutte ripreso a correre.
Scrollò
le spalle, Brittany, e finalmente si avviò verso l'edificio
continuando a rimuginare tra sé. Certo, erano davvero strani
quei militari: nessuno le aveva
stretto la mano e nessuno le aveva sorriso con autentica gioia (a
parte Finn, prima di inciampare nell'ostacolo e sfracellarsi a
terra). E cosa avevano i suoi vestiti che non andavano? Erano
sicuramente la ragazza più elegante in quel momento e
l'unica che si
fosse truccata per farsi carina, tanto per dirne una.
La
confusione non si attenuò, quando si ritrovò tra
i corridoi, il
modulo tra le mani e lo sguardo che scivolava tra gruppi di ragazzi e
di ragazze. Sembravano tutti avere fretta ma, mentre passavano, le
lanciavano sguardi (le ragazze apparivano poco contente come Hello
Kitty; i ragazzi erano sorridenti come Finn o rigidi come Hunter) ma
nessuno le chiese se avesse bisogno di aiuto, nessuno si fece avanti
per accoglierla o darle il benvenuto.
Sospirò
ma continuò a trascinare il trolley fino a quando non scorse
Neal,
impegnato in una conversazione con altri uomini, ma appena la scorse,
fu rapido a congedarsi dai suoi interlocutori per avvicinarsi.
Brittany rilasciò il respiro e, malgrado tutto, si
sentì rincuorata
dalla sua espressione felice e il modo in cui le stava sorridendo,
affrettandosi a raggiungerla. Per un istante, fu come ritrovarsi tra
le pareti della nuova casa: lei e Neal non avevano ancora imparato a
conoscersi bene e questo rendeva la comunicazione meno agevole, ma
non aveva mai dubbio che fosse sempre bendisposto nei suoi confronti,
senza che facesse nulla di particolare per suscitargli simpatia.
“Sei
arrivata” sembrava impacciato in quelle vesti e, ancora una
volta,
ebbe la sensazione che si stesse trattenendo dallo stringerla o dal
baciarla ma, come nel salotto della loro nuova casa, le porse la
mano. Forse era per questo che Neal non riusciva mai ad essere del
tutto rilassato con lei? Era colpa di quel luogo che gli toglieva la
tranquillità e lo rendeva così attento e
così... poco spontaneo?
Sarebbe successo anche a lei, standovi dentro a lungo? L'idea non le
piaceva particolarmente a dirla tutta, ma forse era proprio quello lo
scopo di Neal e della mamma (?).
Ne
ricambiò il sorriso. “Ciao, Neal: non so cosa
fare” aveva
ammesso senza vergogna. L'uomo le aveva scosso il capo e le aveva
appoggiato la mano sulla spalla e, malgrado tutto, si sentì
subito
più distesa.
“Ho
già avvertito la segreteria: porterò io stesso il
tuo modulo. Tu
devi solo ritirare la tua divisa e raggiungere i dormitori,
così
potrai disporre tutte le tue cose”.
Aveva
annuito, Brittany, prima di aggrottare la fronte. “A chi devo
chiedere dove trovare il giardino per gli animali?”.
Sbatté
le palpebre, Neal, evidentemente preso in contropiede.
“Come?”.
“Lord
Tubbington si è offeso, quando me ne sono andata senza di
lui, ma
mamma ha detto che dovevo parlarne a te” spiegò e
Neal, dopo aver
ricordato che tale nome fosse riferito al felino, sembrò
assumere
un'espressione colpevole. Aveva sospirato, cincischiando leggermente
con le mani. “Brittany, purtroppo non è permesso
tenere gli
animali nelle camerate” aveva sussurrato con voce
più dolce, nel
tentativo di farle assimilare la notizia con il dovuto tatto. Le
sorrise nuovamente, nel tentativo di incoraggiarla. “Ma
potrai
rivederlo nel weekend, no?”.
Raggrinzò
il naso, Brittany, non aveva mai dormito senza il suo fedele micio da
quando era solo una bambina: la sola idea di dover stare senza di lui
per così tanto tempo, la gettò nell'angoscia e
sentì il respiro
farsi più pesante e il cuore fermarsi in petto. Doveva
ricordarsi
che lo stava facendo per la mamma, ma ciò non rendeva quegli
imprevisti di più semplice sopportazione.
Da
quel poco che aveva già visto, infatti, quell'Accademia non
le
piaceva. Per niente.
“Mi
dispiace, Brittany” fu il sussurro di Neal che non aveva
smesso di
osservarla e sembrava crucciarsi all'idea di aver potuto
compromettere la loro complicità per una di quelle
disposizioni più
rigide della vita del campus.
La
giovane non ebbe il minimo dubbio che lo fosse realmente e si
sforzò
di sorridergli ulteriormente. “Va bene,” era parsa
rassegnata.
“allora vado a prendere la divisa” la stessa
orribile che aveva
visto indossare da chiunque avesse incontrato, quella che sembrava
assorbire tutte le belle sensazioni e trasformare chi la indossava in
una persona più seria e meno felice.
Una
parte di sé si era domandata se non avesse dovuto provare a
parlargli: probabilmente se avesse saputo quanto Lord Tubbington
fosse importante per lei, se gli avesse raccontato di quel giorno...
“Che
cos'è, papà?” aveva chiesto, i capelli
sciolti e il pigiamino
mentre lo attendeva, seduta sul proprio letto, in attesa che aprisse
il nuovo libro di favole che le aveva regalato.
Le
sorrideva, William, persino più impaziente di lei e le porse
il
cesto con un sorriso. Lo aveva preso tra le mani paffute e ne aveva
scostato il lenzuolo.
Allora
lo aveva guardato per la prima volta: sembrava un batuffolo grigio,
morbido e delicato con il suo collarino a forma di osso e
l'iscrizione del suo nome. Questi la studiò altrettanto
curiosamente, si sporse ad annusarla e Brittany lo aveva stretto tra
le braccia con un sorriso entusiasta, dondolandolo e sorridendo nel
sentirlo farle le fusa e sfregarsi sulla sua esile spalla.
“E'
bellissimo” aveva sussurrato, la voce soffocata contro il
pelo
dell'animaletto. “Tutto mio?”.
“Tutto
tuo.” le aveva sorriso suo padre, a mo' di promessa.
“Lui ti
proteggerà, quando io non sarò con te”.
Si
riscosse, un vago sospiro nel ricordare il modo in cui Neal si fosse
congedato con un’aria vagamente colpevole. Probabilmente un
giorno
glielo avrebbe spiegato, quando si fosse abituata a quel luogo... e
quando l'altro volto sarebbe diventato meno nitido e avrebbe potuto
aggrapparsi maggiormente al suo patrigno.
Entrò
nel reparto sartoria e si affrettò ad avvicinarsi al balcone.
“Salve”
salutò la donna che appariva notevolmente annoiata: stava
masticando
un chewing-gum e si puntellava con le mani sulla superficie,
sollevando lo sguardo dal cruciverba con il quale era impegnata prima
del suo ingresso.
“Taglia
30”
sancì dopo averle gettato un'occhiata distratta e Brittany
inarcò
le sopracciglia: aveva
dei poteri
magici?
Appoggiò
casacca, pantaloni, berretto e stivali sul balcone, dopo averne
scovato il completo della sua misura in uno degli scaffali del
capiente armadio alle sue spalle.
Brittany
li osservò con una smorfia prima di sorriderle con fare
accattivante. “Potrei averli di un altro colore, per
favore?”.
La
donna la fissò per qualche istante, probabilmente
domandandosi se il
suo era stato un patetico tentativo di fare dell'umorismo sulla sua
mansione. Le sorrise, infine.
Allora
era vero,
pensò Brittany
illuminandosi: bastava usare la “parola magica”
(così l’aveva
definita sua madre, quando aveva sette anni ed esigeva le fossero
porti lecca lecca e dolciumi che lei, puntualmente, nascondeva negli
scaffali più alti della credenza) per far rabbonire le
persone
musone.
“Magari
rosa e coi glitter?” aveva lanciato un'occhiata beffarda al
suo
vestito e al trolley, prima di riprendere la sua penna e toglierne il
coperchio con la bocca, facendolo cadere e rotolare sul balcone.
Brittany
si ritrasse istintivamente con una smorfia, prima di pensarci sopra:
era stata molto gentile e sperava di non offenderla. “Rosa
sarebbe
bellissima ma magari senza glitter”.
Era
autentica stizza quella che baluginò nello sguardo della
sarta che
la fissò di traverso. “Prendi la tua divisa e
sparisci” le
intimò con tono più autoritario che fece
trasalire la ragazza.
Si
era accigliata, Brittany, un vago smuovere le labbra con
atteggiamento di puerile offesa prima di prendere la divisa che le
aveva assegnato e stringersela al petto.
Era
giunta alla soglia dell'uscio e si era nuovamente voltata: il viso
inclinato di un lato.
“E
se la prendessi coi glitter?” aveva soggiunto con un sorriso
più
infantile.
“FUORI!”
fece in tempo a scostarsi prima che la rivista d’enigmistica
si
sfracellasse contro la sua faccia e, senza più guardarsi
alle
spalle, si era affrettata a ripercorrere a ritroso il corridoio.
Accidenti,
che permalosa.
Decisamente
non era il momento giusto per chiederle di decorarle la divisa con
qualche stella.
~
Dopo
aver seguito le istruzioni fornitegli da un inserviente (ed essersi
persa in quei corridoi che somigliavano spaventosamente ad un
labirinto, tutti identici gli uni agli altri) era giunta alla sezione
dei dormitori. Trattenne il respiro quando lesse sulla porta
l'iscrizione della camerata corrispondente a quella della sua sezione
(o almeno così diceva il modulo d’iscrizione):
schiuse la porta e
osservò con occhi sgranati la stanza.
Non
somigliava assolutamente ad una camera d'albergo e neppure
lontanamente alle sue due precedenti camere da letto: era un ambiente
molto spazioso ma spoglio di decorazioni sulle pareti. In compenso vi
era una dozzina di letti a castello e, in corrispondenza
d’ogni
coppia, armadi che non sembravano particolarmente capienti. Era un
ambiente rustico e per nulla elegante.
Dov'era
la sua scrivania? O lo specchio per truccarsi? Dov'erano i mobili e
gli elettrodomestici? Dove avrebbe potuto attaccare la presa dello
stereo o appendere i suoi poster o appoggiare i suoi libri?
La
stanza era già occupata da una decina di ragazze e si
volsero tutte
in sua direzione: c'era uno strano silenzio, mentre la scrutavano con
la stessa curiosa attenzione che le era stata riservata da quando
aveva attraversato il campus. Prese un bel respiro ma entrò
e
continuò a guardarsi attorno, domandandosi dove avrebbe
dovuto
collocare le proprie cose.
Solo
una ragazza si era avvicinata e Brittany la osservò: era
alta quasi
come lei, esile e delicata, aveva lunghi capelli castani, occhi blu
ed un enorme sorriso che la fece istintivamente rilassare.
“Tu
devi essere la ragazza nuova” anche la voce sembrava dolce.
“Eh?”.
“Mi
chiamo Marley: piacere di conoscerti” le aveva porto la mano
ed era
stato un notevole miglioramento rispetto ai precedenti incontri,
tanto che Brittany non aveva potuto fare a meno di sentirsi,
finalmente, accolta.
“Brittany”.
Sembrava
averla subito presa in simpatia, Marley, perché le
indicò la coppia
di letti più vicina alla porta. “Io di solito
dormo sul letto
superiore, ma se preferisci-” le stava spiegando.
“Deve
esserci un errore,” la interruppe, Brittany, continuando a
guardarsi attorno. “avevo chiesto una camera
singola”.
Rise,
Marley, che doveva aver preso quelle parole per una battuta di
spirito. “Allora ti va bene stare nel letto di
sotto?”.
Fece
per risponderle ma si sentì sfiorare ad una spalla e si
volse fino
ad incrociare lo sguardo di una ragazza che la stava fissando con
fare minaccioso. Era più bassa di lei ma molto
più corpulenta e
robusta: si era sistemata gli occhiali tondi che sembravano renderne
gli occhi più piccoli o forse era il fatto li stesse
stringendo
nello scrutarla dall'alto al basso.
“E
così tu sei la figliastra del Preside”
evidentemente non aveva
bisogno che Brittany lo confermasse perché
continuò a parlare. “Se
credi d’essere speciale per questo o meritare un trattamento
di
favore, levatelo dalla testa” le aveva sibilato contro
l'orecchio e
Brittany era indietreggiata confusamente.
“O-Ok”
aveva balbettato e l'altra parve soddisfatta perché si
voltò, dopo
averle scoccato un'altra occhiata guardinga. Marley, cogliendo
l'occhiata smarrita di Brittany, le aveva stretto il braccio.
“E
questo, nel linguaggio di Lauren Zizes,
è un benvenuto” aveva sorriso Marley, rivolgendosi
poi a Lauren.
“Sono sicura che andremo tutte più che d'accordo:
non
spaventiamola il primo giorno”.
“Tanto
ci penserà Kitty a farlo” intervenne un'altra
ragazza, lo sguardo
che appariva indubbiamente terrorizzato.
“La
bastarda taglia-gole,”
commentò sprezzante Lauren, scrocchiando le nocche e facendo
ridere
qualcuna delle loro compagne di stanza, mentre Brittany ascoltava
distrattamente quei commenti, cercando ancora di valutare, in una
scala da uno a dieci, quanto fosse nei guai. Magari avrebbe dovuto
ricorrere ad una scala più ampia.
“Se
soltanto riuscisse a farsi portare a letto da Clarington, magari
sarebbe più umana”
intervenne un'altra, il sorriso più malizioso sulle labbra,
ma
Lauren non parve particolarmente convinta.
“Scommetto
che preferirebbe un incontro ravvicinato con Hudson nelle
docce”.
Brittany,
la mano a massaggiarsi i capelli una volta sedutasi su quello che
sarebbe divenuto il suo letto, continuò ad osservare le
compagne ed
ascoltarne distrattamente i discorsi.
Dov'era
finita?
Una
domanda che continuò a porsi a lungo: quando
indossò, per la prima
volta, la divisa ed ebbe la sensazione che ogni felicità le
fosse
risucchiata dal corpo (che fosse un'invenzione da Dissennatore?),
quando in sala mensa dovette servirsi su un vassoio di plastica e con
cibi che non conosceva e che le sembravano pappine per gatti.
Persino
alla notizia che alle dieci di sera, le luci sarebbero state spente
per il coprifuoco e che, da quel momento, nessuno potesse
più uscire
dalla propria camera senza incorrere in una grave punizione.
~
“Come
stai, tesoro?” aveva chiesto sua madre quando, finalmente,
era
riuscita a contattarla per una telefonata. Aveva scoperto, con
sgomento, che aveva soltanto mezzora di tempo prima di doversi
ritirare nella propria camera. N’aveva
approfittato per
imboccare l'uscita che dava sul cortile: in lontananza si riusciva a
scorgere il profilo della città, gli spazi verdi e le
montagne sotto
uno splendido cielo stellato. Un modo per prendere una boccata d'aria
fino al giorno dopo e, al contempo, una soluzione per parlare
tranquillamente.
Dopo
quella lunga giornata nella quale aveva soltanto cominciato a
memorizzare dei dettagli di quella che sarebbe stata la sua vita in
quell'Accademia, sentirne la voce era stato qualcosa di davvero
suggestivo. Sembrava appartenere ad un'altra realtà, quella
cui
Brittany sentiva di appartenere, quella che le era stata sottratta in
poche ore.
Aveva
dovuto reprimere il nodo in gola.
“Bene,
va tutto bene” si era sentita dire e si era sforzata di
concentrarsi sulle cose piacevoli per dare alla sua voce
un'intonazione meno amara, per non far preoccupare sua madre.
“Sono
contenta di essere qui con Neal e c'è una ragazza in camera
con me:
è tanto carina e gentile”.
“Ne
sono davvero contenta: sono davvero orgogliosa di te, lo
sai?”
aveva sussurrato con voce così dolce che Brittany aveva
sentito gli
occhi farsi più lucidi, ma le aveva chiesto di raccontarle
della sua
giornata. Aveva provato ad immaginarla in occupazioni così
quotidiane come la colazione in caffetteria, un giro per i negozi, la
lettura d’annunci per trovare un nuovo lavoro e l'ordinare le
loro
cose dagli scatoloni per arredare la nuova casa. Aveva sentito una
forte ondata di tristezza ma aveva provato ad immaginarsi al suo
fianco per lasciare che quel peso si allentasse dal cuore.
“Non
vedo l'ora di abbracciarti, stellina, buona notte” le aveva
sussurrato e Brittany aveva sentito un verso rauco sgorgarle dalle
labbra.
“Anche
io” aveva sussurrato. “Buonanotte” aveva
sospeso la chiamata e
aveva lasciato che la brezza serale le sfiorasse il viso, rilasciando
lentamente il respiro e asciugandosi la guancia.
Sarebbe
andato tutto bene, dovette ripetersi.
Si
voltò per rientrare nell'edificio, ma si scontrò
con la figura
apparsa sulla soglia della portafinestra.
“Scusa”
sussurrò prima di sollevare il capo e riconoscere Hunter.
Fu
un lungo istante quello in cui il ragazzo sembrò scrutarne
il viso
arrossato: non disse nulla, le rivolse un cenno del capo e si
appoggiò alla ringhiera per scrutare il cielo.
Ne
aveva osservato le spalle e la schiena, Brittany, prima di appoggiare
la mano sulla maniglia, pronta a fare il suo rientro.
“Cerca
di non farti vedere da Kitty in questo stato, domani” erano
state
le sue parole che sembrarono disperdersi nell'aria fredda. Non la
stava neppure guardando, tanto da dare l'illusione stesse parlando
con se stesso.
Sgranò
gli occhi, Brittany, prima che Hunter si voltasse verso di lei: il
viso inclinato di un lato. Si era stretto nelle spalle al suo
prolungato silenzio. “La nostalgia passerà prima o
poi e se non
dovesse farlo, dovrai fingere”.
Sembrava
davvero sicuro di quelle parole, tanto che Brittany gli aveva
istintivamente creduto, ma c'era qualcos'altro che le impediva di
rientrare. Sembrava che lo stesse vedendo per la prima volta e con
maggiore curiosità rispetto a quel pomeriggio.
“Sei
triste anche tu?” era stata la spontanea domanda, sussurrata
in
tono sommesso, ma abbastanza netta da attirare nuovamente
l'attenzione del giovane che parve irrigidirsi.
Inarcò
le sopracciglia e strinse le labbra. “Vai a letto,”
si era
voltato nuovamente verso il paesaggio. “è quasi
ora del
coprifuoco”.
Brittany
seppe di esser stata congedata ma non di meno, anche se non avrebbe
potuto dire da cosa nascesse simile certezza, che i suoi sospetti
dovevano
essere fondati.
~
[…]
Non seppe quanto tempo passò da che era entrata nella
sontuosa e
splendida camera: la sua stessa prigione. Probabilmente Belle aveva
esaurito tutte le sue lacrime per quella notte. Non era stata
soltanto la consapevolezza di un addio negato al padre che non
avrebbe più rivisto; ma l'autorità dei gesti e
delle parole del suo
carceriere. Seppure il suo sguardo impenetrabile sembrasse volerle
leggere l'anima, non sembrava essercene una dietro quegli occhi
glaciali; doveva esser soffocata nella rabbia e nel rancore che ne
avvelenava lo spirito e lo rendeva realmente Bestia.
Prigioniera
in un luogo che non le apparteneva e consapevole, anche nel dolore
della solitudine e dell'abbandono, di dover fare appello alla pallida
speranza che un giorno non avrebbe più sofferto. Si sarebbe
ricongiunta con l'amato padre e tutto sarebbe stato nuovamente al suo
posto e lei nuovamente se stessa. Ma fino a quel momento, per quella
notte almeno, Belle si sarebbe addormentata cullata dalle sue stesse
lacrime. […]
“Luci
spente!” annunciò una voce esterna e Brittany
sospirò: muovendo
cautamente la mano al buio, attenta a non urtare la caraffa
dell'acqua,
appoggiò il libro sul comodino accanto al letto.
Si rannicchiò in posizione fetale, cercando di abituarsi al
buio
della camera, rimpiangendo di non poter stringere il suo micio. Si
concentrò sulle pagine appena sfogliate e, lentamente, come
Belle,
regolò il suo respiro, ricacciò la malinconia e
si abbandonò al
torpore.
To
be continued...
Buon
Venerdì e buon, almeno come lo definisco tra me e me,
Huntany Day !
Come
vedete stiamo già entrando nell'ordine degli eventi che si
svolgeranno nei prossimi capitoli: sono più o meno apparsi
tutti i
personaggi principali, molti dei quali con connotati ben noti. Spero
che vi piaccia questa loro nuova disposizione in questo contesto.
Ringrazio
di cuore chiunque si sia preso la briga di sfogliare queste pagine,
malgrado la coppia e gli avvertimenti certamente non diffusi, e in
particolare le splendide fanciulle che mi hanno lasciato un
commentino: Diana, la mia Sebastian e la mia Nolanator, spero di non
avervi deluso :)
Prima
dei saluti, uno scorcio al prossimo capitolo:
“E'
per stupide oche come te che l'esercito femminile è tanto
pregiudicato”. “Pierce? Stai piangendo?”.
“Devi
essere molto simpatica a Kitty” “Tu credi? Pensavo
mi odiasse!”.
“Grazie
per l'aiuto ma rientro da sola: la strada la ricordo”.
“Non fare
la bambina”. “Io non sono una bambina!”.
Incuriosito?
Non mi resta che augurarvi buon weekend :)
A
presto,
Kiki87.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
Ce
la farò,
sopravvivrò.
Quando
il mondo crollerà,
quando
cadrò a terra e toccherò il suolo.
Mi
guarderò attorno,
non
provare a fermarmi.
Non
piangerò.
(Alice,
dalla colonna sonora
“Alice
in Wonderland”-
Avril
Lavigne)
Capitolo
2.
Non sapeva esattamente
dove si trovava ma quella sensazione di timore le
stringeva il cuore: ne sentiva i battiti rimbombare nei timpani e
l'istinto di lasciarsi tutto alle spalle e fuggire.
Udì
in lontananza un
tuono squarciare il silenzio e la pioggia continuava ad abbattersi
con inaudita violenza: sentiva freddo fin dentro le ossa e un tremore
diffuso nel tentativo di stringersi le esili braccia al corpo.
Osservò il lungo abito sporco:
un'angoscia
senza paragoni a vederne il tessuto, di un delicato azzurro,
imbrattato dal fango.
Il castello
sembrava
ancora addormentato ma non riusciva a
distogliere lo sguardo: aveva la
consapevolezza innata che un paio di occhi, nell'oscurità,
la
stavano seguendo. Sapeva che avrebbe dovuto trarsi al sicuro, che se
non fosse stata abbastanza rapida, sarebbe stata raggiunta.
Gli occhi
sgranati per il
terrore e le labbra schiuse nel tentativo di ritrovare respiro,
sollevò il lembo della lunga gonna e corse,
superò la fontana e
corse nel dedalo delle siepi, fino a quando non imboccò il
sentiero
che la condusse nel vicolo cieco.
Tutte le luci
sembrarono
smorzarsi, era completamente fradicia e non vi era
possibilità di
scavalcare la parete di mattoni. Provò a tastarla con il
respiro
affannato.
Si
voltò. Nessuno in
vista, un silenzio assordante, infranto solo dal suo battito convulso
e la certezza che qualcosa stava
per
accadere... e non avrebbe potuto impedirlo.
“Brittany,
Brittany:
svegliati presto!”, la voce di Marley sembrava lontana, come
filtrata da una radio mal sintonizzata. Ma trasparivano il timore e
l'ansia mentre la biondina continuava a dormire: le palpebre ben
serrate ma aveva stretto
convulsamente
il cuscino, le sopracciglia aggrottate per il
sogno che la stava angustiando.
“Ti
prego!”, la
ragazza la stava scuotendo energicamente. “Kitty sta
arrivando!”,
gemette prima che il suono della tromba risuonasse per la seconda
volta in tutta l'Accademia a siglare un momento ben preciso della
giornata.
Il controllo
mattutino:
tutte le reclute dovevano disporsi in riga, in attesa del Capitano
della sezione che si sarebbe
avveduto che
tutto fosse perfettamente in ordine nella camerata, prima dell'inizio
dell'addestramento.
E
così fu anche quella
mattina: Kitty e la sua sottoposta, una giovane dai capelli scuri, il
viso tondo e i lineamenti asiatici, fecero il suo imperioso
ingresso.
Marley si
affrettò a
prendere posizione, le mani strette lungo i fianchi, ma
continuò ad
occhieggiare l'amica con la coda dell'occhio, sperando in qualche
risveglio miracoloso, prima che fosse troppo tardi.
Kitty
lasciò vagare lo
sguardo sulla stanza, soffermandosi sulle reclute: sembrò
fare un
calcolo mentale perché, ad un certo punto, parve accigliata.
Gli
occhi guizzarono verso il letto sul quale la Brittany era ancora
stesa: non sembrava essersi mossa all'ennesimo squillo di tromba. Al
contrario, aveva affondato il capo sotto il cuscino, ancora
rannicchiata nel calore delle coperte.
Un'espressione
incredula
prima che, altrettanto repentinamente, un sorriso affiorasse sulle
labbra carnose. Fece cenno alla sua sottoposta di controllare gli
altri letti. Si fermò di fronte a Marley che, gli occhi
sgranati nel
vuoto, sembrava sudare per la tensione.
“La
nostra Barbie
ancora dorme?”, cinguettò ma la castana non
osò risponderle. Così
nessuna delle altre, soltanto Lauren gettò un'occhiata a
Brittany e
sollevò gli occhi al cielo.
“Svegliala”,
berciò
Kitty in direzione di Marley.
“Signorsì,
Signora!”,
rispose prontamente e si avvicinò al letto della ragazza e,
come
fatto prima dell'arrivo del Capitano, riprese a scuoterla con
maggiore intensità. Brittany emise soltanto un mugugno
lamentoso ma
non diede cenno di svegliarsi.
“Tic-toc,
tic-toc”,
cantilenò, Kitty, appoggiata indolentemente alla sponda del
letto a
castello, prima di fissare Marley con espressione di palese disgusto.
“Buttala giù dal letto”, le
ordinò con la stesso tono annoiato.
“M-Ma”,
la brunetta
si morse il labbro, evidentemente mortificata: indubbiamente il
conflitto tra il seguire l'ordine del suo Capitano e compiere un
gesto di quell'entità.
Sollevò
gli occhi al
cielo, Kitty, che le passò accanto e la scansò.
“Inutile come
sempre: mi domando cosa ti trattenga dal
tentare un plausibile
suicidio. Sicuramente l'idea di farmi felice”,
sibilò in sua
direzione con gelida malevolenza. “Tornatene in riga: ci
penso io”.
Si
avvicinò al letto,
pose le mani al di sotto del materasso e, un movimento energico e
risoluto, lo rovesciò, facendo così cadere la
ragazza addormentata
sul pavimento. Prese la tinozza dell'acqua appoggiata sul comodino e
gliene versò addosso il contenuto.
Brittany
ansimò e si
drizzò bruscamente, tremava e gli occhi erano sgranati in
una mera
espressione di spavento e di sorpresa: lo sguardo azzurro, nel
silenzio sovrano della stanza, guizzò alla camerata, le sue
compagne
e si soffermò su Kitty che torreggiava su di lei, le mani
sui
fianchi.
“Perché
sono bagnata?
Credevo di star sognando”, domandò, la voce ancora
rauca per il
brusco risveglio e il tono evidentemente confuso da tutta quella
situazione.
Kitty sorrise
e si mise a
coccoloni: la guardò con il viso inclinato di un lato e un
sorrisetto allusivo e divertito. “Sai che ore sono,
Barbie?”, le
soffiò minacciosamente all'orecchio.
Scosse il
capo, Brittany,
evidentemente ancora cercando di comprendere cosa stesse accadendo.
“Sono
le 5.10”, la
informò Kitty, la voce ancora serafica e l'altra
sgranò gli occhi
interdetta, guardandola come se avesse appena pronunciato qualcosa di
incredibile.
“Ma
a quest'ora si
dorme”, disse con tono ovvio che fece sorridere ulteriormente
Kitty, lo sguardo che baluginava malignamente.
“No”,
rispose in un
sussurro dolciastro, lo sguardo ancora freddo. “A quest'ora
dovresti già essere vestita, allineata alle tue
compagne”, le
indicò con un cenno del mento. “e pronta alla
corsa prima della
colazione”.
“Oh”,
Brittany si
morse il labbro e parve soltanto in quel momento comprendere cosa
stesse accadendo. “Mi dispiace, io-”.
Kitty la
interruppe,
sollevando la mano. “No, devi rispondere
'Signorsì, Signora'.
Avanti, dillo”.
“Signorsì-”.
“Più
forte!”, la
fulminò con lo sguardo. “Non riesco a
sentirti!”, le aveva
urlato contro l'orecchio e Brittany non ebbe tempo di chiedersi se,
come Hunter, avesse qualche problema di udito perché si
massaggiò
il timpano,
prima di ripetere la formula a voce più alta.
“Hai
dieci minuti”,
concluse Kitty, sollevandosi dal pavimento. “Vestiti ed esci
fuori
o verrò a prenderti io e ti assicuro che non sarà
affatto
gradevole”, fece un brusco cenno alla sua vice che si
affrettò ad
affiancarla ma, prima di imboccare l'uscita, si volse nuovamente
verso di lei.
“E
asciugati: se
bagnerai il pavimento, te lo farò pulire con la lingua. E
voi,
fuori!”.
Osservò
tutte le sue
compagne – Marley le aveva mimato un “a
dopo!” - camminare
ordinatamente verso l'uscita e Brittany sospirò. Si
scostò i
capelli dal viso e si sollevò, dopo aver starnutito.
Decisamente
non era stato
un buon inizio mattinata: Hello Kitty poteva dire ciò che
voleva ma
a suo parere, e anche quello del tempo là fuori, era ancora
notte. E
tempo di dormire.
“Sei
in ritardo
rispetto al ritardo!”, le abbaiò contro il
Capitano: aveva
lasciato le altre reclute sotto la direzione di Tina Cohen Chang e si
era avvicinata, con passi rapidi, a Brittany che era rimasta
immobile, assumendo la posizione che le era stata insegnata.
“Mi
dispiace: non
riuscivo ad allacciare gli stivali e-”.
“Oh,
povera Barbie,
forse ancora non ti sei ambientata? Ma non preoccuparti”, si
era
portata una mano al petto, Kitty, imitando un'espressione di
dispiacere, misto ad una dolce premura. “Ti
aiuterò io in questo”,
nuovamente sorrise ma era come se i lineamenti anziché
ammorbidirsi
e divenire più dolci, si affilassero. C'era una luce
sinistra nel
suo sguardo.
“S-Sei
molto gentile”,
sussurrò Brittany, evidentemente stupita da quel cambiamento
di
espressione e di tono ma Kitty assunse nuovamente il suo sguardo
gelido e colmo di disprezzo.
“Venti
giri di campo!”,
il tono lapidario nell'impartire il suo ordine e Brittany
boccheggiò.
“Venti?”,
non seppe
cosa fosse più sconcertante: il modo in cui nuovamente
sembrava aver
assunto la parte da cattiva o il fatto che credesse che venti
giri di campo potessero aiutarla ad abituarsi
a quel luogo.
“Trenta,
allora”.
Sorrise, il viso inclinato di un lato. “Hai altro da
dire?”.
Scosse
repentinamente il
capo, Brittany: adesso che aveva capito il gioco, non si sarebbe
più
fatta trarre in inganno.
Non parve
soddisfatta,
Kitty, perché la circumnavigò: si
fermò al suo fianco e si sporse
al suo orecchio, in un atteggiamento evidentemente intimidatorio.
“Adesso dovresti dire 'Signorsì, signora'. Mani
lungo i fianchi e
ripeti forte, avanti”.
Si era morsa
il labbro,
Brittany, ma aveva obbedito.
“Comincia”,
parve
annoiata la sua superiore ma, l'attimo dopo, le artigliò il
polso.
“Aspetta”,
la fece
voltare e lo sguardo schifato corse ai braccialetti che erano
sfuggiti dalla manica della divisa (aveva dovuto raggomitolarle, in
quanto troppo lunghe). Colorati, con piastrine a forma di fiorellini
e di cuoricini che Kitty osservò come si fosse trattato
dell'animale
più ripugnante esistente in natura.
“Ne
vuoi uno?”,
chiese Brittany, nervosamente. “Ne ho tanti”.
“Levali
subito”,
sibilò Kitty, lasciandole bruscamente il braccio e, con un
sospiro e
un'espressione offesa, Brittany li sfilò.
Kitty gliele
prese
prepotentemente e, sotto il suo sguardo incredulo e mortificato, li
gettò a terra prima di fissarne i capelli che le ricadevano
sulle
spalle.
“Se
ti rivedrò coi
capelli sciolti, te li taglierò io stessa: legali
subito!”.
Si era tolta
il berretto,
Brittany, e l'altra ragazza – spostatasi rapidamente alle sue
spalle – li raccolse con tale forza da procurarle dolore,
prima di
modellarli in una stretta crocchia che fermò con uno dei
suoi
braccialetti.
“E'
per stupide oche
come te che l'esercito femminile è tanto
pregiudicato”, le aveva
soffiato rabbiosamente nell'orecchio e nuovamente le fu davanti con
la stessa espressione implacabile e colma di puro e semplice sprezzo.
“E ora corri: voglio vederti stramazzare a terra ed imparare
cosa
sia la fatica”.
Aveva annuito,
Brittany,
le labbra tremanti e il prurito al bordo degli occhi: era dai tempi
della scuola, quando le bambine più grandi la punzecchiavano
e
facevano gruppo, lasciandola in disparte, che non si sentiva
così
sola e incompresa.
“Pierce,
stai
piangendo?”, le aveva chiesto, Kitty, l'espressione incredula
ma
Brittany si era affrettata a scuotere il capo per rimuovere quei
ricordi meno lieti.
“N-No”,
aveva
sussurrato, la voce rotta.
“No,
Signora!”, la
pungolò Kitty che la spinse malamente in avanti.
“CORRI! Cinquanta
giri di campo: non mangerai fino a quando non avrai completato,
sarò
la tua ombra, MUOVITI!”.
Quando ebbe
finito, trovò
Marley ad attenderla in camerata: erano soltanto loro due e Brittany,
la mano appoggiata al fianco dolorante almeno quanto la milza (o era
il fegato?), camminò lentamente, il respiro ancora ansante.
Aveva il
volto arrossato, il berretto che scivolava dal capo e i capelli che
ricadevano scomposti sulle spalle e che avrebbe dovuto nuovamente
acconciare, prima di uscire dalla stanza.
“Bevi
un po' d'acqua”.
Brittany si
lasciò
cadere sul proprio letto, facendo dei profondi respiri e sollevando
il capo. Aveva allungato la mano verso il bicchiere, le tremavano
leggermente le dita ma bevve tutto di un fiato mentre Marley la
osservava evidentemente preoccupata.
“Kitty
è tremenda: ha
fatto così, anzi, fa così anche con me. Non che
le altre siano più
fortunate ma credo abbia un debole per noi”, cercò
di improvvisare
un sorriso divertito ma si sedette al suo fianco e le strinse la
spalla. “I primi tempi sono difficili per tutti ma ti
abituerai”.
Non riusciva a
parlare,
Brittany. Le sorrise a mo' di ringraziamento ed annuì ma
quell'angoscia che aveva provato durante il sogno: quella sensazione
di occlusione, nonché il terrore di ritrovarsi nuovamente in
trappola, le toglievano quasi il respiro.
Aveva cercato
di
ripetersi per tutta la mattinata quelle parole rassicuranti, quella
certezza che avrebbe soltanto dovuto avere pazienza perché
tutto si
sarebbe sistemato. Anche quando era caduta e, ogni singola volta,
Kitty le aveva urlato contro, minacciandola di prolungare
ulteriormente la sua punizione e di lasciarla per l'intera giornata
senza cibo.
“Andiamo
alla mensa”,
la voce dolce e ovattata di Marley la strappò a quei
pensieri. “
Poi avremo lezione insieme”, le aveva porto la mano in un
gesto
così semplice e spontaneo che Brittany aveva sentito un
dolce calore
sfiorarle il cuore. Si era allungata a cingerla e si era rimessa in
piedi.
C'era di buono
che la
madre di Marley, che lavorava come cuoca nelle cucine dell'Accademia,
sembrava averla presa in simpatia (sicuramente la figlia le aveva
parlato del suo arrivo) perché le diede una porzione
aggiuntiva
della razione, nonché un dolcetto che le aveva suggerito di
nascondere. Aveva un sorriso meraviglioso che, per un attimo, aveva
annullato tutte le difficoltà e la tristezza di quella
mattina, per
far sentire nuovamente Brittany a casa. In un posto sicuro, nel quale
non dovesse temere nulla, men che meno di non poter essere se stessa.
~
Quando giunse
nell'aula di storia, il suo umore era migliorato, nonostante la
materia fosse particolarmente noiosa ai suoi occhi. Ma si era
drizzata in piedi, imitando gli altri studenti, quando l'insegnante
era entrato nell'aula.
Anch'egli
indossava la
divisa e aveva diverse piastrine affisse sulla stessa (aveva imparato
che non erano spille decorative ma corrispondevano a diversi gradi
nell'esercito, anche se non riusciva bene a distinguerli), era un
uomo molto alto (probabilmente quanto Finn), aveva un'espressione
apparentemente severa sul viso ma non mancò di lasciar
guizzare lo
sguardo verde sui suoi studenti, facendo qualche sporadico sorriso a
qualcuno di loro che già conosceva.
Aveva una voce
profonda e
vi era qualcosa nel suo apparire così composto e serio che
l'aveva
indotta ad osservarlo con maggiore attenzione mentre si presentava
per i nuovi arrivati, come lei.
Mister
Clarington,
ripeté
tra sé e sé: dove aveva
già sentito quel cognome?
Sembrava un
uomo
intimidatorio, tanto che aveva risposto con voce flebile all'appello
ma questi aveva sollevato lo sguardo dal suo registro e le aveva
rivolto un breve ma
sincero
sorriso
che ne aveva fatto baluginare gli occhi, nel darle il
benvenuto. Aveva ringraziato con un breve accenno di rossore sulle
guance e seppe che, istintivamente, quell'uomo le sarebbe stato
simpatico, per quanto vederlo in piedi ed in divisa, potesse farle
impressione. Non che Neal non le avesse suscitato una stessa
suggestione ma il suo patrigno aveva sempre quel sorriso più
fanciullesco e sbarazzino che la divisa non era (ancora) riuscita ad
adombrare; il signor Clarington sembrava sempre molto controllato e
posato. A lui la divisa, decisamente, non faceva un bell'effetto.
Come
scoprì fin troppo
presto, Neal aveva avuto ragione nell'affermare che materie che
già
aveva studiato in precedenza, avrebbero avuto un diverso approccio.
Non si trattava semplicemente di studiare le battaglie che si erano
susseguite nel corso delle epoche storiche ma di soffermarsi, con
particolare enfasi, sulle strategie militari che erano state
adottate.
La voce del
Signor
Clarington sembrava divenire fin troppo soporifera e, dopo
l'attività
fisica di quella mattinata, il sonno cominciò a premerle
sulle
palpebre con inaudita seduzione. Più volte Marley dovette
scuoterla
perché non sprofondasse in un sonno profondo.
Si
strofinò una mano
sugli occhi quando uscì dall'aula ma li spalancò
l'attimo dopo nel
riconoscere la sagoma del Capitano della sezione maschile che stava
camminando in sua direzione. Quest'ultimo, inappuntabile nella sua
divisa, indugiò a sua volta nel suo sguardo – si
era bloccata nel
mezzo del corridoio, Marley ancora la suo fianco – prima di
rivolgerle un cenno del mento. Le passò accanto per entrare
nell'aula ma Brittany, un impulso innato quanto spontaneo, si volse
in sua direzione.
“Grazie”,
sussurrò
con voce tremante, le guance appena rosate. “... per
ieri”.
Il ragazzo,
che si era
bloccato ad un passo dalla porta, si voltò in sua direzione:
parve
confuso almeno quanto Marley che guardava dall'uno all'altra, prima
di rivolgere al suo superiore il saluto militare. Si riscosse,
Hunter, e rivolse un cenno pigro a Marley.
“Riposo”,
le aveva
detto e Brittany si accigliò appena.
Quindi poteva
andare a
dormire?
Glielo avrebbe
anche
chiesto, per sicurezza, se lo sguardo di smeraldo non fosse saettato
in sua direzione.
“Non
so di cosa tu stia
parlando”, la guardò così intensamente
che Brittany provò
un'improvvisa contrazione all'altezza dello stomaco. Sembrava che
volesse entrarle nella testa o suggerirle qualcosa, visto come
inclinò il viso di un lato e la guardò
attentamente.
Sbatté
le palpebre,
Brittany, evidentemente confusa. Che si fosse dimenticato che si
erano visti appena la sera prima e lui era stato così
gentile da
preoccuparsi per il suo stato d'animo?
“N-Non
ricordi?”, gli
chiese confusa. “Mi hai detto che-”.
“Com'è
andata la
lezione?”, la interruppe e Marley sembrò ancora
più disorientata
da quella sorta di interessamento. Brittany sbatté appena le
palpebre prima di stringersi nelle spalle e sorridere affabile.
“Benissimo:
si dorme
perfettamente a quest'ora”, rispose in tono naturale.
Sembrò
spiazzato,
Hunter, perché inarcò le sopracciglia e
sembrò persino
irrigidirsi: Marley era trasalita al suo fianco e, cercando di non
farsi scorgere, era scivolata alle spalle del ragazzo e aveva
cominciato a sbracciarsi in strani gesti che Brittany non
riuscì a
decifrare.
“Non
ti piace la
storia?”, le chiese il giovane, l'attimo dopo, il viso
inclinato di
un lato e le sopracciglia inarcate in quella che sembrava
un'espressione davvero curiosa. Aveva arricciato l'angolo delle
labbra, parve vagamente divertito dalle sue parole.
I gesti di
Marley
divennero più frenetici e Brittany si domandò se
la poveretta non
fosse stata vittima di un'infezione di pidocchi. Oddio, forse avrebbe
dovuto evitare di usare il cuscino della sua branda.
“Per
nulla”, rispose
in tono limpido. “il professore è gentile
ma...”, aveva
abbassato la voce in tono più complice e Hunter si era
prestato,
l'angolo delle labbra sollevato.
“Ma?”.
Aveva
arricciato il naso,
Brittany. “Quando comincia a parlare di strategie,
è peggio di un
sonnifero”, dichiarò in tono ovvio che fece
annuire gravemente il
ragazzo di fronte a sé.
Sembrò
in procinto di
voler dire qualcosa, Hunter, ma la sagoma dell'insegnante apparve
sulla soglia della sua aula: aveva inarcato le sopracciglia a
scorgere le giovani ancora in prossimità dell'aula prima di
rivolgersi al ragazzo.
“Hunter,
ti stavo
aspettando”.
“Arrivo,
papà”,
calcò dolcemente l'ultima parola ma lo sguardo verde era
tutto per
la biondina che sgranò gli occhi e impallidì: li
osservò per un
istante facendo saettare le iridi dall'uno all'altro.
La somiglianza
nei modi e
nel barlume smeraldino erano così evidenti che si
sentì
incredibilmente mortificata. E sciocca. Aveva boccheggiato, Brittany,
il rossore ad affiorarle in viso: fece per dire qualcosa ma Hunter la
precedette. La torreggiò, inclinando appena il viso di un
lato,
inarcò rapidamente le sopracciglia in un'espressione
sorniona. “Come
un sonnifero?”, le chiese in un bisbiglio.
“I-Io,
mi dispiace, non
volevo”, lo stava letteralmente seguendo ma questi si strinse
nelle
spalle: varcò la soglia dell'uscio e si volse.
“Va'
ad addestrarti,
Pierce”, le chiuse la porta in faccia e Brittany
indietreggiò, il
viso ancora arrossato e lo sguardo sconvolto.
“Ho
cercato di
avvisarti”, piagnucolò Marley ma Brittany neppure
quasi la udì
mentre si mordeva il labbro.
“Lui
è stato gentile
con me e adesso mi odierà per sempre. E penserà
che io sia
cattiva”, era parsa ancora più puerile e tremante
alla prospettiva
ma Marley, che ancora cercava di comprendere da cosa nascesse quella
loro particolare interazione, si strinse nelle spalle.
“Dubito
che al Capitano
Clarington piaccia qualcuno qui dentro”, le aveva detto a mo'
di
consolazione prima di fissare l'orologio preoccupata.
“Andiamo,
prima che Kitty ci metta a pulire i bagni degli uomini”.
Rimase ad
osservare la
porta chiusa, Brittany: il ragazzo non aveva voluto essere
ringraziato e forse neppure voleva si sapesse che si sentiva solo. O
che così si era sentito, quando era arrivato all'Accademia,
anche se
sembrava perfettamente padrone di sé.
Davvero non
gli piaceva
nessuno? O forse era lui a non piacere e per quel motivo era solo e
triste?
Sfiorò
appena la
superficie della porta e restò a contemplarla, fino a quando
Marley
non la prese con decisione per il braccio, portandola via.
~
Come aveva
annunciato
Marley, dopo pranzo Kitty le attendeva nel campo
d’addestramento.
Brittany guardò con orrore quello che somigliava ad una
lunga e
complessa corsa ad ostacoli: file di copertoni di gomma da superare,
muovendo un passo alla volta con le gambe divaricate; un tratto di
fango sotto un tunnel ricoperto da un ramato di ferro sotto il quale
bisognava strisciare e, dopo vari altri ostacoli, una pedana dalla
forma a trapezio sulla quale bisognava arrampicarsi per poi
discendere dall’altro lato, aiutandosi con la corda.
Sbatté
le palpebre: Neal
non aveva fatto alcuna menzione a qualcosa di così orribile.
“Bene,
signorine”,
e da come lo diceva non era certamente un vezzeggiativo, soprattutto
se quelle parole erano accompagnate da uno sguardo così
torvo.
Brittany si
affrettò ad
imitare la postura che avevano assunto le sua compagne mentre il
Capitano le passava in rassegna, fermandosi di fronte ad ognuna di
loro per quelli che parvero secondi infiniti.
“Ormai
dovreste
conoscere il percorso a memoria e ho già esaurito la
pazienza questa
mattina”, lo sguardo malevolo occhieggiò laddove
Brittany e Marley
la guardavano timorose.
“Chiunque
sbagli, si
farà cinquanta giri di campo supplementari a fine
addestramento”.
Si era fermata di fronte a Brittany e sembrò coglierne
l’espressione
preoccupata. Evidentemente era persino piacevole vederla in
quell’espressione perché le sorrise. Ma, ancora
una volta, se
possibile, quel sorriso la rendeva persino più minacciosa.
“Non
preoccuparti,
Barbie: tu andrai per ultima, naturalmente”.
Benché
sorpresa da
quella che sembrava una premura del tutto spontanea, Brittany le
sorrise raggiante. Sbuffò, Kitty, lo sguardo volto al cielo.
“Dovresti
rispondere”.
“Grazie?”,
domandò
impulsivamente e sentì Marley gemere al suo fianco mentre
Lauren
soffocava una risata di scherno.
Una lieve
pressione di
Kitty e Brittany cadde a terra: il Capitano premette lo stivale
contro la sua schiena, premendola maggiormente al terreno e facendola
respirare ansante.
“Non
mi piacciono gli
spiritosi e neppure i menomati: fammi dieci
flessioni,
subito!”.
Stava
comprimendola con
lo stivale con sempre più forza e Brittany
annaspò ma si sollevò
con il busto ed iniziò il piegamento. Sentì Kitty
esercitare più
pressione, facendola nuovamente cadere a terra e interrompendo il
conteggio. Si volse verso Tina, facendole un cenno imperioso verso
Brittany.
“Fagliele
finire e
fagliene fare altre dieci!”.
Almeno la sua
sottoposta
non sembrava severa e contava per lei: aveva il fiato corto e il viso
arrossato, sentiva un fastidioso formicolio alle braccia, quando ebbe
terminato.
Quando si
rimise in
piedi, osservò le altre ragazze alle prese con il diabolico
percorso: in poche (e per fortuna tra queste vi era Marley che, dopo
il primo anno di vessazioni, sembrava aver raggiunto maggiore
sicurezza di sé) riuscirono a compierlo senza incidenti. In
quel
caso, Kitty si limitava ad un brusco cenno del capo e le esortava ad
andare in palestra. Marley le rivolse un saluto e le mimò un
“in
bocca al lupo!”, ma non poté evitare di sentirsi
abbandonata.
Sospirò
ma, voltando il
capo verso l’edificio, notò in lontananza un
plotone di ragazzi:
fu facile scorgere la figura mastodontica di Finn e riconoscere
quella di Hunter che stava di fronte a tutti mentre illustrava un
percorso simile al loro ma con maggiore combinazione di ostacoli e
una struttura più alta sulla quale arrampicarsi.
Finn stava
facendo
flessioni ma gli sorrise quando alzò lo sguardo in loro
direzione: a
quel punto, evidentemente sorpreso di rivederla, cadde goffamente a
terra e Brittany si lasciò sfuggire un verso di
divertimento.
Trasalì
quando scorse
Kitty al suo fianco: si muoveva con una fluidità incredibile
ed era
incredibilmente silenziosa. “Bene, bene, Barbie: se sei
così
impegnata a flirtare con un crostaceo, immagino che non ti
dispiacerà
metterti in mostra”.
“Posso
andare a
salutarlo?”, le aveva chiesto confusa.
“CORRI!”,
le diede
uno spintone e Brittany, per la prima volta, dovette affrontare il
temibile momento.
Se era
relativamente
facile correre e saltare gli ostacoli (“Solleva quella gambe
da
fenicottero!”, l’aveva ammonita Kitty che la
seguiva, passo dopo
passo), un po’ meno lo era superare la distesa di copertoni.
Cadde
varie volte e Kitty le impose di ricominciare da capo, elevando di
volta in volta il numero di flessioni cui si sarebbe sottoposta alla
fine del percorso stesso. Tuttavia, la biondina sembrò
concentrarsi
soltanto su di lei, affidando a Tina il resto del plotone.
Giunse alla
parte più
disgustosa e dolorosa: strisciare sul fango ed evitare di impigliarsi
nel fil di ferro, aggrovigliato su se stesso.
“Veloce,
fai presa sui
gomiti! Rotolati o trascinati, devi arrivare alla fine!”.
Quando ne
uscì, si
accorse di aver perso il berretto: era scarmigliata, aveva tracce di
fango sul viso, sotto le unghie, sulle braccia (si era sollevata le
maniche della casacca) e la sua divisa era in pessime condizioni,
senza contare che non emanava esattamente un buon profumo.
“Sei
talmente patetica
che voglio porre fine a questo scempio prima di rigettare il pranzo:
scavalca l'altura, fai le tue flessioni e poi infilati sotto la
doccia”, aveva arricciato il naso, l'espressione di disgusto
più
accentuata che mai. “Puzzi da morire”.
Si morse il
labbro,
Brittany: forse era quello il momento di dirle che soffriva di
vertigini?
Qualcosa le
suggeriva che
Kitty si sarebbe arrabbiata (ulteriormente) e l'avrebbe torturata
fino a quando non avesse avuto abbastanza pietà per mandarla
sotto
la doccia. Strinse i denti ma, malgrado la rincorsa e la fune, non fu
facile provare a scalare l'altura: il fango sulle mani rendeva la
presa meno stabile e così anche gli scarponi non riuscivano
a farla
attecchire coi piedi, così da potersi sollevare. Con estrema
fatica,
il viso pallido e il respiro ansante (e le urla di Kitty ad
assordarla) giunse sulla sommità dell'altura, una sorta di
base
rettangolare sulla quale restò a cavalcioni, nel tentativo
di
prendere fiato. E, soprattutto, di non guardare in basso. Stava
tremando alla consapevolezza di essere sospesa a tre metri dal
terreno.
“Se
hai finito di
cavalcare, scendi prima che ti
spari e ti faccia cadere io”.
Non era una minaccia da prendere a cuor
leggero, malgrado non vi fosse un fucile in dotazione (ma era certa
che avesse una mira da cecchino).
Fu istintivo,
e un
madornale errore, guardare verso Kitty: gli occhi azzurri si
spalancarono alla vista del terreno che sembrava volerla inghiottire.
Le girò la testa e si aggrappò con dita tremanti
alla struttura
stessa, gli occhi chiusi spasmodicamente e il respiro ancora agitato.
“Scendi,
SUBITO!”.
“N-Non
posso”, pigolò
con voce strozzata.
“Cosa hai detto,
Pierce?”, sembrava incredula ma prossima all'ennesima lavata
di
capo per quel giorno.
“Soffro
di vertigini”,
rivelò con lo stesso tono pigolante e angosciato.
“Oh,
questo cambia
tutto, perdonami”, Kitty si era portata teatralmente una mano
al
petto e Brittany aveva sollevato speranzosa il capo: capace persino
di sconfiggere la sua ritrosia, all'idea che avrebbe fatto qualcosa
in merito. In un anelito più infantile, le porse il braccio.
“Puoi
aiutarmi?”.
Kitty ne
scacciò la mano
con una smorfia e gli occhi iniettati di sangue. “Che cosa
faresti
se dovessi soccorrere una delle tue compagne e dovessi scalare
quell'altura per raggiungerla? La lasceresti stramazzare per una tua
inettitudine?!”.
“No”,
borbottò,
Brittany, quasi offesa della domanda. “Chiamerei
aiuto”.
A quel punto
Kitty sembrò
vicina al punto di ebollizione: stava stringendo spasmodicamente il
pugno e Brittany fu certa che, se l'avesse avuta tra le mani, avrebbe
potuto disfarle i connotati. Sembrò impiegare un lungo
istante per
riprendere controllo di sé e sibilare un: “Scendi,
subito”.
Brittany
sospirò e provò
ad assumere la posizione più corretta: mosse lateralmente
una gamba
per puntellarsi, stringendo spasmodicamente la fune ma, alla vista
del terreno, tremò nuovamente e chiuse gli occhi.
“Molto
bene”. Kitty
lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
“Vorrà dire che
scenderai da sola o creperai là sopra: per me non fa
differenza”,
si volse verso il plotone: sembrò che nessuna delle sue
compagne
avesse qualcosa da dire o tanto meno vi fosse qualcuno divertito.
“Se
qualcuna di voi osa avvicinarsi o aiutarla, se la vedrà
direttamente
con me: sono stata chiara?”.
Sguardi
preoccupati,
qualcuno di pietà e di empatia ma nessuno rispose. Kitty
parve
soddisfatta e, incredula, Brittany le guardò lasciare il
campo, dopo
che si furono disposte in una fila ordinata.
Era
completamente sola.
Spaventata, affamata e sporca.
Non seppe
quanto tempo
fosse passato: stava canticchiando qualche filastrocca nel tentativo
di stemperare la tensione e nell'attesa che Kitty cambiasse idea o,
almeno, mandasse Tina a recuperarla. O che qualcuno avesse il buon
senso di avvisare Neal di ciò che stava accadendole. Se
soltanto
avesse avuto il suo cellulare con sé.
Poteva andare
peggio
di così? Si
domandò.
Udì
un tuono in
lontananza e, l'attimo dopo, gocce di pioggia, sempre più
intense le
punteggiarono il viso come proiettili ghiacciati. Cercò di
sollevarsi ma la vista del vuoto sotto di sé la
paralizzò
nuovamente e, ben presto, ai suoi disagi, si aggiunse il freddo e i
tremori conseguenti.
Sgranò
gli occhi quando
scorse un gruppo di ragazzi che, incuranti del temporale, stavano
disponendosi nel campo vicino e, tra questi, vi era proprio lui.
“FINN!”,
lo chiamò
con voce rauca ma il vento e il rombo dei tuoni resero quel tentativo
vano. Provò più volte ma lo scroscio era sempre
più violento e
neppure mulinare le braccia sembrò essere d'aiuto: chi si
sarebbe
aspettato che vi fosse qualcuno intrappolato in una simile
situazione?
~
“Ricordami
perché
siamo qui, Hudson, sotto la pioggia”.
La voce di
Hunter
sembrava un sospiro quasi stanco e rassegnato e il ragazzo, al suo
fianco, stava letteralmente sudando freddo: lo sguardo volto in un
punto indeterminato di fronte a sé.
Finn
increspò la fronte,
nel tentativo di ricordare le esatte parole che gli erano state
abbaiate contro. “Perché sono un incapace, inetto,
un crostaceo
non sviluppato, privo della coordinazione mano-occhio e peso cento
chili di stupidità repressa”, stava letteralmente
contando gli
epiteti sulle dita della mano, lo sguardo concentrato ma parve aver
ricordato tutto. “Signore”, aggiunse.
“Precisamente”,
commentò, Hunter, le mani dietro la schiena nello scrutarlo
prima di
scuotere leggermente il capo. “Stenditi: cinquanta flessioni
e poi
sparisci dalla mia vista”.
“Signorsì,
Signore!”.
Levò
gli occhi al cielo,
Hunter, fece cenno al suo sottoposto, di contare e di controllarne la
corretta esecuzione e lasciò vagare lo sguardo
sull'immensità dei
campi.
Talvolta era
qualcosa che
soggiogava la vista per la sua immensità e l'odore della
pioggia
sembrava rendere tutto ancora più naturale: come recuperare
il
contatto con la natura e riuscire a sondare dentro sé
stessi.
Riuscire a trovare quell'innesto di energia e di forza interiore,
quella che neppure era data a conoscersi. Era qualcosa di
affascinante il modo in cui il corpo umano potesse adattarsi alle
situazioni e compiere movimenti che divenivano armonici, naturali. Ed
era tutto perfettamente sotto il suo controllo, tutto andava
esattamente come...
Sbatté
le palpebre a più
riprese: lo sguardo si era fatto più attento. Probabilmente
si era
soltanto trattato di uno strano scherzo della luce di un fulmine ma
aveva avuto l'impressione di aver scorto un... qualcosa. Senza
pensare, le sopracciglia corrugate, avanzò verso quella
direzione:
valicando il campo cui di solito Kitty faceva addestrare il suo
plotone.
Non aveva
sbagliato:
effettivamente qualcosa si era mosso ma non avrebbe mai immaginato
che, avvicinandosi, avrebbe potuto riconoscere una sagoma umana.
Si
fermò al centro del
campo, incredulo: la giovane, scorgendolo, si era drizzata. Malgrado
fosse fradicia, sporca e stremata, il suo sorriso sembrò
abbagliarlo
almeno quanto la luce del fulmine, tanto era stato repentino e
sincero.
Era ancora
sconvolto
nell'osservarla e si fermò ai piedi dell'altura, gli occhi
sgranati.
“Pierce”, la chiamò con voce strozzata.
“Cosa diavolo-?”.
“Non
riesco a
scendere!”, gemette la giovane che, malgrado l'evidente
sollievo,
sembrava più tremane e spaurita che mai: una bambina
abbandonata a
sé stessa e timorosa. E le macchie sul viso del fango
rappreso e i
capelli sciolti e spettinati, sembravano accentuare quella
somiglianza.
Ricordò
vagamente che il
plotone di Kitty si era addestrato lì quello stesso
pomeriggio.
“Mi
stai dicendo che è
da – fece un rapido calcolo mentale – tre ore che
sei là
sopra?!”, continuava a scrutarla, come se si fosse trattata
di una
rara specie animale.
Parve
indifferente,
Brittany, alla rivelazione: evidentemente non erano quei dettagli a
premerle in quel momento. “Non lo so, non ho
l'orologio”, spiegò,
alzando la voce per cercare di sovrastare lo scroscio dell'acqua.
“Puoi aiutarmi, ti prego!”,
sembrò supplicarlo,
allungando il braccio in sua direzione.
Era ancora
più
interdetto, Hunter, ma prese una rapida risoluzione: con un movimento
agile si arpionò alla fune e, apparentemente senza alcun
disagio
suscitato dalla pioggia che avrebbe potuto farlo scivolare lungo la
superficie, in pochi movimenti la raggiunse sulla sommità
dell'altura.
“Devi
essere simpatica
a Kitty”, commentò in tono incredulo, osservandola
con occhio
clinico, constatando se la permanenza prolungata, le avesse causato
qualche danno collaterale.
“Tu
credi? Pensavo che
mi odiasse”.
Che avesse un
calo di
zuccheri?
Hunter pensò fosse meglio non chiederselo e scosse il
capo prima di assumere un'espressione più decisa.
“Devi soltanto
tenerti alla fune e lasciarti scivolare: ti controllerò io
da
quassù”.
Le porse la
corda ma
Brittany scosse il capo, decisa. “No, no! Vai prima tu, ti
prego!”.
Il tono era
stato così
pigolante e supplichevole, così timoroso di un rifiuto che
Hunter si
domandò come Kitty avesse potuto prendere un simile e
irragionevole
provvedimento su di lei. Sospirò ma annuì. In
normali circostanze
(se fosse stata un ragazzo, magari) le avrebbe allungato uno spintone
o urlato contro, ma era evidente che non si trattava di un capriccio
o sarebbe già scesa da tre ore.
“D'accordo,
ascoltami:
non devi guardare in basso, lascia scivolare le gambe e calati molto
lentamente”, la istruì con tono più
paziente mentre le mostrava
lui stesso ciò che le aveva descritto.
Parve ancora
dubbiosa.
“Ma-”.
“Dovrai
farlo prima o
poi”, aveva sospirato stancamente. “E se non
sarà con me, sarà
con Kitty stessa: scegli tu”.
Sospirò
Brittany ma
comprese ed annuì: con suo sommo terrore, Hunter era
già sceso e
giunto a terra ma le fece cenno di afferrare la corda ed imitarne i
movimenti. Si muoveva lentamente, in modo timoroso ed incerto e lo
sguardo del ragazzo la seguiva senza battere ciglio: sarebbe stato
tutto molto più semplice se avesse superato quel primo e
disastroso
impatto.
“Lentamente,
bene: sei
quasi a metà”, le disse in tono rassicurante.
“Davvero?!”.
C'era un
entusiasmo infantile nel suo tono e, con disappunto di Hunter, si era
voltata per constatare lei stessa quella verità, prima che
avesse
modo di impedirglielo.
La ragazza
sbiancò
letteralmente, la mano stretta spasmodicamente alla fune, aveva
boccheggiato e tutto accadde in una rapida frequenza che non
riuscì
a controllare e tanto meno evitare. Si era sbilanciata troppo e aveva
cercato di aggrapparsi nuovamente alla fune ma, complice la pioggia
che ne rendeva la presa scivolosa, perse l'appoggio e cadde. Era
stato un movimento istintivo quello di Hunter: le si era avvicinato
per impedirle la caduta ma la giovane gli piombò addosso con
lo
stesso impatto violento di una cannonata.
Doveva aver
battuto la
nuca perché sentì la testa pulsare dolorosamente,
nonché una certa
confusione di pensieri, ma quando schiuse gli occhi, una sola
immagine gli apparve nitida.
Limpidi occhi
azzurri,
innocenti e sgranati: il viso su cui il fango cominciava a colare
come mascara, le labbra schiuse e l'espressione, seppur sorpresa e
imbarazzata, era anche intrisa di letizia e di serenità. E
constatando che gli stava ancora addosso, probabilmente non era una
situazione... consona.
“Grazie,
grazie: mi hai
salvata!”, temette per un istante che stesse per abbracciarlo
o
ardire una qualche confidenza (come se stargli addosso così
placidamente non fosse già indice di una
prossimità decisamente
fuori luogo) ma si limitò a passarsi una mano sul viso.
Emise uno
sbuffo e si
sollevò con il busto, facendo presa sulle mani sul terreno
prima di
inclinare il viso di un lato.
“Tecnicamente
ho
salvato l'altura che tu tenevi in ostaggio”.
Non era certo
che quella
osservazione polemica le facesse alcuna differenza e cercò
di
ignorare quella sensazione spiacevole di calore che affluiva al viso,
malgrado fosse fradicio. Cercò di ignorare il modo in cui
quel
contatto aveva innestato un piacevole tepore, nonché la
fragranza
fin troppo dolciastra del suo profumo di fragola che riusciva a
percepire malgrado l'odore ferroso della pioggia.
Inarcò
le sopracciglia,
in attesa che si scostasse: riusciva a sentire il suo corpo tremare e
si disse che un tipino così delicato non fosse assolutamente
idoneo
a quel tipo di vita e dubitava che l'addestramento fisico fosse
sufficiente se non fosse maturata psicologicamente.
“Sei
stato gentile”,
aveva sussurrato, probabilmente a mo' di giustificazione per quel
ringraziamento tanto sentito ed entusiastico ma si era scostata e si
era rimessa in piedi. Aveva sorriso con espressione trionfante al
rivedersi appoggiata al terreno, prima di affrettarsi a porgergli la
mano.
La
ignorò e si rimise in
piedi: sbuffò nell'osservare le macchie di fango sulla
propria
divisa.
“Mi
dispiace”, doveva
averne compreso la stizza e, morsicandosi il labbro, aveva cercato
goffamente di rimuovergliele lei stessa: per quanto avesse potuto
apprezzarne l'intenzione (ma lo stava davvero
ancora toccando?
Si era domandato, con espressione incredula), finì soltanto
per
sporcarlo ulteriormente.
“N-Non
serve, ferma!”,
le aveva preso la mano per istinto, con l'evidente intento di
bloccarne l'iniziativa ma non seppe spiegarsi cosa fosse accaduto.
Aveva sentito quelle dita fredde ed esili tremare nella sua stretta.
Aveva sollevato il mento, la Pierce, e aveva gli occhi sgranati e gli
parve di scorgere, laddove il viso non era coperto di fango almeno,
un improvviso ed evidente rossore sulle guance.
Scostò
bruscamente la
mano e si schiarì la gola, calcando il berretto sul proprio
capo e
sistemandone la visiera.
“Dovresti
rientrare”,
avrebbe dovuto urlarle contro come avrebbe fatto con Coglion-Hudson
ma non pareva legittimo, non quando appariva così
vulnerabile.
“Sì”,
annuì la
giovane ma Hunter aveva sospirato.
“Vengo
con te: voglio
parlare con Kitty”.
~
Camminavano da
una
manciata di minuti ma il ragazzo non sembrava avere nulla da dire e
Brittany lo guardò a disagio. Forse era ancora offeso per
quanto
successo quella mattina? O forse non le aveva ancora perdonato
l'avergli sporcato la divisa (e l'essergli caduta addosso. Si era
fatto male?).
“Scusa
per stamani”,
si arrischiò a dire pur di interrompere quel silenzio
imbarazzante.
Il ragazzo
sembrò
confuso ed inarcò le sopracciglia con aria interrogativa, al
che
Brittany si affrettò a spiegarsi meglio. “Per
quello che ho detto
sul tuo papà: non volevo essere cattiva. Lui mi
piace”. Aveva
precisato, lasciando intendere che non era colpa di Mr Clarington, se
insegnava una materia barbosa.
Scrollò
le spalle,
Hunter, e parve vagamente divertito. “Lo so che
può risultare
noioso quando spiega”, la scrutò a sua volta,
un'espressione più
critica ma incuriosita. “Ma almeno non mi costringe a stare
qui: è
una mia scelta”.
Brittany
sentì uno
strano singulto in petto ma si era accigliata. “Anche io l'ho
scelto”.
Parve ancora
più
sorpreso, Hunter: aveva inarcato maggiormente le sopracciglia in
un'espressione che Brittany aveva imparato a riconoscere fin troppo
bene. Dopotutto, la guardava quasi sempre così. Ma non
desistette
dal volersi spiegare meglio. “Ho promesso di fare una prova,
restando qui”.
Il cipiglio
sul volto del
Capitano si attenuò ma continuò ad osservarla
critico.
“Ammirevole”, aveva commentato in tono spiccio.
“Ma credo sia
ovvio che si tratti solo di uno spreco di tempo”.
Era trasalita,
Brittany,
e si era fermata bruscamente, incurante che l'altro stesse
continuando ad avanzare verso l'edificio. “Credi che non sia
adatta
a questo posto?”.
Hunter, che si
volse
quando si accorse che non gli camminava al fianco, si avvide che
sembrava volere una risposta sincera. “Credi di esserlo,
onestamente?”, lo sguardo verde indugiò sulla
divisa che, per il
primo giorno, sembrava irrimediabilmente sgualcita e che avrebbe
dovuto sostituire anche solo per presentarsi al rancio.
Si
soffermò sul viso
sporco e Brittany arrossì ricordando che Kitty aveva alluso
al fatto
che puzzasse. Ciononostante il fastidio cresceva e le stringeva lo
stomaco. Non era decisamente lo stesso strano mal di pancia
che aveva sentito quando l'aveva guardata dritta negli occhi o ne
aveva stretto la mano.
Scosse il capo
ma
arricciò il naso. “Grazie per l'aiuto ma rientro
da sola: la
strada la ricordo”, si era sentita dire in tono educato ma
che
lasciava trapelare un'inedita volontà di tenerlo a distanza,
nonché
un formalismo che stonava con l'espressione di puerile fastidio che
era tanto palese.
Lo
sentì prenderle il
braccio e lo guardò con occhi sbarrati: attese che mollasse
la presa
e strinse il pugno lungo il fianco.
“Non
fare la bambina”,
le disse in tono sospirato ma con quell'espressione composta ed
insofferente.
“Io
non sono una
bambina!”, si era sentita strillare e la sua voce parve
echeggiare
nei campi distesi di fronte a loro.
Il ragazzo
incrociò le
braccia al petto, il viso inclinato di un lato e un sorrisetto
divertito. Se almeno poteva esserlo, visto quanto sembrava sempre
serio e composto. Di certo non sembrava essersela presa per il suo
tono poco conciliante. “Disse, pestando i piedi”,
sussurrò
Hunter che gettò uno sguardo ai suoi anfibi.
“Io
non-”, era
arrossita e aveva osservato i propri piedi prima di scuotere il capo.
“Buonanotte!” lo aveva salutato, infine, in tono
rigido e formale
prima di voltarsi con l'intento di ignorarlo.
Era rimasto a
lungo
immobile, Hunter, prima di scuotere il capo bruscamente e rientrare
nell'edificio con passo imperioso.
Quaranta
minuti dopo,
anche dopo la lunga doccia rilassante e benefica, si sentiva ancora
agitata: era probabilmente la prima volta che le parole altrui le
suscitavano quel fastidio e quell'offesa. Impiegò molto
tempo a
pulirsi il viso su cui le macchie di fango sembravano essersi
seccate, quasi a divenire permanenti. Molto altro a cercare di
districare i capelli piedi dai nodi.
Era avvolta
nell'asciugamano e stava ancora muovendo il pettine (tra un gemito e
l'altro) quando, dallo specchio, scorse l'ingresso di Kitty: era
furiosa e sembrava più decisa che mai mentre le si parava
alle
spalle. Prima che comprendesse cosa stava per accadere, Kitty
l'afferrò per i capelli, costringendola a piegarsi in
ginocchio. Un
verso strozzato di dolore, gli occhi colmi di paura e di confusione.
“Un'altra
parola con
Hunter e giuro che ti affogo, mi hai capito bene, ochetta?”.
“Io
non-”.
“Non
provare a tornare
a piangere da lui o dal tuo patrigno: qui siamo soltanto io e te. E
ti giuro che questa me la pagherai cara”.
Tremava,
Brittany, ma
evidentemente quello era stato solo un avviso: l'aveva fatta cadere
con uno strattone sul pavimento e soltanto quando Kitty si fu
allontanata, dopo aver sbattuto la porta con violenza, si
sollevò
con il busto. Lentamente si appoggiò alla panchina dello
spogliatoio: si strinse le ginocchia al petto e un roco singhiozzo le
scivolò dalle labbra.
Sentì
le lacrime che
aveva trattenuto per tutto il giorno, scivolare copiose e non
cercò
neppure di fermarle: ripercorse quella terribile giornata e la
consapevolezza che quelle successive non sarebbero state migliori, la
fece tremare ulteriormente.
Kitty era
persino
convinta che aveva chiesto aiuto al ragazzo e sapeva che sarebbe
stata persino più crudele e avrebbe dovuto affrontarla. Da
sola. E
voleva ignorare il pensiero che le parole di Hunter fossero
più che
veritiere e che avrebbe dovuto discutere con Neal e sua madre e
arrecare loro, inevitabilmente, una delusione.
Continuò
a dar sfogo a
quelle paure, i singhiozzi più forti ma incurante del freddo
e della
fame, fino a quando non udì dei passi in avvicinamento. Si
affrettò
a tamponarsi goffamente il viso con le mani ma sospirò di
sollievo
quando riconobbe la sagoma di Marley.
“Ti
ho cercata
ovunque”, le disse in un sussurro delicato per poi accorgersi
del
suo evidente stato d'animo. “Cosa è
successo?”. Le si era seduta
accanto e l'aveva stretta in un caldo abbraccio, accarezzandole
delicatamente la schiena e i capelli.
“Sfogati
quanto vuoi”,
le aveva detto e Brittany sentì qualcosa rompersi dentro di
sé: era
esattamente ciò che le diceva sua madre quando, da bambina,
tornava
da scuola raccontando dell'angheria delle bambine più
prepotenti.
Non seppe
quanto tempo
fosse passato: si abbandonò a quel dolce calore e,
lentamente, il
suo corpo si distese e restò semplicemente con il viso
appoggiato
sulla spalla della ragazza, inspirandone il profumo fruttato. Quando
si fu finalmente calmata, si scostò con un sorriso
riconoscente.
“Non
dire a nessuno che
piangevo, per favore”, le aveva chiesto in tono angosciato e
Marley
le aveva stretto la mano rassicurante.
“Sei
al sicuro con me”.
Aveva
sospirato Brittany
che si era abbandonata alla parete alle sue spalle. “Ha
ragione
lui, dovrei andarmene da qui, ma ho fatto una promessa”.
Sembrava
sconsolata su quella questione.
“Lui
chi?”, le chiese
Marley confusa.
Le
raccontò di come era
scesa dall'altura e di come Hunter era parso contrariato e desideroso
di parlare con Kitty. Ma non avrebbe mai immaginato che le avrebbe
rivolto un rimprovero o qualcosa di simile e che questo,
inevitabilmente, l'avrebbe inviperita ulteriormente.
“Devi
stare attenta:
Kitty vuole Hunter da sempre e il fatto che lui non la consideri, non
le giova all'umore”, era parsa pensierosa. “Ma
è la prima volta
che interviene per difendere una di noi”, la stava ora
scrutando
come a cercare di comprendere in che modo avesse fatto presa su di
lui.
“Ma
lui mi disprezza”.
A differenza di quel mattino non c'era timore di non piacergli,
quanto una polemica constatazione, legata a quell'ultima
conversazione tutt'altro che piacevole.
“Io
non credo e non lo
crede neppure Kitty e questo è un bel problema”.
“Ma
io non ho fatto
niente”, aveva pigolato nuovamente, Brittany, stanca di
quelle
implicazioni. “Cerco solo di essere gentile con
tutti”.
“Lo
so”, le aveva
sorriso dolcemente Marley. “Ma non tutti sono
così”.
“Tu
lo sei”, aveva
ribattuto Brittany il cui viso, finalmente, si schiarì in un
autentico sorriso. “E' bello averti qua”.
“Anche
per me”, le
aveva sorriso Marley che l'aveva stretta in un altro abbraccio.
Sospirò,
Brittany. La
vita in Accademia prometteva di essere persino più dura di
quanto si
sarebbe immaginata ma, malgrado tutto, vi era qualcuno che sembrava
davvero credere in lei.
To
Be Continued...
Capitolo
più corposo ma era necessaria una piccola introduzione
sull'aspetto
più “tecnico” della mia interpretazione
della vita militare.
Prometto che nei prossimi capitoli ci si soffermerà di
più sugli
aspetti relazionali ma credo che questo già abbia fornito
qualche
spunto di riflessione sulle psicologie dei personaggi e sul tipo di
relazione che si creerà tra loro :)
Ringrazio,
come sempre, coloro che leggono e seguono questa fanfiction, in
particolare le splendide fanciulle che allietano questo appuntamento
con le loro recensioni e riflessioni che apprezzo più di
ogni altra
cosa :D
Una
piccola anteprima del prossimo capitolo:
“E'
molto sexy. E così è quello il
Capitano”. “Dei ragazzi”.
“Potresti infiltrarti”.
“Mamma!”.
“Come
sei formale, Hunter, sono sicuro che che non le dispiaccia esser
chiamata per nome”.
“Da
quando l'essere una famiglia è definito da una scelta
scolastica?”
“E tu, allora? Non lo hai fatto per tuo padre?”.
“E' il mio
posto”. ”Eppure non sembri felice”.
Grazie
dell'attenzione e buon week end a tutti! :)
Kiki87
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
3
Dimitri:
Senti, credo che siamo partiti con il piede sbagliato...
Anastasia:
Bè, sì, lo credo anch'io...
Dimitri:
Va bene.
Anastasia:
Ma gradirei le tue
scuse...
Dimitri:
Le mie scuse? No, chi ha
parlato di scuse; stavo solo dicendo...
Anastasia:
Ti prego, non dire altro, Dimitri; finiresti solo per farmi
arrabbiare.
Dimitri:
Bene, starò zitto se starai zitta anche tu..
Anastasia:
D'accordo, starò zitta.
Dimitri:
Bene.
Anastasia:
Bene.
Dimitri/Anastasia:
Bene!
(Dialogo
tratto dal film animazione “Anastasia”)
Capitolo
3.
Il weekend non le era
mai
apparso così seducente e così lontano, dopo
quella prima settimana
trascorsa in Accademia, tra le grinfie di Kitty. Ma era grata della
presenza di Marley e anche di qualche sporadico incontro con Finn,
sempre stremato dal carico d’allenamenti extra a cui Hunter
Clarington lo sottoponeva. E non solo: il modo in cui gli urlava
contro quando arrabbiato, le parole poco carine che gli rivolgeva,
rendevano tutto, se possibile,
ancora
più spiacevole ai suoi occhi.
Brittany
e il Capitano non avevano più scambiato parola, ma ogni
volta che ne
sentiva la voce o ne scorgeva il profilo in refettorio (la sua figura
sembrava sempre spiccare, malgrado fossero circondati da persone
vestite allo stesso orribile modo) o Finn ne parlava, non poteva fare
a meno di sentire quel moto di fastidio e di risentimento. Sentimenti
che, nonostante i tormenti di Kitty, la spronavano a non arrendersi.
Doveva solo ricordare la persona per cui stava resistendo: sua madre
aveva già dovuto rinunciare alla sua passione per la danza
quando,
poco più che diciottenne, aveva scoperto di aspettare un
bambino.
Non le avrebbe rovinato il sogno che stava vivendo con Neal.
Lui
stesso era sempre gentile e non mancava di chiederle della vita in
Accademia: in quei momenti ricordava le minacce di Kitty e (anche per
rivalsa personale, nonché la volontà di imparare
a cavarsela da
sola) si limitava a sorridere e rispondere con un automatico:
“Va
tutto bene, grazie”.
Era scesa dall'auto di
Neal con rinnovata energia: la sola vista della villetta le aveva
fatto stringere il cuore. Era una deliziosa casa in stile vittoriano
con ampie finestre ad arco, le pareti di un delicato color crema e un
portico sotto il quale vi era un dondolo che consentiva di sedersi la
sera e rimirare il meraviglioso cielo stellato. Stava ancora
percorrendo il vialetto, quando la porta si schiuse e sua madre
l'accolse tra le braccia: non avrebbe saputo dire chi delle due
avesse raggiunto l'altra ma neppure
sarebbe
stato rilevante. Ciò che contava, in quel momento, era
percepirne
realmente la presenza: il suo profumo, il calore di quel contatto e
le sue labbra a sfiorarle la fronte e le sue carezze tra i capelli.
Erano momenti nei quali le sembrava di tornare bambina e
non
esisteva nessun altro che lei e il loro mondo. Momenti per cui valeva
la pena allontanarsi da casa per una settimana, sapendo chi l'avrebbe
attesa al suo ritorno.
Fu il pomeriggio più
spensierato e tranquillo da che erano arrivate a Colorado Spings e
Neal aveva ben pensato di lasciare che trascorressero del tempo tra
loro. Brittany ancora una volta fu colpita dalla sua dolcezza e
disponibilità ma era anche vero che, a differenza della ragazza,
Neal non aveva alcun obbligo di pernottare nell'edificio.
Rimasta con la madre,
gustandosi una cioccolata calda in centro, le raccontò della
routine
d'addestramento e Shirley ne rimase evidentemente sorpresa, ma non
mancò di fare altri commenti al riguardo. Riusciva
perfettamente ad immaginarla mentre, nei momenti di noia, trafugava
una piantina dell'edificio e la studiava minuziosamente per farle
domande al riguardo.
“E hai già visto la
sala da ballo?”, le chiese infatti.
Brittany aveva sospirato
e scosso il capo. “Kitty non mi ha dato tregua: devo
allenarmi
duramente fino a quando non riuscirò a fare il percorso
rapidamente
e senza errori”.
Omise la parte in cui
avrebbe dovuto raccontarle delle successive esperienze con l'altura:
ogni volta cercava di sconfiggere la sua fobia per l'altezza. Se la
salita era divenuta più agevole, la discesa non lo era
altrettanto.
O vi era Kitty a sbraitarle addosso, oppure il ricordo
dell'intervento di Hunter e non era raro che quel momento di
distrazione le fosse fatale.
Sua madre le sorrise con
aria comprensiva. “Sono sicura che avrai tutto il
tempo”.
Si accigliò appena
Brittany: non era soltanto il tempo ad esserle poco favorevole.
Spesso, a fine giornata, erano le energie che tendevano a mancarle:
si lasciava cadere sul letto e sprofondava nel sonno piuttosto
rapidamente, malgrado avesse riportato anche lividi ed ammaccature
che neppure i parquet di danza le avevano mai
inflitto.
“Neal mi ha detto che
si terrà un ballo per festeggiare l'anniversario
dell'Accademia”,
le disse con sguardo illuminato e Brittany ebbe la sensazione che sua
madre stesse smaniando di toccare
quell'argomento.
Fece una vaga smorfia,
tuttavia: non era la prima volta che ne sentiva parlare, in effetti,
ma ciò non ne aveva innestato una particolare attenzione.
Tutt'altra cosa per
Marley che sembrava più che fremente alla prospettiva e
spesso lo
sguardo si volgeva ad un tavolo dove erano seduti ragazzi in
uniforme. Chi guardasse con precisione, Brittany ancora non lo aveva
capito, ma avrebbe atteso che fosse l'altra a farne parola.
Annuì con una vaga
scrollata di spalle, molto più concentrata sul semifreddo
alla
fragola che stava infilzando con la forchetta. Ma sperare che
ciò
avrebbe placato la curiosità della madre, sarebbe stata una
vana ed
irrealistica aspettativa.
“E c'è qualcuno
di speciale da cui aspetti l'invito?”, la incalzò,
infatti, con
tono che voleva apparire pacato e casuale ma che nascondeva una reale
e fremente curiosità. Non occorreva conoscerla in modo
approfondito
per cogliere, dal luccichio dello sguardo e dal sorriso allusivo e
complice, che fosse molto più interessata a quell'aneddoto,
rispetto
alla routine di una caserma.
Ciononostante, ancora una
volta, Brittany parve cadere dalle nuvole: sbatté le
palpebre prima
di scuotere il capo e stringersi nelle spalle. “Non so se ho
voglia
di andarci”. E poiché il ballo si sarebbe tenuto
di Venerdì sera,
avrebbe preferito di gran lunga partire il pomeriggio per trascorrere
il weekend a casa.
“Ma Neal ci rimarrà
malissimo!”, protestò Shirley il cui tono divenne
più
supplichevole nel cingerle nuovamente la mano. “E poi avremo
un'occasione d'oro per fare shopping”.
Finse di rifletterci
sopra, Brittany, un sorriso che già prepotentemente voleva
arricciarle le labbra: avrebbe potuto anche pazientare di qualche ora
se significava tornare a fare spese come negli 'shopping day' che
organizzavano durante i weekend newyorkesi.
“E poi potremmo andare
al cinema e cenare fuori”, propose a sua volta ma Shirley
assunse
un'espressione dispiaciuta.
“Stasera temo di no,
stellina: Neal ha invitato un amico a cena e non vede l'ora di
farmelo conoscere”.
Parve spiazzata Brittany
ma, dopotutto, Neal aveva concesso loro un intero pomeriggio e non
poteva certo negargli quell'occasione cui pareva tenere
particolarmente. Annuì per poi farsi pensierosa.
“Dovrò restare
anche io?”.
“Ovviamente”, rispose
lesta Shirley che rubò, con un abile colpo di forchetta, un
poco del
suo semifreddo. “Non vorrai lasciarmi sola con dei
militari?!”,
le chiese in tono ironico.
“Va bene”, assentì e
Shirley sorrise nuovamente soddisfatta.
“Oggi
ti troveremo un vestito da favola e domani sera avremo una serata tra
donne!”, annunciò e Brittany si lasciò
coinvolgere dal suo
entusiasmo, come sempre.
“Promesso?”.
“Col mignolino!”.
Shirley rise, porgendole il mignolo che Brittany strinse: una piccola
abitudine che avevano preso da quando era solo una bambina e la mamma
le prometteva un'ora in più di cartoni, in cambio di una
porzione di
verdure.
Il pomeriggio era stato
meraviglioso: avevano girato nel centro della città fino a
scovare
boutique d'abiti dal marchio prestigioso. Anche se non avrebbe
partecipato al ballo, sua madre aveva desiderato ardentemente
rinnovare il guardaroba, persino alludendo alla cena di quella sera
stessa. Mentre la osservava nel lungo abito scuro, Brittany
richiamò
alla mente le immagini dei libri delle favole, quando la splendida
principessa trovava l'abito perfetto, quello con il quale sarebbe
stata in grado di conquistare il suo principe.
“Sei bellissima”,
aveva sussurrato con reverenza mista ad ammirazione e la madre le
aveva sorriso.
“Lo so”, aveva
commentato giocosamente, ammiccando e guardandola dal riflesso dello
specchio, prima di avvicinarsi e baciarne la fronte.
“Ma adesso è il
momento di pensare al tuo abito per il
ballo”. Le aveva
pizzicato il naso e, dopo essersi nuovamente cambiata, era
letteralmente schizzata nella zona degli abiti da prom che aveva
già
occhieggiato appena erano entrate.
Brittany la seguì senza
particolare trepidazione.
“Mi annoierò tutta la
sera”, si lagnò, infatti, ma
Shirley, già una mezza dozzina d’abiti appoggiati
sul braccio
piegato, scosse il capo.
“Non dire sciocchezze”,
si era concessa di guardarla e lo sguardo era divenuto più
provocatorio e malizioso. “Tutti quei bei ragazzi palestrati
che si
tireranno a lucido per contendersi le ragazze e le guarderanno come
non n’avessero mai vista una, dopo che per una settimana si
sono
rotolate nel fango, senza neppure farsi la ceretta o sfoltirsi le
sopracciglia. Ah, quasi ti invidio!”. Sospirò,
immaginando
evidentemente la scena con incredibile dovizia di dettagli.
“Io non sono brava in
queste cose”. Aveva ribattuto, Brittany, le braccia
incrociate al
petto e si era appoggiata allo scaffale, apparentemente indifferente
alle selezioni accurate della madre.
“I bei ragazzi o i
balli di sala?”, le aveva chiesto, il viso inclinato di un
lato e
l'espressione curiosa ma Brittany era arrossita alla menzione dei
ragazzi, soprattutto se ciò significava implicare una tipica
interazione da ballo o da occasione vagamente... romantica.
“Tutti e due”.
Shirley si era fermata:
la mano sul fianco e l'altra che tratteneva una quantità
impressionante di abiti senza neppure stropicciarli. Sembrò
scrutarla dall'alto al basso, l'aria più sospettosa.
“Ma ce ne
sarà uno che ti piace”.
Brittany aveva sbattuto
le palpebre per poi farsi pensierosa. “Finn è
molto dolce e
simpatico”, si sentì dire con tono composto e un
sorriso di
simpatia al pensiero del ragazzone che probabilmente era la persona
più empatica in fatto di punizioni ed esercizi extra.
Parve poco convinta,
Shirley: evidentemente nel suo sguardo o nel suo tono non c'era nulla
che lasciasse presagire qualcosa di particolare. “E qualcuno
di...
misterioso o affascinante? O magari misterioso ed
affascinante!”.
Si accigliò, Brittany:
non aveva guardato molto gli altri ragazzi a dirla tutta. Neppure
aveva mai scambiato parola con qualcuno che non fosse Finn. Sapeva
che c'era quel tale coi capelli alla Justin Bieber che si litigava
Marley con un altro che le sembrava troppo musone.
Finn aveva sempre quel
sorriso da gigante buono, anche se il suo Capitano lo trattava sempre
male. Il pensiero si soffermò su quel volto e il momento in
cui ne
aveva scrutato lo sguardo verde, così tanto da destarle
quella fitta
allo stomaco. Non c'erano dubbi che Kitty se lo sarebbe tenuto ben
stretto quella sera. Lui pareva carino, almeno fino a quando non si
comportava in modo scontroso e maleducato.
“Quel ragazzo!”,
l'additò la madre con aria trionfante e Brittany quasi
trasalì:
neppure si era accorta di essersi evidentemente isolata e che
la donna la stava ancora scrutando.
“Cosa?”.
“Quello a cui stavi
pensando dieci secondi fa, allora? Voglio sapere tutto”,
adesso pareva avere un'espressione più battagliera Shirley,
quasi
offesa perché non ne aveva fatta menzione fino a quel
momento.
“Non c'è nulla da
dire”, si affrettò a rispondere Brittany che, per
qualche motivo,
arrossì. “E poi è già
impegnato e poi... lui non mi piace!”,
terminò la frase con voce quasi strozzata, ma le guance che
ardevano
maggiormente.
“E' uno scorfano?”,
adesso Shirley aveva un'espressione quasi schifata.
“Cos'è uno scorfano?”,
le chiese Brittany confusa.
Fece un vago gesto
Shirley, quasi ad ignorare la domanda superflua. “E'
brutto?”, le
chiese a bruciapelo.
“Ha un brutto
carattere”, specificò Brittany e Shirley sorrise
evidentemente
compiaciuta, al che si affrettò ad aggiungere:
“Non mi piace, non
parliamone più!”.
Arricciò il naso,
Shirley, ma si strinse nelle spalle. “D'accordo,
d'accordo”,
concesse con tono neutrale, prima che lo sguardo azzurro si posasse
su un abito e sembrò restare letteralmente folgorata, tanto
da
lasciar cadere il carico che si era posta sul braccio.
“Guarda quel vestito:
devi assolutamente provarlo!”.
Quando uscì dal camerino
e si fermò di fronte allo specchio, la madre trattenne il
fiato. Ma
Brittany stessa, seppur non si fosse mai sentita
una principessa; non poté fare a meno di rimirarsi con gli
occhi
sgranati e le guance rosate.
Accarezzò il corpetto
del vestito, le mani scivolarono lungo la gonna dello stesso, quasi
non riuscisse ad adattare l'immagine riflessa con quella reale che
aveva imparato a conoscere giorno dopo giorno. E che l'Accademia
sembrava snaturare, togliendole quanto la rendeva più
femminile.
L'abito che indossava era
semplicemente perfetto. Non
riusciva a trovare
altre parole per descriverlo e, ciononostante, non riusciva ad
accostarlo a ciò che la sua vita era stata fino a quel
momento.
“Non
è per me, vero?”, chiese esitante, morsicandosi il
labbro. “Lo
sapevo, dovrei-”, aveva fatto per sollevare il lembo della
gonna e
rientrare ma la madre le aveva appoggiato le mani sulle spalle e
l'aveva indotta a specchiarsi. Con gesti delicati ma decisi, Shirley
le modellò i capelli con qualche forcina per farne una
pettinatura
improvvisata ma più elegante.
“Sembri
una principessa”.
Sentì
il respiro mancarle: da quanto tempo qualcuno non la definiva
così?
E mentre si osservava, per la prima volta, provò a dirsi la
stessa
cosa.
Sono
una principessa.
“Sarai
meravigliosa ma soltanto se non avrai paura”, le aveva
accarezzato
delicatamente la guancia e Brittany si era specchiata nel suo sguardo
dallo scintillio più dolce e materno. “Tira fuori
la principessa
che è in te. Lei attende da molto tempo”.
Aveva
scrutato un'altra volta il suo riflesso, si era dondolata leggermente
prima di compiere una breve piroetta, un sorriso più
luminoso a
farne risplendere lo sguardo azzurro.
Annuì,
infine, e sorrise alla madre. Forse quella sera non sarebbe poi stata
così male.
~
Era
valsa la pena affrontare quella terribile settimana e quelle ore
trascorsero in modo così piacevole, che sembrò
dimenticare che da
lì a poche ore sarebbe tornata in Accademia. Aveva
respinto
il pensiero con veemenza e aveva cercato di serbare ogni singolo
istante trascorso con sua madre e in quella casa.
Si contemplò allo
specchietto della toeletta: dopo giorni in uniforme – e
persino
sporca di fango o bagnata per la pioggia – poter nuovamente
indossare un vestito o sentirsi femminile nell'applicare un velo di
trucco, costituiva un vero e proprio toccasana. Frugò tra i
cassetti
del suo piccolo portagioielli a forma di scrigno fino a scegliere un
paio di pendenti che, una vaga smorfia quando l'ago le
pizzicò
l'orecchio, riuscì ad appendere ai lobi, prima di volgersi
verso la
porta aperta che dava sul corridoio.
“Mamma, vieni a
pettinarmi i capelli?”, la chiamò a voce alta,
cercando di
sovrastare il trambusto che proveniva dalla camera matrimoniale. Sua
madre aveva accolto l'occasione di una serata diversa per poter, a
sua volta, dare sfoggio della sua femminilità,
nonché concedersi lo
sfizio di indossare l'abito comprato quello stesso pomeriggio.
Giunse pochi istanti
dopo: semplicemente incantevole nella veste che ne metteva in risalto
l'elegante silhouette e nei capelli trattenuti in una coda alta, un
filo di trucco ad impreziosirne i lineamenti, senza tuttavia
appesantirli ma risaltandone la dolcezza. Prese la spazzola e si
accomodò sul letto, alle spalle della figlia e prese a
strofinare i
capelli sciolti con le setole.
“Mhm, sono pieni di
nodi”, osservò e ciò era desumibile
anche dalle smorfie puerili
che apparvero sul volto di Brittany nei momenti in cui indugiava
sulla stessa ciocca, nel tentativo di districarla. “Il fango
non è
un buono shampoo”, dichiarò in tono leggero e
complice.
“Mi mancava”,
sussurrò Brittany con tono addolcito al pensiero di quella
loro
routine che era rimasta tale, fin da quando era solo una bambina e si
mettevano in pigiama (spesso coordinato) e, dopo il bagno caldo e
quei trattamenti di bellezza, si concedevano la visione di un film
con Colin Firth o Hugh Grant.
“Anche a me: la casa è
così vuota senza di te”, era stato il commento
altrettanto
intenerito e nostalgico. Le appoggiò le mani sulle spalle e
la
indusse a voltarsi, così da guardarla in viso. “Lo
sai che sarai
sempre la persona più importante per me e che non farei mai
nulla
che possa ferirti?”.
Aveva annuito la ragazza,
un sorriso più dolce nell'osservarla, il viso inclinato di
un lato.
“Lo so”. Aveva confermato, pur domandandosi
perché in quel
momento le stesse ribadendo quelle parole: se qualcosa l'avesse
indotta a farlo oppure qualche diceria sulla sua prima settimana
all'Accademia che era giunta fino a Neal e, quindi, a lei?
“Non dimenticarlo mai”,
era sembrata una sorta di supplica ma, prima che Brittany potesse
interrogarla al riguardo, si riscossero al sentire un lieve colpo di
clacson e il rombo del motore di un'auto in avvicinamento.
Si guardarono l'un
l'altra prima che, uno scatto felino e la medesima
curiosità, si
appiattissero ai due lati della finestra della camera: fu Shirley la
prima a sporgersi ad osservare l'alta figura che stava uscendo dal
SUV. Brittany si sporse a sua volta e le mancò il fiato
quando
riconobbe quella corporatura.
Sembrò impallidire.
“E'...è lui il nostro ospite?”.
“Loro”, la corresse
Shirley e, anche senza guardare, Brittany seppe che il suo peggior
dubbio era stato confermato. Ma fu comunque con sguardo vitreo che
ascoltò la spiegazione della madre che, troppo intenta a
curiosare
da quell'altezza, non sembrò accorgersi della sua
espressione.
“I Clarington: Jonathan
sarà il testimone di Neal”, sembrò
avvedersi del silenzio perché
si volse alla figlia. “E' un tuo insegnante?”.
Ma non era lui che
Brittany stava ancora scrutando: gli occhi sgranati e le labbra
schiuse. E dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non
mordicchiarsi il labbro, rischiando così di sbavare il
trucco.
“E' un professore così
severo?”, insistette Shirley, ma Brittany si era scostata
dalla
finestra e aveva scosso il capo. Aveva stretto le braccia al petto in
un atteggiamento istintivamente difensivo.
“No, non è lui il
problema”, borbottò in tono più
risentito e Shirley seguì il suo
sguardo fino a quando non scorse finalmente il ragazzo.
Un repentino sorriso
malizioso le increspò le labbra e sembrò
completamente dimentica
del fastidio appena manifestato dalla figlia. Al contrario, si
puntellò le mani sui fianchi e lo rimirò con il
viso inclinato di
un lato. “Se è questo il prototipo di soldato,
arruolami subito!”.
“Mamma!”, aveva
protestato debolmente, Brittany, le guance arrossate. “E
poi... poi
non è così... bello”, aveva soggiunto.
Ma neppure lei pareva
credervi realmente. Non che questo cambiasse il suo giudizio sul suo
brutto carattere e quel modo di fare che non le piaceva. Semplice ma
chiaro.
La guardò con
espressione scettica, Shirley ma ammiccò. “E'
molto sexy”,
rimarcò. Un verso indignato in risposta, da parte della
figlia. “E
così quello è il
Capitano”.
“Dei ragazzi”,
specificò Brittany.
“Potresti infiltrarti”.
“Mamma!”, ma non
sembrò udirla, Shirley.
“E' quello che farei
io”, sembrò soppesarlo con sguardo più
critico. “Certo, sembra
un po' musone ma scommetto che tra quelle braccia-”.
“Oh, basta!”,
Brittany si era portata le mani alle orecchie e Shirley aveva riso,
prima di sollevare le mani.
Ma sembrò non resistere
all'ulteriore tentazione. “Quindi è lui il tuo
uomo misterioso e
affascinante”, ribadì le parole di quel
pomeriggio.
“Ti ho detto che non mi
piace”, protestò Brittany, lasciandosi cadere con
uno sbuffo sul
pouf di fronte al tavolino da trucco.
“Curioso, perché più
lo dici e meno mi convinci”, fu la replica leggera di sua
madre che
si chinò ad osservarsi allo specchio per controllare gli
ultimi
dettagli.
Brittany la fissò dal
riflesso: le labbra schiuse in un'espressione di indignato stupore
ma, prima che potesse ribattere, si riscossero ad uno schiarimento di
voce. Si volsero ad osservare Neal, la mano chiusa a pugno che era
appoggiato allo stipite della porta aperta. Sorrise ad entrambe.
“Mi spiace
interrompere, signore”, esordì in tono leggero, lo
sguardo vivace
che le scrutò entrambe con evidente adorazione ed orgoglio.
“Ma
sarebbe carino se la mia fidanzata fosse presente, quando le
presenterò il mio testimone”.
“Arrivo”, replicò
allegramente, Shirley, che volse un ultimo sguardo ammiccante alla
figlia. “Non vedo l'ora”, aggiunse in tono
più malizioso.
Brittany sbuffò e
affondò il viso tra le mani in un'espressione di stoica
sconfitta e
di frustrazione, scostandosi con malagrazia i capelli dal viso, prima
di voltarsi verso Lord Tubbington, indolentemente steso sul suo
letto.
“Deve essere un
incubo”, borbottò in sua direzione e il micione la
osservò
pigramente, socchiudendo appena gli occhi ai grattini sotto il mento.
“Non dovrebbe uscire con Kitty nei weekend?”,
chiese in tono
evidentemente risentito mentre, dal piano di sotto, sentiva il suono
attutito dei primi saluti.
Lord Tubbington miagolò
in risposta.
“Potrei restare chiusa
qui”, e l'idea già sembrava illuminarle lo
sguardo. “In fondo
potrebbero pensare che non sono in casa, devo solo avvisare la mamma
e-”.
“Britty Woman?”.
La voce di sua madre,
straordinariamente alta e flautata, a mo' di cantilena, si
udì dal
piano di sotto e Brittany s’irrigidì
impercettibilmente, gli occhi
sgranati nel vuoto.
“Ti stiamo
aspettando!”, aveva aggiunto e mai come allora Brittany
avrebbe
desiderato il dono dell'invisibilità.
~
Era sceso dall'auto
del padre, Hunter, e aveva contemplato la villa illuminata dai
lampioni la cui luce fluorescente e quella lattiginosa della luna si
posava delicatamente sul vasto giardino. Aveva un'espressione
accigliata: in verità si stava ancora domandando per quale
motivo
avesse accettato di partecipare: l'invito del padrone di casa era
stato gentile, ma non era la mera educazione a rendere quella
prospettiva più esaltante. Non che avesse in programma
qualcosa di
più emozionante: fuggire dall'Accademia, lo avrebbe
allontanato per
almeno quarantotto ore da quella faccia beota e dai movimenti
scoordinati di Finn Hudson. Altrettanto era stato sconcertante
trovarsi di fronte Kitty, la quale aveva alluso al fatto che dovesse
invitarla a cena, a mo' di scuse per essersi intromesso nella sua
personale conduzione dell'addestramento delle sue reclute. Ma sapeva
che con quella formula, stava riferendosi solo ed esclusivamente alla
cosiddetta Barbie che aveva odiato dal primo istante.
Checché la
giovane – fastidiosamente appiccicosa nello sbattere le
palpebre un
numero spropositato di volte; dando luce ad un lato più
sfacciato e
femmineo, rispetto a quello tirannico e più professionale
– vi
avesse voluto speculare, aveva soltanto adempiuto ad un proprio
dovere e senso di responsabilità. A prescindere da chi
fossero il
Capitano e la recluta coinvolte.
Non si era scomposto,
quando era apparsa delusa al vederlo caricare il suo semplice
bagaglio nel SUV del padre: si era mossa sinuosamente per poi
sussurrargli all'orecchio un “Al ballo sarai tutto mio: lo
sappiamo
entrambi”. Si era stretto nelle spalle: checché ad
un suo coetaneo
tali moine potessero risultare invitanti, si scopriva sempre
più
indifferente. In vero c'era ben poco che sembrava scuoterlo.
Si riscosse allo scorgere
il padre al suo fianco e risalirono il vialetto, fino all'uscio
d’ingresso.
“Spero tu non avessi
altri impegni per stasera, ma sono sicuro che Kitty non avrà
problemi a rimandare”, sentì la voce del padre
rammentargli.
Sbatté le palpebre,
Hunter, evidentemente confuso ma Jonathan sorrise appena,
un'increspatura quasi curiosa. “Sembrate andare d'accordo ed
è del
tuo stesso ambiente, un Capitano severo ed efficiente e-”.
Si strinse nelle spalle,
Hunter, senza scomporsi. “Mi ha proposto di andare insieme al
ballo
dell'anniversario della fondazione”, ma dal tono non
traspirava
alcuna aspettativa. Sembrava essere un dato di fatto: un altro
compito che dovesse assolvere per adempiere ad una lista di doveri
che competevano al suo ruolo.
Sospirò, Jonathan,
nell'osservarlo. “Cerca di nascondere l'entusiasmo: potrei
preoccuparmi”.
“Sto bene”, Hunter
scosse appena il capo, prima di indicargli la porta. “Suona
il
campanello”, lo incoraggiò ed affondò
le mani nelle tasche dei
pantaloni.
Il padre, seppur dubbioso
della veridicità di quelle parole, allungò il
braccio ma lo scrutò
con espressione corrucciata. Sembrò in procinto di
aggiungere
qualcosa, ma la porta si schiuse e Neal sorrise ad entrambi.
Con il consueto calore,
li esortò ad entrare. Al suo sorriso poteva fare concorrenza
soltanto quello della sua biondissima fidanzata, constatò
Hunter.
Suo padre si era sporto per un saluto più confidenziale e la
donna,
senza remore, si era allungata a baciarne la guancia come se lo
conoscesse da tutta una vita. Quando si volse a lui, tuttavia, Hunter
allungò la mano che ella strinse, ma ebbe la sensazione che
i suoi
grandi e vivaci occhi azzurri lo stesso letteralmente
“scannerizzando”. Ma senza espressione guardinga o
preoccupata,
al contrario: era più che entusiasta. Quasi fuori luogo, a
dirla
tutta.
Fu allora che Neal si
volse interrogativo ad osservare la compagna.
“E Brittany?”.
“Sta finendo di
imbellettarsi e tornare donna dopo una settimana da soldato”,
commentò allegramente, strappando un guizzo divertito nei
due
adulti, prima di richiamarla a voce alta.
Hunter aggrottò le
sopracciglia al sentirne il nomignolo: davvero la stava associando ad
una prostituta, protagonista di una commediola insulsamente romantica
con Julia Roberts e Richard Gere?
Evidentemente dovevano
attendere la sua discesa per potersi accomodare e privare dei
cappotti, considerò con un vago sospiro e un sollevare gli
occhi al
cielo, prima che lo sguardo saettasse alla rampa di scale, quando
scorse un movimento.
E la rivide. Ma, al
contempo, era qualcosa di nuovo: ricordava la ragazza con un vestito
estivo dal colore acceso almeno quanto quello del trolley.
Quell'alone più puerile sembrava parte di lei, persino in
quell'abito da sera, malgrado movenze più femminili.
Non vi era traccia di
quella tipica goffaggine con la divisa che sembrava soffocarne il
corpo esile e strapparne l'allegria (nonché la coordinazione
mano
occhio e l'equilibrio), o di quelle macchie di fango e quel rossore
che riusciva ad intravedersi laddove la pelle era ancora candida. O
quella scintilla di disappunto e di risentimento nello sguardo che la
faceva irrigidire.
Era come vederla per la
prima volta in una parvenza disinvolta nell'abitino rosso, i capelli
che scivolavano morbidi e fluenti – e lunghi, non vi aveva
fatto
caso finora – sulle spalle. Il viso era ulteriormente
colorato dal
trucco, ma non vi era quell'aria maliziosa di Kitty, ma soltanto una
nuova grazia e sicurezza.
Rivolse un cordiale
saluto al padre, chiamandolo “Professore”. Fu il
suo turno di
salutarla, le mani affondante nelle tasche dei jeans, il viso
inclinato di un lato.
“Pierce”.
La ragazza gli restituì
lo sguardo ma gli rivolse un cenno del capo: si era stretta le
braccia al petto, quasi in atteggiamento ostile. Quasi si ricordasse
soltanto in quel momento che si trovava ad avere a che fare con lui e
che, evidentemente, nulla era cambiato dalla loro ultima interazione.
“Come sei formale,
Hunter, sono sicuro che non le dispiaccia essere chiamata per
nome”,
aveva sorriso Neal e soltanto allora il ragazzo tornò ad
osservare i
padroni di casa. Ma cercò di ignorare l'insistenza di un
paio
d’occhi azzurri e quell'aria più maliziosa,
persino quando fu
proprio la stessa Shirley a prendere parola.
“O Britty Woman”, si
era chinata all'orecchio della figlia. “Rovinerai
l'abito”,
l'aveva blandita ed ella era arrossita ulteriormente, ma aveva
lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi. Appariva ancora
impettita. Sembrava sentirsi intrappolata, nello stesso modo in cui
lui stava vivendo la prospettiva di quella serata.
Shirley si volse
nuovamente ai due adulti. “Accomodiamoci per l'aperitivo, che
ne
dite? Prego, Jonathan”, ne aveva preso il braccio con una
confidenza che parve divertire l'uomo che la conduceva bonariamente,
Neal alle loro spalle.
Hunter, che aveva seguito
la scena con lo sguardo, sbatté le palpebre prima di tornare
ad
osservare la ragazza. Le fece cenno con il braccio perché
potesse
passare per prima e la giovane sussurrò un educato
“grazie”, ma
neppure lo guardò. Si affrettò a seguire gli
adulti, non volendo
evidentemente intrattenersi in sua compagnia.
E per qualche motivo,
Hunter ne sorrise divertito mentre ne studiava le movenze fluide,
nonostante calzasse scarpe dal tacco alto: sembrava che in quelle
vesti o nel contatto con le persone care, avesse recuperato il suo
portamento.
Un guizzo divertito e la
superò facilmente. Si era chinato al suo orecchio,
quando le era passato accanto. Aveva avuto un sussulto, Brittany, ma
lo aveva guardato confusa. E poi insospettita.
“Hai la lampo
abbassata”, le aveva fatto presente ma non aveva atteso di
vederla
trasalire e arrossire, cercando di rimediare goffamente a
quell'inconveniente.
Si era diretto verso il
salotto ma, doveva ammetterlo a se stesso, continuava ad essere
curiosamente soddisfacente spiazzarla a quel modo.
~
Non aveva parlato molto:
sua madre sembrava raggiante ed era entrata rapidamente in confidenza
con Mr Clarington. Non che ciò la sorprendesse: la madre non
aveva
la benché minima difficoltà a rompere il ghiaccio
con quel suo
naturale brio e lo scintillio azzurro dello sguardo. Aveva persino
arrischiato qualche battuta, cercando di coinvolgere Hunter, ma
questi sembrava taciturno come sempre: soltanto un solco tra le
sopracciglia sembrava rivelarne l'attenzione rivolta alla donna.
Neppure
in quei momenti Brittany aveva sollevato lo sguardo dal suo piatto:
era ancora imbarazzata dalla sua ultima gaffe. E – cosa
persino più
umiliante – dal commento della madre (mentre erano in cucina
e le
sollevava la cerniera) sull'avere sprecato un'occasione accattivante:
chiedere al ragazzo stesso di sollevarle la zip.
Si era riscossa e aveva
cercato di concentrarsi sulla conversazione in corso: Mr Clarington
aveva chiesto a Neal come lui e Shirley si fossero incontrati. Era un
aneddoto che Brittany già conosceva, ma c'era qualcosa di
particolare nel sentirlo raccontare da lui: aveva alluso al
matrimonio della sorella che lo aveva letteralmente obbligato a
prendere lezioni di danza, vista la sua totale inettitudine in
quell'ambito. Il caso volle che scegliesse proprio la palestra nella
quale Shirley impartiva lezioni serali. Neal non aveva mancato di
raccontare le sue prime goffe performance.
“Non lo avevo capito di
primo acchito ma quando l'ho vista ballare per la prima volta,
è
stato tutto evidente e cristallino. Il suo portamento, la sua
eleganza, il sorriso che le sfiorava il viso: era come se in quel
momento non esistesse altro e fosse completamente se stessa. E' stato
come scrutare in quegli occhi e comprendere che la mia vita era
cambiata. E che non le avrei permesso di congedarmi, fin quando non
lo avesse saputo, anche a costo di essere cacciato o scambiato per
uno squilibrato”, aveva raccontato Neal che, malgrado il
sorriso
sbarazzino, era parso ancora visibilmente emozionato.
Non avrebbe saputo
identificarne precisamente il motivo, Brittany, ma qualcosa di quelle
parole s’incuneò nella sua mente: era l'armonia
che univa quella
nuova coppia, spiegata anche in un racconto così semplice.
La
realizzazione di quanto profondi fossero i sentimenti di Neal. Di
come sua madre fosse riuscita a mostrare la sua vere essenza, oltre
quella scorza più giocosa e sbarazzina, in
quel lato più dolce ed incantevole.
Da
amante della danza, era inevitabilmente rapita all'idea che proprio
in quel contesto, Neal avesse compreso di esserne innamorato. Aveva
sospirato letteralmente, attirando l'attenzione del ragazzo che le
sedeva di fronte, ma si era affrettata a distogliere lo sguardo.
Rise
lei stessa quando la madre raccontò della sua risposta
all'invito a
cena. “Cominciavo a sospettare che venissi davvero per
imparare a
ballare”.
Stava sorseggiando la sua
acqua, quando Jonathan Clarington si era voltato ad osservarla.
“Allora, Brittany, come
è stata la tua prima settimana? So che Kitty ti dedica molto
tempo:
è severa ma un eccellente soldato”.
Se essere un soldato
vuol dire fare la strega cattiva; pensò tra
sé, ma gli rivolse
un sorriso e si passò una mano tra i capelli.
“Kitty è molto...
attenta a me”, non aveva trovato un aggettivo adatto a
descriverla
e sapeva che, anche volendo, non avrebbe potuto raccontare delle
minacce subite. “Sto facendo del mio meglio”, aveva
aggiunto, ma
aveva assolutamente evitato di incontrare lo sguardo del ragazzo.
“E come sono i
professori?”, aveva chiesto Neal, facendo saettare lo sguardo
verso
l'amico, dandogli una stretta sulla spalla. “Critica pure:
per
questa sera Jonathan ti concederà
l'immunità”, aveva commentato
allegramente.
Non aveva idea di cosa
fosse l'immunità, ma non era sicuramente il caso di
raccontare delle
“storiche” dormite durante le sue ore di lezione.
Ma, con sua grande
sorpresa, Hunter prese parola e fu lui stesso
rivolgersi al padre. “Mi stava giusto
raccontando della tua
prima lezione di storia a cui ha assistito: ne era molto
soddisfatta”, dichiarò con tono saccente che fece
sorridere il
padre con aria lusingata.
Shirley rise
divertita.“Britty Woman detesta la storia!”, aveva
ribattuto,
guardandola con lo scintillio malizioso nello sguardo, immaginando
che l'entusiasmo fosse rivolto a ben altro soggetto.
“Mamma!”, aveva
protestato, le guance arrossate. Era già abbastanza
frustrante avere
a che fare con Hunter Clarington che stava evidentemente facendo del
suo meglio per metterla in imbarazzo. Tra l'altro era davvero molto
meschino da parte sua, approfittare di una confidenza che Brittany
gli aveva fatto a cuor leggero. Soprattutto considerando che si fosse
scusata più di una volta. Perché sembrava davvero
divertirsi a
prenderla in giro?
Si strinse nelle spalle,
Shirley. “Magari in Accademia c'è un fascino del
tutto
particolare”, malgrado il tono cospiratorio, la sua voce era
stata
abbastanza limpida da attirare l'attenzione generale e Neal quasi si
strozzò con il suo bicchiere di vino. Jonathan sorrise
appena nello
sporgersi a dargli qualche pacca sulla schiena.
“Prego? Oddio, stiamo
parlando di ragazzi? No, non sono pronto”. Aveva levato le
mani e
Brittany sarebbe voluta scomparire per non dover continuare a
sostenere quella conversazione.
“Parla per te”, aveva
ridacchiato Shirley. “Io ho già le mie
quotazioni”. Aveva
lanciato un'occhiata davvero poco implicita ad Hunter il cui
bicchiere rimase sospeso in aria: per un istante parve incapace di
proferire parola. Il solco tra le sopracciglia si approfondì
e poi
posò bicchiere, fissandola tra l'inebetito e l'incredulo. Ed
evidentemente senza più alcun bisogno di bere.
Brittany si drizzò
bruscamente dalla sedia, alludendo al bagno. Fu immensamente grata a
Jonathan Clarington che, con grande garbo, sviò la
conversazione,
chiedendo a Shirley dei suoi progetti per la sua nuova vita a
Colorado Springs.
Aveva sperato che, una
volta riuniti in salotto per il caffé (era un buon segno:
entro poco
sarebbe tutto finito, no?), sarebbe stato tutto più
semplice. Si era
appoggiata sul bracciolo della poltroncina sulla quale sua madre era
comodamente affondata: Neal sedeva sulla poltroncina davanti alla sua
e i Clarington sul divano. Era indubbiamente Neal il più
soddisfatto
della riuscita di quella cena. Da parte sua, Brittany, avrebbe voluto
trovare un espediente per sottrarsi alla compagnia ma nel modo meno
esplicito possibile o almeno avere un potere magico per poter
accelerare lo scorrere del tempo e saltare direttamente alla parte
dei congedi o, meglio ancora, il momento in cui Hunter sarebbe uscito
dalla sua casa.
Continuava a ridere e
sorridere ad intervalli regolari mentre pizzicavano qualcosa dal
vassoio con salatini e altri pasticcini messi a disposizione dalla
madre ma il momento tanto atteso, seppur si stesse avvicinando,
sembrava tardare. Fin troppo per i gusti di Brittany.
Fu quando la madre le si
rivolse che si riscosse, un battito di palpebre al sentirla
appoggiare la mano sul suo ginocchio.
“Perché non porti
Hunter a fare una passeggiata in giardino? Sono sicura che vi sarete
già annoiati abbastanza”.
Cominciava a chiedersi
come sua madre riuscisse a procurale così tante occasioni di
disagio
e sfoggiando così sfacciatamente quegli sguardi innocenti.
Si era
stretta nelle spalle, ignorando il ragazzo seduto sul divano.
“Certo
che no, mammina”, calcò il
nomignolo. “Mi piace stare qui
e sono sicura che-”.
“Visto che me lo chiede
così gentilmente, non mi dispiacerebbe sgranchirmi le
gambe”, era
stata la risposta pacata di Hunter che, sotto lo sguardo curioso del
padre, si era drizzato in piedi e si era avvicinato alla poltroncina,
dopo aver volto un sorriso alla donna. Un gesto del braccio con il
quale invitò Brittany a precederlo. Quest'ultima lo
guardò dal
basso all'alto: gli occhi sgranati e le labbra schiuse mentre sua
madre le dava una lieve spintarella perché si alzasse.
Incrociò le braccia al
petto, gli occhi stretti in due fessure e la voglia di allungare la
scarpa con il tacco per dargli un calcio nello stinco.
Chi si credeva di essere,
Hunter Clarington per decidere per entrambi? Soltanto perché
era
l'ospite, non significava che lei doveva accontentare i suoi
capricci. E poi non era stata lei ad invitarlo! Sarebbe dovuto uscire
con sua madre visto come le aveva sorriso, togliendosi
quell'espressione musona, una volta tanto.
“Un soldato
gentiluomo”, lo lodò la madre, levando il calice
verso di lui.
“Combinazione irresistibile, non trovi-”.
Si era drizzata
bruscamente, Brittany e (dopo aver cercato di guardarsi la schiena
per assicurarsi che la zip fosse ancora sollevata) si era rivolta al
ragazzo con un cenno. “Andiamo”.
Profittò del fatto che
Hunter le avesse aperto la porta per volgere uno sguardo risentito
alla madre che aveva trillato un sonoro: “Buona
passeggiata!”.
Sbuffò un'altra volta,
Brittany, la postura più rigida ed uscì senza
attendere il ragazzo:
in fondo volevano entrambi una scusa per allontanarsi. Il fatto che
fosse stato accondiscendente con la madre, non significava che
dovessero farsi compagnia.
Ma si accorse fin troppo
presto che il ragazzo la stava davvero seguendo ma se non poteva
certamente correre coi tacchi, cercò di non rallentare il
passo.
Ciononostante Hunter ci mise fin troppo poco a raggiungerla e ad
adeguarsi al suo ritmo.
Sospirò Brittany ma
lasciò vagare lo sguardo sull'ampio giardino: uno degli
aspetti più
piacevoli di quella città era che, rispetto a New York,
sembrava
vivere in comunione con la natura a giudicare dal paesaggio collinare
e dalle catene montuose che si scorgevano in lontananza.
Camminò tra le siepi e
le aiuole dei fiori e inspirò l'aria notturna: era davvero
una bella
serata, fresca e limpida. Le stelle che punteggiavano il cielo e si
vedeva la luna piena. Contemplò il tutto e sembrò
per un istante
dimenticare il fastidio e il disagio.
Lo guardò con la coda
dell'occhio ma non pareva provare il suo stesso sollievo. Appariva...
tediato e pensieroso. O almeno era la sua solita espressione quando
non sbraitava contro le sue reclute – Finn, Finn e ancora
Finn –
quindi poteva dirsi tranquillo (?) per i suoi standard.
Dovette essersi accorto
del suo sguardo o probabilmente stava concedendole di partecipare ai
suoi pensieri, perché l'attimo dopo la sua voce ruppe il
silenzio e
Brittany s’irrigidì d’istinto.
“Non mi sorprende che
Neal sia così entusiasta, ma che tua madre non capisca che
sei fuori
posto, questo sì, a dire il vero”.
Brittany lo fissò
incredula e sbatté le palpebre. Dunque era quello il motivo
per cui
aveva acconsentito ad una passeggiata? Probabilmente anche l'unico
divertimento che aveva tratto dalla serata: poter constatare, ancora
una volta, che aveva ragione. Persino alludendo a sua madre.
“Io non sono fuori
posto”, si sforzò di mantenersi calma e pacata.
Non voleva dargli
la soddisfazione di vederla nuovamente arrabbiata. “Mi sto
abituando e comunque non capisco perché-”.
“Dico solo che il tuo
sacrificio, per quanto nobile, è inutile: persino Neal
dovrà aprire
gli occhi. Loro saranno felici a prescindere, che tu stia in
Accademia o no”. Non sembrava volerla deridere e neppure
giudicare.
Ma era un'osservazione limpida, quasi volesse realmente...
consigliarla. Come quella prima sera quando le era apparso gentile,
seppur sempre nel suo modo tanto pacato.
Ma non riusciva a provare
la stessa gratitudine di quel momento, Brittany: il fatto che lui
sembrasse capire meglio di chiunque altro, al contrario, la
innervosiva. Sembrava essere quella vocina in fondo alla sua mente
che voleva spronarla a dire la verità quando, di fatto,
giorno dopo
giorno respingeva quell'impulso.
E poi, a prescindere da
quanto potesse avere ragione, era una propria decisione che non
avrebbe dovuto giudicare. Checché ne pensasse, non era una
bambina.
“Non è inutile: saremo
una famiglia”, rimarcò e riprese a camminare a
passo più rapido.
“Da quando l'essere una
famiglia è definito da una scelta scolastica?”, la
guardava
apertamente, Hunter, che si allineò subito al suo nuovo
passo.
“E tu, allora?”, si
era fermata e si era voltata a guardarlo. “Non lo hai fatto
per tuo
padre?”
Si accigliò Hunter ma
scosse il capo. “E' il mio posto”. Sembrava
pensarlo seriamente.
“Eppure non sembri
felice”, era stata una constatazione che aveva sorpreso
persino
Brittany nell'esplicarla: aveva riposto quello stesso pensiero che
aveva formulato quella notte eppure vi era un'istintiva sicurezza.
Che non aveva mai sentito così intensa nel pensare a
qualcuno.
Soprattutto qualcuno di cui aveva una così superficiale
conoscenza.
“Anche se ti piace
comandare tutti a bacchetta”, aggiunse quasi a correggere il
tono
della conversazione.
Se aveva ignorato
volutamente quel riferimento alla sua felicità, parve
realmente
spiazzato dall'ultima osservazione. Sbatté le palpebre,
prima di
affondare le mani nelle tasche dei pantaloni. “Sono il
Capitano”,
lo disse a mo' di spiegazione.
“Puoi essere gentile”,
ribatté, Brittany, il tono limpido.
“E tu dovresti cambiare
scuola”, ribatté con lo stesso tono fintamente
casuale.
“Mhm, bisogna
raffreddare gli animi”, constatò Shirley,
osservando i loro gesti
e le posture dalla finestra del salotto. Si avvicinò
cautamente
all'ingresso: in alto, affisso al muro vi era il quadro elettrico e
l'azionamento degli irrigatori.
Un sorriso vispo le
affiorò alle labbra nell'azionare la leva, giusto in tempo
prima di
sentire i passi di Neal. Rapida, riuscì a schizzare in
cucina come
un felino.
“Questo caffé?”, le
chiese con espressione allegra.
“Arriva subito”,
aveva ammiccato nel prendere il vassoio, gettando un'ultima occhiata
al giardino: entro pochi secondi il getto si sarebbe azionato.
Un vero peccato non poter
assistere alla scena.
“Perché ti interessa,
scusa?”, il tono risentito e polemico: il broncio
più infantile ma
l'aria stizzita.
Aveva sorriso, Hunter,
evidentemente soddisfatto nello scrutarne il cipiglio. Strinse le
spalle e in tono pacato, rispose:
“Curiosità”.
“Beh, sei fin troppo
curioso e-”, non finì la frase e
trasalì quando un getto d'acqua
fredda, alle sue spalle, la colpì in pieno. Incredula,
fissò gli
irrigatori che, automaticamente, si erano sollevati e stavano facendo
sprigionare quei zampilli d'acqua che avrebbero dovuto annaffiare le
piante.
Sentì il ragazzo
soffocare un'imprecazione ma prima che potesse sgridarlo, l'aveva
afferrata per il braccio e si era ritrovata a correre con lui tra le
siepi, cercando di fuggire agli schizzi.
“Dov'è il comando
degli irrigatori?”, le aveva chiesto, trattenendone ancora il
braccio.
“Non lo so!”, gemette
la ragazza, cercando di nascondersi dietro la sua schiena, prima che
un nuovo zampillo affiorasse di fronte a lei, spruzzandola
nuovamente.
“Come fai a non
saperlo?! E' casa tua!”, era la prima volta che lo vedeva
perdere
quell'espressione sempre pacata e composta, ad eccezione di quella
sfuriata a Finn, il giorno in cui era arrivata in Accademia.
Si era svincolata dal suo
braccio, Brittany, ormai completamente fradicia ma i piedi puntati al
terreno e lo sguardo torvo. “Perché ero in quella
STUPIDA
Accademia!”, gli rispose ma l'altro non parve udirla. Si
erano
fermati quando Hunter aveva individuato il comando dell'impianto.
Lo stava studiando con
sguardo concentrato, mentre Brittany restava alle sue spalle,
aspettando che riuscisse a fermare il getto.
Si era voltato in sua
direzione e Brittany aveva esalato incredula mentre il getto d'acqua
continuava a erompere violentemente, ma Hunter non si scompose.
Apparentemente incurante del grande alone sulla sua t-shirt che stava
dilagando, delle gocce d'acqua che cadevano lungo il volto,
colandogli lungo i lineamenti fino allo scollo, lo sguardo verde la
scrutò intensamente.
Non riusciva a
comprendere a cosa stesse pensando, ma la faceva sentire decisamente
a disagio: una contrazione all'altezza dello stomaco. Sbatté
le
palpebre ma trasalì ad un nuovo getto d'acqua che ne
colpì la
schiena.
“SPEGNILO!”, gemette.
Un sorriso s’increspò
sulle labbra del giovane. “Allora lo ammetti che odi
l'Accademia”.
Sgranò gli occhi,
Brittany e per un attimo valutò l'idea di schiaffeggiarlo.
Strinse i
pugni lungo i fianchi e sbuffò. “E va
bene!”, digrignò i denti
all'ennesimo schizzo d'acqua, il viso inclinato di un lato.
“Soddisfatto, adesso?”.
“Estasiato”, sorrise
affabile, chinandosi verso la manopola e, dopo pochi istanti, mise
fine all'annaffiatura.
Non seppe cosa fosse. Il
fatto che da arrabbiata sembrasse una bambina. O il fatto che
malgrado fosse fradicia, avesse ancora abbastanza stizza da non
abbandonare quel precedente risentimento.
O forse era il riverbero
della luna sui suoi capelli bagnati, il viso arrossato e il modo in
cui si stringesse le braccia al petto per un reale tremore che la
faceva apparire persino più esile e bisognosa di una
protezione.
Non era (soltanto) un
divertimento malsano alle sue spalle o il volerla torturare per
stabilire chi avesse ragione e chi no. C'era quel qualcosa
che
lo induceva a continuare ad osservarla.
Si passò una mano tra i
capelli e contemplò i propri abiti fradici, sapeva che se
non si
fosse asciugato presto, avrebbe rischiato di prendere freddo. Eppure
si sentiva... leggero. Ed era qualcosa di così insolito che
non
riusciva a spiegarlo ma neppure ad ignorarlo.
“Grazie”, sussurrò
appena, stringendosi le braccia al corpo.
Aveva inarcato le
sopracciglia, realizzando che la stava ancora osservando: non capiva
né come né perché ma aveva la
sensazione che cercasse qualcosa.
Lei stessa lo studiò
stranita: in quel momento non riusciva realmente a ricordare
perché
fosse tanto arrabbiata con lui. Probabilmente era divenuta una
disposizione d'animo quasi istintiva.
C'era il suo sguardo, il
suo viso illuminato dalla luna che rendeva i lineamenti meno rigidi.
Erano entrambi zuppi, ma non davano segno di volersi allontanare dal
giardino.
“Dovremmo rientrare”,
si sentì dire, ma fu come se quelle parole provenissero da
un'altra
realtà. Sbatté le palpebre.
Si strinse nelle spalle,
Hunter. Probabilmente aveva solo immaginato tutto. “A meno
che tu
non voglia fare un'altra passeggiata, ma dubito che le tue scarpe la
gradirebbero”.
Aveva abbassato lo
sguardo Brittany ed aveva emesso un gemito a vedere le macchie di
terra: perché doveva sempre accorgersi dei suoi errori?
Scrollò le spalle e le
tolse: malgrado tutto provò sollievo al sentire il contatto
tra la
pianta del piede e l'erba umida.
“Non è una mossa molto
intelligente”, la stava scrutando con le sopracciglia
inarcate.
“Non è un tuo
problema”, aveva ribattuto con un sorriso fintamente cortese
nel
voltarsi e parve sollevata che tornassero ad una pseudo discussione
come quelle precedenti.
Si sentì cingere il
braccio e trasalì.
Quando si voltò ad
osservarlo, notò che Hunter pareva esasperato.
“Perché sei sempre
così-?”.
“Una bambina?”,
chiese sferzante.
“Permalosa: volevo dire
permalosa”. Sembrava volerlo davvero precisare.
“Perché devi sempre
dirmi dove sbaglio?”, rimarcò.
Sbuffò, Hunter, e scosse
il capo, levando le mani. “Farò finta di
nulla”.
“Te ne sarei molto
grata”, gli sorrise serafica.
“Bene”, sancì il
giovane, apparentemente indifferente.
“Bene!”, rimarcò lei
e lui soffocò una risata.
“Benissimo”.
Sbuffò, Brittany, e lui
sorrise: per qualche strano, assurdo e incomprensibile motivo,
sembrava davvero... naturale. Era fradicio, avevano appena
bisticciato e avevano trascorso una serata ora evitandosi ed ora
imponendo l'un l'altro il proprio punto di vista.
E adesso sorrideva, come
se fosse realmente sereno. E non
era un ghigno
e neppure un gesto canzonatorio o ironico. Era autentico e persino il
suo viso sembrava... diverso. Lo sguardo più vivace e il suo
volto
completamente sfigurato e così quei lineamenti che
sembravano sempre
contratti per le espressioni di disappunto o di stoica insofferenza.
E Brittany non comprese
perché le fossero mancate le parole e provasse
quell'improvvisa
aritmia o non riuscisse a distogliere lo sguardo.
“Eccoli qua: i due
fuggiaschi”, aveva commentato allegramente
Neal.
Lui e Jonathan parvero
restare totalmente basiti, quando si avvidero delle loro condizioni.
L'unica che sorrideva era Shirley, le mani a puntellarsi i fianchi.
“A quanto pare hanno
avuto una serata caliente ma, per dovere di
cronaca, abbiamo
una comoda vasca da bagno al piano di sopra”.
Sembrarono fin troppo
empatici, Brittany e Hunter, nello scambiarsi uno sguardo, un vago
cenno di rossore sul volto mentre Jonathan si avvicinava al figlio.
“Sono sicuro che avrai
una spiegazione più che pittoresca ma l'ascolterò
in auto.
Shirley, Neal, è stato
un piacere”.
“Oh, il piacere è
stato tutto nostro”, trillò allegramente Shirley.
Neal si affrettò a
togliere la giacca e posarla sulle spalle di Brittany che emise uno
starnuto ma lo osservò grata. Il suo sguardo
incrociò un solo
istante quello di Hunter che, un brusco cenno del capo,
entrò
nell'auto.
Shirley le cinse le
spalle e la condusse verso l'ingresso, sussurrandole un: “Poi
mi
racconti tutto!”.
Gemette, Brittany.
Avrebbe dovuto
immaginare che non si era
affatto trattato di un incidente.
To
be continued...
Posso
ben dire che questo sia stato uno dei capitoli più
divertenti da
immaginare, soprattutto per la descrizione di un personaggio tanto
vitale e brioso quale Shirley :)
Ma
diamo un'occhiata al prossimo capitolo:
“Ho
del grasso in faccia?” “Ti sta
benissimo!” “Dovrò fare una
doccia o Kitty-”. “Vieni al ballo con
me!”.
“Gran
bel passo di tip tap. Certo, l'atterraggio sul tuo piede è
stato
superbo”.
“E'
questo che pensi, allora?”. “E' quello che fai
vedere”.
“Liberissima di crederci: è un tuo
problema”.
Come
sempre, ringrazio di cuore chi mi sta seguendo, in particolar modo le
mie fedeli recensitrici che rendono ogni pubblicazione ancora
più
entusiasmante. Vi mando tanti cuoricini (ma non li disegno perché l'editor di EFP mi odia :D) su unicorni galoppanti.
Non
mi resta che augurarvi buon weekend e una buona settimana.
A
presto,
Kiki87
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
capitolo 4
Lumière:
A cena, la inviti a cena.
La
Bestia: Lei questa sera cenerà con
me! E non si tratta di un invito!
[La
Bestia sbatte la porta]
(Dal film Walt Disney
“La
Bella e la Bestia”)
Capitolo
4.
Fu con un sospiro che
entrò nel dormitorio dell'Accademia: decisamente, dopo quel
piacevolissimo weekend (escludendo la cena a sorpresa), tornare in
quella camerata era persino più deprimente. Si muoveva
furtivamente,
Brittany, guardandosi ansiosamente attorno prima di accorgersi
che all'interno non vi era nessuna delle sue compagne, ad eccezione
di Marley. Nonostante il suo stato d'animo, era davvero
piacevolissimo quel ritrovarsi. Si liberò del grande
involucro di
cellofan che racchiudeva l'abito per il ballo e lo ripose sull'anta
dell'armadio che condivideva con la ragazza (sua madre si era
raccomandata di prestare attenzione perché non si
stropicciasse).
Con persino più delicatezza ed attenzione,
appoggiò anche una sacca
sportiva – un'altra occhiata furtiva verso l'ingresso della
camera
- e si sedette finalmente sul materasso, subito seguita dall'amica.
Alla convenevole domanda “come è andato il
weekend?”, si era
ritrovata a raccontarle del piacevolissimo shopping con la madre.
“Posso
sbirciare?”,
non aveva atteso risposta, Marley, che aveva osservato l'abito con
un'esclamazione di sorpresa e d’ammirazione, prima di
voltarsi con
un sorriso. “E' davvero splendido: sembrerai davvero una
principessa, non vedo l'ora che tu lo indossi!”. Si era
nuovamente
seduta e la guardava allegramente. “Sai già con
chi andrai al
ballo, a proposito?”.
Si era stretta
nelle
spalle, Brittany con un cenno di diniego.
“Sei
appena arrivata e
non conosci molte persone”, convenne l'altra in tono gentile
ed
incoraggiante. “Ma aspetta che ti vedano con quell'abito,
sarai
sicuramente tra le più corteggiate”, e dal dolce
sorriso, non vi
erano dubbi circa la sincerità di quel pensiero.
“Vedremo”,
rispose
vagamente Brittany che non aveva intenzione ad impelagarsi in una
discussione di quel calibro. Cercò di scacciare un viso ben
noto dai
suoi pensieri, complici le insinuazioni maliziose della madre,
nonché
il messaggino (che le aveva mandato poco prima), nel quale le
intimava di avvisarla d’ogni eventuale invito.
“E,
tu, invece, Marley?
Con chi andrai al ballo? Justin Bieber o Puckermusone?”.
Marley, che si
era
voltata verso di lei bruscamente alla domanda, assunse un colorito
rossastro sulle gote e, seppur sorrise nervosamente di quei
nomignoli, si morsicò il labbro con aria dubbiosa.
“Io... non lo
so, non pensare male di me, ti prego”.
Brittany era
parsa
confusa, ma le aveva stretto la mano con dolcezza.
“Perché dovrei?
Sei la persona più dolce e gentile che ho incontrato, da
quando sono
arrivata qua”.
Sorrise,
Marley, ma
sospirò. “Sai, quando sono arrivata qua in
Accademia, mi sono
infatuata di Jake: è il classico 'cattivo ragazzo' che ha la
fama di
essere un donnaiolo – usciva con Kitty l'anno scorso, a
proposito –
è sicuro di sé, a volte arrogante, ma io credo ci
sia qualcosa di
più. Credo stia solo cercando di imitare suo fratello
maggiore,
Puck”.
Brittany aveva
aggrottato
le sopracciglia, pensando al ragazzo con la famosa cresta,
nonché il
migliore amico di Finn. Ogni volta che la vedeva, dava di gomito al
ragazzone per poi dire qualcosa tipo “Pupa ad ore due,
fratello: io
distraggo Capitan Shampoo al Viagra.
Rendimi fiero di te, tigre!”.
“Lui
e Puck sono
davvero fratelli?”,
le aveva chiesto, sbattendo le palpebre
a più riprese. Jake, a dirla tutta, non brillava troppo di
simpatia
ai suoi occhi: lo vedeva spesso ridere e scherzare anche con altre
ragazze, facendo rattristare Marley. Aveva pensato che si fosse
convinto d’essere fratello di Puck o lo definisse tale solo
per
rendersi più accattivante.
Rise, Marley
ma scosse
appena il capo.
“Scusa,
stavi
dicendo?”, si era morsicata il labbro, Brittany, e Marley
aveva
ripreso.
“Poi
ho conosciuto
Ryder”, il viso aveva assunto un'espressione più
sognante: gli
occhi sembrarono brillare e un nuovo e delicato rossore le
sfiorò le
guance.
Brittany,
seppur non
fosse esperta di balli da sala o di ragazzi, immaginò di
aver
compreso più di quanto lei stessa potesse affermare.
“Lui
è un vero amico:
incredibilmente dolce, gentile e mi fa sentire la persona
più
speciale del mondo, senza chiedere nulla in cambio. E io non vorrei
mai ferirlo, ma... non so cosa fare”.
Brittany si
morsicò il
labbro: era la prima volta che qualcuno sembrava chiederle un parere
e in tono così concitato e bisognoso. Non poteva che fare
affidamento sul proprio giudizio e sperare di non deludere l'amica
che meritava un parere onesto e sensibile. Lo sguardo si era fatto
più pensieroso e aveva incrociato le braccia al petto.
“Quindi è
come se dovessi scegliere tra il Pirata e il Principe
Azzurro”.
Marley che
parve colpita
da quella metafora, la scrutò con il viso inclinato di un
lato,
l'espressione dolorosamente mortificata. “Credi che si
possano
amare due persone contemporaneamente?”.
Scosse il
capo, Brittany,
e parve più sicura che mai nelle parole seguenti: non
avrebbe saputo
spiegare che cosa ne motivasse il parlare, ma sembrava una
verità
insita in sé. “No, perché due persone
non possono essere uguali”,
rispose semplicemente per poi cingerle le spalle con fare protettivo.
“All'inizio hai pensato che Jake fosse il tuo Principe, ma se
il
vostro fosse stato vero amore, tu adesso saresti felice, aspetteresti
il ballo e non vedresti l'ora di essere con lui.
Visto che una
Principessa
può avere un solo Principe e tu sei spaventata
perché non vuoi far
soffrire Ryder, allora forse hai sempre avuto davanti il tuo vero
“E
non l'ho mai
capito”, aveva assunto un'espressione ancora più
mortificata, ma
Brittany aveva continuato a sorriderle.
“Io
credo che lo
sapessi, ma a volte preferiamo restare sulle nostre opinioni: in
fondo anche Adam,
la Bestia, era un Principe in origine e poi è tornato ad
esserlo”.
La sua voce si
era
ridotta ad un sussurro: lo sguardo sembrò perso in un punto
indefinito ed arrossì. C'era
qualcosa in quel
ragionamento che aveva condiviso, in modo spontaneo, che sembrava
suggerirle che Marley non era stata l'unica a formulare un giudizio
affrettato.
“Credo
che tu abbia
ragione, Brittany: non so come ringraziarti”. Le sorrise,
Marley,
una nuova risoluzione nello sguardo.
Aveva sbattuto
le
palpebre, ma si era lasciata cingere. “Spero troverai il tuo
Principe”, le aveva sussurrato Marley con tono più
dolce.
Prima che
potesse
pronunciare risposta, un suono soffuso proveniente dal suo borsone,
attirò l'attenzione di entrambe.
Marley
sgranò gli occhi
quando Brittany ne fece scorrere la zip e la testa di un gatto
tigrato fece la sua comparsa: un miagolio e, dopo che Brittany lo
ebbe sollevato, Lord Tubbington scivolò fuori. Si
piegò sulle zampe
anteriori con un movimento pigro ed indolente, gli occhi che vagavano
tra le pareti, le vibrisse in movimento ma, dopo qualche passo, si
rannicchiò pigramente contro il cuscino della padrona. O
probabilmente era crollato per il troppo moto, difficile a dirsi.
“Brittany”,
Marley
parve impallidire: si affrettò a chiudere la porta della
camera,
prima di volgersi a lei. “Non puoi tenerlo qui! Se Kitty lo
scoprisse-”.
“Ti
prego, Marley: Lord
Tubbington era tanto triste a casa e a mamma non piacciono i
gatti”,
la stava supplicando con voce pigolante. “Ti prometto che ne
parlerò a Neal e sono sicura che riuscirò a
convincerlo prima o
poi”.
Sembrò
vacillare,
Marley, ma si morse il labbro. “E come farai durante le
ispezioni?”.
Non sembrava
particolarmente preoccupata Brittany che le sorrise, evidentemente
già pensando di star accattivandosi la sua
complicità. “Non
preoccuparti: dorme quasi tutto il giorno, basterà
nasconderlo sotto
il letto per qualche minuto. Promettimi che non lo dirai a Kitty, ti
prego”.
Sospirò
l'altra ragazza
che sembrava molto combattuta e poco ottimista ma le sorrise.
“Certo
che non lo farò”.
Prese in
braccio Lord
Tubbington, Brittany e la cinse con il braccio libero.
“Grazie,
Marley, sei un'amica”. Sollevò il mento del micio
che schiuse
pigramente gli occhi, l'aria annoiata e un lieve sbadiglio.
“Benvenuto all'Accademia, Lord Tubbington”.
~
Alzarsi alle
cinque era
divenuto meno traumatico e, a poco a poco, anche la corsa mattutina
s’integrò nella sua routine. Riusciva
a resistere più a lungo, anche se così dava
pretesto a Kitty di
farla correre per più tempo. In realtà, il
Capitano sembrava
cercare ogni possibile appiglio per metterla in difficoltà o
somministrarle gli oneri più snobbati dalle altre reclute
come
l'aiuto in cucina (una fortuna che fosse amica della madre di Marley)
o la lucidatura degli stivali della sezione maschile. Non si
sorprendeva di trovare spesso anche Finn rilegato allo stesso
incarico.
Era proprio
lui, molto
“cavallerescamente”, a sputare sugli stivali che
poi lei doveva
sfregare con un panno e del grasso come le aveva mostrato.
Quel giorno
sembrava
persino più sorridente del solito, mentre l'attendeva: era
reduce da
un weekend particolarmente positivo, Finn, come in ogni occasione in
cui poteva sottrarsi alle
grinfie di
Hunter, quando si allontanava dall'Accademia.
Aveva
già finito la sua
parte di lavoro ma, per qualche motivo, seppur si fosse già
rimesso
in piedi, non sembrava avere particolarmente fretta di allontanarsi
dal bungalow adibito come spogliatoio. Al momento vi erano soltanto
loro due, poiché i compagni di Finn erano impegnati in altri
percorsi o esercizi, sotto la guida dello scrupoloso Capitano che
Brittany aveva avuto la fortuna di non incrociare dopo quella
disastrosa cena.
Notando
l'insistente
sguardo di Finn, Brittany s’interruppe e, con la mano libera,
cercò
di scostare un ciuffo di capelli che le era scivolato sul viso per
riporlo sotto il berretto. “Ho del grasso in
faccia?”, gli chiese
quindi.
Il ragazzone
le sorrise
con quel fare più puerile e spensierato, le mani strette in
grembo e
si strinse nelle spalle, quasi volesse scomparire dalla stanza.
Inclinò il viso di un lato. “Ti sta
benissimo!”, le rivelò con
aria quasi timida.
Brittany
gemette e si
portò una mano sul viso, finendo soltanto per estendere
ulteriormente la macchia. Fissò la propria mano sporca ed
emise un
verso di disgusto alla fragranza tutt'altro che piacevole.
“Dovrò
farmi una
doccia o Kitty-”.
“Vieni
al ballo con
me!”, aveva esclamato, Finn, la stessa postura rigida - le
braccia
lungo i fianchi e lo sguardo sgranato nel vuoto - che assumeva quando
Hunter gli urlava contro. Sbatté le palpebre e si
grattò la nuca,
guardandola dall'alto al basso. “Tu mi piaci: sei gentile,
dolce,
molto carina e...”, aveva aggiunto con il sorriso nuovamente
accattivante.
Ma Brittany
non lo stava
più ascoltando: c'erano stati diversi balli al suo liceo (e
altrettante giornate di shopping con sua madre) ma era in assoluto la
prima volta che qualcuno la invitava. O, per dirla tutta, che
qualcuno le chiedeva di uscire o le diceva di trovarla graziosa.
Era arrossita,
ma più
osservava il volto speranzoso e dolce di Finn e più si
domandava se
tutto stesse accadendo nel modo giusto. Era sudata,
spettinata
e sporca di grasso: non proprio una circostanza nella quale si
potesse effettivamente sentire carina. Oltretutto, non avrebbe dovuto
sentire un forte batticuore o essere spaventata ma impaziente
all'idea? Non avrebbe dovuto prevedere che le cose tra lei e Finn
avrebbero potuto evolversi in quel modo?
Il sorriso di
Finn si
spense lentamente, al prolungato silenzio, e parve così
spaesato e a
disagio che Brittany sentì un nodo in gola, seppur lui
cercasse
ancora di sorriderle con fare rassicurante. “N-Non importa:
non
preoccuparti, era così per dire e poi io-”.
“Certo,
verrò al ballo
con te”, rispose.
Un repentino
sorriso
luminoso che ne fece scintillare anche gli occhi, affiorò
sul viso
di Finn che sembrò trattenersi a stento dal saltellare sul
posto o
correre a cercare Puck per annunciargli la meravigliosa notizia.
“Siamo
amici, vero?”,
soggiunse Brittany.
“Certo,
certo!”,
sembrava sovreccitato Finn. “Ti prometto che ti divertirai
e-”,
si era fermato davanti a lei e qualcosa nel suo sguardo
sembrò
mutare. Perse completamente quell'anelito più puerile e
pasticcione:
sembrava molto più sicuro e determinato di sé.
Brittany si
sentì
stranamente a disagio e confusa, soprattutto per come aveva
interrotto la frase. “E..?”, sembrò
incoraggiarlo.
Finn si era
chinato e
Brittany era indietreggiata d'istinto: gli occhi sgranati, le labbra
schiuse e lo sguardo incredulo. Nello stesso istante, la porta fu
spalancata ed entrambi trasalirono e si volsero nella stessa
direzione.
Lo sguardo di
Hunter
Clarington, come sempre impettito, saettò dall'uno all'altra
prima
che incrociasse le braccia al petto, evidentemente chiedendosi cosa
stesse accadendo. Si rabbuiò e Finn sembrò
sgonfiarsi letteralmente
a quello sguardo glaciale.
“Hudson,
sono
consapevole che la coordinazione mano-occhio è una dote
innata
soltanto nel 99,99% delle mie reclute”, il tono era annoiato
e lo
sguardo sembrava trapassarlo da parte a parte, tanto che il ragazzo
si mise nuovamente in posizione. “Ma quanto credi ti sia
necessario
per lucidare dieci paia di stivali, senza che lo sforzo ti procuri
un'ischemia cerebrale?”.
Era arrossito,
Finn, ma
si era affrettato a rispondere. “Ho finito,
Signore!”.
Lo sguardo
verde lo
perforò con ancora più insistenza per poi
lampeggiare nuovamente
verso la ragazza che si era istintivamente irrigidita, le braccia
strette al corpo sulla difensiva. “Allora, cosa diavolo
staresti aspettando?”:
Gocce di
sudore freddo
scivolarono sulle tempie di Finn. “Signore, io,
io-”. Balbettò,
lo sguardo che vagava tutto attorno alla ricerca di una scusa
plausibile.
“Tu,
cosa, Hudson?”,
aveva sibilato, avvicinandosi al giovane che, per qualche strano
effetto ottico, sembrava quasi rimpicciolirsi di fronte al suo
superiore, malgrado lo torreggiasse.
“Stava
aiutando me”,
si sentì dire, Brittany che parve ritrovare la parola. Era
come se
l'ingresso di Hunter fosse riuscito a ricondurla bruscamente alla
realtà, dopo quel lungo istante nel quale l'iniziativa di
Finn
l'aveva disorientata e quasi intimidita.
Inarcò
appena le
sopracciglia, Hunter, che scosse appena il capo, ma la
fissò. “Hai
del grasso sulla faccia”, le fece presente.
“Lo
so”, commentò
per risposta con aria indifferente. Era la prima volta che si
ritrovavano faccia a faccia dopo quella cena. C'era stato persino un
istante, nel suo giardino, in cui aveva provato un disorientamento
persino più intenso di quello che le aveva innescato Finn.
Mentre il
suo amico sembrava aver agito ad una maniera che non riusciva ancora
a spiegarsi; per un solo istante aveva avuto l'impressione di
scorgere qualcosa di più del Capitano. E che fosse persino
giusto
abbandonarsi a quell'attimo di contemplazione, chiedendosi
genuinamente che cosa sarebbe accaduto se non fossero stati
interrotti.
La
scrutò ancora
curiosamente, Hunter, ma infine si volse al suo sottoposto che aveva
guardato dall'uno all'altra, con la stessa espressione confusa. Si
irrigidì subito, Finn, quando lo sguardo verde lo
fulminò sul
posto. “Muoviti, cinquanta giri di campo per la tua lentezza
da
bradipo morto”, gli aveva indicato l'uscita del bungalow con
aria
annoiata.
“Ma
non è stata colpa
sua”, protestò la ragazza.
Hunter, che
stava per
precedere Finn, si volse nuovamente. Le labbra erano serrate in una
smorfia. “Ma non rientra nelle mie giurisdizioni punire
te”.
“Ma
nelle mie, sì”,
osservò Kitty con un sorriso viscido. Era sulla soglia
dell'uscio:
le braccia incrociate al petto e l'aria soddisfatta mentre entrava
con aria trionfale. “Che cosa ha fatto? A parte lucidare gli
scarponi con la sua faccia da Barbie?”, chiese a Hunter, dopo
aver
rivolto uno sguardo di puro disprezzo alla sua recluta.
Sembrò
un lungo istante
quello in cui Hunter scrutò Brittany, che si era imposta di
non
reagire alla provocazione per non peggiorare ulteriormente le cose
(memore dell'ultima volta in cui Hunter ne aveva preso le difese), al
di sopra della spalla di Kitty. Brittany avrebbe voluto sottrarsi a
quell'esamina, ma non riuscì a distogliere il proprio
sguardo:
avrebbe voluto capire che cosa Hunter sembrasse cercare nel suo volto
o che cosa si celasse in quello del ragazzo stesso. Sembrava,
tuttavia, un mistero irrisolto così come il perché e il come
riuscisse a procurarle quella fastidiosa fitta allo stomaco, quando
non diceva una sola parola, ma la fissava in quel modo.
Dopo quello
che parve un
silenzio infinito, Hunter tornò a scrutare Kitty e scosse il
capo.
“Nulla”,
rispose in
tono spiccio per poi rivolgersi alla sua recluta. “Andiamo,
Coglion
Hudson”, gli diede uno spintone che quasi lo fece cozzare
contro la
trave del soffitto.
Kitty non
parve affatto
soddisfatta, quando si furono allontanati e rimasero sole.
“Finisci
di pulire, poi ti occuperai dei bagni e visto che ti piacciono tanto
i soldati, pulirai quelli maschili. Di tutto l'edificio”, le
sorrise velenosamente, probabilmente attendendo una qualsivoglia
reazione che le desse adito ad una punizione persino più
esemplare.
Recuperò uno stivale dal pavimento e lo premette addosso
alla
biondina che si lasciò sfuggire un gemito.
“Mi
hai sentita?”, le
sibilò all'orecchio.
“Signorsì,
Signora!”,
rispose Brittany più per abitudine che per altro e
rilasciò un
sospiro di sollievo, quando finalmente Kitty tornò sui suoi
passi.
Ma, prima di varcare la soglia dell'uscio, lei si volse nuovamente in
sua direzione.
“Sono
sicura che tu e
Coglion Hudson sarete una coppia perfetta in pista”, e
Brittany si
accigliò a quella sospettosa dichiarazione. “Quasi
quanto lo
saremo io ed Hunter”, aveva aggiunto con tono ancora
più allusivo
e un sorriso repentino ad incresparle le labbra carnose. Quel sorriso
che Brittany conosceva troppo bene e che, abbinato a quello sguardo
gelido, non n’addolciva affatto i lineamenti, ma la rendeva
persino
più... inquietante.
Nonostante
non comprendesse il motivo di quella specificazione, si sentì
chiedere un incredulo e interdetto: “Ti ha
invitata?”.
Aveva sgranato
gli occhi,
Kitty, evidentemente non aspettandosi quella domanda, formulata in
modo tanto diretto.
“Voglio
dire, Signora”,
si era morsicata il labbro, Brittany, certa che quell'impudenza le
sarebbe costata una punizione persino peggiore. Senza contare che lei
stessa non avrebbe saputo spiegarsi quell'insana curiosità.
Ancora
più
sorprendentemente, Kitty parve compiaciuta: la mano appoggiata sul
fianco in una posa ben più languida del portamento tipico di
una
donna in uniforme. Aveva sorriso nuovamente, di quel sorriso
malizioso e consapevole. “Non ce n'è
bisogno”, dichiarò in tono
eloquente che, se possibile, lasciò Brittany persino
più
interdetta.
Neppure la
sentì
abbaiarle contro qualche altra minaccia: la seguì con lo
sguardo,
continuando a riflettere
non soltanto sulla
dichiarazione, ma sull'evidente certezza di cui era intrisa. Che
Kitty fosse riuscita a trovare quel qualcosa
nello sguardo di Hunter Clarington? Era lei a renderlo meno rigido e
più spontaneo? Era lei ad innescare un sorriso simile a
quello che
aveva scorto nel suo giardino, quando era fradicio per l'incidente
con gli irrigatori? Anche Kitty sentiva il mal di pancia per colpa
del suo sguardo o era qualcosa che accadeva soltanto a lei?
Scosse il capo
e si
sedette nuovamente sulla panchina, uno stivale in una mano e il panno
unto di gesso nell'altra.
Avrebbe dovuto
partecipare al ballo, nonostante tutto, per l'impegno preso con Finn
ma era certa che il ragazzo sarebbe stato un cavaliere molto gentile
e si sarebbero potuti divertire insieme.
Non poteva
desiderare una
compagnia migliore, in fondo, no?
Un cavaliere
un po'
pasticcione ma dolce poteva essere un Principe camuffato?
~
Non
era la prima volta che si osservava allo specchio con quell'abito, ma
nuovamente stentò a riconoscersi. Sentiva l'emozione
stringerle la gola mentre lasciava scorrere le dita, in una carezza
delicata, lungo il tessuto per poi sfiorare i lembi del tulle che
dava corpo e spessore alla gonna, con un sorriso che ne faceva
scintillare gli occhi di una nuance simile. Raddrizzò le
spalle e
prese un bel respiro, cercò di ricordare le parole di sua
madre:
il miglior consiglio e promemoria che potesse serbare in
quell'occasione.
“Tira
fuori la principessa che è in te. Lei attende da molto
tempo”.
Rimirò
un'altra volta il vestito e sorrise tra sé con aria
più decisa e
convinta: non sapeva che cosa l'avrebbe attesa quella serata, se
sarebbe stato più o meno divertente e/o coinvolgente. Ma,
mentre
Finn l'attendeva, adorabile quanto soffocato in quello smoking scuro
che sembrava renderlo persino più monumentale e rendeva il
contrasto
con il sorriso goffo persino più dolce; per un attimo si
sentì
esattamente come le sue prime maestre di vita. Una Principessa che
faceva finalmente il suo ingresso e il cui vestito sembrava
risplendere di luce propria, divenendo esso stesso protagonista della
scena, come probabilmente sua madre si era augurata.
Un corpetto
candido,
dalla scollatura rotonda che le lasciava nude le spalle esili e il
cui unico ornamento sul décolleté era una collana
di perle,
abbinata ai pendenti che scivolavano dai lobi. Sul tessuto era inciso
un ricorrente ricamo di rose che stilizzavano ulteriormente il
bustino che ne sottolineava la vita esile.
Un'ampia gonna
azzurra
con riflessi candidi per lo stesso motivo di rose che, dal corpetto,
si allungavano alla parte superiore dell'abito, per poi disperdersi e
luccicare per gli strass applicati e dispersi nella lunghezza stessa. Il sotto-strato di
tulle
dava un ampio volume e Brittany si era lasciata incantare dal fruscio
che poteva sentire ad ogni singolo movimento.Seppur avesse dichiarato
di non essere affatto avvezza ai
balli di sala, in quel momento non avrebbe desiderato altro che
vivere interamente una scena da favola.
Finn
sembrò incantato ed
incapace di trovare le parole mentre Brittany, i capelli trattenuti
ai lati da un nastro azzurro e poi liberi in boccoli a discendere
lungo le spalle nude, gli porgeva la mano che egli strinse.
Rilasciò
il fiato e un sorriso gli increspò le labbra. “Sei
bellissima”,
aveva sussurrato e Brittany gli aveva sorriso di rimando, lasciando
che le insinuasse un bouquet da polso che aveva osservato con sguardo
scintillante.
“E'
bellissimo, ti
ringrazio”, aveva commentato e sollevato nuovamente lo
sguardo su
di lui. “Stai molto bene”, aveva osservato lo
smoking scuro e
aveva allungato la mano verso la cravatta leggermente storta. Aveva
sentito il battito di Finn divenire più intenso e aveva
abbassato la
mano automaticamente.
Il ragazzo le
aveva porto
il braccio che Brittany aveva stretto ma, nel momento in cui
varcarono insieme la soglia della palestra adibita come una sala da
festa elegante e romantica, non poté trattenere quel
singulto
d’emozione alla vista di quello che sarebbe stato il suo
primo
ballo ufficiale, almeno come dama. Strinse istintivamente
più forte
il braccio del suo cavaliere, quasi necessitando di un
incoraggiamento, mentre lasciava vagare lo sguardo su volti noti ma
che sembravano risplendere con abiti sontuosi e un'atmosfera
così
soffusa. Avrebbe continuato ad osservare la scena, ma si riscosse
quando Finn sembrò trovare una nuova risoluzione
nell'indicarle la
pista da ballo con un cenno del mento. “Ti va di
ballare?”.
Sembrava la
tipica
situazione fiabesca, la domanda che aveva sognato di udire fin da
quando era solo una bambina e sognava di indossare un abito come
quello presente.
C'era quel
qualcosa,
tuttavia, che le impediva di essere completamente soddisfatta. Ma nel
guardare lo sguardo speranzoso di Finn, non poté non
sentirsi in
colpa e gli sorrise dolcemente. “Molto volentieri”.
Se soltanto la
dolcezza e
le premure di Finn avessero eguagliato il suo senso del ritmo,
Brittany non avrebbe avuto dubbi di essere stata accompagnata dal
migliore ballerino della sala.
Abbandonarsi
al ritmo
della musica era come ritrovare una parte di sé che sembrava
smarrita e tenuta strettamente sotto controllo. Era nuovamente libera
ed era una sensazione che non vedeva l'ora di provare nuovamente: le
ore trascorse nella palestra della madre, di fronte a quello specchio
ad esercitarsi su diverse coreografie e generi di ballo, erano tra i
ricordi più felici della vita a New York e quelli che
più gli
strappavano un sospiro nostalgico.
Si riscosse, e
in modo
doloroso, quando Finn, nell'impeto di quell'improvvisato passo di
danza, le calpestò il piede. Gemette, la ragazza,
interrompendo il
suo ballo.
Il ragazzone
si portò le
mani alle labbra e si bloccò, l'espressione chiaramente
sconvolta e
timorosa.
“Oddio!
Scusa, sono un
disastro”, aveva commentato mortificato. “Tu sei
così brava e
dovresti poter ballare con qualcuno che sia alla tua altezza e io
dovrei sedermi e non fare altri danni-”, era persino
più
adorabile, quando perdeva la propria sicurezza.
Ne aveva
stretto
nuovamente la mano. “Non preoccuparti. Che ne diresti se ci
sedessimo qualche minuto e parlassimo un po'?” gli aveva
proposto,
indicando i tavoli rotondi, disseminati nella stanza e il ragazzo
parve notevolmente sollevato. Non sembrava arrabbiata e neppure
intenzionata a scaricarlo dopo quel disastroso esordio.
Le sorrise
nuovamente con
la consueta gentilezza. “Vado a prenderti qualcosa da
bere”.
Annuì,
Brittany, e si
allontanò dalla pista, osservando l'orlo dell'abito che
sfiorava il
pavimento: aveva una vaga smorfia sul viso per il dolore e fu un
sollievo potersi nuovamente sedere, ma lasciò correre lo
sguardo
sulle coppie che si accalcavano sulla pista da ballo. Sorrise e
agitò
la mano in direzione di Marley la cui guancia era premuta contro il
petto di Ryder. Quest'ultimo la stringeva con espressione
così
devota, ma con tale tenerezza che Brittany non poté che
compiacersi
per la sua amica e la scelta più giusta per il suo cuore.
Stava ancora
facendo
vagare lo sguardo, cercando altri visi familiari per contemplarne il
cambiamento, ma quasi trasalì quando la sedia davanti alla
sua fu
scostata da Hunter Clarington.
Anch'egli
indossava uno
smoking scuro, perfettamente contrastante con la camicia candida e la
cravatta di seta. A differenza di Finn, sembrava che quelle vesti non
lo stessero affatto costringendo: al contrario, ne mettevano in
risalto la figura longilinea, le spalle ampie e la vita stretta. Gli
conferivano un'eleganza che, ad essere onesti, incarnava
perfettamente anche nei movimenti armonici con cui si apprestava
all'addestramento. Ma c'era quell'alone più sofisticato che
era
innegabile, seppur Brittany fosse troppo impegnata a fissarlo con
aria incredula per quella iniziativa.
Si
accomodò con
nonchalance, Hunter, un bicchiere di champagne tra le dita.
Sospirò,
Brittany, ma
volse caparbiamente gli occhi alla sala: ne sentiva lo sguardo
addosso, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a rivolgere un
saluto all'altro.
“Gran
bel passo di tip
tap”, fu il commento pacato ma svogliato e Brittany fu
strappata
dalla sua silenziosa contemplazione, gli occhi sgranati e un accenno
di rossore sulle gote. “Certo, l'atterraggio sul tuo piede
è stato
superbo”.
Le labbra di
Hunter si
erano increspate in un'espressione vagamente divertita e Brittany
s’irrigidì com’era fin troppo solita
nelle interazioni con lui:
incrociò le braccia al petto e gli rivolse uno sguardo
infastidito.
Per quale motivo non raggiungeva Kitty, specie considerando che tra
loro il vincolo non richiedesse neppure un invito, come aveva
specificato in modo fin troppo chiaro la ragazza stessa?
Quest'ultima,
doveva
ammettere Brittany con un certo dispiacere, era incredibilmente
graziosa quella sera: indossava un abito lillà con una
fusciacca di
un azzurro scintillante per i glitter, ma erano il sorriso
più
civettuolo sul viso, i capelli lunghi e ondulati che le sfioravano le
spalle e il trucco a renderla molto più femminile e
delicata.
L'abito risaltava, inoltre, una silhouette più minuta e
aggraziata
di quanto la divisa lasciava immaginare.
“Finn
è un ottimo
cavaliere”, gli fece presente, il tono più severo,
ma ne evitò
ancora lo sguardo.
Si era portato
il calice
alle labbra, Hunter, e l'aveva osservata con le sopracciglia inarcate
prima di posare il bicchiere, il viso inclinato di un lato e le
labbra ancora increspate dal sorriso. “Il che equivale a dire
che
sia un pessimo ballerino, oltre al peggior soldato che io abbia mai
avuto la sfortuna di avere nel mio plotone”.
Si era voltata
nuovamente
in sua direzione, soltanto per rivolgergli una smorfia severa e
corrucciata, prima di inclinare il viso di un lato e accennare un
sorriso tutt'altro che complice. “Perché non
vediamo come balla un
Capitano?”.
Non aveva
fatto in tempo
a rispondere, Hunter, lo stesso sorriso divertito sulle labbra,
perché Kitty gli appoggiò la mano sulla spalla e
sbatté gli occhi
le cui ciglia erano state ispessite notevolmente dal rimmel, rendendo
quel gesto persino più languido del naturale. Una sola
occhiata
sprezzante verso Brittany, seppur avesse indugiato sul suo abito,
evidentemente impressionata per un misero istante. Dopodiché
la
ignorò allegramente.
“Balliamo?”,
si
rivolse al ragazzo, sussurrandogli all'orecchio ma con voce
abbastanza squillante perché Brittany la sentisse (un vago
alzare
gli occhi al cielo, da parte di quest'ultima, per poi tornare ad
osservare la pista, a dimostrazione di totale indifferenza).
“Me lo
avevi promesso”, aveva picchiettato sulla sua spalla.
'Me lo avevi
promesso',
mimò Brittany con una vaga smorfia, gli occhi nuovamente
volti al
soffitto, ma lo sguardo del ragazzo lampeggiò in sua
direzione.
Kitty attendeva con postura più rigida, rafforzando la
pressione
della mano sulla sua spalla.
“Sarà
un piacere”,
aveva risposto Hunter, infine, ma era ancora Brittany quella che
stava scrutando con un sorriso più saputo e divertito. Porse
il
braccio alla sua dama e la condusse verso la sua pista. Brittany
incrociò le braccia al petto, decidendosi che per quella
sera era
già stanca di guardare gli altri ballare.
“Ecco
i nostri
bicchieri”, era finalmente tornato Finn che le aveva sorriso:
evidentemente non aveva notato che la stessa sedia, un attimo prima,
era stata occupata dal suo Capitano. Non che questo avrebbe fatto
differenza, probabilmente, visto il puro terrore che provava nei suoi
confronti.
Gli aveva
sorriso,
Brittany, che aveva preso il calice tra le dita. “Grazie,
Finn”.
La melodia era
divenuta
più soffusa e una dolce voce femminile si era sostituita al
brano
registrato, quando una minuta figura era salita sul palco. Un ragazza
che Brittany non credeva di aver mai visto con i lunghi capelli
scuri, un elegante abito di una bella sfumatura di rosa e una voce
che riuscì ad incantare la platea, Brittany compresa,
complice il
brano romantico.
“Canta
come un angelo”,
aveva sussurrato, infatti, in tono ammirato e si era voltata verso
Finn il cui sguardo era altrettanto catturato da quell'immagine. Ma
sembrò irrigidirsi e si strinse nelle spalle.
Non era una
grande
intenditrice, Brittany, ma avrebbe giurato che stesse cantando con il
cuore e quelle parole fossero davvero dedicate a qualcuno, la cui
mancanza o la cui sola idea d’assenza, sembrava spezzarle il
cuore.
Fu un errore
soffermarsi nuovamente sulla pista
perché incrociò lo
sguardo di Hunter Clarigton: quest'ultimo le sorrise ancora divertito
da sopra la spalla di Kitty e Brittany dovette voltarsi bruscamente.
Cercò di ignorare il rossore sulle guance: non era
decisamente
piacevole essere scoperti in quell'atteggiamento che poteva persino
dare adito a stupidi equivoci.
Finn aveva
ancora tra le
mani il suo drink, non aveva risposto alla lode di Brittany alla
cantante ma sembrava incapace di concentrarsi nuovamente sulla sua
dama. Almeno fino a quando Brittany non gli appoggiò la mano
sul
braccio e allora trasalì.
“Stai
bene?”, gli
chiese preoccupata e il ragazzo sbatté le palpebre ma le
sorrise.
“Sì,
scusami, io-”.
Ma Brittany
non lo stava
più ascoltando: tornò ad osservare la cantante i
cui occhi tristi
sembravano davvero rivolti in loro direzione e non poté non
sentire
un moto di dispiacere nel comprendere il suo stato d'animo. Si volse
nuovamente all'amico.
“Sta
cantando per te,
vero?”, gli aveva chiesto con un sorriso addolcito.
“Voi stavate
insieme?”, gli chiese curiosamente.
Finn
sembrò sorpreso
dalla domanda diretta: era arrossito, ma si era stretto nelle spalle.
“Si chiama Rachel”, le spiegò.
“E' un'amica di mio fratello,
Kurt, ma tra noi è finita”, sembrò
ansioso di specificarlo,
probabilmente temendo che la sua accompagnatrice potesse risentirsi,
ma Brittany gli aveva nuovamente sorriso.
“Io
non credo”, lo
contraddì, prima di stringergli la mano con maggiore
risoluzione.
“Va' da lei: è la tua principessa e lo sai anche
tu”, gli aveva
suggerito, lo sguardo limpido e l'aria più che risoluta e
sicura di
sé.
“Brittany”,
Finn
aveva scosso il capo e sembrava realmente confuso. “Io... tu
mi
piaci”, ma lo sguardo era nuovamente stato richiamato dalla
voce
della ragazza, persino più delicata nel vezzeggiare il
ritornello
della canzone.
“Anche
tu: sei il
miglior amico che potessi trovare, ma sei anche il suo
principe”, aveva soggiunto con voce più allusiva.
Un lungo
istante di
riflessione quello che adombrò lo sguardo di Finn ma,
infine, annuì.
Si era rimesso in piedi, dopo aver appoggiato il calice neppure
toccato sul tavolo, ma si era chinato a baciarle la guancia con un
sussurrato “Grazie”.
Gli aveva
sorriso di
rimando, Brittany, nello stringergli la mano e augurargli buona
fortuna. Lo seguì con lo sguardo, mentre si faceva largo tra
le
coppie danzanti per raggiungere il podio. Un breve sospiro le
sfuggì,
come ogni volta che contemplava quella magia unica e suggestiva quale
l'amore che univa due persone nonostante le difficoltà, le
divergenze di carattere. Con una sorta di sortilegio che ingentiliva
anche la persona più orgogliosa.
Bevve dal
proprio
bicchiere, quasi a lenire quella sorta d’aridità
all'altezza della
gola nel domandarsi se un giorno sarebbe stato anche il suo momento.
Fino ad allora, sarebbe rimasta la principessa ignota dal bell'abito.
Alla fine
della canzone,
Rachel aveva sorriso a Finn che le aveva porto il braccio con nuova
grazia ed eleganza e improvvisamente, anche agli occhi di Brittany,
non sembrava più il gigante buono quanto goffo ma un
principe in
tutto e per tutto. La moretta aveva occhieggiato verso Brittany
evidentemente confusa, ma la ragazza aveva sorriso ad entrambi e
finalmente la coppia prese posto tra le altre per il loro ballo.
Si rimise
in piedi, Brittany: il ballo era finito prima del previsto, ma era
felice che Finn avesse ritrovato la sua metà.
Occhieggiò verso la
portafinestra che dava sul cortile esterno: avrebbe potuto prendere
una boccata d'aria e rientrare nel dormitorio attraverso l'uscio che
dava sul campo d'addestramento. Avrebbe potuto godersi ancora qualche
istante del suo bell'abito, magari inventare qualche racconto da
fornire alla madre (era un sollievo che non fosse presente o non
sarebbe stato tanto semplice potersela svignare in quel modo) sul
resoconto della serata e poi sarebbe rientrata per assicurarsi che
Lord Tubbington stesse bene.
Volse le
spalle alla
pista da ballo ma proprio quando stava per varcare la soglia
dell'uscita, si sentì artigliare il polso: un tocco fermo
per quanto
delicato ma trasalì quando, voltandosi per lo slancio della
pressione, incontrò lo sguardo di Hunter Clarington che la
trattenne
a sé.
Aveva sgranato
gli occhi,
il mento sollevato e le labbra schiuse, ma il ragazzo la stava
scrutando senza alcun sorrisetto canzonatorio o irritante. Al
contrario, sembrava stesse lui stesso contemplandola in quel momento,
senza voler affatto lasciarla andare.
“Balliamo”.
Non sembrava
una
richiesta, realizzò Brittany, che si era istintivamente
irrigidita
anche per l'imbarazzo, ma un ordine: ma era la prima volta che lo
sguardo verde baluginava di una luce che non le parve di aver mai
scorto in quelle iridi. Sentì il suo stomaco annodarsi, ma
il
ragazzo non sembrò affatto esitare: non fece neppure in
tempo a
chiedergli perché si fosse allontanato dalla sua dama.
Tuttavia,
quando si volse per condurla nuovamente alla pista, si
accigliò.
Puntò
i piedi sul
pavimento, opponendo una breve resistenza: il ragazzo la
fissò da
sopra la propria spalla, le sopracciglia inarcate in un atteggiamento
interrogativo. Sbuffò, Brittany, che cercò di
scostarsi.
“Non
voglio ballare con
te!”, protestò, la voce indignata. E poi non
glielo aveva neppure
chiesto: lo aveva preteso soltanto perché era un Capitano e
lei una
recluta, quando pochi giorni prima aveva anche ribadito che era solo
Kitty ad avere autorità su di lei.
Non parve
scomporsi,
Hunter e neppure offendersi: nuovamente lo sguardo baluginò
con quel
sorrisetto impertinente e divertito. “Ma io non te lo sto
chiedendo”, lo specificò esplicitamente.
Lo
fissò incredula,
Brittany, sbatté le palpebre interdetta, ma il ragazzo
riprese a
condurla verso la pista. Qualcuno aveva inserito un disco registrato
e fu una nuova melodia quella che risuonò.
Una voce
maschile ma
delicata e Brittany si sorprese di come quella melodia sembrasse
rimandare ad un libro di favole: avrebbe potuto probabilmente
accompagnare il momento in cui si sarebbe effettivamente sentita
principessa. Con Hunter Clarington.
Il pensiero la
rendeva
ancora più rigida e lo guardò mentre, senza
alcuna esitazione, una
volta condotta al centro della pista, le cingeva la vita con un
braccio e ne prendeva la mano libera, intrecciandola alla propria.
Osservò le loro mani strette, sentì il calore
della mano più
grande e, suo malgrado, ne intrecciò lo sguardo e
realizzò, con un
brivido lungo la spina dorsale, che era proprio così che
doveva avvenire una simile iniziativa. Con la sua sicurezza e, al
contempo, la delicatezza con cui la tratteneva, quasi si stesse
premunendo di non procurarle dolore.
Realizzò
ancora una
volta quanto si sentisse esile al confronto ma quanto,
incredibilmente, riuscisse a condurla senza alcuna esitazione e con
una scioltezza davvero sorprendente per qualcuno che sembrava sempre
così rigido e controllato. Soprattutto il modo in cui il suo
corpo,
a dispetto della sua mente, si fosse perfettamente rilassato e
lasciato andare, seguendo le sue circonferenze, come se non avessero
mai fatto altro fino a quel momento. Gli sguardi erano intrecciati in
una sorta di comunicazione che non sembrava necessitare di parole. O
che andasse persino in direzione opposta rispetto al contesto che li
vedeva perfettamente abbinati.
Perché
avesse scelto
proprio lei, Brittany non riusciva a capirlo, ma dubitava che lo
stesso Hunter glielo avrebbe mai lasciato intendere. Avrebbe voluto
sottrarsi a quegli occhi che sembravano realmente contemplarla e ben
oltre il suo portamento o l'abito di quella sera.
Non riusciva a
spiegarsi
perché le fosse così difficile. Forse era colpa
della pressione
decisa della sua mano sulla vita, del modo in cui quel tocco gentile
le faceva scorrere quei brividi, tanto da non riuscire a capire se
fosse intirizzita o, al contrario, se quell'imbarazzo stesse
divampando in una fiammata di calore.
Avrebbe tanto
voluto
comprendere a cosa stesse pensando in quel momento, mentre la
conduceva in perfette circonferenze, senza mai calpestarle il piede o
sgualcirle la gonna vaporosa, per quanto potesse sembrare
d’intralcio
con il suo diametro.
Principe”.
Una
vecchia favola mi ha insegnato,
che
il cuore semplice riacquisterà valore.
Un rospo sarà il nostro
re,
e brutti orchi saranno i nostri eroi.
Sembrava lui stesso
fin
troppo pensieroso a giudicare da come la stava guardando e rimasero
in silenzio per qualche istante: aveva scorto Kitty, accanto al
tavolo delle bibite, con espressione furiosa. Non poté che
chiedersi
se avessero avuto una discussione e Hunter si fosse allontanato da
lei. Non osava immaginare quali sarebbero state le ripercussioni
durante gli allenamenti quotidiani.
“Siamo
partiti con il
piede sbagliato”, sussurrò il giovane e Brittany
si riscosse. La
stava ancora osservando, il viso lievemente inclinato di un lato.
Aveva sentito il suo respiro caldo sul volto, a farla ulteriormente
rabbrividire, seppur si sentisse salda nel suo abbraccio.
Era stato
così vicino
per tutto il tempo? Il pensiero la fece
arrossire ma, a quelle
parole, parve confusa: non stava concentrandosi effettivamente sul
ritmo: si era lasciata condurre e le era parso un ballerino
tutt’altro che goffo o impreparato.
Tutte
le promesse sono state infrante,
dai da mangiare alla tua gente e
lascia il tuo trono.
E cedi il tuo intero regno.
“Sei tu che
conduci”,
ribatté, quasi a mo’ di difesa, soprattutto con
l’intenzione di
riprendere il controllo della situazione e non sentirsi ulteriormente
intimidita.
Il ragazzo
parve
spiazzato e sbatté le palpebre. L’attimo dopo un
verso d’ilarità
ne sgorgò dalle labbra. Brittany realizzò, un
nuovo contorcimento
nello stomaco, che era la prima volta che lo sentiva davvero
ridere. Non per umiliare, non per intimidire un suo inferiore.
Si fece
nuovamente serio
e sentì la pressione sulla sua mano farsi più
salda, strappandole
un ulteriore brivido perché sembrò quasi volerla
trattenere.
“Parlavo del nostro rapporto”, precisò e
Brittany parve persino
più interdetta: era normale invitare (?) una ragazza a
ballare per
poi constatare l’ovvietà del non riuscire ad
andare d’accordo
con lei?
Aveva
sospirato. “Beh,
sei tu che ti comporti in modo cattivo”, ribatté
in tono eloquente
quanto puerile. “Ma potrei perdonarti, se mi chiedessi
scusa”.
Parve
irrigidirsi il
ragazzo e la pressione sulla sua vita, per la prima volta,
vacillò
seppure l’attimo dopo la cinse con la stessa risoluzione.
“Io non
devo scusarmi con te”, rispose in tono composto ma
evidentemente
interdetto dalla sua risoluzione su quel punto.
Brittany
arricciò il
naso. “Allora non ti perdonerò”,
ribatté in tono ovvio.
“Sono
un tuo
superiore”, ribadì il ragazzo che, per qualche
motivo, la stava
stringendo più forte, facendola trasalire per il contatto
più
serrato. “Devi portarmi rispetto”.
Sbuffò,
Brittany. “Non
siamo in addestramento e lo hai detto tu stesso che è Kitty
che si
occupa di me”, aveva precisato per poi aggrottare le
sopracciglia.
“E comunque trattate entrambi male i
vostri soldati soltanto per divertimento”.
Curioso come
fossero
vicini fisicamente ma altrettanto distanti emotivamente e sembrasse
sempre esservi un ostacolo alla reciproca comprensione e tolleranza.
Si era fermato
bruscamente, Hunter, seppur non avesse accennato a lasciarla andare.
“Io non mi diverto”, specificò,
apparentemente indifferente al
giudizio su Kitty, parve davvero stizzito da quell’accusa nei
propri confronti. “E’ mio dovere
prepararli”, aveva ripreso a
condurla, ma nessuno dei due parve seguire realmente il ritmo della
canzone o carpire il significato stesso del brano. Neppure sembrarono
sforzarsi di ritrovare la concentrazione come le altre coppie.
“Non
c’è bisogno
d’essere meschino per farlo”, aveva ribadito la
ragazza,
altrettanto caparbiamente. Stava cercando di ignorare la sensazione
dilagante di quello sfarfallio nello stomaco, o di come il suo
sguardo verde riuscisse a farla sentire piccola e indifesa. Era la
sua stessa rabbia e il risentimento covato a lungo, ad implodere
malgrado tutto.
Serrò
le labbra, Hunter,
e il suo sguardo sembrò adombrarsi, ma non si scompose
seppur, per
la prima volta, la pressione sulla sua vita, si attenuò.
“E’ questo che pensi, allora?”, non
sembrava arrabbiato, era
un’altra emozione che Brittany non sapeva decifrare,
probabilmente
era qualcosa di simile alla… delusione. Ma si
sentì persino
peggio.
Tu
eri il nostro bambino d’oro,
ma i gentili e i miti
erediteranno
la tua terra.
“E’
quello che fai
vedere”, si sentì dire ma la sua voce parve
più flebile, quasi
intaccata dal pensiero che il suo
giudizio
potesse avere davvero effetto su di lui.
Sembrò
senza parole,
Hunter, continuò a scrutare in quei limpidi occhi azzurri
che
sapevano sempre porlo di fronte a qualche realtà che non
sembrava
riflettere la propria. “Liberissima di crederci: è
un tuo
problema”, sembrava adesso indifferente.
“Sei
tu che rischi di
restare solo”, non lo aveva detto con cattiveria, ma
sentì
chiaramente qualcosa rompersi in sé. Non era a cuor leggero
che
pronunciava quelle parole e seppur volesse cercare in lui la conferma
che non fosse solo un Capitano arrogante e prepotente. Si sentiva lei
stessa delusa dalle loro tipiche interazioni.
Sorrideva,
Hunter, ma
pareva tutt’altro che divertito: sembrò voler dire
qualcosa, ma si
riscossero entrambi quando apparve Neal tra loro. Indossava l'alta uniforme e sorrideva ad entrambi con sguardo complice:
osservò
con ammirazione la ragazza per poi rivolgersi a Hunter.
“Spero
non ti
dispiaccia, Hunter”, aveva porto la mano a Brittany.
Mentre
la tua corona da principe si rompe e cade,
il tuo castello è
desolato e freddo.
Sei così lontano dalla persona che
eri.
Lasciati andare, lasciati andare,
perché ora tutti lo
sappiamo.
Non
aveva distolto lo
sguardo da lei, Hunter, ma aveva abbassato le braccia lungo i
fianchi. “Affatto”, era stata la replica asciutta
e, dopo essersi
congedato dall’uomo, si era allontanato, lasciando Brittany
con un
grave sospiro ad uscirle dalle labbra.
Si sentì improvvisamente
svuotata, lo stomaco ancora annodato da una nuova e sgradevole
sensazione e neppure il dolce abbraccio di Neal sembrò
restituirle
quel brivido o quel calore sentiti poco prima.
Presto
qualcuno farà un incantesimo su di te.
Profumo, stregoneria, qualsiasi trucco e
tu giacerai in un sonno profondo.
“Eravate
carini
insieme”, le sorrise Neal, notando il suo sguardo distratto e
Brittany sbatté le palpebre. “Devo
preoccuparmi?”, seppur
volesse apparire bonario e sbarazzino come suo solito, sembrava
esserci una reale apprensione in quella domanda e Brittany
sbatté le
palpebre.
“Certo
che no”, aveva
sentito le guance imporporarsi, ma era Hunter che stava scrutando
mentre, superando le coppie e ignorando Kitty che lo stava
richiamando, usciva dalla portafinestra che Brittany stessa avrebbe
voluto varcare poco prima.
Sospirò,
la ragazza, ma
si concentrò nuovamente sul patrigno e gli sorrise.
“E poi tu sei
molto più simpatico”, gli disse in tono
più complice ma l’uomo,
seppur le sorrise, scosse appena il capo.
“Non
essere troppo dura
con lui: so che sembra arrogante, ma è troppo chiuso in se
stesso”,
aveva commentato e sembrava davvero credere fermamente in quelle
parole, probabilmente avendone una certezza che Brittany non poteva
permettersi. “E’ dovuto crescere troppo presto,
sai”, le aveva
detto, abbassando la voce, ma la curiosità della giovane
parve
persino acuirsi.
“E’
troppo alto?”,
chiese ancora più confusa.
“No”,
a differenza
delle altre volte, Neal non parve divertito per le sue risposte
impulsive e fuori contesto: tanto che lei temette di aver detto
qualcosa di davvero inappropriato. Era serio, Neal, come non mai
mentre parlava in un sussurro. “E’ cresciuto solo
con suo padre e
ha passato tutta la sua vita qui, si può dire che sia stata
l’Accademia la sua casa. Era solo un bambino, quando
è morta sua
madre”.
Un senso di
gelo
attanagliò il cuore di Brittany che si sentì
persino incapace di
respirare per un lungo istante: era stato fin troppo semplice e
superficiale attribuire quella sua apparente prepotenza ad una
personalità poco raccomandabile. Ma lei, più di
tutti, avrebbe
dovuto comprendere che nel suo sguardo si celasse una tristezza che
lei stessa aveva conosciuto. Ma in due modi completamente diversi
perché certamente né Hunter né la
signora Clarington avrebbero mai
chiesto di essere separati in quel modo. Cresciuto in quel contesto e
con una particolare disciplina, doveva essere più che
naturale per
lui agire in modo severo, spesso ritenuto persino spietato
o…
meschino, come lo aveva definito lei stessa poco prima.
Impallidì,
Brittany, e
desiderò poter girare le lancette dell’orologio,
desiderò non
agire più in modo tanto infantile o risentito per quello
che,
probabilmente, era stato soltanto un consiglio che lui stesso non
aveva potuto seguire, quando era solo un bambino.
“Gli
farebbe bene avere
un’amica allegra come te”, aveva sussurrato
nuovamente Neal, il
viso inclinato di un lato e un sorriso più dolce.
“Puoi provare a
dargli un’occasione?”.
Sospirò,
Brittany, il
senso di colpa sempre più intenso, unito al dispiacere.
Sì, lo
avrebbe sicuramente fatto ma, a quel punto, sarebbe stata la
volontà
di Hunter di concederle un perdono, ad essere determinante. Aveva
avuto ragione, il ragazzo: a differenza sua, era riuscito a scorgere
più di quanto mostrasse e se anche quel luogo non fosse il
più
adatto, probabilmente le avrebbe permesso di crescere.
Annuì
e sorrise al
patrigno. “Se Hunter me lo permetterà”.
“Ne
sono sicuro”.
Avrebbe voluto
essere
altrettanto ottimistica ma, per tutto il loro ballo,
rifletté sulla
cosa più giusta da farsi.
~
Uscì
in giardino e si
guardò attorno: improvvisamente anche la gioia e la
soddisfazione di
un abito così principesco sembrava essere secondaria.
Più che una
principessa, quella sera aveva agito come una strega,
ragionò tra
sé, morsicandosi il labbro e cercando di individuarne la
figura con
aria preoccupata. Avrebbe tanto voluto potergli parlare prima del
coprifuoco: non aveva idea di dove si trovassero i dormitori maschili
e dubitava che sarebbe stato disposto ad infrangere le regole proprio
per lei. Fu con un misto di sollievo e curiosità che lo
scorse
laddove si erano incontrati la sua prima sera all'Accademia: stava
rimirando nuovamente il paesaggio, appoggiato alla balaustra del
portico. Kitty era al suo fianco e parlava in tono agitato ed
evidentemente arrabbiato.
Si
morsicò il labbro,
Brittany, temendo che potesse scorgerla e si appiattì contro
la
parete dell’edificio. Avrebbe dovuto attendere che Kitty
avesse
finito: non osava immaginare come avrebbe reagito a coglierla sul
fatto in quel momento. Sbirciò in loro direzione e si
soffermò su
Hunter: si era slacciato la cravatta e aveva persino ripiegato i
risvolti della giacca e della camicia con una trasandatezza che
Brittany non gli avrebbe mai associato. Si era chinato verso Kitty,
ma non sembrava né preoccupato né arrabbiato. Ma
neppure felice
come sarebbe dovuto essere, se si fosse trattato di un momento
privato, tanto che Brittany era arrossita ed era parsa a disagio
all’idea di interrompere una conversazione tra innamorati.
Cercò
di concentrarsi
sul cielo stellato, le braccia dietro la schiena: le parve di sentire
uno scalpiccio di passi e la porta che dava sul cortile esterno fu
sbattutaEbbe la
tentazione di voltarsi nuovamente per accertarsi di ciò che
stava
accadendo: lo fece solo dopo qualche istante, quando scorse Hunter,
girato di spalle, ancora appoggiato alla balaustra. Evidentemente
Kitty era rientrata furiosamente, ma lui non sembrava avere
intenzione di seguirla.
Il suo senso
di colpa
sembrò persino farsi più scalpitante all'idea che
il cattivo umore
di Hunter, influenzato da lei, avesse intaccato anche la sua
relazione con Kitty.
“Puoi
venire fuori”,
lo sentì dire. Il tono composto e calmo ma Brittany
trasalì e
arrossì furiosamente: si morsicò il labbro, ma
prese finalmente
risoluzione a staccarsi dalla parete e avvicinarsi, lasciandosi
scorgere nuovamente. Non si era neppure voltato, Hunter, ma
salì i
gradini che la separavano dal portico, le mani strette nervosamente
in grembo e lo sguardo azzurro che lo scrutava di sottecchi.
“Non
stavo spiando!”,
esclamò goffamente, le mani sollevate e le guance
imporporate. Solo
allora Hunter si volse ad osservarla: le sopracciglia inarcate.
“Cioè, volevo solo aspettare che lei andasse
via”, aveva
specificato, Brittany, quasi la silenziosa postura dell’altro
denotasse poca convinzione. “Ok, un pochino”,
concesse infine e
Hunter roteò appena gli occhi, con aria impaziente.
“Che
c’è, Pierce?”,
le chiese, infine, in tono spiccio e Brittany si morse il labbro
nuovamente. Avrebbe tanto voluto poter sentirsi sicura di sé
e
sapere che ciò che stava per dire non era puerile o fuori
luogo. Le
parole di Neal ancora le risuonavano nella mente e l’idea di
averlo
intristito, le procurava una contrazione dolorosa all’altezza
del
petto. Sospirò e cercò di raccogliere il proprio
coraggio, mentre
il silenzio indugiava tra loro prepotentemente.
“Io…”,
il ragazzo
si era staccato dalla balaustra, si era avvicinato e Brittany
sentì
la sua determinazione vacillare pericolosamente.
“Per
favore, Pierce,
non ho voglia di-”.
Era stato un
gesto
spontaneo e la mano della ragazza si era stretta al braccio la cui
mano era conficcata svogliatamente nella tasca del pantalone.
Sembrò
trattenerlo, il mento sollevato e lo sguardo azzurro colmo di
dispiacere e di reale pentimento.
La
scrutò ancora più
curiosamente, Hunter, la cui frase si perse nel silenzio ma attese.
Brittany seppe
per
istinto che, se anche lo avesse lasciato, non si sarebbe allontanato.
Non fin quando almeno fosse riuscita a parlargli, pentendosi ancora
una volta della sua poca dimestichezza nel trovare le giuste parole.
“Avevi
ragione”,
aveva sussurrato la ragazza, morsicandosi il labbro. “Questo
posto
non è adatto a me e sono stata un po’-”.
“Puerile?”,
le chiese
il ragazzo che parve ritrovare quel sorriso appena più
divertito, il
viso inclinato di un lato nello scrutarla dall’alto al basso.
Sospirò,
Brittany: non
le stava rendendo affatto tutto più semplice, ma non
distolse lo
sguardo e non si accigliò. Annuì, guardandolo
ancora dritto negli
occhi che non parvero baluginare in modo canzonatorio e neppure
severo: probabilmente era la prima volta che potevano avere un reale
dialogo e giungere ad un punto di reciproca comprensione. Senza
pregiudizi e senza ostilità.
“Sì”,
aveva ammesso
e quel nodo che sentiva in gola sembrò lentamente
affievolirsi. “Ma
non voglio andarmene, non subito, anche se può sembrarti
sciocco o
inutile. Lo so che mia madre e Neal saranno felici comunque, ma forse
lo sto facendo anche per me”.
L’aveva
scrutata
pensieroso, Hunter, il viso inclinato di un lato. “Ne sei
davvero
convinta?”, le aveva chiesto e sembrava aver perso quel
guizzo di
puro divertimento. Appariva realmente interessato ad una sua
risposta. “Non credo di averti mai vista veramente felice qui
dentro”.
Sentì
uno strano brivido
scivolarle lungo la spina dorsale, Brittany: non seppe esattamente
cosa fosse. Se la realizzazione che lui l’avesse scrutata
così a
lungo e intensamente da poter formulare un giudizio che pareva
tutt’altro che improvvisato, o il fatto che quelle parole
rispecchiassero fin troppo la sua realtà e che nessun altro
sembrava
scorgere.
“Potrei
esserlo”,
aveva sussurrato, la voce più flebile nel continuare a
sondare in
quegli occhi verdi: si sorprese di non aver mai realizzato quanto
fossero intensi. O quanto, in una reale conversazione,
anziché
agitarla e renderla furiosa, riuscissero persino a placarla. La sua
natura così mite e composta poteva bilanciarsi alla sua
più
impulsiva e diretta. “… se sapessi che puoi
cercare di capirmi e
che mi dispiace per quello che ti ho detto prima”.
Dovette
distogliere lo
sguardo, la voce parve più flebile e il respiro
più rado, ma sapeva
che non sarebbe riuscita a trovare riposo, non finché non si
fosse
assicurata che lui non era più in collera. O ferito.
Sentiva il suo
sguardo su
di sé ma, infine, il ragazzo le sollevò
lievemente il mento e
Brittany trattenne il fiato. Indugiò in quella silenziosa
contemplazione ma, dopo un lungo istante, annuì. La
trattenne ancora
un istante con quella lieve pressione.
“Se
è questo che vuoi:
conoscere meglio te stessa e metterti alla prova, non potrei mai
giudicarlo sciocco o inutile”, aveva scostato la mano, il
viso
inclinato maggiormente di un lato. Lentamente le labbra si
modellarono in un sorriso che fece istintivamente rilassare anche
Brittany.
“Scuse
accettate”.
“Bene”,
sorrise la
ragazza che rilasciò il respiro. Solo in quel momento
sembrò
accorgersi di starlo ancora trattenendo: scostò la mano dal
suo
braccio.
Un gesto che
parve
divertire il ragazzo. “Bene”, replicò a
sua volta, una rapida
inarcata di sopracciglia con la quale parve sfidarla a stizzirsi
nuovamente.
Parve
intuirlo, Brittany,
perché arricciò appena il naso.
“Bene”, rimarcò ulteriormente
prima di scuotere il capo e schiarirsi la gola. “Capitano,
Clarington, con il suo permesso, prendo congedo e le auguro
buonanotte”, aveva assunto un tono ironicamente formale.
Vi era un
sorriso ad
incresparle le labbra nel voltarsi e lasciar ondeggiare la vaporosa
gonna che il ragazzo osservò. Parve quasi ipnotizzato da
quella
piroetta e dal modo in cui i suoi capelli avevano schermato
l’aria.
Si era chinato
sulla sua
nuca. “Buonanotte”, le aveva sussurrato, un reale
sorriso nella
voce, ma Brittany era rabbrividita al sentire il suo respiro caldo.
Fu lieta che non potesse scorgere il rossore sul suo viso.
“Oh,
Pierce”, si era
voltata, la mano adagiata alla portafinestra, ma il ragazzo stava di
nuovo appoggiato alla balaustra, l’aria indolente
nell’osservarla
di sottecchi. “Credo che da stasera riterrò
sciocco costringerti
ad indossare una divisa”.
Aveva
boccheggiato la
ragazza, gli occhi sgranati e le guance rosate ma il ragazzo si era
nuovamente voltato verso il cielo e la conversazione poteva ritenersi
conclusa.
Brittany era
rientrata
con la testa tra le nuvole, quasi ondeggiando con le mani dietro la
schiena nel percorrere quei familiari corridoi ma sentendosi sospesa
in tutt’altra dimensione.
Si
adagiò alla porta
della propria camera, dopo averla chiusa, un sospiro a sgorgarle
dalle labbra. Miagolò in sua direzione, Lord Tubbington.
Brittany
piroettò su se stessa prima di stendersi, sommergendo il
felino
sotto il tulle della gonna.
Allungò
la mano verso il
comodino e trasse il libro tra le mani: lo sguardo indugiò
sulle
righe che aveva letto quel pomeriggio, prima di iniziare i
preparativi della serata.
rumorosamente.
[…] Erano
le parole
che Belle probabilmente avrebbe voluto lasciar sgorgare molto prima,
a giudicare dal modo in cui, finalmente, il maleficio sembrasse
essersi affievolito. Ben lungi dal cogliere nuovamente i lineamenti
più rigidi della Bestia, a testimonianza di un cuore che
aveva
ritenuto anch’esso prigioniero e inciso nella pietra; una
nuova
dolcezza ne aveva fatto risplendere lo sguardo. Ed era la dolce
consapevolezza che, nei loro cuori, entrambi avevano anelato a quella
reciproca comprensione e ad un nuovo inizio che rendesse tutto molto
più etereo; le pagine di una favola che Belle ancora non
aveva
sfogliato, ma che avrebbe vissuto da quel momento in poi. […]
Mentre
la tua corona da principe si rompe e cade,
il
tuo castello è
desolato e freddo.
Sei
così lontano dalla persona che
eri,
lasciati
andare, lasciati andare,
perché
ora tutti lo
sappiamo.
(The
Frog Prince – Keane).
To be continued...
Personalmente
uno dei miei capitoli preferiti almeno per il momento: spero che sia
stato lo stesso anche per voi :)
In fondo, nessuna fanfiction che voglia fare paralleli al mondo delle
fiabe, può mancare di un ballo, no? :)
Prima che mi dimentichi, non so per quale arcano motivo sia scomparsa
la nota relativa all'abito di Brittany e non vorrei litigare
ulteriormente con il programma per la formazione dell'html.
Spero
la mia descrizione sia stata sufficiente ad aiutarvi ad immaginarlo,
altrimenti, ecco la versione "ufficiale": abito di Brittany.
E ora, guardando al futuro,
qualche
spoiler del prossimo capitolo:
“Vorrei
che noi tre diventassimo una famiglia a tutti gli effetti”.
“Sono
di buon umore, Pierce, se mi dirai cosa nascondi, punirò
solo te e
non l'intera camerata”.
“Hai
pianto”. “Sto bene”. “No,
affatto”.
Come
sempre, ringrazio le mie “unicorn girls” che mi
deliziano sempre
dei loro commenti ed impressioni e rendono questo momento ancora
più
sentito. Un abbraccione stritolante a tutte! :*
Grazie
anche a chi legge, sempre disponibile in caso di chiarimenti o
semplicemente un confronto.
Buon
weekend a tutti e anche buon Novembre :)
Kiki87
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 ***
capitolo 5
"Che
bellissima fioritura abbiamo quest'anno. Ma guarda: quello è
in
ritardo.
Scommetto
che quando sboccerà, diventerà il fiore
più bello di tutti".
[Dialogo
tra Fa
Zhou
e
Mulan, dal cartone
di Walt Disney, “Mulan”]
Capitolo
5.
La
settimana non era
cominciata nel migliore dei modi: se già normalmente Kitty
era
severa e particolarmente dura nei suoi confronti, il ballo non le
aveva giovato l'umore e tanto meno aveva
migliorato il loro già teso rapporto. Al contrario, avrebbe
potuto
giurare che il suo odio avesse raggiunto un livello del tutto nuovo.
Poco contava che avesse ormai acquisito abbastanza dimestichezza dal
riuscire a compiere un percorso senza particolari intoppi e che
stesse anche imparando ad eludere la sua paura del vuoto; Kitty si
ingegnava sempre nel trovare nuovi stratagemmi con i quali metterla
in difficoltà o assegnarle giri di campo supplementari,
persino
quando riusciva a scampare una punizione (anche il non finire il
rancio era divenuto “una mancanza di rispetto per la
divisa”). Se
la vita in Accademia comportava un regime impegnativo, le angherie di
Kitty non facevano che rendere tutto persino più gravoso, ma
cercava
di trarne ulteriore stimolo per migliorarsi, temprare il corpo e la
mente e non ascoltare il suggerimento di Lauren circa la
possibilità
di “infilarle la testa nel tritarifiuti”, oppure
“investirla
con un carro armato una dozzina di volte ed assicurarsi sia
morta”.
Un altro motivo d’intensa frustrazione era il non essere
ancora
riuscita a varcare la soglia dell'aula di danza. E non soltanto
perché non aveva ancora ben compreso dove fosse collocata
(quei
corridoi erano davvero troppo uguali gli uni agli altri, peggio del
labirinto in cui si era imbattuta la sventurata Alice); ma spesso e
volentieri, stringendo Lord Tubbington sotto le coperte, immaginava
il momento in cui avrebbe potuto, finalmente, inserire una sua
playlist nello stereo e poter ideare una nuova coreografia.
Aveva perso la nozione
del tempo, Brittany, ma una fitta pioggerellina le faceva compagnia.
Sentiva in lontananza la voce di Kitty, mentre si rivolgeva al suo
plotone, intervallato ogni tanto da un fischio acuto. Di
tanto in tanto, aveva lasciato vagare lo sguardo sulle compagne che
si stavano cimentando in nuovo percorso. Aveva completato i suoi giri
di campo, le mani sui fianchi e le guance arrossate, i ciuffi
scompigliati che le sfuggivano dal berretto, mentre cercava di
riprendere fiato. Si lasciò letteralmente cadere sulla
distesa
d'erba, gli occhi chiusi e respirò a pieni polmoni, cercando
di
ignorare l'indolenzimento delle gambe, la fitta acuta all'altezza
della milza e persino il dolore lombare.
Sospirò e sorrise
appena: sapeva che Kitty non le avrebbe fatte rientrare fino al suono
della tromba e sperò che avvenisse il più tardi
possibile. Persino
le gocce d'acqua che le sfioravano il viso sembravano essere
rigeneranti. Si lasciò sfuggire uno sbadiglio: la notte
precedente
aveva dovuto soccorrere Lord Tubbington che aveva cercato di uscire
dalla camerata ed era apparso visibilmente agitato di fronte a quei
vasti corridoi. Aveva scoperto che l'Accademia di notte era persino
più inquietante, come il castello della Bestia, quando
l'incantesimo
ancora non era stato spezzato; aveva avuto persino lo stesso puerile
timore di qualcuno che la scrutasse nel buio con la stessa rabbia.
Si scostò i capelli dal
viso ed emise un vago mugugno.
“So che le camerate non
sono esattamente delle suite d'albergo a cinque stelle, ma almeno non
perdono acqua dal soffitto”, il tono era interdetto, ma
sembrava
esserci il sorriso nella voce, quasi stesse trovando quel suo gesto
vagamente divertente.
Aveva schiuso gli occhi
automaticamente, un lieve sobbalzo e un verso di sorpresa: in piedi,
le braccia incrociate al petto, e perfettamente a suo agio sotto la
pioggia, Hunter Clarington la stava fissando. Aveva il viso inclinato
di un lato, l'angolo delle labbra sollevato verso l'alto e il
sopracciglio inarcato: probabilmente aveva l'impressione che la
ragazza avrebbe ardito ad una curiosa giustificazione che sembrava
impaziente di ascoltare.
Malgrado la pioggia e
l'essere ormai fradicia, aveva sentito un'ondata di calore
attraversarle il corpo: aveva sgranato gli occhi, le labbra schiuse e
aveva drizzato bruscamente la schiena. Il berretto le cadde dal capo
e i capelli scivolarono in una cascata scarmigliata lungo la schiena.
Non diede adito a volersi sollevare, ma inclinò il viso di
un lato,
le braccia a puntellarsi sull'erba. Si era morsicata il labbro in
un'espressione di infantile preoccupazione. “Non dirlo a
Kitty, ti
prego”, pigolò.
Cercò goffamente di
legare nuovamente i capelli: per qualche motivo, soprattutto alla
luce del congedo della notte del ballo, si sentiva particolarmente a
disagio a lasciarsi scorgere in quelle vesti così poco
aggraziate.
Non aveva detto lui stesso che avrebbe preferito non vederla conciata
a quella maniera? Si sorprese, un vago rossore sulle guance, a
riflettere su quel dettaglio, quando evidentemente la
curiosità del
ragazzo era indirizzata a ben altro.
Scosse appena il capo,
Hunter, che gettò un'occhiata al campo in lontananza da cui
le
sagome delle compagne somigliavano a tante matite colorate di
quell'unico e monotono colore. Tornò ad osservarla,
l'espressione
vagamente incuriosita. “E' per questo che sei qui? Un'altra
punizione?”, le chiese soltanto.
Annuì, Brittany, e si
alzò,
cercò di indossare il
berretto per poi inserirvi i ciuffi che sfuggivano dalla crocchia.
“Stai punendo anche tu Fin- qualcuno?”, non avrebbe
voluto
nuovamente indispettirlo o offenderlo ma si era guardata curiosamente
attorno, quasi aspettandosi di vedere il suo amico fare la sua
comparsa, impegnato lui stesso in qualche esercizio di riscaldamento.
Schioccò la lingua
contro il palato, Hunter, scuotendo il capo. “La tua fiducia
nei
miei confronti è davvero commovente”, aveva
commentato soltanto.
“Puoi aspettare nel bungalow il suono della
tromba”, aveva
indicato il caseificio con un cenno del mento. “Sto andando a
controllare che il tuo amico abbia lucidato tutto come gli ho
ordinato”. Le fece cenno di seguirlo e la ragazza
obbedì,
controllando ancora una volta che Kitty non stesse guardando in loro
direzione: a volte aveva l'impressione che avesse una sorta di magico
radar con cui individuava chiunque stesse per fare qualcosa che le
fosse poco gradito. O forse lo aveva per scorgere Hunter. O magari
per entrambe le cose, ragione che rendeva quell'improvvisata
decisione persino più rischiosa.
Ne osservò le scapole e
le rapide falcate e lo seguì: sarebbe rimasta all'asciutto
fino allo
squillo di tromba e poi si sarebbe nuovamente unita alle altre.
Continuava ad osservare
la schiena del ragazzo: dopo quella sera del ballo, aveva avuto
l'impressione di aver cominciato finalmente a conoscerlo meglio. Che
magari da quel momento lui stesso sarebbe apparso diverso: non il
Capitano severo ma il ragazzo che le aveva augurato la buonanotte e
le aveva fatto quel complimento, quello che sembrava averla capita e
che non l'avrebbe più giudicata soltanto una bambina. Non
aveva
ancora del tutto appianato la sua teoria circa il modo in cui le
divise toglievano l'allegria e la spensieratezza ma rimuginò
ancora
qualche istante.
“Continui a sorridere
poco”, aveva commentato a voce alta, quella che era sembrata
la
conclusione di un ragionamento più approfondito. Vi era una
traccia
di delusione e di preoccupazione nella sua voce.
Fu forse ciò a
rendere la reazione del ragazzo così sorpresa. Si
fermò bruscamente
e Brittany, non essendosene accorta, cozzò contro la sua
schiena.
Gemette goffamente nel portarsi la mano sul naso e strofinarlo, le
guance appena rosate perché, malgrado la pioggia, aveva
nuovamente
sentito il suo profumo (lo stesso che aveva inspirato durante il loro
ballo e che aveva sentito persino nella sua camera, sotto il calore
delle lenzuola).
Hunter si volse in sua
direzione: la stava scrutando con la fronte leggermente contrattata,
gli occhi sgranati e le labbra schiuse. Le serrò e scosse
appena il
capo. “Io sorrido”, aveva ribattuto come se fosse
stata una cosa
ovvia.
Aveva scosso il capo
anche Brittany che stava anche dondolando le braccia quasi a dare
risalto alle sue parole. “Non parlo del sorriso che fai per
prendere in giro Finn, ma di un vero sorriso”,
lo sottolineò
con voce limpida, scrutandolo con il viso inclinato di un lato e lo
sguardo azzurro acceso d’attenzione.
“Un vero sorriso”,
ripeté Hunter, il tono pregno di quello che sembrava
sconcerto,
perplessità ma persino una punta di divertimento, a
giudicare da
come piegava il capo, quasi ad ascoltarla meglio.
Anche Brittany si fece
pensierosa, le mani puntellate sui fianchi e le sopracciglia
corrugate mentre cercava di formulare un ulteriore suggerimento, per
poi illuminarsi con un sorriso giocoso. “Il modo in cui
sorridi a
Kitty, ad esempio”.
In realtà, alla menzione
della ragazza, Hunter parve persino più spiazzato:
sbatté le
palpebre. “Perché Kitty?”, le chiese
sconcertato.
La ragazza lo guardò
ancora più incerta a quella domanda che sembrava di ovvia
risposta,
ma si strinse nelle spalle. “Lei sorride sempre, quando ci
sei tu”,
spiegò con la medesima semplicità.
“Senti, senti”, aveva
incrociato nuovamente le braccia, Hunter, che sembrava totalmente
dimentico dell'obiettivo per cui doveva condurla nel casolare.
Abbastanza intrigato almeno dal restare entrambi sotto la pioggia.
“Un vero sorriso, a tuo parere?”, le aveva chiesto.
Brittany sbatté le
palpebre, una vaga smorfia. “In realtà sbatte un
po' troppo gli
occhi: forse dovrebbe stare attenta ai moscerini, se deve sempre fare
così”, ne aveva imitato il gesto, chiudendo e
riaprendo gli occhi
rapidamente.
Sentì un lieve verso
gutturale da parte dell'altro e, l'attimo dopo, il viso di Hunter
sembrò letteralmente illuminarsi, malgrado la pioggia che ne
stava
bagnando il volto. Brittany stessa sembrò non sentire
più i brividi
di freddo o il bisogno di stringersi le braccia al corpo e mettersi
al riparo. Era come se tutto attorno a lei fosse sbiadito a parte il
volto del ragazzo. I suoi occhi verdi sembravano baluginare ed era
come se nuovamente scorgesse un riflesso del suo vero carattere,
dietro quell'apparenza composta e rigida.
Rimase quasi senza fiato,
Brittany, che, dopo quel primo istante di contemplazione, sorrise a
sua volta, dondolandosi con il busto con aria soddisfatta.
“Sì, un
sorriso come questo”, aveva specificato e si era sorpresa per
come
la voce le era sgorgata in un sussurro più flebile. Si
schiarì la
gola, guardandosi attorno. “Hai visto Kitty?”.
Hunter, il sorriso ancora
sulle labbra nell'osservarla, aveva scosso lentamente il capo.
“No”,
fu la pacata risposta e se non lo avesse visto muovere le labbra,
Brittany avrebbe potuto pensare che quella semplice parola fosse
stata trasportata dal vento.
“Stai pensando a lei,
allora”, per qualche motivo non le era riuscito sostenere
nuovamente lo sguardo, seppur la risposta le sembrasse palese.
Seppure, per qualche motivo, nuovamente, il suo stomaco sembrò
contrarsi dolorosamente. “Va bene comunque
e-”, poteva
dirgli che aveva un bellissimo sorriso?
“No”, aveva risposto
nuovamente Hunter che non aveva mai distolto lo sguardo dal suo volto
e Brittany nuovamente si ritrovò senza fiato. Era come se
quella
replica concisa racchiudesse un significato ben più ampio e
ben più
importante. Non avrebbe, tuttavia, saputo dire cosa e neppure
perché
non riuscisse a trovare qualcosa da dirgli. Continuava ad osservarne
il volto ed era un conforto che Hunter stesso non sembrasse avere
fretta: era come studiarsi da capo e con la sensazione che qualcosa
fosse sospeso tra loro.
Il fischio acuto squarciò
il silenzio con inaudita violenza e Brittany gemette. Kitty stava
camminando rapidamente in loro direzione mentre Tina stava conducendo
le sue compagne dentro l'edificio.
“Ciao Hunter”, si
rivolse al ragazzo senza sbattimenti di palpebre, un vago sorriso ma
che sembrava nascondere un risentimento ancora non del tutto
chiarito. Sorriso che, tuttavia, si congelò nello scrutare
la
ragazza che sembrò fulminare con lo sguardo.
Brittany si morsicò il
labbro, ma rimase in attesa della strigliata che sarebbe giunta
inevitabilmente.
“Hai finito i tuoi giri
di campo?”, le abbaiò contro, il Capitano, con
tono inflessibile.
Annuì ma sentiva ancora
lo sguardo di Hunter su di sé.
“Non ti ho sentita!”,
le aveva urlato contro Kitty, facendola sussultare.
Arrossì all'idea che il
ragazzo stesse assistendo alla scena, ma si affrettò ad
assumere la
giusta postura. “Signorsì, Signora!”.
Kitty parve persino più
risentita dalla risposta, a giudicare da come la fissò
torva.
“Allora perché non sei tornata al campo
d'addestramento subito?”.
In realtà, dal modo in cui faceva saettare lo sguardo da lei
al
ragazzo, sembrava volerle chiedere altro. Non sarebbe stato molto
educato farle presente, davanti a Hunter stesso, che non
stava cercando di rubarle il fidanzato.
Arrossì per aver
formulato quel pensiero, ma cercò di concentrarsi sullo
sguardo
della ragazza e deglutì a fatica: non era affatto abile a
mentire e
non aveva minimamente avuto tempo di pensare ad una giustificazione
plausibile.
“Temo sia stata colpa
mia, Capitano Wilde: l'ho trattenuta troppo a lungo”, aveva
risposto prontamente Hunter e Kitty lo osservò con un vago
cenno
d'assenso, non prima di aver nuovamente fulminato la sua sottoposta
con lo sguardo.
“Pausa finita,
andiamo”.
Si affrettò a seguirla,
Brittany, ma non poté fare a meno di voltarsi in direzione
del
ragazzo per mimargli un “grazie!”. Neppure si rese
conto che
Kitty la stava letteralmente strattonando in avanti: Hunter le aveva
rivolto un vago cenno di risposta.
Neppure il mal di stomaco
sembrava avere importanza, almeno fino a quando, rimaste sole, Kitty
non le assestò una spinta che la fece cadere in una
pozzanghera.
Trasalì per la sorpresa e gemette quando Kitty la
tirò per i
capelli.
“E' l'ultima volta che
ti avverto: smettila di fargli gli occhi dolci: credi di convincermi
con la tua faccina da Barbie svampita?”. Si era messa in
ginocchio
di fronte a lei e la scrutava con sguardo glaciale. “Sai
quanto
tempo mi è occorso per farmi prendere sul serio e dimostrare
di non
essere una donnicciola? Non distruggerai tutto e non ti prenderai
quello che è mio, sono stata chiara?”.
“M-Ma io non ho fatto
niente”, gemette la ragazza, atterrita.
“E' tutto quello che
sai dire!”, le inveì contro Kitty, dopo averla
schiaffeggiata.
“Non illuderti, Hunter e Neal hanno soltanto pena di te:
quando
capiranno come sei davvero, nessuno di loro ti degnerà
più di
considerazione”.
Aveva sentito il cuore in
gola e gli occhi lucidi ma Kitty le aveva sorriso maligna,
evidentemente soddisfatta di averle cancellato la serenità.
Si
rimise in piedi e la scrutò dall'alto al basso.
“Sei proprio una
bambina”, sembrava sprezzante. “E ora
alzati!”.
Senza pronunciare motto,
la guancia pulsante, si era rimessa in piedi e seguì Kitty
verso
l'edificio, timorosa che, in assenza di altri testimoni, potesse
nuovamente infierire su di lei. Il cuore bloccato in gola e brividi
freddi lungo la spina dorsale. Quando, rientrate dalla porta dello
spogliatoio, scorsero Tina, Brittany rilasciò il respiro.
Stava
camminando in loro direzione e fu, infatti, a Kitty che si rivolse.
“Signora, chiedo
permesso di riferire un messaggio”.
“Accordato”, concesse
Kitty, con aria annoiata, senza neppure guardarla.
“Il Preside Johnson
vuole vederla”.
“Digli che andrò da
lui-”.
“Non lei, Signora. La
recluta Pierce”. Specificò
Tina.
“Digli che andrà da
lui quando io lo deciderò”.
“Devo incontrarlo
subito: ho ricevuto l'ordine di accompagnarla io stessa”.
“Benissimo”, Kitty
era parsa più inviperita che mai ma continuava a sorridere
minacciosamente. “Portagli i miei saluti, Barbie”,
le sibilò
all'orecchio e Brittany ricordò con orrore le parole che le
aveva
rivolto con riferimento esplicito ad Hunter e al suo patrigno.
“E
se gli dici qualcosa”, continuò in un sussurro
persino più
flebile. “sai già che te la farò
pagare”.
Aveva annuito, le lacrime
sull'orlo delle palpebre, ma aveva rilasciato il respiro e si era
affrettata a seguire Tina che, dopo che ebbero messo una certa
distanza dal Capitano, aveva assunto un'espressione meno formale. La
stava scrutando attentamente. “Stai bene?”.
“Sì, grazie”, cercò
di sorriderle, Brittany, mentre saliva con lei le scale. Sembrava
passata un'eternità da quel dialogo con Hunter ma era
consapevole
che non potevano che essere pochi istanti ma che sembravano far parte
di una realtà diversa. Che probabilmente non le sarebbe
più stata
concessa, non fino a quando Kitty non lo avesse voluto almeno.
~
Non era mai entrata
nell'ufficio di Neal così, dopo aver congedato e ringraziato
Tina,
aveva provato a scorgerne l'interno attraverso la fessura della porta
lasciata semiaperta. Neal era di fronte alla finestra, le dava le
spalle, le mani strette dietro la schiena e sembrava contemplare il
paesaggio di cui doveva godere da quell'altezza. Non
aveva la benché minima idea del motivo per cui l'aveva
convocata, ma
doveva essere qualcosa di davvero urgente, se non poteva attendere
che si riunissero tutti per la cena. Ipotesi spaventose che
coinvolgevano la madre, cominciarono a ronzarle in mente e fu quindi
lesta a bussare alla porta.
Evidentemente
completamente estraniato nei suoi pensieri, Neal non l'aveva sentita
ma, dopo un attimo di esitazione, Brittany varcò comunque la
soglia
della stanza. Lasciò vagare lo sguardo sulla stanza:
l'arredamento
era molto sobrio e rimandava alla rusticità degli interni
che giù
conosceva. Notò l'ampia scrivania sulla quale erano
disposti, con
metodico ordine, carta da lettera, fascicoli rilegati, una busta
chiusa e una penna stilografica abbandonata su un'agenda con gli
occhiali da lettura del suo patrigno.
Vi erano anche delle
cornici appese sulla parete dietro la scrivania e tra fotografie di
plotoni – immaginava ce ne fosse una anche dei tempi di Neal
all'accademia, a giudicare dalla targhetta che ne riportava la data
–
ne spiccava una di sua madre che sembrava straordinariamente fuori
posto, sia per il sorriso impresso nell'istantanea sia per i colori
vivaci.
Si riscosse, le mani
strette in grembo. “Ciao Neal”, lo
salutò, scrutandone ancora le
scapole.
Le parve che fosse
persino trasalito, malgrado avesse parlato in un sussurro appena
percepibile. Si era voltato e, dopo un solo istante in cui ne aveva
scrutato la divisa fradicia e sporca, le rivolse quel suo sorriso
spensierato che ne faceva scintillare lo sguardo e lampeggiare il
candore dei denti. Aveva dei fogli tra le mani e una biro
sull'orecchio che Brittany osservò curiosamente, ma Neal si
affrettò
a riporli sulla scrivania. “Stavo provando ad abbozzare le
promesse
di matrimonio: so che c'è ancora molto tempo, ma sono un
disastro
nei discorsi: era Jonathan quello intellettuale tra noi”,
spiegò
in tono complice prima di riporre i fogli dentro il cassetto della
scrivania.
Il matrimonio. Il
pensiero le procurò un contorcimento all'altezza dello
stomaco: per
quanto la data si stesse inevitabilmente avvicinando, e Brittany in
cuor suo sapesse che Neal era l'uomo perfetto per la madre; la sola
menzione era ancora capace di procurarle quella strana sensazione di
disagio. Aveva il timore inespresso che una parte di sé non
sarebbe
mai riuscita a concepire l'idea che la sua vita sarebbe cambiata in
modo così radicale. Sembrava esser accaduto tutto con una
rapidità
da farla sentire incapace di adeguarsi. E sapeva altrettanto
intensamente che non avrebbe mai potuto incolpare Neal di
ciò ma che
era un problema che doveva risolvere. E da sola. Il tutto era
estremamente confuso ma non mancava un cocente senso di colpa,
soprattutto nello scorgere l'evidente emozione che era balenata sul
viso dell'uomo.
“Volevi vedermi?”.
Neal sembrò tornare in
sé ed annuì, indicandole la poltrona.
“Siediti: non abbiamo
ancora fatto una chiacchierata, da quando sei arrivata qui”.
Brittany si morsicò il
labbro, osservando la sedia foderata di fronte alla scrivania e la
propria tenuta tutt'altro che linda e si diede della sciocca per non
aver minimamente pensato al rendersi presentabile prima di palesarsi.
L'uomo sembrò intuire il suo pensiero perché si
grattò la nuca
prima di prendere il giornale appostato ad un angolo della scrivania
e toglierne dei fogli che adagiò sul sedile.
“Signorina”, le
spostò la sedia, imitando il vezzo di un cameriere e
Brittany
sorrise nell'accomodarsi. Un'altra caratteristica che le rendeva
impossibile provare rancore nei confronti di Neal: era probabilmente
l'unica persona al mondo, esclusa la madre, a non farla mai sentire
goffa ma cercando sempre di compensare le sue risposte dirette,
ridendo come se si fossero trattate di argute e graffianti battute o,
come in quel caso, era sempre più che spontaneo nel metterla
a suo
agio. Il suo sguardo bonario, tuttavia, indugiò sul suo
volto.
“Ti sei fatta male?”,
le chiese e Brittany si toccò istintivamente la guancia che
Kitty
aveva schiaffeggiato ma, con un gesto delicato, Neal le
scostò
qualche ciuffo dalla fronte. “E' un graffio: ti fa male?
Dovrei
avere del disinfettante da qualche parte”, e già
stava
circumnavigando la scrivania per cercare tra i cassetti, ma Bittany
scosse il caso.
“Non preoccuparti: Mrs
Rose mi disinfetta sempre, quando vado da lei”. C'era stata
così
tanta dolcezza nella voce dell'uomo e tanto calore nel suo sguardo
che Brittany aveva sentito quella fitta all'altezza del petto persino
acuirsi. Cercò di controllare la commozione, quel calore che
era
innescato dalla consapevolezza che qualcuno potesse prendersi
così a
cuore della sua salute e senza che neppure lei si fosse realmente
sforzata di conquistarsi il suo affetto. Era tutto spontaneo e
naturale per Neal e ciò rendeva le sue remore persino
più
colpevoli.
Una volta
tranquillizzato, Neal si sedette sulla poltrona, le braccia protese
in avanti e le mani congiunte: una posa da Preside, in fin dei conti.
“Come ti trovi qui all'Accademia?”.
Brittany deglutì: sapeva
che quella domanda sarebbe giunta, ma non era mai stata
particolarmente abile nell'improvvisare un discorso, tanto meno a
mentire. Cercò di scacciare dalla mente le immagini e i
ricordi
sgradevoli e concentrarsi sulle cose positive: il sorriso e
l'amicizia di Marley, le pietanze squisite che Mrs Marley le elargiva
lontano dall'occhio di Kitty, o il sorriso di Hunter. Sentì
un nuovo
calore affiorarle al volto ma si affrettò a sorridergli.
“Mi sto abituando: sta
diventando più facile alzarsi quando fa buio o fare la corsa
prima
di colazione o scendere da un'altura”, spiegò e il
sorriso
dell'uomo si estese ulteriormente.
Un nuovo guizzo gli
sfiorò lo sguardo e si sporse verso di lei, quasi
ansiosamente. “Non
ho dimenticato che ti piace ballare: in realtà sto pensando
ad un
progetto ma, per il momento, è top secret. Prima
dovrò parlarne in
consiglio e con i Capitani”.
Brittany cercò di non
pensare al ragazzo in questione, ma assunse un'espressione di reale
curiosità, tuttavia Neal sembrava aver acquisito abbastanza
sicurezza per intavolare la vera conversazione.
“Ma c'è
un'altra cosa di cui vorrei parlarti”, annunciò,
infatti, e
Brittany si mise più composta.
Neal sembrò impiegare
qualche istante per trovare le parole: lo sguardo saettò
curiosamente alla busta appoggiata sul ripiano, prima di incontrare
nuovamente lo sguardo della ragazza. “Sai che amo tua madre
più di
me stesso”, esordì e la voce, dal timbro
naturalmente giocoso e
vibrante, sembrò più flebile, accorata. Quasi una
carezza
immateriale.
Annuì, Brittany, senza
la benché minima esitazione e Neal ne trasse vantaggio per
sporgersi
ulteriormente in sua direzione. “Vorrei che noi tre
diventassimo
una famiglia a tutti gli effetti”, disse con
intensità.
Lasciò che quelle parole
facessero breccia nella mente della ragazza, continuando ad
osservarla attentamente.
Brittany lo aveva
guardato confusamente e Neal, dopo quel breve silenzio carico di
tensione, si mise in piedi, prese la busta e si appoggiò
alla
scrivania. Le sorrise, il viso inclinato di un lato e lo sguardo
baluginante di reale affetto. “Vorrei adottarti, Brittany e,
soprattutto, vorrei considerarmi tuo padre a tutti gli
effetti”.
Occorsero diversi istanti
perché Brittany si riprendesse: aveva sgranato gli occhi e
sembrò
mancarle il respiro. Il suo cuore non aveva smesso di scalpitare
furiosamente e una sensazione di calore e, al contempo, di gelo le
scivolò lungo la spina dorsale. La sua mente era un dedalo
indistinto di pensieri, d’immagini, di ricordi passati e
frammentati, confusi e sfocati che si infrangevano sullo sfondo di
quelli recenti che vedevano Neal accanto alla madre e quella vita
preannunciata che era più vicina che mai alla sua
concretizzazione.
Sembrava più che mai
teso, Neal, ma le sorrise e si limitò a porgerle la busta
che
Brittany prese quasi per riflesso. “Non voglio che tu ti
senta
assolutamente sotto pressione: si tratta di una formalità, a
dire il
vero, perché comunque io vorrei davvero considerarti mia
figlia e-”,
sembrò attendere che la ragazza dicesse qualcosa. Nuovamente
scosse
il capo ma continuò a sorriderle. “Pensaci, per
favore, attenderò
tutto il tempo necessario naturalmente”.
Aveva annuito, inebetita,
ma non riusciva più a guardarlo senza che a quel volto,
dapprima
così rassicurante e così piacevole, se ne
sovrapponesse un altro:
una voce e un abbraccio che le era mancato ogni giorno, da dieci
anni. Quasi una parte di sé le fosse stata sottratta e senza
che
potesse fare nulla per reagire.
Avrebbe voluto poter dire
qualcosa a Neal: ringraziarlo per essere un uomo così
incredibilmente dolce, per essersi innamorato di sua madre ed essere
disposto ad amarla: non soltanto come un bonus del suo legame con
Shirley. Avrebbe voluto mostrarsi mortificata alla sola idea che il
proprio silenzio potesse ferirlo, per quanto fosse
certa non glielo avrebbe mai fatto pesare.
Continuò ad osservarlo,
ma le sue labbra non emisero suono e fu con un gran peso nel cuore
che uscì dalla camera, gli occhi lucidi e il cuore serrato
in una
morsa.
~
“Credevo che Neal
ti piacesse”, non vi era accusa nel timbro della voce ma un
reale
tentativo di comprenderne lo stato d'animo.
Lei e Marley erano sedute
sul suo letto: accarezzava Lord Tubbington, Brittany, con movimenti
automatici ma lo sguardo ancora perso nel vuoto e quella sensazione
di costrizione all'altezza del petto.
“Papà?”,
la voce era spaventata e rauca, le guance rosate erano bagnate dalle
lacrime mentre entrava nella cucina di cui aveva intravisto il fascio
di luce dalle scale del piano superiore.
William sembrava esser
trasalito, aveva depositato il bicchiere, gli occhiali sul naso e
aveva deposto la penna per poi scostarsi dal tavolo e alzarsi.
“Brittany”,
l'aveva chiamata in tono evidentemente sorpreso. “Cosa
succede?”.
La
bambina non aveva articolato suono: si era affrettata a coprire le
distanze per cingerne la gamba, in attesa che l'uomo la sollevasse
tra le braccia. Affondò il viso contro la sua spalla e
strizzò le
palpebre, il corpicino esile che tremava per i singhiozzi.
L'uomo
le aveva carezzato la schiena con dolcezza, si era seduto di fronte
al camino e l'aveva cullata, fino a quando non si era calmata.
Si
era sfregata gli occhi, infine, Brittany e si era morsa il labbro:
“Ho sognato che mi ero persa nel bosco, come Biancaneve, e
c'erano... c'erano tanti occhi a guardarmi e-”, non aveva
finito la
frase, di nuovo sopraffatta dalle lacrime, ma il padre le aveva
asciugato il volto e ne aveva baciato la fronte.
“Ma
tu non ti perderai come Biancaneve e, se anche dovesse accadere, non
devi avere paura”.
“No?”.
Sembrava disperare di potervi credere.
“No,
perché sai cosa hai tu e che la povera Biancaneve non aveva
quando
si è persa?”.
“I
capelli biondi?”. Chiese istintivamente.
Aveva
riso suo padre ma aveva scosso il capo. “Un papà
che sarebbe
venuto a salvarla”, e la strinse con maggiore
intensità e Brittany
si accoccolò con un sorriso contro il suo petto,
inspirandone il
profumo e stringendosi alla camicia.
Le
sfuggì un lieve sbadiglio. “E verrai sempre
a salvarmi?”. Sembrava una domanda di fondamentale importanza
e la
risposta persino vitale. L'attese con il cuore trepidante, il respiro
trattenuto.
“Sempre,
sempre: non ti sentirai mai persa finché sarò con
te”.
“E'
una promessa”.
“Parola
di re, principessa”.
Si
era riscossa, Brittany, e aveva osservato l'amica, morsicandosi il
labbro. Parve persino più mortificata all'idea che la
propria
reazione potesse innescare un simile e lecito dubbio.
“Lui
mi piace molto e-”.
“Sta
arrivando Kitty!”, era stata Lauren a parlare e l'intera
camerata
fu attraversata da un'ondata di panico primo che ognuna corresse alla
propria postazione per controllare che tutto fosse in perfetto ordine
per l'ispezione a sorpresa. Brittany e Marley si scambiarono uno
sguardo di puro terrore: non c'era tempo per portare Lord Tubbington
dalla Signore Rose o farlo uscire di soppiatto.
“Lord
Tubbington”, Brittany gli parlò in tono ansioso,
mettendosi in
ginocchio sul pavimento per poi sistemarlo sotto il suo letto.
“Devi
stare zitto, mi raccomando”, cercò di istruirlo,
ma il felino non
sembrava particolarmente entusiasta di quella collocazione
temporanea. Cercò di drizzarsi ma la padrona gli
sfiorò il capo in
una carezza. “Soltanto due minuti, Tubby, fallo per
me”.
Si
mise in riga, accanto a Marley, e Kitty e Tina entrarono nella
stanza: lo sguardo severo del Capitano saettò tutto attorno.
Non
sembrava particolarmente compiaciuta: evidentemente aveva sperato di
coglierle di sorpresa ma, senza dire una parola, cominciò la
sua
accurata rassegna. Rapide occhiate ai loro lati con qualche
ammonimento sul letto non ben ripiegato o un capo d'abbigliamento
lasciato maldestramente a terra. Talvolta apriva qualche armadio a
casaccio, rovistando tra i capi personali delle reclute o, in alcuni
casi, persino perlustrando tra i cassetti come a cercare qualcosa di
losco.
Brittany
trattenne il respiro, quando Kitty si fermò di fronte a lei:
aveva
il sospetto che, come un segugio, riuscisse a fiutare la sua paura o
sentisse il suo cuore che stava scalpitando furiosamente. Un angolo
delle labbra del Capitano si arricciò verso l'alto e si
volse ad
osservarla con quell'espressione compiaciuta. “Sei nervosa,
Barbie?”.
“N-No”.
Sbuffò,
Kitty, gli occhi levati al cielo prima di urtarla sull'incavo
posteriore del ginocchio, facendola cadere sul pavimento.
“Non ti
ho sentita”, precisò in tono annoiato.
“No,
Signora!”, ripeté Brittany a voce più
alta. Era riuscita, con
rapido riflesso, a sostenersi con le braccia al pavimento.
Tutto
parve fermarsi: Brittany sentì un impercettibile miagolio
alle sue
spalle e pregò che Lord Tubbington non cercasse di
avvicinarsi a lei
in quel momento. Sentì brividi freddi scivolarle lungo la
spina
dorsale. Cercò di mascherare il suono con un colpo di tosse
artefatto, ma Kitty ebbe un lampo di vittoria nello sguardo. La
guardò dall'alto al basso.
“Sono
di buon umore, Pierce, se mi dirai cosa nascondi, punirò
solo te e
non l'intera camerata”.
Un
lieve brusio di risposta le fece comprendere che tutti erano in
attesa della sua prossima mossa: riusciva quasi a percepire
l'intensità di molti sguardi addosso e la consapevolezza di
essere
in trappola, le paralizzò il respiro.
“Allora?”,
la incalzò Kitty dopo un interminabile istante di gelido
silenzio.
Un
altro miagolio, di confusione e di richiamo, ben più udibile
del
precedente e Kitty occhieggiò verso il letto: il sorriso sul
suo
volto parve persino illuminarle gli occhi gelidi. Si rivolse a Tina
e, con un gesto imperioso del braccio, le fece cenno di avvicinarsi
al letto. Da parte sua, rimase nella sua posizione, contemplando le
espressioni sul volto della sua recluta.
“No,
ti prego!”, supplicò Brittany, cogliendo il
movimento di Tina che
si fermò. “Punisci me e lascia stare le
altre”.
Una
risata sprezzante quella di Kitty. “Adesso ti senti
un'eroina?”,
la schernì, chinandosi in sua direzione. “E'
troppo tardi”. Un
altro cenno imperioso e Tina sollevò il copriletto,
rivelando il
felino che aveva emesso un altro stridulo miagolio. Si
appoggiò al
pavimento e allungò il braccio, la moretta: con non pochi
tentativi
cercò di prenderlo, malgrado Lord Tubbington avesse drizzato
il pelo
e soffiasse in sua direzione, le pupille che scintillavano nella
penombra.
“Avanti,
Aviaria
Chang, non ho tutto il giorno!”. Le sbraitò contro
Kitty.
“Mi
ha graffiata!”, gemette la ragazza, le mani sul volto.
Kitty
la scansò malamente e, con un rapido movimento,
sollevò il gatto
per la collottola, trattenendolo con facilità non poco
sorprendente
per la sua mole. Lord Tubbington mosse le zampe irrequieto prima di
puntare lo sguardo sulla padrona: si era rimessa in piedi, Brittany,
e si era sporta istintivamente per prenderlo tra le braccia ma Kitty
protese il braccio a mo' di intimidazione.
Si
rivolse all'intera camerata. “Domani inizierete la corsa alle
4.00
in punto: doppia durata, doppio percorso. Colazione alle 6.00 e
allenamento al campo fino a mezzogiorno. Luciderete le divise di
tutta la divisione maschile, pulirete tutte le camerate e le
docce”.
Un
attimo d’intenso silenzio nel quale tutte le ragazze
assunsero
sguardi increduli e sgomenti, se alcune erano impallidite come Marley
e osservavano la scena con terrore e dispiacere; altre, come Lauren,
avevano l'aria di ribollire di puro e semplice astio. Se fosse
più
rivolto al Capitano o a Brittany sarebbe stato impossibile da dire.
“La
nostra Barbie”, l'aveva indicata con la mano libera.
“che ha
introdotto questo esperimento di Chernobyl mal riuscito,
perché si
crede al di sopra delle regole, sarà la prima ad alzarsi e
l'ultima
ad andare a riposare. E voi che l'avete protetta con il vostro
silenzio, sconterete la detenzione con lei. Riguardo a
questo”,
lesse il nome sul collarino con una risata sprezzante. “lui
sarà
un magnifico tappetino per la mia doccia”.
Esalò
senza fiato Brittany: se gli ultimi istanti era stata pietrificata
dal terrore e annientata dai sensi di colpa per aver coinvolto
persone innocenti nel suo guaio; in quel momento sembrò
tornare in
sé e si sporse nuovamente verso la ragazza. “No,
ti prego!”.
“Sta
zitta”, la rimproverò bruscamente. “E
ringrazia che non ti butti
fuori con lui”.
“Fuori
dove?!”.
“Non
preoccuparti”, le sorrise velenosamente. “Non
è più un tuo
problema”. Aveva fatto un brusco cenno a Tina, le aveva
assestato
il felino tra le braccia e si era incamminata verso l'uscita con lo
stesso incedere fluido e sicuro di sé.
“Aviaria,
gettalo fuori dall'edificio: se dovessi rivederlo, appenderò
i tuoi
orribili capelli come bandiera”.
Tina,
pur impallidita, gettò uno sguardo di pure scuse in
direzione di
Brittany che Marley stava cercando di trattenere per il braccio. Il
viso scintillava di lacrime, le labbra schiuse, quasi non riuscisse
neppure a respirare, mentre Lord Tubbington continuava a scrutarla ed
emetteva altri miagolii di impazienza.
“TI
PREGO!”, gemette ancora Brittany, cercando di scostarsi da
Marley.
Si
fermò sulla soglia dell'uscio, Kitty: indugiò per
un istante ad
osservarne l'espressione sofferente prima di scuotere il capo,
schioccando la lingua sul palato. “E' ora di crescere,
Barbie. Non
rivedrai più il tuo gatto, non in questa vita
almeno”. Scoccò
nuovamente lo sguardo all'intera camerata. “Cena tra un'ora e
siate
puntuali: laverete i piatti di tutto il refettorio: non che per
qualcuno sia una novità
dopotutto”, volse uno sguardo
maligno in direzione di Brittany e di Marley ed uscì.
Il
micio miagolò disperato e Brittany cercò di
rincorrerle ma fu
Lauren, stavolta, a bloccarle il passaggio e sbattere l'uscio.
“Lasciami
andare”, cercò di eluderla con movimenti simili a
quelli di un
giocatore di football che cerchi di smarcarsi.
Lauren
parve in procinto di schiaffeggiarla: le mani sui fianchi e una
smorfia di puro odio sul volto. “Non credi di aver fatto
abbastanza
casini per oggi?”. A giudicare dalle espressioni delle altre
ragazze, ad eccezione di Marley, sembrava essere opinione comune.
“Parlerò
con Neal, vi farò togliere la punizione ma adesso
lasciami-”.
“Ancora
non l'hai capito: più cerchi di attaccarti ai pantaloni del
tuo
paparino e più Kitty si infuria e più Kitty si
infuria e più noi
ne paghiamo le conseguenze”.
Le
tremarono le labbra, ma scosse il capo e serrò i pugni.
“Tu non
capisci, io-”.
“Non
mi importa un accidenti del tuo gatto, di te o della tua famiglia ma
se verrò punita un'altra volta per colpa tua”,
aveva mosso il
pugno con fare così furioso che Brittany era indietreggiata
d'istinto. “ti giuro che sarò io stessa ad
offrirmi come aiutante
a Psycho Kitty per renderti la vita un
inferno”.
Cenni
d'assenso, parole di approvazione e, lentamente, l'intera camerata ad
eccezione di Marley le si era rivoltata contro. Brittany
indietreggiò, il cuore in gola e lo sguardo smarrito, si
lasciò
cadere sul proprio letto, le mani raccolte al viso e la
consapevolezza di essere sola. Come non mai.
~
Non
aveva molto appetito: sentiva la nausea stringerle lo stomaco. Quando
tutta la camerata si era disposta per andare in refettorio, si era
allontanata dal gruppo ed era uscita nei campi a cercare il gatto,
chiamandolo con voce disperata ma resistendo anche al freddo,
sfregandosi le braccia al corpo. Soltanto quando Marley era venuta a
cercarla, aveva fatto rientro: aveva dovuto cedere alla realizzazione
che Lord Tubbington era ormai perduto e che se Kitty si fosse accorta
della sua assenza, avrebbe soltanto peggiorato le cose. E
ciò
significava, da quel momento, anche correre rischi all'interno della
sua stessa camerata. Aveva sentito sguardi di puro odio scorrere
contro di sé quando lei e Marley avevano fatto il loro
ingresso
nella sala mensa, ma si erano disposte in un tavolo isolato. Non
sollevò mai lo sguardo dal proprio piatto: nella mente tutti
i
ricordi del suo amato gattino e degli anni trascorsi insieme.
Era
stata tutta colpa sua: se non fosse mai arrivata in quella
città, in
quell'Accademia, Lord Tubbington non sarebbe stato abbandonato in un
luogo sconosciuto ed incapace di badare a se stesso. E non aveva
soltanto agito in modo egoistico ma persino creato problemi alle
altre ragazze, a Marley che continuava a sorriderle e che, senza dire
parola, le stringeva tuttora la mano in segno di conforto.
Farò
mai qualcosa di giusto? Si era chiesta sconsolata.
Erano
rimaste solo lei, Marley e la Signora Rose. Una volta che Kitty aveva
abbandonato la stanza per ritirarsi, Lauren e le altre si erano
sfilate guanti e grembiuli che avevano gettato ai piedi di Brittany.
“Ci devi un favore”, era stata la sferzante
dichiarazione della
ragazza a cui Brittany non aveva reagito se non un vago cenno di
assenso. Sarebbe stato sicuramente preferibile restare sola a quel
punto, piuttosto che sentire i loro sguardi o bisbigli ostili. In
quel momento avrebbe voluto persino sottrarsi all'amica e a sua madre
che, coi loro sorrisi e sguardi colmi di dolcezza e di tenerezza, le
facevano solo venire ulteriormente voglia di piangere. Non che questo
risolvesse le cose: sentiva ancora la gola arida e la pelle ruvida
del viso, gli occhi gonfi e il cuore serrato in una morsa.
Stava
cercando di scrostare il fondo di una pentola, il sudore freddo che
le scivolava lungo le tempie e il bruciore delle pupille quando
sentì
qualcuno pronunciare il suo cognome. Si volse lentamente, scostando
una ciocca di capelli dal volto, una vistosa scia di detersivo per
piatti a colarle dalla guancia e sul grembiule che Mrs Rose le aveva
prestato.
Non
riuscì a non sentire quella stretta all'altezza dello
stomaco, come
ogni volta che quello sguardo verde indugiasse sul suo volto. Ma era
una visione dolce quanto dolorosa quella del Capitano Clarington in
quel momento. Aveva perso il conto del numero delle volte in cui
l'avesse scorta in estrema difficoltà e quel giorno era
sembrato
infinitamente lungo e agognava soltanto il momento in cui si sarebbe
messa a letto e, per qualche ora, tutti si sarebbero dimenticati di
odiarla.
Lo
sguardo verde indugiò sul suo volto: aveva le sopracciglia
corrugate
ed aveva la sensazione che stesse sondando il suo stato d'animo,
ragione per cui distolse il proprio, morsicandosi il labbro e
desiderando soltanto che se ne andasse e non dovesse scorgerla in
quello stato. Timorosa che persino lui le rivolgesse un aspro
rimprovero per la sua condotta. O si sentisse preso in giro da
quell'infrazione del regolamento.
Si
rivolse a Mrs Rose, tuttavia. “Le dispiace se gliela rubo per
una
mezz'ora?”, le chiese.
Lo
sguardo confuso della signora corse dall'uno all'altro, ma il volto
bonario scintillò del suo sorriso più dolce ed
annuì. “Certo che
no”, rivolse uno sguardo di incoraggiamento a Brittany che,
tuttavia, impallidì.
“Ma
Kitty-”.
“E'
un ordine, Pierce”, sembrava tornato ai suoi modi
più decisi ed
autoritari, Hunter. Si volse nuovamente alla donna, ma stavolta lo
sguardo saettò anche verso Marley. “Se il Capitano
Wilde venisse a
cercarla, ditele che è con me”.
Ancora
inebetita, al cenno di Hunter che si era scansato di lato per farla
passare per prima, Brittany si era tolta il grembiule e si era
affrettata ad uscire. Soltanto quando lasciarono il refettorio,
sfilò
il berretto e lasciò che i capelli le cadessero
scompostamente sulle
spalle, cercò di ravviarli con una mano, constatando che
avrebbe
dovuto farsi una lunga doccia e lo shampoo prima di andare a letto. E
avrebbe dovuto essere rapida per riuscire a dormire qualche ora,
prima del risveglio.
Camminarono
in silenzio: ebbe la sensazione che Hunter stesse aspettando di
trovarsi in una zona più tranquilla e che la stesse guidando
precisamente verso una meta prefissata, lasciandole soltanto adito a
seguirlo. Sentiva il suo sguardo addosso e non poteva che sentire
alimentare in sé la sua curiosità e il timore che
si celasse un
motivo tutt'altro che piacevole: sentiva che, per quel giorno, aveva
raggiunto la soglia massima di sopportazione. Ci vollero diversi
istanti perché Brittany realizzasse che si trovavano nella
zona dei
dormitori ma non svoltarono nella direzione della sua camerata
(l'idea che Lauren o Kitty in persona la scorgessero era tutt'altro
che rassicurante), ma all'ala opposta. Inarcò le
sopracciglia con
fare interrogativo ma non parlò, si fermò quando
Hunter fece lo
stesso, di fronte ad una porta.
Soltanto
allora il ragazzo, la mano sulla maniglia, si volse ad osservarla con
particolare attenzione e Brittany avrebbe voluto essere abbastanza
abile da celare il suo reale stato d'animo. Si morsicò il
labbro ma
distolse lo sguardo, stringendosi le mani in grembo.
“Hai
pianto”, non era una domanda ma la ragazza trasalì
ed arrossì.
Scosse
il capo, tuttavia, memore che Hunter fosse l'ultima persona che
sarebbe stato saggio coinvolgere. “Sto bene”,
cercò di
rassicurarlo, scostandosi i capelli scarmigliati dal volto e cercando
di assumere un'espressione più tranquilla.
“No,
affatto”, fu l'asciutta replica di Hunter ma, con un gesto
semplice, schiuse l'uscio, un angolo delle labbra sollevato.
“Vediamo
se ho qualcosa che ti farà stare meglio”. Le fece
cenno di entrare
e Brittany, l'espressione confusa ma incoraggiata dal suo sorriso,
varcò la soglia della camera che contemplò con
tanto d'occhi quando
comprese che si doveva trattare della sua.
L'ambiente
era rustico come quello delle altre camere da letto, ma era
più
piccola e, infatti, vi era soltanto un letto, un armadio, un libreria
colma di libri, uno scrittoio e un divanetto. Adagiato pigramente sul
letto, un gatto siamese dal pelo lungo e bianco che sembrava morbido
almeno quanto una nuvola, dai limpidi occhi verdi. Si era sollevato
alla vista di Hunter, un placido miagolio, ma scrutò
curiosamente la
nuova arrivata: il musetto reclinato prima di scendere agilmente dal
letto. Si strusciò brevemente alle caviglie del padrone per
poi
avvicinarsi a lei, annusandola con aria guardinga.
Si
chiuse la porta alle spalle, Hunter, che scrutò dall'uno
all'altra.
“Ti presento Clarence”, le aveva detto e Brittany
aveva sorriso
nel mettersi a coccoloni per allungare la mano: il micio l'aveva
scrutata quasi a voler stabilire un contatto di sguardi e poterne
sondare il grado di affidabilità. Evidentemente convinto, si
era
lasciato accarezzare, inclinando presto il musetto perché le
dita
della giovane gli sfiorassero il mento. “Mr Pussy per gli
amici”,
aggiunse vagamente divertito dal modo in cui la giovane avesse
rapidamente sciolto il ghiaccio.
“Ciao
Mr Pussy”, lo salutò, Brittany, deliziata dalla
morbidezza del
pelo che sembrava davvero vaporoso come una nuvola, nonché
dalla
vibrazione prodotta dalle fusa, indice di reale apprezzamento. Aveva
socchiuso gli occhi, Mr Pussy, che sembrava tutt'altro che annoiato
ma ben disposto a lasciarsi ulteriormente vezzeggiare.
Hunter
li scrutava con le sopracciglia inarcate, le braccia incrociate al
petto e l'espressione pensierosa. “E' un gran ruffiano e tu
lo stai
decisamente viziando”, osservò in tono leggero.
“Scusa”,
aveva commentato la ragazza, quasi timorosa nello scostare la mano.
Gesto che non fu gradito dal felino che schiuse gli occhi e le si
avvicinò ulteriormente, sfregandosi contro il suo ginocchio
ed
emettendo un miagolio.
“Non
devi scusarti”, si affrettò a dire, Hunter,
l'espressione
sorpresa. “Non ti stavo sgridando”.
Arrossì,
Brittany, ma sorrise nuovamente. “E' davvero
bellissimo”, aveva
sussurrato e Hunter si era chinato a prenderlo tra le braccia.
“Mr
Pussy è molto lusingato”, lo aveva risposto sul
letto. “Ma non è
per questo che ti ho portata qui”, le aveva indicato una
portafinestra che doveva condurre alla terrazza. Da quel poco che
aveva compreso della sua vita in Accademia, immaginava avesse
l'abitudine prendere una boccata d'aria prima di andare a dormire o
di primo buon mattino. Abbassò la maniglia e nuovamente la
lasciò
passare per prima: Brittany l'aveva valicata domandandosi se volesse
offrirle un'altra panoramica del paesaggio, ma sgranò gli
occhi e il
suo cuore parve fermarsi per un lungo istante.
Sul
pavimento era stata adagiata una cesta di vimini e, raggomitolato su
se stesso, sopra una coperta, Lord Tubbington stava dormendo.
“Lord
Tubbington”, sussurrò, Brittany, senza fiato. Si
avvicinò alla
cesta, l'aria incredula, ma si chinò fino a sfiorarne il
morbido
pelo, carezzandone lentamente le orecchie e il dorso, sentendo una
nuova euforia sgorgarle dalle labbra in una risata liberatoria.
Scostò le lacrime dal viso, volgendosi ad osservare il
ragazzo che,
appoggiato alla balaustra, stava rimirando la scena, un vago sorriso
sulle labbra.
“Come
facevi a saperlo? Dove l'hai trovato?”, gli chiese incredula.
Mr
Pussy, d'altro canto, rimasto solo nella camera, aveva rizzato il
pelo e la zampina premeva contro il vetro della portafinestra:
un'occhiata di puro biasimo nei confronti del padrone. “Ho
visto
Cohen Chang cercare di portarlo fuori: devo ammettere che i suoi
tentativi di difesa sono stati lodevoli”, sembrava divertito.
“Mi
ha raccontato tutto”, aggiunse in tono più
sussurrato. “Le ho
detto che me ne sarei occupato personalmente”.
Brittany
si era rimessa in piedi, continuava ad osservarlo con occhi sgranati,
apparentemente incapace di proferire parola. Restò
semplicemente ad
ascoltarne le parole e cercò di realizzare il significato di
tutto
quello che era accaduto.
“So
che non vuoi separartene”, era stata la semplice
dichiarazione del
ragazzo che si era stretto nelle spalle. “posso tenerlo qua,
almeno
fino a quando Mr Pussy non lo accetterà nel suo
territorio”, aveva
alluso al gatto che stava scrutandoli con espressione risentita,
strappando a Brittany un verso di divertimento. “Mi sembra
che si
sia ambientato bene”, continuò Hunter, la stessa
voce
rassicurante. “Naturalmente puoi venire a trovarlo quando
vuoi o
quando non sarai in punizione almeno”.
Si
sentiva nuovamente vicina alle lacrime, Brittany, ma per la prima
volta, in quella lunga giornata, era un motivo di reale gioia e di
commozione. “Hai... hai fatto tutto questo per me”,
la sua voce
tradiva la sorpresa, la letizia e, al contempo, la gratitudine. Non
si era mai sentita sufficientemente capace di esprimersi a parole ma
avrebbe voluto trovarne per spiegargli tutto. L'emozione del rivedere
il suo gatto e sapere che non lo avrebbe più abbandonato, la
gioia
all'idea che lui avesse avuto una simile e dolce iniziativa, senza
pretendere nulla in cambio. E persino quella costrizione all'altezza
dello stomaco e il modo in cui le fosse impossibile distogliere lo
sguardo da quello verde.
Aveva
continuato a scrutarla, Hunter, probabilmente realizzando lui stesso
l'entità del suo gesto. Si strinse nelle spalle, tuttavia, a
sminuire il tutto. “Non è stato nulla di che,
davvero: non avrei
voluto tu soffrissi per-”.
Non
poté terminare la frase, Hunter: era stato un movimento
fluido e
naturale quello con cui Brittany gli aveva stretto le braccia al
collo, intriso di quello che sembrava un reale bisogno di compiere un
gesto spontaneo ed istintivo. Probabilmente non ci sarebbero state
parole per fargli comprendere il calore che sentiva in corpo, in quel
momento. Poteva soltanto sperare di condividerlo, riducendo le
distanze e infrangendo un'altra barriera protesa tra loro.
“Grazie...
grazie di cuore”, pigolò, la voce soffocata contro
il tessuto
della divisa del ragazzo. Scoprì di avere nuovamente gli
occhi umidi
e gli spasmi leggeri ne facevano tremare le spalle e serrò
le
palpebre spasmodicamente, abbandonandosi semplicemente a
quell'istante.
Sembrava
rigido il giovane, ma non riusciva a pensare che il proprio fosse
stato un movimento inappropriato, non quando si sentì
abbandonare
completamente a lui, quasi ne dipendesse il suo stesso benessere o
quel desiderio di prolungare quella sensazione di
familiarità. Di
casa.
Trattenne
il fiato quando, lentamente, percepì il coinvolgimento del
ragazzo
stesso, evidentemente intaccato da quella stessa sensazione. Le sue
braccia, lentamente, la serrarono contro di lui: riuscì a
percepire
i suoi battiti ben scanditi, regolari, rassicuranti. Chiuse
maggiormente gli occhi e sorrise, Brittany, sospirando e rilassandosi
ulteriormente. Il suo profumo sembrava la perfetta cornice di quel
momento e non aveva altra pretesa se non di viverlo con tutta se
stessa. Almeno un istante. A dispetto dell'Accademia e dei suoi
rigidi formalismi, regole ferree ed orari inflessibili. Persino
cozzando contro le maniere sempre pacate del giovane, quel velo di
riservatezza e di compostezza che ne caratterizzava ogni interazione.
“Stai
bene?”, la sua voce era parsa un sussurro delicato e lontano,
quasi
avesse il timore di disturbarla e Brittany si costrinse a scostarsi
per osservarlo.
Annuì,
si scostò le lacrime dal viso e rise. “Sono
felice: per la prima
volta da oggi”, ammise con voce più contrita.
“... da quando
sono arrivata qua, a dire la verità”. Era stato
spontaneo e
naturale dirlo ma soltanto allora si rese conto di quanto fosse reale
e quanto, soprattutto, dipendesse dalla presenza stessa del giovane.
Si
era accigliato, tuttavia, il giovane e aveva sospirato. “Odi
così
tanto questo posto?”, la sua voce era più bassa
del suo naturale
timbro. Non sembrava offeso, soltanto preoccupato.
Brittany
arrossì ma scosse il capo. “Non lo
odio”, aveva inclinato il
viso di un lato, mantenendo il contatto con il suo sguardo.
“Non
adesso”, gli aveva rivolto un altro sorriso, ma il ragazzo
continuava ad osservarla con quegli intensi occhi verdi che
sembravano scavarle a fondo.
“Concediti
altro tempo: tutto ciò che stai passando, ti
fortificherà”.
Sembrava crederlo realmente.
Aveva
annuito, Brittany, ma non aveva potuto fare a meno di chiedersi se,
in quel suggerimento, si celasse una sua verità nascosta,
soprattutto alla luce di quanto Neal le aveva raccontato durante il
ballo.
Tempo,
aveva bisogno di tempo. E avrebbe avuto accanto Lord Tubbington,
Marley e probabilmente persino il ragazzo che le stava di fronte.
“Hunter”,
con quali parole avrebbe potuto chiedergli qualcosa di simile? E
sarebbe stato giusto farlo? In fondo era stato già fin
troppo
disponibile, senza neppure pretendere nulla in cambio.
La
stava nuovamente scrutando il giovane, le mani affondate nelle tasche
dei pantaloni in una posa più naturale e pigra, ma il
sorriso sulle
labbra, in attesa che parlasse nuovamente.
Si
riscossero entrambi all'ennesimo tentativo di Mr Pussy di attirare
l'attenzione, con una zampata più forte contro la
portafinestra.
“Clarence”,
lo ammonì con tono di rimprovero e il gatto
indietreggiò, mentre il
padrone schiudeva la portafinestra. Si volse nuovamente alla ragazza,
l'aria interrogativa. “Cosa volevi dirmi?”.
Scosse
impercettibilmente il capo, Brittany. “Dovrei andare, mi
stanno
aspettando”.
Hunter
si limitò ad annuire e la lasciò passare, dopo
che ebbe nuovamente
carezzato Lord Tubbington ed attraversarono la sua camera da letto.
“Ancora
grazie”, eppure non sembrava ancora abbastanza, anche se lui
l'aveva rassicurata al riguardo. Era uscita dalla camera ma il
ragazzo indugiò, la mano appoggiata alla maniglia, la sagoma
a
coprire la soglia dell'uscio.
“Buonanotte e cerca... cerca di resistere, mh?”,
era stato un gesto
improvviso, dopo un momento di stasi, quello in cui le aveva
appoggiato la mano sui capelli, scarmigliandoli appena in un vezzo
che doveva essere complice ma che la fece rabbrividire.
“Ce
la metterò tutta”, sussurrò in
risposta. “Buonanotte”. Si era
incamminata ma non aveva sentito la porta richiudersi e si era
nuovamente girata in sua direzione. “Tu ci
riesci?”, gli aveva
chiesto improvvisamente e in modo diretto. “A
resistere?”.
Era
certa che non avrebbe risposto, o che l'avrebbe guardata interdetto e
spiazzato da una simile domanda potenzialmente intrusiva. Ma la
sorprese ancora una volta. Un sorriso ne increspò le labbra,
la
scrutò con il viso inclinato di un lato. Lo sguardo
sembrò
scintillare. “In una serata come questa?”, le
chiese quasi a mo'
di conferma. “Decisamente sì”.
Aveva
annuito, Brittany, per qualche motivo sentendosi nuovamente
rassicurata: quasi una parte di sé fosse consapevole che
quella
semplice risposta, ancora una volta, celasse qualcosa di ben
più
intenso. Che probabilmente avrebbe compreso concedendosi tempo, come
le aveva suggerito, e magari persino conoscendolo meglio.
Sollevò la
mano in un cenno di saluto, un ultimo sorriso, e si volse nuovamente,
sperando di non perdersi lungo il tragitto.
Era
cerca che la porta di Hunter era rimasta aperta, fino a quando non
aveva girato l'angolo.
Riprese
il suo lavoro in cucina, andò a letto molto tardi, dopo una
lunga
doccia risanatrice, e con la prospettiva di una lunga giornata
davanti. Ma il punto è che, da quella visita, non smise di
sorridere.
To
be continued...
Riferimento assai
discutibile e poco lusinghiero all'influenza che ha avuto uno dei
principali focolai soprattutto nel Sud Est asiatico.
Spero
mi abbiate perdonato i momenti meno lieti di questo capitolo, ma
dopotutto c'è stato anche qualche motivo per sorridere. Se
Brittany
si sta abituando a questa nuova vita, subentreranno altre situazioni
da vivere e si approfondiranno i rapporti con le altre figure
principali :)
Uno
scorcio al prossimo capitolo:
“Brittany,
rilassati”. “Sì, scusa”.
“Non devi scusarti”. “Scusa,
cioè niente. Mi hai chiamata per nome”.
“Se preferisci ti chiami
Pierce-”. “No, mi piace sentirtelo dire”.
“Ora
mi racconterai la parte mancante da 'non lo sopporto, non voglio
parlarne' a 'spero che mia madre non si accorga che mi brillano gli
occhi pensando a lui'”.
“Spero
ti sia reso conto, Hunter, che sono mosse da svenevole cheerleader e
neppure molto aggraziate” “Dissento ma procediamo
alla
votazione”.
Un
abbraccione forte a tutte le mie unicorn girls: mandatemi qualche
vibrazione positiva in forma di unicorno, in attesa della mail con il
responso dell'esame di ieri :D
Buon
weekend a tutti,
Kiki87
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 ***
capitolo 6
Ti
conosco,
ho
danzato con te una notte
e
abbiamo desiderato che non finisse mai.
Spero
sia reale,
che
questa visione sia più di quanto sembri,
perché
se il sogno diverrà realtà,
so
cosa faremo.
Balleremo
di nuovo,
come
abbiamo fatto allora,
in
un sogno.
(Once
Upon A Dream, colonna sonora di
“La
bella addormentata del bosco”)
Capitolo
6
Era divenuta una
piacevole abitudine, anche senza un orario prestabilito, potersi
trattenere nella camera di Hunter. Se la visita era soprattutto
alimentata dal desiderio di passare del tempo con il suo adorato
micio, spesso diveniva occasione di godere, seppur indirettamente,
anche della presenza del giovane Capitano. Quest'ultimo le concedeva
l’ingresso persino in sua assenza, ogni volta che aveva un
po' di
tempo libero e riusciva a sfuggire alle punizioni di Kitty,
nonché
ai malumori delle sue compagne di stanze. Decisamente il nuovo
sistema di orari previsto dal Capitano Wilde non aveva favorito le
sue relazioni sociali e sentiva spesso su di sé gli sguardi
indagatori o il silenzio che si diffondeva sospettosamente al suo
rientro, facendole comprendere che era proprio lei l'oggetto di
discussione.
Lo stesso Lord
Tubbington
sembrava apprezzare quel nuovo ambiente: sicuramente più
ristretto
ma anche meno caotico e rumoroso della camerata femminile e non era
raro che, dopo i primi giorni, si addormentasse sul divano, nel posto
lasciato libero da Mr Pussy.
Da parte sua,
quando
presente, Hunter passava gran parte del tempo leggendo (aveva anche
scoperto che indossava gli occhiali: una montatura scura e dalle
lenti rettangolari che gli davano un'aria più intellettuale
e meno
sportiva) o studiando. Così, mentre stava seduto davanti
alla sua
scrivania, cercava di essere il più silenziosa possibile e
di non
disturbarlo. Tuttavia, spesso e volentieri, non riusciva a fare a
meno di osservarlo: si soffermava sul modo in cui aggrottava le
sopracciglia, quando si concentrava su un passaggio più
ostico o su
come lo sguardo si fissasse su un punto indefinito mentre rifletteva.
Erano momenti in cui si domandava se ci fosse qualcosa a
preoccuparlo, al di fuori degli impegni accademici: avrebbe persino
voluto esserne a conoscenza, se non avesse avuto remore di essergli
di peso o risultargli inopportuna.
Molto
più semplice era
l'interazione con Mr Pussy che non mancava di dimostrarle la propria
simpatia, non appena entrava nella camera. Si riscuoteva dal suo
sonnellino, si stiracchiava sul divano o sul letto del padrone, prima
di avvicinarsi e strusciarsi alle sue caviglie o accoccolarsi al suo
grembo, senza attendere gli si avvicinasse.
La prima volta
che Hunter
aveva osservato quel siparietto si era concesso di inarcare le
sopracciglia, il viso inclinato di un lato, tanto che Brittany aveva
temuto che ciò lo infastidisse. Ma il ragazzo aveva inarcato
l'angolo delle labbra. “Gli piaci, è
evidente”, aveva commentato
con semplicità, lo sguardo nuovamente saettato sul libro che
stava
leggendo, le dita a sostenersi la fronte.
“Anche
tu mi piaci”,
aveva sussurrato, Brittany, con un sorriso più dolce. Ma era
seguito
uno strano silenzio a quella frase pronunciata a cuor leggero:
sembrava che Hunter stesso si fosse riscosso dalla sua concentrazione
e aveva nuovamente levato lo sguardo su di lei. Non riuscì
ad
interpretarne lo stato d'animo, ma arrossì.
“Dicevo a Mr Pussy”,
aveva precisato in tono timoroso, per poi realizzare che ciò
poteva
essere poco lusinghiero.
Il cipiglio
sulla fronte
del ragazzo si era ampliato, le sopracciglia inarcate prima di
emettere un suono gutturale di divertimento.
Non sembrava
essersi
offeso, aveva constatato Brittany, ma ciononostante l'imbarazzo non
riusciva a scemare e si morsicò il labbro, affrettandosi ad
aggiungere: “Cioè, non è che tu non mi
piaci, visto che ti
conosco un po' meglio”, avrebbe soltanto voluto che il suo
cuore
smettesse di scalpitare così intensamente da darle la
sensazione di
star per scoppiarle e che la sua voce non sembrasse così
strozzata,
come esitasse a respirare. “Sei molto gentile e-”,
stava cercando
di articolare ulteriormente la sua risposta.
“Brittany”,
l'aveva
richiamata lui, il viso inclinato di un lato e il sorriso addolcito.
“Rilassati”, le aveva detto con aria tranquilla e
la ragazza
aveva rilasciato il fiato.
“Scusa”,
era stato
una sorta di pigolio.
Aveva
aggrottato
nuovamente le sopracciglia, evidentemente perplesso. “Non
devi
scusarti”.
“Scusa!”,
si era
affrettata a dire la ragazza per poi mordersi il labbro, facendo un
vago cenno con la mano. “Cioè, niente”.
Mr Pussy aveva
miagolato
ad attirarne l'attenzione e si era rilassato solo al sentirne di
nuovo la carezza sotto il mento. Ma Brittany stava ancora guardando
Hunter, le labbra appena schiuse, quando un nuovo pensiero la
colpì.
“Mi hai chiamata per nome”, il tono della voce
aveva tradito una
reale curiosità mista a sorpresa.
Per l'ennesima
volta, il
ragazzo aveva abbandonato la sua lettura ed era tornato ad
osservarla: evidentemente il gesto gli era stato abbastanza naturale
da non soppesarlo, ma inarcò le sopracciglia alla
precisazione. “Se
preferisci che ti chiami Pierce-”.
“No,
mi piace
sentirtelo dire”, aveva sussurrato Brittany, un reale sorriso
ad
incresparne le labbra il mento appoggiato al capo del siamese che si
stava letteralmente crogiolando delle coccole extra, a giudicare
dalle fusa che avevano riempito il silenzio, infranto solo dal
pesante respiro di Lord Tubbington, addormentato sul tappeto.
Fu un lungo
istante
quello in cui Hunter aveva contemplato quel quadretto, quasi avesse
voluto memorizzarlo nei minimi dettagli. “Bene”,
aveva sussurrato
distrattamente. Un vago sospiro, prima di costringersi a tornare alla
sua lettura e Brittany era tornata alla sua silenziosa
contemplazione.
Persino al
ricordo sentì
le sue guance avvampare e scosse il capo come a cercare di tornare
alla realtà mentre, con cipiglio deciso, camminava lungo il
corridoio che Marley le aveva descritto con dovizia di dettagli per
potersi orientare. Un sorriso soddisfatto le affiorò alle
labbra e
accelerò il passo, quando individuò la porta
giusta e seppe che non
avrebbe dovuto perdere tempo: Kitty, a differenza sua, sarebbe stata
fuori dall'Accademia per l'intero weekend. La sua stessa camerata si
era svuotata e ciò avrebbe garantito a lei e a Marley una
maggiore
libertà: si era dispiaciuta solo in parte che quest'ultima
non
l'accompagnasse, ma era giusto trascorresse del tempo con il suo
Principe. Inoltre, aveva così atteso quel momento che
avrebbe voluto
gustarselo egoisticamente. Schiuse la porta con il battito accelerato
e il respiro trattenuto prima di osservare, per la prima volta,
l'aula di danza. Era molto ampia e rettangolare: le finestre, che
davano sulla distesa dei campi d'addestramento, ne illuminavano il
parquet lucido e lo specchio le restituiva il suo stesso sguardo
attonito. Ancorate ad un lato della sala vi erano le sbarre per gli
esercizi di danza classica e, oltre allo stereo, vi era persino un
pianoforte accostato ad un angolo della sala per chi voleva
esercitarsi a suonarlo. E la libreria vicina era colma di spartiti a
disposizione degli allievi.
Un sorriso le
affiorò
alle labbra nel contemplare quel luogo che sarebbe potuto divenire un
rifugio felice, se fosse riuscita a farvi ritorno, quando si fosse
assicurata di non incontrare nessuno. Conosceva abbastanza Kitty per
immaginare che avrebbe trovato un qualche cavillo per impedirle di
entrarvi o avrebbe potuto pensare che non prendesse sul serio le
punizioni e il nuovo regime entrato in vigore dopo l'ultima e
disastrosa ispezione della camerata.
Lasciò
vagare lo sguardo
tutto attorno prima di affrettarsi a raggiungere il mobile su cui era
adagiato lo stereo. Vi appoggiò il proprio zainetto e ne
estrasse un
cd che inserì nel lettore. Legò i capelli in una
coda, compì
qualche esercizio di riscaldamento per i muscoli ancora intorpiditi
per il sonno, una vaga smorfia laddove il ginocchio si era scorticato
per una delle numerose cadute, fletté le braccia prima di
allungarsi
a toccare i piedi con le punte delle dita. Sentiva una nuova emozione
scalpitarne il petto. Scelse la traccia musicale e si
collocò al
centro della stanza, lasciando che la melodia riempisse il silenzio.
Le prime note scorsero leggere, come un risveglio in punta di piedi,
apparentemente ignorate prima che il ritmo divenisse più
incalzante
in un crescendo seducente.
Movimenti
fluidi, sinuosi
ed eleganti con cui le braccia schermarono l'aria: naturali e
disinvolti come se il suo corpo stesse finalmente ritrovando la sua
armonia. Senza più timore, paure o quella pressione di non
riuscire
ad affrontare il presente e i cambiamenti cui stava andando incontro.
Soltanto la leggerezza e la libertà con cui si muoveva in
modo
sempre più rapido e slanciato, abbandonandosi completamente
alla
melodia e ritrovando persino quella gioia di vivere che ne rese lo
sguardo più lucido e ne fece sorridere le labbra di
autentica
serenità.
Fu come se
tutti i
contorni svanissero e sfumassero: tutto era distante e lontano,
niente e nessuno avrebbe potuto valicare quel suo spazio o impedirle
di sentire la vita scorrerle dentro in ogni singolo movimento, l'uno
la continuazione dell'altro come una sequenza destinata a non
terminare.
Non seppe
quanto tempo
fosse passato: si adattò ad ogni nuovo brano e
più si muoveva e più
sentiva l'energia affiorare da una riserva che l'Accademia non le
aveva sottratto e così la consapevolezza che, in fondo, non
sarebbe
mai appartenuta a quel posto e mai avrebbe potuto toglierle la sua
identità.
Solo quando lo
stereo le
propose una musica da ballo di sala, Brittany si rese conto che
doveva esser passato molto più tempo di quanto avesse
realizzato. Si
fermò. Le mani appoggiate ai fianchi, il respiro lievemente
ansante,
le guance arrossate e ciuffi di capelli sparsi sulla fronte lucida.
“Serve
un partner?”,
percepì quel respiro caldo contro la nuca, la voce
sussurrata e
rauca e trasalì nello scorgerne il riflesso dallo specchio
che aveva
quasi del tutto ignorato fino a quel momento. Si volse ad osservare
Hunter, la mano sul cuore e gli occhi sgranati.
Era la prima
volta che il
ragazzo le appariva sinceramente imbarazzato: evidentemente non si
era aspettato di suscitarle quel trasalimento. “Scusami, non
volevo
spaventarti”.
C'era un
sorriso tuttavia
nel suo volto nell'osservarla con ammirazione. “O tanto meno
interromperti”, precisò con un guizzo di
divertimento.
Arrossì,
Brittany che
notò soltanto in quel momento che anch'egli non indossava la
divisa
ma un completo più informarle e sportivo costituito di
pantaloni
scuri ed elastici e una canottiera dello stesso colore. Che fosse
venuto nella sala con il suo stesso intento? Si scostò i
capelli
dalla fronte, dopo aver spento lo stereo e aver raccolto il proprio
zaino. “Da... da quanto tempo sei qui?”, chiese con
voce più
sussurrata, ancora evidentemente sorpresa ma imbarazzata nell'esser
stata scorta in un momento così personale.
Sorrideva
ancora, Hunter,
le braccia incrociate al petto nell'osservarla con il viso inclinato
di un lato. “Abbastanza”, dichiarò, le
sopracciglia inarcate.
“Sei una ballerina straordinaria: non posso credere che Neal
non me
l'abbia detto”, sembrava davvero incredulo.
Si strinse
nelle spalle,
Brittany. “Non ero qui per questo ma da quando Neal mi ha
parlato
di questa
sala, non
vedevo l'ora di
entrarci”, ammise e si appoggiò un asciugamano sul
collo, dopo
essersi strofinata il volto. Estrasse una bottiglietta d'acqua che
tracannò avidamente.
“Credo
di aver appena
trovato il modo di allietarti ulteriormente la permanenza
qua”,
dichiarò il ragazzo che non smetteva di osservarla con fare
pensieroso e compiaciuto. “Entra nel mio Glee
Club”.
Quasi si
strozzò e si
scostò la bottiglietta dalle labbra. Aveva sgranato gli
occhi, ma
soltanto in quel momento sovvenne il ricordo della primissima
conversazione con Neal riguardo l'Accademia stessa: Ma
abbiamo molte altre attività che ti saranno più
familiari: un Glee
Club.
Nondimeno
c'era
qualcos'altro di altrettanto curioso e che non aveva mai realizzato
fino a quel momento.
“Non
abbiamo molti
ballerini esperti ma tu e Kitty insieme alzereste sicuramente il
livello di preparazione generale. Ci siamo iscritti ad una gara di
canto coreografato a livello nazionale ed abbiamo bisogno di persone
con la tua passione”, era la prima volta che scorgeva nel
ragazzo
quella verve più sognatrice e pensierosa, riguardo ad un
progetto
nel quale aveva evidentemente investito il suo tempo e al quale
dedicasse la sua attenzione. E che non aveva nulla a che vedere con
la vita in Accademia in senso stretto.
“Kitty?”,
domandò,
Brittany, il tutto suo entusiasmo sembrò fluire via alla
sola idea
di ritrovarsi coinvolta in un'attività nella quale sarebbe
stata
ulteriormente sottoposta alla presenza del Capitano Wilde.
“E'
il mio Co-capitano
anche in questo, la cantante di punta e la prima ballerina, almeno
per ora”, l'aveva indicata con aria altrettanto divertita,
evidentemente più che incuriosito all'idea di mettere a
confronto le
doti di entrambe.
Ma c'era
qualcos'altro a
stimolare la curiosità di Brittany e su cui il giovane stava
glissando o che riteneva scontato a differenza sua.
“Aspetta”, lo
fermò dal dare altri dettagli sull'organizzazione del
gruppo. “Tu
balli?”, gli chiese e, seppur non volesse apparire rude, non
poteva
celare una reale incredulità e sorpresa a quella
realizzazione.
Aggrottò
le
sopracciglia, Hunter, che sembrò intuire i suoi pensieri,
arricciò
l'angolo delle labbra ed inclinò il viso di un lato nello
scrutarla.
“Difficile da credere?”, la stuzzicò
quindi.
“Oh,
no, no!”, non
era suonata molto convincente perché il cipiglio dell'altro
si
approfondì e dovette cercare di nascondere il sorriso per
non
apparire realmente irrispettosa. “E' solo che sembri
sempre...
rigido”, ammise, morsicandosi il labbro ma sorridendogli
accattivante perché non fraintendesse le sue intenzioni.
“Rigido”,
ripeté
Hunter il cui sorriso non sfumò seppur apparisse adesso
ansioso di
difendersi. “Hai ballato con me solo una volta ed era un
ballo da
sala”, le ricordò.
Sbatté
le palpebre,
Brittany. “Solo perché mi hai costretta, ma non
parlavo di quel
tipo di ballo”, aggiunse e non riuscì a simulare
il sorriso
divertito che, per qualche motivo, coinvolse persino il ragazzo.
Si
chinò appena in sua
direzione, quasi stesse pronunciando qualche segreto che non avrebbe
dovuto valicare i confini della stanza. Una movenza che, tuttavia,
fece accelerare i battiti della giovane. “Diciamo che quel
ballo
era solo un'anteprima e un incentivo per mettermi alla prova: poi
potrai eventualmente ridere di me, quando mi avrai davvero
visto all'opera”.
Visto da una
simile
distanza, con la voce così rauca e quel sorriso
più accattivante
che ne faceva scintillare lo sguardo verde, Brittany dubitava che
avrebbe davvero potuto prendersi gioco di lui. Si riscosse, tuttavia,
e lo scrutò con aria incuriosita. “E'
così che vuoi
convincermi?”, gli chiese.
“Ma
io ti ho già
convinta”, precisò il ragazzo che non si era
scostata e il cui
respiro caldo soffiava sul volto della giovane, procurarle ulteriori
brividi. “Ti ho vista ballare, Brittany: è
evidente che è questo
che ti rende felice”.
Non avrebbe
potuto
negarlo, ma era qualcosa di incredibilmente dolce l'idea che lui lo
avesse compreso guardandola per la prima volta. “E mi
vorresti nel
tuo Glee Club”, continuò, la voce sussurrata e la
risposta
sembrava esserle importante, a prescindere dall'accettazione o meno
di quella proposta o di ciò che ne avrebbero pensato gli
altri. Era
di Hunter che desiderava il responso, proprio lui che in quel
contesto l'aveva scorta e sembrava averla osservata minuziosamente.
Sembrò
intuire qualcosa
di simile, Hunter, perché la scrutò a lungo,
così tanto da farle
trattenere il fiato per l'anticipazione, prima che annuisse.
“Esattamente”.
Si strinse
nelle spalle,
Brittany, l'espressione più giocosa. “Allora
dovresti chiedermelo
e non ti direi di no”, gli fece presente. Ancora una volta
aveva
avuto l'impressione che il ragazzo sembrava leggerle la mente e non
necessitare neppure di una risposta che avrebbe voluto invece
fornirgli con tutta l'intensità della stessa.
Sorrise
ironicamente
Hunter. “Vorresti entrare nel mio Glee Club?”.
“Volentieri”,
fu la
pronta risposta della ragazza, dondolandosi sui talloni con aria
evidentemente soddisfatta.
Sorrise Hunter
e
l'atmosfera sembrò essere completamente cambiata: lo
scintillio del
suo sguardo si era addolcito e nuovamente l'aritmia sembrò
strapparle il respiro e renderla incapace di pensare ad altri che non
fosse il giovane stesso. Allo stesso modo, non riusciva ad evitare di
guardarlo e domandarsi cosa fosse giusto dire o fare in una simile
circostanza in cui tutto sembrava superfluo. O come alleviare quella
stretta allo stomaco che andava e tornava a suo piacimento, senza che
potesse in alcun modo controllarla. Si era morsa il labbro
nervosamente.
Sbatté
le palpebre,
Hunter, e si schiarì la gola. “D'accordo,
allora”, tornò al suo
consueto tono pacato. “Ne parlerò con Kitty, ma tu
presentati
all'audizione Lunedì insieme agli altri, dovrai firmare il
modulo in
segreteria”.
L'incanto
sembrò
spezzarsi e Brittany corrugò le sopracciglia.
“Aspetta, perché
devi parlarne con lei?”, si stupì lei stessa del
suo tono
tutt'altro che lieto alla prospettiva ma si affrettò a
correggersi.
“Lei non mi vorrà di sicuro”.
Sorrise il
ragazzo che
scosse il capo. “Se ballerai come prima, la tua audizione
sarà
soltanto una formalità, credimi”.
“Ma
lei mi odia e-”.
“Kitty
ha soltanto un
voto a disposizione, uno su cinque: personalmente mi hai già
convinto, dovrai convincere gli altri tre del nostro
Consiglio”.
Sospirò
Brittany ma
annuì. Aveva dunque due giorni di tempo per preparare una
coreografia da sottoporre come provino. Lo stesso cui aveva accennato
Marley che aveva già firmato il modulo. La sua amica non era
riuscita a passare alle audizioni dell'anno precedente soltanto
perché la sua domanda era stata presentata in ritardo e
Kitty aveva
asserito che avrebbe dovuto dedicarsi agli allenamenti, essendo la
sua peggior recluta.
“Non
avrai paura?”,
le aveva chiesto il ragazzo che ne aveva scrutato l'espressione
così
diversa da quella della giovane che aveva sorpreso sul parquet.
“No,
ma non voglio che
Kitty abbia altri motivi per avercela con me o che la faccia pagare
alle mie compagne e-”.
Il giovane le
aveva
appoggiato la mano sulla gota e Brittany era trasalita: con il
pollice le aveva sfiorato lo zigomo in un tocco accennato che,
tuttavia, ne fece scalpitare furiosamente il cuore e trattenere il
fiato. Si specchiò nel suo sguardo. “Hai la mia
parola, Brittany:
se vuoi ballare nel mio Glee Club, farò tutto il possibile
perché
tu possa farlo”.
Sospirò,
Brittany, che
continuò a contemplarlo in volto per poi sorridere.
“Ti
ringrazio”.
“Mi
raccomando, punterò
molto su di te”. Le disse in tono evidentemente complice.
Era apparsa
visibilmente
emozionata ma lusingata e aveva trattenuto il fiato. “Non ti
deluderò”.
“Bene,
ora dovrò
chiederti di lasciarmi la stanza”. Le aveva indicato l'uscita
con
un cenno del mento, ma Brittany aveva sorriso giocosa.
“Posso
restare?”. Si
era dondolata sulle braccia ma il ragazzo aveva scosso il capo.
“Assolutamente
no”,
stava sorridendo, ma la guardò intensamente. “Mi
vedrai ballare
soltanto se passerai l'audizione”.
“Avrò
un motivo in più
per farlo, Capitano”, imitò il saluto militare e,
con un ultimo
sorriso, uscì dalla stanza.
~
Era stata con
una lieve
agitazione che aveva accettato l'invito a pranzo della madre:
sarebbero state soltanto loro due e non aveva potuto fare a meno di
chiedersi se lo scopo fosse parlare di Neal.
Dal loro colloquio, aveva riposto i documenti sull'adozione nella
cassettiera dell'armadio che condivideva con Marley. Sapeva di dover
prendere una decisione e comunicargliela al più presto ma
sentiva di
non poterlo fare se non in un momento di calma e di riflessione che,
tuttavia, ancora non sembrava esser giunto. Non che avesse tentato
deliberatamente di ignorare la questione ma ogni volta che, insonne,
i suoi pensieri si soffermavano su quell'argomento, aveva sentito la
gola stringersi e il battito accelerare. Soprattutto quando,
inevitabilmente, un altro volto affiorava dai suoi ricordi e si
sovrapponeva a quello di Neal. Aveva anche cercato di far tacere
quella vocina interiore che avrebbe voluto si confidasse con la madre
che avrebbe potuto comprendere meglio di chiunque altro; ma sembrava,
al contempo, la persona meno indicata se l'avesse così
esortata di
riflettere a sua volta e comparare le due precedenti esperienze. La
prima e più dolorosa di cui non discorrevano mai e che
Brittany non
richiamava alla sua memoria per il timore di infliggerle sofferenza,
soprattutto da quando Neal l'aveva resa nuovamente felice e aveva
sopperito alla solitudine di una donna col cuore spezzato.
Era, come
sempre,
qualcosa di meraviglioso ricongiungersi a lei e non era mancato un
lungo abbraccio, prima che salisse sulla sua auto e si dirigessero
insieme al ristorante: ne aveva osservato l'espressione più
che
entusiasta mentre accennava a qualche annuncio promettente e qualche
invio di curriculum come istruttrice di danza. Aveva anche parlato di
nuovi acquisti per arredare la nuova casa nonché la scelta
ancora
poco chiara su quale sarebbe stata la sua meta per la luna di miele,
ipotizzando la possibilità che trascorresse quella settimana
con la
nonna materna. Progetti che ne facevano scintillare lo sguardo
azzurro e ne rendevano il sorriso allegro e solare e, ancora una
volta, Brittany desistette dall'accennare a qualcosa che potesse
corrodere quella piacevole atmosfera, soprattutto dopo quel periodo
tanto ferreo tra le mura dell'Accademia.
“Cosa
mi racconti di
nuovo?”, l'aveva incalzata appena il cameriere si era
allontanato
con le ordinazioni di entrambe.
Dallo
scintillio dello
sguardo, allusivo e complice, Brittany ebbe l'impressione che fosse
più che ottimista all'idea di qualche nuova rivelazione
succulenta.
Cercando di ignorare quella sensazione di stretta marcatura, le
sorrise e si strinse nelle spalle. “Forse entrerò
nel Glee Club
dell'Accademia”.
“Forse?!”,
le aveva
chiesto la madre, le bionde sopracciglia inarcate così tanto
da
nascondersi sotto le ciocche che ne sfioravano la fronte. “Ti
hanno
già vista ballare, almeno?”, aveva chiesto,
evidentemente più che
fiduciosa della sua predisposizione.
Cercò
di non ripensare
al modo in cui, effettivamente, ciò era avvenuto –
il mal di
pancia non era certo qualcosa di gradevole, soprattutto prima di
pranzare – ma si tormentò in capelli e si
schiarì la gola, dopo
aver bevuto dell'acqua. “Dovrò fare un'audizione
Lunedì”,
iniziò in tono cauto, spiandone le espressioni.
“Mi hanno detto
che sarà soltanto una formalità”,
aggiunse perché si compiacesse
di quel dettaglio.
Se
così fosse stato,
Shirley non lo diede a vedere. Al contrario, lo sguardo aveva avuto
uno scintillio persino più luminoso, ma aveva inclinato il
viso di
un lato, scrutandola con fare felino, pur simulando perfetta
compostezza e un'aria distratta e casuale. “Ti hanno
detto?”,
ripeté in tono leggero prima di sporgersi maggiormente in
sua
direzione, le dita intrecciate a sostenersi il mento e il sorriso
malizioso. “Perché adesso non mi parli di chi lo ha detto,
soprattutto se è la stessa persona di cui evidentemente non
vuoi parlare?”. Il suo tono era cantilenante, quasi stesse
cercando
di ipnotizzarla con quegli occhi della nuance simile alla propria e
le sopracciglia inarcate in evidente attesa.
Arrossì,
Brittany, e si
morse il labbro prima di appoggiarsi allo schienale della propria
sedia. Sembrò quasi voler scomparire sotto quello sguardo
indagatore. “Non so di chi stai parlando”,
replicò velocemente
per poi cercare di sviare rapidamente il discorso. “Ci
sarà una
specie di giuria di cinque persone all'audizione e-”.
“Sono
tua madre e una
madre fantastica se vogliamo dirla tutta”, si prese un
istante
Shirley per contemplare la veridicità di quella frase che
fece
sorridere la figlia con aria rassegnata, ma dovette annuire
perché
la donna continuasse a parlare. “E se intendi tenermi
nascosto
qualcosa, allora dovrò infiltrarmi, magari come fidanzata
dal
Preside, cominciare a fare qualche domanda in giro, andare a salutare
Jonathan”, il bicchiere di Brittany era vacillato nella sua
stretta
e la madre aveva sorriso trionfante, cogliendo un evidente
collegamento. “Tanto lo sai che lo scoprirò:
quindi saltiamo
subito alla parte in cui vuoti il sacco, mh?”, le
domandò giocosa
e, malgrado stesse sorridendo, Brittany sapeva
che si trattava di una minaccia.
“Hunter”,
fu il
sussurro sconfitto di Brittany che si passò una mano sulla
fronte
con l'aria di chi si prepari ad essere oggetto di qualche
calamità
naturale.
“A-HA!”,
l'additò
sua madre con aria trionfante, incurante degli sguardi curiosi che
aveva attirato con quell'esclamazione che sembrava essere
rimbombata
nel silenzio della saletta. “Lo sapevo!”.
Batté
la mano sul tavolo quasi a dare maggiore enfasi.
Brittany era
terrorizzata
alla prospettiva di chiederle di spiegarsi meglio, ma evidentemente
non ce n'era bisogno perché la donna sembrava tutt'altro che
esitante a condividere la sua opinione. “Ho sentito la
tensione
crescere tutta la sera, anche se ammetto che le tue confidenze dopo
avervi trovato in giardino sono state abbastanza scarne”,
l'aveva
rimproverata con fare bonario per poi continuare il suo soliloquio.
“Una simile elettricità poteva concludersi
soltanto in due modi: o
vi sareste uccisi a vicenda, il che sarebbe stato davvero uno spreco:
certo, lui è Capitan Impalato ma un bocconcino davvero
succulento;
non ti avrei permesso di lasciartelo sfuggire e sono fiera di te per
aver scelto la seconda opzione: balla e conquista!”, lo
aveva sussurrato in tono complice, dopo essersi sporta maggiormente
in sua direzione.
Se la giovane
aveva già
fatto fatica a seguire quel lungo sproloquio, arricchito di commenti
personali e del tutto parziali; si ritrovò a sgranare gli
occhi ed
arrossire furiosamente. “Aspetta”, la interruppe
con la mano
sollevata, il viso inclinato di un lato e la fronte increspata.
“Mi
ha solo proposto di entrare nel Glee Club, non mi ha certo chiesto di
sposarlo”, aveva sorriso ironicamente.
Allo sguardo
eloquente
della madre che sembrava voler obiettare un “non
ancora”, aveva
scosso il capo, le guance più rosate ma l'aria ben decisa e
determinata a non lasciarle adito di fantasticare ulteriormente.
“Farò l'audizione Lunedì: ci saranno
lui, Kitty e altri tre.
Tutto qui”.
“Bene”,
commentò
Shirley che sorrise al cameriere e lasciò che depositasse i
piatti
davanti ad entrambe. Quest'ultimo non ebbe tempo di rientrare nel
locale, perché la donna si sporse ulteriormente verso di
lei. “Ora
mi racconterai la parte mancante da 'Non lo sopporto e non
voglio
parlarne'
a 'spero
che mia madre non si accorga che mi
brillano gli occhi, pensando a lui'”, l'aveva
incalzata con la
stessa espressione determinata e sicura di sé.
“N-Non
mi brillano gli
occhi”, protestò la ragazza, le guance in fiamme e
la madre
scacciò quella replica con un vago cenno della mano.
“Allora?
Siamo alla
prima portata e sto fremendo: comincia a parlare”.
Era
impossibile dirle di
no, era qualcosa che aveva imparato più o meno da quando
aveva
iniziato a parlare e interagire con lei anche al di fuori del ballo.
Era anche vero che la madre era un'ottima ascoltatrice (se non si
consideravano le risatine, gli sguardi soddisfatti, i commenti poco
celati e la mimica facciale) ma era sinceramente concentrata a
cogliere il quadro delle sue interazioni con il Capitano per
avvallare ulteriormente le sue opinioni al riguardo.
“E
così, sotto la
scorza da 'Capitan Spalle e Bicipiti d'oro'”, il commento
aveva
fatto strozzare la figlia con la sua porzione di pesce. “Si
cela un
cuore da Principe Azzurro”.
Non l'aveva
mai pensata
in quel modo, non aveva provato ad immaginarlo come uno dei
protagonisti delle sue favole preferite, ma immaginava che sarebbe
sembrato... perfetto. Come quella sera con lo smoking, anche se era
stata troppo arrabbiata e risentita per dirlo ad alta voce. O come lo
era stato fin da subito quando, durante l'acquazzone, l'aveva tratta
in salvo da quell'altura. O come lo sarebbe sembrato persino nei
gesti quotidiani, quando studiava nella sua camera con addosso un
paio di occhiali.
“Principe”,
sussurrò
tra sé e sé e sorrise a quelle immagini ben
serbate nella propria
mente prima che un sospiro le sfuggisse dalle labbra.
Abbassò la
forchetta: il mal di pancia improvviso le aveva fatto passare lo
stimolo a mangiare.
“Sei
stra-cotta”,
cantilenò sua madre con un sorriso più che
deliziato alla
prospettiva, poco curante del suo verso di sorpresa e delle guance
roventi.
“N-No,
io... lui, no,
non-”, si ritrovò a farfugliare, neppure sapendo
esattamente cosa
dire.
“Davvero
eloquente la
sua difesa, Miss Pierce”, le ammiccò giocosamente.
La ragazza
aveva distolto
lo sguardo e un'improvvisa inquietudine ne aveva fatto serrare le
labbra. La sola idea di poter coltivare un sentimento simile, che
tanto meravigliosamente era descritto nei suoi libri, sarebbe stata
davvero suggestiva ma si accompagnava ad una riflessione ben
più
seria.
“Non
so neppure se gli
piaccio come amica”, si sentì dire con voce
più contrita, quasi
stesse per la prima volta soppesando quel pensiero che era sempre
accantonato. Certo, le loro interazioni erano divenute molto
più
fluide e lui era sembrato molto più cordiale, complice,
anche
incredibilmente dolce nelle premure che le aveva riservato. Ma che
fosse tutto legato a quel rispetto che le aveva promesso da quella
conversazione dopo il ballo?
“Non
credo che
collezioni gatti nel tempo libero”, la incalzò sua
madre. “A
meno che non sia uno psicolabile, il che non toglierebbe nulla al suo
fascino, ma potrebbe essere un problema”, sembrava stesse
realmente
contemplando l'ipotesi con la stessa leggerezza con cui si sarebbe
parlato del tempo e della possibilità di un acquazzone
all'orizzonte.
“Comunque
non importa”,
Brittany sembrava essere giunta alle conclusioni di una propria
riflessione. “Lui è il Capitano, Kitty gli sta
sempre attorno,
quando non mi sta tormentando e-”.
“Ti
piace?”, chiese a
bruciapelo la madre e Brittany sentì il cuore fermarsi in
petto:
immagini del giovane che aveva serbato in sé da
più tempo di quanto
avesse mai realizzato. E probabilmente, come aveva detto a Marley
qualche settimana prima, aveva sempre avuto la risposta di fronte a
sé, ma non l'aveva mai valutata nel giusto modo.
“Mi
fa venire il mal di
pancia”, ammise con voce addolcita, lo sguardo più
lucido e un
moto puerile nel ricercare lo sguardo della madre la cui mano si
serrò intorno alla sua.
C'era un nuovo
scintillio
negli occhi di Shirley che, superato il momento di soddisfazione,
l'aveva guardata con tanto calore da scaldarle il cuore: vi era
comprensione, tenerezza, complicità e tanto amore e
adorazione. “E'
la sensazione più bella del mondo: vivila fino in fondo,
comunque
vada e non avrai rimpianti”, e vi era una verità
che aveva vissuto
da sempre e l'aveva resa la donna coraggiosa e sincera che Brittany
avrebbe voluto tanto imitare.
Ma se era
davvero la
sensazione più bella, perché si sentiva
così confusa e stordita?
Nei suoi libri
era sempre
parso così semplice comprendere quando due personaggi
fossero nati
per stare insieme, malgrado iniziali differenze caratteriali o di
ceto sociale o le aspettative familiari e i sogni coltivati prima
dell'innamoramento. Soprattutto sembrava sempre implicito il lieto
fine ma aveva scoperto fin troppo presto che non tutti gli amori
erano destinati ad emulare le favole. Non aveva dubbio su quale tipo
di finale avrebbe preferito. Ma c'erano molte altre domande che
avrebbero avuto bisogno di risposta e probabilmente avrebbe dovuto
leggere quelle pagine già note con maggiore attenzione.
“E
adesso ordiniamo un
dessert con tanta tanta cioccolata o fragole oppure fragole e
cioccolata
e poi Super Mamma penserà ad un piano per eliminare
la concorrenza. Un bell'infortunio alla caviglia, magari.
Così le
ruberai il partner e l'uomo in un colpo solo. Hai detto che si chiama
Kitty?”.
Sbatté
le palpebre con
aria sconvolta: Kitty e Hunter ballavano insieme? E perché
sua madre
sembrava esserne sicura ancora prima che lo constatasse di persona?
Infortunio?
Non osava
immaginare cosa
sarebbe scaturito da un confronto tra la madre e il Capitano Wilde ma
la cosa certa era che quel pranzo non lo avrebbe facilmente
dimenticato.
~
Un nodo le
stringeva la
gola mentre, insieme a Marley, percorreva nuovamente il corridoio
verso l'aula di danza. Sentiva la tensione divenire sempre
più
palpabile, il battito del suo cuore era una colonna sonora quasi
fastidiosa e sembrava persino rimbalzare. Cercò di
regolarizzare il
respiro, i loro passi rimbombavano tra le pareti ed osservò
le
persone già riunite fuori dalla porta. Dopo averle sorriso e
stretto
la mano a mo' di incoraggiamento, Marley raggiunse Ryder e Brittany
si fermò poco distante dalla porta: a quanto sembrava
sarebbero
entrati uno alla volta e avrebbero sostenuto l'audizione di fronte al
Consiglio.
Ignorò
il brusio
circostante e cercò di rilassarsi, come le aveva sempre
insegnato la
madre nei momenti antecedenti ai saggi di danza.
“Nervosa?”.
Trasalì
quando quella
voce sussurrata e rauca la riscosse dai suoi pensieri e si volse ad
osservare il giovane che, anche in quell'occasione, aveva disertato
la divisa per un abbigliamento più casual, simile a quello
che aveva
nella propria camera e che Brittany preferiva di gran lunga. La
stava osservando curiosamente, Hunter, evidentemente sorpreso al suo
stato d'animo evidentemente ansioso.
Era nervosa?
Quel mal di
pancia, se non fosse stato per il suo sguardo verde, sarebbe stato
più che comprensibile prima di un'importante esibizione.
Sentì le
guance imporporarsi, ma scostò una ciocca di capelli dalla
fronte,
il viso inclinato di un lato, ignorando il silenzio che si era spento
tra gli altri astanti che guardavano dall'uno all'altra con evidente
curiosità per quello scambio di parole, prima dell'inizio
delle
audizioni. “No, cioè, un po'... un
pochino”, indicò un'esigua
misura tra pollice e indice prima di tormentarsi le mani in grembo.
Il ragazzo
sciolse la
stretta delle braccia al petto, si chinò leggermente e
Brittany
trattenne il fiato. “Te l'ho detto: balla come ti ho
già vista e
sarà solo una formalità”.
Annuì,
lo sguardo
azzurro immerso in quello verde e la stretta allo stomaco
s'attenuò
mentre il rilasciava il respiro e nuovamente un sorriso le increspava
le labbra, appena ritoccate di lucidalabbra. “Grazie,
Hunter”,
sussurrò con voce flebile.
Le sorrise
nuovamente e
Brittany seppe che, qualunque cosa fosse accaduta, quel momento non
lo avrebbe dimenticato.
Sembrò
in procinto di
aggiungere qualcos'altro, Hunter, ma uno schiarimento di gola li fece
riscuotere : Kitty stava fissando dall'uno all'altro con aria
arcigna. Teneva una cartelletta su cui era appoggiato il modulo di
iscrizione al provino e batté il piede contro il pavimento.
Guardò
Brittany con il viso inclinato di un lato. “A quanto pare la
nostra
piccola Barbie sta cercando una nuova cosa”.
Arrossì,
Brittany, ma
Hunter si scostò per aprire la porta, facendo cenno a Kitty
di
precederlo, prima di rivolgersi agli astanti. “Vi
convocheremo uno
alla volta, per ordine di iscrizione”, istruì e
tutti i ragazzi
riuniti annuirono con aria nervosa ma concentrata.
Kitty
passò di fronte
agli studenti con aria autoritaria, insieme agli altri studenti
–
tre ragazzi che Brittany conosceva soltanto di vista - che dovevano
far parte del consiglio. Non aveva mancato di avvicinarsi alla
ragazza per sussurrarle un mellifluo: “Brutta mossa, Barbie,
brutta
mossa”, passò di fronte ad Hunter con un sorriso
ed entrò.
Quest'ultimo,
la mano
sulla maniglia, incrociò nuovamente lo sguardo di Brittany.
“Buona
fortuna a tutti, inizieremo tra poco”. Si era chiuso la porta
alle
spalle e la ragazza aveva sospirato, un nuovo sorriso ad incresparle
le labbra.
Come aveva
annunciato
Hunter, poco dopo la porta si schiuse e uno dei tre giudici che
Brittany non conosceva, chiamò all'esibizione il primo
candidato.
Brittany si
appoggiò
alla parete alle sue spalle e cercò di rilassarsi, almeno
fino a
quando non udì dei passi in avvicinamento. Camminando con
rapido
passo, Neal si stava avvicinando con aria trafelata: aveva un dolce
sorriso sulle labbra e Brittany si sentì nuovamente tendere
all'idea
che non gli aveva ancora dato la risposta tanto attesa. Sembrava
esservi, tuttavia, un patto implicito per cui il suo patrigno non ne
avrebbe più fatto alcuna menzione fin quando non fosse stata
pronta.
“Ho
saputo del
provino”, le disse con aria raggiante per poi inarcare le
sopracciglia, quando tutti i ragazzi si erano messi in posizione di
saluto. “Comodi, comodi, ragazzi”, aveva sorriso a
tutti. “Sono
qui solo come spettatore oggi: buona fortuna a tutti”.
Si era
nuovamente voltato
verso Brittany che lo aveva guardato sorpresa. “Non dovevi
disturbarti”, sussurrò con voce flebile.
“Stai
scherzando?”,
sembrava davvero scandalizzato all'osservazione. “Non mi
perdonerei
mai di esser mancato alla tua audizione: avrei voluto ci fosse anche
tua madre ma le ho promesso di raccontarle tutto”, le aveva
sorriso
entusiasta. L'attimo dopo le posò la mano sulla spalla.
“So che
per te non è stato facile adattarti a questo posto e alle
sue regole
ma sappi che sono fiero di te per aver avuto il coraggio di provarci
e per essere qui in questo momento, a prescindere dal
verdetto”,
aveva parlato in un sussurro ma Brittany aveva sentito gli occhi
inumidirsi e un dolce calore diffondersi in petto.
“Grazie,
Neal”,
sussurrò con voce più tremante. “E'
importante per me renderti
fiero”.
“Lo
stai facendo, sarà
meglio che entri adesso. In bocca al lupo!”. Le aveva stretto
nuovamente la spalla e si era avvicinato alla porta.
“Neal”,
il richiamo
era stato appena udibile ma si era voltato immediatamente.
Parve
tergiversare,
Brittany, ma lo guardò, il viso inclinato di un lato.
“Puoi...
puoi restare qui con me, fino alla mia audizione?”.
Lo scintillio
nello
sguardo di Neal fu di autentica gioia ed emozione. Annuì
prontamente
e rimase al suo fianco per tutto il tempo. Di tanto in tanto era lui
a rompere il silenzio, chiedendole se gradisse qualcosa da mangiare o
cercando di spronarla a prendere una boccata d'aria quando il numero
di aspiranti al Glee diminuì. Tra questi, anche Marley e
Ryder si
erano congedati, dopo che la ragazza l'aveva stretta con entusiasmo,
rivelando che il loro numero di coppia aveva riscosso il favore di
quasi tutti i giudici.
Evidentemente
doveva
essere stata l'ultima ad iscriversi, constatò, quando
rimasero
soltanto lei e Neal nel corridoio. Si volse verso il suo patrigno, le
sopracciglia inarcate e lo sguardo pensieroso. Mancavano pochi
istanti ma stava cercando di non pensare ossessivamente a quel
momento.
“Alla
cena coi
Clarington”, Brittany cercò di non arrossire.
“Hai detto che ti
sei innamorato della mamma, vedendola ballare”.
Aveva annuito
prontamente, Neal, le labbra increspate dello stesso sorriso.
“Tua
madre è apparentemente una donna sicura di sé,
forte, ironica e
incredibilmente schietta, a volte persino imbarazzante”,
aveva
annuito con enfasi, Brittany, facendolo ridacchiare.
Si fece
nuovamente serio,
Neal, come sempre molto coinvolto in quelle discussioni. “Ma
quando
l'ho vista ballare una sera, poco prima che iniziasse il corso, ho
visto il suo cuore: la passione, il lasciarsi andare malgrado la
paura e la fragilità. Ho visto una donna lottare per essere
se
stessa, anche quando il mondo sembrava volerla cambiare”. Il
suo
sguardo sembrava nuovamente contemplare quel momento, visto come si
era fatto distante. “Mi sono incantato: la stavo guardando
sognare
su quel pavimento e con una musica con cui fondersi. L'ho amata da
quel momento e ho capito che se l'avessi lasciata andare, me ne sarei
pentito per tutta la vita”.
Aveva sorriso,
Brittany,
lo sguardo trasognato. Avrebbe voluto approfondire ulteriormente
quella conversazione ma quando la porta fu schiusa e fu pronunciato
il suo nome, sentì il respiro mancarle.
“Lasciati
andare”,
aveva sussurrato Neal che le trattenne la porta aperta e le
strizzò
l'occhio con fare incoraggiante.
Sorrise,
Brittany (aveva
la sensazione che se avesse provato a parlare, la nausea l'avrebbe
sopraffatta) ed avanzò nella stanza. Non era cambiata
dall'ultima
volta che vi era entrata a parte che, di fronte alle vetrate a
specchio, vi era una lunga tavola rettangolare, dietro alla quale
erano schierati i cinque del Consiglio: Kitty e Hunter al centro in
quanto Capitani delle due divisioni.
Rilasciò
il respiro e si
fermò al centro della stanza. Neal, che sembrava esser
divenuto
cinereo, aveva fatto un vago cenno ai cinque perché si
accomodassero
di nuovo, e si era appoggiato al pianoforte, dopo averne quasi fatto
cadere gli spartiti, sotto lo sguardo gelido di Kitty che aveva
levato gli occhi al cielo. Un verso di divertimento sfuggì
dalle
labbra di Brittany, ma almeno la tensione sembrò svanire e
rivolse
un sorriso al patrigno prima di concentrarsi.
“Hai
tre minuti”, le
disse Kitty in tono spicciolo, appoggiandosi alla sua sedia, le
braccia incrociate al petto e lo sguardo torvo in sua direzione.
Annuì,
Brittany, che si
affrettò a porgere il cd al giovane addetto allo stereo,
indicandogli la traccia da inserire e tornò rapidamente al
centro
della stanza. Socchiuse gli occhi, isolando tutto il resto e
ricercando la concentrazione necessaria. Un solo istante, prima di
lasciarsi andare e incontrò lo sguardo di Hunter che si era
sporto
maggiormente dalla sua postazione e le fece un impercettibile cenno
di assenso. Un altro sguardo per Neal e si disse che avrebbe
trionfato per loro soltanto e la fiducia dimostrata.
Ancora una
volta, la
musica sembrò compiere il suo prodigio: isolò
tutto il resto e si
lasciò andare, ogni movimento perfettamente armonico e
conseguente
all'altro in un'unica sequenza nella quale sentì nuovamente
l'energia e la sua stessa anima fiorire nel loro culmine. Fece
ciò
che Neal aveva detto della madre: lottò per affermare la sua
vera
identità e lasciar andare la sua passione e il suo stesso
sogno ad
occhi aperti.
Aveva il volto
arrossato
alla fine della melodia, ma i cinque volti erano imperscrutabili:
soltanto Neal si stava letteralmente spellando le mani a forza di
applaudire, lo sguardo raggiante ed evidentemente orgoglioso.
Brittany ne ricambiò il sorriso e rilasciò il
respiro, roteando
leggermente su se stessa e scostandosi i capelli dal viso mentre
Hunter si schiariva la gola per coprire il suono prodotto dall'uomo e
Kitty levava gli occhi al cielo.
“Ti
ringrazio,
Brittany”, arricciò appena l'angolo delle labbra.
“Devo
chiederti di accomodarti fuori, Signor Johnson, non vi faremo
attendere molto”. Aveva commentato in tono rassicurante e
Brittany
si era sentita notevolmente sollevata, mentre Neal la raggiungeva e
le apriva l'uscio, la mano sulla schiena e un sorriso raggiante.
Stava varcando la soglia dell'uscio, Brittany, quando Kitty si volse
verso Hunter, le sopracciglia inarcate. “Spero ti sia reso
conto,
Hunter, che sono mosse da svenevole cheerleader e neppure molto
aggraziate”.
Aveva sentito
il cuore
fermarsi in petto e si era morsa il labbro. La risposta di Hunter fu
lapidaria, per quanto proferita con il suo tipico tono composto.
“Dissento, ma procediamo alla votazione”.
Lei a Neal
attesero
silenziosi fuori della stanza, pochi istanti ma parvero snervanti
come quelli precedenti all'audizione stessa prima di poter nuovamente
entrare.
Erano tutti
seduti ad
eccezione di Hunter che le rivolse un sorriso. “Per decisione
quasi
unanime”, Kitty la fulminò con lo sguardo.
“Sei ammessa al Glee
Club. Allenamenti a sere alterne alle 21: avrai una licenza per il
coprifuoco. Puoi congedarti e congratulazioni”.
Cercò
di trattenere
l'entusiasmo nel rivolgere il saluto militare alla schiera di giudici
prima di uscire nuovamente: fu un momento di pura complicità
quello
in cui lei e Neal risero.
“Sei
stata
straordinaria: non avevo alcun dubbio ovviamente. Anzi, mi sorprende
che il verdetto non sia stato unanime, ma non importa: ce l'hai fatta
ed è ciò che conta”.
Aveva annuito,
lo stesso
sguardo raggiante. “Grazie, Neal, di tutto”, aveva
sussurrato,
certa che il suo incoraggiamento e la sua compagnia prima del momento
cruciale fossero stati più che indispensabili al
rilassamento che le
aveva concesso di esprimersi al meglio.
“Posso
dirlo io a tua
madre?”.
Rise del suo
entusiasmo
tutt'altro che propenso a scemare ma annuì e lo
seguì con lo
sguardo fin quando non si allontanò, il cellulare tra le
mani e il
sorriso orgoglioso.
“Ha
ragione, lo sei
stata davvero”.
Si era
voltata, il
sorriso ancora sulle labbra nell'osservare il ragazzo. Tutti i
giudici lasciarono la stanza, uno dei tre sconosciuti le strinse la
mano, rinnovandole i complimenti; gli altri due le sorrisero con aria
d'approvazione. Soltanto Kitty si limitò a riservarle
un'occhiata
astiosa ma si allontanò senza alcun commento.
“Ti
ringrazio”, aveva
sussurrato e sperava che Hunter comprendesse che il ringraziamento
non si limitava a quel complimento, ma a tutto a ciò che
aveva
fatto, dalla prima volta che l’aveva scorta ballare e
l’aveva
spronata a sostenere il provino.
“Ora,
con tuo permesso,
vorrei informare Lord Tubbington”.
Aveva sorriso
il ragazzo,
l'aria divertita. “Permesso accordato”, le fece
cenno di
precederlo e procedettero insieme lungo il corridoio.
“Quindi”,
Brittany ne
stava scrutando il profilo. “Ti vedrò
ballare”, concluse con
aria soddisfatta, il sorriso repentino sulle labbra nell'osservarlo
con aria divertita.
Hunter si
volse ad
osservarla: un'occhiata imperscrutabile prima che inarcasse le
sopracciglia per poi scuotere il capo.
“Irriverente”, borbottò
per risposta, strappandole una risata di puro divertimento. Non disse
altro, il ragazzo, ma dalla piega delle labbra sembrava lui stesso
mascherare il sorriso.
~
Era divenuto
qualcosa di
naturale: quasi la sua voce e i suoi giochi con i gatti fossero
divenuti parte stessa di quelle pareti. Hunter si sorprendeva sempre
più spesso a realizzare quanto fosse stato semplice
abituarsi alla
sua presenza, quasi fosse sempre stata parte di quella sua
quotidianità. E senza che, considerandone l'indole
riservata,
provasse una sgradevole sensazione d’invasione dei suoi
spazi.
Anche quando non presente, si ritrovava a lasciar vagare lo sguardo
sull'angolo del divanetto sul quale si adagiava a coccolare il suo
enorme felino (immaginava che sollevarlo fosse un dispendio di non
poche calorie) o i punti in cui lanciava la pallina che Mr Pussy si
affrettava a cercare di catturare per poi inseguirla o inciampare
sulla stessa. Quest'ultimo poi era lesto, al suo arrivo, ad
avvicinarsi per strusciarle il musetto sulla caviglia, farle le fusa
per accattivarsene la compagnia e una dose di coccole che non fosse
inferiore a quella destinata al proprio animaletto. Sembrava esserci
tutt'altra atmosfera rispetto a quel silenzio imbarazzato, quando la
scorgeva le prime volte e si premuniva di non produrre il
benché
minimo rumore durante la sua lettura per il timore di essergli di
disturbo. In realtà, capitava sempre più di
sovente che, pur
concentrato sulla lettura, sollevava lo sguardo oltre le lenti per
osservarne il sorriso o l'espressione pensierosa e quella
più
malinconica e stanca (giorni in cui, presumeva, Kitty le avesse
affibbiato incombenze più gravose).
Lei stessa
sembrava
essere cambiata: non era la ragazza permalosa, puerile e testarda in
cui si era imbattuto che gli negava ogni speculazione sulla sua
estraneità a quell'ambiente. Al contrario ne sembrava
più che
consapevole ma questa fragilità sembrava divenuta il suo
punto di
forza per cercare di riscattare l'opinione generale, soprattutto
quello della sua aguzzina personale. Si domandava se lei stessa si
rendesse conto di quella lenta evoluzione che gli faceva credere che
quell'ambiente la stessa aiutando a crescere.
Di certo, la
loro
interazione era cambiata ed era qualcosa di tangibile e palpabile
persino ad occhio esterno, a giudicare dalle occhiate che avevano
attratto quel giorno.
Non aveva
cambiato idea
circa la sua poca appartenenza a quel contesto, ma era ammirevole
come stesse riuscendo ad integrarsi. Continuava a pensare che la sua
motivazione dovesse forgiarsi di qualcosa di più forte della
semplice volontà di cambiamento. Aveva idea risiedesse in
uno
spirito di sacrificio o un senso di colpa latente, qualcosa che
affondava le radici nel rapporto con la madre (la quale pareva
tutt'altro che una persona rancorosa, senza contare la sua adorazione
per la figlia) e che probabilmente lei stessa ignorava ma che rendeva
ogni sua decisione al riguardo già improntata in uno stampo
di cui
non si sarebbe facilmente liberata. Ma era stato pochi giorni prima
(e poco prima ne aveva avuto la conferma), che aveva compreso quale
fosse la sua vera aspirazione. Qualunque attività avesse a
che fare
con la danza, avrebbe dovuto vederla primeggiare: c'era qualcosa di
unico e particolare nell'osservarla in quegli istanti. Era il modo in
cui i movimenti disegnavano perfettamente l'aria, il modo in cui
fosse tutto armonico e poetico, come il sorriso sulle sue labbra o lo
sguardo divenuto più intenso a contemplare se stessa.
Così la sua
figura era rivestita di una femminilità e di una grazia che
aveva
scorto in modo evidente, nascoste spesso in una divisa che la
infagottava in modo ingeneroso o in uno sguardo più spento e
desolato.
Sapeva
già da quel
mattino, quando aveva sorriso a vederne la firma svolazzante (l'unica
in rosa, tra l'altro, e spiccante tra tutte le altre) sul modulo dei
candidati alle audizioni, cosa avrebbe dovuto aspettarsi. Ma
ciò non
aveva tolto fascino ed entusiasmo a quel momento di grande
aspettativa.
Fu in quel
momento che si
accorse che la giovane, Mr Pussy arrotolato tra le sue braccia le cui
zampette ne sfioravano il volto, lo stava guardando e che
evidentemente non aveva risposto ad una sua domanda. “Vuoi
che
esca? Non voglio disturbarti”, ripeté in un
sussurro, accennando
al libro rimasto ignorato negli ultimi istanti, la matita abbandonata
sullo stesso.
Scosse il capo
bruscamente e tolse gli occhiali. “Non preoccuparti, ho
finito”,
le disse in tono composto, lo sguardo nuovamente catturato dal modo
in cui Mr Pussy si stava sfregando sotto il suo mento, strappandone
una risatina divertita nel carezzarne il mento.
Si era alzato,
sentendo
le gambe intorpidite, ed aveva osservato l'orologio con
un'espressione di vaga sorpresa. “Andrò alla
mensa, vuoi che ti
porti qualcosa da mangiare?”.
Non sembrava
essere
affamata, il che poteva essere spiegato dalla quantità
(industriale)
di leccornie con cui si era intrattenuta dopo l'audizione. Aveva
scosso il capo, Brittany, ancora sorridente e i capelli ondeggiarono
sulle spalle. “Mangerò più tardi, ti
ringrazio”.
Annuì.
“A dopo”, si
congedò.
C'era qualcosa
di
rassicurante al pensiero che, seppur per un gatto, la sua presenza
avrebbe ingentilito quelle pareti e quella fragranza alla fragola
sarebbe rimasta sospesa tra le stesse, almeno fino a quando, con
quelle movenze agili, non sarebbe uscita. Scosse il capo a quel
pensiero stucchevole, ma ebbe la netta sensazione del suo sguardo
limpido addosso, fino a quando non ebbe varcato la soglia della
porta.
“Sai,
forse dovrei
dirglielo che mi piace anche lui e non solo tu... ma è un
segreto
tra noi, vero?”, aveva sussurrato e Mr Pussy aveva miagolato
in
risposta.
Non si era
neppure
accorto di star sorridendo, Hunter, almeno fino a quando non
varcò
la porta del repertorio: Finn Hudson, che stava ingozzandosi con aria
beota di spaghetti, restò folgorato. Se ciò fosse
dovuto al terrore
che gli innescava o al fatto che stesse sorridendo, non avrebbe
saputo dirlo. La polpetta, infilzata con la forchetta, gli cadde in
grembo e con un “CAVOLO!”, cercò di
pulirsi maldestramente con
una salvietta pulita.
Sospirò,
Hunter, e
distolse lo sguardo, sperando che quell'immagine non gli rovinasse
l'appetito.
“Qualcuno
sembra di
ottimo umore”, fu il commento di Jonathan, il vassoio
già tra le
mani e un posto al tavolo degli insegnanti già prenotato.
Il figlio
scrollò le
spalle. “Hudson ha sempre la faccia ebete di fronte ad un
piatto:
stavo pensando di proporre a Mrs Rose di usare del fango al posto del
sugo per un esperimento”.
“Ma
io non parlavo di
lui”, fu la pacata risposta del padre che l'attimo dopo si
fece
serio. Sotto lo sguardo interdetto del figlio, dopo essersi posto il
vassoio sul palmo di una mano, si sporse a prendere un pelo che era
rimasto sulla sua divisa e sembrò analizzarlo con la stessa
meticolosità di un chirurgo che debba trovare il giusto
lembo di
tessuto sul quale operare. “Non sapevo che Clarence stesse
diventando brizzolato”, aveva commentato, un angolo delle
labbra
sollevato e un guizzo complice nello sguardo.
Fu un solo
fatale istante
quello in cui (e non era una delle domande meno bizzarre che si fosse
posto) si domandò se lui e Neal non avessero parlato persino
del
gatto obeso che
non avrebbe
dovuto trovarsi in
quell'Accademia. “Credo che andrò a
mangiare”, borbottò e si
volse prima che potesse aggiungere qualcosa.
Non c'era nulla
di
strano,
si disse, in quello che aveva appena fatto. Insomma,
aveva mangiato qualcosa di leggero e gli era casualmente,
caduto l'occhio su un dolcetto guarnito di fragole che aveva
immaginato fosse stato preparato per uno sfizio personale della
cuoca, visto il menù monotono e proteico che era studiato
per
l'alimentazione degli studenti. E comunque non sarebbe stata certo
obbligata a mangiarlo: magari avrebbe scoperto che era allergica alle
fragole. Aveva senso spruzzarsi addosso la fragranza di un frutto a
cui si era allergici?
Si costrinse a
rientrare
prima che il suo raziocinio fosse davvero tentato di dare una
risposta al quesito. Schiuse la porta e Mr Pussy miagolò in
sua
direzione e scese dal divanetto con un movimento agile per
raggiungerlo. La ragazza, come notò subito, era stesa, le
braccia
ancora piegate in quella sorta di culla in cui aveva ospitato il suo
gatto e si era assopita. I capelli ricadevano sul bracciolo del
divano come grano lucente, le labbra ancora increspate in un sorriso
e il respiro lento e graduale.
Muovendosi
senza fare
rumore, appoggiò il dolcetto sulla scrivania e
sembrò indeciso per
qualche istante se dovesse svegliarla o meno: Lord Tubbington lo
osservava con aria circospetta, appollaiato sull'altro bracciolo,
mentre vegliava il sonno della padrona. Gli dispiaceva l'idea di
disturbarne il riposo sereno come quello di una bambina.
Si
chinò lentamente,
dopo aver preso una risoluzione, e la prese tra le braccia per poi
sollevarla, attento a non scuoterla troppo. Emise un mugugno soffuso,
Brittany il cui viso, con un movimento simile a quello di un micio
che si arrotoli nella sua cesta, si appoggiò al suo petto,
ma non si
mosse. Un solo istante quello in cui indugiò ad osservarne
l'espressione ancora beata e completamente abbandonata al sonno. Il
tempo era parso fermarsi in quel lungo istante nel quale, nel sonno
della ragazza, sembravano esserci risposte e verità che
aveva
ignorato fino a quel momento. Un senso di completo abbandono, di
serenità e di naturalezza che sembravano non appartenergli
più.
Si riscosse e
raggiunse
il suo letto: ancora attento a non compiere movimenti bruschi, la
stese sullo stesso. Ne scostò una ciocca di capelli che le
scivolata
sulle labbra, una traccia impercettibile che le sue dita lasciarono
sul suo zigomo. Si mosse, la ragazza, sembrò volgere il viso
alla
ricerca dell'ulteriore contatto con le sue dita.
Si
allontanò e aprì
l'armadio per trarne una coperta pesante che adagiò sul suo
corpo
per poi puntellarla, ma fu un soffio appena percepibile quello che ne
uscì dalle labbra.
“Per
la cronaca, mi
piaci anche tu”.
C'era silenzio
anche
quella sera ma, per la prima volta da quando era solo un bambino,
mentre s’improvvisava un giaciglio nel proprio divano,
sembrò
promettere che tutto sarebbe andato bene.
Ti
guardo dormire tranquillamente nel mio letto,
tu
non lo sai adesso ma
ci
sarebbe bisogno di dire qualcosa.
E'
tutto ciò che posso capire,
è
più di quanto possa sopportare.
(Hazy
– Rosi Golan)
To
be continued...
Si tratta della scena,
capirete perché lo specifico se già non lo
sospettate, in cui il Principe Filippo sorprende Aurora mentre balla
nel bosco. Per chi fosse interessato alla melodia, ecco qui il link
della performance di Emily Osment con il riadattamento più
moderno (video musicale inserito nel dvd restaurato nel 2008, in
occasione del cinquantesimo anniversario dell'uscita del lungometraggio
del 1959 ). Once Upon
A Dream - Emily Osment
Per chi volesse
sentire il brano e vederne il testo originale: Hazy -
Rosi Golan
Personalmente
questi momenti sono tra i miei preferiti: non fosse altro
perché
spesso ritengo che la parte dell'innamoramento e della presa di
coscienza risultano persino più dolci della scena romantica
di per
sé. Non so quanto sia condivisibile questo pensiero, ma
spero la
lettura sia stata gradevole quanto lo è stata la stesura.
Ci
tengo, come sempre, a ringraziare chiunque legga, soprattutto le mie
fedeli e dolcissime recensitrici *manda unicorni galoppanti con tanti
cuoricini per ognuna
Ma
diamo un'occhiata al prossimo capitolo:
“E'
più distratta del solito o sbaglio?”
“Altroché! Una bella
distrazione che si chiama-”. “MAMMA!”.
“Io
vorrei ringraziarti, Brittany” “Me?”
“Per una cosa, anzi due.
La prima è perché non ti addormenti
più durante le mie lezioni...”
[…]
“Hunter?”
“Sì?” “Io...”
“Hunter! Giusto in tempo per la torta!”
“Signore...” “Vieni dentro! Prendi la
torta con Brittany,
Shirley e me”.
Credo
che con il ghigno/sorriso appena apparso sulle labbra, non mi resta
che augurarvi un buon weekend :)
Un
saluto a tutti,
Kiki87
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 ***
capitolo 7
«C'era
una una volta un castello incantato, il suo padrone sembrava gelido
come l'inverno. Nel profondo del suo cuore era intrappolata una
rabbia incontenibile. Sebbene circondato da servitori, egli era del
tutto solo e da un semplice atto di gentilezza, egli seppe che
qualcuno si preoccupava che il Natale quell'anno trascorresse
scambiandosi dei semplici doni. Ma il regalo più grande che
ognuno
ricevette fu il dono della speranza.»
Lumière:
"C'è qualcosa nell'aria: potrebbe essere amore!"
Fife:
"Amore?! Ah, ah, ah, ah, AHH, devo fermarli!".
[Citazioni
da “La Bella e la Bestia: un magico Natale -Walt Disney]
Capitolo 7
Quando
schiuse gli occhi
non riconobbe la camera in cui si trovava: si rese conto, tuttavia,
che non c'erano i soliti rumori che ne accompagnavano il risveglio
come il russare di Lauren dall'altra parte della stanza o la presenza
del braccio di Marley che penzolava dal letto superiore.
Sbatté
le palpebre,
strofinandosi la mano sul viso e realizzò
che
indossava
ancora i panni del giorno precedente. Lord
Tubbington le si accoccolò in grembo con tanto di fusa e
Brittany
sorrise nello sfiorarne il manto tigrato. Il ricordo del giorno
precedente parve fulminarla sul posto e si sollevò con il
torso.
Nello stesso istante, la porta della camera fu schiusa ed Hunter ne
valicò la soglia: era già vestito di tutto punto,
aveva l'aria più
che attiva e reggeva due tazze. Le rivolse un cenno del capo e la
ragazza cercò di dissimulare l'imbarazzo che le
sfiorò le gote a
realizzare di aver trascorso l'intera notte nella sua camera, persino
occupandone il letto, anche se era quasi certa di essersi appisolata
sul divano, o almeno ciò era l'ultimo ricordo della serata
precedente.
L'idea che
l'aveva
persino deposta sul letto, le procurò un singulto d'emozione
e un
nuovo batticuore ma il ragazzo sembrava perfettamente composto, come
sempre. “Stavo per svegliarti”, le disse
nell'avvicinarsi, il
viso inclinato di un lato. “Hai tempo di sgattaiolare prima
che le
altre si sveglino”.
“I-Io,
mi dispiace.
Avresti dovuto svegliarmi: sarei tornata in camera mia”, si
era
morsicata il labbro. “Non dovevo dormire sul tuo letto, anche
se è
comodissimo”.
Aveva sorriso
vagamente
divertito il ragazzo. “Mi fa piacere”, convenne, ma
scosse il
capo. “In realtà ti ho spostata io: ti eri
addormentata sul
divano”.
Brittany
notò la coperta
che era stata ripiegata e che doveva aver estratto dall'armadio per
potersi coprire.
“Non
avresti dovuto
disturbarti tanto, fai già
molto
per
me”, aveva ammesso, le guance ancora
colorate.
Si strinse
nelle spalle
Hunter. “Non hai motivo di scusarti:
se
mi fossi stata di disturbo, ti avrei svegliato o avrei chiamato
Kitty. Buttarti giù dal letto credo sia una sua
specialità”,
aveva aggiunto con aria complice e persino Brittany si concesse di
sorridere, seppure la sola idea che li scorgesse in quel momento era
sufficiente a procurarle un singulto terrorizzato.
Prese la tazza
che lui le
porgeva con un sussurrato ringraziamento, immaginando del
caffè o
del the ma sorrise con aria meravigliata dopo averne sorseggiato un
sorso. “Cioccolata?”.
“Mi
sembravi il tipo da
cioccolata”, rispose lui con una scrollata di spalle.
“Perché
sono una
ragazza?”, aveva chiesto d'impulso.
“Perché
sei dolce,”
fu l'istintiva risposta, ma parve sussultare lui stesso l'attimo
dopo, perché si affrettò a correggersi.
“e
da quanto ho notato con
le merendine,
sei piuttosto golosa”.
Aveva annuito,
Brittany,
malgrado il rossore, ma gli aveva nuovamente sorriso. “E'
perfetta,
rischio di passere l'intera giornata a ringraziarti”, aveva
aggiunto in tono divertito.
Si
crogiolarono in quel
lieve silenzio sceso tra loro, si era accomodato sul bordo del suo
stesso letto a sorseggiare la sua tazza – si era chiesta se
lui
fosse tipo da caffè amaro o se avesse fatto a sua volta uno
strappo
alla regola – e Brittany aveva lasciato vagare nuovamente lo
sguardo sulla camera e i primi placidi segni di luce dall'esterno.
Aveva notato, sulla scrivania del giovane, le fotografie che
raccontavano della vita in Accademia, una foto con il padre, ma
nessuna fotografia della donna che era scomparsa, quando era solo un
bambino e neppure di Kitty (e ciò l'aveva fatta segretamente
sorridere con aria soddisfatta).
Sussultarono
al suono
della sveglia del ragazzo e Brittany realizzò che da
lì a pochi
minuti sarebbe suonata la tromba e avrebbe dovuto trovarsi nella sua
camerata per non destare sospetti. “Sarà meglio
che vada”, si
affrettò a sollevarsi dal letto, depose una carezza sulla
testa dei
felini e si affrettò ad avvicinarsi alla porta, accompagnata
dal
ragazzo.
Indugiò
sulla soglia
dell'uscio, tuttavia. “La migliore cioccolata di
sempre”,
sussurrò, dondolando appena le braccia strette in grembo.
“Sono
certo che si
tratti di una lode più che ponderata, farò in
modo che Mrs Rose la
riceva”, le trattenne l'uscio aperto. “E ora
sparisci, prima che
Kitty ti scopra”. Aveva parlato in tono leggero,
l'intonazione
canzonatoria e complice, ma Brittany aveva sussultato alla
realizzazione di ciò che avrebbe potuto significare. E
quanto la sua presenza potesse essere di troppo o dare adito ad
equivoci.
Si era morsicata il labbro, ma aveva annuito,
cercando di ignorare quella sensazione sgradevole di un nodo a
stringerle la gola.
“Brittany?”.
Si volse
istantaneamente:
Hunter sembrò indugiare, la figura che occupava totalmente
la soglia
della camera. Sembrava avere difficoltà a trovare qualcosa
da dirle.
O forse non erano le parole a mancare, ma vi era la consapevolezza
che non era il momento giusto. Aveva scosso il capo, Hunter, che
sembrava in dissidio con se stesso. “Spero tu abbia dormito
bene”,
concluse, le braccia strette al petto.
Aveva sbattuto
le
palpebre, Brittany, la vaga sensazione che ci fosse ben altro di
sottinteso, seppure non capisse esattamente che cosa.
Annuì,
tuttavia, un sorriso nello scostarsi i capelli dal volto.
“Mai così
bene”, aveva sussurrato, infine, la voce più
flebile.
Parve
rilassarsi, Hunter,
che si concesse un altro sorriso. “Bene, sarà
meglio che
ti lasci andare”.
“Bene”,
aveva
ribattuto lei, voltandosi dopo un ultimo cenno della mano.
~
Per quanto la
vita in
Accademia fosse ancora dura, soprattutto per grazia
dell'inflessibilità di Kitty, il tutto sembrava essere
compensato
dalle ore trascorse al Glee Club. Era la prima volta che Brittany si
trovava coinvolta in un progetto di gruppo, ma era non poco
soddisfacente sentirsi gratificata per un'attività nella
quale
poteva totalmente investire se stessa e con ottimi risultati. Persino
Kitty doveva rendersene conto perché sfogava le
frustrazioni,
concentrandosi su Marley, la vittima preferita, prima del suo arrivo
in Accademia.
Era di gran
lunga
piacevole lasciare il campo d’allenamento e potersi dedicare
ad
un'attività fisica che avveniva in un luogo chiuso e al
caldo,
soprattutto con l'avvento dell'inverno e il freddo persino
più
pungente (Kitty avrebbe continuato a farle allenare anche con la
neve?), e abbandonarsi ad un'atmosfera più distesa e meno
formale.
In quell'aula si potevano, entro certi limiti naturalmente, porre da
parte persino le differenze di gradi ed essere uniti per un obiettivo
in comune.
Era stata
durante
l'ultima prova prima della pausa natalizia e si era diretta all'aula
di danza con un po' d’anticipo, nella speranza di un po' di
tempo
per esercitarsi prima dell'arrivo degli altri ma, ancora prima di
varcare la soglia della camera, realizzò di non essere stata
l'unica
ad avere avuto quell'idea. Sentì una voce maschile che
riconobbe con
un sorriso, malgrado stesse intonando una canzone. Si
avvicinò
incuriosita, attratta dal timbro profondo e piacevole, tanto da farla
letteralmente sospirare nell'avvicinarsi alla soglia, almeno fino a
quando non scorse Kitty.
Poteva ben
immaginare
perché Hunter l'avesse definita la voce femminile del
gruppo: dai
suoi modi così autoritari e bizzosi, non avrebbe immaginato
che
potesse a sua volta avere una voce tanto incantevole nel canto, il
timbro persino dolce.
Restò
appollaiata
all'uscio con un sospiro: doveva ammettere, con un nodo in gola, che
non soltanto le loro voci erano perfettamente armonizzate ma che
sembravano persino... perfetti insieme. Specialmente quando lei gli
si avvicinò con quel sorriso più allusivo e
smaliziato e sentì il
respiro mancarle. Dovette scostarsi dalla porta, le guance arrossate
e la contrazione dolorosa in petto. Guardarli in atteggiamenti da
innamorati era decisamente insopportabile ma se ciò facesse
di lei
una persona meno buona, non poteva negarsi quella sensazione di puro
fastidio.
“Brittany?”.
Non si era
resa conto di
aver letteralmente spezzato il bastoncino di zucchero che aveva tra
le dita, mentre ripensava a quel momento.
Sua madre,
ancora intenta
a decorare la casetta di marzapane, le rivolse un'occhiata
incuriosita. Parve illuminarsi alla vista del bastoncino troncato in
due e ammiccò con fare complice e divertito.
“Qualche
Hunter-pensiero?”, le chiese in tono accattivante.
“... dubito si
spezzi in quel modo, ma sono sicuro che tutta questa grinta sarebbe
interessante per lui”.
“Mamma!”,
protestò
la ragazza con le guance infiammate, mordicchiando una delle
estremità della caramella.
Si era pulita
le mani con
un canovaccio, Shirley. “Prima sospiri e poi ti
rabbui”, si era
sporta in sua direzione. “Sentiamo, che ha fatto quella
strega?”.
Gemette
scandalizzata:
non tanto l'uso di quell'epiteto quanto la facilità con cui
sembrava
leggerle il pensiero. “Non è una strega:
è il mio Capitano e mi
odia”, aveva replicato con una scrollata di spalle che aveva
fatto
ridacchiare sua madre.
“Che
strano!”,
esclamò in tono evidentemente ironico.
“Non
c'entra... lui.”
di fronte al sopracciglio inarcato della madre, si affrettò
ad
aggiungere: “Ok, non soltanto lui”. Aveva abbassato
la voce,
sentendo Neal canticchiare in salotto. “E poi... forse stanno
davvero insieme”.
Aveva
inarcato le sopracciglia, Shirley, le mani sui fianchi.
“Quindi
quando sei nella sua camera, la nasconde sul soffitto?”,
aveva
replicato la madre, le labbra contratte a cercare di nascondere il
sorriso. “Davvero un latin-Hunter”.
“Potresti
smetterla di ripetere il suo nome?”. L'aveva supplicata, la
voce
evidentemente più incerta ed insicura, gettando un'occhiata
al
soggiorno per sincerarsi che Neal non sentisse.
“Hunter,
Hunter, Hunter, Hunter, Hunter”. Aveva
ridacchiato l'altra, prendendo l'altra metà del bastoncino
di
zucchero con la medesima passione per i dolci.
“Molto
matura”. Aveva
esibito un bel broncio, Brittany.
“Disse
colei che si era
sporcata il naso di glassa”.
“Non
è ve-”, trasalì
quando sua madre si sporse a toccarle il viso con un sorriso furbo.
“Magari
vi rivedrete:
Neal mi parla così tanto di Jonathan che potrei quasi
sospettare
stia cercando di darmelo in marito”.
Aveva
ridacchiato,
Brittany, ma aveva scosso il capo. “Magari”,
ripeté.
“Sempre
che tu possa
sposare un fratellastro”, aggiunse l'altra in tono indolente,
una
vaga scrollata di spalle, quasi si stesse realmente ponendo la
questione.
Era notte quando
Brittany aveva bussato discretamente alla sua porta: il giorno dopo
sarebbe tornata a casa per le vacanze natalizie che avrebbero passato
in quella stessa città. Era il momento propizio per
riprendersi Lord
Tubbington. Evidentemente il ragazzo la stava attendendo
perché
schiuse subito l'uscio: teneva il gatto tra le braccia e Brittany lo
prese con un sorriso, stringendolo a sé e gli rivolse un
sorriso.
“Grazie di
tutto”,
aveva sussurrato.
Scosse il capo,
Hunter. “L'ho fatto con piacere”, le aveva detto
con un sorriso.
Avevano indugiato
qualche istante, probabilmente non lo avrebbe rivisto per due
settimane e non poté evitare di sentire quel nodo in gola.
“Buon Natale,
Hunter”, si era sollevata istintivamente sulle punte per
appoggiare
appena le labbra contro la sua guancia, ma non aveva potuto impedirsi
di sentire una scarica elettrica lungo la spina dorsale, soprattutto
di fronte alla luce dello sguardo verde e l'incrinatura più
dolce
delle labbra.
“Ci rivedremo
presto, ma intanto…”, si era chinato appena e, una
mano a
scostarle i capelli con un gesto semplice e naturale, aveva
appoggiato le labbra sulla sua fronte.
Aveva socchiuso
gli
occhi la ragazza, cercando di indugiare in quel momento, quasi
potendone trarre quanto di meraviglioso celasse.
“Buonanotte”.
“Notte,
notte”. Si
era voltata, ma le era piaciuta l'idea che non avesse chiuso la porta
fino a quando non aveva svoltato l'angolo ed era scomparsa dalla sua
vista.
“Brittany?”.
Si riscosse
nuovamente e
sua madre le sorrise, il fidanzato alle sue spalle.“Neal ci
stava
chiedendo se volessimo andare con lui a cena fuori”, le fece
presente.
“Certo,
vado subito a
cambiarmi”, aveva sorriso ad entrambi
e si
era affrettata a scendere dallo sgabello per non subire un nuovo
interrogatorio.
“E'
più distratta del
solito o mi sbaglio?”, Neal che aveva cinto la vita della
donna e
appoggiato il mento alla sua spalla, ne stava studiando il profilo
con le sopracciglia inarcate.
Sorrise,
Shirley,
volgendo appena il viso ad osservarlo.
“Altroché!”, esclamò con
voce squillante. “Una bella distrazione che si
chiama-”.
“MAMMA!”,
ne
sentirono l'esclamazione rimbombare in tutta la casa e risero
entrambi.
“In
effetti, forse
dovremmo continuare la conversazione tra donne”, Shirley
aveva
baciato la guancia dell'uomo per poi divincolarsi dolcemente.
“Immagino
non ci sia
alcuna probabilità che io sia incluso”, aveva
domandato, un vago
sorriso divertito e la donna si era voltata a guardarlo.
Inclinò
il viso di un
lato, le sopracciglia inarcate. “Pronto a preoccuparti di
ragazzi e
appuntamenti?”.
Aveva
deglutito a fatica,
Neal. “Decisamente no”.
Aveva
scrollato le
spalle, Shirley. “Allora prendo congedo, Signore”,
aveva imitato
il gesto militare con tono enfatico prima di sgattaiolare fuori della
cucina. “Britty Woman, non abbiamo finito!”.
Sorrise, Neal
e scosse il
capo. Era tutto perfetto. Si sporse con il dito proteso verso il
tetto della casetta di marzapane.
Almeno fino a
quando non
sentì un deciso: “Non provarci
neppure!”. Scorse la donna
appoggiata alla porta che lo guardava con aria minacciosa.
Rise e scosse
il capo.
Quasi perfetto.
~
Il Natale con
mamma e
Neal si era rivelato molto più piacevole di quanto si
sarebbe potuta
immaginare. Solo, Brittany aveva percepito un lungo momento
d’apnea
nel momento in cui, di fronte a quello sguardo raggiante, aveva
scartato il regalo del suo patrigno, quasi quella busta gialla
contenente i documenti relativi all'adozione, pesasse tra loro come
un macigno.
Li aveva
osservati a
lungo, sua madre e Neal, seduta sulla rampa delle scale che
conducevano al piano superiore, stringendosi le ginocchia al petto,
avvolta nella sua camicia da notte.
Stavano
lavando i piatti
al lavello, giocando e sorridendosi come se la loro unione fosse nata
da ben prima. Vi era una tale armonia e una sensazione di calore e di
famiglia cui avrebbe voluto prendere parte, ma sembrava ancora non
esser giunto il momento in cui ciò sarebbe stato naturale e
spontaneo e Brittany cominciava a domandarsi, con crescente ansia,
quando sarebbe accaduto. E se ci fosse qualcosa di sbagliato dentro
di sé che lo stava impedendo.
Natale era
presto passato
e il nuovo anno sarebbe cominciato con la festa organizzata da Neal e
che Shirley aveva appoggiato con il solito entusiasmo alla
prospettiva di conoscere nuove persone ed includere quelle
già
incontrate in quei mesi.
Da parte
propria,
Brittany non aveva provato una simile fibrillazione neppure al ballo
o tanto meno dedicato così tanto tempo (con correlativa
trepidazione
e timore) alla scelta dell'abito, del make up e dell'acconciatura. Ma
non poteva negare che l'occasione che si stava presentando era
più
che allettante, seppur non proclamata (ma certa che sua madre lo
avesse già capito, visto come lo sguardo azzurro scoccasse
in sua
direzione con aria saputa).
Era
già in salotto, il
drink in mano e gli occhi che saettavano tutto attorno, tra visi ed
abiti diversi, trasalendo ogni volta che sentiva suonare alla porta e
uno dei due adulti si affrettava ad andare ad aprire, immaginando di
chi si trattasse per il modello dell'auto o la sagoma intravista
dalla finestra con l'ausilio delle luci decorative disseminate anche
nel giardino.
“E'
l'auto di
Jonathan”, sentì dire a Neal e fu spontaneo
slanciarsi alla porta
quando, qualche istante dopo, sentì il trillo del
campanello. Finse
di non accorgersi del sorrisetto che increspava le labbra della madre
ma, lo sguardo entusiasta e carico d’aspettative, schiuse
l'uscio.
Trovò
Jonathan, in un
elegante cappotto a doppiopetto, che le rivolse un sorriso.
“Buonasera, Brittany”.
“Buonasera,
Professore”, lo ricambiò.
L'uomo scosse
il capo e
le sorrise con fare bonario, il viso inclinato di un lato.
“Jonathan,” precisò. “per
stasera sono solo Jonathan”.
Entrò
ma Brittany
trattenne l'uscio aperto e gettò un'occhiata interrogativa
verso il
giardino. L'uomo, che stava togliendosi il cappotto, rivelando uno
smoking scuro che ne fasciava perfettamente la statuaria figura,
sembrò intuire il suo pensiero. “Purtroppo Hunter
non è potuto
venire”.
“Oh”.
Sentì il cuore
fermarsi in petto, ma cercò di mascherare la delusione.
Dopotutto
sarebbe stato più che naturale che avesse preferito
trascorrere la
serata con gli amici o... con Kitty, ed era stata una mera e sciocca
illusione quella di poterlo avere con sé.
Jonathan la
stava
scrutando curiosamente, ma l'impaccio di trovare qualcosa da dire le
fu risparmiato dall'arrivo di Neal che esortò l'amico ad
unirsi alla
compagnia.
Chiuse la
porta alle sue
spalle, Brittany, e si guardò mestamente attorno: persino
nella sua
nuova casa, in quel momento, faticava a sentirsi parte di
quell'atmosfera. Abbandonò il proprio bicchiere su uno dei
tavoli
del buffet e salì le scale verso la propria camera. Cercava
di non
pensare a quanto si sentisse sciocca per avere immaginato che quella
serata avrebbe avuto tutt'altra piega o quanto sarebbe stato bello
constatare che anche lui avesse aspettato quel momento per rivederla.
Si
accomodò sul pouf di
fronte alla toletta e imbevette il cotone con dello struccante,
pronta a detergere il viso, quando intravide la silhouette della
madre dal riflesso dello specchio.
“Britty
Woman, che stai
facendo?”.
Sorrise appena
del
nomignolo ormai storico e sua madre si avvicinò, si
appoggiò con le
ginocchia al pavimento e ne scostò una ciocca di capelli dal
viso.
Brittany, tuttavia, ne evitò lo sguardo.
“Non
avrei dovuto
perdere tempo a truccarmi”, sussurrò con voce
tremante e scosse il
capo.
“Sono
sicura che già
si pente di non essere qui con noi”, fu la delicata risposta,
ma
Brittany scosse nuovamente la testa.
“Perché
dovrebbe?”.
“Chiediglielo”,
rispose prontamente. Era quasi divertente quel suo modo di fare
sempre pragmatico e la schiettezza nel parlare di chiunque e con
chiunque, senza la benché minima esitazione o imbarazzo.
“Se
anche volessi, non
ho il suo numero”.
“Potresti
distrarre suo
padre, io gli ruberò il telefono”, aveva proposto
e in tono così
serio e composto che le strappò una risata divertita,
malgrado
tutto. “Oppure, sua madre le aveva ripassato le labbra con il
rossetto. “potresti scrivergli una lettera: sarà
come parlargli di
tutto ciò che senti e potrai decidere se dargliela o meno,
prima o
poi”.
“Una
lettera”, parve
rifletterci, le sopracciglia inarcate e lo sguardo perso in un punto
indefinito.
“Intanto
porta il tuo bel faccino di sotto: non ti permetterò di
restare in
camera e da sola. ”. Le aveva cinto la mano e si era rimessa
in
piedi, attendendo che la seguisse. “Suggerirei una fotografia
con
l'amichetto di Marley, tanto per testare la gelosia. O per vedere chi
ha le spalle più ampie: me lo sto chiedendo da quando me lo
hai
presentato”, era parsa seriamente curiosa al quesito.
Scosse
il capo, Brittany, ma già più serena.
“Scenderò tra due minuti”,
promise, stringendole la mano e sorridendole. “Grazie,
mamma”.
“Buona
fortuna: ho già
detto che mi piace?”.
“Svariate
volte, ma so
anche leggere tra le righe”, fu l'ironica risposta.
Scrollò
le spalle,
Shirley, apparentemente indifferente a quell'evidenza. “Era
per
controllare, a dopo”.
Non era andata
come aveva
sperato, ma la serata era piacevole, soprattutto la compagnia di
Marley e di Ryder, pur sentendo addosso lo sguardo della madre. Stava
scegliendo uno stuzzichino con cui riempire lo stomaco dopo aver
passato l'intera ora tra balli di gruppo, quando la sagoma di
Jonathan si fermò al suo stesso tavolo. Aveva ancora un
drink tra le
mani e sembrava che stesse scegliendo a sua volta qualcosa da
sgranocchiare.
“Ti
stai divertendo?”,
le chiese in tono pacato e curioso.
“E'
una bella serata”,
rispose la ragazza, reclinando appena il capo per osservarlo.
Aveva annuito,
Jonathan,
lo sguardo verde identico a quello del figlio e Brittany aveva
cercato di non soffermarsi su quella somiglianza. Le stava ancora
sorridendo, ma parve farsi pensieroso prima di inclinare il viso di
un lato, dopo essersi inumidito le labbra con l'analcolico.
“Io
vorrei ringraziarti, Brittany”.
“Me?”,
aveva chiesto
confusa e spiazzata. Ma si predispose all'ascolto: sapeva
naturalmente quanto Neal gli fosse affezionato e che non a
caso ne sarebbe stato il testimone di nozze, ma era sempre sembrato
poco ciarliero. O il tipo di persona che non era affatto avvezza a
parlare a sproposito.
“Per
una cosa, anzi
due: la prima è perché non ti addormenti
più durante le mie
lezioni”. Sorrise dello strato d’imbarazzo che ne
aveva
imporporato le guance, ma vi era lo stesso alone complice dei sorrisi
più divertiti di Hunter.
“La
seconda,”
continuò con lo stesso tono composto e lo sguardo era
divenuto più
intenso nell'osservarla attentamente. “è
perché credo che la tua
presenza sia stata la cosa più piacevole capitata a Hunter
in questi
ultimi mesi”.
Aveva sgranato
gli occhi,
Brittany e l'uomo aveva annuito con molto sussiego. “Lo fai
sorridere come non accadeva da troppo tempo”.
Il ricordo
delle parole
di Neal alla festa la fece sospirare, ma aveva parlato con tono
così
solenne che non poteva che esserne lusingata, seppur timorosa che una
propria domanda od osservazione potesse lederne la discrezione o
essergli fonte di disagio. Ma c'era comunque qualcosa che poteva
dirgli e che probabilmente gli era dovuto, visto la gentilezza che le
aveva riservato. Gli sorrise, il viso inclinato di un lato e le gote
colorate.
“Tengo
molto a lui,
vorrei anche io che sorridesse più
spesso”.
Jonathan aveva
annuito,
prendendo un bicchiere di analcolico, dopo avergliene porto uno.
“E
lui a te”. Aveva cozzato il bicchiere contro quello della
ragazza,
ma si era dovuto congedare, un sorriso e una lieve pressione sulla
sua spalla, quando Neal ne aveva reclamato la presenza.
Brittany
rifletté a
lungo su quelle parole: istintivamente sapeva che quella di Jonathan
non era stata una formula di cortesia. Era stato uno degli ultimi a
congedarsi dalla festa e Brittany non aveva mancato di indugiare
nuovamente con lui sulla soglia. “Gli porti i miei
saluti”, lo
aveva pregato.
“Lo
farò”, l'aveva rassicurata con un ultimo sorriso.
~
Quando
rientrò in casa,
trovò il figlio seduto sul divano, un libro tra le braccia e
gli
occhiali appoggiati sul naso. Non si era mosso, quando aveva riposto
il cappotto, ma aveva appena sollevato lo sguardo dalle pagine del
libro.
“Una
bella serata?”,
gli chiese.
Jonathan
annuì, mossosi
con incedere fluido verso la cucina, era tornato con due bicchieri e
una bottiglia di spumante che aveva stappato con un movimento sicuro
del polso, prima di porgerne uno al figlio. “Buon anno,
figliolo”.
“Buon
anno”, aveva
ricambiato l'altro, abbandonando il proprio libro per un istante.
Stava ancora
rigirando il
liquido nel bicchiere, come un sommelier, Jonathan, mentre si
abbandonava per un istante contro lo schienale del divano,
osservandolo con la coda dell'occhio. “Una piacevole serata
ma
c'era una graziosa fanciulla che credo non stesse aspettando me sulla
soglia dell'uscio”, aveva
commentato con voce
pacata, fissando il proprio bicchiere. “Anche se devo dire
che lo
specchio è stato molto generoso con me questa
sera”.
Il fatto che
non ci fosse
alcuna intonazione scherzosa o maliziosa, non impedì al
ragazzo di
aggrottare le sopracciglia e boccheggiare appena.
“Ti
manda i suoi
saluti”, aggiunse il padre con la stessa flemma.
Annuì,
Hunter, lo
sguardo fisso sulle pagine del romanzo senza tuttavia leggerne le
parole o comprenderne il significato. Provò ad immaginarla e
un
sospiro gli sfuggì dalle labbra.
Si era
sollevato,
Jonathan, evidentemente consapevole che non sarebbe riuscito a
strappargli una maggiore confidenza, soprattutto se avesse provato a
torchiarlo. Ma, dopotutto, certi fatti erano evidenti ad ogni buon
osservatore, specie se palesati in modo spontaneo. “Credo che
andrò
a riposare: l'anno prossimo andrà bene, figliolo. Credo
avrà in
serbo molte novità”.
Annuì,
Hunter, e parve
davvero sperarlo.
~
Le vacanze di
Natale
erano scivolate via con inaudita velocità e, per quanto
fosse
piacevole trascorrere il tempo tra quelle che erano divenute le sue
mura domestiche, cominciava persino a scalpitare all'idea che, da
lì
a poche ore, avrebbe nuovamente visto il giovane. Il pensiero si
tradusse in una dolcissima aritmia e ciò che, nella sua
mente, aveva
preso a definire 'il mal di pancia da Hunter'.
Si
soffermò ancora una
volta: la valigia era piena solo a metà, ma esitò
con un pullover
tra le mani e lo sguardo corse alla scrivania. Una busta rosa era
adagiata sulla stessa: la prima lettera che avesse mai composto. La
stesura era avvenuta la sera di Capodanno: specchiarsi negli occhi di
Jonathan Clarington e riceverne le parole di stima non aveva fatto
che accrescere quel dolce batticuore e la nostalgia dell'altro viso
altrettanto familiare. Aveva ripensato al consiglio della madre e si
era accomodata di fronte alla scrivania: aveva preso fogli bianchi e
la propria penna preferita dall'inchiostro rosa che risaltava come i
petali di un fiore.
Aveva scoperto
di non
averne solo il bisogno, ma persino una predisposizione naturale per
quanto lo stile ne rispecchiava la semplicità.
Chissà se un giorno
avrebbe avuto il coraggio di consegnargliela, si era chiesta spesso e
volentieri quando il sonno faticava a giungere e carezzava Lord
Tubbington addormentato sul suo grembo.
Sembrò
indecisa, ma
prese l'involucro nello stesso momento in cui, con un rapido guizzo,
sua madre schizzò letteralmente nella stanza e fu lesta ad
avvicinarsi alla finestra con la stessa agilità di una spia
in un
film d'azione.
La ragazza
sbatté le
palpebre con aria confusa. “Mamma, ma cosa-?”.
Si era
abbassata
bruscamente, Shirley, quasi avesse temuto di essere il bersaglio di
un cecchino esperto. Si volse altrettanto rapidamente e le fu
davanti, prendendole le spalle.
“Corri,
corri di sotto:
è lui!”
“Cosa?
Di chi-?”.
“Presto!
Ho distratto
Neal con la torta!”, la stava letteralmente sospingendo fuori
della
porta.
Ancora
stordita, la
lettera in mano, Brittany scese rapidamente la scalinata: era a
metà
della stessa, quando sentì il campanello suonare.
“Apre
Britty Woman!”,
annunciò Shirley al piano di sopra e le fece cenno alla
porta con
aria esaltata, prima di nascondersi nella sua camera.
Scosse
lievemente il
capo, Brittany: d'accordo che il vicino non le piaceva per il vizio
di sputare mentre parlava, ma sembrava un po' esagerato nascondersi
addirittura.
Schiuse la
porta, con
aria rassegnata, ma il suo cuore si bloccò alla vista del
giovane
che, sull'ingresso del portico, la stava osservando. Quasi ispirato
dai suoi stessi pensieri, eccolo lì.
Quasi due
settimane erano
passate dall'ultima volta che lo aveva scorto e il suo cuore
iniziò
a galoppare rapidamente nello scrutarlo. Se da un lato quel tempo di
separazione era quasi parso infinitamente lungo ed insostenibile,
dall'altro aveva la sensazione che il tempo si fosse persino fermato.
Avrebbe potuto sporgersi di poco per poterlo sfiorare e appurare che
tutto fosse reale.
“Ciao
Brittany”, la
salutò in un sussurro.
Lord
Tubbington,
sgattaiolato da sotto le gambe della padrona, miagolò in
direzione
del giovane quasi a mo' di saluto.
“Hunter”,
sussurrò
Brittany che deglutì prima di stropicciarsi i capelli, la
mano
appoggiata alla porta e il sorriso che ne addolciva l'espressione
l'attimo dopo. Schiuse maggiormente l'uscio. “Vuoi
entrare?”,
chiese con voce rauca.
Sperò
che fosse la sua
immaginazione e, dal piano di sopra, sua madre non avesse realmente
commentato a mezza voce un “trascinalo per la
giacca!”.
Parve
vacillare il
ragazzo, ma scosse il capo e si umettò le labbra, una mano
si sfiorò
la nuca e se non lo avesse conosciuto a lungo nei panni del Capitano
severo ed inflessibile (o quasi), avrebbe potuto pensare che fosse
realmente nervoso in quel momento. “In realtà
dovrei rientrare ma,
visto che stavo passando di qua, stavo pensando...". Lo sguardo
verde era adesso volto al micio e si schiarì la gola e
alluse a lui
con un cenno del mento. “... potrei prendere Lord Tubbington
in
anticipo: rientrerò presto domattina e sarà
più facile portarlo
nella mia camera”.
“Oh”,
era parsa
spiazzata la ragazza: aveva fatto quella deviazione soltanto per il
suo gatto? Per quanto la sua cortesia fosse quasi... eccessiva, non
poteva negare quella spiacevole sensazione. Delusione?
La cosa strana
era che persino Hunter, in quel momento più corrucciato, non
sembrava affatto contento.
Ma non era il
caso di
dimostrarsi poco riconoscenti, concluse tra sé, e gli
sorrise. “Sei
molto gentile”, aveva preso tra le braccia il felino che
guardava
dall'uno all'altra.
“Figurati,
è un
piacere”.
“Eccolo
qua”, glielo
aveva porto delicatamente e lo aveva osservato tra le braccia del
ragazzo.
Lord
Tubbington emise un
miagolio ancora evidentemente confuso da quella nuova situazione.
Pareva il
momento di
lasciarlo andare: non c'era davvero altro da dirgli? Non che avesse
sperato di sentirgli dire che era venuto per un saluto o con
l'intenzione di vederla – se avesse voluto, in fondo, avrebbe
potuto profittare di quelle due settimane di vacanza – ma...
aveva
almeno sentito un po' la sua mancanza? Anche solo una minima parte di
quella che aveva provato lei? Sarebbe stato più che
sufficiente.
Indugiò nervosamente, morsicandosi il labbro, mentre
Hunter sembrava soppesare di congedarsi, subito dopo aver estratto le
chiavi dalla tasca della giacca.
“Hai
passato delle
belle vacanze?”, gli aveva chiesto d'impulso, simulando un
altro
sorriso allegro e spensierato, passandosi una mano tra i capelli, il
viso inclinato di un lato. “Mi sei mancato”, si
sentì dire con
voce più flebile, ma tutto parve fermarsi nell'istante in
cui
l'autentico stupore sembrò alterare i lineamenti del ragazzo
e
Brittany sentì le guance ardere. “Alla
festa”, aggiunse.
Era stata una
sua
impressione o, dal piano superiore, era giunto un verso
d’esasperazione?
Che avesse
sbagliato o
meno, sapeva che non avrebbe comunque ritirato quelle parole,
soprattutto quando il volto dell'altro si aprì in un sorriso
che
parve farne illuminare gli occhi. In modo repentino ed improvviso ma
così spontaneo e naturale che le strappò un
brivido lungo la spina
dorsale.
“Mi
dispiace essere
mancato”, le disse, il viso inclinato di un lato
nell'osservare gli
occhi azzurri.
“Non
dovevi sentirti
obbligato”, aveva cercato di sminuire con un sorriso,
scrollando le
spalle. “E poi avrai avuto altri programmi con... altre
persone”. Scosse il capo, quando l'immagine di Kitty le
apparve di fronte con
inaudita nitidezza.
Era parso
pensieroso,
Hunter ma, con sua sorpresa, aveva mosso un passo in avanti e si era
chinato di modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza.
“E'
stato bello ricevere i tuoi saluti: il modo migliore di cominciare il
nuovo anno”, aveva proferito con voce profonda che le aveva
fatto
scalpitare più intensamente il cuore. Brividi caldi e freddi
lungo
la spina dorsale, le sue labbra s’incresparono in un sorriso,
aveva
insinuato la lettera nella tasca posteriore dei pantaloni, coperta
dalla lunga blusa che indossava. Indugiò in quella
posizione,
ignorando Lord Tubbington il cui musetto si era sporto verso la
padrona con un miagolio.
“Non
è stato il modo
migliore di concludere quello vecchio, non essere qui con
te”.
~
Stava
canticchiando in
cucina, Neal, mentre apriva il frigorifero ed estraeva la torta
gelato dallo stesso: un'espressione estatica sul volto che ne fece
scintillare gli occhi e salire l'acquolina in bocca al pensiero di
infierire su quella magnifica composizione con una forchetta da
dessert.
Non resistette
dall'allungare un dito a sfiorare la glassa decorativa per poi
emettere un mugugno soddisfatto e appoggiare la teglia sulla tavola
già munita di una spatola da cucina e di un piatto sul quale
depositare una porzione particolarmente generosa.
Fece per
intagliare la
fetta, quando percepì il suono del campanello e
sollevò appena gli
occhi al cielo, l'aria sospirata e sofferta prima di sentire la voce
della fidanzata. Evidentemente sollevato, scrollò le spalle
e
sedette con aria particolarmente compiaciuta. Si beò di
lasciar
mischiare il sapore del dolce sul palato.
Scosse il
capo, cercò di
concentrare la sua attenzione sui due piatti vuoti che si
affrettò a
riempire per portarli alle due donne ma, quando scostò
l'uscio con
un fianco per entrare in soggiorno, colse il movimento con cui
Brittany si era avvicinata al gradino di ingresso, il grasso felino
che le passava accanto.
Ma cosa?
Si
avvicinò quatto
quatto, in punta di piedi letteralmente e si appiattì contro
l'uscio
(Brittany l'aveva quasi chiuso, evidentemente essendosi avvicinata
alla persona che aveva suonato: che si trattasse della recluta Rose?)
e fu allora che sentì la voce di Hunter.
Un lampo di
sorpresa ne
fece baluginare lo sguardo primo di realizzare che la giovane si
era
letteralmente chiusa fuori con lui, senza che nessuno
fosse presente e che stavano parlando in tono più sommesso.
Si
irrigidì: le immagini del loro unico ballo durante
l'anniversario
dell'Accademia gli baluginarono in mente e così le parole di
Jonathan di evidentemente stima che aveva accolto con aria
lusingata quanto quella di Shirley. Ma che il suo amico
stesse
celando un ben altro tipo di lode?
Si
sentì letteralmente
accasciare contro la porta.
No, non stava
accadendo.
Non era
neppure
(ufficialmente) genitore di ruolo.
Calma, calma, si
ammonì, il sudore freddo che scivolava lungo le tempie.
“Mi
dispiace essere
mancato”, aveva sentito dire dal ragazzo e aveva sgranato gli
occhi, realizzando che stava parlando della festa del veglione.
“Non
dovevi sentirti
obbligato”.
Sorrise
compiaciuto della
risposta della ragazza: stava prendendo le giuste distanze, ottima
mossa dopotutto.
Ma era del
figlio del suo
migliore amico che si stava parlando e non era stato lui stesso il
primo a riporre totale fiducia, tanto da conferirgli la carica
più
alta della sezione maschile? Non era forse lui il primo a sentirsi
rassicurato a sapere che ci sarebbe stato un altro sguardo vigile
sulla figliastra, in caso di necessità.
Ma è
stato lui a
tradire la mia fiducia, gli suggerì
una voce
interiore.
Si
avvicinò
ulteriormente perché Brittany aveva nuovamente parlato, ma
non era
riuscito a cogliere il sussurro, evidentemente erano abbastanza
vicini perché non occorresse parlare a voce alta.
Perché
dovevano stare
così vicini?
Brutto, brutto
segno.
Ok, lui era il
padrone di
casa, il patrigno nonché il Preside e le tre
“p” avrebbero
dovuto significare qualcosa per quel traditore della patria.
Perché
diavolo
continuavano a parlare a voce così bassa?
Era il caso di
prendere
provvedimenti, ma di mettere la torta al sicuro per prima cosa.
~
Si era presa
un lungo
istante, Brittany, ad assaporare quel momento: il cuore nuovamente in
gola e il respiro più rado ma era pura serenità
quella che brillava
nei suoi occhi in quel momento. Quella dolce aspettativa che sembrava
nuovamente arrecarle una dolce vampata di calore e di speranza, di
fibrillazione e di realizzazione che tutto fosse reale e quel momento
fosse soltanto loro.
“Ma
adesso sei qui”,
aveva sussurrato con voce più tremula per poi schiarirsi la
gola.
“Per Lord Tubbington”, aggiunse con un sorriso
più complice ad
indicare che il patto tra loro era ancora in vigore.
Aveva sorriso,
Hunter, lo
stesso sorriso più divertito, ma aveva annuito, uno
scintillio più
dolce dello sguardo nell'inclinare il viso di un lato.
“Sì,
sono qui”, aveva
sussurrato in risposta e nei loro
sguardi sembrò esservi una comunicazione e comprensione che
andasse
ben oltre le parole espresse in un reciproco avvicinamento.
Sembravano entrambi pensare che ci fosse un motivo ben diverso, pur
senza necessità di esplicitarlo, quasi timorosi di
infrangere
quell'atmosfera.
Brittany
estrasse la
lettera dalla tasca posteriore e la strinse, quasi necessitando di
quella pressione per placare quella nuova agitazione. La
lettera,
pensò, le dita che tremavano. “Hunter?”,
aveva reclinato il capo
per osservarlo.
“Sì?”.
“Io...”,
sarebbe
stato semplice allungare il braccio e porgergliela o lasciare che lui
si avvicinasse senza parlare, rischiando così di dire
qualcosa di
sbagliato.
Sarebbe stato
tutto molto
più semplice se Neal non fosse apparso sulla soglia,
facendoli
trasalire entrambi e fu un movimento rapido quello con cui Brittany
nascose nuovamente la lettera.
“Hunter!”,
esclamò
con voce più stentorea che sembrò letteralmente
rimbombare nel
cortile cosparso di ghiaccio. “Giusto in tempo per la
torta”,
sorrise ad una maniera quasi maniacale nel guardare dall'uno
all'altra, aspettandosi che entrassero entrambi e sostassero laddove
avrebbe potuto controllarli.
Hunter
sbatté le
palpebre, ma parve riprendersi abbastanza in fretta perché
gli
rivolse un cenno del capo. “Signore”.
“Vieni
dentro: prendi
la torta con Brittany, Shirley e me”,
scandì bene le ultime
parole, lo stesso sorriso gioviale malgrado uno strano tic
all'altezza della palpebre.
“Ti
senti bene, Neal?”,
gli chiese Brittany con gli occhi sgranati. “Ti sta tremando
l'occhio”, lo aveva additato, ma il patrigno aveva riso in
una
pessima imitazione dell'entusiasmo dei Babbo Natale dei centri
commerciali nell'accogliere i bambini e farli sedere sulle proprie
ginocchia.
“Non
so di cosa tu stia
parlando”, si schermì rapidamente.
“Allora, Hunter?”, lo stava
nuovamente guardando con lo stesso sorriso fin troppo gioviale che
parve irrigidire il ragazzo, probabilmente dotato di qualche sesto
senso.
“La
ringrazio, ma io,”
si schiarì la voce, quasi ricordando solo in quel momento di
trattenere un felino obeso tra le braccia. “mi stavo
congedando a
dire il vero”.
“Che
peccato”, Neal
sospirò con aria fintamente rammaricata.
“Neal!”,
era stato
l'aspro rimprovero di Shirley che si era appoggiata alla sua spalla e
adesso lo guardava con le sopracciglia corrugate. Ma quando
tornò ad
osservare i due, recuperò immediatamente il sorriso
più allegro e
spensierato, con quel luccichio più suadente dello sguardo.
“Lasciamo che Brittany saluti il suo
Capitano,” si era
sporta verso di lui. “sempre che io non
riesca a convincerlo
ad entrare”.
Sembrò
deglutire,
Hunter, che si schiarì la gola. “Temo di essere
già in ritardo e
mio padre mi attende, quindi dovrei davvero andare”.
“Veramente”,
Neal
sembrò annaspare nel guardare dall'uno all'altra e cercare
qualcos'altro da aggiungere ma Shirley lo trascinò dentro
con un “Se
non ti sbrighi finirò anche la tua
porzione”.
Brittany si
volse verso
il giovane, vagamente confusa: che la torta avesse contenuto qualcosa
di strano al suo interno?
Hunter
sembrò recuperare
la sua proverbiale compostezza e rilassarsi quando entrambi gli
adulti furono rientrati. “Allora, ci vedremo
domattina”.
Aveva annuito,
Brittany,
un vago sospiro nell'accompagnarlo verso l'auto: lo aveva osservato
schiuderne la portiera dei sedili posteriori per appoggiarvi Lord
Tubbington al quale aveva deposto un'ultima carezza, raccomandandogli
d’essere obbediente. Aveva nuovamente sorriso al giovane che,
tuttavia, sembrava indugiare dal circumnavigare l'auto per prendere
posto dal lato guidatore e sentì i suoi battiti accelerare
nuovamente.
Lanciò
una vaga occhiata
alla casa, Hunter, ma le aveva sorriso nuovamente, le mani affondate
nelle tasche del lungo cappotto e si era chinato al suo volto a
baciarne la guancia in un tocco appena accennato che era stato
sufficiente a farle colorare e divampare un nuovo calore in petto.
“Anche
tu mi sei
mancata”, aveva sussurrato infine.
Sorrise,
Brittany, e
Hunter si volse nuovamente dopo un ultimo cenno di saluto ed
entrò
in auto.
Seguì
il tragitto con lo
sguardo, fin quando l'auto non svoltò e solo allora
rilasciò il
respiro, prima che la voce nuovamente alterata di Neal la richiamasse
alla realtà e si affrettò a rientrare.
~
[...] Belle si
domandò se
non fosse stato l'effetto della neve e del suo candore che sembrava
ingentilire ogni cosa. O se non fosse quella magica atmosfera che le
scaldava il cuore fin da bambina nell'avvicinarsi al Natale e al
grande albero decorativo sotto il quale avrebbe trovato tutti i suoi
doni. Ma poi si diede della sciocca per averlo anche soltanto
pensato: la reale gioia era scorgere il suo sguardo e vederne quel
barlume di autentica serenità e di tenerezza a renderne i
lineamenti
meno mostruosi e rigidi, riuscendo a scorgere quello che sarebbe
somigliato ad un Principe. Quell'animo puro e gentile che doveva
ancora
esistere
e di cui lei era realmente
persuasa, della
gioia che avrebbe nuovamente potuto provare, scacciando la solitudine
e tornando ad essere se stesso. Perché una parte di
sé avrebbe
continuato a credere che quel sorriso non fosse stato casuale ma che
l'incantesimo potesse essere spezzato e lui stesso, in cuor suo, non
attendesse altro. Che quel Natale gli aveva nuovamente recato la
speranza che la sua vita non fosse finita. [...]
Aveva
terminato il
capitolo con un sorriso, Brittany, ripose anche la spazzola sul
tavolino della toletta, insinuò il libro nel proprio trolley
e si
immerse nelle coperte.
Ripensò alla lettera
che aveva nascosto tra le pagine dello stesso libro.
Il momento
giusto sarebbe
arrivato, dopo quel giorno non aveva più il
benché minimo dubbio.
To
be continued...
Un
capitolo di transizione, potremmo definirlo, ma prendetelo come un
personale augurio in occasione delle festività natalizie che
si
stanno finalmente avvicinando.
Come
sempre, ringrazio chiunque mi stia seguendo, in modo particolare le
persone che allietano la pubblicazione lasciandomi loro commenti ed
impressioni, siete le mie unicorn girls <3
Un'occhiata
al prossimo capitolo:
“Sarebbe
un peccato se tu rinunciassi alla danza, anche se averti qui
è...
divertente”. “Ehi, di questo passo Finn
sarà geloso”.
“Ho
fatto una cosa brutta”. “Lo hai fatto
volontariamente?”. “No,
cioè, non avrei dovuto farlo, ma non volevo
ferirlo”.
“Sono
solo un peso”. “E' quello che dico da
mesi”.
Mi
dileguo e prendo congedo, prima di sentirmi addosso le proteste
indignate, ma posso dire che stiamo giungendo ad un punto di svolta
importante.
Di
nuovo auguri a tutti voi di un sereno Natale per voi e le vostre
famiglie :)
A
presto,
Kiki87
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 ***
Capitolo 8
«
C'era una volta, molto lontano »,
così
diceva una favola
che
mio padre mi raccontava.
Diceva
che c'era un mondo di fantasia,
c'era
un principe che avrebbe lottato per me
fino
alla fine.
Questo
non è il modo in cui pensavo che sarebbe andata,
eri
colui che avevo immaginato accanto a me.
Ma
a volte l'amore cade nelle mani degli incauti.
Perché
questa non è una favola
e
io non sono una principessa.
Non
sono una principessa.
(No
Princess
- Ashley Tisdale)
Capitolo
8
Il nuovo anno sembrava
cominciato con una consapevolezza che rendeva tutto più
chiaro e, al
contempo, dava nuovo significato a tutto ciò che la
circondava.
Persino alle sfuriate di Kitty e ai suoi tentativi di farle passare
dei brutti momenti. Bastava ricordarsi, infatti, che, da lì
a poche
ore, avrebbe nuovamente scorto quel volto: che si
trattasse di
un allenamento del Glee Club o di una visita a Lord Tubbington.
Nel frattempo,
la vita
scolastica stava nettamente migliorando: non solo si era più
assopita durante una lezione di Mr Clarington, ma la sua materia era
divenuta persino più piacevole e così ascoltarne
le spiegazioni e
la passione con cui illustrava le strategie messe in atto dagli
eserciti nel corso della storia. Era molto simile a Hunter ma, seppur
aldilà del suo lavoro fosse poco ciarliero, mancava di
quell'ombra
più scura che talvolta sembrava spegnere lo sguardo del
figlio.
Si domandava
spesso che
cosa avrebbe potuto liberarlo completamente di quel fardello o
renderlo totalmente sereno o entusiasta. Soprattutto, pregno di una
gioia che non fosse soltanto un'effimera soddisfazione o un momento
di relax, sottratto ai suoi doveri. Tuttavia, fino a quando fosse
riuscita a scorgerne un sorriso e persino crogiolarsi all'idea che le
fosse dedicato, tutto sarebbe stato perfetto. O quasi.
“Dovresti
dirglielo”, l'aveva ammonita dolcemente Marley, sporgendosi
dal
letto superiore per osservarla e Brittany si era mordicchiata il
labbro.
Era appena
rientrata
nella camerata, giusto prima che scattasse il coprifuoco (con la
scusa delle vettovaglie e dell'aiuto in cucina, compito che avrebbe
portato a compimento fino alla fine dell'anno scolastico) e Marley
era rimasta sveglia ad attenderla. Era divenuta una sorta
d’abitudine
perché anche lei potesse abbandonarsi più
serenamente al sonno.
“E' così
evidente?”, le aveva chiesto con tono quasi preoccupato ed
angosciato alla prospettiva che il suo sguardo fosse fin troppo
trasparente. Il che sarebbe stato accettabile, nonostante
l'imbarazzo, alla presenza della madre e dell'amica, tutt'altro
qualora fosse stato Hunter stesso a comprenderlo.
“Basta guardarti:
è
facile capire con chi eri prima e dove sia tuttora la tua
testa”,
era stata la pacata osservazione, il sorriso quasi intenerito ad
incresparle le labbra.
Brittany aveva
scosso
il capo e sentito le guance ardere ma l'ombra ne avrebbe celato lo
stato d'animo, almeno per qualche ora. Si era stesa sul proprio
letto, le braccia sotto il capo a mo' di cuscino. Aveva lasciato che
il silenzio permanesse tra loro per diversi istanti: negli occhi
ancora le immagini di quell'ultima ora in sua compagnia e delle
chiacchiere casuali eppure così intinte di una nuova
serenità e
reciproca comprensione. Ma vi erano sempre tanti dubbi e parole non
dette. E l'interrogarsi sulla legittimità o meno di una
lettera che
aveva segretamente condotto con sé.
“Non ho mai
avuto...”, aveva iniziato con voce incerta, dopo qualche
istante,
cercando di descrivere ciò che stava provando.
“Non mi sono mai
trovata in una situazione così”, aveva
sussurrato.
Marley si era
sporta
dal letto superiore e Brittany ne aveva immaginato il sorriso: la
vista non si era ancora del tutto abituata al buio.
“So che fa
paura,”
aveva sospirato la sua amica con aria comprensiva “ma se lui
prova
lo stesso, state solo tergiversando: prima o poi sarà chiaro
ad
entrambi, non credi?”.
Si era
mordicchiata il
labbro, Brittany, rimpiangendo di non poter stringere Lord Tubbington
in quel momento di particolare tensione, ma aveva rilasciato il
respiro. Aveva poi scosso il capo: se era già abbastanza
imbarazzante pensare a loro in quei termini, l'idea che si stesse
solo illudendo era insopportabile. “Forse è solo
gentile, se lui e
Kitty-”.
Aveva sbuffato,
Marley, probabilmente non soltanto per l'antipatia verso il suddetto
soggetto. “Non l'ho mai visto sorridere, quando è
con lei: di
solito erano ghigni ma ultimamente neppure quelli. I veri sorrisi non
li mostra certo a chiunque”, aveva
soggiunto in tono più
complice e allusivo.
“Ha un bellissimo
sorriso”, era stata la spontanea risposta di Brittany,
neppure
curandosi di star compromettendo la sua
“neutralità” con
quell'ammissione. “Vorrei vederlo più
spesso”.
Non aveva
commentato
nulla al riguardo, Marley, la voce persino più entusiasta.
“Glielo
dirai?”.
Aveva sospirato,
Brittany, uno sguardo corse alle altre sagome addormentate, il
russare di Lauren era ormai un abituale sottofondo. “Gli ho
scritto
una lettera, ma non so se sono pronta”, aveva ammesso dopo un
altro
lungo istante di silenzio.
Evidentemente
stava
riflettendoci, Marley, perché aveva taciuto per qualche
istante,
prima di rispondere: “Arriverà il tuo momento: ne
sono sicura”.
Brittany aveva
osservato il cielo stellato dalla finestra.“Se non
sarà troppo
tardi”, aveva aggiunto tra sé e sé.
~
La scaletta
per la
competizione di canto coreografato sembrava ormai definita da tempo,
ma erano state necessarie delle modifiche alla sequenza di danza,
soprattutto dopo che la squadra sembrava aver raggiunto una buona
armonia ed erano divenuti evidenti i punti di forza e le carenze di
ognuno.
Stavano tutti
ascoltando
l'ennesima prova del duetto tra Hunter e Kitty. Brittany,
da parte sua,
stava cercando di concentrarsi sulle espressioni
del giovane ed isolare tutto il resto, onde evitare che nuovamente
quella fastidiosa contrazione allo stomaco le procurasse
un'espressione di disappunto (e che, soprattutto, si rendesse palese.
Con l'eccezione di Marley e Ryder, almeno, i quali avevano preso a
punzecchiarla al riguardo, suscitandole non poco imbarazzo).
Il contatto di
sguardi
sembrava un elemento imprescindibile, quasi fosse necessario a dare
maggiore enfasi ai versi stessi della canzone, ma non poteva che
chiedersi se lo sguardo di Hunter celasse altro. Da parte di
Kitty tutto sembrava fin troppo evidente, in quel modo di sorridere
leziosa, di avvicinarsi con fare più languido,
costringendola a far
saettare lo sguardo sul pavimento e stringersi le braccia al petto e
cercare di ascoltare soltanto il dolce connubio delle loro voci. E
realizzare quanto persino quel testo sembrasse descrivere le sue
stesse emozioni.
Come
siamo finiti qui, non saprei dirlo
ma
sembra così giusto.
L'ultima
cosa che mi sarei aspettato, sta accadendo,
siamo
tu ed io.
C'è
qualcosa di reale che non posso spiegare
e
nulla sembra più lo stesso.
Per
la prima volta ho realizzato
qualcosa
che non ho mai capito prima.
Per
la prima volta guardandoti negli occhi,
improvvisamente
c'è molto di più.
Qualcosa
che entrambi sentiamo dentro
per
la prima volta.
Non
posso trovare le parole per spiegare
cosa
provo per te.
Voglio
solo starti accanto.
Non
avrei mai immaginato
che
qualcuno mi avrebbe fatto sentire,
nel
modo in cui fai tu.
Si
era intrattenuta, alla fine dell'allenamento, ripetendo i movimenti
della coreografia di fronte allo specchio. Cercava di cacciare le
immagini del duetto per poi aggrottare le sopracciglia al pensiero di
quanto sembravano perfetti insieme.
Il piede
scivolò sul
parquet, ma l'impatto non avvenne e sentì una salda presa
intorno a
sé: levò lo sguardo. Hunter stava sorridendo, il
braccio avvolto
attorno alla sua vita: la sollevò lentamente, senza alcuno
sforzo.
“Tutto bene?”, le chiese, le sopracciglia inarcate.
Doveva essere
la prima volta che la vedeva perdere
la
concentrazione e l'equilibrio e ciò la imbarazzò
non poco.
Annuì
e scostò lentamente la mano dalla sua spalla. “Sto
bene, grazie:
sembra che tu sia davvero il mio Principe”, si era sentita
dire in
un moto spontaneo e naturale.
“Cosa?”,
aveva
inarcato le sopracciglia, evidentemente spiazzato.
Sbatté
le palpebre,
Brittany, ignorando l'effluvio di calore al viso. “Il mio
salvatore, sì”, si era corretta nervosamente.
Le sorrise
nuovamente, il
giovane, le braccia incrociate al petto e il viso inclinato di un
lato. “Cerca di non infortunarti: non potrei fare a meno
della
nostra ballerina di punta”.
Aveva sorriso,
Brittany,
lusingata nonostante tutto. “Starò più
attenta: promesso”.
“Sembra
che tu non
riesca a lasciare questa stanza molto facilmente”.
Sorrise,
Brittany, lo
sguardo che sfiorava quelle pareti che, oltre alla camera del
giovane, sembravano le uniche a trasmetterle quel dolce calore e la
sensazione di familiarità e di sicurezza. “E'
quella che più mi
piace”, ammise.
“Si
vede e non solo per
la danza”.
“C-Come?”,
era stato
il suo momento di guardarlo con occhi sgranati e l'espressione
evidentemente preoccupata. Un dubbio lacerante che le si stava
insinuando, alla sola idea che lui potesse anche sospettare quale
fosse il suo reale interesse, al di fuori della sua passione.
“La
canzone,” aveva
inclinato il viso di un lato e la stava osservando con un sorriso,
“sembravi incantata”.
Brittany si
sorprese
dell'idea che, durante l'esecuzione, ben lungi dal concentrarsi sulla
sua partner di canto, stesse proprio guardando in sua direzione.
“E'
davvero una
bellissima canzone”, sussurrò per risposta per poi
inclinare il
viso di un lato.
“Mi
piace la tua voce”,
aggiunse. Da molto tempo non si
era più
affezionata ad una voce che riuscisse a procurarle quel dolce tremore
nel cuore e quel brivido lungo la spina dorsale. Consapevole che,
socchiudendo gli occhi, sarebbe riuscita nuovamente a sentirne il
suono dentro di sé, fino a farla rilassare ed abbandonare al
più
dolce dei riposi.
Si era stretto
nelle
spalle, Hunter. “Non è facile trovare, in
un'Accademia, qualcuno
disposto e capace di esibirsi in questo tipo di
attività”, sembrò
schermirsi.
Le dispiacque
quella
risposta pragmatica. Sembrava che, malgrado se la cavasse
più che
bene e che il suo corpo fosse più che disciplinato ai
movimenti,
neppure la danza o il canto fossero la sua reale passione. Che
fossero soltanto un'occupazione come l'altra, a differenza di quanto
aveva pensato, quando era sembrato così entusiasta all'idea
di
reclutarla nel suo Glee Club. Che si trattasse soltanto del desiderio
di aggiungere un nuovo encomio e una nota di merito nel suo
curriculum? In momenti come quello, si domandava se mai sarebbe
riuscita a capirlo completamente.
“Sarebbe
un peccato se
non lo facessi”, aveva sussurrato più dolcemente.
Parve
sorpreso, Hunter,
ma inclinò il viso di un lato e le sorrise con altrettanta
gentilezza. “Sarebbe un peccato se tu rinunciassi alla danza
che è
la tua vera vocazione”, inclinò il viso di un lato
e la scrutò
attentamente. “Anche se averti qui è
divertente”.
“Ehi,
di questo passo
Finn sarà geloso”, si sentì dire, il
sorriso nella voce nel
tentativo probabilmente di smussare i toni ed evitare che quelle
parole o quel genere di discorsi la rendessero nuovamente nervosa ed
incapace di affrontare un altro tipo di conversazione.
Ma non parve
cogliere il
pretesto, Hunter. Aveva scosso il capo ed era avanzato in sua
direzione. “Quello che intendo dire-”.
“Mi
dispiace
interrompere, ma la nostra Barbie ha un appuntamento con gli stivali
della sua camerata”, era intervenuta la voce di Kitty: il
timbro
era molto meno dolce di quello che aveva allietato la platea.
Sorrideva di quel sorriso che Brittany aveva imparato a temere. Ma
ciò non le impedì di scrutarla con aria
incredula.
“Ma
ho fatto tutto
quello che dovevo e li ho lucidati ieri,” aveva replicato,
pur
premunendosi di non alzare la voce e
di
aggiungere: “Signora”.
Si strinse
nelle spalle,
Kitty, la coda di cavallo che scivolava sinuosa sulla spalla.
“Sei
diventata discreta a pulire”, le indicò l'uscita
con un cenno del
mento, il sorriso completamente dissolto dal suo volto.
“Kitty”,
era stata la voce di Hunter stavolta ad irrompere il dialogo in
corso.
“Hunter,
con tutto rispetto, ” il sorriso lezioso era tornato sulle
labbra
nel rivolgersi a lui, “la camerata femminile è
sotto la mia
giurisdizione, salvo ordini dall'alto”. Lo sguardo corse
nuovamente
a Brittany in una silenziosa minaccia che ella ben ricordava circa il
possibile coinvolgimento di Neal. “Chiarito questo,
è ora che tu
vada: non te lo ripeterò”.
Sospirò,
Brittany, ma annuì e riprese il suo zainetto. Vi ripose la
bottiglietta d'acqua, osservò la lettera per un istante, ma
ancora
non sembrava giunto il momento adatto. E neppure sembrava
particolarmente vicino. Aveva rivolto il saluto militare a Kitty, un
cenno della mano al ragazzo e si era lasciata l'aula alle spalle.
“Allora,
Hunter, ti va di riprovare il duetto? Non sono molto convinta di un
passaggio”, e già gli si stava avvicinando: lo
spartito tra le
mani. Sembrò aver recuperato il suo sorriso più
baldanzoso, nonché
la straordinaria capacità di sbattere le palpebre con
incredibile
velocità.
Sospirò,
Hunter, lo
sguardo ancora volto alla porta da cui Brittany era appena uscita,
prima di incrociare lo sguardo del Capitano.
Scosse il capo
e scrollò
le spalle. “No, ” fu la schietta e lapidaria
replica, “in
verità no”.
Non attese
risposta e
recuperò la sua sacca sportiva, senza più neppure
voltarsi.
Aveva sbattuto
le
palpebre, Kitty, l'aria incredula. “Ma-”.
“Ti
saluto, Kitty,
buone prove”.
~
Belle si era
sempre
affidata ai suoi amati libri: una finestra sulla realtà e su
mondi
distanti. Attraverso quelle immagini aveva conosciuto grandi amori e
grandi sofferenze, aveva contemplato volti di diversi Principi.
Nessuno di loro era mai stato descritto come la Bestia che si
ritrovava spesso ad osservare, giorno dopo giorno, cercando di
discernere da quel suo aspetto spaventoso o da quella natura
più
brusca e burbera e ricercare la dolcezza di uno sguardo sincero o di
un sorriso repentino quanto emozionante. In verità, per
quanto si
rifugiasse con piacere in quella biblioteca con la dolce compagnia
del camino, nessuno di quei libri avrebbe potuto ben descrivere
l'uomo che aveva di fronte. Probabilmente soltanto il suo cuore
avrebbe potuto schiudersi nel giusto modo e soltanto per lui. Se se
lo fosse concesso, ricacciando la paura e affidandosi ad esso, come
sempre.
Il suono della
tromba
giunse quasi molesto, ma Brittany sospirò e chiuse il libro:
la mano
ne sfiorò la copertina con un
sorriso.
“Grazie”,
sussurrò a
fior di labbra. “Sei sempre la miglior risposta”.
Ascoltò
i suoni ovattati
provenienti dalla camerata: le altre compagne si stavano ridestando a
loro volta e il viso di Marley fece capolino, un sorriso gigantesco
ad illuminarle il viso e gli occhi blu.
“Buon
San Valentino!”,
esclamò con voce gioviale. “Qualche programma
speciale?”.
San Valentino,
ripeté la ragazza tra sé e sé ma
carezzò nuovamente la copertina
del libro per poi aprirlo ed estrarne la lettera.
Reclinò
il capo per
osservare l'amica ed annuì, un vago sorriso.
“Credo di sì”.
Conosceva
ormai
abbastanza delle sue abitudini per poter supporre, quasi con
certezza, quando la sua camera sarebbe stata vuota. Così,
quando schiuse l'uscio (dopo aver bussato per sicurezza), non fu
delusa. Tutto era in perfetto ordine come sempre e i due gatti, dopo
esserci contesi la palla sul pavimento, avanzarono in sua direzione.
Sorrise e si chinò ad accarezzarli entrambi nei loro punti
preferiti, prima di rimettersi in piedi.
Avanzò
nella camera,
dopo essersi chiusa l'uscio alle spalle (assicuratasi che non vi
fosse nessuno nei corridoi), la busta ancora tra le dita e
scrutò il
letto del giovane. Si domandò se fosse
stato
meglio lasciarla in bella vista sul materasso o se dovesse
nasconderla sotto il cuscino.
Si
morsicò il labbro e
indugiò in quella posizione fino a quando Mr Pussy,
arrampicatosi
sulla cassettiera dopo esser balzato agilmente sul letto, non la
richiamò con il suo miagolio: stava facendo le fusa,
inarcando la
schiena, e Brittany osservò il cassetto più in
alto, quasi si fosse
trattato di un implicito suggerimento.
Sembra una buona
idea.
Sorrise
e accarezzò il felino quasi a ringraziarlo, prima di
schiudere il cassetto con l'intento di lasciare l'involucro al suo
interno, al sicuro da sguardi indiscreti o dagli artigli e le piccole
zuffe tra i due animaletti. Vi appoggiò la busta e poi la
nascose
sul fondo, provò l'impulso di richiudere subito il vano e in
modo
brusco, prima che la paura la costringesse a riprenderla e
stracciarla. Lo sguardo, tuttavia, fu attratto dal bordo di una
cornice d'argento che s’intravedeva sotto una sciarpa rossa,
con il
tipico motivo scozzese a quadrettoni.
Fu un lungo
momento
quello in cui indugiò a scorgere quel bagliore argentato,
prima che
la curiosità prendesse il sopravvento. La prese tra le dita
e la
sollevò.
Lo sguardo
azzurro cadde
dapprima sul ritratto del bambino che le strappò un sorriso
intenerito nello sfiorarne i lineamenti: non doveva avere
più di
dieci anni e se anche allora i capelli sembrassero più scuri
e vi
fossero dei ciuffi scarmigliati sulla fronte in quel caschetto, non
vi erano dubbi circa la sua identità. Non lo aveva mai visto
sorridere in quel modo: tanto puro ed innocente, spensierato e...
felice. Non c'era definizione migliore e avrebbe dovuto immaginare il
perché. Lo sguardo, infatti, fu attratto dalla donna che lo
cingeva
da dietro, il mento appoggiato alla sua spalla.
Brittany quasi
trattenne
il fiato: la prima cosa che pensò era che fosse
incredibilmente
bella ed eterea. Non una bellezza appariscente in un sorriso
accattivante o in un atteggiamento femminile e civettuolo. Al
contrario, scaturiva dalla dolcezza dei suoi lineamenti e di quel
viso dagli zigomi leggermente pronunciati che gli davano una forma
quasi a cuore. Lo sguardo castano era intenso e sembrava riuscire,
persino così immobile e statica, a catturare i pensieri
altrui. Le
belle labbra carnose erano curvate di un sorriso sognante e i
capelli, di un biondo castano, le incorniciavano il viso di una
carnagione chiara e quasi diafana. Pura e delicatissima, quasi una
bambola, così soave nell'armonia di quella
semplicità che riusciva
ad incantare lo sguardo.
Sentì
il fiato mancarle
al pensiero che non avrebbe mai avuto occasione di osservarla da
vicino o di poter sentire quanto melodiosa dovesse essere la sua voce
o semplicemente appurare che fosse reale.
Lo sguardo si
adombrò
nel domandarsi per quale motivo Hunter non teneva quella meravigliosa
fotografia in bella vista.
La risposta,
tuttavia, era fin troppo comprensibile e sembrava dire molto di
quell'ombra scura nel suo sguardo o quel suo apparire sempre
imperturbabile.
Trasalì
quando la porta
fu schiusa, la sorpresa la bloccò con la cornice tra le mani
e sentì
il ragazzo pronunciarne il nome con intonazione sorpresa.
Si era voltata
molto
lentamente, la cornice ancora tra le mani e il tempo sembrò
dilatarsi e bloccarsi in quell'istante. Quello in cui Brittany ebbe
la sensazione di sdoppiarsi e contemplare la scena dall'esterno
mentre una voce interiore sembrava
implorarla
di riporre l'oggetto, prima che fosse troppo tardi.
Hunter aveva
sgranato gli
occhi, lo sguardo verde era saettato verso la fotografia e
sembrò
vacillare come se lo avesse colpito con tutta la sua forza e lui non
fosse stato in grado di difendersi. Inerme ad un sopruso di fronte al
quale sembrava impreparato e incapace di reagire.
Brittany aveva
sentito il
cuore scalpitare furiosamente e aveva deglutito a fatica, mentre
l'altro si irrigidiva impercettibilmente.
“I-Io-”.
Non ebbe modo
di
articolare la frase o un tentativo di scuse: dopo quell'attimo in cui
tutto sembrò essersi fermato, Hunter sembrò
riprendere controllo di
sé. Si era avvicinato talmente rapidamente che, per la prima
volta,
Brittany fu impressionata dalla differenza di stazza, soprattutto
quando, con un gesto brusco, le strappò di mano la cornice.
Ma non
era stato il gesto di per sé a sconvolgerla quanto
l'autentica
rabbia di cui era intriso il suo sguardo che sembrava aver perso ogni
dolcezza o divertimento che vi avesse mai potuto scorgere fino a quel
momento. I suoi stessi lineamenti sembravano divenuti granitici.
Lo
sentì richiudere il
cassetto con tale violenza che riuscì a far sussultare anche
i due
gatti: Mr Pussy era bruscamente sceso dalla cassettiera, lo sguardo
interrogativo volto al padrone e un placido miagolio.
Dopo quello
che parve un
interminabile istante di silenzio, Brittany si volse ad osservarne la
schiena: aveva sollevato la mano, ma sembrò incapace di
allungarla a
sfiorarne la spalla o il braccio o cercare di pronunciare
qualsivoglia frase di cordoglio. Si morsicò il labbro e il
respiro
sembrò accelerare, riuscì a percepire il battito
convulso del suo
cuore e il timore di ciò che sarebbe potuto scaturire un
qualsiasi
gesto o una ricerca di contatto. Consapevole di essersi spinta fin
troppo oltre.
“S-Scusami,
”
sussurrò con voce tremula, “n-non avrei dovuto,
volevo solo
lasciarti una cosa e-”, le stava tremando la voce e
cercò di
prendere un bel respiro perché riuscisse a spiegarsi nel
modo
migliore, consapevole di dovergli una giustificazione più
che
plausibile.
Ma il ragazzo
non si era
neppure voltato ad osservarla: riuscì ancora a percepire la
rabbia
che stava covando in sé, seppur fosse immobile e lo sguardo
puntato
innanzi a sé e potesse solo scorgerne la postura rigida e la
tensione dei muscoli.
“Va'
via”, lo sentì
pronunciare con voce bassa che somigliava quasi ad un ringhio
rabbioso e che non aveva mai intaccato il suo timbro fino a quel
momento, neppure quando impegnato in un'invettiva contro Finn. Non vi
era l'autorità di un Capitano e tanto meno il formalismo del
suo
ruolo, ma pura ed autentica rabbia che era rivolta esclusivamente a
lei.
Era trasalita,
gli occhi
sgranati e il cuore sospeso in gola: il
suo
tono le strappò un brivido lungo la
spina dorsale. Per quanto
desiderasse trovare le giuste parole, riusciva soltanto ad osservarne
le scapole e la schiena, il tremore delle braccia e dei pugni
contratti che sembravano cercare di contenere le burrascose emozioni
che lo stavano dominando in quell'istante.
Sentì
l'aria mancarle e
un improvviso nodo alla gola.
Ne aveva
sussurrato il
nome, quasi una ricerca di rassicurazione, pur consapevole di non
meritarne alcuna, era avanzata in sua direzione.
Era stato
allora che si
era voltato e fu spaventata da quella che pareva una trasfigurazione
quasi innaturale dei suoi lineamenti.
Lo stupore
lasciò spazio
alla dolorosa consapevolezza che tutto fosse reale.
“Fuori!”,
seppur non
avesse alzato ulteriormente la voce o perso il controllo, il timbro e
lo sguardo erano stati così autoritari e rabbiosi che la
ragazza non
poté che indietreggiare. Sembrò essere un istinto
vitale, quando
lui avanzò e, per la prima volta, fu cacciata da quelle
stesse
pareti in cui aveva trascorso le ore più felici in
quell'Accademia.
“Hunter”,
sussurrò
con voce strozzata, gli occhi lucidi e il viso esangue, “t-ti
prego, io-”.
Il tonfo della
porta fu
così violento da strapparle un verso impaurito.
Rimase
immobile, il
respiro più rado e brividi caldi e freddi scivolarle lungo
la spina
dorsale: continuò ad osservare quell'uscio, quasi sperando
che
potesse nuovamente schiudersi a lei.
Ci vollero
diversi
istanti, scanditi dal battito irregolare, a farle comprender che era
stata appena gettata fuori della camera e dalla sua stessa vita. E
che era stata solo ed esclusivamente una sua colpa.
Indugiò
immobile nello
stesso punto: cercò un suono o un qualcosa che la riportasse
al
presente ma, oltre la soglia, sembrava esservi un silenzio spettrale.
Adagiò la mano a sfiorare la superficie di legno e vi
appoggiò il
capo.
Socchiuse gli
occhi a
ritrovare il respiro.
Si
tappò le labbra,
prima che ne sgorgasse il singhiozzo trattenuto fino a quel momento.
Talvolta ancora
pensava a quell'episodio che aveva rischiato di far finite tutto,
prima che riuscissero realmente a conoscersi. Sapeva che la sua colpa
non era stata la mera curiosità ma l'aver infranto la
fiducia
dell'altro. Un tradimento implicito, inaspettato che aveva reso la
Bestia più fragile e più che mai chiusa in se
stessa. E soltanto
per colpa sua.
Da
lì a poco sarebbe
scattato il coprifuoco, ma non aveva idea di quanto tempo fosse
passato da che si era rifugiata nel proprio letto. Cercò di
ignorare
le risatine delle compagne, si nascose sotto il lenzuolo per sfuggire
alla vista di Marley, quando avrebbe fatto ritorno dal suo primo San
Valentino con Ryder. Come avrebbe potuto raccontarle ciò di
cui si
vergognava così intensamente?
Morse
le lenzuola, trattenne i singhiozzi, ignorando il bruciore degli
occhi arrossati, il tremore diffuso lungo il corpo e lo stomaco che
si contorceva per la fame. Soffocò quei versi gutturali
contro il
cuscino, desiderando soltanto potersi nascondere dallo sguardo altrui
e persino da se stessa se fosse stato possibile. Scomparire senza
lasciare alcuna traccia di sé.
Fu
soltanto molto dopo, quando il silenzio e il buio calarono nella
camerata, che si lasciò cadere al torpore del sonno. Ma non
l'abbandonò l'idea dolorosa che, poco distante, anche il
ragazzo
probabilmente stava ripensando a quel maledetto istante.
~
Entrò
in sala mensa con
gli occhi gonfi per la notte quasi del tutto insonne: era uscita
prestissimo per cercare di
evitare gli
sguardi delle altre ragazze e incapace di sopportare ulteriormente i
crampi della fame. Se non avesse saputo che non avrebbe potuto
sottrarsi alla sfilza d'attività che Kitty aveva in serbo
per loro,
non avrebbe neppure provato ad ingoiare qualcosa.
Mrs Rose le
sorrise con
la solita dolcezza e quel calore che aveva sempre contraddistinto le
loro interazioni, ma in quel momento si sentiva incapace di meritare
persino la sua benevolenza, da sempre una delle poche cose piacevoli
della vita in Accademia. Ma doveva ormai conoscerla abbastanza bene
da incuriosirsi di fronte a quel suo incedere quasi timoroso e il
capo chino, tentando di sfuggire allo sguardo di chiunque.
“Stai
bene, Brittany?”,
le aveva chiesto, il viso inclinato di un lato, trattenendo il piatto
che avrebbe dovuto porgerle.
Avrebbe voluto
sorriderle
e salutarla con la solita allegria ma non riuscì neppure ad
articolare suono e si limitò a sollevare lo sguardo ad
incontrare
quello della donna, un verso rauco a sgorgarle dalle labbra che coprì
maldestramente con il pugno chiuso.
Scosse il
capo, Mrs Rose,
si tolse i guanti e le fece un silenzioso cenno con il mento
perché
la seguisse nelle cucine, dopo aver lasciato un'altra cuoca a
distribuire la colazione.
Dopo che si fu
seduta ed
ebbe bevuto un bicchiere d'acqua e trangugiato un paio di
bignè (che
Mrs Rose nascondeva con solerzia per le sue reclute preferite),
Brittany, seduta su un alto sgabello, sembrò recuperare un
po' di
colore in viso.
Rivolse un
sorriso grato
alla cuoca che le si era seduta di fronte e non sembrava avere fretta
di riprendere il suo lavoro.
Al contrario, la
donna le aveva sorriso incoraggiante. “Ora ti va
di
raccontarmi cosa è successo?”, le aveva chiesto in
un sussurro
appena percepibile.
Deglutì,
Brittany, e il
nodo in gola sembrò nuovamente acuirsi, ma annuì.
Non osò
incontrarne nuovamente lo sguardo, ma cercò di trovare le
parole per
spiegarsi al meglio. “Ho... Ho fatto una cosa
brutta”, esordì e
sembrò timorosa
del suo biasimo.
Sembrava
sorpresa, Millie
Rose, ma non si profuse in alcun giudizio prematuro e neppure
cercò
di incoraggiarla a spiegarsi in termini più espliciti.
“E lo hai
fatto volontariamente?”, fu la pacata domanda,
proferita con la stessa dolcezza.
Scosse il
capo, Brittany,
che sollevò il mento per guardarla e sembrò
accalorarsi perché
comprendesse bene quel punto. “No!”, aveva risposto
con vigore
per poi mordersi il labbro. “Cioè, non avrei
dovuto farlo, ma non
volevo ferirlo”, la voce era divenuta più rauca e
al solo pensiero
gli occhi erano nuovamente divenuti lucidi.
Mrs Rose
annuì e le
strinse la mano in un implicito segno di comprensione. “Hai
provato
a chiedere scusa?”.
“Ci
ho provato, non
tanto bene... ma adesso non vuole più vedermi e n-non
potrò
spiegargli tutto”.
La stretta
della donna
sulla sua mano era divenuta più ferma. “Ognuno
reagisce al dolore
a modo suo: devi dargli tempo di perdonarti ma, nel frattempo, devi
perdonarti tu stessa, Brittany”. Aveva atteso che i lacrimosi
occhi
azzurri incontrassero di nuovo i suoi. “Capita a tutti di
sbagliare, Brittany, e di ferire qualcuno senza volerlo, ma tu hai un
cuore puro e questo Hunter di sicuro lo sa”.
La mano esile
era
vacillata nella sua ed era impallidita. “Io non ho
detto-”.
“Oh,
scusami: intendevo
la
persona
di cui stai parlando”. Aveva finto di assumere un
tono più sussiegoso, ma le aveva sorriso con maggiore
dolcezza e una
punta di complicità.
Inclinò
il viso di un
lato. “Sei molto importante per lui. Sono sicura che
già vorrebbe
dirti che vuole perdonarti, ma è un ragazzo molto riservato:
non
riesce sempre ad aprirsi alle persone, anche se l'ho visto molto
più
rilassato ulteriormente. Ho quasi sospettato che Finn rischiasse di
finire l'anno senza punizioni”.
Seppure quelle
parole
fossero riuscite a farle sorridere, Brittany parve nuovamente
afflosciarsi ad un ulteriore dubbio. “E se non fosse in grado
di
perdonarmi, per quello che ho fatto?”.
Sospirò,
Mrs Rose.
“Allora dovrai comunque perdonarti, Brittany, e andare
avanti”.
La
ragazza annuì, ma parve ancora scoraggiata. “Grazie,
Signora Rose”, si era appoggiata alla sua spalla, allargando
le
braccia per cingerla e la donna le aveva sfiorato delicatamente la
schiena.
“Andrà
tutto bene”,
le aveva sussurrato con la sua solita dolcezza.
Era da molto
che
desiderava che qualcuno pronunciasse di nuovo quelle parole e con la
medesima capacità di riuscire a rasserenarla.
Sì,
doveva provare a
crederci.
~
Per la prima
volta da
quando era giunta al Glee Club, aveva atteso quell'allenamento con il
cuore pesante come un macigno. Certo, doveva concedere a Hunter del
tempo, ma sperava che almeno avrebbero potuto parlare con maggiore
tranquillità. Non riusciva a biasimare nessun altro se non
se stessa
e continuava a riflettere su quella scarna spiegazione che Neal gli
aveva fornito al ballo.
Era evidente
che stesse
ancora soffrendo e quel fantasma dal viso dolcissimo e dal sorriso
tanto incantevole, non gli permetteva
di vivere
serenamente il presente. Non avrebbe mai voluto essere la persona che
non soltanto non si era dimostrata capace di sostenerlo, ma che lo
aveva costretto a rivivere quei momenti e nel modo peggiore.
Era entrata
nell'aula di
danza spronandosi ulteriormente a non lasciarsi andare allo
sconforto, ma aveva presto scoperto, il nodo in gola sembrò
serrarsi
maggiormente, che Hunter non sarebbe venuto per la prima volta.
Cercò
di cacciare il suo
volto dai propri pensieri durante le prove e le minacce di Kitty
sembrarono ben utili allo scopo. Tuttavia, sembrò totalmente
dimentica della spensieratezza e della leggerezza che solitamente
accompagnava quelle ore e si ritrovò a riflettere
sull'eventualità
che Hunter non fosse disposto a parlarle molto presto. Sarebbe stata
in grado di affrontare le prove con quella consapevolezza,
sopportandone il silenzio o, peggio ancora, l'ostilità?
Alla fine
dell'allenamento, non seguì le altre verso l'uscita, ma fu
proprio
da Kitty che si diresse, mentre
era ancora
concentrata
nella lettura degli spartiti con il cipiglio
corrugato. Levò lo
sguardo, quando la
sua ombra le oscurò la visuale, l'espressione spazientita.
“Voglio
lasciare il
Glee Club”, si sentì dire con voce tremula.
Kitty non
batté ciglio
ma il corrugamento della fronte si accentuò. Scosse il capo,
infine,
e abbassò bruscamente il foglio. “Ascoltami bene,
Barbie, perché
lo dirò una volta sola,” l'aveva fissata con aria
glaciale,
“ballare è l'unica cosa in cui te la cavi
decentemente e, detto in
parole povere, ci servi”.
Si era
morsicata il
labbro, Brittany. Ironico che la prima volta che Kitty le rivolgesse
un riconoscimento di discutibile gentilezza, lei fosse di tutt'altra
opinione. Aveva scosso il capo. “Sono soltanto un
peso”, aveva
sussurrato con voce tremante, sentendosi nuovamente e pericolosamente
vicina alle lacrime.
Sbuffò,
Kitty,
incrociando le braccia al petto. “E' quello che dico da mesi
ma-”,
si interruppe e la fissò con un nuovo lampo di comprensione
che le
fece sgranare gli occhi, prima che un sorriso le increspasse le
labbra. Inclinò il viso di un lato, la coda di cavallo
scivolò
sulla spalla. “Aspetta, tu credi che Hunter non sia venuto
per
qualcosa che riguarda te, è così?”. Non
sembrò neppure sforzarsi
di nascondere il suo evidente divertimento all'idea.
Distolse lo
sguardo,
Brittany, ma Kitty pareva più che sicura di sé.
Il sorriso
continuò a sostare sulle sue labbra ritoccate dal
rossetto che spiccava incredibilmente, soprattutto considerando che
la maggior parte del tempo la trascorresse con vesti tutt'altro che
femminili.
“E'
così”, commentò
tra sé e sé il Capitano che avanzò in
sua direzione, le mani sui
fianchi prima di sollevare la mano a sfiorarne appena il mento, in un
finto vezzo di comprensione. “Sei così ingenua che
fai quasi
tenerezza”, l'aveva blandita ma con tono tutt'altro che
carezzevole
o realmente dispiaciuto per come la stava scrutando. Il disprezzo ne
oscurò lo sguardo e ne rese i lineamenti più
marcati, così la
piega delle labbra carnose. “Piccola stupida, lui e suo padre
sono
dovuti andare fuori città e lo avevano programmato
dall'inizio della
settimana”.
Rilasciò
il respiro,
Brittany, e fu come se, finalmente, quel macigno avesse allentato la
presa. “Grazie... di tutto”, aveva sussurrato e le
aveva sorriso
sinceramente, neppure curante dell'epiteto. Non soltanto le aveva
dato quell'informazione, ma l'aveva persino fatta desistere (a modo
suo, ovviamente) dal commettere un errore e allontanarsi dalla sua
attività preferita.
Aveva raccolto
lo
zainetto e si era voltata per allontanarsi, ma aveva sentito lo
sguardo di Kitty puntato in un punto preciso tra le sue scapole,
quasi fosse pronta ad infliggere l'ulteriore colpo.
“Credi
davvero di
essere così importante per lui?”, le chiese senza
fronzoli.
Si
fermò, Brittany, la
scrutò con la coda dell'occhio, e ne notò l'aria
più che
compiaciuta, lo scintillio più suadente e soddisfatto dello
sguardo.
“Apri
gli occhi,
Barbie”, le disse con voce carezzevole che contrastava
perfettamente con la perversa gioia nel suo sguardo. “Hunter
Clarington non è alla tua portata e tu lo sai
benissimo”.
Trattenne il
fiato,
Brittany, sentì nuovamente il cuore stretto in una morsa
dolorosa e
un brivido gelido scivolarle lungo la spina dorsale.
“La
tua presenza qui è
un insulto: neppure Neal ti vorrebbe, se non fosse un modo per
prendersi la tua bella mammina”.
Fu come
sentirsi
schiaffeggiare e vacillò per un istante, gli occhi sgranati
nel
vuoto e l'immagine del patrigno e dei suoi sorrisi più
dolci. Dello
scintillio delle iridi azzurre che lo rendevano vispo ma dolce come
un bambino e della premura con cui l'aveva sostenuta prima
dell'audizione.
Si
sentì stringere i
pugni e si volse bruscamente. “Stai mentendo!”,
malgrado lo
sguardo lucido, la sua voce si era levata con esasperata convinzione,
seppur più stridula.
Non parve
prendersela,
Kitty, al contrario il suo sorriso si fece persino più
esteso,
seppur dovesse deviare l'oggetto della sua offensiva. “Cerchi
così
disperatamente
di
trovare il tuo posto qui dentro: sei tu che
menti a te stessa e questo lo sanno tutti. Hunter ti ha voluta qui
solo per una strategia e devo ammettere che sia stato obiettivo sul
tuo talento. Ma temo che tu ti illuda se pensi che ci sia un altro
motivo”,
aveva inclinato il viso di un lato e la scrutò con
finta curiosità.
“Sbaglio
o non ti ha
neppure chiesto di diventare la sua partner? O di ballare con lui,
anche soltanto per una prova amichevole, si intende”.
Lasciò
che il silenzio
cadesse nella stanza, sembrò letteralmente crogiolarsi della
sua
confusione per poter affondare la stoccata finale. “Lo so, fa
male,
” sarebbe potuta sembrare sincera se non si fosse sforzata di
assumere quell'espressione contrita, “ma è il
momento che affronti
la realtà: se scomparissi da un momento all'altro, a chi
credi
importerebbe, a parte la tua amica "braccia di legno e occhi a
palla"? Persino Hudson ha perso interesse, da quando lo hai
condotto di nuovo tra le braccia del suo spaventapasseri”.
Sapeva
che Kitty stava soltanto dando sfogo alla sua secolare antipatia. Che
il solo fatto che fosse entrata in Accademia le fosse costato il suo
odio. Sapeva che i suoi sentimenti per Hunter gliela rendevano
ulteriormente detestabile.
Quello
che più non riusciva a comprendere, a quel punto, era fin
dove le
sue parole fossero soltanto una ripicca. E dove si celasse la
verità
che aveva cercato di ignorare fino a quel momento.
Dove
era la fosse Brittany e per quanto avrebbe potuto continuare a vivere
quella farsa prima che il suo castello di carte crollasse. Prima che
Hunter e poi Neal si stancassero di lei e della sua
incapacità di
affrontare degnamente una situazione o di esprimere i suoi sentimenti
per entrambi. Prima di deludere persino sua madre e l'unico gesto
d'amore che, finalmente, poteva compiere per ringraziarla di tutti i
sacrifici. Prima che qualcun altro la cacciasse dalla sua vita e lei
fosse costretta ad osservare, incapace di impedirlo o di reagire.
Prima
di domandarsi, ancora una volta in quegli ultimi dieci anni, cosa ci
fosse di sbagliato in sé, che rendeva impossibile a
chiunque, al di
fuori di sua madre, di amarla.
Le era passata
accanto,
Kitty, e Brittany aveva voltato il capo bruscamente nel tentativo di
nasconderle le lacrime e di trattenere il singhiozzo. La
sentì
appoggiarle la mano sulla spalla. “Lo sai? Dovremmo parlare
più
spesso: è stato un piacere”. Le aveva sussurrato
malignamente
all'orecchio.
Ne
sentì i passi
allontanarsi nel corridoio e Brittany si strinse le braccia al corpo,
prima che i singhiozzi infrangessero il silenzio.
Si
lasciò scivolare sul
pavimento e si strinse le ginocchia al petto.
~
Le
osservò tutte nella loro camerata: Lauren stava raccontando
qualcosa
e tutte le altre l'ascoltavano attentamente. Alcune ridevano e altre
sembravano fin troppo impressionate per farlo, ma erano un gruppo.
Condividevano lo stress e la stanchezza delle lunghe giornate, i
momenti di soddisfazione o di gioia personali. Erano loro contro il
mondo.
Cercò
di ricacciare le
parole di Kitty dalla mente: incontrò lo sguardo di Marley
il cui
sorriso si spense al vederne l'espressione.
Brittany
trasalì quando
si sentì sfiorare alla spalla e si volse ad incontrare lo
sguardo di
Tina.
“Devi
andare dal
Preside: mi ha chiesto di chiamarti e vuole che tu lo raggiunga
subito, sembra urgente”.
Aveva sbarrato
gli occhi,
Brittany, la mente ancora febbrile dei troppi pensieri e la tempia
che pulsava quasi dolorosamente.
Ringraziò
Tina, distolse
lo sguardo da Marley, si chiuse la porta alle spalle e si
affrettò a
percorrere il corridoio ormai più che familiare verso
l'ufficio di
Neal.
Bussò
alla porta.
“Avanti”,
le rispose
istantaneamente l'uomo: evidentemente la stava attendendo con ansia.
La prima cosa
che scorse
dalla porta fu lo sguardo serio – molto serio – di
Neal, seduto
di fronte alla sua scrivania.
Schiuse
maggiormente
l'uscio e il suo cuore sembrò fermarsi.
I loro sguardi
si
incontrarono subito e il suo respiro si fermò:
sentì il cuore
scalpitare furiosamente e la sua mente spegnersi. Per un istante le
pareti sembrarono girarle attorno e si sentì mancare il
terreno
sotto i piedi.
“Ciao
Brittany”.
La sua voce
era
esattamente la stessa: il tempo sembrava non essersi fermato e, in
quel lungo intervallo, l'aveva ricordata perfettamente. Era stata
un'irrinunciabile parte di sé, il simbolo stesso della sua
infanzia,
per quanto sbiadita o lontana.
A due metri da
lei, suo
padre, William Pierce, le stava sorridendo.
To
be continued...
Anzitutto
spero che abbiate tutti passato un buon Natale e che vi stiate
preparando a festeggiare degnamente la fine di quest'anno e l'inizio
del prossimo.
Spero
non me ne vogliate (troppo) per questo capitolo dai toni più
cupi,
ma la storia è tutt'altro che al termine. Una sbirciatina al
prossimo:
“Mamma,
io voglio che tu sia felice più di ogni altra cosa al mondo
e hai
bisogno di Neal per questo. E io non ti permetterò di
perderlo”.
“Perché ho la sensazione di star perdendo
te?”.
“Essere
un uomo non vuol sempre dire essere forte o apparire tale, Hunter.
Sotto quella divisa c'è altro e lei lo ha tratto fuori: fa'
che non
sia stato vano”.
«
Se la mia vita potesse somigliare a quella di una principessa, so che
tu saresti la mia favola: il mio Principe camuffato da Bestia
».
Vi
lascerò il tempo per le vostre elucubrazioni e vi do'
appuntamento
al 2014, augurandovi il meglio e ringraziandovi, come sempre, di
essere partecipi. Anche questa fanfiction è stato uno dei
momenti
più gratificanti del 2013 e lo devo a voi (anche se adesso
magari mi
volete un po' male :P) <3
Un
forte abbraccione,
Kiki87
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 9 ***
capitolo 9
Così
vicini a raggiungere
quel
famoso “vissero tutti felici e contenti”.
Quasi
credendo
che
non sia una finzione.
E
adesso che sei accanto a me,
guarda
quanto siamo arrivati lontano.
Siamo
così lontani. Così vicini...
Come
potrò affrontare i giorni impossibili,
se
dovessi perderti adesso?
(So
Close – Jon Maclaughlin;
colonna
sonora di “Come d'Incanto”
-
versione originale).
Capitolo
9.
Odiava
quella sensazione:
più si avvicinava all'obiettivo e più la distanza
sembrava divenire
insormontabile. Era come se, a dispetto della sua formazione e dello
spasmodico bisogno di tenere tutto sotto controllo, tutto gli stesse
sfuggendo dalle dita e non potesse fare nulla per impedirlo.
Erano passati dieci anni
dall'ultima volta in cui aveva sentito una simile angoscia, ma allora
non c'era stato davvero nulla che avesse potuto
fare, non era
stato il suo orgoglio a farlo fallire e castigarlo fino a quando il
dolore non era cessato, ma consumandolo dentro.
Si fece largo tra la
folla di passeggeri che stavano attraversando l'aeroporto e
lasciò
saettare lo sguardo al tabellone delle partenze, un nodo in gola a
realizzare che avrebbe potuto essere troppo tardi, seppur si fosse
rifiutato di crederlo, fino a pochi secondi prima.
Cercò l'imbarco, ma la
corsa s’interruppe alla vita delle due sagome familiari: il
Preside
che stava cingendo la fidanzata per le spalle, nell'evidente
tentativo di sostenerla. Quest'ultima sembrava aver perso la sua
verve e quello scintillio vivace che l'aveva sempre contraddistinta.
Si fermò di fronte a
loro e Neal parve sorpreso di scorgerlo.
Non osò pronunciare la
domanda che premeva sulle labbra, Hunter, ma non ce ne sarebbe stato
bisogno a quel punto. Se non un masochistico desiderio di sentire
quelle parole e lasciare che quella realtà si abbattesse su
di lui
con inaudita violenza.
Scosse il capo, Neal, e
Hunter rilasciò il respiro.
“E' troppo tardi”.
Lo sguardo corse alla
vetrata: un aereo stava solcando l'azzurro incontaminato e puro. Un
colore simile a quello di un paio di iridi che lo avrebbero
tormentato da quel momento, ogni volta che avesse chiuso gli occhi.
La lettera, impressa
nell'inchiostro rosa e dal profumo di fragola, cadde sul pavimento.
Due
giorni prima.
Brittany
tremò. Non
riusciva a credere a ciò che stava osservando in quel
momento: era
come se la sua vita le fosse passata davanti agli occhi, in una
rapida sequenza d’immagini che sembravano rievocare quel
passato
che aveva creduto perduto. Sempre meno nitido e
sfuggente come un sogno.
Quello stesso volto che
era stato il corollario dell'infanzia: il ricordo più dolce
e
struggente che ancora le spezzava il cuore. Lo stesso viso, impresso
in fotografie ingiallite, era a pochi passi da lei e quel sorriso,
per quanto dolce e rassicurante, non riuscì a riempirle il
cuore di
calore.
Sentiva la testa pulsare
dolorosamente di tutte le domande che ancora sostavano senza alcuna
risposta.
“Papà”, riuscì a
dire con voce rotta e per un istante fu come se quei dieci anni non
fossero mai trascorsi e di nuovo lo
stesse
osservando come
allora: la stessa
devozione e lo stesso bisogno.
Era stato un gesto
impercettibile quello con cui Neal parve chinare il capo: un moto di
resa e di consapevolezza. “Vi lascio soli”, si era
raddrizzato,
lo sguardo più serio che mai, mentre scrutava l'uomo con i
pugni
stretti lungo i fianchi. Alcun alone di complicità o di
simpatia. Si
volse a Brittany e ne sfiorò la gota.
“Sarò qui fuori”,
ammorbidì le labbra in un coraggioso tentativo di sorridere.
Sembrò
faticare a percorrere quei pochi passi che lo separavano dall'uscita,
ma, infine, si chiuse l'uscio alle spalle.
Aveva allargato le
braccia, William, in un chiaro segno di ciò che le stava
chiedendo.
Sentì il respiro farsi
più rado, Brittany, una parte di sé avrebbe
voluto coprire quella
distanza (ben più di dieci anni di lontananza), ma
restò immobile,
le braccia a stringersi il corpo. “C-Cosa ci fai
qui?”, riuscì a
chiedere con voce stentata. Levò finalmente gli occhi ad
incontrare
nuovamente quelli dell'uomo.
William abbassò le
braccia, ma il sorriso non sfumò dalle labbra e fu lui
stesso a
percorrere quei pochi passi che li separavano. “Sono tornato
perché
questa volta resterò”, aveva sussurrato e Brittany
sentì il nodo
in gola farsi più stretto, il respiro più
pesante.
Sostò in quell'istante,
quasi fosse quello che dovesse stabilire cosa ne sarebbe stato della
sua vita.
Lasciò che le si
avvicinasse, lo vide allungare le braccia ed attese un moto di
calore, nel momento in cui l'avrebbe nuovamente stretta tra le sue
braccia.
“Sta lontano da mia
figlia!”, la voce distorta dalla rabbia di sua madre la fece
trasalire. Entrò a grandi passi, seguita da Neal che stava
vanamente
cercando di trattenerla.
“Ciao Shirley, ti trovo
in splendida forma”, la salutò William.
La donna gli rivolse uno
sguardo carico d'odio e si limitò ad appoggiare la mano
sulla spalla
della figlia. Si frappose tra i due
in un
atteggiamento evidentemente difensivo.
“Come
osi presentarti qui, dopo dieci anni, e pretendere di parlare con
lei?!”, la sua voce non era mai persa così
stridula e il suo
sguardo non aveva mai lampeggiato di simile ira. “Come osi
guardarla in faccia, dopo quello che le hai fatto?!”.
Brittany
trasalì e quelle parole, la veemenza con cui furono
pronunciate e
l'eco delle stesse sembrò riempire quel silenzio innaturale.
Non
parve scomporsi, William, lo sguardo comprensivo rivolto a Brittany
le cui iridi saettavano dall'uno all'altra con espressione
evidentemente spaventata.
“Come
stavo spiegando al tuo fidanzato, vorrei solo avere un'occasione per
parlare con nostra figlia”.
Rise
senza allegria, Shirley, le mani piantate sui fianchi. “Hai
perso
quel diritto! Dieci
anni fa!”,
aveva ribattuto aspramente, lo sguardo ancora colmo di puro e
semplice disprezzo.
Aveva
sospirato, William, il cui sorriso non era ancora sfumato.
“Credo
che Brittany sia in grado di decidere da sola”,
replicò con tono
paziente.
“Non
parlare come se questa fosse una delle tue cause in
tribunale!”, lo
aveva ulteriormente incalzato, Shirley, la cui rabbia sembrava a
stento trattenuta nel suo corpo esile.
Scosse
il capo, Brittany, il viso tra le mani, quando le urla della madre
sembrarono aprire una porta dei suoi ricordi: un frammento in cui il
suo alter ego più minuto stava stringendo Lord Tubbington in
una
notte di tempesta. Entrambi credevano che dormisse, ma il loro
litigio le aveva tolto il respiro e ogni traccia di sonno.
Sentì
gli occhi farsi lucidi ma li schiuse. “Basta, tutti e
due!”, li
esortò con voce strozzata.
Sembrò
tutto fermarsi in quel momento: si volsero tutti in sua direzione e
sua madre cercò di stringerla a sé, baciandole la
fronte e
sfiorandone i capelli. “Vai fuori, Brittany, parleremo
dopo”.
“Non
puoi trattarla come una bambina”, era intervenuta la voce di
William il cui sorriso aveva lasciato spazio ad un'espressione di
disappunto.
“Finitela!”,
era stata la voce di Neal a sovrastarli. “Brittany ha ragione
e se
è per lei che volete agire, come suoi genitori dovreste
ascoltarla”,
aveva parlato in tono serio che sembrava così mal assortito
a quei
lineamenti spesso ammorbiditi dal sorriso più gioviale e
sbarazzino. Era stato lui stesso ad avvicinarsi a Brittany, ignorando
lo sguardo
risentito di Shirley, per poi appoggiarle le mani sulle spalle.
“Vuoi
parlare con tuo padre, Brittany? Vuoi avere delle risposte?”.
Brittany
si era morsa il labbro, lo sguardo che correva dall'uno all'altra: ma
fu di fronte agli occhi quasi imploranti della madre che il suo
respiro parve fermarsi. Fu la pressione di Neal sulle spalle a farla
riscuotere e questi le sorrise incoraggiante. “Va tutto
bene”,
l'aveva rassicurata.
Aveva
annuito, Brittany, con aria contrita.
“Bene”,
Neal si era voltato verso gli altri due. “Credo che avremmo
tutti
bisogno di tempo per calmarci: forse William potrebbe venire a cena
da noi, questa sera”.
Quest'ultimo
era apparso compiaciuto. “Sei molto gentile, Neal, ma avrei
un'altra proposta a dire il vero e, come sempre, mi piace agire in
anticipo e pianificare tutto per tempo”, aveva allungato una
busta
rettangolare verso Brittany che l'aveva presa con aria curiosa. Le
sue dita tremarono e impallidì alla vista di un biglietto
aereo.
Fu
a lei che si rivolse, ignorando i due fidanzati: “Ti
darò tutte le
risposte che vuoi, ma non soltanto: voglio darti tutto ciò
che ti ho
tolto. Vieni a Washington con me”.
Un
gemito le era sgorgato dalle labbra: il suo cuore sembrò
scalpitare
furiosamente e il biglietto cadde sul pavimento in un fruscio.
Shirley
era impallidita, per la prima volta anche la mano di Neal sulla sua
spalla vacillò.
“Non
me ne andrò questa volta,” aveva sussurrato
William
nell'abbottonarsi nuovamente il cappotto e passarle accanto.
“Decidi
con calma: ne riparleremo stasera”.
Non
aveva atteso risposta, le aveva sorriso un'ultima volta e aveva
lasciato la stanza. Sembrò indifferente al silenzio
sconcertato e
teso che aveva lasciato alle sue spalle.
~
Sembrava una quiete
irreale quella che si respirava quella sera: Brittany non aveva fatto
ritorno alla camerata, ma era tornata a casa con Neal. Vi era stata
un'atmosfera pesante per tutta la serata: sembrava che ognuno fosse
completamente estraneo agli altri ma che, al contempo, le analoghe
angosce ed emozioni della giornata fossero esposte sulla tavola
insieme alle portate.
Soltanto suo padre
sembrava perfettamente a suo agio: quasi stesse loro illustrando
l'arringa che avrebbe portato alla vittoria della sentenza, quasi
fosse stato già tutto stabilito ed ognuno di loro fosse
soltanto una
pedina di un gioco pianificato
fin dall'inizio, con dieci anni d’intervallo.
Continuava ad osservare
suo padre, ancora incredula: aveva raccontato della sua vita a
Washington: come se il trasferimento fosse stata una decisione
ponderata (e doveva essere stato così), senza alcuna
menzione della
fuga dalla sua stessa casa e dell'aver abbandonato la sua famiglia.
Soltanto un breve racconto del suo nuovo studio legale di cui era
socio anziano e donna che aveva conosciuto: di famiglia ricca ed
elegante e già madre di una figlia nata da un precedente
matrimonio.
Dal loro matrimonio era nata un'altra figlia che aveva da poco
compiuto otto anni.
Ha otto anni,
quell'informazione era rimasta impressa nella mente della ragazza, la
sua stessa età quando se
n'era andato.
Quella
notte non riuscì a prendere sonno: strinse tra le mani quel
libro,
quasi sperando che sfogliandolo, sarebbe riuscita ancora una volta a
trovare la risposta ai suoi dubbi.
Si
riscosse, quando sentì bussare alla porta: sua madre aveva
indosso
la camicia da notte, ma sembrava tutt'altro che stanca, nonostante si
denotasse l'espressione fin troppo seria. Le sorrise ma quel suo
solito brio sembrava scomparso. “Non dormi?”, le
aveva chiesto,
ma erano entrambe consapevoli che si trattava di una domanda
retorica.
“Neppure
io”, aggiunse con aria comprensiva e le porse una delle tazze
di
cioccolata. Si sedette sul letto, al suo fianco e, per qualche
istante, sostarono in quel silenzio che ricordava la loro casa e
ciò
che era stata la loro vita, a pochi giorni dalla partenza di suo
padre. Quando persino la loro spensieratezza sembrava essersene
andata con lui, prima che riuscissero a ritrovare il sorriso e
l'energia di andare avanti. Affidandosi l'una all'altra, fino
all'arrivo di Neal.
Non
aveva ancora assaggiato la cioccolata, Brittany, aveva adagiato la
tazza sul comodino, ma continuava a sfiorare il libro con aria
assorta, lo sguardo perso nel vuoto.
“Posso?”,
gentilmente sua madre aveva preso il volume e lo aveva schiuso:
Brittany la osservò leggere la dedica, ma non fece alcun
commento al
riguardo.
“Brittany”,
pronunciò il suo nome dopo quello che parve un tempo
infinito.
“Mamma,”
la ragazza aveva la voce rotta, ma sollevò gli occhi lucidi,
“mi
dispiace così tanto”.
Shirley
la guardò incredula, lo stesso scintillio di un dolore che
non era
mai stato espresso. “Di cosa dovresti scusarti?”,
cercò di
sorridere con la consueta ironia. “Io ti ho portato via dalla
tua
città e tu sei stata così coraggiosa da provare
la vita
dell'Accademia: sono così fiera di te e se forse io non
fossi stata
così egoista-”, la sua voce sembrava giunta ad un
punto di
rottura, come se improvvisamente fosse necessario comprendere quale
fosse stato il momento che aveva compromesso tutto. Come se quella
condizione potesse rendere più accettabile ciò
che sarebbe accaduto
dopo.
“Tu
mi hai dato tutto,” aveva obiettato Brittany, “e io
ti giuro che
ci ho provato”.
“Lo
so”, aveva sussurrato Shirley, il tono più dolce.
“Ma non avrei
dovuto sottoporti ad una simile pressione e se tu non eri pronta a
questa nuova vita, allora-”.
“Mamma,
io voglio che tu sia felice più d’ogni altra cosa,
” le aveva
stretto la mano con tale energia che era stata Shirley ad immergersi
nel suo sguardo, alla ricerca di un conforto e di una consolazione,
“e hai bisogno di Neal per questo. E io non ti
permetterò di
perderlo”.
“Perché
ho la sensazione di star perdendo te?”, era la prima volta
che sua
madre appariva così vulnerabile ed indifesa.
Brittany
la strinse tra le braccia con rinnovata energia, gli occhi lucidi e
le labbra tremanti.
“Non
mi perderai mai: sarai sempre con me e io tornerò da
te”, le aveva
detto con voce incrinata ma la strinse più forte, quasi
bisognosa
che lei capisse e che questo rendesse tutto più semplice.
“Ma ho
bisogno di risposte, prima di andare avanti”.
“Se
ti dovesse ferire di nuovo, non potrei sopportarlo”. Era
stata
l'ammissione con voce strozzata.
“Hai
già fatto tanto per me: è il momento che io ce la
faccia da sola,
mi capisci, vero?”.
Aveva
annuito, Shirley, ma aveva tirato su con il naso. “Preferivo
quando
venivi da me con Lord Coso in braccio, e potevamo dormire tutti
insieme”.
Aveva
sorriso, Brittany, ma l'aveva guardata con devozione. “Grazie
di
avermi lasciato scegliere”.
“Ringrazia
Neal, quel
traditore,
se fosse stato per me-”.
“Mamma”,
l'aveva richiamata con aria incredula, afflitta all'idea di aver
creato una frattura tra loro. Soprattutto quando l'uomo, ancora una
volta, aveva agito anteponendo il suo bisogno al proprio.
“Scusami,
era già dura vederti solo nei weekend e adesso...”.
“Io
tornerò da te, lo sai questo, vero?”. Aveva
ribadito a voce più
alta.
“Sarà
meglio per te, perché neppure tutto l'esercito degli Stati
Uniti mi
fermerebbe dal venirti a riprendere per i capelli, se
necessario”.
Aveva
riso, Brittany, ricacciando le lacrime ed erano rimaste immobili
qualche istante ad assaporare quel contatto e quella vicinanza,
quella promessa che sembrava più vitale che mai.
Si
era schiarito la voce, Neal, che era apparso sulla soglia dall'uscio:
bussò cautamente e Shirley si asciugò gli occhi.
“Al diavolo, mi
serve dell'altra panna”, era uscita dalla camera con la sua
tazza
di cioccolata e Brittany aveva sorriso all'uomo.
“Posso
entrare?”.
Aveva
annuito, Brittany, ed aveva atteso che Neal facesse il suo ingresso.
Aveva sfiorato con lo sguardo quelle pareti prima di prendere posto
sulla poltrona.
Sentiva
la tensione crescere ma quando lo guardò, non lo sembrava
più il
gigante che le era apparso la prima volta. Solo un uomo dal dolce
sorriso e quelle maniere tanto dolci, quello scintillio più
giocoso
nello sguardo che, anche nel suo caso, aveva lasciato spazio ad
un'aria più dimessa.
“Ti
prenderai cura di lei, lo so, però te lo chiedo lo
stesso”.
Aveva
annuito, Neal. “Lo farei anche a costo della mia
vita”.
“Lo
so,” aveva replicato Brittany. “e non ti ho mai
detto grazie per
questo”.
Aveva
scosso il capo, Neal. “Io dovrei ringraziare per essere
entrato
nella vostra vita e mi dispiace se ho sbagliato con te o-”,
Neal
sembrava faticare a trovare le parole, ma Brittany scosse il capo con
aria decisa e si accomodò sul bracciolo della poltrona.
“Tu
non hai sbagliato nulla,” ne aveva appoggiato la mano sulla
spalla.
“ e se anche tornassi indietro, rifarei tutto soltanto per
poterti
conoscere meglio”.
Aveva
sorriso, Neal. “Hai un cuore puro, Brittany: non cambiare
mai.
Promettimi che se avrai bisogno-”.
“Conterò
su di te. Ma io tornerò, Neal, per te e la mamma”.
L'uomo
sospirò. Sembrò in procinto di dire qualcosa, ma
scosse il capo
impercettibilmente.
Si
rimise in piedi e, dopo un solo istante di esitazione, si
chinò ad
appoggiare le labbra contro la sua fronte. Chiuse gli occhi,
Brittany, e inspirò quella vicinanza, desiderò
stringerlo ma quando
schiuse gli occhi, Neal era già sulla porta.
“Buonanotte”,
sussurrò e Brittany gli sorrise.
Aveva
creduto che prendere quella decisione avrebbe reso tutto più
semplice, almeno ciò che ne sarebbe derivato. Ma quella sera
la sua
unica certezza era quella di aver spezzato il cuore di due persone.
Non
vi ferirò mai più, sussurrò tra
sé e sé, le guance bagnate mentre si appoggiava
nuovamente al
materasso e cercava di dimenticare tutto nell'oblio di un sonno
ristoratore.
~
Era angosciante l'idea
che avrebbe percorso quel corridoio per l'ultima volta, ancora
più
struggente il pensiero che fosse l'unica a sentire quel nodo in gola.
Sempre più pungente mentre raggiungeva la sua meta.
Cercò
di cacciare le immagini dell'ultima occasione in cui si era trovata
di fronte a quell'uscio: nella mente ancora il suono della sua voce,
distorto dalla rabbia e quei lineamenti contratti. Trasse un profondo
respiro, per un istante sfiorò la superficie di legno:
quando
avrebbe bussato, tutto sarebbe cambiato di conseguenza.
Assaporò
quel momento di sospensione del tempo e della sua vita, prima di
avere il coraggio di palesare la sua presenza.
Uno scalpiccio di passi
familiari e, quando schiuse la porta, quello stesso paio
d’iridi
verdi, così chiare nei suoi sogni e nei suoi ricordi
più recenti,
la osservarono per un lungo istante di sorpresa tensione.
Gli occhiali appoggiati sul naso, Hunter sembrò vacillare
alla sua
vista e sentì nuovamente quella dolorosa contrazione allo
stomaco,
ma cercò di non ricordarsi che probabilmente sarebbe stata
l'ultima
volta.
Si
sarebbe dissolta, quando fosse stata lontana da Colorado Springs e
avesse pensato a lui?
Non
avrebbe avuto neppure una fotografia con sé, ma la dolce
consapevolezza che quei lineamenti sarebbero rimasti integri nella
sua memoria.
Non fece alcun cenno di
voler entrare: era come se avesse contaminato quel luogo, oltre al
loro rapporto, e non avrebbe fatto alcuna differenza fino a quando
non l'avesse perdonata.
Rilasciò il respiro, un
vago sorriso alla vista di Mr Pussy che, da sotto le gambe del
padrone, si stava sporgendo per strusciarsi alle sue caviglie. Si
chinò a sfiorarne appena il capo, prima di ergersi
nuovamente.
“Vorrei riavere il mio
gatto, per favore”, si sentì dire dopo quel lungo
istante di
silenzio.
Se prima di allora, era
stato un silenzio quasi complice, era come se quell'ultimo incontro
avesse segnato una barriera persino più estesa di quella ai
cui
estremi si erano posti, prima di imparare a conoscersi.
Si accigliò, Hunter, con
aria frastornata: che si aspettasse un altro tipo di dialogo non
avrebbe saputo dirlo. Non aveva mai avuto alcuna certezza nei suoi
riguardi.
“Sai che non puoi
tenerlo,” il tono era ragionevole e composto mentre stringeva
le
braccia al petto, il viso inclinato di un lato nello scrutarla.
“Qui
è al sicuro ma se vuoi vederlo-”, aveva fatto
cenno di scostarsi
dalla porta.
Sorrise amaramente,
Brittany, all'idea che fosse pronto a condividere di nuovo il suo
spazio personale. “Sto per andare a vivere a Washington e
spero di
portarlo con me”.
“Cosa?”. Non cercò
neppure di celare la reale sorpresa che ne aveva fatto sgranare gli
occhi e schiudere leggermente le labbra.
“Andrò a vivere con
mio padre e la sua famiglia”, spiegò in un
sussurro, tormentandosi
i capelli. “E' tornato per me”.
Parvero volerci diversi
istanti prima che Hunter assimilasse
la
notizia: la mano a risistemare gli occhiali, ma quel cipiglio
incredulo sul volto, ne tradiva la reale confusione.
Aveva
sospirato. “Mi sembra una decisione improvvisa: credevo che
ormai
l'Accademia significasse qualcosa per te”, seppur si
sforzasse di
apparire calmo, Brittany ebbe l'impressione vi fosse quasi un'accusa
nel suo tono.
Sentì gli occhi prudere,
ma distolse lo sguardo e si strinse nelle spalle. “Era
così
infatti”, levò nuovamente lo sguardo su di lui.
“Ma hai sempre
avuto ragione e non potevo continuare ad ignorare che questo non
è
il mio posto”. Un sussurro ovattato ma sembrò
colpirlo in modo
evidente.
Tanto che Brittany
avrebbe voluto allontanarsi rapidamente, prima che riuscisse a
compromettere la sua risoluzione ed intaccarne la sicurezza.
“Il mio gatto, per
favore”, insistette.
Ne sostenne lo sguardo
per un altro lungo istante, Hunter, prima di rabbuiarsi e rientrare
nella camera: lo prese tra le braccia e glielo porse dopo pochi
istanti.
Indugiarono entrambi
sulla soglia e Brittany strinse a sé Lord Tubbington, quasi
avesse
il disperato bisogno di un appiglio. “E' stato bello
conoscerti”,
si era sentita dire e aveva cercato di contenere l'emozione nella sua
voce. “E scusami... per tutto”,
sussurrò con voce più
incrinata al ricordo di quell'ultimo e fatale errore.
Aveva distolto lo
sguardo, Hunter, la mascella contratta ma un impercettibile cenno
d’assenso. “Spero che starai bene, a
Washington”.
Parole formali e troppi
silenzi sospesi: una confessione mai pronunciata e probabilmente
destinata a restare celata, ma la consapevolezza sempre più
dilaniante che fosse troppo tardi.
“Ciao Hunter”, si era
voltata con il cuore in gola nel compiere il percorso inverso, un
passo alla volta e la speranza di sentirne nuovamente la voce.
Fin quando la porta non
si chiuse: non aveva atteso che svoltasse l'angolo. Era
definitivamente un addio.
Emise un singhiozzo e
sentì Lord Tubbington sfregarsi al suo mento in un placido
miagolio,
ma scosse il capo e cercò di riprendere respiro.
Uscì dal campus e
raggiunse l'auto della madre.
“Stai bene?”, le
chiese quest'ultima senza alcuna incrinatura maliziosa o complice
nella voce.
“Sì,” sussurrò e si
sforzò di sorridere, dopo aver rimosso le ultime lacrime,
“è la
cosa giusta”.
Si domandò se nel
tentativo di persuadere la madre, non si celasse un disperato bisogno
di una conferma persino per se stessa.
~
La
penna scorreva sul foglio saltuariamente: qualche breve segno con
l'inchiostro rosso a correggere la punteggiatura o un difetto
grammaticale del test di metà semestre.
Aveva
un cipiglio corrugato a rivelare la concentrazione che stava mettendo
in quel gesto, ma lentamente un sorriso ne increspò le
labbra.
Poteva dirsi più che soddisfatto del risultato .
Stava
per scrivere il giudizio all'apice del foglio quando, come una sorta
di tornado umano, Neal Johnson, entrò nella stanza. Erano
rare le
occasioni in cui ne aveva scorto una simile espressione: non vi era
alcun guizzo nello sguardo o un'espressione bonaria. Soltanto
autentica rabbia mentre, senza pronunciare alcuna parola, si
avvicinava alla sua libreria per poi cominciare a scaraventarne i
libri a terra con il viso evidentemente trasfigurato dalla tensione.
Non
si scompose affatto, Jonathan Clarington, ma il cipiglio sulla fronte
si accentuò e lo osservò: attese qualche istante,
fino a quando
l'altro non sembrò completamente senza fiato e
abbandonò le braccia
lungo i fianchi. Stava ansimando.
“Gentile
da parte tua togliere la polvere dai miei libri”,
esordì con tono
imperturbabile e solo allora Neal lo guardò. Sembrava
invecchiato di
dieci anni, era come se avesse perso quella genuinità che
gli
conferiva un'aria più giovane, malgrado fossero coetanei.
Sospirò,
Jonathan. “Pensi che continuerai ad infierire su personaggi
storici
morti o ti deciderai a dirmi cosa sta succedendo?”.
Strinse
le labbra, Neal, prima di serrare la mascella. “Se ne
va”, riuscì
a biascicare.
La
penna cadde sul foglio e Jonathan sgranò gli occhi.
“Shirley? Cosa
diavolo è-?”.
“Brittany”,
precisò Neal e il cipiglio dell'altro si
approfondì.
“Se
vuole lasciare l'Accademia, immagino che-”.
“Andrà
a stare a Washinton con quel... William”, masticò
quel nome con
tutto il disprezzo di cui era capace.
Si
alzò bruscamente in piedi, Jonathan, e
circumnavigò la scrivania, i
pugni contratti contro i fianchi, seppur sembrasse sforzarsi di
mantenere la sua tipica compostezza e raziocinio.
“D'accordo”,
sollevò le mani come a voler prendere il controllo della
situazione.
“Hai provato a parlarle?”.
Scosse
il capo, Neal, che si afflosciò contro il muro e parve
svuotato.
“Non potrei impedirlo, neppure se lo volessi: è
una sua
decisione”.
Un
impercettibile sollevare gli occhi al cielo di Jonathan che tuttavia
sospirò. “Protesti comunque dirle cosa
provi”, lo incalzò.
Neal
lo guardò con aria quasi colpevole e deglutì a
fatica. “Volevo
farlo,” ammise e scosse il capo, “ma sarebbe
egoistico da parte
mia e dovrei anteporre il suo benessere al mio”.
“Forse”,
gli concesse Jonathan scrollando le spalle. “Ma
ciò non significa
che tu non abbia diritto di soffrire per questa decisione o di farle
sapere che l'ami come fosse tua figlia”.
Si
era rabbuiato. “Quello che non capisco è come
può accadere
così... improvvisamente. Senza contare che avrei davvero
voluto
vedere con quale faccia tosta quella specie di uomo si sia
presentato: sarei stato più che felice di dargli il mio
bentornato”, aveva soggiunto con aria più
minacciosa.
Aveva
sorriso amaramente Neal. “Ha bisogno di risposte che solo lui
può
darle”.
“Oh,
balle,” borbottò Jonathan con aria spazientita,
“è evidente che
stia scappando, da cosa o da chi,”
e il suo cipiglio si era corrugato, “non saprei dirlo ma se
non la
fermerete, sarete tutti suoi complici”.
“L'ho
forzata a vivere in una realtà che non è la sua:
avrei dovuto
incoraggiarla a seguire la danza o, non lo so, avrei dovuto
trasferirmi a New York e lasciare a te la direzione, io-”.
Scosse
il capo, Jonathan, quasi a volerne lenire gli evidenti sensi di colpa
e gli premette la mano sulla spalla. “Magari Brittany non
appartiene a questo posto, ma non potete lasciare che quell'uomo le
porti di nuovo via la serenità e la illuda del
contrario”.
“E' troppo tardi”,
aveva commentato Neal in un flebile sussurro.
Scosse il capo, Jonathan,
ritrasse la mano e si scostò bruscamente: senza pronunciare
motto si
avvicinò all'attaccapanni e prese il cappotto, sotto lo
sguardo
sconvolto dell'altro.
“Dove vai?”.
“A cercare di risolvere
l'altra parte dell'equazione”, fu la laconica risposta prima
che si
chiudesse la porta alle spalle.
Si era stretto nel lungo
cappotto e aveva attraversato i campi d'addestramento con incedere
sicuro e fluido: non era stato difficile scorgere, anche da lontano,
il plotone che il figlio stava addestrando.
Mentre tutti gli altri
erano impegnati nel compiere il loro percorso ad ostacolo, muovendosi
come un'unica macchina i cui ingranaggi erano perfettamente oliati,
Finn Hudson era l'unico disposto sul prato, sotto lo sguardo
imperturbabile del figlio. Il viso del ragazzone era paonazzo ed
imperlato di sudore mentre sollevava il busto, le braccia intrecciate
sulla nuca ad eseguire la serie di addominali.
Appoggiò la mano sulla
spalla del figlio: quest'ultimo si volse ad osservarlo con aria
evidentemente sorpresa. Era piuttosto raro vederlo nuovamente
percorrere i campi d'addestramento e abbandonare la sua postazione
dietro una scrivania o di fronte ad una classe.
Si chinò, parlando in un
sussurro. “Quando avresti avuto intenzione di dirmi che
Brittany se
ne sta andando?”.
La sorpresa divenne
persino più evidente sul volto del giovane che distolse
rapidamente
lo sguardo, per poi stringersi nelle spalle. “Le notizie
corrono in
fretta”, si limitò a dire con ostentata
indifferenza.
Scosse il capo, Jonathan,
prima di voltarsi verso il plotone. “L'allenamento
è sospeso:
rientrate tutti immediatamente”, lasciò echeggiare
la sua voce.
Un cicaleccio sorpreso si
diffuse: si fermarono tutti ad osservare i Clarington. Finn stava
già
sollevandosi con il sorriso ritrovato, quando Hunter strinse i pugni
lungo i fianchi. “Non per te, Hudson”,
sibilò. Parve
mortificato, il ragazzone, e assunse un'aria contrita, mentre tutti
gli altri, con aria evidentemente felice, si allontanavano. Alcuni
persino dandogli una pacca sulla spalla, a mo' di
consolazione.
“Ritirati pure,
Hudson”, ribatté Jonathan.
Parve confuso, Finn, che
guardò da padre a figlio, grattandosi nervosamente la nuca.
“Devo
dimagrire... Signore?”, chiese, quasi ad essere certo di non
aver
equivocato l'ordine.
Sospirò, Jonathan, che
scosse il capo, indicando con il mento la struttura dell'Accademia
verso cui stavano tutti dirigendosi, cercando di sfuggire al gelo
invernale. “Alla doccia!”.
“FORTE!”, esclamò
Finn con aria beata, quasi timoroso che Hunter potesse riprendersi da
quell'espressione
d’evidente stupore ed
incredulità. Si affrettò a raggiungere gli altri,
dopo aver
aggiunto un: “Cioè, grazie, Signore!”.
Non attese risposta e
riprese a correre più velocemente di quanto Hunter stesso si
sarebbe
mai aspettato. “Puck! Puck, ASPETTAMI!”.
Soltanto
quando anche la sua sagoma fu soltanto un punto in lontananza,
Jonathan si volse verso il figlio che aveva stretto le braccia al
petto e lo scrutava con le sopracciglia inarcate, in un'espressione
di evidente insoddisfazione per quell'iniziativa.
“Allora,”
lo incalzò il padre con aria perfettamente tranquilla.
“cosa hai
intenzione di fare?”.
Non
batté ciglio, Hunter, e Jonathan ebbe la sgradevole
sensazione che
quella nuova serenità che aveva scorto nel suo sguardo negli
ultimi
mesi, si fosse dissolta e che avesse nuovamente di fronte una sua
copia apatica.
“E'
una sua decisione”, proferì dopo un lungo istante
di silenzio,
continuando ad osservare il padre con la stessa aria implacabile.
Jonathan
sospirò. “E con questo siamo a due”,
commentò tra sé e sé
prima di osservarlo con evidente preoccupazione. “Non
è questo il
punto e lo sai”, appoggiò la mano sulla sua
spalla, quasi così
facendo riuscisse a stabilire un contatto abbastanza ristretto,
perché il giovane si sentisse in grado di esprimersi
liberamente e
lasciarsi andare.
“Ascolta,
lo so che la notizia di me e Julienne è stata inaspettata e
probabilmente anche improvvisa, ma sai anche che Rebecca è
stata
l'amore della mia vita”, la sua voce così pacata
aveva per la
prima volta subito una flessione. I suoi stessi lineamenti e il suo
sguardo sembrarono intaccati da quelle parole, al solo rievocare
l'immagine di quel volto e di una scomparsa prematura con cui stavano
ancora cercando di convivere dopo dieci anni.
Aveva
distolto bruscamente lo sguardo, Hunter, si era irrigidito come se lo
avesse colpito e parve più che mai cercare un pretesto per
non
osservarlo, per non lasciare che qualcuno scrutasse nelle sue
emozioni. La sola menzione sembrava insopportabile. “Questo
non
c'entra”, pronunciò e la sua voce non
riuscì a tradire quella
flessione più tremula.
Scosse
il capo, Jonathan. “Oh, sì. E' così e
così sarà fino a quando
non riuscirai ad affrontare il dolore e smetterla di
seppellirlo”,
aveva ribattuto.
Il
suo stesso sguardo verde scintillò nuovamente.
“Ogni singolo
giorno...”, sembrò lui stesso faticare a trovare
le parole ed era
probabilmente la prima volta che Hunter ne osservava l'aria
più
vulnerabile. Probabilmente, illudendosi che suo padre fosse
implacabile, aveva sperato che quella stessa apparente
invulnerabilità, potesse renderlo più forte.
“Non
passa un giorno senza che io ripensi a quella notte: ho smesso di
cercare un perché o di prendermela con il destino, alla fine
mi
resta il rimpianto di non averle ricordato quanto l'amassi, prima di
quell'incidente. Crediamo che il tempo che ci è concesso sia
infinito, ma non è così: noi due dovremmo
ricordarlo, meglio di
chiunque altro. Se hai qualcosa da dirle, anche se non le facesse
cambiare idea, dovresti farlo almeno per te stesso”.
Un
nervo vibrò sulla mascella di Hunter che aveva stretto i
pugni lungo
i fianchi e parve, per la prima volta, realmente intaccato.
Deglutì
e fu dopo un lungo istante che rilasciò il fiato seppur la
voce
apparisse più roca. “Non posso fermarla”.
Sospirò,
Jonathan. “Brittany sta scappando, non voglio neppure sapere
cosa
sia successo tra voi, ma tu, ” gli aveva cinto entrambe le
spalle,
nel tentativo di scuoterlo, “potresti essere la certezza di
cui ha
disperatamente bisogno in questo momento”.
Parve
non riuscire a trovare le parole, Hunter, lo sguardo si
scurì e il
respiro divenne più rado.
“Essere
un uomo non vuol dire essere sempre forte o apparire tale, Hunter.
Sotto quella divisa c'è altro e lei lo ha tratto fuori: fa'
che non
sia stato vano. Sii chi desideri essere, finalmente”.
Aveva
scostato le mani e, dopo un altro lungo istante di silenzio, si era
voltato, le mani affondate nel lungo cappotto. Sembrò in
procinto di
lasciarlo ai suoi pensieri, ma lo osservò ancora una volta,
da sopra
la propria spalla.
Un
sorriso a fior di labbra. “Per la cronaca, scommetto che
anche i
Principi avevano una divisa nelle favole dei Grimm”.
Un
vago colorito rosato sulle guance di Hunter, ma non ribatté.
Osservò
suo padre allontanarsi. Un vago sospiro e spostò lo sguardo
sull'altura.
~
Quando si alzò quel
mattino, sentì la tempia pulsare: decisamente nelle ultime
notti il
sonno era tardato a giungere. Scostò la coperta e si
passò una mano
sul volto: una fortuna che fosse Sabato o sarebbe già stato
in piedi
molte ore prima per la corsa e l'ispezione della camerata.
Si era infilato sotto la
doccia calda e aveva lasciato che il calore s’infrangesse
sulla
pelle, quasi sperando che anche i suoi tormentati pensieri fossero
lavati via dal bagnoschiuma.
Stava scegliendo il
maglione da indossare e lo sguardo si appoggiò sul comodino
accanto
al letto.
Da molto tempo era come
se la sua vita si fosse fermata quella notte: l'ultima volta che
aveva scrutato l'orologio, ed era passata da poco la mezzanotte del
primo Gennaio di dieci anni prima.
Si avvicinò cautamente
al mobile, sul quale Mr Pussy si stava stiracchiando con tanto di
fusa, e lentamente schiuse il cassetto. Dopo quella che parve
un'eternità, voltò la cornice e scrutò
il viso della donna,
soffermandosi sullo sguardo così dolce e quel sorriso pregno
d’amore
e di dolcezza.
Se avesse socchiuso gli
occhi, avrebbe persino potuto sentire il dolce scampanellio della
voce e della risata nell'appoggiarsi alla sua spalla. Quella dolce
pressione e il calore di quell'abbraccio.
La posò sul comodino con
aria assorta: fece per chiudere il cassetto, ma corrugò le
sopracciglia alla vista di una busta rosa. Aveva un intenso profumo
di fragola, quasi vi fosse stato spruzzato addosso volontariamente.
Il
suo cuore accelerò i battiti, quando quel volto gli si
materializzò
davanti: soltanto in quel momento ripensò che, nello
scorgerla
proprio davanti a quel mobile, aveva alluso al volergli lasciare
qualcosa.
Quasi
in uno stato catatonico la prese tra le mani e si lasciò
cadere sul
letto: osservò il proprio nome impresso in una calligrafia
femminile
dai caratteri tondeggianti, almeno quanto le circonferenze che
descriveva danzando.
Un
solo attimo d’esitazione prima di stracciarne l'involucro per
leggerne il contenuto: la stessa calligrafia con cui aveva stilato il
suo nome e lo stesso inchiostro rosa con cui doveva aver firmato il
modulo d’iscrizione al Glee Club. Si sorprese di quanto tempo
sembrava essere trascorso, e di quante occasioni erano state
sprecate.
Scosse il capo e lo
sguardo verde scivolò sulle righe scritte, un sussulto al
cuore a
leggerne la data.
31
Dicembre 2013.
Caro
Hunter,
E'
la prima volta che provo a scrivere una lettera per qualcuno, non so
neppure come si dovrebbe fare o cosa si dovrebbe dire.
A
volte vorrei che la mia vita fosse come quella delle favole: una
principessa a cui tutti vogliono bene, che vive in un luogo felice e
ha una mamma e un papà che le hanno insegnato ad avere il
suo “e
vissero per sempre felici e contenti”.
Non
è sempre così. So che sembro più
piccola della mia età e che non
sempre dico la cosa giusta. So anche che la vita è molto
più
difficile, anche se streghe e unicorni non esistono.
Ma
mia madre mi ha insegnato a guardare le cose bolle, a cercare
qualcosa di “favoloso” anche nella
realtà. E credo di averlo
trovato.
Quando
mio padre mi leggeva di un Principe, ho sempre immaginato che sarebbe
stato come nelle favole: sempre sorridente, con lo sguardo felice,
tante dolci parole che mi avrebbero fatto venire le farfalle nello
stomaco. Sto rivalutando l'idea e credo che il Principe Azzurro sia
troppo perfetto per essere vero.
Sto
scoprendo (ma ancora non ho finito leggere il libro) che esiste un
altro Principe che spesso è sottovalutato: quello che
all'inizio ha
un brutto carattere, sembra persino malvagio, non sorride mai ma, se
guardato attentamente, nasconde uno sguardo più triste. E
tanta
solitudine.
Anche
se si fa chiamare “Bestia” è pur sempre
un Principe. Ma il suo
sorriso vale persino più di quello del Principe Azzurro e
così un
suo abbraccio o il suo semplice sguardo.
Se
la mia vita potesse somigliare a quella di una Principessa, so che tu
saresti la mia favola. Il mio Principe camuffato da Bestia (senza
offesa!).
Ma
non devi dire nulla, lo capirò e non ti chiederò
mai nulla: fai già
tanto per me, ogni volta che mi sorridi. Quindi non smettere di farlo
e spero di poter sognare ancora un po' di essere quella Principessa.
Grazie
per farmi innamorare di te,
ogni
giorno di più.
Con
tutto il mio affetto,
Brittany.
Con
le dita tremanti, insinuò nuovamente la lettura nella busta,
prese
il cappotto ed uscì rapidamente dalla stanza.
Doveva
soltanto augurarsi che non fossero ancora usciti di casa.
~
Presente
“E'
troppo tardi”.
Le
parole di Neal echeggiarono a lungo nella sua mente, anche quando fu
uscito dall'aeroporto: lo sguardo ancora volto al cielo, laddove
l'aereo era scomparso, dopo aver lasciato una lunga scia.
Serrò
la mascella, uno spasmo doloroso all'altezza del petto e, per la
seconda volta nella sua vita, Hunter Clarington desiderò non
sentire
nulla ed estraniarsi dal suo stesso corpo.
Per
la seconda volta in vita sua, ebbe la sensazione che tutto gli si
sgretolasse addosso e che non potesse fare nulla per controllarlo.
To
be continued...
Spero
che abbiate passato bene le festività e il 2014 possa
sorridervi.
Da
parte mia sono in piena sessione invernale per l'università
ma la
scrittura e le fiction non mancano di darmi momenti di relax e di
consolazione allo stress quotidiano.
Capitolo
di transizione ma al contempo la svolta che porterà al
compimento
della fanfiction e degli ultimi nodi da sciogliere.
Uno
sguardo al prossimo capitolo:
“Non
è il caso di essere sarcastici: è stato un errore
di diciotto anni
fa.” “Sì, diciotto anni che camminano,
parlano e vengono a
vivere a casa nostra.” “Devi solo avere pazienza:
non durerà
molto questa storia”.
“Perché
cerca di diventare come loro quando è evidente che lei vale
molto di
più?” “Ho tante domande.”
“Credo abbia già le risposte:
deve solo avere il coraggio di accettarle (...)”.
“Amavi
la mia mamma?” “Sì, l'ho amata: quando
sei nata, ero certo che
l'avrei amata tutta la vita.” “Non eri felice
però”.
Ringrazio
di cuore tutte voi che mi avete sostenuto nel 2013 e spero
continuerete a farlo e che io saprò allietarvi questi
momenti di
lettura.
Un
abbraccione,
Kiki87
Dunque, dunque, vi devo
una piccola precisazione. Tra le MOLTE cose che non ho tratto da Glee,
una è sicuramente la cronologia. Ammetto che non saprei
neppure collocare gli episodi nella fascia temporale adatta (e non
parlo solo di mesi!). Quindi, sì, nella mia fanfiction
Brittany ha iniziato il 2014, anno in cui compirà 19 anni.
Per Hunter non ho specificato l'età ma immagino una
differenza di massimo due anni, quindi 20 compiuti. Fate conto che
l'Accademia fa le veci di un College per capirci ;)
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10
(…)
“Perché non
importa dove vai o cosa vedi,
vorrai sempre essere nel
luogo in cui appartieni,” disse Lucy.
“La tua casa è dove più
ti senti a tuo agio ed amata,” disse Wendy.
“E' una parte di te,”
aggiunse Alice. “E' dove si trova la tua famiglia”.
“Non c'è nessun posto
come casa,” disse Dorothy, come se
non avesse mai pronunciato
quelle parole.
(The
Land Of Stories: The Enchantress Returns
- Chris Colfer)
Capitolo
10
Dopo
aver vissuto tutta
la sua vita a New York, nella stessa casa, era al quanto strano
trovarsi nuovamente da capo: un secondo trasloco e una nuova dimora
ad accoglierla. Il tutto era avvenuto in un periodo molto
più breve.
Il viaggio in aereo non
era stato particolarmente entusiasmante: suo padre si era immerso in
pratiche di lavoro per quasi tutto il tempo, scritto sulla sua agenda
con l'immancabile penna stilografica, trascritto documenti al
computer
o letto fascicoli interi che avevano un'aria molto noiosa, a suo
modesto giudizio.
Brittany aveva diviso la
sua attenzione tra la vista al di fuori del finestrino (non che ci
fosse molto da scorgere, dopo aver trascorso mezzora ad indovinare le
forme delle nuvole, a dirla tutta) e l'indugiare sulla presa salda
dell'uomo sulla penna. Lo stesso modello di quella con cui aveva
trascritto la dedica sul suo libro: si era chiesta, le guance rosate,
se una volta giunti a Washington, sarebbe stato disponibile a
leggerle nuovamente qualche favola della buonanotte. O se lui stesso
ricordasse quei momenti con la sua stessa emozione e nostalgia.
Ci sarebbero state così
tante domande da formulare su quel lungo periodo di lontananza, sulla
sua nuova famiglia e su come avevano accolto la notizia del desiderio
di condurla con sé. Stava cercando di farsi coraggio per
rivolgergli
parola, e magari riscuoterlo dalla lettura, quando l’hostess
della
business class chiese solo se avessero voluto favorire di qualche
piatto o una bevanda.
Solo allora suo padre si
era ridestato, aveva sorriso con la sua solita sicurezza e aveva
ordinato due bicchieri di champagne: ne porse uno a Brittany che lo
guardò con aria dubbiosa.
“Un brindisi è
d'obbligo, direi”, le aveva sorriso, allungando il calice
verso il
suo per far cozzare i loro bicchieri. “Ad un nuovo
inizio”, aveva
sussurrato.
Aveva sorriso, Brittany,
e seppure lo champagne le avesse scaldato lo stomaco (un po' amaro
per i suoi gusti. E poi Neal, per festeggiare qualcosa, le avrebbe
offerto una torta e le avrebbe ceduto tutte le fragole. Si era
sorpresa per qual paragone, ma aveva scosso il capo), presto le
procurò una lieve emicrania che la indusse ad appoggiare il
capo
contro il finestrino. Con la coda dell'occhio si accorse che l'uomo
al suo fianco era nuovamente immerso nella sua lettura e aveva anche
inforcato un paio d’occhiali.
Sospirò. Non era il
viaggio che aveva sperato, ma avrebbe dovuto pazientare e
sperare che Lord Tubbington dormisse per quasi tutto il tempo.
La villa che aveva di
fronte era qualcosa di davvero... fiabesco.
Contrariamente a
quanto si era aspettata, dalle fotografie riportate in vecchi libri
di scuola, suo padre non abitava nel centro urbano, ma in una zona di
campagna i cui colori naturali davano al luogo un sapore più
simile
ad un giardino spropositato. Pareva di trovarsi al di fuori di un
castello, pur con tocchi moderni come la piscina, il gazebo di legno
con poltrone di un delicato color avorio. La struttura, in stile
coloniale, ricordava per location la casa dei Nani di Biancaneve, per
quanto molto più prestigiosa. Aveva una facciata di mattoni,
sormontata dall'edera che sembrava essere parte stessa della
bellezza, un'ampia porta ad arco con vetri trasparenti dava la vista
sull'ampio giardino che doveva essere un bel ristoro durante le
giornate estive.
Era rimasta molto
sorpresa all'idea che il padre, tipico uomo d'affari che si recava
sempre a lavoro in metropolitana, potesse adattarsi a quell'ambiente
più rurale, ma, a quanto aveva appreso, si trattava di
un'abitazione
che la moglie Chloe, di famiglia benestante, aveva ereditato.
Sembrava comunque ben avvezzo, a giudicare da come fosse naturale per
lui rivolgersi ad un autista di limousine, con tono spiccio e
formale, dicendogli semplicemente di ricondurli a casa, dopo averli
presentati brevemente all'uscita dell'aeroporto.
Quest'ultimo, un uomo
robusto ma dal sorriso bonario, le aveva aperto la portiera e, con
sua gran sorpresa, aveva estratto la valigia del padre e il suo
trolley. Quasi si vergognava di quel colore così vivace che
sembrava
spiccare rispetto a quella del padre, così elegante e dal
colore più
sobrio, soprattutto confrontandola con l'ambiente raffinato che si
trovava di fronte.
“Posso portarla da
sola”, aveva commentato, ma il padre le aveva stretto la
spalla,
ridendo come se avesse appena proferito una battuta di spirito.
“E' il suo lavoro,
Brittany, lascialo fare: tu hai cose più importanti a cui
pensare”,
aveva scrutato il trolley con le sopracciglia appena inarcate.
Aveva
annuito, Brittany, ma aveva osservato preoccupata l'uomo, mentre
sollevava la gabbietta nella quale Lord Tubbington era sveglio e
parecchio contrariato, a giudicare da come aveva rizzato il pelo e
stava soffiando minacciosamente.
“Va
tutto bene, Tubby”, cercò di carezzarlo dai fori
della porticina
che lo teneva chiuso all’interno.
“Viaggi leggera: Chloe
e Vivian portano come minimo cinque valige a testa, quando andiamo in
vacanza”, aveva commentato suo padre in tono distratto.
Brittany aveva sgranato
gli occhi: soltanto nelle fiction aveva potuto contemplare simili
lussi, ma non era qualcosa di troppo difficile da immaginare, se
quella villa che avevano di fronte era per loro qualcosa di tanto
abituale.
Sembrò in procinto di
aggiungere altro, William, ma la suoneria dell'iPhone lo sorprese e,
facendole cenno di seguirlo, si affrettò a rispondere e
dirigersi
lungo il vialetto acciottolato per entrare.
Brittany indugiò ancora
qualche istante: sentiva una nuova agitazione pervaderla, all'idea di
essere sottoposta al vaglio degli sguardi estranei e di ciò
che
avrebbero potuto pensare di lei e del suo stile di vita molto
più
semplice.
“Non vuole entrare?”,
l'autista le aveva nuovamente sorriso. “Mi permetta di darle
il
benvenuto, Miss Pierce: è molto diversa da come l'avevo
immaginata”,
sembrava essere un complimento, visto quel sorriso caloroso.
Chinò
il capo, premendo la mano contro la visiera del berretto.
“Conti su
di me se desidera andare in città o avere qualcuno che le
mostri i
dintorni”.
Lo aveva ringraziato con
gran fervore. Ed era stato davvero curioso constatare che era stato
un estraneo a farla sentire finalmente benvenuta. Si
vergognò,
l'attimo dopo, per un pensiero così poco lusinghiero nei
confronti
del padre, soprattutto, quando quest'ultimo si era affacciato
all'ingresso, richiamandola affinché lo raggiungesse.
La sensazione di
stordimento non sembrò affatto placarsi, quando le
mostrò la camera
dove avrebbe alloggiato e che sembrava quella di un albergo. Il letto
era ampio almeno una piazza e mezzo e tutte le pareti erano decorate
di una sfumatura d'azzurro chiaro: vi erano quadri raffiguranti la
campagna di Washington affissi alla parete, una scrivania e una
libreria piena di libri (nessuno di favole, aveva constatato a primo
colpo d'occhio). Un ampio armadio a tre ante che era pronto ad
accogliere tutti i suoi abiti e il suo trolley rosa che aveva un'aria
particolarmente dimessa, rispetto a quello scenario.
“E' il tuo colore
preferito, vero?”, suo padre aveva alluso a quella sfumatura
che
era ridondante in quelle pareti e aveva un'espressione tanto
orgogliosa e sicura di sé, che Brittany non aveva osato
contraddirlo. “Immagino che vorrai riposare e dovrai disfare
la
valigia: devo assolutamente passare dall'ufficio ma Chloe e la
servitù saranno a tua disposizione, se avrai bisogno di
qualcosa”.
“A più tardi”, lo
aveva salutato ed aveva atteso che la porta fosse chiusa alle sue
spalle, prima di rilasciare il respiro.
Tutto faceva sembrare
quella situazione persino più irreale e Brittany
continuò a
studiare quell'ambiente, domandandosi se sarebbe mai riuscita a
personalizzarlo, quando sembrava avere uno stile già deciso
e le
incuteva il timore di poterlo in qualche modo rovinare. Fu quando lo
sguardo cadde sul grande specchio d'avorio e scrutò il
proprio
riflesso che contemplò la sua espressione.
Tutt'altro che
entusiasta, sembrava spaventata e smarrita. Si sentì
esattamente
come si era sentita durante il the in salotto, in compagnia della
nuova famiglia di suo padre: assolutamente fuori posto. E sicuramente
non aveva giovato il modo in cui gli sguardi di Chloe e di Vivian, la
figlia maggiore (doveva avere più o meno la sua
età), avevano
indugiato sui suoi jeans scoloriti, la camicetta stropicciata dopo il
viaggio e i capelli spettinati. Un imbarazzo che era divenuto
qualcosa di dolorosamente simile ad una mortificazione persino per
chi, come lei, non aveva avuto particolari occasioni per voler
sfoggiare un look particolarmente curato. Ma aveva l'impressione che
persino l'abito del ballo all'Accademia non avrebbe fatto loro batter
ciglio.
Chloe era una donna
nobile ed aggraziata ma in modo quasi suggestivo: si muoveva con tale
cadenza da far sembrare le sue mosse una sorta di danza o
probabilmente era il portamento che persino dopo anni di danza
classica, avrebbe potuto difficilmente emulare. Seppur le ricordasse
vagamente la madre (per i capelli biondi e la silhouette slanciata),
il severo chignon e quella fronte sempre liscia, nonché il
sorriso
che non faceva che arricciare appena gli angoli della bocca, i suoi
lineamenti erano più spigolosi. O forse era dovuto al fatto
che non
sembrava quasi mai scomporsi. Sicuramente una donna di classe ed
affascinante, ma persino la sua stretta di mano era parsa fredda.
Vivian, in compenso, era
incredibilmente bella: lo aveva pensato con ulteriore disagio e non
l'aveva consolata che la sua evidente avvenenza avrebbe potuto far
apparire scialba persino una ragazza con buona autostima. Aveva la
pelle soffice, un profumo ammaliante, una bella bocca carnosa
ritoccata dal rossetto, i capelli di un biondo fulvo, lievemente
arricciati sulle punte e persino nella sua espressione appena
più
imbronciata, appariva perfetta. Era poco più bassa di lei,
ma i
vestiti eleganti e il tacco alto ne slanciavano la figura, facendola
sentire persino più assoggettata.
Alyson, invece, aveva i
capelli legati in due trecce, una lieve spruzzata d’efelidi
sul
naso ma un sorriso adorabile e spontaneo e, lo aveva notato con una
certa emozione, la forma degli occhi molto simile alla propria,
lievemente allungata.
Ho una sorella, aveva
pensato istintivamente, riuscendo quasi a sovrapporre i propri tratti
di infanzia a quelli della bambina. Si domandò se lei stessa
avesse
notato quel particolare, visto che la propria curiosità era
seconda
soltanto alla sua.
Sbrigate le
presentazioni e formalità, Brittany si era seduta con loro
per il
the e aveva dovuto fare del suo meglio per imitare la postura
corretta degli altri commensali e il suo timore si accrebbe quando,
involontariamente, qualche goccia di the le cadde sulla tovaglia
candida, nel tentativo di versarne nella propria tazza.
Nonostante il sorriso
bonario del cameriere o il sorridente: “succede anche a
me!” di
Alyson, Brittany si era persino più irrigidita e aveva
dovuto
cercare di prendere un bel respiro, come se si fosse nuovamente
trovata di fronte una giuria ad un saggio di danza.
“Allora, Brittany,”
aveva esordito Chloe, guardandola, “tuo padre ci ha
raccontato
dell'Accademia: è davvero una scelta... curiosa”,
le sue labbra si
erano arricciate e le sopracciglia finissime erano così
inarcate,
che Brittany aveva avuto la sensazione che volesse usare ben altro
aggettivo.
Oltretutto,
la sola menzione, le aveva procurato un istantaneo collegamento che
le aveva innestato una fastidiosa fitta allo stomaco. Ma si
schiarì
la voce, indugiando con il biscotto che non aveva ancora finito di
mangiucchiare (non le piacevano molto le mandorle, ma non era il caso
di apparire maleducata o ingrata).
“Credo sia stata
molto istruttiva: ho imparato molte cose”, aveva risposto,
malgrado
tutto, con un impeto di orgoglio al ricordo dei suoi progressi nel
famigerato percorso ad ostacoli o alla corsa mattutina prima di
colazione o persino alla pulizia degli stivali o dei pavimenti.
“Davvero?”, era
parsa educatamente sorpresa ma le aveva sorriso nuovamente con aria
condiscendente. “Ma immagino che tu aspiri a qualcosa di
più...
femminile”.
Il pensiero di come
Kitty avrebbe reagito a quelle parole, l'aveva rincuorata, ma si era
affrettata ad annuire. Non era riuscita del tutto a scacciare quella
sensazione di mero fastidio: anche se la vita in Accademia non le si
confaceva molto, provava un sentimento di lealtà nei
confronti di
Neal, Jonathan Clarington, persino del suo dispotico Capitano.
“Ballare è la mia
passione”, aveva risposto dopo un istante di silenzio nel
quale
aveva dovuto ricordarsi che si era allontanata da Colorado Springs
per lasciarsi tutto alle spalle.
“Oh,” aveva
commentato la donna che non era parsa minimamente impressionata,
“deve essere una piacevole... frivolezza per passare il tempo
libero, ma io mi riferivo ai tuoi progetti per il futuro”.
“Chloe,” l'aveva
richiamata William con aria bonaria, “ è appena
arrivata: lasciala
respirare”.
Il sorriso si era
gelato sulle labbra della donna e vi era una nota di freddezza nel
rivolgersi al marito. “Non era certo mia intenzione essere
invadente: stavo solo cercando di fare conversazione con la nostra
ospite e sono sicura che a Brittany non
dispiaccia”.
Non aveva potuto fare
a meno di notare come avesse sottolineato il sostantivo
“ospite”,
quasi ad alludere al fatto che la sua permanenza sarebbe stata
transitoria. Ma era stata lieta dell'interruzione. Se doveva
ammettere con una certa riluttanza che, più che mai, non
aveva
certezze sul suo futuro professionale o meno, aveva la sconcertante
sensazione che nulla che ciò avrebbe detto, sarebbe mai
parso
soddisfacente per la donna, neppure se avesse alluso ad
un'attività
di beneficenza. Ma fu al suo sguardo insistente che si
affrettò a
scuotere il capo e sorridere. “No, certo che no”,
aveva pigolato.
Non che fosse il caso, comunque, di esternare un'opinione diversa.
“Vivian potrebbe
portarti in città con le sue amiche: sono sicura che
sarà un modo
molto piacevole di ambientarti e cominciare a conoscere la
città”.
Si era voltava verso
la ragazza, quasi a cercarne la conferma: questa le aveva sorriso ma,
come nel caso della madre, non era stato un gesto tale da scaldarle
il cuore. “Sarà divertente,” aveva
commentato la ragazza, dopo
un istante di silenzio, “come due sorelle”.
Aveva
sottolineato il termine, ma lo sguardo divertito era stato scoccato
in direzione di William.
“Posso andare anche
io?”, aveva chiesto Alyson: le labbra sporche di cioccolato e
Brittany non aveva potuto fare a meno di sorridere.
La madre si era
affrettata a pulirle il viso con aria quasi rassegnata. “Sei
soltanto una bambina: perché per il momento non cerchi di
imparare a
mangiare senza sporcarti?”.
“Uffa”, si era
imbronciata con cipiglio così sincero che Brittany non aveva
potuto
fare a meno di concentrarsi su di lei, il viso inclinato di un lato.
“Potrei portarti dei
pasticcini al mio ritorno, così mi mostrerai i
giardini”, le aveva
proposto e la bambina le aveva rivolto uno sguardo così
entusiasta e
sinceramente grato che Brittany aveva sentito un dolce moto di calore
farne scalpitare il cuore.
“Alyson non mangia
dolci fuori pasto”, era stata la secca replica di Chloe e
Brittany
si era morsa il labbro e non aveva osato ribattere.
Lanciò un'occhiata in
direzione del padre che aveva nuovamente estratto il suo iPhone ed
era concentrato a scrivere rapidamente una e-mail.
“Magnifico,”
aveva detto distrattamente, “scusatemi, devo fare una
telefonata”.
“Immagino
che vorrai riguardare il tuo guardaroba prima di cena: posso chiedere
alla domestica di accompagnarti alla tua camera, se tuo padre
sarà
ancora impegnato”, le aveva proposto, Chloe, non appena il
marito
si era allontanato.
Si
era stretta nelle spalle, Brittany con un sorriso. “Posso
aspettare
papà: non ho molte cose con me”.
“Immagino
che allora avrai bisogno di qualcosa di nuovo, per stare con
noi”,
lo sguardo aveva perforato la sua mise con aria alquanto eloquente.
Evidentemente vivere in quella casa aveva delle regole concernenti
persino l'abbigliamento.
“Oh, andremo a fare
shopping?”, aveva domandato in un moto puerile, immaginando
che lei
e Vivian avessero un rituale simile a quello che suo madre chiamava
“shopping day”.
Chloe aveva storto le
labbra. “Non ho tempo da perdere: forse William non ti ha
detto che
sono molto occupata con la mia fondazione benefica. Ma
chiamerò il
nostro sarto e sono sicura che potrà cucire qualcosa di...
appropriato anche per te”.
“Oh, la ringrazio”,
aveva sussurrato con sussiego: persino quella che sembrava una
gentilezza spontanea, sembrava dover essere meritata.
“Imparerai che le
cose qui funzionano diversamente da quanto sei abituata. Con
permesso, Alyson, andiamo a prepararci per le tue lezioni di
pianoforte”.
La bambina l'aveva
salutata allegramente con la mano e Brittany aveva sorriso per poi
seguirle con lo sguardo. Non appena furono uscite, Vivian
saltò in
piedi, il cellulare tra le mani. “Ciao Stacy, no niente di
che”,
l'aveva sentita cicalare mentre usciva, camminando rapidamente,
malgrado i tacchi alti.
Rimasta sola,
Brittany, si morsicò il labbro ed osservò la
tavola vuota.
“Gradisce altro the,
Miss Pierce?”.
“No, grazie”, si
era alzata, concedendo ai camerieri di sparecchiare: non osando
avventurarsi nella casa senza indicazioni o il permesso, si era
fermata di fronte alla vetrata che dava la vista sul giardino.
Aveva
sospirato con aria sgomenta: non era proprio l'inizio in cui aveva
sperato.
“Ancora qui?”, le
aveva chiesto suo padre una decina di minuti dopo. “Vieni, ti
mostro la tua camera”.
Si era appoggiata al
proprio letto e si era lasciata stendere a rimirare il soffitto: era
come se la sua vita a Colorado Springs fosse lontana anni luce e,
ancora una volta, dovesse ricominciare tutto da capo.
~
Non ricordava di aver mai
dormito su un letto più comodo: nessuna tromba a suonare a
mo’ di
sveglia, nel mezzo della notte, strappandola dai suoi sogni e
riportandola mestamente alla realtà.
Ci mise qualche istante,
quando schiuse gli occhi, a riconoscere la stanza dagli arredi e la
mobilia eleganti. Sospirò e si raddrizzò con il
busto prima di
osservare la debole luce del sole.
Constatò che erano da
poco passate le sette del mattino – in Accademia
già sarebbe stata
in ritardo – e cercò di rilassarsi nel morbido
lettone. Si domandò
come sua madre stesse dormendo e se fosse ancora molto triste o Neal
avesse tutto sotto controllo. Sorrise all’immagine del micio
addormentato beatamente accanto a lei e ne sfiorò il pelo
con aria
assorta.
Quando ormai il sonno
sembrò dimentico, si alzò: avrebbe approfittato
del tempo a
disposizione per cercare qualcosa di abbastanza carino, o almeno il
più vicino agli standard della padrona di casa, tra i pochi
abiti
che aveva condotto con sé. Ne scese uno molto semplice dal
colore
rosa e pettinò con cura i capelli che poi legò in
una treccia a
spiga, lasciandone qualche ciocca libera sulla fronte e ai lati del
viso. Quando la cameriera giunse a chiamarla sembrò
più che
sorpresa di scorgerla già in piedi, ma Brittany le sorrise
allegramente, mentre cercava qualche molletta con cui fissare le
ciocche ribelli.
“La colazione sarà
servita a breve, ma può accomodarsi di sotto: la signora
è già
seduta a tavola”.
Aveva annuito, Brittany,
cercando di insinuare gli orecchini. “E mio
padre?”, le chiese
guardandola dallo specchio mentre ella rassettava il suo letto, dopo
aver indotto Lord Tubbington – il pelo dritto e
un’occhiata di
puro biasimo – ad accontentarsi del tappeto.
“Il signor Pierce è
partito questa mattina per incontrare un importante cliente
europeo”,
pareva sorpresa che non lo sapesse.
“Oh”, aveva sgranato
gli occhi, sorpresa e confusa: non avevano ancora avuto modo di
parlare seriamente dopotutto, anche se erano concordi che avrebbe
passato del tempo a Washington.
“Tornerà tra una
settimana”, aggiunse la ragazza con un sorriso gentile, ma
Brittany
parve preoccupata alla prospettiva di tanto tempo in sua assenza, in
una casa che non le apparteneva e in balia della padrona e delle
figlie. Della maggiore soprattutto che sembrava amichevole almeno
quanto Kitty nei giorni del suo “migliore”
umore. Si morsicò le labbra, ma decise di scendere per non
farsi
attendere troppo, soprattutto se dovevano essere tutte presenti per
la colazione.
Stava scendendo le scale
verso il piano inferiore, il brusio di voci concitate: gli ultimi
bisbigli di una conversazione che non avrebbe dovuto udire.
“Quanto andrà
avanti questa pagliacciata?”, aveva chiesto Vivian, a
mo’ di
buongiorno una volta giunta a tavola. Neppure guardando la madre,
aveva estratto la cipria per gli ultimi ritocchi al viso.
Chloe, che le aveva
tolto il cosmetico e lo aveva richiuso con un gesto secco, le aveva
rivolto un’occhiata ammonitrice. Avrebbe dovuto comunque
ringraziare il botulino se la sua fronte sarebbe rimasta liscia,
anche di fronte all’argomento più spinoso.
“Vivian, abbassa la
voce per favore: niente isterismi”.
Aveva incrociato le
braccia al petto, la ragazza, con aria tutt’altro che
distesa: “A
quale gioco sta giocando tuo marito con questa
storia della
figlia ritrovata?”.
Chloe, pur
preoccupandosi di poter avere sgraditi ascoltatori, le rivolse
un’altra occhiata di pura esasperazione. “Credi che
a me faccia
piacere? Speravo che almeno portasse una signorina con un minimo di
classe. Non mi sorprende che si sentisse a suo agio in un’Accademia
promiscua, a rotolarsi nel fango”.
“Bella classe,”
aveva commentato l’altra ridacchiando, “mettere
incinta una
liceale, sposarla per accontentare la suocera e poi andarsene e
piantare in asso lei e la figlia”.
Aveva stretto le
labbra, Chloe. “Non è il caso di essere
sarcastici: è stato un
errore di diciotto anni fa”.
“Sì, diciotto anni
che camminano, parlano e vengono a vivere in casa nostra”, fu
l’ulteriore replica sferzante.
“Devi solo avere
pazienza”, aveva sospirato la madre, cingendole la mano.
“Non
durerà molto questa storia: ce lo vedi a recuperare dieci
anni di
rapporto? A farle da balia o trattarla come fosse la gemella di
Alyson. Rinsavirà, ma intanto ha lasciato a noi il piacere
per una
settimana”.
Si era incupita alla
precisazione. “Non ho affatto voglia di portarla in giro con
le mie
amiche: penseranno che stia facendo della beneficenza. E’
così
scialba”.
Sospirò
ulteriormente, Chloe che tambureggiò con le unghie smaltate
sulla
tovaglia candida. “Non parlarmene: non ci metterà
molto tempo a
capire che non è del nostro mondo. Vorrei sperare che lo
avesse già
fatto, ma è meglio non illudersi troppo”.
“Non sembra troppo
sveglia”, fu la replica dell’altra che
scrollò le spalle con un
vago sorriso e riprese la cipria.
“Shh, sta
arrivando”.
Era un sorriso fin troppo
repentino quello che apparve sul volto di Chloe, quando la vide: ne
squadrò la figura e sembrò scovare i molteplici
difetti che
dovevano essere evidenti al suo sguardo. Il fatto che il vestito non
fosse stirato e fosse dozzinale se paragonato al loro, il trucco
appena visibile, le unghie corte e sminuzzate e le ballerine ai
piedi.
Chloe dovette
probabilmente ricorrere ad uno sforzo disumano per non dimostrare il
proprio disappunto. “Spero tu abbia dormito bene”.
“Buongiorno”, la
ragazza indugiò con le mani strette in grembo ma sorrise ed
annuì.
“Molto bene, grazie, spero anche voi”.
“Accomodati”, le
indicò il posto accanto a quello della figlia maggiore che
le
concesse appena un sorriso stirato.
Poco dopo apparve Alyson
che, dopo aver baciato la guancia della madre, ignorò il
posto che
solitamente occupava William, andò a sedersi accanto a
Brittany,
dopo averle rivolto un bel sorriso che la ragazza ricambiò.
Si era
sporta verso di lei. “Ti va di prendere il the con me,
dopo?”, le
aveva chiesto con voce esitante.
“Tesoro, sono sicura
che Brittany abbia cose più serie a cui pensare”,
si era
intromessa Chloe, mentre la cameriera disponeva le loro tazze e
serviva qualche pietanza per la colazione: nulla di più
casereccio
come tost o cerali ma un'accurata selezione di cibi che Brittany non
avrebbe neppure saputo identificare, nella maggioranza dei casi.
“Volentieri”, era
stata la pronta risposta di Brittany e la bambina parve illuminarsi.
Chloe tacque, la linea
delle labbra incredibilmente stirata.
Non fu una sorpresa
constatare quanto si sentisse molto più a suo agio nella
cameretta
della bambina, fingendo di prendere del the con vassoi e piattini di
plastica, circondate da bambole delle più svariate taglie.
Alyson
era dolce e piena d’energia: aveva almeno una decina di
domande da
rivolgerle per ogni cosa che le dicesse o raccontasse, ma Brittany si
divertì a rispondere ad ognuna e anche ad aiutarla a trovare
un nome
da duchessa per intrattenere quel gioco di ruolo, o atteggiarsi a
gran signora parlando di cavalli, di castelli o di viaggi in Europa.
Fu quando, dopo più di
un’ora di finto salotto, Alyson tacque che Brittany si
preoccupò
dei pensieri che dovevano attraversarle la mente.
“Stai bene?”, le
chiese dopo aver posato la tazza di plastica.
Sembrò indugiare la
bambina, prima di riuscire a dire qualcosa, ma infine si decise, il
viso inclinato di un lato e lo sguardo acceso di speranza, malgrado
l’esitazione evidente. “Tu sei mia sorella,
vero?”.
Aveva sentito un dolce
calore in petto e il tambureggiare più emozionato del suo
cuore.
Aveva annuito, il sorriso più dolce. “Abbiamo una
mamma diversa,
ma non mi piace dire sorellastra, ”
spiegò raggrinzendo
appena il naso in una smorfia che fece sorridere la bambina,
“ma
potrei essere tua sorella, se vuoi”.
Aveva sorriso
ulteriormente la bambina, continuando a scrutarla. “Sei
diversa da
Vivian”, aveva infine proferito.
Sospirò, Brittany, ed
annuì con aria appena più mesta. “Lo
so: lei è davvero elegante
e sarebbe perfetta per questo gioco”.
Ed è bellissima,
aggiunse mentalmente con un sospiro.
“Ma tu mi piaci,”
l’aveva contraddetta la bambina: le sopracciglia corrugate e
il
sorriso nel cingerle la mano, “sono contenta che sei
qui”.
E per la prima volta dal
suo arrivo, sentì di potersi davvero sentire a casa. Almeno
per
qualche istante di piacevole immersione nel mondo della bambina.
Non voleva dubitare delle
buone intenzioni in quel tentativo di aiutarla ad inserirsi meglio,
ma non avrebbe potuto trovare le parole per esprimerle, senza
offenderla, che quel look non era proprio adatto a lei. Alyson,
seduta sul suo letto mentre carezzava Lord Tubbington, l'aveva
guardata con aria sconvolta: gli occhioni sgranati e le labbra
schiuse che osservò dal riflesso dello specchio.
“Stai malissimo”,
aveva detto così serenamente che Brittany aveva persino
riso, per
poi annuire con la stessa aria perplessa.
Le mani sui fianchi,
studiò ancora una volta la sua figura: indossava un abito
nero ed
austero nella sua sobrietà: sprovvisto di maniche e dalla
gonna a
tubino a stringerle i fianchi, collant (che odiava) e scarpe di
vernice con tacco sottile e una giacca blu che le arrivava alla vita.
I capelli le erano stati acconciati in una crocchia persino
più
stretta di quella di Kitty, al suo primo giorno
d’addestramento.
“Devo solo...
abituarmi”, ma neppure lei sembrava particolarmente convinta
mentre studiava le unghie finte che le erano state applicate, di una
tonalità fiammeggiante di rosso. Come si poteva usare le
dita senza romperle? Ed erano davvero così indispensabili?
“Sembri vecchia”,
fu il commento di Alyson, coronato da una smorfia.
Sì, Brittany, non
avrebbe saputo trovare un aggettivo migliore per l'eccessiva
serietà
dell'abito, soprattutto con quegli occhiali dalla finta montatura,
che avrebbe dovuto attribuirle, a detta di Chloe, un'aria più
intellettuale.
Sospirò: era soltanto un
modo di adattarsi, come indossare un'altra orribile uniforme in
Accademia, dopotutto.
Vivian fece capolino
dalla porta, con espressione evidentemente annoiata: “Sei
pronta?”,
le chiese.
Brittany non poté fare a
meno di notare che il suo look non avrebbe potuto essere diverso dal
proprio, anche se probabilmente sarebbe riuscita ad indossare lo
stesso outfit senza un risultato similmente disastroso. Probabilmente
lo stava pensando anche lei, perché lo sguardo che le
rivolse era
qualcosa di simile allo schifato.
Le sorrise l'attimo dopo.
“Sei molto... elegante”, disse con le labbra
percosse da un
tremito. “Andiamo, le mie amiche non vedono l'ora di
conoscerti”,
aveva sorriso, infine, con un'incrinatura più melliflua.
“Fammi gli auguri”,
sussurrò Brittany alla bambina ma quest'ultima, per
risposta, si era
imbronciata. “Non prenderai più il the con me,
vero?”, aveva
pigolato.
“Ma certo che lo farò:
preferirei restare con te,” ammise con un sospiro,
sfiorandone i
capelli e accertandosi che Vivian non sentisse, “ma al mio
ritorno,
ti racconterò tutto quanto”.
“Promesso?”, una
scintilla d'entusiasmo era tornato a farne baluginare gli occhioni,
sottolineato da quel sorriso repentino.
“Promesso”.
“Allora?”, la voce
sferzante di Vivian le riscosse e Brittany si affrettò a
prendere la
borsa (anche quella tristemente nera e fin troppo grande per i suoi
gusti) e raggiungerla.
Trovarsi di fronte alle
amiche di Vivian fu come essere la (sfortunata) comparsa di una
fiction con ragazze ricche quanto affascinanti che gettavano occhiate
sprezzanti a chi non consideravano degno di loro, chi non poteva
permettersi abiti come i loro o chi non aveva le stesse origini.
Si sentiva intimidita,
Brittany, se i vestiti che indossava normalmente non erano abbastanza
eleganti, il completo che le era stato confezionato era ancora
più
lontano dalla sua personalità.
Nel viaggio in limousine
aveva osservato il gruppetto ridere e scherzare, apparentemente come
se lei fosse invisibile, tanto da avere quasi il timore che persino
respirare, potesse sottoporla di nuovo ad un'attenzione poco
lusinghiera.
Strinse le labbra, ma il
suo disagio non migliorò, quando le seguì in un
negozio
d’abbigliamento e le osservò scegliere diversi
capi delle migliori
griffe sul mercato: avevano persino a disposizione uno stender
appendiabiti.
“Non provi nulla?”,
le aveva chiesto una delle ragazze.
Era arrossita. Non aveva
minimamente pensato di portare con sé tutti i suoi risparmi,
ma
dubitava che sarebbero stati sufficienti a comprare qualcosa di
più
di un foulard.
Aveva scosso il capo.
“No, ma voi fate pure: aspetterò qui”,
aveva commentato in tono
affabile, fingendo di curiosare a sua volta tra gli scaffali e i
reparti.
Le tende del camerino
dietro il quale si era rifugiata Vivian, furono aperte e la giovane
la richiamò. “Ti dispiacerebbe prendermi la
cintura in vetrina?
Voglio vedere come si abbina a questo vestito”, le aveva
sorriso.
Non ebbe neppure tempo di
rispondere perché le altre ragazze fecero capolino dagli
altri
cubicoli.
“E a me le scarpe
azzurre con gli strass: stai lontana da quelle di vernice”.
“Il vestito bianco per
me”
“Gli occhiali da sole
per me: quelli a goccia”.
“E anche una pochette
per me”, aveva aggiunto Vivian annuendo al suo riflesso.
“Avanti,”
l'aveva esortata, vedendone l'espressione smarrita e corrugata nel
tentativo di memorizzare le istruzioni di ognuna, mascherando il tono
insolente con un sorriso, “non abbiamo tutto il giorno:
è solo il
primo negozio”.
Sbigottita e non poco
preoccupata all'idea di dover ricordare ogni futile dettaglio (che
cos'era una pochette, a proposito?!), Brittany si era allontanata in
fretta, cercando con lo sguardo una commessa libera che potesse
aiutarla a rintracciare tutti gli articoli. Sentiva l'ansia divorarla
e il disagio crescente per le scarpe troppo strette.
Era riuscita a recuperare
le scarpe e gli occhiali da sole (chissà se erano quelli
giusti), ma
avrebbe dovuto chiedere a Vivian, sperando di non farsi udire dalle
altre, dove fosse la pochette che le aveva chiesto. Si
affrettò a
tornare nell'area dei camerini, attenta a non far cadere gli articoli
tra le braccia.
“Bella sorpresa i tuoi,
Vi, io avrei preferito un bel soldato dell'Accademia a questo
punto”,
sentì la voce di una delle ragazze, prima che riuscisse a
palesare
la sua presenza al di fuori delle tende.
Era arrossita e la
menzione le aveva procurato una stretta al cuore, senza contare
l'umiliazione all'idea d’essere oggetto dei loro scherni.
Scosse il
capo e si decise a richiamare la ragazza, ma fu la sua risposta ad
anticiparla.
“Non parlarmene:
dovreste vederla girare per casa con quell'aria da cane bastonato.
Patetica ed insopportabile”.
Sentì il cuore fermarsi
in gola, un nodo stretto che le rese difficile articolare un suono,
mentre lentamente la vergogna le procurava un brivido gelido a
discendere lungo la spina dorsale.
“Davvero crede di
potersi adattare alla vita di qui?”.
“Crederebbe di vedere
un unicorno, se le mostrassi un manifesto: è davvero
imbarazzante.
Speravo che s’inventasse una scusa, dopo che William
è partito per
risparmiarci la sua presenza. Insomma, neppure i suoi genitori la
vogliono tra i piedi, un motivo deve pur esserci”, era stata
la
sferzante replica, in tono crudelmente divertito che aveva fatto
ridere le altre.
“Ma dov'è finita?”,
l’aveva incalzata una delle altre.
Aveva sbuffato, Vivian.
“Sarà meglio vada a recuperarla o chi la sente mia
madr-”,
schiuse le tende per poi sussultare alla vista della ragazza.
“Brittany!”.
Non parve imbarazzata, al
contrario, un'espressione di disappunto la fece accigliare:
“Stavi
origliando?”.
“Mi dispiace di non
essere abbastanza stupida da non capire”, replicò
in tono
stizzito, lasciando cadere a terra gli accessori e i capi
d'abbigliamento che aveva tra le braccia, prima di togliere anche la
falsa montatura degli occhiali e la molletta che teneva legati i
capelli. “Magari mio padre non mi ha voluta, ma almeno adesso
so
che la colpa non è mia, se preferisce una figlia viscida
come te”.
L'aveva vista sgranare
gli occhi, aveva ignorato lo sguardo incredulo delle amiche e degli
avventori più vicini e si era affrettata ad uscire dal
negozio,
ignorandone i richiami: gli occhi gonfi, le labbra tremanti e il
cuore ancora in gola per quell'agitazione improvvisa.
Cercò di regolarizzare
il respiro, ma la rabbia aveva presto ceduto il posto ad un dolore
fin troppo intenso alle parole di Vivian e all'idea che vi fosse un
fondo di verità.
Cosa stava facendo?
L'Accademia non era stata la sua casa, ma era evidente che la villa
di Chloe lo sarebbe stata ancora meno. Cosa avrebbe fatto fino al
ritorno del padre? Era evidente che non fosse mai stata la benvenuta:
ad eccezione della piccola Alyson, nessuno si era dato la pena di
provare a darle un'occasione.
O tanto meno suo padre
era sembrato ansioso di parlare con lei o anteporre la loro
riconciliazione ai suoi impegni di lavoro, se neppure gli era
sembrato opportuno informarla dei suoi impegni. Non era mai stata una
sua priorità e questo non sarebbe cambiato.
Trasse un profondo
respiro, scostò le lacrime dal viso, e camminò
lungo la strada al
di fuori del centro commerciale, incurante della pioggia. Soltanto un
sorriso nostalgico al ricordo di un temporale su un campo
d'addestramento di Colorado Springs, di un Principe Soldato a trarla
in salvo. Chissà cosa stava facendo in quello stesso istante
o se
avesse mai pensato a lei, dalla sua partenza e da quell'addio quasi
frettoloso ed inevitabile.
“Miss Pierce”, si
riscosse e trasalì, quando un uomo si affiancò,
ma riconobbe
l'autista che la stava riparando con il suo ombrello e le aveva
rivolto un'occhiata preoccupata. “Prenderà freddo:
salga in auto,
la riporterò a casa”.
“Ma Vivian?”, chiese
con voce confusa seppur confortata da quella traccia di gentilezza
del tutto disinteressata e sincera.
“Non avrà problemi,”
rispose in tono composto, ma sembrava indifferente alla prospettiva
del contrario, “la prego, insisto”.
Gli sorrise con aria
grata, Brittany, ed entrò nell'auto ed affondò
contro il
confortevole abitacolo caldo, mentre l'uomo le porgeva una salvietta
con cui asciugarsi, ma neppure si stupì di quella
sorprendente
presenza dei comfort di qualunque tipo.
Le fu persino di
compagnia durante il viaggio, indicandole di tanto in tanto qualche
monumento o qualche piazza famosa, ma fu quando giunsero fuori dalla
villa che la trattenne.
“Perché cerca di
diventare come loro, quando è evidente che lei vale molto di
più?”.
Sorrise con aria mesta,
Brittany, per quanto simili parole sembrassero fin troppo pregne di
una gentilezza che sembrava dimentica tra quelle mura lussuose.
“Ho
tante domande”, aveva sussurrato per risposta, sperando che
potesse
comprenderla, pur non conoscendone la storia.
“Credo abbia già le
risposte: deve solo avere il coraggio di accettarle e di essere se
stessa”, aveva alluso ai suoi abiti con una vaga smorfia.
“Tra
parentesi, quel trolley è il bagaglio più bello
che io abbia mai
trasportato”, aveva aggiunto con un guizzo divertito che le
aveva
strappato una risata.
Era tornato serio.
“Cambiare la sua natura, la sta solo allontanando dalla sua
vera
vita, non se lo dimentichi”.
Rimuginò a lungo su
quelle parole, Brittany, lo sguardo che vagava al paesaggio che
riusciva a contemplare dalla sua finestra, Lord Tubbington
rannicchiato tra le sue braccia.
Trasalì quando l'uscio
della sua camera fu schiuso ed apparve Chloe con aria di gran
disappunto.
“Ho avuto una
spiacevole conversazione con Vivian su quello che è successo
questo
pomeriggio e sulla tua intollerabile condotta”, aveva
esordito con
tono petulante e risentito.
Sbatté le palpebre,
Brittany, prima di stringersi nelle spalle. “Non
disturberò più
Vivian”, replicò in tono composto.
Non pareva soddisfatta la
donna il cui sguardo si accigliò ulteriormente (o almeno le
parti di
viso non ritoccate) e così la postura rigida.
“Vorrei che le
porgessi le tue sincere scuse: non è così che mi
aspetto che si
comporti un'ospite”.
Sorrise, Brittany, quasi
divertita dalla situazione. “Mi dispiace,”
commentò con lo
stesso tono pacato e sembrò che il cipiglio della donna si
attenuasse, “mi dispiace aver impiegato così tanto
tempo a capire
la verità e aver fatto soffrire le persone che
amo”.
Sbatté le palpebre,
Chloe, evidentemente perplessa per poi incupirsi ulteriormente.
“Voglio che tu chieda scusa a Vivian, per quello che le hai
detto
questo pomeriggio”, precisò come se la ritenesse
dura di
comprendonio.
“Lo farei, se avessi
mentito o se ritenessi di aver sbagliato”. Probabilmente
valeva la
pena dimostrarsi così incuranti soltanto per osservarne
l'espressione mutare e quell'arrossamento del volto.
“Insolente testarda, ”
lo sguardo era divenuto glaciale, “solo perché tuo
padre vorrebbe
rimediare al passato, non significa che tu abbia alcun diritto di
venire qui ed occuparti con aria così sfrontata ed ingrata.
Se tua
madre non ti ha insegnato neppure cosa sia il rispetto,
allora-”.
Si era bloccata alla
vista del mutamento del volto della ragazza: gli occhi fiammeggianti,
aveva abbandonato il gatto sul materasso per poi stringere i pugni
lungo i fianchi. “Non dica una sola parola su mia madre e,
per
favore, esca. Dopotutto questa resterà la mia camera, fino a
quando
non tornerà mio padre”.
Probabilmente perché
totalmente spiazzata, probabilmente perché una grande
signora non
avrebbe mai dovuto alzare il tono, ma Chloe indietreggiò con
le
labbra ancora strette. “Lo informerò personalmente
e lo esorterò
a tornare prima del previsto”.
Inclinò il viso di un
lato, Brittany, rilasciò il respiro e si concesse di nuovo
un
sorriso educato. “Gliene sarei molto grata: ho davvero
bisogno di
parlare con lui e sono stanca di rimandare”.
“Ti farò portare un
vassoio per i pasti: non ho intenzione di vederti nuovamente in giro
per casa”, e prima di darle occasione di replica, aveva
sbattuto la
porta alle sue spalle.
Brittany rilasciò il
respiro e si lasciò cadere sul proprio letto:
lasciò che Lord
Tubbington le si appallottolasse in grembo e ne sfiorò il
pelo, lo
sguardo volto al soffitto.
L'attimo dopo si ritrovò
a sorridere: era riuscita a tenere testa a Vivian e Chloe in una sola
giornata. E, dopotutto, se lei poteva considerarsi la Cenerentola
malcapitata, entrambe sarebbero state perfette per il ruolo di
sorellastra e matrigna.
~
Trascorse i giorni
seguenti nella propria camera: non aveva alcun desiderio di unirsi
alla famiglia del padre (a prescindere dal divieto di Chloe) ed era
piuttosto grata che anche loro desiderassero lasciarla sola, ad
eccezione di Alyson la cui compagnia era stata l'unica fonte di gioia
in quel contesto.
“Sei triste”, osservò
la bambina dopo che ebbero inscenato una cena formale sul tappeto,
coinvolgendo persino Lord Tubbington a cui era stato legato un
tovagliolo intorno al collo, ma che aveva preferito continuare a
dormire.
Sorrise, Brittany, nello
sfiorarne i capelli e realizzare quanto fosse in grado di capirla con
un semplice sguardo. “Mi manca la mia famiglia”,
sussurrò in
risposta.
Aveva spiegato brevemente
alla madre della partenza del padre, ma senza porvi particolare
enfasi perché non si preoccupasse. Checché la sua
reazione fosse
piena di indignazione, Shirley non lo aveva manifestato dal telefono
e aveva cercato di ricondurre la conversazione su aspetti
più
familiari, come l'avvicinamento del matrimonio e persino alludendo
alle questioni dell'Accademia ma senza mai riferirsi esplicitamente
al giovane il cui volto era sempre più presente nei suoi
sogni.
“Credevo che fossimo
noi la tua famiglia”, aveva pigolato la bambina e Brittany si
era
affrettata a cingerla e appoggiare il mento tra i suoi capelli.
“Tu ne fai parte”,
aveva precisato. “E ne farai sempre parte, se lo vorrai,
ovunque io
sarò”.
“Ma non vuoi restare”,
aveva obiettato la bambina, guardandola con aria afflitta.
“E'
perché papà è stato cattivo con
te?”.
Per quanto la domanda
fosse stata pronunciata con tono pigolante e quasi timoroso, Brittany
aveva sentito una dolorosa contrazione all'altezza del petto, ma le
aveva sorriso e ne aveva sfiorato la guancia. Aveva scosso lentamente
il capo: non avrebbe permesso che la bambina perdesse fiducia
nell'uomo o la sua vita si tingesse di sfumature più
malinconiche.
“Sono sicura che ha sempre fatto del suo meglio e che ti ama
più
d’ogni altra cosa”.
Quasi invocato da quelle
parole, la porta si schiuse e l'uomo fece capolino con il suo sorriso
più pacato.
“Papà!”, aveva
gridato Alyson che si era alzata per corrergli incontro.
Brittany restò a
contemplarli con un vago sorriso, prima di alzarsi in piedi e
rilasciare il respiro, consapevole che il momento stava finalmente
giungendo.
“Come stanno le mie
bambine?”, aveva chiesto l'uomo, baciando la guancia della
piccola
ma guardando la primogenita.
“Non siamo bambine, ”
aveva protestato Alyson, guardando la sorella, “diglielo,
Britt!”.
“Non lo sono”, si
sentì dire e William la guardò a lungo prima di
rilasciare il
respiro.
“Sto per leggerle la
favola della buonanotte: vuoi venire?”.
Suo malgrado aveva
sorriso ed annuito con reale emozione. “Mi piacerebbe
molto”.
C'era qualcosa di dolce e
struggente nel sentirlo nuovamente leggere: la sua voce era persino
più profonda di come la ricordasse in quei frammenti del
passato. Ma
continuò ad assistere, ignorando quella fitta al cuore,
soprattutto
alla rivelazione di quale volume stesse attualmente leggendo alla
bambina.
Quelle parole,
soprattutto, sembrarono continuare a ronzarle in testa come
pungolandola, affinché non le ponesse da parte.
“ « Belle era
accanto a suo padre: ciò che aveva disperatamente desiderato
dalla
loro triste separazione nel castello dell'orribile Bestia. Eppure,
adesso che poteva scorgerlo coi suoi stessi occhi, si sentiva
distante come non mai. Era come se la gioia di quel ritrovamento non
potesse essere compensata dalla perdita. Come se non potesse
più
gioire con tutto l'amore che provava per lui. Perché il suo
cuore,
lo sapeva, era rimasto in quel castello lasciatosi alle spalle, per
quella che credeva sarebbe stata l'ultima volta. »”.
Suo padre si era
interrotto alla vista della bambina addormentata: chiuse il libro e
levò lo sguardo alla ragazza, ma si accigliò alla
vista delle
lacrime sul suo volto. “Stai bene?”, le chiese in
un sussurro.
“Perché non mi hai
voluto?”.
Un silenzio gravoso scese
sulla stanza e William, lentamente, tolse gli occhiali prima di
scuotere il capo. Le fece cenno di seguirlo e, dopo aver spento la
luce e rimboccato le coperte della bambina, la condusse nuovamente
nella camera assegnata alla ragazza.
Brittany sedette sul
letto, le ginocchia strette al petto e l'uomo si accomodò
accanto
con espressione pensierosa: sembrava aver perso quel sorriso
accattivante con cui aveva cercato di blandirla fino a quel momento.
“Non c'è un solo
giorno in cui non mi penta di quello che ti ho fatto,
Brittany”,
esordì infine con voce quasi stanca nel ricercarne lo
sguardo.
Non parve battere ciglio
la ragazza, il viso inclinato di un lato. “Amavi la mia
mamma?”,
non pareva volerne sentire giustificazioni, ma la voce era spenta
come lo sguardo e distante, quasi una parte di sé
già si stesse
nuovamente staccando dalla realtà circostante.
“Sì,” rispose senza
esitazione, “l'ho amata: quando sei nata, ero certo che
l'avrei
amata per tutta la vita”.
Un vago sorriso sulle
labbra della ragazza, una mera consolazione circa le circostanze
della sua nascita, una piccola gratificazione per aver spezzato il
cuore della moglie.
“Non eri felice però”,
dedusse senza alcuna sfumatura di biasimo o di stizza.
“Avevo trent'anni:
un'opportunità di lavoro a cui non volevo
rinunciare e una
vita davanti. Tua madre era incredibilmente protettiva nei tuoi
confronti e non voleva neppure considerare l'idea di un
trasferimento... almeno allora”, si era concesso di
sorridere, ma
la ragazza non aveva minimamente ricambiato il gesto. Scosse il capo,
William. “Quello che voglio dire è che ci ho
provato, Brittany,
con tutto me stesso, ma non ero pronto a rinunciare alle mie
aspirazioni. Mi sentivo in trappola e con il terrore che avrei
trascorso la mia vita odiando chi avrei incolpato del mio
più grande
successo mancato. Non avrei potuto essere il marito e il padre che
avreste meritato, non a quelle condizioni”.
Sentì le lacrime
scorrere sul volto, Brittany: se aveva sperato che quelle risposte
rendessero tutto più comprensibile, la consapevolezza era
persino
più straziante e l'ammissione di aver anteposto se stesso e
il suo
bisogno alla famiglia che aveva infranto.
Scosse il capo. “Mi
dispiace avervi complicato la vita: forse se non fossi nata, non
avreste dovuto sposarvi e avreste avuto ciò che volevate
entrambi,
senza che accadesse tutto questo”, se non era mai stata in
grado di
pronunciare quelle parole nel terrore di procurare un dolore alla
madre, in quel momento sgorgarono dai meandri dei suoi ricordi, dei
suoi tormenti e delle sue paure più recondite.
Aveva scosso il capo,
William, che le aveva cinto il mento, scostandole le lacrime.
“Non
devi pensare neppure per un istante che sia stata una tua colpa:
darti alla luce è stata la cosa migliore che io e tua madre
potessimo fare e le si spezzerebbe il cuore sentirti parlare in
questo modo”.
“Non ma era abbastanza
evidentemente,” aveva ribattuto con una nuova sfrontatezza.
“Non
eri felice ed hai preferito scappare”. Malgrado il tono
lacrimoso,
vi era una nuova energia a riscuoterla e darle l'impulso di lasciar
andare tutto quanto, senza pentirsene.
Aveva sospirato, William,
ma non aveva cercato ulteriori giustificazioni. Aveva annuito.
“Forse
un giorno potrai capirmi, ma non ti biasimerei. Non posso pretendere
un perdono che non merito”.
Aveva scosso il capo,
Brittany, lo sguardo volto alla vetrata della finestra. “E'
quello
che ho fatto anche io: sono scappata”, ammise dopo un lungo
istante
di silenzio. “Dalla madre che ama sua figlia più
di ogni altra
cosa al mondo, dall'uomo che non chiede altro che essere mio padre e
che io ho continuato a respingere e... da lui”. Aveva rimosso
le
ultime lacrime per tornare ad osservarlo. “E tutto questo
perché
non mi sono mai sentita abbastanza per nessuno di loro”.
Suo padre sembrò voler
ribattere, ma Brittany lo fermò: si alzò e prese
il libro che le
aveva regalato. Ne aveva ignorato lo sguardo sorpreso e lo aveva
schiuso tra le pagine nelle quali aveva lasciato il segnalibro e
aveva letto, con voce tremante e la vista annebbiata:
“ « Non importava
quanto Belle cercasse di ricordarsi che quello era il luogo cui era
destinata: la sua casa. La sua casa, comprese tra le lacrime che
l'accompagnarono al sonno quella notte, non era un luogo fisico, ma
l'abbraccio a cui anelava più d’ogni altra cosa.
La sua casa era nello
sguardo dell'uomo a cui aveva destinato il suo cuore: un Principe
camuffato da Bestia »”.
Aveva sorriso amaramente,
William e, per la prima volta, Brittany fu certa che i loro pensieri
e ricordi fossero gli stessi. “Hai trovato il tuo Principe,
quindi”, le aveva chiesto come se non fosse passato un lungo
intervallo tra l'innocente domanda di una bambina e la giovane donna
che aveva di fronte in quel momento.
Aveva stretto il libro al
petto, Brittany, e aveva annuito. Levò lo sguardo su di lui:
“Avrei
voluto che fossi il primo a saperlo”.
“Lo avrei voluto anche
io”, aveva sussurrato.
Altrettanto certa era che
sapessero entrambi ciò che quelle parole sottintendevano:
quell'addio in sospeso da dieci anni.
Si alzò in piedi,
William, ma Brittany lo trattenne e levò la mano.
“Sono felice che
tu adesso sia il padre che avresti voluto essere anche allora. Ma non
spezzare il cuore di Alyson: non ti chiedo altro e non ho
più nulla
da perdonarti”, non vi sarebbero stati dubbi circa la
sincerità di
quelle parole malgrado il viso esangue, gli occhi lucidi e le labbra
tremanti.
“Vorrei ancora poter
essere il tuo”, aveva ammesso con un sorriso amaro.
Aveva scosso il capo,
Brittany, un vago sorriso. “Sei andato avanti ed è
ciò che devo
fare anche io, ma ero bloccata”, replicò con la
medesima
semplicità.
“A causa mia”,
specificò l'uomo.
“Dovevo perdonarti e
dovevo perdonare me”.
Malgrado tutto, quella
consapevolezza, sembrava darle nuove respiro e alleggerirle il cuore,
dopo segreti rimpianti e domande senza risposta.
Superò quella distanza,
William, e la strinse al petto e, dopo un istante di lungo oblio,
Brittany lasciò che i singhiozzi infrangessero il silenzio e
pianse.
Pianse per quella bambina
smarrita che era stata per lungo tempo, per la donna che stava ancora
faticando ad emergere, per la donna che avrebbe desiderato essere e
la famiglia e l'amore che sperava l'attendessero ancora con lo stesso
bisogno.
“Andrà tutto bene”,
le aveva sussurrato William prima di baciarne la fronte, sfiorandone
i capelli e trattenendola contro di sé, per un altro lungo
istante,
quando il pianto si calmò.
E, finalmente, Brittany
gli credette e poté sorridere in quell'ultimo abbraccio.
Aveva capito quale era la
sua casa e, da quel momento, nulla avrebbe più potuto
ostacolarla.
To
be continued…
Ed
eccoci alla conclusione di questo capitolo del tutto innovativo per
location e personaggi. Devo ammettere di essermi abbastanza divertita
nel caratterizzare la nuova famiglia di William e spero di aver
sciolto i dubbi circa il suo precedente matrimonio con Shirley e il
modo in cui l’abbandono abbia avuto ripercussioni su Brittany.
Ma è tempo di guardare avanti come la nostra protagonista:
“ (…)
era all’aeroporto quel giorno ma non ha avuto tempo di
parlarti”.
“Ho
capito che eri una piantagrane dal primo momento in cui ti ho vista, e
lo
penso ancora”.
“Credevo
che la Bestia smettesse di essere tale, dopo la dichiarazione di
Belle”.
Spero
di avervi fatto tornare il sorriso e avervi reso abbastanza curiosi
per il prossimo capitolo. Come sempre, vi ringrazio della
partecipazione, soprattutto nel rendermi sempre partecipe dei vostri
feedback ed emozioni <3
Un
abbracciane a tutti e buon weekend,
Kiki87
Per la nuova moglie e la
figlia adottiva di William, non potevo che ispirarmi ad altri due
personaggi di Gossip Girl: Lily Wan Der Woodsen per Chloe: Chloe
E
per Vivian, ho immaginato colei che si è spacciata per la
nipote di Lily, Ivy Dickens: Vivian
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Capitolo 12 *** Capitolo 11 ***
capitolo 11
La
Bestia: Belle, tu... tu
sei tornata.
Belle:
Ma certo che sono tornata. (…)
Andrà
tutto bene. Adesso siamo insieme.
Andrà
tutto benissimo, vedrai.
[La
Bella e la Bestia – film d'animazione di Walt Disney]
Capitolo
11
Lo stesso scenario:
l’orizzonte minacciato dalle nuvole scure, la costruzione
imponente
con quell’aura d’autorità che sembrava
impressa
nell’assemblaggio stesso dei mattoni. Una distesa di campi e
l’immensità della natura piegata a location di una
realtà con sue
regole e identità.
Un sorriso
sulle labbra,
i capelli scossi dal vento e un trolley di uno sfacciato rosa
shocking che trascinava senza alcun timore: lo sguardo di chi aveva
ritrovato sicurezza e fiducia a farne scintillare lo sguardo azzurro.
Sentì, anche in quel momento, gli sguardi curiosi puntati su
di lei:
un saluto sorridente alla vista del naso di Finn Hudson, schiacciato
conto il finestrino del pullman, su cui erano sedute circa trenta
reclute.
Poco prima
dell’ingresso
si stagliava una figura maschile che Brittany guardò con
aria
serena: l’uomo, lo sguardo fino a quel momento puntato sulla
cartelletta su cui stava leggendo e scribacchiando con aria
concentrata, si riscosse, quando le ruote del bagaglio cozzarono
contro le pietruzze del vialetto. Inarcò le sopracciglia ma,
l’attimo dopo, le labbra furono increspate da un sorriso
divertito
e insieme lieto. La guardava come se si fosse aspettato che sarebbe
arrivata prima o poi.
“Buongiorno,
Brittany,”
la salutò con aria allegra, “spero che la
villeggiatura sia stata
di tuo gradimento”.
La giovane si
fermò ed
annuì, il viso lievemente reclinato all’indietro
per osservarlo.
“E’ stata molto utile, ”
asserì per poi piegare la testa di un
lato, “è un piacere rivederla, Signor
Clarington”.
Lo sguardo
tradì per la
prima volta una punta d’esitazione e di timore.
“Lui è-?”.
Aveva annuito,
Jonathan
Clarington, prima ancora che concludesse la domanda.
“Immagino che
ti vedrò tra non molto ma, per il momento,
bentornata”, le strinse
la spalla, quando le passò accanto e si diresse verso il
pullman le
cui porte erano ancora aperte, evidentemente attendendo che facesse
il suo ingresso.
“Signor
Clarington?”.
L’uomo
si era voltato e
Brittany esitò un solo attimo, ma ricoprì
rapidamente la distanza
per stringerlo: affondò il capo contro il suo petto ampio,
appena
sopra il tambureggiare del suo cuore. Sembrava quasi di cingere una
montagna per la sua stazza imponente, ma questo non rese il gesto
meno sentito per nessuno dei due.
Un solo attimo
d’evidente
sorpresa ma l’uomo le batté gentilmente la mano
libera sulla
schiena.
“Spero
tu non mi chieda
di passarlo a mio figlio: potrebbe essere imbarazzante in luogo
pubblico”, aveva commentato con una lieve traccia
d’ironia che
aveva fatto ridacchiare la giovane.
“Non
tardare”,
l’aveva ammonita, con un sorriso, dopo che si fu scostato.
Aveva annuito,
Brittany,
e si era diretta con passo più deciso verso
l’edificio, ben
consapevole che ciò che stava per intraprendere era solo il
primo
passo.
Jonathan
salì sul
pullman, inarcò le sopracciglia ai fischi canzonatori del
plotone,
prima di stringersi nelle spalle. “Se vi state chiedendo se
un uomo
della mia età abbia più fascino di voi, direi che
la risposta è
alquanto evidente. Appurato questo, vogliamo andare? Siamo
già in
ritardo”.
~
Lo sguardo era
corrugato,
mentre scriveva sul foglio, ogni tanto sollevava gli occhi a rimirare
la cornice sulla scrivania. La sfiorava, quasi quel sorriso fosse
un’implicita promessa che sarebbe andato tutto bene, se non
avesse
perso la fiducia o quella parvenza di serenità.
Si interruppe
per
strofinarsi il volto in un gesto di reale stanchezza: avrebbe dovuto
affrettarsi per non ritardare e venir meno al suo dovere, in
rappresentanza dell’Accademia.
Stava per
appoggiare
nuovamente la penna sul foglio, ma si riscosse al bussare che
infranse il gravoso silenzio dei suoi pensieri. Sperando che Jonathan
non si fosse intestardito a scortarlo di persona, come se fosse stato
un figlio capriccioso e riottoso, Neal pronunciò uno
svogliato:
“Avanti”, e levò lo sguardo verso
l’ingresso.
Sembrò
restare congelato
alla vista della ragazza e il tempo stesso sembrò
cristallizzarsi,
mentre cercava in quel volto i segni della stessa persona che aveva
lasciato andare. Così straordinariamente esile e puerile al
suo
sguardo, i cui occhi sembravano lasciar carpire più di
quanto
palesasse, fino a cogliere profondità celate ad uno sguardo
distratto o poco interessato.
“Brittany”,
l’esclamazione quasi rauca e il tono allarmato. Si
levò dalla sua
sedia, circumnavigando la scrivania per esserle di fronte: gli occhi
sgranati e le labbra schiuse. “Stai bene?”.
Non riusciva a
spiegarsi
la sua presenza se non per qualcosa di negativo: si era irrigidito al
pensiero dell’uomo il cui sguardo suadente quanto privo di
reale
calore umano, lo aveva reso poco fiducioso fin dall’inizio.
Brittany aveva promesso di tornare, ma aveva sperato con tutto il
cuore che tali parole non fossero state pronunciate soltanto per
lenire il dolore della madre.
La ragazza gli
sorrise
con una dolcezza che ne fece scintillare le iridi. Riusciva a
percepire una nuova quiete provenire da lei, come mai era accaduto da
che l’aveva conosciuta. Ma non sembrava aver fretta di
parlare:
continuava ad osservarlo, quasi solo in quel momento riuscisse
veramente a guardarlo e realizzare qualcosa.
Cercò
di rilassarsi e le
sorrise: si trattenne dal coprire le distanze e cingerla, quasi vi
fosse la consapevolezza implicita che prima dovesse lasciarla
parlare.
“Tua
madre sa che sei
qui?”, si aspettava di vederla varcare la soglia da un
istante
all’altro e con lo slancio che l’animava, quando si
trovava di
fronte ad un parquet.
Sorprendentemente,
Brittany scosse il capo, ma non perse il sorriso. “Ho preso
un taxi
dall’aeroporto,” spiegò con tono
tranquillo, “nessuno sa che
sono qui, a parte il Signor Clarington e un plotone di ragazzi
ma,”
si avvicinò, tormentandosi i capelli per la prima volta, il
viso
inclinato di un lato, lo sguardo più puerile e timoroso che
aveva
già scorto in precedenza, “ho tanto bisogno di
parlare con te,
prima di tutto il resto”.
E Neal si
sentì
trattenere il fiato nello scorgere un anelito di speranza e di
un’evidente attesa: era soltanto la sua curiosità
a trattenerlo
dal cingerla tra le braccia e cullarla. Ma, in quel momento, a
prescindere da ciò che gli avrebbe detto, si promise che non
l’avrebbe più lasciata andare per alcun motivo.
Brittany
sospirò, le
mani strette in grembo nel guardare l’uomo che aveva dato
nuova
felicità a sua madre, l’uomo che aveva sempre
rispettato i suoi
spazi o la sua scarsa presenza e partecipazione e sempre con un
sorriso dolce e una disponibilità e spontaneità
quasi commoventi.
Pronto ad incoraggiarla, anche quando la decisione lo avrebbe ferito
in prima persona, l’uomo che le aveva chiesto un posto nel
suo
cuore che era sempre stata trattenuta dal concedere.
“Neal,”
lo richiamò
con voce tremante. “io sono tanto dispiaciuta”,
esordì e lo vide
sgranare gli occhi ma prima che potesse replicare, riprese parola.
“Ti
ho sempre tenuto a
distanza, ” aveva ammesso: flash d’immagini che
sembravano
confermare quei momenti passati, quelle occasioni perse come un
monito a non lasciare che ciò avvenisse nuovamente,
“e tu non hai
mai fatto nulla per importi, neppure quando ti ho ferito”.
“Brittany”,
le
sorrise con tale comprensione e tenerezza che Brittany temette di non
riuscire a concludere.
“Credevo
di star
proteggendo la mamma all’inizio, anche se ho capito quanto vi
amate”, continuò e le parole scivolarono in modo
più fluido,
quasi ansiose però di dare suono ad una verità
seppellita a lungo
nei meandri della sua quotidianità.
“Ma
stavo soltanto
proteggendo me stessa, perché non avrei potuto sopportare
che
qualcun altro mi lasciasse, da un giorno
all’altro”, era stata la
confessione più rauca che ne aveva fatto luccicare gli occhi
e reso
la gola più stretta.
Sembrò
in procinto di
replicare, Neal, ma ancora una volta la ragazza lo procedette: gli si
avvicinò, guardandolo dal basso, il viso inclinato di un
lato, il
sorriso più timido e delicato, prima di proferire quelle
parole
trattenute probabilmente troppo a lungo e più che mai vitali
e
necessarie per ripartire. Questa volta insieme.
“Sarò tua figlia,
se ancora vorrai essere mio padre”.
Era la prima
volta che
vedeva quel luccichio nello sguardo dell’uomo che aveva di
fronte,
ma non vi fu bisogno di risposta pronunciata a chiare lettere. Neal
finalmente coprì la distanza e la strinse con calore e
un’energia
tale che sembrava serbare tutto l’amore e la dedizione
serbati in
silenzio fino a quel momento, tutte le parole ancora non pronunciate
e tutte le promesse che avrebbero stretto da quel nuovo inizio.
Brittany
affondò contro
il suo petto come se null’altro fosse possibile e non
restasse che
abbandonarsi completamente a lui con fiducia e bisogno.
Lasciò che
le sfiorasse i capelli in un tocco vellutato e quasi devoto, e
finalmente comprese il significato di un legame scaturito da una
reciproca necessità e non da una traccia genetica.
“Scusami
per tutto, ”
mugugnò con la voce soffocata contro la divisa che
indossava.
Scosse il capo,
Neal, la
scostò appena per sfiorarne le gote a rimuoverne le lacrime
e ne
baciò la fronte. “Avrei atteso altri
cent’anni per questo
momento”, aveva rivelato, per poi trarla a sé un
altro lungo
istante, quasi non fosse stato sufficiente o necessitasse di
un’altra
stasi per convincersi che fosse tutto reale.
“E
ora andiamo, ” si
era scostato rapidamente, recuperando quel guizzo sbarazzino e
complice ma guadagnandosi uno sguardo confuso da parte
dell’altra,
“abbiamo un Glee Club da far vincere”.
Boccheggiò,
Brittany,
facendo mente locale prima di scuotere il capo. “Ma io non
sono più
iscritta”.
Fu allora che
Neal
sorrise con aria persino più accattivante. “Potrei
distrattamente
non aver ancora firmato la tua richiesta di ritiro: potrai
partecipare e da domani non sarai più una studentessa di
quest’Accademia”.
Aveva sorriso,
Brittany,
all’idea di ciò che poteva averlo trattenuto
dall’apporre una
semplice firma e da ciò che ne sarebbe conseguito. Un altro
pensiero, tuttavia, le procurò un brivido lungo la spina
dorsale e
sentì il respiro farsi più rado, nonostante le
sue motivazioni dopo
la partenza da Washington. “Lo apprezzo molto, ma non so se
sia il
caso”.
Si era
accigliato, Neal.
“Qual è la prima regola di un buon soldato? Non
abbandonare mai i
compagni in difficoltà, qualunque sia il tipo
d’ostacolo”.
Brittany si era
morsa il
labbro. “Non credo che mi vorranno con loro e non potrei
biasimarli”, aveva obiettato, lo scintillio più
affranto all’idea
dell’addio tanto freddo e formale con Hunter.
Neal scosse il
capo e le
cinse le spalle, conducendola verso l’uscio per poi
rivolgerle uno
sguardo divertito. “Se stai parlando di un aitante Capitano,
per
cui sospetto che tua madre abbia un’infatuazione inquietante,
alto
un metro e ottantatré centimetri, spalle larghe e occhi
verdi,
allora temo di dover dissentire”.
Una nuova
vampata di
calore aveva sfiorato le gote di Brittany. “Te l’ha
detto la
mamma?”, aveva pigolato dopo essersi schiarita la voce,
cercando di
darsi un contegno.
“Diciamo
che i soldati
hanno un loro modo di dimostrare affetto e di questo sono
più che
informato e poi… è così
evidente?”, aveva chiesto con aria
quasi rassegnata che aveva fatto ridere la ragazza, smussando
l’imbarazzo e la tensione.
“No,
ma apprezzo lo
sforzo”.
Si era
nuovamente fatto
serio, Neal, e le aveva cinto le spalle. “Era
all’aeroporto quel
giorno, ma non ha avuto tempo di parlarti”.
Aveva sentito
il cuore
fermarsi in gola, Brittany, una nuova speranza che si
accompagnò ad
un moto di calore ad irradiarle dal petto. Un vago sorriso nel
domandarsi come sarebbero andate le cose se il volo avesse ritardato
a sufficienza da consentire loro un ultimo dialogo. Chissà
se
sarebbe ancora stata disposta a partire o avrebbe compreso in modo
più nitido di appartenere alle persone che l'avrebbero
guardata
andarsene.
Si era riscossa
per
osservare l’uomo con aria più dolce e un misto di
gratitudine e di
tenerezza. “Sarai un papà meraviglioso”,
aveva asserito in un
sussurro più tremulo.
Parve molto
compiaciuto,
Neal, ma la strinse più forte, prima di rilasciare un
sospiro.
“Dovremo fissare delle regole se tra voi…
sì, insomma, se
diventerà qualcosa d’ufficiale,
capisci?”. Era sembrato lui
stesso quasi timoroso di esprimere quell'eventualità e
ciò aveva
fatto sorridere la ragazza con persino più tenerezza.
Nonostante il
nuovo
rossore sulle gote, si era portata la mano alla fronte.
“Signorsì,
Signore!”, aveva esclamato nella tonalità che
più compiaceva
Kitty.
Se quello era
stato
soltanto l’inizio, non aveva alcun dubbio che tutto sarebbe
stato
meraviglioso da quel momento in poi.
~
Era la prima
volta che
Brittany prendeva parte ad un’occasione simile: finora la
danza, ad
eccezione delle prove degli ultimi mesi, era sempre stata un evento
privato e personale. Ma all’Accademia aveva imparato,
più che mai,
lo spirito di squadra, il cameratismo (talvolta anche
nell’accezione
peggiore) e il significato dell’unione: dell’essere
una parte del
successo dell’altro.
Erano arrivati
trafelati
al Teatro della città, il rinomato Fine Arts Center,
allestito per l’occasione e si confusero tra la folla:
Brittany si
guardò attorno con aria smarrita e preoccupata, fino a
quando
Jonathan Clarington, la cui imponente altezza lo rendeva facilmente
rintracciabile, si fece largo per raggiungerli.
Il viso era
notevolmente
sereno nel vederli insieme.
“Come
stanno andando?”,
chiese ansiosamente Neal.
L'altro emise
un breve
sospiro. “Non sarà facile spuntarla: ci sono molti
concorrenti e
altrettanti talenti”, spiegò in tono pacato.
“Il duetto di
Hunter e del Capitano Wilde credo abbia avuto molta presa in
generale, ma disgraziatamente la ragazza è sembrata
dolorante nel
secondo numero. Dipenderà tutto dal numero finale... il che
ci
rimanda all’arma segreta, immagino”.
Brittany parve
ancora più
confusa: se aveva sentito il cuore in gola alla realizzazione che
Hunter fosse in quello stesso edificio e lo avrebbe rivisto da
lì a
poco, fu ancora più sconcertante, quando i due adulti la
guardarono
con un sorriso evidentemente allusivo. Fu quasi tentata di guardarsi
attorno, quasi aspettandosi un ballerino di talento, magari
fuoriuscito dalla fiction “Paso Adelante”,
ma sgranò gli
occhi alla comprensione. “Io?”.
“Lo
sei sempre stata,”
aveva asserito Neal con evidente orgoglio. “un pessimo
soldato
ma-”.
“Hey!”,
aveva
borbottato in risposta, le braccia incrociate al petto e il cipiglio
di puerile disappunto.
“Ha
anche fatto un
ottimo saggio di storia”, intervenne Jonathan con un sorriso,
“un
peccato che non faccia media su un giudizio finale”.
“Ma
è la danza che ti
scorre dentro,” aveva continuato Neal in tono più
dolce, “e mi
dispiace di essermi lasciato trascinare e averti costretto a qualcosa
di diverso”.
Aveva scosso il
capo,
Brittany. “Non rimpiango nulla… o
quasi”, aveva appena
raggrinzito il naso al ricordo delle angherie di Kitty.
“Allora,
vuoi condurre
il Glee Club alla vittoria?”
Aveva sorriso
con aria
più compiaciuta. “Sono qui per questo”.
Jonathan la
scortò lungo
il dedalo di corridoi verso il camerino, per poi indicarle la porta
corrispondente all’alloggio della loro Accademia,
contraddistinto
da una targa che le procurò una nuova aritmia.
“Buona
fortuna”, si
era congedato con un ultimo sorriso.
Brittany
temette il
momento del ritorno persino più del momento in cui sarebbero
saliti
sul palco: quanti sarebbero stati effettivamente felici di rivederla?
Hunter sarebbe stato uno di loro? Sentiva il cuore in gola in quel
momento e sfiorò la superficie dell’uscio che la
separava da
quella verità.
Cercò
di cacciare dalla mente l’immagine di un
momento simile e ascoltò il brusio proveniente
dall’interno: prese
un profondo respiro e, infine, schiuse la porta.
Come un unico
corpo, si
erano tutti voltati verso l’uscio e parvero restare congelati
sul
posto. Brittany ebbe appena modo di scorgere lo sguardo sorpreso e
spiazzato di Hunter e di Kitty, prima che Marley, uno strillo felice,
le gettasse le braccia al collo.
“Sei
tornata per
vederci?”, le chiese quest’ultima quasi
dondolandola in
quell’abbraccio e strappandole un sorriso mentre la cingeva a
sua
volta, quasi necessitasse, in assenza del suo gatto (sperò
che
l’autista del taxi lo avesse consegnato a casa con cura: un
peccato
non poter scorgere la reazione della madre alla vista della gabbietta
e del messaggio accluso), di quel contatto.
Brittany
guardava Hunter
che, dopo quel momento di puro sbigottimento, era tornato a scrutare
il foglio che teneva tra le mani: appariva più che mai
concentrato,
soltanto la mascella contratta e l’irrigidimento della
postura ne
tradivano una qualche emozione.
“Molto
commovente,
Barbie, ma non abbiamo tempo per i convenevoli”, fu la secca
replica di Kitty. La stava scrutando con aria arcigna, mentre si
sedeva su un divanetto, stendendo la gamba per appoggiare del
ghiaccio sulla caviglia.
Scosse il capo,
Brittany,
dopo essersi dolcemente svincolata dall’abbraccio
dell’amica a
cui trattenne la mano. “Sono venuta per
partecipare”, aveva
precisato, la voce leggermente tremula.
Sentì
il silenzio
gravoso sugli astanti, Marley aveva rafforzato la stretta, Ryder,
Jeff e Mike le sorrisero con evidente approvazione, ma era i due
Capitani che stava tuttora scrutando, consapevole che fossero solo
loro ad avere voce in capitolo.
“Se
me lo
permetterete”, aveva aggiunto.
“Dobbiamo,
dobbiamo,
dobbiamo”, era stato il suggerimento di Jeff che
sembrò
letteralmente saltellare sul posto, ma fu allo sguardo gelido di
Hunter che si fermò, la stessa espressione di un bambino
trovato con
le mani sporche di marmellata.
Fu Kitty ad
alzarsi,
gettando la confezione di ghiaccio sul pavimento, facendo sussultare
Brittany.
“Te
ne vai, lasciandoci
nella merda totale per il tuo bisogno di riconciliarti con il mondo
di Barbie e poi torni, pretendendo che noi ti permettiamo di tornare,
come se nulla fosse accaduto”, lo sguardo era glaciale, la
voce
altisonante che aveva fatto congelare tutti sul posto, compresa
Marley a cui Brittany si aggrappò con più
intensità.
Aveva annuito,
sostenendo
lo sguardo del Capitano e sospirando. “Non posso cancellare i
miei
errori,” sussurrò in tono contrito in
quell’ammissione, “e mi
dispiace di avervi egoisticamente coinvolto, ma lasciate che mi
scusi, facendo l’unica cosa che mi riesce bene, specialmente
se
questo può aiutarvi”.
Si era voltato
verso
Hunter, Jeff, la stessa espressione di un bambino implorante,
qualcosa di simile a quella che Marley stava gettando al Capitano
Wilde che si era portata le mani sui fianchi e continuava a scrutare
la sua ex recluta come non chiedesse di meglio di prenderla per i
capelli. E farla cozzare contro la parete. Ripetutamente. Fino a
quando non avesse perso i sensi.
“Ho
capito che eri una
piantagrane dal primo momento in cui ti ho vista e lo penso
ancora”,
aveva esordito e Brittany si mordicchiò il labbro,
sollevando le
mani.
“Io-”.
Aveva sbuffato,
Kitty, le
braccia serrate al petto nel fissarla con aria ancora piena di
biasimo e di rancore, prima di scuotere il capo. “Ballerai al
mio
posto”, sancì e un silenzio stupefatto cadde tra
gli astanti.
Non ebbe
neppure modo di
sentire lo squittio felice di Marley o il modo in cui le stava
cingendo il braccio, letteralmente saltellando, perché non
riusciva
neppure a contenere quel nuovo scoppio di gioia e d’energia
che le
fece scalpitare il cuore.
“La
coreografia è un
po’ cambiata,” continuò Kitty,
un’occhiata gelida alla sua
amica per placarne il moto di felicità, “ma non
abbiamo tempo di
fartela memorizzare”, era avanzata in sua direzione e le
aveva
cinto le spalle per poi guardarla intensamente, costringendola a
chinarsi verso di sé.
“Dovrai
seguire Hunter
e lasciarti guidare da lui: leggere e anticipare i suoi movimenti e
far in modo che ogni tuo passo sembri completare il suo, credi di
riuscirci?”.
Aveva deglutito
nervosamente, Brittany, ma l’aveva guardata dritta negli
occhi ed
aveva annuito.
Si era rivolta
a Marley,
Kitty, con un cenno del mento. “Andate a cambiarvi, le darai
il tuo
vestito”.
“Signorsì,
Signora”,
aveva replicato Marley che non sembrava affatto dispiaciuta. Brittany
sapeva avrebbe dovuto ringraziarla e non soltanto per aver rinunciato
a quell’ultima esibizione in suo favore e senza alcun
risentimento.
Al contrario, trattenendola ancora per mano, la stava lei stessa
sospingendo verso il bagno.
“E
Barbie?”.
Si era voltata,
Brittany,
e Kitty le fece cenno di avvicinarsi. Sembrava piuttosto contrariata
nel continuare a scrutarla con le braccia incrociate al petto e le
labbra serrate in una smorfia.
“Gli
sei mancata,”
aveva commentato in tono spiccio, quasi volesse assicurarsi di
parlare, prima di cambiare idea, “ma se lo vedrò
di nuovo giù di
tono a causa tua, ti strapperò i capelli uno per uno e te li
farò
ingoiare, mi sono spiegata?”.
Aveva sentito
il cuore
farsi più pesante, Brittany, lo sguardo corse al ragazzo che
non le
aveva più neppure rivolto un’occhiata e che
sembrava totalmente
incurante del suo ritorno. Non aveva neppure preso parola sulla
questione, malgrado fosse stato il primo a spronarla ed esortarla, il
primo a desiderare di vederla unirsi al Glee Club.
Era tornata ad
osservare
Kitty, consapevole quanto quelle parole dovevano esserle sofferte,
soprattutto per il reale affetto verso lo stesso ragazzo. Aveva
annuito con un sorriso di gratitudine.
“E
ora fila, abbiamo
già perso abbastanza tempo”.
Si era
morsicata il
labbro, Brittany, ma l’aveva cinta impulsivamente in un
abbraccio
che aveva strappato sguardi increduli e qualche fischio canzonatorio
tra i ragazzi. Era rimasta rigida, Kitty, come un pezzo di ghiaccio.
“Grazie,”
aveva
sussurrato Brittany con voce pregna di reale commozione, ma Kitty si
era divincolata bruscamente.
“Sto
cercando di
trattenermi dal darti un pugno, Pierce”, aveva borbottato per
risposta, scostandola da sé.
La
fissò incredula,
Brittany.
“Che
c’è?”, le
abbaiò contro l’altra. “Non penserai di
essermi davvero
mancata?”.
“Mi
hai chiamata per
cognome”, era parsa incredula.
Aveva sbattuto
il piede a
terra, Kitty, le labbra contratte prima che notasse qualcosa e le
prendesse rudemente il braccio. “Sono unghie
finte?”, lo chiese
in un sibilo minaccioso quanto il detonatore di una bomba.
“Toglile,
prima che te le strappi via io”, si era voltata per poi
lasciarsi
cadere sul divano, una smorfia risentita nel prendere il ghiaccio e
borbottare, con aria contrariata: “unghie finte, puah!”.
~
Carezzò
il tessuto
dell’abito, il cuore in gola e una sensazione di nausea a
stringerle lo stomaco, il pensiero che da lì a poco avrebbe
dovuto
ballare di fronte ad una platea e avrebbe dovuto farlo con il ragazzo
che amava e ancora non le aveva rivolto parola.
“Esci
subito dal bagno,
Barbie, non hai tempo di sentirti vagamente desiderabile”.
Un vago sorriso
ad
incresparle le labbra: per la prima volta ebbe la sensazione che non
si trattasse di un mero tentativo di offenderla.
Si fece largo
tra i
compagni, un ultimo abbraccio a Marley, e seguì le
indicazioni verso
il palco sul quale si sarebbero esibiti. Con il cuore in gola e il
respiro tremulo, il solo rumore delle sue scarpe con tacco a sfiorare
la piattaforma, raggiunse la prima linea e la sagoma di Hunter
già
schierato e perfettamente padrone di sé.
Rimirò
il sipario che si
sarebbe levato da lì a pochi secondi: sentiva il cuore in
gola, ma
avrebbe potuto onestamente affermare che non fosse del tutto dovuto
al nervosismo per la competizione, quanto il pensiero del giovane al
suo fianco di cui stava scrutando il profilo, le mani strette in
grembo. Restò ad osservarlo per quelli che parvero istanti
interminabili, prima di allungare timidamente la mano a cingerne
appena il braccio, quasi avesse il reale bisogno di sentirlo
al suo fianco, in quel momento, malgrado tutto ciò che era
accaduto.
Malgrado quel divario che sentiva più intenso che mai.
Si era voltato
ad
osservarla e Brittany deglutì di fronte al suo sguardo
impenetrabile, soltanto un lieve corrugamento delle sopracciglia
nell’osservarne la mano che lo stava trattenendo: sembrava lo
stesso Capitano rigido ed inflessibile che aveva conosciuto al suo
arrivo in Accademia.
Ciò
non fece che
accrescere l’ansioso timore che fosse troppo tardi.
“Hunter,
io-”.
Aveva scosso il
capo, il
giovane, tornando ad osservare innanzi a sé. “Non
è questo il
momento”, aveva commentato, quasi neppure muovendo le labbra.
Sospirò,
Brittany, ma ne
lasciò il braccio e cercò di farsi coraggio:
dopotutto era già
riuscita una volta a solcare quell’apparente freddezza e
avrebbe
dovuto concedergli più tempo.
In quel momento
avrebbe
soltanto dovuto concentrarsi sulla gara, su una coreografia che aveva
subito modifiche e sul dover analizzare lui e sui suoi movimenti,
lasciando da parte i trascorsi o lasciando che le sue emozioni
fossero esternate a quella maniera unica e particolare, che lui lo
comprendesse o meno.
Il sipario si
stava
levando e si concentrò su quell’aritmia quasi
soffocante.
Le prime note
infransero
il silenzio: era la seconda volta che si accingeva a ballare con il
giovane e, come la prima volta, i loro pensieri sembravano distanti
come una muraglia, ma ciò non le impediva di riuscire ad
entrare in
contatto con lui, ad una maniera silenziosa.
Ancora una
volta, tutto
il resto del mondo sembrò confuso e distante: gli altri
ballerini
sulla pista, il pubblico partecipe: ne seguiva ogni passo, lo
anticipava e lo accompagnava come fossero da sempre destinati a
vivere insieme quel momento. Qualcosa sembrava farle credere, in
quella circostanza, che non potesse esserci un reale distacco. Non
fin quando i loro sguardi si fossero fusi come un’estensione
dei
loro movimenti complementari ed affini, non quando le sue braccia la
sorreggevano perfettamente e le dava quello slancio per farle toccare
le vette più alte per poi ricadere nella sua presa salda e
sicura,
una promessa silenziosa. La consapevolezza che quel legame non si era
mai realmente infranto e non se ne fosse mai andata.
Erano entrambi
affannati,
il suo volto vicino, ma la rimise in piedi senza fatica: lo scroscio
degli applausi pareva distante e lontano e così gli
schiamazzi dei
compagni.
Ne stringeva
ancora la
mano, Brittany. Hunter abbassò lo sguardo ad osservare le
loro dita
intrecciate, probabilmente condividendo la sua stessa sorpresa:
rinsaldò la presa e le fece cenno con il mento alla platea e
si
chinarono in simultanea.
Ma il punto
era, almeno
per Brittany, che lui non la lasciò andare e ciò
sembrò più
eloquente di qualunque parola potesse pronunciare, prima che
potessero ritrovarsi soli.
Probabilmente
con il
tempo avrebbe smarrito quei ricordi ed immagini, la proclamazione
della loro vittoria compresa: aveva lasciato che sfilasse con Kitty
per ritirare il loro trofeo che sarebbe stato posto in una teca
all’ingresso dell’Accademia.
Si
affrettò a scendere
dal palco quando scorse la sagoma della madre: il cuore in gola nel
raggiungere lei e Neal. La donna la cinse con rinnovata energia e
sentì le lacrime di gioia scorrerle sul volto.
Fu un lungo
istante
quello in cui tutte le voci sembrarono acquietarsi e si
lasciò
andare in quell’abbraccio, dimentica di tutto il resto e
semplicemente accertandosi che lei fosse lì e
l’avrebbe ancora
trattenuta a lungo, senza più lasciarla andare.
“Oh,
Britty Woman,”
la sua solita intonazione allegra sembrava smorzata
dall’autentica
commozione.
“Sei
stata un incanto:
una principessa danzante”, aveva sussurrato una volta
scostata dal
suo abbraccio. Le aveva sfiorato le gote a rimuoverne le lacrime e ne
aveva baciato la fronte, tornando a stringerla e dondolarla tra le
sue braccia.
“Lo
è sempre stata”,
era intervenuto Neal nel baciarle a sua volta il capo, ma Shirley
nuovamente la strattonò a sé, con fare possessivo
ed energico che
le strappò una risata.
“Non
ti lascerò più
andare: a costo di legarti: dobbiamo andare a casa, voglio che mi
racconti tutto quanto”.
Si era
divincolata
dolcemente, Brittany, lo sguardo che cercava nuovamente il ragazzo
che stava parlando altrettanto allegramente con il padre. Quasi
attratto dagli occhi azzurri che lo stavano osservando, si era
voltato in sua direzione e le aveva sorriso.
Aveva mantenuto
quel
contatto di sguardi, Brittany, prima di voltarsi verso i due adulti:
“So che da domani non sarò più una
studentessa dell’Accademia,
ma vorrei passare là l’ultima notte, se per voi va
bene”.
Persino vedere
nuovamente
quel sorriso compiaciuto della madre, che aveva seguito il suo
sguardo, fu quasi commovente, persino concedendole di porre da parte
le sue istanze. Neal, al contrario, sembrò invece sudare
freddo,
tormentandosi appena i capelli “I-Immagino che sia giusto,
tecnicamente dovresti farlo, ma non sei obbligata e-”.
“Da
domani sarai agli
arresti domiciliari, a casa”, aveva sancito Shirley nella sua
migliore espressione severa, malgrado l’ammiccamento finale.
Aveva riso,
Brittany, per
poi schiarirsi la voce ed assumere la posa di comando.
“Signorsì,
Signora!”.
“Dobbiamo
festeggiare,
vero Hunter, vero, vero?”.
Sterling stava
letteralmente saltellando sul posto come un cucciolo sovra-eccitato
ma, alla sua occhiata guardinga, si era congelato sul posto,
realizzando la gaffe. Aveva assunto un’espressione quasi
mortificata. “Volevo dire Capitano Clarington”,
aveva soggiunto
con voce quasi timida.
Scosse il capo,
Hunter,
un vago sorriso ad incresparne le labbra, ma lo sguardo verde era
fisso sulla sagoma della giovane impegnata con la madre e il
fidanzato. Giocherellava con una ciocca di capelli e si stava
avvicinando lentamente al gruppo, dopo essersi congedata da entrambi
con un bacio.
“Voi
andate pure:
niente coprifuoco stasera”.
Incurante del
moto di
felicità che aveva innescato e del modo scomposto in cui
Sterling si
era lanciato addosso a Chang e Puckerman per festeggiare, raggiunti
da Hudson (la cui mole aveva fatto scricchiolare pericolosamente le
assi di legno della pedana) che sembrava un’appendice del
giovane
con la cresta, si era allontanato dal gruppo.
La stava ancora
rimirando
ed attese che si sciogliesse dall’ennesimo abbraccio con la
recluta
Rose, prima che, a sua volta, gli si facesse incontro.
Non disse
nulla, Hunter,
le porse la mano che lei prese: un sorriso emozionato ma consapevole
che i loro pensieri fossero più che mai allineati e che, una
volta
ritrovati, non avrebbero lasciato facilmente quel contatto.
~
Sorrise,
Brittany,
entrando nella camera del giovane: non pareva affatto cambiata
dall'ultima volta. Era come se potesse serbare ricordi dei momenti
più piacevoli vissuti tra quelle mura. Come se non vi fosse
mai
stata davvero una separazione. Pur nella speranza
che quello
stato d'animo fosse condiviso, sarebbe stata in grado, allora, di
dare voce a quei pensieri, a quello stato d'animo?
Sospirò
a
quell'interrogativo, ma ne varcò la soglia e sorrise alla
vista del
gatto persiano che le si era subito avvicinato e che aveva preso in
braccio, mentre il giovane si richiudeva la porta alle spalle.
“Non
è cambiato
nulla”, diede voce ai suoi pensieri e, al suo cenno, si
accomodò
sul materasso, imitata dal giovane che si strinse nelle spalle ma
continuò ad osservarla intensamente.
“Quasi
nulla”,
replicò, infatti, e le indicò la scrivania.
Brittany
sgranò gli
occhi alla vista della cornice che aveva trovato nel cassetto.
Sembrava passata una vita e, da una certa prospettiva, si sentiva
diversa dalla ragazza che si era rivelata sprovveduta ed impulsiva in
quel gesto indiscreto. Si volse nuovamente in sua direzione.
“Mi
dispiace per quel giorno”, iniziò morsicandosi
appena il labbro.
Non
finì la frase perché
il giovane scosse il capo. “Non ti ho mai chiesto perdono
come ho
reagito”, sussurrò, ma prima che potesse
replicare, continuò,
quasi ciò rendesse più facile lasciar
completamente andare quelle
parole e dare voce ai propri pensieri. Era come se volesse liberarsi
di quel velo di riservatezza che lo contraddistingueva, ma Brittany
attese.
Distolse lo
sguardo il
giovane, la mascella contratta a tradirne il nervosismo. “Ero
un
bambino, quando morì ed è come se la mia vita da
allora si fosse
fermata”.
La sua voce era
divenuta
più bassa e Brittany ne aveva cinto la mano come silenziosa
consolazione: l'aveva stretta tra le proprie, Hunter, e ancora una
volta genuinamente la ragazza si sorprese di quanto fossero grandi ma
dalla presa salda e forte.
“Era
la notte di
Capodanno e mio padre era impegnato per una festa qui in Accademia:
lei pensò che fosse meglio che andassi alla festa di un
compagno di
scuola dove ci sarebbero stati i miei coetanei. Erano le due di
notte, quando venne a prendermi e... ci fu l'incidente”, il
resoconto si interruppe, lo sguardo volto al pavimento e Brittany si
domandò se fosse la prima volta che pronunciasse tali parole
a voce
alta o se, ancora a distanza di tempo, il dolore fosse fresco ed
intenso come allora. Lasciò che indugiasse in quel momento,
non
assecondò l'istinto di sfiorarlo, ma gli concesse tutto il
tempo
necessario a riprendere parola.
“Attesi
per delle ore
senza capire, fino a quando non giunse mio padre alle prime luci del
giorno: non ricordo di averlo mai visto tanto sconvolto, per quanto
cercasse di apparire in sé”.
Aveva
sospirato,
Brittany, lo sguardo nuovamente corse a quel volto, immortalato in un
momento d’autentica serenità e di gioia, ma il cui
ricordo era
così fragile e delicato che sembrava potersi spezzare al
solo
sguardo. O essere troppo intimo per poterlo inficiare di una sincera
curiosità.
Era tornata a
scrutare il
profilo del giovane, riuscendo mentalmente a ritrovare ordine e nuova
spiegazione a tanti interrogativi passati e persino avendo quasi
l'impressione che lui stesso fosse diverso dal giovane che aveva
lasciato tra quelle stesse mura.
“Non
lo dissi a
nessuno, ” continuò improvvisamente e Brittany
rinsaldò la presa
e gli si fece più vicina ad appoggiare la spalla esile alla
sua, “ma
non ho potuto fare a meno di incolparmi e la cosa peggiore era il
pensiero di essere mai voluto restare senza di lei a quella maledetta
festa. Forse avrei dovuto insistere o pregarla di tenermi con
sé
o...”. .
Aveva scosso il
capo, ma
la sua voce spezzata bastò a procurarle una dolorosa fitta
al petto:
scosse il capo energicamente e gli avvolse le braccia intorno al
collo e ne sfiorò la nuca ad una maniera dolce e
rassicurante.
Appoggiò la gota alla sua e parlò in un sussurro
delicato,
inframmezzato dalla sua stessa apprensione e da quel dolore condiviso
che ne aveva fatto stringere la gola.
“Eri
solo un bambino e
nessuno a quell'età dovrebbe vivere un dolore simile o,
peggio
ancora, ritenersi responsabile”, lo aveva trattenuto quasi
con
forza, cercando di imprimere l'intensità di quelle parole
con
l'energia stessa di quel contatto, ma contrastandolo con la voce
appena sussurrata, quasi timorosa di essere invasiva, persino nel
dolore appena espresso ad alta voce. “Ha sempre voluto che tu
fossi
felice e sono sicura che è ciò che desidera anche
adesso: non ti
avrebbe mai lasciato per nessun motivo, se non avesse pensato che
ciò
sarebbe stato meglio per te”.
Aveva scosso
fermamente
il capo, Hunter, e Brittany aveva lasciato che si divincolasse
dolcemente, il capo ancora chinato prima di sollevare lo sguardo di
un verde striato in quel momento che le procurò un'altra
dolorosa
fitta al petto. “E' da allora che non più creduto
di poter essere
felice”.
Scosse il capo,
Brittany,
il viso inclinato di un lato. “Non dovresti torturarti
così, sono
sicura che non è ciò che vorrebbe: dovresti
ricordare quel sorriso
e sapere che anche il suo ultimo gesto era per assicurarsi che tu lo
fossi. Se non vuoi farlo per te stesso, dovresti farlo per
lei”,
aveva suggerito con voce più dolce, lasciando che le dita ne
sfiorassero la gota in un tocco rassicurante e vellutato.
“Non
ho più
festeggiato la notte di San Silvestro”.
Aveva annuito,
Brittany,
con aria più assorta. “Grazie di avermelo detto,
ma non ti
permetterò di passarla di nuovo da solo”, era
stata la promessa
solenne, per poi sorridere con fare più accattivante, nel
tentativo
di smussare la tensione.
“Potremo
anche
allenarci se è quello che preferisci, ma a patto che non
piova”,
aveva soggiunto ad una maniera più scherzosa, sollevata nel
vederne
un sorriso incresparne le labbra, malgrado tutto.
“Non
sono una buona
compagnia”, si era schermito con uno scrollo di spalle per
poi
soggiungere, altrettanto ironicamente: “E tu non sei proprio
la
recluta migliore”.
Aveva
ridacchiato,
Brittany, per poi raggrinzire il naso. “L'ho già
sentito dire, ma
visto che non posso dire il contrario, fingerò di non aver
sentito”.
Lasciò
che la cingesse
nuovamente e affondò contro la sua spalla con gli occhi
socchiusi a
trattenerlo in quel momento di serenità e di reciproco
conforto,
dalla sola consapevolezza di esserti ritrovati in una solitudine
simile. A lasciare che il suo profumo la cullasse e la sensazione
della sua presenza, riuscisse a schermare le sue paure e i suoi
dubbi, tranquillizzarla e farla, nuovamente, sentire a casa. Una
promessa implicita che non se ne sarebbe più andata.
Probabilmente
stava
pensando qualcosa di simile perché, l'attimo dopo, la
scostò appena
per rimirarla in volto, le sopracciglia inarcate. “Non mi hai
detto
di tuo padre”.
Aveva contratto
le
labbra, Brittany, in un sorriso più amaro. “Non
c'è molto da
dire, temo: è andato avanti con la sua vita, come abbiamo
fatto la
mamma ed io ma... mi sentivo bloccata”,
aveva distolto lo
sguardo, un vago sospiro nel ripercorrere i suoi dubbi e tormenti
segreti.
“Mia
madre ha
rinunciato a tutto, quando sono nata, aveva solo diciassette anni e
un futuro nella danza, ma lo ha fatto senza rimpianti e io avrei
voluto essere abbastanza forte da essere disposta a sacrificarmi a
mia volta, ma non riuscivo a pensare di sostituirlo con
Neal”.
Aveva scosso il
capo, il
giovane. “Nessuno si sarebbe mai aspettato che tu lo facessi:
è
stato importante per te... nel bene e nel male”.
Aveva annuito,
ma non
aveva potuto fare a meno di sospirare e scuotere il capo.
“Credevo
che sarei stata meglio, se avessi avuto le risposte che volevo e,
anche se so che adesso è felice, sapere che ero un ostacolo
alla sua
carriera o alle sue ambizioni-”, si era morsicata il labbro e
lo
sguardo era divenuto più contrito e amareggiato.
“So
che non dovrei, ma
una parte di me continua a domandarsi se sarebbero stati più
felici
e se sarebbero stati ancora insieme, se io... se io non fossi
nata”,
aveva concluso in un gorgoglio e il giovane l'aveva accolta tra le
sue braccia e aveva appoggiato il mento ai suoi capelli.
L'aveva cullata
a lungo
senza pronunciare parola e Brittany aveva socchiuso gli occhi,
completamente abbandonata a quel contatto e quel calore che
sembrò
sciogliere quel nodo in gola. Tutto poteva essere rimandato, anche
risposte più spinose: fino a quando fosse sostata alla sua
presenza,
consapevole che, fin quando fosse rimasta con lui, tutto sarebbe
stato chiaro e limpido e non avrebbe più dubitato di
sé.
L'aveva
scostata da sé
per guardarla in volto.
“La
loro vita è
cambiata, ma sono stati loro a decidere come: non è mai
stata una
tua responsabilità. Non dovresti mai pensare di essere un
errore:
faresti un torto a tua madre che ti ama più d’ogni
altra persona
al mondo. A Neal che vuole entrambe nella sua vita e... a
me”, ne
sfiorò le gote con movimenti circolari delle dita e
appoggiò la
fronte alla sua. “Non voglio pensare ad una vita in Accademia
senza
che arrivi una recluta dal trolley rosa e che sembra appena uscita da
una beauty farm per Barbie”.
Aveva sorriso,
Brittany,
annuendo con vigore e ritrovando il sorriso. Lasciò che ne
scostasse
i capelli dal viso, le mani più esili appoggiate al suo
petto, quasi
a trattenerlo.
“E'
la mia ultima
giornata qui”, aveva asserito in un bisbiglio, l'attimo dopo.
“Lo
so,” aveva
risposto il giovane, senza smettere di osservarla intensamente,
“ma
aspetterò i weekend oppure”, parve pensarci sopra,
un sorriso più
vispo e divertito che raramente ne increspava le labbra,
“potrei
assumerti come aiuto cuoca o inserviente, a te la scelta”.
Aveva simulato
un broncio
vagamente offeso prima di tornare a adagiarsi contro il suo petto,
socchiudendo gli occhi e crogiolandosi di quel dolce profumo e dalla
consapevolezza che tutto era perfetto in quel momento e non vi erano
più fratture tra loro. Quel semplice contatto sembrava dire
tutto. O
quasi.
Si
scostò poco dopo per
osservarlo. “Neal ha detto che eri venuto in aeroporto quel
giorno”, aveva sussurrato e Hunter, per la prima volta, parve
vagamente a disagio.
Annuì.
Prese un libro
appoggiato sul comodino e ne estrasse la busta che Brittany
rimirò
con occhi sgranati e le guance arrossate, quasi se ne fosse
completamente dimenticata fino a quel momento.
Sorrise il
ragazzo nel
depositarla sul letto, cingendone maggiormente la vita, e attraendola
nuovamente a sé. “Credevo che la Bestia smettesse
di essere tale
alla dichiarazione di Belle”, sembrò riferirsi a
quell'appellativo
finale del “Principe camuffato da Bestia”.
“I-Io”,
era arrossita
profondamente e, seppur la lettera avrebbe dovuto semplificarle il
riuscire a palesargli i suoi sentimenti, sembrava più che
mai
difficile sostenerne lo sguardo limpido.
Sorrise,
Hunter, ma
scosse impercettibilmente il capo e la trasse maggiormente contro di
sé, quasi disperasse di mantenere quel contatto,
appoggiò le labbra
alla sua tempia e rilasciò un dolce sospiro contro il suo
orecchio.
“Sarebbe la mia gioia, essere il tuo Principe”,
aveva sussurrato
con voce appena percepibile.
Scosse il capo,
Brittany,
scostandosi appena per rimirarlo e sfiorandone delicatamente il
volto. “Una favola,” lo corresse, “non
solo un Principe: vivo
una favola, da quando ti conosco”.
L'aveva stretta
più
intensamente prima di rilassarsi e stendersi sul letto, trattenendola
contro il proprio petto, sfiorandone delicatamente i capelli e
sollevando le coperte su entrambi, quasi isolandosi dal resto del
mondo in quell'anfratto soltanto loro.
O quasi,
considerando
come Mr Pussy, che aveva trottato ai loro piedi, si fosse a sua volta
accoccolato in grembo alla giovane.
“Avremo
il nostro happy
ending?”, le chiese, la voce sembrava provenire anch'essa da
un
mondo fatato, continuando a cingerla per poi porgere una carezza al
micio.
Annuì,
Brittany,
sostenendosi appena al gomito per osservarlo. “Devi solo
crederci e
seguire il tuo sogno”.
“E'
da tanto che non mi
chiedo più quale sia”, aveva ammesso con voce
distante,
probabilmente ripensando al passato.
Aveva sorriso,
Brittany,
mantenendosi su un fianco. “Allora è il momento di
ricominciare”
“Come?”,
la incalzò,
il viso inclinato di un lato, quasi allietato da come le risposte le
sembravano naturali, quasi fosse lei stessa fonte di quella sicurezza
a cui aggrapparsi.
“Non
andandomene più
da qui per cominciare”, aveva riflettuto, le bionde
sopracciglia
contratte per l'aria pensierosa.
Aveva annuito,
con aria
fintamente pensierosa. “Sono d'accordo”,
sussurrò e rinsaldò la
pressione delle braccia attorno alla sua vita.
“E
comunque non te lo
avrei permesso”, aveva concluso nell'appoggiare nuovamente la
fronte alla sua.
Non era
probabilmente la
frase d'amore più consueta o la formula più
diffusa, Brittany lo
sapeva, ma in cuor suo era certa che non avrebbe potuto esservene una
migliore o più vissuta.
L’inizio
di una loro
favola.
To
be continued...
Spero
di essere riuscita a farmi perdonare l'atmosfera più amara
di questi
ultimi capitoli: mi sembra davvero incredibile essere giunti a questo
punto, quando si ha la sensazione di aver cominciato da poco.
Ma
non credo sia il caso di cominciare discorsi d’addio, quindi
vi
lascio qualche piccola anticipazione dell'epilogo:
“Realizzerò
la tua favola: credo di avere già l’idea
adatta”.
“Sono
entrata per mia madre, ma era per te che volevo restare”.
“Vorrei
chiederle di concedermi il primo ballo padre e figlia”.
“Oh,
avanti, non fare-“. “La bestia?”.
Come
sempre ringrazio tutti voi che mi seguite e un esercito di unicorni
per tutte voi che siete sempre così dolci e gentili da
condividere
le vostre emozioni e allietare il mio Venerdì <3 Non
sarebbe lo
stesso senza di voi!
Non
mi resta che augurarvi un buon fine-settimana,
a
presto,
Kiki87
|
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Capitolo 13 *** Epilogo ***
epilogo
Le
favole si avverano:
nel
profondo
vogliamo
credere che
continuano
ad avverarsi
e
un segreto è svelato,
è
la parte della storia
che
preferiamo.
Non
chiedere al tuo cuore se
sente
di poter volare.
La
tua testa sente di poter girare,
ogni
lieto fine è un nuovo inizio,
restane
affascinato.
(Ever
Ever After – Carrie Underwood, colonna sonora
di
“Come d'Incanto”, Walt Disney)
Epilogo
Era
sempre qualcosa
d’emozionante e di “magico” estrarre la
sua scatola a forma di
scrigno: ne sfiorava la superficie intagliata con l'incisione dei due
simboli (un diadema da principessa e una stella a simboleggiare il
grado militare) con rispettive iniziali “B” e
“H” che un caro
amico aveva commissionato per loro. Uno dei doni decisamente
più
apprezzati di sempre.
Lo schiuse e, ancora una
volta, lo sguardo vagò tra i ricordi più sereni
della sua vita, ma
non indugiava mai troppo nella dolce nostalgia: richiamarli alla
mente, era
come riviverli, ma con la consapevolezza di ciò che era
avvenuto
dopo e, al contempo, con la dolce sicurezza che ve ne sarebbero stati
altri. Altrettanto sereni e felici con i quali riempire ulteriormente
quello scrigno.
Il primo che prese tra le
mani era una pergamena arrotolata: seppur conoscesse a memoria le
parole scritte, le rilesse ancora una volta. E la mente, con un
sorriso sognante sulle labbra, vagò alla prima volta in cui
le aveva
lette.
Quando
schiuse gli occhi, un sorriso sereno aleggiava ancora sulle sue
labbra, ma serrò nuovamente le palpebre, quasi volendo
assicurarsi
di poter trattenere quella nuova serenità il più
lungo possibile.
Dopo anni nei quali era sembrata vagare in una sorta di limbo, tutto
sembrava così incredibilmente meraviglioso nella sua
naturalezza.
Allungò
la mano, ma corrugò le sopracciglia, quando
percepì la zona più
fredda del materasso. Schiuse nuovamente gli occhi e si
sollevò con
il torso: ad eccezione di Mr Pussy che si stava stiracchiando
pigramente, era sola.
Ma
fu alla vista della rosa adagiata sul comodino e della busta che si
rasserenò: allungò la mano a prenderla, l'altra
intenta ad
accarezzare il micio le cui fusa sembravano un saluto.
Schiuse
il bigliettino, gli occhi già illuminati
d’aspettativa.
Perdonami se non sarò
qui, quando troverai questo biglietto,
i miei doveri di
Princip-
Capitano esigono la mia presenza.
Buon risveglio: sembra tu
stia facendo sogni meravigliosi che non vedo l'ora di conoscere.
A più tardi,
Hunter
Si beò della rosa che
si portò al volto per sentire la fresca morbidezza dei suoi
petali
e, infine, si alzò. Lasciò a sua volta un
biglietto, prima di
uscire dalla camera.
I
doveri di un Principe Soldato sono improrogabili,
almeno
ti ho incontrato in sogno, ma non vedo l'ora che avvenga davvero.
Buona
giornata, a più tardi,
xoxo
Brittany
~
Sarebbe
stata l'ultima volta in quella camerata, ma non poté fare a
meno di
provare un po' di nostalgia, soprattutto quando Marley
l'abbracciò e
dovette deludere le sue speranze su un suo possibile ritorno a
frequentare l'Accademia.
Persino
Lauren, certo a modo suo, sembrava un po' dispiaciuta, anche se
asserì che non le sarebbero ovviamente mancate tutte le
punizioni
extra che erano state scontate per i suoi guai.
S’intrattenne
tutta la mattinata con loro e stava ancora discutendo circa la
possibilità di un colloquio con il responsabile delle
ammissioni
alla Tisch
School of Arts,
quando un placido miagolio le riscosse tutte. Mr Pussy
avanzò nella
stanza e Brittany sorrise, ma si chinò a prenderlo in
braccio,
ignorando le risatine maliziose delle altre, fino a quando non scorse
una pergamena arrotolata ed incastonata nel collare.
La
srotolò, il cuore in gola e le guance più rosate,
e scorse
quell'iscrizione che sembrava tratta... da un libro di favole,
persino con l'iniziale in miniatura, le rifiniture dorate a
decorazione e il font di scrittura perfettamente abbinato.
Non abbiamo
ancora avuto
il nostro “ballo ufficiale” e credo sia giunto il
momento di
rimediare.
Questa sera,
dove ti ho
vista ballare da sola la prima volta, alle 21.
Ti accludo un
biglietto
da visita: sono certo che farà al caso tuo. Ogni Principessa
dovrebbe avere una “fata madrina” che si rispetti.
Confido che, in questo
caso, sarà davvero speciale.
A stasera,
Hunter
PS: fremo
nell'attesa.
“E'
così
romantico”, aveva commentato Marley con sguardo sognante, per
poi
punzecchiarle il fianco con il gomito. “Abbiamo appurato che
il
Capitano Clarington ha un cuore, dopotutto”.
“Parla
per te,” fu
la sferzante e maliziosa replica di Lauren, “io di altri
parti del
corpo, non ho mai avuto dubbi”.
Non le
stava
ascoltando, Brittany, il foglio di pergamena ancora tra le mani e un
sorriso rivolto al biglietto allegato, anch'esso decorato con fregi e
decorazioni degne dei suoi libri preferiti. Rilesse il post scriptum
e sentì il cuore scalpitare furiosamente: decisamente
se la loro vita sarebbe stata simile a quell'esordio giornata, non
avrebbe potuto sognare di più.
~
“Dream Dress”,
quello era il nome del negozio, scritto con un carattere elegante e
raffinato che Brittany aveva ammirato con sguardo emozionato.
Entrata, fu
subito
attratta dalla visione degli abiti più incantevoli e
pregiati che
avesse mai scorto: abiti da sera, da Prom, fino ai modelli da
cerimonia e dai più svariati colori e tessuti che sembravano
soltanto attendere di poter essere indossati per dare davvero vita ai
sogni delle ragazze. Si guardò attorno, quasi suggestionata
da tanto
splendore, fino a quando non le apparve di fronte un ragazzo le cui
belle fattezze erano paragonabili a quelle di un elfo, nel suo
immaginario infantile. Aveva, infatti, lineamenti delicati, ma la
statura era ben più slanciata, rispetto alla versione
mitologica.
Tutta la sua carnagione sembrava lucente come la porcellana: su di
essa erano incastonati, come pietre preziose, occhi di sfumatura
cangiante di azzurro e gli abiti di raffinata sartoria, ne
risaltavano il portamento signorile.
“Mademoiselle,”
si
era presentato con un sorriso altrettanto brillante, “lasci
che mi
presenti: sono Kurt
Hummel
e
è mio compito quello di realizzare i sogni di ogni fanciulla
che valichi la porta di quel negozio. L'accompagnerò in un
tour
accurato e, nel frattempo, potremo scambiare qualche parola,
così
conoscerò meglio la mia prossima Musa”.
Sorrise,
Brittany, e
fu impossibile resistere ai suoi modi galanti, ma intrisi di
piacevole complicità.
“Come una fata
madrina?”,
chiese con aria evidentemente sognante prima di
porgergli la mano, “è un piacere conoscerti, Kurt,
mi chiamo
Brittany”.
A quel paragone,
Kurt
dondolò le spalle con aria compiaciuta, ma ne
baciò la mano con la
stessa raffinatezza che sembrava parte di lui, prima di sorriderle
più accattivante. “Il mio metro”, e lo
estrasse dalla tasca
interna della giacca, “fa più magie di una
bacchetta: questo te lo
assicuro”.
Come prevedibile,
Kurt
andò letteralmente in visibilio alla vista dell'invito
impresso su
pergamena, seppur avesse sorriso con aria sorniona, evidentemente
già
a conoscenza delle intenzioni del ragazzo. “Il signor
Clarington,
sì: ho già parlato con lui, ma la sua iniziativa
è
andata ben oltre le mie aspettative sulle sue doti da
Principe”,
aveva ammesso.
Quasi non
resistesse,
srotolò di nuovo la pergamena, la mano sul petto e un
sospiro quasi
sognante. “E' così bello vedere che esistono ancora dei
fidanzati così romantici ed è persino un soldato,
lui”,
l'aria sognante aveva lasciato spazio ad una più polemica, a
giudicare da come aveva alzato la voce ad una maniera assai
eloquente.
Solo in quel
momento,
lievemente sorpresa, Brittany si avvide di un ragazzo seduto su un
divano (era stato così silenzioso fino a quel momento, che
neppure
vi aveva fatto caso), le gambe accavallate, sembrava completamente
preso dalla lettura della sua rivista sportiva. Aveva i capelli di
un castano chiaro, sollevati in un ciuffo morbido e vaporoso, occhi
verdi, spesso illuminati dal divertimento e con un ghigno che ne
increspava le labbra sottili. A quelle parole, tuttavia,
levò lo
sguardo e sollevò gli occhi al cielo. Senza distogliere lo
sguardo
sulle pagine che aveva di fronte, replicò con voce annoiata
ma
intrisa di sarcasmo.
“I soldati sono
sopravvalutati e quelli dell'Accademia sono solo arrapati disperati
che farebbero di tutto per arrivare... all'alzabandiera”.
Una sfumatura
color
vermiglio pitturò le gote di Kurt che parve irrigidirsi: da
parte
sua, Brittany, non riusciva a capire quale attinenza potesse avere la
bandiera dell'Accademia, ma preferì non intromettersi o
esplicitare
quel dubbio. Almeno alla presenza del ragazzo che appariva
così
brusco nelle risposte.
Kurt, tuttavia,
si
schiarì la gola, evidentemente desideroso di ignorarlo,
perché le
sorrise nuovamente e si concentrò su di lei.
“Quindi sarà un
appuntamento galante, con tanto di ballo, se ho ben capito?”,
le
chiese conferma.
Sorrise
soddisfatto,
il ragazzo seduto al suo angolo, e voltò pagina,
apparentemente
deciso ad ignorarli.
Annuì,
Brittany, le
guance nuovamente rosate, ma lo guardò quasi timorosa.
“Ecco, in
realtà non siamo proprio fidanz-”.
“Non ancora”,
ribatté Kurt con una garbata strizzata d'occhio,
“ma è bello
vedere che esista ancora una certa attenzione al corteggiamento”,
aveva sospirato nuovamente con aria stoica.
“Disse colui che mi
odiò dal primo istante in cui il suo ex ragazzo ci
presentò e dal
suo « non mi piaci », cadde tra
le mie braccia. Sei mesi
dopo, tutto secondo il mio piano”, fu la pronta replica
dell'altro
ragazzo, quasi fosse stato implicitamente chiamato in causa.
Brittany, suo
malgrado
incuriosita, cercò di trattenere il sorriso.
“Sei mesi?”,
chiese infatti.
“In realtà
mi amava
da prima, ma sa essere molto testardo”, replicò
l'altro con una
scrollata di spalle. “L'attesa comunque si è
dimostrata...
piacevole quanto il
risultato”.
Kurt, che era
divenuto
di un bel color ciliegia, si volse nuovamente al ragazzo per poi
assumere una posa rigida e impettita. “Da questo momento,
t’ignorerò!”, dichiarò con
veemenza.
Rise l'altro e
Brittany dovette nascondere il suo stesso divertimento, ma si
affrettò a stringere il braccio che Kurt le aveva porto,
evidentemente intenzionato ad iniziare il tour.
“Realizzerò
la tua
favola: credo di avere già l'idea adatta”.
Aveva perso la
cognizione del tempo tra abiti di diverso tessuto e colore, ma quando
uscì per l’ennesima volta dal camerino e il suo
sguardo incontrò
quello di Kurt, seppero entrambi che non avrebbe potuto esservi
un’altra scelta.
L'abito era
naturalmente ispirato ad una delle favole preferite di Brittany:
soprattutto il momento cruciale del ballo, non quello del primo
incontro sotto false spoglie per entrambi, ma quello finale, a
palazzo e circondati dalle reciproche famiglie e dai sudditi.
Un bustino
stretto ed
aderente alla vita sottile, ne modellava il busto, aveva maniche
lunghe e il bavero bianco a risaltare contro la sfumatura rosa
dell'abito. Lasciava le spalle nude e il corpetto era impreziosito da
uno scintillio dorato di pietre a disegnare un ghirigoro sul davanti.
Si apriva poi in un'ampia gonna, resa corposa dagli strati di tulle e
che scivolava morbida fino al pavimento, sembrava perfetta per un
ballo da sala.
“Sai,
l’ignorarmi
era divertente per le prime due ore-”, persino Sebastian
(quello
era il nome del ragazzo) si concesse di gettarle un’occhiata
distratta. Probabilmente era stato il tessuto lucido ad attirarne
l’occhio. O l'espressione emozionata della ragazza e quella
commossa di Kurt che si affrettò ad avvicinarsi per togliere
delle
pieghe inesistenti e sistemare gli strati di tulle.
Batté
le mani ed
annuì. “E’ per questo che disegno abiti:
lo sguardo della
fanciulla che trova quello giusto, è come
innamorarsi”.
Era rimasta
silenziosa
fino a quel momento, Brittany, incapace di distogliere lo sguardo dal
proprio riflesso e dirsi, ancora una volta, che la sua favola si
stava realizzando e quell'abito ne era uno splendido ed evidente
simbolo. Non restava, a quel punto, che vivere la sua favola e senza
più alcun timore.
“E’
davvero…
perfetto”, sussurrò, infine, con voce quasi rauca,
incapace di
articolare una frase più lunga.
“Sei davvero
Britteliziosa”, fu
l’ispirazione di Kurt che le strappò
una risatina.
Sebastian si
strinse
nelle spalle con le sopracciglia inarcate: “Sarà
difficile
toglierlo”, fu la recensione che strappò a Kurt un
verso
d’indignata disapprovazione.
Gli
colpì il braccio
con fare ammonitore, Kurt, ma il sorriso dell’altro divenne
persino
più suadente, mentre, ignorandone l’espressione
stizzita, ne
cingeva la vita: “Come questo”, aveva aggiunto
sfiorando una
sorta di bustino da uomo che indossava sotto la giacca del tight,
facendolo arrossire persino di più.
Brittany
sollevò le
mani, dopo essersi concessa una piroetta su se stessa, con un sorriso
più sognante: “Continuare pure a fingere di
litigare: vado a
cambiarmi”, trillò in loro direzione.
“Non stiamo
fingendo!”, fu la stridula protesta di Kurt.
“Stiamo ancora
litigando?”, chiese Sebastian, “A giudicare da come
tremi, stiamo
già per fare pace”.
“SEBASTIAN!”,
Brittany ne sentì il rimprovero persino dal camerino.
Si
premunì di
cambiarsi con attenzione: in parte per il timore di poter rovinare
l'abito, d'altra parte per lasciare che i due
“litigassero” o
“non litigassero”, per un po'.
Al congedo,
Brittany
abbracciò dolcemente lo stilista. “Sei davvero
magico”, lo lodò
e il ragazzo sorrise con evidente soddisfazione, ma lo sguardo
addolcito dallo scintillio delle iridi.
“Vivi la tua
favola”, le augurò baciandole entrambe le guance.
“Anche voi”,
rimarcò la giovane sorridendo ad entrambi.
“Lo faremo”,
la
rassicurò Sebastian che le rivolse un vago cenno del mento,
ma uno
sguardo tutt'altro che innocuo al proprio ragazzo.
~
Uno stato di
dolce
attesa e d’impazienza febbrile, al contempo, aveva atteso che
l’orologio scandisse quell’esatto momento. Persino
quei corridoi
bui sembravano accoglierla con sguardo attento, silenzioso ma
complice dell’atmosfera più favolosa.
Camminava
lentamente e
solo il suono dei tacchi infrangeva il silenzio: scorse la luce
accesa in prossimità dell’aula di danza e quando
vi entro, rimirò
la tavola che era stata sontuosamente allestita.
Hunter era
lì. Ciò
che ne faceva risplendere il viso era quel sorriso che raramente ne
increspava le labbra, ma che ne faceva risaltare le iridi verdi e
sembrava lui stesso parte di quella favola annunciata, la sua figura
quasi fin troppo meravigliosa e affascinante per potersi definire
reale. Con un gesto fluido le aveva cinto la mano e Brittany
sentì
il suo stesso cuore scalpitare intensamente, come un orologio che
scandisse quei momenti di intensa serenità.
Il giovane si
portò
la mano alle labbra e la sfiorò con un tocco appena
accennato, ma
capace di farle scorrere un brivido lungo la spina dorsale.
“Sei
meravigliosa questa sera”.
E Brittany gli
credette, non per proprio merito, ma per quel dolce scalpitio in
petto che prometteva nuovi istanti da vivere insieme e con
altrettanta gioia ed incanto.
“Anche tu”,
riuscì
a sussurrare e il giovane si scostò dolcemente per spostarle
la
sedia e permetterle di sedere.
Non avrebbe
potuto
ricordare con esattezza il dialogo durante la cena: anche
ripensandoci, a distanza di tempo, vi erano solo fotogrammi di un
sorriso o del momento in cui la mano del giovane trovò la
propria
per non lasciarla più andare.
L’aveva
stretta con
una lieve pressione, prima di alzarsi e indicarle il parquet.
“Vorresti ballare con me?”.
Per un solo
istante,
pensò a quel primo ballo, quando con quel fare
più autoritario
l’aveva vincolata a sé e, ancora
una
volta, realizzò quanto il loro rapporto si fosse evoluto e
così la
loro comunicazione e sintonia.
“Non desideravo
altro”, sussurrò per risposta e, malgrado il
sussurro più
tremulo, si riusciva a cogliere l’aspettativa nello sguardo
brillante.
Se la danza era
il
modo di esprimere se stessa, non poteva essere una coincidenza il
riuscire a sentirsi libera e leggera tra le sue braccia. Quasi tutto
il mondo si fermasse e la sua realtà fosse solo quella
melodia, il
calore della sua mano nella propria, la pressione ferma e sicura del
suo braccio attorno alla vita o il battito del suo cuore sotto il
proprio palmo.
Si era fermato,
Hunter, apparentemente non prestando più attenzione alla
musica.
“Ho riletto la tua
lettera”, l’aveva cinta in una postura meno formale
nel fasciarle
la vita e Brittany aveva allungato entrambe le braccia alla sua nuca,
adattandosi a quel nuovo stile.
Le guance
più rosate
a quelle parole. “Lo farai ogni giorno?”, gli
chiese, cercando di
dissimulare l’imbarazzo.
“E’
probabile”,
le concesse con un sorriso più complice.
Si era nuovamente
fatta seria. “Non credevo di riuscire a dirti tutto di
persona, ”
aveva ammesso, la voce più tremula ma il sorriso a
schermirsi,
“probabilmente neppure adesso, eppure è tutto
perfetto”.
Probabilmente neppure ce ne sarebbe stato bisogno, non fino a quando
i loro sguardi fossero riusciti a fondersi in quel modo.
La stretta del
giovane
si era rafforzata. “Non avresti potuto farlo
meglio”, aveva
obiettato, allungando una mano a sfiorarne la gota con la punta delle
dita, quasi timoroso di poterne compromettere la dolcezza o di
poterle persino procurare dolore.
“Ma neppure io credo
di essere in grado di dire ciò che ci aspetta,”
aveva ammesso ma,
a dispetto di tali parole la pressione delle sue braccia si
rafforzò,
“forse essere una Bestia era più
semplice”, aveva inclinato il
viso di un lato ed
esibiva
quell'espressione provocatoria che aveva adattato nei loro dialoghi
iniziali e più diffidenti.
Aveva
emesso uno sbuffo, Brittany, tra il divertito e il risentito
nell’imbronciare le labbra a quella maniera più
puerile. “Hai
smesso di esserlo da molto tempo”, aveva dichiarato infine.
Si
fermò di nuovo, Hunter, e la osservò
intensamente. “Sei riuscita
a non perdere la Principessa che è in te, malgrado questa
Accademia,
il tentativo di adattarti alla nuova famiglia e il ritorno di tuo
padre”.
Aveva
sorriso, Brittany, lusingata da quell'osservazione ma aveva scosso il
capo: non si era trattato soltanto di un suo merito.
“Sono entrata per mia madre, ma era per te che volevo
restare”,
aveva affermato con semplicità.
Aveva annuito,
Hunter
e lo sguardo si era fatto persino più
pensieroso.“E’ per questo
che sarà facile lasciare tutto questo e trovare di nuovo la
mia
strada, con te e ovunque vorrai”.
“M-Ma
l’Accademia-”.
Si era stretto
nelle
spalle. “E’ stata la mia casa per molto tempo:
è venuto il
momento di seguire il mio sogno come ha suggerito qualcuno, o di
crearne uno nuovo”, spiegò con altrettanta
semplicità per poi
rafforzare la pressione attorno alla sua vita, “ e vorrei te
accanto per riuscirci, se accetterai di essere la mia
principessa”.
Un singulto
emozionato, un sorriso sguardo lucido e, con slancio, gli
gettò le
braccia al collo.
“Solo se continuerai
ad essere il mio Principe”, aveva asserito con voce tremula,
il
viso adagiato sulla sua spalla e le braccia esili a cingerlo, quasi
fosse l’unico appiglio a cui aggrapparsi
all’indomani di un nuovo
inizio.
“E’
la più alta carica che io abbia mai raggiunto”,
aveva sussurrato e
aveva appoggiato il mento contro il suo capo, socchiudendo gli occhi
e quasi dondolandola in quel contatto prolungato.
Infine,
la scostò dolcemente. Non sorrideva più e aveva
smesso
completamente di muoversi: l’emozione le tolse il respiro.
La pressione
delle sue
braccia intorno alla vita si fece più ferma,
l’altra mano
continuava a sfiorarne la gota e lo sguardo fisso in quello della
giovane, sembrava cercare una conferma o una consapevolezza da sempre
condivisa ma mai esplicitata, fino a quel momento.
Si
chinò al suo viso
e Brittany socchiuse gli occhi come nient’altro fosse
possibile e
tutto sembrò fermarsi in quel preciso istante. Conscia
soltanto del
battito incessante del suo cuore che sembrò voler
cristallizzare
quel momento, renderlo unico ed eterno.
Le sue labbra
sfiorarono le sue e trattenne il respiro, consapevole che ogni
singolo istante vissuto fino a quel momento, li avesse condotti
esattamente lì.
Sorrise sulle sue
labbra, il ricordo dei baci “del vero
amore”,
di cui aveva
letto da bambina, ne sfiorò la gota, quasi necessitasse di
un segno
tangibile della sua presenza e della conferma che non stesse
sognando. Sorrise quando la mano più grande si strinse
attorno alla
sua, a trattenerla.
Rafforzò
la pressione
intorno al suo collo, con fare più fanciullesco e puerile,
nel
prendere nuovo slancio, che lo indusse a sollevarla leggermente nel
trattenerla a sé. Un sorriso a fior di labbra, un abbraccio
che
prometteva che non l'avrebbe lasciata andare e di nuovo il tempo si
fermò.
Un altro istante.
Brittany
sorrise e ripose
la pergamena. Lo sguardo fu attratto da una busta pregiata e la
schiuse per leggerne il messaggio della partecipazione al matrimonio
di sua madre e di Neal.
Una meravigliosa
giornata estiva e soleggiata: la sua domanda d’ammissione
alla
Tisch era già
stata
inoltrata e così quella di Hunter alla stessa
Università, ma per la
facoltà di medicina.
Sua
madre sarebbe rimasta a Colorado Springs con il marito e quell'anno
il Glee Club, volendo tenersi stretto il trofeo e il titolo, avrebbe
avuto una spumeggiante ma professionale ballerina alla guida.
Era
stato tutto predisposto e i campi d’addestramento
dell'Accademia
sembravano, con il padiglione sontuosamente allestito e le
decorazioni, un giardino fiabesco. Così anche l'altare di
legno
intarsiato di fronte al quale gli sposi si sarebbero scambiati le
promesse di nozze.
Erano
entrambi sulla terrazza che dava accesso posteriore all'edificio e
stavano rimirando il paesaggio. O almeno lo avevano fatto per qualche
istante, prima che si ritrovasse avvinta tra le braccia del ragazzo.
Un
verso divertito al sentirsi nuovamente trattenere, prima che le
labbra del giovane sfiorassero le proprie e, ancora una volta, le
ripetesse quanto fosse splendida quel giorno.
Cercò
di divincolarsi dolcemente: “Devo andare”, aveva
sussurrato con
voce appena trasognata.
“Lo
so,” aveva replicato, senza tuttavia accennare a lasciarla,
“ma
non ne ho voglia”. Si era stretto nelle spalle nel rinsaldare
la
pressione intorno ai suoi fianchi.
“Devo
farlo”, replicò con
poca
convinzione nel socchiudere gli occhi, al tocco delle labbra lungo la
gota, “sono la damigella d'onore”.
“Sì,
sembra plausibile”, l'aveva lasciata dopo un lungo istante e
aveva
indicato la porta con un cenno del mento, come molto tempo prima.
“Va'”.
Aveva
annuito, Brittany, l'aria ancora sognante, ma, prima di entrare, si
era nuovamente voltata in sua direzione e ne aveva cinto il collo,
con un verso divertito. “L'ultimo”, lo aveva
blandito,
ricevendone un sorriso sornione in risposta, prima che si chinasse al
suo viso.
Si
era scostata alla vibrazione del cellulare per poi estrarlo dalla
pochette: “Dieci chiamate perse: sono morta”, gli
occhi sgranati
prima di schizzare letteralmente via, suscitando una risata divertita
nell'altro.
Si
era voltato, le braccia appoggiate alla balaustra e aveva rimirato il
paesaggio con un sorriso: una delle ultime panoramiche di quel luogo
e tra le più emozionanti da serbare nel ricordo.
“Grazie
a Shirley nessuno potrà più dire che le Accademie
non sono
romantiche”.
Si
era voltato con un sorriso alla vista del padre, fasciato nella
sfolgorante alta uniforme e pronto al suo ruolo di testimone, a
braccetto con una donna molto elegante e dal sorriso scintillante.
“Papà,
Julienne”,
Hunter si era loro avvicinato e si era chinato a baciare la guancia
della donna.
Suo
padre lo aveva osservato divertito, scambiando uno sguardo sornione
con la donna. “Sono sicuro che oggi Brittany sia persino
più
raggiante del solito”, aveva commentato.
Inarcò
le sopracciglia, Hunter, guardandolo con la tipica compostezza,
serrando le braccia al petto. “Ne sono sicuro”,
aveva replicato
cautamente, “credo sia in ostaggio nella camerata
femminile”,
indicò la struttura.
Aveva
annuito, Jonathan, e per qualche motivo Julienne gli aveva affibbiato
una pacca sul braccio. “Non essere irriverente”, lo
aveva
rimproverato dolcemente.
“Hai
ragione”, convenne Jonathan che aprì la porta
cavallerescamente,
ma si sporse verso il figlio: “Hai una macchia di rossetto proprio
in quel punto”, aveva indicato una
sbavatura accanto alle labbra e il ragazzo aveva sgranato gli occhi.
Un vago colorito rosato ne aveva sfiorato le gote, prima che
estraesse, più goffo che mai, un fazzoletto dalla tasca.
“ALT!”,
era stata la voce di un agitatissimo Kurt Hummel a fermarlo.
Sebastian
trotterellava alle sue spalle con posa indolente, le mani conficcate
nelle tasche dei pantaloni eleganti, ma guardandosi attorno come un
turista distratto.
“So
cosa stavi per fare!”, lo additò il ragazzo che,
benché
leggermente più basso, ma dalla stazza più esile,
appariva più
minaccioso che mai. “Insubordinazione al buon
gusto!”, esclamò
con enfasi, prima di scuotere la testa. “Andrò
anche a strigliare
la damigella”, aveva scosso il capo con evidente
disapprovazione,
ma, con un gesto spiccio, aveva estratto una salvietta inumidita che
un Hunter inebetito aveva preso. Sospirò, Kurt, che gli
strappò di
mano il fazzoletto e lo insinuò nuovamente nel taschino del
tight
con aria stoica.
Jonathan
e Julienne si allontanarono ancora ridacchiando.
“Devo
ancora vedere la sposa e già sto iperventilando”,
lo stilista che
si era improvvisato wedding planner, stava letteralmente parlando da
solo.
“E
io che speravo fosse per come sono sexy in questo smoking”,
era
intervenuto Sebastian con voce suadente.
Alzò
gli occhi al cielo, Kurt. “Andiamo, siamo in ritardo: devo
ricordarti il
perché?”.
“Non
mi sembrava che ti fosse dispiaciuto rivestirmi”,
c'era un sorriso malizioso ad incresparne le labbra, ma lo
seguì con
aria indolente, rivolgendo appena un cenno del mento al ragazzo che
sorpassò.
Sbatté
le palpebre, Hunter, con aria perplessa: quella giornata si
prospettava tutto fuorché banale o priva di personaggi
curiosi.
~
La cerimonia era
stata
davvero emozionante: Brittany aveva sentito gli occhi inumidirsi in
più di un'occasione, ma era una gioia senza eguali poter
contemplare
l'autentica felicità sul
volto della madre e la consapevolezza che, finalmente,
anch'ella
avesse trovato l'amore della sua vita.
Il pranzo stava
procedendo altrettanto serenamente, quando era giunto il momento dei
brindisi e Neal si era alzato dal suo posto.
“Ho molto di cui
ringraziare quest'oggi e se ho trovato la gioia in questa splendida
donna che oggi è diventata ufficialmente mia”,
fischi
d’approvazione, qualche sporadico applauso.
“Splendida e ancora
in attesa della torta, però”, si era stretta nelle
spalle,
Shirley, con finta modestia, ma lo sguardo raggiante.
Neal si era
schiarito
la gola ed aveva atteso che gli ospiti silenziassero nuovamente.
“Credo che una dedica del tutto speciale vada ad un'altra
giovane
donna che mi ha permesso di entrare nella sua vita. E' con questo
che, sperando non mi dica di no e garantendole che sono stato
addestrato a dovere”,
aveva occhieggiato verso Shirley con
un’aria complice, “vorrei chiederle di concedermi
il primo ballo
tra padre
e figlia”.
Aveva sentito le
guance infuocarsi, Brittany, a tutti gli sguardi puntati in sua
direzione - il naso già arrossato di Kurt che soffiava
nuovamente
nel suo fazzoletto - ma aveva sorriso di cuore. Si era lasciata
sollevare da Neal che, rapidamente, l'aveva raggiunta, per porgerle
cavallerescamente la mano.
“Sarà un
onore”,
sussurrò per risposta e si era lasciata condurre sulla
pedana che
era stata allestita (dopo aver rimosso tutti gli elementi del
famigerato percorso ad ostacoli).
“Attenta, Britty
Woman”, si era levata la voce della madre e il guizzo
ironico,
“Jonathan sarà anche impegnato, ma potrei sempre
prendermi l'altro
Clarington”.
Scosse il capo,
Brittany, ridendo allo sguardo imbarazzato di Hunter, almeno dopo che
ebbe evitato il soffocamento nel sorseggiare il suo drink.
Lasciò
che Neal le cingesse la vita e, insieme, si abbandonarono al ritmo.
Sorrise quando
sollevò
il braccio per farla piroettare, attenta a non calpestare l'orlo del
suo lungo abito.
“E' la festa che
volevi?”, chiese in un sussurro.
“No”, aveva
commentato l'uomo con un sorriso nel condurla abilmente,
“è
persino migliore”.
Aveva annuito, lo
sguardo luminoso quasi quanto quello della madre: “Sono
felice di
far parte del suo sogno”.
Aveva rafforzato
la
pressione dell'abbraccio, Neal, appoggiando il capo contro i suoi
capelli e ne baciò la fronte.
“Non sarebbe stato lo stesso senza di te”.
“E sono anche
onorata di questo ballo padre-figlia: l'ho sempre sognato”,
aveva
ammesso con le guance più rosate.
“E sarà solo
il
primo”, aveva commentato con aria gioviale, ma trattenendola
contro
di sé e lasciandole affondare il viso contro il suo petto.
Un altro lungo
istante
nel quale non sembrò necessario scambiare altre parole. Era
finito
il tempo del disagio, dei silenzi da riempire, delle frasi di
circostanza o del sentirsi in soggezione. Era tutto perfettamente
naturale, tutto in funzione di quell'istante.
“Immagino di doverti
lasciar andare”, aveva alluso ad Hunter che si era avvicinato
con
un sorriso, ma aveva atteso educatamente. La pista, come
notò la
ragazza, si era rapidamente riempita di coppie che volteggiavano
dolcemente.
Sorrise,
Brittany, ma
prima che potesse cingerne la mano, era stato Jonathan ad
intervenire, lasciando il figlio di stucco. “Rispetta i
gradi,
soldato: testimone
e damigella,
dopo lo sposo sono l'uomo più
importante”, aveva commentato, facendo ridere Neal.
“Beh?”, era
intervenuta, Shirley, le mani sui fianchi in un'espressione sorniona,
“la sposa non ha diritto a sgranchirsi le gambe? Non vedo
l'ora di
gettare dal tetto queste stupide scarpe”, era parsa timorosa
che lo
stilista non la sentisse.
Al braccio porto
di
Neal, aveva scosso il capo, cacciandone la mano con un gesto rapido.
“Avrai tempo di calpestarmi i piedi: credo che finalmente mi
prenderò il mio Cavaliere”, con un sorriso
accattivante aveva
insinuato il braccio sotto quello di Hunter che, lo sguardo ancora
incredulo, si era schiarito la gola, prima di rispondere un cauto:
“Sarà un onore”.
Rise ancora al
ricordo,
Brittany, e scosse lievemente il capo.
Lo sguardo
corse ad un
altro oggetto: una scatolina metallica che aprì con un
sorriso,
rivelando dei cartigli rettangolari, alcuni vergati dalla propria
calligrafia, altri da quella di Hunter.
Rilesse quelle
parole che
sembravano già allora segnare il destino che li avrebbe
attesi,
quando quelle aspettative si sarebbero concretizzate. Aspettative
che erano divenute la cornice della quotidianità che stavano
tuttora
vivendo.
Erano
saliti sul tetto
della casa di New York, sul quale la madre aveva fatto edificare un
giardino che si apriva al paesaggio della città. Brittany si
muoveva
con incedere fluido e sicuro, il giovane la seguiva con cipiglio
appena più curioso.
“Perché siamo
saliti fin qua?”, chiese, infatti, prima che il suo stesso
sguardo
fosse catturato dalla splendida panoramica che poteva osservare da
quell'altezza.
“Non solo per
quello”, lo blandì Brittany che stava scrutando
attentamente il
pavimento fino ad individuare una mattonella mobile nel pavimento.
Sorrise con aria di trionfo e la scostò per rivelare qualche
giocattolo che Hunter osservò più divertito.
“Un nascondiglio?”.
“Esatto, era per i
giocattoli, ma ho pensato ad un altro modo per usarlo da
quest'anno”,
aveva esordito, rimettendosi in piedi ed osservandolo. “So
che non
ti piace festeggiare la notte di San Silvestro”, aveva alluso
agli
invitati della madre e di Neal che stavano già rumoreggiando
nell'appartamento in cui avevano vissuto fino all'anno precedente.
“E questo mi sta
bene, ma non devi smettere di credere che le cose non andranno meglio
e te lo proverò!”, aveva concluso con aria
determinata. Fu allora,
che dalla borsa appesa alla spalla, estrasse due penne e dei cartigli
rettangolari per poi porgerne alcuni al giovane.
“Scrivi una lista di
desideri per il prossimo anno: tra un anno torneremo qui e scopriremo
quali si sono realizzati e quali avranno bisogno di più
tempo”.
Aveva scribacchiato
velocemente i propri per poi inserirli in una scatola di latta che
avrebbe ospitato anche quelli del giovane, ma fu quando lo scorse con
la penna ancora in mano e lo sguardo volto a lei, che si
immobilizzò.
“Non riesci a decidere?”.
Si
morsicò il labbro, quasi timorosa che lui potesse obiettare
quanto
quell'espediente fosse sciocco o infantile. O che la sola idea
palesava quanto fossero diversi, fino anche a suscitarne un terribile
ripensamento.
Aveva scosso il capo,
un sorriso più dolce e lo scintillio più
amorevole nello sguardo.
“In realtà stavo pensando che momenti simili hanno
reso quest'anno
incredibilmente perfetto ed è difficile immaginare che possa
andare
persino meglio”.
Aveva sorriso per
risposta, quasi commossa. “Ma è soltanto
l'inizio”, lo aveva
blandito più dolcemente.
Aveva annuito, Hunter,
si prese un istante di riflessione e scrisse sui suoi cartigli, il
sorriso ancora sulle labbra. A quel punto, Brittany li piegò
e li
confuse tra loro, prima di nasconderli nella scatola e poi sotto la
mattonella.
“Tra un anno
sapremo”, aveva sussurrato, realizzando che ciò
implicava la
volontà di essere ancora insieme a costruire i loro sogni.
Sembrò intuirlo,
Hunter, perché ne cinse la mano prontamente. “Tra
un anno”.
Indugiò nel rileggere
qualche proprio cartiglio nella scintillante biro rosa:
Mamma
e Neal felici.
Un
altro anno con il Principe.
Un
saggio di danza alla Tish.
Aveva poi scorto quelli
del ragazzo:
Mio
padre e Julienne felici.
Hudson
fuori dall'Accademia (possibilmente senza che vi faccia ritorno).
Sopravvivere
al primo anno di medicina.
Smettere
di essere una “Bestia”.
Aveva riso di
quell'ultimo cartiglio, seppur fosse divenuto una sorta di gioco tra
loro, ma ancora si ritrovava ad arrossire alla menzione di quella
prima lettera d'amore e quel paragone che sembrava racchiudere tutto
quanto.
Fino a quando non scorse
l'ennesimo proposito che riuscì, ancora a distanza di tempo,
a
strapparle un brivido lungo la spina dorsale e un sorriso a fior di
labbra.
Non si sarebbe mai
stancata di percorrere quelle parole: ignara, nel momento in cui
erano state vergate, che quella voce in particolare, nella lista dei
desideri, ne avrebbe cambiato la vita.
“Il tuo ultimo per
quest'anno”, aveva riepilogato nell'indicare il cartiglio.
Come di tradizione,
erano saliti sul tetto per poi riprendere la scatola con i reciproci
desideri e leggere quelli dell'altro ad alta voce, lasciandolo poi
commentare se fosse più o meno riuscito nell'intento. Aveva
dispiegato il foglietto e una vampata di calore le aveva sfiorato le
guance, gli occhi appena lucidi e le labbra tremanti nel leggerlo:
“Chiederti di diventare mia moglie”,
aveva letto con un
sorrisino accattivante, prima di sfiorare con dedizione l'anello e
sorridere.
“Questo è stato più
che realizzato”, convenne.
Il giovane sorrise,
cingendone la vita: “Decisamente era il più
importante”.
Sfogliò l'album con le
fotografie del matrimonio, un sorriso nello scorgere un foglio su
cui, stesso inchiostro di sempre, aveva scribacchiato (tra correzioni
varie), le parole delle sue promesse di matrimonio.
“Ero una ragazzina
con la testa tra le nuvole e questo non è cambiato molto.
Ero
testarda e permalosa... ma solo un pochino”, aveva ignorato
lo
sbuffo ironico della madre e del giovane che le stava di fronte,
più
bello che mai nello smoking confezionato dal sarto di fiducia e ormai
provetto wedding planner.
Gli aveva rivolto uno
sguardo di pacato rimprovero. “Poco, poco!”, aveva
esplicitato,
indicando una piccola quantità con pollice ed indice, prima
di
schiarirsi la gola e ritrovare serietà e concentrazione,
stringendo
il bouquet quasi fosse un punto di sostegno.
“Le favole erano il
mio rifugio dal mondo: dai momenti tristi o dalle mie paure. Mi
sentivo sperduta, quando ho abbandonato New York per venire a vivere
in quell'Accademia con quelle orribili uniformi:
era come se
strappassero via la felicità e la sarta si era rifiutata di
farmene
una rosa, ancora non ho capito perché, in fondo credo che,
invece,
avrebbe-”.
Allo schiarimento di
gola di Kurt, si era morsicata le labbra. “Stavo divagando,
chiedo
scusa”, si era raddrizzata e aveva sospirato.
“Non è stato facile
adattarmi alla nuova città, una nuova casa o alle corse alle
cinque
del mattino, a non dormire durante le ore di storia”, aveva
sorriso
a Jonathan per poi schiarirsi la gola.
“E poi c'eri tu”,
lo aveva indicato con lo stesso bouquet, “non somigliavi
proprio ad
un Principe, a dirla tutta, ma io ero soltanto un'aspirante
principessa senza corona e senza il suo Re, almeno non
ancora”, e
lo sguardo aveva cercato quello che era divenuto suo padre a tutti
gli effetti, con un sorriso più dolce.
“Non mi sono arresa:
certo, c'è voluto del tempo e Kitty e le mie compagne di
camerata
potrebbero aggiungere che ho combinato qualche guaio
lungo il
percorso, ma poi le cose, a poco a poco, sono diventate più
nitide
perché avevo già le risposte, dentro di
me”, lo sguardo era
divenuto più sicuro e la voce più rauca, quasi
commossa.
“La mia favola è
diventata realtà perché tu l'hai resa tale e di
questo non potrò
mai ringraziarti abbastanza, ma prometto che ci proverò,
ogni
giorno, con tutto l'amore che ho e tutto quello che
verrà”.
Stava ancora indugiando
sulle fotografie del meraviglioso abito che Kurt aveva confezionato,
ispirandosi naturalmente agli abiti delle Principesse, ma fu il
vagito alle sue spalle a strapparla dalla sua contemplazione. Fu
lesta a riporre tutto nel bauletto ed alzarsi in piedi: un sorriso a
fior di labbra nell'avvicinarsi alla culla, posta ad un angolo della
camera da letto matrimoniale. Si chinò rapidamente ad
osservare la
sagoma agitata.
“Shhh, va tutto bene”,
sussurrò con voce più dolce nello sfiorarne la
gota, quasi timorosa
di non essere abbastanza delicata nel farlo.
Gli occhioni si
spalancarono alla sua vista: sembrò che tutto si fosse
fermato in
quello stesso istante e tutto fosse in funzione della sua voce e
presenza. Aveva aperto e chiuso le manine, le labbra avevano emesso
un suono prolungato, simile ad un richiamo e il lamento era finito.
Una nuova urgenza ne faceva rilucere il viso.
Brittany aveva sorriso
nel sollevarlo con attenzione e baciarne la fronte, per poi
specchiarsi negli occhi di quel verde di una sfumatura chiara, quasi
azzurrina.
“Ciao Nathan:
ben svegliato, amore”, lo aveva cullato dolcemente e aveva
osservato quel sorriso di pura adorazione che ne aveva increspato le
labbra, mentre la manina cucciola si allungava, come sempre, ad
insinuarsi tra i capelli biondi e sciolti. “Hai di nuovo
confuso la
notte con il giorno, mh?”, lo aveva blandito premendo il naso
contro quello del bambino.
Lasciò che le dita della
mano libera ne sfiorassero il viso, inducendola a baciarne il palmo.
“Hai fame, mh?”, si era avvicinata al comodino per
prendere il
biberon pieno (dopo averlo riscaldato) e glielo porse, sorridendo
dell'espressione evidentemente soddisfatta.
Ne continuò a sfiorare
la testolina bionda, la manina ancora avvinta alla sua: non
distoglieva lo sguardo, Nathan, seppur impegnato a suggere,
distraendosi di tanto in tanto per sfiorarne il viso, mentre si
chinava a baciarne la fronte.
Quando fu nutrito, si
appoggiò nuovamente alla sua spalla e passeggiarono lungo la
camera,
prima di uscire nel corridoio, sorridendo all'udire la voce di Hunter
in sottofondo: la flessione cadenzata e piacevole che assumeva
durante la lettura.
Si soffermava spesso
sulla soglia dell'uscio, quasi timorosa di invadere quell'atmosfera o
di essere persino di troppo.
Sorrise nell'osservarlo
appoggiato alla testiera del letto di Rebecca,
i cui occhi erano velati dal sonno, malgrado si sforzasse di
mantenerli aperti e di riuscire a prestare ancora attenzione.
Nathan, scostandosi
appena dalla sua spalla, aveva contemplato a sua volta la scena ed
emesso un altro vagito.
“Shhh, papà sta
leggendo la favola a tua sorella”, lo aveva blandito,
baciandone
nuovamente la fronte, ma aveva sorriso, quando la bambina le aveva
rivolto uno sguardo sognante per poi bisbigliarle un:
“Siediti,
mamma”, tastando l'altro lato del letto.
Sotto lo sguardo
divertito del marito che aveva interrotto la lettura, si era
accomodata a sua volta, dondolando ancora Nathan che sembrava a quel
punto interessato ad osservare a sua volta il volume, gli occhi
sgranati e le dita protratte a
toccare le
figure.
Hunter riprese la lettura
e Brittany sorrise nel riconoscere il passaggio della sera di Natale
e il ballo di Belle e di Adam.
“Una delle mie parti
preferite”, aveva osservato nel vederlo richiudere il libro,
quando
la bambina si era finalmente addormentata. Non ci sarebbe stato
bisogno di schiudere la copertina per conoscere le parole che Hunter
vi aveva vergato, otto anni prima, quando era nata.
Questo
libro mi ha condotto alla mia Principessa,
l'ho
guardata diventare Regina, ogni giorno al suo fianco.
Con
la promessa di essere sempre il tuo Re,
ma
lasciarti crescere e vivere la tua favola,
Papà.
“Perché? Esiste una
parte che non ti piace?”, le chiese con un accenno
più ironico,
mentre, con attenzione, rimboccava il letto della bambina e spegneva
la lampada sul comodino.
“L'allontanamento di
Belle”, rispose di riflesso, rimettendosi in piedi, ancora
cullando
Nathan che, tutt'altro che stanco, stava ancora toccando (e talvolta
tirando) le ciocche di capelli che le scivolavano sulle spalle.
“Ma era necessario”,
la blandì con un sorriso.
“Ma è triste”, aveva
obiettato.
“E' il vissero per
sempre felici e contenti che conta”, aveva rimarcato
cingendone la
vita, baciando il capo del figlio e soffermandosi ad osservare la
bambina addormentata.
Aveva sorriso, Brittany,
e si era chinata a sua volta a baciarne la fronte con un:
“Sogni
d'oro”. Ne scostò la frangetta dalla fronte ed
uscirono
silenziosamente, per poi dirigersi alla loro camera.
Le prese il bambino dalle
braccia, consentendole di inoltrarsi per prima sotto le coperte,
raggiungendola poco dopo, malgrado Nathan fosse impegnato a tirarne
chirurgicamente i capelli con espressione divertita.
“Che ne diresti di
dormire un paio d'ore?”, chiese al bambino in tono
accattivante,
appoggiandoselo in grembo. Questi lo stava scrutando, ma si era
sbilanciato in avanti ed era parso troppo interessato a tastarne il
viso o osservarne le smorfie e le espressioni: soprattutto il
sopracciglio che inarcava ad esprimere spesso scetticismo o
perplessità.
Brittany scosse il capo
con un sorriso ormai consapevole, ma ne aveva profittato per prendere
carta e penna dal comodino accanto al suo lato del letto. Quell'anno
aveva in mente di proporre anche a Rebecca di stilare la sua lista di
desideri per l'anno successivo.
“E' tutto a posto per
il 31, hanno tutti confermato: mamma e papà, tuo padre e
Julienne,
Marley e Ryder, Kurt e Sebastian (credo lo costringerà),
Alyson e le
sue amiche e...”, aveva voltato il foglio, “Finn e
Rachel, sì”.
Si era voltato così
bruscamente, Hunter, che si sarebbe detto che un nervo del collo si
fosse accavallato, gli occhi sgranati e persino Nathan
sembrò
restare congelato per un istante, quasi ne avesse percepito lo stato
d'animo. “Hudson?!”, ripeté in tono
incredulo. “In casa
nostra”.
“Rachel aspetta un
bambino”, aveva commentato con tono sognante, “non
è
meraviglioso?”.
“Un baby Hudson?”,
aveva soggiunto, persino più sconvolto, “scommetto
che distruggerà
qualcosa persino dal ventre materno”.
Aveva soffocato una
risatina, Brittany, il viso inclinato di un lato. “Oh,
avanti, non
fare-”.
“La bestia?”, aveva
chiesto con un sorriso malizioso.
“Non stavo per dire
questo”, si era affrettata a distogliere lo sguardo, un
sorriso
appena più divertito ma le guance rosate. Ancora
a distanza di tempo si sorprendeva di come sembrava riuscire a
leggerle il pensiero. O probabilmente era dovuto al fatto che non
fossero cambiati molto dal primo incontro, seppur cresciuti insieme.
“Non sai mentire”, fu
la replica pacata ma divertita, mentre dondolava appena le gambe
quasi sperando di poter così indurre il bambino ad
addormentarsi.
Aveva scosso il capo,
Brittany, ma ne aveva cinto la mano. “Lo so che per te non
è
facile e ne sono davvero fiera”, aveva sussurrato con voce
più
dolce, intrecciando le dita alle sue e rivelando quanto la sua
riflessione andava ben oltre la conferma di una lista di invitati.
L'espressione dell'altro
si era addolcita, sporgendosi a baciarne le labbra in un tocco
sfiorato, attento a non schiacciare il bambino. “Lo
è, quando si
crede di nuovo in qualcosa o in qualcuno”, aveva sussurrato
nel
baciarne poi la tempia.
“Lieta di averti
salvato allora”, aveva sorriso nello stendersi per poi
accoccolarsi
al suo petto, cingendo a sua volta il bambino. Quest'ultimo,
evidentemente comprendendo cosa stava accadendo, di nuovo insinuando
le dita nei capelli della madre, si era steso a sua volta, ma di
traverso. Il capo appoggiato al seno della madre e i piedi sulla
faccia del padre.
Hunter sospirò e scostò
delicatamente il piede con una mano, le sopracciglia inarcate, ma la
scrutò con la coda dell'occhio: “Mi salverai anche
da questo?”.
Aveva ridacchiato,
Brittany, prendendo il bambino tra le braccia e stendendolo su di
sé.
“Una Regina può questo ed altro per il suo
Re”, aveva sussurrato
con dedizione, lasciando che Hunter l'attirasse a sé e
appoggiasse
il capo al suo.
La Principessa aveva
lasciato spazio alla Regina, ma nel suo cuore non vi erano
più
timori nel vivere appieno la sua favola.
The
End
Poco
conta quanto tempo si dedichi alla stesura della fanfiction o quanto
abbia preceduto lo scriverne la prima bozza: quelle due parole finali
sembrano sempre una sorta di condanna
definitiva. E' sempre una
gioia dolce amara lasciar andare i propri personaggi, pur sapendo
perfettamente che, almeno nel proprio immaginario, avranno il loro
“
e vissero per sempre felici e contenti”.
Credo
che ogni fanfiction rappresenti una fase della propria vita:
indubbiamente alla stesura di questa ha contribuito l'essermi
affezionata al personaggio di Hunter (per non scomodare l'interprete
e cadere nel puro fangirling).
Ha voluto essere uno
sfizio per riuscire a convivere con la consapevolezza che, ancora una
volta (dopo Sebastian), Murphy mi abbia fatto infatuare di un
personaggio, senza svilupparne adeguatamente il background e la
personalità, per poi porlo da parte come un giocattolo
difettoso
all'origine e non più utile al disegno finale.
La
scelta della principessa è stata semplice: certamente con
l'avvertimento dell'OOC o la premessa di un contesto e premesse
diverse dall'originale, avrei potuto sbizzarrirmi con chiunque, pur
rispettando le mie “coppie ideali” che fossero
canon o fanon. Ma
ha voluto essere anche il riscatto di un personaggio inserito nella
trama quasi per sbaglio, per un espediente fortunato dell'interprete
e che è scandalosamente evoluto ad una maniera spesso
illogica e
incoerente. Più per l'affetto, le aspettative dei fan, che
per
merito del personaggio di per sé (almeno per come
sviluppato, senza
alcuna critica ad Heather che ho sempre ammirato come ballerina e
alla quale ovviamente auguro ogni fortuna nella carriera e vita
privata).
Credo
che ognuna di noi abbia avuto il suo sogno di essere una Principessa
(più o meno riposto nel cassetto), ognuna si sia affezionata
a
quelle favole che (come le fanfiction stesse) sono proiezioni dei
desideri per una vita serena. E ognuna di noi ha avuto (e ha ancora)
il sogno di un Principe che non manchi di essere garante di
protezione e sicurezza e, al contempo, capace di dolcezza e di
tenerezza, quando richiesto.
Brittany
ed Hunter sono stati il mio filtro in una realtà immaginaria
nella
quale tutto è andato, come avevo pianificato dall'inizio ed
è come
se, con loro, anche una parte di me si fosse sentita partecipe della
loro gioia.
Una
gioia ulteriormente alimentata dai feedback che ho ricevuto e
scorgere dalle splendide recensioni. Persino le attese e speranze di
chi ha letto, le osservazioni argute o più spiritose,
sognanti o
ironiche. Ma, soprattutto, la disponibilità a lasciarsi
guidare da
me e condividere un po' di sé, relazionandosi alle mie
creaturine
(più o meno originali) e sognando
con me.
Tutto
questo e molto più in questi cinque mesi.
Non
mi resta che, con un sorriso, ringraziarvi di cuore di essere stati
parte della mia personale favola.
Senza
bacchetta magica ma con uno spruzzo di magia che non basta mai e
augurandovi di realizzare le vostre favole e i vostri sogni :)
Kiki87
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