Il Ritorno dei Draghi

di AxXx
(/viewuser.php?uid=218778)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ciao! Ho un sacco di Problemi e Incubi ***
Capitolo 2: *** Ho uno Scontro Più o Meno Amichevole ***
Capitolo 3: *** Veniamo salvati da un vecchio ***
Capitolo 4: *** I miei Sogni si Realizzano ***
Capitolo 5: *** Mi risveglio a Casa del mio più vecchio antenato ***
Capitolo 6: *** La mia Vita Cambia Radicalmente ***



Capitolo 1
*** Ciao! Ho un sacco di Problemi e Incubi ***


                                                 Ciao! Ho un sacco di incubi e problemi
 


 
 
 
 
 
 
Vi era una stanza dalle rosse pareti adornate di finimenti aurei e dalle alte colonne dorate con nove troni anch’essi d’oro.
Uno più alto di tutto, posto più lontano, rispetto alla porta, gli altri posta in cerchio, in modo che tutti potessero vedersi. Ma essi erano vuoti; i loro occupanti non erano lì.
Vi era una città, un tempo bellissima, le cui torri erano alte come mai si sarebbe visto. L’oro, il marmo, l’argento erano i materiali degli edifici. Persino le case più semplici erano adornate. Le alte mura difendevano i palazzi, un tempo potenti. Ma ora tutto era distrutto. La città era attaccata, in alto, nel cielo, un enorme edificio, completamente in pietra nera, fluttuava sopra la città. Statue di uomini dall’aspetto deforme sorreggevano la struttura.
Enormi creatura, alte decine di metri, simili a insetti si calavano tra gli edifici in fiamme.
Il loro acido discioglieva ogni cosa, ma poi, un fulmine calò dal cielo. E un uomo in armatura dorata, alato, piombò dal cielo, abbattendo una creatura con un solo pugno. Altri suoi compagni lo raggiunsero. I loro corpi erano avvolti tutti da armature spesse, ognuna di colore diverso, con decorazioni argentee.
Quello Dorato, calato per primo, volò diretto verso l’edificio in pietra nera, abbattendo altre creature, mentre i suoi compagni le affrontavano in città. Il cielo si dibatteva, come se combattesse con se stesso. Le nuvole si addensavano, creando immensi palazzi che si disgregavano subito, per poi ricomporsi, tra fulmini e colonne di fuoco. Un’oscurità senza fine avvolgeva le due città sovrapposte, eppure ancora vi era una luce che ancora risplendeva.
Combatterono…
Combatterono…
Ancora e ancora combatterono per giorni, ma solo uno sopravvisse.
Tutti gli altri caddero, sconfitti e abbattuti, ma quello rosso si lanciò contro il palazzo fluttuante. Altri mostri calarono dall’alto, ma il guerriero rosso sprigionò una scarica di fuoco che li incenerì tutti in un istante.
Volò all’interno, un grande spazio sferico. Al centro esatto, una sfera di pura energia bianca fluttuava sostenuta da tre cristalli appuntiti. Il loro potere lo tratteneva, sospeso in una bolla di magia.
Poi una voce.
Una voce oscura, profonda, vecchia, piena di odio e risentimento.
“Come osi? I miseri umani non possono vincere… un Dio.” 
Una lama, un misterioso guerriero dal viso cereo piombò sul cavaliere alato.
 
 
 
 
“ALEX STONES!!!”
Mi sveglia di botto.
Merda che spavento mi ero preso.
Un altro di quei dannati sogni e la professoressa Morel non era la miglior sveglia del giorno. Mi guardai intorno: ero ancora sull’aereo, ma qualcosa non mi quadrava: perché eravamo così inclinati? Stavamo precipitando?
Il mio sguardo spaventato sollevò non poche risate, oltre che l’occhiataccia che mi rifilò la professoressa. La professoressa Morel, era la nostra professoressa di inglese, sui cinquant’anni, alta e magra con pochi capelli bianchi, i lineamenti duri e spigolosi e un volto un po’ quadrato che gli dava un aspetto vagamente androgino. Non capivo perché si dovesse sempre vestire di nero.  
“Signor Stones! Mentre lei dormiva l’aereo ha iniziato le manovre d’atterraggio! Vuole mettersi la cintura? O ha bisogno di aiuto?”
Io sbuffai, ignorando il suo sarcasmo, allacciandomi la cintura come richiedeva il messaggio ufficiale, controllando, nel frattempo, l’ora. Erano le ventuno e un quarto, praticamente saremo andati subito in hotel, il che un po’ mi dispiaceva, dato che ero tornato a casa. No, non sono scemo, io studio in svizzera, ma sono italo-americano
Ovviamente ero io a fare sempre la figura dell’idiota. In Svizzera o a New York, non aveva importanza. Per tutti ero l’idiota del gruppo, quello che doveva essere preso di mira tutti. Non avevo amici, solo conoscenti che mi rivolgevano la parola solo per copiare qualche appunto e per invitarmi a cena.
La mia vita sociale da diciassettenne era morta da tempo, ormai. L’unica cosa che mi permetteva di non scappare era la quantità di libri che leggevo. Troppo per poterli elencare tutti, ma tutti bellissimi. Al diavolo gli imbecilli che dicevano che a sedici anni non so poteva più leggere un fantasy. Col cavolo che li ascoltavo.

L’aereo sobbalzò un paio di volte sulla pista sussultando paurosamente e per un attimo, ebbi l’orrida visione di me stesso spiaccicato al suolo. No, non era per niente bello. Appena atterrati ci riunimmo nella Grande stazione centrale dell’aeroporto.
“Ok, ragazzi, siamo qui per una visita didattica, quindi non facciate stupidaggini. Chi di voi farà fare brutta figura all’istituto sarà bocciato all’istante ed espulso!” Ci avvertì la professoressa con lo sguardo penetrante di chi ti sta dicendo che sei un idiota.
Tutti annuirono, mettendosi ordinatamente in fila per poter uscire dall’aereo.
Ero in fila per riprendere il mio zaino, appena uscito dal nastro trasportatore, quando sentii una voce che mi fece venire la nausea al solo sentirla.
“Ehi, Stones! Dì, hai di nuovo sognato gli unicorni?” Mi chiese George Miller, uno degli idioti della mia classe che aveva deciso di prendermi di mira per tutto l’anno.
“Sta zitto, Miller, non rompere le scatole.” Risposi stizzito, incapace di non provare rabbia, mentre mi incamminavo dietro la fila.
La neve delle settimane prima del natale ricopriva le strade con il suo candido manto. Anche se preferivo i climi caldi non potei non ammirare la bellezza di quella vista. Persino le macchine erano poche e tutte piene di neve. Uno scintillio argenteo e bellissimo.
Usciti dall’aeroporto andammo alla metro per prendere un treno e raggiungere il nostro hotel in centro. Io rimanevo sempre in disparte. Non mi piaceva parlare, soprattutto perché non sapevo di cosa. Ero sempre stato così, preferivo stare lontano dai guai.
Non che non fossi simpatico, ma ero diverso. Non capivo perché, ma sentivo di non appartenere a quel luogo e a quelle persone. Una sensazione di vuoto e disagio che provavo sempre e comunque, indipendentemente dalle situazioni. Le lezioni mi annoiavano, non riuscivo mai a concentrarmi su una cosa senza che mi venissero in mente situazioni strane o anomale, che, per di più, non mi erano mai successe.
I professori avevano provato in ogni modo a rendermi più partecipe, ma nulla sembrava rendermi più attento e i miei voti peggioravano a vista d’occhio. Se non fosse stato per i soldi di mio padre, mi avrebbero già buttato fuori.
Poi c’era il mio secondo problema: non riuscivo a controllarmi.
Da sempre, da quando ero nato, non riuscivo a controllare le mie emozioni. I medici non avevano diagnosticato nulla e gli psicologi avevano cercato in ogni modo di farmi ‘guarire’, ma nulla sembrava funzionare. Ogni volta che mi arrabbiavo, diventavo furioso e iniziavo a urlare e colpire qualsiasi cosa mi capitasse a tiro. Se mi imbarazzavo, scappavo e mi rintanavo da qualche parte. Se ero triste non riuscivo a controllarmi, fino a piangere, anche per la cosa più stupida.
Alla fine avevo perso ogni amico e tutti mi consideravano un deficiente di prima categoria, ma a me andava bene così, dopotutto poteva andarmi anche peggio.
La metro era enorme e noi ci stringemmo parecchio per entrare, dopotutto eravamo venti, tutta la terza del college De la Rue con sede in Svizzera. Ma io ero completamente escluso dai loro discorsi. Sedevo in disparte, leggendo l’ultimo numero della saga a cui mi ero appassionato, disinteressato a tutto il resto.
Carla, e il suo gruppo di amiche stavano parlando degli abiti più alla moda e di ciò che avrebbero comprato una volta arrivate in centro. Gorge e i suoi amici, invece, erano immersi in una fitta conversazione sul calcio e su quale squadra avrebbe vinto gli europei quell’anno. Non sarei riuscito ad annoiarmi di più, se fossi stato con loro. Io avevo i miei interessi e li lasciavo stare. Perché cavolo, loro dovevano darmi fastidio per ciò che mi piaceva? Io non lo capivo e non l’avrei capito mai.
Mi odiavo, odiavo mio padre per avermi mandato in quel posto odioso e odiavo me stesso per non essermi ribellato. Lui lo faceva solo per tenermi lontano dalla mia matrigna che mi vedeva come lo scarafaggio nella sua bella cucina tirata a lucido. Ero l’ostacolo, l’orrido sporco che l dava fastidio nei suoi piani. Per questo era riuscita a convincere mio padre a mandarmi via, lontano, in modo che io non potessi ricordargli la mamma.
Mia mamma…
Morì cinque anni fa e a malapena ricordavo il suo volto. Si chiamava Claire e mi voleva bene. Non avrebbe mai lasciato che papà si indebolisse. Ma io l’avevo persa. Era morta in un incendio, mentre era a fare un escursione sulle Alpi e morì soffocata dal fumo. Un idiota aveva lasciato la sigaretta accesa vicino a delle foglie secche. Era estate ed eravamo in vacanza in Italia. Il vento e le foglie secche fecero il resto. In poco tempo interi ettari di foresta bruciarono e lei non riuscì a fuggire in tempo.
Ogni giorno la ricordavo.
 
 
 
 
 
 
 
Due creature volavano l’una contro l’altra. Erano umane, ma qualcosa le differenziava. Vi era il guerriero rosso che cavalcava il vento con ali forti di un metallo così duro ma, allo stesso tempo, così leggero che sembrava un panno di seta.
Vi era il suo avversario
Armato di una spada fiammeggiante volava agile su ali di energia impalpabili. I suoi argentei capelli erano come un mantello e i suoi occhi rossi erano illuminati da una scintilla di follia.

“Tu seguirai i tuoi fratelli  morirai per mano mia!” urlò questi, lanciandosi contro l’avversario.
Ogni colpo era come se si scontrassero masse enormi, creando onde d’aria che si dipanavano in tutte le direzioni, abbattendo tutto. Eppure i due continuavano imperterriti, ignari di tutto. Ogni cosa era morta, distrutta, devastata, eppure ancora due rimasugli di quel terribile conflitto combattevano in cielo, come due angeli che si contendono il dominio sul mondo.
Poi l’argenteo aprì la mano, piegando le dita ad artiglio e dalla sua mano si sprigionò un ondata di energia che si separò in otto proiettili letali.
Il cavaliere rosso fu lesto ad evitarli, volando in più direzioni, evitando ogni proiettile che andò a schiantarsi sulla roccia viva che componeva la struttura. Varie creme si formarono su di essa, mentre le esplosioni lasciavano profondi crateri.
Poi scomparve.
Per un attimo la volta fu avvolta dal silenzio e l’oscuro imperatore fu certo di aver vinto.
Ma poi, una lama calò su di lui.
 
 
 
Mi svegliai di nuovo di colpo. La metropolitana si era fermata.
Quel sogno si era fatto così insistente che non lo sopportavo. Non capivo come mai mi ricordassi ogni cosa alla perfezione. Non era normale e ormai mi capitava ogni volta che chiudevo gli occhi. Anche senza addormentarmi, certe volte, riuscivo a percepire il freddo metallo dell’armatura, il vento tra le ali e la luce del sole, mentre volavo tra le nuvole.
Ma era un sogno.
Un bellissimo sogno che solo negli ultimi tempi si era trasformato in un incubo ricorrente.
La luce aveva lasciato il posto all’oscurità, la pace alla guerra, la vita alla morte. Tutto quello che avevo visto nelle visioni precedenti era distrutto. Rimaneva solo l’ombra di quella grande struttura di pietra che fluttuava nel cielo, distruggendo una magnifica città dorata.
Sospirai per lo sconforto, mentre seguivo silenziosamente gli altri lungo le scale che portavano fuori dalla metropolitana. Nel centro esatto di New York: Time Square. La città era un esplosione di luci e colori. I palazzi si elevavano verso il cielo, torreggiando su di noi, mentre una folla di gente ci travolgeva. Fummo costretti a stringerci l’un l’altro per non essere trascinati via dalla folla di persone.
“Molto bene, ragazzi, ricordate che siamo qui per imparare. Passeremo la notte in un Hotel vicino, ma il giorno andremo alla Saint High School di New York. Il nostro è una scambio culturale tra due istituti, quindi comportatevi in maniera educata e nessuno verrà sospeso.” Ci avvertì un ultima volta la professoressa, mettendosi alla fila conducendoci lungo la strada principale.
Il nostro Hotel sarebbe dovuto distare dieci minuti di cammino, ma io non ci badai. Camminavo come un fantasma, dietro la fila, ignorando i loro discorsi. L’unica cosa che sentivo era il peso del mio zaino e le voci nella mia testa.
Ero anche un po’ triste. Mio padre era a pochi chilometri da me, ma non potevo andarlo a trovare. Sapevo come mi avrebbe accolto e dubitavo fortemente che mi avrebbe creduto, se gli avessi detto che l’istituto mi aveva portato qui volontariamente.
Ero talmente assorto nei miei pensieri che, per un attimo, persi di vista il resto del gruppo. Mi ritrovai da solo, in mezzo a quelle strade affollatissime e rimasi paralizzato per un attimo.
‘Calmati… devi mantenere la calma, dopotutto sei stato qui più volte, saprai sicuramente orientarti.’ Pensai, prendendo un profondo respiro per tranquillizzarmi.
Ma la mia calma durò poco. N bruciore lancinante mi trafisse il petto. Presi la collana con la gemma rossa. L’unica cosa che mi rimaneva di mia madre. Era un semplice pendente d’argento con una gemma rossa all’estremità. Di solito non lo faceva ma in quel momento una fioca luce rossa lo stava illuminando, come se ne fosse l’origine.
Sentii come un sussurro nella mente.
Un sussurro che mi diceva di scappare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Angolo dell’autore
Salve gente, eccomi di nuovo, ad assillarvi con un’altra storia. Una storia a 4 mani scritta con la mia sorellina/alter ego femminile/entità da me amata Fantasiiana. Ringrazio molto lei, come amica e come compagna. Spero che la storia vi piaccia, perché ci piace a entrambi, e vorremmo che voi la seguiste. Quindi mi fareste un grossiiiiissmo favore, se lasciaste una piccola recensione per noi. A presto.
AxXx e Fantasiiana.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ho uno Scontro Più o Meno Amichevole ***


                              Ho uno scontro più o meno amichevole









La musica mi rimbombava nelle orecchie a tutto volume.
Non voglio che pensiate che sia il tipo di ragazza che ascolta rock e metal sparato nel cervello con le cuffie borchiate, perchè così non è.
Io sono il tipo di ragazza che ascolta musica strana, folkloristica, e che si sente bene quando immagina di essere proiettata in un altro mondo, in un'altra epoca, in un'altra vita...
Ecco, questa sono io.
La ragazza distesa sul letto, al buio, con le mani dietro la testa e le gambe accavallate, gli occhi chiusi e una ballata irlandese nella testa.
Non sono quella che si può giudicare una ragazza normale, e non solo per i motivi che andrò a narrare in seguito.
A me non piace e non piaceva stare con la gente. Preferivo la solitudine, il buio, la mia stessa compagnia, il chiudermi in me stessa e vivere per conto mio.
Si dice "meglio soli che male accompagnati." Non potevo essere più d'accordo.
La luce si accese improvvisamente, e persino a occhi chiusi riuscii a capirlo. Aspettai a sollevare le palpebre, per non bruciarmi gli occhi.
Mi limitai a mettermi seduta e a sfilarmi le cuffie, poi aprii gli occhi, puntandoli sulla persona che sapevo avrei trovato appoggiata allo stipite della porta di camera mia, una coperta di lana a circondarle il corpo: mia madre.
Aveva i capelli legati in una coda sfatta, le occhiaie e le palpebre socchiuse.
Sospirai e le andai incontro, sospingendola nel soggiorno e facendola sedere nel divano.
-Cosa c'è?- le chiesi.
Per tutta risposta, lei sollevò una bottiglia di birra vuota.
-Ne hai già bevuta troppa, mamma.
Lei scosse debolmente la testa, e questa le ricadde a penzoloni sul petto.
-Dormi- le ordinai cercando di farla stendere, ma lei si oppose.
-Ho già dormito...- disse con voce roca.
-Non hai dormito abbastanza, allora- replicai seria prendendole la bottiglia vuota di mano.
-Vuoi un caffè?
-Odio quella roba.
-E io odio vederti bere birra come fosse acqua.
-Ma se la bevi anche tu.
Mi voltai, gli occhi ridotti a due fessure. Era il mio modo di far capire che ero arrabbiata. Niente sbalzi d'umore: non ero il tipo.
-C'è differenza, mamma- scandii gelida. -Hai sentito cosa ha detto il medico.
Lei rise isterica. -Quel vecchio pazzo! Gli piace sempre guardarmi il sedere... Potrei uscirci qualche volta. E' ricco, in fondo- disse più a se stessa che a me. Sollevò la testa. -Ti piacerebbe un nuovo papà?
La guardai furente -vista esternamente ero sempre uguale-.
Sollevai la bottiglia vuota. -Basta bere questa roba.
-Non sei mia madre. Non puoi vietarmelo...
-Sta a vedere.
Si alzò barcollando e fece per venire verso di me, ma cadde carponi sul tappeto sfilacciato in mezzo al piccolo salotto.
Mi avvicinai. -Guardati. Neanche ti reggi in piedi...
Mi inginocchiai vicino a lei che singhiozzava. -Mamma.
Alzò la testa.
-Basta. Ti stai consumando e non puoi sprecare la tua vita così.
-E' troppo tardi...
-Non è mai troppo tardi.
Mi guardò con i suoi occhi vitrei, un tempo azzurri come il cielo. -Sei diventata grande, Diane... Vorrei essere abbastanza sobria per sentirmi fiera di te, e felice di averti.
Sorrisi amara.
-Che ne dici se ora vai a dormire? Io devo uscire.
Si allarmò. -Dove vai?
-In giro. Te lo avevo detto.
Corrugò la fronte, sforzandosi di ricordare.
-Mamma.
-Mmh mmh?
-Ti ricordi, vero, che ti ho detto che sarei andata fuori, in centro?
-Sì... Sì...- rispose lei incerta.
Alzai gli occhi al cielo e l'aiutai a rimettersi in piedi.
-Appena torno, buttiamo tutta la robaccia alcolica che c'è in casa. Da oggi si cambia, chiaro?
Annuì.
La feci distendere nel suo letto e tornai in camera mia. Mi pettinai i lunghi capelli albini -per intenderci, biondi viranti al bianco-, tipici delle mie origini russe, e li legai in una coda laterale. Presi il cappotto, la borsa e dopo aver dato un'occhiata a mia madre che dormiva placidamente nel suo letto, uscii.

Piccola pausa per spiegarvi chi sono.
Diane Williams, donna matura rinchiusa in un corpo da sedicenne -e non lo dico per vantarmi, tuttaltro- con l'aspetto albino, capelli quasi bianchi e occhi azzurri-grigi. Mia madre è russa, mio padre americano. Mio padre, al tempo, era il classico ragazzo straniero in vacanza, bello, atletico, il principe azzurro giunto per portarti nel suo bel regno e bla, bla, bla. Mia madre si infatuì di lui e fece la più grande cazzata del secolo: lo seguì in America.
Senza un centesimo, ripudiata dalla famiglia, con la compagnia del suo "eterno amore" in una città straniera dove era impossibile trovare lavoro.
Ma l'amore gioca brutti scherzi.
Comunque, dopo due anni di matrimonio naqui io e dopo cinque anni dal "giorno felice" in cui la sottoscritta venne al mondo, mio padre ebbe la brillante idea di innamorarsi della segretaria. I miei divorziarono -un classico- e mia madre finì per essere una delle tante emigrate povere mantenuta dal marito bastardo che l'aveva tradita per una puttana più giovane di ventanni. Ma sto divulgando. Conclusione? Vivevamo a Brooklyn, in un appartamento piccolo e perennemente oscurato dagli alti palazzi che vi erano tutt'intorno.
Ma non mi lamentai mai. Credo che quella vita sia servita a farmi crescere e a farmi diventare quella che sono ora, e non la figlia di papà tutta strass e gonnelline rosa -piccola premessa: odio il rosa- con tanto di chiuaua da borsetta, come nelle riviste.
Mia madre non mi fece mai mancare niente e il suo lavoro come infermiera aveva fruttato nel farci fare una vita tutto sommato accettabile.
Il dramma era cominciato quando mia madre aveva scoperto l'alcoll. Era stata licenziata dall'ospedale perchè scoperta a bere nel posto di lavoro. E da allora mi ero adoperata per mantenerci, facendo uno di qui lavoretti da film, come la dogsitter, la babysitter, la pulitrice di macchine, che sono tutto tranne che lavori felici dove ridere e divertirsi, credetemi.
Fine premessa, torniamo alla storia.

Uscii di casa. Non c'era un valido motivo per cui lo facevo, ma mi piaceva uscire tardi, con la notte. Non andavo al parco, ovviamente, non ero così stupida da gettarmi nella tana di tutti i malviventi. Mi piaceva camminare, prendermi un pò di tempo per pensare, con le mani nelle tasche del cappotto nero, il bavero sollevato fino alle orecchie, un cappello a coprirmi la testa e le immancabili cuffie nelle orecchie. Mi dava l'idea di una persona spensierata che può permettersi di perdere una sera a passeggiare senza una meta precisa.
Era il mio modo di fuggire da quel mondo.
Mischiarmi in mezzo alla gente, studiare i loro visi, vederli correre da una parte all'altra della città, sentire i bambini ridere senza una ragione ben precisa vicino alle bancarelle, riempirmi le narici del profumo dei dolci... Quello era vivere, per me.
Vedere e non essere vista.
In più era quasi Natale. In teoria mancava ancora mezzo mese, ma alla gente serve sempre un pretesto per sentirsi felice e perciò i newyorkesi avevano addobbato le vetrine e le strade con luci e Babbi Natale meccanici che suonavano campanelle e ridevano.
L'inverno era la mia stagione preferita. Odiavo il caldo e il sudore. Mi piaceva il mare, ma non era come una bella nevicata che risclada e congela il cuore contemporaneamente.
Amavo il freddo. Potermi coprire con coperte morbide, riscaldarmi con bevande calde, leggere buoni libri vicino alla finestra bagnata di pioggia o oltre il quale fiocca lentamente.
Neve, per me, è sinonimo di calma, pace... riposo.
Tutto dorme con la neve e col freddo. E' una regola di madre natura che non può cambiare. Tutto tace, animali, piante, e in teoria dovrebbero farlo anche le persone, quantomeno chiudersi in casa a scaldarsi... La neve copre il mondo per dire basta, semplicemente.
Ma quella sera, così non era. Non nevicava, e le strade erano più affollate del solito.
La gente si ostinava a comprare i regali con mezzo mese di anticipo. Il perchè, poi, resterà sempre un mistero per me.
Mi avvicinai ad una bancarella dove una bambina e sua madre stavano comprando una mela caramellata, o almeno ci provavano. La madre aveva finito i soldi e la bambina piangeva perchè voleva il dolce, ma il venditore non sembrava impietosito, tuttaltro.
-Vieni, tesoro, la compreremo un altro giorno- stava dicendo la donna. Era giovane.
-Ma io la voglio adesso!
-Ma ho speso tutti i soldi per compare i regali di Natale, cara.
-Non è giusto! Non è giusto!
Le superai, prendendo gli spiccioli che avevo in tasca, riuscendo a raccogliere cinque dollari. Era un furto, voglio dire, cinque dollari per una mela ricoperta di caramello o quello che era, ma la comprai lo stesso.
Mi voltai e la porsi alla bambina, che mi guardava con gli occhi grandi.
-Ecco, tieni. Ma la prossima volta, ascolta tua madre.
-Che bei capelli, signorina- mormorò la bimba, spiazzandomi.
-Ehm... Grazie.
-Sembrano quelli di una fata- realizzò, e si animò all'improvviso. -Sei una fata?
-Ehm...- Lanciai un'occhiata disperata alla madre, che sorrideva.
-Sì...- risposi incerta. -Sono una fata. Ma non dirlo a nessuno, d'accordo?- dissi abbassando la voce. La bimba sorrise, felice di quel segreto. -Sì, signorina!
-Bene.
-Anne, come si dice?- chiese la madre.
-Grazie, signorina fata!- recitò la bimba mordendo il dolce.
Sorrisi appena e salutai con un cenno la donna che mi guardava riconoscente, quindi continuai per la mia strada.
Dopo circa mezz'ora -saranno state le dieci e mezza-, stavo ancora camminando per New York, ammirando il cielo che preannunciava pioggia, quando andai a sbattere contro qualcosa di duro. Barcollai all'indietro.
-Ma che...
Sollevai lo sguardo e incontrai due vivaci occhi azzurri come il cielo estivo.
Appartenevano ad un ragazzo all'apparenza poco più grande di me, forse un anno, con capelli ricci neri come carbone e più alto di me -considerate che io gli arrivavo più o meno al mento-.
-Ehi, levati di mezzo!- mi urlò il ragazzo.
Inarcai un sopracciglio.
-Sai, hanno inventato le camomille. Mai provate?
-Che cavolo dici? A me nemmeno piace la camomilla! Ora togliti!
-Guarda che sei stato tu a venirmi addosso!
-Ah sì, bè se sei troppo occupata a guardare in alto non è colpa mia!
-Divertente.
-Esilarante. Ora spostati!
-Non ci penso neanche!- Non ero il tipo di ragazza che si arrabbiava facilmente, anzi, io non mi arrabbiavo mai! Ma quel tizio mi stava facendo perdere la pasienza! -Spostati tu.
-Facciamo che nessuno dei due si muove finchè non lo diciamo noi.
Mi voltai verso l'origine della voce.
Due uomini con gli occhiali da sole e i cappucci neri calati sulla testa si erano avvicinati, con in mano dei coltelli e ora minacciavano entrambi.
"O merda!" pensai.
-Venite con noi senza fare storie e nessuno si farà male- continuo l'uomo più vicino.
Mi guardai intorno, mantenendo la calma. Perchè la gente non si accorgeva mai di nulla quando succedevano cose così?
-Forza!- ci minacciò l'uomo e ci guidò in un vicolo.
-E' tutta colpa tua!- mi accusò il ragazzo.
-Scusami?- chiesi scioccata.
-Se non mi fossi venuta addosso, a quest'ora sarei per i fatti miei e non qui con te e con loro, minacciato da due coltelli!
-Ti sembra il momento?!- sbottai.
-Piantatela!- ordinarono gli uomini e ci spinsero nel vicolo buio.
Sentii dei gatti fuggire allarmati e un bidone cadere.
Realizzai che nessuno ci avrebbe aiutato, lì. Eravamo nei guai, ma in guai grossi.















Ciao! :D
Vi siamo mancati?
*Si alza il coro dei nooo!!!*
Sì, ho capito, antipatici -_- voi che non lasciata nemmeno una recensione :P comunque, questo è il capitolo di Fantasiiana, spero sia di vostro gradimento. Lei è la seconda 'prescelta', se così si può dire, anche se tutti avranno un nome preciso in seguito. La storia si sviluppa da subito quindi non dovrete aspettare troppo per vedere un po' d'azione. Spero che il capitolo vi piaccia. A presto.
AxXx e Fantasiiana

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Veniamo salvati da un vecchio ***


            VENIAMO SALVATI DA UN VECCHIO SCHIACCIA-INSETTI


 

 

 

 

Quando vidi i coltelli che mi venivano puntati contro deglutii per la paura. Ci avevano condotti in un vicolo stretto e puzzolente, tipico di New York, un posto molto nascosto e appartato. Dove qualsiasi malvivente poteva fare quello che voleva.
La ragazza che avevano preso era palesemente spaventata, ma faceva di tutto per non darlo a vedere. Continuava a guardarsi intorno alla ricerca di una via di fuga. Per quel che mi riguardava io cercavo qualsiasi cosa potesse essere usata come arma.
I due tipi che ci minacciavano erano piuttosto mingherlini, e avrei potuto prenderli a legnate, ma una vocina nella mia testa mi diceva di non farlo, come se fossero più pericoloso di quanto sembrassero.
“Voltatevi verso il muro e non muovetevi.” Intimò uno dei due all’improvviso.
Ci guardammo due secondi e capimmo di non aver altra scelta. Dovevamo ubbidire.
Mi posizionai davanti al muro di mattoni rossi che avevo davanti cercando di non far apparire la mia tensione. Dovevo inventarmi qualcosa: non volevo certo finire accoltellato in un vicolo. Sapevo solo di poter contare sulla mia compagna di disavventura al mio fianco, sperano che fosse abbastanza veloce o coraggiosa. Dovevo solo aspettare il momento adatto.
“Mi aspettavo una maggior resistenza… dopotutto, non dovrebbero essere invincibili?” Chiese con un tono vagamente sarcastico uno dei due.
“Lascia perdere… ringrazia che non siano pericolosi. Lo redarguì il compagno, tirandomi una ginocchiata alla schiena.
Quelle parole mi dettero fastidio: odiavo non capire le cose e mi arrabbiavo quando nessuno me le spiegava. Era come giocare ad un gioco di cui non conoscevi le regole. Così mi decisi. Potevo sembrare dannatamente sciocco o avventato, ma mi girai, pronto ad affrontare i due aggressori.
“Di che state parlando e cosa volete da noi!?” Sbottai, dando una spinta al più vicino, cercando di assumere un aria di sfida.
La mia mossa doveva averlo colto di sorpresa, perché barcollò all’indietro ringhiando di rabbia. L’altro fece di nuovo quello strano verso, simile allo schioccare di due chele e, con una forza inaspettata, mi sollevò e mi gettò a terra strappandomi un gemito di dolore. Erano davvero forti e io non sapevo come difendermi.
“Credo che tu debba stare zitto… per sempre!” Urlò con la sua voce roca, gettandosi su di me, come una belva inferocita.
Io mi difesi al meglio, tentai di alzarmi, ma il mio avversario aveva una presa ferrea e si agitava come una furia. Alzò l’arma che reggeva nella mano destra e la fece ricadere su di me. Io tentai di coprirmi ma sentii immediatamente un forte bruciore alla gola. Fortunatamente non mi aveva propriamente ucciso, infatti la mia compagnia si era fatta avanti colpendo il braccio dell’aggressore, facendogli cadere di mano prima che affondasse ulteriormente.
Nonostante il forte dolore, riuscii a scrollarmelo di dosso, ma la vittoria durò poco, infatti l’altro si era buttato nella mischia sollevando la ragazza per la gola che annaspò disperatamente alla ricerca d’aria.
Con rabbia saltai colpendolo al volto, costringendola a lasciarla andare.
Fu allora che il cappuccio gli cadde rivelando la cosa più orripilante che avessi mai visto.
Un volto orribilmente deforme, troppo grande per essere umano con occhi enormi simili a quelli di una mosca, completamente spalancati che riflettevano la mia espressione terrorizzata. La bocca era una ferita verticale irta di denti aguzzi circondata da due specie di chele che schioccavano furiosamente, emettendo un rumore fastidioso, come di qualcosa che si rompeva. Da essere fuoriusciva un liquido verde acido che a contatto con la neve iniziava a fumare.
Né io né la ragazza riuscimmo a trattenere un urlo di terrore nel vedere un abominio del genere. Colto dal desiderio di fuggire, indietreggiai, inciampando su un tubo di metallo nascosto dalla neve e ricaddi sulla schiena. Subito il mostro ne approfittò per aggredirmi, brandendo con furia il suo pugnale e io ebbi appena il tempo di bloccarlo.
“Scappa!” Urlai, quasi alla ceca, cercando di farmi sentire. Sei la mia compagna fosse riuscita a raggiungere la strada avrebbe potuto chiedere aiuto.
“Fermala!” Sibilò la creatura al compagno.
Anche quello si era tolto sciarpa e cappuccio e si era messo alle costole di lei, che, afferrato il mio avvertimento, si era messa a correre verso l’uscita del vicolo. La sua fuga durò poco e prima che riuscisse a gridare per chiedere aiuto, il suo aggressore le tappò la bocca con la mano irta di artigli.
Tentai di liberarmi, in preda alla rabbia. Non riuscivo a credere che stesse accadendo qualcosa del genere. Poi non sopportavo che qualcun altro stesse rischiando la vita con me. Dovevo agire o l’ira mi avrebbe fatto esplodere prima ancora che quegli essere maledetti mi uccidessero.
Fu allora che accadde una cosa che non mi sarei mai aspettato prima.
La gemma che tenevo al collo si illuminò di un rosso abbacinante che per poco non mi abbagliò. Mi sentii pervaso da un’energia incredibile e colpii il mostro con così tanta forza che quello volò contro il muro vicino, provocando un orrendo rumore di ossa rotte… o qualsiasi cosa avesse quell’essere al posto delle ossa.
Il suo compagno ringhiò sbavando quell’orrenda sostanza verde sulla neve, lasciando andare la ragazza e si lanciò all’attacco con un agilità che mi lasciò esterrefatto. La rabbia fu soppiantata dalla sorpresa e fu come se le forze mi avessero abbandonato. Fui sbalzato all’indietro come una bambola di pezza e quando mi rialzai per rispondere, quello si scansò, evitando ogni mio tentativo di colpirlo.
Era come un fulmine; non facevo in tempo a vederlo che quello si era già spostato. Con un movimento repentino mi fu alle spalle e mi buttò nella neve. Mordendomi al collo. La ferita mi bruciò, mentre il suo veleno mi bruciava il sangue.
Ancora una volta, quella situazione mi fece infuriare. La rabbia si impadronì di me e, come se stesse risuonando al suono di essa, la gemma rossa che avevo al collo tornò a risplendere e io, con un pugnò, colpii quell’insetto sul muso che volò all’indietro per diversi metri, sibilando furiosamente.
Approfittando della forza ritrovata corsi verso la ragazza che l’altro mostro aveva gettato a terra, pronto a colpirla. Questa volta, però, fui io a prenderlo a sorpresa, facendolo ricadere nella neve. Ora eravamo entrambi liberi, ma circondati.
Approfittai della situazione per poter osservare meglio la giovane che avevo a fianco: un livido le copriva il volto, ma era indubbiamente bellissima. Aveva i lineamenti dolci e poco marcati, una cascata di capelli argentei come il ghiaccio e gli occhi anch’essi gelidi si guardavano intorno con paura malcelata.
Eravamo fianco a fianco, con due mostri usciti da Dio solo sa quale incubo e soli. Era come se ci trovassimo in una bolla esclusa dal mondo: avevamo fatto parecchio casino, allora come mai, non era venuto nessuno a controllare.
“Il nostro padrone vi distruggerà… fareste meglio ad arrendervi ora e vi daremo una morte rapida.” Sibilò quello alla mia destra, continuando a disperdere quell’orrido liquido che gli usciva dalla bocca.
Stavo per buttarmi di nuovo nella mischia quando la mia compagna mi fermò, poggiandomi una mano sulla spalla, lanciandomi uno sguardo che mi gelò, quasi spegnesse la mia rabbia.
“Non non abbiamo idea di chi sia questo “padrone” non ci siamo mai nemmeno visti, perché ce l’ha con noi!?”
La sua domanda legittima era stata accompagnata da un tono fermo e deciso. Nonostante avesse paura stava cercando in tutti i modi di non far trasparire emozioni, cosa che ammirai parecchio. Io non sarei stato capace di tanto autocontrollo.
“Il nostro è il Padrone più forte e voi siete pericolosi. Dovete essere eliminati, o i vostri poteri ne impediranno l’ascesa!” Ruggì l’altro mostro, sibilando come un serpente, mentre le sue chele producevano un ticchettio fastidioso e ritmico.
“Di quali poteri state parlando!? Siamo solo due ragazzi senza niente.” Si intromise di nuovo lei, nel tentativo di far ragionare quei due esseri.
“Non li conoscete, andate uccisi adesso, prima che li scopriate!” Gracchiò di nuovo, quello alla mia destra, accucciandosi, per poi saltare in avanti, cercando di agguantarmi alla gola.
Ebbi una manciata di secondi, ma la mia reazione fu pronta: l’essere volò per due metri all’indietro, colpito da un gancio preciso sul mento. Non ero certo di poter resistere a lungo: le forze mi stavano abbandonando e lei non sembrava in grado di difendersi.
Fu allora che una luce intensissima invase il vicolo, costringendomi a chiudere gli occhi per non essere accecato. Fu come se fosse caduto un fulmine. Fui travolto da un onda d’urto e vidi un uomo alto, dai lunghi capelli biondi e la barba apparire lì in mezzo. Brandiva una spada così lunga che mi sembrava impossibile riuscire a reggerla, eppure lui ci riusciva come se pesasse come una canna.
I due mostri si ritrassero, ringhiando minacciosi contro il nuovo arrivato, come due animali in trappola, mentre io e la ragazza ci stringevamo alle sue spalle, sperando con tutto noi stessi che fosse dalla nostra parte.
Fortunatamente era così dato che puntò la spada contro la bestia alla sua destra per disintegrarla in mille pezzi. L’altra indietreggiò spaventato, come cercando una via di fuga.
Ero euforico: finalmente potevamo dirci salvi. Preso da questa nuova certezza, saltai verso il mostro, deciso a finirlo, convinto che avrei vinto. Non feci caso all’uomo e alla ragazza che, nello stesso istante, mi urlarono di stare indietro. Ero troppo preso dalla mia voglia di mandare al tappeto quella cosa, una volta per tutte.
Balzai in avanti, tendendo il braccio, pronto a sferrare il colpo di grazia alla bestia, ma fui colto di sorpresa quando, con uno scatto, mi evitò, aggrappandosi a me.
“Ti porto con me…” Sibilò furioso, mordendo il mio braccio. Sentii i denti affondare nella carne e urlai, mentre un dolore acuto e insopportabile mi invadeva da capo a piedi. Cercai di togliermelo di dosso, ma la sua morsa era ferrea e il liquido velenoso continuava ad entrare nel mio corpo.
Mentre crollavo a terra, la mia vista si annebbiò. Vidi sprazzi di immagini di lotta e il mostro che si scioglieva, colpito a morte dalla spada dell’uomo. Provai a rialzarmi, ma le gambe non mi ressero. Sentivo freddo e dolore ovunque.
Gli altri due mi corsero accanto e mi guardarono. L’ultima cosa che vidi furono due occhi azzurri e bellissimi, come il ghiaccio che mi squadravano pieni di preoccupazione.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** I miei Sogni si Realizzano ***


                 I MIEI SOGNI SI REALIZZANO

 

 

 

 

 

Era successo tutto così velocemente che in futuro, provare a richiamare quell'episodio alla testa, mi riuscii parecchio difficile. Era come provare a riportare alla mente un sogno o un ricordo non mio. Non so perchè di questo effetto, so soltanto che io e quel tipo avevamo appena rischiato di morire per mano di due mostri-insetto ed eravamo stati salvati da un tizio con capelli lunghi, biondi, la barba e una spada, una spada vera.

Prima del suo arrivo, per tutto il tempo avevo cercato di mantenere la calma, di ragionare con quelle creature, ma senza successo. La mia freddezza e la mia calma non mi avevano aiutata. Il mio cuore aveva preso a battere forte e mi ero fatta prendere dalla paura.

Quando rimasi sola nel vicolo, con il ragazzo moro svenuto vicino a me, su un letto di neve, persi del tutto il controllo.

Mi alzai di scatto e mi voltai verso l'uomo, che si guardava attorno circospetto. -Chi è lei? Chi erano quei cosi? Perchè ci hanno attaccati? CHE COSA VOLEVANO DA NOI?-

mi trovai ad urlare, con fredde lacrime che mi rigavano il volto pallido. Non avevo mai perso così il controllo in tutta la mia vita, ma ehi! Ero appena stata attaccata da due mostri da film in piena regola, nel bel mezzo del nulla!

Di solito, nei film o nei libri, queste cose venivano prima annunciate da una musichetta inquietante o da rumori sospetti, e si scopriva che i due attaccati avevano straordinari poteri, cosa, precisiamo, non accaduta.

-Calmati, Diane- mi disse gelido l'uomo. Sobbalzai leggermente, quando sentii la sua voce e il modo con cui pronunciava quell'ordine, con cui pronunciava il mio nome. Avvertii un vago capogiro, che combattei a fatica, cercando di concentrarmi sull'uomo.

La sua voce era profonda, calma, quasi dolce, di quella dolcezza che spirava dalle labbra di un parente, e poi sembrava vecchia di miliardi e miliardi di anni. Era quasi stanca, di chi ha visto troppo e ha vissuto troppo. Ciò nonostante, la sua figura irradiava potenza, e non solo per la spada che portava in mano.

Respirai a lungo e cercai di ritrovare la mia calma. Mi asciugai le lacrime lentamente e tornai a guardare l'uomo, gelida.

-Ecco, brava- mi disse con l'ombra di un sorriso, o forse era solo un'impressione?

-Chi erano quegl'esseri?- chiesi.

-Nemici. Per ora ti basti sapere solo questo.- Non ero pienamente soddisfatta di quella risposta, anzi, non ero soddisfatta per niente. Ma sentivo di potermi fidare di quell'uomo e in ogni caso le proprità, al momento, erano altre.

Mi voltai verso il ragazzo. -Se la caverà?-

-Sì. Ma dobbiamo fare presto.-

Annuii. -D'accordo, andiamo allora.-

Non so descrivere con esattezza la sensazione del teletrasporto. Credo sia diversa per tutti. Io, ad esempio, mi sento come trasportata via da una tempesta di sabbia, mi sembra di scivolare via, mutata in milioni di granelli di polvere, per poi ricompormi semplicemente, tutto nel giro di pochi secondi al massimo. La prima volta, però, si aggiunse anche il dolore. Era come avere una bomba nucleare nella testa e una serie di fuochi d'artifico che ti scorrono nelle vene e che ogni qualvolta scoppiano ne compongono di altri.

Niente di che, insomma!

Quando mi ripresi, capii immediatamente di non essere più a New York.

Il silenzio era assoluto e non aleggiava un alito di vento, nonostante il freddo dell'inverno si facesse sentire. Anche se... A pensarci bene era un freddo più opprimente, quasi di morte, di quello che ti fa vibrare la schiena più per la solitudine che spira in esso che per altro.

 Alla luce pallida della luna e delle stelle, potei osservare il paesaggio desolante che mi trovai davanti. Era come essere in un deserto di rocce. Davanti a noi, il panorama si stendeva per leghe e leghe di assoluta desolazione, eccetto che per le rovine lontane almeno un centinaio di metri da noi.

Erano le rovine di una città.

Le mura in pietra, un tempo forti e alte, erano crollate per metà e in più punti erano aperte da voragini nere che mi ricordavano le orbite vuote di un teschio. Oltre di esse, intravedevo il legno annerito dalle fiamme di qualche abitazione salvatasi miracolosamente dalla distruzione, ma era come osservare un fiore mezzo appassito in mezzo al deserto. Il castello, al centro della città, era per metà intatto e per metà distrutto, e nella poca luce della notte, riuscivo a mala pena intravedere le poche torri rimaste intatte.

Mi sentii gelare il sangue nelle vene. Quel panorama era in un certo senso... familiare. Chiusi gli occhi, e con mia grande sorpresa scoprii di avere le guance umide di pianto. La visione di quella distruzione totale venne sostituita da quella di una città fiorente, meravigliosa, prospera e colma di gente vociante e felice. Sorgeva su una pianura fiorita circondata da una foresta da un lato, da campi di grano in un altro e attraversata da un fiumiciattolo che splendeva alla luce del sole e che scorreva placido sul suo letto comodo, gorgogliando allegro. Riaprii gli occhi di scatto, con il fiatone.

Avevo appena visto la città che ogni notte mi appariva in sogno. Seguii l'uomo all'interno della città in assoluto silenzio, come ad un funerale. Mi guardavo intorno, senza sapere bene perchè, alla ricerca del più piccolo segno di vita. Ma non c'era nulla lì, tranne che rovine su rovine.

La cenere aveva invaso il panorama e tutto era nero. Le lacrime continuavano a scorrere e ogni qual volta chiudevo gli occhi, anche solo per pochi istanti, la città del mio sogno si ripresentava in tutto il suo splendore. Era come guardare il passato fiorente di quella città ormai distrutta, angolo per angolo.

Una casa distrutta, con il tetto crollato e i mobili in pezzi e poi una famiglia che mangiava allegra intorno ad un tavolo, le loro risate che echeggiavano nella mia testa. Mi voltai verso la schiena dell'uomo che avanzava ritto di fronte a me, il ragazzo moro in braccio. Anche lui stava in completo silenzio.

Dopo un po', superate le lunghe e innumerevoli vie e piazze con fontane distrutte al centro, arrivammo sotto le mura del castello. Il portone era nuovo di zecca, segno che qualcuno lo aveva sostituito ad uno ormai distrutto. L'uomo spinse il portone a doppio battente e mi guidò all'ingresso del castello.

Il pavimento era attraversato da grandi crepe e in alcuni punti le piastrelle erano saltate del tutto. Le mura erano sbiadite, ma in alcuni punti si intravedevano ancora pitture e raffigurazioni di draghi e cavalieri, tipiche dell'era medievale. La cosa più strana era che in quella stanza non vi erano macerie, neanche il più piccolissimo granello di polvere. L'uomo posò il ragazzo moro a terra, nel centro esatto della sala, e si voltò verso di me.

-E' meglio che tu vada di sopra a rifocillarti.-

-Un... un momento- balbettai come risvegliata da un sogno. Improvvisamente, tutto quello che era successo mi piombò addosso con il terribile senso di consapevolezza che quello non era un'invenzione della mia mente o del mio subconscio.

Stava accadendo davvero...

-Non mi ha ancora detto dove siamo, o chi è lei- dissi cercando di rimanere fredda, ma le labbra mi tremavano.

-Io sono Ansem, e questa- allargò le braccia -è la città ormai caduta di Dragavaar.-

Dragavaar... Quel nome mi echeggiò nella mente per quella che mi sembrò un'eternità.

-Che ci facciamo qui? E perchè questa città è uguale a quella del mio sogno?-

-Tutto a suo tempo: sei troppo stanca ora- mi disse.

Abbassai gli occhi, sconsolata.

-Non preoccuparti, Diane. Domani mattina tutto avrà finalmente un senso. Fidati di me.-

Annuii.

-Sappi solo che non è questa città ad essere uguale a quella del tuo sogno.- Lo guardai interrogativa. -E' esattamente il contrario-

aggiunse lui con mezzo sorriso. Ricambiai volentieri, sentendomi scaldare il cuore.

Ansem si voltò a indicarmi una scala intatta. -Al piano di sopra troverai le stanze. Scegli pure la tua.-

Si voltò e si inginocchiò accanto al ragazzo, facendomi intendere che la conversazione era bella che chiusa. Mi diressi alla scalinata che capii essere di marmo e la salii tutta d'un fiato. Arrivai ad uno stretto corridoio con una serie di porte aperte in legno che mostravano le camere al loro interno.

Ve n'era una tutta verde, una nera, una rossa e così via.

Oltre l'ultima porta, invece, vi era una stanza interamente azzurra con mobili bianchi.

Vi entrai con aria sognante e rimasi lì ferma ad osservare ogni singolo angolo e particolare di quella meraviglia. Il letto a baldacchino aveva tende bianche così candide da sembrare fatte d'acqua, il tappeto a terra era di pelo e solo a guardarlo mi veniva voglia di stendermici sopra e stringerlo forte, lo ammetto.

 C'erano anche un cassettone e un alto specchio dove la mia figura si rifletteva. Avevo gli occhi stravolti, il viso colmo di lacrime e la treccia sfatta. Accanto al cassettone vi era anche una porta aperta da cui si intravedeva un bagno.

-Un bagno tutto mio?- mi lasciai sfuggire. Avrei voluto entrarci, farmi un bagno e schiarirmi le idee, ma ero troppo stanca per fare anche solo un altro passo.

Mi sfilai gli stivali e il cappotto neri, mi infilai sotto le lenzuola di flanella e mi coprii fino alla testa con il piumone azzurro. Il sonno mi accolse fra le sue braccia calde appena chiusi gli occhi, e la città di Dragavaar tornò a fiorire nella mia mente

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualcuno mi fermi. Fantasiiana è diecimilamiliardi di volte migliore di me. Lei si che rispetta i termini di consegna. Non è come me che ci metto 15 anni a dare un solo capitolo -_-
Ma chi se ne frega! Ora ce l’abbiamo, no? ;)
So che molti non apprezzano questa storia, ma mi piacerebbe sapere perché. Noi accettiamo anche recensioni negative.

AxXx e Fantasiiana.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Mi risveglio a Casa del mio più vecchio antenato ***


Mi Risveglio nella casa del mio più vecchio e defunto antenato.

 

 

 

 

 

 

 

Mi svegliai con la vaga impressione di avere una fornace al posto dello stomaco e un’incudine martellata al posto del cervello. I ricordi si facevano confusi, mentre mi riprendevo completamente. All’inizio vedevo solo un grigio sfocato, pieno di crepe e venature, poi fu come se mi avessero acceso una luce intensa davanti agli occhi.

D’istinto mi coprii, ma mi resi subito conto che quello scintillio mi stava guarendo, dato che sentii i miei malesseri venir meno. Tra le ombre che mi danzavano davanti intravidi anche qualcosa di più umano che mi sussurrava parole di conforto nell’orecchio.

 

Mi risvegliai un periodo di tempo indefinito dopo e questa volta potei alzarmi senza problemi. La testa mi girava, mi veniva da vomitare e lo stomaco le gambe mi tremavano. A parte questo stavo benissimo. Ero sdraiato su quello che somigliava moltissimo ad un lettino da infermeria, ma capii subito che non ero in ospedale: le pareti erano in pietra grigia levigata. Le finestre erano grandi e terminavano con delle punte, simile a quella di una cattedrale ed emanavano una chiara luce, da cui intuii che doveva essere mattina. Era un luogo ampio ospitato da una ventina di altri lettini simili, ma il mio era l’unico vuoto. Alla parete c’era un armadio e vari comodini accanto ai letti.

Ero stato spogliato e lasciato solo con i boxer. Il collo era stato fasciato con pesanti bene e anche le altre ferite erano state medicate.

“Che diavolo è successo?” Mi chiesi, mettendomi seduto e tastandomi la fronte imperlata di sudore.

I ricordi mi investirono presto: i mostri, l’attacco nel vicolo, la lotta, la ragazza e l’uomo che era arrivato a salvarli come un apparizione divina. Quanto era accaduto tutto? Un minuto? Due? Al massimo cinque.

Ero sfinito e l’ultimo ricordo che mi sovvenne fu la durezza delle zanne di quell’abominio sulla mia pelle. Me l’ero vista davvero brutta. Non capivo, però, come fosse possibile che fossi sopravvissuto. Se quel veleno era così forte da sciogliere la neve, ero molto sorpreso di non essermi sciolto anche io.

“Vedo che ti sei ripreso, finalmente.” Sussurrò una voce che mi fece sobbalzare.

Sulla porta poco lontano c’era un uomo alto, dalla barba e i capelli biondi. Gli occhi rosso, come le fiamme ardenti in una foresta e la pelle abbronzata. Il viso coperto da tutta quella peluria aveva una forma molto dura e squadrata, ma non irradiava solo autorità. Aveva un’aria familiare, come se lo avessi visto in un sogno.

“Ehm… salve, signore. Mi sa dire dove sono? Sono… un po’ confuso.” Risposi io, cercando di riordinare le idee. Era lo stesso uomo che, apparendo dal nulla, ci aveva salvati. Ne ero certo.

“Sei al sicuro, adesso, amico mio. Dragavaar offre asilo a quelli come te. Il nemico non avrebbe dovuto attaccarti, ma se l’ha fatto, allora sta per risorgere. Appena sei in piedi, scendi, devo parlare ad entrambi.

Quelle parole mi confusero e basta. Il mio cervello, già messo male di per se, sembrò rigurgitare quella mole di informazioni tanto che sospirai, ricadendo sul letto sospirando per la frustrazione. Se fossi stato meglio avrei preso volentieri a pugni qualcuno o qualcosa. Ero fatto così: mi innervosiva non capire le cose.

“Può essere più chiaro!?” Sbottai furibondo.

Fu allora che notai la gemma di famiglia al mio fianco: aveva iniziato a brillare a intermittenza, come se percepisse la mia rabbia. Io fui scosso da un brivido e la presi in mano. Fu come se il solo contatto avesse aperto un lucchetto nella mia mente.

Quella stanza l’avevo già visitata.

 

“Dovevi proprio fare la testa calda, eh?” Domandò una bellissima ragazza, fasciandomi la testa ferita.

Ero seduto su quello stesso letto, all’esterno e stavo sorridendo felice, come se avere la sua attenzione mi sollevasse.

“Lo sai che sono fatto così… non è colpa mia.” Avevo risposto facendo l’occhiolino.

La sua risata argentina mi scaldò il cuore e i suoi occhi di ghiaccio si illuminarono, come un fuoco che si rifletteva sulla neve.

 

Mi ripresi, rendendomi conto che quei miei ricordi non appartenevano a me. Era, però, un ricordo bellissimo. L’uomo che prima mi aveva parlato era sparito, probabilmente se n’era andato passando dalla porta su cui era appoggiato poco prima, ma a me non interessava. Ero stufo di starmene a letto, così, dopo un po’, provai ad alzarmi. Nonostante il dolore forte e il martellare alla testa, riuscii a reggermi.

Provai a fare qualche passo.

Riuscivo a camminare.

Ero curioso di vedere dove mi trovassi, così mi affacciai alla finestra e osservai il panorama. Era un’immensa città in rovina. Un tempo dovevano sorgere alti palazzi in marmo, bellissimi. Le mura dovevano essere colossali, date le dimensioni dei basamenti, ma non erano rimaste altro che macerie. Fu una strana sensazione: il mio cuore si fece pesante e sentii una profonda tristezza. Mi sentivo come se avessi fallito in un compito che riguardava quel posto, ma non ricordavo cosa. Immagini della città all’epoca del suo antico splendore mi danzarono davanti agli occhi per un attimo: un mercato nella piazza, dove i bambini giocavano allegri, una specie di enorme anfiteatro dove la gente si radunava, delle per riunirsi e chiacchierare, un teatro.

Ma non c’erano altro che macerie.

E questo mi rendeva triste… ma anche furioso.

Fu come se mi avessero iniettato dell’adrenalina: il mio corpo fu invaso da una scarica di energia e, finalmente, riuscii a ragionare in modo coerente. Volevo sapere cosa mi stava succedendo e l’unica risposta a portata di mano era il misterioso tizio che mi aveva salvato. Inoltre avevo fame e sete, quindi dovevo assolutamente trovare qualcosa da mangiare. Mi vestii con un paio di pantaloni della tuta e una maglietta.

Le riconoscevo: erano mie. A quanto pare quell’uomo aveva preso i miei bagagli.

Una volta vestitomi scesi le scale. Dovevo essere nell’unico edificio intatto e qualcuno aveva cercato di dare, persino, delle rifiniture moderne: nei muri di pietra si aprivano delle prese elettriche e in alcuni punti sembrava, persino, essere stata operata una ristrutturazione, anche se incompleta.

Scesi e seguii il corridoio seguente, sbirciando dalle finestre che si apriva sul lato destro, la città. All’esterno vedevo della neve, quindi, o ci trovavamo al polo o su una montagna. Mi chiesi come mai, allora, ci fosse una temperatura così mite.

In fondo al corridoio c’era un atrio che dava sulla pazza esterna. Eravamo davvero nell’unico edificio intatto del posto. La stanza era circolare, con una cupola a volta e con un arredamento che ricordava una sala d’attesa, con delle poltrone ed un divano. Le pareti erano, però, spoglie anche se un tempo dovevano ospitare dei quadri.

Seduta lì, su una delle poltrone, c’era la ragazza che i mostri avevano rapito. Appena i miei occhi incontrarono i suoi il suo viso e quello della fanciulla della mia visione si sovrapposero e il mio cuore iniziò a battere forte.

‘Calmati.’ Mi dissi, distogliendo lo sguardo. ‘Non c’entra nulla, probabilmente è la prima volta che vi vedete, è solo un caso.’

Decisi, così di tentare un approccio amichevole. Dopotutto anche lei era stata intrappolata in quel vicolo, magari potevo chiederle come stava e dimostrarmi un po’ sensibile.

“Ciao.” Sussurrai, laconico, incapace di schiudermi in un sorriso.

“Ciao…”

Anche lei era di poche parole. Continuava a tenere gli occhi fissi verso un portone posto dall’altra parte rispetto all’uscita. Probabilmente, da lì, si accedeva alla sala principale del palazzo.

“Come stai?” Chiesi, allora, cercando di assumere un tono amichevole. “Ieri sera ce la siamo vista brutta.”

Questa volta si voltò verso di me e mi puntò contro i suoi penetranti occhi di ghiaccio. Era bellissima.

“Vero… meno male che c’era quel tipo, se no dubito che saremo qui a parlarne.” Rispose, stringendosi le spalle.

“Siamo stati fortunati… comunque, io sono Alex, tu come ti chiami?” Mi presentai, cercando di nascondere il mio nervosismo. Anche solo guardarla mi sembrava molto difficile, come se ne fossi attratto e, allo stesso tempo, qualcosa di lei mi respingesse.

“Diane.” Disse subito la ragazza, ricadendo, subito, nell’ennesimo silenzio imbarazzante.

“Sei di poche parole, vedo.” Commentai, restio ad abbandonare una conversazione con lei. Per la prima volta nella mia vita, mi sentivo deciso a dimostrarmi un po’ più vicino a qualcuno.

“Già… sai, io preferisco restare sola. Non sono abituata a socializzare.” Aveva assunto un tono di scuse, e la cosa mi dispiacque. Non volevo metterla in imbarazzo.

“Benvenuta nel club, allora. Nemmeno io sono bravo a socializzare. Se vuoi ti do la tessera.” Risposi, con un sorriso per rassicurarla.  Lei ricambiò finalmente rilassata, sembrava cercare di mantenere le preoccupazioni e i problemi dentro di se.

“Magari passo.” Rispose, sistemandosi un po’ meglio sul divano.

Cadde un attimo di silenzio imbarazzante. Lei non aveva detto nulla e io, ovviamente, non ero abbastanza spiritoso da intavolare una conversazione decente, ma tentai comunque.

“Hai idea di come siamo arrivati qui da New York?” Domandai. Magari lei l’aveva visto ed ero curioso.

“No.” Fu la rapida risposta. Sembrava timorosa, come se avesse paura. “Non so come dirtelo, senza che tu mi prenda per pazza.” Ammise, infine.

“Non preoccuparti… il vecchio mi aveva accennato al fatto di non essere l’unico coinvolto in questa dannata storia.” La rassicurai, sedendomi accanto a lei.

Lei si strinse di nuovo le spalle: “Non credo di essere coinvolta… io non c’entro niente, qui.”

“Allora perché sei qui?... scusa se lo dico, ma il tizio ha detto che questo posto è per ‘quelli come me’.” Risposi io, senza pensare. Troppo tardi, mi resi conto di aver sbagliato a parlare in quel modo. Avrei voluto mordermi la lingua.

“Io… io non lo so! Quel tipo è apparso dal nulla e mi ha detto di seguirlo! Cosa dovevo fare!? Restare a casa e rischiare di essere aggredita di nuovo da quegli esseri!?” Sbottò nervosamente, arrossendo un po’, forse per l’imbarazzo, forse per la rabbia. Io provai a calmarla, ma ormai aveva preso la via. Si alzò in piedi e continuò urlando. “Scusami tanto se non son all’altezza! Provvedo a rimediare!”

Mi detti dello stupido, mentre lei si avviava verso l’uscita. Non volevo dire quello, mi ero spiegato male, ma ovviamente dovevo fare brutta figura.

“Aspetta! Femrati! Non volevo dire questo! Solo che… ah… perché non tengo la bocca chiusa, a volte?” Bascicai in imbarazzo. Ecco il motivo per cui non mi piaceva socializzare: non sapevo controllare le mie parole.

Diane, però, sembrò calmarsi e alzò un sopracciglio dubbiosa. 

 

“Volevo dire... ecco, immaginavo che tu ne sapessi più di me, visto che sei arrivata qui intera.” Tentai di nuovo, misurando bene le mie parole.

 

“Bè, mi dispiace deluderti ma ne so quanto te, probabilmente meno.” Rispose lei tornando calma in un attimo. Le ero grato per avermi compreso così velocemente e per non essersi offesa troppo. Non sapevo perché, ma ci tenevo a lei e volevo averla amica. Forse per il fatto che avevamo condiviso quella brutta esperienza insieme.

 

“Va bene... scusami se mi sono spiegato male... quando apro bocca faccio sempre casino.” Spiegai io rilassato, riconducendola al divano, dove ci sedemmo comodamente.

 

“Comunque, grazie per quello che hai fatto ieri. è stato molto coraggioso.” Si congratulò lei. Sembrava sul punto di esplodere, come se le emozioni la travolgessero, senza, però, rompere la barriera della sua impassibilità.

 

Mi sentii arrossire fino alla punta dei capelli mentre farfugliavo una risposta: “Ho... agito di istinto, probabilmente ti ho messo più in pericolo che altro... sono fatto così, non riesco a trattenere le emozioni.”

 

“Ci hai provato, almeno. Io non sono stata molto d'aiuto...” Diane sembrava triste e si mise a guardare il pavimento come se volesse essere inghiottita da esso.

 

 “Sinceramente... non so nemmeno io come ho fatto... quei tipi avevano una forza strabilianti... all'improvviso mi sono arrabbiato ... puff... ce l'avevo anche io. Probabilmente non avrei fatto molto nemmeno io.” Cercai di tranquillizzarla io. Non era colpa di nessuno se quelle creature erano così forti e lei aveva tentato di aiutare, ma non era riuscita a fare molto.

 

“Chissà, forse l'adrenalina.” Ipotizzò lei, dandomi una gomitata. Aveva un sorriso triste, ma anche speranzoso.

“Allora ringrazio la mia adrenalina... e anche il tizio che ci ha salvati.” Feci io, dandole una pacca sulla spalla.

 

In quel momento il portone si aprii e l’uomo che ci aveva salvati ci fece cenno di seguirlo. Oltre il portone che portava all’interno seguimmo un lungo corridoio. Inciso: sembrava una storia incisa che partiva da un uovo da cui usciva un cucciolo di drago. Accanto a lui un bambino umano e un angioletto. La storia proseguiva, mostrano la città nella sua più antica bellezza. Il motivo del drago rimaneva sempre persistente, intenti ad aiutare gli uomini a muovere i loro primi passi, fino a creare quel posto con il quale condividevano il territorio.

Nell’ultima parte, però, le immagini cambiavano: vedevo angeli che combattevano contro gli umani, bruciando edifici e uccidendo le persone. Dall’altra parte i draghi e un esercito di uomini li tenevano a bada con fiamme e frecce.

 

Ebbi un fremito di rabbia e la mia mente fu travolta da dei ricordi, simili ai sogni che facevo. Era come se io stessi combattendo in quella guerra. Per un attimo vidi il cielo tinto di rosso, come se fosse invaso dalle fiamme. Una voce mi urlava a fianco di stare attento e poi mi vidi con in mano una spada. Stavo per colpire un mostro non diverso da quello che avevo combattuto nel vicolo.

 

Il flash durò solo un attimo, ma, quando mi voltai verso Diane, mi resi conto che anche lei ne doveva aver avuto uno. Alla fine del corridoio c’era una porta d’oro incisa, con raffigurati sopra otto guerrieri inginocchiati che tenevano in mano delle gemme che sembravano emanare luce. Come per istinto, io misi mano alla gemma che tenevo come ricordo di mia madre.

Era lì. La stava tenendo in mano un guerriero giovane, in prima linea.

Il vecchio aprì i battenti e ci ritrovammo in una grande stanza circolare, dove si trovavano otto troni vuoti. Erano tutti diversi e sembravano tutti fatti a posta per rappresentare un elemento: uno sembrava fatto con delle incisioni che rappresentavano le fiamme, uno era fatto completamente di ferro e così via. Era illuminata dal sole mattutino che filtrava da una finestra davanti a loro. 

“È il momento di spiegare.” Annunciò il vecchio, sedendosi su una poltrona affiancata ad un trono fatto completamente di vetro che sembrava emanare luce propria.

“Era ora…” Commentai asciutto. Era per quello che mi ero alzato, pur essendo ancora ferito.

“Ciò che vi dirò… sarà difficile da accettare.” Cominciò lui, ignorando il mio commento. “Voi dovrete ascoltare e cercare di capirmi, perché so che, in fondo al cuore, voi lo sapete già.”

Io e Diane ci guardammo spaesati. Sembrava assurdo, eppure quel posto era così familiare. Il mio sguardo si posò sul trono del fuoco.
Annuii.

“Molto bene… avete visto ciò che è inciso nei nel corridoio, vero?”

Annuimmo insieme.

“Bene… ciò che avete visto non è una leggenda… molte cose che avete visto fin ora non lo sono. Esse sono storia. Un tempo questa città era fiorente, e i draghi, gli esseri della leggenda che più vi affascinano, erano esistenti. Essa era governata dalle incarnazioni di otto draghi, ognuno signore di un elemento. Del fuoco, dell’acqua, della terra, dell’aria, della luce, dell’oscurità, del fulmine e del metallo.”

Ok, quel tipo era pazzo, ma dopotutto ci stava raccontando solo una storia fantastica, tipo i libri che amavo io. Che c’era di male? Decisi di lasciarlo vaneggiare.

“Millenni fa, però, gli alati… le creature che voi chiamate angeli, decisero di scavalcare i draghi per distruggere ogni cosa e prendersi il mondo per se. I draghi cercarono di respingerli, ma essi fallirono e, infine, furono costretti ad un’alleanza. Otto uomini si riunirono sotto la loro protezione e i signori degli otto elementi dettero loro il potere per riunire la forza dei draghi e degli uomini, sacrificando il loro spirito. Essi morirono, ma il loro spirito visse negli uomini… sconfissero il Signore degli Alati e lo esiliarono. Voi sietele loro reincarnazioni.”

Scoppiai a ridere: quel tipo doveva essere pazzo davvero. Diane, invece, sembrava solo accigliata, come se le avessero dato il risultato di un’equazione che non riusciva a risolvere, ma non fosse quello che si aspettava.

L’uomo, non reagì, mi guardò negli occhi, come per leggermi dentro l’anima.

“Dimmi, Alex… come spieghi quello che ti è accaduto ieri?”

Non mi piaceva il modo in cui aveva detto il mio nome. Cercai di rispondere in modo deciso, ma qualcosa mi fermò.

I ricordi…

I sogni…

Le sensazioni…

Tutto in quel posto sembrava confermare quanto aveva detto quel vecchio. Eppure la parte più razionale della mia mente si rifiutava di accettarlo. Erano solo stupidaggini, come gli inizi dei film che mi piacevano, ma erano pur sempre libri. Storie scaturite dalla fantasia di una persona.

Scossi la testa: “Perché dovrebbe essere vero? Perché dovrei crederle!?”

Lui mi osservò mortalmente calmo: “Sei proprio come Dart… e ti dirò quello che ho detto a lui: se non mi credi, allora vedrai il tuo mondo sparire.”

 

Ebbi un flash.

Quello stesso uomo, che mi diceva quelle stesse esatte parole, era in piedi davanti a me. Mi porgeva il ciondolo di mia madre: la pietra rossa circolare.

 

Il flash finì.

Lo guardai negli occhi.

Gli credetti.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La mia Vita Cambia Radicalmente ***


La mia vita cambia radicalmente




Okay, quel tipo era pazzo. Seriamente.
Aveva parlato di angeli e draghi e poi aveva detto qualcosa a proposito del fatto che noi dovevamo essere le loro reincarnazioni.
Alex era scoppiato a ridere, ma l'uomo l'aveva ammonito con una frase di cui non avevo capito il senso.
Poi era calato il silenzio.
Mi voltai verso Alex e lo vidi mentre stringeva uno strano ciondolo con una pietra rossa, la faccia sonvolta di chi ha appena visto un fantasma e lo ha riconosciuto come un suo vecchio amico morto.
Gli diedi una gomitata.
-Non vorrai credergli!- esclamai stupita, ma lui non rispose, gli occhi sgranati che urlavano qualcosa tipo "devo farlo" o "mi dispiace".
Feci qualche passo indietro.
-Okay, è uno scherzo, vero? E' tipo uno di quei nuovi programmi in cui le vittime vengono prese in giro e tutti se la ridono dietro lo schermo, no? Okay, ragazzi, venite fuori: il gioco è finito!- esclamai ad alta voce voltandomi verso l'entrata.
-Diane.
Mi voltai e incontrai lo sguardo duro dell'uomo. Duro e... dispiaciuto?
-Diane, proprio tu...
Mi accigliai.
-Che cosa vuole dire con questo?
Lui sospirò e mi si fece vicino.
-Tu non hai dimenticato chi sei, Diane- mi mise le mani sulle spalle. -Lo sai benissimo, ma non vuoi accettarlo. Ti spaventa il fatto che tu possa soffrire un'altra volta, non è così?
Mi guardò fisso negli occhi.
All'improvviso scene diverse mi si presentarono davanti.
Vidi delle immagini sfocate di due bambine, una più grande e una più piccola, che giocavano ridendo allegre. Poi una figura alata le sovrastò. Infine, vidi la bambina più grande che abbracciava il corpo della sorellina, trapassato da una lancia, attorno una nuvola di piume bianche.
Subito dopo l'immagine cambiò e vidi una grossa figura rossa che lottava con un'altra alata.
E poi ecco di nuovo la bambina più grande, ormai circa una ventenne, che piangeva sopra il corpo di un ragazzo con un armatura rossa.
Scossi la testa sbattendo le palpebre e indietreggiai, sfuggendo alla presa dell'uomo.
Le guance erano coperte di lacrime. Me le asciugai con stizza.
-Che diavolo...- Singhiozzai. -Cosa era quel... Il ragazzo... E la bambina, lei...
-Diane, non puoi rinnegare ciò che sei per la morte di una persona cara. Anzi, dovresti accettarla ancora di più e cercare di vendicarla.
Gettai un'occhiata ad Alex, che mi guardava con compassione, come se sapesse cosa significasse ciò che provavo.
Ma come faceva a saperlo lui, se neanche io avevo capito ciò che avevo visto?
-Io... Io ci devo pensare, credo...
-No che non devi, Diane. Una parte di te ha già deciso da tempo. Tu per prima hai scelto.
-Cosa vuole dire?
-L'idea è stata tua, ricordi?
Un'immagine chiarissima si sovrappose nei miei occhi, come se fossi lì presente.

Mi muovevo calma nella stanza, ma la verità è che l'agitazione era alle stelle dentro di me. E se fosse successo qualcosa? E se le reincarnazioni non avessero mai riacquisito coscenza? E se...
"Per l'Amore del Dragone Divino, Shana, smettila con queste domande sciocche!" mi dissi con un sospiro.
Sentii dei passi leggeri e capii subito chi era.
-Ciao, Ansem.
-Volevi vedermi?
-Sì...
Silenzio.
-Andrà tutto bene. Lo sai questo, vero?
-Finchè quell'Essere non morirà definitivamente non andrà mai tutto bene- ribattei.
-Ma non è necessario che tu ti distrugga così, Shana! Sei sopravvissuta alla guerra solamente per ucciderti tu stessa? Non mangi più e non dormi più. Devi riposare!
Silenzio. Non volevo rispondere a quella supplica così dannatamente piena di dolore.
Presi una coppa dorata piena del liquido che conoscevo e la porsi all'uomo.
-Cos'è?- mi chiese.
-Le Lacrime di Sangue che ti servono affinchè tu viva in eterno.
Prese il bicchiere osservandone il contenuto rosso.
Mi voltai e mi diressi verso il tavolo al centro della stanza.
-E tu? Non le prendi?
-No... Preferisco piuttosto attenermi al piano... Mi ricongiungerò ai miei compagni, in attesa del momento opportuno.
-Non l'hai ancora detto agli altri, vero?
-No- risposi distratta mentre studiavo le gemme che avevo davanti. -Ma ho intenzione di parlargliene.
-Quando?
Presi la gemma azzurra e me la portai all'altezza degli occhi.
Vidi il mio riflesso, il viso magro, le ombre sotto gli occhi colmi di tristezza, gonfi di lacrime, e le guance ancora coperte dei graffi ottenuti in guerra. Ansem aveva ragione: ero davvero ridotta male. Sospirai riponendo la gemma insieme alle altre sette.
-Immediatamente- risposi voltandomi e sorridendo amara.

Di nuovo mi ritrovai a scuotere la testa e a battere le palpebre, ma questa volta non incontrai lo sguardo dell'uomo, ma il soffitto della sala.
Due braccia forti mi aiutarono ad alzarmi e mi sostennero mentre barcollavo in avanti.
-Tutto okay?- chiese allarmato Alex avvicinandosi. Negli occhi potevo leggergli l'ansia.
-Sì, sto bene...- dissi incerta con un sorriso. Che poi non so neanche perchè stessi sorridendo.
-Ora sai, Diane.
Mi voltai verso la voce dell'uomo e collegai...
-Ansem?!
Lui sorrise amaro. -Era molto che non udivo questo nome...
-Aspettate, volete dirmi cosa sta succedendo?- chiese Alex confuso e agitato insieme. Eccolo che tornava, la sua indole iperattiva, così opposta alla mia.
-Credo sia giunto finalmente il momento delle presentazioni- convenne l'uomo.
Alex mi lanciò un'occhiata strana, che non seppi decifrare, come se si stesse chiedendo cosa avevo che non andava.
-Dunque, mi sembra giusto che una presentazione ufficiale sia d'obbligo. Io sono Ansem- cominciò l'uomo. -Come già detto voi siete le reincarnazioni di alcuni Dragoni, cioè coloro che ereditarono i poteri degli otto Draghi Elementari, durante la guerra. Si chiamavano Dart, Shana, Meru, Kongol, Rose, Belzak, Sharley e Lavitz. Lavitz, signore del vento, Sharley, della terra, Belzak, maestro del metallo, Rose, signora del fulmine, Kongol, maestro delle ombre, Meru, signora della luce, Shana, la mezzasirena, signora dell'acqua e del ghiaccio e Dart, maestro della fiamma. Voi due siete i discendenti di Shana e Dart. In passato essi sconfissero Melbu Frahama, Re degli Alati. Tuttavia... sconfiggerlo non fu sufficiente. Egli fu intrappolato, sigillato lontano dalla terra, nella speranza che non potesse mai tornare. Io e Shana, però, sapevamo che lui sarebbe tornato, così io bevvi le Lacrime di Sangue per poter avere la vita eterna. Shana, invece, preferì attendere la morte. Si occupò, però, di preservare gli Spiriti dei Draghi, le gemme che vi danno i vostri poteri e le affidò ai figli dei suoi amici.
-Aspetti... ci sta dicendo che lei ha vissuto in prima persona questa... guerra?- chiese Alex.
-Sì... ero il Viceré di Dragavaar. La mia stirpe condivideva lo Spirito del Dragone Divino, il primo drago che camminò sulla terra. Per istruire coloro che dovranno affrontare di nuovo Melbu Frahama, ho atteso millenni.
-Che successe agli altri dragoni?- chiese Alex.
Silenzio carico di tensione.
Sapevo già la risposta, e probabilmente anche il moro l'aveva intuita.
-Morirono tutti... nella guerra contro gli alati.
Quelle parole mi pesarono più di quanto avrei mai creduto.
Alzai lo sguardo dal pavimento ad Ansem.
-E' necessario che accettiate al vostra natura, ma se non volete non vi costringerò a farlo.
Ci guardammo entrambi negli occhi per un paio di secondi, azzurro contro castano, chiaro contro scuro. Poi annuimmo.
Ansem sorrise. Un sorriso che per un attimo mostrò tutta la tristezza di quegli occhi millenari, e la loro speranza, il loro sollievo.
-Bene. Allora cominciamo.

In breve, ci fece visitare il castello, o ciò che ne rimaneva.
Poi, ci condusse in una stanza sotterranea, ampissima e rossa: l'armeria.
Appese alle pareti, armi di ogni tipo.
Archi, pugnali, spade, mazze ferrate, fruste, daghe, lance, asce e così via erano appese in bella mostra lungo le pareti, quasi ferme nella stessa posizione di un duello, come se i loro proprietari le avessero lasciate a combattere da sole ma il tempo si fosse fermato nel bel mezzo del combattimento.
Ero troppo impegnata ad ammirare quel posto meraviglioso, per guardare dove andavo a mettere i piedi. Urtai contro qualcosa, o meglio, qualcuno.
Alex si voltò e io fui ben attenta a fare un passo indietro, imbarazzata.
-Ehm... Scusa.
-Nessun problema- rispose lui ammiccandomi.
Ricambiai il sorriso, riconoscente.
Cominciava a starmi simpatico.
-Dunque- ci richiamò Ansem. -Vi ho portato qui per affidarvi la prima missione importante.
Ci guardammo confusi.
-Le gemme contenenti gli spiriti dei Draghi sono andate perdute nel corso del tempo. E' vostro compito trovare le gemme a voi destinate.
-Okay, ma...- provò a chiedere Alex, ma Ansem lo interruppe con un gesto della mano.
-Tu non hai bisogno di cercare, Alex. La tua gemma la possiedi già.
Alex assunse una faccia sconvolta. -Io...
-L'hai appesa al collo.
I miei occhi scattarono sulla sua collana, senza che la testa si muovesse.
Lui, invece, fu più lento a metabolizzare l'idea, ancora sotto shock.
Lentamente si portò una mano alla gemma rossa.
-Mia madre...- mormorò a testa bassa, ma non disse altro.
Provai ad andargli vicina e mettergli una mano sulla spalla, ma incontrai lo sguardo di Ansem che diceva "lascialo solo con i suoi pensieri, per ora", quindi rimasi al mio posto.
-Dove troviamo le altre gemme e gli altri Dragoni?- chiese Alex rialzando il capo, come se niente fosse, ma uno sguardo ai suoi occhi e capii che stava solo cercando di distrarsi.
Provai il forte impulso di consolarlo, ma forse Ansem aveva ragione: doveva affrontare i suoi demoni da solo.
-Degli altri Dragoni non dovete preoccuparvi, al momento. Senza la Gemma di Shiva, il Drago che donò potere a Shana, Diane è completamente priva di difesa e imamgino che lei non voglia passare la vita come una donzella in pericolo, no?- mi chiese con l'ombra di un sorriso che mi fece capire che sapeva già la risposta e che questa lo divertisse molto.
-Dove la troviamo?- chiesi.
-Questo dovrai dircelo tu.
-Ma come...
-Devi soltanto concentrarti. Il tuo cuore sa dove si trova.
Lanciai un'occhiata dubbiosa ad Alex e lui ricambiò con una di incoragiamento. So per certo che avrebbe sorriso, se non avesse ricevuto la notizia che lo aveva scosso, poco prima.
Respirai a fondo e chiusi gli occhi, concentrandomi sulla visione che avevo avuto circa un'oretta prima. La gemma azzurra si andò a delineare sempre più nella mia mente, finchè tutto non divenne nero.

Bianco. Freddo. Blu.
Qualcosa brilla nell'oscurità, spaventa il lupo grigio, lo mette in allerta.
Azzurro, in mezzo al bianco. Splende nel buio.
Il lupo si lancia e il suo nemico scompare nella neve.
L'ha battuto.
Bianco, blu e rosso, nell'oscurità.
Pieghe nel vento e una montagna di ghiaccio sul mare.

Mi svegliai e incontrai lo sguardo preoccupato di Alex.
Ma lui non rimase a guardarmi, spostò lo sguardo su Ansem, poco lontano.
-Si è svegliata!- esclamò e lui si fece vicino mentre mi alzavo.
-Dunque?
-E'... E' complicato. C'era della neve e... Un momento, sono svenuta di nuovo?!
-Effetto collaterale delle visioni, va avanti.
-Allora, c'era della neve e un lupo... e qualcosa di azzurro che brillava.
-La gemma- dedusse Ansem.
-E poi c'era... credo fosse una bandiera: bianca, blu e rossa. E poi... una specie di montagna bianca nel mare- continuai.
-Un ghiacciao- disse Ansem.
-Un ghiacciaio? Vuoi dire come l'Iceberg del Titanic?- chiese Alex.
-Paragone interessante, ma sì: come quello- rispose Ansem, trattenendo un sorriso.
-Quindi...- incoraggiai l'uomo a continuare.
-Credo sia in Russia. La bandiera è quella e lì i ghiacciai abbondano, come i lupi.
Mi chiesi cosa mai ci facesse un lupo su un ghiacciaio...
-Non è un gran punto di partenza- commentò Alex.
-Forse...- mormorai, ma mi interruppi.
-Forse?- mi incalzò Alex.
-Qualcuno potrebbe sapere il luogo specifico...- risposi titubante.
-Che intendi?- chiese Ansem, massaggiandosi il mento.
-Bè, mia madre è nata in Russia. Potrebbe saperlo, no?- chiesi speranzosa.
L'avevo lasciata da sola, a cercarmi sicuramente. E il senso di colpa mi stava uccidendo.
-Mmh... Magari in gioventù è stata inconsapevolmente attratta da quel luogo... Dopotutto ospitava lei lo spirito di Shiva, prima di te, anche se questo non l'ha mai richiamata.
-E...?- chiese Alex.
-Potrebbe saperlo.
Dentro di me esultai di gioia.
-Ma prima che andiate prendete queste.
Ansem si voltò e si diresse verso un cassettone in mogano, con strane incisioni sopra.
Lo aprii ed estrasse una spada stretta e lunga, la lama rosso fuoco e l'elsa nera.
Era un'arma bellissima, che Ansem porse ad Alex.
Quando lui la impugnò la lama si illuminò come fosse incandescente.
-E' scaglia di drago, e puoi usarla solo tu. Altrimenti qualcuno ci perderà una mano- spiegò Ansem e stetti bene attenta a registrare quella informazione nel mio cervello.
Poi l'uomo si voltò ed estrasse due pugnali stretti e lunghi -per quanto può esserlo un pugnale- con le lame bianche e le else elaborate azzurre.
Me li porse e quando li impugnai, da essere di sprigionò uno strano fumo freddo, come quando apri un freezer. Però non mi dava fastidio, anzi... Il fumo sembrò avvolgermi la mano come un guanto.
Guardai le armi ammirandone la bellezza.
-Vi serviranno anche questi- disse passandoci dei foderi legati a delle cinture.
Ce li allacciammo entrambi alla vita.
-Bene, siete pronti.
-Emh... Queste armi... Non crede che daranno problemi in aereoporto?
-Sono armi magiche, Diane. Gli umani e quegli... eccentrici strumenti tencnologici non le possono vedere o rilevare- disse storcendo le labbra.
Sorrisi divertita.
-Okay, ma come facciamo ad uscire da Dragavaar?- chiese Alex.
Ansem estrasse una chiave dorata dalla tasca dei pantaloni e gliela porse.
-Questa vi permetterà di andare e venire in città quando vorrete. Funziona solo con il contatto fisico. Dovete concentrarvi intensamente e riuscirete a raggiungere il cortile del castello. Tutto chiaro?
Annuimmo.
-Bene. Buon viaggio, Dragoni. E cercate di restare vivi.
Prima che potessi fare qualcosa, Alex mi prese per mano.
Mi sentii risucchiata da una forza invisibile e capii che avrei di nuovo provato la sensazione del teletrasporto.
L'ultima cosa che vedi, fu il sorriso triste di Ansem.

L'atterraggio fu più o meno doloroso.
Eravamo ricomparsi nel vicolo dove eravamo stati attaccati, tutti interi, solo che subito dopo eravamo scivolati sul ghiaccio ed eravamo finiti l'una sopra l'altro.
-Aehm...- balbettai poggiata al suo petto, guardandolo negli occhi, troppo vicina.
Mi sentii avvampare e mi alzai in fretta e furia, stando attenta a non scivolare di nuovo.
Mentre lui faceva lo stesso mi spazzolai per bene il cappotto coperto di neve.
Uscimmo dal vicolo senza avere il coraggio di guardarci.
-Casa mia è da quella parte- dissi indicando una via, nervosa. -Andiamo.
Nessuno dei due parlò per tutto il traggitto, ognuno perso nelle proprie riflessioni.
Alla fine arrivammo davanti alla palazzina ammuffita dove abitavo.
Sospirai e gli fece strada su per le scale, fino alla porta del nostro appartamento.
-Mia madre ti sembrerà un po'... strana, diciamo così- lo avvisai, poi, senza aspettar risposta, bussai.
Quando la porta si aprì, incontrai lo sguardo azzurro spento di mia madre, lo stupore e la paura dipinta in viso.
-Diane! Diane, Santo Cielo, dov'eri?!- mi chiese abbracciandomi, rettifico, soffocandomi come un pitone.
-S-sto bene, mamma. Non uccidermi, ti p-prego!- dissi senza respirare.
Lei allentò di pochissimo la stretta su di me, da pitone che ti sta per uccidere, a pitone che vuole farti morire lentamente.
-Dove sei stata?- ripetè.
-Ero...- gettai un'occhiata ad Alex.
Solo allora mia madre parve accorgersi di lui, e lo guardò allarmata.
Mi afferrò il braccio e mi spinse dietro di lei, puntando un dito contro Alex.
-Cosa-hai-fatto-a-mia-figlia?- scandì minacciosa.
-Mamma! Alex è un amico!- esclamai stupita.
Mia madre parve tranquillizzarsi.
-Salve...- salutò Alex, con l'aria di uno che stava valutando se scappare o no.
-Mamma, dobbiamo parlare con te. Subito.
Dal tono in cui lo dissi, mia madre capì la gravità della situazione.
-Entrate.

Eravamo seduti intorno al tavolo della cucina.
La casa, notai, era stranamente in ordine. Neanche fosse passato il team di "Extreme Makeover Home Edition" in persona!
-Mi sono data da fare mentre non c'eri- sembrò giustificarsi lei imbarazzata.
-Mamma, è passata una notte...- le feci notare.
-Ero preoccupata... Pensavo che così saresti tornata... E lo hai fatto- rispose stringendomi la mano, le lacrime agli occhi.
Sorrisi.
-Allora, ragazzi... Di cosa volevate parlarmi?- chiese.
Io e Alex ci scambiammo un'occhiata.
-Ecco... Abbiamo una cosa importante da fare, mamma. E...
-Ci serve il suo aiuto per trovare un posto. Un posto importante, molto- completò Alex.
Mia madre ci pensò su. -Importante, dite?
-Sì- dissi guardandola. -Vedi... E' complicato, e non sono sicura di potertene parlare, ma...
-Non centra la droga, vero?
-Cosa? NO!
-Allora va bene- sorrise sospirando sollevata dalla notizia. -Dunque, che posto è?
-Crediamo si trovi in Russia. Un ghiacciaio.
Assunse una faccia sconvolta.
-Che devi andarci a fare in Russia?!
-Ecco... Te l'ho detto, non possiamo dirtelo- dissi dispiaciutissima.
Mi guardò negli occhi per un po', poi... sorrise?!
-Mio nonno me lo diceva...
Io e Alex ci guardammo confusi.
-Mamma, cosa...?
-Il tuo bisnonno parlava sempre di cose folli, quando ero bambina... Mi diceva che la nostra stirpe era destinata a salvare il mondo- spiegò parlando con dolcezza e malinconia. -Diceva che discendevamo da gente speciale... Da gente /molto/ spieciale.
Silenzio.
-Centra questa storia, vero?- chiese poi.
Annuimmo lentamente.
Sorrise.
-C'era un ghiacciaio...- mormorò persa tra i ricordi. -Quando vivevo in un piccolo paesello in Russia, poche centinaia di metri dalla costa, c'era questo immenso ghiacciaio, Garderuth. Era... Come una montagna bianca sul mare, molto grande.
Sussultai appena, mentre ricordavo il mio sogno.
Pieghe nel vento e una montagna di ghiaccio sul mare.
-E...
-Non so se centra qualcosa, ma da piccola ne ero sempre attratta.
Guardai Alex.
-E' un buon punto da cui partire- convenne lui sorridendo incoraggiante.
Ricambiai grata.
-Bene, non c'è tempo da perdere, allora- disse poi mia madre.
La guardai confusa.
-Devi andare, cara, forza!
Ci alzammo, ma mia madre fu più veloce. Corse in camera mia e tornò poco dopo con uno zaino. Riuscii a intravedere un paio di cambi di vestiti e il mio Mp3, prima che lei prendesse a riempire di viveri in scatola dal nostro frigo e a sistemarglieli dentro.
-Mamma, no! Così tu...
-Silenzio, cara- mi interruppe lei con un sorriso.
Sbattei ripetutamente le palpebre, scioccata. Perchè d'improvviso si comportava come... bè, come un madre vera?
-Non ho molti soldi con me- disse aprendo un barattolo e tirandone fuori qualche centinaio di dollari.
-Mamma! Che stai...
-Prendetevi cura di voi, okay? State attenti e cercate di tornare sani e salvi- mi interruppe ancora mia madre, il volto serio.
-Purtroppo non ho vestiti maschili, qui in casa- si scusò con Alex.
-Non si preoccupi, passerò a prenderli in albergo- sorrise lui, grattandosi la nuca.
Mamma annuì.
-Andate, ora, forza.
Alex andò verso la porta, lasciandoci sole.
-Mamma, perchè stai facendo questo?
-Sei mia figlia, no?
Non seppi cosa replicare.
-Stai attenta, bambina mia.
-Mamma...
-E perdonami di tutti questi anni in cui hai dovuto prenderti cura di me. Rimedierò, promesso.
Sorrisi abbracciandola forte.
-Ti voglio bene, mamma.
-Anch'io, angelo. Sii forte come la dea di cui porti il nome.
Risi, perchè aveva toccato uno degli argomenti di cui andavo pazza: la mitologia.
-Forza, ora. Non vorrai fare aspettare il tuo nuovo ragazzo!
-E' solo un amico!- esclamai scandalizzata.
-Bè, ma è carino, no?
Avvampai, ma non risposi.
Mia madre rise.
-La Russia è lontana, ti conviene muoverti.
Mi feci sospingere fino alla porta d'ingresso, poi ripresi come coscienza di me, anche se non riuscivo ancora a guardare Alex in faccia.
-Arrivederci, signora...
-Chiamami Karen.
Lui sorrise ed uscì.
-Ciao, mamma.
-Ciao, tesoro- mi salutò lei e io seguii Alex oltre la soia.

Come aveva detto, Alex mi fece strada verso il suo albergo.
Scoprimmo con amarezza che la chiave che ci aveva dato Ansem funzionava solo per teletrasportarci a Dragavaar e non in giro per il mondo.
Sarebbe stato troppo facile, altrimenti, ovvio!
Il moro preparò anche lui uno zaino con dei vestiti e dei soldi, e mi trascinò via dall'albergo senza che potessi fare domande, poi, insieme, prendemmo un taxi per l'aereoporto.
Mentre eravamo in fila per comprare i biglietti che ci avrebbero permesso di raggiungere la Russia -tutti e due muniti di passaporto- ripensai a quanto era cambiata la mia vita nel giro di qualche ora.
Guardai Alex mentre parlava con la donna dietro il bancone per procurarci i biglietti. A quanto pare era pratico di queste cose. Io non avrei saputo da dove comiciare.
Anche se era una testa calda, dovevo ammattere che se la cavava in certe situazioni meglio di me.
E poi era carino...
Smettila, Diane!
Lo vidi tornare verso di me con un'aria di trionfo.
-Tra due ore parte l'aereo. Ma il viaggio durerà un po'...
Annuii.
-Almeno è stato facile!- commentai per sciogliere la tensione.
Non sapevo ancora quanto mi sbagliavo.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2325792