Six memos for the next generation

di Nimue_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lightness ***
Capitolo 2: *** Quickness ***
Capitolo 3: *** Exactitude ***
Capitolo 4: *** Visibility ***
Capitolo 5: *** Multiplicity ***



Capitolo 1
*** Lightness ***


leggerezza Note: questa per me è un'epopea, perché ha richiesto una lunga ricerca. Ho notato che nel fandom ci sono quasi tutte Malec e così ho deciso di provare qualcosa di nuovo. In questa raccolta si susseguiranno storie di diversi personaggi, ispirate a sei virtù che lo scrittore italiano Italo Calvino avrebbe voluto spiegare ad un gruppo di studenti americani prima di morire. La mia idea è semplice: Emma Carstairs, protagonista di quella che sarà la terza saga scritta dalla Clare e parabatai di Julian Blackthorn (se non la conoscete trovate tutte le informazioni che vi servono qui), chiede a Jace, il suo idolo, di aiutarla a diventare una persona migliore e lui  le racconta sei storie che nascondono messaggi morali. Il prologo si ambienta cinque anni dopo la fine di TMI, come spiegato da Cassie. Le virtù citate da Calvino sono: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Per adesso posso dire solo che la prima riguarda Isabelle e Max, mentre la seconda parlerà di Alec e Magnus. Spero, in un modo o nell'altro, di riuscire a portare avanti questa raccolta, e di aver creato qualcosa di diverso, che possa allietarvi. Buona lettura!


Six Memos for the Next Generation
SEI PROPOSTE PER LA PROSSIMA GENERAZIONE


- Dimmi che è uno scherzo. È uno scherzo, vero? -
Julian Blackthorn, la faccia sporca di colore, la guardò per la prima volta in vita sua come se non riuscisse a capirla. Posò il pennello con cautela, il viso dai lineamenti dolci che si dipingeva d'incredulità.
- Emma Carstairs che cerca di imparare qualcosa che non sia staccare arti nel modo più doloroso possibile? L'incontro con il tuo mito, "Jace Hotroppicognomi", deve averti fuso il cervello. -
La giovane cacciatrice, appollaiata sul davanzale della finestra dell'Istituto che dava sulla spiaggia, estrasse dal fodero una spada leggera dall'impugnatura decorata con foglie, prezioso cimelio di famiglia, e con un unico, agile movimento lo lanciò verso di lui. Cortana, questo era il nome della lama, sfiorò il suo parabatai e si conficcò nel muro.
Julian trattenne il fiato.
- Stavo solo scherzando. -
- Smettila di palesare che detesti Jace Lightwood. Al contrario di quanto tu possa immaginare, poterci parlare privatamente è stato illuminante. -
Emma rivolse lo sguardo al mare, pensierosa come il suo migliore amico non l'aveva mai vista. Julian sapeva che Emma aveva un debole per quel Jace, considerato il miglior cacciatore esistente; non era geloso, davvero, era solo che si aspettava di vederla più euforica dopo l'incontro tanto agognato.
- Come mai quella faccia, allora? Qualcosa non va, Emma? -
Il rumore delle onde in lontananza accompagnò le sue parole quasi suonasse la colonna sonora di una confessione dolorosa.
- Mi ha detto che non sono una buona cacciatrice. -
Julian sobbalzò, urtando la tela di un quadro quasi finito, e il suo pennello rotolò dal portacolori fin sul pavimento, lasciando tracce d'azzurro cielo che, realizzò più tardi, non sarebbero andate via molto facilmente.
- Mi prendi in giro. Sei la seconda cacciatrice più abile al mondo dopo di lui, non può averlo fatto sul serio. -
- Beh, l'ha detto per davvero. Credevo che mi avrebbe chiesto di dimostrargli cosa sapevo fare con la spada e invece mi ha chiesto di parlare. Jace Lightwood. Parlare. -
Jules si sedette con le gambe strette al petto, cercando di eliminare la tensione che gli irrigidiva i muscoli,
senza riuscire a capire cosa fosse successo tra quei due
- E? -
- E abbiamo parlato. E poi lui ha detto che non ho le qualità di una vera Nephilim, il che secondo lui è strano, visti i modelli a cui avrei potuto ispirarmi. Ha detto che ho le giuste doti tecniche ma che mi mancano le... Come le ha chiamate? Virtù. -
- E io che lo credevo simpatico. - sdrammatizzò. Emma si mise una mano tra i capelli, scuotendo la testa.
- Ha ragione, Julian. Se lo avessi sentito parlare di tutti gli atti di eroismo che ha visto, di tutte le lezioni di vita che ha imparato, paragoneresti la mia esperienza al niente. Combatto con la forza e nient'altro, mi vanto di saper uccidere un demone e mi rendo conto che lo faccio per il puro gusto di sentirmi invincibile, perché in realtà non so fare altro che possa definirsi buono. I miei genitori sono morti prima di potermi educare come si deve e ora sono una formidabile cacciatrice, Jules, ma sono anche una brava e valida persona? -
Julian sentì il cuore battere più forte, guidato dallo stesso ritmo di quello di Emma, e la runa dei parabatai iniziò a bruciare.
- Lo sei. -
Per me lo sarai sempre, Emma Carstairs. 
- Te l'avevo detto che avresti dovuto lasciarlo perdere. È un montato. -
- Jace ha ragione! - Emma non si rese conto di aver alzato la voce fino a quando non vide Julian guardarla con sconcerto, il volto reso cupo da un'ombra di malinconia.
- Ha ragione. Ha ragione quando dice che posso essere una persona migliore, che mi servono solo degli esempi da seguire. -
- Che scemenza. Ti ha detto dove trovarli? Ti ha dato una mappa del tesoro? -
La risposta tagliente che si era aspettato di ricevere da Emma non arrivò e lei lo guardò con uno sguardo nuovo, serio, privo dell'orgoglio che la contraddistingueva.
- Mi ha chiesto a quali ideali mi ispirassi nella vita e io non ho saputo rispondere, così mi ha dato i suoi: sei punti da ricordare, delle virtù che ha imparato scavando nel suo passato e che lo accompagneranno per sempre nel futuro. -
- Ti ha fatto una lezione morale? -
- Ne ha fatta una oggi. - sottolineò lei, - Ha promesso che mi racconterà altre storie da cui poter imparare qualcosa, ma per il resto dovrò documentarmi da sola. -
- Dimmi che è uno scherzo, è uno scherzo, vero? - ripeté Julian.
- La vuoi sentire una storia, Jules? -
- Sei proposte per la prossima generazione, quel Lightwood dovrebbe scriverci un libro. -
- La vuoi sentire o no? -
- Scommetto che farebbe un sacco di soldi mettendo la sua foto in copertina. Detto tra noi, secondo me è un finto biondo. -
- Jules! - esclamò.
Il ragazzo sbuffò, fingendosi scocciato. Si prese qualche secondo per studiare i capelli d'oro di Emma, gli occhi privi della loro consueta fierezza che puntavano su di lui in cerca di un appiglio, come se riuscissero a vedere il ritratto della speranza sul suo viso.
Dentro poteva leggerci che Emma, che non aveva nessun altro al mondo, desiderava solo confidarsi con l'unica persona di cui si fidava.
- Di che parla la prima storia? - chiese infine, ridisegnandosi un sorriso sul volto esclusivamente per lei.
- Di leggerezza. -
- Nel senso che Jace ti ha chiesto di dimagrire? -
- Oh, finiscila e ascolta! Il racconto comincia con un nome: Isabelle Sophia Ligthwood. -



Lightness
Mai prendere le cose con leggerezza.


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La gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi,
rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite.
Italo Calvino - "Lezioni Americane: Leggerezza."


Frivola, così l'avevano definita i suoi genitori. Isabelle ricordava il modo in cui suo padre l'aveva guardata quella volta, i lineamenti irrigiditi dalla delusione e dalla paura, mentre la voce di Maryse si alzava a dismisura. Ricordava come era stato rischiare di morire per un eccesso di strafottenza, dopo che aveva giurato a Jace di poter uccidere un demone superiore da sola, nonostante quella fosse solo la prima, vera missione che le veniva affidata.
Non sei me, Isabelle, aveva risposto lui, un ghigno poco convinto stampato sul volto. Pensaci bene. E lei non lo aveva fatto. Aveva sentito solo il sangue che bolliva nelle vene, l'euforia dell'uccisione, l'adrenalina, e non aveva voluto ragionarci sopra. Se lo avesse fatto, nella sua testa si sarebbe fatta spazio l'idea della sconfitta, tanto inaccettabile quanto spaventosa, e se c'era una cosa che a Isabelle faceva paura era avere paura.
Sei un'irresponsabile, Isabelle. Sua madre lo aveva urlato a quello che era il suo capezzale, dopo che solo l'intervento dei suoi fratelli era riuscita a salvarla da morte certa.
Non fai che prendere tutto con leggerezza, Isabelle.
Era così strano, si disse, - le braccia insanguinate che si facevano sempre più pesanti - come la memoria di quelle ferite fosse sbiadita con il tempo e come invece fosse rimasta quella delle parole di sua madre o di Alec che non spendeva nemmeno una parola in sua difesa quando tutti l'accusavano di superficialità. Aveva sempre pensato che la leggerezza fosse una virtù, che fosse tutta una questione di salti, di atterraggi sulle punte senza far rumore, di volteggi compiuti come una piuma nell'aria, aggraziata come un granello di polvere o un fiocco di neve.
- Voi non sapete niente di me. - aveva singhiozzato, il cuore pesante come un macigno, - Voi non mi capite. -
- Sei tu a non capire, Isabelle. -

In quel momento, con la testa insanguinata di Max appoggiata sulle gambe, Isabelle si rese conto di aver cominciato a capire. Lo comprese lacrima dopo lacrima, quando ormai sembravano passate ore dal momento in cui era rinvenuta e aveva ritrovato suo fratello steso nel disordine di una casa semidistrutta, gli occhi, di quel blu che aveva sempre invidiato, leggermente aperti come in cerca della luce.
- E' colpa mia, Max, solo colpa mia. -
Si chiese se i suoi rantoli fossero sensati o solo fatti uscire dalle sue labbra pallide dal terrore e dell'agonia. Si chiese se quello non fosse che un incubo in cui un pazzo aveva tagliato la gola a un bambino mentre lei non era lì per proteggerlo. Irresponsabile.
Posso lasciarti qui da solo, vero cacciatore? Sono al piano di sopra, se dovessi avere bisogno di me.
Avrebbe dovuto pensarci due volte prima di filarsene in camera per lisciarsi i capelli mentre fuori stava per scoppiare una guerra, senza tener conto che Max odiava la violenza, il buio e la solitudine. Invece aveva preso tutto con troppa, fatale leggerezza.
Era quello il significato delle parole di sua madre, allora: non pensare mai alle conseguenze delle proprie azioni, agire secondo l'istinto, indifferenti al male che si causa alle persone a cui si vuole bene.
- Andrà tutto bene, Max. Stanno arrivando per salvarti, mi hai sentito? E io sono qui. -
Adesso.
Le dita sottili di Max cercarono le sue e la sensazione di tenerle strette in mano le ricordò la fragilità dei gambi di rose, fiori che adorava mettersi tra i capelli per farsi guardare. Frivola.
Dov'ero mentre quell'assassino ti faceva del male, fratello mio?
-
Ucciderò Sebastian, te lo giuro. -
Quando suo fratello chiamò sua madre, in un ultimo, flebile singhiozzo, Isabelle pagò la pena della sua leggerezza: fu un attimo, il tempo di lasciare che qualunque speranza venisse soffocata dalla consapevolezza che la morte poteva potarsi via per perfino un bambino di nove anni, poi la cacciatrice sentì il suo cuore sgretolarsi sotto il peso dell'orrore e dei sensi di colpa, come se il centro di gravità si fosse spostato su di esso, riversandole addosso lo strazio del mondo.
- Resta con me, Max, ti prego. -
Max espirò un'ultima volta tra le sue braccia.
Silenzio.
 
Li ritrovarono in quel modo, ancora stesi sul pavimento, lo sguardo vitreo di Isabelle che guardava il nulla come in cerca dell'ultimo soffio vitale di Max.
Cominciarono urla che non aveva mai sentito prima.
Qualcuno gridò contro di lei.
- Perché non lo hai difeso?! -
Per leggerezza. Troppa leggerezza, la stessa con cui lo spirito di Max si era sollevato per sempre sopra gli affanni della realtà.
Alla fine, mentre il corpo di suo fratello le veniva strappato dal petto, Isabelle capì la mostruosità del rischio, dell'amore che provava per l'arte del combattere: nella vita, pensò, tutto quello che si sceglie e si apprezza con troppa leggerezza non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile.



Note 2, la vendetta: il titolo della raccolta riprende quello di Calvino, il cui ciclo di conferenze avrebbe dovuto chiamarsi "Six memos for the next millennium". Io ho scelto "generation" perché in linea temporale Emma fa parte della nuova generazione di Shadowhunters. Chiarisco qualche punto:
- Cartona è la spada della famiglia Carstairs, chi ha letto Clockwork Princess sa di cosa parlo.
- Non sappiamo molto di Emma e Julian, i futuri protagonisti di  The Dark Artifices, ambientata a Los Angeles, solo che il loro amore sarà proibito perché i parabatai non possono sposarsi o stare insieme in quel modo. Quindi sì, a Emma in realtà piace Julian e viceversa. Inoltre, come ho spiegato nella storia, Cassie ha affermato che Jace è l'idolo di Emma. Chi ha letto CP2 sa da chi discende la ragazza, ma io non posso dirvi niente per non fare spoiler.
Si ringraziano tantissimo Yume, Liz e Ro per il supporto pro lettura di CP2, ma anche perché il sito che vi ho linkato sopra è il loro. Vi consiglio di passarci, ci trovate tante news, informazioni e iniziative adorabili. Grazie inoltre alla cara Khyhan per il betaggio e ad Ania per i complimenti sulla Jill. 

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Capitolo 2
*** Quickness ***


quickness
Quickness
Mai avere fretta.
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"C’è sempre una battaglia contro il tempo, contro gli ostacoli che impediscono o ritardano il compimento di un desiderio."
Italo Calvino, "Lezioni Americane: Rapidità."

Se c'era qualcosa che poteva salvarlo dalla sofferenza, pensò Magnus, facendo levitare quanti più vestiti e cosmetici in valigia, era il tempo.
Il primo amore che perderai sarà il più doloroso
, aveva confidato una volta ad una ragazza che, immortale, condivideva la sua stessa condanna. Con gli anni però andrà meglio.
Aveva scoperto che le bugie funzionavano quanto il passare delle ore, come l'oblio della dimenticanza, ma in quel momento non c'era nessuno a confortarlo con false promesse e lui non riusciva a mentire a se stesso. Il tempo, sì, quello avrebbe potuto ricucire i graffi che gli aprivano il cuore, ma il tempo era tutto ciò che a loro era sempre mancato.
Lo stregone soffiò al Presidente Miao appollaiato sulla sua scrivania e lo scacciò con un gesto nervoso della mano, deciso a sgomberare il suo studio il prima possibile, nonostante fosse troppo distratto per concludere i preparativi sbrigativamente. Tutta quella foga non faceva che rievocare l'immagine delle labbra frettolose di Alec sulla sua pelle, i suoi baci rapidi e instancabili che fino a qualche giorno prima avevano scandito la sua esistenza come il ticchettio di un orologio. Ricordava il modo in cui si cercavano sempre, affamati e instancabili, come se non ne avessero mai abbastanza l'uno dell'altro, costantemente spaventati dall'idea di separarsi.
Per Alec, prima che si dicessero addio, ogni istante lontano da lui era stato un istante sprecato, tanto che Magnus era arrivato a preoccuparsi che fosse diventata un'ossessione quanto quella che gli impediva di lasciarselo alle spalle.
- Vacci piano, non scappo mica. - aveva sussurrato una volta durante la loro lunga vacanza insieme, mentre il London Eye girava e il cacciatore cercava di attirarlo a se, le guance arrossate dall'imbarazzo che ancora lo contraddistingueva.
- Io sì. Non sono immortale, Magnus. -
- Parli come se dovessi morire domani, Alexander. -
Il warlock era rabbrividito, puntando lo sguardo lontano dal volto del ragazzo per poi spostarlo sulla Londra notturna e accesa di vita dove era tornato dopo troppi anni. Lo distolse immediatamente.
- La ruota panoramica gira troppo rapidamente, mi stanno venendo le vertigini. - borbottò.
- Non cambiare discorso. -
- Parliamo solo di questo ormai e sai che odio discuterne! -
Quella sera tra di loro non c'erano state più parole.

Nessuno prima d'allora gli aveva fatto pesare in quel modo la possibilità di vivere per sempre, ma Alec ci era riuscito.
Verrà il giorno in cui incontrerai una persona che ti farà rimpiangere di non dover guardare un orologio, Magnus. Temerai la rapidità del suo tempo che scorre e piangerai per la lentezza del tuo, fino a quando desidererai una vita mortale invece di tutte le ere di questo mondo vissute senza di lei. La voce di Tessa Gray, amica di vecchia data, risuonò nella sua testa come l'eco della sua coscienza invecchiata.
Magnus sì guardò intorno e una leggera malinconia lo invase all'idea che presto avrebbe cambiato casa, paese, vita. Ancora, come tutte le altre volte che si era costretto a fuggire lontano dalla disperazione.
Chiuse gli occhi e per l'ultima volta cercò di ricordare ogni carezza, ogni sorriso, ogni sospiro e ogni notte passata troppo velocemente fino a quando, con un gemito di dolore, si rese conto di non aver memorizzato l'esatto colore degli occhi di Alec.
- Ci ha divisi la fretta. - concluse infine e ad alta voce, lasciandosi scivolare per terra accanto al Presidente Miao.
- Abbiamo cercato di vivere al massimo, come se lui fosse dovuto scomparire da un momento all'altro e la rapidità con cui l'ho amato ci ha fatti separare prima del tempo. L'ho baciato mille volte e ho dimenticato il suo sapore. L'ho tenuto stretto tutte le notti, ma non ricordo l'esatta sensazione di sfiorare la sua pelle con le dita. Rammento ciò che è stato ma non come è stato. Avevamo anni e abbiamo consumato i giorni con estrema velocità. E questo che succede quando si ama troppo, non è vero? -
Il gatto miagolò d'assenso e Magnus giurò di poter tradurre le sue fusa in borbottii: peccato, Alec mi piaceva.
- Anche a me, Presidente. -
Per la prima volta da quando si erano detti addio, Magnus guardò il suo orologio da taschino. Gli sembrò che i secondi non fossero mai passati più lentamente di quella notte, ma quando infine si rese conto di star singhiozzando, il gatto che cercava di consolarlo strusciandoglisi contro, dovevano essere trascorse delle ore.
Magnus tirò un calcio alla valigia e la allontanò da se, gridando di frustrazione, perché alla fine comprese che né la distanza né il tempo sarebbero bastati per fargli dimenticare che aveva perso Alec e che aveva ancora un'eternità da sopportare senza di lui.



Note: ecco il secondo capitolo, la cui lezione si basa sulla rapidità. E' curioso sottolineare come le qualità indicate fino ad ora siano quelle da evitare, non da seguire. Personalmente non gradisco che il fandom sia pieno solo di Malec, ma il tema del tempo non poteva che vedere protagonista la coppia. Ho cercato di essere il più Magnus-centric possibile, comunque. La storia si ambienta dopo COLS e l'amica di cui parla Magnus è Tessa, ma non posso fare spoiler da CP2. Ringrazio Viola per il betaggio e le 4 ragazze che hanno recensito il primo capitolo. Ho visto che "Leggerezza" ha una decina di mi piace, perché non mi fate sapere cosa ne pensate con un commento alla storia o un mp? Un bacione in anticipo!


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Capitolo 3
*** Exactitude ***


Note: la storia si ambienta alla fine di "Città delle Anime Perdute", dopo che Jace ha mantenuto dentro il suo corpo un po' di fuoco celeste. Per chi lo sa trovare, c'è un riferimento a Clockwork Princess, ma non sono presenti spoiler.

Exactitude
L'esattezza è relativa.
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"Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzarle, la ricchezza di significati."
Italo Calvino - "Lezioni Americane, Esattezza"


Era notte fonda quando Clary posò il pennello e si lasciò scivolare a terra, esausta. Quando cercò di poggiare la testa, chiudendo gli occhi, sentì qualcosa pungerle la schiena. Quasi stentasse a crederci, guardò a lungo tutte le matite e le cartacce e le macchie di colore sul pavimento, troppo stanca per decidere cosa fare. Di certo non poteva  mettersi a letto, perché con le prime decine di fogli accartocciati, Clary aveva fatto canestro nel cestino, ma poi lo aveva riempito e tutto aveva iniziato ad accumularsi fuori. C'erano cianfrusaglie sulla scrivania, davanti alla porta e perfino sul materasso; tutto, realizzò con le mani tra i capelli, per regalare a Jace un ritratto che fosse degno di lui. Come se non bastasse, non era nemmeno sicura che il risultato finale le piacesse. Studiò ogni particolare del dipinto, sentendosi girare la testa: la sua stanza era impregnata dell'odore di colori ad olio.
«Il naso,» sussurrò, «Jace non ha quel naso.»
In realtà, Clary lo sapeva, il problema era un altro e ben più grave. Il ritratto somigliava a Jace, ma era totalmente privo della sua essenza. Le sembrava di guardare uno sconosciuto, dipinto su quella tela.
Con un calcio fece cadere il supporto che reggeva il quadro, soffocando un grido di frustrazione. Possibile che proprio il suo ragazzo dovesse essere un soggetto irrappresentabile?
Quando si promise di non riprovarci di nuovo, era già troppo tardi. Senza nemmeno accorgersene aveva ripreso il pennello in mano.
E pensare che sua madre glielo aveva detto tante di quelle volte che Clary aveva perso il conto: "Quel ragazzo sarà la tua rovina."
Quantomeno, si disse, Jace era la sua insonnia.
***

Bussò una volta sola, entrando subito dopo. Le mani le facevano troppo male per riprovare.
Non appena la vide, Jace si tolse delle cuffiette bianche dalle orecchie e le rivolse il suo classico ghigno malizioso, quello capace di farla arrossire.
«La mia salvatrice sfida ancora la legge e viene a trovare di nascosto il suo amato. Il desiderio di vedermi è troppo forte, eh?»
Jace allungò una mano verso di lei, l'espressione radiosa.
«Isabelle mi ha portato questo aggeggio infernale per ascoltare della musica; se non sbaglio si tratta della Band di Simon. Non sono mai stato tanto felice di vederti, questa roba è orribile.»
Clary gli fece la linguaccia e si avvicinò fino al bordo del letto con la tela incartata tra le mani, strascicando i piedi per la stanchezza.
«Sono entrata solo grazie a fratello Zaccaria, gli ho detto che avevo un regalo per te.»
«Sul serio? Da' qua, sono curioso.»
D'improvviso le sembrò che una malattia demoniaca l'avesse privata della facoltà che più li aveva legati un tempo, quella di poter parlare a Jace liberamente, nel bene e nel male, senza alcun timore. In quel momento non era sicura di riuscire ad arrivare a lui attraverso le parole, ma doveva provarci. Era solo che aveva passato così tante ore a disegnare, supportata solo dal brillare pulsante della stregaluce, che non riusciva a levarsi dalla testa l'immagine del pennello che scivolava sulla tela, o quella delle linee di colore che si rincorrevano, senza che nessuna di loro riuscisse a raggiungere lo scopo per la quale era stata creata, tracciando nient'altro che la geometria del sua paura. Perché Clary aveva avuto davvero paura di non saper più disegnare, dopo tutto ciò che era successo.
«Ti ho dipinto,» disse solo.
Jace ridacchiò, le sopracciglia alzate a enfatizzare la sorpresa, indicandosi allo specchio.
«Tanta bellezza è difficile da ricreare con colori ad olio e pennello, perfino per te.»
Nonostante il viso stanco e le occhiaie violacee, le labbra di Clary si curvarono in un sorriso dei suoi. Quel giorno le lentiggini spiccavano particolarmente sulla sua pelle chiara e Jace le trovava adorabili. Avrebbe passato un'eternità a contarle una ad una.
«Sono notti intere che provo ininterrottamente a ritrarti, Jace. Mi sei costato almeno una dozzina di album da disegno e quattro tele. Hai consumato tutti i miei pennelli.»
«Adesso arriva la parte in cui mi dici che ti faccio bruciare di ardente passione? Perché non possiamo più dirlo in maniera figurale, a quanto pare.»
La cacciatrice poggiò il quadro sulle gambe di Jace, tradendo una certa cautela. Non che si aspettasse di vederlo bruciare, ma non si era ancora abituata all'idea del fuoco celeste nel corpo del suo ragazzo.
«Sai, quando abbiamo scoperto che Sebastian ti aveva soggiogato, tutti hanno iniziato a chiedersi chi fossi veramente. Come fossi veramente. Per alcuni eri il Jace di sempre, per altri eri un traditore, per altri ancora una vittima.»
«Per me sono sempre rimasto un gran figo.»
Clary afferrò una scatola di cioccolatini dal comodino dell'infermeria e lo colpì in pieno.
«Se non si fosse capito, sto cercando di iniziare un discorso poetico.»
«Scusami tanto, artista,» disse in Italiano, mentre scartava la tela, «non ti interromperò più, promesso.»
La ragazza prese un bel respiro.
«Ritraendoti, mi sono accorta che è impossibile disegnarti con esattezza, Jace. Sei tante di quelle cose insieme e il tuo essere è troppo straordinario per chiunque. In un certo senso sei troppo grande per venire ridotto ad un ritratto comune. Non c'è minuziosità dei particolari che regga, con te.»
Jace non disse niente. Rimase a guardare il dipinto in silenzio, gli occhi che si fissavano su tutto e niente allo stesso tempo. Clary non riusciva a capire se ciò che vedeva gli piacesse o se lo avesse profondamente deluso. Di una cosa era certa: esisteva qualcosa capace di zittire Jace Lightwood.
Si sforzò di schiudere le labbra secche per rompere quel silenzio assordante, del tutto innaturale in compagnia del suo ragazzo.
«Quando non c'eri, Jace.. Ti sembrerà stupido, lo so, ma quando non c'eri mi sembrava che non ci fosse mai la luce adatta per disegnare. I colori erano sempre troppo scuri e le ombre troppo pronunciate. Il giorno dopo il nostro incontro, quando mi hai portato a Venezia, sono riuscita a dipingere la città con esattezza, o almeno secondo la mia esattezza. L'ho rappresentata per come io la vedevo.»
Lo sguardo di Jace era ancora fisso sul suo regalo.
«Così ti ho ritratto per quello che sei nella mia vita. Non c'è alcuna precisione in quello che vedi, perché l'esattezza non è la stessa per tutti. Ma se potessi vederti con i miei occhi, Jace, se potessi.. sentire con il mio cuore, ti saresti dipinto esattamente in quel modo.»
Jace poggiò la tela sul letto, in modo che i raggi del lampadario di stregaluce la colpissero direttamente. Tutta la superficie del dipinto era ricoperta di vernice dorata, fino all'ultimo angolo. La luce la faceva brillare quasi fosse un Sole, e Clary ebbe finalmente la certezza che non avrebbe potuto rappresentare Jace in altro modo, se non attraverso lo splendore prezioso dell'oro.
«Di' qualcosa.»
Gli occhi del ragazzo erano lucidi e luminosi come il dipinto stesso.
«Due cose riescono a farmi impazzire, Clarissa Fray. Tu sei la prima. E per te, ti giuro, sposerei la follia.»
«E la seconda?»
Clary si sedette al suo fianco, desiderando solo di baciarlo.
«Le anatre. Quelle mi fanno impazzire di paura.»
***

Quando i fratelli Silenti accorsero nell'Infermeria dell'Istituto, temendo il peggio, ritrovarono Jace Herondale con il corpo incastrato in una tela dipinta d'oro. Qualcuno doveva avergliela spaccata in testa.
«Che cosa è successo, con esattezza
Il ragazzo rideva e gemeva di dolore allo stesso tempo.
«Volevo dire qualcosa di romantico alla mia ragazza, ma devo aver interrotto l'idillio con una battuta sulle anatre. Lei lo sa, fratello, non è vero? Mai fidarsi di un'anatra.»
Fratello Zaccaria ringraziò di avere la bocca cucita, perché altrimenti non era sicuro che sarebbe riuscito a trattenere le risate.
Maledetti Herondale, si disse. Non cambieranno mai.




Note da leggere, grazie: sì, l'esattezza è relativa. Ciò che per altri è giusto, alcuni lo ritengono sbagliato, e per fortuna il mondo è bello perché è vario. Ogni scrittore, dunque, ha uno stile diverso. Io, per scelta, ne rifiuto uno essenziale nelle mie storie. Non mi piace il registro linguistico del parlato o quello che tradisce una semplicità esasperata, e al contrario ne amo uno ricercato. E' stato definito (in una recensione scritta con sincerità e che per questo apprezzo), esagerato. Per me non è esagerato, perché è il mio stile. Critiche ad un uso scorretto della lingua o al IC dei personaggi sono ben accette, ma mi sono sentita in dovere di spiegare perché al contrario gradisco un po' di meno quelle che riguardano il modo di scrivere di una persona. Un altra cosa, ringrazio chi sta leggendo queste note. Gli autori di efp, se le scrivono e ci perdono tempo, è perché vogliono chiarire qualcosa di importante. Se le ignorate e poi commentate negativamente una cosa che non avete capito, non è colpa nostra!
Detto questo, i commenti e i pareri, se coscienziosi, ripagano gli sforzi di noi giovani scriba marmotte e ci fanno tanto piacere <3

Grazie a Viò che legge i capitoli di questa storia in anticipo, grazie al gruppo di supporto, alla parabatai e a tutte le tezore che leggono le mie storie in generale. Inoltre benvenuta Ania nel gruppo su fb dedicato ai libri della Clare! Vi auguro di trovare un Jace tutto per voi (dai, la mia cara Tess forse lo ha trovato!). Bacioni!


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Capitolo 4
*** Visibility ***


visibilità
Note: la prima parte della storia si ambienta durante la battaglia di Città di Vetro, la seconda dopo la vittoria. E' una what if?, ovvero una storia in cui viene modificato un elemento essenziale della trama. Il significato di questo capitolo sta nel denunciare l'incapacità di Simon di immaginare che dietro alla maschera di arroganza di Raphael ci sia qualcos'altro. Simon è vittima delle apparenze, crede che quello che vede sia la realtà. Per me non è così, e sono sicura che lo scopriremo in CoHF. Se ritrovate qualche accenno alla Raphael/Simon, è perché c'è.

Visibility
L'essenziale è invisibile agli occhi.

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"Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare, è per avvertire del pericolo che stiamo correndo
 di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire
colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini."

Italo Calvino, "Lezioni Americane - Visibilità"

Simon aveva paura.
Un angolo temerario della sua coscienza, sgusciando fuori dal terrore, si chiese se fosse normale averne della vita e non della morte imminente. Temeva che una volta riacquistata la visibilità, dopo essersi asciugato gli occhi dal sangue di un compagno di battaglia, sarebbe ripiombato di nuovo nella guerra, cruda, dolorosa e inevitabile.
Un colpo, sarebbe bastato quello a farlo fuori, e tutto sarebbe finito. Un artiglio infernale a squarciargli la carne e il cuore, niente di più; solo in quel modo sarebbero cessate le urla e il suono delle lame che cozzavano contro le ossa, della pelle che friggeva al contatto con il veleno di demone.
Qualcuno a pochi metri da lui venne ucciso, fatto a pezzi e sbranato. Frammenti mollicci piombarono sulla sua faccia e Simon rotolò di lato, coprendosi la testa.
Non voleva tornare a vedere, ma si costrinse a passare una manica della maglia sulle palpebre, con gli arti che tremavano come se il suo corpo fosse ancora stato capace di sentire freddo.
Clary, Isabelle, Alec, Magnus, Jocelyn, Luke, Maia, Robert, Maryse. Jace, perfino lui. Simon cominciò a ripetere i loro nomi ininterrottamente, mentre i suoi occhi sbattevano nel disperato tentativo di rincorrere la luce. Se li avesse visti vivi un'ultima volta, accertandosi che stessero bene, sarebbe potuto morire in pace e andarsene lontano, dove quella piaga non sarebbe riuscita a raggiungerlo.
Clary, Isabelle, Alec, Magnus, Jocelyn, Luke, Maia, Robert, Maryse, Jace, si disse, ma non scorgeva nessuno di loro.
Si rialzò appena in tempo per schivare il tentacolo squamoso di una creatura immonda e fuggire alla cieca, correndo ovunque non vi fossero alleati senza vita. Stavano perdendo, questo era riuscito a capirlo con una sola occhiata spaventata. Ovunque c'erano corpi di mutaforma nudi, feriti e pallidi, tornati umani poco prima di spegnersi. Alcuni corpi erano carbonizzati e ad alcune fate erano state strappate le ali, stese per terra a formare un tappeto da calpestare come affronto.
Clary, Isabelle, Alec, Magnus, Jocelyn, Luke, Maia, Robert, Maryse, Jace. Dove si erano cacciati? Solo i maggiorenni stavano combattendo, ricordò, eppure lui era lì, un eterno sedicenne che non sapeva uccidere. E non voleva farlo.
Simon non voleva uccidere né lasciare che le persone che amava venissero uccise. Voleva solo risvegliarsi da quell'incubo con la playstation accesa e Clary che sonnecchiava sulla sua spalla, scoprendo che era stato solo un brutto sogno. Desiderava solo che il fragore della battaglia si fermasse all'improvviso e che al suo posto risuonasse di nuovo il battito del proprio cuore.
Clary, Isabelle, Alec, Magnus, Jocelyn, Luke! La sua vista sovrannaturale riuscì a riconoscere un licantropo più grande degli altri, la bava rossa e il ringhio feroce, ma tutto intorno regnava il caos. Era sicuro di trovare Jocelyn al suo fianco; a lei avrebbe potuto chiedere di Clary, della sua Clary. Se lei era viva, decise in un momento di egoismo, lanciandosi contro la mischia per raggiungere il suo amico, andava ancora tutto bene, e guerra e pace erano la stessa cosa. Tutto ciò che importava era che Clary fosse al sicuro.
«Luke!»
Simon spintonò un cacciatore, facendogli prendere la mira sbagliata. La sua freccia si conficcò nell'occhio del mostro invece che sulla fronte. Non era poi così grave, dopotutto. Era già tanto che nel panico generale fosse riuscito a controllare la sua forza da figlio della Notte.
«Luke, sono qui! Sono qui!»
Gli occhi enormi di Luke si puntarono su di lui per qualche secondo, poi il lupo ululò alla Luna; sul terreno, la sua luce proiettava le ombre immense di due demoni superiori.
Prima che potesse dire o fare qualunque cosa, arrivò il primo attacco. Simon venne catapultato di lato talmente forte che il respirò gli si mozzò nel petto. Una volta che l'aria tornò a farsi spazio nei polmoni, nonostante non avesse un reale bisogno d'ossigeno, Simon urlò di rabbia, perché in quell'Inferno sonoro nessuno riusciva a sentire quanto soffrisse.
Iniziò il dolore. Tre, si accorse, erano le lunghe strisce di pelle mancanti dalla sua schiena scorticata. In compenso uno dei mostri era scomparso e al suo posto, inspiegabilmente, Simon scorse una montagna di sale. Gli parve che l'altro demone gli sorridesse, i denti marci e il volto semiputrefatto, mentre sradicava un albero dalla radura, pronto a infilzarlo nel suo corpo.
Era un paletto piuttosto grande, quello. Gran bel guaio, realizzò.
La bestia calò il colpo finale.

Clary.
Clary.
Clary.
Clary.
Clary.
Aveva ripetuto il suo nome cinque volte, eppure si aspettava di venire ridotto in poltiglia alla seconda.
«Clary.» lo disse ancora, ma stavolta ad alta voce, per accertarsi che fosse tutto vero: era vivo.
Quando aprì gli occhi, quello che vide non aveva alcun senso.
Raphael Santiago reggeva il tronco d'albero con due mani, frenandone l'impatto. I suoi piedi affondavano nel fango e i ricci d'angelo erano incollati al collo e intrisi di sangue. Non riusciva a vederne il viso, ma avrebbe voluto poterlo fare. Cercò di immaginarselo, quel volto botticelliano, attraversato da un'espressione che non fosse di sufficienza o superiorità. Cercò di dipingerselo in mente, provato, sofferente, sfigurato dalla furia cieca, i canini come rasoi e le vene violacee attorno agli occhi di un cacciatore. Non ci riusciva.
Il lamento di delusione del Demone rischiò di perforargli i timpani, facendolo raggomitolare su sé stesso. Raphael non si piegò di un centimetro, continuando a trattenere il peso de tronco, ma Simon avrebbe voluto tapparsi gli occhi. Il capo dei vampiri sembrava così giovane ed esile che sembrava impossibile che non si stesse per spezzare come un ramoscello.
Con uno strattone delle braccia Raphael strappò l'albero sradicato dagli artigli del demone e lo scaraventò verso un altra creatura degl'inferi prima che questa potesse rappresentare un pericolo; accade tutto così velocemente che nonostante le sue doti vampiresche, Simon non osò battere le ciglia per paura che, riaprendo gli occhi, Raphael sarebbe svanito.
Il capo dei vampiri balzò in avanti con una spinta tale da sollevare la polvere e fendere l'aria in un sibilo. Si aggrappò alla testa deformata dell'essere con le due mani apparentemente delicate e fece forza per tranciare via una parte del collo. Il demone cercò di riafferrarlo, ma Raphael fu più veloce, sgattaiolando sotto le sue tre zampe e bloccando una delle braccia enormi per farlo cadere.
Troppo tardi, Simon si rese conto di cosa sarebbe successo.
«NO!»
Raphael morse il demone. Simon riuscì quasi ad accorgersi dell'esatto istante in cui quel sangue velenoso cominciò a bruciare il corpo del vampiro, facendosi strada verso il suo cuore.
Raphael lo rispedì nell'altra dimensione con un ultimo colpo, prima di barcollare e rovinare a terra, mentre un'altra orda di tenebre arrivava.
Per un breve istante riuscì finalmente a scorgere il suo volto, poi, in un'esplosione violenta, tornò a vedere rosso. Il sangue scivolò lungo il suo viso e Simon pregò che non fosse quello del vampiro che lo aveva salvato. Ripeté un'ultima volta i suoi nomi, prima di perdere conoscenza: Clary, Isabelle Alec, Magnus, Jocelyn, Luke, Maia, Robert, Maryse, Jace, Raphael.

***

Scoppiò un fuoco d'artificio, e scintille rosse piovvero dal cielo come neve di fuoco. Chissà com'era, rifletté, tenerne una in mano prima che si spegnesse, stringerla per un secondo di pura e preziosa follia, prima che iniziasse a fare male. A Simon mancava l'euforia dei gesti sconsiderati, quelle pazze e stupide imprese che faceva da piccolo senza pensare. Ormai, però, la guerra era finita e Simon non era più quello di una volta, ormai ogni azione pesava come una spada puntata sul capo.
Strise Clary più forte, camminando lungo i vicoli pittoreschi di Idris. Anche lei appariva diversa, più saggia.
«Ho fermato una guerra vera, ragazzo nerd. Non una di quelle che puoi mettere in pausa alla console,» le labbra della ragazza si tesero dolcemente in un sorriso, facendo increspare le lentiggini sulle guance
Era bellissima, quella sera, non poteva negarlo.
«Avrei voluto esserci. Quando i demoni si polverizzavano per causa tua, voglio dire.» ridacchiò, facendo dondolare le loro mani intrecciate, «Sarebbe stato un epilogo davvero epico a questa brutta faccenda.»
«Degno di Star Wars?»
«Meglio di Star Wars. Adesso tutti hanno una grande idea di te. Sei una Cacciatrice di una certà visibilità.»
Tutti ti guardano, avrebbe voluto aggiungere. Prima eravamo solo io e te, insieme. Nessuno si accorgeva di noi.
«A proposito, non dirai a Jace che sono svenuto, vero? Se lui dovesse chiedercelo, gli diremo...»
«La verità, - lo interruppe lei, salutando distrattamente una cacciatrice di passaggio, - gli diremo la verità. Luke mi ha raccontato tutto.»
Simon si finse sorpreso.
«E?»
«Raphael Santiago ha respinto il gruppo di Zajiar¹ che ti ha attaccato e ti ha affidato alle cure dei Licantropi. Poi ho compiuto il mio gesto eroico e blablabla.»
Si fermarono per un po', lasciando che la folla defluisse verso la festa della vittoria a cui avrebbero partecipato Shadowhunters e Nascosti.
«L'ultima volta che l'ho visto, il sangue del demone lo stava divorando da dentro.»
«Si è rialzato.»
«E mi ha salvato.»
«Non piangerai per la commozione ora, vero?»
Clary rise di gusto.
«No.»
«Dovresti ringraziarlo, secondo me.»
«Ci devo pensare.»
«Fantastico, pensaci durante i dieci metri che ci separano da lui.»
«Cosa?!»
«Ti aspetto in piazza!»
Clary sparì dietro un angolo, lasciandolo pieno di imbarazzo.
Raphael era lì, mano nella mano con una vampira sognante, senza degnarla dello sguardo che invece era puntato su di lui. Liquidò la ragazza con uno schiocco delle dita e rimasero soli.
Adesso Simon poteva vedere il viso del vampiro con chiarezza, per la prima volta dopo la fine della battaglia. Non c'erano ferite, a parte la classica cicatrice a forma di croce alla base della gola. I ricci neri gli accarezzavano le tempie, morbidi, e gli occhi d'antracite erano grandi.
Faccia d'angelo, faccia di Raphael.
Simon non riusciva a ricordarla, quella della notte nella radura, perché l'espressione furba e diffidente del vampiro gli impediva di concentrarsi e pensare che Raphael potesse averne una diversa.
«Ciao,» borbottò.
Raphael lo guardò con strafottenza. Possibile che fosse già tutto sepolto, per lui? Eppure aveva rischiato la vita per salvarlo.
«Come va?»
«Lo chiedi perché ti interessa o per educazione?»
Simon rimase in silenzio, ma con sorpresa, dentro di sé, urlò la risposta senza esitazione.
«Hai bisogno di qualcosa, Diurno? Se non hai niente da dirmi, puoi anche sparire.»
«Stai scherzando?»
Il Raphael che odiava era tornato come una brutta sorpresa e la memoria di Simon reagì di conseguenza: recuperò tutti i frammenti di immagini come da un deposito di spazzatura, fino a quando l'astio fu l'unico particolare in rilievo. Raphael era un bastardo e aveva cercato di ucciderlo. La sua vita era rovinata ed era tutta colpa sua. Non poteva dimenticarlo.
«Ti sbagli se pensi che ti sia riconoscente per avermi salvato.»
Non seppe perché lo disse: forse voleva soltanto imparare da Raphael ed essere bravo a fare del male almeno quanto lui.
Fu un istante, ma qualcosa nell'espressione accuratamente scelta da Raphael cedette, come un'impercettibile sbavatura sul disegno perfetto dei suoi lineamenti. Era come un'incrinatura sul vetro, si disse, una di quelle tanto piccole che quasi non ci se ne accorge, ma che rischiano di far andare tutto in frantumi.
Le labbra del vampiro si schiusero appena.
«Non farò lo stesso errore in seguito,» sussurrò.
Raphael girò i tacchi e si allontanò senza guardarsi più indietro, l'unico ragazzino a non gioire dei fuochi d'artificio, troppo intento a nascondersi di nuovo dietro la sua maschera. Perché era una maschera che portava, allora.
Possibile che Simon fosse così cieco da non riuscire a distinguervi niente, dietro? Se solo Raphael si fosse voltato...
«Ehi aspetta, Raphael!»
Guardami, maledizione.
Rimorso, non poté fare a meno di pensare, sempre l'ultimo arrivato, costantemente in ritardo, quando non resta che raccogliere i pezzi di ciò che si è rovinato.
«Raphael!»
Il vampiro scomparve nell'ombra da cui era sempre venuto e Simon, per la prima volta, si sentì completamente solo tra la gente.
Rimase immobile, un grazie sulle labbra, sforzandosi di immaginare come potesse essere il ragazzo dietro la maschera, quello che lo aveva salvato, non quello con il ghigno stampato e la mente calcolatrice.
Provò e provò, e mai la sua visibilità gli sembrò tanto limitata da non poter vedere oltre le apparenze.
Quando l'ultimo fuoco d'artificio si spense, Simon era giunto ad una conclusione: l'essenziale è invisibile agli occhi, perfino a quelli di un vampiro.




1. Zajiar: demoni inventati da me.

Note:
il risultato finale non mi convince molto, perché non so gestire questi due personaggi, nonostante li ami moltissimo. Li shippo? Sì, infatti ho scritto un'altra storia su di loro, chiamata Shime'on.
C'è un riferimento alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, e sta nei nomi che Simon pronuncia. Lui lo fa per amore, nella saga che mi ha ispirato lo si fa per odio. Simon non sa ancora del potere del Marchio di Caino, perché lo scopre in COFA. L'ultima frase cita "Il Piccolo Principe".
Ringrazio Viola per il betaggio, Ania per i suoi puntuali e preziosi commenti e le 32 persone che mi hanno inserito tra gli autori preferiti, siete tanto carine. Sono ben accetti pareri!
Che altro? Niente. Vi mando un bacio.

 

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Capitolo 5
*** Multiplicity ***


lolli
Multiplicity
- Conosci te stesso. -
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Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, d'immaginazione?
Ogni vita è un'enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente mescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
Italo Calvino, "Lezioni Americane -  Molteplicità"


Si sposarono in un giorno qualunque di un mese qualunque, scegliendo la data con spensierata casualità. Li aveva fatti sorridere sapere quanto le persone ritenessero importante sposarsi di Mercoledì, perché era un giorno fortunato, e farlo di Dicembre, perché era un buon mese. 
Però, quando fece il suo ingresso nella cattedrale di Westminster, dove erano convolati a nozze re e regine e dove l'Enclave aveva ritenuto giusto che si sposasse colei che aveva salvato il loro mondo, Theresa Gray realizzò che non era tutto così semplice come chiudere gli occhi e puntare il dito sul calendario. 
Rimase immobile per dei secondi interminabili, facendo scorrere lo sguardo sugli invitati e sulla moltitudine di facce diverse che la studiavano, sorridendo; volti commossi e orgogliosi, volti stizziti, volti ovunque. Non poté fare a meno di pensare che le sarebbe bastato stringere il fazzoletto di una donna sconosciuta tra le dita per mutare aspetto, rubarle l'identità e fuggire via per la paura di non essere pronta a mettere su famiglia. Avrebbe potuto essere tutti e nessuno in quel momento, eppure era ancora lì, in piedi con un velo d'oro a nasconderle il viso e Henry sulla sedia a rotelle che le teneva la mano.
Schiuse le labbra per respirare profondamente, poi cominciò a camminare. Dopo il primo passo la cattedrale si riempì dell'eco leggera dei violini. 
Infondo alla navata c'erano loro.

Quando le alzarono il velo sul viso, reclinandolo dietro la testa, finalmente lo vide distintamente. Fu come vederlo per la prima volta e innamorarsi di nuovo e all'infinito.
Will.
Will, con lo stesso sorriso che un tempo era così raro da doverne godere fugacemente e che adesso riempiva le giornate di chi lo riceveva. Era il sorriso più luminoso che gli avesse mai attraversato il volto. Will, con i capelli così ordinati che Tessa dovette trattenere una risata di gioia. Chissà se avevano dovuto legarlo, per pettinarlo con tanta cura. 
Will, con gli occhi di un blu a cui nessuno avrebbe mai reso giustizia a parole e in cui Tessa era solita perdersi, delle volte. In quel momento, sull'altare, con la mano di lui che si tendeva a toccare la sua, Tessa puntò lo sguardo nel suo e invece di perdersi ritrovò se stessa. 
Fu il giorno più chiaro della sua vita, in effetti.
Mentre i Fratelli Silenti recitavano il rituale della loro unione, con i cappucci abbassati sul volto e le rune rosse che decoravano i loro mantelli, Tessa sfogliò tutte le pagine della sua vita. Rievocò la molteplicità delle proprie esperienze e dei propri dubbi, le combinazioni del destino che l'avevano portata fino a quel giorno, con Will al suo fianco. Rievocò qual era stato il suo timore più grande, fino a quando non aveva detto di sì a Will:  vivere per sempre senza un'identità precisa, come una muta-forma capace di sfiorare infiniti aspetti e personalità, rischiando di perdere la propria; soffocare nella solitudine e nell'incertezza di non sapere chi era davvero.
I Silenti la distolsero dai suoi pensieri.
- Vuoi tu, Theresa Gray, accogliere William Owen Herondale come tuo legittimo sposo, in nome dell'Angelo Raziel, creatura di Dio, promettendo di essergli fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella luce e nella tenebra, e di amarlo e di onorarlo tutti i giorni della tua vita? 
- Oh, beh, - sospirò Will.
- Ci penserei, se fossi in te. Il nostro matrimonio durerà molto.
Nella navata centrale, una folla di Cacciatori non trattenne le risa. I fratelli Silenti non sembrarono cogliere nient'altro che l'imbarazzo della scena, incitandola a rispondere. Nella voce di Tessa si percepì una nota di divertimento.
- Sì, lo voglio. Per tutto il tempo. Sempre. 


Fu Jem a disegnare la runa dell'amore sul polso di Will, dove l'avrebbe sempre vista, perché lei non poteva imprimere quel marchio sulla sua carne, ma fu come se fossero state le sue dita a stringere lo stilo e a tracciare le linee ricurve del simbolo. Mentre il disegno dorato cominciava a prendere forma, Tessa si chiese se non fosse crudele, far compiere quel gesto proprio a Jem, che avrebbe voluto trovarsi a posto del suo parabatai e che non avrebbe mai potuto.
Jem era solito dirle che i sogni potevano realizzarsi se si credeva fermamente che fosse possibile. Il suo sogno si realizzò, ma a viverlo fu qualcun altro; eppure, nel momento esatto in cui lei e Will diventarono ufficialmente marito e moglie, le labbra di Jem si tesero verso l'alto, increspandogli le cicatrici sulle guance. Will pianse come un bambino.
Fu come nei libri che leggeva da piccola, con i petali d'arancio che venivano lanciati sulle loro teste e i chicchi di riso e la gente che gridava "viva gli sposi", rischiando di svegliare i poeti assopiti che riposavano a Westminster Abbey. C'era qualcosa, però, che lei non aveva mai immaginato prima: le scintille che scoppiettavano sulle dita di Magnus Bane, il modello di "macchina fotografica" perfezionato da Henry, e le battute di Will sulle anatre che avrebbero servito arrosto al banchetto del matrimonio. Fu una tale molteplicità di immagini, quella, che Tessa non sapeva come inserirle tutte nel libro della propria vita. 
E poi c'era quell'uomo.
Quasi non l'aveva notato, in principio, nascosto nell'ombra, ma poi le sue espressioni di disappunto cominciarono a stimolare la sua attenzione, fino a quando sulla soglia della cattedrale, prima che varcasse l'uscita, qualcuno pestò lo strascico del suo vestito. Tessa si voltò a guardarlo, interdetta ma troppo felice per curarsene. La sorpresa nel vedere che era proprio Lui fu difficile da mascherare. L'uomo si degnò di alzare il piede solo quando i loro occhi si incontrarono.
Per un momento il vociare degli invitati si fece soffuso, e la ragazza non sentì che la sua voce.
- Vi faccio i miei auguri, Signora Carstairs. Oh, vi chiedo scusa, Herondale. La molteplicità del vostro amore mi confonde.
Sorrise sotto i baffi striati di grigio.
- Confonde tutti noi, in effetti.
Tessa, la bocca cucita da migliaia di aghi di ghiaccio, esitò a lungo prima di parlare.
- Grazie per la vostra benedizione, Signore - mormorò, il tono di voce congelato. Chi poteva essere tanto sfrontato da voler incrinare quel giorno di gioia meritata, agognata come mai nient'altro aveva desiderato in vita sua? 
- Benedizione? Null'affatto. Sono venuto solo per vedere che cosa avevo combinato. Dopotutto questo matrimonio è anche merito mio. 
Una patina tremula increspò il volto dell'uomo come fosse stato di vapore, facendolo vibrare. Tessa trattenne il fiato. Un fantasma. Avrebbe dovuto pensarci, dopotutto: ogni cosa in quella figura appariva innaturale. Il colorito pallido, il modo in cui la sua voce risuonava isolata rispetto a quella degli altri, la traccia assente della sua scarpa sullo strascico del vestito, gli invitati che scorrevano al loro fianco come se Tessa e il suo interlocutore fossero invisibili. Perfino Will continuò a camminare senza di lei, sebbene i suoi movimenti fossero incredibilmente lenti.
- Non può essere. 
- Ho detto la stessa cosa il giorno in cui mi sono risvegliato, ma a quanto pare può essere.
- Voi siete...
- Charles Dickens, sì. Lo scrittore. Sono sepolto qui, e ho pensato che bastasse a rappresentare un invito al vostro matrimonio.
Tessa trovò sostegno sullo schienale di una panca, deglutendo. Si sentì avvampare per l'emozione, timida tutto d'un tratto.
- Il mio scrittore preferito è un fantasma. Ed è al mio matrimonio. - 
Represse l'impulso di lanciarsi verso di lui e stringergli la mano, cosciente che avrebbe sfiorato nient'altro che fumo. Come aveva potuto dimenticarselo? Dickens riposava da qualche anno proprio nella cattedrale, insieme agli intellettuali più famosi d'Inghilterra!
Si sentiva stupida ad ammettere che il corsetto era diventato troppo stretto per reggere i suoi respiri affannosi.
- E' un onore, Sir, voi siete...
- Il miglior scrittore inglese del secolo, a parere vostro, sì. Ma da qui fino a comportarvi come avete fatto, il passo è arduo.
Le sembrò di aver ricevuto uno schiaffo in pieno volto. Le orecchie ovattate per azione sovrannaturale del fantasma non aiutavano nell'impresa, ma Tessa non riusciva a credere che l'uomo avesse detto una cosa del genere.
- Scusate? 
- Mh. Sapete che parlo di "Racconto di due città". E' il vostro libro preferito. 
- Io non credo di capire.
Dickens aveva l'aria leggermente scocciata.
- Non ho abbastanza tempo per guidarvi verso la comprensione, quindi cercherò di essere conciso. Sono Io che non ho capito Voi. Siete un mistero, per me, così lassù hanno deciso di soddisfare uno dei miei capricci; a patto che mi dia una mossa, naturalmente.
Tessa serrò la bocca: se l'avesse tenuta spalancata un secondo di più, se la sarebbe slogata.
- Ascoltatemi bene e rispondete brevemente, - disse il fantasma, scandendo ogni parola, - che cosa vi ha insegnato il mio libro?
Di tutta quella situazione, una domanda del genere era decisamente l'aspetto meno insolito, rifletté, cercando di schiarirsi le idee. Doveva essere il pensiero fisso degli artisti, quello di riuscire a trasmettere un messaggio al maggior numero di persone possibili.
- Che si possono amare due persone con la stessa intensità, - annuì con sicurezza.
La sicurezza sfumò non appena Dickens si mise una mano sulla fronte, roteando gli occhi. 
- No. No. No. NO NO NO. Sbagliato. Ero sicuro che aveste interpretato erroneamente la mia opera somma. 
Come se fosse stata spinta, Tessa fece un passo all'indietro, puntando le scarpe perlate per non cadere.
- Il vero significato del mio racconto era l'opposto. La molteplicità del sistema, sfocia nella brutalità. Chiaro, essenziale, semplice, maledettamente lampante, signora Carstairs. Herondale, quello che è! Cara, vi è parso per caso un romanzo d'amore? Non lo era. Era un romanzo sulla gente, sugli squilibri tra proletariato e aristocrazia, sul terrore che la molteplicità di condizioni può causare. Ci pensi. Ad alcune persone il destino non riserva nulla. Ad altre riserva tutto. Le sembra equo? Non lo è. Ecco perché viviamo in un mondo così disordinato. E lei che cosa ha assimilato dalla lettura di "Racconto di due città"? Che può essere la Lucie della situazione, che può tenere il piede in due scarpe. 
Dickens sospirò alla vista dei suoi pugni stretti. Non riusciva a credere che stesse accadendo, che dovesse provare un dolore tanto forte in quello che avrebbe dovuto essere il giorno più bello della sua vita. Non riusciva ad accettare che una delle persone che aveva sempre stimato di più la stesse attaccando in quel modo.
-  Lucie ha scelto di amare una persona sola, alla fine. Non vi siete mai chiesta perché lo avesse fatto?
Ricacciò indietro le lacrime con tutta la determinazione di cui era capace.
- Io ho scelto Will. Sono qui perché ho scelto lui. Mi sono sposata perché ho scelto di stare con lui. 
La sagoma dello scrittore si incupì fino a colorarsi di fumo nero, mentre il gelo calava tutto intorno.
- Fossi in te, ragazzina, non mi permetterei di mentire in Chiesa. Ne hai scelto uno solo perché l'altro è stato costretto alla Città di Ossa e alla solitudine e all'ombra. E tu, per contro, gli fai fare il testimone di nozze. Gran bella faccia tosta.
- Smettetela!
Si accorse che la sua voce suonava sottile e acuta come una nota stonata, come il tasto di un pianoforte premuto per errore.
- Smettetela, adesso. Non sapete nulla di me!
- Mi chiedo se ne sappiate qualcosa voi stessa.
Non devo piangere, non devo macchiare il vestito. Improvvisamente la vista di quell'uomo divenne insopportabile, e Tessa dovette spostare lo sguardo altrove. Chaucer, Jane Austen, avrebbe voluto parlare con qualunque altro poeta sepolto della cattedrale, purché Dickens sparisse.
- Il mondo è vario, Sir, come le sue storie, e i lettori delle stesse. Ognuno interpreta il messaggio di un libro come questo gli arriva al cuore.
L'anello che Will le aveva infilato al dito non le era parso tanto pesante, sull'altare, ma in quel momento gravava sulle sue ossa come piombo.
Dickens annuì, ma c'era una fierezza intellettuale in lui che lo faceva sembrare una statua imponente.
- Non ne dubito, ma questo non rende l'interpretazione meno sbagliata. Io so che cosa volevo dire, io so che il messaggio corretto era uno solo, il mio. Il resto è polvere mascherata d'argento da un relativismo universale che usate solo quando v'è comodo.
- Siete pieno di certezze, Sir, - mormorò a denti stretti.
La sposa si asciugò gli occhi e tornò a confrontarsi con lo scrittore.
- Grazie a Dio è così. Se non mi credete potete frugare nella mia tomba, chiudere le dita attorno al mio cadavere e vestire i miei panni per un po'. Forse essere Charles Dickens vi aprirebbe la mente molto più che leggere Charles Dickens.
Ingoiò il desiderio di invocare il Santo Padre affinché lo rispedisse da dove era venuto, e rifletté su quell'insolita proposta. Se farsi aprire la mente voleva dire voltare le spalle a Will o a Jem, l'avrebbe tenuta sigillata per l'eternità.
Tessa girò i tacchi e se ne andò, arrestandosi solo sulla controfacciata dell'ingresso. Tornò a guardare Charles con le labbra curvate verso l'alto in una smorfia deliziata, come se all'improvviso quella situazione fosse diventata infinitamente divertente. Non era il tipo di sorriso che era bene rivolgere in Chiesa.
- Sapete, Sir Dickens, ho capito, finalmente. Avete ragione su tutto. Sono innamorata di due persone, il mio volto può assumere infiniti aspetti, la mia stessa vita non è stata che un susseguirsi di avventure tra le più disparate. La mia esistenza è descritta dalla molteplicità e dal disordine.
Charles inarcò un sopracciglio, sinceramente colpito. 
- Fatemi indovinare, c'è un ma. - azzardò una risata.
- Ma ho sbagliato su un punto e "A Tale of Two Cities" non è il vostro libro preferito.
- Oh, lo è, eccome se lo è. Il mio libro preferito in assoluto.
- Suvvia, che cosa ho malamente inteso, dunque?
Nel cortile di Westminster la folla esplose in una risata contagiosa. Il tempo aveva ripreso a scorrere normalmente, e come per incanto tutti si erano accorti dell'assenza di Tessa. Lo sposo si è perso sua moglie, gridavano gli invitati, di già! La ragazza riusciva a sentire la voce squillante di Will che giustificava il suo ritardo con una delle sue orribili battute. 
Tessa decise di averne avuto abbastanza. Lanciò il bouquet il più lontano possibile, verso lo scrittore, come da tradizione. I fiori di pesco attraversarono lo spirito aereo di Charles, fendendo l'aria, e rovinarono a terra senza che nessuno li prendesse; Tessa non aspettò di vedere la reazione dell'uomo e prese a camminare verso l'esterno.
- Non avete sbagliato nulla, ma non sono la Signora Herondale, né la signora Carstairs, né entrambe. E non sarò mai Charles Dickens, per fortuna. Sono Tessa, solo Tessa. E se fossi un libro, voi ne avreste interpretato male il messaggio. Non è quello che avete detto voi? Solo chi scrive un libro ne conosce i segreti.
Accarezzò l'angelo che portava al collo, scendendo a sfiorare il pendente di giada.
- Non permetterò mai a nessuno di definirmi, Sir. La molteplicità di giudizi come il vostro è polvere mascherata d'argento.

Uscì dalla cattedrale senza guardarsi indietro, e a Westminster risuonarono le campane. 
Dickens si sistemò il panciotto quasi fosse di vera stoffa, poi si arricciò i baffi con fare altezzoso.
- Tornate quando la vostra vita sarà un classico della letteratura inglese, Signora Carstairs. Herondale. Tessa, quello che è.



Angolo autrice: prima di mandarmi a quel paese perché Dickens non era così bastardo, tranquillizzatevi. Considerate il capitolo un "what if?" e Dickens un OOC. Premetto che secondo me l'interpretazione di Tessa di "Un Racconto di Due Città" è davvero sbagliata. Se avete letto il libro sapete che non è un romanzo d'amore ma un romanzo storico dalla potenza comunicativa straordinaria. Quello che volevo trasmettere con questo capitolo, però, è che anche se  Tessa delle volte ci ha fatto arrabbiare, la sua caratterizzazione non è semplice. Tessa è preda della molteplicità di esperienze. Potendo essere chiunque, rischia di perdere se stessa, e invece Cassie l'accompagna fino al raggiungimento di un'identità. Secondo me è qualcosa che va oltre la consapevolezza di amare due persone, perché prima di amare gli altri devi amare te stessa e capire chi sei. Spero di essere stata esaustiva. Per quanto riguarda l'ambientazione, Tessa e Will si sposano davvero a Westiminster se ben ricordo, e Dickens è davvero sepolto lì.
Il fantasma immaginatelo come uno spirito inconsistente, ma capace di muovere oggetti e fare altri scherzetti: insomma, uno spettro comune.
Ringrazio chi segue questa raccolta. Fatemi sapere cosa ne pensate, non rimanete silenziosi! E' una spinta per andare avanti :)
Saluti! <3


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