Six memos for the next generation di Nimue_ (/viewuser.php?uid=107423)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lightness ***
Capitolo 2: *** Quickness ***
Capitolo 3: *** Exactitude ***
Capitolo 4: *** Visibility ***
Capitolo 5: *** Multiplicity ***
Capitolo 1 *** Lightness ***
leggerezza
Note: questa
per me è
un'epopea, perché ha richiesto una lunga ricerca. Ho notato
che nel fandom ci sono
quasi tutte Malec
e
così ho deciso di provare qualcosa di nuovo. In questa
raccolta
si susseguiranno storie di diversi personaggi, ispirate a sei
virtù che lo scrittore italiano Italo Calvino
avrebbe voluto spiegare ad un gruppo di studenti americani prima di
morire. La mia idea è semplice: Emma Carstairs,
protagonista di quella che sarà la terza saga scritta dalla
Clare e parabatai di Julian Blackthorn (se non la conoscete trovate
tutte le informazioni che vi servono qui),
chiede a Jace, il suo idolo, di aiutarla a diventare una persona
migliore e lui le racconta sei storie che nascondono messaggi
morali. Il prologo si ambienta cinque anni dopo la fine di TMI, come
spiegato da Cassie. Le virtù citate da Calvino sono: leggerezza, rapidità,
esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza.
Per adesso posso dire solo che la prima riguarda Isabelle e Max, mentre
la seconda parlerà di Alec
e Magnus. Spero, in un modo o
nell'altro, di riuscire a portare avanti questa raccolta, e di aver
creato qualcosa di diverso, che possa allietarvi. Buona lettura!
Six Memos for the Next
Generation
SEI
PROPOSTE PER LA PROSSIMA GENERAZIONE
-
Dimmi
che è uno scherzo. È uno scherzo, vero? -
Julian Blackthorn, la faccia sporca di colore, la guardò per
la
prima volta in vita sua come se non riuscisse a capirla.
Posò il
pennello con cautela, il viso dai lineamenti dolci che si dipingeva
d'incredulità.
- Emma Carstairs che cerca di imparare qualcosa che non sia staccare
arti nel modo più doloroso possibile? L'incontro con il tuo
mito, "Jace Hotroppicognomi",
deve averti fuso il cervello. -
La giovane cacciatrice, appollaiata sul davanzale della finestra
dell'Istituto che
dava sulla spiaggia, estrasse dal fodero una spada leggera
dall'impugnatura
decorata con foglie, prezioso cimelio di famiglia, e con un unico,
agile movimento lo lanciò verso di lui. Cortana, questo era
il nome della lama,
sfiorò il suo parabatai e si conficcò
nel muro.
Julian trattenne il fiato.
- Stavo solo scherzando. -
- Smettila di palesare che detesti Jace Lightwood. Al contrario di
quanto tu possa immaginare, poterci parlare privatamente è
stato
illuminante. -
Emma rivolse lo sguardo al mare, pensierosa come il suo migliore amico
non
l'aveva mai vista. Julian sapeva che Emma aveva un debole per quel
Jace, considerato il miglior cacciatore esistente; non era geloso,
davvero, era solo che si aspettava di vederla più euforica
dopo l'incontro
tanto agognato.
- Come mai quella faccia, allora? Qualcosa non va, Emma? -
Il rumore delle onde in lontananza accompagnò le sue parole
quasi suonasse la colonna sonora di una confessione dolorosa.
- Mi ha detto che non sono una buona cacciatrice. -
Julian sobbalzò, urtando la tela di un quadro quasi
finito, e il suo pennello rotolò dal portacolori fin sul
pavimento, lasciando tracce d'azzurro cielo che, realizzò
più tardi, non sarebbero andate via molto facilmente.
- Mi prendi in giro. Sei la seconda cacciatrice più abile al
mondo dopo di lui, non può averlo fatto sul serio. -
- Beh, l'ha detto per davvero. Credevo che mi avrebbe chiesto di
dimostrargli
cosa sapevo fare con la spada e invece mi ha chiesto di parlare. Jace
Lightwood. Parlare.
-
Jules si sedette con le gambe strette al petto, cercando di eliminare
la tensione che
gli irrigidiva i muscoli, senza
riuscire a capire
cosa fosse successo tra quei due
-
E? -
- E abbiamo parlato. E poi lui ha detto che non ho le
qualità di
una vera Nephilim, il che secondo lui è strano, visti i
modelli a cui avrei potuto ispirarmi. Ha detto che ho le giuste doti
tecniche ma che mi mancano le... Come le ha chiamate?
Virtù.
-
- E io che lo credevo simpatico. - sdrammatizzò. Emma si
mise una mano tra i
capelli, scuotendo la testa.
- Ha ragione, Julian. Se lo avessi sentito parlare di tutti gli atti di
eroismo che ha visto, di tutte le lezioni di vita che ha imparato,
paragoneresti la mia esperienza al niente. Combatto con la forza e
nient'altro, mi vanto di saper uccidere un demone e mi rendo conto che
lo faccio per il puro gusto di sentirmi invincibile, perché
in
realtà non so fare altro che possa definirsi buono. I miei
genitori sono morti prima di potermi educare come si deve e ora sono
una formidabile
cacciatrice, Jules, ma sono anche una brava e valida persona? -
Julian sentì il cuore battere più forte, guidato
dallo stesso ritmo di quello
di Emma, e la runa dei parabatai iniziò a bruciare.
- Lo sei. -
Per me lo sarai sempre,
Emma Carstairs.
- Te l'avevo detto che avresti dovuto lasciarlo perdere. È
un montato. -
- Jace ha ragione! - Emma non si rese conto di aver alzato la voce fino
a
quando non vide Julian guardarla con sconcerto, il volto reso cupo da
un'ombra di malinconia.
- Ha ragione. Ha ragione quando dice che posso essere una persona
migliore, che mi servono solo degli esempi da seguire. -
- Che scemenza. Ti ha detto dove trovarli? Ti ha dato una mappa del
tesoro? -
La risposta tagliente che si era aspettato di ricevere da Emma non
arrivò e lei lo guardò con uno sguardo nuovo,
serio,
privo dell'orgoglio che la contraddistingueva.
- Mi ha chiesto a quali ideali mi ispirassi nella vita e io non ho
saputo rispondere, così mi ha dato i suoi: sei punti da
ricordare, delle virtù che ha imparato scavando nel suo
passato
e che lo accompagneranno per sempre nel futuro. -
- Ti ha fatto una lezione morale? -
- Ne ha fatta una oggi.
- sottolineò lei, - Ha
promesso che mi racconterà altre storie da cui poter
imparare
qualcosa, ma per il resto dovrò documentarmi da sola. -
- Dimmi che è uno scherzo, è uno scherzo, vero? -
ripeté Julian.
- La vuoi sentire una storia, Jules? -
- Sei proposte per la
prossima generazione, quel Lightwood dovrebbe scriverci un
libro. -
- La vuoi sentire o no? -
- Scommetto che farebbe un sacco di soldi mettendo la sua foto in
copertina. Detto tra noi, secondo me è un finto biondo. -
- Jules! - esclamò.
Il ragazzo sbuffò, fingendosi scocciato. Si prese qualche
secondo per
studiare i capelli d'oro di Emma, gli occhi privi della loro consueta
fierezza
che puntavano su di lui in cerca di un appiglio, come se riuscissero
a vedere il ritratto della speranza sul suo viso.
Dentro poteva leggerci che Emma, che non aveva nessun altro al mondo,
desiderava solo confidarsi con l'unica persona di cui si fidava.
- Di che parla la prima storia? - chiese infine, ridisegnandosi un
sorriso sul volto esclusivamente per lei.
- Di leggerezza.
-
- Nel senso che Jace ti ha chiesto di dimagrire? -
- Oh, finiscila e ascolta! Il racconto comincia con un nome: Isabelle Sophia Ligthwood.
-
Lightness
Mai prendere le
cose con leggerezza.
La
gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre
quella che molti credono essere la vitalità dei tempi,
rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al
regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite.
Italo Calvino - "Lezioni
Americane: Leggerezza."
Frivola,
così l'avevano definita i suoi genitori. Isabelle ricordava
il
modo in cui suo padre l'aveva guardata quella volta, i lineamenti
irrigiditi dalla delusione e dalla paura, mentre la voce di Maryse si
alzava a dismisura. Ricordava come era stato rischiare di morire
per un eccesso di strafottenza, dopo che aveva giurato a Jace
di poter uccidere un demone superiore da sola, nonostante quella fosse
solo la prima, vera missione che le veniva affidata.
Non
sei me, Isabelle,
aveva risposto lui, un ghigno poco convinto stampato sul volto. Pensaci
bene.
E lei non lo aveva fatto. Aveva sentito solo il sangue che bolliva
nelle vene, l'euforia dell'uccisione, l'adrenalina, e non aveva
voluto ragionarci sopra. Se lo avesse fatto, nella sua testa si
sarebbe fatta spazio l'idea della sconfitta, tanto inaccettabile quanto
spaventosa, e se
c'era una cosa che a Isabelle faceva paura era avere paura.
Sei
un'irresponsabile,
Isabelle.
Sua madre lo aveva urlato a quello che era il suo capezzale,
dopo che solo l'intervento dei suoi fratelli era riuscita a salvarla da
morte certa.
Non
fai che prendere
tutto con leggerezza, Isabelle.
Era
così strano, si disse, - le braccia
insanguinate che
si facevano sempre più pesanti - come la memoria di quelle
ferite
fosse sbiadita con il tempo e come invece fosse rimasta quella delle
parole di
sua madre o di Alec che non
spendeva nemmeno una parola in sua difesa quando tutti l'accusavano di
superficialità. Aveva sempre pensato che la leggerezza fosse
una
virtù, che fosse tutta una questione di salti, di atterraggi
sulle
punte senza far rumore, di volteggi compiuti come una piuma nell'aria,
aggraziata come un granello di polvere o un fiocco di neve.
-
Voi non sapete niente di me. - aveva singhiozzato, il cuore pesante
come un macigno, - Voi non mi capite. -
-
Sei tu a non capire, Isabelle. -
In quel
momento, con la testa insanguinata di Max
appoggiata sulle gambe, Isabelle si rese conto di aver cominciato a
capire. Lo
comprese lacrima dopo lacrima, quando ormai sembravano passate ore dal
momento in cui era rinvenuta e aveva ritrovato suo fratello steso nel
disordine di una casa semidistrutta, gli occhi, di quel blu che aveva
sempre
invidiato, leggermente aperti come in cerca della luce.
-
E' colpa mia, Max, solo colpa mia. -
Si
chiese se i suoi rantoli fossero sensati o solo fatti uscire dalle
sue labbra pallide dal terrore e dell'agonia. Si
chiese se quello non fosse che un incubo in cui un pazzo aveva tagliato
la gola a
un bambino mentre lei non era lì per proteggerlo. Irresponsabile.
Posso lasciarti qui da solo, vero cacciatore? Sono al piano di sopra,
se dovessi avere bisogno di me. Avrebbe
dovuto
pensarci due volte prima di filarsene in camera per lisciarsi i capelli
mentre fuori stava per scoppiare una guerra, senza tener conto che Max
odiava la violenza, il buio e la solitudine. Invece aveva preso
tutto con troppa, fatale leggerezza.
Era
quello il significato delle parole di sua madre, allora: non
pensare mai alle conseguenze delle proprie azioni, agire secondo
l'istinto, indifferenti al male che si causa alle persone a cui si
vuole bene.
-
Andrà tutto bene, Max. Stanno arrivando per salvarti, mi
hai sentito? E io sono qui. -
Adesso.
Le
dita sottili di Max cercarono le sue e la sensazione di tenerle
strette in mano le ricordò la fragilità dei gambi
di
rose, fiori che adorava mettersi tra i capelli per farsi guardare. Frivola.
Dov'ero mentre quell'assassino ti faceva del male, fratello mio?
- Ucciderò
Sebastian, te lo giuro. -
Quando
suo fratello chiamò sua madre, in un ultimo, flebile
singhiozzo, Isabelle pagò la pena della sua leggerezza: fu
un
attimo, il tempo di lasciare che qualunque speranza venisse soffocata
dalla consapevolezza che la morte poteva potarsi via per perfino un
bambino di nove anni, poi la cacciatrice sentì il suo cuore
sgretolarsi sotto il peso dell'orrore e dei sensi di colpa, come
se il centro di gravità si fosse spostato su di esso,
riversandole addosso lo strazio del mondo.
-
Resta con me, Max, ti prego. -
Max
espirò un'ultima volta tra le sue braccia.
Silenzio.
Li
ritrovarono in quel modo, ancora stesi sul pavimento, lo sguardo
vitreo di Isabelle che guardava il nulla come in cerca dell'ultimo
soffio vitale di Max.
Cominciarono
urla che non aveva mai sentito prima.
Qualcuno
gridò contro di lei.
-
Perché non lo hai difeso?! -
Per
leggerezza.
Troppa leggerezza, la stessa con cui lo spirito di Max si era sollevato
per sempre sopra gli affanni della realtà.
Alla
fine, mentre il corpo di suo fratello le veniva strappato dal
petto, Isabelle capì la mostruosità del rischio,
dell'amore che provava per l'arte del combattere: nella
vita, pensò,
tutto
quello che si sceglie e si apprezza con troppa leggerezza non tarda a
rivelare il proprio peso insostenibile.
Note 2, la vendetta: il
titolo della raccolta riprende quello di Calvino, il cui ciclo di
conferenze avrebbe dovuto chiamarsi "Six memos for the next
millennium". Io ho scelto "generation"
perché in linea temporale Emma fa parte della nuova
generazione
di Shadowhunters. Chiarisco qualche punto:
- Cartona è
la spada della famiglia Carstairs, chi ha letto Clockwork Princess sa di cosa parlo.
- Non sappiamo molto di Emma e Julian, i futuri protagonisti
di
The Dark Artifices, ambientata a Los Angeles, solo che il loro amore
sarà proibito
perché i parabatai non possono sposarsi o stare insieme in quel modo. Quindi
sì, a Emma in realtà piace Julian e viceversa.
Inoltre,
come ho spiegato nella storia, Cassie ha affermato che Jace
è
l'idolo di Emma. Chi ha letto CP2 sa da chi discende la ragazza, ma io
non posso dirvi niente per non fare spoiler.
Si ringraziano tantissimo Yume, Liz e Ro per il
supporto pro lettura di CP2, ma anche perché il sito che vi
ho
linkato sopra è il loro. Vi consiglio di passarci, ci
trovate
tante news, informazioni e iniziative adorabili. Grazie inoltre alla
cara Khyhan
per il betaggio e ad Ania per i complimenti sulla Jill.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Quickness ***
quickness
Quickness
Mai avere fretta.
"C’è
sempre una battaglia
contro il tempo, contro gli ostacoli che impediscono o ritardano il
compimento di un desiderio."
Italo
Calvino, "Lezioni
Americane: Rapidità."
Se
c'era qualcosa che poteva salvarlo dalla sofferenza, pensò
Magnus, facendo levitare quanti più vestiti e cosmetici in
valigia, era il tempo.
Il primo amore che perderai sarà il più doloroso, aveva
confidato una volta ad una ragazza che, immortale, condivideva la sua
stessa condanna. Con
gli anni però andrà meglio.
Aveva
scoperto che le bugie funzionavano quanto il passare delle ore,
come l'oblio della dimenticanza, ma in quel momento non c'era nessuno a
confortarlo con false promesse e lui non riusciva a mentire a se
stesso. Il tempo, sì, quello avrebbe potuto ricucire i
graffi che gli aprivano il cuore,
ma il tempo era tutto ciò che a loro era sempre mancato.
Lo
stregone soffiò al Presidente Miao appollaiato sulla sua
scrivania e lo scacciò con un gesto nervoso della mano,
deciso a
sgomberare il suo studio il prima possibile, nonostante fosse troppo
distratto per concludere i preparativi sbrigativamente. Tutta quella
foga non faceva che rievocare l'immagine
delle labbra frettolose di Alec sulla
sua pelle, i suoi baci rapidi e instancabili che fino a qualche giorno
prima avevano scandito la sua esistenza come il ticchettio di un
orologio. Ricordava il modo in cui si cercavano sempre, affamati e
instancabili, come se non ne avessero mai abbastanza l'uno dell'altro,
costantemente spaventati dall'idea di separarsi.
Per
Alec, prima che si dicessero addio, ogni istante lontano da lui era
stato un
istante sprecato, tanto che Magnus era arrivato a preoccuparsi che
fosse diventata un'ossessione quanto quella che gli impediva di
lasciarselo alle spalle.
-
Vacci piano, non scappo mica. - aveva sussurrato una volta durante
la loro lunga vacanza insieme, mentre il London Eye girava e il
cacciatore cercava di attirarlo a se, le guance arrossate
dall'imbarazzo che ancora lo contraddistingueva.
-
Io sì. Non sono immortale, Magnus. -
-
Parli come se dovessi morire domani, Alexander. -
Il
warlock era rabbrividito, puntando lo sguardo
lontano dal volto del ragazzo per poi spostarlo sulla Londra notturna e
accesa
di vita dove era tornato dopo troppi anni. Lo distolse immediatamente.
-
La ruota panoramica gira troppo rapidamente, mi stanno venendo le
vertigini. - borbottò.
-
Non cambiare discorso. -
-
Parliamo solo di questo ormai e sai che odio discuterne! -
Quella
sera tra di loro non c'erano state più parole.
Nessuno
prima d'allora gli aveva fatto pesare in quel modo la
possibilità di vivere per sempre, ma Alec ci era riuscito.
Verrà
il giorno in cui
incontrerai una persona che ti farà rimpiangere di non dover
guardare un orologio, Magnus. Temerai la rapidità
del suo
tempo che scorre e piangerai per la lentezza del tuo, fino a quando
desidererai una vita mortale invece di tutte le ere di questo mondo
vissute senza di lei. La voce di
Tessa Gray, amica di vecchia data, risuonò nella sua testa
come l'eco della sua coscienza invecchiata.
Magnus
sì guardò intorno e una leggera malinconia
lo invase all'idea che presto avrebbe cambiato casa, paese, vita.
Ancora, come
tutte le altre volte che si era costretto a fuggire
lontano dalla disperazione.
Chiuse
gli occhi e
per l'ultima volta cercò di ricordare ogni carezza, ogni
sorriso, ogni
sospiro e ogni notte passata troppo velocemente fino a quando, con un
gemito di dolore, si rese conto di non aver memorizzato l'esatto colore
degli occhi di Alec.
-
Ci ha divisi la fretta. -
concluse infine e ad alta voce, lasciandosi scivolare per terra accanto
al Presidente Miao.
-
Abbiamo cercato di vivere al massimo, come se lui fosse dovuto
scomparire da un momento all'altro e la rapidità con cui
l'ho
amato ci ha fatti separare prima del tempo. L'ho baciato mille volte e
ho
dimenticato il suo sapore. L'ho tenuto stretto tutte le notti, ma non
ricordo l'esatta sensazione di sfiorare la sua pelle con le dita.
Rammento ciò che è stato ma non come
è stato. Avevamo anni e abbiamo consumato i giorni con
estrema
velocità. E questo che succede quando si ama troppo, non
è vero? -
Il
gatto miagolò d'assenso e Magnus giurò di poter
tradurre le sue fusa in borbottii: peccato,
Alec mi piaceva.
-
Anche a me, Presidente. -
Per
la prima volta da quando si erano detti addio, Magnus
guardò il suo orologio da taschino. Gli
sembrò che i secondi non fossero
mai passati più lentamente di quella notte, ma quando infine
si
rese conto di star singhiozzando, il gatto che cercava di consolarlo
strusciandoglisi contro, dovevano essere trascorse delle ore.
Magnus
tirò un calcio alla valigia e la allontanò da se,
gridando di frustrazione,
perché alla fine comprese che né la distanza
né il tempo sarebbero bastati
per fargli dimenticare che aveva perso Alec e che aveva ancora
un'eternità da sopportare senza di lui.
Note: ecco il
secondo capitolo, la cui lezione si basa sulla rapidità. E'
curioso sottolineare come le qualità indicate fino ad ora
siano quelle da evitare, non da seguire. Personalmente non gradisco che
il fandom sia pieno solo di Malec, ma il tema del tempo non poteva che
vedere protagonista la coppia. Ho cercato di essere il più Magnus-centric
possibile, comunque. La storia si ambienta dopo COLS e l'amica di cui
parla Magnus è Tessa, ma non posso fare spoiler da CP2.
Ringrazio Viola
per il betaggio e le 4 ragazze che hanno recensito il primo capitolo.
Ho visto che "Leggerezza" ha una decina di mi piace, perché
non mi fate sapere cosa ne pensate con un commento alla storia o un mp?
Un bacione in anticipo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Exactitude ***
Note: la
storia si ambienta alla fine di "Città delle Anime
Perdute", dopo che Jace ha mantenuto dentro il suo corpo un po' di
fuoco celeste. Per chi lo sa trovare, c'è un riferimento a
Clockwork Princess, ma non sono presenti spoiler.
Exactitude
L'esattezza
è
relativa.
"Viviamo
sotto una pioggia ininterrotta di immagini prive della
necessità interna che dovrebbe caratterizzarle, la ricchezza
di significati."
Italo Calvino - "Lezioni
Americane, Esattezza"
Era
notte fonda quando Clary posò il pennello e si
lasciò scivolare a terra, esausta. Quando cercò
di poggiare la testa, chiudendo gli occhi, sentì qualcosa
pungerle la schiena. Quasi stentasse a crederci, guardò a
lungo tutte le matite e le cartacce e le macchie di colore sul
pavimento, troppo stanca per decidere cosa fare. Di certo non
poteva mettersi a letto, perché con le prime
decine di fogli accartocciati, Clary aveva fatto canestro nel cestino,
ma poi lo aveva riempito e tutto aveva iniziato ad accumularsi fuori.
C'erano cianfrusaglie sulla scrivania, davanti alla porta e perfino sul
materasso; tutto, realizzò con le mani tra i capelli, per
regalare a Jace un ritratto che fosse degno di lui. Come se non
bastasse, non era nemmeno sicura che il risultato finale le piacesse.
Studiò ogni particolare del dipinto, sentendosi girare la
testa: la sua stanza era impregnata dell'odore di colori ad olio.
«Il
naso,» sussurrò, «Jace non
ha quel naso.»
In
realtà, Clary lo sapeva, il problema era un altro e ben
più grave. Il ritratto somigliava a Jace, ma era totalmente
privo della sua essenza. Le sembrava di guardare uno sconosciuto,
dipinto su quella tela.
Con
un calcio fece cadere il supporto che reggeva il quadro,
soffocando un grido di frustrazione. Possibile che proprio il suo
ragazzo dovesse essere un soggetto irrappresentabile?
Quando
si promise di non riprovarci di nuovo, era già troppo tardi.
Senza nemmeno accorgersene aveva ripreso il pennello in mano.
E
pensare che sua madre glielo aveva detto tante di quelle volte che
Clary aveva
perso il conto: "Quel
ragazzo sarà la tua rovina."
Quantomeno,
si disse, Jace era la sua insonnia.
***
Bussò
una volta sola, entrando subito dopo. Le mani le
facevano troppo male per riprovare.
Non appena la vide, Jace si tolse delle cuffiette bianche dalle orecchie
e le rivolse il suo classico ghigno malizioso, quello capace di farla
arrossire.
«La mia salvatrice sfida ancora la legge e viene a trovare di
nascosto il suo amato. Il desiderio di vedermi è troppo forte,
eh?»
Jace allungò una mano verso di lei, l'espressione radiosa.
«Isabelle mi ha portato questo aggeggio infernale per
ascoltare della musica; se non sbaglio si tratta della Band di Simon.
Non sono mai stato tanto felice di vederti, questa roba è
orribile.»
Clary gli fece la linguaccia e si avvicinò fino al bordo del
letto con la tela incartata tra le mani, strascicando i piedi per la
stanchezza.
«Sono entrata solo grazie a fratello Zaccaria, gli ho detto
che avevo un regalo per te.»
«Sul serio? Da' qua, sono curioso.»
D'improvviso le sembrò che una malattia demoniaca l'avesse
privata
della facoltà che più li aveva legati un
tempo, quella di poter parlare a Jace liberamente, nel bene e nel male,
senza alcun timore. In quel momento non era sicura di riuscire ad
arrivare a lui attraverso le parole, ma doveva provarci.
Era solo che aveva passato così tante ore a disegnare,
supportata solo
dal brillare pulsante della stregaluce, che non riusciva a levarsi
dalla testa l'immagine del pennello che scivolava sulla tela, o quella
delle
linee di colore che si rincorrevano, senza che nessuna di loro
riuscisse a raggiungere lo scopo per la quale era stata creata,
tracciando nient'altro che la geometria del sua
paura. Perché Clary aveva avuto davvero paura di non saper
più disegnare, dopo tutto ciò che era
successo.
«Ti ho dipinto,» disse solo.
Jace ridacchiò, le sopracciglia alzate a enfatizzare la
sorpresa, indicandosi allo specchio.
«Tanta bellezza è difficile da ricreare con colori
ad olio e pennello, perfino per te.»
Nonostante il viso stanco e le occhiaie violacee, le labbra di Clary si
curvarono in un sorriso dei suoi. Quel giorno le lentiggini spiccavano
particolarmente sulla sua pelle chiara e Jace le trovava adorabili.
Avrebbe passato un'eternità a contarle una ad una.
«Sono notti intere che provo ininterrottamente a ritrarti,
Jace. Mi
sei costato almeno una dozzina di album da disegno e quattro tele. Hai
consumato tutti i miei pennelli.»
«Adesso arriva la parte in cui mi dici che ti faccio bruciare
di ardente passione? Perché non possiamo più
dirlo in maniera figurale, a quanto pare.»
La cacciatrice poggiò il quadro sulle gambe di Jace,
tradendo una certa cautela. Non che si aspettasse di vederlo bruciare,
ma non si era ancora abituata all'idea del fuoco celeste nel corpo del
suo ragazzo.
«Sai, quando abbiamo scoperto che Sebastian ti aveva
soggiogato, tutti hanno iniziato a chiedersi chi fossi veramente. Come fossi
veramente. Per alcuni eri il Jace di sempre, per altri eri un
traditore, per altri ancora una vittima.»
«Per me sono sempre rimasto un gran figo.»
Clary afferrò una scatola di cioccolatini dal comodino
dell'infermeria e lo colpì in pieno.
«Se non si fosse capito, sto cercando di iniziare un
discorso poetico.»
«Scusami tanto, artista,»
disse in Italiano, mentre scartava la tela, «non ti
interromperò più, promesso.»
La ragazza prese un bel respiro.
«Ritraendoti, mi sono accorta che è impossibile
disegnarti con esattezza, Jace. Sei tante di quelle cose insieme e il
tuo essere è troppo straordinario per chiunque. In un certo
senso sei troppo grande per venire ridotto ad un ritratto
comune. Non c'è minuziosità dei particolari che
regga, con te.»
Jace non disse niente. Rimase a guardare il dipinto in silenzio, gli
occhi
che si fissavano su tutto e niente allo stesso tempo. Clary non
riusciva a capire se ciò che vedeva gli piacesse o se lo
avesse profondamente deluso. Di una cosa era certa: esisteva qualcosa
capace di zittire Jace Lightwood.
Si sforzò di schiudere le labbra secche per rompere quel
silenzio assordante, del tutto innaturale in compagnia del suo ragazzo.
«Quando non c'eri, Jace.. Ti sembrerà stupido, lo
so, ma quando non c'eri mi sembrava che non ci fosse mai la luce adatta
per disegnare. I colori erano sempre troppo scuri e le ombre troppo
pronunciate. Il giorno dopo il nostro incontro, quando mi hai portato a
Venezia, sono riuscita a dipingere la città con esattezza, o
almeno secondo la mia esattezza.
L'ho rappresentata per come io la vedevo.»
Lo sguardo di Jace era ancora fisso sul suo regalo.
«Così ti ho ritratto per quello che sei nella mia
vita. Non c'è alcuna precisione in quello che vedi,
perché l'esattezza non è la stessa per tutti. Ma
se potessi vederti con i miei occhi, Jace, se potessi.. sentire con il
mio cuore, ti saresti dipinto esattamente in quel modo.»
Jace poggiò la tela sul letto, in modo che i raggi del
lampadario di stregaluce la colpissero direttamente. Tutta la
superficie del dipinto era ricoperta di vernice dorata, fino all'ultimo
angolo. La luce la faceva brillare quasi fosse un Sole, e
Clary ebbe finalmente la certezza che non avrebbe potuto rappresentare
Jace in
altro modo, se non attraverso lo splendore prezioso dell'oro.
«Di' qualcosa.»
Gli occhi del ragazzo erano lucidi e luminosi come il dipinto stesso.
«Due cose riescono a farmi impazzire, Clarissa Fray. Tu sei
la prima. E per te, ti giuro, sposerei la follia.»
«E la seconda?»
Clary si sedette al suo fianco, desiderando solo di baciarlo.
«Le anatre. Quelle mi fanno impazzire di paura.»
***
Quando i fratelli Silenti accorsero nell'Infermeria
dell'Istituto,
temendo il peggio, ritrovarono Jace Herondale con il corpo incastrato
in una tela dipinta d'oro. Qualcuno doveva avergliela spaccata in
testa.
«Che cosa è successo, con esattezza?»
Il ragazzo rideva e gemeva di dolore allo stesso tempo.
«Volevo dire qualcosa di romantico alla mia ragazza, ma devo
aver interrotto l'idillio con una battuta sulle anatre. Lei lo sa,
fratello, non è vero? Mai fidarsi di un'anatra.»
Fratello Zaccaria ringraziò di avere la bocca cucita,
perché altrimenti non era sicuro che sarebbe riuscito a
trattenere le risate.
Maledetti Herondale,
si disse. Non
cambieranno mai.
Note da leggere, grazie: sì,
l'esattezza è relativa. Ciò che per altri
è giusto, alcuni lo ritengono sbagliato, e per fortuna il
mondo è bello perché è vario. Ogni
scrittore, dunque, ha uno stile diverso. Io, per scelta, ne rifiuto uno
essenziale nelle mie storie. Non mi piace il registro linguistico del
parlato o quello che tradisce una semplicità esasperata, e
al contrario ne amo uno ricercato. E' stato definito (in una recensione
scritta con sincerità e che per questo apprezzo), esagerato.
Per me non è esagerato, perché è il mio stile.
Critiche ad un uso scorretto della lingua o al IC dei personaggi sono
ben accette, ma mi sono sentita in dovere di spiegare perché
al contrario gradisco un po' di meno quelle che riguardano il modo di
scrivere di una persona. Un altra cosa, ringrazio chi sta leggendo
queste note. Gli autori di efp, se le scrivono e ci perdono tempo,
è perché vogliono chiarire qualcosa di
importante. Se le ignorate e poi commentate negativamente una cosa che
non avete capito, non è colpa nostra!
Detto questo, i commenti e i pareri, se coscienziosi, ripagano gli
sforzi di noi giovani scriba marmotte e ci fanno tanto piacere
<3
Grazie a Viò
che legge i capitoli di questa storia in anticipo, grazie al gruppo di
supporto, alla parabatai e a tutte le tezore che leggono
le mie storie in generale. Inoltre benvenuta Ania nel gruppo su fb
dedicato ai libri della Clare! Vi auguro di trovare un Jace tutto per
voi (dai, la mia cara Tess forse lo ha trovato!). Bacioni!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Visibility ***
visibilità
Note: la prima parte della storia si
ambienta durante la battaglia di Città di Vetro, la seconda
dopo la vittoria. E' una what if?, ovvero una storia in cui viene
modificato un elemento essenziale della trama. Il significato di questo
capitolo sta nel denunciare l'incapacità di Simon di
immaginare che dietro alla maschera di arroganza di Raphael ci sia
qualcos'altro. Simon è vittima delle apparenze, crede che
quello che vede sia la realtà. Per me non è
così, e sono sicura che lo scopriremo in CoHF. Se ritrovate
qualche accenno alla Raphael/Simon,
è perché c'è.
Visibility
L'essenziale
è
invisibile agli occhi.
"Se ho incluso la
Visibilità nel mio elenco di valori da salvare, è
per avvertire del pericolo che stiamo correndo
di perdere una facoltà umana fondamentale: il
potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire
colori e forme dall’allineamento di caratteri
alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini."
Italo Calvino, "Lezioni Americane - Visibilità"
Simon
aveva paura.
Un
angolo temerario della sua coscienza, sgusciando
fuori dal terrore, si chiese se fosse normale averne della vita e non
della morte imminente. Temeva che una volta riacquistata la
visibilità, dopo
essersi asciugato gli occhi dal sangue di un compagno di battaglia,
sarebbe ripiombato di nuovo nella guerra, cruda, dolorosa e
inevitabile.
Un
colpo, sarebbe bastato quello a farlo fuori, e tutto sarebbe finito.
Un artiglio infernale a squarciargli la carne e il cuore, niente di
più; solo in quel modo sarebbero cessate le
urla e il suono delle lame che cozzavano contro le ossa, della pelle
che
friggeva al contatto con il veleno di demone.
Qualcuno
a pochi metri da
lui venne ucciso, fatto a pezzi e sbranato. Frammenti mollicci
piombarono sulla sua faccia e
Simon rotolò di lato, coprendosi la testa.
Non
voleva tornare a vedere, ma si costrinse a passare una manica della
maglia sulle
palpebre, con gli arti che tremavano come se il suo corpo fosse ancora
stato capace di
sentire freddo.
Clary,
Isabelle, Alec,
Magnus, Jocelyn, Luke, Maia, Robert, Maryse. Jace, perfino lui.
Simon cominciò a ripetere i loro nomi ininterrottamente,
mentre i suoi occhi sbattevano nel disperato tentativo di rincorrere la
luce. Se li avesse visti vivi un'ultima volta, accertandosi che
stessero bene, sarebbe potuto morire in pace e andarsene lontano, dove
quella piaga non sarebbe riuscita a raggiungerlo.
Clary,
Isabelle, Alec,
Magnus, Jocelyn, Luke, Maia, Robert, Maryse, Jace, si
disse, ma non scorgeva nessuno di loro.
Si
rialzò appena in tempo per schivare il tentacolo squamoso
di una creatura immonda e fuggire alla cieca, correndo ovunque non vi
fossero alleati senza vita. Stavano perdendo,
questo era riuscito a capirlo con una sola occhiata spaventata.
Ovunque c'erano corpi di mutaforma nudi, feriti e pallidi, tornati
umani poco prima di spegnersi. Alcuni corpi erano carbonizzati e ad
alcune fate erano state strappate le ali, stese per terra a formare un
tappeto da calpestare come affronto.
Clary,
Isabelle, Alec,
Magnus, Jocelyn, Luke, Maia, Robert, Maryse, Jace. Dove si
erano cacciati? Solo i maggiorenni stavano combattendo,
ricordò, eppure lui era lì, un eterno sedicenne
che
non sapeva uccidere. E non voleva farlo.
Simon
non voleva uccidere
né lasciare che le persone che amava venissero uccise.
Voleva solo risvegliarsi da quell'incubo con la playstation accesa e
Clary
che sonnecchiava sulla sua spalla, scoprendo che era stato solo un
brutto sogno. Desiderava solo che il fragore della
battaglia si fermasse all'improvviso e che al suo posto risuonasse di
nuovo il battito del proprio cuore.
Clary,
Isabelle, Alec, Magnus,
Jocelyn, Luke! La sua
vista sovrannaturale
riuscì a riconoscere un licantropo più grande
degli altri, la bava rossa e il ringhio feroce, ma tutto intorno
regnava il caos. Era sicuro di trovare Jocelyn al suo fianco; a lei
avrebbe potuto chiedere di Clary, della sua Clary. Se
lei era viva,
decise in un momento di egoismo, lanciandosi contro la mischia per
raggiungere il suo amico, andava ancora tutto bene, e guerra e pace
erano
la stessa cosa. Tutto ciò che importava era che Clary fosse
al sicuro.
«Luke!»
Simon
spintonò un cacciatore, facendogli prendere
la mira sbagliata. La sua freccia si conficcò nell'occhio
del mostro invece che sulla fronte. Non era poi così grave,
dopotutto. Era già tanto che nel panico generale fosse
riuscito a controllare la sua forza da figlio della Notte.
«Luke,
sono qui! Sono qui!»
Gli
occhi enormi di Luke si puntarono su di lui per qualche secondo, poi
il lupo ululò alla Luna; sul terreno, la sua luce proiettava
le
ombre immense di due demoni superiori.
Prima
che potesse dire o fare qualunque cosa, arrivò il
primo attacco. Simon venne catapultato di lato talmente forte che il
respirò gli si mozzò nel petto. Una volta che
l'aria tornò a farsi spazio nei polmoni,
nonostante non avesse un reale bisogno d'ossigeno, Simon
urlò di rabbia, perché in
quell'Inferno sonoro nessuno riusciva a sentire quanto soffrisse.
Iniziò
il dolore. Tre, si accorse, erano le lunghe strisce di pelle mancanti
dalla sua
schiena scorticata. In compenso uno dei mostri era scomparso e al suo
posto, inspiegabilmente, Simon
scorse una montagna di sale. Gli parve che l'altro demone gli
sorridesse, i
denti marci e il volto semiputrefatto, mentre sradicava un albero dalla
radura, pronto a infilzarlo nel suo corpo.
Era un
paletto piuttosto grande, quello. Gran bel guaio, realizzò.
La
bestia calò il colpo finale.
Clary.
Clary.
Clary.
Clary.
Clary.
Aveva
ripetuto il suo nome cinque volte, eppure si aspettava
di venire ridotto in poltiglia alla seconda.
«Clary.»
lo disse ancora, ma stavolta ad alta voce, per accertarsi che fosse
tutto vero: era vivo.
Quando
aprì gli occhi, quello che vide non aveva alcun
senso.
Raphael
Santiago reggeva il tronco d'albero con due mani, frenandone l'impatto.
I suoi
piedi affondavano nel fango e i ricci d'angelo erano incollati al collo
e intrisi di sangue. Non riusciva a vederne il viso, ma avrebbe voluto
poterlo fare. Cercò di immaginarselo, quel volto
botticelliano, attraversato da un'espressione che non fosse di
sufficienza o superiorità. Cercò di dipingerselo
in mente, provato, sofferente, sfigurato dalla furia cieca, i canini
come rasoi e le vene violacee attorno agli occhi di un cacciatore.
Non ci riusciva.
Il
lamento di delusione del Demone rischiò di perforargli i
timpani, facendolo raggomitolare su sé stesso. Raphael non
si
piegò di un centimetro, continuando a trattenere
il peso de tronco, ma Simon avrebbe voluto tapparsi gli occhi. Il capo
dei vampiri sembrava così giovane ed esile che sembrava
impossibile che non si stesse per spezzare come un ramoscello.
Con
uno strattone delle braccia Raphael strappò l'albero
sradicato dagli artigli del demone e lo scaraventò verso un
altra creatura degl'inferi prima che questa potesse rappresentare un
pericolo; accade tutto così velocemente che nonostante le
sue doti vampiresche, Simon non osò battere le ciglia per
paura che, riaprendo gli occhi, Raphael sarebbe svanito.
Il
capo dei
vampiri balzò in avanti con una spinta tale da sollevare la
polvere e fendere l'aria in un sibilo. Si aggrappò alla
testa deformata dell'essere con le due mani apparentemente delicate e
fece forza per
tranciare via una parte del collo. Il demone cercò di
riafferrarlo, ma Raphael fu più veloce, sgattaiolando sotto
le sue tre zampe e bloccando una delle braccia enormi per farlo cadere.
Troppo
tardi, Simon si rese conto di cosa sarebbe successo.
«NO!»
Raphael
morse il demone.
Simon riuscì quasi ad accorgersi dell'esatto istante in cui
quel sangue velenoso cominciò a bruciare il corpo del
vampiro,
facendosi strada verso il suo cuore.
Raphael
lo rispedì nell'altra dimensione con un ultimo
colpo, prima di barcollare e rovinare a terra, mentre un'altra orda di
tenebre arrivava.
Per
un breve istante riuscì finalmente a scorgere il suo volto,
poi, in un'esplosione violenta, tornò a vedere rosso. Il
sangue
scivolò lungo il suo viso e Simon pregò che non
fosse
quello del vampiro che lo aveva salvato. Ripeté un'ultima
volta
i suoi nomi,
prima di
perdere conoscenza: Clary, Isabelle Alec, Magnus, Jocelyn, Luke, Maia,
Robert, Maryse, Jace,
Raphael.
***
Scoppiò
un fuoco d'artificio, e scintille rosse
piovvero dal cielo come neve di fuoco. Chissà
com'era, rifletté, tenerne una in mano prima che si
spegnesse, stringerla per un secondo di pura e preziosa follia, prima
che iniziasse a fare male. A Simon mancava l'euforia dei gesti
sconsiderati, quelle pazze e stupide imprese che faceva da piccolo
senza pensare.
Ormai, però, la guerra era finita e Simon non era
più quello di
una volta, ormai ogni azione pesava come una spada puntata sul capo.
Strise
Clary più forte, camminando lungo i vicoli
pittoreschi di Idris. Anche lei appariva diversa, più
saggia.
«Ho
fermato una guerra vera, ragazzo nerd. Non una di quelle che puoi
mettere in pausa alla console,»
le labbra della ragazza si
tesero dolcemente in un sorriso, facendo increspare le lentiggini sulle
guance
Era
bellissima, quella sera, non poteva negarlo.
«Avrei
voluto esserci. Quando i demoni si polverizzavano per causa
tua, voglio dire.» ridacchiò, facendo dondolare le
loro mani
intrecciate, «Sarebbe stato un epilogo davvero epico a questa
brutta
faccenda.»
«Degno
di Star Wars?»
«Meglio
di Star Wars. Adesso tutti hanno una grande idea di te. Sei
una Cacciatrice di una certà
visibilità.»
Tutti
ti guardano, avrebbe
voluto aggiungere. Prima
eravamo solo io e te, insieme. Nessuno si accorgeva di noi.
«A
proposito, non
dirai a Jace che sono svenuto, vero? Se lui dovesse
chiedercelo, gli diremo...»
«La
verità, - lo interruppe lei, salutando distrattamente una
cacciatrice di passaggio, - gli diremo la
verità. Luke mi ha raccontato tutto.»
Simon
si finse sorpreso.
«E?»
«Raphael
Santiago ha respinto il gruppo di Zajiar¹
che
ti ha attaccato e ti ha affidato alle cure
dei Licantropi. Poi ho compiuto il mio gesto eroico e blablabla.»
Si
fermarono per un po', lasciando che la folla defluisse verso la
festa della vittoria a cui avrebbero partecipato Shadowhunters e
Nascosti.
«L'ultima
volta che l'ho visto, il sangue del demone lo stava divorando
da dentro.»
«Si
è rialzato.»
«E
mi ha salvato.»
«Non
piangerai per la commozione ora, vero?»
Clary
rise di gusto.
«No.»
«Dovresti
ringraziarlo, secondo me.»
«Ci
devo pensare.»
«Fantastico,
pensaci durante i dieci metri che ci separano da lui.»
«Cosa?!»
«Ti
aspetto in piazza!»
Clary
sparì dietro un angolo, lasciandolo pieno di imbarazzo.
Raphael
era lì,
mano nella mano con una vampira sognante, senza degnarla dello sguardo
che invece era puntato su di lui. Liquidò la ragazza con uno
schiocco delle dita e rimasero soli.
Adesso
Simon poteva vedere il viso del vampiro con chiarezza, per la prima
volta dopo la fine della battaglia. Non
c'erano ferite, a parte la classica cicatrice a forma di croce alla
base della gola. I ricci neri gli accarezzavano le tempie, morbidi, e
gli occhi d'antracite erano grandi.
Faccia
d'angelo, faccia di Raphael.
Simon
non riusciva a ricordarla, quella della notte nella
radura, perché l'espressione furba e diffidente del vampiro
gli impediva
di concentrarsi e pensare che Raphael potesse averne una
diversa.
«Ciao,»
borbottò.
Raphael
lo guardò con strafottenza. Possibile che fosse
già tutto sepolto, per lui? Eppure aveva rischiato la vita
per salvarlo.
«Come
va?»
«Lo
chiedi perché ti interessa o per educazione?»
Simon
rimase in silenzio, ma con sorpresa, dentro di sé,
urlò la
risposta senza esitazione.
«Hai
bisogno di qualcosa, Diurno? Se non hai niente da dirmi, puoi
anche sparire.»
«Stai
scherzando?»
Il
Raphael che odiava era tornato come una brutta sorpresa e la memoria di
Simon reagì di conseguenza:
recuperò tutti i frammenti di immagini come da un deposito
di spazzatura, fino a quando l'astio fu l'unico particolare in
rilievo. Raphael era un bastardo e aveva cercato di ucciderlo. La sua
vita era rovinata ed era tutta colpa sua. Non poteva dimenticarlo.
«Ti
sbagli se pensi che ti sia riconoscente per avermi salvato.»
Non
seppe perché lo disse: forse voleva soltanto imparare da
Raphael ed essere bravo a fare del male almeno quanto lui.
Fu
un istante, ma qualcosa nell'espressione accuratamente scelta da
Raphael cedette, come un'impercettibile sbavatura sul disegno perfetto
dei
suoi lineamenti. Era come un'incrinatura sul vetro, si disse, una di
quelle tanto piccole che quasi non ci se ne accorge, ma che rischiano
di far andare tutto in frantumi.
Le
labbra del vampiro si schiusero
appena.
«Non
farò lo stesso errore in seguito,»
sussurrò.
Raphael
girò i tacchi e si allontanò senza
guardarsi più indietro, l'unico ragazzino a non gioire dei
fuochi d'artificio, troppo intento a nascondersi di nuovo dietro la sua
maschera. Perché era una maschera che portava, allora.
Possibile
che Simon fosse così
cieco da non riuscire a distinguervi niente, dietro? Se solo Raphael si
fosse voltato...
«Ehi
aspetta, Raphael!»
Guardami,
maledizione.
Rimorso,
non poté fare a meno di pensare, sempre l'ultimo
arrivato, costantemente in ritardo, quando non resta che raccogliere i
pezzi di ciò che si è rovinato.
«Raphael!»
Il
vampiro scomparve nell'ombra da cui era sempre venuto e Simon, per
la prima volta, si sentì completamente solo tra la gente.
Rimase
immobile, un grazie sulle labbra, sforzandosi di
immaginare come potesse essere il ragazzo dietro la maschera, quello
che lo aveva salvato, non quello con il ghigno stampato e la mente
calcolatrice.
Provò
e provò, e mai la sua visibilità
gli sembrò tanto limitata da non poter vedere oltre le
apparenze.
Quando
l'ultimo fuoco d'artificio si spense, Simon era giunto ad una
conclusione: l'essenziale
è invisibile agli occhi, perfino a quelli di un vampiro.
1. Zajiar: demoni
inventati da me.
Note: il risultato finale non mi convince molto,
perché non so gestire questi due personaggi, nonostante li
ami moltissimo. Li shippo? Sì, infatti ho scritto un'altra
storia su di loro, chiamata Shime'on.
C'è un riferimento alle Cronache
del Ghiaccio e del Fuoco, e sta nei nomi che Simon
pronuncia. Lui lo fa per amore, nella saga che mi ha ispirato lo si fa
per odio. Simon non sa ancora del potere del Marchio di Caino,
perché lo scopre in COFA. L'ultima frase cita "Il Piccolo Principe".
Ringrazio Viola
per il betaggio, Ania per i suoi puntuali e preziosi commenti e le 32
persone che mi hanno inserito tra gli autori preferiti, siete tanto
carine. Sono ben accetti pareri!
Che altro? Niente. Vi mando un bacio.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Multiplicity ***
lolli
Multiplicity
-
Conosci te stesso. -
Chi
siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di
esperienze, di informazioni, di letture, d'immaginazione?
Ogni
vita è un'enciclopedia, una biblioteca, un inventario di
oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere
continuamente mescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
Italo Calvino, "Lezioni Americane - Molteplicità"
Si sposarono
in un giorno qualunque di un mese qualunque, scegliendo la
data con spensierata casualità. Li aveva fatti sorridere
sapere quanto le persone ritenessero importante sposarsi di
Mercoledì, perché era un giorno fortunato, e
farlo di Dicembre, perché era un buon mese.
Però, quando fece il suo ingresso nella
cattedrale di
Westminster, dove erano convolati a nozze re e regine e dove l'Enclave
aveva ritenuto giusto che si sposasse colei che aveva salvato il loro
mondo, Theresa Gray realizzò che non era tutto
così semplice come chiudere gli occhi e puntare il dito sul
calendario.
Rimase immobile per dei secondi interminabili, facendo
scorrere lo
sguardo sugli invitati e sulla moltitudine di facce diverse che la
studiavano, sorridendo; volti commossi e orgogliosi, volti stizziti,
volti ovunque. Non poté fare a meno di pensare che le
sarebbe bastato stringere il fazzoletto di una donna sconosciuta tra le
dita per
mutare aspetto, rubarle l'identità e fuggire via per la
paura di non essere pronta a mettere su famiglia. Avrebbe potuto essere
tutti e nessuno in quel momento, eppure era ancora lì, in
piedi con un velo d'oro a nasconderle il viso e Henry sulla sedia a
rotelle che le teneva la mano.
Schiuse le labbra per respirare profondamente, poi
cominciò
a camminare. Dopo il primo passo la cattedrale si riempì
dell'eco leggera dei violini.
Infondo alla navata c'erano loro.
Quando le alzarono il velo sul viso, reclinandolo dietro la
testa, finalmente lo vide distintamente. Fu come vederlo per
la prima volta
e innamorarsi di nuovo e all'infinito.
Will.
Will, con lo stesso sorriso che un tempo era così
raro da
doverne godere fugacemente e che adesso riempiva le giornate di chi lo
riceveva. Era il sorriso più luminoso che gli avesse mai
attraversato il volto. Will, con i capelli così ordinati che
Tessa dovette trattenere una risata di gioia. Chissà se
avevano dovuto legarlo, per pettinarlo con tanta cura.
Will, con gli occhi di un blu a cui nessuno avrebbe mai reso
giustizia
a parole e in cui Tessa era solita perdersi, delle volte. In quel
momento, sull'altare, con la mano di lui che si tendeva a toccare la
sua, Tessa puntò lo sguardo nel suo e invece di perdersi
ritrovò se stessa.
Fu il giorno più chiaro della sua vita, in
effetti.
Mentre i Fratelli Silenti recitavano il rituale della loro
unione, con
i cappucci abbassati sul volto e le rune rosse che decoravano i loro
mantelli, Tessa sfogliò tutte le pagine della sua vita.
Rievocò la molteplicità
delle proprie esperienze e dei propri dubbi, le combinazioni del
destino che l'avevano portata fino a quel giorno, con Will al suo
fianco. Rievocò qual era stato il suo timore più
grande, fino a quando non aveva detto di sì a
Will: vivere per sempre senza un'identità precisa,
come una muta-forma capace di sfiorare infiniti aspetti e
personalità, rischiando di perdere la propria; soffocare
nella solitudine e nell'incertezza di non sapere chi era davvero.
I Silenti la distolsero dai suoi pensieri.
- Vuoi tu, Theresa Gray, accogliere William Owen Herondale
come tuo
legittimo sposo, in nome dell'Angelo Raziel, creatura di Dio,
promettendo di essergli fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella
luce e nella tenebra, e di amarlo e di onorarlo tutti i giorni della
tua vita?
- Oh, beh, - sospirò Will.
- Ci penserei, se fossi in te. Il nostro matrimonio
durerà
molto.
Nella navata centrale, una folla di Cacciatori non trattenne
le risa. I
fratelli Silenti non sembrarono cogliere nient'altro che l'imbarazzo
della scena, incitandola a rispondere. Nella voce di Tessa si
percepì una nota di divertimento.
- Sì, lo voglio. Per tutto il tempo. Sempre.
Fu Jem a disegnare la runa dell'amore sul polso di Will,
dove l'avrebbe
sempre vista, perché lei non poteva imprimere quel marchio
sulla sua carne, ma fu come se fossero state le sue dita a stringere lo
stilo e a tracciare le linee ricurve del simbolo. Mentre il disegno
dorato cominciava a prendere forma, Tessa si chiese se non fosse
crudele, far compiere quel gesto proprio a Jem, che avrebbe voluto
trovarsi a posto del suo parabatai e che non avrebbe mai potuto.
Jem era solito dirle che i sogni potevano realizzarsi se si
credeva
fermamente che fosse possibile. Il suo sogno si realizzò, ma
a viverlo fu qualcun altro; eppure, nel momento esatto in cui lei e
Will diventarono ufficialmente marito e moglie, le labbra di Jem si
tesero verso l'alto, increspandogli le cicatrici sulle guance. Will
pianse come un bambino.
Fu come nei libri che leggeva da piccola, con i petali
d'arancio che
venivano lanciati sulle loro teste e i chicchi di riso e la gente che
gridava "viva gli sposi",
rischiando di svegliare i poeti assopiti che riposavano a Westminster
Abbey. C'era qualcosa, però, che lei non aveva mai
immaginato prima: le scintille che scoppiettavano sulle dita di Magnus
Bane, il modello di "macchina fotografica" perfezionato da Henry, e le
battute di Will sulle anatre che avrebbero servito arrosto al banchetto
del matrimonio. Fu una tale molteplicità di immagini,
quella, che Tessa non sapeva come inserirle tutte nel libro della
propria vita.
E poi c'era quell'uomo.
Quasi non l'aveva notato, in principio, nascosto nell'ombra,
ma poi le
sue espressioni di disappunto cominciarono a stimolare la sua
attenzione, fino a quando sulla soglia della cattedrale, prima che
varcasse l'uscita, qualcuno pestò lo strascico del suo
vestito. Tessa si voltò a guardarlo, interdetta ma troppo
felice per curarsene. La sorpresa nel vedere che era proprio Lui fu difficile da
mascherare. L'uomo si
degnò di alzare il piede solo quando i loro occhi si
incontrarono.
Per un momento il vociare degli invitati si fece soffuso, e
la ragazza
non sentì che la sua voce.
- Vi faccio i miei auguri, Signora Carstairs. Oh, vi chiedo
scusa, Herondale. La
molteplicità del vostro amore mi confonde.
Sorrise sotto i baffi striati di grigio.
- Confonde tutti noi, in effetti.
Tessa, la bocca cucita da migliaia di aghi di ghiaccio,
esitò a lungo prima di parlare.
- Grazie per la vostra benedizione, Signore -
mormorò, il
tono di voce congelato. Chi poteva essere tanto sfrontato da voler
incrinare quel giorno di gioia meritata, agognata come mai nient'altro
aveva desiderato in vita sua?
- Benedizione? Null'affatto. Sono venuto solo per vedere che
cosa avevo
combinato. Dopotutto questo matrimonio è anche merito mio.
Una patina tremula increspò il volto dell'uomo
come fosse
stato di vapore, facendolo vibrare. Tessa trattenne il fiato. Un fantasma.
Avrebbe dovuto pensarci, dopotutto: ogni cosa in quella figura appariva
innaturale. Il colorito pallido, il modo in cui la sua voce risuonava
isolata rispetto a quella degli altri, la traccia assente della sua
scarpa sullo strascico del vestito, gli invitati che scorrevano al
loro fianco come se Tessa e il suo interlocutore fossero invisibili.
Perfino Will continuò a camminare senza di lei, sebbene i
suoi movimenti fossero incredibilmente lenti.
- Non può essere.
- Ho detto la stessa cosa il giorno in cui mi sono
risvegliato, ma a
quanto pare può essere.
- Voi siete...
- Charles Dickens, sì. Lo scrittore. Sono sepolto
qui, e ho
pensato che bastasse a rappresentare un invito al vostro
matrimonio.
Tessa trovò sostegno sullo schienale di una
panca,
deglutendo. Si sentì avvampare per l'emozione, timida tutto
d'un tratto.
- Il mio scrittore preferito è un fantasma. Ed
è
al mio matrimonio. -
Represse l'impulso di lanciarsi verso di lui e stringergli
la mano,
cosciente che avrebbe sfiorato nient'altro che fumo. Come aveva potuto
dimenticarselo? Dickens riposava da qualche anno proprio nella
cattedrale, insieme agli intellettuali più famosi
d'Inghilterra!
Si sentiva stupida ad ammettere che il corsetto era
diventato troppo
stretto per reggere i suoi respiri affannosi.
- E' un onore, Sir, voi siete...
- Il miglior scrittore inglese del secolo, a parere vostro,
sì. Ma da qui fino a comportarvi come avete fatto, il passo
è arduo.
Le sembrò di aver ricevuto uno schiaffo in pieno
volto. Le
orecchie ovattate per azione sovrannaturale del fantasma non aiutavano
nell'impresa, ma Tessa non riusciva a credere che l'uomo avesse detto
una cosa del genere.
- Scusate?
- Mh.
Sapete che parlo di "Racconto di due città". E' il vostro
libro
preferito.
- Io non credo di capire.
Dickens aveva l'aria leggermente scocciata.
- Non ho abbastanza tempo per guidarvi verso la
comprensione, quindi
cercherò di essere conciso. Sono Io che non ho
capito Voi.
Siete un
mistero, per me, così lassù
hanno deciso di soddisfare uno dei miei capricci; a patto
che mi dia una mossa, naturalmente.
Tessa serrò la bocca: se l'avesse tenuta
spalancata un secondo di più, se la sarebbe slogata.
- Ascoltatemi bene e rispondete brevemente, - disse il
fantasma, scandendo ogni
parola, - che cosa vi ha insegnato il mio libro?
Di tutta quella situazione, una domanda del genere era
decisamente l'aspetto meno insolito, rifletté, cercando di
schiarirsi le idee. Doveva
essere il pensiero fisso degli artisti, quello di riuscire a
trasmettere un messaggio al maggior numero di persone possibili.
- Che si possono amare due persone con la stessa
intensità,
- annuì con sicurezza.
La sicurezza sfumò non appena Dickens si mise una
mano sulla
fronte, roteando gli occhi.
- No. No. No. NO
NO NO. Sbagliato. Ero sicuro che aveste interpretato
erroneamente la mia opera somma.
Come se fosse stata spinta, Tessa fece un passo
all'indietro, puntando
le scarpe perlate per non cadere.
- Il vero significato del mio racconto era l'opposto. La
molteplicità del sistema, sfocia nella brutalità.
Chiaro, essenziale, semplice, maledettamente lampante, signora
Carstairs. Herondale, quello che è! Cara, vi è
parso per caso un romanzo d'amore? Non lo era. Era un romanzo sulla gente, sugli
squilibri tra proletariato e aristocrazia, sul terrore che la
molteplicità di condizioni può causare. Ci pensi.
Ad alcune persone il destino non riserva nulla. Ad altre riserva tutto.
Le sembra equo? Non lo è. Ecco perché viviamo in
un mondo così disordinato. E lei che cosa ha assimilato
dalla lettura di "Racconto di due città"? Che può
essere
la Lucie della situazione, che può tenere il piede in due
scarpe.
Dickens sospirò alla vista dei suoi pugni
stretti. Non
riusciva a credere che stesse accadendo, che dovesse provare un dolore
tanto forte in quello che avrebbe dovuto essere il giorno
più bello della sua vita. Non riusciva ad accettare che una
delle persone che aveva sempre stimato di più la stesse
attaccando in quel modo.
- Lucie ha scelto di amare una persona sola, alla
fine.
Non vi siete mai chiesta perché lo avesse fatto?
Ricacciò indietro le lacrime con tutta la determinazione di
cui era capace.
- Io ho scelto Will. Sono qui perché
ho scelto lui. Mi sono
sposata perché ho scelto di stare con lui.
La sagoma dello scrittore si incupì fino a
colorarsi di fumo
nero, mentre il gelo calava tutto intorno.
- Fossi in te,
ragazzina, non mi permetterei di mentire in Chiesa. Ne hai scelto uno solo
perché l'altro è stato costretto alla
Città di Ossa e alla solitudine e all'ombra. E tu, per contro, gli fai
fare il testimone di nozze. Gran bella faccia tosta.
- Smettetela!
Si accorse che la sua voce suonava sottile e acuta come una
nota
stonata, come il tasto di un pianoforte premuto per errore.
- Smettetela, adesso. Non sapete nulla di me!
- Mi chiedo se ne sappiate qualcosa voi stessa.
Non devo
piangere, non
devo macchiare il vestito. Improvvisamente la vista di
quell'uomo divenne insopportabile, e Tessa dovette spostare lo sguardo
altrove. Chaucer, Jane Austen, avrebbe voluto parlare con qualunque
altro poeta sepolto della cattedrale, purché Dickens
sparisse.
- Il mondo è vario, Sir, come le sue storie, e i
lettori
delle stesse. Ognuno interpreta il messaggio di un libro come questo
gli arriva al cuore.
L'anello che Will le aveva infilato al dito non le era parso
tanto
pesante, sull'altare, ma in quel momento gravava sulle sue ossa come
piombo.
Dickens annuì, ma c'era una
fierezza intellettuale in lui che lo faceva sembrare una statua
imponente.
- Non ne dubito, ma questo non rende l'interpretazione meno
sbagliata. Io
so che cosa volevo dire, io
so che il messaggio corretto era uno solo, il mio. Il resto
è polvere mascherata d'argento da un relativismo universale
che usate solo quando v'è comodo.
-
Siete
pieno di certezze, Sir, - mormorò a denti stretti.
La sposa si asciugò gli occhi e tornò
a confrontarsi con lo scrittore.
- Grazie a Dio è così. Se non mi
credete potete
frugare nella mia tomba, chiudere le dita attorno al mio cadavere e
vestire i miei panni per un po'. Forse essere Charles
Dickens vi
aprirebbe la mente molto più che leggere Charles
Dickens.
Ingoiò il desiderio di invocare il Santo Padre
affinché lo rispedisse da dove era venuto, e
rifletté su quell'insolita proposta. Se farsi aprire la
mente voleva dire voltare le spalle a Will o a Jem, l'avrebbe tenuta
sigillata per l'eternità.
Tessa girò i tacchi e se ne andò,
arrestandosi
solo sulla controfacciata dell'ingresso. Tornò a guardare
Charles con le
labbra curvate verso l'alto in una smorfia deliziata, come se
all'improvviso quella situazione fosse diventata infinitamente
divertente. Non era il tipo di sorriso che era bene rivolgere in Chiesa.
- Sapete, Sir Dickens, ho capito, finalmente. Avete ragione
su tutto.
Sono innamorata di due persone, il mio volto può assumere
infiniti aspetti, la mia stessa vita non è stata che un
susseguirsi di avventure tra le più disparate. La mia
esistenza è descritta dalla molteplicità e dal
disordine.
Charles inarcò un sopracciglio, sinceramente
colpito.
- Fatemi indovinare, c'è un ma. -
azzardò una
risata.
- Ma
ho
sbagliato su un punto e "A Tale of Two Cities" non è il
vostro
libro preferito.
- Oh, lo è, eccome se lo è. Il mio
libro
preferito in assoluto.
- Suvvia, che cosa ho malamente inteso, dunque?
Nel cortile di Westminster la folla esplose in una risata
contagiosa.
Il tempo aveva ripreso a scorrere normalmente, e come per incanto tutti
si erano accorti dell'assenza di Tessa. Lo sposo si è perso
sua moglie, gridavano gli invitati, di già!
La ragazza
riusciva a sentire la voce squillante di Will che giustificava il suo
ritardo con una delle sue orribili battute.
Tessa decise di averne avuto abbastanza. Lanciò
il bouquet il più lontano possibile, verso lo scrittore,
come da
tradizione. I fiori di pesco attraversarono lo spirito aereo di
Charles, fendendo l'aria, e rovinarono a terra senza che nessuno
li prendesse; Tessa non aspettò di vedere la reazione
dell'uomo e prese a camminare verso l'esterno.
- Non avete sbagliato nulla, ma non sono la
Signora Herondale, né la signora Carstairs,
né entrambe. E non sarò mai Charles Dickens, per
fortuna. Sono Tessa, solo Tessa. E se fossi un libro, voi ne avreste
interpretato male il
messaggio. Non è quello che avete detto voi? Solo chi scrive
un libro ne conosce i segreti.
Accarezzò l'angelo che portava al collo, scendendo a
sfiorare il pendente di giada.
- Non permetterò mai a nessuno di definirmi, Sir. La
molteplicità di
giudizi come il vostro è polvere mascherata d'argento.
Uscì dalla cattedrale senza guardarsi indietro, e
a
Westminster risuonarono le campane.
Dickens si
sistemò il panciotto quasi fosse di vera stoffa, poi si
arricciò i baffi con fare altezzoso.
-
Tornate quando la vostra vita sarà un classico della
letteratura inglese, Signora Carstairs. Herondale. Tessa, quello che
è.
Angolo autrice:
prima di mandarmi a quel paese perché Dickens non era
così bastardo, tranquillizzatevi. Considerate il capitolo un
"what if?" e Dickens un OOC. Premetto che secondo me l'interpretazione
di Tessa di "Un Racconto di Due Città" è davvero
sbagliata. Se avete letto il libro sapete che non è un
romanzo d'amore ma un romanzo storico dalla potenza comunicativa
straordinaria. Quello che volevo trasmettere con questo capitolo,
però, è che anche se Tessa delle volte
ci ha fatto arrabbiare, la sua caratterizzazione non è
semplice. Tessa è preda della molteplicità di
esperienze. Potendo essere chiunque, rischia di perdere se stessa, e
invece Cassie l'accompagna fino al raggiungimento di
un'identità. Secondo me è qualcosa che va oltre
la consapevolezza di amare due persone, perché prima di
amare gli altri devi amare te stessa e capire chi sei. Spero di essere
stata esaustiva. Per quanto riguarda l'ambientazione, Tessa e Will si
sposano davvero a Westiminster se ben ricordo, e Dickens è
davvero sepolto lì.
Il fantasma immaginatelo come uno spirito inconsistente, ma capace di
muovere oggetti e fare altri scherzetti: insomma, uno spettro comune.
Ringrazio chi segue questa raccolta. Fatemi sapere cosa ne pensate, non
rimanete silenziosi! E' una spinta per andare avanti :)
Saluti! <3
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1741989
|