Romans & Barbarians

di Rhona
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Parte Seconda: Capitolo I ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***



ROMANS
&
BARBARIANS


Un barbaro spietato. Un romano senza cuore. Una donna di malaffare. Un senatore molto potente. Un imperatore illuminato. Un gladiatore. Un soldato. Un traditore. Una guerriera dalla lucente chioma scura.



Al centro: Gaio Tullio Titurio (Peter Vaughan, Il Trono di Spade- Il cognome è del tutto una coincidenza... non potevo crederci!)
In senso orarioOlaf  Olverson (Mads Mikkelsen, King Arthur); Vaughan Olverson (Joel Edgerton, King Arthur); Cecilia (Lena Headey, 300); Marco Giulio Flaviano (Joaquin Phoenix, Il Gladiatore.).

Le persone menzionate sono solo semplici prestavolto, senza alcun collegamento di idee, comportamenti, carattere e/o azioni con i personaggi descritti nella storia. 

 

Capitolo I
 

LIMES NORDICO DELL’IMPERO ROMANO.
ANNO CMXVI AB URBE CONDITA1.
SETTIMO ANNO SOTTO IL REGNO DELL’IMPERATORE MARCO AURELIO.
 
I romani contrattaccano i barbari Marcomanni, penetrati nel confine.
Il contingente romano è comandato da Marco Giulio Flaviano,  sotto l’alto patrocinio del senatore Gaio Tullio Titurio.
I Marcomanni sono comandati da Ballomar.

 


Vaughan2 assisteva compiaciuto alla disfatta dei romani direttamente dal campo di battaglia. La sua tribù era alleata dei Marcomanni, per cui era stato chiamato a combattere: tutti gli eserciti alleati si erano tirati indietro di fronte alla magnifica imponenza del nemico, ma non il suo...Quello era, e probabilmente sarebbe rimasto, il momento più significativo di tutta la sua vita: lui, il figlio di un mercante, divenuto capo della tribù sassone che aveva sconfitto il grande esercito romano. Aveva dato ordine di non risparmiare nemmeno donne e bambini, o soldati che si arrendevano: un romano ucciso in più, era un romano da combattere in meno. Si guardò intorno, ammirando lo spettacolo della grande Selva Ercinia in fiamme... Uno spettacolo raccapricciante, l’odore dei corpi bruciati era acre. Ma sapere di aver vinto il più grande e imponente nemico di sempre era la più bella sensazione che avesse mai provato. Vaughan era cresciuto con quattro sorelle ed un solo fratello, Olaf, che ora continuava i commerci del padre. Aveva imparato a combattere con il bastone e soprattutto con la lancia. Era il solo capo sassone a preferire la lancia all'arco. Ma Vaughan non era solo tutto muscoli e niente cervello; i germani non conoscevano la scrittura, ma lui poteva dirsi istruito. Suo padre aveva dei contatti commerciali con i celti, che a loro volta avevano avuto contatti con i greci a Marsiglia. Lui aveva imparato a parlare greco per contrattare, poi lo aveva insegnato anche a Vaughan e ad Olaf, per permettere una continuità in questi scambi. Sapeva anche far di conto e scrivere, cosa necessaria per evitare di farsi gabbare da altri commercianti. Suo padre, come la maggioranza dei germani, non commerciava con i romani; ma mentre combatteva a sud, Vaughan aveva anche appreso un po' di latino. Non era in grado di parlarlo o di scriverlo: tutt’al più capiva le grida di battaglia dei suoi nemici. Con i Marcomanni aveva frequenti scambi di merci, e conosceva personalmente Ballomar, il loro capo. Da giovani avevano combattuto insieme a sud, ma poi le loro strade si erano divise. Lo aveva ritrovato con sorpresa quando era andato a negoziare alleanza presso i Marcomanni, in veste di capo sassone. Tenne lo  sguardo alto nella notte, seguendo con gli occhi gli uccelli che volavano sul campo di battaglia, pregustando già il delizioso sapore dei morti in battaglia, per far dei cadaveri un banchetto. Seguì un uccello in particolare: nero e possente, che volteggiava come se fosse stato il più grande fra quelli. Ecco; se fosse stato un uccello quello sarebbe stato lui: solitario e temibile. Non c’erano donne nella sua vita, eccetto quelle schiave romane che gli spettavano per primo; ma quelle erano buone per un notte, nulla più... Alcune volte avrebbe voluto qualcuno al suo fianco che lo sostenesse: qualcuno che non fosse il luogotenente di turno, magari, ma una donna con cui condividere un letto. Il suo sguardo cadde su una collina, non troppo lontano dal campo di battaglia. Una folle idea attraversò come un lampo i suoi occhi: delineò la traiettoria di una freccia dalla cima del colle alla pianura; avrebbe potuto incendiare quelle frecce; e allora i romani sarebbero rimasti intrappolati nel loro stesso tranello. Era una buona idea...Era anche probabile che con la battaglia che infuriava nessuno l’avrebbe visto . Fare piani lo entusiasmava. Fece cenno al suo primo luogotenente: «Adomnan3!» lo chiamò «seguimi e porta con te cinque fra gli uomini migliori e alcuni pezzi di pietra focaia. Da’ ordini affinché vengano sparse delle sterpaglie lungo i lati del campo di battaglia.»
Dopo poco l’uomo lo seguì, facendo cenno ad altri cinque di seguirlo. Cavalcarono veloci verso i piedi della collina alle loro spalle. «Ci divideremo» spiegò a bassa voce «Uccideremo quanti sorprenderemo a fuggire. Una volta in postazione incendierete le frecce e le scoccherete, in modo da creare un cerchio di fuoco intorno ai romani. Intesi?» le reclute annuirono. Adomnan gli si accostò «Annienteremo i romani, ma potremmo rischiare di bruciare anche i nostri.» osservò. Vaughan si sentì contestato. Lo fulminò con uno sguardo glaciale e rispose, scandendo «Io sono il tuo comandante: fa’ come ti ordino.»
Una volta giunte a metà pendio, le reclute si sparpagliarono com’era stato loro ordinato. Adomnan si diresse verso il basso, cedendo a Vaughan l’onore si salire sulla cima più alta, come si confaceva ad un capo tribù sassone. Vaughan, eccitato e con la follia della guerra negli occhi, cominciò a risalire la collina.
 
 
 
 
Cecilia corse fino al monte più vicino. La notte era fredda nella terra degli Svevi. Erano a Bonna4, a quanto ne sapeva, che non era neppure molto a Nord, ma era sicuramente molto più fredda di Roma. Amante di un nobile incaricato della guerra, una donna di malaffare, non era abituata a quelle rigide temperature. Le truppe romane avevano perso la battaglia, battevano in ritirata. La notte era fredda, il dolore era pungente. In grembo aveva il figlio di un romano, l’avrebbero ammazzata senza pietà. La carnagione scura,  gli occhi scuri e i capelli neri come le ali di uno dei corvi che volteggiavano sopra il campo di battaglia erano la prova della sua origine del sud. Si accasciò sul pendio. Sentiva le urla della battaglia riecheggiare in lontananza. Un dolore lancinante la percosse tutta, ma era il freddo, mancavano ancora due mesi per la nascita del piccolo. Appena la pancia era diventata visibile, l’avevano sbattuta fuori dal lupanare, sulla strada. Allora aveva seguito il suo amante fino alla frontiera dov’era stato mandato. Aveva paura per lui, paura che fosse morto e paura di restare sola con un figlio da crescere: ma se qualcuno l’avesse trovata non ci sarebbe più stato alcun figlio, o alcuna vita per cui temere. Continuò ad arrancare sul fianco della collinetta. Non era molto alta, vista da dove si trovava ora, ma la battaglia non sarebbe mai finita per essere combattuta lì. Dall’alto osservò il campo di battaglia: i romani in ritirata e gli Svevi dietro di loro. Il fuoco bruciava la foresta nera e le fiamme alzavano alti muri invalicabili per gli Svevi,  all’inseguimento del suo uomo e dei suoi commilitoni. Era bellissimo, con la pelle chiara e i capelli scuri sembrava la statua marmorea di un dio. Gli occhi chiari erano troppo belli per essere veri. Bello, attraente e sensuale era altrettanto senza cuore... e Cecilia se ne rendeva perfettamente conto. La portava con lui solo per potersela spassare, fuori dal suo letto nella sua tenda non si accorgeva neppure mentre la vedeva passare: ma Cecilia lo amava e non poteva fare nulla contro di questo. Si convinceva che le voleva bene perlomeno, anche quando la picchiava. Aveva rischiato un paio di volte di perdere la gravidanza a causa sua. Ma era bello e troppo desiderabile per avvedersene... Un rumore la ridestò dai suoi pensieri. Si voltò di scatto, sentendosi stranamente osservata. La visione che ebbe non fu quello che si aspettava, né tantomeno quello che avrebbe voluto: un uomo inimmaginabilmente alto, con una pelle di animale a coprirgli il basso ventre. Una strana cintura che gli attraversava il petto  reggeva una lunga spada sulla schiena. Aveva un paio di calzari in pelle, con del pelo che usciva dall’interno, a riparargli dal freddo dal ginocchio in giù. Il viso era largo, i capelli lunghi e biondi, la barba rada dello stesso colore e gli occhi di un celeste chiarissimo la inchiodavano con la curiosità e il timore che si hanno del nemico. Quando aprì la bocca parlò in una lingua che lei non conosceva. Mosse la lancia in avanti, puntandogliela sotto il mento, e Cecilia si convinse che di lì a poco sarebbe morta.
 




NOTE DELL’AUTRICE:

1 Anno CMXXI ab Urbe condita= anno 916 dalla fondazione di Roma, praticamente il 163 d.C.
2Vaughan= non sono riuscita a trovare un vero nome sassone che mi convincesse, per cui è un nome celtico: chiedo venia!
3Adomnan= anche questo è un nome celtico.
4Bonna= è l’odierna Bonn.

Mi scuso se è un capitolo troppo corto, ma per il momento ho pensato di lasciare gli sviluppi della trama per dopo. Diciamo che questa è una sorta di introduzione ai personaggi.
04/10/2014: Il capitolo è stato revisionato.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***




Le persone raffigurate sono solo semplici prestavolto, senza alcun collegamento
con idee, opinioni e/o azioni con i personaggi descritti nella storia.



Capitolo II
 
 
 
«Fatti vedere, romana.» aveva ordinato Vaughan alla donna, puntandole la lancia sotto la gola. Quella aveva spalancato gli occhi. Erano due begli occhi scuri: le fiamme che rischiaravano la notte li facevano sembrare marrone scuro, come il tronco forte di una quercia; i capelli erano lunghi, ricci e neri. Era molto bassa rispetto a lui. Vaughan aveva notato che i romani erano sempre molto bassi rispetto ai popoli del Nord. Il suo volto non aveva il dono della bellezza secondo i canoni germanici, ma aveva la bellezza del sud. Aveva il viso affascinante, perfetto. Lui l’avrebbe definita “la più bella donna che avesse mai visto”. Ma era romana e meritava la morte. Il suo sguardo fu catturato dal ventre della donna. Era incinta... forse sette  o otto mesi. In grembo poteva avere l’umile contadino o il glorioso condottiero che avrebbe distrutto il suo popolo. Abbassò la lancia, puntandogliela contro il ventre. Ebbe la premura di tenerla lontana, senza toccare la pelle tesa. Lei parlò in latino «In nome degli dèi chiedo pietà.» sussurrò. Questo lo capì bene: era la stessa frase che gli dicevano tutti i romani che sconfiggeva, un attimo prima che staccasse la testa dal loro collo.
«Tu parli la mia lingua?» chiese.
La donna non capì. Allora si avvicinò e le si rivolse in greco. «Tu parli greco?»
Quella non capì di nuovo. Decise di tentare con il latino. «No pietà né donne né bambini.» quella spalancò gli occhi ancora di più, quando Vaughan le si avvicinò, mettendo mano alla spada sulla schiena. La donna urlò. Vaughan si avventò su di lei, la costrinse a terra, tappandole la bocca. «No faccio male.» lei cominciò a dimenarsi, chiudendo le gambe e piangendo. Lì comprese che la donna aveva frainteso le sue intenzioni. Ma non poteva dirle di stare tranquilla perché lui non voleva stuprarla ma ammazzarla...  «Io Vaughan. Tu chi sei?» sembrò tranquillizzarsi. Vaughan sentì la sua voce per la prima volta «Io sono Cecilia.» era una voce di donna, proprio come la voce delle donne del villaggio, senza la minima differenza nonostante la diversa provenienza. Dire che ne fu sorpreso sarebbe sbagliato, ma provò uno stano senso di compassione.  Si ricordò dell’attacco. Guardò a valle e vide che i romani erano in trappola, non c’era più bisogno del suo contributo. Allora prese la corda che aveva attaccata alla cintura. Prese le mani della donna e le legò. Con la testa le fece cenno di seguirlo e quella obbedì senza fare storie.  Scese dalla collina in fretta e issò la donna sul suo cavallo, aspettando che gli altri facessero ritorno. I primi ad arrivare furono due reclute, seguite dalle altre tre. Adomnan scese per ultimo. Vedendolo chiese «Vaughan, dove portate quella donna?»
«È  una prigioniera.» non fece caso al tono con cui Adomnan si rivolgeva a lui, chiamandolo per nome.
«Avevate ordinato che non venisse concessa pietà a nessuno.»
«Si» disse calmo «l’ho fatto. Hai intenzione di contestarmi?» Detto questo montò sul dorso della bestia. Sentì la donna lamentarsi: i romani erano abituati a cavalcare con la sella, ma i germani lo avevano da sempre fatto senza. Cavalcò in testa al gruppo, com’era giusto che fosse, fiancheggiato dal luogotenente. Non spronò il cavallo, c’era il pericolo che la romana perdesse la gravidanza, se gettava il cavallo al galoppo. Una piccola parte dell’esercito romano si era salvata fuggendo per la foresta, ma ne avevano uccisi abbastanza da guadagnare almeno sei mesi di pace assoluta.  Scese da cavallo e andò incontro al suo secondo luogotenente Fearchar1, informandolo della situazione. Adomnan smontò da cavallo e costrinse la donna a scendere a sua volta dal cavallo di Vaughan. Per un attimo fece finta di non vedere, ma poi non ci riuscì. La tirò giù senza il minimo riguardo per la sua condizione, strattonandola.  La donna ricominciò a piangere. Vaughan s’impose di intromettersi... dapprima si irritò...
«Adomnan!» lo fermò in tono autoritario «chi ti ha detto di farla scendere?»
Lui sospirò. «La porto ai soldati, com’è giusto che sia. Voi avete privato loro delle schiave comuni, perché dovreste tenervi l’unica donna catturata per il vostro godimento. Un capo deve pensare al popolo.»
 A quel punto si infuriò. «Ne farò ciò che io vorrò. Non contraddirmi, sei solo un inetto troppo giovane per saper fare il capo.» l’apostrofò.
«Il vostro cuore si è rammollito, come voi del resto...» gli urlò dietro. «Non siete più l’uomo forte e vero che eravate un tempo. Ormai avete trenta... quanti trent’otto anni?» sorrise maligno «È   il momento che voi cediate il passo ad un uomo più amato dal popolo.» sguainò la spada. La donna strepitò, gli uomini sembravano spaesati e confusi. Adomnan gettò la donna a terra.  Vaughan la afferrò per le braccia, la tirò su velocemente e la spinse verso Fearchar, mentre impugnava la lancia con maggior forza, gettando la spada a terra. Prese la lancia con due mani e rispose al traditore. Adomnan si avventò contro di lui, calò la spada sulla sua testa. Vaughan parò il colpo, e con una serie di movimenti rapidi e fulminei disarmò l’avversario. I suoi occhi chiedevano pietà per l’errore commesso, rivelato da poche semplici manovre di un combattente esperto. Le parole del suo predecessore gli riecheggiarono della testa “Non c’è pietà per quelli che hanno osato tradire la nostra fiducia”. Infilzò il ventre di Adomnan sulla lancia, da parte a parte. Il sangue scorse veloce fuori dalla ferita profonda e mortale. Un rivolo rosso gli fuoriuscì dalla bocca, tossì un paio di volte, fino a sputare sangue su Vaughan che gli era di fronte. Il sangue zampillò allegro da dietro la sua schiena, dove fuoriusciva la lancia del vincitore. Sollevò la lancia con l’uomo morto fra le acclamazioni del resto degli uomini. Ad un tratto si rese conto che Adomnan era ancora vivo... un lampo di pura follia lo illuminò. Tenendolo in piedi appeso alla lancia, Vaughan affondò la mano della carne viva del suo avversario, afferrò le interiora, e con quanta più forza aveva le strappò via dal corpo. L’uomo si contorse e gridò per l’atroce dolore, ma le sua grida furono sovrastate dalle acclamazioni di gloria per Vaughan. Con i suoi visceri ancora pulsanti in mano, scaraventò Adomnan a terra, sfilandolo dalla lancia. Poi sollevò la lancia insanguinata e le interiora fra le acclamazione dei soldati che, raccolti in cerchio attorno a lui, assistevano al raccapricciante spettacolo. La donna svenne. «Tutti sono puniti!» gridò «Non osate mai tradirmi!» Gettò le interiora di Adomnan sopra il suo corpo esanime. Passò gli occhi su ogni volto che aveva davanti a lui. «Ora avete capito perché i romani ci battono?» urlò «Perché noi non siamo uniti! Sfrutteranno le faide che dilaniano il nostro popolo per conquistarci: per toglierci l’onore, la felicità, il calore di una donna. Se ci sconfiggeranno ci toglieranno la nostra liberà; che abbiamo ottenuto grazie al sangue dei nostri padri e al sudore della nostra fronte!» gli uomini agitarono le armi gridando parole d’approvazione «Unitevi sotto di me: ed io e i miei successori non vi deluderemo.» concluse. Passando, nessun uomo non fece caso al cadavere, ormai irriconoscibile, di Adomnan steso a terra. Vaughan fu ben contento di lasciarlo dai corvi.
 
 
 
Cecilia si risvegliò in una tenda. Era stesa su una lettiga, o qualcosa del genere. Era circondata da lana e coperte di stoffa pesante, anche un paio di pellicce. Si sentiva al caldo. Si mise a sedere, con la testa pesante e le mani sul pancione. Ci mise un po’ per ricordarsi di essere stata catturata e essere svenuta alla vista di... ripensandoci le veniva il voltastomaco. Si sentiva stanca, ma stava bene. Aveva avuto paura che quello svevo avesse voluto violentarla, ma evidentemente non era così. La tenda si scostò. Entrò una donna  di mezza età, dalla pelle chiara e dai capelli biondi che le scendevano sulle spalle. Questa le sorrise e le fece cenno di star ferma: allora si mise da una parte, in silenzio. Poi entrò un uomo. Riconobbe in lui lo svevo che l’aveva fatta schiava; si chiamava Vul... Vuga... non riusciva a ricordarlo... Era vestito con una tunica corta, di pelle. Si batté il petto. «Vaughan.» disse. Si sedette a terra accanto a lei, con un gesto talmente naturale ed un’agilità che lei, incinta o no, non avrebbe mai avuto.
«Cecilia.» disse lei, ripetendo il gesto. Lui allora sposto la sua mano sul pancione. «Padre morto?» lei fece spallucce; non lo sapeva... dopo che avevano incendiato tutto erano poche le possibilità che si fosse salvato. Sentiva mani dure ma gentili del barbaro, che sfioravano le sue...
«Romano?» chiese lui.
Lei annuì.
«Tu romana?» chiese.
«Ispanica.»
«Sud.» affermò lui convinto.
«Tu sei uno svevo?»
L’uomo sorrise, rimpicciolì gli occhi azzurri e scosse la testa: non aveva capito. Cecilia gli mise una mano sul petto. Sentì battere il cuore selvaggio di barbaro sotto la veste... batteva come quello di un romano, senza differenza alcuna...  «Svevo.»
«Sassone.» precisò lui.
«Oh.» si lasciò sfuggire, ritirando la mano.
La donna bionda parlò con il sassone. Parlarono per poco, ma Cecilia non capì cosa stavano dicendo. Distinse il suo nome fra le parole straniere.
Il sassone si voltò verso di lei. «Tu è fame?»
Sorrise. «Molta fame.»
«Sete?» chiese.
Annuì. Lui le sorrise rassicurante, voltò e parlò con la donna bionda. Alla fine del veloce scambio di battute la donna annuì ed uscì. «Lui» indicò la donna bionda appena uscita.
«Lei.» lo corresse.
 L’uomo rise: «Lei, aiuta con...» cercò le parole. «...bambino.»
Capì: doveva essere la levatrice del villaggio, o qualcosa del genere. L’avrebbe aiutata a partorire quando sarebbe stato il momento. Annuì. «Fra poco porta carne e acqua.»
Cecilia annuì. D’un tratto si sentì triste, pensando a cosa le sarebbe capitato in mano ai sassoni...«Bene?» le chiese lui preoccupato.
Annuì.
«Tra cinque giorni. Noi parto per... casa. Più nord. Tu può viaggio?»
 Cecilia tornò a pensare alla notte prima. “No pietà né donne né bambini”. «Perché?»
Lui si fece serio. «Cosa?»
«Tu» lo indico «noi» indicò lei e la pancia «ucciderai?»
Lui abbassò la testa, ma poi la guardò negli occhi. Mosse lentamente la testa da lato a lato. «Tu donna. Donne no interessa in guerra. Tu qui fino a che nasce.» sentenziò, alzandosi. «Dopo vuoi, puoi andare.»
«E se volessimo restare?» chiese. L’uomo non capì, e storse la testa. Allora indicò lei e il suo pancione «Qui. Per sempre?» Lui sorrise e disse qualcosa nella sua lingua, poi tradusse in latino «Benvenuta nella tribù dei sassoni, Cicilia.»
«Cecilia.» lo corresse.
«Si, Cicilia. Io sono Vaughan, capotribù.» così dicendo lasciò Cecilia da sola nella tenda. La notte prima aveva temuto per la sua vita, ma non c’era ragione di temere... ricordava qualcosa sull’ospitalità sacra per i germani, ma credeva che non valesse per i Romani. “Le donne no interessate a guerra” aveva detto. Il suo modo di parlare latino le faceva ridere. “Cicilia”, così l’aveva chiamata. Era un uomo alto e robusto, ma di certo ce n’erano di più belli. Ma, per indole, per volontà o anche solo perché non sapeva parlare bene latino, era simpatico. Simpatico: l’uomo che la notte prima aveva strappato gli organi interni dal ventre... no, basta... non sarebbe riuscita più a mangiare la carne se ci avesse pensato anche solo un momento di più. Aveva detto di essere il capotribù, sembrava autoritario e serioso, ma doveva essere simpatico... aveva il senso dell’humor... la donna bionda rientrò nella tenda. Le pose vicino alla lettiga un pezzo di carne cotta e calda, con una sacca per bevande che presumibilmente conteneva acqua. Cecilia mangiò avidamente la carne: era un piatto ricco, non lo aveva mangiato spesso a Roma. Bevve acqua e si sdraiò di nuovo. La donna si abbassò sulla lettiga e le mise una mano sulla fronte. Le sorrise. Si addormentò velocemente, sapendo di aver trovato una casa migliore del postribolo e, forse, anche di Roma...





NOTE DELL’ AUTRICE:
1Fearchar= non è un nome germanico, ma celtico-irlandese.
Ultima revisione 22/01/2015

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***




Le persone raffigurate sono solo semplici prestavolto, senza alcun collegamento
con idee, opinioni e/o azioni con i personaggi descritti nella storia.


 






Capitolo III


  

QUINDICI GIORNI DOPO

ROMA

 
 
Marco Giulio Flaviano fece ritorno a Roma due settimane dopo la disastrosa battaglia. Già dalle possenti mura si sentì in colpa, pensando alla grandezza e alla magnificenza della Roma che aveva tanto facilmente deluso. E sapeva bene che Roma non perdonava i falliti. I sassoni, alleati degli svevi, li avevano praticamente trucidati. Aveva sentito molte voci sulla loro famigerata belligeranza, ma quello che aveva vissuto era praticamente un’ incubo. Aveva perso due terzi del suo esercito...  il “suo”era un eufemismo: quello che gli avevano affidato i senatori. Aveva una tremenda paura di essere visto come una disgrazia per la sua famiglia. Aveva perso anche Demetrio, il suo servitore fidato. Oh, si, anche la puttana: ma poteva facilmente procurarsene un’altra, magari non incinta. Infondo era felice e sollevato di essersi liberato di Cecilia, che avrebbe gettato disonore su tutti se avesse dichiarato che il padre del bambino era lui. Discendente da una famiglia di alto lignaggio, Marco era stato designato per ricacciare le popolazione romane stanziate più vicine al confine. Fra di queste c’erano gli svevi, sfortunatamente alleati dei sassoni. E la tribù sassone che li aveva sconfitti era capeggiata da Vaughan. Si sentiva parlare di lui, lungo il confine. Era un figlio di povera gente, forte come un orso e spietato come pochi, che era finito per essere tanto forte e autoritario, da essere eletto capo dalla tribù, alla morte del precedente. Si fece forza, percorrendo a piedi la strada che portava al foro. Aveva appuntamento con il senatore Titurio, era lui che gli aveva dato sostegno con l’imperatore. Pur essendo senatore, suo padre non era abbastanza influente da poter incidere sulle decisioni dell’imperatore; a quel punto allora era servito l’appoggio del senatore che, fra tutti, aveva più influenza sull’imperatore: quell’uomo era Titurio. Era un uomo di età avanzata, basso e dai capelli canuti, con una volontà ferrea e un modo di fare e parlare che avrebbe messo in soggezione anche lo stesso imperatore. Ma anche l’ Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto non era facile da ammaestrare: “un filosofo non cambia idea facilmente, ed un imperatore filosofo non può essere diverso” diceva suo padre.  Titurio  era un amico di vecchia data dell’imperatore (conosciuto nell’esercito, quando Marco Aurelio era solo un giovane comandante figlio adottivo di Antonino Pio) ed ancor più di Lucio Vero, l’uomo che affiancava Marco Aurelio nelle decisioni di Stato. Al centro del foro c’era un oratore piuttosto convincente che teneva un discorso sulle ingiustizie compiute da un senatore, a quanto poteva capire, ma non se ne curò molto. Arrivò sotto il portico e cominciò a passarlo in rassegna alla ricerca del suo uomo. Le statue marmoree dipinte con quei vividi colori sembravano prendere vita. Erano molte le persone che, fermandosi ad ammirarle, cominciavano a discutere fra loro delle imprese o dei prodigi dell’eroe, del dio o dell’importante personaggio a cui era dedicata la statua. In uno di quei gruppi intravide Iolanda Quintilia, la bella figlia del senatore Quintilio. Annoiata aveva portato la candida mano sulla guancia morbida, appoggiandosi. Annuiva sorridente all’uomo che le parlava, ma sembrava pensare ad altro. Marco ci aveva parlato diverse volte, visto che suo padre era un senatore della stessa compagine del suo. Lei, probabilmente notandolo, assunse un sorrisetto malizioso e irriverente, scostò la mano e mostrò le labbra socchiuse e tinte di rosso. Sugli occhi aveva una polverella colorata, ma Marco non ricordava il nome; ricordava solo che lo metteva anche sua madre. Aveva una veste ricca, come si addiceva ad una giovane donna in età da marito. Marco, di tanto in tanto, la osservava mentre giocava a palla con le sue amiche, alle terme. Era sensuale e vederla sudata e con la pelle madida gli faceva venire in mente altre idee, poco carine da esprimere con una nobildonna. Le rivolse un cenno della mano e lei rispose con un leggero inchino della testa, per poi continuare a sorridere maliziosa, con la mano sotto il mento, dando l’impressione di ascoltare l’uomo nella sua improvvisata e soporifera lezione sulla dea Demetra. Da lontano lo sentiva parlare: «Anche Cicerone parlò di Cerere, sapete? Fu al processo contro Verre, quando...» doveva essere “molto interessante”... Le sorrise e passò oltre. La gelosia non lo sfiorò neppure: quel babbeo non aveva la minima possibilità. Continuò a camminare, con lunghe falcate che suddividevano il lungo porticato. Ad un tratto intravide fra la gente che parlava il senatore Titurio. Armatosi di coraggio, lo raggiunse. Si asciugò le mani sudate sulla tunica leggera dell’estate. «Buon giorno, senatore.» gli si rivolse per primo, con un leggero cenno del capo.
«È un buon giorno davvero, Giulio Flaviano.» rispose ambiguo, con quell’espressione che a Marco non piaceva affatto. «Un uccellino, un po’ di tempo fa, mi disse che le truppe romane erano state massacrate ed eliminate in battaglia contro gli svevi. Ora voglio sperare che quell’uccellino non stesse parlando delle truppe che io ho convinto l’imperatore a concederti.»
«Senatore, nonostante la situazione del tutto critica, sono riuscito a salvare un ter...» il senatore lo interruppe con un cenno della mano. «Non ci sono scusanti. Tu mi avevi assicurato una grandiosa strategia di guerra, come mai se n’erano viste per eliminare il problema dei germani alla radice, ma a quanto pare sono stati gli svevi ad eliminare alla radice le nostre truppe! Marco Aurelio girava per la sua villa sbattendo la testa contro i muri, quando gliel’ho detto! Io sono da sempre stato un caro amico della tua famiglia, ma sono soprattutto un uomo influente, Giulio Flaviano, molto influente. E così come posso convincere l’imperatore a darvi le nostre migliori truppe, posso convincerlo a staccarvi la testa e ad infilzarla su una qualsiasi di quelle picche!» disse indicando i rostri, da dove, tante di quelle volte nella storia di Roma, erano state esposte le teste mozzate dei nemici della patria, ancora gocciolanti di sangue.
Lui sospirò. «Non gli svevi: i loro alleati.»
«Quali?» sembrava scettico.
«I sassoni.»
«Roma non teme né gli uni né gli altri.» proclamò, ma poi si corresse «Un buon generale, lui si che non temerebbe né gli uni né gli altri, ma a quanto pare il nostro generale non si è rivelato essere così buono. Vattene e trovati un altro modo per occupare il tempo, invece di perdere guerre. Puoi scordarti che io interceda per te ancora una volta con l’imperatore. Mi hai deluso enormemente Giulio Flaviano. Enormemente.  Hai gettato fango su Roma, e tutta Roma sa che io ho favorito te agli altri candidati per condurre la guerra. Se vorrai condurre di nuovo un’impresa, ti conviene cambiare nome, aspettando che io muoia.» detto questo se ne andò, senza aggiungere altro. “Roma non teme i barbari?” pensò Marco. “No, Roma ne ha un terrore immenso.”
 

 
 
Maximus giocava a rincorrere i suoi fratelli per la strada polverosa della periferia romana. Il fratello Menio non era molto veloce, e per Maximus fu facile raggiungerlo. Maximus era il più piccolo di cinque figli. Menio aveva un anno in più. Ancora prima c’erano Gaio, Gneo e Lucius. Lucius era il più forte e Maximus avrebbe voluto essere come lui, più di qualsiasi altra cosa; ma Maximus aveva solo tre anni, ed era presto per lui per pensare al futuro. Per il momento correva lungo le strade della Suburra, cercando di acciuffare anche Gaio, che era il più veloce fra loro tre. Maximus aveva anche due sorelle: Aemilia e Livia, entrambe più grandi li lui, Livia stava per sposarsi, mentre Aemilia lo era già da due anni, e aveva due figli dell’età di Maximus. Inutile dire che Maximus era rimasto un po’ deluso, sapendo che non sarebbe stato chiamato “zio Maximus”. Era una frase che lo faceva sentire grande, e Maximus voleva diventare grande il più presto possibile. Correndo si scontrò contro un paio di ricconi... ma non si fermava mai a chiedere scusa a quegli stessi che se ne stavano ridendo e scherzando, vedendo uno dei tanti incendi quotidiani prendere piede, di palazzo in palazzo, in una zona periferica qualsiasi. Sapeva che nella Suburra era nato anche Giulio Cesare: “È  un quartiere promettente!” diceva suo padre. Quando gli chiedevano cosa volesse fare da grande lui rispondeva intrepido: «Voglio conquistare la Gallia!» poi gli avevano detto che i galli erano stati conquistati... e la sua attenzione si era spostata sui germani. “I barbari bellicosi del nord che uccidono uomini con la stessa facilità con cui i contadini raccolgono il grano” diceva sua madre, prima di farlo addormentare. Allora lui tutto preoccupato chiedeva se i germani venissero la notte. La mamma rideva dicendo “No, sono troppo lontani!” E Maximus allora prometteva che sarebbe andato contro  germani per salvare la sua famiglia, un giorno. Passò di corsa avanti a quello che sua madre chiamava “bordello”. Ogni tanto suo padre ci ronzava intorno, Maximus pensava che doveva una specie di locanda: si, era sicuramente così. Intravide i capelli castani di Gaio ondeggiare avanti a lui. C’era quasi. I sandali leggeri erano ben stretti intorno alle sue gambette esili di bambino, ma guai a farglielo notare. Aveva il viso paffutello e un’espressione che ispirava simpatia: ma nessuno dei due gli sarebbe servito per raggiungere Gaio.  «Maximus!» chiamava sua madre « Menio! Gaio!» continuava, distraendolo. «È  ora di mangiare!»
«Eccomi.» sentì arrendersi Menio. Ma Gaio era troppo vicino per lasciarlo andare. Muoveva le gambe sempre più veloci, ed ora non sarebbe riuscito a fermarsi neppure se avesse voluto. I crampi della fame gli attanagliavano lo stomaco, ma strinse i denti: voleva assolutamente dimostrare di essere più veloce di Gaio. Aveva quattro anni di differenza con lui, che ne aveva sette. Protese una mano in avanti, sfiorando la tunica ispida che vestiva quel giorno. Ad un tratto il sandalo sinistro si slacciò, Maximus pestò uno sei lacci e cadde rovinosamente a terra, sbucciandosi le ginocchia. Gaio sentendo il tonfo si voltò e corse da lui.  «Ti sei fatto male Maximus?» chiese preoccupato, incurante della gente che rischiava di schiacciare i due bambini.  Maximus, dolorante e con il sangue che sembrava non voler più smettere di fluire, strinse forte i denti e annuì.  «Fa’ vedere.» disse, scostando delicatamente la mano di Maximus. Arricciò le labbra, poi lo aiutò ad alzarsi «Andiamo alla fonte a lavare la ferita.» lo esortò. Passarono il quartiere, muovendosi fra le matrone dell’alta società, truccate e con i capelli biondi finti, acquistati al Nord. Maximus la trovava una cosa ridicola, erano buffe con i ciuffi scuri sotto e i capelli biondissimi sopra. La ferita gli bruciò e lui fece affidamento su Gaio per non cadere. Sentì un uomo toccargli la spalla. Si voltò e lo riconobbe subito. Lucius gli sorrise, poi gli fece cenno di muoversi contro di lui. Maximus di appoggiò e Lucius lo tirò su. Era così fiero del fratello maggiore che era entrato nell’esercito!  «Cos’ha fatto?» chiese a Gaio.
«È  caduto mentre stavamo giocando.» rispose lui. Lucius lo portò alla fontanella dell’acqua, e si misero in fila. C’erano tre donne che stavano prendendo l’acqua con delle brocche grandi e capenti. Lucius aveva diciotto anni, ed ora sarebbe partito per essere un cavaliere nell’esercito. L’avevano scelto come cavaliere perché era più alto della media, ed era facile per lui tenersi sopra il cavallo. Andava in palestra da quando aveva dodici anni ed era diventato veramente forte. Lo issò sul bordo, mettendolo con le gambe sotto il getto d’acqua. Il dolore che sentiva era un dolore buono, come quando si toglieva una scheggia di legno dal dito. Lucius passò un pezzo della sua tunica sulla sua gamba, tamponando, per asciugare.
«Dovevi tornare a casa subito!»
«Volevo prendere Gaio.» rispose sincero, con le guance imporporate.
Lucius sorrise benevolo e gli arruffò i capelli. «Sei il mio fratellino forte Maximus. Un giorno prenderai anche me.» scherzò. Maximus sorrise di rimando e balzò giù dalla fontana. Gaio lo riprese «Se cadi di nuovo ti meno!» disse severo. Maximus sentì Lucius ridere, ma non sapeva bene perché. Prese Lucius per la mano, mentre Gaio li fiancheggiava. «Tu non mi prendi la mano, Gaio?» chiese Lucius divertito.
«Non sono mica un moccioso io.» rispose lui, seccato: chissà perché era seccato? Per Lucius? Maximus stravedeva per lui: e un giorno sapeva che sarebbe stato come lui; alto, forte e, soprattutto, soldato. Muovendosi fra le strade affollate Lucius li condusse a casa. Vivevano al piano terra di uno dei palazzi migliori, costruito per la maggior parte in pietra. Nei caldi giorni d’estate, il padre portava fuori la tavola e mangiavano lì. Erano tutti fuori, aspettandoli.
«Lucius!» chiamò sua madre.
«Tutto bene, madre.» rispose prontamente il fratello. «Maximus è solo caduto.»
Vide l’ansia sul suo viso. Corse verso di lui, lo prese per i polsi e, abbassandosi per guardarlo negli occhi, scandì. «Quando ti chiamo devi venire subito qui, intesi?» sua madre era una donna minuta che aveva quasi trentotto anni, con la pelle chiara occhi marroni e capelli castani e di media lunghezza, raccolti sulla testa.
«Perdonatemi, madre.» si scusò. Vide suo padre seduto al tavolo. Era un uomo alto e dalla pelle scura e macchiata dal sole. Era un artigiano e produceva vasellame e tinture per le case dei patrizi.
«Ora sedetevi e mangiamo.» concluse il padre, facendo cenno alla moglie di andare a prendere il cibo scaldato. Maximus annusò il buon odore proveniente della cucina. Si sedette accanto a Lucius e alla madre. Sorrise al fratello mentre la madre gli faceva il piatto, infine prese un pezzo di pane nero e lo mise il bocca affamato.
 
 


 
TERRE DEI SASSONI
 
 
Vaughan pose fine all’assemblea dei guerrieri quando il sole stava calando. Uscì dalla grande capanna dove l’avevano tenuto. Tornando a Nord avevano fatto razzie in un paio di villaggi nemici: ricco bottino e poca resistenza, ottime cose. Passò davanti al grande falò, sempre acceso negli ultimi giorni, per andare verso la sua capanna. «Mio signore Vaughan!» lo richiamò Fearchar «Avete scordato la lancia appoggiata alla parete.» disse porgendogliela con riverenza.
Vaughan sorrise: «Ti ringrazio, Fearchar. La vecchiaia, eh!» Fearchar rise.
«Mio signore.» lo chiamò Helga, la levatrice.
«Sì?»
«La romana, è all’ottavo mese. Qualcuno deve spiegarle che deve mangiare la carne. Non posso più lavorare così: non mangia carne, non mangia questo, non mangia quello; deve accontentarsi o qui non sopravvivono né madre né figlio.» aveva l’aria arrabbiata. Non andava d’accordo con Cicilia, diceva che era spocchiosa, anche se in realtà era solo spaesata.  A lui invece la romana piaceva, e non poco... Durante il viaggio avevano parlato un po’. Era l’unico con cui riuscisse a farsi capire. Parlando aveva notato che era sagace e divertente; interessante, intrigante... poi era venuto fuori che era un prostituta. Appena lo aveva intuito le sue guance erano andate in fiamme e si era sentito a disagio. “No mio affare” aveva detto in latino alzando le mani e astenendosi dal giudicarla. «Ci penso io.»
Vaughan sapeva che a Roma molti mangiavano solo verdure o pesce. Ma nelle loro vicinanze c’erano solo fiumiciattoli senza pesci e scarse possibilità di coltivazione. «È  a scaldarsi vicino al falò. Questa poi: sembra che muoia per un po’ di freddo, la stagione non è poi così rigida! Potrebbe anche andare a letto vista la sua condizione. Le è stata assegnata una piccola capanna ed è bene che la sfrutti.»
«Ha freddo, Helga, non è abituata.»
Quella schioccò le labbra e si allontanò. «Le vado a prendere delle erbe per un infuso. Ha la nausea da mezzodì.»
Lui raggiunse il falò a passo svelto. «Cicilia.» la chiamò «Dovresti andare a letto.»
Lei si sforzò di parlare sassone. «Freddo.»
«Lo so, ma dovresti stenderti.»
Scosse la testa. «Non capisco.»
«Tu dovere stare a letto.» balbettò in latino.
«Troppo fretto.» rispose tornando alla lingua barbara.
«Ti porto delle coperte, va bene? Va’, dai». Le porse la sua mano libera, essendo l’altra occupata dalla lancia.
«Io non riesco alzarmi. Io... sono male.» mormorò. Impiegò un po’ per capire che voleva dire di sentirsi male.
«Ti aiuto io, non c’è problema». Le prese una mano. «Perché ti senti male?»
«Io... testa fa male».
«Ti gira la testa?» chiese per chiarire. Lei annuì.
«Ti devi nutrire di più. Con la carne.»
«Io non piaccio carne.»
«Lo so, ma qui non abbiamo quello che puoi mangiare a Roma. O la carne o tu e tuo figlio morite.»
Abbassò lo sguardo, cominciando a piangere. «Cicilia, non fare così» le sussurrò carezzevole, inginocchiandosi davanti a lei, ancora seduta. «Cos’hai?» appoggiò la lancia a terra per prenderle le spalle fra le mani.
«Io so che sono schiava, ma perché tu uccide se io non mangia carne...»
«Io non...» sorrise «Non lo farei mai. Tu ti senti male perché non mangi abbastanza. Non hai abbastanza energie per entrambi. Ed è pericoloso sia per te che per il tuo bambino. La carne ti serve, ti dà più nutrimento.»
Lei si sorprese, poi si mise a ridere mentre asciugava le lacrime con la manica pesante. «Stupida io!» rise.
Gli uomini dicevano che le donne in gravidanza erano soggette a frequenti sbalzi d’umore... doveva essere così, pensò. Vaughan le sorrise: «Dai, andiamo.»
Cicilia si alzò aggrappandosi a lui. Gli piaceva la sensazione di una donna che si affidava a lui. Erano anni che proteggeva il villaggio per le mogli e le famiglie altrui. E la sua famiglia? Sua moglie? Per un attimo fantasticò su Cicilia come sua moglie, se la immaginò nuda a fare l’amore con lui... Che cretino; fantasticare su una donna incinta di un altro! La portò fino alla piccola capanna che le aveva fatto assegnare. La accompagnò all’interno. «Siedi sul letto.» Era un letto fatto con la lana delle pecore che allevavano nella tribù. Era tutti fatti così, in modo da essere caldi.  La accompagnò a sedersi e, quando lei fu ben salda nella sua posizione, andò ad accenderle il fuoco nel piccolo focolare di pietra, come il resto della capanna. Erano poche le capanne effettivamente fatte di paglia. Quando non era ancora capotribù aveva visto fin troppo villaggi rasi al suolo da un fuoco spento male o da una scintilla andata nel posto sbagliato. Così le case del villaggio le aveva fatte costruire in pietra. Non erano certo le pietre che usavano i romani per le loro mura e città; erano pietre irregolari, tenute insieme da vari materiali fusi, un po’ di paglia e terra.
«Sei stanca?»
«Sempre più.» rise.
Vaughan, una volta acceso il fuoco grazie alla pietra focaia, si alzò, riprese la lancia che aveva appoggiato alla parete: «Mio signore?»
«Chiamami Vaughan.»
«Muove...» sussurrò. Vaughan le sorrise e si avvicinò, stese la mano sopra il suo pancione e la guardò, le annuì e solo allora Vaughan appoggiò la sua rude mano barbara sopra un piccolo esserino romano. Lo sentiva muoversi... Doveva essere magnifico diventare genitori.
«Suo padre, come si chiamava?»
Lei esitò. «Capo romano: Marco.» rispose alla fine.
Helga entrò: «Mio signore Vaughan: ecco le erbe e l’acqua per l’infuso.» Vaughan tolse la mano dal ventre di Cicilia, imbarazzato. «Grazie, Helga. Potresti andare nella mia capanna e prendere le coperte di lana?»
La donna si guardò intorno, appoggiò a terra il cestino con le erbe e la ciotola ferrea con l’acqua. «Subito». Uscì con un aria seccata. Vaughan si alzò e portò il tutto vicino al fuoco. Si strappò un lembo della tunica lunga e vi avvolse le erbe, annodandolo alla fine. Immerse il fagottino nell’acqua e l’avvicinò al fuoco.
«Sei gentile.»
Vaughan sorrise. «No... o perlomeno nessuno me lo ha mai fatto notare.»
«Tu gentile a prepara... erbe per me.» scivolò con la schiena fino ad arrivare a sdraiarsi completamente.
Vaughan le si sedette vicino di nuovo. «Ti manca Roma?»
«Io fa puttana a Roma... non manca, no.»
«Non ti mancano neppure le persone? Hai fratelli o sorelle?»
«No.  A me non sono fratelli o sorelle ancora vivi. A me era un fratello più grande, però lui morto perché... fuoco...» gesticolò con le mani, facendogli capire che era morto in un incendio. «Tu?»
«Io ho un fratello, poi molte sorelle. Le mie sorelle però sono tutte sposate con uomini di altre tribù e non sono qui. Mio fratello invece vive qui. È  Olaf.»
Lei annuì. «Tu... simile... poco poco. Lui però sempre...Sssh.» portò l’indice alle labbra.
«Sì, è vero. Lui non parla molto;» rise  «come te.»
«Io parla tanto in Roma, ma qui io non parla tua linguaggio!» rise.
Vaughan rise, alzandosi. Tolse la ciotola dal fuoco, afferrandola con il mantello,  e con le dita tolse il fagottino di erbe. «Ahi! Maledizione!» imprecò, scottandosi con l’acqua bollente. Appoggiò l’infuso sulla pietra dal focolare, si tolse il mantello e ve lo avvolse, portandolo a Cicilia.
«Tu bene?»
«Sì. Ma fai attenzione, aspetta prima di bere: scotta.»
Storse la testa.
«Brucia... è troppo caldo.»
«Oh!» esclamò comprendendo. Prese il mantello che avvolgeva l’infuso. Vaughan glielo passò delicatamente, arrivando a sfiorarle le mani. Quando le lambì le dita le sorrise, fissandole intensamente gli occhi scurissimi. Lei gli accarezzò una mano. «Grazie...»
Helga entrò di nuovo, lanciando un occhiata di ammonizione a Vaughan. Lui si alzò all’istante. Riprese la lancia ed il mantello, non appena Cicilia lo ebbe sostituito con una coperta. Una volta che Helga stese le coperte, la salutò. «Per cena ti farò portare della carne: tu mangiala, sforzati.»
Lei annuì, sorridendogli. «Grazie, mio signore Vaughan.»
«Non ringraziarmi». Le sorrise.
Uscì dalla capanna con Helga. «Siete molto sensibile al fascino romano, non è vero mio signore?» rise di lui la vecchia.
Vaughan sorrise sotto i baffi.
 
Realizzò che non gli importava se era incinta di un altro.






NOTE DELL'AUTRICE:
ultima revisione:12/02/2015

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

 
QUATTRO MESI DOPO
CIRENAICA, CONFINE DELLE TERRE DI ROMA
 
Lucius fu spedito in un avamposto all’estremo sud: il granaio del mediterraneo in fiore era uno spettacolo da lasciare senza fiato. L’addestramento era duro, ma per la maggior parte delle sere stava in compagnia dei suoi commilitoni, con cui sapeva che avrebbe diviso lutti e vittorie in battaglia. Una di quelle sere, neppure lui sapeva come, si ritrovò nel bordello a parlare con Decio, ubriaco come una spugna, delle legioni che andavano verso Nord. I suoi amici volevano tutti partire per il Nord, dando finalmente una lezione ai barbari. Decio parlava biascicando le parole, battendo il pugno contro il tavolo di legno scadente, come quello dove mangiava quando era ragazzino. «Io mi sento fortunato ad essere venuto qui!» proclamò«Il Nord è pieno di barbari inospitali, ignoranti e donne fredde! A Sud si sta meglio: abbiamo vino, cibo in abbondanza...» prese una prostituta che passava e se la mise a sedere sulle gambe «...e belle donne calde e accoglienti!» cominciò a ridere come un ebete, non accorgendosi che gli altri non stavano affatto ridendo. A Lucius facevano schifo gli ubriachi: tutte le volte che suo padre era tornato a casa ubriaco - cosa che succedeva molto spesso quando lui era un bambino -  aveva finito per picchiare sua madre. Era la sesta volta in due settimane che Lucius trovava Decio in quello stato, e sicuramente altre innumerevoli volte non si era fatto trovare: la parte più intransigente e dura di lui sperava che lo punissero per la sua condotta. Fabio il moro, un altro suo compagno d’armi, un giovane dalla pelle nera, lo tirò per un braccio per portarlo via. Lucius si ritrovò circuito dalla prostituta chiamata da Decio, ma la respinse brutalmente, spingendola dal lato opposto della sala affollata, andando ad aiutare Fabio. «Andiamo Decio, anche stasera hai alzato il gomito, eh vecchio mio?» disse, passandosi il suo braccio dietro la sua nuca. Lucius fece lo stesso con il braccio che restava. Altri tre soldati – Acilio, Cinno e Manlio – li seguirono fino alla guarnigione. Uscirono dal bordello e un silenzio si tomba li inondò. Le strade erano pressoché deserte, la guarnigione poco distante. La città sulla quale si basava l’avamposto romano era una città commerciale in Cirenaica, al confine con l’Egitto, governato anch’esso da un’unica persona. Quel confine non era un punto problematico come potevano essere quelli del Nord: l’Egitto era un protettorato romano e le popolazioni limitrofe non erano interessare a Roma, pur avendo scambi commerciali. L’unica cosa che rimpiangeva di Roma era il clima: il Sud era troppo caldo... esattamente come poteva essere troppo freddo il Nord, però... erano quel genere di cose che era disposto a sopportare per servire la sua Roma. Furono avvistati dalle sentinelle, che aprirono le porte vedendoli. Decio cominciò a blaterare qualcosa sul doverlo riportare dalla prostituta, che ormai era stata pagata, che non voleva tornare, eccetera... Lucius lanciò uno sguardo complice a Fabio, segno di non dar peso a tutti i vaneggiamenti di Decio. Entrati non incontrarono nessun ufficiale di grado sufficientemente alto per punire Decio, per sua fortuna. Lo portarono al suo alloggio, una baracca lignea e ben costruita, divisa con altri quattro soldati che già dormivano. Abbandonato Decio sulla sua brandina, Lucius tirò Fabio per la manica corta della tunica militare. Lui si voltò e si accigliò, scuotendo la testa confuso: «Cosa c’è?» sussurrò sottovoce. Lucius rispose con lo stesso tono «Andiamocene prima che ci scoprano.» Fabio annuì. Lucius indietreggiò e uscì alla luce della notte. Di notte a Sud non era mai completamente buio: il cielo immacolato faceva risplendere le stelle come non aveva mai visto a Roma.
«Ci conviene andare a dormire.» osservò Fabio, una volta fuori.
«Si, hai ragione.» si arrese all’evidenza, nonostante la bella prostituta egiziana su cui aveva messo gli occhi. Si incamminarono verso la loro baracca. Acilio, Cinno e Manlio non si erano più visti dopo l’entrata in guarnigione: probabilmente erano  andati a dormire anche loto, vista la situazione. Lucius guardò il cielo, illuminato da miliardi di stelle. La voce di Fabio lo riscosse dai suoi pensieri.
«Secondo te ci trasferiranno quando diventeremo veri e propri cavalieri?»
«Ci manderanno dove avranno bisogno di noi.» rispose lui risoluto, muovendo pochi piccoli passi verso la loro baracca. Fabio strinse i pugni. «Devo confessarti che per me Decio aveva ragione, sul Nord.» disse, incamminandosi dietro di lui «Il freddo, l’oscurità della notte, e soprattutto i barbari...» sospirò. «Io sono nato a Cirene, sono cresciuto lì, e questo è il punto più lontano che io abbia mai raggiunto... Non ho mai visto una notte completamente buia, il ghiaccio o le montagne innevate: i barbari poi...»
«Vada come vada, per il prossimo anno resteremo qui, puoi contarci.» lo rassicurò, pur non essendo affatto certo di quanto diceva.
«Lo spero.» mormorò. Percorsero il restante centinaio di passi in silenzio, senza aggiungere una parola.
 

 
 
TERRE A NORD, TERRITORIO DEI SASSONI
 
Vaughan, sdraiato, strinse forte la moglie al petto. Adorava quando, di primo mattino, poteva stringerla a sé; ancora nuda dopo la notte passata a fare l’amore con lei. Si erano sposati da quattro mesi, ma lei aveva già imparato la lingua, e Vaughan aveva finalmente smesso di parlare latino storpiando le parole, per la gioia di lei: la gioia di Cicilia. “Mi chiamo Cecilia!” avrebbe detto lei, ma ormai Vaughan lo faceva di proposito, provocandola. Accanto al loro letto c’era una piccola culla in legno che Vaughan aveva fatto costruire per il neonato. Il bambino romano da lui tanto temuto, quello che prima o poi avrebbe forse dovuto uccidere, si era rivelata essere una bambina. La notizia l’aveva tranquillizzato enormemente, ed era ancora più tranquillo pensando che Cicilia era di nuovo incinta: i presagi assicuravano un maschio. Brynhildr, quello era il nome della bimba di Cicilia -che in norreno significava “guerriera dalla lucente chioma scura”- dormiva a pancia in sotto, respirando con la bocca socchiusa. Era il ritratto di sua madre: i tratti sembravano del sud, gli occhi erano scurissimi e i capelli neri e ricci. La pelle più scura, olivastra, la faceva risaltare fra tutti i bambini della sua età. Sentì Cicilia muoversi sopra di lui. Alzò la testa, sorrise e lo baciò. Vaughan sapeva bene che era stata una prostituta, che fra i tanti uomini che l’avevano posseduta lui era l’ultimo: pensarci lo faceva divenire possessivo e geloso; ma quando la guardava negli occhi capiva che era, anzi era stato, solo un lavoro. In compenso aveva una certa esperienza e, cosa che a Vaughan piaceva molto, sapeva esattamente come eccitarlo. Quando si staccò dal bacio, gli sorrise e lo abbracciò ancora più forte di quanto aveva fatto lui, chiudendo gli occhi con il respiro regolare. Vaughan si girò su un fianco e la strinse al suo petto.  Chiuse anche lui gli occhi, accarezzandole dolcemente i capelli scuri. Brynhildr si svegliò, avvertendoli con il suo pianto. Vaughan si scostò dalla moglie e andò a prenderla. La sollevò con una facilità estrema, tanto era leggera. Aveva una terribile paura di farle male; stringendola un po’ di più avrebbe anche potuto stritolarla. La stese delicatamente sul letto, accanto alla madre. Lei la accostò e le porse il seno per allattarla; Brynhildr cominciò a mangiare avidamente, con la manina posata sul seno della madre. Vaughan si stesa accanto a loro. Sorrise, incantandosi a guardare la piccola: fra sei mesi anche lui avrebbe conosciuto la gioia di poter stringere al petto suo figlio. «Cosa c’è?» chiese Cicilia, mentre lo guardava sorridendo.
«Pensavo a nostro figlio.» rispose assorto.
«Hai già pensato ad un nome?» chiese, dolce come lo era sempre.
«No» disse sorridendo, mentre scuoteva la testa. Qualcuno bussò alla porta della casa lignea. «Vaughan, avevamo detto che saremmo andati a caccia per la selvaggina, ricordi? Io e gli altri pensavamo di partire ora, tu che ne dici?» chiamò un uomo «Posso entrare? Te ne parlo.» Era la voce di suo fratello.
«Esco io Olaf, aspetta.» si alzò e prese la tunica corta di pelle. La infilò con un gesto fulmineo e snodato, stringendola alla vita con una cintura. Prese il mantello con la pelliccia d’orso calda e a alzò gli stivali, anche quelli fatto con pelle conciata. «Vai a caccia?» gli chiese Cicilia.
«Si, è mio dovere.» rispose risoluto e tranquillo.
Lei sospirò, guardandolo preoccupata «Sta’ attento, però.»
«Che vuoi dire?» domandò allarmato.
Lei scosse la testa «Non mi scordo quello che hai fatto all’uomo che ti ha sfidato, nella battaglia.»
«Adomnan? Non se lo scordano neppure gli altri, stanne certa.» la rassicurò.
«Non ti sfideranno, questo non vuol dire che non possano cercare di ucciderti.» si voltò dall’altro lato, allattando la piccola con l’altro seno, aggiungendo «Tuo fratello non mi convince.»
Vaughan non riuscì a trattenersi «Olaf?! Non lo seguirebbe nessuno!» scoppiò a ridere, ma si fermò non appena vide il volto serio e preoccupato di Cicilia «Non mi accadrà nulla, te lo assicuro.» Lei sospirò. «Però tieni gli occhi aperti, intesi?» gli venne automatico sorriderle. «Te lo giuro: mi guarderò alle spalle.» lei sorrise. Vaughan andò verso la porta, ma ci ripensò. Veloce andò verso Cicilia, che girata di spalle non se ne accorse, e la baciò. Lei gli passò la mano dietro la nuca e lo tenne premuto contro le sue labbra.  Quando si staccò, Cicilia sorrise e mormorò «Ti amo, Vaughan.» Lui si alzò di nuovo in piedi, prese la spada e la legò alla cintura, si mise l’arco a tracolla col la faretra sulla spalla sinistra e afferrò la lancia. «Ti amo anch’io.» ripeté prima di uscire. La mattina era lucente, ma senza sole: le nuvole erano grigie e pallide; la luce che proveniva da queste gli causò una momentanea cecità. Svanito l’effetto, Vaughan si ritrovò il fratello minore a cavallo che lo guardava. Accanto a lui c’era un altro cavallo, ma senza il cavaliere. «Ti ho preso il cavallo, quando vuoi partiamo.»
Lui annuì, pensando a quello che gli aveva detto Cicilia. «Partiamo subito.» sentenziò montando a cavallo. Fermò un ragazzino sui quattordici anni e gli ordinò in tono perentorio. «Ragazzo, va ad avvertire la cuciniera che non torniamo prima di sera.» Il ragazzino corse via. Vaughan diede impulso al cavallo e partì in testa al gruppo, fiancheggiato da Fearchar, il suo nuovo luogotenente. Olaf restò dietro di loro, chiacchierando con gli altri.
 
 
Cecilia ammirava particolarmente il villaggio. Era piccolo e tutto era messo in comunione: la cuciniera e le sue aiutanti cucinavano per tutti, tutti gli uomini andavano a caccia insieme, le donne accudivano i bambini. La sua era una posizione di spicco: era la moglie del capotribù, ma era come se fosse come tutte le altre. La salutavano familiarmente e la consideravano una sassone in tutto e per tutto, senza mai far riferimento al fatto che fosse romana in realtà. La sua bambina era chiaramente figlia del Sud, con la pelle scura e i capelli nerissimi: ma si sarebbe certamente trovata bene con la tribù. Uscì di casa vestita con il lungo vestito di pelliccia rada, che le teneva caldo nonostante le rigide temperature. In quelle terre né le donne, né gli uomini soffrivano del freddo pungente, né si curavano particolarmente della neve che scendeva lenta ma abbondante, imbiancando il suolo.
«Mia signora! Cicilia!» la chiamò una donna. Si chiamava Mathilda, era una donna di circa ventotto anni, sua coetanea. Ormai aveva fatto l’abitudine al loro modo di chiamarla. Vaughan aveva cominciato a chiamarla così, non cogliendo la pronuncia del vero nome, e anche gli altri abitanti del villaggio avevano cominciato a chiamarla “Cicilia”.
«Sono qui.» rispose lei, sorridendole.
Mathilda le sorrise, la raggiunse e la salutò con un cenno del capo: unico privilegio per lei e Vaughan. «Le altre donne volevano chiederti come preferisci il fegato di cervo.» Cecilia rimase di stucco. Aveva imparato ad apprezzare la carne dei conigli, delle lepri e dei cinghiali che venivano uccisi dagli uomini –a differenza di quando era a Roma, dove molti erano vegetariani- ma perché fermarla per chiedere questo?
«Perché?» chiese ingenua.
«I druidi dicono che sia il cibo più adatto ad una donna incinta, e vorrebbero fartene dono. Mafalda, la cuciniera, a pensato di chiederti come lo preferisci, visto che idealmente avresti dovuto mangiarlo crudo...»
Cecilia avvertì una fitta allo stomaco: non sapeva se fosse la nausea mattutina o  il pensiero di dover mangiare un fegato di cervo crudo. «Dì pure a Mafalda di cuocerlo come vuole: l’importante è che sia cotto.» Mathilda annuì. Poi le si rivolse amichevolmente. «Sei pallida, mia signora...»
«Io devo vomitare.» disse, guardando a terra per non farsi venire anche le vertigini. Ma le vertigini vennero ugualmente, mentre si accorgeva a malapena che Mathilda la stava portando dalle altre donne. Rigirò gli occhi, che si chiusero. Le gambe le cedettero e perse i sensi, cadendo sulla neve fredda e morbida.
 
 
Vaughan tornò al punto di ritrovo con Fearchar e Olaf. La neve vorticava trasportata dal vento gelido e glaciale. Nel profondo della foresta però non era così: la fitta coltre di alberi filtrava i fiocchi, dando un nevischio lento, che ispirava pace e calma. Le vittime della giornata erano un cinghiale -che avevano portato legato a delle corde a loro volta legate hai cavalli-, una decina di roditori fra conigli e scoiattoli e un bel giovane cervo dalle corna alte e ben sviluppate. Arrivati alla meta, Fearchar si mise a raccogliere rami e pigne da bruciare al villaggio. Accesero un piccolo fuocherello, per scaldarsi e mangiare aspettando gli altri.
«Come lo chiamerai, mio signore?» chiese Fearchar, riferendosi al figlio.
«Non lo so, ma voglio un nome degno di uno sterminatore di romani.» disse, staccando la pelle da uno degli scoiattoli, per dividerlo con Fearchar e Olaf.
«Non credo che la madre sarà d’accordo!» rise Olaf.
Vaughan scosse la testa, strappando via la pelle dall’animaletto morto. «A Cicilia non importa, ormai è una sassone.»
Olaf sospirò. «E se lei ci tradisse?»
«Cicilia?» scoppiò  a ridere «Non lo farebbe mai.» scosse la testa.
«Ma se scoprissimo che c’è una spia fra i nostri mi prometti di fare le opportune indagini?» chiese Olaf, affilando un ramo per infilzare lo scoiattolo e cuocerlo.
Scosse di nuovo la testa, non era una cosa pensabile «Fearchar, tu che ne dici?» si appellò al luogotenente.
«Dico che dovresti fare le dovute indagini in quel caso, ma anche per me tua moglie non ci tradirebbe.» dichiarò annuendo. Se c’era una cosa di Fearchar che gli piaceva era la franchezza: non aveva paura di dire la sua su ogni questione: privata o pubblica che fosse.
«Sentito, Olaf?» gli disse sorridendo.
«Io mi fido di tua moglie, fratello, ma devi ammettere che è stato rischioso accoglierla con noi. Magari i romani la usano senza che lei se ne accor...» si bloccò, voltandosi di scatto. Vaughan si sentì osservato.
«Che cosa c’è?» chiese Fearchar, fulmineamente.
«Ho sentito dei passi.» sussurrò, con distogliendo lo sguardo dalla sua direzione.
«Saranno gli altri che tornano.» si rivolse Fearchar a Vaughan, sereno.
«No, ascoltate.» sentiva un paio di uomini mormorare «Che lingua è?» chiese Fearchar.
Vaughan attese un po’ per dare la risposta, cercando di capire cosa dicessero. Ma alla fine non ebbe più dubbi «È  latino.» Olaf si alzò lentamente, andando a prendere l’arco. Fearchar afferrò la spada. Vaughan afferrò stretta la sua lancia. «Restate calmi, ci stanno spiando. Non capiscono la nostra lingua, se volete continuate a parlate.» Si sentì un rumore da dietro un cespuglio di bacche selvatiche. Vaughan si allarmò: se fosse morto... non avrebbe più visto Cicilia, non avrebbe mai visto suo figlio o la sua figliastra. Stinse la lancia con ancora più forza, sapendo che anche se ci fosse stato l’imperatore romano dietro quel cespuglio, lui l’avrebbe ucciso.
 
***Spazio autore***
Brynhildr e Olaf sono nomi norreni, Mathilda e Mafalda sono germanici: devo ammettere che mi sento soddisfatta per averli trovati!!!

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V
 
ROMA
 
Maximus si divertiva sempre ai combattimenti fra gladiatori: le urla che inneggiavano alla battaglia, il sangue che zampillava vivo, il combattere per la gloria e per conquistare la libertà  lo entusiasmavano. Anche le corse dei carri erano divertenti; con tutti gli uomini che tifavano per il partecipante sul quale avevano scommesso, le risse, il pericolo che i carri si ribaltassero nelle curve prese ad alta velocità: Maximus aveva notato che quello più lento finiva per vincere, dato che era l’unico a non ribaltarsi. Si ricordava che anche a Lucius piaceva scommettere sui carri. Lucius era partito per l’addestramento: aveva detto che andava a uccidere i barbari. Maximus era sempre più orgoglioso del fratello soldato; “Lo farò anch’io il soldato, un giorno!” pensò. Presero posto sugli spalti: il loro non era un posto privilegiato, ma si vedeva abbastanza bene l’arena, e il palco dell’imperatore. Maximus sperava di vederlo! Si mise seduto fra i fratello maggiori Menio e Gneo. Gaio era vicino a Menio, a sua volta vicino alla madre. Il padre sedeva accanto a Gneo. Maximus si mise le mani sotto lo cosce, dondolando i piedi: non vedeva l’ora che iniziasse. Gneo gli diede una gomitata «Ehi, Maximus, sai cosa succede oggi?»
«Il combattimento fra gladiatori.» rispose allegro e risoluto.
«Si, ma prima...» sussurrò «c’è un’esecuzione... Damnatio ad Bestias.»
Maximus non capiva bene cosa volesse dire «Che significa?»
«Che uccidono i cattivi facendoli sbranare dalle bestie.» Gneo credeva forse di spaventarlo?
«Guarda che non mi fai paura.» dichiarò «Quali cattivi?»
«I barbari alleati che si sono ribellati.» disse. Maximus sorrise, saltellando sul posto.  «Mi piacciono i barbari sconfitti!» disse sorridente a Gneo. «Quando sarò grande entrerò nell’esercito e combatterò i barbari! Proprio come Lucius!»
«Ma Lucius è nella provincia Cirenaica!» rise l’altro «Non ci sono i barbari nordici lì.»
Maximus lo incenerì con lo sguardo. «Non è vero. Lucius mi ha detto che andava contro i barbari...» piagnucolò, mettendo il muso. Gneo sorrise «Ce lo manderanno, ma dopo: ora lo addestrano in Cirenaica. Nostra madre ha tirato un sospiro di sollievo, almeno l’addestramento lo farà lontano dal freddo e dai barb...» fu interrotto dallo squillo di trombe. Un uomo benvestito, con tunica e toga cominciò a parlare. Maximus sentiva, ma non riusciva a vedere cosa accadesse nell’arena. Si alzò in piedi sul suo posto, mentre Gneo lo teneva per le gambe per non farlo cadere. Con lo sguardo cominciò a cercare i barbari. Non li vedeva... Alcuni dicevano che erano alti come quattro uomini normali, con i capelli chiarissimi –forse bianchi-, la pelle candida e gli occhi di ghiaccio. Forti come orsi, che mangiavano le spoglie dei loro avversari, una volta sconfitti. Ricordava quando Lucius, prima di partire per l’addestramento, lo aveva portato in una biblioteca e gli aveva letto il discorso fatto da Critognato alla sua gente, prima dello scontro con Cesare. Maximus, anche se era solo un bimbo di tre anni, aveva maturato la convinzione che chiunque fosse un barbaro era un mostro senz’anima e senza pietà. Finalmente si accorse che non c’erano ancora uomini nell’arena. Attese paziente, quando le porte si aprirono. Entrarono degli uomini altissimi e robusti, ma non potevano essere i barbari: no, impossibile, non avevano i capelli chiarissimi; alcuni erano biondo-sporco, altri castani, rossi, mori: niente capelli bianchi. Erano incatenati gli uni agli altri, con una daga ciascuno come unica arma. Si raccolsero in cerchio, volgendo le spalle al centro mentre tenevano le daghe in avanti. Uno di loro diede istruzioni in un’altra lingua. Altre porte si aprirono, ed entrarono i leoni.
«Gneo!» chiamò «Quanti sono?»
«Dieci barbari contro cinque leoni!» esclamò eccitato per lo scontro. Allora erano quelli i barbari! Sembravano forti come tori. Le belve non esitarono ad attaccare. Una di loro si getto a capofitto nella mischia, disperdendo la formazione dei barbari. Il più robusto di loro andò contro un altro leone, gli afferrò le zampe anteriori e lo tenne occupato, mentre un altro gli affondò la daga nel ventre. Due, tre, quattro volte e ancora di più. La folla esultò. Il leone cadde a terra, morto. Un barbaro correva, inseguito dai leoni. Ad un tratto inciampò e uno dei due felini gli saltò sopra. Un lago di sangue si allargò sulla sabbia dell’arena da combattimento. Gli animali continuarono a sbranare il barbaro che urlava in maniera disumana, contorcendosi per il dolore indescrivibile. Maximus spalancò gli occhi, a metà fra il sorpreso e il raccapricciato. Il leone staccò la testa al barbaro, tranciandola di netto. Sul suo viso era impressa un’espressione di disperazione, ombrata di dolore. Gli altri barbari continuarono a combattere. La folla inneggiava al combattimento. Maximus continuava a fissare il cadavere martoriato e putrefatto dell’uomo senza testa, per cui i leoni avevano perso interesse. Si accorse che erano rimasti due leoni. Uno era morto, steso a terra, mentre altri due si leccavano le ferite, accanto alla porta da dove erano entrati. L’ultimo barbaro, combattendo con il leone cominciò ad urlare, forse maledicendo la città, fissando il palco vuoto dell’imperatore, occupato dalla sua sorella, con il marito e i figli, e dai figli dello stesso imperatore, della stessa età di Maximus. Il leone salì sulle spalle del barbaro e gli morse la testa, uccidendolo sul colpo. La parte superiore del cranio volò via, con il sangue rosso brillante che colava dietro. La folla esultò più forte che mai, felice. Maximus si chiese perché erano così felici. Questa cosa lo faceva arrabbiare: come si poteva essere felici per la morte, per le ferite? Che cosa avevano fatto di male quei leoni?
 
 



 
TERRE DEI SASSONI
 
«Ora tu dici quanti siete, dove, quando attaccare e chi comanda.» il latino non era il suo forte... Vaughan aveva legato le sentinelle all’albero più robusto. Olaf si era gettato senza pensare sui due, ancora nascosti, e ne era uscito ferito: una spada conficcata in un braccio, una ferita profonda che trapassava il braccio da parte a parte. Nulla, in ogni caso, che non potesse essere curato: Fearchar lo aveva portato al rigagnolo più vicino –sperando che non fosse gelato- per lavare la ferita che pur essendo profonda non era sporca o imprecisa. Le sentinelle erano due soldati semplici, fanti forse, armati di una spada e uno scudo. Le avevano catturate e poi imprigionate.
«E perché dovremmo farlo?» rispose quella che aveva riconosciuto come la più determinata. Avrebbe fatto leva sull’altra per ottenere informazioni.
«Tu  dici a me e io ti uccidi senza dolore.»
«Io non temo il dolore!» proclamò impavido.
«Vedremo...» lasciò la frase in sospeso. Buttò la lancia a terra e colpì con un gesto tanto veloce quanto violento il volto del soldato. L’uomo rivoltò il viso: un gran livido sanguinolento comparve nella zona fra il naso e la bocca della sentinella, dal naso un rivolo insanguinato cominciò a fluire. Il romano iniziò a respirare affannosamente. Gridò, tentando di liberarsi e digrignando i denti a Vaughan, cercando forse di spaventarlo. «Ammiro la dedizione di abbandonare voi stessi a morte dolorosa per proteggere casa, io rispetto.»
«È  il mio modo di proteggere la mia famiglia.» disse l’altro, asciugandosi il sangue sulla spalla. Vaughan annuì. L’ospitalità era sacra, certo, ma non poteva rischiare la vita di tutti, per un uomo. «Se dite, io vi uccidi senza dolore.»
Il romano mischiò una lacrima al sangue, scuotendo la testa. «Pur di avere morte lenta?» chiese allora Vaughan.
«Possa l’Impero Romano vivere in eterno.» proclamò, mentre poche lacrime lavavano via il sangue dalla sua guancia, rigando il viso. Vaughan annuì, lo slegò dall’albero e lo fece inginocchiare, ancora con mani, braccia e piedi legati. Il soldato tenette la testa alta, aspettando il colpo che lo avrebbe portato al suo Creatore. Vaughan si sorprese a pensare alla vita e alla morte. Chi era lui, per metter fine a quello che il mondo aveva voluto creare? L’aveva fatto talmente tante volte che non aveva mai davvero pensato a questo. Bastavano pochi attimi, semplici e primordiali sentimenti, a porre fine ad una vita durata anni e anni. Ma non era il momento per i sentimentalismi; non lì, nella Foresta Nera del Nord, che ha come unica legge quella del taglione... E Vaughan era di tutt’altra pasta. Prese la sua spada che aveva dietro la schiena e la sguainò. Si posizionò dietro all’uomo e, con un colpo netto gli staccò la testa, senza dire nulla. La testa ruzzolò sulla neve, tingendola di rosso vivo, con un espressione decisa ma serena; il corpo, mosso ancora da un ultimò spasmo, si contorse in uno spettacolo macabro anche per uno come Vaughan, cadendo di lato alla fine. Sentì le fronde muoversi, la neve cadde da alcuni rami, dopo poco vide arrivare Fearchar, con Olaf al suo seguito. «Tutto bene?» chiese ad Olaf.
«Fa un male cane!» rispose lui seccato.
«Passerà: Cicilia ha dei buoni rimedi per le ferite.» Lui annuì e sospirò lungamente esaminando la ferita.
«Il rigagnolo era ghiacciato: ci abbiano sciolto sopra un po’ di neve, ma non so se è lo stesso.» intervenne Fearchar.
«Andrà bene. Quando torneremo al villaggio si prenderanno cura di te, fratello.» lo rassicurò. Voltandosi verso la seconda sentinella, tremante e spaventata, riprese il discorso che i due avevano interrotto.
«Allora? Quanti siete, dove, quando attaccare e chi comanda?»
Il ragazzo balbettò un poco, si leccò e labbra un paio di volte guardandosi intorno e continuando a sbattere le palpebre, ma alla fine confessò tutto «Cinque legioni di soldati preparati e un manipolo di sentinelle sparse per la zona, siamo accampati sul luogo dell’ultima disfatta romana in un accampamento ben sorvegliato, fortificato e munito di molte armi, il comandante non parla con noi dei suoi piani: si chiama Gaio Tullio Titurio, ma è un anziano senatore, non combatte.» Vaughan fece cenno a Fearchar, che lo slegò e lo fece inginocchiare. Lo uccise in fretta, non accorgendosene neppure; la cosa più importante era un’altra: doveva tornare al villaggio per avvertire gli altri, o sarebbero morti tutti. Si rivolse a Fearchar «Olaf ed io torniamo al villaggio. Appena gli altri tornano, dì loro di setacciare la zona: trovate le altre sentinelle e uccidetele tutte tranne una. Datele le teste mutilate delle altre: che rechi un messaggio a questo “Titurio”!»
 
 
 
 


 
Titurio osservò la neve cadere velocemente nell’aria fredda del Nord. Il vendo sapeva di buono, portava il profumo muschiato degli alberi. Dopo la disastrosa (e a dir poco vergognosa) sconfitta del giovane Flaviano, si era reso necessario il suo tempestivo intervento. Prendere in mano la situazione era stato facile: l’esercito era composto da mercenari, e a loro bastava essere pagati, e da romani motivati, che avevano accolto di buon grado l’idea di essere guidati da un navigato generale, nonché abile politico, come lo era Titurio. Ma lui non aveva alcuna intenzione di patteggiare o di usare la diplomazia: i barbari erano ignoranti, troppo per scendere a patti; la strategia di Titurio era semplice: genocidio. Non aveva detto ai soldati il suo piano, ma avrebbe dato l’ordine di partire in marcia verso il villaggio più vicino, non appena le sentinelle che aveva mandato avrebbero fatto ritorno.  Erano una ventina di soldati ben addestrati. Fra di loro c’erano cinque dei migliori veterani di Titurio: faceva il massimo affidamento su di loro, sapendo che avrebbero sorvegliato i più giovani ed inesperti. Tremante, affondò il collo nella pelliccia che faceva da ornamento al lungo mantello rosso. Neppure la toga era abbastanza pesante per resistere a quelle temperature. Troppo freddo, troppi barbari, troppo malcontento. Avevano già provato ad invadere la Germania, ai tempi di Augusto, ma dopo lo sterminio di tre intere legioni a Teutoburgo –nel 9- avevano deciso di lasciar perdere... No, non del tutto: quando i barbari attaccavano i confini bisognava ricacciarli al loro posto all’istante e dar loro una lezione.
«Generale!» si sentì chiamare. Voltandosi vide che si trattava di uno sei suoi veterani, che tornava dalla ronda.
«Quali notizie?» chiese, nascondendo la trepidazione. Si accorse di trattenere il respiro.
«È  tornata una sola sentinella, dice che anno ucciso i suoi compagni. L’hanno costretto a portare qui le loro teste.»
Titurio sentì il sangue ribollire nelle vene. La rabbia lo invase. Strinse i denti, allargò le radici e parlò: «Ha informazioni sui barbari?»
«Ha detto un solo nome, quando è tornato.»
Titurio attese, abbassò gli occhi e si decise «Quale?» scandì lentamente in modo deciso.
Il soldato esitò un poco «Vaughan.»
 
 



 
Cecilia si risvegliò a casa sua. Accanto al suo letto c’erano Mathilda e altre due donne che non ricordava bene. Vedendola sveglia Mathilda spalancò la bocca felice. «Come stai, mia signora?» chiese.
«Cosa è successo?» si sorprese del timbro della sua voce, così basso e rauco, segno che non parlava da un po’.
«Sei svenuta, ma è può essere una cosa normale in gravidanza. Devi avere più cura di te, mia signora.» rispose la vecchia donna dai capelli rossi, mentre le metteva una pezzetta bagnata sulla fronte. «Cos’hai mangiato stamattina?» chiese.
«Delle erbe amare.» rispose Cecilia.
Lei la fulminò con lo sguardo «Non è abbastanza!» spiegò calma «Devi mangiare di più, mia signora! Hai già dei figli, dovresti saperlo.»
Si spaventò «Dov’è Brynhildr?» chiese preoccupata. Mathilda sorrise, indicando la culla poco distante. «Non preoccuparti, mia signora è lì: Mafalda a nutrito Brynhildr con del latte di capra. Sta bene, ma fra poco avrà bisogno di mangiare di nuovo.» Tirò un sospiro di sollievo. «Vaughan è tornato?»
La ragazza sembrò in difficoltà. Una tragica idea attraverso in un lampo la mente di Cecilia; Vaughan... morto... La ragazza però continuò a parlare «È  tornato, ma ha portato brutte notizie; i Romani si preparano ad attaccare. Entro dieci giorni dobbiamo sgombrare il villaggio e bruciare tutto ciò che resta. Tuo marito sta organizzando le difese, in caso arrivino prima. Ha mandato dei messaggeri ai villaggi vicini.»
Cecilia sospirò, sentendosi in parte responsabile: quella che stava per attaccare era la sua gente. Per un attimo pensò a Marco, ma il suo ricordo scomparve velocemente. L’aveva usata e maltrattata. L'aveva abbandonata senza rimorsi con sua figlia in grembo: la più grande soddisfazione che poteva avere era vedere Vaughan che staccava la testa di Marco dal suo giovane corpo martoriato. Brynhildr era nella culla di legno e dormiva beata, sognando chissà cosa. Sospirò. «Sta tranquilla, Cicilia. Vaughan è il capo del villaggio e anche il capo dei sassoni in questa zona: lo seguiranno in battaglia.»
Era proprio questo il punto: Vaughan avrebbe combattuto, Vaughan poteva morire.




 
***Spazio autore***
Mi scuso per averci messo un’infinità, ma –complice la saltuaria wi-fi di casa- non ho avuto molto tempo per scrivere. Buona lettura!

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


 
Capitolo VI


 
ROMA

 
 
Marco adorava i banchetti pubblici del padre: erano l’occasione perfetta per far colpo sulle giovani donne dell’aristocrazia! C’erano diverse tavolate, piene di ogni genere di cibi e bevande. Dopo tre giorni in questa situazione si sentiva gonfio come un tacchino ripieno... e il banchetto durava altri quattro giorni! La popolazione, gente perbene o gentaglia che fosse, ronzava sulla tavola come le mosche sul miele. Iolanda Quintilia passeggiava con alcune altre donne. Riconobbe Lucilla Drusa, Aemilia Flavia e Giulia Tullia che le parlavano. Aveva adocchiato Aemilia Drusa per un po’ di tempo, ma poi ci aveva ripensato, spostando gli occhi dal suo seno piatto a quello prosperoso di Cecilia, la puttana. Molti dei suoi coetanei o concittadini non gradivano la vista di un seno prosperoso, quanto a lui invece... be’... lo apprezzava parecchio. Iolanda non aveva certamente il fisico giunonico e l’incedere flessuoso di Cecilia, ma aveva un bel viso. Entro sei mesi sarebbe stata sua, ne era sicuro. Il vero problema ora era ristabilire la sua dignità in ambito militare... L’imperatore era a combattere contro i barbari del Nord-Est, i sarmati forse; aveva suggerito a Titurio di prendere il posto lasciato da Marco e, come se non bastasse, c’era che cominciava ad ignorarlo del tutto fra la nobilitas. Tutti sapevano, tutti parlavano, tutti aggiungevano un piccolo dettaglio per ingigantire la notizia... Alla fine la versione più accreditata era quella in cui Marco supplicava senza ritegno  il capo svevo Vaughan per risparmiargli la vita. E poi Vaughan non era neppure uno svevo! Vaughan... Vaughan... Vaughan... ormai si sentiva parlare solo ed esclusivamente di lui, neppure fosse stato l’erede all’Impero! Un immensa rabbia lo pervadeva ogni volta che sentiva pronunciare il suo nome. Non l’aveva mai visto di persona, ma pensava di averlo intravisto durante la battaglia: altissimo, muscoloso con il viso dall’espressione dura. Ficcò in bocca due acini d’uva e masticò sprezzante. «Ho  notato che mi guardavate.» Si voltò e scoprì Iolanda Quintilia. Aveva i capelli acconciati preziosamente. La tunica era lunga e verde. Aveva un velo di seta dello stesso colore sulla testa, fermato con un gioiello bronzeo. Portava bracciali preziosi alle braccia bianche e sfoggiava le sue solite labbra tinte di rosso purpureo. Trangugiò gli acini in fretta, e senza fare versi. «Siete una donna perspicace, Iolanda.»          
«Posso chiedervi perché?» chiese civettuola, mettendo il mostra il collo e i polsi della mani.
«Oltre ad essere perspicace siete anche molto bella.» sfoggiò il suo sorriso più seducente.
«State cercando di sedurmi, Marco?»
«E ci sto riuscendo?» le continuò a sorridere.
Lei fece spallucce, indicandogli con lo sguardo un uomo. Gli ci volle un po’ per riconoscerlo, ma capì che si trattava dello stesso uomo che tempo prima, ai Fori, la stava ammorbando mentre faceva sfoggio del suo sapere su Cerere. Marco non avrà avuto una gran cultura, ma almeno aveva una certa sensualità nel parlare e nei movimenti. Fissando Iolanda negli occhi scrollò le spalle e chiese: «Quindi?»
«Mio padre crede che sia il miglior partito a che io possa aspirare: pesino meglio di voi. Lui è già senatore, voi no...»
«Allora preferite un senatore panciuto con vent’anni più di voi, piuttosto che un giovane ufficiale dell’esercito come me?»
«Ex-ufficiale dell’esercito.»
«Non temete: presto tornerò al mio posto fra i ranghi dell’esercito.»
«Allora vi aspetterò.» andò a nascondersi dietro una colonna. Marco la seguì. «Ma allora vuol dire che vi interesso...»
Lei rispose con un sussurro «... può darsi...» Marco si avvicinò al suo viso. Protese leggermente le labbra e Iolanda fece lo stesso. Chiusero gli occhi. Le posò le sue labbra sulla bocca, prendendole la vita e spingendola contro il suo bacino. Una mano gli si poggiò sulla spalla.  «Potrei conferire con mio figlio in privato?» si staccò dal bacio in fretta. Riconobbe sul volto di Iolanda un’espressione rammaricata e imbarazzata. Le guance che le avvamparono per la vergogna la rendevano ancora più desiderabile... Tennero entrarmi lo sguardo basso.
La sentì deglutire. «Certo senatore.» accennò ad un inchino col capo e si allontanò. Marco fissò le labbra purpuree, la vita sottile e le gambe snelle che gli erano appena sfuggite. Il padre aveva un’espressione accigliata. La fronte già rugosa era ancora più corrugata. Era sicuramente per il suo comportamento: si rendeva conto di aver fatto una cosa rischiosa; soprattutto per la reputazione di Iolanda... Attese che Iolanda fosse lontana e cominciò a parlare. «Figliolo, ho parlato con il senatore Quintilio.»
«Riguardo cosa?!» chiese stralunato.
«Non ho voluto avvisarti, ma ho proposto a Quintilio un matrimonio fra te e Iolanda.» rispose serio.
Marco sorrise inconsapevolmente, in riflesso ad una gran trepidazione interna «E cos’ha detto?»
«Ha detto che nonostante tu sia un giovane di buona famiglia, dopo l’onta della sconfitta contro i germani, non acconsente.»
Marco credette di perdere un anno di vita. Iolanda era bella, ricca e con un padre molto potente -come il suo d’altronde- e perdere un matrimonio del genere era sicuramente gravissimo. «Mi hai deluso, Marco Giulio: la nostra famiglia è da sempre stata una delle più antiche, importanti e potenti di tutto l’Impero. Un anno fa, Quintilio non si sarebbe neppure sognato di rifiutare un matrimonio fra te e una delle sue figlie. La tua incompetenza in campo militare ci sta attirando verso la rovina. Di questo passo non ci sarà più neppure una rozza popolana disposta a sposarti! Titurio ti bette i bastoni fra le ruote, e una volta era uno dei più validi alleati della famiglia. Hai gettano sdegno e miseria sulla mia gente.» scuoteva la testa, commiserandolo.
Marco sentì una sensazione di rabbia e impotenza salirgli in corpo. «Padre, io ho fatto tutto quello che potevo: ma i sassoni sono stati molto forti. Avevano uomini meglio addestrati, conoscono la loro terra. L’ideale per cui combattono gli fa dimenticare anche la paura.»
«Non mi interessa dei sassoni!» gridò il padre «Tu, sei tu il problema! Non ti ho forse insegnato che la gloria in battaglia è il più importante di tutti i valori? Avresti dovuto scappare, farti uccidere, suicidarti piuttosto che tornare da perdente! Invece sei tornato per crogiolarti nei piaceri della vita mondana! Perché è questo che sai fare: le belle donne e i giochi sono le uniche cose a cui presti attenzione: sei una vergogna per me e per tutta la tua famiglia! Ho sempre taciuto perché credevo che la crepa che avevi inflitto all’onore della gens non fosse poi così grave: ma mi sbagliavo... Io non sono più tuo padre!»
Guardandosi intorno capì che tutti avevano l’attenzione su di lui: Iolanda lo guardava stordita. L’espressione fredda e calcolatrice sul volto del padre lo fece gelare. Doveva uscirne vincitore, ma come? «Se questa è la vostra volontà, padre, io la eseguirò!» disse per guadagnare tempo.
«Me ne andrò di casa e non mi rivedrete più, fino a quando non avrò ristabilito l’onore della mia famiglia.» se ne andò, tagliando la folla e passando accanto a Iolanda Quintilia. «Vi aspetto ai Fori, domani alla mezza.» sussurrò quando le fu accanto.  Sentì il suo sguardo seguirlo per diversi passi, poi intuì lo sdegno generale che doveva aver causato. Avrebbe potuto tentare di partire dal basso: diventare soldato e salire di grado dopo. Ma la battaglia in prima linea non faceva per lui. L’unico modo per tornare in auge in fretta era un matrimonio importante. E cosa c’era di più facile di sedurre una donna per uno come lui?
 



 
TERRE DEI SASSONI
 
 
Se ne andarono di notte, scappando senza far rumore. Cecilia arrancava nella neve con fatica. Vaughan, Fearchar e Olaf erano restati indietro per bruciare il villaggio una volta sgombrato. Si era quasi sentita in colpa per aver pensato male di Olaf, dopo aver visto la ferita al braccio che si era procurato per salvare Vaughan e Fearchar. Camminava a fianco di Mathilda, come l’aiutava a non cadere con il pancione. A quanto gli aveva detto il marito sarebbero rimasi per poche settimane ospiti della popolazione limitrofa, per poi –una volta costruite le nuove case- si sarebbero stabiliti in una terra più ad Est. Per quanto riguardava la terra  da conquistare non era un problema: la loro popolazione vantava il più grande esercito di uomini meglio addestrati di tutte le tribù della zona, se non di tutte quelle germaniche. Sentì come uno scricchiolio dietro di lei. Voltandosi vide tutte le case in fiamme, torce accese nella notte buia che rischiaravano la strada e mandavano chiari messaggi ai romani: avete fallito. Di Roma, doveva ammettere, le mancava il clima temperato: ma per il resto era infinitamente più felice lì. La nostalgia del clima italico veniva soprattutto in quel momento: costretta ad una lunga camminata della neve alta, di notte, investita dal vento gelido dell’Ovest ed era anche incinta oltretutto.  «Stai bene, Cicilia?» sentì il fiato caldo di Vaughan sul suo collo. Annuì, aggiungendo a parole «È troppo freddo!»
Vaughan sorrise. «Da quando sei arrivata non hai fatto altro che lamentarti del freddo!»
«A Roma ti scioglieresti.» lo punzecchiò.
«Non credo che andrò mai a Roma!» disse lui per tutta risposta. Le cinse le spalle con il suo braccio forte.
«Per tua fortuna: se avresti provato a lamentarti del caldo ti avrei picchiato!» scherzò. Appoggiò la
Vaughan rise. «Brynhildr è con  Ada?» Ada era risultata essere l’anziana donna dai capelli rossi. «Si, io non riesco a portarla in braccio.» posò una mano sul ventre che cominciava ad essere prominente.
Lui le strinse le spalle e le sorrise. «Vado a prenderla io, la teniamo con noi, è meglio.» E si allontanò fra la massa di persone in cammino. Se lo ritrovò davanti ad aspettarla, con la piccola Brynhildr addormentata fra le sue braccia. Le sorrise di nuovo. «Sei stanca?»
«Un po’, ma posso continuare. Mi dispiace un po’ di dover bruciare tutto: non ci sono stata per molto, ma il villaggio era la mia casa.» ammise, voltandosi a guardare le casa accese.
«Quella nuovo sarà migliore: più grande e più sicura. La costruiremo in modo diverso, più facile da abbandonare in caso di bisogno, ma con delle difese. Fossati, trappole e quant’altro.»
«Dovreste costruire delle mura come facciamo al sud. Lo fanno anche in Gallia, non vedo perché qui non dovreste.» suggerì.
«Difficilmente restiamo in un posto molto a lungo: siamo nomadi. Nello scorso villaggio siamo rimasi per due anni.»
«E non hai mai pensato di stabilirti i  un posto senza muoverti?»
«No, per la verità sono sempre stato bene così.» le sorrise e, senza preavviso, la baciò. Le piaceva baciarlo: poteva anche essere spietato in guerra, ma con lei era l’essere più amabile e buono della terra. L’avrebbe reso felice, sì: meritavano di essere felici. Staccatasi dal bacio lo guardò intensamente e lo baciò si nuovo. Brynhildr si svegliò e cominciò a piangere, e Vaughan sorrise mentre si staccava da Cecilia:  «È  proprio una donna.» attese la sua reazione «Rompiscatole già appena nata!»
 


 


***Spazio Autore***
Mi scuso per il ritardo... ma dover scrivere di Marco Giulio Flaviano mi rimane davvero pesante! Vi annuncio che questo sarà uno degli ultimi capitoli della prima parte della storia... (No, no: non finisce qui!!)

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Nota per i lettori: Scusate, scusate, scusate!!! Sono un disastro... A quanto pare fra la wi fi che fa le bizze ed io che sono un’indecisa cronica ho di nuovo ritardato... Spero che il nuovo capitolo valga la pena. La storia, come avrete già visto è in revisione: rileggendola (oltre a trovare un’ecatombe grammaticale) sono arrivata alla conclusione che i capitoli sono un po’ troppo asciutti. Li amplierò al più presto!

Le recensioni sono sempre le più che benvenute! Buona lettura!
 

 
P.S.     Mi riservo il DIRITTO DI SBAGLIARE le citazioni in greco. Se qualcuno riconosce degli errori me lo faccia sapere!
 






Capitolo VII


CIRENAICA, CONFINE DELLE TERRE DI ROMA
 
 
 
La donna che stava fissando si sedette sulle sue gambe. Aveva la carnagione scura e il taglio degli occhi tipicamente egiziano. Era minuta e snella, col seno proporzionato. I vestiti che indossava erano leggeri e poco coprenti: lasciavano ben poco lavoro da fare all’immaginazione del ragazzo. Baciando Lucius con le sue labbra carnose e fissandolo con gli occhi scuri, si alzò, lo prese per mano e –con l’aiuto del suo sguardo magnetico- lo attirò al piano superiore dell’edificio, le camere... Lo portò all’interno dell’ultima in fondo allo stretto corridoio. Il corridoio era trafficato: distinse chiaramente due suoi superiori in compagnia di un paio di donne ciascuno. Una volta entrati lo attirò verso le pelli di animale dispose l’una sopra l’altra a mo’ di letto. Lucius la percorse tutta con le mani, la spinse sulla pila di pelli e le si adagiò sopra. Alzò la tunica. «Lucius!» una voce tonante lo distrasse dal suo intento.
«Che vuoi Decio?!» rispose a tono. Sulla porta comparve Decio con un occhio pesto.  «Dov’è quel codardo di Maximus?» “Ma porca... io... basterebbe guardare per capire che... ma... ma... perché ora?!”
«E cosa ne so io?!»
«Ora mi aiuti a cercarlo.» sentenziò, avvicinandosi
«Ti dispiacerebbe andartene?!» chiese facendo cenno verso il corridoio. Lasciò ricadere la tunica.
«Vieni con me, femminuccia! Che c’è? Hai paura delle botte, forse?!» lo afferrò per la tunica e lo issò su, in piedi. La prostituta di alzò in piedi, si risistemò e, sdegnata, se ne andò. «Aspetta!» la richiamò, ma era troppo tardi. «...tanto ormai... cosa c’è?» si arrese.
«Mi ha insultato, io ho cercato di picchiarlo e lui ha picchiato me!»
«Non potevi chiamare Fabio?»
«Non lo trovo, poi ho visto te che salivi e ti ho seguito.»
«...Fottiti, Decio!»
«Che ho fatto?» chiese stralunato: poteva anche essere forte come un orso, ma era lento, lento e stupido.
«Ero in compagnia, è non so se mi spiego!»
Decio sorrise malizioso. «Credevo quasi che non ti interessassero le donne, da quasi sei mesi che siamo qui non ti ho visto toccarne una!»
«Cerco di trattenermi: sono qui per l’addestramento, non per le donne. La prima che prendo dopo sei mesi, se ne va: ti devo spiegare cos’hai fatto di male?!»
«Per una! Te la pago io la prossima, dai!» rise. Lucius avvertì l’odore pungente dell’alito di Decio; vino.
Scosse la testa: ormai gli era passata la voglia. «Maximus è l’ispanico, vero?»
«Si, quello mulatto con i capelli neri. Non ha un pelo sulla faccia: come fai a chiamarlo uomo?!»
«Non si potrà chiamare uomo ma intanto ti ha steso.»
«Sta’ attento, “Lucisculus”.» calzò sul soprannome, datogli per via della sua statura. Non che Lucius fosse basso, anzi. Era più alto della media, per questo era stato scelto come cavaliere, ma in confronto a certa gente nell’accampamento sembrava una pulce.
«Se non ti dai una mossa me ne vado.» avrebbe tanto voluto non immischiarsi nelle dispute fra i commilitoni.
«Vieni con me!» lo tirò per un polso.
Scesero le scale velocemente, aprendosi un passaggio fra le donne che salivano. Uscirono dal bordello e si diressero verso le strette e anguste vie malfamate della città. «Perché dovrebbe essere venuto fino a qui?»
«Josef l’arabo m’ha detto che era qui.»
Sospirò. «Non ti chiederò perché è toccato a me e non a lui seguirti...»
«Per tutti gli Dèi! Sei ancora arrabbiato?! Ma piantala, Lucius!»
«Già... Avrei tanto voluto piantare qualcos’altro stasera, ma qualcuno ha preferito piantar grane.» sibilò fra i denti.
«Zitto!» gli ordinò. Un’ombra si mosse fra le assi di legno. Riconobbe la figura alta e furtiva di Maximus l’ispanico.
«Ehi...» gli diede una gomitata e invitandolo a seguirlo. Lucius non si mosse. «Decio lascialo perdere.» sospirò.
Decio gli si appostò alle spalle. Maximus si guardava intorno circospetto. Quando si voltò Decio gli piazzò l’asse di legno accanto a lui sulla fronte. L’ispanico ne fu stordito, cominciò a traballante verso una via d’uscita. Cadde rovinosamente.
Decio sorrise subdolo. «Dove credi di andare, codardo!»
Lo prese per le gambe e lo tirò indietro. Lucius intravide il suo volto rigato dalla sabbia sulla strada, i sassi gli ferirono il collo e si macchiarono di rosso. Urlò. «Ora chi è che grida come una donnicciola, eh?» cominciò a dargli- senza alcun segno di pietà- tanti calci quanti più poteva, mentre era steso e impotente di far nulla. Lucius accorse.
Maximus gridò di nuovo. «Lucius aiutami!» gli chiese. Come un ricordo remoto gli pervenne l’immagine del suo fratellino Maximus che, caduto, gli chiedeva di aiutarlo ad alzarsi. Cosa avrebbe pensato suo fratello, che lo vedeva come un dio, se l’avesse visto mentre aiutava Decio a fare una cosa del genere? Come avrebbe potuto sostenere il suo sguardo speranzoso?
«Lucius, dai: immobilizzalo.» lo spronava Decio.
«No, Decio. Non puoi aggredirlo così, ora basta.» disse.
«Cane codardo! Aiutami!» gli gridò rabbioso. «Decio così lo uccidi!» tentò d distoglierlo. «Basta, fermati! Non sei più te stesso!» Ma Decio non si fermava, ed il sangue purpureo continuava a zampillare allegro e vivido fuori dalle ferite aperte di Maximus. Con un gesto disperato atterrò Decio. Decio cominciò a sfogare la sua rabbia su di lui. Sentì un dolore lancinante al basso ventre, realizzando che l’aveva colpito. S’accorse che un pugnale pendeva minaccioso sul fianco di Decio, lo prese e lo scagliò via. Affondò un paio di pugni. Intravide di sfuggita Maximus correre via. Colpì Decio al voltò. Un calcio lo costrinse a piegarsi e Decio cominciò a prenderlo a calci. Decio aveva le caratteristiche animalesche di una bestia impazzita, prima amica e poi carnefice. Mentre si alzava per calciarlo di nuovo, Decio barcollò. Lucius si alzò fulmineo, lo spinse e cominciò a prenderlo a calci allo stomaco. Lo prese con un paio di pugni alla mascella. Poi sentì un colpo, inferto dall’elsa di una spada punitrice, colpirgli il cranio. La testa cominciò a pesargli, la vista gli si annebbiò. La volontà gli venne meno.
 
 
 
 
TERRE DEI SASSONI
 
 
 
Il nero opaco della cenere ricopriva tutto. Un paio di uccelli neri volteggiavano nel cielo mattutino, coperto dalle nuvole scure e che avevano tanto l’aria di voler buttar giù una brutta tempesta. Titurio, con rabbia repressa e non poca delusione, percorse il decumano del villaggio completamente bruciato. Il fuoco e le fiamme non avevano risparmiato nulla. Fiamme appiccate da Vaughan, ne era sicuro. Mentre batteva le ciglia, nell’attimo di buio prima di riaprire gli occhi, vide Vaughan, come glielo avevano descritto i soldati sopravvissuti dalla battaglia disastrosa. Un uomo altro più del doppio di alcuni romani; capelli biondi, lunghi lasciati sciolti, con solo alcune treccine a raccoglierli; la barba tagliata rada dello stesso colore dei capelli; un petto largo quanto quello di due romani, nudo, muscoloso, sul quale risaltava la cinghia che teneva legata la sua spada alla schiena; una lancia alta quanto lui, con la punta fatta da un corno di cervo affilato; solo una gonnella per ricoprire le sue vergogne. Un ghigno malefico e soddisfatto sulla bocca sottile: “anche questa volta: ho vinto io” sembrava volergli dire. Distolse la sua mente irata da quell’immagine. Era stato furbo il barbaro... doveva aver fatto cantare una delle sentinella prima di ucciderla. Ora la sua legione era senza rifornimenti: niente ripari, niente cibo, niente di niente!
«Generale, cosa facciamo?» un soldato, forse un collaboratore di un collaboratore di un suo collaboratore... ufficiale di basso grado al massimo. Giovane; aveva ancora una lanugine da ragazzo al posto della barba.
«Cosa vuoi fare, tu?» rispose astioso. «Torniamo al confine.»
«Non proseguiamo? Potrebbero essere poco lontani.»
«Tutto è bruciato da almeno dieci giorni. Non so quale possa essere la loro meta. Potrebbero anche essere rimasti nei dintorni per tornare presto... In caso contrario saranno già lontani da noi.»
«Ma hanno donne e bambini.»
Titurio si voltò. Vide riflessi i fulmini rossi che accecavano i suoi occhi di rabbia negli occhi del soldato. «Tu hai idea di chi sia quello con cui stai parlando?!»
Il soldato tremolò.
«Io sono Gaio Tullio Titurio e non tollero di essere sfidato...»
«Mio cesare, ...»
«Tu, omuncolo insignificante che puzza ancora di latte, non sai chi sia quello con cui abbiamo a che fare!»
«È  solo un barbaro, cesare...  voi potrete sicuramente trovare un sassone.»
«No. Quello non è un sassone.» indicò il cielo.«Quello è il sassone che distruggerà tutto se non lo fermiamo. Vaughan non è un incivile. Vaughan parla latino; ovvio, visto che è venuto a conoscenza dei nostri piani. Vaughan è spietato. Vaughan è molto più furbo di quanto tu potrai mai essere.»
Il soldato restò immobile.
«Credi che lui non ci abbia pensato? Avrà usato cavalli e carri. Sapeva benissimo che stavamo arrivando; non si sarà di certo messo a scegliere cosa indossare per l’occasione!» lo spintonò «Non azzardarti mai più a dubitare del tuo comandante, intesi?»
Il giovane annuì con le lacrime agli occhi ma, senza scomporsi, le ricacciò indietro e se ne andò a passo di marcia. “Non piangere davanti a me, ragazzo. Io, come Vaughan, non ho pietà per chi non mi rispetta: romano o barbaro che sia.”
«Cesare!» lo chiamò un luogotenente.
«Cosa c’è?»
«Abbiamo trovato una cosa. È  forse il caso che veniate a vedere.»
Titurio, con non poca fatica, combattendo contro le sue gambe che gli imponevano di rallentare, si avvicinò a passo svelto. Gli fu dato fra le mani un bracciale. Un bel bracciale: molto ornato, forse anche troppo, con pietre preziose e disegni geometrici.. Eccessivamente vistoso per una giovane donna romana, per quanto licenziosa potesse essere... Ma la fattura era senz’altro preziosa e, soprattutto, era certamente un bracciale romano.«È un bracciale di fattura romana, non è bruciato. Credo sia ferro battuto.» Titurio si rigirò il manufatto fra le mani. «Perché non si è sciolto nel calore?»
L’altro fece spallucce. «Era fra delle pietre cadute, forse questo l’ha protetto dalle fiamme.»
Annuì assente, arricciando le labbra. Chissà perché era lì? Forse che... «Le donne che tengono molti giovani ufficiali, ci sono tutte?»
«Non lo so, generale. Volete cha faccia ricerche?»
«Prima controlla al bordello. Forse una o due si sono allontanate e i barbari gli hanno fatto la festa.»
«Sì, comandante.»
Fece per andarsene, lentamente.
«Comandante?» lo raggiunse un soldato.
«Cos’altro c’è?» chiese calmo.
«Perché è importante sapere chi ha lasciato il bracciale?» Non era il tono alto che aveva avuto il soldato di prima, era l’atteggiamento di chi vuole imparare.
«Forse Vaughan non è tanto furbo come pensavo...» bisbigliò di spalle.
 

 
CIRENAICA, CONFINE DELLE TERRE DI ROMA
 
 
Poco dopo si risveglio con la testa dolorante e il sangue secco sulle ferite insabbiate sulla sua brandina nella tenda del presidio. Alzò leggermente il busto, sperando di sentirsi meglio. La mossa sortì l’effetto contrario. Diede di stomaco.  Sbatté le palpebre cercando di rischiararsi la vista. Vide il comandante dell’accampamento sbraitare con il suo solito dito alzato, mentre ogni tanto si lisciava la barba. Accanto a lui c’era Decio... però, l’aveva conciato per le feste... aveva il volto livido e le braccia ferite. Le gambe erano sporche del sangue di Maximus. Muoveva la testa annuendo. La voce del comandante gli si insinuò nella mente come un ratto meschino della casa di un patrizio: «Siete tutti coinvolti! ...rissa del tutto immotivata... Decio... istigatore... tutti puniti! Decio... gladiatore... Maximus... pretoriano, a Roma... Lucius ...Confine Nord.»
A quel punto Lucius capì...


 
ROMA
 
 
Nessun’ombra di Iolanda Quintilia, eppure era l’ora settima1. Passeggiava con una tunica semplice e poco preziosa nei fori, aspettando paziente. Si appoggiò alla statua di chissà chi... Non gli importava. Guardandosi intorno vide il figlio di Titurio... senatore anche lui. Un giorno, questo lo sapeva bene, si sarebbe ritrovato a  comandare insieme a lui, se i fatti di quel giorno sarebbero andati a buon fine. Vide accanto a lui la sua giovane moglie. Aveva almeno vent’anni meno di lui. Ecco ciò che dava il potere: ricchezza e sicurezza. E le donne amavano sia l’una che l’altra. Potere, ricchezza e sicurezza, donne: questa era la formula. Peccato che lui partisse dall’avere l’attenzione di una donna e dovesse risalire fino al potere. Era più difficile, ma non impossibile. L’avrebbe convinta, ne era sicuro. Si immaginò al posto di Mario Tullio Liviano, con una bella donna a fianco, con una miriade di figli - bastardi e non - sparsi in ogni carica romana, e soprattutto con il vero potere fra le mani. Continuò a guardarsi intorno per un bel po’, ma alla fine, allo scoccare dell’ora ottava,  il suo sguardo incontrò quello di Iolanda Quintilia, con i capelli nascosti da una parrucca bionda, fatta di capelli barbari, la veste rosata di lino leggerissima e, immaginò, finissima... Le fece un cenno. Lei congedò la serva con un gesto sbrigativo e si diresse verso di lui.
«Perdonatemi ma non mi è stato possibile venire prima.» mimò con la bocca.
Marco si avvicinò con passo svelto. «Non preoccupatevi.» e, senza un minimo di invito né provocazione, la baciò. Iolanda lo spinse via. «Siete pazzo?! Se ci vedono...»
«Ma io vi piaccio.» la contraddisse.
«Se ci vedono passiamo dei guai.» lo tirò dietro la colonna più vicina. Marco le prese le mani e la portò via. Si mosse abile fino ad arrivare in  un vicoletto, lontano dalla calca. Ricordava bene quel vicoletto. Era lì che, tempo prima un paio di volte, la puttana ispanica (Cecilia, possibile fosse questo il suo nome?) gli aveva praticato uno di quei suoi sempre apprezzati giochetti con la bocca sul... «Dove siamo?»
«In un posto sicuro...»
«Cosa volete da me, Marco? Mi piacete è vero, ma non posso sposarvi.»
«Ascoltami» le tappò la bocca «Per sposarci dobbiamo avere un figlio.»
«Generalmente è il contrario...»
«Se rimarresti incinta chi vorrebbe più sposarti?»
«Nessuno, credo.»
«Nessuno tranne me.»
Iolanda scosse la testa esterrefatta. «Dimenticate che mio padre ha potere di vita e di morte su di me!»
«No. Tuo padre ti venera come venera Giove stesso. Se io mi farò avanti per salvare te e la sua famiglia non potrà che accettarmi.»
«No, Marco. Voi siete pazzo. Mi chiedete di gettare via il mio onore per nulla. Per delle vaghe presunzioni.» abbassò lo sguardo «Potremmo diventare amanti una volta che io sia sposata. Staremo attenti e nessuno ci scoprirà. I vostri figli sembreranno quelli di mio marito.»
No. Diventare l’amante di una patrizia non sarebbe valso a nulla. Doveva ottenere il sostegno del padre: un senatore lo avrebbe appoggiato per rientrare nell’esercito, ritornare a comandare... «Non voglio essere il tuo amante.»
«Allora credo proprio sia finita qui.» serrò la bocca sensuale e gli voltò le spalle.
Marco ebbe la sensazione che il mondo gli crollasse sopra. Afferrò il polso di Iolanda con veemenza, la sbatté al muro guardandola con lussuria. Iolanda tirò fuori un coltellino dalla veste e, con la mano libera, lo graffiò al labbro superiore. Marco s’incendio di rabbia; afferrò la mano che lo aveva ferito e le stritolò il polso fino a che non lasciò cadere il coltellino, dolorante. Le diede uno schiaffo, e vide apparire un livido sanguinolento sulla sua guancia candida. «Marco, vi prego... vi ho dato fiducia, sono venuta qui. Rispettate la mia volontà, ve ne prego...» supplicò storcendo la bocca in una smorfia penosa, col volto coperto da un misto di sangue e lacrime.
Non andò molto fiero di quello che fece dopo...
 
 
QUATTRO MESI DOPO
 
TERRE DEI SASSONI
 
 
Cecilia guardava il fuoco che zampillava al centro della piazza del paese. Il villaggio era in costruzione da quattro mesi circa; le strade erano delineate dalle capanne costruite in pietra, le pietre erano tenute insieme grazie ad un intruglio di argilla e sassolini. Non tutte le case definitive erano pronte: alcuni vivevano ancora nelle capanne in paglia e legno. Ma non lei e Vaughan. Vivevano nella casa in pietra al centro della città, proprio davanti alla piazza dov’era seduta. Il piccolo scalciò, riportandola a pensare al parto. Le faceva male tutto... ormai era quasi al nono mese di gravidanza... Il parto di Brynhildr era stato davvero doloroso. La bambina era girata a piedi all’ingiù, quando le avevano spiegato che doveva uscire prima con la testa. Si era resa necessario l’intervento della levatrice del villaggio che era riuscita a girarla. Ricordava quanto Vaughan fosse in pena per lei: ammutolito era rimasto in un angolino della stanza per tutto il tempo, senza alzare lo sguardo. Vaughan ora era seduto accanto ad Olaf, che teneva Brynhildr dormiente fra le braccia. Olaf stravedeva per lei, e aveva cominciato a chiamarla “Brynny”. Era un uomo serioso, Olaf. Sempre col broncio ma gentile, un po’ come Vaughan, che al posto della serietà aveva la spietatezza e l’autorevolezza. Erano a Sud Est, se si considerava il loro vecchio villaggio. Il viaggio era stato stancante, ma allo stesso tempo veloce (rispetto a quanto aveva pensato prima). Il nuovo villaggio era in mezzo alla foresta nera. Era un posto molto più sicuro, ma anche più difficile da proteggere. Le querce alte dominavano il panorama, non permettendo la vista di potenziali nemici. Ma Vaughan e gli uomini avevano tirato su delle mura: piccole, nulla di importante. Cecilia aveva consigliato di ampliarle. Fearchar e Addolgar (un altro dei luogotenenti di Vaughan; un uomo grosso come un orso e con una grande cicatrice sul volto) avevano abbattuto una ventina di alberi al loro arrivo, per poter coltivare la terra. Il Grande Sacerdote aveva intagliato delle piccole donne dalle forme accentuate, conficcandole nel terreno per rendere fertile la terra; Cecilia non era sicura che la cosa funzionasse. C’erano anche un lago, delle piccole rapide, a quanto le aveva detto Vaughan. Si coprì meglio col mantello pesante che indossava. Il bambino scalciò di nuovo.  «Hai freddo?» le chiese Vaughan, stringendole le spalle con le mani.
Cecilia fece spallucce. «Non con il mantello.» Poi respirò profondamente, guardandolo negli occhi. «Il bambino continua a scalciare.»
Vaughan mise la mano sul pancione. «Ho pensato a come possiamo chiamarlo.»
Sorrise, invitandolo a rivelarglielo.
«Madron.»
Cecilia cambiò posizione. La schiena cominciava a dolerle troppo stando così. «Credevo lo volessi chiamare Olver, come tuo padre.»
Vaughan rise. «Seh! Ti immagini cosa direbbe la gente?» mimò il discorso.«“Olver Vaughanson? E chi è?” “Il figlio di Vaughan Olverson”»
Cecilia rise. Aveva davvero il senso dell’humor. «Ma perché Madron? È  un nome... norreno?»
«No, per la verità è celtico.»
«Parli la lingua dei Galli, Vaughan?»
«Non molto bene.» scosse la testa ridendo. «Solo un po'»
«E cosa significa?»
« "Fortunato".»
Cecilia sorrise stupita. «Come fai a sapere queste cose?»
«Quando commerci e viaggi entri a contatto con nuova gente. Gente diversa da te, ma non per questo meno interessante. Il greco l’ho imparato per commerciare a Marsiglia. Era una colonia greca, e molti sono rimasti. Fra chi parla gaelico, latino e greco, si preferisce il greco, perché è la lingua della maggioranza. Il mio latino scadente deriva dal fatto che commerciavamo pochissimo con i romani. La cosa avviene tuttora: Olaf non commercia con i romani. Però devo dire che il mio gaelico è passabile, migliore del mio latino sicuramente!»
Cecilia lo scrutò con attenzione: gli passò il pollice sulla bocca. «Hai un segno al lato della bocca.»
«Ho trentotto anni. Dovrai abituartici, è solo il primo di molti altri.»
«Il primo? Io avrei da ridire in proposito...» scherzò. Vaughan, sorridendo, prese la testa di Cecilia e se la portò al petto. Smise di ridere. «Ti pesa che io abbia dieci anni più di te?»
Cecilia si staccò da lui, lo guardò negli occhi e scosse la testa. «No.»
Vaughan, senza darle il tempo di rendersene conto, la baciò. «Se non fossi incinta...» le mormorò a fior di labbra.
«Sono spiacete di interrompervi, ma vorrei ricordarvi che sono qui anch’io.» si intromise Olaf, con fare simpatico, non staccando gli occhi da Brynhildr mentre la cullava addormentata. Cecilia rise. «Scusa, ti abbiamo messo in imbarazzo.» continuò a ridere, guardando Vaughan con complicità.
«Mio signore!» lo chiamò Fearchar. «Abbiamo lasciato a voi l’onore di spellare il cervo catturato, per togliergli le corna.»
«Arrivo, Fearchar. Grazie.» si alzò agile. Poteva anche avere dieci anni più di lei, ma era sicuramente in forma. «Che ne sarà di Brynny, quando crescerà?» le chiese Olaf, assorto.
«Non lo so. Credo che si sposerà e avrà dei figli come qualsiasi altra donna al villaggio. Non credo le dirò mai cosa facevo prima di sposare Vaughan.»
Olaf la guardò. «Le dirai mai che è una romana?»
«Se ne accorgerà da sola, ho paura. Non sono molti al villaggio ad avere colori scuri come i suoi.»
«E suo padre?»
«No.» scosse la testa. «Non credo le farò mai il nome di suo padre.»
Olaf sorrise. «Era lui ad essere così scuro?»
«No, per la verità lui aveva gli occhi verdi e la pelle più chiara della mia. Mio padre aveva la pelle scura, olivastra come la sua.»
Olaf annuì. «Hai nostalgia della tua terra?»
«Solo del caldo!» rise.
«È  naturale che ti manchi stare fra i romani, era la tua gente.»
Cecilia sorrise amaramente. «No. Non è mai stata la mia gente.» abbassò lo sguardo. «Mi hanno sempre trattata come un rifiuto umano solo per il lavoro che facevo. Tutti: uomini, donne, anche i bambini che giocavano mentre passavo per la strada. Qui è diverso. Sono passata dall’essere una prigioniera di guerra a sposare Vaughan.»
Olaf le sorrise. Vaughan venne verso di loro. Aiutando Cecilia ad alzarsi. Olaf passò Brynhildr a Vaughan e si alzò.
Olaf si rivolse a Vaughan in una lingua che lei non conosceva.
«Mιμνησκεις ταυτα ο ειπα περι αυταν, αδελφω;2»
«Tαυτα. 3» rispose lui altrettanto serio.
«Mi sbagliavo...» sorrise.
«Non parlate fra di voi, non vi capisco!» si lamentò scherzosamente.
I due fratelli non dissero nulla, limitandosi a sorridere. «Vaughan? Olaf? Cosa vi siete detti?!»
 


Note
1Ora settima =da mezzogiorno a mezzogiorno e tre quarti. 
2Mιμνησκεις ταυτα ο ειπα περι αυταν, αδελφω; = “Ricordi quelle cose che ho detto su di lei, fratello?”
3Tαυτα. = in questo caso usato come “Sì, certo”/“È  così”

(prima o poi riuscirò a mettere i collegamente sui numerini...)

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Capitolo 8
*** Parte Seconda: Capitolo I ***







 

Al centro:Vaughan Olverson (Joel Edgerton, King Arthur).

In senso orarioCecilia (Lena Headey, 300); Brynhildr Vaughandóttir (Erin Cummings, Spartacus), Marcus Iulius Flavianus (Joaquin Phoenix, Il Gladiatore.), Maximus Cirrus (Kit Harington, Pompei) .

Le persone menzionate sono solo semplici prestavolto, senza alcun collegamento di idee, comportamenti, carattere e/o azioni con i personaggi descritti nella storia. 



PARTE SECONDA
 





Capitolo I
Diciassette anni dopo
 
IDI DI MARZO
ANNO CMXXXIII AB URBE CONDITA1
 
 
 
TERRE DEI SASSONI
 
Il sole sorgeva dolcemente, facendo capolino fra quegli alberi che circondavano il villaggio in legno. L’aria gelida della notte lasciava pian piano il posto all’aria poco più calda del giorno. I pochi fiori che crescevano in quel territorio volgevano lo sguardo al Dio Sole che si levava in cielo. Ma perfino il sole pallido nel Nord quel giorno era più luminoso e caldo del solito: forse per salutare chi, come lui, apparteneva la Sud. La rugiada sugli aghi del pini cominciava a sciogliersi lentamente. Un raggio premuroso si infiltrò nelle fessure della porta e diede l’annuncio del giorno a chi dormiva dentro. Non che dormissero poi così tanto, in effetti. Cecilia respirava affannosamente, aggrappata alla possente schiena di Vaughan, che ricominciava a respirare ad intervalli regolari.  «È  giorno, Vaughan.» gli sussurrò all’orecchio, fra un respiro e l’altro. Vaughan la baciò sulle labbra, senza schiudere la bocca, le scivolò fuori e scorse giù, appoggiando la testa sul suo ventre. «Olaf, Madron e Brynhildr tornano oggi, vero?»
Annuì. «Sì.»
Vaughan alzò la testa e la guardò negli occhi. «Non mi sembri molto felice.»
«Non è vero...» gli sorrise.
«Preoccupata?»
«Solo per Brynhildr. Madron è un bravo ragazzo. Ma ho paura che con lei possa ricominciare subito...  Non andiamo d’accordo lo sai.»
Vaughan scosse la testa. «Non capirò mai perché.»
Cecilia scosse la testa. «Lei è uguale a suo padre.» fece una pausa «È  arrogante, irrispettosa e disonesta.»
«Parli a sproposito.» si alzò uscendo dal letto, totalmente nudo. Aveva ancora il fisico scolpito come anni ed anni prima, l’unica cosa che era cambiata erano i segni sul suo viso, in aumento. I capelli erano sempre lunghi, con pochi capelli bianchi, praticamente invisibili su quella chioma così chiara. Lo sentì orinare nel vaso da notte. Quell’assenza di pudore, dando la vera, cruda e naturale immagine di sé stessi era piacevole.
«È  cattiva d’indole! Spietata e violenta. È  come lui, come Marco. Se non può avere quello che vuole lo prende senza preoccuparsi di ferire qualcuno!» si alzò e mise la tunica leggera. Vaughan si coprì con la pelle di cervo che usava per la battaglia.
Si sedette sul letto, fissando Vaughan mentre si lavava il viso. «Sembra essere matta a volte. Quando ti fissa e non parla; sembra che studi tutto e tutti. Come se considerasse il mondo il nemico e lei la sua unica risorsa. Maliziosa e bugiarda. Cattiva: non c’è parola migliore per descriverla.»
«Basta.» l’ammonì dolcemente. «Le ragazze già non la sopportano, senza che tu infierisca.»
«Kwenthrith, Helga ed Aslaug non sopportano Brynhildr per pura invidia.» questo lo doveva ammettere. Benché andasse molto più fiera delle tre figlie che aveva avuto con Vaughan che della figlia bastarda, Brynhildr aveva un fascino che Helga, Kwenthrith ed Aslaug non avrebbero mai avuto. C’era qualcosa di eccitante per gli uomini in una come Brynhildr. Qualcosa di lussurioso e malvagio. Una mercante istruita, guerriera e cacciatrice, che attraeva per erotismo, non per amore vero, forse anche più di un’ etéra.
Vaughan le sorrise sensuale. «Brynhildr è la più bella fra loro. E lo è perché è quella che più somiglia a sua madre.» si avvicinò e si inginocchiò ai suoi piedi. La baciò sul collo, scendendo sempre più in basso. Cecilia adorava quando la stuzzicava dolcemente: buttò la testa indietro e si godé il momento. All’altezza del ventre, però, dovette fermarlo. Prese la sua testa fra le mani dolcemente e la costrinse a guardarla in viso. «Abbiamo appena finito...»
Vaughan rise. «È  ancora l’alba mia signora...» la baciò di nuovo. Le prese le mani con delicatezza, si stese sul letto e la fece salire sopra di lui a cavalcioni.
 
 
 
 
ACCAMPAMENTO ROMANO SUL LIMES NORDICO
 
«Diciassette anni fa questo confine sarebbe stato il più problematico di tutti i confini romani. Ora per vostra fortuna, donnicciole, la nostra funzione qui è puramente protettiva. I barbari non attaccano da anni. Le legioni qui stanziate sono mutate, i padri hanno lasciato il posto ai figli, giovani inesperti. Se pensate che l’addestramento sia stato duro, allora andatevene a casa, trovatevi un pezzo di terra, una bella donna che vi scaldi il letto la notte e vivete in pace la vita che vi siete scelti. Tutto quello che un uomo teme - sangue, confronto, barbari olezzanti ed impavidi senza la minima paura della morte, capaci di ammazzarvi con un solo colpo ben assestato- lo troverete qui. Il limes è tranquillo da quasi venti anni, la strada è trafficata da mercanti che devono essere provvisti del lasciapassare dell’Impero, per raggiungere la Gallia del Sud. Da qualche tempo tuttavia, si dice che i barbari stiano per attaccare. Chi di voi è disposto a restare inerme, aspettando che i barbari si preparino per un nuovo, tremendo e sanguinoso attacco?!  Io l’ho visto, donnicciole. Io vidi Vaughan il sassone diciassette anni fa: combatteva a torso nudo, coperto da nulla di più che una pelle di cervo, i capelli erano biondi e lunghi, la barba rada, gli occhi infossati, piccoli e chiari, troppo chiari: di un colore sovrannaturale. Era alto quanto due di voi e con le spalle più muscolose di quelle del nostro guerriero più forte. Le braccia insanguinate, la chioma intrisa di rosso. L’esercito che mi fu affidato non era forte abbastanza per fronteggiare un popolo di uomini simili a Vaughan. E voi?!  Siete il secondo esercito che viene mandato quassù: avete intenzione di farvi sormontare come il primo? Lascerete che Vaughan il sassone faccia crollare l’impero? Io non lo farò, nossignore! E se voi puttanelle non avete il coraggio di servire la vostra patria fino alla morte, allora tornatevene in Cirenaica per l’addestramento! Nulla di ciò che non vorremmo entrerà nel loro territorio. Ai mercanti barbari che trasporteranno armi, toglierete ogni cosa. Coloro che non avranno monete a sufficienza per pagare il passaggio, non verranno fatti passare. I barbari che sorprenderete a derubare romani, perderanno le mani. Se un barbaro uccide un romano, lo ucciderete. Non dovrete avere la minima pietà. Quelli non sono come noi. Non sono umani, non hanno coscienza: sono bestie senza senno.»
Quando Marco finì di parlare Iolanda uscì dalla sua tenda. «Torna dentro, moglie.» gli ordinò secco. Si voltò a guardarla, mentre con espressione sottomessa eseguiva. Ghignò. Non era più bella come una volta. I seni non erano più alti e sodi. Era più magra; sembrava uno scheletro ora, nulla a che vedere con una bella donna. Ne aveva avute parecchie di belle donne, però. Quelle dei postriboli del Sud erano le migliori, ma anche quelle a Nord non erano da meno. Solo che a Nord c’erano soldati veterani, era ovvio che le prostitute giovani andassero verso Sud. Sperava che, vista la grande ondata di giovani reclute che si era portato dietro, arrivassero anche giovani prostitute a tener loro compagnia. Un esercito tutto suo... di nuovo! C’era voluto parecchio, ma alla fine Titurio non aveva più fatto caso a lui; aveva troppo da fare impegnandosi a non tirare le cuoia. Aveva cominciato comandando un campo d’addestramento a Sud, poi era stato all’estremo Est ed ora era dove era cominciato tutto. Aveva un conto in sospeso con Vaughan; infondo era colpa sua se il suo vecchio esercito era stato annientato. Il nuovo era comunque migliore. Un’ intera legione di uomini,  la “X LEGIO GERMANICA”. In tutto c’erano tre legioni a Nord, la sua, la IX LEGIO e l’ VIII LEGIO. Si era fatto dare la supremazia su tutti e tre comandanti, ed ora era quello che i soldati chiamavano “primus dux inter pares”. Certo però... si poteva ambire a di più. Il figlio di Titurio, Mario Tullio Ascanio, già quando aveva l’età di Marco ora,  era diventato Magister Militum per Illyricum...
«Lucius!» chiamò il suo attendente.
«Sì, mio signore?»
«Dì ai soldati che fra un’ora comincia l’esercitazione, non voglio ritardi.»
«Sì, mio signore.» fece per andarsene.
«Ehi, Lucius» rise, richiamandolo «Dì a tuo fratello di non spaccare le ossa a nessuno stavolta.»
«Maximus è profondamente rammaricato»rise, stringendo i denti «l’ha fatto solo per difendersi, Manlio era piuttosto inferocito all’ultima esercitazione. Spera che possiate concedergli il vostro perdo...»
«Se spacca le ossa dei sassoni come fa con quelle dei romani allora gli darò molto più che il mio perdono!» rise.
«Glielo dirò, mio signore.» disse ritirandosi.
Marco entrò nella sua tenda. Iolanda era semidistesa sulla lettiga, ricamando un telo. «Non disturbarmi mai più mentre parlo ai soldati.» si tolse la cintola con la spada attaccata. Perse una mela dalla cesta della frutta e la morse.
«Sì, Marco.» disse tremolante.
«Parla più forte quando ti rivolgi a me». Sputò un pezzo della buccia della mela a terra. Odiava quando la buccia delle mele gli si incastrava fra i denti.
Lei balbettò un poco, poi disse flebile. «Non sono uno dei tuoi soldati.»
Marco, all’udire parole tanto sfrontate, si infuriò. «Hai ragione.» scandì forte, arrivando poi a gridare «Ma sei mia comunque! Mi devi rispetto incondizionato, intesi?!» Scagliò la mela verso di lei, colpendola al volto.
 Lei cominciò a piangere, con un rivolo sanguinolento che le usciva dal naso. «Lo vedi che sono costretto a farti? Se fossi una brava moglie non lo farei, non ti dovrei punire per la tua condotta: lo sai questo vero?»
Continuò a piangere.
«Smettila.» ordinò secco. Nulla lo faceva arrabbiare più che vederla piangere: possibile che non capisse quanto era... «Irritante! Sei irritante, Iolanda!»
E lei continuava a piangere. Si sfiorò con il polpastrello dell’indice destro la cicatrice sopra il labbro che lei gli aveva fatto con quel piccolo coltellino, la prima volta che l’aveva posseduta. Maledettissima.
Afferrò tre acini d’uva e li ficcò in bocca: «Smettila ho detto.» biascicò a bocca aperta, triturando incurante anche i semini che normalmente avrebbe sputato.  Si versò del vino nella coppa e si fece cadere sulla sua sedia ornata, a gambe larghe.
«Vieni qui.» le ordinò secco. Lei non si mosse, asciugandosi gli occhi nella tunica.
«Per tutti gli Dèi vieni qui!» ribadì. Per tranquillizzarsi sorseggiò ancora del vino.
«Alzami la tunica e vediamo che sai fare...» disse malizioso.
Lei la alzò esitante. «Non sono una delle tue puttane.»
Marco respirò pesantemente: «È  qui che ti sbagli: tu sei mia moglie: hai l’obbligo di essermi fedele, devi obbedirmi ed essere pronta a soddisfarmi in qualsiasi momento io voglia.» bevé di nuovo un po’ di vino e se lo passò per la bocca assaporandolo, socchiudendo gli occhi. «Questo fa di te una puttana di prima classe, cara mia.» si adagiò con la testa indietro e si godé il momento.

 
 
 
«Maximus!». Quando si sentì chiamare, Maximus scattò in piedi e cercò con lo sguardo la voce che lo chiamava. «Che vuoi Lucius?»
«Cerca di non spaccare la testa a nessuno oggi.»
«È  stato un incidente» si giustificò. Tornò a fare quello che stava facendo, si sedette affilando un bastoncino di legno. Gli faceva un po’ male la spalla destra, aveva preso una brutta botta quando aveva avuto una rissa con Manlio, alla scorsa esercitazione. Non ricordava il perché, ma era poco più che una formalità. Manlio ce l’aveva con lui fin dal primo giorno di addestramento, quando, per dividere i più forti dai meno forti,  li avevano fatti combattere a mani nude insieme, e Maximus –un comune popolano della Suburra- aveva vinto senza troppo sforzo su Manlio Tullio - figlio cadetto del generale e senatore Marco Tullio Ascanio, che a sua volta era il figlio maggiore del potentissimo quanto decrepito Gaio Tullio Titurio. Ora Manlio era stato rimandato a Roma, aveva ricevuto una strigliata dal padre per aver istigato una rissa e sarebbe tornato sano e curato entro la fine del mese di Martius. In più sembrava che Flaviano provasse piacere nel punire Manlio, e lamentarsi del suo comportamento indisciplinato.
«Lui dice che se spacchi le ossa dei sassoni come quelle dei romani... be’...» disse, mettendosi a ridere alla fine dell’incompiuta frase. Il fratello si sedette accanto a lui.
Maximus sorrise. «La mamma avrebbe i brividi se mi vedesse fare a botte.»
«Siamo soldati, credo sappia che genere di vita facciamo» disse ridendo «Si dovrà abituare all’idea che non le daremo nipotini se non con sgualdrine. Mi chiedo se li accetterebbe.»
«Non lo farebbe mai» rise.
Lucius abbassò la voce: «Maximus, da fratello a fratello: ci sei mai andato al postribolo qui vicino?»
Maximus rise. «No. Perché tu l’hai fatto? Dicono ci siano solo prostitute vecchie.»
«Non è affatto vero» rise. «Ci sono donne forse non della tua età, ma non sono tutte vecchie» gli si avvicinò all’orecchio, sussurrando: «C’è una di trent’otto anni che ne dimostra cinque in meno. Ti assicuro che è... a dir poco vogliosa.»
«Quando sei partito mi ricordo un ragazzo che non pensava alle donne ma alla Patris Gaia». Gli sorrise.
«La Patris Gaia non ti tiene compagnia la notte, quando ti senti solo come un cane.» disse «Tu non ci pensi alle donne?»
Maximus abbassò lo sguardo. «Sì che ci penso, ma le donne dei lupanari non mi attraggono. Sono pagate per mostrarsi gentili, carine... e vogliose.»
«Se sei un vecchio è ovvio che lo fanno per i soldi. Ma per un ragazzo come te si metterebbero a litigare. Ormai le conosco quasi tutte per nome...» rifletté Lucius.
«Concentrati sul tuo lavoro: magari riuscirai a diventare forte come me un giorno!» rise.
«Una volta ero io a dire così.»
«Prima che io diventassi due spanne più alto di te.»
Lucius si alzò e gli tese la mano.
«So alzarmi anche da solo ormai.» disse Maximus, sorridendogli.
Lucius si fermò, lo guardò, lasciando Maximus a cercare di decifrare la sua espressione. «Che fai?» chiese.
Riconobbe sul volto del fratello maggiore un’espressione nostalgica. «Il mio piccolo fratellino, lo stesso a cui lavavo i ginocchi sbucciati, ora è il più forte dei guerrieri dell’accampamento. Oh, Maximus; sono fiero di te.»
Lucius gli appoggiò le mani sulle spalle, guardando gli occhi neri del fratello.
 




All’aria calda che già alle Idi di Martius infuocava il meridione romano, Brynhildr reagiva legando i ricci capelli neri come la pece in una grande treccia, che appuntava arrotolata sulla testa. Ora invece, quando l’insostenibile calura del Sud lasciò spazio alle correnti refrigeranti del Nord, la donna si apprestava a disfare quello stesso groviglio tanto accuratamente intrecciato.
«Perché metti tanto impegno nel curarti dei tuoi capelli?» chiedeva suo fratello quando era ancora piccolo.
Allora lei rispondeva guardandolo negli occhi celesti, così profondamente diversi dai neri occhi di lei. «Perché mi piace, Madron. Anche i guerrieri della tribù fanno le trecce in battaglia.»
«Ma tu non sei mica un guerriero...»
«Ciononostante quando ci azzuffiamo vinco io lo stesso.» diceva, e metteva il broncio, continuando a fare la treccia.
«Non capirò mai il perverso piacere che provi nell’intrecciarti i capelli.» diceva invece ora, ridendo. Seduti entrambi sul carro della merce, con zio Olaf a cavallo, lo stesso che trainava il carro.
Brynhildr lo squadrò da cima a fondo e ribatté: «Ed io non pretendo che tu ci arrivi.»
«Non è una cosa da donna di cultura.»
«È  una cosa da donna, però.»
Madron abbassò lo sguardo. «Non penso a te come una donna» ammise.
Brynhildr sorrise al fratello, che nonostante i suoi sedici anni le appariva così immaturo a volte. Un solo anno li separava, ma il legame con lui era troppo forte per poter essere spezzato dal divario fra i loro sviluppi. «Ed io non riesco ad immaginarti diventare uomo.»
«Siamo in vena di confidenze oggi, eh?» constatò zio Olaf.
«Scusa zio.» disse Brynhildr «Oggi battiamo la fiacca.»
«Fra quanto siamo a casa?»
«Dobbiamo ancora passare il limes, Madron. Anzi, prendi il lasciapassare, ormai siamo vicini. Brynny, contami le monete necessarie per il pedaggio.» Dicendo questo, le lanciò il borsello di pelle dove teneva le monete. C’erano monete di ogni tipo nel borsello di un mercante. Infondo era il valore della moneta che contava, non chi l’aveva coniata.
«Non vedo l’ora di rivedere Conan» rifletté Madron a voce alta.
«E tutti gli altri?» chiese sarcastica Brynhildr.
«Le ragazze pagherei per non vederle; tu sei già qui;  nostro padre e nostra madre ovviamente voglio vederli, così come tutti i fratelli maschi... ma Conan ha compiuto gli anni, hai visto il leoncino intagliato che gli ho fatto?»
«Certo che l’ho visto.» disse esasperata buttando indietro la testa.  «Due mesi e mezzo che siamo via e ci hai lavorato ogni sera.»
«Tu? Cosa gli hai fatto?»
«Ho comprato un bracciale di argento battuto a Massalia.»
«Credevo fosse per te.»
«No,» disse sorridendo «io di bracciali ne ho a sufficienza. C’è disegnato un motivo greco, credo che piacerà a Conan.»
Conan. Tenero dolce piccolo impavido Conan. Ormai aveva già sei anni... Si sentiva stranamente vecchia quando pensava ai fratelli minori. A diciassette anni era in età da marito, e secondo sua madre doveva sposarsi. Brynhildr non la poteva soffrire. Di tanto in tanto Vaughan le chiedeva di essere gentile con lei, e allora Brynhildr si sforzava; ma quando vedeva gli occhi della madre dardeggiare verso di lei, e la sua bocca pronta a riversare ingiurie sul suo nome, lei esplodeva in una tempesta di rabbia. E poi piangeva, ma senza farsi vedere, in silenzio nella foresta per mantenere l’aspetto di “colei che non è toccata da nulla e da nessuno” agli occhi degli altri. Le sorelle erano peggio della madre, tutte invidiose che la fissavano pregando Odino di dar loro capelli come i suoi, occhi scuri come i suoi, la carnagione mulatta che la faceva risaltare fra le donne del villaggio. A Sud aveva visto donne simili a lei, dai colori scuri.
«Fermi!». Un soldato romano li fermò alzando il braccio. «Mostratemi il lasciapassare.» disse avvicinandosi. Era un soldato, non il semplice funzionario tronfio. C’erano sempre dei soldati sui limes, ma era raro che ce ne fossero così tanti. Sarebbe stato opportuno avvisare Vaughan.
Zio Olaf gli porse il lasciapassare dal cavallo. «La tassa.» continuò quell’altro.
Brynhildr allora gli diede i soldi. «Molto bene, l’importo è esatto ed il vostro lasciapassare è a posto. » stava per lasciarli andare, quando fissò Madron. «Sei armato, ragazzo. Non va bene.»
Madron allora si sporse dal carro. «È un semplice bastone, serve solo per proteggerci dagli assalti dei briganti lungo la strada.»
«E la donna? È una schiava romana?»
«No, io sono libera. Mi hanno esposta e sono stata accolta dalle tribù amiche oltre il limes.» Se avessero detto di essere non solo della tribù di Vaughan, ma addirittura suoi parenti, li avrebbero uccisi senza neppure chiedere altro.
L’uomo li fece passare. Allontanandosi Brynhildr ascoltò la conversazione dei soldati.
«Ehi, Lucius! Cesare reclama la tua presenza.»
«Arrivo.» rispondeva l’uomo che li aveva fatti passare.
«Non ho voglia di ascoltare i commenti maligni di quelle tre arpie.» rifletté Brynhildr, parlando con Madron.
«Suvvia, Aslaug ha dieci anni, non è esattamente un’arpia.»
«Le altre sì. E anche Aslaug sta prendendo il cattivo esempio delle sorelle.»
« Kwenthrith a quandici anni si veste e si agghinda come fosse una puttana del lupanare, e quando le chiedi il perché ti dice che se non  attira l’attenzione su di lei, Brynhildr le ruberà lo sposo. Helga a tredici fa la corte ai ventenni, cercando di soffiarli a te. E su di loro sono d’accordo. Ma Aslaug?»
«Mi guarda in modo strano, come se non fossi un genere di donna da rispettare.»
«Andiamo a caccia, prima di tornare?» propose il fratello.
«È una buona idea. Hai visto i pugnali di pietra che ho preso a Lutetia? Sono meravigliosi; ne ho presi anche per te, nostro padre e per Bjorn.»
«Bjorn: dolce caro ragazzo. Non ci perdonerebbe mai se andassimo a caccia solo noi due.»
«Una volta lo facevamo.»
«Ma ora Bjorn ha quattordici anni, è naturale che voglia partecipare alla caccia.»
«Mi sa che dovremmo passare al villaggio per chiamarlo prima allora» disse «Nostra madre andrà su tutte le furie, nervosa com’era quando l’abbiamo lasciata...»
«Tanto farla andare su tutte le furie è la tua specialità.»
Risero entrambi. Brynhildr scosse forte la testa, e finalmente liberò i suoi capelli dalla costrizione della treccia.
 



 
TRE GIORNI DOPO LE IDI DI MARZO
ANNO CMXXXIII AB URBE CONDITA2
ROMA
 
 
Le ossa ormai consumate scricchiolavano ad ogni suo movimenti, e le giunture dolevano. L’oscurità più totale avvolgeva quella stanza senza finestre, dove il letto lussuoso era diventato vecchio e consunto a causa dei giorni passatici per la vecchiaia. La villa urbana che s’era tanto goduto da giovane, o quando non poteva ancora non considerarsi vecchio, ora era la sua prigione. Vecchio com’era aveva più volte pensato alla morte, riflettendo: da bambino la morte è ancora un mistero, da giovane soldato un paura, da adulto un nemico che si sa che andrà affrontato e si spera lo si farà il più tardi possibile, ma ora, da vecchio, quando non c’è un punto che non faccia male, una posizione comoda, o un’azione che non richieda un grande sforzo, la morte è la grazia più grande.
«La morte è l’ultimo medico delle malattie: mai Sofocle ebbe tanto ragione!» disse tossicchiando, con la sua piccola manina, ormai divenuta scheletrica,  davanti alla bocca.
Alla fine anche l’ipotesi che Vaughan avesse alleati romani fra le sue fila era stata miseramente surclassata dal massacro compiuto su tutte le truppe del limes, che aveva causato l’arresto dell’avanzata e una lunga pausa fra i conflitti. Inoltre era venuto a sapere da delle voci che Vaughan si era trovato una donna romana, probabilmente una prostituta, in grado di placare quelle voglie naturali ancora più prepotenti in un uomo barbaro. Il bracciale che aveva ritenuto tanto importante, il pagamento per qualcosa, si era rivelato un oggetto senza il minimo valore: cimelio della sua sconfitta morale e strategica sul campo di battaglia. Aveva smesso di stare alle calcagna di Giulio Flaviano, ormai vecchio e stanco di sprecare tempo ed energie con quel miserabile. Ma si era informato, ed era venuto a sapere che ora era comandante di tre legioni di uomini. Sperava solo che non conducesse tutti gli uomini al massacro di nuovo.
«Mio signore, Titurio!» gridò un servo, poco più che un ragazzo gracile ed esile che non era adatto a fare il soldato, irrompendo della stanza da letto buia di Titurio. Scostando la tenda all’ingresso fece entrare un po’ di luce, che lo disturbò.
«Cosa vuoi?! E per tutti gli Dèi non urlare così.» sbraitò.
«Signore, è giunta una missiva dal limes nordico.»
«E cosa dice?»
«È successa una cosa terribile, mio signore». Il ragazzo continuava a parlare come se avesse paura di essere mangiato vivo se avesse vuotato il sacco subito, all’istante.
«Cosa?! Parla. Mio figlio è vivo?»
«Sì, è proprio vostro figlio Tullio Ascanio che manda notizie.»
«Allora parla, per tutti gli Dèi.» ripeté con la voce rauca, tossicchiando ed imprecando nuovamente.
«La battaglia di Vindobona è vinta.» proferì il ragazzo.
«E queste sarebbero cattive notizie?» rise, con un verso più simile ad un rantolo perpetuato che ad una risata.
«Ma mio signore... c’è altro.» mormorò silenzioso, facendo tornare la stanza ad uno stato di quiete. La quiete prima della tempesta, come si suol dire. «L’imperatore Marco Aurelio è morto.»


 
NOTE:
 
-Idi di Marzo, anno CMXXXIII Ab Urbe Condita1=15 marzo 180 d.C.
-Tre giorni dopo le Idi di Marzo, anno CMXXXIII Ab Urbe Condita2= 18 marzo 180 d.C.

***Spazio autore:
*Fa capolino da sotto la scrivania* Salve ragazzi... rimettiamo a posto quei fucili, vi prego, ragioniamola da persone civili... Be' in breve fra il tempo che manca e la storia che si fa complicata è stato un parto. Spero di non lasciare più la situazione in sospeso così... Comunque: la revisione non ha fatto grandi sconvolgimenti (N.B. Kristoff è MADRON)
Prima o poi mi decidero a mettere tutti i nomi in latino o in italiano: non posso continuare a dire "Marco" e "Gaio" se poi dico "Lucius" e "Maximus"... l'incoerenza è dovuta al precario stato mentale della sottoscritta. CHIEDO PERDONO!!!


 

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