A Titanic Love

di Icharus_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Prima di iniziare, un ringraziamento molto molto speciale a Letz, che ha aspettato questa fanfiction e che spero di non deludere.

Capitolo 1

 10 Aprile 1912
12:20


Stava in piedi al centro di quella che per i prossimi dieci giorni sarebbe stata la sua stanza, i bagagli ancora fatti e ammassati in un angolo come se avesse potuto trovare una via d’uscita e scappare da lì all’ultimo momento.
Purtroppo però era già in mezzo al mare sul più grande transatlantico esistente con i più grandi tronfi, deprecabili borghesi esistenti.
Se ne stava lì, immobile, testardo fino all’ultimo, pensando a quanto gli bruciava che la sua famiglia facesse parte di quel pezzo di società da lui tanto odiato. Non era tanto perché erano i suoi genitori, quanto perché lui era loro figlio, aveva il loro sangue e questo lo rendeva parte di quella dannata classe borghese.
 
Si riscosse al terzo isterico “Enjolras muoviti, ci aspettano per il tè!” di sua madre.
Pescò dei vestiti a caso dalla valigia e ghignò tra sé e sé di soddisfazione quando realizzò di aver appena trovato uno dei peggiori capi d’ abbigliamento in suo possesso. Lo avevano costretto ad andare su quella nave? Ad abbandonare la sua Parigi? Bene. Se lo sarebbero tenuto così, volenti o nolenti.
 
Enjolras si recò nel salottino con lo stomaco che ribolliva d’indignazione alla vista di tutta l’opulenza che lo circondava, per non parlare poi dell’arredamento in stile Luigi XV e Luigi XVI, sembrava l’avessero fatto apposta per prendersi gioco di lui, lui che tanto detestava quei due sovrani causa di tante sofferenze per il popolo di Francia, li odiava nonostante le loro monarchie fossero ormai storia, avrebbero potuto ripetergli all’infinito che “E’ solo gente morta da secoli, non capisco perché tu te la prenda tanto” non li avrebbe ascoltati. Ostentare tutto ciò era uno scherno oltraggioso. Cosa credevano? Che gli fosse sfuggita la massa di gente che s’imbarcava con un solo borsone lacero a famiglia, valigie di cartone e un sorriso speranzoso che di allegro non aveva niente?
Enjolras aveva osservato, quasi contemplato quella scena e, lo sapeva perfettamente, così avevano fatto anche i suoi genitori, solo che loro si erano limitati a guardare e passar sopra a quella massa neanche si fosse trattato di scarafaggi.
Raggiunse il piccolo assembramento degli amici di suo padre, alcuni intenti a fumare il sigaro, altri attaccati a un bicchiere di Brandy, altri ancora a scrutarlo forse per i suoi capi consumati, seppur di buona qualità e, più probabile, per il rosso appariscente della sua giacca.
Mentre sentiva distrattamente qualche signora bisbigliare in tono di rimprovero: “Vero che starebbe bene anche con uno straccio, però…” si sedette in disparte aprendo il suo libro per poi immergervisi, deciso a non fare ritorno nel mondo reale prima dell’ora di cena. Purtroppo i suoi piani erano ben lungi dal realizzarsi
"Ehm, Ehm" suo padre aveva sempre quel tono irritato nel rivolgersi a lui, anche solo con un “Ehm, ehm”.
Enjolras alzò gli occhi dal libro senza dire nulla e li posò sul genitore.
"Non ho intenzione di guardarti fare il pezzo da mobilio per tutta la durata di questo viaggio, mi hai capito?"
"Se mi aveste lasciato a Parigi ora tu e la mamma non avreste questo grosso problema, o mi sbaglio?" lo provocò Enjolras, rimarcando le parole questo grosso problema nel caso non si fosse capito che era riferito a se stesso.
Se lo sguardo dell’uomo fosse stato in grado di lanciare fulmini, avrebbe incenerito l’intera nave.
"Adesso ascoltami figliolo…" sibilò, ma il figlio non gli permise di finire, si alzò in piedi sempre guardandolo dritto in faccia – era quasi più alto di lui – e sputò le parole più lapidarie, ma anche più vere che aveva chiuse in testa da quando si era imbarcato su quel dannato transatlantico
"No" fece, attento a scandire bene ogni sillaba e lanciando uno sguardo anche a sua madre che si sforzava di rimanere rigida, composta, impassibile " Non chiamarmi “figliolo”. Preferirei essere dovunque piuttosto che qui e appena potrò farò ritorno a Parigi, che voi ci siate o no non mi interessa minimamente" sentenziò, ora tutta la sala lo stava guardando. Prese ancora un ultimo, profondo respiro, compiacendosi delle facce esterrefatte dei bevitori di Brandy "Mia madre è la Repubblica!" quasi gridò l’ultima frase.
Dopodiché, senza aspettare un commento su quanto fossero privi di veridicità e di senso i suoi ideali, voltò le spalle ai presenti e corse dritto verso il ponte. Aveva bisogno d’ossigeno che non fosse condiviso con gente del genere e se l’essere lì sopra aveva un solo lato positivo era il fatto di muoversi costantemente e velocemente, così che l’aria all’aperto cambiasse di continuo.
 
Appena messo piede fuori, il ragazzo si trovò in mezzo a un miscuglio eterogeneo di persone; tutti i passeggeri, di qualunque classe, gironzolavano sul ponte, godendo dello stesso vento fresco e del tepore dello stesso sole. Notò due ragazzi, di terza classe a giudicare dai vestiti e dal poco contegno che tenevano mentre correvano verso prua, dovevano avere circa la sua età e sembravano le persone più felici del mondo.
Tutto ciò lo fece sentire immensamente meglio, riuscì a dimenticare la sua famiglia e riportò alla mente le sue solite riflessioni. Pensò alla Francia, che gli sembrava enormemente più importante dei suoi tanto odiati genitori, come a una nave invece di una nazione, un immenso transatlantico nel bel mezzo dell’oceano in cui tutti convivono e collaborano per far sì che il bastimento continui a muoversi. Ma no, si disse, non avrebbe funzionato. Si sarebbero ritrovati esattamente com’erano adesso: divisi per classi, per soldi, la classe benestante a sottrarre spazio a quella più miserabile fino a ridurre quest’ultima a soggiornare in delle nicchie troppo spesso visitate dai topi.
Ripensandoci in questo frangente, alla fine, la sua Patria non era poi così diversa dal posto in cui si trovava.
 
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Non aveva idea di come fosse finito lì sopra. L’alcol, pensò, il che era perfettamente plausibile, ma proprio non riusciva a ricordare come tutto fosse iniziato. Sapeva solo di essere su una branda non troppo diversa dal suo letto in quella topaia che aveva il coraggio di chiamare casa e che la testa gli pulsava tanto da fargli credere che stessero bussando alla porta.
"R! Ei, Grantaire, mi apri o no?" ottimo, ora sentiva anche le voci.
"Grantaire, per Dio, apri questa dannatissima porta!". No, forse stavano bussando davvero ed era il caso di andare ad aprire.
Era Bahorel.
"Finalmente!" esordì entrando e superando l’ubriacone, ancora mezzo addormentato "Sono venuto a raccattare un paio di cose, poi torno dai ragazzi. C’è della gente che si è messa a suonare, sai, pianoforte, fisarmonica… e Courf è lì che canta, ‘Ferre ovviamente è scappato con la scusa di assistere Joly in una crisi di mal di mare, ma ci sono un paio di belle figliole che mi dispiacerebbe troppo lasciar da sole, per cui…" detto questo, senza aspettare qualsiasi tipo di risposta da parte dell’amico, Bahorel uscì quasi volando e non si vide più fino all’ora di cena.
Grantaire decise di rinunciare nell’impresa di ricordare almeno in parte cosa ci facesse su quella nave, perché una nave doveva essere, non era possibile che fosse ancora così ubriaco da sentirsi muovere il pavimento sotto i piedi. Poi però si disse che se c’erano anche Bahorel e gli altri, non doveva essere qualcosa di eccessivamente preoccupante.
Rassicurato da questo pensiero prese il blocco da disegno e uscì; disegnare era da sempre un buon metodo per gestire le sbornie.
Arrivato sul ponte impiegò qualche minuto per trovare una posizione congeniale alle sue esigenze, poi si concentrò nella ricerca di un soggetto qualsiasi. Aveva adocchiato un padre intento ad insegnare al figlio a usare una trottola e gli erano sembrati una buona fonte d’ispirazione, era già pronto a posare la matita sul foglio, ma si fermò.
A quanto pareva anche il dio del Sole viaggiava in nave.
Un ragazzo alto, i cui ricci biondi seguivano le curve del vento, stava appoggiato al parapetto scrutando il mare con aria seria. Era bellissimo. Il suo sguardo non lasciava trasparire alcun tipo d’emozione, poteva essere assorto nei suoi pensieri ma al contempo vigile e attento.
Grantaire si sentì mancare il respiro davanti alla sua figura. Se non fosse stato certo del contrario, avrebbe detto che quel ragazzo appariva più luminoso del sole, era un universo a sé, non c’entrava niente con tutti gli altri passeggeri che passeggiavano e chiacchieravano, lui era lì e non c’era bisogno che interagisse con altri esseri umani, bastava la sua presenza a trasmettere un senso di perfezione assoluta. Grantaire non aveva mai creduto in niente prima di allora. Lui, che si era sempre crogiolato nel suo scetticismo, ora pensava che se quel ragazzo, un perfetto sconosciuto, gli avesse chiesto qualsiasi cosa l’avrebbe seguito senza alcuna esitazione, avrebbe creduto in lui, sempre e comunque.
Si diede dell’idiota tempo sei secondi, ma non poté trattenersi dal cominciare a muovere la matita tracciando sul foglio linee morbide e sinuose dando formai ai capelli che a breve avrebbero fatto da cornice ai tratti severi, ma insieme divini e puri del viso di Apollo.
 
Disegnò per un sacco di tempo, era ormai il tramonto e il dio se n’era tornato dentro da un pezzo, ma Grantaire era rimasto lì ad aggiungere dettagli al suo disegno fino a che non si era sentito piuttosto affamato e aveva deciso di rientrare dentro anche lui. Chissà, forse l’avrebbe incontrato a cena…
Una volta raggiunti i suoi amici tuttavia notò con un po’ di delusione che l’unico biondo presente aveva i capelli lisci e sembrava più un bambino che il dio del Sole; a Grantaire ricordava, chissà perché, uno dei suoi amici, Marius Pontmercy, rimasto a Parigi per quella ragazzina che vedeva tutti i giorni al Lussemburgo. Entrambi quei ragazzi erano eterni innamorati dall’anima in pena per giovani donne benestanti che neanche conoscevano.


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Note:
ebbene questo era il primo capitolo, spero davvero che non sia stato un totale disastro, non so ancora bene come muovermi qui, quindi ho il terrore di aver combinato qualche danno...
In ogni caso a voi i commenti. *incrocia le dita e spera di non essere messa alla gogna*
Icha_

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 
Non sarebbe tornato. Niente e nessuno l’avrebbe mai convinto a rivedere quelle facce anche a cena, era già troppo dover stare con loro in uno spazio limitato per così tanto tempo, senza alcuna via d’uscita se non buttarsi in mare, si chiese cosa l’avesse trattenuto così a lungo dall’andarsene a vivere per conto suo.
Certo era che non poteva nemmeno soggiornare sul ponte fino a Manhattan.
L’idea gli venne così, dal nulla, voleva vedere la vita dei passeggeri in terza classe, la vita di chi quel viaggio lo stava facendo per raggiungere l’America e le sue mille opportunità, non perché almeno avrebbero potuto dire di aver attraversato il mondo sull’inaffondabile transatlantico più costoso del Pianeta.


Si diresse a passo deciso giù per le scale fino a raggiungere il ristorante di terza classe.
C’era gente che parlava a voce altissima, chi cantava, chi mangiava e intanto rideva, chi ballava e, da una parte, chi suonava un pianoforte attorniato da un gruppetto di spettatori sempre pronti ad applaudirlo. In effetti era bravo.
Enjolras non amava la confusione, ma lì la sensazione di leggerezza e libertà era così bella rispetto al sentimento di oppressione che gli gravava sui polmoni ogni volta che vedeva chiunque appartenesse alla dannatissima classe borghese che si disse disposto a sopportare anche le cannonate pur di non andarsene.
Si avvicinò al pianoforte, dato che la musica era l’unica cosa un po’ più melodiosa nella sala e quando fu abbastanza vicino perché i ragazzi attorno allo strumento lo notassero li salutò, preparandosi a fare le presentazioni in inglese così da farsi capire, con un sobrio cenno del capo e un mezzo sorriso, cui risposero tutti piuttosto allegramente
“Eilà!” un ragazzo tutto baldanzoso che fino a poco prima stava cantando gli porse la mano “Piacere, io sono Courfeyrac” Enjolras gliela strinse, dapprima un pochino titubante realizzando che non c’era alcun bisogno dell’inglese: a quanto pare erano tutti ragazzi francesi.
“Enjolras… Sei francese anche tu, sbaglio?” quel Courfeyrac d’altro canto non si era minimamente curato del fatto che, essendo su una nave britannica, avrebbe avuto più probabilità di incontrare qualche inglese che non avrebbe capito una parola di quanto aveva detto. Eppure era andato sul sicuro parlandogli subito in un francese anche piuttosto veloce, in effetti Enjolras era Parigino.
“Sissignore!” fece, poi mosse il braccio in un gesto ampio che abbracciava tutti i ragazzi attorno al piano e aggiunse “Ti presento i miei Amis, veniamo tutti quanti da Parigi” sembrava piuttosto compiaciuto.
“Oh, anche io vivo a Parigi”
Enjolras si sentì in colpa subito dopo aver parlato; era ovvio, tutti quei giovani si conoscevano perché probabilmente frequentavano le stesse scuole, gli stessi locali e senza alcun dubbio il denaro di cui disponevano non permetteva loro di essere considerati borghesi, forse a malapena ceto medio, di cui Enjolras sapeva benissimo di non fare parte, ma per la quale condizione avrebbe potuto far scoppiare una vera e propria Rivoluzione.
“Vedi Courf, lo dico sempre, il mondo è incredibilmente piccolo” s’intromise un ragazzo alto e occhialuto “Combeferre, piacere di conoscerti” si presentò, stringendogli la mano.
Dopo Combeferre fu il turno di tutti gli altri: Bahorel, Jehan -il pianista-, Feully, Lesgle o L’Aigle de Meaux detto Bossuet, Joly (che si scusò per non potergli proprio stringere la mano causa un possibile contagio di raffreddore, febbre, virus gastrointestinali, varicella e peste bubbonica) e, da ultimo, Grantaire, un ragazzo dai ricci scuri tutti incasinati che lo guardava in modo strano, neanche gli fosse apparsa una creatura mitologica, Enjolras percepì un lieve tremito mentre gli stringeva la mano la quale aveva una temperatura bassa in modo preoccupante. Il biondo però non ebbe neppure il tempo di chiedersi il perché di quello strano comportamento, quasi reverenziale, nei suoi confronti: aveva preso a discutere con Combeferre e gli altri riguardo il popolo di Francia e la loro Parigi.
Si scoprì dunque che i ragazzi erano degli accaniti sostenitori dei diritti dei lavoratori, combattevano contro lo sfruttamento dei minori nelle fabbriche, s’interessavano di politica e delle proteste contro la pena di morte in vigore in molto stati, soprattutto in America, dove non era raro veder giustiziare molti immigrati per cause spesso poco chiare.
Si erano dunque imbarcati, con biglietti presi per vie poco pulite, per un’esperienza di vita in America che non sarebbe durata più di una o due settimane.
Quello che volevano era un confronto, avevano sentito spesso parlare della Terra delle Opportunità da molti Parigini desiderosi di dare una svolta alla propria vita, ma sapevano anche delle tribolazioni di molti migranti e intendevano verificare con i loro occhi se da quelle parti era davvero così facile come dicevano avere un’esistenza migliore.
 
Ne nacque così una conversazione che durò fino a dopo cena e che arrivò a coinvolgere anche gran parte della sala – con Jehan che faceva alla meglio da interprete per chiunque capisse l’italiano o l’inglese –.
Enjolras aveva appena deciso, ovviamente sotto invito, che se ne sarebbe rimasto a dormire in una delle loro cabine così da non dover rivedere la sua famiglia fino all’indomani, quando Grantaire, che non aveva fatto altro che bere mostrandosi molto poco interessato ai discorsi degli altri, saltò su con qualche commento riguardo a quanto le loro fossero tutte preoccupazioni inutili e le loro speranze di cambiare il mondo del tutto vane. O almeno, questo era sembrato ad Enjolras; la verità era che Grantaire non riusciva a smettere di pensare a lui, di guardarlo, di ammirarlo e di avvilirsi per il destino che sarebbe toccato a quel ragazzo tanto pieno di furore una volta che si fosse messo contro polizia, governi o addirittura stati.
Il moro si era reso conto, vedendolo parlare, osservando la sua bellezza mentre s’infiammava contro qualcuno o qualcosa, di non volere che un ragazzo tanto giovane, bello e luminoso si facesse del male con le proprie mani, ma non sapeva come impedirlo e tutto ciò che riusciva a fare era bere, bere e dare sfogo al proprio scetticismo (anche se ora parlare di scetticismo non sarebbe più stato tanto appropriato: Grantaire aveva qualcosa in cui credere).
“Nessuno ti obbliga a rimanere” gli aveva risposto Enjolras “Se ti sembra tutto così stupido vattene pure. Di uno scettico in più la Francia non sa che farsene”.
Grantaire aveva riso, stava cercando di fermare Apollo, avrebbe fatto bene a ricordarselo subito, povero ingenuo… Eppure continuò, forse era colpa dell’alcol, mostrando tutta la propria freddezza: “La Francia… La Francia non sa che farsene” ripeté “Non capisco per quale motivo un bel marmo agiato come te si dia tanto pensiero per, come lo chiami? L’Abbassato di Parigi? Figurati se hanno voglia e tempo di iniziare una rivoluzione, hanno altro a cui pensare, non so, per esempio avere da mangiare e un letto, tanto per dirne una” il moro fece seguire alle sue parole un ghigno cinico e un sorso di vino.
Dapprima Enjolras non aveva saputo cosa dire, si ritrovò a stare in silenzio, rigido in piedi di fronte all’ubriacone, irritato per il soprannome appena ricevuto.
Alla fine gli rispose accusandolo di essere un buono a niente, capace solo di ubriacarsi e denigrare i sogni altrui poiché non ne aveva di propri.
Le sue parole ebbero lo strano effetto di una secchiata d’acqua in piena faccia per Grantaire; egli prese a disegnare su qualche foglio già scarabocchiato in precedenza e non parlò più per il resto della serata, parve quasi più rassegnato che triste.
Il problema maggiore fu un altro: l’effetto che quella reazione ebbe su Enjolras.
 
Entrato in camera di Combeferre e Courfeyrac – i quali gli avevano gentilmente offerto un posto da loro dato che c’era un letto libero –  Enjolras cominciò ad avvertire senso di colpa nei confronti di quel ragazzo. In realtà lì per lì gli aveva ricordato suo padre e il suo continuo sminuire gli ideali di quel figlio tanto riluttante nei confronti dei genitori.
Ma Grantaire non poteva aver detto quelle cose per gli stessi motivi menefreghisti di suo padre.
No, quel ragazzo aveva semplicemente smesso di sperare in un futuro migliore per la sua Patria e ora non trovava altra consolazione se non nel vino. In fondo, giù in quei pozzi blu che erano i suoi occhi, c’era una luce, magari solo il riflesso del sole (ah, se Enjolras avesse capito chi era quel sole…), ma pur sempre una luce, una speranza, nata quasi per caso, per sbaglio nel cuore di chi la speranza l’aveva dimenticata, rinnegata.
Per Enjolras era un dispiacere ma anche una sfida personale: avrebbe dato a Grantaire qualcosa in cui credere, avrebbe acceso un fuoco con le piccole scintille che vedeva nel suo cuore, gli avrebbe fatto capire quanto fosse importante la loro Parigi, la loro Francia.
Sì, sapeva che Grantaire avrebbe creduto, avrebbe avuto fede in tutto questo e avrebbe trovato un motivo per combattere, una causa per cui vivere o eventualmente morire.
 
Quello che Enjolras non sapeva era che Grantaire una causa per cui morire l’aveva già.


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Note:
il secondo capitolo last minute è arrivato. Ho seriamente temuto di non farcela, causa connessione a Internet che mi lascia per strada alla prima occasione...
Ma parliamo del capitolo, qui ho avuto il problema del virus gastrointestinale di Joly... Non so se aveva già questo nome nei primi del '900, ma la mia voglia di controllare era poca, perciò... licenza poetica? Please...
Poi abbiamo i personaggi, temo di nuovo l'OOC, terribilmente. Grantaire si è rivelato più difficile del previsto da gestire, dannazione. Mi sa che l'ho un po' fatto sembrare il povero "innamorato-disperato-senzasperanzalcuna" di turno... Sto sperando con tutta me stessa di non aver fatto un casino...
Non ho voluto insistere di proposito sul diverbio tra Enjolras e Grantaire perché avremo modo di vederli discutere assai in seguito e comunque i loro battibecchi ora come ora risulterebbero sempre un po' uguali e scontati e poi mi sarei messa a stracitare Hugo...
Piccola precisazione: metterò spesso le ore del giorno durante le quali si svolge una certa scena, soprattutto più avanti. In questo capitolo non le ho usate per il semplice motivo che non succede nulla di troppo particolare per cui valesse la pena metterle.
Per concludere, dico che il prossimo capitolo non arriverà di Domenica (ovviamente per via degli studi, figurarsi...), ma devo scalare di un giorno, quindi ci rivediamo Lunedì.

Icha_
 

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