May angels lead you in

di angelinbluejeanz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In quella calda mattina di giugno ***
Capitolo 2: *** Il teatro degli illusi ***
Capitolo 3: *** Who am I ***
Capitolo 4: *** Musical Therapy ***
Capitolo 5: *** Meet me in 15'' ***
Capitolo 6: *** Spritzi di Vita ***
Capitolo 7: *** Che male c'è? ***
Capitolo 8: *** Whose idea was it? ***



Capitolo 1
*** In quella calda mattina di giugno ***


Erano i primi di giugno e a Bologna si trattava della classica giornata soleggiata e afosa. Io mi dirigevo spedita verso casa dopo aver passato, come ogni giovedì, l’intera mattinata al numero 38 di via Zamboni, ad aspettare che quella maledetta della professoressa Diotisalvi si palesasse per il ricevimento. Era perennemente in ritardo e noi laureandi non la sopportavamo più. Nervosa per aver passato più di tre ore senza far niente, per poi sentirmi dire: “va tutto bene, signorina, proceda su questa strada”, avanzavo con le cuffie nelle orecchie, ma l’mp3 spento, profondamente immersa nei miei pensieri. D’improvviso una voce mi fece tornare sul pianeta terra:

– Excuse me? Excuse me? –

– Hum? – Mi voltai confusa, sfilando le cuffie dalle orecchie. Gli occhi verdi e spaesati di un ragazzo alto e slanciato, presumibilmente americano dall’accento, mi stavano fissando con apprensione.

– Excuse me, I… I’ve just arrived here and I was looking for this agency I rented an apartment from, but the battery of my iPhone died and I am alone and I cannot figure out where am I and where to go now…–

Turisti! Pensai, ma non potei fare a meno di provare compassione per quel povero ragazzo che si trovava in una città sconosciuta. Era da solo, uno zaino in spalla, il manico di una valigia in una mano e un guinzaglio nell’altra, senza sapere dove andare. Seguii con lo sguardo il guinzaglio e vidi alla sua estremità un dolce barboncino bianco che si guardava intorno, anche lui confuso. Un moto di tenerezza mi percosse il cuore. Alzai gli occhiali da sole, gli sorrisi e risposi:

– Do you remember the name of the agency or maybe the name of the road you were supposed to go? – Gli chiesi gentilmente. Lui fece un’espressione strana, si passò una mano tra i capelli castani, scompigliati dal gel e dal caldo, e rispose:

– Something like Casada, or Cascata, I think… I am sorry It’s just – iniziò a dire. Io lo interruppi subito dicendo di non preoccuparsi e tirai fuori il mio cellulare per cercare su internet questa agenzia.

– Agenzia le Cascate, via Santa Maria maggiore? – chiesi incerta

–That’s it! Thank you so much! – mi rispose con un sorriso, e aggiunse: – Do you know how to get there? –

Avevo presente dove si trovava. Non era molto lontano da casa mia, e pensai che sarebbe stato meglio offrirmi di accompagnarlo invece che sprecare 10 minuti a spiegargli la strada, e passare il resto della giornata a chiedermi se avesse mai trovato il posto. Lui continuò a ringraziarmi per almeno 5 minuti, letteralmente, mentre io continuavo a ripetergli di non preoccuparsi. Camminammo per un quarto d’ora buono, parlando del più e del meno. Nonostante l’imbarazzo iniziale, scoprii che il ragazzo era un buffo chiacchierone. Mi disse di chiamarsi Grant e che viveva nell’assolata California, anche se era nato e cresciuto dalla parte opposta della costa americana, in una città di cui ignoravo l’esistenza. Mi raccontò che era arrivato in treno da Milano; Mi parse di capire che, per staccare un po’ la mente, aveva intrapreso questa sorta di viaggio solitario alla scoperta dell'Italia. Si recava all'avventura ora in una città ora nell’altra, organizzandosi uno o due giorni prima al massimo.

– You are weird – gli dissi, e lui rispose con un sorriso:

– Thanks –

– Here we are! – Esclamai indicando l’insegna dell’agenzia. Aveva tramite loro affittato un monolocale (così avrebbe vissuto la vera vita da italiano, mi puntualizzò) e doveva prendere le chiavi e l’indirizzo dopo aver deposto le generalità. Mi offrii di aspettarlo ed aiutarlo a trovare la via. In fondo non avevo nulla da fare, lui mi sembrava un ragazzo gentile e simpatico ed il suo cane era a dir poco adorabile. Che fosse un gran bel ragazzo e, per di più, americano era solo superfluo (sì, certo…). In ogni caso, andò a finire che lo accompagnai in via degli orefici e, una volta arrivati davanti al portone, provai una strana sensazione… Devo ammettere che mi dispiaceva lasciarlo ‘al suo destino’. In fondo avevamo legato quasi subito e c’era in lui qualcosa che mi intrigava –oltre al suo aspetto fisico. Notai che anche lui temporeggiava e, appena lo salutai augurandogli una buona vacanza, lui se ne uscì dicendo:

– Do you mind showing me where I can get some groceries? I can leave my baggage quickly upstairs and then we can go to the supermarket or whatever… if you don’t mind?– aggiunse vedendo il mio viso confuso.

Sorrisi: – Of course I don’t. I’ll wait for you down here. – Cosa avevo da perdere?

– I’ll be back in a sec! – mi rispose tutto d’un fiato e, in un attimo, sparì nel portone. Io rimasi lì, chiedendomi cosa stava succedendo e come mai mi ero fatta prendere da un attacco di gentilezza così acuto quando il telefono squillò:

-Ciao amore! Dimmi - era Nicola, il mio ragazzo

-Hey, niente, volevo solo avvisarti che stasera non ci sono… mi dispiace, lo so che ti avevo promesso di andare a cena... maaa ehm, mi ero dimenticato che avevo detto a Luigi…. – Smisi di ascoltarlo, eccolo che di nuovo mi rifilava la solita storia: aveva preso impegni quel giorno Luigi, quello precedente con Davide… Dio non voglia che una volta avesse detto: ‘mi spiace ragazzi, ma oggi esco con la mia ragazza’. Gli amici erano la sua priorità. Per carità, era un ragazzo dolce ed onesto, ma certi atteggiamenti proprio non li sopportavo più…

Era quasi un anno che uscivamo insieme. Forse ero io a pretendere troppo, ma avere sempre il secondo posto nel cuore di qualcuno alla lunga è deludente. Persa com'ero nei miei pensieri, non mi accorsi che Grant era tornato, e mi guardava sorridente dall’alto del suo metro e ottanta. Chiusi la chiamata con Nicola e ricambiai il sorriso:

– Ready to go? – chiesi. Lui annuì e cominciammo a camminare.

– IsEverthing fine? - mi domandò poco dopo.

–Yes, it is. Why? –

– You seemed lost earlier – mi disse semplicemente. Io non risposi, ma accennai un debole sorriso.

– You know, love troubles – risposi alla fine, alzando lo sguardo verso i suoi occhioni verdi.

– I know what I feels like – sussurrò debolmente l’americano, forse più a se stesso che a me.

Sono sempre stata brava a capire il carattere delle persone dalla prima impressione che ho di loro. Raramente mi sbaglio. Fin dall'inizio Grant mi era sembrato un ragazzo gentile e cordiale, anche se un po' distratto. Quella mattinata passata assieme mi permise di confermare in pieno la prima impressione che ebbi su di lui. Eravamo così diversi: lui impulsivo e coraggioso, io riflessiva e paurosa, ma c'era qualcosa in lui che mi colpì sin dal primo istante. Sentii una sorta di connessione speciale, come se il destino ci avesse fatti incontrare per una ragione... All'epoca tendevo però a ricacciare questi strani pensieri nell'antro da dove erano venuti. Sono sempre stata una ragazza sognatrice e con la testa fra le nuvole, una di quelle che viaggia più con la mente che con i piedi, ma questo mio atteggiamento mi aveva solo causato molti problemi e altrettante delusioni.

In quel preciso momento della mia vita ero in una fase di stallo, letteralmente. Stavo per laurearmi in Lettere moderne, mi ero iscritta per poter realizzare il sogno di divenire giornalista, ma nell'arco dei tre anni ero cambiata, non ero più così coraggiosa come prima, non ero più pronta a rischiare tutto per un futuro incerto. Ero in crisi, non sapevo più né chi ero né cosa volevo. Guardavo il mondo andare avanti, la vita scorrermi davanti con occhi stanchi e passivi. Tutti si muovevano, andavano da qualche parte, e io ero ferma, non sapevo dove andare. E poi ho incontrato Grant. É stata la mia ventata di aria fresca. É stato come scoprire di aver guardato in mondo in bianco e nero per tutto il tempo. Ripensandoci adesso, forse quello che mi ha spinto ad aiutarlo, quella mattina di giugno, fu proprio quello sguardo perso che incrociò il mio. Sentii come un'affinità, forse perché riconobbi nel suo sguardo le stesse paure che celava il mio. Ero brava a capire le persone dai piccoli gesti e dalle espressioni dei loro visi, dei loro occhi... Spesso intuivo molte cose senza rendermene bene conto. Quando quegli occhi verdi incrociarono i miei, nel cuore provai un moto di profonda tenerezza e comprensione perché capivo bene che aveva bisogno di aiuto, che aveva bisogno di parlare, che aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a trovare la via... non solo per l'appartamento, ma per la sua vita in generale. Ovviamente questo posso dirlo solo adesso, guardandomi indietro e ripensando a tutto quello che è successo a partire da quel giorno. Allora non sapevo, non ancora. Non sapevo che accettando di aiutarlo gli avevvo appena dato pieno accesso alla mia casa, alla mia vita, al mio cuore. Che tutto avrei perso e che tutto avrei guadagnato. Questo non potevo saperlo, quella calda e assolata mattina di giugno. Non ancora.

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Capitolo 2
*** Il teatro degli illusi ***


II

Il teatro degli illusi



Il resto della giornata passò velocemente. Lo aiutai ad orientarsi nel quartiere in quello che mi sembrò essere un battito di ciglia, mentre in realtà era passata un’ora e mezza. Grant era di grande compagnia, credo la persona più socievole e chiacchierona che avessi mai incontrato sino ad allora. Era una di quelle persone così solari da cui fatichi a separarti, ma era passata da un pezzo l’ora di pranzo, ed io dovevo davvero tornare a casa… anche perché la mia tesi non si sarebbe scritta da sola! Fu a quel punto, quando lo salutai augurandogli nuovamente buona fortuna nella sua avventura solitaria, che lo vidi esitare e, per la seconda volta, sorprendermi:

– Do you feel like going out tonight? –

– Excuse-me? –

– I…I was thinking, since you were so nice to me this morning I should do something in return… besides that I’ve been on my own for a while, it’ll be nice to have company for once – ammise.-

Pensai che fosse pazzo, che era una persona che non avevo mai visto prima e che voleva uscire con me per ricambiare il mio aiuto. Per quanto ne sapevo dalle (troppe) puntate di CSI che avevo visto, poteva trattarsi di un serial killer dal viso gentile… Certo, un serial killer molto attraente, dallo sguardo dolce e con il cane più tenero e vivace dell’universo al seguito… Stavo per declinare l’invito, in fondo avevamo passato qualche ora insieme e c’eravamo trovati bene a parlare e scherzare su nonesense, ma uscire a tu per tu sarebbe forse risultato imbarazzante, per quanto a mio agio mi fossi potuta sentire quella mattina mentre lo guidavo per la città. Poi pensai a Nicola… “Hey, niente, volevo dirti che stasera non ci sono… sai Luigi…”

– Sure! It’ll be fun! – risposi di getto

–You sure? – mi chiese dubbioso. Forse ero stata a pensarci troppo, come mio solito.

– You can count on me… I’ll be meeting you at your's, okay? I just don’t want you to get lost again because of me – aggiunsi. Lui rise ed annuì…


…aveva un sorriso bellissimo, di quelli che ti scaldano il cuore… ma io non dovevo avere quei pensieri. Erano pericolosi e non avrebbero portato a nulla di buono. Era con tali pensieri che mi frullavano per la mente che mi preparavo per andargli incontro. Salutai con un vago ‘Esco!’ le mie coinquiline, Maura e la Giada, e mi chiusi la porta alle spalle. Uscii furtivamente, quasi fossi una ladra che non vorrebbe essere notata. Non avevo detto nulla del mio incontro a Maura, nonostante avessimo un bellissimo rapporto. Di parlarne alla Giada, poi, neanche a pagarmi… dovete sapere che la Giada è la classica CdM che si trova in tutte le case di studenti universitari: quella per cui ogni pretesto è buono per litigare e quella per cui la convivenza diventa una potenziale fonte di esaurimenti nervosi cronici. Non parlai dell’americano neanche a Ludo, la mia migliore amica. Lei era capace di leggermi con lo sguardo e, per la prima volta, ero sollevata dal fatto che non potesse vedermi, che non potesse con il suo sguardo indagatore scorgere il turbinio di confuse emozioni che si agitavano in me. Lei al momento si trovava in Spagna, a Siviglia. Era partita per l'erasmus già da 6 mesi e mi mancava ogni giorno. Quella sera, tuttavia ero sollevata che non fosse qui, perché avrebbe capito subito che c’era qualcosa di strano. A dirla tutta, non sapevo neanche io cosa mi stesse succedendo. Non sapevo se tutta questa segretezza era dovuta ai sensi di colpa, anche se in fondo non stavo facendo nulla di male, o dalla poca importanza che dicevo di dare a tutta la faccenda… forse avevo paura di essere giudicata per via di Nicola, non saprei… fatto sta che tutte le mie perplessità sparirono neanche 30 secondi dopo aver incontrato Grant. Per mio disappunto non aveva con sé il suo cagnolino, Jett; troppa confusione mi disse, non era abituato.

Dal momento che mi aveva accennato al suo amore per il teatro, lo portai in un locale particolarissimo, in stile america degli anni ’20: il ‘teatrino degli illusi’. Si tratta un posto né troppo intimo né troppo affollato che ero sicura avrebbe fatto al caso nostro. Devo ammettere che le mie paure di trovarmi a disagio erano state totalmente infondate. Paranoie mentali tipiche della mia persona. Ci conoscevamo da meno di 24 ore e mi sembrava di parlare con lui come se lo facessi da una vita. Era da un’infinità di tempo che non passavo una bella serata con qualcuno. Ultimamente mi ero chiusa in me stessa, non vedevo spesso neanche la mia cara amica Elisa, anche lei laureanda in lettere a Bologna, ma pendolare da Parma. Quelle volte che uscivo ero con Nicola, o molto più spesso con lui ed i suoi amici, un gruppetto non molto simpatico di ragazzi ventenni sulla carta, ma nella pratica eterni adolescenti. Quelle serate raramente si chiudevano bene, in quanto io e Nico finivamo spessissimo a litigare per un motivo o per un altro.
Non ero felice ed il peggio era che la colpa era mia, perché non permettevo a me stessa di essere felice. Forse per rassegnazione, forse per mancanza di coraggio…forse tutt’e due le cose insieme.

Eppure quella sera ero lì: spensierata, allegra come non lo ero mai stata, in compagnia di un perfetto sconosciuto che, in realtà, mi sembrava di conoscere perfettamente. Era una sera di giugno particolarmente bella, calda ma ventilata – una rarità insomma. Per questo decidemmo, usciti dal locale, di fare una lunga passeggiata…volevamo approfittare del tempo, della compagnia, della serata il più possibile, perché presto ci saremmo salutati, la serata sarebbe finita e ognuno sarebbe ritornato alla propria vita, nel proprio mondo, dai propri problemi. Rimanemmo sui muretti di piazza delle sette chiese a lungo, era il mio luogo preferito di tutta Bologna, dove andavo per svuotarmi la mente, per rilassarmi, per evadere… semplicemente per essere, come non mancai di dirgli perché potesse approfittare anche lui di questo angolo di quiete nel turbinio delle esistenze che conducevamo. Non avevo mai condiviso con nessuno quel luogo, e sopratutto non avevo mai condiviso il motivo per cui mi ci recavo spesso: l’effetto calmante che sembrava avere su di me. Non so quanto tempo passò, oramai non facevo più caso all’orologio. Ci scambiammo qualche parola solo ogni tanto, immersi com’eravamo ognuno nel profondo dei propri pensieri. Era tuttavia un silenzio confortevole: non esprimeva imbarazzo, ma tranquillità.
Una volta lessi che gli animi sensibili riescono a percepire le sottili differenze fra i momenti di silenzio fra le persone. Non so se sia vero, ma me ne convinsi così tanto che nulla potrebbe più smuovermi dalla convinzione che un silenzio sia carico di tensione o di paura oppure sappia di confortevolezza… Ludo sostiene che io sia pazza, invece io credo fermamente che ogni silenzio abbia la sua intensità. Riesco a sentire quando aleggia tra me e qualcun altro della tensione (vedi Nico), dell'astio (vedi la Giada) o, in questo caso, pura e semplice pace. Finalmente.

Ad un certo punto, per spezzare il filo contorto dei miei pensieri che, se lo lasciassi correre a broglia sciolta, tenderebbe potenzialmente all’infinito, dissi:

– What do you do? – Anche il flusso dei pensieri di Grant fu interrotto bruscamente, a quanto pare, perché mi guardò con aria stralunata ed uno sguardo indecifrabile.

– I mean, for living… I told you I am graduating in Italian and we’ve been talking about me all day, but I never asked about you…well you told me you like to sing and dance but I wanted to know what do you do in your life… study, work? I am sorry if I am being rude… – A quel punto, la confusione con cui mi fissavano quegli occhi verdi e penetranti era assoluta.

– Did I just say something wrong? – gli chiesi. Forse era un argomento delicato e non ne voleva parlare, chi lo sa. Se ne stava lì a guardarmi con la testa inclinata verso destra, mordendosi il labbro inferiore, con uno sguardo non più confuso ma palesemente divertito.

– Nope – mi rispose semplicemente. Io mi limitai a guardarlo con l’espressione in volto di chi non sa cosa gli sta succedendo intorno. Rimase in silenzio ancora un po’, ed io a quel punto stavo cominciando ad innervosirmi. Detestavo non capire cosa stesse accadendo e soprattutto non capire perché mi guardava con quello stesso sguardo indecifrabile di prima, come se stesse facendo un scelta su cosa dire – o se parlare affatto.

– Have you ever watched Glee, the tv show? – mi chiese alla fine.

–Me? No! - risposi immediatamente, quasi indignata. – I don’t like it at all! beside the songs I think it is terrible! –. Visto che le sue labbra assunsero una piega strana, dispiaciuta forse, aggiunsi: – But, my best friend is actually a great fan of that tv show… she loves the songs and especially the ones of the bird group, can’t remember the name though… –

–Warblers – mi venne in aiuto

– yeah, that! ...Why did you ask? Are you a huge fan of the show, too? I didn’t mean to offend you – Non capivo perchè, ma a quel punto del mio flusso casuale di parole lui tratteneva letteralmente le risate.

– Why is it so funny? – chiesi stizzita.

– I mentioned you I sing and dance and act –

– I remember –. Non sapevo dove volesse arrivare, ma il gioco a cui stava giocando mi innervosiva e mi intrigava allo stesso tempo.

– Yes, well I do that for living –

Il mio cervello a quel punto fece due più due, e subì di rimando un black out.

La prima cosa che mi venne in mente, dopo aver riacquisto le facoltà mentali, fu: ‘Ludo mi ucciderà per questo’. Ludo è una fan sfegatata di Glee. Ricordo che mi fece vedere qualche puntata di questo telefilm, ma sinceramente a parte le canzoni il resto dei dialoghi non potevo tolleralo. Mi piaceva molto invece il gruppo degli uccelli, come lo chiamavo io. Secondo me non solo allietavano le orecchie, ma anche la vista… si sa, in fondo anche l’occhio vuole la sua parte! Facendo mente locale… perché sì, ho già detto che sono una persona tremendamente smemorata e distratta, ad un certo punto il mio cervello non solo fece 2+2, ma anche 4X4.

E questa è la storia della più grande figura di merda, che feci nella mia vita.

Mettermi in imbarazzo mi riesce sempre bene.

– Oh. My. Gosh! You... You’re the one with those weird tattoo of a State on his chest! Ohh! - Esclamai e, dopo una pausa, aggiunsi: - My best friend is so in love with you –. Lui non disse niente, ma si mise a ridere - una risata coinvolgente, buffa e fragorosa.

– Have you just insulted my wonderful tattoo? Which by the way is not on my chest, but-

– Grant, no offence, but it’s as if I had a huge map of Bologna on my back… that would be weird, don't you think so? – Replicai sarcastica.

–Thanks for being honest and… blunt – ammise sconfitto.

– I didn’t mean to offend you, I am sure there’s a story behind that – Risposi dolcemente. Non condividevo il suo cattivo gusto in materia, ma ciò non significava che non capissi che ci fosse qualcosa dietro.

A giudicare dal suo sguardo, mi resi conto che probabilmente avevo avuto poco tatto nell'esprimere la mia opinione. "Sono un caso disperato" pensai. Il mio più grande problema è dire sempre quello che penso, anche se non dovrei. Purtroppo a volte non riesco proprio a frenare la lingua e così finisco per mettermi in imbarazzo dopo che comincio a pensare.

E questa è la storia della seconda più grande figura di merda che feci, a quale aggiunse alla già lunga lista con velocità record.

–There is –. Rispose lui dopo un po', con un debole sorriso. Forse non ce l’aveva con me per quello che avevo detto sul suo discutibile gusto in fatto di tatuaggi. Prima che potessi replicare, lui fece un sospiro e disse:

– You know… my family is the most important thing I have, the most valuable bond I’ll ever have… and no matter how much busy or famous or distant I get, I promised to myself I’ll always have time for them… they keep me, me… and I do not want to change… I’ll always be connected to them, to my hometown, to my origins… I want to… and it may sound stupid but this tattoo me and my border both made kind of represent our love, our bond… and it helps me remember who I am. –

Lui parlò dolcemente, a bassa voce, guardando fisso le chiese davanti a noi e le persone che passavano. La sua storia mi aveva colpito, non solo perché come al solito avevo parlato troppo, ma anche perché vedevo la persona davanti a me per quello che era: un ragazzo dolce, solo, profondamente legato alla famiglia e al suo paese d’origine, che viveva nella paura di dimenticarsene, di diventare qualcun altro, di perdersi…

Senza saperlo avevo passato la serata con un conosciuto attore, forse era per questo che inizialmente, quando gli chiesi cosa facesse nella vita sembrava confuso e titubante, stava decidendo se dirmelo oppure no, visto che inaspettatamente non sapevo nulla di lui. Devo dire la verità, se anche mi avesse detto che era uno specializzando in medicina o un aspirante professore di matematica non avrebbe cambiato nulla… sapere che era ‘famoso’ mi aveva scosso, si, ma era sempre la stessa persona che quella mattina si era persa, che mi aveva chiesto indicazioni, che mi aveva permesso di coccolare il suo cane e che mi aveva invitato ad uscire un po’ per sdebitarsi dell’aiuto ricevuto, un po’ perché si sentiva solo. Sapere che qualcuno avrebbe pagato per essere al mio posto, in cui ero finita per caso, non mi faceva sentire speciale perché ci eravamo incontrati, né mi faceva credere che lui fosse ‘speciale’ perché era riconosciuto a livello internazionale per il suo talento.

Era per me il ragazzo strano e divertente che era stato ad ascoltarmi tutto il giorno, mentre gli raccontavo chi ero, o mentre gli parlavo della tipica vita di uno studente bolognese, e che era capitato facesse l’attore di mestiere, non solo per divertimento. Lo ammiravo, questo si, perché avevo davanti agli occhi la prova che non era facile tenere assieme i pezzi. Glielo leggevo apertamente nella stanchezza che ogni tanto, come un flash, comparirà nei suoi occhi.

Per spezzare il silenzio imbarazzante che si era creato, commentai:

-In any case, it remains a big weird tattoo… Do you have the tattoo of the state of California somewhere too? Or the tattoo of a warbler? – .

Lui si mise a ridere di gusto.

– There’s only one way to find out, Ale – insinuò ridendo, con ingenua malizia.

– Stop naming me after a beer, you idiot! – replicai con un finto tono serioso. Lasciai così cadere la sua allusione e spostai invece l’attenzione sul fatto che in tutta la serata non avesse ancora imparato a pronunciare correttamente il mio nome. Dopo svariati tentativi si era arreso e messo in testa di chiamarmi: ‘ale’. Ma non come se lo dicesse un italiano, con la pronuncia americana della parola: ‘ale’, che significa birra. Più io gli mostravo il mio disappunto per la questione, e più si convinceva che fosse il nomignolo giusto con cui chiamarmi.

– You’re even pale! It just suits you! – mi disse con fare convinto.

– Oh, Shut up! – esclamai lanciandogli la mia borsa addosso. Lui me la tirò indietro e aggiunse:

– You just made fun of me and my tattoo! I have every right to make fun of you too! –. Su questo punto gli davo ragione, ma ciò non cambiava il fatto che avrebbe dovuto imparare a pronuciare il mio nome correttamente.

– My name is Alessia, A-L-E-S-S-I-A, Alessia… I’ve been telling you that all night long! – replicai con finta frustrazione.

– I’ll never be able to pronounce that correctly – ammise con tono scherzoso.

–Then we can never speak to each other ever again – scherzai io, con il tono di voce di una bambina di tre anni. Lui si fece pensieroso per un attimo e poi se ne uscì dicendo:

– What about we make a deal and I call you Hales? Like Ale with H –

– Whatever – gli risposi sconfitta, tanto sapevo già che fargli pronunciare il mio nome correttamente sarebbe stata una battaglia persa in partenza.

– So, your friend is in love with me? – mi chiese, cambiando nuovamente argomento.

– Deeply... Well I think it is you, but I am not 100% sure – aggiunsi ridendo.

– I can tell! You didn’t eve recognize me and you did saw me on TV! – replicò, col solito sorriso di chi ne sa una più del diavolo.

– I did! At the end… And, if you are asking, No! I don’t want your autograph on my boobs! - dissi io sarcastica.

– Good to know - rispose, ma prima che potesse aggiungere altro continuai:

– I just don’t care what you do for living. As long as you don’t murder people on a daily basis, we are okay – Volevo chiarire con lui che non cambiava niente il fatto che recitasse o ballasse o cantasse a teatro od in televisione.

– Thanks – mi rispose semplicemente, prima di aggiungere - Would you mind not sharing the news I am here on the internet? I just want to be left alone for a while… I am not talking of you – si corresse subito, vedendo la mia espressione del viso incupirsi confusa. – I am talking in general…

– Why are you here? – mi sentii di chiedere all'improvviso.

– I am on holiday – rispose secco.

– But why are you here? – insitetti. Sapevo che non mi stava dicendo tutta la verità, glielo leggevo negli occhi.

– No reason in particular. Always wanted to visit Italy but never had the chance. Righ now it seemed the right time to do that and have some fun before getting back to work. Just that. – mi rispose. Ma io non me la bevevo. Le persone le sapevo leggere bene.


–Bullshit – Gli replicai decisa, guardandolo negli occhi. Avevo colto in essi una strana luce, appena gli chiesi cosa era venuto a fare qui. Conoscevo quello sguardo troppo bene, perché spesso lo indossavo anche io. Era lo sguardo di chi vorrebbe che gli chiedessi cosa c'è che non va, anche se non lo ammetterebbe mai. L'espressione di chi vorrebbe che insistessi, perché ha davvero bisogno di parlare con qualcuno. Per questo non mi arresi.


– Grant. Why are you here? – chiesi nuovamente. Lui non rispose, abbassò lo sguardo e fece un gran respiro.


–I am here 'cause I needed of a break– ammise. Ma gli leggevo in viso che c'era dell'altro.

–From the show business? Or the crazy fans? – gli venni in contro

– From everything – rispose lui lentamente, in un sussurro, appoggiando la testa contro la colonna dietro di lui, la bocca chiusa in una smorfia e lo sguardo intristito rivolto verso l’alto.

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Capitolo 3
*** Who am I ***


III.

Who am I?



Ora che mi soffermavo a guardare con attenzione, sotto la fioca luce del porticato la sua figura scolpita dai giochi di luce sembrava essere attraversata da un ombra. Il viso era semi nascosto dalla penombra, ma ciò non faceva che evidenziarne la stanchezza dei tratti. Passò un po’ di tempo fin quando riaprì nuovamente le palpebre e potei vedere chiaramente il velo di tristezza che li avvolgeva. E all’improvviso fu come se i pezzi del puzzle, per un attimo, si mettessero insieme. Mi passarono per la mente tutte le immagini di quella giornata: avevamo riso e scherzato tanto, lui aggiungeva un sorriso a ogni sua frase, a ogni mia risposta… e io tutto il giorno l’avevo guardato sorridere, ma non avevo visto gli occhi spenti che lo accompagnavano… Forse perché sono una persona distratta, forse perché non sono abituata a guardare i dettagli, forse perché sono sempre troppo assorta in me e nei miei problemi da rendermi conto che anche gli altri hanno dei problemi.
Forse, perché quando una persona ci sorride diamo per scontato il sentimento di gioia che accompagna la piega delle sue labbra, non siamo abituati a guardarla negli occhi per vedere se lo sente davvero.

Guardavo, ma non vedevo, ed ora che lo stavo facendo tutto si faceva immensamente più chiaro, ma profondamente più cupo.

Ero brava a leggere le emozioni del viso, ma in quel momento avrei voluto non vedere. So che sembra da egoisti dire questo, ma vedere gli occhi di quel ragazzo così simpatico e allegro trasmettere tanta sofferenza… mi faceva stare male, male perché non potevo fare niente…

E per l’ennesima volta nella stessa giornata io, donna fredda e dura, fui pervasa da un profondo moto di tenerezza per quell'attore. Non conoscevo la sua storia, non eravamo neanche amici… solo due perfetti sconosciuti perfettamente in sintonia e a proprio agio l’uno con l’altro. Avrei preferito non vedere perché non avrei potuto ignorarlo. Intuivo che quello era un punto di non ritorno, l’inizio di un viaggio complicato che non sapevo dove mi avrebbe portato. Avrei preferito non vedere, per non sentire sulla mia pelle il peso di quella tristezza, ma non avrei mai potuto far finta di nulla. Avrei preferito non vedere, sì, ma non mi sono mai pentita di averlo fatto, di aver guardato oltre la superficie… Non mi sono mai pentita di aver intrapreso quella strada di non ritorno quando gli chiesi cosa stesse facendo lì, in quel preciso istante, in quel dato tempo. Con quella domanda avevo aperto una breccia nel muro che si era costruito. Oramai non potevo tornare indietro. Pur non sapendo dove quella via mi avrebbe portato, ero decisa a perseverare. Questo perché sentivo che avevo fatto la scelta giusta. Così chiesi ancora:

– Do you want to talk about that? –

Perché ero sinceramente colpita da quel ragazzo. Non solo per la sua bellezza esteriore, ma anche e soprattutto per il tumulto interiore che sembrava governarlo.

– Don’t you mind? – domandò teneramente, incurvando le spalle a mò di difesa.

– Not at all, not at all –

E questa è la storia di come passai la notte in bianco ad ascoltare un perfetto sconosciuto che letteralmente ‘poured out his heart to me’. Gli inglesi hanno le parole perfette per descrivere quello che ascoltai: un ragazzo che che, a gambe incrociate sui muretti di piazza Santo Stefano, mi raccontava la storia segreta della sua vita, versava fuori la marea dei suoi sentimenti e, ad arginarne il flusso, c’ero io. Non più per caso, questa volta per scelta.

Mi disse tante cose, in un monologo interiore espresso ad alta voce. Mi parlò di come aveva sofferto il distacco da casa e dagli amici, di come fosse stato difficile per la sua stabilità emotiva leggere di persone che, senza conoscerlo, lo giudicavano e dicevano di lui cose terribili. Mi raccontò di come per un periodo credeva di aver ritrovato la pace, l’amore, l’amicizia... di come si sentiva pieno di nuovo e di come all'improvviso gli era crollato il mondo addosso, quando si scontrò con la dura realtà che la sua ragazza difendeva quegli stessi ‘amici’ che aveva scoperto dicevano di lui cose impensabili. Lei aveva creduto a loro, senza neanche dargli il beneficio del dubbio, senza interpellarlo ma, incoraggiata dalle voci ostili, arrivando a calpestare i suoi sentimenti tanto da tradirlo. Ricordo ancora le esatte con cui mi disse che la sua vita era in mille pezzi, perché sentire il rumore che fa un cuore che si spezza non si dimentica così facilmente...
Suonavano pressapoco così:

– You know... the world as I new it was just a big fat lie. A facade, a big bubble of soap in which I lived in… I thought I built a steady relationship and some true friendships, instead I had built a castle of sand… and the worst part is that everyone around me knew it was made of sand, but they did not dare to tell me, even knowing I did not suspect a thing. I… I don’t know who are my friends anymore, I feel like I don’t belong to that world made of shallow, false people that would kill someone to be famous. I am not like that, I am not one of them. Actually, I do not know who I am anymore… I don’t know where to go and I don’t know what I want to do anymore… –

C’erano molte cose che avrei voluto dirli… a partire dal fatto che capivo bene cosa si provava ad avere il cuore in pezzi, la vita sottosopra e la confusione più totale in testa. Lo capivo perfettamente perché ci ero passata anche io. Diversi anni fa, scoprii che la mia ex migliore amica storica, tale Sofia, aveva per 7 anni finto di volermi bene. In realtà, le servivo solo perché ero brava a scuola e perché avevo un ragazzo, Mattia, che a lei piaceva molto. Matti è stato il mio primo grande amore. Siamo stati insieme per tutto il tempo delle superiori e pensavo fossimo destinati ad amarci per sempre... o almeno l'ho creduto fin quando una grigia e ventosa giornata di maggio, scoprii che per un anno e mezzo Matti e Sofia erano stati insieme alle mie spalle. Lo scoprii solo perchè lei era rimasta incinta. Tutti, tranne me e Ludo, sapevano di Sofia e Matti; Ma nessuno aveva mi detto niente. Dire che ci rimasi male era poco. Per fortuna avevo Ludo, l’unica che rimase con me in quei momenti difficili…

Per un certo verso, quindi, sapevo cosa voleva dire scoprire di aver vissuto in una bolla di sapone per tanto tempo. Sapevo cosa voleva dire svegliarsi una mattina e scoprire che non fino a quel momento non hai vissuto in una casa di mattoni, ma dentro ad un castello di sabbia; e che tutti attorno a te hanno sempre saputo che era costruito sulla sabbia, ma hanno continuato imperterriti a farti credere che le mura su cui poggiava la tua vita fossero le più solide mai costruite al mondo.

Avrei voluto raccontargli questo e dirgli che sapevo come si sentiva perché stavo attraversando anche io un simile momento di sconforto... non sapevo più chi ero, cosa volevo dalla vita, cosa volevo farne del mio futuro. Il calice amaro dei preparativi per la mia laurea fu sentire il sapore della loro inutilità.

Avrei voluto dire tante cose, invece non dissi niente. Mi avvicinai, tirai fuori l’Ipod dalla borsa scorrendo velocemente fra i brani per trovare quello giusto, misi poi una cuffietta nel suo orecchio e una nel mio, premetti il tasto play e, semplicemente, lo abbracciai.

Nel silenzio carico di paura ed emozione della notte, Joshua Radin cantava per noi ‘Everything is gonna be alright’

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Capitolo 4
*** Musical Therapy ***


IV.

Musical Therapy



–Thank you, I didn’t know that – mi disse dopo qualche minuto dalla fine della canzone, dopo aver lasciato che il testo e la musica penetrassero a fondo dentro di lui.

– I have the bad habit of liking songs that go extremely unnoticed, but fit every occasion… This one usually helps me calm down and relieve the stress – gli confidai.

–Thanks for sharing… I usually listen to ‘Don’t Worry’ by Jason Mraz in those times–

–No idea who this guy is – Lui fece una esagerata espressione di shock e mi disse con enfasi:

–You gotta be kiddin me! We have to do something about it! –

– We have time! – replicai d’impulso ma, pensandoci un attimo, aggiunsi: – Or maybe not… How long are you staying here? –

– Dunno… As much as it takes for me to get better or until I get fed up with this city–

– One cannot simply be fed up with Bologna! It’s like saying Rome is not flabbergasting! –

– I’ve never been there – ammise amareggiato.

– Then we should make up for my lack of knowledge of Mraz music on our way to Rome! – mi uscì spontaneo. In quel momento non ero neanche certa se scherzassi oppure dicessi sul serio… o se volessi che lui prendesse seriamente le mie parole.

– We’ll see – rispose enigmatico prima di ammutolirsi e fissarmi con uno sguardo indecifrabile. Nel verde di quei occhi avrei potuto perdermi. Ma non dovevo! Non potevo avere certi pensieri!

Ebbene sì, ero sempre stata una ragazza posata, razionale, distaccata, sicura di sé e sempre lucida nei suoi pensieri e sentimenti. Incontrare Grant mi avrebbe scombussolato l’esistenza. Non sapevo ancora fino a quanto, ma percepivo che sarebbe successo dal caos di emozioni che provavo in me. Era qualcosa di raro, qualcosa di inaspettato, qualcosa a cui avrei potuto volentieri fare l’abitudine.

– Thanks – Grant disse dolcemente, spezzando d’improvviso il filo contorto dei miei pensieri.

– For what? – domandai fuori dalle nuvole, e lui rispose semplicemente:

– Listening – Quel ragazzo era adorabile. Lo abbracciai ancora e gli suggerii di farmi ascoltare quella canzone di Jason Mraz che tanto lo rappacificava con se stesso in tempi di crisi e preoccupazioni.

La serata passò in gran parte così, con noi che comunicavamo senza parlare, attraverso i testi delle canzoni che sceglievamo da far ascoltare all’altro. Se non avete mai provato, la musico-terapia è qualcosa di geniale.

Citando qualcuno di importante più in alto di me: ‘E fu sera e fu mattina:’ sorse il secondo giorno. Avevamo letteralmente passato l’intera notte seduti su quei muretti ad ascoltare canzoni e a raccontarci di noi: delle nostre paure del futuro, delle nostre preoccupazioni, delle delusioni che avevamo avuto e delle speranze che non volevamo spegnere. Io gli parlai di Sofia, di Matti, della Giada, dell’università, dei miei problemi con Nico e lui mi raccontò dei suoi ex amici, della sua ex-ragazza, della sua ex-vita e dei problemi che celava al mondo e, spesso, anche a se stesso.

Mi chiesi com’era possibile che due sconosciuti riuscissero con tanta tranquillità a parlare di cose taciute alle persone più care. Mi arrischiai a considerare, anche in base alle esperienze avute, che tendenzialmente siamo più propensi a raccontarci con una persona che conosciamo appena. Questo perché chi abbiamo conosciuto da poco non ha ancora ancora una immagine di noi ben definita, come invece può averla un amica. Perciò non dobbiamo dimostrare nulla, né temere di mostrarci diversi da quella persona che vogliamo gli altri credano che siamo… Siamo più liberi di essere veri, di mostrare una parte di noi: quella a cui quella persona avrà sempre accesso e attraverso cui si farà piano piano una idea più definita di noi. Vi è mai capitato di comportarvi diversamente con persone diverse, di mostrare lati differenti di voi, ma senza farlo di proposito, solo rendendovi conto che persone diverse vi conoscono diversamente? Perché è proprio di questo che parlo.

Tutto ciò per dire che Grant ed io eravamo in sintonia, ma sopratutto ci sentivamo liberi di mostrare all’altro quella parte insicura sino ad allora ad altri nascosta. Solo per avere qualcuno a cui mostrarla in caso di bisogno. Questo perché non ci conoscevamo e non potevamo confrontare quel lato con altri: non potevamo quindi deludere nessuno dell’immagine che si era fatto di noi.

Avrei dovuto studiare psicologia mi diceva sempre Ludo... Con il tempo mi accorsi che forse aveva sempre avuto ragione.

Erano circa le 5.30 del mattino quando la stanchezza fisica cominciò a prendere il sopravvento sui nostri spiriti piuttosto vivaci. Decidemmo quindi di ritornare verso le rispettive abitazioni e, a quel punto, Grant era stato categorico nel volermi accompagnare fino al portone. Ora ci trovavano lì, uno di fronte all’altro, con un velo di imbarazzo che ci cingeva. Avremmo dovuto augurarci buonanotte e tornare ognuno a casa propria, alla propria vita, ma era stranamente difficile. Mi resi conto che non volevo salutarlo e non rivederlo mai più. Era come se sentissi un legame profondo con lui.

Visto che nessuno dei due sembrava intenzionato a muoversi, come al solito fui io quella più intraprendente:

– Goodnight. Thanks for walking me home – gli dissi dolcemente.

–Gentlemen's duty – rispose lui guardandosi i piedi, su cui alternatamente spostava il peso. – Night – mi salutò dopo poco, alzando lo sguardo per guardarmi. Io gli sorrisi, aprìi il portone e mi incamminai verso l’ascensore. Nel giro di qualche secondo mi sentii chiamare:

– Hales, Hey! Hales! Wait a sec...– mi voltai e vidi Grant che teneva aperto il portone con il piede. I suoi occhi verdi e penetranti mi scrutavano indecifrabili da lontano. Rimase in silenzio per un po’. Io non dissi nulla. Vedevo il suo tormento interiore, così aspettai. Poco dopo se ne uscì dicendo:

– What about you guide me around the city tomorrow? –

–It is already tomorrow, if you didn't notice – replicai sarcastica, per smorzare la tensione che si era creata. Capivo perfettamente cosa voleva dire, anche io non volevo che la serata finisse con un: ‘arrivederci e grazie’.

–You know what I meant... Later today then...? – insisté

– That's fine – risposi con una voce tranquilla. Dentro invece, avevo il chaos.

– Hum, I guess we could exchange our phone numbers so we can arrange something whenever we wake up – nella sua voce percepivo dell'indecisione assieme ad una nota di disagio, come se avesse paura della mia risposta. Effettivamente anche io avevo paura, non sapevo in cosa mi stavo cacciando. Era tutto nuovo, ma stranamente piacevole. Credevo di aver trovato un potenziale amico in lui, o quanto meno un compagno con cui parlare del più e del meno. Avevamo trascorso una serata bellissima insieme, ci eravamo divertiti e ci eravamo confidati l’un l’altro. In fin dei conti, riflettei, non avevo nulla da perdere. Avremmo potuto farci compagnia a vicenda perché, in fondo, io mi sentivo sola quanto lui... Così risposi:

– That 's al right...here's mine, text me later yours – Nel contempo scrissi il mio numero sul suo cellulare, pensando che noi donne l’abbiamo nel DNA l’ essere enigmatiche e provocatrici.

– I'll see you later then – mi disse, questa volta con meno imbarazzo nella voce.

– I guess so... Bye – risposi vaga. Ero molto confusa. Più del solito. Più di quanto potessi mai immaginare di essere. Eppure la curiosità della scoperta muoveva il mio agire. Ero curiosa di conoscere quel ragazzo, di sapere di più sul suo conto, ero curiosa di sentirlo parlare e di stare a vedere cosa aveva da offrire al mondo

– Bye – mi salutò di rimando con un leggero movimento della mano, aspettando che le porte dell’ascensore si chiudessero prima di smuovere il piede dalla porta ed andar via.

Poco dopo essere rientrata, silenziosa come una ladra per non svegliare nessuno, mi chiusi la porta della mia camera alle spalle e mi accovacciai con le spalle contro di essa. Avevo la mente vuota, ma allo stesso tempo incredibilmente leggera. Non volevo pensare troppo agli avvenimenti del giorno precedente. Mi sembrava di essere stata trascinata all’interno di un vortice assurdo, tutto quello che era accaduto dopo essere stata a ricevimento dalla Diotisalvi era stato alquanto surreale… Il filo dei miei pensieri fu interrotto dal bip del telefono. Lo presi in mano istintivamente, guardai lo schermo e lessi:

Unknown: Hales…


Un sorriso mi sfiorò le labbra. Velocemente risposi


Hales: You won't give up on that name thing, huh?

Grant: nope

Grant: I had a great time tonight

Hales: besides everything, I was good

Grant: Just wanted to say I’m sorry u got to spend ur nite listening to my complaints... I am usually more funny to hang out w/

Grant: And Hales...Thank you.

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Capitolo 5
*** Meet me in 15'' ***


V.


Meet me in 15’’


Nonostante la stanchezza che avevo in corpo, quella sera fu davvero difficile prendere sonno. I momenti trascorsi rIaffioravano senza sosta nella mia mente, come scene di un film a velocità raddoppiata. Ricordi e sensazioni si mescolavano tra loro scuotendo il mio animo ancor più profondamente. Avevo tanti pensieri per la mente, ma non volevo soffermarmi su nessuno in particolare. Per una volta avevo scelto di tuffarmi a capofitto senza prima riflettere. Per la prima volta da sempre anteponevo la spontaneità alla razionalità.

Erano le 2 del pomeriggio, ero sveglia da circa un paio d’ore e invece di pensare al nuovo capitolo da aggiungere alla mia tesi, avevo letto e riletto i messaggi di Grant almeno un migliaio di volte. La notte – o meglio dire la mattina – scorsa non avevo risposto. La verità era che non sapevo cosa dire, cosa pensare. Se è vero che il sonno porta consiglio, a me suggerì di smettere di pensare troppo a cosa dire, cosa fare, a cosa succederebbe se…. e di cominciare a vivere spontaneamente senza troppe paranoie.

Così mossa da un impeto interiore presi il telefono e composi un semplice messaggio, cui ricevetti pronta risposta:


h.14.27

Hales: anytime

Grant: It was about time

Hales: For me to answer or for me to wake up

Grant: Idk. Guess both ;)

h. 14.35

Hales: are you feeling ok?

Grant: Ready to conquer the world… one step at time :)

Hales: If you say so…

Hales: What are your plans for today?

Grant: Mmm… feed Jett, walk Jett around, play with Jett… nothing much to do :)

Hales: does your life revolve around jett?

Grant: HA HA HA…

Grant: ...Kind of

Hales: You’re such a dork

h.14.39

Grant: What about you?

Hales: I should study but I have the writers' block

Hales: having to write your Ddissertation sucks

Grant: Wanna meet Jett and I for a walk? Maybe that will clear your mind

Grant: You still owe me a guided tour, remember?

Stavo per rispondere ai suoi ultimi messaggi declinando la sua offerta, perché dovevo mettermi al computer e scrivere, blocco dello scrittore o no, quando lo schermo si illuminò con una notifica che distolse la mia attenzione :

Niko: Hey, come va? scusa se ti ho dato buca ieri e non mi sono fatto sentire. magari possiamo rimediare prima che parta con Luigi, Stefano e gli altri della squadra?

Ale: parti per il weekend?

Niko: non ricordi scemina?

No, non ricordavo. Mi era totalmente sfuggito di mente che Nicola sarebbe partito alla volta di Napoli con la squadra di calcetto, in vista dell’annuale torneo estivo nazionale. Erano mesi che non parlava d’altro. Stavo per proporgli un appuntamento per quella sera stessa quando una amara consapevolezza mi attraversò i pensieri; così cancellai il testo del messaggio che avevo scritto e risposi:

Ale: Oggi è giovedì. tu parti domani

Niko: si

Ale: Non ci vediamo da una settimana.

Niko: lo so non è colpa mia se ho degli impegni. non ci sei solo tu! tra il lavoro, il calcetto ed i miei amici le giornate passano in fretta eh! saresti anche potuta venire a trovarmi se ti interessava tanto


Ecco. stava per iniziare un altro argomento. Dire che ero furiosa era dire poco. Quello che si definiva il mio ragazzo aveva tirato fuori una scusa dopo l’altra mancando agli appuntamenti prefissati. Sarebbe partito l’indomani per una decina di giorni e si ricordava solo all’ultimo che esistevo anche io. Nonostante questo aveva la faccia tosta di ricordarmi l’uomo impegnato che era, mentre io non ero che una studentessa universitaria nullafacente – a detta sua. Peccato lui vivesse con i suoi e non dovesse pensare autonomamente a fare la spesa, il bucato, le pulizie, a pagare le bollette, a cucinare e a studiare, barcamenandosi tra obblighi, doveri e qualche sprazzo di vita sociale. Si, lui lavorava, ma part-time. Il lavoro era un'altra delle sue scusanti. La situazione non era sempre stata così disastrata. Sicuramente il nostro rapporto non era mai stato tutto rose e fiori, ciononostante per un certo tempo sembrava avessimo trovato un equilibrio tra i suoi ritmi ed i miei. Tuttavia, era già da un paio di mesi che questa stabilità si era incrinata. Non credo sia stata colpa di nessuno in particolare. Il nostro rapporto si stava deteriorando giorno dopo giorno, fino ad arrivare ad un punto in cui erano più le serate passate a litigare che quelle trascorse scambiandosi parole d’amore. Col passare del tempo gli occhi si son fatti meno ciechi, e hanno cominciato a notare difetti ed atteggiamenti che prima o non vedevano, o gli si dava poca importanza. Mi accorsi che cominciavo ad essere stanca di tutta quella situazione, ma volevo molto bene a Nicola... in fondo sapevo che lui teneva a me ed aveva il suo modo di farmi sentire speciale. Sentivo come se avesse qualcosa ancora da darmi e, considerando la sua presenza un valore aggiunto alla mia vita, non mi sentivo di troncare il rapporto. Se mi aveste chiesto: “É l’uomo della tua vita? Ti vedi insieme a lui tra 10 anni?”, io avrei risposto di no. Non sapevo neanche se fossimo durati un altro mese piuttosto che un altro anno. Sul mio futuro c’era un grande punto interrogativo e, per il momento, non volevo rinunciare ad una persona che, in fondo, mi faceva sentire meno sola. So a cosa state pensando. So cosa avete pensato appena ho iniziato a parlare dei miei problemi con Niko: lo dovrebbe lasciare. Eppure le situazioni sono sempre più complesse di come appaiono all’esterno. La realtà delle cose è sempre più complicata di quella che appare e che si fa presto a giudicare. L’universo dei sentimenti è contorto, mai semplice, chiaro e lineare. In fondo, non può essere altrimenti. Non distingueremmo la ragione dal cuore se fossimo capaci di razionalizzare i sentimenti e le sensazioni che proviamo. Un giorno, se mai vi troverete in una situazione simile, vi verrano forse in mente le mie parole e capirete cosa intendo quando affermo che, per quanto una persona possa provare ad immedesimarsi, esserci dentro ad una situazione – qualunque essa sia – è sempre diverso dalla prospettiva che un altro può avere da fuori. Per chi ha sperimentato su se stesso qualcosa di simile, forse ho parlato anche troppo.

In ogni caso, quando espressi le mie perplessità a Maura – la mia coinquilina – lei mi disse delle sagge parole, che mi sento di condividere con chiunque stia leggendo, ovvero: non sprecare il tuo tempo prezioso con persone che non ti daranno mai quello che vorresti. Non rischiare di perdere occasioni speciali perché distratta da qualcuno che non ha importanza.

Lei aveva ragione, ma la verità è che per me la relazione con Niko era importante. Nonostante i litigi e la sua assenza, io credevo ancora nel nostro rapporto, credevo ancora che ci fosse qualcosa che si potesse salvare. Quello che non credevo più era di essere innamorata di lui. Ma ne ero sicura? E anche se fosse, valeva la pena salvare il salvabile, oppure no?

h. 14.57

Ale: hai ragione, scusa. comunque stasera non posso. devo studiare :( …. buon viaggio!

Lui prontamente rispose:

Niko: Cos’è ce l’hai con me adesso?


h. 14.59

Hales: meet me in 15’’ at yours’?

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Capitolo 6
*** Spritzi di Vita ***


VI.

 

Spritzi di Vita

 

 

 

Ale: buona fortuna per la partita! Un bacio

 

Fu l’unica risposta che Nicola ricevette da me quel giorno. Ero decisa a non pensare, perciò quale metodo migliore per distrarsi che passare del tempo con il dolce americano conosciuto ieri? Fu questo uno dei motivi per cui gli chiesi di incontrarci. Questo assieme al fatto che non mi dispiaceva affatto la sua compagnia; Lui è una persona loquace, ma anche un bravo ascoltatore… ed io non avevo solo bisogno di distrarmi, avevo sopratutto bisogno di parlare con qualcuno che capisse quanto problematico fosse far funzionare una relazione. Forse scrivere: incontriamoci sotto casa tua in 15 minuti fu un po’ drammatico, nel senso televisivo del termine, ma quando si trattava di Grant – mi accorsi presto – mi trovavo ad agire con più spontaneità di quanta avessi mai creduto avere. Lui mi rispose al volo, chiedendomi se stavo bene e confermando l’appuntamento – se così si può chiamare. 

 

Non risposi alla sua domanda. Stavo bene? Non lo sapevo neanche io. Tuttavia non volevo pensarci, non volevo che la faccenda Nicola turbasse la mia quiete interiore. Decisi di posporre le riflessioni e la conseguente decisione sul da farsi al suo ritorno. Per quei 10 giorni in cui sarebbe stato via, non volevo pensare al nostro futuro insieme, ma staccarmi temporaneamente da tutta la situazione. La mia mente reclamava una pausa, ed io fui più che felice di offrigliela. Volendo avrei potuto definirla una pausa di non-riflessione valida solo per me, eppure non volevo mettere etichette – neanche riguardo al rapporto che si stava instaurando con Grant. Non perché sarebbe stato più semplice, ma perché la situazione era tremendamente più complicata, e dare delle definizioni non l’avrebbe resa più chiara. 

 

Incontrai Grant sotto casa sua. Aveva indosso una tuta da ginnastica grigia, dei ray-ban clubmaster neri, e Jett al guinzaglio. Lo presi in giro chiedendo se fosse stato il mio scarso preavviso ad avergli impedito di vestirsi decentemente. Lui si guardò i vestiti e fece una buffa faccia. Mi disse serio che effettivamente non aveva avuto molto tempo, ma avrebbe risolto in un attimo: fece come per togliersi la polvere da dosso, si raddrizzò la t-shirt dei Norfolk Tides e mi disse che ora era pronto. Io gli tirai una leggera pacca sul braccio, lui mi rispose con un ‘heeey!’ e un secondo dopo scoppiamo tutti e due a ridere.

 

Per tutto il pomeriggio mi improvvisai guida turistica. Ero a Bologna da 3 anni, e per vari motivi avevo traslocato in quartieri differenti più volte. Questo mi permise di conoscere Bologna abbastanza bene da poter dare alcune dritte a parenti ed amici che mi chiedevano informazioni. Sfruttai le conoscenze acquisite per mostrare a Grant gli scorci migliori della città, e nel contempo raccontare aneddoti divertenti. Ci divertimmo moltissimo quel pomeriggio. Il tempo passò in fretta ed io non mostrai al dolce americano neanche metà delle cose che mi vennero in mente. Bologna sembra piccola, invece ha moltissimo da offrire. 

 

Forse per un tacito accordo, non parlammo della notte scorsa, né lui mi domandò come mai all’improvviso gli avessi chiesto di uscire con così breve preavviso. Non credo per reticenza o per imbarazzo, ma semplicemente perché – essendo un ragazzo piuttosto sveglio – aveva capito che in quel momento non volevo parlarne. Mentalmente lo ringraziai per quello. Ero decisa a confidarmi con lui, ma solo quando avessi sentito arrivare il momento giusto.

 

Eppure, come si dice spesso: quando sei alla ricerca di qualcosa non arriva mai… se aspetti il momento giusto, questo non si presenterà mai, perché sei tu a doverlo creare. Avevo aspettato invano un momento che non si sarebbe mai creato da solo, a meno che io non mi fossi fatta avanti. Nonostante ciò, avevo avuto l’occasione di distrarmi dai miei problemi, almeno per un po’.

 

Ci salutammo nelle 7, con una voglia di rivederci ancora così evidente che la leggevamo riflessa ognuno nello sguardo dell’altro. Lui mi ringraziò per il tour, ed io lo ringraziai per aver accettato di trascorrere il pomeriggio in mia compagnia. Alle mie parole, replicò:

 

 – I felt like you needed to –. Io gli sorrisi debolmente e lo salutai con un cenno della mano, prima di voltarmi e dirigermi verso casa. Mi bastarono un paio di passi per capire che non volevo tornare a casa. Non ancora almeno. Pensai: ‘che diamine!’ e, senza neanche avere il tempo di riflettere su quello che stavo facendo, invertii il senso di marcia e a passi veloci mi diressi incontro a Grant. Le sue gambe lunghe gli permettevano di muoversi velocemente con poche, grandi falcate. Tuttavia non era andato molto lontano e mi ci vollero pochi secondi per riconoscere la sua figura alta e slanciata. Quella volta fui io a sorprenderlo:

 – Grant! Hey! – lo chiamai. Lui si girò istantaneamente ed il suo volto fu attraversato da un sorriso. Si fermò subito; Jett, per contro, iniziò ad abbaiare e a muoversi vivacemente. Si era così agitato che Grant dovette sgridarlo più volte per tentare invano di calmarlo. Appena lo raggiunsi, guardai Jett negli occhi, gli puntai il dito contro e dissi autoritaria:

 – Jett! sit! –   e lui per tutta risposta si mise seduto in silenzio. 

 

– How do you do that? – mi chiese Grant, stupito. 

– I don’t know… I guess I had a lot of practice with my brother when he was little – risposi sarcastica, e scoppiammo a ridere. 

 

Alcuni passanti, osservando la scena si erano voltati con sguardo divertito, per tornare subito dopo ai propri pensieri – ma non senza che la scenetta gli avesse prima strappato un sorriso dalle labbra. 

 

Lui mi guardava esitante, non sapendo se chiedermi qualcosa o aspettare che fossi io a parlare. Fui io a rompere il ghiaccio, spiegando a bassa voce:

 

– I just don’t want to go home, yet –

– And what shall we do, instead?

– Don’t know, are you up for a spritz? 

– A what? – mi chiese, guardandomi con un faccia confusa.

– A Spritz – risposi facendola sembrare la cosa più ovvia del mondo

– I do not follow you – insistette

– An aperitivo, an after hour… how do you call that?

– We don’t call that

– Oh come on! What do you do in the early evening?

– I still don’t get it, Hales – Lui mi guardava con una faccia sconvolta, mentre cercava di capire a che cosa mi riferissi…Mi resi conto che stavo parlando con un ragazzo che proveniva dall’altra parte del globo, e probabilmente aveva usi e modi di dire totalmente differenti dai nostri… Così con molta pazienza provai a spiegai cosa significa prendere un aperitivo, e la mia vena sarcastica mi impose di far finta di parlare con un bambino di 3 anni.

 

– Here, when we hang out with friends before dinner, in the late afternoon, we usually meet to have what we call ‘aperitivo’. Basically we sit in a… I don’t know how to say… place? pub?  Anyway, we sit and eat some finger food… and this usually involves a spritz  – gli spiegai.

– A sort of sundowner… – rispose lui con fare pensoso.

– I have no idea.

– But still, what is a spirits?

– Oh god, s spritz, not spirits, is a drink, an alcoholic drink… I assumed you knew it! Don’t you have something like that in big LA?

– Probably not

– Then we should make up for it right away! Let’s go! – lo presi per il braccio e lo condussi dalla parte opposta della città. Dalla sua espressione potevo intuire che non aveva la minima idea di quello che mi stesse passando per la mente, ma era lo stesso contento di appoggiarmi.

 

Nonostante i problemi iniziali a far capire a Grant il concetto di aperitivo, il resto della serata trascorse senza ulteriori problemi linguistici. Passammo il tempo a chiacchierare del più e del meno, seduti da ‘Gilberto’ – un intimo locale del centro, vicino alla famosa Piazza Maggiore. 

 

– Can I ask you something? – 

 

Il giorno stava volgendo al temine, il cielo si stava dipingendo di un intenso blu notte ed i colori dell’imbrunire scolpivano il viso di Grant. Era un volto spigoloso, ma dolce e cordiale, imbastito da innumerevoli piccoli nei e deboli lentiggini sul naso; Inoltre, ad uno sguardo attento e consapevole, non sarebbe sfuggito che era provato dalle recenti sofferenze. Notai, inoltre, che il suo sguardo non era spento come la sera precedente. Era stanco, ma luminoso. Non saprei descriverlo a parole, ma posso dire che provocò in me un tumulto interiore non indifferente. Eravamo seduti da ore a parlare, con una complicità che avrei definito irreale, pensando che si era costruita non in anni, ma in due giorni soltanto. 

Mi trovavo a mio agio a parlare con lui, non avrei potuto spiegare perché, ma questa era la realtà delle cose. Per questo motivo quando mi chiese se poteva farmi una domanda, che avevo intuito sarebbe stata scomoda, risposi con onestà:

 

– Anything you want to.

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Capitolo 7
*** Che male c'è? ***


VII.

 

Che male c’è?

 

 

 

– What happened earlier? I knew you’d love to spend some more time with me and eventually rush to my place asap, still I think there is more to that… I can read it in your eyes

 

–You are right – risposi con un sospiro – I… let’s say I am in a complicated relationship with this person, Nicola…I think I mentioned him to you yesterday… well, it’s never been a bed of roses, we’ve always had our ups and down… but lately… there are more downs than ups… I, I just received some bad news and I needed someone to distract me from this mess

 

– Don’t you have someone to talk to about it?

– Yes, I do. But they don't fully understand. You know, when you’re in a relationship you have to make deals and compromises. And it cannot be easy peasy all the time 

– Been there done that. – mi disse con una sorta di rassegnazione e, dopo un attimo di silenzio, aggiunse: – I don’t know the whole story of yours… but I can tell from experience that being in a relationship is hard work. But one should always know if all that hard work  matters and… well, if what they’re fighting for is worth it

– What if that one doesn’t know

– Then you already have your answer.

 

Passarono almeno 5 minuti in cui ciascuno rimase immerso nei propri pensieri. Le sue parole erano vere: se qualcosa ha per te un grande valore non dovresti essere in dubbio se vale la pena lottare per essa, non ti porresti neanche la domanda. Eppure non riuscivo a schiodarmi dalla mente l’idea che le cose non fossero così semplici e lineari come parrebbe.

 

– Enough with the serious talk – esclamai ad un tratto, rompendo il riflessivo silenzio che era calato su di noi. Per cambiare discorso aggiunsi: – Is there something in particular you’d want to see of the city?

– Mmm, I don’t know… 

– You could check online and let me know

– Can I?

–Yes, of course! It’ll be fun… there are still some more things I’d like to show you, but…

– So what, I just search something I’d like to visit and you…?

– I’ll  tell you if it is worth the bother

– Awesome! Deal!

– Ever wish is your command

– You know I could take advantage of you and your knowledge this way?

– Yes, and I agree… Just, are you sure you want me to hang around? I thought you wanted to take time for your self

– I don’t mind as long as you don’t

– Well, I don’t. In the end I enjoy showing you around and be the tour guide

– You are too kind to be true – mi disse spontaneo, ed io per alleggerire la piega che la conversazione stava prendendo replicai sarcastica:

– I’d just love to spend some more time with Jett

– He’s a true charmer

– That he is 

 

Ci guardammo sorridenti per un po’. Il caso aveva fatto incrociare le nostre vite e, per un motivo o per un altro, eravamo ci eravamo entrambi decisi a vedere come sarebbe andata a finire. 

 

Quasi avesse avuto un’illuminazione, Grant esclamò: – We could visit the tower of Bologna! 

– Which one? – Chiesi

– Is there more than one?

– Yep

– Ah… ehm, well the main one!

– Mmm okay, I can take you there, but I cannot go up with you

– How so?

– Because the legend says that if one who is a student in Bologna goes up on it, they won’t graduate!

– Oh! Come on!

– I’m so close to graduation I don’t want to risk anything

– Do you seriously believe that?

– No, but one can never know

– Oh! Come one! You cannot be serious about it! – insistette con uno sguardo a cui non si poteva resistere facilmente. Alla fine, cedetti:

 

– Well, if you really care about it, there is only one solution I can think of – lui mi guardò con interesse. Io continuai: – We go up there twice, so that according to the tradition I will not not graduate, hence, I will! – Lui mi guardò con espressione curiosa, ancora non aveva afferrato il punto, così lo aiutai:

– It’s a double negation, it is not valid.

– Is it a mind game or what? – mi chiese divertito

– It’s baby logic! – commentai, e lui mi mandò gentilmente a quel paese. Sì, ci stavamo prendendo di confidenza.

 

°°°°

 

Camminavamo lentamente uno accanto all’altra. Per tutto il tragitto, nei momenti in cui era intento a guardare da un’altra parte il mio sguardo ricadeva su di lui. Era alto, molto più alto di me, eppure la sua figura non stonava poi troppo accanto alla mia – come quando capita di parlare con quelle persone così alte da farti sentire in imbarazzo perché si devono piegare per guardarti negli occhi; Non era questo il caso. Era magro e slanciato – forse troppo magro per i miei gusti – ma dalla t-shirt aderente potevo intuire la definizione dei suoi muscoli… Ed era bello… Era bello anche con tutti i difetti e le irregolarità che possedeva il suo viso. Non era perfetto, anzi: aveva nei e lentiggini, una pelle irregolare con qualche segno della varicella; e gli occhi infossati, semi-nascosti da palpebre che ricadevano su di essi – aggiungendo un tocco di mistero al suo fascino. Aveva poi una impercettibile cicatrice che gli segnava la fronte, mentre il collo era forse troppo grande rispetto al suo piccolo viso… ma era bello proprio per questo… D’altronde lavorava nel mondo dello spettacolo, non era perfetto ma… Cercavo con tutta me stessa di scacciare quei pensieri dalla mia testa, in fondo avevo solo deciso di non pensare a Niko e alla nostra problematica situazione per i dieci giorni in cui era via, ma ciò non mi autorizzava a fantasticare su qualcun altro. Per rassicurarmi, mi dicevo che si trattava di curiosità. Mera, innocente curiosità. Eravamo semplicemente due semi-estranei intrigati l’uno dall’altra, che stavano cercando di conoscersi meglio. Che male ci sarebbe nello stringere amicizia?

 

– So, see you tomorrow then? – Gli dissi non appena arrivammo di fronte al portone di casa mia.

– 5 o’clock at your’s?

– Yep! I can show you around a couple of places and then we can climb the tower

– Twice

– Twice – ribadii io

– So you will not, not graduate

– Exactly! You learn fast!

– I had a good teacher – mi disse con un sorriso che non saprei come definire, se non con la parola inglese ‘smirk’ –  esprime in tutto e per tutto quello che mi trasmise. Io non risposi alle sue strane insinuazioni, mi accovacciai per dare delle ultime carezze a Jett, e mi rialzai poco dopo per auguragli buona notte… 

– Do I get to be cuddled too? – Sì, ci stavamo decisamente prendendo confidenza.

– Maybe next time, if you behave… – risposi col tono di chi si rivolge ad un bambino, e poi aggiunsi subito: – Goodnight Grant – prima di sparire nel portone, dandogli appena il tempo di replicare:

– G’night.

 

Per fortuna nessuna delle mie coinquiline era in casa quando tornai. Non ero ancora pronta a dare delle spiegazioni, anche se ero ben consapevole di non poter rimandare ancora per molto. Continuavo a ripetermi che non aveva senso nascondermi, perché non stava succedendo nulla. Non c’era nulla di male nel rapporto che stavamo stringendo.

Non ebbi neanche il tempo di raggiungere la mia stanza per cambiarmi che il mio telefono si illuminò:

 

h. 10.30

 

Grant: It is always nice to hang out with you, even just to distract you… If you ever need anything just call. or text. or whatever. I’m here :)

 

h. 10.45

Hales: Thank you. Same here, if you’ll ever need to talk or whatever, you have my number.

Grant: I know. Thank you. Sleep well

Hales: I’ll try ;) Good night.

 

No, non c’era nulla di male, eppure quello che stavamo facendo mi sembrava terribilmente sbagliato.

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Capitolo 8
*** Whose idea was it? ***


VIII.

Whose idea was it?

 

 

– Whose idea was it?

– Yours!

– And how could you even think of support me??

– I don’t know, it seemed fun to me!

– Oh my gosh I think I’m gonna die. I can’t believe we haven’t arrived to the top yet… and we have to do it twice. – grunìi esasperata.

– Well, next time we’ll know how long the road ahead is! Oh look! The final stairs! We made it

– I remember you that we are half-way of our journey. Need to go down and up one more time.  How could I even think this could be a good idea?

– Look at the view, Hales! 

– Leave me alone.

– I’m so pumped. Do you want to take pictures now or then?

– I don’t know. Both?

– Okay, smile and say ‘cheddar’ – io lo guardai con una faccia a metà tra il ‘ti prego’ ed il ‘chissene è divertente’, e lui scelse proprio quel momento per scattare la foto.

– Hey! it is not fair! I wasn’t even looking!

– Come on, Let’s go! – Io feci un sospiro e lo seguii giù per la ripida rampa di scale, e poi su di nuovo. 

 

Quella fu l’idea più ridicola e assurda che mi sia mai venuta in mente. Per chi non lo sapesse la torre degli asinelli di Bologna conta qualcosa come 500 gradini, che moltiplicati per 4 fanno 2000. Io non ero mai stata una tipa sportiva. Feci così tanto step quel giorno che pensai mi sarebbe bastato per tutto il resto della mia vita. Quando fummo quasi in cima – per la seconda volta – io avevo il fiatone, la faccia arrossata, i capelli legati da una scompigliata coda, una leggera claustrofobia a causa degli spazi angusti, un mano sul mio fianco e l’altra su quello di Grant. Io ero devastata, lui tutto il contrario. Grant è il ragazzo sportivo per eccellenza, era quindi non solo era più atletico, ma paurosamente più allenato ed in forma di me. Ovviamente. Di quando in quando si voltava divertito a guardarmi. Avrebbe potuto fare su e giù dalla torre altre 2 volte, e non gli sarebbe pesato. Io, invece, se avessi potuto tornare indietro nel tempo avrei strangolato la me stessa che suggeriva di salire sulla torre due volte di fila. Mi sarebbe bastato per tutta la vita.

 

– I’ve made enough steps to get through a whole lifetime without!

– Oh! Don’t be so overdramatic

– Shut up. And don’t let me speak, I’m wasting my energies and my breath. I have to save them. – Lui rispose con una fragorosa risata. 

– God I think I just became claustrophobic

– Here we are!

– Thank God. I think I’ll camp here for a little wile, ‘till I have my will to live back.

– Oh stop it! Look at the view! It’s amazing up here. We should come more often – scherzò. Io gli lanciai uno sguardo mortale. Lui mi prese la mano e mi fece avvicinare alla balaustra.

– Did I mention that I am a little bit scared of heights? – rimarcai.

– Too late to be afraid. Come on, just enjoy the view. – io ero ancora un po’ restia, feci un passo indietro verso il muro ma Grant mi prese la mano e disse:
– I’m here. Trust me, you won’t fall. 

– Jack trusted rose and he ended up drowned – lui si mise a ridere e strinse la mano più forte, attirandomi a sé

– You made me do it. I didn’t want to come up here

– Well, now you are so just look ahead! Can you tell the roads from here? – Disse cercando di distrarmi. Ci riuscì. Non so se fosse dovuto al dovermi concentrare sul distinguere le vie e le piazze, o sulla vicinanza con Grant. Se ne stava dietro di me, con una mano indicava dei posti cercando di riconoscerli, o chiedendo a me di farlo, mentre con l’altra mano mi cingeva saldamente la vita. 

Avevo il cuore in gola. Pensai fosse un po’ per via dell’altezza, ma un po’ era decisamente per via di Grant…  o meglio: era totalmente per via di Grant. La prossimità dei nostri due corpi era ciò che più mi stava scombussolando lo stomaco, ma scacciai via il pensiero alla velocità della luce. Nell’enfasi con cui ricacciai quei pensieri dovetti aver scosso anche la testa, perché Grant mi chiese se ci fosse qualcosa che non andasse.

– I’m fine – risposi. Stavo Bene. Stavo bene davvero. – We should totally take a picture

– What about we ask someone to do that for us? – replicò

– Great idea! – Mi girai per cercare qualcuno dalla faccia tanto raccomandabile da chiedergli di scattarci una foto. La scelta ricadde su un alto e smilzo inglese, il quale indosso un cappello militaresco in stile sombrero, degli stivali da cowboy ed un enorme zaino verde militare sulle spalle – gli inglesi non hanno il senso della moda. No. assolutamente no. Diedi a il mio telefono a questo buffo personaggio e lui prontamente si adoperò per scattarci una foto:

– Say ‘cheese’!

– Wait! – lo fermò Grant – I have a better idea – aggiunse con un ghigno. 

– I don’t like it already – replicai io, che già dal a sua espressione avevo intuito che non poteva trattarsi di nulla di buono.  

– I wasn’t asking – battibeccò. Poi mi fece ruotare finché non fui dietro di lui e mi disse

–Jump!

– What?  – Lui era più alto dell’inferriata di protezione, stare sulle sue spalle lì sulla torre  al momento mi sembrava come se dovessi sporgermi da un balcone senza ringhiera

– Just do it!

– Do you want us to fall down?

– Just jump and hold onto my shoulders and when you are ready open your arms – Lo guardai sconvolta, ma lui insistette perciò con un sospiro di rassegnazione feci come mi chiese. Abbassai la testa e dissi piano, nel suo orecchio:

– I fall, you fall. If I sink, you sink with me. Remember that

– Is it a threat?

– A warning, Jack – Lui sorrise e fece un cenno d’assenso all’inglese, che era a dir poco divertito dalla scenetta a cui assistette. Se non fosse stato per educazione si sarebbe messo a ridere di gusto 

– Okay. 3 2 1 Cheese! – Sì, era definitivamente la vicinanza di Grant che mi faceva partire il cuore a mille, mi causava farfalle nello stomaco e un senso di calma unito a una forte vertigine. Fu in quel momento che me ne resi davvero conto. E per la prima volta, mentre lo strano tizio inglese diceva ‘cheese’, non respinsi il pensiero, ma lo assaporai in pieno. Forse è vero quello che ha scritto Jovanotti: 

 

La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare [perché] mi fido di te.

 

E io, in quel momento, stavo volando davvero.

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