Fondotinta blu cobalto

di ale93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***



Capitolo 1
*** I. ***


 
Fondotinta blu cobalto
 
 
«Sì, sull'orlo del baratro ha capito
la cosa più importante», miagolò Zorba.
«Ah sì? E cosa ha capito?» chiese l'umano.
«Che vola solo chi osa farlo» miagolò Zorba.
[Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare,
Luis Sepùlveda]
 
 
 
 
 
 
I.
 
 
 
Mi ricordo di una villetta gialla appena fuori dal centro città. C’era dell’erba alta tutt’intorno e qualche pianta rampicante sui muri. Era sul ciglio della strada, in una zona un po’ fuori mano. Tutto sommato era un posto che aveva un certo tono, no? Come se non dovesse essere né bello, né brutto. Era là e la gente poteva guardarlo e non guardarlo, chi se ne frega, insomma. Mamma comunque aveva detto a mio padre «vorrei entrarci, sai, Pietro. Così, per sapere se possiamo fare qualcosa» e quindi qualche giorno dopo ci ritrovammo ad andare dritti giù per la strada con l’asfalto rotto, la testa che faceva tum-tum contro il finestrino ad ogni salto degli ammortizzatori.
Spento il motore, con le pietruzze che ancora scricchiolavano sotto le ruote della macchina, andammo verso la porta. C’era un cartoncino scritto da un moccioso, casa famiglia girotondo diceva. Un fiore dentro tutte le ‘o’ e i cuoricini sulle ‘i’.
 
Che cavolo c’eravamo andati a fare in quel posto dimenticato da dio? Boh. Chi li capiva i miei. Doveva essere una specie di senso di colpa per avere un bel po’ di soldi da spendere in quadri inutili, libri di storia dell’arte che stavano lì a prendere la polvere degli scaffali. Cazzate da boriosi. A ben pensarci non doveva essere un senso di colpa il loro, ma un modo per dirsi d’aver fatto un buon lavoro con la vita. Tipo poter morire dicendosi «siamo stati dei bravi cristiani», o che ne so. Fatto sta che c’eravamo.
Ci aprì la porta una signora col viso tondo e un bel sorriso caldo.
«Prego accomodatevi», disse lasciandoci passare. «Possiamo aiutarvi in qualche modo?»
(Ma che bel figliuolo, volete accomodarvi? Grazie, volevamo conoscervi, lasciare qualche regaluccio, aiutarvi se si può. Siete così cari, prego, prego, venite da questa parte. E’ un bel posto. La ringrazio! Un po’ di caffè?) Passai la lingua sui denti perché all’improvviso mi convinsi d’avere qualche carie.
 
C’erano sei camere, là dentro. Tre ragazzi, due bambini e le loro mamme, quattro anziani che un tempo erano senzatetto, elencava la direttrice della casa famiglia, Marina.
Un ragazzo sui quindic’anni mi guardava male come se volesse spaccarmi la faccia, ma non è che ci facessi troppo caso. Gli anziani sorridevano sdentati e gli altri continuavano a farsi i cazzi loro.
Fu quando mia madre mi disse «Fabri, saluta dai», che mi venne voglia di girare i tacchi e tornarmene a casa da solo, a piedi. Otto chilometri di filato, maglia inzuppata di sudore appiccicoso e gola secca inclusi. Alzai una mano e feci un cenno con la testa, ma no, a papà non andavano giù quelli che non avevano le palle di parlare. «E la voce l’hai persa, Fabrizio?»
Era sempre stato un po’ stronzo mio padre. Uno stronzo buono, s’intende, di quelli che ti spronano sempre a dare il meglio, ma che nell’impresa si scordano che forse, forse, può venirti voglia di mandarli a cagare ogni tanto.
 
C-c-c-cia-cia-cia-o. Mi risuonava nella testa come un tamburo quel fottutissimo suono nervoso.
Le parole m’erano sempre uscite male dalla bocca; in testa erano perfette, belle chiare e precise, con un suono pieno e tondo, con l’inizio e la fine al posto giusto, nei tempi giusti. Nei pensieri non balbettavo mai.
Immediatamente la direttrice spostò gli occhi dalla mia faccia, troppo imbarazzata per guardarmi evidentemente. Manco fosse colpa sua se balbettavo.
E poi, intendiamoci, lo so che è una palla dover ascoltare uno che ci mette una vita per parlare. È che viene sempre voglia di completare le parole al posto del poveretto, per levarlo dall’imbarazzo di far scivolare a caso la lingua sul palato senza riuscire a raccattare una sillaba. Per questo preferivo star zitto. Per questo a scuola le mie interrogazioni duravano meno delle altre: i professori mi rimandavano a posto nervosi e con le mani sulla fronte dal mal di testa. Divertente no?, me la cavavo sempre con un bel cinque e mezzo/ sei di circostanza. Non ero una cima, ecco, ma ci sapevo fare con la storia del povero ragazzo balbuziente e la gente mi lasciava in santa pace. Non mio padre, comunque.
 
«Bene, ciurma. Salutate questi signori, sono qui per conoscerci!»
Mentre guardavo i bambini si nascondevano dietro le gambe delle mamme, sgusciando come pesciolini rossi impazziti, la direttrice disse che oltre ad Alberto -quindicenne incazzoso, corressi mentalmente- c’era Salvo, più piccino, tredici anni. Quei due erano come fratelli, si muovevano insieme, mangiavano insieme, riuscivano a studiare solo se erano nella stessa stanza; vivevano come in simbiosi, era un attaccamento morboso che qualche assistente sociale vedeva con disappunto.
Io pensavo solo che se sei cresciuto senza una famiglia e trovi qualcuno che ti accoglie senza battere ciglio devi solo farti il segno della croce e ringraziare. Se sei ateo, bevi alla salute di chi ti vuol bene. Ma comunque non erano fatti miei, no?
 
Marina ci presentò una ragazzina di nome Blu. Blu come il colore. Nome del cazzo, eh. Come Celeste, Rosa, Azzurra, Bianca. E lei era Blu, perché quando sua madre l’aveva abbandonata in quel posto ch’era appena nata, le signore che gestivano la casa famiglia prima di Marina furono catturate dagli occhi ‘incredibili’ di questa bambina. Bah; favolette, dicevo io.
 
E invece no. Quelli di Blu erano davvero gli occhi più blu che avessi mai visto. Non celesti, non azzurri, ma blu come il fondo del mare. Belli, sì, va bene.
Lei era una tipa strana: masticava una cicca a bocca aperta e soffiava in alto per spostarsi i capelli rossi di tinta dalla fronte. Era vestita come se avesse cucito insieme pezzi di stoffa a casaccio: aveva un pantaloncino giallo e corto –sul serio, in dicembre con un pantaloncino?- con due toppe rosse al posto delle tasche; la sua maglietta era uno spruzzo di colori. Indossava anche dei collant smagliati. Anzi no, forse tagliati di proposito?
«Hai finito di guardare?», mi disse. Sembrava che volesse fare la furbetta, di quelle bulle che credono d’avere il mondo in mano, però Blu sorrideva e, anche se la sua bocca era sbavata di lucidalabbra rosa da battona –beh, sì, ma l’ho pensato sul serio, non ero mica un finto pudico come i miei-, aveva le fossette in mezzo alle guance che la facevano sembrare una bambina di cinque anni. Scioglieva qualcosa nel petto, non so. Le sorrisi anche io senza troppa convinzione.
 
I miei andarono a prendere i ‘regali’ dal bagagliaio e io rimasi seduto nella piccola cucina colorata di quella casa che sembrava più che altro un asilo. Blu mi ronzava intorno incuriosita, mentre Alberto e Salvo giocavano a carte dall’altra parte del tavolo.
«Come mai siete venuti qua? Non viene mai nessuno così, per nulla. Ogni tanto vengono quelli del catechismo, a Natale, ma per Natale è ancora troppo presto.»
Blu assottigliava gli occhi e parlava con una punta di diffidenza. Quella stronzetta voleva farmi capire di non essere esattamente il benvenuto senza sapere che io non ci volevo manco entrare in quel posto. Volevo solo farmi gli affaracci miei.
Scrollai le spalle senza rispondere e presi il cellulare. Il monitor lampeggiava per una notifica di facebook.
 
Chiara: ehi, stronzetto, ma dove sei? Avevamo appuntamento alle 3!
 
Chiara non l’avevo mai vista, ma eravamo nello stesso gruppo per giocatori di Forge of Empires, una figata. Volevo tornare a casa e chattare con lei. E invece no, ero bloccato in quel posto che sembrava uscito da un libro per mocciosi.
 
Fabrizio: Scusa, Chia. Comincia senza di me. Sono bloccato con i miei. Due palle infinite, ti racconto stasera.
 
Blu sbirciò lo schermo del mio telefono e poi sembrò rilassarsi sulla sedia. «Non sei uno che parla molto, eh?», mi chiese spostandosi i capelli dietro le orecchie. La guardai in faccia e feci no con la testa. «E’ perché balbetti?»
Indovina un po’, pensai, ma quello che riuscii a balbettare fu un ammasso incontrollabile di consonanti che non ne volevano sapere di venir fuori e di vocali strascicate. I- i- in- do-dovina u-u-un p-p-po’. Dio. Vaffanculo.
Ogni tanto mi succedeva di non riuscire a fermarmi prima di parlare. Il problema era che avevo sempre la risposta pronta, diceva mia madre.
«Uno che sta sempre zitto potrebbe anche andarmi a genio», bisbigliò Blu come se stesse parlando da sola. Quella era veramente suonata, non c’era alcun dubbio.
 
Quando i miei rientrarono con i regali, i bambini li guardarono stralunati, come se non capissero bene le intenzioni di quei tizi ch’erano piombati in casa loro con un sacco di roba senza alcun motivo. E manco si poteva dir nulla, avevano ragione.
Comunque cominciarono a toccare i quaderni, le penne e qualche giocattolo e Marina continuava a dire «fate piano, una cosa alla volta» come se avessimo dato da mangiare a qualcuno che rischiava l’indigestione. Persino Alberto l’Incazzato prese un quaderno e una penna rossa. Li posò sul tavolo sotto al naso di Salvo e lui gli sorrise. Aprì il quaderno ed offrì la penna ad Alberto. Alberto era muto e Salvo, Salvo gli aveva appena dato la voce.
Gli anziani ringraziarono i miei anche se chiaramente non c’era nulla per loro in mezzo a quella roba.
Solo Blu non si avvicinò neppure ai miei. «Non m’interessa nulla», disse quando la guardai con le sopracciglia quasi nell’attaccatura dei capelli. E invece io l’avevo capito: aveva adocchiato uno dei libri, La storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. Una favoletta piuttosto romantica per una masticava cicche come se fossero le teste di quelli che avevano osato sfidarla, no? Non prese il libro comunque. Fece schioccare la lingua sul palato.
 
 
 
 
 
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Fabrizio: Dio, è stato uno strazio.
Chiara: Oggi sei sotto tono ciccio. Posso soffiare sul tuo impero e farlo sparire per sempre. Puf.
Fabrizio: No, intendevo con i miei. È stato uno strazio. E il mio impero sta benissimo, scema.
Chiara: Ma perché andare in una casa famiglia?
Fabrizio: E che ne so? C’erano un sacco di tipi assurdi. Una si chiama Blu, assurdo no?
Chiara: Oh, bene. Ti piace?
Fabrizio: Ma che cazzo dici!
Chiara: “Una si chiama Blu”, gnegnegne. Se ne parli, ti ha incuriosito.
Fabrizio: Lo trovo solo un nome stupido.
Chiara: Io penso sia un nome eccentrico. Lei com’è?
Fabrizio: Pazza.
 
 
 
 
 
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E pazza lo era davvero, Blu. Lo pensai una volta guardandola giocare con uno dei bambini. Parlottava con un peluche in mano, lo accarezzava come se fosse un cucciolo vero.
Che c’ero tornato a fare in quel posto? Boh. C’ero capitato per caso, in realtà; avevo appuntamento con il logopedista, in una stradina vicina. Ci andavo da sempre e ne avevo le palle piene. Era stata una fuga, credo. Mi ero ritrovato nell’unico posto che conoscevo nelle vicinanze.
 
«Ehilà, musone!»
Mi chiamo Fabrizio, non musone. Fabrizio. Feci un respiro profondo sulle ‘m’, sembrava quasi un singhiozzo. Il mio nome invece scivolava bene sulla lingua. Era l’unico insieme di suoni articolato, ne ero piuttosto fiero, in fondo. Era un nome brutto, ma proprio brutto, eppure sapevo pronunciarlo e allora mi stava bene.
Blu strizzò gli occhi un paio di volte. Diede un bacio sulla testa al bambino e gli restituì il suo peluche. Saltellò sulla ghiaia e si fermò a mezzo centimetro dalla mia faccia. Rideva. «Allora musone, che fai di nuovo qua? Altri regali?»
 
 
 
 
 
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Continuai ad andare al Girotondo invece che allo studio del logopedista per un bel po’ di tempo. Marina ormai non faceva più domande, sorrideva e basta. E un po’ sorrideva anche Alberto l’Incazzato. Assurdo, eh?
Blu mi aveva raccontato che non era mai andata a scuola. C’erano degli educatori che facevano avanti  e dietro dalla casa famiglia, ma lei li odiava tutti. Si annoiava, a lezione. Marina continuava a pregarla di fare la brava e Blu s’incazzava sempre un po’ di più. Era così strana Blu. Era colorata, rumorosa, ma poi c’erano volte che la trovavi seduta al centro della sua stanza, seduta in silenzio, con la testa lontanissima da là.
 
Una volta su uno scaffale vidi il libro di Sepùlveda che i miei avevano portato al Girotondo. Mi guardò in modo strano e scattò in piedi.
«Ohi, musone. Andiamo fuori, qua dentro mi rompo.»
Mi prese per il gomito e mi trascinò alla porta sul retro. Uscimmo in un cortiletto col ghiaino, c’erano un paio di sedie di legno e nient’altro. Blu s’accucciò come se volesse riallacciarsi le scarpe e invece da quegli anfibi militari tirò fuori una sigaretta. «Devo nasconderle, sai. Marina rompe le palle col fumo. Le sigarette me le compra Antonio -quel signore col cappellino di lana, là, lo vedi?-, quando esce per le sue passeggiate.»
La guardai spostare uno dei vasi di gerani e afferrare un accendino. Con la sigaretta tra le labbra, avvicinò la fiamma al viso. In quel momento, guardandola in piedi al centro del cortile, mi sembrava un pupazzo colorato.
 
Blu mi guardava dritto in faccia. Mi studiava, cercava qualcosa, forse sperava che da un momento all’altro cominciassi a parlare. Mi soffiò una nuvola di fumo bianco negli occhi.
 «Credo che tu abbia ragione. A non parlare, dico», rimase a guardare in alto per un po’. Tirò un’altra boccata dalla sua sigaretta e trattenne il fumo nella bocca. Lo sputò via mentre ricominciava a parlare. «Le parole sono belle, ma la maggior parte delle volte sono false e inutili.»
Aveva maledettamente ragione. E glielo dissi, anche se balbettavo.
 
 
 
 
 
 
 
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Chiara: Fabri, ti ho perso definitivamente?
Fabrizio: Che dici?
Chiara: Continui ad andare in quel posto… che sta succedendo?
Fabrizio: Niente! Sto bene, là. Non mi chiedono di parlare. Posso solo stare seduto in silenzio. Nessuno si aspetta niente, capisci?
Chiara: Sono contenta, ciccio. È bello.
Fabrizio: Lo è, Chia




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Note: Questa è l'introduzione ad una storia di due o tre capitoli, dipende da come mi andrà di dividerli. E' un racconto molto breve in realtà, senza troppe pretese. E' anche la prima het dopo mesi e quindi mi sento già fiera per questo. Spero anche che possa piacervi! 
Fatemi sapere che ne pensate, 
un abbraccio forte a tutti voi,
Ale.
 

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Capitolo 2
*** II. ***


 
How long have I been in this storm?
[Storm, Lifehouse]
 
 
 
 
II.
 
 
 
 
 
«Fabri.»
Fabri, diceva Blu quand’era seria. Non ‘musone’, quello stupido nomignolo che m’aveva affibbiato ormai da un po’.
Là, seduti su quelle sedie -che, cazzo, ballavano parecchio sui piedi di legno ormai vecchio-, mi sembrava che fosse arrivata l’ora dei discorsi seri. Era sera, cominciava a far freddo anche dentro i cappotti e il cielo era blu come gli occhi di Blu.
Ogni tanto mi portava là fuori in cortile e mi parlava di cose a caso, così, come se non avessero peso. Come se le buttasse in giro senza pensarci.
Le feci un cenno col mento. Lei mi passò la sigaretta, tirai una boccata troppo lunga.
«Marina te l’ha detto perché sono rimasta qua per così tanto tempo?»
 
Erano mesi che andavo al Girotondo. Saltai ogni stupida visita dal logopedista. Ogni lettura al buio, chiuso in una stanza, con le cuffie a coprire tutto il rumore intorno, e la figura del Dott. Giacomelli negli angoli degli occhi a mettermi ansia. I miei ormai facevano solo finta di non saperlo e, in fondo, ‘far finta’ era l’attività di famiglia. E no, Marina non m’aveva mai parlato molto di Blu in tutto quel tempo. Sapevo solo che non aveva nessuno che potesse prendersi cura di lei.
«N-no», sbuffai.
Lei si riprese la sigaretta, se la mise tra le labbra e con un dito cominciò a giocare con i suoi collant. L’indossava spesso sotto i suoi pantaloncini colorati ed erano tutti smagliati sulla coscia destra. Ogni paio di calze aveva quel taglio lungo, aperto come un occhio sulla sua pelle bianchissima.
«Avevo un fratello», disse. Fece un tiro veloce, poi lasciò che la sigaretta si fumasse da sola. La cenere scendeva giù sulla ghiaia come una pioggerellina grigia. «Mia madre ci lasciò entrambi qua. Biondo come me –sì, lo so, il biondo mi sbatterebbe, per quello faccio la tinta-, due occhi più blu dei miei Fabri, te lo giuro, bellissimo come un principe, un anno più di me. Si chiama… chiamava Loris.»
 
La vidi stringere le labbra. Guardò un attimo la sigaretta ormai consumata, gettò via il mozzicone e «ne vuoi un’altra?», chiese sovrappensiero. Sì, la volevo. Ne presi una delle mie, sta volta. Il fumo m’ammorbidiva la gola, era un balsamo acre che mi scioglieva dentro qualcosa, mi faceva sentire più rilassato. Smezzammo anche la mia Lucky Strike. Lucky Strike Blu. Quando lei vide il pacchetto, scoppiò a ridere.
Le feci un cenno.
«Diceva che è tutto ‘na merda, sai. Diceva che quelli come noi rimangono sfigati a vita, che la gente non vede nient’altro che il nostro passato. A quattordici anni iniziò a tagliarsi», sorrise al cielo, sfregandosi il naso con un dito. Credo non volesse farmi vedere le sue ciglia bagnate.
Mi sentivo un coglione perché mi venne voglia di abbracciarla. Non le avevo mai chiesto nulla di lei, non le avevo mai chiesto proprio nulla in generale. Mi limitavo ad ascoltare e Blu non mi costringeva mai a dire la mia. Mi guardava, scavava un po’ nei miei occhi, giusto per sapere a che stavo pensando. Era l’unica che non faceva finta di volermi sentir parlare. Che te lo chiedo a fare, musò. Tanto tu non ci vuoi parlare con gli altri, no? E quindi parlo io. Almeno mi sfogo. Aveva bisogno di non sentire il silenzio ogni tanto, m’aveva detto una volta.
«Marina era appena arrivata. Sapevano tutti che Loris aveva ‘sti problemi, ma per quanto lo controllassimo, per quanto cercassimo di parlare con lui, trovava sempre il modo di farsi male. Una volta litigò con Marina. Chiese di farsi una doccia ‘senza la scorta’», Blu continuava a guardare in alto. «Fece dei tagli troppo profondi.»
Smise di parlare. Due grossi lacrimoni precipitarono per terra. ‘Fanculo, sibillò Blu. Tirò un calcetto al terreno e qualche pietruzza volò lontano, lontano, lontano.
Dovevo passarle la sigaretta. E invece le presi la mano. Blu guardò le mie dita sulle sue e mi face un sorriso piccolo.
 
Qualche ora dopo stava seduta sul muretto di pietra del cortile, faceva dondolare le gambe. Era tardi, dovevo tornare a casa, prima che i miei cominciassero a darmi per disperso, ma il momento dei saluti durava sempre un po’ di più. «Aspetta un attimo.»
La guardai puntellarsi coi palmi sul muretto e darsi uno slancio. Corse verso la villetta, ne uscì due secondi dopo, saltellando sul selciato.
«Tieni», mi porse un quadernetto e una penna. «Raccontami una cosa tua… Scrivi qui.»
E come Salvo aveva fatto con Alberto, Blu mi stava dando la voce che non sapevo usare.
 
 
 
-
 
 
 
Fabrizio: Che devo fare?
Chiara: Sei un coglione, Fabri. DEVI SCRIVERE. Raccontaglielo. Lei ti ha parlato di tutto.
Fabrizio: Lo sai solo tu, Chia.
Chiara: Tu vuoi dirglielo, Fabrizio?
Fabrizio: Non lo so. Credo di sì.
Chiara: E allora fallo. Smettila di farti tutte queste seghe mentali.
Fabrizio: Cristo, sono veramente una palla al piede.
Chiara: Tesoro, sono contenta che tu abbia voglia di parlare di ovvietà, ma hai da fare ora. Smamma!
 
 
 
-
 
 
 
 
 
Non ero troppo sicuro di voler portare quel quadernetto impiastricciato della mia scrittura sbilenca, ma ormai c’ero, no?
Era un pomeriggio freddo, scuro di nuvole di pioggia. La villetta era silenziosa, Marina correggeva i compiti di Alberto, i vecchietti sonnecchiavano a bocca aperta. Qualcuno russava forte. Blu, invece, era sotto la doccia, mi dissero.
L’aspettai in cucina; c’era il profumo dei biscotti alla cannella, i disegnini dei bambini sparsi sul tavolo, una televisione che gracchiava le domande di un quiz che nessuno stava seguendo.
«Ehi», sorrise Salvo, sedendosi di fronte a me. Si versò una tazza di latte. «Vuoi?»
Feci no con la testa.
Salvo ficcò in quel bicchiere almeno una trentina di biscotti. Mi guardava divertito e io cercavo di nascondere il quadernetto perché, cazzo, scrivere le letterine alle ragazze era roba da bambini dell’asilo, no? Perché cavolo avevo scritto quelle cose?
«Blu», nessuna domanda. Solo Blu, stai aspettando Blu. «Sai, lei non fa altro che parlare di te Fabrizio, Fabrizio, Fabrizio. Ma che vi dite?»
Niente. Lei diceva tutto, ma io…
 
«Ehi, impiastro, vai a giocare da un’altra parte», fece Blu, affacciandosi alla porta della cucina con un’ asciugamano in testa tipo turbante. «Musò, vieni di là? Così mi asciugo i capelli.»
 
La seguii nella sua camera, mentre Marina mi guardava di traverso; «porta aperta!», urlò alle nostre spalle. Blu sbuffò gonfiando le guance e mi strizzò l’occhio mentre chiudeva la porta.
«S-s-sen-t-ti…» Cazzo.
Blu s’avvicinò senza dire una parola. Non diceva mai niente, Blu, non mi diceva quelle cazzate là, respira, Fabri, rilassa la gola come cazzo fa uno a rilassare la gola, onestamente? A quel punto mi veniva sempre voglia di una sigaretta, che era la mia unica idea vera di relax. Comunque Blu era solo vicina e non diceva stronzate come tutti. Potevo contare le lentiggini sul suo naso.
Mi sfilò il quaderno dalle mani.
Non so quello che ho scritto, Blu, balbettai, sono cazzate. Cercai di riprendermi il quaderno, ma non era vero. Non erano cazzate.
«Ma non eri quello muto, tu? Stai zitto e fammi leggere», rise lei, gettandosi sul letto. Mi sedetti accanto a lei, mi coprii la faccia con le mani. La sbirciavo mentre leggeva e ripetevo in testa parola per parola.
 
 
 
 
-
 
 
Avevo sette anni. Incespicavo sulle iniziali di ogni parola. Avevo la ‘r’ siciliana, dicevano i miei. Però pure tutte le altre consonanti mi slittavano sulla lingua. I grandi mi guardavano con gli occhi pieni di una tenerezza strana e appiccicosa, mi faceva schifo. A scuola anticipavano la fine di tutte le mie frasi e guarda che io li capivo, eh, cioè mi stava anche bene, mi evitavano lo sforzo.
Il fatto è che mi sono perso delle cose per strada. Certi pensieri sono rimasti tutti chiusi qua dentro, capito? Che spreco. Però la gente non c’ha mai creduto troppo che avevo cose sensate da dire: ero quello un po’ scemo. Qualcuno un giorno me lo disse. Ho provato a rispondere e non ci sono riuscito. Semplice.
 
È iniziata come un gioco, credo. C’erano sempre un paio di tizi che mi spintonavano, facevano qualche battuta scema. Sono sempre stato un po’ testa di cazzo e allora rispondevo, no? Ma quelli volevano farmi capire che a certe persone non si deve rispondere mai a tono… erano solo dei coglioni.
Ho smesso di parlare perché la gente non sentiva.
 
Blu lasciò cadere il quaderno sul pavimento. Mi guardò dritto in faccia.
Aveva gli occhi grandi, sconfinati. Sei come me, stavano dicendo e anche se non era vero, anche se Blu si portava dentro un dolore troppo grosso e troppo duro, lei aveva sentito, credo.
Prese la mia mano e se la porto sul petto; non disse nulla, ché tanto le parole sono belle, ma la maggior parte delle volte sono false e inutili.
 
 
 
-
 
 
 
 
Qualche giorno dopo chiese a Marina di accompagnarci in un posto. Non capii fin quando non arrivammo a destinazione.
Blu si sedette sull’erba verde, tenne un po’ la margherita tra le dita. Poi lasciò un bacio sui petali e la posò per terra.
«Ciao, Lò. Sai quel tipo assurdo di cui t’ho parlato l’altro giorno? Il musone sì, lui», mi sbirciò con la coda dell’occhio e sorrise, furba come il primo giorno che l’avevo vista. «Te l’ho portato. È uno che non parla, lui, ma ti starà simpatico. Ha dei bei ricci neri, mi piacciono un sacco», sussurrò, come se non potessi sentirla. Spostai lo sguardo ridendo come un coglione. «E’ un tesoro, Lò.»
Blu accarezzò la lapide con la punta delle dita, mentre m’accucciavo accanto a lei.
Il cielo era blu cobalto quella sera. Blu lo guardava e sorrideva. Ci vedeva gli occhi di Loris.
«Ehi, Fabri», mi disse, appoggiando la testa sulla mia spalla. «Loris diceva che la gente sceglie sempre cosa vedere negli altri, sai? Lui sapeva che nessuno l’avrebbe mai capito veramente. Ma a me non importa», posò la fronte sulla mia e mi guardò proprio in fondo alla testa. «Io voglio essere solo quello che sono. Io voglio essere Blu.»
Non so perché ma mi venne voglia di scherzare, di parlare. «V-v-vu-vuo-vuoi e-e-es-s-se-essere b-blu? C-co-com-me u-un p-pu-puf-puffo?»
Mi fissò seriamente per qualche secondo. Poi piegò la testa e scoppiò a ridere con gli occhi chiusi e le ciglia un po’ bagnate. «Sì, voglio essere blu. Magari mi dipingo la faccia. Credi che esista tipo… un fondotinta blu?»
Le presi la faccia tra le mani per tenerla ferma. Dio, si muoveva come una cavalletta impazzita. Era pazza davvero. Ma forse un po’ lo ero anche io.
«No», le soffiai sulle labbra, un po’ divertito.
«Loris, non guardare», disse Blu, guardandomi negli occhi.
Poi finalmente smise di agitarsi e si fermò. Si fermò sulla mia bocca.
 
 
 
 
 
 
Salti
 
 
 
 
 
Chiara: Ma sta succedendo davvero?
Fabrizio: A quanto pare!
Chiara: Dei, non ci posso credere! Sbrigati.
 
 
Siamo in auto. Blu continua a cambiare stazione radio e, giuro, mi sta facendo impazzire. Mi guarda un attimo cantando a squarciagola un pezzo che non conosco, poi scoppia a ridere. Mette la mano sulla mia, sul cambio.
«Sei contento, Fabri?»
Scuoto la testa e sorrido, guardando fuori dal finestrino. L’autostrada corre velocissima, un paio d’ore e saremo arrivati.
«S-sì.»
Non ho smesso del tutto di balbettare, ancora le parole s’incollano al palato, ecco, ma va meglio, credo. Ci metto solo un po’ per iniziare, è come da bambino, incespico sulle iniziali. Ma non c’è nessuno a fermarmi, ora, non c’è nessuno che finisca le frasi al posto mio. Blu dice che se voglio posso cambiare idea a metà d’una frase, posso dire una cosa diversa da quella che si aspettano tutti. Cambiare direzione, fare quello che mi pare.
In culo la gente.
 
E’ passato circa un anno da quando andavo al Girotondo. Blu ormai ha diciotto anni e potrebbe andar via dalla casa famiglia da un momento all’altro.
«Facciamo una pazzia», m’ha detto un giorno. «Facciamo un salto al buio prima che io debba andarmene da qui. Andiamo dalla tua amica.»
«M-ma chi?»
«Quella con cui parli su facebook. Dovresti vederla.»
Io non so bene come sia iniziata tutta questa storia, non so perché Blu abbia deciso di ascoltare proprio me. Ma Blu dice ch’è stata la stessa cosa che ha spinto me a guardare meglio lei, a vedere bene quel taglio nelle sue calze, a conoscere il suo blu. So che ha sempre avuto ragione, so che è necessario avere le palle di sbattere in faccia a tutti quello che siamo, quello che abbiamo da dire anche se a nessuno frega un cazzo di quello che abbiamo in testa. È per questo che devo incontrare Chiara, devo finalmente farmi vedere così come sono, anche se rotto, anche se imperfetto. Devo dipingermi la faccia di ciò che sono.
E’ importante avere il coraggio di saltare nel vuoto.
E alla fine l’ho fatto. Ho fatto il salto.




Fine

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