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- Come, come hai potuto non dirmi niente? – un tavolino cade
in terra, e con esso un vaso, il primo, che si frantuma.
Cerca di mantenere la calma.
- L’ho saputo ieri sera. Tu non sei tornato. Pensavo fosse
solo febbre…
- Pensavi? Pensavi? A cosa, esattamente, pensavi? – adesso
sta urlando. Lei volta lo sguardo.
Non sa cosa rispondere. Si domanda solo quando la sua vita
ha iniziato a prendere questa piega.
- Potevi mandarmi a chiamare, cazzo!
- E dove, negli appartamenti di Sua Maestà? – da quando Sua
Maestà viene fuori come una bestemmia dalla sua bocca?
- Fa’ silenzio! – le urla ancora. Si passa una mano sulla
faccia, gli riconosce la paura. Non avrebbe mai detto fosse così ipocondriaco.
- Suppongo tu sappia che il dottor Lasonne ti aspetta nel
suo studio appena sei libero… - è un sussurro. Lui si ferma dal suo mero
tentativo di stracciare una tenda, e la fissa.
Gli occhi diventano rotondi, e la bella espressione di tanti
anni prima sembra il ricordo di un sogno infantile.
– Non è detto, ma può essere contagiosa, e noi abbiamo… - si
ferma, non perché non abbia qualcosa da dire, ma perché i movimenti di lui le
arrivano rallentati, come se stessero provenendo da un’altra dimensione.
Non le brucia il contatto tra la mano di lui e il proprio
viso, quanto il duro scontro tra la sua schiena e il muro dietro di lei.
- Contagio? Rischio di averla contagiata? Maledetta!
E giù, un altro manrovescio. Sbatte contro l’ennesimo
tavolino della stanza, il secondo vaso che si rompe.
Dovrebbe essere nobile che lui non si stia preoccupando di
sé quanto di lei, ma sa anche che il tutto manca di una certa sobrietà.
Eccolo, l’ennesimo attacco. Il sangue che le cola da una
spaccatura sul labbro si mischia a quello che viene fuori dalla sua gola.
Lui la guarda come se fosse una lebbrosa sudicia, volta le
spalle e va via, correndo.
Tra la tosse e le lacrime, riesce a vedere la figura della
nonna planare su di lei.
Arriva fischiettando, nella peggiore imitazione di una spia
che ha mai visto fare a qualcuno. Sbuffa, tirandosi il bavero del mantello fin
sopra le orecchie, od almeno ci prova.
Fa freddo, e piove.
L’uomo che sta aspettando è magro e dinoccolato, fresco e
felice come tutti gli uomini che hanno appena ricevuto un bel servizietto,
nonostante tutto il freddo.
Sa che mettersi in questa storia è stata la cosa peggiore
che avesse mai potuto fare nella sua vita, ma la morte di Diane aveva fatto di
lui un bestione sentimentale, o forse era solo vedere Andrè tutti i giorni a
ridurlo così.
- Buonasera, capo. Come va la guardia?
- Andrebbe meglio se tu fossi in orario, una volta tanto.
- Mi dispiace, capo, ma lo sai come vanno a finire certe
cose… - gli fa un occhiolino eloquente. Lui gli risponde con un sorriso ed una
pacca sulla spalla.
- Smettila di fare il cazzone, Jerome. Non ho tempo stasera
di parlare di figa con te. Avanti, dimmi tutto.
- Eh, capo – Jerome guarda a terra, la punta delle scarpe
sudice di fango. – Nessuna buona novità. Dice Lucille che sono tre giorni che
lui non torna nelle sue stanze, lei continua a perdere peso e non mette il naso
fuori da almeno quindici giorni. Lucille ha sentito urla e vasi rotti, ieri
mattina, ma non sa nulla. Lei non parla, lui non torna se non per cambiarsi
d’abito, e neanche la nonna di Andrè pare che abbia potuto fare qualcosa. La
vecchia è andata via nel primo pomeriggio.
Ecco. Sempre peggio. Guarda lontano, verso casa sua. Si
sente un tuono.
- Lucille pensa che lei sia malata, Alain.
Jerome non voleva dirlo, ma non si era trattenuto. Dirlo lo
aveva liberato da un peso, ma l’espressione che vede passare per un momento sul
viso del capo lo fa subito pentire.
O forse, se l’è sognato. In fondo è di Alain che stiamo
parlando, non di una donnicciola qualsiasi.
- Grazie, Jerome. Io vado a casa, il mio turno è finito.
E proviamo, proviamo a prendere le decisioni giuste
Lo facciamo
E proviamo, proviamo a trovare la strada giusta
Per me e te
(Frameless – I try)
- Auguste, tu devi fare qualcosa!
Ma Auguste non sa cosa fare.
- Non sta bene, Auguste. Non sta affatto bene. Questo
matrimonio è stata la peggior sciocchezza che tu le abbia lasciato fare.
- Ah, questo no! – Auguste sbotta, puntandole un dito
contro. – Io ho sbagliato, è vero, ma proprio di questo non puoi accusarmi. Io
non volevo, e tu lo sai!
- Avevi un’opportunità, e non l’hai colta… - mormora. Non
voleva dirlo. Non era il momento tirare fuori storie vecchie di mesi, non in
questo momento. – Comunque, dobbiamo fare qualcosa.
- È grande, e quello resta suo marito. Deve venirne fuori da
sola, è questo che le ho cercato di insegnare per trent’anni.
- E glielo hai insegnato, Auguste. L’hai resa libera, capace
di prendere le sue scelte, ma non l’hai lasciata vivere. Non ha preso una sola
decisione che non fosse guidata indirettamente da te. Non sa, non conosce, lei
non… - non sapeva più cosa dire. Stava per piangere. Perché sembrava non
capire?
– Sola, Auguste. È completamente sola, che vive una vita che
non le appartiene, un marito che non la ama e che… - si ferma. Non può
dirglielo. Se lo conosce bene, sa che non può dirlo.
- Cosa, Marie? Cosa? – lui è l’unico a chiamarla Marie.
Stavolta c’è apprensione nella sua voce, e, quando si volta, finalmente, a
guardarla, panico.
- Lui l’ha picchiata, Auguste. Lei ha la tisi e lui l’ha
picchiata perché ha paura di essere contagiato, e di aver contagiato la regina.
Lo dice tutto d’un fiato. Guarda le sue espressioni
oscillare tra la collera e la paura. L’uomo è spaventato dalla malattia, così
come è spaventato dalla quantità di dolore che una donna può sopportare durante
il parto. L’uomo sa che una donna è superiore proprio per questo, ma non lo
ammetterebbe mai.
- Ascoltami, Auguste, e guardami – Marie gli prende un
braccio, Auguste ha le labbra serrate. – Non importa a quale costo, con quale
scusa o quanto Marguerite urlerà, ma tu, noi, dobbiamo tirarla fuori da questo
inferno.
- Come un maschio, Marie, l’ho cresciuta come un maschio
perché non subisse quello che le altre sono state costrette a subire. L’erede,
il figlio maschio, certo, ma anche la sicurezza che, quando non ci sarei più
stato, sarebbe stata in grado di cavarsela da sola. – Si accascia in poltrona,
chiude gli occhi. – Non mi è mai piaciuto. Perché ha dovuto sposarlo?
A questo, Marie non risponde. Entrambi conoscono la
risposta, e anche quelle segrete che non possono essere rivelate ad alta voce.
Marie gli accarezza una spalla: nessuno, tranne lei, sa quanto quest’uomo ami
sua figlia.
- La tisi… - bisbiglia lui. Marie ha già versato le sue
lacrime, ma adesso tocca ad Auguste affondare il viso nelle pieghe del suo
vestito e piangere.
- Buongiorno, Oscar.
Una volta, si sarebbe data la pena di alzarsi, fare un mezzo
inchino e guardarla. Adesso, continua a starsene seduta alla finestra, a
fissare il triste vuoto della sua esistenza.
- Buongiorno, madre.
Marguerite non capisce. Sa, sa tutto, pensa di sapere tutto,
ma non capisce.
- Hai visto? Sono tre giorni che piove. Tutta questa pioggia
mette di cattivo umore la Regina, sai… .
Oscar mostra un sorriso affranto ai vetri bagnati. Sospira,
poggiando la testa sulla spalla.
- Sono stanca, madre. Se c’è qualcosa che dovete dirmi
fatelo in fretta, vorrei riposare.
Marguerite sbuffa, contrita. Finalmente si avvicina a quella
figlia che è peggio di un’estranea e le si para davanti.
- Tuo padre – le allunga un biglietto. – Dice che ha saputo
che non stai bene. Ti vuole a casa.
Oscar prende il biglietto del padre. Nota la scrittura
tremante, e lo vede, dopo cena, scrivere quel pezzo di carta con la supervisione
della nonna dietro le spalle, come faceva con lei e con Andrè, quando dovevano
finire i loro compiti di grammatica prima di andare fuori a giocare.
Pensa che un pezzo di carta non l’ha fatta sentire più
allegra negli ultimi tempi.
- Cos’è questa storia che non stai bene?
Grazie, madre, per preoccuparti per me, sei davvero,
davvero, gentile.
La guarda, e pensa che sia impossibile che una madre non si
accorga di determinate cose. Ha perso sette chili in quattro mesi, è pallida
come la morte, non ricorda com’è fatto il sole.
- Non sto troppo bene – risponde laconica. Cosa dire,
altrimenti?
Allora si preoccupa di cosa sappia suo padre. Non è da lui,
d’altronde, tirarla fuori dai guai, lui si aspetta da lei la completa
padronanza della situazione in ogni circostanza. Spera che non sappia della sua
malattia, ed ancora meno spera che la nonna non le abbia detto della
discussione che ha avuto con Hans.
- Non stare via molto, se decidi di andare – conclude per
lei la madre. – E ricorda – abbassa la voce, come se qualcuno le stesse spiando
– devi dare un erede al conte di Fersen il più presto possibile. A Corte si
mormora.
Volta lo sguardo dall’altro lato. Vorrebbe piangere, ed
urlare, ma non ricorda più cosa vuol dire.
- Andrè!
Lo chiama mentre sta ancora girando la chiave nella toppa. È
una sua abitudine, come si assicurasse che stia ancora lì.
- Se continui così, la gente comincerà a parlare, Alain. Ne
va della tua reputazione.
È la cosa più vicina ad una battuta che gli ha sentito fare
negli ultimi mesi. È una di quelle giornate positive, e vorrebbe pensare che
sta iniziando a stare meglio, ma sa che non è così.
- Ti piacerebbe, eh? – cerca di scherzare. Lui prova a fare
un sorriso, ma la smorfia che ne viene fuori non assomiglia ad un ghigno neanche
con l’immaginazione.
Prende posto accanto a lui, sul divano, come tutte le sere.
Si versa del vino: Andrè vive con una bottiglia di vino attaccata al fianco,
dove una volta aveva la spada.
Non gli pesa avere Andrè in casa, specialmente da quando anche
sua madre è morta. È meno triste per entrambi, ma per motivi diversi.
O forse è lo stesso, ma Andrè non lo saprà mai.
Andrè non sa quanto era bella quando si è sposata.
Andrè non sa che Alain è entrato in chiesa nel momento in
cui il prete recitava la formula “… parli ora, o taccia per sempre”. Gli
invitati si erano voltati a guardarlo, lui aveva riso ed aveva detto: “Se non
lo sa lei perché non dovrebbe sposarlo, non sarà certo un suo subordinato a
dirglielo”. Lei allora aveva abbassato la testa, e Fersen aveva detto al prete
che si poteva continuare.
Alain sapeva che se al suo posto fosse entrato Andrè,
chissà, forse non sarebbe lì in quel momento.
Ma Andrè non avrebbe potuto sopportare oltre.
Andrè aveva urlato, strappato tende, rotto vasi, bicchieri,
calciato muri.
Alain era solo andato nel suo studio, e l’aveva chiamata
puttana.
Oscar aveva risposto: “Se devi dirmi solo questo, puoi anche
togliere il disturbo”.
Andrè aveva lasciato palazzo Jarjayes e la Guardia Metropolitana.
Alain l’aveva accolto in casa.
Oscar aveva sposato il conte di Fersen, si era trasferita a
Versailles ed aveva abbandonato il Comando.
Andrè aveva detto tutto ad Alain, in uno dei suoi deliri da
ubriaco: di Fersen, delle rose, dei lillà, delle assurde richieste di Maria
Antonietta e della totale devozione di Oscar verso la sua Regina. “È una
richiesta che viene da Sua Altezza la Regina di Francia, Andrè: mi ha salvato
la vita, ricordi? Le devo qualcosa”.
Ma qualcosa non significa mettersi nelle mani di Fersen per
coprire la relazione illecita che c’è tra lo svedese e l’austriaca.
In giornate positive, Alain aveva proposto ad Andrè di
diventare l’amante ufficiale di Oscar, così come Fersen lo era della Regina.
Andrè lo aveva schiaffeggiato. La questione era finita lì.
“Almeno Girodelle l’avrebbe resa felice” lo trovava a dire
ogni tanto.
Andrè non avrebbe sofferto tanto se il marito l’avesse resa
felice, ed Alain non avrebbe sofferto tanto se fosse stato Andrè a renderla
felice.
Eccolo, l’ennesimo sospiro.
Alain pensa che è molto più facile sparare a qualcuno, che
dire quello che deve dire ad Andrè.
Immaginò che solo una persona come la vecchia signora
Grandier l’avrebbe potuto convincere a fare una cosa del genere.
- Andrè, ho visto tua nonna. – Vai, dritto al punto.
- Alain… - si lamenta Andrè.
- Mi ha chiesto di te, se stavi bene. Le ho risposto di sì,
così non stava in pensiero – Come premio per la sua bugia, riceve un assenso
del capo. – Mi ha detto di chiederti se puoi tornare a casa.
Andrè sospira ancora. Scuote la testa.
- Puoi dirle, se dovessi rivederla, che può venire qui
quando vuole. Io non ho intenzione di andare da nessuna parte.
Fosse così facile… .
- Io penso che tu dovresti andare. – Andrè lo guarda, con
quello sguardo vuoto e triste che ha su da mesi. Il suo occhio vacilla da un
po’, ma resiste. Quando beve molto, lo sente urlare: “Perché Dio mi hai
lasciato quest’occhio, cosa mi è rimasto da vedere?”. – Penso che dovresti
andare appena puoi.
Quando la carrozza si ferma, un valletto l’aiuta a scendere,
e prima ancora che i suoi piedi tocchino il selciato della villa, la nonna è
già da lei, a sorreggerla.
- Bambina, bambina mia!
Oscar le sorride, e sente le prime lacrime pungerle negli
occhi.
L’età l’ha intenerita, e le minime dimostrazioni di affetto
l’emozionano come la più blanda delle ragazzine.
A volte, sa di ricordare Rosalie.
La nonna non parla. Sta guardando la sua Oscar, o quello che
ne resta: bianca come un cencio, infagottata in un vestito troppo largo, e con
un livido blu sotto l’occhio destro. Stringe i denti, e corre ad abbracciarla.
Non ha ancora preso confidenza con trine e crinoline, così
tiene tutto su con due mani mentre si fa trascinare dentro dalla gentile nonna,
attaccata alla sua vita.
- Sei dimagrita, bambina. Vedrai, ti farò mettere su almeno
dieci chili in due giorni – afferma convinta, e finalmente vede Oscar accennare
un sorriso.
La fa accomodare nel salottino vicino allo studio, dove ha
preparato biscotti e cioccolata calda. Oscar sorride e, per la prima volta da
mesi, mangia quanto basta per sentirsi un pochino meglio.
La nonna le racconta qualsiasi cosa le passi per la testa,
come se volesse tenerla distratta, volesse farle passare il tempo il più in
fretta possibile. Ma entrambe sanno che lei non è Andrè.
- Madame, il signore è tornato.
Oscar posa i biscotti, lo stomaco chiuso. La nonna si alza e
le sorride, tendendole la mano.
In sala da pranzo, il generale Jarjayes è già seduto al
solito posto.
Vede entrare sua figlia. Ma quella non è sua figlia.
Oscar non ha lo sguardo spento.
Oscar non porta lividi a casa.
Oscar non fa l’inchino, e non chiede il permesso.
Il Generale non chiede niente, mangiano in silenzio.
“Stai facendo una sciocchezza, Auguste”.
“Mi hai sempre rimproverato che non ho saputo fare il
padre, ed adesso che lo faccio non ti sta bene?”.
“Se tu lo avessi fatto a tempo debito, a quest’ora non
staremmo discutendo”. Auguste invidiava la calma di sua moglie.
“Non mi pare che io abbia alzato un solo dito su di te,
mia cara”.
“Infatti, ma se tu lo avessi fatto, io non avrei fatto
tutte queste storie”. Aveva finalmente alzato gli occhi dal suo ricamo. “Per
prima cosa, sappi che è normale per due coniugi avere delle discussioni accese,
e se io e te non ne abbiamo mai avute è perché per la prima parte del nostro
matrimonio io ero sempre incinta, e per la seconda parte io sono sempre stata
qui” allungò un braccio intorno alla stanza “e non mi pare mi sia mai
impicciata delle tue relazioni”. Silenzio imbarazzante. Non aveva mai pensato
che Marguerite non sapesse, ma non pensava avesse il coraggio di tirarlo fuori.
Probabilmente ormai era talmente vecchia ed estranea da non crearsi il problema
di affrontare una situazione arrugginita. “E poi, è imbarazzante per me: cosa
dovrò dire in giro? Mia figlia ha la febbre ed è corsa da suo padre come una
bambina sciocca? E chi, poi? Oscar François de Jarjayes, ex Colonnello delle
Guardie Reali ed ex Comandante dei Soldati della Guardia? Convieni con me che è
poco credibile!”.
“Puoi dire a tutti la verità, allora” aveva sbottato il
Generale.
“Non essere volgare, Auguste” presentì lei.
“Marguerite, tua figlia ha un marito violento e la
tubercolosi. Decidi tu qual è la versione che preferisci dare alle dame di
corte ed alla Regina”. Marguerite aveva indietreggiato. “Non mi stupisce che tu
non lo sappia, sai”. Si era preso una piccola rivincita. “Io spero venga. Non
glielo imporrò, se lo facessi non verrebbe. Non cercare di fermarla. Le hai
dato il mio biglietto? Cosa ha detto?”.
“Non mi ha detto niente”. Era arrabbiata.
“Perfetto”.
“Cosa dirò a lui?”.
“Se l’esimio conte di Fersen avrà la bontà di accorgersi che
la moglie se n’è andata, dille che è venuta a casa per guarire. Fagli capire
che è meglio non si faccia vivo”.
Il generale guarda la nonna, in piedi dietro Oscar. La nonna
scuote la testa.
La cena è terminata.
- Oscar, è parecchio tempo che non ci cimentiamo in una
partita a scacchi, voglio proprio vedere quanto si sono abbassati i tuoi
attacchi.
- Va bene, padre.
- Aspettami in salotto, io vado a scegliere del buon cognac…
- la nonna scuote vigorosamente la testa - … vino, vado a scegliere del buon
vino. – Oscar si alza. – E vatti a cambiare d’abito, sembri un lampone con le
braccia con quel coso addosso.
Pensa che mai, prima d’allora, ha notato quanto fosse bello
il sorriso di sua figlia.
- Mi dispiace, padre.
Il Generale arriccia il naso. Se non fosse stato distratto,
avrebbe vinto.
- Quel che giusto è giusto.
Oscar può essere rallentata, ma non stupida. Si è accorta
che tre partite di seguito sono troppe per suo padre, e che la nonna ha già
sbadigliato quattro volte.
- C’è qualcosa che dovete dirmi, padre?
Il Generale alza lo sguardo dalla sua torre ad Oscar.
- Voglio solo sapere come stai.
Oscar giochicchia con il cavallo, cercando di ricordare il
muso dolce di Cesàr. Sto male, male padre. Ma Oscar è ancora troppo orgogliosa per
dire a suo padre che, stavolta, ha sbagliato lei.
Solo lei.
Ha sbagliato verso se stessa, la sua famiglia.
Verso Andrè.
Sa che suo padre sa della malattia, quindi sa che è inutile
fingere. L’ultima cosa che vuole fare è litigare con lui.
Stira le gambe, sentendosi perfettamente a suo agio nella
solita camicia e i pantaloni.
- Ho la tubercolosi, padre. L’ho saputo questa settimana.
Il padre non batte ciglio. Lo sapeva, d’altronde.
- Allora vuol dire che resterai qui fin quando non starai
meglio. Mi sono informato: si guarisce di tubercolosi. Meglio la nostra
campagna, che la brutta aria di Parigi. – Brutta in tutti i sensi, padre. –
Questa è ancora casa tua, Oscar, non dimenticarlo. Bene, adesso vai a dormire,
la tua camera è pronta. Buonanotte, Oscar.
Il padre si congeda in fretta. Lei resta a guardare la scia
che lascia dietro di sé, di rispetto e pragmaticità.
- Vai a dormire, Oscar, devi riposare. – La nonna le lascia
un bacio sulla cima della testa.
- Nonna? – la nonna si ferma sulla porta. – Ti voglio bene,
nonna.
Spesso, da bambina, aveva pensato che se non avesse avuto la
mamma sarebbe stato lo stesso. Lei aveva la nonna. Adesso lo pensa con molta
più intensità.
Resta sola, come tante volte succedeva in passato.
Si siede sul canapé, vicino al fuoco caldo.
Aria di casa.
Per quel giorno non aveva avuto attacchi. Poteva permettersi
di starsene lì, un po’, a ricordare, a respirare, finalmente.
Pensa che il momento è quasi perfetto.
Fa volare la mente, si sazia di ricordi che in quella casa
non può evitare di far salire a galla, di riempirle il cuore.
E chissà, forse se non fosse stata così distratta da quelle
memorie dolci, avrebbe sentito il grande portone aprirsi, e passi correre per
il lungo corridoio.
Vorrebbe schiaffeggiarla, per tutto il male che si è fatta,
che ha fatto a lui.
Vorrebbe cadere ai suoi piedi per dirle quanto l’ama.
Ma non riesce a fare niente.
E non riconosce la merda che gli
esce dalla bocca quando parla.
- Buonasera, contessa di Fersen.
Una volta, un suo manrovescio lo avrebbe come minimo fatto
vacillare.
Quello che gli arriva è lento e debole, ma è abbastanza per fargli capire che non vuole essere chiamata così.
È in quel momento che lo vede.
Il grande ematoma blu che lei ha sul viso, che non ha
nemmeno tentato di coprire.
Era stato dato ad Alain il compito ingrato di dargli tutte le notizie necessarie.
L’ordine, gli aveva spiegato, era di rispedirlo a casa, con
le buone o con le cattive.
“Oscar è tornata a
casa. Se non è già lì, è in viaggio verso palazzo
Jarjayes.”
“Perché?”
aveva chiesto stupidamente. Alain tentennava.
“I motivi sono due”.
Si era fermato. Andrè sbiancava ad ogni sillaba. “No, non è incinta. Dubito che
possa esserlo. Andrè, io devo confessarti una cosa”.
Allora si era alzato
ed aveva raggiunto la finestra. Andrè stava diventando nervoso.
“Lo so che sei
innamorato di lei, Alain. L’ho sempre saputo”.
Tana per Alain. Andrè
era innamorato e triste, ma non stupido.
“Allora non ti nego
una punta di egoismo quando ho deciso di fare quello
che ho fatto. Tua nonna mi ha solo aiutato a prendere la decisione in fretta”.
Aveva sospirato. Si era voltato. Lui era ancora lì. “Hai presente Jerome? Ebbene, Andrè, il nostro Jerome ha una fidanzata. Si chiama
Lucille”.
“Storia interessante.
Vai al punto”.
“Lucille è una delle
cameriere di Oscar, Andrè. E
non è una che mantiene i segreti troppo facilmente”.
“Quindi, qualsiasi
cosa riguarda Oscar tu la sapevi già da tempo?” la voce di Andrè
si era alzata di un’ottava.
“Jerome mi viene a
riferire qualsiasi cosa accada in quelle stanze,
qualsiasi cosa a cui Lucille può avere accesso. Non ti ho detto niente prima
perché non erano cose nuove, sono sempre state cose
che avevamo previsto. Litigi. Lui che non tornava negli
appartamenti la sera…”.
“Alain, vieni a fatti:
perché Oscar sta tornando a casa?”. Tornare a casa: in fondo, adesso,
Versailles era casa sua, non doveva considerare la
tenuta di famiglia come la casa paterna?
“Oscar ha la
tubercolosi”. Le mani di Andrè tremavano. “Me l’ha
detto tua nonna. Si può curare. Deve stare a riposo,
tranquilla. E la Corte non è certo
il posto dove può esserlo”.
“E
lui? Dov’è lui?”. Dirglielo? Non dirglielo? Era stato
il dilemma che si era posto per tutto il tragitto dalla caserma a casa. Ne avevano discusso, con la simpatica vecchietta: no, se lui
si fosse mosso in fretta; sì, se lui tentennava.
“Andrai a casa,
Andrè?” domandò. Non farmelo dire, Andrè, ti prego: ho già picchiato una povera
recluta per sfogare la mia rabbia, non saprei contenere anche la tua.
“Perché
la lascia andare a casa?” domandò Andrè a sua volta. Dimmelo, Alain, sono già
fuori casa, ma dimmelo.
“Tua nonna ha
assistito ad una loro discussione. Era lì, era andata
a trovarla”. Alain non è il tipo che fa giri di parole, perché con le parole non è mai stato bravo. Ma
trovare quelle giuste per dirgli una cosa che l’avrebbe fatto diventare pazzo
era una faticaccia. “Lei gli ha detto della… della
malattia… e lui…”.
“No… no, Alain, no…”
Andrè serrò i pugni. Adesso non era troppo sicuro di
volerlo sentire.
“… lui l’ha
picchiata”. Silenzio. Le parole si erano sospese in aria. Andrè guardò Alain
come se avesse parlato una lingua arcaica, o come se avesse bestemmiato. No, se
avesse bestemmiato, per Andrè sarebbe stato ancora normale. “Così tua nonna ha
costretto il vecchio Jarjayes a riportare a casa la figlia con una scusa
qualsiasi”.
“L’ammazzo. L’ammazzo,
figlio di puttana!”. Ansimava, si stava buttando fuori come se il conte di
Fersen fosse dietro la porta ad aspettarlo.
“Prima Oscar, Andrè,
prima lei”.
E prima lei è stato.
- Bastardo… - le sfiora il livido con la punta di un dito.
Oscar gli getta le braccia al collo e piange tutte le sue lacrime.
- Buongiorno.
Il Generale vorrebbe trasalire, fingere di non sapere.
Non è capace di mentire, il vecchio Generale.
È seduto alla scrivania nel suo studio privato. È livido sotto gli occhi, non ha dormito per niente.
L’ha sentito salire le scale lentamente, la notte
precedente, e cantare la ninnananna a sua figlia.
- Buongiorno – risponde, sedendo dietro il grande tavolo di mogano.
Non dicono altro. Si fissano.
Il Generale guarda l’unica iride che gli resta, e pensa di
non aver mai letto tanto dolore negli occhi di un uomo.
Andrè mette a fuoco la figura del Generale, e non vede né
l’uomo, né il soldato, ma un padre anziano che si rende conto di quanto male ha
fatto alla figlia.
Eppure lui era stato l’unico ad
opporsi al matrimonio. L’unico a non essere d’accordo. Si era calmato solo quando aveva ricevuto la lettera scritta dal pugno di Maria Antonietta.
A quel punto, il vecchio non aveva potuto
fare altro che abbassare la testa, dandosi come spiegazione di ragionevolezza
la stessa che aveva dato sua figlia: le ha salvato la vita, glielo deve.
- Lasonne viene stamattina a visitarla. Ieri sembrava stare
bene, ma l’ho sentita tossire nella notte.
Andrè stringe la mano, quella stessa mano che aveva raccolto le gocce di sangue di Oscar.
- Sto aspettando che la nonna le finisca di preparare la
colazione, ha perso troppo peso – continua Andrè. Il Generale annuisce. – Non
la farà franca. Voglio che lei lo sappia.
Ma il Generale non ha niente da
obiettare.
- Per ora, dobbiamo rimettere in piedi Oscar. Non ce la faccio a vederla così – si passa una mano sugli occhi. È
stanco, il vecchio Generale.
- Se si dovesse presentare…?
- Se lo farà, Andrè, sapremo come
buttarlo fuori a calci.
E per la prima volta in trent’anni,
Andrè ed il Generale sono dallo stesso lato della
trincea.
- Andrè… - il Generale vuole dirgli qualcosa, perché pensa
che glielo deve, ma i caratteri non si smussano a sessant’anni,
ed è difficile per lui articolare un pensiero. - … grazie – riesce a concludere, dopo uno sforzo.
- Non c’è niente per cui lei debba
ringraziarmi.
Andrè.
Bussano alla porta.
- Andrè, vai a portare la colazione ad Oscar. Il vassoio deve ritornare vuoto, siamo intesi?
- Intesi, nonna. Le dirò che
salirai col matterello – si sforza di sorridere, prendendole il vassoio dalle
mani.
- Andrè – lo richiama il Generale – Ovviamente verrai retribuito per… .
- Generale – la voce era grave – Io non
sono qui né per fare un favore a lei, né alla nonna né a chiunque altro.
Io sono qui perché la donna che amo ha bisogno di me. Sono qui solo per Oscar. Se lei mi vorrà, resterò.
Il Generale si sentì imbarazzato. Si era rifiutato di dare
la figlia all’unico capace di darle tutto l’amore di cui aveva bisogno, ma
l’aveva concessa ad un nobile che non valeva la metà di questo
uomo.
- Vai, allora. E dille che salirò
io, col matterello, se non mangia.
E per Hortense, Josephine, Catherine, Marie Anne, Cloutilde.
Uno per Alain.
Uno per Geràrd.
Uno per Jerome.
- Chi è Jerome?
- Un amico di Alain.
Oscar apre la bocca e butta giù un pezzo di manzo anche per
Jerome.
- Non ce la faccio più, Andrè.
- Su, almeno l’insalata. L’insalata fa bene.
- Se in questo piatto ci fossero dei mattoni, diresti che mi
farebbero bene anche quelli.
- Vuoi mettere come ti si rinforzano i polmoni con i
mattoni?
Sorride.
- Andrè, mi manca Cesàr.
- Anche tu gli manchi. L’ho visto stamattina.
- Mi piacerebbe cavalcare. Sono mesi che non cavalco.
- Domani viene il dottore. Se avrai fatto la brava bambina,
gli chiederò se potrò portarti a fare un giretto.
- Non sono una bambina, Andrè.
- Mangia l’insalata.
- Non mi piace l’insalata.
- Lo vedi che sei una bambina?
Sorride ancora. Oscar potrebbe guarire solo nutrendosi dei
sorrisi di Andrè.
- Mangia l’insalata, Oscar.
Questa volta l’ordina arriva da suo padre.
Per quel giorno, le era stato concesso di scendere a cenare
con gli altri. Gli uomini della sua vita: Andrè e suo padre.
E così, mentre la cena di Andrè raffreddava, Oscar veniva
pregata, forzata, obbligata a mangiare anche quello che in passato non aveva
mai toccato.
Apre la bocca e mastica il più in fretta che può il
contorno, ubbidendo a suo padre, come aveva sempre fatto.
- Ed ora vai di sopra, sei stata alzata abbastanza per oggi.
- Ma io… .
- Hai sentito tuo padre – Andrè si alza, ed aiuta lei a
mettersi in piedi. Oscar ci mette qualche secondo per stare dritta sulle sue
gambe, mentre Andrè le passa un braccio intorno alla vita e si avviano verso la
porta.
- Tu non hai mangiato quasi niente – sente Oscar
rimbrottare.
- Mangerò mentre dormirai. Con permesso, Generale.
Il Generale fa un cenno, ed i due spariscono dietro la porta.
- Dovrebbe esserci suo marito qui con lei.
- Auguste, non costringermi a parlare.
La nonna inizia a rassettare.
- Oscar ha ragione: tuo nipote non mangia quasi niente.
La nonna manda via la servitù e si siede vicino al Generale.
- Sì, Auguste, Andrè non mangia. Andrè non dorme. Andrè vive
dell’aria che riesce a respirare Oscar e, se non te ne fossi accorto, questa
cosa va avanti da anni. Lo so cosa pensi: pensi che lui non sia degno di lei.
Perché i suoi genitori non sono stati dei nobili. Bene, ti ricordo che il
marito che le avete dato non vale niente.
Il Generale tortura un tovagliolo.
- A te non va vederli insieme, è questo il punto. Loro non
sono sposati, non possono stare insieme. Non ti piace che lui le tenga la mano,
la aiuti a salire le scale, non ti piace che lui dorma con lei… .
- Lui dorme con mia figlia?! – urla il Generale, scattando
in piedi.
La sua sedia cade.
Forse questo non doveva dirlo, ma ormai la frittata è fatta.
- Sì, sì Auguste. Lei dorme con la testa appoggiata sul
petto di lui, io li ho visti – si alza anche lei, con le mani suoi fianchi. Lo
guarda al di sopra degli occhialini tondi. – E sai che ti dico? Dico che
dovresti vederli anche tu, perché non sono tanto diversi da altre due persone
che conosco, sai? – Il Generale fa un passo indietro. – E lui è lì quando lei
ha una delle sue crisi, è lì quando a furia di tossire le sale la cena, è lui
che la ripulisce e la riporta a letto. È lui che lo fa, anche se non sa che
cosa succederà quando lei starà meglio.
Il Generale si appoggia pesantemente al camino.
- Non la tratta come se dovesse morire, la sorregge se deve
essere sorretta, e la rimprovera quando se lo merita. Lei è felice, Auguste,
questo, almeno, lo hai notato?
Sì, questo il Generale l’aveva notato. Gli occhi di Oscar
stavano riprendendo a splendere, sorrideva di più, il livido era sparito, e lei
sembrava aver dimenticato.
- … ed allora Alain gli ha detto: “Senti, moretto, se non la
smetti vengo lì e ti faccio ingoiare quella specie di cane che ti porti
appresso, chiaro il concetto?”.
Lei ridacchia. La sua imitazione di Alain è orribile, ed il
racconto non ha né capo né coda, ma lei ridacchia lo stesso.
Sono nella posizione preferita di Oscar, con il viso
infilato nel collo di Andrè e le mani di lui che le accarezzano i capelli
finché non si addormenta.
Lei sotto le coperte, lui sopra.
Lei comoda, lui, probabilmente, con un torcicollo perenne.
- Non hai freddo, Andrè?
- No, non mi pare.
Lei sospira su quella vena che sa pulsare di più ogni volta
che lei respira.
Poi arriva: il mostro con gli artigli di brace che le chiude
la gola.
Le mosse di Andrè sono repentine: la fa mettere seduta
mentre con una mano prende uno dei tanti fazzoletti sul comodino dietro lui.
Quando l’attacco finisce, lui controlla quanto sangue c’è sulla stoffa, lo
ripiega e lo mette dov’era.
Oscar ha paura che lui si contagi ogni volta.
- Non grave – conferma lui, e la respinge sulla sua spalla.
– Ma il cane continuava ad abbaiare – prosegue Andrè, come se non fossero mai
stati interrotti – ed Alain era convinto che persino quel cagnolino lo stesse
prendendo in giro e…
- Mi ami ancora, Andrè?
La domanda arriva senza che lei possa fermarla.
Si sente stupida, e sciocca.
Si vergogna.
Vorrebbe tornare ad essere quella che era prima.
Decisa, viva, sicura.
Il suo matrimonio era stato uno sbaglio grosso.
Era stata innamorata di Fersen, ma non lo era già più quando
gli aveva detto “Lo voglio” quella mattina di quattro mesi prima. Quindi,
poteva dirlo di non essere stata così innamorata di lui, alla fin fine.
“Lei quindi conviene con me, Madamigella Oscar, che se si
venisse a sapere la sua reputazione sarebbe rovinata”.
“Conte di Fersen, sarebbe alquanto meschino da parte
vostra riferire una frase buttata lì in un momento di grande spavento da parte
mia, quando io l’ho coperta in tutti questi anni”.
Il conte di Fersen si era voltato a guardarla. “Touché”.
Oscar allora aveva annuito, pensando che con questo la conversazione era
finita.
“Tuttavia, Madamigella, lei ricorda che Sua Maestà la Regina in persona ha intercesso presso il Tribunale Militare, qualche mese fa, vero? Ebbene,
mia cara Oscar, dovrebbe ormai capire chi è stato ad intercedere presso la Regina….”.
No. Semplicemente, no, non poteva essere.
“Non le sto chiedendo niente che non farebbe la Regina in persona,se potesse”.
Un complotto. Ecco cosa era stato.
“Mio padre non lo permetterà mai, conte di Fersen!”.
Avrebbe voluto rompergli una bottiglia sulla testa, e non seppe quale istinto
la trattenne.
“Sua Maestà provvederà il più presto possibile ad inviare
una missiva a suo padre in proposito, come raccomandazione”.
Incastrata. Non poteva rifiutare un ordine della Regina.
E suo padre avrebbe pensato la stessa cosa.
Pensava che del conte di Fersen ci si potesse fidare.
Pensava che il conte di Fersen, un tempo volto amato, che da sempre l’aveva
considerata il migliore e solo amico che avesse mai avuto in Francia, non si
sarebbe abbassato a mezzucci da cortigiane pur di arrivare nel talamo regale.
Ma stava succedendo, in quel momento, davanti ai suoi occhi.
Cosa aveva pensato, lei, Oscar, comandante dei Soldati
della Guardia, sulla soglia dei trentatrè anni? A molte cose, in quei pochi
minuti concessi per pensare.
Aveva pensato che sentiva le tenaglie chiuderla dentro
una gabbia, ancora prima di decidere coscientemente. Aveva pensato che il
matrimonio non era esattamente qualcosa a cui aspirava, anzi, aveva rifiutato
un uomo – anzi due – che sicuramente le avrebbero dato di più di quello che gli
prometteva lui.
“So che Girodelle l’ha chiesta in moglie, e che suo padre
voleva caldamente questa unione. Probabilmente anche lui pensa che sia ora per
voi di sistemarvi. Tornerò con la lettera di Sua Maestà. Buona giornata,
madamigella Oscar”.
Si era fidanzata, sposata e cambiato vita nel breve arco di
un mese.
Era stato il momento in cui aveva capito cosa dire dalle
stelle alle stalle.
- Ovvio, Oscar – le prende la mano e le bacia la punta delle
dita.
- Perché, Andrè, perché?
Stava forse implorando di dirle cose che già sapeva?
- Non si sceglie chi si ama. Stai fermo lì e, un bel giorno,
succede e basta.
Sempre saggio, Andrè.
- Perché non sei venuto?
Si riferiva al giorno delle nozze. Andrè sapeva che prima o
poi quella conversazione sarebbe venuta fuori, ma non in quel momento.
- Perché tu lo amavi. Io ti ho visto piangere per lui.
Credevo ti avrebbe fatto felice, che l’avresti cambiato e che si sarebbe
innamorato di te. – Nonostante tutto, confessare non era difficile, se lei
continuava a stringerlo così. – Pensavo saresti stata bellissima per lui, quel
giorno, di nuovo, e non l’avrei sopportato. Pensavo lo volessi davvero. Io non
avrei mai immaginato che sarebbe andata a finire così.
Tutto aveva senso.
- Ma perché mi ami ancora?
- Perché non saprei non farlo. Perché ho passato gli ultimi
quattro mesi della mia vita a sentirmi un egoista perché se tu eri felice
allora io dovevo essere felice per te, ma… - scosse la testa. – Sì, Oscar, in
definitiva, sarei dovuto venire, quel giorno.
Lo abbraccia forte. Lui le bacia il palmo della mano.
- Dormi, Oscar.
- Non hai finito di raccontarmi la storia di Alain e del
cane.
Non vuole dormire. Ha ragione Andrè: è come una bambina.
- Te la racconterò domani. Quando viene il dottore voglio
che ti trovi fresca e riposata.
Oscar sbuffa. Essere viziata stava diventando una cattiva
abitudine.
Tossisce ancora. Andrè sta per iniziare la sua manovra di
difesa, ma è solo un piccolo rantolo senza sangue.
Lei scivola in basso, dove sa che c’è quel cuore che batte
per lei.
Andrè scalcia una pietra, guardando il cielo plumbeo.
- Va, Alain. Il dottore la sta visitando adesso. Ha messo su
almeno quattro chili – dice, e sembra fiero della sua ragazza.
- E a te? A te come va?
Sospira.
- Va anche per me. Mi sto prendendo cura di lei.
- Come al solito.
- Come al solito.
Stanno in silenzio per un po’.
- Non so come finirà, Alain. Per quello che ne posso sapere
io, il dottor Lasonne potrebbe dirci che sta morendo,
che quello che stiamo facendo per lei non è abbastanza. Vorrei darle l’aria che
le manca, ma so che non posso. Vorrei che tutto questo
non fosse successo, ma è successo. Ti ricordi, Alain –
un altro calcio alla pietra – quando mi dicevi che non
mi meritavo questo inferno, che dovevo lasciarla andare e trovare la mia
strada? Che stavo perdendo il senso della vita, e
della realtà? – Alain annuisce. – Ebbene, io la guardo
dormire tutte le notti. Ed ogni notte, mi rendo conto
che non ci sarebbe nessun altro posto al mondo dove vorrei stare se non qui, in
questo momento.
- E se tua nonna non ti avesse
portato qui, anni fa?
- Sarebbe successo lo stesso. O forse no,
chi lo sa. Ma la storia non si costruisce né con i sé
né con i ma, Alain.
E Alain annuisce, perché non ci sono cose, argomentazioni,
contro cui non si può combattere, neanche volendo.
- Sembri così stanco, Andrè. Sei proprio
sicuro?
- Sì.Sono sicuro
– non c’era stato vacillamento nella sua voce. – Tu non avresti fatto lo
stesso?
Non ne avevano mai parlato
apertamente. Alain non aveva negato, di fronte ad Andrè, di essersi preso una
sbandata per il suo ex Comandante.
- Probabilmente no, Andrè. A me può piacere, ma anche io
sarei scappato di fronte a tutto questo – Alain gli
stringe una spalla. – Io non avrei mai pensato di incontrare nella mia vita un
uomo che sia più uomo di te, Andrè.
- Io la amo, Alain, è solo questo.
Le ho dato un occhio, ma le darei i miei polmoni, la
mia vita, se questo la facesse guarire. Ti sembro patetico,
non è così?
- No – mente Alain. – Suo padre?
- Mi tollera per lei, suppongo.
Pensa che io sia coraggioso, forse, perché rischio di essere contagiato ogni
giorno. Non mi importa se mi caccerà quando sarà
guarita, lei è la mia sola priorità. A tutto il resto penserò
dopo.
- Andrè, ho visto Jerome – Andrè si volta
verso di lui, spingendolo da parte. – Lucille ha sentito le altre cameriere di
corte parlare a sproposito. Comunque non sono qui per
parlarti di pettegolezzi. Il conte di Fersen è intenzionato a venire a
riprenderla.
Andrè tira un pugno ad un albero.
- Quando?
- Non si sa. Ha detto alle cameriere di preparare la stanza,
chéla contessa
sarebbe tornata presto.
Andrè digrigna i denti.
- Perdonami, Alain, ma devo rientrare. Devo parlare con il
Generale. Grazie di tutto.
- Dovere, amico. Ehi, quando starà meglio, mi piacerebbe
vederla.
- Contaci, Alain. Adesso no, non vorrebbe che tu la vedessi
così, ma mi chiede di te. – Gli sorride, ma c’è altro
nei suoi occhi. – Ora perdonami, devo andare.
Alain gli stringe la mano e lo saluta. Si aspettava di
trovarlo in lacrime, sfinito, amareggiato. Ed invece è lì, ad affrontare una
battaglia che non è la sua, lasciando fuori dal
cancello di una casa non sua il resto del mondo per salvare lei dalla merda che le gira intorno.
Si volta per un attimo, e lo vede correre verso casa, la
visita sarà finita e lui deve essere lì per ascoltare
la sentenza.
- Generale!
Il Generale fa finta di niente, alza gli occhi dal suo libro
come se fosse stato disturbato da una mosca, e non da un uomo alto un metro e
ottanta. Lo guarda al di sopra degli occhiali.
- Ah. – E vorrebbe fermarsi lì, per
evitare spiacevoli incidenti diplomatici. – Quale onore – e c’è più veleno in
due parole che in un’intera bottiglia di cianuro.
- Dov’è? Dov’è
mia moglie? – domanda.
Il Generale si alza lentamente dalla poltrona, posa il suo
libro e sfila gli occhiali. Lascia tutto sul tavolino al suo fianco e si porta
nella sua classica posizione da ispezione: sguardo
fisso e mani dietro la schiena.
- È passato un mese, conte di Fersen. Cosa
le fa credere che sia ancora qui?
Fersen è sbigottito. Si aspettava davvero comprensione?
- Non dica sciocchezze, Generale. Me l’ha detto Madame
Jarjayes che è qui.
Marguerite. Danazione.
- Ebbene sì, conte di Fersen. Mia figlia è qui, in casa nostra. C’è qualcosa che vuole che le
riferisca?
Fersen serra le labbra.
- Voglio vederla. È un mio diritto.
- Sa, conte di Fersen – il Generale si avvicina
pericolosamente al genero – sebbene io non sia un
rivoluzionario, ho sempre creduto che alzare la mani sulla propria moglie fosse
una cosa volgare e meschina, specialmente quando questa è malata.
- Generale, lei mi sta sfidando, forse?
- Assolutamente no, conte di Fersen. Ma
sapete? Perfino io ho un cuore. Non ho cresciuto Oscar con l’intento di farne
un trofeo, od uno specchietto per le allodole, o peggio, una concubina. – Lo
prende per il bavero della giacca, la pazienza andata a puttane. – Avete ucciso
mio figlio e distrutto mia figlia, avete osato alzare
le mani su di lei! Non posso tollerarlo, né ora, né mai! Fuori
da casa mia!
- Non senza di lei!
Fersen si libera in fretta dalla presa del Generale, e si
dirige a passo sicuro verso le stanze.
Il Generale aveva pensato che un giorno avrebbe avuto una
discussione simile con Andrè, non certo con un nobile suo pari.
Il Generale pensa anche che il suddetto nobile è alquanto
stupido, se pensa che le cose siano così facili.
È un uomo di guerra. Le tattiche e le strategie sono un suo
punto di forza.
Questo spiega lo stalliere di vedetta sulla torre, il
vecchio giardiniere al cancello pronto a fare un segnale all’arrivo del tanto
amato genero, lui nel salone al secondo piano ed Andrè
appoggiato alle scale, senza contare Marie in camera di Oscar, come ultimo
baluardo di difesa.
- Non mi stupisco nel vederti qui, Andrè.
- Io sì, invece. Strana la vita, vero?
Fersen compie il coraggioso percorso di quattro scalini.
Andrè sembra solo seccato, ancora appoggiato alla balaustra.
Il Generale sfodera il suo ghigno più beffardo ai piedi
della scala.
Stupido, stupido svedese: sei in trappola.
Fersen si guarda le spalle, poi davanti a sé. Sfodera la
spada.
Il Generale fa altrettanto, e si stupisce, per un attimo,
quando non vede Andrè compiere lo stesso gesto.
Poi, insieme al conte, gli nota la pistola che penzola dal
suo indice.
Pratico, Andrè.
- L’ho sposata. Voi, Generale, me l’avete data in moglie.
Lei mi appartiene!
- Strano che dopo tanti anni, lei ancora creda che Oscar possa appartenere a qualcuno – commenta Andrè, la sua calma
di ghiaccio.
- Lasci che un servo parli in questo modo a suo genero,
Generale?
- Vede, conte di Fersen, io ho
commesso tanti sbagli nella mia vita. Questo non si aggiungerà certo alla
lista. Se ne vada, è meglio per tutti.
Fersen continua la sua indomita salita.
Andrè gli punta la pistola.
- Non lo fate, Fersen, lo accetti
come il consiglio di un amico.
Fersen si volta verso il Generale.
- È così che stanno le cose? Preferite che vostra figlia
abbia una relazione proibita con questo sguattero, piuttosto che con me, un
nobile vostro pari?
- Io voglio che mia figlia abbia quello che vuole.
Non si espone, il Generale.
Fersen allora si rivolge ad Andrè.
- Sei patetico, Andrè, mi fai quasi
pena.
- Sa, conte di Fersen, io non gli parlerei
in questo modo – è il Generale che parla? – Ha una pistola, ed una discreta
mira. Se io mi volto un attimo e lui spara, sarà solo
un tragico incidente, non vi pare?
Andrè cade dalle nuvole, ma non cambia la sua espressione.
-Oh, Generale, voi non osereste mai… .
- Vattene, Hans.
Oscar.
In piedi.
Vestita come un tempo.
Vicino ad Andrè.
- Non voglio che mio padre o Andrè si macchino del tuo
sangue. Voglio che tu te ne vada, e che mi lasci in pace.
- Sii ragionevole, dannazione! – sbotta Fersen. – Vuoi che
tutti lo sappiano? Che tutti sappiano che le voci che
giravano su voi due erano vere?
- Pensi davvero di essere nella posizione di minacciare
qualcuno, Hans? – la voce di Oscar
è calma, come se cercasse di far capire la vita ad un bambino poco
intelligente. – Lo sai, vero, che se fossiio a parlare, nessuno ti salverebbe? Che sarebbe la tua, la vostra
di reputazione a cadere nello scandalo? Nessuno ti salverebbe, Hans, meno che mai la tua
Regina. – Fa un lungo respiro, tutto ciò la sta
stancando da morire.
Fersen sa che ha ragione. Sa che non è il momento per
mettere Maria Antonietta nello scandalo.
Rinfodera la spada.
- Non finisce qui.
Ricominciano a respirare solo quando
sentono il cavallo correre lontano.
- Sei un’incosciente! – urla Andrè. – Fila a letto! Nonna!
- Era affar mio, Andrè. Dovreste
vergognarvi! Non dirmi niente! Cosa pensavate di fare?
– guarda ora suo padre, ora Andrè. – Chi ti ha detto di prendere
la mia pistola? E voi, padre, con quella spada… .
Oscar non crederebbe mai che è stato tutto orchestrato
proprio dal vecchio padre.
- Su, vieni Oscar, stai calma!
- Sono arrabbiata anche con te, nonna… .
Rientra in camera che ancora rimprovera tutto, appoggiata
alla nonna. Se non fosse così piena di vita, probabilmente Andrè ed il Generale
avrebbero addotto qualche giustificazione.
- E cosa avresti fatto, sentiamo,
se fosse salito per davvero?
- Non sarebbe mai successo: è un codardo. Solo i codardi
picchiano le donne.
Lei lo guarda arrabbiata con le braccia conserte, seduta
sulla sponda del letto.
- Ti sei messo in combutta con mio padre senza dirmi niente.
Da quando in qua succedono queste cose, Andrè?
- Mi dispiace, Oscar, non volevamo
affaticarti.
- Il dottore ha detto che sto
meglio, posso ancora guardarmi le spalle da sola, sai? O pensate forse che mi sia completamente rimbambita? Beh, cari, non lo sono
più.
- E lo sai che questa è l’unica
cosa che conta, vero?
Le si siede accanto.
Sì, lei lo sa.
Sa che dopo più di un mese può incominciare a sperare nella
guarigione.
- Non avrei mai detto che sarebbe
successo a me. Io, che mi sono sempre difesa da sola, adesso ho due uomini che
si prendono cura di me.
- Non ti piace?
- Non sono abituata. È strano. Confortante. Ma strano.
Lui le sorride. Lei sa che è arrivato il momento.
- Io ti amo, Andrè, e vorrei
baciarti, ma non posso per via di questa stupida tisi.
Come prendere aria prima di andare in apnea. Le acque di Andrè sono calde ed accoglienti.
Andrè resta esterrefatto.
- Perché mi ami? – chiede,
facendole il verso di qualche settimana prima.
- Perché se penso di passare un'altra ora lontana da te mi
manca il fiato, e detto da una tisica devi crederlo
per forza. – Sorride imbarazzata. – Ricordi, Andrè, quella sera a St. Antoine?
Prima di Fersen, prima di tutto? – Lui annuisce, le mani chiuse a pugno sulle
ginocchia. – Ecco, tu mi dicesti che Fersen sparò un
colpo in aria e si fece inseguire dalla folla. Ebbene, Andrè, a me mancò la
forza fisica per venirti a salvare io stessa, e fosse se l’avessi avuta tutto
questo non sarebbe neanche mai successo… ma comunque,
se io avessi avuto la forza non avrei sparato in aria, ma a chiunque ti stesse
facendo del male. Nessuno può fare male al mio Andrè.
Fa cadere una sola lacrima.
- Cosa vuol dire “se avessi avuto
la forza questo non sarebbe mai successo”?
Non gli sfugge niente.
- Fersen mi trovò e mi portò in un vicolo. Tutto quello che
seppi fare fu urlare che dovevo andare a salvare il mio Andrè – arrossisce come una
ragazzina. – Fersen usò questa cosa per ricattarmi, in seguito, di gettare
fango sulla mia famiglia. Ed all’epoca tu e mio padre non eravate
certo nei buoni rapporti in cui siete ora.
- Ho sempre pensato che fosse successo qualcosa, tra voi, in
quel vicolo, quella sera – lo dice a voce bassa, quasi
colpevole. Lei gli accarezza il viso. – E poi io e tuo padre non
siamo affatto in buoni rapporti – fa l’offeso, come se lo avesse
accusato di stare con un’altra.
- Potrai mai perdonarmi, Andrè? – chiede solenne.
Lui se la porta in grembo.
- Ti amo, Oscar – le risponde.
- Anche io, anche io Andrè. Mi
dispiace così tanto… .
Lei si lascia fagocitare dal suo abbraccio, quelle braccia
forti che conosce da sempre e che da sempre sono state solo
per lei. Pensa che se guarisce gli consacrerà l’anima
e lo bacerà fino a che lui non ne potrà più e la rispedirà da suo padre.
- Quando sarò guarita, ti bacerò
fino a che non ne potrai più – dà voce ai suoi pensieri.
Lui strofina il naso contro il suo collo.
- Promettimelo – mormora.
Il mattino dopo, la nonna entra come al
solito per portare la colazione.
A differenza di tutte le altre mattine, però, non ha cuore
di svegliarli.
Così, poggia piano il vassoio, rimbocca loro le coperte, e
va via, trattenendo le lacrime.
Sulla torre.
È primavera, finalmente.
La guarda correre su e giù per la tenuta, con Cèsar.
- Lo rispediscono in Svezia domani stesso.
Emette un lungo respiro.
- L’ha presa bene.
- Come avrebbe dovuto prenderla?
Giusta osservazione.
- Lo sa?
- No.
- E non dovrà saperlo mai. Ci
ucciderebbe.
- Non credo, ma si arrabbierebbe parecchio. Non si aspetta
questo da noi.
- Già.
La guardano entrambi.
La figlia del dio Marte tornata alla vita.
Vedova.
- Come sta Alain?
- Bene. Vi manda i suoi saluti. Dice
che in fondo gli piacete.
- Cosa vuol dire esattamente in
fondo?
- Per essere un nobile, gli piacete.
- Buono a sapersi. – gli allunga
due lettere. – Sono della Regina.
- Le sue sentite condoglianze?
In altri tempi, avrebbe schiaffeggiato Andrè per la sua
arroganza.
I tempi cambiano.
- Sì, e non solo. Una è per te – Andrè si
volta di scatto, corrugando la fronte. – Vedi, come dissi al caro fu Fersen tempo fa, non ho cresciuto mia figlia per farne
una concubina. Se la vuoi, la devi sposare.
Andrè sbroglia la lettera con foga.
- Arras? – ha
inghiottito un bel po’ d’aria, per dirlo.
- Ci siete sempre stati con piacere, ed è un pezzo di feudo
che non frequento molto. E poi sei nato lì, no?
- Io non posso… non posso…
accettare… - balbetta. Gli fa quasi tenerezza.
- Suvvia, ragazzo. Che sarà mai?
Luigi XV, che Dio l’abbia in gloria, ha dato un titolo nobiliare a tutte le
puttane con cui è stato, cosa vuoi che sia?
- Mi sta dando della puttana, Generale?
Succede in maggio.
Cerimonia intima, niente di sfarzoso, quello l’ha già avuto,
e non le è piaciuto.
Andrè le ha detto che poteva venire
anche in vestaglia, il vestito non sarebbe stato importante, ed anzi, era
curioso di vedere l’alta uniforme dei Soldati della Guardia.
Ma lei vuole fargli un regalo, ed
essere bella solo per lui.
E pensa di aver avuto successo, per la faccia che lui fa quando la vede arrivare al braccio del padre.
In alta uniforme grigia, lui. In abito bianco, lei.
Capelli sciolti, sulle spalle scoperte, il
vestito di seta ed organza, luminosa come una stella.
Avanza nella navata sicura, un sorriso timido.
Sono lacrime quelle laggiù in fondo, Generale?
- … parli ora, o taccia per sempre.
Non si muove una foglia.
Il testimone dello sposo se la ride, stavolta.
La testimone della sposa piange calde lacrime.
- Volete voi contessa Oscar François de Jarjayes prendere in
sposo il qui presente Marchese Andrè
Grandier?
La parte della chiesa riservata allo sposo ridacchia.
Il testimone, al solito, pure.
Il Generale fulmina tutti.
Si fa silenzio.
- Sì, lo voglio.
- Finalmente – borbotta Alain.
Oscar lo guarda sorridente.
- … potete baciare la…
Ma Andrè non gli lascia il tempo di
finire la frase.
Qualcuno qui ha buttato giù le bugie che volevo vedere
Qualcuno qui ha buttato giù le bugie che volevo vedere
La mia vita si è capovolta ma io credo ancora nei miei
sogni
Nonostante tutto ho buttato giù milioni di muri
Benvenuti nella mia verità
Io amo ancora
(Anastacia – Welcome to my truth)
Mi sono sposata due volte in un anno, il che sarebbe già di
per sé un record per qualsiasi donna, figurarsi per una come me.
Quello che ho imparato in quest’anno, è che la vita ti
sorprende. Sempre.
Ho conosciuto il meglio ed il peggio delle persone di cui mi
fidavo, o che pensavo meritassero la mia fiducia.
Adesso vivo una regolare vita senza regole, ed imposizioni,
beandomi delle mie rose e del profumo del mare.
Quando mi sono sposata la prima volta, non c’era nessuna
faccia amica.
Quando mi sono sposata la seconda volta, nella sola chiesa
c’erano le mie sorelle con i rispettivi mariti e figli, mia madre, i miei
soldati, qualche rivoluzionario, la nonna, mio padre, Andrè, ed un prete
rubicondo che non ha mai visto tanta gente diversa tutta insieme.
Andrè è un marchese ora, e quando lo dico a voce alta quasi
rido per la sobrietà con cui è accaduto, la velocità e lo spirito con cui
abbiamo accolto la notizia. È un marchese, ma non l’ho sentito una sola volta
presentarsi così a qualcuno.
Si continua ad occupare lui dei cavalli e di tutto il resto,
fin quando la vista regge. Un medico di qui gli ha prescritto delle fasciature
che deve fare te volte a settimana, provare non costa nulla.
Siamo solo contenti che ci sia qualcuno che cucini, perché
né io né lui siamo bravi in questo.
Mio padre per il suo compleanno gli ha regalato la tenuta in
Normandia. Il suo, non il mio. Quando poi gli dico che sono in
buoni rapporti, si arrabbia ancora. È come se lo disturbasse che mio padre lo
voglia in qualche modo ripagare per tutto quello che ha fatto, ma lui continua
a dire che mio padre non gli deve niente e che tutto quello che ha fatto e farà
lo fa per me e basta, e non deve certo comprare il suo amore per me.
Così adesso siamo qui, ad agosto pieno, e guardo il mio uomo
giocare con Pierrault sul bagnasciuga. Pierrault, gentile regalo di Alain,
nasce come cane da caccia, “perché tutti i ricconi ne hanno uno”, ma si è
presto tramutato in un sornione cane che pensa solo a mangiare, dormire e
divertirsi. Insomma, uno di famiglia.
Cane e padrone atterrano vicino a me, stanchi e sudati.
- Vieni a giocare con noi.
Bacio il mio cucciolone sul naso, e do una carezza al cane.
- Mi diverte di più guardare voi due.
Cane e padrone mettono su l’espressione bastonata, ma sanno
che non mi faranno muovere da qui.
Bacio di nuovo Andrè. Non c’è un motivo per cui lo faccio,
lo faccio e basta, e forse questa è la migliore conquista che potessi ottenere
dalla vita.
- Sai di mare.
- E tu sai di buono – mi lascia un bacio eloquente sul collo.
- C’è Pierrault – bisbiglio. Andrè fa un cenno minaccioso al
cane che va via, poverino. – Mi chiedo se userai questi metodi anche con un
bambino, Andrè.
- Me ne preoccuperò al momento – dice, assaltandomi.
- Allora forse è il caso che te ne inizi a preoccupare….
Volevo una bella moglie, un figlio intelligente, ed una
bella casa.
Sono rimasto incastrato in tutto questo.
Non potrei essere più felice.
Sulle mia ginocchia, Honor apre il regalo di Alain. Ho
notato che Alain le fa un certo effetto, e so che la mia gelosia è del tutto
fuori luogo. Il regalo di Alain è un cagnolino di pezza uguale al nostro
Pierrault, e Honor lo stringe forte al petto.
- Ti piace, piccolina?
Alain le accarezza i riccioli castani, e lei si ritrae come
una vergine sul mio petto. Mi fa una tenerezza indescrivibile. Poi scappa via,
deve mostrare il nuovo tesoro alla madre, adesso.
- È così tenera e dolce, Andrè.
- Quando vuole. Quando non vuole è cocciuta ed ostinata.
- Degna figlia di sua madre, allora – commenta il Generale.
- Veramente, stavo per dire come voi, Generale.
Alain sorride.
- Allora vorrà dire che verrà su bene – chiosa il Generale,
punto su un nervo scoperto.
Ho dovuto attendere di raggiungere la soglia dei
quarant’anni, per essere visto come un figlio dal vecchio, burbero Generale
Jarjayes. Ma ne è valsa la pena.
Non capita spesso, ma quando siamo solo noi tre uomini, si
crea una strana atmosfera. Oscar lo nota ogni volta, e io sono sempre più vago
e meno interessato alla cosa, davanti a lei.
Anche perché non importa quanto tempo è passato. Se lo
scoprisse, specialmente adesso, ci caccerebbe di casa tutti e tre.
È l’unica cosa che le nascondo.
Non posso dirle che una sera di ormai sette anni fa, il
Generale Jarjayes andò da un vecchio compagno d’armi a comprare del veleno. Non
posso dirle che suo padre spedì me da Alain la mattina seguente, durante una
delle sue consuete visite con Lasonne, con la boccetta di veleno, e non posso
dirle che quella boccetta finì nelle mani di Jerome prima e di Lucille poi, per
finire, in ultimo, nel calice di vino che Fersen bevve da solo la sera che poi
fu trovato morto.
Non posso dirle che è per questo che ora Jerome e Lucille,
che si sono sposati sei anni fa, si prendono cura della nostra tenuta in Normandia
durante l’inverno, e di quella di Arras quando noi non siamo lì.
Semplicemente, non posso. Nessuno di noi tre può.
Noi, che abbiamo cospirato per uccidere un uomo, suo marito,
che non l’amava.
- Chi è quello lì?
Il generale ed io ci voltiamo verso la direzione indicata da
Alain.
- È Lèon, il figlio di Bernard e Rosalie. Passerà un paio di
settimane in vacanza con noi qui – spiego.
- Quanti anni ha?
- Nove.
- Non mi piace – conclude il Generale.
- Neanche a me – annuisce Alain, che si sente sempre più zio
ogni giorno che passa. È stato lui a proporre Honor come nome della piccola:
“Volete un nome onorabile? Cosa c’è di più onorabile di Honor?”.
Dovrei dire che neanche a me piace Lèon, ma non posso.
- Piace a lei – Oscar si avvicina a noi, che fissiamo i due
bambini come se stessero per combinare chissà quale guaio. Invece, il ragazzino
le sta solo dando un fiore come regalo di compleanno personale: un giglio
bianco.
- Dove vanno? – chiede allarmato il Generale, quando li vede
uscire fuori di casa.
- Fuori a giocare, padre – sospira Oscar.
- Non mi piace – continua lui, imperterrito.
- E tu non dici niente, Andrè? – Alain ha assunto la voce da
“quella lì è mia nipote e non si tocca”.
- Lui non può dire niente, Alain – mi prende in giro
Oscar. – Per il mio ottavo compleanno, Andrè mi regalò una fionda con cui ruppi
tre vasi e due vetrate, ricordate, padre? Quindi, il bambino è un vero
gentiluomo.
- Era diverso – borbotto.
- È la stessa cosa. Forza, venite a prendere una fetta di
torta della nonna e lasciate in pace i bambini – Oscar ci tira su quasi di
forza e ci porta verso il buffet.
Sbircio fuori dalla finestra.
Quando vedo la mia piccola Honor cacciare dalla tasche una
vecchia fionda, non posso trattenermi dal sorridere.
FINE!
Salve a tutti, e grazie per essere arrivati fin qui.
Che dirvi? Questa storia nasce in una sera d’estate,
rincorrendo pensieri su mondi alternativi. Oscar è lasciata un po’ in disparte,
mi piaceva pensare che il Generale ed Andrè, in un momento di vero bisogno, si
sarebbero alleati per il bene di Oscar. Ho sempre pensato che se il buon padre
voleva un maschietto, sarebbe stato davvero troppo squallido ridurla ad una
questione di ereditarietà, ed il vecchio doveva essere molto più buono di quello
che dava a vedere, come quando nell’anime si commuove quando la figlia viene
graziata da Maria Antonietta, anche se lui stesso, dieci secondi prima, le
avrebbe volentieri fatto saltare la testa, ma tant’è.
Nasce anche dopo una lunga nottata a leggere BK’s Night e
relativi seguiti. Che dire? Probabilmente ho voluto in un certo senso
riscattare l’arzillo vecchietto, tutta quella violenza, poveretto… Comunque,
BK’s Night e relativi li trovate su Laura’s Little Corner.
L’ultima parte è un epilogo un po’ melenso, l’ammetto, ma
succedono tante cose tristi nel mondo, perché non rallegrarci un po’
l’esistenza? ^-^
Mi farebbe piacere ricevere dei Feedback, positivi e
negativi :)