We Can Be Heroes

di Gertie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordicesimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Ecco qua la prima fanfiction che la mia mente contorta ha creato......... Su un film che è stato stroncato dalla critica, che a dispetto di tutto e tutti mi è piaciuto un sacco. Spero che vi piaccia! Commentate commentate ^^


Capitolo Primo
Nel quale si fa la conoscenza della protagonista e si parla di una straordinaria quanto fragile amicizia

Il cielo era nuvoloso, e minacciava pioggia, come il solito.
Me ne stavo sdraiata sotto un albero in cima ad una collina, e osservavo la forma delle nuvole plumbee che si avvicinavano fluttuando.
Le vallate e le colline erano diventate verdissime, grazie alle secchiate d’acqua che da circa un mese si abbattevano sulla Britannia.
Una brezza leggera muoveva le fronde degli alberi, che frusciavano intonando una musica antica.
Me lo aveva raccontato Uwaen, il più vecchio del villaggio di Graeth: le piante avevano una voce e cantavano le loro canzoni accompagnate dal vento. Mi piaceva ascoltare quel fresco mormorio, e abbandonarmi a mille pensieri. Immaginavo di essere un indomito cavaliere, che massacrava le linee nemiche. Oppure un anziano druido, a raccogliere vischio sugli alberi e preparare pozioni e filtri misteriosi. Un vagabondo, che sostava nelle piccole città per narrare le sue storie, le gesta degli eroi… Ma alla fine la mia mente si soffermava sempre su un unico tedioso punto. Non ero altro che una bambina di dodici anni. In un piccolo villaggio che non sarebbe mai stato menzionato nei racconti dei cantastorie.
Sbuffai, sconsolata. Non avrei mai avuto gloria, né onori, se fossi rimasta per sempre in quel posto microscopico e noioso.
Mi avevano spiegato anche che il nostro era un villaggio fondato da una delle colonie sàrmate che erano emigrate in Britannia per aiutare i romani a combattere gli invasori sassoni. E io non vedevo l’ora di dare una mano.
Sorrisi tra me, contemplando una nube grigiastra che aveva assunto l’immagine di un cavallo. Se ci si sporgeva a sinistra si intravedevano i peli folti della criniera; poi anche i lineamenti del dorso e delle zampe. Se si era attenti osservatori si potevano notare anche le due piccole orecchie in cima al capo, rivolte all’indietro. Era un cavallo imbizzarrito, probabilmente. Forse il suo padrone lo aveva frustato troppo, lui si era stufato e lo aveva scaricato in un rigagnolo di fango, assieme a tutta la bardatura.
Il vento si fece più forte, e un gruppetto di foglie mi venne a danzare davanti al volto.
Immaginai dei guerrieri che saltavano attorno al fuoco al suono dei tamburi, ispirata dai bruschi movimenti che le foglie facevano, trasportate dalla brezza.
Chiusi gli occhi, ma i guerrieri continuarono a ballare nel buio delle mie palpebre serrate. Potevo sentire le loro grida di guerra, il clangore delle loro asce contro gli scudi. Percepivo il calore delle fiamme sul viso. I tamburi mi rimbombavano nelle orecchie.
Poi, con un colpo secco, la musica si interruppe.
Mi sollevai sui gomiti e mi guardai intorno. Ecco, succedeva sempre così: sul più bello c’era sempre qualcosa che interferiva con i miei giochi di immaginazione.
Ed era sempre lui, che puntualmente veniva a disturbarmi!
“Lancillotto!” esclamai stizzita. Ed eccolo lì, che usciva da dietro un albero e scoppiava in una fragorosa risata.
“Sempre a sognare, eh Elynor?” scosse il capo, e i suoi riccioli neri ondeggiarono.
“Che cosa vuoi?” gli domandai aspra.
Lui si strinse nelle spalle.
“Lynet mi ha mandato a chiamarti, il pranzo è pronto…”
“Allora andiamo!” il pensiero dello stufato di Lynet mi fece dimenticare l’affronto subito dal ragazzo.
Lancillotto mi prese per mano, e insieme ci incamminammo verso il villaggio.
Le galline chiocciavano nel cortile, e un filo di fumo usciva dalla capanna centrale.
Cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia.
“Accidenti…” sbottò Lancillotto, guardando verso l’alto “Non fa altro che piovere, piovere e piovere ancora! Ci marciranno le ossa, prima o poi, e il villaggio sarà sepolto dal fango!”
Risi.
Lancillotto era figlio di Lynet e Ban, i capi-villaggio. Era il mio migliore amico.
Io non ero di quelle parti. Ero nata in un posto che non ricordavo, da genitori che non ricordavo. Non ricordavo nemmeno come ero finita in quel villaggio sperduto tra le vallate; e per questo il vecchio Uwaen mi rinfrescava la memoria ogni tanto, raccontandomi di come in una buia notte fredda ero giunta fin lì.
Mi aveva trovato il popolo del bosco, gli Woad. Delle specie di selvaggi che si dipingevano il corpo di blu e saettavano tra gli alberi come volpi e scoiattoli. Erano silenziosi, e molto pericolosi. Per questo mi avventuravo poche volte nelle foreste, e quando lo facevo mi portavo sempre dietro Lancillotto, o perlomeno un cane. In giro si diceva che quella era una tribù di esseri demoniaci, che compivano sacrifici umani e si mangiavano tra loro. Ma io non ci credevo fino in fondo. Dopotutto, avrebbero potuto divorare anche me, se avessero voluto. Ma in mio soccorso era arrivato Merlino, il capo del popolo, uno sciamano potente. Temendo per la mia salute era sgusciato dal bosco durante la notte, e mi aveva trasportato fino alla capanna di Ban e Lynet, che avevano un figlio di due anni; Lancillotto, appunto. La gente del villaggio aveva cacciato a sassate Merlino, ma aveva accolto me. Nessuno se l’era sentita di uccidere una neonata.
I miei primi veri ricordi risalivano a quando avevo circa sette anni.
In quel periodo ero ansiosa di fare nuove scoperte e di esplorare tutto ciò che mi circondava. Trovai una guida importante, nonché un compagno di scorribande formidabile in Lancillotto.
All’inizio non aveva osato avvicinarsi a me, perché aveva paura di farmi male, non sapeva come ci si dovesse comportare con i bambini piccoli. Poi, quando Lynet glielo aveva permesso, lui aveva cominciato a portarmi con sé durante le sue cavalcate in groppa a Kelpie, il vecchio castrone grigio.
Io ero entusiasta di tutto ciò che faceva Lancillotto. Lo prendevo come esempio, e lo imitavo in ogni cosa. Lui era felice, e mi insegnava cose sempre nuove e affascinanti.
Imparai a rubare le uova dal nido di un fagiano senza che la madre se ne accorgesse, a tirare i sassi piatti nel lago facendogli fare i rimbalzi, a rimanere in sella a Kelpie reggendomi alla criniera, a costruire un arco, a pescare, a imitare il verso del gufo e del falco, a intagliare il legno e a fare dei disegni.
Avevamo anche fatto un giuramento di sangue, dove ci eravamo proclamati migliori amici.
In una mattina nebbiosa, mentre eravamo andati a cercar legna, eravamo saliti su un’altura, dove sorgevano delle rovine. Davanti ad una vecchia e consunta croce celtica di pietra, Lancillotto aveva estratto il suo piccolo pugnale, e ci eravamo fatti tutti e due un taglio sui nostri pollici sinistri. Li avevamo premuti, e le poche gocce di sangue che erano fuoriuscite si erano mescolate.
Non avevo mai provato un’emozione così forte.
“Per sempre amici” aveva detto sottovoce Lancillotto, fissandomi con i suoi occhi neri.
“Per sempre amici!” avevo esclamato io con enfasi.
La piccola cicatrice sul polpastrello era destinata a rimanere negli anni.
Da quel giorno diventammo inseparabili. C’erano altri ragazzi nel villaggio, ma non avevo legato così con nessuno di loro. Per me esisteva solo Lancillotto.
Un pomeriggio, mentre eravamo seduti sui rami della vecchia quercia che sorgeva al limitare del bosco, io avevo cominciato a pensare al futuro.
“Cosa farai quando sarai adulto?” gli avevo domandato curiosa.
Lui non aveva risposto subito. Era rimasto a fissare il sole che filtrava attraverso le foglie, e disegnava strane figure sul tronco.
“… Il cavaliere.”
Mentre io facevo dondolare i piedi nel vuoto, lui mi aveva guardato con i suoi occhi scuri e taglienti.
“E tu?”
Avevo sorriso.
“Anche io farò il cavaliere.” avevo annunciato, orgogliosa.
“E massacreremo i sassoni insieme!”
Poi Lancillotto era cresciuto, e non aveva più molto tempo da dedicarmi. Aveva cominciato ad interessarsi ai combattimenti, alle spade, alla gloria. E io non avevo potuto seguirlo.
Lui era un maschio, e io una femmina. Quando avevo provato a sollevare la daga di Ban, Lynet mi aveva apostrofato severamente, dicendomi che le donne dovevano badare alla casa, e non alla guerra.
Ricordo che andai dietro la legnaia, mi sedetti su un vecchio ceppo tarlato e mi misi a piangere.
“Non è affatto giusto” avevo pensato tra i lacrimoni.
Da quel giorno presi le distanze da Lancillotto. Ogni volta che lo guardavo in faccia pensavo al giorno in cui lui sarebbe andato via, in guerra. E io sarei rimasta a casa, a badare alle galline.
Quella sera salii sul tetto della capanna, per guardare il cielo rosato e il sole che scompariva dietro l’orizzonte. Adoravo i tramonti. La mia immaginazione cominciò a lavorare di nuovo.
Pensai a come doveva essere uno spettacolo simile ammirato da una spiaggia, in riva al mare. Magari il sole sarebbe sprofondato sott’acqua, e avrebbe illuminato i mostri che si nascondevano negli abissi. Draghi, piovre, serpenti marini… E io li avrei uccisi tutti, con l’aiuto della mia fida spada…
“No!” esclamai, e sobbalzai sulle frasche del tetto. Persi l’equilibrio e rischiai di cadere.
Quando mi rimisi seduta, mi venne voglia di piangere per l’ennesima volta. Il respiro mi si fece affannoso, e sentii qualcosa pungermi le palpebre.
Stavo di nuovo pensando ai cavalieri. Dovevo levarmeli dalla testa. Me l’avevano detto tutti: non era roba per me. Ma io continuavo a crederci.
Tornai a guardare verso la collina. Una quindicina di uomini a cavallo stava scendendo al galoppo verso il nostro villaggio.
Chiusi gli occhi.
Li riaprii.
Non era fantasia: i cavalieri c’erano davvero. Avevano le insegne militari di Roma. Ed erano ormai giunti alle prime capanne.
Una folla di gente si radunò attorno a loro.
Vidi Ban scambiare quattro parole con il generale, e poi marciare in direzione della capanna. Scivolai giù dal tetto, ed entrai per una finestra. Mi nascosi dietro un tavolaccio di legno grezzo.
“Lancillotto!” chiamò.
Il mio amico apparve da dietro una tenda.
“E’ ora. Sono arrivati…” disse ancora Ban con voce rotta dalla commozione.
Lancillotto assunse un’aria tesa, rimase a guardare il padre per alcuni istanti, poi si voltò e scomparve di nuovo dietro la tenda.
Uscì poco dopo con un mantello e uno zaino di cuoio sulle spalle.
Non capivo cosa diavolo stava succedendo. Lancillotto stava andando da qualche parte? Non mi aveva avvisato… Me lo avrebbe detto.
I due tornarono alla luce del sole, e si avviarono verso il drappello di legionari romani.
Un pensiero affiorò nella mia mente.
Trasalii.
Lo stavano portando via.
Alla battaglia.
Alla morte.
Dimentica di qualsiasi altra cosa, corsi verso il cavallo su cui era salito il mio amico.
“No! Ti prego! Non andartene!” urlai, con quanto fiato avevo in corpo “Non senza di me!!”
Mi aggrappai ad una staffa della sua sella.
“Portami con te…” la voce mi si affievolì, e chinai la testa contro il fianco del cavallo. Cominciai a singhiozzare in silenzio.
Sollevai lo sguardo verso Lancillotto. Avevo la vista appannata per le lacrime.
“Non… Partire… Per favore!” lo implorai.
Lui scosse la testa.
“Non posso.”
“Perché… Perché no..?” urlai “Perché?!”
Strinsi i pugni per la rabbia.
Lancillotto mi accarezzò i capelli.
“Tornerò, Elynor. Verrò a prenderti.”
Quelle parole toccarono il mio cuore, che stava per scoppiare dai singhiozzi.
“Me lo prometti?”
“Te lo prometto.”
Mi sorrise. Ma quello era un sorriso triste.
Il generale dei romani interruppe bruscamente il nostro addio.
“Dobbiamo darci una mossa… Levate quella ragazzina da lì!”
Lynet mi abbracciò, e mi fece scostare dal cavallo.
Il drappello dei soldati voltò i destrieri, e tutti insieme si lanciarono di nuovo al galoppo su per la collina, seguiti dal mio amico.
Quando furono sulla sommità, Ban esplose in un grido:
“LANCILLOTTO!!”
Il ragazzo si voltò.
“WAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHH!”
Tutti gli abitanti del villaggio urlarono il loro augurio al giovane, agitando i pugni per aria.
Io non persi tempo, mi liberai dell’abbraccio di Lynet e balzai in groppa a Kelpie.
“Elynor!” mi chiamò Ban, ma io diedi di sproni e mi allontanai.
Raggiunsi il gruppo, ma mi tenni a distanza.
Galoppavamo affiancati, Kelpie che sbuffava per lo sforzo.
Mi aggrappai alla criniera saldamente, e volsi la testa verso i cavalieri.
Fu un lampo. Una visione.
Come se il tempo rallentasse, li vidi.
Con le armature scintillanti al sole. Gli stendardi dispiegati al vento. I cavalli schiumanti. Le spade sguainate e gli scudi stretti al petto.
Lancillotto. I suoi riccioli neri erano coperti da un bronzeo elmo luccicante, il cui pennacchio si agitava nell’aria. Era il più radioso di tutti.
“ADDIO!” esclamai, fermando Kelpie.
Il drappello continuò ad avanzare. Ormai era solo una macchietta indistinta.
Non si sentiva più neanche il rumore degli zoccoli.
Quella sera tornai a casa tardi, perché avevo vagabondato per i dintorni per cercare di sfogare il dolore che provavo.
Ban si alzò dalla tavola, imbestialito.
“Dove sei stata?? Eravamo preoccupatissimi e…” Lynet lo indusse ad abbassare la voce, con un’occhiataccia.
Non mi reggevo in piedi, e la stanza mi vorticava attorno.
“Io… Voglio andare a dormire…” sussurrai, sforzandomi di rimanere dritta; ma barcollai e svenni.


Allora... Come vi sembra? Aspetto pareri e opinioni per sapere se è il caso di continuarla!
Bacetti

Gertie

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


Di nuovo qua per voi! Vorrei ringraziare calorosamente erienne per la sua recensione in cui mi ha incoraggiato ad andare avanti (evviva un'altra fan di Lancillotto! *___*)

Capitolo Secondo
Nel quale la nostra eroina fa uno strano incontro, accade una catastrofe e si preannuncia un lungo viaggio

Mi risvegliò una luce soffusa.
Aprii lentamente gli occhi. Ero nel mio letto.
Le tende della finestra non erano state tirate, e un leggero venticello le muoveva dolcemente. La vallata era immersa nella foschia del primo mattino.
Tentai di issarmi a sedere, ma al primo tentativo ricaddi pesantemente con la testa sul cuscino. Entrò piano Lynet, che reggeva una brocca d’acqua.
“Sei sveglia…” disse sottovoce.
L’unica parola che riuscii a dire fu: “Lancillotto…” e la donna assunse un’espressione mesta. “No, Elynor. Non è più qui.”
Per un attimo avevo sperato di essermi sognata tutto.
Ma sfortunatamente non era così, come testimoniava lo sguardo triste di Lynet.
“Se la caverà, vedrai. Diventerà un buon cavaliere…” mi disse, strizzando con un gesto convulso il panno che mi aveva posto sulla fronte mentre dormivo.
“Un buon cavaliere…” ripetei io, rapita.
Lynet mi diede una tenera carezza, e poi mi fece bere dell’acqua fresca.
La mente che prima era annebbiata, si schiarì subito.
“Devo andare a prendere la legna…” dissi, tentando di scendere dal mio giaciglio.
“Ma…” Lynet mi bloccò con un braccio.
“Devo andare a prendere la legna!” dissi quasi gridando.
Lei si zittì e abbassò gli occhi.
“Vai pure. Ma non tornare tardi, per favore…”
“D’accordo.”
Poco dopo, uscii per andare a controllare Kelpie.
Brucava tranquillo, nel recinto al limitare del villaggio.
Quando mi vide sollevò la testa grigia e nitrì, soffiando fuori l’aria dalle narici in nuvolette di vapore.
Pulii il suo mantello, mentre lui mi guardava con quei suoi occhi scuri e acquosi.
Gli offrii una carota.
“Mi dispiace di averti fatto correre come un pazzo, ieri.” dissi, provando una fitta di rimorso.
Lui per tutta risposta continuò a sgranocchiare rumorosamente la sua carota.
Lo lasciai a mangiare in pace, e mi avviai verso il bosco.
Esitai, e non provai ad entrare subito nel folto della macchia. Non ci ero mai andata da sola.
“E chi se ne importa.” ringhiai. Non sarebbero stati quattro alberi spogli a spaventarmi.
Il suolo era coperto di felci e foglie secche che crocchiavano quando le calpestavo.
Per rincuorarmi un po’, mi misi a canticchiare una vecchia canzone. Quel posto era davvero lugubre. Le parole rimbombavano tra i tronchi, e le foglie stormivano sinistramente.
Deglutii.
Come se non fosse stato già abbastanza spaventoso, la nebbia si fece più fitta.
“Oh, accidenti…” mormorai, atterrita.
Non mi ricordavo più da che parte ero arrivata.
Confusa e arrabbiata, non avevo fatto caso a possibili segni di riconoscimento, come sassi o chiazze di muschio con cui avrei potuto orientarmi.
In me cominciò a salire il panico.
C’erano un sacco di pericoli, nascosti tra le piante. Animali selvatici. Trappole di cacciatori. Gli Woad.
Al solo pensiero di quei selvaggi dipinti di blu mi misi a tremare.
Andai avanti a tentoni, cercando di fare meno rumore possibile.
Dopo un po’ di tempo, sentii qualcosa che si muoveva alla mia sinistra.
“Uno scoiattolo… E’ solo uno scoiattolo…” mi dissi, sperando di aver ragione.
Ma l’essere era molto più grosso di un roditore…
Rimasi impietrita, le unghie conficcate in un tronco, mentre davanti a me si ergeva una nera figura minacciosa.
Sperai che non mi avesse visto, ma purtroppo non era così. La creatura si mosse verso me.
“Non uccidermi!” gemetti, stendendomi a terra.
Non udii nulla.
Poi una mano ferma mi prese per il colletto del vestito. Fui tirata di nuovo in piedi.
Non avevo mai visto un uomo così strano.
Era un Woad, senza dubbio. Aveva segni blu su tutto il corpo. Allacciata in vita aveva una specie di gonnellino di pelle sbrindellata, e sulle spalle una pelliccia di volpe. Calzava stivali di cuoio infangati.
Era piuttosto anziano, ma molto robusto e alto. Aveva anche una ispida barba incolta che scendeva dal mento fino al torace. I suoi occhi brillavano.
Rimasi a fissarlo sbigottita, finché lui non mi rivolse la parola.
“Elynor” disse solo.
Aggrottai la fronte. Non l’avevo mai visto prima, come faceva a sapere il mio nome?
“Ehm…” azzardai “Mi spiace signore, ma io non la conosco…”
“Sono Merlino.” mi rispose lui prontamente, fissandomi con quegli occhi penetranti.
Merlino… Il vecchio che mi aveva salvata quando ero piccola. Possibile che fosse proprio lui?
Ero ancora dubbiosa.
“Non temere, noi Woad non ti faremo alcun male.” disse con voce rassicurante.
Per alcuni istanti non si sentì altro che il frusciare delle foglie.
“Che bella musica…” sussurrò Merlino, sorridendo.
Questa volta fui piacevolmente sorpresa. Anche lui conosceva le canzoni delle piante, come il vecchio Uwaen. Era una cosa positiva.
“Piace anche a me.” ammisi, con un po’ più di fiducia.
“Vieni spesso qui sulla collina.” continuò lo sciamano “Ti vedo, quando siedi sull’erba profumata e guardi le nuvole.”
Arrossii. Mi faceva uno strano effetto pensare che qualcuno mi aveva sempre spiato, proprio nel posto in cui credevo di essere completamente sola.
“Elynor, cosa pensi, quando guardi il cielo?” mi domandò Merlino.
Io non risposi subito. Mi vergognavo di dire ciò che immaginavo quando rimanevo da sola. Erano bambinate… Ma quell’uomo mi ispirava un grande senso di pace e calma. Sembrava un nonno.
Decisi di fidarmi.
“Io… Guardo i guerrieri che ballano attorno al fuoco. E poi anche i cavalieri che galoppano per le vallate…”
“Ti piacerebbe essere una di loro, non è vero?”
Non so cosa mi spinse a continuare quella conversazione così assurda.
“Sì. Ma non posso.” con una fitta al cuore mi tornò in mente Lancillotto.
Agli occhi attenti di Merlino non sfuggì il mio dolore represso.
“E perché non puoi?”
Iniziai a balbettare.
“P-perché… S-sono cose da uomini… I-io sono una femmina… E… Ho solo dodici anni.”
Stavo per rimettermi a piangere dalla rabbia.
“Invece tu puoi, Elynor. Tu puoi fare qualsiasi cosa.”
Quelle parole così dense di significato mi comparvero chiare nella testa.
Non ci avevo mai pensato. Chi diceva che io non sarei potuta andare in guerra come Lancillotto? Chi diceva che non potevo lasciare il pollaio?
Strinsi i denti. Merlino aveva ragione; io potevo farlo.
Alzai la testa.
“Ma io non so niente su… Come si diventa cavalieri…” dissi, ripiombando nello sconforto.
“Te lo mostrerò io.” annunciò lo stregone.
Io rimasi per un attimo a fissare la punta delle mie scarpe, valutando l’offerta.
Sarei diventata una vera combattente… Avrei finalmente lottato per difendere la mia terra dai sassoni. Avrei finalmente lottato per qualcosa di importante.
Tutto questo mi esaltava.
“Senti, Merlino, io…” esclamai. Ma quando alzai lo sguardo, il vecchio era già scomparso.
Tutto era silenzio. Solo lo stormire delle foglie.
Mi accorsi solo in quel momento che la nebbia si era diradata, e un pallido sole era spuntato tra le nubi.
Mi resi conto di essere in ritardo. Probabilmente era già passato mezzogiorno da un pezzo. Ero rimasta lì tutta la mattina!
“Oh, no… Ban mi inchioderà alla porta!” gemetti, raccattando la mia legna.
Corsi a perdifiato, fino a quando non raggiunsi la fine del bosco. Mi fermai un attimo per calmare il respiro, ma quando mi voltai verso il villaggio…
Una nuvola nera si alzava dalle macerie. Le capanne erano crollate, ed erano state ridotte in cenere dalle fiamme dell’incendio. I recinti erano tutti aperti. Non si vedeva neppure una gallina.
Ripresi la mia corsa verso quel che restava di Graeth.
Ci misi poco a realizzare ciò che era successo. Erano arrivati i sassoni. Avevano distrutto tutto, come un branco di cavalli selvaggi che calpesta qualunque cosa trovi sul suo cammino. E io ero stata troppo occupata a perdermi nel bosco, invece di difendere la mia casa!
“Lynet!” chiamai.
“Ban!”
“Dove siete??”
“Rispondetemi, vi prego!”
In risposta ebbi solo il lento crepitare delle fiamme.
Corsi verso la capanna centrale, che non era ancora crollata.
La porta era spalancata.
Entrai, con il terrore che mi scorreva nelle vene.
“Lynet? ...Ban?”
Agghiacciai.
Appeso alla trave centrale giaceva senza vita il corpo di Ban. Penzolava sinistramente. Lo avevano impiccato. E gli avevano anche cavato gli occhi.
Sul tavolo della cucina c’era Lynet, riversa in una pozza di sangue.
Fui sopraffatta da un senso di nausea, e corsi fuori.
Vomitai. E piansi. Gridai e battei i pugni per terra.
Perché proprio qui? Perché proprio Graeth?
Tutto quello per cui potevo vivere era rimasto lì in quel villaggio. Ora non esisteva più.
Restai tutta la notte sdraiata bocconi sull’erba, gridando tutto il mio dolore.
Alla fine, sfinita, mi addormentai.
Mi svegliai perché qualcuno mi stava tirando i capelli.
“Ahi!” gemetti, scattando in piedi.
Davanti a me stava Kelpie. Il vecchio castrone grigio.
Gli saltai al collo.
“Che bello rivederti!” gli sussurrai ad un orecchio “Temevo che avessero ucciso anche te!”
Non osai staccarmi dal cavallo per un po’. Avevo paura che se ne andasse pure lui.
Poi, mi avvicinai alla legnaia.
Passai circa due ore a costruire una barella. La attaccai a Kelpie, che mi osservava tranquillo.
Entrai in casa per la seconda volta. Cercai di non badare al puzzo di morte che la pervadeva.
Con immensa fatica, trascinai i due cadaveri fuori dalla porta, e uno dopo l’altro, li issai sulla lettiga improvvisata. Afferrai un vecchio badile.
“Dai, Kelpie… Su alla collina.” diedi un buffetto al cavallo, che cominciò a muoversi lentamente. Io gli stavo accanto, e non dissi una parola fino a quando non fummo sulla sommità dell’altura.
Lì, scavai fino a tardo pomeriggio, e dopo aver creato due buche non troppo profonde, scoprii con sgomento che mi ero rotta tutte le unghie, e ora le mani grondavano sangue.
Mi strappai un pezzo del vestito e me le fasciai.
Con cura, trasportai i due cadaveri nelle fosse, e li ricoprii di terra.
“Mi dispiace. Vorrei fare di più.” dissi, mesta. Quelle tombe non erano granché, ma ci avevo messo tutte le mie forze perché Ban e Lynet potessero riposare in pace.
Come simbolo, piantai nel terreno un paletto di legno, e ci appesi una ghirlanda fatta di fiori d’erica e ranuncoli.
Sapevo che ai funerali bisognava dire qualcosa. Un addio ai morti.
Non me la cavavo molto bene, con le parole, ma decisi di tentare ugualmente.
Diedi un colpo di tosse.
“… Ban, Lynet; siete stati gentili e premurosi con me, mi avete cresciuto come se fossi figlia vostra. Non mi avete mai fatto mancare niente. Vi ringrazio con tutto il cuore. Ammazzerò due sassoni anche per voi, ve lo prometto…” la voce mi si affievolì.
Era tremendo. Per un istante sperai di ricevere una risposta.
“Diventerò una brava guerriera e vi vendicherò. Tutti quanti.” quest’ultima frase la pronunciai con ardore. Poi Kelpie mi si avvicinò, e appoggiò il suo grosso e morbido muso sulla mia spalla.
“Ah, e un grazie anche da parte del vostro vecchio Kelpie…” aggiunsi.
Rimasi lì davanti alle tombe per un po’. Il vento mi accarezzava i capelli, e scompigliava la criniera del mio unico amico rimasto.
Poi, una domanda mi si piantò nella mente.
“Cosa faccio adesso?” le parole continuavano a rimbalzarmi per la testa.
Al villaggio non potevo restare, perché non era rimasto niente.
Dovevo cercare fortuna altrove, e poi arrangiarmi.
Abbandonai la lettiga lì sulla collina, balzai in groppa a Kelpie e insieme tornammo a casa per preparare i bagagli.
La dispensa era stata quasi svuotata per intero. Rimanevano del pane secco, un sacchetto di legumi e due uova rotte. Arraffai tutto, a parte le uova, che ormai erano immangiabili.
Ma io sapevo dov’era la botola segreta…
Corsi nella mia stanza, e spostai con fatica il mio letto. Sotto c’era una piccola apertura buia.
Infilai un braccio nel buco, e ne estrassi un pacco legato con dello spago.
Sorrisi tra me e me. Era la mia scorta personale di vivande, che avevo preparato la mattina precedente, in vista di un pranzo sulla collina assieme a Lancillotto; ma poi aveva minacciato di piovere, e così avevo lasciato tutto dov’era. E Lancillotto era partito.
Ebbi ancora una fitta di dolore, ricordandomi che forse non avrei mai più pranzato con lui.
Un po’ di carne secca, dell’uva, un cestello di nocciole sgusciate e della frittata di erbe fredda.
Frugai ancora, e ritrovai il mio vecchio zaino di cuoio, che riempii con tutto ciò che avevo accumulato. Ripiegai un paio di tuniche invernali, e le pigiai giù, verso il fondo.
Andai nella stanza di Ban e Lynet. Sapevo esattamente cosa e dove cercare.
Dentro il materasso, che strappai sbrigativamente, era nascosto un sacchetto di denaro. Lo tenni in mano e lo soppesai. Le monete tintinnavano urtandosi.
Nella cassapanca al fondo del letto, sepolte sotto le coperte, c’erano la cintura e la spada di Ban.
Allacciai in vita la cinghia. Era un po’ grande, e mi ballava sui fianchi, ma non ci feci caso.
Notai con gioia i due pugnali dal manico d’osso, lunghi e sottili, inseriti nelle loro guaine di pelle. Quelli mi sarebbero stati molto utili.
La daga era piuttosto pesante. Dovevo usarla con tutte e due le mani, per riuscire a sferrare qualche fendente. Aveva l’impugnatura d’argento. Era bella, e luccicante.
La legai alla cintura.
Prima di uscire, riempii due borracce di cuoio. Una la misi nella sacca, e l’altra la attaccai alla sella di Kelpie, assieme ad una padella con il manico storto.
Per ultimo, indugiai su una vecchia coperta di cervo. Alla fine presi anche quella, non si poteva mai sapere quanto avrebbe fatto freddo.
Infilai i miei gambali più comodi e robusti. Mi gettai sulle spalle il mantello color indaco che mi aveva cucito Lynet, e mi calai il cappuccio sulla testa. Era poco prudente viaggiare a viso scoperto.
Ero ancora indecisa sul da farsi, ma una cosa era certa: mi dovevo assolutamente allontanare dal villaggio. I sassoni potevano ancora essere nelle vicinanze.
“Dannati bastardi!” imprecai, per poi rabbrividire. Non avevo mai usato quelle parole. Mi fecero uno strano effetto; e decisi di non ripeterle mai più.
Mi rammaricai di non aver avuto abbastanza tempo per dare una degna sepoltura agli altri abitanti di Graeth.
L’incendio aveva divorato anche i loro corpi.
Montai in groppa a Kelpie, faticando per il peso della cintura e dello zaino.
Rivolsi un ultimo sguardo a quel che rimaneva delle capanne.
Poi, una strana furia cominciò a ribollire sorda dentro di me.
Voltai il cavallo e lo spronai verso la collina.
Adesso sapevo cosa dovevo fare. C’era solo una persona che mi avrebbe potuto accogliere: Merlino.


Fiuuu... Ragazzi che lavoraccio! Allora, vi piace il secondo capitolo? ^___-
Aspetto commenti, mentre la mia testa macchina già la terza puntata!
A prestissimo!
Bacetti da Gertie

PS = Nel prossimo capitolo ci sarà una sorpresa!

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


Aha! Sono un mito... Sono riuscita a preparare il terzo capitolo in un batter d'occhio!!
Ringrazio ancora erienne che continua a recensirmi e ad incoraggiarmi *___* Graziegraziegrazie!
Come avevo promesso, questo capitolo avrà una piccola sorpresa... Ma per scoprirla dovete iniziare a leggere... Hihihihihi...



Capitolo Terzo
Nel quale Elynor trova una nuova famiglia e si prepara a diventare una guerriera

Cavalcai fino a sera, per raggiungere il bosco. Regnava il silenzio.
Gli alberi avevano assunto strane forme inquietanti, e le ombre si erano allungate.
“Sono entrata una volta e posso farlo di nuovo!” esclamai, incitando Kelpie con dolcezza.
Tutti e due ci inoltrammo nelle tenebre.
Avevo la pelle d’oca. Attorno a me si udivano di tanto in tanto rumori sconosciuti e terrorizzanti.
La mia mano sinistra si avvinghiò alla spada, e le nocche mi divennero bianche per lo sforzo.
Il mio respiro si condensava in nuvolette di vapore, che si dissolvevano dopo qualche istante.
Ad un tratto, qualcosa mi planò sulla testa, e ci fu un cavernoso: “Uuuuuuuh!”
Sobbalzai dallo spavento.
“Stupido gufo…” mormorai poi, tranquillizzando Kelpie, che si era impennato, preso dal panico.
Cercai di sbirciare tra gli alberi.
“E come faccio a vedere gli Woad… Quelli si sanno mimetizzare con la natura!” pensai, fremente.
Probabilmente io non li avrei mai trovati, sarebbero stati loro ad individuarmi per primi: ero nel loro territorio.
Tentai di non pensare ai milioni di occhi che con tutta probabilità mi stavano fissando da dietro ogni cespuglio.
“Coraggio, devo farlo per Ban, Lynet e Lancillotto…” mormorai, per farmi forza ad andare avanti.
Ad un tratto, udii un fruscio alla mia destra, ma quando mi voltai per guardare, vidi solo tenebra.
“Merlino?” domandai al buio “Sei tu??”
Una voce calma e pacata mi rispose.
“Elynor… Sapevo che saresti tornata. Seguimi.”
Stavo per ribattere che non vedevo un accidente, quando una luce fievole si accese davanti al muso di Kelpie, che indietreggiò spaventato.
“Su, bello. Ci siamo quasi…” lo rassicurai, spingendolo verso il bagliore.
Era una fiammella accesa che tremolava in cima al bastone dello sciamano, e in quella tenue lingua di fuoco guizzante avevo riposto ormai tutte le mie speranze.
Pian piano gli alberi si diradarono, ed entrai in un ampia radura.
Comparvero subito gli Woad, e si strinsero in cerchio attorno a me, con le lance spianate.
Trasalii.
“No, per piacere… Giù quei cosi, vengo in pace!” articolai, sopraffatta dal panico.
Da dietro un albero spuntò Merlino, che agitando il suo bastone fece abbandonare le picche ai guerrieri.
Io smontai da Kelpie, e lo sciamano mi si avvicinò.
“Non ti faranno del male, credimi. Ma di questi tempi bisogna stare sempre all’erta, capisci cosa intendo?” mi domandò, apprensivo.
Io chinai il capo. Certo che capivo, era proprio quello che avevo fatto, lasciando Graeth in balia dei sassoni!
Merlino sembrò comprendere il mio stato d’animo.
“Sappiamo quello che è accaduto al tuo villaggio, ma non devi addossartene la colpa. Non saresti comunque riuscita a fare granché; se non sbaglio non riesci neanche a reggere quella daga con una mano sola, per non parlare dei pugnali d’osso…”
In un primo momento mi sentii profondamente offesa. Tutte quelle parole su me che potevo fare qualsiasi cosa, e adesso aveva il coraggio di dirmi questo. Poi però, con una punta di amarezza, constatai che aveva ragione.
Feci una smorfia di impotenza.
Merlino sorrise.
“Saprai fare qualunque cosa… Se sarai ben allenata.”
Aggrottai la fronte.
“Davvero?”
“Non preoccuparti di questo, ci penseremo dopo, a tempo debito. Per adesso, ti do il benvenuto nella nostra comunità Woad.”
Sospirai sollevata. Adesso perlomeno, avevo un posto dove stare.
Alcuni ragazzi della tribù, però, non sembravano entusiasti quanto me. Mi fissavano sospettosi.
Non li biasimai, dopotutto ero piombata lì tra loro senza preavviso; e ora mi avrebbero avuto tra i piedi almeno per un po’.
Una bambina snella e dai capelli castani mi si avvicinò. Doveva avere all’incirca la mia età.
“Ciao! Sono Ginevra, la principessa degli Woad!” mi tese la mano.
Io non sapevo bene cosa fare, al cospetto di un’importante, anche se dodicenne, personalità del popolo del bosco.
Azzardai un imbarazzatissimo inchino, dicendo: “Per me è un onore conoscervi, maestà…” ma non feci in tempo a finire di parlare, che tutti gli Woad scoppiarono a ridere.
Ginevra mi sorrise e mi abbracciò.
“Non ti devi preoccupare, qui siamo tutti fratelli e sorelle!”
Io avrei voluto sprofondare. Mi ero appena coperta di ridicolo, davanti a tutta la tribù.
Merlino mi rincuorò.
“Siamo una grande famiglia. E ora ne fai parte anche tu.”
I primi giorni tra gli Woad non furono affatto facili per me. Il loro stile di vita era completamente diverso dal mio, e poi non ero ancora sicura che tutti mi avessero accettato veramente.
Le case del popolo del bosco erano palafitte costruite sugli alberi, io ero piuttosto goffa nell’arrampicarmi, e quindi ci mettevo un sacco di tempo ad arrivare in cima.
Non riuscivo a confondermi con l’ambiente come facevano loro, e facevo fuggire tutte le prede che i cacciatori tentavano di cogliere di sorpresa.
Ero veramente abbattuta.
Una sera, tornando dall’ennesima caccia infruttuosa, scoprii con orrore che qualcuno mi aveva sottratto daga e pugnali, che io avevo accuratamente nascosto nel mio cantuccio, che si trovava nella capanna di Merlino.
Mi precipitai a cercare lo sciamano, in preda al panico.
“Mi hanno rubato tutto!! Le mie armi sono sparite!” strillavo correndo per tutto il villaggio.
Convinta che fossero stati gli altri ragazzi della comunità Woad, non appena li vidi li ricoprii di insulti.
Loro non si offesero minimamente, ma mi presero in giro dicendo che non sapevo neppure sorvegliare una spada, figurarsi il mio villaggio, che era appunto stato distrutto dai sassoni.
Quelle parole mi fecero un male incredibile, furono come lame aguzze che si conficcavano nel mio petto una dopo l’altra.
Non dissi più nulla e scappai via.
Ogni cosa lì non faceva altro che ricordarmi che ero stata irresponsabile. Nonostante le parole di consolazione di Merlino, mi sentivo peggio ogni giorno che passava.
Scoprii che le armi me le aveva confiscate proprio lo stregone. Ovviamente, pensava che io avrei solo potuto ferirmi con esse.
Mi sentii una vera incapace. E mi detestai per la mia inettitudine.
Solo Ginevra mostrò qualche accenno di gentilezza nei miei confronti. Andavamo assieme a prendere l’acqua in un fiumiciattolo che scorreva accanto al bosco. Ci raccontavamo persino i segreti.
Questo mi faceva sentire importante. A Graeth non mi ero mai confidata con nessuno. C’era Lancillotto, ma lui era un ragazzo e non avrebbe capito le sottigliezze dell’essere femmina. Con le altre bambine non avevo mai legato, perché le ritenevo stupide e frivole. Passavano il tempo a saltare la corda e a rincorrere le galline.
Passatempi stupidi e noiosi. Soprattutto quando ti inciampavi nella corda o qualche galletto infuriato ti saltellava dietro per beccarti le caviglie.
Per me quindi era una cosa nuova.
Ginevra mi raccontò quanto fosse complicato essere la futura regina degli Woad. Avrebbe dovuto condurre il suo popolo in battaglia, mantenere rapporti pacifici con i romani, badare alle donne e ai bambini, sposare un uomo predestinato e di alto rango tra la sua gente.
“Cosa?” sbottai a quest’ultima affermazione “Ma non puoi sposare qualcuno in questo modo… E’ assurdo, e se poi non ti piace??”
Ginevra abbassò gli occhi sull’acqua che scorreva placida.
“Sono i rischi che una buona regina deve correre, per la sicurezza del suo popolo.”
Io non riuscivo a capacitarmi. Era semplicemente inaudito.
“Io non mi sposerò!” dissi convinta, lanciando un sasso in acqua, che sprofondò con un sonoro tonfo.
La mia amica mi guardò, stranita.
“E perché?”
“Io diventerò una guerriera formidabile… Non avrò bisogno di marito e mocciosi, con tutte le persone che ci saranno da aiutare…”
Lei rise di gusto.
Feci una smorfia. Non mi piaceva l’idea che a lei i miei progetti futuri sembrassero stupidi e insensati.
“No, non volevo dire che è tutta una sciocchezza!” mi disse, un po’ dispiaciuta “Secondo me la tua causa è molto nobile. C’è bisogno di eroi, di questi tempi.”
Sospirai sollevata, e mi coricai sull’erba soffice. Chiusi gli occhi e ascoltai lo scrosciare dell’acqua.
Dopo un po’, le feci un’altra domanda.
“Sai già chi sarà il tuo futuro marito?”
Lei alzò le sopracciglia, e mi indicò un gruppetto di giovani che stavano chiacchierando, accanto ad un recinto.
“Quello più a destra…”
“Ma ha la barba!”
“No! No… L’altro!”
“Quel grassone??”
“Insomma… Ti ho detto a destra! Perché guardi a sinistra??”
“Ah scusa. Quello appoggiato allo steccato?”
“Sì. Si chiama Moak.”
“Beh… Non è tanto male…”
“Io lo trovo carino. Ed è anche un bravo cacciatore.”
Il giovane in questione era slanciato e robusto. La sua carnagione era piuttosto abbronzata, e teneva i capelli legati in una stretta coda di cavallo. Aveva un bel sorriso.
Mi chinai per riprendere il mio otre, che avevo scordato in riva al ruscelletto.
Ginevra mi raggiunse, e sottovoce mi chiese: “Ma non c’è nemmeno un ragazzo che tu consideri speciale? Sì, beh… Che ti piace?”
Io aggrottai la fronte. Ma lo feci solo per non dare l’impressione di aver già la risposta ben stampata in mente.
“In che senso mi deve piacere?”
“Come fidanzato… Come uomo con cui dividerai la tua vita.”
Scossi la testa.
“Mah… Ce n’è uno, però…”
Ginevra fece un salto, e strillò trionfalmente: “Lo sapevo! Lo sapevo!”
“No, no, no! Non hai capito niente!” dissi, tentando di zittirla “E’ speciale, ma non in quel senso! Solo come amico!”
“Certo, certo…” mi canzonò lei, trotterellando via col suo otre.
Rimasi indispettita e confusa.
Lancillotto mio marito?? No, non poteva essere. “Aspettami!” gridai, e corsi dietro alla mia amica.
Una settimana dopo, Merlino mi annunciò che io e lui saremmo partiti per andare in un posto.
Feci i bagagli. Non ero affatto dispiaciuta di levare le tende per un po’. Mi sarebbe mancata solo Ginevra, che salutai con un caloroso abbraccio.
“Tieniti stretta Moak…” le sussurrai in un orecchio, cercando di non ridere.
Lei mi fece una pernacchia.
Montai su Kelpie, e mi accinsi a seguire Merlino, che si era inoltrato nel bosco, in sella ad uno stallone bianco. Cavalcammo tutto il giorno e tutta la notte. Alla fine, esausta, crollai sul collo di Kelpie, e mi addormentai.


...Signori e signore... Ecco la sorpresa! (squilli di trombe) Ho trovato un'ottima canzone di sottofondo per l'ultima parte del capitolo! Quindi: accendete le casse, premete PLAY nel piccolo lettore qui sotto e... Buon ascolto! Vi assicuro che l'effetto è molto carino ^^
Per chi non la riconoscesse: è una canzone della colonna sonora di Mulan (questa è la versione originale)e si intitola "I'll Make a Man Out Of You"



Ricevetti addosso una secchiata d’acqua, e balzai a sedere. Ci eravamo accampati accanto ad un lago.
Merlino era lì in piedi davanti a me, con un catino in mano, e sorrideva.
“Dormito bene?” mi domandò, sedendosi accanto a me.
“Oh, meravigliosamente! Per non parlare del risveglio…” mugugnai, asciugandomi la faccia col mantello.
Poi un delizioso odorino giunse alle mie narici.
“Che c’è per colazione??” chiesi, annusando l’aria.
Merlino assunse un’espressione seria.
“Proprio un bel niente!”
“Come? Ma io sto morendo di fame!!” protestai, incredula.
“Ti ho portato qui per addestrarti.”
Non capii subito, perché ero occupata ad ascoltare il brontolio del mio stomaco.
“Addestrarmi??”
Lui ghignò.
“Non eri tu quella che voleva diventare una guerriera invincibile?? Bene, adesso comincerai a lavorare sul serio.”
Scattai in piedi. Ormai il pensiero della mancata colazione era scomparso.
“Cosa devo fare??” domandai, impaziente.
“Tanto per cominciare, pulisci il cavallo, spegni il fuoco, spacca un po’ di legna e pianta dei paletti laggiù.”
Non riuscivo a crederci. Rinunciai a ribattere, perché con Merlino era una battaglia persa in partenza.
Per tutto il giorno non feci altro che sgobbare come un mulo.
“Che diavolo di addestramento è?” mi dicevo, imbestialita, mentre picchiavo con l’ascia su dei ciocchi tarlati.
Quando il sole fu calato, lo sciamano mi offrì una cipolla cruda ancora sporca di terra.
“E io dovrei mangiare questo, dopo tutta la fatica che ho fatto???” strillai.
Visto che non avevo avuto né colazione, né pranzo, contavo ancora su una cena succulenta.
“Esatto.” mi rispose lui, calmo “I guerrieri devono abituarsi alle condizioni più dure. Sopportare fame e sete. Quindi buonanotte!”
Si avvoltolò nella sua coperta, e dopo un po’ si mise a russare.
Io dormii malissimo, per i crampi allo stomaco che implorava cibo invano. Riposai circa due ore, quando la stanchezza prese il sopravvento.
Stavolta ci fu un bastone che mi colpì la testa.
“Ma che cosa…” bofonchiai rivoltandomi dall’altra parte.
Un’altra botta sul fianco e saltai dal dolore.
“Va bene, va bene! Sono sveglia!” sbottai.
Merlino era di nuovo lì, che mi aspettava.
“Fila a lavarti!”
“Dove?? In quel lago??” dissi, osservando le sponde limacciose della pozza scura “Lì io non ci metto piede! E’ disgustoso!”
“Senti, o lo fai o io parto e ti lascio qui.” sentenziò lui, a braccia conserte.
Così mi avviai, snocciolando insulti dietro insulti, tutti diretti a quella specie di boia col bastone.
L’acqua era fredda e viscida, e mi sentivo come una mosca nella tela del ragno.
Sguazzai un poco, e poi mi rivestii in fretta e furia, per non buscarmi un accidente.
Tremando, tornai da Merlino, che sembrava soddisfatto della tortura a cui mi aveva sottoposto.
Non dissi niente, e mi sedetti accanto al fuoco per scaldarmi. Non volevo prendermi mica una polmonite!
“Che fai per terra? Adesso si comincia!” esclamò lui, impugnando il suo bastone.
Non feci in tempo a spostarmi che mi tirò una mazzata sulla spalla.
“Ahia!” gemetti. Ma lui alzò di nuovo la sua arma.
“Questo vuole farmi fuori…” pensai, spostandomi di lato per scansare il fendente.
Incespicando, riuscii a rimettermi in piedi, e a scappare lungo la collina. Merlino mi inseguiva gridando: “Ma come? Stai già battendo in ritirata?? Che razza di guerriera sei? Canaglia! Vieni qui e combatti!”
Mi fermai e mi volsi indietro. Lo stregone era a qualche metro da me. Potevo ancora gettarmi nel lago e nuotare via… e affogare. Oppure correre fino allo zaino e prendere la daga.
Cercando di ignorare le conseguenze, scelsi la seconda possibilità.
Mi lanciai come un fulmine al nostro accampamento, e cercai la spada.
Feci appena in tempo ad impugnarla, che Merlino mi aveva raggiunto e tentava di nuovo di colpirmi.
Botta in testa. Botta sul ginocchio. Botta su un piede.
“Allora? Li pari questi colpi??” mi disse, saltellandomi attorno.
Ora ne avevo abbastanza di farmi strapazzare da quello svitato.
Afferrai la daga con le due mani e bloccai il bastone di Merlino.
“Finalmente!” esclamò lui, provocatorio.
Mi limitai a parare i fendenti che mi piovevano addosso, perché non riuscivo ad attaccare. La spada era troppo pesante.
Dopo un bel po’ di tempo passato a tirare di scherma, lo sciamano si fermò, e io crollai per terra esausta. “Sei un vero disastro…” mi disse.
Io alzai gli occhi al cielo.
“Ci sto provando!” ribattei, piccata.
“Non basta.” disse lui, risoluto.
Avrei voluto mettermi a gridare. Ma rimasi zitta e buona nel mio angoletto, a massaggiarmi il braccio sinistro, indolenzito.
Aveva ragione lui. Ero senza speranza. C’era solo un pensiero costante che mi faceva stringere i denti per continuare: cioè quello di dover vendicare il mio villaggio.
Quella sera rimasi a lungo immobile, avviluppata nel mantello.
Merlino, che probabilmente si sentiva in colpa per avermi definito un’incapace, mi portò un po’ di carne cotta col rosmarino.
Gli strappai letteralmente il piatto dalle mani e ingoiai tutto in qualche secondo. Mi scaldava lo stomaco. Era la sensazione più bella che avessi mai provato.
Aprii la bocca per ringraziare lo sciamano, che mi guardava divertito, ma tutto ciò che riuscii ad emettere fu un sonoro rutto.
Arrossii. Che figuraccia.
“Stai proprio diventando una rude guerriera, eh?” disse lui, con una risata leggera “Vedrai che domani andrà meglio.”
“Ehm… E’ quello che spero.” ammisi, insonnolita.
Con la pancia piena mi addormentai al caldo, in una notte senza sogni.


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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


Capitolo Quarto
Nel quale si scorgono problemi all’orizzonte e la nostra eroina si imbarca in una pericolosa missione di salvataggio

Rimasi in quel posto per quindici anni.
Fu durissima.
Merlino andava e veniva, perché aveva delle faccende da sbrigare tra gli Woad, e ovviamente non poteva lasciare sola Ginevra a governare, così io rimanevo settimane in isolamento, accanto a quel lago scuro. Mia unica compagnia fu Kelpie, che però morì dopo cinque anni. Lo seppellii con cura sotto una quercia frondosa. Fu il periodo più difficile della mia vita. Non avevo più nessuno con cui parlare, e temetti di impazzire dalla solitudine.
I sensi mi si affinarono, l’ambiente mi inselvatichì e mi irrobustì.
Piano piano imparai a maneggiare con destrezza la daga di Ban, e da lontano piantavo i miei pugnali d’osso nei paletti, fingendo che fossero i sassoni. Poi mi sorprendevo per la forza con cui li avevo scagliati, e misuravo quanto erano penetrati nel legno.
Un giorno, Merlino mi portò uno stallone, per esercitarmi a combattere da cavallo.
Lo battezzai Graeth. Sempre in ricordo del mio villaggio. Era nero come la pece, e molto energico e nervoso. La prima volta che lo cavalcai, mi disarcionò dopo qualche minuto. Capii subito che eravamo fatti l’uno per l’altra.
Passai quindici anni di sudore e di fatica.
Alla fine, riuscivo a usare qualsiasi tipo di arma, in qualsiasi situazione.
Le spade e i pugnali ormai erano un giochetto da bambini; le asce le manovravo a due mani, ma riuscivo comunque a sferrare colpi con sufficiente energia. Con l’arco non me la cavavo male, ma preferivo le armi predisposte per il corpo a corpo. L’unico strumento che proprio detestavo era il bastone, forse per quel primo approccio piuttosto doloroso, quando lo sciamano lo aveva usato per istigarmi a reagire.
Avevo trascorso tutto il mio tempo concentrandomi sulle tecniche di combattimento.
Merlino non era più venuto a trovarmi per dei mesi.
Lo rividi solo più in una pessima occasione, che avrebbe cambiato il mio futuro.
Un pomeriggio d’inverno lo stregone mi raggiunse correndo freneticamente. Quella notizia mi fece letteralmente aggrovigliare le budella.
“Dove?!” chiesi con voce strozzata, mettendo mano all’elsa della daga.
“No, no! Tu non vai da nessuna parte! Sono già stati uccisi molti dei nostri… E io sono corso qui solo per dirti di metterti in salvo, perché i sassoni si stanno dirigendo da questa parte. Prendi Graeth e vattene, subito!”
Ma io non avevo alcuna intenzione di muovermi. Piantai i talloni nel terreno.
“Neanche per idea! Io voglio combattere…”
Merlino mi guardò per alcuni istanti, poi sbuffò scuotendo la testa.
“Che cosa devo fare con te… Sei cocciuta come un mulo!” fece un gesto seccato “Tu hai un’altra missione! Devi salvare Ginevra!!”
“Che cosa?”
“E’ stata rinchiusa in una specie di prigione, nella casa di un certo Mario. Su a nord, verso il Vallo. Devi correre, prima che anche là arrivino i sassoni. Il gruppo si è diramato… Una parte sta attaccando da nord, e l’altro da sud. Stanno tentando di stringere noi e i romani in una morsa. Non temere, noi resisteremo, ma tu devi ritrovare la regina, perché guidi il popolo alla vittoria!”
Tutte quelle pessime notizie si accavallarono nella mia mente.
“Va bene… Vado!” gridai.
Raggiunsi Graeth e gli balzai in groppa.
Non ebbi neanche il tempo di dargli di sprone, che lui già scattò al galoppo verso nord.
Strinsi i fianchi dell’animale con le ginocchia, e puntai i talloni verso il basso.
Avevo paura, temevo per l’incolumità di Merlino, e degli Woad ancora vivi.
Quei dannatissimi sassoni stavano scatenando un tremendo pandemonio dovunque.
Passavano, uccidevano, distruggevano, razziavano, incendiavano. Erano come una valanga implacabile.
L’aria e la criniera di Graeth mi sferzavano il viso, e non riuscivo a tenere gli occhi bene aperti senza che mi lacrimassero. Correvamo come forsennati.
Pensai a Ginevra. Povera ragazza. Da quindici anni non la avevo ancora rivista. Probabilmente era diventata anche lei una brava guerriera.
Ma ora era imprigionata da qualche parte, impotente, mentre i nemici si avvicinavano sempre più.
Graeth schiumava, e respirava affannosamente per lo sforzo che gli stavo chiedendo.
“Lo so amico, è immensa la tua fatica. Ma non possiamo fermarci. Dobbiamo intervenire e fare ciò che è in nostro potere per impedire ai sassoni di conquistare la nostra terra.”
Andammo avanti per tre lunghi giorni, senza mai interrompere la nostra corsa.
Scesi molte volte a terra, per non affaticare Graeth eccessivamente. Un cavallo normale forse si sarebbe già azzoppato. Ma lui no, era tenace.
Riposammo molto poco. Mangiavo qualche pezzo di carne secca, solo quando sentivo che il mio stomaco non avrebbe resistito alla fame. Dormimmo circa due ore a notte, ma con un occhio solo, per paura che i nemici ci piombassero addosso nel sonno.
La sera del terzo giorno, stremati, arrivammo alla villa di campagna di Mario. La casa era molto grande, aveva numerosi cortili interni, e all’esterno era circondata dalle capanne dei contadini.
Rimanemmo lontani, perché alcune guardie pattugliavano i confini della proprietà.
Non avevo nessuna voglia di farmi braccare da quelli. Mi avrebbero rinchiuso assieme a Ginevra e saremmo rimaste a marcire in qualche segreta.
Trovai un buon nascondiglio in una rientranza rocciosa, all’interno di un boschetto folto; così stesi il mantello e mi abbandonai ad un agognato sonnellino, prima di entrare in azione.
Balzai in piedi a notte fonda.
Mi allacciai ben stretta la cintura coi pugnali e la daga, e mi appesi la faretra alla schiena.
Mi mossi silenziosamente tra gli alberi. Sbirciai tra i rami di un basso faggio nodoso.
< Le finestre della casa erano quasi tutte spente, tranne una. Udii chiaramente delle urla sguaiate. Erano tutti ubriachi. Probabilmente Mario e i suoi allegri compari erano nel bel mezzo di un favoloso banchetto…
I soldati però, non avevano allentato la sorveglianza. Dei puntini baluginanti nelle tenebre andavano su e giù, zigzagando.
Le sentinelle camminavano davanti alle porte, e le pattuglie erano di tre o quattro armigeri ciascuna.
Mentre facevo i miei calcoli, udii un fischio.
Mi acquattai col cuore in gola, pensando che qualcuno mi avesse scorto.
Rimasi immobile, trattenendo il respiro.
Non arrivò nessuno.
Quando tornai a guardare, due puntini luminosi stavano marciando uno verso l’altro.
Era solo il cambio della guardia.
Sospirai di sollievo.
Maledii l’oscurità. Come potevo riconoscere la struttura della villa, al buio? Non avrei mai potuto capire dove erano le prigioni.
Ma se volevo agire, dovevo valutare le tenebre come alleate.
Sgattaiolai fino agli ultimi due alberi.
Avrei dovuto usare l’arco per forza, non potevo uscire allo scoperto, ero in nettissima inferiorità numerica, circa uno contro una trentina…
Incoccai una freccia, e aspettai che i drappelli dei soldati si fossero allontanati.
Rimanevamo io, nascosta nell’ombra, e le due sentinelle, illuminate dal chiarore delle torce.
Tesi la corda.
Un fruscio, e la prima guardia cadde, trafitta alla gola.
La seconda fece appena in tempo a voltarsi per guardare il compagno che moriva per riceversi un altro dardo dritto al petto.
“Mh… Bene. Adesso viene il difficile…” pensai, correndo verso le mura, dopo aver prudentemente trasportato i cadaveri dietro la capanna di un contadino.
Arrivai alla porticina, e diedi due colpetti secchi.
Lo spioncino si aprì, e due occhi neri sbucarono dall’altra parte della fessura.
“Parola d’ordine??”
Oh, questa non ci voleva proprio.
“Ehm… Marius imperat??” dissi, tentennando col mio latino scadente.
Miracolosamente, l’uscio si aprì.
Purtroppo però, al di là di esso mi aspettava un omaccione dall’aria bellicosa.
“Chi sei tu?” mi domandò minaccioso, brandendo una lancia.
La prima cosa che mi venne in mente fu di dire che ero una conoscente del padrone di casa, ma poi riconobbi che effettivamente era impossibile, dato il mio aspetto, i miei vestiti e le armi che portavo.
Decisi comunque di tentare.
“Sono stata invitata al banchetto… E ho qui due amici.”
“Ma davvero?” mi chiese lui, beffardo. Era evidente che non credeva neanche ad una parola di quello che gli stavo dicendo. Si stava divertendo a vedermi arrampicare sugli specchi.
“Esatto” ripresi io, senza scompormi “Si chiamano Taglia e Trafiggi!!”
Avevo estratto fulmineamente i miei due pugnali d’osso, e glieli avevo piantati nel torace.
Con un gemito strozzato, l’uomo si accasciò al suolo.
Trascinai faticosamente il corpo in un angolo, e cercai di nasconderlo alla bell’e meglio sotto una pila di vecchi sacchi per la farina.
I miei occhi ispezionarono il cortile, guardinghi.
Davanti a me c’era un portico, che riparava due entrate. Sentivo le risate e il rumore dei calici tintinnanti, ma non capivo da dove provenissero.
Ad un tratto, udii il chiavistello della prima porta a sinistra che scattava.
Con un balzo mi aggrappai ad una colonna del porticato, e mi issai sul tetto.
Uscirono tre servitori, che portavano brocche vuote e piatti d’argento sporchi.
“Mi toccherà trascinare il padrone nel letto, talmente è ubriaco… Sta bevendo come una spugna…” mormorò il primo, che reggeva una torcia.
“Credo proprio di sì, caro Licinius!” esclamò il secondo, battendogli una pacca sulla schiena.
“Dov’ è finito Marcus? Non starà ancora cercando di murare quei poveracci tutto da solo, vero?” disse il terzo, rifilando il suo vassoio vuoto all’amico.
“Certo che è là, l’ho visto io prima.” gli rispose Licinius “Mentre andavo a dar da mangiare ai porci. Lui è d’accordo con gli invasati…”
“Quelli hanno il demonio dentro, ve lo dico io. Si vogliono far rinchiudere nella prigione assieme ai pagani!” aggiunse l’uomo che reggeva la torcia.
“Io vado a controllarlo, non voglio che anche lui faccia qualche pazzia, poi ci rimettiamo tutti, per colpa di quel cialtrone di Mario.” concluse l’altro, che ora aveva le mani libere, e si accingeva a separarsi dagli amici.
“Fa attenzione, o il dio Mario ti punirà!” lo avvertì Licinius, con fare melodrammatico.
I tre scoppiarono in una fragorosa risata, poi si divisero: uno si diresse verso l’esterno, mentre i rimanenti tornarono alle cucine, chiacchierando.
Io sbuffai, prima di seguire l’inserviente alle segrete.
Tutta quella fatica per entrare, e ora dovevo tornare fuori!
La prigione era un posto alquanto strano. Sembrava una sorta di casetta di mattoni anneriti, che sorgeva attaccata alle mura esterne. Prima, col buio, non ero riuscita a scorgerla.
Fortunatamente, il servo non si accorse dei cadaveri delle due guardie che poco prima avevo trafitto con le mie frecce, e raggiunse una figura nera, intenta a spostare massi.
“Marcus!” esclamò.
“Sextus!” lo salutò l’altro, ansimando per la fatica.
“Che stai facendo? Pensi ancora a quello che dicono i sacerdoti??”
Marcus smise di ammucchiare pietre.
“Io ci credo. E se poi Mario è veramente un dio? Ha ragione a punire quei pagani, sono inutili e dannosi. E io sono cristiano, non permetterò che questa feccia infetti la nostra religione, devono convertirsi!”
Non capii un accidente di niente. Che cos’era un cristiano? E chi erano i pagani? Che cosa voleva dire convertirsi?
Sapevo cos’era una religione, però. Me lo aveva spiegato Uwaen, il vecchio del villaggio di Graeth. Significava credere in qualcosa, e di utilizzarlo come guida nella vita.
Io avevo deciso di credere nelle cose concrete. Il cibo, per esempio. Ciò che si poteva toccare, vedere, annusare. Il vento, la pioggia, l’erba. Non sopportavo l’idea di dovermi fidare di qualcosa di invisibile. Che forse non c’era.
Comunque, cominciai a comprendere la conversazione quando Marcus disse: “Stanno morendo tutti, lì sotto. Per ora gli unici rimasti vivi sono una ragazza Woad e un bambino, il figlio di uno dei contadini, si chiama Lucan. Creperanno anche loro… Feccia impura!”
Inorridii.
Come si potevano lasciar morire di stenti una donna e un bambino? Questa non era religione, era una crudeltà bella e buona.
“Sei matto?” esplose Sextus, minacciandolo col pugno.
“Faccio solo il mio dovere, e tu faresti bene a tornartene in cucina, e impicciarti dei tuoi affari!” berciò Marcus. I due si misero a discutere animatamente, mentre io studiavo il da farsi.
Era impossibile penetrare nelle prigioni. C’erano mattoni e pietre troppo duri per essere spaccati. E io non avevo un’ascia.
Ma non mi rassegnai, e continuai a macchinare piani. Con tutta probabilità, la ragazza di cui parlavano era Ginevra. E io dovevo tirarla fuori di lì a tutti i costi.
Ad un tratto, si udirono delle urla provenire dal cortile interno.
Avevano scoperto il cadavere dell’uomo addetto allo spioncino.
“Maledizione…” imprecai. Ora era diventato praticamente impossibile uscire allo scoperto.
Tutte le guardie furono radunate fuori dalle porte, e Mario uscì sulla terrazza della casa. Era abbastanza sobrio, nonostante le numerose coppe di vino che avevano reso il suo volto rosso come un pomodoro.
“Che succede??” strillò allarmato.
“Qualcuno è entrato nella proprietà, signore, e c’è un morto!” rispose un soldato, che stava rivoltando col piede il corpo riverso e imbiancato dalla farina.
Mi dovetti allontanare in fretta e furia, perché Mario ordinò subito alle sue guardie di perlustrare i dintorni palmo a palmo.
Avevo appena fallito, ma non mi scoraggiai, e guardai il lato positivo della cosa: ora c’erano tre uomini in meno da affrontare.


Ta dah! Che bello… Anche il quarto capitolo è stato sfornato!
Vorrei ringraziare erienne che mi recensisce sempre ^^
Ci vediamo col quinto chap!
Kisses**
Gertie

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


Capitolo Quinto
Nel quale Elynor e Ginevra si aggregano alla carovana in fuga, e avviene un incontro inaspettato

Rimasi nascosta fino all’alba, quando udii un forte rombo di zoccoli.
Dovevano essere almeno una mezza dozzina di cavalli. Forse erano romani. Dubitai che fossero sassoni, perché a quanto si diceva, essi stavano giungendo a piedi, marciando in un esercito spaventoso.
Saltai in groppa a Graeth, e galoppai verso la strada che conduceva alla tenuta di Mario, rimanendo sempre però nell’ombra del bosco, per non farmi scoprire.
Cavalieri.
Finalmente avevo davanti agli occhi i protagonisti dei numerosi sogni che facevo da bambina.
Erano cinque.
Rimasi impalata a guardarli per un po’, e poi mi spostai dietro di loro, per seguirli. Mantenni la distanza, nel caso ci fosse stato il bisogno di voltarsi e darsela a gambe.
Fortunatamente, gli uomini non si accorsero di me. Mentre loro andarono dritto, per passare dalla porta principale, io riuscii ad infiltrarmi nel villaggio dei contadini senza che nessuno mi facesse caso.
Liberai Graeth in un recinto, assieme a delle vecchie capre smunte.
Alcuni bambini mi osservavano, curiosi.
“Ahem… Ciao!” dissi, cercando di essere amichevole.
Erano ridotti in uno stato pietoso. Magri, sporchi, affamati. I loro vestiti erano ridotti a stracci logori e consumati.
Una bimba notò la daga che portavo appesa al fianco.
Tentai immediatamente di nasconderla, per paura che si spaventasse e si mettesse ad urlare, attirando così l’attenzione dei soldati.
Ma lei si avvicinò e toccò senza timore l’elsa dell’arma.
“Sei una guerriera?” mi chiese, con i suoi occhioni grandi.
“Beh…” articolai “Sono un… una… sì, insomma…”
Un bambino più grande mi guardò ostile.
“Sei una sporca Woad.”
Tentai di dominare la collera che era montata dopo quelle parole.
“Senti tu… Non permetterti mai più di insultare la mia gente, capito?” ringhiai.
“Mario dice che quelli come te devono morire. Siete tutti demoni.”
Questo era davvero troppo. A grandi passi lo raggiunsi e lo afferrai per le spalle.
“Mario è solo un patetico impostore. Guardati intorno. Come siete ridotti tu e la gente delle campagne? Te lo dico io: lavorate come schiavi, e quando accennate a mettere in dubbio la sua autorità lui vi imprigiona o vi tortura...”
La bimba singhiozzò.
“Io non voglio andare nella segreta! Puzza e ci sono i morti!”
La rassicurai.
“Non ci andrai, laggiù. Vedrai che…”
Voci alterate interruppero la conversazione.
“Ora devo andare.” dissi “Per favore, sorvegliate il mio cavallo.”
Mentre mi allontanavo, sentii la bimba esclamare: “Certo che è una guerriera, solo una guerriera può avere un cavallo così bello!”
Sorrisi tra me e me.
Però non c’era tempo per badare ai complimenti a Graeth.
Il comandante del drappello di cavalieri stava discutendo animatamente con Mario, davanti alle porte della villa.
“Dovete andarvene di qui, stanno arrivando i sassoni!” sbraitava il primo.
“Non ci muoveremo, tutto ciò che abbiamo è in questo posto. Roma avrà sicuramente mandato un esercito per difenderci!” quell’uomo aveva proprio una gran testa dura.
“E lo ha fatto… Noi.” rispose il generale.
Quelli erano romani! E questo voleva dire possibili alleati.
Però quando realizzai ciò, non potei fare a meno di provare una fitta di rancore. I romani avrebbero dovuto difendere il mio villaggio, come avevano promesso. Invece, quando erano arrivati i sassoni non c’era stato nessuno che aveva impugnato la spada per combattere in nome di Roma.
Senza contare che si erano portati via Lancillotto. Il mio migliore amico.
Ma non potevo mettermi in testa di contrastare i romani, che erano gli unici alleati che ci avrebbero permesso di salvare la Britannia dai sassoni. Senza di loro tutto sarebbe andato perduto.
E poi quel generale mi piaceva. Sapeva il fatto suo, e non si stava preoccupando di quel cialtrone di Mario, che invece sembrava un coniglio spaventato. Aveva appena chiamato attorno a se le guardie. Figurarsi se uno come quel signorotto viziato poteva difendersi da solo… Probabilmente l’unica cosa più o meno pericolosa che riusciva ad usare era il coltello per tagliare la carne dallo spiedo.
Il capo dei cavalieri si chiamava Artorius Castus. Bel nome, altisonante.
Ad un tratto, egli si accorse di un povero vecchio che era stato appeso con delle catene ad una traversa di legno, tra due pali infissi nel terreno. Era praticamente nudo, e il suo corpo era stato segnato dalle intemperie. Giaceva inerme e abbandonato.
Un brivido mi colse all’improvviso. Alzai gli occhi al cielo. Si preannunciava una bufera di neve.
Artorius intanto, aveva liberato il pover’uomo torturato.
Un altro cavaliere stava arrivando, di gran carriera.
Si fermò di fronte al generale.
Il respiro mi si mozzò, quando sentii che i sassoni si stavano avvicinando, e sarebbero giunti lì all’incirca dopo dieci minuti.
Dovevo portar via Ginevra, prima della catastrofe.
Il capo romano era irremovibile. Voleva scortare al sicuro anche i contadini. Che uomo nobile.
Il cavaliere giunto da poco gli disse chiaramente che sarebbero andati troppo a rilento, e che non ce l’avrebbero fatta a trarsi in salvo con tutta quella gente, perlopiù donne, vecchi e bambini.
Aveva ragione.
Ad un tratto, mi si gelò il sangue nelle vene.
Un cupo rimbombo fece tremare la terra. Sembrava provenisse da ogni parte. Saliva dal basso o pioveva dall’alto? Non riuscii a capirlo. Ma tutti quanti si zittirono improvvisamente, e cominciarono a gemere di paura.
Artorius ordinò ai contadini di fare presto e prepararsi alla partenza.
C’era troppa confusione, non sarei riuscita a raggiungere le segrete.
Mario ancora protestava invano.
Possibile che non capiva che sarebbero morti tutti se fossero rimasti lì??
Mentre regnava il panico tra la gente, che cercava di prendere tutto ciò che poteva per portarselo via, Artorius smontò da cavallo, sfoderò la sua spada e si diresse alla prigione, dove Marcus il servitore stava ancora ammucchiando sassi.
Disse ad uno dei suoi compagni di sfondare l’entrata.
Con pochi colpi ben assestati, i mattoni crollarono, e il generale entrò, con gli altri cavalieri. Uno aveva un’aria familiare, ma subito non riuscii a riconoscerlo.
Pensai fosse stata solo una mia impressione.
Un tremendo puzzo di morte e muffa si era sollevato da quella specie di cripta.
Carne in putrefazione. C’erano dei cadaveri, lì sotto.
Rabbrividii, pensando a Ginevra.
Poco dopo, Artorius uscì, portando in braccio una ragazza vestita di stracci.
Era lei? Era forse…
Le diedero dell’acqua per potersi dissetare. Era debole.
Poi un altro cavaliere arrivò, portando in braccio un bambino.
Non c’era dubbio, erano Ginevra e Lucan.
Fu annunciato che tutti erano pronti a partire. Ginevra e Lucan furono caricati su un carro, il primo dietro i sei cavalieri.
Artorius costrinse le guardie di Mario ad aiutare la gente. Altrimenti le avrebbe uccise.
Non persi tempo, visto che la mia amica era al sicuro. Corsi a slegare Graeth, e balzai in sella.
Raggiunsi al trotto il primo carretto, e sbirciai dentro. Ginevra giaceva su alcuni panni distesi apposta per lei, e aveva gli occhi chiusi. La testa ondeggiava leggermente, seguendo il dondolio del veicolo. Chissà quanti orrori aveva visto dentro quella cripta.
Pensai.
Cosa avrei fatto, ora che l’avevo trovata? Sarei corsa subito dagli altri Woad? O avrei sguainato la mia daga al fianco di Artorius Castus e i suoi cavalieri?
Ginevra non era in grado di affrontare il viaggio di ritorno alla comunità Woad. E se Merlino e gli altri erano stati sterminati, mentre io ero via?
Pertanto, decisi di lasciare la mia amica nelle mani di alcune donne che si stavano premurosamente occupando di lei.
Non appena si fosse rimessa in sesto saremmo partite.
Ma se i sassoni ci avessero raggiunto prima?
Avremmo combattuto. Le guerriere Woad non avevano paura della morte.
O almeno, io credevo di non averne.
E se i cavalieri di Artorius ci avessero impedito di partire?
Tutti questi interrogativi si dissolsero, quando udii un uomo chiamare il comandante “Artù”.
Quel nome non mi era nuovo.
Dopo poco tempo, passato a rifletterci su, mi balenò la risposta.
Artù era il prode romano che guidava un gruppo di grandiosi cavalieri sàrmati, e le sue gesta erano giunte in ogni remoto luogo della Britannia, e dell’Impero Romano; come mi raccontava Merlino.
Ormai avevo fatto la mia scelta. Sarei rimasta con Artorius Castus, o meglio, Artù.
Avrei parlato della mia decisione a Ginevra. Ma se lei avesse voluto tornare dagli Woad l’avrei seguita.
Cercai di sentire i discorsi dei cavalieri. Perlomeno di capire i loro nomi.
Continuavo a pensare a quello che cavalcava accanto ad Artù. Aveva un’espressione fiera, ed indomita. I suoi occhi erano neri, e profondi. Taglienti, come le due spade che portava in spalla, dentro guaine di pelle. Riccioli neri e folti, un po’ bagnati per via della neve che aveva preso a cadere con danzanti fiocchi bianchi. Armatura dai colori cupi.
Mi sembrava di averlo già visto, eppure non ricordavo dove, e quando.
Ad un tratto, qualcuno mi afferrò per un polso.
“Ehi, Artù!”
Cercai di divincolarmi, ma senza successo.
La presa dell’uomo era ferma e salda.
Aveva i capelli biondi, e una corporatura robusta. Occhi di ghiaccio.
Artù e gli altri si fermarono seduta stante, e io mi sentii morire.
“Che cosa c’è, Galvano?”
“Una Woad… Ci stava seguendo!” rispose questo, continuando a strattonarmi.
“Fermo, fermo! Non farle male…” gli disse Artù, avvicinandosi, per vedermi meglio.
Galvano lasciò andare il mio polso.
Il generale mi sollevò il mento, e mi fissò negli occhi. Le sue iridi erano verde-marrone.
Ero terrorizzata.
Graeth cominciò a scalpitare, intuendo la possibile minaccia.
“Buono, buono…” articolai, cercando di distogliere lo sguardo da Artù.
Lui non si perse in chiacchiere.
“Chi sei? Da dove vieni?” mi domandò sbrigativo, mentre gli altri cavalieri stavano ad ascoltare.
Esitai.
“… Sono una Woad. Dalla comunità di Merlino il saggio. La mia missione era liberare Ginevra.” Indicai il carro dove avevano sistemato la mia amica.
“Sarò con voi, se potrò esservi d’aiuto.” aggiunsi, assumendo un tono freddo.
Gli occhi di Artù indugiarono sulla mia daga.
“Non ci tradirai…”
“No, signore.” risposi seria.
Artù si allontanò per consultarsi con i suoi compagni.
Ci pensava uno strano falco, a sorvegliarmi.
Dal canto mio, feci gli scongiuri perché mi accogliessero tra loro.
Dopo poco, il generale romano mi fece un gesto.
“D’accordo. Ma fai un passo falso e te ne pentirai.”
Contenni l’urlo di gioia che stava per liberarsi dal mio cuore. Mi limitai a stringere convulsamente le redini, e a spronare Graeth verso il drappello.
Mi fece uno strano effetto, cavalcare tra i due uomini che rispondevano al nome di Tristano e Bors, dietro ad Artorius e al cavaliere dai riccioli neri.
Ero una guerriera di Artù, l’eroe di cui parlavano le leggende.
“Lui è Galahad.” mi disse Bors, indicando un ragazzo più giovane, che mi fece un cenno di saluto.
“Quello è Dagonet.” un uomo dal viso gentile mi sorrise.
“E tu? Qual è il tuo nome?” mi domandò Tristano, lisciando le piume del suo falco.
“Elynor.” risposi, in un sospiro.
Il cavaliere dai riccioli neri si voltò bruscamente, e mi fissò con i suoi occhi taglienti e vivi.
Fermò il suo cavallo, ed aspettò che io gli fossi giunta al fianco.
Mi afferrò la mano sinistra, e se la portò davanti al viso.
Gli altri ci osservavano, senza capire.
Mi spaventai. Cosa voleva farmi?
Poi, istintivamente lo presi per il polso sinistro, costringendolo a lasciare le redini.
Era lì.
Una piccola cicatrice bianca.
Sul pollice.
Non riuscii a credere ai miei occhi.
“Elynor?” balbettò lui, incerto.
Solo un nome mi affiorò alla mente.
“…Lancillotto…” non dissi altro, perché scoppiai in lacrime, e gli saltai al collo.
Lui mi abbracciò forte. Sentivo il mio corpo aderire alla sua armatura.
Era lui. Lo avevo ritrovato. Dopo quindici anni.
Continuai a singhiozzare, appesa alla sua spalla.
Anche lui era sconvolto. Continuava a stringermi, con le mani che tremavano.
Non era morto. Era salvo. Era lì. Era un cavaliere.
Artù interruppe quel momento magico, con mio grande disappunto.
Mi staccai a fatica dal mio carissimo amico ritrovato.
“Che succede qui? Vi conoscete?”
Fu Lancillotto che prontamente gli rispose.
“Abbiamo vissuto insieme al villaggio di Graeth… Lei era orfana, e la mia famiglia l’ha accolta…”
Nessuno riuscì a credere alle proprie orecchie.
Dopo alcuni attimi di sconcerto generale, gli altri pensarono di lasciare noi due da soli.


Dopo un lunga e vergognosa assenza (imploro perdono ç___ç) dovuta principalmente a noiosi impegni scolastici, ecco terminato il quinto capitolo! ^___^ Non vedevate l’ora, eh? Hihi.. Bene, vorrei ringraziare ancora erienne, mia fida lettrice, e anche Giulietta e GiuEGia che a quanto pare non vedevano proprio l’ora di continuare la lettura!
In arrivo il sesto capitolo ^__-
Un bacio, Gertie.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


Capitolo Sesto
Nel quale i sentimenti di Elynor ingaggiano battaglia

“Dove sei stato tutto questo tempo??” chiesi a Lancillotto, in un soffio.
“Ho prestato servizio presso Artù. Per Roma. Il contratto sarebbe dovuto scadere qualche giorno fa… Allora sarei tornato a Graeth.” mi rispose lui, con una punta di amarezza nella voce.
Io mi accorsi con dolore che avrei dovuto affrontare la questione del villaggio distrutto.
“Non c’è più Graeth, Lancillotto…” ammisi.
Lui mi fissò smarrito.
“I sassoni… Hanno incendiato tutto.”
“Cosa? Quando è… Successo?”
“Quindici anni fa. Esattamente. Hai fatto appena in tempo a partire.”
Lancillotto sembrò sentirsi in colpa.
“Ma… Tu sei sopravvissuta…”
“Solamente io. Nessun altro. Mi hanno salvato gli Woad. Merlino mi ha addestrato. Ora so combattere.”
Ci fu un momento di silenzio. Non sapevo più cosa dire. La tensione era troppo forte.
Il mio amico, incredulo, aveva lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi, e fissava il vuoto, davanti a sé.
Gli altri ci guardavano, senza sapere perché d’un tratto ci eravamo così incupiti.
Non avevo il coraggio di guardare in faccia Lancillotto, ma alla fine dovetti alzare lo sguardo. Volevo essere sicura che non soffrisse troppo.
Mi sorpresi. Non lo avevo mai visto con un’espressione simile. Il suo volto pareva diventato di pietra.
I suoi occhi neri brillavano.
“E allora combatteremo.” mi disse.
“Per Ban, Lynet e tutti gli abitanti di Graeth…” aggiunsi, prima di avere il tempo di capire cosa stavo dicendo.
“Insieme.” concluse lui, e mi appoggiò una mano sulla spalla.
La neve continuava a cadere, imbiancando il nostro percorso.
Eravamo lì. Sperduti in quella terra devastata. Con una minaccia costante che stava per pioverci addosso. E almeno un centinaio di persone innocenti al seguito. Con la bufera che ci sferzava le schiene. Col freddo che ci entrava nelle ossa. Con una probabilità di successo su un miliardo.
Ma c’eravamo.
L’ultimo baluardo di speranza.
Tutti contavano su di noi.
Eravamo pochi, ma non avremmo potuto dire di non aver lottato per salvare la Britannia.
Provai una strana sensazione. Un misto tra ira, orgoglio e preoccupazione.
Era il senso di responsabilità.
Voltai la testa all’indietro.
Bambini, donne, vecchi, malati. E cani, maiali, capre e galline. Tutti ammucchiati sui carri, e stretti assieme, per difendersi dal freddo pungente.
Un’angoscia improvvisa mi strinse la bocca dello stomaco.
Come potevamo farcela? Per un attimo credetti alle parole di Tristano.
Ma chi se non noi poteva ancora sperare di cacciare i sassoni?
Sbuffai, e il mio respiro si trasformò subito in una nuvoletta di vapore.
Spronai Graeth, e mi allontanai verso Artù, che cavalcava muto in testa alla carovana.
“Cosa facciamo??” gli domandai, fissandolo nelle sue iridi verdi.
Lui mi guardò, serio.
“Dobbiamo portare questa gente fino alla proprietà del vescovo Germanius, perché tra di loro c’è il figlioccio del papa. Stiamo andando verso un passo tra le montagne. Lì ci sarà possibile rallentare l’avanzata dei sassoni.”
La sua sicurezza mi spaventava. Ero certa che sotto si celasse una grande inquietudine. Artù era il capo della spedizione, e se qualcosa fosse andato storto tutti avrebbero addossato la colpa a lui. Provai pena, e ringraziai di non essere nei suoi panni.
Sbirciai nel carretto dove era stata caricata Ginevra. Era avvolta in una ruvida coperta, ed era sveglia.
Mi accostai al veicolo, facendo rallentare Graeth.
“Ehm… Mia signora, come vi sentite adesso?” domandai, esitante. Con tutta probabilità non mi avrebbe riconosciuto.
“Meglio… Elynor.”
Tutto questo aveva dell’incredibile.
“…E ricordati che sei come una sorella per me, quindi non darmi del Voi, per favore…” aggiunse, in un rantolo.
Sorrisi.
“Hai passato un bel guaio, Ginevra.” le dissi, sforzandomi di darle del Tu “Se non fossero arrivati Artù e i suoi cavalieri…”
Lei mi interruppe.
“E tu che ci fai qui?”
“Ero venuta per liberarti e portarti a casa. Gli Woad hanno bisogno di una guida che li conduca in battaglia. C’è già stato un attacco da parte di una parte dell’esercito sassone, che è risalito da Sud.”
Lei assunse un’aria grave.
Io continuai il mio discorso.
“Merlino ha detto che risalirà verso il Vallo con i superstiti, per aiutare i romani a contenere l’invasione dei sassoni…”
Ginevra fissava il vuoto.
“Sembra ieri che giocavamo assieme al fiume… E ora guardati, sei una guerriera, e cavalchi al fianco di Artù, il prode generale che ha compiuto tante mirabili gesta, assieme ai suoi cavalieri sàrmati.”
Mi spazientii. Era un’emergenza, e lei pensava ai bei tempi andati?
Cercai di mantenere la calma, dopotutto era appena uscita da un’orrida cripta piena di morti, era debole e stanca. E poi anche io nutrivo nostalgia delle nostre confidenze da bambine.
“Anche tu. Adesso sei la regina degli Woad.” cercai di riprendere in mano l’argomento “Che cosa vuoi fare, Ginevra?”
La mia amica ci pensò su per un attimo.
“Voglio rimanere a combattere con Artù. Sei con me?”
Era tutto quello che aspettavo rispondesse.
“Certo.” fu più forte di me, e strinsi l’elsa della daga. Quel tocco mi diede la sicurezza che avremmo lottato per davvero, e che quello non era solo uno dei sogni che facevo, fantasticando sulle leggende che mi narrava il vecchio Uwaen, giù al villaggio.
Ci guardammo negli occhi. Ora eravamo davvero sorelle. Nella pace e nella guerra.
Poi la lasciai riposare, e ritornai accanto a Galvano e Galahad, che discutevano su quanti sassoni avrebbero ucciso.
Bors intervenne.
“Sentite, per me va bene. Facciamoli fuori tutti!” e i tre scoppiarono a ridere.
Io invece inorridii.
Probabilmente loro erano abituati ad ammazzare quanti più nemici potevano, mentre io, che avevo eliminato tre uomini per pura difesa, provavo ancora uno scombussolio nell’anima.
Ma una vera guerriera non doveva aver paura di uccidere.
Mi convinsi, pensando a quello che avevano fatto i sassoni al villaggio. Loro non ne dovevano avere molta, di coscienza. Provai un moto di rabbia, e mi morsi il labbro.
Tristano si accorse del mio cambiamento di umore.
“Cosa c’è che ti turba, Elynor?” mi chiese, con la sua voce, simile al fruscio del vento.
“Niente…” dissi io, scuotendo la testa.
Ma lui sembrò leggermi nel pensiero.
“Hai ragione. E’ difficile imparare ad usare la spada in battaglia. Mettila così: ammazzerai per non essere ammazzata.”
Quelle parole non furono esattamente quello che io chiamavo conforto, ma andarono bene lo stesso. Almeno mi fecero sentire compresa da qualcuno.
Tornai al fianco di Lancillotto, che era ancora sconvolto per la pessima notizia che gli avevo portato.
“Non ti ho dimenticata, Elynor…” mi disse, guardandomi negli occhi.
Rimasi un po’ confusa. Che voleva dire con quello?
“Ho pensato a te ogni giorno, dopo la mia partenza da Graeth. Mi sei mancata tantissimo.”
Arrossii. Poi mi sorpresi. Perché mi sentivo turbata da quelle parole?
“Anche a me tu sei mancato. Continuavo a temere di averti perso per sempre. Avevo paura che tu fossi morto…” dissi io, in un soffio.
Lui mi guardava in un modo strano. Ma io continuavo a non capire.
Sembrava meravigliato e disperato allo stesso tempo.
Rimanemmo in silenzio, ascoltando il battito cadenzato degli zoccoli dei cavalli, il lento cigolio dei carri e la ninnananna che una madre cantava al suo bambino, che non voleva addormentarsi.
In particolare quella canzone mi toccò il cuore.
Credevo di averla già sentita da qualche parte. Era sicuramente una canzoncina molto comune, ma io pensavo e ripensavo. Le parole non mi erano nuove.

Terra dell’orso e terra dell’aquila
Terra che ci hai dato vita e salute
Terra che ci hai sempre chiamati tuoi custodi
Torneremo a casa attraverso le montagne.


Anche gli altri cavalieri s’incupirono, ascoltando quella nenia.
Ognuno pensava ai fatti suoi, con lo sguardo vacuo.
Nessuno sapeva con certezza se sarebbe tornato a casa.
Pensai che più o meno tutti dovessero avere una famiglia, da qualche parte. Tranne me. E Lancillotto.
Noi eravamo soli.
Ora più che mai ci saremmo dovuti appoggiare l’una all’altro, per sopravvivere e vincere.
La notte ci accampammo nei pressi di un bosco.
Mi inoltrai tra i pini innevati, per cercare un’angolino riparato. Io avrei dovuto fare il primo turno di guardia.
Stesi il mantello e mi avvolsi in esso. La neve rendeva tutto desolato, freddo e sconsolante.
Poco più in là, vidi Lancillotto sistemarsi tra le radici di un albero, e poi voltarsi a guardare rapito un punto dal quale proveniva una tenue luce.
Mi spostai, per vedere cosa fosse.
Dietro ad una tenda c’era Ginevra, solo un asciugamano a coprirle la schiena, mentre un’altra ragazza le lavava le spalle nude.
Ebbi una fitta al petto, e distolsi in fretta lo sguardo.
Mi morsi il labbro. Ecco cosa non andava.
Ecco perché sia io che Lancillotto eravamo rimasti così meravigliati e nello stesso tempo imbarazzati, quando ci eravamo incontrati dopo quindici anni.
Eravamo cresciuti.
E avevamo perso la complicità di un tempo, perché oltre all’amicizia, in noi si era fatto prepotentemente spazio un altro sentimento. Più confuso ed ingarbugliato.
Era logico che il mio amico fosse attratto da Ginevra. Ora lei era una donna bella, intrigante.
Io mi sentivo ancora una ragazzetta innocente ed immatura.
Ripensai a quei discorsi fatti accanto al fiume.

“Io non mi sposerò!”
“E perché?”
“Io diventerò una guerriera formidabile… Non avrò bisogno di marito e mocciosi, con tutte le persone che ci saranno da aiutare…”


Faticai ad ammetterlo, ma ormai avevo capito che quello che provavo per Lancillotto era più di affetto fraterno.
Mi sentii scombussolata. Dentro di me stava avendo luogo un’incredibile battaglia di sentimenti.
“Sono una stupida…” pensai. Niente smancerie, eravamo in guerra!
Io perdevo tempo a fantasticare sull’amore e su tutte quelle idiozie, e intanto i sassoni macinavano terreno, e tra poco ci sarebbero stati addosso.
Decisi che se volevo davvero bene a Lancillotto, dovevo lasciarlo stare con la persona che gli piaceva. Anche se tutto questo faceva un male tremendo.
Non volevo rischiare di spezzare buoni rapporti con lui e con Ginevra.
Un po’ rassegnata, mi accoccolai più stretta nel mio mantello, e strinsi la mia daga al petto. Come se fosse stata una specie di bambola di pezza che mi avrebbe consolata.
Mentre i fiocchi scendevano lentamente nel buio, una lacrima rotolò lungo la mia guancia sinistra.
Ecco, adesso mi stavo anche mettendo a piangere.
Mi vergognai.
“Sono una guerriera, non una donnetta. Devo smetterla con queste sciocchezze inutili!” mi dissi.
“Quali sciocchezze inutili?” una voce mi fece sussultare.
Non mi ero accorta che Lancillotto si era alzato ed era venuto fino accanto a me.
Adesso era lì, chino davanti alla mia faccia, con i suoi occhi scuri e taglienti.
“Ma… Che succede?”
Dannazione. Ero stata così stupida da essermi dimenticata di asciugare le lacrime.
“No! No, niente!”
Mi passai istintivamente il mantello sulle guance.
Lui mi si sedette accanto.
“Perché?”
“Cosa?”
“Perché stavi piangendo?”
“Non stavo piangendo.”
“Sì invece.”
“Guarda che non è vero…”
“Non sei brava a nascondere le cose.”
Sbuffai. Aveva ragione. Mi raggomitolai sotto l’albero.
Lancillotto mi cinse le spalle con un braccio, e mi avvicinò a sé.
Mi strinsi a lui e appoggiai la testa sul suo petto.
“Hai freddo?”
“Un pochino. Il mio mantello è zuppo…”
“Aspetta…” si slacciò il suo e insieme ci stringemmo avvolti dalla stoffa, come se fosse stata una grande coperta.
C’era silenzio. Solo il vento ululava tra le piante.
Chiusi gli occhi. Sentivo i nostri cuori battere all’unisono. Piccoli tonfi attutiti.
Lancillotto prese a giocare con una ciocca dei miei capelli.
“Ti ricordi quel pomeriggio… Sull’albero in cima alla collina?” mi chiese.
“Sì” risposi, con nostalgia “Quando abbiamo deciso di diventare cavalieri.”
“Già. Ora lo siamo.”
Sorrisi. Avrei voluto che quel momento non finisse mai.
Ad un tratto, lui mi spostò delicatamente il viso di fronte al suo.
I suoi occhi brillavano.
Non sapevo cosa fare, né cosa dire.
“Ti si sta innevando la testa…” gli sussurrai.
Scoppiammo a ridere, e io spolverai via un po’ di neve dai suoi bei riccioli neri.
Per farlo mi dovetti avvicinare un po’ di più. I nostri nasi quasi si toccavano.
Potevo sentire il suo respiro, un po’ affannato per le risate.
Potevo specchiarmi nei suoi occhi scuri.
Mi sembrò quasi che il tempo si fosse fermato, che i fiocchi di neve avessero smesso di turbinare attorno a noi e che rimanessero sospesi nell’aria.
Era tutto così… Magico.
Non sapevo neanche se avevo un freddo terribile, oppure un caldo infernale.
Lancillotto continuava a guardarmi, e a sorridere.
Mi pose le mani sulle spalle.
Ma proprio mentre il suo viso si avvicinava, ci piovve in testa una valanga bianca.
Non vedevo più niente, perché la neve, caduta dall’albero sotto il quale ci eravamo seduti, mi aveva completamente coperto la faccia.
Annaspai, e alla fine riuscii a sbucare dalla coltre gelata con la testa.
Mi guardai intorno.
“Ehm… Lancillot…” non finii di pronunciare il nome che una palla di neve mi colpì sulla nuca.
“Ehi!” esclamai, e mi voltai all’indietro.
Era lì, tutto bianco, in piedi.
“Aiutami! E smettila di ghignare!” protestai, intrappolata.
Lui mi prese per un braccio e diede uno strattone.
Avevo la tunica completamente bagnata.
“Accidenti…” sbottai, per poi ricominciare a ridere.
Capii che mi sarei dovuta cambiare, e quindi mi diressi alla tenda dove avevo deposto lo zaino.
Tirai fuori dalla sacca un’altra tunica pulita, e mi slacciai il mantello dalle spalle, appendendolo in modo che si asciugasse almeno un po’. Presi una coperta calda, e mi sedetti accanto al fuoco.
Adesso sì che stavo bene.
Quando fui abbastanza asciutta, mi tolsi la coperta di dosso, e mi infilai la tunica.
Ripresi la cinghia e il mantello, per tornare in fretta al mio posto di guardia.
Uscendo, sbattei contro Lancillotto.
“Ehi… Ma mi stavi guardando??” gli sibilai.
“Ehm… No…” distolse lo sguardo.
“Anche tu non sei bravo a mentire.” gli dissi, e avvampai per la vergogna.
Lui rimase zitto, imbarazzato.
Sospirai.
“Allora per te è un’abitudine spiare le ragazze che si cambiano…”
Mi era proprio scappato.
Mi coprii la bocca con le mani.
“Che cosa?” disse lui, indispettito.
Cercai di sfuggirgli, ma lui mi prese per il bordo del mantello.
“Che cosa?” ripeté.
Rassegnata, gli raccontai che lo avevo visto mentre stava ammirando le grazie di Ginevra poco prima.
“Ah. E poi sarei io quello che spia…” sentenziò lui, incrociando le braccia al petto.
Io mi limitai a fissare la punta dei miei stivali.
“Comunque, sappi che non penso che ci sia da vergognarsi, quando si guarda una bella ragazza.” disse, e poi si allontanò, con le sue due spade sguainate appoggiate dietro il collo.
Adesso si giustificava anche. Poi però riflettei un momento.
Sì, era vero che Ginevra era bella e intrigante… Ma se aveva voluto spiare anche me aveva forse voluto fare un confronto?
Il tarlo del dubbio mi rodeva la mente.
Ah sì? E allora chi era meglio? Io o la regina degli Woad?
Sconsolata, mi dissi che con Ginevra era una battaglia persa, in quanto a bellezza.
Ritornai al mio posto, sotto l’albero, fino a quando non arrivò Tristano a darmi il cambio.
Ma anche sotto le coperte, non riuscii a chiudere occhio.
Perché questi pensieri assurdi mi tormentavano in questo modo? Perché un momento in compagnia di Lancillotto da piacevole diventava opprimente?
Decisi che da quel momento in avanti la mia unica preoccupazione sarebbe stata l’imminente attacco dei sassoni. Solo quando anche l’ultimo barbaro sarebbe stato ucciso, avrei potuto affrontare tutte le battaglie sentimentali che infuriavano dentro di me.
Mi complimentai con me stessa per la saggia conclusione, e dopo qualche istante mi addormentai.


Ah... Questo è uno dei capitoli che preferisco, mi sono divertita un sacco a scriverlo *____*
E voi cosa ne pensate? Commentucciii non fatevi attendere!
Baci dalla vostra sola, unica ed inimitabile (nonchè modesta) Gertie

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***


Capitolo Settimo
Nel quale si assiste ad un combattimento su ghiaccio e i nostri eroi subiscono una grave perdita

Mi svegliai sobbalzando, per aver udito un gran trambusto fuori dalla tenda.
Misi la testa fuori e distinsi quel tronfio di Mario che aveva agguantato il piccolo Lucan come ostaggio, e ora stava intimando alla moglie e a al figlio Alessio di seguirlo per fuggire.
Che essere spregevole. Dagonet aveva estratto la sua spada, e ora aveva tutte le intenzioni di liberare il bambino dalle grinfie di quell’energumeno dal cuore di pietra.
Un sibilo, e un colpo secco.
Mario crollò a terra. Una freccia si era conficcata nel suo petto.
Ginevra si avvicinò, con passo leggero. Impugnava fiera il suo arco.
“Ben fatto, amica mia.” pensai.
Sopraggiunse Artù, che ordinò aspramente alle guardie di Mario di abbassare le armi, già puntate contro di lui.
“O ci aiutate, o morite…” ringhiò. Nessuno osò opporsi, e così riprendemmo la nostra faticosa marcia verso la libertà.
Continuava a nevicare, e il vento soffiava ancora forte, ma non potevamo fermarci, come ribadì Artù.
Tristano annunciò che il passo era vicino, ma che i sassoni ci erano ormai alle costole.
In fretta e furia, mentre tutti sistemavano di nuovo le loro cose sui carri, pronti a ripartire, afferrai il mio zaino lo sistemai su un veicolo.
Tra poco ci sarebbe stato lo scontro. Strinsi la cintura.
Avevo i miei pugnali e la mia daga. Pronta a saldare i conti con quegli odiosi invasori. Furiosa e assetata di vendetta. Chiunque mi si fosse avvicinato, sarebbe caduto o arretrato con qualche arto in meno.
Alle nostre spalle, mentre cavalcavamo, potevamo sentire quei dannati tamburi, che rimbombavano per le montagne. C’era solo un suono che superava il loro brontolio continuo: il mio cuore impazzito, che stava per saltarmi in gola…
Graeth era nervoso. Puntava le orecchie all’indietro, e frustava l’aria con la coda.
“Calmo, amico. Non facciamoci prendere dal panico… O almeno, non prima di aver assestato qualche bel colpo su quelle teste bionde…” dissi, accarezzandogli la folta criniera nera.
Giungemmo ad una spaccatura tra le montagne.
In mezzo c’era un sinistro lago ghiacciato.
Provammo tutti, molto cautamente, a muovere qualche passo sulla fragile superficie bluastra.
Artù, che era in testa al gruppo, disse che non si poteva continuare. Il ghiaccio era sottile, e noi in troppi.
Dopo alcuni minuti, scanditi dal cupo rombo dei tamburi in avvicinamento, fu elaborata una soluzione.
La carovana dei contadini avrebbe aggirato il passaggio. Era la via più lunga, ma più sicura rispetto al rischio di cadere nell’acqua gelata se il ghiaccio del lago si fosse rotto.
Mentre la gente sarebbe giunta al sicuro, Artù e i cavalieri avrebbero costituito la retroguardia, e si sarebbero appostati dall’altra parte del lago, per rallentare l’avanzata nemica.
Ai sette si aggiunse Ginevra.
Non potevo rimanere a guardare, mentre i miei amici più cari rischiavano la vita, e così presi il mio arco e marciai verso il gruppetto.
Lancillotto mi lanciò uno sguardo tra il furioso e il preoccupato.
Io mi limitai a tentare la corda della mia arma.
Poi, tutti insieme, ci sistemammo uno affianco all’altro, in attesa di chi o che cosa sarebbe uscito dalla spaccatura.
Nessuno diceva una parola. Solo i tamburi continuavano costantemente a rumoreggiare, al di là delle pareti rocciose.
Tristano, Lancillotto, Ginevra, Artù, Galvano, Bors, Dagonet, Galahad e me.
Tutti con le frecce incoccate e gli sguardi fissi all’entrata della gola.
D’improvviso, i primi guerrieri sassoni sbucarono da dietro la montagna, e cominciarono a correre verso di noi, urlando come pazzi.
Deglutii, e strinsi forte l’arco tra le dita.
Sentivo il ghiaccio tremolare pericolosamente sotto i miei piedi.
Artù diede l’ordine di scagliare la prima ondata di frecce.
Inorridii. Non potevamo riuscire a colpire i sassoni, erano ancora fuori gittata!
Avremmo sprecato munizioni preziose.
Con mia grande sorpresa, Tristano e Bors obbedirono al comando, e si udì il sibilo dei dardi che venivano proiettati in aria. Più in là, due dei nemici caddero rovinosamente al suolo.
Rimasi sbigottita.
Tuttavia, lasciai andare la corda, e anche la mia freccia andò a segno, conficcandosi nella gola di un sassone.
Presto però ci rendemmo tutti conto di essere troppo pochi per impedire l’avanzata nemica.
Sperai con tutto il cuore che il ghiaccio si rompesse sotto i piedi dei guerrieri prima che ci raggiungessero e avessero il tempo di farci fuori.
Intanto, incurante del freddo e della paura, seguitavo a incoccare dardi e a scagliarli come presa da una forza sconosciuta.
Nessuno di essi falliva il bersaglio.
Assieme al movimento frenetico delle mie braccia, si aggiunse un ringhio sordo che mi saliva dallo stomaco. Non sarebbero riusciti a passare, non glielo avrei mai permesso. Avrei resistito all’ultimo, fino alla fine.
La superficie del ghiaccio era striata dal rosso del sangue, che sgorgava dalle ferite e scivolava lento attorno ai cadaveri.
Ad un certo punto, mi accorsi con orrore di aver finito le frecce da scagliare, non ne era rimasta nessuna nella mia faretra.
Ansando, mi guardai attorno atterrita.
Anche gli altri avevano quasi terminato le munizioni, e il corpo a corpo sembrava inevitabile, ormai.
Chiusi gli occhi e tastai l’impugnatura della mia daga.
Le mie mani tremavano.
Mentre invocavo l’aiuto degli spiriti di Ban e Lynet, vidi distrattamente una sagoma scura precipitarsi in avanti gridando.
Inorridii. Era Dagonet, che con la sua ascia era arrivato fino al centro del lago, e ora stava vibrando colpi alla superficie ghiacciata.
Sentii gli schianti, e il mio cuore ebbe un tuffo.
“Dag! Torna indietro Dag!” urlò Bors, disperato.
Lui seguitò ad abbassare la sua arma, e dopo poco si formarono le prime crepe azzurrine.
“Dobbiamo portarlo via di lì!”
Artù e Bors partirono di corsa, mentre noialtri da dietro coprivamo loro le spalle con le poche frecce rimaste.
Il ghiaccio si ruppe.
Sentii il tremore sotto i miei piedi, e barcollai.
I sassoni venivano catapultati in acqua, e affondavano per il peso degli armamenti.
Sentii uno di essi gridare: “Uccidetelo! Uccidetelo!”
Dagonet venne colpito al petto da due frecce, e stramazzò al suolo.
Mi sfuggì un grido d’orrore.
Artù si slanciò in avanti, mentre il corpo del cavaliere era sprofondato sott’acqua.
Subito dopo, anche Bors abbandonò le sue armi e si precipitò ad aiutare l’amico.
“Aiutateci…” implorò Bors, trascinando Dagonet inerme dietro di sé.
Galvano e Galahad andarono in loro soccorso; io, Tristano, Lancillotto e Ginevra cercammo più volte di colpire il sassone che stava ancora gridando: “Uccideteli, uccideteli!” ma lui si scansava con rapidità, nonostante la sua mole.
Presto saremmo tutti morti annegati.
Il ghiaccio ormai era tutto crepato.
“Non mollare Dag… Non mollare!” gemeva Bors, accasciato sul corpo del suo compagno.
Un nodo mi si strinse alla gola.
Dagonet non si muoveva più.
Non c’era più niente da fare. Era morto.
Riuscimmo a salvarci, mentre dietro di noi l’esercito dei sassoni veniva inghiottito dalle gelide acque del lago.
Il cadavere di Dagonet venne issato su un cavallo, e poi, in silenzio, ci apprestammo a raggiungere la carovana dei contadini.
Ero in uno stato di shock. Non riuscivo ancora a credere che il nostro compagno più buono avesse perso la vita.
Perché il mondo era così ingiusto? Perché morivano gli innocenti, mentre quelli che meritavano la forca viaggiavano tranquillamente a piede libero??
Aveva ricominciato a nevicare più forte, e nell’aria si sollevavano turbini che ci impedivano di vedere dove stavamo andando.
Tristano mandò il suo falco in avanscoperta, ma il volatile non riuscì a contrastare il vento sferzante, e fu costretto a ritornare sulla spalla del suo padrone.
“Spero che quest’inferno finisca presto…” mormorai al mio fido Graeth, che a testa bassa avanzava nella neve.
Prima ero così impaziente di andare in battaglia, di combattere, di fare qualcosa di utile…
Ma la guerra non era utile. Ed era stata la morte di Dagonet a dimostrarmelo.
All’improvviso, fare il cavaliere non mi parve più qualcosa di nobile.
Ormai c’ero dentro però, e ora non potevo più tirarmi indietro.
Sollevai lo sguardo, verso le cime innevate.
Mi si strinse il cuore, e rabbrividii per il freddo.
Giungemmo alla tenuta del vescovo Germanius al tramonto.
Era la costruzione più imponente che avessi mai visto. Le mura erano altissime.
Un drappello di guardie ci venne incontro, e ci scortò nel cortile interno, dove Germanius ci aspettava, tutto sorridente.
Ma eravamo tutti troppo sconvolti e arrabbiati per prestargli attenzione.
La carovana dei contadini era già arrivata.
Il piccolo Lucan corse verso il cavallo dove giaceva il corpo senza vita di Dagonet.
Mi commossi. Quel cavaliere era stato come un padre per lui…
Due guardie tentarono di impedire al bambino di raggiungere la salma, ma Galahad sfoderò la sua spada e la puntò alla gola di uno di loro.
Artù smontò da cavallo, e si diresse a grandi passi verso Germanius.
Gli sibilò qualcosa che non riuscii a sentire, ma percepii comunque la rabbia malcelata nelle sue parole.
L’uomo non si scompose, e ordinò a un soldato di portare i documenti che attestavano la libertà ottenuta dai cavalieri.
Ci fu un momento di silenzio, in cui ognuno fissò la scatola con le pergamene arrotolate.
Poi Lancillotto si fece avanti e le afferrò. Le distribuì ai compagni, ma giunto a Bors, vide che l’amico non accennava a muoversi e aveva lo sguardo fisso nel vuoto.
“Bors…” lo chiamò Lancillotto “Bors… Per Dagonet.” e gli porse nuovamente il rotolo.
Il povero Bors prese sia il suo che quello del compagno caduto, e poi, in un impeto di disperazione, urlò: “Dag è già libero! E’ morto!!”
Chinai il capo, per nascondere le lacrime, che avevano preso a sgorgare copiosamente lungo le mie guance.
Senza che nessuno mi notasse sgusciai via verso un bosco vicino.
Ormai ero abituata a stare tra gli alberi, come mi avevano insegnato gli Woad.
Mi sedetti sugli alti rami di una vecchia pianta nodosa.
Sentivo spesso il bisogno di rimanere da sola per conto mio, a riflettere.
Una luce arancione andava via via colorando l’orizzonte, e le nubi si erano tinte di viola.
Adoravo i tramonti, perché mi scaldavano dentro. Mi facevano dimenticare tutte le difficoltà affrontate durante la giornata.
In lontananza, su una collinetta, vidi Artù e i cavalieri raccolti attorno ad un cumulo di terra.
Mi sentii in colpa per essermene andata. Volevo dare un ultimo saluto al caro Dagonet, così aspettai che anche Bors se ne fosse andato, dopo essersi ubriacato per lenire la tristezza.
Mi piantai di fronte alla spada conficcata nel tumulo.
“Addio Dagonet.” mormorai “Sappi che nessuno di noi ti dimenticherà.”
Lanciai uno sguardo alla cassetta dei documenti, che i compagni avevano deposto ai piedi della tomba. Mi chinai e la aprii. Dentro c’era il rotolo.
“Nessuno meritava più di te questa libertà. Ora ce l’hai, e non sei più imprigionato in questo mondo crudele, dove per essere liberi bisogna possedere degli insulsi pezzi di carta…”
Tenere in mano quello scrigno mi fece ribrezzo, così lo richiusi in fretta e lo riappoggiai al suo posto.
Rimasi ancora qualche minuto in silenzio.
“Ci vediamo presto.” conclusi, e mi allontanai zigzagando tra le altre tombe.
Stavo per tornare al mio albero nodoso, quando udii delle voci.
Erano Artù e Ginevra, seduti ai margini della foresta.
Decisi di non origliare, e così rimasi a distanza ad osservarli.
Da un po’ nella mia mente era germogliato un sospetto. I due si piacevano?
Più che sospetto era quasi una certezza.
Da una parte fui sollevata; tra Ginevra e Lancillotto quindi non sarebbe potuto nascere niente.
Ma dall’altra mi sentii triste, perché probabilmente il mio amico stava soffrendo vedendo la donna amata tra le braccia di Artù. Del suo compagno più fidato.
Risi tra me. Adesso lui era praticamente nella mia stessa situazione.
Me ne andai verso la tenuta, per cercare un posto comodo dove passare la notte.
Mi avevano preparato una camera molto confortevole.
E io che mi aspettavo di dormire in un fienile!
C’era una bella vasca larga, già riempita di acqua fumante. Da quant’era che non mi facevo un bagno?
Mi svestii in fretta e furia, e mi adagiai tra i vapori profumati.
Entrò un’ancella, che molto cortesemente appoggiò al letto un bel vestito pulito.
Mi si sedette affianco, e armata di spazzola cominciò a strofinarmi energicamente.
Mi sorpresi di quanto sporco avevo addosso!
Quando ebbi la schiena arrossata e dolente, ma pulita, da tanto sfregare, la donna mi invitò ad alzarmi, e mi avvolse in un asciugamano.
In un secchio c’era altra acqua, con la quale mi lavò i capelli. Quasi non ricordavo di che colore fossero; ma ora eccoli lì, di quel bel castano ramato.
Quando fui pulita e profumata, l’ancella mi lasciò sola nella stanza.
Mi sdraiai sul letto, in cerca di un po’ di sonno ristoratore, ma non riuscii a chiudere occhio.
Dopo un po’, decisi che sarei andata a mangiare un boccone e mi infilai il vestito.
I porticati della casa erano deserti, ma da una camera provenivano delle voci. Probabilmente Artù e gli altri stavano cenando.
Quando entrai però calò il silenzio, e tutti si voltarono a guardare.
Sembrava che fossero stati pietrificati!
Io esitai un po’.
“Ehm… Non vorrei disturbare ma… Sto morendo di fame e…”
Mi vergognai per aver balbettato, ma tutti quegli occhi puntati addosso mi mettevano a disagio.
Mi avvicinai alla tavola.
“Potrei sedere tra voi e… Mangiare un boccone?” domandai.
Pensai subito che mi avrebbero risposto negativamente, considerandomi un’intrusa.
“Certamente” disse Artù, e contemporaneamente tre dei i suoi compagni spostarono tre sedie vuote, invitandomi a sedere ognuno accanto a sé.
Mi meravigliai di tanto successo, e Tristano se ne accorse.
“Non preoccuparti…” mi sussurrò “E’ solo lo stupore per il tuo cambiamento.”
“Che cambiamento?”
“Quello che da bruco ti ha resa farfalla.” mi indicò uno specchio.
Quando mi voltai il cuore quasi sprofondò.
Non c’era più nessuna traccia della ragazzina di dodici anni che credevo ancora di essere.
Le spalle si erano affusolate, la vita assottigliata, un abbozzo di seno sporgeva dalla veste, le cosce tornite, la figura slanciata.
Persino le labbra erano più piene e rosate, le ciglia lunghe, e i capelli lisci e lucenti.
Ora non ero neanche più vestita di tela di sacco o di logore tuniche sporche, non avevo la faccia impiastricciata di terra e cenere. E questo lo avevano notato tutti.
Sorrisi al mio riflesso.
Ero una donna.
Mi accomodai accanto a Tristano, e lui mi porse un calice.


Allora allora allora! Ecco fatto, il settimo capitolo si è concluso... Phew, che fatica... In questo periodo non ho avuto il tempo di aggiornare, ho quasi avuto una crisi nevrastenica per tutti gli impegni! Che bello, tra una settimana è Natale!!
Prometto che posterò il prossimo cap. prima delle Feste, come regalino ^___^ Vedrete, ne accadranno delle belle!
Ringrazio tutti coloro che stanno scrivendo recensioni per la mia fanfic!
Alla prossima
Gertie

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***


Ahem... Meglio tardi che mai, eh?
Mi scuso per averci messo così tanto tempo ad aggiornare, ma tra il caos delle feste e il ritorno a scuola non sono riuscita a concentrarmi sulla storia -____- Imploro pietà!
Allora, come ve la siete passata durante le vacanze invernali? Io ho sciato (per la maggior parte del tempo sulle pietre perchè di neve ce n'era ben poca!)
Ma non ho intenzione di annoiarvi oltre con queste futili notizie, quindi... Godetevi questo capitolo....
Ringrazio sempre tutti quelli che continuano a seeguirmi!
Besos
Gertie


Capitolo Ottavo
Nel quale Elynor da grande dimostrazione di coraggio e si prepara alla battaglia

La serata trascorse abbastanza cupamente, a causa del funerale di Dagonet appena terminato. I cavalieri passarono la cena a ricordare il loro compagno caduto, e le gesta che aveva compiuto. Dag era una persona speciale.
Poi, invece di tornare a letto, salii su un ballatoio, e cercai conforto e speranza nel pallido chiarore della luna. Non era ancora finita. Il primo scontro coi nemici lo avevamo a stento superato. Il peggio doveva ancora arrivare…
Sospirai. Udii Graeth nitrire nel suo recinto.
Quando sarebbe finito quell’inferno?
Una leggera brezza mi sfiorò il viso.
“Elynor… A cosa pensi?”
Sussultai.
Era solo Lancillotto.
“Devi smetterla di sbucare dal nulla, mi fai spaventare!” protestai.
“E’ proprio questo che mi diverte…”
“Buffone…”
Si sedette accanto a me, e insieme rimanemmo a guardare la brughiera, avvolta dalla nebbia notturna.
La sua armatura luccicava al bagliore delle torce.
Improvvisamente mi sentii prendere da una specie di panico, e il respiro mi si fece affannoso.
Senza capire perché, scoppiai in lacrime.
Lancillotto rimase sconvolto da quella mia strana reazione, mi si avvicinò e mi abbracciò, tentando di far cessare quei singulti che mi squassavano il petto.
La gola mi bruciava, e non riuscivo a respirare.
Per un istante mi era passato nella mente come un fulmine un pensiero tremendo.
E se avessi perso tutto, in quell’impresa più grande di me??
Lancillotto. Merlino. Ginevra. Artù e i suoi cavalieri.
Erano le uniche persone che mi erano rimaste. Le sole a cui avrei potuto donare e da cui avrei potuto ricevere un po’ di affetto.
E se fossi morta?
La terribile possibilità aveva cancellato la sicurezza che avevo mantenuto fino a quel momento: quella di sopravvivere.
Lancillotto aveva cominciato ad accarezzarmi i capelli, mentre il mio sfogo di pianto svaniva lentamente, come era venuto.
“Elynor… Che ti succede?” mi sussurrò.
Mi asciugai gli occhi.
“Ho paura di perdere tutto ciò che ho…” dissi, ancora con voce rotta.
Lui sorrise, e mi strinse a sé.
“Io rimarrò sempre con te. Qualsiasi cosa accada.”
Quelle parole mi rincuorarono. E mi diedero la spinta per fare una cosa che non mi sarei mai immaginata.
“Lancillotto… Io…”
Sembrò che il tempo si fermasse, che la brezza si mettesse a soffiare più forte, e che le stelle brillassero di una luce più viva.
Dovevo dirgli quello che provavo.
E se non ricambiava i miei sentimenti?
Non c’era tempo.
Se avessi indugiato ancora, poi sarebbe stato troppo tardi.
Presi un bel respiro.
“Io… Io…”
Perché le parole non uscivano?
La mente mi si era svuotata, e sembrava che la mia voce fosse sprofondata giù, e che non volesse venire fuori. Mamma, che difficile.
Lui era rimasto lì immobile, in un’attesa incerta.
Alzai gli occhi, ma non riuscii a sostenere il suo sguardo che per qualche secondo.
C’era un silenzio che mi feriva le orecchie.
In un ultimo estremo sforzo, raccolsi tutte le energie e strinsi i pugni.
“Io ti amo.”
La frase. Volata via dalle mie labbra in un timido soffio.
Finalmente! Ero riuscita a vincere la battaglia più dura; quella contro il voler nascondere i miei sentimenti.
Lancillotto rimase spiazzato.
“Oh… E adesso???” pensai, trepidante.
Lui deglutì, e mi prese una mano fra le sue.
“Elynor…”
Il mio cuore ebbe un tuffo.
“Da quando ci siamo incontrati, dopo quindici anni… Ti ho visto sotto una nuova luce. Non sei più una bambina. Sei una donna adesso.”
Fece una pausa.
“E… Sei la donna che ho sempre desiderato avere al mio fianco.”
Rimasi senza parole.
“Anche io ti amo, Elynor. Con tutto il mio cuore.”
Sorrisi, e scoppiai in una risata di gioia e commozione.
Lui mi abbracciò, felice. Vidi i suoi occhi neri illuminarsi.
Il suo viso era a pochi centimetri dal mio.
Mi accarezzò una guancia, e le sue labbra scesero a sfiorare le mie.
Quel contatto mi fece correre un brivido lungo la schiena.
Non avevo mai provato un’emozione così magica e coinvolgente.
I miei pensieri furono risucchiati in un vortice confuso, mi sembrò di sollevarmi da terra e toccare il cielo con un dito. Anzi, con tutto il palmo.
Quando le nostre labbra si separarono, nessuno dei due disse niente. Era un momento troppo bello, e sarebbe stato stupido rovinarlo. Ci godemmo il silenzio della notte, abbracciati.
Dopo un po’ ci addormentammo entrambi.
Fummo svegliati da un improvviso clamore.
C’era confusione dappertutto, anche se era notte fonda non c’era più nessuno che dormiva, tutti erano agitati e c’era della gente sui ballatoi dalla parte opposta a quella dove eravamo io e Lancillotto.
Distinsi Artù in mezzo alla folla, scortato come sempre dai cavalieri sàrmati.
Io e Lancillotto ci guardammo preoccupati.
Non capivo cosa stava succedendo, ma in me era già sorto un sospetto.
Corremmo fino alle merlature dove si trovava il drappello, e io mi sporsi per guardare.
Erano arrivati.
Erano lì.
Volute di fumo si sollevavano dalle colline circostanti.
Stendardi neri come la pece, sfilacciati e minacciosi, ondeggiavano all’orizzonte.
“No…” fu tutto quello che uscì dalla mia bocca.
Lancillotto mi passò un braccio attorno alla vita e mi strinse a sé, mentre io seguitavo a fissare il vuoto con gli occhi sgranati.
Eccolo, il panico. Stava risalendo, e cresceva di più ogni attimo che passava.
Serpeggiava tra la gente, tra i soldati, i contadini…
Perfino le galline si erano radunate sotto un tetto spiovente, e chiocciavano impaurite.
Gli unici che sembravano calmi erano Artù e i suoi cavalieri; circondati da un alone di tranquillità che mi metteva i brividi.
Il centurione prese la parola: “Tutti alle armi! Non importa se spade, lance, forconi o zappe! Anche con le unghie, con i denti… Difenderemo la nostra terra dagli invasori, ad ogni costo.”
Quel tono autoritario, e quello sguardo profondo riaccesero la speranza nei volti della misera plebaglia.
In un attimo ci fu un viavai di persone affaccendate nel cercare qualsiasi cosa avrebbe potuto giovare alla resistenza.
Io non volevo essere da meno. Lanciai uno sguardo a Lancillotto, e poi scappai via a cercare la mia daga e i pugnali d’osso. Più utili che mai in quel momento.
Le mie armi erano riposte con cura in una tela scarlatta, che avevo nascosto sotto il letto, nella mia stanza.
Impugnando l’elsa, sentii un brivido che dal mio polso raggiunse la punta della lama.
Allacciai la cintura, sistemai i pugnali nelle loro guaine.
Mi sembrò di impiegarci un’eternità.
Forse quelli sarebbero stati i miei ultimi attimi di vita.
Rimossi dalla mia mente quei pensieri e me ne andai a passi decisi, chiudendo con forza la porta dietro le mie spalle.
Ritornai sui ballatoi, per tenere d’occhio la situazione.
“In poco tempo saranno qui.” mi disse cupo Galahad, sistemandosi l’elmo sulla testa.
“Hai paura, Elynor?” mi chiese Bors.
“Hanno distrutto tutto ciò che io amavo. Si sono messi contro di me. Peggio per loro.” sibilai.
“Mhm. Ben detto!” replicò lui “Andiamo a farli fuori tutti! Uno per uno, e appendiamo le loro teste agli alberi! Che i corvi vi vengano a strappare gli occhi, maledetti sassoni!”
Non potei che essere d’accordo.
Gli altri cavalieri assentirono.
Con la coda dell’occhio scorsi una figura avvicinarsi furtiva.
Mi girai.
Era Ginevra, che da dietro un carretto abbandonato mi stava facendo cenno di raggiungerla.
“Cosa c’è??” le chiesi, quando tutte e due fummo nascoste.
“Dobbiamo andar via!” mi disse in un soffio.
Non potevo crederci.
“Andar via?? Scappare?? No! Neanche per idea!”
ribattei “Io Lancillotto non lo lascio da solo….”
Lei mi guardò, e abbozzò un sorriso.
“Stupida, che stai dicendo??” mi afferrò per un braccio “Vieni con me adesso!”
“Aspetta, vado a prendere Graeth!” dissi, e corsi a imbrigliare il mio fido destriero dal quale non mi sarei voluta separare per nulla al mondo.
In un attimo fummo all’esterno. La porta principale stava per essere barricata.
“Ehi! Guarda che ci chiudono fuori!”
Lei non rispose, e mi strattonò verso il limitare di un boschetto.
I miei occhi distinsero chiaramente le ombre di centinaia di guerrieri appostati tra gli alberi.
Gli Woad.
Fu come rivedere la mia famiglia dopo tanto tempo.
Sgattaiolammo dietro i cespugli, dove ci attendeva Merlino.
Aveva un’aria solenne. Si era dipinto il volto di blu, come gli altri. Colori di guerra.
Ero felice di rivederlo, e lo abbracciai amichevolmente.
“Salve, Elynor. Ti stavamo aspettando.”
Lo guardai incerta.
“Devi aiutarci a combattere.”
Rimasi confusa.
“C’è bisogno di te, qui, tra gli Woad.”
Chinai il capo.
Ecco che ero giunta ad un bivio. Lottare con gli Woad o al fianco di Lancillotto?
Merlino aggrottò la fronte. Evidentemente non comprendeva la mia esitazione.
Intervenne Ginevra.
“Anche per me è difficile, Elynor. Ma dobbiamo farci forza. La guerra colpirà su tutti i fronti, e noi non possiamo che cercare di contrastarla…” mi pose una mano sulla spalla.
Quelle parole e quel tocco dolce ci fecero sentire sorelle una volta di più.
Merlino sorrise come un padre benevolo.
“Le mie due piccole guerriere hanno trovato l’amore…”
Arrossii.
“Comunque non è tempo di discutere di matrimoni.” continuò lo sciamano.
Ci fu un attimo di silenzio.
“Allora…. Qual è il piano?” chiesi a Merlino, stringendo la daga tra le mani.
Lui mi guardò con orgoglio.
Poi tutti e tre ci tuffammo nella boscaglia.
Qualche minuto dopo, ero in prima fila accanto a Ginevra, con l’arco teso e la freccia incoccata.
I romani avevano creato una specie di nube di fumo che avvolgeva tutto il campo di battaglia, che si trovava davanti all’entrata della cittadella: miravano a confondere i nemici. Artù e i suoi cavalieri, nascosti dal fumo, sarebbero passati in mezzo ai sassoni per disperderli e disorientarli. Noi Woad da un boschetto a ovest della pianura dovevamo invece colpire le prime linee nemiche con i nostri dardi, poi una parte di noi doveva gettarsi nella mischia per il corpo a corpo, l’altra doveva manovrare le catapulte, nascoste proprio sull’altura di fronte all’entrata. Un altro gruppo avrebbe chiuso la porta principale della cittadella alle spalle dei sassoni, che sarebbero rimasti intrappolati.
Poi nessuno sapeva come sarebbe andata, e se il giorno dopo sarebbe stato in grado di raccontare a qualcun altro il resoconto della battaglia.
Mi girava la testa, e sentivo che di lì a poco sarei caduta per terra, tanto mi tremavano le gambe.
Ginevra si accorse del mio malessere.
“Non preoccuparti e fa’ del tuo meglio. Pensa che anche se morirai, forse i posteri avranno un futuro migliore…”
Quel pensiero non mi confortò per niente.
Poi riaffiorò il ricordo di Lancillotto, come in ogni mio momento difficile.
Lui avrebbe combattuto. Lui era un cavaliere di Artù.
Non volevo essere da meno. E non lo avrei lasciato solo nella mischia, dove avrebbero potuto ucciderlo… No, prima di mettergli le mani addosso quegli sporchi sassoni sarebbero dovuti passare sul mio cadavere!
Impugnai l’arco con più vigore.
“E sia allora.” fu tutto quello che riuscii ad articolare.
Proprio in quell’istante sentii un rombo sordo e cupo salire dalla terra.
Cercai di rimanere ferma, e di tenere lo sguardo fisso in avanti.
I nemici si stavano avvicinando alla fortezza, che era stata evacuata di vecchi, donne e bambini.
Merlino aveva offerto loro rifugio nei villaggi nascosti degli Woad.
Mi rincuorò il solo pensiero degli innocenti al sicuro.
“State pronti!” gridò Ginevra.
Osservai il campo di battaglia. Di lì a poco si sarebbe coperto di sangue e di cadaveri.

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Capitolo 9
*** Capitolo Nono ***


Capitolo Nono
Nel quale sul campo scoppia l’inferno

L’esercito sassone ormai era giunto alla porta principale, che era stata barricata. Sentii chiaramente i tonfi degli arieti. Volevano sfondare i battenti.
Dietro la porta stava Artù, in sella ad uno stallone bianco.
Non sapevo dove fossero gli altri cavalieri, probabilmente in qualche posto nascosto per balzare di sorpresa in mezzo al fumo…
Uno schianto, e il portone cedette. I sassoni rimasero attoniti, quando si accorsero del silenzio che regnava nella cittadella.
Artù comparve di fronte a loro, il cimiero al vento.
La coltre di nebbia grigia rendeva la scena spettrale.
Il capo dei sassoni avanzò, fino a trovarsi di fronte alle froge allargate del cavallo scalpitante.
Sembrava che stesse guardando un fantasma.
I due comandanti si scrutarono in cagnesco.
Si sibilarono qualche parola, e poi Artù scomparve di nuovo dietro le porte.
L’altro uomo fece un gesto, e un drappello di guerrieri si azzardò ad entrare. Il campo della cittadella era stato bruciato, e ora non si vedeva più niente per il fumo.
Poco dopo, si udirono delle urla. Artù e i cavalieri si erano scagliati sul nemico, e a quanto pareva stavano avendo la meglio.
Il capo sassone e l’esercito rimanevano immobili fuori dai battenti.
La crudeltà di quell’individuo mi fece venire i brividi. Non andava neanche in soccorso dei suoi soldati.
Pensai a Lancillotto, lì, nel fumo, a galoppare avanti e indietro colpendo nemici e sperando di non essere disarcionato.
Deglutii.
Tra poco sarebbe toccato a me.
Ad un tratto calò di nuovo il silenzio all’interno della cittadella.
Costernati ed impazienti, i sassoni decisero di avventurarsi oltre le porte.
Quell’attesa mi stava facendo ammattire.
Ormai le mani tremavano, e la corda tesa dell’arco vibrava cigolando.
Ginevra mi guardò.
“Io guiderò il corpo a corpo.”
“Cosa??”
“Sono la regina. E’ il mio compito.”
“Ma io…”
“Tu rimarrai con Merlino e gli arcieri.”
“Voglio combattere con te!”
Quel breve scambio di battute si era svolto tra preoccupazione e rabbia malcelata.
Non avevo nessuna intenzione di stare a guardare dagli alberi i miei compagni e Ginevra che venivano assaliti!
Ci fu una pausa.
“Addio Elynor.”
Scossi la testa.
“Questo non è un addio, accidenti! Come fai ad essere così rassegnata all’idea di morire? Tu sei la regina, sei una grande combattente, sei destinata a restare per governare, e il fato non sarà così crudele col popolo degli Woad!” sibilai, stizzita e spaventata.
“Cosa te lo fa pensare??” ribatté Ginevra.
“Io… Non lo so!” dissi esasperata “Ma voglio lottare con la speranza di sopravvivere per riuscire a vedere un mondo migliore, non mi getterò nella mischia sapendo di dover morire sul campo di battaglia, ma pensando di servire con onore e convinzione la causa giusta per una libertà vera! E se anche cadrò sotto i colpi del nemico, avrò fatto tutto il possibile per ciò in cui credevo. E non saranno certo quelle sporche teste bionde a privarmi di una cosa così bella e preziosa! Quindi per favore non rassegnarti…” le parole mi si spezzarono in gola, con la voce che divenne tremante.
Avevo cercato di dimostrare a Ginevra tutto l’attaccamento alla vita che avevo.
Lei mi guardò e sorrise.
“Va bene, sorellina. Vieni con me, e vinceremo assieme.”
In quell’istante, si udì la tonante voce di Merlino.
“Tirate!!”
Lasciai andare la corda, e il dardo saettò in aria, portandosi dietro anche la mia paura.
Incoccai subito la seconda freccia, e al secondo ordine un’altra raffica trafisse i guerrieri sassoni che stavano correndo lungo il fianco sinistro del loro schieramento.
I corpi cominciarono a cadere, e si levarono urla agghiaccianti.
Per farmi coraggio, gridavo ogni volta che tendevo il mio arco, pronta a lasciar partire un nuovo dardo.
“Questo è per Lynet!”
“Questo è per Ban!”
“Questo è per Dagonet!”
Tutti i colpi andarono a segno, guidati dalla mia rabbia.
Poi, ad un tratto Ginevra lasciò il suo arco ed estrasse una spada.
Mi lanciò un’occhiata, al che abbandonai anche la mia arma e misi mano all’elsa della daga.
Poi, ad un segnale, ci gettammo allo scoperto gridando come ossesse.
I sassoni rimasero sbigottiti dalle truppe Woad che erano sorte dal bosco, ma non ci fu il tempo per loro di capire cosa stava succedendo, perché fummo loro addosso.
L’urto fu terribile.
Mi ritrovai nel mezzo di una confusione fatta di uomini, armi, sangue e grida di dolore.
Strinsi l’impugnatura della mia arma, e mi lanciai all’attacco.
Mi parai davanti ad un guerriero nemico che reggeva una mazza ferrata.
Prese ad agitarla con furia, e poi tentò di colpirmi.
Mi scansai appena in tempo, poi estrassi uno dei miei pugnali e glielo lanciai automaticamente alla gola.
L’uomo crollò rantolando e sputando grumi di sangue.
Ebbi appena l’occasione di riprendermi il pugnale che un compagno del caduto era già lì pronto a vendicarlo, e mi tirò una secca botta con il suo scudo.
Barcollai per il colpo, ma riuscii a raddrizzare la mia daga appena in tempo, così quando lui fece per buttarmi a terra si ritrovò trapassato.
Rinvigorita da quei due successi, mi piazzai a gambe larghe in mezzo alla turba confusa e pensai: “Venite, ce n’è per tutti!!”
Come se avesse udito le mie parole, un sassone mi si avventò contro brandendo la sua ascia.
Lo uccisi, ma mi resi conto con orrore che mi aveva ferito un braccio.
Con una smorfia di dolore mi guardai intorno.
Riconobbi Artù, in sella al suo destriero bianco, che lottava come un leone nella mischia.
Più in là Ginevra, assieme a delle compagne Woad, stava strangolando un uomo.
Merlino roteava il suo bastone, e l’eco dei colpi che sferrava sulle schiene si sentiva per tutto il campo.
Bors, ricoperto di sangue, urlava massacrando il corpo di un malcapitato che si era trovato sulla sua via.
Gli altri cavalieri erano come lui impegnati in un combattimento senza fine.
Ma dov’era Lancillotto?
Avevo giurato che lo avrei difeso, ma ora non riuscivo più a vederlo.
Mi feci strada menando fendenti alla cieca contro chiunque mi sbarrava il cammino.
Poi lo scorsi.
Era sceso da cavallo, e stava combattendo ferocemente, perché un gruppo di sassoni gli si era infoltito attorno, e lo aveva intrappolato.
Non esitai, e con un urlo mi scagliai sui nemici per aprirgli un varco.
Lui mi riconobbe, e mi fece un cenno col capo.
Insieme, spalla a spalla, respingemmo i guerrieri con violenza.
Ad un tratto, entrambi vedemmo Ginevra essere in difficoltà, che tentava disperatamente di resistere ad un avversario più forte di lei.
Liberai la strada a Lancillotto, che si precipitò in avanti in soccorso della ragazza.
Lo osservai mentre mulinava le due spade, incrociandole e separandole, per poi conficcarle nel petto dei nemici.
Raggiunse il sassone che aveva ferito Ginevra al ventre, e lo spinse via, lasciandolo rotolare a terra.
Io cercai di andare in aiuto della mia amica, ma ancora una volta fui ostacolata.
“Adesso basta!” sbottai, e mollai un colpo che spaccò l’elmo di un guerriero, che rimase rintronato e cadde con un tonfo.
Cercai di farmi largo tra la folla, ma quando arrivai accanto a Ginevra, mi accorsi che il dannatissimo sassone, quello che aveva ucciso Dagonet, che aveva ferito lei e che era sembrato ormai essere uscito di scena, stava prendendo la mira con una balestra.
Puntava Lancillotto, che era ancora intento a dar battaglia.
“No, maledizione!!” ringhiai, e incurante di tutto e di tutti scattai verso di lui.
Estrassi i miei pugnali d’osso, e uno dopo l’altro essi volarono fischiando fino al suo torace.
Ma la freccia era già partita.
Spiccai un balzo, portando le braccia in avanti.
Vidi il dardo saettare verso di me.
Mi sembrò di rimanere lì a galleggiare nell’aria per alcuni istanti, fino a quando non sentii uno strappo tra il collo e la spalla, che mi fece cadere all’indietro.
Rotolai su un fianco.
Gemendo per il dolore, tastai con una mano il luogo da cui proveniva quel dolore lancinante. E il dardo era lì, piantato. La ferita pulsava, ed irrorava sangue.
La vista mi si annebbiò, e non riuscii a rialzarmi in piedi.
Strinsi i denti, ma mi sfuggì un lamento.
Lancillotto si voltò, e mi vide a terra.
Si inginocchiò, e mi prese la testa fra le mani.
“Elynor… Elynor…” continuava a dire, con voce rotta.
Io aprii la bocca, ma ne uscì un fiotto di sangue.
Mi spaventai, e inghiottii quel sapore metallico.
Lancillotto sbarrò gli occhi, si rialzò e impugnò le sue due spade.
Lo vidi lanciarsi contro il sassone che aveva la balestra, come una tigre che si avventa sulla preda.
Fu questione di minuti. L’uomo aveva già perso sangue per le ferite causategli dai miei pugnali, e a Lancillotto non restò che decapitarlo. Il sangue schizzò dappertutto, formando chiazze brunastre.
Il cavaliere tornò da me e mi prese in braccio.
Sentivo il suo cuore battere impazzito.
Ero terrorizzata. Percepivo le forze che piano piano fluivano via dal mio corpo, e mi sentivo sempre più debole.
La ferita bruciava in maniera insopportabile.
Lancillotto si stava dirigendo con passo malfermo verso la foresta dalla quale eravamo sbucati fuori io e gli Woad al momento dell’assalto.
“Resisti Elynor, ti prego, stringi i denti e resisti…” mi mormorava con voce tremante.
Avevo voglia di gridare. Vederlo così mi faceva male al cuore.
Ci inoltrammo tra gli alberi, e dopo un po’, lui mi depose a terra, ai piedi di una quercia.
Piegai il capo per guardarlo in volto.
Stava piangendo. Le lacrime gli scorrevano lente lungo le guance, mischiandosi al sangue.
“Tranquilla…” mi disse, tentando di camuffare la sua disperazione.
Vidi che avvicinava le mani alla freccia conficcata nella mia spalla, così feci un tentativo di scostarmi, ma con scarso successo.
“Cercherò di non farti troppo male, te lo prometto…” mi sussurrò lui, e si preparò ad estrarre il dardo.
Chiusi le palpebre.
“Conto fino a tre, e poi tiro.” annunciò Lancillotto.
Annuii piano.
“Uno…”
“Due…”
“Tre!”
Ci fu una specie di schiocco, e poi il dolore si fece più acuto per un attimo.
Mi morsi il labbro per non gridare, ma gli occhi mi si inumidirono.
“Brava Elynor… Brava, piccola mia.” sentii una mano sulla mia fronte, poi un pezzo di stoffa calda che mi si avvolgeva attorno al braccio.
Aprii di nuovo le palpebre.
“Lancillotto…” mormorai, con un filo di voce.
Lui avvicinò il suo viso al mio.
“Non ti preoccupare, c’è Merlino qui con me. Ti sta curando le ferite…”
Tentai di sorridergli, per dargli l’impressione di stare già meglio.
Lui mi diede un bacio a fior di labbra, mi accarezzò i capelli e poi si rialzò.
Sentii uno strano ronzio nelle orecchie, e la vista mi si annebbiò.
Mi passai la lingua sulle labbra aride.
Me ne stavo andando per sempre?
Avrei abbandonato Lancillotto, Merlino, Ginevra, Artù e i cavalieri?
La testa mi si fece pesante.
Alzai lo sguardo verso l’alto. Tra le cime degli alberi e il fumo, lassù, il falco di Tristano volava disegnando ampi cerchi e lanciando acuti richiami.
Seguii i suoi movimenti lenti per qualche istante, finché mi sentii ipnotizzata.
L’ultima cosa che vidi fu Lancillotto, che preso dall’ira sguainò nuovamente la sua spada e corse verso il campo di battaglia gridando: “Non mi toglieranno la cosa più preziosa che ho… Pagheranno per questo, dannazione!”
Poi le immagini si sciolsero in ombre confuse…


Sigh sigh sob… Adoro questo capitolo, ed è quello che mi ha preso più tempo per la scena di battaglia… Spero tanto che sia riuscita bene!
Allora, chissà cosa vedremo nel prossimo capitolo… Lancillotto assetato di vendetta, Elynor in fin di vita…
RIMARRETE COL FIATO SOSPESO PER UN PO’ Ahahahah… Come sono perfida!
Un ringraziamento ad
Eleuthera, che mi ha recensito nello scorso capitolo: per la miseria, come tutti avranno potuto notare, per ora mi sono presa una piccola licenza poetica… Spero che questo non disturbi coloro che avrebbero preferito la morte subitanea di Lancillotto (con seguente infarto di Elynor) Ma RICORDATE… La storia non si è ancora conclusa!
E con questo vi saluto, al prossimo capitolo!

Gertie

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Capitolo 10
*** Capitolo Decimo ***


Capitolo Decimo
Nel quale giungono brutte notizie e si fanno ricerche

Non so come, riuscii ad aprire gli occhi dopo un periodo indefinito di tempo.
“Sono…viva??” mi chiesi, incredula per la mia fortuna.
Ero in una stanza buia, adagiata in un giaciglio di pellicce soffici e calde.
Solo uno spiraglio di luce dorata colorava le pareti di macchie lucenti.
Il raggio illuminava qualcosa in un angolo. La mia daga, appoggiata ad una vecchia seggiola consumata. La lama era insanguinata, e rifletteva la luce tingendola di rosso.
Dunque non era affatto stato un brutto incubo.
Tossii.
Non si sarebbe potuta descrivere la mia gioia quando scoprii che respiravo!
Feci per stiracchiarmi, ma qualcosa me lo impedì. Avevo il braccio sinistro completamente fasciato, e doleva se lo muovevo.
Con un po’ di imbarazzo notai che non avevo niente addosso, tranne le bende che ricoprivano anche il mio torace e il polpaccio destro.
Scostai le coperte e tentai di alzarmi in piedi. Una fitta lancinante mi attraversò il corpo.
Ricaddi sul letto.
Aspettai un attimo, presi un bel respiro e riprovai, appoggiandomi malamente alle pareti.
Mi trascinai fino alla daga, che afferrai e adoperai per stampella di fortuna.
Poi mi infilai alla bell’e meglio una tunica vecchia.
Mi diressi verso il raggio zoppicando.
Veniva da una porta di legno tarlato, che aprii lentamente e con fatica.
L’aria pulita mi investì i polmoni.
Ci misi un poco per abituarmi alla luce, e poi misi a fuoco ciò che mi attorniava.
Tante capanne, col tetto di frasche e il fumo che usciva dalla sommità, serpeggiando e creando disegni grigiastri.
Galline che razzolavano nel fango.
Rumori indistinti di martelli che battevano contro superfici solide.
Risate di bambini.
In lontananza una verde collina, con in cima un boschetto fitto.
Per un attimo mi sembrò di essere ritornata a casa, nel mio villaggio.
Mossi qualche passo incerto.
La daga mi sfuggì di mano e cadde con un rumore metallico. Caracollai tonfando a terra.
Immediatamente, da dietro l’angolo spuntò un viso amico.
Merlino.
Sembrava ancora più vecchio dell’ultima volta che l’avevo visto.
Segnato anche lui dalla battaglia.
“Elynor… Ah! Quale gioia!” esclamò, correndomi incontro.
Mi aiutò a rimettermi in piedi.
Lo abbracciai. Ero contenta che fosse sopravvissuto.
“Dove… Dove siamo?”
Lui sorrise.
“In un villaggio che per fortuna non è stato toccato dai sassoni. Siamo al sicuro.”
“E gli altri?”
“Vieni, ti accompagno da loro.”
Merlino mi prese sottobraccio, e vacillando un po’ insieme raggiungemmo una capanna più grande.
Fuori c’era un recinto di legno.
Dei cavalli pascolavano tranquillamente, tranne uno.
Nero come la pece.
Sbuffando si avvicinò al bordo della staccionata e lanciò un nitrito.
“Oh… Graeth!!” esclamai.
Feci per andare verso di lui, ma persi l’equilibrio.
Merlino mi afferrò prima che potessi toccare il suolo.
“Fa attenzione!!” borbottò.
Con più calma mi accostai al muso scuro del mio caro vecchio amico.
Presi ad accarezzarlo.
Lui mi soffiò tra i capelli con le sue narici morbide.
“Su, su… Andiamo!” mi richiamò Merlino, piuttosto impaziente.
“A dopo, amico!” salutai Graeth, compagno di sfide e avventure.
Giungemmo alla porta della capanna.
Non seppi perché, ma esitai un momento, prima di spingerla.
Chissà cos avrei trovato dall’altra parte.
Non avevo ancora pensato a quanti ‘altri’ erano rimasti.
I cardini cigolarono.
Nella penombra giacevano delle figure indistinte.
Piano piano riconobbi Artù, seduto in un angolo, con una vistosa cicatrice sul polpaccio destro.
Appoggiato al muro, in piedi, stava Galahad. Aveva una guancia sfregiata, da un colpo di spada.
Galvano a braccia incrociate accanto al tavolo. I suoi biondi capelli erano macchiati di sangue.
Bors si stava spalmando un unguento su una ferita sul collo.
Ginevra, stesa su un giaciglio, sfiorava con la mano destra un profondo squarcio che era stato ricucito, sotto il seno sinistro.
“Ehi Elynor, ti hanno conciata per le feste!” esclamò Galahad.
Sorrisi.
“Ah sì, ma li ho ripagati per bene, te lo assicuro.” risposi.
Si sollevò una debole risata da parte dei presenti.
Ma nessuno era troppo in vena di scherzare. Quella battaglia ci aveva sfiancati, distrutti, devastati nel corpo e nell’anima.
Ma dove si era cacciato Lancillotto??
I miei occhi indagarono per la stanza, ma non videro traccia di lui.
Merlino si accorse della mia evidente preoccupazione.
“Io… Non so come dirtelo, ma…”
Chiusi gli occhi, inspirai e mi preparai al peggio.
“…Ma non abbiamo trovato alcuna traccia di Lancillotto.”
“Cosa??” articolai “E’ scomparso??”
“Così pare.”
“Ma è impossibile!!” esclamai, con quanto fiato avevo in gola.
Disperso chissà dove? No… Non poteva essere vero. Non riuscivo a capacitarmi.
Senza capire quello che stavo facendo, girai i tacchi, uscii dalla capanna e arrivai fino al recinto.
Graeth mi lanciò un’occhiata, con le orecchie in avanti, incuriosito.
“Si torna in scena, amico. Abbiamo una missione.”
Merlino e Artù si erano precipitati dietro di me, probabilmente in un inutile tentativo di fermarmi.
“Che stai facendo?? Sei impazzita?!” esclamò lo sciamano.
“Potrebbero esserci ancora dei sassoni qui in giro, e con quelle ferite non dovresti assolutamente permetterti di cavalcare!” aggiunse Artù.
“Non importa!” gridai, con voce rotta.
Afferrai convulsamente la sella e la gettai sul dorso di Graeth.
Allacciai il sottopancia con mani tremanti.
Infilai il morso, e feci passare le redini fino dietro il collo dell’animale.
Lo condussi accanto alla staccionata, mi issai a fatica su uno dei paletti e riuscii a mettermi seduta in groppa al cavallo, che cominciò a muoversi impaziente.
“Non hai idea di quello che stai facendo!” disse Merlino, e si prese la testa fra le mani.
Con la vista appannata, misi la daga nel fodero.
“Questo non è vero! Io… Troverò Lancillotto, fosse l’ultima cosa che faccio… Non voglio perdere anche lui!”
I miei talloni toccarono i fianchi di Graeth, che partì di scatto verso la collina.
Il sole, rosso fuoco, stava calando lentamente.
Sentivo il rumore cadenzato degli zoccoli che battevano sul terreno.
Il braccio mi doleva, ma cercai di non pensarci. In quel momento era una cosa priva di importanza.
Tornai alla cittadella, al campo di battaglia che era appena stato abbandonato.
Fu uno spettacolo raccapricciante.
Nella luce del tramonto, si profilavano cumuli di corpi orrendamente mutilati e senza vita. Piantati malamente nel terreno, gli stendardi ondeggiavano lievemente nella brezza.
L’aquila, insegna romana di guerra, scrutava ciò che rimaneva dello scontro, con le ali aperte e il becco puntato in alto, in un’espressione orgogliosa. Ma era abbandonata lì, e macchiata di sangue.
Nessun movimento. Nessun suono al di fuori del lento crepitare dei fuochi che si stavano spegnendo.
Stormi di corvi svolazzavano bassi, e si adagiavano sui cadaveri, che emanavano un insopportabile puzzo mortifero.
Fui pervasa dall’orrore, ma spinsi Graeth ad avanzare.
Cercai qualche segno che mi indicasse Lancillotto. Sperai con tutto il cuore che fosse ancora vivo.
Colonne di fumo nero si innalzavano nel cielo, formando strane figure inquietanti.
Ad un tratto individuai per terra qualcosa che mi mozzò il respiro.
Conficcata in un cadavere c’era una delle spade di Lancillotto.
Il vederla senza la compagna mi addolorò. Lancillotto si prendeva molta cura delle sue armi, e non le avrebbe mai abbandonate.
Smontai da cavallo.
Raccolsi la spada e me la strinsi al petto.
Almeno era un suo segno.
Doveva essere lì attorno.
I miei occhi notarono una traccia di sangue.
Era fresco.
Tante macchie rossastre, una dopo l’altra, mostravano una specie di macabro percorso da seguire.
Le seguii, tenendo per le redini Graeth, che mi seguiva docilmente.
La scia conduceva ad un fiumiciattolo che scorreva poco lontano.
Scrutai attentamente le sponde, in cerca di qualche segno di vita.
Fu allora che lo notai.
Un tenue bagliore.
Era il luccicare di un’armatura.
Proveniva da dietro un tronco caduto, coperto dal muschio.
Mi precipitai a controllare.
E mi sfuggì un urlo.
Era proprio lì, Lancillotto.
I riccioli neri bagnati e lucenti, il volto pallido e insanguinato.
I suoi bellissimi occhi neri erano chiusi.
L’armatura era ammaccata in più punti.
Mi sentii svenire, e vacillai.
Mi inginocchiai accanto al cavaliere.
Non osavo sfiorarlo.
“No, non può essere… Non deve essere…” non riuscivo neanche a pronunciare quella parola.
Cercai di inspirare profondamente, ma mi mancò l’aria, annaspai e attaccai a tossire.
Pian piano la tosse si tramutò in singhiozzi.
Mi accasciai su un fianco, tramortita come una pietra.
“Come è potuto accadere… No… Non… Non lui!” le parole mi uscivano di bocca, senza che fossero legate da un filo logico. Non riuscivo a capacitarmi di niente.
Rimanevo lì, distesa e piangente, con Graeth che mi tirava colpetti col muso sulla spalla in un vago tentativo di conforto.
Dopo un po’ che le pacche si fecero insistenti, alzai la testa.
“Graeth, smettila per fav…” ammutolii.
Non era il muso del cavallo che mi stava tirando un lembo del mantello.
Era una mano.
Era lui! Lì, insanguinato, ferito, stremato, debole… Ma vivo!
“Lancillotto!!” esclamai, con voce rotta.


Anf... Anf... Allora, che ve ne pare?
Non mi sembra vero, questo è già il capitolo numero dieci... Sembra ieri che cominciavo a pensare al soggetto e a preparare una piccola bozza del racconto... Come vola il tempo!
Okay, basta sdolcinate nostalgie!
Ho scoperto con gioia che c'è un'altra persona che legge la mia fanfic. e che ringrazio con tutto il cuore per l'incoraggiamento e i complimenti :
monalisasmile!
Dunque dunque dunque... Cosa anticipare sul prossimo capitolo? Ah, sì!
Finalmente, dopo crude descrizioni di battaglie... Si avrà una bella scena romantica! Ma non vi dico più niente se no vi rovino tutta la sorpresa... Eheheh...
A prestissimo!

Gertie

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Capitolo 11
*** Capitolo Undicesimo ***


Capitolo Undicesimo
Nel quale c'è una rimpatriata attesa da molto

Mi precipitai al suo fianco.
Aveva gli occhi chiusi, ma respirava piano.
Gli accarezzai il viso.
“Ehi… Sono qui. Sono tornata a cercarti!” gli sussurrai.
Lui mormorò qualcosa di incomprensibile in risposta, così io mi alzai e corsi verso il fiumiciattolo.
Utilizzai l’elmo come recipiente di fortuna, e, tornata da Lancillotto, lo accostai alla sua bocca perché potesse dissetarsi e riprendere almeno un po’ di energia.
Gli tolsi prudentemente l’armatura, e lavai le sue ferite, che erano numerose e in più punti.
Una in particolare aveva un aspetto preoccupante.
Un taglio profondo sul torace. Il sangue aveva smesso di fluire e si era seccato.
Strappai un pezzo del mantello e lo bagnai. Pulii la ferita e cercai di preparare una fasciatura abbastanza resistente.
Il sole ormai era quasi calato dietro le montagne, e i pochi raggi coloravano il cielo di arancione e di sfumature violette.
Dovevo sbrigarmi.
Potevo caricare Lancillotto su Graeth e tornare al villaggio da Merlino… Ma era troppo rischioso.
Il cavaliere era molto malridotto. Non sarebbe riuscito ad affrontare il viaggio.
Decisi di accamparmi alla bell’e meglio accanto al fiume.
Tentai di accendere un fuoco, ma siccome non ero molto esperta, mi ci vollero innumerevoli tentativi.
Alla fine, con le mani sbucciate e tremanti, riuscii ad ottenere un filo di fumo che si sprigionò dai due legnetti che avevo insistentemente sfregato.
Poco dopo, un’allegra fiamma crepitava sul suo cumulo di sterpi secchi.
Sfoderai uno dei miei pugnali d’osso e mi sdraiai sulla riva del fiume.
In un’ansa dove la corrente si faceva meno violenta, riuscii ad individuare una piccola trota.
Rammentando i preziosi insegnamenti della sopravvivenza Woad, riuscii a catturarla e ad ucciderla.
Abbrustolii la preda sulle braci.
Era un ben magro bottino, di carne ce n’era poca, e decisi senza esitare di lasciarla a Lancillotto.
Un boccone dopo l’altro, gliela feci mangiare tutta quanta.
Levai il sottosella di Graeth e lo usai per coprire il corpo infreddolito del cavaliere.
Mi avviluppai nel mantello, afferrai la mia daga e mi appostai accanto al fuoco per fare la guardia.
Il buio calò in una coltre silenziosa, e io mi persi a osservare le fiammelle che guizzavano schioccando.
“…Elynor…”
Trasalii.
Si era ripreso?
Mi avvicinai con cautela a Lancillotto.
Aveva gli occhi aperti. E brillavano taglienti.
“Sono già morto… Il mio angelo…”
Con un sorriso lo riportai alla realtà.
“Ehi, non sono un angelo, tu non sei morto. Stai soltanto farneticando.”
Per sicurezza appoggiai il palmo della mano sulla sua fronte. No, niente febbre per fortuna.
“Come… Stai?” gli domandai, e mi sentii stupida.
Come doveva stare, dopo che i sassoni lo avevano conciato per le feste??
“Mhm… Un po’… Intorpidito.” mi rispose, ridendo sommessamente.
Gli rimboccai la coperta improvvisata.
“Freddina questa notte, eh?” disse, con una smorfia “Ho il naso congelato.”
“Aspetta…” mi levai il mantello dalle spalle e lo stesi per bene sopra il sottosella.
L’aria gelida mi graffiò come una lama appuntita.
“Elynor, tremi come una foglia. Vieni qua.” il suo tono era premuroso ma autoritario.
Mi fece un po’ di spazio, e io mi accoccolai accanto a lui.
Lancillotto alzò un braccio, e mi circondò dolcemente le spalle, stringendomi a sé.
Avvampai, e lui scoppiò in una risata.
“Sei un buffone…”
“ Tu invece sei troppo scostante.”
“Lo dico e lo ripeto: buffone!”
“E tu allora ti imbarazzi sempre per tutto!”
Rimasi zitta.
Lui si voltò a guardarmi e sorrise.
Mi rannicchiai contro di lui, e posai la testa nell’incavo della sua spalla.
“Una… Duuuue… Tre! … Quattro…”
“Che cosa stai contando??” gli chiesi, ridendo.
“Le stelle cadenti. Ce ne sono moltissime stasera.”
Guardai in su. E misi mozzò il fiato.
Era uno spettacolo meraviglioso.
“Ti ricordi che Uwaen ci diceva sempre di esprimere un desiderio quando ne vedevamo una?” gli sussurrai.
“Certo.”
“E… Che cosa hai espresso??”
“Non si può dire, se no il desiderio non si avvera.”
“Uffa.”
Silenzio.
“Ma neanche un indizio?”
“No.”
“Daiii!”
“Nooo.”
“Per favore!”
“Ti ho detto di no! Non fare la bambina capricciosa!”
“Ma ne hai viste quattro! Io te ne chiedo uno piccolo piccolo…”
Lancillotto ghignò, e scosse la testa ricciuta.
“Sei un brutto egoista, ecco cosa sei.” berciai indispettita.
“Se proprio lo vuoi sapere, ho chiesto quattro volte la stessa cosa!”
“E allora? Anche se sacrifichi un desiderio ce ne sono altri tre uguali che si possono avverare!” dissi, orgogliosa della logicità dell’osservazione, sebbene mi stessi arrampicando evidentemente sugli specchi.
Lui si arrese.
“Ho chiesto… Di poter rimanere per sempre con te.”
Avvicinai timidamente il mio viso al suo, dimentica di tutto ciò che mi circondava, e lo baciai.
Quanto avevo sperato di sentire ancora le sue labbra morbide sulle mie.
Socchiusi gli occhi, e fu allora che la vidi.
Una stella cadente. La mia stella cadente.
“Sai una cosa?” dissi a Lancillotto, poggiando il capo sul suo petto “Non hai bisogno di quel quarto desiderio… L’ho espresso io per te.”
Lui prese ad accarezzarmi i capelli.
Cullata dal suo respiro, mi addormentai.
Scaldata dai tiepidi raggi del sole, aprii gli occhi.
Era l’alba. La più bella che avessi mai visto…
Mi girai per controllare Lancillotto, e constatai con un fremito di preoccupazione che non era più accanto a me.
Scattai in piedi, e mi guardai attentamente intorno. Anche l’armatura era sparita.
“Ma dove diavolo è andato a…”
“Buongiorno!!”
“Aaaaaaaahh!” strillai.
Eccolo, che mi era spuntato alle spalle e mi aveva urlato nelle orecchie.
“Folle! Mi hai spaventato a morte!”
“Mai abbassare la guardia…” sentenziò lui, alzando un sopracciglio.
“Sei sempre il solito…” sbuffai “Comunque dobbiamo incamminarci, il villaggio di Merlino non è poi così vicino… Dovremo cavalcare per un po’. Tu sei pronto?”
Lui assunse un’aria scocciata.
“E non ho neanche fatto colazione…”
Montammo in sella a Graeth. Lui davanti, e io dietro tenendo le redini.
“Oh, andiamo, lascia che lo guidi io!”protestò Lancillotto.
“Senti non fare il bambino, Graeth obbedisce solo a me! Tu pensa solo a non volare per terra…” lo rimbeccai.
Diedi di sproni, e lo stallone partì al trotto.
Riattraversammo il campo di battaglia devastato.
“Senti…” azzardai “Ma… Cos è successo dopo che mi hai affidata a Merlino?”
Ci fu un attimo di silenzio.
“Ho continuato a battagliare, finché…” si interruppe lui.
“Finché?”
“… Finché non ho visto Tristano.”
Tristano!
Una morsa mi serrò lo stomaco. Non lo avevo visto nella capanna…
“Cos è accaduto a Tristano??”
Lancillotto esitò.
“Lui è… Lui è… Lo hanno ucciso…”
Provai un senso di nausea, e chinai la testa contro la schiena di Lancillotto.
Quanto ci voleva perché quella pazzia finisse? Quante vittime ancora?
Ingoiai le lacrime.
“E poi?”
“Stava combattendo contro Cerdic, il capo sassone… Ma non ce l’ha fatta. Ho cercato di aiutarlo ma… Mi hanno accerchiato, e uno mi ha tirato un colpo d’ascia al torace…”
Trasalii.
Cercai disperatamente di non immaginarmi la scena.
“Cerdic è morto. Lo ha sgozzato Artù.”
Provai una rabbia sorda.
Non sentivo neanche un briciolo di pietà per quell’essere abominevole…
Artù aveva vendicato il suo compagno. Io avrei fatto lo stesso.
“Ha fatto bene!” pensai decisa.
Verso mezzogiorno giungemmo in prossimità del villaggio.
Scorsi Merlino correrci incontro, così balzai giù di sella.
“Elynor! Piccola incosciente… Stanotte non ho chiuso occhio!” mi abbracciò stretta e mi arruffò i capelli.
Poi aiutammo Lancillotto a scendere, e io lo accompagnai fino ad un giaciglio dove si sarebbe dovuto sdraiare per sottoporsi alle cure dello sciamano.
Sentii delle urla di gioia e la porta della capanna si spalancò.
Qualcosa di grosso e robusto mi afferrò per la vita e mi sollevò in aria.
Era Bors!
“Sana e salva! Finalmente!” esclamò sghignazzando.
Sopraggiunsero Galahad e Galvano e ci fu un abbraccio stritolatore di gruppo dal quale uscii piuttosto indolenzita.
Ma non ebbi il tempo di riprendermi che qualcuno cozzò contro di me e mi trascinò a terra.
“Ginevra!”
“Elynor… Sorella mia!!”
Scoppiammo a ridere lì, sdraiate per terra.
“Che bello rivederti…” mi baciò le guance e mi aiutò a rialzarmi.
Barcollai, sorridendo.
Dietro di lei era entrato Artù.
Se ne stava appoggiato al muro, e aveva un’aria seria.
Mi avvicinai silenziosamente tenendo lo sguardo puntato sui miei sandali.
“Salve, comandante.” articolai.
Alzai gli occhi e mi specchiai nelle sue magiche iridi verdi.
Per un momento nessuno dei due disse una parola.
Poi la commozione ebbe il sopravvento, e con gli occhi pieni di lacrime mi strinse a sé.
“Bentornata. Bel lavoro.”
Ci fu una risata generale.
Eccomi, con la mia famiglia tutta raccolta in una stanza.
Merlino, Ginevra, Lancillotto, Artù, Galvano, Galahad e Bors.
Non c’erano persone migliori di loro al mondo.
Quella sera andai a far visita alla tomba di Tristano, che era stata costruita al limitare del villaggio.
Mi sorpresi.
Sulla sua spada, conficcata nella terra, se ne stava appollaiato il falco.
Gracchiava in modo straziante.
“Ehi… Amico.” mormorai, inginocchiandomi vicino al tumulo “Il tuo padrone ora sta bene… E’ libero!”
Il falco per tutta risposta cercò di beccarmi la mano che avevo teso in segno di amicizia.
“Ti capisco. Ma sai cosa raccontava Uwaen, a casa mia?” l’uccello smise di gemere e mi fissò con il suo sguardo penetrante.
“I cavalieri morti in combattimento si reincarnano in forti e meravigliosi cavalli. Ho idea che rivedremo presto Tristano…”
Il falco zampettò fino a me e mi volò sulla spalla.
Gli accarezzai le piume.
Il sole rosso galleggiava nel cielo. Stormi di rondini svolazzavano garrendo.
Era incredibile come i miei sentimenti fossero in relazione con la natura; ora mi sentivo pervasa da un senso di pace e speranza. Il peggio era passato, e anche se portando cicatrici indelebili, la vita sarebbe continuata.
Una leggera brezza mi scompigliò i capelli.
Il falco fischiò.
“Hah! La senti, vero?! E’ lei, la musica degli alberi…” sussurrai, quasi commossa.
L’uccello si alzò in volo sopra i pini.
Sorrisi.
“Addio Tristano, veglia su di noi.”
Quella sera ci fu una festa, al villaggio. Merlino aveva fatto preparare un grande banchetto, spessi tavolacci e panche di legno erano state disposte in uno spiazzo verde rischiarato da numerose fiaccole conficcate nel terreno.
Vanora e le altre donne avevano cucinato tutto il giorno, e ora arrosti di tutti i tipi si abbrustolivano sui falò, che scoppiettavano per il grasso colante dalle carni.
Alcuni anziani si erano piazzati su un palchetto, e accordavano i loro strumenti.
Io me ne stavo su una staccionata con Graeth al fianco, che soffiava dalle sue narici morbide e pareva anche lui percepire l’allegria dei preparativi.
Lancillotto era seduto sotto un albero; Merlino lo aveva curato con alcune erbe medicinali, e le ferite ora erano coperte da bende bianche e pulite. Una folla di bambini gli si era radunata attorno.
“E’ vero che hai ucciso ottanta guerrieri?”
“Mi fai vedere le tue spade??”
Lui scoppiava a ridere, e raccontava di come aveva tagliato le trecce al capo dei sassoni con un rapido “zac zac”.
Ad un tratto, una bambina si staccò dal gruppo, e mi venne incontro.
“Ciao.” la salutai, facendo un cenno con la mano “Cosa posso fare per te, piccolina?”
Lei assunse un’aria imbronciata.
“Non chiamarmi piccolina! Io sono Eve e diventerò una guerriera!”
“Ma davvero?” domandai, e mi chinai sulle ginocchia.
“Sì! E avrò un cavallo bellissimo… Come… Come il tuo, ragazza Woad!” esclamò lei, risoluta.
Ebbi una fulminazione.
Non era che la bimbetta che avevo incontrato alla tenuta di Mario.
“Chiamami Elynor…” le sorrisi, e le carezzai la testa.
Al tramonto, furono accese decine e decine di fiaccole ardenti, che baluginavano nell’oscurità proiettando ombre lunghe sul terreno.
Io e Ginevra ci eravamo barricate in una capanna per prepararci al lieto evento, e la mia amica aveva gettato su un letto tre vestiti semplici e nel contempo eleganti. Uno blu oceano, uno verde prato, e l’altro rosso fuoco.
Avevo l’imbarazzo della scelta!
“Senti sorella… Io non so proprio quale mettermi… Insomma, dai, mi ci vedi con uno di questi??” balbettai.
Lei mi strizzò l’occhio.
“Ah, bè, mentre tu stai lì a pensare io mi prendo quello verde!” e scoppiò a ridere fragorosamente.
Avvampai.
Poi pensai a quella sera, quando ero entrata nel salone dove i cavalieri di Artù stavano cenando, e Tristano…
Lui si era accorto del mio cambiamento.
Abbassai gli occhi.
Non era più tempo di armature e spade. Era arrivata la tanto sospirata pace…
Avrei dovuto abbandonare la mia tenuta da guerriera, e calarmi nei panni di una vera donna.
Mi slacciai la cintura, e la avvolsi con cura attorno alla mia bella daga.
Una lacrima calda fece capolino dalle ciglia.
Anche se avevo una nuova vita da cominciare, dentro di me sapevo che non avrei mai dimenticato… Quei terribili eventi ci avevano segnati tutti, ed era giusto ricordare, anche se faceva male.
Mi strinsi l’arma al petto per qualche minuto,e poi la appoggiai con delicatezza sul letto.
“Okay, vada per quello blu!” esclamai decisa.
Ci cambiammo tutte e due, veloci come fulmini, e poi ci acconciammo i capelli in una maniera un po’ più decente e meno arruffata del solito.
Quando uscimmo all’aria fresca era già buio, e la gente si era già radunata ai tavoli; c’erano un sacco di pietanze buonissime, e mangiai a quattro palmenti sotto lo sguardo divertito di Merlino, seduto a capotavola.
Ad un tratto, finito un piatto di carne, si alzò e andò fino al posto di Lancillotto, che era al fondo della tavolata.
I due confabularono per alcuni minuti, dopodichè lo sciamano si spostò da Artù e ricominciò a parlottare.
“Ma che diavolo si staranno dicendo quelli? Non mi convincono affatto…” mormorò Ginevra, passandomi una coppa di squisito nettare.
Dopo il banchetto, la piccola orchestra cominciò a suonare.
Ginevra fu invitata da Galvano, e io feci un allegro giro di danze con Galahad.
Lancillotto invece era stato subito acchiappato al volo da un’anziana signora, che arzilla saltellava da una parte e dall’altra, trascinandosi dietro il cavaliere sconcertato, tra le risate dei suoi compagni.
Arrivò poi Bors, che con un amichevole spintone mandò gambe all’aria Galahad.
“Allora, adesso levati dai piedi, razza di donnaiolo! Tocca a me!” disse, e i due scoppiarono a ridere di gusto, poi Bors mi fece una specie di inchino “Vuole farmi l’onore di un ballo?”
Sorrisi.
“E come potrei rifiutare?”
Dopo un po’ che il cavaliere mi pestava i piedi, arrivò Vanora che lo prese per un orecchio.
“Non posso lasciarti solo un momento che tu vai a fare subito il cascamorto con questa bella giovinetta qui…” lo rimproverò, e poi mi rivolse un’occhiata “Che bella sei, Elynor, quel vestito ti sta proprio bene!”
Ringraziai arrossendo, e presi le mani che Galvano mi tendeva, per lanciarmi in un altro giro di danze.
Mai mi ero divertita così tanto…
In mezzo alla folla ritrovai Ginevra.
“Ehi, hai visto Artù? Io non riesco a trovarlo…”
“Ehm… Veramente è da un po’ che cerco Lancillotto, ma non lo vedo qui in giro!”
Ci guardammo.
“E Merlino dov’è finito??”
“Quel furbastro, ne sta combinando una delle sue!”
Ad un tratto i musicisti smisero di suonare.
Riconobbi proprio lo sciamano salire i gradini del palchetto di legno, e piazzarsi al centro con le braccia tese.
“Cari amici!” esclamò “La guerra è finita, abbiamo festeggiato come si deve… Anche troppo direi, riesco a sentire il mio stomaco che implora pietà!” ci fu un coro di risate “Non c’è che dire, le nostre amate cuoche si sono superate…” si levò un applauso.
Merlino congiunse le mani.
“Ma questo è un momento solenne… Elynor! Ginevra! Venite avanti!”
Ebbi un tuffo al cuore, quando sentii il mio nome, mentre mi facevo largo tra la folla assieme alla mia amica.
Entrambe fummo spinte sul palco. Tutti ci guardavano in silenzio.
“Oh… Siete uno splendore, bambine mie…” disse Merlino sorridendo “Ma… C’è qualcuno che deve dire qualcosa…”
Vidi la gente spostarsi per formare un corridoio, che fu attraversato da Artù e Lancillotto.
“Ma che succede?” pensai, confusa. Guardai i due uomini; avevano lucidato le armature, si erano preparati…
Ma per che cosa??
Centinaia di occhi si puntarono su noi quattro e su Merlino, che prese me e Lancillotto alla sua sinistra, e Artù e Ginevra alla sua destra.
Ad un tratto, Lancillotto si inginocchiò.
Impallidii…


Eccomi, di nuovo all'attacco con questo capitolo sdolcinato ^^ Eheheh, scusate se è stato melenso, forse mi sono lasciata prendere la mano!
Sono molto contenta che siano arrivati Calorosi Complimenti da
Cappychan e Iris Malfoy! Vi ringrazio molto per il sostegno!
Devo avvisarvi però, purtroppo la storia è agli sgoccioli, sniff... Ebbene sì, la mia prima creazione è quasi giunta all'epilogo. BUAAA! No, scherzo, non posso deprimermi, se no come faccio a concluderla per bene??
Aspetto suggerimenti!

Gertie

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodicesimo ***


Capitolo Dodicesimo
Nel quale Elynor e Ginevra si trovano a fronteggiare il fatto di essere ormai cresciute

Lancillotto mi prese una mano fra le sue, alzò il capo e mi guardò coi suoi occhi neri e brillanti.
“Elynor…” cominciò.
Mi mancò il respiro. Ero già sconvolta, e non avevo neanche idea di quello che stava per accadere.
“Io… Io… Ho vissuto con te i momenti più belli della mia vita…” disse con voce tremante.
Provai un senso di vertigini e una stretta al petto.
“Sei la donna a cui ho donato il mio cuore, e ora ti chiedo… Sarei onorato se tu…” Lancillotto deglutì, visibilmente agitato “… Se tu diventassi mia moglie…”
Le sue parole giunsero attutite alle mie orecchie, e credetti di aver capito male.
“Forse ho bevuto troppo vino… Sto sognando.” mi dissi.
“…Elynor, vuoi sposarmi?”
Adesso però non potevo più sbagliarmi, aveva pronunciato il mio nome!
La folla aveva tratto un sospiro di eccitazione, aspettando la mia risposta.
Cosa dovevo fare? Cosa dovevo dire?
Inaspettatamente era cresciuto in me uno strano senso di panico.
Chiusi gli occhi.
L’unica certezza che avevo avuto fino a quel momento era stata quella di amare Lancillotto.
Sentivo le sue mani calde a contatto con la mia. Tremavano.
Mi chinai accanto a lui.
Era lì, teso e un po’ spaventato.
I suoi occhi profondi, i suoi riccioli neri… In un lampo mi sembrò di vedere l’inquieto ragazzino che era stato.
“…Sì!” avevo quasi urlato, nel silenzio più assoluto della scena.
Gli presi il volto tra le mani.
“Certo che lo voglio, non c’è qualcosa che io desideri di più di questo…” gli occhi mi si offuscarono di lacrime.
Lo abbracciai, e lui ebbe un sussulto.
Scoppiammo a piangere di gioia entrambi, tra gli applausi della gente e le urla di giubilo dei cavalieri, schierati in prima fila.
Ci alzammo in piedi.
Con la coda dell’occhio scorsi l’espressione attonita sul volto di Ginevra, quando anche Artù si inginocchiò davanti a lei.
Poi tornai con lo sguardo su Lancillotto.
Alto, forte e bellissimo… Aveva scelto me.
Quella sera, quando la festa finì e tutti si ritirarono nelle loro capanne, tranne Bors che ubriaco fradicio era crollato in mezzo al cortile e nessuno era riuscito a smuoverlo di lì, mi ritrovai con Ginevra, nella nostra stanzetta.
“Ehi… Non riesco a crederci!” esclamò la mia amica, gettandosi sul letto.
Mi sdraiai accanto a lei.
“Neppure io.”
Rimanemmo lì in silenzio, illuminate dal chiarore tremolante delle candele.
Guardavo le ombre rincorrersi sul soffitto, quando Ginevra mi fece una domanda inattesa.
“Tu… Tu sai cosa succede… La prima notte di… Di nozze, vero??”
Sussultai e mi girai a fissarla.
Deglutii.
Non avevo ancora fatto caso a ‘quel’ discorso, ma più o meno sapevo come andavano le cose…
Ricordai con un po’ di imbarazzo che anni prima, quando ancora mi trovavo al lago per l’addestramento, mi ero accorta di aver macchiato la tunica nella parte inferiore. Di rosso. Di sangue.
Ero corsa da Merlino, presa dal panico. Lo sciamano mi aveva allora spiegato come la natura faceva il suo corso, come i corpi delle fanciulle cambiavano, e il perché delle strane trasformazioni.
Quanto mi ero sentita stupida, e imbarazzata!
Merlino invece aveva sorriso con fare paterno, e mi aveva rassicurata dicendo che tutto era perfettamente normale.
“…Sì… All’incirca… Ma io non ho mai…” articolai.
“Neanche io…” disse Ginevra, sottovoce.
Ci fu qualche istante di imbarazzo generale.
“Ho un po’ paura.”
Ginevra mi si avvicinò, e mi abbracciò.
“Sorellina… Lo sai cosa mi ha detto Vanora?”
Aggrottai la fronte, curiosa.
“…Se ritieni che un uomo osi troppo… Basta che gli tiri un bel calcio tra le gambe, e lo rimetterai in riga!”
Scoppiammo a ridere.
Ci furono dei colpi alla porta, e la voce di Merlino tuonò.
“E’ tardi, dormite! Domani sarà un grande giorno per le mie due piccole guerriere!”
Sorrisi tra me, poggiai la testa sul cuscino e mi addormentai quasi subito.
Mi svegliò l’allegro canto di un galletto nero, che si era arrampicato fino sul tetto della nostra capanna, facendo un baccano infernale.
Un po’ intontita mi vestii, e lasciando Ginevra ancora immersa nei suoi beati sogni uscii all’aperto.
L’aria fresca mi scivolò sulla faccia e s’insinuò tra le pieghe dell’abito facendolo ondeggiare.
C’era il sole!
E questo non accadeva mai, in una terra da sempre avvolta dalla nebbia o spazzata dai venti…
Merlino aveva ragione. Quello sarebbe stato un grande giorno. Il primo giorno di pace.
Attraversai il villaggio camminando lentamente, cogliendo quelle piccole cose che non avevo più rivisto una volta lasciato Graeth; l’odore del pane fresco, del fumo che usciva dalla cima dei tetti in fili grigi, il chiocciare delle galline…
Era un quadro quasi sovrannaturale.
Giunsi al limitare di un folto boschetto, illuminato dai primi tiepidi raggi di sole e rallegrato dal gorgheggiare degli uccelli.
Camminando sentivo il muschio morbido e le foglie secche che crocchiavano delicatamente sotto i miei piedi.
Scorsi una quercia dal tronco largo e robusto con alcune fronde basse, e quasi d’istinto cominciai ad arrampicarmi, fino a raggiungere un ramo contorto sul quale mi sedetti, lasciando penzolare le gambe nel vuoto.
Quella quercia…
Somigliava molto a quella che sorgeva non lontano da Graeth, dove un giorno…
“Anche tu qui, Elynor?”
Sussultai.
Due mani si posarono sulle mie spalle, e accanto al mio volto riconobbi i riccioli neri di Lancillotto.
Per un istante si udì solo il frusciare della lieve brezza mattutina.
Lancillotto mi si sedette accanto, rivolgendomi un sorriso complice.
Anche lui ricordava.
Ogni volta che guardavo nei suoi occhi di ossidiana non potevo fare a meno di pensare a tutto quello che avevamo passato assieme, dai tempi in cui ci avventuravamo per le prime volte nei boschi attorno a Graeth, fino agli attimi di turbamento quando ci eravamo ritrovati dopo quindici anni…
Le nostre vite erano sempre state legate in un unico nodo che si era stretto, si era allargato… Ma non si era mai sciolto; e a dimostrazione di questo c’era ancora la piccola e cara cicatrice bianca sul pollice.
“Ehi ma ci pensi?” sussurrai “Stiamo per… Per… Sposarci!”
“E chi l’avrebbe mai detto…” disse lui con fare ironico “Che avrei perso la testa per un ragazzaccio come te!”
Stavo per ribattere, ma lui me lo impedì con un bacio vellutato che mi lasciò leggermente stordita.
Udii la voce di Vanora che mi chiamava, così balzai a terra.
“A dopo….” salutai Lancillotto, che mi sorrise.
Il dopo che ci attendeva. Sospirai emozionata.


Santo Cielo! Da quanto tempo era che non aggiornavo più?!
Mi vergogno di me stessa -___- Vi prego non uccidetemi! Mi sono messa di buona lena, ho tutte le intenzioni di portare a termine questo racconto senza ulteriori pause letargiche >____< Promesso!
Ringrazio molto monypotty e GiuEGia che continuano a seguirmi ^__^
A prestissimissimo!

Gertie

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Capitolo 13
*** Capitolo Tredicesimo ***


Capitolo Tredicesimo
Nel quale tutti sono contagiati dall’atmosfera di festa!

“Piccola sciagurata!” tuonò Vanora, afferrandomi per un braccio “Siamo in ritardo, Ginevra si sta già preparando!!”
Mi trascinò da Grania, una sua amica che si era offerta a quanto pareva per aiutare a vestire le spose.
Non appena fummo in casa, di fuori si scatenò un parapiglia incredibile.
Merlino saettò fuori dalla sua tenda e cominciò a correre per il villaggio chiamando a gran voce: “Artù! Lancillotto! Presto! Presto!”
La gente intanto si muoveva frenetica urlando e facendo un gioioso baccano.
“Si sposano, si sposano!!”
“Chi? Perché? Ma da quando??”
“Artevra e Lancenor, cioè Elyotto e Ginù!”
“Davvero?! Gwendolyne, hai sentito? Corri, ci servono dei fiori!”
“Oh, santo cielo… Sono agitatissima!”
“A chi lo dici… Ma muoviamoci, andiamo in cucina!”
“Che emozione!”
Le finestre della casa furono sprangate, la porta chiusa a chiave.
Io fui costretta ad entrare in una tinozza ribollente, dopodichè Vanora mi gettò addosso un secchio di acqua gelata, e prese a strofinarmi violentemente la schiena con una spazzola dura e fastidiosa.
Grania faceva la stessa cosa torturando Ginevra, e anche lei ignorava le proteste.
Uscimmo dalle vasche rosse, tremanti e furibonde, ma non avemmo il tempo di inveire che le due donne ripresero a strofinare, stavolta con dei panni per asciugarci.
Non mi sentivo più le braccia e nemmeno le gambe, e mi lasciai cadere su una sedia.
“Non posso credere che sia una tortura del genere!” gemetti.
Vanora e Grania ridacchiarono.
“Questo è niente, rispetto a quello che ti aspetta dopo il matrimonio…” sentenziò Grania, prendendo d’assalto i riccioli ribelli di Ginevra con una spazzola dura.
Dopo un tempo che parve interminabile, Grania e Vanora si dichiararono soddisfatte, e ci spedirono in un’altra stanza, avvolte in asciugamani puliti.
“Adesso vestitevi, e badate a non scucire niente… Non ci sarà tempo per le riparazioni!” tuonò Vanora, da dietro la porta.
Ebbi un fremito, e mi piegai in due per una fitta allo stomaco, che improvvisa mi aveva colpita.
“Ehi! Tutto bene??” Ginevra si allarmò, e mi si sedette accanto.
“Sì… E’ l’agitazione…” dissi, cercando di non pensare allo scombussolìo.
Il sussulto era arrivato alla vista di due vestiti candidi come la neve, uguali, gemelli, adagiati su una cassapanca.
Sembravano così… Leggeri, impalpabili. Quasi angelici.
“Ah, non parlarmene… Potrei vomitare, tra l’ansia e il corpetto di questo vestito… E’ stretto, dannazione!” protestò lei, che mentre io ero rimasta lì impalata, stava già cercando di infilarsi l’abito.
Le diedi una mano, e poi mi vestii anche io. La stoffa scivolò sulla mia pelle con un armonioso fruscio.
Io e Ginevra ci guardammo, piene di meraviglia.
“Ehi là dentro! Datevi una mossa!” la voce di Grania giunse a spezzare l’incantesimo.
Uscimmo dalla stanza, e finimmo di nuovo tra le grinfie delle due donne, che stavolta ingaggiarono una lotta ancora più accanita contro i nostri capelli disordinati, per disciplinarli in graziose trecce raccolte legate con nastri bianchi.
Mi persi a fantasticare, e non mi accorsi del momento in cui Vanora e Grania si allontanarono di alcuni passi, sorridendo.
Mi ridestai solamente quando Vanora scoppiò in lacrime di commozione.
“Oh no… No eh? Se no anche io poi…” iniziai, finendo in balbettii scomposti.
Vanora si asciugò gli occhi.
“Basta! Basta… E’ stato un attimo di debolezza, scusate!” esclamò, ridendo “E adesso… Beh, direi che è arrivata l’ora…”
Grania aprì la porta con uno scatto.
Deglutii rumorosamente, guardai Ginevra, e poi insieme uscimmo al sole.
C’era una gran folla, lì davanti, distribuita a due lati che formavano una specie di corridoio. Tutti quanti ci guardavano in silenzio. Mi sentii un po’ a disagio, e chinai la testa.
Arrivammo davanti alla quercia, al limitare del villaggio. Merlino vi aveva fatto porre un palchetto di legno, e ora lui se ne stava in piedi, lì sopra, tutto gonfio di orgoglio. Artù alla sua destra, Lancillotto alla sua sinistra.
Le armature rilucevano più che mai di bagliori cristallini. Ai lati gli altri cavalieri, Galvano, Galahad, Bors già un poco brillo.
Io e Ginevra dovemmo salire sul palchetto.
Merlino parlò, con tono imperioso e una vena di commozione.
“Questo è un giorno da ricordare, amici miei! Oggi le vite di Artù e Ginevra, Lancillotto ed Elynor, si intrecceranno… E’ un’occasione importante e speciale, il legame che nascerà tra questi uomini e queste donne li vincolerà per l’eternità. Gioiamo dunque, della prodigiosa forza dell’amore… Perché queste coppie possano procedere in questo lungo e contorto cammino imprevedibile, che è la vita. Perché possano superare le difficoltà che questo viaggio implica. Perché possano avere momenti felici. Perché possano creare una famiglia. Perché possano vivere circondati dall’affetto di tutti. Perché possano invecchiare assieme, nella quiete più prospera. Perché possano essere ricordati in futuro come uomini e donne giusti. E che i loro sacrifici per sostenere le proprie cause non vengano mai scordati.”
Ci fu una pausa di silenzio, nella quale io e Ginevra ci accostammo ad Artù e Lancillotto.
Il respiro mi bruciava nella gola. Sentivo le braccia tremare come foglie al vento.
Merlino riempì due calici.
“Questa è acqua di fonte. E’ chiara, pura e fresca. Immacolata, simboleggia il vostro amore.”
Le mie mani si unirono a quelle di Lancillotto, nel reggere la coppa.
Fu un sorso, che mi tranquillizzò.
Merlino continuò il suo discorso… Ma io non riuscivo più a seguirlo. Lancillotto mi stringeva la mano destra, sentivo che anche lui tremava, come me. Mi voltai a guardarlo negli occhi, che però erano fermi e calmi, neri. Percepivo una strana sensazione a livello del petto… Come se si fosse ‘riempito’. Un’euforia che mi colmava i polmoni…
Ero convinta che il tempo si fosse fermato, quindi mi ridestai poco prima del termine della cerimonia, Merlino ancora parlava concitato. Mi sentivo come estraniata dalla scena, lì accanto a Lancillotto, le dita sempre intrecciate alle sue. Mi parve che la stessa cosa stesse accadendo a Ginevra ed Artù, circondati da un’aura di pace.
Dalla folla si levarono applausi e grida di gioia, e compresi che il rito era davvero terminato.
Lancillotto mi fece uno dei suoi sorrisi sghembi che mi piacevano tanto, mi afferrò per la vita all’improvviso. Il vestito svolazzò mentre venivo sollevata da terra dalle sue braccia. Scoppiai a ridere, e lo baciai. Il nostro primo bacio da marito e moglie.
Ormai si era fatta quasi sera, e tutto il villaggio si era dato da fare a sistemare dei tavoli sistemati a cerchio, apparecchiati e adorni di vivande e fiori. Merlino si sedette, e piano piano tutti quanti si accomodarono. Il banchetto prese il via, tra rumore di stoviglie, calici tintinnanti e chiacchiere allegre. Si aggiunse il suono dolce di un’arpa accompagnato da alcuni flauti.
Mi guardai attorno, decisamente immersa in quel clima festoso e sereno.
La cena si concluse con un magnifico dolce a più strati, così grande e spesso che Merlino faticò a tagliarlo, e Bors si offerse generosamente di intervenire con un’ascia, spaccando di netto anche il tagliere di legno tra le risate generali.
Aprii poi le danze assieme a Lancillotto, da bravi sposi novelli. Cominciammo a girare vorticosamente in tondo. Le luci, i colori, le voci, la musica… Tutto mi sembrava sfocato e confuso. Tutto sembrava rimescolarsi dentro di me, in un sottofondo sopra il quale sentivo soltanto la risata cristallina di Lancillotto, vedevo solo i suoi ricci neri ondeggiare, e percepivo solo il calore delle sue mani.
Quando mi sedetti su una panca, con i piedi doloranti e sia stomaco che testa sottosopra, non smisi di ridere.
“No, no… Questo non è il troppo vino!” Merlino sorrise della mia espressione così beata.
Nel frattempo stavano avendo luogo i “consueti” scherzi tra gli amici e lo sposo, ovvero, Lancillotto ed Artù vennero messi alla prova dai cavalieri in sfide di coraggio, forza e abilità.
Malgrado la mia decisione a rimanere ancorata alla panca, dovetti prendere parte anche io ad alcune di queste prove, la più buffa delle quali fu la corsa dello sposo con la sposa in braccio attraverso un percorso ad ostacoli.
Inutile dire che demmo l’addio ai vestiti puliti, macchiandoci di erba, fango, e anche un po’ di sangue, quando a Lancillotto prese a sanguinare il naso dopo l’impatto con un minaccioso e letale pino che ci aveva sbarrato la strada.
Per quanto riguarda l’altra coppia, Artù fece uno scivolone su una pozza di melma, e piombò giù per terra con un sordo rumore di ferraglia, trascinando con sé anche Ginevra, che rideva come un’ossessa.
Alla fine, attraversammo il villaggio, sporchi ed esultanti, tra la gente che applaudiva.
La notte era scesa senza che nessuno se ne fosse accorto, e mano a mano tornarono tutti alle loro case, dopo una festa che a lungo sarebbe stata ricordata.
Merlino condusse noi quattro a due abitazioni che erano state erette poco tempo prima.
“Spero che vi troviate bene, ognuno qui si è dato da fare per costruire la vostra casa.” annunciò lo sciamano “E’ un gesto di augurio per il vostro futuro!”
Sorrisi, grata.
Merlino stette a guardarci per un momento, e poi fece un gesto severo.
“Adesso però vi converrebbe ripulirvi!”
Come dal nulla comparvero nuovamente Grania e Vanora, scortate da altre donne, che agguantarono Lancillotto e Artù, e li trascinarono in una capanna poco distante.
Inutile dire che a me e Ginevra toccò la stessa sorte, e così finimmo un’altra volta tra le grinfie di quelle due torturatrici. Dopo un bel bagno gelato e una spazzolata furiosa, ci fecero indossare due tuniche pulite e ci spedirono fuori con un: “A domani mattina!”
Io e Ginevra ci guardammo.
“Hai paura?”
“Credo di… No…”
“Buonanotte.”
“Anche a te.”
Ginevra mi fece l’occhiolino.
Ci dividemmo.


Okay, ce l’ho fatta! Allora, che ne dite di questo capitolo? Mmmh… Forse era un po’ cortino, ma alla rilettura finale mi è sembrato abbastanza carino, perlomeno ho tentato di descrivere una specie di matrimonio fra persone che comunque non sono tutte cristiane (quindi la cerimonia doveva essere almeno un po’ diversa). Spero che gli elementi che ho usato per descrivere il lieto evento vi siano piaciuti ^___^
Ringrazio calorosamente GiuEGia e monipotty sempre mie fedeli lettrici!
E ora… giungiamo al punto cruciale! Ebbene sì, nel prossimo capitolo, ci sarà la descrizione della prima notte di nozze dei nostri eroi! (coro di OoOoOoOh!) Bene, siccome è la prima volta che devo trattare con una scena delicata come questa, sono un po’ titubante perché non vorrei proprio che l’esperimento mi riuscisse male! Voi che ne dite? Io comunque mi impegnerò al massimo >___<
A presto!

Gertie

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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordicesimo ***


Santo cielo, quanto tempo è passato dall’ultimo aggiornamento!
Okay, lo so, sarete tutti arrabbiati neri con me ^__^’ Ma quest’anno ho avuto così tante cose da fare che non ho trovato il tempo di dedicarmi con sufficiente cura alla mia adorata fanfic. Vi chiedo perdono.
Comunque sia, ringrazio monipotty, GiuEGia, e anche Razu_91 che si è aggiunto ai miei fedelissimi recensori! Grazie di cuore! Per il resto, spero che ve la passiate bene, adesso che sono iniziate le vacanze estive…
Ma adesso veniamo a noi… Ecco il capitolo frutto delle mie fatiche; forse è troppo smielato, forse è troppo corto... >___< Fatemi sapere cosa ne pensate!
Un bacio con lo schiocco
Gertie



Capitolo Quattordicesimo
Nel quale Elynor compie il grande passo


Entrai piano e mi chiusi la porta alle spalle.
L’ambiente sembrava incredibilmente confortevole e caldo. I bagliori di una candela rischiaravano il buio, e illuminavano la stanza.
Lancillotto non era ancora arrivato. Probabilmente lo stavano strapazzando a dovere.
Mi sedetti sul letto, tra le coperte, inaspettatamente morbide, e stetti a guardare le ombre danzanti lungo le pareti. Ad un tratto mi colse un piacevole torpore, e mi sdraiai con la testa sul cuscino, che profumava di lavanda.
Un rumore mi annunciò che stava entrando qualcuno. Quel qualcuno giunse accanto al letto, e si inginocchiò.
A livello del mio, c’era il viso di Lancillotto.
“Stavi dormendo?” mi chiese in un sussurro “Ti ho disturbato? Quella dannata porta cigola come…”
“No! No… Non stavo dormendo, non preoccuparti!” mi affrettai a rispondere, tirandomi su a sedere.
Ero agitata. Sperai che lui non l’avesse notato dalla mia voce.
“Sei nervosa..?”
Accidenti.
“No! Chi, io? Perché?” farfugliai, giocando con un lembo della coperta.
Lancillotto ridacchiò.
“Quante volte devo ripeterlo? Non sei brava a mentire…”
A quel punto si alzò e andò a sedersi dall’altra parte del letto.
“Preferisci che dorma fuori?” chiese.
“Cosa? Ma sei impazzito?” ribattei al suo tono assurdamente cortese.
Lui si avvicinò.
“Ehi. Non preoccuparti, lo vedo bene che sei agitatissima…” mi rassicurò “Io non ho intenzione di forzarti a fare qualcosa che non vuoi. Sono in grado di aspettare, se non ti senti pronta. Questo è il più bel giorno della mia vita. Della nostra vita. E io non ho intenzione di spingerti a fare qualcosa contro il tuo volere. Come ho giurato di difenderti per sempre, così voglio rispettarti, perché ti amo.”
Lo guardai negli occhi, e giunsi a chiedermi se era tutto vero. Se lui era veramente lì, se era veramente l’uomo più perfetto che avessi mai desiderato.
Ci fu una pausa di silenzio. Solo il crepitio del fuoco.
Mi stesi nuovamente su un fianco, verso di lui.
“Tu sei l’unico con cui io voglia condividere me stessa.” dissi in un soffio, e questa volta nella mia voce non c’era incertezza.
Gli sorrisi.
“Sei sicura?” lui era ancora titubante.
Chiusi le palpebre.
“Sì.”
Quando riaprii gli occhi, il suo viso era a pochissima distanza dal mio. Mi baciò con dolcezza, e poi gli si dipinse sul volto il suo solito sorriso sghembo, al quale risposi con un’impavida alzata di sopracciglia.
Lui rise, e cominciò a baciarmi delicatamente il collo.
Mi sfilai la tunica con un movimento fluido, pur non senza un’ombra di imbarazzo.
Lancillotto rimase a guardarmi per alcuni istanti, sfiorandomi uno zigomo.
Abbassai lo sguardo timidamente.
“Sei bellissima.” mi sorrise, strofinò il suo naso contro il mio.
“Meglio di quando mi hai scorto quella volta, spiandomi dalla tenda?” lo punzecchiai.
Rise, risi anch’io, accarezzandogli il petto, e percorrendo con l’indice la linea di una cicatrice.
Lancillotto mi guardò ancora con quei suoi occhi neri, e in un istante li vidi accendersi, come braci ardenti.
Mi adagiò sul letto, distesa, e spense la candela con un soffio delicato.
La stanza era ora immersa quasi totalmente nell’oscurità. Dalla finestra filtrava ancora un debole raggio lunare, argenteo e soffuso, che levigava i contorni del letto e creava giochi di ombre sulla nostra pelle.
Mi ritrovai stretta fra le sue braccia e il suo torace muscoloso, e mi sentii protetta. Le sue mani accarezzavano la mia schiena, provocandomi scariche di brividi lungo la spina dorsale. Non capii esattamente che cosa mi stesse accadendo, ma compresi che in quel momento non avrei mai potuto separarmi da lui per nessuna cosa al mondo. Sarebbe stato come essere privata da una parte di me stessa.
La sua bocca nell’incavo del mio collo. I suoi riccioli che mi sfioravano il viso. Il calore del suo corpo, che mi portò a stringermi di più a lui. Il suo respiro che via via si faceva un po’ più veloce. Le nostre gambe che si intrecciavano.
E fu allora che lo sentii, e spalancai le palpebre, per cercare il suo sguardo rassicurante. Per qualche istante provai un dolore… Dolce. Fui lieta di percepirlo così, era reale, era vero… E sorrisi, quando una lacrima scese lungo la mia guancia destra.
Lui si bloccò immediatamente, appena notò il bagliore liquido sul mio volto.
“Va tutto bene.” sussurrai. Lancillotto in risposta mi baciò, raccogliendo con le sue labbra quella traccia salata.
Le sue mani salirono a stringere le mie.
Capii quanto quel momento fosse speciale, perché mi pervase un senso inesplicabile di completezza.
Fu come se i nostri corpi fossero da sempre stati creati per unirsi così perfettamente, e per muoversi con tale sincronia.
Nella mia mente, il timido romanticismo lasciò spazio ad una passione nuova.
Con la lingua, dal mio collo disegnò il contorno dei miei seni, scendendo verso l’ombelico, girandoci attorno in quella che mi parve una lenta tortura.
All’improvviso, presa da una strana frenesia, mi mossi e lo costrinsi a girarsi, mi ritrovai sopra di lui, un po’ sorpreso per il mio spirito di iniziativa. Gli sorrisi languidamente e tornai fra le sue braccia, avvolgendo le dita nei suoi riccioli soffici. Dopo il primo istante di stupore, Lancillotto tornò all’attacco, ben deciso a farsi valere.
Mi sfuggì una risatina divertita.
Dopo il primo istante di disorientamento e di dolore, le mie inutili barriere crollarono e mi abbandonai al piacere dei sensi. Ad un tratto, quando ormai il ritmo dei nostri respiri si era fatto decisamente rapido e i nostri corpi fremevano avvinghiati, quasi incontrollabilmente, Lancillotto ebbe un sussulto, accompagnato da un gemito trattenuto.
“…E-Elynor…”
Mi morsi il labbro, inarcai la schiena, e le mie unghie si conficcarono per un breve istante nelle sue spalle.
Boccheggiai, come se il nostro moto ondoso sfrenato mi avesse travolta, e come se ora stessi annaspando per tornare a galla dopo l’apnea.
Rimasi stordita anche quando quella sensazione straordinaria si dissipò, e mi lasciai ricadere sul letto.
Anche Lancillotto notò la mia sorta di straniamento, mi circondò le spalle con un braccio e io mi rannicchiai al suo fianco, tirandomi le coperte fino al mento.
Una civetta gridò nella notte.

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