Seven Devils

di BlackEyedSheeps
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Accidia ***
Capitolo 2: *** Avarizia ***
Capitolo 3: *** Ira ***
Capitolo 4: *** Lussuria ***
Capitolo 5: *** Gola ***
Capitolo 6: *** Superbia ***
Capitolo 7: *** Invidia ***



Capitolo 1
*** Accidia ***


N.d.A.: Hello! Come promesso (minacciato?) we're back!

La presente storia, divisa in sette parti – una per ogni peccato capitale! -, segue le precedenti A Plague I Call a Heartbeat e The Ties That Bind, concludendo (per ora? Chissà!) la trilogia Compromised. Siamo sempre nel MCU, cronologicamente più o meno dopo gli eventi di The Avengers. In ogni caso, non importa aver letto le due parti precedenti per poter seguire questa qua.

Grazie a tutti coloro che ci hanno letto, commentato, spulciato (?) in precedenza! Se avrete voglia di seguirci ancora, speriamo che anche questa terza long sia di vostro gradimento. Per ora è tutto :)

Buon Natale!

Eli & Sere

 

Disclaimer: Occhio di Falco, La Vedova Nera e tutti gli altri personaggi menzionati non ci appartengono, ma sono proprietà Disney e Marvel. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

 

CAPITOLO 1

 

I can't remember anything
Can't tell if this is true or dream
Deep down inside I feel to scream
This terrible silence stops me
Now that the war is through with me
I'm waking up, I cannot see
That there is not much left of me
Nothing is real but pain now…

(One, Metallica)

 

Accidia

 

Il rumore dei propri passi lungo la stanza scandivano il tempo che lo separava da lei.

L’odore del sangue. Forte, metallico. Difficile ingannare l’olfatto.

Immaginarne la vischiosità tattile, visiva. Sottili fili di porpora che si rincorrono in una danza elegante a cadere giù, in lucidi rubini.

Il sangue è un richiamo. La preda è braccata, indebolita.

Una traccia prepotente, sfacciata, che non lascia scampo.

Il respiro che riusciva a percepire era affannoso, tradiva - spietato - un lamento. Una macabra eco a scandire l’altrui conquista.

“Clint…” la voce non era che un fioco richiamo, indebolito, irreale.

 

Era bella Natasha, ancora vestita di tenebre. Il volto pallido, lunare. Un funebre contrasto.

Una freccia per mano a inchiodarla alla sua croce, come un grottesco burattino di cui ora poteva dirigere i fili. Le punte dei piedi che appena riuscivano a reggere il suo peso. La testa rossa che schermava i suoi occhi umidi.

“Che c-cosa ti ha fatto?”

Clint la guardava così come si osserva un’opera d’arte. Il suo San Sebastiano. La fredda valutazione di un’opera che attende l’ultimo, critico ritocco.

“Finisco quello che ho iniziato.” Non c’era emozione alcuna, non uno slancio di vita, in quelle parole.

“Non s-sei tu… non sei tu a volerlo”, in quella di lei una supplica appena accennata.

Natasha non aveva paura per sé. Questo sapeva dirlo nonostante la freddezza con cui accoglieva quella visione, quelle parole.

No, lei non temeva il giudizio finale, non la resa dei conti con la Nera Signora. Natasha supplicava per lui. Supplicava affinché lui recuperasse coscienza della sua stessa anima.

E nel farlo scrutava i suoi occhi. Con un’intensità tale che sembravano leggergli dentro.

Ma dentro non c’era nulla. Non più. Soffocato da una patina di indifferenza, di cieca obbedienza.

“Non farlo”, di nuovo una supplica, flebile e fastidiosa quanto un insetto molesto.

“Lo stai dicendo per me?”

“Non vuoi questo, Clint.”

“Non importa quello che voglio.”

“T’importerà.”

“Credi di essere così importante? O credi che io pensi che non te lo meriti?”

Il silenzio fu eloquente. “Lo meriti tanto quanto lo meritavano le tue vittime. Come lo meritiamo tutti. Non sono qui per valutare quanto sia legittima la tua redenzione…”

I suoi occhi, adesso poteva dirlo, tradirono incertezza, per la prima volta.

“Accogli questo come un dono, Natasha.”

Un altro passo e l’arco fu abbandonato, le frecce caddero, una dopo l’altra, dalla faretra. Si avvicinò con rapidità e la lama di un coltello vibrò di luce riflessa, lanciando un riverbero sulla candida pelle della sua gola.

“La pace arriva per tutti, prima o poi”, le disse.

Un ultimo sguardo, la consapevolezza negli occhi di lei, l’invito a procedere che non arrivava.

Natasha non voleva morire. E continuava a non volerlo fare per lui.

“Non ce ne sarà per te, Clint”, sussurrò impaziente e lui in quegli occhi vide il riflesso di un estraneo. Un demonio.

La lama lacerò le sue carni, prima che potesse aggiungere altro. Il rumore disgustoso, il gorgoglio del sangue, del respiro che veniva spezzato, un alito di vita strappato per sempre.

La tenne ferma finché sentì la vischiosità del suo operato imbrattargli le mani, i polsi, finché non vide la luce che animava lo sguardo di lei, farsi via via più flebile, la propria immagine in quegli occhi rimasti dolorosamente sorpresi, divenire appannata e svanire, finalmente.

Quando la lasciò andare, il suo corpo ancora si agitava in un convulso scatto di muscoli.

 

Il coltello gli cadde di mano e quel suono estraneo fu per lui come un risveglio.

Il contraccolpo gli esplose nella testa.

Ed i suoi occhi, finalmente, videro.

Videro il corpo di Natasha crocifisso, che lanciava l’ultimo slancio di vita e poi più nulla. L’immobilità della morte, quella vera, quella definitiva.

 

La lucidità arrivò in un istante.

Un gelo pieno d’orrore gli riempì lo stomaco, il rumore del cuore a coprire quello del sangue che punteggiava il suolo, scandendo il tempo. Le sue mani, ancora luride del proprio peccato.

Un grido strozzato gli gonfiò la gola, doloroso quanto l’improvviso risveglio della sua coscienza.

“Natasha…” un sussurro ripetuto febbrilmente, mentre la raggiungeva, la liberava a fatica dalle solide frecce traditrici, che le strappavano la carne, le spezzavano le fragili ossa. Ripeté il suo nome, mentre la prendeva fra le braccia, tamponava convulsamente l'orribile sorriso aperto sulla sua gola. Lo ripeté mentre cercava disperatamente vita, in quei suoi occhi appannati, gelidamente fissi.

La strinse fra le braccia, serrando la presa, come a volerla trattenere a impedirle di lasciarlo.

E infine la spietata consapevolezza che si concretizzava in un lamento, come un cupo ululato, straziato, disumano.

Dilaniato dal dolore, inondato di lacrime che si fondevano con quel sangue rosso… così rosso.

E poi un volto. Un volto riflesso nella pozza purpurea che si ingrandiva ai suoi piedi e non era il suo.

Lo sguardo del demonio lo fissava con cupidigia, troneggiando sulle sue spalle.

La sua risata esplose cupa e vittoriosa.

Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che aveva vinto lui.

 

***

 

Il suono del cellulare sul comodino lo svegliò di soprassalto.

Strappato dall’incubò faticò a trovare la realtà, in quel rassicurante risveglio. La luce fioca alla finestra, le tende mosse da una lieve brezza mattutina, le pareti familiari, il poster di Pulp Fiction sulla porta, l’odore aspro del proprio sudore sulla pelle.

Si portò una mano al cuore che ancora batteva rapidamente sotto lo strato di muscoli.

Lo stomaco stretto in una morsa angosciante.

Ci mise qualche istante di troppo a recuperare le facoltà motorie che gli fecero conquistare il telefono.

La canzone dei The Knack che si spegneva prima del ritornello.

Una chiamata persa.

Non faticò a immaginare di chi fosse. Una febbrile ricerca fra le ultime telefonate a confermargli che Natasha era ancora viva. Che aveva solo sognato.

Di nuovo.

Non la richiamò. Lanciò l’aggeggio infernale sul letto, abbandonandolo in preda al groviglio scomposto di lenzuola e si portò le mani alla testa.

Pulsava ancora da far schifo.

Un’altra giornata del cazzo.

Lanciò lenzuola e telefono da una parte e scese dal letto. Una doccia non lo avrebbe ucciso.

Anche se non era altrettanto sicuro che fosse in grado di lavare via i residui di quell’incubo oscuro che lo tormentava da giorni; che lo costringeva a tenersi sveglio il più a lungo possibile, per poi crollare, senza speranza, in qualsiasi stanza della casa.

Il più delle volte si svegliava all’improvviso. Spesso con il suono delle sue stesse grida.

 

Lo SHIELD lo aveva spedito in vacanza per direttissima dopo gli straordinari eventi di New York, in vacanza dai suoi impegni lavorativi, ma soprattutto dal clamore che avevano scatenato le azioni degli Avengers.

Dei Vendicatori… per lo più mascherati.

Era sicuro di averci trovato dell’ironia, una volta, in quel nome. Ora non scatenava che una sequenza di ricordi, la maggior parte di essi poco piacevoli.

Se alieni e mostri potevano già essere un motivo sufficiente per far vacillare il senno di un uomo, averne uno che decide di giocare con il tuo cervello, trattarti come il suo personalissimo burattino, poteva avere qualche altra spiacevole controindicazione.

Clint aveva resistito stoicamente per tutto il tempo che erano state richieste le sue prestazioni sul campo, dopodiché la sua coscienza aveva deciso di dare le dimissioni. O quantomeno di andare in vacanza al posto suo.

La presenza di Loki ancora ferocemente presente nei recessi della sua mente. Un ricordo vago e confuso che riusciva a risvegliarsi soprattutto durante il sonno.

Un raccapricciante promemoria di quello che aveva fatto, di quello che avrebbe potuto fare.

Che scatenava ancora, vivida, la sua frustrazione. La sua rabbia.

Un essere che lo aveva violato intimamente, che gli aveva strappato a forza ricordi che mai avrebbe rivelato ad anima viva. Segreti e confessioni personali che aveva ripescato, uno dopo l’altro, senza remore, scegliendoli accuratamente dall’archivio della sua mente per i suoi biechi scopi.

Un essere che oltre alla sua dignità si era portato via anche un amico.

E questa volta per davvero.

Phil.

Phil Coulson.

 

Si sentì soffocare sotto il flusso temporaneamente benefico della doccia calda.

Un moto di nausea lo investì violentemente, procurandogli un conato di vomito.

Si aggrappò con le dita alla fredda parete di piastrelle, mentre l’acqua simulava tutte quelle lacrime che non riusciva a piangere.

 

***

 

Il caffè se non altro restava immutato. Sapore e odore, aroma inconfondibile che scandiva sempre l’inizio delle sue giornate. Niente panna ad indorargli la pillola, questa volta.

Erano giorni che non usciva nemmeno per fare la spesa.

Quell’apatia, tristemente familiare, lo stava divorando. Lo SHIELD non gli aveva fatto un favore.

Lo aveva ingabbiato in una vita che lo stendeva come un guerriero sconfitto e gli lasciava tempo per riflettere. Troppo tempo per riflettere.

Rimasto di nuovo solo con se stesso, libero dalla presenza di Loki, adesso la sua testa lasciava spazio a troppi pensieri dopo un lungo periodo di prigionia. Pensieri pericolosi.

Pensieri che in passato avevano rischiato di sconfiggerlo.

E che, con la stessa ingenua consapevolezza, gli impedivano di chiedere aiuto.

 

Il telefono trillò di nuovo. Stavolta quello di casa. Un vecchio congegno a parete che aveva accolto entusiasticamente con l’acquisto di un nuovo appartamento, mesi prima ormai.

Temporeggiò sul rispondere o meno. Non riceveva mai telefonate a casa.

Aveva dimenticato il cellulare in camera da letto. Poteva essere lo SHIELD? Poteva essere importante.

Quando rispose, in cuor suo già sapeva che era lei.

Di nuovo.

“Clint…” il tono di voce di Natasha lo colpì come uno schiaffo. Lo stesso tono di voce che le aveva sentito in quel maledetto incubo, solo poche ore prima. Il ricordo dei suoi occhi vitrei, del pallore mortale, della viscosità del sangue.

Non le rispose immediatamente, per evitare che cogliesse il turbamento.

“Ehi…”

“Hai una voce strana.” Natasha non lasciava mai spazio all’allusione.

“Mi sono appena svegliato”, uno sbadiglio simulato. Male. “Avevi bisogno di qualcosa?”

Il silenzio, dall’altra parte della cornetta e poi: “E’ tutto a posto, vero?”

“Sono in vacanza. Cosa potrebbe andare storto? A parte i vicini di casa che decidono di trapanare i muri alle sette del mattino…”

“Hai detto che dormivi.”

“Mi addormento a più riprese.”

“Clint…”

“Ci vediamo per un caffè, uno di questi giorni”, la prevenne “E un tè. Cazzo, ogni scusa è buona per scroccarmene uno, mh?”

“Quando?”

Clint serrò la presa al filo della cornetta. Non si sarebbe fatta liquidare facilmente. Di contro, lui non era sicuro di poterla ancora affrontare. Non in quelle condizioni.

“Domani. Al bar all’angolo, sotto casa tua.”

“A che ora?”, implacabile.

“Alle cinque… non si prende alle cinque, il tè?” una mezza risata che uscì peggio dello sbadiglio.

“Domani. Alle cinque”, confermò lei.

Quando riagganciarono Clint prese la prima vera decisione dall’inizio della sua vacanza.

Doveva rientrare immediatamente in servizio.

 

***

 

Natasha lanciò un'occhiata preoccupata oltre la vetrata che separava l'interno caldo e accogliente del bar dal freddo grigio della strada. La gente andava e veniva, lo sguardo perso nel vuoto o puntato ad una vetrina o all'orologio o ad un compagno di viaggio. Tutto ciò che avrebbe voluto in quell'istante, era veder sfogato il suo nervosismo e la sua esasperazione tramite qualcun altro. Era chiedere troppo? Avere qualcuno che prova le tue emozioni più seccanti al posto tuo?

 

Si rese conto che il ragionamento non aveva alcun senso. Tornò a guardarsi attorno all'interno del locale, con un leggero sospiro. I due camerieri facevano il giro dei tavoli prendendo e portando ordinazioni, un gruppetto di ragazze discuteva animatamente in un angolo, un uomo solo digitava furiosamente sulla tastiera del suo laptop, una coppia si scambiava silenziose parole nell'angolo più lontano dalla vetrata.

 

In tutta sincerità, nel momento esatto in cui aveva strappato a Clint la promessa di quell'incontro, aveva capito che non si sarebbe presentato. Eppure, una sorta di cieca e stupida speranza l'aveva spinta a rispettare comunque i termini dell'accordo. Non era sorpresa. Mentre New York continuava ad essere ricostruita a tempo di record, il suo rapporto con Clint sembrava essersi fermato a quel giorno in cui i Chitauri erano scesi del cielo per cambiare il loro mondo per sempre, incapace di riuscire a mettere insieme i propri pezzi, come se il puzzle si fosse infranto e i tasselli fossero misteriosamente cambiati e l'incastro perfetto andato perduto.

Le sembrava assurdo e paradossale che un mastodontico grattacielo richiedesse un tempo di degenza tanto ridotto, mentre un piccolo, insignificante essere umano avrebbe potuto rimanere nel limbo di un evento post-traumatico per il resto della sua vita.

Lo stomaco si contrasse al solo al pensiero. No, non era il momento per lasciarsi andare ad inutili disfattismi. Il dio degli inganni si era appropriato del suo cervello, ne aveva preso il controllo, gli aveva fatto fare cose che l'avrebbero perseguitato per sempre, lo aveva privato di quello che era probabilmente il suo più caro amico, e poi se n'era andato, ammanettato, la bocca tappata da una museruola, come uno stramaledettissimo cane rabbioso qualunque.

 

“È sicura di non voler ordinare niente?” Natasha rialzò lo sguardo: la cameriera svettava su di lei con un sorriso cortese e un lieve tremito al sopracciglio destro. Era rimasta seduta al tavolo senza consumare niente per quasi un'ora adesso, nella ridicola speranza che Clint si facesse vedere. Si umettò le labbra e tentò di imitare l'affabilità della ragazza.

“Un tè da portar via”, formulò infine, chiedendosi quando esattamente avesse cominciato a preoccuparsi di non tradire le aspettative degli altri.

La cameriera annuì, le chiese se avesse qualche particolare preferenza e sparì per esaudire la sua richiesta. Natasha si rifece seria e si arrese all'evidenza dei fatti: si rimise in piedi e abbandonò la sua postazione, accostandosi al bancone dietro cui la ragazza era scomparsa.

“Il suo amico non si è fatto vedere?” La domanda la colse impreparata. Aspettò qualche attimo per rispondere.

“No, non oggi”, confermò cautamente.

La cameriera scelse una bustina di tè da un cassetto pieno di involucri colorati, la scartò e la inzuppò nel bicchiere d'acqua bollente che aveva preparato.

“L'ho visto passare qua davanti quando sono arrivata per il mio turno”, la informò, recuperando un tappo di plastica con cui coprì la bevanda.

“È stato probabilmente trattenuto a lavoro”, replicò, riportando lo scambio su un terreno neutrale. La ragazza dovette cogliere il suggerimento perché si limitò a sorridere e consegnarle il suo tè. Natasha lasciò una banconota sul bancone e uscì senza aspettare né lo scontrino, né una risposta.

 

Il freddo arrivò ad avvolgerla non appena ebbe messo piede fuori dal bar. Valutò il da farsi, mentre il profumo del tè le solleticava le narici. Casa di Clint era poco distante, ma, se la cameriera aveva ragione, era sparito qualche ora prima per andare chissà dove e con ogni probabilità non era ancora tornato. Presentarsi sul pianerottolo del suo appartamento, obbligarlo a fronteggiarla avrebbe potuto smuovere qualcosa, costringerlo a parlarle, ma d'altro canto niente le assicurava che un gesto del genere non avrebbe finito per allontanarlo ulteriormente da lei.

L'inerzia di cui si trovava prigioniera cominciava a farla uscire di testa. Se la situazione fosse stata diversa, si sarebbe affidata a Phil Coulson, gli avrebbe spiegato il problema, avrebbe ricevuto in cambio una soluzione, perché l'agente Coulson era così: osservava e comprendeva più cose di quanto lasciasse intendere.

Socchiuse gli occhi e si maledì: invocare i morti non avrebbe risolto proprio un bel niente. Avrebbe dovuto decidere se incalzare con i suoi tentativi, o lasciare che fosse lui a raggiungere il punto di rottura, da solo, e andare da lei.

 

Un passante la urtò, scusandosi profusamente prima di riprendere la sua folle corsa verso chissà che meta.

Si accorse del cellulare che vibrava nella tasca del suo giubbotto di pelle con un attimo di ritardo. Il numero di chiunque la stessa chiamando era criptato.

 

“Pronto?” Rispose, cercando di celare come meglio poté la nota speranzosa nella propria voce.

“Agente Romanoff?” Una voce femminile la raggiunse dall'altro capo del ricevitore. Riconobbe il tono asciutto dell'agente Hill, stavolta stranamente velato d'incertezza.

“Sì.”

“Credo che debba raggiungerci allo SHIELD Center il più presto possibile.”

Un lavoro? Adesso? Per la prima volta in vita sua, Natasha sperò ardentemente che Maria Hill non fosse in procinto di affidarle una missione di cui, al momento, non le importava assolutamente niente.

“L'agente Barton è qui. Ci sono stati dei... problemi.”

Così com'era successo mesi prima, quando Coulson l'aveva avvisata che il suo partner era stato compromesso, la sua espressione si fece determinata e decisa, la preoccupazione intuibile dietro i suoi occhi, ma tenuta sotto controllo.

“Arrivo subito.”

 

***

 

Clint misurava a grandi passi una delle stanze per gli interrogatori dello SHIELD Center.

 

“Ha insistito per vedere il Direttore Fury. Quando gli hanno detto che era fuori dal paese ha voluto vedere me”, riprese a spiegare l'agente Hill, le braccia intrecciate al petto, lo sguardo puntato oltre il falso specchio che permetteva loro di vedere Clint, ma non a Clint di vedere loro. “Vuole tornare operativo”, aggiunse, spiandola con la coda dell'occhio.

“Non è pronto”, si limitò a rispondere Natasha.

“Ne sono consapevole. E... per quanto le circostanze siano delicate, sono convinta che lo sappia anche l'agente Barton.” Il suo tono era comprensivo ma, per qualche motivo, Natasha s'innervosì. Assurdamente, le sembrava che l'agente Hill avesse messo il naso dove non le competeva.

 

Ci fu un attimo di silenzio, in cui entrambe le donne si limitarono a studiare i movimenti ripetuti dell'uomo oltre il vetro.

“Gli ho spiegato le mie ragioni, si è arrabbiato”, Maria aveva ripreso a parlare, “non l'avevo mai visto così.” Le ultime parole le uscirono a voce più bassa, come se fosse stata una considerazione più per se stessa che per chiunque altro. “Ha aggredito l'agente Murphy che si era avvicinato per aiutarmi. Non ha smesso di colpirlo finché altri tre agenti non l'hanno immobilizzato.”

Dopodiché era stato portato quella stanza a sbollire, Natasha intuì. Decisamente non il luogo in cui ti aspetteresti di vedere uno degli agenti di punta di una delle organizzazioni internazionali più potenti del mondo.

Le appariva visibilmente stanco, dimagrito, gli occhi segnati e le linee del viso più marcate del solito. Gli leggeva la rabbia e il senso di colpa nello sguardo, mentre continuava a girare in tondo attorno al tavolo che occupava la maggior parte dello spazio, sempre evitando di guardare nella loro direzione. Sapeva di essere spiato, si vergognava di ciò che aveva fatto, ma era ancora arrabbiato, esasperato.

 

“Ci penso io”, si offrì Natasha. “Avete intenzione di portare avanti un qualche provvedimento disciplinare?”

L'agente Hill si voltò del tutto verso di lei, fronteggiandola apertamente: “Date le circostanze, il direttore Fury ha deciso di non procedere”, pronunciò lentamente. Poi parve ricordarsi qualcosa, e le sue spalle persero un po' della loro rigidità, come piegate sotto un peso enorme. “Mi rendo conto che l'agente Barton è uno di quelli che hanno risentito maggiormente della perdita di Phil...” si interruppe, vagamente allarmata. “Dell'agente Coulson”, si corresse.

 

Natasha annuì, percependo il disagio dell'altra.

“Le lascio carta bianca, Agente Romanoff”, dichiarò infine prima di allontanarsi lungo il corridoio deserto e sparire in pochi attimi. Aspettò di vederla uscire dal proprio campo visivo prima di tornare ad osservare Clint oltre il vetro. Una bestia braccata che non sa da che parte rifarsi, ecco cosa le ricordava.

La mente le tornò a svariati anni prima, quando i ruoli erano ribaltati, quand'era lei l'animale in trappola e lui la persona che doveva valutare quale fosse l'approccio migliore da adottare. Per qualche assurdo motivo, Clint aveva creduto in lei sin dall'inizio. Probabilmente l'aveva fatto prima ancora di capire lui stesso il perché, ma era successo e le conseguenze li avevano premiati entrambi. Si sentì in colpa per aver preso in seria considerazione la possibilità di lasciare che la matassa degli avvenimenti si dipanasse da sola: avrebbe dovuto agire subito, avrebbe dovuto obbligarlo a parlarle, non lasciarlo solo a combattere contro i propri demoni.

 

Schioccò la lingua e prese un'improvvisa decisione. Appoggiò la mano sul pannello di sicurezza accanto alla porta, che, per tutta risposta, si aprì con uno scatto. Entrò nella stanza, fingendo una tranquillità che non le apparteneva.

“Spero che tu abbia un cappotto pesante: partiamo.”

Clint si era bloccato a guardarla, i segni della vergogna visibili nella sua postura, nei suoi occhi, in tutto il suo corpo.

“Stasera stessa.”

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Capitolo 2
*** Avarizia ***


CAPITOLO 2

 

No matter what we breed
We still are made of greed
This is my kingdom come
This is my kingdom come […]

So they dug your grave
And the masquerade
Will come calling out
At the mess you've made
Don't wanna let you down
But I am hell bound

(Demons, Imagine Dragons)

 

Avarizia

 

La porta si richiuse alle loro spalle, infrangendo per un istante l'ostinato silenzio che li aveva accompagnati durante tutto il viaggio. Non c'erano né taciuta complicità, né conforto di alcun tipo in quel fastidioso mutismo.

 

Natasha ne era consapevole in modo quasi doloroso. Più e più volte si era ritrovata a guardare in direzione di Clint, lo sguardo tenacemente puntato ovunque tranne che su di lei, formulando discorsi infiniti nella propria testa, senza trovare mai il coraggio o l'occasione giusta per dar voce ai propri pensieri. Qualcosa la bloccava, qualcosa le impediva di affrontarlo nel suo consueto modo schietto, a volte persino brutale.

 

Nello momento esatto in cui gli aveva niente di meno che ordinato di preparare l'occorrente per un po' di tempo fuori città, si era pentita di averlo fatto. Non era affatto sicura di poter gestire la situazione. Certo, non era la prima volta in cui si era accorta di una qualche difficoltà di Clint, ma in tutte le altre, nel bene o nel male, non si era fatta problemi ad interrogarlo sulla questione. Perché lasciare che la ferita si infetti fino a marcire e compromettere il resto del corpo, quando puoi affrontare e risolvere la questione proprio lì, su due piedi?

 

Per quanto le costasse ammetterlo, gli eventi di New York avevano avuto le loro conseguenze anche su di lei. Non importava quanto si sforzasse per impedirlo, i ricordi di quei momenti continuavano a passarle davanti agli occhi, ogni volta mostrandole un dettaglio nuovo, un'interpretazione che, in precedenza, le era sfuggita. Era stata la seconda volta in tutta la sua vita in cui si era vista obbligata a combattere contro di lui; la prima in cui fosse nelle condizioni fisiche se non ottimali, almeno adatte a contrastarlo (il loro primo scontro era stato piuttosto impari da quel punto di vista). Ricordava con estrema lucidità il momento in cui aveva realizzato che Clint stava colpendo per uccidere. Non era stato un allenamento, una sfida nella palestra dello SHIELD Center o dell'Helicarrier, no... quella volta faceva sul serio. La sua furia cieca non l'avrebbe risparmiata.

 

Scoccò un'occhiata al suo partner, fermo a pochi passi da lei al centro della stanza principale del piccolo cottage sperso tra le nevi canadesi in cui Natasha l'aveva trascinato a forza. Ebbe l'impressione che metà delle sue energie fossero utilizzate nello sforzo di non voltarsi mai verso di lei o, quando succedeva, nella prontezza di riflessi che gli serviva per abbassare rapidamente lo sguardo e rimediare alla disattenzione; l'altra in quel tenace silenzio, spezzato qua e là da insignificanti monosillabi.

 

Non l'aveva mai chiamato Clint prima di quel giorno nella claustrofobica infermeria della base volante dello SHIELD. Le era uscito senza neppure pensarci, come se quello stupido nome le fosse rimasto a fior di labbra, in attesa di essere pronunciato, per anni, aspettando il momento giusto. Aveva avuto la netta sensazione che non fossero mai stato tanto vicini... e adesso, per un paradossale scherzo del destino, dovette prendere atto dell'evidenza: non erano mai stati tanto lontani. Un ostacolo invisibile e apparentemente insormontabile li divideva con straordinaria efficacia.

 

“Puoi prendere la camera da letto al piano di sopra”, si sforzò di dire, sentendo il bisogno di smuovere quelle soffocanti acque in cui si erano ritrovati a nuotare, in difficoltà. Non le sfuggì l'irrigidimento delle sue spalle, i muscoli del collo tesi, come nel disperato tentativo di trattenere un'obiezione. Comprese e intervenne.

 

“Mi prendo il divano”, lo rassicurò, come per rispondere a quella sua silenziosa protesta. “Tutte le volte che vengo qui dormo là sopra... non è un problema.”

 

Clint si limitò ad annuire, concentrando la sua attenzione sulle pareti di legno, il caminetto di pietra, la piccola cucina, il grosso tavolo di legno a cui erano accostate due sedie solitarie. Aveva ancora la sacca gettata su una spalla, il giaccone pesante ad intralciare i suoi movimenti, grumi di neve in procinto di sciogliersi nei capelli.

 

Lo seguì con lo sguardo mentre si faceva strada verso la scala che l'avrebbe condotto al piano superiore. Trattenne il respiro finché non lo vide sparire dal proprio campo visivo. Lasciò cadere a terra il suo zaino, sentendosi esausta come mai lo era stata in vita sua. Un grido esasperato sembrava accumularsi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, alla base della sua gola, nel petto, alla bocca del suo stomaco. Socchiuse gli occhi e inghiottì la propria frustrazione, ricacciandola in un angolo remoto della sua persona, chiusa a chiave in un cassetto dalla serratura, suo malgrado, piuttosto fatiscente.

 

***

 

Clint non scese fino a tarda notte, svariate ore dopo. Erano le due e trentasette del mattino quando Natasha avvertì i suoi spostamenti: riusciva ad immaginarlo mentre faceva appello a tutti gli anni di addestramento pur di non far alcun rumore. Ma, Natasha intuì, doveva essere stanco, i suoi movimenti grossolani e goffi. Si figurò il suo percorso, dalla camera da letto fino alle scale. Dal tavolo della cucina a cui era seduta - intenta a bere tè corretto a vodka e a smontare, ripulire e montare le armi che aveva lasciato nel cottage l'ultima volta che c'era stata - riuscì a sentire i suoi passi sempre più chiaramente.

 

Il tenue bagliore delle fiamme accompagnò la discesa di Clint. Natasha rialzò lo sguardo, ma lui si era già accorto della sua presenza, distogliendo prontamente l'attenzione sulle fiamme che scoppiettavano dall'altro lato della stanza. Sarebbe stata accogliente se non ci fosse stato il gelo tra di loro a neutralizzare l'atmosfera faticosamente creata dal fuoco.

 

Con il pugno chiuso attorno al corrimano, il suo partner aveva tutta l'aria di star valutando se tornarsene indietro lasciandole intendere di aver battuto in ritirata perché contava di non trovarla ancora sveglia, o restare ed esaurire quelle ultime briciole di auto-controllo che gli permettevano di ignorarla ad oltranza.

 

Natasha non smise di guardarlo finché Clint non sembrò decidere per la seconda opzione. Rilasciò un impercettibile sospiro di sollievo, tornando a pulire la canna di una vecchia Colt che aveva per le mani. La presenza di lui le aleggiava attorno mentre si avvicinava per studiare il contenuto del frigorifero, dove, però, non parve trovare alcunché di suo gradimento. Finì per recuperare un bicchiere pulito da chissà dove e colmarlo di acqua dal rubinetto. Ne bevve un lungo sorso, e poi lo riempì di nuovo, dandole le spalle.

 

Indossava un paio di pantaloni verde militare, una maglia nera a maniche lunghe, la barba sfatta, i capelli un po' troppo lunghi sulla nuca.

 

Rimase ad osservarlo per qualche istante, finché non si fu accorta di dove lo sguardo di lui stesse puntando: era stata tanto stupida da abbandonare la bottiglia di vodka sul ripiano accanto ai fornelli, là dove aveva lasciato il bollitore per il tè. Inorridì e si maledì internamente, abbandonando strofinaccio e pistola, per avvicinarsi con poca, pochissima discrezione al bancone della cucina, afferrare la bottiglia d'alcool e sparire al piano di sotto, nella cantina, dalla quale riemerse solo dopo averla nascosta insieme agli altri alcolici che si era premurata di mettere sotto chiave mentre Clint era di sopra a non-riposare.

 

Solo quando rimise piede nel salotto ed ebbe intercettata la figura dell'uomo seduto al tavolo con le spalle chine, si rese conto di aver commesso un terribile errore, ben più grave del dimenticare la vodka in bella vista. Un freddo insopportabile sembrò scenderle nelle ossa: credeva seriamente che trattarlo come un pazzo incapace di trattenersi l'avrebbe convinto a rivolgerle la parola? Come diavolo le era saltato in mente di scappare a nascondere la bottiglia, proprio lì, sotto i suoi occhi?

 

Socchiuse gli occhi e abbassò il capo, arrendendosi all'evidenza. Non poteva far altro che affrontare le conseguenze. Tornò verso la cucina, versandogli una tazza di tè ancora caldo pur di prendere tempo, rimandare il momento in cui gli si sarebbe seduta di fronte. Quando arrivò, Clint si stava rigirando tra le mani una delle armi disposte sul tavolo. Non ebbe l'aria di accorgersi del tè che Natasha gli aveva offerto.

 

Nessuno disse niente per una quantità di tempo che le parve infinita, scomoda, insopportabile. Sentiva i mille discorsi provati e riprovati nella sua testa, uno meno opportuno dell'altro, premere e scalpitare pur di uscire, sgorgarle dalla bocca in un miscuglio incomprensibile di rimproveri, offerte d'aiuto, persino suppliche. Sentì le labbra fremere, dischiudersi, ma di nuovo non emise un soffio. Le parole le si accartocciarono in gola, ripiegandosi le une sulle altre pur di venir rispedite là da dove erano venute. Non era particolarmente attaccata a tutti quegli inutili, patetici simposi, eppure, per l'ennesima volta, si era ritrovata a tenerseli stretti quasi gelosamente.

 

Clint, d'altro canto, sembrava perfettamente a suo agio nel suo silenzio. Era il non guardarla, la paura che lei avrebbe aperto bocca e spezzato quell'insopportabile, ma apparentemente necessaria empasse, a preoccuparlo. Nient'altro. Per questo, capì Natasha, non si decideva ad incrociare i suoi occhi: aveva paura di darle uno spunto, darle tacitamente il via libera per parlare. Non era un lusso che si poteva permettere in quell'istante, suppose.

 

Tutta la sua frustrazione tornò a farsi sentire. Così come le onde vanno e vengono, tutti gli sproloqui che si erano ritirati solo qualche attimo prima, tornarono a farsi avanti con insistenza persino maggiore. Natasha serrò la presa sulla sua tazza, bevve un sorso di tè pur di tenersi occupata, ma sapeva già che non avrebbe potuto ignorarli completamente, non questa volta.

 

“Clint,” pronunciò a voce bassa ma decisa, una specie di supplica indispettita con cui lo invitava a guardarla. Guardami, ti prego, guardami. Sono qui. Lo vide irrigidirsi, stritolare la pistola che ancora teneva tra le mani fino a farsi diventare le nocche bianche. La stanchezza gli segnava il volto, la fronte aggrottata, le linee del viso solo vagamente nascoste dal velo di barba che gli punteggiava le guance.

 

Fu un attimo, un istante. Natasha si ritrovò, finalmente, a guardare nei suoi occhi, chiedendosi inutilmente perché diavolo avesse insistito tanto per convincerlo a farlo. Sembrava che guardarla fosse per lui come un vero e proprio dolore fisico. Percepì il tremore delle sue mani mentre si sforzava in tutti i modi di sostenere il suo sguardo, convincerla forse che stava bene, che non c'era bisogno di preoccuparsi, accusarla di quel goffo gesto con cui era andata a nascondere l'alcool, supplicarla di smettere di insistere, di lasciarlo solo. Era tutto lì, tutto inespresso e mescolato nella sua espressione, tutte le parole di cui era talmente avaro da non volersene lasciare scappare neppure una. In nessun caso.

 

Lo stomaco le si strinse fastidiosamente, mentre una sensazione tutt'altro che familiare sembrò riempirla dalla testa ai piedi. Un'urgenza improvvisa, un bisogno fisico di afferrarlo per il colletto della maglia, attirarlo a sé, sentire il suo corpo caldo e vivo contro il proprio, l'odore rassicurante della sua pelle, scuoterlo, urlargli in faccia, riportarlo a forza nel mondo dei vivi, nel mondo reale, nel suo mondo. Sono qui. Sono qui, sono sempre stata qui. Avrebbe voluto cancellare quella piega delle sue labbra con la propria bocca, appiattire le rughe preoccupate del suo volto con la punta delle dita, rianimarlo, fargli sentire che lei era lì, che era lì per lui, che aveva bisogno di lui, che era arrabbiata perché l'aveva lasciata da sola, perché era stato egoista, perché si era dimenticato di lei. Non si ricordava che erano una squadra?

 

Trasalì impercettibilmente sotto lo sguardo incerto di lui. Per un attimo, si convinse che si era accorto di qualcosa, che magari aveva intuito i suoi pensieri, perché si affrettò a guardare altrove, spezzare quella connessione ritrovata solo per qualche misero istante. Il calore che le era risalito fino alla guance e giù per le cosce si raffreddò e svanì, cancellato dall'indifferenza di Clint.

 

“Esco,” le annunciò, rimettendosi in piedi dopo aver abbandonato la pistola e il tè ancora intonso.

 

Natasha non ebbe il coraggio di ribattere, troppo presa dalle immagini che aveva osato pensare e che adesso la tormentavano, impresse a fuoco nella sua mente. Lo sentì spostarsi nel salotto, recuperare la sua giacca pesante, indossare gli stivali e svanire oltre la porta, accompagnato da una folata gelida dall'esterno, dall'ululare del vento che se lo portò via.

 

***

 

Gli stivali affondavano nelle neve alta. La luce lunare e il suo riverbero su quello strato candido, dava ai dintorni un’atmosfera irreale, i suoni attutiti da un gelo di morte.

Aveva ricominciato a nevicare da diversi minuti, ma non sembrava essersene accorto. Non era nemmeno consapevole di quanta strada avesse fatto dacché aveva preso la stravagante decisione di uscire di casa, certo di non aver agito in tutta coscienza.

La boccata d’aria nel nome della quale si era convinto di aver preso quella decisione non era che una debole scusante. Il freddo che sentiva ora nelle ossa non era tanto diverso da quello che lo attanagliava nello stomaco, nel cervello.

Uno strato di coscienza congelato, che non riusciva a sbloccarsi, a riattivarsi sui normali canali di comunicazione.

 

Quando Natasha lo aveva obbligato a seguirla aveva accolto l’ordine come una specie di benedizione, la flebile speranza che quell’impegno lo avrebbe scosso abbastanza dal riprendersi da quello stato dal quale non riusciva a liberarsi.

La deflagrazione finale allo SHIELD era stata l’ultimo avvertimento. Il definitivo, inconsapevole, grido d’aiuto che lo aveva trascinato fin lì. Ma ora che le circostanze lo avevano accolto, la speranza aveva preso la mostruosa forma dello sconforto. Natasha invece di aiutarlo lo aveva spinto in uno degli angoli più acuti della sua depressione.

Come svelarle che i suoi incubi erano popolati dal grottesco quadro della morte di lei? Come metterla al corrente dello smisurato rimorso di coscienza nell’aver anche solo provato a portare a termine quello spaventoso omicidio? Poteva sentire su di sé il suo giudizio, schiacciante, provocatorio.

Più si costringeva a minimizzare quella faccenda, più si sentiva in colpa nel farlo. Un circolo vizioso, una serie di corde annodate ad arte per stringersi ad ogni tentativo di movimento.

 

Prese un’altra boccata d’aria gelida, e di nuovo non provò nulla di diverso. Solo un fragile dolore ai polpacci, tesi per lo sforzo di camminare nella neve.

Improvvisamente comprese il perché di quell’insensata passeggiata. Sentì l’istantanea necessità di bruciare le sue energie, sentire la fatica, il dolore dei muscoli in tensione, avvertire i polmoni bruciare nel patetico tentativo di tenere il ritmo di quel clima rigido. Voleva sentirsi esausto, voleva non avere più la forza di muoversi per poter così crollare distrutto e annebbiare la coscienza in un sonno ristoratore, senza sogni. Senza incubi.

Prese a correre, correre nella neve, incurante delle sferzate di ghiaccio sul viso, sulle mani, che entrava nelle pieghe dei vestiti, negli stivali.

Si concentrò sul suo respiro, su niente altro che la bruciante sensazione che gli scaldava il petto, che gli mozzava il fiato.

Il sudore sotto gli strati di vestiti lo fece sentire di nuovo vivo per un misero, penoso istante. Il flusso del sangue, nelle sue vene, il rumore pompante del cuore: si sentì spronato a continuare finché non fu troppo. Finché il dolore fisico non superò il sollievo dello sforzo.

Rallentò senza quasi registrarlo, inciampò in un cumulo di neve e cadde a terra sfiancato e senza fiato a fissare il cielo su di sé e i fiocchi di ghiaccio che in circolo, scendevano a baciargli il viso.

 

Socchiuse gli occhi, lasciandosi accogliere da quell’abbraccio freddo e innaturale. Si chiese che cosa ne sarebbe stato di lui se si fosse abbandonato al torpore lì, in mezzo al nulla, circondato dall’inverno.

Non una morte da guerriero, ma comunque decisamente meno tremenda di tutte quelle che si era immaginato. Una morte comoda, una morte vigliacca.

Chi avrebbe pianto la sua dipartita? Non la sua squadra, i suoi colleghi, i suoi superiori. Forse un mesto, contenuto saluto, una grave perdita per l’organizzazione, certo, un discorso di commiato condito da riconoscimenti e poi via, di nuovo a cercare un sostituto valido per la falla nel sistema.

Non un famigliare, non quel fratello del quale aveva quasi dimenticato i lineamenti, il nome. Quel fratello che era stato per lui padre e madre, consigliere e maestro, che era sparito come tutti gli altri che lo avevano lasciato solo.

Non un amico, di quelli veri, come Phil, l’unica persona che negli ultimi anni avesse osato considerare veramente tale.

Non una donna, un’amante. La sfilza di quelle che lo avevano conosciuto superficialmente superava di gran lunga quella delle donne che credevano di avergli rubato il cuore.

Non quel gruppo di supereroi con cui aveva condiviso una delle operazioni più pazzesche alle quali gli fosse mai capitato di prender parte.

Non… Natasha?

Come avrebbe preso la sua morte, Natasha? Il più grande mistero con cui mai avesse avuto a che fare.

Avrebbe sofferto? O avrebbe liquidato la faccenda sbrigativamente, come faceva con le sue vittime?

Il pensiero non gli faceva onore. E non ne faceva a lei. Natasha era molto più di quello e lo sapeva, lo sapeva benissimo.

Non le avrebbe fatto un favore, lasciandosi andare. Non gliene stava facendo uno ora. Lo aveva condotto fin lì per aiutarlo. Certo, a modo suo. Non era obbligata a fargli da balia, né da psicologa, eppure si era esposta fino al punto di trascinarlo in uno dei suoi luoghi solitari, dove sapeva che lei aveva bisogno di isolarsi, di tanto in tanto.

Spariva spesso, fra una missione e l’altra. Gli aveva svelato e offerto una delle sue tane, dei suoi rifugi e lui cosa faceva? Immaginava come sarebbe stato morire e lasciarsi tutto alle spalle, chiedendosi persino che cosa ne avrebbe pensato lei.

 

Si riscosse all’improvviso, disgustato da se stesso.

Avrebbe voluto dare tutta la colpa allo smarrimento cerebrale in cui lo aveva spinto quel dio dagli occhi di ghiaccio, ma sapeva che non era solo colpa sua. La sua influenza continuava a lasciare strascichi nella sua coscienza, ma era dentro di sé che avrebbe dovuto trovare la forza di scacciarlo definitivamente. Faticava a trovare un appiglio. Ci stava provando davvero a cercarlo, o si compiaceva di crogiolarsi in quel limbo?

Si mise seduto, la neve ormai dappertutto. Avrebbe quantomeno potuto provarci, fare un tentativo. Allungare una mano e trovare quell’aiuto che non riusciva ad accettare.

Si rimise in piedi, esausto, fissò lo sguardo sulla neve che aveva smesso di cadere e decise di tornare indietro.

 

***

 

Lo accolse una casa silenziosa. Vuota. Nel momento stesso in cui aveva varcato la soglia aveva avvertito l’assenza di Natasha.

Aveva imparato, con gli anni, a percepirla, ovunque fosse - se a lei non fosse importato nasconderlo - e quella era l’atmosfera di una casa vuota, priva della sua consistente presenza.

Se per un attimo pur si chiese dove fosse finita, il pensiero passò rapidamente. Avrebbe ritardato un altro confronto e ne fu grato.

Si spogliò del giaccone, degli stivali bagnati. Procedette scalzo per quella casa estranea che inizialmente non si era detto curioso di conoscere. Osservò distrattamente i dintorni all’apparenza accoglienti.

Natasha aveva imparato a crearsi i suoi spazi, a concedersi angoli personali che prima non riteneva necessari. Libri ce n’erano sempre, ma a differenza dei primi anni in cui aveva imparato a vivere da sola senza sentirsi un animale braccato, attenta a non lasciare tracce, ora potevi trovare indizi di lei ovunque: un mollettone per capelli, la tazza di tè abbandonata nel lavandino, la custodia di un DVD sulla mensola del salotto – un film che sicuramente lui le aveva suggerito – e un gusto particolare per determinati pezzi di arredamento che, non sapeva bene come, né perché, ma le riconosceva.

Spulciò la libreria più per curiosità che per una reale intenzione di mettersi a leggere: perlopiù classici, molti in lingue a lui sconosciute. La cultura di Natasha poteva risultare spiazzante.

Si concesse di recuperare un libro dall’aria consumata, era sicuro di riconoscerlo. Una volta, durante una spedizione, si erano imbattuti in una bancarella di libri usati. Nemmeno il tempo di accorgersi che Natasha era rimasta indietro che aveva fra le mani un’edizione usurata di Moby Dick. Lui le aveva chiesto se si riconosceva nella copertina e lei gli aveva sganciato una gomitata nelle costole. Il pensiero felice non gli strappò un sorriso.

 

Sospirò, esausto di tanta avarizia di sentimenti positivi e fece per rimettere a posto il libro. Gli fece trovare spazio con una spinta che fece emergere, fra le sue pagine, l’angolo di quella che sembrava una fotografia. Non seppe cosa lo spinse a farla sua, ma se ne pentì l’istante successivo: una cartolina che portava i saluti da Roma e terminava con la firma di Coulson.

Ricordava esattamente il periodo. Prima che lui partisse per l’India e prima che Natasha andasse a lisciare le penne a Stark. Clint gli aveva raccomandato di ricordarli nei suoi pensieri mentre andava a fare un saluto al papa. Coulson non aveva tradito le aspettative, mandando a entrambi i suoi migliori saluti.

Il ricordo, questa volta, gli procurò una dolorosa contrazione al petto. Si affrettò a rimettere a posto la cartolina che cadde al suolo l’istante successivo.

Di nuovo la testa riprese a pulsare, quel dolore costante che si assopiva fino a quasi diventare inesistente, bastava un nonnulla per rianimarlo ferocemente.

Percorse a grandi passi la stanza, fino al bagno, cercò nell’armadietto dei medicinali qualcosa che potesse aiutarlo a dormire. Si rigirò fra le dita la scatola con i sonniferi di Natasha, valutando quale fosse la dose necessaria per stenderlo fino al mattino successivo, prima che il ricordo dell’alcool che gli aveva sapientemente nascosto, tornasse a colpirlo impietoso.

 

L’alcool… sapeva bene come lo avrebbe fatto sentire. Avrebbe attutito il dolore e, forse, avrebbe potuto non addormentarsi come invece lo avrebbero costretto a fare i sonniferi. Non avrebbe sognato. Non avrebbe avuto incubi, trascinato invece in un dolce, ovattato oblio.

In un attimo fu fuori dal bagno e giù fino alla cantina.

Non gli ci volle molto per riportare alla luce le sue rimembranze di un’adolescenza fatta di piccoli furti: la serratura scattò pochi istanti dopo.

Il ricordo dell’assenza di Natasha fu cancellato, i rimorsi di coscienza spazzati via da quell'unico, distruttivo obiettivo.

La porta si richiuse silenziosamente alle sue spalle, inghiottendolo.

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Capitolo 3
*** Ira ***


CAPITOLO 3

 

Shout, shout, let it all out
These are the things I can do without
Come on - I'm talking to you
Come on

(Shout - Tears for Fears)

 

Ira

 

Un fiocco di neve le sfuggì dai capelli e andò a posarsi sulla foto del colonnato di piazza San Pietro, a Roma, che giaceva sul pavimento. Nonostante avesse trascorso le ultime due ore in balia delle intemperie della notte, che ormai si faceva giorno, nonostante quell'oggetto fuori posto le assicurasse che Clint era tornato al cottage prima di lei, un brivido le corse giù per la schiena. Una sensazione tanto orribile quanto chiara.

 

Rinunciò a raccogliere la cartolina che Coulson le aveva inviato anni prima, rinunciò a togliersi la giacca pesante e gli stivali foderati di pelliccia che aveva indossato per uscire alla ricerca di Clint, rinunciò a respirare finché non ebbe raggiunto la porta della cantina.

 

La maniglia le sembrò innaturalmente gelida al contatto con le sue dita. Il petto aveva cominciato a bruciare intensamente nello sforzo di trattenere il fiato. Esercitò un'incerta, tentennante pressione verso il basso: la serratura non oppose alcuna resistenza. Il cigolio della porta che ruotava sui cardini fu sufficiente a farle capire che Clint aveva superato il limite.

 

Concesse tregua ai propri polmoni, permise all'aria intrisa di alcool, sudore e umido di riempirle il naso e la bocca. L'attimo che le ci volle per individuarlo, seduto a terra, la testa abbandonata contro il muro, parve protrarsi fino all'infinito. Il cuore interruppe il suo folle martellio, abbandonandola sulla soglia dei peggiori incubi di Clint Barton.

 

A mente lucida, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata – nell'ordine – preoccuparsi, riflettere, escogitare una soluzione in diverse fasi, qualcosa che l'aiutasse a mantenere il controllo sulla situazione, ad affrontare un problema alla volta, senza lasciarsene sopraffare.

 

Ma quello non era il caso. Le guance arse dal freddo, i muscoli tesi ed esausti per la lunga, inutile camminata tra le nevi circostanti, le palpebre pesanti per un sonno che tardava a arrivare: un principio di rabbia, sorda e inaspettata, si fece sentire nel suo stomaco. Man mano che i secondi passavano si faceva più chiara, insistente, ingombrante... strinse i pugni e serrò le labbra scarlatte, come per impedire all'ira di emergere, per non darle alcuna possibilità di sfogo.

 

Si levò il giaccone con un movimento calibrato, quasi meccanico. L'appoggiò sulla pila di scatoloni addossati alla parete più vicina a lei e si decise ad affrontare Clint, dovendo fare appello ad ogni briciolo di energia che le rimaneva per tenere a bada qualsiasi reazione spropositata (pensò a Bruce Banner, all'Altro, alla maledizione che si portava dietro, ricordò il terrore che l'aveva colta quando si era accorta di essere rimasta sola, sull'Helicarrier, in compagnia della Rabbia fatta carne ed ossa).

 

“Clint”, lo richiamò seccamente, la voce che, miracolosamente, tradiva solo un vago fastidio.

Lo vide sollevare le palpebre con estrema fatica, combattere con il rollio di onde inesistenti che gli impedivano di tenere dritto il collo, sorriderle infine con aria tutt'altro che consapevole.

“Tasha...” sussurrò in un biascichio appena comprensibile. “Tasha... m-mi... mi 'iace.”

 

Non gli chiese il permesso di afferrarlo sotto un braccio e tirarlo su a forza: lo fece e basta. Lo sentì sbuffare, lamentoso, del tutto contrariato dallo spostamento. Prese a trascinarlo fuori dalla cantina, sorreggendo il suo peso come meglio poté. Urtò con la punta del piede una bottiglia di rum ammezzata: rotolò sotto un vecchio comodino scrostato che era appartenuto ai precedenti proprietari del cottage. Sparì alla vista e Natasha se ne dimenticò prontamente, troppo presa dalla muscolosa mole di Clint, praticamente inerte nella sua ferrea stretta.

 

Riuscì a fargli raggiungere il salotto, ad evitare una caduta giù per i pochi gradini che conducevano nel sottosuolo, ma non sfiorò neppure la possibilità di farlo arrivare sano e salvo fino alla camera da letto al secondo piano. Lo aiutò a coricarsi sul divano che ormai aveva preso la forma delle sue curve, lo aiutò a spogliarsi del maglione pesante che ancora indossava, lo coprì con la coperta piegata ordinatamente sul poggiapiedi che affiancava il tavolino da caffè.

 

Tra un sussurro sconclusionato e l'altro, Clint non tardò ad addormentarsi.

 

***

 

Il sole stava tramontando tra le morbide pieghe nevose dei rilievi che circondavano il cottage. Natasha arrestò il motore dopo aver effettuato uno sgangherato parcheggio nel vialetto di ghiaia che si snodava dal portico fino a perdersi tra gli alberi. Scese dal grosso fuoristrada per andare a recuperare i sacchetti della spesa che aveva sistemato sul sedile del passeggero, dopodiché percorse i pochi metri che la separavano dall'ingresso dell'abitazione.

 

La prima cosa che notò, non appena il calore dell'interno l'ebbe avvolta, fu la borsa di Clint. Il suo proprietario, seduto al tavolo della cucina, si voltò verso di lei un attimo dopo. Sembrava che quell'intera giornata di sonno bruscamente recuperato, gli avesse fatto più disservizi che favori. La barba si era allungata ancora, i capelli erano spettinati, l'espressione indecifrabile. Per un istante ebbe l'impressione di aver sorpreso uno sconosciuto in casa propria.

 

Tentò di richiamare a sé comprensione, mansuetudine, solidarietà... tutto quello che ottenne fu di trattenere lo slancio furibondo che premeva follemente per catapultarla verso di lui con intenti non molto nobili.

 

Le sembrò sul punto di dire qualcosa, ma – particolare che non la sorprese affatto – dalle sue labbra dischiuse non uscì alcun suono. Rispose a quell'ormai familiare silenzio con uno schiocco della lingua, subito seguito dal chiudersi violento della porta alle sue spalle. Ignorò Clint e raggiunse la cucina a passo di marcia per appoggiare le buste della spesa sul tavolo. Solo quando se ne fu liberata si decise a togliersi il giaccone che le ingombrava i movimenti. Non fece in tempo a sistemarlo sullo schienale dell'unica sedia libera, che la mano di Clint fu sulla sua. Il palmo umido e incerto riuscì solamente a sfiorarla: Natasha ritrasse bruscamente la mano, come scottata, ma con intenzione.

 

“Non mi toccare”, sibilò prima di potersene rendere conto. Era come se Clint si fosse azzardato a lanciare un sassolino sulla superficie apparentemente calma della sua pelle, scatenando una catastrofe. Le acque si increspavano e ribollivano al di sotto della porcellana del suo viso, delle sue mani, del suo collo. La consapevolezza di essere ad un misero passo dal baratro, poi, contribuiva solamente a farla infuriare ancora di più: Natasha Romanoff non era un essere umano in preda al caos della propria natura, non sguazzava nell'incertezza, non si beava degli imprevisti e di certo non le capitava spesso di non riuscire a dominare i propri istinti. Si vantava di essere metodica, fredda, glaciale nel suo lavoro. Tutta la sua persona era un filtro tra la confusione del mondo esterno e la chiara e limpida organizzazione della sua mente. Natasha non si arrabbiava mai così tanto, Natasha non alzava mai la voce: tutto quello che faceva, lo faceva perché ci aveva riflettuto. A prescindere dal loro livello di ragionevolezza, i suoi comportamenti erano sempre calcolati, mai casuali o gratuiti.

 

Quello, però, non era il caso. Il suo personalissimo mondo di etichette, compartimenti stagni, cassetti e casseforti con cui tentava di dar senso alle cose, si era rovesciato su se stesso, si era andato a schiantare contro il punto interrogativo che erano la vita e la persona di Clint Barton.

 

Si allontanò per andare a sfilarsi gli stivali ancora sporchi di neve accanto al camino: aveva lasciato impronte dappertutto. Si maledisse per quella disattenzione. L'uomo si era rimesso in piedi, il senso di colpa e la vergogna attaccati addosso così come l'odore pungente dell'alcool che ancora emanava, maldestramente soffocato dal profumo di quello che Natasha riconobbe come il suo bagnoschiuma.

 

“Me ne vado”, le annunciò dopo qualche istante di scomodo silenzio. Le parti si erano invertite: adesso era lei che lo ignorava e lui quello che le si muoveva nervosamente attorno senza sapere cosa aspettarsi.

“Sì, vai”, convenne lei. “Scappa”, asserì in quello che voleva essere un tono piatto e freddo, ma che invece le uscì tremante, pieno di rabbia mal repressa, “dopotutto, mi pare, è quello che sai fare meglio.”

 

Gli occhi di Clint accennarono a sgranarsi, ma il movimento si esaurì a metà dell'operazione. Incassò il colpo, valutò una risposta, gettò la spugna poco dopo. Distolse lo sguardo e accennò a recuperare delle sue cose, per andarsene una volta per tutte. Stava facendo esattamente quello che Natasha gli aveva appena suggerito di fare, il che non ebbe altro effetto su di lei se non quello di farla infuriare ancora di più.

 

“Lo sai?” Riprese, la voce più acuta del normale, le parole che le si formavano sulle labbra con o senza il consenso del suo cervello. “Phil si sbagliava sul tuo conto. Tutti si sbagliavano sul tuo conto... sei un fottuto codardo, ecco cosa sei.” Non se ne accorse subito, ma stava cercando di scuoterlo, di fargli male: se, dopotutto, il silenzio non aveva sortito alcun effetto, perché non provare col suo esatto opposto?

 

“Cos'è, un nuovo tipo di terapia?” Domandò lui. La sua voce e la sua postura trasudavano stanchezza.

“No, questa sono io. Io che ti dico cosa penso esattamente di questo.”

Clint sbuffò, mentre una tensione appena accennata cominciava a delinearsi ai lati del suo collo.

“Non m'interessa sapere che cosa pensi.”

“Non me ne frega un cazzo di quello che ti interessa o non ti interessa,” puntualizzò. La diga che tratteneva la sua rabbia cominciava a dare i primi segni di cedimento.

“Fantastico. Allora forse non avresti dovuto portarmi fin qui.”

“Già, probabilmente non avrei dovuto.”

“Bene. Me ne vado.”

 

Scattò in avanti prima di poterlo programmare: gli strappò la giacca di mano e la gettò a terra di malo modo.

 

“Siamo una squadra”, lo accusò a viso aperto.

“In questo momento? Non mi sembra”, obiettò lui, confuso e deluso al tempo stesso.

“Lo sai perché non siamo una squadra? Perché tu l'hai dimenticato”, lo avvicinò di un passo, troppo presa dall'ira che le ribolliva in petto per fermarsi. “Ti sei dimenticato di me, ti sei dimenticato di tutto, e invece che parlarne e affrontare il problema a testa alta, hai deciso di andare a rintanarti da solo con te stesso... a fare chissà che cosa. E ora questo!” Indicò vagamente il punto in cui si trovavano le scale che conducevano alla cantina dove l'aveva trovato alle porte dell'alba, svariate ore prima. “Vieni qui e... e r-risprofondi nei tuoi vizi mentre ti trovi in casa mia?” Ignorò l'incertezza, calcò la voce sull'ultima parola, come per rimediare alla mancanza.

 

Adesso, non c'erano che pochi centimetri a separarli. La vicinanza non le dava fastidio, anzi, non faceva altro che alimentare il suo stato d'animo, come se lo schiamazzante caos che aveva sempre associato a Clint, la stesse in qualche modo contagiando.

 

“Hai ragione. Non avrei dovuto farlo in casa tua.”

 

Non ebbe il tempo di registrare la cosa, che aveva sollevato un pugno per colpirlo in pieno volto. Il gesto fu goffo e plateale: Clint non ebbe alcun problema a bloccarle il polso a mezz'aria, prima ancora che le sue dita si potessero chiudere definitivamente su loro stesse. Tanto la reazione di lei, quanto quella di lui risultarono istintive, memoria irrevocabilmente iscritta nei loro muscoli di spie.

 

“Vuoi colpirmi? Davvero? Pensi che possa farmi stare meglio?” La provocò.

“Perché mi dovrebbe importare di come stai tu, quando ogni tuo singolo gesto non ha il benché minimo rispetto verso di me?” Sibilò in risposta, sporgendosi verso il suo viso, tanto da sfiorargli il naso con la punta del proprio. “Quando mi hai trovata, all'inizio, ti sei messo a blaterare di tante belle e stupide cose... cos'avrei dovuto fare, cosa non avrei dovuto fare, cosa mi conveniva. Il tuo triste passato e di come lo SHIELD ti avesse dato una chance di redenzione”, gli vomitò addosso tutte quelle parole, arrabbiata, tradita, delusa. “E adesso che la situazione è invertita tutto quello che riesci a fare è sfuggirmi? Evitarmi? Non mi guardi negli occhi, non mi rivolgi la parola... e adesso mi scarichi addosso la colpa di averti permesso di ubriacarti come un adolescente del cazzo che non riesce a trattenersi!” Le guance avevano preso improvvisamente colore, i suoi occhi verdi una luce terribile, le sue labbra una smorfia animalesca.

 

Agitò il polso che ancora le teneva stretto, lo colpì in pieno volto con l'altra mano, senza preoccuparsi di dosare la forza. La mandibola di lui scricchiolò sotto la violenza dell'urto. Un secondo ancora e si ritrovò schiacciata sul divano, entrambi i polsi immobilizzati sopra la testa, un ginocchio piantato tra le costole ad impedirle un qualsiasi movimento. Sentiva il suo cuore vicinissimo, lo scorrere, quasi, del suo sangue nelle vene, l'odore del suo corpo, quello stesso odore che si dibatteva per liberarsi da quello dell'alcool, nel disperato tentativo di riaffermare la propria identità.

 

Gli occhi di Clint parvero velarsi, per un istante soltanto, di cieca furia. Ma gli bastò un attimo per accorgersi di quello che stava facendo, di averla scaraventata tra i cuscini senza farsi troppi scrupoli, di averla piegata, con la forza, al proprio volere.

 

Il pensiero di Natasha corse immediatamente al loro scontro sull'Helicarrier, ed era piuttosto sicura che anche quello di Clint fosse andato a finire laggiù, perché, prima che se ne potesse rendere conto, si era rimesso in piedi, allontanato a grandi passi da lei, un'espressione turbata sul volto. Una nuova, improvvisa consapevolezza si impossessò di lei.

 

“Ti senti in colpa”, dichiarò con ferrea certezza. Si rimise in piedi, troppo presa dalla scoperta per riuscire a rispettare i confini che Clint, ne era sicura, avrebbe voluto imporle. Tornò a farglisi vicina, non gli dette tregua. “Verso di me, non è così? Per quello che Loki ti aveva ordinato di fare, quello che avresti fatto se non te l'avessi impedito”, continuò, insistente, insopportabile. “Fammi indovinare... mi uccidi ogni notte.”

Credi che non sappia una cosa o due, sugli incubi, Clint? Abbassò la voce, cancellando di volta in volta la misera distanza che Clint cercava di imporre tra i loro corpi, un passo indietro dopo l'altro. “Lentamente... intimamente...” ricordava le parole a memoria, “perché è così che mi fa paura.”

 

Clint si bloccò bruscamente: il bancone della cucina gli impediva di allontanarsi ulteriormente.

 

“Non capisci, Clint?” Lo vide fremere quando pronunciò il suo nome, ma non se ne preoccupò: si era guadagnata il sacrosanto diritto di farlo. “Non lo vedi? Io sono qui. Tu non mi hai uccisa. Io te l'ho impedito perché è questo che fanno i partner, si parano il culo a vicenda! Pensi seriamente che ti avrei permesso di uccidermi mentre eri sotto l'effetto di quel mostro?” Accennò a prendergli il viso tra le mani, ispirata da chissà che incomprensibile slancio, ma Clint si sottrasse al contatto, sgusciando di lato per liberarsi della sua incombente e soffocante presenza.

 

“No. Sei tu che non capisci”, le ritorse contro l'accusa. “Non sai cos'ho visto, non sai che cosa gli ho detto, non sai che razza di piani avesse per te e per me, non lo sai e non lo puoi sapere!”

“Lo saprei se tu ti decidessi a parlarmene!”

“Perché dovrei? Stavo per ucciderti!”

“Ma sono ancora viva!”

“Ma stavo per ucciderti comunque!” Le loro voci si erano alzate in un crescendo progressivo. “Chi ti assicura che lui non sia ancora da qualche parte, nella mia testa, che non stia aspettando il momento giusto per portare a termine ciò che aveva iniziato? Solo per ristabilire chissà che razza di dominio sulla mia testa!”

“Chi ti assicura del contrario?” Lo incalzò, sgraziatamente.

“Nessuno, ma non posso correre il rischio.”

“Codardo!”

“Chiamami come cazzo ti pare, non m'interessa, non m'inter-”

 

Natasha aveva afferrato un grosso coltello dal cassetto delle posate, gliel'aveva schiaffato in pugno, l'aveva costretto a serrare la presa sull'impugnatura, e adesso se lo puntava al petto, tra i seni, come guidandogli la mano.

 

“Uccidimi, allora,” sussurrò in tono di sfida. “Uccidimi.”

 

***

 

Osservò la lama di quel coltello come si trovasse ad avere fra le mani un oggetto a lui sconosciuto, come se non ne conoscesse l’utilizzo. Puntò uno sguardo incredulo sul viso di Natasha che sembrava lo stesse implorando di fare qualcosa il cui significato non riusciva a comprendere… eppure lo conosceva, lo conosceva bene, e sapeva esattamente cosa aveva fra le mani, solo gli sembrava assurdo, irreale.

Fino a che punto era disposta a provocarlo per procurargli una reazione di tutto rispetto? Che diavolo si aspettava che facesse?

“Sei impazzita…” si ritrovò a sibilare, la mano stretta a pugno sul quel manico di coltello, così vicino alla sua carne...

Lo sguardo che andò a posarsi sulla sua gola, la sua vena pulsante, viva, irregolare sotto la pelle.

Di nuovo i ricordi del suo incubo presero a vorticargli in immagini scomposte nella mente. Ora concentrandosi sul colore del sangue, ora sui suoi occhi vacui, sugli scatti convulsi dei suoi piedi che non toccavano terra, delle sua labbra sempre meno rosee, del sibilo spezzato di un respiro.

Fin quando fu troppo.

 

Esalò un ringhio frustrato e afferrò la lama del coltello con la mano ancora libera, sciogliendosi da quella costrizione. Il dolore della lama sulla carne vulnerabile lo fulminò all’istante, ma non lo frenò. Il coltello cadde con un tintinnio al suolo, trattenendo sospeso un istante infinito.

 

“Che cazzo credevi di fare?” la accusò furente, arrabbiato con se stesso per il lungo attimo di esitazione e arrabbiato con lei per avergli scatenato ricordi che era riuscito a relegare lontano per una manciata di ore.

Natasha lo guardava con una strana luce negli occhi e lui ci vide più di quanto avrebbe voluto: lo spronava a continuare, a non frenarsi, a lasciar sfogare tutta la frustrazione, la rabbia accumulata che fino a quel momento non aveva trovato un solo attimo di sfogo.

“Preferisci accontentarti di facili soluzioni”, la sentì accusarlo nuovamente “Occultare un problema non lo fa svanire. Coprire la merda con altra merda, Clint… non ti rendi conto che ti sta solo soffocando? Ma guardati… sei patetico. La pallida copia dell’uomo che credevo di conoscere.”

Questa volta non ci fu umiliazione, vergogna o rammarico a frenarlo, non ci fu nessun rimorso di coscienza. Il dolore alla mano, che stava sgocciolando sangue fra le pieghe delle dita, fu abbastanza reale da costringerlo a confrontarsi con la realtà, con il peso delle parole di lei. Il dolore fece scattare, improvviso, un meccanismo inceppato che riprese a ticchettare, fastidioso.

La frustrazione e la rabbia sì, ma contro se stesso, contro la brutale ma fin troppo reale immagine che Natasha gli stava mostrando. Il riflesso di un uomo che aveva sperato di non dover mai più incontrare. Che aveva odiato in passato e che odiava con ancor più convinzione ora, rafforzato dal peso degli anni e dell’esperienza.

“Colpiscimi Clint, so che vuoi farlo”, lo provocò.

In cuor suo sapeva che non era quella la soluzione, non la risoluzione definitiva del problema, che non era lei, il problema. Però era stata Natasha a riportarlo a galla, a rinfacciarglielo crudelmente.

“Colpiscimi, porca puttana!” gli gridò contro, colpendolo a mani aperte sul petto, sospingendolo indietro con forza, mentre tutta la mortificazione, la collera, la delusione, si condensavano in un malcelato grido d’aiuto che Natasha gli stava sputando in faccia senza remore.

 

La detonazione ebbe inizio senza che nemmeno potesse registrarla o misurarla. Reagì alla sua provocazione restituendole il colpo, senza preoccuparsi di calibrare la forza o capire che non poteva essere quello l’unico modo di risolverla.

La risposta di Natasha non si fece attendere.

Il tempo per le parole era terminato, il tempo per le accuse, per la violenza verbale... quella non riusciva bene a nessuno dei due.

 

Lo scontro fu feroce, brutale, entrambi decisi a non risparmiarsi in nome di un’amicizia che continuava da anni. Non era il momento della pietà, non più quello della comprensione, del facile perdono.

I muscoli in tensione, i colpi inferti e ricevuti in una feroce danza di azione e reazione che conoscevano a memoria.

A farne le spese i pochi mobili della cucina, del salotto, dell’anticamera.

 

Per ogni pugno, calcio incassato, per ogni frustata di dolore subita, sentiva riattivarsi, mano a mano, strati di coscienza. Uno dopo l’altro si sgretolavano sotto la forza di quello scontro. Sangue, sudore, stanchezza, il rumore pulsante del proprio cuore, affaticato ma finalmente vivo.

 

La disperata follia di due individui che non riescono a raggiungersi se non nel dolore.

 

Quando lei lo colpì allo sterno, si sbloccò il ricordo del loro primo incontro, della forza che lui le aveva riconosciuto, dell’ammirazione del tutto fuori luogo, dell'empatia che aveva frenato la sua mano; lui rispose colpendola alla gola, mozzandole il respiro, per impedire alla pietà per lei di indebolirlo.

 

Lei gli torse un braccio, e gli interrogatori dello SHIELD, la paura di quello che avrebbe rischiato, la consapevolezza di aver agito nel giusto, senza alcun rimorso di coscienza, lo sguardo comprensivo di Coulson, tutte le seconde possibilità e la fiducia, la fecero da padrone.

 

Un calcio nella schiena e si sbriciolò la patina che teneva ingabbiati i ricordi di tutte quelle confessioni non richieste, del rispetto reciproco dimostrato.

 

l sapore del sangue, fra le labbra, gli ricordò quando fosse importante il lavoro di squadra, di quanto si era detto, in più di un occasione, che a lei sola avrebbe affidato la sua stessa vita, senza nessuna vergogna o ripensamento. Dell'energia, dell'invulnerabilità che gli regalava quel legame.

 

Quando lo atterrò e sentì su di sé il peso del suo corpo caldo, avvertì quello stesso rimescolio allo stomaco che lo aveva colto impreparato prima che ripartisse per il New Mexico, la tensione emotiva che lo teneva inevitabilmente incatenato a lei.

 

E infine, quando rotolò su quella stupida cartolina di vacanze romane, che gli rimase imprigionata fra le pieghe dei pantaloni, gli arrivò il rimprovero di Phil.

La sua muta accusa dall'aldilà gli ricordò di quanto fosse andato troppo vicino a mandare a puttane uno dei legami migliori che gli fossero capitati dacché lo aveva conosciuto. Che lei era viva, e si stava battendo per lui. Gli stava scaraventando addosso tutta la sua amarezza, lo stava accusando del suo fallimento, mentre lui continuava ad essere egoisticamente imprigionato in un assurdo limbo fatto di terrore, di sensi di colpa e ingiustificate paure. Che avrebbero definitivamente distrutto tutto quello che avevano costruito in quegli anni, che li avevano condotti a quell'ingiusto e negativo confronto.

L'avrebbe persa e sarebbe stata solo colpa sua. Avrebbe smarrito il senso positivo che riusciva a dare alla sua esistenza.

 

Il pensiero definitivo lo colpì così forte che fece più male di qualsiasi altro colpo ricevuto.

 

Si rimise in piedi, distrutto, sconfitto.

Se la ritrovò di fronte, il peso del suo sguardo, in attesa.

Anche lei esausta, accaldata.

 

Le rivolse un’occhiata che improvvisamente implorava la tregua, mentre l’invasione di tutti quei sentimenti nascosti, che ora combattevano per uscire uno dopo l’altro, sgorgando in un mormorio scomposto, fatto di sudore e sangue.

 

Lei non abbassò la guardia finché non lo vide crollare.

Ora sopraffatto dai ricordi, inondato da tutto ciò che non era riuscito a sfogare in settimane intere di costipazione emotiva, gli strati si erano frantumati ed erano arrivati a scoprire la parte di lui più nascosta, più fragile, più vulnerabile.

 

Natasha gli fu subito accanto e lui si aggrappò a lei, le dita come artigli a trattenerla. L’estrema protezione prima che anche l’ultimo pezzo si infrangesse sotto il peso della sua ritrovata coscienza.

Si sorprese di scoprire il sapore salato delle lacrime mischiato a quello ferroso sangue, affondò il viso sul suo ventre, cercando un rifugio, caldo, rassicurante.

La senti accettare quello sfogo, senza ritrarsi un solo istante. Le sue braccia che lo circondavano protettive, accoglienti.

 

Erano una squadra, aveva detto Natasha.

Era vero.

Una squadra della quale non avrebbe mai dovuto dubitare. Una squadra che lo avrebbe visto piegato, forse, ma mai sconfitto.

 

Rimasero così, fermi per interminabili attimi, precipitati in una simbiosi involontaria, fermi, a confrontare i respiri, a sincronizzare i battiti dei rispettivi cuori.


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N.d.A.: grazie a chi ci ha letto, commentato, spulciato (?)! Ci fa sempre tanto piacere :D Qualche scommessa per il prossimo peccato? Scommettiamo che è quello che aspettano tutti ù_ù *noi comprese* Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Lussuria ***


CAPITOLO 4

 

My heart is aching
My body is burning
My hands are shaking
My head is turning
You understand
It's so easy to choose
We've got time to kill
We've got nothing to lose
I want you now

(I Want You Now – Depeche Mode)

 

 

Lussuria

 

Accese la pallida luce sopra il lavandino del bagno e si mise a sedere sul bordo della vasca di fronte.

Alzò, sorpreso, lo sguardo sul proprio riflesso allo specchio.

Dopo aver constatato, con una punta di pudica curiosità, di non essere altro che il vecchio, trasandato Clint - con un paio di contusioni in più sugli zigomi e due occhiaie di tutto rispetto - prese a sbendarsi la ferita alla mano che aveva richiesto un paio di punti di sutura.

 

Non c'era nemmeno stato bisogno di prendere decisioni particolarmente dettagliate a riguardo: Natasha lo aveva trascinato in quello stesso bagno, solo poche ore prima, e gli aveva disinfettato e ricucito il taglio in silenzio.

Ed in silenzio avevano preso la decisione di non parlare di ciò che era successo. I fatti avevano appianato tutte le incomprensioni e l'ostinazione con cui avevano affrontato gli ultimi giorni.

 

Lo aveva aiutato a ricomporsi, a rimettere in sesto le escoriazioni e a placare l'agitazione interiore che lo aveva visto piegato.

Le era grato di questo. Non aveva dovuto giustificarsi, né chiedere scusa. Non ne sarebbe stato in grado. Lei aveva capito, lo aveva accettato, perdonato.

 

A riempirlo, ora, c'era solo un'esausta quiete, una sensazione che non provava da settimane. Ben lontano dall'aver raggiunto quella pace interiore di cui aveva solo sentito parlare, ma abbastanza sicuro di esser arrivato a un buon compromesso con le sue emozioni.

Si sorprese di non provare vergogna per aver mostrato a Natasha così tanto. Di averle permesso di entrare nel suo tormentato universo, di averle lasciato allungare lo sguardo per sbirciare nell'angolo più profondo del suo caos. Al contrario, ne risultò sollevato.

Non aveva più niente da perdere. Più niente da dimostrare. Natasha lo avevo in pugno, ma non gli faceva paura.

 

Con questa rinnovata consapevolezza, lasciò prendere aria al taglio che sembrava reagire bene alla medicazione. Alzò la mano all'altezza del viso, appuntando mentalmente l'ennesima ferita di guerra: l'avrebbe chiamata Tasha. Un onore che non riservava certo a tutti i suoi aggressori.

 

La porta della stanza si aprì con un sinistro cigolio e, quando si voltò, sorprese Natasha appostata sulla soglia, nelle sue stesse condizioni: non meno segnata dalle ultime ore, non meno esausta.

 

“Scusa, ti ho svegliata?” le domandò, rendendosi conto dell'ora tarda e del fatto che a entrambi erano state necessarie ore per sincronizzare il proprio, rinnovato orologio biologico con lo scorrere ordinario della giornata.

La vide scuotere il capo con poca convinzione. Non aveva bisogno di mentire, ma nemmeno di iniziare una conversazione con una profusione di inutili giustificazioni.

“Che stai facendo?” gli domandò invece, andando a sederglisi di fianco, senza bisogno di inviti.

Sapeva che era ancora preoccupata per lui, che lo teneva sotto stretta sorveglianza. Non se la prese a male.

“Prudeva, controllavo che non mi avessi ricamato ad arte qualche parolaccia.”

“Non ci avevo pensato...” rispose, scoccandogli uno sguardo esplicito. “E' un'idea per la prossima volta.”

Si ritrovò a sorridere stancamente a quello scambio di battute. Se ne sentì rincuorato, riempito.

Lei gli prese la mano, per un controllo sommario.

Non trasalì, questa volta, al contatto, ma il suo stomaco si surriscaldò come se glielo avessero appena acceso con una fiammata.

Non ne comprese del tutto il senso, ma decise di non indagare. Se qualcosa aveva mai avuto un senso in quella storia, forse era arrivato il momento di mettere da parte convinzioni e conoscenze. E smettere di pensare.

“Non perderai la mano, tranquillo...” lo rassicurò come se ne sentisse davvero bisogno. La sentì indugiare sul palmo calloso, tracciare, meditabonda, con le dita, le pieghe attorno alla ferita.

 

Gli piaceva il tocco della sua mano, gli era piaciuto persino sentire, concreto, il contatto del suo corpo, ore prima. Il suo profumo lo aveva inondato, si era sorpreso a sperare di potersi perdere in quelle curve, fondersi con esse, sentirsi compiuto con il perfetto incastro di un puzzle.

Cosa sarebbe successo se avesse allungato una mano per intrecciare le dita fra i suoi capelli? Se l'avesse guardata negli occhi e le avesse chiesto, di nuovo, di essere accolto nel suo rassicurante abbraccio? Provare ancora una volta quella sensazione, sentire il calore del suo respiro, la forza del suo essere...

 

Quando ebbe abbastanza lucidità per farlo, risvegliato da quelle improbabili fantasie, avvertì l'inquietudine di lei, in quel tocco.

“Tornerò ad usare il mio arco prima della fine della settimana”, si sentì in dovere di aggiungere, per sedare qualsiasi dubbio a riguardo.

Lei lo lasciò andare immediatamente, sorpresa, scottata: non era sua la colpa di quella ferita e lo sapeva benissimo.

Aveva forse travisato i suoi gesti, mal interpretato il suo indugio?

“Pensavo di farmi un tè... ne vuoi?” la guardò rimettersi in piedi, le sue gambe nervose, celate a malapena da un paio di shorts, in netto contrasto con il clima rigido delle zone circostanti. Le braccia intrecciate al petto, come ad erigere, di nuovo, una certa distanza.

Le rivolse uno sguardo incomprensibile, ancora confuso, ma annuì.

“Ho assaggiato di peggio in questi giorni”, alluse ai miseri pasti preriscaldati al microonde a cui lo aveva abituato nelle ultime ore.

“Stronzo”, lo apostrofò con tono definitivo, lanciandogli addosso una spugna ancora umida.

Soffiò una mezza risata, mentre lei usciva dal bagno con aria volutamente sprezzante.

Si sgonfiò poi, recuperando la benda intrisa di sangue.

Il tocco delle dita di Natasha, un ricordo ancora impresso a fuoco sulla sua pelle.

 

***

 

La trovò che armeggiava con il bollitore e imprecava qualcosa in russo, riguardo l'impossibilità di trovare tazze pulite.

Annodò la nuova benda e le fu accanto, aprendo questo o quello sportello della credenza.

“Felice di constatare di condividere le tue stesse carenze in economia domestica”, le passò una tazza, ripescata negli oscuri meandri di piatti dimenticati, improbabilmente decorata con il disegno di un cucciolo, provvisto di un paio di luminosi ed enormi occhi imploranti. Le lanciò uno sguardo canzonatorio.

“Era dei precedenti proprietari”, si giustificò lei, strappandogliela letteralmente di mano, stando però bene attenta a non sfiorarlo.

“Eddai, Nat, per una volta tanto potresti ammettere di apprezzare anche tu la dolcezza di un paio di occhioni da cucciolo.”

“Quello che apprezzo, nei cuccioli, è che non hanno l'uso della parola come certi esseri umani”, alluse piuttosto esplicitamente. “Trova un'altra tazza.”

Zì badrona...” le rispose, e di nuovo quella sensazione di calore allo stomaco tornò a farsi presente. Non credeva sarebbe più stato in grado di scherzare ancora così con lei. La convivenza, partita nel peggiore dei modi, si stava appianando nell'unico modo che gli risultava quantomeno familiare.

Decise di lavare una delle tazze dimenticate nel lavabo.

 

Il silenzio non fu però meno confortante.

La osservò riempire con cura l'infuso con le foglie di tè.

Si ricordò l'odore agrumato che aveva sentito la prima volta che era andato a trovarla nel suo vecchio appartamento, nel Queens.

Era odore di tè. L'odore che sempre avrebbe associato a Natasha.

La guardò muoversi per la cucina, attendendo pazientemente la conclusione di quelle metodiche operazioni.

Natasha controllava i dettagli anche nelle più semplici azioni quotidiane.

Rammentò però il modo in cui si era lasciata andare, a causa sua, solo qualche ora prima, e si domandò se fosse stato uno sforzo lasciarsi domare dall'istinto o se lo fosse invece reprimerlo ogni santo giorno, con studiata perizia.

Eppure la risposta non poteva che essere una sola. Aveva accolto su di sé il frutto della sua ira e poi l'abbraccio confortante del suo perdono, della sua comprensione. Non potevano essere azioni studiate, elaborate. Natasha era un essere umano dal sangue caldo, capace di istinti feroci e implacabili, come qualsiasi altro.

Si ritrovò a chiedersi quando avrebbe avuto la possibilità di sentire di nuovo su di sé il carico dei suoi impulsi e la risposta che gli arrivò non fu meno destabilizzante dei suoi stessi pensieri.

Di nuovo tornò alla sensazione dell'abbraccio di quella mattina.

 

Aveva già decretato quanto pericoloso sarebbe stato assecondare quel rimescolio allo stomaco o anche solo prendere in considerazione di farlo, e allora perché il pensiero tornava proprio adesso a pungolargli fastidiosamente la mente?

Di nuovo per il modo in cui era stato scatenato, solo qualche minuto prima, a causa di un semplice, innocente, contatto fra due mani?

Proprio ora che credeva di non avere davvero più niente da perdere?

 

Quanto si sbagliava.

 

Non aveva proprio valutato la più devastante, rischiosa delle possibilità.

Quell'ultimo, definitivo impeto che lo opprimeva da ancora prima che Loki prendesse a giocare con il suo cervello, che aveva segretamente ricacciato indietro, che aveva deciso non avrebbe portato a nulla di buono, che avrebbe compromesso per sempre un ingranaggio perfetto che permetteva a lui e Natasha di scorrere ritmicamente, uno accanto all'altro.

Capì di non essere mai stato tanto in errore: non erano perfetti.

Non erano sinceri.

Lui non era sincero e non lo sarebbe stato mai del tutto.

Non fino a quando avrebbe nascosto alla donna lo spirito con cui a volte - e adesso così prepotentemente - i suoi pensieri si soffermavano a valutarla, finché non avrebbe ammesso che non c'era proprio niente di fraterno o nobile o puro.

 

Così come non c'era niente di aulico nel modo in cui ora la stava guardando, nel frustrante rimescolio al basso ventre, di come i suoi occhi seguissero, ingordi, i movimenti delle sue gambe nude, di come indugiassero fra le pieghe di quella felpa troppo pesante che ne celava le forme, che aveva imparato a conoscere, di cui anelava il calore, che avrebbero fatto esplodere la voglia che aveva di rituffarcisi.

 

Sentì la gola improvvisamente secca. Un vago senso di colpa a stuzzicargli la coscienza.

Troppo tardi si rese conto che Natasha lo stava osservando. Troppo tardi si rese conto che lo stava facendo da più tempo di quanto lui stesso ne fosse consapevole.

“Che c'è?” la sentì pronunciare a fiori di labbra, una vaga incertezza nel tono.

Si affrettò a scuotere la testa, incapace di elaborare una risposta soddisfacente. Si sentì colto sul fatto come un bambino con le mani nella marmellata.

Scrollò le spalle e cercò il suo posto al tavolo della cucina, aspettando che fosse lei a portargli il tè, così come le piaceva fare.

Una piccola gentilezza di cui non l'avrebbe privata.

Una gentilezza che però, questa volta, tardò ad arrivare.

“Quello sguardo, in un uomo... lo conosco bene”, le sue parole come una sentenza di morte. Non ebbe il coraggio di voltarsi, o di guardarla in viso, per paura di trovarci qualcosa di terribile.

La cruda consapevolezza di essere stato scoperto e nel modo più stupido.

“Stavo solo...” tentò un qualsiasi approccio, pentendosene immediatamente. Non esistevano grandi giustificazioni. Si era lasciato andare, in preda all'onda della sincerità che la stava facendo da padrona, all'esplosione delle sue emozioni che si erano trovate libere da qualsiasi diga di contenimento, che lo avevano lanciato, a briglia sciolta, in un cosmo a lui del tutto sconosciuto.

“Stavi solo... ?” lo spronava a continuare, a difendersi. Se non fosse stato troppo preso dall'elaborare una risposta soddisfacente, forse si sarebbe reso conto del tono di malcelata aspettativa con cui Natasha aveva realmente pronunciato quelle parole.

Serrò le palpebre, lasciando che fosse allora la sua onda a parlare.

“Ti stavo solo guardando”, ammise, e si sentì persino stupido nel farlo, come se non fosse già abbastanza evidente.

Sentì la presenza di lei così vicina, alle sue spalle. Ne immaginò il respiro a un soffio dalla sua nuca.

Per un attimo ebbe paura a voltarsi, di nuovo per scoprire qualcosa che avrebbe cancellato tutte le sue fantasiose illusioni.

Poi decise solamente di smettere di essere codardo: aveva afferrato e trattenuto quella soluzione di comodo per troppo tempo.

Si volse, il tempo di rendersi conto che lei non gli era davvero che a un passo, di trovare immediatamente il suo sguardo intenso, agitato. Il verde dei suoi occhi, incupito da un velo di burrasca imminente.

“Non... volevo mancarti di rispetto”, fu tutto quello che ebbe da dire. Ed ora sì che ci lesse un grado di frustrazione nella sua espressione.

“E' nascondendomi quello che vuoi che mi manchi di rispetto.”

Cercò di rielaborare quella risposta, ma non riuscì a trovare voglia o tempo di farlo.

“Natasha, io non -” trovò il dito di lei a serrargli le labbra.

Non riusciva a leggerle dentro, non riusciva a capire come avesse accolto quella rivelazione, se di rivelazione si poteva davvero parlare.

Si trovò a pensare a quante volte l'avesse già guardata a quel modo e in quante di quelle occasioni lei si fosse accorta di quello sguardo, se lo avesse ignorato deliberatamente, etichettandolo come uno sfizio temporaneo o se non lo avesse affatto preso sul serio, credendolo uno stupido abbaglio.

“E' questo che vuoi... Clint?” la sua domanda ora era diretta, senza nessuna parvenza di ipotesi o dubbio.

Era questo che lui voleva? Oltrepassare i confini di una mera fantasia? Fra l'essere sinceri e superare il limite concreto di un desiderio, la differenza era abissale.

“Vorrei solo non doverci pensare tanto”, e di nuovo fu sincero, di nuovo la sua onda aveva risposto per lui, e sì, aveva già attraversato troppi strati di paranoia in una sola giornata per avere anche solo la benché minima intenzione di starci a ragionare.

“E allora... non pensarci”, risolse lei il dubbio, di nuovo quel tono di supplice aspettativa.

 

Assecondò dunque l'onda, accogliendola come una liberazione.

Come la mattina precedente, a malapena registrò i proprio movimenti, le sue mani che raccoglievano quelle di lei, che l'attiravano a sé. Quel calore di nuovo lì, di nuovo suo.

Quattro occhi che si agganciavano in un brevissimo istante.

Ci lesse lo stupore, il sollievo e tutto ciò che era rimasto insabbiato per troppo tempo.

 

Sospinto da questa improvvisa consapevolezza, catturò infine le sue labbra, pronto a saggiare tangibilmente lo slancio di quel momento.

Non si sorprese di trovare una rapida risposta in quelle di lei: una cruenta, avida reazione alla quale non riuscì e non volle sottrarsi, sospinto dalla stessa imprudente bramosia.

All'ennesima, brusca contrazione del suo stomaco, del calore che lo infiammò, di nuovo, impietoso e violento, capì che non avrebbe più potuto tornare indietro.

 

Se quello era l'effetto di un solo bacio della donna ragno, sarebbe morto piuttosto di decidere coscientemente di abbandonare prematuramente il campo di battaglia.

 

***

 

La bocca di Clint le parve bollente, il sapore delle sue labbra un misto indecifrabile nel quale riuscì a riconoscere una lontana, metallica nota di sangue. La consapevolezza le provocò una contrazione quasi dolorosa al basso ventre, spronandola a stringergli il viso tra le mani, a rovinargli addosso, ancora seduto sulla sedia, a baciarlo con più ferocia, incapace di curarsi dei propri movimenti sgraziati, col solo ed unico desiderio di assaggiarlo ancora e ancora, finché non ne avesse scoperto ogni più recondito segreto. Se la sua bocca fosse stata un calice colmo di un vino ricco e prezioso del quale avrebbe voluto indovinare ogni retrogusto, Natasha ne sarebbe stata già ubriaca. Non l'avrebbe mai rivelato a nessuno, neppure a se stessa se avesse potuto evitarlo, ma il sapore del sangue le dava alla testa, la riportava ad una dimensione bestiale fatta di solo istinto e muscoli e sudore. Il concetto la terrorizzava, ma sapeva esserci un non so che di sensuale, intimo, nell'atto di uccidere qualcuno, nel palpitare all'unisono di due cuori, nel fluire denso e vischioso del sangue, del suo calore sulle mani, sul viso.

 

Il sesso e la morte erano, nella sua testa, due entità intrecciate l'una all'altra, inscindibili: non era forse il sesso l'annullarsi di due persone per crearne una nuova? Non era l'assassinio l'annullarsi di due persone – l'una nel fisico, l'altra nell'anima – per crearne una nuova, temprata nel sangue? In entrambi i casi le sembrava di perdere il controllo di sé, di permettere ad una bestia, oscura e mostruosa, di prendere il sopravvento, di dominarla e agire per suo conto, commettendo inenarrabili crimini, cedendo in sua vece alle pulsioni più violente.

 

Sentiva il suo respiro sul viso, la sua lingua contro la propria, il calore della sua pelle ad avvolgerla, le sue mani ferme e decise sulle spalle, sulla schiena e poi più giù, ad afferrarle la curva dei glutei, serrandoli in una ferrea, incandescente morsa.

 

Una fitta d'eccitazione la colpì come una stilettata, facendola fremere bruscamente. A malapena registrò il tonfo della sedia respinta all'indietro un attimo prima che Clint, ora in piedi, la sollevasse di peso e l'appoggiasse sul tavolo, riportasse i loro visi alla medesima altezza per poi riprendere a baciarla sconclusionatamente, togliendole il respiro. Soffocò un gemito nella sua bocca, cingendogli la vita con le gambe nude, strattonandolo possessivamente a sé.

 

In un'altra vita, se fosse stata più lucida, sarebbe inorridita ai propri gesti: il sesso, per lei, era stato un lavoro prima, e uno sfogo poi, ma in entrambi i casi l'approccio era metodico, una danza dai passi ben precisi, un repertorio provato e riprovato fino alla perfezione. Non importava quanto fosse frustrata o quanto avesse bisogno di sfogare i suoi più sordidi istinti, il fattore controllo c'era, sempre e comunque.

 

Adesso, invece, ogni suo gesto – il modo in cui insinuò una mano sotto la sua maglia, la furia con cui si fece strada oltre il bordo dei suoi pantaloni e dei suoi boxer - tradiva la ferocia e la goffaggine con cui necessitava di quel contatto: non c'era più eleganza, più freddezza nel suo corpo, solo carne e sangue che reclamavano il loro dovuto con cieca e bruciante urgenza.

 

Le mani piantate sul tavolo a ciascun lato di lei, lo sentì irrigidirsi e smozzicare un'imprecazione al brusco contatto delle sue dita con la pelle di lui al di sotto dei vestiti: accolse il sospiro che gli sfuggì dalle labbra con un moto di trionfo, euforia e sollievo, la sua eccitazione quasi dolorosamente evidente.

 

Tasha...”

 

Tutto il suo corpo reagì prontamente alla supplica, come se non avesse atteso altro che quella per un'interminabile eternità: le sembrava quasi che il sangue di lui stesse richiamando il suo, come chiedendo tacitamente il permesso.

 

Annegò il soffio delle sue labbra nella propria bocca, appropriandosene in malo modo mentre Clint le afferrava la felpa per sfilargliela da sopra la testa e lanciarla chissà dove, lasciandole i capelli scompigliati, il viso congestionato, le guance rosse. Si sentì addosso il suo sguardo, i suoi occhi grigi improvvisamente scuri e torbidi che parevano bruciarla lì dove si posavano, sui suoi seni scoperti al freddo dell'aria, al calore del suo corpo.

 

Ignorò il vago, stupido sentore di fastidiosa vulnerabilità alla voracità che gli lesse nel viso, trasformato. Cancellò il disagio riprendendo a muovere le mani, a rispondere alle sue esigenze senza che il cervello riuscisse a star loro dietro: attorcigliò le dita attorno all'orlo della sua maglia scura, costringendolo a togliersela, negandogli l'ennesimo bacio finché il suo petto scoperto non le occupò la visuale. Trattenne il respiro, saggiando con mano la consistenza del torace, dei pettorali, degli addominali, di quel corpo che avrebbe potuto riportare alla memoria con perfezione disarmante e sul quale riconobbe le cicatrici di quelle ferite che lei stessa aveva ricucito con ago e filo, sfiorandolo ad ogni missione senza mai realmente toccarlo.

 

Il calore umido della bocca di Clint si richiuse sul suo collo, facendole inarcare la schiena, cercare il contatto tra i loro bacini, premere le unghie nei suoi fianchi scoperti, combattere contro le palpebre improvvisamente pesanti. Le sfuggì un gemito stonato mentre le labbra di lui, accompagnate dal suo respiro, scendevano alle sue spalle, alla clavicola e più giù fino alle curve del suo petto.

 

Si ritrovò ad aggrapparsi alla sua schiena, a nascondere il viso contro una delle sue braccia muscolose: un seno prigioniero del calore umido e incandescente della bocca di Clint, l'altro intrappolato nella morsa di una mano, mentre con l'altra la teneva su, come per impedirle di allontanarsi troppo sotto l'impeto delle sue attenzioni.

 

La pelle le si riempì di brividi, il calore in mezzo alla cosce si fece quasi insopportabile, l'urgenza ingestibile, il piacere intenso e sconosciuto a strapparle il fiato dalla gola. Serrò la presa attorno al suo braccio, ai muscoli tesi ed in evidenza sotto la pelle. Ci affondò i denti, nel vano tentativo di fermare i suoni che continuavano a sgorgarle dalle labbra, inarrestabili.

 

Stava per lasciarsi andare, come burro nelle mani di lui, quando un'esigenza si aggiunse ed impose sulle altre: la competizione. Tentò di combattere contro l'oblio che era sul punto di ottenebrarle tutti i sensi, per mescolarli l'uno nell'altro, riuscendo miracolosamente a trovare di nuovo il bordo dei suoi pantaloni: stavolta la pretesa fu irrevocabile. Si spostò a morderlo sul petto, a cercare di indovinare i punti che, se raggiunti, gli facevano battere il cuore più rapidamente, pompare il sangue con maggiore urgenza. Non c'era delicatezza nel tocco delle sue mani, solo un bisogno impellente di farlo sciogliere alle proprie attenzioni così come lui stava riuscendo a fare con lei.

 

Strinse il calore della sua eccitazione tra le dita e un attimo dopo si ritrovò sollevata da terra tra le braccia tese e forti di Clint. Il mondo, la stanza, sembrò ruotarle attorno prima di capitolare sul tappeto che le risultò gelido in confronto alla bollente consistenza del corpo dell'uomo che adesso la sovrastava, le mani impegnate a sfilarle gli shorts e l'intimo insieme a quelli, a farglieli scendere lungo le gambe nude e pallide, fino a liberarsene definitivamente.

 

La consapevolezza di essere nuda, nessuna barriera a dividerla da lui, le fece stringere il petto. Poi di nuovo il folle bisogno di dominare si impossessò di lei: agganciò le gambe tra le sue e fece forza con tutti i suoi muscoli per ribaltare le posizioni, schiacciarlo al pavimento, osservarlo, come delirante e febbricitante sotto di lei, in sua balia. Si beò della vista, volle trattenercisi più del dovuto, cominciando a tracciare una lunga scia di baci umidi dal suo sterno fino agli ultimi indumenti che ancora aveva addosso. Tirò via quegli inutili strati di stoffa, liberandolo così come lui aveva fatto con lei solo un attimo prima. Altrettanto, Clint l'afferrò per la vita, tornando a farla scivolare sotto di sé con facilità tanto disarmante da provocarle un fulminante moto di eccitazione e fastidio insieme.

 

“Stronzo”, bisbigliò, inorridendo al tono basso e roco della propria voce, come se ad emetterla non fosse stata lei, ma la bestia che del suo corpo e dei suoi sensi si era appropriata per dar sfogo a tutti i suoi più sordidi bisogni.

 

Sopraffatta nella posizione, approfittò della prima vera incertezza che gli lesse nello sguardo da quando le loro bocche si erano incontrate per la prima volta: dischiuse le gambe, avvicinò le ginocchia alla sua vita in un invito volutamente sfacciato, come per mettere – irrazionalmente - in chiaro che il fatto che fosse riuscito a riaverla sotto di sé non significava di certo che era lei quella sotto il suo controllo.

 

Fece scivolare un mano tra i loro corpi frementi e sudati, lo strinse di nuovo tra le proprie dita, godendo neppure troppo internamente del grugnito che gli sfuggì dalle labbra al contatto. Lo guidò dentro di sé con una spavalderia che le venne a mancare un secondo dopo, lo stomaco sottosopra, la consapevolezza di non essere mai stata tanto vulnerabile in sua presenza.

 

Clint sembrò accorrere in suo soccorso, lo sguardo irrimediabilmente incatenato al suo viso, alla ricerca – Natasha lo comprese – del benché minimo dissenso, dolore o disappunto. Il suo corpo contro il suo, le sue braccia a circondarla, presero una consistenza improvvisamente più concreta e reale, la sua presenza così dolorosamente evidente da toglierle per un attimo il respiro. I suoi occhi le dicevano che erano caduti entrambi in una trappola tremenda che li costringeva ad esserci, ad esistere, più veri di quanto si fossero mai sentiti prima.

 

Mosse il bacino verso il suo prima di potersi accorgere di ciò che stava facendo. Clint accolse l'invito senza farselo ripetere due volte, afferrandole una coscia a piena mano, piantando l'altra sul pavimento ricoperto dal tappeto per tenersi dritto sopra di lei. Riprese a scivolarle dentro con lentezza snervante: il suo corpo protestò debolmente all'intrusione, si acquietò subito dopo, lasciando spazio ad un fastidioso desiderio che adesso reclamava di essere soddisfatto, senza appelli.

 

Trattennero entrambi il respiro, gli occhi dell'uno in quelli dell'altra, finché non raggiunsero un'immobilità quasi assoluta, sospesa. Sentiva il cuore di lui battergli all'impazzata nel petto, ad un'irrisoria distanza dal suo, con lo stesso ritmo, la stessa sincronia.

 

Una parte di lei avrebbe voluto cristallizzare quella sensazione impossibile, imprimersela a fuoco nella memoria, per richiamarla a sé quando e dove avesse voluto, quali che fossero state le circostanze. Il pensiero di Clint, la consapevolezza di tutto ciò che erano stati, di ciò che erano in quel momento, furono – per un istante – troppo.

 

“Aspetti un i-invito scritto?” Pronunciò le parole come per colpa di un meccanismo di auto-difesa che la costrinse a dimenticarsi di quelle riflessioni che promettevano di farla precipitare in un baratro senza fine. Clint parve riprendersi da quel torpore contemplativo in cui erano sprofondati entrambi: una luce strana negli occhi, accolse la sfida nel momento esatto in cui riprese a muoversi, dapprima con riguardo – senza far altro che esacerbare la frustrazione di lei – poi con sempre maggior impeto.

 

Natasha scese ad afferrargli il fondoschiena con entrambe le mani, come per imprimere sempre più forza ai suoi affondi, per convincerlo ad abbandonare qualsiasi riserbo, a dare sfogo a tutte le sue folli esigenze in modo da poter esaudire quelle di lei.

 

Sentiva il respiro mancarle ad ogni movimento, l'eccitazione risalirle su per le cosce e il ventre ad ogni spinta, la pelle bollente di lui sfregare contro la sua, umida e febbricitante, i loro respiri e gemiti e sospiri a mescolarsi in un bacio incompleto, le loro labbra vicine, che si sfioravano solo tra un brusco affondo e l'altro, come la continua promessa di un premio ad aspettarli al traguardo.

 

La fame non smise di crescerle nello stomaco, nel petto, in tutto il corpo, assuefacendo a quell'unico obbiettivo ogni singola fibra della sua persona: gli agganciò le gambe attorno alla vita, fece forza sulle natiche che ancora teneva strette nella morsa delle proprie mani, si dette lo slancio per ribaltarlo di nuovo di lato ed invertire le posizioni, stretti nel famelico abbraccio dell'uno nell'altra.

 

Gli afferrò i polsi, glieli sollevò sopra la testa e lo immobilizzò al tappeto. Riprese a muoversi sgraziatamente, senza risparmiarsi, su e giù sopra di lui, senza incontrare resistenza, leggendo la sorpresa e la soddisfazione sul viso di Clint, a rispecchiare il suo, a dargli un volto e una consistenza.

 

Continuò a sollevarsi e sprofondare sopra di lui per una, dieci, cento volte, sentendo i muscoli bruciare per lo sforzo, l'eccitazione crescere di affondo in affondo, il piacere sempre maggiore e ravvicinato, i loro movimenti sempre più coordinati, le spinte di Clint dal basso, il modo in cui lei gli si riabbatteva addosso, quello in cui fece scivolare le mani dai polsi ai suoi palmi, ad intrecciare le dita con le sue fino a fargli male, finché non ebbero raggiunto il limite massimo.

 

Si sentì precipitare dalla parte opposta senza alcun preavviso: dette sfogo alle ultime energie che le restavano prima che il piacere non si facesse quasi insopportabile, troppo. Gemette sulle sue labbra, si contrasse tra le sue braccia, la sensazione le riverberò in tutto il corpo e si liberò un attimo dopo, togliendole il respiro e la lucidità. Cercò di prolungarla al massimo, di esaurirla fino all'ultimo spasmo e non smise di muoversi, continuando finché non sentì anche il corpo di lui contrarsi sotto al suo, scosso dall'orgasmo. Si lasciò andare sopra i muscoli tesi del suo petto, facendo scivolare il viso tra il suo collo e la sua spalla, contro la sua pelle sudata e improvvisamente profumata.

 

Sentì le sue braccia circondarla, stringerla a lui, tenere insieme le sue membra spossate quasi a combattere l'impressione che il suo corpo si stesse sfaldando nel piacevole torpore che li aveva riempiti entrambi.

 

Socchiuse gli occhi e si lasciò cullare dai respiri di Clint, a sollevarsi e abbassarsi impercettibilmente ad ognuno di quelli, mentre cercava di fare altrettanto: i polmoni doloranti, le labbra rosse e dischiuse alla ricerca d'aria.

 

Si sentì spostare delicatamente di lato, ritrovandosi appoggiata su un fianco, senza dubbio a fronteggiare Clint nella sua stessa posizione. Avrebbe aperto gli occhi se non le fosse sembrato tanto faticoso, se la sensazione di pacifica soddisfazione che l'aveva afferrata non fosse stata tanto supremamente preferibile ad uno sforzo di qualsiasi tipo. Restarono immobili per quelli che non avrebbe saputo definire né minuti, né ore.

 

Con l'odore e le braccia di Clint a circondarla (era lei che stringeva lui o lui che stringeva lei?), senza averlo realmente pianificato, Natasha scivolò nel sonno.

 

 

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N.d.A.: grazie a chi è arrivato fin qui e a chi continua a commentarci <3 (Se ci fosse qualche problema di rating segnalatecelo, grazie!) Al prossimo peccatuccio :P

 

 

 

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Capitolo 5
*** Gola ***


CAPITOLO 5

 

I love the way that you lick your lips,
No fooling, I can see you drooling,
Feel the hunger grow

(Eat the Rich – Motorhead)

 

Gola

 

 

Riaprì gli occhi e osservò il soffitto, aspettando che i suoi occhi si abituassero alla veglia: non le ci volle molto per riuscire a distinguere le linee delle travi del soffitto, ma molto di più per ricordarsi di come fosse arrivata sul pavimento del salotto. La fastidiosa sensazione del tappeto ruvido contro la schiena scoperta e il brontolio del proprio stomaco le si palesarono subito dopo, riaffiorando alla sua coscienza come relitti rigettati a riva dalle onde, un po' per volta, man mano che Natasha riprendeva coscienza delle proprie facoltà.

La lentezza con cui si accorse della presenza di un'altra persona al suo fianco l'avrebbe, in seguito, preoccupata: non era forse una delle sue capacità più rinomate quella che le permetteva di indovinare con esattezza quante persone ci fossero nelle sue immediate vicinanze?

Qualcosa le impedì di voltarsi per prendere atto di chi avesse accanto: un nodo le si strinse in petto, incatenandola nella propria posizione. Tentò di distrarsi e di recuperare il controllo della situazione, concentrandosi invece sui rumori della stanza: il respiro lento e regolare di Clint alle sue spalle, le ceneri che si accartocciavano nel camino ormai spento, il ticchettio lontano dell'orologio a muro della cucina, l'ululato del vento che sembrava volersi insinuare sotto la porta del cottage per portarsela via, il battito sempre più regolare del proprio cuore...

Azzardò una riflessione su quello che – ne aveva un'idea ben precisa – era successo la sera precedente, ma i ricordi non si fecero che sfiorare prima di provocarle un odioso rimescolio allo stomaco.

Scostò la coperta e si rimise in piedi nel modo più silenzioso possibile, ma con urgenza, come improvvisamente scottata. Ignorò con tenacia la figura di Clint che aveva avuto l'ardire di indovinare con la coda dell'occhio, allontanandosi a grandi passi dal salotto. Inforcò la breve scala che conduceva al piano superiore e si infilò nel bagno, richiudendosi accuratamente la porta alle spalle.

Cogliere il proprio riflesso nello specchio sopra il lavandino, fu come prendere uno schiaffo a mano aperta. Cercò in tutti i modi di distogliere lo sguardo, ma la donna che la fissava - i capelli scarlatti arruffati e spettinati, la pelle pallida con le sue porzioni rossastre irritate dal passaggio della barba di Clint - reclamò la sua attenzione e non la lasciò andare. Né la confusione del risveglio, né la fame che stava continuando a far da sottofondo ad ogni suo gesto, riuscirono a salvarla dal vago attacco di panico che la prese un attimo dopo.

Si portò una mano al petto, sulla pancia, sulle curve dei fianchi e del sedere, e poi di nuovo sulla testa: che diavolo le era saltato in mente? Aprì e chiuse i pugni, riuscendo miracolosamente a raggiungere la doccia a tastoni, ad infilarsi nell'apertura del box, ad accendere l'acqua – fredda o calda, non aveva molto importanza – ad infilarsi sotto al getto per soffocare il grido che voleva disperatamente uscirle di bocca.

Le parve che ogni singola parte del suo corpo riprendesse improvvisamente coscienza di sé nel momento esatto in cui l'acqua la raggiungeva. Solo allora si accorse dell'indolenzimento alle cosce, ai fianchi, agli addominali, alle braccia, delle labbra che sembravano bruciare, rosse e gonfie per i troppi e troppo scomposti baci.

Si prese il viso tra le mani, e si costrinse a pensare ad altro, a qualsiasi altra cosa che non avesse a che fare con Clint, col pavimento del salotto, con la sua barba, le sue labbra, le sue stupide braccia, il suo ridicolo odore, i suoi occhi grigi e...

A chi tentava di darla a bere? Il pensiero la stava ossessionando e l'avrebbe ossessionata per i giorni a venire: ignorarlo non sarebbe servito a niente. Così come sarebbe stato inutile assecondare l'impellente voglia che aveva di uscire dalla doccia, vestirsi e fuggire chissà dove, sparire nel bosco, nella neve, lasciare tutto in sospeso pur di non doverlo affrontare. Quella sensazione, Natasha, la conosceva fin troppo bene. Era la sua abituale compagna ad ognuno dei risvegli che seguivano i suoi incontri: per questo evitava qualsiasi coinvolgimento, per potersi permettere il lusso di andarsene la mattina dopo – e molto più spesso la sera stessa – senza ripensamenti o sensi di colpa. Ma stavolta... stavolta la tentazione le si era presentata nella forma del suo migliore amico, del suo partner. Come avrebbe potuto anche solo pensare di potersene andare senza una parola? Se le relazioni umane davvero le apparivano confusionarie, sgraziate, caotiche, disordinate, perché era andata a cacciarsi in quella situazione?

Si sfiorò l'interno coscia con una mano e ricordò con esattezza cosa l'avesse spinta a cedere, e – anzi! - a insistere perché Clint la smettesse di barricarsi nel falso disinteresse che gli aveva letto su tutto il viso. Era possibile che la cosa che più apprezzava di lui – il fatto che non l'avesse mai vista come una donna oggetto, la sua apparente impassibilità di fronte al suo aspetto fisico – fosse anche quella che più la faceva infuriare? Aveva fatto di tutto, all'inizio della loro collaborazione, pur di coglierlo in fallo, smascherarlo per ciò che era davvero: un uomo come tutti gli altri, fatto di carne, sangue ed ossa, incapace di resisterle. Non tanto per sincero interesse, ma per il puro gusto di farlo, per rinfacciargli la sua ipocrisia e abbandonarlo con la dura realtà dei fatti senza una parola di più. Eppure Clint non aveva mai dato segno di vederla come niente di più che una collega: certo, alle volte aveva la netta sensazione di averlo sorpreso a guardarla per qualche secondo di troppo, ma nient'altro. Piuttosto, temeva di sortire in lui l'effetto contrario: il disappunto che gli leggeva negli occhi tutte le volte che c'era stato bisogno di sedurre un obbiettivo, le domande che le rivolgeva per sapere se fare quello che doveva fare le desse fastidio... Natasha pensava che Clint disapprovasse di quella perplessità tipica dei bigotti e di chi crede di sapere cos'è meglio per una persona. Tante, troppe volte avrebbe voluto prenderlo a pugni per mettere di nuovo e ancora in chiaro che quello che faceva non era affar suo, che le sue azioni erano frutto di libere scelte, che non trovava affatto disdicevole usare quello che la natura le aveva dato e che la Red Room le aveva insegnato per portare a termine le missioni e fare bene il suo lavoro. Ma, col tempo, era arrivata alla conclusione che la sua non era altro che goffa preoccupazione nei suoi confronti, che – certo - la infastidiva comunque, ma che riusciva a perdonargli più facilmente.

Da parte sua, invece, l'attrazione – l'aveva realizzato solo in quell'istante – c'era sempre stata. Non era forse stato il suo primo pensiero quello di portare via quello sconosciuto turista americano, lontano da quell'affollata piazza di Lisbona per qualche ora di innocenti passatempi? E lei sì che si era ritrovata più e più volte a guardarlo, a spiarlo mentre mangiavano, dormivano, stavano di guardia, si preparavano a partire, sistemavano le proprie armi, si rammendavano vicendevolmente le ferite ricevute in battaglia.

Mai e poi mai avrebbe agito su quelle inclinazioni: ne andava della loro amicizia e del loro lavoro. Perderlo le avrebbe inferto un colpo dal quale si sarebbe ripresa, prima o poi, ma con quanta fatica e quanta sofferenza? Era stato lui a darle una seconda chance ad una vita migliore, come avrebbe potuto tradirlo cedendo a degli stupidi, animaleschi istinti che lei stessa disprezzava negli uomini che tanto facilmente riusciva ad attirare e catturare nella sua tela di inganni e illusioni?

La verità era che non aveva mai sedotto nessuno se non per lavoro o per puro, momentaneo divertimento: c'erano anche state persone con cui aveva fantasticato di poter costruire qualcosa di più, ma non aveva mai preso in seria considerazione la possibilità di farlo davvero. Quel genere di cose le appariva come appartenente ad una vita parallela, alternativa... quella di una Natasha che non faceva la spia, che aveva un lavoro ordinario e una storia noiosa.

Con Clint era stato diverso: in cuor suo sapeva di aver aspettato finché non fosse stato lui a farle capire che l'avrebbe voluta come qualcosa di più che semplice collega, che alle volte, nelle notti solitarie, pensava a lei, che quando usciva alla ricerca di compagnia nei locali di Brooklyn, inconsciamente la cercava in ogni cameriera, commessa, passante che incrociava sul suo cammino.

Natasha comprese che, in fondo, era quello che aveva fatto lei con lui fino a quel momento, fino a quando non gli aveva letto negli occhi quel desiderio che conosceva a memoria, come una luce familiare in un mare di incertezza. E allora, ricevuta la chiamata che attendeva da chissà quanto tempo, non ci aveva pensato due volte ad agire di conseguenza, a mettere a repentaglio tutto ciò che avevano per sedare l'urgenza che stava apparentemente logorando entrambi. Come avrebbe potuto anche solo pensare di riflettere in quei momenti? Aveva cercato e trovato le sue labbra con un sollievo che, col senno di poi, la sorprese. Credeva di aver spento quella sete, di aver estinto la fame: rammentava con esattezza l'incredulità che l'aveva colta quando aveva realizzato di aver chiesto a Clint di uscire con lei durante il loro incontro-scontro al quartier generale dello SHIELD a San Francisco, le mille domande che si era fatta subito dopo, il rimpianto che era seguito quando Clint si era messo nei guai per colpa di Loki, come si fosse pentita di non aver rinnovato l'invito – e che cosa sarebbe successo se Clint non ce l'avesse fatta? -, di come l'idea fosse di nuovo tornata ad apparirle come immensamente stupida quando il pericolo era scampato. E adesso...

Le cadde lo sguardo sulle proprie mani cotte dall'acqua calda: quanto tempo era rimasta là sotto? Girò la manopola e lasciò che il getto si esaurisse, rimanendo immobile nel box doccia senza sapere che fare o da che parte cominciare.

Riprese a muoversi come per inerzia: si strizzò i capelli, recuperò un ampio asciugamano e ci si avvolse dentro, uscendo dalla doccia e sul tappetino di spugna per asciugarsi i piedi prima di avventurarsi nel resto del bagno. Ringraziò tacitamente la sua buona stella quando si accorse che il calore dell'acqua aveva appannato lo specchio, impedendo al suo riflesso di rivolgerle fastidiose inquisizioni.

Dopodiché, come persa tra i propri pensieri, indecisa sul da farsi, finì per assecondare inconsciamente la fame che non l'aveva abbandonata per un secondo. Uscì dal bagno accompagnata da una nuvola di vapore bianco: non avrebbe potuto pensare lucidamente finché non avesse fatto colazione.

 

***

 

Un solo alito di vento, un lieve brivido alla base della nuca e fu sveglio.

La coperta che aveva, chissà come, recuperato in un angolo della casa era andata, abbandonata in fondo al tappeto, vicino al divano.

Si rese conto immediatamente di essere solo, che l'alba si affacciava alle finestre come una spia, venuta a reclamare la sua razione di pettegolezzo giornaliero.

La notte era passata e così gli incubi. Non aveva sognato; dopo tanto tempo, aveva dormito, semplicemente, come non faceva da settimane.

Si mise a sedere e osservò, per qualche istante, il posto occupato da Natasha solo qualche ora prima, entrambi vinti dalla stanchezza, dall'esplosione che li aveva sopraffatti.

Ricordò distintamente di averla guardata dormire, di aver assimilato quegli attimi, di aver razionalmente preso la decisione di non svegliarla, di far sì che quel tappeto fosse il loro rifugio per una notte, per quella notte.

Aveva accantonato qualsiasi sentimento negativo dall'avvenimento. Ne aveva goduto, tratto la linfa che, probabilmente, gli aveva permesso di riposare tanto gustosamente.

Provava vergogna? Senso di colpa? Giustificata paura?

Si stupì di dover rispondere negativamente alle tre domande. Aveva provato vergogna, senso di colpa e paura per troppo tempo, e il fatto che quell'inaspettata svolta li avesse spazzati via per una gloriosa mezz'ora o forse poco più, era motivo sufficiente per mettere da parte tutto ciò che di negativo potesse venirgli in mente.

Si preoccupò solo vagamente di come avrebbe dovuto o potuto affrontarne le conseguenze.

O di come lo avrebbe fatto lei. Non averla di fronte o avvertire su di sé il peso del suo sguardo, probabilmente aiutava. Metteva tutto in una prospettiva ipotetica.

Non avrebbe potuto sottrarsi nemmeno con la migliore delle volontà, in ogni caso. Le acque erano straripate, inondandolo. E aveva bevuto a piene mani.

Cercò persino tracce di pentimento: non ne trovò. A che pro? Dopo averla sentita rispondere a ogni suo gesto o suggerimento. Dopo averla, anzi, vista prendere da sé le redini del gioco?

Le immagini della notte passata di scomponevano e ricomponevano in ricordi indistinti di colori e sensazioni, qualcosa che non riusciva a catalogare, ma che per il momento lo faceva stare bene, gli ribaltava lo stomaco certo, ma in un modo affatto spiacevole… appagante.

Si passò entrambe le mani fra i capelli ancora scompigliati, sul viso, la barba sfatta ormai lunga più di quanto si fosse mai azzardato. Si concesse ancora qualche minuto, prima di rendersi conto che il rumore che sentiva non era altro che quello dell’acqua della doccia, al piano superiore.

Una prima nota positiva: Natasha non era scappata.

La tormenta restava fuori da quelle quattro mura.

Si mise goffamente in piedi, nudo come un verme. Rabbrividì.

La casa era diventata fredda, e così i suoi bollenti spiriti.

Recuperò i vestiti, scompostamente abbandonati in ogni angolo della stanza, sparpagliati in un domestico campo di battaglia. Prima di rivestirsi avvertì, nitido, il profumo di lei, ancora impresso sulla propria pelle.

Si sentì, suo malgrado, aggrovigliare ancora lo stomaco, il petto e quel familiare pizzicore al basso ventre che non sembrava dargli pace.

La seconda nota positiva: sembravano essere totalmente compatibili.

Le danze preparatorie che li aveva visti protagonisti in palestra e poi sul campo di battaglia, non erano che l’anticamera di quello che era appena successo. Le sue mani avevano trovato agile appiglio alle sue curve, i loro movimenti, uniti in un ritmo istintivo e totalmente sincronizzato. L’uno l’estensione dell’altra.

Per quante partner avesse avuto nelle sue tormentate notti, nessuna mai era arrivata a fargli dimenticare chi fosse, di renderlo desideroso di perdersi totalmente, di fondersi con un’altra persona, di creare qualcosa di nuovo, potente.

Perché lo aveva sentito, in profondità, quanto fossero così essenzialmente incatenati l’uno all’altra.

Quante volte, prima di allora si era trovato a pensare a quanto si sentisse improvvisamente insufficiente senza Natasha? Di quanto le sue missioni, il suo lavoro, avessero improvvisamente assunto una nota stonata, se private della presenza della sua compagna?

Non era mai riuscito a dare un nome a quella sensazione e forse non riusciva a farlo nemmeno ora, ma era certo che avesse preso forma e fosse diventata una presenza ingombrante, ma altrettanto indispensabile.

Natasha era ciò che sopperiva alle sue mancanze. Natasha era ciò che lo riportava alla ragione.

Contrapposti, ma affini. Un incastro perfetto.

 

Si infilò la felpa, stringendo il cappuccio per i lacci, e si nascose nel bagno al piano terra, per lavarsi il viso, scacciare gli ultimi residui di sonno e prendersi del tempo per ragionare sul da farsi.

Le sue funzioni fisiche erano ancora rallentate quando ne uscì poi, affatto lucido, con lo stomaco in affamata rivoluzione, per tornare in cucina a recuperare il bollitore ancora colmo dell’acqua della sera prima. Le tazze abbandonate sul bancone della cucina, intonse.

Si rese conto solo in quel momento di come quella casa avesse assistito a tutte le fasi della sua ripresa. E a tutto ciò che di più intimo potesse mostrare.

Ulteriore nota di merito: si scoprì di buonumore.

Nessuna stanca, vuota soddisfazione del giorno dopo, nessuna sensazione dalle intenzioni inadeguate. Solo sincero, pago buonumore.

Inspirò a fondo e avvicinò a sé il tostapane: sarebbero bastate un paio di fette con burro e marmellata e del tè, che quella mattina parve desiderare di sua spontanea iniziativa, invece di accoglierlo come una magra consolazione, un ripiego forzato in mancanza del caffè.

Non si rese conto della porta che veniva aperta, né dei passi leggeri di Natasha per le scale. Quando gli fu abbastanza vicina, allora né avvertì la presenza, né percepì il profumo, vagamente camuffato dall’aroma del bagnoschiuma.

 

Non si voltò nemmeno, non era sicuro di essere ancora pronto a interrompere quelle divagazioni virtuali, per portarle su un piano più concreto.

Era stato tutto abbastanza semplice, fino a quel momento: la verità era che, a parole, il suo cervello aveva accettato facilmente quella svolta inaspettata del loro rapporto, ma che cosa avrebbe significato affrontarla sul serio?

Era ancora così soddisfatto, sicuro, tranquillo?

Lo avrebbe dovuto scoprire a sue spese di lì a poco. E allora per quale diavolo di motivo avrebbe dovuto prolungare l’attesa?

Colse il momento.

 

“Hai fame?” le domandò. La sua voce risultò roca, assonnata. Non era la prima volta che si presentava in quelle condizioni a Natasha, ma stavolta era, per certi versi, totalmente differente.

Non la sentì rispondere e fu costretto a voltarsi.

Se si stupì di trovarla ancora in abbigliamento discinto, non sembrò darlo a vedere. Quel prurito alla base dello stomaco però non dava cenno a dargli pace.

Dio, se era perfetta.

Si costrinse a non riportare alla mente le immagini che aveva di lei ancora impresse a fuoco nella testa: le sue labbra, i suoi sospiri, il suo odore, la sua pelle… si maledì per averlo fatto nonostante i buoni propositi.

“Sai che pensavo?” le domandò allora, mascherandosi dietro una futile conversazione, schiarendosi appena la voce che recuperò un po’ del suo tono caldo, “che sono più di ventiquattr’ore che non mangiamo.”

Le elargì un sorriso che lei non sembrò comprendere. O forse era stato solo il suo approccio a risultarle del tutto fuori luogo. O quantomeno non quello che si sarebbe attesa.

Che cosa si aspettava Natasha?

La domanda affiorò un attimo prima che il pane tostato saltasse fuori con un suono impertinente.

Lo costrinse a rimandare le esitazioni.

Ne recuperò una fetta bollente, lanciandola letteralmente su un piatto.

“Scotta”, la redarguì passandoglielo. Lei attese a raccoglierlo. “Ha fatto tutto il tostapane, giuro, non ci ho messo mano, è mangiabile.”

Tentò di buttarla sul ridere: di regola, quello, gli riusciva abbastanza bene.

Attese una risposta che tardò ad arrivare. Ma la mano di lei recuperò piatto e colazione.

Probabilmente aveva perso il suo tocco magico.

E di nuovo tornò a insistere su quella domanda: che cosa si aspettava… Natasha?

Che tutto tornasse come prima? Che tutto cambiasse? Pretendere che nulla di quello che era accaduto quella notte fosse successo?

Non erano le donne a farsi paranoie simili? E allora perché ci stava cascando lui stesso e con tutte la scarpe, per giunta?

Non era una donna.

Non era stupidamente risaputo che per gli uomini avrebbe dovuto risultare tutto semplice… e lineare?

Ma avere a che fare con Natasha non aveva niente di semplice… ed era tutt’altro che lineare. Non lo era mai stato.

Aveva anche imparato che le cose taciute non aiutavano proprio nessuno. Nessuno dei due, come team, come coppia.

Perché era quello che erano ancora, no? Un team. Una coppia.

Una coppia.

Si rese conto dell’azzardo della formulazione.

“Non mi sembra tu ti sia sforzato troppo, per essere la prima colazione che mi prepari”, la sentì rispondere, prima di poter dire qualsiasi altra cosa. Rimase così, fermo con le labbra ancora bloccate in una muta affermazione.

Non sapeva nemmeno cosa sarebbe stato capace di dire, ma fu certo che il suo intervento era stato provvidenziale.

“E a me non sembrava ti fossi mai lamentata tutte le volte che mi sono presentato da te con delle ciambelle calde.”

La guardò mettersi al tavolo, le mani sul seno a trattenere l’asciugamano da improvvisi cedimenti.

“Le ciambelle le compri. Il contesto è diverso.”

Le mise di fronte burro e marmellata: “Servizio completo. È sufficiente?”

Le spalle scoperte di lei si mossero in un gesto di sufficienza.

“Cos’altro?” la interrogò, ora perplesso. Da quando lo pseudo imbarazzo per la notte precedente si era tramutato in uno dei loro estenuanti battibecchi?

Lei, di nuovo, non rispose, al contrario gli rivolse uno di quei suoi sguardi ambigui, ma diretti.

L’atmosfera cambiò, e improvvisamente fu come se fosse di nuovo nudo. Solo che stavolta, nonostante quella meno vestita fosse effettivamente lei, si sentì più vulnerabile di quanto non lo fosse stato la sera precedente.

Natasha stava cercando di capire che gli passava per la testa. O forse aveva solo intuito che stava cercando di tergiversare.

Sospirò, incapace di comprendere se fosse davvero necessario un chiarimento. Se i loro gesti non avessero già parlato abbastanza.

Un’altra domanda e sarebbe esploso. Una sola domanda in più e avrebbe gridato a se stesso di stare zitto.

Con quanta presunzione, solo pochi minuti prima, aveva pensato a non caricare di paranoie quello che era successo? A quanto pare nel giro di pochi istanti era riuscito a produrne in abbondanza. Avrebbero finito per straripare.

Si passò una mano sulla testa, scompigliandosi i capelli con un gesto nervoso.

“Che cosa stiamo facendo, Clint?” Natasha riuscì di nuovo a coglierlo di sorpresa.

Si volse a guardarla.

“Non… insomma… che cosa?” allargò le braccia in gesto arreso. “Non lo so.”

I suoi occhi indagatori continuavano a fissarlo.

E poi ancora: che si aspettava Natasha?

Decise di tagliar corto una volta per tutte. E pensare a quello che lui si sarebbe atteso.

“Io pensavo di fare colazione”, disse allora. Lesse il disappunto sul viso di lei, ma non si fermò. “E continuare a pensare all’effetto… sorprendente che ha avuto su di me quello che è successo stanotte.”

Il sollievo fu immediato. Era davvero riuscito a dirlo? Oppure si era solo immaginato di farlo?

L’espressione di Natasha, per una volta tanto, fu eloquente.

“Nessun incubo”, proseguì. “Nemmeno l’ombra…”

Si chiese se non suonasse esclusivamente come una terapia particolarmente efficace.

“Dunque è solo questo?”

Appunto.

“No! No…” le si avvicinò, la sua voce che cercava disperatamente di ridimensionarsi. Si rese conto solo un istante dopo che Natasha aveva assunto quella sua vaga espressione di scherno che conosceva così bene.

Inspirò a fondo come a ritrovare quel coraggio che aveva perso dopo averla vista.

“Qualsiasi cosa fosse… son felice che sia successa.” Ed era vero. Era esattamente quello il punto della questione. Non le inutili paranoie scatenate da quello che era giusto o sbagliato. Chiaro o meno. Era l’averlo trovato perfetto.

“Insomma, non che non ci avessi mai pensato prima, solo non volevo che tu pensassi a me come uno di quei maniaci che cercano di infilarti le mani ovunque, durante le nostre missioni”, tentò di ignorare disperatamente il fatto che le si fosse praticamente inginocchiato di fronte.

“Perché non è questo. Insomma, non c’era niente di così subdolo… ne avevo bisogno. E tu lo sapevi. Prima di me. Lo avevi capito…”

Quando le fu di nuovo abbastanza vicino e si trovò un suo dito sulle labbra, si interruppe con espressione stupida e disorientata.

“Barton, tu parli troppo”, la sentì dire e non riuscì a guardare da nessun’altra parte se non la linea del suo collo, delle spalle nude, dei seni appena accennati.

“Credevo fosse quello che volevi”, scucirgli più di tre parole sembrava essere stato il tema portante di quella fuga da New York.

“Desideravo solo accertarmi, definitivamente, che quello che è successo era quello che tu volevi.”

Aveva seriamente dei dubbi a riguardo?

Dal momento in cui si era svegliato abbracciato a lei, non aveva fatto altro che pensare che fosse stata la cosa più sensata che gli fosse capitata in quelle ultime settimane.

“Lo è…” confermò con una fermezza tale che non ci fu più bisogno di dire una sola parola. O di spenderci più di una domanda a riguardo.

Il bacio non arrivò inaspettato.

Nel momento in cui si erano di nuovo trovati l’uno di fronte all’altra, avevano capito di non averne avuto abbastanza. Che quello della notte appena passata non era stato che un assaggio. Qualcosa di gustoso ed estremamente difficile da accontentare.

Si arrese al suo sapore, al suo profumo. Si arrese alle sue labbra, alla sua pelle. Si arrese al fatto che voleva di più di quello che Natasha gli aveva concesso; scoprire, svelare, rifugiarsi in ogni suo angolo e rivelargli tutto quello che lui possedeva.

Il suo respiro caldo sapeva di tutto ciò che di lei conosceva.

E si sentì al sicuro, di nuovo.

“Ho fame…” la sentì dire a fior di labbra, le mani aggrappate alle sue spalle a giocare con i suoi capelli ora troppo lunghi sul collo.

“Ho fame anche io…” le rispose, accarezzandole le cosce tornite con le sue mani forti, ruvide, prima di tentare di catturare nuovamente le sue labbra; ma lei rifiutò.

Non nascose la perplessità, prima che un mugolio inquietante allo stomaco non palesò la veridicità di quell’affermazione.

“Sei stato tu a ricordarmi che non mangiamo da ventiquattr’ore.”

“Maledetta la mia bocca”, disse. E la sentì ridere.

“Potrei concederti ancora un po’ di tempo, Barton.”

“Mezz’ora mi basta…”

“Magari non basta a me.”

Sorrise.

“Questo è appetito.”

“No”, lei scosse la testa, “questa è gola.”

 

***

 

Si impedì fermamente di ritornare sui dubbi espressi da Clint. Fece di tutto pur di non formulare chiaro e tondo cos'è che le aveva dato tanto fastidio: temeva davvero, lui, che avesse fatto una qualsiasi delle cose successe la notte precedente (o mattina, o sera, o pomeriggio, aveva perso la concezione del tempo) controvoglia? Solo per aiutarlo a sbloccarsi, a ritornare nel mondo dei vivi?

Aveva rifiutato il bacio con la scusa della fame – che pure sentiva – si guardava attorno in cerca di un appiglio qualunque tra le cose che li circondavano pur di deviare i propri pensieri da quell'unico, scomodo neo.

Contro ogni buonsenso, per non intaccare i progressi che pure avevano fatto, ricacciò indietro la perplessità, si sforzò di apparire serena.

“Rimettiti in piedi, Barton,” lo redarguì, facendogli un vago cenno con la mano, quasi la visione di lui inginocchiato al suo fianco le provocasse un serio scompenso fisico, reale.

Clint rimase dov'era, lanciandole un'occhiata di sfida, finta sufficienza.

“I continui ordini dovrebbero eccitarmi o umiliarmi?” Le chiese, invece.

“Magari entrambe le cose.”

“Sei una donna dai sordidi piaceri.”

“Mi sorprende che tu te ne sia accorto solo adesso.”

“E io che pensavo che ci fosse una dolce e tenera fanciulla, là sotto!”

“Sta' zitto, Barton,” insisté, aprendo il barattolo della marmellata.

“A questo punto dovrei continuare a blaterare per il puro gusto di darti contro.”

“Che è poi quello che ti riesce meglio,” palesò lei, come se quella non fosse affatto una novità. Non lo è.

“Adesso mi sento ferito, Tasha. Sono un uomo sensibile.”

“Mi dispiace. Tieni -” Infilò due dita nel barattolo della marmellata – di more – e gliela spalmò sul viso, senza alcun avvertimento. “- ti senti meglio? C'è anche della cioccolata, se non sbaglio. Magari quella ti procura stimoli più adeguati...” Ritrasse la mano, e osservò il proprio operato. Trattenne a stento una risata.

Clint la osservava sbattendo lentamente le palpebre, ripulendosi le labbra con la lingua, alla meno peggio. “La marmellata è dolce, tu sei crudele.”

“Aw,” lo prese in giro, fingendosi addolorata per quella conquistata consapevolezza.

“C'è anche del burro, sul tavolo, fossi in te ci andrei piano.”

“Perché? Hai paura di scivolarci sopra e sbattere la faccia al pavimento?” Gli si accostò, portandosi via, con la lingua, un assaggio di confettura, proprio lì, dalla sua guancia ispida. Si fermò un istante, lo osservò come valutando qualcosa e realizzandone un'altra. “Era un'allusione sessuale?”

“In realtà no, mi stavo chiedendo quale piatto della mia personalissima cucina potrebbe traumatizzarti con più efficacia... una volta ho fatto una torta salata usando degli yogurt.”

Natasha riprese la minuziosa operazione di pulizia del viso che aveva intrapreso solo qualche attimo prima, con concentrazione. Tutto pur di non star a sentire i suoi sproloqui culinari.

“Gli yogurt erano persino andati male. Eppure, ricordavo di aver sentito in tv che quando si dice da consumarsi preferibilmente entro, è solamente per precauzione e non è detto che la cosa non sia effettivamente più mangiabile.”

Scese lungo la mandibola, sul collo fino a risalire all'orecchio, ostacolata dalla barba – sporca di marmellata anche quella – che gli ricopriva le guance.

“Forse era stata Oprah, o Diane Sawyer o... Martha Stewart, non ne sono sicuro,” la sua voce risuonò vagamente distratta, tesa come nel tentativo di risultare naturale. “Te l'ho detto di quanto trovi sexy, esattamente, Martha Stewart? Anche lei è ossessionata dal burro.”

Natasha alzò gli occhi al soffitto, lo respinse leggermente all'indietro.

“Ti devi trovare un hobby, Barton, che non coinvolga signore di mezz'età e grosse quantità di burro.” Pronunciò le parole, non riuscì a bloccare l'immagine, e in fretta svanì anche l'atmosfera, portata via da un brivido d'orrore.

“E adesso?” Clint era ancora inginocchiato davanti a lei, il viso, la barba sporchi di confettura alle more.

“Adesso puoi tostarmi un altro po' di pane.”

“Non sono sicuro che questa cosa mi piaccia.”

“Io ho fatto la spesa, tu tosti il pane.” Aveva valutato se dire cucinare, e deciso – subito dopo – che non sarebbe stata una grande idea.

“E comunque parlavo della marmellata.”

“Una scusa per toglierti tutta quella roba dalla faccia e tagliarti i capelli.”

“Cos'hanno che non va i miei capelli?”

“Niente, Mr. Flinstone.”

“Quando cominci a fare riferimenti alla cultura pop americana mi fai davvero paura,” mormorò impressionato, rimettendosi finalmente in piedi.

Non ebbe il cuore di dirgli che, come i lunghi oziosi pomeriggi cui aveva finito per abituarsi in quelle ultime settimane gli avevano insegnato, la cuoca fissata col burro non era Martha Stewart, ma Paula Deen.

Decise di conservare quell'ulteriore shock per un'altra volta.

 

 

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N.d.A.: grazie a chi è arrivato fin qui e a chi continua a commentarci <3 Alla prossima!

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Superbia ***


CAPITOLO 6

 

It's not like you to say sorry
I was waiting on a different story
This time I'm mistaken
For handing you a heart worth breaking

(How you remind me - Nickelback)

 

Superbia

 

 

Tutto era iniziato come un docile scherzo.

Di fatto, poi, si era concretizzato in qualcosa di molto più serio.

Natasha brandiva con distacco un paio di lunghe forbici e un rasoio. Entrambi oggetti che potevano tramutarsi in efficaci armi letali, nelle sue mani esperte.

“Devi stare fermo.”

Tante grazie.

Clint non aveva intenzione di muovere un muscolo. Si limitò a stringersi nelle spalle con espressione indifferente. O tale, all’apparenza.

“L’ho già fatto altre volte”, lo rassicurò lei, sporgendosi verso di lui. Si appoggiò alla sedia su cui lui stesso era seduto. Il suo ginocchio improvvisamente troppo vicino alla zona rossa delle sue parti basse. “L’importante è che non tremi come una foglia.”

“Non sto tremando.”

“E' una precauzione.”

“Un suggerimento, mh?”

“Io non do suggerimenti. Io avviso.”

La schiuma da barba con cui gli aveva cosparso il viso cominciava a dargli fastidio, sciogliendosi a contatto con la pelle accaldata. Il rasoio si avvicinò a una delle sue guance.

 

Non era del tutto sicuro di come fosse successo, il concederle la sua toelettatura. Lei si era offerta e lui non aveva avuto niente da dire a riguardo.

Il fatto che il suo stato mentale fosse tornato ad essere quantomeno coerente con il Clint che entrambi preferivano, metteva la questione su un piano pratico. Spogliare il Clint distrutto dal suo caos, diventava quasi un rituale dalle influenze sacrali.

I capelli lunghi, la barba scomposta, imbarazzante, tutto ciò che aveva fatto da scudo... doveva liberare l’uomo che si era nascosto dietro quella maschera per troppo tempo.

Ogni volta che la lama passava sul suo viso, portava via uno strato di disordine e falsità.

 

Natasha sapeva fare il suo lavoro: che fosse la prima volta o la centesima, le sue mani erano delicate, precise, non aveva dubitato un solo istante della sua competenza, nemmeno mentre la lama scivolava libera dove pulsava la sua giugulare.

Socchiuse gli occhi e si lasciò trascinare da quella tranquillità statica di cui aveva goduto dal momento in cui lei era riuscita a liberarlo dal suo blocco. Una serie concatenata di eventi che lo avevano sciolto da quella gabbia d’angoscia e tormento che l'aveva tenuto prigioniero, senza che si fosse consumata quella tragedia verbale che si aspettava.

 

Natasha non aveva mai avuto bisogno di troppe parole. Sebbene lo avesse supplicato di regalargliene nei suoi momenti più silenziosi.

Continuava a non farlo, a non chiedergli niente. Eppure le era sempre piaciuto ascoltarlo.

Forse avrebbe solo dovuto fare il primo passo per capire che effettivamente Natasha non aspettava altro che il momento in cui avesse davvero preso a parlare di sé.

Finora non c’erano state grosse occasioni di discussione.

Avevano litigato certo, erano arrivati alle mani e poi si erano consolati, uno nelle braccia dell’altra, senza dirsi una sola parola. Senza una sola spiegazione.

Se da un lato gli piaceva pensare che non servissero loro scambi verbali per capirsi, dall’altro non era del tutto convinto che non ci fosse una sorta di riluttanza.

E questa volta non da parte sua. Lui avrebbe parlato eccome, e lei probabilmente si sarebbe limitata ad ascoltarlo come sempre faceva, silente e attenta, pronta ad accogliere il suo sfogo.

Ma cosa pensava lei di quella faccenda? Cosa aveva presumibilmente passato?

Imperscrutabile, se non per l’angoscia che era trasudata in un momento di debolezza e tutta rivolta nei suoi riguardi.

Egoisticamente aveva affrontato il problema solo dal suo punto di vista, per poi rendersi conto che non si era mai chiesto come avesse affrontato lei, tutta quella faccenda. Dall’ascesa di Loki, dal danno temporaneo al suo compagno, dalla dipartita di… Coulson.

La perdita non era stata solo sua. Natasha poteva affrontare la cosa in modo diverso, certo, ma non meno dolorosamente.

Eppure non ne aveva fatto parola. Non aveva dato a vedere ciò che realmente pensava.

 

Improvvisamente si sentì inutile. Tutto concentrato a pensare ai propri problemi, ai personali demoni in libera uscita, senza chiedersi quali fossero quelli altrui. Quelli di una delle poche persone di cui gli importasse veramente qualcosa.

 

La lasciò finire con il rasoio, seguendo i suoi movimenti in silenzio, flessuosi e misurati, finché non gli fu di nuovo di fronte con le sole forbici, pronta a dare una massiccia sfoltita alla sua chioma.

Non era ancora così cieca da non capire che Clint stava formulando qualcosa di elaborato.

“Dovrò chiederti ogni volta che cosa ti ronza per la testa o tornerai a tormentarmi spontaneamente con le tue chiacchiere, prima o poi?” la sua frase più lunga da giorni.

“Era quello che mi chiedevo anche io… nei tuoi riguardi”, fu la sua pronta, quanto poco attesa risposta.

Avvertì il suo sguardo confuso, ma altrettanto rapidamente cancellarlo come si fa con un colpo di spugna su una lavagna.

Gli si portò alle spalle, con la scusa della tosatura imminente, probabilmente solo per impedire che la maschera di freddezza eretta per quel breve istante, crollasse sotto il peso del suo giudizio.

Clint rimase in silenzio, senza sapere esattamente come proseguire quella scomoda conversazione.

Sentì la mano di lei sistemargli i capelli e la prima sforbiciata rompere il silenzio.

Inspirò a fondo, i fumi della doccia a umidificare l’atmosfera tutt’intorno, il vago odore d’agrumi a profumare l’aria. Era tutto così familiare e conciliante che interromperlo per un terzo grado forzato quasi lo frenò.

Poi di nuovo il senso di colpa nei suoi riguardi, avvertì quella spinta d’egoismo, non volontario, premere contro il suo sterno, in un grumo doloroso.

Non era così che voleva sentirsi, non così voleva affrontare la sua rinascita, quella nuova situazione.

“Tasha…” non la sentì fermare le sue mani. Come se avesse azionato il meccanismo di pilota automatico. Un pettine gli riallineò i capelli e un secondo colpo di forbice lo anticipò.

“Non credo di averti ringraziato ancora per quello che… insomma… hai fatto per me”, finì di prenderla più alla larga di quanto avesse preventivato.

“Una rasatura e un taglio di capelli non mi sembra debbano essere affrontati tanto formalmente”, la sua risposta monocorde.

Clint poteva capire, dal solo modo in cui gli sistemava i capelli, che si era appena rilassata, credendo fosse solo un’estemporanea confessione dei suoi confusi sentimenti a riguardo.

“Lo sai che non parlo di questo…”

Lei, come previsto, rimase in silenzio, a continuare il suo compito, senza scalfiture.

“Avevi capito di cosa avevo bisogno, hai affrontato il problema che io per primo non volevo affrontare… lo capisci, vero, quanto questo… significhi per me?”

Di nuovo silenzio e il rumore delle forbici.

“Credevo di averti detto... che parli troppo, Clint”, era forse una nota d'incertezza, d'imbarazzo, quella che ora sentiva nel suo tono?

“Io forse sì, ma tu no”, l'argomento tornava prepotentemente a galla.

Un silenzio ora carico di aspettative. Natasha attendeva il resto. La sua mano incerta.

“Non devi dirmi niente? Non vuoi parlare di quello che è successo?”

La sentì sbuffare una risata e forzare un po' troppo il pettine: “Non ero io quella che non riusciva ad affrontare la cosa.”

“Lo so. Ma credevo che magari ne volessi parlare. Questa cosa ha colpito te, tanto quanto me. Mi chiedevo se...”

“Non c'è niente da dire a riguardo.”

“Credevo...”

“Qualsiasi cosa credessi, credevi male”, lo interruppe bruscamente. “Io sto benissimo.”

“Sul serio?”

La forbice smise di fare il suo dovere.

“Sul serio.”

Le sue parole, taglienti tanto quanto basta a farlo sentire un perfetto idiota.

Lei non aveva bisogno di aiuto. Era pure sempre la Vedova Nera. La donna che nella sua vita ha subito traumi ben più consistenti di una banalissima invasione aliena, la pseudo distruzione della città che l'aveva accolta, la morte di un amico.

“Hai ragione, scusami... per un attimo ho pensato...” che volessi sfogarti “... male.”

La sentì immobile alle sue spalle, come una fiera che aspetta di capire quale sarà la prossima mossa dell'avversario.

Clint restò in silenzio. Non era sicuro di essere in grado di affrontare la sua superbia. Il modo in cui affrontava tutto ciò che probabilmente la metteva a disagio. Relegandolo come un affare da contrastare, con la convinzione che fosse al di sopra di futili emozioni umane. Qualcosa che non le era necessario o che preferiva non dover proprio portare a galla.

Il suo meccanismo di autodifesa.

Perché lui lo sapeva, lo sapeva che Natasha tutto era fuorché un automa privo di coscienza o incapace di provare dolore e turbamento. Gli ultimi anni che aveva condiviso con lei gli avevano permesso di scoprirlo, di sviscerarlo. E quegli ultimi giorni erano stati l'ennesima riprova di quello che lui conosceva.

 

Il fiume di parole, che aveva minacciato di sgorgargli dalle labbra, si era improvvisamente raffreddato.

Se lei non aveva bisogno di alcuno sfogo, perché lui avrebbe dovuto donarle il suo? Poteva imparare da lei a gestire il dolore. Forse era lui ad essere troppo emotivo.

 

Eppure se aveva risolto il problema dei suoi incubi, se era riuscito a farle capire che si sentiva in colpa nei suoi riguardi per qualcosa che però era stato malignamente indotto, non riusciva a liberarsi del mostro più grande, quello che di cui non si sarebbe disfatto facilmente.

Coulson gli mancava e, per quanto avrebbe potuto battersi per soffocarlo, non ci sarebbe mai riuscito veramente. E avrebbe voluto parlarne con lei, chiederle che cosa aveva provato, se era riuscita a vederlo, a dargli un ultimo saluto. Tutte cose di cui non avevano avuto modo di parlare.

Non aveva partecipato ad alcun funerale, se ne era completamente disinteressato, di contro nessuno era venuto a inoltrargli un macabro invito formale.

Natasha non ne aveva fatto menzione. E se lei, per prima, non aveva intenzione di parlarne, perché gravarla di quel peso? Se lei era riuscita ad accantonare il tragico evento, perché lui non poteva farlo?

Forse doveva imparare a erigere lo stesso meccanismo di difesa della Vedova Nera.

Capire che, crogiolarsi nel dolore, sebbene ancora troppo fresco, non avrebbe aiutato. Lo avrebbe solo indebolito, soffocato.

Si doveva andare avanti. A costo di rischiare di sembrare un gelido pezzo di ghiaccio. Superiore a chiunque altro.

“Hai finito?” le domandò allora, la pressione delle sue dita sulla sua nuca era venuta a mancare da un pezzo.

Sospirò qualcosa, quando di nuovo non gli rispose.

Si voltò appena in tempo per scorgere le mani di Natasha tremare.

 

 

***

 

Fu costretta a fare appello a tutto il suo autocontrollo per arginare la rabbia che aveva preso a turbinarle nello stomaco, a gonfiarsi e straripare come un fiume in piena. Rimase immobile, come paralizzata, incapace di far fronte all'incredulità che si stava pericolosamente trasformando in furia. Avrebbe voluto trattenerla, costringerla ad assopirsi – un'operazione che le risultava ormai semplice e congeniale il più delle volte – ma, nonostante tutti i suoi sforzi, le parole premevano alla base della sua gola e non sembravano avere alcuna intenzione di ritornare da dov'erano venute, in quell'oscuro angolo della sua mente in cui la bestia e l'essere razionale combattevano ogni giorno fino allo sfinimento. Si sentiva come se, inavvertitamente, avesse premuto un interruttore, attivato un meccanismo che non avrebbe avuto altra soluzione se non la deflagrazione... per quanto stupida le apparisse.

Strinse le forbici nella presa delle proprie mani, indietreggiò di un passo quando Clint si voltò verso di lei, interrogandola con uno sguardo che le risultò odioso, insopportabile.

Le mani le tremavano, la porcellana della sua pelle come una precaria gabbia sul punto d'andare in mille pezzi e liberare il mostro che vi si nascondeva. Era la seconda volta che si sentiva sull'orlo del baratro, non se ne capacitava.

Aggirò lentamente la sedia, lo fronteggiò. Le dita, stritolate attorno al ferro, le dolevano.

“Ti ho cercato per settimane”, la voce le uscì in un bisbiglio appena udibile, quasi si stesse impedendo di urlare per paura di non riuscire più a smettere. “Mi hai ignorata”, gli ricordò con la stessa, febbricitante freddezza. “E adesso...” allargò le braccia, come ad indicare la situazione in cui si trovavano, “adesso mi vieni a chiedere se ho voglia di parlarne?”

Sbuffò una risata, un accenno gelido che durò solamente per qualche istante.

“Ci conosciamo da anni”, riprese, “credi che funzioni? Chiedermi se ho voglia di parlarne? Hai mai funzionato?” Mai. Mai... mai.

L'occhiata confusa di Clint non fece che farla arrabbiare ancora di più.

“Sei sorpreso?” Insisté. “Mi hai piantata in asso. E' passato il tempo in cui avevo voglia di parlarne – se mai c'è stato! - ed è passato per colpa tua, non mia!” Strozzò la lieve impennata che il suo tono aveva preso sul finale. “Quindi risparmiati il tono saccente. Lo sai come sono fatta, perché te ne sorprendi adesso?”

Le sembrò sul punto di aprire bocca, non gliene concesse il tempo: con un movimento brusco, violento, eppure calcolato, conficcò le forbici nello spicchio di sedia che si intravedeva tra le gambe di Clint. Ondeggiarono, ma rimasero piantate dov'erano, mentre i suoi occhi, verdi di rabbia, cercavano quelli sempre più smarriti dell'uomo.

Fece un ulteriore passo indietro, raddrizzò la schiena, gli voltò le spalle e sembrò sul punto di uscire dal bagno, d'andarsene. Solo pochi passi, però, e tornava a fronteggiarlo, faccia a faccia.

“Smettila di dire che sapevo di cosa avevi bisogno”, aggiunse, velenosamente, con urgenza, ignorando la parte di lei che avrebbe voluto fermarla e farla ragionare, “ti sembro il tipo che scopa con gli uomini per farli sentire meglio?” Il fastidio che quella considerazione le aveva provocato, e che aveva accantonato come stupida perché sapeva nascere da un malinteso nascosto tra le parole di Clint, esplose senza alcun preavviso. “L'unico motivo per cui sono venuta a letto con te è perché volevo farlo!” Precisò, lasciandosi prendere da un'improvvisa smania di giustificarsi e chiarire. “Non c'entra niente col tuo star male, con tutti i tuoi cazzo di problemi, non è mai stato quello il punto! Per chi -” fece una pausa, come incapace di contenere tutta l'irritazione che le stava facendo bruciare lo stomaco. “Avrei potuto averti quando e dove avrei voluto, lo sai questo, vero? L'unico motivo per cui non è successo è perché ti ho risparmiato l'umiliazione”, riprese astiosa. “Credi di essere tanto nobile e galante, ma ti avrei fatto capitolare ad occhi chiusi... prima o poi avresti smesso di resistermi, di accumulare una scusa dopo l'altra, di spiegarti perché era sbagliato.” Riprese fiato, le guance in fiamme. “Probabilmente ti fai persino gran vanto della tua stoica resistenza, ma se ci sei riuscito per così tanto tempo è solo perché io l'ho voluto. E se adesso è successo è perché ne ho avuto abbastanza... e del modo ridicolo in cui consideri certe cose e dell'insopportabile bisogno che sembri avere di proteggermi, quando in realtà sei solo un dannato codardo che non vuole che io sia di qualcun altro, che mi guarda male e mi disapprova tutte le volte che una missione richiede da me certe cose, ma che non ha le palle di farsi avanti, di dirmi che cosa vuole davvero. Lo fa per rispettarmi. Perché rispettare una donna significa trattarla come una deficiente che deve essere protetta da se stessa. Credi che il sesso sia un'offesa, Clint? E' per questo che ti sei sempre trattenuto? Non hai capito un cazzo. Non ti accorgi neppure di quanto risulti meschino e squallido nei confronti delle altre donne che ti sei portato a letto... e io? Io dovrei essertene... grata?”

Alzò gli occhi al soffitto, sollevò le mani come per bloccare quella ridicola conversazione che lei aveva iniziato e che lei soltanto stava alimentando.

“Sai cosa? Non m'importa che cosa intendevi dire. Non ho la più pallida idea di cosa mi ha spinto a portarti quaggiù. Magari neanche avrei dovuto... sono andata alla cieca. Completamente alla cieca, Clint. Perché tu non mi hai dato niente con cui lavorare. Niente! Ti sei comportato come uno stupido principiante, mi hai lasciata da sola e adesso ti offendi anche se non voglio parlartene. E' storia vecchia ormai”, le parole le sgorgarono dalle labbra, amareggiate, rapide, concise. “E' troppo tardi.”

Scosse il capo, distolse lo sguardo, incapace di sostenere quello di lui, inquisitore. Uscì dal bagno e scese rapidamente le scale per il piano inferiore.

Ebbe appena il buon senso di infilarsi gli stivali bordati di pelliccia, di recuperare una sciarpa abbandonata sull'attaccapanni lì accanto, avvolgersela attorno al collo prima di uscire, alla mercé del freddo e delle intemperie.

Ignorò il gelo che la investì insieme al vento. Lo scricchiolio del legno l'accompagnò mentre scendeva i gradini del portico. Scartò il vialetto e optò per la distesa di neve fresca e soffice che la divideva dal bosco, una macchia scura in cui non vedeva l'ora di trovare rifugio.

Strinse le braccia al petto, riparandosi in qualche modo dal freddo che il maglione che indossava non era sufficiente a respingere.

Non aveva una meta precisa: voleva solo smettere di pensare, di impedirsi di tornare allo sfogo con cui aveva appena dato spettacolo, e che già – se anche solo lo sfiorava col pensiero – le appariva immotivato e francamente imbarazzante. Vagò alla cieca, così come aveva fatto e come continuava a fare con il suo partner: c'era un non so che di ironico e paradossale nel dover aiutare Occhio di Falco a vedere. Come faceva, lui, a non accorgersi che era la classica situazione del cieco che guida il cieco? Ma solo uno, tra loro, era rinomato e conosciuto per la sua mira infallibile.

Il freddo le tolse il respiro per un istante. Fu costretta a fermarsi, alberi e neve tutt'intorno a lei.

Mentre restava ferma, ad ostacolare col proprio corpo il soffiare del vento, una consapevolezza si impossessò di lei: che interagire con il mondo era come affrontare quei turbini gelidi, la neve, freddi e inospitali. Le ricordavano la sua terra, quella che aveva abbandonato come il teatro di un dramma cui non avrebbe mai più voluto assistere. Il suo. E Clint... Clint era per lei come il cottage. Caldo, accogliente, ma spesso anche soffocante e scomodo.

Quali che fossero le circostanze, sapeva che era lì che sarebbe sempre tornata.

 

***

 

Arrancò su per le scale, brancolando nel buio insufficientemente mitigato dal biancore della luna che trapelava dagli scuri socchiusi delle finestre del salotto. Teneva le braccia ancora strette al petto, quasi che il freddo le avesse bloccate in quella posizione, intirizzite, congelate. La Regina dei Ghiacci, pensò, rammentando uno dei tanti nomignoli che Clint le aveva affibbiato.

Barcollò nella camera da letto: il gelo non le aveva intorpidito i sensi al punto di non permetterle di accorgersi del ritmo del respiro dell'uomo apparentemente assopito sul letto. Probabilmente con il proposito di aspettarla, chiederle se non fosse per caso impazzita, si doveva essere addormentato. Il suo rientro, però, l'aveva svegliato. Natasha li conosceva a memoria quei respiri: vi sapeva leggere il sonno, il nervosismo, la sofferenza, l'ilarità... un superpotere – visto che va tanto di moda, pensò – di cui, probabilmente, non sarebbe mai riuscita a liberarsi, neanche volendo.

Si appoggiò con una mano allo stipite della porta, inspirò a fondo, non molto lucida, prima di decidersi ad avanzare fino al materasso, su cui si sedette senza dire una parola.

Fiocchi di neve sparsi le si stavano sciogliendo tra i capelli umidi, sul maglione, la sciarpa. Le guance, il viso, arsi dal freddo, sembravano come pulsare al calore del cottage, come se il sangue avesse ripreso a scorrere nelle sue vene solo in quell'istante, facendosi faticosamente strada nel suo corpo ibernato. Regina dei Ghiacci, si ripeté.

Gli dava le spalle, fissando invece lo sguardo sull'unica finestra della stanza. Lo sentì muoversi un poco, forse valutando il da farsi. Doveva aver deciso di non parlare, di aspettare che fosse lei a fare la prima mossa.

Protrasse ancora quella pausa di nonsenso con cui aveva avuto cura di riempire il disagio che li aveva divisi, nonostante tutto, durante quel breve e surreale soggiorno su una montagna sperduta del Canada.

“Rogers...” la voce le uscì bassa e roca, quasi irriconoscibile. “Rogers mi ha chiesto se avevo voglia di parlarne. Più di una volta... finché non deve aver pensato di risultare scortese. Indiscreto.” Una di quelle parole per bene che è abituato ad usare. “E' simpatico, Rogers, lo sai?” Accennò a voltare un po' il capo in direzione di Clint, ma si bloccò a metà strada. Tornò allo spicchio di cielo e alla macchia scura che le fronde degli alberi dipingevano oltre il vetro appannato.

“In un certo senso, anche lui è un disadattato”, sussurrò, mentre l'uomo alle sue spalle si rimetteva seduto. “Eppure, nonostante tutto, credo che sarà lui quello ad ambientarsi prima di tutti noi.” Disadattati come lui, pensò, solo che il problema, per Capitan America, non era il mondo, era il tempo. Per lei, invece, e in una certa misura anche per Clint, l'errore stava nelle cose, c'era sempre stato, quale che fosse il tempo in cui si erano ritrovati a vivere.

“Ho rivisto quel pallone gonfiato di Stark, il dottor Banner”, si strinse impercettibilmente nelle spalle, “tutti mi hanno chiesto di te.” Si aspettavano che sapessi qualcosa. Supponevano chissà che cosa, Clint, e io non sapevo che diavolo rispondere. Perché avevano ragione a supporre: anche io l'avevo fatto. Anche io mi aspettavo di sapere qualcosa. Di te.

Una leggera pressione sulle spalle, il calore delle sue mani, la sciarpa che le scivolava via dal collo bianco e freddo. Lo lasciò fare, come se non avesse le energie per parlare e occuparsi di qualsiasi altra cosa al tempo stesso.

“C'erano tutti”, le parole le uscirono più astiosamente di quanto avesse preventivato, più di quanto si sentisse in grado di fare in quel preciso istante, “ma non c'eri tu.”

Un'accusa.

Sollevò le braccia, come un burattino, disincastrandole dalla loro morsa marmorea attorno al suo petto, permettendogli di toglierle il maglione bagnato, di attirarla maggiormente sul letto. Cadde distesa ad osservare il soffitto su cui si muovevano le ombre proiettate degli alberi, di Clint, il riflesso del vetro, il baluginio della neve che li circondava. Le piaceva, quel posto, le sembrava di trovarsi su un altro pianeta.

“Mi aspetto che Rogers mi chieda se ho voglia di parlarne”, per educazione, più che altro, “ma non tu.” Ricordava di aver provato un sorprendente moto di tenerezza nei confronti del Capitano, che sembrava sinceramente interessato ad aiutarla, ma che non aveva la più pallida idea di come leggerla o maneggiarla. Ma lo stesso, grossolano errore di approccio le aveva procurato una reazione ben diversa quando era stato commesso da Clint: non l'aveva voluto accettare, non gliel'avrebbe lasciata passare.

Lasciò che le rimuovesse gli stivali, i calzini umidi, che le sfilasse i jeans prima di prenderle i piedi tra le mani, nelle sue dita ruvide, e riscaldarglieli. Le tornò in mente di quella volta, in Alaska, in cui, durante la rapida fuga che era seguita ad una missione decisamente tirata per i capelli, era caduto in un lago ghiacciato. L'aveva tirato fuori a fatica, l'aveva portato in salvo, riscaldato come poteva. Si era spogliata e aveva fatto altrettanto con lui, privo di sensi, intrecciando i loro corpi per spartire il calore di cui necessitava disperatamente. Le sarebbe piaciuto se non ci fosse stata la sua vita a rischio. Lui si riprese in infermeria, sull'helicarrier, un paio di giorni dopo. Non ricordava niente. Gli disse che i soccorsi erano arrivati poco dopo la sua caduta e nient'altro.

“Parlare è inutile”, esalò, socchiudendo gli occhi. “Parlare complica le cose”, aggiunse, con un'inflessione quasi da ubriaca. “Quello che faccio è guardarti. E basta. Ascoltarti... quello mi aiuta.”

Clint l'afferrò per la vita, la trascinò sotto le coperte, la strinse a sé, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo. La guancia di lui, adesso, era soffice e liscia: la sua pelle infreddolita e ancora irritata dal contatto con la sua barba, ringraziò tacitamente.

“Mi serve a capire... e dopo che ho capito non ho bisogno di nient'altro.” Si voltò automaticamente verso di lui, infilò le mani sotto la maglia che indossava e con quelle cercò il calore del suo petto. Le lasciò là sotto, a riscaldarsi.

“Tra me e il resto del mondo ci sei tu.” Sei come un interprete, suggerì a se stessa. Clint era il filtro tra lei e quello che la circondava. Era stato lui a offrirle la possibilità di liberarsi dalla realtà allucinata in cui erano arrivati a scontrarsi, anni e anni prima, in una piazza affollata di Lisbona. “Quando non ci sei, ci metto di più. Ci riesco lo stesso, ma... ci vuole di più.” Era la verità. Rigettava ogni nozione di co-dipendenza: erano indipendenti. L'unico motivo per cui ricercavano la compagnia (professionale e non solo) l'uno dell'altra era perché la volevano. Non perché ne avevano bisogno. Erano autosufficienti, equi, alla pari.

Sentì i muscoli, i nervi di Clint, tendersi sotto le sue mani.

“Mi dispiace”, pronunciò infine, soffiandole le parole sul viso.

Il suo respiro sapeva di tè agli agrumi, quello che aveva comprato per sbaglio almeno un paio di anni fa, e che aveva lasciato a marcire nel fondo di un armadietto a caso della cucina.

Si strinse maggiormente a lui, ormai in preda al torpore della stanchezza, al familiare tepore del corpo di lui. Il sonno se la stava per portare via, ancora inaspettatamente, come la sera precedente, in circostanze ben diverse.

La voce, poi, non era neppure sicura che le fosse realmente uscita di bocca, o se gli avesse risposto soltanto in sogno.

“Lo so.”

 

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N.d.A.: grazie ancora ai commentatori abituali e nuovi :D al prossimo (e ultimo) capitolo!

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Invidia ***


CAPITOLO 7

 

 

Every now and then, the stars align
Boy and girl meet by the great design
Could it be that you and me are the lucky ones

Boy, get into my car, got a bad desire
You know that we'll never leave if we don't get out now, now, now
You're a careless con, and you're a crazy liar
But baby, nobody can compare to the way you get down, down, down

(Lucky Ones – Lana Del Rey)

 

Invidia

 

 

Il motore del piccolo velivolo prese vita, cercando di scrollarsi di dosso il freddo che ricopriva ogni cosa, come una gelida, opprimente, coperta di vetro.

“Woah, non dirmi che Fury si è ricordato del tuo compleanno”, commentò Clint, bofonchiando qualcosa al di là della sciarpa pesante che gli proteggeva metà del viso. Non abbastanza stretta da farlo stare zitto, constatò cinicamente Natasha, controllando che il telecomando che apriva il grosso portone automatico della rimessa funzionasse a dovere.

“Sono un assetto indispensabile all'organizzazione”, gli fece eco allora, sovrappensiero, perfettamente a tema con la ghiacciata ostilità del tempo, “ho diritto a qualche privilegio.”

Clint riemerse da dietro il jet, dopo un rapido giro di ricognizione, un'espressione stupita a deformargli il volto.

“Qualche privilegio?” Indicò l'apparecchio, come se bastasse il gesto a mostrarle la differenza che c'era tra un privilegio e quello. Mutò la sorpresa in bonario e divertito sospetto, le diede una leggera spallata quando le fu vicino. “Di' la verità, l'hai rubato. Gliel'hai rubato da sotto al naso.”

Si finse offesa, lo guardò storto: “No.”

“Anch'io sono un prezioso assetto eppure non ho una Ferrari nascosta in cantina!”

“Questa non è una Ferrari.” Le era bastato torcere un po' il polso al direttore Fury per ottenere una manciata di regalini extra, di cui quel jet non era che un rappresentante.

“Bé, potrebbe esserlo se avessi dei gusti un po' meno... rozzi.”

“Rozzi?” Valutò se suggerirgli di tentare a sua volta la fortuna, rinegoziare il contratto che aveva con lo SHIELD, ma poi lasciò perdere.

“Rozzi!” Ribadì, continuando a rimirare il velivolo, impressionato. “Dovrò decidermi a chiedere un aumento,” smozzicò tra sé.

Natasha scosse il capo, “sali o ti abbandono quassù.”

“Signorsissignora”, le fece prontamente eco, a mo' di scherno, facendo per salire dal lato del pilota: una terribile occhiata di Natasha lo bloccò sul posto senza che ci fosse bisogno di aggiungere una sola parola.

“Non c'è bisogno di fare quella cosa con gli occhi, Tasha”, protestò a mezza voce, “era solo uno scherzo.” precisò mentre si avviava a salire dalla parte opposta.

“Certo.”

Richiusero i portelloni della carlinga, Clint impegnato a riconoscere il piccolo aereo come uno di quelli che aveva pilotato per lo SHIELD durante svariate missioni in solitaria, Natasha ad assicurarsi che fosse tutto a posto per la partenza.

“Pensare che ti ho insegnato io a pilotarne uno”, commentò lui, agganciandosi la cintura di sicurezza.

“A maggior ragione.”

“A maggior ragione, cosa?”

Natasha alzò gli occhi al soffitto basso dell'abitacolo e non rispose. Indossò le pesanti cuffie che le avrebbero permesso di contattare chi di dovere sull'helicarrier non appena ce ne fosse stata la possibilità e fece aprire le porte della rimessa, aspettando che il meccanismo automatico si occupasse del resto. Quella stessa mattina erano stati svegliati dal richiamo dei rispettivi apparecchi di comunicazione: il direttore Fury li richiamava alla base, ciascuno con una diversa missione ad attenderlo al quartier generale itinerante dell'organizzazione.

Presero quota e furono in volo una ventina di minuti dopo, sbatacchiati qua e là dalla forza delle correnti fredde che incontrarono. Lo sforzo che Clint stava facendo per non sbraitarle indicazioni le sembrava quasi palpabile nell'aria che li divideva. Sorrise tra sé, senza neppure accorgersene, lasciando che il silenzio li avvolgesse, tornasse a farsi familiare, confortevole.

Non c'erano state molte parole dalla sera precedente: avevano combattuto l'essenziale portata degli eventi con frasi di circostanza, discorsi generici, sicuri. Avevano fatto finta di essere persone normali, con una vita normale, appartatisi in un cottage normale per una vacanza normale, popolata da gesti normali.

Sapevano che era un inganno bello e buono, che, in fondo, non sarebbero mai riusciti a smettere di essere spie che avevano fatto dell'assassinio un'arte e una professione. Eppure, avevano accolto quell'artefatta e forzata normalità quasi con sollievo, avevano ripreso fiato, avevano testato la loro resistenza, ricaricato le batterie, pronti a rientrare nel loro mondo, nella vita di tutti i giorni. Avevano bisogno di un po' di stabilità per poter riconoscere il terribile conforto che trovavano nella precarietà della loro esistenza. Natasha si rendeva conto che era un discorso da pazzi, di malati di adrenalina, che l'incertezza, a lungo andare, avrebbe logorato anche il più tenace degli animi... ma era in quello che si riconoscevano. L'immobilità dell'inazione da una parte, la missione coi suoi sentimenti devastanti e spaventosi dall'altra: non c'era spazio per l'indefinito in quei momenti. La paura fungeva da lente d'ingrandimento, amplificava le sensazioni, li costringeva a fronteggiarle in modo quasi violento, improrogabile. Ora o mai più. Una piccola parte di lei era convinta che quelle e solo quelle, positive o negative che fossero, più simili a veri e propri stordimenti dell'anima, valessero la pena di essere provate. Si imponevano e non davano altra possibilità se non quella di sentirle, lasciarsene impadronire, investire, riempire, tentando al tempo stesso di dominarle, addomesticarle, piegarle al proprio autocontrollo. Ogni volta portavano con sé il brivido ebbro della conquista, o la sconquassata amarezza del fallimento.

Non c'era stato niente di tutto ciò in quei giorni: si erano mossi ai ritmi lenti e flemmatici della gente comune, si erano dati tutto il tempo del mondo, avevano evitato il confronto fino alla fine. Si chiese se non fossero, piuttosto, due codardi: incapaci di affrontare la realtà quando quella concedeva loro una via di scampo, la possibilità di rimandare ad un altro giorno, ad un altro momento.

Il cielo era di un grigio quasi bianco tutt'intorno a loro, quando Clint tossì per schiarirsi la voce.

“Tasha...,” la richiamò.

“No,” replicò lei, recisa. “Non ce n'è bisogno.”

Si sentì lo sguardo di lui puntato addosso, il suo perso nel cielo tutto uguale che sovrastava i boschi di abeti e le sterminate distese di bianco che li circondavano.

“Non sai neanche cosa stavo per dire,” ribatté, una nota incerta nella voce, come se già fosse consapevole del fatto che sì, lo sapeva eccome.

Tacquero entrambi, accompagnati dal brusio del motore, dall'ululare del vento che li raggiungeva fin dentro la carlinga. Passarono svariati minuti prima che Natasha si decidesse a parlare di nuovo.

“Credi che il sesso cambi qualcosa?” Domandò a mezza voce. Una domanda retorica. “Il sesso non cambia niente. Non cambia quello che provo per te, non lo amplifica e non lo diminuisce.” Si strinse nelle spalle. “E' solo un'altra cosa che facciamo insieme.”

Le appariva scontato che, ben prima di quei pochi giorni trascorsi da reclusi, avrebbe fatto di tutto pur di salvarlo - gliel'aveva dimostrato -, le si sarebbe spezzato il cuore se l'avesse perso. Sarebbe stata la prima a consolarlo se ne avesse avuto bisogno, a scuoterlo senza alcun riguardo se fosse stato necessario. Gli avrebbe sempre mostrato la più ferrea e ostinata delle lealtà, l'avrebbe sempre considerato come colui che le aveva dato la possibilità di ricominciare da capo, di portare avanti la sua condanna in modo più agevole. Un amico. Il primo e il più vero di tutti.

No, il sesso non cambiava niente.

Clint inspirò a fondo, riprese fiato forse per dire qualcosa, perso tra i suoi pensieri.

“Clint?” Natasha lo precedette, con una certa e malnascosta ansia nella voce che risuonò come una supplica. “Non dire niente.”

 

***

 

Si era svegliato al suo tocco. Una mano calda sulla pelle. Due occhi verdi che lo fissavano, nella semioscurità di una notte di luna che rimandava i riverberi della neve dalla finestra.

Il volto pallido, irreale, i capelli che le scivolavano dalle spalle in onde scomposte, vittime inconsapevoli della notte passata.

Ti agitavi” due parole e aveva capito tutto. Dal battito accelerato del suo cuore, all’arsura che gli attanagliava la gola.

Un incubo. Lo stesso di sempre. Eppure questa volta così diverso. I dettagli confusi, spazzati via improvvisamente da quel docile risveglio, quel rassicurante calore.

Scusami” immediato il rammarico, la voce incerta, i muscoli tesi, pronti ad allontanarsi, ma la mano che restava lì, stringeva la presa, lo tratteneva.

Due sguardi agganciati e cadde, immediato, il desiderio di abbandonare quel nido di pace. Quel luogo ovattato. La malcelata supplica negli occhi di lei lo costrinse irrimediabilmente alla resa. Gli stavano chiedendo di restare, di godersi ancora un po' di quella fantasiosa suggestione, quell'improbabile quotidianità che, sapevano, non sarebbe potuta durare in eterno.

Rimase e tornò ad occupare il suo posto, in quel letto che ormai sapeva di entrambi, che li accoglieva, ogni notte, ogni giorno, in un rituale che aveva trovato la sua giusta dimensione.

Quando sarebbe finito? Domande che non venivano mai poste in quell'universo fatto di lenzuola e sospiri.

Si poteva pretendere di non esser altro che due essenze senza passato, senza futuro, senza identità. Si poteva pretendere qualsiasi cosa. Non era il luogo della razionalità, del ragionamento.

Esistevano entrambi, l'uno in funzione dell'altra.

Null'altro.

"Prima o poi la smetteranno", disse solo, in una giustificazione non richiesta, un sospiro per riprendere fiato, per rendere concreto lo scampato pericolo.

"Lo sai che non smettono mai", le parole di Natasha a svelare la sua bugia. "Si affievoliscono di tanto in tanto, alle volte ci colgono solo di sorpresa... ma ci si convive." Una nota di speranza che non si era aspettato.

Il capo di lei che si posava sul suo petto, forse per accertarsi che il suo cuore si fosse tranquillizzato, forse solo perché lì stava comoda. Semplicemente.

Socchiuse gli occhi, nutrendosi di quella sensazione, allontanando il pensiero che prima o poi gli sarebbe venuta a mancare... fino alla prossima volta.

La realizzazione che la loro vita, avrebbe potuto realizzarsi in quel modo, sempre per una prossima volta, lo mise nelle condizioni di invidiare chi invece aveva a portata di mano quell’emozione, quei momenti, ogni volta che avesse allungato la mano.

Ma era davvero così auspicabile? Non avrebbe tramutato tutto in scontata monotonia?

Decise di non pensarci, di dedicarsi a quell’attimo fino a quando sarebbe durato.

Affondò la mano sotto le coperte, fra le sue cosce tornite.

Ecco dove si sarebbe inabissato per tutto il tempo che ancora gli sarebbe stato concesso.

 

***

 

Non dire niente, erano state le sue parole... e Clint non lo aveva fatto.

Non aveva parlato a lungo. Non aveva detto niente del tutto. Suscitando il sollievo e la preoccupazione di una Natasha che, forse, ne aveva avuto abbastanza dei suoi silenzi. Ancora troppo dolorosamente recenti per essere accolti come una liberazione completa.

Il ricordo ben preciso della notte passata però, gli aveva provocato una reazione dalle fragranze malinconiche, sufficienti a farlo tacere per trattenerne il momento, ancora però un po’. Finché il viaggio non si fosse concluso, finché quella fase non si fosse completamente esaurita. Sebbene la voce di Fury, quella stessa mattina, li avesse bruscamente riportati alla realtà dei fatti: non erano una coppia in vacanza. Solo due spie, due assassini, due agenti operativi che avevano trovato una via di fuga temporanea.

 

Il jet era arrivato con eccellente precisione al punto di ritrovo.

Casa. O così, a volte, gli piaceva chiamarla in modo innocentemente scherzoso. Non era del tutto sicuro fosse poi uno scherzo di buon gusto, comunque.

Natasha avanzava con passo rapido, deciso. Lui la seguiva blandamente: in questo niente di dissimile da tutto ciò a cui erano abituati.

 

Fury in persona li aspettava alla fine di quell’ultima passeggiata.

Vederlo gli provocò una strana sensazione. Un ritorno al passato. La concretizzazione di tutto quello che aveva rimandato.

Si chiese improvvisamente se la vacanza in Canada fosse stata reale, oppure l’ennesimo scherzo dei suoi sogni traditori.

Non fece nemmeno in tempo ad abbandonare il borsone che conteneva i suoi – pochi – averi che l’uomo li aveva avvicinati e fissati così a lungo e così a fondo che Clint quasi si chiese se non sospettasse qualcosa. O se non lo sapesse già qualcosa. Se le sue odiose cimici si fossero insinuate nel loro intimo, svelando, su enormi schermi piatti di ultima generazione, quegli ultimi giorni infuocati.

Si trovò a domandarsi come sarebbe venuto in video. Preso da dietro.

Quasi stentò a mantenere un’espressione professionale. Dolente? Dopotutto non era uscito di scena nel migliore dei modi. Avrebbe dovuto quantomeno dimostrare umiltà e pentimento.

Ma Fury era una maschera. Mai una volta che riuscisse a coglierlo in fallo. Se non quando era così furente da lasciare che la sua ugola echeggiasse per tutto il quartier generale dello SHIELD. Ma anche lì erano soprattutto le grida, a farla da padrone, di certo non la sua espressione. Si tenevano tutti alla larga dal direttore nei suoi giorni no.

“Agente Barton, agente Romanoff”, lapidario. Decisamente gli era mancato. Non si chiese perché non gli domandasse se stesse bene, se fosse guarito, se non avesse ancora qualche pugno da smaltire dopo le ultime imprese con i colleghi. La telefonata che aveva scambiato con Natasha era stata decisamente più lunga della sua. Ed era pressoché convinto di essere stato lui il soggetto di buona parte della conversazione.

Si spiegò, così, perché gli avessero fischiato così a lungo le orecchie. Per un attimo aveva pensato di avere problemi di pressione.

Natasha doveva aver redarguito il direttore sulla sua situazione mentale e Fury le aveva creduto. Da lì la decisione di renderlo operativo. Di nuovo.

E dire che, per una volta tanto, si stava godendo la prima vera vacanza della sua vita.

Sì, decisamente l’invidia per chi poteva stendere un calendario delle ferie tornava a farsi sentire.

“Prima di venir aggiornati sullo stato delle vostre imminenti missioni”, era un tono esitante quello che avvertiva? “Vorrei che mi seguiste. C’è qualcosa di cui vorrei parlarvi.”

Clint fece una smorfia. Forse non era del tutto vero che l’aveva scampata.

Uno sguardo con Natasha e fu certo che nemmeno lei era minimamente al corrente di quella storia.

Lo seguirono senza una parola. Dentro i corridoi dell’helicarrier, sotto lo sguardo di colleghi e personale che, dopo gli eventi di New York, avevano sviluppato una sorta di rispetto reverenziale per entrambi. Non avevano ancora avuto modo di testare l’effetto che i Vendicatori avevano avuto sulle persone. L’essere riusciti a tener testa a un intero esercito di mostruosi alieni, evidentemente, li aveva portati a un livello superiore. Qualcosa che non poteva essere misurato in base a test o qualità professionale sul campo. Andava oltre. Lui e Natasha erano diventati entità ben al di sopra di qualsiasi forza speciale dello SHIELD.

Quasi delle celebrità.

“Magari regala un jet anche al sottoscritto.” Suggerì a mezza voce a Natasha, che di rimando gli scoccò un’occhiataccia. Una di quelle che gli davano sempre una certa soddisfazione personale.

 

Ben presto si trovarono in uno stanzino. Di certo non una delle stanze più lussuose dell'helicarrier. Se era lì che Fury aveva intenzione di sfogare la sua rabbia, probabilmente avrebbe trovato ben poco da distruggere. A parte loro due.

Dopotutto, aveva senso.

 

Quando Fury li lasciò di nuovo soli, Clint non riuscì a contenere la sua perplessità.

“Ma non doveva parlarci?” magari ci aveva ripensato. Oppure aveva esaurito il numero massimo di parole che poteva permettersi per una manciata di ore. “Pensi che sia un test?” domandò poi, posando di nuovo a terra il suo pesante borsone, guardandosi attorno. “Sai, una di quelle cose a sorpresa. Sono quasi del tutto sicuro che i film di James Bond siano pieni di questa robaccia. Pensi che Fury sia fan di James Bond? Pensi che Fury sia fan di qualche cosa?”

Natasha lo stava fissando con la stessa espressione di prima. Solo che ora tradiva una certa nota isterica.

“Cosa?” le chiese allora, allargando le braccia.

Lei, come da copione, non rispose. Gli ci volle un po’ per capire che quella faccenda sarebbe andata per le lunghe.

“Non ci hanno nemmeno chiesto se avevamo fame. Se gradivamo qualcosa da bere.”

“Perché, hai fame?”

“No… non proprio.”

“E allora qual è il problema?”

“Nessuno a dire il vero, mi aspettavo una lavata di capo…”

Natasha sospirò e andò a sedersi su una delle poltroncine libere.

“Forse stanno solo decidendo di che morte dobbiamo morire” rispose.

Lui le si sedette di fianco, allungando le gambe ancora rigide dopo le lunghe ore di volo.

“Perché parli al plurale? Sono io quello che ha combinato un guaio.”

“Non parlavo di conseguenze. Se avessero voluto punirti, lo avrebbero fatto ben prima che ti portassi con me.”

Clint le lanciò un'occhiata e fece uno sforzo sovrumano per non ribattere. Ma alla fine cedette: “Forse invece la punizione era proprio quella di lasciar che tu mi portassi via con te.”

Natasha sospirò, e Clint fu quasi sicuro che avesse maledetto qualcosa nella sua lingua natia. Fu sul punto di ritirare lo scherzo, quando lei lo precedette, di nuovo.

“Allora immagino che sia un bene, per te, che oggi ci dobbiamo salutare.” Le parole le erano scivolate di bocca e il disagio, il disappunto, fu improvviso quanto palpabile, da entrambi i lati.

“Lo sai che non è così”, lo scherzo accantonato, per una volta tanto. No, su quello non aveva improvvisamente più voglia di scherzare. “L'ultima volta che ci siamo salutati non è finita molto bene.”

Lo ricordava eccome il loro ultimo incontro prima che le loro vite, le loro convinzioni cambiassero, per sempre. E ci erano voluti mesi per arrivare a quel punto. A quel ritrovato benessere. O qualcosa di simile.

“Stai diventando inutilmente pessimista, Barton?”

Rialzò lo sguardo e trovò i suoi occhi. Non c’era ironia; un rimprovero certo, ma anche altro.

“Il pessimismo non è mai inutile...” le disse. “Soprattutto quando viene smentito.”

“La filosofia spicciola dell’agente Barton…” citò lei con una nota stanca nella voce.

“Perle di saggezza, vorrai dire. Dovresti appuntartele.”

“E usarle quando?”

“Quando ti troverai a corto di argomenti.”

“I miei argomenti li conosci bene.”

“I tuoi argomenti spaventano la gente…”

“E’ quello il fine.”

Una mezza risata.

“A quanto pare, nemmeno questa volta avremo tempo per quella famosa partita di bowling.” Rammentò il loro ultimo, impacciato incontro, prima di New York.

“Magari la prossima volta.”

Clint fu certo che la “prossima volta” avrebbero avuto ben altro a cui pensare. Quella famosa prossima volta. La prossima volta poteva dire tutto e niente. La prossima volta avrebbe potuto non arrivare mai.

Ma forse, era poi tanto saggio spenderci un pensiero in più del dovuto?

“Una settimana di vacanza dallo SHIELD e mai una volta che ci sia venuto in mente di andare a giocare a bowling”, interruppe di nuovo lui l’idillio “Chissà che diamine avevamo in testa?”

Natasha gli lanciò di nuovo quello sguardo, prima di assestargli un calcio.

Ridevano ancora entrambi, quando la porta di quello sgabuzzino si aprì.

 

“Perché non fate ridere un po’ anche me?” la voce, alle loro spalle, arrivò con il cigolio dei cardini.

Clint sentì il gelo scendergli nello stomaco, Natasha, di fronte a lui, era già in piedi mentre si estingueva il rumore della sedia che cadeva.

In controluce, una silhouette dolorosamente nota.

“Phil…” un sussurro che sembrò disintegrare quelle mura.

“Sembra che abbiate appena visto un fantasma.”

 

***

 

I tre giorni che erano seguiti all'incontro sull'helicarrier erano volati in una spirale di riunioni, richieste di consulenza, messe a punto di piani principali, alternativi, d'emergenza, assembramenti di squadre, scelte di partner, assegnazioni di compiti, perfezionamento degli equipaggiamenti... la vita nello SHIELD era ripresa come se non si fosse mai realmente interrotta, stavolta con un vago retrogusto surreale, quasi magico. Era vero che non erano mai stati addestrati a niente del genere, eppure l'espressione granitica di Fury, la compostezza professionale dell'agente Hill le erano apparse estranee, diverse. Quella sensazione di gelo alla nuca non se n'era andata neanche per un secondo: c'era qualcosa di strano, qualcosa di sbagliato che non le aveva concesso di godersi quell'insospettabile ricongiungimento come avrebbe voluto, come non avrebbe mai sognato immaginarsi.

Comunque, il da farsi sull'imminente missione l'aveva assorbita a tal punto da non permetterle riflessioni troppo approfondite: era quello che voleva o le crepe le si sarebbero finalmente palesate, evidenti e profonde, impossibili da ignorare. Si era gettata a capofitto nella delineazione del nuovo incarico. L'aveva fatto con sollievo, ritrovando il consueto, familiare ritmo che le era congeniale. Si sentiva, per assurdo, pacificata.

Clint, d'altro canto, era stato assegnato ad un'operazione parallela: qualcosa di importante bolliva in pentola, e l'organizzazione aveva bisogno dei suoi agenti migliori ai quattro angoli del mondo.

In tutta sincerità non le dispiaceva. La distanza le dava modo di mettere le cose in prospettiva, di osservarle con distacco e valutarle con maggior precisione. A mente fredda.

Si fermò davanti alla porta del suo appartamento e sorrise impercettibilmente tra sé: Occhio di Falco l'aveva contagiata. Non era lui che vedeva meglio da una certa distanza?

Passò la busta della cena da una mano all'altra per cercare le chiavi. L'odore inesistente e rassicurante (che per lei era un odore a tutti gli effetti) del suo appartamento la investì un attimo dopo. Richiuse la porta e ci mise un secondo di troppo a rendersi conto che l'aria non era stantia come si sarebbe aspettata e che, anzi, un vento freddo e leggero spirava fin nel corridoio, probabilmente proveniente dal salotto.

Appoggiò con cautela il fagotto del ristorante indiano sul pavimento ed estrasse la minuscola pistola che teneva sempre con sé dalla tasca interna del cappotto. Avanzò cautamente e senza provocare il minimo rumore, ripassando mentalmente tutte le possibili tattiche di controffensiva che aveva messo a punto nei primi giorni di permanenza a New York.

Niente le suggeriva quanti uomini potessero esserci, quali fossero le loro armi o la loro posizione: l'appartamento era freddo, sì, ma silenzioso se non si considerava il sommesso bisbiglio del vento.

Sbucò dal corridoio d'ingresso nel salotto: il pavimento era bagnato (probabilmente la neve della notte precedente scioltasi durante la giornata), i frammenti del vetro rotto della finestra sparsi subito sotto il davanzale e persino sul divano.

Formulò l'ipotesi giusta prima ancora di vedere la freccia conficcata nella parete opposta, nel bel mezzo della stampa che ritraeva il quadro astratto di un pittore russo qualunque, acquistata durante il suo terzo giorno a New York e solo perché il commesso del negozio di robivecchi in cui si era infilata, credendo di essere pedinata, non si insospettisse della sua presenza.

Era un quadro obbiettivamente brutto, con nessuna qualità che lo potesse redimere in alcun modo. In un certo senso era proprio per quello che le piaceva: era sbagliato, sgraziato e terribile senza alcuna possibilità d'appello.

Rinfoderò la pistola, ormai convinta della totale assenza di un qualsiasi pericolo, avvicinandosi alla freccia con l'intenzione di estrarla dal muro. Un foglietto era infilzato tra la stampa e il dardo: poche parole scritte di fretta. Natasha riconobbe la calligrafia:

 

Per la finestra, scusa.

Per il quadro mi ringrazierai.

 

PS: Buon Natale.

 

Inarcò un sopracciglio: primo perché non le era del tutto chiaro come Clint si fosse sentito autorizzato a ridurre le pareti del suo salotto ad un colabrodo o a criticare le sue preferenze in campo artistico; secondo perché si era completamente dimenticata dell'esistenza del Natale. E sì che le luminarie che addobbavano (accecavano?) la Grande Mela le avrebbero dovuto dare un qualche indizio: le bastò lanciare un'occhiata fuori dalla finestra rotta per accorgersi delle decorazioni sparse irregolarmente sulla facciata dell'edificio dirimpetto.

Tornò alla freccia, accorgendosi solo in quell'istante del ciondolo che dondolava al capo opposto del dardo: accuratamente assicurato appena sopra la cocca, un sottilissimo filo d'oro interrotto nel suo giro da una minuscola freccia, scintillava alla luce delle decorazioni natalizie intermittenti che filtrava dalla finestra.

 

Il vento sembrò incresparle le labbra in un sorriso.

 

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N.d.A.: ed è tutto anche per questa terza parte di “Compromised”. Grazie grazie grazie a tutti coloro che ci hanno letto, commentato & incoraggiato in tutti questi mesi! :) Speriamo di ritornare... prima o poi! Grazie ancora!

Eli & Sere                                                                                     

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