Inkheart

di Patta97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prefazione ***
Capitolo 2: *** 1. Take my hand ***
Capitolo 3: *** 2. Come along ***



Capitolo 1
*** 0. Prefazione ***


Ciao!
Okay, premettendo che ho letto la (bellissima) saga di Inkheart più di quattro anni fa, quindi certe parti potrebbero essere un po' vaghe... ecco qui questa nuova long. O almeno, spero che sarà una long. Per chi avesse letto i libri (o visto il film, anche se non è fatto molto bene, a parer mio), sa che chi ha il "dono" viene chiamato un Lingua di Fata e in un questo mondo, inoltre, i mangiafuoco sanno giocare molto bene col fuoco. Molto. E ci sono anche un bel po' di persone poco buone.
Credo di aver finito con le premesse, spero vi piaccia,
Chiara














- Bambini, siete pronti per la buona notte?
 
- Sì, mamma!
 
- Avete lavato bene i denti? Harry, John?
 
- Certo che sì! Ora leggi!
 
- Va bene… Quale?
 
- ‘Cuore d’Inchiostro’!
 
- Ma a me fa paura…
 
- Oh, John, sei una femminuccia.
 
- Harriet! Coraggio, tesoro. Solo le parti belle, va bene?
 
- Per fare bei sogni.
 
- Certo, per fare bei sogni… Allora, pagina 221: ‘Sherlock Holmes, detto Dita di Polvere, era uno dei mangiafuoco che si esibiva nella piazza del mercato. Si accompagnava sempre con una piccola martora cornuta dal pelo rosso come cannella, Redbeard, e si diceva che sapesse usare il fuoco come nessuno nel Regno. Nessuno sapeva con esattezza dove abitasse o da dove venisse, ma giravano voci che suo fratello stesso fosse il Re e lui avesse deciso di non sottostare alla vita di corte. Tuttavia amava la vita brulicante della città e dei campi intorno e non se ne sarebbe mai allontanato…’
 
- Mamma, guarda! C’è un animale sopra l’armadio!
 
- Oh, è vero. Sarà entrato prima dalla porta sul retro. John, chiameresti papà? Forse lui riesce ad acciuffarlo… Dov’è John?
 
- Era qui, sul suo letto.
 
- John? John! Tesoro, dove ti sei nascosto?
 
- Mamma…
 
- Non ora, Harry…
 
- No, è che… quell’animaletto ha delle corna.
 
*
 
Vento.
 
Vento caldo e sole dorato. Luce bianca e rossa che danzava dietro le palpebre chiuse.
 
Una melodia ruvida e delicata, un fruscio di foglie secche sfiorate l’una dall’altra.
 
Qualcosa che pungeva piano sulla schiena e dietro la testa e sulle piante nude dei piedi, contro i capelli e il cotone leggero del pigiama.
 
John respirò un’aria che non era del suo mondo e spalancò gli occhi blu su un cielo del più azzurro degli azzurri con le nuvole più bianche che avesse mai visto.
 
Ricordava che non avrebbe dovuto essere lì, ma al momento si sentiva troppo pigro e quello che aveva attorno era troppo magnifico per pensare a cose dolorose.
 
Una corsa felpata da qualche parte vicino a lui e lo scostare giocoso delle spighe di grano che lo circondavano come una tenda tiepida.
 
Chiuse di nuovo gli occhi.
 
Quando li riaprì, per un attimo gli sembrò di stare osservando ancora il cielo, tanto era cristallino lo sguardo a pochi centimetri dal suo.
 
- Hai visto la mia martora?
 
John non capì subito la domanda, era troppo preso dal registrare il fiato caldo sul suo viso e quelli che sembravano soffici capelli che gli sfioravano la fronte.
 
- Cosa?
 
- La mia martora. Grande quanto un avambraccio, col pelo rosso e due piccole corna accanto alle orecchie. L’hai vista?
 
- Come fa una martora ad avere le corna?
 
- Tutte le martore hanno le corna. Di’ un po’, sei nato ieri?
 
- Io… no. Ho nove anni.
 
- Era una domanda retorica. Comunque… se non hai visto Redbeard mi servi a ben poco.
Il ragazzino si scostò da John e si mise agilmente in piedi, svettando alto e dinoccolato accanto a lui. Aveva addosso una camicia bianca leggera, dei pantaloncini neri al ginocchio e delle bretelle viola. Nonostante gli abiti leggeri, le mani affusolate erano coperte da un paio di guanti neri, con i buchi per le dita.
 
- Che hai da guardare? Seguimi, no?
 
- Ma hai detto che se non avevo visto la tua martora…
 
- Non importa.
 
John si rimise in piedi a fatica e si rese conto, imbarazzato, di indossare ancora il suo pigiama azzurro con sopra gli orsacchiotti.
 
- Posso trovarti altri vestiti al mercato, se vuoi.
 
- Quindi adesso io… devo venire con te?
 
- Mi hanno preso la martora.
Il ragazzino dai riccioli neri si esibì in un breve broncio desolato.
 
- Ma non so neanche il tuo nome! E tu non sai il mio.
 
- Sherlock Holmes e… - adocchiò il nome ricamato sul colletto del pigiama di John. - È un piacere conoscerti, John.
 
Senza un’altra parola, Sherlock iniziò a farsi largo fra le spighe di grano verso un viottolo poco lontano e John lo seguì, silenzioso.

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Capitolo 2
*** 1. Take my hand ***


Hola e scusate il ritardo! Avevo scritto il capitolo più di una settimana fa ma poi non avevo avuto il tempo di pubblicare... senza parlare di quanto sia vergognosamente corto.
Per chi ha letto i libri: perdono, perdono davvero. Ci sono concetti completamente inventati e nomi usciti dal nulla, ma lo faccio per un motivo, I swear.
Spero che vi piaccia e che riesca ad aggiornare prima, stavolta... è che sto combattendo contro l'impulso di scrivere una Once upon a Time AU e non so per quanto riuscirò a resistere.
Mega abbracci,
Chiara























Il paesaggio campagnolo diventò presto boschivo e gli alti rami degli alberi erano così fitti ed intricati, in alto, da coprire il cielo e i raggi del sole, rendendo l’aria carica di odori ed ombrosa.
John, istintivamente, si fece più vicino al suo strano e taciturno compagno, osservando comunque rapito quello che aveva intorno, alle spalle, di fronte e stando attento a non inciampare o pestare nessuna delle formiche e nessuno dei bruchi smeraldini.
Avvistò anche un riccio, un coniglietto dal pelo candido e tante api indaffarate che riempivano l’aria con il loro ronzio.
Pensò che, dopotutto, quel bosco non era poi così male: gli ricordava quello dove lui e la sua famiglia andavano a fare le gite ogni prima domenica del mese. Sua mamma gli preparava i panini e poi leggeva per lui, Harry e suo padre delle favole. Sua madre aveva una voce magica, a volte sembrava che ciò che leggesse si materializzasse lì, accanto a loro, come se i libri prendessero vita…
John si fermò di botto, accanto alla riva brulla di un torrente, coi ciottoli umidi che gli solleticavano i piedi stanchi dalla camminata.
Ricordava… La mamma stava leggendo a lui e Harry la storia della buonanotte e poi lui si era ritrovato lì.
 
- Sherlock!
 
Il ragazzino si voltò con aria interrogativa, giusto in tempo per vedere John che cadeva come in preda a un malore.
 
- John, non lì!
 
Ma il bambino sussurrava in maniera incoerente, vittima di un attacco di panico.
- Ero nella mia stanza, era sera e… Io non dovrei essere qui. Come faccio ad essere qui?
 
Sherlock lo raggiunse e tentò di tirarlo su per portarlo lontano dal torrente, ma l’altro sembrava del tutto privo di forze e tremolante, aggrappato ai ciottoli accarezzati dall’acqua fresca.
 
- Come è successo? Sto già dormendo?
 
- John, ti assicuro che non è un sogno e tu devi assolutamente toglierti da qui.
 
- Perché? – il suo tono era piagnucolante e devastato.
 
- Perché sì… No! Non guardare!
 
John volse lo sguardo all’acqua e, fra le lacrime, scorse qualcosa nelle piccole onde increspate. Poi distinse i tratti femminei di un essere vitreo e sorridente, che gli tendeva invitante una piccola mano palmata. Fece per avvicinare la propria, perché se quella ragazza trasparente appariva così felice forse nel torrente la vita era più bella; forse avrebbe scordato la sua casa e lo sfiorare della corrente sarebbe stato un buon sostituto delle carezze di sua mamma…
Una lingua di fuoco scoccò minacciosa come una frusta e l’essere ritirò la mano, sibilante ed irritato. Quando John riguardò l’acqua, non sembrava più che ci fosse qualcosa di vivo dentro a parte i pesci e le alghe.
Si voltò verso un alquanto seccato Sherlock e, lanciando un’occhiata alle sue mani, si rese conto che i guanti neri erano circondati da scintille calde.
 
- Ma come…
 
- Prima regola: fai sempre quello che ti dico.
 
- Ma…
 
- Capito, John?
 
- Sì.
 
- Benissimo. Ora allontanati dall’acqua e vai con le domande, se proprio devi.
 
John camminò a gattoni fino all’erba umida poco lontano e Sherlock si accovacciò accanto a lui, in attesa.
- Cos’era quella cosa nell’acqua?
 
- Una ninfa del fiume. Doveva essere proprio magra e disperata per avventurarsi in un torrente: di solito non ci passano, troppo grosse.
 
- Cosa mi avrebbe fatto se fossi andato con lei?
 
- Mangiato, probabilmente.
 
John deglutì e sentì le lacrime salirgli di nuovo agli occhi.
- E come hai fatto a fare quella cosa con il… fuoco?
 
Sherlock rise di una risata senza gioia.
- Seriamente ti vuoi prendere gioco di me, John?
 
- No, io… dico davvero.
 
- Sono un Dita di Polvere.
 
John lo guardò con aria ancor più interrogativa.
 
- Un Manipolatore.
 
John sollevò ed abbassò le spalle, sempre più confuso.
 
- Un mangiafuoco.
 
- Oh! – la consapevolezza colpì il bambino. – Ma crei tu il fuoco?
 
- No, non esattamente e neanche dire che lo manipolo sarebbe corretto. Il Fuoco è mio amico e mi consente di usarlo se ho bisogno di lui.
 
- Comunque, sei stato proprio bravo.
 
Sherlock restò sbalordito nell’udire quelle parole.
- Dici sul serio?
 
John annuì, convinto.
- Certo che sì. Magnifico, davvero bravo.
 
- Davvero non sei di queste parti, allora, John. I Dita di Polvere sono buoni per intrattenere i ricchi a corte e la gente al mercato, ma nessuno li accetta. Non sono esattamente visti di buon occhio e hanno costruito su di sé una certa… fama, nel corso dei secoli. I più pericolosi criminali e disertori sono stati dei Dita di Polvere. I guanti li devo portare per legge: così gli altri sanno cosa sono.
 
Seguì un attimo di silenzio, durante il quale John strappava con aria assente dei fili d’erba dal terreno.
- Non importa quello che dicono gli altri, no? Mia mamma lo dice sempre.
 
- Dov’è, ora? – si azzardò a chiedere Sherlock.
 
- Lontana – realizzò John rispondendo.
 
- Una buona storia per la prossima volta, allora, John. Adesso dobbiamo andare: le mura della città non sono molto lontane.
Sherlock si alzò in piedi con grazia e porse a John una mano.
Il bambino accettò l’aiuto con un sorriso timido e il ragazzino si ritrovò a rispondere con il cuore riscaldato perché nessuno, da quando portava i Guanti, aveva più stretto la sua mano.

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Capitolo 3
*** 2. Come along ***


Ciao e scusatemi nuovamente per il ritardo!
In questo capitolo si conoscerà qualche personaggio in più, ma non ho nessuna particolare nota da fare. Buona lettura, se vi andrà!
Chiara












La città era costruita su una collina e le mura erano altissime e merlate, senza neanche un pertugio fra una pietra squadrata e l’altra. Delle sentinelle passeggiavano annoiate lungo il bordo, affacciandosi di tanto in tanto, e accanto all’enorme cancello d’entrata c’erano un ragazzino che scribacchiava concitato appoggiato a uno sgabello ed un uomo grassoccio con in mano una lunghissima pergamena.
Prima che arrivasse il loro turno per entrare al villaggio, John e Sherlock avrebbero dovuto aspettare che una lunga fila indiana di contadini, famiglie e fattori con carri e buoi passassero sotto una lenta ispezione.
John trattenne a stento uno sbuffo: era davvero impaziente di vedere se la città somigliasse a quelle medievali che aveva studiato in storia qualche mese prima.
Ma Sherlock lo tirò per una manica, passando spedito e a testa alta accanto alla fila, sordo ed insofferente alle proteste di chi stavano superando. John, arrossendo, evitò il contatto visivo con chiunque e tenne la testa bassa.
 
- Mike – salutò Sherlock non appena arrivarono al cospetto dell’uomo grassoccio il quale - John notò adesso – era più giovane di quanto potesse sembrare da lontano e portava un paio di occhiali dalle lenti tonde come il suo viso.
 
- Buongiorno a te, Sherlock. Avresti potuto rispettare il tuo turno – lo rimproverò bonariamente l’altro.
 
- Noioso.
 
Mike si limitò ad un sospiro. – E il tuo amico…?
 
- Lui è John. L’ho trovato.
 
- Uh, naturale. Passate pure e cerca di non cacciarti nei guai.
 
- Buon pomeriggio – fu la risposta di Sherlock mentre proseguiva dentro la città, trascinandosi dietro John.
Si accorsero appena del minuto scribacchino che, inginocchiato com’era sul suo sgabello, pigolò un ‘ciao, Sherlock’.
 
*
 
La città non era come John se l’era spettata: era meglio.
Tutto intorno a loro era colori, odori, rumori e voci.
Le casette e le botteghe erano ordinate ai lati delle strade lastricate leggermente in salita, tutte distribuite a raggi intorno a quella che doveva essere la sommità della collina, dove sorgeva il mastodontico, aguzzo e levigato castello in pietra nera.
Il naso di John venne attirato dal familiare, buon odore del pane appena sfornato e il suo stomaco brontolò, facendogli sentire quanto fosse affamato. Non ne fece parola con Sherlock, il quale marciava sicuro di sé fra i vari vicoli e stradine, fermandosi ogni tanto per controllare che John lo stesse seguendo.
Delle giovani e dei bambini ogni tanto si fermavano ad additare ridendo lo strambo ragazzino in pigiama che si accompagnava a un Dita di Polvere. Se lo avessero fatto dei suoi compagni di classe magari a John sarebbe importato di più, ma al momento era troppo occupato a dispiacersi per non poter vedere, ascoltare, sentire di più.
Improvvisamente Sherlock imboccò un vicolo cieco e saltò su delle casse di legno addossate al muro di una bottega, impilate a mo’ di scala, iniziando ad arrampicarsi fino al tetto. Non appena arrivò in cima, fece un mezzo sorriso esasperato a John, il quale lo guardava con la bocca semi aperta.
 
- Andiamo, John.
 
Il bambino si rimboccò le maniche del pigiama e scalò a sua volta, molto più lentamente e con molta meno agilità.
Sherlock lo aiutò a scavalcare la grondaia e gli tenne la mano per non farlo scivolare sulle tegole rossicce del tetto; entrarono da un finestra aperta in quello che sembrava un ripostiglio piuttosto disordinato.
John crollò sul pavimento di legno, stanco ed affamato.
 
- Cosa dobbiamo fare qui? – chiese.
 
Sherlock scomparve dietro ad una porta, chiudendosela alle spalle, per poi riuscirne con sottobraccio quelli che sembravano dei vestiti puliti.
 
- Stai rubando dei vestiti? – John si fece più sbigottito quando l’altro gli lanciò il groviglio di stoffe.
 
- Non essere ridicolo, John. È casa mia.
 
Il bambino arrossì e, non appena Sherlock si voltò apparentemente impegnato a cercare qualcosa, si mise in piedi e, spogliatosi dal pigiama, indossò i vestiti che gli erano stati assegnati: camicia bianca, gilet beige e pantaloni marroni al ginocchio. Era tutto un po’ troppo grande per lui, ma fece delle svolte come gli aveva insegnato sua mamma. C’era anche un berretto di velluto marrone e, dopo un attimo di esitazione, infilò pure quello.
Fissò i propri piedi nudi e sporchi di terra.
 
- Grazi mille, ma… Ho bisogno delle scarpe.
 
Sherlock si girò a guardarlo come soddisfatto del proprio lavoro. - A quelle penseremo dopo. Non ne ho della tua misura.
 
- E non hai bisogno di questi vestiti?
 
- Quelli servono per quando mi travesto.
 
- Perché dovresti travestirti?
 
- Perché in certi casi vorrei che la gente non mi riconoscesse – rispose Sherlock, come insultato dall’ovvietà della domanda.
 
- Ma non vieni sempre riconosciuto…? – domandò John, facendo un cenno col mento ai guanti neri dell’altro.
 
- Questi li dovrei portare per legge e per integrità morale ed entrambe possono essere parecchio… flessibili.
 
John pensò che forse non era quel che si poteva definire un ragionamento corretto, ma non lo disse.
Si prese invece un attimo per guardarsi attorno nella piccola e caotica stanza, rendendosi conto che più che un ripostiglio, quello era un salotto adibito a magazzino di oggetti.
C’erano libri polverosi, provette con liquidi strani e barattoli con dentro anfibi in salamoia. E poi fogli con sopra disegni molto realistici o scritti in una calligrafia stretta e disordinata, impilati sui tavoli ed appesi alle pareti dalla discutibile carta da parati. Su uno scaffale, John avvistò persino un teschio dal benevolo quanto inquietante ghigno.
 
- Se è casa tua… perché siamo entrati dalla finestra? – domandò infine.
 
Fu il turno di Sherlock per arrossire e deglutire rumorosamente. – Alla porta c’erano persone che non volevo esattamente incontrare.
 
John aprì la bocca per chiedere altre informazioni, curioso, quando la porta del salotto si spalancò ed entrarono delle guardie. Delle guardie vere, con spada alla cintola, lancia alla mano, elmo in testa e il luccicare di una cotta di maglia sotto la camicia nera; avevano ricamato sul petto lo stemma di un gufo argentato.
Seguì un uomo privo di elmo e lancia, ma dal passo indietro che fecero le guardie, John intuì che era il loro capo. Aveva i capelli argentati come lo stemma che portava sul petto ed un’aria calma ma decisa.
 
- Sherlock, devi venire con me – esordì l’uomo, la voce più giovane e calda del previsto.
 
- Non posso – rispose il ragazzo, facendosi più vicino a John e lanciandogli un’occhiata.
 
- Perché non p… E lui chi è?
 
- È con me. Ed ho da fare.
 
- I tuoi impegni possono attendere se il Re ti convoca al castello.
 
- Le convocazioni del Re possono attendere se ho degli impegni.
 
Le guardie fecero un passo avanti, ma il capo li fece retrocedere con un movimento della mano.
- Sherlock, ti prego.
 
- Mi dispiace ma… - Sherlock afferrò John per una manica e lo spinse verso la finestra, camminando piano all’indietro - …devo davvero scappare.
I due scavalcarono nuovamente la finestra e si affrettarono sulle tegole.
John udì distintamente il sospiro del capo delle guardie e il suo esasperato ‘acciuffateli’.
 
*
 
Corsero per quelle che a John parvero ore, su per i tetti e poi di nuovo giù tra le persone indaffarate, di lato fra i vicoli e arrampicandosi sopra i muretti.
John, col fiato corto e la testa che girava, si voltò per controllare se avessero seminato le guardie e, quando fece per riprendere a correre, Sherlock non era più lì. Andò nel panico.
 
- Sherlock? Sherlock, dove sei?! Sherlock! Sher…!
Qualcuno lo tirò per un braccio dentro una casa e richiuse la porta, svelto, tappandogli la bocca con una mano.
John tentò di protestare, finché non si rese conto che era proprio il suo amico.
La mano guantata venne rimossa.
 
- Dove siamo? – bisbigliò John nella penombra: sembrava un’enorme stanzone. – Non è una casa?
 
- È solo la facciata di una casa.
 
- Chi ci vive? – c’erano materassi e mucchi di paglia sul pavimento di pietra.
 
- Al momento nessuno – era la voce del capo delle guardie, il quale sbucò dall’ombra sembrando stanco neanche la metà di Sherlock o John, accompagnato da due soldati.
 
- Come…? – chiese Sherlock, stupito.
 
- Ti conosco da quando sei nato, Sherlock. Davvero credi che non ti conosca almeno un pochino?  
 
- Dove sono i bambini che abitano qui? – c’era un velo di preoccupazione nella sua voce.
 
- Ci siamo premurati di fare molto rumore prima di entrare e si sono dileguati tutti. Non mi interessa arrestare quel gruppo di ladruncoli dei tuoi amici. Allora, Sherlock: vieni con me?
 
John era allarmato, ma il ragazzo sospirò drammaticamente.
- E va bene. Cosa vuole stavolta?
 
- Hai saltato la vostra visita settimanale, stamattina. Era preoccupato, come sempre.
 
- Come ho detto, avevo da fare. Portami da lui, così mi toglierò questo peso dalle spalle – il tono di Sherlock era sempre più annoiato.
 
Mentre uscivano scortati dalle tre guardie, John si avvicinò al suo compagno.
- Perché hai un incontro settimanale con il Re? – mormorò in modo che solo l’altro potesse sentirlo.
 
- Perché è mio fratello – si sforzò di dire Sherlock, proseguendo a camminare, impassibile e leggermente infastidito.
 
John si bloccò un attimo, stranito, per poi continuare a trotterellargli dietro.

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