telling secrets

di Neko no Yume
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arrivals ***
Capitolo 2: *** Luggage ***
Capitolo 3: *** Check In ***
Capitolo 4: *** Departures ***



Capitolo 1
*** Arrivals ***


L'aeroporto Haneda aveva la stessa atmosfera asettica ma allo stesso tempo quasi caotica con cui tre anni prima aveva visto partire per l'America un Kagami Taiga ancora ragazzino: gli stessi pavimenti lucidi, le stesse voci piatte che si rincorrevano da un altoparlante all'altro, la stessa aria così innegabilmente giapponese che adesso gli stava dando il bentornato.
Il suo volo con l'American Airlines aveva spaccato il minuto e il ragazzo si concesse qualche minuto di semplice girovagare per la struttura prima di avviarsi verso la fermata della monorotaia annessa all'aeroporto che l'avrebbe portato alla sua nuova dimora; aveva bisogno di sgranchirsi le gambe dopo tutte quelle ore di immobilità forzata e sentiva il bisogno di farsi una passeggiata più o meno da quando si era alzato in volo parecchie ore prima.
Quando si sentì psicologicamente pronto a tornare col sedere spiaccicato su un sedile, lasciò che i suoi piedi lo guidassero a passi strascicati (il jet lag era un duro colpo anche per lui, dopotutto) verso la stazione, per poi salire sul primo vagone della monorotaia che si trovò davanti e aspettare che quel trabiccolo super-tecnologico lo portasse a destinazione.
Per fortuna il quartiere in cui suo padre l'aveva mandato a stabilirsi non era troppo lontano e, una volta sceso alla sua fermata, le indicazioni che gli aveva lasciato erano talmente dettagliate che Taiga riuscì a collassare sano e salvo sul suo nuovo letto nel giro di una sola assonnatissima ora da quando aveva messo piede sul suolo giapponese.
Aveva una voglia bruciante di esplorare la zona (gli sembrava di aver visto un campetto da basket per strada), ma la pesantezza delle sue palpebre gli suggerì che una cosa del genere poteva anche aspettare qualche ora; del resto era atterrato a Tokyo di prima mattina, dormire un po' non poteva che fargli bene.
Lasciò che il sonno lo cogliesse con un sorriso carico di aspettativa e si svegliò con un'espressione pressapoco identica, illuminata da un tenue sole di tardo pomeriggio.
Il tempo di sciacquarsi il viso ed era già di nuovo fuori dall'appartamento, gironzolando per le vie con le mani nelle tasche della tuta e gli occhi intenti a scandagliare ogni angolo alla ricerca del campetto che gli sembrava di aver notato prima.
Ed era lì, non era un miraggio frutto della stanchezza: troneggiava al di là di una rete metallica, seminascosto dal muro di un palazzo e da qualche albero, e Taiga avrebbe giurato di poter sentire il canto delle sirene nelle orecchie, senza rendersi conto che fosse solo il suono di una canzone pop in lontananza.
Non aveva una palla con sé, ma si avviò ugualmente verso il campo nella speranza di potersi unire a qualcuno per un match improvvisato.
Trovò la porta nella rete che permetteva di accedere e la schiuse con euforia appena trattenuta, senza però riuscire a dissimulare altrettanto bene l'espressione estatica che gli si dipinse in volto nel sentire la familiare sensazione che provava ogni volta che le sue scarpe calcavano un suolo destinato a vederlo giocare.
“Ehi,” una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare con un grido alquanto indecoroso intrappolato in gola, probabilmente assieme al suo cuore che sembrava essergli schizzato verso l'alto di punto in bianco.
Non si era accorto che il campetto fosse già occupato da qualcun altro, eppure quando si voltò nella direzione della voce si ritrovò davanti un ragazzo mingherlino intento a fissarlo con due occhi azzurri e placidi troppo grandi per il suo viso.
“E tu da dove diavolo salti fuori?” lo interpellò Taiga senza troppi complimenti, una volta assicuratosi di non essere prossimo a un colpo apoplettico.
L'altro non parve scomporsi davanti alla sua reazione, si limitò a inclinare il capo di qualche millimetro. Forse.
“Mi sto allenando qui da un paio d'ore,” fu la sua laconica risposta. “Tu piuttosto che ci fai qui?”
La voce non aveva nessuna inflessione particolare, ma a Taiga parve improvvisamente di trovarsi nel posto più sbagliato in cui sarebbe potuto capitare.
“Mi sono appena trasferito,” si limitò a spiegare, restio a fornire ulteriori informazioni.
Quelle due iridi inespressive recepirono la notizia con un guizzo di comprensione, poi tornarono a scrutarlo con tutta la fissità di cui sembravano essere capaci.
“Benvenuto,” commentò alla fine lo sconosciuto, accompagnando il saluto con un inchino appena accennato. “Ti dispiace se continuiamo la nostra conoscenza in un altro posto...”
“Kagami, mi chiamo Kagami Taiga,” si affrettò a venirgli in aiuto lui.
“Kagami-kun,” ripeté l'altro, e a Taiga sembrò di riuscire a notare un certo nervosismo crescente nei suoi atteggiamenti.
“Perché?” chiese senza riuscire a reprimere una punta di dispiacere: si era svegliato con la voglia di giocare a basket e ora che ne aveva l'occasione quello strano tipo lo stava cordialmente invitando a sloggiare.
“Quello è il perché,” gli rispose lo strano tipo in questione, l'indice puntato verso un gruppetto di ragazzi dall'altra parte della strada. “E ti consiglio di seguirmi.”
Poi girò sui tacchi e svicolò fuori dal campetto a passo svelto, seguito da un Taiga vagamente irritato.
“Fammi capire, stiamo scappando da quei teppistelli?” insisté lui, che nel voltarsi indietro aveva notato come i nuovi arrivati avessero preso possesso del campo senza troppi complimenti.
“Precisamente.”
“Ma non è giusto!”
“Se ti va di fare il paladino della giustizia, siete uno contro sei,” lo informò il ragazzo senza scomporsi.
Lui lo fulminò con lo sguardo, per nulla soddisfatto da un così scarso coinvolgimento emotivo in quella che a lui sembrava l'effrazione più nefanda attuabile da un essere umano, ma le sue gambe seguitarono ad allontanarsi dal campetto.
“E a te sta bene?” si decise a chiedere dopo qualche secondo di frustrante silenzio.
Il modo in cui quegli occhi imperturbabili si strinsero d'improvviso in due fessure, due lame di azzurro che avrebbero potuto tagliargli in due l'anima se fossero state puntate verso di lui, fu abbastanza per convincerlo che no, non gli stava affatto bene.
Durò solo un attimo.
“Tanto lo fanno solo quando lui non c'è,” mormorò lo sconosciuto, la voce incrinata da una sorta di impalpabile malinconia.
Taiga si sarebbe volentieri informato sull'identità di quel misterioso paladino del campo da basket, ma un'improvviso grido dal timbro più alto che gli fosse mai capitato di udire lo fece sobbalzare per la seconda volta in una decina di minuti e il momento dopo il suo Virgilio in quella selva oscura popolata di bulletti da quattro soldi barcollava pericolosamente sotto il peso di una ragazza intenta a salmodiare con lo stesso tono acuto qualcosa che suonava circa come “Tetsuuudov'erifinitomiseimancatotaaaaantotaaaantoooo” o giù di lì.
Taiga era troppo impegnato a contemplare la scollatura della sua camicetta per prestare particolare attenzione al dialogo in corso tra i due, finché la nuova arrivata non lo interpellò direttamente, indice puntato contro il suo petto e sguardo fiammeggiante di curiosità.
“E tu chi saresti?”
“Si chiama Kagami, è nuovo,” intervenne Tetsuqualcosa prima che lui potesse anche solo aprire bocca per rispondere. “Sembra interessato al basket,” aggiunse dopo una breve pausa.
“Ci giocavo spesso in America,” si sentì in dovere di puntualizzare lui.
Ora gli occhi della ragazza avrebbero potuto innescare una reazione di autocombustione.
“Qui si gioca street basket, novellino,” sentenziò con una punta di provocazione che un qualsiasi essere di sesso maschile e dal petto piatto come una tavola avrebbe scontato con un destro ben assestato. “Pensi di esserne all'altezza?”
Taiga stirò le labbra in un ghigno.
“Potrei farvi a stessa domanda.”
Poi, come se avesse pronunciato senza saperlo qualche sorta di parola d'ordine, la ragazza gli concesse un sorriso decisamente meno malizioso.
“Momoi Satsuki, piacere,” cinguettò; neanche il tempo di sentire la sua risposta e si era di nuovo voltata verso l'altro ragazzo.
“Non trovi che gli somigli?”
“Fastidiosamente.”
Una risatina femminile tremolò nell'aria attorno a loro.
“Beh, io devo andare,” decretò Momoi. “Ci vediamo!”
Scomparve dietro un angolo con la stessa rapidità con la quale era arrivata, lasciandosi dietro un urlato “Ricordati che domani lui torna!”
Taiga stava iniziando a seccarsi di questa penuria di soggetti nella sintassi degli abitanti del luogo.
“Sono arrivato anch'io,” annunciò il suo accompagnatore, fermandosi davanti a un appartamentino dall'aria malmessa ma nel complesso vivibile.
“Oh, uhm,” fu la sua brillante risposta. “Allora ci si vede.”
L'altro annuì con un breve cenno del capo, per poi avviarsi verso la porta di casa.
“Ah!” esclamò Taiga dopo qualche istante.
“Kuroko Tetsuya,” lo anticipò di nuovo lui, questa volta gentilmente, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Kuroko Tetsuya.
Taiga non era tanto sicuro di ricordarsi la strada per tornare al suo condominio.


Quella era stata una pessima nottata per Tetsuya.
E non era stata colpa del caldo, né dell'attacco a sorpresa del suo cane verso le cristianissime quattro del mattino, né del livido sull'avambraccio destro che gli faceva ancora un po' male.
La colpa era interamente da attribuire al novellino, l'americano, Pel di carota.
Kagami Taiga insomma.
Tetsuya se ne era accorto sin da subito di quanto Kagami somigliasse a quella persona, anche senza bisogno del commento di Momoi.
Si capiva dal modo in cui aveva messo piede sul suolo del campetto come se fosse appena entrato in chiesa, dal tono burbero che sembrava avere di default, dall'occhiata rabbiosa che aveva lanciato a Haizaki e i suoi nell'allontanarsi assieme a lui.
E, dato che Tetsuya aveva avuto la brillante idea di presentarlo proprio a Momoi come uno a cui piaceva il basket (per giunta di ritorno dagli Stati Uniti, ci poteva essere un limite alla sua sfiga cosmica?), una simile presenza molesta sarebbe diventata in breve tempo un habitué del loro campetto, giusto il tempo di venire accettato dagli altri.
Come se un solo fanatico della pallacanestro non fosse stato abbastanza da sopportare, come se lui, Tetsuya, non avesse perso già abbastanza ore di sonno a pensare a com'erano andate le cose.
Ed erano andate parecchio male, le cose.
“Così torna oggi, eh,” mugugnò ancora assonnato, una mano intenta a carezzare distrattamente la testa di Nigou. “Almeno troverà pane per i suoi denti.”
Poi, dato che iniziare a parlare da solo non era mai un buon segno, si decise ad alzarsi e affrontare una giornata che non prometteva niente di buono.
Iniziò con qualcosa di semplice e potenzialmente innocuo: si scaldò una tazza di latte in cui versò del caffè solubile, accompagnato da del pane tostato sul quale spalmò la prima marmellata a portata di mano, poi cercò di rendersi presentabile per il mondo esterno e portò Nigou a fare una passeggiata.
Il tutto mentre dietro la sua solita facciata di apatia si rincorrevano immagini, suoni, odori di quando, due mesi prima, gli era sembrato che la sua vita fosse una sigaretta che bruciava troppo in fretta.
Una volta lui e Kise avevano provato a fumarne una, più che altro per divertirsi a vedersi tossicchiare a vicenda con tanto di lacrime agli occhi in allegato.
Lui se ne era accorto e aveva fatto dono alle loro teste vuote di due scappellotti ben assestati.
Tetsuya non riuscì a impedirsi di ridacchiare piano mentre la faccia sconsolata di Kise gli si dipingeva in mente e Nigou alzò il muso verso di lui con un sonoro “bau!”, come se avesse aspettato fino a quel momento di veder sorridere il proprio padrone.
“Sei troppo di parte,” gli rispose, per poi accorgersi di essere già tornato a casa.
Aveva istintivamente evitato qualsiasi strada che potesse condurlo dalle parti del campetto, finendo col ritornare quasi subito sui suoi passi, ma il suo cane non sembrava esserne seccato e una leccatina alle sue scarpe da ginnastica bastò per comunicare a Tetuya che andava bene così, che poteva tornare a rintanarsi in camera se voleva.
“Nel pomeriggio ci vado,” decretò più a se stesso che a Nigou. “Lasciare Kagami-kun tutto solo a alle prese con quel gruppo di svitati sarebbe troppo crudele anche in queste circostanze.”
Un altro “bau!” dal basso gli fece sapere che il suo coinquilino peloso era d'accordo.
“A volte mi sembra che tu capisca sin troppe cose,” borbottò Tetsuya, la voce che tremava appena di gratitudine.
Il resto della mattinata lo passò a preparare il pranzo e gironzolare per casa senza meta, aspettando a malapena che il sole si abbassasse sull'orizzonte quel tanto che bastava a non prendersi un'insolazione per uscire di casa a passo di marcia, diretto verso il luogo che sino a poche ore prima aveva evitato come la peste.
Come previsto, Pel di carota era già lì, attorniato da alcuni ragazzi tra i quali gli sembrò di riconoscere Midorima, Kise e, ovviamente, Momoi.
Kagami fu il primo ad accorgersi del suo arrivo e lo salutò con un cenno del capo; Midorima lo imitò, mentre Kise e Momoi gli si appiccicarono addosso come al solito, uggiolando la loro contentezza per l'arrivo del loro Kurokocchi/Tetsu/Lucedeimieiocchi.
Lui li lasciò fare come sempre, intercettando però l'occhiata che Kasamatsu aveva appena lanciato a Kise: chiunque l'avrebbe interpretata come assassina, ma Tetsuya li aveva beccati una volta a mangiarsi la faccia in un parcheggio lì vicino e riusciva a cogliere chiaramente la sfumatura da niente sesso per una settimana, piccolo bastardo
. Ad ogni modo la confusione durò poco e l'attimo prima dell'impatto del piede di Kasamatsu sul deretano di Kise il campetto piombò nel silenzio più totale, segno che lui era arrivato.
“Ehi!” esordì una voce che con quella singola sillaba aveva liquefatto qualsiasi parvenza di materia grigia albergasse nel cervello di Tetsuya in quel momento. “Che bel comitato di accoglienza!”
“Dai-chan!” esclamò Momoi con un saltello appena trattenuto, per poi fiondarsi tra le sue braccia.
La risata calda, quasi riarsa, che ne seguì rischiò di mandare del tutto alle ortiche i buoni propositi di Tetsuya, ma ormai c'erano troppi testimoni perché potesse svicolare via come se niente fosse e oltretutto aveva dato la sua parola a Nigou che sarebbe rimasto a sostenere Kagami.
“Oi, Tetsu,” lo salutò la voce di prima, appena intaccata nella sua allegria.
“Aomine-kun,” ricambiò lui, sperando che l'improvviso tremito che gli stava scuotendo le mani passasse inosservato.
Tra i due cadde un silenzio teso come la corda di un violino e che Kagami, con somma gratitudine da parte di tutti i presenti, fu abbastanza disinvolto da interrompere con un “Vorreste dirmi che è questo qui il tizio di cui parlavate ieri?”
Aomine Daiki, maglietta dei Lakers e jeans logori, si voltò verso di lui con lo sguardo di un gatto che abbia appena intravisto un topolino.
“E tu chi saresti?”
Il ghigno che arricciò le labbra di Kagami era anche meno rassicurante dell'espressione dell'altro, se possibile.
“Solo un tifoso dei Celtics,” proclamò in tono falsamente innocente, per poi chinarsi a raccogliere la propria palla da basket da terra in modo da nascondere la ridarella che l'aveva preso nel vedere Aomine irrigidirsi come un pezzo di legno. “A qualcuno va di giocare?”
La risposta di Aomine venne spontanea, priva di qualsivoglia ironia o esitazione.
“Uno contro uno. Se riesci a non farmi annoiare troppo sei dei nostri.”
La piccola folla che gravitava attorno a loro si scostò d'istinto, in modo da lasciare libero il campetto, ma rimanendo comunque nelle vicinanze: si prospettava uno spettacolo divertente, sebbene nessuno avesse il minimo dubbio sull'esito finale.
Nel silenzio generale, Taiga fece rimbalzare la palla sul terreno.


Aomine sprizzava gioia da tutti i pori.
I capelli gli si erano appiccicati alla fronte per il sudore, aveva il fiato grosso e la testa gli girava un po', ma era la prima volta in due mesi che poteva affermare di sentirsi leggero, libero dall'oppressione che gli gravava sulle spalle da quella volta
. “Devo ammetterlo, c'è stato un momento in cui sei quasi riuscito ad andare a canestro,” ghignò, la voce impercettibilmente meno strafottente.
Il suo sfidante non rispose, ma la luce che gli bruciava negli occhi bastava per capire quanto, nonostante l'orgoglio ferito, il suo stato d'animo non fosse poi così diverso da quello del vincitore.
“Su, Aominecchi, dillo e basta!” esclamò Kise dal bordo del campetto, seguito a ruota dal vociare sovreccitato dei presenti.
“E va bene, va bene...” concesse lui in tono falsamente accondiscendente, per poi alzare uno sguardo trionfante su Kagami. “Kagami Taiga, benvenuto alla Corte dei miracoli!”





Yu's corner.
Salve, miei prodi!
Benvenuti nel meraviglioso (insomma) universo di questa storia, nata dal mio leggere kurobasu con canzoni rap come sottofondo preferenziale.
Che dire, lo street basket è una gioia per i miei occhi e spero che questa fanfic possa essere una gioa per voi!
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 2
*** Luggage ***


“E così lo chiamate Corte dei miracoli.”
Il tono di Kagami straripava sarcasmo, sebbene misto a un briciolo di eccitazione.
“Esatto,” confermò Tetsuya per l'ennesima volta nel giro della mattinata, maledicendo mentalmente il momento in cui, mentre tornava dal supermercato, si era imbattuto in un Pel di carota affamato di informazioni e pronto ad auto-invitarsi a casa sua (cosa che l'aveva anche costretto a mettere Nigou alla porta perché il novizio sembrava avere un sacro terrore verso i canidi).
“Quel campetto disastrato,” riprese il suddetto Pel di carota, e Tetsuya si ritrovò a pensare per un microsecondo a come sbarazzarsi di un cadavere.
“Takao-kun l'ha voluto chiamare così dopo aver visto Notre-Dame de Paris,” spiegò con calma quasi innaturale. “E avrebbe anche continuato a chiamare Midorima-kun Esmeralda, se lui non l'avesse picchiato dopo la quinta volta.”
La risata di Kagami era così simile a quella di Aomine (forse solo un po' più spensierata) che gli venne spontaneo stringersi nella felpa che ormai portava solo quando era in casa, senza nessuna possibilità di essere visto da occhi indiscreti.
Kagami parve accorgersi del cambio del suo stato d'animo e tornò sin troppo serio, lo sguardo fisso sulla felpa del padrone di casa.
Nonostante la zip non fosse allacciata, si vedeva benissimo quanto gli stesse larga: le maniche erano state arrotolate e gli sommergevano ugualmente le mani, le sue spalle nuotavano nella stoffa, l'orlo giaceva ripiegato sulle sue ginocchia.
Se Tetsuya si fosse messo il cappuccio avrebbe avuto con tutta probabilità il volto coperto sino alla punta del naso.
“Ti piacciono i vestiti larghi?” decise di informarsi Kagami, per poi pentirsene immediatamente nello scorgere un lampo di sofferenza negli occhi del suo ospite.
Era svanito in un attimo, ma lui era sicuro di non esserselo immaginato.
“Non particolarmente,” rispose Tetsuya con la solita voce priva di qualsivoglia intonazione. “Questa non apparteneva a me in origine.”
Parve prendersi qualche istante per fare ordine tra i ricordi, poi alzò lo sguardo verso Kagami e proseguì.
“Era di Aomine-kun, me l'ha prestata tempo fa e mai più voluta indietro. Credo fosse una delle sue preferite.”
“Spero che tu l'abbia lavata a novanta gradi prima di metterla!”
“Questa stoffa non ha bisogno di un simile lavaggio, Kagami-kun.”
Tetsuya stava per fargli vedere l'etichetta a supporto della propria affermazione, ma Kagami lo interruppe con un sonoro sbuffo.
“Stavo solo scherzando,” borbottò, mentre il suo cervello cercava di pensare a cosa potesse trovarci tutta quella gente in un tipo come Aomine. “Tu e lui siete... amici?”
Questa volta Tetsuya si irrigidì visibilmente, sebbene la sua espressione facciale continuasse a non subire cambiamenti osservabili senza l'aiuto di un microscopio.
Osservò quel ragazzo venuto da oltre l'oceano, quel Pel di carota alto il doppio di lui, con lo sguardo che hanno i bambini quando cercano schegge di vetro sul bagnasciuga e il silenzio covato per due mesi che minacciava di scoppiare.
“Siamo cresciuti insieme,” si decise alla fine. “Io, Aomine-kun, Momoi-san e alcuni degli altri ragazzi che hai visto ieri.”
Kagami non sembrava intenzionato a interromperlo, o almeno non ancora.
"È probabile che mi considerasse il suo migliore amico, prima che diventassi il suo ragazzo.”
Kagami sentì andargli la saliva di traverso e non riuscì a trattenere un attacco di tosse, che Tetsuya si limitò a osservare in silenzio.
“Ti porto un bicchiere d'acqua?” chiese dopo l'ennesimo spasmo, ma Kagami fece violentemente cenno di no con la testa, per poi inspirare ed espirare a fondo un paio di volte.
“State insieme?” riuscì a sibilare dopo aver recuperato il controllo sui propri polmoni.
Di nuovo il lampo di sofferenza negli occhi chiari di Tetsuya.
“Non più, è durato poco.”
“Oh.”
Kagami avrebbe voluto saperne di più, si vedeva da come aveva raddrizzato la schiena e si sforzava disperatamente di ostentare una noncuranza che non aveva, fallendo su tutta la linea.
D'altronde, Tetsuya aveva bisogno di parlare.
“Sono stato io a lasciarlo,” proseguì quindi dopo qualche secondo di silenzio. “Stava diventando troppo pericoloso per lui.”
Taiga inarcò un sopracciglio.
“Pericoloso?”
“Esatto. Kagami-kun, qui non tutti sono pronti ad accettare una cosa del genere, ma Aomine-kun si è sempre rifiutato di nascondere la nostra relazione.”
“E qualcuno l'ha presa sul personale,” provò a indovinare Kagami, la voce insolitamente bassa.
“Haizaki e i suoi, quei ragazzi che hai visto il primo giorno,” confermò lui in tono persino più sommesso. “Una volta durante un match gli hanno quasi rotto una gamba, è stato Kise-kun a tirarlo via in tempo...”
Le parole gli si rattrappirono in gola davanti al ricordo di quel piede infilato in un anfibio logoro, pronto a calare sul polpaccio di Aomine, pronto a spezzarglielo, e Kagami non riuscì a trattenersi dall'allungare un braccio verso di lui per scompigliargli i capelli.
Con delicatezza.
Tetsuya accettò il gesto nell'unico modo che gli sembrava possibile in un momento del genere: evitando di sottrarvisi.
Poi, quando quelle cinque dita si staccarono dalla sua testa con un ultimo buffetto che era una carezza camuffata, lo sfogo riprese in modo tanto naturale da far pensare che non si fosse mai interrotto.
“Avevo paura, mi sentivo responsabile per qualsiasi cosa potesse accadergli e allo stesso tempo sapevo che lui non avrebbe smesso di stringermi davanti a loro, né loro avrebbero abbandonato i propositi di fargli del male alla prima occasione.”
Tetsuya sembrava più tranquillo, ma Kagami preferì comunque venirgli incontro ancora una volta.
“E tu hai deciso di lasciarlo nella speranza che se ne dimenticassero presto,” concluse al suo posto, ricevendo in risposta un vago cenno di assenso.
“All'inizio l'ha presa piuttosto male, ottuso com'è, ma Momoi-san è riuscita a calmarlo con sorprendente facilità,” ricordò, le labbra incurvate in un sorriso appena abbozzato nel pronunciare la parola ottuso. “Lei è la ragazza più intelligente che abbia mai conosciuto, deve aver intuito qualcosa da sola.”
Kagami ripensò al modo in cui Momoi l'aveva scrutato la prima volta che si erano visti e quando aveva disputato quel disastroso uno contro uno con Aomine senza riuscire a trattenere un brivido di puro terrore: si era sentito come durante una radiografia.
“Quei bastardi come hanno reagito?” si informò nel tentativo di allontanare lo sguardo di Momoi dai suoi ricordi il prima possibile.
“Aomine-kun non ha più avuto problemi,” fu la risposta asciutta e Kagami avrebbe voluto insistere, chiedere Tu invece? Tu hai avuto problemi? Hai fatto da parafulmine senza emettere un fiato?, ma il modo in cui Tetsuya si stava strofinando un braccio lo dissuase.
A cosa sarebbe servito?
Lui si sarebbe indignato, l'avrebbe scosso per le spalle gridandogli di togliersi quell'espressione triste dalla faccia, col solo effetto di riaprire vecchie ferite.
“Non so se mi facciate venire i nervi più tu o quei bulletti da strapazzo,” sentenziò alla fine, capendo all'istante di aver fatto bene dal tiepido, fugace sorriso che colse sulle labbra di Tetsuya.


Ormai erano un paio di settimane che Taiga conduceva la vita dell'habitué alla Corte dei Miracoli, quel campetto era diventato una sorta di rifugio assai male in arnese nel quale trovare riparo da studio e lavoretti.
Un posto in cui lasciarsi tutto alle spalle e divertirsi con avversari degni di tale nome, in cui poter sperare nel privilegio di capitare nello stesso team di Kuroko e diventare il fulcro del suo peculiare stile di gioco che permetteva al ragazzino di sparire e ricomparire sul campo con la stessa padronanza di una regina sulla scacchiera.
Era disposto persino a tollerare la vicinanza di Aomine se questo significava poter godere di un tale spettacolo, anche se aveva notato sin da subito quanto Kuroko si sforzasse di evitare gli orari in cui sapeva di poter incontrare il suo ex.
Ex. Ex ragazzo.
Il solo pensiero faceva ribollire Taiga di una rabbia sorda alla quale non riusciva a trovare un'origine plausibile.
Poi, come capita a volte, bastò un particolare del tutto insignificante a districare la matassa confusa che aveva davanti e a mettergli in mano un'estremità del filo con delicatezza, come a dire Ecco, tieni. Era facile, no?
Accadde durante un caldo giovedì pomeriggio: qualcuno aveva portato uno stereo e la Corte fluttuava nella canicola impregnata di musica da strada, così comune negli Stati Uniti da fargli venire un groppo alla gola per la nostalgia.
Takao e Izuki si stavano dando scherzosamente battaglia al centro del campetto (non erano niente male per essere giapponesi, diamine), mentre qualche altro ragazzo ballava lì vicino o faceva il tifo.
Taiga si accorse della presenza di Kuroko solo dopo aver mosso qualche passo dentro la Corte e rischiò di inciampare nei suoi stessi piedi per lo stupore.
Kuroko Tetsuya, scricciolo dai grandi occhioni blu e dalla tendenza a scolorare davanti al minimo raggio di luce, stava ballando.
A essere onesti il suo ballare consisteva principalmente nello spostare il peso del corpo da un piede all'altro a tempo di musica, ma Taiga si rese conto di non riuscire a distogliere lo sguardo da quel volto inclinato verso lo stereo, da quel collo scoperto, dagli occhi socchiusi, dal modo in cui le braccia si piegavano al petto in un gesto appena percettibile. Da tutto Kuroko.
Quando il ragazzo si voltò verso di lui, Taiga osservò i suoi occhi tornare a mettere a fuoco e gli sembrò che quel minuscolo cambio di espressione gli avesse lanciato una scossa elettrica breve quanto un battito di ciglia, intensa abbastanza da farlo rabbrividire.
“Kagami-kun,” lo salutò il maledetto ragazzino con un sorriso che era un'altra scossa elettrica. L'ennesima.
“Oggi niente basket?” si informò lui a bruciapelo; gli sarebbe servita parecchia attività fisica per cancellare del tutto i brividi che ancora si sentiva correre lungo la spina dorsale.
“Pare di no,” sentì mugugnare un Kasamatsu insolitamente rassegnato. “Quando si mettono a ballare è la fine, non c'è niente che noi possiamo fare.”
Taiga doveva aver fatto una faccia davvero sconsolata, dato che adesso Kuroko si era alzato sulla punta dei piedi per scompigliargli i capelli (già non molto composti in partenza).
“Stasera giocano i Celtics, vero?” gli chiese, senza fermarsi ad aspettare una risposta. “Possiamo vedere la partita insieme se alla fine sei riuscito a montare il televisore senza distruggerlo nel tentativo.”
Kagami non si prese neanche la briga di offendersi.
“Certo!”


La prima cosa che Tetsuya notò nel mettere piede in casa di Kagami fu il surreale ordine che vi regnava.
Si era immaginato di trovare il classico caos da adolescente allo sbando, ma il piccolo appartamento l'accolse con odore di pulito e un ordine quasi maniacale nel quale il chiassoso Kagami Taiga sembrava un perfetto pesce fuor d'acqua.
Il pesce in questione doveva aver notato il suo stupore (sebbene fosse solo appena accennato, dato che Tetsuya era una persona educata), perché si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito nella sua direzione.
“In America avevo una coinquilina assurdamente disordinata, ho dovuto imparare a compensare per i suoi disastri,” spiegò con un sospiro. “Puro spirito di sopravvivenza.”
Per un attimo Tetsuya si chiese che razza di persona avesse potuto spingere Kagami a tanto, poi virò su immagini del ragazzo che sfoggiava un grembiulino sbandierando uno scopettone e il suo cervello gli fece presente che la cosa si stava facendo allarmante.
Meglio accendere la TV.
Per fortuna ci aveva già pensato il padrone di casa, che ora lo stava invitando con un gesto a sedersi accanto a lui sul divano e che Tetsuya si affrettò a raggiungere, ben felice di poter dirottare i propri pensieri sulla partita di basket in procinto di iniziare.
Le voci dei telecronisti vibravano di entusiasmo mentre sproloquiavano a proposito delle ultime partite giocate dai Celtics e dalla squadra avversaria, della condizione smagliante di alcuni giocatori e degli infortuni di altri, riuscendo a trasmettere il loro entusiasmo sino a loro due.
Tetsuya si sistemò un po' meglio sul divano, poi l'arbitro lanciò in aria la palla.
Il giocatore dei Celtics addetto alla contesa riuscì a impadronirsene in un'unica movenza fluida e l'istante dopo l'aveva già passata a un suo compagno di squadra, che si stava facendo largo per il campo con altrettanta agilità.
Ma il team avversario non era da meno e dovette passare qualche minuto intriso delle imprecazioni malamente trattenute di Kagami prima che la sua squadra riuscisse ad andare a canestro per la prima volta.
“Sì!” esclamò a quel punto, le mani chiuse a pugno in segno di vittoria.
Tetsuya gli rivolse un tiepido sorriso a cui l'altro rispose con un ghigno che andava da orecchio a orecchio, poi entrambi riportarono la propria attenzione sul match in corso.
Il primo e il secondo quarto sembrarono passare in un lampo, scanditi da azioni capaci di lasciare entrambi col fiato sospeso e da conseguenti scambi di battute su quanto fossero bravi entrambi gli schieramenti, finché all'inizio del terzo quarto l'ala grande dei Celtics, Brandon Bass, non eseguì una schiacciata che, Tetsuya dovette ammettere controvoglia, gli aveva appena fatto venire la pelle d'oca.
“Wow...” fu il brillante commento di Kagami, imbambolato accanto a lui con espressione da triglia.
“Davvero wow,” convenne lui, per poi concedersi un sorrisetto dall'aria sospettosamente ironica. “Però, Kagami-kun, devi ammettere che Kobe Bryant appartiene a un livello di netto superiore.”
L'altro lo fulminò con uno sguardo che avrebbe potuto ridurlo in un mucchietto di cenere.
“Ma se non giocano neanche nella stessa posizione!” berciò furente. “Che senso ha fare paragoni?”
Per un attimo Tetsuya credette di temere davvero per la sua incolumità, ma Pel di carota doveva essersi accorto del suo cipiglio divertito, dato che l'ostilità nei suoi occhi era stata appena rimpiazzata da una luce sin troppo scaltra.
“Ahah, molto divertente.” lo sentì sentenziare, appena prima di gettarsi su di lui.
Il solletico arrivò senza che lui potesse cercare di difendersi in alcun modo e Tetsuya si ritrovò a contorcersi come un'anguilla, schiacciato tra Kagami e il divano, privo di qualsiasi via di fuga.
“Allora lo soffri!” sentì ridere il suo aggressore mentre quelle maledette mani continuavano a martoriargli i fianchi, strappandogli un'indecorosa sequela di risatine e suoni imploranti per i quali si ripromise di fargliela pagare molto, molto cara.
Quando, finalmente, Kagami decise di fermarsi, a entrambi mancava il fiato.
“Maledetto...” ansimò Tetsuya, ancora intrappolato sotto di lui.
La sua voce si perse nell'improvviso silenzio caduto tra loro, mescolandosi ai suoni che provenivano dal televisore a cui nessuno stava più prestando attenzione.
Kagami teneva le mani posate sui suoi fianchi e lo fissava come incantato, gli occhi annebbiati dallo stesso smarrimento con cui Aomine l'aveva guardato dopo il loro primo bacio.
Tetsuya fece appena in tempo ad accorgersi con orrore di star ricambiando il suo sguardo, poi le labbra di Kagami travolsero ogni briciola di resistenza presente in lui.
Erano calde, umide, un po' screpolate forse.
Ed erano premute contro le sue in attesa di una risposta che Tetsuya non tardò a fornire.
Che fosse per esorcizzare l'onnipresente immagine di Aomine che lo tormentava da due mesi o per il semplice fatto che la lingua di Kagami sembrava sapersi muoversi così dannatamente bene nella sua bocca, Tetsuya si ritrovò ad allacciare le gambe attorno a quelle dell'altro e arricciare il naso in segno di protesta quando le attenzioni di quelle labbra si spostarono verso il suo collo.
I denti di Kagami saggiarono piano la sua pelle, succhiando e mordendo, lasciandosi dietro una scia di segni rossastri, mentre le sue mani gli scivolavano sotto la stoffa della maglietta.
Le sentiva tracciargli geometrie sconnesse sulla schiena, soffermarsi nel punto in cui le costole si intravedevano sotto la carne, poi proseguire imperterrite e indisturbate, fino a fermarsi con un tremito leggero a un soffio dall'orlo dei suoi pantaloni.
Il tutto mentre quelle labbra a cui non avrebbe mai dovuto cedere continuavano a torturargli il collo, le orecchie, la bocca.
A Tetsuya sembrò di tornare a respirare solo quando le sentì allontanarsi abbastanza da non avvertire più il fiato dell'altro sul viso, ma gli bastò tornare a guardare gli occhi di Kagami per capire che presto gli sarebbe di nuovo mancato il respiro.
Continuavano a fissarlo con la stessa urgenza di prima, se non di più, e lui non si sorprese nel notare la scintilla che li illuminò per un istante, né nel sentire subito dopo le mani di Kagami sfilargli i pantaloni con una fretta quasi tenera.
Quasi, dato che probabilmente stavano per andare a letto insieme e lui aveva ancora addosso l'odore di un altro uomo.
Kagami doveva aver capito quanto gli piacessero le sue labbra, perché gli sollevò le gambe nude senza esitazione, facendogliele posare sulle spalle e inclinando il collo per lasciargli un bacio sul polpaccio.
Tetsuya si ritrovò a raschiare la stoffa del divano mentre l'altro lasciava scorrere la punta delle dita avanti e indietro dalla caviglia al ginocchio e la sua bocca seguiva lo stesso percorso con una lentezza capace di far impazzire perfino lui.
Quando lo sentì spingersi un po' più in avanti, quel che bastava per poter passare alle cosce, temette di poter venire da un momento all'altro solo per quelle carezze.
Poi Kagami posò le labbra bagnate di saliva sul rigonfiamento che premeva contro la sottile stoffa dei suoi boxer e, dannazione, adesso le mani di Tetsuya gli stavano artigliando il collo, tanti saluti all'autocontrollo.
“Tetsu...”
Oppure no.
Non così. Aomine lo chiamava così.
Era stato stato il ritornello dell'ultima volta in cui avevano fatto l'amore, quel Tetsu.
E Tetsuya si odiava per questo, ma non aveva ancora dimenticato.
“Kagami-kun,” si costrinse a mormorare, puntellandosi sui gomiti nel tentativo di incontrare il suo sguardo. “Basta.”
Lui gli lanciò un'occhiata improvvisamente preoccupata, arrestandosi di colpo.
Forse capì, forse il pensiero di ciò che gli aveva ricordato non lo sfiorò nemmeno, ma gli lasciò libere le gambe e a lui tanto bastava.
Rimettersi i pantaloni, avviarsi verso l'ingresso, infilare le scarpe ai piedi e rivolgergli un ultimo sguardo incerto gli sembrò l'unica cosa giusta da fare, nonostante Kagami avesse l'aria di essere appena andato in pezzi.
Poi la porta gli si chiuse alle spalle con un tonfo non abbastanza forte da coprire il suono di qualcuno che sferrava un pugno contro qualcosa.






Yu's corner.
Bentrovati miei cari!
La vicenda inizia a complicarsi, eh? Eheheh.
Per chi se lo stesse chiendendo, Kobe Bryant gioca nei Lakers ed è per questo che Kagami reagisce in quel modo quanto Kuroko lo menziona.
Spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto, sono conscia di non essere tagliata per le scene nsfw...
Un sentito grazie a tutti voi!
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 3
*** Check In ***


Erano le otto di domenica mattina e Daiki non si trovava nel suo letto a poltrire.
Il motivo principale di una tale disgrazia era la nefasta creatura con cui aveva la sfortuna di condividere quel buco di appartamento in cui si era rifugiato qualche anno prima: Satsuki Momoi.
A quanto pareva quel periodo del mese aveva deciso di farle una sorpresina con una settimana di anticipo e lei si era resa conto di non avere in casa neanche uno straccio di antidolorifico, ragion per cui l'aveva svegliato nel suo unico giorno libero con la minaccia di evirarlo seduta stante se non fosse andato immediatamente a comprarle l'ibuprofene.
Lui, da bravo cavalier servente con un discreto attaccamento alle proprie capacità riproduttive, era schizzato verso la farmacia più vicina, aveva comprato tre tipi di medicinale diversi ed era tornato da Satsuki, che lo aspettava rantolante sul proprio letto.
Per fortuna l'ibuprofene aveva fatto effetto quasi subito e Daiki era uscito indenne da quell'incubo mattutino.
Veni, vidi, vici.
Peccato però che ormai gli fosse completamente passato il sonno, motivo per il quale ora stava vagando come uno spettro per le strade del quartiere.
Sentiva il bisogno di camminare, prendere una boccata di aria fresca, svuotare la mente; ma soprattutto sentiva il bisogno di vedere la persona che da due lunghi mesi era la causa del perché avesse la necessità di smetterla di pensare.
Di pensare a lui, per essere precisi.
E quale modo peggiore di farlo che capitare del tutto per caso davanti a casa sua per un saluto?
Daiki sapeva di essere inopportuno, eppure non riuscì a fermarsi dal prendere un respiro profondo e suonare il campanello.
Per un lungo momento credette di averlo disturbato troppo presto, o magari che l'altro fosse talmente addormentato da non averlo neanche sentito, poi la porta si aprì e un Kuroko Tetsuya in pigiama fece la sua comparsa davanti a lui.
Aveva l'aria distrutta.
“Tetsu!” esclamò Daiki, dimenticandosi persino di fare qualche battutina sui capelli scompigliati dell'amico. “Che è successo?”
L'altro si strofinò un occhio arrossato nel tentativo di focalizzare l'attenzione sul suo visitatore.
“... Aomike-kun?” chiese, e la sua voce era solo molto, molto assonnata.
Cosa che strappò un sospiro di sollievo a Daiki, impegnato a scostarlo con delicatezza dall'ingresso ed entrare in casa assieme a lui.
La seconda sorpresa di quella visita fu la calma che seguì il suo arrivo: di solito il cane di Tetsu impiegava dai due ai tre nanosecondi per saltargli addosso, abbaiando come un forsennato.
“Nigou?” chiamò incerto, senza ricevere risposta.
“È stato male tutta la notte, stavo per portarlo dal veterinario.”
Ecco spiegata l'aria da zombie.
“Tu non lo porti da nessuna parte,” decretò Daiki cinereo. “Ci penso io, intanto riposati.”
Tetsu provò ad aprire la bocca per replicare, ma l'occhiataccia che ricevette fu sufficiente a zittirlo, almeno per una volta.
Poi lui gli fece cenno di seguirlo in camera da letto e lì gli indicò Nigou, che se ne stava steso sulle lenzuola con un'aria non diversa da quella di Satsuki prima che l'antidolorifico facesse effetto.
“Ehi, bestiolina,” lo salutò Daiki, la voce carica di una tenerezza di cui pochi l'avrebbero mai ritenuto capace.
Il cagnolino voltò appena il capo verso di lui e agitò la coda per qualche secondo quando lui lo prese in braccio per adagiarlo dentro un vecchio borsone che gli stava porgendo Tetsu, ma niente di più.
Si vedeva lontano un miglio che aveva qualcosa che non andava.
“Dopo cena ha iniziato a tossire e guaire tutto il tempo, credo gli sia andato di traverso qualcosa...” spiegò il suo padrone.
“Va bene, capito. Ora fila a letto, torniamo presto.”
Silenzio.
“Grazie, Aomine-kun.”
Daiki sbuffò, per poi incamminarsi verso la clinica veterinaria con il borsone/trasportino stretto al petto.
Per fortuna l'ambulatorio era poco distante da lì e a quell'ora di domenica mattina non c'era anima viva, quindi il veterinario poté riceverli subito, per poi comunicargli che Nigou aveva semplicemente ingoiato un osso di pollo, strozzandovisi, ma che al momento era finalmente riuscito a mandarlo giù e l'unico inconveniente era la gola un po' irritata da tutto quel tossire.
Mentre parlava gli lanciò un'occhiata indagatrice che lo fece raggelare sulla sedia e chiedersi se Tetsu non l'avesse combinata grossa in qualche modo; del resto gli era parso di sentire da qualche parte che dar da mangiare il pollo al proprio cane fosse pericoloso proprio per via delle ossa.
Non appena ebbe ricevuto il permesso di riportare Nigou a casa, si affrettò a dileguarsi con quanta più nonchalance possibile (ovvero assai poca), percorrendo a passo svelto la strada che lo separava da casa di Tetsu.
Prima di uscire si era fatto dare le chiavi per non svegliarlo una volta tornato, eppure non si sorprese di trovarlo seduto sul letto, in attesa.
“Si era solo strozzato con un ossicino,” riferì mentre lasciava il cane libero di trotterellare verso il suo proprietario.
Tetsu recepì la notizia in silenzio, la testa che ciondolava e le mani impegnate a lisciare piano il pelo sul dorso di Nigou, accoccolato al suo fianco.
Aveva le palpebre gonfie di sonno e arrossate, eppure sorrideva.
Sorrideva con gli occhi sfiniti e adoranti di una madre.
“C'è qualcosa che non va, Tetsu?” si costrinse a indagare Daiki, anche perché continuare a perdersi in quello sguardo non era consigliabile. “Insomma, non è da te dare del pollo al cane.”
L'altro si prese qualche istante prima di rispondere, spostando la propria attenzione verso Daiki solo quando Nigou si affrettò verso la sua cuccia nell'altra stanza.
“Non è nulla,” biascicò alla fine, per poi lasciarsi crollare di schiena sul materasso.
Daiki non si fece problemi a imitarlo, allungando un braccio verso di lui con l'intenzione di scompigliargli i capelli già parecchio indisciplinati.
Tetsu però doveva già essere mezzo addormentato perché ne approfittò per raggomitolarsi al suo fianco, il viso sepolto nella stoffa della sua maglietta.
Rimasero così per alcuni minuti: Tetsu vinto dalla stanchezza e Daiki che gli carezzava distrattamente la testa, finché non fu proprio Tetsu a riportarli entrambi alla realtà.
“Sono una persona orribile,” mugugnò a mezza voce, provocando una risatina ironica nel suo ospite.
“Solo perché hai dato del pollo a Nigou?”
Lui scosse piano la testa contro il suo petto e per un attimo, solo per un attimo, Daiki si sentì dilaniato tra il bisogno di stringerlo a sé con tutta la sua forza e quello di scappare il più lontano possibile, lontano dalla loro storia finita male.
Ma era pur sempre il grande Aomine Daiki e di conseguenza rimase immobile.
“Allora si può sapere che cosa c'è?” chiese soltanto, sperando che la sua voce non tradisse troppo il nervosismo che lo stava attanagliando.
“Devi promettermi che non ucciderai nessuno, Aomine-kun,” sentenziò Tetsu in un tono che privo della vena di sonno che aveva in quel momento non sarebbe stato meno perentorio di quello di Akashi.
“Posso provarci,” celiò lui in risposta.
“Aomine-kun.”
“Okay, okay, prometto.”
Che diavolo doveva aver combinato quel ragazzino per fargli promettere una cosa del genere con tanta serietà?
“L'altro giorno stavo per andare a letto con Kagami-kun.”
Ecco che aveva combinato.
“E me ne sono andato perché non sapevo con che nome avrei potuto chiamarlo.”
Per quanto fosse difficile da digerire, Daiki dovette ammettere di essere stato colto del tutto alla sprovvista.
E come tutte le volte in cui veniva preso alla sprovvista, lasciò che l'istinto prendesse il sopravvento su quel poco di buonsenso che possedeva, ritrovandosi a sovrastare un Tetsu intento a fissarlo imperturbabile come sempre.
“Tu cosa,” sillabò in preda a qualcosa che somigliava pericolosamente a pura e seplice rabbia.
“Sono stato sul punto di andare a letto con Kagami-kun,” ripeté Tetsu con una calma ben più innaturale della sua solita faccia da poker.
Forse era stata la notte insonne a dargli l'incoscienza di rivelargli qualcosa del genere dopo il modo in cui l'aveva lasciato e successivamente evitato ad arte, o forse secondo il suo bacatissimo senso di giustizia era qualcosa che lui aveva il diritto di sapere; eppure Daiki riusciva a percepire con una chiarezza commovente il tremore che scuoteva entrambi.
“Ma non sapevo se l'avrei chiamato col suo nome o col tuo, quindi me ne sono andato,” proseguì Tetsu, che adesso suonava quasi rassegnato. “Kagami-kun non se lo sarebbe meritato.”
Le mani di Daiki si contrassero attorno alle lenzuola.
“Invece io merito di sentirmi dire tutto questo?” sibilò a denti stretti.
Lui non gli rispose, ma neanche distolse lo sguardo dal suo e all'improvviso a Daiki tornò in mente il modo in cui l'aveva guardato la prima volta che l'avevano fatto, mortalmente fiducioso.
L'immagine strideva dolorosamente con quella di Tetsu, il suo Tetsu, che si lasciava toccare, baciare, stringere da Kagami.
Poi Tetsu socchiuse le palpebre e schiuse le labbra in uno sbadiglio sonnolento.
“Non sono riuscito a trattenerlo,” si scusò con voce impastata, riuscendo a strappargli una risatina.
“Che ne dici se rimandiamo i discorsi a dopo che ti sarai riposato?” propose Daiki, per poi lasciarsi di nuovo cadere al suo fianco.
L'altro si limitò ad annuire e raggomitolarsi di nuovo contro di lui, mentre le braccia di Daiki ne approfittavano per stringerlo piano.
E piano Daiki lo baciò sul collo, perché i segni lasciati da quello stupido di Kagami si vedevano ancora e lui aveva una voglia bruciante di cancellarli coi propri, ma sapeva che questo avrebbe solo messo Tetsu nei guai.
Di nuovo.
Già una volta l'aveva dovuto lasciar andare per via della sua sconsideratezza che aveva fatto finire entrambi nel mirino di qualche teppistello da quattro soldi, non voleva peggiorare le cose.
Accanto a lui Tetsu scivolò finalmente nel sonno.


Satsuki era di ottimo umore.
L'antidolorifico aveva fatto effetto all'instante e non l'aveva neanche troppo stordita, due avvenimenti del tutto miracolosi per lei.
Al momento passeggiava tranquilla per la strada, decisa a sfruttare la grazia che Madre Natura le aveva concesso; che poi i suoi piedi la stessero portando verso la Corte era un fatto del tutto casuale.
Com'era del tutto casuale il fatto che stesse scandagliando le vicinanze in cerca di due certe zazzere di capelli appartenenti alle sue due più grandi preoccupazioni in una vita che altrimenti sarebbe stata sin troppo tranquilla.
Ma l'universo doveva evidentemente avere altri piani in serbo per lei, dato che l'aveva appena mandata a sbattere contro Kagami Taiga.
Kagami Taiga irritato, per giunta.
“Kagami-kun!” lo salutò allegra. “Scusa, non stavo guardando dove andavo.”
“Uh?” fu la brillante risposta che ricevette.
“Va tutto bene? Sembri un po'... sovrappensiero,” indagò Satsuki, incapace come al solito di porre un freno alla propria curiosità.
Lui assottigliò gli occhi, forse nel tentativo di tornare a focalizzarsi sulla realtà, poi arrossì.
Non che fosse una cosa strana (tutti i ragazzi della zona eccetto i suoi amici d'infanzia arrossivano davanti alla ragazza, valli a capire), ma qualcosa le diceva che l'altro non stava arrossendo per lei.
“Perché mai dovrei sapere dov'è Kuroko!” esclamò infatti Kagami, talmente agitato da dimenticarsi di aggiungere un tono interrogativo alla domanda.
Bingo.
“Uhm, in realtà non ti ho chiesto niente del genere.”
Satsuki represse a stento un sorrisetto felino nel notare il sudore freddo che stava iniziando a imperlare la fronte del ragazzo, decidendo che il suo affetto per Tetsu valeva molto più della possibilità di divertirsi un po' con Kagami.
“Ti va di parlarne?” chiese infatti, senza scomodarsi a specificare di che cosa dovessero in effetti parlare.
Sarebbe stato ridondante.
L'altro infatti capì al volo e arrossì di nuovo, ma alla fine annuì.
Lei gli sorrise (questa volta era un sorriso vero, incoraggiante), per poi fargli cenno di seguirla verso un parchetto dall'aria non meno disastrata della Corte dei Miracoli ma col pregio di essere totalmente deserto.
Si sedettero su una panchina dall'aria non troppo provata dal tempo e tra di loro calò un silenzio elettrico.
“Momoi,” si decise alla fine Kagami, “a te Kuroko piace, vero?”
Beh, che inizio diretto.
“Ahah, do questa impressione in effetti!” cinguettò lei, nonostante un'improvvisa ombra di quella che sembrava a tutti gli effetti malinconia le avesse adombrato gli occhi per un momento. “Si può dire che io abbia avuto una cotta per Tetsu-kun da piccola, ma ormai mi è passata da tanto tempo.”
Si fermò un istante, le dita che giocherellavano con i lembi della felpa.
“Ora lui fa parte della mia famiglia, come Dai-chan e gli altri.”
Kagami si ritrovò a chiedersi con una punta di preoccupazione che fine avesse fatto la vera famiglia della sin troppo giovane donna che gli sedeva accanto, o perché Kuroko vivesse da solo.
E soprattutto perché tutti quei ragazzini avessero l'aria così smarrita alle volte.
Forse un giorno o l'altro gliel'avrebbero raccontato; per il momento la cosa importante era confessare a qualcuno il gran casino che aveva combinato.
“Quindi se ti dicessi che sono stato a tanto così dall'infilare le mani nei suoi boxer non rischierei la vita, no?” azzardò.
Satsuki si immobilizzò come una statua di sale.
“Tu cosa,” sillabò, e se avesse saputo quanto la sua reazione fosse stata simile a quella di Daiki si sarebbe sicuramente presa a schiaffi.
“Eravamo a casa mia e lui ha fatto una battutina su Kobe Bryant e io gli ho fatto il solletico ed era così carino e l'ho baciato e lui ha risposto e...”
Quella paratassi delirante da adolescente in crisi ormonale sarebbe continuata all'infinito se Satsuki non avesse allungato uno scappellotto alla nuca di Kagami.
“Per prima cosa datti una calmata!” lo rimproverò, la voce impostata sul tono da mamma arrabbiata che aveva avuto anni e anni per perfezionare. “E ringrazia che Tetsu-kun fosse consenziente, altrimenti ti avrebbe picchiato senza pietà. E ti avrei picchiato anch'io.”
Kagami aggrottò la fronte ancora più del normale ma non protestò, segno che doveva essere davvero nel panico.
“Come mai vi siete fermati? Perché immagino che vi siate fermati, giusto?” proseguì Satsuki con calma.
Anche spremere ogni singola informazione disponibile da qualcuno era un'arte che aveva avuto anni per perfezionare.
Kagami si prese il suo tempo per rispondere.
“L'ho chiamato 'Tetsu' e lui mi ha piantato in asso,” spiegò poi. “Giustamente.”
Questa volta Satsuki non indagò su cosa sapesse Kagami di quel nomignolo o di chi lo usava: non serviva certo un genio per capire che Tetsu si era confidato con lui, del resto tenere un segreto simile per due mesi poteva farsi piuttosto pesante.
E se ciò che era successo con Daiki bruciava così tanto, allora significava che lei ci aveva visto giusto e Tetsu non era stato meno stupido del suo ex, che se ne rendesse conto o meno.
Ah, i suoi ragazzi.
Qualcosa nel suo petto si contrasse appena più del dovuto mentre gli occhi le rilucevano di tenera rassegnazione, poi una calma irreale prese possesso del suo corpo e quando Satsuki tornò a rivolgersi a Kagami lo fece con una voce che avrebbe potuto gelarlo fino al midollo osseo.
“Kagami-kun, spero che d'ora in poi tu sia intenzionato ad agire per il suo bene,” decretò serena, lo sguardo che registrava ogni singolo brivido appena corso lungo la schiena del ragazzo.
Lui si alzò di scatto, blaterando qualcosa che sembrava un “Ovviamente!” prima di avviarsi con ampie falcate nella direzione del campetto da basket lasciandosi alle spalle una scia di improperi in inglese e altri frasi borbottate su come gliel'avrebbe fatta vedere lui ad Aomine, Momoi e tutti quanti.
Quando scomparve dalla sua vista (e dal suo udito), Satsuki si lasciò sfuggire un sospiro che non si era resa conto di stare trattenendo, poi estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni.

Devo parlarti, solita ora al solito posto?








Yu's corner.
Bentrovati, miei cari!
E' con grande dolore che vi informo che questo capitolo è il penultimo della storia, sigh.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto come i precedenti! (Personalmente scrivere dal pov di Momoi è stato davvero divertente)
Nel prossimo capitolo ci sarà qualche rivelazione (vi ho lasciati con un piccolo cliffhanger, eh?), quindi state attenti!
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 4
*** Departures ***


A svegliarlo era stata la suoneria del cellulare.
Accanto a lui, adagiato sulle lenzuola stropicciate, c'era un biglietto scritto in una grafia che avrebbe potuto riconoscere ovunque e che lo avvertiva che Aomine era andato a portare Nigou fuori per una passeggiata.
Tetsuya non riuscì a impedirsi di sorridere all'idea di quei due cicloni insieme, ma il sorriso gli si congelò sulle labbra nel dare un'occhiata allo schermo del telefonino e ritrovarsi davanti uno sbrigativo messaggio di Momoi.
Era strano da parte sua usare un tono così serio con lui e ancora più strano era che gli avesse chiesto di incontrarsi in quel posto.
Era stato il loro rifugio da piccoli, ma ormai era parecchio tempo che nessuno di loro tre ci tornava; del resto non avevano più nessuno da cui fuggire.
O almeno, nessuno da cui fuggire che li aspettasse sulla porta di casa.
Mancava circa una mezz'oretta all'ora stabilita, quindi Tetsuya si limitò a rispondere alla ragazza senza fermarsi a riflettere sulle sue possibili ragioni, per poi lasciare un biglietto ad Aomine e uscire di casa.
Fuori era già buio, com'era ovvio che fosse alle dieci di sera.
Ormai avrebbe dovuto essere abituato a quell'atmosfera, eppure non riuscì a fare a meno di stringersi le braccia al petto mentre affrettava il passo.
Il luogo dell'appuntamento era una vecchia casa abbandonata situata ai margini della loro zona, un nascondiglio perfetto, ma per arrivarci bisognava per forza attraversare la zona in cui si erano stanziati Haizaki e la sua combriccola, motivo sufficiente a far desistere lui e Momoi dal recarvisi ancora.
Quindi perché ricominciare proprio in quel momento?
Perché non vedersi direttamente a casa sua?
I motivi principali potevano essere due: o Momoi era troppo spaventata (da cosa restava un mistero) e aveva sentito il bisogno di scappare come faceva da bambina, oppure voleva tenere la loro conversazione nascosta ad Aomine.
A Tetsuya non piaceva nessuna delle due opzioni.
“Guarda guarda,” una voce alle sue spalle lo riportò bruscamente alla realtà. “Chi si rivede.”
Haizaki.
Come aveva fatto a notarlo? Era buio e Tetsuya si era persino premurato di indossare vestiti scuri per annullare ancora di più la sua già scarsa presenza; come aveva fatto Haizaki a vederlo lo stesso?
“Abbiamo fatto bene ad aspettare qui dopo aver visto passare la cara Momoi, allora,” proseguì un'altra voce. Ah, sapevano che sarebbe passato.
Per un attimo Tetsuya pensò di dileguarsi finché poteva, ma così facendo avrebbe solo rischiato di rivelare la posizione di Momoi, mettendo in pericolo anche lei.
Si voltò con lentezza, le labbra serrate nella speranza di non lasciar trasparire la paura che provava.
Davanti a lui c'era la banda al completo.
“Posso fare qualcosa per voi?”si informò nel tono più monocorde che gli riuscì, un attimo prima che il ghigno sul volto di Haizaki gli congelasse la gola.
Fece appena in tempo a registrare la completa assenza di passanti attorno a loro, poi una mano lo afferrò per il bavero della giacca e l'attimo dopo la sua testa cozzava violentemente col muro più vicino.
La vista gli si oscurò dal dolore per qualche secondo, ma la pressione di quello che doveva essere Haizaki sul proprio corpo era abbastanza per fargli capire che cosa stesse succedendo.
Non che fosse la prima volta, del resto.
“Che coraggio a passare di qui!” esclamò il ragazzo. “Che c'è, non ti è bastata l'ultima volta?”
Le risate del resto del gruppo fecero quasi più male del pugno che Haizaki gli sferrò alla bocca dello stomaco, strappandogli un rantolo soffocato.
Qualcuno ne approfittò per colpirlo al viso, qualcun'altro lo spinse a terra con violenza e Tetsuya poté solo raggomitolarsi su se stesso prima che iniziassero i calci, pregando di perdere presto conoscenza.
E svata per perderla, stava per cedere alla pulsazione assordante che gli martellava nel cranio, al velo appannato che gli copriva gli occhi, quando sentì un grido che sembrava essere lontano anni luce.
Poi non riuscì più a distinguere nulla.


Quando Momoi l'aveva chiamato il suo cuore aveva saltato un battito.
Quando Momoi aveva gridato il suo nome in un tono che mai si sarebbe aspettato di sentirle usare il suo cuore si era fermato del tutto.
E Taiga non riusciva ancora a capire se fosse ripartito o meno, era troppo concentrato sul fievole, troppo fievole, respiro di Kuroko per riuscire a sentire qualsiasi altro rumore.
La vestaglia dell'ospedale lasciava impietosamente scoperto un lembo di pelle del petto che lui pochi giorni prima aveva baciato e che ora, mischiati alle tracce di quella volta, portava i segni violacei dei colpi ricevuti.
I lividi che Kuroko aveva sul viso erano nascosti da cerotti bianchi e Taiga ringraziava che ci fosse Aomine lì di fronte a lui, o il modo in cui il biancore delle medicazioni si confondeva col biancore della pelle del ragazzo l'avrebbe spinto sull'orlo di una crisi di nervi.
Invece la presenza del suo “rivale”, la sua postura imperturbabile e il suo sguardo che non tradiva nient'altro che una rabbia tanto calma da far venire la pelle d'oca lo spingevano a mantenersi al suo stesso livello.
Il silenzio tombale della stanza fu rotto da un mugugno appena udibile, ma che bastò a confermargli che il suo cuore era ripartito eccome.
Due occhi intontiti da sonno e antidolorifici si erano appena aperti con la grazia titubante di ali di farfalla, per poi posarsi su di loro con espressione smarrita che Taiga attribuì all'essersi appena risvegliato da un pestaggio in una stanza d'ospedale.
“Satsuki è nella stanza accanto,” commentò invece Aomine. “È collassata dopo aver passato un'eternità a ripetere che era tutta colpa sua, ma sta bene.”
Erano le prime parole che Taiga gli sentiva pronunciare da ore, ma ebbero l'effetto di rassicurare Kuroko all'istante.
Lui non avrebbe mai saputo indovinare così bene i suoi pensieri.
Forse non avrebbe neanche mai saputo eclissare del tutto il ricordo dell'altro dalla mente di Kuroko, per quanto avesse potuto provarci.
Spero che d'ora in poi tu sia intenzionato ad agire per il suo bene.
Ah, in quel momento gli avrebbe fatto davvero comodo avere il cuore ancora fermo.
“Vado a vedere se si è svegliata,” decretò con una calma che non si sarebbe mai creduto in grado di simulare così bene, per poi alzarsi e avviarsi verso la porta.
Kuroko lo stava guardando e nel suo sguardo all'apparenza così piatto intravide come in una pozza d'acqua tutto ciò che sarebbe potuto essere, tutto ciò a cui avrebbe rinunciato uscendo dalla stanza in quel momento, tutto ciò che non poteva avere; poi l'altro gli sorrise.
“Grazie, Kagami-kun.”
In fondo poteva sopportarlo, no?


Daiki non seguì lo scambio di sguardi tra Tetsu e Kagami.
Era troppo impegnato a scandagliare il corpo pieno di lividi e ammaccature che gli stava davanti nel tentativo di riuscire a scacciare la nausea che gli aveva attanagliato le viscere da quando aveva appreso la notizia e che ancora non voleva lasciarlo perché era stato lui, Aomine Daiki, a rendere Tetsu un bersaglio ed era stato sempre lui a commettere l'enorme ingenuità di credere che bastasse lasciarlo andare per far sì che le acque si placassero.
Sarebbe dovuto esserci lui su quel letto di ospedale, costole incrinate e percosse varie annesse.
“Aomine-kun,” lo chiamò Tetsu, riportandolo alla realtà con voce impastata, “potresti passarmi quel bicchiere d'acqua laggiù?”
Daiki seguì con lo sguardo la direzione indicatagli e si ritrovò a porgergli meccanicamente il bicchiere, che l'altro gli tolse di mano con un lieve tremito delle dita.
Di norma nessuno avrebbe notato un particolare del genere, ma nel suo ormai perfezionato da anni e anni di allenamento dizionario Tetsu-Giapponese quel tremito equivaleva più o meno a “Qualcuno mi spieghi che diavolo sta succendo, perché mi trovo qui e perché sono improvvisamente rimasto solo con la persona più attraente (okay, forse questa era un'interpretazione un po' libera) e imbarazzante che conosco”. Più o meno.
“Sei stato fortunato, Tetsu,” ritenne giusto spiegargli. “A quanto pare un'amica di Satsuki che passava di lì con suo padre vi ha visti e ha chiamato subito la polizia, mentre il suo paparino si divertiva a stendere Haizaki e i suoi uno per uno.”
Com'è che si chiamava quell'uomo, Aida? Avrebbe davvero dovuto ringraziarlo appena possibile.
“Ora sono agli arresti, il padre di Akashi si occuperà di persona dell'accusa al processo,” proseguì, costretto a mordicchiarsi le labbra nel tentativo di non scoppiare a ridere nel vedere Tetsu sgranare gli occhi oltre ogni misura.
Del resto, come dargli torto?
Tutti conoscevano la famiglia Akashi e le storie secondo cui Akashi Senior (come suo padre prima di lui) non avesse mai perso una singola causa nel corso della sua carriera; pochi sapevano che Akashi Junior era amico d'infanzia di una marmaglia di ragazzini cresciuti in zone di Tokyo da cui la gente preferiva tenersi alla larga e pochissimi sapevano che era stato suo padre a occuparsi dell'infinità di cavilli legali insorti quando Tetsu, Daiki e Satsuki avevano deciso di scappare dalle rispettive famiglie.
Ancora non era chiaro se l'avesse fatto solo per non dire di no a suo figlio o se Akashi Senior avesse voluto mostrare la sua integrità morale in un periodo in cui si mormorava che fosse uno yakuza, ma nessuno di loro tre si era mai posto una domanda simile.
“Se le mie costole non mi stessero uccidendo, quei ragazzi mi farebbero quasi pena,” commentò alla fine Tetsu e Daiki dovette deglutire a vuoto più volte perché era incredibile quanto gli fosse mancato il sottile senso dell'umorismo di quello scricciolo.
“Non so come abbia fatto a sopravvivere per questi due mesi senza di te,” si ritrovò a dire, per poi notare che lui stava di nuovo sgranando gli occhi e realizzare di aver pensato a voce alta.
Maledizione, quello era un pessimo momento per affrontare il Discorso.
Eppure nello sguardo che Tetsu gli stava rivolgendo riusciva a leggere nostalgia, affetto, forse un pizzico di ironia per la sua sbadataggine e incertezza per com'erano andate le cose tra di loro, ma neanche l'ombra di fastidio.
“Anche tu mi sei mancato, Aomine-kun.”


La Corte dei Miracoli aveva qualcosa di sospetto.
Forse si trattava dei festoni sgargianti che pendevano da ogni parte, forse era l'odore di cibo che esalava, o forse era la folla pressata al suo interno, ma di sicuro c'era qualcosa di insolito.
“Kurokocchiiiiiiiiiiii!”
E qualcosa di solito.
Il secco slap con cui la mano di Aomine colpì il viso di Kise risuonò per tutto il campetto, seguito dalle sue urla indignate.
“Ha tre costole icrinate, cretino! Non puoi mica saltargli addosso come al tuo solito, lo rompi!”
Buffo, dato che Aomine era stato il primo quella mattina a saltare addosso a un Kuroko alquanto assonnato la cui colpa consisteva fondamentalmente nell'aver passato la notte rannicchiato nel letto accanto a lui vestito solo di bende e un paio di vecchi boxer senza aspettarsi nessuna rappresaglia.
Per sua fortuna Kuroko aveva sentito la mancanza di quelle mani scure e callose, quindi aveva generosamente rinunciato a rimettere Aomine in riga con un cazzotto ben assestato.
“Aominecchi, tu non hai diritto di parola, non hai neanche aiutato a organizzare il rinfresco!” protestò Kise, spalleggiato dal coretto canzonatorio di Takao, Murasakibara, Momoi e Kagami al quale seguì un'inevitabile quanto infantile zuffa durante la quale Sakurai spiegò a un alquanto perplesso Kuroko che quella era una festa di bentornato per lui e che erano tutti davvero contenti di rivederlo sano e salvo.
Se c'era qualcuno sorpreso dalla riappacificazione tra Aomine e Kuroko, nessuno lo diede a vedere: Momoi doveva averli riempiti di raccomandazioni fino alla nausea.
Poi qualcuno esclamò “Cavolo, questi onigiri sono buonissimi!” e l'attenzione collettiva venne calamitata dai tavolini carichi di vettovaglie.
Kagami ne approfittò per avvicinarsi a Kuroko, non prima di aver fagocitato la prima cosa che gli era capitata sottomano.
“Si mangia bene e posso giocare a basket con gente abbastanza fuori di testa da essere alla mia altezza,” ridacchiò con apparente tranquillità. “Credo proprio che questo posto mi piacerà.”
Kuroko colse al volo un sorriso a trentadue denti di Aomine e si concesse un istante per osservare i suoi amici, la sua famiglia, fare più chiasso persino di quando avevano trovato una pila di scatole di alcolici abbandonate, poi annuì.
“Piacerà a tutti.”







Yu's corner.
Ta-daaan, salve! Eccoci qua all'ultimo capitolo di questa storia!
Alla fine si è sistemato tutto, più o meno.
Colgo l'occasione per ribadire che c'è la probabilità che Madamigella Ispirazione mi degni della sua visita e che quindi riesca a sfornare qualche spin-off! Mi sono molto affezionata molto a questa AU.
Voglio poi ringraziare tutti voi che avete seguito e recensito questa fanfic, siete stati di grande sostegno!
Grazie mille e alla prossima,
Yu.

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