namarie lorien

di MarcoMatalo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** trovare e perdere ***
Capitolo 2: *** in trappola ***
Capitolo 3: *** il gioiello ***
Capitolo 4: *** vecchi amici e vecchi oggetti ***
Capitolo 5: *** estranei (fine primo capitolo) ***



Capitolo 1
*** trovare e perdere ***


Non ballerò su tombe rosse di sangue;
Non suonerò con petali argentei;
Non canterò di giganti addormentati;
Perché la guerra non va evocata.



“Siamo arrivati?”
“No, la strada è ancora lunga e impervia prima di giungere alla meta”, così rispose Falgot Senzascudo, un uomo dallo sguardo tanto cupo quanto autoritario, i capelli che con la luna brillavano ormai di un bianco lucente come i fendenti nati dalla sua spada gli incorniciavano il volto ormai segnato dall’età, dai troppi anni, dalle troppe battaglie, dai volti di nemici uccisi per un Mondo destinato a cadere. Eppure la forza in lui non cedeva, resisteva quasi alla pari di cinquant’anni prima quando combatté nell’ultima Grande Guerra per il dominio di Maailman, che vide protagonisti le razze di tutta la regione contro i Draghi Dominatori, i tiranni che regnavano indiscussi tra violenza e terrore.
Tutte le razze della regione, elfi, nani e uomini si unirono in un’alleanza  per rovesciare il Trono Antico simbolo di potere dei draghi. Molti anni sono passati da quella guerra, un periodo di pace regna su questa terra…o forse no? Ma cominciamo dall’inizio.




CAPITOLO I
TROVARE E PERDERE

Era ormai sera, una sera arrivata troppo presto per un giorno d’estate. Sulle cime del Windy Hill la notte  piombava con un abbraccio gelido, folate di vento freddo colpivano la compagnia ormai fermatasi per la notte. Gli alberi sembravano spezzarsi grido dopo grido, le stelle non ebbero il coraggio di mostrare la loro luce. Una fredda morsa gelava il sangue, neanche il dolce calore del fuoco servì a molto, esso, infatti, tremava come un fanciullo spaventato dinanzi al lupo nero, l’unica fonte di sostegno furono i racconti narrati a turno dai componenti del gruppo.
La notte passò e un’alba pallida schiariva le vette circostanti e il sole, anche se basso, illuminava la meta del viaggio, Torre Alta, innalzata in tempi ormai dimenticati anche dagli elfi. Essa era ormai vicina, forse mezza giornata di viaggio. Falgot ci svegliò.
“Avanti pivelli, svegliatevi, sognerete le gambe delle vostre donne serrarsi ai vostri fianchi la notte prossima.”  Il vecchio non ebbe risposta però, per cui alzò la voce “Svegliatevi!”, la sua voce rimbombò sino al cielo, gli uccelli presero il volo. Il gruppo saltò al in piedi, quasi sull’attenti. Con la voce divenuta di nuovo bassa simile, ad un padre autoritario disse “Bene, ora che siete svegli, prendete le vostre cose e rimettiamoci in marcia, Torre Alta non è lontana”.
“Perché arrivare a Torre Alta solo per dei banditi?” domandò Jilik, un guerriero dalla città di Red River. “Perché? Perché ti sei unito a questa spedizione Signor Panc?” risposi io che provenivo da Autumn Leaves, la città elfica più a occidente, sorta a Red Woods, da dove venivano reclutati i migliori ranger e arcieri di tutta la regione.
“Per trovare oro e fortuna, mio caro amico, per cos’altro altrimenti?” Rise Jilik.
“Per l’onore o per salvaguardare la pace nel regno magari!” Risposi con voce dura.
“Onore? Pace? Non lo capisci che la pace non esiste in queste terre, è solo una favola per i fanciulli che vivono ancora nei mondi dei sogni. Finché ci saranno spade e uomini per impugnarle, la pace sarà solo un miraggio in un deserto di follia! E l’onore?” Rise per un attimo “L’onore non è nulla, è solo un invenzione di chi non ha il coraggio di aprire le cosce di una donna senza un boccale di birra in gola!”
“Adesso basta!” Sguainai la spada puntandogliela dritta alla gola, il gruppo si arrestò, nessuno aveva il coraggio di muovere un dito.
“Abbassa la lama, Elfo.” Intervenne  Falgot “Le liti fra compagni di viaggio sono come due uccelli che litigano per lo stesso nido in pieno inverno, alla fine, moriranno entrambi di freddo…” Riposi l’arma, tutto il gruppo rimase in silenzio; un silenzio spezzato solo dall’ondulare dei pini che formavano un colonnato lungo il sentiero. Allora il buon padre disse “Ora c’è troppo silenzio però.” Guardò Nerisi, l’unico del gruppo a saper suonare, egli amava la musica come la propria vita, sapeva suonare qualsiasi strumento, nato a Down Fall, vicino a Grand’Albero, apprese l’arte della musica da Yilmaret Voce d’oro, il bardo più conosciuto di tutta Maailman, egli decise di intraprendere il viaggio per  terre mai viste, per narrarle e farle scoprire a chi aveva orecchio per ascoltarle. “Nerisi, suonaci qualcosa, così forse gli animi dei nostri compagni saranno più lieti, e i loro piedi più leggeri.”
“C-chi…i-io? V-va bene…” Disse con voce leggera e tremante. Jilik scoppiò a ridere.
“Quindi parli, ma con quella voce non credo tu sappia cantare.” Noi tutti cominciammo a ridere, tranne Falgot che si girò verso Nerisi e gli fece un cenno con la testa. Così fatto, egli cominciò a cantare. La sua voce balbettante si trasformò in una dolce melodia, anche il più bel usignolo perdeva la sua grazia vicino a lui.

In età lontana,
Dove la guerra era signora;
Dove la morte era sovrana;
Dove la fame era regina;

Un Eroe nacque;
Un Eroe sorse;
Un Eroe mosse;

Una gemma di mille corone,
Di guerra chiamata pace;
Di guerra chiamata rivoluzione;
Di guerra chiamata libertà;

Un Re morì;
Un Re tramontò;
Un Re restò fermo;

Guardando il suo Potere,
Il Trono Antico spoglio;
Il Trono Antico cadere;
Il Trono Antico distrutto;

Un Popolo guardò;
Un Popolo pregò;
Un Popolo gridò;



Di vite perse e mai ritrovate,
Di Morti mai più visti ballare;
Di Morti mai più visti suonare;
Di Morti mai più visti cantare;

Ed Io,
Non ballerò su tombe rosse di sangue;
Non suonerò con petali argentei;
Non canterò di giganti addormentati;
Perché la guerra non va evocata;
Tanto meno cantata, né osannata.


La voce sembrava entrare nelle menti di coloro che lo ascoltavano. Le parole, come un abbraccio di una madre premurosa che accarezza dolcemente il capo del proprio figlio, risuonavano nel sentiero.
“S-spero vi sia piaciuta…” Il gruppo restò senza parole per la straordinaria voce di Nerisi. Egli infatti da quando era cominciato il viaggio non diete mai fiato alle proprie parole, restando sempre in silenzio tra i suoi pensieri, annotando tutto ciò che vedeva e sentiva senza aprire bocca.
Il sole era alto quando arrivammo su un piccolo spiazzo poco roccioso, all’ingresso dell’ultimo tratto di sentiero per giungere a Torre Alta. La vegetazione diminuiva gradualmente, passo dopo passo, facendo posto a rocce e a neve, caduta la notte prima. Decidemmo allora di fare un frugale pranzo, per riprendere le forze prima di rimetterci in marcia. Non fu emessa parola, come sapessimo cosa ci attendesse una volta giunti a destinazione; finalmente, qualcuno spezzò il pesante silenzio.
“Cosa ci attenderà una volta arrivati?” Chiese Koti “Si parlava di banditi, ma non vedo fumo provenienti dalla torre, né rumori che facciano pensare a persone che discutono.”
Falgot lo interruppe “Figliuolo, ciò che ci aspetta li ,  è incerto come il mutare del tempo, non si hanno certezze di ciò che avverrà nel futuro.” Il gruppo rimase nuovamente in silenzio. “L’importante è arrivare.” Rise, “Poi quando ci troveremo davanti al nemico, le nostre azioni verranno dettate dalle ultime di questi.” Un freddo macigno piombò sugli animi di tutti i presenti. “Una cosa è certa però, coloro che moriranno non saremo noi.” Noi tutti sentimmo l’anima più leggero a sentire queste parole, una nuova forza scorreva nelle nostre vene; finito il pranzo, impacchettammo il più velocemente possibile gli zaini e riprendemmo il cammino. Marciavamo spediti per il breve sentiero che ci divideva dalla meta, un lungo ponte di roccia. La neve cominciò ad aumentare, i passi da prima rapidi e leggeri si fecero sempre più pesanti e lenti, superato il ponte si presentarono dinanzi ai nostri occhi due pareti di roccia curve, simili un arco senza chiave di volta, alle sue spalle, come un re seduto sul trono, se ne stava Torre Alta. Nera come la notte più buia, imponente come il drago più anziano, inerte e immutabile come un gigante in un sonno profondo. Al centro di una piazza bianca di neve, circondata dalle grandi mura di roccia scura che formavano i lati e la vetta della montagna. Quasi racchiusa come un bocciolo di rosa troppo prezioso per essere toccato.
Quando arrivammo lì, superammo l’arco, davanti a noi non c’erano né banditi né altro, solo una torre vuota. La porta in pietra, che conduceva all’interno, era distrutta, i frammenti erano sparsi ovunque, profonde crepe creavano disegni su tutta la facciata anteriore, anche il grande stemma sopra l’entrata era diviso in due da una profonda crepa che lo attraversava da parte a parte.
“Cos’è? Uno scherzo?!” Esclamò Koti. “Qui non ci sono banditi.”
“La porta è distrutta, qualcosa deve pure essere accaduto qui.” Dissi.
A un tratto dei rumori provenienti dall’interno della torre cominciarono ad echeggiare nell’aria, rumori sempre più forti. “Cosa diamine sta succedendo?” Sussurrò Jilik.
Il vento smise di soffiare, la tensione poteva essere tagliata con una lama. Un grido squarciò il silenzio.
Un solo colpo gli bastò per distruggere l’arco già in macerie della porta della grande torre. Si presentava dinanzi a noi un troll, creduti ormai estinti, eppure lui era lì, terrificante come una montagna d’inverno, impugnava un tronco come arma, sradicato sicuramente nei boschi ai piedi dei colli minori di Windy Hill. Un altro ruggito pronunciò il mostro e anche la roccia tremò.
“Qui si mette male!” Urlò Jilik.  (Fine prima parte)

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Capitolo 2
*** in trappola ***


in trappola

“Fermi, non indietreggiate!” Disse Falgot. Il gruppo si strinse, il troll allora si arresto per un attimo, come per capire le mosse delle sue prede.  Il mostro a un tratto alzò l’arma e con un solo colpo, fece tremare la terra sotto i nostri piedi.
Koti staccatosi dal gruppo si spostò alla destra del mostro, prese l’arco, una freccia e la scoccò lo colpì sul braccio in cui impugnava il grande tronco, il troll, lanciò un urlo.
Jilik e Falgot, si lanciarono all’attacco con le lunghe spade rivolte verso il cielo. Il guerriero di Red River, infilzò il grande troll alla gamba, egli s'inginocchiò e il vecchio allora, con un fendente, lacerò le carni dure del mostro, un altro ruggito di dolore uscì dall’animo della bestia. Il dolore però si trasformò presto in ira.
“Attento Falgot!” Urlò il giovane, ma non fece in tempo ad avvisare il compagno che il troll con uno scatto, afferrò il corpo del vecchio e lo lanciò contro la parete di roccia a sinistra della torre, una volta ricaduto a terra, perse i sensi. Con la grande mano in fine spazzò via anche Jilik, che volò via, come una foglia in balia del vento.
 Koti vedendo i compagni soccombere, tese l’arco e scoccò in fine un’ultima freccia, essa sibilò come il vento in autunno, un’ultima speranza per sfuggire all’immonda creatura. La freccia penetrò profondamente nell’occhio del mostro. Un muggito e un dolore soffocato conquistò la voce del troll, che indietreggiò ritornando all’interno della torre dando noi la possibilità di fuggire.
Ci dirigemmo verso il lato meno ripido della montagna, dove alla roccia si univano dei piccoli arbusti e radici sporgenti.
Il primo a scendere fu Nerisi, seguito da me, mentre Koti chiudeva la piccola fila. Il sole si scagliava a occidente quando cominciò a piovere, sempre più intensamente, la luna parve di non sorgere mai, coperta dalle nuvole nere sopra di noi, scendemmo di venti metri, la pioggia batteva incessante sulla roccia, uno scricchiolio, poi un altro e un altro ancora, alla fine sentimmo solo un boato. La roccia sotto di noi cominciò a franare, una pioggia di sassi, caddero sulle nostre teste e noi perdemmo i sensi.

Ci risvegliammo il giorno seguente, un dolce calore ci accarezzava i visi, il sole era sorto ancora per noi, eravamo vivi. Fui il primo a svegliarmi, le  maceria ci trascinarono su una piccola terrazza erbosa, la pioggia della notte l’aveva resa morbida e fresca e i raggi mattinieri la facevano brillare come smeraldi di una corona degli antichi re degli elfi. Mi guardai intorno, non c’era nessuna traccia di Nerisi, accanto a me giaceva Koti privo di sensi, lo svegliai.
“Svegliati!” Koti riaprì gli occhi, urlò, gli diedi uno schiaffo e gli dissi “Calmati! Dov’è il bardo? Dov’è Nerisi?”
 “L’ultima cosa che ricordo è vedere Nerisi scivolare giù, chiedere aiuto e scomparire tra le macerie, poi sono svenuto, non ricordo più nulla”. Chinò il capo.
Una lacrima sfiorò il mio viso “Siamo rimasti noi due… fratello” gli dissi guardandolo “Riposiamo qui per un po’, riprendiamo le forze e asciughiamo il dolore dai nostri cuori, quando avremo riposato abbastanza, riprenderemo il cammino verso la Capitale, per portare le notizie della perdita dei nostri compagni.”
L’arciere, fece solo un cenno di approvazione, poi si alzò si diresse verso la sporgenza e guardò in basso, a terra giaceva un diario, la tristezza s’impadronì  dei nostri volti, era sicuramente di Nerisi, nell’ultima pagina, un’ ultima canzone ricordava il bardo, la leggemmo in sua memoria nei primi chiarori dell’alba, quando il sole tinge di arancio e rosa le soffici nuvole viandanti di una tempesta lontana. Recitava così:

Oh bella fanciulla del Lago di Ninfa,
Le vesti cadute in un mar di tristezza,
Or più il tuo sposo non rivedrai,
La sua spada gloriosa nel tuo petto accoglierai.

Una stella in più nella notte brilla,
Una vita in meno sulla terra cammina,
Una moglie fedele come regina,
Abbraccia il marito nella terra divina,

Ma la vita crudele avvolte inganna,
Che lo sposo ritorna ma senza condanna,
La lancia e lo scudo perse in battaglia,
Sembrando ucciso dal nemico canaglia,

Il ritorno a casa gli fu lieto,
Non sapendo dell’amore venuto meno,
Il corpo giaceva pallido allo sguardo,
La mano fredda stringeva il suo guanto.

Ora il sorriso abbandona il mio volto,
La lama calda trafigge il mio corpo,
La mia anima si ricongiungerà alla mia sposa,
Oh mia bella fanciulla del Lago di Ninfa.

Una volta concluso il canto, seppellimmo il diario, e innalzammo un piccolo tumolo con le macerie cadute la notte prima per ricordare il nostro silenzioso amico. Il sole era sulle nostre teste e le ombre sotto i nostri piedi, ed eravamo bloccati ancora lì, dovevamo trovare un modo per scendere a valle o saremmo morti anche noi presto o tardi. Le ore passavano lente, mille immagini correvano nella mia mente.
“Dobbiamo trovare una via per giungere a Long Winter, giunti lì, ci recheremo al Veliero Rosso, il proprietario è un mio amico di vecchia data, lui ci darà una mano”.
“Come?” Rispose Koti sdegnato, “Come arriveremo lì? Siamo bloccati! Siamo rimasti solo io e te, non c è più nessuno, non c’ è più speranza!”
Lo sguardo dell’arciere era diverso, ora era cupo, perdette quella luce che aveva la prima volta che lo vidi.
“Io non lo so ancora, un modo deve pur esserci” gli risposi, “dev’esserci passaggio, un sentiero che potremmo usare per scendere” mi guardai intorno, non c’era nulla che ci fosse utile. Ci sedemmo e aspettammo che passasse un altro giorno, sperando forse che il seguente ci portasse consiglio.
Il sole chiuse le sue lunghe dita e fece posto al grande occhio bianco della notte, i pallidi raggi erano oppressi da pesanti nuvole, da lì a poco sarebbe piovuto nuovamente. Fummo investiti dalla pioggia del Nord quando la notte era ormai vecchia e il sole era prossimo, ma essa scivolò via come ci piombò addosso, rapida e silenziosa.
Il giorno venne, e insieme ad esso la fredda brina mattutina. Una nebbia fitta copriva la valle al di sotto di noi, l’aria era fredda: un freddo che intrappolava le membra in una prigione di silenzi, pensieri incessanti martellavano le nostre menti -o per lo meno la mia-. Koti non aprì bocca quel giorno, si limitava a guardare il piccolo tumolo, aggiungendo rapidi gesti delle mani, quasi fossero in preda a un dilaniante dialogo interiore.
Io lo guardavo, cercando di capire le sue intenzione, i suoi pensieri. Il sole invernale diradò la nebbia a metà mattinata, il cielo diventò chiaro, quasi bianco, infinito e profondo come gli occhi di un dio. Quel giorno c’era pace, ormai mi era rassegnato, e lentamente mi lasciavo portare via da una fine inesorabile. Anch’io avevo perso ogni speranza e sedevo appoggiato alla parete di roccia dalla quale scendemmo. I miei occhi videro un ultimo, tardivo, stormo di uccelli che si recava a sud. Passarono sulle nostre teste; uno si distaccò dal gruppo e scendendo di quota, si posò su un ramo difronte a noi. Lo guardai e notai che anch’egli mi guardava, come incuriosito, piegò la testa, i nostri sguardi erano fissi l’uno sull’altro, ero come incantato da quegli occhi neri, sembravano non avessero fondo.
A un tratto, senza preavviso l’uccello apri le sue ali, mostrandomi il meraviglioso piumaggio che sfumava dal bruno al castano sino a un dolce nocciola che gli tingeva le piume più esterne delle ali, le richiuse e si lascio cadere scomparendo, mi alzai con uno scatto quasi istintivo, mi sporsi dalla terrazza e lui spiccò il volo dinanzi a me; riaprendo le delicate ali, fece una virata, tornò indietro e scomparve nella parete di roccia sotto i miei piedi.
Ero basito, mi sporsi ancora di più, cercando di capire dove fosse finito e vidi un'altra piccola terrazza. Chiamai Koti.
“Koti! Koti! Vieni qui, sbrigati!” la mia felicità era grande “C’è un altro basamento, possiamo scendere lì, probabilmente c è una rientranza, per questo non riuscivamo a vederla, può essere una grotta!”
Koti restò in silenzio, mi guardò, una luce cominciava di nuovo a brillare nei sui occhi, un accenno di sorriso sbocciava sul viso.  (fine seconda parte)

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Capitolo 3
*** il gioiello ***


il gioiello Scendemmo sulla terrazza. Due colonne finemente lavorate, rappresentavano dei corpi, si distinguevano nitidamente le pieghe delle vesti e le mani appoggiate sulle membra, con i palmi rivolti all’insù quasi come se offrissero dei doni agli entranti; ma non saprei dire chi, o cosa fossero, il tempo aveva ormai cancellato ogni traccia dei lineamenti del viso e ormai anche le vesti erano coperte da un sottile strato di muschio verde. Alle loro spalle le pareti di roccia scomparivano in fretta nel buio.
Eravamo come spinti all’interno, come se qualcosa ci chiamasse. Ci guardammo e decidemmo di entrare.
Il corridoio era capiente e tondo, le pareti erano grezze, come se un antico popolo si fosse sbrigato per finire quel lavoro a differenza delle colonne fuori. Ci addentrammo ancora più in profondità. La luce scomparve del tutto. Decidemmo allora di accendere una torcia. Accendendola ci ritrovammo in una grande sala, anch’essa tonda con al centro un grande cono di roccia. Al di sotto del cono, un altare: con l’avvicinarsi della luce proveniente dalla torcia la pietra simile al vetro, brillava di un verde profondo, come le foglie di un vecchio ma forte e vivo albero in primavera, al verde, si mischiavano striature di rosso dovute alla nostra fonte di luce e i bordi erano chiusi da lamine di bronzo lucente, era rialzato da due scalini, anche essi in bronzo, dai lati spuntavano degli ingranaggi dello stesso metallo; non avevo mai visto nulla del genere. Sull’altare c’era un medaglione triangolare con al centro un gioiello dello stesso colore della pietra che formava l’appoggio. Era semi chiuso da una cupola in metallo bloccata dal cono di roccia. -La cupola doveva essere una difesa per il medaglione, ma con la caduta dei massi della notte precedente, il cono doveva  essersi abbassato e la cupola chiudendosi si è bloccata-. Ci avvicinammo e notammo che le lamine di bronzo erano incise con caratteri simili a quelli che si trovavano sulle pareti di Torre Alta.
Il medaglione brillava, brillava di una luce propria, eravamo incantati da quell’oggetto, come se esercitasse una strana forza sui nostri corpi, gli occhi di Koti mutarono di nuovo, adesso il suo sguardo era incuriosito, avaro. Le sue mani tramavano nuovamente, ma questa volta per il nervoso, come se quell’oggetto doveva essere suo e di nessun’altro.  Mi voltai per vedere se ci fosse una via d’uscita, vidi un corridoio che si perdeva nel buio della montagna, quando mi rigirai l’arciere cercò di darmi un pugno, feci appena in tempo a schivarlo.
“Ehi! Cosa ti prende? Sei impazzito?” Non ottenni risposta, il suo respiro era affannato, come se avesse portato per miglia un grosso macigno a spalla, estrassi il pugnale dalla sua fodera.
“Tu...tu vuoi prenderti tutta la gloria, volevi abbandonarmi qui...tu” strinse il medaglione “volevi uccidermi e andare via, me l’hanno detto loro, me l’hanno detto le voci, tu volevi andartene e lasciarmi qui!” Con un altro scatto cercò di buttarmi a terra ma evitai anche questa carica.
“Io non voglio niente di tutto ciò, voglio tornare a casa, guarda!” Gli indicai il corridoio “Guarda, una via di uscita, possiamo prendere quella, forse ci porterà più giù…”
“Non mi importa, non voglio più uscire, questa è la mia casa adesso” alzò la voce “Io sono il guardiano dell’antico altare!” La voce divenne un sussurro adesso, immobile e profondo, come se quelle parole non venissero dette da lui ma da un essere lontano “E tu neanche uscirai, questa sarà la tua tomba come questa sarà la mia dimora, vita e morte si riuniranno nell’antico altare, come era un tempo, come sarà per sempre, un vita… in cambio dell’immortalità del medaglione e del suo guardiano…” rise un attimo e si scagliò nuovamente su di me non riuscii ad evitarlo e mi gettò a terra, era sopra di me, stranamente immobile. Quando vidi il suo volto dolorante, mi accorsi che il pugnale era entrato dolcemente nel suo fianco penetrando in profondità. Tolsi la lama e lui cadde vicino a me. Lasciò il medaglione e sul suo viso intravidi un dolce sorriso, quello che vidi all’inizio del nostro viaggio, il peso che affliggeva la sua anima fu rotto con l’acciaio e la morte fu dolce per lui, gli occhi si chiusero delicatamente. La morte fu la sua salvezza.

Strisciai sconvolto  vicino al corpo immobile del mio amico e recitai una preghiera, la prima che mi venne in mente, una volta conclusa mi alzai e mi diressi verso il corridoio. D’un tratto una luce bianca illuminò tutta la stanza. Si sentì un rumore assordante, come mille uomini che urlano a gran voce, dovetti coprirmi le orecchie per il frastuono che c’era. La terra tremò, il cono di roccia cadde rovinosamente sull’altare, pietre e massi che formavano il soffitto della caverna cominciarono a cadere come grandine in una tempesta. Raccolsi il medaglione d’impulso, senza pensarci.
“Meritavi una tomba migliore mio caro amico, mi dispiace”. Fuggii verso il corridoio ma non portava in nessun luogo, c’era un enorme voragine nel pavimento. Le macerie nel frattempo chiusero il passaggio dietro di me, fui costretto a gettarmi nel vuoto, in quell’abisso nero e  –sperando di non rimetterci la pelle- mi buttai. Atterrai in un laghetto, circondato da un anello di terra scusa. Probabilmente una sorgente, da li infatti nasceva un fiumiciattolo. Quando mi guardai intorno vidi che mi trovavo in una grande grotta sotterranea, le calme acque gorgoglianti formavano straordinari disegni dai contorni tremolanti sulle pareti e la cupola ricca di stalattiti. L unica fonte di luce proveniva dalla frattura nella roccia da dove si liberava il piccolo fiume, segui il freddi flutti sino allo squarcio della parete. (Fine terza parte) 

Hei, salve. Nelle parti precedenti ho scordato di dire una cosa. Se vi fa piacere, potete lasciare un commento.

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Capitolo 4
*** vecchi amici e vecchi oggetti ***


Scendemmo sulla terrazza. Due colonne finemente lavorate, rappresentavano dei corpi, si distinguevano nitidamente le pieghe delle vesti e le mani appoggiate sulle membra, con i palmi rivolti all’insù quasi come se offrissero dei doni agli entranti; ma non saprei dire chi, o cosa fossero, il tempo aveva ormai cancellato ogni traccia dei lineamenti del viso e ormai anche le vesti erano coperte da un sottile strato di muschio verde. Alle loro spalle le pareti di roccia scomparivano in fretta nel buio.
Eravamo come spinti all’interno, come se qualcosa ci chiamasse. Ci guardammo e decidemmo di entrare.
Il corridoio era capiente e tondo, le pareti erano grezze, come se un antico popolo si fosse sbrigato per finire quel lavoro a differenza delle colonne fuori. Ci addentrammo ancora più in profondità. La luce scomparve del tutto. Decidemmo allora di accendere una torcia. Accendendola ci ritrovammo in una grande sala, anch’essa tonda con al centro un grande cono di roccia. Al di sotto del cono, un altare: con l’avvicinarsi della luce proveniente dalla torcia la pietra simile al vetro, brillava di un verde profondo, come le foglie di un vecchio ma forte e vivo albero in primavera, al verde, si mischiavano striature di rosso dovute alla nostra fonte di luce e i bordi erano chiusi da lamine di bronzo lucente, era rialzato da due scalini, anche essi in bronzo, dai lati spuntavano degli ingranaggi dello stesso metallo; non avevo mai visto nulla del genere. Sull’altare c’era un medaglione triangolare con al centro un gioiello dello stesso colore della pietra che formava l’appoggio. Era semi chiuso da una cupola in metallo bloccata dal cono di roccia. -La cupola doveva essere una difesa per il medaglione, ma con la caduta dei massi della notte precedente, il cono doveva  essersi abbassato e la cupola chiudendosi si è bloccata-. Ci avvicinammo e notammo che le lamine di bronzo erano incise con caratteri simili a quelli che si trovavano sulle pareti di Torre Alta.
Il medaglione brillava, brillava di una luce propria, eravamo incantati da quell’oggetto, come se esercitasse una strana forza sui nostri corpi, gli occhi di Koti mutarono di nuovo, adesso il suo sguardo era incuriosito, avaro. Le sue mani tramavano nuovamente, ma questa volta per il nervoso, come se quell’oggetto doveva essere suo e di nessun’altro.  Mi voltai per vedere se ci fosse una via d’uscita, vidi un corridoio che si perdeva nel buio della montagna, quando mi rigirai l’arciere cercò di darmi un pugno, feci appena in tempo a schivarlo.
“Ehi! Cosa ti prende? Sei impazzito?” Non ottenni risposta, il suo respiro era affannato, come se avesse portato per miglia un grosso macigno a spalla, estrassi il pugnale dalla sua fodera.
“Tu...tu vuoi prenderti tutta la gloria, volevi abbandonarmi qui...tu” strinse il medaglione “volevi uccidermi e andare via, me l’hanno detto loro, me l’hanno detto le voci, tu volevi andartene e lasciarmi qui!” Con un altro scatto cercò di buttarmi a terra ma evitai anche questa carica.
“Io non voglio niente di tutto ciò, voglio tornare a casa, guarda!” Gli indicai il corridoio “Guarda, una via di uscita, possiamo prendere quella, forse ci porterà più giù…”
“Non mi importa, non voglio più uscire, questa è la mia casa adesso” alzò la voce “Io sono il guardiano dell’antico altare!” La voce divenne un sussurro adesso, immobile e profondo, come se quelle parole non venissero dette da lui ma da un essere lontano “E tu neanche uscirai, questa sarà la tua tomba come questa sarà la mia dimora, vita e morte si riuniranno nell’antico altare, come era un tempo, come sarà per sempre, un vita… in cambio dell’immortalità del medaglione e del suo guardiano…” rise un attimo e si scagliò nuovamente su di me non riuscii ad evitarlo e mi gettò a terra, era sopra di me, stranamente immobile. Quando vidi il suo volto dolorante, mi accorsi che il pugnale era entrato dolcemente nel suo fianco penetrando in profondità. Tolsi la lama e lui cadde vicino a me. Lasciò il medaglione e sul suo viso intravidi un dolce sorriso, quello che vidi all’inizio del nostro viaggio, il peso che affliggeva la sua anima fu rotto con l’acciaio e la morte fu dolce per lui, gli occhi si chiusero delicatamente. La morte fu la sua salvezza.

Strisciai sconvolto  vicino al corpo immobile del mio amico e recitai una preghiera, la prima che mi venne in mente, una volta conclusa mi alzai e mi diressi verso il corridoio. D’un tratto una luce bianca illuminò tutta la stanza. Si sentì un rumore assordante, come mille uomini che urlano a gran voce, dovetti coprirmi le orecchie per il frastuono che c’era. La terra tremò, il cono di roccia cadde rovinosamente sull’altare, pietre e massi che formavano il soffitto della caverna cominciarono a cadere come grandine in una tempesta. Raccolsi il medaglione d’impulso, senza pensarci.
“Meritavi una tomba migliore mio caro amico, mi dispiace”. Fuggii verso il corridoio ma non portava in nessun luogo, c’era un enorme voragine nel pavimento. Le macerie nel frattempo chiusero il passaggio dietro di me, fui costretto a gettarmi nel vuoto, in quell’abisso nero e  –sperando di non rimetterci la pelle- mi buttai. Atterrai in un laghetto, circondato da un anello di terra scusa. Probabilmente una sorgente, da li infatti nasceva un fiumiciattolo. Quando mi guardai intorno vidi che mi trovavo in una grande grotta sotterranea, le calme acque gorgoglianti formavano straordinari disegni dai contorni tremolanti sulle pareti e la cupola ricca di stalattiti. L unica fonte di luce proveniva dalla frattura nella roccia da dove si liberava il piccolo fiume, segui il freddi flutti sino allo squarcio della parete. (Fine terza parte)

Arrivato alla fessura, vidi la tiepida e ormai morente luce del vespro che tingeva d’oro le turbolenti acque serpeggianti, che zampillavano cantando fra le rocce sino a valle, scorgevo in lontananza Long Winter. Seguendo il corso delle acque avrei impiegato mezza giornata ad arrivare alla porte della città.
-Finalmente avevo trovato una strada per giungere alla salvezza e scappare da quella montagna, ormai per me maledetta-
Mi accampai nella sottile zolla di terreno vicino al laghetto. Provai a riposare un po’. Il sole tramontò e arrivò la luna a differenza del sonno ormai divenuto un miraggio nelle tristi ore della notte. Le immagini dei miei compagni assillavano la mia mente, i sensi di colpa si impadronirono presto di me.
Il giorno seguente mi svegliai con i raggi del sole trapelati nella grotta. Preparai il mio zaino e mi misi in marcia. Non fu difficile arrivare a valle seguendo il fiume. Difatti ai lati delle sue sponde, giaceva un magro sentiero che infine costeggiava i piedi delle colline minori di Windy Hill.

Quando il sole fu dietro i colli dell’ovest giunsi alle porte di Long Winter, mi accolsero due guardie interpellandomi su chi fossi.
“Normali pratiche viandante, non dipende da noi, ordini dell’imperatore” mi disse uno.
“Sono successe parecchie cose strane in questi giorni. Orde di creature si muovono sulle montagne e nel cuore delle foreste. Sono stati avvistati orchi armati muoversi verso sud-est” aggiunse l’altra guardia.
Io non risposi, non curante delle storie, mi limitai a togliermi il cappuccio e dare le mie generalità.
“Molto bene, credo sia tutto, puoi entrare, ma faccia attenzione” Disse infine il soldato, mi rimisi il copricapo e li salutai con un cenno della mano.
Le grandi porte in legno si aprirono dinanzi a me, mostrandomi una città, anche per l’ora tarda, rumorosa, straboccante di viandanti e gente di ogni genere. Da sempre Long Winter è la casa di mercanti di vesti e pellicce. Le strade erano illuminate da fiaccole che emanavano un dolce rosso e le fiamme sembravano danzare, segnando la strada sino alla piazza, la quale al centro conteneva la statua di un dio –non saprei dire che dio fosse, non sono mai stato un grande religioso- sulla destra, incastonata in mezzo ad altre case c’era Il Veliero Rosso.
Entrai, se il clima all’esterno era rumoroso, li dentro era frastuono. Grida e risate si intrecciavano tra boccali di birra e idromele; musica e cameriere correvano da una parte all’altra della grande stanza divisa in due da un grande focolare rialzato, un denso fumo di pipa rendeva invisibile il soffitto sulla quale si poteva riconoscere solo una grande ruota di carro su cui poggiavano delle candele per illuminare l’ambiente, alle pareti di pietra erano affisse taglie e premi di caccia, una gigantesca testa di cinghiale –proveniente sicuramente da qualche bosco nelle vicinanze- era affisso sulla parete dietro il bancone, situato infondo alla stanza. Mi avvicinai al bancone e chiesi una birra, il locandiere dubitò un attimo nel darmela, mi osservò per bene e infine si decise ad aprire bocca.
“Che birra desidera il signore?”
“La migliore che ha” gli risposi.
“Le costerà parecchio, ha le monete per pagarla o crede di venire qui, bere e andare via senza pagare? Come un pony beve dalla sorgente senza dire grazie” mi disse ridendo,  mentre riempiva il boccale.
“Ha ragione mio caro, di monete non ne ho, ma che ne dici di offrirla a un vecchio amico?” mi tolsi il cappuccio del mantello.
“Eghilos!” esclamò il locandiere “Cosa ci fai qui? Sapevo che eri in spedizione, dove sono gli altri? Come mai sei solo?”
“Zitto, parla piano, non vorrei che qualcuno ti sentisse” gli dissi sotto voce “sono successe molte cose in quella spedizione ma non mi sembra questo il posto più adatto per discorrere di queste cose, ci sarà un luogo e un tempo per tutto mio caro Alterach. Avete una stanza da darmi per questa notte? L’indomani  vi spiegherò tutto”
“Va bene, va bene, dovrei avere una stanza libera, vado a controllare, tu siediti li e bevi qualcosa, tornerò fra qualche minuto” dettomi ciò prese le scale e si recò al piano superiore.
Mi andai a sedere in uno dei tavoli ai lati della stanza, mi sentivo osservato, mille occhi fissi su di me.
Guardai fuori la finestra, il cielo stellato si affollò presto di nuvole. Quando mi rivoltai una figura incappucciata sedeva dinanzi a me, la luce della candela illuminava dei tratti delicati, ciocche dorate cadevano sulle spalle per poi finire sul petto, si tolse il cappuccio, grandi occhi grigi si presentarono davanti ai miei stupiti. Era Lorien; ella era una mia vecchia amica, anche più di una semplice amica azzarderei a dire.
“Buona serata Elfo, come mai da queste parti?” guardò fuori “anzi no, non dirmelo, lo leggo nei tuoi occhi. Hai attraversato perdite e trovato qualcosa che adesso turba il tuo animo. Ma mi serve il tuo aiuto. Sono ricercata, la Capitale mi da la caccia come fossi un animale…”
“Che cosa hai combinato questa volta?” La interruppi io. “La Capitale non da la caccia a chiunque”.
“Non è importante cosa io abbia fatto, rubato o preso in prestito. Ho trovato una pergamena del mondo antico, una leggenda. Conosci l’Imperatore dell’Ombra?”
Un brivido percorse il mio corpo dopo aver udito quel nome. “Certo che conosco Ra’h, tutti coloro che hanno memoria o sapienza conoscono colui che portò morte e rovine nel mondo. Ma tu cosa c’entri con questa storia?”
“Bene, saprai allora che Egli non venne mai sconfitto del tutto ma esiliato nel piano dell’Immortalità latente da Karadin nell’ultima battaglia, nella terra poi nominata Cancello di Drago…” Si fermò un attimo, il locandiere era tornato, con un'altra birra. La posò sul tavolo e disse.
“Scusate se interrompo la conversazione, ma la camera è pronta, quando lo desiderate, potete recarvi a riposare per poi riprendere l’indomani il nostro discorso…”
“Grazie Alterach,  appena avrò finito mi recherò nella stanza che mi ha preparato” gli risposi io. “Per adesso ci porti un'altra birra per favore”.
Il locandiere si allontanò e noi riprendemmo il discorso. Ad un tratto Lorien cacciò qualcosa che non mi sarei mai aspettato.
“E va bene, non riesco a tenerti nulla di celato. Ecco. Sai che cos’è questo?”
Posò sul tavolo un oggetto, avvolto da un panno di stoffa pregiata color porpora, legato da un filo d’oro e argento. Slegò il laccio lentamente e scoprì l’oggetto. Era un frammento di una punta in acciaio lucente con incastonata una gemma di rosso fuoco.  Istintivamente, senza avere il controllo delle mie azioni, allungai la mano per toccare quell’oggetto ma appena lo sfiorai una visione di tempi remoti colpi la mia mente, immagini distorte di una battaglia. Un cavaliere vestito di bianco e oro colpire un ombra nera e di fuoco con un arma d’argento brillante. Una tempesta, mille anime che urlano contemporaneamente voci di mille dolori e sofferenze. La visione infine venne interrotta dal locandiere che tornò con il boccale di birra chiesto poco prima per poi recarsi di nuovo a servire gli altri clienti.
“Questo è quello che hai preso in prestito Lorien, che cos è?” Le chiesi.
“Quello che tu hai sotto il naso mio caro, è un frammento dell’arma usata da Karandin per ferire il Grande Drago. Eindil la lancia dell’alba”.
“Dove l’hai presa?” mi fermai un attimo. “Oggetti del genere non cadono dal cielo come dono! Per questo l’Impero ti da la caccia? E adesso vieni da me a chiedere aiuto; come se io non avessi già abbastanza problemi!”
“No, non chiedo aiuto per salvarmi dall’Impero, ma per recuperare gli altri frammenti dell’arma. Perché Lui…” si guardò intorno, come se qualcuno o qualcosa stesse origliando e sotto voce mi disse “lui adesso è di nuovo libero”.
“Come è possibile che è di nuovo libero? Non si può evadere da quell’esilio”. Gli risposi io perplesso.
“Eppure lui è fuori, e sta radunando un nuovo esercito. Ma è meglio parlare di tutto ciò nella mia dimora, è poco distante da qui. Vieni e ti racconterò tutto”.

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Capitolo 5
*** estranei (fine primo capitolo) ***


Uscimmo fuori, le nubi ricoprivano la volta e i pochi raggi di luna illuminavano di bianco pallore i profili scuri delle abitazioni. La strada era dritta avanti a noi. Parlammo delle nostre avventure e ad un tratto cominciò a piovere. Le piogge in questa stagione non sono cosa rara su al nord; ma di recente si erano fatte più numerose e abbondanti. Rumori di tuoni si avvicinavano da sud-est e ben presto la pioggia cominciò a cadere più forte e la luna scomparve del tutto lasciando posto solo alla breve luce dei fulmini. Camminavamo con passo spedito quando vedemmo due figure nere alla fine della strada. Un fulmine illuminò i volti dei due e Lorien cominciò a tremare, mi prese per un braccio e mi trascinò in un vicolo.
“Stai fermo, non ti muovere” mi disse a bassa voce.
“Ma che ti prende, cosa hai visto?” La interrogai.
“Quelli sono Terifil, primo messaggero del regno e Maboror Capitano della Guardia Imperiale. Sono sulle mie tracce, sono qui per arrestarmi. Devo scappare, non possono prendermi e tu non puoi farti trovare con me! Se ti vedessero, incolperebbero di tradimento anche te e verresti giustiziato!”
“Io non ti lascio sola, non dopo averti finalmente ritrovata!”.
“Ho detto vattene! Non voglio che ti accada qualcosa!”.
“No, li affronteremo insieme, come facevamo nei vecchi tempi. Io e te” Detto questo uscii allo scoperto e urlai ai viandanti di andarsene senza più tornare in queste terre.
Udite le mie parole i due si fermarono un attimo, La figura più robusta sguainò la spada e fece cenno di avvicinarsi quando venne fermato dalla seconda figura più alta e slanciata. E quest’ultima parlò.
“Chi siete voi, che mi ingiuriate di andarmene con la coda fra le gambe?”
“Io sono Eghilos. Figlio di Totiphil Lama d’Argento e Milas Fronda Verde. Elfo di Autumn Leaves la Libera”
“E quindi, Elfo” rise per un attimo “tu, non vuoi far passare un messaggero dell’Impero? Io sono Terifil di Maailman primo messaggero dell’Imperatore Rolaw II. Imperatore del sud, Padrone dell’est e Re dell’ovest non che Signore del nord?”
“Rolaw sarà anche Signore del Mondo ma non ha potere e diritto su di me e sui miei fratelli” Gli risposi io.
“Insolente di un Elfo, verrai ucciso per aver pronunciato tali parole!” prese una pausa e con voce calma e pacata disse “Maboror, uccidilo”.
Con queste parole, l’altra figura si preparò all’attacco e si fiondò urlando su di me. 
“Fermi, è me che volete, lasciatelo libero…” usci piangendo Lorien. Il bruto si arrestò e il Messaggero rise.
“Ah, Lorien Freccia d’Oro. Eccoti finalmente. Come ben sai ti stavo cercando e adesso verrai con me per riconsegnare ciò che hai rubato per poi essere giustiziata” disse Terifil.
“No Lorien, non farlo. Non devi andare con loro. Possiamo batterli, possiamo fuggire” le dissi estraendo la spada dal fodero.
“Non c’è più tempo per fuggire” abbassò la testa e con un filo di voce sussurrò “Lui sta tornando…”
“Non può finire cosi! Io ti salverò!” La superai e attaccai Maboror ma lui era troppo forte, mi evitò e con un colpo di elsa mi colpi sulla schiena facendomi cadere a terra, sentii quell’odiosa risata nuovamente e Lorien essere portata via. Poi il gigante mi diete un calcio in testa e persi i sensi. Mi risvegliai qui, da voi. Ma adesso una domanda mi sorge. “Voi chi siete?”
“Io mi caro, sono Layut lo Gnomo. E voi, mio sperduto amico vi trovate nella mia dimora, e mi scuso se è un po’ in disordine e bassa per i vostri soliti costumi” detto ciò scoppiò in una fragorosa risata. 

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