Ouroboros di Rexam (/viewuser.php?uid=25799)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sulle sponde dell'esistenza ***
Capitolo 2: *** La seconda occasione ***
Capitolo 3: *** La Collina dei Conigli ***
Capitolo 4: *** Il Collezionista ***
Capitolo 5: *** Il Nero Motore del Mondo ***
Capitolo 6: *** Questa non è un'isola! ***
Capitolo 7: *** L'inconsistenza onirica del sogno ***
Capitolo 8: *** La Nave di Teseo ***
Capitolo 9: *** La dea prigioniera ***
Capitolo 10: *** Sulla nave dei ricordi ***
Capitolo 11: *** La decisione finale ***
Capitolo 1 *** Sulle sponde dell'esistenza ***
Capitolo 1 : Sulle sponde
dell’esistenza
“Risvegliarsi
è rimettersi alla ricerca del mondo,
riportare alla luce un’identità perduta in un granello di sabbia.”
Quando Matthew si svegliò era stordito e confuso. Steso a terra, faccia in giù, senza forze, quasi privo di coscienza. Il
suo corpo era rigido come un gigantesco tronco di legno. Le ossa gli
dolevano e non riusciva a sentirsi le gambe. Riposava su una superficie
calda e soffice. Non avrebbe saputo dire a cosa somigliasse quella
sensazione. Era così familiare, ma anche così distante. Forse perché la
sua testa ancora rimbombava di strani rumori immaginari. Percepiva i
raggi del sole sulla sua pelle. Il suo respiro era regolare. Nonostante
tutto, era felice di scoprirsi vivo.
Matthew, dopo alcuni interminabili minuti, decise finalmente di aprire
gli occhi. Fu investito da una luminosità diffusa. Intorno a lui
regnava un’atmosfera celestiale e serena. A quanto pare era disteso su
una morbidissima spiaggia. Riusciva a sentire le onde dell’oceano
infrangersi contro la costa. Intravide, per un attimo, della spuma
azzurrina. Avrebbe proprio voluto bagnarsi il viso e bere. ‘Cipicchia,
che sete che aveva! Matthew cercò di muovere un braccio ma era
incredibilmente pesante. Sembrava che un enorme macigno si fosse
depositato sul suo corpo. E lui era lì, cosciente e immobile,
condannato. Cercò allora di rimettere ordine nella sua testa, ma era
tutto così fumoso. Non riusciva a ricordare nulla di specifico, qualche
immagine sparsa. E poi il vuoto. Una nebbia fitta e penetrante era
scesa all’origine dei suoi ultimi ricordi e li aveva cristallizzati.
Non riusciva più a distinguere il sogno dalle sue reminiscenze recenti.
Matthew decise di provare nuovamente ad alzarsi. Poteva
muovere le dita delle mani, ma sentiva ancora un forte dolore. Riuscì
per miracolo a contrarre il braccio e a poggiare il palmo della mano
per terra, facendo leva. La sabbia era davvero calda. Aveva ripreso
sensibilità alle gambe, ma era ancora troppo debole per tirarsi su.
Riuscì a girare su se stesso, mettendosi seduto, con la schiena ritta.
In questo modo poteva guardarsi intorno. Apparentemente, si trovava su
una costa sperduta. Oltre l’enorme spiaggia si estendeva una fitta
vegetazione lussureggiante. Sembrava proprio una jungla. Innumerevoli
alberi dagli splendidi toni di verde intrecciavano i loro rami in una
primitiva danza selvaggia, ergendosi a padroni di quei luoghi
incontaminati.
All’improvviso, mentre contemplava quel luogo così puro, Matthew si
accorse di un particolare che, per un momento, gli fece gelare il
sangue. Era inspiegabile, eppure, a parte il continuo infrangersi delle
onde, non sentiva assolutamente nessun altro rumore provenire dalla
terraferma. Non c’era verso di insetto, scimmia o qualsiasi altro
animale che raggiungesse le sue orecchie. Era tutto estremamente calmo.
Troppo calmo. Mancava perfino il soffio del vento.
Incerto sulla sua situazione, con qualche frammento di ricordo
aggrappato a sé, Matthew restò lì sulla spiaggia, in contemplazione, a
guardare il mare finché il sole non iniziò ad eclissarsi oltre
l’orizzonte.
L'Angolo
dell'Autore
Ciao a tutti! Eccomi tornato a scrivere qualcosa qui su Efp (ancora in
questa sezione!!). Diciamo due parole su qeusta nuova storia che ho
inserito. Ho deciso di metterla nella categoria dei Gialli, perché di
fatto è una storia gialla, piena di mistero e di suspence, ma non è il
classico racconto alla Agatha Christie. Ouroboros è un
giallo atipico, che mescola elementi introspettivi con immagini
oniriche, il tutto unito ad un tocco di follia. Di fatto non ha un vero
genere preciso di riferimento, perché ne mescola molti insieme.
Inoltre, per la gioia di tutti quelli che vorranno leggere questa
storia, vi farà piacere sapere che ho scritto già cinque/sei capitoli
in modo tale da "portarmi in vantaggio" e riuscire a pubblicare
abbastanza regolarmente ogni cinque o sei giorni! Altro appunto, la
frase in corsivo che leggerete all'inizio di ogni capitolo è una
citazione (personale o di un personaggio famoso) inerente agli eventi
del capitolo stesso, in questo modo spero, ogni volta, di "preparare
l'atmosfera giusta per la lettura". Detto questo, spero che questo
racconto vi piaccia. Io ci metto tutto me stesso come al solito.
Ovviamente è sempre gradito un commento, anche solo per farmi sapere se
questa storia vi sta appassionando oppure no! Credo di aver detto
tutto, quindi alla prossima!!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** La seconda occasione ***
Capitolo
2: La seconda occasione
“Non
arrenderti mai,
perché quando pensi che sia tutto finito,
è il momento in cui tutto ha inizio.”
Matthew era seduto su quella spiaggia solitaria, mentre avanzava
l’imbrunire. I granelli di sabbia scintillavano ancora qua e là, ma con
colori più opachi ed evanescenti. Si era alzata una leggerissima brezza
che con dolcezza cullava gli alberi più alti alle sue spalle. E lui era
lì, quasi ai confini del mondo, rilassato e in pace. Aveva fame e sete,
ma non gli importava. Cercava, piuttosto, di reprimere quelle
necessità, godendosi le carezze che il vento gli riservava in
quell’attimo d’estasi. Aveva il viso rivolto verso l’alto, gli occhi
chiusi. I lunghi capelli ricci, castani, ondeggiavano all’indietro,
oltre le sue spalle. Un leggero sorriso gli illuminava il volto. Era la
speranza a sorridere, la speranza di raggiungere una fine. Di essere
libero. Di essere salvato da qualunque cosa dovesse essere salvato. Si
era svegliato, e aveva trovato un mondo in cui era ancora necessaria la
sua presenza ad attenderlo. In quel momento, naufrago su una spiaggia
di vita, reduce da chissà quale destino, vedeva davanti a sé
l’enormità di quello che poteva ancora fare. Un insieme di possibilità
gli scorreva nella mente come in un rapidissimo flash. Quella spiaggia
gli stava dando una seconda occasione. Lo sapeva. Lo aveva sentito fin
da quando aveva aperto gli occhi. Ora doveva solo decidere quale mossa
fare in quella scacchiera inesplorata.
Mentre Matthew era immerso in tali pensieri, il sole si spense
definitivamente oltre l’orizzonte. Un'enorme macchia dalle
infinite tonalità di rosso si estese nel cielo, creando forme confuse,
idee vaganti trasformatesi in morbide nuvole d’arancio. Le prime stelle
si resero visibili nel cielo, come bianchi spilli d’eternità, fisse su
quella tela cremisi. Lo sguardo di Matthew era meravigliato. Aveva
dimenticato il dolore alle gambe e al petto, le sue sciagure, la fame e
la sete. Ogni cosa svaniva di fronte alla bellezza di una visione così
suggestiva e ancestrale.
«Uno spettacolo impressionante, non è vero?»
Una voce limpida e penetrante ruppe con decisione quel momento
contemplativo. Matthew era stupito. Per un paio di volte si
domandò se avesse sentito bene. Poi si voltò. Un ragazzo si
ergeva, a braccia incrociate, al limitare della jungla. Aveva la
carnagione scura, ma non nera come il carbone, piuttosto bruna e
bronzea, i capelli erano aggrovigliati su se stessi, formando dei
dreadlocks, e raccolti con una sorta di elastico dietro la testa.
Indossava un gilet azzurro, molto leggero e per di più esageratamente
usurato, tanto da lasciar intravedere dei piccoli buchi lungo la sua
superficie.
Matthew era pietrificato. Cercò di parlare ma, quando ci provò, non
uscì alcun suono dalla sua bocca. A quanto pareva, come conseguenza della
sua disavventura da esule, aveva perso la voce.
«Non preoccuparti, non c’è bisogno che ti sforzi.»
Il ragazzo aveva parlato nuovamente con il suo tono sottile,
mentre avanzava a piccoli passi verso di lui.
«Non aver paura», disse, «ecco, tieni!»
Estrasse da una piccola borsa a tracolla una bottiglia di vetro, colma
di freschissima acqua scintillante e la porse a Matthew insieme a della
frutta che portava con sé. Quest’ultimo non fece troppi complimenti e,
nonostante fosse molto sospettoso, iniziò a divorare il pasto che gli
era stato concesso e a dissetarsi con piacere. Ogni tanto lanciava
delle occhiate stranite al suo misterioso ospite.
«Sei un Esterno, non è vero? Io mi chiamo Nathan.»
Cosa voleva dire con “un Esterno”?, pensava Matthew. Le sue frasi
erano criptiche, senza senso.
Nathan vegliò su di lui finché non ebbe finito di mangiare, poi
pronunciò poche parole, ma intense e cariche di significati da poter a
mala pena essere compresi.
«Raggiungimi solo quando sei pronto. Non avere fretta. Il tempo è tutto
tuo. Quest’isola, dopotutto, è soltanto troppo piccola.»
Poi Nathan indietreggiò e, prima che Matthew avesse l’opportunità di
replicare, era sparito nella selva. Come un fantasma.
L'Angolo
dell'Autore
Ehilà! Siccome siamo ancora all'inizio, ho deciso di pubblicare almeno
un altro capitolo, per farvi assaggiare un po' le atmosfere che si
respireranno in questa storia. Sto procedendo spedito, quindi non credo
che ci siano grossi problemi. Fatemi sapere cosa ne pensate! :) E, per
il seguito, restate connessi!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** La Collina dei Conigli ***
Capitolo
3: La Collina dei Conigli
“Qui non
c'è nessun pericolo, per ora.
Ma
si sta avvicinando... è in arrivo.
Oh,
Moscardo, guarda! Il prato! È coperto di sangue!”
Matthew era disteso – ancora una volta – su quella sabbia finissima.
Dormiva saporitamente mentre le stelle, dall’alto, vegliavano su di
lui. La notte era placida ed era scesa silenziosamente, come una dolce
coperta di velluto, ad avvolgere quei luoghi incantati. Sotto quel
mantello oscuro, l’unica cosa che si riusciva a percepire era il
silenzio, mentre, su quel tratto di costa, il ragazzo dai ricci capelli
castani riposava le sue membra in una comunione perfetta con l’ambiente
circostante.
Matthew aveva ripensato molto alle parole di Nathan, prima di
addormentarsi, ma per lui avevano sempre meno senso. Voleva forse
dirgli di inoltrarsi in quella jungla? Ma per fare cosa poi? Non c’era
assolutamente niente lì, a parte alberi su alberi. Certo, non sarebbe
potuto rimanere su quella spiaggia per sempre. E dopotutto non aveva
nulla da perdere. Quindi decise che l’indomani sarebbe partito. Non
sapeva per dove o perché, ma sarebbe stato meglio che rimanere lì. Poi,
con la mente serena, chiuse gli occhi e cadde fra le braccia di Morfeo.
L’aurora giunse presto anticipando la venuta del sole, con i suoi
colori lilla-lavanda prima, per poi passare a deliziosi toni d’arancio.
Il mare iniziò a scintillare dall’emozione. Matthew si svegliò non
appena i primi raggi luminosi varcarono i confini dell’orizzonte. Era
riposato, e si scoprì stranamente euforico alla prospettiva
dell’avventura che stava per vivere. Aveva inavvertitamente ripreso
sensibilità alle gambe e riusciva a muoverle senza problemi. Il dolore
era sparito, come portato via da una grande onda marina. Non era ancora
riuscito a fare ordine nei suoi ricordi, ma almeno adesso credeva di
poter riuscire a camminare. Titubante, si erse, mettendosi seduto sulla
sabbia. Poi, poggiando entrambe le mani per terra, si diede una spinta,
forte. Le gambe ressero. Matthew era in piedi, di fronte a quell’oceano
sterminato che, scintillando, sembrava applaudire il suo trionfo. Il
sole lo investì da lontano in tutta la sua interezza. Sentì i suoi
caldi raggi sulla pelle come un premio.
Matthew si guardò intorno. Nonostante riuscisse a stare eretto aveva
ancora paura di cadere nuovamente. Fortunatamente, poco distante da
dove si trovava, le onde avevano riportato sulla riva un sottile tronco
di albero, adatto a fare da bastone. Muovendosi con cautela, ponderando
bene i singoli passi, si avvicinò ad esso e lo raccolse. Era perfetto.
Liscio, quasi da sembrare lavorato, lo affondò nel terreno e iniziò ad
avvicinarsi alla jungla.
La jungla, che Matthew aveva osservato finora solo da lontano, era un
enorme intarsio di alberi dalle forme più varie e raccapriccianti. Le
radici che riusciva a vedere si sovrapponevano le une sopra le altre,
in una sorta di lotta per la sopravvivenza. Qua e là qualche fiore
cercava di farsi largo, aggiungendo un tocco di colore a quei rami
secolari, ma, nonostante questo, quel panorama era il caos. Matthew
costeggiò la jungla per alcuni metri prima di trovare un’insenatura
che, nelle sue condizioni, gli permettesse di accedervi, e poi, con
circospezione, guardando attentamente in avanti, procedette. La
rassicurante luce del sole sparì, sostituita da toni di chiaroscuro. I
raggi cercavano di farsi largo dall’alto, in quella fitta rete di
gallerie naturali, con difficoltà. Matthew aveva il cuore a mille.
Sembrava che ad ogni passo, i rami lo tirassero per gli abiti logori,
come un segno d’avvertimento, come se gli dicessero di tornare
indietro. Ma lui era risoluto a proseguire. Non c’era nulla sulla
spiaggia per cui valesse la pena tornare. Più volte si trovò
di fronte a un sentiero diramato in due e la scelta su quale strada
intraprendere fu totalmente casuale. Dopotutto, non c’era rumore di
sorta che potesse dargli un indizio sulla via giusta da percorrere. In
quel regno, v’era il silenzio, un’assoluta assenza di suono, una musica
perversa, priva di tono, timbro o intensità. Questo spaventava Matthew
più di qualsiasi altra cosa. Era innaturale e claustrofobico. Era
asfissiante. Alterava ogni percezione, rendendo tutti i sensi più
recettivi, come se il pericolo fosse acquattato fra i cespugli e
potesse emergere improvviso, ad ogni angolo.
Dopo un tempo indefinito, in quella boscaglia tremolante, Matthew
intravide in lontananza un sentiero che conduceva verso l’alto. Forse
sarebbe riemerso dal torpore della selva. E così fu. Si ritrovò
all’improvviso su una piccola collinetta verde, una duna d’erba. Fu un
sollievo rivedere la luce del sole. Dall’alto di quella gobba naturale
che la jungla aveva risparmiato, riusciva a vedere la spiaggia lasciata
alle spalle. Non aveva rimpianti, certo. Ma ripensare a quella sabbia
così calda e soffice gli fece provare un senso di nostalgia. Davanti a
sé, invece, non riusciva a intravedere granché. Alcuni alberi dalla
portata colossale gli impedivano la vista. Fu solo quando provò a
mandare il suo sguardo ancora più in là che se ne accorse. Sulla
superficie dell’intera collinetta erano deposti, per terra, centinaia
di conigli di carta colorata, dalle differenti forme e dimensioni.
Erano degli origami perfetti in ogni dettaglio. Ce ne erano di rosa,
celeste, bianchi, insomma di tutti i più chiari colori. E ognuno aveva
un particolare comune: alcune chiazze rosso carminio macchiavano quei
capolavori come sangue nei punti più disparati. Taluni erano deturpati
interamente. Era uno spettacolo raccapricciante. Matthew si chiese il
significato di tutto ciò. Ancora una volta, non aveva senso. Non
potevano esistere conigli di carta in una jungla spersa chissà dove!
Eppure eccoli lì, moribondi, a fissarti con le loro tinte sanguigne.
Matthew continuò a guardarsi intorno cercando una spiegazione razionale
a quello che gli stesse succedendo, invano. In quel momento, si accorse
di un cartello di legno posto ai piedi della collina, dal lato opposto
dal quale era salito. Si avvicinò guardingo e, allucinato, lesse la
scritta che recitava:
QUESTA TENUTA,
COMPRENDENTE TERRENO EDIFICABILE,
IN POSIZIONE IDEALE,
VERRÀ TRASFORMATA IN UN MODERNO
CENTRO RESIDENZIALE DALLA DITTA
SUCH AND MARTIN.
L'Angolo dell'Autore
Ciao ragazzi! Sto procedendo molto spedito, più di quanto avessi
pensato quindi eccomi qui con un nuovo capitolo, sperando che cominci
ad intrigarvi un po'. Come al solito, ogni commento/critica è
ben'accetto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Il Collezionista ***
Capitolo
4: Il Collezionista
La
vispa Teresa avea tra l'erbetta al volo sorpresa
gentil farfalletta e tutta giuliva stringendola viva
gridava distesa: “L’ho presa! L’ho presa!”
Finalmente una verità! Matthew non era solo su quell’isola!
Probabilmente lì vicino passava un’enorme autostrada asfaltata, con
migliaia di automobilisti stressati che strombazzavano a destra e
manca. Oppure era nei pressi di uno di quei villaggi vacanze immersi
nel verde. Era salvo. Era vicino alla civiltà. Magari di lì a poco
sarebbe arrivato un turista pronto a soccorrerlo. Forse, se avesse
urlato, qualcuno sarebbe riuscito a sentirlo, ma riusciva a stento a
pronunciare qualche parola. Inoltre, si scoprì la gola completamente
secca. Diamine, da quanto non beveva? Preso dai recenti avvenimenti e
dalla prospettiva di inoltrarsi nella jungla, aveva completamente
trascurato il suo fisico. Eppure stava bene. Non aveva fame, e neanche
sete, a dir la verità. Provava solo un ruvido, graffiante e pruriginoso
fastidio alla gola. Matthew accantonò momentaneamente quei pensieri e
prese a concentrarsi nuovamente sul cartello. Se davvero si trovava su
terreno edificabile, a quanto pare acquistato da quella fantomatica
ditta citata lì, perché i conigli? Non avevano senso in tutto quel
panorama. Erano assolutamente fuori luogo e non c’era nessun modo per
farli rientrare in uno schema sensato. Matthew ne raccolse uno da terra
per esaminarlo. Era un delizioso coniglio di carta giallognolo, grande
meno di una mano, con le sue piccole zampette, la coda, le orecchie e
tutto il resto. Vicino quella che sarebbe dovuta essere la bocca,
tuttavia, c’era una chiarissima macchia rossa e un’altra, dello stesso
colore, percorreva tutta la sua schiena. Se quello era uno scherzo,
allora non era divertente. Insomma a che scopo macchiare a sangue
quegli innocui animaletti? Incerto sul da farsi, Matthew restò su
quella collina bagnata dal sole a riflettere. Non riusciva a capire.
Dopo alcuni minuti di riposo, decise di rimettersi in marcia. Doveva
trovare gli uomini che avevano piazzato lì quel cartello. Doveva
avvertirli che lui era lì. Che andava salvato. Impugnò allora
saldamente il suo bastone e si mosse nuovamente dentro la jungla, oltre
quel famigerato cartello. Le ombre si richiusero sopra di lui. Era di
nuovo perso, in una fitta rete di sotterranei umidi.
Avvertiva quel senso di pericolo incombente, una minaccia
inconsistente, ma vicina. Matthew si stupiva di se stesso. Credeva che
adesso, data la recente scoperta, si sarebbe sentito più al sicuro, ma
non fu così. Ogni passo era un fremito. Ogni volto roccioso un brivido.
Quella selva lo opprimeva. Matthew continuò ad avanzare, cercando di
mantenere sempre la stessa direzione presa. All’improvviso accadde
qualcosa che lo animò. Giungeva da lontano, ma era netta e precisa non
aveva dubbi, cristallina come un sasso che cade nell’acqua. Una voce
stridula e fredda. Non riusciva a capire cosa dicesse, ma Matthew capì
che quella era la sua speranza di salvezza. Corse come un forsennato,
nei limiti della sue possibilità, in direzione del fragore e, ivi
giunto, nascosto dietro un cespuglio, ciò che vide lo lasciò basito. E
ancora una volta, nulla aveva senso. Di fronte a lui, illuminato da un
raro raggio di sole che era riuscito a farsi largo in quella boscaglia,
stava solitario un uomo di mezza età, con un completo da esploratore e
un retino in mano che agitava come un forsennato.
«Neanche questa! Neanche questa! Neanche questa!!»
L’uomo era in preda a spasmi convulsi e incontrollati. Urlava quelle
parole ai quattro venti, irato più di Zeus in persona. Il retino che
stringeva dalla lunga asta metallica si muoveva su e giù fra gli alberi
in un incessante battito ritmico. Dall’oscurità, Matthew non riusciva a
osservare bene, perciò cercò di avvicinarsi con moderazione. Fu
inutile. Un “crack” provocato dalla rottura di un ramo sotto il suo
piede rivelò immediatamente la sua posizione. L’uomo si voltò in tutta
fretta, e rimase stupito nel vedere di fronte a sé quel ragazzotto.
Matthew, d’altro canto, era basito quanto lui.
L’uomo era tozzo e dal volto pungente, magro e dai radi capelli
bianchi. Inforcava un paio di microscopici occhiali tondi, dietro i
quali si riuscivano a distinguere castani occhi da talpa sormontati da
folte sopracciglia nere. Il naso era grosso e adunco, e spiccava netto
su quella faccetta da rospo.
«Chi sei tu? Ladro! Ladro! Vuoi rubarlo? Vuoi rubarlo? È mio! L’ho
visto io! Lo troverò prima di tutti gli altri! Io!!»
Era folle, esaltato. Matthew cercò di parlare, ma riuscì a formulare
solo poche parole, rantoli che spaziavano dal “Chi sei?” al “Cosa
cerchi?”.
«Non fingere di non sapere!», disse l’uomo, «So cosa stai cercando di
fare! Vuoi confondermi! Ma lo troverò io! Sarà il re della mia
collezione!»
«Cosa collezioni?», disse Matthew con un sibilo.
«Farfalle! Farfalle!! Cos’altro, secondo te? Ah, ma non mi avrai! Sarò
io a trovare il Brucaliffo, la leggendaria farfalla blu! Alice l’ha
vista! La Regina la tiene prigioniera! Nessuno le crede, ma è qui, ne
sono certo! È qui! Non provare a rubarla! La troverò io!»
E detto questo, l’uomo, con un balzo, si inoltrò nella jungla,
producendo una risata dal gusto di delirio.
L'Angolo
dell'Autore
Eccomi con il consueto aggiornamento! Buona lettura! ^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Il Nero Motore del Mondo ***
Capitolo
5: Il Nero Motore del Mondo
Se
tutti i monti fossero libri, tutti i laghi inchiostro
e tutti gli alberi penne, questo non basterebbe ancora
per descrivere tutto il dolore del mondo.
Matthew si chiese se in quel momento gli altri uomini sapessero cosa
fosse il dolore. Quello autentico. Quello vero. Quello che spacca la
schiena e proietta nell’oscurità più nera. Quello che fa sentire perso.
Un bimbo sperduto. Un reietto, un dannato. Il dolore del corpo muore di
fronte all’altare della mente, principio e dominio dell’essere, padrone
delle emozioni. Perché non è sufficiente una parola per descrivere una
sensazione. Non basta una bella poesia con un titolo altisonante per
rendere giustizia allo stato dell’animo di un uomo e nemmeno mille
parole potrebbero spiegarlo. È vivo, il dolore. Così come lo sono la
gioia, il piacere, l’ossessione e l’odio. Ma il dolore è atroce, il più
terribile. Paralizza, il dolore. È cieco. Ha nome Algos, figlio di
Eris, dea della Discordia, figlia a sua volta della Notte, lato oscuro
della vita. È subdolo. Si insinua nei momenti di debolezza. Causa
guerre e pianto. Il dolore è il nero motore del mondo.
Matthew si trovava in quella piccola radura circondata da rami
tenebrosi e, fino a qualche attimo prima, stava parlando con un
Collezionista di Farfalle. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, la
fronte tirata. Gli sudavano le mani. Forse stava impazzendo.
Tutti possiedono ricordi, un modo come un altro per incontrare il
proprio passato, analizzare gli errori commessi e le difficoltà
affrontate perché siano di aiuto per il futuro. Esistono ricordi
piacevoli, quelli allegri e spensierati, immagini di vetro che
penetrano negli occhi producendo nostalgia. Ma esistono anche ricordi
più tristi, giorni difficili, tiri mancini della Sorte. E sono proprio
questi ad essere fondamentali per la crescita e la maturazione
dell’individuo. Fanno rialzare l’uomo che è affondato nella
disperazione. Per Matthew era impossibile risalire da quella
disperazione. Lui non aveva ricordi a cui aggrapparsi. Non aveva
niente. Non sapeva chi fosse il suo vero sé stesso, né chi fosse stato
in passato. Rammentava soltanto il funzionamento del mondo. La Terra
girava intorno al Sole. Le volte celesti non erano crollate. La gente
andava ancora a spasso nei quartieri “in” a fare shopping. Le donne non
avevano smesso di indossare i loro tacchi alti e i loro decolleté. I
politici continuavano a starnazzare, dicendo che avrebbero fatto fare
progressi al Paese, intascandosi, al contempo, bustarelle sottobanco.
Le navi e gli aerei continuavano a collegare tutti i luoghi del mondo,
anche i più lontani.
Non era cambiato nulla. Nulla. Matthew si era svegliato su quella
spiaggia dorata e l'universo intero aveva smesso di interessarsi della sua
esistenza, continuando la sua marcia come se nulla fosse. Questo lo
opprimeva. E adesso, impregnato di situazioni paradossali, l’aveva
raggiunto il tarlo del dubbio. Non sapeva più se il mondo che ricordava
fosse davvero quello vero. Quello autentico. Se fosse realmente
esistito. Se quello che rammentava fosse tutto falso oppure no. Chi
avrebbe potuto dirglielo? Una scarica elettrica percorreva tutti i suoi
arti, le gambe erano rigide, immobili. Chi le avrebbe sorrette senza la
ragione? Non poteva permettersi di impazzire. Non sapeva perché, ma era
fondamentale. Il suo istinto voleva vincere sul sentimento, e
proseguire. E capire. E ricordare. Perché, nonostante avesse paura,
fosse sconvolto dal dolore, sul punto di impazzire sul margine onirico,
Matthew era vivo.
L'Angolo
dell'Autore
Ciao a tutti, rieccomi con un capitolo un po' più introspettivo dalle
tinte fosche. Una piccola pausa in attesa degli eventi del prossimo
capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Questa non è un'isola! ***
Capitolo
6: Questa non è un’isola!
Il
gioco di prestigio è una cosa onesta perché è chiaro
in anticipo che la realtà è diversa da quella che appare.
Matthew, in quell’istante, non riusciva a credere ai suoi occhi. Dopo
aver incontrato quel “Collezionista di Farfalle”, aveva camminato per
ore nella jungla, protetto per mezzo di tralicci naturali dal caldo
torrido di quelle bollenti ore pomeridiane, fino a trovare un’uscita.
Si era mosso peregrino, intontito, senza una meta. Stranito. Andando
avanti per inerzia. Era più il suo spirito che il suo corpo ad essere
dolorante. Non riusciva a capire se fosse il mondo ad essere impazzito
e lui l’unico ad essere ancora sano di mente oppure il contrario. Sta
di fatto che, in quel momento, aveva gli occhi sgranati ancora una
volta. Di fronte a lui, in una verde pianura al di fuori della selva,
si ergeva un accampamento indiano. Sereno. Incontaminato.
L’accampamento comprendeva alcune tende bianche, di forma conica, fatte
con una copertura di pelli o tele. Matthew le conosceva. Erano delle
teepee, le stesse che usavano i nativi americani nelle Grandi Pianure.
Erano disposte in un cerchio e al centro, vicino ad un piccolo falò,
campeggiava un gigantesco totem. Questo era finemente decorato in modo
da raffigurare più totem sovrapposti. Le due sculture alla base e al
centro erano amorfe, ma ricordavano vagamente alcuni visi umanoidi. La
parte alta, invece, era più complessa. Riproduceva un gigantesco
uccello, forse un condor, con la testa nera e un becco rosso sporgente
in avanti. Ai lati spalancava due grandi ali viola, le cui piume erano
dipinte con un vivido colore marrone. Lo sguardo disegnato sembrava
crudele e malvagio. Come se quel totem fosse stato messo lì apposta per
giudicare tutti i membri dell’accampamento, senza distinzione.
Matthew era senza parole dallo stupore e dalla bellezza di quel luogo.
In quella valle, regnava un silenzio irritante. Non c’era anima viva. O
almeno così sembrava. Dai teepee non giungeva alcun rumore, ma,
nonostante questo, il fuoco era acceso, quindi doveva esserci qualcuno.
«Sei arrivato giusto in tempo, ho appena acceso il falò.»
Una voce limpida e penetrante, sottile, che Matthew già conosceva. Da
una delle tende, spuntò fuori un ragazzo dalla pelle scura, un gilet
azzurro, dreadlocks per capelli. Nathan. Si avvicinarono finché non
riuscirono a guardarsi negli occhi mantenendo comunque una certa
distanza. Una freddezza emotiva. Matthew non sapeva cosa dire.
«Ti è piaciuta la foresta?», disse Nathan.
Aveva parlato con il tono più tranquillo di questo mondo. Come se fosse
una cosa normale. Come se si stesse informando sulle previsioni meteo.
Come se intendesse “piaciuta la passeggiata?”.
«Si può sapere chi diavolo sei? Cos’è questo posto?», disse Matthew, in
un eccesso d’ira, «E chi è quel tipo strano che si aggira nella
foresta?». Era rosso in viso. Voleva delle spiegazioni. Troppe cose non
avevano senso e Matthew era sicuro che Nathan conoscesse una risposta
precisa a tutte le sue domande.
«Hai incontrato qualcuno?», chiese Nathan, sinceramente curioso.
«Non fingere di non saperlo! Quel vecchio delirava! Ha detto che stava
cercando il Brucaliffo, o qualcosa del genere. Tu devi sapere cosa
significa!!», fece una pausa, poi riprese, più spedito di prima, «E i
conigli poi? Che ruolo giocano in tutto questo? Insomma, cos’è
quest’isola?»
Nathan si fece scuro in viso. Abbassò lo sguardo e poi parlò, molto
lentamente.
«Questa non è un’isola, Matthew. Non è un’isola. La persona che hai
incontrato e quelle che incontrerai... ascoltale attentamente, ma non
fidarti di loro. È solo un trucco! Cercheranno di ingannarti.»
«E questo cosa vorrebbe significare?»
Nathan sorrise.
«Rispondi a questa domanda, Matthew. Nel profondo del tuo cuore, quando
hai incontrato quel vecchio di cui parli, quando hai visto i conigli di
cui racconti, hai sentito una scossa, non è vero? Una sensazione di
familiarità, un dejà vu?»
Matthew rimase profondamente colpito da quelle parole. Lo aveva negato
a se stesso per tutto il giorno, ma ciò che diceva Nathan era vero.
Assolutamente vero. Non sapeva come spiegarlo. Era una sorta di
nostalgia quella che aveva provato, mista a tristezza. Un sentimento
alienante.
Nathan capì che aveva fatto centro, e sorrise.
«Ti ho lasciato della carne sul fuoco. Sarai affamato, presumo. Ti
consiglio di riposarti bene. Ti aspetta un viaggio lungo e faticoso.
Una scalata non indifferente, in effetti», e detto questo fece dietro
front, allontanandosi nella vasta pianura, lontano dall’accampamento.
Matthew provò a richiamarlo, a urlare con quanto fiato avesse in gola,
a chiedere spiegazioni. Ma lui era già sparito. Un puntino
all’orizzonte. L’unica cosa che credette di sentire fu una frase
enigmatica: “Lasciati andare. Lasciati andare.”
Il ragazzo dai capelli ricci si avvicinò al falò per riscaldarsi e si
accorse di non vederci più dalla fame. Era stanco. Per la faticosa
giornata. Per gli eventi passati. Perché si sentiva solo. Mangiò quello
che Nathan gli aveva conservato, e si dissetò con dell’acqua contenuta
in una borraccia poco distante.
Ripensò a Nathan. Per la seconda volta, lo aveva aiutato. E Matthew non
aveva la più pallida idea del perché.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** L'inconsistenza onirica del sogno ***
Capitolo 7: L’inconsistenza
onirica del sogno
Quando
in sogni opprimenti e orribili l'angoscia
tocca il grado estremo, è proprio essa che ci porta al
risveglio,
con il quale scompaiono tutti quei mostri notturni.
La notte è buia e piena di orrori quando non ci sono luci ad
illuminarla. Quando il black-out paralizza una città e le candele
accese diventano spettri che si muovono fluttuando fra vie dall’odore
di pericoli e le stelle brillano minacciose nel cielo, annunciano la
rovina. Allo stesso modo Matthew era accucciano in un teepee,
rannicchiato su se stesso, il suo ego annichilito da vicende di cui non
riconosceva un volto o una ragione. Gli occhi chiusi, spenti. Le labbra
leggermente pendenti, i capelli adagiati sul terreno a formale una
spirale, che risucchia ogni emozione. Che spegne ogni sospiro. Il
conforto sarebbe dovuto arrivare nel sonno ristoratore ma era proprio
lui, il sonno – e il sogno – a offuscare ogni briciolo di felicità.
Matthew non volava in alto, sereno, fra le nuvole, ma sprofondava
sempre più giù, verso l’Inferno. E nonostante avesse paura, non aveva
più forza per combattere.
Lasciati andare.
Lascia che sia il dolore a conquistarti. L’Oscurità.
Muori in una pozza nera, senza implorare aiuto, lascia che mani di
tenebra ti trasportino ai Campi Elisi, che ti cingano il petto, che ti
sbattano in una cella grigia e buttino via la chiave. Non ti serve
nient’altro di questo mondo. Sei una microscopica capocchia di spillo
che si dibatte nelle viscere dell’esistenza, lì al margine fra ciò che
è e ciò che non è. Allora non essere. Cessazione della fatica. Di ogni
dolore. Annullamento della personalità. Cancellazione dell’ego dai
registri dell’universo.
Cammini su una strada sbiadita, ondulata, percorsa solo da lucciole
solitarie, forme tangibili di ciò che può essere uno spirito buono. Ma
il mondo è percorso anche da spiriti malvagi. E sono loro che danno
adito a plumbei pensieri quando non stai guardando. Quando la tua mente
è distratta in un’immagine onirica. In un sogno.
Cammini su una strada sbiadita, Matthew, e le ombre di ogni individuo
che osservi si contraggono su se stesse divorando i loro proprietari.
Inglobano tutto in un’oscurità indistinta. Un macabro banchetto, senza
pane né vino, in onore di Fobétore. E quei volti li hai già visti in
passato, li conosci. Ma non riesci a ricordarli. Sono facce bianche e
ovali come un pallone da rugby, vestite di tutto punto, senza occhi, né
naso, né capelli. Senza tratti. Così è come essere nessuno. Eppure sai
che basterebbe una spinta per rammentare. Ma sei debole. E ti trascini
verso l’Inferno. Dannazione. Peccato. Spirale. Morte. Un ciclo senza
fine che circonda ogni essere vivente. Che conduce al rosso acceso. E
alla polvere.
Le fate ti salutano dall’alto, mentre ti aggrappi a un’ultima speranza.
Mentre credi di poter ancora fare quando ormai il tuo compito è finito.
Stai per cedere lo senti. L’incubo ti avvolge e vince.
Ed è così che emerge l’idea. Spontanea e innata. Incausata. Un bagliore
leggero ma netto che si staglia contro il fronte ondoso delle tenebre.
È così che ti accorgi che non è tutto bianco o nero. Che la natura è un
continuo mescolarsi di tonalità e colori diversi. Che non è un discreto
ma un continuo divenire. Il bianco e il nero sono solo più realistici.
Non tutto è perso o salvato per sempre. Combatti per questa idea,
Matthew. Lasciati
andare. Perché, quando ti sveglierai davvero, potrai non
essere più te stesso. Perché alla luce di quello che capirai e vivrai
sulla tua pelle, il mondo potrà apparirti differente. Un chiaro oscuro.
Dal gusto di delirio.
All’improvviso, mancanza di ogni sostegno. Sensazione di caduta nel
baratro senza fine. Cuore che viene estratto dal petto e divorato.
Lacerato. Masticato e gettato ai cani. Mente aperta in due. Dolore.
Raggio di sole. Risveglio.
Matthew si svegliò di soprassalto. Una luminosità fioca si estendeva in
tutto il teepee, facendo risaltare le strane figure dorate dipinte al
suo interno. Era stato un sogno così reale, così reale… Matthew
pensava, ma non riusciva a focalizzare. Credeva di aver visto un volto
ovale prendere forma.
E la forma assunta era stata quella del Collezionista di Farfalle.
L'Angolo dell'Autore
Doppio aggiornamento questa settimana! Questo week end sarò un po'
impegnato quindi pubblico adesso. E poi non vedo l'ora che arrivi il
prossimo capitolo, presto vedrete perché! Io sono cattivo e non vi
anticipo niente!! :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** La Nave di Teseo ***
Capitolo
8: La Nave di Teseo
“Viviamo
tutti a bordo di una nave salpata da un porto
che non conosciamo, diretta a un porto che ignoriamo;
dobbiamo avere per gli altri una amabilità da viaggio.”
“Allora forse ti ho già visto. Ti conosco. Chi sei? Chi sei?”
Questo pensava Matthew arrancando nella pianura, allontanandosi dal
calore e dalla sicurezza che i teepee infondevano. Si sentiva
rigenerato, ma non era sereno. Per nulla. Nella testa gli ronzavano
mille pensieri, come uno sciame di api in agguato in un nido. Era certo
di avere già incontrato in precedenza il Collezionista di Farfalle.
Credeva di averlo visto, nel sogno della scorsa notte. Alcuni contorni
avevano preso forma, ma non riusciva a focalizzare. Era tutto così
oscuro e nebuloso. Come se mancasse la chiave di volta del tutto.
Immagini cangianti gli vorticavano davanti agli occhi, e forse fu
proprio per questo che non si accorse del cambio di ambientazione.
Aveva la pianura alle spalle, e stava percorrendo un dissestato
sentiero montano, pieno di ciottoli e terriccio fangoso. Certo, era
curioso. Dall’accampamento era sicuro di non aver intravisto alcuna
catena montuosa, per quanto piccola, all’orizzonte. A questo punto non
sarebbe riuscito a tornare indietro neanche volendolo. Era sicuro che
Nathan lo avesse previsto.
Nathan. Un personaggio bizzarro. Nitido come una sfera di cristallo.
Dalla sua limpida serenità emotiva, dal suo distacco terreno da ogni
cosa, sembrava conoscere tutto. Infondeva negli altri un senso di
sicurezza. “Ci sono io a proteggerti, non preoccuparti”, questo
sembravano dire i suoi occhi. E quegli occhi, dio, quegli occhi! Ti
uccidevano come una coltellata! Potevi perderti in mille labirinti solo
a guardarli, potevano stregarti più di Medusa. Potevano, da soli,
sorreggere il mondo. Nathan era una figura teatrale e pura. Una
presenza solida. Matthew non ce la faceva ad avercela con lui per non
avergli dato spiegazioni. Come faceva ad essere arrabbiato? Gli aveva
praticamente salvato la vita.
«Ci siamo persi, ragazzo?»
Una voce ruvida e grinzosa fendette l’aria come una lama deformata.
Matthew si riscosse e si guardò intorno. C’erano solo rocce e alberi, e
quel piccolo sentiero acciottolato pieno di buche.
«Sembra proprio smarrito, non è vero?»
Un’altra voce. Questa era sottile, di seta. Ma immancabilmente
sgradevole e pungente.
«Chiamerà la mamma adesso?»
Una risata collettiva. Sembravano in due. Ma non c’erano. Non c’era
nessuno su quel sentiero. Nessuno. Neanche un’anima. Il vuoto. Matthew
pensò che forse era giunto in un punto di non ritorno nel baratro della
sua follia. Quando si iniziano a sentire voci, o si è pazzi o sono gli
altri ad esserlo. E in ogni caso non è un buon segno. Ma qui di altri
non se ne vedeva l’ombra, quindi rimaneva soltanto una conclusione.
«Credi che lo abbiamo spaventato?»
Di nuovo la voce di seta, questa volta con un accento un po’ più
incerto. Poi una risata ruvida.
«Non avercela con noi, ragazzo, volevamo soltanto divertirci un po’.
Non passa mai nessuno da queste parti!»
Nessuno dietro agli alberi, nessuno all’orizzonte. Le rocce sono vuote.
Le foglie non parlano! Il vento non sussurra! Dove siete? Dove siete?
Dove siete?
«Sai, il fatto che tu non sappia dove guardare fa pensare che tu non
sia una persona molto ottimista. Il terreno è come un muro. Non saprà
mai darti giusti consigli, per quanto tu voglia sbatterci la testa
contro.»
Gli occhi di Matthew si erano ridotti a fessure. Continuava a guardarsi
intorno con circospezione. Poi, la rivelazione.
«Osserva il cielo!», disse la voce ruvida.
Alzò lo sguardo. Bastò poco per capire. Come aveva fatto a non vederla?
Una vista così stupefacente. E anormale, tanto per cambiare. A tratti
sinistra.
Ancorata saldamente fra gli alberi, avvinghiata nei rami di tronchi
millenari, riposava una nave gigantesca. Sospesa nel cielo, ma attratta
al suolo. A metà fra il tetraedo e il cubo platonico. Era una nave
maestosa. Di un legno lucido, che non mostrava il minimo segno di
invecchiamento o di usura. Con fregi dorati che si raffinavano in
morbide curve lungo i fianchi. Le vele bianchissime. Non aveva
bandiera. A prua una polena dall’enigmatico sorriso guardava Matthew
dall’alto. E il ragazzo era incantato. Fu solo a quel punto che si
accorse dei due uomini che si muovevano freneticamente lungo il bordo,
sporgendosi e cercando in tutti i modi di farsi notare. Il primo,
quello dalla voce ruvida come la suola di una scarpa, era corpulento,
con una fitta barba nera. Indossava un vestito da capitano e aveva
sulla testa uno di quei cappelli marinareschi che probabilmente
oggigiorno vedresti solo in un fumetto. O su una nave, appunto. L’altro
era smilzo, più giovane, con un’uniforme blu e una barbetta incolta a
segnargli il viso. Sarebbe stato pure un bel ragazzo se non avesse
avuto una grossa cicatrice che gli segnava i lineamenti da parte a
parte. Un volto angelico trasformato in demone.
L’uomo con il vestito da capitano lasciò cadere una lunga scala di
corde e invitò il ragazzo a salire, con dei modi un po’ rozzi ma,
almeno all’apparenza, amichevoli. Matthew era ancora fermamente
attaccato al terreno, magnetizzato, e non sapeva decidere se scappare a
gambe levate, evitando altri pazzoidi, o cercare di capire qualcosa in
più sulla assurda situazione in cui si era andato a cacciare. Ma il suo
innato istinto di curiosità lo spinse a mettere i piedi su quella scala
di fortuna e a salire lentamente. Si sentiva come se stesse scalando un
cielo invisibile, coperto dall’ombra di quella nave misteriosa.
Giunto sulla cima, Matthew venne tirato su dai due uomini e
letteralmente scaraventato sul ponte. Si rialzò a fatica e riuscì
finalmente a vedere distintamente i due figuri che fino a qualche
istante prima erano solo puntini nel cielo. Fu l’uomo dalla voce ruvida
a rompere il ghiaccio.
«Benvenuto a bordo, straniero!», incominciò, «Perdonaci per averti
spaventato. Non era nostra intenzione. Permettimi di presentarmi, io
sono Capitan La Roche», disse, togliendosi il cappello e mimando un
inchino. Poi indicò il suo compare, «e questo è il mio primo ufficiale
Sebastian Leroux.»
Il tipo mingherlino abbozzò anche lui un inchino.
«Io mi chiamo Matthew», disse il ragazzo, adeguandosi a loro, «e credo
di essere un po’ confuso… Cosa vi è capitato, monsieur La Roche? Cosa
ci fa una nave come la vostra qui sugli alberi? E dov’è il resto del
vostro equipaggio?»
Lo sguardo del capitano si fece di cenere.
«Sono tutti scomparsi.»
«Intende dire che sono… morti?»
«No, no, parbleu», rispose Leroux, «sono semplicemente andati avanti.»
Matthew non riusciva a comprenderli.
«E anche noi li seguiremo al momento opportuno!», riprese La Roche,
«Alla prossima mareggiata! È vicina, lo sento! Me lo dicono queste
vecchie ossa, e credimi, ragazzo, non ho mai sbagliato. È in arrivo una
tempesta!»
Matthew non sapeva più cosa pensare.
«Piuttosto, ragazzo, tu cosa ci fai qui? Non capita spesso di avere
visitatori!»
«Io…», iniziò, «io credo di essermi smarrito. Mi sono svegliato sulla
spiaggia… credo di aver perso memoria dei miei avvenimenti recenti… Non
saprei cosa rispondervi, davvero. Ormai non sono più sicuro nemmeno di
chi sono davvero.»
Tirò un sospiro, Matthew, uno di quelli rassegnati all’ineluttabile
corso degli eventi. Capitan La Roche guardò il suo compare di sottecchi
e sorrise leggero.
«Questo problema assai interessante è», disse, sgrammaticando la frase,
«Mi ricorda un racconto che ho sentito, una volta, navigando per mare.
Conosci la storia della Nave di Teseo? Ne hai mai sentito parlare?»
Matthew scosse la testa.
«È racconto antico. Certamente avrai sentito parlare di Teseo, il
mitico eroe greco, il signore dei Dori e degli Iori, l’uccisore del
Minotauro, no? Ebbene, il vascello sul quale Teseo si imbarcò insieme
ad altri giovani guerrieri era una galera a trenta remi, che gli
Ateniesi custodivano fin dall’epoca di Demetrio Falereo. Costoro ne
asportarono via i pezzi man mano che si deterioravano e li sostituirono
con altri, esattamente identici agli originali, finché non rimase
nulla, assolutamente nulla, neanche un chiodo o un asse, della nave
originale. Ma allora la nave si è conservata oppure no? Nonostante i
cambiamenti, è rimasta la Nave di Teseo che venne condotta per mare in
origine?»
Matthew rimase sovrappensiero. Non sapeva cosa rispondere.
Improvvisamente, era affascinato dalle parole di La Roche.
«Pensa questo, ragazzo», continuò il capitano, «una persona negli anni
cambia, il giovane muta in adulto, l’adulto in vecchio, il bambino si
trasforma perdendo la sua purezza, succede a tutti. Anche a me. Anche a
te. Eppure, noi siamo sempre lì dentro, nel nostro corpo. Non cambiamo
mai davvero. Pensaci.»
E Matthew ci pensò. Ci aveva già pensato, in realtà. Per ore. Era il suo Nero Motore del Mondo.
Se lo era chiesto dal primo istante in cui aveva scoperto di non poter
ricordare. Chi avrebbe potuto assicurargli di essere ancora se stesso?
Chi poteva dargli la garanzia del fatto che, prima di precipitare su
quest’isola, non fosse stato una persona completamente differente?
«Vedo che le parole del Capitano ti hanno colpito.»
Matthew si riscosse, aveva le braccia poggiate alla balaustra, lo
sguardo perso verso l’orizzonte. L’imbrunire. Uno spettacolo
ancestrale. Una danza di colori ai confini della terra. Nuvole fumose e
chiaroscuri. E poi all’improvviso, nella contemplazione di quel divino,
l’inaspettato. Una mancanza di sensibilità nelle gambe, una caduta
ripida verso il centro della terra. I colori che sfumano.
Dissolvenza in nero.
L'Angolo dell'Autore
Avevo promesso ad un utente che avrei aggiornato oggi, per cui eccomi
qui! Vi ragguaglio un po' sulla situazione: diciamo che stiamo per
entrare nelle battute finali (manca ancora un pochetto, ma con questo
capitolo si conclude un po' il blocco centrale del racconto). Sto
scrivendo il successivo e, se tutto va bene, dovrebbe essere online
questo fine settimana o al massimo all'inizio della prossima. So che
probabilmente avete tante domande e del racconto ancora non avete
capito bene il senso, vi prego di avere ancora un attimo di pazienza e
spero che finale non vi deluda. Perciò... restate connessi!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** La dea prigioniera ***
Capitolo
9: La dea Prigioniera
“I
discendenti di Noè vollero costruire nella città di Babele una
Torre così alta da toccare il cielo. Ma Iddio, sdegnato da tanta
superbia, confuse il linguaggio di quelli che la costruivano, i quali
– non potendo intendersi fra loro – lasciarono l’opera
incompiuta.
Opera che fu detta Torre della Confusione.”
Spesso è una torre a dare matto negli scacchi. È uno degli ultimi pezzi
ad entrare in gioco, e per questo, solitamente, rimane viva in almeno
uno dei due schieramenti. Ha un raggio d’azione più grande di un
alfiere, preciso più di un cavallo. È l’emblema della solidità.
Dell’immobilità di fronte alle catastrofi.
Una torre è spesso sviluppata in altezza, la base può essere circolare
o rettangolare ma il risultato è sempre lo stesso: uno slancio verso il
cielo. Una proiezione di se stessa in una dimensione onirica superiore,
che trascende quella delle persone comuni, costrette a guardare dal
basso in alto. A chinarsi di fronte a tanta magnificenza. Credete che
Pisa sarebbe forse la stessa senza la celebre opera di Giovanni Pisano?
Londra perderebbe un po’ della sua luce, evanescendo il Big Bang?
Probabilmente si.
Perché le Torri sono state per secoli il pilastro degli uomini sulla
Terra: una monolitica testimonianza di essenza in un regno che si
discioglie nel peccato.
Matthew si risvegliò intontito. Gli girava la testa, e sentiva il suo
cuore pulsare a mille. Maledisse la terra e il cielo. Se c’è un dio a
questo mondo, maledisse anche lui. Ancora una volta era tutto
scomparso. Non c’era più nulla. Né Capitan La Roche, né Leroux, e
nemmeno la nave nel cielo … era tutto svanito. Come una bolla di sapone
scoppiata al sole. Forse Matthew si trovava in un sogno, senza saperlo.
Magari da qualche parte c’era un “altro lui” che dormiva beatamente, in
attesa solo di risvegliarsi. Attendendo i titoli di coda del film, il
sipario della Divina Commedia.
Aspettando semplicemente di rivedere le stelle.
Matthew si alzò in piedi. L’erba gli aveva solleticato il viso e aveva
ridato coscienza al suo spirito. Sintomo che allora, magari, era tutto
reale. Che quella torre che vedeva davanti a sé non se la stava
immaginando ma esisteva davvero. Un edificio imponente che fendeva il
cielo come una spada demoniaca. Nuvole candide danzavano intorno a
quella lama di pietra. Non si riusciva a vedere dove terminasse. Era
ancestrale. Pietra su pietra si portava su, sempre più su, come a voler
raggiungere un qualche scopo. Ma le pietre erano nere, e oscure.
Regnava, anzi, in quella valle, un’aria di tenebra.
Con passo incerto, Matthew si avvicinò al grande portone di ingresso.
Oramai aveva deciso di lascarsi semplicemente andare. Anche se sarebbe
più preciso dire lasciarsi
condurre. Lo sentiva nelle vene e nella testa. Qualcuno lo aveva
portato lì, qualcuno
gli aveva fatto incontrare Nathan, il Collezionista, La Roche, Leroux. Qualcuno aveva
eretto quella folle torre nera.
E adesso quel qualcuno lo stava implicitamente invitando ad entrare.
Tutto finiva lì, in quella torre. Matthew lo sentiva. Lo aveva capito
dal momento in cui aveva parlato con la Roche. Forse avrebbe trovato
delle risposte. E forse quelle risposte lo avrebbero distrutto,
annichilito, ma almeno avrebbe saputo la verità. Perché nulla – nulla!
– è più importante della verità.
Matthew spinse la ferrea maniglia circolare, finemente ornata con il
fregio di un serpente, e si lasciò immergere nella più cieca oscurità.
Un odore stantio invase i suoi sensi. C’era puzza di chiuso e di muffa,
come se quel luogo non avesse visto la luce da millenni. Una luminosità
soffusa permetteva di intravedere qualcosa all’interno di quella stanza
polverosa. Le pareti erano composte, come dall’esterno, da grandi
pietre, impilate le une sulle altre, ma, al contrario, erano grigie. Il
soffitto era basso e opprimente. C’erano ragnatele ovunque. Da una
piccola finestrella posta in alto filtrava una pallida luce biancastra.
Per il resto la stanza era vuota. Piena di umido e in stato di
abbandono, ma vuota.
Matthew si guardò intorno. Doveva esserci dell’altro. Quello che aveva
capito, dalle sue esperienze passate sull’isola, era che ogni cosa
sembrava avere uno scopo. Quindi anche lì avrebbe trovato qualcosa.
Magari qualcosa di folle come in precedenza, ma sicuramente più di
niente.
Fu allora che si rese conto che la follia era proprio davanti ai suoi
occhi. All’interno di quella stanza circolare, in quella torre
altissima che toccava il cielo, una scala che conducesse verso l’alto
non esisteva. Era presente, di contro, una minuscola distesa di gradini
che conduceva verso il basso. La contrazione di ogni logica.
Cautamente, Matthew gli si avvicinò e, dopo aver dato una rapida
occhiata al portone d'ingresso ancora spalancato sul mondo, iniziò a
scendere.
Le discesa non fu ardua. Le scale si sviluppavano a spirale
mantenendosi sempre all'interno del perimetro della torre in una
ricorsiva chiamata su se stesse. Alle pareti erano incastonate delle
torce e risplendevano cupe. Matthew scendeva lentamente, ma senza
timore. Non aveva mai avuto davvero paura da quando si era svegliato
sulla spiaggia. Anche se ogni cosa che aveva vissuto da quel momento in
avanti non sembrava avere alcun senso, lui era stato inconsciamente
sereno. Come se tutti i suoi problemi non fossero incominciati davanti
all'oceano, ma fossero finiti proprio lì, e fossero stati trasportati
lontano, dalle onde. Dopo alcuni interminabili minuti, Matthew
intravide la fine di quella discesa uroborica. Dopo l’ultimo gradino,
oltre un’arcata, si estendeva una piccola sala circolare di pietra,
identica in tutto e per tutto a quella in superficie. Dall'altro lato,
si ergeva un enorme portone di legno sigillato. Era chiuso,
ermeticamente. Una porta senza pomello e senza maniglia, con un'unica
fessura per sbirciare all'interno. Il ragazzo si avvicinò con curiosità
e tese l’orecchio per cercare di cogliere qualche rumore che potesse
provenire dall’altra parte. Riusciva a percepire un suono indistinto.
Come un lamento continuo, ma lontano, lontanissimo. Come se provenisse
da un altro tempo o da un altro spazio, da una dimensione diversa,
estranea alla sua.
Matthew non resistette più alla tentazione, e sbirciò guardingo
all’interno tramite quella piccola fessura posta proprio al centro
della porta. Quello che vide non si può descrivere. Al di là, si
allungava un lunghissimo corridoio di pietra, tanto grande da non
riuscire a poterne vedere la fine. E a terra, da un lato, appoggiata ad
una parte, una creatura singhiozzava furiosamente. Era in ombra e non
era possibile distinguerne bene i lineamenti. Era una donna. Portava
uno straccio in vita, aveva le gambe al petto e il viso appoggiato su
di esse, con le mani a cingerlo in un abbraccio di disperazione. I suoi
capelli erano ricci, e rossi, focosi più di una fiamma, e cadevano con
eleganza sulle sue spalle.
Matthew guardò quella creatura per qualche istante, poi provò a
parlare. A dire qualcosa di indefinito. Bastò questo per farla
riscuotere e farle guardare in alto, verso quello che – forse – pensava
essere il suo carceriere. Con passo felpato, la donna si alzò e in un
attimo fu alla porta. I loro sguardi si incrociarono.
«Charlotte», disse Matthew in un sussurro talmente flebile da
trascinarlo nell’Ade.
La donna iniziò a battere furiosamente contro il portone e a gridare
come una forsennata. Il ragazzo urlò e, come accecato da una visione di
sangue, scappò via. Su per le scale! Su, ancora più su!
Aria, aria!
La testa scoppia!
Non ho più respiro!
Grida più forte! Non ti sento!
Le scale si riavvolgono al contrario!
Non farmelo rivivere!
Non farmelo rivedere!
Mostrami il mare e la libertà oltre le onde che si allungano in una
notte scura!
Oltre il portone d’ingresso di quella folle torre!
Oltre la donna che urla al piano di sotto!
Oltre il mare di ricordi in cui annego!
L'Angolo
dell'Autore
Rieccoci con un nuovo capitolo. Perdonate la mia esasperante lentezza
ad aggiornare, ma in questo periodo sono abbastanza preso da diverse
cosette. Coooomunque, stiamo per arrivare alla fine, mancano un paio di
capitoli e ci siamo. Nel prossimo probabilmente troverete la maggior
parte delle risposte alle domande che vi sarete posti per tutta questa
storia. Spero solo che il finale non vi deluda. Anche perché, come
dissi all'inizio di questa storia, è vero che la pubblico qui nella
categoria dei gialli, ma si tratta di un giallo atipico, quindi.... lo
scoprirete nel prossimo capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Sulla nave dei ricordi ***
Capitolo
10: Sulla nave dei ricordi
“I giorni in cui dimentico sono
finiti,
stanno per cominciare i
giorni in cui ricordo.”
«Ancora con quel libro, Matt? Non ti ha stancato?»
Matthew sedeva nella hall della “Città
di Smeraldo”, sprofondato in una poltrona elegantemente
ricamata e dal morbido cuscino colorato. Aveva deciso di affrontare
quel viaggio, alla fine. Era stata una decisione improvvisa e
irrevocabile. Ci aveva pensato per giorni, rimanendo sveglio fino a
tardi, nudo nel letto, con gli occhi fissi contro il soffitto. A
riflettere. Una di quelle notti, alla fine, gli aveva portato
consiglio. Così aveva messo tutto quel poco che aveva nel minuscolo
appartamento in valigia ed era partito.
La “Città di Smeraldo” era stata pronta ad attenderlo. Si trattava di
una modesta nave passeggeri vecchio stampo, di quelle antiche che
mantengono ancora il fascino del secolo scorso, delle lunghe traversate
oceaniche, delle feste e dei gala. A Matthew non importava nulla di
tutto questo, purché arrivasse a destinazione.
«Come potrebbe mai stancarmi, Walt? Ti ho già raccontato di cosa parla?»
L’uomo lo fissò divertito.
«Si, almeno… dieci volte direi!»
I due risero. Il professor Walter era un uomo di mezza età, tozzo e dai
radi capelli bianchi. Portava un paio di microscopici occhiali
toneggianti dalle lenti spesse come fondi di bottiglia sopra i quali si
scoprivano folte sopracciglia nere. Il naso era grosso ed adunco, e
spiccava netto su quella faccetta da rospo. Indossava una camicia
almeno due taglie più grandi della sua statura, il che, su quel corpo
magrolino, era un autentico controsenso. Ma a lui sembrava non
importare.
«Avanti», disse Matt, «La
Collina dei Conigli di Adams è uno dei libri più
significativi di fine Novecento! La storia di questi conigli che
sfuggono alla distruzione della loro conigliera fa riflettere sulle
azioni degli uomini, no? E poi, il veggente è un personaggio
interessante. Quando lui ritorna a casa ad avvisare gli altri conigli
del pericolo, questi non gli credono! Mi sono sempre chiesto cosa avrei
fatto io se mi fossi trovato in quella situazione. Probabilmente non
avrei creduto alle parole di Quintilio… Non lo so...»
«Sono certo invece che uno come te gli avrebbe creduto. Matthew, da
quando ci siamo incontrati qui sulla Smeraldo non ti sento che parlare
di quel libro.»
Il professore si sedette sulla poltroncina di fianco a lui, fissandolo
intensamente.
«Lei però non è da meno con i suoi discorsi sugli insetti!», protestò
Matthew.
«Touché!», rispose ironico l’altro, «ma è il mio lavoro e la mia
passione, cosa posso farci?», disse mentre si passava una mano fra i
pochi capelli argentei che gli rimanevano, «a proposito, ti ho già
detto che durante questo mio ultimo viaggio sono riuscito a mettere le
mani su un raro esemplare di Farfalla Monarca?»
«Si, più o meno… centomila volte!», rispose, con un sorrisino ironico.
Il professore sbuffò in segno di stizza, ma poi estrasse un piccolo
taccuino nero dalla tasca e si immerse nei suoi pensieri.
I tre giorni precedenti trascorsero così, per Matthew, fra la
contemplazione dell’oceano e lo scambio di qualche parola con quel
buffo ometto amante degli insetti che aveva conosciuto a bordo. Vedeva
il sole tramontare e risorgere dal mare come una fenice e i suoi
pensieri si perdevano spesso nei più oscuri abissi dell’oceano.
Ripensava a Charlotte, a quello che aveva fatto, a quanto stupido era
stato.
Ma stava tornando, avrebbe rimediato e tutto si sarebbe sistemato. Come
un tempo.
«Domani a quest’ora dovremmo essere in porto.»
Una voce ruvida e grinzosa fendette le sue orecchie. Capitan La Roche
si ergeva di fronte a lui nel piccolo salottino. La sua presenza era
accompagnata sempre da gesti molto teatrali che il capitano,
involontariamente, compiva mentre parlava o teneva un discorso. Anche
questa volta, discutendo con lui, lo si poteva vedere allargare le
braccia e distendere le mani, gesticolando.
«Molto bene, capitano, molto bene», disse il professore.
Matthew annuì. Il suo cuore perse qualche battito al solo pensiero che
l’indomani sarebbe giunto a destinazione.
«Sono venuto ad avvertirvi che questa notte sarà un po’ movimentata per
via del cattivo tempo», continuò il capitano, «quindi vi consiglio di
ritirarvi nella vostra cabina per evitare problemi a bordo.»
«Nessun problema, capitano», rispose il professore, «tanto qui c’è
qualcuno che non vede l’ora di giungere a destinazione», disse
riferendosi a Matthew, il quale gli lanciò una frecciatina
impercettibile con lo sguardo, «faremo i bravi, promesso», concluse
sorridendo amabilmente.
«Benissimo, allora buona notte!», disse il capitano e si allontanò.
Matthew a quel punto si alzò dalla poltroncina, squadrò il professore
che gli sorrise di rimando, e uscì dalla sala senza dire una parola.
«E’ davvero tanto grave la situazione, capitano?»
La Roche sedeva, visibilmente agitato, in cabina di comando, di fianco
al primo ufficiale, Sebastian Leroux.
«E’ disastrosa, Leroux. Quella che vedi è solo la calma prima della
tempesta, ma la strumentazione non mente. Ci aspetta un vero uragano,
di qui a poco. Dobbiamo essere preparati. Dai ordine a tutti gli uomini
di tenersi pronti a qualsiasi condizione di emergenza», disse
congedando Leroux, «Ah, Leroux, niente errori», concluse serio.
Matthew era disteso mezzo nudo a pancia in su nella sua cabina. Gli
ormai vacui riflessi del tramonto già spento mettevano in risalto il
suo petto glabro e i suoi addominali leggermente scolpiti. I lunghi
capelli castani appiattiti sul cuscino.
Charlotte…
Ancora una volta la focosa chioma di lei fece capolino sui suoi
ricordi. Non basterebbe una vita forse a raccontare tutto. Di lui. Di
lei. Di loro. A Matthew era stato insegnato che ogni storia ha sempre
un principio e una fine ma la vita vera non funziona allo stesso modo.
E’ un continuo divenire. Un mutevole riflesso nello specchio. Nessun “e
vissero tutti felici e contenti” nella realtà perché tutto cambia e si
trasforma, elevandosi verso picchi di gioia o crollando in abissi di
disperazione. E chi lo sa dove ti porta, poi, il domani.
Charlotte… Sto tornando
da te.
Sembrava non riuscire ad articolare le parole né a delineare con
esattezza la lunga catena di eventi che lo avevano condotto lì, sulla
Città di Smeraldo. Tutto era accaduto velocemente, così velocemente da
non dare il tempo ai ricordi di formarsi. Erano stagliati lì, su quel
margine onirico, ma impalpabili e irraggiungibili. Tutto ciò che
contava era il futuro. Era Charlotte.
Con questo pensiero, sprofondando nel cuscino, Matthew si lasciò andare
al più mite dei sogni.
Quando Matthew si svegliò era già troppo tardi. Era sempre stato troppo
tardi. Matthew venne sbalzato dal letto come se un terremoto avesse
colpito un edificio fino a farlo crollare. L’acqua salmastra, oscura
come quella notte senza stelle, lambiva già buona parte della cabina.
Tutto era in pezzi, nelle stanze della mente e fuori. Tutto era
perduto. All’improvviso venne risucchiato da un gigantesco buco che si
era aperto al centro della piccola stanza, finendo per annaspare nei
sotterranei paludosi d’oceano.
Non riusciva a respirare, non sentiva niente. Nessun grido d’aiuto,
nessuna campana squarciava il silenzio attonito. Perfino la paura si
era attutita facendo spazio alla rassegnazione.
Sto per morire.
Forse fu proprio questo pensiero a dargli la spinta per non arrendersi,
ad usare tutte le sue forze, fino alla fine, comunque sarebbe andata.
Lo doveva a Charlotte. Lo doveva a se stesso.
Un battito d’ali e risalì in superficie, respirando aria pulita,
nell’andirivieni violento delle onde. In lontananza vide la Città di
Smeraldo. Distrutta. Non dalla Strega dell’Ovest, ma da un avversario
molto più concreto, e temibile, e sottovalutato.
Matthew non riusciva a decidere cosa fare. Cercava solo di restare a
galla e pregava che le energie non lo abbandonassero proprio in quel
momento.
Poi accadde il miracolo.
Credeva – no, non poteva essere vero – di aver visto qualcosa
stagliarsi nell’alto di quella notte oscura, dal lato esattamente
opposto a quello in cui il relitto della Città di Smeraldo stava
affondando.
Iniziò a nuotare con forza, Matthew. Forte sempre più forte.
La testa mi scoppia.
Grida più forte, non ti sento!
Le onde si infrangono al contrario!
Se solo riuscissi ad arrivare lì, se solo riuscissi a raggiungere quel
miraggio! Se.
L'Angolo
dell'autore
Vedere questa storia incompleta mi dava una stretta al cuore. Dopo un
periodo di "crisi creativa" e varie difficoltà di sorta che mi hanno
tenuto impegnato ho deciso di concluderla. Chiedo scusa a quanti hanno
seguito questo racconto per poi vederlo interrotto proprio alla fine. Ho
ultimato i due capitoli finali che mancano, pubblico questo oggi e il
prossimo fra qualche giorno. Grazie per la pazienza e un commento è
sempre gradito!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** La decisione finale ***
Capitolo 11 – La decisione finale
“Attento a ciò che scegli. È
possibile che tu lo ottenga!”
«Ho sempre creduto che ce l’avresti fatta!»
Nathan era in piedi, come una statua di cristallo osservava Matthew in
ginocchio davanti a lui. Matthew, che era scappato urlante da quella
folle torre della rovina, uscito in cerca d’aria e, incespicando,
capitato lì, quasi come se fosse suo destino. Ormai tutto era chiaro.
La nebbia si era dipanata, mostrando una voragine di oscurità.
«Allora…», disse Matthew tremante, «allora è tutto vero? È successo per
davvero?»
Nathan lo guardò con un’espressione malinconica, inclinando il capo.
«Si», disse infine senza alcuna tonalità.
«E io…», proseguì Matthew, sempre in ginocchio davanti a lui, le mani a
toccare l’erba fredda, «sono morto?»
Nathan tornò alla sua enigmatica espressione di sempre, chiudendosi nel
suo alone di mistero.
«Ah, è tutto qui il problema, vero?»
Matthew non capiva più niente, sentiva solo il cuore martellargli forte
nel petto. Avrebbe voluto estirparlo per far finire tutto. Non era
riuscito a tornare. A salvare lei. A salvare se stesso.
Giunto sull’isola, Matthew era stato felice di scoprirsi vivo, ma il
fato trucca le carte in modo bizzarro.
«Cos’è quest’isola?», chiese, poi, rincarando la dose.
«Te l’avevo già detto, no? Questa non è un’isola! Non è un’isola…»,
rispose Nathan rimarcando più volte le sue parole.
«E allora che cos’è?», chiese infine, le lacrime agli occhi a bruciare
le calde guance con scie roventi.
Nathan si accovacciò a terra, stando in punta sui piedi e ponendo le
braccia sulle ginocchia.
«Rispondi a una domanda, Matt: tu sei sopravvissuto? Qual è l’ultima
cosa che ricordi del naufragio? Forse un’isola lontana che cercavi
disperatamente di raggiungere mentre i polmoni bruciavano per la
richiesta d’ossigeno? Non tutti riusciamo a metabolizzare certi dolori
con facilità… Abbiamo bisogno di tempo, abbiamo bisogno che ci sia
qualcuno ad indicarci la strada e che, a piccole dosi, ci permetta di
ricordare quanto abbiamo lasciato indietro, perché troppo doloroso. Tu
hai affrontato tutto questo. Charlotte è stata rinchiusa qui per tutto
questo tempo.»
Sentendo quel nome, Matthew si fece forza e guardò Nathan dritto negli
occhi. In quei tunnel oscuri in cui era facile perdersi. I loro volti
erano vicinissimi, così vicini da potersi quasi toccare. Sentiva il
respiro di Nathan su di lui come una presa psichedelica.
«Ma tu l’hai liberata.», proseguì il ragazzo scuro, «Hai vinto i tuoi
fantasmi e reclamato la tua identità. Ora sei libero di andare.»
«Andare dove?», chiese Matthew.
«Questa è una tua scelta. Tu hai affrontato la tempesta e le violenti
onde oceaniche. Sei arrivato sull’isola oppure no? Magari tutto questo
è solo una tua proiezione onirica o forse questo posto è…»
«…il Purgatorio?», concluse Matthew.
Nathan sorrise e fece spallucce con noncuranza, quasi a voler dire
“ogni cosa è possibile”.
«Dietro di me troverai due strade, Matthew. Due vie verso differenti
destini. Entrambi ti ricondurranno a Charlotte, ma in quale modo o in
quale tempo spetta solo a te decidere. E pagarne il prezzo.»
«Il prezzo?»
«Ma è chiaro. Non lo sai? Ogni cammino ha un costo, oltre ad una
destinazione, ed ora spetta a te pagarlo.»
«Continuo a non capire…», disse Matthew, fra i brividi.
«Allora non pensarci e vai avanti, ti verrà qualche idea lungo la
strada.»
Detto questo Nathan si alzò nuovamente in piedi e Matthew fece
altrettanto, non senza difficoltà. Era ancora provato per quanto
accaduto, ma si sentiva sereno, come se si fosse liberato di un grosso
peso sul cuore. Si girò indietro ad osservare quella folle torre. Fu
solo un momento e Nathan era sparito, come se non fosse mai esistito.
A quel punto, camminando lentamente, trascinato dal peso dei suoi
ricordi, Matthew si mise in marcia verso il suo destino.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2496871
|