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Lista capitoli: Capitolo 1: *** 0. La citadelle sempervirente. *** Capitolo 2: *** I. Les lutins d'Églantine *** Capitolo 3: *** II. La belle au bois dormant *** Capitolo 4: *** III. Dejà-vu ***
Il vento soffiava da Nord, ma si trattava soltanto di una brezza leggera
Il vento soffiava da Nord, ma si trattava soltanto di una
brezza leggera.
La bambina osservava i pappi dei soffioni volar via ed inseguirsi, leggiadri,
sotto il sole di maggio.
Rise di gusto, roteando su sé stessa e tendendo le manine paffute per cercare di
coglierli al volo.
Non ci riuscì. Ma non era prona al pianto, quindi scoppiò a ridere.
L’odore dei fiori la inebriava. La loro vista, anche.
Si guardò intorno, nel giardino: voleva davvero coglierne un mazzo, e poi farne
una ghirlanda (era davvero brava, a fare le ghirlande); ma la mamma si sarebbe
arrabbiata di sicuro, se l’avesse beccata a cogliere quei fiori. D’altronde, li
aveva cresciuti con cura.
Ci mise un po’ a trovarla, sua madre.
Riversa per terra, capo posato tra i fiori tanto affettuosamente coltivati,
schiacciandoli.
”Mamma?” chiamò dapprima la bambina, con un fil di voce. Poi, più forte.
“Mamma!”
La donna non rispose.
Soltanto avvicinandosi, la bimba vide le lacrime che le solcavano il viso, per
poi perdersi tra i mughetti.
“Papà!
Papà, la mamma è…!”
…
”…papà?”
[ La ville aux coeurs fanès ]
Prologo.
La citadelle sempervirente
Fuori dal finestrino, il paesaggio scorre monotono da ore.
Le distese di grano si susseguono una dopo l’altra, già vicine all’essere
mature: la grande cappa di caldo scesa a metà maggio ha, forse, ingannato anche
loro.
Sicuramente ha ingannato Allen Walker che, seduto su quel treno che taglia in
due la Francia, si ritrova a domandarsi se l’Ordine abbia delle uniformi
estive. Dovrebbe averle, pensa, chiudendo gli occhi e gemendo abbattuto, prima
di procedere a sventolarsi affannosamente con il fascicolo. Lenalee, seduta di
fronte a lui, soffoca un risolino.
E lui, non potendo far nulla per impedire a quel rossore di diffonderglisi sul
viso – un po’ colto in flagrante, un po’ per il caldo – distoglie lo
sguardo.
Conseguentemente, la ragazza scosta il suo, portandolo
sul panorama sempre uguale al di là del vetro.
”Dovrebbe mancar poco, ormai”, esordisce, scostando una ciocca del finalmente
quasi-caschetto dietro l’orecchio.
Ignorando l’ormai familiare – seppure sempre inquietante – ombra riflessa
accanto al suo viso sul finestrino, il ragazzo porta l’attenzione su di lei e
si affretta a battere ciglio, quasi a cercar di scacciar via quella strana
inerzia.
”A… uhm…” le sue sopracciglia si crucciano appena, in un tentativo piuttosto
vistoso di scavare nella memoria per la parola straniera, nella foschia
dell’umidità “…Églantine?”
La cinese scuote il capo, sospirando. Sulle sue labbra,
un sorrisetto rassegnato che sa di scusa. “La ferrovia non arriva fino al
villaggio.” Cosa?
”Dovremo scendere a Millau, e proseguire di lì. Mio fratello ha detto che è
comunque abbastanza vicino, quindi…”
Allen, tra le tante cose, si affretta anche a metter su una risatina affatto
convincente, stringendo spasmodicamente le dita guantate sul fascicolo della
missione.
“Sotto questo sole?”, commenta, quindi, distrattamente.
”Sotto questo sole”, conferma lei, e sembra mortificata.
Apparentemente, ha sentito bene.
Con un sospiro, il ragazzo scosta dal campo visivo qualche ciocca color latte
sfuggita al codino sulla nuca. Quei capelli che, in un modo o nell’altro, gli
rendono del tutto impossibile mimetizzarsi nella folla, e sono causa di quegli
sguardi curiosi e fissi che, spesso, lo mettono a disagio.
E’ grato, in qualche modo, per i vagoni privati riservati all’Ordine: non è una
bella sensazione, viaggiare con tutti quegli occhi addosso, sebbene la colpa
sia in qualche modo anche di Timcanpy.
(che in quel momento sembra trovare molto interessante il paesaggio al di là
del finestrino)
Case rustiche e timide si affacciano sporadicamente nel paesaggio, ora, segno
della zona civilizzata ormai vicina. Allen arriccia il naso e si sente
stranamente assonnato; sicuramente, il caldo gli dà l’impressione di esser
stato privato di gran parte delle sue capacità intellettive. Non c’è altra
spiegazione.
”Va bene, va bene. Facciamo il punto della situazione… ora che non sono
costretto a camminare lì fuori?” propone con un mugolio, sorriso ancora tirato
sulle labbra. Lenalee annuisce, incrociando le gambe.
”Églantine, villaggio della Linguadoca-Roussillon”, comincia, sporgendosi
appena in avanti per prendere il fascicolo dalle mani di Allen – che ne rimane
un po’ indispettito, dal momento che lo stava usando per areare un po’ il viso
“… Uh… Pare che molti residenti si stiano ammalando lentamente di una malattia
non meglio identificata. Il fascicolo dice che è stata definita ‘maladie du
sommeil’ dai finders che erano stati mandati ad assicurarsi se le cause
erano da rimandare all’innocence…” prosegue Lenalee, sfogliando rapidamente le
pagine “… ed quei finders sembrano scomparsi nel nulla. I loro aggiornamenti si
sono interrotti bruscamente una settimana fa.”
Assorbendo le informazioni per la seconda volta, Allen non
ha nessuna particolare illuminazione. Esattamente come la prima volta.
Sospirando, abbassa lo sguardo, piccola ruga di concentrazione fra le
sopracciglia.
Lenalee attende, per qualche attimo, una sua parola. Un suo gesto. Qualcosa.
Accorgendosene in ritardo, il ragazzo si affretta a mettere su un sorriso
genuino, sollevando le mani a mo’ di scusa.
Ciò che sta per dire è interrotto dal fischio del treno che, rallentando, entra
in città.
A metà strada sul sentiero battuto, Allen ha rinunciato
alla giacca dell’uniforme, che riposa ora piegata sotto un braccio; la camicia
bianca nascosta sotto la giacca ha i primi due bottoni sbottonati, in un ultimo
tentativo disperato di cercare aria fresca. Tentativo per l’ennesima volta
fallito.
Nessuna sorpresa, qui.
Persino Timcanpy aveva, ad un certo punto del tragitto, cominciato a volare
basso basso e mogio mogio. E, tenendo presente che i golem non avrebbero
neanche dovuto sentirlo, il caldo, Allen aveva trovato la presenza di spirito
di meravigliarsene moderatamente, senza sprecare troppe energie.
Lenalee, dal canto suo, aveva sopportato il tutto in maniera veramente
dignitosa.
E molto femminile, come sempre.
Il paesaggio era risultato monotono anche nell’avanscoperta a piedi, e non
c’era nulla di veramente notevole. La campagna era sembrata soltanto piena di
pace, tranquillità, e terribilmente lontana dalla frenesia della città, per
quanto vicina. Per un attimo, Lenalee aveva avuto l’impressione che la guerra
fosse stata un brutto incubo, così come l’attacco all’Ordine di qualche mese
prima. Ma le scarpette ed i bracciali rossi alle sue caviglie – cerca di non
pensare troppo al fatto che fosse sangue suo, quello – le avevano ricordato che
era successo tutto. Davvero.
Fiori selvatici, piccoli e gialli, si erano susseguiti
sull’orlo della strada battuta che – guardando bene, in lontananza – già faceva
intravedere il campanile del piccolo centro abitato.
Avevano allora proseguito con rinnovato vigore – mentre lo stomaco di Allen
brontolava – al pensiero di essere quasi arrivati.
E adesso, nella prima stradina della cittadella,
un’insegna in legno dai caratteri arzigogolati recita:
« Bienvenus dans Églantine, la citadelle
sempervirente »
Lenalee cruccia le sopracciglia nella traduzione, e si ritrova a domandare cosa
significhi esattamente “sempervirente”.
Allen arriccia il naso, prima di fare spallucce ed ammettere che,
effettivamente, quella parola manca anche al suo vocabolario. Con un sospiro –
non è davvero una cosa importante, dopotutto – la cinese si asciuga la fronte
dal sudore e si guarda attorno.
Più che un villaggio, pensa, sembra un piccolo paradiso. Il contrasto fra le
erbacce del sentiero ed i fiori che circondano l’insegna – fiori viziati, ben
curati, in ciuffi di azalee e mughetto –è terribilmente forte.
Così come il loro profumo, ed il ronzio delle api ed il battito sporadico di
qualche farfalla dai colori tenui. Una piccola brezza, proveniente da nord,
smuove lentamente le foglie che, giovani ed ingenue, si lasciano sedurre dai
soffi di vento, piegandosi al suo volere.
A quel punto Lenalee starnutisce, quasi uno squittio, infrangendo la quiete
quasi celeste e facendo sobbalzare Allen. Lui si volta verso di lei, battendo
ciglio.
Lei arriccia appena il naso, prima di tirar su un paio di volte. Poi, starnutisce
di nuovo.
”Tutto bene?” domanda Allen, a metà fra il divertito ed il preoccupato, al
quarto starnuto.
”Sì, sì…” risponde lei, stropicciandosi appena un occhio “… te--- tebo di
essere allergica a…”
L’ennesimo starnuto la interrompe prima che possa specificare, esattamente, a
che cosa. E’ il turno di Allen di soffocare un risatina: Lenalee sceglie
prontamente di ignorarla, lasciando cadere lì il discorso. Fra tante varietà di
fiori, alla fine, sarebbe stato impossibile individuare esattamente a quale fosse
allergica davvero.
Tira su col naso, mentre Allen incrocia le mani dietro la nuca, battendo ciglio
– ed il suo stomaco, sentendosi ignorato, riprende a brontolare.
Per le strade, non c’è nessuno.
Quel paradiso sembra totalmente deserto, una natura fine a sé stessa: Lenalee
ragiona che non è affatto possibile che lo sia davvero, perché quei
fiori sono talmente ben tenuti che ci deve essere necessariamente qualcuno a
prendersene cura.
Riporta l’attenzione su Allen, che è tornato a sfogliare il fascicolo,
mordicchiandosi l’interno della guancia.
Sta pensando: riconosce la sua espressione, quando pensa.
E poi, ancora una volta, starnutisce.
Alla fine, decidono di proseguire con cautela. E, soprattutto, in silenzio.
Fortunatamente, il silenzio fra lei ed Allen non è uno di quei silenzi pregni
di disagio, o tensione, uno di quei silenzi che si muore dalla voglia di
infrangere. E’ un bel silenzio, il loro, e dopotutto Lenalee non è mai stata
una ragazza bisognosa di molte parole. La sua amicizia con Kanda, dopotutto, ne
è una prova tangibile.
Pertanto, la ragazza si concentra piuttosto nell’osservare attentamente
l’ambiente in cui quella strana “malattia” sembra aver trovato culla e tana.
Lungo la stradina acciottolata, ogni casetta ha il suo piccolo giardino,
smagliante di colori. Il suo piccolo orto, dalla terra morbida e le foglie
curate. E’ davvero un piccolo Eden.
Dietro le foglie ed i petali variopinti, però, le finestre sono chiuse.
Ogni singola casa è cieca e chiusa in sé stessa, imbevuta della luce intensa
solare. Intonaco bianco, brillante, che riflette la luce e ferisce lo sguardo.
In qualche modo, sembra che le case invitino i passanti a non guardarle. I
fiori esigono, invece, il contrario.
A dire il vero, più ci si addentra nella città, più questo contrasto diviene
evidente. Quasi caotico.
Arrivati ormai all’altezza della piccola chiesa, Lenalee conclude che quella
cittadella, più che un paradiso, sembra una piccola città fantasma.
Ripete quella riflessione ad Allen, in un sussurro, prima di avvertire ancora
quel fastidioso solletichio al naso e lasciarsi andare ad una nuova serie di
piccoli starnuti.
”Lenalee!” attacca Allen, di qualche passo davanti a lei, con un indice
sollevato davanti alle labbra e fascicolo e giacca dell’uniforme sotto il braccio.
Lei batte ciglio, chinando leggermente il capo d’un lato.
“… senti?”
Ed è allora che Lenalee, tra il fruscio del vento e il ronzio delle api, le
sente.
Quelle risate talmente nitide e cristalline da poter
appartenere soltanto a dei bambini.
A/N: IO
VORREI TANTO CHE HOSHINO DECIDESSE DEFINITIVAMENTE I COLORI DEI PERSONAGGI
PERCHE’ NON CI STO CAPENDO PIU’ NIENTE. Ecco. Sfogo finito. In questa
fanfiction, Lenalee non avrà i capelli viola. E neanche verdi. Li avrà neri, da
brava cinese. Anche Kanda non li avrà blu. Li avrà neri, come ogni bravo
giapponese. Gli occhi di Kanda, poi, non ne parliamo. Vanno dal grigio
all’azzurro al nero, nelle illustrazioni. Opterò per un grigio scuro. Nella
vita bisogna fare delle scelte. Hoshino mi costringe a farle.
E’ più il tempo passato a fare ricerche
su di Allen e sui colori, che il resto. Per non parlare delle ricerche sulla
Francia. -_-
Églantine è rigorosamente
inventato da me. Non penso esista, comunque.
Comunque, primo tentativo di longfic su d.Gray-man. Ci
sarà un po’ d’azione – d’altronde, da una missione cosa pretendete? – ma non
contateci troppo. Per lo più, mi soffermerò sull’introspezione, credo. Questa è
un’idea che mivenuta all’una di ieri
notte. Son stata su a scrivere la trama fino alle tre. Ed oggi non mi son
staccata dal pc per mettere su il primo capitolo.
Essendo tutto programmato, la finirò di sicuro. E’ un esperimento più che
altro. Ringrazio Liy per l’aiuto con il personaggio di Allen, che per me è
decisamente ostico. Ho provato davvero a scriverlo al passato, ma veniva
stranamente pesante come narrazione. Ero io, e non riuscivo a leggerlo. Vi ho
risparmiati. °_°
Note sul francese:
“la ville aux coeurs fanès” :
la città dai cuori sbiaditi
« bienvenus dans Églantine, la citadelle sempervirente » :
benvenuti ad Églantine, la cittadella sempreverde.
Lo sguardo di Annette era perso sull’arbusto di biancospino situato
davanti alla sua finestra
Lo sguardo di Annette era perso sull’arbusto di
biancospino situato davanti alla sua finestra.
I fiori piccoli, bianchi, delicati, che avrebbero un giorno lasciato spazio
alle bacche rosso fuoco, rosso di sole che, all’orizzonte, stava già
tramontando.
Sporadico, si sentiva anche il canto di quell’uccellino che, su quel
biancospino, aveva fatto il nido.
Annette guardava anche lui.
Guardava il sole, e sua nipote giocare con gli altri bambini sulla strada
acciottolata.
Guardava quella palla imbottita andare avanti ed indietro, e sentiva le risate
dei bambini.
Giocavano a piedi nudi.
Le api ronzavano sui fiori variopinti.
Annette piangeva, e le sue lacrime si perdevano fra le rughe sul suo volto.
Annette voleva morire.
[ La ville aux coeurs fanès ]
I. Les lutins d’Églantine
”… senti?” ripete Allen, e la sua voce è solo un
sussurro.
”Si,” risponde Lenalee, questa volta. Irrazionalmente, nel suo cuore vi è un
po’ di angoscia. Ricorda quei romanzi gotici, e le risate dei bambini nei
cimiteri, perché a dire il vero questa città non è tanto diversa da un
cimitero, e dei bambini non dovrebbero viverci e basta.
Perché questa città è orribile, e…
Ma Allen non sembra condividere i suoi pensieri, e non
sembra tanto preoccupato, quanto incuriosito. Si guarda attorno, cerca di
capire da dove provengano, quelle risa.
Lenalee starnutisce.
E poi, la porta di una di quelle case-tomba si apre, facendole battere forte il
cuore. Sulla porta, un’insegna sbiadita dal vento e dalle intemperie, la
informa che quella non è una casa, bensì una locanda.
Dalla porta aperta sgorga un fiume di bambini: fra le braccia hanno pane,
bottiglie di vetro, secchi pieni d’acqua e piccole palette, frutta e latte.
Quella che sembra la più piccola esce per ultima, con una ghirlanda di fiori
tra le mani. Ed è la prima a notare i due esorcisti, plasmando le labbra di
bocciolo nella forma di una piccola ‘o’.
“I grandi!” grida con il suo francese infantile, e c’è un
attimo di silenzio. Ma, non appena Allen schiude la bocca per parlare – e
Lenalee pensa che quei bambini sono troppo, troppo magri per essere in buona
salute – è il panico. La folla di bambini si infrange in varie direzioni, ed
alcuni gridano, e corrono, e dei tozzi di pane cadono per terra, ma nessuno si
ferma per raccoglierli.
Ed Allen rimane lì, in mezzo alla strada. Una mano guantata in un cenno - inutile
– che avrebbe voluto fermarli.
C’è soltanto una bambina, lì, quella che era rimasta sulla soglia della
locanda. Batte ciglio, guardando il ragazzo che inarca un sopracciglio.
”Ma cosa…?” mormora Allen, spostando l’attenzione su di lei. Lenalee
starnutisce, e sopprime un brivido – pensa, forse, che non si tratta di
un’allergia, ma piuttosto di raffreddore. Anche se, con quel caldo, sembra
molto improbabile.
“Siete adulti, no?” commenta la bambina, chinando il capo
d’un lato.
‘Non esattamente’, vuole rispondere Allen. Ma
Lenalee lo batte, costringendosi ad annuire dolcemente, anche se con un po’ di
stanchezza. “Sì. Siamo venuti per aiutare i vostri genitori.”
”Oh.” Mormora la bimba, battendo ciglio. “Come gli uomini bianchi?”
I finders. La bambina deve averli visti, probabilmente.
Questo volta è Allen che annuisce, accovacciandosi per essere all’altezza del
campo visivo della ragazzina. “Sì, proprio come loro. Li hai visti? Ci
servirebbe il loro aiuto.”
La bambina stringe le labbra in un piccolo broncio, strascicando appena il
piedino per terra, e dando un’occhiata alla porta socchiusa della locanda. “…
stanno dormendo…” mugugna, infine, quasi incerta della correttezza nel rivelare
quell’informazione.
Allen è un po’ più sollevato, e questo traspare fin troppo dal suo sorriso. Quel sorriso, pensa Lenalee, maledicendolo. Poi, si sorprende nel
pensarlo e nel volerlo un po’ più dedicato a sé. Starnutisce ancora, tirando su
col naso e scotendo il capo. Il caldo, la stanchezza: non dispiacerebbe
riposare un po’ nemmeno a lei, pensa, e si rivolge alla bambina riavviando
qualche ciocca corta dietro l’orecchio.
”Ah… possiamo aspettare che si sveglino, dentro, allora?” domanda Allen,
riportando su la sua voce da gentiluomo ed il suo francese dall’accento
piuttosto discutibile. E’ affascinante, quel suo modo di fare, pensa la cinese.
Probabilmente lo pensa anche la bambina, che arrossisce.
”Oh, no” risponde lei, con un vocino mortificato “E’ come con la mamma. Non si
alzeranno dal letto. Piangono tutta la giornata. Li ho sentiti anche parlare,
però, ma non ho capito cosa dicevano, non conosco la loro lingua… Ho provato a
portare un po’ di pane, ma non lo mangiano mai… Non so cucinare bene, non sono
brava per niente. Però sono brava a fare le ghirlande. Ne sto facendo tante,
così la mamma non sarà più triste: sarà felicissima e tornerà ad occuparsi
della locanda.”
”Anche tua mamma sta dormendo?”
”Uh, tutti gli adulti non escono più di casa. E i bambini prendono il cibo di
qui, perché di solito ne abbiamo tanto, però dicono che dovremo prenderlo dagli
orti tra un po’. Perché siamo tanti e François non pensa che basteranno molto,
ma François dice sempre tante cose…”
Lenalee ed Allen si scambiano uno sguardo di stallo, indecisi sul cosa
esattamente dire: Lenalee non è per niente brava con i bambini, checché ne
possano dire tutti. Non ha mai dovuto vedersela con i bambini, lei. Allen,
invece,è un po’ più bravo di lei a gestirli,
ma ha la tendenza ad empatizzare un po’ troppo con loro, e non riesce proprio a
pensare a nulla da dire che possa tirar su di morale la bambina.
La bimba sembra abbastanza preoccupata, quando torna a guardare il ragazzo,
rossore sulle guance. “Dovete andar via, no?”
”Perché?” risponde lui, chinando il capo d’un lato.
”Da un po’ i grandi finiscono sempre così, qui. Finirete così anche voi. Voi
siete grandi, no?” domanda la bambina, perplessa.
”Non esattamente,” dice Allen, questa volta, ad alta voce. “Non così tanto… non
ancora, almeno. Siamo qui per aiutarvi, te l’abbiam detto, no?”
La bimba arrossisce ancora più vistosamente, e per un attimo sembra tentata di
nascondere il viso da qualche parte. Ma non c’è la gonna della mamma, lì, a
proteggerla. La mamma sta di sopra, nel suo letto, e piange.
”Piange sempre,” dice allora, stringendo infantilmente le labbra “la mamma. Voi
aiuterete la mamma, sì? Le piacciono tanto i fiori, e li cura tantissimo, però
si stanno rovinando e io non so farci nulla. Sarebbe tristissima, se
appassissero. L’aiuterete?”
”Sì,” dice Allen, annuendo solennemente. “Siamo qui per questo.”
”Promesso?” mugugna la bimba, tirando su il mignolo e piantandolo davanti al
naso di Allen. Allen batte ciglio, piuttosto vistosamente.
”Uh… sì?”
La bimba scuote il capo, freneticamente. “Nononono, devi prima
intrecciare il mignolo, e poi promettere. La mamma dice sempre che le promesse
van fatte con il mignolo.”
”Oh…” lo sguardo del ragazzo incrocia imbarazzato quello di Lenalee (lei non
sorride, starnutisce, ma lui sembra ormai essersi abituato a quei piccoli
sfoghi), prima che egli dia il mignolo alla bambina. “Promesso.”
Lei lo scuote, grande sorriso sulle labbra. Le mancano un canino ed un
incisivo, ma è un bel sorriso lo stesso.
Il vento continua, imperterrito, a soffiare da Nord. All’orizzonte, il sole sta
tramontando.
La bambina, che si chiama Blanche, non ha altro da
offrire se non un po’ di pane e dell’acqua fresca. Lo stomaco di Allen
protesta, e anche piuttosto rumorosamente, ma il ragazzo si trova a dover
scendere a patti con la sua fame. Perché è rimasto veramente poco a quei
bambini, e sa che dovrebbero andare - nei giorni a seguire - a prendere delle
scorte in città, perché ce n’è davvero bisogno.
Pertanto, finita la sua baguette – un po’ troppo dura, vecchia di qualche giorno
– e bevuto il suo bicchiere d’acqua, Allen si pulisce le labbra e ringrazia
caldamente con un sorriso.
”Stavo veramente morendo di fame…” commenta, battendosi la mano sullo
stomaco. Lenalee si ritrova a pensare che sia una cosa ridicola e che non c’è
modo che la bambina ci caschi, ma Blanche sorride contenta, manine giunte
dietro la schiena.
Allen le dà una piccola pacca sulla testa di riccioli castani, ringraziando
ancora, e la bambina annuisce prima di sgattaiolare via al piano di sopra,
ghirlanda stretta fra le manine.
Per qualche attimo i due rimangono in silenzio, seguendola con lo sguardo. Poi,
è Allen ad infrangerlo, con un brontolio dello stomaco. Si volta verso Lenalee,
ed un po’ di preoccupazione è evidente nel suo sguardo, così come la stanchezza
del viaggio e del mancato – adeguato e dovuto – ristoro.
”Tutti gli adulti? Così?” commenta, incredulo, incrociando le braccia al
petto. Cerca conferma, o rassicurazioni. Forse, ragiona Lenalee, si è accorto
anche lui di quanto sia sbagliata, quella cittadella. Annuisce, scostando lo
sguardo sulle scale che portano al piano di sopra. La voce argentina di Blanche
si sente da lì, ma non sembra ricevere risposte dalla madre. E’ un monologo,
quello che si intuisce, non un dialogo.
Deve far male. Deve far veramente male, vedere un
genitore ridotto così.
Quell’osservazione le sfugge dalle labbra ed Allen, distrattamente annuisce. E’
lì, accanto a lei: nel silenzio, i suoi occhi d’argento la spiano più volte,
prima di decidersi ad infrangerlo ancora.
”Lenalee?”
”Uhm?” mormora lei, sollevando lo sguardo ed incrociando il suo. Tira su col
naso, e gli occhi rossi per l’allergia fanno sì che sembri che stia piangendo.
”Stai bene, sì?” domanda lui, e c’è affetto nella sua voce, genuina
preoccupazione. Lenalee, in qualche modo, ne è veramente grata.
”Sì, sì,” lo rassicura, accennando un piccolo sorriso. “E’ l’allergia. Tutti
questi starnuti mi devono aver intontita, mi fa un po’ male la testa.”
Allen annuisce, sorride. Non molto genuinamente, questa volta. Poi sospira,
incrociando le mani dietro la nuca e borbottando qualcosa riguardo
all’accanimento della sfortuna nei loro confronti, quando loro non hanno fatto
nulla.
Lenalee non se la sente di ridere. Tuttavia, lo fa comunque, nascondendo la
fila di denti bianchi dietro il palmo della mano. Fa caldo, fa veramente caldo.
La camera di Lenalee è accanto a quella di Allen, che è
accanto a quella dei due finders. Eppure, nonostante ci sia una camera di
distanza fra di loro, Lenalee può sentire i due uomini piangere nel sonno – uno
di loro si sveglia con un grido e l’altro, svegliato dal grido, cantilena una
preghiera.
In
the name of the Father…
Mormora, e Lenalee, per quanto avesse odiato Dio durante
la sua vita, si ritrova istintivamente a modellare il seguito della preghiera
con le labbra.
Inizia a far freddo, nella stanzetta, e sa che in quel villaggio è tutto
sbagliato. Dai fiori, ai bambini, agli adulti che dormono, al vento, alla sua
allergia.
Sente Allen russare sommessamente al di là del muro ma, sebbene questa cosa
l’avrebbe solitamente fatta ridere (come una bambina, a dire il vero), quella
sera la infastidisce, perché non riesce a prender sonno. singhiozzo preghiera russare grido perdono perdono singhiozzo Signore mi
dispiace
Lenalee starnutisce, affondando il viso nel cuscino della
piccola stanza, angusta e stantia. Il suo sesto senso le dice che qualcosa non
va’. Di solito, a Lenalee piace seguire il suo sesto senso, perché, di solito,
il suo sesto senso ha ragione. Non l’ha mai delusa, il suo istinto.
Vorrebbe alzarsi dal letto e parlarne con Allen.
Parlare di quella città-cimitero, con i suoi abitanti addormentati ed i suoi
bimbi scalzi e vagabondi come spiritelli. Con i suoi fiori in tributo ad ogni
casa-tomba e con i pianti dei ‘grandi’, spettrali come gemiti di fantasmi. E’
il suo dovere, essere lì in missione.
Perché, sebbene in guerra, lo scopo dell’Ordine non è affatto cambiato, e
quella potrebbe essere Innocence.
Ma potrebbe essere davvero Innocence? Potrebbe l’Innocence fare davvero cose
così sbagliate?
E’ qualcosa di orribile, quello che sta accadendo a questa città.
Ma ha visto fare talmente tante cose, all’Innocence. Molte delle quali per
niente innocenti.
Vorrebbe alzarsi e parlarne con Allen. Ma, paradossalmente, l’idea di uscire da
sola in quel corridoio buio le mette paura. La paura le mette ansia. L’ansia le
fa accelerare il respiro.
Una serie di starnuti, mentre si stringe un po’ più su sé stessa nel letto. Ha
affrontato tante cose.
Questa paura è sbagliata, non le appartiene. Una parte di lei riesce a
razionalizzare questo pensiero.
Quella parte di lei insiste, parlane con Allen. E’ importante. Devi parlargli.
Ma, seriamente, non riesce davvero a trovare la forza di alzarsi dal letto.
Finalmente il sonno – tanto ambito – la coglie, prendendola fra le sue braccia
e trascinandola nel suo abisso di quiete.
Quella notte sognerà un’immensa luna spettrale riflessa
sull’acqua. Sognerà Allen, dall’alta parte dello specchio, senza poter riuscire
a raggiungerlo. Sognerà di essere muta, sognerà di non poter far nulla, sognerà
di essere sola ed isolata dal mondo e sognerà quei sogni che tanto l’avevano
spaventata da bambina.
Sognerà quel ragazzino, soggetto degli esperimenti sulla sincronizzazione
dell’innocence, ed il suo sguardo rassegnato, dedicato solo a lei, e che lei
aveva sempre visto come un’accusa.
Sognerà Leverrier, ed il puro terrore che quella figura autoritaria ancora
risvegliava dentro di lei.
Sognerà una grande distesa di neve, ed il puzzle del suo mondo caduto in pezzi,
e tutti i pezzi sparsi nella neve e sporchi di sangue e la neve rossa,
scarlatta, come la Luna spettrale.
La mattina dopo si sveglierà, silenziosamente, tra i
singhiozzi.
Note sul francese:
- les lutins d’Églantine = gli spiritelli di Églantine
A/N: okay, si entra nella fic. Sono più
soddisfatta di questo capitolo, rispetto al primo, sinceramente. Fila molto
meglio. E si sta per entrare nel fulcro della questione. Ringrazio ancora una
volta Liy per le rassicurazioni su Allen. Dio, quant’è difficile, quel
ragazzo. Kanda e Lavi e Lenalee li trovo molto più facili da scrivere. Sigh.
Stavo per inserire un “Charles” al posto di “François”, ma poi mi son detta che
faccio troppi riferimenti alla Rossana italiana. Quindi, vada per François.
Tanto è del tutto irrilevante.
Per yuko_chan, sì: il titolo ci son voluti tre quarti d’ora per metterlo
su. Sarà che, in realtà, detesto il francese. Contenta che ti piaccia *_*”
Anche se non avrò molti commenti, questa fic la finirò comunque. Ci tengo
particolarmente, essendo la prima longfic su D.Gray. E non scrivo Longfic da
una vita. Quindi non temere X°D
Un po’ di tempo fa, François aveva una mamma e un papà
Un po’ di tempo fa, François aveva una mamma e un papà.
Non andavano molto d’accordo, loro.
Perché, in fondo, François era in quell’età sospesa a metà fra l’infanzia e
l’adolescenza, e non voleva essere più trattato come un bambino, avendo
tuttavia bisogno di essere trattato come tale.
Quando sua mamma si ammalò, François pensò che fosse stata colpa sua.
Gli venne da piangere. E pianse, giorno dopo giorno, accanto al letto di quella
mamma spenta che, di tanto in tanto, si svegliava per piangere con lui.
Si avvicinò molto al suo papà, François, in quel periodo.
Quando si ammalò suo papà, François pensò che avrebbe fatto meglio ad ammalarsi
pure lui, per non vederli più ridotti così. Poi, pensò che nessuno avrebbe
potuto prendersi cura di loro, se si fosse ammalato anche lui.
Un po’ di tempo fa, François aveva una mamma e un papà.
Non andavano molto d’accordo, loro.
Però avrebbe fatto di tutto, veramente di tutto, pur di riaverli indietro.
[ La ville aux coeurs fanès ]
II. La belle au bois dormant
Quando Lenalee si sveglia, scossa dai singhiozzi, Allen è
sveglio.
Davanti a lei, però, non lo ammetterebbe mai.
Per quanto la ragazza stia effettivamente cercando di contenere i singhiozzi,
quei muri tra loro sembrano fatti di cartapesta, e se lui accosta abbastanza
l’orecchio contro il truciolato, riesce quasi a sentire il suo respiro
irregolare e frammentato.
Prova ad immaginarla, con le mani premute contro le labbra, mentre cerca di
raccogliersi silenziosamente e rammendarsi alla meno peggio, per non cadere infranta
al suolo.
Vorrebbe, in quel momento, esserle vicino. Ma sa che non può, sa che lei si
arrabbierebbe con lui, e che sarebbe terribilmente imbarazzata.
(E sa anche che Komui lo ucciderebbe comunque.)
Un sospiro abbandona le sue labbra, quando sente i singhiozzi muti trasformarsi
in ben più sonori starnuti.
Sorride, Allen, nella penombra che precede l’alba.
Lenalee è forte, pensa.
Lenalee ce la farà.
Lenalee si sente male, e non sa cos’ha.
Il sogno, quella notte, l’ha scossa.
La sua immagine le è rimasta impressa nella mente, marchiata a fuoco, e non
accenna ad andar via.
L’allergia non accenna ancora a lasciarla in pace, ed ogni attacco sembra
lasciarla più spaesata ed intontita del solito, e con gli occhi più umidi di
quanto vorrebbe.
La colazione – pane un po’ vecchio e latte, offerti da Blanche che li guarda
pazientemente dal basso, forse in attesa di ringraziamenti o lodi o pacche
affettuose sulla testa – è ancora davanti a lei.
Non ha intenzione di toccarla, Lenalee, perché teme che il suo stomaco rifiuti
di mandarla giù come dovuto. E’ consapevole dello sguardo di Allen su di lei,
nonostante le sue parole siano rivolte alla bambina.
”Grazie mille, Blanche” dice il ragazzo, ed i suoi occhi d’argento sono tutti
per la cinese, mentre la mano guatata si posa sui riccioli della piccola. Il
suo stomaco brontola – è troppo poco cibo, per lui, sarà sicuramente esausto
– e lui se ne scusa. E rassicura Blanche che è davvero tutto a posto, che
in realtà soffre di gastrite – e per un attimo, sembra grato di sapere
che la bambina non ha la più pallida idea di cosa sia, una gastrite,
perché si beve del tutto la scusa ed assume un aria quasi mortificata.
Ma durante questo scambio di battute, Allen ha occhi solo
per Lenalee.
Al che Lenalee abbassa lo sguardo, e combatte la nausea.
Quando Blanche sale le scale, bicchiere di latte e tozzo
di pane su un piccolo vassoio, Allen le chiede con garbo il permesso di
seguirla.
La bambina sussulta alla richiesta, portando gli occhietti sbarrati su quel
gentiluomo inglese che, pazientemente, attende una risposta. E Lenalee, con la
coda dell’occhio, la vede mordicchiarsi il labbro, e capisce che non vuole che
due estranei vedano la sua mamma ridotta in quelle condizioni.
”Allen, fa nulla. Possiamo…” comincia, cercando di evitare quella scelta così
difficile ad una bimba così piccola, così insicura su quale sarebbe la cosa
giusta da fare, la scelta giusta da prendere.
”Alla mamma non piace che porto degli estranei nella sua camera” la interrompe
tuttavia Blanche, e le sue mani grassocce tremano, facendo tremare appena anche
il vassoio, ed ondeggiare il latte nel bicchiere.
Lenalee lo prende come un no, ed è sollevata.
Non vuole vedere in che condizioni sia la madre di quella bambina. Non pensa
riuscirebbe a sopportarlo.
Allen, invece, china il capo da un lato con fare rassicurante.
”Stiamo solo cercando di aiutarla, Blanche.” Ripete, sollevando appena il
mignolo. “Ricordi? Ho promesso, no? Vorremmo solo provare a parlare con lei.
Non…”
Ma, per quanto la bambina sembri combattuta e dispiaciuta, e del tutto
mortificata, l’unica sua reazione è voltar loro le spalle. Evitando di
ricambiare i loro sguardi.
La sua voce piange.
”Alla mamma non piace che gli estranei entrano in camera sua. Neanche Blanche
dovrebbe essere lì senza il suo permesso, ma la mamma deve mangiare. Così si
rimetterà presto.” Mormora, salendo le scale.
“Blanche!” la chiama Allen. Ma la bambina, lanciando un
ultimo sguardo combattuto nei confronti del ragazzo, tira su col naso e
scompare al piano di sopra.
Allen stringe i pugni.
Lenalee sospira, e scuote il capo.
Dev’essere una cosa tristissima, per una bambina così piccola, doversi occupare
della propria mamma. Il cuore le fa un po’ male, al solo pensiero di come
potrebbe essere.
Le si stringe in una morsa, e le fa mordere il labbro per evitare di sprecare
lacrime.
Quando più tardi Blanche li lascia soli, portando via il bicchiere vuoto di
Allen e quello pieno di Lenalee abbandonati sul tavolo, e quando i due si
stanno dirigendo verso la porta della piccola locanda per proseguire le
indagini, Allen ferma Lenalee.
La ferma, afferrandola gentilmente per il polso con la mano guantata, una
stretta affatto forte e da perfetto gentiluomo.
Una presa quasi premurosa, premurosa come il suo sguardo preoccupato che si incrocia
con quello degli occhi a mandorla.
“Stai bene?” le chiede Allen, per la seconda volta, con
la sua voce gentile e con il suo sguardo gentile.
”Sì,” risponde Lenalee, per la seconda volta. “Sto bene.”
E tuttavia, ne sembra molto meno sicura della sera prima.
La temperatura all’esterno è ancora più torrida
dell’interno locanda.
Tira un bel vento da nord, ma non porta refrigerio. E’ un vento caldo, è una
cappa che incombe sulla cittadina, e sembra rendere tutto più immobile di
quanto già non sia.
Allen è costretto a schermare il viso con la mano, una volta usciti. La luce
riflessa dalle case è troppo forte, e ferisce ancora una volta gli occhi.
Ancora una volta, la città sembra deserta.
Poi, il ragazzo inizia a notare i piccoli particolari.
Davanti alla casa di fronte, c’è un piccolo annaffiatoio
semipieno, terra un po’ smossa, gocce d’acqua sui petali dei fiori, rinvigoriti
di recente.
Lungo la via acciottolata ci sono pezzi di pane vecchio in piccoli cumuli,
lasciati probabilmente come pasto per gli sporadici uccelli del posto. I pezzi
di pane caduti il giorno prima dai bambini in fuga, sono ancora lì. Non li ha
raccolti nessuno.
Dalla finestra di fronte, due occhietti vispi li spiano, nascondendosi subito
una volta resisi conto d’essere stati scoperti. Con un sospiro – perché quei
bambini hanno paura? – Allen si volta verso Lenalee.
”Iniziamo da l…” esordisce, ma la domanda gli muore in gola.
Lenalee ha lo sguardo basso, perso fra i fiori che ornano
il giardino della locanda. Sembra sovrappensiero, ed i capelli che ora le
ricadono in un caschetto attorno al viso le adombrano gli occhi. Allen
deglutisce, ed intuisce che c’è qualcosa che non va; e pensa che potrebbe
veramente essere febbre, piuttosto che allergia, o qualcosa di serio, ed in una
città senza dottori…
”…Lenalee?” tenta, sorriso esitante sulle labbra.
La seconda chiamata ha un esito migliore della prima. La ragazza solleva lo
sguardo, battendo ciglio, e riesce persino a metter su un sorrisino
imbarazzato.
“Scusami. Pensavo soltanto che
ieri mi era sembrato di vedere molti insetti, ma oggi…” qui si interrompe,
mordicchiando il labbro, quasi pensando qualcosa da metter su al momento “Oggi
mi sembra che ce ne siano di meno di quanto dovrebbero essercene, per una città
così piena di fiori in primavera.”
Ah, già.
E’ primavera.
Allen lo appunta, poiché ha la tendenza a dimenticarlo.
Ma, seppur il tono della ragazza sa di scusa inventata lì per lì, Allen non può
fare a meno di notare che la cinese ha ragione. Ci sono molti meno insetti di
quanto ci si sarebbe aspettati.
E poi, dirigendosi verso la porta di fronte, si accorge che sotto il suo piede
in realtà, c’è un’ape.
O meglio, il cadavere di un’ape. O meglio ancora, ciò che ne resta.
Lui non ci fa molto caso, storcendo appena le labbra, ma Lenalee sì.
Lenalee ci fa caso e, per l’ennesima volta in due giorni, rabbrividisce.
E le viene da rimettere.
“Mi hai spaventato.” sta mormorando
Allen, facendole cenno di andare. “Iniziamo da lì.”
Lì è, apparentemente, la casa di fronte alla locanda. Stando ben attenta ad
evitare l’ape spalmata per terra, Lenalee lo segue. E’ Allen tuttavia a bussare
alla porta, una volta, due volte.
Ma non risponde nessuno.
E, per quanto il ragazzo insista, quella porta rimane chiusa.
”I miei amici non vi vogliono qui.” Mormora la voce di Blanche, alle loro spalle,
facendoli voltare in sua direzione. Tiene fra le braccia un annaffiatoio troppo
pesante per lei e, barcollando, il suo vestitino bianco è ormai quasi fradicio.
”Perché?” domanda Allen, chinando appena il capo da un lato. Sembra offeso, in
un certo modo, triste. “Siamo qui per aiutarvi, non per…”
“Hanno paura che li volete
portar via da qui come volevano fare i signori bianchi.” Spiega Blanche,
apprestandosi a prendersi impacciatamente cura delle piante del giardino.
L’acqua schizza un po’ dappertutto. “Non ci porterete via, però, vero? Posso
dirglielo, se promettete.”
Ma, mentre Allen ha già
sollevato il mignolo con un sorriso rassicurante, e ha già schiuso le labbra, è
Lenalee ad accovacciarsi davanti alla bimba, con uno starnuto ed un’espressione
seria sul volto.
“Sarebbe più sicuro per voi,
andar via. Potremmo ospitarvi finchè…”
“No!” esclama Blanche, panico
negli occhi. “La mamma ha bisogno di me, hanno bisogno di noi, non li lasciamo
soli. Non possia…”
“Se rimarrete qui, morirete di
fame.” Afferma Lenalee, e nel suo sguardo c’è una fermezza che Allen ricorda
aver visto molto raramente.
”Lenalee…”
“Davanti agli occhi dei vostri genitori.”
”Lenalee, è abbasta…”
”Pensi che sia questo ciò che tua madre vuole?”
”Lenalee!”
La bambina scoppia a piangere.
Finalmente, Lenalee porta lo sguardo su Allen, che la osserva come se le fosse
spuntata una seconda testa. “Lenalee, c’era certamente un modo più…”
“Ma è la verità, Allen. Non
possono stare qui. Non possono.” ragiona lei, e ha gli occhi arrossati ed il volto
arrossato, e gocce di sudore che sembrano lacrime che le calano sulle guance.
“E’ la verità.”
Ansima. Sta respirando male. Come quella notte.
”Lenalee, non stai bene.” afferma allora il ragazzo, perché quelle parole che
lei ha detto alla bambina avrebbe potuto accettarle forse da Kanda, ma non da
lei.
Lenalee non dice quelle cose. Lenalee ha sempre dello zucchero, accanto alla
pillola da ingoiare.
La vede, ora, dall’alto, mentre si perde in uno sfogo di starnuti, che si
tramuta ben presto in uno sfogo di tosse.
”Non stai bene, Lenalee. Alzati.”
”Non possono restare qui, Allen.” ripete lei, con voce un po’ più provata.
“Moriranno anche loro. E se restiamo anche noi, troppo a lungo…”
“Alzati, Lenalee. Non stai
bene, rientriamo dentro.” insiste lui, offrendole una mano come supporto. Nei
suoi lineamenti c’è premura, così come nei suoi gesti. Ma c’è timore, nei suoi
occhi d’argento.
Lei scuote il capo, fra i colpi di tosse.”Se li lasciamo qui, i bambini
moriranno, e questa città sarà davvero come un cimitero, e loro saranno davvero
gli spiriti che…”
Questa volta Allen la forza in
piedi, permettendo che riesca a reggersi contro di lui. Lenalee si divincola,
un po’, mentre Blanche guarda entrambi con gli occhi sbarrati e le lacrime
sulle guance.
“Non stai bene, Lenalee.”
ripete Allen, e la sua voce è un po’ più urgente, ora. “Entriamo dentro, va
bene? Ti riposi un po’, intanto io continuo ad investigare nei dintorni.
Blanche mi aiuterà a parlare con gli atri bambini. Non è vero, Blanche?”
La bambina si affretta ad
annuire allo sguardo quasi supplichevole di lui, a labbra strette per soffocare
i singhiozzi, ma Lenalee lo guarda senza capire.
”No, no…” mormora, scotendo il capo. “Hai bisogno di me, la missione si fa con
un partner, e…”
“Non ho bisogno di te, Lenalee.”
mormora l’inglese, con tono rassicurante, ma la mano che si posa su quella
della ragazza sta tremando. “Sei tu che hai bisogno di riposare.”
“… non hai bisogno di me?”
ripete lei, con un filo di voce.
”No. Non preoccuparti.” dice Allen, e sorride.
Negli occhi di Lenalee, le
lacrime non sono più dovute all’allergia.
Lenalee è sola, ancora una
volta, nella sua stanza. Ancora una volta, quella stanza troppo piccola le
mette ansia. I bambini giocano giù, nella strada acciottolata, e lei li sente.
E pensa che prima o poi moriranno di fame, e che non c’è nessuno a prendersi
cura di loro, ed è una cosa talmente sbagliata che sente le lacrime salirle
agli occhi, coadiuvate dai colpi di tosse che diventano sempre più frequenti.
Il caldo le fa mancare appena l’aria,
le fa attaccare le ciocche alla fronte, la soffoca.
Allen ha ragione, non sta bene.
Ricorda una vocina che le aveva detto di parlargliene.
Non l’aveva ascoltata, perché?
Quella città li ucciderà,
pensa.
Le risate di quei bambini saranno il loro requiem.
”Non voglio, non voglio…” mormora, affondando il viso nel cuscino.
Our Father, who art in heaven, hallowed be Thy name... declama a gran voce uno dei finders, e la
voce più giovane delle due piange. Thy kingdom come. Thy will be done, on earth as
it is in heaven...
Lenalee sa che la cosa più giusta sarebbe parlare con loro, ora che sono
svegli.
Sa che può essere utile anche da lì.
Ma Allen non ha bisogno di lei.
Allen non ha bisogno di lei.
Il pensiero le causa un singhiozzo secco, privo di lacrime.
Perché no?
Non è debole, lei.
E’ sempre stata forte.
Lo ha sempre dimostrato.
Anche quando non stava bene.
E’ sempre stata…
Le gambe, traditrici, la reggono appena quando poggia i piedi guantati
di scarpette rosse per terra. Il pavimento di legno scricchiola, e la porta
cigola, quando la apre.
Sta tremando. Non ha freddo ma sta tremando.
Trema quando apre la porta dei finders.
Quello che prega è davanti alla finestra aperta, le mani giunte davanti al
petto, strette tanto da far male, capo chino. Quello che piange Lenalee lo
conosce, e ricambia il suo sguardo umido con il suo altrettanto arrossato.
Give us this day our
daily bread... è un grido, è una supplica. Il più giovane dei due, Charles, affonda il
capo nel cuscino per nascondere le lacrime.
And forgive us our trespasses,
as we forgive those who trespass against us;
E Lenalee si accascia contro la porta chiusa, e sente male al cuore.
Timore.
Ansia.
Paura.
Panico.
E’ un crescendo che le fa aumentare il ritmo del respiro, che la lascia
soffocare in quell’aria senza ossigeno. And lead us not into temptation, sta concludendo il finder dalla barba
rasata troppo tempo fa, con voce rotta dalla disperazione. Lenalee si pente di
essere venuta in quella stanza, perché adesso ha le prove.
Ha le prove che quella cittadina distrugge la gente.
Le prove sono sui visi di quegli uomini.
Sul viso di Charles, che nei suoi ricordi è sorridente e rovinato dal sole,
cosparso di lentiggini.
Lenalee, accasciata contro la porta chiusa, soffoca un singhiozzo.
“... but deliver us from evil...” mormora, con un fil di voce. Ma questa
intromissione non disturba colui che prega, il quale piuttosto ripete, con voce
grave: “... but deliver us from evil. Amen.”
Ed è una supplica, più che una preghiera, è un appello disperato.
E’ quella città, il male.
Lenalee pensa che forse Dio ascolterà più facilmente due voci, piuttosto
che una.
Pertanto, quando l’uomo riprende
Our Father, who art
in heaven, hallowed be Thy name...
la voce molto più flebile della cinese si unisce alla sua, più tonante.
Thy kingdom come. Thy
will be done, on earth as it is in heaven...
Lenalee vorrebbe soltanto un po’ di tregua da quella sensazione che la
soffoca da quando ha messo piede in quel cimitero di case e fiori. Lenalee
vorrebbe essere soltanto lontana da lì.
Lenalee vorrebbe soltanto riposare un po’.
Quando Allen tornerà alla locanda, al tramonto, non troverà Lenalee
nella sua stanza.
Quando Blanche lo assicurerà che non l’ha vista uscire di lì, Allen
proverà timore.
Quando la troverà, addormentata col il capo poggiato su una sedia della
stanza dei finders, proverà sollievo.
Quando vedrà le lacrime che le ornano le guance, si precipiterà al suo
fianco e chiamerà il suo nome.
Quando lei non si sveglierà, capirà che c’è qualcosa di veramente sbagliato, e
le scuoterà le spalle.
Quando si sarà reso conto che lei non si sveglierà, entrerà nel panico
più totale.
Quando la sentirà, con un singhiozzo, chiamare il suo “Ge Ge” nel sonno,
sentirà anche il suo cuore infrangersi un pochino di più.
Quella sera stessa, tramite Timcanpy, Allen Walker contatterà Komui Lee.
“Mi dispiace,” saranno le prime parole ad abbandonare le sue labbra. “Mi
dispiace.”
Note sul francese:
La belle au bois dormant = la bella addormentata
nel bosco.
Note sull’inglese: la preghiera, riportata in
seguito, è l’equivalente inglese del Padre Nostro che sei nei cieli, etc etc…
Finder Inglese dell’Ordine che si trova in Inghilterra, duh.
Our Father, who art in heaven,
Hallowed be Thy name.
Thy kingdom come.
Thy will be done,
on earth as it is in heaven.
Give us this day
our daily bread;
and forgive us our trespasses,
as we forgive those who trespass against us;
and lead us not into temptation,
but deliver us from evil.
A/N: volevo solo far notare che in questa fic non
ci sono coppie precise. Cercherò di mantenere il più possibile i rapporti
creati tra i personaggi di Hoshino. Con varie implicazioni e cose simili, ma
mai niente di concreto. E’ un po’ un tuttixtutti e un nessunoxnessuno, insomma.
Ringrazio ancora Liy per l’AllenWalker-checking, e per la recensione. La
continuerò di sicuro *ç*
Yuko_chan: quando ho già la scaletta pronta, non
ci metto poi così tanto a scrivere. >_<” Ogni tanto la vita si mette in
mezzo, però, quindi sono costretta a ritardare per editare et similia xD Sono
felice che ti inquiete, perché volevo provare un diverso tipo di “inquietante”
dal solito, fatto di nebbia e cose simili. Sarà che personalmente odio il sole,
ma non c’entra nulla. (Tra parentesi, ora penso che sia diventata anche Lenalee
inquietante, però. Ma fa nulla.)
Fofolina: grazie mille per la recensione ^_^ Io
personalmente sono una fanatica dei dettagli, e a volte tendo un po’ ad
appesantire per questo. Alla fine devo eliminarne un mucchio che,
fondamentalmente, risultano inutili per immaginare la scena. In quanto all’allergia
di Lenalee, dubito che lei ci veda qualche lato buono, nella situazione, in
questo momento >_<” Comunque, essendo diventata fan di Lenalee, cercherò sicuramente
di farle giustizia. Non si preoccupi >_<
Nahema: contenta che le descrizioni siano andate
bene *_*” Sono un po’ il mio tallone d’Achille, e sto cercando di rimediare
>_<” Lavi e Yu arriveranno molto, molto a breve. (coffcoffnelprossimocapitolocoffcoff)
E per l’Allen IC, bisogna rendere grazie a Liy che mi aiuta, perché sinceramente
a me fa andare un po’ in crisi >_<”
Lalani: grazie mille per la recensione artistica.
Mi ha fatto venire un po’ di fame. In quanto al bannerino, sei liberissima di
prenderlo. *_* Sono tutti liberissimi di prenderlo *_* L’ha fatto Liy, ma non c’è
niente di male a diffondere l’AllenLena un po’ nel mondo, in generale XD Per il resto, ti rimando
su. Yu e Lavi arriveranno presto, e tutti e quattro i personaggi avranno una
parte molto importante nella storia. Niente ruoli secondari, per loro. Sono tutti
protagonisti *_* [li ama tutti e quattro indistintamente].
Michelle guardava sua mamma sbucciare le mele con sguardo assente
Michelle guardava sua mamma sbucciare le mele con sguardo assente.
Erano sedute al tavolo, loro due, in perfetto silenzio.
Un grigio, pesante silenzio che incombeva sulla stanza decorata di fresco, e
sul mazzo di fiori a centrotavola.
Quel bellissimo mazzo di fiori che la signora Dubois aveva regalato, appena
colti dal suo giardino.
La mamma aveva avuto uno sguardo luminoso, mentre ringraziava la signora
Dubois.
Aveva riso, estasiata da quei bei colori.
”Sono cosmee?” aveva chiesto.
La mamma stava sbucciando le mele, ora.
Sbucciava le mele e guardava, con occhi spenti, quel mazzo di fiori che l’aveva
entusiasmata come una bambina.
Michelle voleva davvero chiederle di sbucciare le mele a forma di coniglietto,
come faceva quando era più piccola.
Stava per chiederlo – un po’ timorosa – quando sua mamma lasciò cadere il
coltello nel piatto finemente decorato.
”Sono stanca…” mormorò la donna, stringendo le palpebre “… non ne posso più,
non posso più…”
Diligentemente, Michelle richiuse le labbra ed abbassò lo sguardo.
[ La ville aux coeurs fanès ]
III. Dejà-vu
Allen riattacca la cornetta, occhi vividi di un’emozione
a metà fra la preoccupazione, la rabbia, e la desolazione più totale. Si gira,
tuttavia, con un sorriso. Dedicato alla ragazza seduta alle sue spalle.
“Ne, Lenalee,” esordisce, con quel suo tono gentile-ma-non-formale,
quello che di solito riesce a farla sorridere.
“Tuo fratello dice che Lavi e Kanda arriveranno presto a
darci una mano, qui. Dovrà essere più facile, no? Venire a capo di tutta
questa… situazione.”
La ragazza non sembra ascoltarlo. Rimane seduta al
tavolo, mani poggiate in grembo, capo appena chinato d’un lato. Gli occhi
appena spenti fissano un punto indefinito del pavimento.
Il cuore di Allen si stringe in una morsa – e ricorda
Lenalee vestita da bambola, e gli occhi spenti, e Road, e Miranda e quello schiaffo
che ancora oggi porta ben custodito nel cuore. Il sorriso non accenna a cedere
sulle labbra, mentre si siede di fronte alla cinese.
“Tuo fratello vuole che tu stia bene, Lenalee,” mormora,
abbassando appena la voce di un’ottava.
Le labbra della ragazza si serrano – una reazione. Una
reazione, finalmente.
Il sorriso sulle labbra di Allen si ravviva un pochino.
“Non starò bene,” mormora Lenalee, ed il sorriso si
spegne del tutto.
Non starò bene, ripete, con quella voce infranta. Allen
scosta lo sguardo da quella figura così esile – perché doveva essere proprio
lei ad ammalarsi? – ed intercetta quello della piccola Blanche, affacciata
sulla soglia.
Anche la piccola Blanche scosta lo sguardo, e chiude la
porta della piccola e rustica sala da pranzo della locanda.
La gare d’Austerlitz ha appena cinquant’anni: si
erge sulla riva sinistra Senna, e non ha niente di eclatante.
Il suo orologio ticchetta diligentemente i secondi che
passano, un grande occhio bianco che vigila sul via vai frenetico dei
viaggiatori.
Quella soleggiata mattina di metà maggio, una singolare
scena si presenta però allo sguardo onnisciente dell’orologio – e a quello, un
po’ più basito, degli uomini e donne in attesa del prossimo treno. Un
appariscente trio, infatti, procede a passo spedito nella folla, dividendola in
un’ironica imitazione della separazione delle acque del Mar Rosso. Nessun
miracolo divino causa tuttavia il fenomeno, nonostante le tre figure siano
effettivamente alle dipendenze del Vaticano.
“Baka usagi, se non la smetti di tirar--- no, no,
Komui sto ascolta… e smettila di piagnucolare, cazzo, sei irritante!”
“… e aspetta che non è ancora arrivata la parte migliore,
Phil! Questa ragazza bellissima si sbottona la blusa e…”
Alla dipendenze del Vaticano, sul serio.
Un uomo bassino, vestito asetticamente color panna, funge
da aprifila: sulle sue spalle, adagiato come uno zaino, c’è quello che a colpo
d’occhio sembra un… apparecchio telefonico. Enorme, ingombrante e dall’aria
particolarmente pesante. L’uomo rivolge il viso vagamente affilato verso il
secondo ragazzo dello stravagante corteo: una zazzera color rame che in qualche
modo riesce a fare a pugni anche con la divisa rossastra indossata – un po’
dimessa, per il caldo quasi estivo. Sorriso ebete ostentato sul volto, è tutto
intendo a tirare energicamente il filo dell’apparecchio telefonico, mentre
enfatizza a gesti quello che sembra un racconto particolarmente piccante.
”Lavi, idiota, smettila di tirare il fil… non riesco a
seguirti Ko… smettila di fare l’isterico e parla pia… cazzo,
Lavi! Se non la smetti, giuro che al prossimo compleanno decorerò il
Refettorio con il tuo intestino, se… sì, Komui, ti sto ascolta-“
Chiude la processione un ragazzo dai lineamenti asiatici
e i capelli sconvenientemente lunghi per la moda del tempo, espressione a metà
fra l’esasperato e il nevrotico. Cerca evidentemente di combattere – invano
– su due fronti: da una parte una logorante conversazione a distanza,
dall’altra il pericolo costante che la cornetta gli venga tirata via dalle
mani.
“… da quando partecipi ai compleanni, ne, Yu-chan?
E comunque dicevo, questa ragazza bellissima e rossissima, che…”
Insulti coloriti seguono diligentemente il passaggio del
gruppo attraverso l’austero porticato d’entrata: gli sventurati viaggiatori in
attesa nella gare rafforzano istintivamente la stretta sui bagagli
incrociandone il tragitto. Quasi temano di venir contagiati, in qualche modo,
da tale mancanza di decoro.
“Certo che siamo a Parigi, ci hai mandati tu,” il
tono caustico di Kanda è vagamente irritato, mentre attorciglia crucciato il
filo attorno all’indice affusolato – vana speranza di trattenerlo al suo posto.
“Millau? Perché lì? Senti se non ini – Lavi! – senti, Komui, non
sono nella tua testa e qui c’è un fottutissimo casi--- si, ma se
non mi spie…”
Il rossino riesce infine, con uno strattone più forte, a
strappargli la cornetta di mano. Colpa di Kanda, che si era lasciato distrarre
nel tentativo di sfoderare Mugen per eseguire minacce più efficaci.
“Mio!” trilla Lavi, trionfante, quando la cornetta cade a
terra. Kanda batte ciglio, momentaneamente perplesso, prima che l’intero volto
si trasfiguri in una maschera di rabbia.
“Okay,” sibila sfoderando la fedele katana. Per qualche
ragione, i due lembi del Mar Rosso di folla si aprono un pochino di più attorno
a loro. “Sei morto.”
Tirando vigorosamente il filo, Bookman Jr si limita a
ritirare a sé la cornetta e portarla disinvoltamente all’orecchio.
“Yu-chan è un tale maleducato,” esordisce, tono di voce
palesemente divertito “non sa neanche sostenere una discussione civile al
telefono, ne, ti pare possibile?”
Il Finder scosta lo sguardo, per nascondere
l’inequivocabile piega divertita delle labbra. Le dita di Kanda si contraggono
appena sull’elsa di Mugen.
Lavi è evidentemente in vena di morire.
Kanda è fin troppo felice di ottemperare a quel desiderio
così ardente.
E’ pronto a colpire, ma…
… il sorriso idiota di Lavi si spegne troppo velocemente.
“Lenalee?”
E’ solo un nome, ma cattura l’attenzione dell’asiatico.
Sembra cattura anche l’attenzione di Phil, che si lascia sfuggire semplicemente
un “Lady Lenalee?”
“A Millau?”
Si, questo lo aveva sentito anche lui. Se solo Komui non
fosse sul baratro di una crisi isterica, e Lavi non avesse la mentalità di un
ragazzino di cinque anni, avrebbe probabilmente sentito anche il resto.
“Églantine.
Ricordo. E Allen…?”
Mammoletta inutile.
”Sì. Va bene. Va bene, ci andiamo subito. Sì, sì, prendiamo il prossimo treno.
Tranquillo ne, ci pensiamo noi.”
Il brusio della folla, il fischio dei treni in partenza e
il soffio stanco di quelli che sfiatano e si fermano riempiono i buchi di
silenzio. Lavi non è mai così silenzioso.
E Kanda non è una persona paziente – la stizza piega all’ingiù le sue labbra,
mentre Mugen viene riposta al cinto. Il cruccio delle sopracciglia adombra il
viso dai lineamenti sottili.
“Si può sapere che voleva, quello? Non riuscivo a capire
un’acca di quello che stava dicendo,” finisce per borbottare, tono
evidentemente risentito. Lavi solleva lo sguardo pensieroso: ma il tutto dura
solo un attimo, sostituito dal ben più usuale sorriso. Soltanto un po’ più
stanco e dimesso del solito.
“Allen e Lenalee hanno trovato i finders che erano stati
dati per dispersi.”
“E Komui pensava che questo potesse interessarmi?” è la
caustica quanto perplessa replica del giapponese.
“Pare che si fossero ammalati della stessa malattia che
erano andati ad indagare,” continua Lavi, spostando lo sguardo sul treno, quasi
non fosse mai stato interrotto.
Kanda schiocca la lingua – e che ci si poteva aspettare,
da loro?
“… sembra che anche Lenalee si sia ammalata.”
In un primo momento, la mente di Kanda non comprende per
bene il senso di quelle parole. Tanto che le labbra già si schiudono per uno
dei soliti commenti all’acido, e son costrette a richiudersi dopo un’adeguata
comprensione.
“… Lenalee?” è tutto quello che dice. Lo ripete, battendo
ciglio.
Le sopracciglia si crucciano. Lavi, dal canto suo,
annuisce e stringe le labbra.
“Vuole che andiamo a dare una mano ad Allen. Dobbiamo
trovare al più presto l’innocence che sta causando questo casino, ne.”
Lavi serio fa paura. Ma d’altronde, cosa c’è di non
serio? Prima di partire, Lenalee aveva detto loro che quella malattia porta le
vittime al suicidio. Ce n’erano stati già cinque di casi, a quel tempo.
Chissà a quanti erano aumentati, ora.
Comprensibile, che Komui fosse nel panico – ma Kanda non
ha abbastanza considerazione degli altri, per sentirsi in colpa di averlo preso
a male parole. Ne ha abbastanza, tuttavia, per non lamentarsi di dover trovarsi
una mammoletta paranoica fra i piedi.
La missione è la missione.
“Dove?” domanda, laconico.
“Prendiamo il treno per Millau. Di lì, a piedi verso il
villaggio. E’ piccolo, non è collegato alla rete ferroviaria.”
Facendo un rapido calcolo, se Lavi e Kanda fossero stati
a Parigi come Komui aveva detto, sarebbero arrivati a Millau nel tardo
pomeriggio.
Alle porte di Églantine in serata.
Allen ha davanti l’atlante geografico della madre di
Blanche, e nel silenzio segue le vie ferroviarie lì disegnate. Cerca di tenere
la mente occupata, per non pensare a Lenalee che se ne sta raggomitolata sul
letto, a pregare quel Dio che – Allen lo sa – ha sempre odiato.
Quando è salito al piano di sopra, l’ha sentita soltanto
mormorare “basta, basta, non ce la faccio più, Signore…” ed ha girato
subito i tacchi, scendendo nuovamente giù. Ha passato il pomeriggio a cercare
di far sorridere Blanche, cosa sicuramente più facile che far sorridere
Lenalee.
Blanche non è malata.
Forse stando con lei non rischia di ammalarsi pure lui –
rischia di farlo, anche solo guardando la cinese.
Ma Allen è forte. Allen deve andare avanti.
Quando Blanche è di buonumore, Allen con un sorriso le
chiede se è successo qualcosa di strano, prima che gli adulti cominciassero ad
ammalarsi. Blanche dice che François aveva catturato una lepre, il giorno
prima.
Ricavare informazioni utili dai bambini è terribilmente
difficile, dopotutto.
Allen lascia cadere lì argomento, e lascia anche la
locanda.
L’odore di fiori è inebriante come al solito, trasportato
dal dolce vento del sud. Il caldo, ora che il sole comincia ad abbassarsi
all’orizzonte, è un po’ più sopportabile. Ma la cappa d’umidità toglie il
respiro. Sbottonando un po’ di più il collo della camicia, Allen si perde nei
viottoli del villaggio.
Vorrebbe cercare indizi, spiegazioni, tracce di
innocence: ma non riesce a respirare bene, con tutti quei profumi e quel vento
umido, e finisce per distrarsi dai troppi colori così fuori luogo, in una città
triste come quella.
Il sole tramonta: Allen va alle porte del villaggio, e
attende.
Lavi e Kanda sono in ritardo, ma alla fine arrivano anche
loro. Bisticciando, come al solito.
Li vede da lontano, privi delle giacche dell’uniforme,
privi della rosa del Vaticano. Sudati, esasperati – Lavi già in vena di
sdrammatizzare la situazione. Kanda già in vena di essere di cattivo umore.
Una scena così familiare.
Li richiama a gran voce, sventolando la mano a mezz’aria.
Sollevano lo sguardo.
Lavi risponde con un richiamo altrettanto alto, e Kanda piega le labbra in un
gesto di stizza.
Una scena così familiare.
Allen non è mai stato così contento di rivederli.
Quella Lenalee, così regredita a quel bozzolo di
depressione che era stata da bambina, s’illumina appena quando Lavi e Kanda
entrano nella stanza. Le nuvole sulla sguardo adombrato si fanno appena da
parte, nel guardarli. Sembra quasi lo sguardo che dedica, di tanto in tanto, a
Komui.
Per un attimo il suo sguardo si incrocia con quello di Kanda.
Il volto del giapponese s’indurisce appena in una maschera di disappunto.
Quello della cinese si scioglie appena in una maschera di quieta disperazione,
che sa di supplica.
Kanda scosta lo sguardo, e Allen può solo domandarsi cosa
stia succedendo.
Lavi non ha risposte, ma parla lo stesso.
“Quindi tutti gli adulti del villaggio sono ridotti
così?” esordisce, lasciandosi cadere su un angolo del lettino vuoto, poggiato
contro il muro. Lenalee, seduta sul suo letto, abbassa lo sguardo e rimane in
silenzio. Kanda si poggia contro il muro, ben attento a non guardare la cinese.
Allen risponde.
“Tutti gli adulti. La più giovane al momento ha sedici
anni, o almeno così dicono i bambini,” sospira, incrociando le braccia al
petto. Non c’è aria.
“I sintomi sono graduali?” stranamente, è Kanda a porre
la domanda.
“Lenalee sembrava stare bene quando siamo arrivati. Un
po’ d’allergia, ma nulla di che,” si affretta a spiegare Allen, nella voce quel
pizzico di difensiva che riemerge ogni volta che parla con il giapponese. “Poi,
ha iniziato a fare discorsi strani ai bambini. Diceva di avere sonno.”
Deglutisce, mordicchiando il labbro. “Stamattina, era già così.”
“E non siete stati qui nemmeno tre giorni,” osserva
pensieroso Lavi.
Allen capisce che stare lì è un rischio. “Per questo,
dovremmo trovare l’innocence il prima possibile.”
“I finders?” domanda il rossino, dato che Kanda non
farebbe mai una domanda del genere.
“Nell’altra stanza. Non fanno che piangere e pregare.
Volete provare a parlarci?”
La voce di Allen sembra essere davvero urgente. E’ così
dedito, a cercare una soluzione il prima possibile. Prima che Lenalee peggiori.
Prima che Lenalee faccia cose stupide.
Kanda pensa che Lenalee di cose stupide ne ha già fatte,
e per questo l’espressione sul suo volto non fa che inasprirsi ulteriormente.
“Vorrei parlarci, sì,” sorride Lavi, quel sorriso fuori
luogo ma che rimane, tuttavia, luminoso come al solito. “A te cos’han detto,
ne, Allen?”
“Assolutamente nulla,” replica il ragazzo, sconsolato,
con un sospiro. Apre la porta, e quello sguardo così comprensivo e quel sorriso
disarmante, messo su per l’occasione, vengono rivolti a Lenalee.
Lenalee ricambia il tutto battendo ciglio.
“Prova a riposare, ne.”
L’unica risposta è il silenzio. Lenalee stringe le
labbra, e scosta nuovamente lo sguardo. E’ un piccolo spillo che s’insinua nel
cuore di Allen, ma Allen non lo dà a vedere. Allen va avanti, facendo cenno a
Lavi e Kanda di seguirlo. Lavi si rialza dal letto, con un piccolo salto,
seguendo a ruota il compagno; Kanda, dal canto suo, si stacca dal muro e si
avvia verso la porta.
Movimento distratto che assicura Mugen al cinto, ben
attento a non posare lo sguardo sulla figura della cinese.
“Aspetta,” dice lei, tuttavia. Con quella sua voce
spenta. Sembra la voce di un fantasma, che infesta il silenzio.
Controvoglia, Kanda aspetta. Perché è abituato ad
aspettare, quando lei glielo chiede.
E’ brutto vedere una donna forte ridursi così.
E’ desolante.
E’ patetico.
“Che vuoi?” domanda, brusco.
“Aspetta,” ripete lei. Ed è di nuovo quell’espressione
che sa di supplica.
L’espressione che aveva da piccola, quando si intrufolava
nella sua stanza, per sfuggire a Leverrier. Aspetta.
Le voci di Allen e Lavi si perdono nel corridoio, una
volta che i loro passi – frenati per aspettarlo – riprendono a
guadagnare terreno.
Aspetta.
Con uno sbuffo stizzoso, allora, Kanda prende la sedia e
si mette ad aspettare.
Lenalee intanto piange.
Una scena così familiare.
Note sul francese:
- gare = stazione
- dejà-vu = … necessita di traduzione? °_° o meglio, ce l’ha? °_°
A/N: sì l’ho ripresa. Dopo… uh [controlla] dieci
mesi di pausa >_<” Purtroppo, è stato un blocco dello scrittore
magistrale. Dato che la storia è tutta buttata giù sottoforma di appunti, mi
sembrava sprecato lasciarla lì a marcire. Pertanto, mi barcamenerà fra questa
qui e “And Death goes On”.Anche perché
ultimamente tutto il blocco è svanito nel nulla, e son piena di voglia di
scrivere. >_<” … da tener conto che era pronto,questo, da un paio di
settimane. Oggi l’ho ripreso in mano per dargli una lettura e scrivere la parte
iniziale e quella finale XD
E mi rendo conto che bene o male, Lenalee finisce sempre
per deprimersi. Stupida malattia è_é E’
colpa della Lena, giuro. Se non fosse stata un’aspirante suicida, da piccola…
°_°
Un grazie a Liy, Fofolina, Lalani e yuko_chan che han
commentato lo scorso capitolo nell’era preistorica <3