Naughty Blu - Le conseguenze di una minaccia [In revisione]

di holls
(/viewuser.php?uid=3882)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Riflessi ***
Capitolo 3: *** Osare ***
Capitolo 4: *** E mi allontano da te ***
Capitolo 5: *** Melodie contrastanti ***
Capitolo 6: *** Silence and Motion ***
Capitolo 7: *** Accordi ***
Capitolo 8: *** Certezze sbiadite ***
Capitolo 9: *** Spalle al muro ***
Capitolo 10: *** Incomprensioni ***
Capitolo 11: *** Scomode scoperte ***
Capitolo 12: *** "Quanto prendi?" ***
Capitolo 13: *** Faccia a faccia ***
Capitolo 14: *** Memories ***
Capitolo 15: *** Martino, lo spazzacamino ***
Capitolo 16: *** Paranoia ***
Capitolo 17: *** Scosse di terremoto ***
Capitolo 18: *** Memories/2 ***
Capitolo 19: *** Raggio di Sole ***
Capitolo 20: *** Raggio di Luna ***
Capitolo 21: *** Parrucche ed eroi ***
Capitolo 22: *** Decisioni ***
Capitolo 23: *** Taglio netto ***
Capitolo 24: *** Ti aspetterò ***
Capitolo 25: *** Vane speranze ***
Capitolo 26: *** Apparenze ***
Capitolo 27: *** Verità rivelate ***
Capitolo 28: *** Corsa contro il tempo ***
Capitolo 29: *** Come un pesce fuor d'acqua ***
Capitolo 30: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***






Prologo.

 
 
Ottobre.
Espirò lentamente. Davanti a lui si formò una nuvola di fumo, che presto si confuse con l’aria inquinata che lo circondava. Perfino l’odore della sigaretta, in tutto quel traffico, gli sembrava quasi gradevole.
Nathan se ne stava seduto sul marciapiede di quell’enorme viale, divertendosi, nell’attesa, a scrutare le macchine lì di passaggio. All’improvviso, gli parve di scorgere l’auto che stava aspettando. La osservò meglio, ma si accorse che la targa era diversa. La macchina si fermò al semaforo, proprio davanti a lui, e ne approfittò per dare un’occhiata dentro. Poté vedere un bambino e un cane che giocavano insieme: il povero bambino tentava disperatamente di fuggire dalle leccate di quel cane che era almeno due volte la sua stazza, mentre i genitori, che parlavano di tutt’altro, non si accorgevano di nulla. Scattò il verde e la macchina ripartì.
La mano destra cominciava a congelarsi e si domandò per quale assurdo motivo avesse acceso quella sigaretta. Nonostante fosse ottobre, sembrava quasi di essere in pieno inverno, con l’unica differenza che, ancora, non aveva nevicato. Ma il gelo che gli stava intorpidendo la mano era tutt’altro che autunnale.
Una raffica di gelido Barber lo costrinse a stringersi in quel misero cappotto che aveva e in quel momento pensò che, con tutti i soldi che guadagnava col suo lavoro, poteva mettere qualcosa da parte per comprarsi un cappotto vero e non quella banale imitazione che portava da secoli.
Il semaforo fu di nuovo rosso. Davanti a lui si fermò un Suv, che gli ricordava qualcosa. O meglio, qualcuno. Al suo interno vi era però un’altra famiglia, questa volta senza nessun cane gioioso. Non annoverava nessuna famigliola felice tra le sue conoscenze, ma qualcosa scattò in lui quando osservò meglio l’uomo alla guida. Non appena l’occhio gli cadde sulla particolare stempiatura che aveva, figurò immediatamente l’identità del guidatore: era un suo cliente. L’uomo si voltò casualmente verso Nathan e quest’ultimo gli lanciò uno sguardo malizioso. A quel gesto, l’uomo tornò immediatamente a guardare il semaforo, per poi ripartire subito al verde appena scattato.
Il lampione sopra la testa di Nathan cominciava a fare cilecca. Si augurò solo che Hank arrivasse presto. Ormai aveva anche finito di fumare e aveva nascosto le mani dentro il cappotto sperando di trarne qualche beneficio. Un’altra raffica, e cominciò a battere i denti.
Ma come per un intervento divino, l’auto di Hank si fece largo tra le altre, fino ad accostare proprio davanti a Nathan. Il ragazzo si alzò e si avvicinò alla macchina; Hank tirò giù un finestrino.
« Allora, quanto vuoi? »
« Sarebbe comunque troppo per te! »
Hank scoppiò a ridere.
« Dai, sali. E muoviti, che fa un freddo boia. »
Nathan entrò nella macchina e chiuse la portiera. Qualcuno cominciò a suonare dietro di loro.
« Ma che cazzo volete? Ora partiamo! »
Nathan sorrise.
« Adoro la finezza che ti contraddistingue, Hank. »
 
I due partirono, in direzione di quello che definivano ormai ‘il loro luogo’.
Nathan tentò di accendere il riscaldamento, nel tentativo di scongelarsi un po’. Hank, intanto, era impegnato a mandare al diavolo ogni automobilista sul suo cammino.
Aspettò un po’ di tempo, ma dai bocchettoni dell’auto continuava a uscire aria fredda. Era disposto a sopportare quel freddo iniziale, ma cominciava a pensare che preferiva quasi tenersi il gelo che aveva già.
Primi e fermi al semaforo, Hank placò per un momento gli epiteti che fino a quel momento aveva lanciato.
« Mi sembrava che fuori facesse freddo, ma non mi pareva così tanto. »
Seguì un momento di silenzio, finché lo sguardo di Hank non si posò sui comandi dell’auto.
« Ma che hai combinato? Non dirmi che hai acceso l’aria! »
« Be’, sì, perché? »
Hank sospirò.
« È rotta, cazzo! Congeleremo! »
« Oddio! Scusa. La spengo subito. »
Nathan si imbarazzò un poco, ma al contempo la cosa lo aveva divertito – soprattutto la faccia di Hank.
« Ah, non puoi immaginare chi ho visto prima. Ti ricordi il cliente di due sere fa, quello un po’ stempiato col Suv? È passato prima con tutta la famiglia al completo. Se l’è fatta addosso appena mi ha visto, tra poco faceva un incidente! »
« Sai che sorpresa ancora più grande, se tu un giorno gli piombassi in casa. Potrebbe avere un infarto. »
« Effettivamente sarebbe divertente. Non l’infarto, s’intende. »
 
Mancava ormai poco all’arrivo e Nathan cominciava ad acclimatarsi.
« Al tuo ragazzo dici sempre che vai a lavorare al bar? »
« Sì. Anche se ho il sospetto che non ci creda più molto. »
« Potresti sempre dirgli la verità. Non è mica un lavoro disonorevole. »
« Hank, non credo che gli farebbe molto piacere sapere che tutte le sere do il mio… didietro a una manciata di sconosciuti. »
« Digli che sei attivo. »
Nathan sospirò.
« Non capirai mai, Hank. D’altronde mi stupirei più del contrario. »
« Già, per fortuna non sono coinvolto in nessuna schifezza romantica. Ah, eccoci arrivati. »
Hank parcheggiò la macchina in una strada laterale, dopodiché scesero. Si incamminarono verso la strada principale e si fermarono dopo poco. Lì, sul marciapiede, di fronte al solito condominio color salmone.
 
Passarono gran parte del tempo ad aspettare che qualcuno arrivasse ma forse, complice anche il clima, non si vedeva nessuno all’orizzonte.
Nathan si strofinò le mani e si rivolse a Hank.
« Pensi che verrà qualcuno stasera? »
« Be’, chiunque sia, spero che abbia il riscaldamento in auto. Potremmo mettere un cartello: ‘Chi è senza riscaldamento, paga 10 dollari in più’. »
« È incredibile. Io avrei messo: ‘Sconto di 10 dollari a chi ha il riscaldamento’. »
I due ragazzi dettero ancora un’occhiata, ma non si vedeva nessuno. Qualche macchina passava di lì, ma erano solo auto di passaggio non interessate ai loro servizi. Anche se in realtà riconoscevano subito i loro clienti: con quelli più intimi, che tornavano più volte, avevano stabilito di dare un colpo di abbaglianti per farsi riconoscere. Ma, quella sera, l’unica luce intorno a loro era quella dei lampioni.
Alla fine Hank sbuffò.
« Che ne dici di tornarcene a casa? »
« Non sai quanto sia allettato dalla tua offerta, ma l’affitto a fine mese richiede pagamento in soli contanti. »
Hank sorrise e tornò a guardare le foglie sotto il suo piede, ormai prossime a incastrarsi in un tombino.
 
Passò ancora del tempo e Nathan cominciò a passeggiare sul marciapiede, cercando di scaldarsi. Aveva parlato con Hank del più e del meno, ma ormai aveva esaurito ogni argomento di conversazione. Si stava davvero convincendo che la cosa migliore fosse tornare a casa, anche se lo preoccupava il pensiero che Alan, il suo ragazzo, potesse chiedergli perché era tornato prima, sempre che non fosse già a dormire.
Faceva quel lavoro già da quattro anni e non ne aveva mai parlato con nessuno. Soltanto Hank, ovviamente, era a conoscenza della sua vera professione. Per tutti gli altri, lui lavorava in un bar di periferia e gli era sfortunatamente toccato il turno di notte. In questo modo, sarebbe stato plausibile il fatto che nessuno lo avesse mai visto nei paraggi.
 
Il flash di due abbaglianti lo destò dai suoi pensieri. Nathan e Hank si guardarono subito, sorridenti. Aspettarono che l’auto si fermasse davanti a loro, ma non lo fece. Accostò invece un po’ più avanti, in una zona più buia rispetto al resto, a causa di un lampione che non funzionava più.
Aspettarono un po’, tentando di capire se in quell’auto ci fosse un cliente o no; ma quando videro che l’auto si era proprio fermata, intuirono che era interessato a loro. I due si mossero, sbuffando, verso la macchina. Appena arrivati davanti, l’uomo al suo interno abbassò il finestrino.
« Sarei interessato a Nathan. »
Quella frase li colse di sorpresa e i due ragazzi si guardarono stupiti. Nathan fu colto da un senso di inquietudine, per svariati motivi. Quell’uomo, di cui non si ricordava affatto, aveva l’aria di conoscerlo bene; e, cosa ancora più strana, non gli aveva nemmeno chiesto quanto volesse.
Ma visto che era il primo cliente che in quella serata gelida si era degnato di fermarsi, Nathan accettò. Salì in auto, chiuse la portiera e lanciò un ultimo sguardo a Hank.
La macchina ripartì, ma, dopo pochi metri, le portiere si chiusero da sole. Il cuore di Nathan cominciò a battere più forte e il notare che la porta era effettivamente chiusa – il perno di sicurezza si era abbassato -  fece nascere in lui un’inquietudine ancora più forte.
Il silenzio fu spezzato solo dalla voce dell’uomo.
« A quanto pare non puoi più uscire. »
Nathan riuscì solo a spostare lo sguardo verso quell’uomo e notò che aveva uno strano sorriso sul viso. Non si sentiva sicuro. Aveva quasi l’impressione che il cuore gli sarebbe fuoriuscito dal petto, da quanto lo sentiva battere; e anche il suo respiro, ormai, si era accorciato drasticamente.
L’auto finalmente accostò, ma le portiere non potevano ancora essere aperte. Nathan si voltò spaventato verso l’uomo, che invece lo fissava con sorriso sadico sul viso. E lo guardava così, senza vergogna, come se si divertisse nel vedere la paura stampata sul volto di Nathan.
« Che cosa vuoi da me? »
La voce gli tremava, anche se cercava di simulare una certa calma.
« Oh, niente. Solo farti una proposta. »
La  voce dell’uomo era lenta e melliflua e scandiva ogni parola con una maniacale accuratezza.
« Non me ne frega niente delle tue proposte, fammi uscire di qui! »
« E invece credo proprio che ti interesserà. So tutto di te. Innocente studente di giorno e… » Nathan sentì una mano infilarsi sotto il suo cappotto. « audace puttana di notte. »
Nathan ricacciò via la mano con veemenza.
« Non mi toccare! Dimmi che cosa vuoi! »
« Osi parlarmi così? Mmm, chissà cosa direbbe il tuo bel fidanzatino Alan se lo scoprisse… »
« Tu… Come fai a … »
« Questo non deve interessarti. Parliamo di affari, ora. Sai, mi piaci molto – ah, mi scacci ancora così? Non lo farei se fossi in te. Io ti voglio. »
Nathan cominciò a sentirsi in pericolo. Il battito del suo cuore era aumentato talmente tanto che gli sembrava di sentirlo rimbombare negli orecchi. Ma, pensò, doveva mantenere la calma. Rispose con un tono fermo e deciso.
« Sono 200 dollari. »
« Un po’ cara, come tariffa. No, voglio di più. Voglio scoparti, » disse l’uomo, avvicinando il suo viso all’orecchio di Nathan, « a casa tua. »
« Che cosa? »
« Sì, proprio così. Nella tua bella camera da letto che condividi con quel tuo sciocco fidanzatino. »
« Non parlare così di Alan, non te lo permetto! »
« Ah no? Prendere o lasciare. Una scopata e la tua vita continuerà come se niente fosse, altrimenti… »
Al solo pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se avesse rifiutato, Nathan impietrì. Immaginò il volto di Alan, la sua delusione, il suo disgusto. Lo avrebbe mollato e non avrebbe più voluto sapere nulla di lui. Di fronte a una tale scena, gli mancò quasi l’aria. Non ebbe il coraggio di dire nulla all’uomo che aveva di fronte, ma fu lui a continuare.
« Deciderò io la data e l’ora del nostro incontro. Capirai subito quando avrò deciso. In ogni caso, ti lascio il tempo per pensare. »
All’improvviso, le portiere dell’auto si sbloccarono. Di fronte a quel click, Nathan sobbalzò.
« Allora, carino, torniamo indietro? »
D’istinto, Nathan afferrò la portiera e l’aprì. Scappò via da quell’essere viscido senza pensarci due volte e cominciò a correre a perdifiato, mentre nella sua mente avvertiva solo la paura e la repulsione. Pensò alle mani di quell’uomo sulle sue cosce, nel tentativo di toccarlo sotto la maglia che portava. Immaginò poi l’avverarsi della richiesta che gli aveva fatto l’uomo e sentì la voglia di vomitare.
 
Era davanti a un bivio ed entrambe le strade avrebbero portato alla sofferenza: se avesse accettato, la sua storia sarebbe stata salva, ma sarebbe stato come fare a se stesso un torto troppo grande; dall’altro lato, avrebbe perso per sempre la persona che amava, che mai, e lo sapeva, avrebbe accettato una bugia che andava avanti da tre anni, oltre a ciò che quella bugia implicava.
 
***
 
Nathan sentì il bisogno di fermarsi. Non sapeva perché, dopo due mesi, gli fosse tornata in mente quella scena. Eppure era prigioniero del sonno e, benché tentasse di fermare quell’incubo, la sua mente non aveva voglia di svegliarsi. Si girava e rigirava in quel letto solitario, cercando una pace che non voleva arrivare. Avrebbe voluto svegliarsi e gridare, ma non ce la faceva. Il sonno lo stava trascinando verso un nuovo incubo. E questo, purtroppo, non tardò molto a presentarsi.
 
***
 
Sentì le chiavi girare nella serratura. Provò sollievo e tentò di emettere un sospiro, ma ogni suo tentativo fu strozzato da una spinta lancinante, che gli lacerò ancora una volta l’anima, oltre che il corpo. Ogni violazione che subiva suscitava in lui la voglia, il bisogno, di gridare, ma sentiva di non avere più le forze neanche per ribellarsi. Si sentì cingere i fianchi da quelle mani fetide, quelle stesse mani che avevano forzatamente esplorato tutto il suo corpo e che ora lo tenevano fermo per ottimizzare i movimenti.
Si sentiva ormai privo di qualsiasi forza, tant’è che non fu in grado di implorare aiuto, né di attirare l’attenzione di colui che aveva fatto ritorno a casa. Riuscì a muovere solo gli occhi, ormai spalancati, veicolanti, come ultima speranza, un flebile messaggio di salvezza verso l’unico che poteva soccorrerlo.
Il dolore di una nuova spinta lo costrinse a strizzare gli occhi, e si accorse amaramente che non aveva nemmeno più la forza di piangere.
« Nathan? Amore? »
Nutrito di nuova speranza, reclinò la testa cercando di emettere un suono udibile. Ma come tentò di farlo, ecco che arrivò punitiva una nuova, feroce spinta. Quella bestia era tremendamente silenziosa e Nathan si augurò con tutto se stesso che Alan venisse in camera a controllare, anche solo per sicurezza.
Sentiva le ginocchia ormai doloranti, per non parlare degli spifferi gelidi veicolati da quelle finestre di scarsa finitura. Ma fu anche in parte grato a quel freddo, che sembrò cristallizzare il dolore di quella brutale penetrazione, che stava avvenendo senza il minimo rispetto per la sua dignità di essere umano. Udì nuovi passi farsi strada verso la camera.
Era giunto il momento. Era salvo.
Poté scorgere la sagoma di Alan dirigersi verso la soglia, finché non fu lì.
Si aspettava la sua reazione. Era sbigottito.
« Che cazzo significa tutto questo? »
Lo sguardo di Alan era vitreo, la bocca spalancata che, invano, cercava le parole.
« Aiutami! »
Sentì qualcosa fuoriuscire. Qualcosa di massa decisamente non trascurabile. E poi, qualcosa di caldo. Nathan socchiuse gli occhi. Sperò solo di non essersi beccato qualcosa di spiacevole.
« Sei stato proprio una brava troietta. Hai un culo fantastico. »
Nathan tentò di rispondere. Fece per mettersi supino, nel tentativo di guardare in faccia quel mostro. Ma le gambe lo abbandonarono, facendolo rimbalzare sul letto. Tentò di controbattere a parole, ma qualcuno lo fece prima di lui; un violentissimo pugno sul muro lo zittì.
« Chi cazzo è questo figlio di puttana nel mio letto?! »
Nathan sussultò. La vibrazione di quel colpo si scagliò prepotentemente in ogni centimetro dei suoi tessuti e si sentì improvvisamente come soffocato dal suo stesso respiro, percependo il suo petto alzarsi e abbassarsi a un ritmo calzante. Timido e tremante, scostò il suo corpo verso quello che un tempo rappresentava per lui l’amore e che ora era una belva inferocita, volgendogli un braccio nel tentativo di farlo ragionare.
« Amore, ascoltami… »
« Non chiamarmi in quel modo! Puttana! »
Lo sguardo di Alan pareva ormai svuotato da ogni sentimento benevolo. Puntò il dito verso la bestia sul suo letto.
« E tu, porco! Fuori da casa mia, subito! »
L’uomo si fece da parte con gesti lenti.
« Sbrigati, cazzo! »
Sembrava quasi che le sue corde vocali stessero per spezzarsi. Era la prima volta che Alan urlava in quel modo.
Le parole furono accompagnate presto dai fatti. Si avvicinò a passi svelti verso l’ospite indesiderato, strattonandolo per i capelli con sguardo assassino.
« Fuori-da-casa-mia. Ora! »
L’uomo non se lo fece ripetere due volte. Non ebbe nemmeno il tempo di vestirsi completamente che era già fuori dall’appartamento.
 
Nathan era sconvolto. Fissava vacuo il lenzuolo macchiato da più di un’impurità, tenendolo stretto come un bambino impaurito. Sentì passi pesanti venire verso la camera. Aveva paura. Non temeva le urla o la violenza – semmai avesse alzato le mani su di lui. Alan gli avrebbe creduto?
Eccolo lì, davanti a lui. Accecato. Completamente fuori di sé.
« Quanto a te… »
« Alan, ti prego, ascoltami! »
« Ascoltarti? Cosa cazzo devo ascoltare? Ho già visto abbastanza! »
« Alan, ti prego… »
Nathan trovò, inaspettatamente, la forza di piangere nuovamente.
« Ti prego, mi ha costretto… »
Quelle parole lo aizzarono ancora di più.
« Certo, ti ha costretto! Solo uno scemo ti crederebbe! »
Sbarrò gli occhi. Si sentì squarciato da una ferita ancora più lacerante di qualsiasi spinta o percossa. Un leggero alito di vento asciugò ogni lacrima di quel viso ormai inerme. Era immobile.
« Ho ragione, dunque! »
Tentò di negare con la testa ma fu inutile. Era pietrificato.
« Sei uno stronzo! Non farti vedere mai più! »
Alan arraffò gli abiti gettati per terra e li scagliò sprezzante verso il ragazzo.
« Sparisci dalla mia vita! »
Dopo aver urlato quella sentenza, Nathan trovò le forze per rivestirsi almeno parzialmente, in fretta e furia, per quanto possibile. Non staccò nemmeno per un momento gli occhi da quelli di Alan.
Il suo sguardo lo trascinò verso la porta di casa. La sofferenza di Nathan nel raggiungere la porta era indicibile, ormai provato dalle ripetute violazioni. Camminava a gambe larghe e a piccoli passi, uno più difficile dell’altro.
Giunse infine alla porta. Gli occhi velati di lacrime, il groppo in gola. Fece un ultimo disperato tentativo.
« Alan, io… »
« Stai zitto! »
Non c’era più niente da fare, almeno per quel giorno. Alan non voleva ascoltarlo. E, d’altronde, gli sarebbe stato anche difficile giustificare in tutto e per tutto quella situazione. C’erano tante, troppe cose che Alan non sapeva di lui. Ma non era il momento. Non ancora, almeno.
Non rifuggì il suo sguardo, nemmeno una volta. Abbassò la maniglia di quella porta e abbozzò un sorriso al cigolio che, ancora, emetteva. Uscì sul pianerottolo, le sopracciglia corrugate, il corpo tremante. E, accompagnato da un rumore sordo, la sagoma di Alan scomparve.
 
***
 
Nathan si svegliò, madido di sudore. Fissò il soffitto, flebilmente illuminato dai raggi del sole filtrati dalle sue tende: era mattina. Stette immobile per qualche tempo, poi si asciugò la fronte.
Di nuovo quell’incubo. Di nuovo.
 

Finalmente, dopo tre mesi, torno a pubblicare questa storia. Prima di tutto, i ringraziamenti. Il mio "Grazie" più sentito va sicuramente alla mia beta Silvia, che ha fatto un lavoro TITANICO, aiutandomi sempre con precisione e passione, e riuscendo nell'impresa di rendermi orgogliosa di questa storia quando ormai non ci credevo quasi più. Penso proprio che ti farò una statua d'oro! XD Grazie, grazie, grazie! *__*
Un "Grazie" va anche a briciolaj7, che ha continuato a tenersi informata su questa storia durante tutto il periodo della revisione. Ti ringrazio davvero, ha significato tanto per me.
Un sentito ringraziamento va anche ad Alberto, che mi ha aiutato a stendere la presentazione della storia, visto che sono un po' negata quando si tratta di essere concisi.
Ringrazio anche il mio ragazzo, che mi ha fornito supporto morale e ha sopportato tutti i miei dubbi e le mie indecisioni.
E ringrazio anche tutti i lettori silenziosi, quelli che hanno seguito la vicenda senza esporsi. Grazie :)
È proprio a voi che vorrei dare alcune indicazioni su questa revisione. Il capitolo 1 ha un pezzo aggiuntivo, mentre i capitoli dal 2 al 6 (compreso) hanno subito variazioni minime, ma che ritengo comunque importanti. Magari leggete un rigo sì e un rigo no XD. Dal capitolo 7 in poi, invece, vi consiglio di leggere tutto, sia perché ci sono capitoli inediti, sia perché potrete godervi maggiormente il climax.
E con questo, passo e chiudo. Al prossimo capitolo! :)

Licenza Creative Commons

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Riflessi ***


1. Riflessi

 

14 dicembre 2004.

Erano almeno dieci minuti che se ne stava sulla soglia del cimitero, troppo tormentato per entrare e troppo codardo per andarsene via.
C’era un gran viavai di anziane signore che gli lanciavano occhiate minacciose, chiedendosi quale altro universo stessero fissando quegli occhi persi nel vuoto.
Anche se non potevano vederlo, Alan stava osservando Oliver. Era lì, davanti a lui, con lo stesso sorriso della foto sulla sua tomba. Non erano dieci minuti che fissava il vuoto; erano dieci minuti che aspettava una risposta.
Per quanto tempo ancora sarebbe dovuto tornare alla sua tomba? Per quanto ancora Oliver avrebbe occupato uno spazio nel suo cuore?
Erano stati prima amici, poi amanti; il primo vero amore della sua vita.
Svanito con un tonfo sordo e una strisciata di pneumatici sulla strada.

Alan aveva passato i primi momenti a colpevolizzarsi: se solo non avesse permesso a Oliver di guidare, il ragazzo non si sarebbe trovato sul lato strada, una volta sceso di macchina, e quel pirata non l’avrebbe investito. Non aveva fatto in tempo a imprimere il sorriso di Oliver nella sua mente, che qualcuno glielo aveva già portato via.
E non c’era stata nemmeno giustizia per quel povero ragazzo.
Nel tentativo di alleviare i suoi sensi di colpa, inizialmente andava al cimitero tutti i giorni, portando un bel mazzo di fiori e una preghiera, che era più per sé che per quel povero ragazzo - ma questo lo capì solo dopo molto tempo.
Dopo alcuni mesi, si rese conto che non poteva davvero essere colpa sua; e così lasciò che il lavoro, la vita quotidiana e gli impegni tornassero a far parte della sua vita.
Ma quella ferita era ancora aperta e faceva male. E tempo per Oliver ce n’era sempre meno.
Passato qualche tempo, però, aveva ritrovato la voglia di innamorarsi ancora. Ma amare è mettersi in gioco; e quando si accetta di amare, si accetta anche di soffrire, anche se nessuno te lo dice.
E, viste com’erano andate le cose, forse non lo aveva capito veramente e non era così forte come credeva: probabilmente si era solo illuso di poter tornare ad amare davvero.
Alla fine, aveva deciso di tornare sulla sua tomba solo il giorno dell’anniversario.
Ecco cosa ci faceva lì, esitante sul da farsi, con un piede sul cuore e l’altro sulla mente. Oliver gli sembrava sempre di più il personaggio di un libro letto nell’adolescenza: avevano condiviso emozioni e un pezzo della loro vita, ma quel ragazzetto era rimasto fermo là, ghiacciato dal tempo, mentre lui era cresciuto ed era andato avanti con la sua vita.
E, doveva ammetterlo, dopo essere stato travolto dal ciclone Nathan, la priorità dei suoi pensieri era cambiata considerevolmente.
Avrebbe avuto ancora senso continuare a onorare la memoria di Oliver, benché lo sentisse sempre più distante?

Prese la sua decisione. Non avrebbe abbandonato Oliver, né lo avrebbe dimenticato: non credeva che fosse possibile. Ma, se voleva davvero tornare a vivere, il primo passo era fare dietro-front.
E così non entrò.

***
 
Erano ormai le sette di sera. Faceva buio molto presto ormai e, soprattutto, faceva freddo. Senza il sole ad alitare qualche soffio caldo, l’aria era veramente gelida. Girò intorno alla macchina per entrare dal lato guidatore, quando notò che qualcuno aveva lasciato un volantino sotto il tergicristallo. Lo raccolse e ne lesse a grandi linee il contenuto.
Il locale pubblicizzato era un certo “Naughty Blu”: il volantino ne annunciava il rinnovo e il cambio gestione e invitava a farci un salto; più sotto, una nuvoletta riportava prezzi bassi, qualità e tanto divertimento.
Alan scrollò le spalle, salì in auto e impostò la sua meta: casa. Di certo non aveva tempo da perdere in giro per locali, nel tentativo di consolarsi.
…O forse sì?
 
***
 
Era la prima volta che entrava al Naughty Blu. La sgangherata insegna al neon suggeriva un ambiente dai colori piuttosto freddi, ma il cigolio di quella porta scardinata dal tempo lo rivelò invece tendente all’ocra, troneggiato da un severo bancone d’acero.
Il pungente odore di sigaro cubano intriso dell’olezzo di alcool richiamava un’atmosfera da tipici anni ‘50: chiacchiere di uomini d’affari accompagnati da donne di una sera, il tabacco inalato seguito da un roco tossire e l’impastato sottofondo jazz di quell’ormai vecchio giradischi.
Ma, in quel momento, quegli stessi uomini avevano perso ogni traccia di eleganza, con le unghie ingiallite dalle troppe sigarette e il viso invecchiato da quel brutto vizio. L’addome informe, sottolineato da una camicia troppo stretta, era volgarmente accarezzato da sgualdrinelle senza ritegno e senza più un briciolo di sensualità. E quel vecchio giradischi stonato era stato soppiantato da musica capace solo di penetrare negli orecchi come  colpi di gong.
Si sfilò i guanti di lana – che di guanti avevano solo il nome – e si sfregò rapidamente le mani, alitandovi dentro. Il timido tepore del locale bastò a scrollargli di dosso la patina di freddo dicembrino, che attecchiva senza pietà a ogni lembo di pelle che trovasse scoperto. Prese posto a uno sgabello davanti al bancone; sussultò quando avvertì quello stesso freddo sul nervato piano di marmo bianco. Ritrasse immediatamente le mani, nascondendole dentro le maniche del suo maglioncino di cotone, evidentemente di poco aiuto.
In corrispondenza del bancone, poté osservare meglio un’enorme parete di specchi, che ben si prestava a un gioco di luce visto anni addietro nelle sale da ballo di Versailles. Il lampadario al centro del locale non era certo il candelabro Settecentesco della famosa reggia, ma gli faceva tornare comunque in mente quel geniale escamotage con cui, grazie alla luce riflessa, la sala appariva più luminosa di quanto non lo fosse realmente.
Ordinò una bevanda non troppo forte, nella speranza che l’alcool  potesse dargli anche solo una vaga sensazione di calore. Nell’attesa che l’affabile barista lo servisse, non poté fare a meno di notare l’unico individuo stonato di quel locale. Il riflesso degli specchi mostrava la barba ben tenuta, la giacca tirata a lucido e solo leggermente scomposta, il colletto correttamente girato, la cravatta dal nodo impeccabile. Stava seduto sui divanetti antistanti il bancone, con un drink in mano, lo sguardo rivolto alla pista da ballo. Non gli avrebbe dato più di trent’anni, con quell’aria di chi ha appena comprato il suo primo gessato e non lo vuole rovinare.
Il tintinnio del campanellino all’entrata del locale portò con sé una folata di quel vento gelido, provocandogli un brivido che lo scosse fino alla punta dei capelli. Ma annunciò anche l’arrivo di nuovi clienti: tra questi spiccava una giovane ragazza, dalle forme generose ma armoniose. Era l’unica del gruppo a non portare tacchi ma, nonostante questo, raggiungeva in statura le altre amiche.
Il barista gli porse la sua bevanda. La sua voce lo frastornò, avendo dimenticato per un momento di aver ordinato qualcosa. Ringraziò, e vide il barista elargire un sorriso, per poi tornare ad asciugare distrattamente i bicchieri. Anche il suo era evidentemente appena uscito dalla sauna in corso nel lavandino, evento che stuzzicò la gioia delle sue mani, ormai sul punto di screpolarsi.
Aspirò la bevanda a piccoli sorsi, constatando che di alcool, per fortuna, ve ne era ben poco: aveva sempre odiato quella sensazione di amaro perenne in gola, o lo stomaco in fiamme dopo nemmeno mezzo bicchiere. Giochicchiò con i cubetti di ghiaccio all’interno del boccale, divertendosi ad affogarli per poi vederli riaffiorare di colpo.
E constatò che quello era il tipico atteggiamento dei suoi spiacevoli ricordi, che tornavano alla carica proprio quando pensava di averli affondati. E lo sapeva bene: non era forse quello il motivo per il quale si trovava al Naughty Blu?
Tirò un sorso più deciso e fu invaso dal tenue sapore del cocco.
«…Amore, sono tornato!»
Chiuse gli occhi. Un altro sorso, stavolta dal sapore più amaro.
«…Che significa tutto questo? Chi cazzo è quel figlio di puttana nel mio letto?»
Ancora un altro sorso. Troppo forte.
«…Sei uno stronzo! Non farti vedere mai più! Sparisci dalla mia vita! »
L’eco della porta sbattuta, nella sua mente, si confuse con il raschiare della cannuccia sui cubetti nudi. Appoggiò le tempie sui palmi delle mani, e sospirò. Erano ormai due mesi che quell’immagine gli si presentava nella mente nei momenti più disparati; e tutte le volte si chiedeva cosa aveva fatto per meritare di trovare il suo ragazzo tra le braccia di un altro uomo, oltretutto così sfrontato. E in qualche modo maledì anche il fato, per averlo fatto rientrare all’ora sbagliata e, soprattutto, nel momento sbagliato.
I suoi pensieri cominciarono a vorticare, e si domandò per l’ennesima volta da quanto tempo andasse avanti quella storia, e si diede dello stupido ancora, per non essersi accorto di nulla.
Alzò lo sguardo verso il barista.
« Dammene un altro, vai » disse porgendo il boccale. « Anzi no. Più forte. »
Il barista poggiò bicchiere e canovaccio sul piano.
«Abbiamo qualcosa da dimenticare, eh? »
Alan inarcò le sopracciglia, abbozzando un sorriso.
« Si vede così tanto? O hai una palla di vetro? »
Il barista scosse lo shaker all’altezza della spalla, con movimenti laterali. Lo guardò dritto negli occhi.
« Leggo i Tarocchi. »
Alan socchiuse le labbra, sorpreso. Il barista ridacchiò.
« Sto scherzando, studio psicologia. Ma, soprattutto, ho visto un miliardo di cuori spezzati qua dentro.»
Versò il drink nel boccale, dopodiché glielo porse.
« Grazie. E ora suppongo di doverti raccontare la mia storia. »
Cominciò a bere voracemente, fregandosene dell’incendio che già stava avvampando dentro il suo stomaco.
« Se ti va. » Il barista poggiò i gomiti sul tavolo, il mento sul palmo destro. « Sono tutto orecchi. »
Finì di bere. Quella fastidiosa sensazione di percezione ampliata lo pervase, rendendolo particolarmente emotivo.
 « Be’, è la prima volta che ne parlo, ma non c’è molto da dire. Sono rientrato prima e l’ho trovato a letto con un altro. »
Avvertì una stretta al cuore: sembrava che qualcuno glielo stesse strappando via a mani nude. In quel momento si maledì per aver bevuto un po’ troppo.
« Accidenti, brutta storia. »
« Già, avrei dovuto accorgermi prima che era uno stronzo. »
« Ma non aveva nessun comportamento sospetto? »
« Qualche sera spariva inspiegabilmente. Andava a lavorare al bar, diceva. A volte andavo a trovarlo, ma non c’era mai. » Fissò un punto nel vuoto, lo sguardo vacuo. « Non c’era mai… »
« Mentiva? »
Non rispose. Il suo sguardo, diretto allo specchio, si impietrì. Deglutì, e sentì quel gesto rimbombargli nella testa e giù per la gola.
Riconobbe quella scarsella. Era un pezzo unico al mondo: un prototipo, mai venduto, regalatogli da amici che lavoravano la pelle. Non ce ne erano altri. Poteva appartenere solo a una persona.
Poté vedere il suo stesso sguardo attonito, riflesso, affiancato dall’immagine del ragazzo ben vestito ammaliato da un altro.
« Nathan…! »
Vide il ragazzo scostare il viso. Era proprio lui.
«Amore, sono tornato!...
…Che significa tutto questo? Chi cazzo è quel figlio di puttana nel mio letto?...
…Sei uno stronzo! Non farti vedere mai più! Sparisci dalla mia vita! »
Emise un suono strozzato. Tutto ciò che vedeva erano soltanto le carezze di lui sul viso dell’altro.
Si alzò ansimante dallo sgabello. Trovò il coraggio di distogliere lo sguardo da quell’immagine. Cominciò a correre, trafelato. Udiva in lontananza, come un'eco confusa, la voce del barista che lo richiamava, e quella stizzita di una donna che aveva urtato.
Abbassò con decisione la maniglia, sotto lo sguardo attonito di tutti. E il cigolio della porta fu l’ultima cosa che sentì.

-------------------------------------

Salve a tutti! Che dire? Sono emozionatissima all'idea di ripubblicare questa storia. Per i nuovi lettori, spero che la storia vi piaccia! Per quelli che invece seguivano già la vecchia versione, potrete trovare ringraziamenti e indicazioni in fondo al capitolo precedente.
A presto, spero che questo inizio vi abbia incuriosito almeno un po'. Se vi va, potete seguire i miei momenti di pazzia su questa storia sulla mia pagina Facebook, a questo indirizzo.
Alla settimana prossima! :)


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Osare ***


2. Osare
 
 
16 dicembre 2004.
La voce del professore era ormai diventata solo un banale sottofondo. Il blocchetto di Jack, da raccoglitore di appunti qual era, si era trasformato in raccoglitore di creatività: scritte, disegni appena abbozzati, funzioni matematiche. L’ultima fila gli permetteva di sbuffare e guardare continuamente l’ora, nonché di perdersi con lo sguardo fuori dalla finestra.
Un lucherino dalle ali nere e gialle si era appena posato sul ramo di un albero, seguito subito dopo da un altro dalla livrea più scura. Ascoltò il cinguettio dei loro versi. Cosa si stavano dicendo? Dove stavano andando? La semplice vita di quegli uccellini gli strappò un sorriso.
Il professore posò il gessetto sulla cattedra. Si sentì un immediato parlottio e uno sbatacchiare di sedie che si ripiegavano su loro stesse, salutando l’inquilino che le aveva abitate per qualche ora. Jack sbuffò. Diede un’ultima e rapida occhiata alle formule di Statistica alla lavagna e lo sgomento lo fece sprofondare nella sedia. Fissò il soffitto per qualche secondo, facendo scorrere le mani sul viso. Si ricompose e si alzò per riallineare i fogli.
« Jack! »
Allungò il collo e vide Madison sbracciarsi per richiamare la sua attenzione. La ragazza lo raggiunse dopo una breve corsa. Si portò una mano sul petto e riprese fiato.
« Jack, meno male che non sei scappato subito. Ho bisogno di chiederti un favore. Io… insomma, l’altra volta i tuoi appunti hanno fatto miracoli, non è che anche stavolta…»
Jack sfilò gli appunti necessari dal blocchetto e li porse alla ragazza con un sorriso.
« Ecco qua. »
Sul viso della ragazza si aprì un grande sorriso.
« Fantastico, grazie! Per farmi perdonare di tutto questo disturbo, ti offro il pranzo. Dai, andiamo a mensa! »
Jack si infilò la tracolla, dopodiché avanzarono verso l’uscita dell’aula tra una gomitata e l’altra. Sentì qualcuno venirgli addosso; l’urto lo spinse talmente tanto che inciampò su una cartella. Per poco non cadde.
« Potresti almeno scusarti, eh! »
Notò  con disappunto come la sua voce si fosse persa nell’etere del chiacchiericcio.
Si rimise in piedi e si scrollò il polvericcio di dosso. Scrutò la folla in cerca di Madison, fino a che non la raggiunse alla fine di quel percorso a ostacoli. Alzò gli occhi al cielo e sospirò.
« Maledetto corso di laurea con un milione di iscritti. »
« L’importante è uscirne vivi. »
« Finché ce la fai… »
Madison poggiò una mano sulla spalla dell’amico.
« Dai, forza, usciamo da qui che già non ne posso più. »
 
Spinsero il maniglione antipanico verso la libertà.
« E anche oggi ce l’abbiamo fatta. Adesso andiamo a mensa, ché ho una fame che non ci vedo. »
Madison si tappò il naso e scacciò con una mano il nugolo di fumo davanti a lei. Lanciò un’occhiata fulminante al gruppetto di fumatori lì accanto, dopodiché tornò a respirare.
« Già, dobbiamo recuperare energie per lo studio. Statistica ci attende! »
Si annusò una ciocca di capelli, arricciando il naso subito dopo.
« Madison, potresti evitare di parlarmi di quella materia odiosa, almeno ora? Tu sei piena di entusiasmo, ma pensa a me che sono già bocciato tre volte. Mi sta facendo impazzire. »
La ragazza cominciò a contare su una mano.
« Gli hai già tagliato i freni? »
« No. »
« Bucato le ruote? »
« …No. »
« Rigato la macchina?  »
« Non ancora. »
La ragazza sorrise.
« Bene, allora direi che non sei ancora ufficialmente impazzito. »
« Sì, ma ci manca molto poco, credimi. »
Madison gli accarezzò la schiena affettuosamente. Fecero pochi passi, quando Jack si fermò di colpo.
« Che succede? Perché ti sei fermato? »
Jack indicò con lo sguardo qualcuno davanti a lui.
« Quel… » Jack aggrottò le sopracciglia. « Quel tizio. Era al Naughty Blu l’altra sera. A un certo punto ha dato di matto. »
Si portò una mano dietro il collo e abbassò lo sguardo.
« Fammi pensare… » Madison poggiò il mento sul pollice e aggrottò le sopracciglia. All’improvviso drizzò il capo.
« Ehi, un momento! C’ero anch’io quella sera. Me lo ricordo bene perché non avevo i tacchi. Imperdonabile! »
Jack scosse la testa e sospirò.
« Mad, non me ne importa nulla dei tuoi drammi modaioli. Quel tizio ha avuto una delusione amorosa, è entrato nel bar dove lavoro, a un certo punto è impazzito e ora me lo ritrovo qui davanti. Come avrà fatto a trovarmi? »
Lanciò un’occhiata all’uomo che aveva riconosciuto. Pareva non essersi ancora accorto della sua presenza e Jack ne approfittò per ritardare – o meglio, evitare - l’incontro.
« Magari gli hai lasciato qualche informazione utile. O magari è un ammiratore segreto, un detective privato… »
Madison si fermò davanti all’amico e incrociò le braccia. Alzò un sopracciglio e tirò il sorriso da una parte.
«… un serial killer che sta scegliendo la sua prossima vittima. »
« Madison, non sei di nessun aiuto! » Jack scosse il capo, scacciandola con affetto.
« Adesso cerchiamo di non farci vedere e di andare a mensa. E comunque, mia cara… » Mosse l’indice ripetutamente, finché non lo puntò su di lei. « Anche tu eri lì quella sera, quindi la prossima vittima potresti anche essere tu! »
Jack le fece una linguaccia, seguita da una faccia sorpresa di lei.
Gli tirò una pacca amichevole, ma mancò il colpo; ritentò con un calcio sul fondoschiena che stavolta andò a segno.
Tornarono vicini, confondendosi tra la folla, mantenendo lo sguardo basso e la voce sommessa.
« Ce l’abbiamo quasi fatta… »
Jack annuì e si voltò per scrutare la posizione del suo nemico.
« Accidenti! »
Madison sussultò.
« Che succede?! »
Jack batté un piede a terra.
« Ci ha visti, maledizione, e sta venendo verso di noi. Troppo tardi per la fuga. »
Madison aggrottò le sopracciglia.
« Cavoli, ma allora stava cercando noi davvero! »
I due attesero con finta indifferenza l’arrivo dell’uomo. Udire i passi che si avvicinavano era quasi impossibile, tanta era la confusione in quella strada.
« Ehi, ciao. »
Jack chiuse gli occhi e li riaprì, dopodiché si voltò verso di lui. Mostrò un sorriso tirato e nervoso.
« Ciao. Ci conosciamo? »
L’uomo rise.
« Lo credo bene che hai visto milioni di cuori spezzati nel tuo bar, se tutte le volte ti dimentichi con chi hai parlato! »
La risposta non poté che strappare un sorriso a Jack e Madison, che scoppiarono poi a ridere.
« Comunque, sono Alan. Non credo di essermi presentato al bar. »
Jack fece cenno di diniego, presentandosi a sua volta.
« A ogni modo, sono venuto qui per saldare i miei debiti, diciamo così. Sono andato via senza pagare. »
« Be’, potevi anche passare dal bar, non dovevi disturbarti venendo fino qui. »
« Figurati. Non mi piace avere conti in sospeso con le persone. Posso offrirvi qualcosa? »
Madison mollò il braccio di Jack al quale era stata attaccata tutto il tempo.
« Io vi saluto ragazzi, ho la metro che mi aspetta! Non vorrei beccarmi l’ora di punta. A domani, Jack! »
La ragazza salutò con la mano i due uomini, rimasti soli una volta passata la fiumana di gente. Jack la guardò scomparire e scosse il capo.
« Dai, ti offro qualcosa da Gizzi. »
 
I due presero posto all’interno del locale, con i divanetti impilati tutti su un lato e rivestiti di pelle. Si accomodarono entrambi vicino alla finestra, con le sedute una di fronte all’altra. Jack sfogliò nervosamente il menù ed ebbe la necessità di rileggere più volte una stessa riga. Alla fine si decise.
« Penso che prenderò un banale caffè. »
Alan annuì con un sorriso.
« Penso che seguirò il tuo esempio. »
 
Dopo qualche minuto, arrivarono i due caffè. Jack ne assaggiò un poco: il sapore non era male, ma niente a che vedere col caffè che aveva assaggiato una volta in un bar italiano.
Posò la tazzina e osservò l’uomo di fronte a lui, che girava il cucchiaino nella tazza per forza di inerzia, e il solo scrutarlo scatenò in lui una valanga di pensieri.
Pensò che quel pizzico di barba appena visibile gli conferisse quasi un’immagine trasandata, perché mal si sposava con i suoi modi di fare così eleganti ed educati; al tempo stesso, però, lo rendeva anche affascinante ai suoi occhi, con quell’aria da uomo vissuto che si lascia andare alla sofferenza. Si ritrovò a pensare che non era affatto male, con quel viso dai lineamenti così marcati e quell’aria da dannato, ma scacciò subito quel pensiero: Alan si era lasciato da poco e una storia era certamente l’ultima cosa che desiderava.
Si accorse che gli aveva piantato gli occhi addosso per parecchio tempo, così provò a rompere il silenzio col primo argomento che gli venne in mente.
« E così, l’altra sera, avevamo un ospite indesiderato nel bar. Giuro di non averlo mai visto là dentro. »
Alan alzò lo sguardo, preso alla sprovvista. Smise di bere. Jack prese fiato per scusarsi, ma non fu necessario.
« Ah. Allora non lo avevi mai visto. »
Sul volto di Jack spuntò un sorriso.
« Ecco il vero motivo per il quale sei venuto. In effetti, mi sembrava strano che tu volessi solo rendermi qualche dollaro. »
« No, ti sbagli. Sono un tipo preciso e non mi piace avere conti in sospeso, di qualunque natura. Anche se non è sempre facile. »
Jack non seppe che dire. Bevve un altro sorso del suo caffè, poi tossicchiò.
« Comunque, dev’essere stata proprio una brutta coincidenza, dato che non ho mai visto nemmeno te al bar. »
Gli occhi di Alan si velarono.
« In genere trascorrevo le mie serate in altro modo. »
Jack si allentò la sciarpa; si sentiva indiscreto a voler ficcanasare negli affari di quell’uomo, ma tutta quella faccenda lo intrigava. Si schiarì la voce.
« Perdona l’indiscrezione, ma… »
« Sì? »
« Insomma, non sei mai andato a chiedere di lui nel suo presunto luogo di lavoro? »
Alan incrociò le braccia e abbassò lo sguardo.
« No. In genere aspettavo fuori. »
« Sempre? E non l’hai mai beccato? »
Alan emise un sospiro profondo e il suo sguardo si spostò fuori dalla finestra.
« Be’, mi diceva spesso che non si era sentito bene e che era dovuto tornare a casa. »
« E non ti è mai passato per la mente che la cosa fosse un po’… »
Jack gesticolò in cerca della parola giusta.
« ...bizzarra? »
Seguì un attimo di silenzio. Gli sembrò quasi che Alan avesse il groppo in gola e si pentì un po’ di aver fatto domande troppo personali. Si sentì sollevato quando Alan cominciò a parlare.
« Sai, Jack, io credo che a volte ci siano cose che preferiamo non vedere, benché siano chiare come il sole… »
Jack fece spallucce.
« Invece dovresti andare in questo bar e chiedere del tuo ex, anche se ti aspetti una risposta del tipo… »
Prese un altro sorso del suo caffè.
« ‘Non ha mai lavorato qui!’. Dovrai affrontare questa realtà prima o poi. Ho come l’impressione che questo ragazzo non te l’abbia mai raccontata giusta. »
Alan arricciò le labbra e annuì.
« La sera c’era raramente, diceva che era stanco e che voleva andare a letto presto. Ma la mattina, se non dormiva fino a tardi, era davvero uno straccio. »
Appoggiò la fronte sul palmo della mano e chiuse gli occhi.
« Chissà cosa andava a fare in realtà… »
Jack riassunse la sua posa preferita. Mento sul palmo della mano destra, gomito ben piantato sul tavolo e sguardo persuasivo.
« E non sei curioso di scoprirlo? »
« ‘Curioso’ non credo sia la parola adatta. Inoltre, non so bene cosa aspettarmi. E poi, per un po’, preferirei non sentir parlare di lui. Sono passati già due mesi, ma ancora… »
Jack non se la sentì di girare ancora il dito nella piaga, così riassunse una posa normale e quasi si vergognò. L’unico suono che riuscì a udire in quel momento era il ronzio di una fastidiosa mosca.
Alan spezzò il silenzio.
« Studia alla facoltà di Architettura. »
Jack si drizzò.
« Oh, sì, è a pochi edifici da qui. »
Alan sorrise amaro.
« Lo so. »
« Ma almeno all’università ci andava o fingeva pure quello? »
Alan non rispose e si limitò a guardarlo negli occhi. Jack si sentì avvampare e rifuggì lo sguardo.
« Vabbè, ora vado. Volevo solo renderti ciò che ti dovevo. »
Alan lasciò qualche dollaro sul tavolo, salutò e si diresse verso l’uscita. Jack non fece nemmeno in tempo ad alzarsi che udì il campanellino alla porta tintinnare. Alzò le braccia al cielo per poi farle ricadere liberamente.
Era stato un cretino. Si meravigliò di come avesse curiosato negli affari di una persona che non conosceva, apparendo ancora più civettuolo di una signora troppo snob.
Si avviò verso la cassa per pagare e si augurò solo una cosa: di non vederlo più.
 


Salve a tutti! Ho deciso di pubblicare oggi questo capitolo giusto per dare una "spinta" a questa parte iniziale, più lenta e introduttiva, in modo da arrivare più velocemente al nocciolo della storia. Quando ci saremo, però, la pubblicazione riprenderà cadenza settimanale, sennò non riesco a starci dietro.
In questo capitolo abbiamo conosciuto Madison e approfondito Jack, chissà se davvero riuscirà a non vedere più Alan? E chissà se magari riuscirà a infilargli per bene questa pulce di Nathan... Lo scoprirete solo leggendo i prossimi capitoli :)
Ringrazio tutti coloro che hanno messo la storia tra le seguite.
A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** E mi allontano da te ***


3. E mi allontano da te
 
 
17 dicembre 2004. 
Nemmeno un caffè riuscì a risvegliarlo da quell’intorpidimento. Alan se ne stava davanti alla macchinetta della centrale di polizia, sorseggiando la sua bevanda quasi per inerzia. L’effetto stimolante che gli procurava di solito, quel giorno non aveva voglia di presentarsi; forse era rimasto a letto, come anche lui avrebbe voluto fare.
Quel suo aspetto così rimbambito poteva attribuirlo solo a Nathan. Tutto ciò che era accaduto negli ultimi due mesi gli era sembrato totalmente surreale: gli sembrava quasi che Nathan fosse semplicemente partito per un viaggio, in una terra lontana, e che sarebbe tornato di lì a poco.
Scosse la testa.
Era vero, Nathan era proprio partito per un lungo viaggio, lontano da lui. Con l’unica differenza che non sarebbe tornato. Rifletté un attimo. Se anche fosse tornato, sarebbe stato disposto a perdonarlo? Provò a ripensare a quella scena che in lui si era impressa in maniera disgustosa, ma della quale in realtà non ricordava quasi nessun particolare. Ricordava la collera, le grida, qualcosa di rivoltante davanti a lui. Ma se avesse dovuto descrivere nel dettaglio quella scena, non ci sarebbe riuscito: era più un insieme di sensazioni. In qualche modo ringraziò la sua mente per il tentativo di rimozione.
Decise di prendersi un altro caffè.
In quel periodo, aveva notato, era solito bere più del normale. Ne sentiva il bisogno, era quasi diventato un rito, qualcosa da fare per occupare la mente. Ma per quanto si sforzasse, ogni tanto il ricordo di Nathan faceva capolino nella sua mente e ciò che più gli faceva male era che, quel ricordo, di sbiadire non aveva alcuna intenzione. Si chiese amaramente per quanto ancora sarebbe rimasto intrappolato dentro quell’incubo.
Era venuto in centrale per fare un giro, perché in quel periodo non gli avevano assegnato alcun caso, benché fosse normale che si alternassero periodi pieni e altri di fiacca. Ma si annoiava troppo a stare a casa nullafacente, perciò un giretto in centrale rappresentava per lui un toccasana.
Il silenzio della sua mente fu interrotto da una voce familiare.
« Ehi, Alan! Ancora a bere il caffè? »
Alan si voltò, e gli fece un cenno col mento. Era Ashton.
« E pensa che sono pure al secondo. »
« L’amore fa stare così male? »
Alan non rispose. Alzò gli occhi nel piccolo atrio e notò un calendario. Era il 17 dicembre.
« Sai dove dovevo essere, tra una settimana? A Coney Island. Un’escursione romantica, io e lui, per festeggiare i nostri tre anni insieme. Tutto andato a puttane. »
Ashton ammutolì e abbassò lo sguardo.
« Lo capisco, non è facile. Vi siete più parlati? L’auto ti è servita? »
« L’auto mi serve, ma ogni volta non concludo nulla. Lo vedo rientrare la notte, ma non ho il coraggio di scendere e dirgli qualcosa. »
« Quindi ti ho prestato l’auto di copertura per fare lo stalker? »
« Io non… » Alan emise un risolino. « Credi che mi abbia scambiato per un pedinatore? »
« Come minimo. Alan, perdona la brutalità, ma ti devi dare una svegliata. Così non risolverete niente, se davvero hai intenzione di risolvere, e ti tolgo la macchina se non agisci in fretta. A proposito, hai indagato sul suo presunto lavoro al bar? »
« No, ho deciso di non indagare. Non so cosa potrei trovare sotto il tappeto. Comunque, rientra sempre a orari strani, praticamente tutte le sere. Qualche sporadica volta rientra verso le undici, ma è molto raro. »
« Vuoi che qualcuno indaghi per te? »
« E trovare magari le info spiattellate in un dossier? Ti ringrazio, ma non fa per me. Preferisco così, per ora. »
Alan finì la sua bevanda e gettò il bicchiere nel contenitore della plastica.
« È incredibile che, quando si tratta di noi stessi, siamo incapaci di fare qualsiasi cosa. E pensare che sei anche l’investigatore più brillante del quartiere! Volendo, potresti scoprire tutto su di lui in un batter d’occhio. »
« Te l’ho già detto. Non voglio sapere nulla per ora. »
« Non vuoi nemmeno sapere se quello che ti gridava quel giorno era vero? Dire di essere stato costretto a un rapporto sessuale è un’affermazione importante. Anche di questo, non vuoi sapere niente? Se quello che ti ha detto fosse la verità, sarebbe bene proteggerlo. »
« Se davvero fosse stata la verità, avrebbe sporto una denuncia. O sarebbe venuto a implorarmi di credergli. »
« Magari non è il tipo da implorare. O magari si vergogna nell’esporre pubblicamente una cosa del genere. »
« O magari non era vero. »
« Sei cocciuto su questa cosa, ma farei attenzione. Magari approfittane per dare un’occhiata durante i tuoi pedinamenti in auto. Chi incontra, se qualcuno di sospetto tenta di avvicinarlo...»
Ashton contò i cent nella sua mano; inserì poi le monete dentro la macchinetta, e aspettò che il suo cappuccino fosse pronto. Lo afferrò, spostando poi lo zucchero dal fondo con la paletta. All’improvviso si fermò.
« Ho un’idea, Alan. Per la storia di Coney Island, intendo. Potresti cercare di, come dire, rendere l’evento più anonimo. Meno personale. »
« Cosa intendi con ‘meno personale’? »
« Intendo dire che per te rappresentava un anniversario con la persona che ami, un traguardo importante. Cerca di trasformare questo evento. Non è più un anniversario, ma un’uscita tra amici. Non è più il tuo ragazzo, ma solo una persona con cui stai bene. Quello che voglio dire è che dovresti andarci con un altro, una persona con cui ti trovi bene o qualcuno che vuoi conoscere. Esorcizza il tuo dolore. Non hai nessuno a cui chiedere? »
Alan alzò lo sguardo in direzione di Ashton.
« Ah, non guardare me! Sono già impegnato per quel giorno. Dai, pensaci. Non c’è nemmeno nessuno a cui devi un favore? Non ci credo. »
Alan rifletté un attimo e di colpo un viso si affacciò nella sua mente.
Jack.
In realtà non poteva definirlo una ‘persona con cui stava bene’, né forse un ‘amico’, ma riconobbe che era una persona a cui doveva un favore. Delle scuse, in realtà. Ricordò come si erano lasciati l’ultima volta che si erano visti.
« Stai pensando a qualcuno, vero? Chi è? »
« Non sto pensando a nessuno. »
« Va bene, fissaci un appuntamento e invitami. Lo voglio conoscere. »
« Ma ti ho detto che… » Alan sospirò e scosse il capo. « … D’accordo. Alla fine del turno vieni con me. Pensavo di andare stasera a bere qualcosa. »
« Come si chiama questo tipetto? È già successo qualcosa? »
« Be’, direi di sì. Sono andato nel locale dove lavora, l’ho annoiato con le mie delusioni sentimentali, sono scappato senza pagare, l’ho terrorizzato davanti all’università… »
« Che diamine vuol dire che l’hai terrorizzato davanti all’università? Gli hai mostrato il distintivo e gli hai messo le manette urlando ‘sei in arresto’? »
« No, no! Volevo parlarci e quindi l’ho seguito, ma forse ha pensato che avessi strane intenzioni nei suoi confronti.»
« Insomma, sei nato per fare lo stalker. »
« Ma perché ti ascolto anche, Ashton? Comunque, dopo ci siamo presi qualcosa da Gizzi, ma è stato un pochetto sfrontato e non ho retto il colpo. Gli ho lasciato i soldi e me ne sono andato. »
« Un candidato perfetto, direi. » Ashton finì il suo cappuccino e gettò il bicchierino nella spazzatura. « Caro Alan, » Ashton gli mise una mano sulla spalla « starei a giornate a parlare con te, ma il dovere mi chiama. Ti aspetto alla fine del turno, allora? »
« Sicuro. Ho proprio voglia di svagarmi un po’. »
« Perfetto. A dopo allora. »
Ashton lo salutò mentre si allontanava e Alan ricambiò. Aveva davvero intenzione di andare a Coney Island con un ragazzo praticamente sconosciuto? Ma soprattutto – e a questo non aveva troppo pensato – lui avrebbe accettato? Tutto sommato, era un posto all’aperto e per nulla romantico. Non c’era alcun motivo per cui non potesse accettare.
 
***
Vide Ashton uscire dalla centrale; Alan lo aspettava in piedi davanti all’auto. I due si salutarono e salirono in macchina. Cinture allacciate, Alan schiacciò l’acceleratore.
« Allora, come si chiama questo posto? »
« La nostra meta è il Naughty Blu. »
Ashton si divertì ad alitare un po’ d’aria per vederla condensare davanti a sé.
« Non ne ho mai sentito parlare. Che posto è? »
« Un posto tranquillo. Puoi andare vestito come ti pare, la roba è buona e costa poco. »
« Ho capito. E la fregatura dove sta? »
Alan ridacchiò.
« Questo devo ancora scoprirlo. »
 
La solita insegna sgangherata accolse Alan e Ashton, ma stranamente Alan ebbe l’impressione che quel posto fosse meno freddo di come lo ricordava l’ultima volta. Anche una volta entrato dentro, si sentì avvolgere da uno strano calore. Gli sembrava quasi di non avere più brutti pensieri da scrollarsi di dosso.
Buttò un’occhiata rapida al bancone, ma si accorse che Jack non c’era. Gli era parso di capire che lavorasse lì tutte le sere, ma a quanto pare si era sbagliato. Decise insieme ad Ashton di sedersi e aspettare che la barista non fosse occupata.
« Tu che prendi, Alan? Io non so se andare sul classico o provare qualcosa di nuovo. Che mi consigli? »
« Mah, non saprei. Io credo che mi butterò su qualcosa di analcolico, magari dolce, perché quel sapore aspro che rimane sulla lingua non lo sopporto proprio. »
« Analcolico? Visti gli intenti della tua proposta, mi sarei aspettato più un ‘Sex on the Beach’… »
Alan emise un sospiro.
« Non sei simpatico. »
« Dai, stavo solo scherzando. Scusa se ho esagerato, solo che sono settimane che ti vedo a pezzi, e vorrei soltanto vederti sorridere un po’ di più. »
Con sua grande meraviglia, Alan si accorse che tutto sommato un sorriso glielo aveva strappato. Si guardò intorno nel locale e la sua attenzione fu attirata di nuovo dagli specchi. Il suo sguardo si muoveva lento sul suo riflesso, come se temesse di vedere nuovamente qualcosa che, decisamente, non gli faceva bene. Scrutò con dovuta cautela ogni particolare dell’immagine riflessa, talvolta fermandosi su qualche cliente come per vedere bene, ma di Nathan, per fortuna, non vi era alcuna traccia. Allungò il collo in cerca della barista, ma niente da fare: era ancora impegnata.
« Sei tu! »
A pronunciare quelle parole era stata una voce alla sua sinistra; si voltò e vide che era di una ragazza. Quel volto gli ricordava qualcuno e non impiegò molto a ricordare chi fosse.
« Tu sei il tipo dell’altra volta, davanti all’università! Ti ricordi di me? Ero insieme a Jack quel giorno. »
« Sì, mi ricordo. Difficilmente mi scordo una faccia. Comunque, » disse Alan, porgendole la mano, « io sono Alan. »
« Madison, piacere di conoscerti. »
La voce di Ashton sbucò all’improvviso.
« Madison! Molto piacere, io sono Ashton. Sei una fotografa? »
Ashton indicò la macchina fotografica al collo della ragazza.
« Fotografa? Magari! È solo un hobby, almeno per ora. Mi piacerebbe farne una professione in futuro, ma per ora mi limito a fare fotografie per pubblicizzare i locali. Oltre a quelle per uso personale, si intende. Mi piace moltissimo il Naughty Blu, con questi specchi si crea spesso un effetto simpatico. E poi io e Jack – il barista – siamo compagni di corso, nonché ottimi amici. Ah, eccolo! Jack! »
Madison si alzò leggermente dal panchetto per salutare l’amico ma, data la sua statura, non ne aveva certamente bisogno.
« Jack, guarda un po’ chi c’è stasera! »
Alan fece un cenno di saluto, a cui seguirono le presentazioni da parte di Ashton.
« Alan, giusto? Mi fa piacere rivederti. Pensavo che non saresti tornato più. »
« E invece eccomi qui. »
Alan si voltò verso Ashton, che, con lo sguardo, gli fece capire che per lui era ‘il momento di agire’. Ma secondo Alan il momento giusto non era ancora arrivato. Ci pensò Ashton a rompere il ghiaccio.
« Possiamo ordinare da bere intanto? Un Mojito per me e… »
Alan e Ashton si scambiarono uno sguardo abbastanza eloquente.
« … un analcolico per il mio amico. Sennò troppo alcool gli dà alla testa. »
Jack ridacchiò, mentre cominciava a preparare le bibite per i due clienti. Intanto, Ashton prese di nuovo la parola.
« Posso chiederti, Madison, se lavori per qualche giornale in particolare? »
« Purtroppo no. Mi limito solo a fornire le foto per qualche rivista minore, ma non è un lavoro fisso. Solo talvolta mi richiedono qualche foto e sono in genere giornali diversi. Probabilmente non sono abbastanza brava. »
« Forse non hai gli agganci giusti. »
« È probabile, sì. Ma vorrei emergere per il mio talento. Per questo, quando ho un po’ di tempo libero, mi diverto a fotografare anche le persone. Faccio una sorta di book fotografico. Ho scattato qualche foto anche a Jack. Vero, Jack? »
Il ragazzo riemerse dal suo lavoro, e servì le bevande nei due boccali.
« Sì, verissimo. Mi ha fatto un servizio di tutto rispetto, sono davvero delle belle foto. Qualcuna l’ho pure esposta nel soggiorno. »
« Sarei davvero curioso di vederle. Potremmo vederci un giorno, così potrai mostrarmi qualche tua foto, Madison. »
« Ti porterò qualche rivista la prossima volta che verrai qui, così ti farai un’idea. »
Dopo questa risposta, Alan non poté fare a meno di notare lo sguardo divertito scambiato da Jack e Madison. In fondo, la spudoratezza di Ashton divertiva un po’ anche lui.
 
Avevano bevuto un paio di bicchieri ormai e gli sembrò quasi che Ashton fosse un po’ brillo. La conferma arrivò poco dopo.
« Allora, » disse, rivolgendosi a Jack « a chi devo chiedere per avere l’onore di ballare con questa fanciulla? »
Madison ridacchiò e arrossì di colpo. Anche se si vedeva che, dopotutto, prendeva l’atteggiamento di Ashton in modo scherzoso.
Alan intervenne.
« Come intendi ballare questa roba? »
« Tutto si può ballare, sai. Madison, se vuoi farmi questo onore… »
La ragazza era visibilmente divertita e, quasi come fosse un invito galante, si allontanò nell’adiacente sala da ballo insieme ad Ashton.
 
Jack e Alan erano rimasti soli. Sul volto di Jack si era stampato un sorriso perenne da offrire ai suoi clienti e ogni tanto lanciava qualche occhiata verso la sala da ballo. Dopo aver servito un cocktail a due ragazze, tornò da lui.
« Piuttosto diretto il tuo amico. »
« Sì, be’… » Le parole faticavano a uscirgli di bocca. Pensava ad altro. « Lui è fatto così. »
Vide Jack scoccare un’altra occhiata verso la sala da ballo. Il sorriso gli era scomparso.
Tra i due cadde il silenzio. Alan ripensò al piano, se così poteva definirlo, che Ashton gli aveva proposto e si domandò se fosse veramente la cosa giusta da fare. Il pensiero di rimpiazzare Nathan in quel modo lo faceva sentire strano. Si chiese anche se buttarsi tra le braccia di un altro uomo, più o meno metaforicamente, fosse ciò che lui voleva. Pensò però che, in fondo, non c’era alcuna attrazione concreta tra loro due. E che dunque poteva tentare e poi, se non se la fosse sentita, poteva tornare sui suoi passi senza ferire nessuno. Decise di buttarsi.
« Senti, Jack… »
Il ragazzo sorrise.
« Sì? Hai bisogno di un nuovo consulto sentimentale? »
« Oh » Alan si sentì imbarazzato. « No, no. Volevo chiederti se, ecco, la prossima settimana sei libero. Avevo una mezza idea di andare a Coney Island, così, per passare un pomeriggio. »
« La settimana prossima… » Mentre pensava, asciugava i boccali con gesti automatici. « Ah, è la vigilia di Natale. »
Alan rimase sorpreso. Non aveva minimamente pensato al fatto che, di lì a poco, ci sarebbe stato il Natale. Si era ormai abituato a passarlo con Nathan ma, da quando si erano lasciati, l’idea del Natale non lo aveva neanche sfiorato.
« Forse sei impegnato, scusa. Non ci avevo pensato. »
« Ma no, figurati. Sono libero e ci vengo volentieri. Chi altro ci sarà? »
Alan esitò un attimo.
« Veramente, pensavo di andare solo con te. »
Aspettò il verdetto alla sua proposta e il tempo che trascorse da quell’ultima frase alla risposta gli parve essere infinito. Si aspettava quasi certamente un rifiuto.
« Va bene. »
« Come hai detto? »
« Ho detto che va bene. Pensavi che avrei rifiutato? »
« Be’, se ci pensi, abbiamo avuto un inizio un po’ rocambolesco. »
« Sì, hai ragione. Ma ci vengo volentieri, mi piace la spiaggia. Ah, ti lascio il mio numero. »
Jack prese un piccolo foglio di carta e scarabocchiò una fila di numeri.
 
La loro conversazione fu interrotta dagli schiamazzi di Madison e Ashton, che a quanto pare si erano divertiti un mondo. Prima di concentrare i suoi sguardi sui due di ritorno, gli era sembrato di intravedere sul viso di Jack un sorriso d’intesa. Sperò solo, in cuor suo, di aver fatto la prima cosa giusta con lui.
Intanto, Madison e Ashton erano tornati ai loro posti.
« Allora Alan, che ore abbiamo fatto? »
« Sono quasi le una e mezzo. »
« Di già? Cavolo, ho il turno anche domattina. »
« Ti porto a casa, sarà meglio. »
Alan si richiuse la zip del suo cappotto e salutò Madison. Poi si rivolse a Jack.
« Ci risentiamo allora. Buonanotte! »
Salutò nuovamente tutti e uscirono dal locale.
 
Bene. Aveva un appuntamento. Aveva qualcuno con cui andarci. Aveva il suo numero di telefono. E, plausibilmente, anche un pizzico del suo interesse. Segnò il pomeriggio del 24 dicembre come una data importante.
Andava tutto bene.
 

Eccoci qua con un nuovo capitolo! :) Abbiamo conosciuto un po' meglio Madison e ha fatto la sua comparsa il mio caro Ashton (e pensare che entrambi non esistevano nemmeno nella stesura originale! XD). 
Mi scuso perché so che la storia può apparire un po' lenta, ma vi chiedo di avere solo un po' di pazienza, perché verrete ricompensati :) Diciamo che è una di quelle storie che parte lenta e poi fa il botto, però capisco che, essendoci ancora così pochi capitoli, a voi sembri una storia lenta e basta. Ma abbiate fede! XD
Bene, adesso mi dileguo, alla prossima! :)

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Melodie contrastanti ***


4. Melodie contrastanti
 
 
 
19 dicembre 2004. 
Riprese ancora una volta l’attacco del Florestan di Schumann. Suonava quella composizione sfiorando i tasti a memoria, tante erano le volte che li aveva premuti; dal susseguirsi di quel coro di note scaturiva una melodia malinconica e a tratti violenta.
Quel brano era l’esatta fotocopia del suo rapporto col pianoforte: l’odio per lo strumento che tentava di fare capolino, e la sua testa che cercava di farlo tacere; prevaleva prima l’uno, poi l’altro, in un battibecco furioso e contrastato, fino a che la voce calma e pacata non veniva trascinata in quel turbinio iracondo.
Saltò direttamente al Chiarina, come spesso faceva, dopo aver dato fondo a tutte le sue energie. Non appena iniziava quel pezzo, investito di un sentimento tra lo speranzoso e il malinconico, non poteva fare altro che rivedere quel sentimento arrendevole verso il pianoforte che ormai, in tutti quegli anni, si era sedimentato in lei; e l’esitazione delle battute finali sembrava mostrare quella stessa speranza che, a poco a poco, lasciava spazio alla rassegnazione.
Proseguì la sua catarsi con lo Chopin. Rappresentava per lei il culmine di quel dolore che si portava dentro, di quel sentimento che tentava di esplodere in un pianto violento, ma era incapace di farlo. E suonando quella melodia, le sembrava che fosse la musica a farlo al posto suo, mentre lei continuava a portare, imperterrita, la sua maschera granitica.
Arrivò infine la nota dolente,  Pantalon et Colombine:  uno dei passi più difficili dell’intero Carnevale, un susseguirsi di passaggi velocissimi e intricati.
Cominciò il pezzo, ma si accorse di aver sbagliato una nota. Provò a proseguire ugualmente, ma fu interrotta.
« Madison, ricomincia. L’ho sentita quella nota stonata, sai. »
Madison sospirò.
« Sì, mamma. »
Riprese da capo la melodia, ma ormai si era deconcentrata. L’unica cosa a cui pensava era l’odio che cresceva in lei sempre più. E, come si aspettava, sbagliò ancora.
« Madison, che ti succede? Ricomincia. Lo farai finché l’esecuzione non sarà perfetta. »
Sospirò ancora, ma stavolta era carica di rabbia. Avrebbe voluto urlarle che no, non avrebbe ricominciato il pezzo, e che se lo voleva perfetto poteva suonarselo da sola. Ma non aveva il coraggio.
Udì il fruscio dei fogli del giornale che suo padre stava leggendo.
« Suvvia, Carla, forse Madison è solo un po’ stanca. È un pezzo molto difficile e in fondo sta suonando da più di un’ora. » Suo padre alzò gli occhi dal giornale, e si rivolse a Madison. « Fai una pausa, tesoro, che ne dici? »
Madison non disse nulla. Approfittò di quel momento in cui sua madre cercava un argomento con cui ribattere; si alzò di scatto dal panchetto e corse in camera sua.
Si distese sul suo letto, sperando che nessuno venisse a disturbarla.
Odiava sua madre. Odiava il fatto che fosse costretta a suonare il pianoforte per colpa sua, perché spesso pensava che, se non fosse stato per sua madre, forse avrebbe perfino potuto trovarlo piacevole.
Non aveva nessun buon motivo per suonare quello strumento, se non il pensiero che, dal movimento delle sue mani, uscisse un qualcosa di così melodico e articolato.
Ma non poteva ribellarsi, come aveva tentato di fare in passato: aveva cercato di mettere sua madre in ridicolo davanti ad alcuni ospiti, suonando i pezzi in maniera obbrobriosa. Oltretutto, aveva scelto proprio le composizioni di Beethoven, l’artista preferito di sua madre. Non era più stata capace di dimenticare le tremende urla che le aveva riservato in privato, in un’interminabile scenata.
E così, da quel giorno, aveva cercato una melodia in cui rifugiarsi, e l’aveva trovata nel Carnevale di Schumann. In un primo momento si era sentita scettica verso quella composizione: ma, ascoltandola più volte, vi aveva trovato alcuni pezzi che in qualche modo riuscivano a liberarla dall’odio che provava e, al contempo, era abbastanza allegra per poter essere suonata ogni giorno senza protesta alcuna.
Si era decisa fin da subito a imparare a memoria la composizione: i primi tempi, infatti, sua madre stava lì accanto per girarle le pagine e, ovviamente, controllare la sua esecuzione. Non ci fu liberazione più grande per Madison quando, finalmente, si accorse che lo spartito era ormai tutto nella sua testa.
 
Strinse tra le mani il cuscino e si sentì avvolgere da un senso di pesantezza. Nella sua mente si formò una strana scena. Vedeva lei stessa, al pianoforte, e sua madre, davanti a lei. Continuava a sbagliare il pezzo e udiva sua madre rimproverarla di continuo, ma la donna non aveva alcun potere su di lei. Madison continuava a suonare. E poi, all’improvviso, spariva tutto: sua madre, il pianoforte, il panchetto. C’era soltanto lei, in mezzo alla stanza, completamente vuota. Ma, nonostante questo, si sentiva a disagio. Si era sempre immaginata che in un simile momento si sarebbe sentita felice e invece non lo era affatto; si sentiva come privata di qualcosa. E poi, all’improvviso, nel nulla di quella stanza suonò il suo cellulare. Suonava e suonava ancora, ma lei non riusciva a rispondere. La fastidiosa suoneria continuava a rimbombare nella sua testa: voleva solo che smettesse, lo voleva con tutta se stessa, ma non ci riusciva.
Poi scattò a sedere sul letto. Aprì gli occhi e si accorse che stava solo sognando, ma l’acuto suono della sua suoneria era più che reale. Ancora un po’ intontita, allungò un braccio verso il telefono sulla sua scrivania. Non riconobbe il numero sullo schermo, ma decise di rispondere ugualmente.
« … Sì? »
« Pronto, Madison, disturbo? Sono Ashton, ti ricordi di me? »
« Ash—Oh sì, certo. »
Madison cominciò a razzolare tra i ricordi della sua mente, cercando quello in cui aveva lasciato il suo numero ad Ashton. Non lo trovò.
« Allora, che facevi di bello? »
« Mi riposavo dopo una sessione al pianoforte. »
« Ah, suoni? Adoro il pianoforte! Mi farai sentire qualcosa un giorno? »
Di colpo, si maledì per avergli parlato del piano.
« Sì, senz’altro. Però adesso sarei un po’ di fretta, ho un impegno. »
« Oh, tranquilla, è una cosa veloce. Avrei bisogno di vederti: ho un’offerta per te. »
« Un’offerta? Che tipo di offerta? »
« Possiamo vederci tra un paio d’ore da Starbucks sulla 2nd, se vuoi. Sono sicuro che ti interesserà. Ma se sei di fretta, possiamo fare un altro giorno. »
« No, cioè… Di che si tratta? »
« Se ti dico di portare i tuoi scatti migliori, la smetti di fare domande? »
Madison rimase un attimo sbalordita.
« Io… I miei scatti migliori? Be’, sì, suppongo che si possa fare. »
« Fantastico! Se vuoi, possiamo vederci direttamente questo pomeriggio. Va bene tra un paio d’ore allora? Così hai il tempo per selezionare le foto. Portane pure quante ne vuoi.»
Madison rispose senza pensarci troppo.
« Ok, va bene. Dovrei esserci. »
« Non avevi un impegno? »
Rimase spaesata. Non capì inizialmente il perché di quella domanda, ma quando mise a fuoco la situazione e si ricordò di aver distrattamente detto di essere occupata, non ebbe il coraggio di dire nulla, e si vergognò da morire.
Sentì dall’altro capo la risata di Ashton.
« Dai, Madison, stavo scherzando. Ci vediamo dopo allora. Ciao! »
Madison rimase stordita per qualche secondo, tanto da non accorgersi nemmeno del saluto di Ashton. Quando fu tornata in sé, lui aveva già riattaccato. Si sedette un attimo sul letto a riflettere. Aveva fatto una terribile figura con Ashton, ma lui le aveva anche fatto una proposta allettante. Pensò che per la prima volta poteva avere una vera occasione per emergere come fotografa. Le dispiacque solo per la superficialità con cui aveva trattato Ashton: ma, d’altronde, lei sapeva che non gli doveva niente.
In ogni caso, le aveva parlato di un’offerta e le aveva chiesto di portare le sue foto migliori. Si sentì pervasa da un senso d’eccitazione, ma non voleva illudersi troppo presto.
Si alzò e si diresse verso la libreria accanto alla sua scrivania: da lì estrasse un piccolo album di foto, che infilò in una borsa abbastanza capiente. Dopodiché, presa da una strana euforia, cominciò a prepararsi.
 
***
 
Si meravigliò quando non trovò nessuno davanti al locale. Aveva dato anche una sbirciata dentro, ma di Ashton nessuna traccia. E così, aveva deciso di aspettarlo in balia di quel freddo pomeridiano, allietato da qualche timido raggio di sole. Teneva il viso nascosto dentro la sua sciarpa di cashmere, mentre stringeva tra le mani la borsa. Spostò lo sguardo da un lato all’altro della strada, cercando la sagoma di Ashton, finché non lo vide sbucare da dietro un angolo. Aveva un’andatura calma e disinvolta, come se non si fosse accorto di essere in ritardo. Madison liberò il suo viso dal calore della sciarpa rizzando il mento e cercò di farsi notare da lui; come i loro sguardi si incrociarono, Ashton cominciò ad affrettare il passo, finché non cominciò a correre per raggiungerla. Madison gli fece un gran sorriso, mentre aspettava che riprendesse fiato.
« Ti chiedo scusa. »
« Figurati, non è molto che aspetto. »
« È che, in tutta la mia vita, di donne così puntuali non ne ho mai conosciute. Ormai ho imparato ad arrivare almeno dieci minuti dopo. »
Madison sorrise.
« Be’, penso che dovrai rivedere le tue abitudini! »
I due scoppiarono a ridere. Ashton le scoccò un sorriso e Madison, improvvisamente, arrossì. Entrarono insieme nel locale semivuoto – dopo che Ashton le aveva gentilmente tenuto la porta – e si sedettero a un tavolo posto in un angolo. Ashton le sorrise ancora.
« Hai portato le foto che ti avevo chiesto? »
« Sì, ho portato un album. »
« D’accordo, dopo lo guardiamo. Ma prima ci prendiamo qualcosa, ti va? Ovviamente offro io. »
« No! Cioè, sì, ma voglio pagare la mia parte. »
« Ti prego, non farmi insistere. »
Tra i due scese il silenzio, finché la cameriera non venne a prendere le ordinazioni. Presero entrambi qualcosa di analcolico e leggero. Madison, oltretutto, anche qualcosa di poco costoso. Non appena furono arrivati i cocktail, Ashton parlò di nuovo.
« Allora, guardiamo questo album? »
Madison annuì lievemente e si apprestò a tirar fuori l’album dalla sua borsa. Fece un respiro profondo e lo consegnò ad Ashton, il quale lo mise davanti a sé, pronto a sfogliarlo.
Girò la copertina.
« Ah, un album ad anelli. Interessante scelta. »
« Sì, be’… » Madison si grattò il naso. « Almeno posso organizzare le foto in categorie. »
Ashton sorrise.
« Come le categorie di un concorso? »
Alzò la testa verso di lei e si sentì completamente messa a nudo.
« Non te ne devi vergognare. È normale sognare il successo in qualcosa che ci piace. »
Ashton cominciò a sfogliare le pagine. Osservava le foto una per una: le fissava per un tempo indeterminato come a volerne scovare ogni piccolo segreto, come se cercasse di capire quale emozione avesse portato a quello scatto.
Ogni pagina aveva quattro foto e a Madison, per la prima volta, quell’album sembrava non finire più. Come notò che Ashton stava per dire qualcosa, trattenne il respiro.
« Sai, mi eri sembrata più chiacchierona al Naughty Blu. »
Sorrise e le lanciò una rapida occhiata, poi tornò a guardare le foto. Madison arrossì; si sentiva terribilmente imbarazzata.
« Be’, quella volta, nessuno stava giudicando le mie foto. »
Lo sguardo di Ashton scorse su una nuova foto: si soffermò a guardarla, poi rispose.
« Non le sto giudicando. » Alzò gli occhi verso di lei. « Le sto guardando. »
Le sta guardando, ripeté nella sua mente; non le sta giudicando.
Non mi sta giudicando.
Quel pensiero sfrecciò nella mente di Madison talmente veloce che se ne rese conto appena. Ma non ebbe tempo di riflettere su ciò che aveva appena pensato, che Ashton proseguì.
« Queste sono foto di Jack – si chiama così, vero? »
« Sì, Jack. »
« E c’è un motivo particolare se tutte queste foto sono solo sue? »
Madison non proferì parola; e, stranamente, le sembrava anche di non riuscire a pensare a niente, se non all’imbarazzo che cresceva in lei sempre più. Ogni frase che usciva dalla bocca di Ashton aveva il potere di renderla ancora più tesa. Ashton parve accorgersene.
« Scusa, sono stato impertinente. »
Madison scosse la testa sorridendo debolmente.
« Comunque, non c’è nessun motivo particolare. È solo molto fotogenico e disponibile a farsi fotografare. Tutto qua. »
« E poi, anche se non fosse questo, non sono affari miei. »
L’imbarazzo di Madison crebbe ancora. Ma ebbe come l’impressione che l’ultima frase di Ashton fosse stato solo un pensiero detto a voce alta, poiché non notava in lui alcuna reazione legata a quanto detto.
Cominciava a sentirsi a disagio. Era stata una giornata piuttosto pesante, ed era andata all’appuntamento con una patina di euforia addosso; ma adesso, di tutta quella eccitazione non era rimasto granché e si sentiva solamente agitata. E non era solo per le foto.
Ashton continuò a sfogliare l’album, finché non giunse fino alla fine. Per tutto quel tempo, si era astenuto dal fare commenti. Chiuse l’album e stette un po’ a pensare.
« Mi piace. »
« Ti piace? »
« Sì, l’album. Se non ti dispiace, vorrei tenerlo per un po’. Hai una copia digitale di tutte le foto? »
Madison annuì.
« Perfetto. È un problema se non te lo rendo subito? Vorrei vedere le foto con calma e dirti poi quali selezionerei per la mostra. »
« Mostra? »
« Esatto. Ho un amico che ha intenzione di allestire una mostra, più o meno verso fine febbraio, al Park Avenue Armory. Dovrei riuscire a ottenere un piccolo spazio per te. »
Madison rimase a bocca aperta. Si sentì gli occhi brillare.
« È… È fantastico! Io… Non so che dire… »
« Per ora non dire niente. Se accetterà di esporre le tue foto, potrai ringraziarmi. »
« Grazie! »
« Ehi, è ancora presto. Lo potrai fare dopo che qualcuno mi avrà chiesto di te. »
« Grazie, grazie di cuore. »
Il volto di Madison si aprì in un radioso sorriso.
« Quindi, le mie foto ti sono piaciute? »
« Trovo che ci siano tecnica e talento, sì. Ma ciò che mi ha impressionato di più è il sentimento che c’è dentro, perché è quello che fa emergere un vero fotografo. Sai, ho conosciuto tante persone con una tecnica impeccabile che cercavano di stupire con angolazioni strampalate e foto ad effetto. Ma non ci mettevano sentimento. Le loro foto erano tecnica, e nulla più. Dalle tue, invece, traspare qualcosa di magico. Per questo ti ho fatto quella domanda su Jack. Non c’era nessun intento malizioso. »
Madison si sentì incredibilmente stupida. Si diede della superficiale e della cretina per almeno dieci volte, solo per aver pensato che quella domanda di Ashton fosse un tentativo di sondare il terreno.
Non disse nulla, e lo lasciò continuare.
« D’altronde, si sa che gli artisti hanno una sensibilità particolare. »
« Gli artisti? »
« Be’, suoni il pianoforte, no? »
Non si aspettava di entrare in maniera tanto naturale in un argomento che cercava sempre di evitare. Fu stupita dal modo in cui, tramite l’arte, erano passati dalla sua più grande passione a ciò che più odiava. Ma si rese conto che ciò che più la inquietava, era il fatto che, secondo Ashton, la magia che metteva nelle sue foto era dovuta alla sua sensibilità di artista – in altre parole, al fatto di suonare il pianoforte.
Si accorse che Ashton la fissava, in attesa di una risposta. Madison tossicchiò.
« …Sì. Suono il piano. »
Ripensò ancora al collegamento tra il pianoforte e la fotografia. E le sembrò quasi che il pianoforte tentasse di invadere anche quel campo della sua vita, l’unico che, fino a quel momento, le aveva regalato solo momenti felici. Non voleva parlarne.
« Trovo che sia uno strumento strepitoso. »
Madison non rispose. Afferrò anzi il suo bicchiere e bevve un altro sorso del suo cocktail.
« Hai un artista preferito? »
Emise un sospiro profondo. Ripensò a quello che era accaduto il pomeriggio stesso. Al Carnevale, a sua madre. E anche a suo padre che aveva preso, come faceva ogni tanto, le sue difese.
« Mi piace Schumann. »
« Ah, Schumann. A me, invece, piace molto Beethoven. »
Madison smise di bere.
Suoni sempre questo Schumann, Madison. Ogni tanto potresti dedicarti anche a Beethoven!
Si portò una mano alla tempia e la fece poi scorrere sulla fronte. Sentì un senso di rigetto nascerle da dentro. Si era ormai rassegnata al fatto che la quotidiana presenza del pianoforte rovinasse ogni sua giornata, ma non poteva accettare che si intromettesse anche lì, in quel momento che doveva essere dedicato solo alla fotografia, che col pianoforte non aveva nulla a che fare.
« Ho detto qualcosa di sbagliato? Forse non ti piace Beethoven? »
Rispose con un tono duro e perentorio.
« No, non mi piace. »
Pensò che si era sentita così eccitata per le foto e la mostra, e ora doveva mettersi di mezzo il pianoforte. Non voleva essere sgarbata con Ashton. Ma cominciava a sentire quel familiare sentimento di rabbia ribollirle nel sangue; lo sentì partire dal basso del suo corpo, per poi risalire sempre più in alto e sempre più forte, come un guerrafondaio che cerca proseliti nei luoghi in cui fa visita.
« C’è un motivo particolare per cui non ti piace? »
La guerra si era scatenata.
Madison scattò in piedi improvvisamente e sbatté i pugni sul tavolo.
« Non voglio parlare del pianoforte! »
Ashton rimase impietrito. Per qualche secondo stette a bocca aperta senza proferire parola. Poi, dopo qualche tempo, si ricompose; tossicchiò impercettibilmente e tentò di dire qualcosa.
« Vabbè, dai. Sarà per quando ci conosceremo meglio. »
« Non me ne frega nulla di conoscerti meglio! »
Ebbe giusto il tempo di finire quella frase, che capì subito di aver detto una cosa atroce. Lo sguardo di Ashton sembrava non tradire alcuna emozione, ma era impossibile non notare lo stupore e il dispiacere che trapelavano dalle sue sopracciglia alzate. Fu quello spiraglio a farla tornare in sé. Era talmente pietrificata che non riusciva nemmeno a tornare seduta. Se ne stava lì, a bocca semichiusa, a fissare il vuoto tra lei e Ashton. Quel momento di incertezza su cosa sarebbe successo dopo le sembrò infinito.
Ashton, alla fine, si alzò. Madison d’istinto abbassò lo sguardo e si tenne pronta ad ascoltare gli insulti che pensava le sarebbero stati rivolti. Ashton parlò, risoluto.
« Vado a pagare il conto. Offro io. »
Lo sentì allontanarsi e in quel momento qualcosa in lei si spezzò. Avvertì un impellente e irrinunciabile bisogno di piangere, ma non voleva farlo davanti a lui. Non voleva impietosirlo dopo una scena del genere, non dopo che lo aveva trattato in quel modo. Voleva piangere, ma non voleva farsi vedere; non voleva farsi vedere, ma Ashton sarebbe tornato dopo poco. Volse il suo sguardo alla cassa: Ashton era ancora lì. Guardò poco più avanti e riconobbe la porta da dove erano entrati. Non passò molto tempo tra l’attimo in cui afferrò tutte le sue cose e, esplosa in un pianto dirompente, corse verso l’uscita.
Finalmente poté sfogarsi: e non le importava nulla di tutti quelli che la stavano guardando, o di quelli che pensavano che fosse una pazza. Quando fu ormai in strada, prese la prima direzione che le venne in mente e cominciò a correre. Correva e piangeva. E si malediva.
Udì in lontananza la voce di Ashton, che la chiamava; e il fatto che il volume non diminuisse significava che stava correndo dietro di lei. E il pensiero che, nonostante il suo egoismo e la sua cattiveria, quel ragazzo cercasse ancora di fermarla, la fece salire sul primo taxi che trovò, per non essere raggiunta mai.
 

Eccoci già al quarto capitolo :) Lente d'ingrandimento su Madison, che non si è comportata proprio bene in questo capitolo... Avrà compromesso i suoi rapporti con Ashton oppure c'è ancora speranza di poter parlare civilmente? Chissà, chissà XD
Se tutto va bene, vi do appuntamento a martedì, dove ci sarà del sano fluff e il rientro in scena di un personaggio passato un po' in sordina in questi primi capitoli. 
Ringrazio tutte le persone che seguono la storia e che hanno recensito, i vostri pareri mi rendono sempre felicissima!
Vi ricordo che potete passare dal mio blog oppure dalla mia pagina Facebook per chiacchierare in libertà di questa storia, che non so proprio da dove mi sia uscita XD
Vabbè, a presto ^__^

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Silence and Motion ***


5. Silence and Motion
 
 
24 dicembre 2004.
Erano le due del pomeriggio del 24 dicembre.
Poco più di due ore e Jack sarebbe passato a prenderlo per passare insieme un amichevole pomeriggio a Coney Island.
Questo era quello che Alan andava ripetendosi da più o meno tutto il giorno, guardando continuamente l’orologio senza riuscire a concentrarsi in niente. Aveva bruciato le cotolette mentre guardava distrattamente la tv, aveva cominciato svariate partite al Solitario senza un perché e aveva tentato anche di fare un pisolino pomeridiano, che però aveva avuto l’effetto di farlo stare più sveglio che mai. Per quanto cercasse di negarlo a se stesso, insomma, era agitato.
Anche perché lui, a Coney Island, non c’era mai stato. Era stata infatti un’idea di Nathan, che glielo aveva proposto qualche mese prima della loro rottura, affermando che, in quel posto, avrebbe trovato una ‘bella sorpresa’.
Di quel luogo, in realtà, sapeva solo che c’era un parco giochi dall’aspetto vagamente abbandonato e una bella spiaggia dove rilassarsi. Non sapeva nemmeno, in effetti, se fosse un bel luogo dove portare qualcuno, ma pensò che, se Jack non aveva fatto obiezioni, non doveva essere un posto tanto malaccio.
Si sentiva strano all’idea di uscire con un altro ragazzo che non fosse Nathan, anche se solo per amicizia. E gli sembrava ancora più strano il fatto di essere lì, con un altro ragazzo, proprio quel giorno. Si augurò solo che andasse tutto bene.
 
Quando furono le tre e mezzo – mancava quindi solo mezz’ora all’appuntamento - , l’agitazione crebbe ancora di più. Si rintanò nella sua camera, aprì l’armadio e ne fissò il contenuto. Aveva davanti a sé una discreta quantità di cose da mettersi, ma non sapeva assolutamente come vestirsi. Aveva paura di apparire troppo elegante o che Jack si facesse strane idee sulle motivazioni per le quali gli aveva chiesto di uscire. Al contempo non voleva apparire sciatto o troppo sportivo.
Rimuginò almeno dieci minuti sui vestiti da mettere, e si sentì come una ragazzina al primo appuntamento. Alla fine, decise di seguire il sempreverde consiglio di “essere se stessi” e di vestirsi come con il suo solito stile: mise su un paio di pantaloni scuri non troppo stretti e una camicia bianca fresca di stiratura. Casual ma con un occhio ai particolari.
 
Una volta preparatosi, tornò in salotto e si buttò sul divano. Benché cercasse di non farlo, il suo sguardo cadeva sempre su quel dannato orologio.
Tic tac. Tic tac.
Il tempo sembrava non passare mai. Si alzò, fece il giro della stanza una decina di volte, guardò fuori dalla finestra, afferrò senza un motivo il telecomando della tv, per poi riporlo sul tavolo; si trovò addirittura ad alzare e osservare ogni singolo soprammobile della stanza.
Alla fine, sentì vibrare il telefono. Uno squillo corto, il segnale con il quale erano rimasti d’accordo.
Jack era arrivato.
Si infilò in tasca lo stretto indispensabile – chiavi, portafogli e telefono, e si avvicinò alla porta. Posò la mano sulla maniglia, fece un respiro profondo e poi la abbassò. Era pronto.
 
Non appena arrivò all’ingresso del condominio, poté già scorgere la macchina di Jack parcheggiata. Lo vide armeggiare con la radio: probabilmente stava cercando una stazione decente. Complice il fatto che, da fuori, non si vedeva nulla dell’interno del palazzo, temporeggiò un poco. Si risistemò il cappotto, si assicurò che il cappuccio fosse messo bene e si passò una mano tra i capelli, controllando che fossero a posto. Aprì la porta a vetri e uscì in strada.
Jack si accorse subito del suo arrivo e abbassò il finestrino per salutarlo. Alan ricambiò.
« Sei arrivato puntualissimo. »
Jack gli sorrise.
« Anche tu sei sceso in fretta. Dai, sali. »
Alan aprì la portiera e prese posto nella macchina di Jack. Fu colpito subito da quel penetrante odore di plastica nuova, miscelato a quello di pelle finta dei poggiatesta. Nell’abitacolo si disperdevano le note di Girls just wanna have fun.
« Destinazione Coney Island, giusto? »
Alan annuì.
« Non vedo l’ora di arrivare. Ci sono stato qualche anno fa, con un gruppo di amici, ci siamo divertiti da matti. »
« Mi fa piacere sentirlo, non ci sono mai stato. »
« Ma come, mi inviti in un posto che non conosci nemmeno? Niente paura, ti farò da guida. Allora, partiamo? »
Jack si allacciò la cintura. Anche Alan fece altrettanto: tirò la cintura e fece per agganciare un’estremità all’ancoraggio.
« Alan! »
La cintura gli scappò di mano e questa tornò al suo posto con uno schianto.
Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille e, quando alzò lo sguardo in direzione dello specchietto destro, capì di non essersi sbagliato.
La sagoma spettinata di Nathan era lì, in piedi, poco distante dall’auto. Sicuramente aveva corso per raggiungerlo: aveva il fiatone.
Alan si rivolse a Jack.
« Scusa. Arrivo subito. »
Aprì la portiera dell’auto e scese. Rivedere Nathan lì davanti ai suoi occhi gli fece un effetto strano. Sentì lo stomaco contorcersi, ma non sapeva distinguere se fosse rabbia o emozione. Alan fece qualche passo verso di lui, tentando di sfuggire a quegli occhi imploranti e speranzosi: ma c’era una specie di attrazione magnetica tra i loro sguardi, come se i loro occhi fossero gli estremi opposti di due calamite che potevano soltanto attirarsi.
Si fermò, tenendo una certa distanza.
« Che vuoi? »
Proferì quelle parole cercando di caricarle di indifferenza, ma sentì che non gli era riuscito bene.
Nathan trasse un profondo respiro.
« Devo parlarti. »
« Devi parlarmi? E di cosa? »
Alan era stizzito.
« C’è una cosa che devo dirti. »
« Ah sì? E cosa? Magari qualcosa che ha a che fare con… Non farmi essere volgare. »
Nathan gli afferrò un polso.
« Ti prego, è importante! Ascoltami! »
Alan si liberò da quella presa, e il suo tono di voce esplose.
« Se era così importante, perché non sei venuto a parlarmi prima? E poi, cosa vuoi che me ne importi di te e quel… »
« No, Alan, non è come pensi. Dammi solo cinque minuti, ti prego! »
Alan urlò.
« Cinque minuti per dirmi cosa? Vuoi raccontarmi perché ti sei scopato quel tizio? O di come vi siete innamorati?  Non me ne frega niente delle tue stronzate, Nathan! »
Fece dietro-front e si incamminò a passo svelto verso la macchina.
Come si aspettava, dopo qualche passo Nathan lo afferrò nuovamente per il polso e lo strattonò verso di lui, costringendolo a voltarsi.
« Non sono stronzate! »
La presa di Nathan si allentò un po’, e Alan ne approfittò per liberarsene ancora.
« Va bene, » disse, massaggiandosi il polso « sentiamo un po’ cos’hai di tanto importante da dire. »
Nathan stette in silenzio e sospirò. Fece per aprire la bocca, ma la voce gli morì in gola. Tentò un altro paio di volte di parlare, ma non usciva niente, solo qualche mugolio.
« Accidenti, era veramente una cosa importante. »
Ancora, Nathan non riusciva a parlare. A un certo punto, però, mugugnò qualcosa di senso compiuto.
« Io non… non ti ho… non ti ho tradito. »
Alan perse la pazienza.
« No, certo che no. Perché scoparsi un altro è quello che fanno tutti gli innamorati. »
« No, Alan… »
« Stai zitto! Non voglio sentire altre cazzate! »
Si avviò di nuovo verso la macchina, impedendogli qualsiasi tentativo di fermarlo.
« Alan… »
« Basta, non voglio sentire altro da te! Lasciami in pace! » Aprì la portiera dell’auto. « E non piangere! Non mi fai pena! »
Nathan parlò con una voce appena udibile.
« Io ti amo. »
Alan richiuse la portiera e camminò verso Nathan. Lo sovrastò con i suoi centimetri di più e guardò le lacrime rigargli il viso, nonostante lo sguardo fermo.
« Io invece non ti amo più. E ora vattene. »
Si avviò nuovamente verso l’auto di Jack, ma stavolta non si sentì fermare neanche una volta.
Salì in macchina, e, dal finestrino ancora aperto, poteva sentire il lamento di Nathan, che con voce rotta invocava il suo nome.
« Jack, per favore, partiamo. »
« Sei sicuro? »
« Jack. Parti. Ora. »
Jack non se lo fece ripetere due volte e schiacciò l’acceleratore. La macchina partì e la sagoma di Nathan si faceva sempre più piccola. Poi, però, lo vide cominciare a correre. Gridava disperato, implorando il suo nome.
« Alan! Ti prego, aspetta! Alan! »
La sua voce si faceva sempre più lontana e flebile. Alla fine lo vide fermarsi, per poi crollare sulle ginocchia e continuare a chiamarlo.  Nel tentativo di soffocare quella voce, premette il tasto per chiudere il finestrino; ma, prima di sentire il click di stop, gli era sembrato che avesse gridato qualcos’altro.
Qualunque cosa fosse, ormai, era troppo lontano per sentirlo.
 
***
 
Aveva detto una bugia e non poteva negarlo a se stesso. Ma sentiva qualcosa, dentro di lui, che lo spingeva a rifiutare quel piccolo ragazzino con i capelli arruffati, una forza che gli intimava di tenerlo lontano, a debita distanza, di non farlo entrare più nel suo mondo, non più di quanto avesse già fatto. Gli diceva di non ascoltarlo, di non perdonarlo, di lasciarlo perdere. Da qualche parte, in una zona remota del suo cuore, c’era un’altra, delicata voce che, invece, cercava di spingerlo verso Nathan; l’eterna battaglia tra mente e cuore.
Per quanto lo volesse, non poteva cancellarlo.
« Magari voleva dirti qualcosa di importante. »
Alan  riconnetté i neuroni, e capì che parlava di Nathan. Sospirò.
« Jack, per favore, non mettertici anche tu. La cosa è già abbastanza penosa di suo. »
« Sembrava sincero. »
« Appunto, sembrava. Sembrava sincero anche quando diceva di amarmi, mesi fa. E invece… »
Il silenzio calò tra i due. Tutte le volte che si fermavano a un semaforo, Jack cominciava a sbuffare e tamburellare le dita sul volante.
Alan cominciò a maledire i comandi per la radio che Jack aveva sotto il volante; nessuna stazione sembrava andargli bene e l’atmosfera era riempita da un misto di suoni gutturali, persone che sembravano essersi incantate sulla stessa lettera, note che non seguivano alcun filo melodico, il tutto ripetuto un numero infinito di volte.
Si fermarono a un semaforo rosso, dove finalmente Jack sembrava aver trovato la pace con la stessa stazione da cui era partito.
« Davvero non lo ami più? »
Alan riemerse dal groviglio dei suoi pensieri.
« Cosa? »
Proprio in quel momento, il semaforo diventò verde. Jack ripartì.
« No, ehm, fai finta che non ti abbia chiesto niente. »
Alan lo assecondò.
« Voglio solo godermi questo pomeriggio con te, Jack. Per favore, non parliamo più di lui. »
Jack si dimostrò pieno di tatto. Dopo un primo momento di esitazione, provò poi a cambiare argomento: parlarono prima del tempo per poi passare in modo naturale alle attrazioni di Coney Island. Alla fine del tragitto, Alan fu veramente curioso di salirci sopra.
 
***
« Credo che ci convenga parcheggiare qui. Più in là, sennò, il posto non lo trovi. »
Alan ridacchiò.
« Mi affido a te. Sei tu la mia guida, no? »
Jack parcheggiò, dopodiché i due scesero dalla macchina.
« Se l’intuito non mi inganna, direi che possiamo andare da questa parte. » Alan indicò una zona dove si stagliava, in lontananza, la ruota panoramica.
« Be’, sì, ma credo sia meglio passare da questa strada parallela. »
« Perché vuoi passare di là? Da qui ci mettiamo molto meno, ne sono sicuro. » Alan prese a incamminarsi da solo e il caso volle che il semaforo per i pedoni fosse verde proprio in quel momento. « Dai, vieni! »
Jack alzò gli occhi al cielo, e si trovò costretto a seguirlo.
Le vie di Coney Island erano affollate. La cosa che più colpì Alan fu il multietnicismo davanti al quale si trovò: per un momento, gli sembrò quasi di essere in un ghetto di neri e indiani.
Davanti ai suoi occhi si aprì un immenso incrocio: dietro ai cartelli stradali, sulla sinistra, si stagliava sullo sfondo quella che doveva essere la famosa ruota panoramica di Coney Island. Accanto ad essa, poté notare anche un’altra attrazione: era formata da un lungo asse, che ondeggiava su un perno posto al centro, come un pendolo, aumentando sempre di più il suo periodo di oscillazione. Le grida provenienti da quell’attrazione lo fecero deglutire a fatica.
A un certo punto, però, Alan si fermò e Jack dietro di lui. Rimase fermò lì, impalato, mentre fissava l’insegna gigantesca di un negozio che occupava almeno metà strada.
“Nathan’s”, riportava l’insegna.
Capì all’improvviso che la ‘bella sorpresa’ era quella: un negozio che portava il nome del suo ex. Chissà, forse Nathan aveva addirittura pensato che, quel luogo, gli avrebbe per sempre ricordato lui. Che fosse quello l’intento o meno, doveva ammettere che c’era riuscito perfettamente. L’immagine del volto di Nathan, come lo aveva visto poco prima, si era completamente sovrapposta a quella del negozio.
Jack si avvicinò ad Alan e gli mise una mano sulla spalla. Non sapeva cosa dire, ma fu Alan a spezzare il silenzio.
« A volte la via più breve non sempre è la migliore. Avrei dovuto ascoltarti. »
« Alan, scusami. »
« Figurati. Sono io che sono voluto passare da qua. No problem. »
« Comunque, pare che, » Jack tossicchiò « quel tizio sia l’inventore degli hot dog. E pare inoltre che persone del calibro di Al Capone e Cary Grant fossero suoi clienti fissi. »
Un sorriso si aprì sul volto di Alan.
« Davvero? »
« Sì. E si dice anche che il presidente Roosvelt abbia servito i suoi hot-dog in un incontro con il re e la regina di Inghilterra. Perfino il governatore di New York ne andava matto. E sai cosa diceva? “Nessun uomo può sperare di essere eletto nel suo Stato senza una foto con gli hot-dog di Nathan’s.” »
« Ma dai! È una vera e propria leggenda allora. Sai, mi hai quasi fatto venire voglia di provarli. »
Jack gli sorrise.
« Andiamo allora? »
« Ci sto. »
 
***
 
Nathan’s era niente più che un fast food su strada. Per ordinare qualcosa, bastava semplicemente mettersi in coda sul marciapiede e aspettare il proprio turno. E se qualcuno non sapeva bene come fare, bastava alzare gli occhi su una delle tante insegne, che recitava: “Segui la folla”, accompagnata da un grosso dito che indicava le casse.
All’apparenza, Nathan’s sembrava un negozio totalmente privo di ordine: le insegne parevano pezzi di un patchwork, cuciti uno accanto all’altro senza criterio alcuno. A fare capolino tra queste, c’erano un paio di loghi vistosi che riportavano il nome del negozio, dove erano chiaramente visibili le aste di ferro atte a sorreggerli, nonché i fili che delineavano il disegno luminoso. Non c’era niente che tentasse di nascondere lo scheletro di quella struttura: tutto era lasciato scoperto, forse di proposito, nel tentativo di rievocare un’atmosfera underground.
Sopra le file per le casse, gli spettatori potevano perdersi in tasselli pubblicitari: alcuni ripetevano il motto sull’insegna sopra le loro teste, altri riportavano il nome degli sponsor, altri ancora invitavano a gustarsi “solo l’originale”. E, mentre uno aspettava, poteva intanto scegliere cosa mangiare da un menù semplice e testuale, che, accanto a ogni pietanza, riportava il costo e le calorie.
 
Alan e Jack si misero in coda. Per loro fortuna, non c’era tanta gente – d’altronde era dicembre.
« Allora, mia guida, cosa mi consigli? »
« Be’, visto che è la prima volta che ci vieni, ti consiglio di prendere l’hot dog originale. Vedi, lì? » Jack gli indicò il tabellone che riportava il menù. « Ecco, il primo. »
Alan sorrise.
« Mi fido di te. »
 
Alla fine, anche Jack scelse l’hot dog originale. Una volta ottenuti i sacchetti contenenti il cibo, presero posto a uno dei tavoli da pic-nic posti accanto al negozio. Alan tirò fuori l’hot dog dal suo sacchetto: all’apparenza era semplicemente un pezzo di pane con una salsiccia dentro, ma l’insieme di salse che il tipo alla cassa aveva messo fece corrucciare la sua faccia in innumerevoli smorfie.
« Guarda che è buono. Dai, mangia. »
Vide Jack agguantare con un morso il suo hot dog, mentre Alan continuava a fissare il suo.
« E pensare che alcuni di voi mangiano questa roba tutti i giorni. »
Jack buttò giù il boccone e si pulì la bocca.
« “Voi” chi? »
Alan fece spallucce, come se la risposta fosse ovvia.
« Voi americani. »
« Perché, tu non sei ‘uno di noi’? »
Ancora con l’hot dog immacolato, Alan rispose.
« No, sono di Brighton. » Poté vedere una smorfia di sorpresa sul volto di Jack. « Ma vivo qui da diversi anni, ormai. Sono venuto per questioni di studio. »
« Ah. Lo dicevo io che avevi un accento strano. »
La storia dell’accento gli fece tornare in mente Nathan in un baleno, perché spesso si divertiva a prenderlo in giro. Ma aveva deciso di godersi quella giornata con Jack e provò con tutte le sue forze a ricacciare quel pensiero, come si fa quando si scaccia una mosca. Ogni tanto torna a ronzarti vicino, ma basta uno schiaffo all’aria per cacciarla via.
Alan continuò a guardare con circospezione il suo hot dog. Gli si avvicinò e provò ad annusarlo: non aveva un cattivo odore. Alla fine, chiuse gli occhi, e provò a dargli un morso. Assaporò per primo il gusto del pane, poi quello del wurstel mescolato a quella che doveva essere mostarda. Il sapore del pane fungeva per lo più come palliativo e tutto sommato l’insieme di quei sapori non gli dispiacque.
« Allora, sei ancora vivo? »
Alan masticò lentamente il suo boccone, cercando di studiarne tutti i sapori.
« Non è male. »
Buttò un’occhiata verso Jack, e si accorse che aveva già praticamente finito.
« Allora, quali attrazioni vuoi visitare? Ci facciamo un giro sulla ruota panoramica, vero? »
« Senz’altro, mi servirà proprio qualcosa di tranquillo. »
Senza che Alan ne comprendesse il perché, Jack ridacchiò di fronte a quell’affermazione.
 
***
 
L’atmosfera di quel parco giochi era particolare, a cominciare dal fatto che le attrazioni erano per lo più piccole e ammassate una accanto all’altra. Erano talmente vicine che i suoni emessi si confondevano tra loro e ci voleva un po’ per capire da quale attrazione provenisse uno specifico suono. Camminando per quelle vie, si passava tranquillamente da una musica a percussioni tipicamente africana, a una voce sintetica che si faceva beffe del giocatore di turno qualora non avesse vinto niente, per non parlare poi degli schiamazzi dei bambini eccitati da quel posto. Non appena poi ci si avvicinava alle attrazioni di punta del luogo – e Alan sentì il suo stomaco contorcersi - , qualunque suono era sovrastato dalle urla terrorizzate di quelli che avevano avuto il coraggio di salirci sopra.
 
La ruota panoramica era lì di fronte a loro, ma Alan pensò di lasciarla per ultima. Udì poi un suono che sembrava un jingle di vittoria: si guardò intorno per un po’, fino a che non ne capì la provenienza. Il gioco in questione consisteva nel battere un martello su una pedana e cercare di fare un punteggio più alto possibile. Alan e Jack si guardarono complici e decisero di provarlo.
Furono più le volte in cui sentirono il jingle di sconfitta che non l’altro, ma si svagarono un mondo lo stesso. Alan si dimostrò più forte di Jack e si divertì più volte a rinfacciarglielo scherzosamente.
Ancora presi dalle risate, Jack indicò l’attrazione davanti a loro.
« Andiamo lì? »
Alan si voltò. Il gioco indicato da Jack era una sorta di shuttle, con una pedana che saliva su per una curva ripida per poi cadere a peso morto all’indietro. Alan fissò l’attrazione con occhi sbarrati, senza dire niente.
« E dai, mica ti ho chiesto di salire sulle montagne russe. Sembra così divertente. Dai, vieni! » Jack lo tirò verso la coda con un sorriso, mentre Alan si faceva convincere a poco a poco.
Alla fine, si dimostrò meno pauroso del previsto. Alan cacciò qualche urletto, ma per fortuna la pedana non saliva troppo in alto, mantenendo quindi una velocità accettabile. Una volta scesi, addirittura, ebbe voglia di farci un altro giro.
 
Dopo aver provato le altre innumerevoli attrazioni del parco, giunse finalmente il momento della ruota panoramica. Aveva deciso di lasciarla per ultima anche per godersi il panorama della città ormai al buio. Jack fece i biglietti, e i due presero posto in una cabina.
Non appena furono saliti, la ruota cominciò piano a girare. Poteva sentire, ogni tanto, il cigolio di qualche giuntura poco lubrificata e questa cosa, unita all’altezza che aumentava sempre più, lo fece inquietare un po’.
La ruota continuava a salire: Alan era seduto in modo tale da ammirare una visione d’insieme del parco, mentre a Jack era toccata la vista sulla città.
« Alan, vieni a vedere! » Jack si voltò verso di lui e gli fece segno di avvicinarsi. « Guarda che spettacolo fantastico. »
Effettivamente, il panorama era incantevole. E Alan rimase ancora una volta stupito dalla dimensione delle piccole formiche sotto i suoi occhi, che altri non erano che le persone con cui si scontrava ogni giorno. Anche le auto, che di solito sfrecciavano a velocità incredibili per un pedone, in quel momento gli sembrarono né più né meno che lente lumache.
« Hai visto che bellezza? »
Jack si voltò e Alan si accorse che i loro visi erano molto vicini. Troppo vicini, pensò. Lo erano talmente tanto che non riusciva nemmeno a tenere gli occhi fermi, spostando il suo sguardo continuamente da un occhio all’altro di Jack. Alan si sentì arrossire e cercò una scusa per cavarsi d’impaccio.
« Anche la visione sul parco non è male. »
Alan tornò a guardare dal suo lato, ma sentì subito Jack raggiungerlo.
« Fammi vedere! »
A differenza sua, Jack non si faceva alcun problema ad accostare il suo corpo a quello di Alan. Quella sensazione gli fece correre un brivido lungo la schiena. Jack era talmente vicino che poteva sentire i suoi respiri sfiorargli gli orecchi. E seguendo la posizione di quel soffio, riusciva anche a capire qual era l’inclinazione della sua testa e, bene o male, cosa stesse guardando. Si trovava totalmente a disagio, ma non sapeva come uscirne. I loro corpi adagiati l’uno sull’altro, il respiro di Jack così vicino, la mano sulla sua spalla per vedere meglio.
Si chiese cosa sarebbe potuto accadere se si fosse voltato per dire qualcosa. Sarebbero stati così vicini che, forse, il viso di Jack gli sarebbe apparso sdoppiato. Con ogni probabilità, i loro nasi si sarebbero scontrati, e le loro labbra sarebbero state più vicine che mai.
Tentò di scrollarsi di dosso quei pensieri – specialmente l’ultimo –, ma non era affatto semplice. Soprattutto, non dopo che sentì l’angolazione del respiro di Jack cambiare. Adesso gli arrivava più verso il collo e ne ebbe la certezza: se si fosse voltato, si sarebbero senza dubbio baciati, anche se per sbaglio. Inaspettatamente, si chiese se in realtà non fosse proprio quello l’obiettivo di Jack e pensò dunque che stesse solo aspettando il momento in cui lui si sarebbe girato. Ma, pensò Alan, alla fine si sarebbe arreso. O no?
Nessuno dei due diceva niente e Alan cominciò a sentire caldo. E sapeva bene cosa c’era, lì, a riscaldare l’atmosfera. All’improvviso, la mano di Jack si spostò: se prima era semplicemente posata sulla sua spalla, ora si muoveva in direzione del suo petto. Stava scavalcando il suo corpo in un abbraccio. Alan si sentì avvampare ancora di più. Jack non diceva ancora niente, eppure stava parlando quasi troppo. Se solo avesse potuto zittirlo! Ma come si fa a zittire qualcuno che non parla?
Il volto di Jack si avvicinò ancora di più al suo, finché non si sentì sfiorare, e il respiro di Jack lo percepiva ora sulla sua guancia sinistra. Il cuore gli batteva più che mai, aveva talmente caldo che si sarebbe spogliato tutto, e percepì anche qualche goccia di sudore che era pronta a invadere la sua fronte.
Quanto sarebbe passato prima che Jack avesse tentato di baciarlo? Perché ormai – Alan lo aveva capito – Jack non aspettava altro che quel momento. E lui? Si sentiva pronto per una cosa simile?
Qualcosa di metallico gli scivolò sulla spalla. D’istinto si voltò verso Jack e capì subito cosa lo aveva fatto sobbalzare. Jack sorrise imbarazzato e si portò una mano sul piccolo ciondolo che portava al collo: aveva una forma romboidale ed era di colore rosso e, al suo interno, poteva scorgere un altro pendaglio più piccolo, incastonato, di colore bianco. Alan fu incredibilmente grato a quel piccolo oggetto, che gli aveva regalato la scusa perfetta per togliersi da quella situazione.
« È questo che ti ha fatto spaventare? » disse Jack, indicando il ciondolo. « Scusa. »
« Figurati. Solo che non lo avevo notato, prima. È carino. »
Jack si avvicinò di nuovo a lui, anche se nessuna parte dei loro corpi si sfiorava. Prese in mano il ciondolo e lo allungò verso Alan, per farglielo vedere meglio.
« Sai, ha un grande significato per me. Lo indosso sempre per… » Jack riportò il ciondolo al suo posto e si grattò la nuca, senza riuscire a guardare Alan. « Occasioni importanti. Finora mi ha sempre portato fortuna. »
Alan sorrise, ma dentro di sé era piuttosto preoccupato dal fatto che Jack avesse preso quell’uscita molto seriamente. La annoverava addirittura come occasione importante. Si chiese se non avesse affrettato un po’ troppo le cose chiedendogli di uscire, ma non ebbe il tempo di pensare a lungo.
La cabina cominciò a dondolare. Prima piano, poi sempre più forte, accompagnato da un cigolio sempre più marcato.
Alan, preso dal terrore, si buttò d’istinto su Jack.
« Che diavolo sta succedendo? Aiuto! »
« Alan, calmati! È tutto normale! »
« Normale? Siamo su una ruota panoramica e tutte le cabine stanno traballando! Non è normale! »
« Alan, » Jack riuscì a stento a trattenere le risate. « ti ho solo prenotato la ‘corsa traballante’. È come un giro normale, solo che a un certo punto le cabine si muovono così, come sta accadendo ora. »
Alan aveva ancora gli occhi sbarrati.
« E me lo dici così, ora? Sono salito qui per rilassarmi! »
« Dai, Alan, volevo solo farti uno scherzo. Scusa. »
Piano piano, l’espressione di Alan si liberò di tutte le smorfie di terrore che aveva prodotto.
« Ok, quindi è tutto normale. Mi hai fatto prendere un infarto. »
Alan tornò a sedersi composto, ma senza il coraggio di guardare giù.
« Ti chiedo scusa, non pensavo che ti spaventasse così tanto. »
Avevo i nervi un po’ tesi, pensò ironico.
« Per fortuna che ci siamo fermati. Ehi, stiamo anche scendendo! Meno male. »
 
Per tutto il tempo della discesa, Jack non si avvicinò più e Alan tirò un sospiro di sollievo. Scesi dalla ruota, decisero di fare, come ultima cosa, una passeggiata sul lungo-oceano, costeggiato da un pontile in legno. Alan si sentì imbarazzato quando vide la clientela che era rimasta: perlopiù coppiette, che camminavano mano nella mano sbaciucchiandosi continuamente e sussurrandosi parole dolci. Mentre camminavano, Jack gli parlava soprattutto del pomeriggio passato insieme, ma non fece nessun accenno alla situazione sulla ruota. Anche perché, pensò Alan, in fondo non era accaduto nulla e tutte quelle insinuazioni potevano benissimo essere solo il frutto della sua fantasia.
« Ti va se andiamo sulla spiaggia? » esordì Jack.
Alan gli sorrise.
« Perché no? »
Entrarono in spiaggia direttamente dal pontile; fortunatamente c’era poca gente. A illuminare la spiaggia c’erano solo i lampioni della strada dietro di loro e i riflessi creati dalla luna sulle onde dell’oceano. I due si sedettero, uno accanto all’altro. Alan poteva udire gli schiamazzi di altre coppie lì vicino, ma il rumore del mare era così rilassante che li percepiva come suoni lontani e ovattati. Il mare, stranamente, lo faceva sempre sentire in pace.
Si sentiva così rilassato che gli tornò in mente Nathan. Si stupì del fatto che gli fosse venuto in mente in un momento simile. Ripensò alla scenata di quel pomeriggio, ai suoi occhi supplicanti prima e disperati poi. Ripensò al tocco delle sue mani sul suo corpo e al brivido che era passato sulla sua schiena quando lo aveva afferrato. Pensò a quanti giorni erano passati dall’ultima volta che aveva sfiorato la sua pelle, sentito il suo odore, baciato le sue labbra. Perché, anche se cercava di negarlo a se stesso, gli mancava. Ma questi pensieri sembravano andare a braccetto con quell’immagine rivoltante, che ormai gli si era stampata in testa in modo offuscato ma paradossalmente preciso. C’erano poche cose che ricordava di quella scena, ma quei pochi concetti erano stati marchiati a fuoco nella sua mente. E si domandò ancora che cosa avesse fatto per meritarlo, perché Nathan non gli avesse parlato di ciò che non andava tra loro – perché, evidentemente, se si era spinto a fare una cosa del genere, vuol dire che tra loro qualcosa non andava. Quante volte aveva sperato, in tutto quel tempo, che Nathan venisse a parlargli? E, di nuovo, ripensò a quel pomeriggio: a come lo aveva trattato male, a come non gli avesse dato la possibilità di dire nulla, a come lo avesse respinto senza ripensamenti. Si chiese perché avesse agito così. Poi ricordò le parole di Nathan, che dicevano di amarlo ancora. Arrivò alla conclusione che era tutto così dannatamente assurdo.
« Stai pensando a lui, vero? »
La voce di Jack arrivò al suo cervello dopo qualche secondo, momento in cui reagì. Si svegliò di colpo dai pensieri che stavano invadendo la sua mente.
« Si vede subito che ci pensi. Hai un’aria così malinconica. »
Alan tracciò dei disegni sulla sabbia.
« Sì, ci stavo pensando. Mi chiedevo se il mio comportamento di oggi fosse stato giusto nei suoi confronti. »
« Be’, per come la vedo io, non hai fatto niente di sbagliato. Ha avuto mesi per giustificarsi e non l’ha fatto. Poi ha pure cercato di impietosirti. A che scopo, mi chiedo. »
Alan corrugò la fronte.
« Ma prima non dicevi che ti era parso sincero? »
« Sì, ma ci ho ripensato. Ho rimesso insieme i tasselli anche in base a quello che mi hai raccontato della vostra storia. Se posso permettermi, mi sembra il classico tipo possessivo, che vuole tenerti legato a sé non perché ti ami, ma solo perché ti considera suo. »
« Non mi ha mai fatto questa impressione, sinceramente. »
« Certo, perché finché sei stato suo questo aspetto non è emerso. Adesso lo hai mollato, ha visto che ti stai rifacendo una vita e cerca di metterti i bastoni tra le ruote. »
Quella serie di considerazioni frastornò Alan, e un groviglio intricato di pensieri lo avvolse per una manciata di secondi. Nathan non gli era mai sembrato il tipo che diceva Jack: non gli aveva mai impedito niente, gli aveva sempre permesso di vedere altre persone e non gli sembrava neanche il tipo che ha bisogno di avere qualcuno sempre accanto. Però, pensò, il ragionamento di Jack non faceva una piega. Tutte le bugie, i comportamenti strani, quelle uscite notturne. E se non lo avesse davvero mai amato? E se avesse voluto solo tenerlo a sé, come una sua proprietà? Gli riusciva davvero difficile crederci. Anche perché, se davvero fosse stato così, si sarebbe fatto vivo molto prima e non avrebbe certo permesso così facilmente che si rifacesse una vita. Si domandò poi come avesse fatto a scoprire di Jack, o se la visita di quel pomeriggio altro non fosse che il frutto di una coincidenza. Si sentì dannatamente confuso. E si stupì ancora di più del fatto che la sua mente non avesse obiettato quando Jack aveva parlato di “rifarsi una vita”. Se la stava rifacendo con Jack?
Un altro pensiero emerse dalla sua mente, che sembrava sceglierli come si estrae un numero della lotteria. Si pentì, in qualche modo, di non aver fatto parlare Nathan quel pomeriggio. E se avesse voluto dirgli qualcosa di importante? Davvero non aveva alcun interesse ad ascoltarlo? Si chiese come poteva rimediare, ma non gli venne in mente niente.
« Scusa, non volevo sconvolgerti. »
Alan tirò un sorriso.
« Figurati. Non mi hai sconvolto. »
« Be’, sono cinque minuti che non dici niente. »
Alan si meravigliò del fatto che fosse passato tutto quel tempo. Jack riprese a parlare.
« Penso che mi piacerebbe morire qui. »
Alan spostò il suo sguardo verso Jack.
« Ma che stai dicendo? »
Jack poggiò le mani sulla sabbia, dietro la sua schiena, e alzò lo sguardo verso il cielo.
« Vedi, è così rilassante questo posto. Il mare, le stelle, questa sabbia fine. » Jack si rivolse ad Alan. « E a te, invece, dove piacerebbe morire? »
Alan ci pensò un po’.
« Be’, direi che morire tra le braccia della persona che amo potrebbe essere una buona morte. »
Jack sorrise.
« Romantico. »
Tra i due scese il silenzio. Jack continuava a fissare il cielo con il sorriso sulle labbra, mentre Alan, cercando di tenere la mente sgombra, si faceva cullare dal rumore delle onde che si infrangevano sulla riva.
« Che ne dici, ti riporto a casa? »
Alan guardò l’ora: era quasi il tempo di cenare. Annuì e i due si indirizzarono verso la macchina.
 
***
 
Dopo un rapido viaggio condito da un sottofondo blues, Alan era finalmente arrivato a casa. Dall’auto scese anche Jack, che si offrì di riaccompagnarlo fino alla porta. Era arrivato il momento dei saluti.
« Sono stato davvero bene con te, Alan. »
« Anche io mi sono divertito parecchio. Ruota panoramica a parte. »
Jack dovette trattenere una risata.
« Se ti va, mi farebbe piacere uscire insieme altre volte. »
La mente maliziosa di Alan capì subito che, per Jack, quello era stato un vero e proprio appuntamento. E invece, Alan, aveva cercato solo di cambiare la copertina a quel giorno. Jack parlò di nuovo.
« Vabbè, allora buonanotte. A presto. »
Alan salutò a sua volta. Tirò fuori le chiavi dal giubbotto e cominciò a cercare quella del portone.
« Ah, Alan! »
Si voltò, e le sue labbra finirono su quelle di Jack. Non aveva nemmeno fatto in tempo a inumidirle e quel bacio gli apparve un po’ ruvido. Ma, al di là di quello, non c’era dubbio.
Stava baciando Jack.



Salve a tutti! Approfitto di questo ritaglio di tempo per pubblicare il nuovo capitolo. E così, Jack si è dato da fare e ha preso l'iniziativa XD Ma come la mettiamo con Nathan? Ne vedremo delle belle XD
Nel caso foste curiosi di sapere cosa ha spinto Nathan a correre a perdifiato verso casa di Alan, ecco un bel Missing Moment tutto per voi Clicca qui!. Spero vi piaccia ^___^
Come sempre, ringrazio davvero di cuore tutti coloro che seguono questa storia.
Volevo anche avvirsarvi che, a partire dal capitolo 7 (secondo la "mia" numerazione), la pubblicazione diverrà settimanale ^^ 
A presto e grazie a tutti!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Accordi ***


6. Accordi
 
 
 24 dicembre 2004.
La sonata per pianoforte n. 14, meglio conosciuta come la Sonata al chiaro di luna, era stata composta nel 1801 da Ludwig Van Beethoven e dedicata, così si dice, alla contessa Giulietta Guicciardi, di cui era segretamente innamorato. Altre voci dicevano invece che il tono così malinconico della sonata fosse dovuto al fatto che, in quel periodo, Beethoven avesse cominciato a capire che quella nascente sordità sarebbe stata sua compagna per tutta la vita.
A Madison piaceva più la prima leggenda. Anche perché, pensava, uno come Beethoven la musica non aveva certo bisogno di suonarla al pianoforte, per sentirla: era interamente nella sua testa. Non a caso, aveva continuato a comporre anche quando fu diventato totalmente sordo.
 
Qualunque fosse il motivo che aveva spinto Beethoven a comporla, Madison doveva ammettere che era davvero bella. Il primo movimento era malinconico al punto giusto, proprio come può esserlo una distesa immensa e solitaria rischiarata solo dal bagliore della luna.
Suonò quella melodia con delicatezza e sentimento. E, stranamente, nella sua mente non c’era alcuna immagine di sua madre: riusciva solo a pensare al paesaggio e alle emozioni che quelle note le suscitavano. Si chiese a cosa fosse dovuto il desiderio improvviso che aveva avuto di suonare qualcosa di Beethoven.
Non ebbe il tempo di rifletterci che la governante di casa, Claire, bussò alla porta. Madison si interruppe e le fece cenno di entrare.
« Madison, disturbo? C’è una visita per te, cara. »
« Per me? Sei sicura? »
« Sì, ti aspetta in sala da pranzo. »
« Ma chi è? »
La governante alzò le spalle.
« Non so, non si è presentato. »
Madison spinse indietro il panchetto e si alzò, facendo qualche passo verso Claire.
« È un uomo quindi? Ma che tipo è? Com’è vestito? »
Madison la incalzò sussurrando appena, come se avesse paura che l’ospite potesse sentirla.
« È un uomo sulla trentina, forse ha qualche anno in meno, alto, curato e vestito elegante. Giacca e cravatta, per la precisione. »
« Però non si è presentato. »
« No. »
Madison cominciò a chiedersi chi potesse essere l’ospite misterioso. Razzolò tra tutte le sue conoscenze, ma non le venne in mente nessuno di quell’età che vestisse bene. E che, soprattutto, avesse un buon motivo per volerla incontrare.
« Va bene, ho un’idea. Accompagnami in sala da pranzo. »
Madison e Claire percorsero a passi piccoli e guardinghi l’intero corridoio, che sfociava nella sala da pranzo. Arrivate in fondo, trovarono la porta accostata. Prima di spingere la maniglia, le due donne si scambiarono uno sguardo d’intesa. Come a voler cogliere di sorpresa l’ospite misterioso per non lasciarlo scappare, Madison spinse la porta tutta d’un fiato.
Le si cucì addosso una sensazione a metà tra il sorpreso e il contrariato.
« Ashton! »
Ashton era lì, in piedi dietro il tavolo, con le braccia dietro la schiena, come a voler nascondere qualcosa che teneva in mano. La salutò sorridendo.
« Ciao, Madison. »
I due si fissarono per qualche secondo: lui sempre col sorriso stampato sul viso, lei a bocca aperta incapace di dire qualsiasi cosa.
« Oh, che sbadata, devo finire le faccende in salotto. Tolgo il disturbo, piccola. »
Madison era talmente intontita che si accorse della dipartita di Claire solo dopo che ebbe chiuso la porta della sala da pranzo. Teneva lo sguardo su Ashton, ma come lui la ricambiò, lei abbassò gli occhi verso il pavimento. Poteva sentire i passi di Ashton dirigersi verso di lei, finché non ne vide i piedi.
« Scusa se non ho detto alla governante chi ero. Ho pensato che non avresti voluto vedermi, se l’avessi fatto. »
Madison non rispose e continuò a seguire le nervature delle mattonelle, mentre le guance le si coloravano di un leggero rossore.
« Ti ho portato un paio di cose. Non sei curiosa di sapere cosa sono? » Ashton si piegò fino a che il suo volto non raggiunse l’altezza di quello di Madison. « Mi guardi, almeno? »
La ragazza alzò lentamente lo sguardo, finché non incontrò quello di Ashton. Anche se non poteva vederlo, sentiva di avere gli occhi lucidi.
« Ecco, così va meglio. Comunque, ti ho riportato l’album. » Ashton indicò col mento l’oggetto posto sopra il tavolo. « E un’altra cosuccia. Dai, chiudi gli occhi. »
Madison esitò un momento, poi ubbidì. Cercò di capire cosa fosse la cosa che le aveva portato, ma non riusciva a distinguere nessun rumore che potesse aiutarla.
« Va bene, apri. »
Aprì gli occhi. Il suo sguardo cadde subito sul regalo che Ashton stringeva tra due dita.
Una rosa rossa.
Si sentì avvampare e girò il capo verso la finestra della stanza. Si morse il labbro inferiore e strinse i denti per evitare di esplodere.
Ashton sospirò.
« Ho esagerato anche stavolta, vero? Scusa, era solo… in segno di pace. »
Una lacrima scese sul viso di Madison.
« …È bellissima. »
La sua voce era fioca, sul punto di spezzarsi. Ashton le portò la rosa sul viso, asciugandole le lacrime con uno dei petali. Poi, la fece scorrere su tutta la sua guancia, accarezzandola.
Madison si voltò verso di lui, un sorriso triste sul volto.
« È bellissima, Ashton, e ti ringrazio, ma non posso accettarla. Non me la merito. »
« Mica starai ancora pensando a una settimana fa? Pensa un po’, me ne ero pure scordato. Ricordo solo una ragazza incantevole e le sue splendide foto. »
Madison sorrise imbarazzata.
« Comunque, non devi temere. Non ti disturberò più. »
« Perché? »
Ashton le portò una mano al volto e le asciugò quelle tracce umide lasciate dalle lacrime, ormai scomparse.
« Perché so riconoscere un due di picche. » Ashton ritirò la sua mano e abbassò lo sguardo con un sorriso rassegnato. « La rosa che ti ho portato è una specie di addio, ma vuol dire anche che vorrei che rimanessimo amici. »
Allungò il braccio per porgerle la rosa e Madison la afferrò. La ragazza se la rigirò più volte tra le dita, annusandone il profumo e tastando la morbidezza dei petali.
« Anche perché, ormai, abbiamo una mostra di mezzo, o sbaglio? »
Madison aprì la bocca per dire qualcosa, ma Ashton la precedette.
« Sì, voglio ancora occuparmi del tuo posto alla mostra. Anche perché, tutto sommato, mi fa piacere. Fai davvero delle belle foto. »
« Ti ringrazio. »
« In realtà, ero venuto per parlarti proprio di questo. Le ho riguardate con calma, e ne avrei scelte un paio per ogni categoria. Ti va se ne parliamo di fronte a un caffè? Però non scappare anche stavolta, altrimenti mi vedrai piombare un’altra volta a casa tua per renderti l’album. »
Inaspettatamente, Madison scoppiò a ridere.
« O sennò, potresti essere più furba e scappare con l’album. » Ancora presa dalle risate, sentì Ashton accarezzarle la schiena. « Allora, ci stai? »
Madison gli rispose con un gran sorriso.
« Va bene. Però prima, se non ti dispiace, vorrei mettere la rosa in un vaso. È così bella, non voglio che si sciupi. Aspetta, vado a chiamare Claire. »
Sparì nel corridoio da dove era venuta e trovò Claire effettivamente in salotto. Le domandò dove potesse trovare un vaso decoroso dove poter riporre la sua rosa. La governante lasciò la stanza, per tornare poi con un vaso stretto e lungo. Vi rovesciarono dentro un po’ d’acqua, dopodiché la rosa vi prese posto.
« Dove la mettiamo? Qui in salotto starebbe bene. »
« No, in realtà… Volevo metterla in camera. »
Claire riprese a camminare verso la camera di Madison, ma quest’ultima la fermò.
« Aspetta. Voglio sistemarla io. »
« Come desideri. A proposito, chi era quell’uomo? Se posso permettermi, ovviamente. »
« Ma certo, Claire. Si chiama Ashton e… è un amico. Puoi farlo entrare sempre. »
Se mai tornerà, pensò.
« Ho capito. Niente male, però. »
« Cosa? »
Claire scoppiò in una fragorosa risata.
« Beata innocenza! Meglio che torni alle mie faccende. Per problemi di qualsiasi tipo, sono sempre qua. »
La vide allontanarsi gagliarda e col panno per spolverare in mano, e solo dopo capì che stava parlando di Ashton.
Entrò in camera sua e sistemò il vaso sulla sua scrivania. Lo posizionò sul lato destro: almeno, quando scriveva, lo avrebbe sempre avuto sotto gli occhi. Si allontanò per avere una visione d’insieme: era pienamente soddisfatta. Decise di non far aspettare oltre Ashton, e tornò in sala da pranzo.
« Allora, dove mi porti? »
Madison mise la borsa sulla spalla.
« Non so, potremmo prendere la metro e… »
« La metro? Ci sarà un caffè qui vicino, no? »
« Sì, ma… »
« Tranquilla, lo so che siamo nella zona più lussuosa della città. Non fartene un problema. »
« E invece sì! Permettimi allora di offrirti tutto quanto. »
« Non se ne parla nemmeno. »
« Facciamo metà e metà allora. »
Ashton si portò una mano sul mento.
« Va bene. Ma solo perché sennò non mi dai pace. Andiamo? »
 
***
 
Il “Café Millicent” era uno dei più belli della zona. La struttura era quella di un antico palazzo ottocentesco, adibito un tempo a residenza privata e passato poi a struttura liberamente acquistabile. L’interno aveva la stessa magnificenza dell’esterno: il soffitto era una successione di volte a crociera, finemente affrescate, le cui estremità poggiavano su colonne dai capitelli corinzi; e su ogni parete delineata dalle volte, vi era attaccato un quadro che immortalava un grande personaggio della storia americana, perlopiù ritratti dei presidenti degli Stati Uniti.
Madison e Ashton ordinarono entrambi un caffè, dopodiché tornarono a parlare della mostra. Lui le indicò, per ogni categoria, le foto che aveva scelto, incontrando il favore della ragazza la maggior parte delle volte. Discussero a lungo delle foto, di quale avesse l’angolazione migliore, o il dettaglio più significativo. Giunsero in fondo che avevano ormai ultimato la scelta per ogni categoria.
« Sono quasi certo che la mostra sarà tematica. Anche se ancora non sono riuscito a sapere gli argomenti. »
« Figurati, non c’è fretta. Anzi, grazie per tutto quello che stai facendo per me. »
« Te lo ripeto, è un piacere. »
Ashton si portò la tazzina alla bocca e bevve l’ultimo sorso di caffè. Discussero a lungo sulle foto che Ashton aveva scelto per la mostra e Madison fu colpita dal fatto che avesse scelto quelle che a lei piacevano di più.
« Allora, che farai stasera? Esci con Jack? »
« Oh, no, penso sia impegnato con Alan. Almeno così mi ha detto. »
Ashton emise un mugolio, come se si fosse appena ricordato di qualcosa.
« È vero! È la Vigilia oggi. Ma quindi escono insieme? »
« Ah, non ne ho idea. »
Ashton tamburellò le dita sul tavolo.
« Sai, ad Alan farebbe bene. È uscito da poco da una brutta storia. »
« Sì, Jack mi ha raccontato qualcosa. Ma cos’è successo esattamente? »
« In poche parole? L’ha trovato con un altro ».
« Oh. Capisco. »
« Sì, però è tutta una storia strana. Sai, quando Alan è rientrato e li ha trovati insieme, pare che Nathan – il suo ex – gli abbia gridato che… che era stato costretto insomma. »
Madison spalancò gli occhi.
« Accidenti! E Alan che ha fatto? »
« Nulla, è questo il bello. Tanti saluti e chi s’è visto, s’è visto. In altre parole, non gli ha creduto. »
Lo sconcerto la colse talmente tanto che rimase a bocca aperta.
« Ma… è assurdo! È il tuo ragazzo, ti dice che… be’, quel tipo gli ha messo le mani addosso e tu non fai nulla? Non ha senso! Nessuno reagirebbe così. »
« Sì, sono d’accordo. » Ashton sospirò. « Sai, ormai è un po’ che conosco Alan, e mi ha dato quasi l’impressione di essere uno di quei tipi che ha paura dell’amore. È molto rigido in certe questioni. »
« Dici che è uno di quelli che ha paura di innamorarsi e di legarsi troppo? Credi che stesse aspettando quindi un’occasione per rompere il legame? »
Ashton annuì.
« Sì, credo sia qualcosa del genere. Perché anche il fatto che non ne abbia voluto sapere più nulla, dopo quel giorno, mi sembra assurdo. Io non solo lo avrei ascoltato, ma gli avrei anche creduto e sarei andato a pestare quel pezzente con le mie stesse mani. »
« Allora chissà perché esce con Jack, se non vuole impegnarsi. »
« Probabilmente ha bisogno di amore, ma questo stadio non gli dà grande coinvolgimento emotivo. Sai, se qualcosa non dovesse funzionare, non ci rimarrebbe troppo male. Ma chissà, magari è la volta che si innamora davvero. »
Madison bevve il suo caffè che ormai, però, si era raffreddato; lo buttò giù tutto per evitare di lasciarlo lì.
« Ha ricevuto forse un’educazione troppo rigida? »
« Che io sappia, no. E non riesco a capire perché si comporti così. »
« Che abbia ricevuto una grossa delusione, in passato? O un evento che l’ha segnato? »
« Non saprei dirti. E poi, anche il fatto che non abbia mai voluto ammettere che Nathan non lavorava in quel bar come gli diceva, che non abbia mai voluto indagare, è strano. »
« Hai ragione. Ma se Alan fosse davvero il tipo che pensi, probabilmente lo aveva capito, ma non voleva affrontare la realtà, l’avrebbe fatto sicuramente soffrire. »
« Ti dirò, sarei veramente curioso di indagare. Ma mi sembrerebbe di tradire Alan, ed è solo per questo che non lo faccio, perché Nathan è un tipetto davvero misterioso a mio dire. »
Madison sorrise.
« Indagare? Sembra eccitante! » Il sorriso sul suo volto si spense subito. « Già, giusto. La questione morale.  Non è il caso. »
Madison lo guardò con uno sguardo di supplica, sbattendo velocemente le palpebre.
« Madison, non possiamo. E se poi lo viene a scoprire? E se si insospettisce vedendoci confabulare? »
La ragazza fece spallucce.
« Be’, digli che usciamo insieme. »
« Mi permetteresti davvero di dirgli una cosa simile? »
« Sì, certo. Cioè. Tanto in realtà sarebbe una cosa di lavoro, no? »
« Sì, ovvio. » Ashton fissò vacuo un punto tra la tazzina e il tavolo. « Speriamo di fare la cosa giusta. »
Madison emise un gridolino eccitato.
« Evviva! Molto bene. Adesso abbiamo bisogno di informazioni, però. Per prima cosa, sai dove abita Nathan? »
« Veramente no. Dovrei chiederlo ad Alan, ma una domanda diretta sarebbe troppo palese. Potrei tentare con un banale elenco telefonico, però. »
« È vero! Ma… » Tutta l’eccitazione svanì dal volto di Madison, che sembrava quasi dispiaciuta. « Abbiamo bisogno almeno del suo cognome. »
« Oh, tranquilla. In questo senso lo conosco bene. Passava spesso in centrale, sai? »
Madison sembrò nuovamente eccitata per quella piccola scoperta.
« Quindi tu lo conosci! In realtà lo avevo immaginato più come un personaggio oscuro, di cui nessuno sa nulla… Sai, come il protagonista di un racconto del mistero. »
Ashton rise.
« Mi spiace deluderti, Mad, ma almeno le informazioni di base le abbiamo. Non ci vorrà molto per trovare il suo indirizzo. »
Ashton rigirò l’orologio sul suo polso e controllò l’ora. « Accidenti, ma è tardissimo! Devo scappare. Non so quando avrò tempo per recuperare le informazioni, ti farò sapere. »
Ashton lasciò un paio di dollari sul tavolo. Si riabbottonò il cappotto e fece per andare.
« Ah, Madison. »
« Dimmi. »
« Anche a me piace molto la Sonata al chiaro di luna. Ciao! »
Madison rimase a bocca aperta. Volle ricambiare il saluto, ma dalla bocca le uscì un miscuglio tra un “grazie” e un “ciao”. Alla fine, riuscì a dire qualcosa solo quando, ormai, Ashton aveva già varcato la soglia del bar.
Decise di contare i soldi lasciati da Ashton, per vedere quanti ne dovesse integrare. Ma, quando finì di contarli, un enorme sbuffo uscì dalla sua bocca.
Aveva pagato anche la sua parte.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Certezze sbiadite ***


7. Certezze sbiadite
 
 

 
6 gennaio 2005.
« Nathan! Che bella sorpresa!»
« Ciao mamma. » Alzò il braccio esibendo una busta colma. « Ti ho fatto un po’ di spesa. »
« Oh, grazie tesoro! »
La donna afferrò la busta e gli fece cenno di entrare in casa; avanzò verso il frigorifero con passi lenti e goffi, sovrastata dal peso della busta. Posò la spesa in fondo alla stanza e aprì il frigo. Cominciò a sistemare zucchine e pomodori nel vano inferiore, per appoggiare poi i salumi un piano più su. Si voltò improvvisamente verso Nathan, ed ebbe un sussulto.
« Nathan! Da quanto tempo sei qui? »
Nathan alzò sovrappensiero lo sguardo dal suo telefono e aggrottò lievemente le sopracciglia. Emise un sospiro silenzioso. Era sempre stato lì, a pochi passi da sua madre, dietro di lei.
« Non da molto, mamma. »
« Scusa tesoro, ma proprio non ti avevo sentito entrare! »
Nathan le sorrise, ma non appena si voltò per tornare alla spesa, l’amarezza comparve sul suo viso. La osservò imbambolato sistemare la marmellata sul ripiano, e le uova una ad una con movimenti delicati. E più la guardava, più se la sentiva scivolare lentamente tra le dita, come se la madre che aveva sempre fatto parte della sua vita, ora stesse piano piano lasciando il posto a una donna ormai privata del suo passato e dei suoi ricordi; un essere che di lì a poco altro non sarebbe diventato che un contenitore vuoto, la sua esistenza cancellata in un colpo. Era questo ciò che più lo inquietava, nella vita: che tutto ciò che è stato compiuto, o tutto ciò per cui si è lottato o sperato, potesse essere sotterrato in un angolo remoto della mente, accessibile solo da un vicolo buio bloccato da fronde inestricabili.
Il tocco sulla spalla di sua madre lo destò dal nugolo dei suoi pensieri.
« Grazie mille, tesoro. »
« Di niente, mamma. »
Si infilò le mani in tasca e strinse le spalle.
« Ah, tesoro. Tuo padre ha detto che vuole parlarti. »
Nathan alzò le sopracciglia per lo stupore.
« Papà? Vuole parlare con me? Di che si tratta? »
Sua madre scosse la testa.
« Non lo so, ha detto solo che è importante. » La donna schioccò la lingua, quasi spazientita dalla reazione di Nathan. « È vero che vi parlate poco, ma non essere così sorpreso! »
Nathan abbandonò la sua espressione scettica.
« Sono praticamente cinque anni che non mi parla. »
« Dai, su. Va tutto bene, vero? Mangi abbastanza, sì? »
Nathan annuì con un sorriso.
« Ah! Ti offro del thè appena fatto. »
La vide allontanarsi con la sua andatura un po’ impacciata verso la cucina. Nathan prese posto nella piccola poltroncina blu cobalto; scostò il cuscino panna facendo somma attenzione a non sgualcirlo. E non perché fosse un maniaco dell’ordine – tutt’altro – ma perché vedeva in quella precisione materna un ultimo e flebile barlume di umanità.
Sua madre tornò subito con in mano il vassoio e un grande sorriso. Posò il vassoio sul tavolo e gli porse una tazza. Nathan afferrò la tazzina decorata con motivi floreali e assaggiò quel thè. Quanto tempo era passato dall’ultima volta? Avevano ereditato quel set di tazze dalla madre di sua madre; e da quella volta il thè era sempre stato rigorosamente servito lì.
« Ah, tesoro! »
Nathan alzò lo sguardo verso di lei.
« Tuo padre vuole parlarti. »
Nathan cercò velocemente nella rete dei suoi pensieri, e sperò con tutto se stesso di non trovare un doppione di quel ricordo tra quelli recenti. E invece era lì, trasportato al cospetto della sua mente alla velocità della luce. Il ricordo ‘Papà vuole parlarti’ era stato registrato poco meno di cinque minuti prima. Si volle convincere che così non era, che il suo cervello aveva creato un falso ricordo, ma era troppo vivido perché non potesse essere vero.
Una fitta al cuore gli raggelò il petto, e nemmeno quel thè caldo riuscì a scioglierla. Deglutì a fatica, e aggrottò appena le sopracciglia, cercando di non destare sospetto.
E se non avesse avuto a cuore il destino di quelle tazzine, probabilmente la sua si sarebbe trovata in mille pezzi, sul pavimento. Convenne che era meglio posare la tazzina sul tavolino, e il suo sguardo si perse nel vuoto.
Aveva cominciato con banali perdite di memoria, che aveva spesso imputato all’età, anche se sua madre era piuttosto giovane, per poi proseguire con un generale annebbiamento, che talvolta le impediva anche di riconoscere la sua stessa casa. Ripeteva spesso le cose, e a volte saltavano fuori all’improvviso discorsi senza capo né coda. La osservava mentre compiva abituali gesti di rito e si augurò solo che lei non si stesse accorgendo di nulla. Si chiese se sarebbe mai arrivato il momento in cui lei non lo avrebbe riconosciuto più. L’idea di diventare un estraneo per colei che più di tutti era stata la presenza più importante della sua vita lo fece sprofondare, per un momento, in un baratro buio e cupo.
« Tesoro, tutto bene? »
Nathan riuscì a liberarsi dalla morsa dei suoi pensieri, per poi ritirare fuori la maschera sorridente.
« Sì mamma, tranquilla. Parlerò con papà. »
La donna annuì, e sorseggiò ancora il suo thè, fino a finirlo.
« Con la fidanzata va tutto bene? »
Nathan non aveva mai avuto voglia di dare preoccupazioni a sua madre, ma era un argomento che avrebbe voluto evitare da lì in avanti. Non tanto per la farsa che portava avanti da anni ormai, quanto per il ricordo che ancora scottava. Si sforzò di non pensare ad Alan e a tutto ciò che era successo.
« Ci siamo lasciati. »
Sua madre spalancò la bocca e posò di scatto la tazza.
« Tesoro, ma è terribile! »
 
***
 
Sua madre volle sviscerare la questione fidanzata fino in fondo, con buona pace di Nathan che si vide costretto  a inventare particolari inesistenti e decisamente non scabrosi. La sua recita fu interrotta da un gridolino conosciuto.
« Fratellone! »
« Jimmy! »
Si alzò dal divano e corse incontro al suo fratellino, sollevandolo e facendogli fare una giravolta. Il volto di Jimmy era tutto un sorriso.
«Come stai, fratellone? » domandò incuriosito, mentre lo tirava per le mani verso le scale.
Nathan gli arruffò i capelli biondi.
«Bene, bene». Estrasse dalla borsa un oggetto incartato e si chinò alla sua altezza. « Ho un regalino per te. »
Gli occhi e la bocca di Jimmy si spalancarono estasiati; prese il pacchettino e lo scosse nell’orecchio, nel tentativo di capire cosa ci fosse dentro. Ma udì solo il rumore di qualcosa che sbatacchiava contro una confezione di plastica e non gli fu di grande aiuto. La forma, però, era particolare; l’involucro era rotondo, ma sembrava a tratti spigoloso.
«Andiamo in camera ad aprirlo, eh, Jimmy? »
Il bambino non fece in tempo ad annuire che già era corso al piano di sopra, richiamando Nathan più e più volte.
Nathan entrò in camera e quasi inciampò su un peluche lì di guardia. Jimmy gli fece cenno di sedersi accanto a lui sul letto e Nathan ne approfittò per prendere due cuscini da poggiare al muro e usare come schienale.
«Posso aprirlo? »
Nathan annuì e fu pervaso da uno strano senso di felicità nel vedere il suo fratellino così eccitato per il suo regalo; sapeva che era sempre contento quando gli portava qualcosa.
Appena Jimmy, dopo aver rotto l’involucro di plastica, si trovò faccia a faccia col suo regalo, rimase a bocca aperta. Era stupito, e non capì subito di cosa si trattava. Nathan gli si avvicinò, e indicò l’oggetto.
« È un dodecaedro stellato. Vedi? Sembra una stella. »
Nathan prese l’oggetto e lo mostrò più da vicino a Jimmy, ruotandolo e indicandogli le punte. Era un oggetto a incastro, formato da alcuni pezzi di legno sistemati tra loro. Jimmy lo osservò ancora incuriosito, non capendo se c’era qualcos’altro dietro quell’oggetto misterioso o se invece la sorpresa fosse tutta lì.
« Carino, no? Puoi scegliere di tenerlo come soprammobile, oppure… ». Nathan estrasse dal dodecaedro il pezzo nel mezzo, facendo cadere inevitabilmente gli altri pezzi sul letto. « Puoi provare a scervellarti e trovare un modo per ricomporlo. »
Jimmy sembrò quasi dispiaciuto nel vedere il suo regalo così decomposto ma, dopo un primo momento di smarrimento, aveva già preso in mano due pezzi e stava tentando di rimetterli insieme tutti.
« Ma è facile? » domandò Jimmy, tentando di unire malamente i legnetti che, invece di formare la figura, si sgretolavano sul suo piumone.
«Be’, tu hai un fratello scemo. Ci ho impiegato un bel po’ per farlo, e anche dopo esserci riuscito non me lo sono ricordato per tre volte di fila. Però è carino e dà molte soddisfazioni, e credo che tu possa riuscirci. Vuoi che te lo ricomponga? »
Nathan fece per prendere tutti i pezzi, ma la mano di Jimmy lo scacciò.
« Voglio riuscirci da solo! »
La determinazione di suo fratello gli strappò un sorriso; era stato quasi tenero nel rifiutare il suo aiuto. Lo osservò rimettere i pezzi  a posto, per essere prontamente sgridato non appena tentava di dare consigli.
 
Dal piano di sotto, sentì la porta di casa aprirsi e poi richiudersi, segno che qualcuno era rientrato. E infatti, poco dopo, sentì la voce di suo padre bofonchiare qualcosa.
Si sentì strano all’idea di dover parlare con lui, o anche solo rivederlo. Da quando lo aveva affrontato, una sera, dall’alto dei suoi diciotto anni, si erano parlati molto raramente, perlopiù per telefono o quando capitava da sua madre e lui non era a lavoro. Ma anche in quei casi suo padre si limitava a lanciargli qualche occhiata sinistra e nulla più. E ora, invece, voleva addirittura parlargli urgentemente.
La cosa non gli piaceva.
 
Abbandonò Jimmy in camera e scese le scale. Come suo padre lo vide, non staccò nemmeno per un momento lo sguardo da lui e Nathan fece altrettanto.
« Nathan, tesoro, stavo per chiamarti! Ora che tuo padre è rientrato, potrete parlare. »
Con la coda dell’occhio, Nathan si accorse che sua madre elargì un grosso sorriso, forse nel tentativo di spezzare la tensione. Ricambiò, poi spostò di nuovo lo sguardo verso suo padre.
Nathan camminò verso di lui con passo deciso, finché non furono abbastanza vicini. Suo padre gli fece cenno con la testa.
« Seguimi in camera. »
 
***
 
Non appena furono nella camera da letto, suo padre chiuse la porta alle sue spalle. Si avvicinò al cassettone dei vestiti, aprì l’ultimo cassetto, si fece strada tra le camicie della moglie e cominciò a rovistare sgualcendo ogni cosa. Alla fine, suo padre estrasse un plico bianco e Nathan vi riconobbe, stampato sul retro, il logo sanitario.
Quella piccola immagine lo agitò. Era qualcosa che riguardava sua madre e la sanità, e la sua mente cominciò a elaborare una serie di malanni uno peggiore dell’altro. Poteva solo aspettare.
Suo padre si avvicinò, porgendogli la cartella dei risultati, dopodiché fece un respiro profondo.
« Tua madre è malata. »
Lo disse in modo talmente freddo e distaccato che Nathan fu quasi più irritato da quel particolare che dal significato dell'affermazione. Suo padre lo aveva detto come se la donna non fosse nemmeno stata sua moglie.
Nathan si mordicchiò il labbro inferiore.
« Cos’ha esattamente? »
Sapeva benissimo che gli sarebbe bastato estrarre i fogli dalla cartella medica per saperlo, ma non ne aveva il coraggio.
« Ha l’Alzheimer. Non è comune tra le persone della sua età, ma può succedere. È stata sottoposta a diversi test neurologici e tutti hanno riportato una demenza moderata. »
Nathan continuò a tartassarsi il labbro inferiore. Sentì il magone salirgli in gola, ma provò a trattenersi.
Non sapeva ben dire se stesse per scoppiare dalla rabbia o dalla tristezza. Suo padre parlava come se fosse stato a un convegno di studiosi altezzosi, nel quale vinceva chi si esprimeva nel modo più compito.
« Possiamo rallentare il decorso della malattia con qualche farmaco, ma purtroppo... »
Nathan sbuffò pesantemente e scaraventò il plico a terra.
« Cristo santo, ma lo senti come parli? È tua moglie, è mia madre! Ma come fai a essere così… così… » Nathan strinse i denti, cercando di trovare la parola giusta, che non arrivò. « Tu non sei umano! »
Dopo un’ultima occhiata feroce, Nathan fece dietro front e uscì dalla camera sbattendo la porta.
Vide sua madre corrergli incontro.
« Tesoro, che è successo? »
Non fece in tempo a rispondere che suo padre uscì dalla camera; Nathan alzò gli occhi al cielo.
« Nathan, fermati. Non abbiamo ancora finito. Elisabeth, per favore, lasciaci soli. »
La donna provò a ribattere, ma la mano di Nathan la fermò. Suo malgrado obbedì, ma non prima di aver scoccato a entrambi un’occhiata preoccupata. Quando i due furono soli, suo padre riprese a parlare.
« Credi che per me sia facile, Nathan? »
Il ragazzo, che fino a quel momento gli aveva dato le spalle, si voltò e fece qualche passo verso di lui.
« Sì. Credo che sia facile, per te. »
Suo padre aggrottò le sopracciglia, facendo curvare l’estremità più interna verso l’alto.
« Ti sbagli. »
« Papà, non fingere di avere un cuore, perché so che non ce l’hai. »
Suo padre lo fissò a lungo. Nathan riuscì a capire che era indeciso se rispondergli o meno e cosa dire nell’eventualità. Alla fine sospirò.
« Va bene. Non ho altro da dirti, se non che ci penserò io a lei. E questa è la cartella, se ti interessa. » disse, porgendogli le carte.
Nathan le afferrò senza dire niente.
« Fratellone… »
Alzò la testa verso quella vocetta minuta, e si accorse che Jimmy era sulle scale, con le dita sul corrimano e i piedi su due scalini diversi, come esitasse nello scendere.
« Arrivo subito. Metto una cosa in macchina e sono da te, ok? »
Il bambino annuì debolmente e si sedette sugli scalini, aspettando con la testa appoggiata sulle ginocchia.
 
Aveva fatto idea di portare solo il plico in auto, ma sentì che aveva bisogno di stare un po’ da solo; così aprì la portiera del guidatore e prese posto davanti al volante.
Dopo aver respirato profondamente, si decise a dare un’occhiata a quelle carte. Le scorse prima velocemente, come era solito fare con qualcosa che portava brutte notizie; solo quando ebbe dato un’occhiata rapida ai risultati dei test a cui sua madre si era sottoposta, trovò il coraggio di leggere nel dettaglio tutte le prove.
Sua madre aveva ottenuto punteggi intermedi nella quasi totalità dei test, segno che la malattia stava cominciando a peggiorare. E più procedeva nella lettura, più si rese conto che suo padre aveva ragione.
Ripensò alla scena di poco prima, a quello che era uscito dalla sua bocca, e un po’ si vergognò. Quando era arrabbiato gli uscivano spesso frasi forti, ma con suo padre si sentiva come una bomba a orologeria. Pronta a scoppiare da un momento all’altro.
Reagiva sempre così, con suo padre. Ma, d’altronde, non poteva dimenticare ciò che era accaduto poco dopo aver compiuto diciotto anni. Da quel momento in poi il loro rapporto era stato irrimediabilmente compromesso e nessuno dei due aveva mai provato a fare qualcosa.
Pensò di accendersi una sigaretta. Ripose le carte e si allungò verso il sedile dell’accompagnatore, aprendo il piccolo vano porta-oggetti; da lì tirò un pacchetto di sigarette e ne prese una. Se la mise in bocca, ma, come fece per accenderla, udì una serie di colpetti sordi alla sua sinistra. Si voltò, e vide la testa di suo fratello sbucare da sotto il finestrino, insieme al pugnetto che aveva battuto sul vetro. Immediatamente si sfilò la sigaretta di bocca, riponendola dove l’aveva presa.
Uscì di macchina e si accovacciò davanti a Jimmy.
« Ehi, campione, che c’è? »
Suo fratello non disse nulla. Nathan aspettò che gli dicesse qualcosa e invece se ne stava in silenzio, con la fronte aggrottata e le sopracciglia sollevate e ravvicinate. Nathan si rialzò e, proprio in quel momento, Jimmy gli tese la mano. Stette col braccio teso verso di lui, finché Nathan non gli prese la piccola mano, stringendola; e fu solo a quel punto che le labbra di Jimmy si contrassero in un piccolo, abbozzato sorriso.
 
***
 
Passò tutto il pomeriggio con Jimmy; data la sua delusione nel non riuscire a risolvere subito il rompicapo, Nathan aveva preferito portarlo al parco per farlo distrarre un po’. Si erano divertiti un mondo: erano stati rincorsi da un cane indiavolato, avevano gettato palline di mollica ai cigni nel laghetto e scacciato una mandria di piccioni affamati, attratti da pezzetti di cibo che per errore i due avevano gettato dalla loro panchina. Si distesero esausti sull’erba, anche se ormai era quasi buio e l’aria fredda cominciava a intorpidirgli gli orecchi e il naso. Abbracciò Jimmy tirandolo a sé, e fissò il cielo con sguardo perso. Fu la vocina di Jimmy a destarlo.
«Fratellone…?»
«Dimmi tutto. »
Seguì un momento di silenzio irreale, riempito solo dall’abbaiare di un cane giocherellone. Nathan pensò di aver avuto un’allucinazione, ma suo fratello riprese, con una flebile voce.
«Ma la mamma è malata? »
Nathan si sentì raggelare ancora una volta quel giorno, e ancora una volta per lo stesso motivo. Aveva veramente creduto che i segni dello squilibrio di sua madre fossero visibili solo agli adulti? Ma forse, era solo ciò che aveva sperato. Perché lui ormai era adulto e indipendente; ma Jimmy aveva solo nove anni, e per lui sua madre era più che una madre, era la donna che non sbaglia mai, la donna che lo protegge da tutti i pericoli e, perché no, anche colei che tiene lontani i mostri da sotto il suo letto. Benché lui fosse ormai adulto, il pensiero di affrontare quell’argomento lo angosciava; ma ancora di più temeva ciò che Jimmy gli avrebbe detto, o l’idea di venire a conoscenza di quanto aveva capito.
«Cos’è che te lo fa pensare, Jimmy? »
«Be’… A volte mi chiede chi sono. Una volta non si ricordava più che era la mamma. »
Gli sembrò che qualcuno gli avesse tirato l’ennesima frustata su una schiena sanguinante, ma ciò che lo indusse quasi al pianto fu qualcos’altro. Aveva ascoltato bene le parole di Jimmy e aveva usato proprio la parola “ricordava”. Dunque capiva che sua madre si scordava a tratti di lui. Jimmy lo aveva capito, ma la sua voce non aveva tradito la minima rottura, né segno di debolezza; e Nathan comprese che Jimmy non era pronto e abbastanza forte per una cosa del genere, e che la sua forza apparente era  semplicemente la speranza che il suo fratellone, un adulto, potesse scacciare il male di sua madre e far tornare tutto come prima.
Si prese del tempo prima di rispondere. Non se la sentì di mentire a suo fratello: era un bambino, ma non era uno stupido. Gli posò una mano sulla nuca e l’accarezzò, mentre le parole fluivano lente come i suoi movimenti.
«La mamma sta male, Jimmy, sì. Ha una malattia che le fa dimenticare le cose ogni tanto. Ma non ti preoccupare, come vedi la maggior parte del tempo è in sé. »
Udì Jimmy emettere un ronzio pensoso, mentre continuava ad accarezzargli i capelli.
«E perché, allora, non le compriamo una medicina, per farla guarire? »
Nathan non seppe cosa rispondere. Sapeva che più stava in silenzio e più, paradossalmente, parlava. Doveva dirgli la verità? Doveva indorare la pillola? Stare zitto? La sua rapidissima catena di pensieri fu interrotta da qualcosa che non avrebbe mai voluto sentire: il pianto di suo fratello. Se lo trovò infatti dritto davanti a lui, i pugni serrati quasi a trattenere la rabbia di quel corpicino tremante,  e lacrime che solcavano quelle guance che forse avevano già assistito a quello spettacolo.
«Non guarirà, vero? Non guarirà! »
Jimmy gridò l’ultima frase, scoppiando in un pianto dirompente e cominciando a correre più veloce che poteva. Lontano dal fratello, lontano dall’orrore, lontano dal dolore. Nathan si alzò di scatto e con un movimento irrazionale cominciò a correre verso il fratellino.
«Jimmy, aspetta! Dove stai andando? Jimmy! »
Nathan lo rincorse a perdifiato, finché non lo raggiunse. Si era fermato a covaccioni all’angolo di un muro. Aveva la testa sulle ginocchia e piangeva; poteva vedere chiaramente il suo corpo scosso dai singulti. Si avvicinò piano e gli poggiò le mani sulle spalle. Provò a dire qualcosa, ma di fronte a quelle lacrime ogni parola era superflua; poté solo abbracciarlo e stringerlo forte a sé. I due fratelli si strinsero forte, e piano piano la tragedia di Jimmy trovò una momentanea pace.
Stettero così per una quantità di tempo quasi cristallizzata e furono riportati alla realtà solo quando percepirono posarsi sui loro volti un candido fiocco di neve.
Si guardarono negli occhi, ma non dissero niente; Nathan prese Jimmy per mano e lo riportò a casa, senza mai lasciarlo.
 
***
 
Rimase con lui finché non si addormentò; fissava il suo volto che si sovrapponeva senza pietà a quello che aveva visto quel giorno. Non aveva mai visto il fratello in quelle condizioni e si sentì dannatamente impotente.
Ormai erano quasi le undici: decise di andarsene. Salutò la madre con gesti affettuosi, forse anche più del solito: per tutto quel tempo aveva forse pensato, come quando era bambino, che sua madre non se ne sarebbe mai andata. E invece, lì sulla soglia, si chiese per quanto ancora quella scena sarebbe potuta esistere, e desiderò conservarne ogni attimo.
La strinse forte e la salutò.
 
Una volta fuori, fece rapidamente il punto della situazione. Si avviò verso la sua macchina e, in mezzo a tutta la valanga di pensieri, si ricordò che quella sera sarebbe passato a prenderlo Hank.
Spostò il quadrante dell’orologio sotto la luce di un lampione e guardò l’ora: erano già le 23.
Nathan sbuffò.
Era ora di andare a lavoro.
 
***
 
Quella sera l’aria odorava di piscio. Probabilmente merito di un cane di passaggio o di un barbone habitué di quel luogo. Ringraziò solo che le mani non sapessero di preservativo. Non ancora, almeno. Anche se, paradossalmente, gli sarebbe stato difficile distinguere altri odori, con quel raffreddore maledetto che si era preso. Dio solo sapeva il freddo che stava patendo in quel momento!
« Cazzo, ma dove sono finiti tutti? » borbottò Hank. « Mi spiegate cosa cazzo guadagniamo stasera? Cazzo! » Assestò un potente calcio a una lattina accartocciata, buttandola in mezzo alla strada.
« Condivido la tua passione, ma potresti evitare di mettere ‘cazzo’ in ogni tua frase? »
« Potresti tapparti quella fogna, stupida checca del cazzo? »
Alzò gli occhi al cielo, sospirando.
« Mi chiedo perché mi sia toccato un compagno di marciapiede come te.  »
« Nessuno ti obbliga a occupare questo marciapiede del cazzo, e nessuno ti obbliga a stare con me! »
« …Cazzo. »
Hank lo guardò scocciato, facendogli una smorfia.
« Ehi, stronzetto, vedi di abbassare il tiro. Anche perché me ne sono accorto che vai meno di moda, ora.  »
Nathan dovette ammettere che era vero. Da quando aveva subito quell’aggressione provava repulsione all’idea di farsi toccare da un estraneo; si era perciò ridotto a fare lavoretti minori, ma a Hank non aveva il coraggio di confessarlo. Gli aveva chiesto più volte di quello strano cliente d’ottobre, ma lui aveva sempre risposto in modo vago.
« E comunque, invece di prendere per il culo, io butterei un occhio alla bomba che sta arrivando! »
Due intensi fanali blu spuntarono rapidi dal buio della notte, accompagnati dal rombare del motore. Il passo lungo, la silhouette bassa e le grandi ruote la catalogavano senz’altro come auto di lusso.
Hank emise un fischio compiaciuto.
« Cazzo, è una Reventón! »
« Una che? »
« Stai zitto e muoviti, viene verso di te! »
Effettivamente, l’auto accostò proprio davanti a quel marciapiede, e fu accolta prontamente.
« Ciao, bel ragazzino. »
« Nathan. »
« Ciao, Nathan. Quanto prendi per divorare il mio gingillo? »
« 25 »
« Perfetto. Sali. »
Nathan si voltò verso Hank, che strizzò l’occhio incitandolo eccitato.
Salì, quasi intimorito dallo sguardo di quella chicca raffinata e lussuosa.
 
Nathan indicò al cliente una viuzza laterale dove potersi appartare, dopodiché partirono. Rimase stupito dalla spaziosità dell’abitacolo, illuminato a tratti dalla luce dei lampioni.
« Bella macchina, vero? È un pezzo raro. »
« E costoso, suppongo. »
« Ci puoi scommettere. »
Lanciò un’occhiata all’uomo accanto a lui. Assomigliava in tutto e per tutto al classico cliente: curato, ben vestito e, soprattutto, sposato. Notò subito la fede strizzata intorno all’anulare.
Il cliente parve accorgersene.
« Se ti dà fastidio, posso toglierla. »
« E che fastidio dovrebbe darmi? Non sono mica io quello che si spaccia per eterosessuale e che tradisce la moglie con un prostituto. »
Il cliente emise un risolino.
« Bello e sfrontato. »
La macchina si fermò delicatamente, in un posto lontano da sguardi indiscreti, abbastanza distante dalla luce dei lampioni. Il cliente reclinò leggermente il sedile, mentre Nathan si apprestava a sbottonargli i pantaloni. Come lo fece, sentì un odore pungente invadergli le narici. Fu grato per il raffreddore che i santi gli avevano riservato.
Rovistò un po’ nelle sue tasche prima di tirare fuori un preservativo, srotolandolo poi con un gesto meccanico e privo di ogni sentimento.
 
Finì l’operato con i soliti tempi e modalità.
« Ti riporto in là? » domandò il cliente, riabbottonandosi i pantaloni.
« Bah, se vai verso Central Park, potresti anche riportarmi a casa. »
Il cliente mise in moto la macchina. Ripartì.
« Giuro di non aver mai incontrato qualcuno più irriverente di te. »
« Non mi sembra che ti dia fastidio. »
L’auto si fermò a un semaforo.
« Quanti ragazzi fai cadere ai tuoi piedi col tuo caratterino? »
Nathan guardava fuori dal finestrino, lo sguardo fisso sulla vetrina di un negozio di abbigliamento.
« Ci cascano solo gli idioti. »
Il cliente schiacciò l’acceleratore, percorrendo la Madison Avenue.  Seguì un quarto d’ora di silenzio, che non fu spezzato nemmeno dal rumore del motore che, dall’interno, era sorprendentemente silenzioso. Il finestrino gli mostrò la città come un film in avanti veloce: rapidi schiamazzi di ragazze fuori da un pub, ubriachi che intonavano una chissà quale canzone, le luci accese delle vetrine di negozi inesorabilmente vuoti.
« Dove ti lascio? »
« All’altezza della metro andrà benissimo. »
« Harlem, eh? Ne ho sentite diverse su quel quartiere. »
« Almeno gli affitti costano poco. »
L’auto accostò nel punto indicato da Nathan.
« Siamo arrivati. Ecco i tuoi 30 dollari. Cinque in più perché sono un idiota. »
Nathan emise un sorriso tirato. Ringraziò e intascò la somma, dirigendosi verso casa.
 
Gli ubriachi della fermata di Harlem lo aspettavano come al solito, farfugliando qualcosa sulla guerra e gli Stati Uniti. Nathan affrettò il passo e si diresse verso casa.
Se doveva essere sincero con se stesso, si sentiva inquieto a girare per strada da solo. Sapeva di essere nelle mire di uno svitato maniaco sessuale e si aspettava, in modo un po’ surreale, una sua improvvisa comparsa. Ma in fondo, pensò, aveva già avuto quello che voleva. Voleva il sesso nella sua casa, e lo aveva avuto. Aveva avuto anche la rottura con l’uomo che amava, ma non aveva idea se anche questo rientrasse negli scopi del maniaco.
 
Erano le tre e mezza quando svoltò nella 104th. Dopo aver rischiato di inciampare su una bottiglia rotta – mandata al diavolo sonoramente - , setacciò le tasche del cappotto alla ricerca delle chiavi del suo bilocale al 313. Avrebbe potuto riconoscere quel condominio a distanza di chilometri, con quel tipico tanfo di fritto emanato dalla spazzatura davanti alla palazzina.
Tirò fuori il mazzo di chiavi dalla tasca del cappotto e fece per infilare la chiave grossa nella serratura.
« Ciao, Nathan. »
Si voltò. Dietro di lui c’era un uomo incappucciato, il volto nascosto dall’oscurità. Riusciva a scorgere solo un sorriso maligno.
L’uomo si tirò giù il cappuccio. Nathan ebbe un sussulto.
…Il maniaco!
« Sei sorpreso di vedermi? »
Senza nemmeno pensare, si voltò e provò a infilare la chiave nella serratura: il mazzo gli scorse fra le mani, finché non trovò la chiave giusta. Si girò di nuovo per vedere cosa stesse facendo l’uomo, poi tornò con lo sguardo alla chiave. Le mani, però, gli tremavano troppo, e falliva ogni tentativo di centrare la serratura. Girò il capo per seguire i movimenti dell’uomo e lo vedeva ora avvicinarsi sempre più, permeato da un sorrisetto sadico.
L’uomo si stava avvicinando, ma non poteva più permettersi di sbagliare mira; tentò ancora una volta di infilare la chiave, resistendo al bisogno di voltarsi.
Sentiva passi lenti e cadenzati dietro di lui, ogni volta sempre più vicini. Alzò lo sguardo verso il vetro del portone e il riflesso del maniaco dietro di lui aveva quasi raggiunto le dimensioni di quello di Nathan.
Non poteva più perdere altro tempo.
Con la mano libera afferrò l’altra, cercando di fermare il tremolio della mano.
Sentì la chiave entrare liscia nella serratura, ma aspettò prima di sentirsi sollevato. Girò la chiave nella toppa e fece per spingere, quando a un tratto le mani del maniaco gli tapparono la bocca e gli cinsero il corpo, tirandolo via di colpo dal portone di casa.
Nathan provò a tirare una gomitata, ma la presa dell’uomo sul suo corpo era talmente forte che non riusciva a divincolarsi.
« Finalmente… Non sai quanto mi sei mancato. »
Nathan spalancò gli occhi, ma raccolse ogni briciolo della sua forza per evitare di soccombere. Tentò di spostare il capo cercando di evitare il fetore di quell’alito nauseabondo, mentre il maniaco avvicinava il suo corpo a quello di Nathan. Il contatto era talmente stretto che riuscì pure a sentire il membro duro di quell’uomo che gli premeva sul fondo schiena.
Tentò ancora di divincolarsi, ma era tutto inutile, e l’agitazione e il senso di ripugnanza non lo aiutavano a concentrare le forze.
Guardò avanti a sé: le chiavi erano ancora lì, infilate nella toppa. Se solo fosse riuscito a distrarlo, anche solo per un momento!
Si guardò intorno, nella speranza di poter chiedere aiuto; ma non c’era nessuno.
Ad un tratto, il maniaco cominciò a trascinarlo di peso verso la palazzina e, purtroppo, non gli ci volle molto a capire le intenzioni di quell’uomo: voleva replicare quello quanto accaduto quasi tre mesi prima.
Il maniaco gli ordinò di aprire la porta. Nathan ubbidì, nella speranza di prendere tempo e pensare a un piano, ma non gli veniva in mente niente. Varcarono la soglia del portone e il maniaco si assicurò che la porta rimanesse aperta da sola. Dopo pochi passi, Nathan si aggrappò all’improvviso agli infissi del portone, arreggendosi più forte che poteva.
« Che diavolo stai facendo? Non penserai di fregarmi con questi trucchetti idioti! »
Il maniaco cominciò a tirarlo con una mano, ma non riusciva a fare abbastanza forza. Ingenuamente, il maniaco gli tolse la mano dalla bocca e spostò la mano che lo cingeva, in modo da poterla unire all’altra. Nathan si ritrovò per una manciata di istanti con il braccio sinistro libero; assestò una potente gomitata al volto del maniaco, il quale liberò Nathan del tutto per portarsi le mani sul volto dolorante. Senza perdere tempo, il ragazzo gli piazzò una ginocchiata in mezzo alle gambe e, approfittando di quel momento di assoluta libertà, spinse via il maniaco verso la strada.
Nathan estrasse le chiavi dalla toppa, sbloccò la porta e la spinse, nel tentativo di farla richiudere. Ma il maniaco sembrava essersi in parte ripreso, e si buttò sulla porta cercando di non farla chiudere. Nathan provò a spingere più forte che poteva, ma nessuno dei due sembrava prevalere sull’altro.
Il rombo di un’auto in arrivo lo attirò, ma non lo distrasse; e fu sorpreso quando vide l’auto fermarsi proprio davanti a casa. Ma fu ancora più sorpreso quando vide che quell’auto era proprio quella di Hank.
Lo vide scendere e cercò il suo sguardo per chiamare aiuto.
« Ma che cazzo… Nathan! »
Nathan si sentì sollevato: Hank lo aveva visto.
« Hank, aiuto! Mandalo via! »
« Cos…? »
La porta si chiuse con uno schianto. Nathan guardò avanti a sé ed ebbe a malapena il tempo di vedere la fuga del maniaco.
 
***
 
Era riuscito a raggiungere il suo appartamento e, neanche a dirlo, si era totalmente barricato in casa con Hank. Aveva chiuso la porta a doppia mandata, abbassato tutte le serrande e chiuso ogni finestra. Se ne stava seduto sul divano, Hank accanto a lui.
« Stai bene? Sei ferito? »
Nathan scosse il capo.
« Solo un po’ spaventato. Non riesco nemmeno a ripensarci. Se non fossi arrivato tu… »
« A quanto pare sono l’uomo della Provvidenza. Meno male che ti avevo cuccato il telefono. A proposito, ma chi era quel tipo? Lo conosci? »
Nathan trasse un respiro profondo.
« No, non l’ho mai visto prima. »
Seguirono attimi di silenzio. Nathan sentiva ancora l’adrenalina scorrergli nelle vene, anche se il cuore si stava calmando pian piano.
« Non so che fare, Hank. Non voglio più uscire di casa. »
« Eh, lo capisco. Per poco quel pattume merdoso non ti prendeva. »
« Pattume merdoso? »
« Oh, scusa. Sono stato troppo volgare, “Nathan-bocca-di-fata”? »
« Troppo volgare? Troppo poco, vorrai dire! Da te mi aspettavo qualcosa di più su quel… porco. Mi deludi, sai? »
Hank gli indirizzò un gesto che lo mando affettuosamente a quel paese.
« Cosa posso fare adesso? Non posso certo passare il resto della mia vita chiuso in casa. Come se mi assicurasse protezione, poi. »
Hank sospirò.
« Eh, Nathan Nathan. Esiste una cosa chiamata ‘polizia’. Alzi la cornetta, fai il 911 e ti prepari a una bella chiacchierata con loro. »
« Vuoi dire che devo fare una denuncia? »
« E cos’altro, sennò? »
Nathan sospirò. Gli sembrava strano fare una denuncia: rendeva il tutto così dannatamente reale. In più, c’era da considerare anche il fatto che era piuttosto probabile che Alan lo venisse a sapere in tempo zero. Ma non voleva correre il rischio che altre tetre fantasie diventassero realtà.
Si diresse verso il telefono, alzò la cornetta e compose il 911. Dopo qualche attimo di libero, qualcuno rispose.
 « Pronto, polizia? Devo denunciare un’aggressione. »  

 

Salve a tutti! Come vi avevo annunciato, questo è l'ultimo appuntamento bisettimanale, perché sennò rimango indietro con la scrittura dei nuovi capitoli, anche se per fortuna ho trovato un seguito adeguato e presto mi metterò a scrivere :D
I vecchi lettori avranno notato che qui si notano le prime differenze con la scorsa versione, non vedo l'ora di postare i nuovi capitoli perché ce ne sono alcuni inediti e scoppiettanti!
Vabbè, vabbè. Nathan ha deciso di dire basta a questa storia del maniaco e ha fatto una denuncia. Come reagirà Alan quando lo scoprirà? Sarà un'occasione per un riavvicinamento?
Lo scoprirete la settimana prossima ^__^
Ringrazio tutti quelli che mi seguono, aspetto le vostre impressioni *__*
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Spalle al muro ***


8. Spalle al muro
 
 
 7 gennaio 2005.
 
« Alan! »
Riconobbe la voce di Ashton che lo chiamava, mentre sul volto aveva un’espressione perplessa e preoccupata.
« Alan! Allora? Come sta? »
Alan aggrottò le sopracciglia.
« Come sta chi? »
« Parlo di Nathan, ovviamente. Com’è successo? Non sono ancora riuscito a leggere la denuncia. »
Un gigantesco punto interrogativo si dipinse sul volto di Alan.
« Di che stai parlando? Quale denuncia? »
Ashton sospirò.
« Non sai nulla allora. »
« Dannazione, smettila di essere così enigmatico. Cos’è successo? »
Ashton fece per aprire bocca, ma una voce roca glielo impedì.
« Alan, sei arrivato! Finite le chiacchiere vieni nel mio ufficio. Ho una cosuccia di cui parlarti. »
L’uomo rientrò nell’ufficio dal quale si era affacciato.
« A quanto pare il capo ha qualcosa da dirti. Ne riparliamo dopo. »
« Preferivo parlarne adesso, ma è meglio non scontentare Ed. Torno subito. »
Salutò Ashton con un sorriso e bussò all’ufficio di Edmond, il quale lo invitò a entrare.
Il capo gli indicò la sedia davanti alla sua scrivania.
« Siediti, siediti. »
Alan prese posto, e una nuvola di fumo fece quadrato intorno alla sua testa. L’odore del sigaro di Edmond era insopportabile.
Vide il capo tirare fuori un fascicoletto.
« Il caso di oggi è questo. » disse, porgendogli il dossier. « È una denuncia arrivata stanotte. E si tratta di nuovo di quel piantagrane, quello a cui piacciono i ragazzetti, sai. Ma forse non te ne sei mai occupato. »
Evidentemente il capo si aspettava una qualche risposta da Alan, il quale però non riusciva a staccare gli occhi da ciò che stava leggendo.
 
OGGETTO. Verbale di denuncia di tentata aggressione sporta da:  HAYWORTH Nathan, nato a Manhattan il 15 marzo 1980 …
... dichiara quanto segue: Il giorno 7 gennaio 2005 stavo rientrando a casa dopo una serata in compagnia di un amico verso le ore 03.30, quando sono stato aggredito da un uomo di mezza età, alto e robusto, brizzolato e di pelle bianca. Indossava una felpa pesante con cappuccio, che inizialmente gli copriva il viso; aveva una grossa cicatrice che tagliava il sopracciglio sinistro, e gli mancavano alcuni denti…
 
La scena di quel pomeriggio di ottobre gli riapparve all’improvviso. Si era sempre detto che i dettagli di quella scena non li ricordava, ma, leggendo quelle parole, quell’uomo era quanto di più vivido nei suoi ricordi. Non gli ci volle molto per capirlo: l'uomo che aveva trovato a letto con Nathan e quello della denuncia erano la stessa persona.
« Alan, sei tra noi? »
Annuì con un deciso segno del capo.
« Avrai tempo per leggere la denuncia. Ma vorrei parlarti prima di un’altra cosa. Il posto di Responsabile Generale della Divisione Penale si è liberato. »
Alan ne fu sorpreso.
« Già, ti ho convocato per questo. Mi piacerebbe mettere te a capo della Divisione. Però, » e qui Edmond si buttò sul morbido schienale della sua sedia girevole, « vorrei prima assegnarti un altro caso. Se lo porterai a termine in modo eccellente, come hai sempre fatto, il posto sarà tuo. »
« Senz’altro. Non sarà un problema. »
« Perfetto. »
« Di cosa si tratta, esattamente? »
Edmond sorrise.
« Il caso di cui vorrei che ti occupassi è quello che stai stringendo tra le mani. »
Alan si sentì come paralizzato. Si sentì irrigidire tutto, incapace di proferire parola.
« Ti senti bene? Devo affidare il caso a qualcun altro? »
Scosse debolmente la testa e deglutì a fatica.
« Nessun problema. Me ne occupo io. »
« Molto bene, allora possiamo passare ai dettagli. Il tipo che ha fatto la denuncia è un certo Nathan Hayworth, incensurato. Quando ho visto che l’aggressore era di nuovo quel Sánchez, ho esclamato: ‘Per la miseria, ancora lui!’. Quel vecchio ci ha già dato una marea di problemi in passato; ti consiglio di leggerti i vecchi fascicoli. Il punto è questo: voglio sbatterlo in galera. Ma stavolta per un bel po’, capisci. Ha già subito una condanna per molestie, ma era di soli sei mesi. Io invece voglio di più. Voglio vederlo marcire, in galera. Per questo ho bisogno di un’indagine approfondita. Il tipo di cose che fa quel maiale non vengono sempre denunciate, ma sono sicuro che, oltre a questo Nathan, ci siano altri che hanno subìto qualche schifezza da lui. Perciò, voglio che tu conosca questo ragazzo e che cerchi di capire che rapporti aveva con quel porco là, se conosce altre vittime che non hanno sporto denuncia e così via. Abbiamo bisogno di quanto più materiale possibile, capisci. »
Alan si passò una mano sulla fronte.
« Capisco. »
« Posso fidarmi di te, dunque? So che non mi deluderai. Ah, Ashton sarà il tuo partner. »
Alan annuì.
« C’è altro? »
« No, puoi andare. E ricorda, meno tempo ci metterai, meno sarò tentato dal dar via questo posto a un’altra persona. Buona giornata. »
Alan salutò Edmond e uscì dal suo ufficio. Si sedette su una delle sedie lì accanto, e cominciò a leggere il fascicolo.
 
***
 
« Toc toc. »
Alan alzò lo sguardo, e davanti a lui sbucò un bicchierino di caffè. Spostò i suoi occhi un altro po’, e vide che era Ashton. Gli porse il caffè e si sedette accanto a lui; Alan lo ringraziò.
« Allora, che voleva il capo? »
Alan gli raccontò in breve la vicenda.
« Ho capito. Una bella gatta da pelare, eh? »
« Non me ne parlare. Non so davvero come fare. Giusto ieri sera chiedevo al destino un altro po’ di tempo, e ora mi ritrovo faccia a faccia con questa situazione. Direi che non ho più scuse. »
« Sì, guarderei il lato positivo. Faremo chiarezza su molte cose. »
« Già. »
Seguirono attimi di silenzio. Alan continuava a bere il suo caffè, mentre Ashton picchiettava il pollice sull’altra mano, come in cerca di un’idea.
« Posso vedere il fascicolo? »
Alan glielo porse, e notò Ashton leggerlo con molta avidità.
« Tu hai mai sentito parlare di questo tizio? »
« Eh? Oh, parli del maniaco. Sì, ho curato qualche caso in passato. Ma non avevo affatto ricollegato le due cose. Spero invece che lo abbia fatto tu. »
Alan tirò un sospiro profondo, e poggiò la testa contro il muro.
« L’ho fatto. E penso che dovrei scusarmi, almeno. »
Sul volto di Ashton si aprì un sorriso radioso.
« Non sai quanto ne sono felice. Finalmente hai ritrovato il senno. »
Alan annuì.
« Anche se ancora ci sono molte cose che non mi convincono. Ma stavolta mi hanno messo con le spalle al muro. Non posso più far finta di niente. »
« Ne sembri quasi dispiaciuto. »
« No, non mi fraintendere, Ash. È solo… è una storia lunga. »
Tra i due calò di nuovo il silenzio. Il caffè di Alan era ormai finito, e si alzò per gettare il bicchierino nel cestino dei rifiuti. Tornò a sedersi accanto ad Ashton.
« Vabbè, Alan, direi che dobbiamo darci da fare. Pensavo di fare una visitina a Sánchez questo pomeriggio. Tu potresti passare da Nathan. »
Alan annuì.
« Mi sembra una buona idea. Cercherò di recuperare qualche informazione. E… proverò a scusarmi. »
« Lo sai che non basterà, vero? »
« Lo so. Ma voglio fare almeno un tentativo. »
 
Passarono un altro buon quarto d’ora a chiacchierare del più e del meno. Alla fine, Alan si alzò, pronto per la sua prossima meta.
 
***
 
Era quasi arrivato, quando il telefono squillò. Era Jack. Da quando erano usciti insieme, la Vigilia di Natale, Jack non faceva altro che telefonargli e mandargli messaggi. Fu tentato di rifiutare la chiamata, ma ormai il telefono aveva fatto troppi squilli: sarebbe stato palese il rifiuto volontario. Poteva lasciarlo squillare all’infinito, ma Jack si sarebbe arreso?
Alla fine, optò per rispondere.
« Ciao, Jack. »
« Ehi, Alan, ciao. Sei libero adesso? »
« Perché? »
« Avevo voglia di vederti. »
« Jack, adesso sono impegnato, e non so per quanto lo sarò. Per oggi non penso di poterti garantire la mia presenza. »
Sentì Jack esitare, dall’altra parte.
« Ok, ho capito. Possiamo vederci domani, allora. »
« Non so se il lavoro me lo permetterà, scusa. »
Seguì qualche momento di silenzio, poi Jack sospirò.
« D’accordo, ho capito. Fammi sapere tu quando sei libero, allora. »
« Va bene. »
Poté sentire Jack sorridere, benché non lo vedesse.
« A proposito, cos’è che ti tiene tanto impegnato oggi? »
« Devo lavorare. Ho delle indagini da condurre. »
Immaginò il suo naso crescere a dismisura per quella mezza verità. Non che volesse evitare Jack, ma, mentre il ragazzo era partito in quarta, dopo quel bacio, lui aveva bisogno di un altro po’ di tempo. Dopotutto, era la prima esperienza dopo Nathan.
« Ok, allora sei veramente impegnato. Spero di rivederti presto. Mi manchi un po’, sai? »
Di colpo, Alan si sentì terribilmente a disagio. Eppure, pensò, anche Nathan gli rivolgeva spesso frasi di quel tipo. E allora perché quelle di Jack lo facevano sentire in quel modo?
« Sì, ci rivedremo presto. Adesso vado, Jack. Ciao. »
Si salutarono e Alan riattaccò.
 
Si ritrovò davanti alla solita palazzina che cadeva a pezzi. Suonò il campanello. La solita scampanellata lunga. E cominciò l’attesa.
Un secondo.
Due secondi.
Tre secondi.
Dieci.
Poi, una voce dal citofono.
« Chi è? »
Esitò.
« Sono Alan. »
Ci fu un momento di silenzio. Passarono altri secondi e perse ormai ogni speranza di vedersi aprire la porta. Poi, come per miracolo, sentì lo scatto della serratura.
« Puoi salire. »
Spinse il portone e cominciò a salire le scale. Si aspettò di trovarlo sull’uscio, magari un po’ intimorito ma comunque pronto a dargli il benvenuto. E invece, come arrivò lì trovò la porta chiusa. Si sentì un po’ smarrito, e cominciò anche a pensare di aver sbagliato piano.
Si mise di fronte alla porta, e bussò. Sentì lo spioncino spostarsi. Poi Nathan aprì.
« Pensavi che non fossi io? »
Nathan non disse nulla, e gli fece cenno di entrare. Come mise di nuovo piede in quell’appartamento, Alan fu pervaso da una sensazione di nostalgia. Fu colpito da un’irrefrenabile voglia di abbracciare quella creatura che in quel momento gli dava le spalle, mentre lui chiudeva la porta. Fece qualche passo verso il soggiorno, e fu colpito dal vedere che tutte le serrande erano totalmente abbassate; era pieno giorno e Nathan teneva la luce accesa.
« Non sarà il caso di far entrare un po’ di luce? »
Alan si avviò verso la serranda e cominciò a tirarla su, quando fu interrotto da un grido.
« No! Fermo! »
Mollò subito la carrucola e rimase spaesato. Alan si avvicinò a Nathan, ma notò che questi si allontanava sempre di qualche passo.
« Perché non posso aprire? »
« Tu non puoi pretendere di entrare così e metterti a fare quello che vuoi! »
« Ma che stai… ? »
« Tu non capisci come mi sento! »
Si guardarono negli occhi, e Alan fu quasi certo di avergli visto gli occhi lucidi. Si sentiva così inerme, e ogni cosa che gli veniva in mente di fare gli sembrava così sbagliata. Provò ad allungare una mano verso di lui, nel tentativo di accarezzarlo; ma, come lo sfiorò, Nathan si ritrasse in modo repentino.
« Non mi toccare! Non voglio essere toccato! »
« Non ti capisco! Mi hai fatto salire, ma non posso né parlarti, né toccarti, che senso ha?! »
« È colpa tua! Se vivo una vita di merda, è solo colpa tua! Mi hai abbandonato, mi hai gettato via come un rifiuto, proprio quando avevo più bisogno di te! »
Vide alcune lacrime rigare il viso di Nathan, e sentì una morsa soffocargli il cuore.
« Sono qui per scusarmi, Nathan. Io ti credo. »
« Lo capisci che non ha più senso, adesso? Ma non lo vedi che non voglio più uscire di casa? Che non mi faccio sfiorare da nessuno? Non lo vedi che vita di merda che sto vivendo? Non puoi pensare di essere perdonato con delle patetiche scuse! »
Nathan scoppiò in lacrime. Si portò le mani al volto, e si lasciò cadere sul divano, singhiozzante. Alan provò a dire qualcosa, ma nessuna frase gli sembrava adatta. Ripensò alle parole di Ashton. Più aspettava, e meno speranze aveva di recuperare il rapporto. Si chiese se quelle speranze non fossero già arrivate allo zero.
Se ne stava lì in piedi davanti a Nathan, che continuava a piangere. Si sentiva totalmente inutile, ma allo stesso tempo non riusciva ad abbandonarlo. Lo aveva lasciato solo, influenzato dai suoi ricordi. Avrebbe dovuto proteggerlo e invece aveva preferito tapparsi gli occhi.
Voleva, doveva, fare qualcosa. Diede fiato al primo pensiero, benché sincero, che gli attraversò la mente.
« Stanotte posso rimanere qui con te, se vuoi. »
Nathan smise di piangere, e alzò lo sguardo verso di lui, incredulo.
« Che diavolo stai dicendo? »
« Mi fa pena vederti così. Probabilmente con una persona al tuo fianco ti sentiresti più al sicuro. »
Nathan spalancò gli occhi, si alzò, e si fermò davanti a lui, fissandolo gelido.
« Se è così che pensi di lavarti la coscienza, sappi che non ci riuscirai. »
Alan si sentì gelare. A lavarsi la coscienza non ci aveva proprio pensato. O forse sì?
L’unica cosa che sapeva era che non se la sentiva di abbandonarlo a se stesso ancora una volta. Aveva voglia di preoccuparsi per lui, di stargli vicino, di essere il suo sostegno.
Si schiarì la voce.
« C’è… qualcosa che posso fare per te? Vuoi che ti faccia la spesa? Riesci a pagarlo l’affitto, vero? »
L’espressione di Nathan diventò ferma, come una rocca impossibile da scalfire.
« C’è qualcosa che puoi fare per me, sì. Sparire. »
Nathan gli indicò la porta di casa.
« Non voglio più avere niente a che fare con te, Alan. Esci dalla mia vita e non rientrare mai più. Hai finito le tue possibilità. »
« Sono stato un cretino, Nathan. Perdonami. »
« ‘Perdonami’? Pensi davvero che possa bastare? Dovresti fare molto, ma molto di più. E non penso che basterebbe lo stesso. »
Alan lo fissò. Osservò le lacrime che si stavano asciugando su quella pelle così chiara, quegli occhi color diamante che guardavano altrove. Fu preso di nuovo dalla voglia di abbracciarlo, di stringerlo forte a sé, di rassicurarlo. Se da una parte si sentiva pieno di grinta, dall’altra era quasi rassegnato.
Sarebbe rimasto a fissarlo in eterno, ma avvertiva la sua presenza sempre più pesante, per Nathan. Era meglio andare.
Non disse nulla, e si avviò verso la porta. Con la coda dell’occhio, vide Nathan voltarsi per seguire i suoi movimenti. Portò le dita sulla maniglia e le parole gli uscirono senza un perché.
« Meno male che è arrivato il tuo amico, ieri sera. »
Nathan sospirò.
« Già. Se non fosse intervenuto, forse avrei preferito buttarmi sotto un treno, a quest’ora. »
« Che vuoi dire? »
« Vattene. »
« Questo amico è una persona speciale per te? »
« Ho detto ‘vattene’! »
Non se lo fece ripetere ancora. Per quanto lo facesse a malincuore, tirò giù la maniglia e abbandonò l’appartamento.
 
Solo quando fu fuori, si rese conto che non aveva detto neanche un decimo delle cose che avrebbe voluto dirgli. Non gli aveva chiesto niente della sera prima – era riuscito solo a essere indiscreto. Si domandò se ci fosse una qualche concreta speranza di mettere i cocci a posto. Adesso che si era scusato, sarebbe bastato far passare del tempo? O doveva trovare il modo di dimostrargli quanto gli dispiacesse?
Ripensò a come si era comportato nei mesi precedenti, e quasi si vergognò di se stesso. Aveva perso tutto. Forse. Ma in quel momento non vedeva nessuna luce in fondo al tunnel.
 
***
 
Si ripassò tra le mani il fascicolo, disteso sul letto; aveva riletto quella denuncia un migliaio di volte. Allegato al fascicolo c’era anche la foto del maniaco, e il solo vederlo gli provocava disgusto. Tra le tante cose, si chiese come mai Nathan non avesse sporto una denuncia anche tre mesi prima. Quel pensiero aveva cominciato a tormentarlo da una delle ultime riletture che aveva dato al dossier.
Il campanello suonò. Una fiaccola speranzosa si riaccese dentro di lui. Lasciò il fascicolo sul letto, e corse ad aprire.
Ma, di fronte a lui, trovò Jack. Il sorriso che lo aveva accompagnato in quei secondi svanì subito.
« Sorpresa! Disturbo? »
« Jack! No… figurati. Entra. »
Stavolta Jack non gli diede nessun bacio.
« Allora, che stavi facendo? Sempre per quella tua indagine? »
« Sì, rileggevo le informazioni in mio possesso. »
Jack gli sorrise e si tolse il cappotto, andando a posarlo in camera di Alan. Questi, dal salotto, udì ben presto il fruscio di fogli che venivano scorsi. Realizzò all’improvviso che Jack aveva trovato il dossier. Lo raggiunse in camera e, come aveva immaginato, lo stava sfogliando.
« Guarda che, teoricamente, sono informazioni riservate. »
« Questo è Nathan, vero? » chiese Jack, indicando la foto di Nathan sulla pagina e ignorando totalmente quanto gli veniva detto. Alan annuì. « E questo? »
Indicò la foto del maniaco qualche pagina più avanti.
« Quello… Ha tentato di aggredire Nathan. »
« Oh. ‘Aggredire’ nel senso di… »
« Non lo so, in che senso. »
« Sarà mica lo stesso di quella volta? »
« È lo stesso. »
Jack rimase a bocca aperta.
« Non ci posso credere! Ci stava riprovando? Chissà perché di nuovo con lui, poi. »
« Già, chissà. »
« Ammazza, ha una cicatrice gigantesca questo tipo. Come se la sarà procurata? »
« Possiamo parlare d’altro? »
Jack frenò subito il suo entusiasmo.
« Ehm. Sì, certo. Scusa. »
Prese posto sul letto, accanto a Jack.
« Pensa che si è pure barricato in casa. Ha paura di quell’uomo. A quanto pare non era raro trovarlo sotto casa sua. »
« Vuoi dire che tutte le sere stava appostato sotto casa, aspettando il momento buono? E col lavoro come faceva? »
« Probabilmente si faceva riaccompagnare da qualcuno. Ieri sera, invece, forse per un po’ è rimasto da solo. »
Jack sorrise.
« Non avevi detto che non volevi parlarne? »
« Hai ragione. »
Passarono alcuni momenti di silenzio, quando Alan avvertì all’improvviso la testa di Jack sulla sua spalla. Si irrigidì tutto, e cominciò a pensare a qualcosa da dire.
« Ti va se guardiamo un po’ di tv? »
Sentì la testa di Jack strusciarsi su e giù sulla sua spalla, insieme a un mugolio di assenso.
Alan allungò la mano sul telecomando posto sul comodino accanto al letto, e accese la televisione.
Sullo schermo apparvero le immagini di un noto quiz televisivo, dove il concorrente era ormai arrivato all’ultimo gioco.
« Sì, lascia questo! Mi piace da matti. »
Alan osservò Jack: sembrava eccitato come un bambino che non gioca da tanto col suo giocattolo preferito. Il ragazzo si voltò verso di lui con gli occhi illuminati.
« Vediamo un po’ che parola c’è da indovinare stasera! Allora, abbiamo: ‘Commissione’, ‘Seriale’, ‘Kennedy’, ‘Bianco’… Deve ancora dare l’ultima parola. Tu che ne pensi, Alan? Con ‘Commissione’ non mi viene in mente niente. Con Kennedy… »
« Presidente? »
« Sì, potrebbe essere. Ma con le altre parole non ci incastra nulla. ‘Seriale’… il numero seriale di un prodotto? Un prodotto su commissione, un prodotto bianco… »
« Un prodotto bianco? E che sarebbe? Per non parlare del ‘Presidente-prodotto’ o ‘Prodotto-presidente’ »
« Mmm…  Hai ragione, non è nessuna di queste. Secondo me ‘Kennedy’ è la chiave. »
Alan si mise due dita sulla tempia, pensoso.
« Sì, è possibile. Proviamo a concentrarci su quella. »
« Ah! Ecco l’ultima parola! Tu cosa scegli tra ‘Stradale’ e ‘Autostradale’? »
« ‘Autostradale’ è troppo particolare. Dico ‘Stradale’. »
« Ma più sono particolari e meglio è! Per me è ‘Autostradale’. »
Aspettarono entrambi il verdetto, e vinse Alan.
« Accidenti, avevi ragione. Ah, sta scrivendo la parola! Avanti, non rimane molto tempo! Hai pensato a qualcosa, Alan? »
Alan si strofinò una mano sul mento.
Commissione, seriale, Kennedy, bianco e stradale.
Una lampadina si accese nella sua testa.
« Kennedy. È stato assassinato. »
« Eh già. »
« No, non hai capito. È la parola. Assassinio… »
Jack alzò lo sguardo, pensieroso.
« In effetti… Si può assassinare su commissione.  Esistono gli assassini seriali. Kennedy è stato assassinato. Ma col resto… ? »
« Aspetta! Non è assassinio la parola. È… » Proprio in quel momento, il conduttore girò la scheda con su scritta la soluzione. « … Omicidio! »
Jack rimase a bocca aperta.
« Alan, sei una bomba! Io non ci ero arrivato. Ma con ‘bianco’ cosa c’entra? »
« Gli omicidi bianchi sono quelli sul luogo di lavoro. Ah, era troppo facile. »
« Ma dai, omicidio… »
Alan si immaginò che, in quei pochi secondi, Jack si stesse chiedendo come aveva fatto a non indovinare subito una cosa, in quel momento, tanto ovvia.
« Questo gioco riesce sempre a farmi sentire un perfetto cretino. E anche un genio le poche volte che riesco a indovinare. A proposito - e scusa se non c’entra niente -, ti sei mai occupato di omicidi? »
« In realtà no. O meglio, ho fatto qualche indagine di contorno, per così dire, ma non mi sono mai occupato del caso principale. Ci pensa un’altra Divisione. »
« E la tua Divisione di che si occupa, allora? »
« Di cose come quella che hai letto prima. » e indicò il dossier posto sul comodino. « Reati penali, ma minori. »
« Dev’essere un lavoro interessante. E, se devo dirla tutta, ti rende parecchio affascinante. »
Alan sorrise. Da fuori, il suo lavoro appariva sempre in qualche modo intrigante, ma era perlopiù faticoso. Anche perché, e lo ripeteva spesso, non era esattamente come nei film.
Ad un tratto, Jack si avvicinò a lui. Posò la sua testa su quella di Alan, formando un angolo retto. Alan si voltò appena, e si scontrò con lo sguardo penetrante di Jack.
Fu questione di un attimo, e le loro labbra si ritrovarono unite. Jack lo stuzzicò prima con un bacio lento e casto; si staccò solo per testare le sue reazioni, dopodiché lo baciò di nuovo, stavolta con più foga.
Alan chiuse gli occhi. Provò a sciogliere quella rigidità che lo pervadeva sempre quando era con Jack, e si concentrò sul sapore delle sue labbra e sull’odore dei suoi capelli lavati, probabilmente, con uno shampoo alla menta piperita.
La tv improvvisamente si spense, e gli applausi del pubblico svanirono in un istante.
Sentì Jack allungare una mano sul suo corpo. Come per il bacio, cominciò a esplorarlo con movimenti lenti ma consapevoli; poi quella mano gli sfilò la camicia dai pantaloni, e sgusciò sotto ad accarezzargli il petto.
Le sue mani gli sembrarono più grandi di quelle di Nathan, e i polpastrelli più ruvidi. Anche la bocca gli sembrava più grande, e gli ci volle un po’ per adattarsi.
Jack cominciò ad aprirgli i bottoni della camicia uno per uno, finché non fu totalmente aperta. Si staccarono dal bacio che li aveva uniti fino a quel momento, e Jack gli sorrise. Senza dire nulla, prese la mano destra di Alan e la portò sul suo fianco. Si alzò leggermente il maglioncino, cosicché le dita di Alan fossero a contatto con la sua pelle.
Fece scorrere la sua mano su tutto il tronco di Jack, ma pensò che Nathan era molto più scheletrico: riusciva sempre a sentirgli tutte le costole senza difficoltà.
Ripresero a baciarsi, e presto si abituò al tocco di Jack. Ormai questi lo aveva privato della sua camicia, mentre lui continuava a carezzare il corpo dell’altro da sotto il maglione.
Come per provocarlo, Jack si staccò di nuovo e si sfilò sia il golf che la maglietta che teneva sotto.
Gli fece strano vedere un altro uomo in intimità: si aspettò di trovarsi davanti il solito petto di sparuti peletti biondi, e invece ne trovò uno ricoperto in buona parte da ricci neri e vigorosi.
 
Arrivato a quel punto, era ormai troppo tardi per tirarsi indietro. Sentiva qualche preoccupazione addosso, e forse si sentiva anche un po’ in colpa. Per molto tempo aveva pensato di andare a letto con un altro per fare un dispetto a Nathan, anche se non l’avesse mai saputo; ma gli era sempre sembrato molto meschino, e non aveva mai combinato nulla.
Invece, in quel momento, era consapevole del fatto che Nathan non era mai stato con un altro uomo, come aveva creduto fino al giorno prima; ma alle mani di Jack, che adesso gli stavano aprendo la cintura, non oppose alcuna resistenza.

 

Salve a tutti, ecco qua il nuovo capitolo. Sembrerebbe un capitolo di passaggio, ma intanto vediamo che Alan comincia ad affrontare i suoi fantasmi e si rimette in contatto con Nathan, benché sia solo una questione lavorativa. Intanto, però, Jack non perde tempo! XD Come reagirà sapendo che adesso Alan e Nathan torneranno a interagire tra loro?
Lo scoprirete la settimana prossima! XD
A presto e spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Incomprensioni ***


9. Incomprensioni
 
 
8 gennaio 2005.
 
« Madison! »
In mezzo a tutta quella caciara universitaria, udì una voce conosciuta che la chiamava. Si voltò, e vide una ragazza occhialuta venire verso di lei.
« Ciao, Loretta. »
Non aspettò nemmeno che la raggiungesse, e ricominciò a camminare verso l’uscita del plesso universitario. Sentiva, tuttavia, i passi di Loretta dietro i suoi.
« Allora, hai passato un buon capodanno? »
« Magnifico, grazie. »
« Tu non puoi immaginare quanti ragazzi ci hanno provato con me. Non mi davano pace! E tu? Sei stata in compagnia dei tuoi orsacchiotti? »
Madison sbuffò alzando gli occhi al cielo e accelerò il passo. Sentì Loretta seguirla ancora.
« Oh, scusa! Mica ti sarai offesa? Era solo una battuta! »
Madison si fermò. Tentò di sfoderare il suo sorriso migliore e si voltò verso di lei.
« Se non ti dispiace, ho da fare. Ciao. »
« Aspetta, cerchi Jack? L’ho visto appostato vicino all’aula del professor Brucknam. Magari starà fissando qualche bel ragazzo. »
Madison aggrottò la fronte. Loretta continuò.
« Be’, sai, gira voce che sia gay. Quindi, come dire, non credo che ti filerà. Mi raccomando, adesso non correre in camera a piangere! »
Sentì la vena sulla tempia pulsare un po’ troppo.
« Tanto per cominciare è bisessuale, se proprio ti interessa saperlo. E, secondo, non sono interessata a lui. Buona giornata. »
Si allontanò a passi decisi da Loretta. Ebbe l’impressione che le stesse ridendo dietro, ma lasciò correre. Mentre le pulsazioni della sua vena tornavano a un ritmo regolare, decise di provare a vedere se Jack fosse effettivamente davanti all’aula adibita al corso di Statistica. Salì al piano superiore, e si meravigliò: Jack era proprio dove le aveva detto Loretta, seduto su una panca davanti all’aula del professor Brucknam. Aveva effettivamente uno sguardo assorto; sembrava che fosse intento a fissare qualcuno. Madison camminò verso Jack, seguendo la direzione del suo sguardo per capire chi fosse l’oggetto del suo interesse. Si ritrovò a fissare la sagoma spettinata di un ragazzo della loro età, minuto e dal carnato chiaro.
Senza che Jack se ne accorgesse, Madison prese posto accanto a lui; gli batté un dito sulla spalla, e lui quasi sussultò.
« Madison! Che ci fai qui? »
« Che ci fai tu qui. Prepari un attentato al professor Brucknam? »
« No, io… »
Lo sguardo di Jack oscillava tra Madison e il ragazzo. Sbuffò spazientita.
« Stai guardando quel tipo là, vero? E girati! »
« Sssh! Non urlare almeno. »
« Non stavo urlando. Chi è? Uno che ti piace? »
« Non dire scemenze. Lo sai chi è quello? » Jack fece un cenno col mento. « È Nathan. L’ex di Alan. »
Madison rimase a bocca aperta.
« Non ci posso credere! Quel Nathan? Vi siete conosciuti allora? »
Jack scosse il capo.
« Per fortuna no. Un paio di settimane fa ha tentato di riprendersi Alan con una scena patetica, e ho sbirciato tutto dagli specchietti dell’auto. »
« Quindi tu hai visto lui, ma lui non hai visto te. Ecco perché te ne stai qui in bella vista. »
« Certo, sarei scemo sennò. »
« Ma che ci fa qui? »
« Non ne ho idea, ma sospetto che abbia a che fare con le altre materie che insegna Brucknam. Sai, in altre facoltà fa corsi base di matematica. Può darsi che sia per questo. »
Madison mugolò in segno di assenso.
« Ma sei proprio certo che sia lui? Perché non vai a parlargli? Come si dice, per combattere il tuo nemico, devi conoscerlo! »
Jack annuì debolmente, e tornò a fissare Nathan, che era ancora fuori dalla porta, in attesa che Brucknam si liberasse.
« Ah! Non sai chi ho visto prima. Quella smorfiosa di Loretta! Non sai quanto la odio. »
« Ma tu ignorala, no? »
« Sì, certo, ma rimane comunque odiosa. Ha cominciato a parlarmi delle sue conquiste e ha pure pensato che io fossi interessata a te. »
Jack ridacchiò.
« Tu interessata a me? Che cavolata. E poi, mi farebbe strano pensarti con un uomo accanto. Senza contare che ne sarei geloso. A proposito, mica ti ha importunato ancora quel tipo? Aspetta, com’è che si chiama… »
Jack si strofinò una mano sul mento.
« Ashton? »
« Sì, ecco. Mica ti ha chiamato davvero, poi? Sai, Alan mi ha detto che voleva il tuo numero, ma gliel’ho dato solo perché non volevo dirgli di no. »
Madison arrossì. Sentì il cuore cominciare a battere a ritmi irregolari.
«  Figurati, non mi ha chiamato poi. »
« Ah, meno male. Per un momento ho pensato che avresti ceduto. »
Jack si girò nuovamente verso Nathan, mentre Madison tornava a idratare le sue labbra totalmente secche.
« Vabbè, torniamo a te. Allora, vai a parlargli, sì o no? Voglio sapere se è davvero lui. »
« E va bene, ci vado. In fondo non rischio nulla. »
Jack si alzò dalla panca, e si avvicinò a Nathan. Diede una sbirciata dentro l’aula: Brucknam stava finendo di parlare con uno studente.
« Ciao. Anche tu per l’esame di Statistica? »
Nathan si voltò. Per qualche attimo, il sangue nelle vene di Jack si fermò. Aspettò una qualche reazione da parte di Nathan, ma il suo viso non si contrasse in alcuna smorfia, né di rabbia né altro. La circolazione di Jack tornò normale: non lo aveva riconosciuto.
« No, sono qui per un esame di Matematica per la Facoltà di Architettura. »
« Ah, Architettura? Dev’essere bella tosta. »
« Lo è. Stare dietro a tutti gli esami è un casino. »
« Immagino, soprattutto se uno lavora, anche. Io, per esempio, lavoricchio in un bar di Brooklyn, il Naughty Blu. » Come udì quel nome, Nathan assunse un’espressione pensierosa. Jack ne fu incuriosito.
« Lo conosci? »
« Mi dice qualcosa, sì. Anche se al momento non ce l’ho molto presente. »
« Forse ci sei venuto con amici. O per lavoro, sempre se lavori. »
« Sì, lavoro. Faccio il turno serale a un bar di periferia, parecchio lontano da qui. »
« Ah, ma dai. E così, per curiosità, come si chiama questo locale? »
Nathan si voltò improvvisamente verso l’aula: Brucknam aveva finito.
« Scusa, devo parlare col prof. È una vita che aspetto. Allora, a presto… Com’è che ti chiami? »
« Jack. »
« A presto, Jack. Comunque io sono Nathan. Ciao! »
Nathan lo salutò ondeggiando la mano, ed entrò nell’aula. Non passarono nemmeno dieci secondi che sentì Madison aggrapparsi alle sue spalle.
« Allora? È lui? »
« Sì, a quanto pare. Peccato solo che non abbia fatto in tempo a dirmi il presunto locale dove lavora, almeno ci avrei portato Alan. Sai, si rifiuta di dirmelo, vuole dimenticare questa faccenda. »
« Già, è un peccato. Vabbè, Jack, è tardissimo e come al solito devo scappare. Ci vediamo! »
Jack la salutò, e la vide risucchiata dalle scale.
Spinto dalla curiosità, diede una sbirciata dentro l’aula. Non c’era nessuno, tranne Brucknam e Nathan. I due si fissavano in modo strano, parlavano poco e a voce molto bassa; Jack non fu capace di sentire alcunché, ma quell’atteggiamento lo insospettiva. Non gli sembrò affatto un normale colloquio tra professore e studente.
Vide Brucknam chiudere la borsa e metterla a tracolla: stavano uscendo. Senza alcun motivo apparente, Jack corse a nascondersi. Si posizionò dietro a un muro alla destra dell’aula, dove, in un’insenatura, vi erano i bagni. Aspettò che almeno uno dei due passasse, ma fu colto da una grande sorpresa quando li vide andar via insieme. Brucknam si guardava continuamente intorno e parlottava a bassa voce con Nathan, che restava impassibile a qualunque cosa dicesse il professore, probabilmente per non tradire alcuna emozione. Li vide scendere dalle scale, e ne approfittò per uscire dal suo nascondiglio.
Si sentiva sciocco a pensare che ci fosse qualcosa di strano tra quei due, ma allo stesso tempo era curioso di sapere dove se ne stessero andando.
Trasse un respiro profondo, e decise.
Camminò verso il ciglio delle scale e sporse la testa per vedere dove fossero i due: avevano sceso l’ultimo scalino. Senza fare troppo rumore, scese a passi svelti le scale, facendo attenzione a mantenere una certa distanza. I due uscirono e, dopo poco, lo fece anche lui. Continuò a seguirli, finché non si morse il labbro di fronte alla scena che aveva davanti. Nathan e Brucknam si erano fermati davanti alla macchina del professore, una bellissima auto di lusso che qualcuno gli aveva detto essere una Reventón. Batté un piede a terra: se fossero andati via in auto, non avrebbe avuto alcuna possibilità di scoprire dove stavano andando.
Il professore aprì la sua portiera ed entrò dentro, ma Nathan, invece, se ne stava lì, immobile; non sembrava intenzionato a salire. Poco dopo, Brucknam uscì dall’auto, tenendo in mano qualcosa. Premette il pulsante per chiudere l’auto, e fece cenno a Nathan di seguirlo. Continuava a guardarsi intorno, mentre all’altro sembrava non importare che qualcuno potesse vederli.
Jack tirò un sospiro di sollievo: ovunque fossero diretti, era un luogo raggiungibile a piedi.
Li vide fermarsi al semaforo piuttosto affollato, e Jack si confuse tra la folla, cercando di mantenerli entrambi sempre visibili. Il semaforo pedonale diventò verde, e la massa di gente lì con lui prese a spostarsi.
Un motorino sbucò all’improvviso dalla curva; Jack fu costretto a indietreggiare per non finire investito.
Udì qualche pedone mandare il motorino al diavolo senza troppi complimenti, mentre lui tirò un sospiro secco. Guardò avanti a sé, e fu colto dal panico: li aveva persi! Attraversò a corsa la strada, giungendo sull’altro marciapiede, e mosse il capo a destra e a sinistra.
Riconobbe la capigliatura brizzolata di Brucknam in mezzo a tutte quelle teste. Si fece largo tra la folla, e seguì i movimenti dei due; li vide entrare in una caffetteria all’angolo della strada.
La caffetteria era dotata di ampie finestre e di una porta vetrata, che facilitò a Jack il suo compito. Li guardò scegliere un posto per due, in un angolo del locale, dove i divanetti con un alto schienale assicuravano una basilare privacy.
Entrò e prese posto nel divanetto dietro il loro, assicurandosi che non lo vedessero. Cercò di sedersi quanto più poteva all’estremità del divanetto, in modo tale da poter carpire qualche straccio di dialogo. Drizzò le orecchie non appena li sentì parlare, ma non riusciva a distinguere niente in tutto quel brusio.
Provò a spostarsi ancora un po’ verso l’estremità, ma più di tanto non poteva permetterselo: era ormai arrivato in fondo. Se si fosse spostato un altro po’, sarebbe probabilmente caduto.
Ma proprio nel momento in cui stava per darsi per vinto, captò qualcosa. Avvicinò l’orecchio all’estremità del divanetto e si concentrò nel tentativo di ricollegare parole sconnesse. Gli era sembrato di udire chiaramente qualcosa come “accordo”, “pagamento” e “assegno”, ma non aveva la benché minima certezza che fosse giusto; gli sembrò strano che Nathan e il professore potessero stipulare un qualsiasi tipo di contratto economico.
 
Aspettò che i due andassero via, per vedere almeno se avevano qualche comportamento sospetto l’uno con l’altro, ma fu un buco nell’acqua: i due si avviarono verso la cassa, dopodiché si salutarono in modo molto formale, prima di tirare la porta e uscire.
A quanto pareva, non c’era stato nessun comportamento sospetto. E non era nemmeno sicuro che i due avessero parlato di accordi e assegni. Eppure Jack non era convinto. Forse, pensò, era mera suggestione, e ormai qualunque cosa che riguardasse Nathan gli appariva fosca e torbida. Però, quella sensazione non lo abbandonava. Gli sembrava troppo strano che un tipo come Brucknam fosse così ben disposto nei confronti di uno studente, tanto da offrirgli anche da bere – lo aveva notato.
Sentì il cellulare squillare; era Alan. Aveva paura che, dopo la loro notte insieme, le cose sarebbero naufragate, ma il nome di Alan sullo schermo contribuì a rassicurarlo – a meno che non volesse dirgli che era stato tutto un errore e che dovevano chiuderla lì. Dopotutto, era stato piuttosto avventato fare l’amore così, con Nathan ancora nei paraggi, seppur in modo astratto.
 Rispose tappandosi l’orecchio libero, nella speranza di capire cosa gli fosse detto dall’altro lato del telefono.
« Ehi, Jack. Tutto bene? Ma dove sei? C’è un casino… »
« Ciao. Sì, scusa, sono in un bar a prendere un caffè. »
« Ho capito. Senti, volevo dirti che, se ti va, puoi passare stasera. »
Sul volto di Jack si aprì un sorriso emozionato.
« Davvero? Vengo più che volentieri! »
« Perfetto, allora. A dopo. »
Si salutarono, e Jack riattaccò. Si sentì sollevato: non solo Alan non aveva alcuna intenzione di rompere, ma lo aveva addirittura invitato a casa sua, per rivederlo. Sul volto di Jack si stampò un sorriso inebetito: poteva forse dire che stavano insieme?
 
***
 
Stazione di Polizia di Manhattan, Divisione Penale
 
L’odore stantio di carta ammuffita era quanto di più terribile potesse esserci, unita a dita di polvere che gli provocò non pochi starnuti. Fallito il tentativo di raccogliere informazioni tramite Nathan, Alan aveva deciso di cercare in archivio i dossier riguardanti Sánchez.
Dopo aver adeguatamente ripulito gli schedari, cominciò a cercare qualcosa che potesse fare al caso suo.
Rovistò tra i casi risalenti al 2002, e non gli ci volle troppo tempo per trovare il fascicolo incriminato.
 
Il fatto lì riportato risaliva per l’esattezza al 17 luglio 2002. L’aggressore era sempre lui, Victor Sánchez, nato a Città del Messico nel 1961. Venivano citati altri casi in cui era stato fermato per possesso di droga, ma quei dettagli, per il momento, non gli interessavano.
Le informazioni sulla vittima non poterono che stupire Alan.
Il malcapitato ragazzo era infatti, come riportava l’inchiesta, solito a prostituirsi per strada per racimolare qualche soldo. Veniva descritto come Sánchez si fosse finto un cliente, per poi abusare sessualmente di lui una volta intrappolato nella sua auto. Il ragazzino, Henry White, aveva subito altre aggressione da parte di Sánchez, nel corso dei successivi sei mesi, finché non si era deciso a denunciarlo. Ma, a quanto leggeva, Sánchez era stato scagionato per assenza di prove. E così era tornato a piede libero.
Il fascicolo non diceva altro.
Lo ripose, cercandone di nuovi.
Nonostante Ashton gli avesse detto che l’ultima aggressione era di almeno due anni prima, ne trovò un’altra dell’anno precedente.
 
La vittima era sempre un giovane ragazzo, cameriere in un bar del Bronx, aggredito la sera del 27 ottobre 2003. Il ragazzo, così come l’altro, non aveva alcun precedente e nessun rapporto con Sánchez, il che gli fece pensare che scegliesse le sue vittime per puro gusto personale. Sánchez aveva aspettato che Zacharia Wilson, la vittima, finisse il suo turno al bar, per poi trascinarlo in un luogo più appartato. Il ragazzo ebbe però il coraggio di denunciarlo immediatamente, dando la possibilità ai medici di accertare senza indugio che c’era stato un rapporto non consenziente. Stando al fascicolo, Sánchez era stato condannato con una pena irrisoria, sei mesi di carcere. Poco dopo, Wilson aveva abbandonato la città.
 
Terminata la lettura, rimise il fascicolo da dove l’aveva preso.
Due ragazzi, entrambi giovani. Uno con un lavoro discutibile, l’altro un semplice cameriere. Apparentemente, sembravano non avere alcun legame con Sánchez. Si domandò perché il maniaco avesse scelto proprio Nathan, e perché li avesse sorpresi proprio nella loro casa. Anche leggendo i fascicoli, non riusciva a trovare il bandolo di quella matassa intricata.
Aveva bisogno di saperne di più. Molto probabilmente esistevano altri dossier che riguardavano Sánchez; li avrebbe consultati in un secondo momento.
Senza sapere bene il perché, immaginò Nathan protagonista di quei due dossier. Se lo figurò rinchiuso in macchina del maniaco, mentre questi si azzardava anche solo a sfiorarlo, oppure aggredito all’improvviso mentre usciva dal lavoro. Non riuscì nemmeno a terminare l’immagine, che un brivido gli corse lungo tutta la schiena.
 
Una volta riemerso dall’archivio, decise di contattare per telefono le due vittime. Provò prima con Zacharia Wilson, pur immaginando che il numero di telefono che aveva comunicato non fosse più il suo. Al suo posto, infatti, rispose un’anziana signora dalla voce gracchiante, che non aveva la minima idea di chi fosse quel ragazzo. La signora non seppe dargli alcuna informazione sui precedenti proprietari dell’appartamento, né conosceva il numero telefonico della loro nuova abitazione. Alan ringraziò la signora e riattaccò. Su un post-it accanto al telefono, si appuntò di fare delle ricerche su Zacharia Wilson; era sicuro che il suo nuovo numero si nascondesse in qualche altro archivio.
Dopo fu la volta di Henry White. Alan fu sollevato quando riuscì ad accertarsi che colui che aveva risposto al telefono era proprio lui. Gli raccontò in breve il motivo della telefonata, e si accorse che il ragazzo sembrava piuttosto turbato dall’idea di essere stato contattato per quella ragione. Henry gli raccontò di aver smesso di prostituirsi il giorno stesso della denuncia, e che, per fortuna, Sánchez non era riuscito a rintracciarlo in alcun modo, scomparendo di fatto dalla sua vita. Alan capì che il ragazzo non sapeva quasi nulla del maniaco. Così come aveva fatto con Nathan, lo aveva aggredito senza un motivo.
« Probabilmente è attratto da quelli che fanno un certo lavoro », aveva detto White. Alan fu insospettito da quell’affermazione, e chiese spiegazioni. White ammise di essersi interessato molto alla vicenda che riguardava l’altro ragazzo aggredito, soprattutto per il fatto che alcuni giornali scandalistici sospettavano che Wilson conducesse una doppia vita legata alla prostituzione; ma White non aveva mai avuto modo di approfondire la questione, e non sapeva dire se quelle voci fossero veritiere o meno.
Alan ringraziò il ragazzo, e riattaccò. Quindi, provò a cercare nuovi punti in comune tra le due vicende, e la questione della prostituzione lo stuzzicò. Dai dati che aveva raccolto fino a quel momento, sembrava che Sánchez avesse una predilezione per i giovani prostituti.
Poi, però, pensò a Nathan.
E si domandò cosa potesse avere a che fare lui con certe cose.
 
 
***
 
« Ah, eccoti finalmente. »
Jack gli sorrise e lo salutò con un bacio. Alan si irrigidì, ma Jack non diede peso alla cosa. Lo superò, e depositò poi il suo cappotto all’attaccapanni. Si diresse verso la camera e sentì i passi di Alan nella stessa direzione. Si sfilò le scarpe e si sedette sul letto, la testa appoggiata al muro.
« Allora, come stanno andando le indagini? Hai scoperto qualcosa? »
« Sì, sono emersi fatti interessanti, ma purtroppo non posso dirti niente. »
« Ma come? » Jack si sporse verso Alan. « Di me puoi fidarti. Dai, racconta. »
Alan ridacchiò, mordendosi leggermente un labbro.
« Jack, davvero, non posso raccontarti nulla delle indagini. Non è che non mi fido di te, ma devo mantenere una certa riservatezza. »
Jack mise su un broncio scherzoso.
« Come vuoi. »
Alan si sedette sul letto, regalando all’altro una carezza.
« Ah, a proposito. Dovrò aggiornare Ashton. »
« Ashton? Perché con lui ne parli e con me no? Non c’era il segreto professionale? »
Alan rise, divertito soprattutto dall’espressione offesa di Jack.
« Jack, Ash è il mio partner. È mio dovere, quindi, informarlo di ogni nuova scoperta. »
Pronunciò l’ultima frase con un tono canzonatorio, come se stesse raccontando a Jack un’ovvietà.
« Sempre questo Ashton di mezzo, eh. »
« Sarai mica geloso? »
Jack non disse nulla, e assunse un’espressione pensierosa.
« Mi sembrate buoni amici. »
« Sì, siamo molto legati. Ci conosciamo da diversi anni, ormai. »
« E siete sempre stati solo amici? »
Alan sorrise, e spinse due dita sulla fronte dell’altro.
« Jack, Jack. Non solo lui è etero, ma nello stesso periodo in cui l’ho conosciuto, ho conosciuto anche Nathan. » Jack sbuffò e puntò il suo sguardo fuori dalla finestra, e Alan capì di aver detto qualche parola di troppo. « Ehi, scusa. Non volevo. »
Jack non rispose, continuando a guardare verso la finestra, torturando l’attaccatura dell’orecchio nel frattempo. Alan gli prese una mano.
« Dai. Parliamo d’altro. »
Jack tornò a guardarlo.
« No. Sono curioso. Raccontami. »
« Vuoi sapere come ho conosciuto Nathan? »
Jack annuì.
« Almeno, forse, la smetterò di farmi strane idee su di lui. »
« Va bene, se proprio ci tieni. Però poi mi devi dire quali sono le ‘strane idee’ che ti sei fatto. »
Alan si voltò verso Jack, e notò che teneva la testa inclinata verso il basso, ma con gli occhi puntati verso di lui, come qualcuno impaurito da quello che sta per accadere. Alan cominciò il suo racconto.
« Come ti ho detto, ho conosciuto sia Ash che Nathan nello stesso periodo. Ashton era lì con noi da molto poco, e non gli erano ancora state assegnate missioni importanti; questo fino a che non fummo informati di una probabile rapina ai danni di un ufficio postale. Edmond, il nostro capo, ci incaricò di fare da spalla a un altro gruppo di agenti, e così ci ritrovammo in mezzo a un’azione rocambolesca. In mezzo a tutto quel trambusto, riuscimmo a identificare alcuni testimoni, e uno di questi… »
Jack completò la frase al posto suo.
« … era Nathan, giusto? »
« Sì, esatto. Non feci molto caso a lui, per me era soltanto ‘il testimone’. Poi mi diedero il compito di interrogarlo per sapere cosa aveva visto, e fu così che approfondimmo la nostra conoscenza. »
Alan pensò che si sarebbe potuto perdere per ore sui dettagli dell’interrogatorio, delle occhiatine che Nathan gli lanciava – e che lui gli lanciava di rimando - , ma preferì omettere quella parte. Si ricordava ancora di come Ashton lo avesse spinto a chiedere il numero di cellulare al ragazzo, mentre era fuori a fumarsi una sigaretta; e non poteva dimenticare la faccia di Nathan, che doveva aver pensato di essere braccato dalla polizia, per non parlare poi di come aveva risposto agitato quando gli aveva telefonato la prima volta.
Senza volere, un sorriso si formò sul suo volto.
« Dev’essere proprio un ricordo piacevole. »
Alan si coprì la bocca d’istinto.
« Scusa. Parliamo d’altro, davvero. Non voglio che tu stia male, anche se non ce n’è ragione. »
« Sarà. Ma per un motivo o per un altro questo Nathan è sempre tra i piedi. »
« Non posso darti torto. Ma è solo una questione di lavoro, credimi. E poi, chi è che sto per invitare a cena? »
Jack abbassò lo sguardo e sorrise.
« Davvero? »
« Ho intenzione di preparare una bella cenetta, sai? È tanto che non mi metto seriamente ai fornelli. C’è qualcosa che assolutamente non ti piace? »
« Mmh, direi il peperoncino. »
« Va bene, niente peperoncino allora. Vado, che sono quasi le otto. Accendi pure un po’ di TV, se vuoi. Fa’ come se fossi a casa tua. »
 
***
 
La tavola era piccola e semplice. Non c’erano né candele né altre decorazioni particolarmente romantiche, ma la luce soffusa dell’alogena e l’odore di incenso indiano che inebriava tutta la stanza conferivano alla cena un’atmosfera molto intima. Jack e Alan erano seduti l’uno di fronte all’altro, deliziati dal delicato aroma, mentre il riso fumava appannando i bicchieri.
« Allora, cos’hai preparato di buono? »
« È un risotto speciale. Assaggialo, non te ne pentirai. »
« Ah, non vedo l’ora. »
Jack sorrise e afferrò la forchetta. Diede una prima palettata al risotto e lo portò in bocca. Il sorriso dal suo volto svanì presto: cominciò a sventolarsi la bocca aperta, prima di trovare il suo bicchiere d’acqua e trangugiarne il contenuto alla velocità della luce.
« Oddio, Jack, scusa! L’avevo scordato…! »
Jack versò nel bicchiere ulteriore acqua, finché l’incendio nella sua bocca non fu spento.
« Ma dico, sei scemo? Ti ho anche detto che il peperoncino assolutamente no! »
« Jack, scusami. Non l’ho fatto apposta, davvero. »
« Ci credo. Chissà quante volte avrai preparato questo risotto speciale, magari a qualcuno a cui piaceva il piccante. »
« Per favore, non ricominciare con queste stupidaggini. »
« Non sono stupidaggini! Per un motivo o per un altro, c’è sempre Nathan nei nostri discorsi! »
« Jack, smettila… »
« Che poi, dico, fosse interessato a te! »
« Che cosa c’entra questo, adesso? »
« Vedo che ti interessa. »
« Non è che mi interessa, Jack. Sono solo curioso di sentire perché vuoi tirarlo in ballo dopo che hai accusato me di farlo. »
In un primo momento Jack non disse nulla, limitandosi a spostare il suo sguardo da un oggetto all’altro della casa; poi, dopo qualche secondo di titubanza, si bagnò le labbra e fece un respiro più profondo del solito.
« Sai, oggi era in facoltà da me. Se ne stava col suo nuovo fidanzatino a limonare. Poi sono spariti in bagno e chissà cos’è successo… »
Sul volto di Jack comparve un sorriso di sfida.
Alan lasciò cadere la forchetta sul bordo del piatto. La raccolse, portandosi in bocca un altro po’ di riso. Una volta deglutito, alzò gli occhi in direzione di Jack, che lo osservava come se stesse aspettando ancora una risposta, che arrivò dopo che Alan si fu pulito la bocca col tovagliolo.
« E anche se fosse? È libero di fare quello che vuole. »
« Sì, certo. Si vede da un chilometro che questa cosa ti innervosisce. »
Alan alzò gli occhi al cielo e sospirò.
« Jack, per favore. Non mi importa nulla di questa faccenda e non voglio sentir parlare di lui. »
Jack incrociò le mani sul petto e sorrise amaro.
« Vedo che ti ho punto sul vivo. Allora non mi sbagliavo. »
« Non mi hai punto sul vivo, e ti chiedo gentilmente di smetterla. »
« Ah no? E allora dimmi perché reagisci così, se davvero non ti interessa! »
« Perché questo atteggiamento mi irrita, ecco perché! Vedi Nathan dappertutto, sembri ossessionato da lui! Smettila di comportarti in modo puerile! Adesso sei tu quello che mi interessa, e gradirei che fossimo in due a pensarlo, non soltanto io! »
Alan non gli diede tempo di ribattere. Si alzò da tavola, senza nemmeno lanciare un’occhiata al ragazzo, e si avviò a grandi passi verso la cucina, lasciando Jack completamente imbambolato.
Il ragazzo rimase impietrito, e gli sembrò quasi che lo scorrere del tempo dipendesse dal battito del suo cuore, come se ogni pulsazione non facesse altro che dilatare i secondi. Jack prese a fissarsi i piedi, prima l’uno e poi l’altro, passando per il risvolto del pantaloni e continuando così in un ciclo che gli parve infinito.
Sentiva dalla cucina l’acqua che ogni tanto si apriva e si chiudeva, e Jack si augurò solo che non avesse buttato via le altre portate.
Indietreggiò silenzioso con la sedia, quel poco necessario ad uscire. Si avviò a piccoli passi verso la cucina, e si sporse appena.
Alan era lì, a lavare altre stoviglie dandogli la schiena.
Era certo che lo avesse sentito arrivare, eppure non si era nemmeno voltato. Avrebbe potuto e voluto dire un sacco di cose, ma ebbe come la sensazione che il suono delle sue parole sarebbe stato troppo, in quel silenzio rotto solo dallo scrosciare dell’acqua sulle stoviglie.
« Scusa. Non avevo il diritto di dire quelle cose. »
Alan si girò verso di lui e cominciò a fissarlo; teneva lo sguardo fermo su Jack, senza muovere un muscolo, sbattendo a malapena le palpebre. Non disse nulla e continuò a guardarlo, finché la pressione non costrinse Jack ad abbassare gli occhi.
Se avesse avuto una pala, si sarebbe scavato la sua tomba e vi avrebbe giaciuto per l’eternità, ma trovò le ultime forze per provare a scusarsi ancora.
« Alan, ti prego, perdonami. Ho esagerato. »
Uno dei piatti appena lavati fu sbattuto con tanta veemenza sullo sgocciolatoio che, per un attimo, Jack ebbe paura che si rompesse.
E, anche stavolta, Alan non disse niente. A parte il piatto malcapitato, continuava a sciacquare le stoviglie in modo meticoloso, asciugandone ogni centimetro.
Jack si sentì sprofondare: Alan non aveva aperto bocca, eppure aveva detto così tanto.
Tornò nell’ingresso con passo silenzioso, afferrò il cappotto e se lo infilò, dopodiché si affacciò nuovamente in cucina.
« Scusami, davvero! »
Non aspettò nemmeno una risposta di Alan, né volle assicurarsi che l’avesse sentito.
Si diresse a passo svelto verso la porta di casa e, agguantata la borsa, se ne andò.
 
***
 
Ore 22.30
 
« Ashton, finalmente hai risposto. »
Alan se ne stava seduto sguaiatamente sul divano del suo soggiorno, i piedi sul tavolo.
« C’è qualche problema? »
« Direi di sì. Riguarda Jack. »
« Sono tutto orecchie. »
« Credo che si sia infatuato di me. È iper-geloso, quasi soffocante. Non so se sto facendo la cosa giusta, frequentandolo. Mi sembra un ragazzino. »
Udì dall’altra parte un gemito pensieroso.
« La vera domanda è: tu sei innamorato di lui? »
« Non lo so, Ash. Non mi dispiaceva, ma questo suo lato non mi piace. Sarà per il fatto che ho qualche anno di più, che comunque ormai ho una certa indipendenza… Non so, non mi piace il modo in cui si rapporta con me. Tra un po’ si mette a sbirciare i messaggi sul telefonino. »
« Hai provato a parlargli di questo? »
« Per il momento non lo ritengo necessario. Prima voglio vedere ancora per un po’ dove si va a parare. »
« Stai attento, però, che quei tipi lì sono i più difficili da scrollarsi di dosso, poi. »
« Lo so. Certo che, rispetto a Nathan... C’era libertà, c’era fiducia. »
« Ah, ecco di cosa volevi parlarmi realmente. Quando si comincia a rimpiangere l’ex, non è mai un buon segno. E, per la questione di Nathan, sai già cosa ne penso. Ah, a proposito. Devo aggiornarti sulle indagini. »
Alan si rimise comodo sul divano.
« Sono tutto orecchie. »
« Oggi sono stato a casa di Sánchez. »
« Lui era in casa? »
« Oh, per fortuna no. Sai, dico ‘per fortuna’ perché così non avevamo nessuno tra i piedi, sai com’è. Comunque, c’erano cose interessanti là dentro. »
Alan trattenne il respiro, aspettando il seguito del racconto.
« Siamo arrivati nella sua camera e, ovviamente, ci siamo messi a perquisire tutti i cassetti. In uno abbiamo trovato un raccoglitore piuttosto interessante. Credo che Sánchez volesse tenerlo nascosto, ma era così pieno di roba che era impossibile non notarlo. »
Alan cominciò a far ballare un piede. Quanto avrebbe dovuto aspettare per sapere se aveva trovato qualcosa su Nathan?
« … Comunque, alla fine abbiamo aperto il raccoglitore. Era pieno – e dico pieno – di foto di ragazzini. Verificando in centrale, poi, ho scoperto che quei ragazzini altri non erano che i ragazzi vittime di Sánchez, più altri di cui non abbiamo informazioni. Ma, mentre ero lì, un particolare mi è balzato subito all’occhio: questi ragazzi erano stati ritratti tutti nella stessa posa. Di sera, in piedi su un marciapiede, lo sguardo verso la strada trafficata. »
Alan si sentì tremare. Non riusciva a vederlo da fuori, ma dentro sentiva come un terremoto che non aveva intenzione di smettere.
« Quindi sai, Alan, ho pensato che quella era la posa tipica di chi si prostituisce. Uno dei ragazzi faceva proprio questo lavoro, no? Vorrei fare più accertamenti su questa pista, anche se non tutti i fascicoli riportavano  questa informazione, quindi per ora è solo un’ipotesi. »
Alan fece un respiro profondo. Sentì un brivido percorrergli la schiena, ma non voleva tirarsi indietro.
« Senti, Ash, non voglio più girarci intorno. Tra quelle foto, per caso… »
Deglutì. Chiuse gli occhi aspettando la risposta. Sentì Ashton sospirare.
« Sì, c’erano anche foto di Nathan. Però le sue erano un po’ diverse. Normali, intendo, scattate in momenti della sua vita quotidiana. Solo una sembrava simile alle altre, ma lo ritrae in compagnia di un altro ragazzo mentre scherzano, o almeno così sembra. »
Alan finalmente rilasciò il fiato. E si accorse solo in quel momento che, pur essendo in pieno inverno, aveva le ascelle completamente bagnate e il corpo scosso da una vampata di calore.
« Anche io ho novità da comunicarti. »
« Oh, sentiamo, sentiamo. »
« Oggi ho contattato telefonicamente una delle vittime di Sánchez, Henry White. La cosa più interessante che mi ha comunicato è che, secondo voci non confermate,  uno dei ragazzi aggrediti, Zacharia Wilson, era in realtà un prostituto, anche se ufficialmente lavorava come cameriere. »
Ashton mugolò.
« Davvero interessante. Quindi questo significa che i dossier non contengono informazioni complete, o almeno c’è una buona probabilità che sia così. Perciò potrebbe essere che… »
Alan si accorse che Ashton aveva troncato la frase di proposito.
« Che cosa? »
« Niente, Alan, lascia fare. »
Normalmente avrebbe insisto per sapere il seguito di una frase lasciata in sospeso. Ma quella sera, con quell’argomento, sentiva di non averne voglia.
Seguì un momento di silenzio.
« Ash, posso farti una domanda? »
« Spara. »
« Ci sono stati dei momenti, per te, in cui la realtà era così raccapricciante che hai preferito tapparti gli occhi? »
« Sì, talvolta è successo anche a me. »
« Io l’ho provato solo due volte in tutta la mia vita. La seconda di questa è stata con Nathan. Ma quel buio che vedo chiudendo gli occhi mi rassicura, capisci? Nessun orrore può consumarsi là dentro. È buio, e basta. È statico. »
Seguì un attimo di silenzio. Alan si domandò se non avesse aggrovigliato i pensieri in modo troppo complicato.
« E la prima volta, quando è stato? »
Alan sospirò.
« Di questo preferirei non parlarne. Ma credo che il secondo buio dipenda dal primo. Ad ogni modo, quello che ho davanti adesso è il presente, ed è questo che devo vivere. Non posso rifugiarmi nel passato. »
« Scusa, non volevo essere indiscreto. »
Alan non disse niente e nemmeno Ashton, forse per paura di avere oltrepassato il confine della riservatezza. Fu Alan che, dopo una manciata di secondi, parlò.
« Questa indagine mi fa paura, Ash. Forse scoprirò cose che ho sempre finto di non vedere, o forse cose che non ho visto proprio. »
Sentì chiaramente qualche abbozzo di parola dall’altro capo del telefono, ma nessuna frase di senso compiuto. Alan provò a sdrammatizzare.
« Non ti saresti mai aspettato una simile affermazione da me, vero? »
« Se devo essere sincero, è proprio così. »
« Ho sempre saputo che Nathan mi nascondeva qualcosa, ma ho sempre pensato che fossero sciocchezze di poco conto. Ho paura che questa indagine possa, come dire… »
« Sganciare una bomba atomica? »
Alan sorrise.
« Non potevi trovare un’immagine più adatta. Sai, ho sempre l’impressione di fare qualche piccolo passo verso la risoluzione di questo mistero, ma poi scopro che non mi sono mosso di un millimetro. Sono arrivato alla conclusione che forse non voglio muovermi. »
Seguì un altro momento di silenzio e Alan capì che forse aveva spiazzato Ashton rivelandogli quel lato di se stesso.
« Comunque, da quello che mi hanno riferito, frequenta un altro. »
« E chi te l’avrebbe riferito? »
« Jack. »
« Ah, Jack. Decisamente super-partes, in questa faccenda. »
« Che intendi dire? Non credo sia quel tipo di persona. O meglio, non lo so, ma non me la sento di giudicare così presto. Lo sai, mi sbilancio poco. »
« Sì, scusa. È per Madison… »
« Già, come vanno le cose tra voi? »
« Come non vanno, vorrai dire. Comunque, scaricato. »
« Ma come, dici sul serio? Mi sembrava ci fosse intesa tra voi, al Naughty Blu. »
« Che ti devo dire, Alan? Ci ho provato, e mi ha rifiutato. Almeno ha evitato di scaricarmi con quelle solite frasi che si inventano le donne, sai: ‘Non sei tu quello sbagliato ma sono io’, ‘Tu sei troppo per me e non ti merito’ eccetera eccetera. Ma credo comunque che sia interessata a Jack. Tra un po’, il suo album di foto ha solo sue foto. »
« Ci sei rimasto male? »
« Non lo so, un po’ mi piaceva. Fosse per me avrei mollato tutto, ma le ho promesso una mostra fotografica. Sono un galantuomo, lo sai, e non me la sono sentita di mollarla lì. »
« Una mostra? Interessante. Fammi sapere i dettagli, poi. »
« Senz’altro. »
« Comunque, non buttarti giù, è pieno di donne là fuori. Anzi, perché non le chiedi di presentarti qualche sua amica? »
Ashton rise.
« Potrebbe essere un’idea, in effetti. Vabbè, Alan, si è fatto tardi e penso proprio che andrò a dormire. »
Alan alzò lo sguardo verso l’orologio, e vide che era già passata mezz’ora dall’inizio della telefonata.
« Sì, si è fatto tardi. Comunque, grazie di tutto, Ash. »
« E per cosa? »
« Perché sei un amico. »

 

Salve a tutti *__* Scusate se anche questo sembra un po' un capitolo di passaggio, ma in realtà pone le basi per ciò che verrà dopo. Alan continua a non voler vedere la realtà, ma non potrà continuare all'infinito :)
Ringrazio davvero, ma davvero di cuore tutte le persone che hanno recensito questa storia, mi avete resa felicissima, anche perché qualcuno di voi ha riservato per me e per la storia delle parole davvero belle. Grazie!
Ci vediamo martedì prossimo allora, dove, finalmente, Madison e Ashton terranno fede agli accordi presi prima di Natale... Chissà se scopriranno qualcosa!
A presto :)

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Scomode scoperte ***


10. Scomode scoperte
 
 
9 gennaio 2005, ore 21.30
 
Beethoven. La Sonata al chiaro di luna, di nuovo. Quella sera ne sentiva più il bisogno che la voglia. Era stranamente sola a suonare: nessuno che la riprendesse continuamente, nessuno a criticarla e nessuno a difenderla. Sola, col pianoforte. Lei e la musica.
Il cellulare squillò. Vide lo schermo illuminarsi, ma lo ignorò: continuò a suonare. Ma la vibrazione e la suoneria del telefono cominciarono a disturbarla, e fu costretta a interrompersi. Un sorriso le si dipinse sul volto quando vide che chi la cercava era proprio Ashton.
« Pronto? »
« Madison, sono Ashton. Disturbo? »
« Nessun disturbo. Dimmi tutto. »
« Dobbiamo cominciare stasera. »
« Cominciare cosa? »
« Le indagini! Ricordi? »
« Sì, giusto! Ma con ‘stasera’ cosa intendi? Sono già le nove e mezzo. »
« Intendo anche adesso. Anzi, prima andiamo e meglio è, ti spiegherò tutto dopo. Puoi uscire? »
Madison fece mente locale. Lei, che usciva con un uomo alle nove e mezzo di sera? Con uno sconosciuto per la sua famiglia? Non glielo avrebbero mai permesso.
« Sì, certo che posso. Tempo di prepararmi e ci sono. »
« Posso passare tra una ventina di minuti o è troppo presto? »
« Va benissimo. A dopo allora! »
I due si salutarono.
Madison si alzò dal panchetto. Aveva venti minuti per uscire da quella casa senza farsi scoprire.
 
Quando si sentiva sotto pressione, era la volta buona che non riusciva a partorire nessuna idea sensata. Sentì una voce canticchiare da fuori il salotto: era Claire. Si precipitò fuori dalla stanza, e la chiamò sottovoce.
« Claire! Claire! »
La donna si voltò e venne verso di lei.
« Perché parli sottovoce? »
« Ho bisogno di te! »
Claire sospirò.
« Sentiamo, bambina, che è successo? »
« Devo uscire. »
« Adesso? »
« Sì, adesso, e penso di tornare tardi. »
« E tu vorresti che ti coprissi, vero? »
Madison assunse un’espressione supplichevole, mentre Claire la guardava indecisa sul da farsi. Poi la donna scoppiò a ridere.
« Ma certo che ti copro, bambina mia! Finalmente, direi. Con chi esci? Lo conosco almeno? »
Madison arrossì.
« È… il ragazzo dell’altra volta. Quello che è venuto a casa, sai. »
« Ho capito, ho capito. Posso dire che sei da un’amica? »
« Sì, certo. Se ti chiedono qualcosa, di’ che è per una relazione da portare entro domani. »
« E non potevate pensarci prima? »
« Non lo so, inventati qualcosa. Di’ che la mia amica ha avuto problemi intestinali tutto il giorno e che solo adesso sta bene. »
« Dio solo sa quanto tua madre odi i problemi intestinali. »
« Appunto. Mi sembra la scusa perfetta. »
« Tra quanto arriva questo ragazzo? »
« Direi tra… » Madison diede uno sguardo al suo orologio da polso. « … quindici minuti! Devo sbrigarmi! »
« Va bene, non ti trattengo oltre. » Claire le accarezzò la guancia affettuosamente. « Buon divertimento tesoro! »
Madison rispose con un sorriso, dopodiché scappò in bagno per prepararsi.
 
Aveva giusto fatto in tempo a finire un risciacquo col colluttorio che il telefono squillò: era il segnale che Ashton era arrivato.
Uscì in fretta e furia dal bagno, afferrò la borsa e si assicurò che nessuno potesse vederla. In tutta quella fretta, riuscì perfino a chiudere con grazia la porta di casa.
 
Non aveva la minima idea di come fosse l’auto di Ashton, ma la riconobbe subito: nera, spaziosa ma, soprattutto, col motore acceso sotto casa sua. Salì subito in auto e, come d’istinto, salutò Ashton con un formale bacetto sulla guancia. Il gesto le venne così naturale da far imbarazzare un po’ entrambi.
Si allacciò la cintura di sicurezza e diede una sistemata imbarazzata ai capelli.
« Allora, come mai tutta questa urgenza? »
Ashton mise in moto l’auto, e partirono.
« È una storia lunga, ma cercherò di essere breve. In poche parole, il maniaco ha aggredito Nathan, di nuovo. Probabilmente per farci le stesse cose di tre mesi fa. »
« Cavolo, non posso crederci! Se penso che ieri l’ho visto all’università… »
Ashton inchiodò a un semaforo rosso.
« L’hai visto all’università? Frequentate lo stesso corso? »
« No, no. Abbiamo solo un professore in comune, ma credo sia di un’altra facoltà. »
Il semaforo diventò verde.
« Questa è un’ottima notizia, potrebbe tornarci utile. Comunque, per continuare la storia, il caso è stato affidato alla Divisione Penale minore. Dove – potere del caso – lavora proprio Alan. In altre parole, io e lui stiamo lavorando su questa faccenda.  Oggi sono andato a perquisire la casa di Sánchez e ho trovato cose davvero interessanti: foto delle sue vittime in situazioni compromettenti, e tra queste vittime c’era anche Nathan, anche se le sue foto erano piuttosto innocenti. Il motivo per cui ti ho telefonato è perché voglio verificare questa pista. Ma il problema è che credo che sotto quel tappeto ci sia roba grossa, che se lo viene a sapere Alan…  Per questo stasera siamo qui, io e te. »
Madison sorrise.
« È molto carino da parte tua. »
« Sì, anche se in certe situazioni non so mai come comportarmi. Poi tra di loro le cose vanno male, non si parlano… Non sarà facile ottenere informazioni. »
Per qualche tempo non dissero nulla, e Madison capì che Ashton stava cercando un modo per cavarsi d’impaccio da quella situazione. Osservò il suo profilo illuminato a strisce solo dalle luci della città, e si imbambolò nel seguire le linee del suo volto.
Fu di nuovo la volta di un semaforo rosso. Madison lo fissava ancora, mentre Ashton osservava le macchine avanti a lui e, ogni tanto, il semaforo.
Poi si voltò.
I loro sguardi si incrociarono per qualche decimo di secondo, poi Madison, fulminea, cambiò direzione.
Sentiva il cuore batterle fortissimo, mentre le mani cominciavano a sudarle leggermente. Le guance erano talmente rosse che sentiva quasi il sangue affluire.
Fortunatamente Ashton fece finta di niente, e lei uscì facilmente da quell’imbarazzo.
Il silenzio regnava ancora tra loro, anche se Ashton non ne sembrava particolarmente disturbato. Madison si schiarì la voce e pensò a qualcosa da dire.
« Dove stiamo andando? »
« A casa di Nathan. Ho sbirciato l’indirizzo dal dossier della denuncia. Poi si trova anche sull’elenco del telefono. »
« Wow, ottimo! E cosa faremo, ci apposteremo sotto casa sua? »
« Esattamente. Poi, appena uscirà di casa – se lo farà, lo seguiremo e vedremo cosa fa di tanto misterioso. Se siamo fortunati lo scopriremo subito, fidati. »
Si accorse che la conversazione stava di nuovo terminando, e tirò fuori la prima frase che le venne in mente.
« Dev’essere noioso stare appostati per tanto tempo. »
« Sì, soprattutto se sei solo e se non succede niente di eccitante. Ma, per fortuna, stasera ci sei tu. »
Madison rimase a bocca aperta.
« C-ci sono io? »
« Certo, ci sei tu. Così almeno ho qualcuno con cui chiacchierare un po’. »
Madison tirò un sospiro di sollievo.
« Scusa, io non… non avevo capito. »
« L’ho notato! Pensavi che volessi fare qualcosa di eccitante con te? »
Tentò di controbattere, ma non riuscì a dire nulla. All’improvviso, Ashton rallentò e parcheggiò alla meno peggio sotto quella che doveva essere la palazzina di Nathan.
Madison era ancora rossa in volto. Come Ashton se ne accorse, scoppiò a ridere e le tirò una pacca sulla spalla.
« Dai, Madison, scherzavo. Te la sei presa? »
« No, tranquillo. »
« Comunque, siamo arrivati. Adesso dobbiamo solo aspettare. Ah, devo segnarmi l’ora… Direi che posso mettere le dieci. »
Madison si voltò verso la palazzina di Nathan. Le sembrò assolutamente malconcia e piuttosto proletaria, e il parallelo con casa sua le venne naturale. Nonostante cadesse quasi a pezzi, però, pensò che doveva essere eccitante vivere in un posto come quello, privo di ogni lusso. Tuttavia, il pensiero dell’affitto e delle bollette, nonché della responsabilità che le sarebbe servita per vivere in una casa tutta sua, le fece passare la voglia di abitare in una catapecchia. In quel momento si sentì estremamente viziata e superficiale. Poi, si voltò verso Ashton, intento ad armeggiare col telefono.
« Tu vivi da solo? »
Ashton alzò gli occhi dal telefono solo dopo qualche secondo, come se avesse capito dopo che la domanda era rivolta proprio a lui.
« Be’, sì, certo. Con l’età che ho sarebbe più strano il contrario. Perché? »
Madison fece spallucce.
« Così. Semplice curiosità. E, se posso chiedertelo, quand’è che sei andato via di casa? »
« È stato quando ho cominciato il college. Sai, era parecchio lontano da casa, quindi mi sono trasferito al campus. »
« Ed è bello vivere da soli? »
Ashton ridacchiò, come quando si pensa a qualcosa che ci dà un mucchio di grane ma della quale, in fondo, non potremmo fare a meno.
« È bello, sì. Ci sono molte responsabilità, ma è, in un certo senso, l’inizio della tua affermazione come adulto. Gli uccellini che lasciano il nido e cose di questo tipo. Almeno per me è stato così. »
Madison sorrise, ma dietro quel gesto vi era nascosta molta malinconia. Pensò alla vita che conduceva, continuamente considerata come una bambina, sempre sotto il controllo della sua famiglia. Pensare a lei come a un’adulta indipendente? Impossibile per i suoi genitori.
Diede un’occhiata alla palazzina, ma non c’era un’anima. Era tutto completamente immobile.
« Certo che Nathan gli sta creando non pochi problemi. »
« Ad Alan? »
Ashton annuì.
« Pare che Jack sia molto geloso della situazione, ma non è colpa di Alan se gli hanno affidato il caso. »
« Non ne sono stupita. Anche con me fa così. Per questo motivo non gli ho detto niente dei nostri incontri. Gli ho anche mentito dicendogli che non ci eravamo più sentiti. »
« Be’, e perché? Non ha mica motivo per essere geloso. No? »
« No, certo, però… il fatto di vedermi con un uomo… »
« E che male c’è? Ma poi, in passato, avrai avuto anche tu le tue storie, no? Non gli avrai mica permesso di intromettersi? »
Il cuore di Madison tornò a batterle forte.
« Ma no, certo che no. »
Era quasi sicura di aver balbettato.
« In ogni caso, non me la sento proprio di dare torto a Jack. Alan non riesce a dare un taglio netto al passato, e non capisco bene perché si sia buttato in questa avventura. »
« Magari ha perso le speranze con Nathan e si consola con Jack. Questa cosa mi preoccupa un po’, a esser sincera, anche perché lui non si confida quasi più con me. Non vorrei che soffrisse inutilmente. »
« Anche io credo che Alan abbia perso le speranze, o che aspetti un segnale dal cielo. Ma in questo momento penso che sia un cretino. Ha aspettato così tanto per muovere il culo – scusa il termine – e ora che lo ha fatto, solo perché ha ricevuto un prevedibilissimo picche molla tutto così e se ne va da un altro? Che rabbia, guarda. »
Ashton incrociò le braccia e cominciò a spostare il suo sguardo ovunque. Poi, si fermò in direzione della palazzina.
« Guarda! È arrivato qualcuno. »
Madison si voltò.
« È vero! Quella macchina si è fermata proprio sotto casa sua. »
« Aspettiamo e vediamo cosa succede. »
Ashton si spostò. Nel tentativo di vedere meglio, posò un braccio sul sedile del passeggero, dove era seduta Madison. La ragazza si impietrì: non aveva il coraggio di muovere un muscolo, per paura di scontrarsi col corpo di Ashton. Si fece piccola piccola sul suo sedile, mentre Ashton sporse ancora di più il suo volto nel tentativo di vedere chi ci fosse nella misteriosa macchina sotto casa di Nathan. Madison mosse appena gli occhi: il volto di Ashton era quasi accanto al suo. Si sentì come incapace di respirare.
« Riesci a vedere chi c’è dentro? »
Il cuore di Madison sussultò.
« N-no. È troppo buio. »
Stette ancora immobile, fingendo di osservare la scena davanti a lei – perché ormai era troppo tesa per pensare davvero a quello che stava accadendo. Ogni volta che deglutiva le sembrava di fare una confusione enorme, e ogni battito del suo cuore le sembrava rimbombare nel piccolo abitacolo. Poteva, la sua emozione, essere udita?
« Eccolo! »
Ashton tornò di colpo al suo posto, pronto a girare le chiavi della macchina, aspettando il momento più opportuno. Solo dopo, Madison si accorse che Nathan era uscito di casa ed entrato nella macchina misteriosa.
Ashton lasciò che la macchina partisse, poi mise in moto l’auto e cominciò a seguirla.
« Sai, sono un po’ emozionato. Forse adesso scopriremo la verità. »
« Ah! Ha svoltato a sinistra! Non potresti andare più veloce? Rischiamo di perderli, così. »
« Tranquilla, non è la prima volta che lo faccio. Se ci avviciniamo troppo, rischiamo di dare nell’occhio. »
Continuarono a seguire l’auto senza troppe difficoltà. Dopo qualche tempo, la macchina misteriosa si fermò e Ashton rallentò.
« Madison, cerca di capire se stanno spegnendo la macchina. »
« Mi sembra di sì… sì, sì! Ha spento i fari. »
« Benissimo. Speriamo che non debbano andare troppo lontano. »
Ashton proseguì ancora per qualche metro; svoltò nella prima strada possibile e cercò parcheggio lì.
« Perfetto. Scendiamo e vediamo dove si sono diretti, sempre che sia possibile vederlo. »
Scesero entrambi dalla macchina, e camminarono a passo svelto fino all’angolo dove avevano svoltato.
« Aspetta. Affacciamoci, prima. »
Madison annuì. I due si nascosero dietro il muro, facendo sbucare a poco a poco la loro faccia. In piedi, su quel marciapiede dissestato, sostavano Nathan e un altro ragazzo, dall’aria decisamente trasandata: chiacchieravano del più e del meno, e calciavano pezzi di pavimentazione rotta di tanto in tanto. Ashton si ritirò quasi subito.
« Questo è uno dei casi più fortunati di sempre! Sono ancora lì. »
« Perché non ci fermiamo lì sul marciapiede? Sarà più facile tenerli d’occhio. »
« Non possiamo, Mad. Io e Nathan ci conosciamo, mi riconoscerebbe subito. »
« Oh. Capisco. Comunque, pare che non si muovano da lì. A proposito, conosci il ragazzo con lui? »
Ashton scosse il capo.
« Non l’ho mai visto, sinceramente. Però, da come scherzano, direi che si conoscono bene. »
« A me invece pare che Nathan sia scocciato da quel tipo. Vabbè, ma al di là di questo… Non mi sembra stia facendo niente di male. È solo lì con un amico. »
« In effetti sembrerebbe così. Staranno aspettando qualcun altro? » Ashton sospirò. « Non possiamo mollare proprio ora. Aspettiamo almeno un po’, per vedere se arriva qualcuno. »
« Va bene. »
I due rimasero per altri dieci minuti, ma non videro arrivare nessun altro. Si davano il cambio per dare un’occhiata, mentre nel frattempo chiacchieravano del più e del meno. Ma, all’improvviso, Madison vide una macchina fermarsi davanti a Nathan.
« Ash! Vieni! Si è fermato qualcuno! »
Ashton accorse subito.
« Certo che, dal modo in cui si pone sembrerebbe… O cavolo. È entrato nell’auto di quel tipo. »
« Sì, e quindi… ? »
« Svelta, Madison, sta venendo in qua! »
Ashton afferrò Madison per un braccio, tirandola a sé. Si voltarono verso il muro, nel tentativo di non farsi vedere.
« Ha svoltato proprio in questa via. Si stanno fermando laggiù. »
Si girò verso Madison.
« Scusa, ti ho fatto male? »
« No, è tutto a posto. Mi sembra strano che si siano già fermati. »
« Già. E io comincio a farmi una mia idea. »
« Cioè? »
« Per averne la certezza dovremmo sbirciare da vicino. Ma non penso che avremo molto tempo e, inoltre, potrebbe essere una scena un po’… forte. Te la senti? »
Madison fece di sì col capo.
I due si avviarono verso la macchina dell’uomo sconosciuto. Ashton mise una mano sulla spalla di Madison, come per tenerla a sé; cominciò poi a guardarsi continuamente intorno.
« C’è qualche problema? Sembri nervoso. »
« Un po’ lo sono. E non mi piace questo quartiere. »
Camminarono ancora un po’, fino a che la macchina non fu parecchio vicina.
« Come facciamo a sbirciare senza farci vedere? Non potremmo passarci accanto facendo finta di niente? »
« No, non credo sia la soluzione migliore. Se è quel che penso, come vedono arrivare qualcuno, si rivestono. »
Madison si grattò il capo.
« Si rivestono? Tu credi che quei due stiano…? »
« Tu non hai capito, vero, Madison? »
La ragazza arrossì di colpo.
« No, non ho capito! E se tu facessi meno il misterioso forse capirei qualcosa! »
Ashton rimase in piedi davanti a lei. Aspettò di vedere se lei avesse altro da dire; ma, come si accorse che aveva finito, provò a parlare.
« Io credo che si prostituisca. »
« Cosa? Ma come…? »
« Ci sono diverse cose che me lo fanno pensare. Due uomini, presumibilmente colleghi, soli, sulla strada… Il fatto che uno sparisca così con un’altra persona, in una stradina adiacente. Questi fatti parlano da soli. E poi, ci sono questioni di natura più pratica. Per esempio, il fatto che riuscisse a pagare affitto, viveri e tasse universitarie con un lavoretto al bar sottopagato… »
« In effetti si vede subito che qualcosa non quadra. Però, vedendola in quest’ottica, Alan mi fa un po’ pena. Sembra avere il terrore di soffrire per amore. Mi chiedo cosa l’abbia reso così, sempre che ci sia stato un evento scatenante. »
« Come ti ho già detto, non so granché su questa storia. Ma adesso concentriamoci sulla nostra indagine. »
« Sì, scusa! Mi sono lasciata trasportare. Ma come possiamo fare per sbirciare qualcosa? »
« Ci sto pensando. Ah! Ho un’idea. Dici che se ci mettiamo dietro la macchina che sta dietro la loro, riusciamo a vedere qualcosa? »
« Non so, con tutti quei vetri… Possiamo provare. Anche perché, avvicinarsi troppo non è possibile. »
Ashton annuì, e insieme raggiunsero la macchina dietro quella del cliente. Si accovacciarono un po’, quanto bastava per non far sbucare le loro teste da sopra l’auto. Incollarono la loro faccia al vetro, e cercarono di interpretare le immagini davanti ai loro occhi.
Madison riuscì a intravedere solo un uomo di spalle, seduto sui sedili posteriori, apparentemente solo.
« Dov’è Nathan? »
Ashton emise un risolino.
« Io una mia idea ce l’ho. »
Non passò molto tempo, infatti, che Madison vide la testa di Nathan sbucare all’improvviso dal basso.
« Oh! Ho capito. »
« Direi che purtroppo è come pensavamo. Ma dobbiamo trovare un modo per incastrarlo. » Ashton stette un po’ a pensare. « Vabbè, è meglio se torniamo all’angolo. Direi che qui abbiamo visto abbastanza. »
Uscirono quatti quatti dal loro nascondiglio, e tornarono all’angolo. Poco dopo, videro l’auto lasciare Nathan nello stesso punto da dove l’aveva preso.
Madison osservò Ashton: aveva un’espressione terribilmente pensierosa. Fissava un punto non ben definito e tirava continuamente pesanti sospiri.
« A cosa pensi? »
« Penso che sono in una situazione scomoda, Mad. Adesso sono a conoscenza di questo fatto, ma… Dovrei dirlo o meno ad Alan? E domani, quando ci vedremo, devo cercare di sviarlo oppure sbattergli in faccia la realtà? Non è facile. »
« Hai ragione. Perché se glielo dici potrebbe arrabbiarsi perché ti sei impicciato, se non glielo dici e lo scopre potrebbe rinfacciarti il fatto di non averglielo detto. Non è mai facile in queste situazioni. »
« Sì, ma il problema è che io ho solo ventiquattr’ore di tempo per pensarci. »
Madison si zittì. Quella piccola confidenzialità che stavano acquisendo le sembrò sparita del tutto, e si rese conto, in quel momento, che di Ashton non sapeva proprio un bel niente. Ripensò a tutte le cose che gli aveva detto, e le sembrò di aver parlato spesso con banalità o ingenuità. Provò a buttare un’occhiata verso di lui, e lo vide ancora intento a fissare il vuoto, in cerca di una risposta. Si ritrovò a pensare che avrebbe davvero fatto qualunque cosa per aiutarlo.
« Vabbè, direi che possiamo tornare a casa, no? »
Madison annuì.
 
***
 
« Grazie per avermi riaccompagnato, Ash. »
« Figurati. »
Madison guardò verso le finestre di casa: i suoi genitori erano in salotto. Sapeva che era ora di andare: avrebbe dovuto aprire lo sportello, salutare Ashton, richiuderlo e avviarsi verso casa. Erano azioni stupide. Eppure, non riusciva a farlo. Il sorriso di Ashton la incantava.
Si ricordò come si era rivolta a lui le prime volte che si erano parlati, o di come lui le avesse detto che non l’avrebbe più infastidita, e che sarebbero rimasti amici. Si morse le labbra.
Si accorse che Ashton stava per dire qualcosa – probabilmente cercando di non farla passare per stupida, stando immobile tutto quel tempo - , ma lei lo batté sul tempo.
« Allora, buonanotte. Mi sono divertita moltissimo. »
« Mi fa piacere. Buonanotte. »
« Ciao! »
Nella sua testa si formò un’immagine strana. Immaginò di guardarlo negli occhi e di salutarlo con un timido e fugace bacio sulla guancia. Immaginò poi Ashton tenersi la mano sulla guancia baciata per un tempo indefinito, mentre lei rientrava in casa imbarazzata.
E invece, si limitò solo ad aprire lo sportello, salutare con la mano, chiudere lo sportello e avviarsi verso casa.
Il cuore le batteva all’impazzata, si sentiva avvampare e la testa le scoppiava.
Da quando aveva certi pensieri?

 

Ta-daaaan! XD Allora, come vi è sembrato questo capitolo? Ash ha solo ventiquattr'ore di tempo per decidere cosa fare... Alan scoprirà tutto oppure no? *rullo di tamburi*
Scoprirete tutto martedì prossimo! XD
E poi Mad *__* Comincia a fare pensieri strani... hehehe
Bene, stiamo entrando nel vivo della storia e sono molto contenta! Adesso vi lascio, sperando che il cap vi sia piaciuto :)
Alla prossima e un grandissimo grazie a tutti colore che hanno recensito e messo la storia tra le seguite :)

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** "Quanto prendi?" ***


11. “Quanto prendi?”
 
 
 
10 gennaio 2005.
Era preoccupato.
Si trovava seduto alla sua scrivania in centrale, intento a pensare alle scoperte che Ashton gli aveva comunicato per telefono qualche giorno prima. Gli sembrava sempre di essere vicino alla soluzione, ma come cominciava a scorgerla, una sorta di luminosa barriera invisibile lo respingeva fuori, impedendogli di vedere cosa si celava dentro quell’alone dorato.
Alan tamburellava le dita sul tavolo e, quando si annoiava, cominciava a gironzolare per il suo ufficio aprendo a caso cassetti del suo schedario, per poi richiuderli poco dopo senza nemmeno averli guardati.
Si alzò dalla sedia e decise di cercare Ashton. Aveva voglia di saperne di più su quello che aveva visto, su quelle foto misteriose e sugli altri ragazzi ritratti nelle foto appartenenti a Sánchez.
Dopo aver chiesto ai colleghi dove si trovasse, si ritrovò ancora una volta davanti all’ufficio di Edmond.
Bussò, e il vocione del capo lo accolse. Sulla sedia di fronte a Edmond riconobbe la schiena di Ashton.
« Ehi, Alan, entra pure. Mi stavo giusto complimentando con Ashton per la quantità di informazioni che avete ricavato. Siete davvero brillanti, un’ottima squadra! »
Alan lanciò un’occhiata verso il collega, che non ricambiò; sembrava anzi che tentasse di nascondersi dietro la mano sulla tempia sinistra.
« Stavo pensando, perciò, di festeggiare il vostro impegno nella prossima cena di lavoro. Che ne pensate? »
Alan non disse nulla, e aspettò che fosse Ashton a compiacere il sorriso enorme del capo.
« Fantastico. Vi farò sapere il giorno e l’ora, anche se pensavo a metà febbraio. In questo modo, avrete tempo di completare il vostro lavoro senza intralci. Ora potete andare! »
 
Usciti dall’ufficio di Edmond, Alan notò che Ashton aveva affrettato il passo.
« Ashton, aspetta. »
Si sarebbe aspettato di dover insistere un po’, invece l’amico si fermò subito.
« Che c’è? »
« Tu mi stai nascondendo qualcosa. È da stamattina che sei strano, mi hai a malapena salutato. È successo qualcosa? »
Ashton si voltò e gli sorrise, poi scosse il capo.
« Non è niente, una cosa di poco conto. »
« Sei sicuro? »
Ashton esitò. Si vedeva che cercava di dire qualcosa, con quel respiro lasciato a metà. Ashton sospirò ancora, poi si passò le dita sulla tempia. Scosse di nuovo il capo.
« … non posso farlo. Non ci riesco. »
« Ashton, di cosa si tratta? »
L’altro continuava a non rispondere, cercando di sfuggire lo sguardo di Alan, che invece continuava a fissarlo, come se sperasse di imprigionare il suo sguardo non appena si fosse voltato.
« Ha qualcosa a che fare con l’indagine? Qualcosa a che fare con… Nathan? »
Come pronunciò quel nome, Ashton si trovò evidentemente senza parole. Alan lo vide annaspare nel tentativo di trovare qualcosa da dire, ma la gola sembrava bloccata.
« Ho capito. C’entra Nathan. È per questo che non vuoi dirmelo. »
« Alan, non è questo, è che… Non so come dirtelo, né se dovrei farlo! »
Alan gli puntò un dito addosso.
« Stasera ti aspetto all’uscita. Qualunque cosa sia, me la dirai. »
Abbassò il dito e tornò verso il suo ufficio. E mentre faceva dietro-front, pronunciò due parole che solo lui fu in grado di sentire.
Ti prego.
 
***
 
Gli era dispiaciuto aver trattato Ashton in quel modo. Ma sapeva bene che intorno a Nathan aleggiava qualcosa di strano e misterioso, e gli rodeva pensare di sapere qualcosa in meno rispetto ad altri.
Se da una parte era curioso, dall’altra sentiva un vago sentimento di paura.
 
Ashton era proprio lì, fuori dall’ingresso principale della centrale ad aspettarlo. Aveva le sopracciglia aggrottate, come se fosse piuttosto preoccupato, e si mordicchiava il labbro inferiore.
« Non pensavo che mi avresti aspettato davvero. In ogni caso, scusa per i miei modi. »
Ashton continuò a fissarlo in silenzio. Poi due parole sussurrate uscirono dalla sua bocca.
« Mi dispiace. »
« Per cosa? »
Ashton fece un respiro profondo.
« Per quello che sto per mostrarti. »
 
***
 
« È meglio se guido io », gli aveva detto. Alan aveva accettato e aveva preso posto nel sedile del passeggero. Avevano preso una macchina di servizio, all’apparenza uguale alle comuni auto, con i finestrini lievemente oscurati.
Ogni tanto si voltava a guardare verso Ashton, e non poteva non notare il suo terribile nervosismo. Quando guidava, in genere, assumeva sempre posizioni piuttosto rilassate: in quel momento, invece, la schiena era drittissima e la presa sul volante piuttosto salda.
« Mi stai facendo preoccupare, Ash. Dove stiamo andando? Pensavo volessi portarmi da lui, ma casa sua l’abbiamo passata da un pezzo. »
Ashton non rispose; Alan non riuscì a capire se era troppo concentrato o se avesse finto di non sentirlo. Provò a parlare ancora per verificare.
« Ah, siamo nel Bronx. Perché stiamo passando da qui? »
Ancora nessuna risposta. Alan cominciò a spazientirsi.
« Insomma, Ash, vuoi rispondermi? Dove stiamo andando? »
Ashton ancora una volta non gli rispose, e Alan dovette ringraziare le cinture di sicurezza per non essere saltato addosso ad Ashton nel tentativo di estorcergli qualche risposta.
« Vedrai tutto quando saremo là, Alan. Mi dispiace. »
Notò che continuava a dispiacersi.
Ma di cosa?
 
Terminata la 149th, si sarebbe aspettato di svoltare a sinistra per il Bruckner Boulevard; ma, invece, Ashton proseguì a dritto, verso Hunts Point.
Il cuore cominciò a battergli più forte.
Sperò che Ashton si fosse solo perso e che non volesse davvero andare in quella direzione: sapeva per cosa era famosa quella zona. Poi, come un flash, gli tornò in mente la prima vittima di Victor Sánchez.
« Ci siamo quasi, Alan. »
Se fino a quel momento avevano sfrecciato veloci, adesso si accorse che Ashton stava rallentando. Non poté fare a meno di notare le numerose donne sul marciapiede, con addosso abiti succinti e con curve prosperose; poi, poco più in là, cominciò a intravedere anche qualche figura alta e robusta, un po’ troppo per essere un corpo femminile.
Pensò a voce alta.
« Non ci sono solo donne, quindi. »
Più Ashton rallentava, più si sentiva esplodere. La tensione stava salendo e, anche se non voleva ammetterlo, stava capendo come mai Ashton l’avesse portato lì.
Il suo collega rallentò sempre più e lui, d’istinto, smise di guardare gli abitanti di quel marciapiede, cominciando a fissare la trama dei suoi jeans.
Ashton si fermò.
Sapeva che, se avesse alzato gli occhi, avrebbe avuto davanti a sé esattamente lo spettacolo che si aspettava. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, ma impedì loro di uscire.
« Alan, siamo arrivati. »
Si accorse che la voce di Ashton tremava. Alzò lo sguardo verso di lui che, a sua volta, stava guardando proprio il lato della strada che si rifiutava anche solo di sbirciare.
Ashton gli afferrò la mano, con una presa salda almeno quanto quella al volante.
Lo guardò negli occhi, e si accorse di essere stato davvero sgarbato ad averlo trattato in quel modo, perché nel suo sguardo c’era solo un sentimento di grande e profonda amicizia.
Si sarebbe aspettato di volersi voltare poco alla volta, e invece lo fece tutto insieme.
 
Non ebbe nemmeno bisogno di fissarlo meglio, per riconoscerlo: conosceva troppo bene Nathan per avere qualche dubbio.
Indossava vestiti assolutamente normali, e conversava altrettanto normalmente con un altro ragazzo in piedi accanto a lui.
Sentì il cuore stringersi e impietrirsi allo stesso momento: vedere Nathan lì, sul marciapiede, in attesa di qualcuno… Lo immaginò salire sulla macchina di uno sconosciuto e soddisfare i suoi piaceri; si limitava a qualche lavoretto o si faceva anche possedere da quegli uomini?
Gli tornarono in mente gli anni passati insieme, le volte in cui facevano l’amore.
Ripensò all’odore della sua pelle che, a quel punto, poteva essere il profumo di un qualunque sconosciuto; ripensò alle parole d’amore che Nathan gli sussurrava, e si chiese se in realtà non le dicesse anche ai suoi clienti; ma il pensiero che lo infastidì più di tutti fu senz’altro il fatto che le sue non erano le uniche mani che accarezzavano quel corpo, la sua non era l’unica bocca che ne sentiva il sapore; a molte altre persone era stato concesso quel privilegio.
Il privilegio di averlo. Il privilegio di unirsi con lui in una cosa sola.
Nathan non era stato solo suo.
Il pensiero di incontrare un qualsiasi uomo a New York e pensare che era stato a letto con il suo Nathan gli provocò una sensazione di disgusto e ribrezzo.
 
Nonostante questi pensieri, tirava ogni volta un sospiro di sollievo per ogni macchina che non si fermava. Ma se Ashton lo aveva portato lì, doveva avere delle buone motivazioni.
 
Passarono almeno dieci minuti buoni, ma nessuno si era ancora fermato. Come se non stesse respirando da ore, inspirò ed espirò profondamente, scacciando via un po’ di tensione. Si voltò verso Ashton, che gli stava ancora tenendo la mano.
« Non si è ancora fermato nessuno. Non è che forse ti sei sbagliato? »
Ashton scosse la testa, deciso.
« No, Alan, non mi sono sbagliato. Non ti avrei mai portato qui, se non ne fossi stato sicuro.  »
« E allora mi spieghi perché sono dieci minuti che siamo qui e ancora nessuno si è fermato? »
« Alan, non lo so, sarà un caso. Ma sono sicuro di quello che ho visto, era inequivocabile! »
Alan strinse le labbra, finché le parole non gli esplosero in bocca.
« Stai dicendo una marea di cazzate, Ashton! Dove sono le prove? Voglio le prove! »
« Se davvero vuoi le tue cavolo di prove, fingiti un cliente e chiedigli quanto vuole per succhiartelo! »
Alan rimase interdetto. Sentiva il corpo tremargli, anche se non sapeva se fosse evidente dall’esterno. Si sentiva solo posseduto da un fuoco violento, capace pure di spezzargli il respiro.
Deglutì.
« Va bene. Andiamo. Mi fingerò un cliente e gli chiederò quanto vuole per succhiarmelo. »
Si riallacciò la cintura di sicurezza, e aspettò che Ashton facesse altrettanto.
« Alan, scusami… »
« Ci muoviamo? »
Ashton rimase immobile qualche secondo, poi si agganciò la cintura. Rimise in moto l’auto, e fece il giro dell’isolato in modo da trovarsi sullo stesso marciapiede dove si trovava Nathan.
Fu sorpreso quando Ashton si fermò una decina di metri prima.
« Davvero te la senti? »
« Vai. »
 
Non sapeva bene cosa aspettarsi. Il corpo gli tremava ancora, ma non era più rabbia. Era paura. Quella verità che per anni aveva nascosto a se stesso stava per rivelarsi in tutta la sua potenza.
Sapeva che Nathan non poteva vederlo da fuori, ma lui riusciva a vedere benissimo quel ragazzo così mingherlino.
Come Ashton fermò la macchina davanti ai due, Nathan si avvicinò per sentire cosa volevano.
Alan si limitò ad aprire un piccolo spiraglio abbassando di poco il finestrino, la quantità necessaria per far udire la sua voce.
Fece un respiro profondo.
Domandò.
« Quanto prendi? »
Un senso di sporco gli si attaccò addosso.
Nathan ridacchiò.
« Be’, dipende da quello che vuoi, bello. »
Alan abbassò completamente il finestrino, finché i loro sguardi non si incrociarono.
 
Nathan sbarrò gli occhi, e sbiancò; fissava Alan con talmente tanto terrore da non sbattere nemmeno le palpebre. L’uomo uscì dall’auto, senza chiudere lo sportello, forse spinto da un irrazionale desiderio di tirarlo a sé; ma il ragazzo, con ancora gli occhi fissi su di lui, indietreggiava a piccoli passi verso il muso dell’auto. Nathan cominciò a tremare, al punto da aggrapparsi al ragazzo accanto a lui; poi Alan lo vide alzare gli occhi al cielo, mentre il suo corpo sembrò perdere rigidità.
E poi, fu questione di un attimo. Se lo vide scivolare da sotto gli occhi e un tonfo sordo gli vibrò in tutto il corpo, spezzando quel silenzio ovattato che lo aveva avvolto fino a quel momento.
E un secondo dopo Nathan era a terra, inerte, mentre una chiazza di sangue si spandeva sempre più, come a marcare il suo territorio.
Ebbe appena il coraggio di mettere a fuoco quell'immagine, ma i suoi muscoli erano impietriti; la scena di Nathan che perdeva i sensi e sbatteva la testa sullo sportello dell’auto gli scorreva davanti agli occhi come la pellicola di un vecchio film.
E vedeva poi Ashton scuoterlo per farlo tornare alla realtà, mentre intimava all'altro ragazzo di non toccare Nathan fino all'arrivo dell'ambulanza.
Ambulanza. Nathan. Sangue.
Quell'ultima parola gli diede uno scossone, e si rese conto che tremava da capo a piedi, anche se la sua esperienza gli aveva insegnato a mantenere il controllo in certe situazioni.
Era così buffo: aveva vissuto molto di peggio nella sua vita, e aveva sempre mantenuto il sangue freddo in maniera impeccabile. Ma in quel momento, Nathan faccia a terra con un lago di sangue intorno alla testa, sentiva la mente come un paesaggio imperscrutabile coperto da una fitta coltre di nebbia. Cercava di raggiungere concetti razionali, ma avevano contorni troppo sfocati perché si potessero afferrare. Era solo l’istinto, in quel momento, a guidare il timone della sua mente.
Alzò gli occhi verso Ashton, che col tono più pacato possibile descriveva al centralino cos'era successo e dove si trovavano, nell'attesa che arrivasse l'ambulanza.
Fu solo in quell’istante che capì qual era la cosa più importante da fare: chiamare i soccorsi. Era così scontato, quante volte lo aveva fatto? Eppure aveva impiegato cinque minuti buoni per muovere il primo passo in quella nebbia, cercando di scacciarla con le mani.
Riusciva a malapena a toccare Nathan. Gli sembrò una delicata bambola che si era scheggiata per la caduta: e non osava sfiorarla, perché forse altri pezzi erano ancora incollati per miracolo, e non era il caso di rimetterla seduta col rischio di rovinarla ancora.
Ma Ashton aveva più sangue freddo di lui. Lo vide estrarre una manciata di fazzoletti, aprirli, e metterli uno sopra l'altro; poi li poggiò sulla ferita di Nathan, facendo una lieve pressione: cercava di fermare l'emorragia.
E in quel momento, Alan scacciò altra nebbia dalla sua mente, ma capì che era inutile, e che tutte quelle idee razionali gli venivano troppo tardi.
I minuti in attesa dell’ambulanza gli sembrarono un’eternità. Ashton pensava solo alla ferita, e non gli aveva rivolto la minima parola; o forse sì, e lui non se n’era nemmeno accorto. L’altro ragazzo se ne stava lì accovacciato, con un’evidente preoccupazione stampata sul volto. Gli sembrarono entrambi coscienti, mentre lui si sentiva risucchiato dal vortice dell’inerzia. Gli sembrò come se il mondo stesse andando avanti e lui fosse un mero spettatore che guarda un treno passare: provava a intervenire per cambiare le cose, a far fermare il treno alla sua stazione, ma era come se non esistesse, come se non potesse essere sentito.
Il suono della sirena lo fece tirare improvvisamente su. Come una scialuppa che cerca di farsi notare da una nave amica, aggirò l'auto e si affacciò sulla strada, in cerca dell'ambulanza; e come la vide cominciò a sbracciarsi, e per poco non si buttò in mezzo di strada, nel tentativo di attirare l'attenzione.
I soccorritori scesero subito dal mezzo e si avvicinarono a Nathan; reggendogli la testa, un paio di uomini lo caricarono sulla barella che un terzo uomo aveva già estratto dall'ambulanza. Dopo che fu su, uno dei soccorritori si rivolse a loro.
« Qualcuno di voi è un familiare? »
Alan si fece avanti.
« Io... io sono molto legato a lui. »
Il soccorritore scosse il capo.
« Mi dispiace, ma solo i familiari possono salire. »
L’uomo non aspettò nemmeno una replica e salì dal retro sull'ambulanza. Le sirene furono subito attivate, e quella piccola luce blu divenne sempre più piccola, fino a sparire.
 
***
 
L’attesa non era mai stata così straziante. Alan continuava a percorrere su e giù il corridoio dell’ospedale, risedendosi di tanto in tanto e rialzandosi nervosamente subito dopo. Inizialmente Ashton provava a parlargli seguendo con lo sguardo i suoi passi, ma si arrese quasi subito, comunicando con lui fissando un punto non meglio precisato del muro bianco di quel corridoio.
« Alan, stai calmo, sono sicuro che non è niente. »
Si fermò un attimo davanti a lui, poi riprese la sua camminata, scuotendo il capo.
« Ash, sono tranquillo. »
« Dai, siediti. Finché il dottore non esce, è inutile agitarsi. »
Quelle parole parvero in qualche modo calmarlo; Alan si sedette nuovamente accanto ad Ashton, per poi rialzarsi e appoggiarsi contro il muro adiacente. Incrociò le braccia, cominciando a picchiettare le dita su un fianco.
Ogni volta che vedeva qualcuno uscire dalla porta del reparto riservato, sperava sempre che fosse per comunicare a qualcuno notizie su Nathan, ma puntualmente i dottori entravano e uscivano per questioni personali.
« Vabbè, senti, io vado a prendermi da bere. A dopo. »
Ashton si alzò, facendogli un cenno con la testa, e Alan rispose con un sorriso nervoso.
 
Si sentiva in colpa. Nella sua testa, ogni pensiero era un ‘se’ o un ‘ma’. Si chiedeva cosa sarebbe successo se lui non si fosse recato lì quella sera, se non avesse lasciato lo sportello dell’auto aperto, se avesse avuto i riflessi più pronti per prendere Nathan mentre cadeva. Si augurò con tutto il cuore che la ferita riportata non fosse grave.
Il rumore delle porte che si aprivano gli fece alzare la testa, ma l’esito fu negativo anche stavolta. Si voltò verso le scale, e vide Ashton.
« Ho preso una cosuccia anche per te. »
L’altro gli porse una Lemon soda, e Alan ringraziò. Sollevò la linguetta e portò la lattina alla bocca: una bibita fresca era proprio quello che ci voleva.
Proprio mentre finiva di mandare giù un sorso, vide uscire dalle porte il dottore che si occupava di Nathan. Dopo essere riuscito a non soffocare, lo placcò come un giocatore di rugby.
« Dottore, come sta Nathan? »
Il dottore lo guardò con sguardo interrogativo, poi capì.
« Mi dispiace, ma il signor Hayworth non si è ancora svegliato e non possiamo rivelare il suo stato di salute. Purtroppo non ha lasciato disposizioni al riguardo, perciò non posso dirle niente. »
Il medico gli sorrise e fece per proseguire per la sua strada, ma Alan lo raggiunse di nuovo.
« Non si è ancora svegliato? È grave? »
« Le ripeto, non posso dirle niente. »
« Mi dica almeno se è grave! La prego. »
Il dottore sospirò un paio di volte.
« Senta, sta bene. Non è niente. Di più non posso dirle, però. Non avrei dovuto dire nemmeno questo. »
« Grazie, grazie davvero. »
Alan tirò un sospiro di sollievo.
Non è niente.
Improvvisamente si sentì più leggero. Nathan stava bene, non era ferito gravemente né in pericolo di vita. Si sedette accanto ad Ashton, che gli sorrise; poggiò la lattina semipiena accanto a sé, poi nascose il volto tra le mani e le fece scorrere fino alle tempie, allentando la tensione. Sbatté lentamente le palpebre e in un respiro fece svanire le sue preoccupazioni.
« Sono così sollevato, Ash. Non vedo l’ora che si risvegli, non vedo l’ora che esca da qui. Voglio stargli vicino. »
Ashton tossicchiò.
« Alan, senti… Sinceramente non trovo che sia una buona idea il fatto che tu rimanga qui. »
Sollevò il capo.
« Come sarebbe? »
« Credo sia meglio che non ti veda, almeno non subito. Non sappiamo se vuole vederti, e inoltre potrebbe essere ancora sotto shock. »
Quelle parole lo colpirono come una pugnalata secca.
Non aveva riflettuto molto sull’evento che aveva scatenato tutta quella situazione; si era preoccupato unicamente del fatto che Nathan stesse bene. Ma non aveva avuto tempo per pensare che il ragazzo poteva avere idee diverse in testa. Magari non voleva svegliarsi per paura che lui fosse lì accanto al suo letto; o forse non voleva uscire e fronteggiarlo.
Gli faceva molto male. Desiderava riabbracciare Nathan più di ogni altra cosa, ma non voleva fargli male ulteriormente.
Ci rifletté un poco, immaginando nella sua testa tutte le possibili sequenze, arrivando persino a figurarsi Nathan che sveniva di nuovo una volta uscito dalla sua stanza, non appena l’avesse visto. Magari avrebbe potuto sbattere la testa ancora una volta.
« E chi rimarrà qui ad aspettarlo? Non voglio che sia solo, quando uscirà. »
« Posso rimanere io. »
Alan sorrise.
« Grazie, Ash. Adesso dobbiamo solo aspettare che si risvegli. Spero non ci voglia molto. »
 
Alan ringraziò che l’orologio fosse lontano. Quando non aveva nulla da fare si metteva spesso ad ascoltare i ticchettii e lo trovava pure piacevole; ma quando poi cercava di liberarsene, quel rumorino secco continuava a tormentare la sua mente, distraendolo da qualunque altro pensiero. Provò a trascorrere il tempo scandendo gli attimi con i battiti del suo cuore, e dopo un po’ lo trovò addirittura ipnotico.
Il chiacchiericcio sommesso di due dottori attirò la sua attenzione, e si svegliò da quel senso di torpore non appena vide che uno dei due era quello che si occupava di Nathan. Dopo che ebbero finito di parlare, il dottore venne verso di loro.
« Il signor Hayworth ha riportato solo una ferita superficiale. È già stato sottoposto alle radiografie, che hanno escluso un trauma cranico. In altre parole sta bene, e potrà lasciare la struttura tra poco. »
Alan spalancò gli occhi e tentò di dire qualcosa, ma Ashton lo fece prima di lui.
« Se ci sta dicendo tutto questo, ne deduco che si sia svegliato? »
« Esattamente. »
« Grazie, dottore. »
L’uomo rispose con un cenno del capo e un sorriso, dopodiché si congedò.
« Non sai che sollievo. » Si voltò verso Ashton. « Devo proprio andarmene? »
« Alan, è meglio per tutti. Aspettaci fuori, almeno ho il tempo di spiegargli la situazione. »
Annuì, e si alzò. Salutò Ashton e cominciò a percorrere il corridoio, verso le scale.

***
 
L’attesa sopportata in attesa del responso del medico gli era sembrata la cosa più atroce che si potesse provare, ma quei minuti fuori dal pronto soccorso avevano certamente fissato un nuovo record.
Il battito del suo cuore aveva smesso di rilassarlo e anzi, lo agitava; il freddo pungente lo faceva rabbrividire e tremare più di quanto non stesse già facendo lui stesso, senza l’aiuto di agenti esterni, e quel camminare frenetico e un po’ paranoico, accompagnato da fugaci sguardi verso l’entrata, lo rendevano più ansioso che mai.
La verità è che aveva paura. Aveva paura di volgere lo sguardo verso la reception e vedere Nathan e Ashton uscire. Sapeva che era questione di poco – e anche il fatto che quel ‘poco’ non fosse quantificabile lo faceva andare fuori di testa.
Si voltò ancora una volta verso l’entrata della struttura, molleggiandosi sui piedi, nel tentativo di smorzare i brividi di freddo che aveva su tutto il corpo.
Ma non si vedeva nessuno. Non ancora, almeno. Decise così di fare un gioco stupido: avrebbe contato fino a dieci, dopodiché si sarebbe voltato e avrebbe smesso di fissare l’entrata. Poi avrebbe ricominciato, dopo un po’. Si rese conto che il gioco era totalmente assurdo, ma in quel momento non riuscì a pensare a un modo migliore per passare il tempo e sconfiggere l’ansia.
Continuò a fissare l’entrata.
Nove.
Otto.
Si spostò più lateralmente, come se volesse ridurre il suo campo visivo sull’interno della struttura.
Cinque.
Quattro.
Sporse appena la testa per scrutare l’identità dei passanti, ma non intravide né Ashton né Nathan.
Due.
Uno.

Niente. Di loro non c’era traccia.
Con sommo sollievo si voltò, dando le spalle all’edificio. Ma si accorse ben presto che lo stare girato aumentava la sua agitazione, piuttosto che diminuirla; e notò anche che il suo gioco, seppur stupido, aveva avuto l’effetto di distrarlo un po’. Così, decise di ritentare.
Si voltò.
« Alan! »
Fu preso alla sprovvista; ebbe come l’impressione che le due figure davanti a lui si fossero materializzate all’improvviso. Come vide Nathan, con la testa bendata da una garza bianca, provò subito il desiderio di abbracciarlo, ma qualcos’altro, invece, glielo impedì. E forse capì che non era il caso osservando il modo in cui Nathan fissava, con innaturale interesse, il sentiero lastricato davanti al pronto soccorso.
Alan aspettò che il ragazzo alzasse gli occhi, ma non accadde; spostò lo sguardo verso Ashton, che ricambiava. Anche lui sembrava in imbarazzo e indeciso sul da farsi. Alla fine, fu proprio lui a spezzare il silenzio.
« Vabbè, vi aspetto alla macchina. A dopo. »
« Aspetta, vengo con te. »
Alan rimase sorpreso: era stato Nathan a parlare.
« Nathan, aspetta, dobbiamo parlare. »
Il ragazzo sembrò non aver sentito e continuò ad andare dietro ad Ashton.
« Nathan! »
Alan raggiunse il ragazzo a passo svelto, e lo bloccò prendendolo per un braccio. Poi fece un cenno all’altro.
« Ash, vai. Ti raggiungiamo dopo. »
Dopo che se ne fu andato, Alan tornò a rivolgersi a Nathan, notando però che il ragazzo, ancora, non osava guardarlo.
« Come stai? »
« Voglio andare a casa. »
« È meglio se andiamo da me. Almeno posso starti vicino. »
Nathan alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
« Non ho bisogno di te, starò benissimo anche da solo. »
« Nathan, e se hai bisogno di qualcosa? E se ti senti male e non c’è nessuno con te? Non essere sciocco. »
Nathan sbuffò ancora, ma continuava a guardare tutto fuorché Alan.
« Se ho bisogno di qualcosa, chiamo il 911! E ora lasciami tornare a casa. »
« In quell’appartamento che cade a pezzi? E poi non è una zona sicura, la tua. Per diversi motivi. »
« È casa mia, non ti permetto di giudicarla! So badare a me stesso, ed è lì che voglio andare! »
Alan non ribatté. Fissò ancora il ragazzo evidentemente arrabbiato, col petto che si gonfiava e sgonfiava più del solito.
« Va bene. Vai pure a casa. Da solo, a piedi. Di notte. Magari trovi pure qualcuno ad aspettarti sotto casa.  »
Un lampo di terrore attraversò gli occhi di Nathan. E Alan se ne accorse perché il ragazzo spalancò gli occhi, e il suo respiro si mozzò di colpo.
Capì di aver detto qualche parola di troppo. Non era stato lui vittima di un maniaco sessuale, non era lui che era sfuggito per un soffio a una seconda aggressione, non era lui che viveva col terrore di mettere il naso fuori dalla finestra. Si ricordava ancora di come aveva trovato Nathan quella volta, sprangato in casa con le serrande talmente chiuse da non far penetrare neanche un filo di luce.
« Scusa. Ho esagerato. Ma sono preoccupato per te, e mi sentirei più al sicuro se tu stessi a casa mia. Possiamo passare da te a prendere qualcosa, se vuoi. »
Nathan scosse il capo.
« Ci vado domani. »
Poi non disse nient’altro, e si incamminò verso la macchina di Ashton.
 
***
 
Nessuno aveva aperto bocca dall’inizio del viaggio, tranne Ashton che si era voluto accertare dell’indirizzo di Nathan. Poi, da lì, il silenzio. La tensione era talmente densa, nell’aria, che si poteva quasi modellare come la plastilina, concentrata maggiormente nel posto del passeggero rimasto vuoto tra Alan e Nathan. Il ragazzo continuava a guardare fuori dal finestrino; ogni tanto Alan provava a intercettarlo osservando il riflesso sul vetro, ma gli occhi di Nathan scorrevano da un’estremità all’altra solo per seguire il paesaggio.
Rinunciò presto alla possibilità di avere un qualsiasi contatto con lui, mettendosi a sua volta a fissare qualsiasi dettaglio degno di un qualche interesse: il rivestimento del seggiolino, la maniglia per arreggersi, la lunghezza dello spazio per i piedi davanti a lui.
Dopo circa un quarto d’ora con il silenzio come ospite d’onore, arrivarono a casa di Alan.
« Grazie per il passaggio, Ash. »
« Figurati. Se avete bisogno di qualcosa, fate un fischio. »
Alan ringraziò ancora e scese dall’auto, seguito poco dopo da Nathan.
Non appena l’auto se ne fu andata, Alan provò un senso di disagio. Ne fu in qualche modo turbato: per tutta la sera aveva avuto Ashton accanto, e aveva pensato solo a Nathan e alla sua salute. Ma, in quel momento, Ashton non c’era più e Nathan stava bene. I pensieri sulla salute del ragazzo cominciavano a fare spazio ai pensieri sulla serata, prima dell’incidente. Stava cominciando a pensare al perché erano in quella situazione, a cosa era successo.
E forse, per la prima volta, capiva l’atteggiamento di Nathan nei suoi confronti.
Pensò rapidamente a cosa poteva fare per districarsi tra le fronde di quella ingarbugliata situazione tutt’altro che facile; ma, voltandosi verso Nathan, capì che ormai non poteva più tirarsi indietro e che doveva tener fede all’impegno preso.
Il ragazzo si teneva a debita distanza da lui, continuando a guardarsi intorno preoccupato. E, soprattutto, ancora non gli aveva concesso nemmeno un’occhiata, nemmeno per sbaglio. Alan provò ad attirare la sua attenzione.
« Vieni? Ho aperto. »
Nathan non parve affatto sorpreso, segno che stava seguendo i movimenti di Alan, anche se non lo dava a vedere.
 
Quando furono entranti in casa, il rumore del silenzio tornò a tormentarlo, e il disagio per quella situazione toccò punte estreme. Posò il mazzo di chiavi nel contenitore sul comodino dell’ingresso e si voltò verso Nathan, che aveva ancora lo sguardo falsamente perso in qualche dettaglio. Avrebbe voluto dirgli che quella situazione gli pesava, che voleva parlare il prima possibile per chiarire. E invece optò per la scelta opposta.
« Senti, per stasera andiamo a letto. Sono stanco anch’io. Puoi dormire nel letto, se ti va. »
« Dormo sul divano. »
« Il divano non è affatto comodo, parola mia. Dai, prenditi il letto e non protestare. »
Nathan non rispose, e Alan lo prese come segno d’assenso; si voltò e si incamminò verso il bagno, pronto a prepararsi per una lunga notte.
« Sei un insensibile del cazzo! »
Non fece in tempo a girarsi verso Nathan che il ragazzo lo superò con una spallata, per poi rifugiarsi in bagno, chiudendosi dentro a chiave. Avvicinandosi alla porta, lo sentì singhiozzare.
Poi capì.
Come aveva potuto inciampare su una cosa tanto ovvia?
Ripensò a quello che aveva visto quel pomeriggio d’ottobre. Nathan e il maniaco, che stava abusando del ragazzo.
Sul suo letto.
 
Cominciò a definirsi con i peggiori epiteti del mondo. Non solo aveva fatto soffrire Nathan sia fisicamente che emotivamente, quella sera; aveva avuto pure il coraggio di infierire, seppur in buona fede, costringendolo a stare da lui e invitandolo a dormire su un letto che lo aveva segnato per sempre.
Capì che forse l’unica cosa da fare era lasciare Nathan un po’ da solo, farlo respirare. L’atmosfera tra i due era quanto di più pesante potesse esserci.
 
***
 
I singhiozzi di Nathan si placarono dopo circa mezz’ora, anche se si erano alternati a momenti di relativa calma. Alan aveva deciso di andarsene a letto, ma non riusciva a prendere sonno. Dopo che la sua mente fu riuscita a calmarsi in merito al suo ultimo passo falso, si trovò solo con se stesso e cominciò a riflettere.
Quella sera erano successe talmente tante cose che forse non le aveva nemmeno assorbite tutte. Ogni minuto che passava, però, la scoperta di quella sera si faceva spazio sempre più prepotentemente.
Nathan si prostituiva.
Ogni sera si concedeva a una manciata di uomini e si curava del loro piacere.
Si accorse che faceva fatica a concretizzare quel concetto nella sua testa, a credere che fosse realtà e a farlo suo. Gli sembrava così improbabile che il suo Nathan potesse fare una cosa del genere.
C’era solo una parola che rimbalzava da una parte all’altra della sua testa.
Perché?
Per quanto cercasse una spiegazione razionale, non la trovava, anche se molti tasselli cominciavano ad andare al loro posto: il fatto che non ci fosse mai la sera, la sua stanchezza perenne la mattina o il solo essere stranamente irreperibile al bar. Ma non si sentiva arrabbiato con lui; provava solo un sentimento di rabbia verso se stesso. L’essere stato così cieco, fino a quel momento, gli aveva impedito di conoscere ogni lato di quel ragazzo nel suo bagno; se solo fosse stato un po’ più attento, si rimproverò, forse avrebbe potuto evitargli tutte quelle esperienze negative che aveva dovuto subire.
E forse sarebbero stati ancora insieme.
Forse.
 

Sera a tutti! XD Bene, siamo entrati nel vivo della vicenda u.u Adesso né Nathan né Alan possono più scappare, possono soltanto affrontare la situazione. Devo ammettere che è stato difficile scrivere questo capitolo, per cui spero che vi piaccia! 
Vi do appuntamento a martedì prossimo, dove vedremo le reazioni di entrambi di fronte alla doppia vita di Nathan...
Alla prossima :)

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Faccia a faccia ***


12. Faccia a faccia
 
 
 
11 gennaio 2005.
Aveva sognato.
Si trovava ad Hunts Point, insieme a Hank, come di consueto. Il freddo a intorpidirgli il naso, le battute stupide del suo amico, e l’attesa di qualche cliente che si fermasse. Poi, una macchina. Il solito scambio di battute, e poi la domanda, “Quanto prendi?”.
Ma, come il cliente abbassava il finestrino, si rendeva conto che lì dentro c’era Alan.
Aveva scoperto tutto.
Il tempo si era come fermato: le altre macchine non esistevano più, così come Hank e il freddo. Il suo nuovo ospite era il terrore, e si era impossessato di lui.
Voleva fuggire.
Provò a muovere una gamba, per fare un passo indietro da quella scena, ma non ci riusciva; provava allora a spostare l’altra, ma si sentiva come una scultura di pietra nata solo per la metà superiore.
Non poteva e non voleva arrendersi; provò nuovamente il desiderio di scappare, sempre più lontano, anche se non ci riusciva. Vedeva Alan davanti a sé avvicinarsi sempre più, nonostante non riuscisse mai a raggiungerlo.
Voleva scappare, ma non si muoveva; Alan si avvicinava a lui, ma non arrivava mai abbastanza vicino da toccarlo.
Lo spazio e il tempo avevano smesso di esistere, almeno nella forma canonica che aveva sempre conosciuto: la notte sembrava essere stata risucchiata dal buio, i suoni erano distorti in stridii incomprensibili. E i movimenti, anche i più banali, sembravano impossibili da compiere.
Poi, la calma. Nathan si trovava sulla strada, da solo. La notte aveva riavuto le sue stelle, le auto il loro clacson da suonare. Il terrore aveva lasciato il posto a un’innaturale tranquillità. Dentro di lui, sentiva che c’era qualcosa di brutto, nell’aria, ma la calma apparente di tutto ciò che lo circondava lo convinse a stare tranquillo.
 
Aprì gli occhi. Gli ci volle qualche secondo per realizzare che, davanti a lui, c’era lo schienale di un divano. Qualche altro secondo per capire che, su quel divano, ci era disteso.
Aveva dormito lì.
Qualcosa gli pizzicò il mento, e si rese conto che aveva, sopra di sé, una coperta di lana. Il problema è che lui non ricordava di essere andato a dormire con una coperta di lana sopra.
Fu un flash.
Improvvisamente, tutti i ricordi della sera prima gli tornarono alla mente. Si sentì mancare l’aria e un qualcosa bloccargli l’ossigeno in gola.
Si voltò istintivamente verso il resto della stanza, ma non c’era nessuno, e non gli ci volle molto a riconoscere il soggiorno della casa di Alan. Si tirò un pizzicotto su una guancia, tanto per assicurarsi che quello non fosse il proseguimento di quel sogno assurdo che stava facendo; ma, con suo sgomento, il pizzicotto gli fece male, lasciandogli una sensazione più che vivida sulla guancia.
 
Era notte fonda. E ciò lo preoccupò decisamente, visto che sapeva di non riuscire a dormire con un pensiero martellante in testa.
Ripensò alla scena della sera prima. Non era svenuto di proposito, ma era stato così grato al suo corpo per aver reagito in quel modo. Poi si ricordò di come Alan lo aveva invitato a casa e di quella battuta infelice. Gli tornò in mente quel pianto dirottato accovacciato in un angolo del bagno, forse sperando che Alan bussasse più e più volte per chiedergli come stava.
Per un momento barcollò tra il sogno e la realtà, chiedendosi se tutto quello fosse realmente accaduto. Si portò una mano alla testa e notò la benda. Almeno la caduta era stata reale.
Dopo qualche minuto, il senso di torpore lasciò la sua mente e il mondo intorno a lui acquistò maggiore credibilità.
 
Si ributtò sul divano, e cominciò a pensare. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare la questione con Alan – capendo che era quello il vero motivo per cui l’aveva portato a casa sua -, ma non sapeva davvero da dove cominciare.
O forse, ciò che più temeva era uno sguardo sprezzante e disgustato. Che cosa avrebbe pensato Alan, una volta avuta la conferma di ciò che era il suo lavoro?
Sapeva che Alan, come chiunque altro, sarebbe esploso, e che l’avrebbe sommerso di cattiverie e insulti. Era condannato a quell’evento, e il sapere che sarebbe accaduto lo faceva stare ancora peggio.
 
Sentì dei passi. Si rintanò frettolosamente nella sua coperta, faccia a faccia con il divano. I passi si fecero sempre più vividi, finché Alan non arrivò in soggiorno.
Trattenne il respiro e aspettò che Alan si muovesse. Lo sentì andare in cucina, che si trovava dietro di lui, aprire il frigo e prendersi qualcosa da bere.
Il fiato cominciava a mancargli, così rilasciò l’aria a poco a poco, per poi ispirarne altra con lo stesso ritmo. Continuò a centellinare l’ossigeno finché non gli fu chiaro che Alan era tornato in camera. Era già pronto a tirare un silenzioso sospiro di sollievo, quando si accorse che la luce della camera era rimasta accesa. Tenne gli occhi aperti per una manciata di minuti, ma la luce era sempre accesa; gli fu chiaro quasi subito che Alan non aveva intenzione di tornare a dormire e che, probabilmente, si era messo a fare qualcosa.
Si trattava di scegliere il momento della sua esecuzione. Alla fine, dopo aver raccolto tutto il coraggio di cui era capace, tirò fuori una gamba dalla coperta. Pensò a lungo se tirare fuori anche l’altra o se continuare a stare rintanato, al sicuro, sotto quei quadrati rossi di lana. Dopo attimi di esitazione, spostò tutta la coperta verso il divano, scoprendo completamente il suo corpo. Si mise seduto sul divano e infilò le ciabatte su cui planarono i suoi piedi, che riconobbe poi essere quelle che usava abitualmente a casa di Alan – e che non ricordava di aver messo sotto al divano. Fece un respiro profondo. Il silenzio di quella stanza era riempito soltanto dal battito del suo cuore e da qualcosa che gli sembravano dita battute sui tasti di un computer.

Si alzò, e il cigolio prodotto dalle molle indicò chiaramente che lui si era alzato. E Alan doveva averlo capito, se stava attento ai rumori di casa.
Il ticchettio delle dita sulla tastiera cessò. In compenso, però, sentì Alan alzarsi dal letto e cominciare a camminare.
Usciva dalla camera.
Attraversava il piccolo corridoio.
Arrivava in salotto.
Lì, davanti a lui.
Nella penombra concessa dalla luce dell’alba, i loro sguardi non poterono far altro che attrarsi. Alan lo fissava, ma Nathan fu incapace di capire quale sentimento si stesse agitando nell’altro. Era un sguardo privo di qualsiasi espressione e di qualsiasi smorfia.
Nathan era profondamente irritato; avrebbe voluto dire qualcosa per spezzare quell’aria irrespirabile, ma l’impenetrabilità dei sentimenti di Alan gli impedivano di dare la giusta intonazione alla sua frase. Forse doveva solo tenersi più neutro possibile, ma non era sicuro che fosse la soluzione migliore.
Quando fu convinto di aver trovato il momento giusto – o meglio, quello meno sbagliato - , disse la prima sciocchezza che gli passò per la mente.
« Sei sveglio. »
Era sicuro che la voce gli avesse tremato, e forse non era la sola cosa; ogni attimo che passava in cui Alan stava zitto, senza muovere un muscolo del suo viso, faceva crescere in Nathan la voglia di tornare indietro nel tempo, di non accettare l’invito a rimanere, o di non alzarsi più da quel divano.
« Perché? »
Pronunciò quella domanda con un’intonazione talmente ambigua che Nathan non seppe bene cosa rispondere. Rispose quasi mangiandosi le parole.
« Niente, così, sai, pensavo dormissi. »
Alan sbuffò talmente forte che Nathan si zittì subito, capendo al volo di aver scelto la risposta sbagliata. Alan non gli stava chiedendo perché gli interessava che fosse sveglio; gli stava chiedendo il perché di un’altra cosa.
E così, quel momento era arrivato. Il momento in cui avrebbe sputato fuori tutta la sua verità. E sapeva che sarebbe stato orribile, perché avrebbe rivangato ricordi spiacevoli e la situazione sarebbe solo peggiorata. Avrebbe sofferto inutilmente; ma forse, pensò, se lo meritava.
« Voglio sapere tutto. »
Pensò che sarebbe stata un’altra frase atona, e invece caricò quel ‘tutto’ di qualcosa che somigliava a un sentimento. Sembrava che Alan stesse cercando di mantenere un certo aplomb, ma il tono di voce più basso al termine della frase tradiva ogni sua sicurezza.
Alan cominciò a trafficare con qualcosa alla sua destra, sbatacchiando continuamente un piccolo oggetto che sembrava essere di plastica; ma solo quando la luce della lampada si accese, illuminando fiocamente l’ambiente, capì che stava solo cercando l’interruttore della luce. Adesso erano davvero faccia a faccia, e non poteva più beneficiare del buio, che avrebbe potuto nascondere qualche incertezza.
Nathan buttò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni e si mordicchiò un labbro, mentre cercava le parole per iniziare la sua confessione.
« Avevo… »
Si interruppe. La frase era già stampata nella sua mente, ma gli sembrava così banale! E allora provò a cambiare qualche parola, il loro ordine, a cercare dei sinonimi. Cestinava alcune parti e poi le ripristinava, per poi buttarle di nuovo.
« Ti ascolto. »
Ancora una volta, Nathan non riuscì a capire: Alan non tradiva la minima emozione. Alla fine, si rese conto che era inutile la forma che cercava di dare al suo racconto; non avrebbe fatto cambiare il contenuto.
E così maledisse ogni tentativo di limare e studiare il suo discorso.
Fece nuovamente un respiro profondo, poi cominciò.
« Avevo diciotto anni. Vivevo in casa con i miei. Una famiglia felice, come tante altre. All’epoca ero fidanzato con un ragazzo, il primo che avessi mai avuto. Ovviamente, in casa nessuno sapeva niente. »
Nathan cominciò a prendere confidenza con quella chiacchierata, e si spostò nuovamente sul divano, dove si sedette. Continuò.
« Volevo molto bene ai miei genitori, e non mi andava di mentirgli ancora. Così, una sera, tornai a casa con il mio ragazzo di allora, con l’intento di presentarlo a tutti, ma trovai solo mio padre in casa. Come lo vidi, capii che non avevo abbastanza coraggio per dirgli tutto. E così decisi di rimandare. Il caso volle, però, che mio padre stesse guardando fuori dalla finestra proprio mentre stavo baciando Harvey, per salutarlo. Mio padre non era un cretino e capì tutto subito. Che avevo un fidanzato e che era un ragazzo. Ma, purtroppo… »
Si interruppe. Nella sua testa si formò un ricordo che troppo spesso aveva cercato di non richiamare e che, forse, aveva cercato di seppellire in qualche luogo recondito della mente. Suo padre che gli sbraitava contro, che lo insultava con epiteti che non riusciva a ricordare, forse a causa di una censura involontaria, e quelle cinque dita che gli lasciarono più di un segno. Quello, purtroppo, lo ricordava fin troppo bene.
« Tuo padre non l’ha presa bene. »
« No. »
Nathan si alzò e cominciò a percorrere avanti e indietro lo spazio che intercorreva tra il divano e la finestra subito dietro. Quel ricordo gli passò per la mente attimo dopo attimo, e solo quando fu finito riuscì a smettere di camminare isterico.
« Mi ha cacciato di casa. Mia madre era sempre stata troppo debole per imporsi a lui, e così non riuscì a fare niente per riportarmi indietro. Poi, legalmente, non avevo nessun obbligo di rimanere con loro. Mio padre era inattaccabile. D’altra parte, con un clima del genere, nemmeno io morivo dalla voglia di tornare. E così, presi i pochi risparmi che avevo e mi trovai una catapecchia dove stare. E mi trovai un lavoro. »
La smorfia sul viso di Alan costrinse Nathan a fare una precisazione.
« Un vero lavoro. In un ristorante. »
Nathan fece una pausa. Raccontare quella parte non era stato facile, ma almeno era una cosa che riguardava soltanto lui. Si rese conto che la parte successiva aveva a che fare anche con Alan, e si sentì improvvisamente macchiato di qualche peccato, nell’aver condotto due vite così spudoratamente. Si sedette di nuovo sul divano e proseguì.
« Andai avanti così per circa tre anni, ma vivevo di stenti; le spese erano tante e io non ce la facevo più. Non mi concedevo mai uno svago, niente. Dovevo pagare l’affitto, le bollette, la spesa. Non potevo farcela. In altre parole, avevo bisogno di tanti soldi in poco tempo, almeno per respirare un po’. E così… »
Fino a quel momento si era sforzato di guardare Alan negli occhi il più possibile; ma in quell’istante la sua corazza cadde in un colpo, e abbassò lo sguardo repentinamente. Si rese conto che si vergognava: sia per ciò che stava raccontando, sia per il solo fatto di aver cercato un simile lavoro.
« Ho capito. »
Nathan cercò di scrutare i movimenti di Alan. Aveva le sopracciglia abbassate e le palpebre tese. Si aspettò che dicesse qualcos’altro, ma le labbra così serrate gli suggerirono che avrebbe voluto parlare il meno possibile.
« Non l’ho fatto volentieri. »
Alan urlò.
« Ho capito! »
Le labbra di Alan si serrarono ancora di più, fino a che non le rilassò e non parlò ancora.
« Ho capito. Non aggiungere niente. Non voglio sentire altro! »
Nathan si alzò in piedi, stringendo i pugni.
« Io invece voglio che tu sappia che la cosa mi faceva ribrezzo! »
« Stai zitto! »
Di fronte a quelle urla, Nathan si zittì davvero. Ma, passato quell’attimo di sgomento, ribatté.
« Ci pensavo a te, mi sentivo in colpa, mi faceva schifo tutto quanto! »
Alan si avvicinò a grandi passi verso di lui, sovrastandolo con la sua altezza.
« E allora perché non mi hai chiesto aiuto, quando hai potuto? Perché? »
« Non volevo certo essere il tuo mantenuto! Volevo essere indipendente, non mi sarei mai abbassato a chiederti dei soldi! E poi, per quanto? Per quanto tempo sarebbe andata avanti, la cosa? »
« Se tu avessi abitato da me, non avresti avuto bisogno di un lavoro così! Ti saresti potuto accontentare di un vero lavoro al bar o dove ti pare! »
« Non volevo venire a vivere da te solo perché non ero capace di mantenere me stesso! »
« Potevi almeno parlarmi dei tuoi problemi economici. Ma no, hai ragione, più facile così. E poi, be’, io della tua vita è meglio se non so nulla, vero? Tanto decidi tu cosa mostrarmi. »
« Non volevo essere un peso anche per te. Non volevo che anche tu fossi costretto a badare a me, a mantenermi. »
Alan scosse il capo e si allontanò, dandogli le spalle.
« Basta, non voglio più sentire le tue scuse patetiche. »
« Non sono scuse patetiche! È la verità! »
Alan stava per imboccare il piccolo corridoio che portava in camera sua, ma si fermò poco prima, rivolgendosi verso Nathan.
« Sì, hai ragione. Non sono le tue scuse a essere patetiche. Tu sei patetico. »
Alan lo fissò sprezzante per qualche istante; poi, entrò in camera sua e ci si chiuse dentro.

Era quello l’epilogo che si aspettava. Per un attimo aveva sperato che Alan fosse più bendisposto nei suoi confronti; gli atteggiamenti della sera prima lo avevano ingannato. Era stato così premuroso nel soccorrerlo, nel preoccuparsi per lui, nel mettergli una coperta perché aveva freddo. Ma era stato uno sciocco nello sperare che quelli fossero i suoi veri sentimenti riguardo a tutta la faccenda. Capì che la sera prima Alan era stato probabilmente preso alla sprovvista dall’incidente, e quindi si era concentrato solo su quello, lasciando da parte tutto il resto.
Ma le parole di Alan erano state indubbiamente taglienti.
In un attimo pensò addirittura che avesse ragione. Le sue erano scuse patetiche, e lui stesso lo era.
Una lacrima gli rigò la guancia, e fu ben presto seguita dalle molte altre che, da tempo, scalpitavano per uscire.
Da una parte, però, si sentiva un po’ in colpa, perché Alan non gli aveva posto la domanda che, forse, aspettava più di tutti. Non si trattava tanto del perché lo avesse fatto; ma del perché avesse continuato, dopo la discreta somma che aveva accumulato nel tempo.
E per questo, quasi come una catarsi, era disposto ad accettare tutte le cattive parole che Alan gli aveva e avrebbe riservato, nonostante il dolore che gli provocavano.
Pensava di meritarselo.
Sgattaiolò sul divano, porgendo un orecchio ai rumori ambientali, sperando di captare qualche segnale da Alan, ma fu tutto inutile.
Passò gran parte del tempo a rimuginare su quanto accaduto: le parole gli Alan gli rimbombavano da un lato all’altro della testa, che ben presto gli fece male. Alla fine, si accorse che stava perdendo il contatto con la realtà; le parole diventavano sempre più sfumate, a tratti incomprensibili, fino a che la scena non svanì completamente.
 
Un rumore di passi lo svegliò di soprassalto, probabilmente perché si era addormentato, ma non era ancora entrato nella fase di sonno profondo. Istintivamente si tirò su e si voltò, trovando Alan lì, in piedi, dritto davanti a lui.
La maschera sul volto dell’uomo sembrava finalmente essersi sgretolata, almeno in parte, e si vedeva che non c’era più traccia di rabbia o disprezzo.
« Scusami, Nathan. Ho esagerato. Mi dispiace. »
Nathan scosse il capo.
« Non devi scusarti. »
Avrebbe voluto continuare, spiegare le ragioni per le quali non poteva accettare quelle scuse, ma si bloccò. Ogni parola in più gli sembrava superflua. Dal canto suo, nemmeno Alan insistette.
« Ci sono ancora delle cose che vorrei chiederti. E alle quali vorrei che rispondessi sinceramente. »
Nathan sorrise, disorientato.
« Non l’ho fatto, finora? »
Alan non disse nulla.
« Vorrei che tu mi parlassi di Sánchez. »
Nathan rimase in silenzio per qualche secondo. Scrutò la situazione e cercò di capire il perché di quella domanda, con scarsi risultati.
« Che cosa ti devo raccontare? »
« Tutto. Come vi siete conosciuti e cosa… »
« Non ci siamo conosciuti! »
« Va bene. Allora vorrei sapere come c’è finito nel mio letto. »
Alan si spostò verso la serranda dietro al divano, e la tirò su, facendo entrare i raggi del sole nella stanza, illuminandola. Nathan si coprì gli occhi socchiusi, aspettando che si abituassero alla luce. L’uomo prese poi posto accanto a lui, sulla poltroncina adiacente il divano.
Ogni tanto, Nathan era convinto di veder sparire dal volto di Alan quel sentimento di comprensione, soprattutto mentre fissava vacuo il pavimento per qualche attimo, aggrottando le sopracciglia e facendo sparire quell’abbozzo di sorriso riparatore.
« Erano i primi di ottobre. »
Nathan notò che Alan aveva spostato lo sguardo verso di lui.
« Una sera, lui si è finto un cliente. E mi ha minacciato. »
Pronunciava ogni parola con insolita lentezza, quasi a voler misurare l’effetto che ciascuna di esse poteva avere su Alan. Che, fino a quel momento, non sembrava eccessivamente turbato.
« Lui ci pedinava. Sapeva tutto di noi. Di me, di te… Tutto. Mi ha minacciato dicendo che voleva… »
Si portò la mano sulla fronte, e fece scorrere le dita su di esse, quasi nascondendo il volto col palmo della mano.
« Voleva possedermi qui, in casa. Se non avessi accettato, ti avrebbe spifferato tutto. Non so se lo avrebbe fatto davvero. Sapevo solo che aveva tutti gli strumenti per farlo. »
« E quindi tu hai pensato che era meglio cedere, piuttosto che dirmi tutto. Però, sono rientrato al momento sbagliato. E sai, Nathan, più mi parli di questa storia e più sono felice di essere tornato prima, quel giorno. Riesci perfino a farmi essere quasi felice dell’unica cosa che mi ha tormentato in questi ultimi mesi. »
Nathan si sentì nuovamente gli occhi pieni di lacrime. Ma era la sua punizione, si diceva; se lo meritava. Lasciò passare qualche momento, aspettando che il nodo in gola si sciogliesse.
« Avevo paura a dirti tutto. Non volevo… questo. »
Alan si alzò e prese a gironzolare per la stanza, pensieroso.
« Quindi non avevi effettivamente nessun legame con Sánchez. Potremmo dire che era ossessionato da te. »
Nathan scaraventò via la coperta che ancora lo copriva in parte, e scattò in piedi.
« Mi stai interrogando o stiamo parlando? »
Alan non rispose. Percorse il perimetro intorno al tavolino posto davanti al divano e alla poltrona, poi si fermò davanti a Nathan.
« Vai pure a casa, se vuoi. Non ho altro da chiederti. »
Pronunciò quelle parole con una tale freddezza che sembrava davvero la fine di un interrogatorio; anzi, forse il poliziotto di turno sarebbe stato più gentile, premurandosi di non far preoccupare colui che aveva di fronte. Alan andò verso la sua camera, senza mai voltarsi.
Ma non fece in tempo a imboccare il corridoio, che qualcuno suonò alla porta. Fu solo in quel momento che Nathan buttò un’occhiata all’orologio, notando che erano già le otto.
Con un sospiro scocciato, Alan andò ad aprire alla porta; guardò dallo spioncino chi era l’ospite e si fermò con la mano sulla maniglia.
Fuori si sentiva una voce che chiedeva di aprirgli.
Sospettò di essere lui stesso il motivo per cui Alan esitava nell’aprire la porta, ma la curiosità e una leggera ripicca lo spingevano a non muoversi di un millimetro dal salotto. Se Alan avesse aperto la porta, l’ospite si sarebbe subito accorto della presenza di Nathan.
Capendo che ormai non aveva più molta scelta, Alan aprì la porta.
L’ospite, un giovane ragazzo moro, salutò Alan con un bacio sulle labbra.
Poi si voltò verso Nathan, ed entrambi abbandonarono il sorriso che avevano tenuto fino a quel momento.
« Tu! »
Nathan puntò il dito verso Jack.
« Tu sei… sei il ragazzo dell’università! Quello che mi ha parlato! »
Alan aggrottò le sopracciglia e si rivolse a Jack.
« Che è questa storia? »
« Ci siamo parlati all’università, ma è stato un caso. Non avevo idea che tu fossi… »
Nathan scoppiò in una risatina sommessa e si avvicinò agli altri due.
« No, certo, non avevi idea. Prendi il primo studente che trovi, tra migliaia, e gli parli. Così, dal nulla. Cos’è, vi eravate messi d’accordo per spiarmi? »
Alan alzò le mani e si intromise tra i due, separandoli.
« Smettetela! Jack, che storia è questa? »
« Sì, Jack, è proprio così che ti chiamavi. Che cavolo volevi da me? »
Gli tornò in mente il pomeriggio della Vigilia in cui aveva bloccato Alan prima che andasse chissà dove, in macchina con qualcuno. Pensò che probabilmente, in macchina, c’era proprio Jack. Fece due più due e capì che i due uscivano insieme, e la cosa lo infastidì. Non che fosse uscito allo scoperto per riprendersi Alan, ma aveva sperato che le sue confessioni portassero il suo ex ad avere di nuovo fiducia in lui.
Jack, comunque, sembrò non gradire il suo tono e si avvicinò a lui, sfuggendo anche alla presa di Alan che cercava di controllare la situazione.
« Tu, piuttosto, che cosa vuoi dal mio ragazzo? »
« Smettetela tutti e due, non mi pare il caso di fare una scenata, qui e ora. »
« Allora, Alan, dimmi cosa ci fa il tuo ex qui! Credi che non abbia notato la coperta? Ha dormito qui da te? Perché? »
« Senti, carino, datti una calmata! »
Improvvisamente, il buio. Poi il salotto di Alan ruotato di novanta gradi.
Il colpo fu talmente forte e improvviso che finì a terra. Solo quando vide uscire il sangue dal naso ed ebbe la bella idea di toccarsi, sentì un dolore allucinante che gli fecero realizzare del tutto il destro che Jack gli aveva appena tirato.
« Che cazzo fai? Calmati, Jack! »
« E allora dimmi cosa ci fa qui! »
« È l’indagine su Sánchez, Jack, è solo l’indagine! »
Il respiro di Jack prese a diminuire in intensità e ritmo, tornando normale poco alla volta.
« L’indagine…? »
« Sì, il maniaco! Stiamo indagando, Jack, lo sai. È solo lavoro. »
Solo lavoro.
Quelle parole furono più letali di dieci pugnalate.
Era stato solo lavoro.
Lo aveva portato a casa perché voleva interrogarlo, non perché era preoccupato; e lo aveva costretto a dire tutto non perché ci tenesse, ma perché doveva ottenere informazioni sul maniaco.
Verificare informazioni.
Si trattava solo di quello.
« Va bene. Ma chi mi dice che questo qua non stia cercando di riprenderti? »
« Jack, fidati, per favore. »
Jack spostò il suo sguardo su Nathan, che si era appena rialzato e teneva un fazzoletto sul naso, cercando in qualche modo di fermare l’emorragia che si era creata. Jack lo guardava come se fosse la nuova minaccia terrestre, un essere mostruoso che andava estinto il prima possibile; teneva le labbra strette e a tratti tremavano, come se fremesse dalla voglia di farlo a pezzi con le sue mani.
« Jack, per favore, vai fuori un momento. Il tempo di chiarire questa faccenda. »
Jack tentò di ribattere, ma Nathan lo fece prima di lui.
« Nessun problema. Me ne vado io. »
Sapeva che Alan non l’avrebbe fermato, preso com’era nel trattenere Jack.
Si chiuse la porta alle spalle, e gli sembrò quasi che anche un altro capitolo della sua vita si fosse chiuso, con quel gesto. Lui aveva fatto pace con la sua coscienza, aveva detto tutta la verità ad Alan e aveva chiuso anche con lui, che ormai si era trovato un nuovo fidanzato.
Si chiese se l’avrebbe più visto e provò un senso di malinconia.
 
Uscì dal condominio e si voltò per imprimere nella sua mente l’immagine di quella bella palazzina. La facciata rifatta da poco, i terrazzi adornati da piante dai fiori colorati e il prato curato e le siepi pareggiate che circondavano il condominio.
Il suo cellulare squillò. Si appartò poco più avanti e estrasse il telefono dalla tasca. Era il numero fisso di sua madre si preparò al peggio.
Esitò, ma rispose.
« Pronto? »
Un singhiozzo esplose dall’altra parte. E riconobbe la voce di Jimmy.
« Fratellone, vieni, ti prego! La mamma… »
Il cuore cominciò a battergli più rapidamente.
« Jimmy, che succede? Calmati! »
Ma dall’altoparlante provenivano anche altri suoni. Erano urla. E suo fratello continuava a singhiozzare.
« Va bene, non preoccuparti. Arrivo subito! »
Sentì Jimmy mugolare qualcosa, in preda al pianto. Lo rassicurò ancora, poi riattaccò.
Doveva muoversi.
 
***
 
Dopo quaranta minuti buoni, finalmente era arrivato. Sceso dalla metro, cominciò a correre verso casa di sua madre. In poco tempo fu davanti al portone, e portò il suo dito davanti al campanello.
Ma lo mandò a quel paese.
Estrasse il mazzo di chiavi dall’altra tasca, e aprì la porta.
Una ventata di urla lo freddò sulla porta, seguito poi da un rumore di porcellane che si spezzano. Avanzò a piccoli passi nel soggiorno, cercando di capire cosa stesse succedendo. I rumori provenivano chiaramente dalla cucina.
Non sapeva bene come comportarsi. Avrebbe prima dovuto cercare Jimmy? O tentare di capire cosa stesse accadendo?
Qualcuno bisbigliò poco lontano da lui.
« Fratellone…! »
Nathan si voltò e Jimmy gli corse incontro, il viso rigato dalle lacrime. Lo abbracciò forte a sé, cercando di calmare quei singhiozzi senza pace.
« Jimmy… »
Il bambino gli tappò la bocca con le sue manine.
« Ssh, ssh! Non farti sentire! »
Udì dei passi dietro di loro.
« Chi c’è? »
Sua madre era proprio lì, ritta sull’uscio della cucina, i capelli tutti spettinati e la vestaglia slacciata.
« Chi siete? »
Nathan si rivolse a Jimmy, che aveva già ripreso a piangere.
« Vai in camera, ci penso io qui. »
Aspettò che suo fratello si fosse chiuso nella sua cameretta, poi si diresse verso sua madre. La donna lo guardava sospettosa, forse domandandosi chi fosse quell’intruso nella sua casa.
Nathan gli posò le mani sulle spalle.
« Mamma, sono Nathan. Sono tuo figlio. »
« Chi sei? »
Gli si stava formando un groppo in gola. Cercando di non far tremare la voce, ripeté quanto detto poco prima.
« Sono Nathan, mamma. Mi riconosci? »
Improvvisamente, sua madre ebbe uno scatto del capo, come colpita da un’illuminazione. Nel cuore di Nathan si formò una nuvola di speranza.
« Pulizie… devo fare le pulizie. Devo spolverare. Chi sei, un domestico? »
Spezzata. Subito.
Ma almeno, gli parve, quella furia distruttiva si era placata.
« Ti aiuto a pulire, mamma. »
La donna tolse le mani di Nathan dalle sue spalle, e si diresse con sguardo smarrito verso la cucina.
Nathan tirò un sospiro di sollievo. Sempre che così si potesse chiamare.
Guardò sua madre allontanarsi verso la cucina, e fu come se quel macigno di piombo che aveva sul cuore fosse stato sostituito con uno di marmo. I suoi passi gli sembrarono ancora più goffi e lenti, il viso più smunto e scavato, la testa che ormai non c’era più. Varcando quella soglia, gli sembrò che sua madre stesse entrando in un mondo senza ritorno, un mondo pieno di mani nere e scure, avide di vitalità umana.
 
La aiutò a pulire tutti i cocci, e fu la cosa più straziante che avesse mai fatto: tra quei frammenti aveva anche riconosciuto la tazza che usava sempre da ragazzo, prima che se ne andasse di casa. Aveva intravisto anche quella di Jimmy, e gli si strinse il cuore sapendo quanto amava quella tazza; cominciava già a immaginare l’espressione rabbuiata di suo fratello, non appena lo avesse scoperto. Di contro, sua madre pareva essersi calmata del tutto:  ogni tanto farfugliava qualche frase sconnessa, ma almeno non rischiava di mettere a soqquadro l’intera casa.
Dopo che ebbero finito, le suggerì di schiacciare un pisolino e sua madre, fortunatamente, acconsentì.
 
Nathan si buttò sul divano, e sospirò. Si passò entrambe le mani sul viso, stanco e stravolto. Jimmy era rimasto in camera come gli aveva intimato, e pensò che fosse il momento buono per fare una telefonata importante. Decise di spostarsi verso l’ingresso di casa, sperando che né Jimmy né sua madre lo sentissero.
Compose il numero di suo padre e chiamò.
« Nathan, sei tu? Che succede? »
« Succede che devi venire, papà. La mamma è completamente fuori di testa e Jimmy è esasperato. »
Dall’altro capo ci fu un momento di silenzio. Poi un sospiro.
« Ho da lavorare, Nathan. Non puoi starci tu finché non torno? »
« Non me ne fotte un cazzo se devi lavorare! Jimmy è pur sempre tuo figlio, non puoi far finta che non esista! Ma non lo capisci che in questo momento è solo? L’avete fatto in due questo figlio, e ora non puoi tirarti indietro così, non puoi scaricare tutto sulle mie spalle! »
Si rese conto di aver urlato. Aveva pure il fiato grosso.
« Nathan… purtroppo il mio turno di lavoro finisce tardi, tutte le sere. Oggi guardo se posso venire, ma non credo di potermelo permettere tutti i giorni. »
Nessuno dei due disse nulla. Gli sembrò quasi che suo padre volesse dire altro, mentre lui fremeva dalla voglia di insultarlo, facendo grandi sforzi per trattenersi. Fu suo padre a continuare la conversazione.
« Sono costretto a chiederti un favore, quindi. »
Nathan esitò un attimo.
« Sentiamo. »
« Portalo da te. Lì almeno c’è pace, un ambiente tranquillo. E poi lui ti adora. »
« Da me? Ma come faccio? Ho l’università, altre cose a cui pensare… Non posso stare dietro a un bambino di nove anni! »
« Se non vuoi farlo per me, farlo per lui. Solo per un po’ di giorni, ti prego. Adesso devo andare. A presto. »
Gli riattaccò in faccia, così, senza nemmeno salutarlo.
Non che la presenza di suo fratello gli pesasse, semplicemente non sapeva nemmeno da che parte cominciare nel prendersi cura di un bambino. Anche perché, erano diversi anni che non vivevano più insieme. Ma a Jimmy voleva molto bene, ed era fortemente legato a lui. Forse uno sforzo poteva provare a farlo.
 
Riemerse dai suoi pensieri, e decise di andare a vedere come stesse suo fratello. Ma, non appena arrivò nei pressi della sua camera, vide un paio di manine sbucare dagli infissi della porta. Come si avvicinò alla porta, Jimmy ritrasse le mani e sparì nella sua cameretta.
« Ehi, campione. Per qualche giorno vieni da me, ti va? »
Jimmy si voltò, e lo guardò imbronciato per qualche secondo. Poi, scosse il capo energicamente. Continuava ad abbassare lo sguardo, come si vergognasse di qualcosa.
« Come sarebbe? Non vuoi stare con il tuo fratellone? »
« Tu non vuoi stare con me. »
« Io… cosa? » Era incredulo. « Ma che sciocchezze stai dicendo? Certo che voglio stare con te. »
Jimmy aggrottò le sopracciglia ancora di più.
« Hai detto che non vuoi prenderti cura di un bambino di nove anni. »
Suo fratello aveva ascoltato la conversazione, ne era ormai certo. Ma come poteva spiegargli perché aveva detto quella frase?
« Jimmy, non era quello che volevo dire. È… una cosa da grandi. Ma lo sai che farò di tutto per prendermi cura di te. »
« Spiegami la cosa da grandi. »
Rimase interdetto. Spiegare ai bambini le cose ‘da grandi’ era notoriamente una cosa complicata. O erano gli adulti a crederlo?
Si sedette sul letto accanto a lui, cercando un esempio adeguato.
« Allora, fammi pensare… Ecco! Ci sono. Supponiamo che preghi tanto la mamma  per comprarti un cagnolino. Si suppone che poi tu te ne prenda cura, giusto? »
Jimmy annuì.
« Ecco. Supponiamo ora che, per qualche motivo, tu non voglia più prenderti cura del tuo cagnolino e che la mamma sia costretta a farlo al posto tuo. Ma non per qualche giorno, ma per molti mesi o addirittura anni. Ti sembra giusto nei confronti della tua mamma? »
« No. »
« Esatto. Qui è la stessa cosa. Sono i tuoi genitori che hanno scelto di averti, e hanno delle responsabilità nei tuoi confronti. Io mi prendo volentieri cura di te quando ce n’è bisogno, ma nostro padre non può pensare che io prenda il suo posto, solo perché lui ‘ha da fare’; deve prendersi le sue responsabilità. Riesci a capire quello che voglio dire? »
Suo fratello assunse un’espressione pensierosa. Fissò un punto vacuo nella stanza, riflettendo su quanto aveva appena sentito. Poi trasse le sue conclusioni.
« … Quindi io sarei il cagnolino? »
Si era preparato a rispondere a qualsiasi domanda da parte di suo fratello, ma di fronte a quella rimase spiazzato. Gli strappò pure un sorriso il fatto che suo fratello si preoccupasse di essere ‘il cagnolino’.
« Ehm, sì, Jimmy, saresti il cagnolino. »
« E la mamma e il papà sono quelli che volevano il cagnolino? »
« Esattamente. »
« E tu sei quello che deve prendersene cura quando la mamma e il papà non lo vogliono più. »
Stava per rispondere ancora in modo affermativo, ma c’era qualcosa, in quella frase, che lo turbò.
« Non è che non lo vogliono più. È che… hanno altri pensieri in quel momento. Però non devono permettere che quei pensieri gli facciano trascurare il cagnolino. »
Jimmy si grattò il capo.
« Non ci capisco più nulla. Però va bene. »
« Scusa, faccio sempre esempi terribili. La cosa importante, comunque, è che starai da me per qualche giorno. E bada che lo faccio più che volentieri, per te. »
Il volto di Jimmy si aprì in un sorriso, e si buttò su di lui con le mani al collo.
« Grazie fratellone. Meno male che ci sei tu. »
Strinse forte a sé il suo fratellino, per poi scompigliargli i capelli in modo affettuoso.
« Ma con la mamma chi ci resta? »
« C’è papa, non preoccuparti. E, inoltre, verrò tutti i giorni a vedere come sta. »
« Come con il cagnolino. »
Nathan sorrise.

 

Buonasera a tutti! E così siamo giunti al Grande Chiarimento. Adesso Nathan ha sputato fuori tutte le sue verità... e Alan non l'ha presa molto bene, direi. Poi si è aggiunto anche Jack, a complicare tutto... Vi prego, non odiatelo! XD Avrà la sua occasione per riscattarsi e dimostrare com'è veramente, spero che quei capitoli arrivino presto :)
Ci vediamo il prossimo martedì con un capitolo... misterioso!
Ne approfitto anche per ringraziare di cuore tutte le persone che hanno messo la storia tra le seguite, preferite o che hanno recensito... significa molto per me, grazie! *__* È bello vedere che qualcuno apprezza il lavoro sul quale hai davvero lavorato sodo. Quindi grazie, grazie, grazie!
Adesso vi saluto davvero, a martedì :)

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Memories ***


13. Memories
 
 
???
 
Non fu il candido suono di una sveglia a destarlo. Udì invece i borbottii di sua madre, che si muoveva nevrotica da una parte dall’altra della stanza, rimettendo a posto il disordine e strattonando le tende per far entrare la luce.
Si strusciò gli occhi, e uno sciame di freddo lo avvolse appena uscito dalle coperte. Infilò rapido i piedi nelle calde ciabattine, anonime come non mai, e scappò in bagno per sfuggire alle lamentele di sua madre. Aveva ormai imparato a vestirsi da solo, nonostante i suoi sette anni. Arrivava a malapena a prendere lo spazzolino dal mobiletto adiacente lo specchio e, quasi come a fargli un dispetto, lo trovava regolarmente su un piano più alto rispetto a dove lo aveva lasciato. Necessitava perciò di un instabile panchetto, che aveva una gamba più corta delle altre e che perciò dondolava continuamente. Si spazzolò i denti, in piedi sul panchetto – perché al lavandino ci arrivava a malapena, e arraffò i primi indumenti che trovò in bagno. Indossò pantaloni ormai scoloriti e rattoppati, ma lo erano così bene che per fortuna non si notava; la maglietta, evidentemente troppo grande per lui, aveva l’attaccatura delle ascelle almeno a metà petto, per non dire che poteva benissimo indossarlo come vestito. Qua e là era disseminata di buchi, a causa del tessuto ormai consunto o forse di qualche parassita nell’armadio. Odorava uno strano odore di fumo, e nella mente gli passò fulminea l’immagine – o meglio, l’odore – del profumatore d’armadio che usava sua nonna, portata via dal cielo pochi anni prima. Si guardò i capelli spettinati e il viso smunto, dopodiché uscì dal bagno e corse in camera a prendere lo zainetto.
Entrò in cucina, dove vi era anche suo padre, e lo fissò, in attesa di qualcosa. Lo osservò camminare dal tavolo verso l’acquaio, e poi ancora verso il frigo. Continuò a guardarlo dal basso, con lo zainetto tra le mani. Finalmente suo padre parve accorgersi di lui.
« Che vuoi, stamani? »
Suo padre lo fissò sbiascicando un croissant appena uscito dal frigo. Il ragazzino si armò di tutto il suo coraggio, ma parlò con innocenza.
« Ieri Parker aveva un panino col prosciutto. »
Suo padre schiacciò violentemente il pedale del cestino e scagliò dentro il croissant rimasto. Tornò poi a fissarlo.
« Me ne frego di Parker! Non abbiamo prosciutto! »
« Ma papà, la colazione… »
« Me ne frego! Ti danno la frutta a scuola, no? Mangia quella! »
Udì passettini frenetici provenire dal corridoio, e capì che sua madre stava venendo a dare man forte – non a lui.
« Tuo padre ha ragione! »
Entrò in cucina diretta verso l’acquaio, scansando sgarbata il marito che era a pochi passi da lì.
« La frutta fa bene! Non avrai i tuoi dannati panini. »
La donna cominciò a strofinare le stoviglie incrostate della sera prima, in particolare una bistecchiera col manico d’acciaio.
« E ora fila a scuola! »
Il ragazzino non se lo fece ripetere due volte. Era ben felice di uscire la mattina e di restare a scuola fino a tardi; i suoi genitori avevano optato per il tempo prolungato. Ricordò come avessero girato diverse scuole prima di trovarne una che offrisse questo servizio. Al colloquio col preside, al quale aveva partecipato anche lui, avevano detto che era per motivi di lavoro, ma sapeva bene che non volevano averlo tra i piedi.
Si avviò a passo svelto verso la fermata dell’autobus, trascinando con sé il suo zainetto semi-vuoto. Dentro, oltre al paio di libri che gli servivano per la scuola, portava con sé il suo orsetto Teddy, nome che riconobbe non essere originale ma al quale era ormai affezionato. Era a lui che aveva affidato sempre tutte le sue paure, mentre udiva i suoi genitori litigare, o dopo uno dei soliti rimproveri. Pensò anche alla sua mancata colazione, e si chiese perché non poteva essere come tutti gli altri bambini. I suoi compagni avevano la merenda tutti i giorni, e invidiava tantissimo quelli che avevano sempre la Cioccomerenda, una soffice merendina ripiena di gustosissimo cioccolato al latte. Ma ciò che più gli piaceva della Cioccomerenda era la sorpresa; in ogni confezione era nascosto uno dei personaggi della sua serie tv preferita, Gli Invincibili, e sarebbe piaciuto anche a lui scambiare i pupazzetti con i suoi compagni di classe, o anche solo collezionarli e inventare improbabili storie dei suoi eroi preferiti alla ricerca di galassie nascoste.
Ormai seduto, poggiò il mento sui palmi delle mani, fantasticando sulla Cioccomerenda e gli Invincibili. Accanto a sé, vide un’anziana signora che lo fissava, come se trovasse strano che un bambino di sette anni usasse l’autobus per andare a scuola. Ora che ci pensava, in effetti, i suoi compagni erano sempre accompagnati dai genitori. Solo una volta suo padre si era offerto di accompagnarlo a scuola, ma quell’unica volta fu in autobus e solo per mostrargli il percorso. Da quella volta in poi era sempre andato da solo, anche se per fortuna viaggiava quasi sempre seduto, dato che ormai le facce del bus lo riconoscevano e gli offrivano sempre il posto.  
Perso ormai nei suoi pensieri, vide a malapena arrivare l’autobus e, come ogni giorno, si recò a scuola.
 
***

Era finalmente l’ora della ricreazione; e non ne era felice perché le lezioni lo annoiavano – tutt’altro – ma perché finalmente aveva l’occasione di poter vedere più da vicino i pupazzetti degli Invincibili dai suoi compagni. Spesso li scrutava silenzioso in punta di piedi, cercando di sbirciare dal cerchio che formavano i suoi amichetti. Non gli rivolgevano la parola, figuriamoci se gli avrebbero permesso di giocare con i loro giocattoli! Ma quanto avrebbe voluto possederne uno anche lui…
Intravide in un angolo dell’aula il suo gruppetto preferito, e si avvicinò. Timidamente, quasi di soppiatto, osservò il capetto della classe, Bill, scartare bramosamente una delle sue Cioccomerenda, che mise da parte quasi come se non ci fosse, per arrivare al premio più ambito. Strappò la plastica con noncuranza, e come estrasse il pupazzetto, tutto il gruppo si unì in un grande “Oooh!”.
« Ma quello è… »
« Non è possibile, è proprio… »
« Cavoli, non posso crederci! »
Era proprio lui. Il personaggio più raro di tutta la collezione, così si vociferava: Jordan sputa-fuoco, l’incredibile protagonista che con i suoi getti infuocati sconfiggeva il nemico nelle sue numerose battaglie. I bambini erano estasiati da quel piccolo pupazzetto.
Quanto lo desiderava! Ma si sarebbe accontentato anche del più misero personaggio secondario, pur di poterne avere uno tra le mani. Il bulletto cominciò a pavoneggiarsi davanti a tutti, esibendo il suo nuovo e rarissimo giocattolo; gli altri bambini facevano a gara per chiedere anche solo di toccarlo.
Guardò sconsolato quel miraggio, e fu felice quando la maestra annunciò che sarebbero scesi in giardino: avrebbe distratto la mente.
 
***

Ogni volta sperava in un miracolo, e non ci rimaneva più troppo male se non accadeva: a nessuno dei suoi compagni piaceva giocare con lui. Non ne capiva bene il perché, ma pensò che dovesse essere collegato al fatto che non aveva la merenda come tutti. O che i suoi genitori non c’erano mai. A ogni modo, passava i suoi pomeriggi in giardino a fare su e giù per il prato, e pensava. Pensava a cose strane, ogni tanto gli sembrava di affogare in pensieri troppo grandi per lui, che gli facevano sembrare infantili i bambini. Quando era stanco di camminare si sedeva, e li osservava; oppure raccoglieva fiori nel giardino immaginando che appartenessero tutti a una grande famiglia che si era dispersa, e che fosse suo compito raccogliere tutti gli esemplari uguali per farli tornare nuovamente uniti. Quando non era così, osava. E quel pomeriggio era proprio una di quelle volte. Si avvicinò a un gruppetto di suoi compagni – non lo stesso del mitico Jordan sputa-fuoco – e aspettò che l’ultimo bambino avesse saltato la schiena del suo amichetto. Sbucò da dietro un albero, e provò a parlare.
« Scusate… »
I bambini si girarono, quasi infastiditi, mentre alcuni lo ignorarono completamente tornando a scherzare.
« Avete bisogno di un altro per giocare? »
Si aspettava già la loro risposta, ma era troppo piccolo per smettere di sperare, e sperò.
« Noi non giochiamo con quelli come te! E poi, siamo già troppi, non vedi? »
Contò mentalmente i suoi compagni, e constatò che erano solo sei. Fece spallucce e un sorrisino tirato, dopodiché se ne andò. Dunque non volevano “uno come lui”. Ma cosa aveva fatto di male? Era colpa sua? Quei bambini erano così feroci nei suoi confronti, e mai nessuno gli si era avvicinato, mai nessuno aveva provato a conoscerlo. Sembrava quasi che ci fosse un complotto contro di lui, che qualcuno li avesse avvisati di stargli lontano. Ma chi?

***

Erano passate due settimane da quando Jordan sputa-fuoco era uscito da quella confezione di plastica, e ormai l’interesse stava svanendo. Per i suoi compagni, almeno. Lui continuava a guardarlo sognante e, cosa che lo sorprese molto, cominciò a ponderare assurde teorie per impossessarsene. Ma scacciò subito via quei pensieri dalla testa: non avrebbe teso nessun agguato a Bill, perché rubare era sbagliato.
Nuovamente, la maestra li aveva condotti giù in giardino e lui, come al solito, si mise seduto ad osservare gli altri correre e giocare. Qualche volta aveva sperato che la maestra venisse a chiedergli come mai non stesse giocando con gli altri, ma non si meravigliò più di tanto nel constatare che era l’ennesima persona a cui non importava niente di lui. Il gruppetto di Bill gli passò davanti, e i suoi compagni persero anche tempo nel fargli una linguaccia e a ridergli in faccia. Bill tornò indietro, attirato dai suoi compagni rimasti indietro, e si unì al coro.
« Ma chi abbiamo qui? Lo sfigato! »
Seguirono risatine di tutti i seguaci del capo, molti dei quali stavano con lui più per paura che per amicizia.
Li ignorò, continuando a perdersi nei suoi pensieri, o almeno cercando di dare quell’impressione, finché uno dei compagni di Bill non inciampò, facendo quasi cadere il suo capo. Il ragazzotto si beccò subito una strigliata.
Rise pensando a quanto erano sciocchi i suoi compagni, così intimoriti da un bambino che più di loro aveva solo ciccia e arroganza. Il gruppetto di Bill si allontanò presto, dopo aver visto che non veniva dato loro spago.
La sua attenzione, però, fu catturata da qualcosa nell’erba. Lo riconobbe praticamente subito, ma non volle crederci. Si alzò da dove era seduto, e si avvicinò al misterioso oggetto. Lo scrutò più da vicino, e non poté che confermare la sua teoria: era proprio Jordan sputa-fuoco. E di chi poteva essere, se non di Bill? D’istinto allungò una mano per prenderlo, e poi considerò quanto aveva pensato quella mattina: rubare è sbagliato. Non era suo, e non era giusto che lo tenesse lui. Spinto però da una forza inarrestabile, lo cinse con la sua piccola mano; e provò quasi una sensazione d’estasi nello stringere tra le mani non solo l’oggetto dei suoi desideri, ma addirittura il più raro.
Non sapeva bene cosa doveva farne, in quel momento: non gli andava di essere faccia a faccia con Bill. Guardò la maestra seduta, mentre chiacchierava con una collega. Pensò che lei avrebbe saputo sicuramente cosa fare, e così optò per portarglielo. Ma non fece in tempo a rialzarsi col giocattolo in mano, che un grido lo sorprese.
« Ladro! »
Si voltò, e vide il gruppetto di Bill alla riscossa. Continuava a ripetere quella parola urlando, come sotto shock.
« L’hai rubato! »
« Volevi prendertelo! »
« Maestra, voleva rubarlo! »
La maestra accorse subito. Si fece spiegare rapidamente la situazione dal gruppetto di Bill, poiché lui era incapace di parlare; e si accorse che non solo i suoi compagni erano accorsi, ma anche i bambini delle classi accanto che tanto avevano sentito parlare di quella rarità.
La maestra esitò un attimo, poi si chinò davanti al bambino spaurito. Lo chiamò per nome e lo guardò penetrante. Emise un sospiro, poi parlò.
« Volevi veramente rubarlo? »
Rispose con tutta la voce che aveva in gola.
« No! No, lo giuro! »
Bill gli urlò di tutta risposta.
« Bugiardo! Quelli come te rubano sempre! »
E mentre tentava di proferire la sua confessione di innocenza, i suoi compagni lo guardavano indignati, continuando a chiamarlo “ladro” e “sfigato”.
La maestra chetò i bambini, e si limitò a restituire il giocattolo a Bill. Non fece nient’altro, se non tornare a sedersi sulla sua sedia.
E lui rimase lì, in piedi spaurito, mentre la folla di bambini si allontanava e tornava ai suoi giochi, guardandolo ogni tanto con sguardo torvo.
Gli ci vollero anni per capire chi erano “quelli come lui”; e, col senno di poi, capì che non era solo questione di giocattoli e merendine.

 

Salve a tutti! Eccoci finalmente arrivati al primo capitolo del personaggio misterioso (scusate, me lo concedete uno "stacco" di climax, vero? :D). Si accettano scommesse sulla sua identità... ma sappiate che non vi dirò se avete indovinato o meno :P
Ne approfitto per ringraziare davvero di cuore tutte le persone che seguono questa storia e che mi incoraggiano (e fanno sganasciare XD) con le loro recensioni, mi fanno davvero tanto piacere. Ringrazio anche i lettori silenziosi, mi va bene anche se mi seguite senza dire niente :) L'importante è che la mia storia vi entusiasmi!
Bene, bene. Ci vediamo martedì prossimo con un capitolo chiamato... "Martino, lo spazzacamino"! XD Ehm, no, non è una battuta... Ho deciso di chiamarlo davvero così u.u Nel prossimo capitolo, due personaggi si riavvicineranno, o almeno ci provano, per poi farsi mettere un bel bastone tra le ruote dal destino... Cosa accadrà?
Alla prossima e grazie a tutti!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Martino, lo spazzacamino ***


14. Martino, lo spazzacamino
 
 
 
12 gennaio 2005.
Quella mattina Nathan non aveva avuto corsi, e così era passato da casa di sua madre a riprendere Jimmy. Aveva lasciato che passasse la notte nella sua vecchia casa, in quanto lui aveva alcune faccende da sbrigare; era infatti passato da Hank per dirgli un vago “Per un po’ non potrò venire”, ma non si era esposto più di tanto sulle vere motivazioni che lo avevano portato a quella scelta. Hank, d’altra parte, non aveva minimamente insistito e forse, pensò Nathan, il suo collega non era nemmeno troppo dispiaciuto.

Nathan e Jimmy avevano fatto una puntatina al centro commerciale, trascorrendo la maggior parte del tempo in un negozio di giocattoli. Dopo aver pranzato, suo fratello si mise a guardare la televisione, ma come Jimmy toccò il divano, si addormentò secco fino all’ora di cena: doveva essere esausto. Nathan lo svegliò giusto per mangiare, non sapendo da quanto tempo non toccasse cibo, ma la voracità con cui Jimmy divorò il cibo non gli fece ben sperare.
 
Finita la cena, Jimmy si mise davanti alla televisione su un canale per bambini, mentre Nathan finiva di spazzare e mettere a posto. Assolti i suoi doveri, si sedette finalmente accanto a suo fratello.
« Allora, che stai guardando? »
« ‘Le avventure di Martino, lo spazzacamino’. »
« Oh. Sembra carino. »
« Sì, anche se… vorrei vedere un vero cartone con te. »
« Un vero cartone? »
Jimmy mugugnò pensoso.
« Non hai qualche cartone da vedere? »
Nathan ci pensò un attimo. Aveva qualcosa da vedere, ma sicuramente non erano cartoni. Ebbe però un’idea.
« Ehi, che ne dici di andare a noleggiarne qualcuno? »
Gli occhi di Jimmy si illuminarono.
« Sì, sì! Andiamo! »
« D’accordo. Vado un secondo in bagno e poi ci prepariamo, ok? »
Suo fratello sorrise entusiasta, mentre lui faceva la sua capatina al bagno. Non fece in tempo a mettersi sul water che sentì il campanello suonare. Sentì i passetti di Jimmy andare verso la porta, per poi urlare un sonoro ‘Chi è?’. Si tranquillizzò nel sentire suo fratello non aprire la porta, ma si sentì inquieto quando Jimmy gli annunciò che era ‘un suo amico’.
Chi poteva essere?
 
Uscì in fretta e furia dal bagno, si avvicinò alla porta e sbirciò dallo spioncino.
Era Alan.
Gli aprì la porta per educazione.
« Ciao, Nathan. Disturbo? »
« Te lo dico subito. Non è giornata. Per cui, se hai voglia di litigare, torna un altro giorno. »
Alan abbozzò un sorriso.
« Accidenti. Dovevo aspettarmelo, in fondo. Sono venuto per sapere come stavi e per.... Ah, ma stavate uscendo? »
Probabilmente aveva notato il cappotto di Jimmy. Il quale non perse occasione per raccontare, gioioso, dove erano diretti.
« Io e il mio fratellone andiamo al noleggio a prendere i cartoni! »
Alan si abbassò all’altezza di Jimmy, poggiando le mani poco sopra le ginocchia.
« Davvero? Perché il tuo fratellone non ne ha molti, vero? »
« Già, nemmeno uno! Ma perché lui è grande e non li guarda più. »
« Non bisogna essere bambini per apprezzare i cartoni. A me, per esempio, piacciono molto. »
Di fronte a quell’affermazione, Nathan storse il naso. Tutte le volte che era andato a casa di Alan, non aveva mai visto un solo cartone nella sua videoteca. Dove voleva arrivare?
« Sul serio? A me piacciono tantissimo ‘La bella e la bestia’ e ‘Il re leone’. E a te? »
Sul volto di Alan si dipinse un’espressione che era, a detta di Nathan, di finto stupore.
« Non ci posso credere, piacciono moltissimo anche a me! »
Jimmy sembrava in preda all’estasi di fronte a quella scoperta.
« Ma allora… Potremmo andare a prenderli e guardarli tutti insieme! »
« Oh, ottima idea! » Alan si rizzò, e tornò in posizione eretta, spostando il suo sguardo verso Nathan.
« … Sempre che il tuo fratellone sia d’accordo, ovviamente. Anche perché, in tre, siamo più sicuri. »
Adesso capiva tutto. Alan l’aveva incastrato perfettamente: come poteva dire di no agli occhioni supplichevoli di Jimmy? Come poteva privarlo dei suoi cartoni in compagnia di una persona che li amava così tanto? Senza contare, poi, che in tre erano più sicuri.
Acconsentì, ma non prima di aver fulminato Alan con lo sguardo, il quale, di contro, gli rispose con un sorrisetto soddisfatto.
 
***
 
Le tecniche per convincerti a fare quello che vuole, Alan le conosceva tutte. D’altronde, era il suo lavoro. Era sicuramente strana la sua presenza lì, e Nathan voleva vederci più chiaro. Il fatto che avesse fatto pressione sulle sue debolezze, poi, significava che voleva a tutti i costi un incontro con lui dove non lo mandasse a quel paese dopo cinque minuti. La motivazione, però, gli appariva ancora oscura.
Raggiunse Alan e Jimmy allo scaffale dei cartoni, e l’atteggiamento di Alan gli apparve ancora più enigmatico. Commentava uno a uno tutti i cartoni di cui Jimmy gli parlava, ma in un modo talmente lezioso che gli sembrò che volesse comprare la sua fiducia.
Una volta scelti i preziosi dvd, si avviarono tutti e tre alla cassa, con Jimmy in mezzo a loro due. Nathan tirò fuori i soldi, ma si accorse di non essersi portato dietro abbastanza spiccioli. Si stava già preparando ad annunciare a Jimmy che qualche cartone doveva lasciarlo lì, quando Alan tirò fuori gli spiccioli mancanti dalla tasca dei pantaloni.
« Aspetta, dovrei avere qualcosa anch’io. Ah, ecco qua. »
Una volta pagato, Alan porse i dvd noleggiati a Jimmy, che era talmente radioso che pareva tenesse in mano una reliquia preziosa.
Usciti dal videonoleggio, Nathan si guardò intorno. Era con altre due persone, ma qualche volta l’inquietudine tornava a farsi sentire. All’improvviso, sentì una mano sulla spalla.
Sobbalzò e, quando si accorse che era solo Alan, emise un sospiro scocciato.
« Mi hai fatto prendere un colpo. »
« Nathan, ti sembrerà strano da parte mia, ma sono venuto qui per sapere come stai, come va la testa, il naso. E per scusarmi. Mi dispiace per quello che è successo ieri, la situazione mi è sfuggita di mano. »
« Ah, e che problema c’è? Tanto era solo lavoro, no? »
« Nathan, non volevo dire quello che ho detto. Era solo un modo per calmare Jack, davvero. »
« Ah sì? E perché dovrei crederti? »
« Be’, non sono io quello che-- »
Alan fece per continuare, ma le mani di Jimmy che gli strattonavano i pantaloni gli impedirono di dire altro.
Nathan, per la prima volta in quella serata, fu grato al suo fratellino di essere così euforico. Aveva una mezza idea di come Alan avrebbe concluso la frase, ma, se era come pensava, forse era stato meglio essere interrotti.
In ogni caso, le parole di Alan gli sembrarono strane. Davvero voleva scusarsi con lui? E davvero aveva frainteso le parole del giorno prima?
Quella parte della sua anima che vuole dar sempre un pizzico di fiducia a tutti gli diceva che quelle parole erano sincere, e che, forse, lo scopo di Alan era davvero provare a scusarsi e riconciliarsi; l’altra parte, quella più cinica e razionale, continuava a ripetergli, come un mantra, che non poteva essere vero, che sotto c’era qualcosa.
La sua sfortuna era che non sapeva a chi dare retta.
 
***
 
Alla fine, il resto del pubblico optò per vedere ‘La bella e la bestia’, considerando ‘Il re leone’ troppo strappalacrime per quella sera. Jimmy si guardò l’intero film in collo ad Alan, che rispondeva entusiasta ai commenti del bambino.
Finito il film, suo fratello si addormentò poco dopo. Nathan lo portò in camera, mettendolo a dormire nel suo letto. Tornò poi in salotto, dove trovò Alan in piedi, come se lo stesse aspettando.
La situazione gli apparve problematica. Non sapeva di cosa parlare e non potevano nemmeno litigare: non aveva certo voglia di svegliare Jimmy in quel modo. Decise di sedersi sul divano, aspettando che fosse Alan a parlare. E così fu.
« Piaciuto il cartone? »
Non aspettò nemmeno una risposta, e si sedette accanto a lui. Nathan non disse niente; dopo tutto quello che c’era stato tra loro, gli sembrava strano cominciare una conversazione amichevole come se nulla fosse.
« Non mi vuoi parlare? »
« Non è che non ti voglio parlare, è che non so che dire. È strano parlare così, ora. »
Non aveva nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi. Alan inclinò la schiena fino a trovare il divano.
« Mi dispiace. Va meglio il naso? »
Alan allungò una mano verso il naso incriminato, ma Nathan si allontanò e respinse la mano.
« Sì, sì. Va tutto bene. Non era niente. »
« E la testa? »
« Sto benissimo, Alan, smettila di preoccuparti. »
Nessuno dei due disse nient’altro. Alan continuava a sospirare e spostare lo sguardo da una parte all’altra del soffitto.
« Stasera… » Alan si schiarì la voce. « Stasera esci? »
« No, non esco. Non esco più. »
« Sono davvero sollevato. »
« Non dovrebbe importarti, visto che hai anche un nuovo fidanzatino. »
« Jack non è… Ci frequentiamo e basta. »
« Lui sembra pensarla diversamente. »
Alan si avvicinò di nuovo al naso di Nathan, ma stavolta lui non si spostò.
« Spero che non ti abbia fatto troppo male. »
Nathan sospirò.
« Che cosa vuoi davvero da me, Alan? Ieri non mi hai risparmiato complimenti e oggi invece sembri quasi preoccupato. Credevo che tu fossi arrabbiato con me. »
« Lo sono. Lo sono, e molto. Ma ho avuto tempo per riflettere. E ho capito che anche io ho commesso molti sbagli in questa storia e che non ho il diritto di essere arrabbiato con te più di quanto tu lo sia con me. »
« Parli di qualcosa in particolare? »
Alan annuì debolmente.
« Quel pomeriggio di ottobre tu mi hai detto qualcosa di importante e io ti ho ignorato. Ho creduto per molto tempo che fossero tutte bugie, e invece era tutto vero. Ero talmente accecato dalla rabbia che ti ho abbandonato al tuo destino, quando invece avrei dovuto starti vicino, aiutarti… Credo che tu abbia sofferto molto, e non sono nemmeno sicuro che sia il verbo giusto. Sono molto arrabbiato con te, Nathan, è vero, e quello che ho scoperto in questi ultimi due giorni mi ha fatto molto male. Ma credo che niente possa essere paragonato a ciò che hai dovuto subire, non solo da quel porco, ma anche da me. La mia indifferenza. Vorrei dirti che mi dispiace, ma sarebbe troppo banale. »
Avvenne qualcosa che lo sorprese.
Alan allungò le braccia verso di lui; con una gli cinse la testa, con l’altra il corpo, e lo tirò a sé. Poi, lo strinse forte in quel che voleva essere un timido e inaspettato abbraccio.
Nathan ricambiò il gesto, e la prima cosa che avvertì fu quel delicato odore di dopobarba. Poi seguì il solletico di quei peli ispidi e corti sul collo, che gli pizzicavano la fronte. Per non parlare, poi, di quella zona del suo corpo che quella camicia appena sbottonata lasciava intravedere.
Si abbracciarono così, praticamente immobili, come se l’uno, per l’altro, fosse una delicata bambola di porcellana da toccare il meno possibile per paura di romperla, ma troppo cara e preziosa per non sfiorarla nemmeno.
« Ho sbagliato tante cose con te, Nathan. Non averti creduto mi fa sentire suo complice. Spero che un giorno troverai la volontà di perdonarmi. »
Sussurrò, quasi. Sembravano parole lontane portate dal vento.
« Fratellone… »
Nathan sobbalzò, e in tempo record si liberò dalla presa di Alan. Jimmy era lì davanti a lui, mentre con una mano si stropicciava un occhio.
« Fratellone, non riesco a dormire. Mi racconti una storia? »
« Io… » Si voltò verso Alan, imbarazzato, il quale gli fece un segno d’assenso col capo. « Ma certo, arrivo subito. Aspettami in camera. »
Non appena Jimmy fu scomparso nel piccolo corridoio, Alan si alzò.
« Vabbè, sarà meglio che vada. »
Nathan lo accompagnò alla porta e, ancora una volta, non sapeva che dire. Si imbarazzò ancora di più ripensando alla scena di poco prima.
« Be’, allora… grazie per averci tenuto compagnia stasera. »
« Figurati. Adesso però vado. Buonanotte, Nathan. »
« Ehm… buonanotte. »
Nathan lo fissò, indeciso se salutarlo in modo più affettuoso o meno. Ma i suoi pensieri furono interrotti dalla suoneria di un cellulare, che riconobbe non essere il suo. Alan rispose subito.
« Sì, pronto? Che succede? Cosa? Sánchez? Ne sei proprio sicuro? Va bene, arrivo subito. »
Come Nathan sentì il nome del maniaco si irrigidì tutto.
« Che succede? »
Alan gli mise le mani su entrambe le spalle e lo guardò dritto negli occhi.
« Nathan, ti prego. Giurami che mi hai detto tutto su Sánchez. »
« Non capisco… »
« Ti prego, giuramelo. Tu non lo vedi dal giorno della tentata aggressione vero? »
« S-sì, ma che c’entra…? »
« Va bene. Devo scappare, adesso. Ciao. »
Quando Nathan finì di dire il suo ‘ciao’, Alan era già sparito per la tromba delle scale. Chiuse la porta e si sentì un po’ inquieto. Che aveva combinato Sánchez, così all’improvviso? E cos’era quella specie di giuramento? Non aveva molto tempo per riflettere – Jimmy lo stava aspettando - , ma alcune cose non potevano fare a meno di lasciargli qualche punto interrogativo.
La vocetta di Jimmy lo chiamò dalla cameretta, ricordandogli la storia.
I suoi quesiti avrebbero aspettato.

 

Salve a tutti! Capitolo breve ma che lascia qualche quesito: cosa c'entra il maniaco? E perché Alan fa tutte quelle domande a Nathan? Lo scoprirete martedì prossimo :D
Adesso scappo, ma ringrazio comunque tutti coloro che mi seguono e che commentano: mi fa tantissimo piacere!
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Paranoia ***


15. Paranoia
 
           
16 gennaio 2005.
Si rigirò tra le mani la lettera arrivata tre giorni prima.
L’intestazione riportava la scritta “Decreto di citazione”: era un invito a presentarsi in polizia, quel giorno, per essere sottoposto a un interrogatorio riguardo la morte di Victor Sánchez.
Quando gli era arrivata la lettera e l’aveva aperta, aveva capito subito tutta l’agitazione di Alan di tre giorni prima e perché gli avesse fatto fare quella sorta di giuramento. Dell’omicidio, comunque, non sapeva nulla, se non che Sánchez era morto e lui sarebbe stato interrogato, anche solo come possibile testimone, sull’omicidio.
 
Benché fosse solo un interrogatorio relativo a un indagine preliminare, si sentiva teso.
La sua scarsa conoscenza in fatto di materie legali gli impediva, poi, di capire se lo stessero accusando di qualcosa o se era solo una misura preventiva. In ogni caso, sarebbe dovuto essere lì tra un’ora, e se la stava letteralmente facendo sotto. Aveva pure pensato di non presentarsi, per un momento: ma la lettera diceva chiaramente che, in quel caso, si sarebbe proceduto a un prelievo coatto, e non gli sembrava il caso.
Ogni minuto gli sembrava un secolo. Si era ripromesso di uscire presto per non arrivare in ritardo, ma ogni volta che stava per aprire la porta trovava una scusa per rimanere in casa. Era già andato al bagno tre volte e aveva perso il conto dei tentativi per provare a domare un ciuffo ribelle.
Poi, alla fine, prese coraggio. Si infilò in tasca lo stretto indispensabile e uscì.
 
Era davvero tanto tempo che non metteva più piede lì dentro. Era tutto più o meno come ricordava, tranne la macchinetta del caffè che sembrava rinnovata. Per il resto, c’era il solito squillare continuo del telefono, che fossero chiamate o comunicazioni di servizio; si sentiva chiaramente lo sbatacchiare delle lettere sulla tastiera del computer, così come l’erogare ininterrotto dei distributori. Come si faceva un passo, poi, c’era il rischio di incappare in colleghi indaffarati nel portare fascicoli sulle scrivanie di superiori.
Guardò nervosamente l’ora: mancavano ancora quindici minuti prima dell’ora fissata. Avrebbe potuto farsi un giro là dentro, ma lo stomaco ingarbugliato glielo impedì severamente. Così si sedette su alcune poltroncine adiacenti alla macchinetta, e attese.
In tutto quel via vai di persone, non si accorse che qualcuno si era fermato lì davanti a lui.
« Nathan? »
Dal tono di voce capì subito chi era.
« Ehi, Ash. »
L’uomo prese posto accanto a lui. Si sentiva un po’ teso ripensando a quanto era accaduto qualche sera prima, consapevole del fatto che anche Ashton era a conoscenza della sua doppia vita. Ma l’altro sembrò non farci caso più di tanto.
« Allora, come va? Ti fa ancora male la testa? »
Nathan si portò una mano sulla benda, come se l’avesse dimenticata e la stesse toccando per accertarsi che fosse vera.
« Va un po’ meglio, anche se in questo momento non è la testa, la mia priorità. »
Ashton annuì arricciando le labbra.
« Sì, capisco. Comunque, mi sono informato sulla vicenda, ti faranno solo qualche domanda e ti lasceranno andare a casa. Non hai nulla da temere. »
« Meno male, mi ero già agitato. »
Ashton sorrise divertito.
« Ti va se facciamo un giro, prima dell’interrogatorio? »
Nathan annuì, e seguì Ashton. Si guardava continuamente intorno, era più forte di lui: non sapeva bene come avrebbe reagito se si fosse trovato Alan di fronte. In più, l’ora dell’incontro si stava avvicinando, e cominciava a sentire lo stimolo di andare in bagno.
« Senti Ash… Ma mica mi faranno cose strane, vero? »
« Cose… Ma che stai dicendo? »
« Be’, sai, nei film a volte usano metodi, come dire, poco ortodossi. »
Ashton scoppiò a ridere.
« Appunto, nei film. Tranquillo, non ti accadrà niente. Per non dire che certe cose che fanno vedere nei film sono altamente illegali. Andrà tutto bene, non preoccuparti. »
« Bene, mi sento più tranquillo. »
Per la verità, Nathan era terribilmente nervoso. Il cuore gli batteva frenetico, sentiva le mani piuttosto fredde e sospettava che qualcuno si stesse divertendo ad annodare il suo stomaco. Doveva anche andare in bagno, ma sapeva che non avrebbe aiutato la situazione.
« Dai, Nathan, rilassati. Basta che tu dica la verità. »
« In realtà non ho quasi niente da dire. Non sapevo neppure che fosse morto, non ho guardato molti telegiornali in questi giorni. »
« Lo dirai a chi di competenza, appena arriva…. Eccolo. »
Per un momento si aspettò di trovarsi davanti Alan, ma per fortuna il fato fu dalla sua parte. Non aveva mai visto quell’uomo, e non aveva la minima idea di chi fosse.
Ashton lo invitò a entrare nella sala per essere interrogato. Come sentì la porta chiudersi dietro di sé,  il fiato gli mancò per un secondo. Si voltò per vedere se qualcuno fosse entrato con lui, e si sentì sgomento nell’accorgersi che Ashton non c’era.
E se l’avessero torturato?
L’investigatore, un tale Hamilton, lo fece accomodare con un sorriso.
Una volta seduto, Hamilton gli disse la celebre frase, che ‘ogni dichiarazione potrà essere usata contro di te’, scatenandogli un brivido lungo tutta la schiena; gli comunicò che la falsa testimonianza era un reato punibile con la reclusione, e lo avvertì che, nel caso avesse coinvolto terzi, ne avrebbe risposto in prima persona in qualità di testimone.
Nathan non fece altro che annuire con un cenno piccolo ma secco, mentre il petto gli si gonfiava e sgonfiava.
Dopo aver chiesto le sue generalità, Hamilton cominciò.
« Come avrà avuto modo di leggere nel decreto di citazione, la vittima è un certo Victor Sánchez. Ci risulta che lei lo avesse denunciato il giorno sette gennaio, alle ore 03:30. » Nathan fece un segno di assenso. « Può raccontarci il suo rapporto con la vittima? »
Nathan fece un respiro profondo.
« Per la verità, non conoscevo nemmeno il nome di Sánchez, fino a poco tempo fa. Lui… »
Si bloccò. Per un momento pensò di dire la verità. Che si era finto un cliente per adescarlo e che aveva abusato di lui. Ma il registratore posto lì sulla scrivania gli fece cambiare idea: sarebbe stato messo a verbale, e la cosa lo disturbava. Continuò.
« Lui mi aveva messo gli occhi addosso, non ne conosco il motivo. La mattina del sette gennaio ha tentato di aggredirmi, probabilmente perché… perché mi voleva. »
« Lo voleva in senso sessuale? Voleva avere un rapporto con lei? » Nathan annuì. « Cosa le fa pensare che Sánchez le avesse messo gli occhi addosso? »
Si accorse di aver commesso il primo errore. Teoricamente, lui e il maniaco si erano visti solo quella volta, e il dire che ‘gli aveva messo gli occhi addosso’ era forse stato un po’ azzardato. Cercò di correggere il tiro.
« Non so, in genere uno sconosciuto non vuole avere rapporti col primo che passa. Per questo ho pensato che fosse in qualche modo interessato a me. »
« Perché pensa che Sánchez volesse un rapporto con lei? »
« Me lo ha detto lui. Ha detto che voleva portarmi a letto. »
Hamilton fece scorrere l’unghia del pollice su quella dell’indice: stava pensando.
« Vi siete incontrati solo in quella occasione? »
Nathan respirò. Era tentato dal dire una bugia di fronte alla legge; non voleva che il suo vero lavoro saltasse fuori. Sapeva che era piuttosto rischioso, in quanto Alan, ormai, era  a conoscenza di tutto. Rifletté ancora. Non era necessario dire con chiarezza in quale modo il maniaco lo aveva adocchiato: poteva anche solo dire che lo aveva aspettato sotto casa e trascinato poi nel suo appartamento.
« No. Era già successo un’altra volta. A fine ottobre. Lui ha… ha abusato di me. »
« Quindi non era uno sconosciuto. »
Si meravigliò del fatto che Hamilton fosse completamente passato sopra alla storia della violenza.
« Di certo non lo conoscevo in senso stretto. Non sapevo neanche il suo nome. Ci siamo incontrati solo in queste due… occasioni, se così vogliamo chiamarle. »
Si rese conto che la tensione gli stava giocando brutti scherzi. Si era già incartato due volte, e stava rischiando di rendersi poco credibile.
« Come è avvenuto il primo incontro? »
Nathan si grattò la fronte.
« Be’, ecco, Sánchez mi stava aspettando sotto casa. Mi ha immobilizzato e bloccato, poi mi ha costretto a entrare nel mio appartamento e… e il resto l’ho già detto. »
« Perché, secondo lei, qualcuno dovrebbe appostarsi sotto casa di un’altra persona per abusarne? »
« Gliel’ho già detto, non lo so per quale motivo fosse interessato a me. Credo che pedinasse me e Alan continuamente, me lo disse quel pomeriggio. »
« Alan? Chi sarebbe? »
Si sentì arrossire.
« È il mio ex fidanzato. »
« Può indicarmi le sue generalità? »
Si sentiva in imbarazzo. Si domandò poi quante persone conoscessero le inclinazioni di Alan; l’avrebbe forse messo nei pasticci?
Fornì comunque le informazioni su di lui. Hamilton rimase sorpreso quando si accorse che Alan era proprio quell’Alan.
« Voi due eravate fidanzati, dunque? »  Annuì. « Perché vi siete lasciati? »
« È successo quel pomeriggio. Alan è rientrato e mi ha visto con… con Sánchez. Ha creduto che lo avessi tradito e mi ha lasciato. Ho provato a spiegarmi, ma mi ha creduto solo ora. »
« Quindi anche Alan, in qualche modo, conosceva Sánchez. »
« Se così si può dire. »
Hamilton emise un mugolo pensieroso.
« ‘Solo ora’? Vuol dire che prima non aveva capito quello che Sánchez le aveva fatto? »
« Proprio così. È solo in questi giorni che si è deciso ad aprire gli occhi. »
Hamilton pensò ancora. Nonostante fosse pensieroso, il sorriso sul suo volto era piuttosto soddisfatto.
« Sánchez rappresentava un pericolo per lei, non è vero? »
« Be’, ovviamente. »
Stava quasi per dire ‘Però sono innocente!’, quando gli tornò in mente una frase che gli aveva insegnato il suo professore di Diritto, alla scuola superiore: excusatio non petita, accusatio manifesta. Che, in buona sostanza, significa che chi cerca di discolparsi senza che gli sia richiesto, sta in realtà ammettendo la sua colpa. 
Scusa non richiesta, accusa manifesta.
Tacque.
 
Hamilton pensò di nuovo.
« Dove si trovava la notte tra l’undici e il dodici gennaio, tra le una e le due? »
« Ho raggiunto un amico e sono rimasto con lui fino alle una e mezza. Poi sono tornato a casa. »
« Questo amico può confermare il suo alibi? »
Pensò a Hank, e al terzo punto che Hamilton gli aveva comunicato prima di cominciare. Se avesse tirato in ballo Hank, se ne assumeva piena responsabilità.
« Sì, certo. Siamo stati sempre insieme. Eravamo in giro per la Hunts Point Avenue. »
Hamilton alzò lo sguardo verso di lui, come se quel nome gli dicesse diverse cose.
« Che cosa ci faceva lì? »
« Eravamo in giro per locali, a divertirci un po’. Niente di che, una normale serata tra amici. »
« Può dirmi le generalità del suo amico? »
Nathan obbedì, fornendo le informazioni necessarie su Hank. Sorrise pensando a come avrebbe reagito, se gli fosse arrivata la lettera.
« La ringrazio. Quindi, per una mezz’ora, non c’è nessuno che può confermare il suo alibi. »
Stai calmo, Nathan, stai calmo…
« Già. »
« Ho capito. Può andare. »
Rimase stupito.
« Posso andare? Di già? »
« Certamente. Era solo un interrogatorio. »
Si sentì sollevato.
« Capisco. In tal caso, arrivederci. »
« Arrivederci. »
Nathan uscì dalla stanza. La sua bocca era più secca di un deserto su cui non pioveva da secoli, e si avventò su un distributore per comprare una bottiglietta d’acqua. La aprì e cominciò a bere, risucchiando tutta l’aria all’interno. Si accorse che Ashton era rimasto lì fuori ad aspettarlo. O forse era solo un caso che si trovasse lì.
« È andato tutto bene, mi sembra. »
Nathan fu costretto a smettere di bere: la bottiglietta si stava accartocciando tutta. Riprese fiato e rispose.
« Sì, direi di sì. »
« Nel caso ci fossero problemi, puoi rivolgerti a me. E se ci fossero novità sulle indagini, ti informerò. »
« Ti ringrazio. Ah, una domanda. Di cosa è morto Sánchez? Sul documento non c’era scritto. »
« Dobbiamo ancora aspettare risultati più approfonditi dell’autopsia. Per il momento, sappiamo solo che è stato ritrovato nei pressi di McGuire Fields, un posto piuttosto isolato. Anche se, dalle prime indiscrezioni, sembrerebbe che sia stato portato lì dopo essere stato ucciso. Pare che ci siano colpi di arma da fuoco sul suo corpo. »
Nathan chiuse la bottiglietta, ormai dissetato.
« Quindi è stato ucciso altrove, giusto? »
« Esattamente. Sembrerebbe che qualcuno gli abbia prima sparato, e poi lo abbia trascinato tra i campi. »
Ashton lo osservò un po’.
« Il tuo amico ha una bella stazza, giusto? »
Nathan fu disorientato da quella domanda. Ci mise un po’ a capire che stava parlando di Hank.
« Sì, Hank è un po’ più grosso di me, ma non che ci voglia molto. Perché questa domanda? »
« Meno male. Nathan, la polizia non può escludere niente, quindi continuerà a indagare sulla tua pista, anche se inutilmente. Tu sei troppo mingherlino per poter trascinare un corpo come quello di Sánchez da solo, quindi, se seguiranno la tua pista – e lo faranno, anche solo per scrupolo - , cercheranno un possibile complice che possa averti aiutato. Ma se mi dici che Hank non è tanto grosso, e se davvero eri ad Hunts Point… »
« Certo che ero là! Io sono innocente, cavolo!  È vero, ho un buon movente, ma non c’entro niente! »
« Ehi, calmati, non ti stavo accusando. Cercavo solo di darti un quadro generale. Se tu dici di essere innocente, io ti credo. »
Nathan fece un sospiro profondo.
« Voglio andare a casa. »
Ashton alzò le mani, in segno di resa.
« Non posso impedirtelo. Ci teniamo aggiornati allora. Se hai qualche problema, chiamami pure. Ciao. »
Scocciato, lo salutò. Voleva uscire al più presto da quel posto.
Camminò a passo svelto verso l’uscita, ripensando all’interrogatorio e alle mille volte che si era quasi contraddetto. Sperò solo di non aver combinato un casino. Pensò anche che aveva bisogno di telefonare a Hank, per impedirgli che raccontasse la verità sulla loro professione. Ritenne meglio andare a trovarlo di persona, però: il pensiero di essere intercettato cominciava a prendere corpo.
All’improvviso, qualcuno gli venne addosso, e lo fece talmente forte da farlo indietreggiare un po’ e imprecare.
« Ehi, stai più attento a dove cammini! »
Nathan si portò una mano sulla spalla dolorante, e alzò gli occhi.
« Alan! »
« Tutto bene? Ti ho fatto male? »
« Sto benissimo, grazie. »
Fece per superarlo, ma Alan lo afferrò per un braccio.
« Com’è andato l’interrogatorio? »
« È andato bene, come doveva andare? Io sono innocente. »
« Me lo giuri? Davvero non c’entri niente? »
Nathan rimase a bocca aperta.
« Accidenti, quanta fiducia! Ma mi credi davvero capace di una cosa simile? Ma come puoi anche solo lontanamente pensare che io c’entri qualcosa? »
« Nathan, calmati, non volevo. Solo che… ammetterai che la domanda è lecita. »
« No, non lo è per niente! »
Tentò nuovamente di andarsene, ma Alan lo fermò di nuovo.
« Sono preoccupato! Hai un buon alibi, vero? Nathan, se hai bisogno… »
« Se ho bisogno di cosa? Preferisco essere scoperto per mezz’ora piuttosto che dire che ero con te. E poi, ho già detto la verità al poliziotto. »
Per la terza volta provò ad andarsene, e per la terza volta fu fermato.
« Ma cosa vuoi da me? Hai ancora bisogno di informazioni per le tue indagini? »
« Nathan, hai frainteso tutto, davvero. »
« Non mi interessa ascoltarti! »
« Dammi cinque minuti. »
« Non voglio sentire altro da te! Voglio solo andare a casa. »
Si liberò dalla presa di Alan, che non oppose alcuna resistenza, e fece per allontanarsi.
« … Almeno quell’uomo non ti farà più del male. »
Era appena un bisbiglio, ma riuscì a sentirlo. Fece finta di non averlo udito, non voleva trattenersi oltre con lui.
Aprì la porta della centrale e, come la brezza accarezzò il suo viso, si sentì subito meglio.
 
Improvvisamente si ricordò dell’affare Brucknam. E si ricordò anche che, purtroppo, doveva ancora pagare la rata universitaria. Nathan cominciò a rimuginare. Non aveva intenzione di vendere ancora il suo corpo, con tutto il dolore che quel putiferio gli aveva inferto. E, inoltre, aveva detto ad Alan che non l’avrebbe più fatto. Ma la rata andava pagata, così come l’affitto, e sapeva che non ce l’avrebbe fatta con un lavoro normale, nemmeno se avesse cominciato quel pomeriggio. D’altronde, però, come si sarebbe giustificato se qualcuno l’avesse scoperto? Non poteva permettersi di rischiare, e non ne aveva neanche voglia.
Così prese una decisione: avrebbe rotto l’accordo, in barba ai soldi. In qualche modo li avrebbe trovati.
 
 ***
 
Una volta arrivato davanti all’aula di Statistica, si divertì a sbirciare al suo interno tramite il piccolo vetro sulla porta. Brucknam stava proiettando delle slide che a Nathan parvero noiose e intricate: sul lucido compariva un grafico con una strana forma a campana. Diede una sbirciata alle facce degli studenti, e le trovò piuttosto sconvolte.
Sbuffò.
Gironzolò ancora per l’atrio antistante l’aula, guardando gli altri studenti passare o osservando ragazze che facevano le fotocopie. Si maledì per non essersi portato niente dietro, nemmeno un buon libro da leggere. Sperò solo che la lezione finisse nei tempi stabiliti.
Per sua fortuna, il suo desiderio si avverò.  Il professore aspettò che tutti gli studenti fossero usciti, prima di andarsene, e fu chiaramente sorpreso di vedere Nathan lì. Gli si avvicinò e gli bisbigliò qualcosa: probabilmente aveva paura di essere sentito da quei pochi studenti che erano rimasti lì vicino a chiacchierare.
« Nathan, ti cercavo. »
« Davvero? »
« Sì, vorrei discutere con te del nostro accordo. Sei libero adesso? »
« Non ho impegni. E anche io vorrei parlarle di questo. »
Brucknam si guardò intorno.
« Bene. Andiamo al posto dell’altra volta? »
Nathan annuì e si diressero verso la solita caffetteria.
 
Ordinarono entrambi un caffè macchiato. Brucknam continuava a guardarsi intorno con circospezione, cosa che cominciava a dare sui nervi a Nathan: si sentiva un criminale.
Non voleva rimandare oltre l’annuncio delle sue intenzioni, così prese subito la parola.
« Senta, c’è una cosa che vorrei dirle. »
Brucknam alzò lo sguardo, curioso e incerto allo stesso tempo. Nathan continuò.
« Ho deciso di rompere l’accordo. Non posso soddisfare la sua richiesta. Si tratta di vicende personali, ma non ho più intenzione di esaudire desideri di questo tipo. »
Il professore rimase stupito. Dopo qualche attimo di incertezza, però, sorrise.
« Capisco, capisco. Un’improvvisa redenzione, sembrerebbe. Hai trovato un nuovo lavoro? »
Nathan scosse il capo.
« Non ancora. »
Il professore si stupì ancora, ma Nathan ebbe l’impressione che quella smorfia sul suo viso fosse terribilmente falsa.
« Quindi per qualche tempo dovrai campare di rendita, suppongo. Certo, ci sono tante spese. Hai già pagato la retta universitaria? »
Nathan sospirò.
« Non è una questione di soldi. »
Brucknam sorrise malizioso.
« Non l’hai ancora pagata. E poi ci sarà l’affitto, altre spese… Potresti rimanere a secco. »
« Non è certo con trecento dollari che risolverò i miei problemi, se proprio vuole metterla su questo piano. »
Il professore avvicinò il suo volto a quello di Nathan, che lo scrutava torvo.
« Mille dollari potrebbero andar meglio? »
Nathan rimase a bocca aperta. Il professore avrebbe davvero sganciato mille dollari solo per godere della sua compagnia per una notte intera? C’era qualcosa, però, che lo inquietava. Qualcosa che gli ricordava il maniaco e che volle sbrogliare subito.
« Perché ci tiene così tanto? »
Brucknam si allontanò da lui, ridacchiando.
« La prima volta che ci siamo incontrati, credo proprio di averti pagato 30 dollari. Cinque in più perché sono un idiota. O sbaglio? Ti trovo molto attraente. E mi piace il modo in cui mi respingi. »
Fu in qualche modo sollevato nel constatare che le motivazioni erano piuttosto banali e che il professore non avesse intenzioni sinistre nei suoi confronti. Brucknam continuò.
« Ti prego, Nathan. Solo per una volta. Non te lo chiederò più, davvero. Considerala una sorta di uscita in grande stile e ben pagata. Ti prego. »
Nathan si mordicchiò il labbro, nervoso. Era andato lì con la ferma intenzione di rompere l’accordo, e invece, in quel momento, stava esitando. Certo, mille dollari non era noccioline e, nel periodo in cui sarebbe rimasto senza lavoro, gli avrebbero certamente fatto comodo. Ma come avrebbe fatto a guardare ancora Alan negli occhi? E se avesse scoperto che aveva accettato un altro lavoro di quel tipo, benché fosse l’ultimo?
Certo, pensò, Alan in quel momento aveva un altro. Non era detto che si sarebbero rivisti in una veste più profonda della semplice conoscenza o amicizia, quindi, probabilmente, non aveva motivo di farsi tutti quegli scrupoli. E poi, si sarebbe trattato di una sola notte, dopodiché avrebbe chiuso per sempre con quella vita. Non avrebbe più ceduto per denaro, se lo ripromise.
Vide il professore razzolare nella sua ventiquattrore, per poi tirare fuori un assegno. Lo compilò e lo appoggiò sul tavolo, rivolto verso Nathan. Cinquecento dollari, riportava la cifra.
« Questo sarebbe un piccolo anticipo. Decidi tu se accettarlo o meno, ma ricordati che è un impegno vincolante. Avrai il resto dopo aver concluso la faccenda. Allora? Accetti? »
Lo sguardo di Nathan era incollato su quell’assegno. Migliaia di pensieri si rincorrevano nella sua testa, mentre il diavoletto e l’angelo immaginari battibeccavano a suon di insulti. Irritato, scacciò via mentalmente tutti quegli intrusi nei suoi pensieri, e si decise.
Allungò una mano verso il tavolo e prese l’assegno.
Brucknam sorrise soddisfatto.
« Bene. Sono felice che tu abbia fatto questa scelta, Nathan. Ti farò sapere quando sarò libero. Ora ti saluto, però. Devo correggere alcuni compiti. A presto. »
« Arrivederci. »
Lo vide rivestirsi e sparire dietro la porta della caffetteria.
Guardò l’assegno da cinquecento dollari. Il doppio di quella cifra solo per passare una notte con Brucknam a soddisfare i suoi desideri. Si ripromise, ancora una volta, che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe svenduto il suo corpo. Un’uscita in grande stile e ben pagata, come aveva detto Brucknam.
Finì il suo caffè, e fece mente locale. Per quella giornata era rimasta solo una cosa da fare: incontrare Hank.
 
***
 
Sera, bilocale al 313
 
Adesso che il maniaco non c’era più, si sentiva effettivamente più sicuro. Aveva ricontrollato la porta una sola volta, e aveva quasi smesso di guardarsi indietro per ogni rumore che sentiva. Aveva pure evitato di controllare se nella sua macchina ci fosse qualche malintenzionato che lo aspettava per un agguato. Si sentiva tornato normale. Più o meno.
Guidò fino a casa di Hank, poco distante.
Parcheggiò, dopodiché suonò il campanello.
Hank gli aprì, completamente spettinato e con lo spazzolino in bocca.
« Dio, Nathan, potevi almeno telefonarmi. Sembro un barbone del cazzo. »
Questo fu quello che gli disse Hank accogliendolo, o almeno così gli parse. La bocca di Hank era piena di dentifricio, e le parole riusciva solo a biascicarle.
« Hank, è una cosa importante. Il maniaco è morto e oggi la polizia mi ha interrogato. Ho fatto il tuo nome, ma solo per confermare il mio alibi. »
Lo spazzolino cadde dalla bocca di Hank, finendo a terra.
« Cazzo, Nathan! Ora sarà pieno di schifezze! Fanculo. »
Hank raccolse lo spazzolino e Nathan lo seguì verso il bagno.
« Hai sentito quello che ti ho detto? Vuol dire che interrogheranno anche te, o almeno è molto probabile. »
« Perché diavolo mi hai messo in mezzo? »
« È troppo lungo da spiegare, ma devi solo confermare quello che ho detto. Ovvero che ci trovavamo ad Hunts Point per una normale serata tra amici, in giro per i locali e cose di questo tipo. Ti prego, non dire nulla sul nostro… lavoro. »
Dopo aver sciacquato lo spazzolino, Hank finì di lavarsi i denti. Si asciugò poi la bocca, appallottolando l’asciugamano sul supporto.
« Va bene, come vuoi. Ci sono altre cose che devo sapere? »
Nathan si grattò la testa.
« Ah, sì! Tu il maniaco non lo conosci, okay? Non ho detto come è riuscito a trovarmi, ma solo che mi ha teso un agguato mentre tornavo a casa. »
Hank scoppiò a ridere.
« Ma quante cazzate hai detto? »
« Non ho detto cazzate, ho solo omesso qualche dettaglio. Ho detto la verità. »
« Va bene, va bene. »
Nathan si mise a braccia conserte, come in attesa di qualcosa.
« Non mi chiedi anche tu se sono stato io? »
Hank fece spallucce.
« E chi se ne frega? Non mi interessa. Finché non mi fai a fettine, ovvio. »
Nathan provò a tirargli un calcio affettuoso, ma lo mancò.
« Vabbè, ero passato solo per dirti questo. Tra un paio di giorni potresti ricevere la lettera, o forse ti chiameranno, non saprei. Ti ricordi tutto quello che ti ho detto? Vuoi che te lo ripeta? »
« Dio, Nate, stai calmo. Mi ricordo tutto, non agitarti. »
« Okay. Allora vado. Ciao! »
Hank lo salutò a sua volta e si avviò verso la macchina.
Come uscì in strada, gli si cucì addosso quella strana sensazione di essere osservato e pedinato. Si guardò intorno, ma non vide nessuno. Nessuna ombra sospetta, nessuna macchina accesa.
Niente di niente.
Era solo paranoia.

 

Salve a tutti! Avete visto? È tornato Hank! XD Con la sua inconfondibile finezza... 
E insomma, Nathan è stato interrogato e per mezz'ora è scoperto. Sarà stato lui a uccidere Sánchez? Lo scoprirete nei prossimi capitoli ;)
Bene, vi saluto e vi do appuntamento a martedì prossimo, con "Scosse di terremoto".
Ne approfitto anche per farvi conoscere la nuova storia che ho scritto: si chiama Façade, è una storia di amicizia tra due ragazze totalmente opposte e che non si sopportano, ma che finiscono insieme per una ricerca di scienze; è una storia breve e, soprattutto, completa, pubblicherò i capitoli via via. Potete trovarla qui http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2270665. Spero possa piacervi ^^
A martedì prossimo, un grazie a tutti quelli che mi seguono e alla mia beta Silvia per il supporto giuridico!

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Scosse di terremoto ***


16. Scosse di terremoto
 
 
 
17 gennaio 2005.
Sentì la palpebra calarle lentamente, mentre la voce della professoressa si faceva sempre più lontana e sommessa; somigliava in tutto e per tutto a un gas soporifero, che prima si diffonde nella stanza, poi ti circonda e infine ti cattura nella sua rete, perché non puoi far altro che inalarlo.
Almeno fino a che qualcuno non ti tira una gomitata.
Madison si rizzò di colpo e, dopo un attimo di smarrimento,  acchiappò l’evidenziatore e tornò a sottolineare frasi a caso e a prendere appunti sparsi a bordo pagina del libro di Psicologia Infantile.
Splendida materia, senz’altro, ma terribilmente noiosa.
Madison buttò un’occhiata alle lancette dell’orologio, per constatare con orrore che erano passati, sì e no, solo cinque minuti.
Abbandonò definitivamente l’idea di seguire la lezione e cercò qualcosa di più stimolante da fare. E lo trovò nelle file davanti, dove sedeva Loretta, che si pavoneggiava con le altre compagne del nuovo orologio che aveva al polso, regalo – così pareva – di un suo ammiratore segreto. Allietò poi le compagne con altri pettegolezzi su vestiti e borse, sul profumo che voleva comprarsi e altre amenità che a Madison non interessavano più di tanto.
Buttò uno sguardo fuori dalla finestra, constatando il tempo terso; poi tornò a fissare la professoressa, e si chiese quanto peggio poteva finire quella giornata.
 
Come uscì fuori, cominciò a piovere forte. E si ricordò, sbuffando, che non aveva preso l’ombrello. Alzò gli occhi verso il cielo, coperto da nubi plumbee che si estendevano fino all’orizzonte, segno che non avrebbe smesso presto. Madison si sfilò la cartella e la portò sopra la testa; fece un respiro profondo, prese la rincorsa e si buttò in mezzo alla pioggia, come un eroe in battaglia.
Sentì le gocce picchiettarle il viso e scenderle sul collo, facendola rabbrividire; il piede in una pozza, invece, contribuì a farla assomigliare sempre più a un pulcino bagnato, dato che l’acqua era penetrata fin dentro le scarpe.
Percorse tutto il cortile antistante alla porta, indugiò qualche attimo di fronte a un ingorgo di studenti e salì le scalette che l’avrebbero condotta fuori dal complesso universitario, quando le parve di sentire una voce che la chiamava. Si voltò, incurante della pioggia non appena si accorse di aver ragione.
« Ash! Che ci fai qui? »
Non sentì più le gocce colpirle il naso e quella sensazione di essere un tutt’uno con i suoi abiti cominciò a scomparire. Le bastò alzare poco poco lo sguardo per rendersi conto che Ashton la stava riparando col suo ombrello. Adesso che la pioggia non le batteva più sul corpo, provava un tremito per ogni goccia che le cadeva dalla punta dei capelli.
« Ti stavo aspettando. »
Madison sorrise con un pizzico di imbarazzo. Si liberò dal suo riparo ormai inutile e più fradicio di lei, mettendo la cartella sulla spalla. Continuò a sorridere timidamente, senza riuscire a dire una parola. Ci pensò Ashton a liberarla da quel silenzio imbarazzante.
« Be’, è un po’ che non ci vediamo e avevo voglia di chiacchierare un po’. Stavi andando a mensa? »
Madison abbozzò una risata.
« Ci provavo, sì. Vuoi venire anche tu? »
« Perché no? È tanto che non assaporo la vita universitaria. Andiamo? »
Ashton le porse il braccio, in modo che Madison potesse arreggervisi, ma la ragazza lo guardò senza capire. L’altro indicò le punte dell’ombrello sopra la testa di lei.
« Vedi, l’ombrello è piccolo, per cui se ti attacchi a me stiamo più stretti e ci ripariamo meglio. »
« Ma sono tutta fradicia. Se mi attacco a te, finirò per bagnarti. »
Ashton fece spallucce.
« Non è importante, si asciugherà. Allora, vieni? »
Ashton le porse di nuovo il braccio e, questa volta, Madison lo afferrò.
 
Dopo aver riempito il vassoio con una fetta di carne rossa e una manciata di piselli, Ashton e Madison presero posto nell’unico tavolo che non era stato ancora preso completamente d’assalto. Si sedettero all’estremità, uno di fronte all’altro. E fu in quel momento che Madison cominciò a sentirsi imbarazzata; le volte che lei e Ashton erano usciti insieme, avevano sempre bevuto un caffè o poco più.
Provò a distrarsi versando un po’ d’acqua nel bicchiere; ma, come bevve, la sua gola cominciò a emettere dei suoni strozzati, smorzati solo dalla confusione imperante. Spostò il suo sguardo verso Ashton, sperando che non se ne fosse accorto, e così pareva: stava dando infatti il suo primo morso a un pezzettino di carne, esibendo una faccia compiaciuta.
« Non è male questa roba. Pensavo molto peggio. »
Madison raccattò dal piatto una piccola forchettata di piselli.
« Non è buono come quello di casa, ma si fa mangiare, sì. »
Portò la forchetta alla bocca, ma un pisello le scivolò dalla posata: inutili i disperati tentativi di riprenderlo.
Ashton ridacchiò, mentre Madison tornò a fissare il suo piatto. Avrebbe combinato altri pasticci, proprio quando cercava di fare bella figura? Fissò il piatto, minacciando mentalmente la carne e i piselli.
« Ah, Mad! Ho la data della mostra, finalmente. »
Abbandonò il piatto per un momento. Gli occhi le si illuminarono.
« Wow, è fantastico! Quando si terrà? »
« Il ventisette febbraio, per l’esattezza. Ci saranno quattro categorie: ritratti, paesaggi, bianco e nero e ‘emozioni’. »
Madison si grattò la nuca con un dito, pensosa.
« Cosa dovrei portare esattamente per ‘emozioni’? »
« Be’, cara Madison, qualunque cosa che per te rappresenta un’emozione, direi. »
La ragazza appoggiò i gomiti sul tavolo, e posò la testa sui palmi delle mani.
« Mi mette un po’ in difficoltà questo ‘emozioni’. Cos’è che mi fa emozionare? Non lo so… »
« Non hai una passione, Madison? Qualcosa a che fare con la fotografia, per esempio. »
« Non so, non sono convinta. Forse non è l’emozione che cerco. »
Ashton provò a cercare il suo sguardo.
« Prova a vederla da un altro punto di vista. Non c’è niente a cui tieni veramente, o qualcosa che ti fa battere il cuore ogni volta che ci pensi, per dire? Ci sono molti tipi di emozione. Scegli quella che senti più tua. »
Qualche istante dopo quelle parole, Madison arrossì tutta. Ashton sorrise divertito.
« Ah, lo sapevo! Allora c’è qualcosa che fa vibrare ogni cellula del tuo corpo. Porta quello, andrà benissimo. »
Madison abbassò lo sguardo e tornò a fissare il piatto per distrarsi, senza risultato. Tentava di scacciare i pensieri concentrandosi sul cibo, ma era più il tempo che passava imbambolata che a mangiare.
Dopo un po’, provò a lasciar perdere per un po’ il cibo e fece ad Ashton la domanda che la tormentava da qualche giorno.
« Qualche giorno fa, ho sentito in tv della morte di un certo S… » Madison continuò a pronunciare quella lettera, in cerca del nome completo che non ne voleva sapere di arrivare.
« Sánchez? »
« Sì! Mi sono chiesta se per caso non fosse il maniaco, visto che avevi fatto questo nome, quella sera in auto. »
Ashton ridacchiò e scosse il capo divertito.
« La nostra piccola investigatrice! Mi complimento con te, hai indovinato. »
Madison rimase a bocca aperta e adagiò la forchetta sul bordo del piatto.
« Ma… si sa qualcosa? Chi è stato? Com’è successo? »
« Calma, calma. Sarebbe bello aver già risolto il caso, ma purtroppo non è così. Si sa molto poco, e sono tutte informazioni riservate. »
La ragazza provò a corromperlo, con un bel sorriso e lo sguardo supplichevole.
« Daaaai, ti prego, dimmi qualcosa! Avete già qualche pista? »
« Devo ammettere che i tuoi occhioni sono irresistibili. » Come terminò quella frase, sul viso di Madison si aprì un enorme sorriso eccitato. « … Ma sarà per la prossima volta. » Sorriso che si smorzò in tempo record.
« Mad, non te la prendere, ma è morta una persona. C’è un assassino a piede libero qua fuori, non è un gioco. La riservatezza non è qualcosa che puoi prendere sottogamba. E se tu fossi l’assassina e ti rivelassi, per sbaglio, la pista che stiamo seguendo? Non possiamo correre questo rischio, potrebbe costarci caro. »
Madison sorrise, provando a smorzare l’imbarazzo di quella ramanzina.
« Ma io sono innocua! Ti sembro una tipa aggressiva? »
Ashton tirò il sorriso da una parte e abbassò lo sguardo per un momento.
« Be’, in qualche momento lo sei stata. »
Il ricordo di quel pomeriggio di dicembre, quando aveva avuto uno scatto d’ira dovuto al pianoforte, le tornò alla mente e la fece vergognare talmente tanto da voler sprofondare in quella sedia; ma aveva le gambe talmente lunghe che, se l’avesse fatto davvero, si sarebbe scontrata con Ashton, e non aveva proprio bisogno di un’altra figuraccia. Così appoggiò un gomito sul tavolo e nascose il volto tra il palmo della mano e i capelli ancora umidi.
« Madison, scusa, era… era scherzoso. Non penso davvero che tu possa aver commesso un omicidio. »
Ashton ridacchiò nervoso, sperando di spezzare la tensione con quella battuta sciocca, che non diede i frutti sperati. Provò ancora a scusarsi.
« Dai, su, non volevo rivangare il passato, anche perché ormai ho già dimenticato tutto. Sul serio! »
Ma Madison era ancora rossa come un peperone e continuava a inforcare pezzi di carne già tagliata. La verità era che, osservando quella carne, sperava di trovare un modo per far passare più in fretta quella sensazione di tremendo imbarazzo.
Ma arrivò qualcos’altro ad aiutarli.
« Ehi, Mad! »
Sulle prime pensò di aver sentito male, ma quella cadenza leziosa e quella vocetta stridula non le diedero molta possibilità di scelta. Alzò lo sguardo, e davanti a lei c’era proprio Loretta, con un vassoio in mano e un sorriso più falso di una banconota da tre dollari. Si chinò per poggiare il vassoio accanto ad Ashton, e Madison notò subito che la ragazza aveva appena offerto un generoso panorama sulle sue colline.
« Posso sedermi? Disturbo? »
Ashton guardò in direzione di Madison, come per cercare la sua approvazione, ma non servì; Loretta prese posto accanto a lui, senza aspettare alcun responso.
« Wow, Madison, hai amici così e non me li presenti! Piacere, io sono Loretta. » disse, porgendo la sua mano ad Ashton, che la strinse e si ripresentò a sua volta.
« Loretta, come Loretta Lynn? »
La ragazza spalancò la bocca, sorpresa.
« O. Mio. Dio. Tu la conosci! Non mi era mai successo! Sai, i miei genitori la adorano così tanto che hanno deciso di chiamarmi come lei. »
Ashton ridacchiò.
« Anche in casa mia abbiamo avuto il “periodo Lynn”. »
Madison sbuffò nervosa, decisa a spezzare quella chiacchierata a suo parere ridicola.
« Posso sapere anch’io chi è questa tizia? »
Loretta scoppiò in una risata fragorosa, portandosi una mano davanti alla bocca.
« Scusami, Ash – posso chiamarti Ash? –, la nostra Madison a volte manca di nozioni così basilari! » Si voltò verso Madison e continuò. « Mia carissima Madison, tutti sanno che Loretta Lynn è la più famosa cantante – ma che dico, cantante? -, è l’icona della musica country negli Stati Uniti! Ma già, come puoi saperlo tu? Sempre tutta sola con i tuoi artisti ormai morti e sepolti… »
Madison era livida di rabbia. Teneva in mano la sua forchetta di plastica e pensò che sarebbe bastato davvero poco per spezzarla in due. E ripensò anche alle parole che Asthon le aveva riservato poco prima, riguardo al suo essere aggressiva.
« Be’, in qualche momento lo sei stata. »
Fece un sorriso di circostanza, pensando che in quel momento la frase poteva rivelarsi terribilmente vera.
Nella sua mente pensava e ripensava a cosa rispondere a Loretta, ma era troppo tardi; i due avevano già ripreso a conversare amabilmente, e Loretta stava ben attenta a servire il suo scollo sotto gli occhi di Ashton. Ma fu quando si accorse che lui non disdegnò, per un momento, quella visione, che la rabbia dentro di lei esplose totalmente. Si alzò di scatto e, con l’aria più mite che poteva, trovò una scusa per assentarsi.
« Vado un attimo in bagno. »
 
Si infilò dentro al bagno delle ragazze, che in quel momento era vuoto. Voleva chiudersi nel gabinetto e stare lì per sempre, ma qualcosa le fece cambiare idea. Si ritrovò davanti allo specchio e osservò la sua figura riflessa. Aveva i capelli biondi – naturali – perfettamente in ordine, il viso pulito e, soprattutto, quel golfino più accollato della veste di una suora.
Tirò un pugno allo specchio, ma non era abbastanza forte per romperlo. Le nocche della mano le facevano davvero male, così aprì un po’ d’acqua e le passò sotto il getto freddo.
Quando aveva, in un certo senso, rifiutato la corte di Ashton, forse si era immaginata che lui sarebbe rimasto lì per sempre dietro a lei, che non sarebbe mai esistita nessun’altra. E invece, quanto era stato facile distogliere la sua attenzione da lei? Loretta, pensò, ci aveva impiegato meno di un minuto. E tutto questo perché non aveva avuto il coraggio di buttarsi, di provare emozioni e sensazioni nuove quando ne aveva avuto l’opportunità.
Cominciò a rimproverarsi, a dirsi che forse aveva sbagliato, ma era tutto inutile.
Perché quando arrivi a ventitré anni e di un uomo non hai nemmeno sfiorato le labbra, non è tutto facile come si può pensare.
 
***
 
Alla fine si era chiusa nel gabinetto, e ci rimase per così tanto tempo che le sembrò davvero un’eternità. Fino a che una voce maschile non la riportò alla realtà.
« Madison? Sei qui? »
Provò a trattenere il respiro, ma qualcosa andò storto; Ashton capì subito in quale bagno si trovava, e bussò alla porta.
« Tutto bene? Posso entrare? »
« No! »
« Allora esci tu, mi stai facendo preoccupare. »
Si alzò dal gabinetto e, con la coda dell’occhio, notò un ciuffo fuori posto. Fu tentata di riordinarlo, ma si trattenne.
Girò il pomello che chiudeva la porta, la aprì e si trovò Ashton davanti a sé.
« È un quarto d’ora che sei chiusa qui dentro, lo sai? Stai poco bene? »
Madison tossicchiò, forse per simulare una malessere che non c’era. Almeno non nel corpo.
« Sì, scusa, non mi sentivo bene. »
Madison lo superò e si avviò verso l’uscita della toilette, con Ashton al suo seguito.
Si accorse che Ashton stava per dire qualcosa, ma poi emise un sospiro a vuoto.
« Dimmi. »
Lui scosse una mano.
« Niente, tranquilla. Loretta, comunque, aveva un impegno e se n’è andata. »
Come sentì quel nome, Madison sentì un fiume di rabbia risalirle nel petto, ma si trattenne. Ashton le parlò di nuovo.
« Ma è veramente una tua amica? »
Madison si voltò accigliata.
« Secondo te? Comunque, se ti interessa, penso che tu possa chiedere a ogni maschio di questa mensa. »
Ashton ridacchiò divertito.
« Sei veramente buffa, Madison. »
La ragazza fece finta di non sentire, non sapendo se interpretare quella battuta come un complimento o meno. All’improvviso, Ashton le mise un braccio intorno al collo. Sussultò lievemente.
« Senti, devo andare, tra poco mi ricomincia il turno. »
Madison si limitò ad annuire.
« A presto, allora. Ah, Madison…! »
Il ragazzo si avvicinò al suo orecchio e le sussurrò qualcosa.
« Sei carina, gelosa. »
Madison diventò porpora ed ebbe giusto le facoltà per salutarlo mentre si allontanava.
Forse non tutto era perduto.
 
***
 
Era rimasta in biblioteca fino alle sette di sera, troppo svampita per poter studiare alcunché.
La frase di Ashton l’aveva mandata al settimo cielo. Non perché le avesse detto chissà che, ma perché ormai si era data definitivamente per vinta, mentre quella frase l’aveva rimessa in gioco. O, almeno, era quello che sperava.
Scese dalla metro, e le sembrò quasi che non ci fosse nessuno a spintonarla e nemmeno nessun ubriaco dall’alito mefitico. Quel sorriso un po’ ebete le si era stampato sul volto e non c’era nessuno in grado di strapparglielo via.
Rientrò in casa e, con sua sorpresa e stupore, i suoi genitori erano ritti in piedi, ad aspettarla, in mezzo alla hall. Da un lato c’era anche Claire, che però non sembrava sorridere compiaciuta come i suoi genitori. Si avviò verso di loro con aria interrogativa, sfilandosi la cartella e poggiandola in un angolo. Claire arrivò subito a portarla via e uscì dal salotto con altrettanta rapidità; la cosa non le piacque.
« È successo… qualcosa? »
Sua madre si avvicinò a lei, con un sorriso fiero; le poggiò le mani sulle spalle e le parlò guardandola fissa negli occhi.
« Tesoro, io e tuo padre siamo lieti di annunciarti che, il ventisette febbraio, terrai il tuo primo concerto! »
Madison rimase spaesata. Avevano detto proprio ‘ventisette febbraio’.
« Mamma, di cosa stai parlando? »
« Sarà il tuo debutto ufficiale come pianista. Un po’ in ritardo rispetto agli altri, ma sono comunque orgogliosa di te, cara. »
Madison incespicò un po’ nel trovare le parole. Quel giorno ci sarebbe stata anche la mostra!
« Aspettate un momento! Quando avreste deciso tutto questo? E il mio parere? »
Sua madre le mise ancora le mani sulle spalle.
« Tesoro, se avessimo aspettato te non avremmo mai avuto alcuna occasione. Invece ho colto l’opportunità al posto tuo, così finalmente potrai mostrare al pubblico la tua bravura. »
Madison spalancò gli occhi, incredula, senza sapere cosa dire.
« Papà! Di’ qualcosa, ti prego! Perché non mi avete aspettato per una simile decisione? Perché non avete chiesto il mio parere? »
L’uomo non ebbe il tempo di rispondere, che sua madre riprese subito la parola.
« Madison, tesoro, non c’è nulla di male ad aver deciso per te. Visto che tu non volevi farlo, ci abbiamo pensato noi. »
Sua madre provò ancora ad afferrarle le spalle, ma Madison la scacciò via.
« Non hai mai pensato che forse, se non volevo farlo, un motivo c’era? Ma tanto, vero, che potere può avere la piccola Madison? Tanto io non capisco nulla, vero? Sono una bambina, no? Che cosa ne capisco, io! »
Con le lacrime trattenute a stento, Madison aprì la porta di casa e, senza nemmeno richiuderla, scappò via.
 
Pensò inizialmente di scappare a piedi, ma non la trovò una grande soluzione: l’avrebbero trovata presto. Diresse invece i suoi passi verso la stazione della metro, ringraziando il fatto di tenere sempre il portadocumenti e il telefono nelle tasche del cappotto. Controllò lo schermo e cercò la linea che sarebbe passata per prima. Si indirizzò verso i binari, arrivando insieme alla vettura, sulla quale salì.
Si sedette sul primo posto libero che trovò e ne approfittò per calmare la mente e le emozioni. Era ormai tardi, la sera stava calando e lei non aveva un posto dove andare.
La prima persona a cui pensò fu Jack. E un po’ di malinconia l’avvolse, perché quel ragazzo lo sentiva sempre più distante. Erano lontani i tempi dove si confidavano ogni loro problema e scoperta, dato che, in quegli ultimi tempi, Jack non sembrava avere voglia di raccontarle le sue difficoltà. E poi, pensò, se fosse andata da Jack l’avrebbero rintracciata senza problemi: era uno dei pochi amici che aveva.
E poi, certo, c’era lui.
Ashton.
Il solo pensare al suo nome le faceva battere il cuore, soprattutto ripensando a quello che era accaduto e a ciò che le aveva sussurrato nell’orecchio.
L’unica persona a conoscenza di Ashton era Claire, ma sperò con tutto il cuore che se ne fosse dimenticata. Pensò sempre più seriamente all’ipotesi di chiamarlo, ma cosa gli avrebbe detto?
Le vennero in mente le scuse più improbabili, ma alla fine optò per la verità in pillole.
Scese dalla metro non appena ebbe la frase in testa, ignara di dove fosse.
Compose il numero di Ashton – si ritrovò a ringraziare chiunque avesse dato ad Ashton il suo -, e aspettò che rispondesse.
« Ehi, ciao, sono Madison. »
Dall’altro capo seguì un momento di silenzio: Ashton era evidentemente spiazzato.
« Madison, sì, dimmi tutto. »
La ragazza fece un respiro profondo. Quella era la sua unica speranza: se Ashton avesse rifiutato o avesse avuto qualche impegno, sarebbe dovuta tornare a casa ad affrontare i suoi genitori, e non era certo quello che voleva.
« Avrei bisogno di un posto dove stare questa notte. »
Ashton rimase ammutolito ancora una volta. Se non fosse stato per i rumori di sottofondo, Madison avrebbe perfino pensato che fosse caduta la comunicazione.
« Be’, è un po’ improvviso, così su due piedi… »
« Ti prego! Non darò fastidio, lo prometto, è solo per questa notte. »
Per la verità, Madison si augurò che fosse per molto di più, ma ritenne più intelligente omettere quel piccolo dettaglio.
« Sì, ma che succede? Perché non puoi tornare a casa? »
« Ho litigato con i miei genitori. Ti prego, Ash, non voglio tornare laggiù. È solo per questa notte, davvero. »
Ancora un altro silenzio dall’altra parte. Madison incrociò le dita e strizzò gli occhi, invocando una preghiera a un dio qualunque.
« … E va bene. Dove sei adesso? »
Madison indietreggiò di qualche passo, tanto quanto bastava per poter leggere il nome della fermata per intero.
« Sono a Central Park North. »
« Va bene, aspettami lì, passo io. »
« No! Posso venire anche da sola, dimmi dove abiti. »
« Madison, per favore, non puntare i piedi. Passo io. A dopo. »
Come ebbe riattaccato, sentì una moltitudine di sentimenti correrle dentro. Era felice che Ashton avesse accettato, ma quell’ultima frase, quel “non puntare i piedi”, sembrava il rimprovero di un adulto stizzito di fronte a una bambina capricciosa. Ed ecco che si ritrovò ad appiccicare a se stessa, ancora una volta, quel sostantivo. Bambina.
Come poteva spiegare al mondo che una bambina non era? Che era in grado di pensare e decidere come tutti, ma che le mancava semplicemente l’occasione di dimostrarlo?
Si sedette, malinconica, sulla sedia in plastica sotto il grande cartello che riportava il nome della stazione, aspettando, un po’ annoiata e un po’ determinata, che il suo principe azzurro venisse a salvarla.
 
Ashton non si fece attendere troppo. Come Madison entrò in auto, capì che era appena uscito da lavoro, poiché indossava ancora la divisa. Si salutarono appena. La macchina ripartì nel più innaturale dei silenzi, riempito solo dal clacson di auto impazienti e dalla radio un po’ troppo alta delle macchine accanto.
« Non sei scappata tanto lontano. »
Madison era sul punto di piangere. Sia perché aveva litigato con i suoi genitori e si ritrovava, in quel momento, completamente sola, sia perché Ashton sembrava prendere la sua fuga con molta leggerezza.
« Non sono scappata. Ho solo bisogno di stare da sola per un po’. »
« Vuoi stare sola, però mi chiami perché non sai dove passare la notte. »
Madison esplose. Provò prima a voltarsi verso la strada, cercando di non farsi vedere; ma quando le fu impossibile nascondere il pianto, lasciò andare tutta la tensione che aveva accumulato quel giorno e un pizzico di quella che portava sulle spalle da tanti anni.
« Mad, scusa, non volevo. »
Sempre a ‘non volere’, tu, avrebbe voluto rispondergli, ma si zittì. Ci mancava solo che si mettesse a litigare anche con Ashton.
Lui, intanto aveva accostato la macchina in un passo carrabile. La osservò singhiozzare per un po’; poi spense la macchina, si avvicinò a lei e la tirò a sé.
Accolse in quell’abbraccio tutte le sue lacrime, accarezzandole la schiena nel tentativo di consolarla.
« Scusami, davvero. A volte sono acido. »
Madison sembrò non ascoltarlo, continuando a piangere, con i pugni chiusi sul suo petto.
« Ti ospito volentieri, stasera. Scusa. »
Quelle parole sembrarono calmarla, almeno in parte. Ashton afferrò una ciocca di capelli fuori posto, e provò a metterla dietro l’orecchio, nel tentativo di darle ordine.
« Lasciala lì. »
« Ma sarai tutta spettinata, sennò. »
Madison si staccò dal corpo di Ashton, e lo fissò con quegli occhi così gonfi e rossi.
« Meglio così. »
Detto questo, si ricompose e tornò a guardare il finestrino. Ashton rimise in moto la macchina e diede un’occhiata allo specchietto sinistro.
« A me piaci di più tutta ordinata. »
Madison continuò a guardare la città che le scorreva sotto gli occhi, con un timido sorriso.
Che Ashton non poteva vedere.
 
***
 
L’appartamento di Ashton era piccolo ma molto personale. C’erano le ciabatte perfettamente disposte ai piedi del divano, un mucchio di scartoffie allineate sul tavolo e, in quello che le parve lo studio, una serie di foto, forse di criminali, appese a un filo di canapa con una serie di mollette, proprio come aveva visto nei film. Non era quella che si poteva definire una casa ordinata, tuttavia lo era nel suo disordine.
« Mi piace la tua casa. »
Ashton si affacciò dalla cucina.
« Ne sono contento. Senti, per cena ci sono gli avanzi di ieri, ti va bene lo stesso o ti cucino qualcosa? »
Ashton le mostrò un contenitore con un po’ di arista a fette, e un altro pieno di patate.
Madison si sentì eccitata. Per un momento, quella le parve casa sua e si divertì a pensare a cosa preparare per cena, a gestire gli avanzi e ad apparecchiare la tavola.
« Gli avanzi vanno benissimo. Sembra tutto delizioso. »
Ashton richiuse il frigo, travasò arista e patate in un tegame e accese il fuoco. Madison intanto osservava estasiata qualsiasi cosa accadesse intorno a sé.
« Posso apparecchiare? »
« Se vuoi. Ti faccio vedere dov’è la roba. »
Ashton le mostrò dov’erano piatti, bicchieri e posate, e Madison si divertì a disporre il tutto a tavola. Erano cose che raramente aveva fatto in prima persona, e di certo non in modo così completo.
« La tavola è pronta! »
Ashton le sorrise.
« È così divertente apparecchiare? Comunque è pronto anche qui. Si mangia! »
 
Riscaldandola, la carne si era indurita un po’, e le patate erano piuttosto farinose, tuttavia a Madison sembrò il pasto più buono della sua vita. Ogni tanto alzava lo sguardo verso Ashton e arrossiva, perché in quella situazione sembravano davvero una coppietta di sposi novelli. Finito il pasto, aiutò Ashton a sistemare i piatti sporchi in lavastoviglie, finché non le disse di aspettarla sul divano.
La raggiunse poco dopo e accese la tv di fronte a loro.
« Allora, che si guarda? »
Madison scosse il capo.
« Non lo so, non guardo molta tv. »
Ashton continuò a scorrere i canali, finché non ne trovò uno di suo gradimento.
« Ah, è bellino questo telefilm. Lo conosci? »
« Penso proprio di no. »
« È carino. Lui è un assassino seriale, solo che è un tipo strano, perché a quanto pare compie questi omicidi per una causa personale, che ovviamente non conosciamo e scopriamo a poco a poco. Poi be’, ovviamente questi omicidi lo mettono in difficoltà nella vita di tutti i giorni perché qualcuno comincia ad avere dei sospetti sulla sua doppia vita. »
« Mi sembra interessante. Questo qui chi è? »
Madison indicò un dottore alto e robusto che parlava col protagonista.
« Lui è quello che comincia ad avere dei dubbi. E sospetto che farà una brutta fine. »
 
Durante la durata del telefilm, Madison si distrasse a osservare Ashton, che sembrava piuttosto divertito da alcune battute. Cominciò anche ad avvertire un leggero senso di torpore e, d’istinto, appoggiò la sua testa sulla spalla di Ashton. Fu troppo tardi quando si accorse di quello che aveva fatto e il suo cuore raddoppiò il battito. Fu tentata dal rizzarsi su, ma così avrebbe fatto brutta figura, come se la spalla di Ashton fosse qualcosa di pericoloso dal quale bisognava fuggire senza ripensamenti. Anche rimanere in quella posizione la imbarazzava, perché Ashton rimase pressoché immobile; Madison si accorse, però, che aveva anche smesso di ridere alle battute del telefilm.
Capì che, qualunque scelta avesse compiuto, sarebbe stata comunque in imbarazzo; e allora decise di rimanere su quella spalla ancora un po’, perché quel batticuore era davvero fastidioso, per non parlare di quella gola riarsa, ma al contempo si sentiva tranquilla e in un mondo parallelo, quasi onirico.
Dietro di sé sentì qualcosa muoversi. Frenò il respiro, fino a che non si accorse che era il braccio di Ashton che si alzava. Braccio che finì per stringersi intorno a lei, abbracciandola.
Madison ebbe un po’ di paura: le sembrava che il cuore stesse per esploderle davvero. Era così emozionata che sarebbe anche potuta svenire, e il solo pensiero di quella mano calda sul suo braccio le faceva attorcigliare lo stomaco ancor più di un esame universitario.
Non aveva mai provato simili sensazioni. Non sapeva cosa fare. Forse, nelle sue fantasie più remote, avrebbe voluto alzare lo sguardo verso di lui e baciarlo, ma al solo pensiero si agitava, costringendosi a concentrarsi di malavoglia sul telefilm.
Abbassò gli occhi sul suo petto e il panico aumentò, non appena si accorse che il cuore batteva talmente forte che era pure visibile da fuori.
« Perché sei scappata di casa? »
« Eh? »
Si accorse che la voce le aveva tremato. Istintivamente si mosse da quella posizione, ritrovandosi faccia a faccia con lui.
« Che è successo a casa? »
« Ho litigato con i miei genitori. »
« Qualcosa di grave? »
Madison si allontanò un po’ da Ashton e si rannicchiò sul divano, abbracciandosi le ginocchia.
« Mia madre vuole che io faccia un concerto. L’ha prenotato al posto mio, senza dirmi niente! Come si è potuta permettere? E poi io non voglio suonare, odio suonare! »
Madison nascose il capo tra il suo corpo e le ginocchia.  Aveva omesso di proposito il fatto che il concerto e la mostra si sarebbero svolti lo stesso giorno: avrebbe sbrogliato da sola quella situazione. Non sapeva ancora come, ma confidò nel fatto che le sarebbe venuto in mente qualcosa.
Sentì la mano di Ashton accarezzarle la testa per qualche istante.
« Ho capito. Ma, prima o poi, dovrai tornare a casa. »
« Lo so! Ma adesso non me la sento. Ho voglia di stare un po’ da sola, lontana da loro. Non li sopporto più. Mi considerano una stupida, una che non riesce a decidere niente nella sua vita. »
« Hai mai provato a parlargli di questo? »
« Figurati, sai che gliene importa. Tanto da quell’orecchio non ci sentono. »
« Se non hai mai provato, come fai a dirlo? O forse sei tu che, per qualche motivo, non vuoi parlare con loro? »
Madison si zittì. Rimuginò sulla risposta da dare, ma non voleva rovinare i suoi bei momenti pensando a quello che avrebbe dovuto affrontare una volta tornata a casa.
« Non ne voglio parlare. »
Ashton le accarezzò ancora la schiena.
« Va bene, non insisto. Ma non credi che loro siano preoccupati per te? Forse ti stanno cercando. »
« Mi cercheranno giusto perché sennò faranno una brutta figura al concerto, se non mi ritrovano in fretta. »
Lui non disse niente. Continuò ad accarezzarle la schiena, sperando di darle sollievo.
« Adesso posso fartela io una domanda, Ash? »
« Sentiamo. »
« Perché a volte sei così acido, con me? »
Ashton sorrise e indugiò qualche secondo prima di rispondere.
« Non ne voglio parlare. »
« Ah. Scusa. Non volevo essere indiscreta. »
Ashton scoppiò a ridere e la abbracciò un poco, avvicinandola a sé.
« Ti sto prendendo in giro, dai. Tu credi che ci sia un motivo? »
« Assolutamente sì. »
« Sembri piuttosto convinta, e fai bene. Vedi, Madison, quando ci si espone troppo, ci si può far male. E allora si impara a difendersi. Ognuno lo fa a modo suo, lo sai anche tu. »
Aveva capito che Ashton si riferiva a qualche esperienza amorosa passata, ma lei non poteva sapere cosa si provava, anche se lo intuiva. Ashton parve leggerle nel pensiero.
« Ci sono tanti campi in cui ci si può scottare. Tu perché non vuoi affrontare i tuoi genitori? È una domanda retorica, tranquilla. »
Madison ripensò a quella volta, tanti anni prima, quando era piccola. Aveva provato a sfidare sua madre, subito dopo che aveva contratto quella tendinite che le aveva sottratto per sempre la possibilità di suonare. Sua madre le aveva passato il testimone, anche se lei non voleva; e glielo aveva dimostrato storpiando il brano di Beethoven da lei preferito, ridicolizzandola davanti a tutti. L’aveva sgridata così forte e con così tanta disperazione che non ebbe più il coraggio di mettersi contro di lei. Aveva paura di deluderla, forse, non raccogliendo il testimone che sua madre le aveva lasciato? E cosa sarebbe successo se avesse provato a protestare un’altra volta?
Ashton aveva ragione. Non è solo l’amore che ti scotta.
« Comincio a essere un po’ stanca. »
« Di tutti questi discorsi? »
Madison sorrise e scosse il capo.
« No, ho solo un po’ di sonno. È stata una giornata lunga, per me. »
« Sì, anche io sono abbastanza stanco. »
Ashton spense la televisione, si alzò poi dal divano e si stiracchiò.
« Ti lascio il letto, io dormo di qua. »
« Non sarà un po’ scomodo, per te? »
« C’è il trucco. Ora vedi. »
Ashton tolse i due cuscini alle estremità del divano e quelli della seduta, poi tirò verso di sé la rete fino ad aprirla per esteso: era un divano letto.
« Ecco fatto. Allora buonanotte, Mad. Per qualsiasi cosa, sai dove trovarmi. »
« Buonanotte anche a te, a domani! »
 
***
 
Poco dopo essersi messa sotto le coperte, Madison riaccese il telefono, dopo che lo aveva lasciato spento tutta la sera. Come si aspettava, c’erano almeno venti chiamate dei suoi genitori, che ignorò volutamente. Poi, tra tutte quelle notifiche, notò anche un messaggio da parte di Claire. Lo aprì e sorrise vedendo che non rispettava nessuna regola di buona scrittura, ma Claire non andava troppo d’accordo con la tecnologia. Il messaggio, errori esclusi, diceva:
“Ciao piccola, spero che tu stia bene. Ai tuoi ho detto che sei da Jack e di stare tranquilli. Spero di aver fatto bene. Un bacio.”
Fu sollevata al pensiero che i suoi genitori non avrebbero scomodato nessuno per cercarla, almeno per un po’. E, al contempo, era felice di avere un’alleata come Claire, e sperò che non finisse nei guai per colpa sua.
Madison appoggiò il telefono sul mobiletto accanto al letto, poi si rigirò tra le coperte. Le tirò su fino a coprirsi il viso, poi strinse il cuscino tra le braccia, cercando di rimanere più coperta possibile. Le sue narici furono invase da un profumo di cocco e le tornò subito in mente il flacone di shampoo che aveva visto poco prima, a bordo vasca, nel bagno di Ashton. Per un momento le parve di vederlo lì, disteso accanto a lei, ma era solo la sua fantasia.
Come sarebbe stato dormire davvero con lui?
I suoi pensieri cominciarono a viaggiare, e immaginò che Ashton si risvegliasse all’improvviso con lei accanto; poi i due si guardavano, rischiarati solo dalla luce della luna, mentre Ashton si avvicinava sempre di più; e infine lui posava quelle labbra sulle sue, dandole il suo primo bacio.
Madison tornò alla realtà, e scacciò imbarazzatissima quel pensiero dalla sua testa. Stava davvero immaginando una simile scena? Era quello che voleva?
Si domandò se Ashton stesse già dormendo. Aveva voglia di stare con lui, ma non voleva svegliarlo. Si chiese se fosse un tipo dal sonno leggero o pesante. Pensò, però, che non ci sarebbe voluto molto per scoprirlo. Sarebbe potuta andare ugualmente nell’altra stanza, provare a distendersi accanto a lui e studiare la sua reazione. E se si fosse svegliato e le avesse chiesto che ci faceva lì, poteva sempre dirgli che non riusciva a dormire perché aveva troppi pensieri nella testa. E i pensieri, certamente, erano per il pianoforte. Non per quel batticuore incontrollabile che aveva ogni volta che pensava a lui e immaginava certe scene.
Si alzò furtiva dal letto, un po’ eccitata e un po’ impaurita, ma il fatto di aver già pensato al piano di riserva la tranquillizzò un poco.
Si affacciò in soggiorno e individuò subito il divano letto. Ashton sembrava dormire beatamente, ignaro del fatto che Madison si era alzata. La ragazza uscì dal suo nascondiglio e fece qualche passo in punta di piedi. Si fermò e scrutò Ashton, che non si era mosso di un millimetro. Si avvicinò ancora, fino a che non si ritrovò ai piedi del letto: se fosse riuscita ad adagiarvisi sopra senza farsi sentire, avrebbe potuto tirare un sospiro di sollievo. Si abbassò piano piano, fino a che non fu seduta, ben attenta a non staccare, nemmeno per un momento, lo sguardo da Ashton. Sprofondò lentamente nel materasso, ma l’altro sembrava dormire ancora serenamente. Madison aspettò qualche secondo, dopodiché liberò i polmoni con un bel sospiro. Prese posto accanto a lui, alzando le coperte cercando di non tirarle, e si distese sul fianco con lo sguardo verso Ashton.
L’oggetto dei suoi desideri era lì. E adesso che ce lo aveva davanti, capì che il batticuore non rappresentava più soltanto la sua emozione.
Aveva paura.
Non aveva mai baciato nessuno, né era stata mai sul punto di farlo e altri pensieri occuparono la sua mente. E se avesse sbagliato mira? Se si fosse scontrata col suo naso, non combinando niente e, anzi, svegliandolo? E poi, come faceva a sapere come si baciava, se non l’aveva mai fatto?
Un’altra parte della sua mente provò a tranquillizzarla: che senso aveva farsi tutti quei problemi, se Ashton dormiva? Non aveva bisogno di pensare alla tecnica, visto che avrebbe fatto tutto da sola. E qui, altri pensieri la tormentarono: voleva davvero sprecare così il suo primo bacio?
Stanca di quei pensieri, li zittì, risoluta. In fondo, si disse, si trattava solo di uno stupido bacio, nessuno era mai morto per quello, e di certo non era difficile, se lo facevano tutti con tanta facilità.
Osservò ancora il volto di Ashton, che era rimasto immobile, smosso solo dal suo respiro. Si bagnò le labbra e deglutì.
Cominciò a spostare il suo viso verso quello di Ashton, mentre il respiro le tremava. Alla fine, arrivò così vicino da poter sentire il respiro di lui.
Deglutì un’altra volta.
Prese la mira, memorizzando dove si trovavano quelle labbra che voleva baciare.
Chiuse gli occhi.
E lo baciò.
L’emozione era talmente tanta che Madison avrebbe voluto piangere, ma non aveva voglia di rovinare quel momento e, soprattutto, non voleva staccare le sua labbra da quelle di Ashton. Le sembrò una sensazione molto strana, e non aveva mai notato quando le labbra potessero essere morbide e calde.
Si staccò da quel contatto così sorprendente e, con un sorriso incantato, riaprì gli occhi.
E si accorse che Ashton la stava fissando.
 
Il cuore le si pietrificò. Non riuscì a pensare a nulla, aveva la testa completamente vuota. Ashton continuava a guardarla, senza dire niente, ma era perfettamente sveglio.
Poi, lo vide muoversi. Capì che voleva baciarla ancora. Ma con un bacio vero, stavolta. Raccolse tutto il suo coraggio e aspettò che le labbra di Ashton la sfiorassero. Ma, come sentì che erano vicinissime, si tirò indietro.
« No! »
Nascose il volto nel cuscino e si maledì un secondo dopo. Si diede della stupida, perché, ancora una volta, l’aveva data vinta alla sua inesperienza. Provò a rimediare immediatamente, liberandosi del cuscino.
« Scusa, non volevo dire quello! »
Ashton, però, si era già alzato e le dava le spalle.
« Madison, sono stanco di questo tuo atteggiamento. È l’ora di finirla. »
Lei lo guardò con fare interrogativo.
« Che stai dicendo? »
« Sto dicendo che sono stufo di questa tua indecisione. Prima mi rifiuti, poi mi fai gli occhioni dolci, poi sei di nuovo distante e infine mi baci! Madison, lo sai che mi piaci, e trovo veramente scorretto questo tuo comportamento. Non puoi giocare così con i sentimenti delle persone. »
Madison lo fissava con occhi sbarrati.
« Ash, scusami, io non mi ero resa conto che… Sono così imbranata! Era la prima volta, per me, io… »
Madison abbassò lo sguardo, forse aspettando l’esito di questa sua confessione.
« Mad, mi dispiace, ma non è una giustificazione. Sai da quanto tempo aspettavo questo momento? E adesso, ancora una volta, ti tiri indietro! Non volevo arrivare a questo, ma sono costretto a metterti alle strette. »
Ashton si risedette sul letto, alzò con delicatezza il mento di Madison, finché non riuscì a guardare quegli occhi umidi.
« Vuoi stare con me, sì o no? »
Madison rimase a bocca aperta. Non rispose. Ashton continuò.
« Se dici di sì, ricordati che è un impegno; ma se dici di no, allora sappi che questa volta è definitivo e non so se avrò voglia di vederti ancora. Non volevo arrivare a farti un aut aut, ma non sopporto davvero più questa situazione. »
Madison si sentì nel panico. E in quel momento si rese conto che si era veramente illusa che potesse durare per sempre quella situazione così idilliaca, dove era libera di andare e venire quando più le faceva comodo. Senza rendersi conto, egoisticamente, che quel suo atteggiamento aveva fatto soffrire qualcuno.
Un qualcuno che adesso le chiedeva di scegliere. Il tempo dei giochi era finito e lei doveva fare la sua scelta e prendersi le sue responsabilità.
Ashton aveva significato davvero tanto per lei: solo in quel momento capì che era stato proprio lui ad attenuare la sua avversione per il pianoforte, era stato lui che, indirettamente, le aveva dato la spinta per liberarsi da quella situazione opprimente. Le aveva anche dato il sogno di una mostra fotografica, dove finalmente avrebbe avuto l’occasione per dimostrare che aveva tutte le carte in regola perché i suoi genitori fossero orgogliosi di lei.
E se l’avesse perso, se avesse perso il suo riferimento, cosa ne sarebbe stato di lei? Sarebbe rimasta ancora la solita, piccola Madison che suona il pianoforte e che cerca di uscire da quel mondo di latta costruito appositamente per lei.
Ma se, invece, avesse accettato di stare con Ashton? Dove l’avrebbe condotta quella scelta? La risposta, in realtà, era una sola: non lo sapeva. Poteva immaginare anche un milione di possibili scenari, ma sarebbe potuto accaderne uno che non aveva previsto. E se non fosse stato tutto rose e fiori?
Aveva paura di quel salto nel vuoto, perché poteva migliorare la sua situazione, ma poteva anche peggiorarla. Avrebbe potuto soffrire.
Ma mentre la sua mente continuava ad arrovellarsi tra mille pensieri, la sua bocca agì di testa propria.
« Va bene. »
Realizzò dopo qualche attimo ciò che aveva appena detto. Stava accettando di stare con Ashton. Di diventare la sua ragazza.
Lui la guardò con le sopracciglia alzate, sorpreso.
« Sei sicura? »
Ormai non poteva più tirarsi indietro. Era riuscita a muovere il primo passo verso l’ignoto, e sentiva, dentro di sé, la voglia di camminare ancora.
« Sì. »
Ashton si avvicinò a lei e le accarezzò una guancia con un tenero sorriso. Erano davvero poco distanti l’uno dall’altra, tanto che il volto di Ashton cominciò a sdoppiarsi. Madison chiuse gli occhi, mentre il cuore tornò a batterle all’impazzata.
E un altro bacio non tardò ad arrivare.

 

Sera a tutti! Capitolo un po' più lungo del solito, ma spero che vi sia piaciuto lo stesso ^^ Fan di Ash, non mi picchiate! XD Tanto lo sapevate che sarebbe finita così... u.u
Ah, ci sono alcuni punti che ho aggiunto in un secondo momento; ho riletto tutto comunque, ma se qualcosa mi fosse sfuggito sentite liberi di dirmelo ^^ 
Ringrazio tantissimo le persone che mi seguono, che commentano e non, mi rendete ogni giorno più felice *__*
A presto, ci vediamo martedì prossimo con altri ricordi del personaggio misterioso... tra un paio di capitoli comincerete a capirne il senso ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Memories/2 ***


17. Memories/2
 
 
???
Pum.
Un altro sparo.
Aveva di nuovo centrato il cuore della sagoma antropomorfa posta a venticinque metri da lui. Suo padre gli batté una pacca sulla schiena.
« Bravo, figliolo. Stai migliorando notevolmente. Di questo passo, nessuno potrà sfuggire ai tuoi colpi! »
Il ragazzino annuì senza entusiasmo, spostandosi e lasciando libera la finestra di tiro per il padre. Lo vide ricaricare la sua Beretta M9 con quindici proiettili 9mm Parabellum; poi sparò alla sagoma.
A suo padre piaceva molto portarlo al poligono di tiro. Voleva che imparasse a sparare e difendersi, nel caso in cui avesse avuto a che fare con gente poco raccomandabile. Quando gli aveva fatto quel discorso, aveva pensato che, forse, suo padre poteva volergli un pizzico di bene; ma ogni volta che tornavano a casa doveva ricredersi.
 
Ormai era un ragazzino di quattordici anni, e i tempi di Jordan Sputafuoco erano ormai passati da tempo. Adesso non era più timido e impacciato. Era diventato decisamente rispettabile alla scuola media, e aveva intenzione di diventare qualcuno anche alla scuola superiore. Il caso aveva voluto che Bill fosse capitato nella sua stessa classe, ma aveva smesso di fare lo sbruffone: l’adipe che aveva messo su da bambino lo aveva accompagnato fino all’adolescenza, rendendolo l’obiettivo di scherzi e insulti.
 
Passarono un’altra ora al poligono, finché suo padre non si stancò e non lo mandò a casa da solo.
« Vado a sbronzarmi con degli amici. Ci penserà tua madre a preparare la cena. Ah, e dille anche che mi deve stirare tutte le camicie, mi servono per domani. »
Lo mollò lì, da solo. Non che fosse un problema, ormai era abituato a essere abbandonato da un momento all’altro.
Però era sempre così dannatamente solo.
 
***
 
Come tornò a casa, trovò sua madre seduta in quella stanza striminzita che era la cucina. Rammendava calzini di fronte alla tv accesa, che ogni tanto perdeva il segnale. Se ne stava tutta ingobbita sulla parte da ricucire, a causa della vista che le stava calando.
« Sono tornato. Papà vuole le camicie stirate per domani. »
Dopo quelle parole, sua madre abbandonò subito l’uovo di legno ricoperto dal calzino bucato, per correre a prendere l’asse da stiro e la pila di camicie in bagno.
Sua madre era diventata così: ogni cosa che il marito diceva era ordine o legge, punibile se non fosse stato rispettato. E così quella donna viveva sempre nella paura costante, attenta a non sgarrare o disubbidire agli ordini.
 
Ovviamente non avevano tempo per occuparsi anche di lui, e così aveva imparato a badare a se stesso, più o meno: preparava da solo la colazione da portare a scuola – avendo guadagnato, così, i mitici panini al prosciutto che da piccolo gli erano sempre stati negati - , lavava e stirava i suoi panni all’occorrenza e puliva da solo la sua camera, se così si poteva chiamare.
Lui preferiva definirlo il suo ‘rifugio’: un po’ perché lo era davvero, un po’ perché gli ricordava un accampamento di fortuna di qualche militare in guerra. Vestiti sulla sedia, letto disfatto, milioni di oggetti per terra.  
 
***
 
Si era addormentato da poco, quando il tonfo della porta lo svegliò di soprassalto.
Suo padre era tornato, ed era chiaramente ubriaco.
Cominciò a urlare qualcosa, che gli fu chiaro solo dopo essersi svegliato dal suo intorpidimento.
« Hai stirato le camicie? Non sono abbastanza! »
Ciaff.
Aveva imparato a riconoscere il suono di una mano possente che sfrecciava contro un viso fragile e delicato.
Poi seguì un pianto.
« Lasciami stare, ti prego! Ho stirato tutto! »
« Non è vero! »
L’acuto grido di dolore proveniente da sua madre lo congelò.
« Dov’eri mentre non c’ero, eh? Puttana! Te lo dico io dov’eri! »
Ancora altre urla di dolore. Forse un calcio, o un pugno. Chissà.
« Eri a fartela con il vicino! Lo so, sai! »
Ancora altre grida, ancora altri pianti.
 
Nascose la testa sotto il cuscino, premendolo contro le sue orecchie più forte che poteva. La voce di suo padre era ormai ovattata, mentre le grida acute di sua madre gli arrivavano ancora troppo bene.
Poi, il silenzio.
Strinse il cuscino ancora più forte.
La porta della sua camera si aprì, sbattendo sul muro.
Le parole di suo padre si facevano sempre più vicine, e lui stringeva ancora di più il cuscino e gli occhi.
Si sentì afferrare da quelle mani prorompenti, che lo rivoltarono a pancia in su, privandolo del suo scudo.
Suo padre lo afferrò per la collottola del pigiama.
« Anche tu, rammollito! »
Lo schiaffo fu talmente forte che, all’inizio, non sentì nemmeno il dolore. Fu scaraventato a terra, dove sbatté il mento con violenza. La stanza gli sembrava impregnata di quel pungente odore d’alcool.
« Sei una femminuccia! Una delusione! »
Un calcio sugli stinchi, che stavolta sentì benissimo. Un altro nello stomaco. E poi un altro, un altro ancora.
Voleva piangere, ma ogni volta il dolore era così forte che non ci riusciva. Alzò gli occhi, e vide sua madre sulla porta, in ginocchio, con i capelli arruffati e il volto rigato dalle lacrime.
 
Quando lo ebbe picchiato a sufficienza, suo padre uscì dalla sua camera, richiudendo la porta con la stessa forza con cui l’aveva aperta.
Era ancora disteso a terra, inerme, con lacrime silenziose che gli solcavano il viso; non si era mosso di un millimetro.
Sentì nuove urla disperate provenire dalla camera da letto dei suoi genitori e, anche se non aveva mai sbirciato, aveva capito cosa stava succedendo là dentro, soprattutto crescendo. Intervenire gli era comunque impossibile, poiché suo padre chiudeva la porta a chiave. E sua madre era prigioniera là dentro.
 
Ormai erano un paio d’anni che quelle scene si ripetevano quasi ogni sera, ma ogni volta le urla di sua madre gli schiacciavano il cuore in una pressa violenta.
Quando il sonno si impossessava di suo padre, tornava il silenzio, e finalmente si addormentava.
Ma ogni volta erano sempre incubi. 
 
***
 
C’era solo una cosa bella, nella sua vita: Cécile.
Dalla prima volta che l’aveva vista, dentro di lui si era acceso qualcosa. Cécile era una ragazza del terzo anno, di media statura, boccolosa e dalla pelle chiara.
Aveva avuto occasione di parlarci solo una volta, ma la sua voce così delicata l’aveva subito rapito. Quando aveva saputo che avrebbero dovuto fare una recita insieme alla sua classe, la testa gli era andata completamente tra le nuvole. Già immaginava la sua dea come protagonista dello spettacolo, e lui nei panni del giovane principe che avrebbe dovuto risvegliarla con un bacio.
Ma quel sogno fu presto infranto: Cécile aveva infatti avuto la parte da protagonista, ma il ruolo del principe era stato assegnato a un suo compagno di classe, John. A lui, invece, era toccato il ruolo del maggiordomo che aiutava la protagonista nella risoluzione di misteri legati al ritrovamento di un piccolo oggetto. Non gli era andata così male – poteva rimanerle accanto con una buona scusa - , ma l’idea che non fosse lui a poterle dare il bacio finale lo faceva andare fuori di testa.
 
Lui e Cécile cominciarono a trascorrere diverso tempo insieme. Con la scusa di ripassare le battute, i due si incontravano spesso al parco, ridendo e scherzando. La cotta che si era preso per la ragazzina si tramutò presto in un innocente e timido amore: avrebbe voluto stare con lei per sempre, potersi beare del suono della sua voce e della morbidezza della sua pelle. Nonostante quello, non aveva il coraggio di confessarle i suoi sentimenti; sapeva che era una ragazza molto corteggiata, e non lo stupì il fatto che anche il protagonista della recita le facesse il filo.
La cosa positiva è che lei sembrava avere occhi solo per lui; era al settimo cielo.
 
Un pomeriggio, mentre erano al parco, raccolse tutto il suo coraggio e si confessò. Le raccontò di come l’avesse incantato fin dal primo giorno, di come la pensasse mattina e sera, o di quanto era dispiaciuto del fatto di non poter essere lui a darle il tanto agognato bacio a fine recita. E allora accadde qualcosa di inaspettato. Scaldati dai raggi del sole, accarezzati da una leggera brezza primaverile, Cécile gli prese la mano, portandolo sotto un bellissimo acero. Lontano da occhi indiscreti, sotto l’ombra del grande albero, lo baciò.
Era il suo primo bacio. Morbido e asciutto. Sentì una fugace pressione delle labbra di lei sulle sue, e lei arrossì subito dopo, colorando di un tenue rosa quel volto così candido.
Per come aveva visto nei film, si sarebbero dovuti abbracciare con foga e baciare con altrettanta voglia; e invece rimase lì imbambolato, osservando gli occhi imbarazzati di Cécile. Il cuore gli batteva forte e le gambe sembravano due budini.
 
Si misero insieme, facendo nascere una storia piena di sorrisi, parole dolci e mille attenzioni; sembrava una favola. Così, gli parve giunto il momento di presentare la sua dea a casa. Non che ci tenesse particolarmente a farla conoscere ai suoi genitori, dei quali non aveva alcuna stima; voleva solo dimostrare loro che non era né un rammollito né una femminuccia, essendo riuscito a trovare una simile creatura che gli volesse bene.
La invitò a casa un pomeriggio di giugno. Il tempo era piuttosto incerto, così decisero di studiare a casa e di non andare al parco. C’era soltanto suo padre, stranamente silenzioso. Come gli fu presentata Cécile, cominciò a scrutare la ragazzina dall’alto al basso.
 
Passarono un pomeriggio decisamente piacevole, fatto di baci innocenti e pensieri puri.
Si alzò per andare in bagno, lasciando la ragazza a giocare con il suo computer.
Si assentò per diverso tempo, anche se purtroppo non era colpa sua. Tornò dopo circa un quarto d’ora dalla sua Cécile.
Ma la ragazza era strana.
Il sorriso era sparito dal suo volto, e sembrava spaventata. Lui non capiva. Provava ad avvicinarla e abbracciarla, ma lei si ritraeva. Le sembrò sul punto di piangere, ma non riuscì a scoprirlo mai: Cécile scappò via da quella casa, dimenticando pure la borsetta sul letto.
Non tornò più.
 
Da quel giorno, la ragazza non gli rivolse più la parola. A ogni richiesta di spiegazione era vaga e sfuggevole, e più che lui insisteva e più che lei lo minacciava: avrebbe detto a sua madre che c’era un ragazzino fastidioso che la importunava continuamente.
Abbandonò l’intento, ma il dolore che provò per la perdita di Cécile fu incommensurabile. Piangeva tutto il giorno, spesso in bagno per non farsi sentire; evitava di passare dal parco che aveva ritratto i loro momenti d’amore; aveva strappato tutte le foto di quella fanciulla che, ormai persa, ai suoi occhi era ancora più bella.
Si chiese a lungo quale fosse il motivo del cambiamento repentino di Cécile. Per qualche tempo pensò di aver sbagliato qualcosa, di averla ferita in qualche modo. Poi, il giorno della recita accadde qualcosa. Gli fu estremamente difficile osservare il bacio tra i due protagonisti, ma in qualche modo lo superò. Nel tentativo disperato di riconquistare la sua amata, la andò a cercare  nel dietro le quinte del piccolo teatro. Lì vi trovò i due ragazzi, entrambi molto imbarazzati, mentre si sussurravano qualcosa.
« John, tu… tu mi piaci! »
Rimase impietrito. Cécile si era innamorata di John, il protagonista. Scappò via in cortile, nascondendosi da tutto e da tutti.
Ora che aveva trovato una persona da amare, e dalla quale essere amato a sua volta, qualcuno gliel’aveva portata via.
Pianse amare lacrime.
Perché nessuno vuole amarmi?

 

Ta-dan! Eccoci qui con un altro capitolo del personaggio misterioso! Lo so, vi interessa di più la trama principale, ma anche questi capitoli sono importanti! XD Dai dai che col prossimo ci saranno grandi avvenimenti *__* Il titolo è "Raggio di sole" e non vedo l'ora di farvelo leggere! Insomma, nei prossimi capitoli ci saranno grandi novità, anche perché ormai siamo oltre la metà della storia.
Un enorme grazie a tutti coloro che leggono e recensiscono, mi fa così piacere!
A martedì prossimo, non vedo l'ora, davvero!

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Raggio di Sole ***


18. Raggio di sole
 
 
18 gennaio 2005, mattina.
Anche quella mattina, Alan si trovava lì, in centrale, seduto alla sua scrivania. Era intento a sbrigare alcuni casi minori e faccende amministrative, in attesa di ciò che aspettava con maggior impazienza: i risultati riguardanti il caso Sánchez.
Rilesse ancora una volta le dichiarazioni lasciate da Nathan, ma non vi notò nulla di sospetto. Si sentiva in colpa anche solo nell’ipotizzare che il ragazzo potesse essersi macchiato di un tale crimine, ma si sentiva ancora più in colpa nell’escludere quell’ipotesi, da buon custode della Legge qual era.
All’improvviso, qualcuno bussò alla porta: era un suo sottoposto, e aveva in mano un pacco di fogli.
Alan lo ringraziò, facendogli cenno di lasciarli sulla sua scrivania. Quando se ne fu andato, cominciò a dargli un’occhiata: erano i risultati dell’autopsia e dell’esame balistico.
 
Da quanto leggeva, sembrava che Sánchez fosse stato ucciso con sei colpi di pistola.
Erano stati ritrovati, infatti, sei proiettili calibro 9mm Parabellum provenienti da una Beretta M9, la semi-automatica più venduta negli Stati Uniti. La morte era stata provocata da un proiettile che aveva reciso l’aorta, provocandone il decesso poco dopo a causa di un’emorragia interna. La nota particolare era che la direzione dei proiettili non era frontale, ma si erano conficcati nel corpo di Sánchez come se l’assassino si fosse trovato continuamente alla sua sinistra, senza mutare la sua angolazione.
L’esame balistico, però, era più interessante. Nonostante fossero stati sparati sei colpi, era stato ritrovato un solo bossolo. L’area di McGuire Fields era stata perlustrata in lungo e in largo, senza risultato. Non c’erano tracce di materiali derivanti dall’esplosione di polvere da sparo, il che faceva pensare che il corpo fosse stato solo successivamente trasportato laggiù.
L’altra nota stonata era il fatto che il corpo sembrava essere stato trascinato, ma nel luogo dove si interrompeva la scia di sangue non vi era alcuna traccia ematica evidente.
In altre parole, all’improvviso era sbucata una scia di sangue, che terminava nel punto dove era stato ritrovato il cadavere, senza però che ci fosse una motivazione sensata sul come fosse iniziata.
 
Alan riordinò le idee. Qualcuno, in luogo non ancora precisato, aveva sparato a Sánchez sei colpi di pistola con una Beretta M9. Lo aveva poi caricato, presumibilmente su un’auto, e trasportato fino a McGuire Fields. Dopo essere in qualche modo riuscito a nascondere le tracce di sangue, lo aveva buttato a terra e trasportato manualmente fino al luogo del ritrovamento.
Consultare tutti i registri di vendita di armi era impensabile: la Beretta M9 era troppo diffusa. Quali elementi avrebbero potuto sfruttare per arrivare al colpevole? Anche l’esame di tracce biologiche sul corpo di Sánchez, senza avere nemmeno una pista, sarebbe stato inutile.
Certo era sicuro che la scientifica avrebbe comunque ricercato tracce di DNA altrui e, probabilmente, avrebbero richiamato Nathan per confrontare i due risultati, sempre che non avessero già preso i suoi dati in altro modo. La probabilità che ciò accadesse era molto alta, e si augurò solo l’esito negativo del confronto.
 
Da quel che ne sapeva, nessun’altra denuncia era occorsa nei confronti di Sánchez. Non risultava coinvolto in fatti di cronaca recenti, né la sua descrizione sembrava combaciare con quella di uomini denunciati giorni o settimane prima, a esclusione, ovviamente, di quella di Nathan. Il suo ex sembrava davvero l’unico che potesse avere un buon movente per far fuori Sánchez. La violenza, la tentata aggressione. Ma lui gli aveva giurato, e gli credeva, che con l’omicidio non c’entrava niente.
Aveva provato a rintracciare nuovamente le precedenti vittime di Sánchez, ma era riuscito solo ad appurare che non c’entravano niente. L’uomo non sembrava aver avuto più rapporti nemmeno con i vecchi trafficanti di droga con i quali aveva avuto dei precedenti, quindi anche quella pista non sembrava quella da seguire.
L’evidenza continuava a essere una sola, ma non voleva crederci.
A spezzare nuovamente i suoi pensieri fu Ashton, che fece capolino alla porta.
« Disturbo? »
Alan scosse il capo.
« No, entra. Che cos’hai lì in mano? »
Ashton si rigirò tra le dita una videocassetta e sorrise soddisfatto.
« È la registrazione di una telecamera a circuito chiuso. Vicino a casa di Sánchez c’è una banca, e ho pensato che potesse aver registrato qualcosa. »
« L’hai già guardata? »
« Non ancora. Aspettavo te. »
 
I due si recarono nella sala video. Ashton gli spiegò che il filmato durava un’ora e che vi era registrato quanto accaduto tra le una e le due del dodici gennaio. Inserì la cassetta, e il video partì.
La telecamera era probabilmente inclinata di circa quarantacinque gradi, rispetto all’ingresso della banca, in quanto inquadrava il marciapiede sottostante e i due lati della strada piuttosto in profondità. La qualità del video, purtroppo, non era eccelsa, a causa della quasi totale assenza di luce.
Nel video non accadde nulla per diverso tempo, tanto che Alan lo mandò avanti velocemente. Poi, però, dopo circa dieci minuti, fecero la sua comparsa un’auto e il suo proprietario, che entrava nella palazzina di Sánchez. La telecamera era troppo lontana perché si potesse distinguere chiaramente il volto di quella sagoma, ma l’altezza, la corporatura e le ampie falcate gli fecero pensare che fosse una persona di sesso maschile.
L’uomo uscì dalla palazzina dopo cinque minuti circa. Ma non era solo: portava appresso qualcun altro, tenendone il braccio intorno al suo collo, per sorreggerlo; e il nuovo ospite sembrava non camminare, come se fosse trascinato dall’altro. Alla fine, l’uomo caricava l’altro in auto, saliva in macchina e ripartiva.
Per tutto il resto del video, nessun altro entrò o uscì dalla palazzina. Ashton gli aveva riferito che, in casa di Sánchez, c’erano stati evidenti segni di colluttazione. Alan ne dedusse che, molto probabilmente, l’uomo che era entrato nella palazzina lo aveva fatto col preciso scopo di portare via Sánchez, per poi ucciderlo altrove.
Niente sembrava frutto del caso, anzi: pareva un piano ben studiato.
Poi, però, una nota stonata interruppe quella melodia che filava troppo liscia.
« Un momento. Chi ci garantisce che l’uomo portato via sia Sánchez? »
Ashton sorrise con un pizzico di soddisfazione, come se, aspettandosi quella domanda, avesse già provveduto a cercare la risposta.
« Pare che sia stato visto vivo poche ore prima, al mini-market sotto casa. Inoltre, l’unica persona che è entrata o uscita dalla palazzina di Sánchez è proprio quella ritratta nel video. »
Alan rimandò indietro la videocassetta, tornando al punto in cui arrivava l’auto; ma proprio mentre si apprestava a ricontrollare i fotogrammi, qualcuno bussò alla porta.
Era Clark, un suo collega.
« Alan, il capo vuole vederti. Dice che è urgente. »
Alan si scambiò un’occhiata con Ashton, che sembrava intimargli di andare, per non scontentare troppo Edmond.
 
Il capo lo fece sedere davanti alla sua scrivania. Si ricordava l’ultima volta che era stato lì: Edmond gli aveva affidato le indagini su Nathan e il maniaco, promettendogli una posizione più alta. Lo sguardo del capo era accigliato e incupito; non c’era stampato sopra il solito sorrisetto canzonatorio.
Alan si preoccupò.
Il capo incrociò le mani e le portò davanti alla bocca, pensoso. Poi alzò lo sguardo verso di lui e, finalmente, parlò.
« Ho delle brutte notizie per te, Alan. »
Alan aggrottò la fronte. Si chiese quali fossero e cominciò a sentirsi inquieto. Edmond continuò.
« Ho saputo che sei coinvolto personalmente nel caso Sánchez. Mi hanno riferito che hai avuto una relazione con il ragazzo che lo ha denunciato e che è stato interrogato pochi giorni fa, Nathan Hayworth. »
Alan si sentì gelare e il respiro sembrò mancargli. Pronunciò a fatica una risposta.
« È vero, non posso negarlo, ma… »
Il capo alzò la mano verso di lui, mostrandogli il palmo, segno che non doveva continuare.
« Non è questo il punto. È un po’ che ti ho affidato questo caso, e ancora non sei arrivato a capo di niente. Sospetto che questo tuo coinvolgimento ti impedisca di lavorare con lucidità. »
Alan scosse il capo, incespicando in cerca delle parole giuste.
« Ho solo bisogno di un altro po’ di tempo per raccogliere indizi… »
Il capo lo fermò un’altra volta.
« Non credo che sia questione di tempo, Alan. Ashton è nelle tue stesse condizioni e ha già fornito numerose informazioni interessanti per questa indagine. E tu, invece, cosa hai fatto? »
A quella domanda, Alan non seppe rispondere. Non poteva negare ciò che stava dicendo il capo: effettivamente, era arrivato a capo di ben poche cose. Edmond proseguì.
« Alan, mi dispiace dirtelo, ma devo sollevarti dall’indagine. »
Alan spalancò gli occhi, incredulo.
« Che cosa? »
« È un caso molto delicato, e abbiamo bisogno di persone competenti che riescano a tenere separati il lavoro e la sfera privata. Sei sempre stato un investigatore brillante, ma non mi piace come hai lavorato a questo ultimo caso, hai perso davvero troppo tempo prezioso. Perciò, l’unica cosa che posso fare è toglierti il caso e affidarlo al solo Ashton. »
Alan non seppe cosa dire. Continuava a scuotere il capo, come se lo aiutasse a trovare le parole per controbattere, ma riuscì solo a sembrare un babbeo con lo sguardo perso nel vuoto. Alla fine si alzò, e uscì dall’ufficio senza dire una parola.
Si sedette su una delle sedie della sala d’attesa, fissando vacuo la realtà intorno a lui.
Quel caso, per lui, significava davvero troppo.
Era innanzitutto l’occasione per un avanzamento di carriera, che aspettava da diversi anni. Ma non significava solo quello, per lui.
Era stato la molla che lo avevo spinto a riavvicinarsi a Nathan, a parlargli di nuovo, a chiarire tanti aspetti oscuri del suo passato. Quel caso rappresentava una sorta di sottile linea rossa che aveva il potere di unirli, di riavvicinarli un po’ di più.
Inoltre, si sentiva in dovere di risolvere quel caso, di scoprire se davvero Nathan c’entrasse qualcosa con l’omicidio di Sánchez. Doveva capire se Nathan gli aveva raccontato tutta la verità o se invece gli nascondeva ancora qualche torbida vicenda. Sapeva che non sarebbe potuto vivere col tormento che, proprio il ragazzo che aveva amato, fosse anche un freddo assassino.
Non si sarebbe arreso, e si ripromise di far luce su quella vicenda.
Ufficialmente o meno.
 
***
 
Quando Alan girò le chiavi nella toppa, si meravigliò di non trovarvi le solite due mandate. Come entrò in casa e vide, all’entrata, un paio di scarpe che non erano le sue, si ricordò che aveva lasciato a Jack una copia delle chiavi sotto lo zerbino, in modo tale che potesse aspettarlo in casa. Alan non era stato troppo entusiasta di quella proposta, ma non aveva trovato nemmeno un buon motivo per rifiutare.
Il ragazzo sbucò nell’ingresso e gli corse incontro salutandolo con un consueto bacio, che Alan ricambiò a fatica.
Da quando c’era stata quella scazzottata, Jack era diventato molto più docile, nei suoi confronti; probabilmente cercava di riparare a quella brutta figura. Ma Alan, invece, aveva reagito diversamente: non poteva certo scordare la morsa allo stomaco vedendo Nathan a terra, colpito in quel modo. In quel momento, gli era sembrato quasi un fiore delicato che qualcuno aveva osato toccare.
« Bentornato! Com’è andata oggi? »
Alan appese le chiavi al muro e si sfilò il cappotto senza dire una parola. Non era proprio dell’umore, ma per fortuna Jack se ne accorse subito.
« È successo qualcosa, vero? Puoi parlarmene, se vuoi. »
Alan si strusciò un palmo sulla fronte, come per liberarsi dallo stress. Sospirò.
« Ho bisogno del tuo aiuto, Jack. »
Il ragazzo corrucciò la fronte, per lasciare poi spazio, un attimo dopo, a un sorriso appena dischiuso.
« Davvero? Di cosa si tratta? »
« Abbiamo il video di una telecamera di sicurezza che ritrae il presunto assassino di Sánchez. Purtroppo non si vede granché, ma magari puoi aiutarmi a trovare indizi utili. »
Jack rimase a bocca aperta e non disse niente. Fissò Alan per qualche frazione di secondo, poi si fece pensoso.
« Aspetta, perché lo stai chiedendo a me? E Ashton? E il segreto professionale? »
« Sarò breve, perché non voglio ritornarci più. Mi hanno tolto il caso a causa del mio coinvolgimento con Nathan, quindi ora c’è solo Ashton a occuparsene. Ma non ho intenzione di darmi per vinto così, senza lottare. Pensi di potermi aiutare? »
Jack annuì debolmente, ancora frastornato da tutte quelle informazioni.
« Però hai detto che non si vede quasi niente, giusto? Non so quanto potrà essere d’aiuto un occhio poco esperto. »
« Tentar non nuoce. Se saremo fortunati, scopriremo qualcosa; altrimenti, resteremo al punto di partenza. »
Alan tirò fuori dalla borsa la videocassetta e fece cenno a Jack di seguirlo in camera, dove teneva il videoregistratore.
 
Arrivò subito al punto più interessante. Vide di nuovo la macchina del presunto assassino, che usciva dall’auto e che camminava verso la palazzina, entrandovi. Scrutò ancora una volta quella sagoma nera e indistinta, ma non notò alcun segno particolare in quell’uomo. Poteva essere chiunque.
Jack indicò un punto in mezzo allo schermo.
« Avete già identificato l’auto? Il modello, almeno. »
Alan mandò indietro il video, fino al punto in cui la macchina entrava in scena. Avvicinò il suo sguardo al monitor e assottigliò gli occhi, come se servisse a scovare dettagli nascosti. Dopo qualche momento espose le sue considerazioni.
« Il passo dell’auto è piuttosto lungo, ma l’abitacolo è alto e spazioso. Inoltre, il design è piuttosto spigoloso, o almeno così pare. »
« E quindi? »
« Quindi non è né un’auto di lusso, né un’auto moderna. Sembra quasi un vecchio modello. »
« Quanto vecchio? »
Alan scrollò le spalle.
« Non saprei, ma non mi pare improbabile che possa risalire agli anni Settanta. E questo non può che essere un vantaggio, per noi. Quante persone usano ancora auto così vecchie? »
Jack annuì, sorpreso, come se stesse ancora cercando di acchiappare il risvolto che quella domanda implicava. Alan continuò, come in preda all’entusiasmo di una grande rivelazione.
« Sembra quasi una Ford Mustang o una Mercedes Classe S. O altro che ci somigli. Mi hai dato una grande idea, Jack. Ti ringrazio. »
Il ragazzo si limitò a sorridere, mentre osservava l’espressione estasiata di Alan.
« Cos’hai intenzione di fare, adesso? »
Alan si portò una mano sul mento.
« Potrebbe essere una buona idea studiare le tracce di pneumatici che l’assassino ha lasciato, e controllare se coincidono con qualche auto di vecchia fattura. Se la ricerca andrà a buon fine, potremmo consultare il Registro Automobilistico e vedere se è possibile risalire al proprietario dell’auto. »
« Mi sembra un’ottima idea, sì. Ma dell’uomo nel video, cosa ne pensi? »
« Non si vede granché. Però sicuramente non è un fuscello, per trasportare un uomo in quel modo. Non mi sembra che faccia una gran fatica. Quindi, direi di poter escludere che…  »
Alan incrociò le braccia e pensò un attimo, quasi esitante sul terminare la frase.
« … che quell’uomo sia Nathan, giusto? »
Jack aveva completato la frase al posto suo.
« Non vorrei trarre conclusioni affrettate, ma direi di sì. L’hai visto anche tu, è troppo mingherlino per una cosa simile, e non sai quanto la cosa mi sollevi, questioni personali a parte. Pensare che una persona che mi è vicina sia un assassino, mi fa venire i brividi. »
Né Alan né Jack proferirono parola, continuando a seguire, sul monitor, gli spostamenti della figura misteriosa, che intanto caricava Sánchez in auto. Jack si mordicchiò le pellicine ai lati dell’unghia, facendo scorrere il suo sguardo dallo schermo ad Alan, finché non smise di torturarsi le dita, trovando il coraggio di fare la sua domanda.
« Hai mai provato a pensare che, quello nel video, potrebbe essere un complice? Credo anche io che quello che vediamo non sia Nathan, ma se fosse seduto nel sedile del passeggero e avesse partecipato comunque all’omicidio? »
Lo sguardo di Alan gelò. Le sopracciglia si incresparono. Non aveva mai preso in considerazione quell’ipotesi. Poi si ricordò perché.
« Nathan ha un alibi per quell’ora. Non poteva trovarsi lì nell’auto, era con un amico. »
« Sempre che questo amico dica il vero. E poi, magari non era lì, ma poteva aspettarlo altrove. »
Alan si alzò di scatto dalla sedia, ancora accigliato. Non aveva repliche per quell’affermazione: ricordava che Nathan aveva un buco di ben mezz’ora.
« È inutile stare qui a parlarne. Dobbiamo raccogliere prove e agire. »
Senza nemmeno aspettare una risposta, corse ad infilarsi il cappotto, pronto per uscire di nuovo.
« Dove vai? »
« Da Nathan. Ho bisogno di parlare con lui. »
Jack incrociò le braccia, mentre le sue labbra si piegavano in un sorriso canzonatorio.
« Perché, se fosse lui il colpevole, pensi che te lo direbbe? »
Alan finì di abbottonarsi il cappotto.
« No. Ma so riconoscere una persona quando mente. »
Jack osservò Alan mentre si preparava per uscire e, nel frattempo, cercò di tenere a bada la sua lingua, che fremeva dalla voglia di parlare; e se la teneva chiusa tra i denti, perché non uscisse alcuna parola. Ci riuscì. 
« A dopo. »
Jack non fece in tempo a salutarlo a sua volta, che la porta di casa si era già richiusa.
Come Alan fu uscito, Jack si levò il suo sorrisetto dal viso, per lasciar spazio alla malinconia.
E riuscì a domandarsi solo una cosa.
 
Non sarà che, forse, sei solo innamorato?
 
***
 
Tutte le volte che arrivava davanti al complesso universitario, rimaneva stupito della sua grandezza. Decine di edifici che si stagliavano lungo una via infinita, costeggiando il parco di Washington Square, con la sua statua di Garibaldi simbolo di fortuna per gli studenti universitari. Si diceva che, gettando un penny contro la statua, l’anno accademico sarebbe stato un successo.
Era proprio lì che aveva dato appuntamento a Nathan, vicino alla sua facoltà, in modo che non ci mettesse troppo.
Diresse i suoi passi verso l’entrata nord del parco, presieduta da un immenso arco romano, e fu assalito da un senso di déjà-vu: era pressoché identico a quello parigino.
Lo osservò più da vicino, e poté notare una grossa ‘W’, iniziale di George Washington, circondata da statue di un uomo valoroso in varie occasioni, vestito con abiti Settecenteschi. Le statue sembravano celebrarlo in molti momenti della sua vita, veri o presunti: in una era vestito come un condottiero di guerra, con un tricorno sul capo e lo sguardo fiero; un’altra lo raffigurava con una lunga tunica e una spada tra le mani, puntata a terra. In ognuno di questi quadretti, era sempre circondato da figure di stampo mitologico.
Ogni volta che metteva piede in quel parco, non poteva che essere colto da stupore per l’architettura e ammirazione per quel personaggio.
La grande fontana in mezzo alla piazza, però, catturò la sua attenzione. Aveva intenzione di fare solo un giretto sotto quel sole tiepido per poi aspettare su una panchina, ma il nugolo di persone a un lato della fontana lo costrinse a rivedere i suoi piani. Mano a mano che si avvicinava, le note di un pianoforte si facevano sempre più vivide, finché, sbirciando tra un braccio e una testa di curiosi davanti a lui, non ne vide la provenienza.
Non era raro che qualche artista in erba decidesse di esibirsi in quella piazza, ma quel ragazzo era particolarmente bravo. Si fece largo tra la folla e si lasciò ammaliare, come tanti altri, dal suono di quelle note suonate con particolare maestria.
Il ragazzo finì poco dopo, tra gli applausi di tutti. Alan decise pure di lasciargli qualche spicciolo.
 
Non appena la folla si diradò, riuscì a scorgere Nathan, che lo salutò con un sorriso tirato. Alan si accorse che aveva ancora qualche difficoltà a incrociare il suo sguardo.
Lo raggiunse salutandolo a sua volta, mentre il silenzio calava tra loro; ma non era come lo stesso, pesante, silenzio che aveva aleggiato in casa sua, la sera che aveva scoperto la verità. Piuttosto, Alan si ritrovò a osservare i lineamenti delicati di quel volto, e i suoi occhi dalla leggera parvenza orientale.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva potuto osservarlo così da vicino?
Nathan si voltò verso di lui, e i loro occhi si incrociarono; imbarazzati, entrambi distolsero lo sguardo repentinamente.
Alan tossicchiò.
« Ci facciamo una passeggiata? »
Nathan rispose con un cenno del capo, senza che il suo volto tradisse alcuna emozione di felicità o sorpresa per quella proposta; sapeva che Alan aveva voluto incontrarlo per un motivo ben preciso.
L’inverno aveva ormai privato gli alberi di ogni loro foglia, il che non dispiacque a nessuno dei due, dato che i rami, secchi e nudi, lasciavano trapelare i raggi del sole e il loro tepore.
L’aria intorno a loro era riempita dagli schiamazzi di bambini che si rincorrevano a suon di palle di neve, mentre altri si divertivano a costruire bizzarri pupazzi con legnetti al posto delle mani, alle cui estremità erano inseriti un paio di piccoli guanti.
Alan e Nathan passeggiavano silenziosi in mezzo a quel manto candido, aspettando che uno dei due aprisse la conversazione. Alla fine, Nathan si fermò di colpo, seguito subito dopo da Alan.
« Perché mi hai chiesto di incontrarci? »
Alan riprese a camminare, oltrepassando due bambini che facevano sfrecciare le loro macchinine sulle panchine del parco. Nell’osservarli, un sorriso nostalgico gli si dipinse sul volto. Intanto, Nathan si era avvicinato a lui.
« Quando ero piccolo, abitavo con i miei genitori in una villetta nella periferia di Brighton. Un giorno, mio padre tornò tutto contento perché aveva acquistato la sua prima auto. Sai che modello era? »
Nathan spostò gli occhi da una parte all’altra, senza capire il filo di quel discorso. Poi scosse il capo e fece spallucce, aspettando la risposta.
« Era una Mercedes S. »
Alan scrutò l’espressione di Nathan, che non mutò in alcun modo da quella precedente: sembrava ancora smarrito. Alan continuò.
« Era una bella macchina, aveva un bel design. Solo che, dopo qualche settimana, anche il nostro vicino si munì di un’auto. Mio padre ne rimase folgorato, e cominciò a maledire l’auto che aveva appena comprato, perché l’altra gli piaceva di più. »
« E che auto era, l’altra? »
Alan sorrise, ripensando a quella scena nella sua testa.
« Una Ford Mustang. »
Nathan pronunciò una silenziosa espressione di finto stupore. Alan provò a studiare i muscoli del suo viso, ma non notava alcuna contrazione, né nessun altro cambiamento. L’andatura di Nathan era sempre la stessa, regolare e tranquilla, l’espressione sul suo viso sempre sconclusionata e interrogativa.
« Non conosci nessuna di queste auto, vero? »
« Non è mica colpa mia se mi parli di macchine del Paleolitico. »
Alan ridacchiò, e gli tirò una pacca amichevole sulla schiena.
« Guarda che non sei mica tanto più giovane, sai! »
Nathan, che era poco più avanti, si voltò verso di lui, con occhi divertiti e un sorrisetto malizioso, accompagnati, poco dopo, da una linguaccia.
Si sentì strano. Gli sembrava di essere tornato ai vecchi tempi, quando erano ancora una coppia, e ai loro litigi sulla sua presunta anzianità, che emergeva quando raccontava a Nathan di ricordi legati alla sua infanzia.
Gli mancava.
Le loro risate, la loro complicità, quel sorriso sbarazzino. In quel momento si accorse quanto tutto quello gli mancasse.
Ma, stando a quanto gli aveva detto Jack, Nathan si vedeva con un altro.
Come la sua mente fu attraversata da quel pensiero, sentì il petto stretto in una morsa.
Si accorse che Nathan stava rallentando il passo, finché non si fermò. Poi, si voltò verso Alan. L’espressione divertita era scomparsa; adesso era serio e lo guardava dritto negli occhi.
« Sei venuto qui solo per parlarmi della tua infanzia? »
Alan fu incapace di distogliere l’attenzione da quello sguardo. Sapeva che avrebbe dovuto fargli più domande, per capire se aveva qualche legame con l’omicidio di Sánchez, ma nel momento in cui aveva nominato le auto non aveva tradito alcuna ansia o agitazione.
Per la polizia non sarebbe mai bastato. Ma bastava per lui.
« Si tratta dell’omicidio di Sánchez. »
Nathan schioccò la lingua e abbassò lo sguardo.
« Già, dimenticavo che ci incontriamo solo per lavoro, io e te. »
« Vorresti incontrarmi per qualche altro motivo? »
« Vorrei solo che la smettessi di credermi un criminale. »
Alan non seppe che dire. E forse, pensò, era meglio se non diceva niente. Si accorse che, tutte le volte che provava a parlare civilmente con Nathan, finiva sempre per fare o dire qualcosa di inopportuno. Si grattò la testa, in cerca di una soluzione intelligente, ma Nathan parlò prima di lui.
« Forse è meglio se ci salutiamo qui. Così potrai dedicarti al tuo caso. »
« Veramente, non ci lavoro più. Adesso è rimasto ad Ashton, visto che è stato così bravo. »
Alan si stupì dell’intonazione con cui aveva pronunciato quelle due parole. Ci sentì quasi una punta di invidia e di rabbia; si sorprese.
« Che vuol dire? »
Alan poggiò le mani sui fianchi, poi sospirò, espellendo una gran quantità d’aria.
« Vuol dire che è stato più bravo di me. E non posso negarlo, visto che è lui che ha scoperto un sacco di cose, tra cui la tua… storia. »
Nathan rimase a bocca aperta e arrossì, anche se, probabilmente, era impossibile accorgersene, con quel freddo.
« È stato lui? Davvero? »
« La cosa ti sorprende? »
« No, no. Mi fa un po’ rabbia, forse. Non ho dei bei ricordi. »
Alan annuì, mordicchiandosi l’interno del labbro superiore. Seguì un attimo di silenzio, dove entrambi guardavano altrove, imbarazzati dall’argomento della loro conversazione. Dopo un momento di esitazione, Alan parlò.
« Non credi che sia meglio così? »
« Perché così adesso mi disprezzi e mi credi un assassino? »
« Io non ti disprezzo. Non sarei qui con te, adesso. »
« E che c’entra? Il lavoro è lavoro, no? »
« Nathan, vuoi piantarla con questa storia? Ma non lo capisci che è solo una tua fantasia? Non lo vedi? »
« No. Vedo solo qualcuno che vuole interrogarmi ogni volta che ne ha l’opportunità! »
Alan lo prese per un braccio e lo strattonò, tirandolo a sé.
« Ma insomma, non capisci che mi manchi e che ogni pretesto è buono per stare con te? »
Allentò la presa. Non si era neanche accorto delle parole che era sgusciate via dalla sua bocca e che avevano stordito lui stesso per un momento. Stava forse ammettendo che, per quel tutto quel tempo, altro non aveva desiderato che incontrarlo, con una qualunque scusa?
In quel momento, tutto gli apparve così ovvio.
Quel pomeriggio d’ottobre, quando avevano rotto, aveva sofferto un dolore indicibile, perché aveva sentito che qualcosa gli era sfuggito di mano, che il ragazzo che amava gli era scivolato tra le dita senza un perché. Poi, però, aveva scoperto la verità. Non riusciva ancora ad accettarlo, ma almeno aveva una spiegazione. Non c’era stato nessun tradimento, sentimentalmente parlando, non c’era nessun altro uomo tra loro. Nessuna domanda senza risposta.
Nathan si liberò da quella mano che gli cingeva il braccio, osservando Alan con sguardo torvo.
« Ma tornatene dal tuo fidanzatino, va’. »
Nathan riprese a camminare per la sua strada, dandogli le spalle. Le sue orme si imprimevano sulla neve sempre più velocemente, e presto la sua figura sarebbe stata troppo lontana per distinguerla, se Alan non si fosse dato una mossa.
Era quello il momento. Ora o mai più.
Alan cominciò a muovere qualche passo verso Nathan, fino a che non raggiunse le ultime orme del ragazzo.
Lo prese nuovamente per un braccio, facendolo voltare, e imprigionò quel corpo tra le sue braccia, perché non scappasse da lui.
Non gli diede nemmeno il tempo di replicare a quel gesto, che gli prese il volto tra le mani, avvicinandolo a sé.
E lo baciò.

 

Sera a tutti! Allora, contenti? :D Finalmente questi due si sono riavvicinati *___* Sono felice almeno quanto voi, se lo siete! XD Ah, avete notato qualcosa di particolare in questo capitolo? Indizio: rileggete quello precedente :D Basta anche solo l'inizio :) A questo proposito, comunque, vi pregherei di non scrivere alcuno spoiler nelle recensioni ^^
Cosa accadrà adesso con Jack? Alan terrà il piede in due scarpe o lo mollerà? Scoprirete tutto martedì prossimo!
A presto *_________*

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Raggio di Luna ***


19. Raggio di luna
 
 
 
18 gennaio 2005, mattina.
La punta fredda del naso di Nathan continuava ad accarezzare la sua guancia destra, mentre i piedi cominciavano a intirizzirsi a causa della neve, nonostante le scarpe pesanti.
Ma in quel momento, del freddo, non gliene importava nulla.
Stringeva il viso di Nathan tra le sue mani, assaporando quelle labbra che gli erano mancate per tanto, troppo tempo.
Non si sfioravano da una vita.
Aveva provato ad approfondire quel bacio, e Nathan, a poco a poco, aveva schiuso le labbra. Ogni volta che le loro lingue si sfioravano era un sussulto, come se fosse una conferma che sì, Nathan voleva riavvicinarsi. Aveva il terrore che, all’improvviso, quella conferma venisse a mancare.
E così fu.
Nathan si staccò all’improvviso, spingendolo poco lontano, ma abbastanza distante perché ci fosse meno intimità. Adesso riusciva a vederne il volto, offuscato dalla condensa dei loro respiri.
« Non mi sembra giusto, Alan. »
« Perché? »
Nathan si strinse nel suo cappotto, strofinando appena le mani sul tessuto che ricopriva l’avambraccio. Alan non seppe capire se era per il freddo o per la tensione.
« Perché tu stai già con un’altra persona. Quindi non puoi venire qui e baciarmi in quel modo. »
« Anche tu. »
Nathan inarcò un sopracciglio.
« Anche io cosa? »
« Anche tu stai con un’altra persona, quindi potrei dirti la stessa cosa. »
Nathan aggrottò maggiormente la fronte.
« Io non sto con un’altra persona. Non devo rendere conto a nessuno se ti bacio, ma tu sì. Quello che voglio dire, è che non voglio essere il tuo amante. Se vuoi stare con me, stai solo con me. »
Alan continuava a guardare dappertutto fuorché verso Nathan, arricciando le labbra in segno di dissenso.
« Non stai con un ragazzo dell’università? »
Nathan alzò le spalle, smarrito.
« Te l’ho già detto, no. E non capisco perché ti ostini a crederlo. »
Alan aprì bocca per dire qualcosa, salvo poi condensare un altro po’ di fiato, silenzioso. Si portò le mani sui fianchi, per poi farle scivolare, e incrociarle subito dopo. Nathan non capiva.
« C’è qualcosa che non va? »
Alan scosse rapidamente il capo.
« No, niente. Questioni personali. Però hai ragione, non posso tenere il piede in due scarpe. »
Nathan strinse le labbra, come a voler sottolineare l’ovvietà delle sue parole.
Alan continuava a essere nervoso: si mordicchiava il labbro inferiore, batteva il piede continuamente, e cambiava spesso l’oggetto del suo sguardo.
« Alan? »
Smise di fissare ogni singolo particolare intorno a lui, per concentrarsi sul ragazzo.
« Mh? »
« Perché mi hai baciato? »
Alan ridacchiò, spaesato.
« Che domanda è? C’è bisogno di chiederlo? »
Nathan espirò pesantemente e abbassò lo sguardo.
« Non mi vuoi rispondere? »
Alan continuava a sorridere, perché davvero non riusciva a trovare un senso, a quella domanda. Invece, per Nathan, un senso ce lo aveva. Poteva essere che Alan avesse sentito la sua mancanza, ma come sarebbe stato tornare davvero insieme? E se Alan l’avesse ripudiato, una volta che fossero entrati nuovamente in intimità, ripensando a ciò che era stato in tutti quegli anni? Non era sicuro che l’altro avesse pensato davvero a tutto questo, quando lo aveva baciato. Aveva paura che fosse stata la follia di un momento, ma che non facesse davvero sul serio. E il fatto che Alan non volesse rispondere alla sua domanda, gli metteva l’ansia.
« Continuo a non capire perché mi fai questa domanda. »
Nathan scosse il capo. Non aveva voglia di spiegare.
« Fa niente. Ma sappi che non ci saranno altri baci finché non avrai preso una decisione. Se vuoi stare con me, devi scaricare il tuo ragazzo. E la prossima volta che ci vedremo, avrai preso una decisione. »
Nathan sentiva il suo cuore come passato in un tritacarne. Gli faceva male, molto male, al solo pensiero che Alan non scegliesse lui. Stava facendo di tutto per tenere a bada la speranza, ma laggiù, nelle cave più remote della sua anima, si intravedeva un piccolo e tenue lumicino, che forse non si sarebbe mai spento.
« Agli ordini, capo. Adesso vado, però. »
« E dove? »
Alan gli sistemò il cappellino di lana abbassandolo fino a coprire, in parte, le orecchie.
« Lo saprai presto. Buona giornata. »
Alan lo salutò camminando all’indietro per qualche passo, per poi voltarsi e continuare per la sua strada.
 
Quando Nathan si era staccato da lui in quel modo, aveva davvero temuto il peggio. Che gli dicesse che non era possibile, che era troppo in collera con lui per baciarlo o altri scenari simili. E invece aveva interrotto quel bacio solo perché voleva assicurarsi che Alan fosse tutto suo. Solo suo. L’aut aut di fronte al quale l’aveva messo gli aveva fatto solo piacere. Poteva considerarla una sorta di dichiarazione e questo lo rese felice come non lo era da veramente tanto tempo.
Improvvisamente, fu come se il sollevamento dall’incarico non fosse mai esistito, come se l’omicidio non fosse mai avvenuto, come se…
Jack.
Il viso del ragazzo gli si stampò nella mente. Lo immaginò mentre lo aspettava a casa, magari già intento a preparargli il pranzo. Già pronto ad accoglierlo con un bacio, per passare una tenera giornata insieme.
Si rese improvvisamente conto di che cosa significasse nel concreto lasciare Jack. Significava spezzare lo scenario romantico che il ragazzo già pregustava e forse anche ammettere che, tutto sommato, la gelosia che aveva sempre provato nei confronti di Nathan non era così ingiustificata. Non appena questi gli aveva aperto il suo cuore, Alan non ci aveva pensato due volte a buttarvisi. Si rese conto solo in quel momento che, per tutto quel tempo, aveva preso in giro Jack. Ripensò a tutte le volte che lo aveva redarguito per la gelosia che provava, sostenendo che erano solo sue fantasie, e si sentì in colpa. Avevano pure litigato, per quello.
Mentre tornava a casa, cominciò a cercare le parole giuste per comunicargli la sua decisione.
Ma nessuna sembrava andare bene.
 
***
 
Aveva allungato di proposito il giro, sperando di essere colpito da un’idea fulminante, ma tutto ciò che frullava nella sua testa erano frasi banali. Certo, lui e Jack si erano solo frequentati per un breve periodo, non si erano giurati amore eterno. Tuttavia, già era in grado di immaginare la delusione sul suo volto e si sentiva male al solo pensiero.
Ma, dopo quello che era accaduto con Nathan, aveva voglia, finalmente, di mettere le cose in chiaro. Aveva scelto con chi stare, e voleva amare di nuovo. Amare davvero.
 
Alla fine, si ritrovò davanti alla porta del suo appartamento. Infilò le mani in tasca e razzolò in cerca delle chiavi. Per un momento sperò quasi che fossero andate perdute, creando così un diversivo in quella giornata. Ma, per sua sfortuna, le chiavi erano lì, in fondo alla tasca, intente a martoriare un pacchetto di fazzoletti aperto, la cui chiusura non attaccava più.
Mentre girava le chiavi nella serratura, immaginò Jack venirgli incontro festoso, chiedendogli come fosse andato l’incontro con Nathan e di cosa avessero parlato. Forse l’avrebbe detto con una punta di gelosia.
Gelosia.
Era stato quello che, più di tutti, l’aveva allontanato da Jack, spingendolo, paradossalmente, nelle braccia del suo ex. Ma Alan doveva essere onesto con se stesso. Anche se Jack non gli avesse dato una spinta, lui sarebbe comunque tornato da Nathan. Non poteva averne prove certe, ma sentiva che le cose sarebbero andate comunque in quel modo. Magari sarebbe occorso più tempo, ma aveva capito solo quella mattina che non si può smettere di amare da un momento all’altro. Era stato disgustato prima e arrabbiato poi, riguardo a Nathan, ma quanto aveva desiderato riabbracciarlo? 
Era questo che, più di tutti, lo metteva in difficoltà con Jack. Si chiese se non fosse meglio, addirittura, non tirare in ballo Nathan, e dire semplicemente che non era più il caso di frequentarsi.
Era in totale confusione.
 
Come si aspettava, Jack lo accolse subito sulla porta di casa, con un’espressione tesa. Probabilmente, cercava di carpire l’esito dell’incontro dal volto di Alan, seguendo, taciturno, i suoi movimenti nel soggiorno. Dopo qualche secondo, Jack provò a insinuarsi in quell’atmosfera silenziosa.
« Com’è andato l’incontro? Hai scoperto qualcosa? »
Alan si umettò le labbra, per poi serrarle; teneva lo sguardo basso, si grattava la fronte, schioccava la lingua. Jack provò a intercettare i suoi occhi, nel tentativo di capire cos’è che lo rendesse tanto irrequieto.
Poi, alla fine, Alan si avvicinò a Jack, sostenendo con fermezza il suo sguardo. La sua espressione si fece terribilmente seria.
« Ti devo parlare. »
Jack rimase interdetto per una frazione di secondo.
« Di cosa si tratta? »
Alan respirò profondamente, mordicchiandosi le labbra.
Jack lo squadrò lentamente, cercando di capire cosa volesse dirgli, ma senza risultato. Deglutì, abbandonando il suo intento e aspettando che l’altro rispondesse.
« Riguarda noi due. »
Quella era la frase che Jack non avrebbe mai voluto sentir dire. Senza che Alan proferisse altra parola, lo sguardo di Jack si trasformò da preoccupato a supplichevole, come una vittima che chiede al suo aguzzino di risparmiarlo da un’orribile tortura. Era come se, in qualche modo, avesse già intuito il contenuto della conversazione.
E, secca come una pugnalata, arrivò la conferma.
« Io credo sia meglio non vedersi più. »
Si sentì come se, in un istante, ogni parte del suo corpo avesse smesso di funzionare. Il cuore aveva mancato un colpo, l’ossigeno si era come congelato nelle sue narici e il corpo pareva un blocco di marmo. Poi, tutto ricominciò a scorrere; ma il sangue fluiva lento per riprendere il ritmo, e anche l’ossigeno, sì, era troppo perché potesse inalarlo tutto insieme. E la saliva, che premeva per andare giù, avrebbe aspettato ancora un po’.
Ancora inebetito, come se stesse cercando di capire se fosse sogno o realtà, deglutì in modo meccanico, mentre il palato si prosciugava.
« … Perché? »
Ai suoi occhi, Alan si muoveva talmente veloce da non riuscire a seguirne i movimenti. Lo vide sospirare pesantemente e gesticolare quasi isterico, ruotando la mano destra verso l’esterno, come se cercasse di far uscire le parole; poi, a ogni tentativo fallito, scuoteva il capo.
« Ho capito che la nostra relazione non può andare avanti. Non… »
Alan schioccò nuovamente la lingua, rassegnato.
« Non? »
« Non ti amo. »
Seconda pugnalata. Ma Jack era talmente preso a curare il dolore della prima, che la seconda lo trafisse senza che nemmeno se ne accorgesse. Il suo corpo era già impegnato a lenire altre ferite. Fioco, come se davvero stesse esalando l’ultimo respiro, pronunciò una domanda.
« E Nathan? »
Alan continuava a intrecciare le dita, per scacciare la tensione.
« Mi dispiace, Jack. Non sono stato onesto con te, benché lo abbia fatto in buona fede. Sono innamorato di Nathan. Scusa. »
« Scusa. »
Jack ripeté quella parola, come se cercasse di soppesarne il valore, la veridicità, l’inclinazione con cui era stata pronunciata. Continuò, più come se fossero pensieri ad alta voce.
« Scusa. Certo, basta chiedere scusa. Mi hai preso in giro tutto questo tempo e basta chiedere scusa. Mi sono sentito in colpa, per la mia gelosia, mi sono sentito un cretino, pensando di sbagliare tutto, e tu ti scusi! Volevi quasi farmi passare per paranoico con questa storia di Nathan, e invece ci avevo visto giusto! E io che stavo anche cercando di cambiare, per te! »
Jack ormai era totalmente esploso, ritrovandosi praticamente a urlare.
« Cambiare…? »
Jack sorrise amaro, mentre scuoteva il capo.
« Vedi? Non te ne sei neanche accorto. Prima sei uscito, dicendo che andavi da lui, e non ho battuto ciglio. Avrei voluto farlo, non sai quanto! Ma ho provato a fidarmi di te, perché tanto, - vero? -, con Nathan non c’è niente! Perché sennò ti avrei soffocato e allontanato! Quanto sono stato stupido! »
Alan si coprì il volto con una mano, sinceramente dispiaciuto. E dovette ammettere a se stesso che quanto diceva Jack era vero. Era talmente preso dall’idea dell’incontro con Nathan, che non aveva nemmeno notato che Jack non aveva aperto bocca riguardo al loro incontro. Uno stupido, piccolo dettaglio, che a Jack era costato chissà quanto, e che lui non aveva nemmeno visto. Si vergognò.
« Lo sai cosa, Alan? Non sei tu che lasci me, sono io che lascio te! Mi fai schifo! »
Alan provò ad afferrare Jack per le spalle, nel tentativo di dirgli qualche cosa, ma l’altro fu più veloce. Lo scacciò via, con quelle sopracciglia increspate e gli occhi incerti, come se volessero piangere.
Ma Alan non vide nemmeno una lacrima solcare il volto di Jack.
Provò a corrergli dietro, mentre il ragazzo camminava a passo spedito verso la porta d’ingresso, chiamandolo per nome e cercando di calmarlo. Ma quando lo vide oltrepassare la soglia del portone del condominio, qualcosa lo spinse a non rincorrerlo.
Non aveva nessun’altra verità da raccontare a Jack, né poteva addolcire quel dolore con qualche scaltra bugia. Lo osservò mentre correva via il più velocemente possibile e si sentì vuoto, come se avesse perso una parte di sé. Ripensò a come si erano conosciuti, alla loro gita a Coney Island, a come, poi, la gelosia avesse cominciato a insinuarsi nel ragazzo e nella coppia.
E, ripensando a tutte le litigate e a ciò che ne era scaturito, si rese conto che l’unico ad aver visto una realtà distorta, fino a quel momento, era stato proprio lui stesso.
 
***
 
Aveva aspettato almeno una mezz’ora buona, spinto forse dalla speranza che Jack tornasse indietro, ma invece si ritrovò solo, davanti alla tv, in compagnia di una tazza di cioccolata calda. Le parole del telefilm gli entravano in testa per poi uscire subito dopo, come un soffio di vento che ti accarezza per poi volarsene via.
Nonostante non fosse lui quello lasciato, si sentiva male all’idea di aver ferito così tanto qualcuno, soprattutto perché si rese conto, in quel momento, che sarebbe stato meglio non iniziare proprio, con Jack.
Ma i sentimenti sono una materia strana, si nascondono, cambiano forma, non è facile capirli.
Restava comunque il fatto che aveva preso in giro Jack, illudendolo di poter avere una storia come le altre, quando così non era stato e, si rese conto Alan, non lo sarebbe stato mai.
Cercò di cogliere l’unica nota positiva in tutta quella faccenda.
Amava Nathan.
E se ne rendeva finalmente conto. Era Nathan che voleva amare, che voleva proteggere, che voleva per sempre legato a sé.
La chiarezza con cui riuscì a formulare quelle affermazioni suscitare in lui un pensiero un po’ bizzarro. Si rese improvvisamente conto che doveva salutare qualcuno.
Finì in fretta e furia la sua cioccolata – comunque quasi giunta al termine -, spense la tv e si infilò nuovamente le scarpe per uscire.
 
***
 
Si fermò da un fioraio. Perlustrò a lungo il chiosco in cerca di qualcosa che facesse al caso suo. Gli sarebbe piaciuto fare una bella composizione, ma di fiori non se ne intendeva; cercava perciò di prendere mentalmente i singoli fiori e provare ad accoppiarli, ma nessuna unione sembrava convincerlo.
Dal chiosco uscì una signora di mezza età, con il grembiule sporco di linfa e un sorriso da guancia a guancia.
« Posso aiutarti? »
« Sì, vorrei un bel mazzo di fiori, ma non so proprio cosa scegliere. Non so cosa sia più adatto. »
La signora rise di gusto, divertita.
« Per certe occasioni, non esiste niente di adatto, bisogna farsi guidare dal proprio cuore. Ma proverò lo stesso a darti una mano. »
La signora scaricò il peso su una gamba, pensosa, mentre il suo sguardo scorreva rapido  tra le varietà di fiori.
« Ho trovato! Che ne pensi di qualche rosa rossa, gerbere arancioni e dei gigli bianchi? Ti piace? »
La donna glieli mostrò uno a uno, trovando l’immediata approvazione di Alan, che non avrebbe saputo ribattere in alcun modo.
La fioraia afferrò una manciata di rose, le pulì e le tenne strette nel suo pugno grassoccio; unì le gerbere arancioni, dalle foglie lanceolate disposte a rosetta, che ricordavano una margherita un po’ più grande; dispose poi i gigli bianchi, alcuni non ancora sbocciati del tutto, le cui foglie si disponevano armoniosamente verso l’esterno come fossero una mano tesa; infine, la signora abbellì il tutto con qualche foglia di aspidistra ripiegata su se stessa.
La composizione fu legata con un piccolo nastro giallo e Alan pensò che fosse la chiusura perfetta. Era decisamente soddisfatto e non vedeva l’ora di portarli nel luogo di destinazione.
Alan ringraziò la signora e pagò la somma dovuta, dopodiché si soffermò a deliziare le sue narici con il delicato profumo del giglio. Fece qualche passo, e finalmente si trovò lì.
Era sulla soglia del cimitero.
 
Ritrovò nuovamente il viavai di anziane signore venute a trovare i loro mariti, ma, ora che ci faceva caso, sembravano piuttosto intente a chiacchierar di pettegolezzi, tante erano le risatine che scaturivano da quei volti rugosi.
Osservò gli imponenti cipressi che guidavano il vialetto e i ciottoli che lo componevano. Ascoltò il rumore dei passi che affondavano in quei sassolini insidiosi, lo scrosciare dell’acqua che riempiva gli annaffiatoi, e il silenzio che regnava nel luogo quando non passavano le auto.
Erano cinque minuti che se ne stava sulla soglia del cimitero.
E stavolta entrò.
 
Nonostante fosse andato poche volte, ricordava perfettamente dove era collocata la tomba di Oliver. Percorse interamente il selciato principale, chiazzato della poca neve che era nuovamente caduta e che non era ancora stata spalata; svoltò a sinistra e, dopo aver delineato il perimetro di quella sezione di lapidi interrate, scese cauto gli scalini, pestando la pietra per evitare di scivolare sul ghiaccio depositato. Arrivò così in un’altra, vasta area di anime seppellite sotto terra, sovrastate da una lastra di marmo e qualche mazzo di fiori.
Alan entrò nel campo, trascinandosi a fatica a causa della neve che lo faceva sprofondare un poco. Superò due file di lapidi, per poi arrivare alla sua.
 
Oliver era lì, col sorriso di un ventiduenne che ha ancora tutta la vita davanti, la cui maggiore preoccupazione è organizzare lo studio per la successiva sessione di esami.
Oliver era così: studioso, preciso, meticoloso. Anche un po’ secchione, a dire il vero. Ma amava imparare, amava la conoscenza; e Alan non poté fare a meno di lasciarsi andare in un sorriso, ripensando alle pile di libri sulla scrivania del ragazzo, ai milioni di quaderni pieni di appunti e ai post-it che assediavano il suo materiale di studio.
Alan era molto diverso allora. A quel tempo, era un ragazzo fresco di laurea, con ancora qualche sogno in testa e tanta, tanta voglia di buttarsi. Di sperimentare, di provare nuove esperienze, di vivere ogni emozione. Con Oliver era così, un libro aperto.
 
Poi, dopo l’incidente, era cambiato.
Si era chiuso a riccio dentro la tana che albergava nel suo cuore: era piccola, fredda e semi-buia, ma era anche sicura. Lì nessuno sarebbe potuto entrare, perché la porta si apriva solo dall’interno e non si poteva sfondare. E tanti avevano provato a bussare, sperando che aprisse, ma lui era sempre rimasto lì, dentro quella tana a fissare il niente.
Poi, però, erano arrivati Nathan e Ashton. Due uragani nello stesso momento, ma non poteva saperlo.
Nessuna costruzione dell’uomo può resistere alla forza della natura, e così anche la sua tana cedette.
Con l’irriverenza di Nathan e la sfacciataggine di Ashton, piano piano era riuscito a guardare oltre le macerie, a muovere qualche passo verso la luce. Una luce che aveva rischiato di perdere, da cui aveva provato a scappare, ma che poi, inesorabilmente, l’aveva trovato.
Perché non ci si può nascondere dalla luce del Sole: in qualche momento della giornata ti troverà.
E Nathan l’aveva trovato. Si erano ritrovati, in realtà.
Ecco cosa ci faceva lì, accovacciato sulle cosce, con l’estremità della neve che gli solleticava le natiche con il suo gelo. Stava parlando con Oliver, gli stava raccontando la sua vita, ora riuscendo a sorreggere lo sguardo di quella foto silenziosa.
Gli parlava con un sorriso, ammirando i bei fiori che aveva posto sulla sua tomba. Perché adesso Oliver era diventato un amico, qualcuno verso cui tendere, e non da cui scappare.
Non era più un fantasma.
Era un ricordo.
Dolce, romantico e malinconico.

 

Sera a tutti! Bene, penso che sarete tutti felici, ora *abbraccia Jack* Insomma, le cose sembrano andare per il verso giusto, ma durerà a lungo? O qualche nuovo guaio deciderà di fare capolino nella vita dei nostri personaggi? XD
Vabbuò, prima di salutarvi ne approfitto per pubblicizzare un Missing Moment che ho scritto l'altra sera, in occasione delle feste! Si intitola "Ho bisogno di te, ma tu non ci sei", e racconta cosa è accaduto a Nathan il fatidico giorno della Vigilia, svelandoci cosa lo ha portato a correre a perdifiato verso casa di Alan. Spero vi piaccia! Ecco il link:  Ho bisogno di te, ma tu non ci sei.
Se tutto va bene, presto ne arriverà un altro che ci racconterà cosa è successo dopo Scosse di terremoto ^^ Ma non prometto niente!
Alla prossima e un grosso grazie a chi mi ha seguito fino qui *____*

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Parrucche ed eroi ***


20. Parrucche ed eroi
 
 
19 gennaio 2005.
Era andato all’università per puro dovere morale, ma aveva deciso di saltare tutte le lezioni. Jack se ne stava seduto sul prato che circondava il complesso universitario, tenendo strette le gambe al petto. Fissava un punto davanti a sé, davanti al quale erano passati studenti, professori, auto; ma non aveva osservato realmente nessuno. Un paio di ragazzi gli avevano pure chiesto se avesse un accendino, ma era talmente fuori dal mondo che non aveva neanche risposto. E continuava a fissare il vuoto.
Vuoto era anche come si sentiva. Si stava affezionando davvero ad Alan, credeva veramente che tra loro potesse nascere qualcosa di importante. Ma capì in quel momento che aveva sempre dato poco peso a dettagli che invece erano importanti, come il fatto che Alan non gli avesse mai riservato parole dolci, o che rifuggisse i suoi baci.
Credeva che fosse colpa del poco tempo che passavano insieme, credeva che fosse colpa della sua gelosia, e invece era, banalmente, la cosa che da subito gli era balzata agli occhi: Nathan.
 
Provò invidia per quel ragazzino che, secondo lui, Alan non se lo meritava proprio, con tutte le sofferenze che gli aveva inflitto. Ma a volte, per amore, si fanno scelte strane e incomprensibili e, per Jack, la scelta di Alan era una di quelle. Poteva solo rassegnarsi.
All’improvviso, qualcuno gli urlò nelle orecchie.
« Jack! Mi vuoi rispondere? »
Gli bastò ruotare di poco il capo per osservare Madison intenta a sedersi accanto a lui. Sorrise pensando a quelle gambe lunghe e alla fatica che la ragazza faceva per abbassarsi fino a terra, nel cercare di sistemare quelle due stanghe.
Jack alzò le spalle.
« Perché? »
La ragazza sbuffò, mentre scacciava un piccolo insetto dal lembo dei pantaloni.
« È un secolo che ti chiamo! Stavo già pensando di tirarti uno scappellotto, sai? »
Jack tirò il sorriso da una parte, il massimo di cui si sentiva in grado.
« Scusa, ero un po’ assorto. »
Aveva raccontato tutto a Madison la sera prima, e aveva trovato in lei un caldo conforto.
« Hai intenzione di startene qui tutto il giorno? »
Jack annuì, preso più dai suoi pensieri che dal mondo reale.
« Non ci pensare nemmeno! Oggi c’è Statistica e farà tanti esercizi, quindi tu verrai con me, vero, Jack? »
Il ragazzo si voltò, osservandola con occhi spalancati e la bocca semi-aperta.
« Stai scherzando! Figuriamoci se ho voglia di seguire le lezioni. »
« Hai davvero intenzione di mandarmi da sola? E dai, Jack, vieni con me, anche solo per farmi compagnia. Di sicuro sarà più divertente che stare qui a morire assiderati. Dai, dai, dai… »
Madison cominciò a tirarlo per un braccio, continuando a insistere. Arrivò persino a increspare le labbra e a fare occhi da cerbiatta pur di convincerlo; come Jack notò quell’espressione, si lasciò andare a un sorriso appena abbozzato e a un sospiro di sconfitta.
« Va bene, va bene, vengo. Ma sappi che avrò la testa altrove. »
Madison emise un gridolino di vittoria, alzando il pugno al cielo.
« Oh, nessun problema. In fondo puoi sempre registrare la lezione, no? »
 
***
 
Non stava ascoltando nemmeno una parola, del professore. Ogni tanto, Jack lanciava qualche sguardo ai sacchi di biglie disegnati alla lavagna e alle formule incomprensibili scarabocchiate accanto, senza riuscire a interpretarle.
La sua testa continuava a pensare ad Alan, a come si era lasciati, alle parole che si erano scambiati. Alla sensazione di essere stato usato, di aver rappresentato solo uno stupido rimpiazzo, un diversivo. Come ciliegina sulla torta, immagini di Alan e Nathan che si baciavano erano sempre pronte a far capolino, proprio quando era sul punto di abbandonare quei pensieri.
Come cominciò a osservare, nuovamente, il nulla, si sentì battere il braccio da colei che gli sedeva accanto.
« Jack, Jack! Guarda là! »
Madison bisbigliava, per non farsi sentire dal professore, e indicava una ragazza seduta un paio di file davanti a loro.
« Be’? »
« Ha la maglia messa al contrario! » Madison sghignazzò sotto i baffi, elargendo, infine, un grande sorriso. « Non è divertente? »
Jack fece spallucce.
« Sì, divertente. »
Notò che Madison continuava a fissarlo, con aria scocciata. Jack capì che l’amica aveva provato a distrarlo con il primo pretesto che le era passato per la testa, e che era rimasta delusa dal suo tentativo fallito.
« Dai, Jack, fammi un sorriso. Uno solo, piccolino. Ti prego…! »
Madison tornò alla carica sfoderando nuovamente i suoi occhi da cerbiatta, sbattendo ripetutamente le palpebre. L’unica smorfia che ottenne da Jack fu una millimetrica contrazione dei suoi muscoli facciali.
Madison gli soffiò in faccia, fintamente stufa.
« Antipatico. »
Anche se non lo dava a vedere, Jack apprezzava davvero i tentativi dell’amica di tirarlo su di morale, benché si rendesse conto che solo il tempo avrebbe potuto lenire quella ferita.
 
Dopo un blabla soporifero di almeno due ore, talvolta interrotto dai pettegolezzi di Madison, Jack tornò a respirare aria nuova, libero finalmente da quella tortura che portava il nome di Statistica. Una volta sistemati cappotto e sciarpa – la borsa era rimasta immacolata -, si avviò verso la cattedra per recuperare il registratore, ma la voce di Madison lo precedette.
« Dove stai andando? Tu adesso vieni con me! »
Il sorriso di Madison era talmente ampio da pronunciarle gli zigomi. Jack si mordicchiò un labbro, pensoso.
« Ho da fare, oggi. »
Madison incrociò le braccia al petto, osservandolo con un’espressione di chi proprio non se l’è bevuta.
« Sei impegnato a deprimerti tutto il giorno? Magari mangiando un’intera vasca di gelato davanti a un film strappalacrime? » Madison portò le mani sui fianchi. « Non ci pensare nemmeno! Annulla tutti i tuoi impegni e vieni con me. »
Jack provò ad aprire bocca per ribattere, ma, come lo fece, Madison fu subito pronta a puntargli un dito contro, a mo’ di minaccia. Alla fine, Jack alzò gli occhi al cielo, in segno di resa.
« Va bene, hai vinto. Ma non sono dell’umore. »
La ragazza emise un gridolino di gioia e abbracciò l’amico.
« Sì! Allora, che stiamo aspettando? Andiamo! »
Non fece nemmeno in tempo a rispondere, che Madison lo stava già tirando via.
 
La ragazza lo trascinò fuori dall’aula e, non appena furono usciti indenni, Madison cominciò a saltellare eccitata, all’idea di condurre Jack chissà dove. Lui la seguì con lo sguardo, osservandola mentre camminava svelta per poi fermarsi dopo qualche metro, voltandosi verso di lui e facendogli cenno di muoversi.
Scesero le scale e arrivarono alla porta d’ingresso, ma come oltrepassò la soglia ebbe quella strana sensazione di aver dimenticato qualcosa. Provò a ripercorrere la giornata, cercando di ricordare cosa avesse fatto, ma non gli venne in mente niente. Immaginò allora ciò che lo aspettava: l’uscita con Madison, il gelato davanti alla tv una volta rientrato a casa, lo studio.
Il ricordò lo attraversò, veloce come un proiettile.
Il registratore!
Lo aveva lasciato in aula. Acceso, per giunta!
Madison era ormai qualche passo più lontana, e Jack dovette gridare un poco per attirare la sua attenzione. Lei lo raggiunse, puntandogli il solito dito contro, insieme a un sorriso arricciato.
« Che c’è? Non avrai mica pensato a qualche scusa per svignartela, vero? »
« No, no. Ho dimenticato il registratore in aula. Faccio un salto a prenderlo. Torno subito. »
La ragazza gli fece una linguaccia infantile.
« Lo spero bene! Guarda che se non torni, vengo a cercarti! »
Madison si mise davvero a scrutare il percorso di Jack, finché non lo vide sparire al piano superiore. Il ragazzo tornò dopo una manciata di minuti, con in mano il suo trofeo.
Il pomeriggio poteva iniziare.
 
***
 
Le strade non gli erano mai sembrate così affollate, forse perché in quel momento avrebbe preferito stare da solo; lo infastidivano tutte quelle persone che, seppur casualmente, si scontravano con lui, interrompendo la sua linea di pensieri.
Madison continuava a tirarlo per un braccio, voltandosi ogni tanto con quel suo sorriso eccitato, ma Jack continuava a cercare una via d’uscita, ben conscio che l’avrebbe trovata solo alla fine del pomeriggio. Per di più, Madison si era rifiutato di rivelargli la loro destinazione, rendendolo incapace di fare previsioni sul tempo che avrebbe passato fuori casa.
Il cielo era coperto da minacciosi cumuli, che oscuravano quasi completamente il sole, lasciandone penetrare soltanto i raggi; il calore, purtroppo, non riusciva a scalfire quella densa corazza.
Quando arrivò al punto di non sentire più né il naso, né la mascella – che ormai gli doleva per il troppo freddo -, Madison gli lasciò la mano.
Si erano fermati davanti a un negozio piuttosto bizzarro: gli infissi verde acqua avevano sicuramente visto tempi migliori, tant’è che in alcuni punti la vernice si era scrostata, e le vetrate erano popolate da mensole di teste in vetroresina, simili a quelle dei manichini, ciascuna delle quali indossava una parrucca dai colori più disparati. A Jack bastò alzare la punta del naso per trovare un senso quantomeno alla vetrina.
“Le mille e una chioma”.
Nonostante avesse compreso il perché di quelle teste multi-colore, non riusciva ancora a capire il motivo per cui Madison lo avesse portato lì.
« Sorpreso, eh? »
« Che ci facciamo qui? »
Madison non disse nulla. Afferrò nuovamente la sua mano guantata e spinse la porta d’ingresso, finché entrambi non furono risucchiati da quel luogo davvero singolare.
 
Le pareti del negozio erano piuttosto strette, ma i soffitti, in compenso, erano abbastanza alti e dotati di lampade al neon. Decine e decine di parrucche erano appoggiate su scaffali di acciaio posti uno di seguito all’altro. C’era veramente di tutto: parrucche canoniche dall’aspetto sobrio, altre con colori sgargianti e acconciature più azzardate, per arrivare poi a quelle dedicate a occasioni speciali.
Potevi diventare un clown, un personaggio dei cartoni o semplicemente un’affascinante rossa con spaghetti lisci e lucenti.
Vide Madison provarsi una parrucca qualche scaffale più avanti: come si voltò, Jack non riuscì a trattenere una risata. La ragazza aveva preso una parrucca bionda ispirata a un cartone animato, con ciocche di capelli unite tra loro verso l’alto, a formare piccole montagne spigolose. Per completare il quadretto, Madison unì i polsi curvando leggermente le mani, esclamando qualcosa sul potere dell’onda che ne scaturiva, nonché intimidazioni sul prepararsi a combattere.
Jack rise di gusto, vedendo l’amica così esaltata e terribilmente buffa in quella imitazione.
Dopo una divertente scenetta, dove Madison aveva la meglio sul povero Jack grazie alla sua onda, si tolse la parrucca e la ripose, divertita.
« Ti sono piaciuta? »
« Sei stata mitica. »
« Va bene, allora andrò a cercare qualcosa anche per te. Torno presto! »
Madison si dileguò tra i filari di parrucche, lasciando Jack in compagnia di una testa riccia.
Il ragazzo ebbe modo di rimanere, ancora una volta, solo con se stesso, ma si sentiva già meglio. Si rese conto che Madison lo aveva portato lì per tirargli su il morale e farlo divertire con travestimenti e siparietti.
Il ricordo di Alan, però, non ne voleva sapere di sparire. Soprattutto la sensazione che non gli fosse stata data una vera possibilità, l’occasione di mostrarsi per quello che era e forse anche il fatto di aver rovinato tutto con la sua stupida gelosia. Eppure era finita, e non era nemmeno stata tutta colpa sua; ma l’unica cosa che riusciva a fare, in quel momento, era maledirsi per tutte le sciocchezze che aveva detto o fatto.
Assorto com’era nei suoi pensieri, non si accorse che passarono diversi minuti senza che di Madison vi fosse alcuna traccia. Jack cominciò a scrutare le scaffalature davanti a sé, rizzando il capo nei punti dove aveva la visuale oscurata, ma niente. Si voltò e fece qualche passo verso la parrucca che poco prima la ragazza si era provata, ma non la vide.
« Madison? Dove sei finita? »
Nessuna risposta.
Cominciò a girare per le scaffalature, lasciando che una paura irrazionale gli facesse aumentare il passo senza che se ne rendesse conto.
« Madison, dove sei? Non è divertente! »
Eppure, pensò, Madison non era di certo una ragazza che passava inosservata; per poco non lo superava in altezza, e lui era decisamente nella media.
Andò in perlustrazione di zone del negozio ancora inesplorate, ma ciò che lo inquietava maggiormente era il fatto di non percepire alcun rumore.
Non c’era nessuna suola che batteva il pavimento, nessun chiacchiericcio, nessun respiro.
Niente.
Madison non c’era.
L’inquietudine iniziò a farsi strada. Cominciò a pensare a un malintenzionato che potesse averla rapita o, meno tragicamente, a un malore che le avesse fatto perdere i sensi.
Alla fine, giunse alla conclusione che, forse, non era successo niente di drammatico: poteva essere che Madison lo stesse cercando, ma, muovendosi entrambi continuamente, si fossero mancati per pochissimo. Così decise di fermarsi, chiamandola ogni tanto, sperando in una risposta.
Ancora niente.
Mentre alzava lo sguardo in cerca della ragazza, qualcosa, per terra, attirò la sua attenzione. Jack si accucciò per osservare meglio l’oggetto, che si rivelò essere un portafogli, ed ebbe un sussulto: assomigliava in tutto e per tutto a quello di Madison. Lo raccolse e si tirò su, poi lo aprì per verificarne il contenuto. Sbirciò prima il vano banconote, nel caso il proprietario vi avesse infilato un documento di identità, ma lì vi trovo solo qualche dollaro; allargò allora la tasca adibita a effetti personali di altro tipo, ed estrasse la prima cosa che potesse aiutarlo a capire chi avesse perso il portafogli. Come la tirò fuori, però, rimase impietrito.
Quella era Madison, non aveva alcun dubbio. Ma si stava davvero chiedendo cosa ci facesse Ashton accanto a lei, mentre le stampava un bacio sulla guancia, per di più con un braccio intorno al collo della ragazza.
Capì che c’era qualcosa che lei non gli aveva raccontato.
La notizia lo ferì come un colpo dritto al cuore. Non si aspettava che Madison, la sua Madison, potesse fare un passo così grande senza coinvolgerlo minimamente. Aveva sempre pensato di essere il suo migliore amico, alla stregua di un fratello maggiore, per il rapporto che li univa, e in quel momento si sentiva poco più che un estraneo.
Aveva paura. Paura che anche Madison, come Alan, lo abbandonasse.
Ripose la foto e chiuse con cura il portafogli, come se lo aiutasse a nascondere sotto il tappeto qualcosa che non voleva ancora affrontare.
All’improvviso, due mani si inforcarono sulle sue spalle, stringendo come una tenaglia.
« Buaaaaah! »
Quel roco lamento fece voltare Jack: davanti a lui vi era un viso a brandelli, sfigurato e con rivoli di sangue a rigare tutto il volto.
« Aaaaah! Aiuto! »
Jack si allontanò barcollando, aggrappandosi agli scaffali, incapace di reggersi sulle sue gambe per lo spavento. Ma come indietreggiò di qualche passo, notò una serie di particolari stonati: gambe lunghe e asciutte, un cappotto panna che sicuramente aveva già visto altrove e, come i suoi occhi ebbero il coraggio di posarsi nuovamente sul volto, una chioma bionda che incorniciava il viso, per poi adagiarsi sulle spalle.
« …Madison! »
La ragazza scoppiò in una risata fragorosa e si tolse la maschera, talmente divertita che si piegò in due su se stessa, tenendosi la pancia.
Jack riprese il controllo del suo corpo, rimettendosi saldamente in piedi, espirando tutta la tensione che aveva accumulato in quei pochi minuti.
« Ti uccido, Madison, mi hai fatto prendere un colpo! Non farlo mai più! »
Ma la ragazza sembrava non ascoltarlo minimamente, ancora in preda alle risate. Anzi, le parole dell’amico ebbero l’effetto di divertirla ancora di più, tanto che fu costretta a inginocchiarsi, perché le gambe non tenevano più dal troppo ridere.
Dopo qualche minuto, in cui Jack continuava a lanciare imprecazioni per lo spavento che si era preso, Madison parve calmarsi, almeno in parte: sembrava pronta a scoppiare da un momento all’altro.
« Scusa, Jack. Ero andata davvero a cercarti qualcosa, ma poi l’ho vista e non ho resistito… »
La ragazza indicò la maschera e trattenne uno sbuffo. Si ricompose e si avvicinò a Jack.
« Mi dispiace, non volevo spaventarti così tanto! Pensavo che mi avresti riconosciuta subito. Però almeno ti ho distratto un po’, no? »
Jack assottigliò lo sguardo, minaccioso, ma non realmente arrabbiato.
Lasciò che Madison se la ridesse ancora un po’ sotto i baffi, finché la ragazza non indicò qualcosa che Jack stava ancora stringendo tra le dita. Sentì svanire subito quel poco entusiasmo che era riuscito ad accumulare, e si vide costretto a riaprire quella ferita ancora troppo fresca.
Con un sorriso di circostanza, Jack porse il portafogli a Madison.
« Credo proprio che questo sia tuo. Deve esserti caduto mentre andavi a nasconderti. »
La ragazza ebbe un attimo di smarrimento, poi lo riconobbe subito.
« Accidenti, grazie! Meno male che lo hai trovato tu! »
Jack osservò ancora quel volto sorridente e non si capacitava del fatto che Madison gli avesse mentito. O meglio, che non gli avesse detto tutta la verità. Decise di scacciare dalla mente quei pensieri che, stranamente, facevano quasi più male di quelli per Alan.
« Hai altro in mente per questo fantastico pomeriggio? »
« Ma certo! Niente cose spaventose, però. Promesso. »
 
***
 
Una volta usciti dal “Mille e una chioma” – nel quale Jack si ripromise di non entrare mai più –, Madison lo portò a distrarsi in altre mille maniere, che, per sua fortuna, erano realmente non spaventose.
Dopo aver dato fondo ai loro spiccioli in una sala giochi, a colpi di pistole laser in un gioco di simulazione, si erano rintanati in una cabina per fototessere, che stampò in una colonna da quattro i loro volti in preda alle smorfie più strane. C’era il classico naso schiacciato da maiale, le palpebre inferiori tirate verso il basso condite con una linguaccia, gli occhi incrociati e la testa piegata. Conclusero la sequenza con una foto semi-seria, con una risata pronta a nascere di lì a poco che aveva gonfiato le guance a entrambi.
Passeggiarono ancora un po’ insieme, finché non si fermarono su una panchina di Central Park.
A causa del suo cappotto corto, come Madison si sedette, si sentì percorrere da un brivido gelido: il sole era ormai tramontato, e il ferro della panchina era già stato assalito da quel freddo dirompente.
Jack invece osservava assorto il quadretto davanti a sé: le ultime famiglie che chiamavano i figli per rientrare e padroni di cani che accarezzavano il pelo del loro beniamino, il tutto incorniciato da qualche foglia caduca, ultime reduci dell’eterna guerra contro l’inverno.
Si ricordò che ancora non aveva chiesto a Madison come si era risolta la vicenda con i suoi genitori. La sera prima, infatti, la ragazza gli aveva raccontato come si erano svolte le cose: la litigata con i suoi, la fuga da casa e il rientro, fortunatamente, prima che facesse troppo buio.
Si schiarì la voce, per attirare la sua attenzione.
« Come vanno le cose in famiglia? Avete risolto, poi? »
Il viso di Madison si adombrò improvvisamente, poi sospirò.
« Se così si può dire. Sono tornata a casa, mi hanno detto le solite frasi di rito su quanto li avevo fatti preoccupare, poi è finita lì. Nemmeno una parola sulla mia scenata. »
« Perché non ne hai parlato tu, allora? »
Madison ci pensò un attimo, poi scrollò le spalle.
« Non sarebbe servito a niente. »
Tacque ancora per qualche secondo, seguendo con lo sguardo un ramo smosso dal vento.
« La verità è che non so impormi. Vorrei che mi ascoltassero, che mi capissero, ma non so come fare. Parlare è inutile, equivarrebbe a litigare, e io non voglio. Sto cercando una soluzione, ma non trovo una via d’uscita. »
Madison abbassò lo sguardo, mesta, ma Jack venne subito in suo soccorso. Bastarono una semplice carezza e un sorriso sincero a strapparle via quell’aria abbattuta, seppur momentaneamente.
« I tuoi come stanno, invece? »
« Mmh, bella domanda. Quasi quasi ci faccio un salto e porto anche un po’ di spesa, non si sa mai. Sai, mia madre non guida e credo che le stia fatica andare al supermercato. »
La conversazione finì lì, o almeno questa fu l’impressione che ebbe Jack. Si disse che, probabilmente, avevano entrambi la testa altrove.
Ma non sapeva che Madison, invece, lo stava fissando col sorriso sulle labbra, affettuosa.
« Come ti senti, adesso? »
Dopo qualche secondo, Jack intuì che si stesse riferendo ad Alan.
« Meglio. Ti ringrazio. »
« Mi dispiace, Jack. »
Il ragazzo fece spallucce, poi abbassò lo sguardo, mascherando la sua delusione con un sorriso amaro. Il pomeriggio con Madison lo aveva fatto stare effettivamente meglio, non poteva negarlo; ma non poteva nemmeno nascondere che, al solo pensiero del suo ex-ragazzo, si sentiva ripiombare nello sconforto.
« Forse doveva andare così. Solo ora mi accorgo che non gliene è importato mai niente, di me. »
« Ma come è possibile? E allora perché ha continuato a volerti vedere, in tutto questo tempo? »
« Questo è il ruolo del rimpiazzo. »
Madison tacque per qualche istante.
« Non hai intenzione di fare nulla, quindi? »
« E cosa posso fare? Ho avuto campo libero per un mese buono, ma ora che quello là è tornato, direi che non ho proprio speranza. Semplicemente mi rassegnerò. »
Madison si avvicinò a Jack, avvolgendone il corpo con le sue braccia, stringendolo in un abbraccio. Il ragazzo ricambiò e nascose la testa nell’incavo della spalla di Madison, bisbigliando qualcosa, forse nel tentativo di rassicurare se stesso.
« Doveva andare così. Non importa. Doveva andare così… »
Nell’udire quelle parole, Madison strinse Jack ancora di più, cercando di offrire conforto con la sua vicinanza.
Jack continuò a recitare il suo mantra, finché non si fu sfogato. Si sciolse dall’abbraccio con Madison e le sorrise, confortato. Lei gli diede un affettuoso buffetto sulla guancia.
« Adesso puoi tornare a casa a deprimerti e a mangiare gelato in quantità. »
« Ci salutiamo già? »
Madison rifuggì lo sguardo di Jack e arrossì lievemente.
« Ho un impegno. »
La ragazza cominciò a giocherellare con un pezzo di plastica in fondo al cappotto, atto a stringerne l’elastico. Jack capì subito che era imbarazzata, ma ciò che lo turbò maggiormente fu il fatto di conoscerne perfettamente le motivazioni.
« Ti vedi con qualcuno? »
In quel momento, sperò con tutto se stesso che Madison si aprisse con lui.
« No, no! Devo solo tornare a casa. »
Sapeva che era una bugia, e questo gli fece male. Non ebbe il coraggio di dire niente, se non una frase di circostanza.
« Se lo dici tu. »
Madison si alzò in piedi, sbuffando ancora una volta.
« Jack, dai, non fare così. Se hai bisogno, puoi chiamarmi. Madison sempre al tuo servizio! »
 E, detto questo, posò le sue labbra sulla guancia di Jack, schioccandogli un bacino affettuoso.
« Ci vediamo presto! Ciao! »
La guardò allontanarsi, mentre lo salutava sventolando la mano, saluto che Jack ricambiò.
Si lasciò cadere sulla panchina. Aveva notato l’entusiasmo di Madison tutto il pomeriggio, specialmente nei momenti prima che se ne andasse. Era sempre stata una ragazza esuberante, ma aveva capito che c’era qualcosa di più: gli occhi che sembravano brillare ogni momento, il sorriso perennemente stampato sul viso, la testa tra le nuvole in ogni attimo libero.
Aveva quell’espressione di gioia inattaccabile, che le aveva visto solo in un’altra occasione.
In quella foto, abbracciata ad Ashton.
 
***
 
Mancava poco per cena. Jack aveva passato una buona mezz’ora davanti alla tv, anche se privo della compagnia del gelato, e l’aveva trovato noioso, più che deprimente. Spense la televisione e si rintanò in camera. Si ricordò della lezione che aveva rifiutato di seguire, e concordò con se stesso che sarebbe stato meglio scaricare subito la registrazione sul computer, prima che perdesse totalmente l’interesse.
Accese il pc, collegò il cavo del registratore e trasferì la lezione. Con il mouse, scorse rapidamente vari punti del file, per assicurarsi che si sentisse bene. Fece l’ultimo salto con l’intenzione di chiudere l’applicazione subito dopo, ma qualcosa gli fece cambiare idea.
Il registratore aveva acquisito le voci di due uomini, di cui uno era sicuramente Brucknam, a giudicare dalla voce. Non passò molto tempo prima che capisse l’identità dell’altro. Rimandò indietro il file, fino al punto in cui partiva la registrazione e ascoltò con maggior attenzione.
« Che ci fai qui? »
« Devo parlarle, professore. »
« Si tratta di… quell’affare? »
Ci fu un momento di silenzio, e Jack intuì che l’altro avesse annuito. Il professore riprese poco dopo.
« Non avrai mica cambiato idea? Ormai ci eravamo accordati, Nathan. Hai preso quell’assegno, ricordi? »
A Jack sembrò di udire qualcosa che somigliava a un “Mi dispiace”.
« E pensare che mi piaci così tanto. E sei anche così bravo… »
Il professore si interruppe. Nathan aveva risposto qualcosa, ma era troppo distante dal registratore perché potesse scandirne le parole. Brucknam parlò ancora.
« Ci sono altri cinquecento dollari che ti aspettano, ricordalo. E anche di più, per le prossime volte in cui vorrai deliziarmi. »
La conversazione cambiava bruscamente e Jack immaginò che fosse entrato qualcun altro. Il professore prese a parlare con un normale studente, e, fino alla fine del file, di Nathan non c’era più neanche l’ombra.
Jack rimase di stucco. Si ricordò quando, al café, aveva origliato la conversazione tra il professore e Nathan. Aveva udito qualcosa su un accordo e un assegno, ma non immaginava niente del genere. Stando alle parole che aveva usato Brucknam e al tono languido che le aveva accompagnate, immaginò senza troppe difficoltà che i due si incontrassero per favori sessuali.
 
Poteva accettarlo. Poteva accettare che quel ragazzino si vedesse con uomini con almeno vent’anni più di lui per divertirsi sotto le lenzuola. Così come poteva accettare che Alan lo avesse lasciato. Non era quello che lo disturbava.
Ciò che realmente non poteva accettare era il fatto che Alan lo avesse lasciato per un ragazzino che conduceva un abile doppiogioco per chissà quale motivo.
Si domandò cosa sarebbe accaduto se Alan avesse ricominciato con Nathan, e avesse poi scoperto che cosa faceva il suo compagno in qualche notte d’inverno. Probabilmente, pensò, avrebbero litigato e si sarebbero lasciati nuovamente. E poi, in qualche fantasia un po’ più ardita, immaginava Alan che lo implorava di tornare insieme, scusandosi per come lo aveva trattato e per averlo fatto soffrire inutilmente.
D’istinto afferrò il cellulare e compose il numero di Alan. Il telefono squillò a vuoto per una ventina di secondi, finché non udì una voce dall’altra parte.
« … Sì? »
« Alan, sono io. Ti devo parlare. Possiamo vederci domani pomeriggio? Verso le tre, ti va bene? »
« Jack, Jack, calmati! Domani sono occupato, mi dispiace. »
« Non puoi liberarti neanche cinque minuti? È importante. »
Sentì Alan sospirare.
« Jack, davvero, non posso. »
« E cosa dovresti fare di così importante? »
« Non è una cosa che ti riguarda, Jack. Non più. »
« Scommetto che hai un appuntamento con quel bravo ragazzo del tuo ex. »
Alan sbuffò ancora, talmente forte da far friggere l’audio.
« Quello che faccio, Jack, non è più affar tuo. E comunque, se proprio ci tieni, sì, mi vedo con Nathan. »
Non si aspettava una risposta così secca. Tentò di ribattere scusandosi, ma si accorse che Alan, dopo averlo salutato, gli aveva riattaccato in faccia.
Provò un primo momento di sconforto. Alan non lo aveva minimamente ascoltato, né pareva averne l’intenzione. Eppure, si disse, non poteva certo permettere che un ragazzino doppiogiochista e dalla dubbia moralità avesse la meglio su di lui. Pensò che, se Alan avesse aperto davvero gli occhi su chi aveva davanti, poteva avere qualche possibilità di tornare con lui.
Quel pensiero eccitò la sua mente, tant’è che fu attraversato da un’intuizione. Infatti, Alan gli aveva dato un’informazione fondamentale: aveva un appuntamento con Nathan, nel pomeriggio.
Jack sorrise trionfante.
Forse non tutto era perduto.

 

Prima di tutto, le scuse: questo capitolo è stato uno dei più difficili da scrivere, ho finito di ritoccarlo giusto cinque minuti fa, e penso che lo possiate vedere dal risultato. Non sono per niente soddisfatta, non mi piace, ma, purtroppo, non sono riuscita a modificarlo come volevo. E dire che questa versione è quasi decente, rispetto alla prima che ho scritto (Silvia può confermare XD)! Insomma, è orribile e mi dispiace quasi che siate stati costretti a leggerlo :( XD
Passando poi alle questioni burocratiche (XD), vi annuncio che sospenderò la storia per il periodo delle festività ^^ Sia perché non ci sarebbe nessuno a leggere i capitoli, sia perché sono indietrissimo con la scrittura e questo periodo di respiro può solo giovare a me e alla storia. Riprenderò la pubblicazione il 7 gennaio, quindi ^__^ Poi be', se vedo che sono a buon punto con la stesura, posso anche fare un'eccezione, ma ne dubito XD
Bien, vi saluto e, come sempre, ringrazio tutti i miei lettori, siete la mia forza *___*
E ringrazio anche Silvia per aver sopportato tutte le mie crisi depressive per questo capitolo, sei una santa (sappi che stavo per mandarti un'altra mail, ma ho avuto pietà di te XD)!
A presto allora :D
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Decisioni ***


21. Decisioni
 
 
20 gennaio 2005.
Erano almeno due ore che sbatteva la testa sul suo libro di Scienze delle Costruzioni, cercando di trovare un senso al calcolo delle reazioni vincolari. Continuava a fissare il disegno, raffigurante due bambini su un’altalena a bilanciere; era tappezzata di frecce che spiegavano al povero studente che, all’altalena, non era concesso spiccare il volo verso il cielo, condannata a oscillare continuamente sotto il peso di bimbi festosi.
Aveva provato a svolgere qualche esercizio, ma alla fine il suo quaderno si era riempito di strani disegni geometrici, simili a quelli che partoriva in stato di semi-incoscienza durante le telefonate. Troppi pensieri per la testa, soprattutto relativi al suo imminente appuntamento con Alan, che si intrufolavano senza permesso tra lui e la sua voglia di studiare.
L’unico motivo per cui non era ancora tornato a casa era uno strano senso del dovere che lo aveva incatenato alla sedia. Nathan sapeva che il famigerato nemico sarebbe riuscito a farlo sentire in colpa in un nanosecondo, se avesse chiuso quei libri. Era quella la principale ragione per cui se ne stava seduto a quel tavolo della biblioteca, con la testa appoggiata al palmo della mano destra, continuando a fissare i due bambini in cerca di concentrazione.
Non contava ormai più le volte in cui aveva alzato gli occhi al cielo sbuffando, mentre nella sua testa cercava di convincere l’ormai famoso Senso che, in quelle condizioni, era inutile continuare. E dopo mille improperi, suppliche e compromessi, il nemico cadde sconfitto, e Nathan si sgranchì un po’ le gambe senza pensare al tempo prezioso che rubava allo studio.
Adesso riusciva a osservare il libro con maggior distacco, quasi come se non fosse più un problema suo – poteva vivere con quell’illusione per qualche minuto, sì.
 
La biblioteca era talmente silenziosa che il rumore di passi riempì subito l’atmosfera. Nathan li sentiva sempre più vicini, ma non credeva davvero che il suo proprietario sarebbe venuto ad occupare la sedia vuota accanto alla sua. Dovette ricredersi.
Un paio di mani depositarono sul tavolo un libro di Psicologia Infantile, dopodiché tirarono indietro la sedia, affinché il suo proprietario potesse sedersi. Aveva folti capelli neri, un naso aquilino e un cespuglietto di peli, altrettanto neri, che sbucavano dall’apertura del colletto della camicia. Gli bastò osservarne gli occhi per risvegliare immediatamente i ricordi nella sua mente.
Era il ragazzo di Alan.
Jack.
L’altro ancora non lo guardava, fingendo di voler sistemare le sue cose con estrema cura. Nathan invece lo fissava, con le labbra arricciate e le braccia conserte, certo che non fosse una coincidenza. Jack continuava a far finta di niente: aveva aperto il libro circa a metà e aveva già cominciato a leggere.
Nathan soffiò forte col naso, cercando di attirare la sua attenzione con quel sospiro, ma Jack non dava segni di reazione. Provò allora a tossicchiare, ma anche quel tentativo andò a vuoto. Capì che l’unico modo per attirare l’attenzione di Jack era provare a intavolare una discussione con lui.
« Con tutto il posto che c’è, proprio qui ti dovevi mettere? »
Finalmente Jack alzò il capo. Non sembrò affatto sorpreso di vedere Nathan, tant’è che riabbassò lo sguardo subito dopo.
« Non credo mi sia vietato stare qui, no? »
« No, certo. Comunque, » e qui Nathan cominciò a rimettere lapis e gomma nell’astuccio « sei fortunato, stavo giusto andando via. »
Nathan continuò a metter via le sue cose, chiudendo libro e quaderno e aprendo la borsa per infilarle dentro.
« Non penso proprio. »
« Che hai detto? »
Jack mollò il lapis in mezzo al libro aperto. Nathan era già in piedi, con la sua borsa a tracolla.
« Tra poco ti vedi con Alan, vero? »
Nathan non ribatté. Aggrottò invece le sopracciglia, cercando di capire cosa Jack volesse da lui. Riprese a parlare.
« Chissà come ci rimarrebbe male, Alan, se solo sapesse…! »
Nathan si ghiacciò. Quel ghigno tra il sadico e il minaccioso che comparve sul volto di Jack lo impietrì. Deglutì a fatica, come se la gola si fosse ristretta all’improvviso.
« Di che parli? »
Jack alzò gli occhi e lo fissò.
« Parlo del tuo segreto, Nathan. »
Nathan cominciò a innervosirsi, e le pellicine intorno alle sue unghie furono le prime a farne le spese, insieme allo stomaco, strozzato da quel nodo che ormai conosceva fin troppo bene. Provò a sdrammatizzare.
« Pensavo di non avere più segreti, ormai. »
Jack sbuffò.
« Non fare lo spiritoso. Non ti permetterò di avvicinarti ad Alan, finché farai la troia col professor Brucknam. »
A Nathan si mozzò il fiato. Quando aveva fatto quella battuta, pensava davvero di non aver più alcun segreto. O, quantomeno, nessun segreto conosciuto da terzi. E, invece, Jack sapeva. Non aveva la minima idea di come avesse scoperto dell’accordo tra lui e il professore, ma le sue parole avevano fatto esplicitamente intendere che non era un bluff.
Riprese il controllo del suo respiro, di cui Jack si stava avidamente saziando, e provò a giocare sulla difensiva.
« Che cosa vuoi da me? »
« Voglio che tu ti faccia da parte. Se non ti presenterai all’appuntamento di oggi con Alan e uscirai per sempre dalla sua vita, il tuo segreto sarà al sicuro; altrimenti, penso proprio che un uccellino gli porterà la notizia entro stasera. »
« Mi stai ricattando? »
« Vedila così, se vuoi. »
Ancora una volta, Nathan non seppe cosa dire. Un ricatto, ancora. Se Jack avesse davvero rivelato il suo accordo, Alan lo avrebbe perdonato? Gli aveva implicitamente promesso che avrebbe smesso, con quella vita; che cosa avrebbe pensato di lui, scoprendo che c’era ancora dentro, seppur per poco tempo? Era praticamente certo che Alan l’avrebbe mollato, dopo tutto quello che avevano passato.
L’alternativa era lasciare Alan per sempre. Sparire dalla sua vita e, probabilmente, lasciare campo libero a Jack. Si chiese se quel ragazzo, che lo fissava soddisfatto, fosse davvero quello giusto per Alan; in fondo, si disse, era quasi certo che Jack non lo avesse fatto soffrire come aveva fatto lui, nascondendo una doppia vita con bugie sempre più pesanti. Per un momento, pensò quasi che Jack potesse essere davvero un fidanzato migliore di lui.
Pensiero che svanì non appena l’altro aprì bocca.
« Pensaci, Nathan. Hai ancora qualche ora. Buona giornata. »
Così come era arrivato, così se ne andò: Jack si alzò dalla sedia, la spinse contro il tavolo, raccolse i libri e si incamminò verso l’uscita.
Nathan si piantò nuovamente su quella sedia, lo sguardo inebetito e il cuore che batteva alla velocità dei suoi pensieri.
Avrebbe scelto la via più facile, come aveva fatto in passato, o avrebbe trovato il coraggio per affrontare i suoi mostri?
 
***
 
Stazione di polizia, Manhattan
Alan si sentiva eccitato, per i motivi più svariati. In primis, l’appuntamento con Nathan – e non gli sembrava vero di poter dire “appuntamento” -; inoltre, stava aspettando il ritorno di Ashton, impegnato a ottenere i nominativi dei possessori di macchine degli anni Settanta. Alan gli aveva infatti confidato le sue considerazioni sull’auto dell’assassino, e entrambi avevano convenuto che, se la macchina era in regola, non potevano essere molte le auto d’epoca usate abitualmente. Si era detto, infatti, che nessuno sarebbe mai stato tanto sciocco da spendere centinaia di dollari per assicurare un’auto da garage.
O almeno così sperava.
Avrebbe avuto piacere di andarci lui stesso, ma con quale titolo? Edmond lo aveva sollevato dal caso e non aveva voglia di invischiarsi in ulteriori guai. Così, a malincuore, aveva accettato che fosse Asthon a occuparsi della faccenda.
Per ingannare il tempo, aveva deciso di riguardare il video per l’ennesima volta. Aveva capito ben presto che, dalla sagoma dell’uomo, avrebbe ricavato ben poco: troppo scura per individuare qualunque segno particolare.
Era quasi certo che l’auto fosse uno dei due modelli di cui aveva parlato a Jack. Osservò ancora quell’accozzaglia di pixel sgranati, finché un particolare non balzò ai suoi occhi.
Si ricordò improvvisamente che la Ford Mustang II era una tre porte, al contrario della Mercedes Classe S. Quel dettaglio, all’apparenza insignificante, scatenò in lui una serie di rivelazioni. Infatti, a giudicare dal video, la portiera si apriva quasi all’altezza della ruota posteriore, segno che l’auto non poteva avere un ulteriore ingresso, in lunghezza, oltre a quello. Al momento di caricare Sánchez in auto, poi, l’assassino apriva chiaramente la portiera davanti, lato passeggero: gli fu chiaro, quindi, che non poteva esserci nessuno seduto lì, altrimenti sarebbe dovuto scendere per far posto al nuovo ospite. Certo, un possibile complice poteva anche essere seduto sui sedili posteriori, ma l’assassino gli avrebbe davvero schiaffato un cadavere accanto?
Alan rimandò indietro il video una manciata di volte, per assicurarsi di averci visto giusto. Dopo l’ennesima riproduzione, sorrise soddisfatto. Un piccolo dettaglio gli aveva permesso di certificare empiricamente il modello dell’auto e il numero di esecutori materiali dell’omicidio.
Si sentì euforico, onnipotente, in grado di risolvere qualunque problema.
Non vedeva l’ora che Ashton tornasse.
 
L’altro non si fece attendere per molto. Come Alan lo vide, gli andò incontro quasi correndo.
« Quanta allegria! L’amore fa questi effetti? »
Alan emise un mugolio lamentoso, ma ben presto tornò quell’espressione esaltata.
« Non si tratta di questo, Ash. Le indagini. Ho scoperto qualcosa che delimiterà il nostro campo d’azione. »
« Proprio quello che volevo sentire! Raccontami tutto mentre poso le mie cose. »
Alan non si fece pregare. Mentre camminavano verso l’ufficio, raccontò ad Ashton le sue intuizioni, lasciando che l’entusiasmo, alla fine, scemasse.
Dopo che ebbe aggiornato Ashton sulle ultime scoperte, decise che era il suo turno di fare domande.
« Com’è andata la ricerca dei proprietari di auto? »
Ashton depositò la sua valigetta, prese qualche spicciolo dalla tasca del giubbotto e fece cenno ad Alan di seguirlo per il corridoio.
« Siamo stati fortunati. Solo ventinove persone pagano l’assicurazione di macchine degli anni Settanta, e adesso che abbiamo anche un’ipotesi sul modello dell’auto, il cerchio si stringe ancora di più. Non credo che ci vorrà molto a interrogare tutti. »
Alan si sentì nuovamente pervaso da quella sensazione di avere la soluzione sulla punta della lingua e di sapere come farla uscire.
« Qualcuno di loro ha precedenti penali? »
I due si fermarono davanti alla macchinetta del caffè, dove Ashton si serviva ritualmente prima di mettersi al lavoro. Come previsto, il collega infilò i centesimi nella buca degli spiccioli e aspettò che la macchina erogasse la sua bevanda.
« Non ho ancora controllato. Ma, se dovesse essere, darei loro la priorità. »
Alan annuì.
« Sono d’accordo. Purtroppo, però, dovrai fare da solo. Teoricamente, io non posso agire in alcun modo. »
« E nemmeno in pratica, Alan. Non voglio che tu finisca nei casini. »
« Come vuoi. Ma mi dispiace che debba fare tutto tu. Vorrei poterti aiutare. »
Ashton afferrò con due dita il bicchierino fumante, girandone poi il contenuto con la paletta.
« Lo fai già. Abbiamo ristretto il numero di persone da interrogare grazie a te, o sbaglio? »
Alan non disse altro. Si accorse che moriva dalla voglia di prendere parte attivamente a quell’indagine.
Ma come poteva fare?
 
Guardò distrattamente l’orologio al muro, e si accorse che mancava solo un’ora all’appuntamento con Nathan. Nonostante non avesse più sedici anni, provò le stesse sensazioni di un ragazzino: cuore impazzito, stomaco sottosopra, gambe improvvisamente prive di struttura ossea. Fece un respiro profondo, cercando di seguire il ritmo della lancetta dell’orologio.
« Siamo nervosetti, eh? »
Ashton gli rivolse un sorrisetto affettuoso e canzonatorio.
« Non ci vediamo da così tanto tempo. In quel senso, intendo. Mi sento in imbarazzo. »
« Alan, è normale, soprattutto dopo quello che c’è stato tra di voi. Ma non ti preoccupare, sono sicuro che, una volta rotto il ghiaccio, sarete entrambi molto naturali. »
Alan provò a riallineare il suo respiro con l’orologio, dopo aver fallito una prima volta.
« Se lo dici tu. »
« Vabbè, dai, incamminati. Sennò fai venire l’ansia anche a me. »
« Dici che è meglio se vado? Sì, forse è meglio. Vado, allora. »
Ashton gli diede una pacca sulla spalla, alla quale Alan rispose con un sorriso nervoso.
Era ora di andare.
 
***
 
Avevano scelto, come luogo dell’appuntamento, lo stesso dove si erano incontrati due giorni prima: il parco di Washington Square. Alan aveva deciso di aspettarlo davanti alla stessa panchina dove si erano scambiati quel bacio che scalpitava da secoli. Se ripensava a quel momento, riusciva a ricordare solo quanta voglia avesse avuto di possederlo, di marchiarlo a fuoco con quel bacio, di imprimere il suo nome nel cuore di Nathan.
 
Guardò l’orologio ancora una volta, constatando che mancavano ancora venti minuti. Sapeva che qualunque tentativo di passare il tempo avrebbe avuto l’effetto di rallentarlo, così pensò all’unico rimedio immune a quella deformazione spazio-temporale: la musica. Tirò fuori il suo lettore mp3 e portò le cuffiette agli orecchi, dopodiché scelse accuratamente quattro canzoni che, bene o male, durassero ciascuna cinque minuti: al termine dell’ascolto, potevano esserne passati solo venti.
E così, effettivamente, fu.
L’ora dell’appuntamento era arrivata, ma di Nathan, per il momento, nemmeno l’ombra.
Per evitare di farsi inghiottire dall’impulso di controllare l’orologio ogni minuto, decise di non sfilarsi le cuffiette e di lasciar scorrere altre canzoni.
In un primo momento, teneva il pollice sopra al tasto di spegnimento, certo che avrebbe dovuto schiacciarlo di lì a poco. Ma quando furono passate ormai altre quattro canzoni, la cosa cominciò a impensierirlo.
Perché Nathan non arrivava? Dove si era cacciato?
 
Si sfilò una cuffietta e compose a memoria il suo numero sul cellulare. Lo portò all’orecchio, sperando di sentir cessare presto quello snervante suono atono. Ma, alla fine, la chiamata cadde per mancata risposta.
Innervosito, Alan si sfilò anche l’altra cuffietta e spense il lettore mp3. Si alzò dalla panchina e guardò entrambi i lati del viale, nella speranza di veder arrivare quel cappellino grigio regolarmente troppo in su.
Alan tornò a guardare l’ora: era in ritardo di ben trenta minuti. Non era mai stato il tipo da farsi attendere troppo, anzi: quando era nervoso arrivava spesso in anticipo.
Sapeva che Nathan poteva aver avuto un qualsiasi contrattempo, senza che comportasse qualcosa di tragico, ma si sentiva inquieto, specialmente per il fatto che non lo aveva nemmeno avvertito.
Gli salì il panico quando si rese conto che, forse, il ritardo di Nathan era da attribuirsi a un suo possibile cambio di rotta. Forse aveva deciso che non voleva più vederlo, che non aveva intenzione di ricominciare.
Per mero scrupolo, Alan decise di aspettare un altro quarto d’ora.
Si impensierì seriamente. C’era un assassino a piede libero, omicida di un uomo che aveva avuto a che fare con lui, seppur indirettamente. E se Sánchez fosse stata solo un’intimidazione?
 
Prese nuovamente in mano il telefono e stavolta compose il numero di casa.
Niente.
Squilli a vuoto.
Ormai era davvero preoccupato. La sua mente era una mistura di domande e suppliche. Si chiedeva dove fosse finito e pregava perché arrivasse il prima possibile.
Poi, però, mentre volgeva lo sguardo verso il prato, qualcuno catturò la sua attenzione.
Un enorme sorriso si dipinse sul volto di Alan e corse verso il ragazzo, alleggerito ormai da quel macigno che gli stringeva l’anima. Lo raggiunse e, con un abbraccio, sfogò tutte le sue preoccupazioni.
Gli sembrava quasi di volare.
Nathan, però, non sembrava dello stesso umore. Sorrise appena quando notò Alan venire incontro alla sua fronte corrucciata e dubbiosa, e ricambiò a stento quell’abbraccio così sentito.
Alan tornò a guardarlo negli occhi, scrutandolo con uno sguardo interrogativo.
Ma Nathan, di fronte all’espressione attonita dell’altro, schiuse le labbra per dire solo una cosa.
« Scusa il ritardo. »

 

Sera a tuttiiiiii! *__* Prima cosa: scusate il titolo tremendo, ma non avevo davvero fantasia! Sono pessima per i titoli, ma ormai ve ne sarete accorti da voi XD Seconda cosa: la pausa delle feste mi è servita per revisionare per bene gli altri tre capitoli già pronti e questo implica che avrò più tempo per scrivere *___* Inoltre, mi è venuta proprio una bella idea per questo capitolo 25 che mi sta facendo dannare, perciò mi auguro che la cosa si risolva in fretta... XD
Spero che il capitolo vi sia piaciuto <3 Aspettatevi un po' di conflitto u.u
Ringrazio tutti coloro che seguono e/o commentano questa storia, mi spronate tantissimo ad andare avanti, quindi posso solo ringraziarvi! 
Alla prossima *____*

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Taglio netto ***


22. Taglio netto
 
 
20 gennaio 2005.
« Scusa il ritardo. »
Il sorriso dal volto di Alan sparì poco alla volta, finché le labbra non assomigliarono a una linea retta. Afferrò Nathan per le spalle, scuotendolo.
« ‘Scusa il ritardo’? Mi hai fatto preoccupare da morire, Nathan! Ma dov’eri finito? »
Nathan, però, sembrava non prestare attenzione alle parole dell’altro, continuando a guardarsi intorno, come in cerca di qualcuno. Poi sembrò calmarsi e puntò il suo sguardo verso Alan.
« Devo dirti una cosa. »
Alan lo liberò dalla presa, e cominciò a respirare piano; poi deglutì, e alzò gli occhi al cielo. Sospirò un paio di volte e strinse le labbra.
« Non sono buone notizie, vero? »
Nathan si limitò ad alzare un sopracciglio: la ritenne una risposta sufficiente. I due si guardarono per un istante, uno sguardo nel quale Alan gli riversò addosso tutta la sua stanchezza per quei segreti e quelle bugie, e Nathan, dal canto suo, provò a trasmettere il suo dispiacere per l’ennesima sorpresa che gli aveva riservato.
Alan sembrò non recepire il messaggio e, anzi, alzò il braccio a mezz’asta, verso Nathan.
« Prego. Sentiamo cosa hai da dire. »
Il suo tono era ovviamente sarcastico, e quella fronte troppo rugosa gli faceva presagire poca predisposizione ad ascoltarlo. Nathan sapeva che quello era l’ultimo sbaglio che gli era concesso. Doveva giocarselo bene.
« Andiamo in un luogo più appartato? »
Alan tirò il sorriso e sbuffò.
« Siamo in mezzo a un prato, in un parco enorme. Dove lo vuoi trovare un luogo più appartato? »
Nathan alzò le mani, come in segno di resa. Il coltello dalla parte del manico, decisamente, non ce lo aveva lui. Si accorse che Alan aveva addirittura incrociato le braccia e spostato il peso su una sola gamba. Quella posizione gli sembrò il massimo dell’indisposizione; un altro errore gli sarebbe stato fatale.
Decise di sputare la sua verità in modo diretto.
« Ho fatto un accordo con un professore. Vuole pagarmi per passare una notte con lui. Ho accettato. »
Silenzio. Gelo. Uno sguardo che avrebbe potuto fulminarlo, se fosse stato possibile.
Alan era praticamente impietrito, così come Nathan, benché questi non lo desse a vedere.
« E cosa aspettavi a dirmelo? »
Non si era mosso di un millimetro. Giusto le labbra, per poter pronunciare quella frase così atona. Alan continuava a guardarlo, con occhi spalancati, sbattendo a malapena le palpebre.
Quello sguardo lo intimorì. Si sentiva un bambino che cercava di giustificare la sua marachella con la maestra. Sguardo basso, mesto, pentito.
« Sto cercando di disdire l’accordo. »
Alan si portò le mani ai fianchi, poi le alzò e camminò irrequieto, muovendosi su se stesso. Dopodiché il suo sguardo tornò su Nathan, ancora una volta schiacciato dal peso dei suoi occhi.
« Ma quale disdire, Nathan? Vai lì e gli dici che non se ne fa di niente! È tanto difficile? È così difficile, per te? Davvero è un mondo dal quale non riesci a staccarti? O forse non vuoi? »
« Non dire sciocchezze, certo che voglio! »
Alan gli si avvicinò, ma sembrò più un movimento istintivo, dettato dalla foga delle sue parole.
« E allora dimmi - ti prego, dimmelo -, cos’è che ti tiene ancora incollato a questa storia? »
I loro visi distavano poco più di qualche centimetro. Nathan poteva vedere chiaramente le narici che si gonfiavano e sgonfiavano, tanto ansimava forte. E lui, si rese conto, aveva solo una scusa banale da propinargli: la verità. Deglutì, scacciando via la paura di quegli occhi che lo guardavano e, peggio, lo giudicavano. Con quali aggettivi, poteva già immaginarlo.
« Ho la rata da pagare e lui mi ha promesso tanti soldi. Solo questo. »
« Solo questo, » ripeté Alan. « Ma non eri stato tu a dire che, con questo lavoro, guadagnavi fior di quattrini? Siamo davvero sicuri che sia solo la rata? O forse ti piace? »
Ciaff.
Senza nemmeno rendersene conto, Alan si ritrovò cinque dita stampate sulla guancia. Nathan si accorse che il respiro gli era montato tutto insieme, che quella mano si era mossa senza che fosse lui, a controllarla. Da sola, aveva deciso di schiaffeggiare Alan, con talmente tanta forza da lasciargli un segno ben visibile.
Alan si portò una mano sulla porzione di pelle aggredita, e se ne stava rannicchiato e a debita distanza, come se temesse il ragazzo di fronte a lui. Capì subito di aver esagerato e di aver osato un po’ troppo, e il pentimento per quelle parole irriverenti non tardò ad arrivare. Aveva davvero ferito Nathan, ne era certo: non solo gli aveva dato di sgualdrina, ma aveva pure affermato che gli piacesse, ricordandosi un attimo dopo della violenza che aveva subito.
Si guardarono entrambi senza parole, perché nessuno dei due sapeva cosa dire.
Ancora in parte incapace di raddrizzare la situazione con lucidità, Nathan parlò.
« Ho delle spese. Mia madre non sta bene e devo pensare a tutto io. »
Mentre pronunciava quelle parole, si accorse che la sua voce era sul punto di spezzarsi. Un po’ per la commozione, un po’ per liberare l’impeto del gesto che aveva commesso.
Alan, intanto, continuava a massaggiarsi la guancia, che cominciava a bruciare tutta insieme, rallentando mano a mano che metteva a fuoco la situazione. Si avvicinò al ragazzo, con uno sguardo realmente dispiaciuto.
« Scusami. Ho esagerato. Non volevo dire quelle cose, davvero. »
Nathan, però, sentiva qualcosa crescergli in petto, un’emozione talmente forte che, lo sapeva, era sul punto di travolgerlo. E quello tsunami inarrestabile mantenne la sua parola.
« Sono stanco, Alan. »
Lasciò che gli occhi gli esplodessero, e lacrime calde cominciarono a rigargli il viso. Prima solo qualche rivolo, poi sempre più abbondanti, come una diga che, poco a poco, si spezza del tutto, piegandosi al fiume in piena.
« L’ho capito, sono un mostro, ho sbagliato, ma sono stanco di tutto questo! Sono stanco di essere guardato con quegli occhi, di essere disprezzato così! Sono stanco di giustificarmi, di dover rendere conto a qualcuno di quello che faccio per farmi sputare solo veleno! Non ne posso più! »
D’istinto, Nathan nascose il volto tra le mani. Alan si avvicinò a lui e gli tirò un polso, per scoprire il viso.
« Ma che stai dicendo? »
Nathan si asciugò le lacrime, almeno in parte, e fissò il volto davanti a lui, frastagliato dal pianto.
« Sto dicendo che se vuoi amarmi, amami, senza rinfacciarmi ogni volta i miei errori! »
Alan prese fiato per ribattere, ma Nathan continuò.
« Ho fatto una cazzata, lo so, ma che potevo fare? »
Alan non rispose. Continuava a guardare Nathan, in preda al pianto. Ogni tanto allungava una mano, per poi ritrarla subito dopo; avrebbe voluto dirgli che non era un mostro, che era lui a essere sbagliato e incapace di dire le cose giuste al momento giusto. Ma sapeva che non sarebbe servito, perché aveva commesso troppi errori, in passato, con quel ragazzino lì davanti a lui, e non sarebbero state le parole a lenire il suo dolore. Vederlo piangere gli faceva male, e si sentiva ancora più in colpa sapendo che era per causa sua. Perché lo capiva che Nathan stava cercando di farsi perdonare in tutte le maniere, e che ci soffriva, nel pensare a ciò che aveva fatto.
Così Alan aspettò che si sfogasse del tutto, che si asciugasse i lacrimoni col polsino del maglione che si intravedeva da sotto il cappotto. Avrebbe voluto far scorrere il dorso della sua mano su quella pelle arrossata, per scacciar via ogni lacrima lui stesso; e invece finì col porgergli soltanto un fazzoletto, che Nathan accettò con riluttanza.
Il ragazzo si asciugò il viso e si soffiò il naso, riacquisendo un aspetto dignitoso. E poi, quegli occhi ancora un po’ arrossati lo guardarono.
« Mi dispiace, Alan. Quando mi hai baciato ero così felice, non sai quanto! Non pensavo davvero che sarebbe mai potuto succedere, toccavo il cielo con un dito. Ma adesso ho capito. Tu non riuscirai mai a perdonarmi e io non riuscirò a rimanere con te, sapendo che mi rinfaccerai a vita i miei sbagli. Se andrà avanti così, non so quanto potrà durare. »
« Che cosa? »
Fu una risposta improvvisa. Come qualcosa che sta per precipitare e che di istinto afferri. Non ti rendi conto della situazione, se sia stata la scelta più giusta. Hai solo impedito che quel qualcosa cadesse nel vuoto, inesorabile.
Nathan teneva la loro storia appesa a un filo, e Alan l’aveva stretto forte prima che precipitasse.
Solo dopo qualche secondo si rese conto di tutto ciò che l’altro gli aveva detto.
« Non puoi dire così. Non ora che le cose si stanno rimettendo a posto. »
Nathan abbassò le palpebre per qualche istante, poi le riaprì lentamente.
« Non ce la faccio più. Non sopporto più tutto questo. »
Alan si avvicinò a lui, stringendogli il viso tra le mani.
« Concedi un’altra possibilità alla nostra storia. A noi. »
Alan accostò la sua fronte a quella del ragazzo. Erano talmente vicini che le punte dei loro nasi si sfioravano.
« Ti prego, Nathan, non… »
Si interruppe bruscamente e le parole gli morirono in gola. Chiuse e riaprì gli occhi, respirando profondamente, poi lasciò adito a un sussurro.
« Sei davvero importante per me. »
E ti amo, avrebbe voluto dirgli, con quella voce a un passo dal rompersi. Ma quelle parole non gli uscirono.
Continuava a scavare nello sguardo di Nathan, in cerca di quella luce che gli avrebbe concesso la grazia, ma non ne trovò traccia.
« Un’altra possibilità. È l’unica cosa che ti chiedo. »
Nathan gli prese le mani, che ancora cingevano il suo viso e, con delicatezza, le scostò.
« Non lo so, Alan. »
« L’ultima, ti prego. Hai ragione, continuo a condannarti quando non sei sincero e a rinfacciarti quando non lo sei stato, ma lo faccio perché… »
Perché voglio amarti senza riserve, come mi chiedi tu. Ma, come poco prima, non trovò il coraggio di far uscire quelle parole.
« Perché? »
Alan temporeggiò. Scrutò ancora quegli occhi chiari, immaginando la reazione di Nathan se avesse detto quelle parole che gli bruciavano in petto. Quante volte gli aveva confessato i suoi sentimenti, durante la loro relazione? Forse non gli avrebbe creduto.
« Perché se dobbiamo ricominciare, voglio che non ci siano segreti, tra di noi. »
Nathan non rispose. Ogni tanto assottigliava lo sguardo, segno che era in preda a una lunga catena di pensieri. Lo stava studiando, stava cercando di capire quale fosse la soluzione più giusta. Poi, dopo qualche secondo, decise di dare forma a una minuscola parte dei suoi pensieri.
« Ci voglio pensare. »
Alan non disse nulla. Era riuscito a evitare che Nathan facesse sprofondare la loro storia in un baratro nero, in fondo al quale si sarebbe sgretolata senza pietà.
Andava bene così. Era un inizio, almeno.
Lasciò che il suo sguardo seguisse Nathan, mentre si allontanava.
Il ragazzo si girò solo una volta. Il tempo di vedere quello sguardo supplichevole e, sotto sotto, speranzoso.
E poi, dopo essersi voltato, continuò per la sua strada.
 
***
 
Non aveva mai visto Alan in quello stato, né lo aveva mai visto supplicare qualcuno in quella maniera. Probabilmente, se avesse potuto, si sarebbe anche inginocchiato. Gli si era quasi stretto il cuore nel vederlo in quel modo, così innamorato nonostante tutte le bugie che gli erano state raccontate. Osservando la situazione sotto quell’ottica, riuscì anche a trovare una giustificazione a tutte quelle frasi acide e rancorose che ogni tanto scappavano ad Alan e una punta di vergogna gli si dipinse sul viso, perché, forse, non aveva totalmente il diritto di prendersela come aveva fatto.
Ma ancora una volta, capì, erano in torto entrambi. Lui per non aver lasciato completamente il suo vecchio mondo, Alan per averlo fatto sentire un mostro con parole indelicate.
Si sentiva confuso.
L’unica cosa di cui era certo era che, per fare un passo avanti verso Alan, doveva prima fare pace con se stesso e dare un taglio alla sua vecchia vita.
 
Fu lieto quando vide Brucknam uscire dalla porta dell’aula; avrebbe smesso, almeno per un po’, di ripensare a quanto accaduto poco prima.
Sospirò e si alzò dalla panca su cui era seduto, dirigendosi verso di lui. Il professore lo fissò con uno dei suoi soliti sguardi maliziosi, ma Nathan non cedette.
« Nathan, che piacere vederti. Cosa ti porta qui? »
Nathan si guardò intorno, aspettando che l’orda di studenti si dileguasse. Brucknam lo fissava ancora con il suo sorriso malizioso, ma, notò Nathan, sembrava quasi che avesse la bava alla bocca, forse pregustando già l’anteprima di ciò che avrebbero fatto insieme. Si sentì quasi spogliato, come se le mani di Brucknam stessero scorrendo su tutto il suo corpo, soffermandosi solo sulla sua intimità. E la sentì violata, ancora una volta. Tornò a concentrarsi sugli studenti, ma con quella sensazione di sporco che non voleva abbandonarlo.
« Sono venuto qui per disdire il nostro accordo. In modo definitivo. »
Quel sorriso sporco si ampliò, così come il senso di ribrezzo che albergava in Nathan.
« Anche l’altra volta sei venuto per lo stesso motivo, o sbaglio? »
« Stavolta è diverso. Non sono più interessato. Né a lei, né a questo lavoro. »
Approfittando di quel momento di solitudine – sul pianerottolo c’erano solo lui e Brucknam -, il professore allungò una mano verso la sua guancia. La stessa che Alan aveva toccato poco prima.
Nathan si spostò, senza indugio, rifiutando quel tocco.
« Oh, ma davvero? Non avevi qualche problema con la retta? »
« Ho già trovato un modo per pagarla. E poi, non è una questione di soldi. Mi sembrava di averlo già detto. »
Sperò che il bluff sulla retta reggesse. Brucknam non voleva togliersi quel sorriso dalle labbra, e Nathan cominciò a esserne seriamente infastidito.
« Nemmeno se ti offro il doppio? »
« Non mi interessano i soldi. Non voglio più ripetermi. Si trovi qualcun altro per passare la notte. Arrivederci. »
Lo guardò un’ultima volta, con uno sguardo che non ammetteva repliche.
Aveva chiuso davvero con quella vita.

 

Salve a tutti! E insomma, le cose non sembrano andare bene per i due piccioncini, anche se Nathan si sta impegnando, quantomeno per se stesso. Ma Alan resterà a guardare o proverà anche lui a far qualcosa? Lo scoprirete martedì prossimo! XD
Come sempre, ringrazio tutti coloro che mi seguono e recensiscono, mi rendete davvero felice e, inoltre, le vostre ipotesi su vari aspetti della storia mi divertono molto! XD Per cui, se vorrete farvi avanti e vincere la vostra timidezza, ne sarò immensamente felice *____*
Alla prossima ^____^
ps. scusa Silvia, forse ti aspettavi qualcosa di più eclatante, ma alla fine è uscito così ç___ç

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Ti aspetterò ***


23. Ti aspetterò
 
 
21 gennaio 2005, pomeriggio.
Erano appena dieci minuti che Nathan sedeva su quella poltroncina tutto sommato morbida, tenendo tra due dita il bigliettino con su scritto il suo turno. Se ne stava stravaccato, facendo spenzolare l’ombrello in mezzo alle gambe, appeso al suo corpo solo per il dito indice. Non si era nemmeno tolto il cappotto, nella speranza che non ce ne fosse bisogno. In effetti lui era il numero dieci, e il tabellone elettronico segnava già l’otto. Non avrebbe dovuto aspettare molto.
Intorno a lui c’erano solo altri cinque ragazzi: un gruppo di tre amici che riempivano l’aria con le loro chiacchiere, una ragazza mora che leggeva gli annunci in bacheca dietro lenti spesse e un altro ragazzino, probabilmente una matricola, che giocava con il suo cellulare, spostando continuamente lo sguardo tra il telefono, il bigliettino e il tabellone.
Nathan chiuse gli occhi per un momento e ascoltò il picchiettare ovattato della pioggia che si infrangeva sull’asfalto. Nonostante il brutto tempo lo facesse sentire spesso giù di morale, probabilmente per via dei pantaloni che gli si attaccavano addosso fradici, in quel momento si sentiva pulito. Gli sembrava di assomigliare a un tossico che finalmente era uscito dal giro. Non avrebbe più servito alcun cliente, né sulla strada, né in privato. Era pronto a ricominciare una vera vita.
Se accanto ad Alan o meno, non lo sapeva.
Si sentiva ancora titubante all’idea di lasciarlo entrare di nuovo nella sua vita; da una parte desiderava davvero stare con lui, ma dall’altra lo spaventavano le sue uscite acide o quella riluttanza quando lo guardava negli occhi.
Non sapeva che fare.
 
Il tabellone segnò il numero dieci. Ancora un po’ intontito per la rapidità, Nathan si risvegliò di scatto dai suoi pensieri, per poi drizzarsi subito su. Si avviò a passi svelti verso lo sportello, adagiando l’ombrello ai suoi piedi. Curvò un po’ la schiena, in modo da essere più vicino al foro nel vetro, unico tramite tra lui e la segretaria.
« Buongiorno, vorrei ritirare il bollettino per il pagamento della prima rata. »
L’affabile segretaria gli sorrise.
« È in ritardo, lo sa? Dovrà pagare anche la mora, adesso. »
« Sì, lo so. Grazie comunque per l’informazione. »
Lo sapeva bene, eccome. Aveva intenzione, effettivamente, di pagare la rata con i soldi di Brucknam, senza intaccare i suoi risparmi; ma, per come si erano evolute le cose, era dovuto correre a saldare il suo debito con l’università, pur spendendo parte dei soldi che aveva messo da parte per sua madre e Jimmy. Se avesse aspettato altro tempo, rischiava di pagare una rata bella salata.
« Può comunicarmi la sua matricola e il suo corso di laurea? »
Nathan fornì prontamente le sue informazioni, ma la segretaria continuava a fissare stranita lo schermo del monitor, senza dare segno di reazione. Scorreva la pagina su e giù con la rotellina del mouse, la fronte che si aggrottava sempre più, il volto sempre più vicino allo schermo come per verificare che non avesse avuto un’allucinazione. Alla fine, dopo uno schiocco di lingua e un abbandono totale sulla sedia, sconfitta, la segretaria tornò a voltarsi verso Nathan.
« La rata è già stata pagata. »
L’espressione di Nathan era sorpresa almeno quanto quella della giovane donna. Si sentì il cervello come se fosse andato in corto circuito. C’era qualcosa che aveva reciso il filo dei suoi pensieri.
« Come sarebbe a dire, ‘già pagata’? Io sono sicurissimo di non aver effettuato il versamento. »
La segretaria tornò con scoramento alla pagina web che riportava, chiaramente, il pagamento della somma. Aveva un’espressione realmente smarrita.
« Mi dispiace, non so che dirle. Il pagamento risulta registrato. »
Nathan si sentiva confuso: non riusciva a capire se gioirne o se preoccuparsene. Era impossibile che qualcuno avesse pagato la sua rata per sbaglio.
« Scusi, ma quando sarebbe stata pagata? »
La donna ricontrollò ancora, sperando forse in un errore informatico che smentisse quel dato di fatto.
« Ieri pomeriggio. Versamento eseguito da un certo Alan Scottfield. Lo conosce? »
Nathan si strusciò una mano sul volto, sollevato, mentre un sorriso cominciava a farsi strada tra le sue labbra.
« Sì, sì, lo conosco. Allora è tutto in regola. La ringrazio. »
« Ne è sicuro? »
Nathan annuì, ringraziò ancora la segretaria e si avviò verso l’uscita.
E così, Alan aveva pagato la rata al posto suo. Il perché gli appariva cristallino, ma voleva un’ulteriore conferma.
 
Arrivato davanti a casa di Alan, corse verso il portone, godendo del riparo dato dal terrazzo soprastante. Suonò il campanello, osservando, nell’attesa, la pioggia che continuava a imperversare funesta.
« Chi è? »
La voce dal citofono lo destò dai suoi pensieri. Esitò un poco prima di rispondere.
« Sono Nathan. »
Non ottenne risposta. Immaginò che anche per Alan non fosse una situazione facile, soprattutto dopo quanto era accaduto il pomeriggio precedente. Nathan ricordava ancora il loro litigio, il ceffone, la supplica di Alan. L’ultima parte lo fece traballare sulle reali intenzioni che lo facevano stare lì, in piedi, davanti al portone. Voleva ringraziarlo, ne era certo. Ma, riguardo al resto, non era sicuro di nulla.
« Dai, sali. »
 
Alan lo aspettava sulla soglia, la spalla appoggiata allo stipite e le braccia incrociate. Sul volto, però, c’era l’abbozzo di un sorriso. Era teso, lo capì subito.
Come Nathan fu più vicino, sciolse le braccia da quella posizione, tornando eretto e allargando il sorriso.
« Ciao. »
Nathan rispose con un’occhiata e serrò le labbra in un sorriso di circostanza. Per una frazione di secondo, i loro sguardi si incrociarono, ma senza imbarazzo; anzi, era come se ci fosse qualcosa, tra di loro, che li costringesse ad attrarsi.
Si accarezzavano con gli occhi l’un l’altro, senza dire niente, come se quello sguardo fosse un tocco desiderato da tempo, ma che non avevano il coraggio di tradurre in gesti.
Il sorriso di Alan gli entrò dentro, e avvolse di un calore inaspettato la parte più fredda e impaurita del suo cuore, quella che ancora non voleva lasciarsi andare e quella che ancora temeva una delusione. Si sentì diverso, tanto che un timido sorriso riuscì a farsi strada, in mezzo a tutta quell’insicurezza.
C’era davvero qualcosa, tra di loro, che non poteva esser descritto a parole.
 
Dopo essersi risvegliato da quel momento quasi onirico, Alan si girò appena verso l’appartamento, allungando il braccio verso di esso, segno che aveva intenzione di accogliere Nathan.
« Vieni, entra. »
Nathan entrò cauto, allungando il collo in cerca di altri ospiti, ma constatò presto che Alan era solo in casa.
« Ti offro qualcosa? La borsa puoi metterla al solito posto. »
“Il solito posto” erano i piedi del divano. Nathan lo sapeva bene, ma aveva evitato di sfilare la borsa di proposito. Non sapeva cosa sarebbe potuto accadere se avesse tolto anche il giubbotto e messo le pantofole, sentendosi così a casa. La cintura della tracolla che gli premeva sul petto rappresentava quasi una sorta di marchingegno, capace di imprigionare i più reconditi desideri della sua anima.
« Allora? Vuoi qualcosa? »
Nathan scosse il capo, repentino.
« No, no, sono a posto così. »
Voleva semplicemente ringraziarlo e andare via, ma, al contempo, sentiva di non trovare il coraggio per toccare quell’argomento. Sapeva che quel gesto era indirettamente collegato alla sua professione, e sapeva anche quanto temeva la solita acidità nei suoi confronti. Alan lo faceva perché voleva fargli imparare la lezione, certo. Ma non poteva negare che, ogni volta, faceva più male di uno schiaffo in pieno volto.
Alan uscì dalla cucina con un bicchiere di aranciata in mano.
« Non ti spogli? »
« Sono venuto per ringraziarti. »
Alan sembrò inizialmente confuso, ma trovò presto la soluzione alle sue domande.
« Oh, quello. Non è niente. »
Ormai superato l’imbarazzo iniziale, Nathan cominciò a sentirsi più sicuro di sé.
« Perché lo hai fatto? »
Alan posò il bicchiere sul tavolino davanti al divano, poi si mise in piedi, a pochi centimetri da lui. La mente di Nathan tornò a quel bacio nel parco di Washington Square e il cuore prese a pompare sangue a un ritmo davvero sostenuto.
« Qualcuno mi aveva detto che non aveva abbastanza soldi per la rata, dico bene? »
Le dita di Alan si posarono sul suo orecchio, carezzandolo lentamente. Si sentì avvampare e la testa si riempì di ogni sorta di pensieri, molti senza un senso compiuto. Si rincorrevano, si fondevano, sparivano e se ne creavano di nuovi. Non avrebbe neppure saputo dire il suo nome, se glielo avessero chiesto.
Lo stomaco attorcigliato, le guance in fiamme, il cuore pronto a esplodere: sapeva cosa significava tutto quello. Voleva soltanto dire che avrebbe desiderato ardentemente colmare quei pochi centimetri che separavano le loro labbra, senza pensare alle conseguenze. Solo sentirsi vicini, finalmente, dopo tanto.
E invece continuava a fissarlo, spostando il suo sguardo da un occhio all’altro, incapace di tenerlo fermo.
« Grazie. »
Fu l’unico pensiero che riuscì a esternare, in mezzo a quella nebulosa confusa che aleggiava nella sua testa.
Alan tornò ad accarezzarlo, tenendogli il collo con la mano e facendo scorrere il pollice sulla pelle del suo viso.
« Non volevo che... » Alan respirò profondamente, continuando le sue carezze. «… che qualcuno ti mettesse le mani addosso, per una motivazione così stupida. »
« Non l’avrebbe fatto comunque. Ho disdetto tutto quanto. »
Alan lo attirò a sé improvvisamente e lo abbracciò. Lo strinse forte, talmente tanto da fargli quasi male. Lo teneva chiuso nella sua morsa, come se non volesse farlo fuggire mai più, come se il loro contatto fosse ossigeno, per lui, senza il quale sarebbe morto dopo pochi secondi.
Stettero così per molto tempo, o forse poco; Nathan non era in grado di percepire il tempo, in quel momento. Piano piano, Alan allentò la stretta e Nathan, senza quasi rendersene conto, si sfilò la borsa e la posò al solito posto.
Gli fu chiaro, in quel momento, che lui stesso aveva abbandonato ogni difesa, e che non era andato lì solo per la rata. Voleva rimanere. Che fossero abbracciati, seduti sul divano o distesi a letto: non gli importava. Voleva solo che Alan fosse sempre lì nei paraggi.
Per lui.
Che lo desiderasse, che lo chiamasse o che lo accarezzasse soltanto. Voleva essere il suo mondo.
Alzò il mento verso di lui e Alan si scostò quel poco che bastava per guardarlo negli occhi. A poco a poco, il mondo si fece tutto nero, e abbandonò la vista per far spazio al contatto di quelle labbra sulle sue.
Di nuovo ne assaporò la morbidezza, insieme a quegli aculei spinosi che gli solleticavano la pelle; e poté sentire finalmente il calore di quella lingua, che prestò cominciò a esplorare in cerca della sua.
E, come si unirono, sentì qualcosa pungergli lo stomaco; una sensazione che si irradiò al resto del suo corpo, fino a solleticare il suo cuore, che, in quel momento, mandava un unico messaggio, forte e chiaro.
Lo amava.
Quel contatto divenne sempre più appassionato, le lingue sempre più ansiose di riscoprirsi, le mani sempre più desiderose di accarezzare la pelle sotto le loro dita.
Si baciarono così, finché a entrambi non mancò l’aria, che recuperarono con ansimi profondi, mentre le loro fronti si adagiavano l’una sull’altra.
Alan si allontanò un poco, quel che bastava perché l’altro non gli apparisse sfocato. Riprese ad accarezzargli il viso, stavolta con entrambe le mani, mentre Nathan lo osservava senza capire.
Alan deglutì, mentre schiudeva le labbra più e più volte, nel tentativo di dire qualcosa.
« Che c’è? »
« Ssh. »
Nathan lo guardò stranito.
« Che succede? Non capis-- »
« Ti amo. »
Nathan non fu sicuro di aver capito. Un mezzo sorriso tentava di aprirsi in volto, ma senza successo.
« Che hai detto? »
Alan lo abbracciò di nuovo, nascondendo la testa nell’incavo della spalla di Nathan, in modo che non potesse vederlo.
« Lo sai, cosa ho detto. »
Nathan ridacchiò nervoso. Si sentì immensamente felice, tanto da voler liberare quell’emozione in un pianto sentito. Un enorme sorriso gli si stampò in faccia e strinse Alan ancora più forte.
« Non pensavo che te l’avrei sentito dire un’altra volta. »
Nathan ripensò alle poche occasioni in cui Alan gli aveva confessato apertamente i suoi sentimenti, e si ritrovò ad alzare mentalmente le dita di una sola mano.
L’altro finalmente vinse l’imbarazzo e tornò a guardarlo in viso, non senza provare vergogna per quelle guance arrossate, per poi lasciargli un candido bacio sulla fronte.
« Ti va di rimanere per cena? »   
Nathan rispose con un bacio altrettanto candido sulle labbra.
« Ti va bene come risposta? »
Il ragazzo gli sorrise maliziosamente, facendo sì che Alan scuotesse il capo, fintamente rassegnato da quell’atteggiamento.
« Tu stai qui, ti preparo una sorpresa. »
Nathan incrociò le braccia, facendo un finto broncio.
« Mi lasci da solo a guardare la tv? »
« Già senti la mia mancanza? »
L’espressione sul volto di Nathan mutò immediatamente, e Alan scampò per un pelo un calcio dato senza troppa convinzione.
Guardò l’altro entrare in cucina, seguito da un ‘Non sbirciare!’, e lo sguardo gli cadde sulle calzature che indossava: aveva ancora le scarpe. Avrebbe voluto girare per casa con le pantofole, anche solo per evitare di sporcare il pavimento, ma c’era qualcosa che lo frenava. Era abbastanza sicuro, infatti, che Alan tenesse le ciabatte di riserva in camera.
Quella camera.
I ricordi gli sfrecciarono per la mente. Il maniaco, il dolore, il freddo. La sensazione di sporco. Il fatto che il maniaco fosse morto aveva alleviato, quantomeno, il terrore che potesse succedere di nuovo; ma, nonostante le numerose docce che aveva cominciato a farsi da quel giorno, quella sensazione di intimità violata non ne voleva sapere di andarsene. Si era tormentato spesso su come potesse fare per seppellire quei ricordi in qualche angolo della sua testa, ma tutto quello che aveva ottenuto era solo la pelle arrossata per il troppo sfregamento. Niente sembrava riuscire a lavar via quella sensazione.
Provò a raccogliere tutto il suo coraggio. Lanciò un’occhiata in direzione della camera, intravedendo solo un muro bianco. Lo stesso muro, pensò, dove Alan aveva tirato quel pugno che lo aveva fatto tremare.
Emise un respiro profondo. Lanciò un’occhiata verso la cucina e gli sembrò di sentire Alan canticchiare.
Non voleva disturbarlo.
Deciso, si diresse verso la camera da letto, senza esitazione. Ma, mano a mano che si avvicinava, balzavano ai suoi occhi particolari di cui non si ricordava.
Nella sua testa, l’armadio era sulla destra appena entrati, mentre, sul lato sinistro, vi erano i cassettoni per la biancheria e il letto, vicino alla finestra.
Ma, come entrò, vide una stanza completamente rivoluzionata.
Il letto era stato spostato sulla destra e aveva una trapunta che Nathan non aveva mai visto; l’armadio grande era stato spostato al muro opposto; e, alla sua sinistra, c’era il cassettone basso accostato a una piccola scrivania.
Niente era come lo ricordava. Muovendo qualche passo verso il letto, si accorse che non solo la trapunta era cambiata, ma anche il letto stesso.
Quello vecchio non c’era più.
Si accorse che, per quanto si sforzasse, non riusciva a rivivere vividamente il ricordo di quel pomeriggio d’ottobre. Era come se una parte del ricordo se ne fosse andata, insieme a quel letto.
Osservò ancora la nuova disposizione dei mobili della stanza, e cominciò a sentirsi a suo agio. Chiuse gli occhi, godendosi quel momento di ritrovata tranquillità. Gli sembrò quasi che niente, in quel momento, potesse più fargli del male.
Una mano si posò sulla sua spalla, facendolo sobbalzare. Aprì gli occhi di scatto e si voltò: Alan era dietro di lui. Nei suoi occhi c’era quello sguardo indagatore di chi cerca di leggerti dentro.
« Tutto bene? »
« Sì, ero solo venuto a cercare le ciabatte. Le tenevi in camera, no? »
« Potevi chiedermelo, te le avrei prese io. »
Nathan sorrise, rivolgendo il suo sguardo verso la stanza.
« Mi piace la nuova disposizione. Non vedo l’ora di provare questo nuovo letto. »
« Sei sicuro? »
Nathan tornò a guardare Alan, abbozzando un sorriso.
« Va tutto bene, davvero. Allora, le ciabatte? Dai, che voglio togliermi questi scarponi. »
Alan si affrettò a tirar fuori le pantofole dal cassetto dove erano riposte e le porse a Nathan, che le infilò subito.
« Ah, sono così calde! Mi ci voleva proprio. »
Nathan continuò a guardarsi i piedi, quasi estasiato dall’improvviso calore da cui erano avvolti, quando Alan gli prese la testa tra le mani e gli baciò la fronte, nuovamente. Nathan lo guardò negli occhi, un po’ imbarazzato da quella ritrovata intimità, ma Alan gli sorrise dolcemente.
« Bentornato. »
 
La cena consisteva in un gustoso piatto di spaghetti, condito con sugo all’arrabbiata: polpa di pomodoro, aglio, olio e peperoncino, il tutto infiocchettato da un ciuffetto di basilico sulla sommità del monte di spaghetti.
Come Nathan vide il piatto, una deliziosa acquolina gli riempì la bocca. Era il suo primo preferito, benché semplice, e Alan lo sapeva bene. Odorò il profumo di quel piatto, di cui aveva sentito davvero la mancanza.
« Da quanto tempo non la mangiavi? »
Non appena il piatto fu davanti a lui, Nathan afferrò la forchetta, pronto a ruotarla in quel gomitolo fumante.
«Troppo! »
Detto ciò, si portò alla bocca la sua abbondante forchettata. Dopo aver masticato tutto, ed essersi stampato in faccia l’espressione più beata che potesse esserci, recuperò un po’ di contegno e guardò Alan imbarazzato.
« È buonissima. Piccante al punto giusto. Quanto mi era mancata…! »
Notò, con la coda dell’occhio, che Alan lo guardava divertito.
« A proposito di piccante… ho una cosa di cui vorrei parlarti. »
Nathan alzò gli occhi verso Alan, che subito assunse un’espressione seria. Mandò giù il suo boccone di spaghetti e posò la forchetta sul bordo del piatto. Alan continuò.
« Parlo di Jack. Mi ha telefonato ieri sera e mi ha raccontato del professore. Come lo sapeva? »
Gli tornò alla mente la minaccia del giorno prima, e capì che aveva fatto la scelta migliore: a quanto pareva, Jack avrebbe comunque spifferato tutto ad Alan.
Si sentì potente e, stranamente, libero. Si rese conto che non aveva più alcun segreto, che nessuno poteva tenerlo più in pugno.
« In realtà, non lo so. L’ho incontrato ieri mattina in biblioteca e mi ha minacciato di--- »
Nathan non ebbe il tempo di finire la frase, che Alan gli parlò sopra.
« Lui cosa? Ti ha minacciato? »
« Ti avrebbe spifferato tutto, se mi fossi presentato all’appuntamento. Sono stato più furbo di lui. »
Alan spostò lo sguardo vacuo verso il basso, pensieroso. Stette in silenzio per un po’, poi tornò a guardare Nathan.
« Certo, capisco. Non poteva sapere che, alla fine, ci siamo incontrati. » Alan scosse il capo e sospirò. « Sono felice che tu sia venuto, comunque. E anche che tu abbia preferito raccontarmi tutto. »
Nathan non disse nulla. Era stanco di parlare sempre di sé, dei suoi segreti, del suo passato. Avrebbe potuto dire che aveva imparato dai suoi errori, che non si era fatto incastrare una seconda volta, ma tacque. Voleva solo godersi il presente.
Si limitò ad annuire debolmente, dopodiché afferrò nuovamente la sua forchetta, tornando a mangiare come se nulla fosse. Sperò che quel segnale fosse abbastanza chiaro e, per sua fortuna, così fu.
Si affrettò a cambiare argomento, per sicurezza.
« Come procedono le indagini? »
L’espressione di Alan faceva chiaramente a cazzotti tra la felicità e la malinconia. Alla fine uscì fuori un sorriso impercettibile.
« Bene, direi, ma vorrei tanto avere un ruolo più attivo. Ti confesso che un po’ sono invidioso di Ash. »
« Ma avrai altri casi di cui occuparti, in futuro, no? »
« Sì, certo. Ma mi sono giocato la promozione, e penso proprio che la daranno a lui. So che non dovrei dirlo, ma un po’ mi rode. Era da tempo che la aspettavo. »
Nathan gli sorrise, complice.
« Non ci vedo niente di male. Almeno finché non compromette il tuo rapporto con lui, s’intende. »
« No, questo no. Lo sai che non sono il tipo da rovinare un’amicizia per una cosa del genere. »
 
Non parlarono più di Jack, né del professore. La cena, anzi, fu uno scambio di sorrisi e sguardi languidi, da parte di entrambi.
Trascorsero la serata sul divano, davanti a un buon film romantico, che però i due non degnarono di uno sguardo;  tra baci, coccole e pensieri tra le nuvole, del film non seppero dire una parola, a fine visione.
La pioggia, là fuori, batteva ancora e sembrava non avere alcuna intenzione di smettere. La vicinanza tra lampi e tuoni ne erano la prova: il temporale era proprio sopra le loro teste.
Impossibilitati a uscire, si spostarono subito dopo in camera da letto. Nathan non la trovò una conclusione malvagia, per quella serata. Era stato scosso da milioni di emozioni, e un po’ di riposo era ciò che gli serviva.
Non appena toccò il letto, Nathan si accorse di essere praticamente immune ai brutti ricordi. Non aveva dimenticato, certo, ma almeno la scena evitava di riformarsi nella sua testa esattamente com’era accaduta. Riusciva quasi a vederla come uno spettatore esterno, come se non fosse stato lui a subire tutto ciò in prima persona. Come se non fosse toccato a lui.
« Ti prendi il lato sinistro, come al solito? »
Nathan tirò su le coperte fino al busto.
« Non vedi il mio nome scritto sopra? »
I due risero con quella complicità che non avevano da tempo. La tensione nell’aria si era disciolta completamente, non c’era imbarazzo né nelle parole, né nei loro silenzi.
Nathan si infilò completamente sotto le coperte, imitando Alan. L’altro fece emergere un braccio da quel caldo rifugio e lo posò sulla spalla di Nathan, tirandolo a sé.
« Dai, vieni qui. »
Si strinsero in un tenero abbraccio, e Nathan adagiò la sua testa sul petto di Alan, che intanto gli accarezzava la nuca, dolcemente. L’altro prese a baciargli i capelli, e a ogni bacio lo stringeva più forte, forse per assicurarsi che non fosse un sogno: Nathan, il suo Nathan era lì, e quelle carezze e quei baci sembravano l’unico modo per accertarsi che fosse vero.
Piano piano, quei candidi baci scesero giù sulla fronte, disegnarono il profilo del naso e, famelici, arrivarono ad assaporare quelle labbra succose. Nathan ricambiò il bacio, prima un po’ titubante, poi deciso, e accavallò la sua coscia su quella di Alan, avvinghiandosi a lui.
Ogni centimetro di pelle esplorata accresceva la loro voglia di conoscersi ancora, di riscoprire quel sentimento che era stato assopito per tanto, troppo tempo.
Le dita di Alan scorrevano senza esitazione su quel corpo esile, e un sorriso gli si formò sul volto quando i suoi polpastrelli sfiorarono quelle costole troppo evidenti. La voglia gli salì dirompente e si fiondò a esplorare quel corpo da una posizione più comoda, senza nemmeno staccare le labbra da quelle del ragazzo. Si sistemò sopra di lui, continuando a stimolarlo seguendo i suoi gemiti; ma, all’improvviso, Nathan interruppe repentino il contato tra le loro labbra, costringendo anche Alan a fermarsi.
« Che c’è? »
Tra un ansimo e l’altro, Nathan indicò la lampada sul comodino, ancora accesa.
« Spegnila. »
Alan obbedì, con un sorrisetto malizioso in volto, poi si precipitò nuovamente sulle labbra del biondino.
Complice il buio, Alan continuò ad accarezzare il petto del ragazzo, per poi scendere, lentamente, sempre più giù. Si scontrò con i pantaloni del pigiama di Nathan e intrufolò la sua mano un paio di strati sotto, venendo a contatto con la pelle. Oltrepassò il cespuglietto di peli pubici alla base del suo membro, ma, come le sue dita lo toccarono, Nathan reagì con un gemito strozzato; e mano a mano che Alan riscopriva la sua intimità, Nathan si faceva sempre più rigido, i gemiti di piacere sempre più radi e silenziosi.
Alan abbandonò quelle labbra e si dedicò solamente al massaggio, nel tentativo di fargli recuperare quel piacere apparentemente perso, ma le sue carezze non davano l’esito sperato. Da Nathan provenivano solo mugolii abbozzati e le sue mani avevano smesso da tempo di guidare quelle dell’altro.
Alan pensò di aver corso troppo, di essersi lasciato andare troppo in fretta a quella voglia che gli pulsava dentro, che gli faceva bramare quel corpo davanti a lui. Così abbandonò le carezze e tornò a dedicarsi ai baci, a cui Nathan reagì con rinnovata passione; ma come Alan venne a contatto con la guancia del ragazzo, si fermò.
Si allontanò lentamente dalle labbra di Nathan, mentre, con una mano, si avvicinava al suo viso. E, come si aspettava, le sue dita sfiorarono qualcosa di liquido e caldo.
Lacrime.
Silenziose, ma devastanti.
Senza nemmeno attendere una risposta dal ragazzo, Alan riaccese la lampada sul comodino accanto a loro.
Deglutì a fatica quando si accorse che il tatto non l’aveva ingannato. Un rivolo umido si era fatto strada su quelle guance un po’ arrossate e, ora che lo osservava meglio, si accorse che Nathan tremava appena e aveva lo sguardo altrove, come per nascondere l’evidenza.
Non gli chiese niente, non ce n’era bisogno. Sospirò.
« Scusami, non avrei dovuto. Perdonami. Sbaglio sempre, con te. »
L’ultima frase sembrò più un sussurro, un pensiero ad alta voce, ma Nathan non reagì. Alan capì che aveva riaperto una ferita troppo grande, che ancora non si era rimarginata, e che l’aveva fatto nel peggior modo possibile.
Si avvicinò a lui per abbracciarlo, per offrirgli un altro tipo di calore e conforto, ma Nathan si ribellò, girandosi dalla parte opposta alla luce. Nascose il volto verso il cuscino, senza dire una parola.
Alan gli afferrò dolcemente una spalla, per farlo girare, ma l’altro la ritrasse.
« Ti prego, lasciami stare. »
Piangeva ancora, ne era sicuro;  lo sentiva da come tirava su il naso, più che dalle lacrime stesse, che si confermarono mute.
Alan gli carezzò la testa col dorso della mano.
« Non ti lascio stare, Nathan. Non un’altra volta. »
Adagiò parte del suo corpo su quello dell’altro, come fosse un abbraccio. Portò le sue labbra vicine all’orecchio del ragazzo, per sussurrargli qualcosa.
« Arriverà il tempo per ogni cosa. Ti aspetterò. Ma non vergognarti a parlarmi di come ti senti. Io sono qui, se hai bisogno. »
In quel momento, realizzò quando fosse stato grande l’errore commesso in quel pomeriggio d’ottobre. Si sentì in parte responsabile per quelle lacrime che, lo sapeva, continuavano a inumidire quel viso candido. Avrebbe voluto baciargliele e cancellarle una per una, ma capì che Nathan aveva bisogno di stare solo e, al contempo, sapere che aveva qualcuno vicino.
I respiri del ragazzo si facevano sempre più lunghi ed esitanti, segno che stava ricacciando le lacrime, ma continuò a non volersi voltare.
Alan non lo forzò. Tornò a baciargli la testa e sistemargli quei capelli ribelli, aspettando che il suo respiro si regolarizzasse. E non disse nulla, perché non c’era bisogno di parole.
Alan tornò nuovamente alla lampada, e la spense. Si rintanò sotto le coperte, poi si accoccolò dietro Nathan, abbracciandolo. Lasciò che il profumo di quei ciuffi cinerei stuzzicasse le sue narici, prima di addormentarsi con lui.
« Buonanotte. »
Quello di Nathan fu poco più che un bisbiglio strozzato.
Alan gli lasciò un ultimo bacio tra i capelli, poi adagiò nuovamente la testa sul cuscino.
« Buonanotte, amore. »

 

Come avevo già anticipato altrove, questo è il mio capitolo preferito. Spero che rientri anche nella vostra "top 3", perché io lo adoro *___*
E insomma, sembra che tutto vada per il meglio, vero? Ma il male è in agguato... già dal prossimo capitolo le cose torneranno normali, non preoccupatevi u.u E tornerà Ash, per la gioia delle sue fan! XD
Per questo capitolo, ringrazio ovviamente Silvia per i suoi commenti entusiasti e anche ladysyria per avermi aiutata con una frase rognosa. Grazie *___*
Ovviamente ringrazio anche tutti voi che mi seguite, è divertentissimo, oltre che utile, conoscere i vostri pareri e le vostre supposizioni.
Ho solo altri due capitoli pronti, spero di poter proseguire col ritmo settimanale, ma non so se ci riuscirò. In ogni caso, comunque, mancano una manciata di capitoli alla fine, quindi non sarebbe un gran danno XD
Alla prossima e grazie *___*

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Vane speranze ***


24. Vane speranze
 
 
21 gennaio 2005.
Non sapeva se a stordirla di più fosse il pensiero di Ashton o il bigliettino che teneva in mano. Aveva appena staccato un fogliolino con su scritto un numero di telefono, appartenente a un ragazzo che affittava un appartamento. Madison lo infilò rapidamente in tasca, stando attenta che nessuno la vedesse. Non aveva niente di cui vergognarsi, ma forse la imbarazzava quel desiderio di indipendenza sorto in ritardo rispetto ai suoi coetanei.
Aveva cominciato a scorrere gli annunci di affitto dopo il primo bacio tra lei e Ashton; da quel giorno, dentro di sé aveva sentito esplodere una prepotente voglia di reagire alla passività della sua esistenza, di rimboccarsi le maniche e di smetterla di essere mera spettatrice di ciò che la vita le offriva. Aveva ritrovato un’inaspettata grinta nello studio, un irrefrenabile desiderio di andarsene di casa e la voglia, mista a un pizzico di paura, di trovare un lavoro per poter finalmente badare a se stessa e liberarsi dal giogo in cui i suoi genitori la tenevano stretta.
E poi, ultimo ma non meno importante, aveva il desiderio di provare a costruire qualcosa con Ashton. Ripensò ancora al grande passo che aveva fatto appena quattro giorni prima, ma alle immagini si unirono le emozioni che aveva provato, ancora troppo vivide nel suo cuore per lasciarla indifferente. E come quelle sensazioni le tornarono alla mente, avvampò di colpo e cominciò a strappare frenetica i foglietti di tutti gli annunci, come in preda a un raptus. Ashton era davvero capace di farle perdere il senno e galoppare il cuore, ancor più quando ripensava ai baci che si erano scambiati, alle labbra di lui sulle sue, alla sua mano che le sfiorava la spalla, per poi accarezzarle tutto il braccio. In qualche fantasia aveva pure sognato che quella mano trascinasse via la sua camicetta. Ma, se pensava a quello, oltre all’emozione subentrava la paura e, forse, un pizzico di vergogna.
Era una miscela di sensazioni che non riusciva a sbrogliare.
« Ehilà, che combini? »
Madison si voltò all’improvviso, nascondendo d’istinto i foglietti in tasca. Si pentì subito dopo di ciò che aveva fatto, soprattutto perché davanti a sé c’era Jack, che si insospettì subito.
« Ciao, Jack. »
Madison provò a dissimulare il suo imbarazzo, con scarsi risultati.
« Che hai nascosto in tasca? »
« Niente! »
Jack sorrise divertito e allungò una mano in direzione della tasca, che Madison tappò subito.
« Io non direi. »
La guardò con un sorrisetto dispettoso, ma l’attenzione di lui si spostò in profondità verso qualcosa che stava dietro la ragazza.
Solo in quel momento, Madison capì che Jack stava leggendo gli annunci. Arrossì improvvisamente e si parò davanti alla bacheca, capendo un secondo dopo che la sua reazione era fuori luogo. Jack, infatti, non perse occasione per scoppiare a ridere, mettendola ancor di più in imbarazzo.
« La nostra piccola Madison sta diventando grande. »
« E dai, smettila! »
Jack continuò a ridacchiare, ma non disse nient’altro. Fece cenno a Madison di seguirla, per passeggiare un po’ insieme prima della lezione.
« Allora? A cosa è dovuto questo cambiamento? Mi sono perso qualcosa? »
« Non ti sei perso niente! »
Madison buttò un’occhiata verso Jack, nella speranza che se la fosse bevuta e che non facesse altre domande. Era quasi certa di aver intravisto una sfumatura malinconica sul volto del suo amico.
« Sei sicura? »
Jack si fermò. Madison fece qualche passo in più e poi si arrestò, davanti a lui.
Come alzò gli occhi verso Jack, riuscì a leggere nel suo sguardo tutta la delusione per quella situazione, e capì che le aveva fatto quella domanda con il tono di chi sapeva già la risposta.
Si sentiva davvero in colpa a non avergli detto niente. Era stata talmente presa da Ashton e da quella miriade di emozioni nuove che aveva trascurato completamente Jack, non pensando minimamente a come introdurgli la notizia senza scioccarlo.
Si mordicchiò il labbro inferiore, cercando le parole giuste da dire per poter tener testa a quello sguardo.
« Scusa. »
Per un momento, sperò che Jack le sorridesse dicendole che era tutto a posto, che non se l’era presa e che, anzi, era curioso di sapere tutte le novità. Ma Jack non sorrideva; non sembrava nemmeno astioso, ma certamente era dispiaciuto per il trattamento che Madison gli aveva riservato.
Si rese conto, in quel momento, che si era comportata davvero male nei confronti di quello che definiva il suo migliore amico.
Jack continuava a osservarla corrucciato, poi scrollò le spalle.
« Non preoccuparti. Avrai avuto i tuoi motivi. Mi dispiace solo non averlo saputo da te. »
La ragazza provò a giustificarsi.
« Avevo paura che ti saresti ingelosito. »
Sul volto di Jack si aprì un sorriso, ma aveva più un sapore dolceamaro.
« Già. È il mio peggior difetto, vero? Non ti nego che, probabilmente, non avrei ben visto qualcuno che si porta via la mia piccola Madison, » disse, scompigliandole i capelli, « ma poi penso che avrei messo la tua felicità davanti a tutto. Sei felice, adesso, no? »
Madison si buttò verso Jack, abbracciandolo. Lo strinse forte, provando sollievo quando si accorse che il suo abbraccio era ricambiato.
« Scusa, Jack. Sono stata una stupida. Mi dispiace averti nascosto tutto. »
Il ragazzo le accarezzò la schiena con movimenti lenti, lasciando che i pugni chiusi di lei gli stringessero il cappotto.
« Dai, va tutto bene. Posso capire. »
Madison sciolse l’abbraccio e, a poco a poco, cercò di incontrare lo sguardo di Jack.
« Ci sediamo un po’? »
Il ragazzo annuì con un sorriso.
 
Avevano preso posto in una delle panche del plesso, lontano da orecchi indiscreti, benché i corridoi fossero semivuoti, a quell’ora. Ogni tanto passava qualcuno per andare in bagno, ma la maggior parte degli studenti stava seguendo le lezioni.
« E così ti sei sistemata, insomma. »
Jack parlò dal nulla, prendendo Madison completamente contropiede.
« Dai, Jack, così mi fai arrossire! Ci stiamo solo frequentando. Anche se… » Madison si sentì avvampare, al solo pensiero di ciò che voleva dire. « Oh, accidenti! »
Seguì un momento di silenzio, durante il quale Madison stava cercando di contenere l’imbarazzo.
« Sono rimasto solo io. »
L’entusiasmo di Madison, misto a un po’ di imbarazzo, si spense di colpo. In fondo, Jack era stato mollato appena due giorni prima.
Gli mise un braccio intorno al collo, in segno di vicinanza.
« Jack, mi dispiace da morire, davvero. Troverai anche tu qualcuno per te, ne sono certa. Sei un ragazzo fantastico! »
Le parole di Madison sembrarono non sortire alcun effetto sul ragazzo, che continuava a fissare un punto vacuo tra le sue ginocchia e il pavimento.
« Madison? »
« Mh? »
Jack sembrò finalmente mettere a fuoco qualcosa. Si voltò verso la sua amica, poi rivolse lo sguardo davanti a sé.
« Perché nessuno vuole amarmi? »
La ragazza socchiuse la bocca, sperando che le uscissero parole di conforto, ma dovette pensarci più del previsto. Lo sguardo malinconico negli occhi di Jack le fece capire che la ferita di Alan era molto più profonda di quanto pensasse.
« Jack, lascia perdere Alan. Dimenticalo. Hai una vita davanti, sai quanti altri ragazzi potrai incontrare? »
Il ragazzo si limitò ad annuire debolmente, perso in chissà quali pensieri. Madison non si diede per vinta.
« E poi, cosa vorresti dire? Io ti voglio bene, sai! Certo, mi rendo conto che non è la stessa cosa, ma tu per me sei davvero speciale. »
Vedendo un accenno di sorriso sul volto dell’amico, Madison provò a battere ancora il ferro.
« Inoltre, se proprio vuoi toglierti qualche soddisfazione, puoi sempre divertirti con una bambolina voodoo con le sembianze di Alan! Zac, uno spillo! Zac, un altro! »
Madison scoppiò a ridere, simulando davvero una bambolina orripilante piena di spilli.
Anche Jack, accanto a lei, sorrideva compiaciuto.
 
Terminate le lezioni, i due decisero di prendere una boccata d’aria. Come misero piede fuori dall’aula, si accorsero di quanto ossigeno si erano persi, e il loro cervello sembrò risvegliarsi tutto d’un tratto.
Oltrepassarono lo spazioso atrio e si diressero verso le porte di ingresso, ma, come vi arrivarono, Madison si fermò.
« Che c’è? »
A Jack bastò seguire lo sguardo dell’amica per capire subito cosa non andasse. Superata la coltre di fumatori e le scalette che portavano al cancello, c’era una coppia fin troppo conosciuta.
Loretta stava sghignazzando sguaiatamente con Ashton, che sorrideva a sua volta alle parole della ragazza. Madison li osservò con una stretta al cuore. Aveva capito fin da subito le intenzioni di Loretta, sia per la fama che portava, sia per il fatto che detestava Madison con tutta se stessa, ma non pensava che Ashton, il suo uomo, potesse stare al gioco di quella gattamorta.
Non aveva il coraggio di dire niente. E nemmeno di reagire, in qualche modo. Sarebbe potuta andare lì, fare qualche sorrisetto minaccioso a Loretta, e poi? Ashton chi avrebbe difeso?
Il solo pensiero di chiederselo la demoralizzò. Era questa la fiducia che riponeva nel suo uomo?
« Non vorrai startene tutto il tempo qui, spero. »
Madison scosse il capo, continuando a guardare la coppietta.
« Non so che fare. E se Ash si coalizza con Loretta? »
« Se lo fa, è un cretino. E di certo non ti meriterebbe. »
La ragazza esitò ancora. Si accorse che era tornata la ragazza di sempre, timida e impaurita; dov’era finito lo slancio verso la vita che l’aveva posseduta fino a poco prima?
Sentì Jack prenderla per un braccio.
« Forza, vieni. »
Non fece in tempo a ribattere, che Jack aveva già spalancato la porta d’ingresso e la stava trascinando verso Ashton e Loretta.
Non ebbe nemmeno il tempo di agitarsi, perché, in un battito di ciglia, si ritrovò a salutare i due con un sorriso forzato.
« Ciao. »
Subito dopo aver pronunciato quella frase, le vennero in mente milioni di entrate migliori, ma si rese conto che era troppo tardi per rimediare alla sua banalità.
« Chi abbiamo qui? La piccola Madison e il suo amico Jack! Da quanto tempo! Sono cambiate molte cose dall’ultima volta che ci siamo viste. »
Detto ciò, Loretta scoccò un’occhiata maliziosa ad Ashton, che ricambiò con un sorriso di circostanza. O, almeno, era il significato che Madison gli aveva attribuito. Spostò lo sguardo verso Ashton e si domandò perché non reagisse con maggior decisione; e si sentì tremare di paura, perché cominciò a pensare che, forse, Ashton non aveva alcuna voglia di mettere la loro relazione nero su bianco.
Osservò poi Loretta, il suo viso inceronato ma privo di imperfezioni, le sue forme prosperose ma nei punti giusti e quell’aria da smorfiosa che però la rendeva attraente agli occhi dei ragazzi. Si rese conto che Loretta aveva un sacco di difetti, che, però, riusciva a nascondere in modo magistrale.
Inoltre, si disse, Loretta aveva sicuramente un sacco di esperienza in certi campi. La notte del suo primo bacio, Ashton non l’aveva forzata ad andare oltre, né sembrava averne l’intenzione; ma sarebbe stato disposto ad aspettarla, di fronte a un bocconcino come Loretta?
Sconfitta, abbassò lo sguardo, cercando di ricacciare quei brutti pensieri che, lo sapeva, sarebbero sfociati in lacrime di lì a poco. Non voleva e non poteva dare quel tipo di soddisfazione a Loretta, motivo per il quale pensò alla prima scusa buona per dileguarsi.
Ma qualcuno fu più veloce di lei.
« Hai ragione, sono cambiate tante cose. Per esempio, io e Mad stiamo insieme, adesso. »
Loretta ridacchiò ancora, e Madison fece una rapida carrellata mentale di modi semplici e indolori per far sparire quella ragazza dalla faccia della Terra.
« Come siete carini. Proprio una bella coppia! »
E scoccò un’altra occhiata ad Ashton.
Ma il risolino di Loretta si interruppe bruscamente.
Le ci volle qualche frazione di secondo per capire che Jack l’aveva spintonata.
« Ma che cazzo fai? »
« Vattene via, Loretta. Non sei la benvenuta. »
Quel tono glaciale, quello sguardo fermo, quegli occhi minacciosi. Madison non l’aveva mai visto così.
« Perché, tu sì? Sei solo il terzo incomodo! »
Jack scattò verso di lei, ma Ashton si mise in mezzo a loro bloccandoli con le braccia, evitando il peggio.
« Smettetela, per favore. Non mi sembra il caso di reagire così. »
Ashton guardò prima Jack e poi Loretta, come fosse un ammonimento, poi, a poco a poco, abbassò le braccia.
Loretta lanciò un’ultima occhiata al ragazzo di fronte a sé.
« Frocio. »
Madison la vide sparire dietro il cancello.
Erano rimasti loro tre, in un’atmosfera tutt’altro che rilassata. Jack guardò l’amica con occhi pentiti.
« Scusa, Mad. Ci ho fatto una pessima figura. »
Avrebbe voluto nascondersi. Era grata a Jack per ciò che aveva fatto, poiché detestava Loretta più di ogni altra cosa al mondo, ma quella scena le sembrò una reminescenza della Madison in cui si riconosceva prima, la povera, piccola ragazzina che non sa tirare fuori le unghie da sola.
Aveva dovuto aspettare l’intervento di Jack, per farsi valere, e lei era stata capace solo di stare a guardare. Ebbe come la sensazione che niente fosse cambiato, rispetto a prima. Erano mutate le persone che le stavano intorno, le situazioni che aveva affrontato; ma lei?
« Scusate. Vi ringrazio per avermi difesa, ma non ce n’era bisogno. »
Ashton le sorrise, mettendole un braccio intorno al collo e tirandola a sé.
« Non vergognarti, dai. Avevi bisogno di aiuto e noi siamo intervenuti. »
« Non avevo bisogno di aiuto! »
Gridò talmente forte da far voltare un gruppetto di studenti che passavano di lì.
Ashton e Jack si lanciarono un’occhiata di intesa, e capirono entrambi che era meglio non toccare più quell’argomento.
Madison se ne stava ancora in silenzio, senza proferire parola. Continuava a tenere lo sguardo basso, pentita e imbarazzata da quella risposta istintiva.
Ashton si schiarì la voce.
« Vabbè, allora ti chiamo stasera, dopo la cena, va bene? »
Madison non rispose. Aveva esagerato ancora una volta, facendo credere ad Ashton che la sua presenza non fosse gradita. Ma non era facile spiegare il terremoto che aveva dentro, così come le migliaia di sensazioni sconosciute che si rincorrevano nella sua testa.
Un velo di silenzio cadde sul trio, silenzio che fu spezzato da Jack, non appena l’imbarazzo ebbe raggiunto il limite.
« Hai una cena? »
« Sì, una cosa di lavoro. Sai, le indagini per l’omicidio Sánchez procedono a gonfie vele e me ne sto occupando io, quindi cercherò di lavorarmi un po’ il capo, nella speranza di ottenere la promozione. »
« E dove andate? »
« È un localino aperto da poco, sulla 33-esima. Mi pare si chiami Molly’s, ma non ne sono sicuro. »
Sentì un’espressione di stupore provenire da Jack.
« Mh, ho capito. »
Ashton spostò il suo sguardo verso Madison, che ancora lo rifuggiva per l’imbarazzo. E stava ancora in silenzio.
« Ti chiamo verso le undici, undici e mezzo, allora. »
Madison annuì appena, conscia che la situazione stava peggiorando; aveva voglia di chiarirla il prima possibile, ma non sapeva da che parte cominciare.
« Va bene, io tolgo il disturbo. Mad, Ashton, vi saluto. Ciao. »
Jack le diede un piccolo buffetto sulla guancia.
Rimasero soli, lei e Ashton. Fuori manteneva un’espressione dispiaciuta e quasi apatica, mentre dentro si sentiva morire. Non era stato Jack ad aver fatto una pessima figura. Era stata lei. Le poche volte che era esplosa, in vita sua, era sempre stato in presenza di Ashton.
Si chiese, con un velo di malinconia, quanto tempo avrebbe impiegato prima di mollarla.
« Ero venuto per passare con te il pomeriggio, ma forse è meglio se torno a casa, vero? »
« No! Non ci pensare nemmeno. »
Ashton si avvicinò a lei, sfiorandole una guancia.
« Allora, me lo fai un sorriso? »
« Solo se mi dici cosa c’è tra te e Loretta. »
L’altro scoppiò a ridere sonoramente.
« Dai, Mad, pensi davvero che abbia qualche affare con quella là? »
« Non sono una stupida, ho visto le occhiatine che ti mandava! Per non parlare di quelle frasi a doppio senso. »
Ashton si avvicinò a lei, osservandola con sguardo fermo.
« Ti dico che non c’è niente e non mi credi. Non ti fidi di me? »
Madison esitò. Di primo acchito avrebbe detto che sì, certo che si fidava di Ashton. Ma in quei momenti che avevano preceduto quella domanda, quante volte aveva pensato che Ashton avesse davvero qualche tresca con Loretta?
« Penso che tu abbia bisogno di schiarirti un po’ le idee, signorina. »
D’istinto, afferrò Ashton per le maniche del cappotto.
« Perché mi dici così? »
« Mad, come possiamo stare insieme se non ti fidi di me? »
Fu assalita da quella sensazione di dover prendere una decisione cruciale in una frazione di secondo. Frazione che sembrò allungarsi in modo esponenziale.
« Hai ragione. »
Sputò fuori la prima frase che le venne in mente, incapace di dare forma ai suoi sentimenti. Seguì un altro momento di silenzio imbarazzante. Madison aveva esaurito la sua scorta di determinazione e Ashton sembrava indifferente alla risposta che gli aveva dato.
« Direi che è meglio se ci salutiamo qui, per oggi. »
Arrivò qualcosa, dentro di lei, a stritolarle il cuore. Lo sentì mentre si rompeva in mille pezzi, che cadevano in un buco nero dal quale non li avrebbe recuperati mai più. Si sentiva andata in frantumi, mentre il respiro cominciava a mancarle.
« Tanto ci sentiamo stasera, no? Mi chiami dopo la cena, vero? »
Parlò veloce, perché sentiva che non poteva aspettare un secondo di più per avere la conferma che bramava. Fissava quegli occhi indecifrabili con indicibile supplica, sentendosi morire per ogni attimo trascorso in quel silenzio.
Lui non disse niente.
Cominciò a indietreggiare, silenzioso.
Poi, quasi invisibile, tirò le labbra in un sorriso, giusto il tempo necessario perché Madison lo scorgesse.
E poi, senza proferire parola, le girò le spalle e sparì dietro il cancello.
 
***
 
Erano le ventitré e un quarto. Madison stava ancora abbracciando il cuscino, ormai impregnato dalle sue lacrime. Avrebbe voluto tartassare Ashton di telefonate, per essere sicura che le cose non fossero così drammatiche come le immaginava, ma si era ripromessa di non essere troppo asfissiante.
Solo un po’ più a freddo si era resa conto della sciocchezza che aveva fatto quel pomeriggio. Non solo aveva inveito contro Ashton, come era già accaduto in passato, ma lo aveva pure accusato di avere un qualche intrallazzo con Loretta, ammettendo così che non si fidava di lui.
Ma poi, con calma, aveva ripercorso tutta la loro storia, e si era ricordata di quanto Ashton aveva sopportato i suoi sbalzi di umore e le sue uscite cattive. Nonostante il modo indecoroso con cui l’aveva trattato, lui era rimasto. Come poteva non essere sinceramente interessato a lei?
Da quando aveva preso coscienza di questa ovvia verità, si era chiusa in camera, stringendo il cuscino e sfogandosi su di lui.
Teneva il cellulare lì accanto a lei, sulla trapunta, nella speranza di sentirlo vibrare.
La porta cigolò, attirando immediatamente l’attenzione di Madison. Lì, sulla soglia, spuntò una figura femminile, formosa e con un gran sorriso. Sembrava quasi un angelo volato in soccorso, con la luce del corridoio a illuminare la sua silhouette, nera come il buio di quella camera.
Claire accese la abat-jour e chiuse la porta, muovendosi a passi lenti e rassicuranti verso il letto di Madison. Si sedette sul ciglio del materasso e cominciò a carezzare la testa della ragazza, portandole di tanto in tanto alcune ciocche dietro l’orecchio. Madison, invece, se ne stava ammutolita, fissando il vuoto con quegli occhi persi e secchi per il troppo piangere.
Il telefono, ancora, non squillava.
« Fa male, vero? »
Claire sussurrò quelle parole con un tono caldo e avvolgente, tanto che Madison si sentì subito più leggera, come se qualcuno le stesse tendendo una mano per tirarla via da quel baratro di disperazione.
« Le questioni di cuore sono sempre complicate, piccola mia. »
La donna le rimise dietro l’orecchio una ciocca ribelle, poi tornò a massaggiarle la nuca con gesti lenti e ripetitivi.
« Si tratta di quel ragazzo che è venuto qui l’altra volta? »
Non trattenne più le lacrime. Strariparono senza che se ne accorgesse, e le rigarono il viso ancora una volta.
« Doveva chiamarmi. »
Avrebbe voluto dire altro, ma la voce le si spezzò subito. Fece un respiro profondo, ricacciando quel nodo in mezzo alla gola.
« Sono stata una stupida. »
Ancora lacrime. I singhiozzi esplosero e lasciò che, ancora una volta, fosse il cuscino ad asciugarle il volto. Claire si chinò su di lei e la abbracciò, lasciandole baci affettuosi su quei capelli spettinati e scostandone alcuni incollati al viso.
« Ti chiamerà, vedrai. »
Madison tirò su col naso un paio di volte, cercando sicurezza in quelle parole.
« Aveva detto che mi avrebbe chiamata una volta finita la cena. Lo so che forse è ancora là, ma visto che abbiamo litigato, poteva anche mantenere la sua promessa. »
Claire abbandonò quell’abbraccio, continuando ad accarezzare la schiena di Madison con movimenti concentrici.
« Forse è ancora a chiacchierare con gli amici, forse ha dimenticato il telefono in auto, forse non ha semplicemente visto l’ora. Ci sono mille motivi per questo suo ritardo, non allarmarti. Ho visto come ti guardava, sai? E so per certo che quella chiamata arriverà. »
Madison alzò gli occhi verso la sveglia digitale che teneva sul comodino. Segnava le undici e mezzo.
« Non vuole più vedermi, mi sembra chiaro. »
« In questo caso, sarebbe molto poco carino mollarti così. Ci guadagneresti soltanto. »
Madison ascoltò il suo respiro calmarsi e il suo mal di testa aumentare.
« Vorrei tanto poter tornare indietro e scusarmi. Sono stata così sciocca. E se non mi chiamasse per ripicca? » Come ipotizzò quello scenario, sentì un dolore atroce squarciarle l’anima. « Sto così male! »
I singhiozzi tornarono a scuoterla, nel corpo e nell’anima.
« Lascia passare un po’ di tempo. Forse ha bisogno di sbollire un po’, di lasciar passare la rabbia. Sono sicura che domani sarà già pronto ad accettare le tue scuse. Ne sono certa. »
« Tu credi davvero? »
La donna annuì con un grande sorriso.
« Sì, piccola. A volte le emozioni hanno bisogno di sedimentarsi un po’, prima di poter essere affrontate con lucidità. Vedrai che per lui è così. Forse non ti chiamerà stasera, ma, chissà, domattina potresti trovare un messaggio di scuse. Dagli tempo. »
Lo scenario immaginato da Claire la fece sentire più tranquilla. Con la speranza di una riappacificazione futura, poteva anche accettare che non la chiamasse quella sera.
Con il sorriso sulle labbra, cominciò a formulare le frasi perfette da dire l’indomani, soppesate in ogni minimo dettaglio perché Ashton la perdonasse. Poi, però, pensò che la spontaneità fosse la carta migliore, per non far sembrare le sue scuse una montatura.
Strinse forte il cuscino, cullata dall’immagine di Ashton e dalle carezze di Claire.
Lesse le cifre sulla sveglia, che segnava ormai le undici e quaranta passate, prima di chiudere gli occhi e addormentarsi.
 
***
 
Un suono acuto e stridulo le invase la testa. Era insistente, monotono e acuto. Madison aprì gli occhi di malavoglia, ancora avvolta dall’oscurità; apriva e chiudeva le palpebre, aspettando che si abituassero a quella visione.
Gli occhi le caddero sulla sveglia, che segnava mezzanotte e mezzo, prima di capire cosa fosse quel suono che avrebbe messo a tacere tanto volentieri.
Il collegamento nella sua mente fu rapidissimo, che culminò con una sola parola: Ashton.
Con poca razionalità alla mano, sorrise beatamente e afferrò il cellulare. Ancora un po’ intontita, a metà tra sogno e realtà, rispose.
« Ash? »
« Parlo con Madison? »
La voce dall’altra parte non assomigliava per niente a quella di Ashton. Era più giovane e meno profonda.
« Sì, ma chi è…? »
Fu l’unica cosa che riuscì a biascicare, mentre si stropicciava gli occhi e tentava di stiracchiarsi.
« Chiamo dal cellulare del signor Ashton Stoner , questo era l’ultimo numero contattato. »
Madison cominciò a stizzirsi. Poi, senza che ne avesse pieno controllo, cominciò anche a inquietarsi. Sbuffò.
« Vuole dirmi cos’è successo? »
Il ragazzo dall’altra parte tacque per qualche secondo. Lo sentì prendere un bel respiro, poi, finalmente, parlò.
« Il signor Stoner si trova all’ospedale Bellevue. »
Il ragazzo tacque ancora una volta, poi riprese.
« Ha avuto un incidente. » 

 

Fan di Ash, non odiatemi, vi prego... XD L'ho fatto ritornare per un misero capitolo per poi farlo "sparire" così! XD Scusate :D
Parlando d'altro, qualcuno di voi avrà capito qualcosa, altri no... vi chiedo sempre lo stesso favore: non spoilerate nei commenti ^^ Finora siete stati tutti bravi, vi meritate un cioccolatino *lancia dolcetto* XD
Comunque, visto che io detesto quei film che per capirli serve una laurea, sappiate che ogni cosa che ancora non sapete verrà detta esplicitamente e spiegata anche per quelli più distratti. Insomma, non voglio che arriviate in fondo alla storia con dei punti interrogativi.
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, avevo tanta paura di pubblicarlo ç___ç
A presto! 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Apparenze ***


25. Apparenze
 
 
22 gennaio 2005.
Arrivarono in ospedale poco prima dell’orario delle visite. Chiesero alla reception quale fosse il numero della stanza e, non appena lo appresero, Alan e Nathan si precipitarono al terzo piano. Lì, seduta e con la testa tra le mani, vi trovarono una Madison praticamente imbambolata, intenta a fissare il nulla. Fu solo quando Alan le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla che la ragazza alzò il capo, rivelando due occhi pesti e contornati da vistose occhiaie. Alan le si sedette accanto e lei, forse provata da tutta quella situazione, adagiò la testa sulla sua spalla.
« Da quanto tempo sei qui? »
« Da quando l’ho saputo. Non sono potuta entrare, però. Ma mi hanno detto che sta bene. »
Madison non disse altro e continuò a fissare il vuoto.
« Niente di grave, quindi. Meno male. Per caso, sai com’è successo? »
Dopo qualche secondo, Madison scosse semplicemente il capo, probabilmente immersa nei suoi pensieri. Alan sospirò, poi alzò lo sguardo verso Nathan.
« Vado a prendere qualcosa da bere, puoi stare tu qui con lei? »
Nathan indicò se stesso, con sguardo stranito.
« Io? »
L’altro si alzò con un sorriso e annuì debolmente. Poi, si avvicinò a Nathan e gli sussurrò qualcosa.
« Almeno vi conoscete. Le farà bene. »
Nathan osservò Alan sparire per le scale, poi, dopo una scrollata di spalle, prese posto accanto a Madison. Continuò a domandarsi perché Alan l’avesse lasciato lì con una perfetta sconosciuta e cominciò a cercare un argomento di conversazione che non fosse il tempo atmosferico.
Si schiarì la gola, poi si voltò verso di lei, che nuovamente si teneva la testa.
« Sei la ragazza di Ash? »
Madison sembrò svegliarsi di colpo; girò la testa verso Nathan, mentre un timido sorriso le spuntò in quel volto spento. Nathan notò le guance appena colorite.
« Sì. Anche se non sono ancora abituata a esser chiamata così. »
Il ragazzo le porse la mano.
« Io, comunque, sono Nathan. »
Un guizzo di eccitazione fece la sua comparsa negli occhi di Madison, che sembrò riacquistare tutta l’energia persa quella notte, tanto da stringergli la mano con fervore.
« Lo so! »
« Ah, la mia fama mi precede, a quanto pare. »
Entrambi scoppiarono a ridere, e Madison si adagiò completamente sullo schienale della sedia.
« Ho sentito molto parlare di te. Non vedevo l’ora di conoscerti! »
« Lo prenderò come un complimento. »
I due si guardarono ancora con un sorriso che però, piano piano, divenne piuttosto imbarazzato. Nathan prese nuovamente la parola.
« Sono felice che Ash stia bene, tutto sommato. »
« Non dirlo a me. Non sai che spavento mi sono presa! Mi hanno chiamata, nel cuore della notte, ma hanno potuto darmi pochissime informazioni. »
Gli sembrò che il viso di Madison si stesse distendendo, come se l’aver finalmente parlato con qualcuno l’avesse fatta sentire meno tesa. Poi, però, sembrò rabbuiarsi improvvisamente. Il sorriso scomparve e una serie di rughe d’espressione fecero la loro comparsa su quel volto provato.
« Non so cosa avrei fatto, se fosse morto. »
Nathan si avvicinò a lei, senza dire niente. Madison proseguì.
« Sai, ieri abbiamo discusso. Non avrei mai accettato di non averlo salutato come si deve o avergli detto nero su bianco ciò che provo per lui. Sarebbe potuto morire con quella discussione in testa, capisci? Non riesco a pensare ad altro. »
Nathan annuì, ma la sua testa si riempì presto di altri pensieri. Sapeva bene come si sentiva Madison, perché anche lui, nel suo piccolo, provava gli stessi sentimenti per qualcun altro.
« A cosa pensi? »
Nathan appoggiò gli avambracci sulle cosce, incrociando le mani.
« Penso che a volte dovremmo avere più coraggio. Dovremmo cercare di dire sempre ciò che proviamo, senza aspettare che accada qualcosa di drammatico. Ma finché non succede qualcosa del genere, non riusciamo a capire quanto certe persone siano importanti per noi. »
« Parli di Alan? »
Nathan scosse il capo, in segno di diniego.
Madison lo fissava con sguardo interrogativo. Nathan sospirò, perché, si rese conto, era la prima volta che traduceva in parole quel dolore che aveva albergato in lui per tanti anni, senza che se ne rendesse conto.
« Parlo di mio padre. Da quando ha scoperto la mia omosessualità, mi disconosce come figlio. »
Madison si lasciò sfuggire un “Oh!” sinceramente sorpreso; poi, dopo che il momento di stupore fu passato, riassunse la sua aria incuriosita.
« Non vi parlate più? »
« Praticamente no. »
« Mi dispiace. Davvero. »
« Ogni volta che gli rivolgo la parola, mi infiammo e non capisco più niente. Non penso che potremmo mai avere un rapporto civile. »
L’espressione di Nathan si velò di una tristezza quasi sconosciuta, come se provasse quei sentimenti per la prima volta.
« Ti piacerebbe riappacificarti con lui? »
Madison gli fece quella domanda sussurrando appena, forse per mantenere un senso di intimità.
« Mio fratello mi adora e vorrebbe vedere la famiglia unita. Credo che soffra molto per questa situazione. »
« Ho come la sensazione che non sia l’unico. »
Di fronte a quelle parole, Nathan si sentì nudo. Per tutti quegli anni, aveva creduto che di suo padre non gli importasse niente, lo aveva sempre apostrofato con i peggiori epiteti e si era rivolto a lui sempre con tono duro e rancoroso. Bastò quella semplice frase per far crollare le sue convinzioni in un attimo, per risvegliare in lui sentimenti ormai assopiti da tempo. Gli tornarono in mente i lunghi e silenziosi pianti dopo che era stato cacciato via di casa, e anche il giorno che, esausto, aveva deciso di non pensarci più.
Davvero gli mancavano suo padre e la sua famiglia?
« Perché non provi a dirgli quello che senti? »
Madison pronunciò quelle parole con naturale spontaneità, che strappò a Nathan un sorriso amaro.
« Sarebbe inutile, mi odia. »
« E se anche lui pensasse lo stesso nei tuoi riguardi? »
Nathan sbuffò, a metà tra il divertito e il canzonatorio.
« Dici così perché non lo conosci. Secondo me, non si dispiacerebbe per me nemmeno se fossi in punto di morte. »
Proprio in quel momento, Alan sbucò dalle scale con un bicchiere in mano e, a passo svelto, si diresse verso di loro.
« È orario di visite, mi sa. »
Gli occhi di Madison si illuminarono e le sue labbra si schiusero lentamente in un grande sorriso. Si voltò indietro verso la camera di Ashton, poi riportò lo sguardo sui due ragazzi. Si capiva che era impaziente.
Alan le sorrise.
« Vai prima tu. Noi aspettiamo qui, per ora. »
La ragazza sorrise ancora di più, per quanto fosse possibile, e lanciò un’ultima occhiata ai due, prima di fiondarsi in camera di Ashton.
 
Come entrò e lo vide, si fermò. Lui era lì, a letto, con lo sguardo rivolto alla finestra. Si voltò subito, non appena udì il rumore dei passi di Madison; e, come la vide, le sorrise.
Non poté esserci regalo più grande per lei, che, d’istinto, si precipitò verso il letto di Ashton. Cinse il suo corpo in un abbraccio irruento, che Ashton ricambiò dopo un primo gemito di stupore.
Il tenerlo lì, tra le sue braccia, le provocò un’emozione troppo intensa per poter essere contenuta; e così, sentì il viso rigarsi di calde lacrime, che non riuscì a tenere sotto controllo.
Ashton le prese il volto tra le mani, scostandolo dalla sua spalla, e lo portò davanti al suo.
« Dai, non piangere. Sono ancora vivo, eh! »
Quella battuta gli costò un pugnetto affettuoso, ma che fu felice di ricevere.
« Ah, è così che mi dai il bentornato? E io che mi aspettavo-- »
Le labbra di Madison si poggiarono sulle sue, impedendogli di finire la frase. Da un semplice bacio a stampo passarono a qualcosa di più profondo, che si interruppe solo quando Madison fu invasa da un singhiozzo di gioia.
Ashton le diede un buffetto.
« Però! Forse dovrei farmi male più spesso. Che ne dici? »
« Non fai ridere! »
Cercò di apparire offesa, ma non le riuscì troppo bene. Chiuse gli occhi, cercando di trattenere nuove lacrime; poi li riaprì, per godersi quel sorriso che aveva temuto di perdere per sempre.
« Mi hai fatto preoccupare da morire, sai? Non farti investire mai più! »
« Agli ordini, principessa. »
Quella frase le suscitò un timido sorriso, che presto sparì, per far largo a pensieri più cupi.
Il suo sguardo si perse al di là della finestra, che offriva uno scorcio sul cielo attraverso le tendine socchiuse. Intravide gli alberi più fragili piegarsi a quel vento che ululava senza sosta, accompagnato da un esercito di nuvole color pece che marciava verso ovest.
Il cielo era tetro.
« Mi dispiace, Ash. »
« Per cosa? »
« Lo sai. E voglio che tu sappia che sei la cosa più importante che ho e che non voglio perderti per nulla al mondo. »
Ashton si tirò su e tese, per quanto possibile, le sue braccia verso la ragazza, che vi si buttò senza indugio. Cominciò ad coccolarle la testa, ad occhi chiusi, perché voleva sentire Madison con tutti i sensi che aveva a disposizione. Le accarezzò i capelli, le baciò la nuca e infilò le dita in quelle ciocche bionde, spettinandola un po’.
« Anche per me è così, Mad. Anche per me. »
« Mi hai fatto preoccupare da morire. »
« Lo so. »
Rimasero avvolti in quell’abbraccio per qualche altro minuto, il tempo di realizzare che quello davanti a lei era Ashton in carne e ossa. Si sciolsero da quel contatto rassicurante e Madison si sedette sul lettino.
« Quindi è solo una spalla lussata? »
Ashton picchiettò il palmo della mano sul gesso.
« In poco tempo tornerà come nuova, non temere. »
Le infilò una ciocca dietro l’orecchio.
« Hai passato tutta la notte qui, da sola? »
« Sì, anche se, poco fa, sono arrivati Alan e Nathan. »
Ashton spalancò la bocca, stupito.
« Sono insieme? Alleluia! »
Entrambi scoppiarono a ridere.
« Dai, non essere così cattivo. Finalmente sono una coppia! E poi, dopo tanto, ho conosciuto Nathan! »
« Guarda che mi ingelosisco. »
Madison rise di gusto, come non faceva ormai da troppe ore. Spintonò appena Ashton, che le rispose con un sorrisetto malizioso.
« Non ne hai motivo, sciocco. Ti ricordi cosa ti dissi, no? Per me è come l’oscuro protagonista di una storia del mistero. E poi ne avevamo parlato così tanto, è stato come incontrare un personaggio famoso! »
« Spero che tu non gli abbia detto perché è così conosciuto. »
Madison alzò gli occhi al cielo e sbuffò, poi arricciò le labbra in qualcosa che assomigliava a un sorriso, mentre Ashton sghignazzava divertito.
« Dai, falli entrare. »
La ragazza esaudì il suo desiderio e uscì fuori a chiamare Alan e Nathan. Come entrarono, Ashton alzò il braccio sano in segno di saluto, poi buttò un’occhiata alla coppia.
« Vedo che il miracolo è avvenuto! »
Madison incrociò le braccia e scosse il capo.
« Scusate, fa così da quando sono entrata! È in vena di battute, oggi. »
Alan ridacchiò.
« Sarà felice di vederci. »
I tre presero posto accanto al letto di Ashton, sedendosi su dei panchetti trovati in stanza. Alan gli batté una mano sul gesso, scherzoso.
« Allora? Come va? »
Ashton scrollò la spalla sana.
« Per fortuna è andata bene. Penso che mi dimetteranno presto, in fondo non è niente. »
« Già, potevi farti male davvero. Ma come è successo? »
Ashton si grattò la fronte e sbuffò.
« Un cretino. Stavo tornando alla macchina ed è sbucato all’improvviso. Probabilmente era ubriaco, non riusciva nemmeno a guidare dritto. Io mi sono solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, tutto qua. Per fortuna sono riuscito a scansarmi, buttandomi di lato, ma sono atterrato sulla spalla, » Ashton indicò la sua ingessatura « e questo è il risultato. »
Alan annuì, pensoso.
« Speriamo che qualche telecamera abbia ripreso l’incidente. Non si è fermato, vero? »
L’altro scosse il capo, gesto che fece sbuffare Alan piuttosto sonoramente. Si immerse nei suoi pensieri e cominciò a riflettere su come scovare il pirata della strada che aveva investito Ashton, ammutolendosi per diversi istanti.
Poco prima che quel silenzio passasse da fisiologico a imbarazzante, il suo collega prese parola.
« Voi due, invece? Vedo che siete insieme! »
Nathan mostrò un enorme sorriso, condito da un pizzico di imbarazzo.
« Eh già! Stento quasi a crederci io stesso. »
« Potreste dare una festa per celebrare questo grande evento, magari quando mi sarò rimesso. »
Alan increspò le labbra in un sorriso ironico.
« Cos’è, mi prendi in giro? »
Nathan incrociò le braccia ed emise un mugolo pensieroso.
« Però non sarebbe una cattiva idea. »
« Non gli starai dando corda? »
Nathan ridacchiò sotto i baffi, mentre Alan scuoteva la testa, osservando Ashton.
« Vedo che l’incidente ha mantenuto intatta la tua verve. » Alla fine, trattenne a stento una risata. « Sei sempre il solito! »
 
Il tempo volò in un baleno e, in men che non si dicesse, rimasero solo una decina di minuti, prima che le visite venissero interdette.
Alan buttò un’occhiata al suo orologio da polso.
« È quasi ora di andare, Ash. »
« Ah, davvero? »
Ashton aggrottò la fronte e fissò Alan per un breve momento. L’altro non capì, almeno non subito; poi vide Ashton scoccare un’occhiata a Nathan e Madison, che, intanto, ridacchiavano tra loro. Alan realizzò che il collega voleva parlargli a tu per tu, senza destare troppi sospetti. Finse quindi di essersi improvvisamente ricordato di qualcosa ed emise un gemito sorpreso.
« Ragazzi, dovrei parlare in privato con Ash. Potete lasciarci soli un momento? »
Madison inarcò le sopracciglia, sorpresa.
« Perché? »
Ashton le sorrise.
« Lavoro, Mad. Niente di speciale, ma deve rimanere privato. Dai, non fare quella faccia; approfittane per conoscere meglio il tuo eroe! »
La ragazza sbuffò contrariata, ma non si oppose; fece cenno a Nathan di seguirla, dopo aver salutato Ashton.
 
I due colleghi rimasero soli in quella stanza illuminata solo artificialmente, perché le nubi plumbee avevano accerchiato il sole, ancora una volta.
Soltanto allora, Ashton parlò.
« Alan, devo chiederti un favore. »
« Ma certo. Dimmi tutto. »
Ashton emise un respiro profondo; spostò lo sguardo ora sulla finestra, ora sul letto, per poi tornare a scrutare Alan, accanto a lui.
« Devi continuare l’indagine al posto mio. Ufficialmente o no, ma devi farlo. »
« Perché lo stai chiedendo proprio a me? Voglio dire, abbiamo molti altri colleghi in gamba. »
Ashton si portò una mano alla fronte e scosse il capo. La sua espressione si fece seria.
« Tu lo sei più di tutti gli altri, Alan, e di te mi fido. E poi, dovrei chiederti un’altra cosa. »
Alan non capiva: lo sguardo assottigliato e la fronte aggrottata non gli permisero di arrivare al nocciolo della questione, che gli appariva ancora oscuro.
« Be’, dimmi. »
« Prenditi cura di Madison. E anche di Nathan. Tienili d’occhio, cerca di non lasciarli mai soli. »
Alan sentì un brivido corrergli per tutta la schiena. Non capiva, non ancora. Ashton era terribilmente serio e sembrava davvero preoccupato.
« Cosa sta succedendo, Ash? »
L’altro lo fissò, silenzioso.
« Ho paura che siano in pericolo, Alan. Credo che lo siamo tutti. Non mi sento tranquillo. »
« Ash, ti prego, dimmi cosa sta succedendo. »
« Non volevo dirlo a Madison, perché sicuramente si sarebbe preoccupata. Ma a te devo dirlo, perché ho paura che non si tratti solo di una coincidenza. »
Ashton strinse il bianco lenzuolo del suo letto, serrò le labbra per un momento e schioccò la lingua. Fissò vacuo la scena oltre la finestra, senza dire niente. Dopodiché deglutì e si voltò verso Alan.
« Le cose non sono andate come ho raccontato prima. Non è stato un incidente. Quella persona puntava dritta su di me, mi voleva morto, ne sono quasi certo. »
Si fermò qualche secondo. Poi guardò Alan dritto negli occhi.
« L’auto che mi ha investito è la stessa di chi ha ucciso Sánchez. »

 

Salve a tutti u.u Alla fine sono riuscita a pubblicare in tempo, ma per il prossimo capitolo non posso assicurarvi niente :( L'ho quasi terminato, ma non sono certa della sua bontà. Vi terrò informati!
Passando al capitolo... le cose si fanno interessanti, eh? XD Chi si cela dietro al guidatore della misteriosa auto? E perché proprio Ashton? Chissà quando lo scoprirete... 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Ringrazio, come sempre, Silvia per il suo lavoro rapidissimo e preciso e, per questo capitolo, anche orny e ladysyria che mi hanno aiutata con alcune frasi rognose XD Ovviamente ringrazio anche tutti i lettori e coloro che recensiscono *___*
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Verità rivelate ***


26. Verità rivelate
 
 
26 gennaio 2005.
 
Come Alan si svegliò, allungò una mano verso l’altra piazza del letto, trovandola vuota. Si voltò verso la sveglia, che segnava le 7:45. Evidentemente, qualcuno era stato più mattiniero di lui, o almeno così sperava.
Si stiracchiò e si alzò di malavoglia.
Si aggirò per casa e, come giunse in salotto, trovò Nathan ad allacciarsi le scarpe.
« Dove vai, così presto? »
Nathan quasi sobbalzò: non l’aveva sentito arrivare. Strinse il nodo che aveva appena formato, poi si alzò, con un sorriso.
« In banca. Devo fare un bonifico. »
« Oh. Per cosa? »
Nathan si avvicinò a lui, che, di rimando, lo abbracciò, lasciandogli un piccolo bacio sulla fronte.
« Devo restituire dei soldi che non mi appartengono. »
Senza che dicesse altro, Alan capì che non si riferiva ai soldi della rata che gli aveva pagato, ma non gli avrebbe fatto altre domande. Era disposto a pensare che, ormai, non avevano più alcun segreto, niente che potesse allontanarli di nuovo, ora che si erano ritrovati.
Sorrise.
« Ah, non so se torno per pranzo, oggi. Ci sono state delle svolte nelle indagini e non so quanto tempo mi prenderà la questione. »
« Va bene, non c’è problema. Ricordati solo di tornare in tempo per la festa. »
Alan ripensò alla proposta di Ashton e a come Nathan l’aveva accolta seriamente. Ridacchiò tra sé e sé.
« Tranquillo, me ne ricordo. Ora vai, sennò trovi troppa coda. »
Si salutarono, e Alan lo osservò mentre usciva di casa, la loro casa.
E sentì una stretta al cuore.
 
***
 
C’erano  dei  testimoni  per  l’incidente  di  Ashton, due persone che si erano fatte avanti la sera prima. Dopo un breve interrogatorio, la polizia aveva scoperto che, nonostante l’auto avesse visto perfettamente Ashton, non aveva né rallentato né tentato di frenare. Era andata a diritto, e non si era nemmeno fermata dopo l’incidente. I testimoni avevano confermato che l’auto era piuttosto particolare, anche se non erano stati capaci di identificare il modello; lo avevano intuito, oltre che dall’estetica retrò, anche dalla targa vecchio stile.
 
Tornare a occuparsi del caso gli faceva uno strano effetto. Un paio di giorni dopo l’incidente di Ashton, infatti, Edmond aveva acconsentito alla sua riammissione nelle indagini.
Una volta arrivato in centrale, Alan si era messo subito al lavoro e aveva cominciato a sfogliare il verbale. Non poteva fare a meno di scorrere gli occhi su quei simboli senza sentirsi potente: uno dei testimoni, infatti, era riuscito a leggere le prime tre cifre della targa.
Alla sola idea di fare un controllo incrociato con l’elenco che gli aveva fornito Ashton, si sentì invaso da una sorta di eccitazione, come quella che precede una grande scoperta.
Mentre si incamminava verso il suo ufficio, cominciò a ponderare ipotesi.
Di sicuro c’erano molte persone che avevano interesse a uccidere un maniaco sessuale, ma, si ricordò, non erano emerse altre denunce a suo carico, né c’erano stati episodi rilevanti nel mondo della droga, del quale Sánchez aveva fatto parte per diverso tempo.
L’unico che poteva avere un ovvio legame col maniaco era stato scartato: Nathan, infatti, si era rivelato troppo mingherlino rispetto alla figura ripresa dalle telecamere.
Chi poteva volere la morte di quell’uomo?
Evidentemente, l’assassino era qualcuno che aveva un legame sia col maniaco che con Ashton. C’era qualcuno che aveva a che fare con loro, più o meno indirettamente, e che aveva deciso di portare scompiglio nelle loro vite.
Ma chi era? E qual era il suo movente?
Quelle domande tormentarono Alan, almeno finché non mise le mani sopra al fascicolo contenente l’elenco.
Lo aprì bramoso e cominciò a sfogliare freneticamente tutti i fogli, finché non trovò ciò che cercava, nascosto tra un paio di foto segnaletiche.
Quell’elenco, dal quale erano state malamente cancellate alcune righe, si rivelò improvvisamente essere un tesoro prezioso.
Cominciò a scorrere col dito tutte le targhe, alla ricerca di quella che corrispondesse, in parte, a quanto riferito dai testimoni.
224, 224…
E poi, finalmente, la vide. Lo sguardo gli scivolò fino alla fine dell’elenco, per essere sicuro di non tralasciare niente, ma non trovò altri riscontri. Ciò che cercava era proprio lì, sotto ai suoi occhi.
2248 – BW.
Non era sicuro che fosse proprio l’auto che cercava, ma, certamente, era un inizio.
Il dito scorse ancora sulla riga interessata, fino a che non trovò l’indirizzo del proprietario, un certo Mason Morris.
Uscì in fretta e furia dall’ufficio, stringendo tra le mani l’elenco di auto; e quel fremito di ansia ed eccitazione lo scosse talmente tanto che guardava a malapena dove andava. Giunse all’ufficio di altri due colleghi, ed era talmente impaziente di portare la notizia, che nemmeno bussò prima di aprire.
« Ragazzi, ho bisogno del vostro aiuto. »
Sbatté l’elenco sulla scrivania di un giovane poliziotto, Hartman, attirando l’attenzione del collega all’altra scrivania. Non appena ebbe richiamato l’attenzione di entrambi, indicò l’esito della sua ricerca.
« Dovete trovare questa macchina, il prima possibile. Controllate caselli, telecamere, quello che volete. »
Gli altri due annuirono senza proferire parola, se non un timido e spaesato ‘Va bene’, probabilmente assoggettati dalla figura di Alan.
Uscì dall’ufficio e corse a prendere il necessario per cominciare la sua ricerca. Non vedeva l’ora di arrivare alla tanto agognata verità.
 
***
 
Nei giorni precedenti, aveva fatto qualche rapida ricerca su tutti i proprietari e ricordava che Mason Morris era attualmente in carcere per omicidio. Pareva, infatti, che avesse assassinato a sangue freddo un ragazzo di sedici anni, reo soltanto di aver fatto la corte alla fidanzatina di suo figlio. Una banale faida tra famiglie, che, purtroppo, si era risolta nel sangue.
Mason era stato condannato a quindici anni di carcere, perciò era quasi certo che, in casa, vi avrebbe trovato solo la moglie e, cosa più importante, non poteva essere lui la persona ritratta dalle telecamere, quella sera. Aveva comunque chiesto, per eccesso di zelo, un incontro speciale con Mason al carcere Bayview.
 
La casa dei Morris era una piccola villetta monofamiliare, circondata da un giardino di piante appassite e sotterrate dalla neve, che, certamente, avevano visto tempi migliori. Gore d’acqua incrostate sui vetri, tetto a chiazze per le tante tegole mancanti; tutto era lasciato a se stesso.
Alan scese di macchina e percorse il vialetto di ciottoli scomposti che portava al campanello, il quale, notò, era totalmente ossidato. Schiacciò il pulsante, in attesa di una risposta.
Senza nemmeno chiedere chi fosse, aprì la porta una donna di mezza età. Alan non avrebbe saputo contarne gli anni, perché il contrasto tra le pieghe del visto, ancora morbide, e lo stato in cui versava era troppo marcato perché potesse esprimere un parere univoco.
Aveva una chioma brizzolata e raccolta in un disordinato chignon, occhi pesti e privi di ogni vitalità, un paio di labbra piegate all’ingiù dal peso del tempo. Indossava una vestaglia scolorita e rattoppata alla meno peggio, accompagnata da un paio di ciabatte bucate in prossimità dell’alluce.
La donna non mutò la sua espressione nemmeno quando vide Alan sulla soglia; sembrava che l’aver di fronte uno sconosciuto non la turbasse minimamente, nemmeno per un po’ di sana curiosità.
« Lei è Catherine? »
La donna annuì e aprì maggiormente la porta, gesto che lasciò Alan stupito.
« Sono Alan Scottfield, dipartimento di Polizia di Manhattan. Posso entrare? »
Si accorse che la domanda era retorica, perché la donna si era già rintanata in casa, aspettando che Alan chiudesse la porta dietro di sé. Lui obbedì silenzioso e, come entrò in quell’abitazione, un pungente odore di muffa gli entrò prepotente nelle narici.
Percorse qualche passo su quel parquet impolverato, e sentì uno scricchiolio provenire da sotto i suoi piedi. Gli sembrava che qualcosa potesse rompersi da un momento all’altro.
La donna era seduta sul divano, pacata e silenziosa, per niente infastidita dall’ospite sconosciuto. Alan decise di approfittare di quella apparente fiducia per curiosare discretamente in quell’abitazione.
A una rapida occhiata, non sembrava esserci niente di sospetto in quella casa, polvere e muffa a parte: un divano logoro, una credenza semi-vuota, una televisione vecchia di almeno dieci anni. L’unica cosa che sembrava donare un po’ più di vivacità a quell’antro impersonale era una cornice, posta su un ripiano, con una foto di famiglia: padre, madre e figlio piccolo. La madre assomigliava moltissimo a Catherine, ma non sapeva dire quanto tempo prima fosse stata scattata; il padre raffigurava un Mason un po’ più giovane, o almeno era ciò che ipotizzava, dopo aver visto la foto segnaletica. Il bambino, a cui non avrebbe dato più di dieci anni, aveva l’aria più imbronciata dei suoi genitori, spento come la Catherine che sedeva sul divano accanto a lui.
Non c’erano altre foto, almeno non in quella stanza.
Alan si ritenne soddisfatto e prese posto sul divano, di fianco alla signora. La donna alzò gli occhi verso di lui, ma non suscitavano alcuna emozione. Si sentì strano di fronte a quella donna, perché sembrava un essere umano a cui avevano portato via anche l’anima. Non sapeva bene come approcciarsi a lei e questo gli provocò una sensazione di smarrimento.
Tossicchiò appena per smorzare la tensione.
« Allora, dicevamo. Lei è la moglie di Mason Morris, giusto? »
La donna annuì lentamente.
« Suo marito sta scontando una pena di quindici anni per omicidio preterintenzionale, se non erro. »
La signora abbassò lo sguardo, ma Alan non fu capace di leggervi alcun sentimento. Non sembrava rattristata, né infastidita, ma non era facile descrivere come si sentisse.
« Suo marito è anche proprietario della vostra auto, una Ford Mustang targata 2248 – BW. Lei usa spesso quell’auto? »
La donna scosse il capo. Alan stava già per riprendere la parola, quando, inaspettatamente, la signora lo fece prima di lui.
« Non ho la patente. Non guido. »
La sua voce era gracchiante, ma senza incertezze. Probabilmente non parlava spesso e questo spiegava il tono appena sussurrato.
« Non guida? E allora perché continua a pagare l’assicurazione per quell’auto? »
La donna scrollò le spalle, in un movimento lento e appena percettibile.
« È la macchina di mio marito. La tengo per quando tornerà. E poi talvolta la usa mio figlio, quando viene qui. »
Alan si grattò il mento, dubbioso sull’esito di quella conversazione. Non era sicuro che l’avrebbe portato lontano.
« Posso vedere l’auto? »
« È in garage. Venga, le faccio strada. »
 
Alan seguì la donna verso il garage, dopo aver recuperato le chiavi. Aspettò che la saracinesca si alzasse e sperò che avvenisse il prima possibile: il cigolio che emetteva era piuttosto fastidioso.
Quello che si trovò davanti fu piuttosto bizzarro: il garage era vuoto. Almeno ad una prima occhiata, l’auto non c’era.
Si voltò verso la signora, che, come lui, aveva capito che qualcosa non quadrava. Era a bocca aperta, con le chiavi in mano e, per la prima volta, Alan intravide in lei una qualche sorta di emozione. Aveva inarcato appena le sopracciglia e, pensò, doveva essere davvero sorpresa.
« L’auto non c’è! »
La donna spostò il suo sguardo verso Alan, come in cerca di una risposta, e ripeté, scioccata, quando aveva appena esclamato.
Effettivamente, l’auto non c’era davvero.
« Non è che l’ha presa suo figlio? O forse è dal meccanico. »
Ma la signora sembrava non prestargli ascolto. Si portò le mani alla bocca, ancora incredula di fronte a quello spettacolo.
« Qualcuno ha rubato l’auto! »
Alan si avvicinò alla donna e le cinse le spalle, nel tentativo di contenere la sua agitazione.
« Si calmi, Catherine. »
Quelle parole ebbero l’effetto sperato, perché la donna tacque improvvisamente, sebbene fosse ancora irrequieta.
« Chi altri, oltre a lei, possiede le chiavi? »
La donna scosse il capo.
« Solo io! »
« Ha per caso subito un furto, di recente? O magari ha fatto entrare un estraneo? »
La donna scosse il capo nuovamente. Alan emise un sospiro secco.
« Lei mi può assicurare che nessun altro possiede la copia di queste chiavi? »
« Sì, ne sono sicura. »
Alan si portò una mano sulla fronte, pensoso.
« Nemmeno suo figlio? »
« No, lui usa sempre il mazzo che teniamo qui. »
Alan annuì e il suo sguardo si posò sulla saracinesca di fronte a lui. Si avvicinò alla serratura, nella quale la donna aveva introdotto la chiave per far aprire il garage. La scrutò ben bene, per quanto fosse possibile, ma non vi notò niente di sospetto. Si acquattò allora per controllare la saracinesca, ma, anche lì, non trovò niente che gli facesse pensare a un tentativo di scasso.
Se qualcuno avesse tentato di aprire a forza il garage, se ne sarebbe accorto senza troppi problemi. Ma il meccanismo aveva funzionato troppo bene per pensare che potesse essere stato manomesso, e sembrava tutto in perfette condizioni, per quanto vecchio e logoro.
L’unica cosa che gli appariva chiara era che la persona che aveva preso l’auto doveva avere necessariamente una copia del mazzo, che l’avesse ottenuta in modo lecito o meno.
Alan sbuffò. Si fidava delle parole della signora, ma non gli sembrò fuori dal mondo il fatto che il figlio avesse potuto fare una copia personale delle chiavi.
« Potrebbe darmi un recapito di suo figlio? Un indirizzo, un numero di telefono. »
La donna annuì con sguardo perso, mentre Alan tirava fuori un blocchetto di appunti.
« Sì, sì. Le do il numero di telefono. Magari lui sa qualcosa! »
Scribacchiò il numero e pensò subito che, dopo l’incontro con Mason, avrebbe provato a ottenere qualche informazione. Sperò solo che il figlio fosse più sveglio della madre.
Per il momento, poteva bastare. La signora gli sembrò realmente estranea alla vicenda e capì che non avrebbe tratto molte altre informazioni.
 
Si congedò dalla donna, dopo averla calmata, rassicurandola sul fatto che, previa denuncia, avrebbero fatto il possibile per ritrovare la sua auto.
Alan rientrò in macchina, cercando di fare il punto della situazione.
L’auto che aveva investito Ashton, la cui targa era stata intravista da alcuni testimoni, era la stessa dell’assassino di Sánchez, almeno stando alle dichiarazioni del suo collega. La macchina apparteneva a Mason Morris ed era regolarmente registrata e mantenuta. L’auto, però, era scomparsa, ma non c’erano segni di scasso né sulla serratura del garage, né sulla saracinesca.
Alan era sempre più convinto che qualcuno avesse una copia delle chiavi, benché non sapesse dire come l’avesse ottenuta.
 
Preso dall’euforia, non si era neanche accorto che, ormai, l’ora di pranzo era già passata. Comprò un panino al volo e inviò un sms a Nathan, dicendogli che, probabilmente, quella sera sarebbe rincasato con un po’ di ritardo. Poi si ricordò della festa e chiese a Nathan di accogliere gli ospiti, in attesa del suo ritorno.
Dopo aver ottenuto una risposta affermativa e un ‘Buona fortuna’, tornò a concentrarsi sul suo caso, sempre più euforico. Impostò la sua prossima destinazione e mise in moto la macchina, mentre immaginava un possibile colloquio con Mason. Provò a pensare a che tipo fosse, quanto sarebbe stato riservato e quando, invece, avrebbe saputo dirgli.
Non aveva percorso che pochi metri, quando il cellulare squillò. Parcheggiò alla meno peggio davanti al primo passo carrabile disponibile, poi rispose.
« Pronto? »
« Alan, sono Hartman. L’abbiamo trovata! »
Impiegò qualche frazione di secondo per capire che si riferiva all’auto scomparsa. La notizia lo sorprese. Non si aspettava che fosse ritrovata in così poco tempo.
« La scientifica si sta mettendo al lavoro, ma anche a occhio nudo sono visibili tracce di sangue sui sedili posteriori. »
Sangue. Era forse quello di Sánchez?
« Dove l’avete trovata? In che condizioni è? »
« Sulla statale 646, all’altezza di Pleasantville Road, nel New Jersey. Le condizioni sono buone, ma è molto probabile che il guidatore l’abbia abbandonata lì di proposito, visto che era nascosta tra la vegetazione. »
« Capisco. »  Alan guardò l’orologio e si ricordò dell’appuntamento che si era preso con Mason. « Senti, ci risentiamo più tardi, se hai qualche novità. Tienimi aggiornato. »
L’altro mugolò qualcosa e riattaccò.
E così, pensò, colui che si era impossessato dell’auto se ne era sbarazzato. La soluzione più naturale è che l’individuo che aveva sottratto l’auto per poi abbandonarla fosse l’assassino, ma Alan non riusciva ancora a capire come avesse ottenuto le chiavi dell’auto o perché non ci fossero segni di effrazione da nessuna parte. Che c’entrasse qualcosa il figlio dei Morris?
Buttò un’occhiata al foglio dove aveva appuntato il suo numero. Dopo l’interrogatorio con Mason, pensò, ci avrebbe fatto una bella chiacchierata.
 
***
 
Arrivò al carcere di Bayview e, dopo aver dato le sue credenziali, fu accompagnato in sala colloqui da una guardia penitenziaria.
Alan attese l’arrivo di Mason su una scomoda sedia di legno, mentre il suo sguardo si perse sul soffitto della stanza, dove, agli angoli, riuscì a intravedere qualche ragnatela. I secondini ai lati della porta avevano uno sguardo decisamente severo, ma non seppe dire se fosse per figura o se per una naturale inclinazione al sadismo.
Dopo poco, la porta si spalancò e Mason comparve, scortato da due guardie. Una terza chiuse la porta alle loro spalle, mentre i secondini facevano sedere il detenuto di fronte ad Alan.
Una folta barba brizzolata faceva da cornice al volto dell’uomo, che lo osservava con i suoi occhi chiari, circondati da un paio di folte sopracciglia di un nero corvino. Aveva un naso piuttosto pronunciato e labbra sottili.
Guardandolo da lontano, ebbe come l’impressione di averlo già visto, ma non riuscì a collegarlo ad alcun ricordo sparso per la sua mente. Tentò di scacciare quell’immagine che continuava a sfuggirli e aspettò che Mason prendesse posto su quella sedia altrettanto scomoda.
Quando si fu sistemato, cominciò a parlare.
« Sono Alan Scottfield, dipartimento di Polizia di Manhattan. Sono qui per farle alcune domande. »
L’uomo sbuffò e guardò altrove, per poi posare nuovamente lo sguardo su Alan.
« Se è per l’omicidio di sette anni fa, ho già detto tutto. »
La voce di Mason era roca, ma calda, molto profonda. Una voce capace di cullare e terrorizzare allo stesso modo.
« Non si tratta di questo. »
Mason si irrigidì. Quell’aria sarcastica gli sparì improvvisamente dal volto, lasciando spazio a un’espressione piuttosto seria. Osservava Alan con una tale fissità da metterlo quasi in soggezione.
« Lei è il proprietario della Ford Mustang targata 2248 – BW, se non sbaglio. »
L’uomo annuì.
« È successo qualcosa alla mia macchina? »
« Sospettiamo che qualcuno possa averla utilizzata per compiere dei reati. »
« Be’, di sicuro non sono stato io! »
Alan sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
« Non mi sembra il caso di scherzare, signor Morris. »
L’altro alzò le mani, in segno di resa, con un sorriso appena abbozzato sul volto.
« Mi scusi. Che cosa sapete di questi reati? »
« Le basterà sapere che c’è di mezzo un omicidio. Questo pomeriggio sono andato a casa di sua moglie, ma l’auto è scomparsa. Mi ha assicurato di essere l’unica ad avere una copia delle chiavi, ma ho il sospetto che non sia così. Lei mi può aiutare? »
A ogni parola pronunciata da Alan, il viso dell’uomo si fece sempre più scuro. Alan osservò la sua espressione mutare e ne dedusse che quell’uomo sapeva qualcosa. Si era spento improvvisamente in un’aura inquieta.
« Siete proprio sicuri che sia la mia auto? E cosa vuol dire che è scomparsa? »
« Ne siamo sicuri, sì. Abbiamo diversi testimoni e una prova video. Riguardo alla scomparsa, come le dicevo, ho fatto visita a sua moglie, questa mattina. Ha aperto il garage, ma era vuoto; in altre parole, le chiavi erano al solito posto, ma l’auto non c’era più. Lei è proprio sicuro che nessun altro abbia una copia del mazzo? »
L’uomo si passò una mano sulla fronte e abbassò lo sguardo.
« Sì, » tossì, « sono sicuro. Non so proprio come possa essere successo. Voglio dire, magari qualcuno potrebbe aver fatto una copia delle chiavi di nascosto. Sarebbe possibile, no? »
Mason aveva cominciato a parlare a raffica. Si stava innervosendo, probabilmente. Ma Alan non poteva incalzarlo direttamente, avrebbe corso il rischio di metterlo a disagio, perdendo così informazioni molto preziose. Doveva assecondare le sue pause, i suoi ritmi e la sua curiosità – nei limiti del possibile.
Così annuì debolmente, ma si accorse che la testa di Mason era già altrove.
L’uomo riprese a fare domande.
« Come si sono svolti questi… », Mason rifletté un attimo « … omicidi? »
Notò che aveva cominciato a torturarsi i polpastrelli con le unghie. Il sospetto di Alan aumentò, ma cercò di mantenere il sangue freddo.
« Nel primo caso, l’assassino si è introdotto a casa della vittima e, dopo una presunta colluttazione, lo ha trascinato fuori casa e caricato in auto. Sospettiamo poi che lo abbia assassinato proprio lì dentro. »
« Gli ha sparato? »
« Sì. Gli ha sparato con una Beretta M9 e poi lo ha trascinato di peso in un campo. »
L’uomo spalancò gli occhi. Lo sguardo vitreo, fisso su Alan. Qualcosa sembrava preoccuparlo. Non sbatté le palpebre neanche una volta, né deglutì.
Alan piegò il capo e assottigliò lo sguardo, mentre quello di Mason rifuggiva il suo.
« È una pistola molto comune, negli Stati Uniti. »
Mason scosse appena il capo, come per risvegliarsi da quello stato di semi-incoscienza.
« Sì, sì, ha ragione. È molto comune. »
Seguì un lungo attimo di silenzio. Il respiro di Mason aumentò, ma forse non se ne rese neanche conto; il suo petto si alzava e abbassava a un ritmo elevato. C’era qualcosa che lo turbava.
Alan continuò ad osservarlo, a percepire ogni suo cambio di umore: si calmava e si agitava, in continuazione. Decise di prendere in mano la situazione.
« Signor Morris, credo che lei-- »
« Cosa sapete dell’assassino? »
Mason non gli fece nemmeno finire la frase. I suoi occhi sembravano supplicare una risposta, tanto che aveva incrociato le mani quasi d’istinto.
« È un uomo, abbastanza alto, corporatura normale. Purtroppo, di più non sappiamo. »
Mason sembrava agitato quanto prima, se non di più.
Osservò l’uomo con un sguardo indagatore, ma, allo stesso tempo, autorevole.
« Mi sembra turbato, Mason. »
« Non posso essere allarmato? Se fosse stata la sua auto, non sarebbe agitato? »
« Sarei agitato se fosse coinvolto qualcuno che conosco. »
Mason sbatté i pugni sul tavolo.
« Nessuno che conosco è coinvolto! »
Si accorse lui stesso di aver urlato. Alan non lo perse di vista nemmeno un secondo, intento a studiare le sue reazioni, e Mason sembrò rendersene conto. L’uomo tentò di dissimulare la sua agitazione, inutilmente.
Alan lo fissò con sguardo fermo.
« È sicuro di non sapere niente, di questa storia? Davvero non ha idea di chi possa aver copiato il mazzo e preso l’auto? »
L’uomo cominciò a tremare. Provò a sostenere lo sguardo di quell’Alan così sicuro di sé, per poi cedere tutto d’un tratto.
Abbassò la testa e si lasciò andare, finché la fronte non si scontrò con le sua mani, che ancora teneva unite a mo’ di preghiera. Il respiro affannato rimbombava in quel piccolo antro che aveva creato con le mani; e, all’improvviso, oltre al respiro udì anche delle parole, più simili a un sibilo.
« È successo un’altra volta… »
Alan abbassò la testa, nel tentativo di scrutare il volto di Mason, inutilmente. Alan allungò una mano verso l’uomo, adagiandola sull’avambraccio. A quel contatto, Mason rizzò il capo, scosso da un’espressione di dolore.
L’uomo si tirò su e si passò una mano tra i capelli, mentre teneva gli occhi chiusi. Li riaprì dopo poco, scrutando Alan con uno sguardo misto di supplica e dolore.
« C’è un’altra persona che ha le chiavi della macchina. E del garage. »
Alan inarcò le sopracciglia, non riuscendo a trattenere la sorpresa. Sentì l’adrenalina crescere in lui e diffondersi in tutto il suo corpo. L’uomo proseguì.
« È la stessa persona per cui sono qui, in carcere, a scontare una pena che non è la mia. »
Mason si avvicinò nuovamente al tavolo e Alan lo imitò, finché la distanza tra i due divenne piuttosto intima. L’uomo sospirò e strinse le labbra, forse per cacciare indietro un’emozione di troppo.
« Si tratta di mio figlio. Quel pomeriggio di sette anni fa lo trovai a terra, sporco di sangue. Di fronte a lui c’era un ragazzino della sua età, gli occhi sbarrati e il corpo immerso in una pozza. Ma la cosa che mi sconvolse fu ciò che trovai accanto a mio figlio. »
Mason chiuse gli occhi, il tempo per visualizzare l’immagine nella sua mente; poi li riaprì, forse per scacciarla via.
« Aveva una pistola. La stessa che usavamo al poligono di tiro. Una Beretta M9. »
Mason gli prese le mani, in una morsa stretta.
« Lo aveva ucciso, capisce? Aveva preso la pistola e gli aveva sparato! Come si può puntare la pistola di fronte a un ragazzino di sedici anni? »
Alan notò che Mason deglutiva a fatica: l’emozione stava prendendo il sopravvento su di lui.
« Ma non era colpa sua. Era colpa mia. Ho creato un mostro. »
Gli occhi dell’uomo divennero lucidi, ma impedì a quelle lacrime di scendere sul suo viso.
« È colpa mia se ha fatto ciò che ha fatto. È colpa mia se ha pensato che fosse giusto punire un ragazzino con la violenza. »
Ogni parola era sempre più traballante, gli occhi sempre più lucidi. I muscoli del collo erano tirati in modo innaturale, segno che stava trattenendo quel dolore che si era portato dentro per tanti, troppi anni.
Teneva ancora le mani di Alan strette nelle sue, sempre più forte, come se servisse a liberarlo da quella sensazione opprimente.
« Ho paura che quell’uomo che avete ripreso, quell’assassino, possa essere mio figlio. Sa sparare bene, lui. »
La voce gli si spezzò. Mason perse la battaglia contro le sue emozioni, alle quali si arrese. Adagiò la testa sulle mani, ancora una volta, continuando a tenere quelle di Alan. Ogni tanto, il suo corpo veniva scosso da singulti silenziosi e Alan lasciò che si sfogasse, distogliendo lo sguardo da quel dolore che quasi lo metteva a disagio.
Dopo qualche tempo, Alan si schiarì la voce con discrezione.
« Mason… »
L’uomo alzò la testa.
« Era l’unico modo che avevo per salvarlo. Punire me stesso per il dolore che gli avevo inflitto. »
« Mason, devo farle alcune domande su suo figlio. »
L’uomo chiuse gli occhi e annuì. Una lacrima gli solcò la guancia destra, scorrendo giù fino al mento, finché non cadde sul tavolo.
Mason esitò un attimo, poi interruppe quel contatto e introdusse una mano nella tasca destra. Da lì, estrasse qualcosa che si rivelò essere una fotografia, che mostrò ad Alan.
Come vide quel volto, il sangue gli si fermò. Un brivido gli percorse tutta la schiena, e la sensazione di essere sempre stato a un passo dalla morte si impossessò di lui. Ripercorse, parola per parola, ciò che Ashton gli aveva detto in quel colloquio privato in ospedale. E se prima erano solo paure astratte, ora gli si formò un’immagine fin troppo nitida, nella mente.
Folti capelli neri, un naso aquilino e un cespuglietto di peli, altrettanto neri, che sbucavano dall’apertura del colletto della camicia.
Mason accarezzò, col pollice, quell’immagine sgualcita.
« Si chiama Jackson. Per gli amici, Jack. »
Il suo cuore perse un battito.
Pietrificato, scosso, atterrito.
Che cosa avrebbe dovuto fare?
Mille pensieri si rincorsero nella sua testa, uno più veloce dell’altro, fino a che tutto quel caos non si ridusse a un solo, tremendo presagio.
Nathan.
L’aveva lasciato solo, a casa, in attesa degli ospiti.
Era forse in pericolo?
Doveva correre.
Correre da lui.
 
Si congedò da Mason e guidò più velocemente possibile verso casa, con quell’unico pensiero in testa.
Ma non poteva sapere che Nathan, in quel momento, aveva una pistola puntata davanti agli occhi.

 

Ehm... non so bene cosa dire, dopo questo capitolo. Innanzitutto, mi scuso davvero per il ritardo nella pubblicazione. Era un capitolo davvero importante e tutto doveva filare liscio nei minimi dettagli, perciò questo (insieme a un simpaticissimo esame) mi ha portato via molto tempo. In ogni caso, è davvero una grossa emozione per me! Finalmente avete scoperto tutto :) E qualcuno aveva pure indovinato! Che cosa accadrà ora al nostro Nathan? Il grilletto verrà premuto oppure no?
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, è in stesura :) Ho terminato soltanto la prima pagina, ma conto di concluderlo e pubblicarlo per martedì prossimo (o al limite un paio di giorni dopo per questioni che non sto a spiegarvi).
Un sentito grazie va a Silvia, che mi ha aiutata a trovare tutte le piccole falle sparse in ogni dove (e che, soprattutto, ha scelto il cognome per Jack) *___* Grazie *___*
E un grosso grazie va anche a voi lettori, che mi sostenete sempre col vostro entusiasmo.
Alla prossima, sperando di avere ancora tutto il cast al completo... :)

ps. visto il contenuto del capitolo, vi chiedo gentilmente di non fare spoiler nelle recensioni ^^
EDIT: visto che mi è stato chiesto, con "spoiler" intendo il nome dell'assassino. Poi potete scrivere ciò che volete ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Corsa contro il tempo ***


27. Corsa contro il tempo
 
 
26 gennaio 2005.
La canna gelida scivolava lentamente sul suo collo.
Ogni momento poteva essere l’ultimo, ogni centimetro in più era un attimo di vita concesso.
Ebbe paura di non fare in tempo a ricordare tutte le persone che gli erano care, prima che il grilletto fosse premuto.
Il suo primo pensiero andò ad Alan, a tutto ciò che li aveva separati e che li aveva uniti. A quei momenti in cui erano stati distanti, quelli in cui si erano odiati, quelli in cui si erano amati.
E a quel maledetto sms dove lo avvertiva che sarebbe rientrato più tardi.
Destino infame.
Di fronte a lui, Jack ghignava e sorrideva, consapevole di averlo in pugno.
No, non voleva che il volto di quel ragazzo fosse la sua ultima immagine. Provò a pensare nuovamente ad Alan, a suo fratello, ai suoi genitori, a Hank, ma troppe immagini si accatastarono nella sua mente, trasformandosi in una nebulosa confusa che aveva gli occhi di uno e la bocca di un altro.
Jack gli puntò la canna sotto il mento e ogni pensiero svanì.
« Ci pensi? Basterebbe premere il grilletto e tu non esisteresti più. Non è grandioso? »
Nathan deglutì a fatica. Sentiva il cuore pulsargli nella testa e la mente era sempre più annebbiata, confusa tra i ricordi sfocati di quei volti e un possibile scenario dove si salvava. Doveva cercare una scappatoia, doveva bluffare.
La gola era completamente riarsa e inumidirla non era facile, in quella posizione. Provò a parlare, fissando lo stipite superiore della porta.
« Alan tornerà da un momento all’altro. Fossi in te, me ne andrei. »
Jack sghignazzò ancora e Nathan sentì la pistola muoversi su e giù, seguendo il ritmo della risata.
« Allora dovrò ucciderti subito. Non posso certo correre il rischio che mi trovi. »
La pistola si allontanò dal suo mento e Nathan abbassò leggermente il capo. Se la ritrovò davanti agli occhi.
« Sei proprio sicuro che stia per tornare? »
Tremò e strinse le labbra. Poi, d’istinto, scosse il capo.
Jack sogghignò.
« Lo sapevo. »
Fregato. Doveva pensare ad altro, e in fretta. Temporeggiare non sarebbe servito: Alan sarebbe rincasato al minimo tra un’ora e, di certo, Jack non sarebbe rimasto lì tutto quel tempo. Provò a giocare un’altra carta.
« Non penso che tu sia davvero in grado di uccidere una persona. »
Jack ridacchiò ancora, poi lo fissò con uno sguardo malizioso.
« L’ho già fatto. »
Il respiro di Nathan si fece sempre più affannato, tanto che, ormai, era facilmente udibile. La risposta di Jack dovette mettersi in coda dietro agli altri mille pensieri che affollavano la mente di Nathan. E, quando arrivò il suo turno, spalancò gli occhi, incredulo, mentre le sue labbra erano incapaci di dar vita a quella sensazione di stupore e terrore.
Jack scosse il capo, divertito.
« Quanto sei ingenuo, Nathan. Mi scoccia davvero dovermi sporcare le mani con te. Ma, almeno, quello stronzetto avrà la punizione che si merita. »
Il rimbombare del battito del suo cuore gli aveva fatto entrare un gran mal di testa. Pensando a cosa sarebbe potuto accadere se solo avesse commesso un suo passo falso, sentì il respiro ingrossarsi ancora di più, la testa nel panico, le mani umide.
Chiuse gli occhi e tentò di ritrovare la calma. Come li riaprì, vide ancora il volto di Jack diviso in due dalla facciata della pistola. Cercò di prendere tempo.
« Di che parli? »
« Parlo del tuo ragazzo. Sai, all’inizio volevo sbarazzarmi di te per avere campo libero, ma adesso voglio solo eliminarti per vederlo patire le pene dell’inferno. »
Alan.
La sua immagine sfrecciò nuovamente tra i suoi pensieri.
Alternava presagi di morte, volti conosciuti e azioni che avrebbe potuto realizzare, se solo non avesse avuto i piedi incollati al pavimento.
Elaborò le parole di Jack. E tutto cominciò a prendere forma. Quasi inconsapevolmente, spalancò la bocca per lo stupore.
« Sánchez…! »
Jack gli batté lo spigolo della canna sulla fronte un paio di volte.
« Sei astuto, eh? »
Buttò giù la poca saliva che riusciva a produrre, pagando l’attrito della sua bocca secca. E poi, capì.
Sánchez non era morto per questioni di droga, né per affari sessuali. Era morto solo perché qualcuno potesse accusarlo di quell’omicidio. Qualcuno come Jack, per esempio: se fosse riuscito a farlo incriminare, avrebbe avuto campo libero con Alan.
« Proprio una brutta storia, vero? E non è nemmeno andata come volevo. Esattamente come quella del tuo amico Ashton, d’altronde. » Jack schioccò la lingua. « Tsè, ho parlato fin troppo. »
Nathan spalancò la bocca, incredulo.
« Ash? Ma perché… ? »
« Sapeva un po’ troppe cose. Come te, del resto. Motivo per il quale ti conviene recitare la tua ultima preghiera. » Un sorriso sinistro si dipinse sul volto di Jack. « Addio. »
Uno sparo.
Il nulla.
Eppure percepiva una sorta di realtà. Appannata, distorta, confusa.
Nathan riaprì gli occhi, il tempo necessario per capire che si era davvero avventato contro Jack e lo aveva buttato a terra.
E il colpo era andato al soffitto.
Ebbe solo un manciata di attimi, giusto per capire se fosse vivo o morto, prima che Jack lo spintonasse via con un colpo poderoso.
Barcollò all’indietro, mentre Jack, recuperata la pistola, già la puntava verso la sua vittima.
Nathan appoggiò una mano sul materasso e fece leva per rialzarsi, poi si buttò sul suo aggressore, prima che potesse sparare un altro colpo. Lo colpì al ventre, facendo perdere a Jack ogni equilibrio, e si ritrovarono nuovamente uno sopra l’altro. Unì i polsi di Jack e li bloccò con una mano, mentre con l’altra tentò di prendere la pistola sfuggita alle mani del suo aggressore; ma, a un passo dalla meta, Jack riuscì a liberare un braccio e strinse il polso di Nathan con una presa decisa, bloccando i suoi movimenti.
Pensò rapidamente a cosa fare, a come recuperare la pistola e puntarla addosso a Jack; ma una tremenda fitta allo stomaco interruppe ogni pensiero e capì di essere stato colpito con una ginocchiata. L’istinto di rannicchiarsi permise al suo aggressore di recuperare la pistola e rimettersi in piedi, ancora una volta.
E, come alzò lo sguardo, se la ritrovò di nuovo puntata davanti al viso.
È finita.
Recitò davvero la sua ultima preghiera.
Chiuse gli occhi e li strizzò, perché la sua ultima immagine fosse il buio, riscaldata da quelle lacrime di terrore e desolazione. Cercava di memorizzare qualsiasi informazione proveniente dai suoi sensi, ma tutto ciò che aveva era il buio e un rumore martellante per la testa. Desiderò che fosse solo un brutto sogno, una brutta avventura che no, non poteva capitare a lui, perché certe cose le leggi solo nei libri, le vedi solo nei film. Certe cose capitano agli altri, non a te.
Ma la sua preghiera, in qualche modo, arrivò a destinazione.
Il campanello suonò, seguito da quattro colpi di nocche.
Nathan riaprì gli occhi, forse per riacquisire un contatto con la realtà. Teneva lo sguardo basso, ma fu sufficiente per vedere Jack indietreggiare di qualche passo, senza mai abbandonare la stanza.
Sentì una voce in lontananza.
« Tutto bene, là dentro? »
Riconobbe la voce della vicina del secondo piano, ma né lui né Jack risposero. Nathan teneva ancora gli occhi rivolti verso il pavimento, rannicchiato il più possibile in posizione fetale. Tremava.
Sperò che la signora bussasse ancora, che si impensierisse maggiormente, che, spinta da un eccesso di preoccupazione, chiamasse comunque la polizia. E invece i suoi passi si fecero sempre più lontani, fino a che non scomparvero.
Si rese conto che quello non era il film a cui sperava di assistere, dove alla fine il bene trionfa, la vittima viene salvata e il colpevole arrestato.
Quella era la realtà, dove tutto sarebbe finito davvero.
E lui e Jack erano di nuovo soli.        
Si aggrappò alla trapunta del letto e si domandò se sarebbe stata quella l’ultima cosa che avrebbe visto. Le lacrime, poi, offuscarono ogni immagine.
« A quanto pare dovrò rivedere i miei piani. »
Alzò lo sguardo quel poco che gli bastò per vedere che Jack aveva abbassato la pistola; e così, in un moto istintivo, si rizzò in piedi.
Era la sua ultima occasione.
Si avventò su di lui, puntando le braccia verso il suo collo, senza una strategia ben precisa. Era un animale, guidato solo dall’istinto di sopravvivenza. Tutto, pur di non morire.
Gesti incoscienti, gesti aggressivi.
Gesti inutili.
Il volto di Jack si contorse in un’espressione di sforzo, e Nathan fece appena in tempo a vedere l’impugnatura della pistola puntata dritta sulla sua tempia. Quel colpo lo fece barcollare e perse rovinosamente l’equilibrio. Il capo sbatté contro l’armadio di legno massello che si trovava proprio alla sua destra, e una scia di dolore prese rapidamente campo in tutta la sua testa. Sentì la realtà distaccarsi completamente dal suo corpo, che perse ogni forza di sostentamento e si accasciò a terra.
E la faccia del suo aggressore fu l’ultima cosa che vide.
 
***
 
Aveva corso più che poteva, ma il traffico non era stato clemente nei suoi confronti. Non aveva nessuna certezza che Nathan fosse in pericolo, ma il suo sesto senso gli diceva che doveva tornare velocemente a casa, quantomeno per avvisare il suo ragazzo della situazione.
Fermo a quel semaforo rosso, dondolava impaziente il piede sul freno e sporgeva la testa a destra e a sinistra, nella speranza di velocizzare il traffico. Procedevano a passo di lumaca e, ormai, si erano fatte le sei di sera. Gli ospiti non avrebbero tardato ad arrivare alla loro festa e lui sperò solo che Nathan ci sarebbe stato per accoglierli.
Buttò un’ultima occhiata alle auto ferme davanti a lui, poi prese il cellulare e compose il numero di casa. Per un attimo il respiro gli tremò, colto da una paura irrazionale di un pericolo imminente.
Il telefono squillava.
Il semaforo diventò verde, ma questo non implicò il diluirsi di quella coda infinita.
Squillava ancora.
Fece pochi metri, per poi fermarsi nuovamente.
Nessuna risposta.
Lasciò che la chiamata cadesse e riattaccò.
Non si diede per vinto e tentò di raggiungerlo anche al cellulare, ma l’unica risposta che ebbe fu il suono di linea libera, seguito dalla voce dell’operatore che Alan troncò bruscamente. Sapeva di non avere in mano alcuna certezza, che le sue preoccupazioni rasentavano la paranoia e che Nathan poteva aver avuto mille motivi per non rispondere.
Ma perché era così irreperibile?
Incurante delle altre macchine, mise il lampeggiatore e schizzò fuori dalla lunga coda, facendo un’azzardata inversione a U.
Avrebbe preso un’altra strada.
 
Aveva schiacciato parecchio l’acceleratore, ma almeno era arrivato. Aveva appena svoltato nella via di casa, quando, davanti ai suoi occhi, si materializzarono le paure che lo avevano attanagliato in quelle ultime ore.
Un piccolo nugolo di persone, infatti, era fermo ad aspettare sotto casa sua e, tra quelle, riconobbe la chioma bionda di Madison.
Perché stavano aspettando là sotto? Perché non erano stati accolti in casa?
Inchiodò all’improvviso, non appena vide qualcosa di simile a un posto libero. Fece qualche manovra alla meno peggio e scese di macchina in tutta fretta, tanto che quasi si scordò di chiuderla. Aggirò il muso dell’auto e corse verso gli altri.
Come aveva visto, c’erano Madison e Ashton, che ancora portava il gesso, più un altro ragazzo che non conosceva – o riconosceva, perché era sicuro di averlo già visto altrove.
Sentì crescere, dentro di sé, un innaturale senso di inquietudine. Ashton lo guardò stupito.
« Alan, finalmente sei arrivato! È da dieci minuti che stiamo suonando, ma non apre nessuno. »
Battito accelerato. Groppo in gola difficile da digerire.
« Nathan non è in casa? »
Ashton fece spallucce.
Buttò un’occhiata anche agli altri invitati, nella speranza che avessero qualche risposta per lui. E, invece, l’unica informazione che ottenne era che l’altro ragazzo era un amico di Nathan e si chiamava Hank.
Completò il giro di sguardi, più smarrito di prima. Aveva paura di sentirsi sciocco, nel preoccuparsi di qualcosa che, probabilmente, esisteva solo nella sua testa; ma, alla fine, l’istinto prevalse.
Alan frugò tra le tasche e si avventò sul portone, estraendo le chiavi più in fretta che poté.
« Alan, tutto bene? Che succede? »
Per la prima volta, lo capì, aveva paura. Spesso aveva affrontato casi difficili e che richiedevano sangue freddo, ma l’unica emozione a caratterizzare quegli attimi era l’adrenalina, quasi una sorta di eccitazione.
In quel momento, invece, era terrorizzato. E, come fece scattare la serratura, sentì il coraggio venirgli meno. Avrebbe dovuto correre verso il suo appartamento, ma, ad ogni passo, si sentiva sempre più debole. Si voltò verso Ashton, in cerca di aiuto.
L’altro scosse il capo, senza capire, salvo poi andare dietro ad Alan quando questi lo invitò con un cenno del capo. Madison e Hank lo seguirono, lanciandosi occhiate dubbiose. Non si rendevano conto della situazione.
Alan salì i gradini due a due, finché non arrivò davanti al portone. Il suo collega lo raggiunse e Alan si voltò verso di lui.
« Ash, tieniti pronto a intervenire. »
L’altro aggrottò la fronte.
« Ma cosa…? »
« Fa’ come ti dico e basta. Voi due, » disse, rivolgendosi a Madison e Hank « state attenti e rimanete indietro. »
Alan infilò le chiavi nella serratura. Le girò piano, cercando di fare meno rumore possibile. Estrasse la pistola dalla fondina e la puntò dritta davanti a sé; poi aprì lentamente il portone, ma senza spalancarlo.
Infilò la bocca dell’arma nella fenditura che si era creata, pronta a sparare a un eventuale aggressore; Alan scattò verso il retro della porta, preceduto dalla pistola.
Non c’era nessuno.
Si girò verso Ashton e gli fece un cenno silenzioso.
Alan aprì la porta completamente ed entrò in casa, seguito dal suo collega. Buttò un’occhiata ai possibili nascondigli del suo salotto, ma appurò che non vi era nessuno. Indicò ad Ashton la cucina, alla sua destra; l’altro tirò fuori la pistola di servizio e si accostò al muro. Strisciò quel poco che bastò per avere una prima visuale della stanza; come Alan prima di lui, scattò verso l’interno della cucina, ma, anche lì, non c’era anima viva.
Constatato che quella parte della casa era al sicuro, fecero entrare Madison e Hank, che si rintanarono nell’angolo dell’ingresso, coperti da un mobiletto.
Gli altri due proseguirono la loro perlustrazione, sempre in rigoroso silenzio e con passo felpato.
Percorsero il piccolo corridoio che portava alla camera. Alan era già pronto a eseguire le azioni di rito, ma ciò che trovò gli bloccò il respiro.
I suoi occhi erano sbarrati, intenti a fissare un punto circoscritto del pavimento.
Sangue.
Poche tracce, non molto evidenti, ma che a lui non erano sfuggite.
Con imprudenza, entrò nella stanza, senza mai distogliere lo sguardo da quelle macchie. Si acquattò per osservarle meglio, e non poté non notare che alcune avevano una forma allungata, come se qualcuno fosse stato trascinato. Si rese conto che la quantità era troppo esigua per poter pensare a una ferita di grave entità, ma, nonostante questo, non riusciva a stare tranquillo.
Sentì la voce di Ashton sopra le sue spalle.
« In bagno non c’è nessuno. La casa è vuota. »
All’improvviso, anche l’altro si accovacciò accanto a lui.
« Ma questo è… sangue! Oddio, ma che è successo…? »
Solo in quel momento, Alan si accorse che le tende della finestra sventolavano, sospinte dalla forza del vento.
Qualcuno aveva usato quell’uscita, che conduceva alle scale di emergenza, sul retro dell’edificio.
Alan si rialzò repentino, seguito dal suo collega.
Si sentì tremare come mai in vita sua. Sentiva di non riuscire più a tenere a freno le emozioni, di non riuscire più a essere razionale. Nella sua testa c’era solo Nathan, Nathan e poi Nathan.
E il sangue.
Ma un grido soffocò ogni pensiero.
Alan si voltò e vide Madison con gli occhi sbarrati, col dito puntato su qualcosa davanti a lei. Seguì la traiettoria indicata, finché lo sguardo non gli cadde su un piccolo oggetto luccicante. Provò ad avvicinarsi, facendo attenzione a non pestare le tracce di sangue.
Era un piccolo ciondolo dalla forma romboidale, di colore rosso, con all’interno un altro pendaglio più piccolo, incastonato, di colore bianco.
Non appena lo prese tra le mani, un ricordo gli attraversò la mente.
Non era un ciondolo qualsiasi.
Era quel ciondolo.
Ricordò l’escursione di un mese prima e di come quel pendaglio lo avesse salvato da un imminente bacio. Ma non fece in tempo a ripercorrere tutta la scena, che Madison si portò le mani al viso, in un’espressione disperata.
« È di Jack! È di Jack! » Madison si avvicinò ad Ashton, strattonandolo per la giacca. « Che cosa ci fa il ciondolo di Jack laggiù? »
Ashton lo guardò.
« Alan, che sta succedendo? »
Alan si mordicchiò il labbro inferiore, poi si voltò verso il collega.
« Ash, ti ricordi cosa mi hai detto in ospedale? Del fatto che, probabilmente, eravamo tutti in pericolo? »
L’altro ci pensò un attimo.
« L’assassino di Sánchez? Alan, non dirmi che… »
Annuì lentamente, poi emise un respiro profondo.
« Penso proprio di sapere chi ci sia dietro a tutto questo. »
Madison smise improvvisamente di strattonare Ashton e abbandonò le braccia a peso morto. L’altro spalancò la bocca, attonito, poi si portò una mano sulla fronte.
« O mio Dio, non riesco a crederci! Alan, dove potrebbe averlo portato? Hai un’idea? »
Alan scosse il capo, mentre, con la mente, cominciò a ripercorrere tutta la sua storia con Jack, alla ricerca di un posto dove cominciare a cercarlo. Doveva pensare in fretta, perché se Jack avesse seguito le stesse dinamiche di Sánchez, avrebbe caricato Nathan in auto e trascinato altrove per ucciderlo.
Sì, ma dove?
Si disperò, nel vano tentativo di scartare una lista di luoghi improbabili dall’elenco immaginario che aveva stilato.
Poi, però, una frase gli tornò alla mente. Sulla spiaggia, al chiaro di luna, cullati dal rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia.
« Penso che mi piacerebbe morire qui. »
Doveva correre a Coney Island.

 

Salve a tutti! Innanzitutto mi scuso per questo piccolo ritardo, purtroppo ieri sera avevo un impegno e non ho potuto mettere il capitolo! 
In ogni caso, eccoci qui. I nostri eroi arriveranno in tempo oppure sarà troppo tardi? Qualcuno ci rimetterà le penne? Chissà, chissà...
Ringrazio come sempre Silvia, che mi ha aiutato a far filare liscio questo capitolo anche nei punti più rognosi e ringrazio voi lettori per il vostro sostegno appassionato *___* Ormai mancano solo tre capitoli, non vedo l'ora! Anche se mi dispiacerà lasciare questa storia ç___ç
A presto, allora ^^

ps. Silvia, ho fatto una ricerca e il dizionario mi ha approvato "lampeggiatore" XDD

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Come un pesce fuor d'acqua ***


28. Come un pesce fuor d’acqua
 
 
26 gennaio 2005.
In sottofondo, parole.
Confuse, farfugliate.
Davanti a sé, uno schienale in pelle sintetica.
Come riaprì gli occhi, Nathan si accorse che la sensazione di essere sballottato non era solo frutto della sua immaginazione. E nemmeno l’essere disteso sui sedili posteriori di un’auto che non aveva mai visto.
Subito si rese conto che qualcosa gli impediva di muoversi. Smosse le caviglie, cercando di liberarle, ma erano legate da un qualcosa che non seppe definire. Poi strofinò i polsi e sentì una grossa corda aderire contro la pelle a ogni suo movimento.
Era legato mani e piedi.
La bocca, però, non gli era stata tappata. Poteva ancora parlare, dunque, ma non gli venne in mente niente da dire. Avrebbe potuto urlare, certo, ma chi l’avrebbe sentito? Chiuso in quella macchina, cosa avrebbe potuto gridare?
Cominciò ad agitarsi, perché, privato com’era di ogni sua libertà, non riusciva a pensare ad alcun modo per sopravvivere. Iniziò a pensare che, forse, sarebbe morto sul serio, anche se, ancora, non aveva perso la speranza di un eroe dell’ultimo minuto.
Si chiese se Alan fosse già tornato a casa e se si fosse accorto che lui non c’era. Si domandò se avesse capito cosa era successo e se avesse qualche elemento per cercarlo.
Si rese conto che, se la sua ultima speranza era il salvataggio in extremis, significava che, ormai, la sua unica previsione era una soltanto.
Morte.
Cercò di scacciar via quel pensiero e si tirò su, il tempo necessario per avere la conferma che, al volante, c’era proprio chi immaginava.
Jack.
Si rassegnò all’idea di chiedere aiuto, per il momento, e provò a rendere utili quegli ultimi istanti di vita.
« Dove stiamo andando? »
Intravide Jack spostare lo sguardo sullo specchietto retrovisore, per poi tornare a guardare la strada.
« Di certo non lo dico a te. »
« Perché? Pensi che possa dirlo a qualcuno? »
Jack ridacchiò.
« Non si sa mai. »
Nathan buttò uno sguardo fuori dal finestrino sopra i suoi piedi, e si meravigliò del paesaggio boschivo illuminato dai primi raggi di luna, anche se l’auto sfrecciava così veloce che gli era impossibile distinguere qualsiasi contorno.
« Perché non mi hai ucciso subito? Sarebbe stato più facile. »
« Ma meno divertente. »
Jack ridacchiò e Nathan capì che era tutto inutile. Non gli avrebbe rivelato niente e, anzi, avrebbe cercato di divertirsi con lui fino all’ultimo, di tenerlo sul filo del rasoio il più possibile. Quelle risposte secche e sarcastiche non lo avrebbero portato da nessuna parte.
Cercò di farsi venire un’idea per tirarsi fuori di lì, ma non gli venne in mente niente; in preda allo sconforto, cominciò davvero a pensare a come trascorrere quei pochi momenti che gli rimanevano, non vedendo alcuna via di uscita.
La rassegnazione si era intrufolata dentro di lui.
 
La macchina continuò a sballottarlo qua e là, finché Jack non inchiodò e per poco Nathan non si ritrovò con la faccia sul tappetino. Buttò un’occhiata fuori dal finestrino, ma l’angolazione era troppo ampia perché potesse vedere qualcuno; porse, allora, l’orecchio verso il mondo esterno, ma non udì alcun rumore.
Jack uscì dalla macchina, fece il giro dell’auto e aprì il portellone posteriore, dal lato della testa di Nathan. Respirò quell’aria con tutta la forza che aveva in corpo, solo per sentire quella sensazione di freddo percorrergli per intero le narici.
Si sentì tirare via di peso e, come mise la testa fuori dall’auto, capì subito dove lo aveva portato.
Davanti a lui si stagliavano immense attrazioni, chioschi di patatine e insegne. Ma non c’erano persone, jingle caotici o luci intermittenti.
Coney Island era deserta.
Jack lo tirò su, facendolo mettere in posizione eretta, poi chiuse la macchina.
« È molto più bello quando non c’è nessuno, vero? »
Nathan si guardò ancora intorno, alla ricerca di un’anima a cui potesse mandare un segnale, ma non fu così fortunato. L’unica compagnia che aveva era il suono delle onde e, come si voltò, un’orribile scena si figurò davanti a sé. Sgranò gli occhi, osservando il mare, ed ebbe una terribile sensazione.
« Belle onde, non trovi? » Jack gli indicò il mare. « Hai presente i pesci che si dibattono, quando li porti sulla terraferma? È proprio quello che mi aspetto da te. Sarà davvero divertente vedere come ti agiterai, quando sarai là sotto e non potrai tornare su. Morirai così, come un pesce fuori dall’acqua. »
Complice il freddo, Nathan cominciò a sbattere i denti, in piccoli movimenti convulsi, mentre Jack rideva di gusto. Non pensava che qualcuno avrebbe potuto davvero ridere di fronte a una scena simile; qualcuno sano di mente, almeno. Jack aveva intenzione di andare fino in fondo e niente avrebbe potuto impedirglielo, in quel momento.
Qualcosa di gelido si attaccò alla sua nuca. Gli bastò quel brivido giù per la schiena, per capire cosa fosse.
« Forza, cammina. Altrimenti sparo. »
Nathan si voltò a destra e a sinistra, in cerca di aiuto, ma Jack spinse la canna ancora di più.
« Ho detto cammina. »
Cominciò a muovere piccoli passi, corda permettendo.
I piedi gli affondavano nella sabbia e l’oceano si avvicinava sempre di più. Immaginò il contatore della sua esistenza in procinto di raggiungere lo zero: e non c’era modo di fermarlo, né di allungarne il tempo; doveva solo accettare il suo destino.
Eppure, non ci riusciva.
Arrivò alla riva e, per pochi centimetri, l’onda infranta sulla sabbia non toccò la punta delle sue scarpe. Osservò l’acqua, il cielo, le stelle, forse per l’ultima volta.
Non lo stava facendo davvero. Non poteva star camminando verso la sua tomba. Non stava assecondando i piani di un pazzo squilibrato, no!
« No! »
Quelle parole fecero esplodere tutta la tensione che aveva accumulato, che si sfogò rigando il suo viso di lacrime. Piantò i piedi a terra e si rifiutò di proseguire.
« Non credo di aver sentito bene. E cammina! »
« Ho detto di no! Non morirò per causa tua, non voglio! »
Jack gli si parò di fronte, con un sorriso beffardo sul volto.
« Un po’ tardi per pensarci, non credi? »
Il suo pianto, ormai, era sfociato in una serie di singhiozzi.
« Farò tutto quello che vuoi, davvero. Ma ti prego, lasciami andare. »
« Oh, povero Nathan. »
Jack gli si avvicinò e, con un dito, gli asciugò una guancia. Quel contatto così ravvicinato lo portò a pensare a situazioni con cui mai aveva pensato di scendere a compromessi, soprattutto dopo tutto ciò che aveva vissuto col maniaco.
Era così forte il suo attaccamento alla vita? 
Lo schiaffo di Jack distrusse ogni sua speranza e quasi si vergognò di aver avuto pensieri così poco dignitosi.
« Sei davvero un cretino. Perché l’unica cosa che voglio è vederti morire nel modo più doloroso possibile. E lascia che te lo dica: fai proprio pena. »
Era fallito anche il suo ultimo tentativo. Perché Alan non poteva essere l’eroe che accorreva in suo aiuto?
Alan.
Si rese conto di quanto tutto ciò che lo circondava fosse effimero, pronto a scivolare via dalle dita in un battito di ciglia. Era inutile continuare a pensare al futuro, ai successivi dieci minuti, perché non ci sarebbero stati; e non erano più parole dettate dalla disperazione, ma dalla realtà dei fatti. Il pensiero che la sua vita si sarebbe esaurita lì, che non sarebbe sbocciata ulteriormente, lo fece rabbrividire. Era abituato a pensare alle sue giornate, a quelle dopo ancora, a cosa fare nel tempo libero. Solo adesso si rendeva conto che, quel tempo, avrebbe voluto e potuto usarlo diversamente, che tutti i momenti sprecati dietro a rancori e litigi avrebbe potuto spenderli in dialogo e pace.
Ma era tardi per tutti quei discorsi.
Era tardi per vivere.
L’acqua gli bagnò una scarpa. E, dentro quell’acqua, ci finì pure una sua lacrima. Quel senso di costrizione a cui era sottoposto gli suonò familiare, ma l’esperienza gli aveva insegnato che, per quanto terribile potesse essere una situazione, spesso non vi era modo di sfuggirle. Stava cominciando ad accettare il suo destino.
« Secondo te, è più divertente se ti tiro un calcio o se ti butti in acqua da solo? Me lo chiedo da un po’ di tempo. »
Nella sua mente, avrebbe voluto rispondergli che era solo un bastardo, un pazzo, un malato; e invece si limitò a stare zitto e a contemplare il luogo dove avrebbe riposato per sempre.
Gli fece una gran paura, detto così.
Avrebbe smesso di vivere e il mondo sarebbe andato avanti, senza di lui. Alan sarebbe andato avanti, senza di lui.
Paura, paura, paura e solo paura.
L’oceano, l’acqua, l’aria che mancava.
Alan.
I pesci, forse?
Alan.
E poi? La luce? Il tunnel? Il niente?
Non riusciva nemmeno più a fare un pensiero sensato, nella sua mente. Ormai era tutto annebbiato.
Una voce. Un’anima. C’era qualcuno, oltre a loro.
I pensieri riacquisirono senso. Ripresero lunghezza.
C’era qualcuno, oltre a loro, in quella spiaggia.
Jack lo prese per il collo e gli puntò la pistola alla tempia.
« State indietro! State indietro o sparo! »
Chiuse le palpebre e mitigò le lacrime; poi le riaprì, con lo sguardo puntato su quella che, in quel momento, gli sembrò poco più che una visione.
C’era qualcuno che somigliava moltissimo ad Alan. Un altro che somigliava moltissimo a Hank. E lo stesso poté dire per quelle figurine lontane, che tanto assomigliavano a Madison e Ashton.
Forse era già in acqua e quella era solo una mera illusione? Forse stava sognando tutto quanto?
Il gruppetto venne più vicino, le loro forme si fecero più definite. Sembravano proprio gli originali.
« Un altro passo e sparo! »
Alan alzò le mani e fece un giro completo su se stesso.
« Sono disarmato, Jack. Vedi? »
Il corpo di Nathan aderiva talmente tanto a quello di Jack, da poter sentire il suo cuore battere all’impazzata. Era molto teso e questo, pensò, poteva essere un grande vantaggio. O un grande svantaggio.
Jack indicò Ashton e Hank con un cenno del capo.
« E loro? »
Gli altri tre alzarono le mani, come Alan. Nonostante ciò, Jack fece ancora più forza nella mano in cui teneva la pistola, spingendola ancora di più.
« Non mi spaventi, lo sai? Anzi, non vedo l’ora di sentirti gridare per la disperazione! »
Alan, però, non si scompose minimamente. Continuava a fissare Jack con occhi seri, ma senza alcun velo di rimprovero. Sembrava quasi un padre autorevole di fronte al figlio ribelle.
« Metti giù quella pistola, Jack. Non ci guadagni nulla, da tutto questo. »
Nathan sentiva la pistola muoversi in modo impercettibile, ma frenetico. Immaginò che, dentro Jack, si stesse animando una battaglia piuttosto feroce, dove erano schierati il bene e il male, l’istinto e la razionalità.
« Non ci guadagno nulla? Vederti gridare dal dolore lo chiami ‘nulla’? » Il respiro di Jack si gonfiò, così come il suo tono di voce. « Vederti patire anche solo un briciolo delle mie sofferenze lo chiami ‘nulla’? »
Aveva gridato così forte che la vibrazione della voce aveva scosso ogni parte di Nathan.
« Finirai in carcere, Jack. Lo sai. »
« Non me ne frega niente! »
« E il sacrificio di tuo padre? Ha fatto ciò che ha fatto per darti una vita migliore, per permetterti di non diventare come lui. E tu? Vuoi buttare tutto così? »
La pistola sulla sua testa tremava sempre di più. Sperò solo che Jack non avesse il dito sul grilletto, perché, in un impeto di rabbia, avrebbe potuto premerlo senza accorgersene.
« Stai zitto! Cosa ne sai tu, della mia vita? Cosa ne sai di cosa ho passato? Devi solo stare zitto. Zitto! »
Il petto di Jack si muoveva ad una velocità impressionante, o almeno così parve a Nathan. Finalmente, il suo aguzzino staccò la pistola dalla sua testa. Pensò subito a una liberazione improvvisa, a una redenzione inaspettata, ma, quando si voltò verso Jack, si accorse che non era così.
L’altro lo guardò torvo, poi si voltò verso gli altri – contro i quali teneva puntata la pistola -, per poi girarsi nuovamente verso di lui.
Jack lo afferrò per la vita e lo trascinò, di peso, verso l’acqua. Le scarpe gli si inzupparono completamente e i pantaloni cominciarono ad avviarsi verso la stessa sorte.

Sapeva che quel tratto di spiaggia aveva dei grossi scaglioni e che le acque profonde non distavano molto dalla riva. Ma poi, pensò, gli sarebbe bastato davvero poco per annegare. I pensieri sulla sua morte cominciarono a vagare nuovamente per la sua testa come anime in pena, ma, stavolta, Nathan si sentiva più forte. C’erano ben altre quattro persone lì, oltre a lui e Jack e, si convinse, non l’avrebbero certo lasciato morire. Sempre che Jack non avesse sparato a tutti, ovviamente. Ne sarebbe stato capace? Non ne aveva la minima idea.
Mosse qualche altro passetto, mentre gli altri osservavano attoniti, ma attenti.
L’acqua ormai gli arrivava fino al ginocchio, ma nessuno si era mosso di un millimetro. Ma cosa aspettavano a intervenire?
E poi, successe.
Un calcio sul fondoschiena, le gambe che non gli fornivano più equilibrio e il suo corpo che si immergeva nell’acqua. E, come aveva previsto Jack, aveva cominciato a dimenarsi, ad agitare le gambe come una sirena, con la differenza che, per lui, era totalmente inutile. Muoveva i polsi nella speranza di sciogliere il nodo, faceva sgusciare i piedi sulla sabbia bagnata nel tentativo di fare leva e rialzarsi, e puntava lo sguardo verso il cielo stellato, che ormai non era più in grado di vedere bene, nella speranza di riemergere e respirare.
E poi un rumore secco, ovattato, seguito da uno stridulo e prolungato. Era uno sparo. E delle grida.
E lui, che cominciava a sentire l’aria che mancava, l’acqua che gli entrava dalle narici e scivolava giù per la gola, mangiandosi il poco ossigeno che gli rimaneva in corpo. I polsi avevano smesso di sfregare contro quella corda, le gambe non si agitavano quasi più.
Proprio come un pesce sulla terraferma, stava cessando la sua lotta per la vita.
La vita.
La sentiva scivolar via ogni attimo di più. Gli sembrò quasi di vedere un flusso argenteo uscire dalla sua bocca e innalzarsi verso il cielo, come se qualcuno, lassù, stesse reclamando la sua anima e gliela stesse succhiando via a poco a poco.
Ombre, luci.
Tutto era confuso.
E tutto divenne chiaro.
Il riflesso dell’acqua colpì i suoi occhi, l’ossigeno provò a farsi strada tra i suoi polmoni. Qualcuno lo aveva afferrato ancora per la vita e lo stava tirando fuori dall’acqua. Ma stava succedendo qualcosa.
« Hank! O mio Dio… Ash, bloccalo! Prendigli la pistola! »
Come atterrò sulla spiaggia, vomitò tutta l’acqua che aveva inalato e, per poco, non si sentì soffocare. Troppa l’irruenza di bramare ossigeno e sputare quello che, ai suoi occhi, era come veleno. Tossì ripetutamente, finché non si liberò di quella sensazione di acqua in eccesso.
Un paio di mani riuscirono a liberarlo da quei nodi che tenevano a freno la sua libertà e così fece leva sulle braccia, per voltarsi.
Alan era dietro di lui, con l’orrore dipinto in volto, intento a osservare la scena che aveva di fronte.
Nathan fece lo stesso e, per poco, le braccia non gli cedettero.
Hank era lì davanti, steso a terra, sopra il corpo di Jack. Non parlava e non si muoveva: sembrava ferito. Ricollegò lo sparo e le grida: Hank si era sacrificato per lui. Si era avventato su Jack per salvarlo. Non sapeva nemmeno se fosse vivo o morto e una morsa d’angoscia lo fece cadere in uno sconforto mai provato prima.
Alan gli lanciò un’occhiata, poi si allontanò, correndo verso Jack. Questi si era liberato di Hank e aveva appena tirato un pugno ad Ashton, che, dopo una corsa impacciata, non era riuscito a prendere l’arma. Non ebbe nemmeno il tempo di riprendersi, che Jack gli puntò la pistola davanti.
« No! Jack, fermo! »
Quello era l’inconfondibile timbro di Madison, che, con inaspettato coraggio, si era messa davanti ad Ashton, facendo scudo col suo corpo. La ragazza era in lacrime e scossa da singulti, ma questo non le impedì di parlare.
« Se vuoi uccidere lui, dovrai uccidere anche me. »
Fu solo in quell’istante che scomparve l’aria di follia che aveva albergato in Jack fino a quel momento. Le parole di Madison avevano fatto riaffiorare in lui una sorta di umanità perduta, tanto che si guardò intorno, come se, per tutto quel tempo, avesse agito qualcun altro al posto suo.
« Ti prego, Jack, smettila. Getta via quella pistola. So che hai sofferto tanto, nella tua vita; ci sono tanti aspetti di te che lo raccontano, anche se tu non mi hai mai detto niente. Ma non è così che risolverai le cose, davvero. »
Madison si lasciò andare a un pianto liberatorio e nascose il viso tra le mani.
« Fallo per me, Jack. Non pensi a quanto stia soffrendo, vedendo tutto questo? Tu sei un grande amico per me, ti ho sempre raccontato i miei problemi, mi sono sempre fidata di te. Tu pensi di essere solo, al mondo, ma ricordati che io ti voglio un bene dell’anima, Jack. Quindi ti prego, non fare sciocchezze. Non tradirmi. Mi faresti davvero molto male. »
Col fiato sospeso, attesero tutti una qualsiasi reazione, ma Jack rimase immobile. Teneva gli occhi fissi su Madison, mentre la fronte gli si aggrottava sempre più, in una smorfia di dolore.
Ancora singhiozzante, Madison si avvicinò a Jack a piccoli passi, sotto lo sguardo stupito di tutti. Lui teneva ancora la pistola in mano, ma lo sguardo era ancora dritto su di lei e l’attenzione sulle parole che aveva pronunciato. Non aveva intenzione di spararle. Non avrebbe mai potuto.
Madison si accovacciò, finché i loro occhi non furono alla stessa altezza. Alzò il braccio e allungò la mano verso quella di Jack, fino a sfiorarla. Lui reagì appena a quel contatto e non disse niente quando lei, delicatamente, gli sfilò la pistola dalle mani. Spogliato di ogni violenza, rimase semplicemente un ragazzo impaurito, invischiato in una situazione fin troppo grande, per lui. Madison si alzò, con la pistola in mano, e indietreggiò, finché il suo corpo non si scontrò con quello di Ashton, a cui porse l’arma.
Fu solo allora che Jack si rannicchiò sulla sabbia e riempì l’aria del suo pianto disperato, che ben presto sfociò in grida di dolore e pugni sbattuti.
I due colleghi si scambiarono uno sguardo fulmineo e, dopo pochi istanti, un piccolo gruppo di agenti fece irruzione sulla spiaggia. Tirarono su Jack, il quale non oppose resistenza, e gli bloccarono le mani con un paio di manette. Continuò a fissare Madison, quasi con un pizzico di vergogna e pentimento, finché non lo portarono via; non proferì parola e lasciò che lo caricassero in auto. Non si voltò nemmeno una volta.
Un gruppo di medici, del quale Nathan si era accorto solo in quel momento, constatarono le condizioni di Hank e lo caricarono su una barella. Di istinto, Nathan cominciò a correre verso l’amico, ma la mano di Alan, sulla sua spalla, lo fermò.
« Starà bene, vedrai. »
Nathan si voltò, incrociando lo sguardo dell’altro. E, il momento dopo, si trovò stretto tra le braccia di Alan, che lo abbracciava così forte che, se avesse continuato, avrebbe potuto rompergli un paio di costole.
Fu un abbraccio di ritrovata speranza, un momento che non pensava avrebbe più vissuto. Le sue mani cercarono di tastare la poca pelle di Alan a disposizione, il suo naso volle essere inebriato da quell’odore così normale, ma così speciale, e non poté che essere felice nell’udire il suono della sua voce che lo chiamava per nome. Mai, in tutta la sua vita, era stato più felice di assaporare le piccole cose, quei piccoli gesti che, ormai, pensava di aver perduto per sempre.
Si sciolsero dall’abbraccio e notò Madison e Ashton lì accanto a loro, ugualmente sconvolti. Alan le mise una mano sulla spalla.
« Madison, sei stata bravissima. So bene quanto ti sia costato. »
Lei non disse niente, perché, Nathan ne era certo, quel dolore di cui aveva parlato a Jack non era solo un subdolo tentativo di farlo desistere. Per Alan era solo un ex qualunque, per Ashton il migliore amico della sua ragazza, per Hank addirittura nessuno. Ma, per Madison, l’uomo a cui aveva tolto una pistola di mano era il suo migliore amico.
Il silenzio calò tra i quattro, e fu interrotto solo dall’arrivo di altri due agenti, che si accertarono delle loro condizioni fisiche e psicologiche, e li scortarono verso le auto che, poi, li avrebbero portati in centrale.
 
Nathan era seduto su una sedia d’ospedale, avvolto in una coperta di lana, la testa sulla spalla di Alan. Guardava i medici passare e gli infermieri correr loro dietro, mentre i suoni sembravano solo una caciara confusa, di cui non riusciva ad afferrare il senso. La presenza di Alan e il suo braccio che lo accarezzava erano tutto ciò di cui aveva bisogno, in quel momento.
Aprì le palpebre piano piano e sorrise quando si accorse che, nonostante le avesse riaperte centinaia di volte, la realtà che aveva davanti era sempre la stessa: quella che desiderava. Osservò il muro bianco davanti a lui per una manciata di secondi, dopo i quali, stranamente, tornò a regnare la calma. In quel momento calò uno strano silenzio, riempito dai ‘bip’ dei macchinari e dalle voci di pazienti che parlottavano tra loro.
« Ho avuto paura, Alan. »
L’altro sospirò, poi poggiò la testa su quella di Nathan.
« Anche io ho avuto paura. Quando non ti ho trovato in casa e quando ho visto il sangue, credevo di impazzire. Per non parlare di quando sono arrivato sulla spiaggia. Non appena ho visto che eri ancora vivo, ho capito che non tutto era perduto. »
« Come facevi a sapere dov’ero? »
Nathan lo sentì ridacchiare.
« Forse il destino ha voluto farci percorrere questa strada, prima di farci rincontrare davvero. »
Non capì a pieno il senso di quelle parole, ma non gli importava. Gli bastava essere lì, con l’uomo che amava.
« Pensavo che non ti avrei più rivisto. Pensavo che non avrei più rivisto la luce del Sole. È strano, vero? Un attimo prima sembra tutto così scontato, l’attimo dopo ti accorgi di quanto tutto, intorno a te, sia essenziale. »
L’altro annuì.
« Capisco cosa vuoi dire. » Alan lo abbracciò ancora, stringendolo forte a sé. Gli stampò poi un bacio sulla testa e infilò le dita tra quelle ciocche bionde, massaggiandogli la nuca. « Sei stanco? Vuoi dormire un po’? »
Non ottenne risposta.
In quel momento, a occhi chiusi, Nathan si fece spazio nell’abbraccio di Alan e liberò tutta la sua tensione, come fa un bambino che si rifugia nelle braccia dei genitori, convinto che risolveranno tutto.
E così, lasciò che fossero le parole di Alan a cullarlo e a rassicurarlo che il Sole sarebbe sorto ancora.

 

Eccoci qui, cari lettori. Come avrete intuito un po' dai toni, questa è la conclusione della storia, manca solo l'epilogo. Ma le sorprese non finiscono qui! Ormai mi conoscete, i miei personaggi non possono stare tranquilli troppo a lungo... XD Non vi anticipo altro, però, perché mi conosco e, di sicuro, mi lascerei scappar detto qualcosa di troppo! 
Ringrazio tantissimo Silvia, a cui ho deciso di regalare uno speciale broccolo (u.u), e tutti voi lettori, silenziosi o meno, che mi avete seguito fino qui. Con i vostri commenti mi avete incoraggiata, spronata e mi avete anche aiutato a trovare le pecche di questa storia, che correggerò non appena sarà ultimata. 
Sperando che il capitolo vi abbia regalato la giusta dose di adrenalina, vi saluto.
A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 
27 febbraio 2005.
Ashton e Madison si erano appartati in una stanzetta un po’ più piccola, lontani dagli occhi indiscreti degli amici e degli ospiti. Nonostante fosse giunto il giorno della mostra fotografica, Ashton si era accorto che Madison mostrava il suo entusiasmo a tratti: una risata qua, un sorriso là, per poi sprofondare in un’espressione cupa e abbacchiata, non appena rimaneva da sola.
Quando si furono lasciati il chiacchiericcio alle spalle, Ashton la guardò dritto in quegli occhi chiari.
« C’è qualcosa che non va? »
Madison abbassò lo sguardo e sospirò, mentre, con l’indice, delineava l’unghia del suo pollice.
« Sono davvero felice per questa mostra, davvero. Però… » Alzò gli occhi per un momento verso Ashton, per poi riabbassarli subito dopo. « Non sono ancora andata a trovare Jack. »
Lui le accarezzò una guancia col dorso della mano, gesto a cui Madison reagì con un sorriso.
« Immaginavo fosse per causa sua. »
« Non riesco ancora a crederci, Ash. Era il mio migliore amico, siamo stati vicini tutti questi anni di università e non avevo idea di chi fosse. Se da una parte ciò che ha fatto mi spaventa, dall’altra non posso fare a meno di colpevolizzarmi per non averlo aiutato, quando avrei potuto. »
« Non avevi idea del suo passato, Mad, non potevi farci niente. »
« Ma adesso lo so, invece. In questo momento dovrei sostenerlo e invece non l’ho più rivisto, da quel giorno. »
« Forse eri presa da troppe cose. Potresti andare a trovarlo in questi giorni, dopo la mostra. Sarai sicuramente più rilassata. »
Madison arricciò le labbra, pensosa. Ashton la incalzò ancora.
« Vengo con te, se vuoi. »
Madison alzò lo sguardo da terra, finché non incontrò quello di Ashton. Gli gettò le braccia al collo, in un abbraccio subito ricambiato, poi allontanò la testa quel poco che bastò per incontrare nuovamente i suoi occhi.
« Grazie. Spero solo che Jack riesca a perdonarmi. »
Lui le diede un buffetto affettuoso su una guancia.
« Pronta per tornare di là? »
Madison annuì decisa, poi lo sguardo le cadde sul suo orologio da polso.
« Oh. Il concerto sarebbe già cominciato. »
« Sei proprio sicura di aver fatto la scelta giusta, non presentandoti? »
« Ho telefonato per disdire tutto quanto. »
Ashton emise un gemito di sorpresa. Gli dispiacque che Madison avvertisse ancora quel conflitto con lo
strumento e la sua famiglia, e si domandò se non potesse fare qualcosa per farle cambiare idea.
« Be’, almeno non lascerai una platea di invitati all’asciutto. »
« … E ho fissato per un nuovo concerto la settimana prossima. Io. »
Ashton rimase a bocca aperta, mentre le labbra di Madison si aprivano in un grande sorriso.
Il primo sincero della serata.
 
Molti degli invitati, oltre agli amici, rimasero ammaliati dalle fotografie esposte da Madison, in particolare da quelle nella categoria ‘Emozioni’. La ragazza ricordava ancora il consiglio che Ashton le aveva dato a suo tempo: quello di portare, per quella categoria, qualcosa che le facesse battere il cuore.
E così, esposte su quel muro, c’erano gigantografie di Ashton in ogni posa, dall’espressione più buffa da latin lover a quella più concentrata da poliziotto.
Dopo che si fu liberata dalle domande di ospiti curiosi, Madison raggiunse i suoi amici, intenti a chiacchierare con un flûte di spumante in mano. La accolsero tutti con un applauso affettuoso che, inevitabilmente, la fece arrossire.
« Ecco qua la nostra artista. Stai riscuotendo un bel successo, sai? »
Ashton le tirò una pacca giocosa sulla spalla, mentre gli altri ridacchiavano.
Non poteva immaginare una serata migliore: era a una mostra fotografica che la vedeva protagonista, in compagnia dei suoi amici e del suo ragazzo.
Mancava solo Jack, per renderla perfetta.
Posò lo sguardo su Alan e Nathan, di fronte a lei, quando un pensiero la travolse.
« Ah, come sta il tuo amico? Si è ripreso? »
« Per fortuna sta bene, sì. »
Nathan abbassò lo sguardo e divenne malinconico tutto d’un tratto.
« Non ne sembri particolarmente entusiasta. »
Il ragazzo si grattò un sopracciglio.
« Figurati, sono felice. È che ha ricevuto un’offerta di lavoro in Florida, a breve avrà il colloquio. Se dovessero assumerlo, non ci vedremmo più. Ci conoscevano da un paio d’anni, ormai. »
« Mi dispiace davvero. Vabbè, l’importante è che stia bene e che sia felice, no? »
Nathan annuì e sorrise, ma lei capì che, probabilmente, quella notizia era stata davvero inaspettata per lui.
All’improvviso, Ashton infilò la mano nella tasca dei pantaloni, dalla quale estrasse il cellulare.
« Scusate, una chiamata. Torno subito. »
Si allontanò e Madison lo seguì con lo sguardo. Ne osservò la silhouette, le movenze e i lineamenti del volto, così decisi e, al contempo, così dolci.
Poi, però, la sua espressione cambiò.
Divenne immobile, gli occhi fissi nel vuoto, le labbra serrate. Teneva ancora il telefono all’orecchio, ma non diceva niente. Non sembrava nemmeno ascoltare il suo interlocutore.
Madison capì che qualcosa non andava. Passarono diversi secondi, ma Ashton non dava alcun segno di reazione. Si congedò dai due ragazzi e si diresse a passo svelto verso di lui.
Non appena si avvicinò, Ashton riacquisì un contatto col mondo e riattaccò in fretta e furia, concedendo a malapena un saluto.
« Tutto bene? »
Ashton strinse i denti e incrociò lo sguardo della ragazza. Guardava i suoi occhi con la stessa fissità con cui aveva puntato il vuoto, poco prima.
Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma la voce non uscì. Madison lo guardò senza capire.
« Che succede, Ash? Mi stai facendo preoccupare. »
Teneva ancora le labbra serrate, la fronte aggrottata. Poi sospirò e, finalmente, parlò.
« Era una chiamata dal carcere. »
Il suo pensiero volò verso il suo migliore amico. Il cuore mancò più di un battito e la sua preoccupazione crebbe a dismisura.
« È successo qualcosa a Jack? »
Madison si aggrappò al braccio dell’uomo davanti a lei e lo strinse talmente forte da far male, ma Ashton non le disse niente. Si limitò a mordicchiarsi le labbra, a guardare tutto fuorché lei, a cercare un appiglio per uscire da quella situazione.
« Madison… » Ashton emise un altro sospiro, stavolta più profondo. « Si è suicidato. »
Pietra.
Si sentì così.
Incapace di respirare, di muoversi, di pensare.
Le lacrime uscirono senza preavviso, potenti come un fiume in piena, pronte a sbaragliare ogni resistenza.
Ashton la avvolse in un abbraccio, mentre le braccia di lei erano ancora stese lungo il suo corpo. Si sentì vuota, come se le avessero strappato un pezzo della sua carne. Come se le avessero strappato via un pezzo del suo cuore.
Jack non c’era più.
Era morto.
Morto.
« Non è vero. Non è vero. Non è vero! »
Le lacrime ormai avevano scavato il loro percorso su quelle guance scarlatte, mentre Madison teneva i pugni stretti talmente forte che le unghie, ormai, si erano conficcate nella carne.
« Madison… »
Ashton le accarezzò la testa, nel tentativo di contenere i suoi sussulti.
Ma lei gridò il suo dolore con tutto il fiato che aveva in corpo, così come aveva fatto Jack, un mese prima, su quella spiaggia. E ripensò al suo sguardo, al suo ultimo sguardo, diretto verso di lei.
Uno sguardo che chiedeva perdono. Uno sguardo che chiedeva amore.
Un amore che lei, per motivi che in quel momento le apparvero futili, gli aveva negato.
Avrebbe voluto rivedere Jack, avrebbe voluto sentire il suo della sua voce e la dolcezza delle sue parole confortanti, mai come in quel momento.
Ma niente di tutto questo sarebbe più esistito.
Le sembrava di soffocare.
Ashton continuò a sussurrare il suo nome, mentre, con una mano, le carezzava la schiena. Passarono diversi minuti in cui lei non riuscì a trovare alcun tipo di conforto, in cui l’aria le mancava.
Jack le mancava.
Le immagini dei loro momenti insieme le invasero la mente, insieme alla crescente consapevolezza che non sarebbero più tornati. Lo stupore per il primo incontro con Alan, le risate al negozio di parrucche, il sostegno contro Loretta.
Effimero.
Era tutto effimero.
Perché niente e nessuno le avrebbe ridato il suo migliore amico e lei, in quel momento, non poteva fare altro che dannarsi e chiedersi il perché di quel gesto.
I suoi occhi si riaccesero per un attimo e guardarono Ashton, in cerca di risposte.
« Ha lasciato un biglietto, Madison. »
A quelle parole smise di singhiozzare, benché le lacrime non volessero arrestarsi. Le sembrò l’ultima speranza a cui aggrapparsi, come se quelle parole fossero testimonianza di vita, piuttosto che di morte.
Come se, per un momento, Jack fosse ancora lì con lei.
« Che cosa diceva? »
Fu poco più che un sussurro, spezzato dall’emozione. Ashton le passò un dito sulla guancia e le asciugò le lacrime, che ogni volta tornavano a sgorgare.
E poi, dopo un profondo respiro, le riportò le ultime parole che Jack aveva rivolto al mondo.
 
Volevo solo essere amato.
 
 



 
FINE
 

E così, dopo due lunghi anni, siamo arrivati alla fine. Terminare questa storia mi lascia una sensazione strana addosso, di gioia e malinconia allo stesso modo. Questi personaggi mi hanno accompagnato fino a oggi, sono stati parte di me per un bel po' di tempo e separarmene mi fa un effetto strano.
Ma passiamo, ora, ai dovuti ringraziamenti, sennò mi perdo in discorsi melodrammatici e vi faccio finire i fazzoletti.
Il primo "Grazie", senza ombra di dubbio, va alla mia beta Silvia. Era il maggio scorso quando ero lì lì per abbandonare questa storia, presa dallo sconforto: vedevo che c'erano dei difetti oggettivi, ma non riuscivo a capire quali. Ho dovuto contattare almeno sei, sette persone, prima di trovare quella che facesse al caso mio (e che non sparisse dopo una settimana).
Silvia, mi hai sempre aiutata con passione e dedizione e, soprattutto, costanza. Senza di te questa storia non avrebbe mai visto la parola "Fine" e probabilmente l'avrei cestinata con grande rammarico. Potrei riempire un'intera pagina di Word con centinaia di "Grazie" e penso che non sarebbe abbastanza! Quindi, come riconoscimento per il tuo encomiabile lavoro, ti offro un broccolo completamente d'oro e un appuntamento col Papa per farti proclamare Santa u.u È sufficiente? XD
Vabbè, scherzi a parte, un grosso grazie dal profondo del mio cuore! Ma sento che non sarà abbastanza :(
Un altro grazie va, sicuramente, a voi lettori. Con i vostri commenti mi avete davvero incoraggiata molto e mi avete fatto credere in questa storia, anche perché appassionare persone che non leggono né Originali né tantomeno Slash è stata una grande gratificazione per me.
Vi ringrazio tutti, quindi, per aver letto questa storia, che siate stati lettori silenziosi o meno.
Che dire? Siamo già arrivati in fondo a questo discorso d'addio.
Spero che questo epilogo vi sia piaciuto e che lo riteniate una degna conclusione per la storia. Forse a qualcuno dispiacerà, ma questa la vedevo come unica soluzione possibile :(
Sicuramente ho dimenticato di ringraziare qualcuno, sicuramente volevo dire un miliardo di altre cose, che mi verranno in mente non appena avrò pubblicato il capitolo - ovviamente.
Mi auguro di tornare presto con una nuova storia, ho già qualcosa che bolle in pentola ^^

Un gigantesco grazie a tutti e... a presto! :)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1548518