La Luna è di nuovo unica.

di Ryuz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dentro il mio disagio. ***
Capitolo 2: *** Tre anni prima ***
Capitolo 3: *** Dentro e fuori il mondo. ***



Capitolo 1
*** Dentro il mio disagio. ***


Da sotto le coperte, il freddo non l’avrebbe dovuta infastidire più di tanto.
Le quattro del mattino: così tardi? Igel si rigirò nel letto e si strofinò gli occhi. Non riusciva ad alzarsi, i pensieri le avvolgevano la mente bloccando ogni forma di volontà. Le sembrava di non avere mai il tempo di concentrarsi per bene su qualcosa di diverso, qualcosa che le potesse dare una via di fuga effettiva.

"Fuggi, vai. Tanto fai sempre così."

Il rimbombo di un tuono nel suo encefalo. Aveva sempre avuto la fobia dei rumori troppo forti; da bambina, capitava spesso che durante un temporale si raggomitolasse su se stessa, aspettando la fine di quel trambusto.
I rumori forti, le persone che alzano la voce: le trasmettevano entrambi la stessa sensazione di malessere.
“Non voglio che mi guardi così, smettila, smettila, smettila!”
Era incredibile come anche i pensieri potessero urlare, dentro di lei. Per cosa, poi?
“Per delle stupidaggini, per delle stupidaggini.”
Finalmente si decise ad alzarsi: si trascinò le coperte con sé, e si mise ad osservare la sagoma grigia del monte Etre che incombeva sui parchi, sui palazzi circostanti, su tutto.
"Niente stelle, questa sera.", disse con un sussurro "Troppe nuvole."
Si accasciò a terra, vicino all’imposta della porta-finestra.
"Domani sarà un altro di quei giorni. Uno in cui non si parla di niente, uno di quelli in cui aspettiamo che il treno passi e che passi anche la giornata. Per me sarà così, non so per gli altri. Per me sarà di nuovo così., passarono un paio di minuti, poi continuò "Sarà così per quanto?"
"Che modo di ragionare è questo, piccolo riccio?
Sentì chiaramente queste parole da chissà dove.
Si guardò intorno: l’unica luce nella stanza era la spia rossa del televisore. Non ebbe il coraggio di dire nulla.
Restò tesa per alcuni secondi, ma non sentì alcun suono ambiguo.
“Quella spia del televisore mi mette i brividi. Ho troppa immaginazione: come se una spia rossa potesse parlare.” – sogghignò- “Ripensandoci, però: sarebbe divertente, se parlasse, sarei la prima persona al mondo ad aver scambiato quattro chiacchere con una spia del televisore! Avanti, dì di nuovo qualcosa!”, pensò, ma, nello stesso tempo, si portò le dita alla bocca e cominciò a mordicchiarle.
Non era successo nulla.
“Per fortuna”, pensò. “Che potrebbe mai dirmi di interessante, poi, una spia del televisore?”
Tornò a fissare il mondo esterno.
"Sarà un’avventura, vero?"disse "Diceva così, quella canzone. Eppure, mi sembra che tutto vada inesorabilmente storto."
Le cose, nella sua testa, andavano sempre così: un alternarsi funesto di buio e luce.
"La bambola col suo vestitino ben acconciato cammina per la strada solitaria. Canta una canzone che solo lei può capire, ha inventato un linguaggio che solo lei può comprendere. Non vuole dire cosa significa a nessuno, ed ha paura quando un altro essere umano si avvicina; ma è così bella, è così bella, perché fa così?"
Si schiarì la voce, non disse più nulla per qualche secondo.
Era finalmente stanca: di lì a poco la madre avrebbe aperto la persiana, la luce di un nuovo giorno si sarebbe insinuata di nuovo nel suo percorso vitale estremamente variabile.

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Capitolo 2
*** Tre anni prima ***




Atmosfera sbiadita, poi, la sua stessa voce.
“Sasha, smettila, davvero, smettila!”
Sasha aveva un’altra volta cominciato ad infastidire Igel con la punta del compasso. Igel era abituata al trambusto giornaliero, ma ogni volta che si ritrovava a subire quella persecuzione insensata si chiedeva il motivo per cui una dodicenne non potesse avere come unico amico un randagio incontrato per la strada di casa. Amico che aveva, in effetti, e che, per fortuna, non poteva parlare.
“Igel, Igel, Igel! Cos’è questo comportamento così remissivo? Vuoi fare qualcosa, Igel?”, provocò Sasha.
Igel si girò verso il suo banco di scatto.
“Se cominciassi a reagire ogni volta che fai tutta questa tarantella, secondo te quella con i lividi, tra le due, chi sarebbe?!” avrebbe voluto dirle, ma non le uscì un singolo suono dalla bocca, a parte il solito mugugno.
“Cosa, Igel, cosa?”, rise Sasha.
Igel si alzò di colpo, trattenne le lacrime e andò a sistemarsi vicino alla porta d’ingresso della classe.    
“Devo finire con l’odiare anche questa mezz’ora di intervallo”, disse a bassa voce.
La sua attenzione si spostò, come accadeva spesso, su quel che era intento a fare Verloren, che in quel momento aveva costruito la solita catapulta costituita da pastelli, e infastidiva Hure dall’altra parte della classe, la quale non lo degnò neanche di uno sguardo.
“Dieci punti. Hai lo sguardo più concentrato del mondo anche quando fai queste cose”, rise Igel. Non le riusciva quasi mai di parlare con Verloren, per questo spesso le frasi si concludevano con un rimprovero , quasi come se fossero rivolte ad un estraneo “Comunque, lascia stare Hure.”
Verloren si limitò a destreggiarsi in qualche smorfia facciale, poi disse “Dopo che abbiamo?”
“Ora buca, Verlo.”
“E perché non siamo a casa?”
“Che hai da fare a casa?”
“Non lo so, di preciso, come non so che sto facendo qui.”
Igel interruppe la discussione e osservò le persone che passavano per il corridoio. La infastidiva parlare con una persona che stimava per non sapeva di preciso quale ragione, perché si sentiva sempre la stupida della situazione.
“Se solo sapesse”, pensò .
 Verloren si era alzato, nel frattempo, e aveva cominciato ad elucubrare qualcosa assieme alle uniche persone con cui passava il tempo in classe: Fugsam e Schulter.
Loro tre erano le persone con cui la ragazza si trovava meglio.
Il motivo era molto semplice: le davano l’impressione di persone con cui si potesse parlare non delle solite banalità, ma con cui fare discorsi davvero interessanti.
Tuttavia, come faceva sempre, non aveva mai provato ad approfondirne più di tanto la conoscenza, perché si sentiva vincolata dalle sue amicizie, le quali erano ben diverse da un trio di ragazzi silenziosi con poco riguardo per gli altri.
Le rare volte in cui si scambiavano qualche battuta, erano momenti che si imprimevano nei ricordi di Igel con molta piacevolezza.
Le capitava quando era intenta a pensare intensamente, che Verloren si avvicinava per una sciocchezza e le facesse domande stupide, la maggior parte delle quali erano osservazioni sul suo pessimo umore quotidiano.
Le giornate scolastiche proseguivano in quel modo: Igel cercava di rimanere nell’ombra, ma aveva finito col legare con persone con cui poteva passare i finesettimana, in modo tale da non farsi infastidire dalla madre che altrimenti l’avrebbe cercata di coinvolgere da qualche improponibile figlia di amica di famiglia.
Quando la giornata scolastica finì, Igel si diresse in fretta e furia verso l’uscita della scuola e arrivò stremata nei pressi del parcheggio del comune.
“Almeno qui non posso essere disturbata da nessuno.”, pensò.
Aspettava sempre un po’, prima di tornare a casa, in questo modo aveva l’opportunità di fare il percorso da sola quando voleva.
Distesa in cima ad un muretto, intenta ad osservare i rami di un salice piangente che la copriva dalla visuale delle persone che si allontanavano dal plesso, canticchiava a bassa voce una canzone cui era molto affezionata da alcuni mesi:
“Sarà un’avventura, vero? I sogni sono le cose che ci danno forza, non sono per gli altri.”
Poi, in silenzio, cominciò a monitorare il suo respiro.
“Salice, salice, che noia, salice.”
Si sedette tranquilla, poi, d’improvviso, notò nelle vicinanze una capigliatura che gli era piuttosto familiare.
“Verloren!”, esclamò, e si coprì immediatamente la bocca con entrambe le mani.
Verloren si incamminò pacatamente verso di lei.
“Ige.”, il ragazzo disse il suo nome senza una particolare nota vocale: probabilmente, stava pensando a qualcos’altro, pensò Igel, dato che i suoi occhi si erano rivolti altrove un millisecondo più tardi.
Convinzione che venne tradita quando Verloren cominciò a parlare: “Tipo… tipo posto segreto.”
La ragazza lo osservò per qualche secondo dritto negli occhi, poi sbiascicò: “I-ironia? Che vuoi?”, Verloren sorrise con fare nervoso.
Il vento soffiava leggero tra le foglie.
“Quando sei nervosa, ti mordicchi le mani.”
Igel si levò immediatamente da bocca la mano destra, storpiò le labbra e fece finta di nulla.
“Perché?”, disse solamente Verloren, osservandola inclinando il capo.
“…che vuoi, è istintivo.”
“No, non intendevo quello. Perché sei nervosa?”
Dall’orecchio destro, Igel sentì un breve fischio, che le attraversò il cranio per poi arrestarsi dopo qualche secondo. Le succedeva quando sentiva cose che non credeva avrebbe mai sentito.
“È in alto…”
“Come?”
“Qui, è in alto, ho sempre paura di scendere.”, riuscì a dire, con calma.
“Ah. Vuoi una mano?”
“No! No che non voglio una mano, ce la faccio benissimo da sola!”, disse scendendo con un balzo subito dopo.

Igel si svegliò di colpo: la madre aveva aperto la persiana e la luce era entrata bruscamente nella stanza.
“Vai, su, il caffè è sul comodino.”, disse la madre.
“Salutamelo.”, rispose Igel rannicchiandosi sotto le coperte.
Perché sognare una scena avvenuta tre anni prima proprio in quel momento?
Le vennero i brividi, scese dal letto e prese in fretta e furia il necessario dall’armadio esclamando “Tornerò, madre, tornerò.”
“Immagino sia una minaccia”, rispose la madre.

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Capitolo 3
*** Dentro e fuori il mondo. ***


“Un treno che porta tutte le mattine allo stesso posto è un treno inutile”, pensò Igel quella mattina “per fortuna, arriva sempre in ritardo, così posso passare quei dieci minuti fuori dalla classe…”
Le persone che la circondavano, probabilmente non la pensavano come lei.
Sasha, sua amica da tempi immemori, aveva il solito sguardo fisso in un punto indefinito delle rotaie.
“Se il nostro rapporto fosse come prima, magari a quest’ora mi starebbe facendo la solita solfa sul come ci si presenta agli altri senza dare l’idea di una decerebrata.”
Il pensiero su cui si stava tormentando la ragazza la scorsa notte, infatti, riguardavano una discussione avuta con l’amica qualche mese prima. Discussione che le aveva portate ad un litigio che non si sarebbe risolto molto presto.
Hure spuntò da dietro una colonna con un cornetto nella mano sinistra. Senza dire nulla, allungò la colazione verso Igel, che sorrise goffamente.
“No, Hure, grazie…”
“Andiamo, so che ne vuoi un pezzettino”, insistette. 
“No, davvero…”
“Sì che lo vuoi!”
Igel staccò un pezzo del cornetto e se lo portò alle labbra. Dolce.
“Non faccio mai colazione.”, disse.
“E sbagli.”, disse Hure.
Hure aveva un fisico impressionante, nonostante desse la parvenza di ingerire l’equivalente di un pachiderma. I suoi ricci capelli marroni le scendevano dolcemente sulle spalle, un paio di occhi marrone chiaro sovrastavano un naso all’insù e un paio di labbra delicate. Nell’insieme, sarebbe potuta sembrare un personaggio irreale, se solo non avesse avuto un’andatura decisa, quasi da militare: tale andatura era il rispecchiarsi di un modo di fare altrettanto determinato.
“Come se stesse percorrendo una via dritta che si costruisce ad ogni passo, da sola.”, pensò Igel.
Lei, al contrario, quando passeggiava aveva sempre l’aria noncurante del mondo. Se un conoscente l’avesse fermata all’improvviso, Igel avrebbe, con molta probabilità, balbettato qualcosa su un particolare del luogo che le si era appena impresso sulla retina. Osservava sempre il sentiero che calpestava, poi, quando se ne rendeva conto, alzava la testa di scatto, come se fosse appena alla conquista della posizione eretta. Anche in questo caso, il suo modo di fare era il corrispettivo della sua andatura.
Hure salutò con un cenno del capo Sasha, che rispose allo stesso modo.
Le cose andavano così da alcuni mesi: Hure e Sasha avevano atteggiamenti opposti nei confronti di Igel rispetto a poco tempo prima, e quest’ultima era in balia della situazione.
Quando arrivò il treno, Hure cominciò a parlarle di qualcosa che ad Igel davvero non interessava, tenendola stretta per il braccio. Ad Igel quella stretta stufava davvero molto: ma se all’amica andava bene, chi era lei per opporsi come se le stesse facendo del male? Così, finiva col percorrere la strada che portava al liceo assieme all’energica riccia marrone.
Quando si dovevano dividere per andare ognuna ai rispettivi plessi, il distacco era immediato: Hure la mollava dicendo “Allora, ciao!” e accollandosi presto a qualcun altro.
Igel la guardò allontanarsi, poi sospirò: per seguire Hure doveva farsi un pezzo di strada in più quasi tutte le mattine.
“Se a lei va bene così…”
Si incamminò con passo lento, osservando i ragazzini delle scuole elementari sghignazzare al suono della campanella.
“Quando eravamo alle elementari, non sapevo se fossi un bambino o una bambina.”
La ragazza continuò ad osservare la scuola, ma fece un’espressione corrucciata.
“Che vuoi, Verlo, avevo i capelli corti , me li faceva portare mia madre.”
Verloren in tre anni non era cambiato, se non per la comparsa di una peluria indecisa sopra alle labbra.
“Tu porti da sempre questo caschetto alla beatle, invece. E a Marzo li tagli. In tanti anni che ti conosco, li hai sempre tagliati a Marzo.”, avrebbe voluto rispondergli, ma, come al solito, la risposta rozza ebbe il sopravvento su una che avrebbe potuto dargli il minimo accenno di interessi nei suoi confronti.
Disse invece “Niente Fugsam?”
“Casa.”
“Niente passaggio.”
“Niente passaggio.”
Da quando Fugsam aveva preso il patentino, Igel non vedeva spesso quei due in giro per la stazione, e questo le dispiaceva molto, perché avrebbe preferito perfino osservarli da lontano, più che passare il tempo con quella manciata di persone che aveva conosciuto al liceo che non le trasmettevano molto.
Erano ormai arrivati di fronte all’istituto.
Verloren si diresse verso i suoi compagni di classe. Aveva scelto l’indirizzo classico, mentre Igel quello scientifico.
“Avrei fatto meglio a dar retta a mia madre, a quest’ora non avrei passato dei guai con Sasha e sarebbe tutto più facile.”

“ ‘Sarà un’avventura’… quante cazzate.”

Quanto sconforto le avrebbe ancora dato tutta quest’apatia?
Il clima primaverile, tuttavia, le riempiva il cuore di qualcosa di nuovo: dentro sapeva che qualcosa sarebbe sbocciato.
Bastava solo prendere la decisione di fottersene dell’inciviltà del destino.

“La bambola è in balia di quest’ondate di malessere, la bambola davvero non ne può più.”, pensò.

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