Elektra E La Profezia

di MegTachema
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Chiave ***
Capitolo 2: *** La Strana Cartolina ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Il Gigante ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - L'Appuntamento ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Crisi D'Identità ***



Capitolo 1
*** La Chiave ***


CAPITOLO 1
LA CHIAVE

 
 

«Baldoria? Ma che dici, Jack, quale baldoria?... Senti, sono una persona responsabile, mi comporto bene e sto magnificamente, quindi smettila di preoccuparti per me... D’accordo, ma non puoi chiamarmi a quest’ora, lo sai che sto lavorando e... sì, mangio... siii... nooo... cavolo! Anche tua madre me lo diceva sempre, NO che non mi caccio nei guai!... Non urlo!... Sono calma!... Bene, grazie... sì, Jack, ho capito. An-anche tu stammi bene e salutami Michelle e i ragazzi; verrò a trovarvi presto. Nooo che non lo dico tanto per dire... Jack, ti prego, mi farai licenziare... sì, va bene, a presto, ciao!»
Elektra riagganciò nervosa il vecchio ricevitore e sospirò.
Cavolo, Jack, la tua apprensione è carina ma sei uno stress! Si diede un’occhiata furtiva attorno. Meno male che funiculì non era nei paraggi, constatò sollevata. Pensa se avesse scoperto che gli ho scroccato in segreto una chiamata urbana... poteva venirgli un infart...
Non finì la frase che una figura tozza e sgraziata, incorniciata dalla soglia della porta della cucina, sbottò con malagrazia: «Eh mammamia, Power, sempre al telefono shtai? E io paaago!»
«Sta-stavo chiamando col mio skypephone, signor Cardillo. Non mi permetterei mai di fare chiamate...»
«O’ shchipechè? Como tell’aggià ddi’, chillo, o scellulare, l’ha’ da tenere shpento acca’, hai capi’?»
«Signor Cardillo, mi scus...» ma già l’uomo, tarchiato e panciuto, le voltava le spalle per tornarsene dietro la cassa del suo ristorante, in preda a quel frenetico gesto maniacale di portarsi indietro la frangia lunga, nera e untuosa, imprecando il suo detto preferito, che risuonava ormai come un vero grido di battaglia: Diavolacceu shcurnacchiateu!
Che vitaccia!, meditò Elektra, nella cucina di quel locale italiano: il signor Cardillo era un uomo insopportabile, maleducato, presuntuoso, arrogante, avaro, pettegolo, superstizioso e perennemente in lotta col progresso. Siamo circondati dalla tecnologia e quel pidocchioso non solo vorrebbe separarmi dal cellulare, ma non vuole neanche spendere un soldo per un condizionatore. Anzi, tra qualche giorno ci presenterà pure il conto per la sauna che facciamo in questo forno di cucina. Se si permette di nuovo di parlarmi così, giuro che lo pianto ‘sto lavoro!, considerava Elektra, riempiendo di piatti unticci una lavastoviglie così vecchia che per far partire il programma di lavaggio bisognava infilare uno stecchino nel pulsante di avvio, e per farla fermare si doveva staccare la spina dalla presa.
Era stata un’estate terribilmente afosa: “...Stime ministeriali sono approdate a un’oscura sentenza: la siccità di quest’anno è direttamente imputabile al processo irreversibile di cambiamento climatico, causato dall’innalzamento della temperatura del pianeta...” erano le parole pronunciate con toni apocalittici dai giornalisti di tutti i Tg nazionali, e chiaramente il signor Cardillo non se ne perdeva uno. «San Gennaro! O’ shcorno me perseguita!» commentava sempre, riferendosi al fatto che trasferendosi a Londra aveva sperato di poter sfuggire al caldo equatoriale, alla desertificazione, ai terremoti, ai maremoti, agli uragani, alle locuste, alle pandemie, alle carestie, alle catastrofi nucleari, persino allo schianto di un asteroide.
Il caldo insopportabile di quella notte aveva reso incandescente la stazione della Metro, dalla quale Elektra prendeva lo Spin-Tube Ealing, un treno a idrogeno ad alta velocità che, dal quartiere di Soho, la portava dritta a casa. Le sagome di oggetti e persone venivano distorte dalla calura invisibile, e gli schermi smart-flat trasmettevano le interviste ai giocatori della Nazionale di calcio, dando l’impressione che da un momento all’altro quei visi si allungassero per colare fuori dal video. Ma ovviamente era solo una sensazione, come quella di essere perennemente seguita per strada.
Londra era sempre stata una città piena di sorprese, però Elektra non si stupiva più di nulla. La canicola in estate, il freddo polare in inverno, c’era sempre qualcosa che dava alla testa un po’ a tutti; lei lo sapeva bene, per questo motivo aveva preso lezioni di arti marziali, e per lo stesso motivo camminava per le strade della sua caotica metropoli con uno spray al peperoncino come portachiavi, guardandosi attentamente in giro. La sua non era paranoia: avrebbe compiuto diciott’anni di lì a poco e di gente sciroccata ne aveva incontrata già un bel po’.
Che nottata infernale! Non vedo l’ora di fare una doccia, fu il piccolo pensiero piacevole con il quale si accarezzò l’anima mentre si fermava ad Alperton.

«Buongiorno, Elektra!» esclamò uno dei suoi coinquilini entrando in cucina la mattina dopo.
«Buongiorno, Charlie» borbottò lei davanti a una tazza fumante di caffellatte.
«Nottataccia?» La smorfia con la quale rispose alla domanda la diceva lunga. Sorridente, lui le augurò con un tono rassicurante: «Dai, sarà una buona giornata.»
Normalmente poco propensa ai convenevoli per via del suo carattere diffidente, Elektra annuì sforzando un sorriso riconoscente: Charlie era un ragazzo carino e affabile, sempre gentile e premuroso con lei, e non meritava di subire i suoi malumori nei loro incontri sporadici. Lo aveva conosciuto grazie a un annuncio di locazione su Facebook e, nonostante ci fossero altre persone in lizza, quando era andata a vedere la stanza lui le aveva subito fatto versare la caparra, scatenando le invidie degli altri coinquilini, molto meno simpatici di Charlie. Per fortuna lei incontrava raramente gli altri: benché fosse così giovane, era l’unica in quella casa, al 25 di Eagle Road, che usciva all’ora del tè e rientrava dieci minuti prima del coprifuoco anti-etnic gangs, e durante il suo giorno libero stava rinchiusa in camera davanti al suo PC-Globe, un computer tridimensionale di ultima generazione, avuto a metà prezzo grazie al lavoro di Charlie.
Anche quella mattina, com’era solito a quell’ora in casa, qualcuno sulle scale sorprese Charlie mentre andava a lavoro, commentando: «Ma come fai a conversare così sciolto con lei? Le auguri perfino buona giornata.»
Il ragazzo sbuffò paziente. «Senti, Genna, sta solo sulle sue ma non c’è nulla di male.»
«È svitata, altro che sulle sue. Lo sai che l’altra notte, mentre andavo a prendermi un po’ d’acqua, la sentivo parlare nel sonno in una lingua strana? Sembrava latino: una cosa inquietante!»
Dal mezzanino del secondo piano, una testa rossa si affacciò bisbigliando: «L’ho sentita anch’io!»
Charlie sventolò una mano a Mindy e raccolse valigetta e chiavi di casa, brontolando in sordina a Genna: «Tu e gli altri siete esagerati. Sono ormai sette mesi che vive qui e non siete riusciti neanche a scambiare più di due parole con lei.»
Genna si mise la borsa a tracolla e gli diede una pacca sulla spalla. «In compenso, l’hai fatto tu per tutti.» Arcuò un sopracciglio, maliziosa.
«Cosa vuoi insinuare?» protestò lui. «È una ragazza molto bella ma ti ricordo che ha diciassette anni.»
«E fa sicuramente parte di qualche baby-gang, se non ne è il capo!»
«Ma come fai a dire certe cose?»
«Senti, Charlie, quella ragazza non ci piace. Si comporta da teppista, frequenta gente poco raccomandabile, come quel tizio dall’aria losca che viene a trovarla di rado fortunatamente; ed è pure fuori di testa.»
Charlie aprì la porta di casa. «Non è fuori di testa, è solo bizzarra e sì, non sarà una santa, ma non è pericolosa. Senti, sto andando in centro, vuoi un passaggio?» tagliò corto lui.
Genna accettò di buon grado. Lei e Charlie presero la macchina e si avviarono per andare al lavoro. Charlie, in effetti, era l’unico che le rivolgeva la parola di tanto in tanto. Nonostante le critiche dei coinquilini, che se la facevano volentieri alla larga da lei, lui vedeva un po’ più al di là del suo naso, uno dei tanti motivi per il quale a Elektra Charlie non dispiaceva affatto.
«Guarda che lei non è sempre stata così» esordì lui di punto in bianco, prima di svoltare per Ealing Road. Non voleva parlarne, avrebbe tenuto tutto per sé, ma l’atteggiamento di Genna non gli andava proprio giù; così, essendo l’unico ad aver incontrato un parente di Elektra il giorno in cui era venuto a vedere come si era sistemata a Eagle Road, si sentì in dovere di darle giustizia, raccontando la sua storia: «Power, si chiamava Jack Power. Lei quel giorno non c’era, così, mentre aspettavamo che rientrasse, abbiamo fatto due chiacchiere.»
«Svitato come lei?»
«Lei non è svitata, e comunque il signor Power è davvero una gran brava persona.»
«Ma come ha fatto quella a venire su così?»
«Guarda che da ragazzina era vivace, gentile e affettuosa, una bambina adorabile.»
«Accidenti, che l’è preso poi? Ha perso la memoria?»
«Spiritosa! All’età di undici anni perse la nonna. Lei l’aveva cresciuta, anche se non era proprio sua nonna: Elektra è stata adottata, perché i suoi genitori sono scomparsi quando era ancora molto piccola. Sua nonna era la madre del signor Power, e lui mi disse che lei amava così tanto quella bambina, al punto che con sua moglie Michelle presero a cuore la sua situazione e la accolsero in casa come una figlia.»
«Non lo sapevo, mi dispiace, ma tutto ciò non giustifica le sue stranezze.»
«Forse no, ma resta il fatto che questa dolorosa separazione dalla nonna ha scatenato un trauma in una ragazzina così giovane, con un ciclo interminabile di incubi. Il signor Power mi ha raccontato che i suoi sogni strani erano talmente forti da sembrare reali.»
«Che vuoi dire? Che aveva, le visioni?»
«No! Elektra parlava nel sonno, era sonnambula e, da sveglia, dava descrizioni così inquietanti dei suoi sogni che decisero di portarla in analisi.»
«A quanto pare ce ne voleva uno bravo!»
«Già, non solo i sogni continuarono, ma questo processo, sebbene discontinuo, divenne ossessionante e modificò ampiamente il suo carattere, rendendola solitaria, scontrosa e poco avvezza a stringere legami. Forse è una sorta di autodifesa quella di tenere tutti a distanza, per la paura di subire nuovamente il trauma di un forte distacco.»
«Certo, prima la morte dei suoi genitori, poi la pseudo-nonna.»
«I suoi genitori non sono morti.»
«Ma non hai detto che erano scomparsi?»
«Appunto, letteralmente scomparsi; si sono perse completamente le loro tracce... ma che fai, piangi?»
«Le storie sugli abbandoni mi fanno sempre quest’effetto... è così triste!»
«Già, ma il signor Power non la pensava così.»
«Allora hai visto che è svitato pure lui?»
«Ma la pianti! Jack Power mi assicurò che i genitori di Elektra furono costretti a darla in affidamento, e lo fecero a malincuore.»
«E perché?»
«Nemmeno lui ne conosceva il motivo e non fece in tempo a farselo rivelare da sua madre.»
«Quindi nessuno lo sa, nemmeno Elektra?»
«Esatto, figurati che lei ha sempre saputo che i suoi erano morti, fino a quando il signor Power non le disse la verità.»
«E lei come reagì?»
«Come Jack Power non poteva prevedere: molto male. Vedi, Genna, il signor Power pensava che rivelare a Elektra che i suoi genitori fossero vivi potesse accendere in lei una speranza positiva, come l’idea che un giorno avrebbe potuto incontrarli di nuovo.»
«E invece cosa successe?»
«Elektra non accettò l’idea che i suoi l’avessero data via perché, a suo avviso, nulla avrebbe potuto giustificare una tale scelta.»
«Decisa la ragazza! E quanti anni aveva quando glielo disse?»
«È successo l’anno scorso, dopo il capodanno, difatti è un anno e mezzo che Elektra vive per conto suo.»
«Cosa? Ha lasciato la sua famiglia perché il padre adottivo le ha detto la verità?»
«No, Genna, ha lasciato la sua famiglia perché non ha sopportato che lui le avesse nascosto la verità.»
«Ma quell’uomo come ha potuto lasciarla andare via di casa? Aveva solo sedici anni!»
«Non ha avuto molta scelta: Elektra è scappata diverse volte e, in una delle sue rocambolesche fughe, ha pure fatto venire un colpo alla loro vicina, perché si è intrufolata in casa sua, saltando dalla finestra della sua camera, al secondo piano, fin dentro la sua stanza da letto, fracassando il vetro. Questo mentre lei e suo marito, una coppia di anziani, dormivano beatamente.»
«Chissà che spavento! Te l’avevo detto che è pazza.»
«Era ed è solo un’adolescente irruenta e difficile a causa della mancanza di una figura di riferimento stabile.»
«Mhum,» borbottò lei, «e quei due poveri vecchietti? L’avranno denunciata, ovviamente.»
«Sì, ma la cosa non ebbe conseguenze: all’arrivo della polizia i vicini erano già stati rabboniti dal signor Power. Loro, che conoscevano bene la situazione di Elektra, decisero di chiudere un occhio, ma il signor Power si sentì responsabile e...»
«E?»
«La lasciò libera d’andare via definitivamente. Lei abbandonò la scuola, si trasferì da sola nel cuore di Londra e, rifiutando qualsiasi aiuto economico, iniziò a lavorare per mantenersi, e ti assicuro che per una ragazza della sua età deve essere stata dura.»
«Sì, lo penso anch’io... davvero ammirevole!»
«Hai cambiato idea su di lei, adesso?»
«Beh sì, maaa...»
«Che fai col telefono in mano? Chi chiami?»
«Il fabbro: voglio che venga a blindare la serratura della mia stanza.»
«Ho sprecato il mio fiato!» esalò contrariato il ragazzo.

«Che schifo di lavoro!» brontolava malmostosa Elektra, ancora seduta al tavolo della piccola cucina, davanti alla sua tazza di caffellatte ormai fredda.
Come rimpiango i tempi del Planet Web, lì sì che mi divertivo da matti!, pensò, rimpiangendo ardentemente le mansioni di barman dietro al bancone del Caffè multimediale dove aveva conosciuto più della metà dei suoi clienti più affezionati. Là sì che si facevano affari d’oro; è un peccato che mi abbiano licenziata, e poi solo perché avevo infettato tutte le postazioni. Mica l’ho fatto apposta: quella sera ero solo più ciucca del solito.
A Elektra scappò un sorriso compiaciuto. La sua grande passione per l’informatica le aveva dato grandi soddisfazioni: aveva creato, insieme a un suo amico, una piccola attività, illecita ma fruttifera, che l’aveva introdotta a pieno titolo nell’Olimpo degli hackers, e come sede aveva proprio quel webcafè, dove i due si erano conosciuti.
La sua invenzione geniale era stata il Phoenix-Wizard, un virus invisibile alle normali difese dei sistemi informatici tradizionali, ma che, una volta scovato e distrutto, riusciva a ricrearsi dal nulla, come dalle sue stesse ceneri. Dyn, il suo socio in affari, non smetteva di adularla: «Tu c’hai messo della magia in questa piccola creaturina diabolica!» le disse il giorno in cui Elektra gli mostrò di cosa era capace la sua Fenice. Dyn era entrato volentieri in affari con lei perché aveva un grande fiuto, quello dei soldi, e in effetti dopo che ne erano entrati a palate non la perse più di vista.
Dyn... si ripeté Elektra, stringendo a sé la tazza. Credo che stia per Dynomite, nick astrofisico davvero, ma sarei curiosa di sapere come si chiama, anche se rischio seri guai a chiedergli il suo vero nome. Anch’io, del resto, avrei dovuto sceglierne uno un po’ più originale. Kitty... fece una smorfia schifata, come tutte le mie password. Se lo avessi fatto, avrei potuto continuare a fare magie indisturbata!, concluse piccata.
Il lavoro come lavapiatti nel ristorante italiano era iniziato difatti come copertura, ma si rivelò ben presto irrinunciabile: craccare, masterizzare per rivendere programmi o piazzare il Phoenix-Wizard per infastidire le banche dati o i sistemi aziendali in concorrenza coi suoi clienti, era diventato pericoloso ed Elektra non poteva più esporsi. Esisteva da qualche anno una commissione investigativa di controllo per crimini informatici, la D.I.S.I. (Dipartimento Inquinamento Sistemi Informatici di Scotland Yard) che stava addosso ai pirati più incalliti. Per non fare mosse false, aveva ritenuto prudente prendersi un periodo di pausa per far perdere le tracce della sua doppia vita, anche se ciò comportò serie rinunce economiche. Detestava riconoscere che quel lavoro fosse per lei indispensabile, ma ancor più dover sopportare la maleducazione del signor Cardillo, che aveva, a suo avviso, solo un’abilità straordinaria, quasi sovrannaturale: sorprenderla sempre e solo quando prendeva una breve e sporadica pausa o quando, raramente, le squillava lo smartphone.
Dopo aver inseguito i suoi pensieri sopra la tazza di caffellatte, andò nella sua stanza. Prese dei vestiti dall’armadio e li dispose sul letto.
Accidenti, devo fare il bucato.
Si tolse la maglia del pigiama davanti allo specchio e i lunghi capelli nerissimi, morbidi e lucenti come seta, le si scompigliarono sulle nude spalle. Presa dal comodino la sua pinza preferita, li raccolse, legandoli in su, mentre i suoi occhi color miele, screziati di pagliuzze dorate, esaminavano in lungo e in largo le armoniose curve del suo corpo, soffermandosi sul ventre piatto.
«Ero proprio ubriaca quella sera!» disse tra sé a voce alta, guardando sullo specchio il riflesso del tatuaggio che si era fatta fare due mesi prima, durante una notte brava, per festeggiare uno dei suoi proficui affari andati in porto. Quel ricordo la fece sorridere, ma subito dopo ritenne che quella saetta, che cominciava all’altezza del suo ombelico per poi spingersi giù in direzione dell’inguine, fosse stata proprio una scelta astrofisica.
Dopo l’ossequio al suo tatuaggio, era arrivata l’ora di riempire il cesto da portare in lavanderia: tolse i pantaloni del pigiama, si vestì con quello che aveva tirato fuori dall’armadio e notò che sulla maglia c’era una vecchia macchia. Stizzita per non essersene accorta prima, lanciò anche quella nel grosso cesto e si avventò nuovamente su ciò che restava del suo guardaroba. Rovistando tra le poche t-shirt rimaste, toccò un oggetto duro e legnoso: si ricordò del cofanetto intarsiato con strani motivi arzigogolati che lei stessa aveva nascosto gelosamente in quell’angolo. Ripensando al contenuto che custodiva, lo tirò fuori. Andò a sedersi sul letto e se lo mise sulle gambe, rimuginando: Devo restituire a Dyn i soldi che mi ha prestato. Lo aprì. Dentro c’era una grossa chiave d’oro massiccio, con strani ghirigori sulla larga impugnatura.
Sarà davvero parecchio antica. Deve valere un mucchio di soldi... calcolò spicciamente, ma scosse subito la testa come se quel brutto pensiero fosse stato un fastidioso moscone. Ma che dico, la chiave della nonna! Come posso pensare di dare via l’unico oggetto che mi è rimasto in suo ricordo. E poi lei me lo ha affidato poco prima di morire, dicendomi di averne cura. No, Dyn aspetterà ancora qualche giorno per riavere indietro i suoi soldi.

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Capitolo 2
*** La Strana Cartolina ***


~~CAPITOLO 2
LA STRANA CARTOLINA
 
 
 

Il trenta agosto di quell’anno faceva un caldo infernale: agli angoli delle strade, gli schermi della viabilità mostravano i peggiori incidenti stradali intercorsi nelle ultime ventiquattro ore, per le autostrade del paese e per gli incroci dei centri urbani. “State attenti ai colpi di calore” era la didascalia che scorreva sotto tutte le insegne multimediali di Metro e fermate degli autobus, su quelle pubblicitarie e persino sulle vetrine dei negozi.
Elektra quella mattina uscì verso le dieci, diretta alla lavanderia dietro l’angolo.
«Può venire ritirare a mezz’ora. Con caldo no c’è clienti» le disse la signora Ahsan.
«Fantastico! Faccio un giro in centro e torno» le rispose Elektra e, dopo averla salutata cordialmente, si appostò alla fermata di Norton Road, all’angolo. Prese un autobus che in pochissimi minuti, dato che il caldo aveva allungato le ferie di molti londinesi, la portò all’ingresso della Metro, dove prese al volo il Monster Four, lo Spin-Tube che portava dritti dritti nel bel mezzo della City.
Scese a Piccadilly, dove diede una breve sbirciata al Trocadero, e a piedi scarpinò fino a Charing Cross Road. Lì sembrava facesse ancora più caldo, ma ciò non scoraggiò Elektra che andava alla ricerca di qualcosa di poco costoso da regalarsi per il suo imminente compleanno. Risalì la Tottenham Court Road, indecisa tra una ring-drive da cinquantadue giga, da portare comodamente alle dita, o una nuova agenda, con tante pagine di carta intonse, dove poter trascrivere le intime riflessioni sulle stramberie che le apparivano in sogno certe notti.
Decise per il diario, scelta alquanto nostalgica data la larga diffusione del digitale. Per queste cose lei la pensava un po’ all’antica: le piaceva sentire l’odore della carta, rigorosamente riciclata, mentre le affidava i suoi segreti più intimi sui viaggi insoliti in quell’immenso e misterioso scenario di un imponente castello, oscuro e tetro. Il bizzarro maniero si presentava sempre lo stesso di volta in volta, con le sue stanze, corridoi, scale zigzaganti, serpentine o maestose; persino le torri erano identiche ogni notte, arcane e svettanti in tutta la loro solenne altezza.
Ritornò a Charing Cross Road. Mentre si trastullava tra le sue fantasie, si soffermò sulla cyber-vetrina di un negozio di musica, che presto richiamò tutta la sua attenzione. Visti i prezzi inaccessibili per lei in quel periodo di magra, distolse lo sguardo per indirizzarlo al negozio di libri proprio accanto. Un secondo prima di affondare i suoi occhi sui nuovi bestseller digitali in offerta lancio, ebbe la strana sensazione di aver scorto qualcosa: guardò più attentamente e notò che la distanza tra le due vetrine era così ridotta da accorgersi a malapena di quella piccola e scura porticina che vi stava in mezzo. Pensò subito a una semplice porta di servizio ma, con un’occhiata più attenta, realizzò che si trattava dell’ingresso di un minuscolo pub.
Non faranno di certo affari d’oro, passa terribilmente inosservato, e poi guarda che insegna ridicola!, rincarò alzando lo sguardo verso il bizzarro calderone sopra la porta. Rise sotto i baffi e andò a spulciarsi i lettori digitali tascabili.
Non trovò nulla alla portata delle sue tasche. Sconsolata, decise di proseguire alla ricerca di una cartoleria, ma una voce da dietro la investì: «Elektra, tesoruccio, dove te ne vai?»
Lei arricciò le spalle, come se una freccia le si fosse conficcata a tradimento tra le scapole. Girò lentamente la testa, sfoderando il suo sorriso migliore. «Dyn caro! Non credevo di incontrarti, ma che bella coincidenza» mentì.
Dyn andò in solluchero per la sua sviolinata. Accostò la sua potente moto, vecchio stampo genuino anni novanta, al marciapiede e le offrì un passaggio: «Venivo da queste parti e ti ho vista... con quelle belle ginocchia del resto, come potresti passare inosservata? Dai, micina, monta ché ti devo parlare.»
Elektra esitò qualche secondo, in chiara difficoltà, indecisa com’era tra spaccargli la faccia o spaccargli la faccia e rigargli pure la moto, ma ebbe la meglio il buon senso: «Sei davvero carino, Dyn» cinguettò, lisciandolo con un sorriso svenevole, e montò in sella al due ruote con una stretta allo stomaco, perché temeva di sapere cosa volesse dirgli, e cioè che voleva restituite le cocuzze prestate.
«Dyn, tesoro, come mai da queste parti?» domandò seguendo una precisa strategia: sviare a qualsiasi costo l’argomento “grana”, spinta dal sospetto che molto probabilmente non fosse lì per caso ma che l’avesse seguita attraverso l’illecita localizzazione del suo smartphone Skype.
Dyn era un ragazzo di ventiquattro anni dal viso scuro e regolare dove spiccavano due occhi verdi penetranti che, insieme al suo corpo atletico, lo rendevano alquanto fascinoso e irresistibile. Un gran bel ragazzo, al pari di un gran mascalzone: squatter, pusher e diverse altre forme di illegalità erano le attività che gli permettevano di ostentare certi agi. Elektra se lo teneva buono perché grazie ai suoi agganci aveva guadagnato un bel po’ di soldi in passato; ma anche Dyn vedeva in lei un buon investimento: più che due gran belle ginocchia, Elektra era un gran talento naturale con il computer e una conseguente, fruttifera miniera d’oro.
«Mi andava un giretto, sai, la bambina voleva sgranchirsi un po’» rispose, ammiccando alla moto custom, l’unico vero amore della sua vita.
La spiegazione suonò palesemente stiracchiata ed Elektra si preparò a inventare qualche buona scusa per allungare i tempi concessi al suo debito, ma Dyn la sorprese: «Sai, micina, ci sono interessanti novità.»
«Novità?» Il mio debituccio non è una novità, allora ok... Quindi diede voce ai suoi pensieri: «Sono ansiosa di sentirle, Dyn, ma riaccompagnami subito a casa. Devo ritirare il bucato dalla signora Ahsan.»
«Certo, tesoro. Con quello che c’è in ballo questa volta non avrai più bisogno della signora Ahsan: te la comprerai la lavatrice, o anche una lavanderia!»
Si fermarono di fronte al Laundry-store di Bowrons Ave. Elektra scese dalla moto. «Allora, di che si tratta?»
«Roba grossa. Voglio una bestiolina micidiale, per qualcuno che è pronto a coprirci d’oro, ci stai?»
Elektra esitò ma sapeva che, col debito contratto nei suoi confronti, contrariarlo sarebbe stato poco producente. Inoltre le si presentava finalmente l’occasione per risollevarsi economicamente, uscire da quella bettola di trattoria e, oltretutto, l’idea di poter mandare al diavolo il signor Cardillo era impagabile. «Dyn, ho chi-sai-tu alle costole. Il contatto è sicuro?»
«Tesoruccio, non sono uno sprovveduto, ti ho mai delusa? Ti ho mai cacciato nei guai? Sei in una botte di ferro, e poi me lo devi: è la tua occasione per restituirmi le cocuzzelle.»
«Accidenti Dyn, che classe! Lo sai che te le ridarei comunque.»
«Sì, lo so, micina, ma che vuoi, il pesce è grosso: non possiamo ributtarlo in mare. Voglio solo che tu mi faccia una delle tue piccole magie.» Sollevò lentamente la sua mano destra, le sfiorò la guancia e si fermò dietro la nuca; la sospinse vicino alle sue labbra, sussurrandole con tono suadente: «Domani sera. Una festa per pochi intimi, a casa di Talpa, per i dettagli. Non mi deludere, micina.»
Elektra, istintivamente, spinse indietro la testa di scatto, liberandosi da quella presa un po’ troppo confidenziale, mentre lui le lanciò un largo sorriso compiaciuto e malizioso. La salutò e ripartì sulla sua moto. Lei rimase lì impalata per qualche secondo, riflettendo su quel brivido che la pervase. Mentre andava a riprendersi la biancheria, valutò che quella sensazione non era stata affatto piacevole.
Quella sera, come di consueto, prese la Metro per recarsi al lavoro. Era così assorta nei suoi pensieri da non accorgersi d’aver superato la sua fermata e di essere arrivata fino a Covent Garden.
«Accidenti, ora chi lo sente Pulcinella!»

«Alla buon’ora! Fila subito in cucina, diavolacceu shkurnacchiateu!» cantilenò un furibondo signor Cardillo per darle il benvenuto nel suo ristorante, nei pressi di Leicester Square. Elektra aveva il fiato corto per la corsa a ostacoli fatta dalla stazione della Metro e, senza riuscire nemmeno a scusarsi, raggiunse arruffata la montagna di pentole che la attendeva.
Fu, come sempre, una serata interminabile, calda e faticosa. «Brutto pidocchio, neanche un ventilatore; qui si muore dal caldo, non ce la faccio più!» sbottò ad alta voce, verso mezzanotte, ormai esausta e avvilita dalla canicola. Chiuse lo sportello della lavastoviglie con un calcio e si sedette un momento sui gradoni che portavano alla dispensa.
In quel preciso istante: «E io paaago! Lavora, shfaticata!»
«Ti pareva! Mi siedo un attimo...»
«Un attimo? Io ti pago anche quell’attimo, shcansafatiche, e pago anche il ritardo!» rincarò, passando energicamente le mani tra i suoi capelli untuosi, in quel suo gesto che ormai poteva essere considerato un tic nervoso. «Scinque minuti di ritardo, scinque litri del mio saaaangue, San Gennaaaro! Perdi tempo al telefono e mo’ pure la siesta. Sei una shfaticata!»
Elektra scattò in piedi a molla. Si avvicinò all’uomo con fare minaccioso e gli urlò in faccia: «Apri bene quelle orecchie da porco, sottospecie di pachiderma in miniatura. Io non so come facciano a venire a mangiare nella tua stalla ammuffita e soffocante, sì, perché qui si soffoca dal caldo, anche con le mani a mollo nell’acqua fredda. Sono stufa di te e di questo porcile, ME NE VADO!» Si slacciò il grembiule antigoccia e lo lanciò addosso all’uomo rimasto attonito per la sua inaspettata reazione. Prima di uscire, aggiunse: «E poi la smetta di tirarsi indietro i capelli, tanto quella bolla di cranio viscida e luccicosa che cerca di nascondere, verrà fuori lo stesso quando avrà finito di stempiarsi con le sue stesse mani, Diavolacceu Shkurnacchiateu!» concluse, agitando le braccia in aria per fargli il verso. Detto questo, corse via da quella bettola, soddisfatta ed estasiata per avergli pure rubato l’ultima parola: la sua imprecazione preferita.
«Al diavolo!» borbottò tra i denti mentre saliva sul suo Spin-Tube.
Era mezzanotte inoltrata quando scese dal vagone semideserto della metropolitana ad Alperton e, circospetta, diede uno sguardo attento in giro, per assicurarsi che le strane ombre scorte con la coda dell’occhio fossero solo dovute alla stanchezza e non alla presenza di qualche malintenzionato. In effetti, il limite del coprifuoco era passato da circa mezz’ora e rischiava seriamente di incontrare o scontrarsi con un componente di qualche etnic-gang, come i Manitù o i Bricks, in perenne lotta tra di loro per il controllo di quel territorio, da Wembley a West Acton. I primi si distinguevano anche da molto lontano, per via dei colori sgargianti dei loro costumi e delle penne d’aquila che portavano tatuate dappertutto; mentre i secondi erano solo sporchi e cattivi. Tutti erano armati di spranghe, taser e coltellini, ma durante una rissa spuntava sempre, non si sa come, anche una pistola. E poi c’erano i Dark Skull, i più paurosi, insidiosi e pericolosi di tutti. Loro non avevano un territorio specifico: battevano la città palmo a palmo, e ogni sera potevano trovarsi in un luogo diverso. Secondo le testimonianze dei malcapitati incappati nelle loro grinfie, si udiva sempre uno strano botto prima del loro arrivo; inoltre non avevano armi convenzionali, vestivano di nero sotto ampi mantelli, incappucciati come monaci, e dovevano il loro nome a un tatuaggio all’interno dell’avambraccio, a forma di serpente con un teschio al posto della testa. Scivolavano silenziosi come ombre nell’oscurità e se ti sorprendevano da dietro, non c’era via di fuga. Neanche la polizia riusciva più a controllare le loro incursioni e, dopo il coprifuoco, sospendeva persino le ronde di controllo. Elektra, fortunatamente, non ne aveva mai incontrato uno ma, dopo aver sentito uno strano crepitio alle sue spalle, come lo spaccarsi di una pietra, iniziò ad aver paura.
Dannazione, forse ho un Dark Skull alle calcagna, realizzò sconcertata. Si affrettò a salire i gradini della Metro. «Secondo livello» ansimò, mentre impegnava l’ennesima rampa di scale. «Primo livello» Ci sono quasi... dai, Elektra, corri! Se raduna il gruppo adesso, sono fritta!, si ripeteva a mente con il cuore in gola che, un secondo dopo, le martellò il petto quando sentì tre distinti crac venire da altrettante direzioni diverse. Elektra si paralizzò proprio alla base della rampa che l’avrebbe portata al livello zero, all’uscita della stazione, alla salvezza: un uomo vestito da monaco ostruiva la rampa scendendo, lento, verso di lei. Ne sopraggiunsero altri tre e, improvvisamente, si ritrovò circondata da quattro figure ammantate che le sbarravano ogni via di fuga.
I loro volti erano nascosti sotto l’oscurità degli ampi cappucci dei loro scuri mantelli, e sui loro avambracci c’erano tatuate delle orribili spire con un teschio dalla lingua biforcuta. Quel disegno era tre volte più inquietante visto dal vivo. Elektra rimase immobile, con la bocca cucita, mentre la sua mente ripercorreva tutte le altre notizie, riguardanti i terribili Dark Skull, che aveva sentito raccontare in giro.
Non sono ladri, nemmeno assassini, ma incontrarli provoca uno shock tremendo sulle vittime: scompaiono per qualche ora o giorno e, quando ricompaiono, pare che si portino dietro problemi alla memoria... non ricordano mai nulla della loro prigionia. Sono dei sadici, chissà cosa gli fanno, chissà cosa mi faranno. Sono in un bel pasticcio!
Deglutì. La tensione si tagliava con le cesoie, e una doccia fredda sembrò cascarle tra capo e collo quando sentì la roca voce di uno di quei tenebrosi monaci parlare: «Cosa ne pensi?» gracchiò quello alla sua destra verso quello che le stava proprio davanti, facendole supporre di essere il capo della banda.
Il tizio di fronte a lei inclinò la testa, guardandola, senza proferir parola. D’un tratto mormorò: «È carina.»
«Non vi azzardate ad avvicinarvi, sono armata!» intimò lei infilando la mano sotto la cinta dei jeans. Era troppo spaventata per cercare il portachiavi con lo spray urticante.
Quello alla sua sinistra commentò acido: «È un bluff, non ha niente lì sotto.»
Elektra allora allargò le gambe, si coprì il viso dietro i pugni e sbottò minacciosa: «D’accordo, ma vi avverto, se vi avvicinate vi riempio di calci. Sono campionessa scolastica di tai-box.»
Il presunto capo del gruppo, con una voce bassa e gracchiante, sibilò con una certa delusione: «Un’altra babbana coraggiosa.» Le diede le spalle. «Io ho da fare, perciò divertitevi pure, ma in fretta», e sparì su per le scale in un batter di ciglio.
«Ehi, cos’ha detto?» domandò la ragazza, ma le risate agghiaccianti dei restanti tre la indussero a serrare la guardia.
«Sei più che carina, sei davvero uno schianto, dolcezza» sospirò velenoso quello alla sua sinistra, che le si avvicinò per primo. Elektra vide sporgere dal suo mantello un oggetto acuminato.
Ha un coltello... no, è un punteruolo!, pensò tentando di mantenere il sangue freddo. Mentre studiava come caricare in fretta un gran colpo, si sentì afferrare da dietro.
«Ce l’ho! Ahahah!» le rise l’uomo fin dentro le orecchie.
Lei iniziò a scalciare e agitarsi ma già li aveva addosso tutti e tre: l’esploratore la teneva da dietro, l’uomo di destra parava i suoi calci e l’uomo di sinistra le stava affondando un oggetto dalla punta arrotondata nella pancia.
«Suggerimenti, ragazzi?» chiese proprio quest’ultimo.
«Lasciatemi andare, vigliacchi! Tre contro una!» urlava lei, ma i tre non la finivano più di sogghignare fino a quando, dalle scale del secondo livello, non arrivò un forte rumore, come tre paia di gambe che corrono.
«Cos’è stato?» disse uno di loro, guardando in quella direzione. Anche gli altri due si girarono non scorgendo nessuna presenza al di fuori di loro.
«Squadra Speciale!» esclamò l’esploratore lasciando andare la presa.
«Scappiamo, ragazzi!» gridò l’uomo armato del punteruolo sotto il mantello. I tre, in pochissimo tempo, risalirono la rampa fino al livello zero.
Elektra, rimasta sola, si guardò attorno più e più volte ripetendosi: «Sbirri? Qui però non c’è nessuno. Bah! Non sono solo sadici, sono pure toccati.» Si avviò anche lei su per la rampa, ma si girò di scatto, perplessa. Eppure anch’io avrei giurato d’aver sentito correre qualcuno in questa direzione... Le venne un brivido lungo la schiena. Che siano fantasmi? Brrrrr... meglio non scoprirlo!
Corse su per le scale, saltando a due a due i gradini. Oltrepassò i tornelli del livello zero con circospezione; quando uscì dalla stazione della Metro, capì che non correva più alcun rischio. Respirò profondamente l’aria di quell’intensa notte infuocata e, dato che di emozioni ne aveva avute abbastanza e di autobus non ne passavano più, s’incamminò verso casa di corsa.
Che sollievo, ce l’ho fatta!, esultò, mentre apriva la porta d’ingresso al 25 di Eagle Road, ma si ritrovò a calpestare, proprio sotto l’uscio, un’insolita busta indirizzata a lei: “Alla Signorina Elektra Power”, lesse. Ma chi mai potrebbe essere? La rigirò da un lato all’altro. Non c’è alcun timbro, forse l’avranno fatta scivolare sotto la porta mentre ero via.
Incuriosita, aprì la busta e, mentre saliva le scale per raggiungere la sua stanza, ne tirò fuori il contenuto:
 
Scuola di Magia e Stregoneria
Di Hogwarts
Corso Ministeriale Avanzato per Auror
Sezione Distaccata.

Gentilissima Sig.na Elektra Power,
La informiamo che i suoi esami d’ammissione al corso accademico per Auror, indetto dal Ministero della Magia, hanno avuto esito positivo, pertanto La preghiamo di presentarsi presso la suddetta Scuola entro e non oltre il primo di Settembre.
Accluso troverà l’elenco dei testi e delle attrezzature necessarie per sostenere gli studi del primo Anno Accademico.
Le porgiamo inoltre i nostri migliori Auguri di buon Diciottesimo Compleanno.
Distinti Saluti,
Klarissa Rottenbacke
Direttrice Didattica

Finì di leggere quelle assurde righe davanti alla porta della sua stanza, dove sostava impalata, alle prese con una seconda affannosa lettura. Dopo qualche minuto di interdetto silenzio, rischiando oltretutto di svegliare gli altri inquilini, Elektra irruppe commentando a voce alta: «Ma che bello scherzo del cavolo!», quindi abbassò la maniglia.
Chiusa la porta, scaraventò la cartolina sul comodino e si gettò, pancia in su, sul letto. Si aggiustò per bene il cuscino sotto la testa e, fissando il soffitto, meditò: Se è stato Dyn, giuro che me la paga!... Eppure, come avrebbe mai potuto... concluse perplessa.
Il ragionevole dubbio stava nel fatto che lei fosse assolutamente certa di non aver mai rivelato a Dyn la data del suo compleanno, eppure era l’unica persona che potesse prenderla in giro a quel modo: solo lui, tra le sue conoscenze, la chiamava “strega” o “maga”.
Forse ha saputo del mio compleanno da qualcuno, ma da chi? O forse potrebbe aver sbirciato sulla mia carta d’identità quella volta che scherzavamo sulle foto da documento... Certo, deve essere proprio andata così! Spianò un sorrisino compiaciuto. Che fantasia sfrenata quel Dyn, ha gli smarties nel cervello! Chissà che s’è fumato prima di scriverla. Ma domani me la paga lo stesso quello spiritoso. Be’, burla a parte, almeno è stato carino a ricordarsi che il trentuno Agosto compivo gli anni.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Il Gigante ***


~~CAPITOLO 3
IL GIGANTE
 
 
 

Il giorno dopo, a mattina inoltrata, Elektra si svegliò stranamente allegra. Ricordava vividamente un meraviglioso sogno fatto alle prime luci dell’alba: era nella cucina del ristorante italiano e il signor Cardillo era entrato sbraitandole contro, come al suo solito. Lei gliene aveva dette quattro, come la sera prima, ma stavolta il signor Cardillo grondava sudore da tutti i pori e, alle sue parole “sottospecie di pachiderma”, sotto i suoi occhi si era trasformato davvero in un piccolo, buffo, ridicolo elefante che, tra un barrito e l’altro, ripeteva «Diavolacceu Shcurnacchiateu!».
Ho risolto almeno in sogno il suo problema di sudorazione, pensò ridacchiando alla scenetta comica, quindi si alzò e scese in cucina per prepararsi la colazione.
Erano appena le undici quando sentì arrivare uno svims (short video message service) sul suo skypephone. Dopo aver messo la tazza di latte a scaldare nel microonde, si sedette su una sedia ed eccitatissima aprì il piccolo file. Sullo schermo del suo videotelefono comparve la famiglia Power al completo: Jack, Michelle e i due figli della coppia, Jeff e Jess di otto e dieci anni, tutti raccolti sul divano del soggiorno. Quando spinse il tasto per l’avvio del video messaggio, i quattro cominciarono a cantare in coro: «Tanti auguri a teee!»
Gli occhi di Elektra divennero lucidi e tirò un paio di volte su col naso. Alla fine dell’allegra canzoncina, Jack prese la parola: «Ciao, piccola, speriamo ancora invano di rivedere la tua faccia da queste parti, un giorno o l’altro. Noi tutti ti auguriamo di trascorrere un buon compleanno, anche se non ti nascondo che sono contrariato: avresti potuto raggiungerci per festeggiarlo insieme a noi. Sì, sì Michelle, ora glielo dico» rassicurò, scostando la mano punzecchiante della moglie dal suo braccio. «Allora, piccola, ti abbiamo mandato lo stesso un pensierino. Volevamo farti una sorpresa ma i ragazzi non stavano nella pelle per dirtelo. Speriamo ti arrivi con la posta di oggi.»
«CIAO, ELEKTRA! Ci manchi un sacco!» gridarono i due bambini in coro.
«Manchi tanto anche a noi» continuò Jack, abbracciando la moglie dal naso rosso e gli occhi lucidi. «Ciao, piccola, stai in campana.»
A quelle parole, l’immagine si congelò in quell’ultimo videogramma. Elektra si alzò lentamente dalla sedia per andare a prendere la sua tazza di latte. Dopo la prima sorsata, sospirò, stringendo a sé il telefono come fosse stato l’intera famiglia; poi bevve il suo latte tutto d’un fiato e andò a sciacquarsi il viso. Improvvisamente trillò il campanello e si precipitò giù per le scale ancora con l’asciugamano in pugno. Quando aprì la porta, si trovò davanti un fattorino che le consegnò un pacchetto con un bel fiocco. Dopo aver apposto la sua firma sul lettore lcd, era così su di giri da non accorgersi d’aver lasciato all’uomo come mancia il suo asciugamani ancora umido.
Chiusa la porta con un calcio volante, si precipitò nella sua stanza per aprire il suo regalo: Michelle aveva scelto per lei una camicetta misto seta, color granata, semplicemente favolosa. Se la accostò alle spalle, davanti allo specchio, esultando eccitata: «La indosserò stasera per andare alla festa. A Dyn piacerà un mondo... wow, è stupenda. Anzi no, è astrofisica!»
Talpa abitava in un piccolo bilocale nella zona di South Kensington. Quando Elektra arrivò all’appuntamento, erano già le nove passate.
«La mia piccola Morgana!» esclamò a gran voce Dyn quando Talpa la fece accomodare nel minuscolo soggiorno. «Sei uno schianto, micina» ribadì il ragazzo, alzandosi dal divano per darle un affettuoso abbraccio di benvenuto.
Senza scomporsi per quel complimento, con il suo solito fare scostante chiese: «Nessuno mi offre da bere?» Dyn le porse subito una bottiglia di birra gelata e, con un’aria da perfetto anfitrione, la scortò fino al lungo sofà maculato, terribilmente kitsch, di Talpa, dove un uomo sulla trentina, ben vestito, aspettava seduto.
L’uomo si alzò immediatamente, allungando un’amichevole mano sulla ragazza. Alle presentazioni pensò Dyn. Le passò il braccio sulle spalle e annunciò pomposamente: «Kitty, lui è... cioè, noi lo chiameremo...», cominciò a ridacchiare, «Scotty Scout! Scotty, ho l’onore di presentarti la nostra piccola manina magica.»
Stringendole cordialmente la mano, Scotty esclamò entusiasta: «Sono lieto di conoscerti! Francamente non credevo che la tanto famigerata Kitty, la strega di Silicon Valley, come ti chiama il mio amico Dyn, fosse così giovane e carina.»
Elektra sorrise di circostanza liberandosi della stretta, fin troppo prolungata, dell’uomo. Dissimulando un certo fastidio per quelle moine, si accomodò sul divano accanto a Dyn, incrociando sensualmente le gambe. I quattro iniziarono a parlare del più e del meno per mantenere l’atmosfera allegrotta, già voluta e alimentata dalla birra alla tequila che scorreva a fiumi.
«Dyn mi ha detto che attualmente ti occupi di ristorazione» le disse l’uomo.
Elektra si sforzò di sorridere ancora una volta. «Faceva troppo caldo quest’estate per non stare con le mani a mollo» rispose a denti stretti.
Scotty arcuò un sopracciglio perplesso. «Che vuoi dire?»
«Vuole dire che era così tallonata dalla D.I.S.I. che ha preferito cambiare aria» spiegò Dyn. «Sai, lei è un gran talento, sarebbe un peccato se la sbattessero dentro.»
Scambiandosi occhiate strane, i due risero in un modo talmente inquietante che Elektra non se la sentì di chiarire che, in verità, lei si stesse riferendo ironicamente al suo lavoro di lavapiatti.
«Accidenti, Dyn, sarebbe davvero un gran peccato, anche perché la tua amica è davvero graziosa» aggiunse Scotty ammiccandole in modo davvero poco rispettoso.
Allungandosi irritata l’orlo della gonna sulle cosce scoperte, lei si limitò a rispondergli con un sorrisetto ancora più forzato, anche se la soglia della sua pazienza aveva raggiunto da poco il limite. Per non rischiare di creare incidenti di percorso, visto che oltretutto non stava più nella pelle, tagliò corto e chiese a Dyn: «Allora, di che si tratta?»
Il ragazzo, con l’occhio allegro da carico alcolico, era intento a osservare, sorridente, la sua miniera d’oro in doppio petto con lo pseudonimo più stupido che lei avesse mai sentito; così fu l’uomo a rispondere: «Lavoro per una società che si occupa di creare software di sistemi di sicurezza per banche, gioiellerie, portavalori e diversi altri tipi di attività che necessitano di un ottimo sistema d’allarme. Da tempo cerchiamo di agganciare la Banca Centrale per piazzarle i nostri prodotti, ma la Grid International, nostra spietata concorrente, ci ha soffiato il contratto milionario.»
«Sì, va be’, ma tu cosa vuoi da me?» lo incalzò Elektra.
«Hai ragione, bellezza, vengo al punto: voglio un virus che non perdoni; uno di quei mostri che lunedì prossimo buchi il firewall della Grid INTL nella sede che la Banca Centrale ha a Londra.»
«Così offendi la mia bambina, caro Scotty,» continuò Dyn untuoso, «le sue bestiacce non bucano, sfondano!»
Gli occhi di Dyn scintillarono di una strana luce, mentre gli angoli della bocca del suo interlocutore andarono su in un modo davvero poco incoraggiante.
«Scusa, Scotty, ma perché proprio lunedì prossimo?» irruppe Elektra interrompendo quell’idillio di sguardi.
Con una voce tenebrosa, Dyn spiegò: «Perché qualcuno, lunedì prossimo, grazie alla grossa falla che tu farai nella loro rete di sistemi d’allarme, porterà a segno un gran mega colpo, così la Banca Centrale rescinderà il contratto con la Grid...»
«La mia società ne firmerà uno nuovo di zecca, e voi, non solo sguazzerete tra la montagna di soldi che pioverà dalla vostra rapina, ma sarete oltremodo ricompensati dalla mia compagnia.»
«Vo-vostra raaa...?» ripeté la ragazza, a bocca aperta.
Dyn le circondò le spalle con il suo lungo braccio, stringendola forte. Strizzandole un occhio mellifluo, ribadì: «Ci riprendiamo solo delle spese, bambina, rubiamo ai ricchi per dare a noi, ah, ah, ah!»
Benché a Elektra non fosse andato giù quel folle piano, non disse subito di no; sarebbe stato incauto rifiutare lì su due piedi la proposta del cliente di Dyn, ma non voleva comunque accettare d’essere complice di una mega rapina: non si era mai spinta così in là e solo l’idea le faceva rivoltare lo stomaco.
«È un’impresa ambiziosa» proclamò con un filo di voce. «Ho bisogno di tempo» concluse determinata. In realtà, la richiesta di “tempo” era finalizzata al solo scopo di partorire una buona scusa per tirarsi indietro dall’affare.
Dyn sorrise imbarazzato all’uomo, che corrucciò invece la fronte. «E di quanto tempo stiamo parlando?»
Elektra lo guardò malissimo. «Del tempo necessario!» rimbeccò.
«Suvvia, suvvia,» intervenne Dyn, cercando di sedare la tensione, «non è il caso di metterle fretta, non pensi, Scotty? Fidati di lei, ce la farà per lunedì.»
L’uomo, rassicurato, annuì, ma si alzò dicendo: «Voglio crederci, Dyn. Aspetto vostre notizie, ma non fatemi aspettare troppo, intesi?»
Scotty portò il suo costoso vestito italiano fuori da lì e Talpa gli corse dietro per accompagnarlo alla porta, lasciando i due soli in soggiorno.
«Ma che t’è preso? Tempo? Cos’è ‘sta storia del tempo?» domandò Dyn sostituendo il tono euforico di prima con un grugnito cupo.
Lei lo guardò dritto negli occhi, senza riuscire più a nascondere il suo disagio per quella proposta criminale. Lui diede l’ultima sorsata alla sua birra, la poggiò sul tavolino lì vicino e tornò, sospirando di pazienza, su di lei. La perforò con i suoi occhi verdissimi per degli interminabili minuti, le prese la mano e, cercando di rendere la sua voce più dolce che mai, tentò di rassicurarla: «Lo so che c’è, micina, hai paura perché è la prima volta che ti chiedo di fare una cosa così grossa, ma mettiti nei miei panni! Tu sei troppo in gamba e sei l’unica in grado di generare la creaturina micidiale che serve a questo scopo, in men che non si dica. Pensaci, una sola, con un minimo sforzo, e diventeremo ricchi, ricchi e felici, niente più problemi, e ti giuro che questa è l’ultima volta che ti chiedo di fare una cosa del genere. Lo so che capirai, non mi hai mai deluso» esalò suadente, accarezzandole dolcemente le sue guance, rosse anche quelle per la birra corretta alla tequila che a lei piaceva tanto.
Fu forse il superalcolico, il suo tono dolce e soave, l’idea che si fosse ricordato, sebbene in modo scherzoso, del suo compleanno, la sua carezza, o tutto quell’insieme che indusse Elektra a pensare fosse quello il momento adatto per confessare a Dyn di volersi ritirare dall’affare. Guardandolo dritto negli occhi, gli prese dolcemente le mani, se le strinse al petto e gli disse: «Dyn, ascolta.»
«Sì, micina?»
«Io, io so che ci rimarrai male, ma, ma non me la sento di diventare una ladra. Capisci, io non...»
Elektra si interruppe per l’inaspettato cambiamento radicale del giovane. In quell’istante entrò Talpa e Dyn, con un tono duro e poco cordiale, tuonò: «Talpa, lasciaci soli, sparisci!»
L’atmosfera si era fatta rovente e Talpa non se lo fece ripetere. Rimasti soli, in preda a uno scatto rabbioso, Dyn gridò: «Non vorrai tirarti indietro?»
Elektra si aspettava una reazione del genere e tentò di calmarlo, spiattellando le sue ragioni: «Non arrabbiarti, ti prego, parliamone prima! Io non vorrei tirarmi indietro, non ti farei mai questo torto, ma fino ad ora non mi avevi mai chiesto di fare una cosa di questo genere.»
Il ragazzo sospirò profondamente ma i suoi occhi rimasero infuocati. «Che razza di problemi ti fai? Non sei mai stata una santarellina tu! Ricordati bene che se hai guadagnato un po’ di soldi coi tuoi sporchi giochetti, lo devi a me, Elektra. Siamo soci in quest’affare e non puoi mandarlo a monte per degli stupidi scrupoli da onesta ragazzina per bene, non te lo perdonerei mai.»
Elektra s’impettì. «È vero che non sono una santarellina, ma è anche vero che di soldi ne hai guadagnati tanti anche tu, grazie a me. Non puoi più obbligarmi ad accettare di partecipare a questo lurido affare, la nostra società si è sciolta!» Scattò in piedi.
Dyn si alzò e le bloccò un polso. «Ho avuto un’infinita pazienza con te, micina, e non mi sembra gentile scaricarmi come socio in un momento così importante per me. Stai attenta, Elektra, io sono tuo amico, ma potrei trasformarmi nel tuo peggior nemico e farti seriamente pentire d’avermi incontrato!» abbaiò, stritolandole il polso.
«AH!» esclamò lei, un po’ spaventata da quell’insolita aggressività. «Dyn, ti prego, calmati... e smettila di stringermi così, mi fai male, maledizione!»
Il ragazzo mollò la presa sogghignando; con un’aria beffarda e provocatoria, aggiunse: «Si vede che non mi conosci, bambina, ma per te voglio fare uno strappo alle mie regole. Mi sento buono stasera e ti do un’altra occasione per cambiare la tua risposta. Allora, ora pensaci bene: sei dentro o fuori?» Lei esitò alcuni istanti, che servirono a Dyn per riempire i suoi polmoni e sbraitare: «ALLORA?»
Elektra sobbalzò, facendo un passo indietro. Il ragazzo la agguantò da entrambe le braccia e le si mise faccia a faccia, in attesa. Un acre odore di alcool la investì nauseandola. «Ahi! Dyn mi fai male! Sei ubriaco, dannazione, LASCIAMI!»
«La mia pazienza si è esaurita» sibilò, sgranando gli occhi inferociti. «Rispondimi, ORA!»
Lei gli diede uno strattone ma senza risultato, allora gli mollò un pestone e urlò con tutta la foga che aveva in corpo: «FUORI! Sono FUORI da quest’affare!» Prese ad ansimare, come dopo una folle corsa, mentre Dyn stava saltellando su un piede per via del pestone di prima.
Non sono una ladra, si disse in quel frangente, mentre le venivano in mente le facce di Jack e Michelle, e quello che avrebbero potuto pensare di lei se l’avessero saputo. Per nulla al mondo li avrebbe delusi.
Dyn si riprese dal dolore, rizzò la schiena e, stranamente calmo, conciliò: «Va bene, Elektra, va bene. Hai tutto il diritto di rifiutarti, ma hai il dovere di tornarmi i soldi che mi devi.»
«Te li ridarò, Dyn, ma ho perso il lavoro e avrò bisogno di più tem...»
«Non ci siamo capiti, micina, niente società, niente dilazioni: i soldi me li torni e lo fai adesso.»
«Dyn, io non posso pagarti ora, non...»
Partirono a tradimento cinque dita che, non solo le fecero dimenticare cosa stesse per dire, ma la mandarono rintontita, a quattro di bastoni, sul divano. «Be’, vediamo, voglio venirti incontro» commentò il ragazzo, gioendo di una subdola macchinazione. «Mi prendo un acconto adesso e il resto me lo torni domani, ma con gli interessi!», e le saltò addosso. La prima cosa che fece fu aprirle con violenza la sua adorata camicetta.
Il rumore dello strappo dei bottoni risvegliò Elektra dallo stordimento. Terrorizzata sbottò: «Ma che fai, Dyn?! Lasciami, sei ubriaco!»
«Sta’ zitta, piccola strega!» Strappò via altri due bottoni.
Elektra si ricoprì in fretta. «Dyn, lasciami!» gli intimò, cercando di divincolarsi.
Il ragazzo era proprio fuori di testa. «Non te la caverai a buon mercato, tu non mi conosci!» Con la stessa terribile foga le tirò su l’orlo della gonna, andando alla ricerca di qualcosa di più intimo.
Elektra adesso aveva una gran paura: tenne tesa la sua gonna più che poteva, implorandolo di ragionare: «Ti scongiuro, Dyn, calmati!»
«Smettila di piagnucolare!» tuonò lui mollandole un secondo ceffone in piena faccia.
Lei si sentì rintontire di nuovo e abbassò la strenua difesa della sua innocenza; Dyn le prese la testa fra le mani e le rise in faccia. «Lo sai da quanto tempo desideravo farlo?» le disse impietoso, poi la guardò ancora una volta nei suoi occhi, lucidi e impauriti, quindi la baciò con prepotenza.
Elektra urlò a labbra serrate e, in preda alla disperazione, con tutta la forza che aveva scattò in su un ginocchio che impattò violentemente contro l’inguine del ragazzo.
«AAARGHHH!» abbaiò lui, contorcendosi dagli spasmi.
Il fatale colpo diede a Elektra il tempo e l’opportunità di togliersi da sotto il peso del suo corpo. Una volta in piedi, gli gridò isterica: «Prova a dirmi ancora che ho due gran belle ginocchia, lurido schifoso!»
Si asciugò il sudore freddo dalla fronte e gli voltò subito le spalle ma, prima che potesse fare un passo, Dyn le afferrò uno dei lembi della gonna. «Dove credi d’andare, non ho ancora finito, con te!» rantolò.
«Ma piantala!» ribatté e montò un diretto che centrò la sua faccia in pieno e con violenza.
«AAHRGH! Il naso, me l’hai rotto!» piagnucolò ma lei, sfuggita ormai alle sue moleste grinfie, era già davanti alla porta. La aprì violentemente e cominciò a correre con tutto il fiato che aveva in corpo. Corse per tre isolati, con le mani sulla camicia, e a un certo punto si dovette fermare per non farsi scoppiare il cuore.
Di certo la cartolina non era sua, pensò tristemente, mentre univa i due lembi dell’orlo inferiore con un bel nodo. Riprese a camminare, guardandosi attorno per capire dove fosse e cercare di orientarsi verso la prima stazione della Metro.
Devo essere vicino alla Harrington.
D’un tratto sentì un rumore di passi pesanti alle sue spalle. Si girò di scatto, proprio in direzione di quei sordi tonfi, provenienti da sotto un lampione fulminato vicino al bidone della spazzatura; il rumore subito cessò. Fissò l’oscurità in quella porzione di marciapiede senza scorgere nulla ma, un po’ per paura e paranoia, le sembrò di vedere una grossa sagoma. Sto sognando, sono sbronza, si ripeté, lanciando un largo passo nella direzione opposta e, nel dubbio, la sua andatura divenne più lesta. Con suo terrore, quel suono di passi ricominciò: dopo un ascolto più attento, capì che venivano proprio verso di lei.
Non me li sono sognati, allora non sono così sbronza.
Si girò di scatto. «Oh, cavolo!» esclamò, notando che il lampione fulminato non era più quello vicino al bidone, ma quello dopo, quello a lei più prossimo. «Non può essere, ho le allucinazioni!» disse, strofinandosi gli occhi. Fu colta da un profondo sgomento quando proprio il lampione che le riversava luce sulle spalle cominciò a singhiozzare. È un black-out, ritenne tra sé, nella vana speranza di trovare un conforto, anche se non reggeva come giustificazione visto che tutte le case erano illuminate. Decise allora che in quel momento era meglio scoprire chi la stesse pedinando: Dyn, un altro spietato Dark Skull o un qualsiasi malintenzionato ubriaco? Poi, la luce sotto la quale si trovava, dopo una lenta agonia, si spense del tutto. L’idea ragionevole di darsela a gambe fu inaspettatamente sostituita dall’istintiva, assurda curiosità di sapere chi la stesse braccando. Non sopportava l’idea di scappare con qualcuno alle calcagna, allora raccolse tutto il suo coraggio e urlò: «Dyn, vattene, lasciami in pace o ti riempio di calci! Dyn... Talpa? Talpa, se sei tu, ti consiglio di tornartene dal tuo amico, e riferiscigli che, se lo rivedo, stavolta lo ammazzo!»
«Boia d’un troll, che caratterino! Me l’avevano detto che c’avevi la linguaccia, ma io non ci credevo.»
«Cos... ma-ma, chi c’è? Chi sei?»
Quella strana risposta l’aveva spiazzata, come anche il fatto che quella voce, energica e sconosciuta, le sembrò provenire dall’alto, come se il suo interlocutore stesse sopra un paio di gradini. Con un tono più rassicurante, la voce risuonò: «Ciao, Elektra.»
«Fatti vedere! Come sai il mio nome? Sei della DISI? Io non ho fatto nulla di male!»
«Ehilà, calmati... ma che roba è la DISI?»
«Chi sei? Cosa vuoi da me? Parla... e fatti vedere!»
«E no, una cosa alla volta! Da che comincio?»
Lo stupore per i suoi modi cordiali e scherzosi le smorzò la tensione. «Be’, ehm, comincia dalla tua faccia.»
«Ah, giusto, ma dobbiamo spostarci da qui, i babbani non ci devono vedere. Vieni, seguimi, ho parcheggiato di qua, mi pare.»
«I che? Un momento, io l’ho già sentita quest’espressione... ehi?»
Non ottenne risposta. Udì i suoi passi andare verso il centro della via e lo seguì. I due, nell’oscurità e nel silenzio più totale, attraversarono la strada. Elektra si aiutava seguendo il rumore di quei tonfi pesanti, mentre l’uomo misterioso sembrava riuscisse a vedere al buio.
«Attenta al cosino» le disse premurosamente.
«Il cosino che?» Troppo tardi: Elektra inciampò e finì su qualcosa di morbido e umidiccio.
«Il cosino, ehm... il gradino del marciapiede» sviolinò mortificato.
«Che tempismo! Fortuna che sono finita sull’erba.» Si rialzò.
Elektra andò goffamente a tastoni e, quando le sembrò di toccare il fusto di un albero, si fermò. «Dove siamo?»
«Siamo nascosti nel parco. Poi com’è che lo chiamate parco questo schizzo di erbacce, qualcuno me lo deve spiegare, bah! Sta’ indietro adesso, Elektra.»
«Indietro da cosa, se non ti vedo nem...» Un bagliore improvviso davanti a sé le smorzò la frase, e ciò che illuminò fu quanto basta per capire chi avesse davanti. «OH CAVOLO!» esclamò Elektra senza sapere se essere più sconvolta per il fatto che la luce provenisse uniformemente dall’interno di un ombrello aperto, o per la statura gigantesca dell’uomo che vi si riparava sotto. Accanto a lui, c’era una moto carenata blu notte dall’assetto sportivo con due grosse marmitte viola, un quadrante d’orologio a una sola lancetta invece del contagiri, un paio di leve e un sacco di pulsanti colorati al posto della normale strumentazione.
Lei fece un malfermo passo indietro.
«Non t’avrò messo mica paura, Elektra?»
«Paura? Nooo, non mi devi fraintendere, non mi spaventano i tuoi due metri e mezzo, ma quello che ho bevuto: credo d’averci dato dentro stasera.»
«Aaah...» sospirò il gigante, «me lo farei anch’io un bel bicchierozzo: m’è venuta una tale sete con la scarpinata che m’hai fatto fare per starti dietro, ehehe!»

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - L'Appuntamento ***


~~CAPITOLO 4
L’APPUNTAMENTO
 
 
 

L’uomo si tolse gli occhiali da sole che indossava, ma Elektra non pensò che fosse quella la cosa più insolita: oltre ad essere altissimo, aveva una corporatura robusta e una barba così lunga, folta e arruffata che ci avrebbe potuto nascondere tutta la testa. Anche i suoi capelli erano lunghi e arruffati e, come la barba, erano di color grigio-argento.
«Credo che non c’ho più l’età per la maratona!» affermò scherzosamente il gigante.
«Po-posso sapere chi diavolo sei?»
«Ah giusto, che maleducato, non mi sono neanche presentato: il mio nome è Rubeus Hagrid e sono il custode delle chiavi e dei luoghi a Hogwarts, ma tu puoi chiamarmi Hagrid, come tutti.»
«Ho... Hogwarts, non mi è nuovo, ma che diavolo è Hogwarts?»
«Non sai che... oh certo, come lo puoi sapere, eh eh eh!»
«Sono felice che ti risulti divertente, ma vorresti spiegarmi perché mi vieni dietro? Ti devo dei soldi?»
«Ah ah, sei uno spasso!» Elektra lo fissò con un’aria spazientita e l’uomo, schiarendosi la voce per darsi un contegno, continuò: «Beh, ecco, io sono qui perché ti dovevo dare questa.»
Il gigante le allungò una busta indirizzata a lei. «È la stessa cartolina che ho a casa. Ma certo, Hogwarts, la scuola. Allora ci sei tu dietro questo scherzo di cattivo gusto?»
«Scherzo? Ma che dici? Hogwarts è una cosa seria: è la scuola di magia più importante di tutto il paese!»
«Ok, non ti scaldare, e tu da quale ospedale sei scappato? Magia, scuola, ma mi prendi in giro? Beh, non è divertente.»
«Ascolta, lo so che non è facile crederci, ma questo non è uno scherzo. L’hai visto il mio ombrello? Come facevo secondo te?»
«Ah, ci sarà un trucco.» Glielo strappò di mano per girarlo da tutte le parti. «Ma dov’è la pellicola ottica... o è una di quelle cose al fosforo?» Lo sbatacchiò.
Mentre Elektra si affannava a dare una spiegazione razionale a quella luminescenza, Hagrid riprese: «Io non ti posso convincere che questa è magia e non ti posso neanche spiegare tutto adesso, non sono io la persona giusta. Ti posso dire però che se ci vuoi vedere chiaro, se vuoi conoscere tutta la verità sulla scuola e su tutto il resto, ti devi fare le valigie e devi andare domattina a questo indirizzo.» Le porse un biglietto.
«Le valigie? Per andare dove?»
«C’è qualche cosa che ti trattiene qui? Sei disoccupata, c’ho azzeccato, vero? Eh eh, e a quanto ho capito sei pure nei guai con questo come si chiama...»
«Dyn. Sì, ma come faccio a fidarmi di un perfetto sconosciuto che piomba nella mia vita all’improvviso, spaventandomi a morte, pretende che io creda a maghi e streghe, mi propone di fare le valigie per andare non so nemmeno dove... è una pazzia!»
«Pazzia? Beh sì, in effetti ci sembriamo tutti un po’ svitati ai babbani.»
«Ma chi cavolo sono questi babbani? Una gang, una comunità etnica, una società segreta, una setta?»
«Certo che no! Sono tutte le persone senza poteri magici.»
«Ma perché te l’ho chiesto!» mugolò la ragazza, affondando la fronte tra le mani.
Un rumore improvviso mise in allarme il gigantesco Hagrid che sussurrò con una manona alla bocca: «Senti, Elektra, a me m’è rimasto poco tempo, ascolta: se vuoi dare un senso ai tuoi sogni, trovati domani, alle otto in punto, a quell’indirizzo, e non ti scordare i bagagli!»
«Aspetta un momento, come sai dei miei sogni?»
Hagrid indossò i suoi occhiali da sole e montò in sella alla moto, facendola cigolare in modo sinistro sotto il suo peso. Le ruote e la grossa molla delle sospensioni quasi si appiattirono. Furtivo bisbigliò: «Domani te lo dico, se vieni. Adesso me ne devo andare... accidenti a questi occhiali, mi fanno troppa luce. Ciao, Elektra!» La mise in moto con un frastuono avvolgente.
«Come troppa luce, aspetta, ma che...»
Hagrid chiuse l’ombrello in quell’istante, lasciandola nel buio più pesto per qualche secondo. La moto partì e, dal rumore, sembrò librarsi in aria. Quando l’illuminazione pubblica riprese a funzionare regolarmente, Elektra si guardò attorno: il rombo della moto era lontano, Hagrid era sparito, il parco era deserto, ma fortunatamente in lontananza scorse la fermata dell’autobus. Si avviò verso casa sconfortata, angosciata, interdetta e anche un po’ arrabbiata per non essere riuscita a farsi dare spiegazioni esaurienti.
Ma perché me la prendo tanto?, pensò in un momento di razionale lucidità. Era solo un poveraccio scappato dall’ospedale psichiatrico.
Quella notte nella sua stanza, distesa sul letto, non riusciva a prendere sonno: era tormentata dall’idea che lui sapesse dei suoi sogni. Era anche adirata per il fatto che lo strambo omone, con un ancor più strambo senso dell’umorismo, avesse ragione a dire che non aveva nulla da perdere, visti i guai dove si era ficcata. Per ultima ma non meno importante, c’era la sua nascente curiosità su quella strana cartolina: era perlomeno folle pensare che esistessero scuole dove imparare pozioni e formule magiche, ma l’istinto, uno strano sesto senso, le dava un’altra prospettiva della vicenda.
Di gente bislacca ce n’è in giro, ma almeno questo qui era simpatico, meditò, fissando il soffitto giallo scialbo della sua camera. E dopo tutto, cosa mi costa andare a vedere di che si tratta? Anche solo per sapere come ha fatto a sparire così in fretta.
Ci pensò un po’ su per altri dieci secondi netti, allo scadere dei quali balzò fuori dal letto e trascinò su la valigia che ci stava sotto.
Tanto prima o poi dovevo sparire: domani Dyn sarà già sulle mie tracce. Meglio cambiare aria per un po’, e poi questa Hogwarts sembra parecchio fuori mano, non ne ho mai sentito parlare.
Svuotò in fretta il suo armadio; quando vide la chiave della nonna si chiese, preoccupata, dove potesse nasconderla nel caso quell’appuntamento si rivelasse una trappola. Decise di infilarla in un laccio delle scarpe da tennis e di appendersela al collo, ritenendolo non di gran classe ma almeno sicuro. Poi scrisse due righe a Charlie, dove gli diceva che se ne sarebbe andata e non aveva tempo per spiegargli nulla, ma avrebbe mandato Jack a vuotare la stanza dal resto della roba e a ritirare la caparra non appena si sarebbe sistemata. Infine chiosò il biglietto con qualche moina svenevole, giusto per alleggerirgli la botta.
Tra i mille pensieri e il lungo da fare per assemblare le sue cose, quella notte, che inizialmente sembrava interminabile, passò velocemente insonne: si ritrovò presto a dover fare i conti con l’alba. Erano appena le sei quando, lasciato il bigliettino davanti alla porta della camera di Charlie, aprì quella di casa per poi trascinarsi la pesante valigia fino alla fermata del bus.
Meglio arrivare con un po’ d’anticipo, così se fiuto guai me la do a gambe.
Non le capitava da tanto di uscire così presto, dai tempi in cui lavorava all’autolavaggio, il suo primo impiego: aveva dimenticato quanto fosse profumata e fresca l’aria del primo mattino, almeno nel suo ridente quartiere alla periferia ovest, immerso nel verde.
All’uscita dalla stazione di Charing Cross, un’ondata di aria irrespirabile, fatta di smog e umidità stagnante, le soffiò in faccia dal fiume. Dopo aver tossito, rifiatò paziente recandosi al luogo dell’appuntamento. Giunto all’indirizzo, realizzò che non le era nuovo: si ricordò di esserci passata il giorno prima del suo compleanno, mentre cercava un regalo per sé, che sfortunatamente fu impedito dall’incontro con Dyn. Le venne in mente subito l’insegna ridicola sopra la porticina ben nascosta di quella specie di taverna. «Che coincidenza!» esclamò quando si ritrovò lì davanti. Si guardò impacciata attorno e aggiunse tra i denti: «Ora che faccio? Sono solo le sei e quaranta.»
Elektra rimase con lo sguardo fisso sul paiolo sopra la porta della taverna, pensando e ripensando a come poter far passare il tempo che la separava dal gigante.
Ho un’ora e venti minuti, qui è tutto chiuso. Se andassi a cercare la mia agenda? No, anche le cartolerie sono chiuse a quest’ora...
«Bbrooohaaar!» borbottò inesorabile il suo stomaco, dandole una brillante idea. Ah ecco, posso cominciare con una bella colazione!
Ringraziando di cuore il suo stomaco per la spontaneità nel suggerimento, diede le spalle alla porta per incamminarsi, ma nello stesso istante quella, con un sordo schiavettio, si aprì. Si girò di scatto, pervasa da una immediata curiosità: non vide uscire nessuno e, approssimandosi, notò che era accostata. La tentazione di dare una sbirciata dentro era fortissima ma, data la sua natura diffidente, si astenne.
Se fosse una trappola? Se mi affacciassi e qualcuno mi afferrasse alle spalle?... Ma perché non esce nessuno? E se fosse aperta per me? Questi erano i ragionevoli dubbi che le turbinavano in testa. D’un tratto le arrivò alle narici un profumo dolcissimo che indubbiamente usciva proprio da quella sottile apertura. «Sembrano biscotti...», sniffò avida, «biscotti alla cannella...», sniffò ancora, «cannella e vaniglia!»
Per riflesso condizionato, le venne l’acquolina in bocca, e i crampi allo stomaco aumentarono fino a farle venire la nausea.
Se non mangio muoio, e se entro potrei morire lo stesso, quindi se devo schiattare preferisco farlo con la pancia piena!
Il ragionamento era alquanto contorto nella premessa, ma il resto seguiva una sana logica che la spinse a farsi avanti: accostatasi alla fessura, vi sbirciò dentro vedendo solo oscurità; con la mano diede una timida spinta alla porticina; constatato che non succedesse nulla, dopo qualche secondo di esitazione, la spalancò.
Si aspettava di scorgere un posto angusto e invece, quando oltrepassò la soglia, davanti a lei si presentò un ampio e arioso ambiente, con tanti tavoli di legno scuro rifiniti da bizzarri rilievi e un lungo bancone lucidato a specchio. Le pareti non intonacate mostravano il mattone vivo. Quel luogo le sembrava un’antica locanda rustica, di quelle che si trovano, restaurate, nelle pittoresche campagne britanniche. Alzò lo sguardo molto in alto, verso il pesante lampadario, e si chiese perché quei numerosissimi e robusti bracci sorreggessero candele spente anziché lampadine a basso consumo. L’unica luce che dava vita alla cupa taverna era molto soffusa e proveniva da alcune vetrate colorate poste in alto, in prossimità degli angoli della grande stanza. Tutte le porte erano strette, con la sommità a sesto acuto.
Quando fu all’interno di quel pub dal sapore eccentrico, fece una lecita riflessione: Ma come fa ad essere così spazioso qui dentro, se i due negozi là fuori sono quasi attaccati tra loro? Questo posto è largo quasi quanto tutto il palazzo! Bah, chi se ne frega: io ho fame.
«C’è nessuno?» domandò guardinga.
Una buffa donnina, bassina e cicciottella, con un vestito verde bosco lungo fino ai piedi e stretto ai fianchi, fece capolino da una porta. Con un sorriso luminoso squittì: «Buongiorno, cara. Un po’ in anticipo, ti pare?»
Elektra ricordò immediatamente quanto fosse presto e, mortificata per l’ora, cercò di giustificare l’intrusione puntando timidamente l’indice in direzione dell’ingresso, ma la donnina la rassicurò: «Oh no, mia cara, mi hai frainteso, non intendevo in anticipo per trovarti qui, ma per assaporare i miei biscotti. Non sono ancora pronti.»
Elektra sorrise di sollievo e la dolce signora, dalla voce stridula e dalla chiacchiera fluente, continuò: «Hai fame, eh? Siediti lì che ti porto una bella tazza di latte.»
«Può macchiarlo con del caffè?»
«Ma certo, tesorino!»
Elektra rabbrividì: i modi della signora le ricordavano alcune storie di streghe cattive dall’aspetto docile. Poi scosse la testa dandosi della stupida per aver ceduto alla soggezione e andò a sedersi al tavolo indicato dalla donna. Si guardò, curiosa, un po’ attorno mentre la simpatica signora al bancone riempiva la sua tazza.
Di colpo, quella gorgheggiò come una cinciallegra: «Ecco lì il tuo latte!» Elektra la guardò perplessa e la donna, facendo manina sul tavolo, puntualizzò divertita: «Tesoro, è lì, quella cosina che sfumacchia.»
Elektra volse lo sguardo, incredula, verso il centro della tavola e rimase di stucco nel vedere una tazza, laddove qualche secondo prima non c’era nulla.
«Ma-ma, come ha fatto? Io non l’ho vista muoversi da lì!»
«Come dici, cara?»
«Nu-nu... nulla, signora.»
«OH!» strillò in un acuto di gioiosa soddisfazione, «I miei biscotti sono pronti. Aspettami, vado a prenderli in cucina, ci metto un attimo.»
Vide la donnina scomparire dietro la stessa porta da dove era apparsa e subito ripensò a quanto fosse assurdo pensare che la tazza avesse camminato da sola fino al suo tavolo. Improvvisamente ci fu un crac, un rumore, come un piccolo botto sordo dalla familiarità vagamente negativa, che si infranse dietro di lei. Ed ecco la donna paffuta riapparirle immediatamente dopo alle spalle con un vassoio stracolmo di deliziosi biscotti ancora fumanti.
Elektra trasalì, scattando in piedi terribilmente a disagio per quell’ennesima stramberia, così la donna, con un sorriso delizioso, sdrammatizzò: «Scusa, cara, t’ho messo paura? Devo smetterla di materializzarmi alle spalle della gente, deve essere seccante, lo riconosco.»
«Materl... material... materializzarmi?» ripeté goffamente lei, stravolta ancora per l’apparizione improvvisa e misteriosa. «Ma che diav... che razza di posto è questo?»
La donnina strinse gli occhi a fessura, portandosi le mani ai fianchi, quindi le appiccicò il naso contro, affermando: «Ecco perché non mi ricordo della tua faccia. Sì, perché sai, io mi ricordo di tutti quelli che passano di qui. Comunque io sono Dorine» cinguettò garrula.
«Elektra» borbottò lei.
«È la prima volta che vieni al Paiolo Magico, non è vero, cara?» Mostrò una chiostra splendente di denti.
«Ah, si chiama così questo posto, Do, Dorine? Beh, sì... ho un appuntamento qui alle otto.»
«Con chi ti devi vedere?»
«Cooon... si chiama Hagrid.»
«OOOhhh, quella vecchia spugna! Il caro, buon, vecchio Hagrid, da quanto tempo non lo vedo, forse tre anni, ma noooo, saranno più di tre! Alle otto? Allora mettiti comoda, tesoro, sono solo le sette. Mangia i miei biscotti, prima che scendano gli altri clienti, o non te ne lasceranno neanche uno!»
Si allontanò canticchiando allegramente e, stavolta, camminando sulle sue corte gambette.
Elektra rimase immobile qualche minuto a fissare i rotolini di Dorine sballonzolare mentre tornava dietro il bancone, poi, con un viscerale senso di disagio misto a rassegnazione, portò alla bocca il primo biscotto. All’istante i suoi malesseri si sciolsero come brina al primo raggio di sole.
Che delizia! Una vera, infinita delizia, la cannella!, considerò mentre il suo sapore le sconvolgeva le papille. Poi prese in mano la tazza di caffellatte, dandone una sorsata ristoratrice.
Presa com’era dalla bontà dei suoi biscotti fragranti, non si accorse che in breve tempo la stanza si era riempita di gente strana. Quando diede un’occhiata più attenta, cominciò a interessarsi a quei curiosi personaggi che le passavano intorno: avevano tutti dei lunghi mantelli dai colori più strani, dal viola scuro al verde marcio, dal grigio topo al bordeaux. Alcuni di loro portavano degli orribili cappelli a punta, però c’erano anche dei giovani con indosso uno stile più consono, che la facevano sentire un po’ più a suo agio.
Il tavolo accanto al suo si svuotò. Con un rapido sguardo furtivo, scorse che su di esso era rimasta una rivista. Non stava nella pelle dalla curiosità, e poi una sana o insana, non aveva importanza a quel punto, lettura sarebbe stata piacevole. Scattò in punta di piedi e acciuffò la rivista. Strega Oggi era il suo nome, e in copertina c’era il viso di un bel ragazzo con un cappellino da baseball rosso. La cosa stupefacente era che la foto cartacea era animata come un pop-up: la testa si muoveva, gli occhi sbattevano le ciglia, la bocca si apriva e si chiudeva e il ragazzo alzava il braccio in segno di esultanza.
Astrofisico! Carta animata, chissà come fanno?, si chiese più eccitata che turbata.
Un quadratino con il volto di una bella ragazza chiudeva il fondo della pagina a destra. Il titolo a caratteri cubitali recitava: “Malcom Grindge: prima la coppa dopo mi sposo”. Elektra trovò la pagina riguardante l’intervista: Il noto Cacciatore, capitano dei Berretti Scarlatti, Malcom Grindge, dichiara di aver deciso di lasciare la sua squadra per sposare l’avvenente Evelyn Cornwell, corrispondente estera del Settimanale delle Streghe in Scandinavia. Grindge non nasconde di volersi trasferire da quelle parti: «Potrei sempre giocare a Quidditch nel Baltic, il mio agente è in trattativa per un ingaggio». I particolari piccanti sul loro incontro a pagina tre.
«Il Gossip delle Streghe!» commentò tra sé, trattenendo a stento le risate, mentre sfogliava distrattamente le pagine.
Quando ebbe finito di fare colazione, riportò la tazza e il vassoio dei biscotti al bancone, porgendoli alla buffa locandiera. Con naturalezza, divertita anche un po’ da tutta quella bizzarra situazione, Elektra le disse: «Ecco, Dorine, ti ho liberato il tavolo. Ah, grazie per i biscotti, non ne ho mai mangiati di così buoni: erano magici, mi hanno proprio stregata.»
Quell’uscita ironica fu molto apprezzata: in quattro, quelli più vicini a lei, si sganasciarono dalle risate dandole della simpaticona. Anche Dorine rise, ma lei non faceva testo visto che il ghigno divertito ce l’aveva di sicuro cucito in faccia dalla nascita.
«Accidenti che humour!» replicò Elektra sarcastica, chiedendosi che cavolo ci trovassero di così divertente. «Siete uno spasso voi maghi» disse tra i denti, quindi sospirò, poggiandosi al bancone.
Maghi... ma che dico? Sto per diventare matta anch’io!
Scivolò verso un angolino della sala. Assorta nei suoi deliri, non si accorse che un tipo sulla quarantina, con un mantello nero e il cappuccio appena infilato in testa, le si era avvicinato di soppiatto. Con aria ostile, gracchiò: «Non m’incanti, bellezza, i magonò curiosi sono fuori posto qui. Perché non te ne vai?»
Elektra si voltò di scatto; il suo abbigliamento le ricordò subito uno di quei Dark Skull che l’avevano assalita nella Metro due sere prima. Guardò l’avambraccio: dalla manica della camicia non traluceva nessuna macchia nera sulla pelle. Nonostante ciò, senza tante remore, lo penetrò negli occhi inviperita e proruppe acida: «Primo, non ho capito che intendi; secondo, non sono quella cosa che intendi. E terzo, rilassati, bello, non sto dando fastidio a nessuno. Perché non te ne vai tu, magari a cavallo di una...», fece virgolette con le dita, «scopa?» La sua uscita focalizzò subito l’attenzione su di loro.
«Chi ti credi di essere?» ringhiò l’uomo.
«E tu invece chi sei, eh? Perché non mi fai respirare? E smettila di guardarmi così, cerchi rogne?»
Il losco individuo mise la mano sotto il mantello. «Ora ti faccio vedere io, piccola sfacciata insolente...»
«Elektra!»
Quella scena di crescente tensione fu invasa da una bella donna matura. Sembrava sulla trentina, con lunghi capelli castani un po’ arruffati, raccolti sulla nuca, e un sorriso smagliante, che subito attirò l’attenzione di tutti. Indossava un tubino, lungo e scuro, dal vago sapore retrò, molto attillato e dal tessuto lucente che frusciava in modo elegante mentre incedeva, decisa, verso di lei.
Lesta, si accostò al bancone. «Buongiorno, Dorine.»
«Hermione, che immenso piacere!» rispose quella.
Poi la misteriosa donna si frappose tra i due litiganti, dando le spalle all’uomo. Penetrandola dritta negli occhi, con un fare sicuro, le sussurrò: «Ciao, Elektra, io sono Hermione Granger Weasley, e sono la persona che stavi aspettando.»

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Crisi D'Identità ***


~~CAPITOLO 5    
CRISI D’IDENTITÀ
 
 
 

«Un’altra matta!» esplose Elektra, ancora nervosa per la precedente schermaglia.
Senza darvi alcun peso, Hermione le ghermì un braccio. «Andiamo subito via di qui. Arrivederci, Dorine, andiamo a fare dello shopping!»
Senza tanti complimenti, trascinò letteralmente Elektra fuori dalla porta sul retro del pub, lontana da quell’uomo e dai guai. Appena furono in un cortile interno circondato da alte mura di mattoni rossi ammuffiti, Elektra si liberò il braccio con un forte strattone e, lasciata andare bruscamente la maniglia della sua valigia, abbaiò: «Io non mi muovo da qui se non mi spiega chi diavolo è lei, dov’è finito Hagrid e che cavolo ci faccio io in mezzo a questi cerebrolesi coi cappelli a punta!»
«Lo stesso caratteraccio» mormorò quella, fissandola accigliata.
«La smetta di guardarmi così, mi rende nervosa... e poi lo stesso caratteraccio di chi?» La donna roteò gli occhi al cielo. «Allora, parla o restiamo qui a fissarci e vediamo chi ride per prima?»
Hermione allargò un sorriso luminoso che scaldò il cuore arrabbiato di Elektra, la quale mantenne comunque lo sguardo da dura. Poi intavolò le spiegazioni: «Lavoro al Dipartimento della Regolazione della Legge Magica e, attualmente, sono un’insegnante del corso ministeriale per Auror.»
«Quel corso al quale sono stata ammessa senza iscrivermi e nemmeno presentarmi agli esami di ammissione?»
«Oh, solo perché non sappiamo d’aver fatto delle cose non significa che non le abbiamo fatte.»
«Eh?»
«Ti sarà più chiaro tra qualche ora e, naturalmente, se deciderai di seguirmi.»
Dopo averla fissata con delle occhiate diffidenti, lei chiese: «Seguirla dove?»
«A fare le tue commissioni: sono venuta al posto di Hagrid perché è più probabile che tu abbia bisogno di un consiglio dal tocco femminile.» Le strizzò l’occhio.
«Come ha detto che si chiama?» domandò Elektra ancora confusa.
«Hermione Granger Weasley.»
«E cosa insegna al corso?»
«Una materia che poco ha a che fare con la legge magica. Ne saprai di più quando arriveremo a scuola.»
«Va bene, professoressa, adesso risponda all’ultima domanda: le stranezze che ho visto finora sono vere o sono su Scherzi Vip?»
«Ah, carino quel programma.»
«Conosce Scherzi Vip?» la incalzò esterrefatta Elektra, felice quasi come se qualcuno le avesse svelato che era tutto un gioco e che i maghi di prima erano degli attori formidabili.
«Sì, sai, i miei genitori sono babbani, quindi conosco bene il mondo dal quale provieni, ma questo non è uno scherzo.»
Ripiombando nello sconforto, farfugliò: «Quindi lei è... è... anche lei quindi è...»
«Una strega.»
Qualcosa di pesante come il piombo vorticava dentro lo stomaco di Elektra, e non erano i biscotti alla cannella di Dorine. La sensazione più spiacevole era non riuscire a trovare il modo per smascherare quella farsa, di non riuscire a trovare il sistema per non credere a una parola, ma come poteva? Hagrid la sera prima ed Hermione adesso erano veri, in carne e ossa, e il suo istinto le diceva che nessuno dei due mentisse. Così, con il cuore in gola, la guardò dritta negli occhi, lanciandole un tacito messaggio d’aiuto per alleviare quella confusione che si era trasformata in panico.
«Cosa volete da me?» chiese con un filo di voce.
«Ascolta, Elektra, non devi avere paura del cambiamento. So che non riesci ad accettare il fatto che, be’, l’avrai capito di essere speciale, no?»
«No! Perché io?»
«Sono sicura che il perché lo hai sempre intuito, anche se hai vissuto, per così dire, una vita normale. Tu e chi ti stava attorno lo avete sempre saputo che eri diversa. Loro ti chiamavano strana; tu sei sempre stata distaccata da quella realtà perché dentro di te sapevi che un giorno avresti radicalmente cambiato vita, tant’è che non hai mai preso sul serio nessun impiego, non hai nessuna relazione stabile, hai vissuto alla giornata e, da quel che mi ha riferito Hagrid, ti aspetta qualche guaio se torni indietro. Beh, adesso sei maggiorenne e credo che tu possa affrontare il tuo destino. Questo è il momento, Elektra, so che hai paura, ma ormai che siamo qui non ti va di scoprire chi sei veramente e qual è il tuo posto?»
«Io non ho paura,» disse trascinando le parole fuori a forza, «ma non riesco a credere di non poter essere io a controllare il mio destino. È vero, l’ho sempre saputo, forse sperato che non fosse quella la mia vita. Ho sempre provato dentro di me la spiacevole sensazione di chi è fuori posto, ma si metta nei miei panni: come creda che mi senta al pensiero di non sapere neanche cosa... chi sono?»
«Come credi che possa rispondere alla tua domanda se ancora non vuoi neanche accettare di scoprirlo?» esclamò con un tocco d’impazienza.
Lo sguardo severo della donna lanciava un rimprovero chiaro: doveva smetterla di tirarsi indietro e decidersi ad affrontare la verità.
«Suppongo che se accetto di seguirla, troverò una spiegazione ai miei sogni strani.»
«Naturalmente! L’unica cosa che ti chiedo è di non meravigliarti in modo eccessivamente vistoso dinanzi a quello che vedrai.» Si avvicinò, bisbigliando furtiva: «Sai, detesto attirare l’attenzione.»
Detto ciò, Hermione le voltò le spalle per dirigersi verso il muro di mattoni. Estrasse un bastone affusolato, lungo all’incirca venti centimetri e, impugnatolo saldamente alla sua estremità più tozza, picchiettò più volte alcuni mattoni di quella parete disegnando un arco.
«Stai indietro!» le ordinò, ma Elektra non poté non avvicinarsi a vedere quello che cominciò a succedere sotto i suoi occhi: il muro scricchiolò pericolosamente e alcuni mattoni si ritirarono, lasciando cadere della calce polverizzata dai loro punti di contatto. Poi vide chiaramente quei mattoni ruotare come degli ingranaggi, coinvolgendone altri tutt’intorno. In breve tempo molti mattoni si ritirarono, lasciando una breccia gigante sul muro a forma di arco, un passaggio spazioso che aprì il panorama più incredibile che avesse mai visto: una strada affollata di gente che andava e veniva su e giù frenetica, costeggiata dai negozi più assurdi che avesse mai visto.
«Benvenuta a Diagon Alley» annunciò la donna oltrepassando l’arco di pietra.
«Di-Diagon Alley?» ripeté seguendola con passo incerto.
«È qui che compreremo tutto l’occorrente per i tuoi studi. Sbrigati, siamo in un ritardo imbarazzante.» Le due s’incamminarono per la via brulicante di persone, indaffarate a fare i loro acquisti. «Hai con te la lista, no?»
«Ehm, sì, ce l’ho qui.» Gliela porse.
«No, tienila pure, ancora non serve. Dobbiamo prima andare a prendere la materia prima.»
«Che sarebbe?»
«Be’, con che credi si possa far compere, scambiando le figurine delle Cioccorane?»
«Quindi si riferisce ai soldi? Ma io non ho il becco di un quattrino!»
«Con te qui no, ma lì dentro sì.» Indicò un palazzo imponente con una scritta enorme sopra l’ingresso.
«Gringott? Ma che cos’è?»
«È la banca dei maghi, e i tuoi soldi sono lì, sbrigati!»
«I miei soldi? Un momento, quali soldi?»
«Quelli che ti sono stati destinati per conseguire il tuo diploma di Auror.»
«Destinati da chi?» Si fece sospettosa.
Hermione le sganciò un’occhiatina indecifrabile. «Alcune persone, che tengono molto a te, hanno istituito una specie di borsa di studio.»
«E lei non mi dirà chi sono, non è così?» domandò disillusa in partenza.
«Ci sarà tempo anche per quello, Elektra, adesso dobbiamo pensare solo a sbrigarci: quelle brave persone ci rimarrebbero molto male se, dopo tutti i sacrifici per mettere da parte quel gruzzolo, arrivassimo troppo tardi a scuola e tu fossi ricacciata indietro al primo giorno. Quindi gambe in spalla!»
Le due entrarono nella banca. Il pavimento in marmo luccicava come uno specchio.
«Stai attenta a non scivolare. Ah, e non stupirti alla vista dei cassieri: sono terribilmente permalo...»
«PORCO BUG! Ma che cos’è quello?»
Hermione le lanciò uno sguardo eloquente, poi chiese scusa al cassiere e cercò di attirare su di sé la sua attenzione porgendogli un biglietto. «Dovremmo prelevare,» dichiarò imbarazzata, «sa, gli studi costano» terminò con un largo sorriso.
Il cassiere le guardò in elaborante silenzio, poi squittì da sotto il lungo naso a punta: «Un momento, per favore.»
Quando si fu allontanato, Elektra si accostò furtivamente alla spalla di Hermione e, avendo imparato la lezione, le sussurrò: «Ma che creatura è?»
«Datti un contegno, Elektra, hai appena visto un folletto.»
«Folletti? Ma in Fantasy Game li fanno diversi, più piccoli, graziosi, coi cappellini rossi a cono.»
«Quelli sono gnomi. E adesso, ti prego, piantala di sorprenderti per ogni cosa e augurati che non se la sia presa... oh, eccolo che arriva, non fiatare!»
«Avete la chiave, gentili signore?» chiese la piccola e grottesca creatura.
«Certo! Elektra? Dài la chiave al signor cassiere.»
«Ehm... quale chiave?» le bisbigliò all’orecchio.
Hermione scattò uno sguardo interdetto verso di lei e, con un tono di esasperazione misto a preoccupazione, le rispose altrettanto a bassissima voce: «La chiave, Elektra, devi averla tu! È d’oro massiccio, scolpita con degli strani disegni.»
«Aaaah, la chiave della nonna, certo!» Affondò la mano nella scollatura, ma si arrestò improvvisamente e deglutì. «Scusi, ma che c’entra la nonna?»
«Te lo spiego dopo, adesso muoviti!»
«Nonna Amanda era una str...?»
«Era una maganò, una strega senza poteri.»
«E suo figlio Jack?»
«Lui non ne sa niente, per cui taci e sgancia quella benedetta chiave!»
«Oh, okay.» Dopo aver ravanato un po’ sotto la maglietta, tirò su il laccio di scarpe con la chiave attaccata, sotto gli occhi disperatamente imbarazzati dell’insegnante; poi, con un gesto plateale, la innalzò fino a sfilarsi l’originale collanina dalla testa. Attorcigliò la cordicella attorno al prezioso oggetto e la porse, disinvolta, al folletto.
Quello non sembrò scomporsi più di tanto. Solo un po’ urtato, domandò: «Allora, quanto desiderate ritirare?»
«Un sacchetto, grazie.» Il folletto si alzò e andò verso quella che sembrava l’entrata di un caveau.
Una volta sole, Elektra destò alcuni interrogativi: «Scusi, ma che unità di misura è un sacchetto? Quanti soldi sono?»
«All’incirca cento galeoni, la valuta che usiamo noi maghi, che corrisponde più o meno a mille sterline.»
«Wow! E quanti altri sacchetti ci sono di là?»
«Quelli necessari a finire i tuoi studi. Questi soldi intanto serviranno a fare le compere di oggi e te ne resterà un po’ per tutto l’anno accademico, sai, qualche spesuccia extra... Comunque, complimenti per la catenina, davvero elegante!»
«Sa, non sapendo con chi avessi a che fare, ho preferito nasconderla bene: me l’ha data la nonna prima di morire, dicendomi di custodirla gelosamente. Ho sempre pensato che fosse un oggetto in suo ricordo, non immaginavo che avesse questa importanza. Pensi che volevo venderla in un momento di magra.»
«Grazie al cielo non l’hai fatto, Amanda si sarebbe rivoltata nella tomba! Lei è stata tra i primi promotori di questa borsa di studio.»
«Cavolo! Lei non me l’ha mai detto... o forse non ha avuto il tempo di farlo. Lei la conosceva?»
«Non proprio. Fino a che età ti ha allevata?»
«Avevo undici anni quando è morta» concluse, con una certa tristezza.
Hermione la guardò con dolcezza. «Deve mancarti molto.»
«Sono passati molti anni, e Jack Power mi è stato accanto.»
La donna le posò le mani sulle spalle. «Ascolta, Elektra, vorrei che oggi non ci fosse posto per i pensieri tristi. Non ho obbligato Hagrid a lasciarmi venire per farti stare col muso.»
«L’ha obbligato lei?»
Lei ridacchiò colpevole. «Beh, non credo che fare shopping con lui sarebbe stato così divertente!»
Risero affabilmente, scambiandosi sguardi d’intesa. All’arrivo del folletto con il denaro, agguantarono la saccoccia e piombarono subito in strada. La professoressa Granger esortò: «Allora, tira fuori la lista con i libri, cominceremo dal Ghirigoro.»
Elektra diede una sbirciata alla lista:
- Interpretare il Pensiero, e Come Difendere la Mente (esercizi pratici), di Anthony Quince;
- L’Arte del Trasfigurarsi, di Clotilde Looklike;
- Manuale dell’Indagatore Magico, di Reginald Holms;
- Compendio degli Anatemi più Comuni e Relative Contro-Maledizioni, di Cornelius Touchwood;
- Terapie con le Erbe, di Bernadette Curie;
- Raccolta degli Incantesimi Superiori, Volume I.
«Accidenti, devo studiare tutta ‘sta roba?» chiese turbata, china sotto il peso dei voluminosi acquisti.
«Sono solo delle guide. Come dice il nostro Kingsley Shacklebolt, ciò che importa è la pratica, ma cerca di non farti bocciare!»
«Un altro professore del corso?»
«Già, uno dei migliori nel suo campo! Adesso andiamo a farti fare la divisa.»
«DIVISA?» strillò senza contegno.
Ignorando la sua reazione, Hermione si fiondò in un negozio di abbigliamento, promettente anche nel nome: Abiti Per Tutte Le Occasioni. Dopo un’estenuante messa in prova di circa un’ora, la sartoria sfornò un paio di impeccabili divise, costituite da due lunghe e decorose gonne a tubo color ago di pino, due camicette dal candore abbagliante, un tozzo cravattino nero dall’aria soffocante e un mantello invernale con il cappuccio imbottito di pelo di vellosa selvatica.
«Oh, tesoro, ti sta tutto un incanto!» esclamò soddisfatta la commessa accostandovi il tocco finale: un paio di lucidi stivaletti neri a punta, con il tacco a rocchetto.
Lei bofonchiò sconcertata: «Con che coraggio la chiamano divisa? Sembra un costume per Halloween.»
«Non fare quella faccia, Elektra, la divisa è obbligatoria.»
«Ma, professoressa, sembro uscita da Buckingham Palace all’epoca della regina Vittoria! Io mi aspettavo una tuta, al massimo una gonna plissettata, ma qui si esagera. Mi vergogno da morire a girare così, e poi le scarpe... non le posso guardare!» piagnucolò.
«Ci farai l’abitudine. Riconosco che la scelta della direttrice sia stata un po’ eccentrica, ma non osare contestarla, per l’amor del cielo!»
«Eccentrica? È totalmente fuori moda, orripilante, ridicola e terribilmente scomoda!»
Hermione sbuffò. Salutata la cordiale signorina, ritornarono in strada per poi fermarsi davanti al negozio di scope.
«Allora, che altro abbiamo, Elektra?»
«Qui dice, sotto la voce “attrezzature”, uno spioscopio, guanti di pelle di drago, kit di pronto soccorso, rotoli di pergamena di varie misure, piume d’oca, polvere magica, Spilla Scudo Scacciafattura a scelta e cappello a punta da sera... CAPPELLO A PUNTA?»
«Certo, ogni strega che si rispetti porta un cappello a punta nelle occasioni speciali.»
«Non s’aspetterà che...», le arrivò un’occhiataccia, «che i-io sia una strega che si rispetti?»
«Spiritosa! Nient’altro?»
«No, è tutto qui.»
«Ma tu non hai né scopa né animale né bacchetta, quindi dovremo procurartele. Vieni, c’è una bellissima Windcut turbo sedici che ti aspetta!»
Elektra continuava a girare freneticamente il collo in tutte le direzioni. La vista delle cose più assurde la investiva di un forte senso di eccitazione febbrile: a parte la faccenda del cappello a punta, ancora tutta da discutere, le parole incantesimi, pozioni, polveri magiche, bacchette, scope volanti le turbinavano come un tornado nella sua testa.
«Bene, non resta che Olivander. È proprio due porte più in là. Vai intanto tu, io ti raggiungo in un lampo!» La incoraggiò strizzandole un occhio e si avviò dalla parte opposta.
Elektra era troppo eccitata da tutte quelle novità per intimidirsi, così spinse la porta del negozio di bacchette facendo tintinnare un campanellino posto sopra l’ingresso. «C’è nessuno? Buongiorno!»
Un vecchio dall’aria estremamente vissuta le diede freddamente il benvenuto: «È venuta per riparare la sua bacchetta?» le chiese, guardandola seccato come se non ne avesse avuto cura.
«No, in verità sono qui per acquistarne una... è la prima volta, cioè è la mia prima bacchetta» rispose timidamente.
«La sua prima bacchetta?» sbottò sbigottito quell’uomo dall’aspetto incartapecorito, «Quanti anni ha?»
«Diciotto appena compiuti, perché?»
«Non le sembra tardi per scoprire il suo dono? Di solito vendo la prima bacchetta a undicenni» disquisì severo, con uno sguardo penetrante e diffidente.
Elektra corrucciò la fronte. Non voleva essere maleducata con quell’anziano signore, ma farla sentire una tardona non era poi così gentile e proprio ben educato da parte sua. Risentita, proferì: «Senta, non sta a lei decidere se sono troppo vecchia per comprare una bacchetta; ho i soldi per pagarla, quindi me ne dia una e non mi faccia perdere altro tempo. E poi non credo sia affar suo la faccenda del...», fece virgolette con le dita, « dono. Mai sentita la frase “meglio tardi che mai”?»
Il vecchio strinse gli occhi mostrandosi molto più accigliato di prima. Elektra pensò di avere esagerato ma sostenne comunque i suoi strali con lo sguardo altero, camuffando ogni possibile segno di rimorso. L’uomo la osservò a lungo; dopo qualche secondo di riflessione, decise di rompere il silenzio: «Io conosco quello sguardo, lei mi ricorda qualcuno» disse glaciale.
«Anche lei mi ricorda qualcuno...», lo zombie nel terzo livello di Mortal Hologram che ogni volta non vuole crepare!, meditò lei, terribilmente indispettita dal suo fare indagatore.
«Però il suo viso ha una fisionomia ignota e poco comune; antica, senza tempo» replicò l’uomo, soave.
«È un complimento?» domandò perplessa.
Uno scampanellio familiare interruppe la cordiale conversazione. Hermione fece irruzione quasi trafelata. «Allora, hai fatto? Buongiorno, signor Olivander.»
L’uomo bofonchiò qualcosa. Si arrampicò su per una scala per raggiungere un’alta scaffalatura dalla quale selezionò un paio di scatolette lunghe e strette; se ne mise una sotto il braccio e ridiscese.
«Ma che gli hai detto?» le sussurrò Hermione.
«Io? Lui! Mi ha detto che sono vecchia, tardona e dalla faccia non ben definita.»
«Che cosa?»
«Provi questa qui» s’intromise laconico il signor Olivander.
Sbuffando ancora per la stizza, Elektra prese in mano quel pezzo di legno lucido. Presto si sentì a disagio: ammesso che avesse in mano una vera bacchetta magica, non sapeva cosa farci né come farla funzionare.
Tenendo ben salda l’impugnatura, se la rigirò davanti agli occhi per osservarne, stupita, le figure di rampicanti stilizzati scolpite su di essa.
Olivander snocciolò: «Bel pezzo questo, dodici pollici, legno di una quercia le cui radici affondavano nelle terre perdute di Avalon. Un pezzo più unico che raro, forte, come il cuore del drago che gli dà la vita. Non sente nulla, signorina?» aggiunse quasi di piglio soddisfatto.
«Cosa dovrei sentire, scusi?» fece Elektra, roteando la bacchetta come se stesse tirando di scherma. Improvvisamente si fermò con gli occhi sbarrati a fissare la punta, dalla quale, senza il minimo preavviso, fuoriuscì una gittata di scintille bianche, rosse e azzurre. «Astrofisico!» lei esclamò stupita, «Questa è davvero una cosa da sballo, però sento un bruciore attorno alla testa.» Se la grattò, sbatacchiando la bacchetta nella speranza che ripetesse lo spettacolo.
«Sapevo di non sbagliarmi!» affermò Olivander, «Lei discende...»
«La prendiamo!» lo interruppe Hermione ansimante, e sgranò gli occhi accennandogli di tacere. Elektra era ancora stordita da una strana euforia per poter captare quell’ambiguo scambio di battute.
Capita l’antifona, l’uomo stirò qualche ruga accennando un sorriso compiaciuto e soggiunse: «Ottima scelta», ma non sembrò rivolgersi alle due acquirenti.
Quando uscirono dal negozio, Elektra dimostrò di averlo notato: «Me lo sono sognato o lui parlava alla bacchetta?»
«Il signor Olivander sostiene che sia la bacchetta a scegliere il mago e mai viceversa.»
«Ed è così?»
«Io penso proprio di sì» conciliò mentre raccoglieva da terra una grossa gabbia per uccelli coperta da un telo scuro.
«Cos’è?»
«È il tuo animale. È un gufo reale, un gran bell’esemplare.»
Elektra sollevò la copertura sobbalzando per il crepitante, garrulo verso improvviso del grosso volatile. «Che me ne faccio?»
«Noi usiamo questi animali per mandare e ricevere la posta. Ti tornerà molto utile, ma devi dargli un nome.»
«È un maschio o una femmina?»
«È un maschio.»
«Allora lo chiamerò Jack!»

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