Lettere alla polvere

di Valerie Clark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuda ***
Capitolo 2: *** Su questo letto di rose vestito ***
Capitolo 3: *** Non buttarmi via ***
Capitolo 4: *** Sbattuta ***
Capitolo 5: *** Fino all'ultimo resto di noi ***
Capitolo 6: *** Le leggi della fisica ***
Capitolo 7: *** Le nostre lacrime ***
Capitolo 8: *** Per un'altra litigata con te ***
Capitolo 9: *** Senza di me ***
Capitolo 10: *** Direzione? Te ***
Capitolo 11: *** Lontana ***
Capitolo 12: *** Una tazza di caffè ***
Capitolo 13: *** Il mio posto felice ***
Capitolo 14: *** Sabbia ***
Capitolo 15: *** Coppie i cui sorrisi durano il tempo di un orgasmo ***
Capitolo 16: *** Guardarsi indietro ***
Capitolo 17: *** 'Non ti amo' ***
Capitolo 18: *** 'Sei mia, ma...' ***
Capitolo 19: *** Ricominciamo ***
Capitolo 20: *** La luna ***
Capitolo 21: *** Il male che ci stiamo facendo noi ***
Capitolo 22: *** Per innamorarmi di te ogni giorno, ogni giorno di nuovo, ogni giorno di più. ***
Capitolo 23: *** E ritorno da te ***
Capitolo 24: *** Fa freddo quando non ci sei ***
Capitolo 25: *** Pesci rossi ***
Capitolo 26: *** La fine ***



Capitolo 1
*** Nuda ***


Nuda
 
ventisette gennaio duemilatredici
 
Ora ti chiamo, ora ti chiamo e ti dico tutto; che non vieni da me stasera, che non dormi da me stanotte, che non voglio vederti, che non voglio sentirti, che voglio che tu smetta di esistere. Dobbiamo scegliere qui, o io o te, uno di noi deve sparire. Sì, deve sparire.
Perché mi chiedi? Perché se uno di noi non sparisce chissà per quanto andrà avanti.
Io non voglio che vada avanti, voglio farla finita.
Sì, ora ti chiamo, ora ti chiamo e te lo dico.
No, non te lo voglio dire, perché, per quanto mi fai male, mi fai bene, un bene assurdo. A me sei rimasto solo tu e a te sono rimasta solo io; farei male ad entrambi allontanandoci. Ora io mi chiedo, come accidenti fai a farmi bene? Tu, con quegli occhi color ghiaccio in cui non sono mai riuscita a vedere niente. Tu, con quel tuo orgoglio così forte, così spaventoso.
Se dicessi che mi fai bene, mentirei.
Se dicessi che mi fai male, mentirei.
Se dicessi che mi sei indifferente, meriterei un girone dell’Inferno tutto per me. E non precisamente per la bugia o per l’aver disprezzato qualcosa dopo averne goduto, no. Non lo so, se penso che mi sei indifferente mi sento terribilmente … cosa? Vuoi sapere cosa? Non lo so.
Nessuno lo sa, perché a te non l’ho mai detto, e tu da solo non ti accorgi più di niente.
Avanti, guardaci; siamo due ragazzini che giocano a fare gli amanti. Solo che ci viene male, e così sembriamo una coppia che si strangola in un matrimonio che non sopporta più, o che forse non ha mai sopportato.
Tu vieni la sera ed è come se non ci fossimo visti tutto il giorno; anzi, per esserci visti ci siamo visti, spesso anche nella stessa stanza, è solo che ci vedevamo appunto. Senza guardarci. O peggio facciamo finta di non conoscerci, di odiarci, per non deludere le aspettative degli altri.
Poi tu arrivi in camera mia, entri nel mio letto e tutte quelle schifezze che ci siamo fatti nella giornata spariscono. Mi abbracci, mi stringi forte, mi respiri.
E io ti sento respirare, sento il tuo petto gonfiarsi attaccato alle mie spalle e vorrei che non te ne andassi mai. È qui, è ora che mi fai bene.
E poi è come se non ricordassi altro; nient’altro che i tuoi baci, i tuoi graffi, i tuoi respiri.
Quando esci da me, alla fine, torniamo ad essere noi due, quelli che davvero tutti si aspettano. Ti giri dall’altra parte, mi dai le spalle, steso nell’altro lato del letto, e chiudi gli occhi. Io mi guardo intorno e non vedo niente, e non perché è tutto buio, ma perché intorno a me non c’è davvero niente.
Inizio a contare, a fare la lista. Sì, la lista delle cose che ho perso:
-chi pensavo fosse il mio primo amore,
-il mio migliore amico, il nostro migliore amico, con cui ho condiviso tutto, affrontato tutto. Loro due che ora credono io stia dormendo tranquilla, da sola, dopo una serata china sui libri. Loro due a cui io mento. Loro due. Noi tre, noi insieme, noi tre che quasi ti disprezziamo
-la mia dignità, regalata a te quella prima notte in cui mi sei entrato dentro
-il mio sorriso, che ti sei preso
-la mia libertà, visto che da sola, senza di te, non riesco più a stare, non riesco più a decidere, non riesco più a pensare
-le cose che mi piacciono, che ho messo da parte per te, anche se tu non me l’hai mai chiesto, per me è stato come se l’avessi fatto.

E poi con la lista non me la sento di andare avanti, mi fermo ogni notte a questo punto, con le lacrime che già mi rigano il volto. Allora ti guardo e penso che alla fine, diciamocelo, ho perso anche te, che ora fai finta di dormire sull’altro lato del letto e fai finta di essermi distante e mentirei se dicessi che non so il perché.
Io lo so il perché.
Quando non sei dentro di me, ed io lo sento, lo sento bene, tu, con me, non c’entri proprio niente.
Io con te sono nuda, spoglia dei miei difetti e dei miei sbagli. Tu mi vuoi nuda. Io mi fido di te. E tu? Tu ti fidi di me?
Noi non ci parliamo, non parliamo mai. Noi facciamo l’amore. Anzi, noi facciamo sesso. Forse prima facevamo l’amore, poi ci siamo persi, a metà tra il mio dolore e il tuo orgoglio, e da allora facciamo solo sesso.
Com’è che è iniziato? Ah sì, quella notte in cui eravamo rimasti solo noi, mentre gli altri erano tornati a casa, e tu non avevi più una famiglia da cui tornare ed io desideravo tanto non averne una. Quella notte, quando la neve, il freddo e il buio ci avevano colto di sorpresa, è iniziato. Vedi, faccio anche fatica a ricordarmelo. Quella notte, in quella stanza, tu mi hai chiamato con il mio nome per la prima, forse l’unica, volta.
E poi è andata come è andata. I vestiti che cadevano, le mani che scorrevano, le unghie che graffiavano, le labbra che si cercavano; è successo tutto così velocemente. E poi eri accanto a me, sopra di me, dentro di me, e mi respiravi, e ti respiravo, ed era un respiro affannato, non per la passione ma perché non sopportavamo più niente.
Ci siamo trovati. Ci siamo salvati.
Ora non ci resta che distruggerci. Oh, ma siamo bravi in questo, ci verrà molto più facile di tutto il resto. E quindi uno di noi se ne deve andare, prima che mi laceri del tutto con le tue spinte.
Ma come faccio a dirtelo se noi non parliamo? Se ci teniamo la bocca chiusa anche mentre ci amiamo? Come faccio?
Che poi, diciamocelo, che cosa dovremmo dirci noi due? Che cosa avremmo da spartire noi due? Potremmo parlare dei nostri sogni infranti, sogni di gloria che ci sono crollati addosso come un palazzo dopo un terremoto. Oppure potremmo parlare del dolore, quello strano che ci prende, perché so bene che lo senti anche te, ogni volta che ci guardiamo, ogni volta che ci spogliamo, ogni volta che ci rivestiamo. O del fatto che ci credevamo diversi, che non ci conoscevamo e che ora ci conosciamo anche meno di prima se possibile.
Di preciso cosa mi aspetto che ci diciamo, io e te?
Sarebbe un discorso straziante, straziante per entrambi. Sarebbe dolore misto a tanto odio, tutto quello che abbiamo covato in questi anni e represso in questi mesi, verrebbe tutto fuori.
E allora non te lo dico, e continuo a farti entrare nella mia vita, nel mio letto, nel mio corpo, e continuo a dartelo in pasto, quasi sperando che finisca presto, quasi sperando che uno dei due muoia improvvisamente così che l’altro sia libero. Io non piangerei se tu dovessi morire, lo sai? No, credo che fumerei.
Sì, fumerei. Mi accenderei una sigaretta e aspirerei piano, magari con in testa le immagini dei nostri momenti insieme. Mi tornerebbe in mente che quella notte, quando tutto è iniziato, tu ti sei acceso una sigaretta e qualche giorno dopo ti ho sentito dire, non a me ovviamente, che le sigarette dopo il sesso avevano tutt’un altro sapore. Mi è anche venuto il dubbio che venissi da me solo per gustarti la sigaretta dopo.
Allora credo che, se tu dovessi improvvisamente morire, io inizierei a fumare. Comprerei milioni di sigarette e le fumerei tutte; una per il sesso, una per i graffi, una per i respiri, una per i baci, una per i sospiri, una per i segreti, una per le bugie, una per i tuoi occhi, una per i miei, una per le mani, una per le parole non dette, una per la noia, una per la solitudine, una per la tristezza, una per la gioia, una per la passione, una per il desiderio, una per la voglia, una per la nostalgia. E per l’amore? No, nessuna sarebbe per l’amore. Noi non lo facciamo per amore.
Forse da morto non mi mancheresti nemmeno.
Forse, da morta, io a te non mancherei affatto. Sicuramente. 

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Capitolo 2
*** Su questo letto di rose vestito ***


Su questo letto di rose vestito
 
quattro febbraio duemilatredici
 
Oggi avrei voluto correre da te.
Sì’, ti sarei corsa incontro, sapendo già cosa dire.

“Non ha senso, lo so; lo so, ma ti voglio, ti voglio ora, adesso.
Qui, su questo letto di rose vestito, su questo cuore che ti ha tanto atteso.
Ti voglio e non voglio nessun altro. Ti voglio ogni volta che mi guardi, ogni volta che i tuoi occhi grigi sfociano nei miei; ogni volta che canti sotto la doccia; ogni volta che parli gesticolando; ogni volta che ti muovi goffamente. Perché come ti muovi tu non si muove nessuno. Perché come riesci a portare in giro quella figura non riesce nessuno.
Ti voglio ogni volta che ti vedo e non riesco a trattenermi.
Ti prego prendimi, prendimi adesso; sono tua. Sono tua da sempre, anche quando ero di qualcun altro. Sarò tua per sempre, anche quando sarò di qualcun altro, anche quando non mi vorrai.
Prendimi su questo letto di rose vestito, su questo cuore che ti ha tanto atteso.
Prendimi te, non lasciare che altri mi prendano.”
Questo, questo ti avrei detto oggi. Se solo me ne avessi dato l’occasione.
Non so, forse l’hai fatto ed io non l’ho colta, troppo presa com’ero ad evitare di pensare all’inevitabile. Invece l’inevitabile è accaduto, te ne sei andato. Sei libero.
Libero da questa … cosa, sì, ‘libero da questa cosa’, proprio così. Perché, scusa, come dovrei definire quello che avevamo? Era una cosa, una cosa solo nostra.
Ma oggi non ci riesco a parlarne, non oggi, non dopo che te ne sei andato, non oggi, no, non di questa cosa.

Mi ripeto in testa qualche parola, oggi, oggi che non ti posso parlare di questa cosa.
Lo sai, io scrivo di getto, non penso alle parole, mi fanno paura le parole. E allora oggi, mentre piangevo, mi risuonavano nel cervello queste tre rime. Solo tre rime buttate giù in venticinque secondi, neanche un minuto ho dedicato alla nostra storia.
E tu? Tu quanto tempo hai dedicato, alla nostra storia?
Quanto tempo hai passato a chiederti dove avessimo sbagliato?
Mi hai mai scritto una lettera? Una poesia? Una parola?
Tu mi hai pensato? Mi hai mai pensato alla sera, prima di addormentarti, quando potresti pensare a tutto; hai mai scelto di pensare a me? No, ti prego, non rispondere, non voglio sentire.
...
Sono a mare, ora, adesso, mentre scrivo, all’alba. Te la ricordi l’alba? L’alba che guardavamo insieme, l’alba di cui ci eravamo innamorati; come abbiamo fatto? Come abbiamo fatto ad innamorarci più dell’alba che di una persona? Come abbiamo fatto ad innamorarci più dell’alba che di noi stessi?
Come abbiamo fatto a perderci, se è stato nell’abbraccio dell’alba che ci siamo trovati?

Tu mi avevi tra le dita,
e mi hai lasciato scivolare;
io ti avevo tra i capelli,
uniti come le onde del mare.
Eravamo nelle vene
ma non siamo riusciti ad amare.

Questo amore mi fa male al cuore;
profuma di te e non mi vuole. 

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Capitolo 3
*** Non buttarmi via ***


Non buttarmi via
 
ventotto febbraio duemilatredici
 
 
Non saresti dovuto venire oggi.
‘Sono qui per caso’, così hai detto. E a me, per caso, è venuto da piangere.
Sì, da piangere; perché, lo sai, alcune volte ci penso a come sarebbe se fossimo ancora vicini. Mi ritrovo da sola, al buio, in un letto vuoto, con gli occhi persi, e mentre mi porto la sigaretta alle labbra mi torni in mente.
Sì, la maggior parte delle volte che ti penso sto fumando, è sempre così. È sempre stato così. Tu mi fai fare così. Ti siedi sul letto, ci accendiamo una sigaretta e fumiamo un pacchetto come se niente fosse, quasi non ce ne accorgiamo. Siamo senza freni quando siamo insieme, io e te. Facciamo paura quando siamo insieme, io e te.
Non saresti mai dovuto andare via, non sarei mai dovuta andare via. Non ricordo nemmeno bene com’è successo; come può avere senso una cosa se non la ricordi? Evidentemente non dovevamo essere divisi, noi.
Oppure semplicemente non lo capisco, non lo so.
Siamo stati amici, sconosciuti, amanti, niente. Sai che vuol dire che siamo stati niente? È peggio che sconosciuti; vuol dire che quando ci incontravamo per strada abbassavamo lo sguardo, che a te non importava più di me e a me non importava più di te, che potevamo anche essere morti.
Mi manchi. Una volta anch’io ti mancavo, me lo ricordo. Mi ricordo anche che mi faceva stare malissimo sapere di farti male, ma non potevo fare altro perché avevi cominciato tu. Cominci sempre tu, sempre.
Non ci parliamo per giorni e poi sei tu a farti sentire. Siamo vicini ma distanti e poi sei tu ad avvicinarti.
Ti ricordi quella sera, poche sere fa, quando siamo stati quasi costretti a stare insieme? Ti ho chiesto anche scusa. È questo che intendo con ‘vicini ma distanti’. Ce ne stavamo lì, su quel letto in cui fino a pochi giorni prima ci eravamo voluti bene, sdraiati ognuno sul proprio lato, lontani. Non avevamo nemmeno il coraggio di darci le spalle, no: noi ci guardavamo negli occhi. E questi sembravano urlare ‘Ne ho abbastanza di te’ e se ce lo fossimo urlato davvero probabilmente avrebbe fatto meno male.
E adesso, mi sembra giusto che tu lo sappia, io in quel letto ci impazzisco. È l’unica cosa che ci faccio. Ti ho deluso.
Per dio, tu mi hai deluso. Non hai idea di quanto vorrei impazzire con te. Sono tutti qua intorno, preoccupati per me, tu no, tu non ci sei. È strano, lo pensano tutti, visto che prima non te ne andavi mai. Mi hai fatto davvero male. E continui, sembra quasi che ti diverta. Non lo so, ti diverti?
Continui a spuntare fuori ogni volta che penso di non pensare più.
E io te lo vorrei dire, te lo vorrei dire, accidenti, che non serve a niente allontanarci se poi continuiamo a cercarci, che io così non ci riesco ad andare avanti, ci riesco con tutti ma con te no. Ma poi non te lo dico, perché ho paura che tu te ne vada e alla fine quei pochi momenti che, casualmente, decidi di ritagliarti per me, sono quelli in cui sto bene. Sono quei momenti in cui mentre parli non ti ascolto e penso solo che sì, ce la posso fare ad andare avanti, ad essere forte; lo sono stata una volta, posso esserlo di nuovo. Poi te ne vai. Mi lasci di nuovo al mio buio, al mio silenzio, alle mie paure, al mio vuoto, al mio nulla. E allora penso che no, non ce la faccio e se ce l’ho fatta una volta sicuramente adesso mi sono scordata come si fa. Pensa che a volte, tanta era la disperazione, ho anche pensato che fossi te il motivo per cui quella volta ce l’avevo fatta. Che stupida.
Altre volte invece penso che devi odiarmi proprio. Non lo so perché, mi viene in mente e basta. Allora spengo la sigaretta, mi rannicchio sotto le coperte, scuoto la testa per far uscire quella paura, ma niente.
Sai cosa me lo fa pensare? Il fatto che hai completamente cambiato il tuo pensiero riguardo a me.
Lo so che faccia stai facendo, lo so cosa stai borbottando; ‘Te lo detto che ti voglio ancora bene..’. E invece guarda un po’; non c’entra niente.
Eravamo così perfetti, perché abbiamo dovuto rovinarci? E perché hai dovuto continuare a gettare sale sulle mie ferite? Mi hai chiesto ‘Come stai’ e ti ho risposto ‘Male’. Mi hai chiesto il perché, te l’ho spiegato e tu hai pianto. Hai pianto. Sono l’unica persona davanti a cui hai mai pianto, forse neanche tua madre ti ha mai visto; come ti conosco io, come ti voglio bene io, come ti amo io, non lo sa fare nessuno. Non buttarmi via.
Ed è strano per me quando piangi, lo sai? Lo sento nella pancia, non nel cuore, proprio nella pancia. Che legame si sente nella pancia? Svaniscono piano piano tutte le volte in cui ho pianto io, tutte le volte in cui sono stata piccola io, e ci sei solo tu. La prima volta che hai pianto eravamo pancia contro pancia; sentivo i tuoi singhiozzi e mi veniva da vomitare per il male che mi facevi. Ma mi manca.
E poi, solo poco tempo dopo aver pianto per il mio dolore, hai ricominciato a trattarmi male, come se tutto quel dolore non mi bastasse. Per gioco, per scherzo, tanto per provare, è sempre così che si inizia. Andavamo tanto bene prima, poi hai voluto svuotarti in me. Tutti si svuotano in me, e tu lo sai, tu mi conosci. Mi conoscevi. Volevi farlo anche tu. La cosa più brutta è che non sto per dire ‘Mi hai fatto sentire …’ e poi un aggettivo orrendo; no, sto per dire che in quel momento ho solo sentito, scoperto, capito, che probabilmente non c’era niente di diverso in te. Ed è questa forse la più grande delusione che tu mi abbia mai dato.
Perché, lo sai, io ci ho sempre creduto in te, in noi; io ero lì a difenderti. Ti sono sempre rimasta solo io, lo sai bene. Ho dato tutto, fatto tutto, messo a repentaglio tutto, perso tutto per te; alcune cose nemmeno le sai, credi che ti siano cadute dal cielo per grazia ricevuta.

Ma alla fine lo sai qual è la cosa più brutta? Che non riesco a trovare un singolo momento che non sia valso la pena, quando eravamo insieme. Non riesco a darmi una spiegazione di cosa ci sia successo. Non so nemmeno più definire questa relazione.
Eravamo migliori amici, un tempo, anni fa, prima, prima di rovinare tutto, adesso cosa siamo? Due rondini che se ne vanno in direzioni opposte; tu migri verso il caldo, verso la vita facile, con il resto dello stormo, mentre io mi allontano verso il gelo. Dalla parte sbagliata, sempre. Controvento. Fuori dallo stormo. Ad aspettare che un uccello più grande mi mangi, che il freddo mi paralizzi, che la fame mi uccida. A sperarci quasi. Non ho mai fatto parte di uno stormo, io. Tu invece sì. E anche quando eravamo solo io e te non sembravamo due rondinelle sole, sperdute ed impaurite. Sembravamo forti, controvento e fiere. Io facevo forza a te e tu facevi forza a me, ricordi? Non ci serviva nessun altro. Poi abbiamo preso strade diverse.
Ma anche noi eravamo diversi, alla fine. Noi ci amavamo, ma in un modo particolare, in un modo che a volte non capivamo nemmeno noi. E chi ci capiva, a noi? Ci innamoravamo di tutto: delle albe che vedevamo insieme, dei progetti che facevamo, dei particolari che notavamo per la strada, delle gocce di cioccolato sui biscotti che ti portavo sul letto la mattina solo perché sapevo che ti avrebbe dato fastidio. Ma non ci siamo mai veramente innamorati l’uno dell’altro. E il fatto che siamo andati avanti per così tanto mi fa capire che forse non ci siamo mai nemmeno innamorati di noi stessi, io di me e tu di te; chi si ama non si distrugge in questo modo.
E quindi volevo solo dirti che basta, basta distruggerci.
Volevo anche dirti che non so perché un amore, una storia, una relazione, finisce; finisce e basta. Volevo dirti che ci si è troppo amati per non amarsi più ma che si è allo stremo delle forze, ma poi mi sono resa conto che forse era una bugia. Quindi ti dico solo basta. 

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Capitolo 4
*** Sbattuta ***


Sbattuta
 
Dieci marzo duemilatredici
 
Stanotte t’ho sognato. Stanotte, appena chiusi gli occhi, t’ho sognato. Stanotte, appena chiusi gli occhi, dopo averti pensato per minuti, ore, t’ho sognato.
Ho sognato il tuo corpo così perfettamente avvinghiato al mio, le tue dita intrecciate alle mie, nelle mie, i tuoi occhi riflessi nei miei. Ti vedevo, vedevo tutto così chiaro; era lì che appartenevamo, è lì che apparteniamo, solo in un sogno, solo in un mio stupido sogno.
Avanti, in quale universo perversamente parallelo io e te saremmo mai stati insieme veramente? Ma veramente veramente intendo; tipo alla luce del sole, tipo per davvero. In nessuno, credimi. Io non sono stata abbastanza per te, è per questo che te ne sei andato, no? Perché non ero abbastanza, perché non bastavo, non bastavo mai. Tu eri così perfetto, ed io ero così … cos’ero io, cosa sono io? Non lo so, mi sento una buona a nulla; a volte mi sento un nulla e basta.
Non me l’hai mai detto, che non ti bastavo. Non me l’hai nemmeno mai fatto capire. Ma io lo sapevo, lo so che non bastavo; io non basto neanche a me stessa, come posso bastare a qualcun altro?

Cristo, mi manchi tremendamente.
T’ho visto appena stanotte, in quel sogno, nella mia testa, e già mi manchi.
Ogni sera m’addormento pensando a te, pensando a quei corpi avvinghiati, a quelle dita intrecciate, a quegli occhi riflessi gli uni negli altri; ogni sera è come se fossi ancora qui.
Ma tu non sei più qui, ed è una cosa con cui prima o poi dovrò fare i conti. Prima o poi, una di queste sere, qualcosa nel cervello mi urlerà ‘Non c’è più!’ e allora il mio cuore smetterà un attimo di battere.
Ma sai qual è il vero problema? Che tu potresti essere qui, potresti scegliere di essere qui, di esserci ancora. Invece no, no, tu hai scelto di non esserci più, non più con me, non più per me, non più dentro di me. E questa cosa mi fa male, un male cane, e non ho nessuno a cui dirlo, nessuno con cui confidarmi, perché eri tu, eri tu l’unico con cui potevo parlare, l’unico con cui potevo anche non parlare, perché mi avresti guardata e avresti capito lo stesso.

Io veramente non capisco perché mi sento così, sbattuta tra mille pensieri, tra mille emozioni, tra mille ricordi. Non capisco come sia possibile che una persona ami così tanto un’altra, e poi questa gli venga tolta, così, perché ‘il destino ha deciso così’. Amare poi, e che ne so io se è amore. So che è passione, so che è ammirazione, so che è, o meglio era, amicizia, un’amicizia infinita. Ma sono confusa; non mi sono mai sentita così prima, sei la prima persona che mi fa sentire tutte queste cose, e tutte insieme.
Mi ricordo quella prima volta in cui abbiamo fatto l’amore; eravamo tutti per noi, solo noi. Solo noi, rimasti indietro, rimasti soli, rimasti insieme. Siamo davvero rimasti insieme sempre?
Mi ricordo quei corpi avvinghiati, quelle dita intrecciate, quegli occhi riflessi gli uni negli altri; tutto era come nel mio sogno. Poi mi ricordo le lingue che scorrevano fameliche, i respiri affannati, il fiato corto. Mi ricordo che il mio cervello urlava ‘Vattene’, e mi ricordo che non ho mai voluto andarmene.  
Mi ricordo che dopo quella volta ho pensato a te sempre, continuamente. Ogni cosa che facevo pensavo ‘Cosa farebbe lui?’, poi hai smesso di farle, quelle cose, poi hai smesso di fare tutto. Ma, per la miseria, io te lo giuro, ti sento vicino a me, ogni sera, ogni notte. Sento la tua voce in ogni canzone, vedo il tuo viso in ogni persona.
E se un giorno dovessi mai scordarti, scordare la tua voce, il tuo viso? Non me lo perdonerei.
Ma alla fine sarebbe colpa tua, se mai mi scordassi di te; sì, perché io, fosse per me, ti avrei al mio fianco sempre, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.

Io vorrei soltanto che, almeno per una volta, quello che voglio sia mio; vorrei, almeno ancora per una volta, sentire la tua voce, scaldarmi dentro un tuo abbraccio.
Ti prego, torna.

No, non torni, non puoi tornare, non tornerai.
E allora io me ne resterò da sola, continuerò a sperare in una cosa che so non accadrà mai, continuerò a sognarti. Continuerò a non essere abbastanza per te, per me, per nessuno, ma tanto nessuno dopo di te sarà mai abbastanza per me.
 

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Capitolo 5
*** Fino all'ultimo resto di noi ***


Fino all’ultimo resto di noi
 
tredici marzo duemilatredici
 
 
Mi dispiace.
Mi dispiace, davvero.
Mi dispiace averti fatto male; mi dispiace che tu mi abbia fatto male.
Mi dispiace che tra di noi sia andata così.
Mi dispiace di non essere riuscita a starti accanto; mi dispiace che tu non sia riuscito a starmi accanto.
Lo sai, oggi avrei davvero avuto bisogno di te; oggi, mentre tutti piangevano la sua morte, in molti mi hanno chiesto perché tu non fossi lì a piangere con me. Ed io che potevo rispondergli? ‘Le cose si sono complicate quando abbiamo cominciato a dividere troppo spesso le lenzuola’? Ho solo detto che te n’eri andato.
Mi hanno guardato stupiti; ‘Andato? Andato dove, quel ragazzo che ti amava così tanto?’. Ti da fastidio, vero? Odi, detesti, che si siano accorti dei sentimenti che provavi. Ti senti debole, indifeso. Ed io? Io come dovrei sentirmi?
Io mi sento vuota, ecco come mi sento. Eppure non dovrei, ho così tanto intorno e dentro.
Ma lo sento, lo sento che manchi te. Sono come un puzzle, un puzzle che resterà per sempre brutto ed incompleto, un puzzle a cui mancherà sempre un pezzo, un pezzo senza il quale il puzzle non funziona. E allora io non funziono, io ho smesso di funzionare.
Vorrei essere io il mio pezzo di puzzle mancante, solo io, io il pezzo mancante di me stessa; potrei farmi forza da sola, non avrei mai avuto bisogno di te e, diciamocelo, almeno una volta, a quest’ora io e te saremmo stati meglio.
Ma oggi, mentre avrei davvero avuto bisogno di te, tu non c’eri. Tu non c’eri e probabilmente non ci sarai più.
Ed oggi, mentre avrei davvero avuto bisogno di te, mentre avevo intorno chiunque tra cui scegliere, mi sono accorta che per il mio cuore non potevo scegliere, che mi manca avere qualcuno che mi ama, o anche solo che mi vuole bene, come facevi tu.
Ma, perdio, anch’io ti ho amato. Non mi credi, vero? Starai dicendo ‘Sì, come no, lei che non riusciva ad amare nemmeno un pesce rosso’. Sì, caro, io ti ho amato, ti ho amato davvero. Ti ho amato con tutte le mie forze, non riesco a pensare ad un modo più bello di amare, non riesco a pensare ad un altro modo di amare, se non il modo in cui ti ho amato io.
Accidenti, io avevo una vita, una vita che mi piaceva, che mi rendeva felice; io avevo degli amici, delle passioni, degli amori, e invece ho lasciato tutta questa felicità perché era il desiderio di amare te che mi rendeva felice in quel momento, perché era essere amata da te che mi ha sempre reso felice. Mi svegliavo la mattina e tu eri al mio fianco, mi addormentavo la sera e tu eri al mio fianco; ero felice, ero tua, eri mio.
Poi una mattina mi sono svegliata e tu non c’eri più.
Una mattina mi sono svegliata e sono scoppiata tutta d’un colpo, siamo scoppiati tutti d’un colpo. Siamo scoppiati e c’erano cocci ovunque, e tu eri troppo stanco ed io troppo orgogliosa per raccoglierli.
Così abbiamo lasciato che i pezzi di noi, che i pezzi del nostro amore, che i nostri cocci, si disperdessero per questa città così piena e vuota allo stesso tempo, proprio come eravamo noi. Abbiamo lasciato che i cocci ci ferissero con le loro lame; li prendevamo in mano, non più per rincollarli, solo per guardare un attimo ai ricordi, e ci facevano sanguinare lacrime.
Ora ci sono resti di noi ovunque, qualcuno li ha avuti, qualcuno li ha buttati. Ora ci sono macerie e resti, ed io vorrei correre da te e dirti che, fino all’ultimo resto, io resto.
Ma non posso dirtelo, non posso perché quei cocci di me che sono rimasti in giro non riesco a rimetterli insieme, e, senza i pezzi mancanti, non sono in grado nemmeno di guardarti.
E quindi niente, solo mi dispiace, per tutto. 

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Capitolo 6
*** Le leggi della fisica ***


Le leggi della fisica
 
ventuno aprile duemilatredici
 
‘Cosa senti?’ mi chiede; non so come spiegarglielo cosa sento. D’altra parte, come spieghi a un dottore che le leggi della fisica sembrano non valere per te, come spieghi che un giorno sei una persona ed un giorno sei un’altra, che non riesci più ad amare?
Come glielo spiego ad un dottore, dimmelo.
Come spiego il fatto che in pochi minuti mi è crollato il mondo addosso, come spiego il fatto che in poche ore mi sono vista crollare? Come spiego il fatto che gli anni mi sembrano minuti e i minuti anni? Come?
Chi potrà comprendere che inverto il giorno con la notte, che sono le due del mattino e mi ritrovo a scrivere con una sigaretta in mano? Chi mi capirà davvero?
Come spiego il fatto che non credo più a niente? Che non mi innamoro più di niente? Che non mi innamoro più di nessuno?
‘Cosa senti?’ mi chiede; cristo, io non posso spiegargli che sono fuori dai suoi libri di psichiatria, che sono più delle sue righe.
Non posso. Io non posso sentirgli dire ancora che sono pazza, non posso sentirgli dire che la musica che più mi spaventa è il suono del silenzio, non posso.
Come posso spiegargli che quel noi che tanto amavo si è spezzato, che quel posto in cui mi sentivo a casa è crollato? Come glielo dico che mi detesto, che li detesto, li detesto tutti.
Come spiego che piangere non mi fa più nessun effetto, che fare l’amore non mi provoca più nessun sentimento?
Come faccio a dirgli che il principio della spinta uguale e contraria per me non vale, e che vado contro le leggi della fisica, e che mi faccio paura, senza sentirmi dire che sono pazza?

Non posso spiegarglielo, ecco tutto. Non posso perché sono cose che spiegavo solo a te, che capivi solo te.
Che capivi poi, capivi all’inizio, quando eravamo migliore amici.
Così dicevi sempre, ‘La mia migliore amica, sei la mia migliore amica, lo sarai per sempre’, ed io ti credevo. Illusa che ero, a credere a quattro stronzate del genere.
Ed ora, da sola, mi ritrovo qui a ripetermi ‘Il mio migliore amico, era il mio migliore amico, lo sarà per sempre’. Ora mi vedo dall’alto, girare tra le lacrime dei nostri ricordi.

Mi vedo portarmi la matita alla bocca, sospirare, rigirarla tra le dita. L’occhio mi cade sull’anello che porto all’anulare, come una fede, come una promessa. Mi vedo che mi viene da piangere solo a vederlo, quel dannato anello. Butto via la matita e me lo tolgo, troppi pensieri, troppi ricordi. Sospiro di nuovo; da quando te ne sei andato sospiro spesso, troppo spesso. Sospiro perché non so cosa dire, perché avrei le parole ma mi si sono bloccate in gola e non vogliono uscire.
Piango. Con la testa tra le mani, come i bambini, come gli stupidi, piango.
Mi accendo una sigaretta ed osservo il fumo salire ed impregnare l’aria. Finita, me ne accendo un’altra, e poi un’altra ancora. Ne fumavamo tante di sigarette quand’eravamo insieme. Ci odiavamo quand’eravamo insieme, ci odiavamo al punto di volerci vedere morti.
Eppure ci sentivamo così vivi. Ma no, ci sembrava sbagliato sentirsi vivi facendo una cosa sbagliata. Non capivamo quale fosse il confine, ma in ogni caso sentivamo di averlo superato, di essere andati troppo oltre per tornare indietro.

Mi alzo di scatto, prendo un foglio, recupero la matita; scrivo. È l’unica cosa che mi calma, scriverti lettere che non ti invierò mai.

‘Ciao, tesoro,
dove sei? Perché mi hai lasciata qui da sola, perché mi hai tolto tutto quello che avevo?’

Avrei così tante domande da farti, così tante domande che mi lacerano il petto. Sento una lacrima rigarmi il volto.
Riprovo.

‘Ciao, tesoro,
mi manchi. Mi manca vederti tutti i giorni, guardarti, attraversare quei tuoi occhi così profondi’

Sospiro di nuovo.
Volevo scrivere la verità ed invece mi ritrovo a scrivere parole su parole che non sono altro che bugie, perché quello che eravamo diventati non era altro che una bugia. Ma poi qual’era oramai la verità? Che ci odiamo, che riusciamo ad amarci solo quando siamo nudi, spogli di tutte le nostre paure, per tornare ad odiarci con un paio di vestiti addosso? Cosa potevo dire, se non una bugia?

‘Mi manca fare l’amore con te. Anzi, mi manca fare sesso con te. Non ci prendiamo in giro, il nostro non era proprio amore.
Mi manca ritrovarci da soli, troppo vicini, mi manca tutto. Mi mancano le tue mani che corrono sul mio corpo. Mi mancano le tue labbra sulla mia pelle, il tuo respiro affannato sulla mia schiena. Mi manca tutto’

Mi viene da pensare alla canzone sentita poco prima alla radio, ‘se non uccide, fortifica’ diceva. Secondo me non era così, non era così per niente, neanche un poco. Ciò che non ti uccide non ti rende più forte, ti devasta solamente, ti lascia una cicatrice. Ed io, le cicatrici, non le voglio. Mi vanno bene i morsi, i lividi, i graffi, ma che poi spariscano. Le cicatrici le odio. Odio il fatto che possano vederle tutti, che non siano più una cosa mia, solo mia.
Tu non lasciavi cicatrici, non ne avevi mai lasciate.

Mi vedo piegare il foglio, non ho il coraggio di andare avanti. Lo ripongo al suo posto, tra mille altre frasi lasciate a metà, tra mille altre lettere che non spedirò mai.
Cammino pesantemente verso il letto, quel letto che mesi prima aveva visto amore. Mi stendo e credo di essere mangiata dalla nostalgia, dal rimpianto, dalla tristezza. Invece è la rabbia che mi divora, che mi consuma. La rabbia di essere quello che sono, di non essere all’altezza di essere diversa, di cambiare.
E la rabbia di aver perso, di aver perso miseramente. Di aver perso quel ragazzo e ora, che mi ritrovo a fissare il soffitto con gli occhi pieni di lacrime, la mia dignità. Mi vedo sentire l’odio salirmi dalle vene, dalle viscere, e attraversarmi il corpo.
Sento l’odio bollire e lo espello nel solo modo che conosco in questo momento: con le lacrime. Lacrime calde.
Mi rigiro tra le coperte, prendo a pugni il cuscino.
Non piango, non voglio più piangere.
Mi alzo, incrocio le gambe e mi accendo un’altra sigaretta.

Prendo la videocamera, l’accendo, scorro nella memoria fino a trovare un video, il video. Era stata una tua idea filmarci in un momento così intimo, ‘Così  non ti scorderai mai di me’ avevi riso lasciandomi piccoli e leggeri baci sul collo, ed io avrei voluto dirti che non mi serviva un video per ricordarti.
Aspiro e premo ‘play’. Ti sento parlare, da quanto non sentivo la tua voce. Vedo i corpi cercarsi, toccarsi, avvinghiarsi. Vedo le mani correre fameliche sulla pelle dell’altro, i vestiti cadere veloci. Vedo te che mi accarezzi piano, con dolcezza, perché sai che è così che mi piace, e sento me stessa gemere al tuo tocco. Ti vedo girare gli occhi verso la telecamera e sorridere, e capisco di non poter più vedere oltre.
Non voglio vederti entrare dolcemente in me, non voglio sentire i ‘ti amo’ sussurrati con paura. Alzo lo sguardo al soffitto, strizzo le palpebre per la rabbia, lancio la videocamera nell’angolo della stanza.

 Piango. Con la testa tra le mani, come i bambini, come gli stupidi, piango.
Sento le nostre voci registrate nel video e mi alzo per spegnerlo. Ma poi mi vedo osservare la videocamera, rigirarmela tra le dita. Mi soffermo a fissare lo schermo; ‘Una cicatrice’ sospiro passando il dito sulla scheggiatura provocata dall’urto. C’era una cicatrice sulla nostra storia ormai; dopo tutta quella rabbia, non poteva che rimanere una cicatrice. Ed io non ero morta, non ero più forte. Avevo solo una cicatrice.
Recupero il foglio di prima, la matita; scrivo.

‘Ti prego, torna’

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Capitolo 7
*** Le nostre lacrime ***


Le nostre lacrime
 
ventisette agosto duemilatredici

‘Il fumo saliva veloce accarezzando l’aria, in quella notte piena d’amore’, è questo che penso, mentre m’infilo lo stretto vestito nero, fumando.
Quanto tempo è che non ti scrivo? Quanto tempo che non ti dedico parole?
Quanto tempo che non mi dedichi del tempo?
Sono ancora qui, non sono andata avanti, sono ancora qui a chiedermi cosa sia successo.
Forse, io e te, noi, vivevamo nell’epoca sbagliata in quel letto, si ripete pensando al numero di volte che quel posto aveva visto incontri segreti e fughe di nascosto, al numero di volte che quel posto aveva visto amore. Ora vede l’amore, lo vede bene, ma è un amore nato morto.

Quando ci siamo innamorati avevamo sedici anni e il mondo, e l’amore, ci sembrava tutto per noi. Ora l’unica cosa che mi sembra per noi è una fine. La fine di un amore, la fine di una storia. La fine di una vita in un certo senso, la fine di una vita insieme.
La fine è l’unica cosa che resta. ‘La fine e questo vestito nero di merda’ sospiro spegnendo la sigaretta nel posacenere. Anche la sigaretta è finita.
Ma quando ci eravamo innamorati era un’altra cosa.
C’erano milioni di sigarette, milioni di giorni, milioni di attimi.
E non ne passò uno che non fosse stato colto, preso al volo.
Milioni di attimi vissuti insieme e poi, per milioni di giorni, nemmeno una lettera, nemmeno una parola.

Non ce la faccio più.

Te l’ho detto, io sto male: non sento più niente, non ci riesco più a piangere. Pensavo non avessi più niente da piangere, niente più lacrime, esaurite, e invece no; le lacrime ci sono, scendono da sole.
Amarti ti amavo, ti amo, certo, ma non ce la faccio.
Non ce la faccio, no che non ce la faccio se tu, ogni tanto, mi dici ‘ti amo anche io’.
In tutte queste settimane non c’è una notte che non ho passato sola, un giorno che non ho passato a piangere, un minuto che non ho passato a sperare, sperare che tornassi.
E continui, ultimo ieri.
Ieri eri di nuovo qui, nel mio letto, nel mio corpo.
Ma ho sbagliato, non avrei dovuto farti entrare. Me lo ricordo bene, lo scrissi nella prima lettera che ti dedicai, ‘Ora ti chiamo, ora ti chiamo e ti dico tutto; che non vieni da me stasera, che non dormi da me stanotte, che non voglio vederti, che non voglio sentirti, che voglio che tu smetta di esistere’, così ti scrissi. 
Stupida che sono, ancora ad accoglierti a braccia aperte ogni volta che torni.

Ma alla fine, dopo tutto questo amore, dopo tutto questo odio, cosa resterà di noi, noi come ‘noi due’, noi come coppia; perché siamo vissuti noi, che cosa abbiamo fatto insieme nel mondo? Che cosa abbiamo lasciato di noi al mondo?
Poi sente il cuore battere e la gola infiammarsi … una lacrima, solo una lacrima scende piano dai miei occhi nocciola.
È questo, sto sorridendo perché lo so che tanto è così, è questo che abbiamo lasciato al mondo, solo questo: le nostre lacrime. 

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Capitolo 8
*** Per un'altra litigata con te ***


Per un’altra litigata con te
 
venticinque settembre duemilatredici
 
 
Venderei tutti i miei amici,
tutti i miei momenti felici
per un’altra litigata con te
 
Raccoglierei i pezzi del tuo cuore,
sarei disposta a piangere senza fare rumore
per un’altra litigata con te
 
Diventerei disinibita e disinvolta,
ti amerei come facevo una volta
per un’altra litigata con te
 
Sarei sola con i miei fiori,
senza i loro colori
per un’altra litigata con te

 

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Capitolo 9
*** Senza di me ***


Senza di me
 
primo ottobre duemilatredici
 
L’altro giorno volevo scriverti, era il tuo compleanno e allora niente, volevo scriverti. Non so cosa ti avrei detto; di certo non quello che ti scrivo di solito. Vedi, io ti scrivo spesso; prendo una matita e ti scrivo, piano, senza far rumore, ti scrivo. Tu nemmeno lo sai, che ti scrivo. Forse è colpa mia, non ho mai inviato niente, non ho mai detto niente. Ma, lo sai, era così tra noi: nessuno si diceva niente. C’erano così tante cose che avrei voluto dirti, tutte accumulate in questi anni, con e senza di te. Dicevo, c’erano così tante cose che avrei voluto dirti, scriverti il giorno del tuo compleanno, ma sapevo che ti avrebbero fatto male, così non te le ho dette; le ho seppellite in fondo al cuore, insieme ai ricordi più brutti, ed ho lasciato che facessero male a me. Ti sembra giusto?

Tra tutte le cose che avrei voluto dirti, c’era una domanda.
Vedi, io penso sempre a come sto senza di te, volevo sapere come si sta senza di me. Volevo sapere come si sta senza una persona che si preoccupa per te, senza una persona che ti abbraccia quando sei triste e ti bacia quando sei felice. Volevo sapere come si sta senza nessuno che ti ama.
Volevo sapere anche come si sta senza le mie canzoni, i miei sorrisi, i miei sacrifici.
Volevo saperlo perché non lo so, non so niente di tutto questo; io so solo come si sta senza di te, e, di te, mi manca per lo più la persona.
Almeno credo.
Di te mi manca essere felice, ecco. Mi manca giusto quello.
Ma mi viene da chiedermi ‘Ero davvero così felice con lui?’. Pensaci, come ti sembravo? Felice? Forse, può essere. Ma davvero, non mi spiego come tutta quella felicità possa scaturire solo da una persona. Non mi spiego come tutta quella felicità possa esplodere solo quando siamo insieme.
Quindi niente, mi chiedevo che effetto facesse essere senza di me, non lo so, magari si sta anche meglio. Ma ti prego, se non si stesse così bene, metti da parte il tuo dannato orgoglio e vieni da me; anch’io metterei da parte il mio, di orgoglio, e potremo perdonare, dimenticare.
No, forse dimenticare no, non ci riusciremo, non ci riusciremo mai. Come si può dimenticare una mancanza del genere? Come si può dimenticare un amore del genere?

Non mi dimenticare, te ne prego; io ho scordato me stessa per ricordare te, tu non mi dimenticare ora.

 

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Capitolo 10
*** Direzione? Te ***


‘Direzione? Te’
 
Ventitré maggio duemilaquattordici
 
Sono giorni, settimane, mesi che non ti fai sentire.
Sono successe così tante cose, così tante cose che nemmeno ho la forza di dirtele tutte.
A te cos’è successo? Hai una buona ragione per essere sparito così? No perché io ho pensato a te continuamente, ogni singolo momento di ogni singolo giorno di ogni singolo mese in cui non ci siamo sentiti; avrei voluto scriverti, ‘Hey, mi manchi’ ti avrei detto, ma non potevo. Non è così che funziona tra noi, non sono io quella che dice ‘Hey, mi manchi’, non sono io quella che torna per prima.
Perché non torni?
Sei morto per caso? Spero che tu lo sia, almeno mi risparmierei il fastidio di ucciderti io con le mie stesse mani, appena ti rivedo.

No, non è vero, scusami. Non ti ucciderei con le mie stesse mani, non riuscirei mai a farlo.
È solo che, non lo so, è passato così tanto tempo da quando mi sono alzata l’ultima volta dal tuo letto. È solo che stanotte mi manchi più del solito, ecco tutto.

Stanotte vorrei averti qui, vorrei averti qui accanto a me. Nel mio letto. Sotto le mie coperte. Stanotte mi manchi come non mi eri ancora mai mancato, stanotte sembra tutto più scuro.
Stanotte la vita sembra avermi lasciato, anche la morte sembra essersi dimenticata di me. Stanotte ho il mascara colato e non faccio rumore; i miei occhi spenti, struccati stanotte urlano il tuo nome.
Stanotte non avrei proprio voglia di fare sesso, se ti avessi qui con me. Non avrei voglia nemmeno di fare l’amore, solo stringerti, mi basta.

Ho paura di dimenticarti. Ne ho una paura folle, ti giuro.
Sento che i ricordi cominciano a sfumare; le cose, i luoghi, le persone, tutto comincia a scemare nella mente. E più passerà il tempo, più sarà peggio. Non ricorderò più i nomi, i posti, le emozioni, me lo sento. Ci sarà solo un’unica, grande sensazione: la malinconia.
Tutto sarà malinconia, tutto sarà malinconico.
Il tempo passa comunque, passa per tutti, e non è sempre un bene. Il tempo non aggiusta, non guarisce; il tempo toglie.
E ho paura, una paura folle, che un giorno non ricorderò più nulla. Ho paura di dimenticare il mare nei tuoi occhi, di dimenticare il suono della tua voce, il tuo profumo. Ho paura che un giorno il tempo mi tolga tutto questo, che un giorno non rimanga neanche più il ricordo dell’amore.
‘Il primo amore non si scorda mai’, così dicono.
E se ci dimenticassimo l’uno dell’altro? Sarebbe come dimenticarci di un pezzo di noi, non lo sopporterei.

Ma, lo sai, forse dovrei davvero dimenticarti. Dopotutto, io sto cambiando vita, sto cambiando modo di pensare, di vedere le cose; perché dovrei restare attaccata ad un pezzo del mio passato come te? Perché proprio a te?
Me ne sto andando, finalmente, e non so come dirtelo, non so come dirti che non ci sarò più quando mi chiamerai, che non basterà una citofonata per farmi scendere e sciogliere tra le tue braccia. Non so come dirti che, nonostante tutto, mi resterai per sempre attaccato al cuore, dovunque io vada, con chiunque io sia, ci sarai. Non so come dirti che posso aver cambiato casa, città, stato, ma basta un colpo di telefono e prendo il treno. Direzione? Te. 

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Capitolo 11
*** Lontana ***


 
‘Lontana’
 
Ventinove maggio duemilaquattordici
 
È successo. L’ho fatto. Me ne sono andata.
Alla fine non te l’ho neanche detto che sarei partita, tu mi pensi ancora chiusa in quelle quattro mura della mia stanza, che oscillo tra una sigaretta, una crisi e un caffè, sempre così, ogni ora così,ogni giorno così.
Invece no, caro mio, non stavolta. Stavolta sono tutta baldanzosa e piena di speranza e progetti, a scriverti dall’angolo destro di una tea room affollata. Stamattina mi sono alzata e ti ho pensato, ho pensato a quanto ti sarebbe piaciuto l’appartamento che ho affittato, e a quanto ci sarebbe piaciuto svegliarci insieme in quell’enorme letto dalle lenzuola porpora. Allora mi sono vestita di corsa, ho messo su un po’ di copri occhiaie per nascondere le lacrime della sera prima e sono uscita, così, a caso, senza sapere cosa ci fosse intorno a me. Mentre camminavo, ti ho pensato di nuovo; ho comprato una bella carta ed ora sono qui, con la matita in mano, a scriverti.
Se sapessi dove sono, mi chiederesti come ho anche solamente pensato di venire qui da sola, e con ‘da sola’ intenderesti senza di te.
Parlavamo sempre di questo posto, noi; abbiamo fatto mille progetti sulla casa che avremmo preso qui, in un bel quartiere centrale, con i fiori alle finestre. Mille progetti sulle estati passate in quella casa, con la tavola imbandita a colazione, pranzo e cena, ed i bambini a giocare in giardino. Avremmo abitato in campagna, vicino, d’inverno, e poi saremmo venuti qui al primo sole, lasciando a metà tutto il resto. Qui non sarebbe stata la nostra vera casa, la nostra abitazione, residenza, ma, appena messo il naso fuori dall’aereo, all’atterraggio, ci saremmo detti ‘Bentornati a casa’.

Invece, ora, tu non sai nemmeno che mi trovo qui, in questo momento, in cerca di fortuna, di un futuro, a scriverti da quest’affollata tea room. Non sai cosa sono venuta a fare, non sai quanto ho paura, non sai che ho cambiato numero di telefono e, se mi cercassi, non potrei risponderti neanche volendo. 

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Capitolo 12
*** Una tazza di caffè ***


Una tazza di caffè
 
Tre giugno duemilaquattordici
 
Non so come cominciare, non so da dove cominciare. Sono di nuovo seduta in quel bar affollato dell’altra volta, di nuovo a bere una tazza di caffè bollente, mi fa sentire a casa. Stavolta niente sigaretta tra le labbra, accanto a me c’è una ragazza incinta, che porta dentro un’altra vita, ed io, nonostante tutto, ci tengo ancora, alla vita. Tu mi guarderesti ed alzeresti gli occhi al cielo, in questo momento. ‘Che ti frega, dai; fuma se ti va’ mi diresti. A te, della vita, soprattutto di quella degli altri, non t’importa. Quasi non t’importava della mia, figuriamoci di quella di una sconosciuta in un caffè.
Dall’enorme finestra di fronte a me, vedo ragazzi e bambini in divisa uscire da scuola, tornare a casa, fermarsi a comprare lo zucchero filato dall’uomo all’angolo della strada, insieme. Te lo ricordi quando anche noi due tornavamo insieme da scuola? Sembra passato un secolo, altro che pochi anni. Eravamo così felici in quel momento, così uniti. I viaggi, le risate, i pianti; tutti i ricordi di noi due insieme sono legati al tragitto casa – scuola, scuola – casa. Ti ricordi quando, al terzo anno, avevamo appuntamento sotto la finestra della tua camera ma tu non ti volevi svegliare? Era come se io, in qualche modo, lo sapessi; allora anticipavo di una ventina di minuti e, prima di uscire, mettevo a fare la macchinetta del caffè, e, una volta girato l’angolo ed arrivata da te, venivo a portartelo a letto, insieme ai tuoi biscotti preferiti? Ridevamo, bevevamo caffè, mangiavamo biscotti; eravamo felici, ti ricordi?
No, probabilmente non te lo ricordi. Probabilmente ora sono ‘quella stronza che ti buttava giù dal letto’. Probabilmente non ti ricordi niente.

Non hai idea di quanto mi manchi, però. Non hai idea di quanto mi manca tutto, ogni cosa, che ti riguardi o no, ogni cosa mi manca, mi manca da morire.
Tu lo sai, tu mi conosci; come poteva pensare, una come me, di lasciare tutto? Di andarsene di casa ad appena diciott’anni, di abbandonare le proprie abitudini, la propria famiglia, i propri amici, gli amori, il gatto. Sì, persino il gatto mi manca da morire. Come poteva pensare, una come me, che sarebbe andato tutto bene?
Non ricordo la gioia dei preparativi, l’euforia del momento; c’è solo l’illusione. Tanta, troppa illusione. E l’illusione non sarà neanche l’ultima tappa, no. Dopo questa, arriverà la delusione, ma sarà già troppo tardi per tornare indietro, non ci sarà il tempo di tornare indietro, non me lo permetteranno; cambierà tutto, cambierà tutto anche se io non voglio che cambi niente.
Forse, se avessi dato ascolto agli altri, a te anche, a quest’ora starei meglio, non bene, solo meglio. Forse, a parte me, nessuno ci aveva mai creduto, in questa cosa.
Forse non ci avevo creduto nemmeno io, forse desideravo con tutta me stessa che non se ne combinasse niente, che qualcosa andasse storto e restassi incatenata a casa mia.
Forse, se tutti questi ‘forse’ non fossero solo delle ipotesi, tu saresti con me adesso, e non importerebbe dove, se a casa mia, o a casa tua, o qui, o dall’altra parte del mondo; importerebbe che questo caffè lo stiamo prendendo insieme, che, a questo tavolo, ci siamo seduti in due. Importerebbe di me e di te, come, d’altronde, è sempre importato.
Ma il mondo non gira intorno a me e a te, non gira intorno a nessuno, il mondo. Ed il destino non ascolta i desideri, inconsci e non, di me e di te, fa il suo lavoro e basta.
Ed ora, quindi, questo caffè lo bevo da sola, in questo bar affollato. Così tanta gente ed io sono sola, probabilmente per mia scelta, ma non avrei mai, non ho mai voluto che le cose andassero così.

Mi accendo una sigaretta, la ragazza accanto a me, alla mia domanda di cortesia, ha risposto ‘Non preoccuparti’, ma io so che lei è preoccupata, che io sono preoccupata.
Ma mi accendo una sigaretta, nonostante lei sia incinta, e a fanculo la vita. La vita mia, tua, sua, quella che porta in grembo.
Mi accendo una sigaretta e bevo un sorso di caffè.
Mi accendo una sigaretta e bevo una tazza intera di caffè, ma proprio non ci riesco a sentirmi a casa.

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Capitolo 13
*** Il mio posto felice ***


Il mio posto felice
 
Nove giugno duemilaquattordici
 
Stasera, stasera più delle altre sere, le mancanze tornano a farsi sentire, la tua mancanza, soprattutto, torna a farsi sentire. È tutto buio fuori dalla finestra ed io ho paura ad accendere la luce; voglio il buio, voglio il male, il dolore, il terrore.

‘Vai nel tuo posto felice’ mi ripeto. ‘Vai nel tuo posto felice’. È così che faccio sempre, quando il male, il dolore, il terrore mi risucchiano senza farmi respirare; mi scelgo un ricordo e vado nel mio posto felice. Con la mente, con il cuore. Tengo gli occhi serrati e rivivo momenti, per lo più momenti con te.

C’è un ricordo, uno in particolare, in cui viaggio spesso, troppo spesso: sono alla stazione, da sola, in mezzo a un milione di persone, di sconosciuti, eppure sono da sola.
Una campana, un treno arriva al binario. Mi volto. Scendono i passeggeri, uno, due, dieci. Poi scendi tu, mi guardi, sorridi. Fai cadere i bagagli per terra e mi corri incontro.
Mi trovi, mi abbracci.
Sei a casa, lo sai.
Non ricordo altro di quel giorno, questo è abbastanza.

Stasera, stasera più delle altre sere, le mancanze tornano a farsi sentire, la tua mancanza, soprattutto, torna a farsi sentire. È tutto buio fuori dalla finestra ed io ho paura ad accendere la luce; voglio il buio, voglio il male, il dolore, il terrore. Ma sappi che, se mi scelgo un ricordo per fuggire, è solo per te; sappi che stasera, anche se mi manchi più delle altre sere, so per certo che non verrai, tu non vieni mai. Sappi che mi hai fatto male, così male che ora, ogni volta che qualcuno mi regala un abbraccio, è una pugnalata al cuore. Sappi che ti detesto per questo, per tutto.
Ma, nonostante tutto, sappi che sei tu il mio posto felice.
Vorrei dirtelo, ho immaginato mille volte il modo in cui te l’avrei detto, milioni di film su come mi avresti capito al volo e mi avresti baciato. Saremmo stati nudi, sotto coperte di lino color perla, con il mio mento appoggiato sul tuo torace e le tue mani che vagavano sulla mia schiena. ‘Sei tu il mio posto felice’, così ti avrei detto, e tu avresti capito quanto ho ancora bisogno di te; ‘Sei tu il mio posto felice’.
 

 

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Capitolo 14
*** Sabbia ***


Sabbia
diciannove giugno duemilaquattordici
 
Mi stai fastidiosamente appiccicato sul cuore 
come sabbia tra le dita

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Capitolo 15
*** Coppie i cui sorrisi durano il tempo di un orgasmo ***


Coppie i cui sorrisi durano il tempo di un orgasmo
 
 
Ventidue giugno duemilaquattordici
 
 
C’è una coppia, accanto a me, sulla metro, un uomo e una donna.
Lui sorride in modo finto e le tiene la mano sul fianco. Non gli importa di lei, gli importa solo di portasela a letto stanotte, magari dopo aver sborsato un bel po’ di soldi ad un ristorante di lusso, per fare bella figura, si capisce, colpa di quella mano, le cui dita vagano tra la schiena e la natica. Non gli importa di lei, alza gli occhi quando la sente parlare e volta lo sguardo appena passa un’altra donna, un’altra possibile preda. Immagino che siano al loro primo appuntamento, anche l’ultimo, immagina lui.
Lei invece è felice, ride di gusto ad ogni battuta dell’uomo; probabilmente gli crede. È avvolta in un vestito color rosa antico, un tubino fino al ginocchio che mette in mostra quel corpo tanto desiderato. Ha un foulard attorno al collo, vintage, probabilmente un regalo di famiglia, un pezzo di sua madre o sua nonna che vuole portare con sé in questa serata così speciale.

Vorrei poter dire che questa coppia, quest’uomo e questa donna che tra di loro non c’entrano niente, mi ricorda noi. Vorrei poter dire che ogni coppia che vedo qui mi ricorda noi.
Ma non c’è una coppia che ci somiglia, non ce n’è una come noi.
Tu non mi hai tenuto la mano sul culo in metro ed io non ti ho mai creduto. Non mi sono mai messa un tubino per gli appuntamenti con te, solo stracci da quattro soldi, ma a te piacevo così, dicevi: ‘Senza trucco e non acchittata a festa’.
Ti piacevo naturale, spoglia di tutto, spoglia di me, nuda.
E forse è un bene, ringrazio il cielo che nessuna coppia mi ricorda noi, che nessuno ci somiglia.
Eravamo unici, strani, diversi.
Le nostre gioie, come coppia, i nostri sorrisi, andavano oltre la durata di un orgasmo.

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Capitolo 16
*** Guardarsi indietro ***


Guardarsi indietro
 
Ventitré giugno duemilaquattordici
 
Torno.
Torno perché qui non riesco a stare. Torno perché mi manca la mia casa, così vicina alla tua. Torno perché mi manca la persona che ero, che ero con te, e che non sono più riuscita ad essere, una volta sola. Torno perché mi manchi troppo, troppo anche per dirtelo.
Ma torno, ancora una volta, di nuovo con la coda tra le gambe, a testa bassa, con il cuore pieno di delusioni, torno da te.

Se mi guardo indietro, ti vedo, che mi vieni a prendere all’aeroporto dopo un lungo viaggio, ti vedo ridere per come il vento mi ha spettinato i capelli, quel giorno al mare, quando volevamo scappare da tutto e da tutti, evadere. Se mi guardo indietro, ovunque io guardi, vedo sempre te.
Ed anche oggi, oggi che torno, salutando quella città che ho stretto tra le dita per così poco tempo, che avremmo dovuto vivere insieme, se mi guardo indietro, ti vedo.
Ma se guardo avanti, verso il volo che mi riporterà in quella città che ci ha visti innamorati,verso la macchina che poi mi riaccompagnerà in quella casa così vicina alla tua, non vedo niente. Davanti a me non c’è niente, niente ad aspettarmi. Allora preferisco guardarmi indietro, guardare il tuo sorriso, piuttosto che aprire gli occhi ed accorgermi che vado lentamente verso un niente eterno, verso la paura perenne, verso luoghi lontani. Preferisco il tuo sorriso a tutto questo, preferisco il tuo sorriso a tutto.
 

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Capitolo 17
*** 'Non ti amo' ***


 
‘Non ti amo’
 
Ventotto giugno duemilaquattordici
 
Oggi mi hai detto ‘Non ti amo’. Mi è sembrato un pugnale, uno di quelli che lanciano quegli uomini al circo e, per un mistero della fede, arrivano ad un centimetro dal tuo viso, ma non ti toccano, non ti toccano mai.
Tu non mi hai toccato, oggi, quando mi hai detto ‘Non ti amo’. Non c’era nemmeno bisogno che me lo dicessi, me ne ero già accorta da un pezzo. Non mi hai toccato, tu, oggi, con quel pugnale, con quel non amore; so che una volta mi hai amata, e per ora mi basta. Se così non fosse, avrei costruito la mia vita su un amore che era una bugia, e a quest’ora sarei crollata, e i pugnali mi avrebbero toccata, in dieci, in cento, come ciliegina sulla torta.
‘Non ti amo’ mi hai detto oggi, e per un attimo è stato come se non sentissi più niente, come se, per un attimo, il mondo smettesse di girare, per me, per te, per il tuo non amore, per quello che eravamo stati. Quello che eravamo stati… non puoi tagliar via un pezzo di vita così, con quel pugnale, eh no, caro mio, te la tieni, la vita che abbiamo condiviso. E ti puoi tenere i tuoi pugnali, le tue ciliegine sulle torte, i tuoi ‘Non ti amo’.
Tanto io mi terrò per sempre il ricordo del viaggio che io, io e nessun’altro, ho saputo fare dentro te. E vaffanculo le torte. 

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Capitolo 18
*** 'Sei mia, ma...' ***


‘Sei mia, ma…’
 
Trenta giugno duemilaquattordici
 
Sono venuta io, per una volta, per la prima volta, ad occhi bassi, con le gambe che mi tremavano, sono venuta.
Sono venuta perché non ci potevo credere l’altra notte, quando mi hai detto ‘Non ti amo’.
Ma forse ti ho creduto oggi; oggi, quando sono venuta guardandomi le scarpe, quando ho visto quegli occhi vuoti che mi fissavano increduli, come a dire ‘Non sei tu quella che torna per prima’, quando mi hai messo le mani sulla pelle dicendomi ‘Sei mia, ma non ti amo più’, ti ho creduto.
Ho creduto davvero al tuo non amore, a tutto quell’odio e quella rabbia che covavi e che io fingevo di non vedere, e che, alla fine, quando non se ne poteva più, è esplosa.
Quindi è finita.
Ora, qui, accanto a questo letto su cui è cominciata.
È finita.
Una volta per tutte? O con quel ‘sei mia’ conti di ritornare, un giorno?
Non lo so, ma per ora è finita.
È finita e mi tremano le dita, le vene, le viscere.
È finita.

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Capitolo 19
*** Ricominciamo ***


Ricominciamo
 
Due luglio duemilaquattordici
 
Evidentemente siamo sbagliati, evidentemente c’è proprio qualcosa che non quadra in noi.
Ricomincerò da capo, tanto anche tu lo farai, lo so che prima o poi lo farai, che niente è definitivo, che non ci riesci a lasciarmi andare così.
Riparto da qui, da questa tua rabbia, da questo mio dolore.
Riparto a scriverti da qui, cancelliamo quello che è stato, il male che ci siamo fatti, cancelliamo tutto.
Ricominciamo.

Ciao, amore mio,
ancora ciao, di nuovo ciao;
volevo solo dirti che mi dispiace.
Mi dispiace di non esserti stata vicina come tu lo sei stata a me,
mi dispiace di non essere abbastanza forte,  di non esserlo mai stata
mi dispiace di non riuscire a farti capire quanto sei importante, quanto non ce l’avrei fatta senza di te, quanto non avrei mai voluto ferirti.
Smettiamola; smettiamola di prenderci in giro, di litigare.
Quando non ci sei va tutto male, mi sento morire e vorrei morire.
Perché continuiamo a ferirci di giorno e ad amarci di notte?
Cosa c’è di sbagliato in noi?
Lo capiremo, vedrai, fidati di me, prima o poi lo capiremo. E allora andrà tutto bene, non ci saranno più rabbia, odio, dolore, ci saremo solo noi, e saremo di nuovo noi due contro il mondo, noi due insieme.
Andrà tutto bene, vedrai.
Io non mi arrendo.

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Capitolo 20
*** La luna ***


La luna
 
Nove luglio duemilaquattordici
 
Ci hai mai pensato alla luna?
L’hai mai guardata da lontano, esprimendo desideri che non hai visto avverare?
Io sono la luna, mettiamo caso, e tu sei il sole, brilli, riscaldi; cosa sono io? Cosa faccio di buono io? Niente.
Io, all’alba, ogni giorno fuggo via, fuggo via pur di vederti risplendere. E tu risplendi, tesoro, te lo assicuro. Ti vedo, dal mio nascondiglio oltre le montagne, che brilli e fai brillare; ti alzi la mattina e brilli, vai a dormire che brilli, e qui entro in scena io, io ed il mio mare, le mie onde, la mia natura. Cosa sono poi io? Sono la tensione dei rapinatori della notte, la rabbia degli amanti. La tua rabbia.

Ma ci sono nata luna io? O ci sono diventata?
E sei nato sole tu? O sei nato solo? E a cosa serviamo noi, se non possiamo stare insieme, se non possiamo condividere nemmeno un cielo?
E se anche la luna fosse importante? Se anche la luna si sentisse amata? Se qualcuno l’amasse veramente? Se il sole l’amasse veramente, se fosse lui a morire per lei ogni sera, al tramonto?
Ti prego, muori per me, ricordati di morire per me mentre brilli, ricordati che esisto anche io, anche la luna.
Forse sono la tensione, forse sono la rabbia, ma tu muori per me, te ne prego.
In fondo, forse, me lo merito, no? Che qualcuno muoia per me, che tu muoia per me. Voglio dire, dopo tutto quello che ti ho dato, dopo tutto quello che ho fatto, forse me lo merito.
E, sempre forse, mi merito anche qualcosa di meglio, tipo un amore che non sia stroncato in partenza, morto in partenza; tipo una relazione che sia sana, almeno una.

Ma, alla fine, torno sempre al punto di partenza, è te che merito, è te che voglio; merito il meglio? Sei te che mi fai stare meglio. Merito il peggio? Sei te che mi fai stare peggio. Sicuramente non ci sono mezze misure, non ci sono mai state con te, con noi; per noi erano tutti picchi altissimi, o ridevamo da toglierci il fiato o piangevamo tutte le nostre lacrime.
Anche ora, anche adesso che decido chi è il sole e chi la luna di questa relazione, adesso che decido come siamo fatti, adesso che metto in luce i nostri errori siamo il sole e la luna: ci nutriamo l’uno dell’altra e moriamo l’uno per l’altra. O forse è meglio dire ‘moriamo l’uno per colpa dell’altra’?

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Capitolo 21
*** Il male che ci stiamo facendo noi ***


Il male che ci stiamo facendo noi
 
Ventidue luglio duemilaquattordici
 
C’è un posto per noi? Un posto per due persone che si odiano in questo modo, che si amano in questo modo? Non lo so, non ne sono più sicura, non sono più sicura di niente.
Te ne sei andato così velocemente, così facilmente, che non mi hai lasciato nemmeno il tempo di pensare, di respirare. Io, invece, avrei voluto respirarti per sempre.
Per dio, quanto mi manchi, quanto vorrei stringerti a me adesso; vorrei affondare il viso tra le tue braccia e sentire il tuo profumo avvolgermi, vorrei scappare via con te, lontano da questo mondo che ci fa così male. Ma tu fuggiresti ancora con me? Verresti ancora via, correndo, mano nella mano, pelle contro pelle, a piedi nudi nella notte? Probabilmente no.

Sento che tutto sta cambiando, che non sono più io la prima scelta per te. Lo so cosa mi diresti, se mi sentissi adesso: ‘Ma, tesoro, io ho scelto te sopra tutte le altre’. Beh, io invece ho scelto te sopra tutti gli altri, uomini, donne, animali, cose; mi sono annullata per te, mi sono dimenticata anche il mio nome, solo per portare il tuo, solo per sperare che un giorno, guardandoti indietro, potessi dire che ero io, che sono io la persona che ti ama più della sua stessa vita.
Prima, in qualsiasi momento, qualsiasi cosa stessi facendo, sapevo che pensavi a me; sapevo che, se ti sentivi solo, era me che chiamavi, che, se avevi bisogno, era me che cercavi. Ora non mi parli da settimane ed hai altre persone da chiamare, da cercare.
Te l’ho visto negli occhi, l’altro giorno, quando sono passata davanti alla nostra panchina e ti ci ho trovato tutto solo. Hai alzato lo sguardo verso di me e hai tirato su con il naso. Te ne sei andato, così, a passo svelto, come se, invece di fuggire con me, dovessi fuggire da me. Mi hai lasciato lì, a fissare la panchina, come se le assi di cui era fatta potessero in qualche modo snodarsi e abbracciarmi come non avevi fatto tu.
Tu vieni ancora prima di tutto e tutti nella mia testa, nel mio cuore; perché io no?

Posso giocare a fare la luna tutta la notte, ma, al mattino, non posso che annullarmi per te. Ma io, per te, non sono più la luna; sono una stella, una comunissima stella. Non muori più per me ogni giorno al tramonto, non muori più solo per me, e sono stupida io, se dopo tutto questo tempo, non riesco a capirlo.
Lo sai perché non ti ho scritto finora? Perché ho paura, una paura folle di non essere più il tuo unico motivo di gioia, una paura folle che tu mi stia rimpiazzando con un’altra stella, una paura folle di sembrare come le altre, di stelle.

Quindi la risposta è no, non c’è un posto per due come noi, perché nessuno si è mai fatto il male che ci stiamo facendo noi.

 

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Capitolo 22
*** Per innamorarmi di te ogni giorno, ogni giorno di nuovo, ogni giorno di più. ***


Per innamorarmi di te ogni giorno, ogni giorno di nuovo, ogni giorno di più
 
Ventotto luglio duemilaquattordici
 
Stavo ripensando a l’estate scorsa, a quanto mi mancavi precisamente un anno fa e a quanto mi manchi adesso.
Un anno fa, il ventotto luglio, ero con amici, a mare, a piangere perché ti avevo detto cose orribili, cose che ti avevano fatto andare via; oggi sono con gli stessi amici, sempre a mare, a piangere perché tu mi hai detto cose orribili. Ma niente, né quel ‘non ti amo più’, né quel vuoto nei tuoi occhi, né tutto quello che mi hai detto o che ho capito da sola, niente mi ha fatto allontanare da te. Te l’ho detto, io resto. Con il tuo non amore, con i tuoi occhi vuoti, con le tue parole come sale sulle mie ferite, io resto. Forse però resto in modo diverso, non sempre permissiva e timida. Resto, resto perché tu sei come l’aria che respiro, ma è come se non restassi; resto forte, a testa alta, orgogliosa come non mai, orgogliosa come tu non sei stato mai. Resto perché voglio vederti cadere e poi rialzarti, resto perché, come ti ho detto alla fine un anno fa, sei comunque la cosa migliore che mi sia capitata, resto perché tu, bene o male, sei sempre restato, resto per aspettare che tu ti accorga di nuovo di me. Resto soprattutto per innamorarmi di te ogni giorno, ogni giorno di nuovo, ogni giorno di più.

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Capitolo 23
*** E ritorno da te ***


E ritorno da te
 
Diciassette agosto duemilaquattordici
 
E ritorno da te
senza troppe parole,
senza niente da dire,
ma ritorno da te.
 
E ritorni da me
senza emozioni,
senza colore negli occhi,
ma ritorni da me.

Sei tornato, per l’ennesima volta, come previsto, sei tornato. Sei tornato ubriaco, con gli occhi stanchi. Sei tornato da solo, senza emozioni, senza altre persone. Sei tornato triste, con la pelle in fiamme. Sei tornato violento, con un fuoco dentro. Ma sei tornato. Ma sei tornato, ed io ero qui ad aspettarti, come sempre.
Mi hai chiesto scusa, tra le lacrime, ed io non t’ho creduto. Avrei tanto voluto, ma non ce l’ho fatta; non so se riesco ancora a perdonarti tutto.
Abbiamo litigato, per l’ennesima volta, come previsto, abbiamo litigato. Abbiamo urlato forte, tirato fuori cose accadute mesi fa, ma in realtà non abbiamo tirato fuori niente.
Poi abbiamo fatto l’amore, per l’ennesima volta, come previsto, abbiamo fatto l’amore. Anzi, abbiamo fatto sesso, scambiandolo per amore.

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Capitolo 24
*** Fa freddo quando non ci sei ***


Fa freddo quando non ci sei
 
dodici novembre duemilaquattordici
 
Quanto tempo è che non ti scrivo? Quanto che non ti penso?
Quante cose sono cambiate, troppo che non ti scrivo e troppo poco che non ti penso.
Qui le cose cambiano, ma io mi sento sempre più ripetitiva. Te ne sarai accorto anche tu, no? Tutte le volte la stessa storia. Mi manchi, mi manchi anche oggi. Mi manchi anche se ho trovato qualcun altro, qualcun’altra. Ti ho tradito, insomma. Non ti ho tradito di fatto, facendo cose, ma provandole. Non so se sia davvero amore, non so che altro dirti. Le ho scritto una lettera, io e le mie lettere.
Ti giuro che mi dispiace. 
 
Vorrei dirti tante cose, forse troppe. E sono altrettanti, lunghi, interminabili i minuti che fisso questo foglio, che ho in testa milioni di parole. Ruotano vorticosamente, non mi lasciano respirare. Una delle cose che vorrei dirti, una di quelle troppe, per esempio, è che anche il tuo pensiero non mi fa respirare.
Cristo, erano anni che qualcuno non si portava via il mio respiro. Erano anni che non mi piaceva nessuno.
Mi dispiace se non parlo già d’amore, ma lo sai che ho paura. Sono terrorizzata, paralizzata dalla paura.
E poi non lo so mica se sono davvero innamorata; io so solamente che fa freddo quando non ci sei, che diventa tutto nero se mi lasci. Non mi sono mai sentita così in vita mia, triste e felice allo stesso tempo. Triste, ma non come lo sono di solito; triste perché voglio qualcosa, qualcuno che non ho la certezza di ottenere. Felice, felice come quelle poche volte in cui ho il cuore a mille e le lacrime sul sorriso; felice, felice davvero, perché, ogni momento che sei con me, mi regali tutta quella vita che mi sono persa finora. Mi sembra che, nonostante tu non sia, non sarai mai, in ogni caso, mia, sia la cosa più bella che io abbia. Mi sembra di non ricordare più tutte quelle tante cose che ti volevo dire. Mi sembra di aver rimosso tutto, come se fossi rimasta solo tu. Mi sembra di sentire ovunque: ognuno ha il suo posto, trova il tuo. Una volta, tempo fa, credevo di averlo trovato. Poi ho creduto di non meritarlo, io, un posto. Qualche settimana fa, invece, ho visto te, e da quel momento credo che noi siamo l’una il posto dell’altra. Ma ci pensi? Tu il mio posto, il mio vero posto nel mondo, il mio posto perfetto, il più bello.
Ma devi aiutarmi. Aiutami, ti prego, aiutami a capire, a capire te, me, quello che siamo, quello che abbiamo. Ho bisogno di te, per fare tutto, qualsiasi cosa; sento come di non saper più neanche respirare da sola. Vedi, anche adesso, per esempio, ho una marea di parole che mi tormentano il cuore, eppure non ho la minima idea di quale scegliere, di quale usare. E poi, quante ne devo usare, di parole, con te? Tante, poche, una; quante? A volte ho paura che non ne servano, che siano vane, poiché sei così distante che non ti arriverebbero. Ma d’un tratto, all’improvviso, tu mi sorridi, e allora no, non servono le parole, perché quel sorriso, che dice tutto, arriva ad accarezzarmi quel tormentato cuore.
Aiutami anche ad aiutarti, perché io davvero non me lo spiego; sei così bella, ma vorresti morire. Io le ho sempre ammirate, invidiate spesso, le persone belle come te. Mi facevano sentire brutta, dentro e fuori. Ma tu, tu no che non mi fai sentire fuori posto, non mi mette a disagio la tua bellezza, anzi. Mi abbraccia, fino a far sentire luminosa anche me. E allora sei di nuovo tu ad aiutare me.
Forse l’amore, solo l’amore, quello velato, nascosto dietro al bene che ti voglio dal primo giorno, può davvero aiutare entrambe.
Sì, l’amore, questa piccola porzione di amore che è nostra, solo ed esclusivamente nostra, finalmente, mi apre gli occhi su tutto quello che ho chiamato ‘amore’ fino ad ora; quello che mi dava lui, quella cosa mascherata da affetto, non era niente. Era sesso, facevamo sesso, mentre lui credeva facessi l’amore. Ogni notte andavamo a letto stanchi, ma non per quello. Stanchi di sopportarci. Avremmo tanto voluto piangere, invece io fingevo di dormire, e lui si sforzava a fingere di amarmi. Come se uno come lui fosse mai stato capace di amare qualcuno. Lo sai, ieri l’ho sognato. Era lui, con i suoi occhi, la sua voce. Giocavamo come due bambini, ridevamo, scherzavamo. Anche in sogno non avevamo il coraggio di piangere. Poi io ho sbattuto le ciglia, e, quando ho riacquistato la vista, c’eri solo te, al posto suo, ma con i tuoi occhi, la tua voce. Sei caduta in terra. Mi sono gettata su di te. Non respiravi più. Cercavo, agitata, un modo per aiutarti, e tu, come se mi avessi letto nella mente, mi hai detto: guardami con i tuoi occhi verdi, mi basta. Era fatta. Ero caduta nella trappola dell’amore, caduta in amore. L’avevo tradito. Così, in un sogno, di notte, nel buio, senza dirgli niente, l’avevo tradito.
Da quando ti ho conosciuta, poi, l’ho tradito molte volte. Una volta ad una festa, tra tanta gente. Mi hai offerto da bere. Ho bevuto e non ricordo che sapore avesse; ricordo solo il modo in cui mi hai toccato la mano. Soffice. L’ho tradito quando, la prima volta che ti ho visto, ho capito che l’avrei tradito, e ho scrollato via il pensiero dai capelli. Lui mi manca da morire, mi mancherà sempre da morire, ma so che, con te, con anche solo il ricordo di te nel mio cuore, non mi sentirò mai più sola. Ma io ti voglio, e l’ho tradito quando ti ho lasciato poggiare le labbra sulle mie. L’ho tradito quando gli ho parlato di te. L’ho tradito anche se lo amo. L’ho tradito mi sento di merda, davvero. L’ho tradito, perché ti ho sorriso, e avrei voluto urlarlo a qualcuno, per quanto sono felice. Avrei voluto urlarlo a qualcun altro, ma ho sempre avuto solo lui, l’unica cosa simile all’amore nella mia vita.
Ma non mi importa più di lui, ormai. Non mi importa più di niente.
Non voglio più guardare altri occhi, né baciare altre labbra, né accarezzare altre guance. 
Non voglio più sentire freddo.
 

Per un attimo mi ero fermata, avevo smesso di scrivere, mi ero accesa una sigaretta. È una cose che non faccio mai, interrompere un pezzo e lasciarlo così, a metà; di solito scrivo senza neanche pensare. Ma stavolta no, stavolta avevo bisogno di pensare. Allora ho pensato a tutti questi giorni, mesi, anni di sofferenza, di dolore straziante, tutti questi giorni, mesi, anni in cui mentivi ed io mi lasciavo trasportare dalle tue bugie, come se fossero la canzone più bella che avessi mai sentito. Probabilmente lo era davvero.
Non ti nascondo quanto vorrei dirti che tornerà tutto a posto, che io e te avremo un lieto fine, che ce lo meritiamo, ma non è così ed io non riesco proprio a mentirti. Dopo tutto quello che ci siamo fatti, non ci meritiamo proprio un cazzo. E quindi sono costretta a dirti che, se fosse per me, io ti ucciderei, e, credo, dopo tutte le volte che ci siamo andati vicini, ad ucciderci, non farà neanche il male che ci meritiamo.
Per dio, non dirmi che andrà tutto bene, non mentire. Basta mentire.
 

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Capitolo 25
*** Pesci rossi ***


Pesci rossi
primo dicembre duemilaquattordici
 
Hai presente i pesci rossi? Quei pesciolini che, da bambino, ti regalavano ‘per farti crescere’, ‘per farti nutrire, accudire una creatura’. Quei pesciolini che, poverini, non duravano più di tre giorni.
Io, di pesci rossi, ne ho avuti centodiciassette; ne vedevo uno, me ne innamoravo e moriva, ne vedevo un altro, me ne innamoravo e moriva. Non servivano a niente le mie cure, il mio amore; quelli morivano.
Dopo centodiciassette vite buttate nel cesso, non ho imparato a nutrire, accudire una creatura. Ho capito solo che a volte tutto quello che ami muore, e a te non resta che tirare lo sciacquone. 

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Capitolo 26
*** La fine ***


La fine
primo gennaio duemilaquindici
 
Non mi hai dato nemmeno la possibilità di venire da te, di abbracciarti un’ultima volta, di baciarti, un’ultima volta.
Hai detto solo ‘È la fine’, ma tanto me l’ero già detto da sola, tempo prima, ed ormai non bruciava più.

Tu lo sai bene, è solo uno il difetto a cui non ho mai rinunciato: leggere l’ultima pagina di un libro subito dopo il prologo. Lo so, è stupido, è insensato, è deleterio spesso, ma a me piace.
In realtà non è che mi piaccia, è solo che, sin da piccola, ho sempre avuto paura della fine di un libro, ho sempre temuto di non poterlo portare sempre con me. Allora leggevo la fine e mi dicevo ‘Ok, finisce, prima o poi finisce, ma per ora è tuo’ e, in un certo senso, mi rassicurava avere quel piccolo oggetto tutto per me, almeno per un po’, almeno per godermelo, prima della fine.
Molte volte, prima di prendere una decisione, avrei voluto leggerne la fine. Molte volte ho avuto paura di non sapere se la fine fosse la cosa giusta. Poi pensavo a quel detto; ‘Andrà tutto bene alla fine; se non va bene, allora non è la fine’.
Mi sembrava che la fine non arrivasse mai. Per settimane, mesi, anni ho avuto l’impressione che io non me la meritassi, una fine. Non che non meritassi un lieto fine, no; semplicemente credevo di non meritare una fine, di non meritare la parte più bella. Credevo che l’unica cosa che mi aspettava, o che mi spettava, fosse vagare per l’eternità in un mondo confuso e indefinito, a metà tra le scelte sbagliate e la paura.
Altre volte invece, poche, pochissime volte, prima di prendere una decisione, conoscevo già la fine, e non mi importava arrivarci: volevo godermi il viaggio.

Dopo tutte le mie scelte, dopo tutti i miei errori, dopo tutti i miei successi, è arrivata la fine. Il momento subito prima, lo ricordo bene, è stato un po’ come una nascita ed una morte insieme; sembrava come se, nello stesso momento, una parte di me fosse morta ed un’altra fosse nata, come se la luna avesse fatto posto al sole. Ma non eravamo più io e te.
In un momento mi è sembrato tutto chiaro.
In un momento mi è sembrato come prendere un vecchio libro, sentirne il profumo, dimenticarne il contenuto e leggerlo, leggerlo tutto, in un momento, dalla prima all’ultima pagina, senza saltare nulla, senza preannunciare nulla.
In un momento non ho più avuto paura, ed ora, ora che c’è il sole, mi sembra di non avere nemmeno bisogno di finirlo, quel libro, mi sembra che non mi spaventi più la fine; non lo voglio un ‘per sempre felici e contenti’. In un momento sono diventata io la fine.

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