In nome del sangue, in nome dell'amore

di ki_ra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** . 1 . Ritorno ***
Capitolo 2: *** . 2 . Vecchie cicatrici e nuove ferite ***
Capitolo 3: *** . 3 . Verità ***
Capitolo 4: *** . 4 . Punta d'ago e balsamo guaritore ***
Capitolo 5: *** . 5 . Dal passato, nuovi fantasmi ***
Capitolo 6: *** . 6 . Sera di lucciole e mattino d’argento ***
Capitolo 7: *** . 7 . Indecenti proposte ***
Capitolo 8: *** . 8 . Un patto col diavolo ***
Capitolo 9: *** . 9 . Confronti ***
Capitolo 10: *** . 10 . Il velo caduto ***
Capitolo 11: *** . 11 . Grandi speranze ***
Capitolo 12: *** . 12 . Promesse ***
Capitolo 13: *** . 13 . Terra e acqua, muschio e sale ***
Capitolo 14: *** . 14 . Un passo indietro ***
Capitolo 15: *** . 15 . Preludio ***
Capitolo 16: *** . 16 . Miele ***
Capitolo 17: *** . 17 . Rivelarsi ***
Capitolo 18: *** . 18 . Il diavolo e l'acqua santa ***
Capitolo 19: *** . 19 . Come fratelli ***
Capitolo 20: *** . 20 . Il fiume dell'ira ***
Capitolo 21: *** . 21 . Sulla strada di casa ***
Capitolo 22: *** . 22 . Nessuna tranne una ***
Capitolo 23: *** . 23 . Incubi e sogni di un prigioniero ***
Capitolo 24: *** . 24 . La mano del Gigante ***
Capitolo 25: *** . 25 . Ad un passo dalla libertà ***
Capitolo 26: *** . 26 . Il prezzo della libertà ***
Capitolo 27: *** . 27 . Un nuovo giorno ***
Capitolo 28: *** . 28 . Una effimera tregua ***
Capitolo 29: *** . 29 . 7° 24' 25'' ***
Capitolo 30: *** . 30 . L'esca ***
Capitolo 31: *** . 31 . Quando viene il buio ***
Capitolo 32: *** . 32 . Giochi di potere ***
Capitolo 33: *** . 33 . A casa prima dell'uragano (prima parte) ***
Capitolo 34: *** . 34 . A casa prima dell'uragano (seconda parte) ***
Capitolo 35: *** . 35 . Storia di un duello ***
Capitolo 36: *** . 36 . Tutto il mondo brucia ***
Capitolo 37: *** . 37 . Di piani, di fughe e di abbandoni ***
Capitolo 38: *** . 38 . Oltremare ***
Capitolo 39: *** . 39 . Qualunque cosa accada ... ***
Capitolo 40: *** . 40 . Lupi e agnelli, falchi e colombe ***
Capitolo 41: *** . 41 . Odi et amo ***
Capitolo 42: *** . 42 . Desiderio ***
Capitolo 43: *** . 43 . Il passato alle spalle ***
Capitolo 44: *** . 44 . L'ultimo conto da pagare ***
Capitolo 45: *** . 45 . Di culle, di baci e bocciuoli di rosa ***



Capitolo 1
*** . 1 . Ritorno ***


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. 1 .


 

Lo scafo del piccolo mercantile solcava leggero la acque dense e scure dello stretto.
Il vento di nord-est ne gonfiava le vele rosse, come ciliegie mature di sole; il cielo, tinto di metallo, premeva sulla superficie del mare rendendolo una lastra plumbea, che la sua prua tagliava in due di netto.
Il profumo del sale che impregnava la camicia del capitano, penetrava le narici, attente ad ogni minimo cambiamento del vento.
Quella spedizione azzardata ed illecita avrebbe fruttato quanto il lavoro onesto di dieci vite: il contrabbando di alcool rendeva quasi quanto quello delle armi, ma eludere le navi della milizia era più facile con un carico come quello e una barca così piccola, che nessun uomo sano di mente e minimamente esperto di mare, avrebbe destinato a quella traversata incerta e pericolosa.
Lo stretto era regolato da correnti infide ed aggressive, così incostanti da mutare repentinamente, come il volo di un piccolo insetto deviato dal vento nuovo. Soltanto le navi mercantili più robuste ed avvezze alle grandi traversate solcavano quelle acque, trasportando le merci dall’oceano aperto, che lambiva le terre più lontane, al bacino interno, sul quale le più grandi città del regno facevano mostra delle loro ricchezze.
Ma Eìos conosceva il mare al pari di un vecchio amico.
Ne preveniva i cambiamenti dalle lievi, impercettibili increspature sulla superficie; ne intuiva l’umore dal brontolio sommesso che risaliva dalle sue profondità; dal profumo cangiante della spuma che sfrigolava lungo il vecchio scafo. Ne ascoltava le confessioni nelle notti nere, quando le stelle erano l’unico lume per segnare la via ed ad esso affidava le proprie, in un sorso di vecchio rhum ed una boccata all’aspro sigaro, esattamente come ad un buon confidente silenzioso.
Ricordava ancora la prima volta che era andato per mare.
A dodici anni, con le braccia ossute e deboli di un ragazzino di buona famiglia, aveva preso il largo su di un mercantile che era stato la sua casa per mesi. Ricordava la prima tempesta, l’orrore della morte gelargli le ossa; l’acido che dallo stomaco gli invadeva la bocca, mescolandosi alla saliva; lo scricchiolio sinistro sotto coperta e la furia degli elementi sul ponte. Ma al contempo, non avrebbe mai dimenticato il rollio rassicurante dello scafo sul mare calmo; lo sciabordio delle onde, come una vecchia nenia; l’abbraccio tra cielo e terra, come la stretta di due amanti sotto la luna.
Amava il mare, Eìos poiché esso era egli stesso allo specchio: infido e silenzioso; feroce ed arrabbiato; profondo e generoso; infinito e sincero.
Amava il mare e non l’avrebbe mai temuto, come non avrebbe mai temuto la forza sommessa della sfida alle regole, che gli solleticava vene e palmi delle mani; l’adrenalina incontrollabile dell’illegalità, che lo rendeva forte e capace; la strategia congegnata della fuga; il selvaggio piacere della lotta.
Eppure, quella volta, dietro la spedizione che aveva azzardato, c’era dell’altro, un vento nuovo che soffiava forte come l’uragano in mezzo al mare: c’era un viso, un corpo; la promessa di un sentimento sconosciuto; il possesso ed il desiderio; il silenzio agognato della propria anima che da sempre urlava e piangeva.
C’era la sua donna.
Sorrise Eìos, nel pensare a lei, agli occhi neri come olive ed alla pelle baciata dal sole. Il petto fasciato dalla camicia di bisso, bagnata di mare, si animò nel ricordare i sospiri del corpo nudo di lei sotto le sue mani e le sue promesse eterne strappate con i baci.
L’avrebbe aspettato per amarlo, senza remore o falsi pudori, né rispetto per le convenzioni; senza timori né imbarazzo per le diversità sociali. L’avrebbe amato e gli sarebbe appartenuta, corpo perfetto ed anima impudica.
Eìos non era come lei: egli non aveva un nome da portare come un vanto, né stemmi su nobili blasoni. Egli era un bastardo, frutto di un adulterio; un peccato d’altri che egli solo aveva scontato, un figlio della strada, del popolo più povero e sporco.
Per quel marchio infame aveva patito fame, freddo, dolore costante per una vita.
Ma ella, la sua donna, nobile e bella, era il proprio riscatto, la felicità e l’onore riconquistati.
Al suo ritorno, avrebbe accettato il nome dell’uomo che gli aveva fatto da padre, che lo aveva accudito, riscaldato, istruito e sfamato con cibo e amore; divenuto ricco, sarebbe stato considerato degno e rispettabile e l’avrebbe sposata.
- Capitano … - lo chiamò uno dei marinai, appollaiato nella coffa, - Siamo all’imbocco dello stretto! – gridò, dalla cima dell’albero maestro.
Eìos, con un colpo secco, ruotò il timone e le vele si svuotarono e si riempirono in pochi secondi di vento nuovo per la brusca virata.
Il Leviathan fendette le acque del bacino che conduceva al porto, sicuro come chi lo governava. Le luci riverberarono tremule, come fiammelle sulle acque placide, ed i suoi uomini ammainarono le vele riducendo la velocità, fino a che, per inerzia, esso si avvicinò al molo deserto nella notte.
 

*********

 

- Padre! – lo chiamò, entrando in casa, la camicia ancora profumata di vento e mare.
Il vecchio allargò le braccia, i palmi aperti ed il sorriso ad ingentilire i tratti rugosi del volto.
- Eìos, figlio … - rispose, lasciandosi avvolgere nella sua stretta vigorosa. – Hai tenuto il mio animo in pena … - lo redarguì, - Voci velenose ti davano per disperso, sorpreso da una tempesta improvvisa, ed altre, invece, mormoravano della tua cattura da parte della milizia. Ho temuto d’averti perduto … - mormorò, con una punta addolorata nella voce arrochita dagli anni.
- Non mi conoscete quanto dovreste, padre! – rispose, sedendo accanto al fuoco vivido del camino, e cominciando a spogliarsi. – Sapete che sono troppo scaltro per farmi sorprendere dalla milizia … - sorrise, - E sapete anche che sono più al sicuro con i miei uomini in mezzo al mare in tempesta, che calpestando le vie di questa città. – concluse, ormai con il petto nudo ed il viso illuminato dalla fiamma vibrante. – Per mare, almeno, so da chi devo guardarmi le spalle … -
- Non sei scaltro, figlio. Sei avventato ed incosciente e, nonostante tu sia ormai un uomo, non riesci a domare la rabbia insana che alimenta le tue azioni. Sei sconsiderato, come i bambini che avversano le regole.
Per questo giochi con la vita e la libertà, in una partita a dadi in cui sarai tu il solo a perdere …
Dimentica il passato, tutto il dolore, le ingiustizie che ti hanno avvelenato e chetati. – suggerì, con il trasporto e l’affetto sinceri di un padre. – Prenditi il mio nome e vivi onestamente e con serenità la vita che ti sei guadagnata. – terminò, in una supplica accorata.
- Sì! – rispose Eìos, sollevandosi. Il corpo era deciso e forte ed, allo stesso tempo, flessuoso e slanciato, un perfetto Kuros di Milo; la pelle era scura, come se il sole se ne fosse appropriato, marchiandola al suo passaggio; gli occhi verdi di foglia e screziati di miele di castagno, liquidi e densi, pronti ad indurirsi in uno sguardo solido e determinato.
- Non prenderti gioco di questo povero vecchio … - lo rimproverò, porgendogli  una tazza di un infuso odoroso, per ritemprargli le membra.
- Non lo sto facendo, padre. – replicò serio. – Accetto il vostro nome … - continuò, a capo chino, in segno di rispetto. – E vi giuro, che lo porterò con onore, come voi mi avete insegnato. – terminò offrendogli i suoi occhi.
- Mi sorprendi … sono anni che te lo offro, da quella notte in cui mi salvasti dalla morte in quella strada fangosa. Da allora ti ho chiesto mille volte di essere mio figlio, anche per la legge degli uomini e non solo per quella del mio cuore riconoscente. Perché ora? – chiese confuso.
- Per … una donna! – ammise riluttante. – Voglio prenderla in sposa. – concluse, volgendo lo sguardo altrove, visibilmente in imbarazzo.
- Il signore ti ha donato finalmente giudizio? – ironizzò, con un mezzo sorriso incredulo, ma compiaciuto. -  Vuoi prendere moglie, Eìos? E quale sirena ha ammaliato il tuo cuore? – continuò.
- Nubia, padre, della casa di Tarhan … -  sospirò.
- Cosa dici …  – chiese il vecchio, sgranando gli occhi. – Sei in errore: ella è già congiunta … - spiegò.
- Congiunta, dite? – gli fece eco, con scherno. – Voi siete in errore! – replicò duro. – Ella mi appartiene, è mia! – si infervorò, mentre una fiamma sottile di rabbia gli invadeva le vene e minava il cervello.
- Dico il vero: ella è andata in sposa, solo poche settimane addietro. Io stesso fui invitato alle nozze, l’indomani della tua partenza. – cercò di convincerlo, intimorito dal respiro del giovane che andava ingrossandosi violentemente.
- Mentite! – gridò, accecato.
Quella donna gli aveva giurato amore imperituro, promesso il proprio corpo, consacrato la vita. Non poteva aver mentito, non mentre si stringeva a lui, lo accoglieva e lo chiamava amore.
- A chi? – ruggì, una fiera catturata dal cacciatore, - A chi è andata in sposa? – insistette, stringendo il vecchio per le spalle e facendolo sussultare per la furia che pulsava sotto la sua stretta.
- Al figlio di tuo padre, Eìos. A tuo fratello! –

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Capitolo 2
*** . 2 . Vecchie cicatrici e nuove ferite ***


Image and video hosting by TinyPic Eìos

. 2 .


 


Fin da bambino, conosceva il nome dell’uomo che lo aveva generato.
Quando all’età di dieci anni, colui che lo aveva creduto suo unico figlio, lo aveva scacciato dalla propria casa, tolto il cognome e marchiato come un indegno frutto del peccato, gli aveva anche rivelato l’identità di quegli che aveva sedotto sua madre, infangando onore e rispettabilità della propria casata.
Da quell’istante, Eìos era rimasto solo, bistrattato ed emarginato da coloro che fino a quel momento aveva considerato suoi pari. Senza alcun asilo, sporco e lacero, aveva vissuto di espedienti, per il pane duro che era il suo unico pasto; per un rifugio arrangiato nelle notti di uragani che sferzavano la costa. Aveva rubato, lavorato i campi, indurendo le mani; era andato per mare, inaridendo la pelle al sole ed al vento; aveva forgiato i muscoli di un corpo che maturava sotto il peso del lavoro. Aveva affilato la rabbia, come la lama tagliente di uno stiletto, ingabbiando l’anima in attesa della vendetta.
Fino a quella notte, la notte benedetta in cui aveva salvato la vita a colui che era divenuto suo padre.
Lo aveva strappato all’aggressione di tre banditi che cercavano di togliergli il denaro che portava indosso.
Era un medico, il migliore si diceva, non solo per l’attenzione e la solerzia con cui si dedicava agli infermi, ma ancor più, per la passione, la dedizione con cui curava anche anime e paure di uomini e donne che spesso non avevano di che ricambiare.
Aveva solo quindici anni, quella notte, Eìos, ma il corpo era già forte, quanto quello di un uomo. L’impeto, il disprezzo del pericolo lo rendevano incosciente e folle, tanto da lanciarsi nello scontro senza paure; il senso di giustizia, che nessuno gli aveva insegnato, ma che animava ogni suo intento, lo rinvigoriva contro la sopraffazione del più debole.
Non aveva paura né della morte, né del dolore poiché, credeva, che gli uomini che ne hanno timore sono solo coloro che hanno qualcosa da perdere.
Erano tornati a casa insieme, quella sera. Si erano sorretti a vicenda: il vecchio medico gli aveva curato il sopracciglio sanguinante ed il labbro rotto, le escoriazioni sulle nocche delle dita, i lividi violacei sul torso sporco, scoprendo cicatrici invecchiate di profonde ferite. Era divenuto il figlio che non aveva mai avuto, e da quel momento, Eìos aveva acquietato la rabbia cieca, il dolore per le ingiustizie subite e si era messo in attesa che le ferite rimarginassero, rimanendo solo pelle nuova e glabra, soltanto il segno di un passato doloroso, ma lontano.
Ma alcune cicatrici non segnano solo la carne.
Alcune trasfigurano l’anima, la soffocano, la induriscono, come pietra, e non guariscono mai.
Il dolore di Eìos era rimasto sopito, ardente sotto ceneri volatili, in attesa di divampare come fuoco feroce.
Ed all’ennesimo affronto, balzava fuori, come un predatore nella macchia. Ruggiva, al pari di una belva incatenata, digrignava i denti aguzzi e affilava la sua furia, coltivando, nel petto paziente, la vendetta.
Giunse alla tenuta, spronando il suo cavallo fino allo stremo, le mani ruvide strette alle redini, il viso duro e gli occhi vitrei.
Era uno dei luoghi più belli che si potessero vedere: il paradiso in terra. I campi di grano maturo si spandevano morbidi, sfiorati dal vento; le colline a nord erano coperte da lunghi filari di viti pregiate, che regalavano un vino armonioso e fruttato; gli ulivi secolari e carichi di frutti erano un vanto per quelle terre e l’olio puro che se ne estraeva aveva nome anche oltre i confini della regione; a sud, invece, dove la pianura  declinava verso il mare,  alberi da frutto profumati e fecondi catturavano la vista e olfatto.
La rabbia gli divorò la poca ragione sopravvissuta: non poté fare a meno di pensare che la metà di quelle terre fosse sua, come il nome che il figlio di suo padre portava.
Lo conosceva bene quel giovane di quattro anni più piccolo: l’aveva incontrato quando il suo vero padre, scoperta la sua identità, l’aveva accolto nella propria casa, con il proposito di riconoscerlo, come un uomo degno deve fare. Aveva nascosto i suoi intendimenti a tutti gli altri, moglie e figlio legittimo compresi, e avviato le pratiche burocratiche al registro civile. Voleva che i propri figli si conoscessero, si stimassero, finissero per considerarsi fratelli, prima che il legame di sangue  fosse confessato.
Ma prima che tutto prendesse forma, era morto, caduto da cavallo, la testa fracassata su di una roccia ed il futuro di quel figlio perduto nel suo sangue rappreso.
Lo ricordava bene, Eìos quel ragazzo.
Avrebbe persino potuto lodarne l’altruismo, la nobiltà d’animo, la schiettezza; quella sua strana, fraterna disponibilità nei confronti di un estraneo, quasi il sangue l’avesse riconosciuto istintivamente.
La propria furia però non concedeva sconti: Miran, suo fratello, non aveva colpe, era vittima di inganni, peccati, falsi moralismi e di un destino beffardo.
Esattamente come lui.
Egli però dalla vita, al contrario di Eìos, aveva avuto ogni cosa: nome, ricchezza, rispettabilità, amore, anche nella misura in cui non gli spettava. Ed ora si prendeva anche la sua donna.
L’avrebbe ucciso. Lo decise nell’istante in cui giunse all’ingresso della grande casa secolare.
Avrebbe ucciso lui, lei e chiunque si fosse messo di mezzo.
E all’inferno la sua vita, al diavolo la sua miserabile vita; tanto all’inferno bruciava da quando era venuto al mondo.
 

********
 

Il grande arco di pietra segnava l’ingresso alla corte interna della casa. Un giardino rigoglioso profumava di menta ed i rami sottili di un gelsomino, come fili di seta bianchi, ricamavano, sulle pareti di pietra viva,  odorosi arabeschi. Aiuole di piccoli fiori vermigli, come oasi, contornavano i tronchi nodosi dei tigli e la luce del giorno morente si insinuava pigra tra le foglie più alte, disegnando chiazze di chiaroscuro sull’erba.
Eìos penetrò il patio, riducendo la velocità del suo cavallo, portandosi dietro la polvere del selciato e l’odore acre della terra battuta dalla folle corsa; l’animale pestò la ghiaia biancastra con gli zoccoli, insofferente come il suo cavaliere, sbuffò più volte, scuotendo la testa e stringendo il morso che gli costringeva la bocca.
Smontò dalla sella con agilità felina, il petto in subbuglio, come se fossero state le sue stesse gambe a percorrere quel tragitto infinito; prese un respiro, nel tentativo di dominarsi, e guardandosi intorno, scorse la figura di una donna seduta su di una panca di granito scuro.
Lo scalpiccio dei passi di Eìos, ne richiamò l’attenzione, tanto che ella volse lo sguardo nella sua direzione, distogliendolo dal libro che leggeva.
- Dov’è Miran? – chiese con voce dura, la mano sull’impugnatura del pugnale, che portava al fianco sinistro, e la mascella contratta.
- Voi chi siete, signore? – domandò, a sua volta la donna, sollevandosi.
Era alta e sottile, timidamente bella: il viso ovale vantava, come rose di un raro colore scarlatto, labbra luminose e occhi blu, del blu degli oceani, e di essi contemplavano anche le profondità. La sua figura era fasciata da un abito dell’identico colore degli occhi, cangiante ai colpi di luce che lo aggredivano; la pelle di madreperla era in armonioso contrasto con esso: una notte di stelle rischiarata dalla luna.
- Cerco il padrone di questa tenuta, signora. – fu la sua vaga risposta, - … E la sua sposa! – concluse con la voce accaldata, attraverso la quale si mostrava tutto il suo furore.
- Sono a cavallo, verso i confini della tenuta. Il signore di queste terre mostra i suoi possedimenti alla sua sposa, mia sorella. – rispose con grazia e distacco.
- Vostra … sorella? – ripeté, meccanicamente, sorpreso: quelle due donne non avrebbero potuto essere più diverse, i tratti del viso, il colore degli occhi, le forme del corpo, tutto le rendeva lontane ed opposte come i poli della terra.
Una smorfia gli sporcò i tratti del viso ed un sorriso beffardo gli tese le labbra scure.
- Allora dovreste sapere chi sono! – affermò, avvicinando il proprio corpo a quello della donna. – Non è forse, consuetudine, tra membri della stessa famiglia, confidare intenti, sentimenti e … pulsioni? – chiese sfacciatamente, reclinando il capo per cercare gli occhi di lei.
- Non … vi comprendo … - rispose, intimidita dal tono ruvido e ancor più dagli occhi duri, come lava solida.
Azzardò un passo verso l’ingresso della casa, rivolgendogli le spalle, ma la voce di lui, ancora più dura degli occhi, le inchiodò il respiro nella gola ed i piedi al suolo, costringendola a voltarsi.
- Sono il suo amante … Beh, lo sono stato … - precisò, senza alcuna vergogna, - Vostra sorella, signora, ha riso, ansimato, urlato nel mio letto. E’ stata mia … - disse cattivo, con l’intento di offendere e fare male; di ingiuriare ed inorridire quella sconosciuta solo perché portava nelle vene lo stesso sangue dell’altra.
La donna lo guardò indignata, il petto pulsò a scatti impedendole il respiro, il sangue affluì alle gote pallide, colorandole violentemente.
- Non osate! – intimò, offesa, - Non osate calunniare mia sorella. Chi siete voi per infangare il suo buon nome ed il mio? – insistette, con una determinazione che non le apparteneva. Quell’uomo la inquietava, come una notte di tenebra, le rubava il respiro, ma al contempo, la indispettiva, estraeva forza e determinazione dal carattere pacato, come linfa spremuta dalle “vene” delle foglie. La rendeva stranamente fiera, quasi altezzosa, più forte e pronta a difendersi: una gatta in bilico su di un cornicione.
- Solo questo vi opprime il cuore? Il fango sul buon nome della vostra casa? – domandò, - E non vi repelle ed offende la sola idea che vostra sorella abbia giaciuto nel letto di un uomo, prima che in quello del suo legittimo sposo? – insistette, con scherno, ormai ad un palmo da lei.
Le convenzioni, le assurde convenienze che regolavano quel mondo fatto di apparenze e menzogne, lo disgustavano: egli apparteneva ad un altro universo, in cui chi ama è libero, nel corpo e nell’anima, senza restrizioni dovute a falsi pudori o moralismi; senza precetti morali e bigotti, che costringono a rifuggire gli impeti, le passioni ed i desideri.
- Andate via … - soffiò disarmata, - Andatevene … - ripeté, con voce flebile. Gli rivolse, di nuovo le spalle, per allontanarsi, cercando riparo dagli occhi di lui, come un viandante sorpreso dalla notte, ma Eìos la fermò, con un gesto inatteso anche per sé stesso, le afferrò il polso sottile, senza riguardo, né delicatezza; l’attirò a sé così vicina, che i corpi rimasero separati solo dalle loro braccia.
Il profumo di lei era lieve, eppure riconoscibile: un marchio che vantava solo la sua pelle.
Sapeva di acqua sorgiva mescolata ai petali delle rose il giorno dell’Ascensione,* placido, come quello dei bambini ed infiammante come olio per lo stoppino delle lampade.
Eìos ne rimase stordito e sorpreso, socchiuse gli occhi, inspirandolo lentamente.
- Non toccatemi …. - cercò di divincolarsi, senza riuscirvi. Per contenere il bruciore della stretta sul polso, si morse le labbra rendendole, per la pressione dei denti, ancora più vermiglie ed invitanti, tanto che Eìos sentì le proprie intorpidirsi, tendersi alla ricerca di quelle di lei, vittime di un richiamo inconsapevole e, per questo, ancora più avvincente.
- Ariela° … - chiamò una voce d’uomo dall’interno della corte. – Ariela? – ripeté, la stessa voce, avvicinandosi. Eìos allentò la stretta, si concesse ancora un istante per guardarla, occhi negli occhi, poi ruotò il busto verso il punto dal quale la voce, che lo aveva riportato al mondo, proveniva e si ritrovò a pochi passi da lui: l’uomo che portava il nome che avrebbe dovuto essere anche il suo; il signore delle terre che anche a lui appartenevano; l’uomo che riempiva la donna che era stata sua, colui che, nonostante lo stesso sangue, non sarebbe mai stato suo fratello.




 

* Per l’intera notte precedente il giorno dell’Ascensione (40 giorni dopo la Pasqua), una vecchia tradizione dell’Italia meridionale, suggerisce di lasciare, all’esterno della propria casa, in infusione, i petali di rose e diverse erbe odorose, soprattutto menta, in un catino d’acqua, ed, il mattino dopo, usare l’infuso per detergersi il viso.
° Ariela è un libero adattamento del nome di uno dei sette Arcangeli della tradizione ebraica: Uriele (luce di Dio), l’angelo di fuoco, guardia dei cancelli dell’Eden. Citato anche nel “Paradiso perduto” di Milton, in cui, inconsapevolmente, guida Satana verso la Terra.

 

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Capitolo 3
*** . 3 . Verità ***



 

Un saluto a tutti!
Dopo aver fatto la mia comparsa in un paio di altre sezioni, sono arrivata qui, nel mare magnum delle originali!
Questa storia vagava da un po’ nella mia mente, così mi sono decisa a provare a scriverla. Non è un racconto che può definirsi propriamente storico, poiché non ci sono riferimenti precisi all’epoca o ai luoghi in cui si svolge. E’ solo una storia d’amore che si dipana in un passato lontano in cui il nome, il denaro sono le fondamenta di una società dominata da pochi.
Spero vi abbia incuriosito e che continuiate a leggerla.
Ringrazio Princess_Alice, Raya_Cap_Fee e SweetLuna che hanno recensito i primi capitoli,
coloro che hanno inserito la storia tra le preferite
ed anche chi si è fermato soltanto  a leggere.



 

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. 3 .

 

 


 

- Eìos, amico … - lo salutò con slancio Miran, avvicinandosi dal fondo della corte.
Ariela tremò nel sentirne la voce, mentre gli occhi invadenti dello sconosciuto rimanevano ancorati ai suoi.
Dunque si conoscevano. Un groppo le dilaniò la trachea, una inquietudine finissima la destabilizzò e le labbra, mute, recitarono un preghiera, come una bimba al suo angelo custode prima di consegnarsi al sonno.
- Sono anni, amico mio, che non mi compiaccio della tua presenza nella mia casa … - continuò, rivelando una conoscenza vecchia e consolidata.
 - Io sono sempre stato qui! -  gli rispose Eìos, scostante.
- E’ vero … - lo assecondò, l’altro con garbo, evidentemente avvezzo al suo carattere ispido. – Ma conosci mia madre e le sue velleità … Ha preteso che conducessi i miei studi nella capitale: solo le migliori scuole del regno per il degno erede di mio padre! – giustificò la sua assenza.
Eìos trasalì nell’udire quelle parole, le dita ruvide sbiancarono, provate dallo sforzo, per la stretta sull’elsa del pugnale che portava al fianco, ed il viso si sporcò di una smorfia indefinibile, per il suo interlocutore.
- Vi siete già conosciuti? – chiese poi Miran, rivolgendosi ad entrambi.
- Sì. – rispose, continuando a guardarla, mentre Ariela annuì solamente, interdetta dalla scoperta della loro amicizia.
- Ma, ti prego, accompagnami in casa: è mio desiderio che tu conosca anche la mia sposa … - lo invitò.
Nell’attimo prima di abbandonare quelli di Ariela, un malsano intento si palesò negli occhi di Eìos, fumo denso a coprire una fonte di luce; seguì Miran, che gli faceva strada, procedendo verso l’interno della dimora, rivolgendole la schiena dritta del soldato alla guerra.
Ariela li seguì, veloce più di quanto le sue gambe tremolanti potessero fare, con il cervello alla ricerca dell’eventuale rimedio da adottare per impedire a quell’uomo di ripetere le offese.
Sebbene non le ritenesse che ingiurie infamanti, temeva che sull’onore di Miran, sarebbero franate come un costone di roccia eroso dalla pioggia, un’onta estinguibile solo col sangue. Il pensiero di uno scontro mortale tra i due le attorcigliò le viscere e le strinse il respiro. Pregò ancora la Vergine che quel folle tenesse in corpo le parole, che poco prima l’avevano oltraggiata, mentre involontariamente, nel frastuono del suo petto in subbuglio, un piccolo, sedizioso dubbio si espandeva come una macchia d’olio.
Giunsero nella sala padronale, dove la ricchezza della casata di Miran, traspariva da ogni arredo: cesellati argenti ornavano mobili di fattura e legni pregiati; le pareti erano arricchite con affreschi dai colori densi ed armoniosi e broccati finissimi tappezzavano ampi divani.
Uno di questi, posto al centro della grande stanza, ospitava tre donne.
Le due più avanti negli anni ricamavano sapientemente teli di mussola bianca, mentre la più giovane, setosa
pelle olivastra e capelli scuri raccolti sulla nuca, agitava pigramente un ventaglio, più per scacciare la noia, che per rinfrescarsi dall’aria tiepida del pomeriggio.
- Signore … - richiamò la loro attenzione il giovane, distogliendole dalle loro occupazioni.
- La nostra casa accoglie un ospite inatteso. Questo gentiluomo è Eìos. Madre, ricordate il protetto del dottor Elmisk? – chiese, rivolgendosi alla donna che gli sedeva di fronte. Era piuttosto bella, nonostante il viso fosse già intaccato dagli anni, aveva carnagione ed occhi chiari, come Miran, ed il suo fisico era asciutto e discreto anche se sacrificato in un abito da lutto che non le rendeva giustizia.
La donna fissò Eìos, qualche istante, fredda come la galaverna, e così fece pure l’altra, che le sedeva accanto, e che sembrò trasalire dinnanzi agli occhi induriti e distanti dell’uomo, finché un tonfo sordo sul tappeto di seta, che ricopriva il pavimento, catturò l’attenzione di tutti i presenti.
Nubia era riversa al suolo, gli occhi serrati, la bocca leggermente schiusa ed un pallore innaturale diffuso sul volto.
Miran le si precipitò accanto, sollevandole il capo molle, mentre l’altra donna, la madre di lei, visibilmente spaventata, si stringeva le mani al petto, invocando tutti gli angeli del cielo.
Eìos abbozzò un sorriso divertito e, rivolgendo gli occhi soddisfatti ad Ariela, la guardò sicuro, come l’imputato che dimostra l’infondatezza dell’accusa che grava suo capo.
La giovane rimase immobile, incatenata agli occhi di lui, stravolta e spaurita, mentre gli altri si affrettavano a portare la sorella nelle sue stanze.
Solo la madre di Miran rimase un altro istante a fissare la figura di Eìos, che rimaneva fermo, le braccia incrociate sul petto, il portamento fiero ed arrogante ed il sorriso divertito. Per un minuto lungo un’eternità, ella sprofondò nel ricordo sopito di un altro uomo con gli stessi occhi prepotenti, il medesimo sorriso tagliente, la stessa sfacciata consapevolezza di sé: il suo sposo.
Lasciò la stanza senza un accento, seguendo il codazzo dei parenti e della cameriera che si affrettava a raggiungerli, agitando i sali.
Appena furono soli, Ariela tagliò il silenzio, che aveva legato i loro occhi fino a quel momento, e lo aggredì con tutta la sua piccola forza disperata.
- Avete ottenuto ciò che vi eravate prefissato … andate via, ve ne prego! – lo supplicò in un richiesta accorata, le mani giunte al petto, quasi fosse una preghiera.
- Quello che volevo, dite? – chiese, ironico.
- Avete portato scompiglio in questa dimora … - spiegò.
Eìos scosse il capo, con un sorriso dissacrante, sciolse le braccia che gli coprivano il petto e si avvicinò a lei.
- Dunque, mi credete ora? – le domandò sorridendo, soddisfatto.
- Non ho detto questo! Siete un folle e ciò è sufficiente per temere che la vostra presenza in questa casa possa portare solo dolore … -  
- Ho appena iniziato … - minacciò.
- E’ il danaro, forse, che vi anima con tale viltà? – insinuò, facendosi forte di un coraggio che non possedeva.
- Il danaro? – finse di riflettere, quasi fosse un invito così allettante da indurlo a cedere.
Lo aborriva, invece, detestava l’influenza malefica che esso esercitava sulla maggior parte degli uomini: li rendeva aridi ed egoisti; prevaricatori e superficiali, lupi famelici in mezzo ai lupi. Disprezzava coloro che ne facevano un’arma; che compravano e vendevano la propria anima e quella degli altri, come spezie pregiate al mercato.
Ariela, di contro, era di un mondo in cui il denaro era il letto placido su cui la casta giaceva; il potere che permetteva ad essa di vivere, incurante, sulle miserie altrui. Non si stupì Eìos di quel tentativo di barattare il proprio silenzio con ciò che, per quelli come lei, valeva più delle anime.
Eppure, ella lo aveva fatto con tale candore disperato, come se ingenuamente, davvero lo credesse l’unico strumento, che Eìos ne fu intenerito, un vecchio davanti all’ingenuità di una bambina.
- Se è questo ciò cui agognate … io … io potrei offrirvi una somma cospicua … - sussurrò, la voce decisa tra le labbra tremanti.
Eìos sorrise, scuotendo il capo in un diniego: - E credete che il vostro danaro potrebbe soddisfare la mia sete? Siete una bambina ingenua … - la schernì.
- Cosa, allora? Sono pronta ad ogni richiesta … in cambio del vostro silenzio. – insistette, senza pesare le parole.
- Abbiate più giudizio, signora: mercanteggiare con una simile feccia … - si indicò, - … non è affare per vergini sprovvedute! – sorrise di nuovo, sfacciato ed insolente, riducendo ancora l’aria che li separava. – Ho perso una donna, un’amante … Potrei acquietarmi solo con una “mercanzia” di egual valore! – la provocò, vicinissimo, sfiorandole, con l’indice, la guancia di porpora.
La guardò, inspiegabilmente attratto; il verde degli occhi si incupì e la pupilla si dilatò, come quella di un gatto nel buio, alla ricerca di qualcosa.
Se avesse dovuto spiegare cosa fosse quel richiamo che sentiva attirarlo a lei, non ne sarebbe stato capace. Quella donna gli rimescolava i sentimenti, in un battito di ciglia: il disprezzo diveniva desiderio; la rabbia si tramutava in ricerca  affannosa del contatto.
Non era, certo, una di quelle pulsioni che infiammano i lombi, Ariela era come gli aghi di brina sulle foglie nuove: troppo distaccata e fredda, seppure splendente, per generare un tale incendio.
Né era infatuazione amorosa: di lei sapeva soltanto che apparteneva al mondo che disprezzava, falso e decadente, dal quale il fato lo aveva mirabilmente preservato.
Ciò che però, Eìos non sapeva ancora, è che il fuoco più devastante nasce dalla piccola scintilla, che la fiamma di una candela è sufficiente a consumare, col suo fuoco lento, anche il ramo più nodoso.
- Mi state mancando di rispetto … - si difese la giovane, sottraendo la pelle al suo tocco insolente.
In un istante soltanto il corpo di Eìos si ritrasse da quello di lei, la risacca sulla battigia, ed ella inaridita, si riscosse tornando in sé.
- Eìos, Ariela … - li sorprese Miran, ritornando nella grande sala.
- Come … si sente mia sorella? – si impegnò a chiedere, ancora instabile, chinando il viso, per nascondere l’evidente imbarazzo.
- Si è ripresa, forse l’affanno della cerimonia, la preparazione delle nozze … - azzardò l’uomo, avvicinandosi. – Ti ringrazio di aver intrattenuto Eìos … - le disse con garbo. – Vieni. – lo invitò, con un gesto della mano, - Ho in animo di parlarti, amico mio. – concluse, facendogli strada verso il suo studio.
- Permettete, signora. – si congedò Eìos, freddo e distante, quasi il contatto di pochi istanti prima non si fosse mai palesato.
 

********
 

Ariela, rimasta sola, si decise a raggiungere il piano nobile, dove erano distribuite le camere padronali.
Non le era sfuggito lo sguardo sorpreso e stravolto che Nubia aveva rivolto ad Eìos, prima di perdere i sensi.
Non le era apparso come quello che si riserva ad uno sconosciuto e questo l’aveva insospettita: anche se, per quanto una loro conoscenza fosse possibile, anche se sconveniente, non avrebbe mai dubitato della condotta di sua sorella.
Erano cresciute nella stessa casa, allevate con gli stessi precetti morali e cristiani, e sebbene Nubia possedesse un carattere più aperto ed affabile, sebbene la sua bellezza fosse più prorompente, Ariela era certa che mai potesse dedicare attenzioni ad altri uomini all’infuori del suo promesso.
Era vero, però, che Nubia, fin da giovinetta, aveva curato più il proprio aspetto, che la propria anima. Trascorreva interminabili ore a scegliere le stoffe ed i colori che meglio si accompagnavano alla sua carnagione; accudiva, ogni giorno, la propria pelle con impacchi delicati alla pesca e bagni di latte; curava le mani affusolate e arricciava i capelli, che lasciava scorrere morbidi in sottili boccoli ai lati del viso. Ciò che più aveva a cuore era ammaliare, suscitare ammirazione in chi la guardava, soddisfare la propria vanità, una dea confusa tra gli uomini.
Questo comportamento, agli occhi più severi e morigerati di Ariela, appariva come superficiale e frivolo. Ella aveva sempre badato di più alla propria istruzione, che all’aspetto del corpo, sebbene, nel mondo in cui viveva, la cultura fosse un bene riservato solo agli uomini. Detestava l’idea di imbellettarsi per conquistare un eventuale pretendente; di tenere per sé opinioni e pensieri per compiacerlo; di apparire muta e accondiscendente, più come una serva obbediente, che una sposa.
Per cosa poi? Per tenere un uomo legato alle proprie sottane, per ignorare tradimenti e bugie, per preservare l’onore e la rispettabilità agli occhi del mondo?
Era grata alla vita per averla fatta nascere seconda, in una famiglia con un buon nome, ma pochi mezzi per dare ad entrambe una dote; meno bella e affascinante; meno appetibile per quegli uomini che solo questo cercavano in una donna: un unione di ricchezze e buon nome, più che un legame di anime.
Rimuginava su quegli aggrovigliati pensieri, per scacciare dalla mente il ragionevole dubbio che le parole di Eìos non fossero assurde ed infamanti menzogne, quando raggiunse la stanza della sorella.
Nubia se ne stava sdraiata sul letto, immersa tra le lenzuola candide finemente ricamate, la camicia da notte che le fasciava le forme generose dei seni, la pelle delle spalle scoperta ed un’espressione pensierosa  e persa.
- Perché hai perduto i sensi? – l’aggredì, attanagliata dal dubbio.
- Sei gentile, Ariela, a curarti della mia salute! – la schernì, altezzosa.
- Sai chi è quell’uomo? – insistette, senza dare alcun peso alle parole di Nubia.
- Quale uomo? – finse, coprendo la bocca con una mano, per nascondere un annoiato sbadiglio.
- E’ stato il tuo amante? Rispondi, Nubia … - le intimò, vicina alla sponda del letto, stringendo le piccole mani lungo i fianchi.
- Non essere sciocca … - la liquidò, con un gesto della mano, come si farebbe con una mosca fastidiosa.
- Lo ha detto lui … ed io l’ho visto uscire dalla tua camera una notte … - mentì, sperando di coglierla in fallo.
- Menti: non sono stata così sciocca da incontrarlo nella mia stanza. – si tradì, - E comunque nessuno ti crederebbe … - sorrise, sicura.
- Come hai potuto … Eri promessa … tu eri promessa, come hai potuto concederti, prima del matrimonio, ad un uomo che non sarebbe stato il tuo sposo? - 
Nubia la guardò vacua, come se le parole della sorella fossero di poco valore.
- Non puoi provarlo, ti ho detto … - le ricordò, con una superficialità che indispettì Ariela.
- Io no, certo, ma quell’uomo … E’ con Miran, adesso, nel suo studio. Tu che li conosci entrambi … di cosa pensi discorreranno? Del prossimo raccolto o del prezzo dell’olio nuovo? – chiese retorica.
Nubia impallidì, come se solo in quell’istante si fosse resa conto del possibile pericolo. Si sollevò, mettendosi a sedere, stringendo tra le mani nervosamente i lembi delle lenzuola.
In quel preciso istante la loro madre fece capolino, nella stanza, schiudendo la porta.
- Il Signore sia lodato! – esclamò, sollevata, - Hai ripreso colore, figlia mia … - si accertò, avvicinandosi al letto e sedendole accanto.
- Madre … - la chiamò Ariela, intenzionata a raccontarle ciò di cui ormai era certa.
Nubia la guardò supplicandola, con gli occhi soltanto, di tacere ed Ariela si lasciò impietosire, liberando la stoffa del suo abito, tormentata dalle dita nervose.
- Sì? – le si rivolse, con un sorriso la donna.
- Nulla, madre … - la rassicurò, - Scendo nelle cucine, a chiedere che preparino un infuso di tiglio e miele per Nubia. – 
Lasciò la madre e la sorella sole in quella stanza, portando con sè quell’ingombrante segreto, come un carico pesante sopra spalle sottili, mentre nel cuore spossato, sgranava le poste del Rosario, sperando che la Vergine Celeste, posasse la mano sul cuore di quell’uomo che tutto sembrava tranne disposto a dimenticare.

 

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Capitolo 4
*** . 4 . Punta d'ago e balsamo guaritore ***


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. 4 .

 

 

Punta d'ago e balsamo guaritore

 


L’aveva seguito, un passo dietro di lui, sebbene conoscesse perfettamente la dimora.
Da ragazzino, nonostante fosse alloggiato insieme alla servitù, per non urtare la sensibilità della signora di quella casa, aveva attraversato spesso le ricche sale, corso per i lunghi corridoi, contemplandone lo sfarzo.
Decine di volte, insieme con Miran, si erano nascosti proprio nello studio del padre, forzato l’armadietto dei liquori, per assaporarne il gusto forte ed infiammante; avevano sottratto dalla preziosa scatola di cuoio un sigaro profumato, per provarne il percorso graffiante attraverso le narici giovani e sentirsi grandi.
Avevano trascorso mesi, cavalcando insieme, nei campi assolati; si erano sfidati come soldati, armi alla mano e sorriso sulla faccia; avevano confidato l’uno all’altro sogni e paure; si erano amati come solo gli amici di infanzia riescono a fare.
Si erano amati come fratelli.
Eìos aveva amato quel ragazzino dagli occhi chiari ed ingenui, inconsapevole della verità, perché egli gli aveva riservato affetto e rispetto incondizionati; l’aveva amato perché Miran gli aveva offerto sé stesso, nonostante le differenze sociali.
Poi la speranza di appartenere a quella famiglia si era dissolta, come il miraggio nell’arsura del deserto; suo padre era morto ed egli era stato cacciato, come un cane randagio. E come un cane aveva patito agli angoli delle strade, umiliato per le vesti lacere e maleodoranti e per le mani ed il sangue sporchi.
Il destino, incomprensibile, si divertiva a metterli di nuovo l’uno di fronte all’altro, gli stessi occhi chiari ed inconsapevoli di Miran, lo stesso desiderio inappagato di Eìos di essere suo fratello.
Ma gli anni erano passati, essi non erano più i due ragazzini che giocavano alla guerra, ma due uomini divisi da uno spartiacque invalicabile: il rango e la ricchezza di uno, la rabbia affilata e la sete di vendetta dell’altro.
Non sentiva di odiarlo per ciò che la vita gli aveva riconosciuto per diritto di nascita: Eìos non sapeva odiare.
Ma neanche sentiva di amarlo come allora, giacché egli sapeva adesso, che quella fraterna comprensione di Miran, altro non era che compassionevole cura per chi è nato disgraziato, soltanto il sentimento cristiano di sollevarlo dalla mala ventura.
Se Miran avesse saputo che il proprio sangue era lo stesso che alimentava Eìos, nulla avrebbe potuto trattenere l’odio: né il ricordo di una fanciullezza perduta, né la compassione avrebbero potuto prevalere sull’istinto di preservare ciò che era suo.
Si è generosi soltanto quando ciò che ci appartiene non ci può essere strappato!
- Sai che mio padre nutriva il desiderio che crescessimo insieme, che tu vivessi qui, nella mia casa … - gli ricordò, sorseggiando il liquore nel calice di finissimo cristallo. – E che rimasi profondamente amareggiato quando, dopo la sua morte, tu lasciasti la tenuta. – insistette, guardandolo sincero.
- Fu tua madre a scacciarmi … - replicò, scostante, la schiena mollemente adagiata alla poltrona di vecchia pelle, le gambe accavallate e le dita impegnate dal sigaro.
- Lo so … e fui in collera con lei per molto tempo. – si giustificò.
- E perché mai? Tua madre aveva ragione: non si mischiano lana e seta … - decretò amaro, come un vecchio saggio. - Ognuno ha il proprio posto a questo mondo: a quelli come te, Miran, sono riservate ricche dimore e a quelli indegni, come me, i letamai … -
- Tu non sei indegno, Eìos. Scostante e rude, dal carattere aspro, ma non indegno. – lo corresse.
- Se è questo ciò che credi … - scrollò le spalle, incurante e per nulla toccato dallo slancio di Miran.
- E’ ciò che credo e intendo dimostrartelo. Voglio che tu rimanga qui: ho bisogno di un uomo affidabile, di un amico disinteressato che mi affianchi nell’amministrazione dei miei possedimenti. – propose.
Eìos si intorbidiva ogni qual volta Miran rimarcava il possesso su ciò che inconsapevolmente apparteneva anche a lui, un legittimo sussulto lo spingeva a saltargli al collo, a gridargli tutta la sua rabbia, con disprezzo, uno sputo in pieno viso. Come l’incisione di un ascesso caldo, dona sollievo alla ferita purulenta, così lo sfogo dell’ira selvaggia e consapevole di due animali, che si contendono lo stesso territorio, li avrebbe finalmente resi liberi.
Ma una forza stabile ed ancora più prepotente lo legava, in attesa: la vendetta disperata prevaricava ogni istinto e ciascuna pulsione.
- Mi stai offrendo un lavoro? – chiese, impassibile.
- L’accetteresti, in nome della nostra vecchia amicizia? – ribatté, di nuovo il ragazzino nostalgico della loro fanciullezza.
- Non ho mai avuto un padrone … - lo mise in guardia.
- Sarai un amico, un ospite, non un servo alle mie dipendenze. – precisò, per fugare ogni dubbio.
Per la prima volta Eìos sentì che la vita gli stava offendo l’occasione perfetta per prendersi ciò che era suo.
I contorni erano ancora troppo fumosi per definirlo un vero piano, ma il fine era chiaro: avrebbe portato il nome che gli apparteneva per nascita. Al diavolo Nubia, bugiarda e meretrice, al diavolo l’amore ed il rispetto … al diavolo ogni altra cosa.
- E sia! – accettò, sul volto impassibile, non un’emozione a tradire il suo stato d’animo. – Devo avvertire il dottor Elmisk della mia permanenza nella tua dimora … - concluse, sollevandosi.
- Me ne occupo io: avevo già in animo di mandare qualcuno per richiedere la sua presenza. Vorrei che visitasse Nubia … -
- Come credi … - l’assecondò, le spalle già rivolte a lui ed il petto increspato dal suo vendicativo proposito.
- Eìos … - lo chiamò, quando era già sulla soglia dello studiolo. – Alloggerai nell’ala della casa destinata agli ospiti, questa volta … - precisò, per rimarcare la sua intenzione di trattarlo come un amico.
- Il padrone sei tu! – replicò allontanandosi, con le spalle dritte rivolte a lui ed un gesto svogliato della mano.
 

*********
 

Erano trascorse già un paio d’ore dal momento in cui Eìos e Miran si erano recati nello studio di quest’ultimo, per discorrere, ed Ariela non aveva fatto altro che pregare e sperare che la conversazione fosse amichevole e cordiale, così come amichevole e cordiale le era apparso il tono di suo cognato. Si fermò solo per un attimo ad immaginare quali terribili conseguenze avrebbero portato le parole ingiuriose di quell’uomo e ne fu inorridita, tanto che preferì distogliere la mente per votarla a tutt’altri pensieri.
Ancora non riusciva a comprendere per quale arcano motivo avesse ceduto alla supplica muta di Nubia e avesse omesso di raccontare alla madre ciò che aveva scoperto.
Non aveva mai saputo mentire, Ariela, neanche da bambina.
Le poche volte che si era adoprata a farlo, immediatamente le guance le si erano imporporate, il respiro increspato e gli occhi le erano caduti in grembo, nel tentativo maldestro di nascondere la bugia. Così la madre l’aveva scoperta, rimproverata e punita, tanto che ella aveva rifuggito, negli anni a venire,  quell’inutile pratica scorretta.
Per questo non riusciva a spiegarsi perché avesse ricominciato a farlo proprio in quel frangente, tanto più che il misfatto taciuto non era neanche opera sua. Forse la vergogna dell’ingiuria, lo sdegno per il comportamento dissoluto di Nubia, forse  il desiderio di proteggere sua madre da un simile dolore, erano stati i legacci  che l’avevano trattenuta.
Ma una verità celata è pari alla menzogna; e la menzogna è peccato, così come l’omissione.
Ma soprattutto essa non è che un anello di una catena, legato a quello successivo, una spirale indissolubile che corrode, esaspera lentamente, finché si palesa, nell’istante esatto in cui è già troppo tardi per rimediare. Allora diventa rimprovero e punizione gravissima  senza possibilità alcuna di redenzione.
Era così assorta in quegli infernali rovelli che non si rese neanche conto di essere uscita dalla piccola cappella nobiliare, dove aveva recitato i vespri, ancora il velo di pizzo a coprirle il capo ed il rosario di madreperla inanellato intorno alle dita sottili. Percorreva a passi docili il sentiero che conduceva alla casa, gli occhi sulla ghiaia biancastra, che scricchiolava sotto i piedi, e il fruscio quasi impercettibile delle vesti.
Il colore del cielo imbruniva, induceva alla calma ed alla ricerca del silenzio, il profumo dell’erba falciata da poco, mescolata a quello leggermente acre dei fiori di zagara, era la cornice perfetta per quella scena bucolica, come in un quadro magico, che cattura, all’unisono, vista e olfatto.
Un crepitio più deciso la ridestò, come lo schiocco di un ramoscello calpestato nel silenzio della notte: Eìos le stava di fronte a pochi passi, lo sguardo fermo su di lei, i capelli scarmigliati e la camicia bianca, slacciata sul petto.
Un raggio di sole, ultimo bagliore di un giorno consumato, filtrava attraverso i rami più bassi degli alberi da frutto che delimitavano il sentiero. Un vaporoso fascio di luce obliquo si infrangeva lungo il suo profilo fluido, disperdendosi nella luminosità argentea delle infinitesime particelle di polvere galleggianti nell’aria. La guardava assorto ed intenso, come se cercasse di vedere oltre i confini accessibili alla vista umana, una fessura, un anfratto interiore di cui neanche lei stessa aveva coscienza.
Anche Ariela fermò lo sguardo su di lui, interrogativo, speranzoso, carico di domande che però rimanevano mute.
- Non guardatemi così, con quell’aria angosciata. Ve ne prego … - chiese quasi intenerito, - Non ho ancora rivelato il nostro segreto. – ammiccò, piegando il capo a cercare meglio i suoi occhi.
- Ve ne sono grata … - lo ringraziò, il cuore sollevato da un incredibile peso.
- Non l’ho fatto per voi, né per Miran, tanto meno per quella …  per vostra sorella. L’ho fatto per me solo! – precisò, inasprendo il tono e coprendo, a grandi passi, la distanza che li separava.
- Ciò che conta è che abbiate taciuto … - insistette, immobile, nello stesso punto in cui era quando l’aveva veduto, un velo di riconoscenza nella voce.
- Cosa vi angustiava, signora? Che imbrattassi di fango il vostro buon nome o di sangue purissimo e nobile la camicia di vostro cognato? – la provocò, lo stato d’animo inasprito dalla premura che ella mostrava per il rivale.
- Temevo per il vostro sangue, invece … - gli rivelò, stringendo tra le dita il breviario, come a mitigare la punta aguzza del carattere acre di lui.
- Siete davvero sicura del valore di Miran! – sorrise caustico, - Non ve ne abbiate a male, ma se ci fossimo battuti a duello, non sarebbe stato certo il mio sangue a disperdersi! – affermò, arrogante.
- Di certo, siete più sicuro voi del vostro! – ribatté, con quella forza sconosciuta che la obbligava a tenergli testa.
- Io non ho valore, non ho nome, non ho onore, né rispetto alcuno per la vita e per le regole. E per questo che l’avrei battuto! – ruggì, brandendo, come un’arma, la propria voce affilata.
- Se è come dite, se non avete onore, né rispetto o valore, perché dunque avete taciuto? – lo provocò, sempre più animata, e decisa ad interpretare il suo intento oscuro.
- Perché adesso non è il suo sangue ciò a cui anelo … - rispose vago.
- A cosa, allora? – insistette, con un brivido di ghiaccio a pungerle il petto.
- Non vi riguarda … O temete forse che possa indurre in tentazione la vostra casta sorellina? – alluse, sfacciato.
- Non siate insolente. -
- E voi non siate ingenua: quella donna mi ripugna. Ora che conosco la sua natura, provo repulsione e sdegno. La sola idea di me a riempirle quel ventre bugiardo … mi nausea. – sputò, le parole come fossero un veleno che gli imputridiva il sangue.
Ariela, che fino a quel momento era riuscita a tenere il viso fiero su quello di lui, calò gli occhi, imbarazzata, umiliata, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. Non era avvezza ad un tale linguaggio così provocatorio e insolente; tantomeno all’immagine impudica di un amplesso. Le guancie si colorarono dello stesso verecondo pudore che l’aveva costretta ad abbassare lo sguardo ed Eìos, per la prima volta, sentì sulla propria pelle il bruciore delle sue stesse parole e ne fu ferito.
- Perdonatemi … non era mia intenzione mancarvi di rispetto! – si scusò, con una voce caldissima ed avvolgente.
Del gentiluomo, Eìos, non aveva alcunché. Non l’andatura impettita dell’ufficiale, piuttosto quella del soldato rude ed incosciente al massacro. Non la maniera d’abbigliarsi, sempre disinvolta, la camicia morbida a fasciargli il petto, il colletto slacciato e mai inamidato. Tantomeno l’uso delle parole, mai calibrate, ma sfacciate e cattive, scudo per difendersi e lancia per offendere.
Eppure in quell’istante la sua capacità nobilissima di chiedere scusa, sanò ogni pudore leso: Eìos feriva, come la punta di un ago, e medicava, come un balsamo guaritore.
- Miran mi ha offerto ospitalità nella sua casa, per qualche tempo … - le rivelò, spezzando la cima di un ramo fiorito e odoroso di un arancio, - Ed io ho accettato. – continuò, tormentandolo tra le dita, un gesto che parve alla giovane quasi di imbarazzo.
- Non avreste dovuto … Rinunciate, per l’amor di Dio! – lo supplicò, accorata.
- Quale Dio, signora? Il vostro, che ama tutti gli uomini in egual misura, quali suoi figli diletti? Od il mio, che nega ad un bambino il calore di una casa, il nome, l’altrui rispetto per un sangue che non è legittimo?
Credere in un Dio giusto e padre è il lusso che solo voi, che avete avuto ogni cosa, potete permettervi! -
Gettò il ramoscello, dai fiori ormai spampanati ai piedi di lei, con rabbia e sdegno; le passò accanto, le spalle a sfiorarsi; il volto dai tratti induriti, fissò quello di lei, indugiando sulle guance pallide e le labbra vermiglie. Il profumo di lui, muschio bianco e sandalo, la sfiorò come zefiro primaverile, mentre le volgeva le spalle, lasciandola sola.
Punta d'ago e balsamo guaritore.

 

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Capitolo 5
*** . 5 . Dal passato, nuovi fantasmi ***


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Dal passato, nuovi fantasmi 

 

 

Nell’istante in cui l’aveva veduto, un gorgo vischioso, come un mulinello di acqua fetida, le aveva rimescolato i pensieri.
Ogni cosa di Eìos richiamava il suo defunto sposo: i tratti del viso, levigati come quelli di una statua bronzea; il colore degli occhi, fessure aperte su di un’amina inquieta; la fierezza delle spalle, l’atteggiamento padrone e quel sorriso insolente del peccatore che non cerca redenzione, ogni cosa, tutto era ritratto perfettamente, come da un pittore sapiente che coglie attraverso i tratti anche l’essenza del modello. Egli era la sua immagine duplicata, il suo fantasma tornato dal passato per torturarle l’anima.
Quando a sedici anni, appena compiuti, Leria, della nobile casa di Mavìm, era andata in sposa al ricco e possidente Esem di Mikra, l’aveva creduto il coronamento del romantico sogno di fanciulla, l’amore incondizionato del fulgido cavaliere delle epopee narrate dai cantori.
In realtà quello sposalizio di romantico aveva ben poco: esso non era stato altro che un buon accordo stipulato dalle famiglie per rimpinguare le proprie ricchezze e dare maggior lustro ai nomi delle rispettive casate. Leria ed Esem si erano conosciuti solo il giorno delle nozze ed avevano scoperto ben presto le distanze caratteriali che li avrebbero resi estranei per sempre.
L’istinto prevaricatore e distratto di lui, nonché l’altezzosa prosopopea di lei, avevano divaricato le loro esistenze, colmando la distanza tra le anime con uno strato spesso di disprezzo e noncuranza, un veleno stipato e purulento, che li aveva resi nemici costretti nella stessa dimora.
A nulla era servita la nascita di Miran, seppure attesa e desiderata da entrambi: dal padre come erede e vanto della propria stirpe, dalla madre come occasione salvifica per la propria esistenza corrotta.
Per tutti quegli anni, in cui avevano condiviso la medesima cella, Leria aveva patito frustranti umiliazioni, tradimenti e menzogne; i profumi di altre donne nella trama delle sue camicie. Ma ciò che più l’aveva ferita, come la punta di uno spillo che continua a sfregare la pelle sottile, era stato lo scherno con cui Esem si prendeva gioco del suo pudore, della sua difficoltà a concedersi ai tocchi di lui, alle sue necessità carnali.
L’aveva accusata di una frigida distanza, che lo costringeva a cercare altrove il calore di un corpo di donna, e lo aveva ripetuto così tante volte da imprimerle la stessa convinzione dolorosa, fino a renderla totalmente incapace di donarsi spontaneamente.
Aveva trascorso così, Leria, tutti quegli anni con la sola consolazione di un figlio che amava più di sé stessa.
Fino a quando anche quell’instabile quiete si era spenta, il giorno in cui Esem le aveva rivelato, senza alcun rispetto, né la mediazione di parole accorte, che Eìos era suo figlio.
- Non permetterò mai che il tuo bastardo viva sotto lo stesso tetto di mio figlio! – gli aveva urlato, con una rabbia animale e gli occhi spiritati, quando aveva appreso la sua intenzione di legittimarlo.
- Io sono tuo marito, signore e padrone … - le aveva intimato, -  … E tu non hai alcun diritto di opporti al mio volere! – le aveva ricordato, con la rabbia di lei riflessa nella propria voce. – Quando le pratiche burocratiche saranno espletate, Eìos porterà il mio nome, esattamente come Miran! – aveva terminato, per poi voltarle le spalle e lasciarla sola ed impotente.
- Che tu muoia maledetto … - erano state le sue parole mormorate, mordendosi le labbra e lasciando mescolare sangue e lacrime.
E maledetto era morto, Esem, mentre, al galoppo forsennato, recava all’ufficiale del registro civile, una dichiarazione firmata di suo pugno, per manifestare le proprie volontà.
Ma maledetta era stata anche Leria, maledetta ed impotente, tanto che dopo anni di buona vita, il fantasma di lui, dal passato, tornava per tormentarla ancora.
- Madre … - la riscosse Miran dai suoi attorcigliati pensieri.
- Figliolo, giungo ora dalle stanze della tua sposa. Nubia si è magnificamente ripresa. –
- L’ho veduta anch’io, ma per cautela ho mandato qualcuno in città per richiedere la presenza del dottor Emilsk.-
- Saggia decisione. –
- Madre … - insistette. – Vorrei mettervi a parte di un’altra mia decisione. Ho chiesto ad Eìos di compiacerci della sua presenza, per qualche tempo. – la informò, un poco titubante, conoscendo l’avversione di lei per il giovane.
- Qui? Ospite della mia casa? – chiese, con una smorfia di indignata incredulità.
- In verità, madre, non sarà nostro ospite … Gli ho proposto di sostenermi nella gestione della tenuta! – le rivelò, con un tono cauto che potesse mitigare la sicura reazione contrariata di Leria.
- Miran, hai forse perduto il lume della ragione? – ribatté apprensiva.
- Madre, vi prego … -
- Quell’uomo è un bandito, un ladro: vuoi che ti derubi? Che ti porti via tutto ciò che è tuo? –
- Voglio solo offrirgli un’opportunità di riscatto, come era desiderio di mio padre … - cercò di giustificarsi.
- Offrigli un lavoro come bracciante o nelle scuderie, dunque. – propose lei di rimando: tutto pur di non concedere a quel bastardo uno spazio che non gli apparteneva.
- Eìos è un uomo istruito, possiede le competenze necessarie per questo compito. La vostra offerta sarebbe umiliante! –
- Umiliante, dici? Più del contrabbando? Sai cosa si dice di lui, Miran? Che si accompagna alla peggiore feccia che … -
- Vi prego … è stato prima che il dottore lo prendesse a ben volere. – la interruppe, cercando di spiegarle.
- Rifletti, figlio mio: egli non è più il fanciullo che hai conosciuto anni fa … –
- Non lo è per vostra colpa: se non lo aveste scacciato, se aveste ceduto alle mie suppliche di dargli asilo, anche dopo la mia partenza per gli studi nella capitale … - l’accusò, esasperato dalla sua continua ingerenza nelle sue decisioni.
Miran amava sua madre; le riconosceva una forza interiore che in poche donne aveva ravvisato: ella, da sola, l’aveva allevato con amore, presenza e tenacia; per lui, si era occupata dell’amministrazione dei suoi averi con la solerzia e la perizia di un uomo; aveva, negli anni dei suoi studi lontano da casa, decuplicato i possedimenti e le ricchezze che da suo padre aveva ereditato. L’aveva sorretto e indirizzato e di ciò, Miran le sarebbe stato eternamente riconoscente. Ma ormai era un uomo, non più il ragazzino inesperto bisognoso di guida e consiglio. Avrebbe ascoltato ogni suo disinteressato suggerimento, ma avrebbe deciso per sé stesso, esattamente come un uomo.
- Incolpi me delle sue nefandezze? Poche ore della sua influenza malefica e già osi mancarmi di rispetto? –
- Perdonatemi, non era mia intenzione … - cercò di scusarsi, sinceramente pentito della propria veemenza.
- Anima mia, quell’uomo è mala erba, come la gramigna che infesta i campi. Mandalo via, te ne prego … - insistette con il tono dolce di una madre preoccupata delle sorti del suo figlio prediletto.
- Non posso, per tener fede al desiderio di mio padre, e non voglio poiché lo considero mio amico. –
- E sia: tu sei il signore di questa casa, tue sono le decisioni, tue le conseguenze … Ma ti avverto, io non accetterò la sua presenza qui. – ribatté, altezzosa e distaccata.
- Devo dedurre che ci priverete della vostra presenza alla cena di stasera. Me ne rammarico, madre, desideravo che vi incontraste e che foste voi a fare gli onori di casa, anche per rispetto nei confronti degli altri nostri ospiti.
Spero possiate cambiare idea … - si augurò, avvicinandosi e posandole un bacio riconciliatore sulla fronte.
- Maledetto, Esem, che tu sia maledetto, per l’eternità.  – ripeté il suo cuore disperato, come dieci anni prima, - E maledetta sia quella tua carne che ancora mi tormenta! –

 

*********

- Buonasera … - esordì il padrone di casa, entrando nella grande sala, dove una ricca tavola imbandita lo attendeva.
Eìos entrò subito dopo di lui, un’espressione imperturbabile negli occhi cupi.
- Vorrei presentarvi il mio ospite. – annunciò ai commensali, - Questi è Eìos, un mio vecchio amico di fanciullezza. Eìos … - continuò rivolgendosi a lui, che gli stava di fianco, - Costei è Nubia, la mia sposa. -  disse indicandogliela, con un gesto garbato della mano e la voce dolce dell’innamorato.
Ariela trattenne il fiato preoccupata che un gesto, uno sguardo potessero rivelare ai presenti il segreto inconfessabile che nascondevano. Eìos ossequiò Nubia, con un gesto distratto del capo, poi rivolse gli occhi ad Ariela, quasi in una rassicurazione muta del proprio silenzio, ed ella riprese a respirare, sollevata e grata.
- Costei invece, è Asmha, sua madre. – riprese, indicandole la donna che sedeva accanto a lei. – Questo gentiluomo è Caled, mio compagno di studi. -  terminò indicando il giovane che sedeva accanto ad Ariela.
Sedere a quella tavola gli procurava una sensazione sgradevole, come il vento di mare che appiccica i capelli rendendoli inestricabili.
Quella dimora non gli piaceva.
Lo opprimeva, come la vecchia, umida cella di un condannato, ed Eìos si chiese più volte se la brama di giungere al proprio intento valesse l’ennesimo sfregio alla propria dignità.
Né gli piaceva quel damerino biondo, i suoi modi affettati; la sua compostezza studiata; il colletto inamidato, tanto rigido da impedirgli l’afflusso di sangue al cervello; i sorrisi che destinava ad Ariela, segni di un ossequioso corteggiamento che lo stomacava.
Ma meno di tutto gli piaceva Nubia.
L’aveva osservata muoversi con delicata accortezza, una farfalla sul fiore; la sua era un’inequivocabile bellezza di forme e colori: la pelle era oro lucente alle fiamme tremule delle candele; la bocca sensuale e carnosa da mangiare di baci ed i capelli castani la cornice di un ovale perfetto.
Quando l’aveva incontrata per la prima volta, nello studio medico del dottor Elmisk, i suoi occhi acuti ed il sorriso disinvolto l’avevano catturato, stuzzicando il suo interesse. Poche donne del suo rango si erano mostrate così sicure della propria avvenenza e soprattutto nessuna di quelle, che poi in segreto avevano allietato il suo letto, gli si era concessa senza pudore alcuno e senza retaggi virginali.
Eppure l’incanto che lo aveva sedotto mesi prima gli appariva adesso custodia vacua di un’anima bugiarda.
Nubia era frivola, superficiale e traditrice.
Gli aveva giurato e spergiurato di non volere altri che lui; concedendosi, gli aveva dimostrato che egli sarebbe stato l’unico ed il solo. Non l’aveva indignata la sua illegittimità; il suo passato torbido ed ai confini dell’illegalità; né la certezza che non avrebbero mai neanche potuto sposarsi, poiché egli non aveva un nome da offrirle.
- Ti amo per ciò che sei … ed il mio amore non potrebbe essere più grande se tu fossi di sangue puro … - gli bisbigliava all’orecchio, mentre lui la riempiva.
Ed Eìos le aveva creduto, giacché era ciò a cui anelava da sempre: essere amato.
Eìos l’aveva amata per amore del suo amore, poiché spesso alcuni abbisognano più di essere amati che di amare.
Ma ora, lacerato dal suo tradimento e dalle menzogne, davanti a quella vera, che il suo anulare ostentava, come una regina la propria corona, il suo cuore sofferto sapeva che il proprio per lei non era mai stato amore.
Soltanto febbre emorragica che devasta le membra; solo fame e sete, come quelle del mendicante sul sagrato della chiesa.
- Non si può negare, amico mio, che il nostro paese stia mutando: continuare ad ignorare le necessità primarie del popolo, significherebbe nascondere la testa sotto la sabbia davanti ad un cambiamento ormai inesorabile. – lo riscossero le parole del dottor Elmisk, impegnato in fervente discussione sulle sorti del paese.
- E cosa vorreste che accadesse, dottore, che una massa informe, ignorante e lurida detenesse parte del potere che spetta per diritto di nascita solo alla nobiltà? – gli rispose prontamente e con una smorfia disgustata, il giovane biondo.
- Perché no? E’ accaduto in altri paesi prima del nostro … - ribatte l’altro.
- Siete un folle sognatore … - lo schernì, scuotendo la testa.
- Io direi piuttosto che sono un liberale! Ed il tempo mi darà ragione, caro Caled – sorrise di rimando il dottore, sicuro delle proprie convinzioni.
- E voi, qual è il vostro pensiero? – chiese poi, rivolgendo lo sguardo ad Eìos, che gli sedeva di fronte.
- Non credo che vogliate davvero conoscerlo … - rispose scostante, sbucciando il frutto che gli era stato servito. Le sue mani erano abili e forti, e le dita sottili e veloci, come quelle di un pianista esperto, nonostante le evidenti rugosità dovute al lavoro; erano eleganti anche in un gesto così comune.
Ariela si sorprese a guardarle, stranamente rapita: quell’uomo era un misurato equilibrio di rudezza e garbo, nei gesti, così come nelle parole. Sollevò gli occhi, quando il suono della sua voce sfumò, trovando quelli di lui adagiati su di sé, assorti nel suo medesimo esame.
- Ve ne prego … non abbiate timore di esprimere la vostra opinione! Anche se non appartenete alla nostra classe sociale … avete comunque diritto a dire ciò che pensate. – lo sfidò, un sorriso di beffa sul volto.
- Davvero? Mi onorate … - lo schernì Eìos, sarcastico, - Avevo inteso che un ignorante e lurido esponente del popolo non potesse ambire ad alcun diritto … - replicò, gli occhi ancora fissi in quelli di Ariela.
- Non vi ho offeso, spero. Ho solo affermato ciò che è inconfutabile: il sangue, il nome, il titolo ci rendono detentori di un potere al quale quelli come voi non potranno mai ambire. – terminò, con un guizzo sadico nello sguardo.
- Quelli come me? Insolenti, luridi e bastardi, intendete? – soffiò, con la rabbia di un animale ferito. – Non vi angustiate, signore, non sono offeso: ciascuno dei vostri insulti mi giunge come un complimento, poiché mi distingue da voi! – rispose con malagrazia.
- E’ inaudito! Miran, non comprendo come tu abbia potuto invitarlo alla nostra tavola … - rimproverò offeso l’amico, mentre Eìos si sollevava.
Egli si allontanò, senza accomiatarsi, la schiena dritta e perfetta; lo sguardo fugace, come un velo leggero a lambire la pelle di Ariela, che continuava a guardarlo. Appena fuori da quella stanza, opprimente come un antro senza aria, domò il respiro ancora concitato; puntellò la spalla al muro della stanza, incapace di allontanarsi oltre, come se la voce di Ariela, che aveva iniziato a parlare, fosse una forza magnetica che lo costringeva in quel preciso punto.
- Perdonatemi … - intervenne, - Non è stata, la sua, una presenza inadeguata: siete stato voi a parlargli senza riguardo, né rispetto … -
- Credete, dunque, anche voi, Ariela, che un uomo simile, scortese e villano, abbia i nostri stessi diritti? – chiese con una smorfia.
- Credo che talvolta il sangue od il buon nome non siano sufficienti a garantire nobiltà d’animo e buona creanza. – sentenziò, un respiro profondo per domare il sangue che le aveva acceso le guancie ed uno sguardo velato allo stipite della porta dalla quale Eìos era uscito pochi istanti prima.

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Capitolo 6
*** . 6 . Sera di lucciole e mattino d’argento ***


Image and video hosting by TinyPic  Ben trovati!

Prima di lasciarvi alla lettura volevo ringraziare tutti coloro che passano da queste parti:
ai lettori silenziosi,
a coloro che hanno inserito la storia tra le seguite e ricordate
e soprattutto a chi recensisce ogni capitolo.
Colgo l’occasione per augurare a tutti una buona Pasqua.
Un abbraccio e buona lettura!

 

. 6 .

 

Sera di lucciole e mattino d’argento

 


Eìos se ne stava seduto sulla panca di granito, nell’angolo meno in luce del grande giardino, i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani a stringere un panciuto bicchiere di cognac.
Sebbene le rivolgesse le spalle, le narici avevano incontrato il profumo di lei, ancor prima che le orecchie ne avessero avvertito lo scricchiolio leggero dei passi sul viale.
- Vi prego … Sedete qui. - la invitò, con un gesto cordiale del capo. – Siete qui per godere della frescura dell’imbrunire, presumo. – insistette, - Sedete qui, allora … Vi è posto per entrambi. –
Ariela gli guardò la schiena ampia: i muscoli asciutti, fasciati dalla camicia, erano tesi, come se egli fosse sulla difensiva; le maniche, malamente arrotolate sugli avambracci, scoprivano la pelle ruvida e scura, in contrasto con il candore del lino che lo vestiva, pane nero e burro fuso.
Si strinse nelle spalle, ornate dallo scialle di seta amaranto, avvolse la vita con le sue stesse braccia ed avanzò incerta, un animaletto selvatico incontro al proprio destino.
Sedette, più lontano possibile dal corpo di lui e, con la coda dell’occhio, le parve di intravedere, nella semioscurità della sera, un leggero sorriso ad ingentilire l’espressione altrimenti cupa.
Il giardino era tenuemente illuminato, negli angoli più lontani, da piccole luci intermittenti di migliaia di lucciole; l’aria era profumata di un miscuglio prepotente degli odori delle piante notturne, tra le quali, dominava il gelsomino, affiancato dalla dolcezza di quello di lei: un’armonia precisa che confondeva pelle e foglie, sangue e linfa.
- Perché lo avete fatto? – chiese, improvvisamente fendendo, con la voce, il silenzio denso che occupava l’aria.
- Non vi comprendo … - replicò la giovane, stringendo le code dello scialle sul ventre contratto.
- Prima, perché avete preso le mie difese con quel … fantoccio? – precisò, agitando il bicchiere con entrambe le mani, imprimendo al liquido un leggero movimento circolare, placido e lento.
- Siete in errore, signore … Non era nelle mie intenzioni e, comunque … non siete il tipo d’uomo che abbisogna di avvocati difensori! – precisò, mantenendo le distanze che la facevano sentire più al sicuro.
- Uhm … avete una buona opinione di me, dunque! – constatò, inspirando il profumo acre del liquore e palesando un piccolo sorriso compiaciuto.
- Siete nuovamente in errore: non era, il mio, un elogio alla vostra indole! – continuò, mentre costringeva lo sguardo dinnanzi a sé.
- Me ne rammarico … Mi ero illuso che lo fosse. – si lamentò, fintamente offeso, - Forse dovreste dosare con più parsimonia l’impeto con cui palesate le vostre opinioni, Ariela! – la riprese, una smorfia divertita e dispettosa sul volto.
- E voi, signore, dovreste fare tesoro dei consigli che dispensate. – replicò, decisa.
- Sono un animale che si muove d’istinto e le mie mani sono sempre vuote, per favorire meglio la fuga. – spiegò, tornando serio. - Un albero cavo: tanto spazio per contenere e nessun intento di farlo! – terminò, con amarezza toccante.
Ariela sospirò stranita: quell’uomo la confondeva, come se fosse persa in un labirinto magico, in cui ogni svolta è uguale all’altra, in cui solo istinto e buona sorte possono condurre verso l’uscita. Eppure ella avvertiva opprimente, come fiato negato, la necessità di spingersi verso il centro, nel nocciolo, da cui tutto si ramifica ed espande: quell’uomo non era un tronco cavo, al contrario, era uno scrigno chiuso, colmo di inconsapevole tenerezza, attraente e conquistatrice.
- Dovreste avere maggiore considerazione di voi stesso. Solo così potrete aspirare ad averne dagli altri. – suggerì con un tono così delicato, da aprire una breccia impercettibile nelle difese di lui.
- Non ho a cuore il giudizio altrui, dovreste averlo compreso … - replicò, offrendole i propri occhi.
Il buio, che aumentava ad ogni respiro, li rendeva più cupi, pozze d’acqua così scura e fangosa da non permettere di scrutarne il fondo, e, nel contempo, spruzzi di luce riverberante li illuminavano, come lampi elettrici in una notte di temporale.
- Abbiate almeno a cuore voi stesso, Eìos …  - pronunciò per la prima volta il suo nome e fu bello. Incomprensibile, nuovo e bello: fu una carezza a lenire il bruciore di uno schiaffo, uno zefiro rinfrescante, uno strano assenso ad una richiesta mai fatta.
- Non mi importa di me stesso … - replicò, quasi una difesa dal docile attacco di lei.
- Di cosa, allora? – insistette, incosciente d’aver innescato la miccia di un subdolo esplosivo.
Eìos non rispose, si limitò a guardarla: prima l’ovale del viso, poi gli zigomi alti, infine gli occhi, dolci richiami, proprio come quelli delle lucciole nel buio della sera, e, rivolgendo di nuovo gli occhi altrove, sorrise, mentre un desiderio fremente lo spingeva a cercare la curva sottile delle belle labbra.
Un desiderio fremente e puro, destinato a rimanere ancora insoddisfatto, come decine di altri da quando l’aveva veduta per la prima volta.
 

********
 

La notte era trascorsa agitata, per Ariela.
La conversazione spinosa della sera precedente e l’impulso, che l’aveva spinta a prendere le parti di lui, l’avevano disorientata, come un viandante alla mercé della strada sconosciuta, e le avevano generato nella mente e nel petto, infiniti germogli di domande scomode.
Aveva provato un acre fastidio per Caled, lei che riusciva sempre a farsi piacere chiunque, per quelle parole pungenti ed offensive, pronunciate al solo scopo di ferire. Fin da ragazzina, era sempre stata indignata dal comportamento ipocrita di coloro che si professavano cristiani, che si riempivano la bocca e le mani di buoni propositi samaritani e poi, in nome in un sangue puro e di un’aristocratica albagia, erigevano, tra essi stessi ed i più disgraziati, bastioni alti quanto i muri delle loro vecchie case.
Ma di più aveva sentito lievitare al centro dello stomaco, come la pasta del pane, una tenerezza sconosciuta per quell’uomo rude e scostante che la sera prima, nel giardino, le era apparso morbido e pieno, come un rovo intorno ad una moltitudine di piccoli fiori.
Più volte nella notte si era rigirata nel letto, cercando una spiegazione logica a quello strano, irrazionale trasporto verso un uomo che conosceva a malapena e che, per di più, le si era presentato nel peggiore dei modi.
In verità le risposte che Ariela cercava erano filamenti di radici che silenziose affondavano nel petto e nel corpo e che ella, inesperta delle cose della vita, sola nel proprio letto, non avrebbe mai potuto trovare.
Da parte sua, Eìos aveva torturato il proprio giaciglio alla stessa maniera.
Non erano state le parole di quel damerino insulso a scombussolarlo, quanto quelle di Ariela, nella sala prima e nel giardino poi.
Per di più, sentirle pronunciare il proprio nome, aveva generato una frenesia inconsueta, come l’aria frizzante della primavera. Ariela gli piaceva, la sua voce gli piaceva, così come gli occhi e le palpebre di viola che li custodivano. Lo scuotevano la sinuosa curva del collo, la pelle, come latte, ed il modo di incedere flessuoso di una gatta. Ma più di tutto, il profumo della pelle che la precedeva, come un effluvio, mangiava i suoi sensi, già sconfitti da tutto resto.
La luce del primo mattino arrivò salvatrice da tutti quei pensieri che chiedevano spazio nel petto di entrambi. Così, quasi convenendo ad un appuntamento mai concordato, si decisero a cercare nell’aria fresca del giorno, un poco di quella dolce quiete che tacita i dubbi.
Il giardino era silenzioso, il fruscio delle foglie dei rami più alti era ovattato così come i canti cadenzati degli uccelli su di essi. La luce del sole era ancora tenue, ma si addensava ad est, irradiandosi benefica nel cielo azzurro e rosa. I bordi del grande giardino erano orlati da siepi di biancospino fiorito, per delimitarne il confine con i campi coltivati, che oltre si spandevano a vista d’occhio.
Ariela né seguì il percorso, fino a quando non si ritrovò presso una piccola fontana di pietra che gorgogliava come un passero sul ramo.
Anche Eìos era lì, a pochi passi, la camicia bianca, i calzoni negli stivali, i capelli disordinati, ed il velo di barba incolta del mattino. Era bello, inequivocabilmente bello: il corpo dai muscoli definiti, ma non troppo evidenti, l’ampiezza delle spalle fiere, la curva morbida della bocca e soprattutto gli occhi, rivelatori della sua anima, dannata ed in perenne subbuglio, ed al contempo sincera e profonda.
Per la prima volta nella vita, Ariela si ritrovava a fare i conti con il nodo che la bellezza virile stringe nello stomaco di una fanciulla, lei che si era creduta immune dalle lusinghe del corpo.
- Buongiorno. – le augurò Eìos, la voce roca delle prime parole pronunciate al mattino.
- Buongiorno. – rispose, uno sforzo a tirare fuori fiato e parole, mescolate ad un fremito nuovo.
- Già levata di così buon ora … - continuò, un passo verso di lei e gli occhi a sfiorale ogni centimetro di pelle scoperta dall’abito.
- E’ l’ora che preferisco: il giorno sembra così sincero, così carico di promesse … - rivelò, guardandosi intorno, incantata dalla fresca meraviglia di quelle ore mattutine.
- Il giorno è un bugiardo, così come la notte. La vita è una donna bugiarda: ci mentisce continuamente. – precisò, con un tono disilluso, compiendo ancora un secondo passo deciso.
- Io non lo credo … - scosse il capo Arilea, per smentirlo.
- Perché siete voi stessa una promessa. – insistette, le parole indipendenti e veloci più dei pensieri e la distanza tra loro, ormai, ridotta ad un soffio.
- Promessa? Di cosa? – abbozzò un sorriso lieve quasi di imbarazzo per la vaghezza dell’affermazione.
- Quando lo scoprirò, sarete voi la prima a saperlo. – promise, solenne.
- Vi … recavate alle scuderie? – cambiò argomento: gli occhi di lui, che accompagnavano la voce, la confondevano, irrimediabilmente.
Eìos rispose chinando il capo in un muto assenso, i capelli disordinati ornarono la fronte, le ciglia coprirono gli occhi di muschio, esaltando gli zigomi.
- Voi? – chiese poi, risollevando il capo verso il viso di Ariela.
- Tornavo a casa, dopo le orazioni del mattino, e ho indugiato qui, accanto alla siepe di biancospino: intendevo coglierne alcuni fiori per un infuso medico per mia madre. – gli spiegò, indicando con le dita le infiorescenze bianche tra i rovi.
- Malattia di petto? – azzardò.
- E voi, come lo sapete? – replicò, stupita.
- Dimenticate che vivo da anni con un medico … le proprietà officinali del biancospino sono particolarmente indicate per l’angina pectoris. – spiegò, con puntualità quasi professionale, - Anzi, permettetemi di mostrarvi come raccoglierne le infiorescenze all’apice dei rami più giovani, così da proteggere le mani dalle piccole ed insidiose spine. – le suggerì, avvicinando la propria mano al ramo, più vicino alle dita di lei.
Ariela ritirò la sua, spaventata e tesa per quella vicinanza improvvisa e destabilizzante. La pelle, delicata e sottile, sfregò sugli aculei dell’arbusto, lacerandosi. Una stilla sottilissima di sangue sgorgò dalla piccola ferita, insinuandosi tra le pieghe del palmo latteo.
Eìos, raccolse, veloce, la mano di lei nella propria, appurando la profondità della ferita.
- Non temete, è solo un graffio … - la rassicurò; lasciò scivolare via dalla propria, la mano di lei ed, estratto dal taschino, un fazzoletto bianco si diresse verso la piccola fontana.
Lo immerse nell’acqua gelida che zampillava dal becco di rame, e le ritornò accanto.
Catturò nuovamente la mano di Ariela, avvolgendola con la propria, con delicata attenzione, fino a che la punta delle dita le lambì il polso ed il pollice si insinuò nell’incavo di quello di lei.
La sua pelle era ruvida, consumata dal lavoro, ma avvolgente e calda, come l’aria della canicola: un contrasto perfetto, quasi studiato, con quella di Ariela, bianca, liscia e fresca. La stretta era determinata e premurosa insieme, trasudava la premura dovuta ad un oggetto delicato e prezioso.
Deterse la ferita, lasciando che il fazzoletto si impregnasse del sangue che, mescolato all’acqua, lo tingeva di rosa. Con la punta del pollice carezzava con movimenti lenti la pelle di Ariela, un tentativo cadenzato e morbido di rassicurarla, come un padre con la sua bambina ferita.
Ariela osservava il movimento delicato di quelle mani eleganti, rimanendone abbagliata, come nel riverbero del sole morente.
- Ecco … - le disse, scompigliandole i pensieri, - Abbiate cura di applicare uno strato di un unguento alla calendula: accelererà la cicatrizzazione … - continuò, tenendole ancora la mano tra le sue.
La giovane tirò su gli occhi da quell’intreccio, nel tentativo di ringraziarlo della gentilezza riservatale, ma la voce le rimase imprigionata nella gola, quando i loro occhi si incontrarono ed Eìos le sorrise.
Fu un sorriso perfetto, carico di inattesa dolcezza: le labbra piene leggermente screpolate, come terra arida in attesa del ristoro, si presero le sue senza toccarle, contaminandole, così che Ariela avvertì il desiderio di tenderle alla stessa maniera. E sorrise pure lei, grata, perduta, disorientata.
Quel gesto lo rapì, attraendolo inspiegabilmente, come un ragazzino senza perizia alcuna delle proprie pulsioni. Il petto si riempì di un respiro inquieto, il ventre si tese, così come i muscoli di tutto il resto del corpo, le mani aumentarono la stretta e la mente smarrì le coordinate, perdendosi in un viaggio confuso e caldo.
Ariela diveniva, ad ogni sguardo, irrimediabilmente, cagione del proprio disorientamento: lo avvincevano la bellezza sommessa del suo corpo e l’onda feconda dell’anima purissima.
Miracolosamente Ariela gli sarebbe apparsa, da quell’istante, come luce soprannaturale, custode del paradiso, che si mostrava attraverso gli suoi occhi, le sue labbra sarebbero state fiamme e la pelle l’acqua celeste che le chetava.

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Capitolo 7
*** . 7 . Indecenti proposte ***


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. 7 .

 

Indecenti Proposte

 

La sua cameriera personale canticchiava una vecchia canzone popolare, mentre con le mani grossolane di una donna del popolo, lisciava il risvolto immacolato delle morbide lenzuola di lino ricamate a sfilato*. Rose gialle, mescolate a giunchiglie bianche adornavano il ripiano di bianchissimo marmo arabescato del cassettone e la preziosa specchiera che lo sovrastava ne rimandava l’immagine, conferendo all’intera stanza un’aria fresca e primaverile.
- Noelia … - la richiamò la signora,  - Vieni qui! – le ordinò, con una inflessione perentoria nella voce elegante. – Ho bisogno dei tuoi servigi. – le disse, porgendole la spazzola d’argento perché le pettinasse le lunghe chiome chiare.
- Ciò che desiderate, signora. – fu la risposta accondiscendente della giovane, mentre le lisciava i capelli.
- Voglio che sia tu ad occuparti degli alloggi di quel … di Eìos, il figlio del dottor Elmisk. – le spiegò, scegliendo, in un inconscio gesto scaramantico, un paio di orecchini di corniola° .
- Signora … - obbiettò Noelia, interdetta, - Sono sempre stata addetta alla vostra persona … Vi ho, forse, arrecato offesa, in qualche modo? – chiese, come una bimba rimproverata dalla madre.
- Certo che no, mia cara. – la rassicurò, melliflua. – Ho solo bisogno di una persona in cui riporre la mia fiducia … - precisò.
- Disponete di me, dunque, come meglio credete. – le si offrì, servile.
- Voglio che tu sia la sua ombra, che lo segua ovunque, ma con discrezione; che ascolti le sue conversazioni e che, quando egli è fuori dai suoi alloggi, frughi tra le sue cose: nei cassetti della biancheria, in quelli dello scrittoio, ovunque! – le ordinò.
- Per trovare cosa, signora? – chiese, ingenuamente, la servetta.
- Qualcosa, qualunque cosa possa rivelare il motivo della sua presenza nella mia casa! – le rispose con ovvietà, stizzita dal poco acume della donna.
Come il rocciatore nella scalata più impervia, sceglie sapiente l’anfratto al quale affidare il proprio peso, così Leria cercava un appiglio qualunque, una risposta, un espediente per ricacciare Eìos nell’inferno dal quale era emerso e salvare il suo piccolo mondo protetto.
- Va', che aspetti, sciocca. – la sgridò, mentre Noelia se ne stava imbambolata con la spazzola a mezz’aria, arrovellando la sua piccola mente sui motivi di quell’ordine.
- Sì, signora. – le rispose, chinando il capo in segno di deferenza.
- Noelia … - la richiamò, quando ella era già sull’uscio. – Se sarai discreta e mi riferirai puntuale ogni suo affare, sarò … molto generosa nella ricompensa! – le promise, un ghigno a macchiarle in viso.
La serva annuì, sorridendo, ed, uscendo dagli alloggi della sua padrona, si chiese cosa avrebbe potuto guadagnare per quel compito tutto sommato molto semplice. Si diresse verso l’ala riservata agli ospiti e, soffermandosi davanti ad un grande armadio di legno intarsiato, per prelevarne biancheria pulita, ripensò agli abiti smessi della signora e si figurò alla messa della domenica con uno di quelli indosso, invidiata ed elegante.
Imboccò il corridoioio che conduceva alle stanze di Eìos, ancora con un sorriso sciocco sul viso, quando scorse una signora entrarvi di soppiatto, richiudendosi la porta alle spalle.
Vi si avvicinò furtiva, tendendo l’orecchio, per riuscire a percepire le voci che ne provenivano e, quando le parole divennero chiare e rivelatrici di un segreto inconfessabile, Noelia sgranò gli occhi dallo stupore e spalancò la bocca, come una bimba davanti al suo dolce preferito.
- Vergine Santa! – esclamò, con una vocina sommessa: forse quel segreto appena scoperto valeva ben più di un abito smesso!
 

*********

Doveva essere rimasto un briciolo di amore in lui.
La rabbia non poteva essersi preso tutto quel sentimento e la passione cocente di tutti quegli attimi rubati e nascosti al resto del mondo.
L’aveva deluso, tradito e umiliato, ne era cosciente, e per un uomo come Eìos, ferito dalla vita, beffato mille volte dal destino, non sarebbe stato facile perdonare.
Ma Nubia lo amava, con quanta forza aveva in corpo; l’amava indecentemente, contro la promessa solenne che aveva fatto al suo sposo, contro la legge degli uomini e contro quella di Dio.
Aveva giurato, amore, fedeltà, rispetto all’uomo a cui si era unita in matrimonio, ma mai avrebbe potuto togliersi dal petto un sentimento così potente da bruciarle viscere, anima e cervello; mai avrebbe potuto dimenticare il corpo di lui, proteso nel proprio, le mani su ogni piega della propria pelle a premere, a cercare, a bere tutto di lei.
Nubia lo amava disperatamente e l’amore in un letto che non era il loro era una tortura ed una punizione strazianti.
Doveva vederlo, doveva parlargli, spiegargli i motivi delle sue azioni.
Doveva supplicarlo di comprendere, di perdonare, di tornare a toccarla ancora, poiché la vicinanza di lui, senza i suoi occhi a sfiorarla, senza le mani ad esaltarla, senza la voce a penetrarla, erano insopportabili e crudeli tormenti che non intendeva più subire.
Lo avrebbe raggiunto di nascosto, l’avrebbe obbligato, se necessario, a farsi ascoltare, l’avrebbe pregato di amarla ancora come solo lui sapeva fare.
Approfittando dell’assenza di Miran, a cavallo con Caled, si recò nella camera in cui alloggiava, in silenzio come una ladra. Entrò senza bussare, nel piccolo vestibolo che precedeva la stanza da letto, con il fiato corto, il passo leggero e le mani nervose a tormentare la stoffa della ricca gonna.
L’odore di Eìos era ovunque, tra quelle mura, prepotente e sfacciato, come la sua anima. Nubia inspirò, chiudendo gli occhi, come colui a cui, per troppo, hanno negato l’aria, quando la porta della stanza si aprì ed egli entrò.
Il petto nudo era solcato da una miriade di piccoli rivoli di acqua, così come il viso, i capelli erano umidi e scomposti e tra le mani stringeva un asciugamano di tela stropicciato, con il quale tamponava la pelle delle braccia e del collo.
Quando la vide, poggiata al bordo del piccolo scrittoio, una smorfia di disgusto gli sporcò il viso, gli occhi si indurirono e, con un gesto di stizza, lanciò il telo sulla piccola seggiola che gli stava di fianco.
- Che ci fai  qui? – l’aggredì.
- Dobbiamo parlare … - gli rispose, con la voce più dolce che in quel frangente, le potesse uscire dalla gola inaridita.
- Io non credo. – la interruppe, gelido con i muscoli contratti dalla rabbia.
- Ti prego, Eìos, permettimi di spiegarti. – lo implorò, le mani giunte sul petto in subbuglio.
Eìos aprì i palmi delle mani, come un invito muto a continuare la sua arringa difensiva, e poi portò le braccia conserte sul petto glabro.
- Comprendo la tua rabbia, il tuo malanimo … So di averti ferito, ma ti giuro, amore mio, non avrei mai voluto. Dicevano che eri stato catturato dalla milizia e, per l’accusa di contrabbando, ti era stata inflitta una lunga condanna … - continuò, le lacrime a segnarle il viso perfetto. – Sono stata costretta a sposarmi: mia madre, non mi ha lasciato scelta! – terminò, compiendo un passo timido verso di lui. – Ti prego, Eìos …  cerca di comprendere: ero sola, disperata … - terminò, poggiando le mani sulle braccia tese di lui, che se ne stava impassibile come una statua.
- Hai trovato conforto alla tua solitudine nel letto di tuo marito, dunque. – ironizzò, un sorriso di beffa, mentre la trapassava con gli occhi.
- Io ti amo, tu lo sai che ti amo … - sussurrò, più vicina, abbandonando tutto il peso del corpo su quello di lui, mentre i seni, fasciati dal corpetto, gli sfioravano le braccia.
- Mi ami? – chiese, estinguendo, a sua volta,la distanza tra i loro corpi, e la voce roca, carezzevole e sensuale. Le prese il viso con entrambe le mani profumate dei sali da bagno alla vaniglia, il petto bagnato inumidì la seta che la vestiva; le punte dei loro nasi si toccarono ed il respiro caldo di lui le incendiò ogni angolo di pelle.
- Sì, ti amo. – ripeté, con un soffio di voce, impastato di desiderio, mentre le proprie labbra inseguivano quelle di Eìos, come un cercatore d’oro il tesoro.
- Togli quest’abito di seta, dunque … - la invitò, strofinandole la bocca schiusa sul lobo, - E l’anello che porti al dito … - proseguì, percorrendo, con la guancia, il tragitto che conduceva alla clavicola.
Nubia sciolse ogni piccola incertezza, sedotta dall’attacco conquistatore di lui; il ventre fu inondato da un languore caldo  e ogni centimetro del corpo devastato da brividi di attesa.
- … E vieni via con me! – terminò, il tono deciso, perentorio di un ordine e non di un invito.
- Dove? – si riscosse Nubia, riprendendo il controllo della mente, come se un catino d’acqua gelata le avesse colpito improvviso la schiena.
- All’inferno, ma con me! – le rispose rude, allentando il contatto e fissandola con gli occhi di muschio.
- Ma … sarebbe una follia, amore mio! – ribatté la giovane, cercando di stringere nuovamente il laccio che l’aveva legata ed infiammata fino a pochi istanti prima. – Saremmo dei fuggitivi … per sempre. – insistette, lasciando scivolare le mani sul petto teso di lui. – Tu vivi qui ormai ed hai la benevolenza di Miran … - prosegui, giocherellando con le gocce d’acqua che resistevano sulla pelle di Eìos, - … Potremmo vederci quando vogliamo, senza destare alcun sospetto … - ammiccò, passando la punta della lingua lungo la mascella di lui e proseguendo verso la bocca.
Eìos sorrise, poi, prima che Nubia potesse lambirgli le labbra, le afferrò le braccia con durezza, allontanandola dal proprio corpo.
- Non sono solito condividere ciò che è mio con altri, meno che mai il ventre di una donna. - Ed ora vattene, torna a sfiancare le reni^ a quello stolto di tuo marito ... – la ingiuriò, voltandole le spalle.
La sola vista di lei lo stomacava: il ricordo, ancora vivido, dei suoi gemiti sotto il proprio corpo, della propria lingua a torturarne la pelle, la ricerca attraverso il corpo di quell’anima sporca, gli davano il disgusto di sé stesso, lo facevano apparire ai suoi stessi occhi stupido ed ingenuo, travolto come un ragazzino al primo amplesso. Come aveva potuto essere stato così ingenuo da credere che le parole di quella donna fossero vere, proprio lui che nella sua esistenza non aveva affidato  ad alcuno né il corpo, né l’anima, né i sentimenti.
- Eìos … - mormorò, con le lacrime a solcarle il bel viso bugiardo. – Eìos, per l’amor del cielo … - lo supplicò vanamente.
- Vattene, ho detto! – ripeté con il tono di chi non ammette repliche.
Nubia si concesse ancora qualche istante per guardarlo: la schiena dritta e ampia, i muscoli tesi dal livore e le braccia, che l’avevano stretta, durante ogni incontro, erano tutto ciò che Eìos, disgustato, le donava.
Ma ella non gli avrebbe permesso di chiuderla fuori dalla sua vita: con il tempo, con la pazienza, lo avrebbe riconquistato, giacché egli la amava; e quando rabbia e delusione si fossero  acquietati, quando l’umiliazione per il proprio tradimento si fosse consumato, attraverso la vicinanza, Nubia avrebbe riportato Eìos tra le sue braccia, dentro la sua carne.
Poiché il proprio corpo era la guaina di quello di lui, e lì l'avrebbe custodito, per sempre. 


 

* tecnica di ricamo su tela di lino, diffusa in Sicilia, dal XV secolo.
° pietra semipreziosa di colore rosso arancio che gli antichi ritenevano un talismano contro la cattiva sorte.
^ la frase si riferisce al famoso Carme 58 di Catullo, in cui inveisce contro la sua amata Lesbia, dopo il suo tradimento.

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Capitolo 8
*** . 8 . Un patto col diavolo ***


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. 8 .

 

Un patto col diavolo


 

Sentiva mancargli il fiato, come se qualcuno più forte di lui l’avesse costretto con la testa sotto il pelo dell’acqua per annegarlo.
Sentiva necessaria una cavalcata selvaggia, in mezzo alla boscaglia: il vento del galoppo gli avrebbe schiaffeggiato il viso, riscuotendolo dalla rabbia e dalla frenesia del corpo eccitato; il sudore della pelle accaldata avrebbe sopraffatto il profumo di lei, che ancora percepiva addosso.
- Maledetti quel ventre e quella bocca … - mormorò tra i denti, mentre, con premura, indossava una camicia fresca di bucato, di cui allacciava solo alcuni bottoni.
Quella donna gli aveva mangiato il cervello, così come si addenta un frutto.
Per lei aveva sovvertito l’ordine delle cose su cui aveva eretto la propria coscienza: aveva azzardato una spedizione illecita per riempirsi le tasche di quel danaro che aveva sempre aborrito; aveva permesso alla carne morbida e calda di lei di sciogliere ogni diffidenza; aveva accettato di partecipare ad un mondo falso, ipocrita e decadente da cui si era sempre tenuto a distanza, per le parole di miele e fuoco che ella gli mugolava all’orecchio, mentre gli allacciava le cosce attorno al corpo teso.
L’aveva amata e desiderata, carne e anima, ed ora, nonostante avesse scoperto la sua vera essenza, bugiarda e calcolatrice, le sue membra continuavano a bruciare ed i muscoli ad inturgidirsi per quella stessa carne che aveva mille volte penetrato. Ma non per l’anima traditrice. Essa lo disgustava, come fiele cosparso sulle labbra.
Nubia lo infiammava, accendendo nel corpo un desiderio devastante di toccarla ancora, come un animale nel congiungimento carnale; ed, al contempo, lo repelleva per le sue menzogne.
Uscì dai suoi alloggi, come se avesse il vento nelle tasche; si diresse alle scuderie; sellò il proprio cavallo, che già scalpitava impaziente per la corsa che lo aspettava. Infilò il piede nella staffa, issandosi sull’animale e lo lanciò al galoppo, ancor prima di uscire dalla stalla.
Attraversò il cortile silenzioso, squarciando l’aria con gli schiocchi degli zoccoli sulla ghiaia e trascinandosi dietro una coltre di polvere biancastra.
- Maledetti quel ventre e quella bocca … - ripeté, sparendo nel fitto della boscaglia.
 

********
 

Noelia bussò alla porta della padrona sommessamente: seppure la scoperta che aveva fatto fosse la succulenta risposta che ella probabilmente ricercava, la serva era ben conscia che avrebbe dovuto adoperare parole accorte, per non urtare la sua suscettibilità.
- Signora … - la chiamò perché si voltasse, le mani a torturare le cocche del candido grembiale e gli occhi chini, come se il solo riferire l’infamia scoperta, la rendesse in qualche modo colpevole.
- Dunque? – la esortò Leria, con un gesto nervoso della mano, mentre richiudeva il ventaglio nero legato al polso da una catenella.
- Ho visto … Ho sentito … - balbettò la serva intimidita tentando di mettere ordine nella mente confusa.
- Santo Cielo, Noelia, parla! – le intimò, alzando di un tono la voce già stridula.
- Ho veduto vostra nuora, signora … L’ho veduta entrare nelle stanze di quell’uomo. – confessò tutto d’un fiato, compiendo un passo indietro.
Leria sbiancò; ridusse le labbra ad una linea sottile, come una ferita rossa di sangue; la mano torturò il tovagliolo che teneva in grembo, mentre l’altra lasciava ricadere malamente la tazza del the sul piattino di porcellana finemente decorato.
- Continua. – intimò, con malagrazia.
- Erano … amanti. – sussurrò, - Prima che ella andasse in sposa a vostro figlio. – continuò, la testa china tra le spalle strette, quasi si aspettasse una punizione. – Ma quell’uomo … l’ha respinta quando la signora gli ha proposto di … - si interruppe, cercando le parole.
- Continua! – ripeté, esasperata, battendo il palmo aperto della mano sul tavolino e sollevandosi in piedi.
- Ella voleva riprendere la relazione clandestinamente, qui, nella vostra casa. – terminò.
- Sgualdrina! – biascicò,tra i denti, disgustata. – Dove sono ora? –
- La signora si è ritirata nelle proprie stanze e quell’uomo è uscito a cavallo. – riferì puntuale.
- Vieni immediatamente a riferirmi quando rientrerà e … bada, non osare rivelare ad alcuno ciò che hai scoperto, Noelia. – le intimò, con la voce perfida della strega che pronuncia il sortilegio, - O ti farò pentire … pentire d’essere venuta al mondo! – giurò, gli occhi come due fessure e le mani tanto strette a pugno, da sbiancarne le nocche.
- Mai, mai, mia signora. – la rassicurò terrorizzata, con la voglia di fuggire da quella stanza e da quel segreto.
- Vattene, ora. Non mi servi più. – la congedò, con il gesto della mano che si usa per scacciare una mosca.
Quando Noelia si richiuse la porta alle spalle, dopo aver chinato il capo e rinnovato la propria assoluta, inattaccabile devozione alla padrona, Leria si accasciò sulla poltrona, come un burattino i cui fili sono stati lasciati cadere. Tutta la combattività, la forza di quegli anni, tutti i sacrifici, i doveri assolti verso Dio e verso il suo amato figlio, erano andati perduti per le voglie di una sgualdrina, sementi feconde sparse nella polvere arida.
Esem, spina nella carne, salasso di sangue, tornava dall’Ade  per vendicare i propri desideri disattesi.
Come per un contrappasso meritato, la maledizione di Leria, scagliata sul suo sposo, le ricadeva sulla testa, devastante, e la schiacciava.
La donna rivolse il viso verso il comodino accanto al letto, la foto di un ragazzetto, biondo e dagli occhi chiari, sorrideva stringendo le redini del suo cavallino pezzato. Tutta la vita le scorse dinnanzi, sostituendosi, un’immagine alla volta, nitida e lenta, a quella custodita nella cornice d’argento.
Il corpo si riscosse dal torpore, la mente si rimise in moto. Scattò in piedi, come un pupazzo caricato a molla: Esem non avrebbe vinto, non quella volta. Leria avrebbe compiuto qualunque misfatto; sarebbe finanche scesa a patti col diavolo, pur di vincere quella guerra.
E se il prezzo fosse stato bruciare nelle fiamme dell’inferno, l’avrebbe accettato, per Miran e per sé stessa, giacché nulla sarebbe valso quanto la soddisfazione di vendicarsi per le lacrime che aveva versato.
 

*********
 

Aveva cavalcato per un paio d’ore, fino ad un promontorio a picco sul mare. Il profumo dell’oceano e la spuma candida delle onde che si infrangevano sulla scogliera, così come la folle corsa, l’avevano acquietato. L’idea di tornare in quella casa, trovarsi di nuovo di fronte a coloro che disprezzava, rimaneva, però, un pungolo che lo costringeva a temporeggiare in quell’oasi di pace che aveva scovato.
Seduto sul ciglio della rupe, le gambe incrociate, i capelli scarmigliati dal vento e la pelle inaridita, sfregò tra loro le mani sporche di polvere e sudore e si soffermò ad osservarne i palmi.
Improvvisa, come un lampo, baluginò l’immagine della mano di Ariela nella propria, come la mattina precedente.
Essa, delicata e bianca, le dita come rivoli di latte, lo ammansì, restituendogli il desiderio di tornare, per guardarla ancora; per osservare il tepore verecondo sulle gote; la voce sottile e cadenzata come le gocce di pioggia sulle foglie. Ariela sembrava così docile e sincera, da intimidire persino lui, sfacciato ed irriverente; un tale riverbero di semplicità, come la superficie trasparente di una lastra di vetro traversata dalla luce, ed, al contempo, calda e decisa, tanto da confonderlo.
Ma dopo Nubia, dopo aver messo nelle sue mani la propria anima, ed esserne stato defraudato, Eìos aveva ripreso a credere che le donne, tutte, fossero creature indecifrabili, mutevoli d’accento e di pensiero°. O, peggio, che ciascuna fosse una novella Eva, venuta al mondo per perpetrare l’originale diabolico inganno.
Eppure un laccio di seta lo legava agli occhi di Ariela, inspiegabile, e costringeva la sua renitenza, a cedere il passo ad una gentilezza ed ad una mansuetudine, propria di un animale selvaggio finalmente domato.
Sorrise di sé stesso, di tutte quelle meditazioni, destinate a rimanere sterili, che il suo cervello macchinava.
Si sollevò inspirando ancora l’aria di sale, e si avvicinò al cavallo, lasciato libero di brucare tranquillo. Gli lisciò il manto lucido ed ispido e gli sussurrò: - Mi hai reso un gran servigio, oggi. –
Montò in sella e, tirando le redini di cuoio, per suggerire all’animale il percorso, si avviò verso la tenuta, lentamente.
 

*********
 

Leria aveva atteso che la sua serva tornasse a riferire sul ritorno di Eìos nei suoi alloggi.
Aveva percorso l’intera sua camera a piccoli passi, torturando le stecche d’osso del ventaglio, mordendosi le labbra, nervosamente, al fine di macchinare un piano contro quel miserabile bastardo.
Dopo diverse ore, era giunta alla conclusione che avrebbe potuto sbarazzarsi di lui, senza troppo affanno, con il denaro. Gli avrebbe offerto qualche gioiello di famiglia, sarebbe giunta anche a disfarsi di una piccola proprietà, di cui Miran non sapeva neanche l’esistenza, pur di allontanare quel diavolo dalla sua casa e dalla felicità e l’onore di suo figlio.
Certo il pensiero che quella sgualdrina da quattro soldi avrebbe continuato a vivere, indisturbata e padrona accanto a Miran, le dava il voltastomaco. Ma era costretta a tacere per evitare uno scandalo ed un’umiliazione che avrebbero segnato per sempre il buon nome della sua casa, nonché l'orgoglio di suo figlio.
Quando Noelia le ebbe riferito che Eìos era rientrato, si decise a recarsi nelle sue stanze, premurandosi che la serva le guardasse le spalle, perché nessuno potesse scoprirla, come era accaduto, solo poche ore prima a quella sciocca di Nubia.
Bussò nervosamente un paio di volte, quando la voce di Eìos, dall’interno, la invitò ad entrare.
Il giovane rimase sorpreso di trovarsela di fronte: non la vedeva dal giorno del suo arrivo alla tenuta. Da allora, Leria aveva disertato pranzi e cene, trincerandosi dietro false e dolorose emicranie, pur di non incontrarlo.
- Buongiorno, signora. – le augurò, gentilmente, ma sempre tenendo alta la guardia. Eìos, come un animale che fiuta l’odore dell’incendio che mangia la foresta, aveva compreso che quella visita non era di cortesia: Leria l’aveva odiato, fin dalla prima volta che aveva messo piede in quella casa, di certo perché sapeva che nelle sue vene scorreva lo stesso sangue del figlio.
- A che devo l’onore di questa vostra visita nelle mie stanze? – chiese mellifluo.
- Sapete benissimo il motivo della mia presenza qui. Non fingete con me. – ribatté, decisa, rimanendo più vicina possibile alla porta chiusa, quasi volesse tenersi pronta a fuggire improvvisamente.
- Mi lusingate: non posseggo il potere di conoscere i pensieri che avete in animo. –
- Vi prego … non cercate di annebbiarmi il cervello con stupide moine! Sono qui perché voglio che lasciate questa casa, oggi stesso. – precisò, con il tono del padrone che si rivolge al servo.
- Vostro figlio mi ha chiesto di restare …  - le fece notare.
- Mio figlio è un ingenuo ed un sognatore: crede che voi siate qui per disinteressata amicizia. Entrambi, invece, sappiamo il vero sprone che vi ha spinto … -
- Mi confondete, signora. – finse, con un sorriso beffardo che la indispettiva.
- Mia nuora. Sono a conoscenza della vostra sordida relazione con lei. – spiegò con ovvietà, come se stesse parlando del più frivolo degli argomenti.
- Mi piacete, Leria: andate dritta al nocciolo! – si complimentò, accomodandosi sulla poltrona dietro il piccolo scrittoio.
- Detesto gli inutili giri di parole. Cosa intendete fare? – indagò, fredda e distaccata.
- Non avevo in mente alcunché, ad onor del vero. Volete, forse, suggerirmi voi … signora? – chiese, insolente.
- Prendete questo danaro … - gli suggerì, gettando, con disprezzo, un involucro di stoffa lucida, che ricadendo malamente sul ripiano, si aprì lasciando fuoriuscire un ventaglio di banconote. - … E’ molto più di quanto valga quella … sudicia donna! – spiegò, con una smorfia di disgusto.
- Ma non certo più dell’onore e del buon nome di vostro figlio … - suggerì Eios, ancora con lo stesso sorriso soddisfatto.
- Che altro volete, dunque? – domandò esasperata.
- E’ semplice: io vi sollevo dalla vergogna di avere per nuora una sgualdrina e voi … mi rendete ciò che è mio. -
- Ciò che è vostro, dite? – ripeté, assottigliando gli occhi, preoccupata.
- Sì, il nome che mi spetta diritto, in quanto figlio di vostro marito. – spiegò, con naturalezza.
- Il nome e cos’altro? – indagò, ancora.
- Se vi riferite alle terre ed al danaro, sono ricco di mio, signora. – ribatté.
- Immagino come abbiate accumulato la vostra fortuna … - lo schernì.
- Ciascuno si arricchisce come può: voi con il sangue dei vostri servi, io con il vostro! – le rispose beffardo, il sorriso sfacciato di chi sa di essere nel giusto.
- Mi state ricattando, dunque? -
- Io direi, piuttosto, che vi sto rendendo un favore … - la corresse.
- Avrei dovuto aspettarmelo, del resto siete un vile ed un approfittatore. – lo offese, cercando di scalfire la sua indisponente faccia di bronzo.
- Sono quello che sono! E non è certo a voi che devo rendere conto. – le ripose, con evidente insofferenza per il giudizio di lei.
- Non a me, certo, ma ad Iddio! – minacciò Leria.
Eìos scosse il capo, irridendola: - Ne ho ingannati tanti nella mia ignobile vita. Credete che, nell’ora del giudizio, non riesca ad ingannare anche Lui? – la provocò ancora.
- Giurate di lasciare immediatamente questa dimora e di abbandonare ogni interesse per … Nubia? – pose come condizione necessaria per cedere al suo spregevole ricatto.
- Avete la mia parola, per quanto valga la parola di un miserabile! – accettò, sempre con il tono di beffa nella voce.
- E sia! Avrete il nome della casa di Mikra. – gli assicurò, - Usatemi solo la cortesia di lasciarmi il tempo necessario per parlarne a mio figlio. –
- Avete due giorni, signora. – le concesse.
- Due giorni, dunque, e poi spero di vedervi bruciare all’inferno. – gli augurò, voltandogli le spalle.
- Quello che vuole Iddio, signora. - sorrise soddisfatto, e, quando ella fu sull’uscio della porta, ripeté, serio:
- Solo quello che vuole Iddio. -


 
° il riferimento è all’aria che il duca di Mantova intona nel terzo atto del Rigoletto di Verdi.


Ben trovate!
Eccoci giunti all’ottavo capitolo!
Come sempre ringrazio chi dedica il proprio tempo alla lettura di questa storia.
La vostra attenzione mi riempie il cuore.
Un ringraziamento speciale va a chi l’ha inserita tra le seguite.
Spero in un vostro commento!
Un saluto e a presto.

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Capitolo 9
*** . 9 . Confronti ***


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. 9 .


Confronti
 

Il salottino che divideva le due stanze in cui alloggiavano Ariela e la madre era in leggera penombra.
Le tende di organza bianca danzavano al vento leggero del pomeriggio inoltrato, la luce intensa del sole, ancora caldo, penetrava attraverso le persiane leggermente accostate conferendo alla stanza un’aura densa e vaporosa che induceva alla concentrazione ed al silenzio.
Asmha sedeva sul divanetto posto al centro della stanza, occupata nel ricamo, e  Nubia era in piedi nel suo ricco abito scarlatto, intenta a rimirare la propria figura allo specchio.
Ariela, infine, sedeva su di una poltroncina, accanto alla porta finestra, reggendo tra le mani un libro dalla consunta copertina di pelle. Ciocche leggere di capelli biondi, come campi disseminati di grano, le sfioravano il viso assorto. Leggeva e rileggeva la stessa pagina da diversi minuti, senza riuscire ad acquisirne il senso, tanto la propria mente si perdeva continuamente in ingarbugliati pensieri.
Era passato poco più di un giorno dalla mattina in cui aveva incontrato Eìos nel giardino e si era ferita.
Le sovvenne l’immagine della propria mano in quella di lui; l’attenzione meticolosa che egli aveva profuso nel prestarle soccorso; il sorriso che le aveva riservato nel raccomandarle di medicarsi ed, infine, i suoi occhi che la scrutavano curiosi, come se in lei cercassero qualcosa che neanche ella stessa sapeva di possedere.
Erano così ingarbugliati i propri pensieri, che abbisognava di qualcuno con cui parlarne, per districarli. Le poche amiche, con le quali aveva intessuto relazioni da fanciulla, erano ormai tutte sposate e le rare visite che si scambiavano erano di pura cortesia. A sua madre, di certo, non avrebbe mai avuto l’ardire di confidare quello strano movimento dei suoi pensieri e Nubia, pur essendo sua sorella, l’avrebbe sicuramente irrisa, come aveva sempre fatto fin da bambina, burlandosi della sua timidezza, del rispetto delle regole e dei precetti morali e cristiani, che pure erano stati insegnati ad entrambe.
Eppure a qualcuno avrebbe voluto ardentemente parlare di quello sconosciuto animale che se ne stava acquattato nel centro esatto dello stomaco, pronto a mordicchiarne e a solleticarne le pareti quando a lui pensava.
- Dov’è tuo marito? – chiese, con malagrazia, Leria entrando improvvisamente nella stanza e riscuotendola dai propri pensieri.
- Con Caled: è uscito stamane e non è ancora rientrato. – le rispose Nubia, distrattamente, senza spostare gli occhi dal grande specchio ovale.
- Sgualdrina! – l’apostrofò, avvicinandosi a passo di marcia verso di lei.
- Ma … Leria! – la richiamò Asmha, offesa ed interdetta dall’accusa gratuita che la donna aveva rivolto alla figlia.
- Zitta, tu! – la freddò, con gli occhi inchiodati sulla giovane, visibilmente scossa. – Lurida cagna, come hai potuto? Come hai potuto accettare la proposta di matrimonio di mio figlio, dopo esserti data a quell’uomo?– tuonò con la voce stridula, sferzandole il viso con il ventaglio chiuso che stringeva saldamente tra le mani.
- Madre … - supplicò, in un’implicita richiesta di ausilio, lenendo, con il palmo della mano fresca, il bruciore della guancia dolente.
- Leria non ti permetto … - si intromise Asmha, interponendo il proprio corpo a scudo di quello della figlia.
- Tu non mi permetti? – la irrise, - Tua figlia, tua figlia ha giaciuto con quel … quel pusillanime! – soffiò, come una fiera pronta ad attaccare.
- No, che dite … che dite … - cantilenò, la voce tremula tra i singhiozzi. – Non capisco a chi vi riferiate: non ho avuto altri che Miran, lo giuro! – si difese, guardando prima l’una, poi l’altra donna, - Madre, credetemi - insistette.
- Osi negarlo, maledetta. Come sei riuscita ad ingannarlo, come sei riuscita a farti credere immacolata, quando avevi già aperto il tuo ventre ad un altro? – continuò, senza esigere veramente una risposta, mentre il diavolo le si agitava in corpo, iniettandole gli occhi di sangue avvelenato.
- Chi ti ha riferito una simile infamia? – domandò Asmha, perorando la causa della figlia.
- La mia serva. – rispose secca, senza dare altre spiegazioni e continuando a fissare Nubia.
- Non è vero, non è vero, madre. Almeno voi cedetemi: è una bugia - piagnucolò, piegandosi in due e stringendosi le braccia intorno al ventre, come per contenere un dolore lancinante alla bocca dello stomaco.
- Sfacciata! Noelia ti ha finanche udito chiedergli di riprendere la vostra relazione, facendoti giuoco di tuo marito, sotto il suo stesso tetto! - 
Asmha si accasciò sul divano, portandosi le mani alla bocca umiliata e stravolta, gli occhi pieni di lacrime amarissime ed il corpo scosso da singulti frenetici. Ariela, che era rimasta impietrita per tutto il tempo, le si precipitò accanto, stringendole la mano per sostenerla. D’un tratto si sentiva profondamente in colpa per non aver rivelato quel segreto quando ne era venuta a conoscenza. Di certo avrebbe avuto la premura di usare parole accorte e pacate con la madre, che soffriva di cuore.
Guardò sua sorella, le mani a coprirsi il viso segnato dalle lacrime, il corpo spossato da una sofferenza che si ripercuoteva nel proprio, come una eco dolorosa, e ne ebbe pietà. Tutta la vita erano state distanti, sole nella stessa dimora: ciascuna col proprio carattere, ognuna con i propri desideri diversissimi e contrastanti, entrambe, probabilmente, con lo stesso bisogno di essere amate.
Le sovvenne l’amara constatazione che se, in qualche modo, fossero riuscite a farsi l’una più vicina all’altra, nel corso degli anni, se avessero scovato un filo comune tra i tanti che le separavano, forse i propri consigli avrebbero reso Nubia più avveduta e quieta e lei stessa più aperta e fiduciosa del mondo.
- Quel guitto è il figlio che il mio defunto marito ebbe da una spudorata, prima del nostro sposalizio, e tu … gli hai reso l’opportunità di costringermi a riconoscerlo. Per colpa tua, un bastardo porterà lo stesso nome di mio figlio! – continuò, battendo i pugni stretti sul tavolino.
Leria inspirò per rilasciare il livore che le si addensava malefico nel petto e, con voce innaturalmente calma, terminò: - Da questo istante, tu… - disse, puntando l’indice verso Nubia, - … non hai più alcun diritto: ti è vietato uscire dalle tue stanze, se non in compagnia del tuo sposo o sotto la mia sorveglianza; ti è negato rivolgermi la parola, se non è strettamente necessario, e, più  di tutto, ti è negato conferire con quell’uomo per qualunque motivo.
E bada, bugiarda e meretrice, non osare contravvenire a queste regole o, ti giuro, che mi vendicherò con tale accanimento su di te e sulla tua sciagurata famiglia, che non troverete luogo al mondo in cui nascondervi. – terminò, solenne ed in removibile, come il giudice che infligge la condanna a morte.
Livida in volto, ancora scossa da fremiti irregolari, senza neanche rivolgere alle altre donne i propri occhi, uscì dalla stanza, come una folata di vento gelido e mortale, lasciandosi alle spalle solo il rumore dei singhiozzi e della vergogna.
- Figlia mia … - soffiò con la voce rotta, Asmha. - Perché? – chiese sconsolata.
- E’ una menzogna, vi dico, perché non volete darmi credito? – insistette stizzita, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare. – Mi odia, quella donna mi detesta e detesta voi, madre, giacché non ci reputa all’altezza del suo nome. Sapete anche voi che ha acconsentito al mio matrimonio solo perché Miran mi ama e, vilmente, non ha osato contraddirlo. Ed ora … si serve di una bieca menzogna per sottomettermi ed umiliarci tutte! -
- Non è una menzogna, e tu continui a negare, persino adesso che sei stata smascherata. – intervenne Ariela, che nonostante la pena, non riusciva più a sopportare le sue bugie.
Si rivolse poi alla madre, alla quale teneva ancora amorevolmente la mano.
- Vi chiedo perdono, madre, poiché io sapevo, fin dal giorno in cui quell’uomo giunse alla tenuta. – confessò, gli occhi lucidi di pentimento per l’omissione. – Fu egli stesso a confidarmelo, come una belva ferita e furiosa, pronta a vendicarsi. – le spiegò, affranta.
- Perché non me lo hai riferito … - le chiese la madre, provata anche da quel tradimento.
Ariela scosse le spalle, e le rivolse gli occhi. – Intendevo risparmiarvi codesto dolore, tanto più che pareva che quell’uomo volesse tenere per sé quel segreto … - terminò.
Nubia la guardò, l’espressione di dolore e sconforto lasciò spazio alla cattiveria ed alla rabbia.
- E voi dareste credito alle ingiurie infamanti di uno sconosciuto che tutti additano come un bandito e non a me, vostra carne, cresciuta sotto la vostra guida? – si difese, tormentandosi le vesti.
- Figlia mia, io do credito alle parole di tua sorella … - la corresse, senza più dubbi davanti all’innegabile.
- Vi scongiuro, non credetele: Ariela è invidiosa di me, del mio matrimonio fortunato. Per questo mi ingiuria. – insistette, con malevolenza.
- Nubia!  … - la richiamò la madre.
- Io non provo invidia per la tua sorte … e dico il vero. Entrambe lo sappiamo. – si intromise Ariela, decisa e fiera. – La punizione che Leria ti ha inflitta è solo la conseguenza della tua sciagurata condotta. Prega, Nubia, piuttosto che accusare ingiustamente tutti tranne che te stessa. Prega, perché quell’uomo si accontenti di ciò che ha ottenuto … - le consigliò, nessun astio a colorare le parole, nessuna rabbia nel tono, altresì pacato ed amichevole.
Raccolse dalla poltrona sulla quale era stata seduta, il suo vecchio libro, lasciò uno sguardo delicato alla madre ancora stravolta, ed uscì dalla stanza alla ricerca della propria pace.
 

*********
 

Il resto del pomeriggio era scivolato pallido e assorto° : Ariela aveva lasciato sua madre a riposare nella propria stanza, ed era uscita di casa, cercando refrigerio a quei suoi pensieri stanchi, passeggiando per il giardino intorno alla casa.
La serva di Leria aveva riferito alla sua signora della visita clandestina di Nubia nelle stanze di Eìos, del suo tentativo di ripristinare la loro relazione e questo pensiero l’arrovellava, come il cibo a rosolare sullo spiedo: da qualunque verso guardasse quella verità, essa le portava il bruciore della carne che cuoce.
Non la toccava così profondamente la sfacciata proposta della sorella, quanto l’idea che Eìos fosse ancora legato a lei e che l’avesse rifiutata per ripicca, nel tentativo di renderle una pena pari alla propria, dall’istante in cui aveva saputo d’essere stato tradito.
Eccolo di nuovo l’animale silenzioso, che abitava il proprio stomaco, agitarsi al pensiero di lui, di loro insieme, dei suoi sentimenti forse ancora accesi per Nubia e dei propri, annebbiati e sconosciuti, ai quali ardeva dare un nome.
Eìos era entrato nella sua esistenza limpida e tranquilla come l’acquazzone estivo, sferzando i rami, inumidendo la terra e spargendo quell’aria acre di cose bagnate e vive. Eppure il temporale non aveva portato frescura, ma al contrario l’afa della canicola, che l’avvolgeva ogni qual volta lui la guardava.
Dopo la lunga passeggiata, si decise a rientrare: l’aria della sera primaverile era ancora troppo umida ed ella non si era preoccupata di portare con sé uno scialle che riparasse le spalle lasciate nude dallo scollo omerale dell’abito.
Aveva poi presenziato alla cena di malavoglia. La madre, così come la padrona di casa, l’avevano disertata, ed ella si era ritrovata a dover fingere leggerezza e serenità alle superficiali inutili chiacchiere degli altri commensali, nonché alle continue, urticanti lusinghe di Caled, che le sedeva accanto.
Aveva dovuto fare uno sforzo gigantesco per non congedarsi da quel desco, per contenere il fastidio per l’indifferenza di sua sorella, che non appariva minimamente  turbata da tutto ciò che era accaduto nel pomeriggio, che, di contro, aveva irrimediabilmente travolto lei. Ma più del resto, ciò che l’aveva destabilizzata era l’assenza di Eìos. Avrebbe voluto, disperatamente, guardarlo quella sera, nella speranza di scoprire, attraverso i suoi occhi, quali legacci lo stringevano ancora a Nubia.
Quando anche quel supplizio fu finalmente concluso, si rifugiò nella propria stanza, invocando il poco di pace che le avrebbe regalato il sonno, ma trovò Asmha ancora sveglia a percorrere a grandi passi la stanza, angosciata e tesa.
Le aveva consigliato di sdraiarsi, ché ella le avrebbe preparato una tisana aromatica, per indurla al sonno.
La casa era silenziosa e buia, anche i domestici, terminate le faccende, si erano ritirati ed Ariela, una mano a tirare su le vesti, l’altra a reggere una tremolante candela in una bugia d’argento, si ritrovò nel corridoio illuminato solo dalla luce della notte che penetrava dalle grandi vetrate.
- E’ piuttosto tardi. – una voce profonda alle sue spalle, la riscosse, facendola sobbalzare. – Non riuscite a prendere sonno? – continuò, facendosi più vicina.
Ariela si voltò, per trovarsi di fronte nella penombra Eìos. Il suo viso era un’immagine confusa tra il candore della camicia ed il nero della stanza senza luce. Aveva come un’aura prorompente, densa, a contornare i lineamenti puliti e seri e Ariela barcollò un po’ per la sorpresa.
- Non io: mia  madre … - rispose, ricomponendosi. – Intendevo prepararle una tisana che le calmasse i nervi.
- Ne sono dispiaciuto. – commentò, con manifesta sincerità.
- E ne avete ben donde! Dopo tutto lo sconquasso che avete provocato … – lo accusò.
- Io? – replicò, aggrottando la fronte, come il colpevole che sfacciatamente nega l’evidenza.
- Sì, voi. – confermò, dura, - Avete preteso il nome di questa casa, per tacere sulla vostra relazione con mia sorella. – precisò.
- Dunque, ora sapete che sono figlio di Esem. –  ribatté lui, quasi il disdicevole proprio operato potesse essere giustificato dalle nobili motivazioni.
- Sì … - rispose, con gli occhi che guardavano altrove.
- Non si può nascondere la verità per sempre … - ironizzò, con un mezzo sorriso indisponente. – E, comunque, ho solo chiesto ciò che è mio. – precisò, come se avesse sentito improvviso il dovere di giustificarsi con lei.
- Certo, ma lo avete fatto con il ricatto … e ciò vi rende ingiusto e abbietto e … -
- Vi prego, continuate, continuate pure … - la interruppe, incitandola a terminare l’elenco, con un gesto della mano, prendendosi gioco di lei.
- Perché voi vi burliate di me? – soffiò offesa, mentre, sfidandolo con gli occhi, si avviava verso le cucine.
- Perdonatemi, non riuscirò mai ad essere un gentiluomo e con voi, giuro, che mi dispiace. – confessò, seguendola.
- Non … eravate alla cena di stasera? – gli chiese, fermandosi accanto all’acquaio per riempire un bricco di rame con dell’acqua da bollire.
- L’avete notato?  - constatò, fintamente sorpreso, e, soffermandosi alle sue spalle, le poggiò accanto, sul ripiano di marmo, il braccio sinistro. Ariela si ritrovò, così, rinchiusa tra il corpo di lui ed il ripiano, in un angusto spazio, nel quale ella si premurava di non muoversi troppo per scongiurare il contatto.
- E’ curioso: con quel damerino che non perde occasione per assediarvi, mi meraviglia che vi siate accorta della mia assenza! – insistette ed ad Ariela sembrò più una velata richiesta d’assenso che una mera constatazione. Ella, come un uccellino la cui gabbia rimane aperta, cercò un pertugio attraverso il quale sgusciare fuori dalla morsa del suo corpo e dal respiro di lui che le solleticava l’omero scoperto dall’abito.
Si avvicinò alla madia, nella quale diversi barattoli di ceramica smaltata, contenevano spezie od erbe officinali, e scorse, con l’indice incerto, le scritte che ne testimoniavano il contenuto. Quello di camomilla era riposto sulla mensola più alta e la giovane dovette alzarsi sulle punte, puntellandosi sul ripiano del mobile, nel tentativo di raggiungerlo.
- Lasciate, faccio io. – soffiò, di nuovo alle sue spalle.
Il petto di lui sfiorò la schiena di Ariela; il braccio sinistro la circondò nella stessa morsa di prima; il destro si allungò per raggiungere la mensola, aderendo a quello di lei, rimasto sospeso a mezz’aria.
Le guance si sfiorarono, canapa e seta, i corpi rimasero l’uno dentro l’altro in un abbraccio aperto, come il mare che si insinua nel semicerchio della baia sicura.
- Non avete risposto … - sussurrò al suo orecchio.
- E voi, non avete chiesto! – riuscì a rispondere, meravigliandosi della propria prontezza d’animo.
Eìos sorrise e, sebbene Ariela non potesse vederlo, percepì il contrarsi dei muscoli del viso e la vibrazione del petto, ancora più aderente, dal quale quello stesso sorriso nasceva. Prese il barattolo e si allontanò, così come si era avvicinato. Lo posò sul ripiano, usato per la preparazione dei cibi, e poi recuperò una tazza ed un cucchiaino.
Ariela si voltò appena, poggiò le anche al mobile alle proprie spalle, soffermandosi a guardarlo afferrare il bricco di rame in cui l’acqua aveva preso a bollire; intingere meticolosamente lo spargi miele e appoggiarlo sul bordo della tazza ed, infine, versarvi sopra l’acqua fumante. Il nettare cominciò a sciogliersi in un rivolo ambrato e denso, sprigionando profumo di frutti e fiori che si liberava nell’aria insieme al vapore. 
- Vi corteggia? – chiese improvvisamente, riempiendo il silenzio che si rompeva solo col tintinnio del metallo del cucchiaino sulle pareti di porcellana.
- Caled? No! – si affrettò a rispondere, mantenendo gli occhi sulle mani di lui che, ipnotiche, mescolavano l’infuso.
- Vi corteggia! – affermò, puntando lo sguardo irriverente su di lei. – Del resto … soltanto un cieco non si perderebbe dentro i vostri occhi. – terminò, con la voce modulata e roca.
Poggiò la tazza sul vassoio, già pronto sul ripiano, e continuando a guardarla, intensamente, le consigliò:
- Non fatelo freddare … -
Si guardarono, occhi scuri come l’erba del sottobosco dentro il cielo terso di primavera; i riferimenti logici sparirono, lasciandoli sospesi nel mezzo del nulla per un attimo lunghissimo, fino a che egli si voltò, così lentamente che Ariela riuscì a percepire il fruscio leggero della stoffa della camicia.
Raggiunse la porta, che dalle cucine dava sull’aia, e, apertala, si fermò.
- Buonanotte, Ariela. – le augurò, ancora di spalle, e ruotando solo il capo verso di lei. 
- Buonanotte.  – ripeté meccanicamente, scrutando il suo profilo perso nel contrasto tra il buio della notte e la tremula luce del candeliere.
 

*********
 

Camminò ancora per un poco nel silenzio della sera. Il buio si addiceva alla sua anima nera.
Giunto alla fontana sul limitare del giardino, immerse la testa sotto il getto freddo e, quando i capelli furono completamente bagnati, la spinse all’indietro, inarcando la schiena poderosamente, tanto che l’acqua, dalla cute si propagò fino alle punte, disperdendosi in una miriade di gocce che gli inzupparono la camicia.
Il profumo di lei, impregnato nella trama del tessuto, si liberò nella aria che lo circondava: acqua infusa a petali di rose.
E questo gli piacque, come la prima volta.
Lo fece sorridere la capacità di Ariela di tenergli testa: il rossore sulle guance, miscuglio fine tra imbarazzo e fierezza; gli occhi ora timidi, ora intriganti e quel rumore sottile, che gli ronzava dalle tempie al centro esatto del corpo, quando li incrociava.
Quell’intimo trambusto gli ricordava, inesorabilmente, che il suo cuore era ancora vivo, sanguinante e lacero, ma vivo e ciò non era un bene.
Poiché quando ti accorgi di essere ancora vivo, scopri pure che puoi ancora morire.
Così era accaduto ogni qualvolta avesse ceduto il corpo alla mercé dei sentimenti: quando aveva anelato il calore di una famiglia; quando fame e freddo lo avevano umiliato; quando gli insulti e la solitudine gli avevano occupato il petto dolente. Così era accaduto con Nubia.
Valeva la pena dolersi ancora per il ventre di una donna, per la sua carne calda?
Era sicuro di no: né per il ventre, né per la carne, giacché sapevano essere incantatori, come la voce delle sirene. Ma per il cuore sì, valeva la pena. Per un cuore vergine e pulito, vale sempre la pena morire.
Uno schiocco improvviso lo ridestò dai suoi pensieri attorcigliati, così come fanno i cani bagnati, scrollò il capo per liberarsi dalle ultime gocce che gli scorrevano addosso ed, inspirando, si avviò verso casa.
- Ah, sei qui finalmente! – lo accolse Elmisk, che trovò nel suo studiolo. – Ti aspetto da questo pomeriggio…-
- Ho cavalcato. – rispose secco.
- Hai disertato la cena, mi ha preoccupato la tua assenza. – continuò.
- Non sono più un ragazzino, non dovete stare in pena per me. – ribatté, togliendosi di dosso la camicia zuppa.
- Non sei mai stato un ragazzino, ed io mi sono sempre dato pena, comunque … - precisò, risentito.
Eìos versò l’acqua nel catino di ceramica e cominciò a detergersi il viso ed il petto, indifferente.
- Avrò il nome di questa casa. – lo informò, deviando bruscamente il discorso.
- Come sei riuscito a convincere la signora? – chiese, interdetto. Conosceva quella donna: era insensibile e dura quanto una pietra, tanto da scacciarlo, senza pietà, dopo la morte del marito. Non poteva certo, in tutti quegli anni, aver sedato il disprezzo per Eìos, che gli ricordava costantemente dolore e tradimento.
- Diciamo che io e lei siamo in affari! – ghignò, asciugandosi le mani ed il volto.
- Eìos! – lo richiamò, perché fosse più esplicito.
- Padre? – ribatté, dissacrante.
- Non mancarmi di rispetto e rispondi! – lo riprese con autorità paterna.
- Le ho assicurato il silenzio sulla mia relazione con sua nuora e lei mi ha … “concesso” il nome di suo marito. – l’accontentò.
- L’hai ricattata, figlio? –
- Perché mai usate tutti quella parola? – chiese retorico, riferendosi prima a Leria, ad Ariela poi, ed infine al dottore.
- Perché è proprio di questo che si tratta: ricatto! – precisò, alzandosi in piedi per acquisire maggiore autorevolezza. – Ti rendi conto di quale crimine ti sei macchiato? – insistette.
- Vi prego … - rispose con fastidio, - Ho mentito, ho contrabbandato, ho rubato … - non sono un giglio bianco innanzi all’altare del santo! – gli ricordò con spietata sincerità.
- Eri un ragazzo; eri solo, allora. Lo hai fatto per bisogno. – lo giustificò pieno di paterna comprensione.
- Un reato è un reato comunque: non fa alcuna differenza se rubi un tozzo di pane per non morire affamato o una saccoccia piena d’oro per riempirti le tasche! – precisò, - Pretendo quel nome perché mi appartiene!– ruggì, come una belva alla catena.
- Il mio non ti basta, vero Eìos … Non ti basterà mai! – commentò deluso e affranto, accasciandosi nuovamente sulla poltrona.
- Non conta quale nome io porti o quale sangue mi ingrossi le vene, voi siete mio padre. Voi solo, sarete sempre mio padre … - cercò di rassicurarlo, come un figlio amorevole. – Ma per riconciliarmi col mondo … devo avere ciò che è mio. Comprendetemi, ve ne prego … - lo supplicò, accovacciandosi davanti a lui e sollevando il capo per guardarlo in volto. - Lo avete sempre fatto, dalla notte in cui mi trovaste. Lo avete fatto contro tutti quelli che mi chiamavano ladro e bugiardo; quando dicevano di me che sono senza misura, né giudizio … Fatelo ancora, padre, fatelo adesso, anche se, come uno stolto, continuo a perseguire la via sbagliata. Fatelo perché sono io, sono sempre io, vostro figlio. – terminò, chinando il capo.
Gli occhi di Elmisk si inumidirono, una lacrima solitaria si insinuò tra la pelle rugosa; strinse le mani, che suo figlio gli aveva poggiato sulle cosce, e sollevandosi, lo invitò a fare altrettanto.
- E sia, Eìos … sia ciò che vuoi. Ma giura che dopo questo, dopo aver ottenuto il tuo nome, t’acquieterai. Non cederai più alla rabbia ed alla vendetta e farai tutto il necessario per imbastire un rapporto amichevole con tuo fratello! – gli chiese, accorato.
- Ve lo giuro: se Miran vorrà, io sarò suo fratello! –

 


° Il verso è una citazione dall' incipit della poesia lirica di Eugenio Montale Meriggiare, contenuto nella raccolta Ossi di seppia.

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Capitolo 10
*** . 10 . Il velo caduto ***


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. 10 .
 


Il velo caduto

 
Rimuginare non serviva, temporeggiare nemmeno.
Leria era sempre stata, in tutta la vita, il perfetto condottiero che schiera con arguzia i propri soldati, indi sapeva che la mossa successiva era continuare ad attaccare.
Avrebbe parlato a Miran con cautela; gli avrebbe prospettato quella, che per lei, era stata la necessità di soccombere ad un ricatto per salvaguardare il suo nome, come un atto cristiano dovuto, nei confronti di un reietto.
Camminò decisa per il corridoio, una mano sul petto, il cervello a ripetere le parole che avrebbe usato.
Incrociò Caled che, proprio in quell’istante, lasciava lo studio del figlio e, dopo aver risposto con un cenno del capo al riverente saluto di lui, proseguì per fermarsi un solo ultimo istante, prima di bussare alla porta.
- Madre … - la invitò a sedersi, con un gesto garbato del capo. – Non vi ho veduta alla cena di ieri e Noelia mi ha riferito che non avete presenziato alla colazione di stamani. – le disse, con preoccupazione.
- Le mie solite emicranie, figliolo. Ma ora sto meglio. – lo rassicurò, accomodandosi.
- Me ne compiaccio. Avrei voluto farvi visita, ma gli impegni della tenuta ed i miei doveri di ospite, mi hanno trattenuto. – si giustificò.
- Non importa: conosco la mole di lavoro che l’essere padrone comporta. – ribatté, riferendosi agli anni, durante la sua adolescenza, in cui aveva sapientemente amministrato da sola i suoi beni.
- Sapete, madre che Caled mi ha confidato che vorrebbe prendere in moglie Ariela? –  
- Che sciocchezza, Miran! Tua cognata non ha dote. – rispose, distrattamente.
- E non ritenete anche voi, madre, che sia una vergogna che una donna bella, dolce e morigerata come lei debba rimanere nubile, o sposare un uomo inferiore, per una mera questione economica? – le fece notare.
- E’ così da sempre, figliolo, non puoi certo porvi rimedio tu! –  replicò, mostrando poco interesse per l’argomento.
- Invece posso. Darò ad Ariela una dote degna del proprio rango, così che Caled possa sposarla. – precisò.
- Ma se neanche tua moglie ha portato una simile dote … - replicò, acida, e il sangue affluì copioso alle gote, per il livore che solo pronunciare il nome di quella donna le provocava.
- Invece Ariela l’avrà: quale marito di sua sorella ed unico uomo della famiglia intendo farmi carico di lei, alla stregua della mia sposa. Spero, madre, di poter trovare il vostro consenso! –
- Sai che ti appoggerò sempre. – lo rassicurò, mostrandosi accondiscendente, per preparare il terreno alla propria rivelazione. - Ma, ti prego, ho affari più urgenti di cui discorrere con te, figlio. –
- Ditemi, pure … - la invitò, con garbo, sistemando le carte confuse, che ricoprivano la scrivania.
- Ciò di cui ho in animo di parlarti è una questione piuttosto delicata … Ma prima di iniziare volevo che tu sapessi che ogni cosa, ogni cosa, che ho fatto è stata per preservare te. – temporeggiò, poggiando le mani sul petto, preoccupato.
- Madre, vi prego, mi inquietate … -
- Tuo padre, quando non eravamo ancora promessi, ebbe un figlio … un figlio illegittimo, da una donna già maritata. Egli non seppe del bambino, fino a che il marito di lei non lo scoprì e lo scacciò, togliendogli il cognome. Esem lo accolse nella nostra casa, quando egli era già un giovinetto. Avrebbe voluto riconoscerlo, ma la sorte gli fu avversa: morì prima di compiere il proprio dovere di cristiano e di padre. Quel bambino … - si fermò, traendo un sospiro, - E’ Eìos, figlio mio! – concluse, distendendo i muscoli tesi del viso.
- Madre … -
- So che avrei dovuto raccontarti ogni cosa fin da allora, ma ebbi paura che tu potessi rimanere deluso da tuo padre, che veneravi quale un dio … E poi negli anni, più volte, il desiderio di esaudire le volontà di Esem mi spinse a cercare ancora quello che ormai era un uomo, ma in tutti i frangenti, mi tirai indietro, temendo il suo risentimento ed il tuo per aver agito troppo tardi … - mentì con enfasi, per giustificare la sua abietta omissione. - Ma ora che egli è qui, nella casa che è tua, e non ha nome … io … ho sentito prepotente il dovere di fare ciò che omisi dieci anni fa. Ti chiedo perdono, Miran, ma onorare gli impegni disattesi del mio sposo, la carità cristiana ed il rispetto di me stessa, mi impediscono di perpetrare oltre una simile ingiustizia. –
Il giovane tacque, gli occhi vacui, ritratto doloroso del proprio sgomento.
- Di’ qualcosa, Miran … - cercò di riscuoterlo Leria, tremante.
- Egli ne è al corrente? – chiese, inspirando.
- L’ha sempre saputo. – rispose, con un filo di voce.
- Ho bisogno di stare solo … - fu la risposta dell’uomo, che si teneva, mestamente, il capo tra le mani.
- Guardami, almeno, figlio mio. – lo supplicò, gli occhi puntati sui suoi capelli chiari e le dita sottili che si perdevano tra di essi.
- Madre, vi prego, state quieta: non mi opporrò alla vostra decisione caritatevole di riconoscere Eìos, tantomeno vi porterò rancore per aver taciuto sino ad ora. Ma, per l’amor di Dio, lasciatemi solo, adesso! – le chiese stanco, come dopo una fatica fisica insopportabile, la voce alterata dallo sconforto.
I pensieri di Miran erano confusi, una matassa aggrovigliata; mente e cuore si perdevano in una nebbia densa, dentro la quale egli brancolava. Aveva amato Eìos, dal giorno in cui era entrato nel cortile della tenuta: una camicia ingrigita dalla polvere della strada; dei calzoni dagli orli laceri, troppo corti per un ragazzo alto ed ossuto come lui; gli occhi verdi bui e le mani graffiate e tormentate dalla povertà.
- Vieni … - lo aveva invitato, con la naturale propensione all’amicizia, tipica dei fanciulli - Ti porto a vedere il mio cavallino! –
Ed Eìos gli era andato dietro senza aprire bocca, spiazzato dall’accoglienza che Miran gli aveva riservato.
L’aveva amato come un amico speciale, fino a desiderare che fosse suo fratello.
Ma ora che sapeva che lo era davvero; che lo stesso sangue viaggiava, vitale, nelle vene di entrambi, si sentiva vacillare, come nello sferzare del vento di bonaccia.
Si accorse che la madre si sollevava dalla sedia davanti alla scrivania, dal fruscio delle vesti di raso; la sentì giungere sulla soglia dello studio con incedere lento; indugiare, animata dalla speranza che egli la richiamasse a sé, e solo quando ella, rassegnata, si accinse ad andar via, le parlò:
- Giuro sull’anima di mio padre, che sarò degno dei suoi propositi: se Eìos lo vorrà, egli sarà mio fratello. –
mormorò stancamente ed il cuore di Leria, in quell’istante, annegò nel suo stesso veleno.
 
*********
 
La brezza profumata dell’erba falciata di fresco, riempiva l’aria del tardo pomeriggio; il frinire delle cicale si confondeva con il fruscio delle foglie più alte, la luce del sole era ancora calda e riverberante, nonostante il tramonto imminente colorasse già il cielo di rosa e d’arancio, sapientemente mescolati, come sulla tavolozza di un pittore.
Ariela sedeva sulla panca, un libro tra le mani ed i pensieri assorti. L’abito che indossava le lasciava scoperta la pelle della schiena, le stringeva la vita sottilissima, esaltando la generosa scollatura. Il viso, chino sul grembo, era incorniciato da ciocche ribelli di capelli, che sfuggivano ad una treccia adagiata sulla scapola destra, come un rivolo di miele mescolato al candore del latte.
Eìos si fermò ad osservarla: le sopracciglia sottili che si aggrottavano, in un’espressione seria ed attenta; la bocca piccola e rossa, che ella tormentava con i denti, inconsapevole e sensuale, e le mani che lisciavano le pagine del libro, come la pelle di un amante.
- Aspettavate me? – le chiese, piegandosi sul fianco per portare il viso all’altezza di quello di lei.
- Cosa? – rispose, sorpresa, accorgendosi solo in quel momento della sua presenza, e sollevando gli occhi per incontrare quelli di lui.
- Siete sola, nella parte più riparata e solitaria del giardino,  vicino alla fontana dove ci siamo già visti. Ho sperato che foste qui per incontrare qualcuno: me, forse? – sorrise e sedette, di fronte a lei, a cavalcioni sulla panca di granito.
- Siete presuntuoso. – lo beccò, con un’adorabile smorfia della bocca.
- Sì, lo sono. Ma voi non crediate di eludere la mia domanda con i vostri complimenti. –
- Sono qui per leggere. – rispose, mostrando il libro che aveva richiuso tra le mani.
- Un romanzo d’amore, presumo. – replicò, sporgendosi verso il grembo di lei, per leggerne il titolo.
- Siete tra quegli uomini che ritengono una donna capace di dedicarsi solo a quel tipo di letture? – ribatté risentita. Fin da fanciulla aveva dovuto giustificare od anche nascondere il proprio amore per i libri, poiché né la famiglia, né la società in cui viveva, ritenevano quel tipo di interesse  appropriato ad una giovinetta. Ella aveva sempre creduto, di contro, che la lettura aprisse mente e cuore, che permettesse di vedere l’invisibile. L’insinuazione di Eìos l’aveva infastidita, così come tutte quelle cui aveva dovuto ribattere. Anzi era stata ancora più pungente, giacché egli le era sembrato un uomo dalla mente aperta e lungimirante.
- Non considero le donne inferiori agli uomini, né per cultura, né per forza d’animo o carattere, se è questo che mi state chiedendo. Sono solo dell’opinione che sia più proficuo leggere ciò che non si conosce, così da poter imparare … - la contraddisse, con naturalezza.
- Dunque, pensate che debba leggere d’amore poiché ne sono a digiuno? – replicò, le guance arrossate di imbarazzo per l’argomento, e stizza per la supponenza che egli le mostrava.
- Sono in errore, forse? – la provocò, una voce suadente a condire lo sguardo irriverente che la accaldava.  
- So quanto basta! – si difese, decisa, come se davvero fosse una donna di consumata esperienza.  
- “Quanto basta” è una misura insufficiente per l’amore … - scosse la testa, sorridendole.
- Di contro, voi sareste un maestro in tal campo? – lo sfidò  a sua volta, sguardo e parole pronte a prendersi il rispetto dovuto.
- Mi state chiedendo di insegnarvi? – insistette, ancora quella voce pungente e dolce come miele vischioso.
- Siete un insolente –  ribatté, rivolgendo lo sguardo verso un punto indefinito del giardino aperto davanti a sé.
- E voi un’ingenua. – perseverò, le labbra sottili distese in un sorriso incantatore e gli occhi insistenti.
- E  questo vi da il diritto di ridere di me? – si infervorò, tornando a guardarlo.
- Non rido di voi. Mi stupisco della vostra ingenuità, mi commuovo della maniera mirabile che avete di guardare il mondo e le persone, sempre dalla prospettiva migliore, così come farebbe una bambina senza malizia. Ciò mi intenerisce e, improvvisamente, mi fa dolere di essere senza più candore, io che non ho mai avuto pietà o creduto a niente.
Voi mi stordite … e mi ferite: sradicate le mie convinzioni su questo mondo inospitale e sul mio prossimo bugiardo; me le mostrate come le idiozie inconcludenti di un uomo ferito, che continua a mentire a sé stesso.
Se non mancassi di cuore, Ariela; se pensassi di saper cambiare, se sapessi che non vi recherei alcun male … io credo che mi innamorerei! – le confessò, con uno slancio di sincerità, stupefacente persino per sé stesso.
Con nessuna mai si era spinto così oltre, neppure con Nubia, che pure aveva creduto di amare.
Ma il cuore è un viandante ostinato, continua a camminare, anche scalzo, incoscientemente, pronto alla scelta meno coerente, all’idiozia più distruttiva, per un attimo di sterile felicità.
- E … chi dice che mancate di cuore e che non sapreste cambiare? – ribatté, le parole veloci, come il battito d’ali di un colibrì, la voce decisa ed il cuore, di contro, incerto e così lento e silenzioso da non accorgersi d’averlo ancora in petto.
- Tutti quelli che mi conoscono … - le rispose secco, - … e non mi importa! – aggiunse.
- Non tutti. – lo corresse, riferendosi al dottore e forse un poco pure a sé stessa.
- Se è ad Elmisk che vi riferite … - parve leggerle nella mente, - Egli è solo un padre che vorrebbe il figlio degno del proprio amore. –
- Voi siete degno …  - una rassicurazione sincera, inestimabile.
- Vedete che ho ragione: siete un’ingenua! – ribatté lui, in un gioco sapiente di attacchi e rese.
- Volete insegnarmi voi? – replicò, una sconosciuta, prepotente padronanza di sé, una incomprensibile voglia di imparare davvero.
- Non mi provocate, Ariela: non posseggo le redini di ciò che conservo dentro. In verità non so né cosa sia, né quale potere abbia … - l’avvertì serio, sfregandosi i palmi aperti delle mani sulle cosce, come se prudessero. - … E non mentivo prima: se dovessi scoprire che ciò che dicono di me è una menzogna, come voi sostenete, se scoprissi d’avere cuore … davvero mi innamorerei. –
Ariela rimase ferma, il respiro lento come se l’aria fosse carente ed ella ne dovesse razionare le scorte, per resistere più a lungo possibile.
Nessun uomo mai le aveva parlato così, nessuno aveva mai usato simili frasi incantatrici.
Ad onor del vero, Ariela non avrebbe mai creduto che nel mondo fuori dai sospiri da giovinetta sognatrice, le parole lette nelle odi dei suoi poeti potessero avere voce e volto.
Eìos si sollevò, porgendole la mano per aiutarla a fare altrettanto.
- Venite, vi riaccompagno, l’aria di questo luogo mi rende troppo … loquace! – ironizzò, con la mano tesa verso di lei, il palmo aperto e rivolto verso l’alto e tutte le piccole cicatrici esposte, come l’anima.
Ariela vi poggiò la propria, e prima che facesse leva sulle gambe per alzarsi, Eìos la attirò a sé, portandosi tutto il peso del corpo di lei contro il proprio.
Si ritrovarono così, l’una dentro l’altro, in un abbraccio tenero e caldo che confondeva entrambi.
Ariela poggiò le mani aperte sulle braccia tese di lui, ruotando solo il capo di lato, quasi temesse di incrociarne gli occhi, ed Eìos, le dita a sfiorarle la pelle delle scapole nude, le posò la punta del naso sulla guancia rossa di sbandamento. Inspirò il profumo della pelle, effluvio di acqua di rose, ed insieme all’aria, costretta nei polmoni, liberò le parole:
- State tremando … - chiese morbidamente, solleticandole la pelle col respiro.
- Vi prego, non mi stringete così … – gli chiese in una supplica confusa tra il desiderio di rimanere dentro quella tana ed il timore di essere ormai in trappola.
- Prima lezione: non provocate mai un uomo, Ariela, né con le parole, né con gli occhi, se non volete essere stretta così. – le mormorò, vicinissimo all’orecchio.
La giovane si divincolò ed Eìos allentò la stretta per lasciarla andare. Ella corse via, inseguita dagli occhi di lui, pace e guerra nel suo petto, ed al centro esatto del corpo un desiderio sommesso di toccarla ancora.
 
*********
 
Rientrò in casa come se qualcuno l’avesse inseguita: il fiato corto, le gambe affaticate, le dita strette a tirar su le vesti, per muoversi più agilmente.
Le parole di Eìos le risuonavano precise, dentro la testa, come l’eco in una valle, urtavano contro le tempie, premevano sulle vene, facendole pulsare.
Si richiuse la porta alle spalle, poggiando il proprio peso su di essa, le guance rosse, come mele, e lo sguardo assente e meditabondo.
- Figlia mia, dove sei stata? – l’accolse Asmha, che l’aspettava seduta comoda sul letto di lei.
- Ho passeggiato, madre, e poi mi sono soffermata sul limitare del giardino, a leggere. Avevo bisogno di rinfrancarmi dalla giornata passata e dalla notte insonne. – spiegò ed, in quell’istante, le sovvenne d’aver lasciato il libro sulla panca, ed insieme a quel pensiero, riecheggiarono ancora le parole di lui, come una cantilena promettente.
- Siedi qui, Ariela, accanto a me. – la invitò, con un colpetto della mano sul copriletto candido, – Voglio parlarti di un affare importante. –
- Cos’altro di funesto ancora ci ha riservato la sorte? – domandò, senza voler davvero conoscere la risposta.
- Nulla di cui preoccuparsi, per grazia di Dio. E’, piuttosto, una buona cosa … - cercò di tranquillizzarla la madre, con tono amorevole.
- Vi prego, ditemi. – la esortò, avvicinandosi a letto per sedervi.
- Caled ha manifestato il desiderio di prenderti in moglie. – rivelò, con un sorriso smagliante, come se il matrimonio potesse alleviare le pene che le vessavano per via di Nubia.
- Non ho mai avuto in animo di sposarmi, lo sapete. – ribatté, con una smorfia. – Ed inoltre non ho una dote sufficientemente appetibile. – aggiunse, perché la madre si acquietasse.
- Non angustiarti per questo inconveniente: Miran si offerto di porvi rimedio, largamente! – replicò soddisfatta.
- Madre! Non voglio che mio cognato si accolli un tale peso … e non voglio sposare Caled! -  ripeté, disgustata poichè la madre, pur di assicurarle una fede al dito, aveva accondisceso ad una così umiliante offerta. Tanto più che accettare il danaro di Miran avrebbe significato anche accettare il consorte scelto da altri per lei.
- Ma egli è un gentiluomo, buon nome ed ottima educazione, cara. – argomentò, - E’ un partito che nessuna giovinetta in età da marito si lascerebbe scappare. –
- Proponetelo a qualche altra, dunque! – replicò, indisponente.
- Ariela! – la redarguì.
- Madre, vi prego, sapete cosa penso di un certo tipo matrimoni: nessun incontro di anime, poco rispetto, niente amore. – spiegò, puntuale.
- Amore e rispetto sono una conquista della quotidiana convivenza … - fu la risposta della donna, elargita con saggezza materna.
- La complicità forse, l’affiatamento … ma non l’amore ed il rispetto: essi nascono con il primo tocco dell’anima. -  la corresse Ariela, sicura come se di amore, rispetto, complicità avesse avuto davvero esperienza.
- Figlia mia … - le sorrise, come ad una bimba ingenua, - Ti perdi nelle rime suggestive dei poeti … la vita è tutt’altro affare. – continuò, scotendo il capo.
- Forse avete ragione voi o, forse, sono io ad essere sulla retta comprensione delle cose … ad ogni modo, non intendo sposare. Non Caled, comunque … - terminò, le dita intrecciate in grembo ed uno sbuffo di insoddisfazione.
- E cosa pensi di fare quando il Signore mi chiamerà a sé? – giocò la sua ultima carta per convincerla.
- Madre, non voglio parlare ora di quel giorno … - disse, sollevandosi ed avvicinandosi allo specchio ovale che duplicava tutta la propria figura.
- Ma è in giovinezza che si pensa alla solitudine della vecchiaia. – insistette Asmha.
- Non voglio parlare ora di quel giorno. – ripeté, - E non voglio sposare Caled. Sono così in pena per ciò che è accaduto … che non riesco a distogliere il pensiero. – disse, anche se, in verità, la sua mente si dedicava solo ad Eìos. - E se quell’uomo non si acquietasse, se per vendetta rivelasse tutto a Miran … e se Nubia lo provocasse ancora, se cercasse di stringere di nuovo il loro legame? – sciorinò mille domande tutte d’un fiato, senza distogliere gli occhi dal proprio viso, sul quale si riflettevano tutti i suoi timori.
- Credi che tua sorella sarebbe così sciocca e dissoluta? –
- Avete udito le parole di Leria: ella ha avuto l’ardire di entrare di nascosto nelle stanze di quell’uomo già una volta … cosa potrebbe impedirle di farlo ancora? – chiese più a sé stessa che alla madre.
- Oh, Vergine Santa! Sarebbe la fine della nostra esistenza! Se ci fosse una maniera di persuaderla a portare giudizio. – esclamò, il fazzoletto di trine bianco sulle labbra.
- L’unica possibilità, madre, è che io sposi Eìos … - affermò, non un tremito nella voce e, di contro, nel petto il soqquadro dopo l’uragano.
- Eìos? Hai perso il senno, dunque? Come puoi rifiutare la proposta di un gentiluomo del calibro di Caled per offrirti ad un bandito come quell’uomo, con un passato discutibile, sporco di crimini abietti e finanche senza un nome? –
- Dimenticate, madre mia, che egli porterà presto il nome di questa casa. – le fece notare, precisa come nel risultato di un calcolo.
- Questo non farà mai di lui un gentiluomo! – replicò, sollevandosi severa per imporre la propria autorità.
- Né il nome, né il sangue rendono nobili, madre, ma solo l’anima …  Se volete che prenda marito, lasciate che sia io a scegliere a chi accompagnarmi per la vita. – terminò, con un tono risoluto che non ammette repliche.
- Non acconsentirò. Mai! – ribatté severa ed irremovibile.
- Giacché non mi date scelta, né mi offrite il vostro aiuto, sarò io stessa ad occuparmi di questo affare! – terminò decisa e, dopo aver dato alla sua figura, riflessa nello specchio, un ultima confortante occhiata, lasciò la stanza e la madre stupita.
 
*********
 
Aveva rigirato tra le mani quel vecchio libro dalla copertina consunta, le lettere del titolo, stampigliate in oro, rilucevano come un tesoro, sulla pelle scura. Si chiese più volte che nome dare a quello stolto che aveva parlato con tanta franchezza ad Ariela, come se d’improvviso uno sconosciuto si fosse preso la sua bocca e vi avesse soffiato dentro le parole. Aveva parlato una lingua strana, quello sconosciuto, come uno straniero; aveva parlato di cuore e di tenerezza e di amore.
E tutto, agli occhi di Eìos, sarebbe sembrata pura vena di follia senza radici; immaginazione sfrenata, senza fondamenti, se egli stesso non avesse sentito attaccato ancora addosso quel fremito torturatore della carne e dell’anima, che lo aveva investito e trascinato come il vortice del ciclone.
Lasciò scorrere sotto i polpastrelli le pagine ingiallite del volumetto, sino ad una più consunta delle altre, e ne lesse alcun righe, a voce bassa, come se stesse profanando un segreto.
 
 
“- : Codesto è bene amore … -
- : Oh, questo sentimento che mi invade, terribile e geloso, ma tuttavia non egoista,
è certo amor: ne ha tutto, tutto il triste furore … -”°
 
Come la folgorazione sulla via di Damasco, gli apparve chiaro, come luce, il nome che cercava.
- Amore? -  si chiese trattenendo un respiro, mentre si dirigeva nelle sue stanze.
- Signore, perdonatemi. – si sentì chiamare dalla voce rauca di un inserviente. – Il padrone richiede la vostra presenza nel proprio studio, per parlarvi. – gli comunicò, con una riverenza misurata.
- Riferitegli che sarò da lui tra pochi minuti. – gli rispose, aprendo la porta della camera.
Posò il libro sullo scrittoio, avendo cura che rimanesse aperto alla pagina che stava leggendo, e si diresse verso  il catino. Vi versò dell’acqua, con cui si deterse il viso, e cambiò la camicia, che aveva indosso, con una fresca e pulita.
Inspirò lentamente, e, sgombrando la mente da ogni altro pensiero, si diresse allo studio di Miran.
La porta era spalancata, Eìos bussò sullo stipite, richiamando l’attenzione del padrone di casa. Quest’ultimo lo invitò ad entrare, con un gesto della mano e, quando fu vicino alla scrivania, Eìos disse:
- Mi hanno riferito che volevi vedermi. –
- Perché non me lo hai mai detto? – chiese Miran, senza temporeggiare: di tempo ne avevano sprecato anche troppo.
- Non spettava a me, ma a nostro padre. – rispose distaccato, accomodandosi sulla poltroncina e accavallando le gambe.
- Ma egli è morto prima di farlo … spettava a te ché sapevi! – insistette.
- E quando avrei dovuto farlo? La tua signora madre mi ricacciò nella fogna da cui venivo, lo stesso giorno del funerale: ella non gradiva che il puzzo del mio sangue sporco infestasse la propria casa!  – lo provocò.
- Lascia mia madre fuori! – l’avvertì.
- E tu non scaricare le sue colpe su di me. – replicò, la stessa aria di sfida di Miran.
- Avresti potuto farlo quando giungesti qui, alla tenuta.–
- Non aveva più importanza … - affermò, laconico.
- E perché hai accettato il nome, quando mia madre te lo ha offerto, dunque? –
Eìos abbozzò un sorriso, pensando alla maniera in cui aveva definito l’accordo con Leria: esso era tutto tranne un’offerta spontanea.
- E come si può declinare un dono profferto con tanta caritatevole generosità? – chiese, con tono ironico e provocatorio.
- Eìos, rispondi, dannazione! – alzò la voce, Miran esasperato, battendo il pugno chiuso sulla scrivania.
- Perché è mio! – rispose deciso, gli occhi fissi in quelli dell’altro, - Ma non temere, da te non voglio altro! Appena le procedure burocratiche saranno espletate, uscirò dalla tua vita: non ho intenzione di farne parte. – rivelò, piatto, sollevandosi.
- E le terre? Ed il danaro che ti spetta? – chiese, con insistenza.
- Te le puoi tenere le terre, così come il danaro. Non mi interessano: posseggo quanto basta per vivere come voglio … -
- E la nostra amicizia? – insistette, e per un attimo, il bagliore di quel ragazzino di tanti anni prima tornò ad accendersi negli occhi chiari di Miran.
- Puoi tenerti pure quella. C’è stato un tempo in cui vi ho creduto, come un bambino sciocco alle fiabe. Ma poi ho patito fame e freddo, sputi ed umiliazioni e sono diventato uomo e non vi ho creduto più! – si costrinse a mentire, seppure con dolore.
- Non saremo mai fratelli … - disse Miran, un tono confuso tra la costatazione dell’amara verità ed il desiderio di essere in errore.
- Il sangue non basta … - gli rispose, contravvenendo alla promessa fatta ad Elmisk. Il prezzo per quel nome tanto agognato era rinnegare il proprio sangue, come aveva pattuito con Leria.
Bastardo il destino: dà e toglie; illude e sgomenta; esalta e precipita!
- Già … - ripeté Miran, - … il sangue non basta! –

 
 
° Brano tratto dal Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand del 1897 atto III scena VII.
 

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Capitolo 11
*** . 11 . Grandi speranze ***


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. 11 .
 

Grandi speranze

 

Una parte di sé, sempre più ingombrante, un respiro alla volta, prendeva il sopravvento sul raziocinio, sulla propria stabilità emotiva, sull’assennatezza, che da sempre guidavano i propri passi.
Come avrebbe potuto biasimare sua madre che non comprendeva il gesto che si accingeva a fare, dal momento che neanche ella stessa ne possedeva la giusta misura?
Ogni volta che nella testa si affacciavano le parole di lui, i suoi occhi, le mani e quel profumo irriverente di muschio, quella parte di sé si espandeva, prendeva il sopravvento e decideva per lei.
Come nell’istante in cui aveva detto a sua madre che avrebbe sposato lui e non l’altro. Come in quello stesso momento, in cui si dirigeva decisa, a passo di marcia, a cercare il dottor Elmisk perché le facesse da intermediario.
Non sapeva ancora dove avrebbe trovato la sfacciataggine per una simile richiesta, ma non se ne dava alcuna pena: avrebbe lasciato fare all’altra sé, quella senza paura, che poco prima aveva affrontato la madre Asmha.
- Cercavo di voi, dottore: per parlarvi di una questione molto delicata. – gli disse, trovandoselo, finalmente, di fronte, nel salotto.
- Ditemi pure, Ariela. Non si tratterà della vostra salute, spero: siete così pallida e sembrate preoccupata. – le chiese, invitandola a sedersi con lui.
- No, no, godo di ottima salute. Non abbiate timore … - lo rassicurò, torcendo il fazzoletto tra le dita, come una lavandaia il bucato sciorinato. – Ciò di cui intendo parlarvi è di tutt’altra natura, sebbene sia la cagione della mia ansia. –
- Sapete che nutro per voi e per la vostra signora madre grande e radicata stima, fin da quando vostro padre era ancora in vita. Potete dirmi tutto, tranquillamente. – disse confortante.
- Caled … mi ha chiesta in sposa e mia madre acconsente al matrimonio, giacché lo considera un gentiluomo ed un ottimo partito. – cominciò, prendendo la strada più tortuosa per giungere alla sua meta.
- Non posso che essere d’accordo, sebbene con Caled non spartisca molte idee ed opinioni, come avrete notato. – le spiegò, con un mezzo sorriso, riferendosi alla discussione di qualche sera prima.
- Io, però non nutro per lui alcun interesse e ciò mi ha spinto a rifiutare la sua proposta … -
- Avete agito con senno, Ariela: stima e rispetto sono la prima pietra sulla quale posare le mura di uno sposalizio. –
- Sì, lo credo anche io, ma … vedete, io vorrei comunque prendere marito. –
- Se state pensando a me … - disse in tono giocoso, - Credo di essere ormai troppo maturo per voi. – concluse per stemperare l’imbarazzo evidente della giovane e per metterla a proprio agio.
Ariela abbozzò un piccolo sorriso ed espirò, cercando la calma giusta per proseguire.
- In verità, dottore, pensavo ad … Eìos! – rivelò d’un fiato, perché le parole non le si incastrassero in gola.
- Ad Eìos, mio figlio? – ripeté, sgranando gli occhi.
- So che una richiesta del genere può sembrarvi inusuale e sconveniente, ma, vi prego, non consideratemi sfacciata o … -
- No, no … vi conosco, da quando siete venuta al mondo. – la interruppe per rassicurarla, - Siete una fanciulla modesta e assennata, degna di stima e di rispetto: non potrei mai considerare la vostra proposta ad Eìos sfacciata o sconveniente. Solo, comprendete la mia sorpresa … Non avrei mai creduto che potesse accadere, sebbene, da padre, ne sia lusingato! Ma voi, conoscete tutto di Eìos? – le chiese, con circospezione.
- So che ha un carattere ispido e spesso amaro; so che sa essere crudo e tagliente, ma la sua rabbia verso il mondo è frutto di una sorte sciagurata e di tante sofferenze. Egli possiede, però, anche una sensibilità e una nobiltà d’animo non comuni, sebbene faccia di tutto perché gli altri non se ne avvedano. – gli spiegò puntuale, come se di lui avesse trovato la chiave giusta per aprire il petto indurito.
- Non mi riferivo, Ariela, soltanto alla sua indole. – replicò il dottore.
- So anche che egli è figlio illegittimo di Esem; che la signora Leria gli riconoscerà il nome e so che ella ha ceduto per celare la … - si irrigidì all’idea di rivelare oltre, - … la relazione che la mia sciagurata sorella ha avuto con lui prima del matrimonio. – concluse, con non poco imbarazzo.
- Ed intendete comunque sposarlo? – insistette.
- Se … se vostro figlio vuole … sì, intendo sposarlo. – replicò decisa.
- E sia, Ariela. Non vi chiederò le reali motivazioni che vi animano, giacché è chiaro che vogliate tenerle per voi stessa,  ma parlerò con Eìos immediatamente. – la rassicurò, sollevandosi.
- Vi ringrazio, dottore … - disse con aria più serena.
Elmisk si congedò, chinando il capo con deferenza, e si diresse alle stanze di Eìos, come aveva promesso.
 

*********
 

Era abbastanza vecchio, Elmisk, nonché di consumata esperienza, da avere visto davvero tante cose strane nella vita. E non solo nell’esercizio della professione medica; nelle infermità del corpo e nelle relative cure, ma anche nelle mutevoli forme della mente umana e nelle brusche virate dei caratteri.
Ritrovarsi, però, a fare da paraninfo ad uno come Eìos, non l’avrebbe mai potuto neanche immaginare.
Aveva amato quel ragazzo la sera stessa che si erano conosciuti e non era stata, neanche per un attimo, solo riconoscenza per essere stato salvato. Era stata, fin da subito tenerezza, complicità, comprensione e soprattutto, era stata necessità di salvarsi a vicenda. La vita, del resto, li aveva feriti alla stessa maniera: ad Eìos aveva negato l’amore che i genitori destinano ai propri figli, ad Elmisk l’opportunità di amare una moglie morta dando alla luce il loro bambino.
Eppure, nonostante la stima ed il rispetto che nutrivano reciprocamente, il dottore sapeva che quel giovane uomo, nascondeva una parte di sé, finanche a sé stesso: una parte rilucente, che a tratti riverberava nella sua generosità con chi era malavventurato e nella testardaggine salvifica dello stesso mondo che lo denigrava.
Proprio per quella parte oscura di lui, Elmisk non riusciva a capacitarsi della reazione che avrebbe avuto suo figlio sapendo della proposta di Ariela.
Non trovandolo nelle proprie stanze, si diresse verso le scuderie: cavalcare era la passione più grande di Eìos, dopo quella per il mare, naturalmente.     
- Cercavo di te, figlio. Dove sei stato? – gli domandò, quando lo ebbe raggiunto.
- Con Miran … - gli rispose vago, armeggiando con la sella del proprio cavallo.
- E … - lo incoraggiò, con un gesto della mano, perché lo mettesse a parte  della conversazione.
- E … continueremo a detestarci cordialmente! – scrollò le spalle, quasi la questione fosse di poca rilevanza.
- Eìos! Miran non ti detesta, così come tu non detesti lui. Comprenderai che accettare una simile rivelazione, non è cosa semplice. –
- Sì, ne sono cosciente, padre. Ma non ha importanza: abbiamo vissuto l’uno senza l’altro per una vita intera, non si può divenire fratelli soltanto perché il sangue è lo stesso. –
- Avevi giurato … - gli ricordò, con un tono deluso.
- Sono un bugiardo … - rispose, serrando la mascella, infastidito da quelle pressioni.
- Eìos! – lo richiamò, costringendolo a rivolgergli gli occhi.
- Ma non capite che è meglio così, per lui e per me … Se cominciassimo a comportarci come vorreste, prima o poi la verità salterebbe fuori, come il coniglio dal cilindro di un prestigiatore. Egli saprebbe che donna ha sposato ed io finirei col perdere ciò che mi sono conquistato! – chiarì, con i pugni stretti ed un malcelato dolore nelle parole.
- Temi che avere vicina Nubia potrebbe indurti in errore, dunque? –
- E’, il vostro, un modo diplomatico per domandarmi se l’amo ancora? – sorrise ironico, stringendo il morso nella bocca del cavallo e sistemando gli altri finimenti.
- L’ami? – chiese diretto, Elmisk.
- Si può amare chi ti mentisce? Chi ti chiede di spartire il proprio ventre con un altro? - ribatté, amaro, - Mentirei se vi dicessi che ella mi è indifferente, ma è solo carne, padre, soltanto carne e sangue! – concluse.
- Dunque il tuo cuore è libero? – insistette, deciso ad arrivare alla foce.
-Non vorrete trovarmi moglie? – scherzò, lisciando il pelo dell’animale, pronto e scalpitante per l’imminente galoppata.
- E’ lei che ha trovato te! Ariela … vorrebbe sposare te! – sorrise di rimando, vedendolo sgranare gli occhi.
- Non giuocate, padre mio … - lo ammonì, l’istitutore severo col discepolo.
- Ti sembro forse un giullare? Ariela ha ricevuto una proposta di matrimonio da quel Caled e sua madre caldeggia questa unione. Ma ella non vuole sposarlo: ella vuole te! – precisò, sul volto rugoso lo stesso sorriso soddisfatto del padre che vede finalmente la sorte benevola in favore del figlio.
- Me? Il ladro, il bugiardo, il bastardo senza nome? – insistette.
- No, vuole l’uomo che sei dentro e che, testardo e masochista quale sei, tieni nascosto ed in catene perché nessuno possa amarlo … - cercò di spiegare.
- E sia! – lo interruppe.
- Cosa? –
- La sposo. –
- Perché? –
- Fate troppe domande, padre! – pose fine alla conversazione, montando a cavallo. – La sposo, questo vi basti! – aggiunse, spronando l’animale a partire.
 

*********
 

- Sciocca … sciocca e presuntuosa! – ripeteva come una litania, inginocchiata sulla prima panca della piccola cappella, le mani a stringere il rosario e le labbra a baciarne ad uno ad uno i grani di madreperla.
Con quale sfacciata presunzione aveva chiesto a quell’uomo di sposarla, proprio a lui che non conosceva affatto e che, per di più, era stato l’amante si sua sorella?
Si sentì morire di vergogna a pensare a loro due insieme, a Nubia così avvenente e smaliziata, alle sue belle forme di donna e alla maniera conquistatrice con cui le ostentava ed ad Eìos, il carattere selvatico, senza retaggi e senza limiti.
Non le avrebbe mai detto di sì, non a lei pudica ed ingenua, insipida come una pietanza scondita. Non avrebbe mai accettato, Eìos, una come lei, nonostante le parole che le aveva riservato con tanta sincerità e che continuavano ad impegnarle tutti i sensi.
E se, di contro l’avesse fatto, se avesse accettato, sarebbe stato certo per ripicca, per far patire a Nubia l’oltraggio del tradimento ed il suo acre sapore.
D’un tratto rimpianse tutte quelle futili cose che aveva rifuggito per tutta la vita: la cura di sé, il briciolo di vanità che fa di una donna una creatura attraente, la spigliatezza felina e le moine che si prendono petto e mente degli uomini.
Una spina le punse il cuore a quelle costatazioni sì dolorose, così rivolse un ultimo sguardo orante alla Croce, senza sapere per quale risposta pregare. Si sollevò segnandosi, ed, uscendo, accese una candela all’altarino della Beata Vergine, sussurrando: - Sia fatta la tua volontà! Tutta la tua volontà! – piegò il capo, in segno di devozione,  e, calando il velo di pizzo che la copriva, uscì dalla cappella.
 

*********
 

Cavalcare gli piaceva: il vento a schiaffeggiargli il viso, il rumore sordo degli zoccoli sulla terra compatta, l’odore acre della polvere sollevata ed il panorama sfuggente che correva nella direzione opposta alla propria, come fosse anch’esso in movimento. Tutto contribuiva a sedare l’istinto, i pensieri balordi che lo opprimevano ed alla fine della corsa la mente era libera, ripulita, una stanza vuota pronta ad ospitare nuovi inquilini.
Rientrò con calma, ripercorrendo il tragitto a ritroso, godendosi il percorso, i colori riverberanti delle foglie splendenti dell’ultimo sole, l’odore delle messi, il canto ristoratore dei braccianti ancora a lavoro. Tenne la mente a riposo: non voleva pensare né a Miran, né ad Ariela, tantomeno al nuovo nome che presto avrebbe portato, un abito che non avrebbe vestito mai con agio e disinvoltura, nonostante l’avesse voluto più di un assetato l’acqua. Avrebbe fatto i conti con ciascuno di quei rovelli asfissianti quando fosse ritornato nel mondo, quando non ne avesse più potuto farne a meno.
Ma il destino gioca a dadi su di un tappeto truccato.
Ariela era a pochi metri da lui, bella, come l’alba che si accende di promesse, ed il tempo di riposo della propria mente era terminato.
Perché avesse accettato la sua proposta era, ai suoi stessi occhi, incomprensibile e stupido: il tentativo di uno stolto di prendersi qualcosa cui aveva sempre saputo di non aver diritto. Eppure non era riuscito  a negarsi a quella parte di sé che cercava da una vita di essere compresa e scovata in un abisso profondo e buio. Se fosse quel matrimonio la rete che avrebbe catturata quella parte nascosta, se fosse Ariela il suo ristoro, in quell’istante poco importava. Poco contava per ogni parte del suo corpo e della mente a cosa stesse andando incontro, ora che davanti si trovava gli occhi di lei.
Smontò da cavallo e compì pochi passi, trascinando dietro la schiena il suo animale pigro e stanco della galoppata.
- Buonasera. – le augurò, quando furono vicini, lasciando le redini del cavallo, che si dedicò incurante all’erba fresca da brucare.
- Buonasera. – ripeté, Ariela, fermando i propri passi di fronte a lui.
- Perdonatemi, torno da una cavalcata: temo di non essere … presentabile.  – continuò, allargando le braccia per mostrarsi, e lasciando che un sorriso leggero gli tendesse le labbra.
- E perché mai? Non siete abbigliato in maniera così diversa dal solito. – constatò Ariela, osservandolo.
La camicia era maltrattata dal vento della corsa, i calzoni leggermente macchiati dalla polvere sollevata, i capelli spettinati. Un altro uomo sarebbe apparso disordinato, scomposto, ma su di lui tutto prendeva un’aura selvaggia, indomita, come il suo stesso carattere, e lo rendeva meravigliosamente imperfetto e unico.
- Di solito, però indosso la camicia nei calzoni … - ammiccò, il sorrisetto dispettoso e un poco sfacciato del ragazzino impertinente.
Ariela sorrise di rimando: i tratti del viso di Eìos, disteso e placido, la conquistavano. Egli era bello sempre, ma le labbra scure e carnose, addolcite da un sorriso, lo rendevano ancora più attraente e gli occhi verdi,  animati da quell’insolenza giocosa, divenivano, per lei, pirati all’arrembaggio dei propri sensi scompigliati.
Camminarono lungo il viale che divideva in due il giardino, l’uno accanto all’altra, per diversi metri, senza parlare. I passi furono lenti quasi entrambi intendessero scongiurare l’avvicinarsi del traguardo. Le vesti di Ariela, frusciavano, nel suo incedere cadenzato, ed il profumo di muschio della pelle di lui, mescolato al cuoio delle redini, che aveva stretto tra le mani, le ottundeva i sensi. Nei respiri di entrambi, risuonava preciso un silenzio leggero, tanto che la mente di Eìos riprese a macinare quesiti, come la ruota del mulino i chicchi di grano.
Gli era ben chiaro che qualcosa gli si muovesse dentro nel sentirsela accanto e non era solo una fiamma lenta che scuoteva i lombi. Era un languore caldo che si prendeva prima cuore e cervello e poi si espandeva conquistatore per il resto del corpo. Quando, come in quegli istanti,  un anelito vibrante di sentire la pelle di lei scorrergli sotto le dita, di orlarle le labbra con le proprie, lo inseguiva, non poteva fare a meno di chiedersi cosa provasse Ariela e, più di tutto, cosa l’avesse spinta a quella proposta così avventata.
Si trovò costretto a cedere a quella domanda, che veniva direttamente dal petto, e lo fece come un bimbo chiede alla madre il numero esatto delle stelle.
– Perché? – domandò, annullando la distanza che li teneva ciascuno nei propri pensieri. – Perché volete sposarmi? – insistette, rivolgendole gli occhi indagatori e fermando i propri passi e quelli di lei.
Ariela, ne scrutò l’espressione interrogativa, colta di sorpresa, come se mai avesse potuto aspettarsi una simile domanda, posta con tanta risoluta determinazione.
- Se voi non volete, se … -
- Certo che lo voglio: siete così bella, così dolce … ed animata da un ardore tanto puro, che faccio fatica a credervi sincera … - la rassicurò, con slancio. – Ma voi, perché, perché volete sposare me? – aggiunse determinato.
- Perché mia madre vuole vedermi sistemata e … - si giustificò, quasi l’idea del matrimonio non fosse stata sua.
- Avete già ricevuto una proposta … e per di più da un gentiluomo. – la interruppe, - Perché, dunque, non accontentate vostra madre, accettando quella. – insistette, deciso ad ottenere le risposte a cui anelava.
- Caled non è il tipo di uomo con il quale potrei accompagnarmi per la vita … - spiegò, vaga, con gli occhi lucidi di imbarazzo per quella conversazione così scomoda.
- E potrei esserlo io? – chiese, con tono di beffa. Eìos sapeva con certezza assoluta di non avere alcunché di attraente per una donna come Ariela: non era un gentiluomo; i suoi modi, sebbene il dottor Elmisk l’avesse bene erudito, non erano ricercati e misurati; le sue parole erano lo specchio dei propri pensieri, senza filtro alcuno; la sua vita era stata un’altalena tra povertà e ricchezza, tra illegalità e tentata probità; la sua anima era uno sporco groviglio di rabbia e veleno contro il mondo. Né, per Ariela, la conquista di quel nome poteva essere una lusinga sufficiente ad offuscare consolidati difetti e punte di un carattere tanto aguzzo.
- Io … lo credo, sì … - rispose, con più decisione di quanto egli si aspettasse.
-Voi lo credete? – ribatté, scettico: la fermezza della risposta di Ariela l’aveva non rassicurato, ma indispettito.
Non le credeva, non riusciva a farlo, poiché, per colui, al quale la sorte è sempre stata avversa, è più semplice credere che il mondo gli sarà sempre contro, piuttosto che illudersi del contrario.
- O, invece, credete, in tal maniera, di tenermi lontano da vostra sorella? – la provocò, velenoso.
Ariela chinò il capo, torturandosi le dita. Di fatto, il primo sprone a quella decisione era stato proprio il desiderio di impedire che quei due potessero ancora incontrarsi, ma ella sapeva che dietro di esso altre motivazioni ingarbugliate ed oscure animavano i suoi propositi.
Eìos si accorse dell’imbarazzo che le impediva di mostragli gli occhi e fu intenerito ed, al contempo, infiammato dalla necessità di scongiurare in lei un tale infamante pensiero.
- Vi ho già detto che non nutro più alcun interesse per lei … - ribadì, deciso: per la prima volta la necessità di essere creduto, fu più determinante dell’orgoglio.
- Avete uno strano modo di dimostrarlo: l’hanno veduta uscire dalla vostra camera soltanto alcune sere orsono. - gli rivelò delusa, una punta di malcelata gelosia nella voce.
- Dunque, non ero in errore! – sospirò, affranto. - Se questa è la motivazione che vi ha indotto ad una simile proposta, consideratevi sollevata dall’impegno. – le disse scostante, ruvido e tagliente, come solo lui riusciva ad essere.
Ariela sentì  la terra fremere sotto i piedi, un equilibrio instabile le scompigliò il petto.
Lasciò gli occhi di lui sconfitta, nascondendogli i propri: non voleva essere sollevata dall’impegno, poiché, pur non comprendendone le vere ragioni, ella desiderava quell’unione.
Si sentiva strana quando Eìos la guardava, quando le parlava. Percepiva una voragine misurata aprirle lo stomaco ed un fiamma sottile, come di candela, percorrerle la pelle fino alle gote. Le piacevano le sue mani, come avevano carezzato le proprie qualche giorno prima, il calore della voce un po’ roca e penetrante che la sfiorava.
Si voltò e fece per allontanarsi dal corpo di Eìos, così vicino da sentirne il calore, il profumo seducente e dolce, il respiro leggero che le investiva le tempie. Ma la mano di lui la fermò, catturando il polso sottile, solo con la punta delle dita.
I polpastrelli ruvidi ne solleticarono la pelle, laddove la vena pulsava forsennata, eco perfetta del cuore.
Senza muoversi, le spalle a sfiorarsi, Eìos continuava a tenere lo sguardo dritto davanti a sé, quasi quel contatto rubato, gli costasse imbarazzo e fatica.
Inspirò, domando il fiato che usciva agitato dal petto, e con una voce profonda e dolcemente roca, le parlò:
- Ariela, giuro su Dio, che non nutro più alcun interesse per lei … - ripeté solenne, con il tono fermo e sicuro di chi non mentisce.
- Quale Dio, signore? – chiese, cercando di aumentare la distanza tra i loro corpi, ormai ridotta ad un respiro.
- Credevo ne esistesse solo uno … - replicò, stingendo la presa, perché ella non sfuggisse a quel chiarimento necessario ed a quel contatto caldo.
- E da quando? – lo interrogò, la voce leggermente stridula, per l’agitazione.
- Da quando ho conosciuto voi! – terminò, la sua voce, di contro, sicura ed avvolgente.
Ariela sospirò, socchiudendo gli occhi, prendendosi la dolcezza di quel tocco e la determinazione delle parole.
- Mi credete? – chiese, voltando il viso di lato per guardarla. Il profilo di lei era perfetto, come in un ritratto sapiente, le palpebre erano chiuse dalle lunghe ciglia e le labbra si arrossavano man mano che Ariela le torturava tra i denti. Ella annuì, immobile.
– Desiderate ancora sposarmi, dunque? -  insistette, mentre la sicurezza della voce e la presa sul polso scemavano.
- Sì … - rispose, come la parte più intima di sé le suggeriva. Ma fu l’unica sillaba che riuscì a pronunciare, tanto il petto le si era increspato dall’emozione.
- Bene … - sussurrò lui, lasciando scivolare la mano nel palmo contratto di lei. Essa ne seguì devota le linee  spezzate che lo incidevano, raggiunse gli incavi delle dita, riempiendoli con le proprie. Strinse in una morsa feconda e promettente, come l’appiglio necessario a tenersi in piedi.
Poi allentò le dita, il calore del contatto che si disperdeva, come una fiamma che si allontana; risalì con la stessa devozione, lungo il dorso della mano e su, per il polso e l’avambraccio, fino al gomito ossuto, così come il salmone risale il corso del fiume, con la vita nel ventre. Le girò intorno, fermandosi sull’altro fianco di lei, i visi rivolti entrambi nella medesima direzione, le posò il palmo aperto della mano sulla schiena e con una leggera pressione, la invitò: 
- Torniamo a casa … -
Compirono alcuni passi verso la dimora, in silenzio, respirando l’uno i respiri dell’altra, le menti sgombre da ogni rovello, il cuore ripulito da ciascun impedimento, sino a che ella gli si aggrappò al braccio che sfiorava il proprio, alla ricerca di un nuovo contatto.
Eìos trattenne malamente un sorriso incerto, tormentandosi le labbra scure: quel gesto era così semplice ed intimo, che egli aprì il cuore ad una languida invasione.
- Toglietevi quel sorriso compiaciuto dalla bocca … - lo avvertì,guardando altrove da lui, - Ho solo bisogno di un appiglio, giacché la ghiaia rende i miei passi incerti. – mentì, imbarazzata dalla sua stessa audacia.
- E tu smetti di darmi del voi. Non vorrai aspettare la prima notte di nozze per farlo? – la provocò, senza riuscire a smettere di sorridere.
Ariela perse un respiro all’idea di quel momento e strinse di più le dita sottili tra le pieghe scomposte della camicia di lui, come se davvero mancasse di equilibrio.
Eìos percepì in quella stretta l’incertezza, l’imbarazzo e la pudicizia di lei, e si intenerì come gli accadeva ogni qual volta l’anima semplice ed ingenua di lei emergeva, indi posò la propria mano sulla sua, stringendola con la stessa forza rassicurante che ella aveva profuso nel proprio tocco, dita tra le dita, pelle sulla pelle e l’anima dell’uno alla ricerca di quella dell’altra.


 


******************************


Ben trovate!
Come sempre ringrazio tutti coloro che leggono e seguono la mia storia.
Un ringraziamento speciale alle lettrici affezionate che recensiscono, pur avendo una marea di impegni
Grazie infinite anche a chi ha inserto questa storia tra le preferite.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vogliate farmi sapere cosa ne pensate.

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Capitolo 12
*** . 12 . Promesse ***


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. 12 .


Promesse.


 

Un’altra notte era passata insonne ed agitata, sebbene non si sentisse stanca, come accade quando si perde il sonno. Nelle poche ore in cui era riuscita a dormire, aveva sognato scene fumose, come quando il vento sulla spiaggia alza la sabbia e copre agli occhi la vista del mare. Era stato uno di quei sogni, che al mattino non ricordi, ma che lasciano un sapore dolce sulla lingua, come un pezzetto di cioccolato fondente. Aprì le palpebre, lasciandosi ferire dolcemente dalla luce insistente del primo mattino, che penetrava attraverso le tende; annusò l’aria tenera della brina sui fiori disposti sul davanzale, mentre i petali si riaprivano al giorno e ne bevevano le piccole stille lucenti.
Si voltò sull’altro fianco, la guancia affondata nel fresco cuscino di lino, i capelli sciolti e lucenti sulle spalle, lasciate nude dalla camicia di pizzo bianca, e richiuse gli occhi, per rievocare parole, odori e gesti della sera precedente. Le parve di sentire il tiepido odore della pelle di lui, rimasto attaccato tra le dita che aveva stretto delicatamente, e le comparve il sorriso piccolo ed eccitato dei bambini la mattina di Natale.
Saltò giù dal letto, come un grillo impazzito, e si diresse all’enorme specchio intarsiato nel fondo della stanza. Osservò la propria figura per intero, in ogni particolare che, per distrazione o non curanza, non aveva mai esaminato.
La pelle del viso era bianca, quasi pallida, così si pizzicò più volte le guance perché prendessero colore e, quando le vide rosate, si rammaricò di quella sua carnagione tanto diafana, da tradire facilmente ogni emozione.
Percorse, con entrambe le mani, la curva del collo che si apriva in spalle piccole ed ossute, per poi arrivare ai seni, che scoprì dalla seta della camicia da notte, piccoli e rotondi, proporzionati alla sua figura esile. Osservò i nei disposti uno accanto all’altro, tracciando, con la punta dell’indice, una figura stilizzata, come quelle con cui si rappresentano le costellazioni. Tirò su l’orlo della camicia, a scoprirsi le gambe, lunghe ed affusolate e bianche, come il marmo di una statua. Lasciò poi ricadere la stoffa fino ai piedi nudi sul pavimento fresco; compì mezzo giro su sé stessa per osservare la schiena, le scapole delicate, la curva decisa dei fianchi, la rotondità delle natiche ed i capelli del colore riverberante del grano maturo. 
Le sovvenne, al termine di quell’esame meticoloso, il pensiero della prima notte di nozze con Eìos.
Egli aveva accettato la sua proposta di matrimonio e lo aveva fatto con una dolcezza ed una determinazione che avevano squilibrato le strutture delle proprie convinzioni. Si chiese se sarebbe stato ancora contento di averla presa in moglie, nel momento in cui l’avesse guardata, come stava facendo ella stessa allo specchio.
Un brivido di imbarazzo salì dalle dita dei piedi, su per le gambe, per poi percorrerle la spina dorsale e diramarsi fino alle gote, che, di contro, si infiammarono: ghiaccio e fuoco; paura e desiderio, fusi in un fluido invasore.
Si sentì costretta a serrare gli occhi, come quando si prova dolore, per non vedere la propria immagine riflessa. Ma dietro le palpebre vi trovò quella delle mani di lui, a cingerle la vita ed a sfiorarle la pelle e ne ebbe paura e necessità insieme, come la falena incosciente della forza distruttiva della luce a cui si avvicina.
Corse al catino di porcellana, vi versò l’acqua fredda della notte e vi immerse le mani fino ai polsi, lasciando che l’arsura delle membra si spegnesse. Poi sciacquò il viso ed inspirò, mentre goccioline di acqua le percorrevano il collo e si infrangevano sui seni.
Si vestì in fretta e pettinò i capelli, intrecciandoli, per poi lasciare la stanza.
Doveva vederlo, subito.

*********

Il dottor Elmisk bussò alla porta della camera così insistentemente, che Eìos abbandonò il sonno bruscamente, sollevando la testa dal cuscino. Le lenzuola stropicciate gli si arrotolavano intorno alla vita;  la schiena, nuda e dalla pelle d’ebano, risaltava nel loro candore; i capelli arruffati del sonno ed il velo di barba del mattino, gli concedevano un’aria rilassata e serena, come non avveniva da tempo.
Si diresse ad aprire la porta, avvolto nel lenzuolo che si trascinava dietro, come la scia di una barca.
- Dormivi? A quest’ora dovresti aver già fatto colazione ed essere pronto per partire! – lo rimproverò, ferendo i suoi orecchi ancora cullati dal silenzio della notte.
- Partire? – chiese ancora mezzo ubriaco di sonno.
- Torniamo a casa, Eìos, non ricordi? –
Il giovane annuì, passandosi la mano tra i capelli e, voltandogli le spalle, lo rassicurò: - Datemi solo il tempo di rendermi presentabile ed andare a salutarla. –
 - Chi? –
- La mia promessa … - rispose, con ovvietà e un mezzo sorriso tra l’imbarazzo e la contentezza.
Elmisk rise: l’immagine di suo figlio, educato e rispettoso del galateo, stonava come la canna di un organo male accordato. – E da quando sei così preciso nei doveri verso il tuoi simili? – lo provocò.
- Avete davanti un uomo nuovo, padre … Tra qualche giorno indosserò un nome pulito, abiti adeguati e sposerò una nobildonna. – disse, con sottile ironia, preparando il sapone per radersi.
- Ti conosco troppo bene, figlio, per credere che così poco cambi tutto di te! Di’ piuttosto che ti comporti così per lei, per Ariela. – insistette, - Ti piace, vero? –
Fu il turno di Eìos di ridere, avendo cura di fermare la lama affilatissima del rasoio per non ferirsi.
- Avete ragione voi, non cambio né per un nome, né per un abito elegante … rimango sempre io! Ed io non rispondo ad una domanda così intima … -
- Giacché l’ultima volta che ti ho posto una domanda intima, mi hai risposto con sì tanta sincerità, deduco, dalla tua riluttanza, che questa volta, con Ariela, non si tratti soltanto di carne e sangue … - ammiccò, riferendosi a Nubia.
- Lasciatemi radere, padre, o non riusciremo a partire prima dell’ora di pranzo! – glissò, passando il rasoio sulla guancia insaponata.
Non era infatti una questione di carne e sangue: era tutt’altra cosa, ma il nome adatto, Eìos, l’avrebbe scelto poi, con calma, o forse, glielo avrebbe suggerito lei, nel momento in cui l’avesse rivista.
 

**********
 

L’aveva cercata nella sua stanza, infischiandosene bellamente dell’etichetta. Aveva chiesto di lei alla cameriera, che aveva scrollato le spalle, e poi era sceso nel grande salone.
Quando si era quasi rassegnato a partire senza averla salutata, gli sovvenne il ricordo di quando l’aveva incontrata lungo il viale che portava dalla casa alla cappella, il giorno stesso che era arrivato, e vi si diresse sperando di incontrarla.
La incrociò a metà della strada, infatti, e ne fu sollevato.
- Ti ho cercato … - le disse, continuando a procedere verso di lei.
- Non eravate a colazione … - gli rispose incerta.
- Eravamo d’accordo di darci del tu! – le ricordò, guardandole gli occhi sfuggenti.
- Dovrò farci l’abitudine, dovrete aver pazienza … - sorrise per aver sbagliato ancora.
- Con te, tutta la pazienza del mondo … - ammiccò, girandole intorno, in una inusuale danza di corteggiamento.
- Perché cercavi di me? – chiese, fermandosi.
- Per salutarti … - spiegò, posandole la mano sul fianco ed invitandola a proseguire.
- Dunque, parti? –
- Sì, direi che non sono un ospite … gradito. – disse ironico, - Ed inoltre, l’ufficiale del registro civile mi attende per intraprendere la procedura di riconoscimento. –
- Credi che ci vorrà molto? – chiese, rivolgendo gli occhi sul profilo di lui, sereno ed intenso.
- Mio padre sostiene che basterà che la signora Leria e suo figlio affermino davanti all’ufficiale che sono il figlio illegittimo di Esem e che, quali suoi eredi, intendono riconoscermi. Un paio di firme ed il gioco è fatto!-
- Credevo che fosse più complesso … - ribatté, arricciando le labbra in una smorfia.
- Già! E’ quanto mai curioso che un affare che mi è costato così tanto rancore, si risolva in una pura formalità! – constatò, con amarezza. – E tu? Quanto tempo credi sia necessario per i preparativi delle nozze? – cambiò argomento, prendendole la mano, per portarsela sul braccio.
- Non saprei con certezza: ci sono i documenti da produrre, le partecipazioni e gli inviti da recapitare, il corredo da preparare … - cominciò l’elenco, giocherellando con le pieghe della camicia di lui.
- Il corredo? – la interruppe, - Credevo che a voi signorine dell’alta società mettessero ago e filo da ricamo già nella culla! – ironizzò.
- Il mio corredo è pronto, anche se non credevo che l’avrei mai usato per sposare, ma va tirato fuori dai bauli in cui è riposto; va lavato e steso al sole ed infine piegato e nuovamente riposto.  –
- Tutto? Che fatica inutile: non sarebbe più proficuo e soprattutto meno stancante, farlo un po’ alla volta, alla bisogna? – chiese, ingenuamente.
- E’ la tradizione! – rispose, scrollando le spalle, lasciando intendere che anche a lei sembrava una vera, inutile sciocchezza.
- E sentiamo, per quanto ti impegnerà questa tredicesima fatica di Ercole? – insistette.
- Un paio di settimane, forse. –
- Bene, la data delle nozze è fissata tra un paio di settimane da oggi. – ripeté, con ancora più decisione.
- Ma è presto … i preparativi per la cerimonia richiedono tempo. – accampò una scusa: l’idea di sposarlo la intimoriva, pur desiderandolo, e le faceva sentire il bisogno di altro tempo, per abituarsi all’idea, che non l’aveva mai sfiorata, di legarsi a qualcuno.
- Non per una semplice, con pochi invitati … senza troppo sfarzo. E poi ho premura: giacché devo cominciare una nuova vita, voglio che inizi da subito. – le confidò, un formicolio leggero nei palmi delle mani ed un’impazienza sconosciuta di stringersela addosso, - Ed inoltre, non gradirei che qualcuno si adoprasse caldamente per farti cambiare idea … -
- Chi potrebbe? – chiese ingenua.
- Tua madre, tua sorella, Miran … l’elenco è piuttosto lungo. – le spiegò, - Non credo ci sia una sola persona che caldeggi la nostra unione. – concluse, per nulla amareggiato di suscitare tanto scontento e disapprovazione.
- E … se fossi tu a cambiare idea … - azzardò, un poco tremante per la possibile risposta.
- Non sono, io, il tipo d’uomo che rinnega le proprie decisioni! – la rassicurò con spavalda sicurezza. Quel matrimonio era un azzardo, un salto nel vuoto per sé stesso, come per lei. Si conosceva bene: il carattere era ispido a volte scostante, un muro solido posto a difesa della parte più liquida della propria essenza. Eppure aveva detto sì con la stessa insolente strafottenza con cui si avvicinava al pericolo. Non sapeva a cosa sarebbe andato incontro, ma non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
- Ma io non ti ho ancora detto che … non posseggo dote. – rivelò d’un fiato, con tanto imbarazzo a colorarle le gote. - Ma Miran si è offerto di provvedere … – cercò di giustificare quella che, ai propri occhi, sembrava una mancanza.
- Dannazione a Miran e a tutti quelli che come lui credono che le persone si vendano e si comprino come mercanzia al miglior offerente, e che le donne valgano così poco, che abbiano bisogno di offrire un incentivo per essere prese in moglie. – la interruppe, voltandosi di scatto, con un risentimento vigoroso nei confronti di convinzioni inique e decadenti. Inspirò lentamente, una, due, tre volte, perché l’asprezza, che lo aveva colto, scemasse: per la prima volta nella vita, non gli piaceva mostrarsi tanto infervorato davanti a qualcuno, non davanti a lei, alla quale inspiegabilmente sentiva di dover donare solo la parte nascosta di sé.
Le rivolse di nuovo gli occhi, verde intenso e rivoli di miele di castagno, - Tu vali quanto danaro egli non potrà mai possedere … è solo per questo che ti sposo! – si addolcì d’incanto. – Dunque, un paio di settimane da oggi? – insistette.
Al cenno del capo di Ariela, stordita da tanta insistenza, Eìos le sfiorò la guancia col dorso della mano, obbligandola a tirar su gli occhi ed a guardarlo.
- Per ciò che riguarda la dimora in cui andremo a vivere, avevo pensato alla mia: è sulla spiaggia, sul litorale est della baia. Non è molto grande, ma, finché non ne troveremo un’altra, può andar bene … Vuoi? – domandò, la mano a scorrere ancora sulla sua pelle, in un gesto rassicurante, come la carezza ad un bambino che non vuole dormire.
- Sì. – rispose, prendendosi addosso il calore che la mano di lui irradiava, per tutto il suo corpo teso.
- Sarà bene che io vada, ora, prima che mio padre setacci l’intera tenuta. – sorrise, lasciando scorrere la punta delle dita lungo la guancia, per seguire la linea candida del collo, fino alla clavicola, su cui fermò l’indice, insistendo in una carezza circolare.
Una voglia insistente di un baciò ferì le labbra di Ariela. Non ne aveva mai ricevuto uno, non sapeva neanche che consistenza avessero le labbra di un uomo, ma, in quell’istante, si immaginò quelle di Eìos sulle proprie, sapore di un frutto agrodolce, cioccolato fondente fuso nel calore del contatto. E le desiderò, senza il coraggio di chiedere. 
Ma davanti a lei, nel petto di lui, si agitava lo stesso ardore, privo dell’inesperienza e dell’imbarazzo, che frenavano Ariela. Così, come era stato sempre, istintivo come un animale, Eìos portò il pollice a sfiorarle le labbra; premette, carezzò, torturò, finché ella non le schiuse leggermente e poi la baciò.
Fu un contatto leggero, senza pressione, né profondità, la superficie dell’acqua increspata dall’onda, e fu lento e torturatore, un’esplorazione meticolosa, una conquista non di terre sconosciute, alle quali tutti potrebbero alfine giungere, ma di altitudini di cieli senza margini, ai quali solo chi vola può aspirare.
L’altra mano le cinse la vita, avvolgendole il corpo in un abbraccio completo, ed Ariela si lasciò conquistare, adagiando il proprio peso su di lui ed aggrappandosi alle sue braccia, le dita affondate tra le pieghe della camicia, il petto confuso con l’altro e la testa leggera.
Eìos indugiò ancora un poco, labbra sulle labbra, assaporandole, corteggiandole come i poeti fanno con le parole. Poi le lasciò altrettanto lentamente, affinché quel sapore non si prendesse pure gli ultimi brandelli di cervello rimastogli.
- Verrò a farti visita non appena tornerai in città … - le sussurrò, ancora con le proprie labbra sulle sue. E la baciò ancora, consegnando completamente a lei ogni parte di sé.
Sciolse la stretta e, dopo un ultimo sguardo, si congedò con un gesto del capo e gli occhi liquidi di appagamento e serenità.
Ariela lo guardò andar via, la schiena dritta ed ampia e l’andatura decisa; portò le dita di una mano sulle labbra ancora calde ed umide di quel bacio di sante promesse e l’altra a stringersi la vita, lì dove l’aveva stretta lui.

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Capitolo 13
*** . 13 . Terra e acqua, muschio e sale ***


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. 13 .
 

Terra e acqua, muschio e sale

 

Come gli aveva detto suo padre, bastarono un paio di firme davanti all’ufficiale del registro civile, per avere il nome che tanto aveva cercato.
La signora Leria era entrata nell’ufficio, sotto braccio del figlio, un enorme cappello nero, con una veletta di pizzo, le adornava il viso facendo risaltare il pallore del volto e gli occhi chiari, quasi vitrei. Un altrettanto grande ventaglio piumato le copriva la bocca, quasi si vergognasse dell’atto che si accingeva a compiere. Quando i suoi occhi incrociarono quelli determinati e spavaldi di Eìos, un lampo di disprezzo e odio li investirono, crudeli, ed il giovane vi lesse una sete di spropositata di vendetta nei suoi confronti. Ma non li temette, la ripagò con lo stesso sguardo truce e, al contempo, con quello di un uomo, che seppure nel più illecito dei modi, stava prendendosi ciò che gli apparteneva.
Altri occhi erano quelli di Miran: delusi per la distanza che lo separava da colui che aveva amato come un amico; desiderosi di trovare una strada per tornargli vicino, per conoscerlo ancora, di nuovo, per ciò che era davvero, suo fratello.
L’ufficiale pose loro le domande di rito, redasse il verbale ed infine, rivolgendosi a Miran ed a sua madre, li invitò a firmarlo. Leria intinse la penna nell’inchiostro del calamaio con lentezza esasperante, quasi aspettasse che una folgore divina glielo impedisse e, quando fu il turno del figlio, fermò i suoi occhi furenti sulle lettere che ad una ad una Miran scriveva.
Fu la volta di Eìos sancire quel riconoscimento, la penna scorse fluida, senza intoppi e, quando il suo nome fu scritto per intero, inspirò sollevato, l’atleta vittorioso alla fine della corsa.
- Sono felice per te … - si congratulò, posandogli la mano sulla spalla, Elmisk, che lo aveva accompagnato per tutto il tempo come un padre premuroso.
- Lo sono anch’io. – gli si avvicinò Miran.
Eìos rimase spiazzato da quelle parole, ma non completamente sorpreso: nei mesi che avevano vissuto insieme, egli era sempre stato un sincero amico, cordiale e attento, nonostante Eìos facesse di tutto per risultare scostante e in collera, e maledì l’istante in cui, per quel nome, aveva rinnegato il proprio sangue.
Piegò il capo in un ringraziamento muto, poiché non poteva concedere spazio alcuno al desiderio di cedere a suo fratello, rivolgendogli solo gli occhi che rimanevano fedeli alla propria anima dilaniata.
- Sposerai Ariela, dunque? Spero abbiate un matrimonio fortunato! – gli augurò sincero.
- Ti ringrazio. Avrei piacere che tu vi presenziassi e non solo come marito di sua sorella … - lo invitò.
- Ne sarò lieto, Eìos! – rispose, comprendendo la difficoltà di lui a liberare le parole.
- Devo andare, adesso. – disse con calma, offrendogli la mano.
Si congedò con un cenno del capo, gli occhi verso la sua aguzzina e la bocca tirata in uno strano sorriso indecifrabile.
- Eìos … - lo chiamò Elmisk, quando furono fuori dagli uffici del registro civile.
- Padre, vi prego, non chiedete … - lo supplicò, faticando a mettere ordine nei propri pensieri convulsi ed ancor più nei sentimenti. – Vi chiedo solo di occuparvi di tutti i documenti necessari allo sposalizio, io ho bisogno adesso di qualche ora solo per me, per fermarmi, per fare il vezzo a tutti questi cambiamenti radicali. – terminò, allontanandosi.  – Torno a casa mia, padre, vi cercherò io, domani. – precisò, affinché non si preoccupasse della sua assenza. Montò a cavallo, rigido e con un malumore diffuso a causa di quella donna, della disponibilità disarmante di Miran, e del proprio slancio verso di lui, debolezza che non avrebbe dovuto permettersi.
 

*********
 

Nonostante la stanchezza della giornata, aveva preferito passeggiare per i viottoli di campagna, alle spalle della sua casa, piuttosto che rientrare subito. All’imbrunire, aveva osservato il verde dei campi, le macchie riarse di terra bruciata dal sole e di quella dissodata e pronta alle nuove sementi.
Aveva percorso il sentiero che si intrufolava tra i frutteti; colto qualche frutto maturo, dai rami più bassi, così come faceva da ragazzino quando aveva fame; aveva discorso con un bracciante, al termine della giornata di fatica, dell’uva che coltivava e del vino che ne sarebbe venuto.
Rientrato in casa, aveva preso un bagno rigenerante, che insieme alle scorie della giornata, si era portato via la tensione e l’aridità di quel soggiorno soffocante, trascorso alla tenuta: il patto scellerato con Leria; la distanza necessaria tra lui e Miran e Nubia con il suo sudicio tentativo di riportarlo tra le sue cosce.
L’unica immagine che gli era rimasta attaccata alla mente, era il viso di Ariela, il profumo inebriante delle rose di maggio, il colore delle ciliegie sulle labbra ed il sapore della bocca invitante.
Era così strano per lui pensare a quel modo ad una donna, un misto inconsueto di tenerezza e voluttà, che non riusciva a capacitarsene.
Erano passati soltanto un paio di giorni da quando l’aveva baciata e nonostante quelle ultime ore fossero state frenetiche per l’imminente incontro con Miran e sua madre per il riconoscimento, aveva pensato più alle sue labbra che a tutto il resto.
Non appena aveva saputo del suo arrivo in città, le aveva fatto recapitare un biglietto, nel quale la invitava, l’indomani, a fargli visita nella sua casa, così che potesse vedere la dimora in cui avrebbero vissuto da sposati.
Quando la sera si era insediata, rubando le ultime fievoli luci del giorno, aveva scelto la spiaggia. Si era messo comodo sulla sabbia che, fredda in superficie, sotto serbava ancora il calore solare, i gomiti sulle ginocchia, i piedi nudi lambiti dalla spuma sfrigolante delle piccole onde, lasciando vagare lo sguardo lungo la linea confusa di confine tra cielo e mare; perdendosi nelle piccole luci lontane delle lampare, come lucciole in un campo di notte.
E così era rimasto per ore, nell’attesa che il sonno giungesse ad occupare quella notte carica di pensieri e rigurgiti.
 

*********
 

Dunque quelli erano i baci!
Non faceva che pensare, Ariela, a quel contatto, mentre affondava il canino nelle labbra, un libro sulle ginocchia, gli occhi perduti su di un rigo qualunque. Percepiva ancora il tocco umido delle labbra di lui, la docile, calda invasione della lingua che seguiva il contorno delle proprie, lentamente e con discrezione, come se chiedesse il permesso di violare un rifugio sacro.
Le era piaciuto, tanto; non avrebbe mai creduto che baciare ed essere baciata potesse essere così avvincente e travolgente; come una rinascita, come la scoperta di sé dal di fuori, come le proprie parole dette con la bocca di un altro.
- Signora? – la richiamò Alvita, la loro cameriera, - Lo hanno appena portato per voi. – proseguì, porgendole un biglietto.
- Dallo a me! – le ordinò Asmha, allungando la mano. Lo aprì e nel leggerlo storse le labbra in una smorfia di disapprovazione. – E’ di quell’uomo … - rivelò con sufficienza.
- Eìos, madre, il suo nome è Eìos. – precisò, recuperando il biglietto già violato, che passava dalle mani della madre a quelle svogliate della cameriera.
Ariela lo rigirò tra le mani emozionata, lo aprì e lo osservò. La carta di pergamena avorio era impregnata dell’inchiostro nero, le lettere regolari si susseguivano veloci, come se, nello scriverle, la mano avesse voluto giungere subito al punto, alla richiesta. La giovane immaginò le dita di lui intingere la punta nel calamaio, descrivere il proprio invito, con quella gentilezza mascherata e quella determinazione tipica del suo carattere. Sorrise all’idea che l’avesse cercata appena arrivata in città, come le aveva promesso.
- Non ci andrai … - precisò Asmha, perentoria.
- Madre …  Mi ha semplicemente invitato a fargli visita, nella casa in cui vivremo da sposati! – le fece notare.
- Non posso accompagnarti, e tu non puoi andare sola. Lo sai! –
- Ci andrò, invece. – ribatté, decisa, - Mi accompagnerà Alvita. – terminò, ripiegando il biglietto e inserendolo tra le pagine del libro.
- Quell’uomo ha una pessima influenza su di te … -
- Eìos, madre, si chiama Eìos! – ripeté, con ancora più determinazione, - E non ha alcuna influenza malevola su di me. – precisò, - Piuttosto, voi, abbiate maggiore riguardo: egli è il mio promesso … - la redarguì, sollevandosi. – Ed ora, vogliate scusarmi, ma è l’ora dei vespri! – si congedò, lasciandola a bocca aperta.
Si ritirò nella sua stanza, accaldata. Quel guizzo di indipendenza lo doveva a lui, al desiderio di vederlo ancora e sua madre aveva ragione da vendere: Eìos influenzava il suo umore, guidava le scelte, dettava alla sua bocca le risposte. I propri sentimenti per lui, sconosciuti mascherati e senza nome, le animavano il petto, le scioglievano il ventre, sottomettendo, impietosi, la ragione e la volontà.
Aprì l’enorme armadio e, per la prima volta da che era nata, osservò con cura ed attenzione i propri abiti, né provò alcuni, rimirandosi allo specchio, soppesando ogni particolare del corpo valorizzato dal colore, dallo scollo, dall’ampiezza delle gonne. Voleva piacergli, essere bella, conquistarsi i suoi occhi, arrendersi alle sue mani e di più, molto di più, consegnarsi alla sua bocca.
 

**********
 

La casa di Eìos era lontana dal rumore della città. Sorgeva sulla spiaggia, pietra viva e scarna su di una piattaforma di roccia. La vista dell’entrata era nascosta, alla strada principale, da un piccolo cancello di ferro battuto. Un viottolo di ghiaia biancastra serpeggiava nel mezzo di un giardino rigoglioso e disordinato, come se piante e fiori ed alberi vi fossero nati spontaneamente mescolandosi tra loro, fondendo rami, foglie, colori diversi e contrastanti in un’armoniosa tavolozza, che solo la natura stessa poteva creare.
Ariela scese dal calesse, lasciandosi aiutare da Alvita, che poi la precedette per suonare la piccola campana posta sull’inferriata.
Il suono le fece accapponare la pelle, come se l’avesse sorpresa, senza darle il tempo di realizzare che di lì a poco l’avrebbe rivisto.
La porta di massiccio legno scuro si aprì, Eìos comparve dalla semioscurità dell’interno, che contrastava col chiarore abbagliante del pomeriggio. Le sorrise caldo, con la stessa luce in viso che egli stesso ammirò negli occhi della propria ospite. Le aprì il cancello, che cigolò ferruginoso e lento, la invitò con la mano, perché entrasse e le disse: - Benvenuta … - con quella sua voce calda, che le sciolse i nervi contratti.
La invitò ad accomodarsi sul piccolo divano posto al centro della sala; le enormi vetrate, schermate da tende candide e trasparenti, facevano da cornice al verde del giardino illuminato a tratti; il rumore delle onde, che si infrangevano sulla battigia, giungeva mitigato e confuso, come il mormorio sommesso di chi non vuole disturbare.
Parlarono e si sorrisero: Eìos le raccontò dell’incontro con Leria e Miran; del nome finalmente ricevuto, delle pratiche per il loro matrimonio, che aveva affidato alla cura del dottor Elmisk, ed Ariela non riuscì a trattenere la contentezza di quelle notizie e di più la consapevolezza che la loro unione fosse vicina.
- Vieni … ti mostro la casa. – la invitò, porgendole la mano. – E tu … - ordinò, rivolgendosi alla cameriera che aveva presenziato a tutto l’incontro, - Le cucine sono da quella parte. – le indicò con l’indice la porta che dalla sala entrava in un corridoio. La giovane, raccolto il consenso della padrona, chinò il capo intimorita e gli obbedì.
Ariela gli affidò la propria mano e lo seguì per le varie stanze: prima la piccola cucina che si affacciava sull’aia; poi lo studiolo, con la ricca biblioteca e miniature di velieri dalle vele tese e colorate, ed infine la camera padronale, nell’ala opposta della casa. Essa si apriva in una vetrata che affacciava sulla sabbia fine e bianca della spiaggia, a pochi metri di distanza dal mare. Sul lato opposto, il letto di mogano, le lenzuola perfettamente ordinate e candide, un tavolo ornato da un vaso di fiori profumati e coloratissimi.
- Temo sia piuttosto spartana per le tue abitudini … a giudicare dallo sfarzo delle stanze della tenuta … - sottolineò, mentre Ariela la percorreva attenta, soppesando ogni particolare.
- Quella non è la mia casa … ed io non sono abituata al lusso. – lo rassicurò, poggiandosi con le anche sulla sponda del letto.
- Questo mi conforta: non sono il tipo d’uomo che da peso agli oggetti … ed una casa è solo un guscio …  - le disse, inclinando il capo da un lato per guardarle il viso chino. – Ciò che però considero un tesoro è qui … - continuò, avviandosi verso la vetrata.
La spalancò e, immediatamente, il profumo dell’oceano si insinuò conquistatore in tutta la stanza; le tende si gonfiarono, come vele di una nave, ed lo sciabordio delle onde, a pochi metri, si accordò perfettamente col canto dei gabbiani che percorrevano con le ali tese il confine tra sabbia e mare.
- Vieni … - la chiamò, perché lo raggiungesse sul piccolo patio su cui affacciava la camera.
Una sdraio di legno impregnato di salsedine, un cuscino di candida tela, rivolgevano lo sguardo al mare di un’attraente colore turchino, come i capelli delle fate.
Ariela si avvicinò alla balaustra di pietra, poggiandovi i palmi delle mani, ispirando la brezza lieve che spirava.
- Ti piace? – le chiese, accostandosi a lei.
Ariela annuì, scossa dal corpo di lui che le sfiorava la schiena, mentre il profumo della pelle di Eìos si mischiava con sapienza armoniosa a quello dell’oceano: terra e acqua, muschio e sale.
- Me ne rallegro. Io l’ho amata dal primo momento in cui l’ho veduta, dal mare … - le spiegò, tracciando con l’indice, una linea immaginaria attraverso la baia tranquilla. – Il rumore delle onde in fermento, il profumo del vento, che spira dal mare, mi acquietano, sovrastano, con la loro leggerezza, ogni altro rumore, anche quelli dell’anima. – continuò, sempre più vicino, il petto a scaldarle le scapole nude. – E’ tua adesso, ti appartiene. – le rivelò, poggiando sulla balaustra le chiavi della casa. – Sentiti libera di apportare tutti i cambiamenti che ritieni opportuni, nonché di trasferire la tua biancheria e gli abiti, già da domani. – terminò, passandole un braccio intorno alla vita, fino a che il palmo aperto della mano le scaldò il ventre. Il viso aderì alla guancia di lei, che bruciava, come arsa dal sole; l’altro braccio le coprì lo sterno, fino a che la mano si ancorò alla spalla opposta.
Il contatto era così intimo e naturale, da permetterle di abbandonarsi sul corpo di lui, che strinse ancora di più l’abbraccio.
Le sfiorò la pelle della guancia con le labbra, dal lobo alla mandibola, per poi avventurarsi fino alla bocca.
- Eìos … - si riscosse lei, - Mia madre … mi ha proibito di restare sola con te … -
- Che sciocchezza, siamo promessi! – sussurrò, rapito da quel traballante tentativo di sottrarsi a lui.
- Sì, ma è sconveniente che io e te … che tu … - provò a ribattere, senza la forza necessaria per respingerlo.
- Non aspetterò di essere tuo marito per baciarti ancora, lo sai, vero? – l’avvertì, percorrendo ogni centimetro di pelle del suo viso fosse a disposizione della propria bocca. – Dimmi che non vuoi … dimmelo e non ti toccherò fino a che non sarà lecito anche ai tuoi occhi. –
Ariela esitò, poiché tutto era confuso e tremolante, come il riflesso delle sponde sullo specchio d’acqua dello stagno, disturbato dall’affondo di un sasso.
- Io non so cosa sia giusto e cosa sbagliato, quando mi stringi così … non so più che fare. –
- Lascia che sia io a decidere, per me e per te, dunque … Lasciati stringere e fatti baciare … - le suggerì, la voce vischiosa come miele, facendola voltare, per cercare il contatto con le sue labbra. La guardò, gli occhi liquidi di desiderio, e la strinse a sé, per non permetterle di allontanarsi neanche d’un soffio ed annullare così, con l’aderenza dei corpi, ogni pensiero razionale, ogni riluttanza, esattamente come accadeva a lui.
La baciò, ma non fu come era stato la prima volta, fu una ricerca profonda, uno scandaglio nei fondali del mare. Fu come se entrambi desiderassero dall’altro, qualcosa di più intimo dello stesso bacio, l’anima forse, ancora nascosta.
Eìos la cercò, quell’anima nascosta, protendendo la propria; la cercò con la lingua decisa a conquistare ogni angolo, ogni piega della bocca: la cercò, stringendole i fianchi morbidi, aderendo ai seni di lei, con il proprio petto in subbuglio. Le carezzò le scapole con la punta delle dita, facendola rabbrividire, le baciò le guance e gli zigomi e le tempie, per riprendere fiato, senza interrompere il contatto. Inspirò il suo profumo seducente e ricaricò i polmoni d’aria, per tuffarsi ancora in quel mare invitante che era la sua bocca. La baciò ancora, trovandola aperta e pronta a quell’assalto morbido; la sentì cercare, con le sue piccole mani, preda del suo stesso ardore, i muscoli della propria schiena, impegnati nell’abbraccio; ne percepì il respiro affaticato e scompigliato, il petto contrarsi per l’affanno, e la lingua invocare la propria.
Quando quella ricerca puntuale di sé stesso e dell’altra si compì, Eìos si scoprì non sazio, ma ancora affamato di lei, di quel sapore che sentiva su palato, e sorrise di uno smarrimento tanto inusuale per uno come lui.
- Non ridere di me … della mia inesperienza … - disse, imbarazzata e accaldata e stravolta dalla sua stessa audacia.
- Non rido di te … mi piace, mi piace e mi conquista, come niente altro al mondo, ogni cosa di te, ogni gesto, ogni parola. La pelle, il profumo e questo bacio sorprendente mi tolgono la ragione …  - sorrise ancora.
– Quanto all’inesperienza … tutto si impara, Ariela, tutto si può scoprire come fosse cosa nuova ogni volta. Basta non fermarsi, non saziarsi mai e chiedere e chiedere e dare continuamente, senza lesinare. – terminò, tornando sulla sua bocca per sfiorarla ancora.
- Cosa è questa la seconda lezione? – ironizzò, gli occhi chiusi e le mani strette sulle sue braccia.
Eìos rise, di quella sua risata roca, seducente e contaminante, senza allontanare troppo le labbra da quelle di lei, stringendola ancora di più, tanto che ella percepì il petto di lui vibrare.
- Sì, Ariela, è la seconda lezione! Ed ora lascia che veda cosa hai imparato … - la provocò, solleticandole la pelle morbida del collo, lasciandole baci conquistatori e piccoli morsi dolci, fino all’omero. Poi risalì con la stessa meticolosa lentezza fino alle labbra già schiuse.
Si baciarono ancora, di nuovo, incuranti, del mondo intorno, sordi a qualunque richiamo che non fossero i propri aneliti, impegnati soltanto a baciarsi, sinceri, come solo gli amanti sanno essere.


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Bentrovate!
Come sempre ringrazio tutti coloro che passano da queste parti, chi ha inserito la storia tra le seguite e le preferite.
E di più ringrazio coloro che recensiscono sempre!
Devo l'inizio della seconda parte di questo capitolo all'immagine di una splendida canzone di Rino Gaetano; Ad esempio a me piace il Sud, che mi ha ispirato.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che non manchiate di farmi sapere cosa ne pensate!
Un bacio ed alla prossima!


 

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Capitolo 14
*** . 14 . Un passo indietro ***


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. 14 .



Un passo indietro

 

L’aria era opprimente.
Il temporale aveva portato un carico di nubi gonfie e plumbee, che avevano soffocato l’orizzonte rendendolo cupo. La pioggia aveva sparso quell’odore acre e pungente della terra bagnata ed il vento, dal mare, aveva percosso i rami degli alberi più alti, spettinandoli, come bambini dai capelli arruffati. La tempesta aveva via via spento il proprio furore, allontanandosi lungo la costa, verso ovest, incontro al sole morente, lasciando una delicata scia di acquerugiola, che picchiettava, sommessa, sul tetto e sulle imposte di legno lasciate spalancate, perché Eìos potesse godere del palesarsi dell’impeto della natura.
Il dottor Elmisk entrò in casa, i vestiti leggermente umidi per la pioggia, il bastone di legno intarsiato in una mano, ed il cappello grondante d’acqua, nell’altra.
- La prima tempesta dell’estate imminente … - osservò scotendosi, - Mi ha sorpreso appena uscito di casa. – continuò, mentre il figlio gli dava le spalle, con il viso rivolto verso il mare. - I documenti per il matrimonio, Eìos, sono pronti. – terminò, sventolando una cartelletta di cuoio, picchiettata di gocce di pioggia.
- Lasciateli pure lì … - indicò, con un gesto del capo, lo scrittoio alle proprie spalle, colmando un bicchiere di liquore dal profumo acre.
- Cosa ti turba, figlio? – gli chiese, accorgendosi del tormento che si palesava attraverso la voce del giovane.
- Nulla a cui voi possiate porre rimedio. – rispose sgarbato, rimanendo di spalle. – Sono stanco … e voglio restare solo … - si congedò, incamminandosi verso il patio sulla spiaggia.
Elmisk sospirò affranto per la rudezza del giovane: sperava che gli avvenimenti degli ultimi giorni, nonché l’unione ormai prossima con Ariela, avessero acquietato quel risentimento selvaggio che, per anni, lo aveva animato. Lo aveva visto sorridere ed ammorbidirsi, cedere alle lusinghe della serenità ed aveva messo a dimora il suo vecchio cuore di padre preoccupato. Quella brusca virata del suo umore, proprio quando la sua vita diveniva tranquilla ed appagante, lo inquietava e lo spingeva a cercare le motivazioni che potevano aver incrinato l’ingranaggio.
Ma Eìos, come tutte le altre volte, non dava cenno di volersi aprire alle confidenze, dunque non gli restava che accettare quella distanza ed aspettare che ritornasse a lui.
Eios, dal canto suo, sapeva di aver ferito suo padre, sempre disponibile e saggio, sempre premuroso nell’elargire il consiglio adatto alla propria avventatezza. Ma non era riuscito a farne a meno: quel grumo di rabbia, di inadeguatezza, di insoddisfazione, gli aveva occupato di nuovo lo stomaco ed, ad ogni pensiero rivolto a lei, si espandeva invasore e sempre più acido.
Solo qualche giorno prima, le era arrivato così vicino al cuore da sentirlo battere e pulsare sangue e desiderio; l’aveva baciata, come mai aveva fatto con altra donna, teneramente, con dolcezza e pazienza, tanta quanta non credeva di possedere, ed ella gli aveva risposto con impeto e grazia, con slancio e pudicizia, mostrandogli una via dei sentimenti e delle pulsioni quieta, ma inebriante.
Poi, il giorno seguente, gli era sgusciata via dalle mani e lo aveva precipitato in un mare di rovelli pungenti e senza risposta.

- Cos’hai? – le chiese facendosi più vicino.
- Nulla. – replicò sfuggente, gli occhi nascosti e le mani visibilmente nervose.
- Sembri distante: ho fatto o detto qualcosa che ti ha turbata? – insistette, carezzandone una, con la punta dell’indice.
- Nulla … - ripeté, mentre un brivido le segnava la pelle, lì dove il dito di lui passava.
- Sei avara, Ariela … - le fece notare, percorrendo a ritroso il sentiero descritto prima.
- Non è vero, solo non ho alcunché da dire. – si difese, a disagio.
- Menti! – la riprese con la voce più dura, allontanandosi da lei.
- Non è vero … E’ che mia madre non vuole che restiamo soli! – accampò l’ennesima scusa.
- Lo hai già detto ieri, ma poi mi hai baciato. -
- Non è gentile, da parte tua, farmelo notare … - lo rimproverò, infastidita.
- Io non sono gentile e non sono un gentiluomo e non ho pazienza. Ma tu mi hai sempre conosciuto per quello che non sono e questo non ti ha impedito di chiedermi di sposarti! – le fece notare, tagliente, con il manifesto desiderio di pungere il suo orgoglio e farle rivelare i motivi della sua distanza. – Hai cambiato idea, forse? –
- No! –
Eìos sorrise amaro, scuotendo il capo, con un fremito di impotente rassegnazione.
- Come vuoi, Ariela, tieniti pure stretti i tuoi pensieri …Non verrò ad elemosinare fiducia e stima e rispetto.
Ma non è così che ti avrei tenuta come sposa, non con tanta distanza …  - mormorò, una mano già sulla maniglia ed una voce affranta e sconfitta, inspiegabilmente rassegnata.
Ariela, rimase ferma, di schiena, le lacrime pungenti ad invaderle gli occhi trasparenti ed un sussulto lacerante nell’udire il cigolio della porta che si chiudeva, lasciando fuori il mondo che aveva appena cominciato ad accarezzare.

- L’ho baciata … - richiamò l’attenzione di Elmisk che si stava allontanando, - L’ho baciata, l’altro giorno proprio qui … – terminò, dopo un sospiro per prendere fiato, per poi buttare giù l’intero contenuto del bicchiere.
Elmisk tornò sui propri passi, sollevato: dunque era solo una questione di cuore!
- E … non è stato come credevi? – indagò, cercando di rimanere il più discreto possibile, per non invadere il suo spazio segreto.
- No, non lo è stato … - rispose, con una smorfia per il bruciore dell’alcol che graffiava la gola.
- Ariela è giovane ed ha ricevuto una educazione severa: non ha esperienza e … -
- Non è questo, padre. – lo interruppe, - Sono io, come mi ha fatto sentire baciarla, stringerla … -
- Dunque, avevo ragione, figlio, non è solo carne e sangue … - ammiccò.
- No … - sospirò il giovane.
- E non ne sei felice? State per unirvi in matrimonio: cos’altro puoi volere di più, che portare amore in dono alla tua sposa? –
 - Non ho detto che è amore! – precisò,  - Ho solo detto … -
- Oh, ti prego, Eìos, non combattere con le parole: puoi essere accorto quanto vuoi nello sceglierle, ma il tuo turbamento è palese! –
- Se fosse vero sarebbe una sciagura … - si lamentò, come un bimbo.
Elmisk sorrise di quella fragilità di suo figlio, così ben mascherata per anni; vi colse il tremito dell’inesperienza di un ragazzino davanti al sentimento nuovo, e tutta la paura che amor ch’ a nullo amato amar perdona*.
- Perché parli di sciagura? -
- Perché l’amore è la lusinga di un serpente bugiardo … un miraggio ingannatore: ti travolge e coinvolge, ti innalza al cielo con mille promesse e poi ti precipita … -
- E’ soltanto l’amarezza di aver creduto in chi non meritava né la tua fiducia, né il tuo sentimento, che ti spinge a tali assurde conclusioni. –
- Tutte le donne sono bugiarde ed oscure: di loro stesse palesano solo una traccia diafana, non rivelano mai l’anima, piuttosto tormentano la tua e la scuotono, come ramo al vento … -
- Non è vero, Eìos, e comunque tu non lo credi … Ariela ti infiamma di passione sincera e pura ed è questo che ti scuote e ti fa paura. – lo corresse, con la saggezza dei vecchi.
- Mi sfugge, padre, un giorno si abbandona e si affida, l’altro scivola dalle mie mani, come acqua corrente, e questo mi tormenta, giacché nasconde una parte di sé … -
- Le hai chiesto il perché? – insistette.
- L’ho fatto, certo, che l’ho fatto … -
- Se ti conosco, e ti conosco, hai deposto le armi dopo il primo tentativo fallito! Non comprendo come un uomo come te, un soldato, possa essere tanto remissivo dinnanzi alla battaglia più necessaria e coraggiosa della propria esistenza. – cercò di punzecchiarne l’orgoglio.
Eìos inspirò il profumo forte del mare al tramonto, posò con estrema lentezza il bicchiere vuoto, che aveva fatto scorrere tra le mani, e rientrò nella sua stanza. Sciacquò il viso stanco; l’acqua fredda gli ridonò vigore; sistemò la camicia, che aveva tenuta slacciata fino a quel momento, e si diresse alla porta.
- Ed ora, dove diamine corri? – chiese il dottore, che già pregustava la risposta.
- Alla guerra, padre. Vado alla guerra! –

 

**********
 

Era stata perfida, un rasoio affilato che seduce la pelle sottile dei polsi.
Le aveva insinuato nella mente, ma ancora di più nel cuore, quel dubbio ragionevole, che Ariela aveva voluto mettere a dimora.
Quando Nubia era entrata nella sua stanza, il vestito di seta ed il ventaglio richiuso tra le mani, aveva sussultato come i bambini nascosti sotto le coperte per paura del buio, che tremano ad ogni fruscio.

- Davvero credi che nutra interesse per te? – le aveva chiesto, con un tono di scherno. – Sei un’ingenua ed una stupida: egli ti sposa solo per fare dispetto a me, per farmi patire ciò che io gli ho inflitto sposando Miran … E’ me che ama, me che vuole! –
- Non è vero, Eìos mi ha giurato che … -
Nubia rise, coprendosi la bocca, in un gesto di sonoro disprezzo.
- Ti ha mentito: qualunque cosa ti abbia detto era una menzogna solo perché tu cedessi alle sue lusinghe.
Pensi davvero che possa essere attratto da te, dopo che mi ha avuta? Credi che possa desiderarti dopo aver desiderato me? – insistette ancora più affilata.
- Mi ha baciata … - si giustificò, anche se il bruciore di quelle parole le ricordava, perfido, la propria inadeguatezza e le infuocava il cervello.
- E lo farà ancora, così come farà l’amore con te, ma sarà solo perché è un uomo con impulsi e desideri carnali. Ma non ti amerà … mai! – sentenziò, ancora col sorriso sulla bocca sacrilega, - Ed un giorno, quando la sua vendetta sarà consumata, mi cercherà ancora ed io lo accoglierò, poiché siamo destinati, l’uno all’altra.

Quelle parole ancora la ferivano, crudeli, a distanza di un giorno. L’avevano costretta ad allontanarlo, a negarsi a quella dolcezza che, nei giorni precedenti, le aveva sciolto ogni paura.
Nubia diceva il vero:  se Eìos l’aveva amata, non poteva aver smesso, quel sentimento caldo, di infervorargli il cuore; e se l’aveva avuta nel proprio letto, non poteva ora desiderare lei, così ingenua e semplice, senza malizia, né l’arte avvincente di un’amante disinibita.
Nonostante, però, le parole della sorella le occupassero la mente e le soffocassero il cuore, Ariela non aveva avuto il coraggio di negarsi a quel matrimonio, giacché lo voleva, come si cerca cibo quando il corpo è affamato.
La tempesta, appena passata, aveva lasciato l’erba del giardino ricoperta di  foglie e petali disordinati; aveva fatto cadere, nella furia, i piccoli vasi di coccio, disposti sui davanzali, alcuni dei quali, ormai rotti, avevano disperso la terra compatta e le piantine che contenevano.
Rimuginava, affranta, sulla furia degli elementi, che mai come in quegli istanti, le era sembrata pari al soqquadro che le disordinava il petto. Mille piccole domande pungenti occupavano la mente, come quei petali strappati e confusi, e cancellavano l’ordine precedente e sicuro dei propri sentimenti.
- Buonasera … - la sorprese mentre raccoglieva le piantine di ranuncoli gialli, le cui tenere radici erano rimaste saldamente compatte intorno alla terra che le aveva ospitate.
- Buonasera. – ripeté, meccanicamente, stralunata, come appena sveglia dopo una notte di sonno.
- La tempesta ha portato danni … - osservò, chinandosi accanto a lei e radunando i cocci appuntiti dei vasi.
- Nulla che non possa essere sistemato con nuovi vasi ed altra terra … - replicò, continuando la propria opera.
Eìos, ancora in ginocchio accanto a lei, strofinò le mani tra loro, per ripulirle della polvere della terra che le aveva imbrattate, e con una le sfiorò la pelle candida dell’avambraccio, dal polso al gomito, in una delicata carezza, come un richiamo, il consenso muto di avvicinarsi a lei.
Ariela sussultò, il tocco delle sue dita era infiammante e le tendeva i muscoli.
- Vado a chiamare mia madre … - disse e, sollevandosi, fece per allontanarsi.
- No! – la fermò, la presa salda sul polso, –  Voglio parlare con te, da soli … -
Ariela si arrese, così poco avvezza come era alla battaglia, i polsi le tremarono alla determinazione di lui, di fronte alla quale, si sentì disarmata, come sempre.
- Siedi, ti prego. – la invitò, conducendola ad una panca; si sfilò la giacca, sistemandola perché non si bagnasse le vesti, e, quando la giovane fu seduta, Eìos le si accomodò accanto, non troppo vicino, perché non si sentisse assediata, ma neanche troppo distante, perché ella potesse sentire il profumo dei pensieri e l’armonia dei respiri. – Tra qualche giorno saremo marito e moglie, Ariela. – le ricordò.
-  Lo so … -
- Dunque, vuoi un estraneo, quel giorno, a prenderti sull’altare? – le chiese con quella dolcezza velata, che ella aveva imparato a cogliere.
- No. – si limitò a rispondere.
- E cosa vuoi essere tu per me? Involucro senza sostanza, carne senza anima? – insistette più vicino, il respiro calmo a sfiorarle le tempie.
Avrebbe voluto avere il coraggio di rivelargli che desiderava essere tutto per lui: corpo pieno ed invitante; anima rassicurante e calda; donna e amica; baia sicura e burrasca dei sensi. Ma si sentiva così piccola ed insipida, così ingenua e traballante, da essere sicura di non aver nulla da offrirgli. Scosse solo il capo, mancando di parole.
- Parlami, allora. Parlami, Ariela, e dimmi ogni cosa: i tormenti ed i dubbi; i desideri e le paure; ed, alla stessa maniera, prenditi le mie confessioni, le mie solitudini, i miei slanci e la mia voglia di te … - continuò, le labbra ad un respiro dal suo orecchio, - Poiché i silenzi sono pietre appuntite che induriscono le anime; solidificano le distanze e separano per sempre. – terminò, mentre la bocca si era già presa, tra una sillaba e l’altra, prima la sua guancia poi lo zigomo.
- Perché … perché mi sposi? – si arrese alla domanda che la tormentava dal giorno in cui egli aveva accettato.
- Temi che sia per fare sfregio a tua sorella? Credi che io sia così meschino da accettare un’unione che non desidero, per far male a chi ne ha fatto a me? – le domandò, senza allontanarsi, poiché il contatto con la sua pelle gli apriva il cuore e gli ispirava le parole.
- No … Ma Nubia dice … -  cercò di spiegare, ma le lacrime si presero tutti i suoi occhi e si infransero sulle labbra di lui che le corteggiava la pelle.
- Qualunque cosa abbia detto, qualunque cosa dovesse dire ancora … nelle sue parole v’è solo menzogna! Qui è la verità … - affermò deciso, stringendole le mani intorno al viso e portando gli occhi di lei dentro i propri. – Qui è la sola verità a cui devi affidarti … - continuò, prendendole una mano e portandosela all’altezza del petto, - … E qui … - proseguì, facendo compiere lo stesso gesto alla propria, che dal viso, giunse sul petto di lei, - … E qui … - terminò baciandola.
- Un bacio non è una risposta! – mormorò Ariela, raccogliendo il fiato spezzato dai baci.
- Uno no, ma mille fanno un discorso convincente … - ammiccò, con un sorriso sfacciato e genuino che posò direttamente sulla bocca di lei.
- Eìos … - replicò, in cerca di quella risposta, che stava sì nei baci, ma che rivendicava, al contempo, parole sicure e certezze svelate.
Eìos allontanò il proprio viso da quello di lei, per guardarla; si fece serio, il verde intenso degli occhi si mischiò alle pagliuzze dorate disperse nell’iride, dense come le gocce di resina dei pini; raccolse le parole, che vagavano impazzite tra mente e cuore, e le disse: - Non ti  dirò che ti sposo perché ti amo … giacché l’amore cui hai diritto è una conquista che io non sono ancora pronto a meritare. Ma ti dirò che ti sposo perché sei bella, nell’anima quanto nel corpo; perché, di me, fai salire in superficie l’essenza negata al mondo e mi acquieti, come una notte di pace; perché mi fai bruciare i palmi delle mani per la voglia di toccarti … Ti sposo perché ti voglio! – concluse, distante quanto bastava, per accendere in lei lo stesso desiderio.
Fu in quel preciso momento che Ariela dimenticò: le parole di Nubia; l’educazione inculcatale; il senso di inadeguatezza alle pulsioni di lui. Dimenticò le raccomandazioni della madre; l’inesperienza che l’aveva sempre frenata e, come trascinata dalla piena del fiume, si lasciò condurre alla foce dei propri desideri e di quelli di lui.
Lo baciò con la dolcezza che le apparteneva ed, al contempo, con un impeto nuovo; gli allacciò le braccia intorno al collo, lasciandosi stringere la vita, e continuò a baciarlo come se nella sua bocca, risiedesse il proprio respiro. Lo baciò sempre più intensamente, perché il senso delle parole divenisse sapore; perché esse, come ambrosia, scendessero, attraverso la bocca e la gola, fin dentro lo stomaco, per sciogliersi poi al centro esatto del corpo.
E quando quel pasto sensuale fu terminato, le labbra di entrambi rimasero le une sulle altre ed Ariela sorrise, sulla bocca di Eìos, della propria conquista. Le parole di lui le bastavano: cantavano di desiderio e passione, di rispetto e salvezza; la nutrivano di promesse di un amore che sarebbe arrivato, un bacio alla volta ed una carezza dopo l’altra.

* Verso tratto dal Canto V dell' Inferno della Divina Commedia di Dante.

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Capitolo 15
*** . 15 . Preludio ***


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. 15 .
 

Preludio
 


Era nervosa.
Osservò con attenzione meticolosa la stanza da letto della sua nuova casa: era romantica, l’alcova perfetta per una prima notte.
L’austerità dell’imponente letto di mogano scuro era domata dalle candide, profumate lenzuola di lino, ricamate con sapienza; i guanciali, morbidi e gonfi, come nuvole primaverili, contrastavano con il legno intarsiato della testata ed i volani leggeri si adagiavano come piccole onde sul risvolto; il copriletto, anch’esso candido e lunare, intrecciava fili argentei e cangianti e ricadeva morbido sul pavimento maiolicato. Al centro del talamo, era adagiata una rosa scarlatta dal gambo lunghissimo, come le altre disposte nel vaso di cristallo, sul tavolino al centro della stanza.
Si avvicinò alla vetrata spalancata: la luna enorme e bianchissima riverberava sulla superficie piatta del mare, disegnando sullo specchio d’acqua nero, una scia luminosa, come un sentiero tremolante, dalla linea sfocata dell’orizzonte alla riva. Enormi pini si stagliavano con la chioma folta nel cielo e affondavano le radici profonde nel suolo, a metà tra la terra e la sabbia della spiaggia. Non c’era vento, solo una lenta, fresca brezza marina, che solleticava la trama delle tende leggere e le sfiorava la pelle.
Gli ospiti che avevano presenziato alla cerimonia e poi al rinfresco erano andati via, fatta eccezione per il dottor Elmisk e sua madre, che ancora sedevano nel giardino illuminato da ardenti fiaccole e tremule candele, quando Ariela si ritirò per prepararsi per la notte.
Si era spogliata dell’abito da sposa ed aveva indossato, con l’aiuto di Alvita, una camicia da notte finemente ricamata e, su di essa, una vestaglia che le copriva le spalle e la faceva sentire meno esposta agli occhi che presto l’avrebbero guardata.
Si osservò allo specchio: il viso le appariva pallido d’impazienza e di ansia per quella notte sconosciuta che stava per arrivare, così si pizzicò le guance, sperando che le si colorassero, donandole un aspetto più sano e tranquillo, almeno agli occhi di suo marito.
Avvampò al pensiero di Eìos congiunto a lei sull’altare; a come l’aveva guardata, pronunciando i voti solenni ed al sottile fremito che le era scorso lungo le dita, quando egli le aveva preso la mano per infilare la vera nuziale. Le sovvennero in mente tutte le volte che i loro occhi si erano incrociati, durante quella giornata, in mezzo a quelli di tutti gli altri, quella vena di desiderio che vi aveva colto e l’attesa forzata e si pentì di non aver cercato conforto e sapienza nelle parole di chi era già moglie.
Si sentì ingenua ed inesperta, in balia di un mare avviluppante dal quale anche il nuotatore più esperto fatica a salvarsi, ma poi all’immagine dei flutti si sostituirono il calore degli abbracci, delle carezze morbide e, di più, dei baci travolgenti di Eìos ed Airela fu certa che se quelli erano il preludio del loro sposalizio, la notte che sarebbe venuta, così come tutte le altre, sarebbe stata traboccante di perfetta gioia coniugale.
Persa in quel groviglio di pensieri ed emozioni contrastanti, sussultò quando sentì bussare.
Si schiarì la voce e si passò i palmi aperti delle mani sulla vestaglia a stirare inesistenti pieghe, poi gli concesse il permesso ad entrare.
- Sono andati via, finalmente … - esordì, Eìos, richiudendosi la porta alle spalle. - Tua madre … mi ha rivolto oggi, per la prima volta, la parola, da quando ci conosciamo. – disse, sfilandosi la giacca e lasciandola cadere, distrattamente, sulla poltroncina, vicino alla toletta. – Mi ha chiesto di prendermi cura di te … - continuò, sbottonando i gemelli di ematite iridescente e nera, che chiudevano i polsini della candida camicia.
Si avvicinò a lei, che rimase di spalle, intimidita; le posò i palmi delle mani sulle scapole e la fronte sulla nuca nivea e leggermente scoperta. Inspirò forte il profumo della pelle, che sembrava liberarsi ad ogni respiro di lei, e le chiese: - Credi che saprò esserne capace, Ariela? –
La voce era dolce, sommessa, quasi un sussurro, come di chi vuole sapere, ma paventa la risposta.
- Credo di sì. – lo rassicurò, ancora ferma, il viso rivolto verso il letto e le dita a tormentare i lacci di seta che chiudevano i lembi della vestaglia. Le mani di Eìos scorsero dalle scapole agli omeri, in un frizione rilassante, che le scioglieva i muscoli tesi e addolciva i nervi contratti della schiena; percorsero le braccia fino ai polsi, lentamente, per poi ritornare alla fonte, portandosi dietro le maniche dell’indumento, che velavano la pelle. Ariela percepì un brivido sottilissimo percorrerle la spina dorsale, pungerne ad una ad una le vertebre e la pelle accapponarsi, tanto che i polpastrelli di lui ne colsero il fremito, inducendolo ad avvicinare la guancia a quella di lei ed il torace alla sua schiena; le braccia decise, teneramente, si incrociarono sullo sterno e si ancorarono agli omeri, quasi a volerla scaldare.
- Hai freddo? Vuoi che socchiuda le imposte: l’aria di mare è ancora piuttosto fresca … - le domandò.
- Non ho freddo. –
- Cos’è, dunque, paura? – insistette, facendola voltare e attirandola nuovamente a sé per la vita.
- E’ solo …  - mormorò, mordendosi le labbra imbarazzata, - E’ … che non so cosa fare … - confessò, in un mormorio quasi di scuse.
Eìos le sorrise, sciogliendo l’abbraccio e portandosi le mani fredde e tremanti di lei sul petto. Ne carezzò  il dorso con i pollici; le baciò le guance accaldate, gli zigomi, le tempie, la fronte, seguendo un percorso logico, rassicurante e calmo, come con una bambina spaventata.
- Vieni. – la invitò, tenendole strette le mani, che cominciavano a scaldarsi, e procedendo verso il patio della camera, all’indietro, per continuare a guardarla negli occhi.
Ariela lo osservava, affidata e curiosa, i passi piccoli su di un sentiero incerto, ma esplorabile, senza chiedere, se non con gli occhi grandi e blu, che alla luce confusa delle candele e della notte, che invadeva la stanza, sembravano le acque pulite dell’oceano più profondo.
Quando furono all’esterno, la luce fluorescente della luna, colpì la pelle diafana di lei, conferendole l’aura eterea di una ninfa greca, partorita dallo stesso astro siderale. La bocca sembrò, in quel chiarore innaturale, ancora più rossa, come di sangue puro ed invitante.
Eìos le lasciò le mani, sedette sulla vecchia sdraio e si sfilò gli stivali, che ancora calzava, senza perdere il contatto con gli occhi di lei, come un marinaio che si affida alle stelle, per non perdere la via di casa. Allo stesso modo, lo guardava Ariela: la luce dell’astro notturno lo illuminava da dietro, disegnandone il profilo del corpo deciso, e la pelle bruna, di contro, confondeva i tratti del viso, lasciando emergere solo gli occhi lucenti di un riverbero, a lei sconosciuto, ma che per Eìos era di desiderio purissimo e carnale  per la donna che lo aveva scelto.
- Toglile … - ordinò, con il sorriso del bambino birichino, in piedi davanti a lei, indicando le scarpette da camera bianche, come ogni cosa di lei. Ariela sorrise, contagiata, poggiò una mano sulle braccia, che lui teneva conserte, per rendere più agevole l’operazione, e, con l’altra, le sfilò, una alla volta, squilibrata dai movimenti ed, ancor più, dalle labbra di lui, sorridenti e sfacciate, che ancora non era riuscita a sfiorare dal bacio sull’altare.
Quando i piedi furono nudi, Eìos le prese di nuovo la mano ed insieme scesero sulla spiaggia, verso la riva.
La sabbia era tiepida, sottilissima; sfiorava le caviglie, come seta, quando i piedi vi affondavano; filtrava attraverso le dita, come in una clessidra panciuta che segna lo scorrere del tempo, quando ne emergevano per compiere il passo successivo. Il mare lambiva la riva, come nella carezza sensuale di un amante, la impregnava di spuma sfrigolante e candida, come al culmine di un amplesso, per poi ritirarsi ed assalirla ancora, in un congiungimento senza fine e senza stanchezza.
Camminarono, il braccio di lei aggrappato alla vita di lui ed il suo a coprirle le spalle, per proteggerla dall’aria umida della sera inoltrata; soli ed accompagnati dalla natura animata, ma silenziosa, in un Eden incantato, creato apposta per loro.
Quando giunsero alla fine della spiaggia, dove  la scogliera a picco precludeva il passaggio e recingeva la piccola baia sulla quale la casa si affacciava, tornarono indietro, con la stessa lentezza dell’andata, godendo del preludio della notte che stava per legarli indissolubilmente e per sempre.
Giunti nella stanza da letto, il tepore delle mura si sostituì alla brezza del mare ed Ariela si sentì rilassata, tranquilla, seppure ancora impacciata nei movimenti e trepidante per l’attesa. Era intenerita dalla pazienza di lui, dal tempo che le aveva dedicato perché ella potesse prendere confidenza con quella notte che stava per cambiarla, che l’avrebbe resa donna e sposa, cosciente del proprio corpo e dei desideri che lo scuotevano e che tendevano quello di lui.
- Vieni qui … - ordinò, chiamandola con un gesto della mano, - Siedi. – continuò, indicando la poltroncina davanti alla vetrata. Ariela obbedì, completamente affidata alla sua voce, che addolciva ogni sua richiesta; Eìos colmò il catino di ceramica smaltata con l’acqua contenuta nella brocca, la sistemò sul pavimento, ai piedi di lei, ed in inginocchiatosi, le sollevò l’orlo della camicia da notte, posandola sulle sue cosce e scoprendole le gambe bianche; sollevò, morbidamente, una caviglia e, con una mano, la tenne sospesa  sull’acqua, che ne rifletteva il candore della pelle. Raccolse, con l’altra, il liquido trasparente e lo riversò sullo stinco: decine di rivoli sottilissimi scivolarono, come pioggia sui vetri, fino ai malleoli, trascinando i granelli di sabbia biancastra, rimasti attaccati; piccole gocce rotolarono sul dorso del piede e si insinuarono tra le dita, per poi ricadere nel catino, producendo cerchi concentrici che si rompevano con la caduta della goccia successiva. Infine, con un telo di lino, profumato di bucato, tamponò la pelle e poi l’accarezzò con la punta delle dita, per assicurarsi che fosse asciutta e liscia.
Ripeté l’operazione con l’altro piede, mentre Ariela lo guardava abbacinata, lo sguardo fisso e lucido, come febbricitante, su quelle mani che le veneravano la pelle; mille parole insistevano sulla lingua per uscire, e nessuna voce coraggiosa si prestava alla loro richiesta.
L’aiutò a sollevarsi, per poi sedere al suo posto, e ripetere l’operazione per sé, stavolta con premura, come se il tempo per il passo successivo fosse  ormai giunto ed egli non volesse procrastinare.
Si sollevò; sbottonò la camicia, guardandola, col viso leggermente inclinato, come per godere del suo consenso, e la sfilò, facendola scorrere lungo le braccia fino al suolo; le spalle larghe, il torace definito, il ventre teso le si mostrarono come una terra sconosciuta, nuova scoperta, che ella aveva solo potuto, immaginare nel leggero contatto delle sue mani.
Le si avvicinò, lento, un felino a caccia della propria preda, e sciolse il laccio di seta che, in vita, chiudeva la vestaglia lunga fino ai piedi. Le mani ne separarono i lembi, scoprendo il corpetto della camicia da notte; si ricongiunsero sul ventre contratto, le dita risalirono tra i seni, fin sullo sterno, ed infine giunsero agli omeri, scostando la stoffa e scoprendole le spalle.
- Hai ancora paura? - le chiese, immobile, guardandole la pelle morbida ormai scoperta.
Ariela accennò un no, gli occhi fissi sul torace di lui che si gonfiava ad ogni respiro. – Sai che puoi fare quello che vuoi? Tutto quello che vuoi? - chiese ancora, quasi come in una preghiera, sperando che ella lo toccasse.
Ariela, come se ne avesse percepito il richiamo, gli posò i palmi delle mani aperti sul petto e risalì, come aveva imparato da lui, lungo il collo; sfiorò il pomo di adamo, costringendolo a deglutire; raggiunse le mandibole, e ricongiunse le dita sul mento. Poi cercò le labbra, ne seguì il contorno, rinfrescandole con i polpastrelli freschi e lisci, ne saggiò la consistenza, il turgore, come un cieco che vede solo con le mani. Disegnò il profilo greco del naso, seguendo il percorso delle dita con gli occhi; indugiò sulla piccola ruga d’espressione tra le sopracciglia nere ed esplorò le palpebre chiuse, mentre Eìos, le braccia distese lungo i fianchi, inspirava estasiato ad ogni tocco che leniva la pelle in fiamme. Terminata la ricerca puntuale dei tratti del viso, le mani di Ariela tornarono a posarsi sul petto, all’altezza del cuore martellante.
Eìos riaprì gli occhi e sorrise, come se ella avesse scoperto il suo nascondiglio segreto.
- E’ di nuovo il mio turno, dunque? – ammiccò. Le mani sicure presero a slacciare la fila di piccoli bottoni d’avorio che chiudevano il corpetto che sacrificava i seni, liberandone alcuni lembi di pelle; le dita risalirono sotto le spalline abbassandole, finché la camicia da notte le scivolò lungo il corpo fino ai piedi, lasciandola completamente nuda.
Ariela sentì il viso in fiamme per l’imbarazzo del proprio corpo alla mercé degli occhi di lui, esposto così come neanche i propri l’avevano mai guardato. Gli allacciò le braccia al collo e gli affondò il viso sull’omero; i seni gli sfiorarono il petto, inturgidendosi e le labbra le tremarono per quello strano, nuovo, sottile dolore.
Eìos l’afferrò per i fianchi, sollevandola da terra, girò intorno al letto e ve la adagiò; rimase in piedi, per liberarsi degli ultimi indumenti che gli soffocavano il corpo, contemplandola. Ariela rimase in attesa, la guancia sul cuscino, gli occhi chiusi ed il dorso della mano a coprire le labbra che tremavano.
Si distese su di lei, facendo leva sulle braccia tese, per non gravare col proprio peso sul corpo sottile e delicato; spinse la bocca in avanti, a cercarne il viso; la schiena si piegò in due lungo la spina dorsale, come il dorso di un albatro che spiega le poderose ali nel volo solitario sull’oceano, ed un ginocchio si fece spazio tra le cosce, ancora intimidite e chiuse.
- Sei bellissima. –  sussurrò, mordicchiandole il lobo, - E sei mia … - continuò, trapuntandole il collo di piccoli baci, come la miriade di stelle nelle notti d’estate. – La mia sposa … - aggiunse, proseguendo lungo lo sterno, - … la mia donna, la mia anima mondata, la carne ed il sangue … - terminò, raggiunto uno dei seni, la cui pelle morbida e delicata si irrigidiva al suono di ogni sillaba, mescolata al tocco vischioso della lingua ed all’affondo deliziosamente doloroso dei denti.
Ariela fermò il respiro ed aprì gli occhi: il viso di lui, chino sul suo petto; i capelli, come mille lacci di seta nera a lambirle la pelle; la schiena forte che la ricopriva e la conteneva come il guscio di una noce, tutto del suo corpo le scioglieva il ventre, come il ghiaccio nel disgelo primaverile. Un languore caldo, un rivolo denso e vischioso, risvegliò quella parte di sé, sconosciuta e dormiente, costringendola, inconsciamente, a schiudere le cosce, come un passaggio finalmente svelato che apre la via all’invasore. Le sue dita affondarono nella pelle della schiena tesa, come alla ricerca di un appiglio salvatore.
- Sì, stringiti a me, Ariela … - la pregò, invocando la sua bocca, - E baciami, mordimi, fammi male e poi guariscimi. Apriti e riempiti di me, sino a che non avrai più spazio dentro. E quando la fame di entrambi sarà esplosa in mille schegge impazzite, rimaniamo così, uno sull’altra, per desiderarci e sfamarci ancora … - continuò la sua preghiera.

**********

Dunque, quello era fare l’amore: entrare nel corpo di una donna dolcemente, in punta di piedi, come in un simulacro; consacrarsi, devoto, alla sua anima svelata, come un sacerdote al proprio idolo; venerarne la carne, le ossa, il sangue puro.
I pensieri si mescolavano, così come i sensi; le mani esperte cercavano, stringevano, toccavano pelle e bocca; si intricavano tra i capelli ribelli e lisciavano il ventre teso, i seni esposti e le cosce ormai violate.
Le labbra conquistavano e bramavano ogni parte di lei, corteggiandola, i polsi che pulsavano di desiderio; l’ombelico, come la serratura segreta di un tesoro antico, e la parte  più piccola e densa, scrigno incantatore come l’antro delle sirene.
Dunque, quello era amare, poiché  amore era, nato sin dall’alba del loro incontro controverso; amore era che lo aveva spinto ad affidarsi, a dire sì ad un impresa stralunata che neanche l’incosciente mercenario avrebbe abbracciato.
Poiché con lei, tutto era al rovescio: la carne dentro e l’anima fuori; il padrone che si fa servo.
Fu dentro di lei piano, così piano, che ella non provò alcun dolore, solo il calore del passaggio, che poi con la stessa lentezza si espanse dal ventre fino alle tempie, come una febbre lucida.
Un rivolo sottilissimo e timido di sangue puro tinse le lenzuola candide, l’anima si fece materia, l’essenza divenne carne. La sua vischiosità addolcì il successivo affondo ed il desiderio di entrambi, l’urgenza di appartenersi, trasformarono ogni colpo in carezza, ogni morso in bacio, ogni grido soffocato in canto celebratore.
La tenne stretta a sé, come incatenata al proprio corpo, quando lo scompiglio del piacere cominciò a sciogliere la propria morsa, come per rassicurarla che quella non era fine, ma inizio; non il traguardo, ma la partenza di un viaggio; non la scoperta, ma la ricerca.
Continuò a baciarle il viso, a sussurrare al suo orecchio parole senza suoni, mentre Ariela teneva ancora gli occhi chiusi e le braccia al collo di lui, come se potesse perdere l’appiglio e cadere da un istante all’altro.
Eìos si scostò leggermente dal quel contatto avviluppante, per saziare anche gli occhi dell’intreccio dei loro corpi appena conosciuti; si poggiò su di un gomito, stendendosi sul fianco, lasciando che la punta delle dita vagasse su di lei e guardandola, ancora stupito dal riverbero di tanta bellezza: il corpo avvolto tra aggrovigliate lenzuola, spuma nivea a lambirle la pelle madida, il respiro come una melodia scandita dal movimento ritmico dei seni svelati, i capelli sparsi sul cuscino, campi disseminati di grano biondo.
E si sentì in pace, per la prima volta da che era venuto al mondo: nessuna fame, niente freddo o paura; nessun dubbio, né un dolore, soltanto pace e calore; solo appartenenza ed un porto sicuro per un’anima vagabonda.
Tornò a baciarla, con la tenerezza dei bambini, sereno e grato di tutta quella nuova scoperta di sè.
Le carezzò le guance e le sussurrò all’orecchio: - Dormi, adesso … dormiamo insieme … - Districò le lenzuola per coprirla, poggiò la testa sul cuscino, la punta del naso a sfiorarle la guancia, la mano aperta sul ventre e chiuse gli occhi, finalmente a casa.

 

**********

Il celo rosa, all’orizzonte di cristallo, svelava la nascita imminente del sole.
Il mare blu cobalto, striato di chiazze dorate, era fermo, come la lastra di uno specchio che duplica la propria immagine, sostituendola, intermittente, a quella del cielo.
Nessun rumore, quasi la natura si fosse resa silenziosa e discreta spettatrice della notte dei due amanti. Fasci di luce vaporosa penetravano la stanza dalle imposte, rimaste aperte, ferivano le pareti, come lame taglienti, nei punti più vicini alla vetrata, per poi ammorbidirsi via, via che si allontanavano da essa.
Ariela aprì gli occhi piano, per abituarli alla nuova luce. Lembi scarni di lenzuola disordinate le coprivano i seni, come frutti dolci nascosti dalla buccia, mentre le gambe ne sgusciavano fuori, bianche e perfette. Eìos le dormiva accanto, prono, il viso sprofondato nel cuscino, sotto il quale nascondeva gli avambracci; le lenzuola gli coprivano, malamente i glutei e le gambe. Si rannicchiò, portando le ginocchia al petto e poggiandovi la fronte; inspirò il profumo del corpo di lui, rimasto invischiato nella trama sottile della propria pelle; passò la punta delle dita tra i capelli che le mani di lui avevano scarmigliato, ed il ricordo della sensazione di totale abbandono e della sottomissione dolce, così come la ricerca di lui del proprio ventre di donna, le solleticarono ogni lembo di pelle, come se le sue mani, le labbra, la lingua fossero tornate a lambirla, sfiorarla, sedurla e catturarla per aprirle nella mente e nella carne la voragine che la notte prima le aveva scompigliato ogni resistenza.
Si voltò a guardargli la schiena, che si gonfiava nei respiri regolari e placidi del sonno sereno. Non voleva che si svegliasse: la docilità della sua figura, come quella del soldato dopo lo scontro, la inteneriva, ma una voglia di toccarlo si prese la punta delle sue dita, che, disubbidienti, si posarono sulla pelle calda.
Cicatrici lunghe come corde la segnavano, dalle scapole ai lombi; si intrecciavano, come i serpenti sulla testa di Medusa. L’indice prese a seguirne i sentieri confusi, lentamente, come in un labirinto alla ricerca dell’uscita.
- Colpi di verga, del mio primo ed unico padrone! – la sorprese, rispondendo alla domanda muta che ella si poneva, con gli occhi chiusi, come fosse ancora preda del sonno. - Avevo dieci anni quando il marito di mia madre mi scacciò. – cominciò a raccontare, - Avevo fame, così tanta fame, da sentire le budella attorcigliarsi nella pancia. Ma non avrei mai chiesto l’elemosina, come avevo visto fare; avevo sufficiente dignità per guadagnarmi il pane.
Andai a lavorare nei campi.
Lo sai a quali lavori sono destinati i ragazzini? Gli caricano la schiena, come bestie da soma, con sacchi di terra o di sementi da trasportare, o li mettono a scavare con le mani nude, per liberare il passaggio dell’aratro dai sassi nascosti, sotto il sole della canicola, sotto la pioggia battente, al freddo tagliente del vento. E quando la fame e la stanchezza li fanno cadere, li rimettono in piedi, ricordando loro che sono ancora vivi, con la verga  sulla schiena, sulle gambe, sul petto, fino a che la carne si strappa, come un lenzuolo liso al vento. E se si rialzano, come ho fatto io, è solo per sudare e piangere ancora, fino a quando non cadranno di nuovo.
Riuscii a resistere qualche mese, poi scappai, con la carne ancora aperta e sanguinante. Rubai, dormii per strada, sino a che un giorno venne a prendermi Esem, mio padre. Mi promise e promise: una casa, un fratello, cibo pulito ed un letto caldo, ma non fu quella la fine del mio patire. Egli morì ed io tornai per strada, randagio ed affamato, come i cani.
Andai per mare: non fu facile neanche su quella nave, ma ormai ero grande abbastanza, forte abbastanza, ferito abbastanza, da non piangere più. Così al primo colpo che mi infersero, picchiai forte anch’io, più forte che potevo, e continuai a farlo, fino a che nessuno mi toccò più. –
Ariela sentì gli occhi inumidirsi al male che veniva da quelle parole, la schiena le bruciò, come colpita, e lo stomacò si accartocciò per lo sconquasso di quella voce indurita dai ricordi.
Sciolse la posizione fetale in cui si era rifugiata ed, in ginocchio di fianco a lui, prese a baciargli la schiena, seguendo con le labbra il reticolo di cicatrici, dolcemente, come si fa con le nocche sbucciate di un bambino, con cura meticolosa, come se quel tocco umido e caldo potesse giungere, guaritore, a ferite più profonde, quelle dell’anima.
- No … non le farai sparire così … - disse amaro, rimanendo nella stessa posizione ed inarcando, impercettibilmente, la schiena ad ogni bacio, come se la carne bruciasse ancora.
Ma Ariela insistette in quella pratica invadente, fino a quando egli non si arrese, chiedendole: - Continua, non smettere … -
La voce divenne un mugolio roco, di appagamento; i muscoli aggrovigliati della schiena si distesero, il torace si gonfiò d’aria e di calma placida e le labbra sorrisero serene.
- Ne ho anche sul petto … - suggerì, tenendo il capo rivolto verso il lato opposto a lei.
- Voltati … - un ordine così delicato, da sembrare preghiera.
Eios le obbedì, come un bimbo diligente; le mostrò il petto ampio e glabro, i muscoli decisi, incisi dalle stesse cicatrici annodate tra loro, ed Ariela ricominciò il proprio lavoro di sutura, come un medico esperto.
- Ne ho anche sul viso … - ripeté, gli occhi chiusi ed un sorriso sfacciato.
- Non ne hai, invece! – replicò, ammirandolo in quell’espressione beata e sorniona.
- Allora baciami e basta. – disse  attirandola a sé, con le mani a contenere l’intero viso candido.

 

*******************

  Buongiorno a tutte!
Eccomi qui col nuovo capitolo.
Scriverlo è stato difficile, più degli altri: rendere i sentimenti, le sensazioni di due personaggi così diversi tra loro, per abitudini ed educazione, per approccio alla vita ed al tempo stesso unirli nello stesso sentire, mi ha impegnato molto.
Spero comunque di essere riuscita a trasmettere a voi che avete letto, ciò che volevo significasse questa prima notte dei nostri protagonisti.
Come sempre grazie a tutti quelli che passano di qui ed in particolare a coloro che recensiscono: a Raya_Cap_Fee; a SweetLuna e a Drachen ed infine all’ultima arrivata frsm75 che allo scorso capitolo ha lasciato una recensione che mi ha emozionato.
Un bacio  e alla prossima!

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Capitolo 16
*** . 16 . Miele ***


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. 16 .

Miele


Spuntò da sotto coperta, dopo essersi cambiata d’abito, come uno di quegli scoiattoli che sporgono la testolina fuori dalla tana, con circospezione, attenti all’eventuale pericolo. Essere vestita come un uomo la imbarazzava: i calzoni e la camicia di bisso erano della sua taglia, ma si sentiva comunque inadatta, quasi ridicola; il doversi mostrare così poco seducente e quasi ambigua all’uomo, che solo da poche ore era suo marito, la metteva in fermento.
Quando, quel mattino, Eìos aveva proposto di trascorre la luna di miele in mare, Ariela era stata entusiasta di intraprendere un’esperienza, per lei, tanto fuori dal comune. Pur vivendo in una città di mare, lo aveva soltanto contemplato dal molo, insinuarsi tra gli scafi dei pescherecci o dei grandi mercantili, che attraccavano quotidianamente, riempiendo le banchine di merci e visitatori; lo aveva temuto, nella furia dei temporali, mentre ruggiva, come una bestia incatenata, e fagocitava le piccole spiagge della costa o sferzava, con onde potenti e affamate, i pontili e le costruzioni, che coraggiose gli si immolavano.
L’idea di solcarne la placida superficie, di respirarne l’odore, di perdersi in un punto imprecisato e lontano dal resto del mondo, l’aveva attratta, come le cose di cui non si ha coscienza e proprio per questo  ammaliano.
Ma quando Eìos le aveva fatto intendere che avrebbe dovuto indossare abiti maschili, per muoversi più agevolmente, e che avrebbe dovuto rimanere scalza per tutto il tempo, aveva arricciato le labbra, in una smorfia di disapprovazione. Eppure non era stata capace di negarsi a quella esperienza nuova, seducente come tutte quelle che la stavano travolgendo in quei giorni. 
Eìos sedeva sul ponte di coperta, la camicia bianca, la schiena dritta, le gambe incrociate, un buon bicchiere di vecchio rhum e il viso puntato verso l’orizzonte nero della notte inoltrata.
Ariela tirò su gli occhi: il cielo profondissimo era velluto trapuntato di diamanti che sfavillavano intermittenti e facevano da contorno ad una luna piccola e bianca, lontana, ma comunque imponente, come una etoile nella scena madre.
Non c’era vento, solo il profumo pungente dell’oceano che si disperdeva nell’aria immobile. Era forte, quell’odore, diverso da quello che si percepisce in riva al mare: era l’odore delle profondità, degli abissi sconosciuti, l'odore di un mondo segreto e placido in superficie, e scomposto ed inesplorato laddove gli occhi terrestri non potevano arrivare.
- Vieni! – la invitò, senza neanche voltarsi. – Le stelle si vedono meglio da qui. – le suggerì, come se avesse visto gli occhi di lei perdersi in quella sterminata vastità, che le copriva la testa.
Ariela sospirò, titubante, resistendo all’impulso di tornare in cabina ed indossare abiti più consoni alla propria condizione di novella sposa.
Le assi di legno del ponte scricchiolarono sotto i piedi nudi ed incerti, le mani si sostennero alle corde che delimitavano il perimetro della piccola barca, sino a che ella non gli fu accanto. Eìos le offrì la mano per soccorrerla, nell’impresa complicata di non perdere l’equilibrio e perché gli si accucciasse davanti, su di una morbida coperta che aveva disteso affinché stessero più comodi.
- Dunque, com’è andare per mare, Ariela? – chiese sorridendo, nel vederla emettere il sospiro soddisfatto e rilassato che segue l’impresa impossibile.
- Gli spazi sono troppo angusti; non riesco a fare più di un passo senza perdere l’equilibrio, come i bimbi che imparano a camminare; con questi abiti mi sento un ragazzetto informe … ma … non credo di aver mai assistito ad uno spettacolo così imponente e attraente come quello del mare di notte e del cielo immenso e nero su di esso! – confessò, tirando su gli occhi con un sorriso estasiato, proprio dei bambini alla scoperta del mondo.
- Sapevo che l’avresti amato. Il mare è un amante seducente: si lascia guardare, si fa annusare e poi cattura la parte più animale di un uomo, quella parte che sta nelle viscere ed emerge solo quando si fa l’amore … - le spiegò, lasciando che l’immagine forte e sensuale di due corpi aggrovigliati le sciogliesse il ventre.
- … E non sembri affatto un ragazzetto informe! – precisò, insinuando l’indice invasore nella scollatura della camicia.
Prese a baciarla: il suo profumo di acqua e rose, che sempre lo aveva ammaliato dal loro primo incontro, sembrava, lì, in quel punto senza coordinate, ancora più straordinario. O, forse, era la coscienza che fosse sua; la possibilità di toccarla, come le proprie mani volevano; di scoprirla, come il proprio desiderio chiedeva, a rendere tutto ancora più attraente.
Cominciò a slacciarle i bottoni delle camicia, mentre le dita le sfioravano la pelle e le labbra importunavano quelle di lei, che ancora gli lesinavano il consenso.
- Eìos … - cercò di dissuaderlo dallo sconveniente proposito che sentiva vibrare sulle sue mani.
- Ti voglio! – le rispose, definitivo, come se nulla potesse distoglierlo dal proprio desiderio.
- Non qui … -
- E perché, Ariela? Trovi, forse, sconveniente che marito e moglie facciano l’amore qui, sotto la luna? Quale  arcana differenza c’è tra un soffitto ed un celo di stelle, tra lenzuola di seta ed il ponte di una barca? Non sono comunque i nostri corpi a desiderarsi, a sfiorarsi, a congiungersi affamati? – domandò retorico. - Ogni luogo è giusto; ogni momento, se lo si vuole entrambi … - insistette, continuando nella sua opera conquistatrice.
- Quando la smetterai di parlarmi come un mentore al proprio discepolo? –
- Quando tu smetterai di aver timore dei tuoi sensi, quando lascerai che il tuo corpo parli per te, che il tuo desiderio si prenda la ragione, senza scampo, né requie. Quando imparerai a cercarmi, senza remore o imbarazzo, così, come ti cercano le mie mani … - le spiegò, stringendole uno dei seni nella mano e lasciando che il calore della propria carne trapassasse il tessuto che ancora lo velava.
Ariela non si oppose, ma neanche si sciolse completamente a quel tocco, che pure la faceva rabbrividire e la incitava a cedergli.
Eìos ne percepì il sussulto, così come la forza misteriosa che la induceva a ritrarsi. Comprese che ella era alla ricerca, quasi mistica, di capire la natura di tutti quei sentimenti, suoi e propri, così aggrovigliati, e che solo dando loro un nome sarebbe riuscita a dipanarli ed a sottomettersi.
Ed Eìos, dal proprio canto, era davvero il suo mentore, perché sicuramente più avvezzo ad annullarsi nel desiderio, ma, al contempo, era suo pari nella ignoranza, talvolta beata, sulla natura del proprio sentire.  
- Mille parole si affollano sulla punta della tua lingua ed a nessuna dai il consenso di mostrarsi. Perché, perché non chiedi, dunque? – cercò di spronarla, poiché le esigenze di lei divenivano le proprie.
- Perché tu sembri voler entrare nella mia anima, come entri nel mio ventre … senza verbo, e di te, di contro, non dici mai. –
- E non sono, forse, i miei respiri affannosi, la mia voglia di te, i baci, la ricerca attenta e profanatrice dei segreti del tuo corpo, più potenti di quanto sarebbero mille parole ubriache di desiderio e deliranti al cospetto dei tuoi seni e del ventre che mi concedi affidata? – incalzò.
- I pensieri … sono ancora più potenti! Non sono tanto a digiuno del mondo, da non capire che non c’è alcunché di più intimo e conquistatore, per una donna innamorata, dei pensieri del proprio uomo. – spiegò, stringendo, tra le mani, le redini di una conversazione che l’avrebbe portata dritta alla propria meta.
Poiché l’amore di una donna è un animale a caccia: il corpo dell’altro non basta, ella brama la sua anima! 
Eìos trattenne il respiro, le labbra si inchiodarono alla guancia di lei; le dita, che le avevano percorso i seni, arrestarono la propria ricerca, come esploratori ammaliati dinnanzi ad una scoperta più grande, ed il cervello annegò in quella frase così oscura e rivelatrice.
Aveva parlato d’amore, quella piccola donna il cui corpo si modellava sotto le sue mani; gli aveva confidato un sentimento placido ed assestato, ed al contempo, lo aveva pregato, con candore ed affido, di confessarle il suo, con lo stesso gesto naturale, con la stessa arrendevolezza.
Se Ariela fragile e timida, come il fiore che spunta dalla neve, gli aveva consacrato ogni suo sentire, perché non poteva farlo egli stesso, soldato coraggioso e sfacciato di fronte ad ogni sfida?
La risposta se ne stava nascosta, acquattata, dentro tutte le paure addensate negli anni: nella solitudine e nel freddo del cuore; negli inganni e nelle privazioni dolorose dell’anima; risiedeva, come una regina in trono, e gli negava il conforto dei suoi stessi sentimenti. Così era stato per quel fratello ritrovato, non solo nel sangue; così per quel padre che l’aveva sollevato dal fango ed al quale non aveva mai voluto rubare il nome; così era per Ariela di cui si prendeva tutto: ventre e anima; cuore e cervello senza restituire, come un ladro.
- Chiedi, dunque! – ordinò, poiché la necessità di rispondere sovrastasse la propria renitenza, - Chiedi … - ripeté, ora come in una supplica, poiché solo ad una domanda diretta Eìos avrebbe potuto cedere.
- Cosa sono io per te? – si decise a chiedere, le guancie arrossate di un sangue impazzito.
- Sei una strega … - sussurrò, preda degli ultimi brandelli di resistenza, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo profumato, come i monelli che celano i propri occhi giacché essi rivelano ogni loro inciampo.
Ariela si allontanò bruscamente, soltanto quel poco che bastava a fargli perdere l’equilibrio di tutto il corpo, abbandonato sul proprio.
- Rispondi! – gli intimò, con una forza inconsueta alla dolcezza della sua voce. Eìos sorrise, di quella fermezza tipica di colui, per il quale maggiore è la difficoltà, più grande è la forza di reagire.
- Sei una strega … - ripeté, tornando a soffiarle sul collo, le mani a stringerle la vita, il corpo deciso di nuovo su quello di lei, -  … Ed il tuo amore il sortilegio che tu stessa compi. Perché è amore il tuo, vero, Ariela? – insistette, quasi come se dalla risposta di lei dipendesse la propria.
- E’ amore, sì … - cedette ed, insieme alle parole, si lasciò sfuggire pure una lacrima.
- Perché piangi? – le chiese, quando il sale toccò le sue labbra ed il cervello si riebbe da quella confessione.
- Perché … io … ancora continuo a darti tutto … - mormorò piano, - … e tu … -
- Anche il mio … - la interruppe, non potendo più farne a meno, - Anche il mio è amore … - confessò a sua volta, raccogliendo con le labbra le lacrime successive, che lo dissetarono come acqua sorgiva.
Ariela si gettò su di lui, costringendolo a distendersi su quel talamo improvvisato; le mani a stringere i lembi della camicia; le labbra alla ricerca delle sue, come se su di esse potesse trovare il sapore delle parole appena pronunciate e gustarle ancora e all’infinito dentro i suoi baci.
Eìos sorrise di quell’improvviso impeto, tanto sorprendente, quanto inaspettato e, mordendole delicatamente le labbra, le rivelò: - Quanto potere in così poche parole! … Se avessi solo immaginato che una simile confessione ti avrebbe indotta ad una tale generosa ricompensa … avrei giurato e spergiurato i miei sentimenti, come l’ultima speranza di salvezza per un condannato! –
- Se l’avessi detto prima, alla tenuta o ieri, od in qualunque altro momento prima di adesso, non ti avrei creduto. Non avrei mai potuto amare un uomo dalle troppe parole, uno di quelli che le sprecano senza pesarle, tantomeno colui che non ha pazienza nel rivelare il proprio sentire, coltivandolo amorevolmente, finché non sia pronto a germogliare. Tu, invece, esalti i silenzi rendendoli sostanziosi, così come le parole scarne, che svelano attraverso gli occhi, il mistero altrimenti incomprensibile della tua essenza …
Per questo so che dici il vero adesso, con il silenzio della notte e la vera al dito per testimoni … - terminò, abbandonando l’intero corpo su quello lui.
- Dunque, giacché mi ami perché sono un uomo di poche parole … – mormorò, stringendole il viso tra le mani, affinché la propria bocca fosse ad un soffio dalla sua, con il sorriso soddisfatto del conquistatore ad illuminargli il viso,  - … smetterò di usarle … e ti dirò solo con le labbra e le mani. – continuò, riempiendole il viso di piccoli baci, mentre con i pollici le carezzava la pelle delle gote arrossate. – E tu … giura che farai lo stesso, senza lesinare. Giura che ogni bacio, ogni carezza di uno sarà risposta arrendevole al desiderio dell’altra; giura che mi toccherai e che ti lascerai toccare, senza alcuna esitazione. E giura che mi amerai come io ti amo! – terminò, mentre la voce, ad ogni sillaba, si arrochiva di desiderio incalzante.
- Giuro! – rispose soltanto, poiché nessun’altra parola ormai avrebbe potuto rivelare, ad entrambi, più della sacralità  di quei baci.

 

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Sono in ritardo, lo so!
Ma che volete farci, parlare d’amore diventa sempre più difficile!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che non sia eccessivamente mieloso, ma soltanto la maniera di testimoniare un passo in avanti del rapporto tra Eìos ed Ariela.
Come sempre ringrazio tutte le lettrici, in modo particolare quelle più affezionate che recensiscono sempre, così come le nuove arrivate, come topoleone che ha lasciato, allo scorso capitolo, la sua bella recensione.
Grazie a tutte ed al prossimo capitolo!

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Capitolo 17
*** . 17 . Rivelarsi ***


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. 17 .

 
Rivelarsi
 
L’ennesimo rintocco della pendola del grande orologio risuonò cupo, accompagnando uno sbadiglio tanto annoiato e stanco, che ella non ebbe neanche voglia di nasconderlo con la mano.
Sedeva, ancora in camicia da notte, al centro del grande letto; le lenzuola accartocciate sul pavimento, accanto ad uno dei guanciali, scalciato via per avere più spazio; l’altro dietro la schiena, per stare più comoda e le mani nelle mani a giocherellare con la vera nuziale, dietro la quale un vistoso diamante bianco, occupava gran parte della falange.
- Amor mio … - la salutò Miran, entrando nella grande stanza. Le pesanti tende oscuranti della notte erano accostate ai lati delle finestre e le imposte erano semichiuse, per lasciare penetrare lame di luce che, a malapena, assicuravano il chiarore sufficiente a muoversi senza inciampi.
- Mi hanno riferito che non hai fatto colazione stamani e ti trovo ad ora di pranzo, ancora in camicia, in una camera buia … Non ti senti bene, forse? – le chiese con premura e seriamente preoccupato, avvicinandosi al letto sfatto.
- Mi meraviglio che ti sia preoccupato della mia assenza stamani, e che sia venuto ad informarti della mia salute! Ultimamente non mi degni di alcuna attenzione … - gli rispose distaccata e fredda, per rincarare il peso del rimprovero.
- Nubia, le tue parole mi offendono e mi rattristano! – le rispose, con un tono pacato e dolce, ma, al contempo, risoluto quanto necessario per sottolineare l’iniquità delle sue accuse. - Sai quanto amore io ti porti e quanto desiderio abbia di starti vicino. - insistette, perché comprendesse i pesi e le responsabilità che lo sfiancavano. - Ma, amor mio, sai anche che sono il padrone di enormi possedimenti, che obblighi impegnativi occupano i miei pensieri quotidianamente. – continuò, prendendo una delle mani tra le proprie, mentre la donna gliela concedeva mollemente e rimaneva con gli occhi rivolti verso un punto lontano della stanza. - Sai che il raccolto è vicino; che gli uomini a cui affido il controllo dei braccianti sono pochi e comunque abbisognano, a loro volta, della mia costante presenza. Sai che la contabilità della tenuta prevede una meticolosa attenzione, l’acquisto delle merci, i … - provò a giustificarsi.
- Ed io sola dovrei pagarne il prezzo in solitudine e trascuratezza? – lo interruppe, ritirando la mano, quasi il solo contatto col suo sposo, improvvisamente, la repellesse. - Avresti dovuto chiedere a tuo fratello di tenere fede all’impegno preso quando arrivò alla tenuta! In fondo le terre, per le quali tanto ti affanni, sono sue per metà … - sputò acidamente un risentimento che, forse, era più per Eìos, che per il suo interlocutore.
- Eìos, di ciò che poteva essere suo, ha preteso solo il nome … - ribadì con la voce amareggiata di colui che non accetta le decisioni che altri prende, ma che gravano sul proprio cuore. – E comunque, egli non è né colpevole della trascuratezza di cui mi accusi, né sarebbe stato, se fosse rimasto, sostituto assoluto per i miei impegni di padrone. – sentenziò, con rammarico.
- Non mi importa della tenuta, dei braccianti o delle messi! Non mi importa dei tuoi impegni di padrone, ma di quelli dello sposo … - lo rimproverò, - Sono sola in questa grande casa; nessuno con cui discorrere; nessuna gioviale distrazione o una qualunque scarna possibilità di distrarmi, per riempire tua assenza. Solo terre e terre, lontane dal mondo civile; servi ignoranti ed inutili; un caldo asfissiante e l’odore nauseabondo della pula del grano mietuto! – rincarò la dose, ingrata verso quella ricchezza smisurata che le permetteva di indossare vestiti di seta e gioielli, tanto preziosi da generare l’invidia di qualunque nobildonna del regno.
Miran percepì uno sdegno incomprensibile in quelle parole e ne rimase deluso: pur essendo un uomo ricco fin dalla nascita, pur avendo un cognome nobile e rispettato, che gli aveva assicurato privilegi ed onori, aveva sempre saputo che la ricchezza è un fiume che va ingrossato dagli affluenti generosi della fatica e dell’impegno costanti, perché non si prosciughi in un letto arido.
La scoperta che la propria sposa fosse una donna superficiale e viziata, che sapeva solo possedere, senza preoccuparsi della fonte della propria ricchezza; sentire, in quelle parole, solo un risentimento per la propria assenza e non, anche, rispetto ed ammirazione per la propria solerzia, per il lavoro impegnativo che egli sopportava per garantirle tanto agio, gli ferì il cuore innamorato.
Ma, invece di lasciare che la delusione per quella scoperta gli aprisse la mente dinnanzi alla vera indole di Nubia, il petto gli si animò di un intento più fruttuoso per il proprio amore: il desiderio di compiacerla, di darle ogni cosa quella piccola bocca rossa, di cui aveva continuamente fame, potesse chiedere.
- Cosa vuoi, anima mia? Cosa ti restituirebbe quel sorriso che mi ha tolto il respiro dall’istante in cui ti ho veduta, dunque? – le chiese, le mani di nuovo a stringere quella di lei, il viso proteso verso il collo dal profumo incantatore ed il respiro in una preghiera sommessa.
Nubia non si ritrasse: ciò che conosceva più di tutte era la strategia della conquista della mente di un uomo attraverso l’incanto languido del proprio corpo. Lasciò che le labbra di Miran le adulassero la pelle del collo e delle guance, intrecciò le dita con quelle di lui ed gli avvicinò i seni generosi al petto.
- Voglio te … - sussurrò al suo orecchio, - Voglio che ogni tuo pensiero mi appartenga, voglio le tue mani e le attenzioni soltanto per me, come la notte che mi hai fatto donna … - proseguì, abbandonandosi su di lui.
- Sai che ogni cosa di me è tua … - la rassicurò con la voce rotta dal desiderio, - … che, anche quando sono altrove, la mia mente è completamente succuba del tuo corpo, dei baci, delle parole, che mi sussurri all’orecchio e che mi infiammano senza scampo … - concluse, con devozione assoluta per quella carne così morbida.
- Dunque … - lo incalzò, prendendogli la mano e portandosela su uno dei seni, - … mi darai ciò che chiedo, amore mio? – chiese, insinuando le dita di una mano tra i bottoni della camicia, a cercare la pelle del petto, mentre con l’altra stringeva le dita di lui, perché le torturassero il seno che lo aveva indotto a sfiorare.
- Ogni cosa … - si arrese, baciandola con foga, - Tutto … - concluse, senza più né volontà, né forza alcuna di sottrarsi all’impeto incontrollabile del proprio desiderio.
 
**********
 
- Buongiorno. – la salutò, entrando nella loro stanza e richiudendo dietro di sé la porta.
- Bentornato! - lo accolse Ariela, sprimacciando con cura uno dei guanciali deformati dalla lunga notte di sonno. – Dove sei stato? – chiese, fingendosi concentrata nel proprio intento di riordinare il letto ancora sfatto, mentre Eìos si liberava della giacca e dei gemelli che gli chiudevano i polsini della camicia.
- Al porto … - rispose, tranquillo, la curva di un piccolo sorriso soddisfatto e, per Ariela, indecifrabile.
- Oh … - sospirò, lisciando il risvolto del candido lenzuolo, - Ti mancava, dunque, così tanto il mare, dopo appena una sola notte, da abbandonare il letto e la tua sposa, ancora perduta nel sonno? – chiese con manifesto sarcasmo.
- Avverto una nota acre nelle tue parole, Ariela. – ironizzò, con tono dispettoso, le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci ed ancora la schiena rivolta verso di lei, a coprirgli il volto.
- Mi sono svegliata sola … e non mi è piaciuto! – confessò, la tempia appoggiata ad una delle colonne del baldacchino.
Eìos si voltò per guardarla, sorridendole intenerito; coprì la distanza che li separava ed, ad un palmo dal suo viso, deliziosamente corrucciato, le rispose: - Neanche a me è piaciuto sgusciare dal nostro letto senza salutarti. Avrei voluto svegliarti di baci, ma tu dormivi così placidamente che non ne ho avuto il cuore … - le rivelò, stringendola per i fianchi.
- Cosa c’era al porto che non poteva aspettare che fossi anch’io sveglia? – insistette, strofinando i palmi delle mani sul petto di lui.
- Una barca. - rispose vago, accompagnando le parole con un bacio sullo zigomo.
- Una barca? – ripeté curiosa e poco soddisfatta di una risposta così sibillina.
- Una barca. – la imitò, indispettendola.
Ariela lo scrutò, indagatrice, decisa ad avere la meglio sul suo enigmatico sposo, assunse una espressione concentrata e di attesa e poi, come colui che ha trattenuto a lungo il fiato, sbottò: - Vuoi, di grazia, spiegarmi o, forse, attendi che indovini i tuoi propositi di stamane? –
- Sei una strega, dunque, cimentati! – continuò, imperterrito nel suo intento torturatore.
- Eìos … - lo richiamò spazientita, battendo un piede per terra, come una bimba capricciosa.
Il giovane rise di gusto della propria donna, della sua capacità unica di essere adulta ed assennata nelle difficoltà quotidiane; seducente e femmina, nell’ombra delle loro notti, e bambina curiosa nelle giocose schermaglie amorose.
- L’ho comprata. – le confidò all’orecchio, quasi fosse un segreto, - Per noi: volevo che altre notti e nuovi giorni ci sorprendessero in quell’incanto senza tempo. –
Ariela abbandonò l’espressione seria, che si era imposta per quell’interrogatorio, e distese i tratti del viso nel sorriso morbido di chi ha appena ricevuto un dono.
- E’ nella darsena in questo momento, poiché abbisognava di qualche intervento riparatore e di una vela nuova e più robusta, ma sarà pronta in poche settimane, giusto in tempo perché possa uscire ancora prima dell’arrivo delle tempeste estive. – le spiegò, contagiato dall’entusiasmo che le leggeva negli occhi. - Dovrai trovargli tu un nome … - aggiunse, stringendo ancor più la presa sui suoi fianchi.
- Un nome … - rifletté, - Sì, lo troverò io! – concluse, negli occhi di oceano un guizzo di fantasia prorompente. – Non sarà arduo: basterà pensare alle notti specchiate sulla superficie placida del mare, rotta dalle increspature delle piccole onde, al riverbero del sole nelle scie diurne … - elencò, con gli occhi chiusi, come per ritrovare, dietro le palpebre viola, le suggestive immagini di quel viaggio di scoperta e di miele.
- Il bagno nudi nella conca al sorgere del sole; l’amore sul ponte nelle notti nere … il colore rilucente della tua pelle bianca sotto le mie dita … - aggiunse, tra un piccolo bacio e l’altro.
- Non credevo che sarebbe stato così. – mormorò, rispondendo con la stessa delicata premura ad ogni bacio, come in uno scambio di doni fatti e ricevuti. – Il matrimonio, intendevo, l’essere sposati. – precisò, in risposta alla muta domanda di lui.
- No? – chiese, fintamente sorpreso, - E come credevi che sarebbe stato? – insistette, pregustando la risposta che già conosceva.
- Non so … i discorsi delle donne sposate che conosco e anche quelli di mia madre … mi avevano indotto a pensare che tutto si sarebbe risolto in un’infinita serie di doveri coniugali, una strana sottomissione ai desideri esclusivi ed non eludibili del proprio marito, come se la propria sposa fosse una proprietà di cui disporre, più che un essere d’amare … - cercò di spiegare.
Tutte quelle parole rassegnate, come se contrarre matrimonio significasse accettare una sorta di croce da portare, un’accettazione ossequiosa alle esigenze, anche carnali, di uomini che erano più padroni che compagni, l’avevano sempre tenuta lontana dal desiderio di sposarsi. Ma Eìos era stato, fin dal primo bacio, delicato, paziente, capace di mostrarle l’impeto della propria voglia di lei ed, al contempo, armato della gentilezza di saper anteporre ai propri, i desideri di lei, nonché la volontà di esaudire ogni sua richiesta, prima che ella la palesasse, quasi come se ciascuna cosa di Ariela, che venisse dall’anima o dalla carne, fosse sua unica, imprescindibile priorità.
- Ma tu sei mia, Ariela: tu mi appartieni.  – la contraddisse, - Non è scritto, forse: “Le mogli siano sottomesse ai mariti”°? … - citò, rimarcando il possesso conquistato, più che con il legame contratto sull’altare, in verità, attraverso i propri sentimenti per lei.
- Ma è anche scritto: “E voi mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa.” – precisò, senza lasciarsi cogliere in fallo, - E la sottomissione ad un uomo che ama tanto da sacrificare la vita per la propria sposa, non è pedissequa accettazione, ma esaltazione di un sentimento purissimo, biunivoco e generoso. – terminò, con tono istruttivo, così come Eìos aveva fatto tante volte con lei.
- E’ vero, darei la mia vita per te, ma solo perché so che tu daresti la tua per me, poiché siamo alleati in un reciproco scambio di libertà ed amore infiniti.
Ma, bada, il mio amore non è generoso, Ariela, piuttosto è egoista e prepotente, poiché se tu cessassi di amarmi, esso non mi permetterebbe di lasciarti andare e continuerebbe a pretendere la tua carne e la tua bocca e ti incatenerebbe finanche l’anima, pur di continuare ad averti! – le rivelò, la voce roca, come una carezza seducente, e graffiante, come la pretesa del padrone.
- Non smetterò di amarti, dunque, non ci saranno mai catene e, per legarmi a te, potrai stringermi i polsi con le sole tue mani … -
- Io ti piglio in parola, amore mio … - soffiò al suo orecchio, armeggiando con i piccoli bottoni che le chiudevano il corpetto sulla schiena. – Quanti sono? – mormorò, spazientito alla quarta asola liberata, - Preferivo di gran lunga gli abiti del ragazzetto informe che hai indossato in mare! – concluse, proseguendo nel suo intento liberatore, mentre impegnava la bocca di lei con baci teneri e le sfiorava le gote con respiri invadenti.
- E’ ora di pranzo! – lo riprese, senza, in verità, alcun desiderio di privarsi del preludio avvincente, che prometteva ben altri lauti pasti.
- Non ho fame! – le rispose, sorridendole sulle labbra, avendo compreso il suo gioco a rincorrersi.
- Io, sì! – mormorò, con la decisione già germogliata dal proprio desiderio.
Eìos si fece serio, gli occhi si colorarono di un verde cupo di voluttà e di aspettativa logoranti. La capacità di Ariela di abbandonarsi e concedersi camminava di pari impeto con la volontà di prendere le redini di un’esperienza sconosciuta e, per questo, ancora più avvincente. La prima notte, dopo l’inesperienza e l’imbarazzo virginale, figli di una educazione pudica e restrittiva, la sua sposa si era affidata alle proprie mani sapienti e sicure, come un discepolo affida la propria mente all’istitutore, ed egli, seppure poco avvezzo a tanta tenerezza nella ricerca dell’amplesso, le aveva lavorato carni ed anima, con amore paziente, tanto quanto non credeva di possedere: Pigmalione* con la sua donna nuda e d’avorio.
Ma ora che la sua creatura diventava viva, angelo di fuoco e passione, tutta la tenerezza e la delicata premura si dissipavano in una calda, avviluppante ricerca di ogni piega e anfratto che il proprio desiderio potesse penetrare.
Ariela compì un lento giro su sé stessa, scostò con la mano l’intricata treccia che le costringeva i capelli, portandosela sul petto, ed offrendogli la schiena, perché potesse più agevolmente continuare a spogliarla.
Quando la veste si accasciò al suolo come un palloncino sgonfio, Ariela  uscì dal cerchio che le ampie gonne avevano creato, un piede alla volta, sostenuta dalle mani di lui salde sui fianchi morbidi. Fu la volta del bustino, che le stecche rendevano rigido, asfissiandole il respiro: un laccio lunghissimo si seta bianca serpeggiava tra gli occhielli, in un percorso torturatore, dall’osso sacro alle scapole. Anch’esso ricadde sull’abito sfatto, in un fruscio sfrigolante, come quello delle foglie lievemente accartocciate che si staccano dai rami.
Le mani di lui si dedicarono impazienti ad i propri abiti: la camicia prima, i calzoni poi ed infine gli indumenti intimi, che finirono per rimpinguare l’ammasso di stoffe, che giacevano confuse ai loro piedi.
Quando entrambi furono completamente nudi, Ariela, ancora di schiena, compì un passo indietro, colmando la distanza che li separava. Le scapole sfiorarono il torace di lui; le natiche rotonde la sua virilità, già inalberata e pronta, ed ella si sorprese curiosa ed affamata di incontrare quella parte del corpo di lui che aveva solo percepito invaderle il ventre, ma della quale non aveva piena conoscenza, una bocca di cui si conosce solo il suono della voce e non la consistenza rosea delle labbra.
Desiderò colmare quell’ignoranza, con le mani e con gli occhi, poiché né le une, né gli altri, avevano mai osato spingersi in alcuna esplorazione.
Sorrise sommessamente di quel pazzo desiderio che la tentava, formicolandole nei palmi delle mani ed arrossandole le guance pallide. Ma Ariela si sentiva pronta a quel passo successivo e necessario nel loro vicendevole rivelarsi, poiché Eìos stesso le aveva insegnato che, quando si ama, tutto è lecito, dentro e fuori dal letto, ed ella, da brava allieva, aveva imparato un gemito alla volta, un sussulto dopo l’altro, ad assecondare i propri desideri e quelli di lui.
Ancora senza guardarlo in viso, un sorriso malizioso trattenuto solo da un rivolo di pudore sopravvissuto, gli prese la mano, tremando come chi si avvia per un’impresa pericolosa, ma mirabolante, lo condusse al lato del letto, gli occhi sfuggenti ed imbarazzati, e lo invitò a sdraiarsi.
Sedette accanto al suo corpo, forte come il ramo nodoso di un albero, disteso sulle lenzuola fresche e candide, che ne esaltavano l’ebano della pelle; i piedi ancora appoggiati al suolo, come per garantirsi la fuga,se il proprio assalto fosse stato troppo audace, e lentamente gli rivolse gli occhi.
Ne scrutò il viso serio e concentrato, dal quale attese, per un istante, il permesso a proseguire il percorso, e quando un rilassato sospiro gli sgonfiò il petto ed una remissione dolce si rivelò nei suoi occhi di foglia, Ariela liberò la propria mano, incamminandosi, con le dita tremanti, per una via immaginaria, dallo sterno all’ombelico, mentre i propri occhi ne seguivano la scia, impauriti e curiosi.
Quando esse giunsero ai confini del ventre teso, il sangue, che le infiammava le vene, fluì veloce alle gote, come a ricordarle imbarazzo e pudicizia, ormai dimenticati, per il gesto per il quale nessun confessore l’avrebbe mai assolta. Indugiò, impaurita della sua stessa frenesia, sino a che non fu Eìos stesso ad venirle in soccorso. Le prese la mano e la attirò a sé perché gli si stendesse accanto; le accarezzò la tempia pulsante, con la punta fresca delle dita; le liberò il viso da rivoli di capelli ribelli, continuando a sfiorarla, perché il suo respiro impazzito si regolarizzasse e la paura si arrendesse al desiderio di entrambi.
- Non finirai all’Inferno, perché ami il tuo sposo, né perché vuoi conoscerne e possederne ogni parte del corpo e dell’anima. – sussurrò, le labbra poggiate sulla fronte, come se sapesse che erano i suoi retaggi religiosi a frenarle le mani. – Se l’Inferno esiste … - continuò, con la stessa dolcezza, - … esso sta nell’ignoranza dell’altro e nell’incapacità di assecondare i propri desideri verso chi si ama. E poi … hai giurato! – le ricordò, riferendosi alle promesse che si erano scambiati la prima notte in mare.
Aveva giurato, Ariela, quella notte di stelle; aveva giurato di amarlo così come egli l’amava, dunque non con le parole, ma con l’esempio.
L’incertezza e l’imbarazzo evaporarono nel calore del ricordo delle mani, della bocca, di tutto il corpo di lui generoso ed avvolgente, in quella notte ed in tutte le altre in cui essi si erano incontrati, così Ariela, dominata dallo spirito nuovo della follia, strinse le labbra tra i denti e ripeté: - Sì, ho giurato … -
La mano, stretta in quella di lui, si liberò, per lanciarsi nel baratro rassicurante della conquista di quella parte di lui che si protendeva viva e pulsante, in attesa dell’arrivo del suo tocco conquistatore; che si immolava nel sacrificio dolce della conoscenza; che si asserviva a lei, come un animale addolcito al proprio domatore. La toccò e la sfiorò, delicata e prepotente, moltiplicandone il vigore; la conobbe, esplorandone ogni piccola asperità ed ogni ruga che si spianava sotto le proprie dita, e l’amò, come l’appendice carnale dell’anima di lui, assecondando il ritmo vorace dei suoi respiri frammentati e delle richieste della sua voce roca. L’amò, appropriandosene e donandosi, nel legittimo scambio di chi si rivela nella scoperta dell’altro, fino all’istante in cui tutto si ruppe, come una fessura improvvisa del suolo da cui sgorga una vena d’acqua. Si abbandonarono, in quell’istante rivelatore, l’uno nell’altra: ella nell’abbraccio gratificante di lui, ed Eìos, anima consegnata e membra appagate, nelle mani piccole del suo amore.  
 
 
*Pigmalione, nel racconto di Ovidio (Le metamorfosi), è uno scultore che aveva realizzato una statua raffigurante una figura femminile, talmente bella da innamorarsene, inducendolo a chiedere alla dea Afrodite di trasformarla in una donna in carne ed ossa, per poterla amare.
 
° dalla lettera di San Paolo agli Efesini 5,22

 

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Capitolo 18
*** . 18 . Il diavolo e l'acqua santa ***


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. 18 .


Il diavolo e l’acqua santa
 
 
- Quante volte dovrò rammentartelo, Saurion? Il tuo compito esclusivo è quello di controllare il lavoro dei braccianti, tutto ciò che riguarda l’acquisto, la vendita, i rapporti con mercanti e creditori, non è affar tuo! – urlò, battendo entrambi i palmi delle mani sulla scrivania, imbrattata di scartoffie, e facendo tintinnare lievemente i piccoli prismi di cristallo che pendevano dal lume sul ripiano.
-  Ma signore … - mugugnò il vecchio servitore, - … ho lavorato per questa casa, fin dagli anni in cui vostro padre, che Dio l’abbia in gloria, ne guidava le sorti e, negli anni in cui la vostra signora madre ne ha fatto le veci, sono stato fedele e attento amministratore dei vostri beni, come fossero miei … - si giustificò l’uomo, ormai spodestato dalla carica di cui aveva goduto per decenni.
- Non dubito della fedeltà che hai sempre manifestato per la mia famiglia; tantomeno della solerzia con la quale hai servito mio padre prima, mia madre poi. Ma l’amministrazione di possedimenti così vasti abbisogna di uomini colti e preparati: l’esperienza o saper fare di conto non sono titoli sufficienti.
Continua a servirmi come meglio sai fare: preoccupati che i braccianti eseguano i lavori nei campi a cui sono assegnati. A tutto il resto penso io, ché sono il padrone! – lo zittì, ritornando a sedere composto dietro la scrivania disordinata.
L’uomo chinò il capo, in segno di rassegnata accettazione dei nuovi compiti assegnatigli, con una smorfia che però rivelava un acre fastidio per quel ragazzino che d’un tratto gonfiava il petto di competenza e superiori capacità, e, fatta la dovuta riverenza, si avviò, spalle e capo chini, verso la porta dello studio.
- Saurion … - lo richiamò Miran, quando fu sull’uscio, - Riponi quel frustino: i miei braccianti sono uomini, non bestie da domare! – gli fece notare, disgustato dai metodi schiavisti di cui gli avevano riferito.
- Come volete, padrone! – lo riverì, mordendosi il labbro, e, uscendo, incrociò Leria che, invece, stava per fare visita a suo figlio. La donna gli riservò uno sguardo indecifrabile, un misto tra l’approvazione delle raccomandazioni, che aveva sentito urlare da suo figlio, e la rassicurazione che prima o poi, in un modo o nell’altro, ciascuno avrebbe riaconquistato i propri ruoli, rimescolando nuovamente la gerarchia che Miran aveva rivoluzionata.
- Madre. – la invitò, con la gentilezza che gli era propria e che, per un attimo, di fronte al suo rozzo interlocutore, sembrava aver smarrito.
- Perché tanta veemenza nella discussione? Saurion è, forse, venuto meno ai propri doveri? – si informò, richiudendo la porta alle sue spalle.
- No, madre, ma fatica a ricordarsi quali siano i compiti che gli ho assegnato! – sospirò, sollevandosi per avvicinarla e baciarle amorevolmente la mano. – Volevo parlarvi, vi prego sedete. – le chiese, poggiando le mani sullo schienale della sedia. – Domattina partirò per la città: Nubia desidera trascorrere un po’ di tempo accanto a sua madre. – le spiegò, ritornando al proprio posto.
- Miran, la tenuta non può essere abbandonata a sé stessa, non in questo particolare periodo dell’anno. La mietitura del grano è imminente, la preparazione delle vigne per la vendemmia settembrina e … - cominciò ad elencare velocemente, come se avesse fretta di enumerare tutti gli impegni a cui far fronte e temesse, al contempo, di dimenticarne qualcuno nella foga.
- Non ho detto che rimarrò lì con lei, ho solo detto che l’accompagnerò … - la frenò.
- Di male in peggio, figlio mio! – esclamò, portandosi la mano alla bocca, come se Miran avesse pronunciato una bestemmia. – E’ sconveniente e inappropriato che una novella sposa, soggiorni, in compagnia della sola servitù, così lontana dal proprio consorte. – gli fece notare, rinfrescando, col ventaglio, le guance arrossate, per l’avventatezza del figlio e dalla collera per la sfrontatezza della nuora.  
- Alloggerà presso sua madre e io la raggiungerò ogni qual volta gli impegni qui alla tenuta me lo consentiranno. – cercò di convincerla, con calma, sapendo che certamente ella non avrebbe approvato.
- Fai ciò che ritieni giusto, figlio, ma non lasciarla troppo sola: una giovane donna ha bisogno del proprio marito accanto, così come lo sposo della propria donna! – elargì, rassegnata, il suo consiglio, colorandolo di saggezza materna. – Quando vedrai Asmha porgile i miei saluti … - lo esortò, sollevandosi e avviandosi verso l’uscita.
- Non mancherò, madre. – la rassicurò, accompagnandola con lo sguardo, fino a che ella non sparì oltre la porta.
Nubia aveva passato il segno, come una sciocca ragazzina che si fa giuoco dei precetti del genitore. Aveva sfidato Leria, senza neanche sapere di che pasta fosse fatta e che ella non aveva mai tollerato, in tutta la vita, disubbidienza e insubordinazione, da alcuno.
Ma non l’avrebbe avuta vinta, non fino a che ella avesse avuto in corpo un solo respiro!
Scese le scale che, dallo studio di Miran, portavano al salotto, rabbiosa come un cane idrofobo, meditando uno stratagemma appropriato, perché la sua nuora svergognata non realizzasse il proposito di sgusciare fuori al proprio controllo, quando Saurion le si parò davanti.
Era un uomo piuttosto alto e corpulento, le mani tozze del bracciante, che era stato da ragazzo, stringevano nervosamente il frustino che portava sempre alla cintola, perché, diceva, che i servi vanno incitati al lavoro col sapore del sangue nella bocca, poiché sono infingardi e pigri e, come gli asini, che puntano le zampe perché non hanno voglia di portare la propria soma, vanno frustati e costretti. L’aveva imparato a proprie spese, quando, quasi bambino, aveva cominciato a lavorare i campi per un padrone. Ma, da quando non aveva dovuto più lavorare la terra per campare, poiché, ubbidendo cecamente, si era conquistata la fiducia del suo superiore, egli incitava i suoi sottoposti, così come avevano incitato lui e, affinché i braccianti ricordassero che anche tra i reietti e i miserabili vigono le gerarchie, usava la frusta sulla schiena, per farsi rispettare, come fosse l’unica lingua che essi potessero comprendere.
- Cosa vuoi? – gli chiese, scostante e concentrata sul proprio intento di contrastare Nubia.
- Vostro figlio, signora … - rispose, con il capo chino, perché ella non scambiasse il proprio sfogo per mancanza di rispetto, - Vostro figlio non vuole più che io occupi il posto che voi, per tanti anni, mi avete offerto onorandomi. – spiegò.
- Egli è il padrone adesso, Saurion. – gli fece notare.
- Ma io … - insistette l’uomo, alzando lo sguardo su di lei, ma mantenendo la giusta referenza alla propria padrona, - … io vi ho servito con solerzia, con discrezione e con fedeltà, signora! Ho eseguito per voi ogni ordine impartitomi, qualunque ordine, sempre e comunque con la stessa devozione! – sottolineò.
- Ho memoria di ciò che hai fatto per me, in questi anni! – precisò, abbassando la voce di un tono, come se qualcuno potesse venire a conoscenza di un segreto solo loro, - Ma non posso intercedere per te in alcun modo, poiché mio figlio è dalla parte della ragione: tu non possiedi né le competenze, né l’istruzione necessarie ai compiti che competono ad un amministratore. – continuò, guardandosi intorno con circospezione, - Però … tu continua a servirmi, continua a servire me! – gli disse, quasi fosse un’offerta che non si può rifiutare, - Io non dimentico chi mi è fedele! – promise.
- Avrò di nuovo il mio ruolo, dunque? – azzardò l’uomo con un lampo soddisfazione per la rassicurazione ricevuta.
- Avrai ciò che meriti, ma solo se saprai obbedire senza chiedere mai. – precisò.
- Sono qui per servirvi, padrona, non avete che da chiedere. – fu la sua risposta servile e interessata.
- A tempo debito. Ora lasciami andare, ho delle faccende urgenti da sbrigare. – lo licenziò.
Un giorno o l’altro la fedele subordinazione di quell’uomo le avrebbe fatto comodo, come in passato; il silenzio servile, che le aveva sempre assicurato, le sarebbe venuto ancora in soccorso. Leria ne era certa, così ripose, in un cantuccio della propria mente, la possibilità di usufruirne ancora, così come si fa con un oggetto inutile che, al momento, ci ingombra le tasche, ma che in un giorno oscuro tornerà vantaggioso, e si dedicò a ciò che le stava a più a cuore: l’onore di suo figlio.
 
*********
 
La piccola fontana di pietra gorgogliava come un canarino sul ramo; l’acqua limpida sgorgava dal becco di rame per riempire l’innaffiatoio di stagno che soleva usare per irrorare i vasi di coccio disposti sui davanzali e lungo i muri perimetrali. Da quando la casa sulla spiaggia aveva la sua nuova padrona, il giardino, le stanze, il patio sul mare avevano acquistato un aspetto ordinato e sereno, senza perdere completamente quel profumo selvaggio che ella aveva annusato il giorno della sua prima visita.
Le piante dai rami invadenti erano state sapientemente potate e avevano donato nuove rigogliose fioriture; il vialetto dalla ghiaia sconnessa era stato lastricato con quadrotti di pietra serena, nelle fughe dei quali, spuntavano, ribelli, ciuffi di erba, alternando il proprio verde al rosa della pavimentazione. Al centro del giardino, un prato smeraldino ospitava un gazebo ottagonale in ferro battuto, verniciato di bianco e ricoperto da lastre policrome di vetri molati, che lasciando filtrare la luce diurna, disegnavano sul pavimento un prisma di colori sgargianti, dal giallo al blu, dal rosso al verde, dall’arancione all’indaco. Dalla cuspide del tetto pendeva una grande lanterna che, nelle sere fresche dell’estate ormai giunta, sostituiva la luce naturale.
Solitamente era in quella pace che trascorrevano i pomeriggi assolati, al riparo dalla canicola, accoccolati  su di un’ottomana rivestita di seta dagli arabeschi in rilievo verdi e violacei, ciascuno perso nelle proprie letture o con gli occhi socchiusi, osservando, da dietro le palpebre, i giochi pirotecnici delle ombre e dalla luce alternanti, senza necessità di parlare.
Nessuno dei due si era mai reso conto, fino ad allora, di quanto il silenzio condiviso con chi si ama, sia più pregno e rassicurante di mille parole.
Anche quel pomeriggio, si erano rintanati nella loro oasi pacifica: Ariela giaceva accanto ad Eìos sdraiata su di un fianco, la schiena aderente al torace di lui e il capo sul bracciolo, ed egli la stringeva in un comodo abbraccio, la mano mollemente adagiata sul ventre, il respiro a lambirle la guancia e le labbra a sfiorarle il lobo.
- Mio padre … - iniziò, la voce pastosa di chi sta per assopirsi, - Vuole che, alla sua morte, sia io l’erede di tutti i suoi averi! – proseguì, ancora più lento, come se emettere suoni gli costasse fatica.
- Egli ti considera il suo figlio mancato, ti ha donato tempo, amore, dedizione, e, suppongo, anche tanto, tanto impegno nel tentativo di domarti, è comprensibile che desideri lasciarti anche ciò che possiede di materiale. – mormorò, quasi fosse un pensiero rimuginato a voce alta.
- Non ho accettato il suo nome, nonostante fosse la sua più grande ricchezza terrena. L’ho ferito rifiutandolo, anche se egli ha continuato a sostenermi, a difendermi nella ricerca ammorbante del mio vero sangue. A quella generosità mi sono negato, come potrei accettare i suoi averi, come fossi interessato a lui solo per le sue cose? – chiese, più a sé stesso che a lei.
Quando quella mattina gli aveva parlato dei suoi propositi, Elmisk gli era apparso ancora più vecchio e più provato dai colpi della vita, deluso da quel destino che gli aveva dato e tolto un figlio naturale e che poi lo aveva nuovamente incantato, mettendo, sulla propria strada, un estraneo.
Di fronte a quell’estraneo, Elmisk si era intenerito, come chi si porta a casa un animale ferito per una zampa intrappolata nella tagliola o un uccello dalle ali spezzate. Con cura, con amore l’aveva spogliato della diffidenza selvatica e l’aveva accudito fino a che l’animale si era addomesticato e il ragazzo si era fatto uomo. Nulla aveva fermato Elmisk, neanche il dolore di sapere che sarebbe stato, sempre e comunque, alla ricerca asfissiante di un sangue che l’avrebbe destinato ad un altro nome e ad un’altra discendenza.
Il sangue, però, non basta a fare di un uomo un padre.
Chi genera non è ancora padre, un padre è chi genera e chi lo merita°.
Per questo Eìos l’aveva amato come si ama il padre: Elmisk era divenuto suo padre per merito.
- Gli ho risposto che ne avrei parlato con te, prima. –
- Dunque, chiedi il mio parere? – ammiccò, inorgoglita dal ruolo fondamentale che rivestiva come sua sposa.
- Sei mia moglie, Ariela: ogni mia decisione passa sotto il tuo vaglio! – sottolineò ovvio.
- Digli di sì, dunque. Accetta le terre ed i denari, come accetti il suo amore, come l’erede accetta il lascito del proprio genitore. Accetta, giacché questa è la sua silenziosa dichiarazione a te, che sarai sempre il suo figlio, a dispetto del sangue differente; e, al contempo, la tua muta promessa a lui, che sarai la progenie della sua anima, contro un nome diverso, che ti ha reso giustizia, ma che non ti ha fatto uomo! – suggerì.
- La sorte mi tratta con benevolenza, dopo tanto infierire: mi fa dono di una moglie saggia! – sembrò canzonarla, - Cosa vuoi fare di me, Ariela, attraverso i tuoi consigli: un uomo assennato, che si lascia guidare docilmente sulla retta via? – continuò, mordendole la guancia.
- Oh, sarei una strega davvero, se possedessi il potere di mitigare la tua avventatezza! – gli rispose a tono.
Eìos, la mano ancora più stretta sul ventre, sorrise di quell’arcano ascendente che ella esercitava sulla propria indole selvaggia, misterioso, come la luna che regola le maree, e della sua capacità di indirizzarne le decisioni, con pacata risolutezza, al pari di un domatore che asservisce le bestie feroci.
Ma ancor più, sorrise del proprio assoggettarsi, della propria capacità, mai immaginata, di mettersi al servizio della assennatezza di lei, non come un servo al padrone, piuttosto come due grandezze collegate, all’interno di un sistema, tale che una sia obbligata a seguire l’altra, secondo una legge di dipendenza, che esalta entrambe alla stessa maniera.
- Dunque … sia fatta la tua volontà! – continuò, un angolo della bocca piegato in un sorriso sornione.
- Misura la tua disponibilità a cedere ai miei consigli: potrei fare l’abitudine ad essere sempre assecondata! – lo avvisò, ruotando leggermente il capo verso il viso di lui, le cui labbra, ancora sorridenti, aspettavano le proprie per impadronirsene.
- Bene, giacché io ho già fatto l’abitudine a compiacerti e non intendo privarmi del sapore gustoso di dirti sempre di sì!  – sussurrò, continuando a baciarla.
 
*********
 
Leria proseguì spedita verso la camera che occupavano Nubia e suo figlio: non poteva permettere a quella sciagurata di prendersi gioco di suo figlio, tantomeno di affrontarla con tanta impudenza.
Per Leria era chiara l’intenzione di sua nuora: il desiderio di fare compagnia alla madre rimasta sola, era solo la viscida copertura di un piano più subdolo. Ella voleva allontanarsi da coloro che avrebbero potuto controllarne le azioni, impedendole di fare ciò che più le piaceva. Di certo il suo scopo era avvicinarsi di nuovo a quel guitto e sporcare ancora la reputazione e l’onore di Miran. Per di più, Leria nutriva la convinzione che quel bastardo ripulito, non si sarebbe fatto scappare la possibilità che quella sciagurata gli avrebbe offerto: non bastano un buon nome, abiti puliti ed un’educazione da gentiluomo per sanare un sangue infetto e dannato!
Spalancò la porta della camera, come se, la mala condotta della nuora, le avesse fatto acquisire il diritto di entrarvi senza chiedere il permesso.
- Non ti permetterò di lasciare questa casa! – urlò, appena la porta fu chiusa alle proprie spalle, affinché nessuno potesse sentirla.
- Mi spiace signora, ma i bauli sono già pronti per essere caricati sulla carrozza. – rispose, Nubia, con un tono fintamente sorpreso.
- Dunque, disfali e convinci tuo marito che hai cambiato idea e che vuoi restare qui alla tenuta, con lui! – le ordinò.
- Ma io non voglio restare qui alla tenuta, voglio tornare in città, da mia madre. – rispose in tutta calma, continuando, come se nulla fosse, a scegliere i gioielli da portare con sé.
- Mi stai sfidando, Nubia? – chiese retorica, - E’ sciocco e deleterio sfidare me, tienilo a mente! – la mise in guardia.
- Non vi sfido affatto, signora. Ho soltanto espresso il desiderio di rivedere mia madre, che ora è sola, e il mio sposo ha esaudito la mia richiesta. – le rispose, sfacciata.
- So benissimo qual è il tuo desiderio, maledetta: vuoi allontanarti dal mio controllo e, lontano da qui, fare ciò che più di alletta! – la corresse, indispettita, dall’incurante indifferenza della giovane.
- L’unico mio desiderio è quello di rivedere mia madre. – ripeté, con un tono così innocente, che una donna meno avveduta e scaltra di Leria, l’avrebbe creduta sincera.
- Bada, Nubia, non mettere alla prova la mia pazienza, ché già ne ho avuta fin troppa. Disfa i bagagli e rimani qui! – ordinò, con il tono perentorio che i padroni usano con i servi.
- Mi state impartendo un ordine, signora? – la sfidò, sollevandosi dalla poltroncina della toletta e portandosi davanti a lei, per guardarla negli occhi. – Voi mettete alla prova la mia pazienza! Sono stanca di sottostare ad ogni vostro ordine, come se fossi vostra prigioniera: da questo istante io farò ciò che voglio e vostro figlio acconsentirà. – terminò, il viso determinato e fiero dello schiavo che si riprende la propria libertà.
- Non osare … - la redarguì Leria, livida di rabbia ribollente, - Non dimenticare ciò che so di te! –
- E cosa ne fareste, signora, del segreto che custodite? Rivelereste al vostro amato figlio che la sua sposa è una sgualdrina; che ha giaciuto con un altro prima del matrimonio e che egli, la prima notte di nozze, non è stato abbastanza uomo da accorgersi che ella non fosse immacolata? – cominciò, girandole intorno, come una belva che osserva la propria preda prima di azzannarla. - Pur di denigrarmi, confessereste di aver concesso il nome della vostra casa ad un bandito, ad un bastardo che disprezzate come la melma che vi infanga l’orlo delle vesti, per nascondere la vergogna di avermi per nuora? – continuò, un sorriso di beffa e superiorità, che animava l’odio funesto dell’altra donna. – E come credete che reagirebbe Miran, signora? Mi ripudierebbe per il disonore, certo; si armerebbe di una pistola carica ed andrebbe a prendersi la propria vendetta contro il fratello traditore … – suggerì, - … ed a voi, sputerebbe in faccia per avergli nascosto una così aberrante verità. – concluse, soddisfatta per aver rivoltato completamente a proprio vantaggio il ricatto che la imprigionava. – Dunque, signora: da questo istante io farò ciò che voglio e vostro figlio acconsentirà. – ripeté, avvicinandosi alla porta della camera e aprendola perché Leria ne uscisse. – Ora, abbiate pazienza. – la canzonò, - Ho ancora alcune cose da sistemare prima della partenza. – la accomiatò, rivolgendole le spalle e ritornando alla toletta per sistemare il portagioie.
Leria incassò il colpo, voltò le spalle ed uscì dalla stanza, come un animale sanguinante, ma non abbattuto.
Come ogni buon combattente, ella sapeva che perdere una battaglia non è perdere la guerra, al contrario, talvolta lo scontro può essere proficuo, se è rivelatore delle capacità del proprio nemico.
Nubia aveva vinto, quella volta, ma la sua era una vittoria di Pirro, poiché Leria avrebbe affilato le unghie e, in un momento di debolezza, l’avrebbe colpita al fianco, atterrandola definitivamente.
 
 
°La frase è del celebre scrittore russo Fedor Dostoevskij
 
***************
Ben trovate!
Mi scuso nuovamente per il ritardo, ma ultimamente non riesco a rispettare la scadenza settimanale per l’aggiornamento della storia.
Il nuovo capitolo è un po’ di passaggio e serve per lo più a mettere a confronto l’indole delle due sorelle, oltre alla natura dei sentimenti tra le due coppie: quelli tra Ariela ed Eìos, estremamente rispettosi e amorevoli, e quelli tra Nubia e Miran, interessati e subdoli.
Il diavolo, Nubia, e l’acqua santa, Ariela, appunto!
Spero che vi sia piaciuto e che vogliate farmi sapere cosa ne pensate.
Un bacio a tutte ed in particolare alle mie lettrici affezionate!

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Capitolo 19
*** . 19 . Come fratelli ***


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. 19 .
 

Come fratelli

 

Il porto di Patnarak, brulicava di persone.
Soltanto poche ore prima, un’enorme nave mercantile vi aveva attraccato e le operazioni di scarico delle merci, che aveva trasportato durante la lunga traversata, erano ancora in atto. Per dare accesso alle stive di carico, erano state disposte grandi passerelle di legno, in maniera da collegare i boccaporti alla banchina, e decine di marinai e scaricatori le percorrevano, ora in un verso, ora nell’altro, trasportando casse di ogni dimensione, come file di formiche operose, che approvvigionano il formicaio con le provviste invernali.
Decine di persone si affollavano, camminando e correndo, ciascuna nella propria direzione, scontrandosi o evitandosi a malapena, pronunciando improperi in lingue sconosciute e grida di richiamo; si accalcavano davanti ai banchi dei venditori, che urlavano la bontà delle proprie merci, imbonendo gli acquirenti.
Ariela non aveva mai visitato il porto, specie quando le navi provenienti da lontano attraccavano: la moltitudine di persone poco raccomandabili, di marinai in franchigia, spesso ubriachi e pericolosi, di donne perdute, di mendicanti o imbroglioni ne facevano un luogo proibito per le signore della sua estrazione sociale. L’odore di mare morto; dei rifiuti scaricati dalla nave, insieme alle merci; il puzzo di sudore e la folla accalcata, ammorbavano il respiro e la costringevano a camminare aggrappandosi il più possibile al proprio sposo, come il rocciatore all’imbragatura che lo assicura.
Di contro Eìos, non era affatto fuori posto in quella bolgia chiassosa e puzzolente: aveva fatto il callo a quei luoghi durante gli anni trascorsi in mare, su navi come quella ora all’ancora; si muoveva con estrema disinvoltura in mezzo alla fiumana di gente, impedendo che gli cadesse addosso o lo sfiorasse soltanto, come se uno scudo trasparente ed impenetrabile lo avvolgesse, proteggendolo. In quella stessa bolla rassicurante, preservava anche il corpo di Ariela, flessuoso come un giunco di fiume, ma impacciato, come un alieno in una terra sconosciuta. Se la stringeva addosso, allacciandole un braccio deciso intorno alla vita e l’altro sulle spalle, mentre ella gli teneva il viso poggiato sul petto, all’altezza dell’omero, inspirandone il profumo di muschio, che copriva, col suo potere acquietante, ogni altro odore.
Eppure quel luogo esercitava una potente, inconsueta attrazione: l’arroganza dei colori, l’incanto di lingue straniere e incomprensibili; l’alacrità confusa di un caleidoscopio di umanità sconosciuta l’ammaliavano, come in una pratica magica, che seduce e avvince con il potere soprannaturale.
Man mano che si allontanavano dalla banchina affollata, i suoni si diradavano, assottigliandosi in borbottii sommessi, il numero delle persone diminuiva, fino a ridursi ad alcune decine di operai e marinai che lavoravano nel bacino di carenaggio.
Lì, le barche, piccole e grandi, erano portate completamente in secco; venivano issate su impalcature poderose per eseguire lavori di manutenzione o riparazione al fine di liberare la carena dalle incrostazioni, dalla vegetazione e dalle ossidazioni provocate dalla permanenza in mare.
- Capitano! – lo chiamò un ragazzino appollaiato su una di esse, il viso lentigginoso ed i capelli rossicci; le mani e la camicia imbiancati dalla polvere prodotta scartavetrando lo scafo di una barca di modeste dimensioni.
Eìos rispose al saluto, sollevando la mano che aveva tenuto stretta la spalla di Ariela.
- E’ quella! – indicò, con l’indice della stessa mano, proprio la barca a cui il ragazzino lavorava.
Ariela si districò dal mezzo abbraccio, che ancora la legava a lui, e, a piccoli passi, sollevando l’orlo delle vesti che infastidivano il suo incedere, vi si avvicinò.
- Quella è la chiglia. – spiegò puntuale, guardandola osservare lo scafo che, visto dal basso, sembrava un enorme guscio di noce, - E’ una trave di legno massiccio che percorre l’imbarcazione da poppa a prua. – continuò, indicandole, di volta in volta, gli elementi strutturali che andava nominando, - Sui suoi lati, in apposite scanalature, sono incastrate le tavole che formano i fianchi dello scafo. – terminò, fermandosi alle sue spalle. – Sull’albero, saranno inferiti una randa* trapezoidale ed un fiocco*, di colore blu. -
- Blu, come il blu degli oceani. – approvò, quasi tra sé.
- Blu, come i tuoi occhi. – precisò, avvolgendole un braccio intorno alla vita e appoggiandole il mento sulla spalla, mentre, nella mente, si affacciava, prepotente, l’immagine della prima volta che li aveva incrociati,  
- Manca solo il nome … -
- Si chiamerà Argo. – gli rispose, stringendo la mano di lui con le proprie dita sottili.
- Come la nave degli Argonauti? – ridacchiò, sorpreso, - Che nome avventuroso: credevo che ne avresti scelto uno più … romantico! – la stuzzicò.
- E cosa c’è di più romantico di un avventuroso viaggio alla riconquista di un tesoro? Non è, forse, l’amore stesso una ricerca eroica ed affascinante che ci conduce nelle terre ostili della parte più intima e nascosta dell’anima dell’altro? – gli rispose a tono.
- Argo … - rifletté, - Mi piace! – la rassicurò, slegandola dalla stretta e facendola voltare per guardarla in viso. – Come mi piaci tu. – le sussurrò all’orecchio, per poi incamminarsi verso l’uscita della darsena e tornare a casa.
Percorsero a piedi la strada che dal porticciolo conduceva alla piazza della città.
Il grande spiazzo circolare, pavimentato con cubetti di porfido, posato a pavè, circondava una fontana in pietra, dalla quale zampillavano getti d’acqua che, per effetto della leggera brezza, spargevano una miriade di piccole gocce scintillanti.
Proprio nei pressi di quest’ultima, sostavano, l’una sotto braccio all’altro, Miran, l’abito signorile, il bastone cesellato e la posa del gentiluomo, che sembrava studiata per un dagherrotipo°, e Nubia, l’ombrellino di seta avorio, a difenderla dal sole ormai calante, i guanti di pizzo ed il cappellino sul capo, dal quale si liberavano ciocche brune di capelli, animate dal vento.
Nell’istante in cui Ariela li notò, ebbe un sussultò e strinse con più forza il braccio di Eìos, al quale era allacciata. Non vedeva sua sorella dal giorno delle proprie nozze e, nonostante le parole appuntite e dolorose, che le aveva riservato nei giorni precedenti, fossero state smentite dalla dolcezza, dalla premura e dall’amore del suo sposo, trovarsi di fronte al suo sorriso sfrontato e superiore, minava le proprie sicurezze. Non riusciva a distogliere il pensiero dalla sua promessa che, prima o poi, quando il risentimento di Eios fosse scemato, avrebbe fatto di tutto per riallacciare i legami, anche a scapito del proprio matrimonio con Miran.
Conosceva Nubia: mai nella vita aveva desistito nella ricerca spasmodica di ciò che bramava. Fin da bambina, le sue moine, i begli occhi scuri, la curva imbronciata della piccola bocca avevano espugnato ogni resistenza educativa dei genitori; da fanciulla poi, il fascino della donna in fiore, il sorriso seducente, e i gesti accattivanti della sirena incantatrice si erano presi l’attenzione di ogni uomo l’avesse incrociata.
Eìos non era stato, certo, da meno: ne era stato sedotto, l’aveva avuta, l’aveva amata e, credeva dolente Ariela, nessun uomo è immune dall’attrazione carnale per una donna che è stata sua, neanche se ne ama un’altra. 
O almeno, questo era ciò che le avevano fatto credere!
Eìos tirò su gli occhi, percependo il corpo della sua sposa irrigidirsi, e incrociò gli occhi chiari e pacati di suo fratello.
Ogni qual volta guardava quegli occhi, rivedeva il viso paffuto e sorridente del ragazzino che l’aveva accolto e quel ricordo lo feriva reiteratamente, un ago che entra ed esce, per suturare la ferita, insinuando perfido una sequenza di domande infide alle quali il cervello rispondeva risoluto, ed il cuore, di contro, tentennava.
Si chiedeva perché non potessero essere fratelli, come il sangue invocava, adesso che anche Miran sapeva.
Talvolta, però, la risposta non è difficile da trovare, ma impossibile da accettare.
Come vibra la bacchetta del rabdomante, trovata la vena d’acqua, allo stesso modo, vibra l’anima davanti alla verità, pur se celata alla coscienza, e la verità, che Eìos si ostinava a nascondere a sé stesso, era la vergogna per il ricatto e le omissioni, per le bugie ed i tradimenti, che il suo stesso sangue e la donna che aveva sposato, avevano perpetrato. Ma, sopra tutto, il disgusto che gli avrebbero provocato, quand’egli li avesse scoperti, travolgendo irrimediabilmente ogni legame di sangue e ogni desiderio di amicizia.
Strinse le dita di Ariela, come se in quella morsa delicata stesse la forza prorompente del guerriero che affronta lo scontro, confortato dal compagno d’arme, e, accompagnandosi a lei, vi si avvicinò.
La mano di Miran, subito protesa verso la propria, fu l’invito che Eìos aspettava per sciogliere l’imbarazzo e la circospezione tra loro. Un fugace saluto col capo a Nubia, senza rivolgerle gli occhi, prosciugò ogni dubbio acquitrinoso nella testa di Ariela, che, sollevata, sorrise al cognato e sin’anche alla sorella. Nubia, di contro, gelosa e livida per quella più che palese intimità, che traspariva nei gesti e nelle parole che i novelli sposi si scambiavano, ostentò una cordialità artefatta. Eìos le sembrava cambiato: i tratti del viso erano rilassati e docili, i gesti attenti e gentili nei confronti di Ariela, quasi l’unione coniugale lo avesse rabbonito, facendogli mettere da parte l’acredine, la rudezza che con lei aveva sempre adoperato.
Pensò che stesse diventando un insulso borghese, pigro e accomodato, che per il nome e il lustro che ne veniva, fosse persino disposto ad accettare un matrimonio noioso e non voluto e una sottomissione a tutte quelle formalità che aveva sempre aborrito.
Ma Eìos non era affatto cambiato: piuttosto, l’amore puro e ricambiato, che Ariela gli donava, gli aveva regalato finalmente la capacità di essere palesemente sé stesso, così come ella non lo aveva mai veduto.
Poiché l’amore non cambia l’indole delle persone, soltanto, le spinge a mostrare l’anima, che la sofferenza e la paura, hanno seppellito.
L’unico ad ignorare le trame nascoste di un passato che, se rinvenuto, avrebbe travolto le vite di tutti loro, rimaneva Miran che, dal canto suo, sentiva d’essere ad un palmo dal paradiso, con una moglie bellissima del cui respiro si nutriva, con un fratello riscoperto e una ricchezza interiore, che chiunque gli avrebbe invidiato.
Scambiarono i convenevoli di rito e Miran spiegò del desiderio, che non aveva saputo ignorare, della sua sposa di trascorrere qualche tempo con la madre e dell’intenzione di fare la spola tra la tenuta e la città pur di compiacerla.
Ariela  si allarmò di quel nuovo assetto con cui avrebbe dovuto fare i conti, ma si affidò completamente alla lealtà del proprio sposo, sperando che né la troppa vicinanza, né gli assalti che Nubia, certamente, avrebbe messo in atto, sarebbero state tentazioni tanto valenti, da indurlo a cedere.
- Saremmo lieti di avervi ospiti nella nostra dimora. – li invitò, cordialmente, Ariela, con un tono deciso che mascherava le sue preoccupazioni. Aveva letto lo slancio del proprio marito nei confronti di Miran, conosceva il desiderio che egli aveva di consolidare quel legame traballante, minato da troppi anni di lontananza e verità nascoste, nonostante Eìos non gliene avesse mai parlato apertamente. Gli avrebbe dato, dunque, quella opportunità agognata, poiché lo amava sopra ogni cosa, di un amore generoso e fecondo e impavido.
- Ne saremmo lieti, davvero. – insistette Eìos, rivolgendole gli occhi, del solito verde intenso, ancora più accesi da una riconoscenza evidente per la sua donna intuitiva e prodiga.
- Perché no. – colse al volo l’occasione Nubia, - Potrò, finalmente, ammirare la tua casa, cara sorella. – aggiunse, con affettata dolcezza nella voce.
Ariela annuì e si avviarono, ciascuna sotto braccio del proprio consorte, verso i rispettivi calessini, per raggiungere la casa sulla spiaggia.
 

*********

 
Li accolse una brezza leggera e profumata di salsedine, che si insinuava attraverso le imposte lasciate aperte. Il giardino era illuminato dalla luce aranciata del sole che si avviava al tramonto, filtrando attraverso le fronde argentee dei tigli e creando un effetto luminescente, come di una luce che riverbera sulla superficie di uno specchio.
Si accomodarono sotto il gazebo e Ariela, da buona ospite, ordinò ad Alvita di servire loro una bevanda fresca e ristoratrice. Poco dopo, la cameriera dispose su eleganti tovagliette di lino ricamate, alti bicchieri, riempiti con cubetti di ghiaccio e limonata densa, decorati con brillanti foglioline di menta e spicchi di limone.
Nubia interruppe il silenzio scomodo che si era creato ed esortò la sorella: - Ti prego, cara, mostrami la tua dimora. Sembra così intima e accogliente. – aggiunse, riponendo il bicchiere sul tavolinetto di ghisa smaltata.
Ariela annuì, sollevandosi, così come i due gentiluomini, e, con un gesto della mano, suggerì all’altra di seguirla.
Quando furono lontane da orecchie indiscrete, nella camera padronale, iniziò l’assalto, che preparava, subdolamente dall’istante in cui si erano incontrati alla fontana.
- Cielo! Quanto è cambiata questa casa, da quando io ed Eìos eravamo amanti! – affondò la prima stilettata, camminando in lungo e in largo per la stanza studiandone i cambiamenti. – Mi pare che abbia perso quell’arroganza selvaggia e ruvida che la rendeva attraente. – commentò, sedendo sullo sgabello davanti alla toletta, rimirandosi. – Spero per te, mia cara, che almeno il suo proprietario sia rimasto l’uomo focoso e affamato di allora, o il vostro letto sarà piuttosto … freddo, durante le notti. – precisò, detentrice sfacciata di un’intimità che aveva ormai perso, ma che si ostinava a vantare.
Ariela sentì un fuoco di rabbia bruciarle le tempie e i palmi delle mani formicolarle, come se avesse voglia di schiaffeggiarla per la spudoratezza di quelle allusioni, proprio lei che, sapeva sempre come controllare i propri impeti. Ma decise che non avrebbe ceduto a quelle provocazioni, così con calma serafica, le rispose:  - La casa è sicuramente cambiata: Eìos ha voluto che apportassi ogni miglioria ritenessi necessaria. In quanto al letto … - precisò, indicandolo con lo sguardo, - E’ possibile che rimanga freddo, talvolta. Del resto, non è quello l’unico luogo in cui mostrare i propri ardori! – terminò, contegnosa, ma con un velo di soddisfazione, non solo per la risposta pungente che era riuscita a dare, ma ancor più perché aveva detto il vero.
Si avviò verso l’uscio della porta, con la camminata sicura e la schiena fiera, e Nubia, intirizzita all’idea di quella intimità tra i due, non poté fare a meno di notare il tono denso e ammiccante che ella aveva usato. La seguì in silenzio, ad ogni passo più indispettita, con la mente in stallo e, di contro, il cuore indebolito.
 

*********

 
- Sono compiaciuto di trovarti così … - cercò la parola che meglio gli pareva potesse riflettere lo stato d’animo del suo interlocutore, - … sereno? – azzardò, accompagnando alla frase una espressione quasi festosa per quella conversazione dal sapore intimo e fraterno.
Eìos sorrise a malapena, nonostante apprezzasse a sua volta quella ritrovata vicinanza.
- Il matrimonio ti dona, fratello! – si complimentò d’istinto, come fosse naturale chiamarlo a quel modo e, di più, considerarlo per ciò che era: figlio del suo stesso padre.
Quando alla tenuta, Miran aveva scoperto la verità, il suo cuore era rimasto indolenzito dal colpo; ma il bene che gli era rimasto dentro negli anni per quel ragazzo, lo aveva costretto a tentare di riallacciare quel legame. Purtroppo aveva dovuto fare i conti con la resistenza selvatica di Eìos e con la sua naturale diffidenza a concedersi all’altro. In quel momento, però, la tranquillità, l’appagamento, che vedeva guizzare nei suoi occhi, lo avevano spinto a lanciarsi nella scelta spericolata di quell’appellativo.
Eìos si irrigidì: la semplicità con cui Miran lo accoglieva era disarmante e così pura, da non riuscire a contrastarla.
O, forse, egli era troppo stanco per non accettare ciò che per una vita aveva rincorso e che adesso Miran gli offriva spontaneamente.
Inspirò profondamente, come uno scalatore sul picco di una montagna, che si riempie i polmoni di aria buona; si rilassò e si sollevò senza proferire parola; entrò in casa e trafficò con l’armadietto dei liquori, per poi uscire di nuovo e raggiungere Miran, che lo osservava, sperando di non aver calcato la mano.
- Sapevo che, prima o poi, la conversazione avrebbe preso questa piega … - considerò, reggendo due ballon**, riempiti di calvados°° ben invecchiato, - Per questo un bicchiere di limonata non è sufficiente! – continuò, offrendogliene uno e ritornando a sedergli di fronte.
Contemporaneamente, entrambi compirono lo stesso gesto, ruotando leggermente il bicchiere tenuto con i palmi delle mani, come se ciascuno fosse l’immagine dell’altro, riflessa in uno specchio; la temperatura corporea, scaldò il distillato dorato ed il suo profumo si liberò, permettendo loro di degustarne le caratteristiche cominciando dall’olfatto.
Si guardarono, mentre portavano i labbri dei bicchieri alla bocca; ne assaporarono il gusto acre che gli infiammò il palato e poi deglutirono, con una smorfia, mentre scendeva giù per la gola, così come quando erano ragazzini di nascosto dai grandi.
In quell’istante, Ariela, seguita da Nubia, si affacciò nel giardino e li trovò l’uno di fronte all’altro, in silenzio, come se non fossero necessarie parole, così come amici di vecchia data, così come fratelli.

 

* La randa è la vela armata sull’albero principale (o unico albero); il fiocco la vela triangolare issata tra l’albero e l’estremità della prua.
° Il dagherrotipo è l’immagine fotografica, non riproducibile, ottenuta con un processo inventato nel 1837 da L.-J.-M.- Daguerre.
** Ballon è il bicchiere, molto panciuto, usato per servire liquori e distillati.
°° Il Calvados è un’acquavite di sidro di mela o mela e pera, prodotta nell’omonimo dipartimento francese della Bassa Normandia.


 

********************************

Ben trovate, per la diciannovesima volta!
Questo capitolo, come il precedente contrapponeva le due sorelle,
vuole  mettere a confronto Miran e Eìos:
il desiderio del primo di costruire il loro rapporto in maniera “fraterna”
e, finalmente, la resa del secondo, davanti  a questa invasione, in fondo desiderata.
Spero che sia riuscita a rendere perfettamente i sentimenti di entrambi.
Purtroppo questo è un momento di quiete prima dell’uragano!
Non so se riuscirò ad aggiornare la prossima settimana, poiché dovrei partire per le mie agognate vacanze.
Se così fosse, auguro a tutti coloro che leggono e seguono e recensiscono la mia storia, delle bellissime, rilassanti, divertenti vacanze.
Vi saluto, caldamente e vi do appuntamento alla fine di agosto o ai primi di settembre.
Ki_ra

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Capitolo 20
*** . 20 . Il fiume dell'ira ***


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. 20 .

Il fiume dell’ira

 

Le settimane che erano seguite alla partenza di Eìos per la provincia di Agharr le avevano insegnato cosa fosse la mancanza!
Nonostante avesse fatto di tutto per impegnare ogni momento della giornata con diverse occupazioni, l’assenza di lui le era apparsa concreta e tangibile, come una lettera di inchiostro impregnata nella trama di una pergamena.
Non era una sensazione, un sentimento; era, piuttosto, un malessere sottile al centro dello stomaco; una vertigine vacua che appariva improvvisa e intermittente in mezzo alle faccende che le occupavano mani e mente, lasciandola così sospesa e col fiato corto dell’attesa.
Aveva trascorso la maggior parte delle giornate in giardino, accudendolo come fosse un bimbo bisognoso di cure e affetto; con le mani alacri nella terra umida, ne aveva ripristinato l’assetto ordinato cui, ella stessa, aveva lavorato, all’indomani del matrimonio, fino al giorno della tempesta, la notte precedente la partenza di Eìos.
Aveva addolcito il camminamento tra il ferruginoso cancello e la porta di ingresso con due ali rigogliose di ortensie dai colori intensi dell’azzurro, del blu e del viola fusi tra loro, quasi il pigmento delle globose infiorescenze si fosse sciolto, come un acquerello sotto le gocce di pioggia. Aveva moltiplicato i piccoli vasi di coccio sui davanzali, lasciando, come solo confine, tra il giardino e le stanze, il vetro sottile delle ampie finestre. Aveva sospeso sui rami più alti casette di legno per i passeri, nelle quali lasciava il becchime per attirarli e distogliere il loro interesse dalle sementi e dai frutti che aveva piantato nel piccolo orto vicino. Il rosso dei pomodorini tondi e maturi, il verde variegato delle piantine timide che crescevano tra i solchi ben delineati nel terreno erano testimoni allegri e promettenti dell’attenzione feconda che ella vi aveva profuso.
Le piaceva sporcarsi le mani di terra, al contrario di tutte le signore della sua estrazione sociale, che mai avrebbero rischiato di rovinarsi la pelle e le unghie; le dava una sensazione di armonia vitale con la natura, la riconciliava con il mondo, infondendole, anche in quel frangente fastidioso dell’assenza del proprio sposo, la calma e la pazienza necessarie ad attendere il suo ritorno.
- Dov’è? – sentì chiedere con voce ruvida di fiamma rabbiosa. - Il tuo padrone, dov’è? – insistette, alzando il tono perentorio.
- Il padrone … - mormorò Alvita, chiaramente turbata, - Il padrone è fuori città, signore. – spiegò.
Ariela, assorta nei propri pensieri e intenta nella cura del giardino, non si era accorta che la campanella sospesa fuori dal cancello avesse suonato freneticamente, come le campane della chiesa che annunciano alla città un pericolo imminente. Aveva udito soltanto quella voce così contraffatta e affannosa, da non riconoscerne il proprietario.
Ripose le cesoie nel piccolo cesto di vimini, nel quale aveva raccolto rose canine e rami profumati di menta selvatica; si sollevò, sciogliendo il fiocco del grembiale bianco, indossato sull’abito; pulì le mani e si avviò verso il cancello.
Miran era lì, le mani aggrappate all’inferriata, come un prigioniero che pretende la liberazione, gli occhi chiari infangati da una rabbia tumultuosa e la bocca tirata, a scoprire i denti bianchi come quelli di una fiera.
Non l’aveva mai veduto così, preda dell’ira: di lui, fin dal giorno in cui aveva fatto visita a sua madre per chiedere la mano di Nubia, aveva ammirato la gentilezza e la mitezza del vero gentiluomo; il sorriso affabile, aperto dell’uomo sincero; la pacata inflessione della voce e il riverbero della sua anima attraverso gli occhi chiari. Vederlo alterato, il viso inficiato di rabbia violenta, le nocche delle dita deformate dalla stretta sulle sbarre del cancello, le minò il respiro; la intimorì e, al contempo, le provocò un senso di pietà e di dolore per quella metamorfosi.
- Bugiarda! – insistette, convinto che la risposta della cameriera fosse solo un temporeggiamento.
Ariela dominò la paura che sentiva rimbalzarle nel petto, regolarizzò il respiro acceso e si avvicinò, le spalle sicure, lo sguardo dritto verso la minaccia e affidandosi alla Vergine Celeste perché la sorreggesse, intervenne.
- Non mente. – disse con una voce che non sembrava uscire dalla propria bocca, tanto era ferma e determinata, - Eìos è in viaggio per faccende di famiglia e non tornerà che tra qualche giorno. – continuò, avvicinandosi alla servetta spaurita, che tormentava le cocche del grembiule. – Alvita … - le si rivolse guardandola rassicurante, - … apri il cancello al signore. –
Ella, con gli occhi stralunati, obbedì, ma, solo quando Miran superò la soglia e le fu di fronte a pochi passi, Ariela scorse il calcio d’avorio della pistola, spuntare dalla cintola dei calzoni, e tremò.
Raccolse il poco sangue freddo che sapeva di possedere, le mani strette a sollevare le vesti, perché non intralciassero il suo già precario incedere, e si avvicinò al cognato.
- Perché chiedi di mio marito con tanta malagrazia, Miran? – lo interrogò.
- Non è affare che ti riguarda … - rispose con la voce ancora corrotta.
- Sei in errore. – lo corresse, - Ciò che riguarda Eìos, riguarda me! Dunque, perché chiedi di mio marito? – ripeté con la sua usuale grazia, ma con tono perentorio e insistente.
- Per ucciderlo! – rispose freddo, con la voce compassata, quasi fosse un sicario avvezzo a portare la morte.
- Santa Vergine! – esclamò Alvita, portandosi entrambe le mani a coprire la bocca spalancata.
- Cosa dici? - esalò Arsela, un filo di voce quasi impercettibile, - Perché? – mormorò sbandata, pur conoscendo, in cuor suo, il motivo di tanta rabbia.
- Sapevi che è stato l’amante di Nubia? Sapevi che quel bastardo si è preso la sua carne, prima che ella la concedesse a me, suo sposo? – incalzò, il viso paonazzo e le mani tanto strette a pugno, da sbiancarne le nocche. - E sapevi che, per nascondere il proprio rivoltante misfatto, si è preso finanche il mio nome? – terminò, con il respiro corto ad un palmo da lei.
- Miran … - sembrò volersi scusare dell’inganno che anch’ella, seppur nolente, aveva perpetrato.
- Dunque, sapevi … - mormorò, deluso e amareggiato, più a sé stesso che alla sua interlocutrice.  - Anche tu, come mia madre, sapevi e hai taciuto! Come lei, mi hai ingannato … - continuò, di nuovo la voce alterata dalla rabbia che lo bruciava ogni qual volta il tradimento gli ricompariva nella mente.
- Per il tuo bene … fu solo per il tuo bene. – provò a rabbonirlo.
- Quale bene? Quale bene nasce dalla menzogna, dannazione? Vi siete arrogate il diritto di proteggermi dalla verità, come si fa con un bimbo fragile, e a lui avete permesso di prendere ogni cosa: il ventre della mia donna, la mia dignità, il mio nome, il mio orgoglio e la mia sanità mentale … - l’accusò, le lacrime ad invadergli gli occhi celesti, le labbra segnate dallo sconforto e una voce tremula proprio come un bambino che ha scoperto l’inganno della vita. – Ma giuro che lo ucciderò, con le mani nude, con una pallottola nel cranio o con una lama affilata nel cuore. Lo ucciderò, giacché, se l’inferno in terra è ciò a cui sono destinato, giuro che conquisterò lo stesso diritto anche per la mia anima, dopo la morte. –
- E’ tuo fratello, Miran … - ribatté, come se quel sangue che scorreva nelle vene di entrambi fosse sufficiente a distoglierlo dal suo intento omicida.
Miran rise beffardo: - Il sangue non basta! – citò le parole dello stesso Eìos che lo avevano deluso, quel giorno nel proprio studio, e che mai come in quel frangente gli sembrarono premonitrici.
- Egli non ha colpa alcuna per quanto è accaduto: quando conobbe Nubia, ella non era ancora tua promessa - cercò di giustificarlo. – Partì per un viaggio con l’intenzione di sposarla una volta tornato, ma la trovò già tua. -
- Meschino! - commentò sarcastico, - Dunque, molestato per l’ennesima volta dalla sorte, ingoiò tutti gli amorevoli propositi, la lealtà fraterna, l’onesta che lo aveva sempre distinto e si rivalse ricattando mia madre perché lo riconoscesse come figlio di Esem e costrinse te a sposarlo, in cambio del proprio silenzio? – insistette.
- No … Per l’amor di Dio, cerca di comprendere, Miran: egli era furioso per essere stato ancora una volta beffato dal destino; era deluso dall’inganno di Nubia, che aveva barattato il suo amore per un futuro più solido e conveniente, sposando proprio quel fratello il cui rispetto aveva inseguito per una vita; e fu la rabbia a guidarlo nel ricatto scellerato a tua madre. – spiegò, puntuale. - E, per ciò che riguarda me, non fu una costrizione il mio matrimonio con lui, fu una mia libera scelta! – gli assicurò, con voce calma e senza incertezze.
- Una tua scelta? Legare la tua vita a quella di un bastardo traditore, figlio di una cagna? – chiese retorico, con un risolino denigratore.
- Non mancargli di rispetto. – lo ammonì severa.
Miran rise sguaiatamente, come si ride delle parole di uno sciocco, poi guardandola dritta negli occhi, le ricordò: - Il rispetto si guadagna …  -
Le voltò le spalle, senza aspettare la sua risposta, aprì il cancello, che cigolò sinistro, quale presagio di sventura e morte, e quando ne ebbe superato la soglia, ancora di schiena, terminò: - Digli che tornerò e che non si nasconda né dietro le tue gonne, né in un qualunque anfratto del mondo, giacché non avrò pace fino al giorno in cui gli toglierò la vita! –

**********

Per mesi avevano nascosto la verità.
Come contadini che accumulano vanamente, lungo gli argini dei fiumi, sacchi di sabbia, perché la piena non inondi i campi coltivati, così avevano cercato scioccamente di contenere la verità per preservare la stabilità di tante esistenze che però si fondavano sulla sabbia molle delle menzogne e dei sotterfugi. Ciò che Ariela aveva scongiurato, dal giorno dell’arrivo di Eìos alla tenuta, era risalito in superficie, travolgendo ogni cosa sul proprio cammino, come proprio i torrenti ingrossati dalla pioggia.
Avevano mentito, tutti, per il bene di ciascuno, ma la menzogna è un cancro: consuma, come un ratto che rosicchia ogni cosa per limarsi i denti, fino a che non rimane altro che polvere e polvere.
Le lacrime si presero tutti i suoi occhi, lo sconforto le fece tremare i polsi. Si accasciò sull’ottomana di broccato verde, sulla quale aveva trascorso con lui, serena e innamorata, tutti i suoi pomeriggi estivi e si sentì svuotata, derubata, la dimora violata dai ladri, di quella esistenza che le era sembrata cucita su misura per loro. Un nodo spigoloso le salì per la gola, impedendole di deglutire e di proferire parola, così la sua mente e il cuore all’unisono dedicarono al cielo la propria preghiera devota e silenziosa.
Pregò ché Eìos non tornasse; sperò finanche che altra carne si prendesse i suoi sensi, pur di scongiurare il dolore ancora più potente, per la propria anima, di vederlo morto per mano del proprio fratello o assassino dello stesso.
- Signora?  - la riscosse Alvita dai propri pensieri, dopo aver richiuso il cancello e avvicinandosi a lei.
Ariela trasalì a quella voce, seppure sommessa e preoccupata; la guardò vacua, come se anche gli occhi, oltre che la mente, fossero impegnati altrove.
- Non abbiate paura, signora. – sussurrò, come a rassicurarla.
Ariela sorrise, grata, sollevata dallo sconforto, quasi un angelo le avesse parlato per bocca di quella ragazzina e si affidò alla misericordia di Dio riservata ai giusti, invocò il perdono per i peccati suoi e del suo sposo, e si sentì infusa di una forza nuova, disperata e potente, che la spinse a reagire.
- Fa preparare il calesse, Alvita, e corri dal dottor Elmisk. Raccontagli di Miran; delle sue intenzioni. Digli che è necessario avvisare Eìos, perché non ritorni in città, almeno fino a che la sua furia omicida non sarà placata e infine chiedigli di venire qui … da me. -  le ordinò, risollevandosi.
La ragazza annuì e, come un grillo, scattò veloce verso le scuderie, gridando a gran voce il nome dello stalliere, affinché il calesse fosse pronto nel minor tempo possibile.
Se quella, dunque, era la prova, a cui la vita beffarda la sottoponeva, l’avrebbe affrontata, forte, determinata, sicura, come la donna nuova che Eìos aveva fatto nascere. Avrebbe difeso la parte di sé che abitava il cuore di lui, sprezzante, come fanno gli animali con i propri cuccioli. Avrebbe abbandonato ogni cosa, se necessario: la sua amata madre; quella casa che l’aveva vista nuda, anima e carne; gli abiti e i gioielli; il denaro ed il nome, e avrebbe vissuto di niente, pur di poterlo amare ancora, pur di essere amata.

***********

Il cervello gli bruciava, arrovellato dalla scoperta infame che aveva fatto.
Anche la pelle bruciava, quasi gli abiti avessero preso fuoco, come quando ci si avvicina troppo ad un camino per scaldarsi e, inavvertitamente, la fiamma pericolosa ne lambisce il tessuto.
Quando, senza alcun preavviso, aveva deciso di tornare in città per farle una sorpresa, aveva immaginato la sua sposa bellissima corrergli incontro, stringerlo in un abbraccio caldo, il suo sorriso civettuolo illuminarle gli occhi e la bocca riempirlo di baci.
Amava Nubia totalmente: anche quelle piccole punte del suo carattere, che per altri erano difetti, lo coinvolgevano e lo ammaliavano, facendogli perdere il lume della ragione.
Adorava il suo corpo, che aveva immaginato più volte, durante il fidanzamento: il turgore dei seni, fasciati dal corpetto; attraverso le vesti di seta, i fianchi dalle movenze sinuose, come quelle di Salomè, che si era aggiudicata la testa del Battista.
Ma più ancora era innamorato della leggerezza del suo carattere giocoso, della capacità di prendere solo la parte dolce della vita, al pari di una bambina che, del bignè, lecca solo la crema e la ciliegina rossa che lo decorano.
Sua madre gli aveva consigliato di prendere in moglie un’altra fanciulla; lo aveva avvertito che quelli, che egli considerava moine e vezzi ammaliatori, non erano altro che segni di un’immaturità che non si addiceva alla donna che avrebbe dovuto accompagnato per la vita.
Gli aveva addirittura suggerito, come sposa, Ariela, giacché ella aveva tutte le caratteristiche che una buona sposa deve avere: serietà e giudizio; morigeratezza e misura e, soprattutto, sapeva, grazie alla sua assennatezza, governare una casa, amministrare i beni, come aveva dimostrato negli anni affiancando e sostenendo Asmha, dopo la morte del padre.
Miran, però, non aveva voluto darle ascolto: quale cuore innamorato dà retta alla ragione?
Ora, mentre, come un folle, rientrava a cavallo, la camicia sgualcita, il colletto slacciato, i capelli scarmigliati dal vento della galoppata e gli occhi segnati da linee rosse di lacrime rabbiose e delusione, li vedeva tutti quei difetti. Uno dopo l’altro, in fila come soldatini per la rivista, gli sfilavano davanti, ricordandogli amaramente il proprio errore.
Ma il dolore feroce non si limitava alla constatazione della propria scellerata scelta matrimoniale: ciò che lo feriva di più era l’inganno!
In primis quello di Nubia.
La scoperta che ella si fosse donata ad un uomo prima del matrimonio lo stomacava: era la rivelazione di una donna dalla condotta immorale e scandalosa; ma scoprire che ella aveva accettato la sua proposta, pur non essendo più immacolata, solo per assicurarsi un futuro migliore, era meschino e calcolatore, degno di una meretrice consumata.
Ad esso seguiva l’inganno di sua madre: era lacerante, sebbene fosse stato a fin di bene, un tradimento deludente e doloroso, il cordone ombelicale strappato, non tagliato, a forza, dalle stesse mani di colei che lo aveva generato.
Infine c’era Eìos!
Il ragazzo che egli, nell’ingenuità di fanciullo cresciuto nell’ovatta del nido materno, aveva ammirato per le esperienze di vita e la forza dignitosa, malgrado la povertà; lo stesso che gli aveva insegnato ad andare a cavallo, senza sella, né finimenti, un selvaggio aggrappato alla criniera, come fossero redini; quello con cui aveva bevuto cognac, fino a vomitare, e fumato il primo sigaro, ridendo con la gola in fiamme; lo aveva deluso e raggirato, uno stolto incapace nelle mani di un imbonitore. L’aveva amato e considerato un fratello, senza avere idea alcuna che lo fosse davvero; lo aveva rincorso, quando Leria, inspiegabilmente per lui, lo aveva scacciato; aveva continuato a chiedere sue notizie, durante gli studi, ed infine lo aveva accolto nella propria casa come l’amico ritrovato, offrendogli lavoro e ospitalità, contravvenendo alle raccomandazioni della madre.
E, quando aveva scoperto che erano nati dallo stesso seme, dopo il primo momento di squilibrio, si era sentito quasi ripagato di quelle speranze di fanciullo, finanche premiato per averlo amato senza sapere chi fosse.
Dunque, Leria e Nubia lo avevano tradito e umiliato, nascondendogli la verità, ma Eìos lo aveva ucciso, strappandogli il cuore generoso che egli gli aveva affidato.
- Figlio mio … - lo accolse Leria, appena entrato in casa, gli occhi devastati dal pianto, - Grazie a Dio sei vivo! – constatò, segnandosi. – Ti prego, dimmi che le tue mani non sono macchiate del suo sangue! – implorò, le mani giunte in preghiera come davanti ad un’icona sacra.
- Soltanto perché quel cane è in viaggio … - le rispose, senza rivolgerle gli occhi ed, entrato nello studio, colmò un bicchiere di liquore.
- Miran … - cercò di richiamare la sua attenzione.
- Dov’è quella … - ringhiò riferendosi a Nubia.
- Nella sua stanza, come le hai ordinato. – rispose, avvicinandosi, -  Miran, ti prego ascoltami. Non puoi ripudiarla, come hai minacciato: il tuo buon nome, l’onore, il rispetto di un’intera società, finirebbero nel fango di un porcile. Lascia che porti comunque il tuo nome, tienila nella tua casa, nascondi ogni cosa … -
- Siete ridicola! – la interruppe, - Non fate che pensare al nome e all’onore di questa casa, quando il fango, in cui temete di finire, ci arriva già alla gola e, se quella prostituta rimanesse impunita, continuerebbe ad aumentare fino a soffocarci. – le urlò contro.
- Comprendo il tuo dolore, ma, figlio, questa non è la cura. Come non lo sarebbe uccidere quell’uomo … - insistette.
- Avete ragione: per questo male, che mi avete inflitto, non c’è guarigione. – la assecondò, tracannando l’intero contenuto del bicchiere, che provvide subito a riempire nuovamente. – Ma la vendetta è un buon analgesico! – sorrise, bevve e riempì ancora il calice.
- Non bere così … - lo supplicò, Leria, afferrando la bottiglia, ormai quasi vuota.
- Berrò, invece. Berrò fino a che mi si annebbierà il cervello, fino al momento in cui non sentirò che silenzio e desolazione intorno e dentro la mia testa. E ora levatevi di torno! – ruggì, strappandole a sua volta, la bottiglia per ingurgitare tutto il liquido che rimaneva.
Leria si allontanò da Miran, lentamente, misurando i respiri e i passi, come se camminasse davvero nel fago scivoloso. Richiuse alle sue spalle la porta dello studio e, senza una lacrima, si diresse dritta nelle scuderie per cercare Saurion.

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Capitolo 21
*** . 21 . Sulla strada di casa ***


. 21 .
 

Sulla strada di casa

 


Ancora vestito di tutto punto, giaceva sul suo letto: gli stivali imbrattavano di fango e polvere le lenzuola, prima candide e stirate; i cuscini scalciati a terra e le federe maltrattate testimoniavano un sonno tormentato e frammentato. Il capo era riverso sul materasso, senza il supporto del cuscino, che invece era finito nell’angolo opposto del letto; teneva un braccio piegato sugli occhi, la barba ispida e i capelli spettinati; l’altra mano, poggiata sul ventre, stringeva il collo di una bottiglia di cognac, mentre un’altra era sul pavimento, completamente vuota; nessun bicchiere. Le imposte erano serrate, ma le pesanti tende di broccato blu rimanevano aperte, lasciando, involontariamente, filtrare sottilissime lame di luce aranciata del tramonto, che colpivano mobili e suppellettili, conferendo alla stanza un aspetto sinistro e trasandato, un luogo abbandonato e polveroso, ormai dimenticato.
Si era rinchiuso in quell’antro per una intera notte e per il giorno successivo; la porta chiusa a chiave, con tre rassicuranti mandate, aveva tenute lontane le incursioni della cameriera che, con il pretesto di riordinare la stanza o servirgli i pasti, aveva bussato più volte, senza ricevere risposta alcuna.
Anche sua madre vi si era recata supplicandolo di aprirle o, quantomeno, di risponderle, perché potesse assicurarsi che fosse ancora in sé.
Ma Miran non aveva risposto; neanche a lei. Piuttosto, come se i colpi fossero battuti ad un’altra porta, lontana e sconosciuta, aveva mandato giù un altro sorso di liquore, uno per ogni richiamo, con la speranza che non finissero, perché potesse continuare a bere, fino ad annichilirsi.
Aveva sperato che l’alcol gli annebbiasse il cervello; che, ad un certo punto, dopo l’ennesimo sorso, la sua mente si spegnesse, come la fiammella di una candela al primo soffio di vento.
Quel vento salvatore, però non spirava, neanche dopo le due bottiglie vuotate: la sua mente vagava ancora, come in un sogno nebbioso, in un labirinto, dietro ogni svincolo del quale, non c’era un altro vano corridoio, ma l’immagine del tradimento e le voci che lo avevano rivelato.

Controllò ancora i conti sul registro contabile della tenuta: le annotazioni per le consegne delle sementi e dei nuovi attrezzi, destinati ai lavori dell’autunno imminente; l’acquisto di due pariglie di buoi per gli aratri e di un purosangue bianco destinato a Nubia.
La immaginò, con gli angoli della bocca ammorbiditi da un sorriso, mentre cavalcava l’animale: le mani guantate, perché non perdessero la loro delicatezza e i capelli sparpagliati dal vento. Il suo corpo si risvegliò all’immagine di lei addosso, selvaggia, impudica, con la bocca sfrontata e le cosce intorno ai suoi fianchi; un bruciore, quasi piacevole, investì la sua virilità tesa e impaziente e il desiderio di ritrovarla sotto le lenzuola si prese ogni pensiero. Si sollevò di scatto, lasciando le carte, la penna, appena intinta nel calamaio, e l’inchiostro grondante sul foglio immacolato, sparpagliati sulla scrivania, confusi e scompigliati esattamente come i sensi, e lasciò lo studio. Si diresse a passo spedito alle scuderie dove ordinò che gli sellassero proprio lo stallone di Nubia e, quando sella e finimenti furono sistemati, lo montò, raccomandando allo stalliere di riferire la propria partenza per la città a Saurion, perché si occupasse lui di tutto fino al suo ritorno.
Cavalcò come se scappasse dal fuoco o, di più, come se cercasse l’acqua per spegnere l’incendio devastatore che lo avvolgeva. Giunse alla sua casa di città trafelato, sudato per la corsa e il caldo estivo. Voleva entrare nella loro stanza da letto così com’era, con la polvere sulle labbra, il sapore acre del sudore sulla faccia, i vestiti sgualciti, poiché aveva desiderato quell’incontro troppo a lungo e con troppo spasmo per attendere ancora. Dunque, salì spedito al piano superiore e, fuori della porta, inspirò ed espirò per regolarizzare il battito cardiaco che non gli dava requie. Poggiò la mano sulla pomo della maniglia e, proprio nell’istante prima di ruotarlo, udì voci concitate e sommesse.
- Perché avete lasciato la tenuta? – chiese una delle due, che riconobbe appartenere alla sua sposa.
- Per ricordarti i tuoi doveri di moglie! – ribatté quella di sua madre.
Quella mattina stessa, Leria gli aveva comunicato, infatti, di volersi recare in città: il clima afoso della campagna era, per la propria salute, insopportabile in quel periodo dell’anno, dunque aveva avvertito la necessità di respirare aria di mare, più mite e fresca. Nonostante quella giustificazione, Miran aveva avvertito nel tono, con cui ella si rivolgeva alla sua sposa, una vena ostile, che non riusciva a comprendere.
- Dite, piuttosto, per controllare la mia condotta! – la corresse, Nubia, sfacciata e irriverente, come non avrebbe dovuto essere la nuora verso la suocera.
- Miran è mio figlio: ho il dovere di salvaguardare i suoi interessi … - insistette.
- Non sono uno dei suoi affari … sono sua moglie! – precisò, la giovane con ancora più determinazione.
Miran esultò di quella risposta diretta, che rispecchiava perfettamente la donna indipendente e forte, che era sua moglie.
- E’ la medesima cosa: tu gli appartieni, come le terre, come i suoi braccianti e giacché, come loro, dimentichi quali siano i tuoi compiti, io sono qui per ricordartelo! –
- Badate, dunque, ai braccianti e alla tenuta … -
- Di loro e della tenuta si occupa Saurion; di te, mia cara, mi occupo io! – rispose con una inflessione che somigliava ad una minaccia.
- Se credete di manovrarmi come una marionetta, siete in errore, signora: già vi dissi che sono io padrona di me stessa e se ciò non vi aggrada … - la sfidò, - … raccontate pure tutto a vostro figlio. La verità sarà la mia liberazione: dalla vostra prigionia e da un matrimonio soffocante che mi consuma ogni giorno di più! – terminò sospirando, come se si fosse liberata da un peccato innanzi al confessore.
Miran sbatté le palpebre confuso, la mente cominciò ad annebbiarsi, a perdersi in quelle parole chiarissime che, però, per lui erano incomprensibili e dolorose.
- Sei una sgualdrina! – gridò, Leria, chiaramente oltraggiata dalla giovane.
- Ingiuriatemi, ingiuriatemi pure, non mi importa: sono stanca di voi, stanca di mentire … sono stanca di concedermi ad un uomo che non amo … - la sua voce acquistò maggior vigore, quasi averlo rivelato a voce alta, le avesse restituito il diritto di essere e amare come voleva.
Miran poggiò le mani sul legno scuro della porta, dietro la quale si era fermato, per scaricare l’intero peso del corpo, giacché sentiva le gambe molli e incapaci di sorreggerlo. Il respiro si fece corto, come se l’aria mancasse e le tempie pulsarono ferocemente per il sangue che sembrava un fiume impazzito nelle vene.
- Maledetta, non ti permetterò di distruggere la vita di mio figlio: ti sei consacrata a lui nel vincolo del matrimonio e, per la luce dei miei occhi, rimarrai sua, finché il diavolo non ti porti all’inferno! – le giurò solenne e furiosa.
- Finché Eìos non venga a prendermi, vorrete dire! – la corresse sfacciata.
Il nome di suo fratello giunse alle proprie orecchie come un suono di una’eco dispersa dal vento in una valle, ed egli cadde sulle proprie ginocchia, come senza forze e stanco, disanimato come una pupazzo di pezza.
- E’ sposato … - le fece notare, nonostante fosse sicura che un uomo della sua specie non fosse capace di riconoscere un vincolo contratto né davanti agli uomini, né davanti a Dio.
- Questo non ha fermato mai alcuno … Di certo non fermerà Eìos: io gli appartengo, dal momento in cui gli ho donato il mio ventre, ed egli è mio da quando mi ha presa. I nostri matrimoni non saranno mai un ostacolo. –
Quelle ultime parole gli arrivarono al cervello, dritte e improvvise, frecce scoccate dalla boscaglia; fuoco e fiamme, come l’inferno per i dannati, lo investirono, minandogli il respiro.
Dentro la sua mentre, l’immagine della propria donna nelle mani di Eìos, suo fratello ritrovato; la carne dell’una ad avvolgere quella dell’altro e le menzogne, tutte le bugie inanellate come una catena torturatrice, lo annientarono definitivamente.
La furia si prese il cervello, la rabbia gli inondò il cuore ferito.
Spalancò la porta, ultimo ostacolo che lo separava dalla verità morbosa e lacerante, e afferrò Nubia per le spalle, scotendola, mentre ella, frastornata dalla sorpresa, terrorizzata dalla stretta e ancor più dagli occhi inumani del suo sposo, rimase con la bocca spalancata, incapace di muoversi e di parlare.

 

************
 

Reggeva mollemente le redini del suo cavallo con una mano, senza strattonare, senza necessità di guidarne il cammino, quasi esso conoscesse da sé la strada di casa; l’altra, il palmo aperto e le dita affondate nel pelo ispido, poggiava sull’anca dell’animale, puntellando tutto il peso del proprio corpo, leggermente reclinato all’indietro, in una scomoda posizione, inconsueta per una cavalcatura, ma che, per lui, sembrava riposante e rilassata.
I grilli frinivano tra le spighe dei folti campi di grano, in un brusio quasi assordante nel silenzio notturno; le lucciole danzavano sui rami dei meli, accendendo di luci intermittenti le bucce lisce dei frutti maturi; gli zoccoli, calpestavano il terreno, scandendo un rintocco cadenzato e calmo, in controcanto col battito del suo cuore.
Nessuno sembrava voler dormire quella sera, nonostante la notte fosse scesa d’incanto, lasciando del giorno solo una scia lontana di luce aranciata e rosa, a rischiarare la cima dell’ultima collina che lo separava da casa.
La immaginò ancora sveglia e sdraiata nel loro letto, un impalpabile lenzuolo bianco a coprirne la pelle e i capelli sparpagliati, mentre si stringeva al cuscino,in un sospiro  ad occhi socchiusi.
Le ultime settimane erano state un tormento e non certo per le difficoltà del viaggio o per i cavilli burocratici sopravvenuti nella vendita di quelle terre per conto di Elmisk. Tantomeno per la lontananza da casa; Eìos aveva vissuto la maggior parte della propria esistenza come uno zingaro, senza radici, né appartenenza, aveva acquistato la casa sulla spiaggia solo per Elmisk, per sedare la sua apprensione nel vederlo vivere come un selvaggio.
Per mare o nelle campagne, il suo tetto erano sempre state le stelle.
Ma dal giorno che aveva sposato Ariela, il suo cuore aveva espanso le proprie radici, aggrappandosi alla terra, si era nutrito e rinvigorito, aveva saggiato la necessità ineludibile di appartenere: il cuore di lei era diventata la sua casa e le mani le pareti che la racchiudevano.
Era la lontananza da Ariela a dargli il tormento, a renderlo impaziente ed insano, smanioso di tornare, giacché ella era oramai il fulcro di ogni cosa: seni e cuore; ventre e pensieri; anima purissima frammentata in mille scintille di luce sulla punta delle dita, nella trama setosa della pelle che la vestiva, nelle cosce e sulla bocca in fiore.
Carne e sangue, anima e cuore.
Le labbra si incurvarono in un sottile sorriso al pensiero della sua sposa e delle ormai poche miglia che li separavano. Stiracchiò i muscoli della schiena contratti dalle lunghe ore in sella; ruotò il capo prima verso destra, poi verso sinistra, e ancora in avanti e indietro, accompagnando i movimenti con profondi respiri, così da liberarsi dall’ indolenzimento, ed il collo scricchiolò, come un ramoscello calpestato in più punti.
- Sei stanco, vedo. – richiamò la sua attenzione Betel, il suo compagno di viaggio, mentre affiancava il proprio animale al suo. – Se mi avessi dato retta … - continuò, senza aspettare la risposta, -  … ci saremmo fermati in quella locanda per desinare e toglierci di dosso la polvere e la stanchezza di tutte queste ore al galoppo: le mie natiche e le tue non sarebbero doloranti e piatte come quelle di un gibbone e io profumerei di lavanda, come la bella figliola sull’uscio che ci ha rabboccato le borracce! – terminò, con un sospiro languido e rassegnato.
- Che immagine disgustosa! – commentò, Eìos, storcendo le labbra in una smorfia di disappunto.
- Quale? Quella delle mie natiche o delle tue … - commentò ironico, ridacchiando.
- Quella di te che profumi come una donnicciola di campagna … - spiegò, ridendo a sua volta.
- Oh … - esclamò Betel, ancora con lo stesso tono scherzoso, - … il tuo naso oramai è abituato a ben altri profumi … - lo schernì, imitando la voce impostata del gentiluomo.
- Ad uno solo in verità: acqua sorgiva e petali di rose … - spiegò, socchiudendo gli occhi rapito, come la prima volta che aveva percepito il profumo di Ariela.
Betel sorrise, scuotendo la testa.
- Dov’è finito l’amico fidato, complice di mirabolanti imprese ed epiche sbornie, la testa calda pronta alla rissa e al coltello … - si rammaricò, volgendo lo sguardo al cielo.
Si conoscevano da anni, da quando Eìos, in un viaggio per mare, era approdato nella terra lontana dell’altro.
Erano diversi come l’acqua e il vino, il giorno e la notte: Betel placido, come la pozza stagnante di un lago; Eìos scompigliato, come la superficie del mare sotto il vento di burrasca; eppure condividevano lo stesso cammino, la stessa sorte avversa ad entrambi; erano gli amici che si sollevano dall’imbarazzo del destino, dall’impresa talvolta insormontabile della vita; il vicendevole sostegno scanzonato nelle miserie quotidiane.
- E’ qui! – gli rispose rassicurante, - E’ sempre qui. Solo, adesso è … - fece scricchiolare di nuovo il collo, in cerca delle parole che gli rendessero meno imbarazzo; sbuffò, quando comprese che ne esisteva solo una capace di rendere i suoi sentimenti e, rassegnato, continuò: - … innamorato! –
Betel rise ancora, stavolta meno sommessamente, come un ragazzino che ha scoperto il segreto dell’amico e si appresta a canzonarlo.
Eìos lo osservò di sottecchi, aspettando la sua battuta pungente, che stranamente non arrivò: Betel lo guardò soltanto, con un guizzo indecifrabile negli occhi nerissimi.
- Dunque, che aspetti? – chiese e, con un gesto fulmineo, strattonò le redini del proprio destriero, incitandolo, con un urlo, al galoppo.
Una nuvola di polvere si sollevò, avvolgendo la sua solida figura, confondendo l’animale col cavaliere, apparendo come un mitologico centauro; solo quando si dissolse nell’aria ferma della notte, Eìos si riscosse.
Serrò, con le cosce forti, i fianchi del proprio cavallo e con un colpo di tacco, lo spronò, a sua volta, all’inseguimento, il sorriso stampato in viso, i capelli liberi nel vento della corsa ed il cuore pulsante  e vivo, animato dalla quella improvvisata competizione goliardica.
Percorsero così le ultime miglia che li separavano dalle mura della città, alternandosi in una gara serrata, che finì senza vincitori né vinti, davanti ad un gendarme dalla baionetta spianata.
I cavalieri tirarono le redini, imponendo ai cavalli un arresto improvviso e forzato; gli animali sbuffarono, compiendo un mezzo giro su sé stessi, scalpitando e nitrendo, e quando l’impeto della corsa fu scemato, Eìos e Betel li costrinsero a rivolgere i musi verso il soldato, al quale se ne erano affiancati altri tre.
- Smontate da cavallo, signori! – ordinò uno di essi, portandosi alla testa del drappello.
I due obbedirono.
- I vostri nomi … - continuò, atono.
- Sono Eìos, della casa di Mikra, e questi  … - fece per presentare anche l’amico che lo affiancava, ma il soldato lo fermò, prima con un cenno della mano, poi con le parole.
- Voi potete andare, signore. – disse rivolgendosi a Betel, - Invece, voi, vogliate seguirmi alla gendarmeria. – ordinò, secco voltandogli le spalle.
Ad Eìos fu subito chiaro che quello non fosse un semplice posto di blocco per gli stranieri che entravano in città: quei soldati erano lì per lui soltanto, e questo lo preoccupava, alimentando una serie di domande pungenti.
A nessuno aveva parlato del suo rientro, anticipato solo per nostalgia; tanto Ariela, quanto il dottor Elmisk, ne erano all’oscuro e l’attendevano nei giorni a venire, così come aveva fatto intendere nella missiva affidata alla diligenza postale. Dunque, perché i gendarmi, sembravano avere tanto interesse per lui,  se egli non avrebbe dovuto neanche essere lì quella sera? E perché chiedevano che li seguisse alla gendarmeria, a quell’ora, se fosse stato un semplice controllo?
Le risposte potevano essere diverse e nessuna di suo gradimento: un incidente a suo padre o ad Ariela, ad esempio. Il pensiero lo sconvolse, rapido, opprimendogli il respiro. La mente lo scacciò immediatamente, così come esso era arrivato: la sorte non poteva essergli di nuovo avversa, dopo tutte le sofferenze e le privazioni che gli aveva riservato nel corso della sua esistenza.
- Qual è la motivazione della tua richiesta, soldato? – chiese, cercando di mostrarsi distaccato e forte, nonostante il cuore martellasse preoccupato, quasi potesse uscirgli dal petto.
-  Non ne conosco le ragioni, signore. Ho solo ricevuto l’ordine tassativo di condurvi dal comandante, appena foste giunto alle mura della città. Seguitemi spontaneamente, e da solo, o sarò costretto a trarvi in arresto, per la resistenza opposta. – insistette e portò la mano sul calcio della pistola riposta nella fondina, in un palese gesto intimidatorio.
- Vi seguo, vi seguo … - replicò, allargando le braccia in segno di resa, pur mantenendo gli occhi spavaldi sul soldato, che ne seguiva ogni movimento con scrupolosa attenzione. Montò sul suo cavallo, che continuava a scalpitare nervoso e, rivolgendosi a Betel, che aveva ascoltato l’intera conversazione preoccupato,  lo pregò: – Corri da mio padre, raccontagli quanto è accaduto. E … vi prego, non fatene parola con Ariela, non prima di aver appurato le ragioni di questa richiesta. Non voglio che stia in pena. –
Betel lo rassicurò col un gesto del capo, fissò gli occhi in quelli di lui, ed, in essi, Eìos intravide la sua stessa ansia e la sicurezza che enormi sciagure si prospettassero all’orizzonte, così come un marinaio istintivamente riconosce l’arrivo della tempesta dal cambiamento del vento.
Tirò con una violenta e rapida scossa le redini del suo cavallo, perché riprendesse la via verso la porta della città; lo schiocco degli zoccoli rimbombò sulle pietre con cui era lastricata la strada, un rumore sinistro nel silenzio della notte; si lasciò dietro l’amico e i soldati, che intanto montavano a loro volta a cavallo, e gli si disponevano intorno, scortandolo.
Quando fu a distanza considerevole dal drappello, guidò l’animale al galoppo, perché potesse giungere prima possibile alla casa di Elmisk.
Non era quella sera che l’inizio di una nuova sciagura.

 

**************************

Ben trovate!
Perdonatemi per la lunga attesa, ma qualche contrattempo mi ha impedito di aggiornare prima.
Spero che non abbiate perso la voglia di continuare a seguirmi!
Ringrazio, come sempre, tutti coloro che mi seguono
e
in modo particolare coloro che recensiscono sempre.
Il vostro sostegno è fondamentale!
Vi lascio un bacio e vi aspetto alla prossima!

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Capitolo 22
*** . 22 . Nessuna tranne una ***


. 22 .

 

Nessuno tranne una

 

Bussò talmente forte, che gli assi del portone scricchiolarono sotto l’irruenza dei colpi vibrati e continuò finché un servitore, ancora mezzo addormentato, giunse ad aprirgli.
- Cosa volete a quest’ora? – farfugliò, brusco, stropicciandosi gli occhi, con una mano e reggendo, con l’altra, un mozzicone di candela.
- Il dottore, chiamate il dottor Elmisk! – rispose Betel, con tono di urgenza, facendosi strada nel piccolo studiolo medico, immerso ancora nelle tenebre della notte.
Il servitore accese il candeliere sullo scrittoio, illuminando la stanza e permettendo a Betel di orientarsi tra gli arredi; dopodiché, scomparve dietro la porta che conduceva all’alloggio del dottore, bofonchiando e lamentandosi per il fatto che, nonostante fosse un medico, Elmisk fosse troppo il là con gli anni per essere tirato giù dal letto nel cuore della notte e che, una buona volta, i suoi pazienti avrebbero fatto bene a rivolgersi al medico giovane e fresco di studi, già istruito per sostituirlo.
Betel sfilò il mantello blu come la notte, la pashmina, che gli fasciava il collo, lasciandoli cadere su di una seggiola; slacciò la giubba e sedette sull’altra. La gola era arsa e la testa martellava per la stanchezza e la preoccupazione, così poggiò i gomiti sul ripiano dello scrittoio e rilassò il capo tra le mani, socchiudendo le palpebre pesanti.
Elmisk percorse il corridoio, che dalla sua camera portava allo studiolo, trafelato, ancora le dita nodose ad allacciare i bottoni della camicia e i polsini aperti, che lasciavano in vista gli avambracci ruvidi. Ripassò mentalmente i volti dei suoi pazienti, le malattie, le cure che aveva prescritto loro, nel tentativo di capire, prima di vederlo, chi potesse essersi trovato in tale emergenza da correre da lui a quell’ora della notte.
Quando, però, si trovò davanti la schiena curva di Betel, con la testa tra le mani e il viso nascosto, ebbe un sussulto.
Gli si avvicinò con una velocità insolita per un uomo della sua età, ma tipica di un medico solerte e, ancor più, di un padre preoccupato.
- Betel? – lo richiamò, poggiandogli, amorevolmente, una mano sulla spalla contratta, – Cos’hai? Stai bene, figliolo? – continuò con urgenza.
- Sto bene. Sto bene, dottore. – lo rassicurò l’uomo, tirando su gli occhi.
- Eìos? – insistette il vecchio, investito da un bruciante presentimento.
- Non abbiate timore. Egli è in salute! – rispose subito, perché l’altro non temesse il peggio, - Però è alla gendarmeria. – cominciò a raccontare, cercando, mentre parlava di raccogliere le idee ed essere il più esaustivo possibile. – C’erano dei soldati alla porta di nord- ovest. Non so come facessero a sapere quando saremmo arrivati, ma erano lì per lui, dottore. Per Eìos! –
Elmisk afferrò una delle seggiole, che teneva per i pazienti, e sedette di fianco al giovane, poiché l’apprensione e lo spavento, che lo avevano investito, gli procuravano una instabilità nelle gambe e nel respiro, che non riusciva a dominare.
- L’hanno indotto a seguirli, da solo e senza dare spiegazioni … - riprese, dopo aver colmato un bicchiere di acqua fresca, dalla brocca che il vecchio teneva sullo scrittoio e averne bevuto avidamente, - … prima di essere scortato dal drappello, mi ha chiesto di cercare voi, perché sapeste quanto è accaduto. – terminò espirando, sollevato di avere un alleato in quella circostanza così spinosa.
- Forse un accertamento o uno scambio di persona … - azzardò, più per rasserenarsi che per reale convinzione.
- Non lo credo … e neanche vostro figlio! –
- Dunque … andiamo alla gendarmeria per sincerarcene! – disse sollevandosi.
Infilò la giacca e calzò il cappello, afferrò il bastone e, insieme, lasciarono lo studio.
La caserma della gendarmeria, situata dall’altro capo della città, era  dislocata in una antica fortezza.
La sua posizione era stata strategicamente studiata per assicurare alla città una vedetta contro eventuali assalti provenienti dal mare. Col passare degli anni e con gli accordi di pace con le popolazioni limitrofe, era divenuta sede della guardia cittadina e della prigione.
Vi si giungeva dall’entroterra, per un’unica via carraia, che si snodava lungo il fianco di un monte, vasta riserva di caccia, e lungo campi seminati a grani e a biade.
Un silenzio solenne permeò lo spirito del dottor Elmisk, che perdendosi nella visione placida dei lontani pascoli e dei buoi aggiogati dagli aratri, per un istante soltanto dimenticò la pesantezza dei pensieri e la preoccupazione per la sorte del figlio.
Solo quando costeggiò l’uliveto e scorse le tegole rossastre dei tetti bassi delle piccole case contadine, confuse tra arbusti e siepi, l’inquietudine l’assalì bruscamente, come l’agguato di un infido nemico.
La fortezza si stagliava fiera in mezzo al mare, appollaiata su di un masso di roccia, senza staccarsi dalla superficie dell’acqua, come un mitologico mostro marino. Una nicchia tra i cespugli introduceva alla strada d’accesso, che a sua volta conduceva ad un pontile di legno che la ancorava alla terra ferma.
Furono necessari diversi minuti perché l’ufficiale di piantone ritornasse con un lasciapassare per consentire loro un colloquio col comandante.
Lungo il pontile, Betel camminava alle sue spalle, come un custode silenzioso, e il suo respiro regolare e l’imponenza del corpo, fungevano da sedativo per l’angustiato umore del vecchio, che se fosse stato solo, in un frangente avverso come quello, si sarebbe, di certo, sentito perduto.
La guardia li introdusse nell’ufficio, dove il comandante Kuvee sedeva, braccia conserte poggiate su di una scombinata marea di scartoffie.
- Dottor Elmisk! – lo accolse con una nota di falsa gentilezza nella voce, - Qual buon vento vi porta qui e a così tarda ora? – chiese, ancora più affettato.
- Sono qui per mio figlio: Eìos. – chiarì, nonostante fosse palese che il militare ne conoscesse già le motivazioni.
- Vostro … figlio? – sottolineò, - Siete un uomo degno di grande stima, dottore: chiunque in città direbbe di voi solo bene! Non dovreste confondere la vostra reputazione limpida e generosa con quella di un  ladro … - gli suggerì, mellifluo, mentre inforcava i suoi occhialini tondi.
I muscoli, già tesi, di Betel vibrarono, come se una lieve scarica di elettricità vi fosse passata attraverso: era un uomo pacato e riflessivo, ma le accuse non gli aggradavano, a maggior ragione, se erano infondate.
- Egli è mio figlio! - sottolineò, con impeto e determinazione.
- Come volete … - lo schernì, allargando teatralmente le braccia in segno di resa.
- Dunque, perché lo trattenete? – insistette, sempre più impaziente.
- Ve l’ho detto: perché è un ladro! – ripeté, indurendo sguardo e voce.
Si sollevò e, mani dietro la schiena, misurando a grandi passi la stanza, spiegò: - Abbiamo perquisito la sua nave e … vi abbiamo trovato diverse casse di liquori introdotte di contrabbando. Ora, dottore, voi sapete che il contrabbando è un reato, vero? – chiese retorico, - Dunque: vostro figlio è un ladro! – concluse, come il giudice dal suo scranno.
Elmisk si irrigidì: Eìos era tornato pochi mesi prima, proprio da una spedizione illecita, dunque, era plausibile che fosse perseguito proprio per quel reato.
Betel, di contro, storse il naso, come quando le narici avvertono un odore che non ci piace, ma che non riescono a definire.
Comunque, tacque, in attesa.
- Posso vederlo? – chiese il medico, scoraggiato.
- No! - rispose secco il comandante, tornando a sedere allo scrittoio.
- Non sono così a digiuno di legge da non sapere che qualunque detenuto ha il diritto di ricevere visite. – insistette.
- Da un parente legittimo o da un avvocato! E voi, caro dottore, non siete né l’uno, né l’altro! – sentenziò, mal celando un sorrisetto soddisfatto.
- E sia, comandante Kuvee! Domani avrete o l’uno o l’altro! –
Quell’incontro aveva esacerbato l’animo di entrambi, ma mentre Elmisk malediceva l’avventatezza di Eìos e la superficialità con cui si era tuffato nei flutti pericolosi dell’illecito, Betel continuava a rimuginare sull’arresto, sull’atteggiamento quasi divertito di Kuvee, che gli era apparso più che di un tutore dell’ordine, quello di uno che aveva  finalmente ottenuto una piena soddisfazione.
- E’ un complotto! – disse improvvisamente, richiamando l’attenzione del vecchio. – Il Leviathan è all’ancora da mesi, perché la perquisizione è avvenuta solo ora? Quale uomo con un po’ di sale in zucca, avrebbe lasciato il corpo del reato, nell’esatto luogo in cui un gendarme l’avrebbe cercato? – insinuò, per instillare un ragionevole dubbio che avvalorasse la propria tesi. – Vostro figlio non è uno sprovveduto, una testa calda, in talune situazioni, ne convengo, ma non è uno sprovveduto! – ripeté, guadagnandosi la curiosità del suo interlocutore. – Infatti, il carico di liquori fu lasciato nella baia di Deikakri, dove il committente della spedizione era già ad attenderlo: nel porto della città, la nave attraccò con, nella stiva, merce comune, con tanto di licenza commerciale!
Dunque, è solo una montatura per incastrare Eìos … - manifestò le sue conclusioni.
Elmisk rifletté: Eìos aveva, certo, diversi nemici e se li era guadagnati tutti con la sfrontatezza, l’irriverenza e col suo senso di giustizia che gli impediva di chiudere gli occhi davanti ai soprusi. L’idea, quindi, del complotto, partorita da Betel, aveva un solido fondamento.
Questa possibilità, però, non migliorava la condizione di Eìos, al contrario la inaspriva: chiunque avesse ordito la trama sottile di quel tranello, doveva provare un odio violento e una sete di vendetta spropositata nei suoi confronti, oltre a poter contare su conoscenze sordide, tanto danaro per corrompere e una motivazione più che valida.
Il primo sospetto corse a Miran.
Dopo la sua incursione nella casa di Eìos, le minacce violente e mortali che aveva manifestato ad Ariela, egli era il primo indiziato.
Ma Elmisk conosceva il giovane fin da ragazzino: la sua indole era sempre stata serena e il rispetto per il prossimo profondo; non poteva il dolore per le menzogne scoperte averlo tramutato in un subdolo cospiratore che ordisce nell’ombra. Certo, avrebbe preteso soddisfazione per l’oltraggio subito, ma guardando il rivale negli occhi, in un duello corretto e mai pugnalandolo vigliaccamente alla schiena.
Escluso Miran, nessuno possedeva, in tutta la regione, danaro sufficiente a comprare il comandante della gendarmeria, i soldati e le prove da produrre per sostenere l’accusa.
Nessuno, tranne una.

 

**********
 

Albeggiava.
Attraverso i vetri della grande finestra, un pallido chiarore prendeva a diffondersi nella stanza ancora buia per metà.
Il letto era intonso, così come la cameriera lo aveva preparato: cuscini e lenzuola lisce e bianche, come la coscienza dei bambini.
Aveva passato la notte sulla poltrona, guardando fuori lo scorrere lento delle ore: il pomeriggio, mentre svaniva nelle ombre della sera; la notte che si allungava sugli alberi, conferendo loro parvenze spettrali e, infine, l’aurora immacolata, foriera del nuovo giorno.
Miran era ancora chiuso nella propria stanza, in un tale silenzio da indurla a crederlo svenuto per il troppo alcol, o peggio, in meditazione per elaborare la sua vendetta.
Un servitore aveva riferito di averlo sorpreso davanti al mobiletto dei liquori, la sera prima, gli abiti sgualciti e la barba ispida, mentre, con l’equilibrio instabile dell’ubriaco e gli occhi vacui, ritornava in camera, per non uscirne ancora.
Leria tamburellò con le dita sulle cosce, in attesa che il giorno si fosse insediato pienamente, dopodiché suonò il campanello che richiamava la servitù.
Noelia fu nella sua camera nei minuti necessari a percorrere lo scalone che portava al piano nobile, il vassoio d’argento riccamente imbandito e gli occhi spalancati di chi è sveglio da tempo.
- Poggia tutto qui. – indicò il tavolinetto accanto alla poltrona, senza rispondere al buongiorno che la serva le aveva rivolto. – Di’ a Saurion che voglio vederlo. – ordinò.
Noelia uscì dalla stanza, come se avesse il vento nelle tasche, si diresse in cucina dove l’uomo sedeva a fare colazione; gli riferì la richiesta della signora ed egli, dato l’ultimo morso alla fetta di pane imburrato, eseguì l’ordine.
Leria aveva affidato a lui il suo piano degenerato, per evitare che suo figlio ed Eìos si scontrassero e ora l’attesa di sapere se, ciò che aveva architettato, avesse sortito l’effetto desiderato, la bruciava come se fosse dinanzi a un fuoco devastante e distruttore.
Mentre lo attendeva impaziente, ripercorse gli ordini che gli aveva dato.

- Ho bisogno del tuo aiuto, Saurion! – disse secca, non appena l’uomo ebbe varcato la soglia della sua camera.
- Sono ai vostri ordini, signora. – le rispose ossequioso, chinando il capo.
- Mio figlio … è in gravi ambasce! – continuò, un velo di porpora sul viso pallido e stanco.
- Lo so, signora: tutta la casa ha udito le urla e gli improperi … - le rivelò, con gli occhi bassi, come se fosse imbarazzato di essere venuto a conoscenza, seppur involontariamente, di un argomento tanto intimo, quanto scabroso, - … e ne sono addolorato! Il padrone non meritava ciò che quell’uomo gli ha fatto … -
- Vuole vendicarsi: si è finanche recato alla casa di quel maledetto, con la rivoltella carica, per ucciderlo. Ma la Santissima Vergine ha voluto risparmiarmi il dolore di un figlio assassino o, peggio, morto per mano di quel diavolo! – spiegò, segnandosi più volte la fronte. – Devi aiutarmi, Saurion: devi impedire che mio figlio e quell’uomo si battano a duello … - insistette, con il tono di un ordine, più che di una preghiera.
- Non avete che da ordinare, signora! Ditemi cosa credete che possa fare per impedirlo … -
- Ho riflettuto: quell’uomo è fuori città, per conto del dottor Elmisk. Da ciò che mio figlio mi ha riferito, non sarà di ritorno che tra qualche giorno. Devi impedirgli di entrare in città, allontanarlo, spedirlo in un luogo in cui mio figlio non potrà mai avvicinarlo … - suggerì.
Saurion la guardò incerto: la vaghezza delle sue parole confondeva la propria mente semplice. Egli non riusciva a comprendere se la sua padrona avesse già in mente un’arguzia tale, da impedire lo scontro tra i due fratelli, o se cercasse in lui, oltre che un alleato, anche un suggeritore.
Leria comprese la sua titubanza: del resto da un bifolco miserabile quale Saurion poteva pretendere solo ubbidienza cieca, non certo la soluzione ai suoi mali.
- Lo faremo arrestare! – spiegò.
Saurion allargò le braccia, ancora più confuso, la bocca rimase spalancata, come quella di un bambino di fronte a parole incomprensibili.
Leria si avvicinò al comò in fondo alla stanza. Aprì uno dei cassetti, rovistò tra la biancheria che conteneva, finché ne estrasse un sacchetto di velluto nero, gonfio come un otre, legato da due cordini di raso.
Sedette allo scrittoio e terminò una lettera; soffiò sulla carta perché l’inchiostro si asciugasse e infine la ripiegò in tre parti, perché potesse essere infilata nel sacchetto, dopodiché ne serrò i cordini con un piccolo nodo.
- Prendilo. – ordinò, porgendolo all’uomo interdetto, che sembrava un automa, tanto era confuso.
 - Consegnalo al comandante della gendarmeria e assicurati che legga la lettera. Quando sarai solo, bruciala, dalla in pasto ai porci, fanne ciò che vuoi, ma distruggila.
Di’ a Kuvee che ciò che trova nel sacchetto è solo un acconto e che, se farà bene ciò che gli chiedo, riceverà altrettanto! –
Saurion afferrò il sacchetto, con le dita tremanti, come se contenesse nitroglicerina, pronta a esplodere al minimo innesco. Lo infilò nella piccola bisaccia che indossava quando usciva a cavallo, e, chinando il capo in segno di obbedienza, fece un passo indietro verso la porta, senza rivolgere la schiena alla padrona.
- Saurion. – lo richiamò Leria, quando fu sull’uscio, - Non azzardarti a farne parola con alcuno, neanche col confessore o, quanto è vero Iddio, ti caverò gli occhi con le mie mani. – minacciò, con gli occhi piccoli, piccoli come quelli dei felini a caccia.

Saurion giunse alla porta della camera della signora ansante; si fermò per riprendere il fiato che aveva consumato nel fare le scale a due, a due, e bussò compito, nonostante le mani rozze del bracciante.
- Ben levata, signora. Mi avete fatto chiamare? – chiese, intravedendola appena nella poca luce mattutina che rischiarava la stanza.
- Che notizie mi porti? -
- Il comandante ha esaudito le vostre richieste: quell’uomo è rinchiuso in una cella della prigione della città, con l’accusa di contrabbando. -  raccontò, con un sorrisetto  eccitato. – A quanto mi è stato riferito, il dottor Elmisk ha cercato di far visita al figlio, ma Kuvee glielo ha impedito ed ora il vecchio cerca un avvocato che lo patrocini. –
- Di’ al comandante che mi onoro della sua solerzia e che gli sono debitrice, ma pretendo che quel bastardo marcisca in prigione fino alla fine dei suoi giorni.
Non mancherò di ripagarlo come merita, se gli farà terra bruciata intorno: che non trovi un solo avvocato in tutta la città disposto a perorare la sua causa; che le prove a suo carico siano così schiaccianti da non ammettere il benché minimo dubbio che possa sollevarlo dall’accusa e che il giudice gli combini una pena gravissima, esemplare e definitiva. –
- Ma, signora … - obbiettò Saurion, - il contrabbando non è, certo, un reato che preveda pene gravi come quella che invocate … -
- Sei un sciocco e un pezzente!
Non sai, forse, che è il denaro che determina la gravità del reato? Un ladro di polli può diventare un assassino e un turpe degenerato, un comune evasore di gabelli, se si possiede danaro sufficiente a corrompere. – spiegò, - Ma questo non è affar tuo: sei troppo stupido per comprendere … Fa’ solo ciò che ti ordino e tieni la bocca chiusa!
Vattene, adesso, la testa mi duole! – lo liquidò con mala grazia.
L’uomo si mordicchiò il labbro innervosito e umiliato: nonostante la servisse e riverisse come un prete sull’altare, da quella donna non aveva ricevuto altro che ordini e insulti gratuiti.
Da che il padrone era morto, l’aveva appoggiata nella gestione della tenuta: era stato il braccio forte che reggeva la frusta,  perché le si obbedisse. Rispettosamente, come gli era stato insegnato, aveva accettato i suoi malumori e gli insulti pesanti, giacché è così che si fa con la mano che ti offre il pane.
Ella ordinava e Saurion obbediva, come il cane col padrone.
Ma nonostante tutta la lealtà e l’obbedienza, egli rimaneva per lei solo un servo senza dignità.
Saurion, in quel preciso istante, mentre lasciava la camera, decise che le avrebbe offerto un’ultima possibilità di riscatto: avrebbe obbedito come sempre, ma in cambio, quella volta, avrebbe preteso, non danaro, di quello non sentiva il bisogno, piuttosto, rispetto e una posizione sociale  più elevata, così da poter maritare bene la sua bella figliola.
Si lisciò i baffi, come il gatto davanti a un bel pezzo di lardo, poggiò la mano sul taschino della camicia di cotone grezzo, per assicurarsi che ciò che vi aveva riposto, vi fosse ancora e, con la sua sgraziata andatura, si diresse a fare ciò che gli era stato ordinato.

 

***********************

Ben trovate!
Chiedo scusa per l’ennesima volta per il ritardo con cui aggiorno: stavolta ho avuto problemi tecnici!
Volevo segnalarvi, una one shot su questa storia, che ho pubblicata qualche mese fa.
Se voleste darle  un occhiata, mi farebbe piacere.
Come al solito ringrazio tutte coloro che leggono e in modo particolare, quelle che recensiscono.
Un bacio e alla prossima!

 

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Capitolo 23
*** . 23 . Incubi e sogni di un prigioniero ***


. 23 .
 

Incubi e sogni di un prigioniero

 

La cella era angusta, appena sufficiente a contenere un tavolato di legno, assicurato alla parete con delle catene, che fungeva da giaciglio, e, nel lato opposto, un pitale di metallo scrostato.
I muri suppuravano muffa fluorescente e fetida, che trasudava dalle pietre come un’infezione della pelle.
L’aria era irrespirabile, impregnata di sudore, maleodorante come quella di una latrina pubblica, e soffocante per la canapa delle torce, inzuppata di petrolio, che bruciava, per illuminare il corridoio.
Le tempie martellavano per la stanchezza e, nella bocca arsa, il sapore acre del sangue si mescolava alla saliva. Umettò con la punta della lingua il labbro inferiore, spaccato e gonfio, che bruciò al contatto, tanto da fargli strizzare gli occhi per il dolore.
Doveva essere stato il calcio del fucile che uno dei soldati gli aveva piantato in faccia, quando aveva tentato di opporsi all’arresto. Anche i polsi gli dolevano: erano segnati da ecchimosi ardenti a causa dei vicoli troppo stretti che gli avevano imposto e che gli impedivano i movimenti delle mani.
La camicia, lacerata in più punti, era logora così come i capelli e la pelle del viso, intrisi di sudore, polvere e sangue.
La luce esterna filtrava attraverso la fitta inferriata di un finestrino posto a più di due metri dal pavimento, disegnava sulla pietra una scacchiera di ombra e luce,  troppo flebile per scandire lo scorrere del tempo.
Eìos sapeva soltanto che si era lasciato alle spalle una lunga notte tormentosa, una notte infinita, gli occhi puntati sul soffitto e un desiderio solo a rotolare nella testa: il sonno ristoratore. Aveva invocato quel sonno salvifico e pieno, maledicendo il ricordo delle notti in cui esso giungeva e perdurava sino al mattino, quando anche quello scomodo giaciglio sarebbe apparso confortevole.
Invece esso, quella notte, era arrivato improvviso, ma breve; lo aveva ingannato, per poi spegnersi e abbandonarlo, solo e dolorante, ad aspettare l’alba, come la fine di un agonia.
Strizzò gli occhi una, due, tre volte, accompagnando il gesto con profondi respiri, come in un rituale magico e propiziatorio, fino a quando, nel buio, dietro le palpebre stanche, comparve generosa e soave, la forza che il sonno mancato non gli aveva concesso.

Una nebbia, come ovatta impalpabile e bianca, addensava l’aria, circondandolo, quasi le nuvole fossero calate giù dal cielo a riempire la terra. Il cielo era terso di un azzurro pieno ed infinito, avvolgente come fosse liquido. Alla fine di un sentiero, che sembrava venire dal nulla, come un serpente tra le foglie accartocciate, v’era una porta, come di cera opaca e leggera.
La spinse, senza fatica alcuna, e oltre trovò la primavera.
Rumore di acqua sorgiva scivolava nelle orecchie, aggraziato e fresco; profumo di vento lambiva la pelle, come ali diafane di farfalle; verde di foglie e porpora di fiori si concedevano agli occhi intersecandosi, come forme molteplici di un caleidoscopio.
I piedi nudi e un abito bianco, come il velo di una vestale, era seduta sull’erba bagnata di brina. I capelli, miele colato dalle arnie, le coprivano la schiena nuda e alcune ciocche ne animavano la pelle, illuminandola con la luce di un sole morente.
- Stringimi. – gli chiese ed egli, incantato, le si fece vicino, la sollevò dalla terra e portò le mani al suo viso di latte.
Le labbra di lei giunsero al suo orecchio e la voce degli angeli gli cantò che ogni piccola paura era rimasta fuori; ogni dolore spento, confuso nell’odore della loro pelle.
Egli la strinse, forte, e la porta si richiuse silenziosa alle loro spalle, limitando il confine della nebbia fuori dal loro giardino.

Il rumore metallico delle chiavi nella serratura e il cigolio del cancello lo strapparono dal vapore del sogno che si era addensato, reale e vivido, nella sua mente.
Un soldato entrò, calciando con la punta degli stivali, le ciotole di legno che contenevano cibo e acqua. Il contenuto si riversò sul pavimento e un tozzo di pane, duro come una pietra levigata, rotolò fino alla parete opposta.
- Vedo che non hai gradito la cena. – osservò, rivolgendosi ad Eìos che giaceva immobile e supino sul tavolaccio, come se dormisse. – Il cuoco ne sarà rattristato … - lo schernì, con un risolino, mentre si portava con tutto il corpo, accanto allo scomodo giaciglio.
- Di’ al cuoco … - mormorò, Eìos, senza muovere un muscolo, neanche per sollevare le palpebre, - … che ho sentito profumi più invitanti provenire dal trogolo di un porcile! –
- Come siamo spiritosi già di primo mattino! Deduco, bastardo, che la notte trascorsa in cella ti abbia portato ristoro. – ironizzò, - Però adesso è ora di alzarti! – ordinò, battendo la punta di un randello nel palmo della mano, con un palese intento minaccioso.
Eìos non si mosse.
- Alzati! – insistette, alzando la voce e colpendo vigorosamente le assi del tavolaccio ad un palmo dal viso di lui.
Eìos strizzò impercettibilmente gli occhi, per il fragore improvviso del colpo vibrato e per lo scricchiolio del legno, ma perseverò nella sua immobilità indisponente.
- Hai visite! – continuò il soldato, cambiando tono, come se avesse deciso di adoperare con lui un’altra tattica.
Solo in quell’istante Eìos, percepì, nel buio della detenzione, uno spiraglio di salvezza e si mosse d’istinto.
Fece leva sugli addominali per tirar su il busto, indolenzito dalla durezza del legno; rimase seduto, con le ginocchia piegate, per qualche istante, così che il corpo tutto riprendesse vigore; poi poggiò a terra i piedi, facendo leva sulle cosce, si rizzò e mosse un passo al seguito del soldato che lo precedeva verso l’uscita.
- Non capita spesso che un prigioniero riceva visite … sei un uomo fortunato, bastardo! – lo punzecchiò ancora.
A quell’ennesimo insulto, la rabbia fluì rapida, attraverso il fiume in piena del suo sangue caldo, gli annebbiò la mente e lo armò di una forza improvvisa e insana. Con un movimento felino, alzò le braccia, ancora unite per i polsi dai vincoli, circondò il collo del soldato e gli serrò la gola.
- Anche tu sei un uomo fortunato, soldato. – sibilò al suo orecchio, il proprio petto aderente alla schiena dell’altro, ed il muscolo dell’avambraccio gonfio e teso, a stringergli la trachea, - Per questa volta! Ma se mi chiami ancora bastardo … giuro che ti ammazzo! – lo minacciò, con gli occhi intimidatori, puntati in quelli della seconda guardia, che era rimasta imbambolata sull’uscio della cella.
Il soldato annuì, esalò un rantolo, riempiendo i polmoni dell’aria che gli era mancata; Eìos allentò la stretta, gli liberò il collo e, scansandone il corpo, piegato in due sulle ginocchia, lo precedette verso l’uscita.
- E adesso muoviti! – gli ordinò di schiena, le spalle dritte ed il petto gonfio e rinvigorito, - Ho visite! – lo citò, ravvivandosi i capelli con una mano, mentre l’altra, vincolata, ne assecondava i movimenti.
Scesero dal torrione, nel quale era situata la sua cella, attraverso un’angusta scala a chiocciola, in fila indiana: egli al centro e le due guardie una a precederlo, l’altra a seguirlo. Lo spazio era largo appena un’ottantina di centimetri, le spalle di Eìos strisciavano lungo le pareti di pietra viva e ruvida e la pedata dei gradini era insufficiente a contenere agevolmente la pianta del piede.
Giunsero dopo tre rampe, ad un pianerottolo che conduceva, attraverso un corridoio, ad una porta chiusa.
A giudicare dalla luce che filtrava dalle feritoie nella parete, doveva essere giorno inoltrato, perché raggi di sole, forti e caldi, illuminavano a tratti il percorso, come torce naturali.
Il soldato che lo precedeva sistemò il fucile sulla spalla e spalancò la porta; l’altro con il calcio del proprio, spintonò Eìos, sbilanciandolo e costringendolo a varcare la soglia. Quando fu dentro, udì distintamente il cigolio del ferro nel chiavistello.
Una luce abbagliante inondava la stanza, ferendo i suoi occhi assuefatti alle ore di semioscurità della cella; tanto che egli li schermò, portando entrambe le mani incrociate sul viso e strizzando leggermente le palpebre.
Di fronte a lui, davanti alla finestra dai vetri sporchi di polvere e schizzi di mare, una figura immersa nella luce, gli rivolgeva le spalle. Indossava un mantello blu, come il mare di notte e un cappuccio.
Si voltò e la luce nella stanza si moltiplicò all’infinito, come in un gioco di specchi riflettenti.
Eìos rimase immobile, come se i contorni sfocati della figura che aveva dinnanzi fossero usciti dal sogno della notte precedente; come se il suo desiderio di trovarsi di fronte la sua sposa si fosse fatto carne, per accontentarlo. Poi occhi e cuore si convinsero che ella fosse vera, affidandosi al profumo di acqua e rose che diffondeva nella piccola stanza, e la mente si riebbe, destata dal sogno.
- Non dovresti essere qui. – le disse. Non avrebbe voluto che entrasse lì, in quel luogo marcio, di assassini e truffatori, di ladri e ubriaconi, quasi la purezza e il candore della sua anima potesse sporcarsi, come l’orlo delle vesti quando si cammina nel fango.
- Non dovrei? – chiese di rimando, con un tono deliziosamente malizioso.
- Non è, questo, posto per te! – insistette, smorzando l’entusiasmo che le rendeva splendente il viso. – Ma sono felice che tu sia venuta! – abbozzò il suo sorriso avvolgente che, presto, si confuse in una smorfia di dolore per il taglio sul labbro che tirava.
Ariela sorrise a sua volta, di un sorriso pieno e contagioso, e gli corse incontro in un fruscio di vesti e di respiri.
- Sono sporco … – l’avvertì, mentre i loro corpi si avvicinavano.
Ariela scosse il capo perché non le importava e posò la guancia sul petto increspato di lui, come una bimba che cerca riparo e rassicurazione.
- … e sudato … - insistette, le braccia legate tra loro, lungo il busto, ultima barriera all’incontro completo dei loro corpi.
- Stringimi. – gli sussurrò, esattamente come nel sogno, e le difese di lui caddero, come le ultime foglie sugli alberi d’autunno.
Eìos compì un passo indietro, tanto da lasciarla sbilanciata e interdetta; mantenendole lo sguardo fisso sul viso, alzò le braccia, facendo passare il capo di lei nel semicerchio tra esse e il suo petto; con gli avambracci, le sfiorò le spalle, poi le braccia, in una carezza lunga e sensuale; giunse alla vita e l’avvolse in una stretta forte e confortante.
- Ero così in pena! Tuo padre … -
- Zitta! – la interruppe, il viso tra i capelli di lei, le labbra sul collo e le braccia a serrarle il respiro, - … e stringimi! – ripeté, con la voce roca e bassa, come in una preghiera.
Ariela strinse: le braccia intorno al busto, le mani aggrappate alla stoffa della camicia, il viso sul petto in subbuglio al pari del proprio.
Rimasero così qualche istante eterno, l’una dentro l’altro, a ritemprasi dell’assenza reciproca, delle ore trascorse nella miseria della solitudine, della pena di sapersi distanti e l’uno senza la cura dell’altro.
Eìos le baciò la pelle del collo profumata, sottile come seta purissima; Ariela, con la punta del naso, frugò tra gli squarci della stoffa della camicia, a cercare la pelle, sfiorò, con le labbra schiuse, lo sterno e i fasci di muscoli tesi che irradiavano il petto, esplorandone la consistenza e la forza che tanto le erano mancate, finché non alzò il viso, implorando con gli occhi un bacio.
Eìos strinse ancora di più le braccia intorno alla vita sottile della sua donna e le riempì il viso di piccoli baci e di carezze, con le guance spinose e calde, fino a giungere alle labbra rosse e schiuse che lo attendevano.
Fu un bacio dolce e passionale insieme, di rassicurazione e di ricerca, di impazienza e appagamento, carnale come un amplesso e placido come quello degli amanti che posseggono l’eternità per baciarsi ancora.
- Dobbiamo parlare, Eìos, non abbiamo molto tempo! – si riscosse Ariela alla fine di quel viaggio l’uno dentro l’altra, colta dall’urgenza di spiegare i fatti. – Il dottor Elmisk sta cercando un buon legale che ti scagioni dal reato di cui ti accusano. Egli crede che qualcuno abbia costruito false prove col preciso intento di farti incarcerare. – gli raccontò d’un fiato.
- Un complotto? – farfugliò, torturandole il collo con le labbra. - E’ un ipotesi che io stesso avevo vagliato: la mia nave entrò nel porto senza merci illegali, dunque questa accusa non può essere che una montatura! – convenne.
- Non è tutto … Egli teme che colui che ha ordito questa trama, possegga danaro e conoscenze tali da inficiare il processo e corrompere giudici e avvocati. E, per tal motivo, ne cerca uno fuori città. – concluse.
- Nutre dei sospetti, forse? – chiese, tra un bacio sullo zigomo e uno sulla guancia.
- La signora Leria, o Miran, o entrambi … - accennò, preparandosi a rivelare ciò di cui egli era ancora all’oscuro.
- La signora … - sottolineò l’appellativo con una smorfia denigratoria, - … mi detesta dal giorno in cui misi piede alla tenuta, prima ancora di sapere che possedevo lo stesso sangue di Esem. La rivelazione della relazione con Nubia e il ricatto subito, possono aver esacerbato l’odio e il disprezzo nei miei confronti, fino a farle cercare vendetta. – rifletté, la fronte corrucciata e le labbra arricciate in una smorfia pensierosa.
– Ma non Miran! Lo conosco fin da ragazzino: troppo onesto, troppo leale per muovere i fili di un tale teatrino. – concluse, certo della correttezza del fratello, - A meno … della scoperta della verità! - aggiunse, staccandosi leggermente dal viso di lei, per guardarla negli occhi. In essi trovò la conferma di ciò che sapeva che prima o poi sarebbe accaduto e trasalì.
Non era uno sciocco, sapeva che la verità è una pianta tenace, silenziosa, nel buio della terra, mette radici solide, fino a che le sue foglie cercano la luce.
- Quando, come? – si affrettò a chiedere.
- Non conosco i dettagli, so solo che qualche giorno addietro, egli giunse alla casa sulla spiaggia, folle come un’anima dannata, cercando di te … -
- Ti minacciò? - la interruppe, livido.
Ariela scosse il capo, abbozzò un sorriso, per dare maggior credito al suo diniego, ma Eìos non le credette.
- Ariela? – la richiamò, insistente.
- Non me … - lo rassicurò, - Portava alla cintola dei calzoni una rivoltella; disse che ti avrebbe ucciso per le menzogne e gli inganni che avevi ordito. –
Eìos espirò lentamente, come se l’aria nei polmoni incamerata a piccole dosi, potesse infondergli la calma e la lucidità che aveva perduto all’immagine di suo fratello folle di rabbia e alla tranquillità violata della sua casa.
- Questo avvalora la mia tesi: Miran mi vuole morto e vuole essere egli stesso a spargere il mio sangue … Non avrebbe avuto senso farmi rinchiudere, privandosi così dell’opportunità di ottenere soddisfazione! –
- Non rimane che Leria, dunque … - concluse, forse più preoccupata di quell’eventualità, che dell’altra.
- Già! – sospirò, - Ma questo non rende più facile la mia condizione. Se davvero ella è la burattinaia che regge i fili … non si darà per vinta fino a che i topi non balleranno sulla mia carcassa! –
- No … - fece per dire Ariela, inorridita a quell’immagine macabra e dolorosa, ma la porta alle spalle di Eìos si spalancò, cigolando sui cardini arrugginiti, e uno dei soldati entrò sbraitando, come un profanatore nel tempio.
- Il vostro tempo è scaduto! – annunciò.
Eìos le baciò le guance che bruciavano di sale e serrò la stretta come se temesse che quella fosse la sua ultima occasione per toccarla.
- Ti amo! – sussurrò, con le labbra sulla bocca di lei, cercando di infondere, in lei e anche in sé stesso, la saldezza d’animo di cui entrambi abbisognavano. – Ti amo … - ripeté, mentre faceva sfilare il corpo di lei, racchiuso tra le sua braccia, e compiva un passo indietro, lasciandola sola, infreddolita e sbilanciata.
- Anche io, Eìos … più della mia vita! – disse, passando il dorso della mano sulle gote arrossate e lucide di pianto, - Ti prego, attendi la notte in cui la luce della stella di Orione ricongiungerà i nostri cammini! –
Il soldato lo strattonò un paio di volte con sempre più energia, costringendolo a seguirlo, ma Eìos non sì voltò: camminò a ritroso fino all’uscio spalancato, continuando a guardarla e intessendo tra i propri occhi e quelli di lei una  trama di legacci invisibili, come il ragno la sua tela argentea, finissima, eppur resistente.

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Capitolo 24
*** . 24 . La mano del Gigante ***


. 24 .
 

La mano del gigante

 

La giornata era cominciata come la precedente e come quella prima ancora: lenta, sonnacchiosa, con la pigrizia nelle articolazioni, come quando, a inizio autunno, il tempo comincia a cambiare e ti sorprendono quelle fastidiose influenze.
Aveva aperto gli occhi all’alba, quando il sole era ancora un accenno di luce aranciata dietro le tende finissime e bianche. Aveva partecipato alla funzione mattutina, preso la comunione e pregato davanti all’altarino della Madonna delle Nevi. Aveva fatto colazione: pane imburrato e marmellata di arance, sapore dolce amaro, come il proprio umore; poi, quando gli altri stavano per svegliarsi, aveva iniziato i lavori in giardino.
Aspettava la visita del dottor Elmisk, perché la rassicurasse di aver inviato un avvertimento a Eìos riguardo alle minacce di Miran, per rasserenarsi e sapere il proprio sposo al sicuro, almeno per il tempo necessario a che la sete di vendetta scemasse o, quantomeno, il raziocinio e nobiltà d’animo del cognato gli permettessero di affrontare le spine di quel rovo con maggiore distacco.
Quando però poche dopo, il dottor Elmisk si presentò alla sua porta, gli occhi appannati dalla stanchezza e il colorito pallido di chi non ha dormito, Ariela  ebbe subito chiaro che le nuove che le portava, non sarebbero state buone.
- Sediamo, vi prego. – la invitò e, dopo aver atteso galantemente che ella si accomodasse, fece altrettanto, il bastone tra le gambe e le mani una sull’altra appoggiate sull’impugnatura.
Le raccontò ogni cosa con precisione chirurgica: dall’arrivo anticipato di Eìos, all’accusa di contrabbando; dall’arresto, al tentativo fallito di fargli visita in cella; dei suoi sospetti su Leria e Miran e infine della ricerca di un legale capace e incorruttibile, che non subisse l’influenza del nome e del danaro della loro casata.
Ariela ascoltò ogni parola senza intervenire col fiato sempre più corto e il bisogno di riempirsi i polmoni, come un nuotatore che si spinge troppo a fondo in apnea e si sente costretto a risalire alla ricerca dell’ossigeno.
- Voglio vederlo! – disse sollevandosi, - Adesso, voglio vederlo adesso! -  ripeté.
- E lo vedrete, non abbiate timore. Il comandante è stato chiaro: permetterà solo a voi o al suo legale di fargli visita. Ma vi prego, non vi ho detto ancora tutto. – la rassicurò, invitandola a sedere di nuovo. – Non intendo aspettare che venga istruito il processo, né di scovare le prove della sua innocenza: la cella di una prigione non è un luogo sicuro. Se qualcuno volesse, non la sua detenzione soltanto, ma anche la sua morte … - continuò, con un nodo alla gola nel pronunciare l’ultima parola, - … basterebbero la promessa di libertà ad un altro detenuto e pochi denari a una guardia per voltarsi dall’altra parte. –
Ariela trasalì: per un attimo aveva sperato che le sbarre della prigione lo mettessero al sicuro, quantomeno temporaneamente, dalla furia di Miran. Saperlo incarcerato ingiustamente e finanche in pericolo di vita, le gelava il sangue.
- Dottore … - si affidò a lui,  con la certezza che egli avesse già la soluzione a portata di dita.
- Non abbiate timore, Ariela, saprà guardarsi le spalle: egli è nato leone! – la rassicurò, un mezzo sorriso di chi la sa lunga. – E comunque, non rimarrà in prigione a lungo! –
La giovane lo guardò come si farebbe con uno straniero che parla una lingua incomprensibile e scosse il capo affinché le spiegasse tutto più chiaramente, come si fa con i bambini.
Elmisk sorrise ancora, di quel sorriso furbo che tante volte aveva visto in volto a Eìos, ed ella si stupì di come il più delle volte, i gesti, le espressioni siano figli della profonda conoscenza e dei legami tra due individui, più che dalle somiglianze somatiche.
- Lo faremo evadere! – spiegò, con un guizzo ovvio negli occhi vispi.
- Come? – chiese sempre più frastornata da tutte quelle informazioni dolorose e confuse che il suo cervello non riusciva a registrare.
Ariela non sapeva alcunché di reati, di prigioni, di trame oscure ordite con sapienza e dolo, tantomeno di rocambolesche evasioni e piani per metterle in pratica. Gli unici riferimenti le venivano dalle sue letture, il celebre tentativo di fuga del conte di Cagliostro dalla fortezza di San Leo, per esempio, o dai grandi romanzi, Il conte di Montecristo, prima di tutti. Ma quelle erano storie di carta, fantasiose e mirabolanti, lontane dalla realtà dell’uomo che amava e che doveva essere salvato.
Elmisk comprese la sua titubanza e le venne in soccorso, aggiungendo: - Egli sarà la chiave che restituirà la libertà a Eìos! – e, voltando il capo verso la vetrata sul giardino, disse: - Entra. - 
Un uomo che Ariela non aveva mai veduto prima, comparve sulla soglia. Era alto, dal fisico imponente, la pelle scura come cioccolata, i capelli  cortissimi e crespi e gli occhi neri, come olive taggiasche. Indossava una tunica al ginocchio, del colore della notte, strani calzoni larghi sulle cosce e arricciati alle caviglie, una sciarpa al collo e un mantello dello stesso colore.
- Yad al-Jawza, signora. – si presentò, avanzando, nella stanza, - Betelgeuse, nella vostra lingua. – precisò, per poi riverirla con uno strano saluto: la mano destra toccò, in successione, il torace, le labbra e la fronte ed infine il gesto si prolungò in avanti, accompagnato da un profondo inchino. Ariela rimase incantata dai movimenti armoniosi e delicati, dalle dita affusolate e dall’intensità del gesto, in contrasto con la saldezza del corpo dell’uomo. Continuò a fissarlo, confusa, fino a che egli aggiunse: - Potete chiamarmi Betel, come fanno gli amici! –
La donna chinò il capo in un cenno di saluto e lo invitò a sedere con loro.
- Si farà arrestare … - spiegò il dottore, - … E quando sarà all’interno della prigione, ci informerà puntualmente sui cambi di guardia, sulla posizione della cella in cui Eìos è detenuto, sul numero dei soldati, cosicché poteremo elaborare un piano efficace per consentirgli un’evasione sicura. – terminò, placido.
- E voi … vi fareste arrestare? Per Eìos? – domandò incredula.
- Perché, signora, vi appare tanto strano? – replicò l’uomo, la voce salda e determinata, con una punta dolcissima e affabile, - A Eìos, io debbo la vita! – precisò e la mente, portata da un vento sottile e lieve, come quello che fa volteggiare armoniosamente le foglie prima che cadano al suolo, tornò al giorno in cui  la propria esistenza si legò a quella dell’altro.

Sedeva al tavolo più in disparte della locanda, come suo unico pasto frugale, una ciotola di zuppa di farro e riso, un pezzo di pane di frumento nero e un bicchiere colmo d’acqua. Gli schiamazzi e il fumo dei sigari che impregnava l’ambiente, lo infastidivano, per questo aveva scelto quell’angolo silenzioso e tranquillo. Aveva viaggiato a cavallo per ore e, alla fine della giornata, i muscoli del corpo, così come la mente, avevano chiesto il conto della fatica a cui li aveva sottoposti. Pertanto, nonostante la meta cui era diretto fosse ancora lontana, si era deciso a fermarsi presso quella locanda per consumare la cena e riposare in una delle stanze a disposizione degli avventori.
Il tavolo vicino al suo ospitava un’orda chiassosa di quattro beoni, che tra urla e imprecazioni triviali, giocava una partita a carte che sembrava non avere mai fine.
Era giunto quasi al termine del suo desinare, quando uno di quelli, dall’alito puzzolente di vino e la casacca impregnata di sudore e fumo, gli si avvicinò e, con voce impastata, biascicò: - Amico, perché non vieni a giocare una mano con noi? –
Yad ripose il cucchiaio di legno e, sollevati gli occhi per guardarlo, rispose: - Vi ringrazio, signore, dell’invito, ma io non giuoco. – poi ritornò con il viso alla sua cena, ormai quasi terminata.
- Allora, amico, fatti un goccio con noi … - insistette l’altro, poggiando i palmi delle mani sulla tavola.
Yad ripeté il suo diniego e aggiunse: - E neanche bevo. –
- Non bevi, non giochi a carte … cosa cazzo sei, un prete? – continuò, con la sua voce stridula e sguaiata.
L’uomo non rispose, fece scivolare la sedia sul pavimento ruvido, si sollevò e fece per allontanarsi, senza curarsi dell’altro, che gli si era parato davanti insistente.
Ma quest’ultimo, palesemente alterato per l’alcool che aveva in corpo e indispettito per l’indisponente calma serafica dell’altro, con una manata rovesciò il tavolo e le stoviglie, così come i residui di cibo, rovinarono sul pavimento. L’ubriaco lo bloccò afferrandolo per il bavero e, squadrandolo da capo a piedi, ridacchiò: - Guarda, guarda! Non sei un prete, sei una verginella timida. – lo schernì, indicando agli altri la tunica lunga fino al ginocchio e le singolari brache che indossava sotto.
Yad non  raccolse la provocazione, solo si limitò a stringere il polso dell’aggressore con una forza tale, da indurlo ad allentare, ad una ad una, le dita che stringevano la stoffa della tunica e, liberatosi, proseguì verso il fondo della sala.
- Cosa c’è, signorina, te ne vai, senza darmi neanche un bacetto? – perseverò, con una smorfia di scherno sulla faccia, già trasfigurata dall’alcool, e, non ottenendo alcuna reazione, lo strattonò per una spalla, costringendolo a voltarsi.
-Vediamo se sono capace di insegnarti come si sta al mondo! – lo minacciò.
Afferrò un coltellaccio da pane da un tavolo vicino e vibrò un colpo, ma era troppo ubriaco e instabile sulle proprie gambe, per prendere bene la mira e colpirlo al primo tentativo. Dunque, si fece più sotto, lo costrinse nello spazio ristretto tra i tavoli e le sedie, e ne vibrò un secondo, che inspiegabilmente andò a segno.
Yad si ritrovò così ferito e sanguinante: un taglio lungo e contorto, che correva dal polso al gomito, lo costrinse a impegnare la mano sana, stringendo l’avambraccio per fermare il flusso di sangue, esponendosi disarmato e indifeso al proprio aggressore.
L’ubriaco rise soddisfatto e, quando dalla sala, rumorosa e affollata di curiosi, si alzarono schiamazzi e grida che lo istigavano a infierire, egli fece per affondare il terzo colpo.
- Vediamo se sono capace io di insegnare a te come si sta al mondo! – lo minacciò la voce di un giovane dagli occhi profondi come il muschio del sottobosco d’inverno, che si frappose tra loro, veloce e improvviso, come una folata di vento.
Colpì con la mano destra il polso che impugnava l’arma improvvisata. Questa roteò in aria, come i coltelli di quegli artisti da circo che danno bella mostra della propria abilità, lanciandoli senza ferire il bersaglio umano che hanno di fronte. L’afferrò, ancora a mezz’aria, dalla parte della lama, e poi, con un gesto veloce e fluido, la fece volteggiare su sé stessa, riprendendola per l’impugnatura.
Mentre l’altro si reggeva al tavolo vicino, destabilizzato dal colpo subito, quegli gli puntò la lama del coltello sul pomo di adamo, imprimendovi una pressione leggera, ma efficace a validare la minaccia.
La sala cadde in un silenzio di apprensione e curiosità, fino a che il giovane, due occhi duri come pietra lavica, piantò il coltello nel legno del tavolo, giusto tra le dita aperte a ventaglio dell’altro.
Lasciò la stanza così come apparso, veloce e silenzioso, districandosi tra le due ali di spettatori, accalcati per assistere allo scontro.
Yad improvvisò un laccio emostatico con la sciarpa che portava al collo: la strinse, al di sopra del taglio, per fermare l’emorragia; sollevatosi, lo raggiunse all’esterno, dove il giovane armeggiava con le redini del proprio cavallo.
- Vorrei ringraziarvi, signore. – lo distolse dalla cura con cui sistemava il morso nella bocca dell’animale.
- Non c’è n’è bisogno: l’avrei fatto per chiunque. I vigliacchi e i profittatori mi danno il vomito. Fatevi medicare, piuttosto, sanguinate copiosamente. –
Yad controllò la ferita: la stoffa che la ricopriva era inzuppata, ma il flusso del sangue si era fermato, dunque, insistette: - Lasciate almeno che vi dica il mio nome e che conosca il vostro. Io sono Yad al-Jawza. – si presentò, con un salamelecco.
Eìos sollevò un sopracciglio, incuriosito: il nome, la foggia degli abiti, l’accento straniero erano singolari e catturavano l’attenzione che lo accendeva per tutto ciò che gli era alieno e sconosciuto.
- Nella mia lingua significa 
”La mano del Gigante”. – precisò, rispondendo alla domanda muta dell’altro e gli offrì la destra.
Eìos sorrise nello stringerla: era enorme e dalla presa salda e la sua statura era imponente e decisa, come le figure di certi angeli guerrieri nei dipinti delle chiese.
- Io sono Eìos, Eìos e basta! – replicò, infilando un piede nella staffa e montando in sella.
Yad compì lo stesso gesto, sul suo splendido stallone bianco, e si affiancò al suo salvatore.
- Dove andate? – chiese quest’ultimo, strattonando le redini perché il suo animale si fermasse.
- Voi dove andate? – replicò l’altro di rimando.
- Io me ne torno a casa … -
- Allora facciamo la stessa strada! – rispose ovvio.
Eìos alzò la mano, il palmo aperto per bloccarlo, e fece per replicare, ma Yad lo precedette: - Vedete, amico, la mia gente crede che se qualcuno ci salva la vita, essa gli apparterrà fino a debito saldato! –
- Io non appartengo alla vostra gente. –
- Non temete, Iddio non fa distinzione tra i popoli. E neanche io. Dunque, rassegnatevi: facciamo la stessa strada. –
Eìos sorrise, scotendo il capo, incredulo e sorpreso dalle stranezze di quello sconosciuto. Avrebbe voluto ribattere che era un solitario, che non aveva amici, né ne cercava; che la propria strada era un sentiero stretto, complicato, percorribile da un solo individuo alla volta. Ma non lo fece, non disse una parola, solo si sistemò meglio sulla sella e si passò la mano libera dalle redini, tra i capelli a massaggiarsi la testa, indeciso.
In verità, quell’uomo l’aveva colpito più di quanto avrebbe potuto farlo la curiosità di ciò che non si conosce: la sua reazione calma all’aggressione, i suoi modi così contenuti anche nello scontro, e il rispetto ossequioso per chi l’aveva aiutato, pur senza perdere la fierezza e l’imponenza di un uomo indipendente e forte, erano le caratteristiche di cui egli stesso si sentiva sprovvisto.
Senza neanche rendersene conto la propria mente si accomodò sull’idea di averlo a fianco, “finché il debito non fosse stato saldato”; così, d’improvviso, senza pensare, spronò il cavallo a proseguire, e constatò: - Il tuo nome … è troppo complicato. –
- Dunque, chiamami Betelgeuse, se preferisci … - replicò l’altro, affiancandosi, - … Come la stella rossa, alfa della costellazione di Orione.

 

********************************
Ben trovate!
Con questo capitolo facciamo un passo indietro, non solo nel passato di Betel, fino al suo incontro con Eìos, ma anche alla mattina prima della visita di quest’ultimo con Ariela in prigione.
Avrete capito adesso il significato della frase sibillina che ella rivolge al marito durante il colloquio: Betel,
come il nome della stella,
 è l’uomo che lo aiuterà a evadere.
Ringrazio, come sempre, tutte voi che recensite sempre e coloro che leggono semplicemente o inseriscono la storia tra le seguite o preferite.
Vi lascio un bacio e vi aspetto al prossimo capitolo!

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Capitolo 25
*** . 25 . Ad un passo dalla libertà ***


. 25 .
 

Ad un passo dalla libertà

 


Uscì dalla sua camera all’ora di pranzo, uno spettro dal sepolcro, pallido e smagrito, sbattuto come un cencio sulle pietre lisce del fiume. Si era lavato, cambiato le brache e la camicia; il candore della stoffa bianca e la stiratura perfetta, gli donavano un aspetto ordinato e pulito, anche se le occhiaie violacee svelavano stanchezza e trambusto interiore.
Suonò il campanello per richiamare la servitù e ordinare qualcosa per riempire lo stomaco: non ricordava  l’ultima volta che aveva consumato un pasto. Non aveva appetito, ma riconosceva al proprio corpo la necessità di sostenersi dopo i litri di alcool che aveva ingurgitato e le secrezioni di bile che lo avevano portato a vomitare succhi gastrici e anima insieme.
Aveva sperato che il cervello si spegnesse e ignorasse la scoperta infamante che aveva fatto, come sperano tutti quelli che bevono e invece si ritrovano solo ubriachi e dipendenti da un rimedio ingannevole.
Quando aveva compreso che quell’oblio salvifico non sarebbe mai arrivato, aveva dirottato rabbia e frustrazione verso una vendetta lucida e allettante, rimedio certamente meno deleterio per il corpo, ma altrettanto distruttivo per l’anima.
Sedette su uno dei divani del grande salone vuoto, spazio inutile occupato solo da cose; alla cameriera che arrivò e si stupì di trovarselo davanti spiritato e vacuo, ordinò che gli fosse servito il pranzo nello studio e che la sua camera fosse riordinata e pulita da cima a fondo, come si fa quando si riaprono le stanze di una casa chiusa da tempo.
Mentre vi si dirigeva, si ritrovò davanti Saurion, la sua faccia fastidiosa, per la perenne espressione rubiconda di chi non ha pene sul cuore. Miran, facile all’ira come era diventato per gli ultimi avvenimenti, lo fermò bruscamente e gli chiese: - Perché sei qui? –
- La vostra signora madre, padrone, mi ha fatto chiamare: aveva bisogno dei miei servigi. – rispose ossequioso, la faccia bassa di chi sa di aver disobbedito.
- Quando sono partito, ti ho ordinato di badare alla tenuta, alle messi, ai braccianti … - scandì ogni parola, battendo il pugno chiuso nel palmo aperto della mano, - … Perché non hai obbedito? – aggiunse, indurendo la mascella.
- Ma signore, vostra madre … - provò a giustificarsi.
- Io sono il tuo padrone, io do gli ordini, tienilo bene a mente, o finirai per strada! – l’avvertì, non essendo più disposto a tollerare insubordinazione e mancanza di rispetto, - Cosa voleva mia madre? –
- Non so … non l’ho ancora veduta! – mentì.
- Devi fare una cosa per me. – gli disse, riprendendo il tragitto per lo studio.
- Ordinate pure … - rispose il servo, seguendolo.
- Voglio che sorvegli la casa di quel bastardo che si è preso il nome di mio padre e che venga a riferirmi immediatamente del suo rientro in città. –
- E’ già rientrato, signore, due notti orsono. – riferì.
- E tu, come lo sai? – replicò, arrestando il passo e voltandosi di scatto per guardarlo negli occhi.
- In città … non si parla d’altro … - rispose, cercando di non destare sospetti che facessero subodorare l’intrigo di cui era protagonista, - Pare che i soldati del comandante Kuvee abbiano rinvenuto nella stiva della sua nave, decine di casse di liquore introdotte illegalmente. – raccontò, quasi fosse un pettegolezzo da comari. – Ora è rinchiuso nella fortezza con l’accusa di contrabbando. – concluse, la voce piatta senza coinvolgimento.
Miran sorrise, rabboccò il bicchiere e trangugiò l’intero contenuto in un lungo sorso, sentendo lo stomaco, già sofferente per il digiuno degli ultimi giorni, infiammarsi di acida bile. Ma non vi badò: inspirò ed espirò, come se l’aria potesse spegnere l’incendio delle budella.
La cattura di quel verme non era altro che un contrattempo, fastidioso, certo, ma comunque risolvibile. Avrebbe dovuto avere soltanto un altro po’ di pazienza:  avrebbe aspettato acquattato nell’ombra, come un predatore, infine gli avrebbe schiacciato la testa, come si fa con una serpe velenosa.
- Ordina allo stalliere di preparare la carrozza; avverti le cameriere di riempire valigie e bauli con le cose di mia moglie, e quando tutto sarà pronto, riportala alla tenuta. –
- E … vostra madre? – si preoccupò.
- Ti occuperai di lei dopo che avrai eseguito i miei ordini. –
- Come volete! – si congedò rispettoso.
Fuori dallo studio, la cameriera aspettò che Saurion uscisse, poi con un vassoio riccamente imbandito, entrò e si avvicinò alla scrivania, lo poggiò sul ripiano e dopo un inchino si informò se il suo padrone avesse bisogno d’altro. Miran la congedò con un gesto della mano, nauseato dall’odore di cibo che affliggeva le sue narici. Inforcò le posate, storcendo le labbra e imponendosi di mangiare, ma al primo boccone lo stomaco si rivoltò in un rigurgito acido. Inspirò, per domare il fastidio, e riprese a masticare, quando Nubia entrò furiosa nello studio.
- Se credi di poter decidere della mia vita, soltanto perché hai scoperto che mi sono data ad un uomo prima di sposarti … sei un povero illuso. –
La sua voce era stridula e sgraziata, quella di una vecchia, così il colorito, spento e ceruleo, come se il tempo si fosse abbattuto su di lei in colpo solo col peso di anni.
Per Miran oramai la sua bellezza era un incantesimo spezzato, sconfitto dall’umiliazione che gli aveva inflitto, dalle menzogne e dalla sfacciata spudoratezza con la quale ancora ostentava gli errori e le offese.
- L’illusa sei tu, se credi di avere ancora il diritto di opporti alle mie decisioni! – replicò, senza degnarla di uno sguardo. – Tu sei niente! Vali quanto una sgualdrina in un bordello. Non ti ripudio, perché, se così facessi, ti darei la libertà di fare ciò che più ti aggrada: ti lascerò alla tenuta, invece, confinata nella tua stanza, finché non avrò avuto soddisfazione per quello che tu e quel verme mi avete fatto.
Soltanto quando gli avrò piantato una pallottola nel cranio, te ne andrai, ma dopo che ti avrò marchiata come una donna indegna e senza morale. –
- Fuggirò … -
- Ed io ti riprenderò, come si riacciuffano le giovenche quando si allontanano dalla mandria … -
- Non ne sei capace … - lo sfidò, il mento alto, gli occhi infiammati dalla propria indole ribelle.
- Non mettermi alla prova, Nubia: l’uomo che ti ha sposata è morto e l’hai ucciso tu con il tuo miserabile inganno.
Quando ti ho sposata ti ho dato un nome: ti ho chiamata sposa e come sposa ti ho amata e rispettata. Non  perché vedessi di te solo l’abito bianco che vestiva un corpo immacolato, ma perché ti credevo sincera e onesta e mi illudevo che anche la tua anima fosse candida.
Non ti avrei amata meno, se mi avessi rivelato il tuo increscioso segreto, né ti avrei giudicata per quell’inciampo, se fossi stata tanto onesta da rivelarmelo.
Ma tu hai preferito tramare e mentire e aprire a me il tuo ventre, lasciando la mente nell’orbita di quell’altro. Per questo non hai diritto al perdono e neanche all’espiazione.
E ora levati di torno: sto cercando di pranzare e la tua vista mi dà la nausea. – la liquidò, con i denti stretti e il boccone successivo, già infilzato nei rebbi della forchetta.
Nubia tremò; tremarono le mani, indaffarate a tormentare le gonne; le labbra che avrebbero voluto ribattere, restituendo l’offesa, e tremò pure il cuore, che per la prima volta, si sentì senza via di scampo, sconfitto, abbattuto da un nemico più forte e spietato. Si maledì per la leggerezza con cui aveva accettato di consacrare il proprio corpo ad un uomo, quando mente e cuore sarebbero appartenuti per sempre ad un altro.
Ma non si pentì, neanche in quell’istante, neanche nel momento della disfatta, di aver amato Eìos.
Voltò le spalle e uscì da quella stanza, nel petto un solo desiderio, nella mente una sola speranza: tornare ad essere libera.

 

**************


La notte era giunta di nuovo, perfida, col suo carico pesante di malinconia e solitudine.
Eìos aveva percepito il suo arrivo dal cambiamento del profumo del mare che saliva come vapore dalle acque che contornavano la fortezza, fino al torrione in cui era rinchiuso; esso entrava attraverso la grata del finestrino, addensandosi umido sul soffitto, per poi calare verso il pavimento in infinite, quasi impercettibili, gocce nebulizzate. Aveva sempre considerato uno strano fenomeno, intrigante come ogni aspetto della natura, il passaggio da un profumo all’altro dell’oceano: da quello intenso e promettente, acuto ed energico del primo mattino, a quello placido, onirico e tranquillizzante della sera.
Ma tanto nel primo, quanto nel secondo, v’era impressa una nota fortissima e distinta di indipendenza, di spazio infinito, di respiro universale, che adesso, compresso in quella cella buia, sfumava, disperdendosi e lasciando di sé solo il sentore malinconico di libertà lontana e irraggiungibile.
Si sdraiò sul fianco, il braccio destro piegato sotto la testa, gli occhi appesantiti per la stanchezza, tuffandosi nel ricordo della sua donna, morbida e profumata, imprigionata nella gabbia delle proprie braccia. Dietro le palpebre, comparvero, come nella scena di un dipinto, la luce tenera degli occhi, tersi e profondi, come smisurati cieli di primavera, e il profumo saporito delle labbra, come petali conditi di miele. E poi, in una successione travolgente, seguirono i fianchi di pane fragrante, le dita di zucchero e la pelle come crema di latte. Nella propria mente, ogni altro pensiero si fece da parte, si annullò per far posto alle immagini di lei. Lo stomaco si riempì di una voragine rimbombante ed egli comprese che ogni cosa di Ariela  gli provocava fame, una fame di carne e pelle, di pensieri e respiri.
Comprese che ciò che lo riempiva era amore, passione e ossessione insieme; trasalimento ed eccitazione; un rapimento della carne e dell’anima che lo immergeva in uno stato di felicità quasi doloroso, tanto era potente e totalizzante. Ciò che provava, per la prima volta, gli faceva sentire il proprio cuore pulsante e vivo, delirante e frastornato, preda volontaria della sua stessa follia.
Si sorprese a desiderarla, impregnata dei suoi baci umidi; i muscoli si tesero in uno spasmo di desiderio lancinante, come mai prima, tanto da sentire il petto riempirsi di spine e aprirsi, lasciando il cuore indifeso e solo sotto il peso della mancanza di lei.
Si raggomitolò, portando le ginocchia al petto e il braccio libero a cingerle, come si fa per contenere il dolore di una parte del corpo ferita, e morse il labbro inferiore, tumefatto e livido, nella speranza delirante che un male sopraffacesse l’altro. La ferita si spaccò; siero e sangue fuoriuscirono in uno schizzo fiammante, come un chicco d’uva spremuto nel palmo della mano. Un rivolo caldo grondò nel vuoto ed egli accettò, nell’istante esatto, in cui esso scaldò la pelle dell’avambraccio, che nessun dolore, né del corpo, né dell’anima, sarebbe mai stato più forte di quello che la mancanza di lei gli scavava dentro.
Dal fondo del corridoio, malamente illuminato dalla luce fievole delle torce, una voce, sempre più vicina, biascicava una vecchia canzone da osteria. Era roca, poco intonata e impastata di alcool e masticava le ultime sillabe di ogni strofa. Persisteva nell’eco di quel cunicolo dalle pareti di pietra, moltiplicandosi e infierendo nelle orecchie, tanto che i detenuti, nell’ombra delle rispettive celle, presero a lagnarsi rumorosamente.
- Sta’ zitto! – piagnucolò uno esasperato.
- Chiudi quella fogna! - gridò un altro, battendo la ciotola vuota contro le sbarre.
Ma l’uomo continuava imperterrito e quasi divertito nella sua esibizione sgradevole, tanto che una guardia, spingendolo in malo modo nella cella che precedeva quella di Eìos, gli intimò di farla finita o gli avrebbe chiuso la bocca col calcio del fucile.
L’uomo smise di gracchiare, come se all’improvviso si fosse svuotato di tutte le fastidiose energie, mugugnando qualcosa di incomprensibile.
Eìos si sentì sollevato per quel ritrovato silenzio, sciolse la posizione fetale che aveva assunto e si distese supino, sgranchendo i muscoli delle braccia e delle gambe, a lungo sacrificati.
Poi si mise a sedere sul tavolaccio, si chinò in avanti, per afferrare la ciotola con l’acqua, e fece per bere. Il labbro pulsò, come se un martello lo colpisse reiteratamente; gocce di sangue si mescolarono all’acqua ed egli imprecò ad alta voce, per il dolore che sembrava diramarsi per tutto il cranio.
- Fa male? – chiese la voce dalla cella accanto, pulita, limpida, senza quella nota stravolta dalla sbronza, – Tua moglie … dice che hai un labbro gonfio e tumefatto. – continuò, facendosi sempre più chiara e riconoscibile.
- Betel? – mormorò incredulo, saltando in piedi e avvicinandosi alle sbarre.
- Per servirvi, signore … - scherzò, accomodandosi sul pavimento, accanto all’inferriata.
- Che diavolo ci fai qui dentro? – insistette, con le mani strette sulle sbarre, e il naso sacrificato nello spazio tra l’una e l’altra.
- Faccio quello che faccio sempre: ti tiro fuori dai guai!  - rispose l’amico ovvio.
Eìos sorrise, strizzando gli occhi per il bruciore e, poggiate le spalle al muro, si fece scivolare fino al suolo, la tempia sulle sbarre, le gambe distese e accavallate una sull’altra, solo uno spesso muro di pietra a separare le loro schiene.
- Dunque, saresti tu “la stella che ricongiungerà i nostri cammini”? – citò la frase di Ariela, alla quale non aveva dato peso quella mattina, ma che in quelle circostanze diveniva perfettamente comprensibile.
- Non l’avevi ancora capito? Ah, l’amore! Ottunde i sensi e annacqua il cervello … - ironizzò, con una risatina sommessa. – Tua moglie è stata così sibillina, da non far comprendere neanche a te le nostre intenzioni. –
- Mia moglie è intelligente, dolce e forte, sensibile e calda … ed è bellissima! – replicò, socchiudendo gli occhi, come se stesse confessando direttamente a lei i suoi pensieri.
- Fermati qui, Romeo! Non vorrei che scendessimo troppo nei particolari …  – lo punzecchiò, sorridendo per il trasporto che l’amico aveva per la sua sposa. – Comunque, la ho veduta e … te ne do atto: in fatto di donne sei fortunato! – aggiunse, fattosi serio.
- Sono fortunato, sì … anche in fatto di amici. – replicò.
Sapeva da sempre che Betel avrebbe dato la propria vita per lui e non solo per il debito che aveva. La loro era divenuta col tempo, amicizia pura, senza sbavature: sincerità reciproca, sostegno incontaminato, ironia dei difetti, esaltazione dei vanti. Erano il completamento l’uno dell’altro ed Eìos ne aveva avuto l’ennesima prova.
- Come faremo? – mormorò, socchiudendo gli occhi stanchi e infiammati e abbandonandosi alla confortante certezza di non essere più solo.
- Non dartene pena adesso, è già tutto pianificato … Riposati, piuttosto, presto ci sarà da correre! – gli suggerì, la voce bassa perché solo l’amico potesse udirla.
Eìos sospirò, aprì gli occhi, rivolgendoli alla scacchiera che la luce fioca della luna, formava con la grata del finestrino: bagliori di piccole, lontanissime stelle baluginavano, come guardiani che dal cielo sorvegliano l’operato degli uomini, e, pur senza scorgerla in quello squarcio piccolissimo, si affidò ad una sola di esse, una tra le più luminose della volta celeste.

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Capitolo 26
*** . 26 . Il prezzo della libertà ***


. 26 .

Il prezzo della libertà

 


Uno stridore di ferri lo distolse dal pantano tra veglia e sonno in cui era caduto.
- Capitano … capitano … - un sussurro sottile e sommesso, come se venisse da un sogno, lo chiamò insistentemente, finché Eìos non aprì gli occhi e li indirizzò verso il luogo da cui proveniva.
Alla grata della piccola feritoia aperta nella possente muratura, erano incastrate le punte adunche di un uncino; Eìos stropicciò gli occhi, ancora appiccicosi di sonno, e intravide attraverso la scacchiera formata dai ferri, il viso lentigginoso del ragazzino che aveva portato con sé per mare innumerevoli volte e a cui aveva affidato i lavori di manutenzione della sua nuova barca.
- Ratho! Come diavolo hai fatto a salire fin quassù? – chiese, la voce arrochita dall'improvviso risveglio.
- Lo sapete, capitano, che posso arrampicarmi da per tutto! – gli rispose, pavoneggiandosi e allargando la bocca in un sorriso soddisfatto.
Ripensando a tutte le traversate insieme, non gli fu difficile immaginarlo scalare il torrione in cui era situata la cella, nonostante fosse a una ventina di metri dalla superficie del mare. Con la stessa abilità con la quale si arrampicava sull'albero maestro, fino alla coffa, quel ragazzino, magro come uno stecco, doveva aver risalito le pietre lisce della costruzione, i piedi scalzi ad intercettare ogni piccola asperità e le mani strette saldamente alla fune legata al rampino.
- Queste sono le chiavi delle celle … - gli spiegò, lanciando un mazzo tintinnante sul pavimento, - … sono in tutto venticinque, occupate da ventuno detenuti. Non ci sono guardie nel corridoio a sorvegliarle, ma due sono appostate alla fine della scala a chiocciola che conduce al cortile centrale; altre due sono di piantone al portone d’ingresso e otto sentinelle perlustrano la fortezza dai terrazzi dei bastioni. – continuò puntuale, avvinghiato alla grata, con le mani tanto strette, da intravederne le giunture delle nocche, come le ossa di uno scheletro. – Capitano … - riprese, dopo aver domato l’affanno di quella posizione tanto innaturale, - Queste sono per voi e il vostro amico … - disse, mollando la presa di una mano e lanciando all’interno della cella, un sacchetto di tela scura, che rovinò al suolo con un tonfo metallico, attutito dalla stoffa. – Fate in fretta, vi aspetto dabbasso! – ammiccò, con un altro sorriso complice sulla faccia smunta.
Il tempo di un respiro ed il ragazzino era già sparito, lasciando intravedere il cielo scuro della notte.
Eìos raccolse il sacchetto e lo vuotò: due pistole cariche, caddero sul tavolaccio; le infilò entrambe nella cintola dei calzoni, per avere le mani libere, raccogliere il mazzo di chiavi e aprire la cella. Si avvicinò alla serratura, infilò la mano attraverso la grata, il più vicino possibile alla toppa, e inserì una chiave. Il primo, il secondo e il terzo tentativo fallirono, fino a che Eìos non scelse quella giusta: lo scatto delle mandate rintoccò, come le lancette di un orologio, e alla quarta, la serratura si aprì.
Spinse l’inferriata e uscì; compiendo pochi passi, si trovò davanti a quella di Betel e ricominciò la ricerca della chiave giusta.
- Tirati su! – mormorò, mentre ne inseriva una nella serratura, - Non è questo il momento di dormire … - insistette rivolto l’amico, che giaceva supino sul proprio giaciglio, le gambe distese e accavallate e le braccia incrociate dietro la nuca.
Betel sorrise, senza aprire gli occhi, e, quando anche la propria cella fu aperta, si sollevò e raggiunse Eìos. Questi gli porse una delle pistole; Betel aprì il tamburo; con un colpo secco lo fece ruotare su sé stesso e poi lo richiuse con il colpo in canna e il cane alzato, pronto a fare fuoco.
- Facciamo uscire tutti. – suggerì, - La confusione che provocheranno tra le sentinelle costituirà un buon diversivo per agevolarci la fuga. –
Le celle furono aperte ad una, ad una e i detenuti infilarono il corridoio e poi la stretta scala a chiocciola, in un mormorio sommesso ed eccitato, senza neanche sapere a cosa andassero incontro, accecati dal miraggio della libertà.
- Tu stammi dietro. – ordinò a Eìos, mentre seguiva la scia degli altri verso il cortile centrale.
Questo era avvolto dalla calma notturna; il silenzio era rotto solo dal crepitio delle fiaccole alloggiate alle pareti e dai passi cadenzati delle sentinelle che percorrevano i terrazzi per presidiare la fortezza. Quando i primi prigionieri uscirono allo scoperto, le guardie nel cortile, diedero l’allarme, puntando le armi sul gruppo sparuto e rumoroso e intimando la resa. Ma l'orda di uomini affamati di libertà, senza scrupoli e senza nulla da perdere, si scagliò contro il presidio, inferocita.
L'aria si riempì di grida e schioppi di fucile, in un tumulto incontrollabile; una mischia di corpi confusi si concentrò nel cortile, mentre le sentinelle accorrevano per dare man forte alle altre guardie, sopraffatte dal numero e dalla ferocia dei detenuti. Betel fece capolino dal corridoio, che dalla fine della scala conduceva all’esterno, proprio mentre lo scontro divampava.
- Seguimi. – ripeté e indicò, con un cenno del capo, un foro, del raggio di poco più di un metro, situato nel lato opposto dello spiazzo. Velocissimi zig-zagarono tra barili e casse ammassate, nascondendosi alla vista dei soldati.
L'ultimo tratto da percorrere per raggiungerlo, però, era allo scoperto; una delle guardie ne scorse i movimenti e, intimando loro l'alt, puntò la propria arma sui loro corpi esposti. I due, ignorarono l'ordine, costringendola a fare fuoco diverse volte, e si infilarono in scivolata nell'apertura, uno dopo l'altro, come un filo di cotone nella cruna di un ago.
Era uno degli scoli che venivano praticati nelle spesse mura delle vecchie fortezze, per espellere le acque reflue e quelle piovane miste a fango. Un cunicolo stretto, dalle pareti viscide e muschiate, attraversava le viscere di pietra, come un budello maleodorante, per aprirsi tra i frangiflutti che circondavano la base rocciosa su cui si fondava la fortezza.
Vi scivolarono attraverso, con i piedi in giù, agevolati da un rigagnolo acquitrinoso, che scorreva putrido e scrosciante verso lo sbocco.
L’apertura era poco più larga dell’imbocco, ma comunque appena sufficiente per il passaggio dei loro corpi, e si apriva tra gli scogli, in parte già sommersi dal mare. Giunti all’esterno, l’aria pulita e salmastra allietò le narici e il colore bluastro del cielo notturno li rinvigorì, con la sua vastità e la luna enorme e lucentissima.
La marea cominciava a salire, presto la superficie delle acque avrebbe raggiunto un livello troppo alto per consentire loro un percorso agevole.
- Costeggeremo la fortezza passando sulle rocce … - gli spiegò, mentre si arrampicava sui massi spigolosi e resi scivolosi dalle alghe, - … fino alla spiaggia. – continuò, sforzandosi di rimanervi aggrappato con le mani e con le braccia, nonostante la furia crescente delle onde. – E’ lì che ci aspetta Ratho con i cavalli. – terminò col fiato corto.
Anche Eìos ansimava, ma non era la prova faticosa della fuga a minargli il respiro: un dolore lanciante gli infiammava l’addome e la coscia sinistra pulsava allo stesso ritmo forsennato del cuore. Abbassò gli occhi e scorse una macchia scura che occupava gran parte della camicia, già sporca e lacera, proprio nel punto che doleva. Controllò, insinuando la punta delle dita nello strappo; i polpastrelli si imbatterono in un taglio lungo, ma non troppo profondo, dal centro del ventre al fianco, imbrattandosi di sangue vischioso e caldo. Un lamento gli si arrampicò su per la gola, ma ebbe la forza di reprimerlo, perché l’amico non se ne avvedesse e fosse costretto a rallentare la fuga per aiutarlo.
Continuò a seguirlo, assecondandone il ritmo, avvinghiandosi agli scogli, ma le fitte sempre più lancinanti gli fecero strizzare gli occhi e digrignare i denti. Anche la coscia sinistra era ferita e a, giudicare dal dolore, che, come un punteruolo conficcato nella carne, si ramificava in tutto il corpo, doveva essere molto più grave di quella sull’addome.
- Cosa hai? – gli chiese Betel, accorgendosi che rimaneva indietro.
- Nulla! – mentì, - Rimuginavo ... Solo tu potevi escogitare un piano così complicato! – abbozzò un sorriso, perché Betel proseguisse senza preoccupazioni.
- Oh, andiamo, sembri una donnetta petulante! - si burlò di lui, -  Non continuare a lagnarti: in fondo ti sto rendendo la libertà! - aggiunse, proseguendo con una forza e una determinazione che Eìos cercò di emulare.
Strinse i denti e riprese a muoversi alla stregua dell'amico, rivoli di sangue e dolore, colorarono l'acqua spumosa che si infrangeva sulle rocce, fiaccando la sua resistenza già minata dai giorni di prigionia.
Raggiunsero la spiaggia, quando già l'acqua stava superando il livello massimo, appena in tempo per vedere le rocce annegare sotto la superficie increspata.
Eìos crollò sulle ginocchia, al limite delle forze; puntellò il peso del busto sulle braccia tese; abbandonò il capo verso il basso e le gocce di mare grondarono dalle punte dei capelli, disegnando arzigogoli sulla rena.
- Ratho ci aspetta lì, nella boscaglia. - indicò il punto in cui la sabbia si insinuava tra le radici degli alberi.
Eìos si sollevò, facendo appello a tutte le forze che gli rimanevano in corpo, e proseguì verso il punto convenuto.
Betel prese a seguirlo, camminando all’indietro, affondando i piedi nelle orme lasciate da Eìos, per poi premurarsi di cancellarle, smuovendo la sabbia con un ramoscello raccolto sulla battigia.
Tra gli alberi e il buio fitto della notte inoltrata, il ragazzino, reggeva le redini dei loro cavalli, nervoso e impaziente, dondolandosi sul posto e calpestando le foglie cadute al suolo per ingannare l’attesa.
- Finalmente! – li salutò, rasserenato dal loro arrivo.
Montarono in sella: Eìos, stringendo i denti per lo sforzo che costava al proprio corpo ferito, e Betel, afferrando Ratho per un braccio e caricandolo in groppa al proprio animale. Questi si avvinghiò alla sua schiena e l’arabo, con un colpo ai fianchi del suo purosangue, partì al galoppo.
Cavalcarono l’uno dietro l’altro, per un paio di miglia, inoltrandosi nel bosco che via, via si infittiva e si richiudeva alle loro spalle come un sipario naturale di rami e foglie, felci e muschi profumati.
Il dolore diveniva sempre più insopportabile anche a causa dei continui sobbalzi che il galoppo e il terreno sconnesso procuravano; la temperatura del corpo scendeva piano, per il freddo degli abiti bagnati e per le copiose emorragie; il vento della notte lo faceva rabbrividire come se avesse la febbre, eppure la fronte era imperlata di un sudore freddo, che gli rigava le tempie e le guance. Cercò di concentrare i propri pensieri sulla corsa, sul panorama che gli scorreva intorno, sul profumo di libertà che sembrava, ad ogni schiocco degli zoccoli, più vicino e possibile, ma il dolore gli ricordava continuamente i suoi errori, le sue sfide alla sorte, il suo ricatto e tutti gli altri motivi che lo avevano condannato a quella condizione infernale. Così in mezzo a quelle considerazioni vergognose, riapparvero distinte le parole che Miran gli aveva rivolto quella mattina, la sofferenza che traspariva da esse e gli occhi spenti di un uomo agonizzante e deluso.

 

- Cos’è quell’espressione che ti leggo in volto, fratello? Stupore o … paura? – chiese Miran, quando si ritrovarono l'uno di fronte all'altro, ai lati opposti della grata della cella.
- Né l’una, nell’altra, solo non credevo di incontrarti … Non qui. – gli rispose, gli occhi fieri come sempre, ma un disperato senso di colpa a opprimergli il cuore.
- Sei un ladro! Dove volevi che ci incontrassimo, in una chiesa? – replicò retorico, con una smorfia dura e avvelenata delle labbra.
- Miran … -
- Qualunque cosa tu intenda dire, è inutile. - lo interruppe, - Ciò che hai fatto, ciò che hai fatto a me, è vergognoso, mi indigna e il mio onore esige soddisfazione. –
- Oh … E cosa vorresti? Sfidarmi a duello, lavare l’offesa col sangue? – lo irrise con baldanza per non mostrare la dolorosa consapevolezza di essere in torto.
- Comprendo che un vile come te, consideri … ridicola la possibilità di uno scontro leale, faccia a faccia, ma è così che i gentiluomini regolano le faccende d’onore! –
- I gentiluomini! Ma io non lo sono e non lo sarò mai: per te, un duello tra noi non sarebbe onorevole. Dunque, non mi batterò! – precisò, avvicinandosi alle sbarre, gli occhi scuri puntati sull'altro.
- Invece lo farai. Io lo pretendo!
Ti farò uscire di qui, corromperò giudici e soldati e ti renderò la libertà, solo per il gusto di piantarti nel cranio una pallottola. - lo minacciò, ancora con quel sorriso sadico che strideva con i tratti gentili di Miran che sembravano sepolti sotto la rabbia.
- Uscirò di qui senza il tuo denaro, perché sono innocente. E non mi batterò con te! - ripeté.
- Innocente? – ribatté con una nota di scherno, - Sei un miserabile, un ladro, un truffatore, un bugiardo: nulla di ciò che hai fatto da che sei nato ti consente di definirti innocente. – infierì.
- Non hai il diritto di giudicarmi, nessuno può! Se di crimini è sporca la mia coscienza o l’anima, renderò conto a Dio e a Lui soltanto. - lo corresse piccato, - Nei tuoi confronti ho commesso un solo errore: avrei dovuto confessarti tutto, di lei e di me, metterti in guardia … ma la rabbia, le umiliazioni di anni, mi avevano annebbiato, come ora accade a te. Ero folle, bruciavo dal desiderio di ucciderti. – terminò, abbassando il tono, ammettendo per la prima volta i propri errori.
- Ma non l’hai fatto!
Vuoi che ti spieghi io il perché? Hai taciuto per ottenere ciò che volevi e che io ti avrei dato senza remore, perché, in cuor mio, tu sei sempre stato mio fratello! - confessò a sua volta, la voce tremolante e le mani strette a pugno. - Delle menzogne, delle trame che hai ordito, del ricatto … di questo devi rendere conto a me! –
Eìos si sentì meschino, un verme nel fango; spregevole, come Caino, e artefice stupido dei propri mali. Deglutì un groppo amaro e ingombrante, socchiudendo le palpebre per una vergogna che aveva voluto nascondere a sé stesso per troppo tempo, per aver incolpato il destino che, maltrattandolo, lo aveva indotto a sbagliare.

Non era più tempo, però, di bugie, né di quelle raccontate alla propria coscienza, né di tutte le altre confezionate ad arte per giustificare il proprio operato.
- E’ vero: ho approfittato del mio stesso sangue, e di questo mi dolgo … e se vale, Miran, ti chiedo perdono! - biascicò, con fatica e gli occhi bassi, ma deciso a cercare la via giusta per riconciliarsi con suo fratello e con sé stesso.
- E chi credi che io sia? Il tuo confessore? - replicò retorico, - Credi che basti ammettere di aver peccato, fare atto di contrizione, recitare un paio di preghiere per meritare l'assoluzione?
Non funziona così, fratello! Non avrai mai il mio perdono e non ti guadagnerai il paradiso anche in terra. -
- E allora, cosa vuoi? - ribatté esasperato e deluso, senza comprendere che il male che aveva fatto non avrebbe potuto essere arginato con le scuse.
- Voglio vederti morto! - fu la risposta secca di Miran.
- Non mi batterò. - ripeté.
- E allora ti sparerò alla schiena e morirai come muoiono i vigliacchi. -


Dopo un tragitto che a Eìos parve interminabile, giunsero a una casupola con le pareti di legno e il tetto ricoperto di fascine, immersa tra gli alberi e nei pressi di un ruscelletto, il gorgoglio delle cui acque si mescolava al crepitio delle foglie secche calpestate dagli zoccoli dei cavalli.
Betel arrestò il proprio animale, sorresse Ratho nella discesa, poi smontò a sua volta.
La porta sgangherata si aprì cigolando, Elmisk fece capolino con circospezione e, dietro di lui, Ariela, avvolta in un mantello scuro, con il quale contrastavano la pelle perlacea e gli occhi di mare.
Eìos, una mano stretta alle redini, più per sorreggersi che per arrestare il proprio cavallo, e l’altra aggrappata alla criniera fulva, lasciò cadere gli occhi umidi di dolore in quelli della sua sposa.
Un sorriso gentile e sollevato le ammorbidì i tratti del viso, tirati per l’apprensione; il cuore di lui si scaldò, sostituendo ai giorni orribili della prigionia, tutti quelli felici trascorsi stringendola tra le braccia e l’odore ferruginoso del sangue che impregnava la pelle del costato e della coscia si disperse, come una zaffata nauseante nel profumo conturbante dei fiori di una serra. Ma le ferite non sparirono che nella sua mente, rimasero reali e lancinanti, continuando a scavargli le carni, al pari del becco di un rapace tra i brandelli della propria preda.
Smontò da cavallo, con lentezza e difficoltà, cercando di non crollare come un sacco vuoto, ma, nell’istante in cui il piede sinistro toccò il suolo, una fitta insopportabile saettò dalla coscia fino al cervello. Gli occhi si annebbiarono e le orecchie rimbombarono; le ultime vigorie, che lo avevano sorretto in quegli istanti, si dissiparono, sabbia fine dispersa dal vento, e il suo corpo crollò al suolo sconfitto ed esanime.

 

********************************
Buongiorno!
Finalmente Eìos e Betel sono riusciti a fuggire dalla prigione.
Che ne dici della fuga, Drachen? Degna dei Dalton?
Ma il fulcro di questo capitolo non è la fuga, ma le considerazioni e a cui Eìos giunge:
egli si è trovato di fronte a tutti i propri errori e forse ha cominciato a capire che, anche se la sorte ci maltratta, le nostre cattive azioni sono mai giustificabili.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e spero nei vostri commenti!
Un bacio a tutte e alla prossima!

 

 

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Capitolo 27
*** . 27 . Un nuovo giorno ***


. 27 .

 

Un nuovo giorno

 

 

Lo sguardo stravolto di Ariela, prima del tonfo sordo che il corpo di Eìos provocò impattando al suolo, richiamò l’attenzione di Betel che stanco, ma soddisfatto si avvicinava alla casupola.

Gli occhi della giovane sembravano cristallo frantumato e il colorito, già naturalmente latteo, acuì il suo pallore per l’apprensione.

L’arabo fu subito accanto a Eìos, le ginocchia sulla terra umida della notte e le braccia forti a sorreggergli il capo molle e il torace sanguinante.

- E’ ferito! – gridò, voltandosi verso gli altri accorsi alle proprie spalle.

Solo Ariela rimase immobile, pietrificata come i malcapitati davanti agli occhi di Medusa.

- Sollevalo … con cautela! – ordinò Elmisk, pronto e solerte, come la professione medica richiedeva, - Portalo dentro: devo controllare lo stato delle ferite. – spiegò, mentre la voce cominciava a vacillare, insieme alla sua prontezza d’animo, di fronte al figlio ferito.

Da quella prima notte in cui si erano incontrati, diverse volte gli era capitato di dover curare le sue ferite: tumefazioni e piccoli tagli che si procurava in qualche rissa da osteria. La maggior parte delle volte gli era bastato ripulire la ferita, suturare, e bendare la parte o cospargere di unguento le ecchimosi; concludere il proprio intervento professionale con una paternale, talvolta premurosa e accorata, talvolta ruvida e intransigente, alla quale, nell’uno e nell’altro caso, Eìos aveva risposto con la medesima alzata di spalle.

Ma in quel frangente, Elmisk si trovava a fare i conti con all’apprensione per la sua sorte; il coinvolgimento gli faceva tremare le mani, mentre attendeva di conoscere l’entità delle ferite e la quantità di sangue che aveva perduto.

Betel, intanto, sollevò il corpo dell’amico, con la premura che si riserva ad un oggetto fragile che può frantumarsi da un istante all’altro, e superò la soglia di quel rifugio improvvisato.

Constava di una sola stanza: su una delle pareti, alloggiava la bocca larga di un camino, nel quale ardeva già un fuoco scoppiettante; su quella opposta, un giaciglio improvvisato e, al centro, un tavolo lungo e stretto di malandate assi di legno. Negli angoli, attrezzi da lavoro, seghe e asce, che il padre di Ratho utilizzava per fare legna da ardere, nonché trappole e tagliole per la caccia da frodo. Era stato il ragazzino stesso, infatti, a suggerire quella casina come nascondiglio dopo la fuga, poiché nessuno ne conosceva l’esistenza e lo stesso suo vecchio, la usava ormai molto di rado, perché troppo lontana dalla città.

Betel, con il corpo di Eìos tra le braccia, si diresse verso il giaciglio, ma il dottore lo fermò spiegandogli di avere bisogno di un supporto più alto, come un tavolo operatorio, per esaminare ed eventualmente suturare le ferite.

- Adagiatelo qui. – la voce di Ariela risuonò improvvisa. Teneva i palmi aperti su quel tavolato traballante, alto abbastanza da rispondere alle esigenze del dottore, e gli occhi appuntati su corpo del marito, molle e abbandonato, senza forze e senza volontà.

L’arabo eseguì l’ordine, sforzandosi di ignorare la stanchezza dei muscoli di braccia e gambe, così a lungo provati.

Eìos era cosciente, anche se le palpebre erano serrate e il colorito esangue. Chiamava il nome di Ariela, in una cantilena roca, una preghiera commovente e dolorosa ed ella continuava a guardarlo, le pupille sempre più perdute tra le lacrime e le labbra tremule che trattenevano un pianto dirotto.

Quando il corpo dolorante e sfinito toccò la superficie del tavolo, Eìos si impose di sollevare le palpebre, nonostante fossero pesanti come piombo, per guardarsi intorno e cercare lei, la cui voce, sembrava solo frutto di un sogno, ma del profumo sincero della cui pelle aveva la percezione indiscutibile.

Fu nell’istante preciso in cui i loro occhi si fusero, liquidi di lacrime e sofferenza, che un’altra donna si prese le membra di lei, come in una possessione. La forza di una valchiria animò le sue vene: un'intraprendenza e una determinazione, inconsuete, ma necessarie, la costrinsero ad arginare il dolore per la vista di quelle carni sanguinolente e per quella vita aggrappata al filo dei suoi occhi e consegnata anche nelle sue mani.

- Sollevategli il capo. – ordinò a Betel, mentre slegava i lacci che chiudevano alla gola i lembi del suo mantello. Lo ripiegò con cura, lo frappose tra la testa e il ripiano di legno, alla stregua di un guanciale, per rendere conforto al fisico provato e stanco del suo uomo; poi gli strinse la mano, con una presa salda e incoraggiante.

- Corri a prendere dell’acqua, Ratho … e mettila sul fuoco, ne ho bisogno per ripulire le ferite. – Elmisk ordinò al ragazzo che, immobile sulla soglia, spaurito e disorientato, si torceva i lembi della camicia.

Il ragazzo scattò come un grillo, afferrando il calderone di rame e spalancando la porta per correre al ruscello ed eseguire l’ordine.

Elmisk strappò la stoffa della camicia, constatando che la lesione sull'addome non era grave, ma l'emorragia andava comunque fermata tempestivamente.

- Ho bisogno di un fazzoletto, un foulard o un qualunque altro tessuto, possibilmente pulito. – spiegò, guardandosi intorno in cerca di qualcosa da adoperare come tampone di fortuna.

Ariela non esitò: lasciò la mano di Eìos e si voltò di schiena; sollevò le gonne e sfilò le sottane. Ne portò alla bocca l’orlo e incise il tessuto con i denti; afferrò il due lembi e con le mani lo strappò lungo la trama. Ripeté l’operazione più volte, fino a che non ebbe a disposizione un numero considerevole di strisce di stoffa, lunghe, morbide e pulite.

- Adoperate queste … - disse, porgendole a Elmisk.

Il dottore annuì, per poi suggerirle: - Ripiegatene una … E comprimetela sulla ferita … qui. – indicò il punto in cui premere fortemente il tampone. Ariela, nonostante il disgusto per il sangue rappreso sulla pelle e la vista delle carni lacerate, obbedì, premendo sull’addome, con la mano sinistra, e carezzando la fronte madida con l’altra.

Il dottore afferrò un paio di grosse forbici dalla sua valigetta medica e tagliò la stoffa dei calzoni sulla coscia ferita. Un foro di proiettile la trapassava da parte a parte e il sangue, rosso come i rubini, fuoriusciva a fiotti intermittenti, assecondando il ritmo cardiaco. Era stato reciso un vaso, per fortuna non troppo profondo, ma la quantità di sangue versato doveva essere comunque copiosa, calcolando i tempi lunghi della fuga, dunque, non sarebbe stato sufficiente comprimere la ferita, come aveva fatto per l’addome, ma era necessario un intervento più drastico.

- Tu … - continuò, rivolgendosi a Betel, - Sfilagli la cintola dai calzoni e legala, il più stretto possibile, sulla coscia, al di sopra della ferita. – ordinò, mentre estraeva da un astuccio un bisturi affilato e lucente. – Questo gli farà male … - spiegò all’arabo, fermo al fianco dell’amico, come un custode, e pronto a rendersi utile. – Tienigli ferme le gambe. – aggiunse.

- Stringi i denti … - lo incoraggiò, sistemandosi ai suoi piedi, per serrargli le caviglie con le mani, perché il dolore dell’incisione non lo facesse scalciare.

Il viso di Ariela si avvicinò a quello di Eios: un anelito di vita, pulito e docile, gli attraversò i polmoni e il petto si gonfiò, incoraggiato alla nuova prova di dolore; le labbra gli sfiorarono l’orecchio, sussurrando suoni dolci, ricordi di baci e carezze, di parole di fiamma sotto la luce oscillante di candele nella notte, di amore e fiducia e di promesse per tutti i giorni a venire, placidi e sereni.

La mano libera umettò le labbra spaccate dalla sete, con una striscia di stoffa imbevuta nell’acqua gelida, che Ratho le aveva versato in un catino; gli ripulì il viso dal sudore e dalle lacrime che continuavano a segnargli occhi e guance, con tale amorevole premura, da alleviargli il bruciore e la sete, con un solo tocco.

Il dottor Elmisk, a sua volta, ripulì la coscia dal sangue rappreso; ispirò, facendo appello all’esperienza di anni di pratica; premette la mano sinistra sull'arto e ne incise la carne, in prossimità del foro, per accedere agevolmente al vaso leso.

Un lamento roco, profondo e lacerante risalì per la gola arsa di Eìos, protraendosi per il tempo infinito del taglio; fuoco e fiamme sembrarono lambirgli pelle e carne e muscoli, bruciando anche l'anima; le mani strinsero le assi del tavolo, con tutta la forza che le povere dita conservavano ancora; le unghie incisero il legno e piccolissime schegge si conficcarono nella carne morbida al di sotto di esse. Ma gli occhi non si chiusero, sfidarono il dolore, come i soldati in prima linea, che sanno di essere già carne morta. Rimasero in quelli di lei, annegando nei bagliori di luce che emanavano, un faro nella notte ad indicare la fine del cammino.

- Sono qui ... sono qui. – gli sussurrò più volte, lasciandosi guardare, con una voce incantatrice, dolce e vaga, dalla quale una forza celeste prorompeva.

Il dottor Elmisk si mosse veloce; con provata destrezza preparò l'ago e il filo di seta per la sutura, divaricò il taglio e cominciò a cucire. L’ago entrava e usciva, unendo i lembi sfrangiati e sottili, mentre il dolore bruciante gli spezzava il respiro in piccoli ansimi insufficienti a ricaricare i polmoni. L'intero corpo rimase immerso nelle fiamme, come se ogni parte di esso, ogni muscolo, ogni lembo di pelle si fossero stracciati, sfilacciati in mille ferite, fino a che il dottore non ebbe dato l'ultimo punto. Solo in quel momento i muscoli allentarono la tensione, rimanendo indolenziti, in attesa che il tempo, come un onda purificatrice, si portasse via gli uncini che sembravano essere conficcati nel corpo.

- Ho terminato, figliolo. - lo rassicurò, - Ora non resta che ripulire le ferite e fasciarle ... - concluse, passandosi il dorso della mano sulla fronte imperlata di sudore.

Il giorno intanto nasceva, fuori da quelle mura arrangiate; l'aria si riscaldava e il bosco tornava a parlare la sua lingua sommessa, fatta del frullare dei passeri, del fruscio delle foglie, del soffio sottile del vento tra i rami più alti. Così rinasceva anche il suo corpo, vessato dalle ferite e dallo sforzo di assecondarne il dolore, e insieme ad esso rinasceva la propria esistenza, che per ore si era aggrappata ad una forza invisibile che navigava nelle parole di lei, nelle dita che, come radici sottili gli si erano avvinghiate attorno per sostenerlo e nei suoi occhi, diafani testimoni della sua anima.

Le ferite furono ripulite attentamente, disinfettate e poi bendate con le sottane di Ariela. Con esse a stringergli il costato e la coscia, il profumo di acqua e rose si attaccò alla propria pelle, lo acquietò come accade ai bambini che si addormentano sereni, confortati da un profumo familiare. Cadde in un sonno profondo, lentamente, accompagnato dalle mani di lei, che gli sfioravano il viso; distendevano le rughe della fronte; carezzavano le palpebre pesanti, il profilo del naso, il contorno delle labbra e la linea ispida della mascella.

La notte ristoratrice di Eìos giunse, mentre nasceva il giorno, un nuovo giorno caldo e carico di libertà.

 

 

**************

 

 

Quando riaprì gli occhi, la notte era già tornata, col suo carico di silenzio e di oscurità.

La stanza era in penombra, una fioca luce veniva da un mozzicone di candela, posto su di un vicino sgabello, imbrattato di cera, e dalla fiamma vivida del fuoco del camino. Aveva dormito per un giorno intero: il corpo stanco e provato si era rigenerato con un sonno profondo e senza sogni.

Distesa accanto a lui, accoccolata come una gatta, riposava Ariela, gli occhi sotto le palpebre di perla e le labbra socchiuse, come nell’attesa di un bacio. Poggiava il capo sul braccio destro, allungato accanto a quello di Eìos, e gli teneva la mano sinistra sul petto lasciato scoperto dalle bende. Le dita lunghe e bianche generavano un contrasto curioso e attraente con la pelle scura di lui, come la fredda neve sulla terra nuova, ma al contrario di essa, emanavano il tepore dei pomeriggi autunnali, quando il sole, già basso all’orizzonte, riscalda l’aria e cuoce le foglie rossicce sui rami, colorando cielo e terra di oro e rame. Il respiro calmo gli soffiava sul collo una scia dello stesso tepore, così Eìos richiuse gli occhi, inspirandolo e riempiendosene i polmoni, tanto che il torace si gonfiò e sgonfiò poderosamente, destandola.

- Buongiorno! – le augurò, quando le ciglia lunghe di lei gli solleticarono la pelle delle guance.

Ariela sorrise, prima di aprire definitivamente gli occhi: la voce di lui era ferma, rilassata, leggermente roca, ancora impastata di sonno, ma senza alcuna nota di dolore e ciò la sollevava dall'apprensione per la sua salute.

- Buongiorno a te! – rispose, allungando le labbra fino al viso di lui e lasciandogli un bacio tenerissimo e caldo.

- Dopo quello che ho passato … credevo di meritare di più! – commentò, gli occhi chiusi e un mezzo sorriso, imbrattato dal taglio sul labbro.

- Dopo lo spavento che tu mi hai fatto prendere … io merito di più! – lo provocò. Sedette sul bordo del letto, il busto aderente al suo e le braccia tese ai lati del capo. Il viso scese ad un palmo da quello di lui, ciocche sottilissime dei suoi capelli sfuggirono alla treccia che li legava, incorniciandole la fronte, sfiorandogli il petto nudo, mentre gli occhi ne esploravano ogni centimetro di pelle, in attesa di incontrare i suoi.

- Vieni più vicino. - le chiese, con una voce sussurrata, modulata come il suono flautato di uno strumento magico.

Ariela si avvicinò ancora di più, la punta del naso toccò la sua e poi ne percorse l'intera lunghezza a ritroso, fino a soffermarsi sulla ruga tra le sopracciglia, offrendo alle labbra di lui il collo sottile e bianco. Eìos le baciò la gola e il mento e poi la pregò: - Ancora più vicino ... -

Le labbra di Ariela tornarono indietro sulla bocca di lui, si fermarono ancora un istante, così vicine che il calore delle une fuse con quello delle altre, in un gioco seducente e torturatore, fino a che egli non riuscì più a trattenersi dal prenderle tra le proprie. Le imprigionò con piccolissimi morsi e le succhiò, come fossero un frutto dalla polpa gustosa. La baciò, dapprima teneramente, poi sempre con più trasporto, insinuandosi nella bocca, percorrendo il palato, sfiorando i denti, come perle nelle ostriche; rincorse la lingua, riconquistando il possesso di quell’antro magico dentro il quale ritrovava sé stesso. Se la schiacciò addosso, stringendola per gli omeri, con le dita nella carne, e riscaldando la propria pelle nuda col calore della sua.

- Non ho fatto che pensarci ... non ho fatto che pensare a te. - mormorò ancora attaccato a lei. - Sentivo di avere bisogno di questo ... - continuò, baciandola con lo stesso impeto, - ... e di questo ... - ripeté, scendendo con la punta della lingua lungo il mento e il collo. - Tanto bisogno, da provare dolore a non averti così, come ti tengo adesso. Non so più fare a meno di te! – confessò.

Ariela sorrise, leggermente stralunata, per quella dichiarazione così esplicita, a cui non era abituata: Eìos era un uomo che non parlava come gli altri, la sua lingua era fatta di gesti e respiri; di segni e sguardi; di pelle e mani e braccia e baci. Egli lasciava che il proprio corpo parlasse per lui, che traducesse le parole comuni nel calore degli abbracci, giacché i sentimenti sono sogni vaporosi, aria di primavera, libera e senza il retaggio di un nome, dunque selvaggi e indomabili, come uccelli che seguono la scia del calore estivo.

Eppure ogni volta che egli usava parole d'amore, Ariela si accorgeva che esse donavano alla sua bocca; si libravano leggerissime sulle note della voce, come se non avessero alcun peso, pur essendo cariche e dense di valore.

- Ho temuto per la tua vita. – gli confidò a sua volta, le punte delle dita di una mano a disegnargli sul petto arabeschi infiniti e gli occhi sul torace, costretto dalle fasce leggermente rosate. - Tutto quel sangue che ti imbrattava la pelle e ... il viso pallido ... Temevo di perdere i sensi ad ogni tuo lamento. -

- Sei stata forte, invece! Ed è stato solo per i tuoi occhi che ho lottato, solo per poterti guardare ancora. –

- Sei salvo, adesso e libero e ... -

- … E tra le tue braccia! - finì per lei, - Ma hai dimenticato Miran. – aggiunse, dopo un sospiro venato di tristezza.

- Col tempo, la rabbia cederà alla ragione: egli comprenderà che non hai colpe, se non quella di aver amato e creduto alle bugie della stessa donna a cui si è affidato lui. Il tempo gli restituirà ciò che il dolore dei torti adesso gli nega. E il sangue ... farà il resto! - lo rassicurò.

- No. Non è così semplice, Ariela. Miran è diventato un altro uomo, annientato dal risentimento, trasfigurato dalla rabbia e questa metamorfosi l'ho generata io, con il tradimento e le menzogne. Non solo quelle su Nubia, ma anche quelle degli anni in cui ho taciuto una verità che anche egli aveva il diritto di conoscere.

E' questo che lo corrode: il mio tradimento, proprio a lui, che mi ha accolto così come ero: sporco, malvestito, senza istruzione e con la rabbia sulla bocca e nelle mani. Mi ha trattato come un fratello, senza sapere che venivamo dallo stesso seme, mentre io, che l'ho sempre saputo, lo ingannavo! - infilò le parole una dietro l'altra, intervallate da respiri colpevoli, gli occhi appannati dalla consapevolezza di aver rotto qualcosa, i cui cocci, anche se rimessi insieme, non avrebbero più restituito la forma armoniosa dell'intero.

- Tu hai commesso molti errori, è vero: hai mentito, rubato; hai taciuto quando avresti dovuto parlare e attaccato quando sarebbe stato più semplice spiegare. Ma siamo a questo mondo per sbagliare e poi, comprese le nostre miserie, porre rimedio. Ciò che vale, amor mio, è saper chiedere perdono! –

- Tu lo dici perché sei pura … e tutto è puro per i puri°. Ma io vedo ogni cosa di questo mondo con occhi sporchi, la tocco con mani imbrattate di fuliggine nera, perché vengo dall’inferno. –

- Eìos … -

- Guarda cosa ho fatto a te! – la interruppe, - Meritavi un altro uomo, uno onesto, affidabile, dalle buone maniere che ti assicurasse una vita serena e rispettabile … -

- Questo lo avrei, di certo, apprezzato in un fratello o in un padre, non certo in uno sposo …

Non ho mai rimpianto la scelta ardita di sposarti, mai neanche una volta! Ogni giorno, dal primo giorno, tu mi hai protetta e accudita, come un padre amorevole con la sua bambina; mi hai amata e desiderata, come se una passione e un fuoco ardessero nelle tue vene solo per la mia carne; mi hai rispettata e tenuta in considerazione, come si fa con un proprio pari, e hai chiesto sempre il mio giudizio. Questo io volevo dal mio sposo e tu me lo hai dato moltiplicato per mille e, insieme a questo, mi hai donato un’altra coscienza di me: la consapevolezza di valere e di essere bella; amabile e forte e donna. –

- Lo sei sempre stata, anche prima che io ti incontrassi: possedevi una spregiudicata avvenenza nascosta nella timidezza e nell’ingenuità; una determinazione nelle decisioni e una inconsapevole indipendenza, tali da confondermi e abbindolarmi, come la più esperta imbonitrice. Ti ho voluta dal giorno che ho sentito il tuo profumo, acqua sorgiva e petali di rosa … -

- Sei prodigo di parole, oggi, amore mio! – scherzò, il labbro inferiore, nascosto dai denti.

- Troppe parole e pochi baci? – chiese, assecondandola.

Ariela annuì, disegnando con l’indice il contorno sgraziato delle sue labbra ferite, - Puoi porvi rimedio … - lo invitò, inducendolo a schiuderle, con la malizia in fiore di chi ha scoperto appena il potere sensuale dei propri gesti.

- Sono ferito … - perseverò, attizzando il proprio desiderio e quello di lei, come si fa con il fuoco temperato, perché si ravvivi la fiamma.

- Puoi porvi rimedio. - ripeté, vicinissima al suo viso.

La fiamma avvampò, paglia gettata nel fuoco, i punti nella carne bruciarono e le ferite implorarono requie, ma nulla gridò più forte del desiderio di lei!

 

°Traduzione del motto latino Omnia munda mundis. La frase è contenuta nel Nuovo Testamento (Epistola di San Paolo a Tito). Manzoni fa pronunciare questa frase nell'ottavo capitolo dei Promessi Sposi da Fra' Cristoforo.

 

 

********************

Bentrovate!

Nuovo capitolo, piuttosto difficile soprattutto per la prima parte.

Mi sono documentata un po' sugli interventi sulle ferite, ma non so di medicina, quindi spero di non aver scritto castronerie.

Anzi se qualcuna di voi, più ferrata in materia, rilevasse eventuali errori e volesse farmeli notare, ne sarei felice.

La seconda parte è più rilassante, un po' dolce, perché dopo tanto ci voleva, ma soprattutto è di riflessione sugli errori e sulle conseguenze delle proprie azioni.

Ringrazio come sempre tutte coloro che mi leggono e in modo speciale chi mi recensisce.

Un bacio!

 

 

 

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Capitolo 28
*** . 28 . Una effimera tregua ***


 

. 28 .

 

Una effimera tregua

 

 

Le ore sembravano scorrere lentamente, stillavano come le gocce di pioggia sui vetri, una a rincorrere l’altra, lungo un tragitto irregolare.

Da quando Ariela ed Elmisk avevano lasciato il rifugio, Eìos si era sentito sperso, come quei marinai che in mezzo al mare in tempesta non riescono vedere la loro stella. La propria fragilità si era palesata tutta in un istante, quello in cui ella era uscita dalla stanza, con gli occhi pieni di lacrime.

Nei giorni precedenti, Elmisk aveva sparso la voce in città che sarebbe partito per la provincia vicina, con lo scopo di incontrare un legale che si assumesse il patrocinio del suo protetto. Aveva preparato la carrozza e i bagagli; poi nel pomeriggio precedente all’evasione, aveva raggiunto la casa sulla spiaggia, e, con Ariela al proprio fianco, si era assicurato che i soldati di guardia alla porta della città annotassero il loro passaggio sul registro su cui appuntavano ingressi e uscite di stranieri e residenti.

Poi la carrozza era stata lasciata presso un nascondiglio di fortuna e, sellati i cavalli, i due avevano raggiunto il rifugio, cavalcando. La loro permanenza in quel luogo sarebbe dovuta durare il tempo necessario ad assicurarsi del buon esito dell’evasione e della buona salute dei fuggiaschi. Le ferite di Eìos e l’intervento medico, invece, li avevano costretti a trattenersi. Ma, quando l'emergenza era rientrata, il momento del commiato era giunto.

Per non destare sospetti e rendere credibile il loro alibi, infatti, era necessario lasciare il rifugio, anche se Ariela, più di Elmisk, si era mostrata recalcitrante ad abbandonare il suo sposo ancora ferito nelle sole mani di Betel, che per quanto affidabili, non erano certo quelle di un medico.

Erano trascorse le prime ore di una sera agrodolce, altalenante tra il pensiero finissimo dei momenti trascorsi insieme e quelli pungenti della sua mancanza. Eìos aveva continuato a rimuginare su quanto quella donna, all’apparenza così fragile, fosse stata capace di una forza tale da assicurargli la salvezza, non solo del corpo ferito, ma, in un senso più profondo, quella dell’anima. Senza neanche rendersene conto, egli aveva affidato, nelle sue mani, tra le sue dita, una parte di sé stesso: la più piccola parte di sé, quella che aveva nascosto al mondo da sempre e che ella aveva trovato senza alcun affanno. Ariela aveva portato con sé, fuori da quelle mura traballanti, l’animo del bambino rintanato dietro la corazza del soldato, che teme il buio e la notte; la parte che fingeva di essere grande; che si era illusa di essere forte e di poter guidare la propria esistenza attraverso mari scompigliati e urli del vento.

Questa rivelazione avrebbe dovuto farlo sentire esposto e vulnerabile. Invece, al contrario, lo irrobustiva; gli calcificava le ossa, come un alimento sano e corroborante, e gli nutriva il cuore, rassicurandolo, come accade attraverso i baci e le carezze.

Cercò di assumere una posizione più confortevole, di sgranchire le dita dei piedi, che per la lunga immobilità, sembravano appartenere ad altre gambe; stiracchiò i muscoli delle braccia, allungandoli verso l’alto, provocando uno scricchiolio di ossa, come quelle dei vecchi, sempre a riposo, e mugolò insofferente per quella convalescenza necessaria, ma che non riusciva già più a sopportare.

- Sta’ fermo! – lo riprese l’amico, attizzando il fuoco che andava spegnendosi, - Il dottor Elmisk si è raccomandato che ti muovessi il meno possibile. -

- Non sopporto più di stare fermo … - replicò, tendendo anche il collo e le fasce muscolari della schiena.

- Domani, magari, ti metterai a sedere … ma, per stanotte, sta’ fermo, o tua moglie mi farà a fette! – lo pregò, con gli occhi fuori dalle orbite, fingendosi spaventato. Ariela, infatti, prima di lasciare il rifugio, l’aveva preso in disparte; gli aveva elencato le cose che suo marito avrebbe potuto fare e quelle che, di contro, gli erano proibite; si era raccomandata che fosse ben nutrito tutti i giorni e che prendesse un bagno, non appena le sue condizioni lo avessero permesso, infine, che le prescrizioni mediche del dottor Elmisk fossero eseguite alla lettera, il tutto condito con un tono perentorio di voce e lo sguardo truce, che Betel non era abituato a vedere negli occhi di una donna.

- Ti ha ordinato anche di radermi? – lo prese in giro, ritornando con la mente alla voce della propria donna, così fresca e chiara, mentre si colorava di forza nel dare ordini ad un uomo grosso il doppio di lei.

- Ridi? In verità mi ha anche chiesto di lavarti … - stette al gioco, ridendo a sua volta.

Eìos si agitò nel letto, un po’ imbarazzato all’idea che potesse essere l’amico ad accudirlo in certe pratiche così intime; portò le mani aperte a coprirsi gli occhi e parte della faccia, come i bambini che hanno vergogna, e schioccò la lingua sul palato.

- La barba basterà … - rassicurò entrambi, mentre alla voce di Ariela si aggiungevano le immagini vivide della loro stanza da bagno; della vasca di porcellana, sufficientemente ampia da contenere due persone; i vapori dell’acqua caldissima che si fondevano con i sali e il corpo bianco e morbido di lei, allacciato al proprio, sotto una coltre sfrigolante di schiuma candida.

 

 

******************

 

 

Le bisacce sistemate sulla groppa del piccolo mulo erano stracolme, tanto che il ragazzino non era neanche riuscito ad annodare i lacci che le chiudevano e aveva dovuto portarne un’altra più piccola ad armacollo, per trasportare ciò che non aveva potuto stipare nelle altre.

Le due più grandi contenevano ogni genere di vettovaglie: pane nero e frutti succosi, carne essiccata e formaggi, del riso, ortaggi e verdure, nonché biancheria pulita. Nel tascapane, invece, aveva sistemato flaconi e boccette di vetro, che il dottor Elmisk gli aveva preparato, contenenti disinfettanti, erbe officinali e unguenti, bende e garze per medicare le ferite. La notte prima infatti, nonostante il medico fosse già rientrato, per non destare sospetti, Ratho si era introdotto di soppiatto nello studio medico, come un ladro, rigirando lentamente il chiavistello nella toppa e senza accendere neanche un mozzicone di candela, perché il servo, che alloggiava nella stanza vicina, non fosse svegliato dal rumore o dalla luce. Si era barcamenato tra gli arredi e con la sola luce fioca della luna che entrava dalle finestre, aveva svaligiato l’armadietto con i medicinali.

Percorreva a piedi, dunque, il sentiero nella boscaglia, trascinandosi dietro il piccolo mulo, sbuffando per la fatica del percorso e per il carico che condivideva, non proprio equamente, col suo lento compagno di viaggio.

Giunse al ruscelletto in prossimità della casina e si accinse a guadarlo, nel punto in cui il greto era più accessibile per l’animale. L’acqua era così gelida da costipargli le caviglie e parte dei polpacci quando i piedi toccavano il fondo, tanto che Ratho rabbrividì e accelerò il passo, strattonando il mulo, per raggiungere prima l’altra sponda.

Un schiocco di rami si distinse tra il gorgoglio delle acque, tanto che il ragazzo si fermò nel bel mezzo della traversata, con la pelle accapponata, oltre che per il freddo, anche per la paura. Pensò a un animale, un lupo o un cinghiale, giunto in quel punto per abbeverarsi. Riprese traballante la sua marcia, sperando che l’attraversamento del fiume, lo dissuadesse da eventuali istinti famelici nei suoi confronti, ma quando poggiò il piede sulla sponda, un altro schiocco lo fece voltare. Un’ombra veloce si rifugiò dietro un grosso tronco. La luce era fioca, veniva dai raggi di luna piena che, nelle zone rade della boscaglia, si proiettavano sul terreno coperto da muschi e foglie secche, ma Ratho fu certo che non si trattasse di un animale, poiché aveva distinto nettamente una figura eretta, alta più o meno quanto lui. Pensò subito che qualcuno lo avesse visto entrare nello studio del dottor Elmisk e che, insospettito per la fuga del suo protetto, avesse avvertito i gendarmi, che lo avevano seguito in tutti i suoi spostamenti.

Si sentì un idiota, incapace di assolvere al compito che gli avevano assegnato e colpevole di essersi fatto scoprire mettendo a repentaglio la latitanza del suo capitano.

Cercò di pensare in fretta: avrebbe potuto allontanarsi dal rifugio, prendendo tutt’altra direzione, camminare e camminare fino a portarli il più lontano possibile. Ma Eìos era ferito, aveva bisogno dei medicinali che aveva nella sacca; per di più, nascosti da un paio di giorni, erano affamati e le vettovaglie erano necessarie, anche se Betel era riuscito a cacciare un paio di lepri.

La soluzione che gli apparve più appropriata fu quella di proseguire verso il rifugio, entrare e avvertire Betel: egli era armato, veloce e scaltro e di certo sarebbe stato in grado di cogliere di sorpresa il suo inseguitore.

Così fece, non senza pentirsene e cambiare idea ad ogni passo che lo avvicinava al rifugio, fino a quando non vi giunse; spinse la porta, con le mani insicure e tremanti, e si affidò alla Vergine, pregando di non aver commesso un errore ancora più grande della sua disattenzione nel farsi scoprire.

La faccia era pallida come un cencio, le efelidi spiccavano ancora di più sulla carnagione e la fronte, sotto il ciuffo spettinato di capelli rossi, era imperlata di sudore. I soli occhi che incontrò furono quelli di Betel, seduto a cavalcioni su una sgangherata seggiola, la schiena rivolta al giaciglio sul quale Eìos riposava, il mento appoggiato e le braccia incrociate sullo schienale.

L'arabo, fiutò immediatamente il pericolo, come un animale l'arrivo del cacciatore; si sollevò con calma, spostò la seggiola su cui era stato seduto, sollevandola dal pavimento per non produrre alcun rumore; portò l'indice sinistro sulla punta del naso, intimandogli il silenzio e puntando i suoi occhi indagatori in quelli dell'altro, chiedendo un muto resoconto del pericolo. Il ragazzo sollevò, a sua volta, l'indice di una mano, perché Betel capisse che si trattava di un solo avversario. Dunque, l'arabo estrasse dalla cintola dei calzoni la rivoltella che teneva sempre carica, e con una calcolata lentezza, spalancò le ante sgangherate dell'unica finestrella della stanza, per poi scavalcarla.

Essa si apriva sulla parete opposta alla porta, quindi sul retro della costruzione. Se, come appariva logico pensare, l'intruso avesse seguito Ratho fino all'ingresso della casa, Betel avrebbe potuto, aggirandone il perimetro, trovarsi alle sue spalle e coglierlo di sorpresa.

Il suo passo fu veloce e felpato come quello di un grosso felino, non uno sfrigolio di foglie o uno schiocco di rami tradì i suoi movimenti e il mantello che indossava, scuro come la notte, contribuì a fare della sua figura un'immagine evanescente confondendola con le ombre che la luce notturna provocava incontrando rami e cespugli mossi dal vento.

In casa Ratho, tamburellava le dita sulle assi schiodate del tavolo, così nervosamente che Eìos ne percepì, nonostante il sonno, il suono insistente e disturbatore. Voltò solo il capo verso il ragazzo, senza muovere il resto del corpo, per tenere fede alla promessa che aveva fatto Elmisk di non sforzare le ferite ancora in via di guarigione, e lo guardò interrogativo. Il giovane imitò il gesto dell'arabo per intimargli il silenzio e l'altro, storse la bocca in una smorfia per la carne ricucita che tirava, mentre, con fatica, cercava di mettersi a sedere e impugnava la pistola che teneva accanto al letto.

Proprio nell'istante in cui Ratho fece per aiutarlo, la porta si spalancò, aperta da una poderosa spallata. Eìos, tenendosi con la sinistra la ferita al torace dolorante per lo sforzo, puntò l'arma in quella direzione, pronto a fare fuoco.

- Mettila giù, sono io! - la voce di Betel affaticata, ma tranquilla sedò gli animi e le apprensioni.

Aveva entrambe le mani occupate a reggere, sulla spalla destra, come un sacco di patate, il corpo di una donna, che scalciava come un mulo e batteva i pugni sulla schiena dell'uomo per liberarsi.

Betel la mise giù, ma non appena i piedi di lei toccarono il pavimento, fu costretto ad afferrarle i polsi, perché con le mani continuava a colpirlo, ora sul petto, ora sulla faccia, con una furia da animale selvatico appena catturato.

Nel dibattersi il cappuccio che le copriva il capo ricadde, liberando una selvaggia capigliatura fulva, dai riverberanti riflessi ramati.

- Sabra ... - la chiamò Ratho, avendo riconosciuto, forse più nell'impeto del carattere, che nello scompiglio dei capelli, la maggiore delle sue sorelle. - Che ci fai qui? - la interrogò con l'autorità del maschio di casa. Da quando, infatti, la salute del suo vecchio padre si era compromessa, egli si era assunto la responsabilità della famiglia. Aveva provveduto da solo a sua madre e alle due sorelle, facendo tutti i lavori che gli erano capitati, fino a che, poco meno di un anno prima, aveva incontrato Eìos che lo aveva portato con sé per mare e gli aveva affidato piccoli lavori nella propria casa o sulla propria barca, nei periodi in cui erano rimasti a terra.

- Tu, che ci fai qui! – ella replicò, con la stessa autorevolezza per eludere la domanda.

- L'ho chiesto prima io! Rispondi. - insistette.

- Ti tenevo d'occhio ... per impedirti che facessi qualche sconsideratezza. -

Eìos si distese nuovamente, con una smorfia, sia per lo sforzo, sia per il contrattempo che gli aveva fatto saltare il cuore fuori dal petto. Betel, invece, con un sonoro sbuffo, storse il naso incredulo: quella fanciulla si era inoltrata nella boscaglia fitta e nera, di notte e a piedi, senza conoscere né la meta, né i propositi del fratello e con una prosopopea inaudita, considerava lui capace di sconsideratezze.

- Preoccupatevi dei vostri affari, signore: queste sono faccende di famiglia. - lo redarguì acida e senza rivolgergli lo sguardo, quando lo sbuffo di disapprovazione le giunse alle orecchie.

- Sabra! Cerca di essere più rispettosa. – cercò di imporsi il ragazzino, chiaramente in difficoltà di fronte alla foga della sorella, la quale, per tutta risposta, lo liquidò con il gesto della mano che si usa per scacciare le mosche.

Betel sorrise scotendo la testa, si passò il palmo aperto della mano sinistra sulla guancia opposta per lenirne il bruciore e se lo ritrovò chiazzato di sangue, come se le unghie affilate di un furetto lo avessero ferito, e, con un altro sbuffo, ancora più pesante, uscì dalla stanza per andare al ruscello per ripulirsi il viso.

- Sei uscita di senno? Se qualcuno ti avesse veduta e seguita … avresti messo in pericolo la vita del capitano!

- Io sono stata attenta! Tu, piuttosto, ti sei fatto scoprire, come uno sprovveduto: se a seguirti non fossi stata io, allora sì, che la vita del tuo capitano sarebbe stata in pericolo! – lo bacchettò.

Ratho abbassò gli occhi mortificato: sua sorella aveva ragione, nonostante avesse fatto tutto con la massima attenzione, era riuscito a farsi scoprire e per di più da una ragazzina.

- Se il tuo promesso sapesse che te ne vai in giro di notte per i boschi … -

- Non sono promessa! – urlò, interrompendolo e battendo i piedi, come una bambina capricciosa.

- Sì, che lo sei! Nostro padre è stato chiaro o lo sposi o finisci in un convento … -

- Meglio sposa di Gesù, che maritata ad un uomo che non amo! – replicò, sollevando il mento altezzosa. Voltò le spalle e uscì dalla stanza dritta e fiera.

- Perdonate mia sorella, capitano: non ha più i piedi per terra. – cercò di giustificare il comportamento irriverente della fanciulla. - E’ stata per qualche tempo nella capitale, a servizio di certi borghesi, che le hanno messo in testa idee folli, secondo le quali tutti gli uomini sono uguali. Anzi, le hanno fatto credere che persino uomini e donne hanno gli stessi diritti e che quindi ella può decidere per sé. – spiegò, gesticolando imbarazzato, per quelle convinzioni che gli sembravano di un altro mondo.

- E’ la verità, Ratho! – gli rispose con un sorriso, cercando di tranquillizzarlo.

- Davvero? E allora, perché esistono i ricchi e i poveri, quelli che hanno la pancia piena e quelli che non hanno di che sfamare i figli? – incalzò.

- Perché questo mondo è un vecchio egoista, che per non morire, rimane attaccato ai privilegi ereditati per nascita. Ma il cambiamento è un fiume lento di idee nuove: si ingrossa quotidianamente di piccoli rivoli d’acqua e della pioggia battente, fino a che non straripa e travolge. Il cambiamento sta dentro la testa dei giovani, uomini e donne; in quella di tua sorella e nella tua … -

- Voi credete? – insistette, strabuzzando gli occhi.

- Sono certo. Non so se saremo ancora qui per vederlo, ma accadrà! –

- Allora, spero di essere già morto, perché un mondo in cui femmine come mia sorella, possono parlare a ruota libera … deve essere un vero bailamme! –

Eìos sorrise, passandosi la mano sulla faccia ruvida e stanca, sistemò nuovamente la testa sul guanciale e socchiuse gli occhi.

- Vuota quelle sacche, Ratho. Ho fame! -

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Capitolo 29
*** . 29 . 7° 24' 25'' ***


. 29 .

 

7° 24’ 25’’

 

 

Il greto del ruscello sembrava un nastro intessuto di fili d’argento, l’acqua scivolava, infrangendosi sugli spigoli emersi dei sassi; si riduceva in piccole frange di schiuma che subito si disperdevano trascinate dalla corrente. Il rumore che produceva era sommesso e lento e si arricchiva degli altri piccoli suoni del bosco: fruscii di serpi tra le foglie arricciate e richiami di uccelli notturni, come le note su di uno spartito. La luna sembrava una gigantesca lanterna di cartone, dentro la quale una luce fluorescente di candela si moltiplicava, fino ad illuminare i tratti della radura, dove i rami intricati e le folte chiome non coprivano il suolo.

Betel sedeva sulle rocce levigate che definivano la sponda del ruscello, le gambe divaricate, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e una mano a reggere l’angolo di un fazzoletto bianco, immerso solo in parte nell’acqua. Galleggiava trascinato dalla corrente, assumendo la foggia di deformate figure geometriche.

Sabra si fermò davanti a lui, qualche passo più a valle, le mani in grembo a torturare le cuticole delle dita fini, ma imbrattate di fatica.

- Mi dispiace … - si scusò, quando il fazzoletto gocciolante giunse a lenire la guancia graffiata, per poi ricadere, colorato di rosa, nell’acqua gelida.

L’arabo scrollò le spalle, incurvate in una piega morbida e convessa, come la superficie liscia di uno scudo, quasi non gli importasse granché né delle scuse, né dell’aggressione di poco prima.

- Vi ho chiesto scusa! – insisté.

- Vi ho sentita … - replicò, il viso fisso sulla superficie dell’acqua.

- Certo, se voi non mi aveste afferrato come un sacco … - cercò di giustificarsi, - … io non vi avrei colpito … o graffiato o … - si interruppe imbarazzata, quando gli occhi di lui si arrampicarono sulla propria figura, dai piedi fino al viso.

Erano tanto neri da sembrare pece e così i capelli, come ali di corvo dai riflessi bluastri. Il viso spigoloso dai tratti ben definiti, si fregiava di una espressione austera e di una bocca grande dalle labbra carnose e scure.

- Siete incredibile … - commentò, scuotendo il capo, - Pedinate vostro fratello di notte, per un tragitto sconosciuto e pieno di pericoli e lo accusate di essere sconsiderato; vi appostate dietro il tronco di un albero, come se doveste sortire un agguato e vi lamentate perché vi ho colto alle spalle e, per finire, mi infliggete graffi e percosse e ne date a me la colpa, come se fossi io l’aggressore! –

- Io … volevo solo essere certa che mio fratello non si mettesse nei guai! -

- Voi siete solo curiosa … e la curiosità quando è spinta troppo, spesso e volentieri ci porta addosso qualche malanno°. citò con supponenza.

- Non sono curiosa! E comunque, se foste più aperto e intelligente sapreste che la curiosità è una delle forme del coraggio femminile°°. – replicò, con un'altra citazione, tanto per mostrarsi all'altezza.

- Uh ... bella e colta! – ironizzò, ma Sabra non colse affatto la vena pungente dell'affermazione, né badò all'aggettivo che celebrava la propria istruzione. Udì soltanto la parola che si era sentita ripetere centinaia di volte e che ella aveva sempre percepito più come lo svilimento delle proprie capacità intellettive, che come un vero pregio.

"La bellezza è un dono di natura, l'istruzione è una scelta", pensava.

Sedette su di un altro masso levigato, di fronte a Betel, il viso chiazzato sulle gote e un calore innaturale per una notte fredda come quella, cercando l'argomento adatto per replicare e scoprendosi a corto di parole, proprio lei che di esse faceva sfoggio, come le altre fanciulle dei capellini e delle scollature di pizzo.

- Il mio nome è Sabra ... - arrangiò l’inizio di quel discorso faticoso.

- Nessun nome vi sarebbe stato più confacente! Con tutte le spine che avete ... - commentò.

- Siete maleducato! - replicò piccata e fece per sollevarsi.

Betel sorrise e, senza abbandonare la sua posizione, aggiunse: - Era un complimento! So che è il nome di una pianta capace di sopravvivere in un ambiente ostile e dai frutti spinosi che nascondono, però, una polpa dolce e gradevole. - spiegò, mentre ella si accomodava alla bell’e meglio di fronte a lui. - Il mio è Betelgeuse. -

- Oh ... - esclamò, come i bambini che si prendono gioco dei coetanei per un qualche difetto.

L'arabo si sollevò e le offrì la mano per aiutarla a mettersi in piedi a sua volta. La pelle scura e levigata, come il legno dell'ebano, contrastava con le unghie bianche dall'attaccatura profonda, e si anneriva maggiormente nelle grinze delle nocche sulle dita. La sua figura decisa e le spalle larghe le erano sembrate ancora più imponenti visti dal basso, ma, anche quando furono entrambi in piedi, l’una di fronte all’altro, Sabra si sentì una bambina davanti a un gigante.

- Seguitemi, vi mostro una cosa. – la precedette, percorrendo la sponda fino al punto in cui i fitti rami intricati degli alberi si diradavano, lasciando uno squarcio aperto su di un cielo nerissimo e stellato.– Vedete lì, dove punta il mio dito? Quel grappolo di stelle costituisce la costellazione di Orione. – spiegò, indicando, in successione, prima le tre al centro, perfettamente allineate; poi le quattro più luminose disposte nei vertici di un rettangolo immaginario, per fermarsi, infine, su quella in alto alla sua sinistra.

Erano tutte estremamente luminose e brillanti di un’intensa luce blu e calda, tranne l’ultima che, al contrario, splendeva di una rossa e pulsante.

- Quella è Betelgeuse. – aggiunse, tenendo fisso l’indice sull’astro, - La seconda più luminosa della costellazione. Mio padre ha scelto per me il suo nome. – terminò.

Sabra mantenne lo sguardo fisso verso le migliaia di luci che illuminavano la notte: il bagliore unico di quella, che aveva ispirato il nome del suo interlocutore, spiccava come una fiamma ardente in mezzo alle luci di piccolissime lucciole in uno sterminato campo di grano.

- Perché a voi il nome della seconda stella e non della prima? – chiese, incuriosita.

Betel sorrise alla domanda che anche egli stesso si era posto nell’ingenuità di bambino e cui aveva dato una risposta solo divenuto adulto.

- Poiché, in questa vita, si può anche essere secondi di qualcuno, ciò che conta è rimanere comunque unici! – le rispose, rivolgendole lo sguardo prima e tutta la sua figura poi.

- Dunque, è per questo che avete aiutato il capitano nella fuga? Perché siete il suo secondo? – incalzò.

- E’ una delle spiegazioni! – replicò vago, ma con un bel sorriso. – Tornate dentro adesso, tra qualche ora sarà l’alba ed è bene che riposiate un poco prima di mettervi in marcia per ritornare in città. –

 

 

***************

 

 

Percorsero il sentiero sterrato che, risalendo il ruscello, giungeva fino alle campagne intorno alla città, in silenzio ed entrambi a piedi insieme con il mulo, carico di fascine.

Il cielo era ormai schiarito, l’aria del mattino irradiava il calore benefico del giorno sulla pelle e sugli arti provati dalla temperatura della notte. Nonostante il mantello e il cappuccio che le proteggeva il capo, Sabra aveva le mani intirizzite e la punta del naso gelato. L’estate, ormai, si stava consumando nei suoi ultimi bagliori; il sole sorgeva più tardo e più lontano assottigliando le giornate che terminavano in tramonti di luce infuocata e tiepida; il mare diveniva sempre più scuro e impetuoso a causa delle correnti fredde che venivano da nord e dei venti che soffiavano sulla costa, lisciando la superficie della spiaggia, come un ferro caldo stira un lenzuolo di lino grezzo.

- Perché il tuo capitano è finito in galera? – chiese di punto in bianco, come se si fosse appena ridestata dal sonno.

- Lo hanno accusato di contrabbando, ma è tutta una montatura! –

- In città si dice che dall’ultimo suo viaggio sia tornato con merce illegale e che gli abbia fruttato un bel po’ di quattrini. – riferì le voci che aveva sentito tra i banchi del mercato.

- E’ vero! – commentò, - Ma il carico per cui è stato arrestato è stato messo di proposito nella sua nave. - precisò.

- E perché mai? Di lui si dice anche che è un uomo piuttosto generoso: chi potrebbe, dunque, volere il suo male? –

- Io questo non lo so. Quello che so è che il capitano ha tanti nemici … alcuni dei quali sono ricchi e potenti. Di certo, sono loro i mandanti di questo tranello. –

- E … anche il suo compare è innocente? – chiese vaga, giocherellando con una foglia strappata ad un arbusto.

- Non credo esista un uomo più onesto di lui! – esclamò con enfasi, orgoglioso di poterlo considerare un amico. – Si è fatto arrestare di proposito, fingendosi ubriaco, lui che non berrebbe neanche un bicchiere di idromele*! Solo per aiutare il capitano. -

- Onesto e corretto, senza dubbio, ma anche un po’ stupido! – commentò, - Adesso sarà costretto a darsi alla macchia per la vita. -

- Quanto sei sciocca! Quando il dottor Elmisk avrà dimostrato l’innocenza del capitano, entrambi usciranno allo scoperto: per il reato di evasione, basterà pagare una cauzione e la fedina penale di entrambi sarà di nuovo limpida. – spiegò.

Sabra tacque. Le sembrava così inconsueto che un uomo sacrificasse la propria libertà per liberarne un altro, che mettesse addirittura a repentaglio la vita per salvarlo. Lo immaginò nella volta celeste, come il gigante raffigurato nella costellazione a cui apparteneva la stella che gli dava il nome, l'accento straniero e la voce pulita, come un suono limpido di vento tra i capelli.

Sorrise di sé stessa, dei pensieri vacui che aveva partorito la propria mente, uguali a quelli che tante volte aveva sentito fare dalle signorine di buona famiglia a cui serviva the e pasticcini.

Ratho la guardò stranito, mentre ella sorrideva e scuoteva la testa; aggrottò le sopracciglia chiare e arricciò il naso, tanto che le efelidi si ammassarono l'una all'altra come una manciata di lenticchie su un canovaccio bianco.

- Cos'hai da ridere? - indagò.

- Cose da donne! - lo liquidò e mentre il fratello, rassegnato, alzava gli occhi al cielo, sbuffando, entrambi si accorsero di essere ormai distanti pochi passi da una delle porte di ingresso alla città.

 

 

***************

 

 

 

Patnarak brulicava di soldati.

Dopo la fuga dei prigionieri dalla fortezza, il comandante aveva richiesto dalla città vicina l’intervento di altre guardie, perché coadiuvassero i suoi nelle ricerche tra le mura e nelle campagne circostanti.

Due guardie si davano il cambio, notte e giorno, davanti alla casa sulla spiaggia e altre due piantonavano lo studio e l’abitazione del dottor Elmisk. Chiunque ne uscisse o vi entrasse, veniva accuratamente controllato; persino gli approvvigionamenti di cibo venivano ispezionati, per assicurarsi che non contenessero messaggi dei fuggiaschi o qualunque altro indizio che permettesse loro di individuarne nascondiglio.

Dopo aver passato il primo posto di blocco, stanziato presso la porta di nord-est, giunsero alla casa sulla spiaggia.

Ratho agitò la catenella e la piccola campana sospesa, suonò tintinnando. Alvita raggiunse il cancello, attraverso le cui volute di ferro battuto, si intravedevano la strada e i due soldati di piantone, mentre rovistavano nel tascapane del ragazzino dai capelli rossi e nel cestino di vimini al braccio della fanciulla.

- La legna da ardere che la signora ci ha ordinato … - spiegò Sabra, anticipando la sua domanda e indicando le fascine caricate sulla groppa del mulo, - … E i frutti di bosco. – aggiunse, avvicinandosi alla recinzione, mostrando il cestino ricolmo di lamponi, more e mirtilli, adagiati su di un letto di foglie smeraldine e felpate.

La cameriera aprì una delle ante del cancello e li fece entrare, indicando loro il luogo sul retro della casa in cui depositare il carico.

Ariela li raggiunse immediatamente; li invitò ad entrare in casa, dalle cucine, e ordinò che Alvita preparasse per loro qualcosa per ristorarsi del lungo tragitto.

Insieme raggiunsero il patio e, quando furono lontani da orecchie indiscrete, Ariela invitò i suoi ospiti ad accomodarsi. Ratho, dopo aver presentato la sorella, riferì alla padrona di casa della salute di suo marito. Le raccontò delle ferite che andavano rimarginandosi; della cura con la quale Betel gli cambiava le medicazioni, seguendo scrupolosamente le indicazioni di Elmisk; dell’appetito che, un poco alla volta, gli donava nuova vigoria e un colorito più sano in volto e infine dell'umore, ancora un po' uggioso per via della immobilità forzata e dell'assenza di lei.

Ariela non si lasciò sfuggire una sola parola, accogliendole ad una, ad una, talvolta con sospiri di sollievo, talvolta con piccoli sorrisi, con il volto rischiarato e sereno e, al contempo, con una punta della stessa malinconia del suo sposo, impotente davanti alla distanza che li separava.

- Invece … le prove per scagionarlo dalle accuse? – chiese il ragazzo, quando ebbe terminato il proprio resoconto puntuale.

- Il legale che il dottor Elmisk ha ingaggiato sembra fiducioso: sostiene che le casse di liquori usate per fabbricare le prove del reato, siano state sottratte dal magazzino in cui vengono depositate le merci oggetto di sequestro. L’avvocato ci ha riferito che, secondo la prassi, tutto il materiale viene contrassegnato con un codice, trascritto poi in un apposito registro. – gli spiegò.

- Dunque, se riuscissimo a dimostrare che le casse trovate nella stiva recano uno dei codici riportati nel registro, riusciremmo a far cadere le accuse! – esultò Sabra che, fino a quel momento, se n’era stata zitta ad ascoltare.

Ariela annuì e continuò: - Basterebbe che l’avvocato presentasse la richiesta per visionare i registri, ma … - cominciò a spiegare Ariela, interrompendosi quando la cameriera, giunse con il vassoio. - … il dottor Elmisk teme che il comandante Kuvee lo farebbe sparire o ne falsificherebbe i dati, per impedirci di dimostrare la nostra tesi e la connivenza propria e dei suoi uomini. – terminò, quando furono di nuovo soli.

- L’unica soluzione è sottrarglielo da sotto il naso! – suggerì Sabra, facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio sulle pareti del bicchiere che conteneva la limonata.

- Giusto! – l’appoggiò il fratello, che a differenza di lei, aveva preferito cominciare con le fette di pane imburrate e la marmellata di more. – Questo registro … si trova negli uffici della fortezza, suppongo. – continuò, sbocconcellando, - Vi entrerò io, come ho fatto l’ultima volta. - si offrì, ripulendosi le labbra sporche di confettura.

- Nascondersi nel carro dei viveri, in mezzo a verze e patate, andava bene per sottrarre le chiavi delle celle all'ufficiale di piantone! - intervenne la sorella, allungando il collo per scovare tra le leccornie che si mostravano tra tovaglioli di lino ricamato, quelle più allettanti. - Per accedere agli archivi e recuperare il registro ci vuole ben altro. – aggiunse, scegliendo un biscotto al profumo di limone.

- Sta' al tuo posto, Sabra! - la bacchettò, stringendole la mano libera che ella teneva chiusa a pugno sulla coscia.

- Signora, ve ne prego ... – continuò, rivolgendosi direttamente ad Ariela e divincolandosi dalla presa del fratello, - Io so come fare. Abbiate fiducia in me e io vi porterò ciò che vi occorre per scagionare vostro marito. - incalzò.

- Sei una ragazzina e queste sono faccende da uomini. – la riprese nuovamente Ratho, ormai del tutto incapace di tenerla a bada.

- Signora, non sono una sprovveduta e, vi giuro, non danneggerei mai la mano che mi da il pane. – insistette per cercare di convincerla.

- E sia! Parlatene col dottor Elmisk e accordatevi. Ma ricordate: nelle vostre mani io affido il mio cuore. -

 

 

 

* Bevanda ottenuta dalla fermentazione del miele.

° Carlo Collodi, I racconti delle fate, 1875

°°Victor Hugo, Novantatre, 1874

 

 

*********************

 

 

Ben trovate.

In questi due ultimi capitoli, vi ho mostrato un nuovo personaggio: Sabra,

una ragazza tutto pepe che svolgerà un ruolo fondamentale per la continuazione della storia.

Il titolo, 7° 24' 25'', rappresenta la declinazione (una delle coordinate astrali di una stella) di Betelgeuse.

Perdonatemi, ma sono affascinata da questa stella e dalla costellazione cui appartiene!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e aspetto le vostre opinioni.

Come sempre, grazie a tutti quelli che leggono e, soprattutto,

a coloro che puntualmente lasciano la loro recensione!

Un bacio!

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Capitolo 30
*** . 30 . L'esca ***


. 30 .
 

L’esca

 


Le luci nelle grandi stanze erano già accese.
Il tramonto era giunto con la sua luce infuocata, mantenendo ancora il giorno aggrappato alle pendici dei monti aguzzi, una colata di lava a sbavarne i contorni frastagliati dalle punte degli alberi.
Da quando aveva saputo dell’evasione di Eìos, lo stomaco aveva cominciato a contorcersi di nuovo, i succhi gastrici gli avevano inacidito le budella, privandolo del poco appetito che gli era rimasto.
Quel diavolo riusciva a trovare sempre una scappatoia per evadere alle responsabilità, come una serpe viscida che si divincola e striscia veloce negli anfratti delle rocce, scampando alla cattura.
Avrebbe dovuto essere egli stesso a tirarlo fuori da quella galera, per poi togliersi la soddisfazione di sputargli in faccia tutto il veleno che gli ammorbava il sangue e ucciderlo o anche farsi uccidere.
Tanto per Miran era lo stesso: la morte era già venuta a prendergli l’anima, lasciando il corpo a marcire, come un involucro vuoto e senza vita.
Invece, Eìos era riuscito a prendersi la libertà da solo; si era nascosto chissà dove, togliendogli anche l’unica cosa che gli aveva permesso di respirare fino ad allora: la speranza di potersi vendicare.
Fece chiamare Saurion, che dal giorno in cui era arrivato, non aveva fatto più ritorno alla tenuta, salvo che per riaccompagnarvi Nubia, affinché lo informasse sugli sviluppi delle ricerche dei detenuti.
- Buonasera, signore. - lo salutò con la sua solita, insopportabile deferenza. - Volevo ... ecco volevo farvi notare che siamo agli ultimi giorni del mese. E' necessario che prepariate il danaro per le paghe dei braccianti e dei servitori della tenuta, che saldiate i conti per le sementi e i nuovi armenti acquistati e che ... -
- Non sei il mio amministratore, Saurion! - lo interruppe, così bruscamente che le parole che il servo stava per pronunciare gli si incastrarono nella gola, insieme alla saliva. - Non è tuo il compito di ricordarmi i miei doveri di padrone, né ti ho fatto chiamare perché parlassi senza che fossi io a chiedere. -
- Perdonate ... - biascicò, dopo aver deglutito a fatica.
- Dimmi ciò che sai dei fuggiaschi. - lo interrogò.
- Non si sa granché, in verità, signore: in città si dice che sia arrivato un altro drappello di soldati e che le ricerche siano state estese alle campagne circostanti e al bosco, anche se l’area da battere è piuttosto ampia per il numero di uomini a disposizione del comandante Kuvee. – riferì, per poi aggiungere: - Soltanto due di loro sono stati catturati, la notte stessa dell’evasione, signore. Di … quell’uomo non si sa alcunché. – terminò in imbarazzo per non sapere quale appellativo destinare a Eìos.
- Il diavolo conosce mille trucchi per rendersi invisibile. – rifletté a voce alta, lasciando il suo interlocutore con la fronte corrucciata e un espressione ancora più confusa sulla faccia.
- Che sai del suo compare? - insistette.
- Quell'arabo dal nome strano, dite? Pare che fosse in prigione anche lui e che si sia dato alla macchia, ma neanche di lui c’è traccia. - si affrettò a spiegare, dopo una breve pausa.
Miran si passò la mano sulla faccia, prima sugli occhi segnati da profonde occhiaie, poi sulla labbra aride e screpolate, come per riflettere sul da farsi. Inspirò, cosciente del fatto che l’unica cosa che gli fosse concessa per il momento, fosse  aspettare con pazienza.
- Non può aver fatto tutto dalla propria cella. – rifletté, quasi tra sé e sé, - Qualcuno da fuori deve averlo aiutato. - aggiunse, con gli occhi puntati fuori dalla finestra, mentre le luci della sera rubavano la scena al tramonto.
Doveva essere ancora lì, nei dintorni della città, in qualche anfratto puzzolente, ne era certo. Forse poteva essere persino all’interno delle mura stesse, nascosto nella casa di qualche miserabile come lui, aspettando che l'attenzione di tutti evaporasse o che i soldati sconfitti smettessero di cercarlo.
- Cosa volete che faccia, signore? – chiese, rigirandosi il frustino tra le mani callose e ruvide.
- Gira per i mercati; va' al porto, nelle bettole o nei postriboli e tieni le orecchie ben aperte: se saprai ascoltare, prima o poi scoverai un indizio. E adesso, vattene. - gli ordinò.
Saurion chinò il capo, anche se il suo padrone non badò al gesto, impegnato com’era nelle proprie elucubrazioni; voltò la schiena e uscì dallo studio, in silenzio, come se anche lo scricchiolio delle suole sul pavimento potesse disturbare il lavorio intenso del cervello di Miran.
- Maledetto bastardo! – imprecò quando fu solo; le dita contratte spezzarono in due la penna con cui aveva giocherellato nervosamente per l’intera conversazione. L’inchiostro nero e fluido si riversò su uno dei fogli del registro contabile che aveva davanti, sulla scrivania; impregnò la carta porosa, allargandosi in una macchia sempre più grande e dai contorni sfrangiati. La osservò con attenzione, come le fattucchiere che esaminano i fondi del caffè, quasi la densità del fluido, la forma o il colore potessero suggerirgli il modo per stanarlo. Rovistò nei ricordi lucidi degli ultimi mesi e in quelli più annebbiati della fanciullezza, cercando nei respiri, nel cinismo e nel distacco, nelle parole arroganti o nei silenzi pungenti ciò che Eìos teneva più a cuore, per costruire l'esca a cui farlo abboccare.
Fissò gli occhi chiari, testimoni sbiaditi di un’anima oramai logora e perduta, ancora su quella pagina imbrattata: la macchia di inchiostro si era espansa fino all’angolo destro del foglio. Il contorno lambiva alcune lettere del proprio nome e ne copriva altre. Un pensiero illuminato baluginò nella sua mente, come uno squarcio infinitesimo di luce cristallina nel buio di una stanza.
- Il nome! - gridò come lo scienziato che è riuscito a spiegare l'impossibile.
Il nome di suo padre era ciò per cui Eìos aveva sempre lottato.
Contro le leggi degli uomini e quelle di Dio, senza onore, né rispetto alcuno per il prossimo, aveva rubato e mentito, raggirato e tradito per quel nome che sì, gli spettava di diritto, ma egli invece si era preso con il ricatto e i raggiri.
Il nome era tutto ciò che Eìos possedeva e per quel nome, aveva avuto diritto al rispetto dei suoi pari, ad una posizione e a una sposa. Se fosse riuscito a toglierglielo, tutto il resto sarebbe crollato, come la casa costruita sulla sabbia. Nessuna donna, nessun onore, niente rispetto, niente futuro dignitoso. Solo la rabbia divoratrice; soltanto il desiderio insopprimibile di vendetta.
Quello poteva essere ciò che lo avrebbe portato allo scoperto: l’esca perfetta che, nel dondolio nell’acqua, con sfarfallii e lampi di luce attira il pesce; la consapevolezza di perdere il nome era l’unica cosa che avrebbe potuto portarlo di nuovo di fronte a lui per la resa dei conti.
Sorrise, intingendo l’indice in quell’oracolo nero e rivelatore, con un ghigno sadico pieno di aspettative e impazienza: gli avrebbe tolto il nome e poi la vita!


***************


Il portone della fortezza si aprì con uno stridore di cardini che ferì le orecchie di Sabra, come quando le unghie graffiano una superficie liscia, provocando brividi a fior di pelle.
Era nervosa e tesa, ma non aveva voluto darlo a vedere, mentre, con il dottor Elmisk e Ratho, approntavano il piano per sottrarre il registro dall’ufficio del comandante. Si era offerta per quell’impresa, con la sua solita avventatezza, con la fame incosciente di chi ricerca l’avventura, senza calcolare che per certe cose bisogna essere tagliati, come per studiare musica, ad esempio, o ricamare lenzuola e asciugamani, e che, anche un piccolo imprevisto, dovuto alla sua inesperienza, avrebbe potuto mandare in fumo tutto il piano, nonché la libertà di Eìos e Betel. Per non parlare del fatto che non si fosse minimamente preoccupata dei motivi che l’avevano spinta a farlo.
Il primo sprone era senza dubbio la riconoscenza nei confronti di Eìos, che, dando lavoro a suo fratello, aveva permesso alla sua famiglia di vivere dignitosamente; il desiderio di avventura e di compiere un’impresa che nessun'altra signorina si sarebbe mai azzardata a concepire, erano di certo il secondo; e, ora che si apprestava ad andare in scena in quella rappresentazione folle e pericolosa, doveva ammettere con sé stessa, che un paio di occhi neri erano sicuramente il terzo.
"L'uomo delle stelle", come le piaceva chiamarlo dalla notte che le aveva mostrato il cielo, era indubbiamente attraente, ma non per quella bellezza canonica inseguita dai maestri dell'arte; era piuttosto sommessa, avvolta nella trama ruvida della pelle; nei tratti appuntiti del naso o degli zigomi; nella statura imponente che, in un altro, avrebbe cozzato con la gentilezza tipica dei movimenti; persino nel nome alieno e nell'accento straniero che colorava di esotico i suoni delle parole; ma soprattutto stava nella dedizione di lui all'altro; nella cura dell'amicizia, come un bene vitale, al pari della sementa nuova per il contadino, a qualunque costo, anche al prezzo della propria libertà.
Betel era indubbiamente il tipo d'uomo che il cuore effervescente di Sabra avrebbe potuto prendere in considerazione, ma, di certo, era anche quello che non avrebbe mai potuto avere. Le differenze, che stavano nel mezzo tra le loro vite, erano come il ruscello durante la piena: palesi, pericolose e invalicabili. La prima era l'età: una ragazzina con un fuoco ribelle, che le faceva prudere le mani, di fronte ad un uomo maturo e assennato; la seconda, l’estrazione sociale: era evidente, come il contrasto tra la luce e l’ombra, che, nonostante Sabra avesse studiato libri e buone maniere, come una signorina per bene, e predicasse l’uguaglianza tra le classi, egli fosse di sangue nobile, ed ella, di contro, potesse aspirare solo a servire quelli come lui.
Eppure, quell'impresa era dedicata a lui, esclusivamente ai suoi occhi d’inchiostro e ai suoi capelli crespi, alle vene delle mani, evidenti come radici forti che affiorano dalla terra, e al sorriso genuino, che, come una serratura, apriva una porta su quell'universo che le sovrastava il capo e mirabilmente egli riusciva a racchiudere; quell’impresa era solo per il piacere di saperlo libero di nuovo.
Inspirò per calmare il battito accelerato del cuore che si era messo a rincorrere i suoi pensieri, costringendosi a tornare alla realtà; si concentrò sul suo ruolo; strinse tra le dita il manico del grande cesto di vimini, che conteneva parte del pranzo per l'ufficiale di turno, e, tenendosi le gonne, scese dal carro che trasportava due otri di vino, verdure, pezzi di pane nero e altri approvvigionamenti per i soldati.
Ratho la imitò, saltando giù e caricandosi su di una spalla una sporta di patate da portare nelle cucine. Le lanciò un occhiata carica di ammonimento e di apprensione, quando ella deviò, attraversando il cortile centrale della fortezza, per dirigersi nell'ala destinata agli ufficiali.
Sabra tremò quando la voce del soldato, da dietro la porta la invitò ad entrare. Chiuse gli occhi e si affidò alla Vergine, giurando che mai più nella vita si sarebbe prestata ad un'avventura del genere e che se Ella l'avesse aiutata a fare ciò che doveva, avrebbe domato il proprio carattere ribelle e i suoi colpi di testa. Posò la mano sulla maniglia e, imponendosi di non tremare, l'abbassò spalancando l'uscio.  
Il giovane tenente, fresco, fresco d’accademia militare, la guardò con gli occhi stralunati: Sabra era sfacciatamente bella, i capelli legati sulla nuca, in una fluente coda, il corpo morbido, che la stoffa delle vesti non riusciva a mascherare, e gli occhi grandi e azzurri, colore inconsueto sull’ambra della sua pelle.
- Vi ho portato il pranzo. – esordì ancora sulla soglia, mostrando il cesto ricolmo.
- Lo vedo … - biascicò il giovane, imbarazzato e sorpreso. – Non mi aspettavo questa mattina, quando mi sono levato, che sarei stato il destinatario di una tale manna. – constatò, riferendosi più alla fanciulla che non al pasto, - Di solito è una vecchia signora a portarmi il pranzo. – continuò, avanzando la prima lusinga e un primo sorriso.
Sabra non rispose e, fingendosi incapace di reggere lo sguardo del suo adulatore, intimidita dal complimento, fece vagare gli occhi nella stanza, finché non individuò sugli scaffali, che si imbarcavano sotto il loro peso, enormi faldoni polverosi, sulle coste dei quali, spiccavano numeri o codici di archiviazione.
- Posso … servirvi? – chiese con la vocina civettuola che aveva sentito usare dalle signorine della casa in cui era stata a servizio.
L’ufficiale le sorrise e annuì, scostando le scartoffie che tappezzavano lo scrittoio per far spazio a quel desco improvvisato.
- Di solito pranziamo nella mensa … - sembrò scusarsi, - Ma con la fuga dei prigionieri … la caserma è in subbuglio. – continuò, sorridendole ancora come un ebete.
Era piuttosto belloccio, constatò Sabra, mentre disponeva le vivande sul mobile: scuro di capelli, dai lineamenti sottili, i movimenti e la voce educati. Le spiacque un poco essere lì, a prendersi gioco di lui, si preoccupò finanche delle punizioni che gli sarebbero cadute addosso per la sparizione di quel documento così importante e sotto la sua responsabilità. Ma scacciò il senso di colpa che aveva fatto capolino nella sua coscienza: sapeva di avere una missione da compiere e che non era quello il tempo dei pentimenti o dei rimorsi. Dopo, quando tutto fosse finito, avrebbe confessato il suo peccato, come una buona cristiana, e il sacerdote, di certo, le avrebbe concesso l’assoluzione, e se di contro non l’avesse fatto, tanto meglio, giacché tutto era stato fatto per amore di giustizia.
- Posso … - balbettò il giovane, - Vorreste pranzare insieme a me? – trovò il coraggio di chiederle.
- Non posso. – rispose, sempre con la stessa vocina, - Ma se foste così gentile da offrirmi dell’acqua, signore … - insistette, portandosi una mano alla gola, - Ho la bocca arsa. – spiegò, tirando su gli occhi e guadandolo.
Il soldato scattò sull’attenti, come se avesse ricevuto un ordine da un superiore e, notando che sulla tavola c’era solo una caraffa di vino, la rassicurò: - Vado a prendervene dalla cisterna nel cortile: è più fresca e vi ristorerà.  –
Uscì dalla stanza con il vento nelle tasche e sparì dietro l’uscio ancora con il sorriso stampato sulla faccia.
Appena fu sola, Sabra cominciò ad ispezionare le scritte sulle coste dei registri. Il dottor Elmisk le aveva detto di cercare quello su cui erano appuntate le merci sequestrate nel mese precedente l'ispezione sulla nave di Eìos, poiché, per prassi, esse venivano conservate in un magazzino della fortezza, per un periodo di trenta giorni, per poi essere trasferite nella capitale ed essere vendute all'incanto.
Sabra, con il cuore veloce come il battito d'ali di un colibrì, scorse con le dita e con gli occhi le date impresse, fino a che non trovò quella che stava cercando; sfilò il registro dalla mensola e lo nascose nel cesto, sotto il canovaccio che aveva usato per coprire le vivande.
Sedette, inspirò ed espirò diverse volte, perché la pressione del sangue che le faceva rombare le orecchie si abbassasse, il battito cardiaco divenisse regolare e i nervi tesi del viso si distendessero, per non tradire lo scompiglio interiore.
L'ufficiale rientrò solo pochi minuti dopo, una brocca di coccio tra le mani e l'espressione soddisfatta di chi ha esaudito un desiderio vitale. Colmò fino all'orlo l'unico bicchiere disponibile e lo offrì alla ragazza, che bevve tutto d'un sorso, poiché davvero la gola le bruciava e la bocca sembrava essersi completamente prosciugata della saliva.
- Credete che sarete ancora voi a servirmi i pasti? - chiese, quando ella poggiò il bicchiere sullo scrittoio, dissetata e più quieta.
- La signora che vi serve di solito è indisposta, per questo sono qui io. - gli rispose con gentilezza, sebbene scalpitasse per uscire dalla stanza e dalla fortezza, prima che qualcuno potesse accorgersi del furto.
- Se non doveste ... se non foste voi a venire qui anche domani, credete che potrei rivedervi? - insistette, - Insomma ... siete ... siete promessa? -  farfugliò, in preda all'imbarazzo.
Sabra scosse la testa, da un canto, affinché il proprio diniego le offrisse un altro vantaggio sul nemico, dall'altro, perché la parola che suo padre aveva dato per lei, promettendola in sposa ad un uomo che non voleva, non aveva, nella concezione che ella aveva dell'idea di libertà, alcun valore.
- Devo andare ... - mormorò, sollevandosi e afferrando il manico del cesto per portarselo sul braccio.
I vimini intrecciati ebbero sulla pelle l'effetto di corde arroventate che le marchiavano la pelle per il peso e, ancor di più, per il senso di colpa. Sorrise forzatamente per mostrarsi serena e fece un piccolo inchino, uscendo dalla stanza, mentre il soldato la salutava con un cenno del capo.
Trovò Ratho in piedi di fianco al carretto ormai vuoto: camminava su e giù, le braccia ciondolanti, sbuffando come una pentola di acqua bollente, il cui vapore ne fa sollevare il coperchio; sul viso un espressione incerta, che agli occhi di chiunque poteva sembrare annoiata per la snervante attesa, ma, che ai suoi, fu di tenerissima apprensione.
Si guardarono negli occhi, complici, scambiandosi domande mute e, quando la rassicurazione che tutto fosse filato liscio comparve sul viso di lei, anche quello di lui, fino ad allora stanco e tirato, si rilassò. La bocca del ragazzo si aprì in un sorriso storto, la peluria, leggermente rossa della barba rada dell'adolescente, si addensò tra le grinze della pelle, formatesi ai lati della bocca, e il respirò si modulò, accompagnato da una risata sommessa e sollevata. Anche Sabra sorrise impercettibilmente, poi con un cenno del capo, gli intimò di montare a cassetta, seguendolo a ruota e sedendosi accanto. Ratho incitò il mulo a partire, con un verso della bocca e lo schiocco della verga; l'animale mosse la zampa anteriore e lo zoccolo rintoccò sulle pietre che lastricavano il cortile, seguito dai passi successivi, come in una litania rassicurante; le ruote cigolarono lente, mentre il grande portone di legno e ferro battuto veniva aperto dalle guardie di piantone. 

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Capitolo 31
*** . 31 . Quando viene il buio ***


. 31 .
 

Quando viene il buio

 

Le prime luci dell'imbrunire calavano lente, come polvere nera che si posa sulle foglie, sui rami, sulla terra imbevuta di umida brina, annerendola di caligine spessa e densa. Anche il cielo si scuriva, riempiendosi delle ombre cangianti della luce solare che attraversava l'ovatta delle nubi.
Nel camino, il fuoco era già acceso; sulla fiamma rosolavano, infilzate da uno spiedo, le carni bianche di una lepre, cacciata quella mattina, mentre la luce di una candela illuminava solo in parte la stanza. Eìos stava ritto in piedi nell’angolo opposto al giaciglio, il torso scoperto, le bende candide a fasciargli l'addome e un telo di lino su di una spalla. Il viso, riflesso in una scheggia di specchio, era cosparso di sapone, come quello di un vecchio dalla barba bianca, e lasciava spiccare il verde ambrato delle iridi e le labbra scure e serrate.
- Che diavolo ci fai in piedi? - lo interrogò sorpreso Betel, quando, appena rientrato, trovò il letto sfatto e vuoto, per la prima volta dopo settimane.
Eìos rimase di spalle e, senza distogliere gli occhi dalla propria immagine, sventolò la lama scintillante e affilata di un rasoio.
- Perché, cos'ha che non va come ti rado io? - insistette, fingendosi offeso per essere stato sollevato da una delle sue incombenze.
- Oh, nulla, Figaro! – lo canzonò e, tendendo la pelle di una guancia con la punta delle dita e lasciando scivolare la lama nel sapone, come la prua di una imbarcazione tra le onde spumose, aggiunse: - E’ solo che da oggi mi rado da me! Oltre al fatto che, appena cala il buio, andrò in città. -
- Neanche per sogno! – rispose l’altro, disapprovando col capo, - Le ferite oramai stanno rimarginando, ma ti occorre ancora assoluto riposo. Montare a cavallo, significherebbe correre il rischio che le suture cedano per lo sforzo. – gli fece notare.
- Sto meglio, le suture terranno e … - replicò, - … ho bisogno di vedere mia moglie! – aggiunse, con un poco di imbarazzo nella voce.
- D’accordo! Vado a sellare i cavalli. – acconsentì. Sapeva che Eìos aveva la testa così dura, che nulla gli avrebbe fatto cambiare idea, neanche la probabilità, per altro molto alta, che il suo corpo, ancora in bilico, potesse risentirne. Per di più, si era reso conto che la mancanza di sua moglie ne rallentava la guarigione, quasi fosse una medicina, o addirittura una pozione magica, studiata apposta per lui e per il suo corpo malandato.
- Non ho bisogno della balia. – replicò, dopo aver schiarito la voce, arrochita per l’imbarazzo della confessione, - A meno che … anche tu non abbia qualche faccenda da sbrigare in città! – alluse, per cavarsi d’impaccio.
- Non so di cosa parli. – rispose l’arabo, avviandosi alla porta e caricandosi sugli avambracci i finimenti per sellare gli animali.
- Ti prego … non farmi ridere o finirò col tagliarmi la gola! – scherzò, mentre immergeva la lama del rasoio nell’acqua del catino per ripulirla dei residui di sapone e peli. – Mi sono accorto di come ti guardava l'altra sera, quando è venuta con Ratho. – riprese, riferendosi a Sabra, mentre l'altro sembrava cadere dalle nuvole, - E di come la guardavi tu, mentre il ragazzo raccontava della sua epica impresa. – aggiunse, fissando il suo riflesso allo specchio.
Betel inspirò, colto in flagrante, come i bambini scoperti con le dita sporche di marmellata. I muscoli del torace, già sotto sforzo per il peso dei finimenti, si irrigidirono, trattenendo l'aria nei polmoni, come per concedersi il tempo necessario a elaborare una valida risposta. Poi, quando l'apnea forzata lo costrinse a espirare, assieme ad essa espulse anche le parole.
- E' bella, indubbiamente bella! Ma è anche un barile di polvere da sparo, pronta a prendere fuoco alla minima scintilla. - commentò, tornando sui suoi passi e lasciando cadere la sella sul ripiano del tavolo. - Insomma, quante ragazzine si sarebbero lanciate in una impresa come quella ... - cercò di argomentare - ... senza neanche soffermarsi sulle conseguenze di un eventuale fallimento! -
- ... Una innamorata? - azzardò, facendo spallucce.
- Ti prego ... - rispose, come se avesse appena sentito che il mare può essere svuotato con un secchio. - Non ci siamo incontrati che poche volte e ... e poi, basta così poco per innamorarsi? - ironizzò, aggrottando le sopracciglia.
Eìos ne scrutò l'espressione, indeciso se classificarla come scettica o di scherno. Passò nuovamente la lama sulla pelle, poi nell'acqua, poi ancora sul telo che gli copriva l'omero, asciugandola, perché fosse rilucente e pronta al passaggio successivo.
- Non saprei ... - rispose, voltandosi a guardare l'amico, - So cosa è bastato a me. - aggiunse, tornando a radersi con meticolosa prudenza.
Betel sbuffò: la conversazione era spinosa e inconsueta per due come loro, sempre schivi introversi e che, pur avendo condiviso difficoltà o sacrifici, speranze e desideri, avevano sempre ripiegato su parole scarne ed esplicativi sottintesi. Alla difficoltà caratteriale di esprimersi, di esternare sentimenti, dubbi o pulsioni, si aggiungeva quell'aria saccente di Eìos, che sembrava detenere la chiave per comprendere l'altro, proprio lui che li aveva sempre ignorati, seppellendoli sotto il sarcasmo, il cinismo e una finta superficialità.
Eìos, dal proprio canto, non si attribuiva l'esperienza che Betel mal sopportava: egli stesso aveva dovuto combattere dentro di sé una lotta serrata, tra la convinzione che l'amore non esista, se non per gli stolti e i sognatori, e quella che chi lo professa non sia altro che un bugiardo capace di riempire il vuoto con le parole.
Aveva dovuto incontrare Ariela per arrendersi senza condizioni; per consegnarsi disarmato al quel legame che aveva messo radici profonde in un suolo arido e refrattario.
Sorrise, alzò il mento verso l'alto e poggiò la lama sulla gola; la fece scorrere a ritroso delicatamente, come la carezza di un'amante e, quando il suo percorso terminò sul mento, liberando dal sapone un sentiero di pelle liscia e morbida, schiarì la voce e aggiunse: - A me, è bastato un profumo: la scia di acqua e rose che le ammanta la pelle ... l'effluvio di primavera. - concluse, gli occhi chiusi e il viso ormai completamente rasato, ancora umido e rilucente alla fiamma della candela.
Betel sorrise, l'odore della pelle di Sabra non lo ricordava affatto, ma gli occhi di fiamme azzurre e il piglio serio che prendeva quando faceva valere le proprie ragioni, anche se erano campate in aria e senza giustificazioni, erano impressi nei ricordi delle poche volte in cui l'aveva incontrata, al pari dei graffi selvatici e delle percosse per liberarsi.
- Cerca di sbrigarti, se vuoi trascorrere la notte con tua moglie. -  gli mise fretta, sottraendo di proposito peso a quella conversazione inconsueta e, sperava, anche unica. - L'alba arriva sempre prima, quando il buio è più dolce! – sentenziò come un vecchio saggio, varcando la soglia del rifugio, col peso della sella sugli avambracci e sui pensieri, ingarbugliati fili di sentimenti sconosciuti e scalpitanti, come il proprio cavallo, che lo attendeva euforico per l'imminente corsa al galoppo.
 

****************


 

Il letto era pronto, candido, con i risvolti delle lenzuola ripiegati e i guanciali gonfi e ben sprimacciati.
Poggiò le ginocchia sul gradino del genuflessorio, i gomiti sul ripiano superiore e la fronte sulle mani giunte, per le orazioni vespertine.
Pregò per le ferite di suo marito, perché i lembi di pelle combaciassero, chiudendo squarci e dolore; pregò per Sabra, che gli aveva restituito l'opportunità di essere libero e per Betel, per la dedizione, la lealtà e la forza che gli riservava quotidianamente, non lasciandolo mai solo; pregò per Elmisk che, per quel suo figlio, avrebbe rivoltato il mondo, pur di saperlo al sicuro ed infine pregò per lui, per Eìos, perché non avesse né la fretta di guarire, né l'incoscienza di uscire allo scoperto, mentre ancora tutta l'attenzione era sui suoi passi.
Si segnò la fronte, sollevando gli occhi sull’icona della Madre Celeste, che teneva sulla parete che ospitava l’inginocchiatoio, e Le si raccomandò, perché donasse anche a lei la stessa pazienza e allentasse il nodo serrato intorno al proprio cuore, fino al giorno in cui l'innocenza di suo marito fosse provata e le loro vite avessero ripreso a scorrere serene e fruttuose e benedette.
Sciolse la treccia che le intricava i capelli e ne pettinò una ciocca alla volta, portandosele sul seno, per spazzolarle meglio. Erano diventati lunghissimi dall'ultima volta che li aveva osservati, da quando l'arresto, la prigionia, l'evasione e poi le ferite di Eìos si erano presi tutta la sua attenzione. Anche il viso era cambiato, più smunto e pallido, come se fosse malata; gli occhi erano leggermente incavati nelle orbite e il colore blu delle iridi era divenuto ancora più profondo per il contrasto e la magrezza.
Pensò a cosa avrebbe detto Eìos nel vederla così sciupata; cosa avrebbe provato nell'accarezzarle il ventre o i seni, sotto il turgore dei quali, le costole si mostravano attraverso la guaina diafana della pelle. Tirò su l'orlo della camicia da notte, fin sulle cosce e poi ancora più su, fino all'inguine, e ne osservò la carne, i piccoli nei su quella destra, disposti nei tre vertici di un immaginario triangolo; li unì tracciando una linea retta con la punta dell’indice, come un viaggiatore che cerca la propria via su una mappa, fino a che un fruscio  leggero di stoffa e vento le fece accapponare la pelle.
Non aveva ancora serrate le imposte per la notte, quindi immaginò che il vento dal mare gonfiasse le tende, come le vele di una nave. Ma il profumo che si diffondeva non era solo dell’acqua impregnata di sale: nell'aria della stanza, ardeva, vivida, una punta dolce, un corretto equilibrio di muschio e cuoio, delicato e deciso assieme, come quello della pelle dell'uomo che amava.
Si voltò di scatto, per accertarsi con gli occhi di ciò che le narici avevano già riferito al cuore e lo trovò, un spalla mollemente appoggiata allo stipite della porta finestra, lo zefiro che animava le tende e la camicia di lino bianca che risaltava la pelle bruna e il colore degli occhi.
Le braccia erano conserte sul petto, le gambe, incrociate, una davanti all’altra, ed il viso appena illuminato dalle luci tremule delle candele sparse per la stanza. Sorrideva, impunito e sfacciato, con le labbra tese e ormai sane sui denti bianchi, mentre gli occhi verdi di foglia e ambrati di miele insistevano invadenti sulla figura di lei, ancora seduta alla toletta.
- Eìos … - mormorò, frastornata, indecisa se credere alla visione che le restituivano gli occhi, o rassegnarsi all’illusione, seppur vivida, della propria mente stanca e fantasiosa. - Come sei riuscito ad arrivare fin qui, senza che le guardie ti scoprissero? – si limitò a chiedere, la voce rotta dal respiro incespicante e le mani strette in grembo, per nasconderne il tremore.
Eìos le rispose senza parole, semplicemente indicò con il pollice le imposte alle proprie spalle, attraverso le quali, la spiaggia buia, lambita dalle onde, appariva, appena illuminata da una luna velata e fievoli stelle.
- Queste vanno serrate, specie quando cala il buio. – sembrò ammonirla, mentre le dava le spalle e si accingeva a sprangarle.
La schiena era dritta e ampia, vigorosa e solida, come la prima notte che l'aveva guardata; i suoi movimenti erano fluidi, senza alcuna incertezza, né cenno di dolore, segno che le ferite erano prossime alla guarigione completa e che la sua salute andava ripristinandosi. Questo le calmò il battito accelerato del cuore, anche se il respiro rimaneva disordinato per la sorpresa e le gambe le tremavano, tanto che ella, preoccupata che avessero perso la capacità di sorreggere il peso del proprio corpo, non provò neanche a sollevarsi per corrergli incontro. Quando Eìos si voltò, il viso sembrò luminoso, come se mille piccole gocce d’acqua, accese da bagliori di luce, scivolassero sulla pelle rasata di fresco; insinuandosi tra le rughe della fronte o negli angoli della bocca, incurvata nel suo solito sorriso irriverente; le sembrò più bello di quanto non l'avesse mai visto; consacrato a nuova vita, come quegli oggetti malandati e sporchi, che lucidati e ripuliti ritornano nuovi e scintillanti. Le sembrò, in quell’istante, così lontano dall'uomo che le stringeva la mano, serrando i denti per il dolore, sanguinante e lacero, indifeso e tremante, come un uccello dall'ala spezzata.
Eppure gli occhi, nonostante le alterne vicende delle loro vite, frastagliate di passione e gioia, di paura e sofferenza, rimanevano gli stessi, vibranti alla luce delle candele, frementi e impazienti davanti alla figura di lei.
- Sei stato sconsiderato! Le sentinelle ... -
- Controllano anche la spiaggia, lo so. - la interruppe, avvicinandosi all'etargere, sul quale svettava un candelabro a due bracci. - La ronda della sera è già passata. - aggiunse, soffiando sulle fiammelle tremolanti delle candele per spegnerle. - Ho tempo fino alle prime luci dell'alba, prima che passi quella successiva. - concluse, slacciando, uno alla volta, i bottoni della camicia, mentre spegneva anche le altre due candele sul comodino al lato del letto. L'odore della cera liquida e della fiamma spenta si disperse nell'aria, insieme alla scia di fumo etereo rilasciato dallo stoppino bruciacchiato. La stanza ormai era quasi buia, silenziosa, animata solo dal fragore sommesso dell'onda e della risacca.
- Le tue ferite? – mormorò, sollevandosi e compiendo qualche timido passo verso di lui. L’orlo della camicia scivolò sulla pelle delle cosce, leggero come la pioggia di primavera, coprì le gambe e raggiunse le caviglie sottili, infine i piedi scalzi sul pavimento.
- Le ferite sono a posto. Puoi accertartene tu stessa, se vuoi … - la invitò, sfilandosi la camicia. Gran parte del torace era coperto dalle bende immacolate, ma i muscoli del petto e quelli delle braccia le si mostrarono nudi e tesi.
Ariela gli si avvicinò, un po’ tremante, come fosse di nuovo la prima volta che ne osservava il colore della pelle, il turgore dei muscoli e le vene bluastre che correvano attraverso la carne, come rivoli di metallo fuso. Posò i polpastrelli sulla clavicola destra, leggeri come i petali dei fiori che fluttuano senza peso nell'aria profumata; scese lungo la linea dell’omero, seguendo i fasci di nervi del braccio, fino all’altezza del bendaggio sul torace. Le dita si spostarono ad accarezzarne la trama della garza, prima quella orizzontale, poi l’altra verticale, per cercare, al di sotto di essa, le asperità della sutura. Un lieve cordone affiorò al tatto ed ella lo seguì lentamente, dal punto d’inizio, nel fianco, alla fine, sul ventre, in prossimità dell’ombelico. Eìos tremò, e non di dolore, ma per il calore pallido di quelle dita benedette, per i sensi che si accendevano di fuoco, anche attraverso gli strati di stoffa, come braci ardenti sotto coltri di cenere.
- Soddisfatta? – chiese, mentre gli occhi di lei lasciavano il torace e correvano al suo viso.
Ariela scosse la testa, con le dita ferme, come le ancore che la barche gettano in mare per assicurarsi un solido attracco.
- Sei stato ferito anche alla coscia … - gli ricordò, per sincerarsi che anche quella ferita, più grave della prima, fosse in via di guarigione.
Eìos annuì, un leggero sorriso complice a quella richiesta della sua sposa, che non era solo apprensione per la sua salute, ma anche, forse, una maliziosa richiesta di vederlo definitivamente nudo.
Sfilò gli indumenti che gli erano rimasti addosso, lasciandoli cadere a terra; sollevò prima una gamba, poi l’altra e li calciò via, perché non gli intralciassero i piedi. La coscia ferita si mosse più lentamente dell’altra, segno che i movimenti gli causavano ancora dolore, ma le bende, come quelle del torace, erano intonse e ciò la rassicurava che le suture erano ormai rimarginate. Ariela mosse le dita, affondandole nell’incavo dell’inguine pulsante, dal ventre all’osso iliaco, fino alla metà di esso. Da lì, scese lungo la coscia, per compiere la stessa meticolosa verifica. La pelle di lui si increspò, un brivido sottilissimo corse lungo la schiena, come se gocce di pioggia estiva si rincorressero sulla spina dorsale, dalla nuca, fino all’osso sacro.
- Ora sono soddisfatta! - confermò, guardandogli gli occhi, che si erano incupiti, rabbuiati, quasi rattristati perché quella ispezione era ormai terminata.
- Ma, non lo sono io! – rispose, afferrando la mano esploratrice, che gli aveva risvegliato carne e anima con un solo tocco. Gliela strinse e ne carezzò il dorso; insistette sulle nocche delle dita e poi vi scivolò sopra, con le proprie, fino alle punte, sulle unghie rosate, come tocchi sapienti di pennello. Penetrò tra le falangi sottili; le intrecciò alle proprie, come i rami flessibili dei salici, e fece combaciare i palmi che si riempirono l’uno dell’altro. L’altra mano le cinse la vita ancora più sottile di come la ricordava, il proprio petto nudo incontrò i seni velati di lei, la sua pelle dolce e il suo profumo dilagò nelle narici, invadendogli il cervello. Le dita camminarono lungo tutta la schiena, toccando le scapole, le vertebre, come per accertarsi che ogni osso, ogni lembo di pelle, tutta la carne, fossero ancora suoi, tesori perduti e ritornati nelle proprie mani.
Si soffermò sull'osso sacro e poi, con il palmo aperto, scivolò sulla natica, ne saggiò il turgore, ne seguì la forma morbida e rotonda del frutto maturo, e vi affondò le dita, avvicinando il bacino di lei al proprio.
- Sei dimagrita. - constatò, tornando ad accarezzarla, - Troppo ... - aggiunse.
- Può succedere quando si è di poco appetito. - si giustificò.
- No, può succedere quando si muore di apprensione per il proprio scellerato marito, agonizzante e galeotto. - la corresse, sciogliendo l'intreccio delle loro dita e sollevandole il mento per guardarla negli occhi. - Giura che ti prenderai cura di te, che ti nutrirai e che dormirai ... -
- E tu, giura che starai più attento a te, che sarai più assennato e giudizioso e ... - lo interruppe, con gli occhi liquidi, afferrando la mano di lui per il polso.
- Giura, ho detto! - la interruppe a sua volta, strusciando la guancia sul dorso della mano di lei, - Giura. - insistette, in una preghiera roca, dolce e decisa al tempo stesso.
- Sì, giuro! Ma tu ... -
- Giuro anch'io ... - promise, mentre con le labbra le sfiorava il dorso della mano, con le dita ne serrava il polso, come se mani e dita fossero anelli di una catena dolce che rannoda due corpi separati.
Ariela sorrise ad occhi chiusi per quel contatto tanto desiderato e, con un filo di voce, si lamentò: - Sei diventato uomo di troppe parole … -
Entrambe le braccia gli scivolarono intorno ai fianchi, mentre le mani si aggrappavano saldamente alle scapole.
– Un tempo preferivi i baci ed ad essi soltanto lasciavi parole e richieste e … -
- Mi stai chiedendo solo baci, dunque? Nessuna parola? – ammiccò, sfiorandole la guancia arrossata con le labbra schiuse. – Peccato! Ne avevo in serbo di dolcissime … - finse di rammaricarsi, mettendo il broncio.
- Allora, usa anche quelle … ma non lesinare, né con gli uni, né con le altre. – lo pregò, la voce sottile di campanelli d’argento che tintinnavano scossi dai palpiti irregolari di tutto il corpo.
Eìos aspettò che il suono dell’ultima sillaba si spegnesse e colse l’invito al banchetto sacro che il corpo della sua donna gli offriva. Sciolse l’abbraccio, per avvicinarsi al letto, stringendo la mano di lei che era commensale e pietanza insieme, e vi si sdraiò. Onde di lenzuola candide come spuma, ne lambirono il corpo nudo, che sembrò galleggiare. Ariela slacciò il nastro di seta cangiante che chiudeva il corpetto della veste; questa le scivolò sul corpo, come un sipario che apre alla vista dello spettatore una scena nuova, lasciandola nuda, a disposizione degli occhi di lui.
Il corpo era piccolo e misurato, la pelle diafana e lucente del serpente incantatore; il ventre piatto e le ossa, tutte, in evidenza per la magrezza. Ma i seni mantenevano le rotondità florida dei frutti maturi, la pienezza dei fiori in boccio dalle punte rosa come pistilli lucenti. Era, il corpo di lei, lo spettacolo da cui si lascia affascinare il viaggiatore lungo il proprio cammino di ricerca, il panorama intenso e spettacolare, grazie al quale, braccia e gambe dimenticano la fatica del percorso ed Eìos se ne riempì gli occhi e i polmoni, il cervello e la memoria, per i giorni di quaresima che sarebbero tornati, dopo quella notte.
Quando la sua mano la attirò a sé, su quelle stesse coltri, con un invito leggero, una preghiera sussurrata e tenera, come le foglie appena nate, Ariela si abbandonò ad essa, immergendosi nelle stesse lenzuola, in un bagno di latte dissetante, balsamo ristoratore per i sensi e i sentimenti.
Sedette su di lui, le gambe a cingergli i fianchi, le ginocchia affondate nelle lenzuola, il busto eretto e le mani a far leva sulle cosce tese e bianche. Lo accolse dentro di sé, corpo molle e anima avvolgente, aperta all’appendice dell’anima di lui fatta della carne e delle vene, del seme e dei muscoli, dei nervi e della pelle. Su di lui si mosse, inseguendo il ritmo di una danza ancestrale, scritta apposta per gli amanti. La voce risuonò di desiderio, si impastò di gemiti e richieste; sparse le sue note voluttuose, confondendole con i respiri di lui, in un controcanto perfetto e intonato, modulato dalle spinte intermittenti, come battiti di cuore. Ed Eìos la riempì, le invase il ventre, come i soldati alla conquista di nuove terre, e il suo seme si aggrappò alle pareti calde che ad esso si erano arrese. Ma quella di lui non fu conquista soltanto, come quella di lei non fu resa: essi si consegnarono l’una all’altro, in una alleanza reciproca; un vincolo con il quale  si consacravano, con il sangue e la carne, la mente e lo spirito.

 

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 Ben trovate!
Perdonate la mia lunga assenza,
ma queste ultime settimane sono state piene di impegni che mi hanno impedito di dedicarmi alla storia.
Spero, comunque che non vi sia passata la voglia di “leggermi” ancora.
Ringrazio, come ogni volta, tutti quelli che hanno la pazienza di leggere ogni capitolo e quelle che addirittura recensiscono!
Auguro  a tutti, e in modo affettuoso e particolare a SweetLuna, a Drachen e a Raya Cap Fee, un Natale dolcissimo e pieno di tutte le cose che desiderano.
Un bacio e alla prossima.

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Capitolo 32
*** . 32 . Giochi di potere ***


 

. 32 .


Giochi di potere



 

Con fatica, aprì gli occhi, sorprendendosi di quanta luce rischiarasse la stanza. Passò le dita sulla faccia, massaggiandosi le palpebre e poi le guance, mentre pigramente tentava di imporre al resto del corpo il completo risveglio.
Si guardò intorno: il letto era sfatto e le lenzuola aggrovigliate cadevano, in parte, sul pavimento, in parte gli si attorcigliavano alle gambe, coprendogli l'inguine, come i drappeggi che vestono le statue degli dei greci o degli eroi mitologici. Provò a mettersi seduto al centro del letto, facendo leva sugli addominali, ma si rese conto di non avere forze sufficienti a districarsi da quelle catene morbide che gli impedivano i movimenti. Si lasciò cadere all'indietro, sprofondando nuovamente il capo nel cuscino e richiudendo gli occhi assonnati; le braccia ricaddero molli lungo i fianchi ed il respiro ritornò quello lento e regolare di chi sta per abbandonarsi ancora al sonno.
La porta della camera si aprì e si richiuse, lentamente, con un fruscio silenzioso; passi leggeri attraversarono la stanza, che subito fu inondata da una ventata profumata e fragrante, come quella che si annusa davanti ai forni o alle vetrine dei pasticceri. L'aria si impregnò dell'odore di polvere di cacao e di agrumi, di zucchero a velo e pane imburrato; di schiuma di latte caldo e di miele. Nel silenzio, Eìos distinse un tintinnio di ceramiche e metallo assecondare il ritmo dei passi, posarsi sulle coltri disordinate ai piedi del letto; poi, percepì un peso dolce affondare accanto al suo fianco sinistro e infine sentì le dita della sua sposa scompigliargli i capelli, scivolare dalla sommità del capo, alla tempia e poi alla guancia.
Quando gli si avvicinarono alla bocca, Eìos le afferrò portandosele alle labbra e baciandole ad una, ad una, scoprendo che esse recavano sulle punte lo stesso profumo che aveva invaso la camera.
- Buongiorno. - gli sussurrò, riempiendo il silenzio.
- Buongiorno a te ... - replicò, aprendo un solo occhio e strizzando l'altro per abituarsi gradualmente alla luce. I contorni del viso di Ariela gli apparvero sfocati per effetto della luce, che dalle imposte semichiuse penetrava nella stanza in fasci vaporosi argentati e d'oro. I capelli sciolti lungo le spalle e le ciocche sottili, che le incorniciavano l'ovale, contribuirono a rendere l'immagine ancora più calda, come quelle sagome degli alberi o dei declivi delle colline, dietro i quali brucia lento il sole al tramonto.
- Che ore sono? - chiese, quando anche il secondo occhio fu aperto e pronto per mettere a fuoco.
Aveva l'espressione tenera dei bambini assonnati tirati giù dal letto: gli occhi verdi tra le ciglia nere; il viso rilassato e i capelli arruffati; i muscoli che emergevano dalle lenzuola come rocce marine, tutto gli conferiva l'aspetto tranquillo dell'uomo in pace col mondo.
- E' già giorno fatto. - gli rispose, lasciando scivolare la mano libera sul petto e poi sulle braccia.
- No ... no, no! - si lamentò, scrollando il capo e rizzandosi a sedere nel centro del letto, - Siamo bloccati qui: non possiamo raggiungere il nascondiglio di giorno senza correre il rischio di essere scoperti dalla milizia. Dove diavolo è Betel? - chiese, guardandosi intorno, come se l'amico gli avesse giocato uno scherzo e potesse saltar fuori, improvvisamente, come i bambini che giocano a nascondino.
- E' andato via alle prime luci dell'alba, prima del giro di ronda ... - gli spiegò, voltandosi a recuperare il grande vassoio dai manici di osso, adagiato sul letto alle sue spalle.
- Gli avevo detto di svegliarmi ... – mugugnò rassegnato, passandosi le mani sulla faccia.
- Lo ha fatto, ma tu dormivi così placidamente che io non ho avuto cuore di svegliarti ... – lo giustificò, mentre zuccherava la spremuta d'arancia, - E poi avevo voglia di concedermi il lusso, proprio di una sposa, di guardare mio marito dormire! - sorrise, porgendogli il bicchiere di cristallo che scintillava, catturando i raggi di sole che entravano nella stanza.
- Lo sai che sarò costretto a rimanere chiuso in questa stanza fino a che non calerà di nuovo il sole? - ammiccò, mentre la bocca spariva, dietro il labbri del bicchiere.
- Cercheremo, dunque, un diversivo che ti impegni fino ad allora ... - replicò seria, come se la sua mente stesse già vagliando ipotesi e proposte.
- Io avrei un paio di idee ... – suggerì, con suo solito sorriso sfacciato, addentando la fetta di pane già imburrata e cosparsa di una scia di invitante e profumata marmellata di ciliegie.
 

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Il comandante sedeva dietro lo scrittoio, un sigaro stretto tra l'indice e il medio della mano sinistra e il capo sorretto dalle dita dell'altra. Quando il suo attendente gli aveva riferito che l'uomo più ricco e influente della regione aspettava oltre la porta del proprio ufficio, una espressione dubbiosa gli si era dipinta in volto e mille rovelli gli avevano occupato la mente.
Poco più di un mese prima, aveva ricevuto, in quello stesso ufficio, il servitore di sua madre, con una saccoccia piena di banconote e la missiva in cui ella richiedeva i suoi favori. Dall'arresto di Eìos, non aveva ricevuto dalla signora alcuna notizia e ora, proprio suo figlio si presentava a chiedere un incontro. Il suo istinto gli suggeriva che il giovane non fosse a conoscenza delle trame di sua madre, anche se immaginava che, per Miran, scoprire l'esistenza di un fratello illegittimo doveva essere stato, quanto meno spinoso da accettare. Dunque, era lecito pensare anche che, nonostante il giovane della casa di Mikra fosse considerato da chiunque un uomo giusto e di grande rigore morale, condividere il proprio nome, il denaro, la posizione sociale con un bandito gli avesse causato vergogna e indignazione, così come alla sua signora madre che, per difendere onorabilità, ricchezza e lustro del figlio, aveva pagato perché l’altro finisse in galera.
Poiché non avrebbe ottenuto risposte dalle proprie congetture, decise che avrebbe taciuti i favori resi alla signora Leria, e si sarebbe messo a disposizione del figlio, ricavandone un ulteriore adeguato compenso.
- E' un onore per me signore, avervi qui. - lo accolse mellifluo, mentre una scia di fumo saliva verso l'alto, diffondendo l’odore sgradevole di un sigaro dozzinale, che bruciava nel portacenere insieme a svariati mozziconi.
- Risparmiatevi i convenevoli, comandante. – lo zittì con malagrazia. – Sono qui esclusivamente perché la vostra posizione, in questo momento, mi obbliga a chiedervi un favore. – continuò, restando in piedi davanti al militare, la falda del cappello stretta nervosamente tra le dita.
Il comandante si distese sullo schienale della poltrona, per niente infastidito dalla distanza altezzosa e dalle parole di Miran, ma drizzò le orecchie in attesa di scoprire il motivo che lo aveva indotto a cercare i suoi favori. Non gli importava cosa quel giovane, o sua madre, o chiunque altro in città pensasse di lui: tutti sapevano che era un corrotto, che aveva conquistato i gradi non per le capacità militari, né per la condotta esemplare, ma piuttosto per i favori che aveva reso al potente di turno, senza farsi scrupolo di votarsi al miglior offerente, purché questi gli offrisse più danaro. La propria reputazione era compromessa irrimediabilmente, ma questo non lo avrebbe mai toccato, finché, ad aver bisogno di lui ci fossero stati uomini come Miran, ricchi e rispettabili agli occhi della società, ma che, nascosti sotto un nome onorevole, con il proprio danaro facevano di chi non ne aveva, ciò che volevano.
Dal canto suo, Miran disprezzava Kuvee per la condotta riprovevole, per l’abuso di potere, per la connivenza con delinquenti e farisei.
Era lì davanti a lui per corromperlo, eppure si considerava migliore di lui. Gli avrebbe chiesto un favore in cambio di danaro e rimaneva convinto che le proprie motivazioni fossero più elevate di quelle dell’altro. Poiché, in fondo, egli era spinto dalla necessità di vendicare un torto subito e non da vile e illegittima cupidigia.
- Voglio che interrompiate immediatamente le ricerche dei fuggiaschi! – ordinò, con un tono marziale nella voce e un piglio duro del viso contratto.
- Signore, mi onora che mi consideriate uomo di tale potere, ma sapete bene che certe decisioni provengono dall’alto. … - contestò con accondiscendenza, mentre un guizzo di scherno passava negli occhi piccoli e serrati dietro gli occhialini tondi. 
- Non dite sciocchezze: voi siete in questa città il referente per il comando generale della gendarmeria. A voi spettano decisioni periferiche, purché siano ben motivate! – precisò.
Miran sapeva perfettamente che Patnarak era troppo lontana dal potere centrale della capitale, e che, per questo, Kuvee aveva il potere necessario di decidere delle questioni locali, senza limitazioni dovute al grado. A lui spettava, ad esempio, stabilire il numero dei condannati ai lavori forzati da destinare alle opere pubbliche o anche alle grandi tenute dei ricchi possidenti della provincia, per rimpinguare le file dei braccianti. La stessa Leria, anni addietro, aveva stipulato un accordo con lui, perché un certo numero di detenuti fosse assegnato al lavoro nelle sue terre: alla signora non sarebbe stato necessario assumere altri braccianti, risparmiando sulle loro già miserevoli paghe, e a Kuvee, le tasche si sarebbero riempite della sua riconoscenza.
- Non ditemi che siete a corto di giustificazioni per le vostre decisioni. – lo irrise, - Basterà che comunichiate che, nonostante i rinforzi inviati dalle città confinanti, le ricerche non hanno portato alcun esito; che battere un territorio così vasto come quello della nostra provincia, vi costa spreco di risorse e di uomini che potrebbero essere impiegati per arginare l’abigeato o il furto delle merci nei magazzini del porto o nelle campagne, che sono diventati una piaga ardente per la nostra economia. – suggerì, agitando le mani innervosito.
- E’ per salvaguardare, dunque, le tasche di contadini e proprietari terrieri che mi chiedete di rinunciare alle ricerche? – lo provocò, appoggiandosi con i gomiti sulle scartoffie disordinate sullo scrittoio, - O forse … per salvaguardare la vostra famiglia? – ammiccò, lisciandosi i mustacchi, sotto i quali, nascondeva un sorriso scivoloso. Il motivo per il quale Miran chiedesse quel favore, in realtà, non gli importava: ciò che contava era piuttosto cosa sarebbe riuscito a ricavarne. 
Miran mancò un respiro a quella domanda e il sospetto che il militare potesse essere a conoscenza del tradimento di Nubia e della brama di vendetta si fece largo con insistenza nella propria mente. Cercò comunque di non far cogliere il proprio smarrimento all’altro e, con l’intento di metterlo al proprio posto, un gradino sotto di lui, gli ordinò: - Parlate chiaro, Kuvee! -
Ma il comandante era una vecchia faina: aveva notato i muscoli del viso del giovane indurirsi alla sua provocazione subdola, intuendo che c’erano, in quella intricata vicenda, conflitti e sotterfugi di cui non era a conoscenza. Dunque, lo provocò ancora, sperando di leggere nelle parole o anche nei silenzi gli indizi che gli servivano a dipanare la matassa.
- Tra gli evasi … v’era vostro fratello: non è legittimo, forse, considerare, il vostro, un tentativo di risparmiargli la condanna che merita, così come si affanna a fare il dottor Elmisk, con il suo avvocato, le richieste di esaminare le prove … -
- Quegli non è mio fratello: egli porta solo il nome di mio padre! – lo interruppe piccato, - In quanto alle motivazioni che mi hanno spinto, mio malgrado, a servirmi di voi, troverete tutte le risposte qui dentro! – lo zittì, lanciando con disprezzo un sacchetto di stoffa, i cui cordini si sciolsero nell’impatto con il ripiano dello scrittoio, rivelandone il contenuto.
Kuvee spalancò gli occhi: era di certo una somma esorbitante a giudicare dal numero di banconote tutte di grosso taglio che ne fuoriuscivano, ma il comandante mantenne volutamente uno studiato distacco; ripose le lenti e facendo leva sui palmi delle mani, si sollevò, portando il viso alla stessa altezza di quello del suo interlocutore.
- Oggi stesso partirà un dispaccio alla volta della capitale, in cui comunicherò la mia decisione di sospendere le ricerche per le ragioni che … gentilmente mi avete suggerito. Chiederò, inoltre, che i soldati mandati in forze alla mia guarnigione siano richiamati alle loro unità prima possibile: presumo che … meno gendarmi ci siano in città, meglio sia per tutti. - ammiccò.
Miran voltò le spalle soddisfatto; giunse alla porta e ruotò la maniglia, uno spiraglio si aprì sul corridoio buio.
- Kuvee ... - lo richiamò senza voltarsi a guardarlo, - ... è chiaro che in quel sacchetto c'è danaro sufficiente a comprare anche il vostro silenzio! Se la nostra conversazione dovesse uscire da questa stanza, ne sarei molto, molto contrariato. - lo avvertì.
Spinse la porta e la sua sagoma si perse nel buio. I rintocchi delle suole sul pavimento rimbombarono nel silenzio della caserma: il suo piano di portare allo scoperto il suo rivale si arricchiva di un altro tassello.
 

 ***************
 

Era già pomeriggio inoltrato.
Il tramonto era imminente, eppure il sole sembrava ancora più caldo nella luce soffusa di quei giorni settembrini: un’arancia rossa che disperdeva il suo succo sanguigno tra le grinze della superficie del mare, sulla sabbia fine della spiaggia, sulle cime dei pini profumati di resina e sale.
Eìos sistemò la camicia nei calzoni, ne allacciò solo alcuni bottoni, per rendersi quanto meno presentabile; calzò gli stivali e ravvivò i capelli scarmigliati dalle lunghe ore di riposo. Afferrò al volo una tra le mele disposte sul vassoio e lasciò la stanza in cui si era rifugiato per ore.
Ariela lo attendeva seduta nel piccolo salotto inondato di sole; davanti a lei, il dottor Elmisk di schiena, le mani aggrappate al suo elegante bastone di legno e lo sguardo perso nel vuoto dell'attesa. Approfittando del soggiorno forzato di Eìos nella loro casa, Ariela aveva ordinato ad Alvita di recarsi dal dottore per richiederne la presenza, lamentando una forte emicrania che l’assediava dalla sera precedente. Elmisk, solerte come sempre, aveva indossato cappello, bastone e soprabito; raccolto la sua fedele valigetta medica e aveva raggiunto preoccupato la casa sulla spiaggia. Quando poi aveva saputo che ad attenderlo non c’era una giovane indisposta, ma il figlio che non vedeva dal giorno in cui gli aveva curato le ferite, il suo umore si era rinvigorito di una frizzante leggerezza di spirito.
- Padre. - lo chiamò, Eìos, andandogli incontro, tranquillo, ma visibilmente impaziente di riabbracciarlo.
Elmisk si voltò, un sincero sorriso ad accentuare le sue rughe da vecchio, e nel vederlo camminare sulle proprie gambe, forte e ristabilito, scattò in piedi, allargando le braccia per accoglierlo nella sua stretta paterna. Il giovane si lasciò stringere, come fanno i bambini quando sono stati a lungo lontani dai genitori, e strinse a sua volta.
Sedettero di nuovo, l’uno di fronte all’altro, dopo alcuni istanti di silenzio confortante, guardandosi negli occhi e regalandosi a vicenda l’affetto che non avrebbero saputo esprimere a parole.
- Il comandante ha sospeso le ricerche degli evasi. – gli rivelò, quando si fu assicurato dello stato delle sue ferite. – Alle dodici, un soldato è partito alla volta della capitale con un dispaccio per informare il comando centrale della decisione. –
- Perché? Sì, perché Kuvee avrebbe preso questa decisione, proprio a pochi giorni dall’arrivo dei rinforzi dalla provincia vicina? – chiese titubante.
- Pare che le ricerche stiano dissipando danaro pubblico e che Kuvee non abbia più intenzione di trascurare le necessità della comunità per dei galeotti. - riferì, riportando le notizie che in breve avevano fatto il giro della città.
- Che uomo solerte! – ironizzò Eìos, scuotendo il capo, per niente convinto delle motivazioni che avrebbero animato il comandante.
- Credi che ci sia altro? –
- Voi non credete? Kuvee è un corrotto e non ha mai badato agli interessi della comunità, se questi non garantissero prima i propri. – constatò, - Qualcuno gli ha chiesto di farlo … -
- Non sospetterai della signora Leria, Eìos? – intervenne Ariela, che suo malgrado aveva dovuto sostituire il sollievo provato per la notizia, con l’apprensione per le insinuazioni del marito. - Perché offrirti la libertà, dopo essersi affannata tanto per farti rinchiudere in prigione? - insistette.
- Probabilmente perché ha saputo che Miran avrebbe mosso mari e monti per farmi uscire di galera e sfidarmi a duello, come si usa tra gentiluomini. - replicò sarcastico, - Forse la signora non ripone grande fiducia nella mira del figlio o, peggio, teme che il blasone di famiglia si appanni per un figlio assassino e galeotto! -
- Eìos! - lo richiamò il vecchio, infastidito dal cinismo di quelle affermazioni.
- Padre, sapete che Leria preferirebbe piangere il figlio morto, piuttosto che vedere fango gettato sul proprio onorabile nome ... - precisò, - Come tutti quelli che fanno parte della sua casta, del resto! - aggiunse con disgusto.
- Eìos! - insistette.
- Scusate! - mormorò con gli occhi bassi, mortificato, per le sue parole offensive e pronunciate con troppo impeto. - Scusa ... - ripetè, con dolcezza stringendo le mani che Ariela teneva in grembo.
Ariela scosse il capo, come per assicurargli che non si sentiva toccata dal veleno delle sue convinzioni. Sapeva che Eìos aveva ragione: molti esponenti della propria classe sociale si facevano vanto del nome, della discendenza, della rispettabilità ereditata, non conquistata per la condotta o per il rispetto degli altri, in modo particolare dei più umili, e Leria non si era comportata da meno.
- Comunque ... - riprese la parola, - ... qualunque sia il motivo che l'ha spinta, ella mi ha reso un favore: appena le campagne e le strade non saranno più battute da pattuglie di soldati, caricheremo la carrozza dello stretto indispensabile e lasceremo la città. - terminò con un sospiro, cercando negli occhi della sua sposa l'approvazione per il piano. - Andremo lontano, fuori dai confini del regno, se necessario, e insieme aspetteremo che l'avvocato provi la mia innocenza. Sono stanco di nascondermi, di starti lontano e sono esasperato dai sotterfugi, dalle menzogne e dai giri di potere. -
- Sì. - disse, annuendo con un sorriso sommesso e ardente: anche per lei la distanza e l'apprensione continua per la sorte del marito erano divenuti ormai insopportabili.
- Stanotte tornerò al nascondiglio nel bosco finché le acque non si saranno definitivamente acquietate e con Betel organizzerò la fuga. E voi, padre ... - disse rivolgendosi al medico che ascoltava in religioso silenzio, - ... abbiate cura di procurarmi, per quel momento, la liquidità di danari necessaria al lungo viaggio e al soggiorno che durerà fino a che la vicenda giudiziaria non sia risolta. -
Il vecchio annuì, seppure con il pianto nel cuore; la partenza di Eìos lo affliggeva, ma, al contempo, lo rassicurava: lontano da Leria e dalla smania vendicativa di Miran, suo figlio sarebbe stato al sicuro, nell'attesa che una nuova vita libera e serena potesse essere ricostruita accanto a sé.

 

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Capitolo 33
*** . 33 . A casa prima dell'uragano (prima parte) ***


. 33 .
 

A casa prima dell’uragano

 

Bussò un paio di volte, prima di percepire il rumore gracchiante dell’asse usato per sprangarla dall’interno, mentre veniva sfilata dai sostegni. La porta sgangherata della catapecchia cigolò e strisciò sul malandato pavimento e quando fu completamente spalancata, Betel fece capolino dallo spiraglio luminoso che si creò.
Le fievoli luci delle candele, che provenivano dalla stanza, ne illuminavano le spalle, disegnandone i contorni e facendolo sembrare ancora più imponente, come fosse un grosso orso ritto sulle zampe posteriori.
- Che ci fate voi qui? – le chiese, scostante, come se il suo arrivo inaspettato l’avesse infastidito.
Una punta del suo carattere orgoglioso le fece storcere le labbra, indispettita per quell’accoglienza, e la costrinse ad ignorare volutamente gli occhi del suo interlocutore, mentre gli passava accanto e si avvicinava a Eìos, che se ne stava seduto davanti al fuoco scoppiettante, il mento appoggiato sulla spalliera della seggiola e un’aria vaga e annoiata.
- Buonasera, capitano. – lo salutò, accompagnando alla voce un cenno del capo. - Le provviste … - si limitò a rispondere, sollevando il grosso cesto che reggeva con entrambe le mani.
- Intendevo, perché voi e non vostro fratello? – aggiunse l'arabo e, avvicinatosi a lei, le sgravò il peso dalle braccia, che sembravano provate, e lo poggiò sul tavolo.
Sabra tenne ancora la bocca chiusa, come una bambina a cui è stato fatto uno sbarbo che ripaga con un dispettoso silenzio, e, continuando a guardare solo Eìos, cavò dalla tasca del mantello una lettera, per poi aggiungere: – E per questa … -
Eìos l’afferrò, un mezzo sorriso storto e la speranza che fosse di Ariela. Ma appena notò il sigillo di cera lacca, con cui era stata chiusa, l’espressione del viso si tinse di delusione nel constatare che invece apparteneva a suo padre; ne strappò con foga i lembi e si apprestò a leggerla. Gli occhi scorsero velocissimi lungo i righi, affamati delle parole che ad essi erano state affidate; ad ogni lettera, la ruga sulla fronte si inspessiva e gli angoli della bocca si indurivano; quando ne ebbe terminata la lettura, egli si sollevò di scatto, come se un pungolo invisibile gli avesse infilzato la carne. Con un gesto di stizza, accartocciò il foglio e lo gettò nel fuoco vorace del camino, quasi le fiamme, oltre alla carta, ne potessero mangiare anche il contenuto dolente. Indossò il pugnale, che portava sempre alla cintola; infilò la rivoltella già carica nei calzoni e senza un cenno agli altri, si avviò alla porta.
- Eìos? – lo chiamò l’amico, confuso e preoccupato.
- Torno a casa. – furono le sole parole che ottenne in risposta, mentre lasciava la stanza e balzava sul proprio cavallo, senza né sella, né finimenti.
Betel, indossato il suo mantello, lo seguì, la stessa apprensione dell’amico, la stessa velocità, lo stesso impeto, mentre montava a cavallo.
- Sapete cavalcare a pelo? – chiese a Sabra, che lo guardava stralunata sulla soglia, trattenendo con le mani le gonne e scoprendo impudicamente le caviglie. Senza attendere la risposta, la invitò, con un cenno del capo, ad avvicinarsi all’animale e le tese il braccio per aiutarla a salire.
Ella sbatté le palpebre un paio di volte: l'unico animale che avesse mai cavalcato era il suo piccolo, lento mulo, ma confessarlo avrebbe minato la sua reputazione di coraggiosa e impavida fanciulla, pronta a qualunque folle avventura. Per non parlare del fatto che, di certo, Betel sarebbe stato capace di lasciarla lì, sola in mezzo al bosco, pur di darsi all'inseguimento dell'amico; della curiosità spropositata che aveva di sapere cosa avesse causato nel capitano tanta premura e per finire la fatica di dover tornare a casa a piedi, così come era venuta. Gli afferrò l'avambraccio, le dita affondarono tra le pieghe della tunica scura, trovarono i muscoli impegnati nella presa e, sotto, scorsero le vene accentuate dallo sforzo. Si sentì leggera, come fatta d'aria nel breve balzo necessario a lasciare il suolo e montare sulla groppa del cavallo. Il proprio torace urtò la schiena dell'uomo ed ella provò imbarazzo per tanta vicinanza bruciante e sconosciuta, tanto che rimase per qualche istante con le braccia allargate in un semicerchio concentrico intorno al busto del suo cavaliere, come se attendesse un qualche permesso a trovar loro il giusto posto.
Betel ne avvertì l'esitazione dal respiro incerto, dalla posizione stagnante, storcendo le labbra in un accenno di sorriso; le prese le mani, scoprendone le dita ghiacciate, come se il calore del sangue le avesse abbandonate per correre tutto alle guance, e se le portò intorno al torace, sovrapponendovi le proprie in una stretta rassicurante.
- Tenetevi forte a me. - la esortò, con una voce, per Sabra, strana e indecifrabile, - Non vorrei correre il rischio di perdervi per strada! - ironizzò, sfilando dall'abbraccio la mano destra, per afferrare la criniera del cavallo, ma lasciando l'altra saldamente incastrata a quelle di lei.
Sabra strinse più che poteva e accomodò la guancia sulla schiena di lui. Il calore del corpo, nonostante il pesante mantello, le giunse sulla pelle, come i raggi di sole che sbucano dalle radure delle nubi nei giorni piovosi, facendo luce. D'un tratto stranamente cavalcare come un'amazzone non le sembrò più tanto scomodo, come aveva immaginato, tantomeno sconveniente. Ciò che la imbarazzava era piuttosto il formicolio che le ardeva la pelle, dai palmi delle mani strette in quella di lui, alla guancia aderente alla schiena; dal petto increspato, a qualunque altra parte del corpo che aderiva all’altro.
Una sensazione nuova le si agitava in corpo: si dibatteva e si acquietava, folle come la corsa, che li portava all'inseguimento, e placida, come il respiro che allargava e stringeva polmoni e cuore.
 

************
 

La giornata era trascorsa uggiosa e infinita, così come tutte le precedenti: nonostante le ore di luce fossero diminuite, la sera giungeva sempre troppo tardi, tra la noia dell’attesa e la speranza di rivedere Eìos e passare scampoli di momenti felici insieme.
Quella mattina, aveva osservato le rondini: stridevano, volteggiavano nel cielo terso della mattina; si spostavano leggere e veloci dai nidi ormai vuoti al campanile della piccola cappella; si posavano sulle grondaie, bevendo le gocce di fine rugiada della notte che ancora vi stagnavano; si fermavano sui cornicioni e sui tetti dalle tegole rosse, per poi riprendere il loro allegro carosello d’addio. Erano giunti i giorni della partenza, la fine di ottobre e l’autunno inoltrato e ne rimanevano solo alcune, che certamente nei giorni successivi avrebbero spiccato il volo per seguire le altre alla conquista del sole.
Si sentiva come quegli uccelli, Ariela, ora che si avvicinava il momento della sua migrazione. Insieme a Eìos, avrebbe lasciato il luogo in cui aveva vissuto sempre, da che era nata, per una meta lontana e sconosciuta, nell’attesa che il loro inverno finisse. Ma al contrario delle rondini, che ogni primavera tornano agli stessi nidi, ella non era certa che un giorno la propria casa, la spiaggia, il mare generoso di quella terra li avrebbero rivisti ancora, ormai liberi e felici.
In verità, poco le importava: ciò che contava era vivere con l’uomo che amava, accanto a lui, nelle sue braccia, sopra il suo cuore. L’intero resto del mondo sarebbe andato bene, purché fossero rimasti insieme, poiché  “la casa è dove risiede il cuore”.
Aveva rimuginato così, mentre ritornava a casa, dopo la funzione del mattino, nel silenzio delle viuzze, che cominciavano a riempirsi di persone. Aveva attraversato il mercato, con accanto Alvita, con al braccio una sporta da riempire di verdure fresche, uova e formaggi, di pane profumato e ancora caldo e di frutti succosi. Come tutti i giorni, aveva fatto provviste per la propria dispensa e per Eìos, che ancora insieme a Betel, se ne stava rintanato nel rifugio del bosco. Aveva costatato, sollevata, che la città aveva ripreso il ritmo veloce e chiassoso tipico dei porti di mare, dove quotidianamente attraccano mercantili carichi di merci e persone; ritmo che si era assopito dopo la fuga dei prigionieri dalla fortezza. Infatti, per ordine di Kuvee, le navi erano state dirottate verso i porti delle città limitrofe, per scongiurare l’eventualità che i galeotti vi si imbarcassero clandestinamente e sfuggissero alla cattura. Anche il numero dei gendarmi si era ridotto drasticamente: si vedevano solo le solite pattuglie che vigilavano sulla sicurezza, tra i banchi caotici del mercato, sulle banchine del porto o presso gli ingressi alla città.
Giunta a destinazione, aveva dato ordini alla cameriera di preparare il pranzo e di occuparsi delle faccende quotidiane, mentre ella si rintanava nella propria camera per preparare in segreto i bagagli.
Non sapeva quando avrebbero lasciato la città, ma immaginava che la partenza sarebbe stata improvvisa, dunque voleva essere certa che le proprie cose fossero pronte per non rallentarla e non essere di peso.
Aveva messo via pochissimo: qualche abito, tra i più comodi e semplici che possedeva, il rosario con i grani di madreperla che le era stato donato da sua madre il giorno in cui aveva ricevuto la cresima e qualcuno degli amati libri che le avevano tenuto compagnia prima del matrimonio. Il resto lo avrebbe lasciato dove era sempre stato custodito, nei cassetti, nel portagioie, negli armadi: tutto ciò che le occorreva per vivere erano i baci e la compagnia di Eìos; ciò che necessitava alla vita quotidiana lo avrebbero comprato giunti a destinazione.
Erano le sei del pomeriggio, fuori imbruniva e un leggero vento muoveva le foglie degli alberi del giardino. Ariela ricamava, seduta accanto alla finestra, le cui tende era rimaste aperte, anche se la luce esterna era ormai insufficiente per quel lavoro, ma le piaceva sollevare gli occhi dal telaio, appuntare l’ago sottile nella trama della tela e guardare fuori il paesaggio immoto, come il tempo che stillava un minuto alla volta, lento e impietoso.
La campanella all’ingresso trillò improvvisa, come l’avvertimento che qualcosa stava per accadere. Alvita si diresse ad aprire e poco dopo rientrò seguita dal dottor Elmisk.
Ariela sorrise nel vederlo, animata dalla speranza che portasse buone nuove: che le procedure per dimostrare l’innocenza di suo marito fossero maturate o che il momento della partenza fosse finalmente giunto. Si sentì, per un istante, risollevata da quella sospensione asfittica che la tormentava, ma l’espressione seria e un po’ contratta dell’uomo, le provocò un brivido lungo la schiena, come se, entrando, avesse portato un vento gelido e invernale, a scompigliare progetti e speranze.
Il medico sedette di fronte a lei. nuove rughe spesse rivelavano la sua preoccupazione e gli occhi vagabondavano per la stanza, come se avesse timore a dire ciò per cui era venuto.
Il vecchio non ebbe l’opportunità di cominciare il proprio discorso, né Ariela ebbe il tempo di chiedere, che il rumore di zoccoli scalpitanti di un cavallo e il suo nitrito, conquistarono l’attenzione, come il colpo di scena ideato da uno sceneggiatore esperto.
Si sollevarono entrambi per guadagnare la finestra e guardare fuori, oltre la siepe e l’inferriate del cancello: l’animale dal manto nero, si impennò sulle zampe posteriori, nitrì e sbuffò, contrariato che la propria corsa selvaggia e liberatoria si fosse conclusa; il cavaliere smontò con un balzo veloce e spalancò l’anta cigolante, abbandonando l’animale alle proprie spalle, ancora scalpitante e irrequieto.
L’andatura, la fierezza del portamento, i capelli scarmigliati dal vento furono rivelatori dell’identità dell’uomo che si apprestava ad entrare: né Ariela, né Elmisk ebbero alcun dubbio che si trattasse di Eìos.
Aveva gli occhi lucidi per il vento della corsa, la camicia sgualcita, il pugnale alla cintola e il calcio della rivoltella sbucava dai calzoni. Era armato, visibilmente arrabbiato; il viso era contratto in un’espressione dura e finanche i muscoli delle braccia erano tesi in uno spasmo nervoso e contrariato, tanto che Ariela frenò il proprio desiderio di corrergli tra le braccia e stringerlo a sé. Rimase immobile accanto alla finestra, le mani a contorcersi in una danza apprensiva e gli occhi fissi su di lui, in attesa di un gesto, una parola che sciogliessero tensioni e paure.
- Cosa diavolo ti è saltato in mente di venire qui? – chiese contrariato Elmisk, appena si fu ripreso dallo shock di quell’arrivo improvviso.
- Cosa credevate, che dopo aver letto la vostra lettera, sarei rimasto nascosto nel bosco come un animaletto spaurito nella propria tana? – replicò retorico.
- No, certo … - ribatté l’altro, - Ma tutta questa furia, l’imprudenza … -
- I gendarmi non pattugliano più la zona … - lo interruppe, - E, comunque, non sarebbero stati certo quei burattini a fermarmi … - concluse, inspirando e passandosi le dita tra i capelli sporchi di polvere che gli ricadevano sugli occhi.
- Oh, per l’amor del cielo, cosa sta accadendo? – implorò Ariela che non riusciva a contenere più l’apprensione.
Eìos voltò le spalle, cercando  di dissipare la rabbia che gli annientava la ragione.
- Forse sarebbe opportuno che ne parlassimo in privato, figlio. – suggerì.
- Ariela è mia moglie … - replicò, - Ciò che riguarda me, è anche cosa sua. – aggiunse, come se avesse voluto spiegare che la propria reticenza non veniva dalla volontà di nasconderle i fatti, ma piuttosto, dal trambusto interiore che gli rimescolava sangue e pensieri e gli impediva di parlare con calma.
Elmisk colse la richiesta implicita del figlio e gli venne in soccorso, invitando la giovane a sedere e a tranquillizzarsi,  prima di rivelarle ogni cosa.
- Miran … è stato lui a chiedere a Kuvee di sospendere le ricerche: voleva che Eìos non fosse più braccato e che fosse libero di uscire dal proprio nascondiglio. Ma le sue intenzioni non sono né generose, né fraterne: vuole un duello, per vendicarsi del torto subito e poiché Eìos non accetta di battersi … egli minaccia di togliergli il nome. – terminò espirando.
- Non può farlo! - replicò Ariela, stringendosi il labbro inferiore tra i denti, - Non può farlo ... - ripeté, con un mormorio come per convincersene.
- Certo che può! Sono un bandito, un disonesto, un ladro e un bastardo, mentre lui è ricco e rispettabile, integerrimo e nobile … quelli come lui possono fare tutto, anche rivoltare le leggi a loro piacimento! - le rispose astioso, come il cane a cui stanno per sottrarre l'osso.
- Dunque, faccia ciò che vuole. Si riprenda pure il suo maledetto nome e ci lasci in pace ... -
- Ti rendi conto di ciò che dici? - le chiese, voltandosi lentamente per guardarla.
I suoi occhi erano vitrei e cattivi, come non ricordava di averli mai visti, neanche il giorno che lo aveva incontrato per la prima volta. Le gelarono i fiato nei polmoni, tanto che Ariela sentì le punte affilatissime di uno spillo graffiarle narici e gola, mentre cercava di respirare.
- Non sai, forse, che chi non ha nome, non ha dignità, né onore? - infierì, avvicinandosi come un predatore, - Non sai che senza nome, non si ha alcun diritto, neanche quello di amare e prendere moglie? Non sai, tu, che privandomi di quel maledetto nome, mi priverebbe anche te? -
- No! Il nome non conta, tu lo sai che per me non conta! -
- Ma conta per il giudice che dichiarerebbe nullo il nostro matrimonio e per il sacerdote per il quale non saresti altro che una concubina -
- Io ti ho sposato davanti a Dio: né la legge degli uomini, né quella della chiesa vale più del giuramento solenne che ho fatto davanti all'Altissimo! - replicò fiera e sicura, convinta del loro legame indissolubile ed eterno.
- No! -
- Eìos, ti prego ... -
- Discutere è inutile e tu lo sai. Ho deciso. -
- Eìos ... - intervenne il medico che si era limitato a presenziare discretamente alla conversazione, troppo intima per avere spettatori, - Da' ascolto a tua moglie: non cedere alla provocazione di Miran, raccogli il necessario e insieme lasciate il paese, come avevate deciso. E se è il timore di perdere il nome che ti spinge a cedere ... prenditi il mio! - terminò e gli occhi, già lucidi, si riempirono di lacrime.
- Padre ... - mormorò, con una voce densa di gratitudine per l'ennesima offerta di quello che non era solo un nome, ma appartenenza, amore paterno, fiducia e sostegno infiniti. - Sapete anche voi che il nome è solo un pretesto: Miran vuole distruggermi, portarmi via tutto e non si arrenderà fino a che non riuscirà nell'intento. Questa guerra avrà fine solo quando uno di noi sarà ... -
- Morto? - lo interruppe Ariela, andandogli incontro, con una forza disperata. - Morirei anche io se tu ... - si fermò, perché la gola le doleva, come quando per la fretta si manda giù un sorso  o un boccone così grandi, che si fa fatica a deglutire.
- Hai più fiducia nella mira di Miran che nella mia? - ironizzò, un mezzo sorriso spavaldo, nel tentativo di rassicurarla. - Padre ... - continuò, avvicinandosi e puntando i propri occhi in quelli sfuggenti di lei, - Riferite a Miran che mi batterò con lui, ma a due condizioni soltanto: voglio che il duello sia al primo sangue e che, qualunque sia l'esito, lo scontro, ponga fine a qualunque ostilità. Inoltre, dategli la mia parola che all'indomani io lascerò il paese, così che nessuno intralci più la vita dell'altro. -
Elmisk annuì, completamente in disaccordo, ma comunque fiducioso che il figlio fosse giunto a tale decisione pericolosa consapevole della posta in gioco, sebbene l'irruenza, la spavalderia con le quali aveva accettato, potessero essere confuse con la superficialità e l'arroganza.
Calzò il cappello e indossò il soprabito; si accomiatò silenziosamente, per lasciare ai giovani l'opportunità di spiegarsi, come di certo, avrebbero voluto fare sin dall'inizio della spinosa conversazione.
Non appena furono soli, Eìos raccolse le mani che ella teneva immobili in grembo e se le portò intorno al collo, mentre le proprie le cingevano la vita.
- Dunque rimarresti mia moglie, anche se il matrimonio non fosse più valido. - le soffiò all'orecchio, quando la distanza tra i loro corpi fu completamente annullata.
- E' ciò che ho detto! - gli rispose, imponendosi di non cedere alla vicinanza del corpo di lui.
Eìos non dette alcun peso alla quella distanza calcolata; se la strinse addosso con il subdolo intento di minarne l'autocontrollo, e, con piccoli baci sulle tempie, sulla fronte e sugli zigomi, iniziò la sua opera di seduzione.
- Perché? - incalzò, strusciando la pelle ruvida della guancia su quella di lei, come i gatti quando cercano di attirare l'attenzione dei padroni.
Ariela, però, non cedette; si divincolò dall'abbraccio e compì un passo indietro; gli occhi le si riempirono di lucide lacrime, ma allo stesso tempo si colorarono di determinazione e fortezza.
- Sono preoccupata, ho il cuore stretto dall'angoscia per la tua stupida decisione. - gli urlò contro, stringendosi la vita con le sue stesse braccia. - E sono furiosa, perché dici che ciò che riguarda te è anche cosa mia, ma poi non ascolti le mie preghiere e ti fai gioco delle mie angosce. -
 - Ariela ... - sembrò pregarla, cercando invano di riportarla tra le proprie braccia.
- Sono stufa di renderti dichiarazioni d'amore, quando tu invece ... -
- Allora sarò io a farlo! E' per te, per noi, che ho ceduto: voglio che tu abbia una vita serena e senza pene; voglio amarti, ogni giorno, senza il terrore che l'indomani arrivi a guastare i progetti o le speranze e ... - aggiunse, con la voce ferma e gli occhi liquidi, - ... voglio dei figli che non abbiano mai a vergognarsi di chi li ha messi al mondo! - aggiunse, mentre la voce cedeva all'emozione di un desiderio mai confessato.
Ariela non poté che cedere alla confessione dell'uomo che amava: da sempre considerava l'unione matrimoniale preludio di una discendenza amata e desiderata, ma conosceva il dolore che ad Eìos l'essere figlio aveva causato; dunque, pur alimentando la speranza che quello fosse desiderio comune, non avrebbe mai immaginato di sentirglielo dichiarare così a cuore aperto.
Si avvicinò a lui, piano, piano, come se temesse di violare l'intima sacralità di un confessionale e, quando gli fu vicino un solo respiro, abbozzò un timido sorriso, quasi chiedesse il consenso per entrarvi.
Le braccia di lui si aprirono, come la conca sicura della baia per la barca, quando il mare è in tempesta, e il viso si rischiarò e si addolcì in un sorriso tenero. Ariela vi si rifugiò e portò le labbra all'orecchio di lui, sussurrandogli: - Dei figli ... da me? -
- Solo dalla donna che amo potrei desiderarne. - la rassicurò, stringendola più forte, fino a limitarne il già precario respiro.

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Capitolo 34
*** . 34 . A casa prima dell'uragano (seconda parte) ***


. 34 .

 

A casa prima dell’uragano

 

 

Dopo una mezz’ora buona di galoppo forsennato, Sabra dovette ricredersi sul giudizio affrettato che aveva formulato montando a cavallo: cavalcare è scomodo e stancante. Probabilmente, con sella e finimenti avrebbe potuto essere meno disagevole, ma a quel modo, a pelo, le gonne aggrovigliate, i piedi penzoloni, le natiche e le cosce che le dolevano per lo sforzo di stringere i fianchi del cavallo e non essere disarcionata, era stata una vera, insopportabile tortura, tanto che quando giunsero alla casa di Eìos, fu per la giovane una liberazione.

Betel strattonò il crine dell’animale, che sbuffò e compì un mezzo giro su sé stesso; le strinse le mani, affinché ella, finalmente, aprisse gli occhi che, per tutto il tragitto, aveva tenuti strizzati, un po’ per paura, un po’ per proteggerli dal vento. Sabra sciolse la stretta, consentendogli di smontare. Con una agilità che ella, rigida e impacciata, invidiò disperatamente, l’arabo scavalcò la testa dell’animale con la gamba destra, e, scivolandogli sul fianco, atterrò al suolo, con una leggerezza che strideva con il peso di un corpo massiccio come il suo.

Il cavallo di Eìos se ne stava placido, nel giardino della casa, segno che egli vi fosse giunto sano e salvo e questo permise al cuore di lui di rallentare i battiti accelerati per l’apprensione.

Si voltò verso Sabra e, allungando le braccia, la invitò implicitamente a smontare. L’afferrò per la vita ed ella gli poggiò le mani sugli avambracci, affidandosi completamente: di nuovo, percepì una sensazione di leggerezza, che le pervase le membra stanche e le permise di rilassarsi, quando i piedi toccarono il suolo ed ella si ritrovò rassicurata dalle braccia di lui e dal suo profumo.

- Aspettatemi qui … - le disse, sciogliendo il contatto, - Vado ad accertarmi che sia tutto a posto e dopo vi riaccompagno a casa. – aggiunse e, con una smorfia simile ad un sorriso, liberò dai capelli della giovane alcune piccole foglie che vi si erano incastrate durante la corsa.

Sabra lo guardò allontanarsi, elegante e composto e per nulla provato dalla lunga cavalcata che, invece, per lei era stata un'impresa, dopo di che si osservò a sua volta. Gli orli delle sottane erano lacerati in più punti, a causa dei rami degli arbusti in cui si erano impigliati durante la corsa; i capelli, sfuggiti al ricovero del cappuccio del mantello, erano intricati, come i piccoli rami e la paglia che gli uccelli lavorano per i nidi; arruffati e selvaggi sulle spalle e sulle guance, che a loro volta dovevano essere rosse, come le ciliegie mature, tanto le sentiva accaldate. Gli occhi pizzicavano, sebbene li avesse tenuti serrati, come i bambini sulle altalene, col vuoto e il pieno nello stomaco.

Passò i palmi aperti delle mani arrossate sulle pieghe delle vesti modeste; estrasse dalla tasca un nastro di cotone sgualcito e sfilacciato alle punte; infilò le dita magre e forti tra le fulve ciocche ribelli, come fossero i denti di un pettine, e li districò alla buona, tirandoli via dal viso e costringendoli in una coda voluminosa, sperando di aver assunto un aspetto quantomeno dignitoso.

Betel comparve dopo diversi minuti, tra le luci fievoli delle fiaccole che illuminavano il vialetto del giardino: l'ombra del suo corpo si allungava tremolante sulla ghiaia e sui cespugli di ortensie e passiflora odorosa, gigantesca e imponente, come quella dei monti al calar del sole, che proiettano la propria sagoma al suolo; l'orlo del lungo mantello ne assecondava i passi, aprendosi e chiudendosi al ritmo di moderate falcate, mentre la fisionomia del viso si delineava in una espressione corrucciata e pensosa, che non lasciava presagire nulla di buono.

- Direi che così va decisamente meglio! - ammiccò, appena fu a un palmo da lei, con un sorriso storto, che però non dissipava l'ombra evidente della preoccupazione.

- Cosa? - replicò Sabra distratta, tutta concentrata sulla curva imperfetta della bocca di lui e sulle piccole rughe che ne segnavano la fronte.

Betel allargò il sorriso e, nel buio della notte, i denti spuntarono bianchi, tra la carne delle labbra. Poi, con un cenno, indicò i capelli sommariamente legati: le ciocche più corte rimanevano libere, ricadevano lungo la linea sottile del collo e le ornavano il viso fanciullesco e rotondo; quelle più lunghe, invece, sfuggivano al nodo del laccio improvvisato, arrotolandosi su se stesse, come trucioli di legno scuro, nella bottega di un falegname.

Sabra le portò dietro le orecchie, alzando il mento, per coprire l'imbarazzo evidente che provava per non essere riuscita, nonostante gli sforzi, a rendersi presentabile.

- Non badate ai miei capelli: sono liberi, come i miei pensieri, dunque vanno dove vogliono! - rispose con una punta di orgoglio, - Ditemi, piuttosto, cosa è accaduto al capitano. - insistette.

Betel sorrise con maggiore trasporto: l'accostamento, che la ragazza aveva usato per sé, era perfetto e calzante, come non mai: tutto in lei era indomito, libero e senza briglie, come l'aria. Questo aspetto così impetuoso e singolare del suo carattere, nonostante la propria indole serafica e quasi distaccata, gli stuzzicava i sensi, proprio come il venticello primaverile che accende pensieri e desideri assopiti.

- Siete troppo curiosa. - replicò, indisponendola.

- Me lo avete già fatto notare, ma la mia curiosità è come la sete: si placa soltanto con acqua purissima. Dunque, rispondete! -

- Come volete! - si rassegnò, - Vi racconterò mentre vi riporto a casa. - concluse, superandola e avviandosi verso il cancello del giardino.

Sabra sorrise, compiaciuta e soddisfatta di se stessa, ma, quando vide Betel accanto al suo cavallo, tutta l'euforia si dissolse, come il vapore dell'acqua che bolle, scoperchiata la pentola. Montare di nuovo su quell'animale le fece incurvare gli angoli della bocca all'in giù e sgonfiare il petto in un sospiro scocciato, tipico di chi si appresta a fare qualcosa che lo disturba.

Betel, intanto, lisciava il pelo del suo stallone, la criniera, il collo robusto e nerboruto e quello, manso, cercava le mani del padrone, strofinava il muso nel palmo aperto, scuoteva la testa ad ogni carezza, pestando, con lo zoccolo di una zampa, il suolo, in attesa di essere montato di nuovo. Sabra osservò i gesti lenti e misurati dell'uomo e provò ad imitarli, scorrendo la mano sul fianco; il pelo ispido le punse la pelle, ma la strana sensazione di placida tranquillità dell'animale la contagiò, rassicurandola per l'imminente cavalcata.

L'arabo la guardò impegnarsi in quel gesto palesemente incerto, quasi timoroso, e, ricordando le mani di lei strette intorno alla propria vita, quasi temesse di essere sbalzata dalla groppa del puledro, e intuendo che ella non avrebbe mai confessato le proprie paure, le propose: - Artaq è stanco. Facciamo il percorso a piedi, volete? -

Sabra, come era prevedibile, annuì sollevata e si affiancò al suo accompagnatore.

- Dunque? - lo interrogò, quando, dopo poco, la sua curiosità reclamò le risposte che le aveva promesso.

- Suo fratello ... lo ha sfidato a duello ed Eìos ha accettato. - riassunse, laconico.

La giovane aggrottò la fronte insoddisfatta di una risposta così scarna e, con un cenno delle mani, lo esortò a continuare.

- Lo ha minacciato di togliergli il nome e, con esso, tutto ciò che possiede, non lasciandogli alcuna possibilità di tirarsi indietro. - aggiunse, inspirando, e Sabra percepì chiaramente l'apprensione di lui per l'amico.

- Dicono che il capitano sia particolarmente abile con le armi ... -

- Lo è davvero: possiede una mira infallibile, una concentrazione invidiabile e il sangue freddo necessario. Ma … - fece una pausa, - ... anche di Miran lodano l’attitudine alle armi e, anche se il duello sarà al primo sangue, l'esito di uno scontro frontale rimane incerto fino alla fine. -

Sabra non riuscì ad articolare alcuna parola e Betel percepì solo il suo respiro farsi più incerto e concitato, al pari del proprio, che gli scuoteva il torace. Ella non conosceva bene Eìos, di lui sapeva solo quello che raccontava la gente e ciò che ne diceva suo fratello e, la maggior parte delle volte, le versioni non coincidevano. Si mormorava che fosse un bandito, che avesse sfidato le regole comuni e le leggi in innumerevoli occasioni, facendola sempre franca; lo dipingevano come uno scaltro e arrogante, senza nome e senza Dio, ma a Ratho aveva insegnato ad andare per mare, senza mai trascinarlo in avventure illegali; gli aveva affidato la propria casa durante i suoi viaggi; gli aveva dato un lavoro ben pagato, consentendogli di sostenere la propria famiglia e preoccuparsi finanche della dote per quel matrimonio che ella tanto disdegnava. Se a questo si aggiungevano l'amore, il rispetto e la fiducia che persone oneste e benvolute, come il dottor Elmisk e Ariela, nutrivano per lui incondizionatamente, il giudizio non poteva che essere benevolo, in barba a quello di tutti i "sepolcri imbiancati" che lo condannavano.

- Quando? - chiese, rivolgendo lo sguardo sul profilo di lui, imperscrutabile, come quello di una statua greca, mentre egli continuava a camminare e se la lasciava alle spalle.

L'arabo, in risposta, scrollò le spalle e accelerò il passo, come se la conversazione fosse così scomoda, da fargli desiderare di arrivare prima possibile alla meta, pur di non sostenerla. Ma Sabra, come era prevedibile, non si arrese alla sua reticenza; si fermò a pochi passi da lui e, con nella testa mille altre domande, sempre più apprensive, come quando si ha a cuore la sorte di un amico, incalzò: - Voi sarete uno dei suoi padrini? -

Egli annuì, arrestò la sua fuga e reclinò la testa all'indietro; l'osso del collo scricchiolò, come un ramo spezzato, e il fiato uscì a fatica, aggrappandosi alle parole.

- Io, insieme con il dottor Elmisk. -

Sabra colse nel tono della voce, nelle spalle rigide, nei respiri grevi, le sue preoccupazioni e l’ansia di poter solo assistere allo scontro, di dover essere impotente testimone alla resa del suo amico al proprio destino.

- Siete preoccupato … - mormorò, rincorrendolo.

Betel si voltò a guardarla e, ai propri occhi, la luce diffusa della notte, il piccolo chiarore di stelle lontane la fecero sembrare più piccola, quasi una bambina. Per un istante, l’immagine delle ciocche di capelli, che si muovevano al vento sottile della brezza, si arrotolavano su sé stesse e si distendevano, come se seguissero un ritmo musicale silenzioso, confuso tra il respiro e il fruscio delle fronde, ne acquietarono il fragore insopportabile dei propri tormenti. Ma, quando i suoi occhi inciamparono sulla curva delle labbra morbide, sul collo sottile, sulle clavicole scoperte che affondavano nei seni, a quell’immagine acquietante se ne sostituì un’altra, sensuale e travolgente, che lo annegò nuovamente in un vortice di pensieri ancora più assordanti e vividi. Sabra era bella, di una bellezza avvincente: avvenente, come una donna fatta, e seducente, come una fanciulla, ancora incosciente del richiamo delle proprie forme.

Betel si rese conto di subire, suo malgrado, quel richiamo: talvolta, senza neanche rendersene conto, lo sedava, nascondendolo dentro una inspiegabile insofferenza per la presenza di lei; talvolta lo assecondava, come in quel momento, mentre permetteva ai propri occhi di percorrere una strada infinita sulla pelle di lei, dalle sopracciglia, alla mandibola; dagli zigomi, al mento; dalla punta del naso, allo sterno; dalle clavicole, all’orlo della scollatura dell’abito che indossava.

- Ve ne date pena? - le chiese, ormai vittima consapevole dell’effetto inequivocabile che ella gli provocava.

- Ne siete sorpreso? – replicò, cercando di nascondere allo sguardo insistente di lui, i propri occhi, che si erano fatti liquidi per l’imbarazzo.

- Affatto! – la rassicurò e aggiunse: - E’ da voi. –

Sabra notò l’inconsueta dolcezza con cui le parlava e, allo stesso tempo, l’enigmatica insistenza con cui ne scrutava i movimenti e i respiri, quasi fosse deciso a provocarle disagio, dunque, con un mezzo sorriso, costatò: - Stasera siete gentile … -

- Sì, stasera lo sono! – si limitò a risponderle, come se la baraonda tra cuore e cervello fosse di intralcio alle parole.

- Sarà, di certo, perché siete stanco e turbato per la vita del capitano, per il duello … - lo canzonò, cercando inutilmente di difendersi dallo strano assedio che le minacciava il respiro.

- … E per voi … - la interruppe, serissimo.

Sabra arricciò il naso, incerta, stralunata, come se le parole fossero state pronunciate in una lingua straniera e il senso di quella frase aggiungesse confusione al suo scompiglio.

- Sono io adesso, ad aver sorpreso voi? – egli chiese, passandosi le dita sulle palpebre e spegnendo, per un attimo, l’insistenza con la quale la guardava. – Non date peso a ciò che ho detto. - ritrattò, immediatamente dopo, rendendosi conto di aver detto più di quanto egli stesso volesse, - Avete ragione: sono stanco e turbato; il mio amico rischia la vita, io sono un ricercato … e talvolta l’apprensione annebbia il cervello e rimescola le parole. – aggiunse e, voltandole le spalle per riprendere il cammino, concluse: - Vi riporto a casa. –

- Non siete corretto, Betel: insinuate nel mio cuore speranze e desideri e, in un battito di ciglia, mi sommergete di dubbi e sconforto … - lo rimproverò, inchiodandogli i passi al suolo.

- Speranze e desideri, dite? – ripeté, rivolgendole il viso, - Nel vostro cuore … per me? – insistette.

Sapeva di piacerle, era troppo avvezzo alle cose della vita, per non accorgersi che Sabra avesse un debole per lui. Forse anche per questo, oltre che per tutelare sé stesso, aveva mantenuto, incosciamente, una distanza forzata. Eppure la rivelazione, così spontanea e diretta, della propria attrazione per lui, lo destabilizzò e, per un attimo, lo fece sentire un naufrago, in balia di desideri giusti e sbagliati insieme, che, come le onde nella tempesta, si mescolano e scontrano tra loro.

- Non dovrebbero essere, desideri e speranze, dedicati tutti al vostro promesso? – la provocò, abbandonandosi alla necessità di fare chiarezza in sé stesso e anche in lei.

- Non sono promessa! – urlò pestando i piedi, come una bambina.

- Ed egli lo sa, vostro padre lo sa? – insistette.

Sabra divenne ancora più attraente, mentre le guance si arrossavano; le mani si stringevano a pugno e il petto si gonfiava di respiro affannoso.

- Io sono padrona della mia sorte: io scelgo a chi promettere la mia vita … - replicò ferma, decisa e libera. – E voi, siete altrettanto libero? - insinuò, travolta da un moto di rabbia.

- Non ho legami, né vincoli: sono ciò che avete davanti. – replicò, allargando le braccia ed enfatizzando l’affermazioine.

- Dunque, perché vi nascondete? –

- Io non mi nascondo, Sabra, io vi proteggo: dalla vostra frenesia incosciente e dalla mia! Se vi dicessi chiaramente ciò che volete sentire, dopo cosa accadrebbe? Correste da vostro padre a ribadire la vostra indipendenza? – incalzò.

- Prima aspetterei un bacio da voi. – confessò, sfacciata e imbarazzata allo stesso tempo, mordendosi il labbro e maltrattandosi le vesti.

Betel socchiuse gli occhi, espirando, sorpreso e confuso, impotente davanti allo slancio di quelle parole: baciarla era una eventualità che non si era mai trovato a considerare, pur sorprendendosi spesso a guardarle la bocca così carnosa e invitante.

- Che diavolo sapete, voi, di baci? Siete una ragazzina. -

- Se ho l'età per essere promessa, ho anche l'età per essere baciata! - replicò.

Betel rise, mentre il petto sussultava per quell'invito, che solo in quel momento si rese conto di aver desiderato ogni volta che se l'era trovata accanto. Comprese che quella ragazza, che lo guardava con gli occhi intensi e pieni di un'ingenuità conturbante, metteva a dura prova la propria capacità di affrontare le pulsioni, l’intrigo dei sensi e dei sentimenti, con lucidità e padronanza di sé, così come era sempre riuscito a fare.

Eppure, per dimenticare e mandare all'inferno ciò in cui crediamo, talvolta, bastano un battito di ciglia, il colore della pelle, il profumo, il respiro, le mani e un'offerta generosa.

- Voi mi manderete fuori di senno! - le sussurrò, allungando la punta delle dita verso la sua guancia, senza, però, toccarla, - Mi condurrete all'inferno e sulla strada ... smarrirete anche voi stessa. – l’avvertì, lasciando la mano sospesa a mezz’aria, in attesa.

- Chi vi dice che non sia quella la via che salverà entrambi? – insistette, sperando che l’assedio stesse per risolversi in una resa.

- Nessuno, ma io non rischierò comunque. -

- Non deciderete anche per me. -

- Sabra, vi prego, datemi requie … almeno per stanotte. – la supplicò, gli occhi stanchi e finalmente le dita libere di disegnarle il contorno della bocca.

- E sia! Ma sappiate che non sono il tipo di donna che si arrende . – lo minacciò, assecondando la carezza.

- Non ho alcun dubbio! – le sorrise e riprese a camminare.

 

*************
 

 

Le prime luci dell’alba si affacciavano sulla linea dell’orizzonte, tingendo la superficie del mare di un colore liquido e tremolante, che si propagava fino alla riva, come lungo un sentiero, che avrebbe portato il giorno anche sulla rena fangosa e fredda della riva.

La bruma si dissipava lentamente in scie vaporose attraversate dalla luce crescente; i contorni degli alberi, delle rocce sulla scogliera a picco, si delineavano sempre con maggiore precisione e il mare emanava il proprio odore con più intensità, nei punti in cui la massa di umidità lo avvolgeva ancora.

Non aveva chiuso occhio Betel, in parte per l’assedio velenoso dei pensieri dovuti al duello imminente, in parte per la morbidezza delle labbra che Sabra aveva offerto alle sue dita.

Così, quando il giaciglio era divenuto troppo scomodo per le coltri che, per i continui movimenti, lo avevano imprigionato, si era levato; si era recato nelle cucine e si era preparato un infuso caldo e ritemprante e poi si era accomodato sui gradini del piccolo patio sul quale le stanze da letto affacciavano.

Eìos lo trovò così, seduto con i gomiti sulle ginocchia, la tazza bollente tra le mani scure e il pesante mantello a coprirgli l’intero corpo. Neanche il padrone di casa aveva dormito molto, nonostante le braccia e il corpo caldo della sua sposa lo avessero accompagnato per tutto il tempo. Ma la dolcezza delle sue membra, la delicatezza della carne e le carezze amorevoli, non erano state sufficienti ad allentare tensioni e preoccupazioni, pur intaccandone gli spigoli appuntiti che lo tormentavano.

- E’ uno degli spettacoli più avvincenti che la natura possa offrire. – lo salutò, riferendosi al sole nascente.

- Buongiorno. – rispose l’arabo, guardandolo mentre gli si accomodava accanto.

- Notte insonne anche per te, vedo. – constatò Eìos, assumendo la stessa posizione dell’altro. – Ti dai troppa pena, amico mio. –

- Troppa pena, dici? – chiese retorico.

- Il duello andrà come la sorte vuole … darsi pena non ne cambierà l’esito. –

Betel abbozzò un sorriso: non era, quella di Eìos, spavalda incoscienza, né superficiale considerazione del pericolo. Era soltanto il tentativo fraterno e attento di non affliggere il cuore di chi amava, con le proprie decisioni e le conseguenze cui andava incontro. Aveva sempre usato la stessa strategia: sminuire il pericolo, dimostrarsi più forte e impavido, per rassicurare chi gli stava intorno. Ma Betel lo conosceva da sempre, lo leggeva come un libro aperto, ne percepiva il tremito interiore dal respiro, ne annusava la paura, come gli animali il pericolo.

- Lascerò il paese, con Ariela. Salperò a bordo dell'Argo, la notte stessa del duello. Non voglio che tutto ciò che posseggo finisca nella mani di qualche sciacallo, qualora Miran perseverasse nel suo intento di togliermi il nome, dunque, ho disposto che diventi proprietà di mio padre. Tutto, tranne questa casa e il Leviathan, che invece diverranno tuoi. So che ne avrai cura, come avrei fatto io stesso. E, per finire, il dottor Elmisk pagherà la tua cauzione e tu sarai di nuovo libero. -

- Pago da me i miei debiti! – lo avvertì con orgoglio.

- Non questa volta. -

- Perché? – insistette.

- Perché te lo devo. – rispose, alludendo alle innumerevoli occasioni in cui lo aveva cavato d'impaccio e non ultima all'essersi fatto arrestare pur di aiutarlo ad evadere.

- Io sono in debito con te, ricordi? - controbatté, riferendosi all'occasione in cui si erano conosciuti.

- Non ho mai avanzato crediti nei tuoi confronti e, comunque, se pure debito ci fosse stato, esso sarebbe, a conti fatti, ampiamente saldato. -

- Pari e patta, dunque! -

- Vedo che hai compreso che è inutile che ti affanni, giacché ho già deciso. – terminò, senza possibilità di appello.

Betel sospirò, rassegnato, gli offrì la tazza che stringeva tra le mani, continuando a puntare lo sguardo sull'orizzonte, che ormai portava il marchio del neo nato giorno. Eìos se la portò al viso; il fumo caldo dell'infuso danzò vaporoso sui suoi lineamenti, sulle palpebre serrate, fino alle rughe della fronte, mentre il profumo delle erbe e del miele gli riempivano le narici.

- Finisce qui, dunque, il nostro viaggio insieme. - constatò, Betel, rabbrividendo e stringendosi ancora di più nella spessa lana del mantello.

- Nessun viaggio finisce, amico, non fino a che rimarrà terra da calpestare. -

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Capitolo 35
*** . 35 . Storia di un duello ***


. 35 .


Storia di un duello
 

 

Le campane della chiesa maggiore rintoccarono la quinta ora, lente e grevi, come un presagio di morte.

La campagna giaceva ancora ovattata nella brina; il chiarore del giorno tardava a divincolarsi dai tentacoli di una notte lunga e troppo fredda per quei giorni d’autunno. Il luogo scelto da Miran era, come di consuetudine, riservato, silenzioso e solenne, come quello destinato ad un sacrificio propiziatorio.

Quando Eìos e Betel vi giunsero in sella ai propri cavalli, lo schiocco pesante degli zoccoli sulla terra battuta risuonò, l’urlo di un barbaro nel mezzo di un rito ancestrale.

Miran era già lì, pronto e concentrato, con al proprio fianco Caled, che aveva evidentemente scelto come secondo, e un altro uomo, che Eìos non aveva mai veduto. Il viso era contratto e cupo; profonde rughe lo facevano assomigliare ad un vecchio stanco, dal corpo sofferente, ma gli occhi recavano, determinati e fieri, la punta di orgoglio di chi si appresta a difendere la propria anima lesa e infangata, attraverso un rito nobile e catartico.

Per Eìos, di contro, quel rituale era ridicolo, come tutte le convenzioni di una società falsa e perbenista, che aveva voluto codificare una necessità istintiva, attraverso cavilli superflui e valori astratti. Se per un'offesa ricevuta non sono sufficienti le parole, bastano le mani nude, un corpo a corpo leale, non per farsi giustizia da sé, ma per mostrare valore e istinto e anima.

Ma gli uomini si considerano evoluti perché affidano le sorti di una contesa ad un rito simbolico, piuttosto che alle parole, e non si accorgono di rimanere dei barbari, alla stessa risma degli animali, dove il maschio più forte domina il branco.

Smontarono da cavallo all'unisono, in accordo perfetto, composto e silenzioso, come i felini che si preparano alla caccia. Il dottor Elmisk li raggiunse con il suo calesse, qualche istante dopo; Betel vi si avvicinò e lo aiutò a smontare. Egli sarebbe stato l'altro accompagnatore di Eìos, nonché il medico che avrebbe dovuto appurare la capacità del contendente eventualmente ferito a proseguire.

Eìos sfilò la giacca e il panciotto, rimanendo con la sola camicia candida e profumata dei rametti di lavanda che Ariela soleva riporre tra la biancheria. Allargò le braccia, esponendo il petto e il torace all'uomo di cui non conosceva il nome, e si lasciò perquisire, affinché si accertasse che non nascondeva armi. Così fece il dottore con Miran. Entrambi i contendenti rimasero di schiena, per non guardarsi, fino a che non fossero stati l'uno di fronte all'altro, pronti a fare fuoco.

Betel slacciò la fibbia d’avorio che legava i lembi del mantello, si portò al centro della radura e si apprestò a misurare la distanza concordata. Contò i venti passi convenuti e conficcò nel terreno, ancora umido e molle, un bastone per indicare il punto esatto in cui Eìos avrebbe dovuto posizionarsi.

Specularmente, Caled fece lo stesso.

Lo sconosciuto offrì a Betel il cofanetto con le armi, perché potesse esaminarne il contenuto. Era di finitura elegante, in pregiato legno di mogano, commissionato direttamente all'armaiolo di famiglia e recava impresso a fuoco lo stemma della casa di Mikra; la piccola chiave nella serratura di bronzo scattò una sola volta e, sollevato il coperchio, l'arabo osservò le due pistole alloggiate in scomparti di velluto verde. Ne scelse una; ne impugnò il calcio in noce, soppesandone la maneggevolezza e, mirando ad un ideale bersaglio, la puntò dritta davanti a sé; alzò il cane e premette il grilletto, simulando un tiro di prova. Infine la caricò dei colpi necessari al duello. Non più di tre per ciascun contendente, come era in uso.

Eìos era rimasto in disparte, con gli occhi chiusi e un mare di frammenti appuntiti di pensieri dentro il cervello, che gli negavano, per la prima volta, la giusta concentrazione.

 

La dimora di città della casata di Mikra era maestosa e ricca. Il grande portone in legno massiccio recava sulla volta in pietra che lo incorniciava, il grande stemma di famiglia: un drago rampante con le ali spiegate e tra gli artigli una spada. Eìos vi passò davanti; aggirò il perimetro della costruzione e giunto sul retro, scorse, tra le inferriate della recinzione, una finestra aperta al piano terra. Le luci all'interno erano spente, così come in tutte le altre stanze, segno che la servitù e i proprietari, si erano già ritirati per la notte. Protetto dal buio, si arrampicò sui ferri e, accertatosi che non vi fosse alcuno in quella parte del grande giardino che circondava la casa, atterrò al suolo, leggero e silenzioso. Proseguì, acquattandosi dietro i cespugli, fino a che giunse alla finestra e ne scavalcò il davanzale.

Contro il parere di tutti, aveva deciso di fare un ultimo tentativo e cercare di convincere Miran a desistere da ogni proposito di vendetta. Non era, Eìos, un diplomatico, le parole uscivano sempre a fatica dalla sua bocca e, quando riusciva a liberarle, erano sempre pungenti e sarcastiche, maleducate e irriverenti, tanto che, la maggior parte delle volte, sortivano l’esatto effetto contrario.

Ma adoprarsi per farsi comprendere, quella volta, era vitale: ne andava della loro esistenza, sua e di suo fratello, di quella della donna che amava e di tutte quelle vite che giravano attorno alle loro. Nonostante il duello sarebbe stato al primo sangue e la vita di entrambi non fosse compromessa, battersi sarebbe stato comunque deleterio, doloroso e definitivo, al pari di una ferita mortale.

Trovarsi di fronte il proprio fratello, con una pistola in pugno, contro il quale, alla stessa maniera, avrebbe puntato la propria, era impossibile da accettare, non prima di aver provato ancora un'ultima volta con le parole.

Portava la pistola per precauzione, con il colpo in canna, ma infilata nella cintola dei calzoni, solo per difendersi nel caso in cui un servitore lo avesse sorpreso mentre si intrufolava nella proprietà. Ironia della sorte sarebbe stato considerato un ladro per essere entrato in una casa che per metà gli apparteneva!

Raggiunse il piano nobile; attraversò i corridoi, illuminati solo a tratti dalla luce della notte che trapassava i vetri molati, come un gatto nel buio, fino allo studio di Miran. La porta era socchiusa; una lama di luce si insinuava tra le fughe del pavimento di marmo; si allungava in un percorso silenzioso verso l’interno, come fosse l'invito tacito ad entrare. Prese fiato e coraggio, impugnò l’arma e sospinse la porta; nella semioscurità, intravide suo fratello, accasciato su di una poltrona, lo sguardo assente e un bicchiere colmo di liquore stretto in una mano.

La luce era generata dalle rugose candele disposte negli angoli della stanza, troppo fioca per assicurare una visuale completa e nitida; sul ripiano della scrivania v'erano due bottiglie vuote e, nel posacene, l'estremità di un sigaro si consumava e diffondeva l'aroma acre del tabacco bruciato. Miran gli rivolse lo sguardo, distrattamente, immobile, i muscoli abbandonati nel torpore comatoso dell’alcol, gli occhi lucidi e la stanchezza che trapelava dalle rughe su di un volto che aveva smarrito eleganza e fierezza.

- Come sei entrato? – chiese, ingurgitando l'intero contenuto del bicchiere, indifferente, come se non gli interessasse davvero la risposta.

- Da una finestra aperta. Dobbiamo parlare. - rispose, avvicinandosi con circospezione.

- L’unica cosa che dobbiamo fare è batterci … - replicò, asciutto e così distaccato dalle sue stesse parole, che sembrava parlasse per conto di un altro.

- Non voglio battermi, lo sai. - replicò, suscitando sul viso dell'altro, una smorfia ironica dovuta all'arma che brandiva. - Questa … - aggiunse, avendo colto l'espressione, - … è solo una precauzione. Voglio parlare, Miran. Voglio provare a risanare le nostre incomprensioni, spiegarti le mie ragioni, chiedere scusa per gli errori, per il male … -

- Lo sai che è incinta? – lo interruppe di punto in bianco, riferendosi a Nubia.

Eìos scosse il capo: gli ultimi mesi erano stati così concitati, difficili e dolorosi che nessun pensiero, oltre al desiderio di riappropriarsi della libertà e tornare sereno tra le braccia di sua moglie, lo aveva sfiorato. Né Ariela, certamente scossa e distratta dalle sue stesse preoccupazioni, gliene aveva fatto cenno.

- Non è mio, se è questo di cui ti sei convinto. - lo anticipò, sedendosi sul bordo dello scrittoio, l'indice saldo sul grilletto della pistola, ma la canna rivolta verso il pavimento.

- No? Me lo giuri, Eìos, sul tuo onore? - lo irrise, colmando l'ennesimo bicchiere di brandy.

- Non ho onore ... dunque, dovrai accontentarti della mia parola: tra me e Nubia non c'è stato più nulla, dal giorno che sono salpato da Patnarak, due mesi prima del vostro matrimonio. - cercò di spiegare.

- E pretendi che ti creda? Dopo tutte le trame e le menzogne? – replicò.

- Ti comprendo: ho mentito così tante volte nella mia vita, che, ad un certo punto, io stesso non sono più stato in grado di riconoscere la verità. Ho patito la tua stessa sofferenza, sentendomi tradito e umiliato da chi mi aveva messo al mondo, beffato più volte di quanto potessi sopportare. La rabbia, la sete di vendetta hanno generato le menzogne e il ricatto, convincendomi che la vita avesse un debito con me che potevo riscuotere in ogni modo. Ma, proprio quando credevo che mi stesse restituendo ciò che mi apparteneva, la sorte mi ha chiesto il conto ed io l'ho pagato, con la libertà, con lo strappo doloroso dalla donna che amo, con questa distanza maligna che ci mette l'uno contro l'altro. Se nessuna parola può sanare le ferite, né le mie, né le tue, come potrebbe un duello sedare tutto questo astio, tutto questo veleno? Prendiamo ciascuno la propria via, e non facciamoci più male. Noi siamo fratelli, Miran ... il sangue deve pur aver un peso in questa guerra infinita. -

- Ma non capisci che è proprio quel sangue che mi brucia le vene? Non capisci che il solo pensiero che siamo fratelli, mi ributta e mi fa avere schifo di me stesso? - lo interruppe, scattando in piedi e avvicinandosi minaccioso. Le iridi si fecero lucide, affaticate da un pianto rabbioso, che egli per orgoglio virile tratteneva; il viso si face ancora più pallido e la fronte aggrottata dalle rughe.

Eìos sollevò l'arma per intimorirlo, gliela puntò contro, affondando la canna direttamente nel petto affannato.

- Ti odio e con te odio me stesso proprio perché siamo frutto dello stesso seme. - aggiunse, spingendo tutto il corpo contro la pistola, riducendo più che poteva lo spazio vuoto tra di loro.

- Come vuoi ... - si arrese, seppure riluttante. Le parole che conosceva non erano servite, così come la volontà di riparare, annegata in un mare di rabbia e dolore. - Saranno la buona mira e la fortuna a decidere la nostra sorte. -

Ripose la pistola nella cintola dei calzoni e voltò la schiena, lasciando quella stanza pregna dell'odore della sconfitta.

Nulla gli avrebbe più bruciato così in profondità l'anima. Per tutto il resto della vita.

 

A grandi passi, Betel lo raggiunse; con un gesto fluido roteò l’arma nella destra, afferrandola per la lunga canna ottagonale e offrendola all’amico dalla parte dell’impugnatura.

- E’ perfettamente lubrificata. – lo rassicurò, - La calibratura è buona, solo leggermente sbilanciata verso sinistra. – lo avvertì, con una pacca sulla spalla, il palmo della mano aperta e lo sguardo altrove, concedendo a lui e a sé stesso, il solo gesto di compassione che, in quel momento, potesse offrirgli.

Eìos scorciò la manica destra fino al gomito, per avere maggiore libertà di movimento, e impugnò l’arma, sottoponendola al medesimo esame, e, dopo uno sguardo complice, si portò sulla linea immaginaria da cui avrebbe dovuto fare fuoco.

Si trovò Miran di fronte, ritto a quaranta infiniti passi di distanza; le guance scavate, gli occhi segnati da profonde occhiaie; i capelli impomatati e il colletto della camicia perfettamente inamidato.

Mentre i due puntavano ciascuno i propri occhi in quelli del rivale, un corvo nero sorvolò la radura; il suo verso squarciò l'aria rarefatta, riecheggiò nelle orecchie assuefatte al silenzio innaturale e opprimente, ferendo timpani, respiri e cuore.

Il giudice si fermò nel centro di quel segmento ideale che li divideva, il punto medio di una distanza di incomprensioni e rivalità che non sarebbe mai stata colmata, e, rivolgendosi all’offeso, gridò: - Puntare l’arma. –

Miran obbedì: portò in avanti la parte destra del corpo, il braccio sinistro dietro la schiena e sollevò la pistola, mirando sul suo bersaglio.

- Fuoco! – aggiunse e Miran sparò.

Eìos chiuse gli occhi, sussultando per il fragore dello sparo. Il colpo andò a vuoto: il proiettile si perse in un punto qualunque alle sue spalle, ma la traiettoria corse precisa e vicinissima al suo orecchio sinistro, tanto che il sibilo lo assordò per qualche istante. Egli scosse il capo e articolò le mandibole, sedando il ronzio che gli riempiva il cranio, poi riaprì gli occhi e attese il proprio turno.

- Puntare l’arma. – ripeté, meccanicamente, la voce di prima, - Fuoco! – gridò ed Eìos obbedì.

Quella volta il colpo andò deliberatamente a vuoto: il proiettile finì in un punto lontano, al di sopra della spalla sinistra di suo fratello, così lontano dal corpo che fu palese per tutti che il fallimento non fosse questione di mira.

Quel gesto esacerbò la rabbia di Miran poiché, nel tentativo di risparmiarlo, Eìos lo umiliava, a tal punto che, quando fu nuovamente il proprio turno, il secondo tentativo fu ancora più preciso e pericoloso. Sfiorò il braccio destro di Eìos, lacerando solo la stoffa della camicia, che si disperse tutt'intorno, come coriandoli candidi, ma non la carne.

Le labbra di Eìos tremarono, come quando si viene investiti da un vento gelido, ma gli occhi rimasero saldi in quelli dell'altro. Miran lo fissava di rimando: la soddisfazione di aver quasi colpito il bersaglio, la sfida, che gli baluginava nello sguardo, erano i testimoni della sua determinazione: se Miran avesse avuto la terza opportunità, quasi certamente avrebbe fatto centro. Dunque, Eìos non aveva altra scelta che ferirlo per primo e porre fine a quel gioco al massacro.

Quando il giudice lo autorizzò a far fuoco per la seconda volta, Eìos mirò con precisione chirurgica: puntò al dorso della mano destra, che l’altro teneva lungo il fianco, e premette il grilletto.

Il proiettile andò a segno preciso e istantaneo come la lama del bisturi: la pelle si lacerò sotto la scia del suo passaggio, la carne si strappò e schizzi di sangue, imbrattarono il polsino della camicia, i calzoni e la punta lucida dello stivale. Rivoli purpurei scivolarono seguendo le asperità della pelle, sulle nocche, tra gli incavi delle dita contratte, che per il dolore persero la presa sul calcio della pistola, abbandonandola al suolo, già raggiunto dal sangue.

- Non può continuare. - dichiarò il dottore, dopo aver esaminato la ferita, - Il duello è terminato. - aggiunse, fasciando la mano con una benda, in attesa di un intervento più attento.

- Certo che posso! - si ribellò Miran, digrignando i denti per il dolore della ferita, - Io posso ... - ripeté ringhiando, disperato, come gli animali feriti.

Ma la sentenza era inappellabile: le regole, che egli stesso aveva scelto, sancivano la fine della sfida se uno dei contendenti avesse riportato una ferita tale da impedirgli di proseguire.

- Maledetto. - continuò, - Maledetto ... l’ha fatto di proposito. - mugolò, mentre le lacrime gli rigavano la faccia, la mano sana stretta intorno al polso ferito e gli occhi serrati sull'umiliazione della sconfitta.

Eìos lasciò cadere l'arma al suolo e respirò profondamente, come se fosse appena riemerso da un tuffo in mare; inspirò ed espirò una, due, tre volte di fila, poi si avvicinò al proprio cavallo, di cui Betel reggeva le redini e, ancora di spalle, si rivolse a suo fratello: - Finisce qui, Miran. Tra me e te, finisce qui. Non ti mettere sulla mia strada, non minacciarmi mai più, o giuro ... che la prossima volta non avrò riguardo per il mio stesso sangue! -

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Capitolo 36
*** . 36 . Tutto il mondo brucia ***


 

. 36 .


Tutto il mondo brucia
 

 

Le ore scorrevano lentissime, come la tessitura della tela del ragno.

Nel loro letto, tra le lenzuola sfatte e aggrovigliate, il tepore della pelle nuda, del sangue che scorreva attraverso la mappa dei corpi vicini, li teneva caldi, nonostante le fiamme del camino ai piedi del letto si fossero consumate e avessero lasciato solo braci e cenere.

Avevano fatto l’amore, come fosse di nuovo la prima volta e, allo stesso tempo, come fosse anche l’ultima.

Non l’ultima della loro esistenza insieme, ma l’ultima della loro vita in quella città, in quella casa e in quel letto. Avevano detto addio, tra i baci e l'intreccio dei loro corpi, alla casa che li aveva accuditi, mentre i sentimenti, la complicità, il desiderio crescevano, mentre la carne di una scorreva sotto le dita dell'altro.

Eìos le teneva il capo in grembo, le labbra sull’ombelico e i capelli scarmigliati e neri sul ventre e sui seni, come lingue impertinenti che l’accarezzavano, le solleticavano la pelle e ne adornavano la diafana consistenza. Ariela ne pettinava le ciocche con le dita di una mano, arrotolava quelle più lunghe e selvagge attorno all’indice, mentre, con l’altra, scorreva lungo la spina dorsale, indugiando sugli anelli della colonna, come sui tasti di un pianoforte, ciascuno dei quali, sollecitato, gli faceva emettere un suono, dolce e roco, di soddisfazione e benessere fisico, che riuscivano a contagiare persino la mente affaticata. La mano di lui la reggeva saldamente per il fianco, le dita affondavano nella carne soffice, che si arrossava un poco per la pressione, poi scendevano lungo la coscia, dall’inguine verso il ginocchio, fin dove la lunghezza del braccio lo consentiva, per poi risalire ancora e ripetere il percorso, di nuovo e all’infinito.

- Dovunque andremo, vorrei che la nostra nuova casa fosse sulla spiaggia, come questa. – mormorò Ariela, giungendo con le dita fino all’incavo dell’osso sacro, per poi arrampicarsi sulle natiche a malapena coperte dalle lenzuola.

- Lo dici perché hai vissuto qui solo per un'estate. Non conosci la furia del mare durante le tempeste, delle onde che mangiano la spiaggia e dei venti che urlano e bussano alle imposte. –

- Lo dico perché vi ho vissuto con te, perché tra queste mura ho imparato ad amare e sono stata amata più di quanto credessi di meritare. – lo corresse, tirando dolcemente la ciocca di capelli con cui stava giocherellando.

- E credi che ti amerei di meno se vivessimo in campagna? – replicò, assecondando con il capo il gesto di lei e arricciando il naso in una finta smorfia di dolore, come se lo strattone fosse stato tanto forte da causargli davvero male. – Pensa a come sarebbe bella una villetta dai muri di pietra e dalle imposte di legno scuro, adagiata sul declivio di una collina verdeggiante di olivi; sul retro, un frutteto e una limonaia, in cui mettere a riparo le piante d’inverno, e, tra i grossi vasi e il profumo di cedri, limoni e aranci, bere cioccolata e guardare, attraverso i vetri, i campi coltivati. -

- Vuoi diventare un contadino? – domandò, con candido stupore. L’idea del proprio sposo senza il profumo di mare nella trama della pelle scura, le sembrò strana e al tempo stesso straordinaria, tanto da evocarle nella mente, l’immagine inconsueta di lui chino nei campi tenuti a maggese, a sporcarsi le mani di terra, per verificarne lo stato di preparazione per le nuove colture.

- In verità, voglio mettere radici; affondare nella tua terra, nutrirmi di te e fecondarti ... - sussurrò, baciandole le grinze di pelle intorno al nodo dell'ombelico, - Voglio che nascano fiori e figli e voglio che abbiano un posto nel mondo, in cui crescere protetti e accuditi. Voglio un luogo lontano dalla tempesta, in cui le stagioni facciano il proprio corso e gli anni passino lenti e sereni e voglio diventare vecchio, così tra le tue braccia. - ammise, issandosi su di lei e tirando su anche gli occhi per guardarla.

Ariela sorrise intenerita, col cuore colmo di speranza e gli occhi pieni dell’espressione di lui, infusa di fiducia e ottimismo. E all’immagine del suo sposo nei campi, si aggiunsero grida festose di bambini e cinguettii di uccelli, mugghi di armenti e gorgoglii di fresche e dolci acque di ruscello; profumi di farina e lievito nelle cucine, e infine ella stessa, sull’uscio, nel richiamo per il pranzo.

- E così sarà: un giorno racconteremo ai nostri figli di come fuggimmo per metterli al mondo nella terra promessa; di tutti i no che la sorte ci ha urlato contro e di come le abbiamo riso in faccia. E loro le crederanno favole e ci chiederanno come avrebbero potuto mai un contadino e la sua sposa darle battaglia e uscirne vivi. –

- Dunque, vuoi diventare la moglie di un contadino? – chiese con un sorriso aperto e speranzoso sulle belle labbra.

- Voglio ciò che tu vuoi … -

- Allora usciamo da questo letto, mettiamo una sella ai nostri cavalli e andiamo al porto. L’Argo è pronta a salpare: le provviste sono nella stiva, le nostre cose nella cabina e i marinai sono pronti a mollare gli ormeggi. – la invitò, schioccandole un bacio sulle labbra, con la faccia buffa dei bambini che si apprestano a partire per una gita.

Ariela puntò le mani sul petto di lui, fece leva per toglierselo di dosso e, quando fu libera, con un colpo di reni, schizzò fuori dal letto e cominciò ad afferrare i suoi indumenti sparpagliati sul pavimento. Ancora nuda, in piedi di fronte allo specchio, che ne rifletteva generoso la curva dolce delle natiche e la schiena dritta, lo incitò: - Sei ancora lì? La nostra nuova casa ci aspetta! –
 

 

****************


 

Il tragitto dalla casa al piccolo molo, fu piuttosto breve, poiché lo percorsero lungo la spiaggia. Per quanto Kuvee avesse dato ordini di sospendere le ricerche degli evasi, Eìos era pur sempre un galeotto e sfidare la sorte, percorrendo le vie cittadine, mostrandosi ai soldati che comunque circolavano, sarebbe stato imprudente e oltremodo sciocco, tanto più in quel momento che la libertà era ad un soffio.

L’approdo, a cui era attraccata l’Argo, era in una rada, distante dal porto principale della città, costruito apposta per le piccole imbarcazioni, che non necessitavano di banchine troppo grandi per l’imbarco di passeggeri e provviste. Quando furono ad un paio di miglia, un bagliore sinistro colpì l’attenzione di Eìos: fiamme altissime si innalzavano dalle acque scure, illuminando la notte e la banchina. Migliaia di scintille, come giganteschi fuochi pirotecnici, schizzavano nel celo e ricadevano su se stesse, riverberando sulle acque; assi di legno, bruciacchiati e ancora morsi dalle fiamme, galleggiavano alla deriva e aumentavano di numero, man mano che si avvicinavano al molo. Eìos spronò il proprio animale al galoppo, invitando Ariela a fare altrettanto. Un presentimento vivido e opprimente si faceva strada nella sua coscienza e diveniva sempre più insistente ad ogni metro che percorrevano, fino a quando, le grida di un ragazzino, che gli correva incontro, lo scossero dai guizzi ipnotici delle fiamme.

Ratho si sbracciava e urlava; singhiozzava disperato e digrignava i denti per la rabbia. Parole smozzicate e imprecazioni si confondevano nell’eco della notte e nel crepitio dei legni che bruciavano.

- La vostra barca … - mugolò, asciugandosi il viso con la manica della camicia lurida, mentre lacrime e cenere gli impiastricciavano le guance, - La vostra barca, capitano … brucia. – terminò, col fiato corto per la corsa ed per i singulti.

Eìos riprese la corsa, lasciandosi dietro Ariela, smarrita e senza alcuna lucidità. L’albero maestro dell’Argo, le vele ancora ammainate ardevano, come pire sacrificali; le fiamme correvano lungo le cime, ancora legate agli ormeggi, come serpenti di fuoco, e lo scafo, come rosicchiato dai denti dei topi, dondolava macabro, imbarcando acqua e vomitando fumo.

Betel era lì, ritto in mezzo al vapore che saliva dalla superficie del mare riscaldato dall’incendio; la camicia strappata e logora; il mantello bruciacchiato e fumante nella mano destra e gli occhi rossi e liquidi per il fumo acre.

- Non c'è più nulla! - commentò, quando sentì Eìos avvicinarsi alle sue spalle. - Quando sono arrivato, l’incendio già lambiva il cielo, vorace e impetuoso. Mi sono tuffato e ho inzuppato il mantello per proteggermi e gettarmi tra le fiamme: non potevo più spegnerle oramai, ma Ratho ... era sul ponte immobile, come una statua di sale; piangeva disperato, ma rimaneva lì, in procinto di farsi divorare. L'ho avvolto, sollevato di peso e portato al sicuro. -

- Tu stai bene? -

Betel annuì, ripulendosi la faccia dalla caligine.

- E tu, sei ferito, Ratho? - si informò, quando il ragazzo e Ariela gli giunsero a fianco, ipnotizzati dallo spettacolo devastante.

- Solo qualche graffio, capitano. - lo rassicurò.

- Dunque, prendi il mio cavallo, riporta mia moglie a casa e va' dal dottor Elmisk. E fatti medicare. - ordinò.

- Io resto qui! - replicò Ariela, la voce tremolante e il respiro affannoso e debole.

- Tu, torni a casa! - insistette, perentorio e minaccioso.

Ariela avrebbe voluto replicare, chiedergli perché ogni qual volta avesse più bisogno di lei, la escludesse, la tagliasse fuori dal dolore, dalla difficoltà. Sapeva che il suo intento era di proteggerla dalla propria rabbia, dalla parte spigolosa e cattiva, che parava come uno scudo tra sé e gli altri. Ma non riusciva ad accettarlo, non voleva farsene una ragione: è a chi amiamo che ci dobbiamo affidare, pensava, e chi ci ama saprà tenere testa agli spigoli del nostro carattere, agli eccessi d'ira e ai vizi, alle paure e all'incertezze. Se alla sposa, all'amico o al figlio non neghiamo baci e affetto, conforto e parole nel momento del bilico, perché lesiniamo confidenze e necessità, quando siamo noi stessi ad averne bisogno, come se dovessimo proteggerli da ciò che siamo veramente? Non è ciò che siamo veramente, quello che loro amano?

Ma non parlò, tenne in corpo quei pensieri: era troppo avvilita, troppo stanca, per combattere quella notte. Ingoiò il groppo che le serrava la gola in fiamme e strinse gli occhi assediati dal fumo e dal calore delle vampate di fuoco ancora ardente; raccolse le vesti appesantite dall’acqua e dalla sabbia che vi si era appiccicata e raggiunse il suo cavallo. Montò in groppa, sorretta da Ratho, lo strattonò per le redini, e si avviò, muta, verso casa.

Non erano necessarie le capacità divinatorie di una strega per capire che ad appiccare l’incendio era stato qualche scagnozzo al servizio di Miran. Egli, non avendo potuto avere soddisfazione dal duello, si era accanito sulla barca, impedendogli di fuggire e mostrando di avere il potere e la cattiveria necessarie a vendicarsi.

 

Continuò a bussare, fino a che le nocche delle dita divennero rosse e tumefatte. Le lacrime si accompagnarono ai colpi, che divennero sempre meno furiosi, più lenti e stanchi, così come le suppliche di poter entrare. Quando la voce di Leria si trasformò in una preghiera singhiozzante, Miran si decise ad aprirle, forse più per estrema stanchezza, che per pietà.

Dopo che ebbe girato tre volte la chiave nella serratura, tornò a sdraiarsi sul letto sfatto, come se le forze avessero completamente abbandonato corpo e cervello, come l’uomo sfiancato e debole dopo una fatica, un lungo cammino, per la mancanza di sonno o di cibo. La sinistra, appoggiata sul ventre, reggeva il solito bicchiere colmo a metà e la destra era distesa lungo il corpo, fasciata da una benda candida, che sul dorso era leggermente macchiata di sangue.

- Fammi vedere. – gli chiese, con una nota supplice nella voce e negli occhi, mentre gli sedeva accanto dal lato della ferita.

- Non è necessario, madre: il dottor Elmisk mi ha già medicato. – soffiò, esasperato dalle opprimenti attenzioni della donna.

- Non nominarmi quel individuo spregevole e ingrato! Ha dimenticato l’amicizia sincera che tuo padre gli ha riservato per anni; il sostegno e la fiducia che gli abbiamo accordata fin dai giorni in cui non era che uno sconosciuto medico di campagna, per mettersi dalla parte di quel … miserabile. –

- Qualunque sia la vostra opinione sul dottore, è innegabile che sia un medico scrupoloso e capace. Dunque, il suo intervento basta! - la liquidò.

- Ti avevo detto di non mischiarti con lui. Ti avevo avvertito, sin dal giorno in cui ha messo piede alla tenuta, ma tu non hai voluto darmi ascolto, né allora, quando eri poco più che un bambino, né adesso che sei un uomo. – lo ammonì, - Si sfida a duello un proprio pari, non uno inferiore: quel genere di uomo si punisce a forza di colpi di frusta sulla schiena, come le bestie che si ribellano al padrone. – gli fece notare, camminando nervosamente intorno al letto, - Ma tu … lo hai voluto elevare al tuo rango, offrendogli, allora la tua amicizia e ora lo scontro leale … -

- Avete ragione, madre. Avete sempre avuto ragione … - le accordò, - Mi ha umiliato: per l’ennesima volta, si è fatto gioco della mia lealtà, nella pace e nella guerra. Si è preso moglie, onore, nome e rispetto degli altri e mio per me stesso. – aggiunse, stringendo il pugno fasciato. Il bruciore della sutura gli strozzò in gola le parole e le bende si imporporarono copiosamente. – Ho schifo di me stesso, madre, perché non sono stato capace di farmi giustizia da solo … - terminò, mordendosi la mano sana, per ripartire il dolore della sconfitta e quello della ferita sul resto del corpo. – Ma non mi arrendo! Se essere leale non ha dato frutto … sarò come è stato lui, feroce e disonesto, e sarà la vendetta ad acquietare il mio orgoglio. –

- Ti supplico, figlio mio, lascia che se ne vada, come avevate stabilito. Che vada pure a infettare altra terra e che ci lasci vivere in pace. –

- Vivere? E’ forse vita la mia? Come pretendete che sopporti l’idea che egli si costruisca un’esistenza felice e serena con la donna che ama, che abbia figli e rispetto, mentre io … marcisco qui, offeso, umiliato, costretto anche ad accettare un figlio che potrebbe non essere è mio? –

- E’ tuo, quel figlio è tuo, Miran. Di questo ho la certezza assoluta! -

Miran le rivolse gli occhi per la prima volta durante quella conversazione, il suo volto era dubbioso: come poteva sua madre essere certa di ciò che affermava, vista la leggerezza con cui Nubia aveva mentito e tradito la loro fiducia?

- Ne sono certa, perché ... - rispose alla domanda muta del figlio, - ... dal momento in cui quell'uomo ha messo piede alla tenuta, l'ho tenuto d'occhio; non ho permesso che muovesse un muscolo, senza che io ne venissi a conoscenza. Ed in aggiunta, il medico dal quale l'ho fatta visitare è certo che il concepimento risalga al periodo del vostro matrimonio. -

- Dunque, se è così, Nubia rimarrà alla tenuta fino a che non avrà messo al mondo mio figlio. Dopo, sparirà dalla mia vista per sempre. -

- Vuoi ripudiarla? Non puoi, Miran, cosa dirà la gente? -

- Me ne infischio della gente! Se tenete così tanto al giudizio degli altri, inventatevi una scusa: dite che è gravemente malata, che la gravidanza le ha nuociuto e abbisogna di cure specifiche. Mentite, insomma. So per certo che siete in grado di farlo! - la offese, lasciando cadere sulle lenzuola la bottiglia della quale ormai rimaneva solo il fondo. - Se acconsentirà ad uscire per sempre dalla mia vita e da quella di mio figlio, disporrò per lei un vitalizio che le consentirà di vivere dignitosamente. Per quanto riguarda quel bastardo, non avrò pace finché non sputerà sangue. -

- Cosa intendi fare? -

- Darò mandato ai nostri avvocati perché procedano con la pratica per il disconoscimento, gli porterò via la casa, le proprietà e la moglie e darò fuoco alla barca, perché non possa lasciare la città. Voglio che bruci. Voglio che tutto il suo mondo bruci! -

 

- Cosa hai intenzione di fare, adesso? – gli domandò l’arabo, quando rimasero i soli spettatori della scena.

- Se non avessi ancora qualcosa da perdere … andrei a piantargli un coltello nella gola! – gli rispose con rabbia, rimanendo immobile.

- Invece? –

- Invece mi farò furbo! Farò preparare il Leviathan, per salpare tra tre notti esatte. Chi gli ha riferito di stanotte, gli riferirà, certo, anche del nuovo progetto. Se tenterà di impedire la mia fuga dando fuoco anche all’altra barca, scoprirà di essere arrivato troppo tardi! Io sarò già fuori dai confini della provincia, poiché partirò appena calerà la seconda notte da adesso, a cavallo e con Ariela. – illustrò il proprio piano, con negli occhi i bagliori delle scintille, che si disperdevano nell’aria eteree e splendenti come code di cometa.

- Mi occuperò io di tutto! Tornatene a casa, adesso … Va’ da tua moglie. – replicò, schiarendosi la gola che bruciava, come se avesse ingoiato quelle stesse fiamme, come un mangiatore di fuoco.

- Torna a casa anche tu. - gli suggerì, avviandosi verso il cavallo che aveva legato alla banchina, - Hai bisogno di dormire. – aggiunse.

Betel gli andò dietro, le assi dell’approdo scricchiolarono sotto i peso dei passi.

Alle loro spalle, leggermente curve e desolate, l’incendio moriva lento; il fuoco continuava a rantolare, sazio e appagato del proprio pasto, come l’animale che ha affondato i denti nella carcassa sanguinolenta della preda e si è riempito lo stomaco.

La notte agitava gli ultimi colpi di coda, tra gli sprazzi rosa di un nuovo giorno, in disaccordo con il mattino che si rivelava fulgido, ignaro della nuova sfida, dell’ennesima battaglia di una faida infinita.

 

 

********************

Ben trovate!

Eccomi con un nuovo capitolo!

Spero che lo abbiate apprezzato e che continuiate a seguire la storia che ormai sta volgendo alla fine.

Come sempre ringrazio chi passa a dare un'occhiata, ma soprattutto chi mi recensisce.

Grazie a SweetLuna, a Drachen e a Raya Cap Fee!

Un bacio e alla prossima.

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Capitolo 37
*** . 37 . Di piani, di fughe e di abbandoni ***


 

. 37 .


Di piani, di fughe e di abbandoni
 

 

Su di una spianatoia di legno, al centro di una fontana di farina candida, come il lago salato nel mezzo di un atollo tropicale, ruppe le uova e aggiunse il sale. Con dita esperte, cominciò a mescolare lentamente, mentre l’impasto grumoso via, via si distendeva e diventava, sotto quelle carezze, sempre più liscio e compatto.

Quando ebbe modellato un panetto, lo avvolse in un telo candido e umido e lo lasciò a riposare, mentre si dedicava alla preparazione di altre pietanze.

Il grembiule che indossava era imbrattato di farina, così come la guancia destra e la punta del naso; un ricciolo ribelle fuoriusciva dalla fascia che portava sulla fonte per trattenere la chioma, così che ella, non potendo usare le mani, lo scacciava dal viso con sbuffi continui.

Quando il tempo di riposo per l’impasto fu terminato, prese a tirare la sfoglia col matterello, fino a renderla sottile e ruvida; l’arrotolò su sé stessa e la tagliò in tante fettine che poi srotolò immediatamente e ripose sul ripiano infarinato.

Era così concentrata sul lavoro, che non si era neanche accorta di aver avuto uno spettatore per tutto il tempo.

Betel se ne stava appoggiato con una spalla allo stipite della porta della cucina; le mani conserte, le gambe incrociate e una espressione divertita e curiosa sulla faccia scura. L’aveva guardata in silenzio, l’espressione attenta, il movimento e la pressione delle dita e dei palmi delle mani a lavorare l’impasto; le braccia e il collo dalla pelle ambrata, che spiccavano sotto il candore delle fasce del grembiule e le guance arruffate, come quelle di una bambina che si arrabatta ad aiutare la mamma.

Si era gustato lo spettacolo e riempito gli occhi dei gesti, della carne delle labbra rosse, come i coralli, degli occhi azzurri e limpidi, che le ciglia nere imprigionavano ed esaltavano, come i bagliori delle pietre preziose incastonate nel metallo.

Sabra tirò su gli occhi dal tegame di rame, nel quale sobbolliva un profumato ragù di lepre, e, con il mestolo di legno ancora a mezz’aria, incrociò quelli di lui.

- Così, siete anche capace di cucinare! – esclamò fintamente sorpreso.

Sabra lo guardò stranita, così imbarazzata per essere stata osservata senza accorgersene, che una delle sue risposte affilate le rimase intrappolata in gola; ripose l’utensile in bilico sul bordo del tegame e, con i palmi aperti delle mani, spolverò il grembiule dalla farina, accomodò il ricciolo dietro l’orecchio e, sperando di non mostrarsi impreparata a quella visita, tirò su il mento.

- State bene? – si affrettò a domandare. Per tutta la mattinata, da quando Ratho era tornato, con la camicia bruciacchiata, le bende sulle nocche delle dita escoriate e i calzoni strappati sulle ginocchia, non aveva fatto altro che pensare all’incendio, al pericolo che suo fratello aveva corso e a lui che, gettandosi tra le fiamme, lo aveva salvato.

Lo osservò con attenzione: non recava segni visibili di bruciature o ferite; le vesti erano pulite e profumate, il viso sereno, sebbene segni di stanchezza si annidassero nelle rughe intorno agli occhi e sulla fronte corrucciata.

Betel annuì e sorrise in risposta all'interesse di lei. L'attenzione con cui si accorse di essere guardato gli gonfiò il petto e un gorgo gli si aprì nello stomaco, come l'acquolina che ti solletica il palato quando hai fame. Non erano i profumi del cibo che si consumava sul fuoco, però. Era tutt'altra cosa, sebbene assomigliasse molto alla fame.

Era una specie dimenticata di desiderio, di quelli che infettano il cervello e poi contagiano viscere, membra, muscoli e lingua: era una voglia innominabile di carne e labbra; di respiri confusi e mani intrecciate; di silenzi divinatori e di baci. Gli sovvenne alla mente la notte in cui Sabra gli aveva chiesto, nella sua maniera particolare, un bacio ed egli glielo aveva negato, frenato da scrupoli, insicurezze e retaggi, e la lingua si mosse, si dibatté nella bocca, come i canarini imprigionati nella gabbia che sbattono le ali. Si pentì di non avere concesso, a lei e di più a sé stesso, quello squarcio di libertà, quell'impulso che nel tempo aveva imparato a domare.

In verità, certi impulsi non si domano, come non si spegne la necessità di riempirsi i polmoni di aria, l'assenza della quale ci impedisce di vivere. Certi istinti si ammansiscono, si addomesticano, come si fa con le belve. La parte razionale di noi li custodisce e crede di gestirli, ma essi, proprio come le belve cresciute in cattività, fiutano le debolezze e, quando mai ce lo aspetteremmo, escono dalle gabbie e si sfamano, liberi.

Betel deglutì, quando comprese che i suoi pensieri si erano spinti troppo al largo, emise un sospiro greve e raccolse i brandelli di lucidità rimastagli, per chiederle ciò che si era riproposto.

- Ho bisogno di voi. - disse, scostandosi dallo stipite e avvicinandosi al grande tavolo, su quale la pasta appena fatta riposava coperta da un canovaccio. - Eìos è determinato a lasciare la città, ma per evitare che qualcuno glielo impedisca ancora, è necessario che tutti credano che salperà a bordo dell'altra sua nave, tra tre notti esatte. In realtà, egli partirà la notte di domani, a cavallo e con sua moglie. - cominciò, - Affinché nessuno nutra dubbi sui progetti di Eìos, qualcuno farà provviste tra i banchi del mercato cittadino, senza preoccuparsi di nascondere chi sia il committente e le vettovaglie, nonché gli abiti e necessari ad un lungo viaggio, saranno imbarcati sul Leviathan. -

- E volete che lo faccia io? - domandò leggermente perplessa.

Betel annuì e poi precisò: - Voi e vostro fratello. E, perché non corriate rischi, io vi seguirò e vi terrò d'occhio. -

- Io non ho paura. - gli fece notare.

- Lo so: è per questo che l'ho chiesto a voi! - le sorrise e nello stomaco si riaprirono di nuovo il vuoto e la fame.

- Voi, piuttosto, dovreste essere più prudente ... siete ricercato e non è un mistero per alcuno la vostra amicizia col capitano. -

- Sono grande e grosso, Sabra: so badare a me stesso. E ... comunque da stamane, sono un uomo libero. - sorrise ancora, - La cauzione per la mia fuga è stata pagata; tra qualche mese il reato sarà cancellato dal casellario giudiziario e nessuna accusa macchierà più la mia reputazione.-

Un'ombra offuscò il cristallo negli occhi di Sabra, le si strinse il cuore all'idea che Betel fosse un uomo libero. Dal momento in cui Eìos fosse partito, nulla lo avrebbe più tenuto legato a quel luogo, giacché solo per Eìos era rimasto fino a quel momento.

Di lui sapeva che aveva viaggiato, che veniva da un posto lontano, diverso, dove le parole hanno altri suoni, gli uomini adorano un Dio con un altro nome e dove probabilmente aveva lasciato una famiglia e pezzi di cuore. Cosa avrebbe potuto impedirgli di tornarvi o, se da quel luogo fosse fuggito, cercarne un altro e poi un altro ancora, fino a quando non avesse trovato quello in cui mettere radici?

Si scoprì egoista: avrebbe dovuto essere felice che un uomo innocente si fosse ripresa la propria libertà, invece l'idea le oppresse il respiro e gli occhi punsero inspiegabilmente; una tristezza desolante la costrinse a distogliere lo sguardo da quelli di lui, insistenti, neri e infiniti, come lo spazio siderale in cui la sua stella splendeva.

- Lo farò ... – rispose con slancio, imponendo a sé stessa di credere che avesse accettato per Eìos, verso il quale nutriva stima e riconoscenza, e per il fascino verso le imprese avventurose, alle quali la propria indole non sapeva sottrarsi. In verità, in cuor suo, ella sapeva di aver accettato solo per Betel.

L’uomo annuì, manifestando la propria riconoscenza e, voltandole le spalle per lasciare la cucina, aggiunse: - Vi lascio al vostro lavoro: non vorrei che a causa mia, la vostra famiglia rimanesse a digiuno … -

Sabra percepì un tono divertito nella frase pronunciata e, nonostante egli le rivolgesse la schiena, ne immaginò il volto sorridente. Ormai aveva capito quanto gli piacesse provocare le sue risposte dispettose, così come a lei piaceva da morire stare al gioco.

Nessuno dei due se ne era ancora reso conto, ma quel gioco a rincorrersi, a punzecchiarsi era un corteggiamento mascherato e giocoso; un cercarsi continuo, uno scoprirsi e ritrarsi per mettere a nudo l’altro.

 

***********

 

- Dove sei stata? – la interrogò, non appena ella ebbe messo piede nella stanza.

Ariela sfilò il mantello e, lentamente e con cura, lo ripose sulla poltroncina vicina alla porta di ingresso, per poi dirigersi verso le cucine.

- Alla funzione del mattino e poi al mercato. - gli rispose piatta, e, di schiena, cominciò a riporre le provviste nella dispensa; poi dette istruzioni ad Alvita perché preparasse il pranzo, quasi avesse più premura per le pratiche quotidiane casalinghe, che per tutta quella serie infinita di difficoltà, piani falliti, apprensioni, delusioni e tristezza.

In realtà, era in collera con Eìos.

Dal giorno in cui si erano sposati, egli l’aveva resa partecipe della propria esistenza; aveva affidato al suo vaglio molte delle proprie decisioni; le aveva insegnato che la vita insieme è comunione, sostegno reciproco, affido completo. Le aveva fatto vedere il matrimonio da una prospettiva armoniosa in cui gli intenti si fondono, come pure le decisioni e le speranze future.

Quando poi erano venuti gli intrighi e i sotterfugi; la galera e la fuga; le ferite e il dolore; il duello e la ricerca della vendetta, una piaga dopo l’altra, la loro partecipazione al comune progetto di vita si era frantumata un poco alla volta, come la lastra di vetro su cui si abbatte il maglio che, di colpo in colpo, incrina la superficie fragile e sottile fino a ridurla in pezzi. Eìos l’aveva esclusa, divenendo il tiranno crudele che governa da solo.

Ma era anche delusa e in collera con sé stessa per essersi lasciata dominare, per aver un poco alla volta ceduto a quell’atteggiamento accentratore, finendo per divenire solo una comparsa.

- Dobbiamo parlare. – la fermò Eìos, togliendole dalle mani il barattolo di terracotta in cui stava per riporre la farina, - Da soli! – aggiunse con il tono padrone che Ariela cominciava a detestare.

Aveva imparato proprio da Eìos che non si discute quando si è in collera o di malumore, poiché si finisce per esacerbare il proprio animo e quello dell’altro; piccole incomprensioni diventano ostacoli insormontabili e si finisce col non comprendersi più, come se ciascuno parlasse una lingua all’altro sconosciuta.

Ma sapeva anche che, spesso, sottrarsi a un chiarimento necessario procrastina il dolore, fa lievitare l’incomprensione e diviene ancora più pericoloso delle parole scagliate con rabbia.

Dunque, lo seguì anche se di malavoglia.

Eìos richiuse la porta della loro camera alle proprie spalle e vi rimase appoggiato, come se temesse che avvicinarsi troppo fosse controproducente, proprio lui che si spiegava meglio col contatto, che con le parole; che parlava con i gesti e non con la voce.

- Mi spiace. – cominciò incerto, poco convinto che quello fosse il percorso giusto. – Ero fuori di me … e sono stato scostante e maleducato. –

- Della tua maleducazione ormai mi sono fatta una ragione. E’ la tua determinazione a tenermi fuori dai problemi che faccio fatica ad accettare. – replicò di schiena, le mani appoggiate alla sponda del letto.

- Volevo … proteggerti. - si giustificò, compiendo qualche passo verso di lei, intuendo dalle spalle rigide e dal tono acuto della voce che le parole non sarebbero state sufficienti. - Non volevo che patissi anche tu quest’ennesimo insulto della sorte. - aggiunse, sfiorandole il polso, alla ricerca di un contatto.

- Volevi proteggermi? - ripeté, voltandosi, ma di scatto, sottraendosi alla presa di lui, che era rimasta delicata, più come una carezza, che come una costrizione.

- Sì, volevo proteggerti: ti appare così strano che voglia preservare chi amo dalle difficoltà e dalle amarezze a cui sono costretto io? - insistette, indurendo la voce e lo sguardo.

Sebbene Ariela avesse ragione e la sua reazione fosse comprensibile e motivata, quel gesto, così affilato e scostante, lo aveva irrigidito e deluso per quella distanza a cui non era avvezzo.

- La verità è che tu hai paura! – gli fece notare, gli occhi lucidi di fervore, più che di disperata remissione, - Hai paura di avvicinarti troppo, di amare troppo, finendo col dipendere totalmente da me. Hai paura che io non sia in grado di affrontare con te le tue difficoltà e che un giorno, stanca delle sofferenze patite, decida di lasciarti … - continuò disperata, lasciando scorrere le lacrime che aveva frenato fino a quel momento. – E così mi lasci fuori, come se non sapere, non compatirti costasse meno dolore … - concluse, voltandogli di nuovo le spalle.

Eìos sbuffò esasperato, incapace di controbattere. Da sempre, non aveva fatto altro che affrontare la vita da solo, prima perché solo era e dopo per risparmiare suo padre dalla propria malaventura. Lo aveva fatto per così tanto tempo, da non sapere più farne a meno, come un vizio, un’abitudine maligna; ma, ciò che era peggio, egli non lo considerava una colpa, un peccato, come faceva in quel momento Ariela; al contrario, quello era il dono amorevole che si offre a chi si ama.

Le voltò le spalle, lasciando la stanza con un groviglio nello stomaco, incapace di avvicinarsi di nuovo. Farsi comprendere non sarebbe mai stata una sua virtù, inoltre, la stanchezza per tutte quelle vicende disastrose lo rendeva stanco e di malumore, tanto da non sentire neanche l’urgenza di insistere: Ariela avrebbe compreso da sola, quando i malintesi si fossero dissolti nella quiete; avrebbe compreso e avrebbe amato con ancora più fiducia, così come aveva fatto fino al giorno in cui le loro esistenze erano state scovolte.

 

 

***********

 

Aveva fatto esattamente come lui le aveva chiesto.

Aveva girato tra i banchi del mercato, riempiendo le sporte e affidandole alle braccia più forti di suo fratello; chiacchierato con venditori e conoscenti, senza farsi scrupolo di far intendere che tutte quelle provviste fossero per equipaggiare l’altra nave del capitano. Ratho le era corso dietro, come una trottola impazzita, col fiato corto per i pesi, domandandosi da dove traesse quella spiritata di sua sorella tutte quelle energie e quell’innata capacità di prendere per il naso gli altri, come fossero degli allocchi.

Sabra, infatti, aveva cercato di essere più alacre di un’ape operaia; più ciarliera di una comare e, soprattutto, più sciocca di una pupattola, perché tutti credessero che ogni parola, ogni confessione le fossero sfuggite involontariamente.

Betel li aveva seguiti per tutto il tempo, come se fosse un avventore qualunque, attardandosi presso i banchi, per non dare a vedere che ne seguiva ogni passo. Per tutto il tempo, se l’era guardata, come si guardano le foglie che si muovono al vento; come le onde che vanno e vengono sulla rena, come lo spettacolo della natura che si compie davanti ai nostri occhi estasiati.

Sabra gli piaceva in una maniera che non sapeva spiegare a sé stesso, forse perché troppo tempo era passato da un simile coinvolgimento emotivo. La bellezza di lei lo chiamava a voce alta e il carattere così frizzante gli faceva venire voglia di dimenticare tutti i freni che si era imposto.

L’amore, ammesso che amore fosse, era ormai un fantasma, l’ombra di un sentimento di cui egli aveva solo reminescenza, come se appartenesse ad una sua vita prima di quella. In quegli anni da vagabondo, trascorsi alla ricerca del proprio El Dorado°, ad esso non aveva concesso spazio, poiché chi è in cammino, spesso è troppo stanco per fermarsi.

Sabra, nonostante fosse concentrata nella propria missione, aveva sentito quegli occhi addosso, sulla schiena, sulla nuca scoperta dai capelli legati in una crocchia, e aveva cercato di ignorarli e con essi di ignorare l’effetto che le provocavano sul cuore, accelerandone i battiti, o sulla mente che più di una volta si era perduta.

Ma si può ignorare la scia di una fiamma sottile che scorre sulla pelle?

Quando le sporte furono piene, i due fratelli le caricarono sulla groppa del mulo e si diressero al molo grande, dove un paio di marinai armeggiavano sul ponte della barca. Betel sopraggiunse dopo qualche minuto; slacciò il mantello e lo raccolse in un drappo scomposto sul braccio; dette ordine agli uomini di trasportare le merci nella stiva e infine si avvicinò a Sabra, che era rimasta a guardarlo, dal momento in cui era giunto a cavallo. Era ammirata dai suoi gesti: la maniera singolare con cui smontava, scavalcando la testa dell'animale con la gamba destra tesa; la leggerezza con la quale atterrava al suolo, come se fosse una piuma nel vento; le carezze lente al suo purosangue bianco, con l'amorevole fare del padrone con la sua bestia fedele.

Ogni cosa di lui le piaceva, catalizzando pensieri e respiri, senza immaginare di essere per lui fonte della medesima attrazione.

- Non avevo dubbi che avreste fatto un buon lavoro ... - si complimentò, - Se i piani di Eìos andranno a buon fine, sarà certamente grazie a voi. - aggiunse, con un mezzo sorriso.

Le passò accanto, sfiorandole impercettibilmente il dorso della mano, lasciata libera lungo il fianco, con l'indice della sinistra. Il suo tocco, dolcissimo e lento, si attardò sulle nocche delle dita e sui rilievi delle piccole ossa, tracciando una scia calda sulla pelle; disegnò, come la punta fine di un pennello, la sua necessità di stabilire un contatto.

Sabra ne fu sorpresa, tanto che rimase immobile per crogiolarsi appieno di quel tepore, come una lucertola al sole.

Ma, veloce come il soffio necessario a spegnere la fiamma della candela, quello stato di sospensione beata si affievolì, fino a morire completamente, nell’istante in cui il tepore abbandonò la propria pelle. Sabra si ritrovò, così, di colpo sola e infreddolita, come quando la temperatura cambia inaspettatamente per effetto di un vento nuovo o per le nubi che offuscano il sole.

- Avete fatto un buon lavoro! – si complimentò, stavolta, con entrambi, avvicinandosi a Ratho, - Ora, però, tornate a casa. - ordinò, lasciandogli sulla spalla una pacca amichevole.

Nonostante il timbro di voce di Betel si fosse inspessito, perdendo la nota leggera e suadente con cui aveva parlato a Sabra, il giovane, fiero e compiaciuto per l’apprezzamento del proprio lavoro, sorrise e si accomiatò, avvicinandosi alla sorella.

Insieme si avviarono verso casa, Ratho soddisfatto e giocondo, come i bambini che hanno reso fieri i genitori, e Sabra, stretta nel proprio mantello di lana, infreddolita e travolta, in bilico tra disattese aspettative e inconcludenti desideri.

 

° El Dorado è l’abbreviazione di El indio Dorado, indica un luogo leggendario, situato oltre il mondo conosciuto, in cui sarebbero conservate immense quantità d’oro e pietre preziose. Esso è identificato anche con il paradiso terrestre in cui gli uomini vivono in pace, poiché tutti i bisogni materiali sono appagati.
 

 

*****************************

Ben trovate!

Le vicende di Eìos si ingarbugliano sempre di più: Miran non sembra disposto a dimenticare e a perdonare,

mentre Ariela comincia a soffrire per il suo carattere, che, seppure in buona fede, lo induce ad escluderla dalle proprie decisioni.

Tra Betel e Sabra si annusa qualcosa,

ma lui è ancora troppo frenato e lei troppo impulsiva,

perché i tempi siano maturi.

Detto questo, visto che non lo facevo da un po’, ringrazio tutte coloro che leggono e quelle che hanno inserito la storia tra le seguite e le preferite.

Un bacio alle mie affezionate recensitrici:

vi ringrazio dei vostri commenti e della vostra presenza.

Alla prossima!

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Capitolo 38
*** . 38 . Oltremare ***


. 38 .


 

Oltremare
 

 

L'acidanthera° spargeva il suo profumo lieve, mentre si insediava la sera. I bei fiori bianchi, macchiati di porpora e violetto, attiravano decine di falene, che insinuando tra gli stami, la loro piccola proboscide, li fecondavano. Arbusti di camelie bordavano il piccolo patio, separandolo dal resto del giardino, i fiori bianchi e rosa spiccavano come piccole coppe ricolme, tra foglie sottili e coriacee, di colore verde scuro.

Le aveva seminate e accudite Ariela, le aveva scelte per le tipiche fioriture tardive e per la loro capacità di resistere al sole estivo, ma anche all'inverno temperato tipico dei luoghi di mare.

Eìos sedeva assorto a osservare la danza degli insetti intorno ai fiori; sulle gambe divaricate si appoggiavano i gomiti e le mani intrecciate puntellavano il mento di un viso dai lineamenti tesi e contratti. Gli occhi seguivano il leggero tremolio della lanterna smossa da un vento gentile, come fosse un pendolo oscillante e ipnotico. L'aria era pregna di elettricità statica, segno inconfutabile per le narici esperte di Eìos, dell'arrivo di una tempesta.

Betel giunse silenzioso alle sue spalle; rimase in piedi, sulla soglia della porta finestra, annusando la stessa aria minacciosa che veniva dal mare.

- Tutto è pronto. - gli comunicò, appoggiandosi allo stipite della porta finestra. - La nave è carica, i marinai sono a bordo, come se dovessero mollare gli ormeggi da un momento all'altro, e in città da stamane si mormora della tua partenza imminente. Nella stalla, Ratho sta sellando i cavalli: solo un paio di bisacce ciascuno, così che possiate viaggiare leggeri e veloci. Io vi scorterò fino al confine della provincia, tanto per essere sicuri che nessuno vi metta i bastoni tra le ruote. - terminò, raggiungendolo sul patio odoroso.

- I miei progetti sono cambiati ... - cominciò, per poi prendere un ampio respiro, - Non porterò con me Ariela. -

Betel lo guardò dubbioso: il piano che avevano congegnato era perfetto e puntuale in ogni piccolo particolare. Nessuno poteva sospettare i tempi e le modalità della fuga, né i gendarmi, per i quali Eìos era ancora ricercato, né Miran, al quale certamente avevano riferito dell'approntamento del Leviathan, infine, la propria decisione di scortarli per un tratto sarebbe servita solo a renderlo più tranquillo. Cambiare le carte in tavola così all'ultimo momento gli appariva un inutile eccesso di zelo.

- Non voglio trascinare mia moglie nell'ennesimo progetto scellerato ... non lo merita! - gli spiegò, precedendo la domanda che immaginava sarebbe arrivata di lì a poco.

- Ti ha dato di volta il cervello? Vuoi abbandonare tua moglie? - replicò, con un tono eccessivo, incredulo.

- E' necessario, la mia vita è un groviglio spinoso e fetido e, fintanto che ella mi rimarrà accanto, nessuno dei due avrà pace. -

- E lasciarla sarebbe la soluzione? – incalzò, poiché si sentiva obbligato ad abbandonare la sua consueta calma per quei vaneggiamenti dell’amico.

- In questo momento, è l'unica, sì. Un giorno, forse ... -

- Se la lasci adesso, perderai ogni diritto ad un futuro insieme a lei. - lo interruppe, moderando il tono aggressivo che si era lasciato sfuggire, - Lo sai, vero, che ti odierà per aver reciso il vostro legame nel momento in cui, invece, avresti dovuto stringere di più i nodi? - lo avvertì, parandosi davanti a lui e cercando di farlo riflettere.

Tenere la propria donna affianco era la scelta verso cui cuore, anima e carne lo spingevano, ma Eìos, pur amando Ariela sopra ogni cosa, rimaneva un egoista. Non avrebbe saputo sopportare che, tra le fughe e le difficoltà, Ariela rimpiangesse la loro unione, né che egli stesso finisse col maledirsi per averglielo permesso.

Dunque, fuggiva senza di lei non per salvarla, ma per salvare sè stesso!

Ma questa vile debolezza non l’avrebbe mai confessata, né ad un sacerdote in camera caritatis^, né ad Ariela, perché ne avrebbe alimentato le speranze, tantomeno all’uomo che gli stava davanti e che lo invitava a riflettere.

- Preferisco che mi odi sin d'ora, piuttosto che vederla indurire poco a poco per una esistenza di fughe e paure continue. Voglio che si penta oggi d’avermi scelto e non domani per avermi seguito! - replicò con decisione, senza però il coraggio di mostrargli gli occhi, che avrebbero rivelato la menzogna. – E non voglio … non voglio per lei l’inferno che spetta a me per essere nato dannato! –

- Rifletti. - insistette l'altro, tentando di indurlo a rivalutare le proprie decisioni.

Non era più il tempo delle riflessioni, non era più il tempo dell’illusione di poter amare ed essere felice; se l’avesse lasciata in quel momento, si sarebbe assicurata almeno la speranza di poterla avere ancora.

Era solo il tempo della speranza, come la semina per il contadino, al quale promette i frutti e le messi, al prezzo di lavoro e sudore; di preghiera e pazienza.

- La decisione è presa! – pose fine alla discussione con una frase lapidaria che non ammetteva repliche.

- Verrò con te, dunque. – propose Betel disarmato.

- Ciò che vale per Ariela, vale per te, Betel! - lo avvertì.

- La decisione è presa! - lo imitò, con la stessa determinazione con cui, pochi minuti prima, Eìos gli aveva impedito di replicare.

- Se il tuo cavallo è già sellato ... - acconsentì, rendendosi conto che la fuga sarebbe stata più accettabile con al fianco un amico.

- Non cavalco mai a pelo, se non sono costretto ad inseguire qualcuno! - ironizzò, riferendosi alla notte in cui Eìos, aveva lasciato il rifugio nel bosco come un forsennato.

Eìos sorrise alla battuta, solo con un angolo della bocca. Una metà di sé stesso era rinfrancata di non rimanere solo lungo la strada per allontanarsi dalla donna che amava, ma all'altra parte del suo cuore, quella soluzione appariva comunque una magra consolazione, vacua e infruttuosa.

Sospirò e passò le dita tremanti sugli occhi già stanchi, poi, ancora con la faccia nascosta tra le mani, gli suggerì: - Va' a dirle addio. -

 

*************

 

Uno scricchiolio tintinnò sul vetro della finestra oscurato dall’interno, come un sassolino che rotola su di una superficie liscia.

Sabra era ancora sveglia, nonostante si fosse infilata sotto le coperte già da qualche ora. Un pensiero fisso continuava a rimestarle lo stomaco; come una cantilena orecchiabile, le ronzava nella testa e le impediva di abbandonarsi e prendere sonno.

Quando il rumore ovattato la riscosse dal ritmo sommesso, ma incessante dei suoi pensieri, rotolò nel letto, per indirizzare il viso verso la finestra da cui esso proveniva. Rimase ferma e in ascolto, fino a che udì un altro rumore leggero, secco e crepitante. Si alzò dal letto, lasciando che lenzuola e coperte vi ricadessero scomposte, e aprì uno degli scuri. Dall’altra parte del vetro, nella semioscurità della notte, le apparve Betel, il cappuccio del mantello calato sul capo, fino quasi sopra agli occhi, e le punte delle dita a tamburellare sulla superficie trasparente.

- Debbo parlarvi – le disse, non appena ella ebbe aperto l’anta, - Indossate qualcosa sopra quella camicia e venite con me. – aggiunse, indicando l’abbigliamento di lei.

Sabra calò gli occhi su di sé: la camicia da notte che indossava era bianca e senza maniche, leggera e trasparente. Nonostante la temperatura notturna fosse ormai piuttosto fredda, le piaceva infilarsi sotto le coperte pesanti con pochi indumenti addosso e lasciare che il tessuto avvolgesse la pelle nuda, come fosse un bozzolo caldo e rassicurante. Portò istintivamente il palmo della mano a coprire la scollatura, mordendosi il labbro inferiore per l’imbarazzo. Ma quando tirò su gli occhi, Betel era già di spalle, ad aspettarla vicino alla staccionata bianca che delimitava la piccola aia dietro la casa.

Sabra accostò l’anta, poiché l’aria gelida la faceva rabbrividire, e si vestì più in fretta possibile, calzando le scarpe e coprendosi anche il capo con il cappuccio del mantello; scavalcò il davanzale e lo raggiunse, apprensiva per il motivo che doveva averlo indotto a cercarla a quell’ora, e, al contempo, eccitata per la visita inaspettata del protagonista dei suoi insistenti pensieri notturni.

Camminarono fino a che raggiunsero la spiaggia, in silenzio, l’una di fianco all’altro, attendendo di essere abbastanza lontani perché le loro voci non rompessero la quiete della notte e qualcuno si accorgesse di loro.

Non c’era vento; il mare era uno specchio d’acqua calmo e nero, così come il cielo, limpido e senza nubi. La luna era come una falce, piccola e lontana e, per questo, le stelle apparivano ancora più scintillanti, tanto che Sabra, in quello scenario perfetto e riverberante, riconobbe subito la figura di Orione.

- E’ quella vero? – chiese, puntando il dito verso la stella rossa, - La vostra stella, intendo. – precisò, guardando fisso l’astro, per non essere costretta a guardare lui.

- E’ quella. – rispose, - E quelle sono: Sirio e Procione. – indicò, prendendole la mano e, con l’indice di lei ancora puntato verso il cielo, disegnò una figura in cui un vertice era rappresentato da Betelgeuse e gli altri dalle due stelle. – Costituiscono il triangolo invernale … - cominciò a spiegare, con il viso vicino a quello di lei.

Ma a Sabra non interessavano le lezioni di astronomia, non nel momento in cui la vicinanza dei loro corpi e il desiderio di conoscere i pensieri di lui la torturavano.

Eppure, orgogliosa com’era, preferì nascondersi dietro la curiosità per quella visita notturna e gli chiese: - Perché mi avete cercata nel cuore della notte? –

- Per dirvi addio! – le rispose secco, con lo stesso tono distaccato della voce con cui si parla a un semplice conoscente, sebbene il corpo e il cuore cercassero disperatamente di farsi il più vicino possibile a lei.

Il respiro le si incastrò negli alveoli dei polmoni, costringendola a deglutire, ma, nonostante tremasse, come se una lama di vento freddo si fosse infilata sotto i vestiti, si limitò a constatare: - Partite, dunque … -

- Tra poche ore. – precisò, - Io ed Eìos salperemo da soli, dal molo grande prima che giunga l’alba. – aggiunse, sfiorandole la guancia col proprio respiro.

- Avevate detto che il capitano sarebbe partito domani, con sua moglie e a cavallo … - gli ricordò, - Perché ora … invece … - farfugliò, stanca di mantenere il controllo di un orgoglio che andava sgretolandosi, via, via che la mente metteva a fuoco l’imminente partenza.

- I suoi progetti sono cambiati e così i miei. – rispose vago.

- E voi? Cosa c’entrate voi con il suoi progetti? – lo incalzò, rimanendo di spalle, perché egli non potesse accorgersi del tremore delle labbra e degli occhi che divenivano sempre più liquidi.

Betel le girò attorno, le si fermò davanti, per guardarla in viso; il suo torace la sfiorò appena, eppure ella si sentì riscaldare da un tepore, improvviso e violento, come la folata di aria calda che esce dalla bocca del forno. Egli arrotolò la manica fino al gomito, scoprendo la pelle del braccio destro, poi, passando la punta delle dita dell’altra mano sulla cicatrice che lo percorreva per intero, aggiunse: - Vedete questa? E' la testimonianza continua e quotidiana che gli debbo la vita. E, per quanto egli non faccia altro che ripetere che il debito sia già saldato, io so che il conto con lui rimarrà aperto, fino a che egli avrà bisogno di un amico. -

- Se foste davvero suo amico ... gli insegnereste che chi ama non fugge davanti alle difficoltà. - lo accusò, - Invece, voi avallate le sue scelte e vi fate suo complice. -

- Un amico non giudica, Sabra; piuttosto, induce a riflettere, insinua un ragionevole dubbio, e, infine, accetta le scelte dell'altro. E così farò io e se questo mi renderà complice scellerato, Iddio scelga, pure, già da adesso la mia pena! - concluse, allargando le braccia e rivolgendo il viso sereno e consapevole al cielo, come se aspettasse già in quell’istante il giudizio finale.

- Siete il degno compare uno stupido! -

- Forse avete ragione. Forse, davvero sono lo stupido che, per tenere fede ad un sentimento, ne tradisce un altro. Non lo so, sarà il tempo a darvi torto o ragione ... -

- Non sono queste le parole che mi sarei aspettata dall'uomo che mi ha appena detto addio ... -

- Venite qui. - le ordinò, attirandola a sé, - Lasciatevi abbracciare e ... non graffiate! – l’ammonì con un sorriso, stringendole le braccia intorno alle spalle e schiacciandole il petto sulla guancia accaldata e appena umida di un pianto silenzioso. - Vi porterò con me, nel mio cuore. Quali altre parole vorreste sentire dall'uomo che vi ha appena detto addio? -

- Che tornerà ... - suggerì, con una vocina piccola e dolcissima, una supplica tanto delicata quanto penetrante.

- Per tenervi legata? Per impedirvi di accettare l'amore e la serenità che vi offrirebbe un altro? Non sono, Sabra, uomo di promesse vane ... -

Sabra gli strinse intorno al busto le braccia, che fino a quel momento aveva tenute inerti lungo i fianchi, affondò la punta del naso tra le pieghe della tunica e Betel sentì la stoffa inumidirsi leggermente.

- Tirate su gli occhi ... - la esortò, ignorando il silenzioso tentativo del proprio cuore di ribellarsi alle sue stesse decisioni.

Ma Sabra non gli obbedì; cercò le sue mani e intrecciò le dita, fino a che un mezzo sorriso comparve sulle labbra di entrambi, mentre la punta dell'indice destro si attardava sull'anello che egli portava al mignolo. Era un semplice cerchio di metallo prezioso e sfavillante sul quale erano incisi arcani segni, che ella tentava di decifrare, come un cieco che con il tatto conosce ciò che non può vedere.

- Fu il dono di mia madre, quando lasciai la mia terra; vi è inciso il mio nome, nella mia lingua: Yad - al Jawa ... - le spiegò, indicando ad una, ad una le lettere che lo componevano, - Lo porto sempre da allora: é il simbolo della mia famiglia e del rispetto per chi mi ha generato. - aggiunse, mentre seguiva con gli occhi l'indice della ragazza, che a sua volta seguiva il suo sul rilievo delle lettere.

Quando l'esame attento di lei terminò, Betel ritrasse la mano e sfilò il monile; sollevò quella di Sabra, tenendola sul palmo aperto della propria, e cercò il dito adatto ad indossarlo. Era troppo grande per quelle sottili di lei, tranne che per il pollice, per il quale sembrava fatto su misura.

- Tenetelo voi, ve ne prego. Vi rammenterà ogni giorno di come mi avete toccato il cuore. - le sussurrò, infilandoglielo, - Ma non siate schiava del suo racconto, come le donne che portavano a questo dito il nome del proprio padrone*, - suggerì, sfiorandole la pelle con dolcezza, - Siate libera, dai sentimenti e dai ricordi, libera come vi ho conosciuta. - Ed ora ... quel bacio … - continuò, liberandole con la punta delle dita, le ciglia dalle lacrime, - ... quel bacio che vi sareste aspettata quella sera, ma che, stupido, vi negai. Quel bacio, adesso, ve lo darei volentieri. - le rivelò, con la naturalezza del giusto che asseconda ciò che il proprio cuore brama.

Sabra sollevò gli occhi e protese il viso verso quello di lui; gli porse le labbra, come si offre un dono, e aspettò che la baciasse, aggrappandosi alla schiena dritta e forte, con la stoffa della camicia stretta nei pugni. Quando la bocca di lui sfiorò la propria, un brivido le scaldò il cuore, contagiando le membra fino alla punta delle dita, che si conficcarono nei muscoli della schiena. Sabra si schiuse tutta, come si schiudono i fiori alla rugiada della mattino, la bocca e il ventre e l'anima. Quel bacio finì in una carezza sulle labbra, si frantumò in mille piccole altre agli angoli della bocca, sulle guance e sugli zigomi umidi; sulle palpebre chiuse, sulle sopracciglia e sulle tempie pulsanti. E poi riprese vigore, per ricomporsi in uno nuovo, ancora più intenso e di tante pretese.

Ma non ci furono promesse dentro quel bacio, né negli altri mille che vennero dopo; nessuna rassicurazione di un ritorno, in un momento qualunque delle loro esistenze; nessuna dichiarazione di fedeltà, nessuna speranza; non vi furono nascoste dichiarazioni d'amore o tentennamenti. Entrambi seppero, in ogni schiocco di labbra, negli intrecci delle lingue e nella ricerca della pelle, che quello era l'addio e la fine.

Così lo protrassero più che poterono, in piedi, tra terra e mare; stretti sotto il cielo e dentro le stelle, fino a che la notte si consumò e il sole e l'allodola annunciarono impietosi l'arrivo imminente del giorno. Le offrì un ultimo bacio tenero sulla fronte, sulla quale indugiò qualche secondo, con calma devota, mentre le mani le accarezzavano la schiena, fino alla vita e poi ai fianchi.

I corpi si sciolsero, riprendendo ciascuno il proprio spazio originale. Solo le mani si tennero ancora strette per gli ultimi secondi in cui gli occhi si guardarono. Poi Betel voltò le spalle e si incamminò verso la radura che confinava con la spiaggia; l’andatura veloce, come quella di chi ha premura, e, al contempo, le spalle leggermente incurvate dal peso dell’abbandono, che avrebbe provato, da quel momento in poi, anche il cuore.

Sabra lo guardò andare via, come le speranze che si infrangono sugli scogli delle avversità, come i sogni che al mattino diventano ricordi confusi, ma le parole dolci di quella notte, i cari baci che le avevano intorbidato membra e anima e le carezze di fiamma le avrebbe conservate per la vita, disposte in bella mostra nel proprio cuore, come un'appassionata collezione di oggetti preziosi.

 

*************

 

Il percorso dalla casa al molo, fu lento e silenzioso, lungo la battigia, con il rumore della risacca a fare da controcanto all’assordante urlo dei pensieri di entrambi.

Lasciavano un luogo che per tutti e due era stato la casa, l’appartenenza e la promessa, seppure in principio derisa, di un futuro migliore di quel passato che si erano lasciati alle spalle. Il destino, in maniera diversa, li aveva resi vagabondi, artisti girovaghi in cerca di applausi e di un posto sicuro dove piantare le proprie tende. Ma proprio quando la ricerca sembrava essere giunta alla fine, lo stesso destino aveva cambiato le carte in tavola, costringendoli a puntare una posta più alta.

E aveva vinto! Poiché il destino è un baro e gioca sempre e solo secondo le regole che egli stesso decide.

Il cielo era diventato nero, finanche verso est, dove un giorno timido stentava a mostrarsi, ingombro di nubi plumbee e gonfie come otri, pronte a squarciarsi e vomitare la tempesta che già rombava dentro.

Sul molo, accanto alla passerella accostata al ponte dell’imbarcazione, li attendeva Ratho, la faccia smunta, gli zigomi affilati e i capelli rossi e arruffati, come se si fosse appena svegliato. Invece, non aveva dormito neanche un’ora, si era rigirato nel suo giaciglio con gli occhi sbarrati e puntati sulle travi scrostate del soffitto, nell’attesa dell’ora della partenza; si era accorto, nella sua veglia agitata, della visita di Betel alla sorella. Li aveva spiati, dai vetri della cucina, mordendosi le labbra indeciso sull’intervenire o meno: un incontro notturno, per una giovane, per giunta promessa, era disdicevole e compromettente, anche se egli sapeva che quello sarebbe stato solo un addio. Alla fine però si era fidato di Betel, della sua onestà, del rispetto che avrebbe portato a Sabra ed era rimasto in piedi dietro i vetri a guardarli allontanarsi nel buio.

Quando vide smontare da cavallo il capitano e il suo compagno, si avvicinò loro e raccolse le redini, tirò su col naso un paio di volte, come fanno i bambini che trattengono la voglia di piangere.

- Ti affido i nostri cavalli, abbine cura: strigliali, abbeverali e da’ loro biada in abbondanza. Fa’ che amino il loro nuovo padrone! – si raccomandò Betel, mentre lisciava il muso rosa del suo animale.

- Hai lavorato bene, per me, Ratho, in questi anni. – si complimentò Eìos, dandogli una pacca sulla spalla, - Il dottor Elmisk ti darà, per mio conto, la ricompensa che meriti. – aggiunse, mentre l’altro raggiungeva la passerella.

- Non voglio danaro, capitano. Solo … portatemi ancora con voi … - lo supplicò, con gli occhi, così pieni di lacrime, da non riuscire più a distinguere ciò che aveva davanti.

- Questo è il tuo posto. Tu devi essere il sostegno della tua famiglia. – gli ricordò, avviandosi alla barca, a passi pesanti e svogliati, che fecero scricchiolare le assi lustre del ponte.

La tempesta era sempre più vicina, salpare in quel momento li avrebbe catapultati al centro della sua furia, ma, né il capitano, né i suoi marinai se ne dettero pena. Le tempeste erano una coreografia ricorrente durante i viaggi in mare: tutti vi erano avvezzi, compreso il Leviathan, e l’avrebbero affrontata uscendone indenni.

Eìos dette ordine ai marinai di mollare gli ormeggi; la sua voce decisa risuonò nel silenzio innaturale e quasi sinistro che li circondava. Un brontolio rotolò dal cielo di piombo sulla superficie leggermente increspata del mare e un fulmine squarciò l’orizzonte, poche miglia fuori dell’imbocco della baia.

In mezzo al vento e alla pioggia che cominciava a colpire mare, ponte e uomini, come i proiettili di un esercito feroce e arrabbiato, percorsero il tratto di mare che separava il molo dal capo di Naeuna, doppiato il quale sarebbero stati fuori dalle acque di Patnarak, quando uno dei marinai urlò a squarciagola, richiamando l’attenzione degli altri: indicava le punte dei due alberi maestri del Leviathan, dritti in mezzo alla tempesta.

Entrambe bruciavano dei fuochi di Sant’Elmo°° dai pallidi bagliori bianco-bluastri; sulle estremità dei parafulmini sfrigolavano guizzi di piccole fiamme brillanti, che scintillavano nell’aria elettrica del temporale, "come giganteschi ceri davanti a un altare"**.

 

 

 

°L’Acidanthera è un gladiolo originario dell’Africa settentrionale. Ha una fioritura particolarmente tardiva dalla fine estate all’autunno.

^Espressione latina che letteralmente significa "in camera di carità", usata per indicare un luogo appartato, dove nessuno possa sentire, come in un confessionale.

*Mi riferisco all’usanza diffusa nell’antica Roma di indossare l’anello al pollice per distinguere lo schiavo dal cittadino libero.

°°Il fuoco di Sant’Elmo è un fenomeno meteorologico dovuto all’elettricità statica contenuta nell’aria durante un temporale. Appare come un bagliore, simile ad un fuoco con getti doppi o tripli, ed è visibile sulla punta di strutture alte e appuntite come gli alberi maestri delle navi, ma anche talvolta sulle corna dei buoi.

**Da Moby Dick di Melville.

**********************************

Ben tornate!

Con questo capitolo si chiude la prima parte della storia.

Eìos abbandona Ariela, per non costringerla ad un’esistenza di fughe e difficoltà; così come Betel lascia Sabra e nega al sentimento nuovo e forte che nutre per lei la possibilità di crescere.

Ma nessuno in questa storia è tipo da rassegnarsi!

Ringrazio tutti quelli che leggono e, in particolar modo chi recensisce.

Grazie anche a chi scopre la storia e la inserisce tra le seguite e chi tra le preferite.

Un grazie speciale a Drachen!

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Capitolo 39
*** . 39 . Qualunque cosa accada ... ***


. 39 .
 

Qualunque cosa accada …


 

Alzò di scatto la testa dal cuscino, la fronte imperlata di sudore, i capelli appiccicati alle guance e nello stomaco un groviglio di spine.
Da mesi, ormai, durante sonni travagliati, continuava a sognare la notte in cui Eìos era salpato. Le sue parole pungevano come punte di spillo, non solo nel cervello, ma anche addosso, sulla pelle, come se indossasse un cilicio insopportabile, che le ricordava la sua penitenza.
Se l’era trovato davanti così, quella notte, uno sguardo duro e determinato, le parole affilate e dolorose, le più precise e cattive che fosse riuscito a trovare.

- Parto stanotte! – le disse ancora di schiena, richiudendo la porta della loro stanza da letto.
Senza guardarla, rimase fermo, mettendo tra loro la distanza necessaria a farle comprendere che faceva sul serio, con una voce ferma, controllata, come quella di chi ha già preciso in mente il filo del discorso.
Ariela rimase intorpidita, come se le parole le giungessero distorte, inafferrabili per il suo cervello; fece per emettere un suono, la richiesta di una spiegazione, ma, allo stesso modo dei pensieri, anche le parole si ingarbugliarono, ferme tra la lingua e il palato, lasciandola a bocca aperta, mentre Eìos riprendeva a parlare.
- Salperò dal molo grande, con la mia barca e tu non verrai con me! – esordì secco, una ruga spessa tra le sopracciglia che gli rendeva lo sguardo ancora più severo. – Ho riflettuto. – continuò, come se volesse rispondere alle domande che trasparivano sul volto di lei, smarrito come quello di una bambina. – Sono destinato all’inferno, prima in questa vita, poi nell’altra e tu non sei destinata a me. - spiegò e ad Ariela le parole caddero addosso come un’accusa. – Mi sono illuso, ho combattuto per una vita placida e serena, ma adesso mi è chiaro che questo … - disse, indicando con gli occhi, tutto ciò che gli stava intorno, compresa lei, - … non era il mio destino. – continuò, con un sospiro a svuotare i polmoni dell’aria accumulata, per liberarsi anche del peso opprimente che quelle parole recavano. – Se fossi stato più scaltro, non ti avrei scelta per questo progetto scellerato di vita insieme; ad essere franchi, non avrei scelto alcuna donna. Ma lo volevo, volevo questo, questa vita e la serenità di questa casa. E volevo te, tanto da mentire a me stesso, affinché credessi di meritarlo. E sono stato così bravo a mentire, che neanche io ho distinto più tra la menzogna e la verità! –
- Eìos … - fece per replicare, ma egli la zittì, portando l’indice destro sulla punta del naso.
- Ti ho mentito ... non ci sono case di pietra, né campi coltivati o rigogliosi frutteti; non ci sono profumi di cibo e grida di bambini nel mio futuro, ma soltanto fughe e scherno, guerra, guerra e fuoco. -
- Sono pronta, Eìos ... alla guerra e al fuoco; sono pronta anche all'inferno, ma non ... - tentò di supplicarlo, non poteva accettare neanche una delle sue parole poiché il loro significato, la durezza con cui le pronunciava e la determinazione le rendevano affilate come la lama di un'arma e la ferivano.
- Io ... non sono pronto. Non con te affianco. - la interruppe, impedendole di insistere, - Ma non ti accorgi, Ariela, che questo nostro legame m'imprigiona? Non senti anche tu che mi mette ai polsi e alle caviglie vincoli insopportabili; che mi impedisce di combattere? Non vedi che invece di lottare, fuggo; invece di gettarmi nella battaglia, mi garantisco la ritirata? -
- E cosa c'è di sbagliato nel volersi salvare? - replicò, stringendo le gonne tra le mani.
- Nulla, se sei un uomo di pace! Per quelli come me, invece ... c'è soltanto la guerra! E la guerra si fa con accanto un soldato forte almeno quanto te, oppure si fa da soli! -
- Io non sono forte abbastanza, dunque! - affermò, come se avesse avuto un'illuminazione.
- Da questa notte ... io non sono più tuo marito e tu non sei più mia moglie. Qualunque vincolo … qualunque legame sia esistito tra noi finisce questa notte! - terminò, voltandole le spalle e guadagnando la porta velocemente, come se avesse paura che nella replica, che le vedeva già pronta sulle labbra, ella riuscisse a trovare le parole, i respiri necessari ad imporgli la resa al desiderio incalzante di riprenderla tra le braccia e rimestare ogni sua decisione, come il suo cuore gli chiedeva.
Ma Ariela non si mosse, né le sue labbra produssero suoni; rimase a guardarlo, mentre spariva dietro il legno intarsiato della porta, priva di forze e velleità, priva finanche della capacità di piangere, nonostante le lacrime premessero agli angoli degli occhi fino a farle male.

Scosse la testa, come per liberarla dal ricordo di quella notte; si mise a sedere, le gambe incrociate e le braccia strette al petto, tirando sulle spalle le coperte aggrovigliate di un letto sfatto e troppo grande per riscaldarlo da sola.
Eìos aveva avuto ragione, quella notte. Ella non era mai stata forte abbastanza: nella vita non era mai stata un soldato, neanche il più vigliacco dei soldati, di quelli che si attardano nelle retrovie, mandando al macello gli altri. Non era stata abbastanza forte affinché egli non dovesse preoccuparsi di guardarle le spalle, né il suo amore lo era stato, perché egli potesse farne uno scudo per entrambi.
E per questo era rimasta sola, perché non era stata abbastanza.
Lo stomaco cominciò ad aggrovigliarsi, come le accadeva tutte le mattine, quando apriva gli occhi su di una nuova giornata sterile e pesante. Quando il profumo pungente dei fiori accanto alla toletta le raggiunse le narici, una nausea improvvisa le invase la bocca. Si portò una mano a coprirla e si piegò in due, per contenere un primo conato e poi un secondo; quando finalmente sentì che le viscere si distendevano, abbandonò il capo all'indietro sul cuscino, inspirando lentamente.
Sarebbe rimasta volentieri in quella stanza silenziosa, avvolta nelle lenzuola aggrovigliate, per tutto il giorno, senza essere costretta ad acconciarsi i capelli, ad indossare abiti costrittivi ed assumere un aspetto compito e ordinato, mentre dentro di lei tutto era sottosopra.
Ma sua madre, da quando Eìos aveva lasciato Patnarak, aveva preso l'abitudine, talvolta asfissiante, di farle visita ogni giorno, per tenerle compagnia, diceva. Sempre più spesso si tratteneva anche per la colazione, costringendola a consumare di malavoglia pasti abbondanti. Ormai non aveva quasi più appetito e finiva col nutrirsi soltanto perché sua madre non le desse insopportabili tormenti sulla cura della sua salute.
La campanella del cancello trillò impietosa, annunciando la visita di Ashma, così Ariela fu costretta a uscire dal confortante limbo nel quale avrebbe potuto continuare ad essere fuori, esattamente come si sentiva dentro: trasandata, stanca e svogliata.
Poggiò i piedi bianchi e nudi sul pavimento gelido della sua casa in inverno, il freddo della maiolica policroma le provocò un brivido, che le fece tremare anche le ossa coperte dalla carne, ma, al contempo, le dette come una scossa che la risvegliò completamente dal torpore.
Si deterse viso e collo, indossò gli abiti più comodi che avesse e pettinò i capelli, intrecciandone le ciocche bionde e lunghissime e, dopo il sospiro di chi si avvia alla penitenza, raggiunse la madre.
- Buongiorno. - la salutò, ostentando un sorriso tirato, di circostanza.
- Buongiorno a te, figliola. - le rispose la madre, baciandole amorevolmente la fronte. - Ti senti bene, Ariela, sei pallida stamattina. -
- Sono sempre stata pallida, madre. Inoltre, non dimenticate che siamo in dicembre e la mia carnagione risente dell'umore dell'inverno. -
- Forse ti farebbe bene cambiare un po' aria. - le suggerì, prendendo posto davanti al camino acceso. - Sai che Nubia è ormai al termine della gravidanza ... - riprese, - ... e che quando il bambino sarà nato, ella lascerà la città. -
Ariela annuì distratta dalle fiamme guizzanti che popolavano la bocca del camino, come se partecipasse a quella conversazione solo per buona educazione.
- Che crudeltà separare una madre dal proprio bambino ... - sospirò. - Quella povera figlia, patirà una pena insopportabile. - aggiunse.
Ariela non rispose. Pensava che Miran avesse trovato sì, una penosa soluzione, ma anche che Nubia avesse la colpa di non essersi opposta. Anzi, ella aveva accettato pedissequamente, forse più per liberarsi da un matrimonio, che evidentemente non aveva mai desiderato, e godersi il vitalizio e gli agi che le erano stati offerti, che per reale impotenza.
- E per questo che ho deciso di vendere la casa e di andare con lei. - terminò, con un altro sospiro, sperando di muovere a pietà la figlia, che, al contrario, rimaneva a contemplare il vuoto. - Perché non vieni con noi anche tu? Potremmo vendere anche questa casa e col ricavato e il vitalizio di Nubia, vivere senza preoccupazioni. - propose, con una voce che passò velocemente da uno tono abbattuto, ad uno entusiasta.
- Non posso vendere questa casa. - replicò, quasi rassegnata all'ennesimo tentativo della madre di gestire la propria vita.
- E perché mai? Non è forse tua? Non ti fu, forse, donata per le nozze da quel ... quell'uomo? - 
- E' mia, sì! - si alterò, - Appartiene a me e proprio per questo motivo non la venderò mai! -
- Ma ragiona: in un'altra città, dove nessuno ci conosce ... potremmo ricominciare una vita nuova, senza assilli o vergogne ... -
- Io non ho colpe! - si difese.
- Certo, che non è hai. Ma, figlia mia, la vergogna di essere stata lasciata ... -
- Io non ho colpe e non ho vergogna! - insistette con tutta la forza che aveva in corpo.
Non era sua la colpa di ciò che le era accaduto: perché avrebbe dovuto sentirsi in colpa per essere rimasta sola, o vergognarsi per la condanna di Eìos o per la sua fuga?
- E sia! - accondiscese Ashma, sebbene fosse dell'opinione che un matrimonio con un uomo della risma di suo genero, testimoniasse, in verità, la colpa di essere stata ingenua e la fuga di lui dovesse essere fonte di amara vergogna. - Ma quando la procedura per disconoscere Eìos, sarà giunta al termine, il matrimonio civile, come quello religioso, non avrà più alcun valore. Perché rimanere in questo luogo, dove tutti conoscono le tue vicende? Sei ancora così giovane e bella, puoi aspirare ad un'altra unione che finalmente possa darti stabilità e serenità! -
- Che sciocchezze andate blaterando, madre! Credete davvero che, quand'anche il mio matrimonio fosse annullato, mi tornerebbe la voglia di maritarmi ancora? -
- La verità è che tu continui a sperare nel suo ritorno? - concluse affranta.
- Vi sbagliate, madre. Sono certa che egli non tornerà più! - la corresse con un'amarezza nella voce che le fece annodare alla donna lo stomaco. - Nondimeno io rimango sua moglie. -
- Ariela ... -
- Vi prego, madre, vi ho già detto che non intendo vendere la casa, né seguirvi alla ricerca di una terra promessa per ricominciare o dimenticare o soffrire meno. Non insistete o sarò costretta a mancarvi di rispetto! - l'avvertì, con una determinazione esasperata.
- Sei cocciuta come un mulo disobbediente! - si arrese, - Comunque ... hai ancora tempo per riflettere, almeno fino a quando non nascerà il bambino. Ora ti lascio. - la salutò ancora accigliata, - Devo ancora preparare i bagagli per raggiungere tua sorella alla tenuta: voglio esserle accanto già in questi giorni che precedono il parto. -
- Fate buon viaggio, madre. - le augurò sollevata che la visita si fosse conclusa prima del previsto e senza lo strazio di sedere a tavola con lei.
L’accompagnò alla porta, il gelo dicembrino penetrò nella stanza e dentro le ossa intirizzendola; aspettò che oltrepassasse il cancello di ferro al di là del giardino, il mantello ondeggiava al vento che spazzava le foglie accartocciate sulla ghiaia del vialetto; poi rientrò, per scaldarsi accanto al fuoco confortante della sua casa.
Sua madre aveva ragione: Eìos l’aveva abbandonata, per essere libero e non doversi preoccupare della zavorra che una donna inesperta e poco avvezza ai colpi della vita quale ella era, ma anche Ariela aveva detto la verità, rassicurandola sul fatto che non si aspettasse il suo ritorno.
Uno come Eìos non torna, non rimpiange le proprie scelte, non rimescola le decisioni.
Eppure, nonostante quelle certezze, una piccola parte dei suoi desideri confidavano in suo ripensamento, forse perché la speranza è il fuoco che anima sommessamente le braci; che si nasconde sotto la cenere in attesa di divampare ancora.
O forse soltanto perché aggrapparsi ad una speranza allevia la sofferenza, l’inferno diventa limbo, la sofferenza, abitudine.
Un leggero stordimento le invase la testa, come la pioggia estiva che sorprende all’improvviso; fu costretta a sedere, mentre socchiudeva gli occhi in preda alle vertigini. Erano certamente le notti insonni, gli incubi che popolavano le scarne ore di sonno; i rigurgiti di pensieri pesanti e il poco cibo a minarle la salute a dissiparle le forze.
Continuare in quella lenta e triste agonia, subire l’inverno, nell’attesa, forse, in un ritorno della bella stagione, era sciocco e deleterio: presto il proprio corpo avrebbe chiesto il conto della sua trascuratezza e allora neanche la primavera l’avrebbe fatta rifiorire.
In quell'istante, Ariela prese una decisione: non avrebbe venduto quella casa, non avrebbe lasciato la città con sua madre e sua sorella, ma dal quel momento in avanti non avrebbe più aspettato.
Chiamò Alvita, che si affaccendava nella stanza da letto, si raccomandò che le preparasse un buon pasto, corroborante e sano, che le togliesse il vuoto nella pancia e le allettasse il palato; le ordinò di spalancare le finestre, di lasciare che l’aria di mare gelida e salmastra invadesse la casa; che il vento spazzasse fuori apatia e malumore e le tende si gonfiassero, come le vele delle navi che puntano verso nuovi orizzonti.


**********************

 

La neve era caduta lentissima, senza peso, senza alcun rumore; per l'intera mattinata, aveva volteggiato elegante, come una ballerina, prima di cadere al suolo e ricoprire strade, davanzali, punte di alberi striminziti, conferendo alle cose leggerezza e candore, come le anime dei bambini.
Una nevicata era uno spettacolo avvolgente e conquistatore che sembrava per un attimo assorbire, nella sua danza, i rumori della città; lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli sul selciato delle strade; il traffico delle carrozze e dei passanti nelle ore di punta dei primi giorni di dicembre.
Eppure, nonostante l'incanto e la magia stupefacente, il freddo dell’aria, il cielo bianco, come un cencio, e l’aria immota cominciavano ad infastidirlo.
Per chi nasce in un luogo di mare, alla lunga, è impossibile sopportare il gelo, gli inverni freddi e interminabili nelle terre lontane dal sole e la temperatura al di sotto dello zero; si finisce col perdere la capacità di respirare, i polmoni congelano e tutto si ferma, come se non dovesse finire mai.
Così rimuginava, guardando da dietro la grande vetrata della sua camera in affitto, la via principale della grande città dove si erano fermati negli ultimi mesi. La gente camminava per la strada frenetica e veloce, calpestando i marciapiedi ripuliti dai cumuli di neve caduta nella notte; un monello imbacuccato dava ad un cerchio°, di quelli che i bottai non usano più per le bigonce, piccoli colpi con un bastoncino per dare alla circonferenza di legno equilibrio e velocità, come per farle seguire un binario immaginario; un gruppo di ragazzetti chiassosi lo inseguiva in una gincana, non curandosi dei passanti infastiditi, come se essi fossero i soli padroni della strada. Schioppi di zoccoli e stridore di freni delle carrozze inquinavano l’aria e gli facevano rimpiangere la spiaggia e il mare, dove gli unici rumori erano quelli armonici dell’onda e della risacca.
La porta alle sue spalle si aprì e si richiuse, con un cigolio misurato, ma fastidioso; i passi del suo amico percorsero felpati il pavimento ricopert dal tappeto di lana, fino a che si fermarono accanto ad una poltrona di velluto scuro.
Betel vi sprofondò come se fosse stanco, la stoffa cambiò colore sotto la pressione del corpo, come la superficie dell’acqua che cambia per effetto delle correnti sottomarine, e con un tono biascicato richiamò la sua attenzione.
- E’ arrivata con la diligenza postale di stamattina. E’ indirizzata a me, ma il mittente è tuo padre. – spiegò, lasciando cadere sul tavolinetto imbandito per la colazione, una missiva col sigillo di ceralacca del dottor Elmisk.
Avevano concordato col vecchio di comunicare attraverso lettere indirizzate all’arabo, poiché egli era un uomo libero, al contrario di Eìos, che aspettava ancora che la giustizia facesse il proprio corso.
Il giovane ne aprì i lembi con un tagliacarte d’argento e iniziò a leggerla, mentre l’altro spezzava in due una fragrante brioche ancora calda e ripiena di una profumata crema di amarene.
- Credevo ti avessero già servito la colazione in camera … - lo redarguì.
- Infatti, ma poiché ho l'abitudine di consumare la colazione di primo mattino, a quest'ora, mi prende sempre un certo languore ... – ribatté, addentandola con gusto, come un bambino davanti ad una leccornia.
Eìos sorrise, nonostante la sua colazione stesse finendo in un altro stomaco, e riprese la lettura della missiva dal punto in cui l'aveva interrotta.
- Dunque? - chiese Betel, mandato giù il primo boccone.
- L'istanza per la revisione delle prove a mio carico è stata accolta: il giudice ha esaminato il registro sottratto a Kuvee e ne ha confrontato i codici con quelli che contrassegnano le casse di armi rinvenute nel Leviathan. L'accusa di contrabbando decadrà non appena le prove acquisite saranno messe agli atti. - spiegò.
- Era ora! - esultò l'altro, - Temevo che quell'azzeccagarbugli, non ci riuscisse, visto il tempo che ha impiegato ad arrivare a questo punto. –
- Devo solo costituirmi adesso e attendere la sentenza agli arresti domiciliari. – aggiunse.
Ma Betel notò che il viso di Eìos rimaneva contratto, come se gli avesse riferito solo la buona notizia e tacesse ancora quella cattiva. Lo guardò intensamente, per esortarlo a rivelare tutto il contenuto della lettera ed Eìos, sedutosi sull'altra poltrona di fronte a lui, si decise a continuare: - Purtroppo ... il tentativo di Miran di togliermi il cognome è andato a frutto: non porterò più il nome dei Mikra! -
- Mi dispiace, amico. -
- A me no! Non mi importa più di quel nome maledetto, né di continuare ad elemosinare un posto in mezzo a gente che mi odia almeno quanto la odio io. - lo rassicurò. - Quello che non posso mandare giù è che senza quel nome il mio matrimonio civile non avrà più alcun valore e, stando all'avvocato, secondo il diritto canonico, anche quello religioso potrebbe essere invalidato: basterebbe che Ariela ne chiedesse l'annullamento presso la curia e il vescovo sarebbe ben felice di separare il diavolo dall'acqua santa! -
- Credevo che l'avessi messo in conto tra i rischi cui andavi incontro. - gli fece notare.
Eìos sbuffò contrariato: quando era fuggito da Patnarak, da sua moglie aveva considerato la possibilità che Miran agisse indisturbato, che gli togliesse il nome, annullando il matrimonio e sprofondandolo nuovamente nella sua condizione di bastardo senza diritti. Ma, nonostante ciò che aveva predicato a Betel, perdere Ariela non era mai stato tra i suoi progetti.
La notte stessa in cui l'aveva lasciata, con le parole più dolorose e cocenti che avesse scovato, aveva giurato a sé stesso che un giorno sarebbe tornato a riprendersela.
Poiché un'esistenza senza la donna che amava era più sanguinosa di una ferita perennemente aperta, più insidiosa di un veleno lento e usurante, inaccettabile, inconcepibile, la resa incondizionata alla fine certa.
Ariela era sua moglie e tale sarebbe rimasta, nonostante i vincoli fossero decaduti, nonostante uomini di legge e quelli di chiesa potessero ritenere nulla la loro unione.
Chi si ama si sposa con l’anima, non con le fedi.
Doveva solo tornare in tempo, prima che il provvedimento dell'ufficiale del registro civile fosse validato; prima che Ariela, o qualche altro per suo conto, potesse chiedere l'annullamento anche del matrimonio religioso.
- Lo so a cosa stai pensando. - interruppe i suoi pensieri l'amico, che era rimasto ad osservarne l'espressione pensierosa e accigliata, come di chi sta approntando un piano.
Eìos mosse la bocca in una smorfia, tirando su solo un angolo in un mezzo sorriso sbilenco.
- Va' a preparare le tue cose, Betel: si torna a casa! - 


°Mi riferisco al gioco del cerchio che sembra essere stato inventato nell’antico Egitto, dove i ragazzi facevano rotolare cerchi di materiali vegetali, spingendoli con un bastoncino. Nel dopoguerra venivano usate le strutture metalliche delle ruote di bicicletta e un bastone; molto diffuso attraverso i secoli, il cerchio raggiunse la sua massima  celebrità attorno al XIX secolo in Gran Bretagna.

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Capitolo 40
*** . 40 . Lupi e agnelli, falchi e colombe ***


 

. 40 .


Lupi e agnelli, falchi e colombe

 

 

Patnarak non era minimamente cambiata: ogni cosa giaceva immota al suo posto di sempre; case vicoli e palazzi sembravano ritratti in un dagherrotipo dai colori sbiaditi dell’inverno, così come i suoni dalle strade, dall’interno delle botteghe o dalle banchine del porto parevano provenire dalla tromba di un grammofono che riproduce la musica incisa, accompagnata dal leggero fruscio della punta sul disco.

Avrebbero potuto arrivare di notte, nascosti nel buio, invece avevano fatto un’entrata trionfale, come un condottiero romano e il suo luogotenente, di ritorno dalla fatiche conquistatrici della guerra ai barbari.

Erano entrati dalla porta di nord-est, nel pomeriggio, poco dopo il rintocco della quarta ora, esibendo il lasciapassare che il legale gli aveva fatto avere; erano stati scortati fino alla gendarmeria, tra il chiacchiericcio incredulo dei passanti e le voci che erano rimbalzate di bocca in bocca, fino a giungere alle orecchie del vecchio Elmisk, prima ancora che il comandante Kuvee, se lo trovasse davanti, fiero e impettito e con l’assoluzione a portata di mano.

- Chi avrebbe detto che ci saremmo incontrati di nuovo, io da uomo libero e voi ancora con le vostre mostrine sul petto! – lo salutò Eìos, irriverente e spavaldo, poggiando i palmi aperti sullo scrittoio del comandante.

- Non siete ancora un uomo libero, non fino al processo. – gli fece notare l’altro, senza guardarlo negli occhi e pulendo le lenti tonde dei suoi occhialini.

- Devo ritenerlo un avvertimento, comandante Kuvee? –

- Dico solo che la giurisprudenza è piena di cavilli insidiosi: le patrie galere sono piene di innocenti mal giudicati … - lo avvertì, come se sapesse che in serbo per lui la sorte aveva ancora qualche colpo basso da sferrare.

- Da un soldato, non mi sarei mai aspettato tanta sfiducia nella legge. Credevo che per dimostrare l’innocenza di uomo bastassero, prove inconfutabili, un buon avvocato e la probità delle istituzioni. -

- E così sarà! Se siete innocente come il vostro legale afferma, se le prove sono davvero inconfutabili e voi siete un agnello braccato dai lupi … allora il giudice di certo vi assolverà. – lo provocò, - Intanto fatevi un favore: rigate dritto! – aggiunse, assumendo il fare spavaldo che la sua posizione gli consentiva.

- Anche voi, Kuvee, rigate dritto e badate che ora so da quali lupi guardarmi e che io non sono mai stato un agnello! – rispose per le rime, con gli occhi puntati in quelli del soldato e un angolo della bocca piegato in un sorriso minaccioso e sicuro.

Betel in piedi, appoggiato allo stipite della porta dell’ufficio del comandante, trattenne un sorriso, nel vedere la faccia del soldato sbiancare per effetto della velata minaccia.

Era lampante che Eìos sapesse o, quanto meno, sospettasse del suo ruolo in quella sporca faccenda. Di certo non aveva alcuna prova che fosse stato lui ad architettare il piano, o di certo, quel bastardo non si sarebbe limitato alle minacce.

Questa costatazione lo rasserenerò: almeno fino a che Eìos non si fosse incaponito per averne la certezza, poteva sentirsi al sicuro.
 

 

***************

 

- Padre! -

- Figlio mio ... - lo accolse stringendolo, - Quale uomo probo devo essere stato in un'altra mia vita, se la sorte mi concede di averti sano e salvo di nuovo tra le mie braccia! -

- Se voi, così onesto, vi ponete un simile dilemma, io devo essere stato un martire o un santo o un eroe, per avere meritato in questa vita tanto affetto da un uomo come voi ... -

- La sorte ci premia entrambi, allora. - gli sorrise, tenendogli stretta ancora la mano tra le proprie. - Betel ... - chiamò, poi rivolgendosi all'arabo rimasto testimone muto del loro abbraccio, - Come stai? -

- Come mi vedete, dottore: stanco, apatico e grasso come un soldato al bivacco. -

- Mesi duri per tutti Betel. Ma l'attesa è finita, così pure la latitanza, e presto anche il cuore malandato di questo povero vecchio potrà riprendere a battere regolarmente. - lo rassicurò, accomodandosi sulla poltroncina accanto al camino.

- Non vi ho dato altro che palpiti, padre, da quando vi ho conosciuto. - constatò con rammarico per tutti i colpi di testa, le follie e le preoccupazioni che gli avevano aggravato il peso degli anni.

- Non ti fare una colpa, Eìos anche dei miei acciacchi. Vivo ormai gli anni del crepuscolo: i dolori alle ginocchia, i reumatismi sono solo sintomi evidenti dell'età. – cercò di sollevarlo dalle colpe che Eìos si sentiva addosso.

- Non siete così vecchio, siete solo stanco della vita tribolata che avete vissuto a causa della vostra professione, della perdita dei vostri affetti e ... a causa mia. Ma vi giuro, padre, che queste sono le ultime sofferenze che patirete per me. Quando tutto sarà risolto, non accetterò più provocazioni ... Facciano ciò che vogliono del nome e della rispettabilità, si prendano pure tutto, mi lascino solo la mia vita e l'occasione di vivere serenamente! -

- Con Ariela? - chiese, quasi timidamente.

- Che sapete di lei? - ribatté.

Per tutti i mesi che le era stato lontano, non aveva voluto neanche che Elmisk scrivesse il suo nome nelle lettere che si scambiavano. Sapere di lei, della vita che conduceva, della rabbia o della delusione, della sofferenza o dell'odio che forse provava per essere stata abbandonata l'avrebbero ferito reiteratamente, sarebbero stata una piaga e, come per un malato, l'avrebbero indotto a cercare la cura. E per Eìos la cura era la cagione stessa della propria malattia: la distanza da Ariela.

- Esce piuttosto raramente, solo per la messa del mattino e la spesa al mercato. L'ho incontrata una decina di giorni fa all'uscita della messa, il giorno dell'Immacolata. Era pallida e di poche parole. -

- Non vi chiese ... non vi ha mai chiesto di me? -

Il vecchio scosse la testa, poi appoggiò il mento sulle mani strette intorno al pomolo del suo bel bastone di legno di rosa e con un sospiro aggiunse: - Cosa credevi, che piagnucolasse come una donnetta sedotta e abbandonata? Tua moglie è una donna forte e schiva, dignitosa anche nella sofferenza. -

Sì, Ariela era forte abbastanza da sobbarcarsi con dignità quella sofferenza che a lui, di contro, attorcigliava membra e pensieri. Non era vero ciò che le aveva sputato addosso per guadagnarsi la fuga: tra i due, paradossalmente, la più forte era lei, nonostante sembrasse fragile e indifesa, nonostante avesse avuto una vita tranquilla e senza grandi vicissitudini. La più forte era lei perché sapeva accettare ciò che veniva, perché affrontava ogni scompiglio, ogni avversità con lucidità e con la consapevolezza di aver dato tutta sé stessa.

Eìos invece, si infervorava, si stancava, annaspava e dibatteva mani e gambe come un naufrago che sta annegando e invece di galleggiare sostenuto dall'acqua, aspettando che le forze ritornino, va' a fondo come trascinato da un'ancora.

- E voi non avrete di certo creduto che io avrei rinunciato a lei?

Perché credete che abbia fatto tutto questo: fuggire; mettere tutto nelle mani di un avvocato; seguire lentamente le vie legali per uscire da questo groviglio e poi tornare? Non certo per vedere la mia fedina penale immacolata!

Io sono un bandito, padre, sarò sempre un bandito, per quelli come Miran e sua madre, per Kuvee e per tutti gli onesti bugiardi, io resterò comunque un bandito.

Sarei potuto rimanere dove sono stato finora, con l’accusa di contrabbando sulla testa o una condanna a vita, per quello che conta.

E’ per lei che sono tornato, solo perché l’amo e una vita senza non la voglio; senza di lei non voglio libertà, né fiato … - infilò le parole una dopo l’altra senza respirare, come se le avesse tenute dentro per troppo tempo, rischiando di esserne soffocato.

- Non sarà impresa semplice, figlio mio! Ariela è orgogliosa e fiera e tu l’hai ferita: non accetterà il tuo ritorno solo perché ti ama. – lo mise in guardia.

- Lo so! Ma io sono testardo e non sono abituato a perdere, soprattutto se ne va della mia sopravvivenza! – replicò, con negli occhi la scintilla della fida alle avversità.

- Ti ci vorranno tutte le energie che possiedi per quest’impresa. – sorrise il vecchio, che aveva già colto tutta la forza incosciente che si generava nel figlio ogni qualvolta la sorte lo sfidava. Più difficile l’impresa più grandi le risorse, più ardua la risalita, più grande l’impegno. – Sarete stanchi. - disse, sollevandosi e guardando prima l’uno e poi l’altro, con premura paterna, - La vostra stanza è pronta: lenzuola pulite, coperte calde e … – aggiunse, facendo loro strada verso il piano nobile della sua piccola casa, - … una finestra sul mare d’inverno. – terminò come se sapesse quanto il fragore, l’odore e l’immensità dell’ oceano fossero mancati durante l’esilio.

- Non mi avevate detto che avremmo dormito insieme. – finse disappunto Eìos, storcendo la bocca.

- Non fare lo schizzinoso, sono la compagnia notturna ideale: non russo, non parlo nel sonno e soprattutto occupo poco spazio! – ribatté Betel, sghignazzando alle sue spalle.

- Con quella stazza? E comunque, se proprio dobbiamo … - gli resse il gioco, - Non montarti la testa: letti separati! –

 

***************

 

Si inoltrò nel giardino, respirando l’aria gelida di dicembre; una nuvola grigia, arcigna, come la smorfia di una strega, le passò sulla testa, proiettando un’ombra sulla ghiaia biancastra; sui rami rinsecchiti e sbiancati dall’inverno, il freddo aveva sapientemente costruito diademi scintillanti di piccoli ghiaccioli purissimi e aghetti di brina.

Gli alti arbusti di viburno* avevano già prodotto i loro bei fiori bianchi, riuniti in mazzi molto profumati, e, alla base di essi, piccoli cespugli fitti e compatti di pernezia° rallegravano il giardino con le loro bacche rosso ciliegia, che risaltavano tra rami eretti e foglie lanceolate, lucide e verde intenso che sarebbero perdurate per tutto l’inverno.

In città non si parlava d'altro che del ritorno di Eìos.

Alvita era venuta a conoscenza del suo ritorno già dal giorno dopo, quando aveva sentito alcune comari che ne sparlavano al mercato e il panettiere, tra il profumo del pane e dei biscotti appena sfornati, aveva aggiunto che le accuse a suo carico sarebbero presto cadute, grazie a certe prove che il suo avvocato aveva prodotto. Il discorso era poi scivolato sul nome che Eìos aveva ottenuto immeritatamente, tanto che Miran e sua madre avevano già presentato istanza di disconoscimento per indegnità e sul matrimonio con Ariela, che sarebbe stato invalidato, fino a che, intravista Alvita, il chiacchiericcio era scemato fino a convergere su tutt’altre questioni.

La cameriera rientrata, aveva riferito le voci, timidamente come se temesse di farle del male, giacché aveva intuito che il ritorno di Eìos avrebbe scombussolato il già fragile equilibrio che la sua padrona, faticosamente aveva creato.

Ariela se ne era stata zitta, zitta come una bimba in punizione, mentre dentro la testa, nei polmoni e nelle vene, un serpente cominciava a strisciare velenoso e lento, infiacchendola.

Era certa, Ariela, che, risolte le sue questioni legali, sarebbe---- tornato a vantare i suoi crediti: il posto in quella casa, come padrone; nella società, come uomo libero e innocente, e probabilmente anche nella sua vita come marito.

Ciò di cui non era affatto certa, erano i propri sentimenti e le reazioni che il suo ritorno le avrebbero procurato.

L’amava ancora, sarebbe stato inutile negarlo a sé stessa e per un tempo infinito aveva desiderato che tornasse a lei, pentito d’averla lasciata, quando sarebbe bastato stringerla di più. Ma col tempo, la parte razionale l’aveva abituata a credere che quel ritorno non ci sarebbe stato, che Eìos fosse nato per essere libero e finanche che tutte quelle angherie subite fossero la soluzione definitiva che aveva adottato la sorte per togliergli le catene.

Continuava, però, ad immaginarlo affacciarsi alla grata del cancello, i capelli scarmigliati sulla fronte, gli occhi verdi e splendenti come foglie in primavera, e quell’espressione spavalda da padrone che amava e detestava allo stesso tempo.

Non si stupì, dunque, quando nel tardo pomeriggio, Alvita le annunciò una sua visita.

Rimase seduta sulla poltrona accanto al camino, le mani tremolanti a fingere di ricamare e una voragine nel petto che si apriva e chiudeva ad ogni respiro.

Eìos entrò in punta di piedi, come un elegante felino che punta la preda senza produrre alcun rumore.

Era più bello dell’ultima volta, anche se l’espressione era timida e quasi impacciata; la fronte era aggrottata, ma lo sguardo, attento e deciso, corse immediatamente a cercare gli occhi di lei.

Ariela rimase intrappolata da quello sguardo, intenso e quasi sfacciato, ma cerò di mascherare il subbuglio, che crebbe ancora più, quando egli spostò il telaio sul quale stava ricamando e dispose uno sgabello davanti alle ginocchia di lei. Vi si sedette, le gambe divaricate per arrivarle più vicino e il viso alla stessa altezza di quello di Ariela.

- Come stai? – le chiese, sperando che i convenevoli alleggerissero la tensione palpabile.

- Bene … - rispose lei con, forse, la stessa speranza.

Eìos si avvicinò ancora, piegando il busto in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia.

La distanza tra loro diminuiva ad ogni respiro, tanto che Ariela ebbe paura di quella avanzata e si tirò indietro, facendo aderire la schiena alla poltrona.

- Sì. – constatò, seguendo i lineamenti del viso, la curva del collo che spariva sotto lo scialle blu che le copriva le spalle.

I suoi occhi erano leggermente incavati, come se non avesse dormito, la pelle diafana, come un velo di spuma sotto la quale le piccole vene bluastre mostravano il loro percorso. Le guance le si arrossarono per quell’esame attento, per la vicinanza e per il tentativo di Eìos di guardarle attraverso, così raccolse il poco coraggio che aveva e chiese: - Perché sei qui? –

- Sono tornato. – replicò velocemente, quasi senza darle il tempo di terminare la frase. - Per te. – aggiunse con la voce decisa, ma tremante insieme.

Ariela scosse il capo, una ciocca chiarissima di capelli si liberò dalla treccia d’oro che le intricava la chioma, ma non rispose.

Eìos interpretò quel silenzio come una resa e attaccò.

Si avvicinò alle labbra di lei e le sussurrò: - Perdonami … d’averti lasciata, di averti fatto male; perdonami per averti fatto credere che con te accanto non mi sentivo più me stesso e perdonami per essere stato così presuntuoso da credere di potermi salvare da solo. –

Ariela non si mosse, si prese sulle proprie labbra il calore del respiro di lui, la dolcezza della voce con cui le aveva chiesto perdono; il profumo inebriante della sua pelle e dei capelli.

Ma quando la bocca di lui le sfiorò la pelle accesa degli zigomi, proseguendo lenta, ma inesorabile verso le labbra, Ariela si riscosse, come se quel tocco bruciasse.

Non doveva cedere, non poteva.

Non potevano quattro parole stringere di nuovo il nodo che egli aveva voluto recidere; non bastavano la richiesta del perdono, profumi e respiri a cancellare il senso di impotenza, l'ineguatezza e il dolore provati; nè il ritorno cancellava la fuga.

Le mani le tremarono, le labbra punsero e il ventre si sciolse, invaso da tanta dolcezza, ma la mente si ribellò alla resa, come se corpo e cuore fossero due entità separate e differenti: una debolmente soggiogata dall'amore e l'altra completamente affrancata, lo schiavo liberato dall'asservimento.

- Sei perdonato! - disse con decisione, anche se la voce era flebile e arrochita dal conflitto interiore, - Ma ... questa tua fuga, le tue parole di quella notte e poi la lontananza mi hanno permesso di comprendere ogni cosa, ciò che il desiderio offuscava, ciò che l'amore metteva a tacere. - aggiunse, facendo leva sui braccioli imbottiti della poltrona per sollevarsi e allontanare il viso dall'assedio degli occhi di lui.

- Cosa? - chiese Eìos sollevandosi a sua volta e portando nuovamente i loro occhi alla stessa altezza.

- Che non siamo fatti l'una per l'altra, che l'amore da solo non basta; che sono necessari una comunione di intenti, un desiderio condiviso per affrontare insieme la vita pacifica o miserabile; affannosa o placida. Io e te ... - terminò con un'ombra nella luce blu dei suoi occhi di colomba, - Io e te siamo giorno e notte, estate e inverno ... inconciliabili! -

- Non esiste luce senza ombra, nè afa senza il gelo: ciò che tu definisci inconciliabile è solo l'ordine naturale delle cose. Io e te siamo ... il pieno che circonda il vuoto ... -

Ariela si allontanò ancora, compì solo qualche passo in un fruscio assordante di vesti e respiri, quando Eìos l'afferò per il polso, attirandola bruscamente a sé, tanto che il corpo leggero di lei gli ricadde addosso, permettendogli involontasriamente di stringerla per le spalle.

- L'ho creduto anch'io ... una volta, ma entrambi ci siamo sbagliati. Se in questi mesi hai potuto fare da solo ... se io sono sopravvissuta alla tua mancanza, allora ci siamo sbagliati entrambi. -

- Menti perché sei risentita e lo comprendo. Non sono qui per tornare in questa casa adesso, nè pretendo di rientrare nella tua vita come se nulla fosse accaduto. Aspetterò che tu sia pronta, che ... -

- Se vuoi tornare in questa casa, io non te lo impedirò. essa ti appartiene, ma della mia vita tu non fai più parte. -

- Siamo ancora marito e moglie, Ariela ... - le sussurrò all'orecchio, stringendo più forte la presa.

- Solo fino a che il matrimonio civile non sarà invalidato ... - replicò. - Quando avverrà, farò richiesta alla Sacra Rota perchè anche quello religioso venga annullato. -

- Stai mentendo! -

Ariela scosse il capo e si divincolò dalla morsa rovente delle sue braccia, dal suo respiro che le lambiva la pelle delle guance e dall'insistenza che le appannava la volontà.

- Dunque, fino ad allora io sarò ancora tuo marito e tu mia moglie! Non indurmi a costringerti! - l'avvertì.

- Non oseresti. - lo ammonì.

- Dimentichi chi sono! - replicò con due occhi affilati e freddi come quelli di un falco predatore, - Da domani vivremo insieme, Ariela, sotto lo stesso tetto; siederemo allo stesso desco e dormiremo nello stesso letto! -

Ariela sbiancò e chiuse gli occhi mancando della forza necessaria a ribattere a quello che era sì, un diritto di Eìos, ma, allo stesso tempo, era un sopruso svilente senza rispetto, né amore.

Si voltò furente verso di lui, le guance in fiamme di rabbia e ribellione, strinse le gonne tra le dita, fino a sbiancarne le nocche e lo guardò, ammonendolo.

- Decidi tu, se vuoi essere schiava o padrona. - aggiunse, prima di lasciare la stanza con un passo pesante ed il respiro affannoso e furente.

 

*Il Viburno è una specie che fiorisce in novembre-dicembre.

°La Pernezia è una pianta perenne che fiorisce in estate, ma, grazie alle bacche bianche o rosse che fanno la propria comparsa verso la fine dell’autunno, viene usata nei giardini invernali.

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Capitolo 41
*** . 41 . Odi et amo ***


. 41 .


Odi et amo
 

 

Non aveva mai dormito male come quella notte.

Si era agitata sotto le coperte, sopra le lenzuola, aveva lottato con i cuscini di piuma, con la camicia da notte troppo accollata che pareva soffocarla; aveva vegliato e dormito, sognato e rimuginato e si era infervorata a tal punto che, alle prime luci dell'alba, si era arresa ai tormenti e aveva deciso di fare un bagno rigenerante, che mettesse a tacere almeno la stanchezza delle membra.

Senza svegliare Alvita, aveva riscaldato l'acqua e riempito l'accogliente vasca da bagno di ghisa smaltata. Seduta sul bordo, aveva versato nel liquido bollente i sali da bagno, il calore li aveva sciolti, liberandone, attraverso i vapori, essenze fresche e pulite, rasserenanti.

Una fragranza immacolata di dalie e lillà si diffuse nella stanza da bagno; le enormi vetrate che la separavano dallo spogliatoio di appannarono, divenendo un sipario opaco, che fece sentire Ariela sola e protetta nei propri pensieri.

Lasciò cadere gli indumenti al suolo e vi si immerse, lentissimamente, così che ogni lembo di pelle potesse beneficiare di quell'abbraccio addolcente.

Quando finalmente fu completamente sdraiata sul fondo della vasca, poggiò la nuca sul bordo fresco e chiuse gli occhi, inspirando.

La pelle cominciò a dissetarsi e le membra a distendersi e, con esse, le spine dei suoi tormenti si fecero meno pungenti, senza però svanire.

Eìos si era comportato da padrone, come gli aveva visto fare innumerevoli volte con chi non ne condivideva le convinzioni o le intenzioni: convinto di essere nel giusto, non concepiva il rifiuto e prendeva ciò che voleva con tutti i mezzi.

Ma come si può imporre la propria volontà a chi si ama? Amore non è forse prima di tutto libertà e comunione?

Ma Eìos non era avvezzo a perdere, era prepotente e usurpatore e, nonostante le avesse dimostrato infinita dolcezza, pazienza e devozione, rimaneva regista della propria esistenza, intollerante a qualunque intromissione della sorte, degli uomini e forse finanche di Dio.

Dunque, da egoista aveva deciso per sé e per Ariela e poiché il loro matrimonio avrebbe avuto valore fino a decisione contraria della legge, essi sarebbero rimasti marito e moglie.

Ad un tratto, ella non riusciva a vedere altro che i difetti di quell'uomo che l'aveva fatta innamorare, solo l'egoismo ostinato di dominare e di vincere.

Questo la faceva arrossire di rabbia, le bruciava la pelle, come se fosse troppo vicina alla fiamma; le faceva prudere le mani per l'impotenza e le insinuava nel cervello un istinto di ribellione, come l'animale finito nella rete, che nonostante le maglie grandi e forti si dibatte e divincola per fuggire.

L'acqua intanto si era raffreddata, il tepore non era più sufficiente a tenerle caldo in corpo nel gelo di quella mattinata di dicembre, così decise che fosse giunta l'ora di uscire.

Si avvolse nel grande telo di mussola bianca, le ciocche di capelli inumidite per il vapore acqueo aderirono alla pelle del viso, alla linea del collo e alle scapole; sfregò la pelle di tutto il corpo, fino a che non fu completamente asciutta e morbida; si vestì e pettinò i capelli e, anche se ancora un po' titubante e pensierosa, si sentì finalmente pronta alla prova di forza che l'aspettava.

Se Eìos voleva essere padrone, ella non sarebbe stata sua schiava!

 

**************

 

L'aveva sentita uscire dalla porta sul retro, non appena i facchini lo avevano preceduto nell'atrio della casa.

Era chiaro che Ariela non aveva accettato la decisione di lui di trasferirsi nella casa sulla spiaggia, e che avrebbe fatto il possibile per farglielo capire, come uscire di casa appena Eìos vi fosse entrato o rifugiarsi in un'altra stanza, non appena egli vi avesse messo piede.

Sarebbe stata una guerra: assalti e fughe; assedi e ritirate, nell'attesa che uno dei due alzasse bandiera bianca.

Ma Eìos conosceva sua moglie; sapeva che di certo si sarebbe battuta con orgoglio e con ardore, fino alla fine, anche senza la speranza di vincere la battaglia. Ma anche Ariela conosceva suo marito e sapeva che egli non era un soldato come gli altri: era il folle suicida che si lancia nella mischia a mani nude e che dalla battaglia o esce morto o vincitore.

Quando Ariela ebbe sentito la voce di Eìos sparire oltre il cancello di ferro del giardino, dopo aver impartito ordini ai suoi uomini e ad Alvita, si diresse nella camera padronale.

La trovò ordinata: non un oggetto fuori posto, sgombra di valigie e bauli, esattamente come l’aveva lasciata quella mattina. Anche i cassetti del comò, appartenuti a Eìos, rimanevano vuoti, così come l'armadio.

Non c’erano tracce di alcuna intrusione come aveva temuto.

Cercò Alvita per chiederle spiegazioni e la trovò nella camera degli ospiti, il letto già vestito di candide lenzuola, intenta a disfare bauli e a riempire cassetti.

Eìos aveva deciso di alloggiare in quella stanza, non in quella padronale insieme a lei e la sorpresa fece barcollare la rabbia per il sopruso. Tutta la tenacia che si era prefissata di opporre a Eìos si affievolì in uno strano smarrimento, in uno sconcerto curioso per quella decisione inaspettata. Un poco della dolcezza che suo marito aveva dimostrato di possedere nei mesi buoni del loro matrimonio, tornò a fare capolino tra i difetti imperdonabili e l’egoismo.

Ma la breccia che il ricordo di quei giorni aveva fatto nelle sue difese rimaneva ancora troppo piccola, perché Ariela cedesse e accettasse il ritorno di lui in quella casa e soprattutto nel proprio cuore.

Così persistette nel proprio intento di evitare Eìos, disertò il pranzo e poi la cena, facendosi servire in camera. Eìos, dal canto suo, non la cercò, né chiese il perché della sua assenza: comprendeva che avrebbe dovuto darle il tempo necessario a gestire la convivenza forzata, anche se il desiderio di guardarla soltanto lo faceva smaniare e lo rendeva inquieto.

Decise così di uscire, una boccata d’aria fresca gli avrebbe rinfrescato le idee e anche i bollori.

Ma quando mise piede di nuovo in casa, nell’oscurità delle stanze, nel silenzio della notte fonda, la smania e il tormento bussarono ancora alla bocca del suo stomaco aggrovigliato e l’immagine che conservava della propria donna baluginò come un lampo improvviso e lo costrinse a cedere al desiderio accecante di lei.

La porta della stanza era chiusa, ma non a chiave come aveva temuto, così più silenzioso di un gatto e con solo il lume di una candela, abbassò la maniglia e spinse, quel tanto necessario ad entrare.

Ariela dormiva, le lenzuola erano aggrovigliate intorno al corpo; fasciavano le gambe, come una sontuosa coda di sirena. Il capo era abbandonato sul cuscino, la chioma morbida e lucente, al timido riverbero di candela, e la pelle, bianca e luminosa, emanava un candore latteo.

Si avvicinò trattenendo il respiro, ipnotizzato dal richiamo di quel corpo.

Un inaspettato e intenso aroma, delicato e tenero, gli provocò una sferzata di energia che gli invase il petto, le narici, il cervello, le vene e il cuore. Profumo di dalie e lillà riempì l’intera stanza come fosse una serra e, quando le fu più vicino, accanto alla sponda del letto, divenne più intenso e conquistatore.

Gli occhi scorsero sull’incarnato del viso, raggiunsero le palpebre, orlate dalle ciglia nere e lunghe e poi cercarono le labbra fresche e piene, leggermente schiuse e invitanti.

Poggiò la candela sul comodino e sedette, il peso del corpo incavò la superficie del materasso, facendo destare Ariela.

La giovane, stralunata e spaventata da quel risveglio imprevisto, saltò a sedere, tirandosi le lenzuola fino al collo, come fanno i bambini di notte per paura del buio.

- Non volevo spaventarti … - si scusò Eìos, cercando nella semioscurità gli occhi di lei.

- Perché sei qui, allora? – indagò, con la voce un po’ tremolante.

- Avevo bisogno di parlarti. –

- Avresti potuto aspettare che facesse giorno. – protestò, raccogliendo sulla nuca alcune ciocche che si erano liberate sul viso.

- Voglio farlo adesso! - insistette.

- Non fai altro che imporre la tua volontà agli altri! - lo accusò, ancora indignata per la decisione di ritornare a vivere in quella casa, senza che ella fosse d'accordo. - Sei sempre lo stesso prepotente ... -

- Sono stato costretto! Tu mi hai costretto! - la interruppe, con un leggero risentimento nella voce.

- ... E ipocrita. - riprese, - Riesci sempre a trovare un altro colpevole per giustificare le tue azioni scellerate: la sorte avversa, la mancanza di un focolare e persino la titubanza di chi da te è stato tradito! - gli fece notare, riferendosi alle vicissitudini subite e infine a sé stessa.

Eìos le scoccò un occhiata truce, ma non desistette. Rimase fermo, seduto sulle lenzuola che le attorcigliavano le gambe, inpedendole qualsiasi movimento.

Ariela sbuffò, rendenndosi conto che qualunque protesta sarebbe stata vana, e si arrese.

- Lascia che mi vesta, almeno. - aggiunse, stringendosi al petto i lembi disordinati delle lenzuola.

- Non proverai imbarazzo a mostrarti in camicia? - la canzonò.

- Eìos ... - sospirò Ariela, seccata, tendendo la mano verso la vestaglia poggiata sulla sponda del letto.

Eìos con una smorfia di disappunto, la raccolse e gliela porse, offrendosi di aiutarla.

Ariela accettò, seppur malvolentieri, e quando l'ebbe indossata, lo precedette in fondo alla stanza, accanto al camino.

Dalla sua bocca proveniva una luce fioca; un fuoco ormai morente, ma dai tizzoni ancora roventi, emanava un flebile calore. Eìos smosse le braci con la punta dell'attizzatoio e, gettandovi sopra piccoli rametti secchi, ravvivò la fiamma, che ricominciò a rosicchiare i ceppi e a diffondere calore nell'aria gelata della notte.

- Dunque? - lo esortò, fissando il guizzo crescente delle lingue di fuoco e stringendosi nella calda vestaglia.

Eìos scosse il capo, come uno scolaro che interrogato non ricorda la lezione appena impartita dal maestro.

- Non so ... - mugolò, perdendo tutta la baldanza di prima, - Volevo solo ... guardarti. Dirti che ... - si fermò per respirare, - ... Torna con me! - la implorò.

Ariela sorrise scuotendo il capo. Eìos sembrava un bambino che dopo l'ennesima marachella torna a stringersi alle gonne della madre, pentito e pieno di buoni propositi.

- Mi hai umiliato ... - gli ricodò, con nella voce tutta l'ombra dolente della ferita, - Mi hai trattato come se non avessi peso o valore alcuno nell'ordine delle cose. E continui a farlo, adesso, imponendomi la tua presenza in questa casa, in nome di un matrimonio, che tu stesso hai denigrato ... -

- Ariela ... - sembrò pregarla con un filo di voce e, posandole il palmo aperto della mano sulla schiena, cercò i suoi occhi e il suo respiro.

- E sfacciato chiedi perdono ... - constatò alterando la voce granulosa, - In nome di cosa? -

- In nome dei miei sentimenti e dei tuoi. - replicò riprendendo la foga che poco prima sembrava averlo abbandonato. - In cuor tuo, sai che t'amo, senza respiro, né requie e nonostante le fughe e il carattere ispido ed egoista ... - insistette, avvicinando le labbra al lobo del suo orecchio, - Così come tu mi ami. - aggiunse, baciandole la pelle delicata e trionfante del suo profumo. - Tu lo sai, eppure ... per orgoglio ti neghi. -

- Sono orgogliosa, sì! E non te la do vinta, nemmeno per lusingue languide ... con cui cerchi di tentarmi ... - provò ad opporre resistenza.

Eìos la guardò: gli occhi erano liquidi, il blu del mare in tempesta, e le labbra tese si erano fatte sottili e scarlatte; la pelle bianchissima, come le nevi perenni, si accendeva di fuoco sulle guance e il petto si ingrossava di respiro risentito.

Non l'aveva mai vista così bella e viva, fremente e ribelle, come una gatta arruffata e indipendente, opportunista e ingrata. Così, il desiderio divenne urgenza improrogabile che lo indusse ad afferrarle il viso con i palmi aperti delle mani, l'incarnato di latte si sciolse nel calore scuro delle dita e le labbra si aprirono a cercare il respiro che sembrava mancarle nei polmoni. Ariela chiuse gli occhi, poggiò le mani sui palmi di quelle di lui, ma non per allentarne la presa. Anzi, strinse più forte, come se pretendesse un contatto ancora più insistente; come se in quel momento, invocasse non la libertà, ma la prigionia.

L'amava e l'odiava.

Detestava la sua prepotenza, eppure non desiderava altro che le imponesse la sua bocca e le mani sul viso, a bruciarle la pelle, a fonderne l'orgoglio stupido che le rivestiva il cuore.

Voleva baciarlo e voleva morderlo, per restituirgli il male che le sue promesse vane e la fuga le avevano provocato; tirargli i capelli e graffiargli la faccia, mentre lo accarezzava.

Male e bene; prevaricazione e resa si mescolarono a tal punto, che tutto divenne incontrollabile, trascinante e allucinante, eccitante e incomprensibile, come l'erba gatta per i felini.

Nessuno dei due comprese lucidamente movimenti e desideri; palpiti e respiri che li scagliavano l'uno addosso all'altro, come quelle onde marine che, per effetto di correnti contrastanti, impattano le une sulle altre, spumose e sfrigolanti, per poi fondersi in un unico flusso.

Furono sul letto, già scombinato; gli indumenti, come barriere fastidiose e le mani senza freni o limiti: sui seni e sul petto; tra le cosce e sui muscoli della schiena. Le dita, come pennelli intinti nel fuoco, a bruciare labbra piene e umide; ventre e natiche; caviglie e polsi. I denti a marchiare i fianchi e il mento, lobi e palmi aperti delle mani e le lingue sagge alla ricerca delle ferite inferte per amore, a lenire, inumidire, sedare buciore e impeto, sete e fame.

Si amarono e si odiarono, in mezzo a strappi di lenzuola e schiocchi di lingue; con occhi spalancati e febbricitanti, così travolti da sembrare pirati feroci all'arrembaggio.

 

 

*********************

Bentrovate e scusate il ritardo!

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e aspetto le vostre recensioni.

Grazie a chi mi segue, anche in silenzio, e grazie soprattutto a chi mi mi sostiene con i propri commenti.

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Capitolo 42
*** . 42 . Desiderio ***


. 42 .


Desiderio
 

 

Il bancone di legno scuro del piccolo emporio occupava gran parte della parete.

Su di esso, bocce di squisiti frutti canditi e coloratissime caramelle; piccoli barattoli smaltati pieni di spezie profumate. Sul pavimento, accanto ai vetri lucidi della piccola vetrina, sacchi di iuta aperti contenevano farina bianca e semi di farro, riso e grano saraceno, orzo perlato e lenticchie rosse, mentre nell’angolo opposto, uno sull’altro, ne giacevano altri stracolmi di chicchi di caffè, il cui aroma robusto si diffondeva in tutto il locale sovrastando ogni altro profumo.

Sulla parete opposta alla porta d’ingresso, scaffali dalle mensole imbarcate ospitavano pezze di stoffa di fogge diverse e dal soffitto pendeva un bastone, come un lampadario scintillante di gocce di vetro, al quale erano sospesi nastri per capelli.

Sabra si soffermò a osservarne uno in particolare: era di seta cangiante blu chiaro, morbido al tatto, come appurò facendolo scorrere sotto il polpastrello dell’indice destro.

- Permettetemi di farvene dono - la sorprese una voce alle sue spalle, dall'uscio del negozio.

Sabra non si era neanche accorta del tintinnio della campanella sulla porta, che suonava ogni qual volta un nuovo avventore entrava. Conosceva bene quella voce, sapeva a chi apparteneva. Era dell'uomo che le aveva detto addio trai baci e carezze, una delle ultime notti d'estate.

- Non mi occorre. – rispose, ferma di spalle, allontanando di scatto le dita dal nastro.

- Insisto. - replicò, portatosi di fianco a lei e poggiando l'anca destra al banco di legno massiccio su cui si srotolavano le stoffe per tagliarle. - E' dello stesso colore acquamarina dei vostri occhi, vi donerebbe intricato nelle chiome fulve. - aggiunse, lisciando la stoffa lucente del nastro.

- Vi intendete anche di spille e fermagli e dei pizzi per orlare le gonne delle signore? - lo beccò, con un tono acido che le serviva a mascherare la sorpresa.

- Vi stupireste delle cose di cui m'intendo. – sussurrò, quasi al suo orecchio.

- Mi avete già sufficientemente stupita tornando ... - lo pizzicò ancora.

- Credevate che non l’avrei fatto? –

- Il vostro, non fu un addio? –

- Il mio fu un saluto senza promesse, non un addio … - le fece notare.

La voce dell’arabo era strana, lievemente roca, senza alcuna inflessione emotiva, come se quell’incontro straordinario non avesse intaccato la calma serafica del carattere e questo, per una come Sabra, dall’indole estremamente flessibile ai colpi del proprio cuore, era destabilizzante.

Ma l’orgoglio e il desiderio di mostrarsi distante e serena, come sembrava essere lui, le suggerirono le parole.

- Sono promessa. - si divincolò.

- E non lo eravate anche allora? - la provocò.

- Sì, lo ero, ma a differenza di allora ... oggi accetto la decisione di mio padre. E' saggia è previdente. -

- Non vi credo! - alitò sensuale al lobo dell'orecchio, prima di sparire, silenzioso, così come era apparso.

 

***************

 

Da quando Eìos era tornato nella casa sulla spiaggia, la camera che il dottor Elmisk aveva riservato loro al ritorno era rimasta solo a lui. Era piuttosto ampia, con un bel camino e un grande letto e vi si accedeva attraverso una porta finestra che si affacciava su di una rampa di scale di pietra.

Ravvivò il fuoco, che ricominciò a scoppiettare, tolse la camicia e immerse le mani nell’acqua gelata del catino. Se la gettò sul viso e sul collo, tra i capelli neri e cortissimi. Le gocce scesero fredde e trasparenti sulla pelle di cioccolato, ravvivandola, così come egli poco prima aveva fatto col fuoco. Alcune solcarono la schiena, tra le scapole, lungo la colonna vertebrale, come lungo il letto di un fiume, arrivarono all’osso sacro e si infransero sulla stoffa dei calzoni che ancora indossava; altre scesero lungo le braccia, seguendo il percorso delle vene o tra i pettorali, insinuandosi nell’ombelico fino alla cintura slacciata.

Era già sera da un pezzo ormai, quando, ancora a petto nudo, si decise a chiudere gli scuri.

Fuori un vento gelido prendeva piede, si gonfiava insistendo sulle imposte, quasi cercasse una fessura nella quale insinuarsi, mentre la luce era fioca e veniva dai lampioni della strada, come bagliori lontani di vecchie stelle.

Sabra era lì, sul ballatoio, oltre i vetri, tremava per il freddo e forse per la paura dell’azzardo. Il calore interno del corpo si disperdeva in una nuvola di fiato condensato, la punta del naso infreddolita e arrossata, come i polpastrelli poggiati sulla superficie trasparente, e gli occhi spauriti e ancora più celesti.

Avrebbe dovuto correre ad aprirle, farla entrare a riscaldarsi, tenersela stretta tra le braccia come la notte in cui le aveva detto addio.

Invece rimase immobile, un brivido sottile ad accapponargli la pelle, come se l’acqua gelida del catino ancora gli scorresse lungo la spina dorsale, ferito da quegli occhi e dalle labbra chiuse che sembravano nascondere milioni di domande.

Ritornò con la mente alla mattina, quando l’aveva incontrata. Non era stato un caso, ma il frutto di una ricerca attenta e silenziosa. Non aveva chiesto di lei, per non crearle imbarazzi, ma aveva fatto ricorso ai ricordi di quella giornata in cui l’aveva seguita tra i rumori del mercato, in mezzo ad una folla che incoscientemente aveva fatto da spettatore di una ricerca molto più intima di quello che egli stesso immaginava.

E poi nell’emporio, quando l’aveva raggiunta, l’odore del caffè e della vaniglia nella trama della pelle, il suo anello ancora al dito, lo avevano messo di colpo di nuovo di fronte a sé stesso, ai suoi sentimenti, a quello strano desiderio quasi doloroso che gli pizzicava cuore e mani.

Senza rendersene conto, la mente smise di pensare, di colpo, come la fiamma di una candela smorzata dal vento. Il cervello si fermò e il corpo si prese l'autonomia necessaria a compiere qualche passo per aprirle l'anta e farla entrare.

Insieme a Sabra entrarono freddo e confusione; desiderio ed eccitazione, paura e impeto.

Slacciò il pesante mantello di lana cotta, che la nascondeva dalla testa ai piedi; esso si afflosciò sul pavimento, come il pallone di una mongolfiera giunta alla fine del suo viaggio, scoprendone il corpo infreddolito e immobile. Le prese le mani per avvicinarla a sè; gli occhi fermi e sicuri, ancorati a quelli di lei e il respiro corto e sbandato, folle e senza freni, intonato all'altro, mentre percorreva la piccola distanza all'indietro, fino al letto.

Quando i polpacci ne toccarono la sponda, prese a slacciarle il nastro che le chiudeva il corpetto del vestito, dal collo al ventre, fino a che il cotone candido della sottoveste comparve tra i lembi aperti. L'abito scivolò rivelando le clavicole, le braccia, e liberando l'effluvio immacolato, dolce ed eccitante della pelle nuda.

Sabra rimaneva silenziosa e immobile, tanto che nella semioscurità appariva come una statua di bronzo rilucente. Ma i respiri ansiosi, il calore della pelle, il leggero tremore delle labbra piene, di contro, la rendevano viva e attraente, accendendo in lui il desiderio di toccarla.

Le portò la mano destra sul viso, sfiorando con la punta del medio la fronte, con l'indice e l'anulare le palpebre, che si chiusero assecondandone il passaggio, e con il palmo aperto seguì la linea del naso, fino a che tutte le dita incontrarono le labbra. Le schiusero leggermente, saggiandone la consistenza morbida, scoprendo che la propria bocca ne conservava ancora un ricordo preciso, e continuarono a scivolare sul mento, lungo la linea del collo per fermarsi sullo sterno.

Il battito accelerato del cuore gli rintoccò nel palmo della mano, gli occhi di entrambi, come di comune accordo, puntarono sulle dita ancora ferme, quasi entrambi non sapessero cosa aspettarsi dai loro stessi corpi, fino a che esse presero a sciogliere il nastro di raso blu che serrava la scollatura della sottoveste.

L'indumento le si aprì sul petto, assecondandone le forme, rivelando centimetri di pelle ambrata e sconosciuta; il palmo della mano riprese la sua lenta discesa tra l'incavo dei seni, separando i lembi della stoffa trasparente, come la prua di una nave che fende la superficie dell'acqua.

Le spalline ricaderro sugli omeri, poi scivolarono lungo le braccia, fino a liberale completamente il busto, lasciandolo nudo ed esposto. La pelle dei seni si ricoprì di increspature leggere, come dune del deserto sfiorate dal vento; l'eccitazione e la paura ne irrigidirono le punte rosee e i muscoli del ventre morbido si tesero sotto i polpstrelli ruvidi, facendola tremare impercettibilmente, quando essi giunsero all'altezza dell'ombelico.

Sfilarono abilmente il fiocco che le stringeva in vita le culottes, che si afflosciarono al suolo, raccogliendosi intorno alle caviglie.

Era completamente nuda, nessuno l'aveva mai vista così da che era diventata donna, neanche sua madre. Eppure in quel momento, davanti a quell'uomo, se ne stava immobile con indosso solo la pelle, lasciandosi guardare come se l'avesse fatto mille volte, come se non conoscesse pudore o imbarazzo, come una sfacciata, avvenente femmina consumata.

In realtà ciò che la consumava era l'attesa, la lentezza dei gesti di lui, i suoi occhi che la toccavano con dita invisibili, in luoghi del proprio corpo che erano sempre rimasti nascosti dagli abiti, dall'ignoranza, dall'incoscienza di sè e dei propri desideri.

Betel, di contro, continuava a guardarla, come se vedesse per la prima volta le curve morbide e attraenti di una donna nuda; come se pelle e fianchi, seni e mani, cosce e bocca fossero le coste vergini e inespolrate di una terra nuova. Tutti i suoi nervi e i muscoli erano tesi fino allo spasmo, le vene e le arterie pulsavano feroci sangue come lava, che gli invadeva il cuore, il cervello e gli faceva sfrigolare la punta delle dita.

Erano desiderio e passione, impastati di paura, di indecisione, di rovelli cocenti e dolore, che lo inibivano e, al contempo, gli impedivano di fermarsi.

Ma quando la scia dei suoi occhi ebbe percorso l'intero corpo di lei dalle caviglie forti, alle ginocchia, su per la setosa peluria delle cosce e intorno al ventre; quando ebbero circumnavigato i seni generosi e le punte aguzze, il collo e il mento, fino agli occhi acquamarina spalancati e frementi, egli si rese conto che ciò che provava era qualcosa di indipendente dalla volontà, dai limiti morali o dall'indole; era innaturale, sovrumano, incontrollabile.

Davanti a sè aveva una creatura fatata e sconosciuta, qualcosa che aveva sempre desiderato senza averne coscienza. Qualcosa che voleva, nonostante sentisse che non era giusto in quel momento e a quella maniera.

Improvvisamente, si sentì inghiottito dall'amore, mentre il desiderio si impadroniva della carne e dei pensieri. Non pensò più a nulla di ciò che esisteva intorno, nè a ciò che ancora rimaneva alle sue spalle o a cosa sarebbe venuto dopo. Si concentrò soltanto sul riverbero del corpo di Sabra che gli si consegnava, morbido ed accogliente.

Sedette sulla sponda del letto, le strinse i fianchi, aiutandola a liberarsi degli indumenti ancora aggrovigliati intorno alle caviglie; l'avvicinò a sé, la fronte affondò sul torace, sotto l'ombra dei seni, e la punta del naso inspirò il profumo eccitante della pelle intorno all'ombelico.

Lo circondò di baci piccoli, piccoli e a ogni schiocco sommesso la sentì fremere e increspare il respiro.

Sabra rimase ancora un po' ferma, lasciandosi conquistare da quel languore nuovo che le invadeva i ventre e i pensieri, fino a che un grumo le si sciolse nelle viscere, colò giù ad impregnare la trama vellutata delle cosce strette e poi si espanse nell'aria, come vapore verso l'alto.

Betel se ne riempì le narici, lasciandosi conquistare dal consenso agrodolce che il corpo di lei gli accordava, mescolandolo nei polmoni a quello che la propria pelle emanava in accordo.

Ma la mossa successiva inaspettatamente, inspiegabilmente fu di Sabra.

Istintivamente gli sedette a cavalcioni sulle cosce, le gambe strette ai lati del suo bacino, il petto aderente a quello di lui e le braccia intorno alla circonferenza ampia delle spalle. I seni si infransero contro il petto, la pelle delicata delle cosce fregò sulle cuciture ruvide dei calzoni che lui ancora indossava, ma ella non se ne dette pena, intenta com'era ad avvicinarsi a lui più che poteva.

Sentì i muscoli di lui scaldarsi al tocco, tendersi e modellarsi al contatto, le mani afferrarle i fianchi per avvicinarla ancora e poi scendere sulle natiche per stringerla nella stessa morsa in cui ella lo rinchiudeva.

Betel percepì la necessità del proprio membro, ancora costretto nei calzoni, di espandersi, di gonfiarsi; sentì urgente la necessità di mostrarsi completamente senza filtri, senza inibizioni, così come ella stessa aveva fatto.

Senza una parola, come se non ce ne fosse alcun bisogno, la sollevò per adagiadarla sulle lenzuola, e quando fu in piedi si liberò dei calzoni.

Rimase così davanti a lei, per il tempo necessario affinchè Sabra si abituasse al corpo nudo di un uomo, alla sua bellezza, alla diversità complementare al proprio di donna.

E poi la raggiunse sul letto; le offrì la mano perchè tornasse sulle sue cosce, in quella posizione intima che permetteva a lui di stringersela addosso e a lei di condurre il gioco, secondo i propri tempi e la propria inesperienza.

Fu così dentro di lei, nell'anfratto caldo del suo ventre liquido, lentamente, portandosi dietro una fiamma sottile di candela che le ferì dolcemente la carne, che le infiammò le viscere, fino a che divenne delirio, richiesta, fame.

Il ritmo divenne melodioso e armonico, due strumenti perfetamente accordati: la bocca di lui si avvicinava alle sue labbra, mentre le invadeva il corpo; se ne allontanava quando l'onda dell'affondo si ritirava, mentre la scia umida e vischiosa della linfa di lei preparava il varco in cui tuffarsi ancora.

Danzarono così senza parole, solo con i suoni strozzati dei desideri, nel frastuono dei respiri concitati, nello schiocco dei baci e nel fruscio delle lenzuola scompigliate; nell'odore acre della cera consumata, del sudore, delle loro essenze liquide, delle loro anime congiunte.

 

**************************

Ben trovate!

Innanzitutto, vi chiedo scusa per l'enorme ritardo!

Ho avuto un mese impegnativo e difficile che mi ha impedito di scrivere.

Spero che nell'attesa non abbiate perso interesse per questa storia e che continuiate a seguirla, anche perchè siamo agli ultimi capitoli: infatti il prossimo sarà l'ultimo e a ad esso seguirà un epilogo.

Con questo, ho voluto dare un coronamento alla storia tra Betel e Sabra e lasciare ancora un po' in sospeso le ultime vicende della storia.

Spero di leggere i vostri commenti!

Un bacio e alla prossima.

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Capitolo 43
*** . 43 . Il passato alle spalle ***


 

. 43 .


Il passato alle spalle

 

Doveva già essere mattino inoltrato, a giudicare dalla luce che oltrepassava le tende, eppure sentiva ancora le palpebre pesanti, come se il sonno della notte appena trascorsa non gli avesse portato alcun ristoro.

Era arrivato lento e silenzioso dopo che avevano fatto l'amore, li aveva colti entrambi ancora l'uno sopra l'altra, sudati e stanchi, il corpo di lei sdraiato sopra il proprio, leggero come senza peso, la guancia sul petto all'altezza del cuore e i suoi capelli ovunque, come l'oro fuso nel crogiuolo, a solleticargli il collo e le braccia, ad invadergli le narici con il loro profumo di miele.

Mosse il braccio destro lungo il fianco, trovando vuoto lo spazio che solitamente le apparteneva. Così si voltò sul fianco, occupandolo col proprio corpo e affondando il naso nel cuscino. Il profumo e il calore di lei erano ancora forti e vividi, impregnati nella trama della federa e persistevano anche sulla propria pelle e sulle dita. Se le portò sulla lingua, ne leccò le punte, condite del sapore di lei, con gli occhi chiusi, assaporandole, come se fossero state intinte di ambrosia.

Il corpo si svegliò immediatamente, i muscoli si tesero, come se quella notte non ne avesse avuto abbastanza del sapore del suo corpo, dell'odore, dei baci e della carne.

Si alzò di scatto dal letto, preso da un'urgenza irrazionale; indossò solo la vestaglia e, ancora a piedi nudi, lasciò la stanza alla ricerca di lei.

La tavola nella sala da pranzo era perfettamente imbandita per la prima colazione.

Un centrotavola con rami di abete, pigne e bacche rosse decorava la candida tovaglia di lino; tazze di finissima porcellana erano sistemate nei posti che occupavano abitualmente Eìos e Ariela e nel resto dello spazio vi erano un vassoio di pane croccante e imburrato, una brocca di cristallo contenente una spremuta di arance rosse e una lattiera da cui si spandeva il profumo di latte caldo; vasetti di marmellate coloratissime e vischiose, brioches e biscotti allo zenzero e cannella.

Eìos sorrise allo spettacolo confortante della propria casa, a quei profumi fragranti che si era portato dietro nel lungo viaggio che l'aveva tenuto lontano. Girò intorno al tavolo, strisciando l'indice sulla stoffa ruvida della tovaglia, fino a che non giunse a capotavola. Sfilò la seggiola, indeciso sull'accomodarsi o attendere l'arrivo di Ariela, quando ella entrò nella stanza recando tra le mani una invitante torta al cioccolato nero ricoperta di zucchero a velo.

Era perfettamente vestita, i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca, e un grembiule bianco, segno che era stata ella stessa a preparare la colazione.

L'idea della sua donna ad imbrattarsi di farina, indaffarata in cucina, gli ammorbidì il cuore leggermente deluso dal risveglio solitario di pochi minuti prima.

Le corse incontro, le liberò le mani dalla pietanza profumata e se la strinse addosso, come se non la vedesse da giorni.

Il profumo della sua pelle si mischiò a quello del cibo, mettendogli fame e desiderio insieme.

Prese a baciarla, sul collo e sulle labbra, continuando a stringere le braccia intorno alla vita, ad affondare le dita nei fianchi morbidi.

- Ti prego ... - mormorò la donna cercando di respingerlo, facendo pressione con i palmi aperti sul petto di lui.

Ma Eìos non se ne curò, continuò a baciarla tappandole la bocca, togliendole il respiro con i baci e con la lingua.

- Ti prego! - ripeté con più decisione, riuscendo a riconquistare il possesso della propria bocca. - Nell'altra stanza c'è Alvita ... – si giustificò, sgusciando definitivamente dalla sua stretta e portandosi al lato opposto della tavola.

Eìos scrollò le spalle, raggiungendola per stringerla di nuovo.

- Siamo nella nostra casa e tu sei mia moglie. - rimarcò il possesso.

- Credi che solo perché stanotte ... Non saranno quattro baci a farmi dimenticare ciò che mi hai fatto! – l’avvertì, voltando il viso dal lato opposto, perché non potesse riprendere a baciarla.

- Non erano quattro baci, ma mille! - replicò, parandosi davanti con aria di sfida. - Era carne e desiderio, il mio e il tuo mescolati insieme. Erano le nostre anime che si toccavano; era l'unione perfetta dei nostri sentimenti! - continuò, con il viso ad un palmo da quello di lei, tanto che ella sentì il calore del respiro lambirle le labbra. - E tu, hai preso tutto: baci, carne e desiderio, così come li presi io. - incalzò, incastrandola tra il proprio corpo e il bordo della tavola.

Il petto increspato di Ariela si scontrò con il torace di Eìos; la vita rimase imprigionata nella stretta claustrofobica di lui, tanto che ella sentì il respirò mancarle.

Impallidì e le labbra divennero violacee, come se fosse sopravvenuta una crisi respiratoria, e le membra tutte, che prima erano tese nello sforzo di contrastarlo, persero vigore, fino a che il corpo gli ricadde tra le braccia, come senza vita.

 

***********************

 

Quando diversi minuti dopo il dottor Elmisk uscì dalla camera con un sorriso rinfrancante, Eìos tornò a respirare correttamente.

- Padre ... - chiese, andandogli incontro, mentre il vecchio si richiudeva la porta alle spalle.

- Sta' pure tranquillo, figliolo. - lo rassicurò con una pacca sulle spalle, - Ha solo bisogno di tranquillità e pace e ... di nutrirsi un po' meglio. - aggiunse, raccogliendo il pastrano e il cappello con una mano e stringendo con l'altra la valigetta medica.

- Ma cosa ... - tentò di chiedere, Eìos, ancora in apprensione.

- Ti dirà lei ... - lo interruppe laconico, guadagnando la porta di casa.

Era seduta al centro del letto, appoggiata a due guanciali che le sostenevano la schiena. Il colorito era meno pallido, ma gli occhi erano visibilmente stanchi e contornati da leggere occhiaie scure che esaltavano il blu intenso delle iridi. Le labbra erano tirate in un'espressione difficile da decifrare, a metà tra il sofferente e il preoccupato, tanto che lo stesso Eìos si sentì svuotato della tranquillità che le rassicurazioni del medico gli avevano infuso.

Sedette sul letto accanto a lei, delicatamente, come si fa quando si teme di svegliare chi dorme, e le carezzò il dorso della mano mollemente adagiata lungo il fianco.

- Mi hai fatto paura ... - cominciò, la voce ridotta ad un sussurro.

- Sto bene. - rispose, con una vaghezza e un distacco che lo intristirono.

Le aveva fatto male: prima, l’aveva tradita, fuggendo senza portarla con sé, e dopo, una volta tornato, invece di riconquistare la sua fiducia e l'amore, che certamente ella nutriva ancora, l'aveva umiliata, trasferendosi nella loro casa, senza il suo consenso.

Sapeva di aver commesso gravi errori, ma come sempre nella vita, si era arrogato il diritto di prendersi ciò che voleva, soltanto perché la vita gli aveva tolto tutto il resto.

In aggiunta, la notte passata insieme, i baci, le parole sussurrate, anche con rabbia, il calore dei propri corpi fusi nell'amplesso, lo avevano convito che la sofferenza della separazione, l'umiliazione e gli errori si fossero sciolti, come grumi sulla fiamma.

Lo sguardo sfuggente, il distacco nelle parole e il tono stanco con cui gli aveva risposto, però lo avevano convinto del contrario.

- Perdonami! – la supplicò, avvicinandosi più che poteva, senza però annullare il già esiguo spazio tra loro.

- Me lo hai già chiesto e io ti ho già perdonato. –

- Non per la fuga, né per il male che ti ho fatto entrando nella tua esistenza tranquilla. Ti chiedo perdono per l’amore malato a causa del quale ti ho imposto la mia presenza … - cominciò, con gli occhi bassi e la voce del peccatore nel confessionale, - Voglio stare con te, Ariela, ma tu sola hai il diritto di decidere ... Anche se mi fa male starti lontano, ho compreso che devo imparare ad aspettare. – aggiunse e, sollevandosi dal fianco di lei, terminò: - Ho già chiesto che siano preparate le mie cose: oggi stesso tornerò a vivere da mio padre e vi rimarrò fino a che … -

- Aspetto un bambino. – lo interruppe, afferrandolo per il polso, senza guardarlo, come se fosse, quella rivelazione, dolorosa o imbarazzante.

Eìos si lasciò cadere di nuovo sul letto, stralunato e sbandato: aveva desiderato un figlio da lei dalla notte in cui avevano fatto l’amore per la prima volta, ma aveva avuto il coraggio di rivelarglielo solo nei mesi in cui la bufera si era abbattuta sulle loro vite. Lo aveva fatto in un momento di vulnerabile follia, nel momento in cui attorno a loro tutto crollava, abbattuto e arso dalla vendetta e dell’odio.

Poi, per proteggersi e proteggerla da quell’incendio divoratore, era fuggito, sperando di portarsi dietro le fiamme, lontano fino al momento in cui si fossero spente ed egli fosse potuto tornare, ustionato, ma vivo.

A quel figlio desiderato, non aveva più pensato e quegli, invece, come un seme portato dal vento, nel buio della terra molle, aveva germinato lo stesso.

Al sicuro, nutrito dal sangue della sua donna, nascosto nel suo ventre, in silenzio, aveva messo radici.

– Da quanto lo sai? – chiese con un filo di voce, lasciandosi stringere il polso dalle dita di lei bianche e sottili.

– Ne avevo il sospetto, già dai giorni del duello, ma … la paura per te, per la tua sorte pesavano sul mio cuore come un macigno, troppo per occuparmene. Poi venne la decisione della partenza, la certezza di una gravidanza l’avrebbe rallentata, o peggio, ti avrebbe costretto a sconvolgere i piani. Rivelarti i miei sospetti la notte in cui mi lasciasti … avrebbe significato costringerti a portarmi con te, ti avrebbe imposto una catena che non volevi. – spiegò. – Chiederne conferma nei giorni di solitudine … - aggiunse, scrollando le spalle, - … non avrebbe avuto più alcun senso. Io lo sapevo, il mio corpo lo gridava continuamente. Non mi restava che aspettare. – concluse amara, rassegnata alla certezza di dover crescere quel frutto senza di lui.

- Ma io sono tornato, io sono qui! – le fece notare, sporgendosi sul corpo di lei per trovarne gli occhi sfuggenti. – Sono un egoista, un folle, un impulsivo bastardo, sono anche uno sconsiderato, ma sono tornato e l’ho fatto per te! – continuò.

Le sue labbra sfiorarono quelle di lei, le alitarono nella bocca le parole; catturarono le lacrime che, dagli occhi di entrambi, irrigavano la pelle e le dita che ne contenevano il viso pallido. – Dimentichiamo tutto, amore mio, diventiamo i contadini che un giorno sognammo di essere … coltiviamo il tuo ventre, guardiamolo crescere e amiamoci ancora, per sempre, come abbiamo fatto a dispetto delle bufere e della lontananza … -

Ariela si lasciò stringere, si lasciò adulare dai baci piccolissimi, dai propositi perfetti e dalle promesse che erano mancate al proprio cuore.

- E troveremo per noi una casa lontano, in mezzo agli ulivi e alle vigne? – insistette, ricordando il sogno ad occhi aperti fatto all’alba della loro fuga mancata.

- Immersa tra colline verdi e frutteti odorosi, tra le grida dei bambini e i profumi del pranzo … - aggiunse, senza sapere che quella parte di sogno, allora era stata solo di Ariela ed ora diveniva inspiegabilmente anche propria.

- E porteranno, i nostri figli, il nome di tuo padre? Del padre che ti ha sollevato dal fango e ti ha fatto uomo?- lo incalzò, sperando che l’attaccamento maligno a quella linea di sangue, fosse evaporato, spento al cospetto del futuro sereno che egli doveva a colui che già si nutriva nel proprio ventre.

- Porteranno il nome del solo padre che abbia avuto! –

 

 

*******************************

Ben trovate!

Questo avrebbe dovuto essere l’ultimo capitolo, ma nello scriverlo, mi sono resa conto che nel tentativo di risolvere tutte le questioni in sospeso, l’avrei reso troppo lungo.

Così ho deciso di dividerlo in due.

Dunque, il prossimo sarà, senza dubbi, l’ultimo a cui farò seguire un epilogo.

Come al solito, ringrazio tutte quelle che leggono o che hanno questa storia tra le preferite e ricordate.

Ma un ringraziamento speciale va a chi mi recensisce.

Un bacio!

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Capitolo 44
*** . 44 . L'ultimo conto da pagare ***


. 44 .

 
L'ultimo conto da pagare


L'avevano informato che era tornato, che il processo per scagionarlo dalle accuse artefatte si sarebbe tenuto di lì a pochi giorni.

Gli avevano detto che dormiva nel proprio letto con sua moglie, come se nessuna tragedia l'avesse mai sfiorato. Né la prigionia, né il duello o le fiamme con le quali gli aveva bruciato la barca e il futuro in un luogo lontano e sicuro; nessuna delle trame ordite, neanche una banconota del proprio denaro, usata per fabbricare le accuse e consumare lentamente la sua rivoltante esistenza traditrice, l'avevano scalfito.

Era tornato nello stesso luogo, nella stessa vita di prima, con più forza e più arroganza.

Egli era come la mala erba: il contadino la strappa, la brucia, ma essa torna ad infestare messi e prati, ne mangia il concime, ne beve l'acqua e prolifera indisturbata, verde e brillante.

Doveva accettarlo, non poteva che rassegnarsi.

Eppure non trovava pace.

"La pace sta nel perdono", diceva una voce cigolante nel suo cuore, ma la mente era ancora troppo annebbiata per concedersi al perdono.

- Signore? -

La voce di Saurion lo fece sobbalzare.

- Signore ... - ripeté, - Mi avevate assicurato il danaro per le paghe ... - gli ricordò, - I braccianti sono allo strenuo, signore. Questo mese non sono ancora stati pagati e così i creditori. -

- Parlane con mia madre. -

- L'ho già fatto ... Il mese passato e quello prima ancora ella se ne fece carico con i propri denari. -

- Lo faccia anche questo mese, giacché tiene così tanto a questi sterpi ... -

- Ma, signore, ella non possiede più liquidità! Siamo ad un passo dalla rivolta, padrone. -

Miran gli rivolse uno sguardo vacuo, assonnato, così lontano da quello dell'uomo che era stato il suo padrone, che Saurion fece un passo indietro, intimorito.

- Che facciano ciò che vogliono, che si rivoltino e brucino e protestino armati di forconi. Non mi importa più! -

- Signore, vi prego ... -

- Questa terra è maledetta, io sono maledetto. - lo interruppe, come se la preghiera del servo non fosse mai giunta alle proprie orecchie, - Che tutto bruci, Saurion ... che bruci tutto! - concluse, con un filo di voce e il bicchiere ormai vuoto in mano.

Il servo chinò il capo sconfitto e a passi lenti uscì dallo studiolo, lasciandolo solo a macerarsi.

Ma non passarono che pochi minuti che un chiasso assordante minò il silenzio della casa.

Fuori era già buio, solo verso ovest, dietro le colline, si attardava ancora il cielo rosso di un tramonto invernale. Sembravano le fiamme di un incendio devastante, che invece di dissolversi col passare dei minuti si espandeva sui declivi, con scintille guizzanti, fino ad invadere i campi.

Guadagnò la finestra, strizzò gli occhi, lucidi e infiammati dalla stanchezza e dall'alcool, e mise a fuoco il viale lastricato che conduceva alla casa.

Un serpente di uomini e donne, si allungava dall'imponente arco in pietra, fino all'ingresso.

Le fiaccole che ardevano nelle loro mani, illuminavano i volti scarni, irruviditi dal sole e dalla fatica; brandivano bastoni e mormoravano e le donne si portavano attaccate alle gonne marmocchi mal vestiti.

Erano i suoi braccianti e le loro mogli e i loro figli, quelli che lavoravano per lui da che erano nati e dei quali Miran si era infischiato, poiché la fame di vendetta che gli rodeva l'anima esigeva maggiore cosiderazione di quella che attanagliava loro lo stomaco.

- Vieni fuori, padrone! - gridò uno alla testa di tutti, nella mano destra, una torcia sollevata verso la finestra dello studiolo. - Lo vedi questo? - continuò, strattonando per il bavero della camicia un bimbo di sei o sette anni che si aggrappava disperatamente alle sottane della madre, - Questo è uno dei nostri figli e mangia pane duro da più di una settimana ormai. Lo sai padrone, che non ci paghi da un mese? - insistette, con una voce che faceva rabbrividire.

Miran si ritrasse dai vetri, nascondendosi dietro le pesanti tende che schermavano la finestra, mentre un vociare sempre più rumoroso si levava dalla corte della casa e i pianti dei bambini si facevano più disperati.

- Vieni fuori, padrone! - ripeté e con lui un coro di voci mischiate, fame e pianto, orgoglio schiacciato e miseria.

Miran sentì il sangue gelargli le vene e perle di sudore freddo rigargli la fronte. Nonostante il freddo che attanagliava la stanza, priva del fuoco ormai spento del camino, sentì un calore propagarsi nel cervello e bruciargli le tempie. La gola ardeva, come se non provasse il sollievo dell'acqua da ore, dunque mandò giù un sorso di brandy, ma l'incendio divampò ancora più prepotente, invadendogli il petto e le viscere.

Avrebbe dovuto spalancare la finestra, mostrarsi ai suoi braccianti, imbonirli con parole di scuse e promesse di cibo e doni per la loro pazienza.

Avrebbe dovuto urlare che egli era sempre il padrone, un padrone equo che non si era mai sottratto alle necessità dei propri servi e per questo essi dovevano aspettare in silenzio, stringendo i denti fino alla salvezza.

Ma la verità era che a lui non importava di quelle grida e di quei pianti, le sue orecchie e il suo cuore sgualcito non avevano più pietà per la sofferenza altrui.

Miran era morto, l'uomo onesto e rispettoso, il padrone attento, il figlio e il marito devoto erano crepati di rabbia e di vergogna.

Dell'uomo che era stato non c'erano che ossa e sangue.

Riempì nuovamente il bicchiere, ne bevve tutto il contenuto d'un fiato, fiamme liquide per spegnere un incendio, e voltò le spalle alle suppliche e alle imprecazioni dei cani che chiedevano un osso.

Si accasciò sulla poltrona e bevve, bevve ancora, fino a che la mente perse ogni lume, il corpo divenne inerme, sprofondato nel sonno comatoso della sbornia.

 
*************


La casa risplendeva delle luci della festa imminente.

Una Natività era sistemata su di un tavolinetto davanti alla grande vetrata sul giardino. Profumi di agrfoglio e rami di pino riempivano il grande soggiorno e nel camino, sui ciocchi ardenti, bruciavano pigne odorose di resine e bosco.

Sedevano l'uno a fianco dell'altra, ciascuno intento nelle proprie occupazioni, in un silenzio carico di pace e armonia.

- Vorrei una grande cena, per la vigilia di Natale. Vorrei invitare mio padre e Betel.
E tua madre ... Vorrei intorno la mia famiglia. -

Ariela appuntò l'ago sul telaio, dove ricamava il corredo del loro bambino: stelle dalle punte arrotondate e una piccola falce di luna decoravano i bordi un candido lenzuolino.

- Non avrei mai creduto che saresti diventato uomo di tradizioni e legami.- constatò, sorridendo e allungando entrambe le mani sul viso di lui.

Le dita si intricarono tra i capelli scuri e scarmigliati, carezzarono le tempie, le guance lisce, avvicinandosi dolcemente alle labbra fintamente inbronciate.

- Non ridere, strega, è colpa tua! Mi hai riempito di così tanta grazia e dolcezza; amore e speranze, che l'anima mia ha ... espulso tutte le sue spine. - dichiarò, strofinando le guance contro il palmo della mano di lei, come i cuccioli che si beano delle carezze del padrone.

Ariela continuò a sorridere soddisfatta, con il cuore inondato di una languida pace, attirò il capo del marito sul proprio ventre, nella cui oscurità il frutto acerbo del loro legame cresceva lento.

- Quasi tutte le spine ... - aggiunse roco, per poi lasciarle un bacio, proprio nel punto in cui la nuova vita si legava a quella della madre.

- Abbi fede, amore mio. Abbi fede e speranza. - lo rassicurò, mentre le braccia di lui le avvolgevano la vita e le proprie dita continuavano il percorso illogico tra le spire dei suoi capelli. - Un giorno anche l'ultima spina lascerà la tua carne e tu e tuo fratello troverete pace. Lo meritate e ne avete diritto. - aggiunse, con nella voce una certezza così viva e brillante da illuminare lo sconforto e la frustrazione che gli rabbuiavano il cuore.

- Non voglio aspettare! - disse, raggiungendo con il viso il volto di lei e guardandola negli occhi.

- Eìos ... -

- Lo so che non approvi ... che temi il peggio, ma io ... - la interruppe, baciandole il collo che si ammorbidì al passaggio delle sue labra calde, - Non sopporto l'idea che mio fratello sia ancora lì a macerarsi per un maligno complotto del destino, mentre io sono qui tra le braccia della donna che amo, confortato dal mio sangue che attecchisce. - concluse, assediando le labbra di lei che tentavano vanamente di ribattere.

- Sai che voglio la vostra pace come voglio la tua felicità, ma tu sei ... -

- ... Sono un soldato e non un conciliatore! - trovò per lei le parole.

Ariela sorrise della definizione che egli stesso aveva trovato per sé.

Le parole erano sempre state per suo marito arcani arzigogoli: più cercava di usarle per spiegarsi, più esse lo tradivano, lo confondevano, si mescolavano come le carte da gioco nelle mani di un baro.

- Ho bisogno di tentare ancora. La mia felicità non sarà completa finché io e Miran saremo nemici. -

- E sia! - acconsentì, lasciandosi baciare le tempie e le palpebre socchiuse, - Dopo ... però! - ammiccò, con la voce sottile e ammaliante, mentre entrambe le mani scendevano sul petto, scotendogli i sensi e annullando ogni resistenza e ogni altro pensiero.

 
*************
 

Un rumore di vetri infranti lo fece sobbalzare.

Il bicchiere vuoto gli cadde di mano, frammentandosi in mille schegge luccicanti e aguzze.

Il pavimento ne fu inondato, tanto che Miran, con la bocca ancora impastata di brandy, rimase immobile sulla poltrona, vagando con lo sguardo tra le schegge che, come milioni di cristalli, ornavano gli arabeschi del tappeto.

Un odore acre di fumo gli colpì le narici.

Si guardò intorno, prima verso la bocca del camino, dove ormai erano rimaste solo polvere e cenere; poi verso la scrivania, nel posacenere di alabastro, in cui aveva lasciato bruciare il tabacco di un sigaro, ma nessuna delle due era la fonte da cui si spandeva la zaffata.

Continuò a cercare, finché un crepitio di fiamme lo fece voltare verso la grande vetrata.

I vetri erano completamente infranti e i drappi delle tende bruciavano, espandendo un odore di stoffa bruciata.

Un istante dopo, le fiamme avevano già divorato il telaio dell'infisso e cominciavano a serpeggiare lungo le frange del tappeto, sui broccati delle poltrone, sulle tele dei quadri e sull'intera tappezzeria.

- Adesso ... ci vieni fuori, padrone? - gracchiò la voce di qualche ora prima, ancora più potente, ancora più spavalda.

Miran sbatté le palpebre, cercando nel labirinto confuso del suo cervello la forza per reagire, ma il corpo era ormai svuotato, senza vigore nelle membra e gli occhi cominciavano a lacrimare copiosamente per l'incendio che lo circondava.

L'unica via di fuga era verso il piano inferiore, dunque, doveva riuscire a superare il corridoio e, attraverso la rampa di scale, raggiungere il pian terreno e poi la porta di ingresso.

Se ci fosse riuscito, sarebbe finito in pasto ai lupi, ai servi ammutinati che avevano appiccato l'incendio, ma almeno avrebbe avuto salva la pelle.

Estrasse un fazzoletto dal taschino, lo immerse completamente nella brocca d'acqua che teneva sullo scrittoio e se lo poggiò sulla bocca e sul naso, per evitare di inalare i fumi tossici.

Si avvicinò alla porta, nel tentativo di aprirla, ma le fiamme e il fumo avevano già invaso il corridoio. Una vampata di calore lo investì, così potente e divoratrice, da costringerlo a richiuderla alle proprie spalle, tenendolo imprigionato.

Ormai l'ossigeno andava esaurendosi, facendolo arrancare, bruciandogli i polmoni e intossicandogli le narici, la gola, i pori della pelle.

Si sdraiò sul pavimento, dove l'aria era più pulita, il fazzoletto ormai asciutto ancora sul viso, gli occhi rossi e gonfi di lacrime amare e dolorose e nella testa un'invocazione disperata di salvezza.

Quando Eìos giunse davanti al grande portone della tenuta, le fiamme avevano già mangiato gran parte dell'edificio.
Sulla volta del portone d'ingresso, dalle fauci del grande drago scolpito nella pietra, stemma di famiglia, guizzava una lingua di fuoco, come se la creatura mitologica avesse preso vita, animata dall'elemento che essa stessa dominava.

La folla di braccianti e di servitori scampati al fuoco, rimanevano sul selciato a guardare quell'enorme mostro affamato, mentre consumava le pietre e sbranava gli arredi di quella casa maestosa e fragile, riducendola in polvere e cenere.

- Il padrone ... - mugolò Saurion, strofinandosi la faccia sporca di fuligine e la camicia ridotta in brandelli bruciacchiati, - Il padrone è rimasto dentro! - aggiunse, con la voce arrochita.

Eìos si immerse nella vasca della grande fontana in pietra, inzuppando i vestiti e il mantello che li copriva. Strappò il grembiule ad una delle cameriere e ripetè l'operazione, prese un'ultima boccata d'aria pulita, lo legò intorno alla bocca e alle narici e si lanciò nelle fiamme dell'inferno.

Il forte calore ed il fuoco avevano danneggiato la struttura dell'edificio: le enormi travi di legno bruciavano; le fiamme le percorrevano lungo il soffitto, come serpenti di fuoco.

Alcune resistevano al peso dei solai, altre ricadevano al suolo, trascinandosi dietro le orditure lignee, i pavimenti e gli arredi, insieme ad un ammasso di polvere e fumo.

La scalinata che raggiungeva il piano nobile era ancora integra, fatta eccezione per il corrimano e la ringhiera di legno ormai distrutta, così la raggiunse in una gincana spericolata, avendo cura che i propri indumenti non fossero intaccati dal fuoco inseguitore.

Salì i gradini a due a due, cercando di respirare il più lentamente possibile, nonostante la fatica e i polmoni minati dell'aria satura.

Sapeva di dover essere veloce, ma sapeva anche che la prima cosa da fare in un incendio è mantenere calma e lucidità, così da non compiere mosse azzardate e finire in trappola.

Il fuoco è un essere vivente, un animale a caccia: respira, annusa la preda, la rincorre, insinuandosi negli anfratti più piccoli; allunga la lingua e le zampe fino a che non l'agguanta.

Ma Eìos era preparato ai suoi agguati e soprattutto non aveva alcuna intenzione di finire nelle sue fauci, non adesso che aveva la propria vita sicura, fertile e promettente che lo aspettava nella sua casa.

Corse per il corridoio, fino alla porta dello studiolo, sperando che Miran vi si fosse asserragliato. Si fasciò la destra con un lembo del mantello ancora umido e abbassò la maniglia. Era rovente, segno che probabilmente il fuoco avesse già invaso la stanza. Spinse la porta lentamente, tenendola col piede, per evitare possibili vampate di fuoco e fumo e vi entrò, richiudendosela alle spalle.

Il locale era invaso dalle fiamme, ma il fumo trovava via di sfogo all'esterno, attraverso i vetri rotti delle finestre, permettendo una discreta visibilità e la possibilità di respirare.

Miran giaceva a terra bocconi, le mani ancora strette sul fazzoletto a coprire la bocca.

Vi si inginocchiò a fianco, lo mise supino e lo scosse per gli omeri, tentando di rianimarlo. Il respiro era così flebile che dovette avvicinare l'orecchio al viso per accertarsi che fosse vivo.
All'improvviso, cominciò a tossire e rantolare, come un animale ferito.

- Apri gli occhi! - lo esortò, dopo essersi liberato del bavaglio, - Dannazione, Miran, apri gli occhi! - insistette, scuotendolo con più veemenza.

Gli occhi di Miran si aprirono uno alla volta, pur rimanendo due fessure rosse, come lembi di pelle di una ferita.

- Che ci fai tu qui, maledetto diavolo! - imprecò, non appena al cervello giunse l'immagine di suo fratello, inginocchiato accanto a lui.

- Dobbiamo uscire di qui subito, prima che il fuoco ci divori insieme alla casa. - gli ordinò, senza dar peso alle parole dell'altro.

- Va' via! - gli urlò contro, in un colpo di tosse.

- Non essere idiota, tirati su. - continuò, facendo leva sulle ginocchia e sollevandolo di peso. - Dobbiamo cercare una via d'uscita. Il corridoio è invaso dalle fiamme. -

- Non voglio che tu mi aiuti! Non ti darò la soddisfazione di salvarmi la vita così che tu possa diventare il santo o l'eroe che salva il suo stesso nemico! -

- Ti facevo meno stupido, fratello. Preferiresti bruciare vivo piuttosto che essere aiutato da me? -

- Mi hai già umiliato troppe volte, perché ti permetta di farlo ancora. -

- Sai che ti dico? Se è all'inferno che vuoi finire ... padronissimo. Ma non oggi, fratello, non stanotte. E adesso tirati su e non costringermi a trascinarti! - gli ordinò.
Miran tossì ancora un paio di volte, digrignò i denti e mandò giù un groppo di saliva e orgoglio.

- Ci caleremo giù per la pluviale. - suggerì, - Come facevamo da ragazzi per sfuggire a tua madre. - ricordò, con una smorfia.

- Eravamo più magri e piccoli di statura allora. La pluviale non reggerà al nostro peso. - gli fece notare, mentre si metteva faticosamente in piedi.

- Allora preparati a finire con le gambe all'aria davanti ai tuoi servi, fratello. - ripeté, con quel tono canzonatorio che Miran detestava fin dagli anni in cui Eìos era giunto alla tenuta.

Continuava a provocarlo, ma in realtà voleva solo che la rabbia che gli vedeva montare dentro attaverso gli occhi, lo inducesse a reagire e a salvarsi.

- Prima i nobili e i gentiluomini ... - aggiunse con un leggero inchino.

- Bastardo!- biascicò tra i denti.

Eìos finse di non sentire, anche se quella parola ancora bruciava l'anima, come il marchio a fuoco che si imprime sulla carne delle bestie.

Afferrò una seggiola e la scaraventò contro la vetrata. Gli ultimi vetri ancora intatti andarono i frantumi e fumo e fiamme uscirono all'aperto, alimentandosi del nuovo ossigeno che la stanza aveva guadagnato.

Il canale di scolo correva sul lato destro della finestra, dal tetto al suolo. Era più piccolo e meno saldo di quanto ricordasse, ma avrebbe retto.

Comunque, rimaneva l'unica via di uscita.

Miran inspirò un paio di volte l'aria che si era fatta accettabile, ne incamerò una dose sufficiente a compiere l'impresa che, quando era ragazzo, lo faceva sentire un uomo audace e coraggioso, e si calò.

La presa era difficile e scivolosa e il cigolio del tubo di rame era inquietante, come se lo avvertisse dell'imminente distacco dal muro. Ma Miran continuò a scivolare fino a che le mani troppo provate e il fisico stanco gli fecero perdere la presa e rovinare al suolo.

Eìos lo seguì con un'agilità invidiabile acquisita negli anni in mare e sugli alberi maestri delle navi e in pochi minuti fu sul selciato di fronte alla casa.

I servi avevano cominciato a spegnere l'incendio dall'istante in cui Eìos si era gettato al salvataggio del padrone.
Uno dietro l'altro, si passavano i secchi colmi d'acqua che venivano riempiti nella grande fontana e poi svuotati sulle fiamme.

Alla catena umana si unì Eìos, gli occhi verdi e lucidi esaltati dalla fuligine che li circondava; il corpo liberato dal pesante mantello e la camicia logorata dal l'impresa sotto cui i muscoli lavoravano senza tregua.

Miran dietro di lui lo guardava e l'odiava.

L'incoscienza con cui si era lanciato tra le fiamme per salvarlo; la foga con cui instancabilmente partecipava al tentativo disperato di salvare anche i poveri resti di quella casa che li aveva visti amici, fratelli, pur senza averne coscienza, gli torcevano le budella e lo confondevano.

Perché aveva rischiato la vita per salvare la sua?

Perché non l'aveva lasciato così, a morire dannato, giacché egli stesso era stato causa del suo inferno?

- Sporcati le mani anche tu! - gli urlò, svuotando l'ennesimo secchio, - Non pretenderai che oltre alla vita, ti salvi anche la casa? - lo provocò ancora, col fiato corto per la fatica.

- Bastardo! - imprecò, esasperato dal suo ammirabile sacrificio.

- Sta' attento, fratello, non fingerò di non aver sentito un'altra volta! -

Miran ingoiò la bile che gli intossicava la gola e si mise in fila insieme agli altri, per contribuire.

L'incendio si acquietò alle prime luci dell'alba, quando, nel gelo del mattino della Vigilia di Natale, uomini e donne, servi e padroni, bastardi e onorabili, erano ormai esausti e completamente devastati da quella notte di fiamme.

La campana della piccola cappella di famiglia suonò a festa, come fosse il giorno del santo patrono, celebrando la sconfitta del mostro e al tintinnio allegro si accompagnarono le risa dei bimbi e le voci rauche e stanche degli uomini, i pianti liberatori delle loro donne, che con la stessa determinazione e forza li avevano aiutati.

Eìos crollò sul selciato, distrutto dalla fatica, la testa tra le mani e le dita tra i capelli sporchi.

Miran gli si fermò davanti, la stessa spossatezza delle membra e la stessa espressione stravolta.

- Perché? - chiese soltanto, con la voce del ragazzino di dieci anni prima, commossa e flebile, temendo la risposta che Eìos avrebbe potuto dargli, qualunque essa fosse.

Eìos tirò su la testa, l'immagine del suo volto riportò la mente di Miran agli anni in cui tutto era facile, in cui tutto si poteva fare.

Quegli anni in cui un bastardo straccione, senza origini e senza futuro, poteva diventare l'amico del figlio del padrone e il futuro si poteva costruire insieme, così come essi stessi desideravano.

- Perché, nonostante tutto ... - rispose, cercando negli occhi dell'altro la stessa purezza di sentimenti di quegli anni. - Tu sarai sempre e comunque mio fratello! -

Miran sbatté le palpebre e ricacciò in gola le lacrime per la sorte che li aveva messi uno contro l'altro, che li aveva resi soldati di due eserciti opposti, piuttosto che alleati prolifici, come avrebbero dovuto essere.

Tese la destra, tremante, come fanno i bambini per fare la pace, il palmo aperto, le dita sottili e delicate, e attese in silenzio.

Eìos abbozzò una smorfia che dentro nascondeva un sorriso e gli offrì la propria.

Le mani si afferrarono, si strinsero, scambiandosi gli ultimi brandelli di forza e di speranza rimaste.

Eìos fece leva sulle gambe e Miran tirò, finché furono l'uno di fronte all'altro, occhi negli occhi, alla stessa altezza.

Finalmente uguali.

************

Ben trovate!
Siamo giunti all'ultimo capitolo, ma la storia non è ancora finita.
Pubblicherò al più presto un epilogo.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e avrei piacere non solo nei vostri voti, ma anche nei vostri commenti.
Vi lascio un bacio e a presto!
 

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Capitolo 45
*** . 45 . Di culle, di baci e bocciuoli di rosa ***


. 45 . Di culle, di baci e di bocciuoli di rose



 

Era già quasi primavera.

Nonostante fossero ancora nel mese di maggio, la rigogliosa stagione prorompeva in ogni angolo verso cui l'occhio guardasse.

Alberi carichi di fronde verdi scintillavano al riverbero del sole; canti armoniosi di piccoli passeri solleticavano l'aria tersa e frizzante e siepi grondanti di fiori e profumi affollavano i bordi del giardino, esaltandosi dei voli leggeri delle farfalle.

Il gorgoglio della piccola fontana faceva da controcanto alla sua voce dolce e sussurrata, mentre intonava una vecchia ninna nanna.

Sotto un tiglio argentato, una culla in vimini dondolava, come una barchetta sulla superficie placida di un lago. Onde candide di merletti e trine ne adornavano i bordi e un velo di tulle dai piccoli impercettibili ricami rosa la ricopriva, proteggendola da insetti e fronde.

Ariela sedeva accanto ad essa. La schiena era reclinata sul cesto intrecciato di vimini e onde di capelli biondi, come cascate di miele e grano, scendevano lungo le spalle.

Petali di rose e foglie le ricadevano in grembo, odorose e leggere, mentre il loro profumo si diffondeva in tutto il giadino, mescolandosi ed esaltando quello di lei.

Le carezzò il capo, lasciando che le dita scure si intricassero nel crine e la pelle sottile della cute gli rinfrancasse i polpastrelli ruvidi.

- Si è appena addormentata. - gli fece notare, rivolgendogli i suoi begli occhi di colomba.

Eìos sporse i propri verso l'interno della culla: il faccino tondo di Rua era incorniciato dalle manine strette in piccoli pugni; i ciuffi di capelli neri spuntavano da una cuffietta e la bocca rosa, come il bocciuolo di un fiore, colorava l'incarnato niveo.

- Allora vieni qui. - la esortò, tirandosela tra le braccia.

Ariela si accoccolò sul suo petto profumato di mare e del cuoio delle briglie del suo cavallo, gli strinse le braccia intorno al busto e tirò su il viso e la bocca nella muta richiesta di un bacio.

Eìos sorrise, le strinse la vita, resa più morbida e dolce dalla maternità, e le rubò il fiato con le labbra calde e la lingua insistente, come se le loro bocche fossero state separate da secoli e non solo da poche ore.

Aveva atteso di stringerla per l'intera giornata, e ora al crepuscolo, mentre le ombre tenui della sera si insinuavano lente tra le fronde, avvertiva lo stesso desiderio sotto la pelle calda di lei e se ne beava.

I mesi che avevano seguito il processo e il riconoscimento della propria innocenza erano trascorsi lenti e leggeri con un unico pensiero, quello della gravidanza e della buona salute di sua moglie e del suo seme.

Per ore intere, durante il giorno o la notte, si era occupato solo di guardare il suo ventre crescere, i seni rigonfiarsi e i lineamenti, prima spigolosi, rimpolparsi, come i frutti, che crescono, gravando sempre più con il loro peso sui rami.

La pace con Miran era venuta quel giorno della vigilia di Natale e, sebbene i fili intricati delle loro vicissitudini recassero ancora nodi dolorosi, il tempo delle ostilità era finito.

Non sarebbero stati fratelli per ancora molto tempo, forse non lo sarebbero mai stati per davvero, perché gli intrighi li avevano separati come due lembi di terra dal maremoto. Ma le assi di un ponte erano state lanciate tra le due rive dal gesto altruista di Eìos e il tempo e la verità rivelata avrebbero lavorato per loro.

La sua vita aveva spiegato le vele per tratte più sicure, dove i venti soffiano dolci e non fanno paura, e l'avevano portato ad essere padre, pronto ad amare, come lui stesso non era stato mai amato.

In sospeso era rimasto solo l'ultimo sordido intrigo del comandante
Kuvee, il danaro elargito per scavargli la fossa e i nomi dei suoi complici.

Le indagini non avevano accertato la sua connivenza al complotto ordito, ma le prove che erano state prodotte dal legale di Eìos smascheravano quanto meno la sua negligenza e la superficialità nella conduzione delle indagini. Il giudice, infatti, considerandolo inadeguato ad un ruolo di così grande potere e responsabilità, lo aveva degradato e trasferito in una città di confine.

Per ciò che riguardava il mandante, Eìos aveva avuto fin da subito ben chiaro un solo nome.

Leria aveva tessuto i sordidi fili di quella trappola, aveva procurato i denari necessari a ungere gli ingranaggi che l'avevano messo al bando; aveva attizzato l'odio che Kuvee nutriva per lui, stuzzicandone la cupidigia, la vergognosa sopraffazione delle leggi e della giustizia.

Ma, paradossalmente, i danni che quelle azioni scellerate gli avevano procurato apparivano marginali, come graffi sulla pelle, confrontati con le ferite che, come lame, ancora gli affettavano l'anima.
Le menzogne tessute ad arte, gli avevano messo contro Miran, il suo stesso sangue; avevano tormentato il cuore di suo padre e della donna che amava.
Lo avevano costretto a fuggire dal suo letto e dalla sua carne, senza accorgersi che essa stava mutando e coltivando un'altra anima.

Per quel male che ella aveva sparso come una epidemia sulla propria esistenza, avrebbe voluto ucciderla, strapparle tutto ciò a cui teneva: il rispetto e l'amore di suo figlio, l'onore del suo nome venerato da chiunque, la casa, il denaro, il futuro e gli occhi per piangersi addosso.

Ma non aveva mosso un dito, né un'accusa contro quella donna, poiché spettava al Dio in cui aveva cominciato a credere, giudicare, salvare, assolvere o punire.

Aveva taciuto il nome e i sospetti, espulso l'odio per incamerare la serena pace che la sua anima agognava.

Ariela e il dottor Elmisk lo avevano acclamato come uomo giusto, lo avevano elogiato per quella prerogativa tutta cristiana di saper perdonare anche la più infamante crudeltà.

Ma il gesto di Eìos era tutt'altro che cristiano e magnanimo.
Al contrario, era egoista e calcolato, elaborato come un'equazione matematica.
Le accuse a Leria avrebbero forse, cancellato i torti subiti?

Eìos era certo di no.

La sua condanna avrebbe portato, invece, altro male, aggiunto altra delusione a quella già procurata. Avrebbe tarlato, forse irreparabilmente, i resti di un'antica fratellanza, nata nei margini di una fanciullezza spensierata e ottimista.

Per pura vendetta, Eìos si sarebbe giocato il rispetto di sé stesso.

Non avrebbe potuto essere così stupido e masochista.

Si sentì il petto gonfio di aspettative nuove e di tranquillità, al pensiero che i grovigli della propria vita si fossero sciolti come nodi tra i denti di un pettine.

Mentre la stringeva e le baciava il viso con così tanta accuratezza e passione dolce, Ariela si abbandonò completamente, come se non dovessero più essere le proprie gambe a sostenerla, ma il corpo di lui, come un tutore intorno al quale si attorcigliano le piante rampicanti.

- Chiama Alvita. - le sussurrò contro le labbra schiuse e trepidanti, - Che si occupi lei di Rua. È tempo, oggi, di sorprese! - ammiccò, pizzicandole i fianchi.

Ariela ne osservò il sorriso furbo, la curiosità di donna le formicolò sotto i pori della pelle e si accese ancora di più, quando Eìos aggiunse: - Ti aspetto alle scuderie, i cavalli sono già sellati. -

******************

La cavalcata fu rinfrancante.

Il tragitto fuori della città, verso le colline dell'entroterra, in mezzo ai campi coltivati a maggese e sotto il riverbero lucente di un sole primaverile, li aveva riempiti di una serenità strana, indefinibile mista a impazienza e fermento.

Cavalcarono lentamente, fianco a fianco, in silenzio, scrutando l'espressione dell'altro, sorridendo a mezza bocca, come i bambini che vanno all'albero della cuccagna, fino a che giunsero al delimitare di una recinzione.

La muratura a sacco era alta abbastanza da nascondere ciò che racchiudeva e si interrompeva in una cancellata dalle volute di ferro brunito, incorniciata dai rami rampicanti di una buganville fucsia.

Eìos smontò da cavallo e lentamente si avvicinò a quello di lei, per aiutarla a scendere.

Tenendola alle proprie spalle, spalancò una delle ante e prendendola per mano la condusse oltre, in un lussureggiante giardino.

Percorsero un viale serpeggiante tra aiuole fiorite e variopinte e tronchi di alberi nodosi, fino a giungere dinnanzi alla facciata in pietra di una casa, dai davanzali fioriti e dalle impalpabili tende di organza bianca.

Era la casa di cui avevano sognato nelle notti instabili delle loro sofferenze, la casa che avrebbero voluto per crescere i propri figli e l'amore reciproco.

Il loro sogno fattosi pietra.

- Mi sono innamorato di te davanti ad una fontana come questa. - le sussurrò sulle labbra, soffermandosi davanti ad una piccola fontana che gorgogliava allegra, ricondando quel mattino d'argento alla tenuta, - E già quel giorno avrei voluto baciarti, stringerti alla stessa maniera di adesso, come se già mi appartenessi, senza conoscerti e senza avere ancora misura dei miei sentimenti per te. -

- Quanto tempo è passato? Possibile che ricordi ancora quel giorno? - chiese con finta sorpresa.

Ella stessa, quel giorno, aveva tremato di un brivido nuovo, di una sommossa interiore che lentamente e senza fare rumore l'aveva avviluppata tutta dall'interno del cuore fino ai margini del corpo.
Non sapeva che fosse amore allora, ma in quel momento, con la vita al sicuro, si accorgeva che quel neo nato sentimento, per quanto fosse estremo e travolgente, non era che il primo filo d'erba nella terra incolta che piano sarebbe diventato un prato sconfinato.

- Come potrei dimenticarlo. - le rispose, mentre le dita curiose cercavano la sua pelle attraverso la scollatura dell'abito. - La tua fu una ferita di carne, ma la mia, la mia fu una ferita d'amore. E una ferita d'amore non sana mai ... - aggiunse, sciogliendo il nastro di seta che serpeggiava tra le asole del bustino.

Ariela sorrise, gli occhi divennero due fessure profonde e brillanti di desiderio.

I lembi di stoffa si separano leggermente, come due rive, e la pelle bianchissima apparve sotto i segni scuri delle dita di lui. Un leggero brivido le accapponò i seni e i capezzoli di donna si risvegliarono, come la terra dopo la coltre fredda dell'inverno.

- Siamo all'aperto, sotto gli occhi di chiunque ... - gli fece notare, mentre le mani di Eios si chiudevano sulle coppe dei suoi seni.

- Non vedo altri che te ... non sento altri che te. - cercò di travolgere gli ultimi sprazzi della ragione di Ariela. - E tu ... cosa senti? - aggiunse, insinuando le dita sotto la seta del corpetto.

- Sento te ... amore mio. Soltanto te e non pretendo altro. - gli confessò con il proprio corpo, prima che con le parole.

- Dunque non accampare scuse ... - replicò, afferrandole i capelli sapientemente intricati in una treccia.

Negli ultimi mesi il suo desiderio era stato relegato in un astinenza forzata: il corpo di Ariela, già debilitato dai digiuni imposti dalla lontananza di suo marito e dalle avversità, aveva richiesto riposo e attenzioni per prepararsi allo sforzo venturo della gravidanza. Così, entrambi l'avevano messo a dimora, per il tempo necessario a prepararsi al parto, come si fa con le piantine d'inverno.

I giorni successivi alla nascita della piccola Rua poi erano stati impegnativi, affollati di emozioni nuove, di notti insonni e poppate, che in aggiunta agli strascichi del parto, avevano messo a dura prova corpo e umore di entrambi.

Ora, il tempo delle briglie sciolte era arrivato e le vene, i muscoli e i pensieri scalpitavano sotto la pelle, dentro la testa, sulla punta della lingua.

Quando raggiunsero la camera che sarebbe stata loro, Eìos si liberò in fretta dei sui abiti, rimanendo così completamente nudo.
Le rivolse le spalle per detergersi con l'acqua insaponata che colmava un bacile di ceramica.

La schiena riluceva sotto le piccole gocce d'acqua che rotolavano nei sentieri descritti dalle cicatrici. Così i glutei e le cosce, che si abbeveravano di esse, come campi nell'arsura estiva.

Ariela sorrise nel vederlo così scarmigliato e pronto e d'improvviso le vesti, i lacci, le sottane e persino il nastro di seta che le legava i capelli divennero insopportabili e pesanti.

La sua pelle anelava alla stessa libertà selvaggia di quella di lui, alla medesima aria che ne ossigenava i pori e all'acqua che ristorava il corpo del suo uomo.
Ma di più, supplicava il tocco delle sue dita, il contatto con la pelle, il fiato e la punta della lingua sulle ossa.

Sciolse definitivamente il laccio che chiudeva il corpetto, che si aprì sui seni gonfi, e sbottonò il bustino della gonna, lasciandola scivolare lungo le gambe fin sul pavimento, insieme alle sottane.

La pelle si accapponò per quella improvvisa nudità di femmina a cui non era più avvezza, ma nell'istante in cui gli occhi fiammanti di Eìos la guardarono, il calore del desiderio le sciolse ogni imbarazzo e il nodo del ventre rotondo.

Si mosse verso di lui che rimaneva immobile e teso, i fianchi ondeggiarono sinuosi verso le sue mani, che li accolsero impazienti. Ad un palmo da lui, i corpi distanti solo un soffio, Ariela gli sorrise di malizia, mentre i palmi aperti delle sue mani tracciavano arzigogoli invisibili sul petto.

Le ultime gocce d'acqua stagnavano nelle cavità delle clavicole, lungo la linea che separava i pettorali, nell'ombelico e nella setosa peluria che conduceva al nucleo vitale del suo corpo.

Poggiò le labbra su quelle gocce, le schiuse e succhiò pelle e acqua, facendogli vibrare il petto di un verso roco, come di un animale affamato.

Le mani di lui l'afferrarono per i fianchi, attirandola sul proprio corpo ed ella istintivamente aprì le cosce per allacciargliele intorno al bacino.

Tenendo le dita affondate nella carne delle natiche e gli occhi fissi in quelli di lei, compì i pochi passi che li separavano dal loro letto.

Vi ricaddero, sulle lenzuola intonse, uno sull'altra avviluppati, come nelle spire dei serpenti.

- Non mi hai mai baciato così ... - mugolò, mentre il punto di maggior forza del suo corpo violava le ultime di difese del corpo di lei.

- Non ti ho mai voluto così ... - gli rivelò, stringendo il labbro tra i denti per assecondarne l'affondo piacevolmente doloroso.

Era vero, il suo desiderio era cambiato, maturato e cresciuto in mezzo ai fili intricati delle loro sofferenze.

Era morto e rinato centinaia di volte, innalzato dalle speranze, atterrato dalle delusioni. Come una fenice immortale sotto coltri di cenere, aveva atteso il giorno della sua rinascita definitiva.

Quel giorno era giunto, mentre il proprio corpo rivestiva quello di lui, mentre si apriva ai suoi spasmi, ai colpi, alla lingua e ai respiri.

Era giunto, nel momento in cui tutto ricominciava, con la forza di sentimenti già possenti, di esperienze maturate, di un futuro scritto e premeditato dal giorno lontano del loro primo incontro.

- È questo, dunque, il nostro nuovo inizio, Ariela? - domandò, tendendo i muscoli, per insinuarsi ancora più dentro.

Una vibrazione lenta le scosse le pareti del cuore, dello stomaco, fino a sconquassarle il ventre, mentre il seme di lui si espandeva, languido e invadente. Gli strinse più forte le cosce intorno al bacino per accoglierlo e trattenerlo più a lungo possibile, perché ella stessa potesse liberare il proprio desiderio attorno al suo, come spuma di mare ad impregnare la rena.

Schiuse gli occhi, lentamente, e scintille di luce blu affiorarono tra le ciglia umide di desiderio appagato e lacrime di gioia. Il suo sguardo vacillò per un attimo quando si scontrò con quello di lui, pece nera e riflessi di stelle.

- È questo, dunque, il nostro nuovo inizio, Ariela? - insistette.

Non ci furono altre parole, Ariela non ne avrebbe saputo dire alcuna e in fondo Eìos non ne aveva davvero bisogno.

Bastarono un gesto d'assenso, il tremore delle labbra e il battito accelerato del cuore di entrambi a sostituire le parole.

Quello era dunque il loro nuovo inizio: il loro sogno fatto d'amore e di pietra.



 

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Ben trovate!

Dopo tutto questo tempo, riesco finalmente, a pubblicare l'epilogo di questa storia.
Mi scuso per avervi fatto aspettare, ma desideravo che "In nome del sangue, in nome dell'amore" avesse la conclusione che si merita.
È stata scritta con dedizione e anche con un po' di fatica, perché, credetemi, usare un linguaggio più attento, con vocaboli poco usati, per me è stato impegnativo.
Del resto, era necessario per dare alla storia quel sapore di un romanzo d'altri tempi.
Spero di non aver deluso nessuna di voi!

Ringrazio tutti coloro che l'hanno letta, l'hanno inserita nei loro elenchi di lettura.
Grazie a chi ha commentato, dandomi lo sprone per continuare.

Questa storia è dedicata a voi!
Ma soprattutto è dedicata a Drachen, perchè c'è sempre stata

Un bacio e alla prossima storia!

 

 

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