Could you give me another chance? di mikchan (/viewuser.php?uid=199117)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** New Life ***
Capitolo 2: *** Unexpected Meeting ***
Capitolo 3: *** Presents, snow and illness ***
Capitolo 4: *** Shadows from the past ***
Capitolo 5: *** Memories ***
Capitolo 6: *** Truth and Love Films ***
Capitolo 7: *** Feelings ***
Capitolo 8: *** The past and the present ***
Capitolo 9: *** Destiny ***
Capitolo 10: *** Violent argument ***
Capitolo 11: *** Sense and sensibility ***
Capitolo 12: *** The future is closer than you could never imagine ***
Capitolo 13: *** Oh, shit! ***
Capitolo 14: *** Bitch and egoist ***
Capitolo 15: *** Family ***
Capitolo 16: *** Peter Pan loves Wendy, Wendy loves Peter Pan ***
Capitolo 17: *** Fight! ***
Capitolo 18: *** When you least expect it ***
Capitolo 19: *** Fears and guilt feelings ***
Capitolo 20: *** I love you ***
Capitolo 21: *** Wedding's tales ***
Capitolo 22: *** Old and new memories ***
Capitolo 23: *** Future ***
Capitolo 24: *** EPILOGUE- I'll be there ***
Capitolo 1 *** New Life ***
1-
NEW LIFE
Sbuffando, uscii dalla metro a passo svelto e mi strinsi nel cappotto.
Era metà novembre e le temperature si erano notevolmente
abbassate. Anche nella metro, schiacciati gli uni agli altri, si
sentiva il freddo entrare dagli spifferi delle porte.
Feci le scalinate della ferrovia quasi di corsa, tenendo stretti al
petto i due caffè che il mio simpatico capo mi aveva fatto
andare a prendere dall'altra parte della città.
"È il migliore, lo sai", lo scimmiottai affondando la testa
nella sciarpa non appena misi piede all'aria aperta. Tirava un vento
piuttosto forte e le nuvole avevano oscurato il cielo, preannunciando
un brutto temporale. Sperai con tutta me stessa che tardasse
perché avevo lasciato a casa l'ombrello e non avevo neppure
la macchina.
Tirai un sospiro di solievo quando aprii le pesanti porte di vetro
della redazione e mi trovai al chiuso e al caldo.
Salutai con un cenno Martha, la segretaria del banco informazioni e
schiacciai il pulsante dell'ascensore. Vi salii in fretta e pigiai il
tasto dell'ultimo piano, quello del direttore, aspettando con un
sospiro che l'ascensore salisse lentamente.
Prima di uscire mi diedi un'ultima occhiata allo specchio, ma a parte
le guance e il naso arrossati dal freddo, la matita sbavata e i capelli
scompigliati non avevo niente che non andasse. Senza nemmeno togliermi
la giacca o appoggiare la borsa mi diressi spedita all'ufficio del
direttore, che da quando mi aveva assunta sette mesi prima si divertiva
a trattarmi da schiavetta tuttofare. In pratica, facevo davvero ogni
cosa, dall'andare a prendere caffè dall'altra parte della
città, all'aggiustare fotocopiatrici tranne che scrivere
qualcosa che somigliasse ad un articolo. La cosa più vicina
a uno di essi erano le infinite bozze che i pigri veterani si
divertivano a inviarmi per essere corrette prima di andare in stampa.
Avevo visto di quegli errori talmente grossolani che spesso mi ero
chiesta se non lo facessero apposta a riempirmi la casella mail di
articoli. Certo, sapevo che prima di iniziare ad essere una vera
giornalista dovevo "fare gavetta" e alla fine dovevo ammettere che
molte volte, solo stando accanto ai più bravi di loro avevo
imparato tecniche e accorgimenti che all'università non mi
avevano insegnato. Eppure tutta quell'attesa stava incominciando ad
innervosirmi e mi sentivo veramente sfruttata a volte, come quella
mattina: che bisogno c'era di andare a comprare un caffé
dall'altra parte della città quando c'era un comodissimo bar
al primo piano della redazione?
Con un sospiro, bussai alla porta e la aprii quando sentii la voce del
direttore invitarmi ad entrare. "I caffè", spiegai
appoggiando i due bicchieri sulla sua scrivania.
"Grazie mille, Amanda. Sei un tesoro", disse il direttore, Paul Brown
con un sorriso. Ricambiai più per educazione che altro e,
dopo aver salutato lui e il nuovo agente letterario che stava
intervistando uscii dal suo ufficio e risalii sull'ascensore per
scendere di qualche piano e dirigermi alla mia scrivania.
Nonostante tutto, non potevo davvero lamentarmi. Ero entrata in una
delle migliori redazioni giornalistiche del paese dopo nemmeno un anno
di tirocinio dopo l'università. I colleghi erano tutti
gentili e disponibili, a parte qualcuno che si divertiva alle spalle
dei novellini, ovvero io e un'altra ragazza, Jamie Lindsey, che in quel
momento era già seduta al suo posto e stava battendo
qualcosa al computer.
"Ciao Jamie", la salutai sfilandomi la giacca e buttando la borsa ai
piedi della scrivania.
"Altra corsa per i caffè?", mi chiese con un sorriso,
alzando lo sguardo dal monitor. Jamie era una ragazza dolcissima, magra
e piccolina, dai biondi capelli e gli occhi azzurri e spesso mi ero
chiesta come aveva fatto a sopravvivere in quel posto pieno di vipere
per più di un anno, ma probabilmente era per il suo talento
nella scrittura.
"Dio, non ricordarmelo", sbuffai sedendomi e accendendo il pc.
Jamie ridacchiò. "Ti capisco, ci sono passata anch'io",
disse facendomi un'occhiolino.
Mugugnai qualcosa, inserendo velocemente la password ed entrando nel
mio account. Nemmeno due secondi dopo, la mia casella di posta fu
invasa da articoli e mi lasciai sfuggire un gemito davanti alla
trentina di mail che avevo davanti.
"Al lavoro", sbottai, infilando gli occhiali che usavo per stare al
computer e aprendo il primo file.
Per l'ora di pranzo, quindi qualche ora dopo, ne avevo finite quasi la
metà e mi lasciai convincere dalla mia dolce collega ad
andare a mangiare qualcosa alla paninoteca davanti alla redazione.
"Sono esausta", sospirai sedendomi ad un tavolo appartato.
"A chi lo dici", mi imitò Jamie sfilandosi il cappotto. "Non
hai idea di quante bozze mi abbiano inviato oggi. Non so nemmeno come
farò davvero a finire l'articolo che Brown mi ha chiesto".
"Un articolo?", esclamai sorpresa. Jamie era alla redazione da
più tempo di me, eppure era una novità che il
direttore assegnasse un articolo a giornalisti così giovani.
"Una stupidata", disse scuotendo la testa e prendendo il
menù. "Cinquecento parole su dei ragazzini che hanno
allagato una scuola in centro. Sono andata ieri ad intervistare il
dirigente e devo consegnare tutto entro questa sera", mi
spiegò.
"Se vuoi puoi passami un po' delle tue bozze", le proposi. Ero davvero
contenta per lei, nonostante fosse effettivamente un articolo di poco
conto ed ero pronta ad aiutarla anche accaparrandomi una decina di
articoli in più da correggere.
"Saresti davvero gentile, ma non voglio riempirti di lavoro".
"Tranquilla", esclamai annuendo al suo sguardo indeciso.
Jamie stava per rispondere ma fu interrotta dalla suoneria di un
telefono. Ci misi qualche secondo a capire che era il mio e lo tirai
velocemente fuori dalla borsa, leggendo il nome sul display e
sospirando. "Ti dispiace?", le chiesi indicando la chiamata. Jamie
scosse la testa e sorrise.
Schiacciai il tasto verde e mi preparai all'uragano.
"Pronto?", dissi neutra, come se non sapessi chi fosse dall'altra parte
della cornetta.
"Perché te ne
sei andata così, ieri sera?". Chiaro e
coinciso, il mio ragazzo, Austin, sputò la domanda da un
milione di euro. Austin ed io stavamo insieme da quasi due anni. Era un
ragazzo dolcissimo, alto, dai capelli biondo scuro e gli occhi castani.
Lo avevo adorato subito quando ci eravamo conosciuti, grazie ad alcuni
amici dell'università e avevamo presto scoperto di avere
molte cose in comune: eravamo entrambi giornalisti, anche se in
redazioni diverse, entrambi adoravamo i film romantici, soprattutto i
classici, e detestavamo le commedie demenziali, eravamo entrambi
cresciuti senza un padre ed eravamo entrambi reduci da una relazione
devastante. Nessuno dei due aveva mai chiesto nulla del passato
dell'altro, ma come io pensavo ancora a Lui, era chiaro che anche
Austin pensava ancora alla sua ex-ragazza che, dal poco che mi aveva
raccontato, lo aveva mollato sull'altare per un'altro.
"Avevo bisogno di pensare", risposi alzandomi e uscendo dal locale. Non
che ritenessi quella conversazione privata, ma sapevo che probabilmente
ci saremmo messi ad urlare e non volevo dare spettacolo.
"A cosa devi pensare?",
ribatté, trattenendo una parolaccia tra i denti.
"Alla proposta che mi hai fatto, Austin", sospirai.
"Ripeto, cosa
c'è da pensare? Stiamo insieme da parecchio e ormai
è più il tempo che passiamo in una sola
casa. Qual'è il problema se ottimizziamo i costi e andiamo
ad abitare insieme?", esclamò irritato.
"È proprio questo il punto", dissi sbuffando. "Non
è facile cambiare abitudini così di punto in
bianco".
"Non ho detto che devi
trasferirti domani, dannazione", sbottò alzando
la voce.
"Come fai a non capire che non è una decisione da prendere
su due piedi?", ribattei stringendo il pugno. "È ovvio che
in questo modo ridurremmo i costi e tutto, ma andare a vivere assieme e
un grandissimo passo. Cosa facciamo se non sopportiamo le abitudini
dell'altro?"
"E come fai a saperlo se
non provi?", esclamò Austin. "So anch'io che è un
grande passo, Amanda. Ma se te l'ho chiesto evidentemente è
perché ci tengo a te".
"Dammi un paio di giorni, Austin", sussurrai, sentendo il cuore
stringersi in una morsa a quelle parole.
"È una pausa?",
mi chiese, abbassando anche lui il tono.
Scossi la testa, nonostante non potesse vedermi. "No, certo che no. Io
ti amo, ma devo pensare a questo nuovo cambiamento, capisci?".
Lo sentii sospirare. "No,
non capisco", ammise. "Ma
rispetto i tuoi tempi, Amanda".
"Grazie", mormorai. "In ogni caso voglio vederti questa sera", dissi
cercando di sembrare allegra, quando invece avevo un enorme macigno sul
petto.
"Passo a prenderti alle
nove e mezza", disse lui senza scomporsi. Era chiaramente
ancora arrabbiato, ma cercava di non farmelo pesare.
"Okay. Ti amo", lo salutai.
"Anch'io",
rispose dopo un secondo di silenzio, e poi chiuse la chiamata.
Fuori dal locale, al freddo, mi appoggiai il telefono al cuore e presi
un respiro profondo. Sapevo di stare facendo la stronza, che Austin non
si meritava quel comportamento, ma proprio non riuscivo a prendere in
considerazione l'idea di trasferirmi a casa sua. Lo amavo davvero
tanto, non lo nascondevo a me stessa e, come aveva detto lui, spesso
passavamo intere giornate a casa di uno o dell'altro, ma non riuscivo a
trovarle motivazioni sufficienti. Portare la nostra relazione a quel
livello così intimo mi spaventava tantissimo. E io sapevo
che il problema non era Austin e nemmeno la stupidata che stavamo
insieme da troppo poco tempo. Il problema ero io, con le mie paranoie e
le mie paure. Come potevo accettare di andare a vivere da lui se avevo
un timore pazzesco di rovinare la mia relazione come avevo fatto con
quella precedente? Non volevo farlo soffrire, non dopo tutto il tempo
che avevamo passato insieme, non dopo tutta la sua dolcezza e la sua
comprensione.
Sospirai e scossi la testa.
Entrai di nuovo e mi diressi al tavolo dov'era seduta Jamie,
regalandole un pallido sorriso.
"Austin?", mi chiese solo.
Io annuii e presi in mano il menù. Non avevo voglio di
parlarne, non in quel momento e non sapendo che presto avrei avuto
qualcuno che pagavo perché mi ascoltasse e Jamie
capì, cambiando argomento e iniziando a parlare del suo
articolo.
Dopo pranzo tornammo in redazione e dedicai il resto del pomeriggio
alle bozze da correggere. Quando cliccai sul pulsante "invia"
dell'ultima erano le sei e mezza passate e, sbadigliando, spensi tutto
e mi preparai per tornare a casa. Jamie era uscita qualche ora prima e
quindi dovetti fare il tragitto fino alla fermata dell'autobus da sola.
Nemmeno a farlo apposta, appena misi piede sul mezzo il temporale
scoppiò in tutta la sua potenza e sospirai, pensando ai
venti minuti buoni che dovevo camminare per arrivare a casa. Pensai per
un attimo di chiamare Austin, ma poi rinunciai, decidendo di fare una
corsa. Fortunatamente, appena scesi dall'autobus incontrai la mia
vicina di casa che era andata a fare la spesa e, aiutandola a portare i
pacchi, ne approfittai per ripararmi dalla pioggia.
Aprii la porta del mio appartamento con uno sbuffo, sfilando con forza
la chiave che era rimasta incastrata nella toppa: dovevo decidermi a
farla riparare o prima o poi si sarebbe bloccata del tutto e l'avrei
rotta.
Accesi la luce e appoggiai la borsa al ripiano all'entrata, sfilandomi
stancamente le scarpe con i tacchi ormai fradice. Non feci neanche in
tempo ad entrare in cucina che una pallina di pelo mi corse incontro,
appiccicandosi alla mia gamba felice.
"Wulfie!", esclamai, abbassandomi e prendendo in braccio il cucciolo di
cane che Austin mi aveva regalato qualche mese prima. Era un dolcissimo
meticcio, piccolo e peloso, dal manto grigio e le orecchie bianche a
punta, simili a quelle di un lupo.
Wulfie abbaiò felice e mi leccò la faccia.
L'avevo lasciato in casa da solo quel giorno perché non
potevo portarlo al lavoro e nemmeno lasciarlo a casa di Austin insieme
a Lissie, la sua bellissima cagna, un elegante Golden Retriever dal
pelo marroncino e gli occhi dolci e per un attimo mi guardai intorno
spaventata, alla ricerca di danni all'arredamento. Fortunatamente non
aveva mangiucchiato nulla di importante come le tende o il tavolo del
soggiorno e c'erano solo un po' di crocchette sul pavimento della
cucina, vicino alla sua vaschetta. "Bravo piccolo" dissi accarezzandolo
tra le orecchie e rimettendolo sul pavimento. "Hai fame, vero?", gli
chiesi poi, pur sapendo che non poteva rispondermi. Wulfie
abbaiò di nuovo e lo presi come un sì, afferrando
la ciotola e riempiendola per metà. Appena la riappoggiai
per terra, Wulfie vi si avventò e, ridacchiando, gli misi
accanto anche dell'acqua fresca, nella quale immerse subito il musetto.
"Vado a farmi una doccia", continuai come se stessi parlando con una
persona. "Poi più tardi arriva Austin". Wulfie
alzò le orecchie al nome del mio ragazzo e poi
tornò alla sua scodella.
Mi abbassai per lasciargli un ultima carezza sul dorso e poi mi diressi
in camera, contenta di poter finalmente togliere quello scomodo
completo elegante che ero costretta a indossare al lavoro. Mi infilai
sotto la doccia con un sospiro di solievo e mi lasciai accarezzare le
spalle dal getto d'acqua. Ero davvero stanca, ma non vedevo l'ora di
rivedere il mio ragazzo, nonostante la discussione del giorno prima.
Discussione che, in realtà, non si poteva considerare
nemmeno tale, visto che, dopo la sua legittima proposta di adare a
vivere insieme ero fuggita da casa sua senza una parola. Non sapevo
cosa mi fosse preso e ragionando a mente lucida mi rendevo conto che
era stato un comportamento senza senso e maleducato. Eppure non avevo
potuto fare a meno di irrigidirmi a quelle parole, mentre la mia mente
inevitabilmente tornava indietro nel passato e al periodo che avevo
trascorso a casa del mio ragazzo durante le superiori. Non avevo potuto
evitare di pensare ai nostri progetti per il futuro e a come tutto
fosse crollato come un castello di carta. E forse era per questo che
avevo paura di dire quel sì, avevo paura che una volta
fattesi serie le cose, tutto sarebbe finito, lasciandomi un vuoto nel
cuore ancora più grande di quello che già avevo.
Un guaito di Wulfie e il suo grattare sulla porta mi risvegliarono dai
miei pensieri e mi sciacquai in fretta, uscendo dal bagno senza nemmeno
asciugarmi i capelli e andando direttamente in camera. Wulfie mi
seguì, mugolando triste quando mi sedetti sul letto con lo
sguardo perso nel vuoto. Mi succedeva tutte le volte che ci ripensavo e
che risaliva la consapevolezza di essere io la colpevole di tutto
quello. Me l'ero cercata, ora non avevo nessun diritto di avere
rimpianti.
Con un sorriso stanco mi vestii in fretta e presi Wulfie sulle mie
ginocchia, accarezzandogli dolcemente la testa. "Credi che io sia un
completo disastro con gli uomini?", gli chiesi tristemente.
Wulfie abbaiò, allungandosi per leccarmi la guancia e
ridacchiai. "Beh, almeno tu non la pensi così".
Wulfie abbaiò di nuovo, tirando fuori la lingua in quello
che sembrava una specie di sorriso. Scossi la testa e mi diressi in
cucina, dove mi preparai qualcosa di veloce da mangiare. Ormai erano le
otto e avevo tutto il tempo del mondo per prepararmi come si deve
all'arrivo di Austin e sapevo anche dove mi avrebbe portata, al solito
pub in centro.
Mi cambiai con calma, scegliendo un comodo abito nero, con le maniche
di pizzo ricamato e gli stivali che mi aveva regalato mio fratello il
Natale precedente.
Dopodiché, accesi il computer e, sedendomi comodamente sul
letto accanto a Wulfie, aprii la mail e riguardai le ultime bozze che
mi erano rimaste e rispondendo a quella di una vecchia amica
dell'università, con la quale parlavo ogni tanto.
Quasi non mi accorsi del tempo che era passato, perché
quando Austin suonò il campanello ero ancora stravaccata sul
letto, struccata e spettinata.
Lo feci entrare in soggiorno e, mentre giocava con Wulfie, finii di
prepararmi.
"Sempre la solita ritardataria", commentò quando uscii dal
bagno.
C'era effettivamente un po' di tensione, ma decisi di non farci caso,
regalandogli un grande sorriso mentre uscivamo dall'appartamento e
chiudevo la porta a chiave. "Sai come sono", ridacchiai, togliendo
quest'ultima dalla serratura con uno strattone.
Austinsi limitò ad alzare un sopracciglio, seguendomi
giù per le scale. "Purtroppo", mugugnò.
"Tutto bene al lavoro?", gli chiesi, cambiando argomento.
Lui annuì, prendendomi la mano mentre aprivo il portone. "Il
solito", rispose evasivo e quando diceva così sapevo che era
successo qualcosa.
"Hai poi scritto quell'articolo?", chiesi infatti, cercando di capire
il problema, ricordandomi di quel pezzo su cui stava lavorando da
giorni.
Austin si irrigidì. "Sì", rispose evitando il mio
sguardo.
"Ma...", iniziai, capendo che c'era qualcosa sotto.
"Ma non me l'hanno pubblicato", mi rivelò sbuffando mentre
entrava in macchina.
"È assurdo", esclamai. Sapevo che Austin era un bravissimo
giornalista e lavorava per quella testata da anni. Aveva quindi
accumulato esperienza e altri articoli e proprio non mi spiegavo
perché il suo capo non avesse accettato il suo.
"Lascia stare", borbottò accendendo il riscaldamento. Poi si
voltò verso di me. "Andiamo a bere qualcosa?", mi chiese.
Io annuii, sorridendo felice di avere indovinato per l'ennesima volta i
suoi programmi.
"Mi è sembrato felice, Wulfie", commentò.
"Certo!", esclamai. "Sono una padrona modello, io!".
Austin ridacchiò. "L'hai già portato dal
veterinario?".
Esitai un attimo a rispondere. "No", ammisi.
"Una padrona modello", ripeté Austin ridendo e trascinando
anche me con il suo sorriso.
Parlammo per tutto il viaggio in macchina dei nostri cani e del lavoro
e sentii che tutto stava tornando al suo posto.
Quando arrivammo al pub era ancora quasi vuoto, ma noi ci sedemmo al
nostro tavolino e continuammo a parlare come non facevamo da secoli.
Ero felice che Austin avesse accantonato la faccenda del trasferimento
perché non ero decisamente pronta a parlarne, figuriamoci a
pensarci seriamente. Amavo Austin, era stata la mia ancora di salvezza
dopo anni di buio assoluto, ma qualcosa dentro di me mi frenava
dall'approfondire quella relazione come avrei tanto voluto. Ci avevo
messo mesi e un'infinità di appuntamenti per convincermi a
farmi baciare e quasi il doppio per lasciarmi andare e fare l'amore con
lui. Sapevo che quell'attaccamento al passato era sbagliato e
deleterio, ma avevo bisogno del mio tempo per abituarmi alle
novità e non fare paragoni che avrebbero sminuito tutto. Ma
Austin mi era stato vicino, mi aveva sopportata e corteggiata fino allo
sfinimento con quel suo carattere dolce ma deciso e alla fine non avevo
potuto fare altro che cedere e decidere di iniziare una nuova vita.
Certo, non era semplice e nessuno aveva mai detto che lo sarebbe stato.
Sapevo che Austin mi adorava così tanto solo
perché non sapeva il motivo della mia rottura con il mio ex,
altrimenti mi avrebbe spedito fuori dalla sua vita a calci nel sedere.
Della mia relazione con Lui sapeva solo che era finita dopo quasi tre
anni e che non ci eravamo più sentiti. Ero caduta seriamente
in depressione in quel periodo, soprattutto dopo l'aborto: uscivo a
stento di casa, non avevo più contatti con persone che non
fossero mia madre o mio fratello e ogni notte mi svegliavo in preda
agli incubi più angoscianti. Non era stato facile venirne
fuori e soprattutto superare quella stupida convinzione mentale che mi
meritassi tutto quel male dopo il mio comportamento e c'era stato
bisogno di uno psicologo che mi aiutasse a venire a patti con me
stessa, psicologo che frequentavo anche allora, una volta al mese.
Questo Austin lo sapeva e ogni trenta giorni mi ricordava il mio
impegno del giorno dopo e mi accompagnava lui stesso alla clinica,
aspettandomi per tutto il tempo necessario e poi portandomi a prendere
un gelato o una cioccolata, a seconda della stagione.
"Domani devi andare da Klant?", mi chiese infatti Austin quando uscimmo
dal pub a notte fonda.
Io annuii. "Alle tre", risposi. "Ho chiesto un permesso per uscire
prima".
"Perfetto, passo alle due e mezza", disse lui con un sorriso.
Non provai nemmeno a contraddirlo e mi strinsi al suo braccio mentre
andavamo alla macchina. "Resti da me, stasera?", gli chiesi quindi,
mentre salivamo nel veicolo.
"Forse è meglio di no", disse lui, prendendomi alla
sprovvista. "Ma, in fondo, è da tutta la sera che sogno di
sfilarti quel vestito, quindi sì", rispose regalandomi un
sorriso dolcissimo.
Ridacchiai nervosamente, cercando di calmare i battiti del cuore che
erano aumentati a dismisura alla sua prima frase. Quella sera facemmo
l'amore dopo quasi una settimana di astinenza, ma, nonostante fu
bellissimo come le altre volte, c'era qualcosa dentro di me che non mi
fece perdere la ragione come al solito.
Se te l'ho chiesto
evidentemente è perché tengo a te.
Anch'io tenevo molto a lui e non solo perché mi aveva
salvata dal baratro in cui stavo cadendo. Con lui avevo iniziato una
nuova vita, diversa, ma ancora tallonata dalle ombre del passato. La
sua proposta mi aveva presa alla sprovvista. Fare un passo
così grande era una responsabilità enorme e
temevo seriamente di non esserne all'altezza. Per quello avevo reagito
in quel modo, scappando dai problemi come facevo sempre. E mi odiavo
per questo, eppure non riuscivo a comportarmi diversamente.
Mi lasciai abbracciare e rimasi sveglia anche quando Austin
entrò nel mondo dei sogni. Dovevo tutto a quel ragazzo,
allora perché non riuscivo a renderlo felice?
Salve
gente!
Finalmente
sono riuscita a pubblicare il primo capitolo del sequel di "Like a
Phoenix", come avevo promesso.
Questo
capitolo è un'introduzione alla storia. Si sono scoperte
alcune cose nuove, mentre altre sono ritornate.
Per
chi conosce già Amanda, avrà capito di cosa parla
quando si riferisce a Lui, per chi invece è nuovo da queste
parti, vi consiglio di continuare a leggere e, se siete curiosi, di
andare a sbirciare l'altra storia.
Ringrazio
di cuore Clary
F per il fantastico banner (è favoloso,
vero?), la mia amica che mi dovrà sopportare per tutto
l'anno con questa storia e tutti voi che leggerete.
Ah,
prima che me ne dimentichi. Settimana prossima non so se riesco ad
aggiornare, perché parto per la Norvegia per cinque giorni e
ho ancora indietro un sacco di compiti da finire e il viaggio da
organizzare! Spero di riuscire a correggere il capitolo in tempo, nel
dubbio, vi lascio con un piccolo spoiler del prossimo capitolo.
a
presto!
vestito Amanda --> http://www.polyvore.com/senza_titolo_40/set?id=70616271
SPOILER...
Capitolo due: UNEXPECTED MEETING
[...] Davanti a me c'era un uomo sui venticinque anni, alto e dalle
spalle larghe, con i capelli castani e due occhi azzurri profondi come
l'oceano. Due occhi azzurri che erano stato il mio porto anni prima e
che avevo creduto di aver dimenticato. E invece erano ancora impressi a
fuoco nella mia mente, con quello sguardo accigliato e sorpreso che
assumevano ogni volta che succedeva qualcosa di imprevisto.
E quello era stato decisamente un'imprevisto. [...]
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Capitolo 2 *** Unexpected Meeting ***
2- UNEXPECTED
MEETING
"Capisco. E quindi ha rifiutato".
Sospirai. "È stato... istintivo. Non sono ancora pronta per
un passo così grande".
"Non è pronta, o non lo vuole essere?".
Touché, pensai. Il Dottor Klant, il mio psicologo, era
l'unica persona in grado di arrivare dritta al punto. Di ogni questione
discussa con lui, era stato il primo e l'ultimo a capire cosa volevo
veramente dire, ma per qualche strano motivo non ci riuscivo. Era
capace di leggere tra le righe e nei miei occhi come se mi conoscesse
da anni e, detto sinceramente, lui sapeva davvero tutto di me:
dall'abbandono di mio padre, alla mia infanzia e adolescenza piena di
traslochi, cambiamenti e nessuna sicurezza, sapeva di Lui, sapeva
com'era finito tutto e mi aveva aiutata a perdonare me stessa, anche se
sapevo che Lui non mi avrebbe perdonata mai, sapeva di Austin e dei
miei sentimenti, di come fossero diversi da quelli provati per Lui e di
come mi odiassi per questo, sapeva quanto volessi costruirmi un futuro
e quanto gli incubi del passato tornassero a tormentarmi quando ero
sola. Alla fine dei conti, potevo affermare che mi conoscesse
più di me stessa.
"Non so lo", sospirai, ammettendo ad alta voce quella
verità. "Io voglio stare con Austin, ma c'è
sempre quella sensazione che mi fa sentire tremendamente in colpa e mi
sembra di tradire...".
"Adam", concluse lui, abbozzando un sorriso alla
'abbiamo-centrato-il-punto' quando mi vide irrigidirmi al suono di quel
nome. Era difficile per me pronunciarlo così alla leggera e
tentennavo anche se dovevo chiamare una persona con quel nome, com'era
successo all'università con un mio compagno di corso. Il
Dottor Klant lo sapeva e durante ogni seduta lo pronunciava una mezza
dozzina di volte, sempre. All'inizio pensavo lo facesse per farmi stare
male, visto che scoppiavo a piangere solo sentendolo nominare, poi, con
il passare dei mesi, avevo superato quella paura, capendo di non dovere
temere né Lui né il suo nome.
"Mi sento così stupida", mugulai prendendomi la testa tra le
mani e appoggiando i gomiti alla sua scrivania. "Austin non si merita
questi pensieri e io non mi merito lui"
"Ah, Amanda!", mi sgridò Mr Klant lanciandomi
un'occhiataccia ammonitrice. Sapevo che non dovevo nemmeno pensare di
sminuirmi in quel modo, era la prima cosa che mi aveva aiutata a
capire, ma a volte era così difficile venire a patti con la
realtà che mi accontentavo di dare la colpa a me stessa e
chiudere la discussione.
Sbuffai e sbattei la testa sul tavolo. "Mi scusi", sussurrai. "Quando
faccio certi pensieri mi viene naturale dirlo, ma non lo penso sul
serio. Io mi merito Austin perché ho superato tante
difficoltà, con me e con il mondo, per riuscire ad avere una
vita normale". Ed ero sicura di questo, soprattutto dopo tutti quegli
anni che avevo passato in quello studio. Mr Klant mi aveva aiutata a
capire che colpevolizzarmi non risolveva il problema, ma lo rendeva
solo più grande nella mia testa e quindi più
inaffrontabile.
"Eppure c'è sempre quella vocina che le ricorda tutto, mi
sbaglio?", domandò Mr Klant con aria dolce. A volte, quando
faceva quell'espressione, mi sembrava un padre, di quelli severi ma
buoni, un padre che avevo sempre sognato. Ovviamente, Mr Klant sapeva
anche di questa fantasia e la prima volta che gliel'avevo rivelata mi
aveva guardato severo e aveva scosso la testa, assicurandomi di non
essere per niente il padre dei sogni di nessuno, tanto meno dei suoi
figli. Io non avevo replicato, abbassando la testa per la mia
sfacciataggine, ma il mio pensiero non era cambiato e spesso venivo
invasa dalla voglia di abbracciarlo forte.
"Non so cosa dire, è tutto così confuso. Amo
Austin con tutta me stessa e se immagino il mio futuro non posso farlo
che con nessun altro, eppure dentro di me sento che anche Lu... Adam",
dissi a denti stretti. "È parte di me, passato, presente e
futuro".
"Capisco", ripetè incrociando le mani. "C'è un
bel po' di confusione, decisamente, ma se si ferma un attimo a pensare
capisce che la via da prendere non è che una sola, Amanda".
"Oddio, so che non vedrò mai più Adam per tutta
la mia vita... chissà che fine ha fatto in questi anni. E so
anche che Austin è il mio presente e futuro. Ma è
davvero così sbagliato sperare e sognare, Dottore?", chiesi
con la voce spezzata, cercando di impedire inutilmente alle lacrime di
uscire e bagnarmi le guance. Ormai ci guardavamo negli occhi, ma non
riuscivo a leggere i suoi e a capire una risposta ai miei problemi.
Mr Klant sorrise. "Solo lei può dire cos'è
sbagliato sognare, Amanda", disse enigmatico, come al solito,
d'altronde. Non mi dava mai una risposta certa e solo dopo ore di
lacrime e ragionamenti riuscivo a capire che quello che lui voleva
dirmi era molto più evidente di quanto potessi mai pensare.
"Magari ci fosse una lista o una tabella, sarebbe tutto più
semplice", mugolai asciugandomi con il palmo della mano le lacrime
salate.
"Ma non sarebbe tutto così bello, Amanda. Niente avrebbe
più valore se ci fossero schemi da seguire o tabelle
precise. La vita è meravigiosa proprio perchè non
c'è niente di sicuro. Un giorno c'è il sole,
l'altro piove. Eppure la Terra stessa non esisterebbe senza nessuno dei
due. Giorno e notte, cielo e terra, bene e male... cosa accadrebbe se
tra queste coppie ce ne fosse solo una? Cosa accadrebbe se la notte
scomparisse, se il cielo diventasse terra e se il bene venisse
sconfitto dal male?". Mr Klant lasciò in sospeso quelle
domande e io non avevo saputo fermare altre lacrime, capendo benissimo
quello che voleva dirmi. Austin ed Adam. Come potevo esistere io senza
entrambi? Austin era il mio giorno, il mio sole; Adam era la mia notte,
la mia luna. Indispensabili e inseparabili, eppure mai entrambi nello
stesso istante. Il messaggio era arrivato forte e chiaro: non potevo
vivere senza nessuno dei due, ognuno si era preso un parte di me e ora
gli appartenevo, non importava se non c'erano più contatti o
se ci vedavamo tutti i giorni. E non dovevo minimamente pensare di
escluderne uno dai miei pensieri con il timore di ferire l'altro,
perché sarebbe stato come cancellare una parte del mio
essere e per essere felice non dovevo permettere che questo succedesse.
Abbozzai un sorriso e tirai su con il naso. "Grazie", borbottai,
rovistando nella borsa alla ricerca del pacchetto di fazzoletti.
Mr Klant mi sorrise. "Ci vediamo tra un mese, allora", disse
congedandomi mentre mi soffiavo il naso.
Annuii e mi alzai, infilandomi il cappotto che avevo appoggiato sulla
sedia.
"Sa, Amanda", disse il dottore mentre mi accompagnava alla porta. "Sono
contento dei progressi che sta facendo".
"È in gran parte merito suo", dissi con un sorriso,
asciugandomi le ultime lacrime e sperando che il mascara non avesse
fatto un disastro.
"Affronti sempre tutto con forza, mi raccomando".
Mr Klant aprì la porta del suo ufficio, seguendomi sulla
soglia. "Forza", ripetei annuendo.
"E per ogni prob... Oh, è già qui!",
esclamò alla volta di una persona alle mie spalle.
Mi voltai, un po' curiosa di vedere chi fosse il prossimo cliente e
impaziente di scendere da Austin che mi stava aspettando in auto, ma
quando lo feci rimasi letteralmente a bocca aperta.
Davanti a me c'era un uomo sui venticinque anni, alto e dalle spalle
larghe, con i capelli castani e due occhi azzurri profondi come
l'oceano. Due occhi azzurri che erano stato il mio porto anni prima e
che avevo creduto di aver dimenticato. E invece erano ancora impressi a
fuoco nella mia mente, con quello sguardo accigliato e sorpreso che
assumevano ogni volta che succedeva qualcosa di imprevisto.
E quello era stato decisamente un'imprevisto.
"Signorina, le presento il Dottor Rown, il mio nuovo collega", disse Mr
Klant, indicando l'uomo che mi fissava con occhi sgranati. "Dottor
Rown, questa è Am...".
"Amanda", sussurrò questo e rabbrividii al suono del mio
nome. Quando mi era mancato il modo delicato con cui pronunciava quelle
sette scialbe lettere: in bocca sua diventavano poesia, quasi qualcosa
di magico alle mie orecchie.
"Come fa a conoscerla?", chiese sorpreso Mr Klant. Poi si
illuminò e, dopo averci guardati a fondo, si mise una mano
tra i capelli. "Merda", mormorò poco professionalmente.
Intercettò il mio sguardo. "Adam?", mi chiese quasi a bassa
voce, ricordandosi il nome del Dottor Rown e collegando tutto.
Io non mi ero ancora mossa, troppo sorpresa da quell'incontro
inaspettato e ancora indecisa se gioirne o esserne spaventata. Adam mi
aveva riconosciuta e non avevo visto astio o rabbia nei suoi occhi
così chiari, ma le parole che mi aveva detto l'ultima volta
che ci eravamo visti anni prima erano impresse nella mia mente con il
fuoco e in quel momento rimbombavano nelle mie tempie come tamburi.
Presi un respiro profondo, cercando di calmare il cervello che non la
smetteva di rielaborare informazioni e annuii alla volta di Mr Klant.
Poi alzai lo sguardo verso Adam e abbozzai un sorriso timido. "Ciao",
lo salutai.
Lui soppesò un attimo le mie parole e ricambiò il
saluto con una certa freddezza e distanza. Non ci rimasi
così male come temevo e di questo dovetti ringraziare Mr
Klant, che fremeva al mio fianco, in imbarazzo.
"Hai realizzato il tuo sogno", fu l'unica cosa che seppi sussurrare
dopo un'infinito minuto di silenzio.
Adam sgranò gli occhi, sorpreso di constatare che ricordavo
tutto e poi annuì solamente. "Tu?", mi chiese, quasi per
cortesia che per reale interesse, o così almeno sembrava dal
suo sguardo attento.
"Anch'io", dissi solo, sistemandomi nervosamente la borsa sulla spalla
e fingendo di guardare l'orologio. "Ora devo andare", dissi cercando di
sembrare più sicura di quanto fossi. "A presto". Non sapevo
a chi era rivolto quel saluto, ma non mi fermai ad accertarmene,
andando a passo svelto verso l'ascensore.
"Amanda", mi richiamò Lui. Mi voltai appena. "Ti... mi ha
fatto piacere rivederti".
Annuii, incerta se sorridere o meno, ma non riuscii a fermare gli
angoli della bocca che si sollevarono automaticamente. Incontrai per un
secondo lo sguardo del Dottore e vi lessi tutto quello che stavo
provando in quel momento. Gioia, tristezza, incredulità,
stupore, incertezza. Salii veloce in ascensore e mi appoggiai alla
parete prendendo un grosso respiro.
Lo avevo rivisto.
Dopo quasi tre anni di silenzio il mio passato mi era ricomparso
davanti nel momento meno opportuno, con il cuore ancora debole per
quell'ora di ricordi forzati e gli occhi umidi dalle lacrime. Ma, in
fondo, mi aveva lasciata esattamente così, tra i singhiozzi
e il cuore a pezzi, senza voltarsi indietro, con quel suo sguardo
azzurro e ghiacciato che mi faceva tremare. Mi aveva rivolto i peggiori
insulti del mondo, ferito e umiliato, ma non me l'ero presa
perché sapevo di meritarmeli tutti, dal primo al l'ultimo. E
checché ne dicesse Mr Klant, una donna che andava a letto
con un uomo, mentre a casa c'era il suo ad aspettarla non poteva essere
chiamata in nessun altro modo che puttana. E mi ero sentita esattamente
così quella sera, tra le braccia di quello sconosciuto.
Avevo tradito l'uomo che amavo con tutta me stessa per una discussione
e non meritavo di stare più al suo fianco. Questi erano i
fatti, ma farli accettare al mio cuore era stato tutto un'altro paio di
maniche. Sapevo di aver sbagliato e volevo tornare indietro per
cancellare ogni cosa, ma non avevo una bacchetta magica e la mia Fata
Smemorina era andata in vacanza da un pezzo. E non ero capace nemmeno
di comprare il perdono di Adam, non me lo meritavo e per questo non
avevo combattuto per lui. Avrei potuto insistere, urlare, cercare di
spiegare e farmi capire, invece l'unica parola che era uscita dalla mia
bocca era stata "scusa", talmente sussurrata tra le lacrime che non ero
sicura l'avesse sentita. E poi, avevo una piccola consolazione, se
così la potevo chiamare. Adam mi aveva mollata, ma alle sue
spalle si era lasciato il dono più grande che potesse farmi,
un bambino. Solo l'idea di abbracciare il figlio di Adam era stata
abbastanza per farmi alzare la testa e decidere di continuare a vivere.
Certo, sarei stata una madre single, non sarebbe stato semplice, ma ce
l'avrei fatta e, forse, un giorno Adam sarebbe tornato, se non per me,
per il suo bambino. E non m'importava non averlo più
accanto, perché sapevo che quel piccolo ci avrebbe uniti per
sempre. Invece tutte quelle certezze erano crollate nel giro di un paio
di mesi. Ero nervosa e irritabile, tutto stava andando per il verso
sbagliato, ma quando quella mattina mi ero svegliata in preda a
violenti crampi e dolorose contrazioni mi ero spaventata tantissimo.
Poi era arrivata la notizia, e il fulmine mi aveva direttamente colpita
in testa, tramortendomi. Non avevo più Adam e non avevo
nemmeno più il suo bambino. Ero stata troppo codarda per
tornare da lui e dirglielo, come era giusto che fosse essendo anche suo
figlio e per un attimo mi chiesi se avesse pensato a quel bambino che
aveva abbandonato per così tanto tempo.
Il suono dell'ascensore mi riportò alla realtà e
uscii in fretta prima che le porte si richiudessero.
Quell'incontro mi aveva colpita, non come quel fulmine anni prima, ma
un po' di dolore c'era stato comunque. Dolore dovuto alla
consapevolezza che non avrei avuto più niente a che fare con
lui, dovuto ai miei errori e, sì, anche ai suoi.
Perché, se in un primo momento mi ero martirizzata e mi ero
data la colpa per tutto, a mente fredda avevo capito che un po' di
colpa anche lui l'aveva. Alla fine, era per il suo rifiuto che ero
uscita, quella sera. Era per dimenticare i suoi occhi azzurro ghiaccio
che mi dicevano di non volere il mio bambino, il nostro bambino, che
avevo accettato le attenzioni di quel ragazzo. Era per convincermi che
tutto sarebbe andato per il meglio che avevo esagerato con i drink.
Certo, tutte scelte consapevoli, ma era partito tutto da lui, dalla sua
refrattarietà ai sentimentalismi nonostante anni insieme,
dalla sua infondata paura per le relazioni serie, paura che ero certa
di aver cancellato con la mia presenza, ma che si era ripresentata con
l'annuncio della gravidanza. Un impegno grande, enorme a dire poco, ma
che non potevamo ignorare: avevamo fatto il danno, ora ci dovevamo
preoccupare delle conseguenze. Ma Adam, come al solito, aveva preferito
tirarsi indietro e quella volta io non ero stata abbastanza svelta ad
allungare la mano e riprenderlo con me, anzi, mi ero arresa al pensiero
che nemmeno io ero riuscita a cambiarlo.
Con un sospiro spinsi la porta a vetri della clinica e uscii, andando a
passo svelto verso la macchina di Austin, parcheggiata al solito posto.
"Ehi!", mi salutò quando entrai. Di solito non commentava i
miei occhi lucidi o la mia scarsa voglia di parlare dopo quelle sedute,
ma quel giorno rimase un attimo di più a fissarmi e dovetti
dedurre dal suo sguardo di avere una faccia davvero scoinvolta. "Tutto
bene?", mi chiese appunto.
Annuii, incerta se parlare o meno di quello che era successo.
Austin pensò anche a questo, accendendo la macchina e
sorridendomi. "Cioccolata?", propose con quel suo tono dolce che
adoravo.
Annuii di nuovo. Non sapevo cosa sarebbe venuto fuori se avessi
parlato, ma temevo di scoppiare a piangere da un momento all'altro,
quindi rimasi in silenzio per tutto il tragitto verso il solito bar
vicino a casa sua, dove facevano una cioccolata calda deliziosa.
"L'ho rivisto", sussurrai mentre camminavamo dal parcheggio al bar, uno
accanto all'altro senza però toccarci.
Austin mi guardò confuso, ma gli bastò incrociare
il mio sguardo per capire. Non disse niente, limitandosi ad entrare nel
bar e chiedere un tavolo per due e il suo silenzio mi fece pentire di
quella rivelazione. C'era un motivo se non parlavamo mai del nostro
passato e forse non era stata una buona idea tirare fuori il mio
così all'improvviso. Ma quell'incontro inaspettato con Adam
mi aveva fatto capire che non era giusto tenere nascoste ad Austin
certe cose, anche se mi faceva male ricordarle. Dovevamo dirci tutto,
la fiducia era alla base di ogni rapporto e sapevo che senza anche
questo sarebbe crollato.
Ci sedemmo ad un tavolino piuttosto appartato e cercai di sorridere
educata al cameriere che ci portò i menù. Non ne
avevamo effettivamente bisogno, perché quando
tornò erano nello stesso punto di dove li aveva lasciati ed
entrambi ordinammo una cioccolata calda con panna.
"Dove?", mi chiese Austin dopo qualche minuto di silenzio.
"Allo clinica di Mr Klant", risposi, capendo subito a cosa si
riferisse.
Austin mi inchiodò con i suoi occhi castani. "Cosa
significa?".
"Non devi preoccuparti, ci siamo solo salutati", cercai di
tranquillizzarlo. E, in fondo, era quello che era successo.
Austin sospirò. "Non so cosa dirti", ammise, aspettando a
continuare perché erano arrivate le nostre cioccolate.
Scossi le spalle, prendendo un po' di panna con un dito e portandomela
alla bocca. "Non dire niente. Volevo solo che lo sapessi".
"Beh, sono contento che tu ti sia confidata".
"E voglio raccontarti tutto", dissi con voce incerta. Non mi piaceva
rivangare il passato, ma era giusto che Austin mi conoscesse in tutte
le mie forme.
"No", disse invece lui con sicurezza. "Non mi interessa, Amanda".
"Non vuoi sapere perché è finita?", gli chiesi
sorpresa.
Austin scosse la testa. "Non mi interessa", ripeté.
"È passato".
Involontariamente, mi allargai in un sorriso e mi sporsi ad
abbracciarlo, dandogli un piccolo bacio a stampo al sapore di
cioccolato. Ero contenta di sapere che Austin mi amava a tal punto da
non voler sapere nulla su di me che non lo riguardasse e che sapeva
quanto doloroso fosse per me ricordarmene. "Grazie", sussurrai sulle
sue labbra, sorridendo. Avevo incontrato Adam, ma il pensiero di
lasciare Austin per tornare con lui non mi aveva ancora sfiorata.
Certo, lo amavo ancora con tutta me stessa, ma adesso non era
più come alle superiori, ora c'era Austin e non avrei fatto
del male anche a lui.
"Ti va di salire da me?", mi chiese con un sorriso quando finimmo le
cioccolate.
Io annuii, stranamente euforica. Non sapevo ben dire se
quell'improvvisa felicità era dovuta all'aver rivisto Adam o
all'amore di Austin, ma non me ne importava nemmeno così
tanto. Ero felice, questo bastava per farmi sorridere e attaccarmi al
bracco di Austin con forza.
Dopo aver pagato uscimmo e attraversammo la strada. Austin, infatti,
abitava esattamente davanti al bar, in un appartameno in una moderna
palazzina. Era un monolocale abbastanza piccolo, al secondo piano, ma
io adoravo il modo in cui era arredato, semplice ma maschile e il
profumo che aleggiava sempre mi ricordava il profumo di casa e di
felicità. Per questo ero sempre contenta di andare a da lui,
ovviamente anche per la fantastica cucina di ultima generazione che gli
avevano regalato i genitori quando aveva comprato l'appartamento. Era
il mio sogno, quel posto: moderna e lucida, con tutti i comfort
possibili e immaginabili e un enorme frigo con erogatore di acqua e
ghiaccio.
"Cucino io, stasera!", esclamai infatti quando entrammo in casa.
Austin ridacchiò mentre mi sfilavo la giacca e la buttavo
sul divano. Erano appena le sei del pomeriggio, ma avevo in mente una
cena impegnativa, quindi mi misi subito all'opera, sotto lo sguardo
divertito di Austin che, seduto sul tavolo, mi guardava bevendo una
lattina di birra.
L'atmosfera era particolarmente allegra, quella sera e, dopo cena,
finimmo direttamente in camera sua e facemmo l'amore con urgenza e
passione, come non ci capitava da parecchie settimane. Lo sentivo
presente e attento ai miei desideri e, ancora alle prese con un'euforia
incontrollabile, avevo goduto di quella serata più del
normale.
"Accidenti", borbottò Austin circondandomi le spalle con un
braccio e facendomi appoggiare la testa sulla sua spalla. "Questa sera
sei insaziabile". Scoppiai a ridere, sentendo il cuore scoppiare di
gioia e beandomi di quella sensazione così rara per me. "E
ti lamenti anche?", lo provocai, passando languidamente una gamba sulla
sua.
"Certo che no!", ridacchiò lui. "Ma ho bisogno di un attimo
per riprendere le forze, se non vuoi giocare da sola".
"Stai diventando vecchio", scherzai.
"Ma se abbiamo la stessa età!", sbottò facendo
una smorfia divertita. Poi mi mise un dito sulla fronte. "E poi sei tu
quella vecchia: guarda qua che rughe", rise.
"Ti faccio vedere io come sono vecchia", esclamai balzando in ginocchio
sul materasso e mettendomi a cavalcioni su di lui.
Dallo scherzo a fare di nuovo l'amore non impiegammo molto e ci
trovammo di nuovo abbracciati e ansimanti dopo un'amplesso
straordinario.
"Mi ucciderai", mugolò coprendoci con il piumone che, nella
foga, era finito per terra.
"No, ci rimetterei solo io", ridacchiai sbadigliando.
Austin mi abbracciò più stretta. "Dormi, piccola.
Domani dobbiamo andare entrambi al lavoro".
Annuii e mi accoccolai sul suo petto caldo, cullata dai battiti del suo
cuore che, lento, scandiva i suoi respiri sui miei capelli.
Ero quasi nel mondo dei sogni quando sentii Austin accarezzarmi
dolcemente la schiena e sospirare. "Lo so che tornerai da lui, Mandy",
sussurrò prima di lasciarmi un bacio sulla fronte.
Mugolai qualcosa che doveva somigliare a un "non è vero", ma
lentamente persi il controllo con la realtà e mi
addormentai.
Se avessi resistito un attimo di più, avrei visto il sorriso
amaro di Austin e una lacrima solitaria solcargli la guancia.
Salve
gente!
Avrei
dovuto pubblicare domani, ma tra la valigia e i compiti sono davvero
ristretta con i tempi. Per questo ci tenevo a darvi questo capitolo
prima di partire per la Norvegia (e, a questo proposito, aggiungo che
settimana prossima non so quando avrò tempo di aggiornare,
visto che tonerà martedì sul tardi e il giorno
dopo dovrò andare a scuola) e, alla fine, vi
lascerò anche un piccolo spoiler del terzo.
Beh,
in generale credo che fosse abbastanza scontato il ritorno di Adam. In
fondo, è la loro storia d'amore: è come guardi un
film rosa e sai già dall'inizio come andrà a
finire, perché ormai nessun finale non sarà
scontato. La cosa che cambia, però, è
ciò che si trova in mezzo, quello che succede tra l'inizio e
la fine. E vi assicuro che non sarà così facile
per Amanda venire a compromessi con i suoi sentimenti, le sue paure e
la sua realtà, perché lei non vuole ferire
nessuno, ma, si sà, al cuor non si comanda e, come Austin ha
già capito, quell'incontro sarà solo l'inizio di
qualcosa che dovrà ancora crescere.
Spero
che vi sia piaciuto, anche a chi, per adesso, non conosce ancora i
protagonisti. Rigrazio di cuore Ali_13 e Sonny_chan che
hanno recensito e che mi seguono dall'inizio di quest'avventura. E
ovviamente tutti quelli che leggono in silenzio o che, per noia, hanno
aperto solamente il link per poi richiuderlo!
a
presto (spero)
mikchan
SPOILER...
capitolo tre: PRESENTS, SNOW AND ILLNESS
[...] "Oh, Amanda! Non dire sciocchezze".
"Ma se si è pure presentato!", esclamai.
"È stato solo educato", borbottò mia madre.
"E si è preso una cotta per te".
"Sono vecchia per queste cose", ribatté lanciandomi
un'occhiataccia.
"Invece dovresti trovarti un uomo", affermai sicura, afferrandola per
un braccio prima che entrasse nel negozio accanto.
"Sì, con la fortuna che ho mi troverò accoppiata
con un cane", ironizzò alzando gli occhi al cielo.
"Quel George era simpatico e qualcosa mi dice che non rifiuterebbe una
bella donna come te".
"Piantala di adularmi", mi rimproverò senza saper nascondere
un sorriso.
"Oh, e va bene", sbottai alzando le mani in segno di resa. "Fai come
credi, però ti stai perdendo l'occasione di essere felice".
"Ma io sono felice", ribattè.
"Hai capito cosa intendo", dissi scuotendo la testa.
Mi madre rise e poi mi prese per mano. "Ci penserò", mi
promise. "Ora però occupiamoci di te".
[...]
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Capitolo 3 *** Presents, snow and illness ***
3- PRESENTS,
SNOW AND ILLNESS
Era passato più di un mese dal mio incontro con Adam e non
avevo più avuto notizie di lui.
Durante la seduta di dicembre con Mr Klant era stato il primo argomento
che era uscito ed ero riuscita a farmi rivelare che Adam non aveva
detto praticamente nulla al dottore quando me ne ero andata, se non che
eravamo stati compagni di classe alle superiori.
Mi ero un po' infastidita di quella definizione. Certo, avevamo rotto e
anche in modo brusco, ma che motivo c'era di negare quello che c'era
stato tra di noi? Io non avevo dimenticato nulla ed ero certa che anche
la sua memoria non facesse cilecca sugli anni passati insieme. Quindi
perché si era limitato a 'compagna di classe', quando aveva
probabilmente capito che Mr Klant sapeva tutto di noi?
Domande inutili, oltre che deleterie, che mi frugavano in testa da
tutto quel tempo.
Intanto il Natale era alle porte, mancava giusto una settimana e i
preparativi erano iniziati anche a casa mia. Mia madre aveva insistito
per passare le festività insieme e si era trasferita
temporaneamente da me, facendo subito amicizia con Wulfie e viziandolo
come un bambino. Ero contenta di averla di nuovo vicino, ma la sua
presenza limitava la mia intimità con Austin che, pur
essendo sempre gentile ed educato, quando ci trovavamo soli non
aspettava un attimo per saltarmi addosso e assopire quel desiderio che
da quano avevo incontrato Adam si era riacceso.
Avevamo già deciso che avremmo passato il pranzo di Natale
con mia madre e la famiglia di mio fratello -moglie e figlio- e la cena
con i suoi. Per la sera della Vigilia, invece, avevamo in programma una
festa organizzata dalla clinica di Mr Klant per benificenza.
Partecipavamo tutti gli anni e, quel Natale, Austin aveva insistito per
andarci nonostante la possibile presenza di Adam. Ne era uscita una
discussione, ma alla fine avevo accettato, rendendomi conto che non era
giusto chiudermi in casa solo per il timore di incontrarlo. Ed era un
timore stupido, lo sapevo, soprattutto perché, almeno in
apparenza, mi ero lasciata il passato alle spalle e non dovevo temere
un confronto con lui. Eravamo due persone adulte che avevano avuto una
relazione finita male; non ci parlavamo da anni, ma nulla ci impediva
di tornare a essere amici.
Per questo, in quella fredda domenica di dicembre avevo accettato di
uscire con mia madre e andare alla ricerca di un vestito per la festa.
Non che non ne avessi nel mio armadio, ma volevo passare un po' di
tempo con lei e avevo colto al volo l'occasione. Anzi, probabilmente
non avrei comprato niente, visto l'esiguo numero di banconote nel mio
portafoglio e lo stipendio che andava praticamente tutto nell'affitto,
ma sapevo che mi sarei divertita, come quando mi aveva trascinata a
cercare un abito per la cerimonia dei diplomi e avevamo passato un
pomeriggio indimenticabile.
L'aria natalizia, però, l'aveva esatata parecchio,
perché da quando avevamo messo piede in macchina non aveva
smesso un attimo di parlare e, arrivate al centro commerciale, era
sparita dentro il primo negozio che aveva trovato, senza nemmeno
aspettarmi. Io la seguivo con un sorriso, scuotendo il capo alle sue
richieste assurde e assecondandola a volte, giusto per il gusto di una
risata.
"Hai visto come ti ha guardata?", risi quando uscemmo dall'ennesimo
negozio di vestiti. Avevo comprato un maglione per mio fratello e mia
madre, alla disperata ricerca di regali, aveva incominciato a parlare a
macchinetta con il commesso, un uomo sulla cinquantina, con una
prominente pancia e due guanciotte rosse alla 'Babbo Natale' che lo
rendevano uguale a un orsacchiotto da spupazzare, che l'aveva
assecondata con un sorriso e l'aveva invitata a tornare presto.
"Oh, Amanda! Non dire sciocchezze".
"Ma se si è pure presentato!", esclamai.
"È stato solo educato", borbottò mia madre.
"E si è preso una cotta per te".
"Sono vecchia per queste cose", ribatté lanciandomi
un'occhiataccia.
"Invece dovresti trovarti un uomo", affermai sicura, afferrandola per
un braccio prima che entrasse nel negozio accanto.
"Sì, con la fortuna che ho mi troverò accoppiata
con un cane", ironizzò alzando gli occhi al cielo.
"Quel George era simpatico e qualcosa mi dice che non rifiuterebbe una
bella donna come te".
"Piantala di adularmi", mi rimproverò senza saper nascondere
un sorriso.
"Oh, e va bene", sbottai alzando le mani in segno di resa. "Fai come
credi, però ti stai perdendo l'occasione di essere felice".
"Ma io sono felice", ribattè.
"Hai capito cosa intendo", dissi scuotendo la testa.
Mi madre rise e poi mi prese per mano. "Ci penserò", mi
promise. "Ora però occupiamoci di te".
"Aspetta!", la bloccai quando la vidi entrare in uno dei negozi
più eleganti del posto.
"Entriamo solo a vedere", disse tirandomi dietro di sé. Non
ero molto convinta, quel negozio era veramente caro, anche se i vestiti
esposti in vetrina erano magnifici, ma se era solo per dare un'occhiata
che male c'era?
"Guarda!", esclamò esaltata, indicandomi un vestito su un
manichino. Era un sontuoso abito color pesca, dall'ampia gonna con un
velo di pizzo decorato e un corpetto con scollatura a forma di cuore,
evidenziato da un'enorme fiore proprio sotto il seno. Era molto bello,
ma non era decisamente il mio genere, quindi lo scartai immediatamente.
Continuammo il giro e mia madre si innamorò di almeno una
cinquantina di vestiti: fosse stato per lei avrei dovuto comprare
l'intero negozio!
Alla fine, mi costrinse anche a provarne qualcuno e mi spedì
in camerino con un abito blu notte dal corpetto aderente e la lunga
gonna a pieghe disordinate e un'altro di un colore simile, solo
più luminoso, costituito da una lunga gonna e una fascia sul
seno con scollatura a cuore. Erano entrambi carini, ma di generi
talmente diversi che mi chiesi che cavolo di gusti avesse mia madre.
Con un sospiro provai il primo, ma non mi sentivo a mio agio con una
gonna così ingombrante, quindi me lo tolsi subito. Non feci
in tempo ad indossare il secondo che mia madre entrò nel
camerino come un uragano, appoggiando sul divanetto altri due abiti.
Accolse con una smorfia il mio rifiuto dell'abito blu notte e
imprecò quando vide che quello che stavo provando mi stava
effettivamente stretto sul seno, tanto da non riuscire ad allacciare la
cerniera sulla schiena.
Sbuffando tornò alla ricerca di altri vestiti e mi
lasciò di nuovo da sola. Esasperata, guardai i nuovi abiti e
mi chiesi come cavolo avrei fatto ad entrarci. Erano, infatti, entrambi
molto attillati e stretti, soprattutto il primo, un tubino monospalla,
di uno strano grigio-verde, che i fasciava perfettamente i fianchi e il
seno come una seconda pelle, mentre la gonna scendeva morbida. Una
volta indossato mi accorsi che non era effettivamente brutto, ma mi
sentivo ancora troppo a disagio, così me lo sfilai svelta e
indossai l'altro, un'abito color grigio chiaro, abbastanza attillato
sul corpetto ma con una morbida e lunga gonna, e con delle decorazioni
sul primo e sulle spalline. Quello mi piacque di più ed era
anche piuttosto comodo, ma quando girai il cartellino per controllare
il prezzo quasi mi ribaltai: tremila euro per un pezzo di stoffa che
avrei indossato solo quella sera? Ma neanche morta! Me lo tolsi in
fretta, facendo attenzione a non sgualcirlo per paura di doverlo pagare
e rimasi in biancheria, nervosa ed esausta, pronta a dire a mia madre
che ne avevo già abbastanza di vestiti.
Ma non feci in tempo neanche ad aprire bocca che mia madre aveva preso
i vestiti che avevo scartato e mi aveva lasciato sulla poltrona
un'altro abito, andandosene senza rivolgermi la parola.
Sbuffando, presi in mano quel vestito viola prugna e lo indossai senza
guardarmi allo specchio, certa che avrei scartato pure quello. E,
invece, appena alzai la zip sul fianco mi ritrovai a sorridere alla
superifice riflettente. Quell'abito era magnifico, semplice ma allo
stesso tempo seducente, con un corpetto decorato da mille perline che
brillavano alla luce al neon del camerino e una gonna lunga e setosa.
Quello mi piaceva davvero e sperai per un attimo che il prezzo fosse
abbordabile. Invece mi sentii morire quando lessi sul cartellino quella
cifra astronomica, molto di più di quella dell'abito
precedente. Era davvero troppo costoso per me, ma niente mi impediva di
sognare, quindi uscii dal camerino alla ricerca di mia madre e la
incrociai quasi subito con in mano l'ennesimo abito.
"È perfetto!", esclamò con un sorriso a trentadue
denti.
"Lo so", gongolai. "Ma costa troppo, non ne vale la pena", continuai a
bassa voce.
"Secondo me dovresti comprarlo", insistette lei, appoggiando l'abito
che aveva in mano su un'appendino e avvicinandosi. "È il tuo
regalo di Natale per te stessa".
Scossi la testa. "No, non mi basterebbero mai i soldi anche per
l'affitto, le bollette e tutto il resto".
"Allora accettalo come mio regalo".
"Assolutamente no", esclamai sorpresa. "Costa troppo, mamma".
"Ma ti sta così bene", disse con un sorriso.
"Indosserò uno dei vestiti che ho nell'armadio", cercai di
convincerla.
Mia madre mi guardò negli occhi per un attimo, incerta su
come rispondermi, poi sospirò. "Come vuoi", si arrese e un
po' mi stupii non vedendola combattere per qualcosa che voleva.
"Vado a cambiarmi e ce ne andiamo", borbottai, un po' triste per non
potermi permettere quel vestito e dandomi anche della stupida,
perché ero consapevole delle mie condizioni economiche ed
entrare in un negozio del genere era come darsi la zappa sui piedi da
soli.
Con un sospiro mi sfilai il vestito, ammirandolo per un ultimo momento,
poi lo passai a mia madre perché lo riportasse dove l'aveva
trovato. Mentre mi rivestivo, rivangai mentalmente nel mio armadio alla
ricerca di qualcosa di carino e adeguato da indossare al ballo e,
pesandoci bene, avevo ancora il vestito dello scorso anno che avevo
comprato con i saldi: chi si sarebbe ricordato di avermi vista con lo
stesso abito l'anno prima? Un po' più tranquilla uscii dal
camerino e trovai mia madre intenta a confabulare con la commessa alla
cassa. Convinta che si fosse lasciata prendere di nuovo dalla voglia di
raccontare la sua vita alla prima persona incontrata per strada, le
feci un cenno e uscii dal negozio. I corridoi erano pieni di persone in
piena estasi Natalizia, che correvano a destra e a sinistra alla
disperata ricerca degli ultimi regali.
Quella frenesia mi fece ricordare che nemmeno io avevo ancora comprato
un regalo ad Austin. Non che sapessi già cosa prendere, in
fondo ero lì con mia madre proprio per quello, ma ci tenevo
a fare qualcosa di speciale e unico, non come lo stupido maglione che
gli avevo regalato l'anno prima.
Dopo dieci minuti mia madre uscì finalmente dal negozio e ci
fermammo in un bar a mangiare qualcosa prima di continuare il giro. Le
esposi i miei dubbi sul regalo di Austin e lei, come Jamie giorni
prima, mi aveva rassicurata che il mio ragazzo avrebbe adorato
qualunque cosa, purché fatta col cuore.
Incerta se seguire quel consiglio o meno, passai il resto del
pomeriggio alla ricerca di qualcosa che potesse essere speciale per
Austin, ma, a parte maglioni imbarazzanti e oroglogi troppo costosi non
trovai niente che mi soddisfacesse. Quella sera arrivai a casa
distrutta e innervosita: non avevo trovato né il vestito e
neppure uno stupido regalo per Austin e avevo perso una giornata per
nulla.
I giorni successivi passarono frenetici.
Fra il lavoro, le bozze da correggere, le richieste impossibili di Mr
Brown, i pranzi con Jamie, le serate con Austin e mia madre che stava
rimodernizzando il mio appartamento tutto sembrava andare contro i miei
piani. Più volte mi ero infuriata perché non
trovavo dove avesse sistemato i biscotti o la Nutella e, alla fine, le
avevo vietato di mettere mano nella mia dispensa o in qualunque altro
posto che avrebbe scombussolato il mio ordine mentale delle cose.
Come se non fossi già abbastanza nervosa, il giorno prima
della vigilia, puntuale come uno stupidissimo e inutile orologio
svizzero, mi arrivò il ciclo e, giusto perché non
c'è due senza tre, quando mi svegliai quella mattina la
città era già imbiancata dalla neve.
Cercando di ignorare la voce euforica di mia madre, ingoiai una
pastiglia e mi apprestai ad uscire in mezzo a quel caos per il mio
ultimo giorno di lavoro. La sera dopo ci sarebbe stata la festa,
quindi, oltre che correggere bozze e seguire gli altri giornalisti in
interviste o riunioni varie, dovevo anche prepararmi per un'estenuante
giornata tra estetista, parrucchiera e qualunque altra cosa mia madre
si fosse inventata.
Quella giornata fu assurda. Non riuscii a concentrarmi nemmeno per
cinque minuti di seguito e, a mezzogiorno, il mio capo mi
spedì a casa a calci nel sedere, affermando che una
giornalista malata era inutile quanto un pinguino a New York. Il
paragone non l'avevo capito, ma mi ero vestita in fretta e, pronta per
affrontare la neve, uscii dalla redazione, nella speranza che non
avessero cancellato tutti gli autobus.
Speranza inutile, visto che dopo quaranta minuti ero ancora ferma sotto
la pensilina e aveva anche incominciato a nevicare.
Con stizza chiamai mia madre per chiederle di venirmi a prendere in
macchina, ma il telefono suonava a vuoto e qualcosa mi fece pensare che
non era nemmeno in casa. Quindi telefonai ad Austin che,
fortunatamente, stava uscendo dal lavoro e mi raggiunse dieci minuti
dopo con la sua bella e calda automobile costosa.
"Sei la mia salvezza", esclamai entrando nell'auto.
"Potevi chiamarmi prima", mi riproverò. "Sei congelata!".
"Lo so", borbottai stringendomi nel cappotto. "Ma non volevo darti
fastidio".
"Sai che non mi dai mai fastidio", ribatté ingranando la
marcia e partendo.
"Lo so", ripetei stizzita, sentendomi un'idiota perché mi
stavo arrabbiando per un motivo inistente. "Scusa se non ti ho pensato
subito", sbottai.
Austin mi lanciò un'occhiata interrogativa, spiazzato dalle
lacrime che avevano iniziato a scendermi sulle guance e poi
sospirò. "Ti porto a casa o vuoi fermarti a mangiare
qualcosa?", mi chiese quando si fermò al semaforo.
Feci una smorfia. "Non ho fame", ammisi, sentendo salire la nausea al
solo pensiero del cibo. "Ma non ho nemmeno voglia di sentire gli
strilli di mia madre".
"Vieni da me", mi propose con un sorriso. "Così ne
approfittiamo per stare un po' assieme e ti riporto a casa domani
mattina".
"Bello stronzo", mugugnai. "Mi cerchi solo per fare sesso".
"Non ho mai detto di voler fare sesso", si difese, visibilmente in
difficoltà. Sapevo di diventare assurda quando avevo il
ciclo, ma quel giorno stavo decisamente esagerando con le scenate.
Eppure non riuscivo a fare diversamente. Ero sopraffatta dalle mie
emozioni, rabbia, tristezza, gioia, nervosismo e non capivo come uscire
da quel giro che mi faceva diventare matta. Nemmeno Austin sapeva come
gestirmi perché solitamente evitava di provocarmi in quei
giorni e vederlo così sulle spine mi fece sentire ancora
peggio.
"Sono una fidanzata orribile", piagnucolai.
"Ma non è vero!", mi difese, mettendomi una mano sul
ginocchio.
"Davvero?", chiesi speranzosa, vedendolo esitare un attimo davanti a
quell'altalena di reazioni.
"Certo!", esclamò, cercando di essere convincente. "Ora
andiamo a casa, ti fai una bella doccia e poi ti riposi".
Sospirai, appoggiando la testa al sedile e passandomi una mano sul
basso ventre nella speranza di placare quel dolore. "Voglio solo
dormire", mugugnai chiudendo gli occhi.
"Va bene", acconsentì.
Io annuii e per il resto del viaggio restammo in silenzio. La crisi
sembrava passata e io mi iniziavo a sentirmi un'imbecille per avere
sfogato su di lui tutto il mio nervosismo-da-mestruazioni.
"Scusa", mormorai quando arrivammo a casa sua e scendemmo dall'auto.
Austin fece un sorriso e mi riparò sotto il suo ombrello.
"Non preoccuparti", mi rassicurò, stringendomi le spalle con
un braccio e iniziando ad incamminarsi verso la sua palazzina.
Entrammo in fretta nel suo appartamento e sospirai, finalmente al
caldo.
Senza aspettare il suo permesso mi fiondai in doccia e, dopo essermi
fatta prestare da Austin una delle sue tute, ingoiai una pastiglia e mi
infilai sotto le coperte.
Mi addormentai quasi subito e dormii per tutto il giorno e tutta la
notte, svegliandomi la mattina dopo decisamente più
rilassata e con il volto immerso nel petto di Austin, che mi stringeva
ancora i fianchi.
Stavo decisamente meglio, sia fisicamente che psicologicamente e mi
alzai facendo attenzione a non svegliarlo. Gli preparai la colazione
per ringraziarlo e, dopo essermi rivestita, uscii per prendere un
autobus e tornare a casa. Avrei dovuto decisamente comprare una
macchina, soprattutto in quei casi di emergenza, ma ogni volta che ci
pensavo rimandavo e alla fine me ne dimenticavo.
Arrivai a casa che mia madre era già sveglia e, mentre
aprivo la porta, sentii il cellulare vibrare nella borsa. Ignorando i
rimproveri di mia madre per non averla avvertita, aprii il messaggio e
sorrisi.
"Grazie per la
colazione, piccola. Ci vediamo questa sera. A."
Appoggiai la borsa e il cappotto e gli risposi in fretta. "Mi farò bella solo
per te. A dopo".
Dopo una doccia veloce, mi preparai e, salutando mia madre con un
bacio, uscii di nuovo di casa.
Quella sera dovevo essere perfetta, non tanto per me stessa, ma per
Austin. Dovevamo fare bella figura e divertirci. Mr Klant mi aveva
assicurato che Adam non ci sarebbe stato e, rassicurata da quella
notizia, entrai dall'estetita con un sorriso.
Il telefono vibrò di nuovo. "Lo sarai. A casa ti aspetta il
mio regalo. Indossalo questa sera. Baci. A".
Sì, sarebbe stata una serata fantastica.
Hey,
everyone!
Finalmente
sono tornata e riesco a caricare questo benedetto capitolo!
Un
capitolo di passaggio, ma mi serviva per introdurre novità,
come l'arrivo della madre di Amanda, che avevamo lasciato nell'altra
storia, dove non aveva avuto un ruolo molto importante e che
ritroveremo in questa, dove sarà di grande aiuto ad Amanda,
ma anche ad altri personaggi.
Non
c'è molto altro da dire, a parte che la festa della Vigilia
sarà una grande sorpresa per tutti, Amanda per prima e vi
lascio un piccolo spoiler alla fine delle note perché non so
quando riuscirò a pubblicare di nuovo, tra la scuola e tutto
il resto. Ah, se volete le immagini dei vestiti ditemelo che li posto
tutti assieme nel prossimo capitolo.
Come
avevo promesso a Sonny_chan, ho fatto tante foto e ho già
pensato di far fare un bel viaggetto in Norvegia ai miei due
piccioncini (lascio a voi la sorpresa della coppia che
partirà per il freddo nord).
Ringrazio
di cuore tutti quelli che seguono la mia storia e che la leggono anche
in silenzio!
a
presto
Mikchan
vi lascio un piccolo ricordino dalla Norvegia...
SPOILER...
capitolo quattro: SHADOWS FROM THE PAST
[...] "Mi fanno male i piedi", mi lamentai quando ci sedemmo.
Austin ridacchiò. "Resisti un altro paio d'ore, piccola. Poi
ce ne torniamo a casa".
"Non puoi dirmi che torniamo a casa con quella voce maliziosa e lo
sguardo da cucciolo pervertito mentre sono qui che soffro!", pigolai
sporgendo fuori un labbro in una smorfia di finto dolore.
Austin mi accarezzò la guancia con la mano e scosse la
testa, divertito. "Ti prometto che dopo ti darò un premio",
mormora facendomi l'occhiolino.
"E se il premio me lo dassi adesso?", pronunciai accavallando le gambe
e sorridendo maliziosa.
"Qui?", mi chiese sorpreso.
"Oddio, no!", esclamai io, ridendo. "Andiamo a casa". [...]
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Capitolo 4 *** Shadows from the past ***
4- SHADOWS FROM
THE PAST
Nonostante fossero appena le nove di sera, la sala era già
gremita di persone.
L'atmosfera era molto Natalizia, complici anche le decorazioni e
l'imbarazzante vischio che qualcuno aveva appeso sopra la porta. Quando
l'aveva visto, Austin era scoppiato a ridere e mi aveva baciata
lì, davanti a tutti. Nonostante la presenza di persone
attorno a noi, mi ero aggrappata al suo collo e avevo risposto a quel
bacio così eccitante.
"Sei fantastica, stasera", mi sussurrò all'orecchio quando
le risatine e gli espliciti colpi di tosse ci fecero staccare.
"Diciamo che il merito è anche tuo", ribattei, lasciando
cadere lo sguardo sull'abito che indossavo. Era quel vestito che avevo
provato quel pomeriggio qualche giorno prima e che ero stata costretta
ad abbandonare perché troppo costoso. Ovviamente, quella
traditrice di mia madre aveva spifferato tutto ad Austin, che aveva
avuto la bellissima idea di spendere un casino di soldi nascondendosi
dietro alla scusa del regalo di Natale. Quando ero tornata a casa,
quella mattina, e avevo visto quella scatola bianca sul mio letto non
potevo credere ai miei occhi, ma mi ero seriamente arrabbiata con
entrambi perché, nonostante Austin non avesse problemi con i
soldi -un modo gentile per dire che era schifosamente ricco- sapevano
quanto odiassi spendere troppo per cose inutili. Alla fine,
però, dopo parecchi insulti da parte mia e moine da parte
loro avevo ceduto e mi ero arresa all'evidenza. In fondo, quell'abito
mi piaceva un sacco e se Austin insisteva tanto, chi ero io per
rifiutare?
Austin ridacchiò al mio orecchio e stringendomi per la vita,
mi condusse all'interno della sala. "Fidati, non è il
vestito a renderti stupenda".
Gli lanciai un'occhiata scettica, allungando la mano per prendere un
bicchiere di champagne dal vassoio che portava in giro un cameriere.
"Adularmi non mi farà passare l'arrabbiatura".
Austin mi imitò, prendendo un sorso prima di rispondermi.
"Lo so bene, cara. Ma non ti sto adulando, è la semplice
verità".
Non risposi, limitandomi a scuotere la testa. "Come vuoi", mi arresi,
guardandomi intorno alla ricerca di Mr Klant. In realtà, lo
sapevo bene io e lo aveva intuito anche Austin, vista l'occhiata che mi
aveva rifilato, non stavo cercando il mio psicologo, ma un'altra
persona che però, nella mischia, non riuscivo a vedere. E
forse era meglio così: non mi andava di rovinarmi la serata,
per questo quando incrociai lo sguardo di Mr Klant sorrisi e, prendendo
la mano di Austin, mi diressi verso di lui.
"Buon Natale, Amanda", mi salutò il Dottore con due baci
sulla guancia.
"Buon Natale anche a lei, Dottore", sorrisi.
"Amanda, voglio presentarle mia moglie Sophia", disse indicando la
donna al suo fianco, visibilmente incinta e con un sorriso enorme.
"Piacere", risposi stringendole la mano. "Lui è Austin, il
mio ragazzo", dissi invece io, sorridendo quando questo mi strinse le
spalle con un braccio e salutò con gentilezza.
"Sono contento di vederla. Pensavo non venisse".
Scossi la testa. "No, ci tengo a questa festa, lo sa".
"Beh, allora buon divertimento", rispose con un sorriso e congedandosi
prendendo la moglie per mano.
"Ti va di ballare?", mi chiese Austin indicando la pista da ballo dove
qualche coppia stava già volteggiando su una canzone
piuttosto tranquilla.
"Se ci tieni a vedere i tuoi piedi brutalmente calpestati, allora con
piacere", ridacchiai, prendendo la mano che mi stava porgendo come se
fosse un cavaliere d'altri tempi.
Austin mi condusse alla pista e mi strinse a se. "I miei piedi sono
tranquilli, signorina", esclamò con un sorriso,
incominciando a danzare.
Io lo seguii incerta, ancora piuttosto imbranata con quei tipi di balli
così eleganti e severi, ma dopo un po' mi sciolsi e mi
lasciai trasportare dalla musica e dalla voce dolce della cantante che
intonava le note con maestria ed emozione.
Senza che me ne accorgessi ballammo tre canzoni senza spiccicare
parola, ma senza distogliere gli occhi l'uno dall'altro. Ora che ci
facevo caso, era dall'inizio della serata che Austin aveva uno sguardo
strano. Mi fissava in modo quasi adorante e i suoi occhi luccicavano
quando incontravano i miei, sembrava quasi che fossero delle stelle. Ed
io non riuscivo a capirne il motivo: certo, mi aveva ripetuto migliaia
di volte quanto fossi bella, ma non poteva essere solo quello il motivo
delle sue occhiate così... malinconiche. Sembrava quasi che
si stesse imprimendo nella mente quei momenti come se prima o poi tutto
dovesse per forza finire e lui non avesse abbastanza forza da
ricordarsi di me senza quei ricordi.
All'improvviso mi vennero in mente quelle parole che aveva pronunciato
quasi due mesi prima, dopo il mio primo inaspettato incontro con Adam
alla clinica di Mr Klant. Credevo di averle solo sognate e invece
Austin le aveva pronunciate davvero. Credeva sul serio che io potessi
lasciarlo su due piedi per tornare da Adam e ora che questo era tornato
in qualche modo nella mia vita quel timore si era fatto certezza.
Mentre mi stringeva in quel ballo lento, avrei voluto scuoterlo per le
spalle e urlargli in faccia quanto lo amassi e che mai lo avrei
abbandonato. Ma la verità era che ero una terribile
ipocrita, perché nonostante Austin fosse la mia vita, in
quel momento non ci avrei pensato un secondo a ritornare con Adam se
questo me l'avesse chiesto. E mi sentivo una vera stronza solo a
pensarlo, proprio mentre il mio ragazzo mi abbracciava con dolcezza,
quando il mio cuore avrebbe voluto altre braccia e altre mani intorno
al mio corpo.
Appoggiai quindi la testa sul suo petto, senza dire una parola ed
evitando di incrociare i miei occhi lucidi con i suoi. Non avrei retto
quello sguardo, non con la certezza di non essere abbastanza forte da
essere fedele all'uomo che amavo, almeno per una volta. Forse ero
destinata a tradire tutti i ragazzi che si fossero solo minimamente
avvicinati a me e restare sola come punizione per i miei sentimenti
così contorti e degeneranti. Ma, in fondo, come poteva
essere un sentimento d'amore così sbagliato? Io amavo Adam
con tutta me stessa, non avrei mai smesso di farlo perché il
mio cuore apparteneva a quel ragazzo che mi aveva salvata da me stessa,
amandomi per quello che ero e facendosi amare. Però amavo
anche Austin, che mi era stato accanto nei momenti più
tristi, semplicemente abbracciandomi stretta senza fare domande, con la
sua dolcezza e la sua semplicità aveva conquistato il mio
cuore, che ora era più confuso che mai.
Era ovvio quello che dovessi fare. Con Adam avevo chiuso anni prima,
anche per colpa mia, ad essere sinceri, e non avevo nessun diritto di
sperare in una nuova relazione. Con Austin, invece, avevo incominciato
una vita diversa, nella quale avevo messo una toppa sul mio passato e
cercavo di andare avanti, aggrappandomi a lui come se fosse la mia
ancora di salvataggio. E lo era, accidenti a me!, Austin era la mia
salvezza e non potevo ferirlo in quel modo, preferendo il mio ex a lui.
Sarebbe stata una mancanza di rispetto troppo grande da sopportare e
non ce l'avrei mai fatta a convivere con quel rimorso, neanche
nell'assurda ipotesi di una vita con Adam.
Che casino!
La musica finì e Austin sciolse l'abbraccio con delicatezza,
sorridendomi dolcemente e prendendomi per mano. "Ti va di bere
qualcosa?".
Io annuii, sorridendo incerta. Dovevo cancellare dalla mente quei
pensieri orribili, mi avrebbero solo rovinato la serata e la relazione
con Austin. C'erano, ma dovevo fare finta di niente. Per il mio bene e
per quello di Austin.
Lo seguii dolcilmente fino al banco buffet e, dopo aver preso due
bicchieri di champagne cercammo un posto dove sederci. Conoscevamo
quasi tutti i partecipanti a quella festa, essendo parecchi anni che vi
prendevo parte e anche perché Austin, figlio di un famoso
imprenditore, aveva molte conoscenze nell'alta società. Ogni
tanto qualcuno ci faceva un saluto o ci fermavamo a scambiare qualche
parola e quando finalmente arrivammo ai tavolini posti ai lati della
pista da ballo avevamo finito il nostro champagne e avevo le guance che
mi dolevano per i troppi sorrisi.
"Mi fanno male i piedi", mi lamentai quando ci sedemmo.
Austin ridacchiò. "Resisti un altro paio d'ore, piccola. Poi
ce ne torniamo a casa".
"Non puoi dirmi che torniamo a casa con quella voce maliziosa e lo
sguardo da cucciolo pervertito mentre sono qui che soffro!", pigolai
sporgendo fuori un labbro in una smorfia di finto dolore.
Austin mi accarezzò la guancia con la mano e scosse la
testa, divertito. "Ti prometto che dopo ti darò un premio",
mormorò facendomi l'occhiolino.
"E se il premio me lo dassi adesso?", pronunciai accavallando le gambe
e sorridendo maliziosa.
"Qui?", mi chiese sorpreso.
"Oddio, no!", esclamai io, ridendo. "Andiamo a casa".
Austin scosse la testa. "Mi dispiace, ma la risposta è no,
piccola. Ora stai qui buona che io vado a salutare un collega di mio
padre e non ti porto con me perché l'ultima volta l'hai
quasi picchiato", mi anticipò vedendo il mio sguardo
accigliato.
Agrottai le sopracciglia, mentre Austin si alzava e si stitemava la
giacca del completo. "Mi ha definita la tua segretaria", gli feci
gelidamente notare, ricordandomi di quell'odioso uomo che avevo
incontrato l'anno prima e che, con un viscido sguardo da falso amicone,
aveva chiesto ad Austin se si era portato la segretaria alla festa,
visto che i genitori non avevano annunciato nessun fidanzamento. C'era
mancato veramente poco che gli urlassi in faccia quanto fosse bigotto e
maleducato e quanto anche detestassi l'alone di superiorità
intorno ai genitori di Austin e ai loro stramaledetti soldi, intorno al
quale doveva girare sempre tutto. Fortunatamente Austin mi aveva
trasinata via, altrimenti si sarebbe ritrovato tutto il contenuto del
suo bicchiere addosso a quel costoso completo.
"Appunto per questo ti lascio qui, così evitiamo noiose
ripercussioni".
"Qualcosa mi dice che i tuoi credono ancora che ci siamo mollati",
mugugnai incrociando indispettita le braccia.
Austin sospirò. "No, sanno che stiamo insieme, ma non ci
parlo da settimane. Mia madre voleva diseredarmi, per fortuna mio padre
l'ha calmata", mi rivelò.
Io annuii, senza rispondere. Avevo conosciuto i genitori di Austin
quando ancora uscivamo assieme come amici e, di prima occhiata, mi
erano sembrate persone gentili, anche se un po' troppo altezzose,
decisamente diverse dal modesto figlio. Eppure, quando avevano capito
che stavamo assieme, non avevano esitato ad etichettarmi come una
"sgualdrina alla ricerca di denaro", soprattutto la madre, che si era
accanita contro di me manco fossi una malattia contagiosa. Con il
padre, invece, seppur con un po' di difficoltà e timore,
avevo consolidato un rapporto tranquillo e pacifico e mi aveva presa in
simpatia quando aveva scoperto la mia passione infantile per il karate,
sport che da giovane aveva praticato assiduamente. Era solo grazie a
lui se la madre di Austin non mi aveva ancora avvelenata o se non
avesse ancora buttato fuori il figlio da casa.
"Io vado", mi ricordò Austin con un mezzo sorriso,
chinandosi per darmi un dolce bacio sulla guancia e poi dirigendosi
verso il gruppo di uomini che stava chiaccherando poco lontano da noi.
Una volta sola, sospirai. Forse era effettivamente un bene starmene
alla larga da quelle persone con la puzza sotto il naso. Ed io, con il
mio abbonamento mensile dell'autobus e le camicie comprate ai mercatini
domenicali, ero così lontana da quel mondo così
luccicante e falso che spesso mi chiedevo come avesse fatto Austin a
innamorarsi di me, ma, soprattutto, a crescere così. Lui era
buono, dolce e gentile con tutti. Faceva il volontario all'ospedale in
centro una volta alla settimana, partecipava a diverse associazioni di
beneficenza e regalava sorrisi a chiunque, indistintamente dalla classe
sociale o dai numeri di zeri sulla carta di credito. Lui era
così, semplice e sofisticato allo stesso tempo, ma era per
quello che lo amavo, per quel suo essere così diverso dalla
sua famiglia, eppure così attaccato ad essa, sempre e
comunque.
"Vedo che ti perdi ancora a Pensierolandia con quella faccia da pesce
lesso".
Una voce, quella voce,
mi fece voltare e davanti mi ritrovai l'ultima persona che mi
aspettassi di incontrare quella sera. Sorpresa dalla sua
presenza e da quell'accenno a Pensierolandia accennai un sorriso.
"Certi vizi sono duri a morire", scherzai, sentendomi un po' a disagio
quando non lo vidi sorridere.
"Ti va di ballare?", mi chiese a bruciapelo, tendendomi una mano.
Abbassai lo sguardo, colta di sorpresa, e il mio pensiero corse subito
ad Austin. Mi voltai verso di lui, ma lo trovai intento a parlare con
un amico del padre.
Alzai lo sguardo di nuovo verso Adam e, per un attimo, mi persi nei
suoi occhi. Tutti i ricordi del passato si riversarono in me con la
potenza di un uragano e rimasi per un attimo senza fiato, immobilizzata
dalla forza di quelle immagini. Adam che mi abbracciava con un sorriso,
che mi baciava con dolcezza, che faceva l'amore con me con passione,
che mi chiamava Lupacchiotta con quello sguardo malizioso. Adam che
amavo e che non mi apparteneva più.
Non sapevo davvero cosa fare. Ero combattuta se seguire la ragione e
rifiutare, andando da Austin e rubargli un bacio mozzafiato proprio per
segnare che, per me, il passato doveva rimanere tale, oppure seguire il
cuore e accettare di ballare con lui, di lasciarmi stringere tra le sue
braccia e di perdermi per l'ultima volta nel suo profumo che aveva
già colpito le mie narici destabilizzandomi.
Adam non attese che io decidessi: appena la nuova canzone
iniziò, mi prese per un polso e mi fece alzare,
trascinandomi con dolcezza al centro della pista.
Ero lì, con lui, sulle note di una canzone e mi
ritornò in mente il giorno del ballo di fine anno, in quarta
superiore. Chissà se mi avrebbe stretta di nuovo in quel
modo o se si sarebbe eccitato alla vista di una piccola porzione del
mio seno. Probabilmente no, visto che ormai era un uomo maturo, ma
ormai il mio cuore aveva preso il sopravvento sulla ragione e stava
battendo come un matto nel mio petto.
You're in my arms,
and all the world is calm
the music playing on,
for only two.
So close, together
and when i'm with you
so close to feeling
alive.
Adam mi prese la mano e posò l'altra sul mio fianco,
avvicinandosi a me di un passo. C'era spazio, tra di noi, ma le sue
mani sul mio corpo ardevano come non mai e potevo sentire il suo fiato
caldo come se fosse vicino a me, su di me. Iniziò a
volteggiare piano, seguendo le note dolci della canzone e non avevo il
coraggio di alzare lo sguardo su di lui, troppo a disagio anche solo
sentirmi così vicina. Eppure, sembrava che il mondo intorno
a noi fosse scomparso: la sala da ballo, le persone intorno a noi,
Austin... niente c'era più oltre che noi due.
A life goes by
romantic dreams will stop
so I bid my goodbye and
never knew
So close was waiting,
waiting here with you
and now forever I know
all that I wanted, to
hold tou
so close
"Come mai non dici niente?".
La voce di Adam mi riportò alla realtà e
sobbalzai un attimo quando incontrai i suoi occhi blu così
vicini ai miei. Ero imbarazzata, ma allo stesso tempo felice. Da quanto
tempo aspettavo di essere di nuovo tra le sue braccia, anche solo per
un attimo? "Sto ballando", sussurrai come se fosse ovvio abbozzando un
sorriso.
"Non eri tu quella che sapeva fare due cose assieme?", mi
provocò, avvicinandosi a me un altro po'.
"Cosa vuoi da me, Adam?", gli chiesi, ignorando la domanda e
porgendogli quella che mi ronzava nella testa da quando si era
presentato al mio tavolo. Non era stato lui a dire di non volere avere
più niente a che fare con me? E allora perché
tornava a tormentarmi proprio quando ero riuscita ad andare avanti, in
qualche modo? Certo, c'era una parte di me che non si sarebbe mai
scollata dal suo corpo, ma un'altra, più rumorosa, mi
ricordava di avere un fidanzato che, a pochi passi da me, probabilmente
stava guardando tutta la scena.
"Ballare", rispose semplicemente, scrollando le spalle.
Sospirai. "Sai cosa intendo", mormorai.
Adam non rispose, continuando a volteggiare e a stringermi al suo
corpo.
So close to reaching
that famous happy end
almost believing this
was not pretend
and you're beside me
and look how far we've
come
So far, we are, so close
Ero così vicina a lui, eppure non mi ero mai sentita
così distante.
Ormai era tutto finito, perché nutrire ancora false
speranze? Ci avrei rimesso solamente io. E questa volta non sarebbe
bastato Austin a rimettere a posto i cocci del mio cuore.
Così vicini nel corpo, ma mai così lontani
nell'anima.
Non ci sarebbe stato un futuro per noi, nessun luccicoso happy end,
nessun bacio al tramonto sulla spiaggia e nessun matrimonio senza fine.
La nostra storia non aveva più senso, per nessuno dei due.
Per quanto lo amassi ancora, ormai era passato troppo tempo e non ero
più disposta a mettermi in gioco, non questa volta.
E, forse, era proprio perché lo amavo con tutta me stessa
che non volevo riniziare niente con lui, nemmeno un'amicizia.
Perché sapevo che, solo standogli vicina, mi sarei
innamorata di nuovo di lui e non avrei sopportato di perderlo di nuovo.
Ormai avevo perso la sua fiducia e il suo amore, cos'altro potevo fare
per riconquistarle se neanche l'idea di un figlio lo aveva fatto
rimanere al mio fianco?
In fondo, era meglio così. Era meglio amarlo da lontano, nei
miei sogni e sapere di non poterlo avere più che tenerlo
accanto a me per un solo sfuggente attimo e lasciarlo scappare il
secondo dopo, con ancora il suo profumo sulla pelle e il suo nome sulle
labbra.
How could I face the
faceless days
if I should lose you
now?
We're so close
to reaching that famous
happy end
almost believing this
was not pretend
let's go on dreaming for
we know we are
So close, so close,
and still so far. (*)
Eppure c'era ancora una parte di me, la parte guidata dal cuore, che
avrebbe buttato nel cesso tutte le certezze e sarebbe tornata da lui,
anche per quell'infinitesimo secondo così dolce e
così doloroso allo stesso tempo.
Ora che lo avevo di nuovo tra le mie braccia, come avrei potuto
lasciarlo andare di nuovo?
Quella era la domanda che il mio cervello si ripeteva, e ormai sapeva
che la risposta era solo una. Purtroppo per il mio cuore, non c'era
più spazio per quell'amore così forte nella mia
vita. Se gli avessi di nuovo permesso di intrappolarlo tra le sue spire
non me ne sarei più liberata e una volta sciolta la presa,
tutto sarebbe stato più complicato.
E poi c'era Austin. Come potevo dimenticarmi di lui?
Mentre il cantante intonava le ultime malinconiche note, non potei fare
altro che appoggiare la testa al suo petto, cedendo a quell'impulso di
sentirlo accanto a me per l'ultima volta. Avrebbe fatto male, certo, ma
in fondo un po' masochista lo ero sempre stata e in quel momento niente
era meglio che stare stretta tra le sue braccia e ricordare quei
momenti felici del nostro passato.
Perché ormai Adam non era altro che quello, il mio passato.
Sarebbe stato sempre accanto a me, nel mio cuore, nella mia mente,
nella mia anima, ma non avrebbe più fatto parte della mia
vita e, in fondo, di quello non potevo che incolpare me stessa. E non
era una punizione, era solo un dato di fatto: io avevo sbagliato e Adam
aveva perso la fiducia che aveva in me. Non glielo rimproveravo, anzi,
però non potevo non regalarmi quel piccolo tuffo nel
passato.
La musica finì e Adam si staccò da me,
regalandomi uno dei suoi sorrisi.
Eravamo così lontani, eppure così vicini!
"Posso chiederti una cosa?", mi chiese senza muoversi e senza lasciarmi
andare.
Io annuii, ancora stordita da quel ballo.
"Che... Come sta lui?", domandò incerto.
Agrottai le sopracciglia. "Lui?", ripetei, pensando al
perché mi chiedesse di Austin.
"Sì, lui. Mio... nostro... figlio", sussurrò,
quasi emozionato.
Quelle parole furono una secchiata di acqua fredda.
Suo figlio. Il nostro bambino.
Mi staccai di lui di botto, come se mi fossi scottata.
Erano passati cinque anni, cinque fottutissimi anni, e lui solo ora si
ricordava di avermi messa incinta. Certo, poi io non avevo avuto il
coraggio di dargli la brutta notizia, vista la sfuriata che mi aveva
fatto, ma avevo dato per scontato che lo avesse saputo da qualcuno. Mia
madre, Liz, Charlie... chiunque.
"Che c'è?", mi chiese poi, quasi allarmato e
sussultò quando incontrò i miei occhi pieni di
lacrime.
Non avevo saputo trattenerle. Sapevo che sarebbe arrivato quel momento,
il momento in cui sarebbe tornato non per me, ma per nostro figlio, che
per la cronaca nemmeno esisteva più, ma viverlo era stato
più difficile di come me l'ero immaginato. E, alla fine, non
potevo rimproverargli nemmeno quello.
C'era qualcos'altro, però, che gli potevo rimproverare.
"Sono passati cinque anni", sussurrai a denti stretti, raggiungendo il
bordo della pista da ballo.
"Lo so, solo che io...".
"No, non dirlo", esclamai. "Non dire che sei stato impegnato,
dannazione!".
"Cosa dovevo fare?", sbottò invece lui. "Perdonarti?",
sputò poi, raggelando il suo sguardo.
Scossi la testa con forza, cercando di fermare le lacrime prima che
facessero un disastro con il trucco. "Venire a cercarlo. Almeno lui",
sussurrai.
"Non è stato facile", ribatté.
"Oh, certo, perché per me è stata una
passeggiata", ironizzai stringendo i pugni e rinunciando ad asciugarmi
le guance bagnate. Con la coda dell'occhio vidi Austin avvicinarsi
preoccupato, ma lo ignorai, tornando ad Adam, che mi fissava a
metà tra lo scoinvolto e l'arrabbiato. "Io sono rimasta
incinta a vent'anni, Adam", esclamai poi. "Io sono rimasta sola a
pagare per i miei sbagli. Solo io c'ero quando ho perso il tuo
maledetto bambino e tu non ti sei nemmeno preoccupato di sapere se
fosse nato", urlai, ormai senza più fiato.
"Che... cos'hai detto?", balbettò, facendo un passo incerto
verso di me.
"Che ho perso il bambino, Adam", dissi, cercando di essere
più gelida possibile.
"E non hai pensato di dirmelo?", sbottò stringendo i pugni.
"Non volevi nemmeno vedermi", gli ricordai con una risatina nervosa.
"Ma...".
"No, Adam, basta così. Ormai è tutto finito",
sussurrai, abbassando lo sguardo.
Poi mi voltai e lo lasciai lì, a bocca aperta e con una mano
alzata.
Scoppiai in singhiozzi appena Austin mi fermò per un polso e
mi strinse a se, con forza, trascinandomi fuori dalla sala.
Non sapevo esattamente perché stavo piangendo, forse
perché era tutto davvero finito o forse perché
Adam mi aveva ferita con le sue parole.
Ma non mi importava nemmeno, non in quel momento.
Mi lascia stringere da Austin per tutta la sera fino a quando non finii
le lacrime e anche dopo.
Avevo sbagliato di nuovo. Avevo allontanato Adam e probabilmente presto
avrei perso anche Austin.
Forse era la mia maledizione, quella di uccidere tutte le migliori
relazioni della mia vita.
E, in fondo, perché sforzarsi di combattere, quando il tuo
destino è già segnato?
(*) So close, John McLaughlin. Dal film "Come d'incanto". -->https://www.youtube.com/watch?v=JXh1KxI4uls
vestito Amanda -->http://www.polyvore.com/amandas_ball_dres/set?id=93262793
Salve
genteee!
Con un po' di ritardo, ma
finalmente riesco a pubblicare. A questo proposito, sempre che non ci
siano imprevisti, ho deciso che pubblicherò settimanalmente
ogni sabato, domenica se c'è qualche disguido.
Bene... cosa ne
pensate del capitolo? Vi sareste mai aspettate un finale simile? Beh,
sinceramente nemmeno io, visto che nella mia mente era diverso, ma
ormai ho capito che quello che penso non sarà mai quello che
scrivo, quindi spero abbiate apprezzato questa "improvvisata".
La comparsa di
Adam era prevedibile, lo so, ma è il dialogo finale quello
che conta. Perché Adam non si è mai fatto vivo in
questi anni? E perché Amanda non gli ha detto di aver perso
il bambino? E come reagirà Austin a tutto questo?
Beh, visto che
ormai sono entrata in modalità "presentatore televisivo", vi
saluto con un "Lo scoprirete nella prossima puntata" e un piccolo
spoiler del capitolo 5.
Baci
mikchan
SPOILER...
Capitolo cinque: MEMORIES
[...] "Ciao", mi salutò, abbozzando un sorriso mentre si
sfilava il cappotto.
"Io... tu... cosa ci fai qui?", balbettai sorpresa, ancora con la mano
sollevata sopra il tavolo.
"Non si saluta più?" [...]
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Capitolo 5 *** Memories ***
5- MEMORIES
"Ehi, Amanda, ricordati che dopo pranzo c'è la conferenza
sul risparmio energetico. Ti aspetto nell'atrio per le due".
Annuii a Claire, mentre spegnevo lo schermo del pc e raccattavo la
borsa e il cappotto. Claire era una delle giornaliste più
esperte della redazione, francese in ogni suo aspetto, dai vestiti
sempre curati alla erre rotolante e moscia con cui si presentava. Era
una bella donna, alta e biondissima, ma sempre gentile e cordiale con
tutti ed era stata la prima ad accorgersi di me e a portarmi in giro,
in qualunque conferenza o intervista, per fare esperienza. Quella
conferenza sul risparmio energetico, ad esempio, era stata una mia idea
e Claire ne era stata entusiasta, proponendomi di scriverne un
articolo, solo una prova, ovviamente. Ed era per quello che ero
così esaltata, quella mattina di metà gennaio. Il
mio primo vero articolo! Anche se sapevo bene che non sarebbe mai stato
pubblicato, ma era comunque un'opportunità per farmi
conoscere e per far capire a qualcuno che anch'io avevo un briciolo di
talento, e volevo sfruttarlo al massimo.
Salutai Jamie con la mano e mi fiondai in ascensore. Avevo poco tempo
per pranzare e tornare in redazione per prepararmi mentalmente alla
conferenza, per quello sarei andata al bar lì vicino e avrei
preso qualcosa di veloce.
Con la faccia ficcata nella sciarpa di lana, uscii dalla redazione e
subito notai l'appariscente macchina posteggiata proprio davanti
all'ingresso. Non mi intendevo di automobili, ma solo dalla vernice
nera lucida e dalla forma sinuosa ed elegante potevo scommettere che
quell'aggeggio valeva più di tutte le case che avrei mai
potuto permettermi in vita mia.
Scossi la testa davanti a quella ricchezza così ostentata e
attraversai la strada, entrando con un sospiro di solievo nel bar caldo
e accogliente. Salutai velocemente Mara, la giovane donna alla cassa e
mi sedetti al mio solito tavolino, sfilandomi il cappotto mentre un
cameriere mi portava un cestino con il pane e una bottiglia d'acqua con
un bicchiere. "Prendo il menù quattro", dissi a quest'ultimo
prima che se ne andasse.
Stavo per allungare la mano e prendere un grissino quando una figura
oscurò la mia visuale e si sedette senza chiedere il
permesso.
"Ciao", mi salutò, abbozzando un sorriso mentre si sfilava
il cappotto.
"Io... tu... cosa ci fai qui?", balbettai sorpresa, ancora con la mano
sollevata sopra il tavolo.
"Non si saluta più?", scherzò, richiamando
l'attenzione del cameriere.
Sospirai. "Va bene. Ciao, Adam. Ora vuoi dirmi cosa ci fai qui?", gli
chiesi stridula, portando la mano in grembo e stringendola a pugno. Era
dalla sera della Vigilia che non ci vedevamo e non ci eravamo lasciati
certo nel migliore dei modi, per quello averlo davanti così
allegro e sorridente mi stava mettendo qualche dubbio.
"Pranzo", rispose solo. Poi si voltò verso il cameriere. "Un
hamburger con patatine, grazie", ordinò.
Alzai un sopracciglio. "Ovvio", sbottai, passandomi una mano sulla
faccia.
"Come va il lavoro?", mi chiese afferrando un grissino e
sgranocchiandolo.
"Mi sono sempre chiesta se tu fossi stupido veramente o era tutta una
facciata. Ora so che sei un cretino", dissi incrociando le braccia.
"Acida come sempre, Lupacchiotta".
Mi irrigidii a quel soprannome e lo fulminai con lo sguardo. "Non sono
più la tua Lupacchiotta da tempo", gli feci notare
gelidamente.
Adam alzò le spalle. "Io sono un cretino, tu sei una
Lupacchiotta acida".
Beh, come logica non faceva una piega, se non si considerava il fatto
che quel soprannome aveva sempre contanto molto per entrambi e
sentirglielo dire con tanta leggerezza mi faceva imbestialire.
Cosa voleva da me?
Dopo la sera alla festa avevo cercato di non pensare più a
lui, concentrandomi solo su Austin che, come sempre, mi era stato
accanto in silenzio e aveva sopportato i miei piagnistei. Le parole di
Adam mi avevano ferita e anche confusa. Perché continuava a
tornare per tormentarmi, perché non se ne andava e non mi
lasciava vivere la mia vita? Era lui che aveva voluto chiudere tutto e
ora, dopo cinque anni, che motivo aveva per volere di nuovo la mia
compagnia?
"Volevo parlarti", disse poi, quando il cameriere ci portò
le nostre ordinazioni.
"Per dirmi cosa, che non mi perdonerai mai?", sputai sprezzante,
scuotendo la testa. "Mi dispiace, ma il messaggio è arrivato
forte e chiaro anni fa, non c'è bisogno che tu...".
"No, non ho la minima intenzione di ripetertelo", mi fermò,
guardandomi con le sopracciglia corrucciate.
"Alla festa l'hai fatto, però", sibilai.
Cosa dovevo fare? Perdonarti?
Quelle parole rimbombarono nella mia testa e dovetti trattenermi per
evitare che le lacrime strabordassero dai miei occhi.
"Lascia stare la festa. Voglio solo chiarire con te. In fondo ci siamo
amati, un tempo".
Il passato della sua frase mi trafisse il cuore come una lama e mi ci
volle qualche secondo per tranquillizzare il respiro e il battito
cardiaco. "Ci siamo amati", ripetei ridacchiando isterica e scuotendo
la testa. "Io ti amo ancora, pezzo di imbecille", sussurrai, sentendomi
un'idiota per quelle parole. Non dovevo dirglielo, dovevo tenere per me
quell'amore sconfinato che provavo ancora nei suoi confronti, non
dovevo rovinare di nuovo tutto.
"Pensavo avessi un ragazzo", disse incerto, appoggiando le posate sul
piatto.
"Questo non mi impedisce di provare qualcosa per un'altro", gli feci
notare, passandomi nervosamente il palmo della mano sotto gli occhi.
"E stai con lui anche se non lo ami?", mi chiese, indurendo la mascella
e lo sguardo. Sapevo cosa stava pensando, lo leggevo nei suoi occhi, ma
questa volta non ero disposta a piangere e non reagire. "Lo amo eccome,
invece. E amo anche te. Siete due cose diverse, però".
Adam si passò una mano sugli occhi. "Non volevo che questa
discussione andasse così", sospirò.
"Puoi anche dirmelo che non provi più niente per me",
continuai invece io. "Tanto, ormai non puoi ferirmi più di
così".
Lui alzò lo sguardo di scatto e mi inchiodò con i
suoi occhi color del ghiaccio. "Non ho mai detto nulla del genere",
sibilò.
"Se sei qui per chiedermi di tornare insie...".
"Sono qui perché voglio riallacciare i rapporti con te,
Amanda. Come amici", sottolineò poi.
"Prendimi pure per un'idiota, ma come pensi che possa essere tua amica
quando l'unica cosa che voglio fare è abbracciarti talmente
stretto da non lasciarti respirare, inebriami del tuo odore per non
dimenticarmelo mai più, baciarti, fare l'amore con te o solo
semplicemente starti accanto?", chiesi ironica, sentendo le lacrime
bagnarmi le guance. "Che diritto hai di venire qui e sconvolgere tutta
la mia vita?".
Adam continuava a guardarmi fisso negli occhi senza dire una parola.
Non ero riuscita a trattenermi, avevo dovuto dirgli tutto quello che
provavo per lui e mi ero tolta un'enorme peso dal cuore. Sapevo di
avere sbagliato, di averlo messo alle strette con quelle parole, ma
negli ultimi mesi la confusione nel mio cervello era talmente profonda
che faticavo a capire cosa volessi.
Amavo Austin, ma allo stesso tempo amavo anche Adam. Quest'ultimo mi
aveva lasciata perché lo avevo tradito e ora tornava a
sbandierare la nostra amicizia. Il mio cuore era diviso tra l'accettare
quest'amicizia e continuare la mia storia con Austin, oppure buttare
via tutto e cercare di farmi amare di nuovo da Adam. Per entrambe le
scelte, c'erano infiniti pro e contro. Scegliendo la prima opzione, ad
esempio, mi sarei sicuramente innamorata di nuovo di Adam, forse
più di prima e Austin se ne sarebbe accorto, lasciandomi.
Allo stesso tempo, però, avevo la possibilità di
passare del tempo con entrambi senza doverne escluderne uno per forza.
Se avessi scelto la seconda opzione, invece, avrei perso
definitivamente Austin e non era detto che Adam accettasse di tornare
da me e, sicuramente, non mi avrebbe mai più vista con gli
occhi di prima. Però, se questo non fosse successo e Adam mi
avesse perdonata, ogni cosa sarebbe tornata come se fossimo ancora al
liceo e il nostro rapporto sarebbe stato altrettanto bello.
Cosa scegliere, ora?
A pensarci bene, qualunque scelta avessi compiuto, alla fine la mia
storia con Austin sarebbe finita se avessi deciso di avere Adam nella
mia vita, in qualunque maniera. Al contrario, se avessi lasciato il
passato al suo posto, avrei potuto vivere con Austin, magari nella
stessa casa e imparare ad amarlo come si deve.
Però ero una masochista nata e non volevo abbandonare Adam,
non ora che si era ripresentato nella mia vita. Quante
possibilità c'erano di fare rincontrare le nostre strade
dopo cinque anni? Eppure era successo e non riuscivo a fare finta che,
quando lo avevo visto da Mr Klant la prima volta, il mio cuore non
avesse gioito con me.
Insomma, era un bel casino e, detto sinceramente, non sapevo da che
parte sbattere la testa.
Alla fine, la vera scelta era una sola. Adam o non Adam? Beh, domanda
idiota, non avrei rinunciato di nuovo a lui.
Quindi la domanda di riserva era: Adam o Austin? Questa era decisamente
più austica, come questione e, per il momento, i due erano
in perfetta parità. Perché dovessi per forza
scegliere uno e scartare l'altro, poi, non riuscivo a capirlo. Potevo
restare con Austin pur rimanendo amica di Adam. Oppure potevo stare con
Adam pur rimanendo amica di Austin.
Aaah, che casino!
Come potevo scegliere tra le due persone più importanti
della mia vita?
"Ehi! Sei ancora sulla terra?".
La voce di Adam mi riscosse dai miei pensieri e annuii incerta,
fissando il mio piatto ancora pieno. "Scusa, ero...".
"A Pensierolandia", m'interruppe con un sorriso.
Alzai le spalle. "Sai com'è. Il bel giovanotto sul cavallo
bianco mi sta aiutando a fare una scelta importante", scherzai,
ricordandomi quel discorso di tanti anni prima.
Adam mi guardò scettico. "Ma il tuo ragazzo non è
geloso del bel giovanotto sul cavallo bianco?".
"No, anzi, sono amici", lo assecondai, rendendomi conto di come il mio
cuore sprizzasse di gioia a quelle conversazioni che mi riportavano
indietro a momenti più felici. "Sei stato l'unico a non aver
fatto amicizia con lui", lo ripresi con un sorriso.
"Per forza!", eslcamò. "Parlava di animali in via
d'estinzione con la mia donna. Se avesse parlato di trucchi o vestiti
sarei stato più tranquillo".
"Ma per quello c'era Liz", ribattei, oscurandomi poi al pensieri della
mia ex-migliore amica.
"Mi ha detto che avete litigato", disse Adam.
Sospirai. "È acqua passata", minimizzai.
"Sicura?".
"Anche se non lo fossi, dubito che Liz vorrebbe di nuovo avere a che
fare con me".
"Pensavi lo stesso di me, però", mi fece notare.
"E lo penso ancora".
"Se fosse così non staremmo pranzando e parlando di
giovanotti sui cavalli bianchi".
Ridacchiai. "Forse", gli concessi, concentrandomi sul mio pranzo.
"Ti senti ancora con Charlie?", gli chiesi poi.
Adam annuì, infilandosi in bocca una patatina. "Piuttosto
spesso", aggiunse.
"E...".
"E vuoi sapere se sta ancora con Liz", ipotizzo con un sorriso, capendo
dalla mia voce incerta cosa volessi realmente che mi dicesse sul suo
amico. "Sì, stanno insieme", continuò quando mi
vide annuire. "Charlie studia ancora, mentre Liz è maestra
d'asilo nel loro paese. È molto brava con i bambini...".
"Ma non sono sposati?", continuai incerta.
"No, Charlie vuole finire il dottorato in pediatria", mi
spiegò ed io annuii. "E tu?", mi chiese poi. "Ti ho vista
uscire dalla redazione qua davanti".
"Sì, mi hanno assunta qualche mese fa dopo il tirocinio",
raccontai.
Adam annuì, prendendo un morso del suo panino ancora quasi
del tutto integro, come la bistecca nel mio piatto, d'altronde. "Posso
farti una domanda?", mi chiese quando ebbe ingoiato il boccone.
Io annuii, pasticciando con la forchetta tra l'insalata. Ormai mi era
passato del tutto l'appetito e non avevo nemmeno la forza di portarmi
il cibo alle labbra.
"Cosa ci facevi allo studio di Mr Klant?".
Alzai un sopracciglio. "Non è ovvio?".
"Beh, sì, è ovvio che eri lì per
parlare con lui. Ma vorrei sapere il perché".
Mi irrigidii un attimo, incerta se rivelargli il motivo delle mie
sedute da Mr Klant -che poi non era nemmeno così difficile
da indovinare-, oppure restare sul vago, ben sapendo che in quelle
sedute si parlava per la maggior parte di lui. "È ovvio
anche questo", risposi quindi, lanciandogli un'occhiata per
sottolineare l'evidenza dei fatti.
Adam fece una smorfia. "Quindi devo dedurre che è colpa
mia".
Scossi la testa. "No, non è vero", ribattei. "Si
può dire che sei una causa, ma la colpa è solo
mia che non ho saputo affrontare i problemi da sola".
"Quindi lui sa tutto", disse abbassando lo sguardo.
"Forse anche di più", riflettei. "Ma, in fondo, sei tu che
sei uno psicologo, dovresti sapere come funziona".
Adam sospirò. "Appunto perché so come leggere tra
le parole delle persone, ho capito subito che lui mentiva quando mi ha
detto che eri un'amica di suo figlio", disse facendo una smorfia.
"Capisco la privacy, ma che male c'è nel confessare di avere
bisogno di sfogarsi con qualcuno?", borbottò poi tra se.
Io ridacchiai. Addirittura amica di suo figlio! Avrei dovuto
ringraziarlo per quella scusa, anche se effettivamente era stata
parecchio inutile, considerata la scenata imbarazzante che era venuta
fuori quando ci eravamo visti. Le cose erano ovvie anche alla vista di
un bambino, ma Mr Klant era stato veramente gentile e professionale nel
tenere nascosta la verità, o almeno a provarci. "E allora,
Mr-leggo-nella-mente-delle-persone, cosa leggi nella mia?", gli chiesi
con un tono divertito.
"Non leggo nella mente delle persone", precisò. "Non sono
mica Edward Cullen, e meno male, aggiungerei!".
"Come fai a conoscere Edward Cullen?", escamai sorpresa.
Adam fece una smorfia che mi fece sorridere. "Non hai idea di quanto
certe ragazzine siano fissate con quello pseudo vampiro",
mugugnò.
"Pensavo fosse passato di moda".
"Pensavi male", ribatté, alzando lo sguardo su di me,
sorridendo. "E non sei mai stata brava a sviare l'argomento".
"Sviare l'argomento?", ripetei confusa.
"Oh, come no! Come siamo arrivati a parlare di Edward Cullen,
altrimenti?".
"Sei tu che l'hai tirato in ballo", mi difesi.
"Il mio era solo un esempio", sbottò. "Ciò non
toglie che non mi hai ancora detto perché sei in cura da Mr
Klant".
Rimasi per un attimo a bocca aperta. Ero certa di avere chiuso quel
discorso così ostico e di essere passata a qualcosa di
più tranquillo e invece Adam aveva la solita memoria di
ferro su cose che riteneva importanti.
"Allora?", insistette.
"Non sono tenuta a dirtelo", gli feci presente incrociando le braccia
al petto. Non mi piaceva quando la gente voleva sapere a tutti i costi
cose sul mio conto e Adam lo sapeva bene. Quello che mi fregava, era
che Adam conosceva anche i modi per farmi cedere.
"Se io sono il fulcro di quelle discussioni, allora sì",
ribatté.
"Nessuno ha detto che tu lo sia".
"L'ho capito da solo. E poi tu prima hai ammeso che sono una causa,
quindi c'entro anch'io".
"Essere una causa non ti assicura un posto fisso nei miei pensieri",
sbottai.
"Devo davvero ripetere quello che mi hai detto poco fa?",
minacciò con un sorriso malefico.
Io arrossii e sospirai. "Mi ha costretto mia madre", ammisi. "Per farmi
superare la crisi dovuta all'ab... alla perdita del bambino", confessai
abbassando lo sguardo. Per me era impossibile pronunciare quella parola
serenamente perché ogni volta che ci pensavo una parte di me
si convinceva di essere responsabile di quella scomparsa. "E anche
della tua", sussurrai poi.
"Mi dispiace per il bambino", disse allungando una mano per stringere
la mia.
"No, non ti dispiace davvero, ma farò finta che sia la
verità".
Adam agrottò le sopracciglia, assottigliando le labbra e
guardandomi severo. "Era comunque mio figlio, nonostante tutto".
"Sei stato il primo a rifiutarlo", gli ricordai velenosa, spostando la
mano da sotto la sua.
"Ero un ragazzino confuso. Cosa ti aspettavi che facessi?".
"Starmi accanto, ad esempio!".
"Avevamo vent'anni, Amanda! Come credi che avremmo potuto crescerlo?".
"Potevamo darlo in adozione. Sempre che fosse nato, ovviamente".
"Non dire sciocchezze", sbottò. "Non avresti avuto la forza
di abbandonarlo".
"Con te al mio fianco sì, stupido idiota".
"E allora perché sei andata con quel tipo?".
"Perché tu te ne eri andato per primo, mollandomi con
un'inutile frase. Devo pensarci, Amanda", lo scimmiottai.
"Io ho sbagliato", ammise. "Ma non ho mai detto che avrei voluto
lasciarti. Dieci minuti dopo che ero uscito da quella casa
già volevo tornare indietro e chiederti scusa!".
"E perché non l'hai fatto?".
"Per orgoglio, credo", disse alzando le spalle e sospirando.
"Beh, io per orgoglio non ho alzato la cornetta e non ti ho riempito di
insulti, quella sera. Mi sono fatta trascinare da alcune amiche ed
è successo quello che è successo. Non do la colpa
all'alcool o a te, Adam", precisai. "Ero consenziente, per quello che
riuscivo a capire e mi sono pentita l'esatto istante in cui quel tipo
mi ha baciata di averlo lasciato fare".
Adam sospirò. "Sei andata a letto con un'altro pur sapendo
di essere incinta di mio figlio".
"Credi che non lo sappia?", sbottai. "Non hai idea di quanti complessi
mi sia fatta, dopo quel giorno. Per qualche tempo ho addirittura
creduto che perdere il bambino sia stata la punizione adatta per averti
tradito".
"Che stronzata", esclamò passandosi una mano tra i capelli.
Io scossi la testa, ma non risposi. Quella conversazione mi stava
uccidendo, mentalmente e fisicamente. Sapevo che sarebbe arrivato il
momento delle spiegazioni, ma più cercavo di dare un senso
logico a quello che era successo, meno ci riuscivo e mi sentivo sempre
peggio nei confronti di Adam, chiedendomi come avrei reagito io se lui
mi avesse tradita in quel modo. Probabilmente avrei reagito come lui,
quindi non valeva nemmeno la pena di provare a spiegare,
perché sapevo di avere sbagliato e cercare scuse significava
solo non ammettere quello che era successo. "Io devo andare al lavoro",
mormorai lanciando un'occhiata veloce all'orologio. In
realtà mancava ancora quasi un'ora all'incontro con Claire,
ma forse era meglio chiudere lì quella discussione.
Adam annuì, attirando l'attenzione del cameriere e chiedendo
il conto.
"Ognuno paga per se", sottolineai prendendo la borsa e frugando per
cercare il portafoglio.
"D'accordo", si arrese subito, sfilando il suo dalla tasca del
cappotto.
Pagammo in silenzio, ognuno per conto suo e poi uscimmo dal bar,
stretti nelle nostre giacche.
"Allora ci vediamo", mormorai con lo sguardo basso. Mi sentivo in
imbarazzo, dopo quel pranzo, eppure c'era una parte di me che mi
spingeva inesorabilmente verso di lui.
"Dammi il tuo numero di telefono", propose. "Così usciamo
una di queste sere e mi presenti il tuo ragazzo".
"Non credo sia una grande idea", borbottai, tirando però
fuori il cellulare.
"Solo per un drink, Amanda. E poi voglio conoscere l'uomo che
è riuscito a rubarti il cuore".
"Quello lo conosci già", ribattei, fissandolo eloquente.
"Ah, davvero?", esclamò, sfilandomi il telefono dalla mano e
iniziando a digitare il suo numero.
Io annuii solo, riprendendomi il telefono e capendo dal suo sguardo che
aveva compreso benissimo a chi mi riferissi.
"Mi faccio sentire, Lupacchiotta", disse con un sorriso, affondando le
mani nel cappotto e voltandosi per metà verso la strada.
"Adam!", lo fermai prima che potesse salutarmi e attraversare. Sapevo
di non doverlo dire, ma misi all'istante a tacere quella stupida voce e
mi feci coraggio. "Posso abbracciarti?", sussurrai.
Adam mi guardò per un attimo a bocca aperta, poi si sciolse
in un tenero sorriso e annuì. Non persi un secondo e mi
fiondai tra le sue braccia, allacciando le mani dietro la sua schiena e
immergendo la faccia nel suo petto. Respirai profondamente il suo
profumo e scoprii con felicità che era sempre lo stesso,
quello strano miscuglio tra menta e tabacco che mi faceva girare la
testa. Era un profumo tutto suo, speciale e magico.
"Mi sei mancata", sussurrò, stringendo la presa sulle mie
spalle.
"Non puoi nemmeno immaginare quanto".
Holaa
gente!
Avrei
dovuto postare ieri, come avevo detto, ma ho avuto alcuni problemi con
internet&co, così alla fine ho rinunciato e ho
aspettato oggi.
Ma,
tornando a noi... spero che il capitolo vi sia piaciuto. Ho voluto dare
un primo approfondimento ai sentimenti di questi due personaggi, ma
siamo solo all'inizio, perché ci sono ancora tante cose non
dette e troppe che si ha paura di dire. Amanda ha agito d'impulso,
questa volta, e ha confessato che il suo amore non è mai
scemato... ma Adam? Cosa vuole davvero da Amanda? Solo essere amici o
anche per lui è rimasto qualcosa nel profondo? E cosa ne
uscirà dall'incontro di Austin ed Adam?
Fate
sentire la vostra voce, soprattutto perché mi sento
un'idiota a parlare come un presentatore televisivo! Intanto ringrazio
di cuore tutti quelli che leggono e che seguono questa storia.
AVVISO: mercoldì
parto per l'Inghilterra e sto via una settimana, quindi salta
l'appuntamento per sabato. Non credo di riuscire a pubblicare prima
perché sono rimasta stra indietro con lo studio e anche con
i capitoli. Per questo vi lascio uno spoiler del prossimo
capitolo, dove si scopriranno altri altarini e, forse, la piega che
prenderà questa storia!
A
presto
mikchan
SPOILER...
Capitolo sei: TRUTH AND DOUBTS
[...] "Vi ho visti", disse invece Austin, facendomi bloccare nel bel
mezzo del corridoio. Gli davo le spalle, ma lo sentii alzarsi dal
divano. "Davanti a quel bar", sottolineò poi, come se non
fosse già abbastanza evidente quello di cui stava parlando.
Merda! [...]
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Capitolo 6 *** Truth and Love Films ***
6-TRUTH AND LOVE
FILMS
La prima cosa che feci, quando entrai in casa quella sera, fu tirare un
grosso respiro di solievo. Era stata una giornata pesantissima, tra il
pranzo con Adam e quella conferenza della quale non ero riuscita ad
ascoltare che mezza frase, troppo impegnata a ripensare a
quell'abbraccio così caldo e dolce. Fortunatamente avevo con
me il registratore e, dopo una cena veloce, mi sarei messa a scrivere
la bozza per l'articolo.
Almeno, quelli erano i miei piani per la serata, che però
sfumarono in un attimo quando accesi la luce e notai una presenza sul
divano.
"Porca...", esclamai, trattenendomi all'ultimo per evitare una
parolaccia. "Che ci fai tu qui?", chiesi poi ad Austin che, serio come
mai lo avevo visto, non si mosse dal divano e rimase a fissarmi.
"Accidenti a te", borbottai sfilandomi il cappotto e appoggiando la
borsa sul tavolo del soggiorno. "Stavo proprio per chiamarti io. Potevi
almeno avvisarmi che eri qui", mi lamentai, mentre mettevo in carica il
telefono e tiravo fuori dalla borsa il registratore con il block-notes.
"Hai già cenato?", gli chiesi poi, voltandomi finalmente
verso di lui.
Austin alzò un sopracciglio. "No", rispose solo.
"Però prima voglio parlarti".
Sbadigliai e annuii, non accorgendomi del suo tono tagliente e duro.
"Mi preparo qualcosa e ti raggiungo, sto morendo di fame".
"Vi ho visti", disse invece Austin, facendomi bloccare nel bel mezzo
del corridoio. Gli davo le spalle, ma lo sentii alzarsi dal divano.
"Davanti a quel bar", sottolineò poi, come se non fosse
già abbastanza evidente quello di cui stava parlando.
Merda!
Non doveva andare così. Dovevo arrivare a casa, quella sera,
chiamare Austin e invitarlo a pranzo il giorno dopo. Lì, gli
avrei detto di aver incontrato Adam e di avere parlato con lui. Con
calma e tranquillità gli avrei svelato tutto e Austin non
avrebbe avuto niente da ridire, perché era stato solo un
semplice pranzo tra amici. La parte dell'abbraccio, ovviamente, era
esclusa ed era proprio quella di cui Austin non doveva venire a sapere.
Non tanto perché non si fidasse di me, ma perché
era al corrente dei miei sentimenti per Adam e, giustamente, temeva che
presto avrei potuto lasciarlo per lui.
Invece Austin aveva visto e probabilmente male interpretato
perché, alla fine, era stato solo un abbraccio. Okay,
probabilmente aveva poco di un abbraccio tra amici, ma la questione si
era chiusa lì, almeno in apparenza. Perché la
confusione nella mia testa non era scomparsa e sapere che Austin
probabilmente si era fatto un'idea sbagliata di tutto mi metteva solo
più ansia.
Sospirai. "Appunto per questo volevo chiamarti", cercai di spiegare
lentamente. Non volevo litigare, ma temevo proprio che quella sera non
sarebbe stata a mio favore.
"E quando pensavi di farlo? Tra un mese, per dirmi che mi avresti
mollato per lui?", esplose, stringendo i pugni lungo i fianchi. Era la
prima volta che lo vedevo così furioso e un po' mi
intimoriva, perché non sapevo come gestirlo. Ma sapevo che
Austin non mi avrebbe mai fatto del male, così lo presi per
un braccio e lo feci sedere sul divano, accanto a me.
"Questa sera", risposi calma. "Ho avuto una conferenza, questo
pomeriggio, e non ho avuto il tempo di farlo. Ma sai bene che non sarei
mai stata così meschina da tenerti tutto nascosto, non
sapendo com'è finita la tua ultima relazione".
"Non ne sono più così sicuro",
borbottò lui, passandosi una mano sul volto.
"È stato solo un pranzo, Austin", gli spiegai. "Avevamo
bisogno di chiarire tante cose che avevamo lasciato in sospeso".
"Come il bambino?".
Sussultai a quelle parole e lo guardai a occhi sgranati. Non gli avevo
mai detto di essere rimasta incinta e di avere avuto un aborto
spontaneo e nemmeno lui aveva mai insistito per conoscere particolari
della mia vita passata. "Come fai a saperlo?", sussurrai.
Austin scrollò le spalle. "La sera della Vigilia, vi ho
sentiti", spiegò.
"Dio!", esclamai, prendendomi la testa tra le mani. La questione stava
prendendo una piega che non mi piaceva e non riuscivo pù a
gestirla. Parlargli di Adam era una cosa, se rimanevo con la testa nel
presente, ma tornare a rivangare il passato era una prerogativa che
aveva solo Mr Klant.
"Capisco perché tu non me lo abbia mai detto", disse Austin,
prendendomi una mano e stringendomela. Rimasi a fissarlo, attonita,
mentre mi regalava un piccolo sorriso. "Neanch'io ti ho mai raccontato
tutto di Sophia". Sophia era la sua quasi-ex-moglie, la stronza che
l'aveva abbandonato all'altare.
Sospirai. In poche frasi, gli spiegai tutto. Del tradimento, del
bambino, dell'aborto. Ogni cosa, finalmente, era allo scoperto e quando
finii di parlare abbassai la testa e chiusi gli occhi, aspettando una
reazione schifata di Austin, che, saputo cosa avevo fatto, mi avrebbe
insultata e poi se ne sarebbe andato. Invece, contro ogni mia
aspettativa, mi strinse un braccio intorno alle spalle. "Siamo stati
davvero sfortunati", commentò con un risolino. Poi mi
alzò il mento con due dita e aspettò che aprissi
le palpebre, sorridendomi. "Il passato non deve per forza influenzare
il presente, Amanda. Tu hai sbagliato, lo ammetto e l'hai ammesso anche
tu stessa, ma continuare ad autoflagellarti per quello è da
stupidi. Anch'io ho fatto i miei errori, sai? Non avrei mai dovuto
sposare Sophia, pur sapendo che mi aveva sempre fatto le corna con
chiunque, ma dovevo fare contenti i miei, così mi sono
sacrificato".
"È diverso", gemetti sconsolata. "Io l'ho tradito pur
sapendo di aspettare suo figlio", ripetei.
"E, da quello che mi hai raccontato, lui si è pentito di
aver reagito così male. Se ti ha perdonata lui, dovresti
pensare di farlo anche tu con te stessa", disse sicuro. Lo fissai
incredula: Austin mi stava davvero consolando e stava davvero
appoggiando Adam allo stesso tempo, o era tutto un sogno?
Perché quel ragazzo doveva sempre essere così
perfetto, gentile, educato e carino con tutti? Perché,
soprattutto, lo era con me dopo le cose che gli avevo detto, dopo
avermi vista abbracciare un altro?
"Perché non mi insulti?", gli chiesi quindi, tirando su con
il naso. "In fondo, hai capito bene cosa sta succedendo".
Austin ridacchiò. "Perché dovrei? Non
è sbagliato amare".
"Ma è sbagliato amare due persone contemporaneamente".
"Ascoltami", sospirò, guardandomi negli occhi. "Non ti
rimprovero di amarlo, Amanda. Capisco cosa provi per lui, ci sono
passato anch'io".
"Cosa significa?", gli chiesi, un po' curiosa.
Lui si strinse nelle spalle. "Diciamo che a volte avere genitori che
hanno aspettative così alte verso di te non ti aiuta a
creare una vera relazione", disse evasivo.
"Sophia?", insistetti.
"No, si chiamava Marie. Era francese ma si era trasferita nel mio paese
quand'era piccola. Era la ragazza più bella di tutto il
liceo, sempre così gentile e carina con tutti che presto me
ne innamorai", spiegò, piegando le labbra in un sorriso
amaro. Chissà perché, mi immaginai in anticipo il
finale di quella storia. "Ma non era ricca e viveva solo con la madre",
continuò. "Così i miei genitori mi costrinsero a
lasciarla. Io ero ancora un ragazzino, con te è stato
diverso perché ora sono più indipendente, ma
soffrii tantissimo per quella separazione, ancor di più
quando mi presentarono Sophia. Sapevo cosa si aspettassero che facessi,
e lo feci, senza protestare, perché avevo paura delle
ripercussioni che un mio rifiuto avrebbe portato alla famiglia di
Marie. Per questo ti capisco, Amanda. Se non fosse stato per i miei
genitori, non ci saremmo lasciati così e, in fondo, so di
amarla ancora, come tutti amano la loro prima cotta".
"Adam non è stata solo la mia prima cotta", sussurrai. "E mi
dispiace un casino, per Marie". Ero rimasta davvero sorpresa da quella
storia: avevo sempre creduto che Austin avesse amato Sophia e invece
c'era stata un'altra donna nel suo passato, una donna che aveva amato e
che era stato costretto a lasciare.
Austin scosse la testa, sorridendo. "Non preoccuparti. Il punto,
però, è che se Marie ricomparisse nella mia vita
all'improvviso, inizierei anch'io ad avere dei dubbi su tutto e
probabilmente, alla fine tornerei da lei", mi confessò.
"Io non so cosa fare", ammisi mordendomi le labbra.
"Fai scegliere al tuo cuore, piccola", sussurrò al mio
orecchio, stringendomi di più a se.
Ridacchiai, appoggiandomi con la schiena al suo petto. "Se almeno lui
sapesse cosa vuole".
"Beh, almeno sappi che io non ti biasimerò se mi lascerai
per lui".
"Ma io non voglio lasciarti, ti voglio troppo bene", mugolai, prendendo
una sua mano e portandomela alle labbra.
"Lo so, anch'io ti amo tantissimo".
"E allora come fai a lasciarmi andare così?".
Austin mi posò un bacio sui capelli. "È proprio
perché ti amo che sono costretto a seguire la tua
felicità. Ed è proprio perché capisco
quello che provi che voglio comunque starti accanto".
"Oddio, come puoi ad essere sempre così buono?", mormorai
girandomi tra la sue braccia e affondando il volto nel suo petto.
Austin mi strinse per le spalle. "Non sono buono, Amanda.
C'è una parte di me che vorrebbe urlarti contro e chiederti
in ginocchio di non lasciarmi. C'è un'altra parte,
però, che mi dice di lasciarti libera per permetterti di
essere veramente felice. Perché lo leggo nei tuoi occhi,
piccola, che quando parli di lui è tutta un'altra cosa".
"Mi dispiace, Austin".
"Adesso non pensiamoci, va bene? Decidi con calma, anche se sappiamo
entrambi chi sceglierai. Ma io non ti porterò rancore, mai.
Perché ti voglio troppo bene per allontanarti
definitivamente dalla mia vita e se non posso averti accanto come
fidanzata, vorrei almeno essere tuo amico".
"Che richiesta stupida", sbottai con un sorriso. "Sarai sempre nel mio
cuore, Austin, ricordatelo. E poi non è detto che io scelga
Adam, sai?".
"Non mentire a te stessa", mi riprese bonariamente. "Però ho
un'altra richiesta", disse dopo qualche secondo di silenzio.
Mi spostai dal suo corpo per permettergli di guardarmi negli occhi,
rimanendo comunque stretta nel suo abbraccio. "Dimmi".
"Posso incontrarlo?", chiese dopo un attimo di esitazione.
Alzai un sopracciglio. "Anche lui mi ha chiesto la stessa cosa",
ammisi.
"Bene, perchè devo fargli un discorsetto",
borbottò sorridendo soddisfatto.
"Non vorrai minacciarlo!", esclamai spaventata e non sapevo bene per
chi.
Austin rise. "Forse, ma non per mandarlo via", disse evasivo.
Sospirai, di nuovo. "A volte vorrei che Adam se ne fosse stato dov'era,
in modo da non incasinarmi la vita", mugugnai.
"Pensaci, piccola. Anche se non lo avresti ma più rivisto in
vita tua, lo avresti mai dimenticato?".
Scrollai le spalle. "Forse, con il tempo. Magari non l'avrei
dimenticato, ma non l'avrei più amato come ora", ammisi.
Austin mi strinse una mano, appoggiandola sul suo ginocchio. "Forse",
ripeté. "Eppure è successo. Non puoi aspettare
che vada sempre tutto nel verso giusto. E magari il tuo destino
è stare con lui".
"E tu?".
Lui ridacchiò. "Beh, io sono stato quello che ti ha portata
sana e salva da lui. Ho avuto una parte importante anch'io, non ti
pare?".
Gli diedi una piccola spinta con la spalla. "Non essere stupido",
dissi. "Tu sei molto di più di... qualcosa di passaggio".
"Non ho detto questo", mi riprese. "E non ti libererai di me tanto
presto".
"Lo so", borbottai. "Però detta così sembra che
ti ho... usato".
"Sciocchezze! Togliti dalla testa certe idee, piccola".
Mi accoccolai di nuovo al suo petto. "Non voglio lasciarti", mormorai.
"Ehi, nessuno ha detto che tu mi debba lasciare qui su due piedi!
Vediamo come vanno le cose e poi ci pensiamo. Non iniziare a fasciarti
la testa ora che non hai nemmeno iniziato".
"Non riesco a non pensarci", ammisi.
"Beh, per iniziare, stasera ti va di cenare con me?".
"È tardi per uscire e sinceramente non ho voglia di vestirmi
decentemente", mugugnai guardandolo mentre si alzava dal divano.
"E chi ha parlato di uscire?", esclamò con un sorriso.
"Pizza e film?".
Lo guardai per un attimo, incerta. Poi sospirai e annuii. "Vada per la
pizza e per il film. Però oggi lo scelgo io".
Austin ridacchiò. "Vado ad chiamare. Intanto mettiti pure il
pigiamone con i coniglietti e scegli un film che io arrivo".
Alzai un sopracciglio. "Non ho nessun pigiamone con i coniglietti",
mugugnai imbarazzata.
"Come no!", esclamò dal'altra stanza. "Però, se
preferisci, a me piaceva anche il completino azzurro con la sottoveste
abbinata. Sempre che sia ancora intera", disse malizioso.
Borbottai qualcosa, sentendo Ausin parlare con la pizzeria. Mi diressi
in camera per cercare il pigiamone con i coniglietti e, appena aperta
la porta, quasi inciampai in Wulfie che si era piazzato proprio davanti
all'ingresso per dormire, bellamente straiato sulla giacca che avevo
lasciato a terra quella mattina. "Piccolo birbante", ridacchiai,
iniziando a scavare nell'armadio. Trovai subito il pigiamone, ma per
caso m'imbattei anche nel completino azzurro. Lo guardai un'attimo e
poi decisi di optare per il primo per due semplici motivi: era
metà gennaio e faceva un freddo cane e, secondo, avevo il
ciclo, che mi impossibilitava di indossare un perizoma striminzito
senza insanguinare la casa.
Mi cambiai in fretta e pescai dall'armadio una tuta di Austin che aveva
lasciato a casa mia in caso di bisogno. Lo raggiunsi subito in
soggiorno e lo trovai intento a spulciare la mia collezione di DVD,
alquanto esigua, dovevo ammettere.
"In realtà pensavo a qualche film sul digitale", dissi con
un sorriso.
Austin si voltò di scatto e si alzò in piedi.
"Pensavo ti andasse di rivedere questo", mormorò roco,
sventolando una custodia davanti al mio volto.
Arrossi un attimo e allungai la mano con la sua tuta. "Devo davvero
ricordati che tutte le volte che guardiamo 'Ultimo tango a Parigi'
finiamo a rotolarci sul pavimento?".
Austin rise. "No, no, tranquilla. Me lo ricordo eccome!".
Sbuffai, sfilandogli il DVD dalle mani. "Mi dispiace, piccolo
pervertito, ma oggi sono inagibile, quindi cambiamo film".
Lui sgranò gli occhi sorpreso, poi sospirò,
lasciandosi cadere a peso morto sul divano. "Penso che a questo punto
nemmeno se vedessimo La Pimpa mi si smonterebbe la tenda là
in basso", mugugnò, passandosi una mano sul volto.
Lanciai un'occhiata al cavallo dei suoi pantaloni, visibilmente gonfio,
e poi risi. "Vai a farti una doccia, prima che arrivino le pizze",
eslamai lanciandogli la tuta. "Intanto io scelgo qualcosa di decente da
vedere".
Austin mugugnò qualcosa, afferrando i vestiti con una mano e
dirigendosi in bagno. Poco dopo, sentii il rumore dell'acqua scrosciare
e sospirai, sedendomi per terra davanti al televisore. Austin non aveva
idea di quanta voglia avessi di fare l'amore con lui e punzecchiarmi
con film di quel genere era l'ultima cosa che doveva fare se non voleva
che lo violentassi seriamente. E, diversamente da come verrebbe da
pensare, non lo volevo solo per dimenticare Adam, ma semplicemente
perché amavo Austin e questo amore mi portava anche a
desiderarlo. Non era facile da spiegare nemmeno a me stessa, quella
sensazione che mi assaliva quando c'era lui al mio fianco che, a ben
pensarci, era la stessa che mi faceva chiudere lo stomaco quando Adam
mi sfiorava o mi guardava negli occhi. Era amore, non c'erano dubbi su
questo. Eppure non mi sentivo in colpa per desiderare entrambi, anche
se non era una cosa proprio normale.
Sbuffai, rimettendo a posto il DVD che avevo ancora in mano e presi il
telecomando, incominciando a spulciare i canali alla ricerca di qualche
bel film con l'intento di cancellare dalla mia mente quei pensieri che,
a lungo andare, sarebbero diventati solo deleteri: sapevo, infatti, che
se ci avessi rimuginato troppo avrei incominciato ad additarmi con una
sgualdrina e, a quel punto, sarebbe stato complicato convincermi del
contrario. Sbuffai di nuovo, cambiando canale per l'ennesima volta.
Drammatico, Drammatico, Thriller, Drammatico, Drammatico, Horror,
Drammatico.
"Eh, accidenti", sbottai. Sapevo che la scelta non sarebbe stata ampia,
ma addirittura così drastica non me la sarei mai aspettata.
Avevo escluso Thriller e Horror a priori, li odiavo proprio, a
prescindere dalla trama o qualunque altra cosa. Guardare un film
Drammatico, dopo quello che era successo, era una brutta idea,
bruttissima, a dire il vero. Avrei pensato solo a quello che stava
succedendo e non avrei prestato la minima attenzione alla storia. E
questo era assolutamente sconsigliabile visto che il mio scopo era
proprio quello di distrarmi.
Continuai a spulciare tra i canali, trovando interessanti solo un
documentario sugli animali e un gioco televisivo, tra l'altro quasi
alla fine. Quando Austin uscì dalla doccia avevo il fumo
alle orecchie tanto ero nervosa e stavo maciullando i tasti del
telecomando. "Trovato nulla?", mi chiese con un sorriso, infilandosi
una maglietta.
Sbuffai, lasciando cadere il telecomando a terra. "Nada", ammisi.
In quel momento il campanello suonò e andai ad aprire,
vedendo con la coda dell'occhio Austin dirigersi in cucina e sentendo
il rumore dei bicchieri. Pagai il fattorino in fretta e rientrai in
casa al caldo.
"Mangiamo sul divano?", mi chiese Austin, comparendo sulla soglia della
cucina con due calici e una bottiglia di vino rosso che aveva trovato
nel mio frigo.
Scrollai le spalle. Vino e pizza, un'accoppiata davvero vincente.
Ci sedemmo sul divano e iniziammo a mangiare direttamente dai cartoni,
assaporando le nostre pizze ancora bollenti.
"Allora, cosa guardiamo?", domandò Austin dopo aver finito
in due bocconi la sua fetta di pizza, quando io ne avevo morsicata
nemmeno un terzo.
"Non c'è nulla di interessante", borbottai, allungandomi ad
afferrare il telecomando e passandoglielo.
"Ora guardo io".
"Non è che se prendi in mano tu il telecomando i film in
progamma cambiano, eh!", gli feci notare stizzita.
Austin ridacchiò, morsicando un'altro grosso pezzo di pizza.
"Ma io sono magico".
"Sì, bididi-bodidi-bu!", esclamai, facendo il segno
dell'eplosione con le mani.
"Oh, guarda!", disse invece lui, indicando lo schermo con un sorriso.
"C'è proprio Cenerentola".
Mi voltai sorpresa e, effettivamente, stavano trasmettendo le prime
scene del cartone della Disney. "Non vorrai mica vederlo?", sbottai,
rosicchiando la crosta nervosamente. Quello era un accidenti di cartone
Disney, il che significava tanto amore dappertutto. Fantastico.
Austin alzò le spalle. "Non c'è nulla di meglio",
si giustificò, lasciando cadere il telecomando accanto a lui
e dedicando tutta la sua attenzione alla pizza e al cartone animato.
Io sbuffai, prendendo un'atra fetta dal mio cartone. Come situazione
era effettivamente ridicola, se si pensava che meno di mezz'ora prima
voleva guardare 'Ultimo tango a Parigi', però forse era
meglio così. Tra un film erotico e uno a cartone animato era
decisamente migliore il secondo, vista la situazione. Una rilassante
serata con pizza, vino e Cenerentola. Cosa si poteva chiedere di
meglio?
Nonostante il mio rifiuto iniziale, presto mi lasciai prendere dalla
storia e, finita la pizza, mi accoccolai accanto ad Austin, che mi
strinse le spalle con un braccio.
"Mi sono sempre chiesta come quella ragazza abbia fatto a camminare con
delle scarpe di cristallo senza romperle", sussurrai tra me, mentre il
paggio entrava in casa di Cenerentola e le sorellastre facevano a gara
per provare quella benedetta scarpetta.
Austin scoppiò a ridere. "È effettivamente un po'
impossibile", ammise sbadigliando.
"Però alla fine è stata fortunata, Cenerentola",
sussurrai dopo qualche minuto di silenzio.
Aspettai un attimo la risposta di Austin, ma, quando mi voltai per
guardarlo negli occhi, lo trovai profondamente addormentato, con la
testa inclinata sul cucino e una mano ancora attorno alla mia spalla.
Non potei fare a meno di sorridere nel vederlo così
innocente e tranquillo, così sciolsi piano il suo abbraccio
e mi alzai dal divano. Andai subito a prendere una coperta
dall'armadio, non mi andava di svegliarlo, ma non avevo nemmeno le
forze di trascinarlo in camera.
Mentre tornavo in soggiorno, però, la mia attenzione fu
catturata dal telefono che avevo messo in carica e che avevo
dimenticato lì tutta la sera.
Mi balenò subito in testa un pensiero e, mordendomi un
labbro incerta, coprii velocemente Austin e staccai il cellulare dalla
presa, rigirandomelo un attimo tra le mani.
Austin ed Adam si volevano incontrare. In quel momento non sapevo dire
se era un bene o un male, forse ero felice che gli uomini
più importanti della mia vita volessero conoscersi, ma allo
stesso tempo ne ero un po' spaventata. Sospirando, mi sedetti sul
divano accanto ad Austin, che intanto aveva iniziato a respirare
profondamente, segno che ormai era definitivamente nel mondo dei sogni.
Alla fine, dopo dieci minuti passati a fissare lo schermo buio del
telefono, mi decisi e mandai un veloce messaggio ad Adam.
"Va bene, dimmi quando ci
vediamo". Poche parole, ma ero certa che avrebbe capito.
Infatti mi rispose quasi subito. "Sabato
sera", scrisse solo.
Sospirando, riposi il telefono sul tavolo e mi accoccolai di
fianco ad Austin. Mancavano pochi giorni a sabato e dovevo prepararmi
mentalmente a quell'incontro. Quindi mi alzai, presi il DVD dalla
custodia, lo infilai nel lettore e mi rimise nella posizione di prima,
facendo partire il film.
Certo, 'Ultimo tango a Parigi' non era proprio un film d'amore, ma per
il momento andava bene così.
Salve salvino people!
Lo so, ho pubblicato
ieri e avevo detto che non sarei riuscita a postare un altro capitolo
prima di partire, ma ho avuto un lampo di genio e ho scritto un intero
capitolo in un'ora, arrivando a quota dieci di quelli già
pronti. Per questo motivo mi sono detta "facciamo una sorpresa ai miei
lettori", ed eccomi qua!
Allora... un capitolo
pieno di rivelazioni, un po' sulla linea di quello precedente che, come
avrete capito, è cronologicamente legato a questo, essendo
ambientato solo poche ore prima. Finalmente un po' di chiarezza tra
questi due piccioncini, che scoprono le carte in tavola e si raccontano
qualcosa su di loro. Entrambi hanno sofferto, chi prima e chi dopo, chi
di più e chi di meno, ma alla fine si ritorna sempre al
punto di partenza: l'amore.
Insomma, non
sarà facile affrontare quello che verrà, ma
l'amore riuscirà a trionfare... in qualche modo.
A presto (si spera)
mikchan
SPOILER...
capitolo sette: FEELINGS
[...] "Sono contento che tu sia venuta", mi urlò
nell'orecchio, avvicinandosi per abbracciarmi.
Ricambiai e poi mi voltai verso il mio ragazzo. "Adam, questo
è Austin. Austin, questo è Adam".
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Capitolo 7 *** Feelings ***
7- FEELINGS
Guardai lo schermo perplessa, rileggendo per la ventesima volta il
paragrafo di un articolo che dovevo correggere e che non mi convinceva
affatto. Malgrado lo sapessi ormai a memoria, ancora non riuscivo a
capire cosa non andasse.
Sbuffando misi un appunto di fianco e aprii la casella mail per
chiedere spiegazioni all'autore di quel pezzo. Non feci in tempo a
cliccare sul tasto 'invia' che un bip mi fece accorgere di quella che
era appena arrivata. La aprii subito: era di Claire, che mi chiedeva di
raggiungerla alla sua scrivania perché doveva parlarmi
urgentemente. Il mio pensiero andò subito all'articolo che
le avevo consegnato qualche giorno prima e per un attimo temetti di
aver commesso qualche errore. In ogni caso mi affrettai ad inviare la
mail precedente e a spegnere lo schermo del computer, per poi avviarmi
verso la postazione di Claire. La trovai intenta a scrivere qualcosa e
si accorse di me solo quando mi schiarii la voce, sorridendomi gentile.
"Ho una notizia da darti", mi annunciò, accavallando le
lunghe gambe. Il cuore mi batteva all'impazzata, non sapevo davvero
cosa aspettarmi. "Ho fatto vedere a Brown l'articolo che ti avevo
chiesto e ne è rimasto molto sorpreso, come me d'altronde.
Per questo abbiamo deciso di affidarti il tuo primo vero pezzo.
Frena!", mi fermò quando vide il sorriso comparire sul mio
volto. "Non ti aspettare che vada subito il prima pagina o che riporti
subito il tuo nome. Però sarà una grande prova e
sono certa che la supererai alla grande. Allora?".
Io annuii, ancora a bocca aperta e sconcertata per quella notizia. Il
mio primo vero articolo. Qualcosa scritto da me sarebbe finito su un
giornale e della gente lo avrebbe letto! Non m'importava se sarebbe
stato uno stupido pezzo inutile in ultima pagina: stavo realizzando il
mio sogno, quello era ciò che contava.
Claire sorrise. "Perfetto. Ti faccio avere tutto via mail", mi
congedò, tornando al suo lavoro.
Ancora con il cuore che batteva a mille per quella novità
strepitosa, tornai alla mia scrivania con passo incerto. La prima cosa
che feci, fu sedermi e prendere un respiro profondo, poi afferrai il
telefono e mandai un veloce messagio ad Austin.
"Chiamami appena puoi.
Devo dirti una cosa importante".
Schacchiai il tasto d'invio con il dito tremante, senza riuscire a
cancellare quel sorriso idiota che mi era comparso alle parole di
Claire e non voleva più lasciarmi. Jamie, dalla scrivania
accanto alla mia, mi aveva lanciato uno sguardo interrogativo e le
avevo fatto capire che le avrei raccontato tutto una volta uscite.
Neanche due minuti dopo che avevo mandato il messaggio, il cellulare
iniziò a vibrare e accettai la chiamata senza nemmeno
guardare il mittente. "Austin!", esclamai.
"Ehm... sono Adam",
rispose la voce dall'altro capo della cornetta e rimasi per un secondo
immobile, con il sorriso congelato. Cosa voleva ora?
"Ciao", lo salutai incerta. "Avevi bisogno?".
"Volevo chiederti se
domani sera eri libera. Potevamo trovarci all'Holliwood Night per bere
qulcosa", mi spiegò.
"Devo chiedere ad Austin, ma penso vada bene", tentennai, mordendomi un
labbro. Sapevo che entrambi volevano incontrare l'altro, ma
sinceramente ero spaventata da quello che potevano dirsi o fare. Quindi
sospirai. "Ti mando un messaggio più tardi".
"Perfetto, Lupacchiotta!",
esclamò lui con quel suo tono allegro che, da quel poco che
avevo capito, non lo aveva per niente abbandonato.
Mi irrigidii a quelle parole. "Posso chiederti un favore?", sussurrai.
"Evita di chiamarmi così, Adam. Non ce la faccio".
Adam rimase in silenzio per qualche secondo, poi lo sentii sospirare. "Posso farti io una domanda?",
rispose.
Mugugnai un "Sì" e mi passai una mano sulla faccia,
trattenendo un attimo il respiro.
"In realtà
è dalla festa di Natale che me lo chiedo, però
poi mi è sempre passato di mente", disse e
sentii un pizzico di indecisione nella sua voce.
"Taglia corto, Adam", lo spronai.
"Perché
indossi ancora la mia collana?".
Sussultai a quelle parole, portandomi la mano al collo e sfiorando con
le dita quella stella che non avevo mai avuto il coraggio di buttare.
Non potevo separarmene, perché avrebbe significato separarmi
anche da me stessa e dal mio cuore. Sarebbe stato come negare il mio
amore per Adam, passato e presente e non mi sembrava giusto: era come
cancellare tutto ciò che era successo e non potevo essere
così codarda.
"Perché mi piace", sussurrai in risposta, sapendo bene che
quello era l'ultimo dei motivi che mi impediva di disfarmi di quel
ricordo.
Sentii Adam sbuffare.
"Amanda, seriamente".
Sospirai. "Non posso buttarla", risposi sinceramente, stingendo la
stella nel pugno.
"Okay",
sbottò Adam ed ero certa che in quel momento si stesse
passando la mano nei capelli com'era solito fare quando era nervoso. "Allora a domani sera?",
cambiò discorso, ma qualcosa nel suo tono mi fece pensare
che la questione non era del tutto chiusa. Chissà come
avrebbe reagito se avesse saputo che conservo ancora il completino da
coniglietta sexy...
Io annuii, come se mi potesse vedere. "Ti mando la conferma".
"Perfetto. Ci vediamo".
"Ciao... Adam", lo salutai, ma ormai aveva già chiuso la
chiamata.
Presi un respiro profondo e quasi mi sembrò di aver
trattenuto il fiato per tutto il tempo, nonostante avessimo parlato.
Non me la sarei mai aspettata quella domanda sulla collana, soprattutto
perché ero certa che non se ne ricordasse nemmeno. Eppure
per me era così importante per tutto ciò che
signficava e, effettivamente era stata importante anche per lui, il suo
primo regalo per il mio compleanno. Me la ricordavo come se fosse stata
il giorno prima, quella serata. Il pub, i regali, il completino
imbarazzante di Steve, l'alcool, il bagno e lo stupido scherzo di
David.
David. Non lo avevo più visto dopo la fine della scuola e,
sinceramente, non mi importava nemmeno avere sue notizie. Da quel poco
che sapevo, aveva voluto fare carriera nel basket, ma non me ne
intendevo affatto di quello sport e ogni volta che incrociavo una
partita in televisione giravo immediatamente, colpita da dei ricordi
troppo forti. In fondo, era dopo una partita di basket che David mi
aveva quasi violentata e, col senno di poi, potevo dire che era stato
grazie a lui se avevo instaurato un rapporto così profondo
con Adam. E poi, era stata la sera della partita decisiva tra la
squadra di Adam e di David che avevo finalmente fatto l'amore con il
mio ragazzo. Per cui provavo sentimenti contrastanti per quello sport e
cercavo sempre di ignorarlo. Certo, avere un fidanzato che lo adorava
non era proprio il massimo per rispettare il veto che mi ero imposta,
ma fortunatamente Austin si rifugiava sempre nei bar o a casa di amici
a guardare le partite.
Il mio pensiero corse subito al mio fidanzato e al messaggio che gli
avevo inviato poco prima e, nemmeno fosse uno scherzo del destino, il
telefono che avevo ancora in mano cominciò a vibrare. Questa
volta guardai il mittente della chiamata e, prima di rispondere,
respirai un paio di volte per calmarmi e mi ripetei la grande notizia a
mente, per riprendere l'entusiasmo che la chiamata di Adam aveva
smorzato.
"Ehi!", esclamai, accorgendomi subito di quanto poco entusiasmante
fosse il mio saluto. Avevo una voce da drogata e tossii un paio di
volte, sperando che Austin non se ne accorgesse.
"Cos'è
successo? Tutto bene? Perchè mi hai mandato quel messaggio?
Stai male?".
Non potei fare a meno di ridacchiare al tono preoccupato di Austin e,
ripensandoci bene, non ero stata proprio precisa in quel sms.
"Tranquillo, sto bene", lo tranquillizzai, rendendomi conto di come
solo la sua voce avesse avuto un effetto balsamico anche sul mio umore,
che era crollato dopo la chiamata di Adam.
Lo sentii sospirare forte. "Mi
sono preoccupato tantissimo", ammise. "Si può sapere che
è successo?".
"Tieniti forte", esclamai io, lanciando un'occhiata a Jamie che mi
stava fissando curiosa. "Ho una notizia strepitosa!".
"Sei incinta?",
urlò terrorizzato, facendomi sobbalzare.
"Ehm, no", balbettai, presa alla sprovvista da quella domanda.
"Però ora so che se lo fossi non la prenderesti affatto
bene".
"Scusa",
mormorò. "Non
è che non voglia bambini, è solo...".
"Non preoccuparti", dissi cercando di mantenere un tono allegro, quando
in realtà sarei voluta scoppiare a piangere. Ovvio che
neanch'io desiderassi un figlio in quel momento, soprattutto dopo
quello che era successo con il bambino di Adam. Ma sentirlo
così spaventato davanti a una notizia che, in teoria,
sarebbe dovuta essere strepitosa, mi faceva sentire male, come se non
mi ritenesse adatta ad essere la madre di suo figlio. Sapevo che era
stupido pensare così, che Austin si fidava di me e che il
motivo della sua paura era che eravamo giovani e all'inizio di una
relazione, ma, da donna, ero rimasta un po' delusa.
"Allora, questa notizia?",
incalzò, schiarendosi la voce.
Scossi la testa e mi ripresi. "Ehm, sì", mormorai.
"Scriverò un'articolo".
Ecco, l'avevo detto. E non era andato decisamente come me l'ero
immaginato. Nella mia testa il mio tono era molto più
felice, sul mio volto c'era un sorriso e quasi saltellavo sulla mia
poltrona. Nella realtà, invece, avevo una voce quasi
abbattuta, come se avessi appena annunciato la morte di qualcuno, la
mia bocca era piegata in una smorfia indecifrabile, dovuta alla
chiamata di Adam e all'uscita di Austin e, al posto di saltellare, ero
quasi sprofondata nella sedia girevole. Insomma, detta così
non suonava proprio come una grande notizia.
"Io... oddio, Amanda, ma
è fantastico!", esclamò Austin e
quasi pensai che non si fosse accorto di nulla.
"Lo so", mugugnai.
"Stasera festeggiamo, ti
porto fuori a cena", continuò.
Non ebbi la forza di rifiutare e, dopo due minuti, mi rassegnai
all'idea di una serata in uno spocchioso ristorante pieno di gente
ricca con la puzza sotto il naso.
"Ti passo a prendere
alle nove, ora prenoto".
Annuii a vuoto. "Perfetto. Ah,", esclamai poi, ricordandomi cos'era
successo poco prima. "Mi ha chiamato Adam, poco fa", gli spiegai. "E mi
ha chiesto se domani sera andiamo a bere qualcosa insieme". Incrocia le
dita, sperando in una reazione non troppo esagerata. Mi ero immaginata
urla arrabbiate, insulti e chissà cos'altro, invece Austin
si limitò a ridere e ad accettare con la voce divertita,
cosa che forse mi spaventò ancora di più delle
mie tragiche idiozie.
Austin riattaccò poco dopo e mi ritrovai a stringere il
telefono tra le dita, chiedendomi confusa il perché di
quelle reazioni inspiegabili che avevo avuto. In fondo, Adam mi aveva
telefonata solo per confermare l'appuntamento e Austin si era solo
spaventato come un qualsiasi ragazzo di venticinque anni potrebbe fare
davanti a una rivelazione simile. Non c'era niente di male in loro, ero
io che avevo ingigantito il tutto, trovando problemi dove non ce
n'erano. Certo, provavo ancora una sorta di imbarazzo nell'avere a che
fare con Adam, tensione dovuta a tutto quello che era successo in
passato e non parlavo solo del mio errore. La risposta di Austin,
invece, mi aveva spiazzata. Non avevamo mai parlato di bambini o cose
simili, in fondo ci frequentavamo di meno di due anni e non vivevamo
nemmeno insieme. Quello che mi aveva ferito era stato il suo tono di
voce, spaventato ma anche un po' disgustato, come se avere un figlio da
me fosse la più grande delle disgrazie. Oddio, certo non
sarebbe stato un bene, ma un bambino era sempre una gioia e, in ogni
caso, c'erano un sacco di famiglie che aspettavano qualcuno da adottare
se proprio fosse stato un problema. Eppure, come mi aveva detto Adam
giorni prima, non sarei mai stata capace di liberarmi di mio figlio e
l'avevo imparato a mie spese. Certo, il mio bambino era un fagiolino di
poche settimane, ma era pur sempre vivo e avevo sofferto
così tanto per la sua perdita che, se in futuro avessi avuto
la possibilità di restare di nuovo incinta, per nulla al
mondo mi sarei separata da quella creatura.
Ma forse quelli erano pensieri un po' prematuri. Io non ero incinta e
il giorno dopo dovevo affrontare il mio ex ragazzo, con il quale avevo
quasi fatto un bambino, e fargli incontrare il mio nuovo ragazzo, che
per il momento non voleva figli da me. Era decisamente quell'incontro
che mi preoccupava. Non sapevo come avrebbero potuto reagire, malgrado
mi avvessero chiesto proprio loro di conoscersi. Non sapevo se fare il
contrare il mio passato con il mio presente sarebbe stata una grande
idea. Non sapevo come avrei potuto comportarmi.
E tutta quell'incertezza era l'ultima cosa che mi serviva per
affrontare quella nuova sfida -non riuscivo a chiamarlo problema- e
fare vedere ad entrambi che sapevo gestire la mia vita. Adam avrebbe
capito quanto amassi Austin e Austin avrebbe capito che Adam era solo
il mio passato.
Ma allora perché quella soluzione non convinceva nemmeno me?
Andare al lavoro il giorno dopo fu straziante.
La serata con Austin era finita peggio di quanto avessi immaginato e,
dopo un paio di bicchieri di vino, avevo tirato fuori l'argomento della
gravidanza e ci eravamo detti cose talmente spiacevoli che, a mente
lucida, mi ero chiesta come avrei fatto a guardarlo in faccia. Questo
prima di svegliarmi nel mio letto con una rosa rossa sul cuscino e un
bigliettino con scritto semplicemente "Scusa". Nonostante fosse
piuttosto presto gli avevo scritto subito un messaggio, ma non mi aveva
ancora risposto.
Per contornare il tutto, quel giorno mi ero alzata dalla parte
sbagliata del letto e mi ero trovata a fare amicizia con il water e con
la testa che pulsava in una maniera assurda. Non sapevo se fosse colpa
dell'alcool o della debolezza di stomaco che a volte tornava a farmi
visita, ma ero certa che la nausea non mi avrebbe abbandonata tutto il
giorno, soprattutto perché mi rifiutavo di imbottirmi di
farmaci per una cosa così banale. Erano quasi vent'anni che
sopportavo ogni mese il dolore delle mestruazioni, ignorare quei
fastidiosi conati sarebbe stato il minimo.
Probabilmente Austin stava già lavorando, come avrei dovuto
fare io in quel momento e sapevo bene che il sabato era una giornata
molto piena, quindi non potevo pretendere che stesse attaccato al
telefono per dare retta a me. Tra parentesi, anch'io avrei dovuto
aprire quella sfilza di mail che mi stavano intasando la casella
postale, ma ero troppo nervosa e confusa per concentrarmi sul serio.
Era passato ormai mezzogiorno e, durante la pausa pranzo, che avevo
saltato a causa della nausea, lo avevo chiamato un paio di volte e lui
mi aveva risposto solo un'ora dopo, limitandosi a un "Sto lavorando. Ti passo a
prendere stasera alle nove e trenta. Niente di troppo scollato, mi
raccomando. Ti amo, A.". Avrei dovuto essere felice per
quel messaggio, nonostante fosse arrivato un'eternità dopo
il mio, eppure c'era qualcosa che non mi quadrava. In fondo, aveva
semplicemente scritto il modo telegrafico, probabilmente troppo preso
dal lavoro per concentrarsi su uno stupido sms. Ma non riuscivo a
togliermi da dosso quella sensazione che qualcosa non andasse e,
tornata alla mia scrivania, mi buttai a capofitto nel lavoro per non
pensare.
Quando finalmente finii erano passate le sette e mezza di sera e la
redazione era praticamente deserta. Dal silenzio che c'era potevo
sentire le macchine che nei sotterranei avevano iniziato a stampare la
copia della domenica.
Spensi il computer in fretta e riuscii a prendere l'autobus per un
soffio, fortunatamente perché quella corsa era anche
l'ultima della giornata. Appena arrivai a casa mi fiondai sotto la
doccia, ignorando il povero Wulfie che ugolava triste aspettando il suo
cibo.
Rimasi in bagno più di mezz'ora, imbambolata sotto il getto
caldo a rimuginare su quello stupido messaggio, facendo solo aumentare
il mal di testa e la nausea che non mi avevano mollata per tutto il
giorno. Eppure non riuscivo a cancellare quella strana sensazione allo
stomaco, come se mi stesse dicendo che c'era qualcosa che non avevo
bene compreso, qualcosa che mi stava inesorabilmente sfuggendo di mano.
Di per se non c'era niente di così strano, mi aveva
semplicemente fatto presente che stava lavorando e che si ricordava
dell'incontro della sera. Mi aveva pure scritto che mi amava. E allora
dove stava il problema? Beh, la verità era che non lo sapevo
nemmeno io.
Uscii dal bagno ancora più confusa di prima e, una volta in
cucina, ci misi qualche secondo ad accorgermi del disastro sul
pavivento. Wulfie, spazientito dal mio atteggiamento, aveva deciso di
non aspettarmi per mangiare e aveva distrutto il sacchetto delle
crocchette che tenevo dietro il mobiletto della dispensa. Non sarebbe
stato un grande guaio se non avesse iniziato a rotolarcisi in mezzo e,
con un colpo di coda, non avesse fatto rovesciare la ciotola con
l'acqua e ora il pavimento era diventato un grumo di roba marrone e
appiccicosa, esattamente come il pelo del cane.
Sbuffando, lo raccolsi da terra e, ancora avvolta dall'asciugamano, lo
portai in bagno e iniziai a lavarlo nel lavandino, ignorando i suoi
lamenti e i suoi tentativi di morsicarmi le mani.
"Ora sei pulito e profumato", dissi passandogli l'asciugamano sulla
testolina e sorridendo quando si ribaltò e iniziò
a mangiucchiare il pezzo di panno che avevo tra le mani. Lo lasciai a
divertirsi e mi misi a sistemare il disastro in cucina, appuntandomi
mentalmente che avrei dovuto comprare altri croccantini visto che tutto
il pacco era finito per terra in mezzo all'acqua.
Quando finii erano le nove passate e mi fiondai a prepararmi,
ringraziando quell'imprevisto che mi aveva evitato di farmi toccare
cibo. Non avevo mangiato praticamente nulla e non avevo nessuna
intenzione di farlo, non dopo aver vomitato l'anima quella mattina.
Avevo lo stomaco chiuso e sapevo che in quel caso l'unica cosa che
potevo fare era stare tranquilla e il giorno dopo mi sarei svegliata
con una fame da lupi. Peccato che quella sera avevo un impegno, impegno
che stava suonando al mio campanello con quindici minuti di anticipo
mentre io ero ancora in biancheria, con i capelli fradici e una faccia
che definire da zombie sarebbe stato un complimento.
Feci entrare Austin e mi vestii in fretta, scegliendo jeans e
maglioncino -non troppo scollato- e delle semplici ballerine. Non mi
interessava essere bella o elegante e, sinceramente, quella sera non
avevo nemmeno la forza per impegnarmi. Mi asciugai i capelli in un
lampo, rischiando di strapparmene qualcuno dalla foga di pettinarmi e
cercai di risistemare il disastro che avevo in viso con correttore e
terra. Non migliorai granché, ma almeno avevo coperto le
occhiaie e sperai che le mie doti di attrice reggessero fino a fine
serata.
Quando raggiunsi Austin in soggiorno erano passati quasi venti minuti
e, dopo aver sistemato Wulfie con il suo cibo e la sua acqua, partimmo
verso il centro, all'Holliwood Night, un locale piuttosto famoso ma nel
quale non avevo mai messo piede.
Non parlammo molto durante il tragitto. Austin si fingeva interessato
alla strada e io mi stavo impegnando a trattenere nello stomaco quelle
due gocce d'acqua che avevo bevuto prima di uscire.
Appena scendemmo dall'auto, capii di avere sbagliato tutto come
abbigliamento e il tizio all'entrata mi guardò male,
facendoci entrare con una smorfia. All'interno la musica era assordante
e il caos opprimente. La pista era già quasi piena
nonostante non fosse esagratamente tardi e il bar era sommerso dalle
persone, che si accalcavano una sull'altra per ordinare.
Sentii un conato risalirmi lo stomaco e mi aggrappai al fianco di
Austin, che mi guardò stranito.
"Usciamo?", sussurrai.
Lui lanciò un'occhiata incerta al locale, probabilmente alla
ricerca del famoso Adam, ma poi annuì, stringendomi per la
vita e trascinandomi verso l'uscita, districandosi tra le persone.
Eravamo quasi arrivati alla porta quando mi sentii chiamare e, appena
mi voltai, riconobbi quella persona che Austin stava cercando poco
prima. Era bellissimo quella sera, come lo era sempre stato ovviamente,
ma nei suoi occhi leggevo qualcosa che brillava più del
solito.
"Sono contento che tu sia venuta", mi urlò nell'orecchio,
avvicinandosi per abbracciarmi.
Ricambiai e poi mi voltai verso il mio ragazzo. "Adam, questo
è Austin. Austin, questo è Adam".
Finalmente
sono tornata!
L'Inghilterra
è fantastica, me ne sto innamorando, ma devo ammettere che
mi siete mancate e, soprattutto, mi è mancato scrivere di
Adam ed Amanda. Quindi ecco qua il capitolo, anche se sono atterrata
solo poche ore fa!
Allora,
non credo ci sia molto da dire. Facendo un piccolo riassunto fino a
questo punto: Amanda incontra di nuovo Adam, sua vecchia fiamma, mentre
la sua storia con Austin sembra essere ad un punto di svolta. Peccato
che questo incontro scombinerà le carte in tavola e Amanda
si rende lentamente colpo di non avere affatto dimenticato Adam che,
dopo una lunga chiaccherata, le chiede di conoscere questo nuovo
fidanzato. Come sarà quesa serata? Si scanneranno o
diventeranno amici? E come prenderanno il fatto di amare entrambi la
stessa donna?
Spero
che vi sia piaciuto, nonostante non succeda nulla di importante, ma mi
serviva per spargere alcuni indizi e per passaggio al fantomatico
incontro!
Se
non insorgono problemi (alias, se mi spostano la verifica di fisica,
l'interrogazione di psicologia, quella di filosofia e la verifica di
matematica per settimana prossima) dovrei riuscire a pubblicare il
sabato o la domenica, in modo da rimanere con lo stesso giono
settimanale.
Oggi
niente spoiler, i'm sorry
baci
baci
mikchan
|
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Capitolo 8 *** The past and the present ***
8- THE PAST AND
THE PRESENT
I filmini mentali erano sempre stati una mia prerogativa.
Fin da quando ero piccola, nel mio lettino nelle notti più
buie e spaventose, mi accoccolavo ai miei orsetti e stringevo gli
occhi, costringendomi a pensare a ipotetici futuri per le storie che
avevo letto quel giorno, o inventandone io di sana pianta.
Adoravo viaggiare con l'immaginazione e quella caratteristica non mi
aveva mai lasciata. Anche allora, a venticinque anni suonati, facevo
vagare i miei pensieri in ogni momento libero. Un tempo qualcuno aveva
chiamato quello strano limbo in cui mi immergevo Pensierolandia e
credevo che non ci fosse nome più azzeccato.
Pur costringendomi a non farlo, anche quella volta mi ero lasciata
trascinare, troppo preoccupata dall'imminente incontro degli uomini
più importanti della mia vita per mettere un freno alla mia
immaginazione. Col senno di poi, dovevo ammettere che le mie ipotesi
avevano rasentato più volte il ridicolo, come l'idea di
un'improbabile sparatoria e di un tragico funerale di entrambi, oppure
quella di una fuga romantica dei due alle Bahamas. Avevo evitato di
chiedermi come cavolo avessi fatto a partorire tali stupide
realtà, ben sapendo che nemmeno io avrei saputo rispondere.
Eppure, in quel momento, il terribile sospetto che quelle idee non
fossero così bizzarre si stava impossessando di me, guidato
dagli sguardi di fuoco che Adam e Austin si stavano lanciando da un
minuto buono, in mezzo al frastuono di quel posto orribile e dal quale
volevo uscire immediatamente.
Mi mossi nervosa al fianco di Austin, cercando di ignorare la nausea e
supplicandolo con gli occhi di portarmi fuori da lì. Per
puro miracolo, interruppe quella Guerra del Testosterone e
annuì silenziosamente, iniziando a districarsi tra la massa
che ci circondava alla ricerca dell'uscita.
Quando fummo finalmente all'aria aperta mi sembrò di tornare
a respirare e presi un paio di grandi boccate ad occhi chiusi. Poco
dopo mi sentii decisamente meglio e anche la nausea sembrava essersi
calmata.
"Tutto bene?", mi sussurrò la voce preoccupata di Austin.
Sentivo la sua mano sulla spalla e l'altra sulla guancia.
Annuii, aprendo piano gli occhi. "Ora sì", affermai.
"Perché siamo usciti?", chiese Adam, raggiungendoci dopo
essere finalmente uscito da quel posto infernale.
"Che posto del cavolo hai scelto", risposi invece io, regalandogli
un'occhiata scettica.
Lui scrollò le spalle. "È quello più
conosciuto", si limitò a dire.
Alzai gli occhi al cielo e feci per rispondere quando mi accorsi che
l'attenzione di entrambi non verteva più su di me, ma
sull'altro. La Guerra del Testosterone era rincominciata!
"E così tu sei Adam, quello che l'ha mollata mentre
aspettava tuo figlio", disse Austin, facendo una smorfia.
"E tu sei Austin, quello che si scopa adesso", concluse Adam,
incrociando le braccia al petto.
Oh, Dio! Oh, no, no, no! Mi ero immaginata di tutto, da sparatorie a
lotte all'ultimo sangue, ma che iniziassero a insultarsi tramite me non
l'avevo proprio preso in considerazione! Anche se, obbiettivamente, io
ero l'unica cosa che li legava.
Provai a mettermi in mezzo, con il cuore che batteva a mille e la paura
che potesse succedere qualcosa di brutto.
Quello che non mi sarei mai aspettata, invece, fu la loro reazione. Non
erano trascorsi neanche dieci secondi dalle parole di Adam, che
entrambi sorrisero e allungarono la mano, stringendosela. "Esatto!",
esclamarono.
Rimasi a bocca aperta, fissandoli incredula. Erano davvero Austin ed
Adam quelli che si stavano presentando da grandi amiconi, come se si
conoscessero da anni e non fossero rispettivamente il mio ragazzo e il
mio ex? Ma solitamente i fidanzati non si stavano reciprocamente sulle
scatole? Perché loro dovevano essere l'eccezione alla
regola? Certo, in fondo ero contenta di vedere che andavano d'accordo,
anche se mi avevano lasciata un po' spiazzata. Se avessero iniziato a
farsi la guerra sarebbe stato tutto molto più difficile,
sotto ogni punto di vista e, alla fine, mi sarei ritenuta responsabile
di qualunque cosa fosse successa.
Per questo motivo, nonostante lo sconcerto iniziale, mi ritrovai a
sorridere. "Andiamo al solito posto?", chiesi poi rivolta ad Austin,
prendendogli la mano e stringendola. Non mi sfuggì
l'occhiata di Adam e, anche se un po' mi dispiacque, doveva capire che
la realtà ormai era quella: io stavo con Austin, mentre lui
mi aveva mollata anni prima. Non aveva alcun diritto di essere geloso e
io non avevo fatto quel gesto per cattiveria, come per sbattergli sotto
il naso che io ero stata capace di crearmi una vita, ma semplicemente
perché era la verità.
Austin annuì. "Certo. Almeno lì stiamo
tranquilli", scherzò, indicando con un cenno l'inferno da
cui eravamo appena usciti.
"Che posto è?", chiese invece Adam.
"Un semplice pub", risposi. "Senza luci accecanti, miliardi di persone
una sopra all'altra e musica spaccatimpani!".
"Ho capito che non vi piace questo locale, non c'è bisogno
di continuare a ripeterlo", sbottò Adam, passandosi una mano
tra i capelli.
Scoppiai a ridere e Austin mi imitò. "Forza, andiamo", ci
incitò questo, iniziando ad incamminarsi verso l'auto.
Adam ci seguì ed entrambi rimanemmo a bocca aperta quando lo
vedemmo fermarsi davanti a un'auto nera e sportiva, che riconobbi come
la macchina che avevo visto davanti alla redazione il giorno del mio
pranzo con lui. "È tuo questo gioiellino?",
fischiò Austin.
Adam rise, annuendo. "Sì, è nuova. Ho sempre
desiderato una macchina del genere e appena ne ho avuto la
possibilità l'ho comprata", confessò e mi
ricordai della sua passione per le macchine, fin da quando era al liceo
"È carina", ammisi.
I due si voltarono verso di me, sgranando gli occhi e guardandomi come
se avessi appena maledetto le loro madri. "Carina?", esclamarono
all'unisono.
Feci un passo indietro, un po' intimorita e un po' divertita dalla lore
reazione. "Sì, beh. È una bella macchina".
Entrambi scossero le teste con fare sconsolato e per un attimo fu
terrificante vederli compiere gli stessi gesti in sincrono. "Si
sà, le donne non ne capiscono nulla di macchine",
commentò Adam, passando una mano sopra la carrozzeria della
sua auto.
Mi accigliai.
"Già. Per loro sono tutte uguali", continuò
Austin.
Incrociai le braccia.
"Solo delle ruote con un telaio e un motore". Adam.
Feci una smorfia.
"Non capiscono quanta bellezza possegga un gioiellino simile!". Austin.
"E allora scopatevi la macchina!", sbottai fulminandoli con gli occhi.
Solo in quel momento capii il lato negativo di un'ipotetica amicizia
tra quei due: mi avrebbero presa in giro fino alla morte, conoscendo
ogni mio punto debole e scherzandoci sopra ad ogni situazione
disponibile. Ed entrambi sapevano quanto mi dava fastidio sentire un
uomo affermare che per le donne le auto sono tutte uguali, quando avevo
battuto entrambi ai videogiochi di macchine e sapevo -grazie a mio
fratello e, ovviamente, alla patente che avevo fatto anni prima- ogni
cosa riguardante il motore di una fottuta automobile. Per questo
avevano iniziato quel discorso e, ci avrei scommesso gli attributi che
non avevo, avrebbero continuato ancora a lungo se non li avessi
fermati.
In fondo, non erano poi così diversi. Certo, Adam era
estroverso e spigliato, sempre con la battuta pronta, anche se ormai
aveva venticinque anni suonati, e a volte un po' maleducato nella sua
schiettezza. Austin, era un tipo calmo e dolce, ma quando lo sapevi
prendere poteva diventare più volgare di uno scaricatore di
porto ubriaco e più esplicito di una ballerina di lapdance
appiccicata ad un palo. E, per esperienza, visto che in qualche modo il
mio ragazzo assomigliava a Charlie, compagno del liceo e migliore amico
di Adam, sapevo che, una volta diventati amici, si sarebbero divertiti
sempre e comunque. E sarebbero stato leali l'uno all'altro,
perchè li conoscevo entrambi troppo bene per affermare che
potevano tramare alle spalle per qualcosa -tipo me- e rubarla all'altro
sotto il suo naso. No, avrebbero giocato pulito e la cosa un po' mi
intimoriva.
"È partita di nuovo per Pensierolndia". Il commento di Adam
mi riportò alla realtà e mi resi conto di essermi
effettivamente persa nei miei pensieri. Di nuovo.
"Pensierolandia?", chiese Austin curioso.
"Sì, il posto dove va quando inizia a pensare".
"Teoria interessante".
"Già. Hai già conosciuto il giovanotto sul
cavallo bianco che discorre di argomenti interessanti e
intellettuali?".
"Giovanotto a cavallo? Argomenti interessanti e intellettuali?".
"Te lo giuro! Una volta stavano parlando dell'estinzione di qualche
specie animale che non mi ricordo. Assurdo!".
"Assurdo davvero!"
"Oh, qualcuno che è d'accordo con me! Ho sempre detto che
Pensierolandia è un posto pericoloso per le fanciulle".
"Hai ragione. Dovrebbero vietare l'entrata a certi individui".
"Ma avete finito?". Il mio urlo si sentì probabilmente fino
all'altro capo del paese ma non me ne curai, restando con i pugni
stretti e lo sguardo arcigno davanti al sorriso divertito dei due
idioti.
"Che c'è, piccola?", mi chiese Austin con una voce
innocente.
"Già, che c'è, piccola?", pigolò Adam,
sbattendo teatralmente le ciglia.
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. "C'è che già
non vi sopporto più!", sbottai. "Ora muoviamoci che sto
congelando", dissi dandogli le spalle ed entrando nella macchina di
Austin.
Da dentro, li sentii ridere e darsi le indicazioni per arrivare al pub.
"Andiamo", disse Austin entrando in macchina e accendendola, attivando
il riscaldamento.
"Gli hai detto di seguirci?".
Lui annuì, facendo la retro e immettendosi nella corsia,
accelerando verso la destinazione. "È forte",
commentò dopo qualche secondo di silenzio.
Sollevai un sopracciglio. "Non ne dubito", ironizzai, riferendomi ai
discorsi di poco prima.
Austin ridacchiò. "Beh, ho trovato qualcuno con cui
prenderti in giro", disse facendomi l'occhiolino.
Gli diedi una pacca sulla spalla. "Non siete per niente carini".
"Il fatto che tu sia stata con entrambi dice tutt'altro, mia cara",
disse regalandomi un sorriso a trentadue denti.
Sbuffai, sprofondando nel sedile. "Idioti", borbottai, incrociando le
braccia.
Pochi minuti dopo arrivammo al nostro solito pub e sospirai di solievo
quando scesi dalla macchina e mi trovai davanti quella costruzione di
mattoni marroni e quell'insegna sbilenca alla quale mi ero affezionata.
Anche il senso di nausea era quasi passato, se non per un sentore in
fondo allo stomaco, e sorrisi tranquilla, vedendo la macchina di Adam
entrare nel parcheggio e fermandosi di fianco alla nostra.
"Bel posto", commentò uscendo e sbattendo la portiera.
Alzai gli occhi al cielo. "Sempre meglio di quella sottospecie di
discoteca", borbottai.
"Entriamo", affermò Austin, affiancandomi e stringendomi le
spalle, incamminandosi verso l'entrata.
Adoravo quel posto e quando Austin aprì la porta mi sentii
come a casa. Era un locale semplice, abbastanza grande, ma familiare.
Sulla destra della porta c'era un grande bancone con alle spalle
scaffali pieni di bottiglie di ogni tipo. La sala era piena di tavolini
e, in fondo sotto il maxi televisore al plasma c'era un tavolo da
biliardo. Era un posto semplice, ma tranquillo e lo preferivo mille
volte a quei locali affollati e "alla moda", pieni di gente e musica.
Al Bless, invece, si sentiva in sottofondo una canzone anni settanta,
ad un volume accettabile per conversare. I tavolini erano quasi tutti
pieni e riconobbi le solite persone abitudinarie di quel posto, come
Ben e Lara con i loro amici del college o il vecchietto che, ogni sera,
passava per bere una birra e scambiare qualche parola con qualcuno.
"Ehi, Vicky!", esclamò Austin, salutando la barista con un
cenno della mano.
Vicky alzò la testa dal bicchiere di birra che stava
riempiendo e sorrise. "Austin, Amanda!", ci salutò, porgendo
il bicchiere ad un ragazzo e rivolgendosi a noi. "Era da un po' che non
vi si vedeva in giro".
Scrollai le spalle. "Il lavoro", commentai.
"Il sesso", disse lei, facendomi l'occhiolino e indicando Austin con un
cenno. "Ti sei data alle cose a tre?", mi chiese poi divertita,
accorgendosi di Adam.
Sbuffai, diventando rossa. "È un amico", spiegai.
Vicky scoppiò a ridere e annuì. "Certo, certo.
Forza, andate a sedervi, tra poco arriva Alex per prendere le
ordinazioni", continuò indicando i pochi tavoli rimasti
liberi.
Salutandola, ci avviammo verso il biliardo e prendemmo posto su alcuni
divanetti posti davanti a un tavolino basso.
"Ragazzi!", ci salutò Alex, un'altra cameriera,
raggiungendoci con il suo solito block-notes e il grembiule con lo
stemma del bar stampato sopra.
"Ciao", la salutammo io e Austin, mentre Adam la fissò per
un attimo, distogliendo subito lo sguardo.
"Cosa prendete?".
"Adam?", chiese Austin, facendo un cenno al ragazzo. Alex si
voltò verso di lui e sbiancò, boccheggiando un
attimo prima di deglutire e cercare di riprendere il controllo. Ma che
cavolo stava succedendo? "Allora?", chiese di nuovo.
"Una birra media", rispose Adam senza guardarla negli occhi.
"Anche per me", ordinò Austin.
"E una anche pe...".
"E un succo all'arancia per Amanda", concluse il mio ragazzo al posto
mio, lanciandomi un'occhiataccia.
"Ehi, che dici? Voglio una birra!", sbottai.
"No", replicò gelido. "Portaci anche qualche salatino,
Alex", disse congedandola.
"Sai che non mi piace quando fai così", esclamai, quando
Alex si fu allontanata.
Austin sbuffò. "E tu sai che non dovresti bere birra quando
stai male".
"Ma sto bene, ora".
"Prima mi sei sembrata sul punto di vomitare, Amanda", mi
rimproverò, riferendosi al piccolo momento di crisi che
avevo avuto fuori dall'altro locale.
"Ma ora è passato", insistetti. Sapevo che aveva ragione, ma
mi dava fastidio quando faceva il prepotente, tirando fuori quella sua
parte snob che, nonostante tutto, faceva parte di lui.
"Non vogliamo rischiare, vero?", mi chiese ironico, sorridendo ad Alex
che era tornta con le nostre ordinazioni.
Sbuffai rumorosamente, afferrando il mio bicchiere e prendendo un
grosso sorso di succo. Effettivamente, il sapore dell'arancia
coprì quello acido che creava la nausea in bocca, portando
anche qualche zucchero nel sangue, visto che non avevo toccato cibo
tutto il giorno.
"Allora", incominciai rivolta ad Adam, appoggiando il bicchiere sul
tavolo e facendo tintinnare il ghiaccio al suo interno. "Come mai Alex
sembrava averti scambiato per un fantasma?".
Adam quasi si strozzò con la birra, tossendo piano e
lanciandomi un'occhiataccia. "Non dire scemenze".
"Ha ragione", mi appoggiò Austin. "Anche tu sembravi tanto
un fantasma".
"Non c'è niente da dire!", si difese sbuffando.
Alzai un sopracciglio, eloquente.
Adam sospirò piano. "E va bene. L'ho conosciuta qualche mese
fa, dopo essermi trasferito e...".
"E fammi indovinare", intervenne Austin ridendo. "Sei scomparso dopo
essertela portata a letto".
Adam lo guardò storto. "Detta così mi fai
sembrare uno stronzo".
"Anche detta in un'altro modo", ribattei.
"Oh, Amanda, non guardarmi così!", esclamò. "Sai
meglio di me che non ho mai voluto ferire nessuno".
Sobbalzai a quelle parole che mi sembravano quasi una frecciatina
rivolta a me. Già, lui non aveva mai voluto fare soffrire
nessuno, ero io che avevo perso la sua fiducia e gli avevo spezzato il
cuore.
"Amanda... scusa", mormorò quando mi vide abbassare lo
sguardo. "Non... io".
"Va tutto bene", cercai di tranquillizzarlo con un mezzo sorriso. "Ora,
se mi scusate, vado un attimo in bagno", dissi alzandomi in fretta e
appoggiando un mano sulla spalla di Austin prima di sparire dietro
l'angolo.
Appena mi chiusi la porta dei servizi alle spalle sospirai.
Sapevo che sarebbe successo. Sapevo che sarebbe uscito qualche commento
relativo al nostro passato, voluto o meno che fosse e che avrebbe
ferito uno dei due. Ed era principalmente per quello che ero stata
così restia ad un loro incontro. Non volevo che Austin mi
vedesse reagire così, non volevo che vedesse quanto ancora
ci tenessi e quanto ancora per me Adam fosse importante. Ovviamente se
ne era già accorto e ne avevamo anche discusso, ma vederselo
davanti era tutta un'altra storia.
In quel momento non sapevo cosa aspettarmi, una volta tornata al
tavolo. Probabilmente Austin gli aveva detto qualcosa su di me, con un
po' di fortuna non l'aveva minacciato di morte se mi avesse fatto
soffrire ancora.
Presi un'altro respiro profondo e mi sciacquai la faccia, guardandomi
un attimo allo specchio. Deglutii e sentii di nuovo un conato risalire.
Sapevo che era dovuto anche al nervosismo, così chiusi gli
occhi e cercai di ripensare al sapore dell'arancia, ma il solo pensiero
fece disastri e mi ritrovai pochi secondi dopo china sul water, in
preda a conati di bile e succo d'arancia. Feci una smofia disgustata,
pulendomi la bocca con la carta igenica e alzandomi traballante sulle
gambe.
Ritornai lentamente in sala, sperando che la nausea di fosse calmata e,
al contrario di ogni più oscura aspettativa, trovai Austin
ed Adam parlare tranquilli. Niente occhi neri, niente sangue, niente
bicchieri rotti, solo un po' di birra sul tavolino.
"Va meglio?", mi chiese Austin quando mi sedetti, posandomi una mano
sul ginocchio.
Annuii, appoggiandomi allo schienale. "Meglio", affermai.
Austin mi guardò incerto negli occhi e fui certa dal suo
sguardo che aveva capito cos'era successo in bagno. "Vuoi qualcosa da
mangiare?", mi offrì, indicando i salatini.
Feci una smorfia e scossi la testa, prendendo un altro sorso di succo e
sperando di riuscire a tenerlo nello stomaco.
"Ti porto a casa", affermò Austin, scuotendo la testa.
"No!", eslcmai.
"Va bene, Amanda", mi rassicurò Adam, sorridendo. C'era
qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che quando ero sparita poco prima non
avevo visto, ma non sapevo dire se era per la frase che aveva detto e
la mia reazione o per qualcosa di cui aveva discusso con Austin.
"Usciamo di nuovo quando stai meglio".
Annuii, incerta e sollevata all'idea di poter finalmente andare a
straiarmi nel mio letto morbido e dormire. Mi alzai e mi infilai il
cappotto, imitata da entrambi.
Anche Austin aveva uno sguardo strano, ma non ci feci troppo caso,
sapendo che reagiva male quando avevo queste giornate 'no' e insistevo
a fare come se nulla fosse.
Dopo aver pagato uscimmo e il fresco dell'aria di gennaio mi fece
sospirare di solievo.
"Allora ci sentiamo", dissi rivolta ad Adam.
Questo annuì, guardandomi per un attimo e poi abbassandosi a
darmi un bacio sulla guancia. Rimase fermo un attimo di troppo e
rabbrividii quando sentii il suo fiato caldo scontrarsi con la mia
pelle. "Riposati".
Feci un sorriso, cercando di mascherare il tumulto che mi aveva
travolto lo stomaco e che, quella volta, non aveva nulla a che fare con
la nausea. Austin lo salutò con una stretta di mano e si
scambiarono anche i numeri di telefono.
Non so esattamente come, ma poco dopo mi trovai al caldo della macchina
di Austin, guardando assorta le luci della strada sfrecciarmi a fianco.
Non mi accorsi nemmeno quando parcheggiò sotto casa mia e mi
riscossi dai mie pensieri solo quando Austin mi scosse la spalla.
Capii appena voltai la testa che c'era qualcosa che non andava. Austin
aveva uno sguardo troppo serio e, nonostante cercasse di nasconderlo,
era anche molto nervoso.
"Cosa...", sussurrai.
"Dobbiamo finirla qua, Amanda".
Salve
salvino gente gentina!
Oggi
sono un po' sfasata, soprattutto perché ho studiato
psicologia tutto il pomeriggio e mi fuma il cervello, ma ci tenevo a
pubblicare oggi, visto che ieri non ho avuto tempo, avendo pranzato al
Giapponese ed essendo stata in giro praticamente tutto il giorno. Indi
per cui, se trovate errori, sviste o qualunque altra schifezza fatemi
un fischio che corro a corregere!
Bene.
Un capitolo importante, anche se non lunghissimo, per lo sviluppo di
questa storia. Adam e Austin si incontrano e, per il momento, sembrano
sopportarsi pacificamente. Amanda è piuttosto preoccupata
per quest'incontro e, più di tutto, teme che Austin possa
notare con i suoi occhi quanto grande sia il suo amore per Adam. E,
beh... credo che la frase finale non abbia bisogno di spiegazioni!
Vi
avverto che il prossimo capitolo sarà un salto avanti di
qualche settimana rispetto ad adesso e che conterrà molte
spiegazioni sul passato dei nostri protagonisti. Insomma, dopo otto
capitoli se li meritano un po' di chiarimenti, vi pare?
Ringrazio
di cuore Ali_13, Minelli e Sonny_chan per le loro bellissime recensioni
e tutti quelli che leggono in silenzio.
A
sabato/ domenica
mikchan
SPOILER
capitolo nove: DESTINY
[...] "Io vorrei
combattere per te, Amanda, dimostrarti che anch'io potrei renderti
felice. Ma, in fondo, so che anche se vincessi, nessuno dei due lo
sarebbe veramente, tu troppo attaccata ancora a quella parte di cuore
che hai perso, e io in preda ai sensi di colpa per aver distrutto la
possibilità di un vostro futuro insieme". [...]
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Capitolo 9 *** Destiny ***
9- DESTINY
Erano passate quasi tre settimane da quella serata.
Tre settimane da quando Austin aveva deciso di chiudere la nostra
storia, nella speranza di riuscire entrambi a trovare un po' di
felicità.
Erano stati venti giorni strani: ero andata al lavoro come sempre, ma
con la consapevolezza di avere perso qualcosa di importante e
fondamentale. Era come se il mio cervello mi volesse ricordare
qualcosa, come quando perdi un oggetto e, nonostante ti sforzi, non
ricordi dove l'hai messo. Ecco, io mi sentivo così: avevo
smarrito qualcosa, non sapevo nemmeno bene cosa fosse, e ora non sapevo
proprio come fare per ritrovarlo.
Austin era stato molto chiaro quella sera. Con calma e dolcezza mi
aveva spiegato le sue motivazioni e, alla fine, ero stata costretta ad
ammettere anche a me stessa che aveva maledettamente ragione. Gli
leggevo negli occhi quanto mi amava, ma anche lui aveva capito che una
parte di me mancava all'appello da quando Adam mi aveva lasciata. E si
era decisamente accorto che era ritornata come per magia quando lo
avevo incontrato di nuovo. Austin non era stupido: era stato facile
fare due più due, soprattutto in seguito alla mia
confessione, quella sera di qualche settimana prima, dopo che avevo
pranzato con Adam. E per questo aveva ritenuto opportuno chiudere la
nostra relazione: che senso aveva continuare a stare insieme e mentire
sui nostri sentimenti, quando entrambi sapevamo che le cose non stavano
come volevamo mostrarle?
Insomma, non avevo trovato la forza per controbattere, per affermare
che amavo anche lui, dopotutto, che non lo avrei mai voluto usare come
ruota di scorta, quando invece era successo proprio così.
Ed era stata una frase di Austin a farmi capitolare, una frase che mi
trasmetteva tutto il suo amore e la sua speranza di poter trovare la
felicità, finalmente.
"Io vorrei combattere
per te, Amanda, dimostrarti che anch'io potrei renderti felice. Ma, in
fondo, so che anche se vincessi, nessuno dei due lo sarebbe veramente,
tu troppo attaccata ancora a quella parte di cuore che hai perso, e io
in preda ai sensi di colpa per aver distrutto la possibilità
di un vostro futuro insieme".
Come poteva essere così buono?, mi ero chiesta migliaia di
volte e per tutte e mille non avevo trovato risposta. E risposta non
c'era, perché Austin era così. Generoso sempre
con tutti, soprattutto nei miei confronti, pronto in ogni momento ad
anteporre il bene degli altri al suo. Troppo, per me.
E mi ero sentita una vera merda, a quelle parole, perché la
verità era che mi ero approfittata di lui, come un naufrago
si approfitta di un salvagente nel momento del bisogno e poi lo
abbandona quando arriva a riva, sano e salvo. Io avevo trovato la mia
spiaggia, dopo anni di errare per mari di lacrime e autocommiserazione,
e ora stavo buttando il mio salvagente. Ma davvero Austin si meritava
di essere trattato come un oggetto inutile? Era stato solo quello, per
me? Dio, ovviamente no! Austin non era stato solo la mia ancora di
salvezza, ma anche l'uomo di cui avevo imparato a fidarmi. E, forse,
era per questo che quella separazione faceva così male.
Lui aveva cercato di consolarmi, affermando sicuro che non avrebbe mai
voluto lasciarmi davvero, ma non avrebbe sopportato di convivere con me
sapendo che il mio cuore non apparteneva a lui. E Austin poteva essere
buono e gentile, ma era pur sempre un uomo con un orgoglio e una
dignità.
Mi aveva poi guardata negli occhi, afferrandomi le mani congelate per
quella sosta notturna in macchina, e mi aveva rassicurata sull'amore di
Adam per me. Quella, davvero, era una cosa che non mi sarei mai
immaginata. Mi aveva sorpresa e, sinceramente, sollevata,
perché in quelle poche ore insieme Austin mi aveva
assicurato che i suoi sentimenti non erano mutati, al pari dei miei.
Eppure, in quel momento, uscendo dalla redazione per dirigermi al bar
con Jamie, non ero riuscita a non farmi riprendere dalla tristezza. Non
lo vedevo da giorni, nonostasse ci scrivessimo spesso sms e ogni tanto
ci chiamavamo, e già mi mancava. Tutto, di lui, era rimasto
dentro di me, a partire da quella sua indole calma, al suo sorriso
gentile, ai suoi modi affabili e al modo in cui mi guardava mentre
facevamo l'amore.
Eppure, e mi costava molto ammetterlo, quella separazione mi aveva
giovato, perché il giorno seguente avevo parlato con Adam
come mai avevo fatto e avevo messo in chiaro una volta per tutte i miei
sentimenti, affermando di amarlo e di essere intenzionata a
rinconquistare il suo cuore. A quelle parole era rimasto un po'
sorpreso e di certo non mi sarei mai aspettata un'accoglienza calorosa,
dopo tutto ciò che era successo. Ma andava bene
così, e gli avevo detto pure quello: non m'importava quanto
sarebbe stato difficile, io ci avrei provato fino alla fine, per me, ma
soprattutto per Austin, che si era sacrificato. E che donna sarei stata
se non fossi stata nemmeno capace di conquistare l'uomo che amavo? No,
non avrei sprecato l'occasione offertami da Austin e avrei fatto tesoro
dei suoi consigli.
Per quel motivo non potei evitare di sorridere quando, davanti al
solito bar, vidi Adam davanti alla porta, con le mani affondate nelle
tasche del cappotto per proteggersi da quel freddo di inizio febbraio
che ancora non ci voleva abbandonare. Aveva lo sguardo basso e assorto
e si accorse di noi solo quando gli arrivammo davanti. Jamie mi
salutò con un sorriso malizioso, lo stesso che le vedevo
fare da giorni, esattamente da quando io ed Adam avevamo iniziato a
pranzare insieme. Era stata una sorpresa, quella proposta, soprattutto
perché era venuta da lui che, dopo la mia sfacciata
dichiarazione, non mi aveva rivolto la parola per tre giorni,
presentandosi poi a casa mia la sera di San Valentino con una rosa e un
film demenziale. Non era successo assolutamente nulla quella sera, ma
era giusto che andasse così: non volevo affrettare il tempo
e Adam ne aveva bisogno ancora parecchio per rendersi conto della
potenza del mio amore per lui e accettare i suoi sentimenti, qualunque
fossero stati, senza farsi troppo influenzare dal passato. Ovviamente
non sarebbe stato facile; come poteva esserlo, dopo tutto
ciò che era successo? Ma dentro di me sapevo che era questo
il bello della sfida, la certezza che non avrei avuto subito Adam ai
miei piedi mi spronava solo a fare del mio meglio per riuscirci.
"Ciao", mi salutò quando mi vide, abbozzando un sorriso.
Lo imitai, sventolando la mano coperta dai guanti e precedendolo nel
locale. "Aspettavi da molto?", gli chiesi quando fummo finalmente
dentro al caldo.
Adam scosse la testa. "No, pochi minuti. Però stavo per
congelare comunque".
"Ho sentito che nevicherà in questi giorni", commentai
sedendomi al solito tavolo e sfilandomi il cappotto, appoggiandolo poi
sul dorso della sedia.
"Effettivamente è tempo da neve. Però spero si
sbaglino", disse lui, strofinandosi le mani fredde e soffiandoci sopra.
Scrollai le spalle. "Sinceramente sto sperando che nevichi un bel po',
in modo da chiudere la redazione almeno per un giorno!".
"Ti sei già stancata di lavorare lì?".
"Certo che no!", esclamai. "Però sono stufa di correggere
articoli su articoli".
"Ma non ti avevano fatto scrivere quel pezzo?".
Sbuffai, affondando nella sedia. "Non farmici pensare", mugugnai. "Non
l'hanno nemmeno pubblicato!".
Adam si allungò per accarezzarmi un braccio. "Tranquilla,
sei solo all'inizio. È normale che tu debba penare un po',
lo sai".
"Certo che lo so! Dico solo che non mi farebbe male fare un po' di
pratica", sbuffai stizzita, prendendo un grissino e morsicandolo con
rabbia.
Adam ridacchiò. "Sei sempre stata avversa alle cose che
richiedono pazienza", mi fece notare.
Alzai un sopracciglio. "Vedo che hai buona memoria", mugugnai,
afferrando senza dire niente il menu che il cameriere ci stava
porgendo.
"Eccome se ho una buona memoria", disse ignorando quel pezzo di cartone
e continuando a fissarmi negli occhi.
Sospirai. "Lasciamo stare e mangiamo", dissi, spostando lo sguardo e
cercando di evitare di arrossire. Speranza inutile, visto che sentivo
già le guance in fiamme per quella provocazione nemmeno
tanto velata. Anche io avevo una buona memoria, ricordavo tutto quello
che ci eravamo detti e che avevamo passato. Ricordavo perfettamente
come gli piacesse prendermi per mano quando camminavamo per strada,
come si rilassasse quando gli accarezzavo i capelli, la smorfia di
piacere che lo coglieva nel momento prima dell'orgasmo e il tono roco e
eccitante con cui pronunciava il mio nome durante l'amplesso. Non avevo
scordato nulla e sapere che anche per lui i ricordi erano stati
altrettanto preziosi mi fece risollevare un poco il morale. Certo,
avevamo appena rincominciato ad uscire come amici, ma la tensione che
c'era tra di noi in certi momenti era fortissima e spesso lo trovavo a
fissarmi in silenzio, con lo sguardo corrucciato e le labbra strette.
Non sapevo leggere nel pensiero, ma ero brava a ricordare i particolari
e quell'espressione era tipica dei suoi momenti di riflessione
più seri e forse ero solo un'insulsa sognatrice, ma mi
piaceva pensare che stesse davvero dando spazio alla mia presenza.
"Non indovinerai mai chi ho visto", disse dopo aver ordinato,
richiamandomi alla realtà.
"E allora dimmelo", risposi ovvia, scuotendo leggermente la testa per
eliminare quei pensieri: Adam non aveva mai detto nulla su una nostra
presunta relazione ed era ancora effettivamente troppo presto per
pensare davvero a qualcosa di serio. Insomma, mi ero lasciata da meno
di un mese; va bene che i miei sentimenti erano già
consolidati da tempo, ma avevo l'arduo compito di riconquistare la sua
fiducia e sapevo di certo che non sarebbe stata una passeggiata.
Fissarmi con certe immagini, perciò, avrebbe solo
contribuito a intristirmi, mostrandomi quanti pochi passi avanti stessi
facendo, pur sapendo che il solo essere a pranzo con lui mi aveva fatto
conquistare qualche metro in più.
Adam ridacchiò. "Tuo fratello", mi rivelò. "Ero
dal meccanico fuori città per un problema alla macchina ed
è stato proprio lui a servirmi: non mi avevi detto che aveva
deciso di fare quel mestiere".
Scrollai le spalle. "Perché all'epoca la sua idea era
diventare avvocato. Ma ha dovuto saltare un anno di
università perché non riuscivamo a pagare la
retta e ha deciso di trovare un lavoro più gratificante di
un barman. È stato un caso che sia stato assunto proprio
lì, dove aveva sempre portato la macchina ad aggiustare da
quando ci siamo trasferiti".
"Sapevo che ha sempre avuto una certa passione per i motori".
Annuii. "Sì. E proprio per questo motivo ha deciso di
accettare l'offerta del proprietario di diventare suo socio in affari.
Io non me ne intendo di queste cose, ma da quel che ho capito, quando
il proprietario andrà in pensione, non avendo eredi,
l'officina passerà ad Alex".
"Credo sia un po' più complicato di così, ma ho
capito", affermò Adam ridacchiando. "Però sono
contento che si sia sistemato. Mi ha detto che è sposato".
"Da quasi tre anni, ormai", ricordai. "E hanno subito avuto Dan, il mio
bellissimo nipotino".
Adam rise. "Scommetto che ti adora".
"Come io adoro lui! Se un giorno avrò dei bambini vor...".
La mia voce si affievolì sul finire della frase e, come ogni
volta che quel pensiero si affacciava alla mia mente, sentii le lacrime
pizzicare sul bordo degli occhi. Vedere Dan ridere e correre era sempre
una morsa al cuore ed era impossibile non pensare al bambino che avevo
perso e che, probabilmente, aveva solo segnato il mio futuro. Il mio
medico, infatti, mi aveva avvertita che per me sarebbe stato molto
difficile portare a termine una gravidanza. Aveva anche aggiunto che
era una cosa molto comune alle donne che rimanevano incinte giovani, ma
quelle parole avevano cancellato ogni speranza, perché, dopo
aver perso il mio bambino, non avrebbe avuto nemmeno più
senso cercarne un altro se al mio fianco non ci fosse stato l'uomo che
amavo.
"Scusa, non volevo", disse Adam, allungando una mano e stringendola
alla mia, appoggiata mollemente sul tavolo.
Scossi la testa. "No, scusami tu. Dovrei smetterla di reagire
così".
"È del tutto nomale, invece", mi difese lui. "Per nessuna
donna è facile superare la perdita di un figlio".
Abbassai lo sguardo, incontrando le nostre mani incrociate e,
lentamente, iniziai ad accarezzare il dorso della sua con il pollice.
"Ero così contenta di poter avere tuo figlio, sai?",
sussurrai.
Adam si irrigidì appena, ma non tolse la mano. "Mi dispiace
davvero, Amanda. Lasciando perdere tutto il resto, mi sono comportato
davvero da stronzo comparendo dopo cinque anni e pretendendo di vedere
un figlio che per tutto questo tempo ho fatto finta di non avere".
"Perché non sei mai tornato?".
"Avevo paura", ammise dopo qualche secondo di silenzio. "Paura di non
riuscire a perdonarti, di non avere la forza di guardare negli occhi
quel bambino che sarebbe stato uguale a te in tutto e per tutto e di
non essere capace di amarlo a sufficenza".
"Sai che sono sciocchezze, vero?".
"Certamente. Ma, continuando a ripeterle nella mia testa, alla fine me
ne sono convinto. E poi, come potevo ripresentarmi dopo tutto questo
tempo alla tua porta?".
"Sarebbe stato tuo figlio e io non avrei avuto nessun diritto di
vietarti di vederlo".
"Lo so, lo so. Eppure, detto sinceramente, non credo che sarei mai
venuta a cercarti se non ci fossimo incontrati alla clinica di Mr
Klant".
Quelle parole furono una stilettata al cuore. Non voleva rincontrami,
non voleva iniziare nulla di nuovo con me. Era stato tutto un caso, una
semplice coincidenza voluta da quel destino bastardo che si stava
prendendo gioco di me.
Però io volevo sapere.
"Ti ho ferito davvero così tanto?", sussurrai, abbassando di
nuovo lo sguardo e sciogliendo la presa delle nostre mani.
Adam esitò un attimo a rispondere, ma poi lo sentii
sospirare. "Sì", ammise senza tanti mezzi termini.
Incassai il colpo prendendo un respiro profondo. Dovevo andarmene da
lì. Era tutto sbagliato, tutto. Feci per alzarmi e infilarmi
la giacca, ma Adam riprese a parlare.
"Ma presto ho capito che non sarei vissuto a lungo senza di te",
ammise, allungando di nuovo il braccio e puntando un dito sotto il mio
mento, facendo incontrare i nostri sguardi. Nei suoi occhi non leggevo
né scherno né rabbia, solo sincerità.
"Ho cercato di reprimere quei sentimenti perché tu mi avevi
tradito e non mi meritavi". Chiaro e dritto al punto, come sempre.
"Però erano lì, sono sempre stati lì,
e ogni notte ritornavano a galla, ricordandomi quanto avevo perso e
quanto fossi stato stupido. Se non avessi avuto così paura
di un impegno grande come un figlio, in quel momento avrei potuto
stringerti a me con forza, respirare il tuo profumo e accarezzare la
tua pancia, che avrebbe contenuto la vita che avevamo creato".
Il mio cuore aveva iniziato a battere frenetico a quelle parole. Potevo
capire benissimo il suo rifiuto di quei sentimenti così
opprimenti, lo avevo passato anch'io quel momento. Ma quello che mi
aveva sorpreso era stata la sincerità disarmante con cui
aveva ammesso di avere sbagliato e che, alla fine, mi aveva tenuta
lontano per orgoglio.
Quanto eravamo stati stupidi!
Ci eravamo fatti trascinare dal nostro orgoglio e dalla certezza
infondata di non avere più speranze in una relazione. Ma,
forse, era stato meglio così. Ci serviva del tempo per far
passare quelle brutte esperienze, per cancellare i sentimenti negativi
che avevano portato alla nostra rottura. Avevamo bisogno di un periodo
separati per renderci davvero conto quanto fossimo indispensabili l'uno
per l'altro e quanto quella situazione avesse distrutto i nostri cuori.
Solo in quel modo avremmo potuto iniziare davvero di nuovo qualcosa di
serio, qualcosa che non si sarebbe fondata sull'odio e sul rancore,
come sarebbe successo se avessimo deciso di stare insieme solo per quel
bambino. E, forse, era stato un bene anche perdere quel figlio: non
dico che era stato semplice, ma non eravamo pronti ad affrontare
seriamente una gravidanza e il nostro rapporto era ancora troppo
fragile per sopportare un simile fardello.
Una cosa, però, dovevo chiedergli, per togliermi quel dubbio
che mi stava logorando da quando lo avevo incontrato.
"Hai incontrato altre... donne?", gli chiesi, mormorando quell'ultima
parola, un po' imbarazzata nel tentare con una domanda così
personale.
Adam mi guardò sorpreso, poi scosse la testa. "Nulla di
importante", mi assicurò.
Non potei fare a meno di sospirare leggermente, sollevata da quella
notizia. Ed era una reazione egoista, perché io avevo
trovato Austin che mi aveva risollevato dal baratro, ma ero contenta
che Adam non avesse legato con nessuna donna in particolare.
Significava, in qualche anfratto malato della mia testa, che per lui
esistevo ancora solo io.
"Frena il tuo cricetino!", disse scuotendo la testa. "Questo non vuol
dire che ho passato cinque anni da solo a piangere la tua assenza",
precisò, con un tono quasi cattivo.
"Non m'importa".
Adam sospirò. "Senti, Amanda. Ho capito quello che sta
succedendo e, sinceramente, non so come comportarmi. So che tu vorresti
che tra noi funzionasse di nuovo, ma, nonostante i miei sentimenti non
siano mutati, sarà difficile che tutto ritorni come prima".
"Non m'importa", ripetei. "Non ti lascerò più
andare".
"Beh, il fatto è proprio che tu non hai nessun potere di
decidere", mi spiegò. "Anche io vorrei tanto tornare ai
vecchi tempi, ma le cose sono cambiate. Io sono cambiato. E non
riuscirei a sopportare di soffrire ancora così".
"Non ho nessuna intenzione di farti soffrire di nuovo", esclamai.
"Non intenzionalmente, forse. Ma come è successo anni fa,
potrebbe succedere anche in futuro. E io devo decidere se ne vale la
pena. Mi capisci?".
"Certo che ti capisco. Ed è proprio per questo motivo che
voglio dimostrarti quanto io tenga a te. Voglio farti innamorare di
nuovo di me", dissi, senza mezzi termini.
Adam mi fissò in silenzio per qualche secondo. "Sei
determinata a riconquistarmi, vero?".
Annuii vigorosamente, stringendo le labbra e i pugni. "Assolutamente
sì".
Sospirò. "Nonostante una parte di me mi stai urlando da
mezz'ora di mollarti a questo tavolo e scomparire, sono troppo
masochista per ascoltarla. La verità è che, in
fondo, anche io vorrei che tu mi riconquistassi".
"E allora lasciami provare".
Alzò un sopracciglio. "Saresti una specie di fidanzata in
prova?".
"Non credo che fidanzata sia il termine giusto", ammisi.
"Pretendente?", riprovò con un sorriso.
Annuii, imitandolo.
"Posso chiederti una cosa?", mi domandò poi. A un mio
cennò sospirò. "Il tuo... ragazzo, cosa ne pensa
di tutto questo?".
"Ti ho già detto che ci siamo lasciati", risposi piccata,
chiedendomi il perché di quella domanda quando sapeva
già benissimo tutto di quella faccenda.
"Sì, ma cosa ne pensa di me?".
"Pensa che mi ami ancora", rivelai inchiodandolo con lo sguardo,
ripetendo le parole che Austin aveva pronunciato quella sera.
"Perspicace", rispose solo Adam, dopo essersi ripreso dal momento di
sorpresa.
"È vero?".
"Ti lascio l'onore di scoprirlo, Amanda", rispose, pronunciando il mio
nome lentamente e con quel tono che mi aveva sempre fatto battere forte
il cuore.
"La caccia è aperta, allora".
Salve
genteeee!
Oggi
finalmente riesco a pubblicare di sabato, anche se un po' tardi. Ma, in
fondo, questa sera resterò in casa col mio bel pigiamone e
avrò tempo per portarmi avanti con la storia, quindi sperate
che l'ispirazione non mi abbandoni!
Bene,
tornando al capitolo. Un po' sono contenta che non abbiate indovinato
chi era l'autore dello spoiler di questo capitolo. Avete detto tutti
Adam (oddio, tutti... come parlo in grande!), e invece è
Austin che le pronuncia, quando decide di lasciare Amanda. Anche su
questo dovrei fare un appunto: so benissimo che è
impossibile trovare un uomo che non se la prende nemmeno un po' quando
lo lasci per il tuo ex, ma, tralasciando il fatto che Austin arrabbiato
proprio non ce lo vedo, se avessi buttato una scenata di gelosia avrei
creato solo pasticci e, probabilmente, Amanda mi avrebbe uccisa
perché in tutti sti capitoli, compresa l'altra storia, le ho
fatto passare le pene dell'inferno tra David, Adam & Co. Indi
accontentiamoci di un pacifista, ma non dimenticatelo,
perché vi assicuro che non sparirà tanto presto!
La
seconda parte del capitolo è importantissima, direi anzi che
è il fulcro di tutta questa storia. "La caccia è
aperta", Amanda e Adam sono ancora in gioco e giocheranno a lungo. Per
chi ha letto l'altra storia, so che vi state chiedendo quando
arriverà quel benedetto bambino che si vede nell'ultimo
capitolo, ma credo sia ancora prematuro farlo comparire, quindi dovrete
aspettare qualche altro capitolo!
Spero
che vi sia piaciuto, io mi sono emozionata tantissimo facendo scontrare
questi due di nuovo! Ringrazio di cuore Ali_13 e Minelli, che
recensiscono ogni capitolo, sempre! Un grazie anche a chi legge in
silenzio o solo a chi apre la storia perché non ha di meglio
da fare e poi scopre che gli fa schifo!
vi
lascio con lo spoiler (vediamo se indovinate con chi sarà il
litigio... vi do un indizio: non è Alex, ma è
lì vicino) e la promessa di una one shot (questa cosa
è molto in forse perché non l'ho ancora scritta)
su Austin e una Donna Del Mistero... chi sarà? Amanda o una
nuova fiamma? (questo lo so, però! eheheh)
bacibaci
mikchan
SPOILER
capitolo 10: VIOLENT ARGUMENT
[...] Alex sospirò. "Voglio solo sapere se stai bene".
"Certo che sto bene! Mi vedi qui, viva e vegeta e pronta a sfotterti.
Non ti basta?".
"Sei sempre stata brava a nascondere quello che provavi", disse
aprendosi in un dolce sorriso. "Ma non con me. Lo vedo nei tuoi occhi
che c'è qualcosa che non va".
Sbuffai. "Cosa vuoi che sia? Ho appena lasciato il mio ragazzo per
tornare a correre dietro al mio ex che, per la cronaca, non
è nemmeno sicuro al cento per cento di volermi. Ma io sto
benissimo, tranquillo". [...]
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Capitolo 10 *** Violent argument ***
10- VIOLENT
ARGUMENT
Mio fratello parcheggiò la macchina davanti alla sua
villetta, spegnendo il motore e chiudendo di scatto le serrature delle
portiere.
"Se mi vuoi rapire sappi che lo stai facendo nel posto sbagliato: tua
moglie è affacciata alla finestra".
"Non voglio rapirti stupida", sbottò Alex, alzando il
riscaldamento. "Volevo solo parlarti un attimo. È da un po'
che non rimaniamo da soli".
Assottigliai gli occhi. "Che ne è stato di mio fratello?",
ironizzai.
Alex sbuffò. "Piantala di scherzare, Mandy!".
"Come sei serio, oggi. Dimmi, fratellino, da quanto la bella Lisa ti ha
lasciato in bianco?", gli chiesi, cercando di non scoppiargli a ridere
in faccia. In fondo aveva ragione: erano mesi che non passavavo un po'
di tempo insieme, se si escludevano i pranzi di famiglia, dove
l'attenzione era monopolizzata dal piccolo Dan e un po' mi mancava
prenderlo in giro come se fossimo ancora due adolescenti.
"Piantala di impicciarti", esclamò, arrossendo e
distogliendo lo sguardo, trovando all'improvviso molto interessanti le
manopole del volume della radio.
"Dai, Alex! Stavo scherzando", ridacchiai, dandogli una pacca sulla
spalla. "Di cosa volevi parlarmi? Del tempo? Delle nostre vite? Del mio
pacioccoso nipotino? Di co...".
"Di Adam", m'interruppe. Fu il mio momento di abbassare la testa e
arrossire, dandomi della stupida per aver dimenticato che proprio lo
stesso Adam mi aveva riferito di aver incontrato Alex.
"Argomento interessante", mugugnai.
"Decisamente. Perciò, ora ti metti comoda e mi racconti ogni
cosa".
"Non c'è niente da raccontare. Impiccione", aggiunsi dopo
qualche secondo, riprendendo lo stesso insulto che aveva usato lui poco
prima.
"Quello che tu mi hai chiesto fa parte della mia vita privata. Questo,
invece...".
"Fa parte dell mia vita privata", lo interruppi, ripetendo di nuovo le
sue parole per sottolineare quanto poco coerente fosse stata la tua
richiesta.
Alex sospirò. "Voglio solo sapere se stai bene".
"Certo che sto bene! Mi vedi qui, viva e vegeta e pronta a sfotterti.
Non ti basta?".
"Sei sempre stata brava a nascondere quello che provi", disse aprendosi
in un dolce sorriso. "Ma non con me. Lo vedo nei tuoi occhi che
c'è qualcosa che non va".
Sbuffai. "Cosa vuoi che sia? Ho appena lasciato il mio ragazzo per
tornare a correre dietro al mio ex che, per la cronaca, non
è nemmeno sicuro al cento per cento di volermi. Ma io sto
benissimo, tranquillo".
Alex mi strinse la mano che avevo appoggiato nervosamente sulla coscia.
"Avevo capito che era successo qualcosa con Austin e quando ho
incontrato Adam all'officina mi è sembrato strano".
"Ho ammesso che lo amo ancora e che vorrei provare di nuovo a creare
qualcosa con lui".
"Ma...".
"Ma Adam non è certo di avermi perdonata del tutto e non
vuole essere ferito ancora".
"Senza offesa, sorellina. Ma anche io la penserei come lui".
"Allora siamo in tre", sussurrai, passandomi una mano sulla faccia e
sospirando. "Per questo non posso chiedergli di aspettarmi, anche se ha
accettato di riprovarci".
"Ha accettato?", chiese Alex stupito.
Alzai le spalle. "Una specie. Usciamo spesso a pranzo insieme,
parliamo, rivanghiamo i vecchi tempi. Ma qualcosa mi dice che siamo
ormai troppo distanti per ricostruire qualcosa davvero".
"Dagli tempo, Mandy. Capisco che tu lo voglia subito, ma lui deve
imparare a fidarsi di nuovo di te".
"Lo so", sussurrai.
"E allora non perdere la speranza. Continua a provarci. Sarebbe un
peccato vedere distrutto un amore grande come il vostro".
"Peccato che sia già successo".
"Anni fa", precisò. "Ora siete entrambi cresciuti,
più responsabili. Non farete gli stessi errori di prima".
"Il problema è che ogni secondo che passo con lui mi accorgo
di amarlo sempre di più. Come farei se decidesse di non
perdonarmi?".
"Il tuo amore vale davvero così poco da poter essere messo
in dubbio dalla paura?", mi chiese e sobbalzai a quelle parole,
esattamente le stesse che Austin aveva pronunciato quando avevamo
affrontato quel discorso. La scena era paurosamente simile, in una
macchina al freddo, anche se con Austin era sera e in quel momento era
appena passato mezzogiorno, ma l'espressione di disappunto sul viso di
Alex era la stessa che era comparsa sul volto del mio ormai ex
fidanzato.
"Non lo so", ammisi, ripendendo la stessa risposta che avevo dato ad
Austin. "Ho troppa paura di soffrire di nuovo".
"Beh, io credo che tu debba correre questo rischio, Mandy".
"Ne sono consapevole, Alex", risposi, abbozzando un sorriso. "Ed
è per questo che sto facendo di tutto per rimanere da sola
con lui, per permettegli di conoscermi di nuovo e per conoscere il
nuovo Adam".
"Da dove veniva tutta quell'insicurezza, poco fa?".
"Dal semplice fatto che io sono insicura, Alex", risposi. "Lo sono
sempre stata, lo sai bene. E lo sono ancora di più se
è per qualcosa a cui tengo particolarmente".
"Tipo Adam".
"Tipo Adam", ripetei, abbozzando un sorriso.
Alex sospirò. "Va bene. Forse è meglio se
rientriamo, è ora di pranzo e Lisa starà
faticando per tenere Dan fuori dalla cucina".
Ridacchiai. "Gli vuoi davvero tanto bene", mormorai poi, un attimo
prima che aprisse la portiera.
"Certo che gli voglio bene: è la mia famiglia. E sono sicuro
che presto tutto si sistemerà anche per te, sorellina", mi
rassicurò in fretta, accarezzandomi una guancia.
"Lo spero", sussurrai.
"E ricordati che voglio un bel nipotino! Così la mamma non
avrà solo Dan da strapazzare".
A quelle parole, forse un po' avventate, ma dette senza nessuna
cattiveria, abbassai lo sguardo. "È quello che vorrei
anch'io", mormorai.
"Scusa, sorellina", esclamò Alex allungandosi ad
abbracciarmi. "Dovrei pensare a quello che dico...".
"Non importa. Io devo imparare a non pensarci troppo, invece".
"È norm...".
"Non dirlo" lo interruppi, sciogliendo l'abbraccio e scuotendo la
testa. "Non voglio sentire quella parola, Alex. Mai più".
Mio fratello mi guardò per un attimo spaesato, poi
annuì. "Promesso", disse, allungando il mignolo. Abbozzando
un sorriso, lo strinsi con il mio, come facevamo da piccoli.
"Ora andiamo", dissi sbloccando la portiera e scendendo dalla macchina.
Presi un respiro profondo e, dopo essere stata certa che non sarei
scoppiata a piangere seguii Alex sul vialetto.
"Zia!", esclamò Dan, il mio bellissimo nipotino, spalancando
la porta e correndomi incontro. Lo presi in braccio e gli diedi un
rumoroso bacio sulla guancia, ridendo quando se a pulì con
la manica della felpa con una smorfia.
Mentre entravamo in casa lo rimisi per terra e corse a prendere i nuovi
giocattoli da farmi vedere.
Adoravo Dan. Era un bellissimo bambino, dai capelli castani, gli occhi
verdi come quelli della madre e un dolcissimo sorriso sdentato. Ogni
volta che mi vedeva mi saltava addosso, trascinandomi nella sua stanza
dei giochi, dove entrambi ci divertivamo un mondo insieme.
Quando era nato, tre anni prima, per un attimo avevo temuto che lo
avrei odiato, perché mi avrebbe ricordato troppo il bambino
che io avevo perso. Invece, quando lo avevo preso in braccio per la
prima volta, ero stata costretta ad ammettere che non sarei mai stata
capace di provare odio verso un esserino così indifeso. Ero
invidiosa di Lisa, però, e di come abbracciava il suo
piccolo, con quello sguardo adorante, che rivolgeva anche a mio
fratello, come se non ci fosse vita migliore della sua. Sapevo che era
sbagliato e me lo ero ripetuta centinaia di volte, però
davvero non riuscivo a sopportare tutto l'amore che sprigionavano tutti
assieme, per questo avevo limitato il più possibili i pranzi
di famiglia alle feste più importanti e alle occasioni
indispensabili. Per il resto del tempo, inventavo scuse su scuse,
stupendo addirittura me stessa per la mia immaginazione.
Un po' mi dispiaceva, però. Non tanto per mia madre, che in
ogni caso piombava a casa mia quando voleva e non si faceva scrupoli ad
autoinvitarsi a pranzo o a cena da me. Mi diaspiaceva per Lisa e Dan,
che vedevo molto raramente, complice anche la distanza delle nostre
abitazioni e il fatto che non avessi una macchina.
Con Lisa avevo creato subito un rapporto di amicizia. Da quando Alex
l'aveva portata a casa, una sera di tanti anni prima, per farcela
conoscere, avevo apprezzato i suoi modi calmi ma spigliati e avevo
pensato che fossero l'esatta medicina per l'irruenza di mio fratello.
Spesso, nei primi tempi, uscivamo noi due, la sera, e ci ritrovavamo a
spettegolare sui nostri fidanzati e mi ero ritenuta fortunata ad avere
acquistato un'amica che sapeva darmi i giusti consigli per fare
impazzire il mio uomo. Lisa sapeva tutto di Adam e, ovviamente, era
presente quando la nostra storia finì. Malgrado la
tristezza, ero davvero contenta di averla al mio fianco, soprattutto
dopo avere perso anche Liz, e il suo aiuto era stato essenziale per
affrontare quei primi mesi della gravidanza e il successivo aborto. Ero
stata contentissima del loro matrimonio, nonostante in quel periodo non
fossi del tutto me stessa dopo la rottura con Adam, e anche dell'arrivo
del loro bambino. Per questo motivo a volte accettavo di uscire a
pranzo con lei, passando qualche ora in compagnia di una donna che
conosceva il mio passato e che mi aveva aiutato a superarlo, entrando a
fare parte della mia vita in pochissimo tempo.
"Amanda!", mi salutò mia madre, affacciandosi dalla cucina.
Mi riscossi dai miei pensieri, sfilandomi la giacca e appoggiandola sul
divano. "Hai bisogno di aiuto?", chiesi raggiungendola, salutando con
un bacio sulla guancia Lisa che era impegnata a mescolare qualcosa in
una pentola.
"Certo. Pela le patate e affettale", mi ordinò, indicando il
lavoro che mi aspettava con la punta del coltello che stava usando.
Annuii e mi misi al lavoro, per essere poi interrotta pochi minuti dopo
dal tornato Dan, che si precipitò in cucina e si
arrampicò sulle mie gambe, mostrandomi la nuova macchinina
che gli aveva regalato la nonna.
"Che bella", esclamai, appoggiando il coltello.
Mi voltai verso Alex, che ci guardava appoggiato allo stipite della
porta con un sorriso affettuoso e compiaciuto. Sapevo che era
soddisfatto del suo presente ed ero contenta che si fosse creato una
famiglia. "Lo porto a giocare?", gli chiesi.
Alex annuì. "È da giorni che scalpita per
mostrarti la nuova pista".
Con un sorriso, feci scendere Dan dalle mie ginocchia e lo presi per
mano. "Chiamateci quando è pronto", dissi, salutando mia
madre con una mano e ignorando la sua occhiataccia. Sapevo che
detestava la gente che lasciava le cose a metà, soprattutto
se queste riguardavano il cibo. Da quando era diventata nonna, infatti,
aveva iniziato a dedicare anima e corpo alla cucina e tutte le volte
che veniva a trovarmi si presentava con una teglia di lasagne, una
torta o qualsiasi cosa di commestibile fosse uscita dal suo frigo.
Mi lascia trascinare da Dan nella sua cameretta e mi sedetti per terra
con lui, guardandolo divertita mentre mimava con la voce i rumori delle
macchine. Quasi non mi accorsi del tempo che passava e, quando Lisa
venne a chiamarci, ci trovò intenti a fare una gara su chi
lanciava più lontano le macchinine.
Il pranzo passò veloce e, a parte un piccolo accenno ad
Austin, mia madre non mi chiese niente sul mio ex fidanzato, ma sapevo
benissimo che l'interrogatorio sarebbe presto arrivato.
Infatti, appena Dan corse di nuovo a giocare, mia madre si
sfilò i guanti con cui stava lavando i piatti e mi costrinse
a sedermi, sotto lo sguardo divertito ed esasperato di Lisa e Alex, che
non ebbero il coraggio di intervenire.
In fondo me l'ero cercata, pensai. Nonostante fosse passato quasi un
mese, non avevo acennato nulla a mia madre sulla rottura con Austin, a
parte ovviamente che era avvenuta. E sapevo bene che non si sarebbe mai
accontentata di una così magra spiegazione, così
mi ero ritrovata a dover inventare una scusa plausibile per non
nominare Adam che, nemmeno a farlo apposta, mia madre non voleva
nemmeno vedere, ancora in collera con lui dopo quello che era successo.
Peccato, però, che non avevo messo in conto le sue
qualità da investigatrice perché, la prima cosa
che mi chiese fu proprio quella. "Hai incontrato Adam?".
In un primo momento mi ero bloccata, sopresa quando Alex e Lisa che la
guardavano a bocca aperta, poi avevo sospirato e annuito.
"E Austin ti ha mollata", continuò, facendo una smorfia
sull'ultima parola.
"Non è andata proprio così", mormorai io, un po'
in imbarazzo a dover parlare della mia vita privata con mia madre.
"Il risultato non cambia", mi fece gelidamente notare.
"Lo so", risposi. "Ma siamo rimasti comunque amici".
"Amici", ripetè corrugando le labbra, come se stesse
pronunciando una bestemmia.
"Senti mamma, con Austin è tutto a posto e...".
"E con Adam? Gli stai correndo di nuovo dietro?".
Sospirai. Sapevo che sarebbe finita così, per questo non
volevo accennare la sua presenza. Dopo tutto quello che era successo,
infatti, mia madre se l'era presa soltanto con lui, accusandolo di
avermi messa incinta e poi mollata come la peggiore delle sgualdrine. A
niente erano valsi i miei tentativi di spiegarle che la colpa era mia,
di ogni cosa. Per lei ero solo la sua bambina, che era stata violata
dall'uomo cattivo, nemmeno fossimo rimasti nel medioevo.
"Non ti permetterò di riprovarci, per poi finire come
prima!", esclamò, incrociando le braccia.
"Non hai nessun potere decisionale su chi io possa frequentare e chi
no", le feci gelidamente notare, imitando il suo gesto.
"Certo che sì, sono tua madre".
"Non puoi comunque decidere della mia vita privata", ribattei.
"Ma posso decidere se un uomo merita la tua attenzione o ti sta facendo
solo soffrire".
"Non sai come sono andate le cose", sbottai. "E Adam merita la mia
attenzione".
"Come il bambino che ha abbandonato cinque anni fa?", sputò
velenosa.
In quel momento Lisa e Alex uscirono dalla cucina, chiudendosi la porta
alle spalle e prevendendo una litigata coi fiocchi.
"Devo ricordarti che quel maledetto bambino non è nemmeno
nato?".
"Non significa nulla, Amanda. Lui ti ha abbandonato e ha abbandonato
suo figlio. Un uomo così non merita nemmeno di respirare la
tua stessa aria".
"Già che ci sei, perché non convinci anche il mio
cuore a non amarlo più?".
"Non dire stupidate, non puoi amarlo ancora".
"Lo amo, invece. Come tu hai amato mio padre per tutti questi anni e
non hai avuto il coraggio di trovarti un altro uomo", le rinfacciai,
accorgendomi subito della cattiverai della mia frase, ma non trovando
le forze per fermarmi.
Mia madre scosse la testa. "È diverso", sussurrò
solo.
"E invece e la stessa fottutissima cosa", sbottai io. "Quel bastardo ci
ha abbandonati, esattamente come Adam ha fatto con me, eppure entrambe
non riusciamo a smettere di amarli. Sinceramente, non voglio sapere
come fai a provare un sentimento così bello verso un uomo
che ha passato la maggior parte della sua vita tra le gambe di altre
donne".
"Credi che Adam non sia stato con altre ragazze?".
"Non mentre era con me", risposi sicura. "Sono io quella che l'ha
tradito, mamma. Mi sembrava di avertelo ripetuto mille volte".
"Avete sbagliato entrambi, ma...".
"Una mano non lava l'altra, mamma. E io non lo biasimo per avermi
lasciato: anche io mi sarei comportata allo stesso modo se le parti
fossero state invertite".
"Ma tu aspettavi suo figlio", ripeté.
"E io ho scopato con un'altro mentre aspettavo suo figlio", esclamai
esasperata.
"Questo non lo autorizzava ad abbandonarti", sentenziò
scuotendo la testa e facendo una smorfia davanti al mio linguaggio non
proprio fine.
"Non sei tu che devi giudicare".
"Io voglio solo proteggerti. Per questo non voglio che tu lo
frequenti", cercò di spiegarmi, non accorgendosi che le sue
parole mi fecero solo infuriare maggiormente.
"Non mi proteggerai allontanandomi da lui. E, in ogni caso, non
ascolterei il tuo divieto nemmeno se mi puntassi una pistola alla
tempia".
"Sei sempre stata testarda, ma non ti credevo anche stupida",
mormorò, guardandomi negli occhi e un coltello mi
affondò nel cuore quando lessi la delusione nel suo sguardo.
"Sarò anche stupida, mamma. Ma io non lo lascerò
scappare di nuovo", dissi, voltandole le spalle e spalancando la porta
della cucina.
"Abbi almeno la decenza di non farti mettere di nuovo incinta", disse
prima che superassi l'uscio.
Mi fermai per un attimo, stringendo forte i pugni e cercando di frenare
le lacrime. Erano anni che non avevamo litigate così feroci
e mi ero dimenticata quando facesse male, poi.
Raggiunsi in fretta il soggiorno, indossando il cappotto sotto lo
sguardo triste di Lisa, che mi abbracciò mentre Alex andava
a prendere le chiavi dela macchina.
Non parlammo per tutto il tragitto, ma quando si fermò sotto
la mia palazzina, Alex si sporse e mi abbracciò forte,
tenendomi stretta a se per qualche secondo. Spevo quanto odiasse
sentirci litigare e vederci così divise, ma io e mia madre
eravamo troppo uguali, entrambe testarde e orgogliose, forse troppo per
ammettere di avere sbagliato.
Lo salutai con un bacio sulla guancia e salii in fretta in casa.
Mi fermai un attimo, quando aprii la porta, ad osservare il mio
appartamento immerso nel buio e illuminato solo dalla luce che entrava
dalle tapparelle chiuse male. Era normale che mi sentissi
così sola, a casa mia?
Entrai con un sospiro e, all'improvviso, mi ricordai di aver lasciato
Wulfie da Austin e di essere veramente da sola.
Sforzandomi per non scoppiare a piangere, mi spogliai e mi fiondai
sotto la doccia, facendo partire il mio cervello e rivangando tutta la
discussione con mia madre.
La capivo, accidenti se la capivo, ma non potevo permetterle di
mettersi in mezzo nella mia vita intima, che già era
abbastanza incasinata di suo. Potevo capire anche il suo odio per Adam,
anche se ingiustificato, ma non il suo sciocco divieto, che mi
invogliava solo a fare il contrario, come una stupida adolescente.
Quando uscii dalla doccia, più di mezz'ora dopo, il bagno
era pieno di vapore e dovetti aprire la finestra per raffreddare il
locale.
Ero talmente immersa nei miei pensieri che quasi non sentii il telefono
suonare, accorgendomene solo quando aprii la porta del bagno e, ancora
gocciolante, mi stavo dirigendo in camera. Non feci in tempo a prendere
la chiamata e sospirai, accorgendomi subito della notifica che mi
avvisava delle sette telefonate perse.
Aggrottai le sopracciglia. Una di Alex, una di Austin e ben cinque di
Adam, in soli trenta minuti. Che cavolo era successo?
Feci per ricomporre l'ultimo numero ce mi aveva chiamata quando il
telefono suonò di nuovo, facendomi sobbalzare.
Riconobbi il mittente e risposi veloce. "Adam?", chiesi, leggermente
preoccupata.
"Amanda", rispose lui con un sospiro e sentii la sua voce tremare nel
pronunciare quelle lettere.
"Che succede, Adam?", incalzai, stringendomi nell'accappatoio e
rabbrividento, non capii se per il freddo del pavimento sotto i miei
piedi nudi o i rumori strani dall'altra parte della cornetta.
"Amanda", ripeté, perdendo quasi la voce alla fine del mio
nome, come se si stesse trattenendo dal piangere.
Che cavolo... "Adam, mi stai facendo preoccupare", esclamai. "Si
può sapere che ti prende?".
"Amanda", ripetè per la terza volta. "Mio padre... Dio, mio
padre...", singhiozzò e mi bloccai, accorgendomi che si era
messo davvero a piangere.
"Dannazione, Adam", esclamai io. "Chè è succeso a
tuo padre?".
Lo sentii prendere un respiro profondo per calmare i singhiozzi.
"È in ospedale. Mandy, mio padre ha avuto un infarto".
Salve
gentee!
Lo
so, sono in ritardo, ma nemmeno così tanto dai, visto che
non avrei nemmeno dovuto pubblicare oggi, ma un colpo di fortuna mi ha
regalato dieci minuti per rileggere il capitolo!
Passando
a questo: finalmente si incontra il resto della famiglia di Amanda. Per
quelli che mi seguono fin dall'altra storia li avrete riconosciuti, per
gli altri, beh, Alex è il fratello e la madre... credo che
non abbia mai avuto un nome! Va beh, tralsciando... Alex si
è sposato e ha avuto anche un figlio, Dan. Fino a qua tutto
nella norma.
Quante
di voi avevano indovinato che il litigio sarebbe stato con la madre?
Beh, per chi la conosce già, sa che è una donna
testarda e orgogliosa, come Amanda e che quindi il suo attegiamento
è piuttosto prevedibile: teme per sua figlia e cerca di
porle dei divieti. Il problema è che Amanda ormai
è una donna indipendente, che non si farà mettere
i piedi in testa da nessuno, figurarsi da sua madre!
Sull'ultima
frase non dico nulla e vi lascio così, anche senza spoiler
perché non ho davvero tempo di metterlo!
A
presto
mikchan
|
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Capitolo 11 *** Sense and sensibility ***
11- BETWEEN
SENSE AND SENSIBILITY
Il ticchettio degli stivali rimbombava tra le pareti vuote del
corridioio dell'ospedale.
Stavo correndo come mai avevo fatto nella mia vita, nemmeno per
prendere un autobus o per l'ora di ginnastica a scuola, ma ad ogni
passo la strada sembrava sempre più lunga.
L'edificio era praticamente vuoto, se si escludevano i pochi medici che
gironzolavano a quell'ora tarda, ma avevo già sbagliato
strada due volte per trovare il reparto di cardiologia. E la colpa era
tutta di quell'imbecille alla reception, che mi aveva indicato la
strada sbagliata perché era troppo impegnata a parlare al
telefono con il suo uomo. Mi ero trattenuta dall'insultarla e le avevo
lanciato un'occhiata infuriata, prima di correre alla ricerca di Adam.
Mi aveva chiamata quasi un'ora prima, scoinvolto, e avevo impiegato
qualche minuto per farlo calmare e farmi dire dove era stato ricoverato
suo padre. Dopodiché, mi ero cambiata in fretta e avevo
contattato l'unica persona che, in quel momento, avrebbe potuto darmi
una mano: Austin. Senza una parola, senza uno sguardo d'accusa, si era
precipitato a casa mia e mi aveva accompagnato di corsa all'ospedale,
lasciandomi all'entrata con un saluto preoccupato e la promessa di una
chiamata. Per l'ennesima volta mi ero chiesta come facesse ad essere
sempre così buono e disponibile con me, ma alla fine avevo
rinunciato a trovare una risposta, sapendo che Austin era
così proprio perché era lui, quel ragazzo dolce e
gentile che ancora amavo e che aveva messo da parte le sue gelosie e le
sue paure accettando di vedermi accanto ad un altro uomo.
E fu quando il pensiero di Adam raggiunse la mia mente che svoltai il
corridio giusto, trovandomi davanti a una sala d'aspetto vuota. L'unica
sedia, nell'angolo più nascosto, era occupata da Adam che,
chino sulle ginocchia, si teneva la testa tra le mani e, anche senza
vederlo in volto, la sofferenza che emanava era talmente forte che mi
stordì un attimo e mi costrinse a fermarmi a riprendere
fiato.
Poi, lentamente, passo dopo passo, mi avvicinai e mi sedetti sulla
sedia accanto alla sua. "Adam", dissi solo, allungando la mano e
appoggiandola sulla sua spalla. Lui si mosse talmente velocemente che
quasi non mi accorsi delle sue braccia che si aggrapparono alle mie
spalle, stringendole con una forza data dalla disperazione e alla
ricerca di un po' di supporto. Ricambiai l'abbraccio e sentii le sue
lacrime bagnarmi il collo, ma non dissi nulla, limitandomi ad
accarezzargli i capelli e la schiena.
Sapevo che non servivano parole in quelle occasioni e, in ogni caso,
non avrei saputo cosa dire. Erano anni che non vedevo suo padre, ma mi
dispiaceva seriamente per lui, soprattutto per il rapporto che avevamo
creato quando ancora stavo insieme ad Adam. Certo, era sempre stato un
uomo un po' freddo e rigido, ma amava i suoi figli più di se
stesso e ci aveva solo messo del tempo per imparare a dimostrarlo. Per
questo sapevo che Adam stava soffrendo tantissimo, soprattutto dopo
aver riallacciato i rapporti con suo padre e aver ammesso a se stesso
quanto il suo affetto fosse indispensabile per lui.
"Io non posso vivere senza di lui", lo sentii sussurrare qualche minuto
dopo, quando ebbe finito tutte le lacrime da versare.
"E non dovrai farlo", risposi sicura. "Tuo padre è forte,
vedrai che ce la farà", lo rassicurai, stringendolo sempre
di più a me e sentendolo stringere tra i pugni la giacca
sulla mia schiena.
"Era da settimane che non lo sentivo", mormorò poi,
sciogliendo piano l'abbraccio ma mantenendo comunque un contatto con il
mio corpo e stringendomi al suo petto.
"Non iniziare a incolparti", lo ammonii dandogli una pacca sul braccio.
"Io non...".
"Amanda!".
Mi voltai di scatto, riconoscendo immediatamente quella voce. "Julia",
mormorai, alzandomi e correndo ad abbracciare la sorella di Adam.
"Sono contenta che tu sia qui", disse dandomi due baci sulle guance e
sorridendomi. Per un attimo, rimasi spaesata. Mi sarei aspettata urla e
insulti dalla sorella dell'uomo che avevo tradito, e invece lei mi
sorrideva tranquilla, accarezzandosi dolcemente la pancia che, mi
accorsi solo dopo, era decisamente prominente.
"Congratulazioni", dissi accennando un sorriso e vedendo dietro di lei
avvicinarsi un uomo sui quarant'anni, alto e brizzolato, ma molto
attraente. "Mi dispiace per tuo padre", continuai, lanciando
un'occhiata ad Adam che si era alzato e stava stringendo la mano al
compagno di Julia.
"Se almeno ci dicessero qualcosa", sospirò lei, passandosi
una mano tra i capelli e sedendosi.
"Dovevi stare a casa", la rimproverò il fratello, sedendosi
accanto a lei e prendendole la mano.
Rimasi per un attimo in piedi a guardarli, così vicini,
così uguali, così uniti. L'amore tra fratelli era
una cosa fantastica e potentissima, forse ancor di più di
quello che esiste tra due amanti. E i loro sguardi ne erano la prova:
si leggeva la preoccupazione, ma anche la forza che traevano l'uno
dall'altro in quella situazione così difficile.
"Salve, io sono Ben, il marito di Julia", si presentò
l'uomo, allungando la mano con un mezzo sorriso tirato.
Mi riscossi dai miei pensieri e annuii lievemente, imitando il suo
gesto. "Amanda", risposi solo, non sapendo che definizione darmi.
Cos'ero per Adam? Un'amica, la ragazza, una pretendente? Forse nessuna
di queste, ma non era quello l'importante.
Adam alzò lo sguardo e incontrò il mio,
sorridendomi e facendomi segno di sedermi accanto a lui. Mi avvicinai
ma, prima che potessi accomodarmi sulla sedia di fianco, mi
afferrò per la vita e mi trascinò sulle sue
gambe, immergendo il volto sulla mia spalla, tra i miei capelli, e
respirando profondamente.
"Cosa dicono i dottori?", chiese Ben, prendendo posto accanto a Julia e
stringendole le spalle con un braccio.
"Niente", sussurrò Adam e rabbrividii quando il suo respiro
si scontrò con il mio collo.
"Non sei andato a chiedere?", domandò Julia, sospirando.
"Certo che sì", ribatté Adam piccato. "Ma mi
hanno detto che devo aspettare che vengano a cercarmi".
Julia sbuffò, massandosi la cima della pancia. "Che palle",
brontolò e non potei fare a meno di sorridere, notando
quanto poco fosse cambiata anche lei.
"Da quanto sei qui?", chiesi ad Adam, muovendomi sulle sue gambe per
guardarlo negli occhi.
"Non lo so", ammise. "Mi hanno chiamato verso mezzogiorno, mentre ero
ancora in clinica, ma non mi hanno voluto dire nulla per ore. Quando il
dottore finalmente si è degnato di rivelarmi che mio padre
ha avuto un infarto ti ho chiamato subito", disse senza distogliere lo
sguardo e io arrossii.
"Hai mangiato qualcosa?", gli chiesi poi.
Lui scosse la testa. "Non voglio muovermi di qua".
Io annuii, capendo subito il motivo per cui non volesse andare in giro,
rischiando di perdere il momento in cui qualcuno si fosse deciso a dire
qualcosa ai parenti di quell'uomo.
Julia stava per parlare, ma fu interrotta dalla porta del reparto, che
si aprì per fare passare un medico e due infermiere.
Mi alzai di scatto dalle gambe di Adam, che mi imitò subito,
rivolgendosi poi al dottore che si stava avvicinando a noi. "Come
sta?", chiese serio, senza tanti giri di parole.
"Meglio", rispose il medico. "Però deve passare la notte per
poterlo considerare del tutto fuori pericolo"
Julia sospirò di solievo, lasciandosi abbracciare da Ben.
"Potete andare a casa", continuò il dottore.
"No!", esclamò Adam, stringendo i pugni. "Voglio vederlo".
"Non è possibile. Dovrà aspettare domani
mattina", commentò placido il medico, come se non fosse
stato colpito dallo scatto di Adam.
"Non m'interessa", sbraitò quest'ultimo, scuotendo la testa.
"È mio padre ed io... ed io...".
"Adam", lo richiamai, afferrandogli una mano e stringendola forte. "Non
potresti parlargli comunque", dissi, cercando di farlo ragionare.
Capivo il suo stato d'animo e la sua voglia di vedere suo padre, ma
insistere e arrabbiarsi non avrebbe concluso niente, se non renderlo
più nervoso del necessario.
"Lo so", mormorò, abbassando la testa e sospirando. "Ma...".
"Torniamo domani, te lo prometto", lo rassicurai.
"Non posso lasciarlo da solo".
"Ma non è da solo, Adam! Un'intero ospedale è qui
per lui, tu non potresti fare nulla comunque", intervenne Julia. "Vai a
casa e riposati. Domani mattina potrai tornare e scommetto che
sarà anche sveglio, vero dottore?".
Questo ci guardò un attimo spaesato, poi annuì.
"Ci sono buone probabilità che si svegli in giornata",
confermò. "L'intervento è andato bene, ora deve
solo recuperare le forze".
Adam fece per commentare, poi sospirò e annuì.
"Va bene", mormorò.
Sorrisi e aumentai la presa sulla sua mano. "Vai a casa, Adam".
"Vieni con me", mi chiese di getto, fissandomi con quei suoi occhi
chiari e arrossati per le lacrime.
"Co... come?", babettai, incerta se ammettere di avere capito bene o
sperare di avere avuto una specie di visione auditiva.
"Stai con me, questa sera. Non voglio fare niente", aggiunse svelto.
"Solo non voglio restare solo".
Io esitai un attimo, poi annuii. Quanto avevo sperato di sentire quelle
parole, nelle ultime settimane? Il solo fatto che richiedesse
apertamente la mia presenza e non quella della sorella o di un'altra
donna era un passo enorme per la nostra "relazione". Significava che
contavo ancora qualcosa per lui, che non ero solo un passatempo o una
prova per rassicurarsi sui suoi sentimenti. E non m'importava se per il
momento non avessimo nemmeno raggiunto la base uno, quella del semplice
bacio, perché quella richiesta valeva molto di
più anche del miglior sesso di questo mondo.
Adam sorrise stancamente. "Grazie", mormorò.
"Non è un problema", lo rassicurai. "E poi in questo modo
posso assicurarmi che tu mangi qualcosa e che vada a dormire:
conoscendoti, passeresti tutta la notte davanti alla televisione con in
mano una lattina di birra", scherzai, ridacchiando nervosamente.
Adam mi fissò in silenzio per un attimo, senza cambiare
espressione. "Già, credo che tu abbia ragione", rispose
lentamente, mantenendo lo sguardo fisso nel mio.
Io annuii, silenziosamente e lo guardai infilarsi la giacca, percependo
una sensazione di mancanza quando staccò la mano dalla mia
per salutare il dottore, che lo rassicurò per l'ennesima
volta sulle condizioni di suo padre. Non potei fare a meno di
sorridere, però, quando strinse di nuovo la mia mano nella
sua, mentre uscivamo dall'ospedale. Erano tanti piccoli gesti, alcuni
quasi invisibili, ma stavano facendo rinascere la speranza.
Salutammo Julia e il suo compagno con un bacio, mettendoci d'accordo
sull'ora per il giorno successivo. Poi seguii Adam alla sua macchina,
in silenzio, così come passammo tutto il viaggio verso casa
sua. Nessuno disse niente, ma bastavano le occhiate che ci lanciavamo
nei momenti in cui pensavamo che l'altro non ci vedesse a confermarmi
che non era tutto solo frutto della mia immaginazione. Non mi stavo
inventando nulla per autoconvincermi dell'affetto di Adam: quello
c'era, probabilmente c'era sempre stato e il mio compito era solo
quello di tirarlo fuori di nuovo. Quasi senza che me ne accorgessi,
Adam parcheggiò in una delle zone residenziali della
città, uscendo dall'auto e aspettando che lo raggiungessi.
"Che bella casa", sussurrai, guardando la villetta che mi ritrovavo
davanti e chiedendomi se fosse triste abitare in una dimora
così grande da solo. Adam scrollò le spalle. "Non
è nulla di che", minimizzò, aprendo il
cancelletto e precedendomi lungo il vialetto illuminato dai lampioni
che davano sulla strada.
Lo seguii silenziosamente all'interno, prendendomi un attimo per
ammirare l'ingresso sobrio e maschile, perfetto per lui, con il
mobiletto per le scarpe e l'appendiabiti in legno scuro e un piccolo
quadro con la sua famiglia appeso proprio davanti alla porta, come per
ricordarsi ogni volta da dove venisse.
Lasciai la giacca accanto alla sua e mi sfilai gli stivali, imitando i
suoi gesti automatici e abitudinari. Poi gli andai di nuovo dietro,
arrivando in cucina e sedendomi su una sedia, guardandolo mentre apriva
il frigo.
"Vuoi qualcosa da bere?", mi chiese.
"Dell'acqua, grazie".
Lui annuì solamente, afferrando una bottiglia di vetro e
appoggiandola sul bancone vicino a due bicchieri che riempì
subito, porgendomene poi uno.
Bevemmo in silenzio, senza guardarci negli occhi e, un po' in
imbarazzo, pensai a perché avessi deciso di accettare il suo
invito. Il mio sì poteva avere mille motivazioni, dal
bisogno di stare con lui e consolarlo, quella notte, alla semplice
voglia di lasciarmi andare al mio cuore e ammettere che tutta quella
situazione mi stava stretta. Insomma, mi ero ripromessa di
conquistarlo, passo dopo passo, ma ogni volta era difficile resistere
alla tentazione di baciarlo, di stringemi a lui come aveva fatto poco
prima all'ospedale e di perdermi nei suoi occhi. Okay, questo lo facevo
comunque, ma, seriamente, com'era possibile non farsi inglobare da quei
due pozzi azzurri e infiniti, luccicanti come delle stelle e profondi
come il mare?
Tuttavia non potevo non ammettere che essere lì con lui, in
quella cucina immersa in un silenzio innaturale, mi stava mettendo a
disagio. La realtà era che non sapevo cosa fare, se potevo
permettermi di azzardare qualcosa in più o se dovevo fare
semplicemente la parte dell'amica. Ed era questo che mi dava
più fastidio, il non sapere come agire, come comportarmi con
lui, con la perenne paura di sbagliare qualcosa e farlo scappare, ma
allo stesso tempo di non cogliere in tempo l'occasione e perderlo per
sempre. Era un continuo tira e molla tra decisione e indecisione, tra
istinto e ragione, tra la voglia di averlo subito e quella di averlo
per sempre e la parte più difficile era trovare un
compromesso e impegnarmi a mantenere quella posizione.
Il rumore del bicchiere posato sul tavolo mi riscosse dai miei pensieri
e, alzato lo sguardo, incontrai gli occhi di Adam, quell'azzurro che
tanto amavo, ma striato da pagliuzze rosse dovute al pianto e di sicuro
alla stanchezza.
"Ti va di mangiare qualcosa?", gli chiesi, sorridendo dolcemente.
Lo si strinse nelle spalle. "Vado a farmi una doccia",
mugugnò, lasciandomi da sola in cucina.
Rimasi per un attimo immobile a fissare il punto in cui prima c'era
lui, alla ricerca di una spiegazione al suo comportamento. Prima mi
invitava a casa sua, poi mi fissava in modo insistente e alla fine mi
mollava da sola, come se nulla fosse.
Non sapevo davvero come interpretare i suoi gesti! Se fosse stato per
il mio istinto, avrei mollato quello stupido bicchiere sul tavolo e lo
avrei seguito in bagno, accettando ogni conseguenza di quel gesto. Lo
desideravo come non mai: che male c'era se mi facevo avanti? Peccato
che la mia parte razionale adorasse mettere lo zampino nelle idee
migliori che mi spuntavano e, solo per quello, non mi ero ancora mossa
da dov'ero, maledicendo me stessa per la mia codardia.
Sbuffando, misi i bicchieri nel lavello e aprii il frigo, alla ricerca
di qualcosa di commestibile con cui preparare una cena veloce. Sopra la
mia testa sentii l'acqua iniziare a scorrere e fui certa di avere pochi
minuti, sapendo quanto Adam odiasse perdere tempo sotto la doccia.
Oddio, il fatto che insieme avessimo perso un sacco di tempo sotto il
getto caldo dell'acqua era decisamente rilevante, ma non era il
pensiero giusto per restarmene al mio posto, in cucina o, in ogni caso,
lontana da lui. Per il momento.
Sbuffai di nuovo e afferrai una confezione di bistecche, optando per
del semplice pollo al limone con insalata e pomodori, unica cosa che
avevo trovato in quello che sembrava un deserto e non un frigorifero.
Cercai una padella e la misi sul fuoco, aspettando un secondo per
preparare la carne e iniziando a tagliare l'insalata e i pomodori,
mettendo tutto insieme in una scodella e condendo. Poi presi della
farina e ricoprii le bistecche, ricoprendo la superficie della pentola
di olio e appoggiandoci sopra la bistecca, facendo attenzione a non
scottarmi. Nell'attesa, presi del limone e ne ricavai del succo, che
versai sopra la carne. Non ebbi nemmeno il tempo di impiattare che Adam
comparve sulla soglia della cucina, con addosso solo un paio di
pantaloni del pigiama che coprivano a malapena i boxer e i capelli
ancora umidi.
"Che profumo", esclamò sorridendo.
Riportai la mia attenzione al piatto, arrossendo fino alla punta dei
capelli. E che cavolo! Non poteva presentarsi davanti a me mezzo nudo e
pretendere che io rimanessi buona e ferma come una bambola! Tra
l'altro, dalla veloce occhiata che gli avevo lanciato, dovevo ammettere
che Adam era decisamente più bello di cinque anni prima. Il
suo corpo era più adulto, il petto più ampio, i
muscoli più definiti, il suo pomo d'Adamo più
evidente, così come i tratti del suo viso, più
severi e disegnati, ma eccitanti forse il doppio, con quelle guance
ricoperte da un accenno di peluria e gli zigomi più
accentuati.
Sentii la sedia muoversi contro il pavimento e, dopo aver preso un
respiro profondo, mi voltai e gli posai il piatto davanti, mettendone
un'altro per me al posto di fianco a lui. Presi la ciotola con
l'insalata e la bottiglia d'acqua e mi sedetti, cercando in tutti i
modi di non fare vagare lo sguardo sul suo corpo.
Se il mio istinto mi diceva di saltargli addosso, la mia parte
razionale mi imponeva di aspettare i suoi tempi e di lasciare che
facesse lui il primo passo. Non volevo fare la figura della ninfomane
assatanata, giusto?
"È molto buono", si complimentò Adam, dopo
essersi spazzolato la carne in pochi minuti. Doveva essere davvero
affamato per inghiottire bocconi interi in quel modo e, dagli occhi
stanchi, avrei giurato che presto sarebbe anche crollato dal sonno.
"Non potevo lasciarti a digiuno", scherzai, imponendomi di guardarlo in
faccia.
"Tranquilla, qualche schifezza da mangiare l'avrei trovata",
ribatté ridendo.
"Appunto, ringraziami per averti salvato dal colesterolo".
"Per compensare domani pranzerò con hamburgher e patatine!".
"Beh, in tal caso puoi dire addio ai tuoi addominali", risposi,
rendendomi subito conto delle parole che erano uscite dalla mia bocca.
Adam si aprì in un sorrisetto malizioso. "Addominali, eh?".
"È colpa tua che vai in giro mezzo nudo. Che colpa ne ho
io?", mi difesi in fretta, arrossendo.
Adam scoppiò a ridere. "Fa caldo qui dentro", rispose con
semplicità. "Non stai morendo con quel maglione?".
Scossi le spalle. "Un po'", ammisi.
"Se vuoi puoi spogliarti, così siamo alla pari".
"Sogna!", sbottai, incrociando le braccia al petto.
Adam rise di nuovo poi, all'improvviso, divenne serio. Stavo per fare
una battutina sul suo essere così lunatico, ma lui mi
precedette. "Grazie", disse solo.
Abbozzai un sorriso. "Sei mio amico, Adam. E io ci sono se gli amici
hanno bisogno".
"Un amico, Amanda?", mi chiese scettico.
"Per ora", precisai ridacchiando nervosa. Dove voleva arrivare?
"E un 'amico per ora', può baciarti?".
Lo fissai a bocca aperta, ripetendomi quelle parole e sentendo il cuore
battere sempre più veloce. "Io...", balbettai, incerta su
cosa rispondere. Ed ecco di nuovo la lotta tra ragione e istinto, un
continuo battibecco su chi dovesse prevalere.
"Okay, fai finta che non abbia detto nulla", disse veloce, abbassando
lo sguardo e passandosi la mano tra i capelli.
Continuai a guardarlo, sentendo la mia coscenza battersi contro la
voglia di alzarsi. Il problema, in quel momento, era cosa sarebbe
successo se avessi dato retta al mio istinto. Come mi sarei comportata,
poi? Sarebbe cambiato qualcosa? O Adam avrebbe cancellato quella serata
tornandosene da dov'era venuto? Il vero problema, in realtà,
quello con la p maiuscola e i lampeggianti intorno, era che io di
problemi me ne facevo fin troppi!
E fu quella considerazione che mi spinse ad allungarmi sul tavolo,
posargli un dito sotto il mento per fargli alzare la testa e esitare un
attimo, persa nei suoi occhi, prima di avvicinarmi al suo volto e
incollarmi alle sue labbra.
Fu un incontro fugace, al sapore di limone, ma allo stesso tempo
eccezionale. Da quanto tempo non toccavo quelle labbra così
morbide e profumate? Troppo, decisamente.
Non ebbi nemmeno il tempo di allontanarmi, dopo quel piccolo bacio a
stampo, che Adam mi aveva afferrato la nuca, facendo scontrare di nuovo
le nostre bocche e iniziando un vero bacio, anche lui con la lettera
maiuscola. E quello, invece, da quanto tempo lo desideravo? Beh,
probabilmente dalla prima volta che l'avevo visto, nove anni prima, in
quell'odioso primo giorno di scuola in cui era cambiato tutto.
Lentamente, con sempre più passione, ci avvicinammo sempre
di più, ritrovandoci avvinghiati nel bel mezzo della cucina.
Non mi erano chiare le dinamiche dei fatti, tra la mente annebbiata e
troppo concentrata su altro, ma presto mi ritrovai seduta sul tavolo,
con Adam in mezzo alle mie gambe. E se non mi ero accorta di quello
spostamento, i movimenti delle sue mani erano invece ben presenti nella
mia mente, che registrava ogni punto che toccavano, veloci e decise, ma
dolci allo stesso tempo. Le sentivo sui miei fianchi, sulla mia
schiena, tra i miei capelli, sul mio seno, sulle mie gambe.
Dappertutto. Ed era una sensazione bellissima percepire il suo tocco e
sentirlo così familiare dopo tanto tempo. E, allo stesso
modo, le mie mani avevano iniziato a percorrere la sua schiena nuda,
ampia e calda, il suo petto, i suoi addominali, la leggera peluria che
li ricopriva e scendeva fino al di sotto dei pantaloni, le sue braccia
forti e avvolgenti.
Ero in paradiso.
"Amanda", ansimò Adam dopo un tempo che mi parve infinito.
Mi staccai dalle sue labbra con un gemito di disappunto e lo fissai con
gli occhi lucidi e la mente appannata. Non gli lasciai il tempo di
finire la frase, aggrappandomi a lui con braccia e gambe e sentendo la
sua eccitazione premere sul mio ventre. La sentivo e la volevo.
"Fai l'amore con me", mugugnai, leccando e morsicando il suo collo
liscio e mascolino.
Adam mi fissò per un lungo attimo negli occhi, come per
avere il mio consenso, dopodiché mi prese in braccio e,
nemmeno pesassi cinque chili, mi trasportò in camera sua,
mollandomi sul materasso e chiudendosi la porta alle spalle.
"Sono tutta tua", dissi, prima che mi raggiungesse sul letto e mi
trasportasse in un altro mondo, il nostro mondo, dal quale non sarei
mai più voluta uscire.
Salve
gente!
Finalmente,
dopo una settimana stressante e piena di verificche, sono riuscita a
completare questo benedetto capitolo.
Allora,
per chi si era preoccupato, il padre di Adam sta bene. Non lo farei mai
morire così, magari non in questo momento, soprattutto
perché scombinerebbe tutti i miei piani. E, visto che in
questa storia io sono un po' come il Dio della vita reale, posso
decidere cosa fare accadere, quindi, tranquilli, nessuna morte in
agguato!
Non
sono molto sicura sull'ultima parte, ma ormai è andata. E,
alla fine, era ora che succedesse qualcosa, non vi pare? È
dall'inizio di questo sequel che volevo farli baciare, ma purtroppo ho
dovuto aspettare.
Ringrazio
di cuore tutti quelli che mi seguono, in particolare Ali_13 e Minelli,
con cui mi scuso per la mancanza di risposta alla recensione del
capitolo precedente!
Vi
lascio uno spoiler del prossimo capitolo.
a
presto
Mikchan
SPOILER
Capitolo 12- "THE FUTURE IS CLOSER THAN YOU COULD NEVER IMAGINE"
[...] Non sapevo cosa sarebbe successo dopo, ma non avevo nemmeno
voglia di pensarci, non se la mia mente era invasa dal suo profumo, le
mie orecchie dai suoi gemiti e la mia bocca dalla sua.
Per il momento c'era solo quello, ed era più che sufficente.
[...]
|
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Capitolo 12 *** The future is closer than you could never imagine ***
12- THE FUTURE
IS CLOSER THAN YOU COULD NEVER IMAGINE
Non avevo bisogno di aprire gli occhi per capire di non essere a casa
mia.
La stanza era decisamente troppo luminosa, primo indizio per indurmi a
pensare di essere da qualche altra parte, visto che io odiavo dormire
con le tende aperte.
Il secondo indizio era il letto o, in alternativa, la cosa che stavo
usando come letto. Ero sicura di non avere nulla di duro e mobile sopra
il mio materasso a casa.
Il terzo indizio erano i ricordi che stavano iniziando a fluire come un
fiume in piena nella mia testa. Va bene che di mattina ero sempre
intontita, ma avrei sfidato a scordarsi certe cose, soprattutto se a
farle era stato quel qualcosa su cui stavo ancora bellamente straiata.
Lentamente, quasi con il timore di stare sognando, aprii gli occhi e mi
ritrovai in una stanza estranea, con le pareti tinteggiate di un
azzurro chiaro, un grande armadio di mogano e la finestra con le tende
spalancate, dalla quale entravano quei fastidiosi raggi di sole che mi
avevano svegliata.
Mugugnai qualcosa, sbadigliando e mi voltai alla mia destra, trovandomi
vicina il volto di Adam, ancora profondamente immerso nel mondo dei
sogni. Mi scostai dal suo braccio, che avevo usato fino a quel momento
come cuscino, e mi persi un attimo a fissarlo, non riuscendo a non
pensare a ciò che era successo solo poche ore prima.
Avevamo fatto l'amore.
Dopo cinque anni di silenzio e dolore ci eravamo finalmente
riappacificati. Eppure, di tutte le considerazioni che avrei potuto
fare su quella notte, l'unica che mi veniva in mente era stata la
dolcezza con cui mi aveva presa, dopo l'irruenza di quei preliminari
tanto voluti e così in fretta soddisfatti. Ed era stato
bellissimo, fantastico, come mai me lo sarei immaginato. Ci eravamo
riscoperti dall'inizio, saggiando ogni parte che credevamo di aver
dimenticato con passione, arrivando entrambi sull'orlo del limite
più di una volta, in quel gioco fatto di baci, sospiri e
sguardi.
Per settimane mi ero chiesta cosa sarebbe successo se mi fossi lasciata
andare, abbandonandomi a quel desiderio che quella sera era esploso. E
i pensieri erano stati mille, anche di più, eppure nessuno
equivaleva a ciò che era successo in realtà. Ero
convinta che me ne sarei pentita, ma se avevo una certezza, quella
mattina, era che tutto era andato perfettamente come doveva andare,
senza dubbi e risentimenti.
E, nonostante tutto, non m'importava nemmeno molto cosa sarebbe
successo una volta che Adam si fosse svegliato. Certo, ci sarei rimasta
male se avesse deciso di chiudere tutto lì, ma almeno potevo
dire di averci provato, in tutti i modi, a riconquistarlo.
Lasciai scivolare di nuovo lo sguardo sul suo volto, sorridendo.
Era così bello quando dormiva. Aveva un'espressione pacifica
e rilassata, come non lo vedevo da tempo e, in qualche modo, mi
sembrava di avere davanti l'Adam di cinque anni prima, quello ancora un
po' ragazzino.
Quel momento era così perfetto, segnava quasi tutto quello
per cui avevo lottato fino ad allora: ero con Adam ed ero felice. Cosa
potevo desiderare di più?
Eppure c'era una vocina maligna che continuava a ronzarmi in testa,
ricordandomi che, per Adam, io ero ancora quella che l'aveva tradito la
stessa sera che gli aveva rivelato di aspettare suo figlio. Era un
dubbio stupido, accompagnato anche da quello che affermava con
insistenza la falsità di quello che era successo, dovuto
solamente alla tristezza di Adam per suo padre, ma non riuscivo a
cancellare quei pensieri. Alla fine, non era poi così
diverso: era vero che avevo accettato di fargli compagnia per
consolarlo, ma, almeno per me, quello che avevamo fatto era stato
dettato solo dalla passione e dal mio amore per lui. L'atto fisico, in
fondo, non era proprio l'emblema dell'affetto spirituale? Beh, io amavo
Adam, ormai non c'era più motivo di nasconderlo a nessuno e
non c'era stato nulla di sbagliato in quella sera.
Eppure, eppure, eppure. Lei era sempre lì, in agguato, a
sottolineare che, se io lo amavo ancora, non era detto che lui provava
gli stessi sentimenti verso di me. Come avrei reagito se, una volta
svegliatosi, mi avrebbe liquidata come l'ultima delle sgualdrine? Ne
avrebbe avuto tutto il diritto, considerando i nostri trascorsi, ma io
sapevo che Adam non era così, che non sarebbe mai stato
così cattivo con me.
Più cercavo di convincere me stessa, meno le mie risposte
sembravano soddisfacenti. Ma non volevo fissarmi con quell'idea, non se
avesse significato rompere il mondo idilliaco che mi circondava da
quando mi ero svegliata. Che senso aveva continuare a riempirsi la
testa di ipotesi e paure, se potevo passare il mio tempo in modo
migliore, ovvero ripercorrendo quello che era successo quella notte?
Mi sfuggii un risolino isterico, segno che non stavo convincendo
nemmeno la parte più stupida del mio cervello, ma cercai di
non pensarci, puntando di nuovo lo sguardo su Adam.
Fui presa da una specie di deja-vu, qualcosa come una visione, che mi
mostrò una scena davanti ai miei occhi perfetta per quella
situazione. Ero ritornata bambina e, seduta sul divano del mio
soggiorno, stavo guardando con occhi luccicanti La Sirenetta,
aspettando impaziente l'arrivo della prossima canzone per cantarla con
Ariel.
Pensandoci con il senno di poi, dovevo ammettere che poteva sembrare
surreale, ma non potei non immaginare Adam al posto di Eric, il bel
principe che Ariel salva dalla tempesta in mare, proprio in quella
scena in cui lei si accorge di esserne attratta.
Timidamente, seguendo il filo dei miei pensieri, mi alzai sui gomiti,
scostandogli una ciocca ribelle dal viso e, sorridendo al ricordo,
intonai a bassa voce le prime note di quella canzone.
"Come vorrei, stare qui
con te
Cosa darei, per restarti
accanto
Vorrei che tu potessi
sorridermi
Mi porterai dove vorrai
E del tuo mondo parte
farò
Accanto a te, sempre
così, solo con te".
Certo, io non ero una sirena e Adam non era un principe, ma quelli
erano solo dettagli. Ariel non poteva stare con Eric per la sua natura,
il mio problema, invece, era il nostro passato e il timore che ancora
ci divideva. Ma, nonostante tutto, sapevo che se solo me l'avesse
chiesto, l'avrei seguito ovunque, anche all'inferno, solo per stargli
accanto. Ed era questa consapevolezza che mi aveva spinto ad
intraprendere quell'avventura, cercando di riconquistare quello che
avevo perduto. Io volevo fare parte del suo mondo, volevo stargli
vicino per il resto della mia vita ed era per questo che quella stupida
vocina si sbagliava: se anche Adam aveva accettato di frequentarmi di
nuovo, significava che qualcosa significavo per lui. E questo era
abbastanza.
Lentamente mi abbassai sulle sue labbra, lasciandogli un leggero bacio
a stampo.
"Quando
accadrà, no, non lo so,
ma del tuo mondo parte
farò.
Guarda e vedrai, che il
sogno mio
Si avvererà".
*
Gli sussurrai le ultime parole all'orecchio, accoccolandomi al suo
fianco. Sapevo che sarebbe stato difficile, ma non mi sarei arresa,
avrei combattuto fino alla fine per prendere quello che desideravo con
tutto il cuore.
Sentii Adam muoversi e mugugnare qualcosa e sperai con tutto il cuore
di non averlo svegliato. Sarebbe stato imbarazzante spiatterlargli in
faccia i miei sentimenti con una canzone della Disney, per quanto
veritiera questa fosse. Chiusi gli occhi, fingendo di dormire e
sobbalzai quando sentii il suo fiato caldo tra i miei capelli e il suo
braccio arpionarmi il fianco, trascinandomi più vicina a
lui.
"Non mi ricordavo di questa tua passione per i cartoni animati",
sussurrò sul mio collo, lasciandomi un piccolo bacio. "E
nemmeno di tutta questa insicurezza".
Abbozzai un sorriso, alzando lentamente le palpebre e incrociando i
suoi occhi azzurri, ancora assonnati e stanchi, ma sempre bellissimi.
"Sai com'è, in mancanza di materia prima".
"Per quello ci sono i porno", mi fece notare sbadigliando.
"E per astinenza da amore ci sono i personaggi dei cartoni", ribattei,
arrossendo. Non mi piaceva mentire, ma avrei taciuto il mio incontro
con siti internet di dubbio gusto. Insomma, ero una persona adulta e
consenziente, con dei bisogni fisici insaziabili dalla Disney ed era
perfettamente normale sfogarsi da soli, l'unico problema era il mio
grande imbarazzo in merito, tale che mi aveva costretta a tenere questo
piccolo segreto anche con Austin. Se l'avessi detto ad Adam, che ci
sguazzava ogni giorno in questo genere di cose, non avrebbe fatto altro
che punzecchiarmi fino alla fine dei miei giorni.
"Mmh", mugugnò, continuando ad accarezzarmi il collo e la
mandibola con la punta del naso. Ero praticamente sovrastata dal suo
corpo, ma non mi dava fastidio, al contrario, mi trasmetteva un senso
di appartenenza immenso e potente. "Non ne hai più bisogno,
adesso", sussurrò, lasciando una scia bollente su tutta la
clavicola con la lingua.
Sobbalzai a quel passaggio e mi trovai ad ansimare quando la sua mano
sparì sotto le coperte e trovò immediatamente il
mio seno nudo. Per un attimo maledii la mia pigrizia, che la sera prima
mi aveva impedito di alzarmi e indossare almeno il reggiseno e le
mutande, finite chissà dove in quella stanza. Quel
sentimento di disappunto scomparve in un attimo, però,
aiutato anche dalle carezze di Adam che, lentamente, si stavano facendo
sempre più profonde e urgenti, così come i suoi
baci che avevano riempito tutto il mio collo e il viso.
Voltai la faccia verso di lui e incontrai subito le sue labbra,
iniziando un bacio come si deve e perdendomi tra le carezze della sua
lingua e delle sue mani.
Scostando velocemente le coperte, Adam si mise a cavalcioni su di me,
strusciando la sua erezione stretta nei boxer sulla mia
intimità e facendomi gemere sulla sua bocca.
Chiusi gli occhi e lasciai scivolare le mani sulla sua schiena,
incontrando subito l'elastico dei boxer e sfilandoglieli in fretta. Non
m'interessava la dolcezza, i lunghi momenti preliminari o qualunque
altra cosa che potesse staccarmi da lui e allontanarmi dal momento di
piacere che agognavo sempre di più. Volevo solo sentirlo. E
amarlo.
Adam sembrò comprendere il mio desiderio perché,
pochi minuti dopo, era già dentro di me, mentre le sue
labbra non smettevano un attimo di percorrere il mio corpo in fiamme.
Da quel momento spensi ogni connessione con il mondo esterno,
preoccupandomi solo di me stessa, di Adam e del piacere che stavamo
condividendo dopo anni di lontananza. Non sapevo cosa sarebbe successo
dopo, ma non avevo nemmeno voglia di pensarci, non se la mia mente era
invasa dal suo profumo, le mie orecchie dai suoi gemiti e la mia bocca
dalla sua.
Per il momento c'era solo quello, ed era più che sufficente.
***
"Quindi si può dire: tutto è bene quel che
finisce bene", commentò il Dottor Klant con un sorriso,
incrociando le dita compiaciuto.
"Sì, beh... diciamo che è più un
inizio", mormorai, arrossendo al ricordo di quello che era successo
qualche giorno prima. Sembrava così surreale, pensandoci,
eppure era tutto vero e stava succedendo a me.
"Shakespeare ha sempre il suo fascino", disse scrollando le spalle,
senza smettere di piegare gli angoli della bocca in quella smorfia
così soddisfatta. Insomma, potevo capire la sua
felicità nel sapere che il motivo della mia presenza
lì era tornato a far parte della mia vita, ma tutto
quell'entusiasmo era eccessivo, se si pensava che Mr Klant conosceva
ogni parte di me e del mio passato. "In ogni caso",
continuò. "È arrivata al suo obiettivo, o mi
sbaglio?".
"No, non si sbaglia", affermai sicura. "Ho combattuto tanto per averlo
di nuovo al mio fianco e sapere che anche per lui sono ancora vivi gli
stessi sentimenti di cinque anni fa è meraviglioso".
"Ne avete parlato?".
"Certamente. È stato così dolce, quella mattina.
Ho sempre sognato di sentirmi dire certe parole, sa?", domandai
retorica, sorridendo come un'ebete. Sapevo di dovermi controllare, ma i
ricordi erano ancora così vividi che pensarci era quasi una
magia, come se accadesse tutto una seconda, una terza, o una ventesima
volta.
"Non so cosa succederà, Amanda. So solo che i miei
sentimenti verso di te non sono cambiati. E solo Dio sa quanto ho
desiderato che accadesse il contrario, in questi anni. Se avessi
imparato ad odiarti, sarebbe stato tutto più semplice. Ma
vallo a dire a quel cretino del mio cuore che non doveva innamorarsi
un'altra volta di te".
Quelle frasi risuonarono nella mia mente, quasi rimbombando. E, come se
stessi rivivendo quella scena, non potei fare a meno di sorridere,
sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Con quelle parole, la stupida
vocina si era dissolta, scomparendo con un eco lontano nei meandri
della mia coscenza e lasciandomi con la consapevolezza di non essere
l'unica a volere di nuovo quel rapporto. Non mi aveva detto quelle tre
parole, ma non mi servivano: erano bastati i suoi occhi azzurri e
sinceri per rassicurarmi.
"Spero che quelle siano lacrime di felicità",
commentò Mr Klant, distogliendomi dai miei pensieri e
continuando a guardarmi pazientemente in faccia, come faceva durante
ogni seduta.
Le asciugai in fretta con la manica della camica, annuendo con vigore.
"Sono felice, davvero".
"Ne sono certo. Le brillano gli occhi, sa? E anche al suo fidanzato",
aggiunse.
"Sarà difficile dimenticare quello che è
successo, anzi, non riusciremo mai a cancellarlo dalla nostra memoria.
Ma forse sarà proprio questo a spingerci a credere in noi
ancora di più", pensai ad alta voce, vedendo il Dottore
annuire.
"Un passo alla volta, se lo ricordi".
"Non me lo dimenticherò, glielo assicuro", affermai certa
delle mie parole.
"E con l'altro ragazzo, come va?", mi chiese poi con un tono gentile e
quasi colloquiale. Ogni volta che parlavo con lui mi sembrava di avere
davanti un vecchio amico o un padre, qualcuno con cui era facile
confidarsi e mostrarsi per quella che ero.
Capii subito a chi si riferisse e sorrisi. "Austin", dissi, come per
ricordare il nome ad entrambi. "Io credo che sia un angelo, sa?
È sempre stato così buono con me, sempre pronto
ad amarmi e a confortarmi. Ha anche deciso di rompere la nostra
relazione per permettermi di essere felice, se ne rende conto?".
"È stato un gesto molto altruista. Ma questo sottolinea solo
quanto questo ragazzo tenesse a lei".
"Lo so. E gliene sarò sempre grata".
"Sono certo che rimarrete buoni amici a lungo. Una persona come lei non
si dimentica, Amanda, e il fatto che entrambi questi uomini si siano
messi in gioco per il suo amore dimostra che lei vale molto".
"Io credo solo che entrambi si siano innamorati della persona
sbagliata. Non mi sto sminuendo", mi affrettai a dire, incontrando il
suo sguardo corrucciato. "Ma ci pensi! Entrambi hanno sofferto molto
per colpa mia e non so con chi mi sono comportata peggio".
"Sa meglio di me che autoconvincersi in questo modo è
deleterio, oltre che sbagliato", mi sgridò.
"Lo so", lo rassicurai. "E non mi pento di averli amati e nemmeno di
averli conosciuti. Sto solo dicendo che, come loro sono stati
sfurtunati ad incrociare il mio cammino, io ho avuto una grande fortuna
a capitare sul loro".
"Non si tratta di sfortuna o fortuna, è semplicemente il
corso degli eventi che l'ha portata lì".
"Già, può essere", mormorai poco convinta.
"Volevo porle un'altra domanda", intervenne dopo qualche minuto di
silenzio. Alzai la testa alle sue parole e incrociai i suoi occhi,
annuendo piano. "So che non vuole parlarne, ma invece credo che le
farebbe bene. Ha discusso col suo fidanzato sulla questione del
bambino?".
Io mi irrigidii, dandogli immediatamente ragione. Odiavo ricordare
quello che era successo e le poche volte che l'argomento era uscito con
Adam ci eravamo ritrovati a litigare. "Più o meno", dissi
quindi.
"Non la voglio costringere a dirmi cose che le fanno male", mi
rassicurò, intuendo il mio stato d'animo dall'indecisione
della mia voce. "Volevo solo farle notare che il tempo sta passando e,
lungi dal passare per indelicato, ma ormai ha quasi trent'anni e, se
questa relazione durerà, arriverà anche il tempo
di figli e matrimoni. Sto parlando a lungo termine, ovviamente".
"Io... io probabilmente non potrò avere figli", mormorai
dopo qualche secondo, abbassando lo sguardo. "Ma, se la domanda era
questa, sì, vorrei passare il resto della mia vita con
Adam".
"Ho letto la sua cartella, Amanda, e non c'è scritto da
nessuna parte che lei non potrà avere dei bambini, in
futuro".
"Poterlo fare fisicamente non dice che io lo voglia", commentai
asciutta. Mi stavo innervosendo, non volevo parlare di quell'argomento
e Mr Klant lo sapeva bene. Allora perché continuava ad
insistere?
"C'è una bella differenza tra non volere e non potere".
"Allora non lo voglio", sbottai.
"Perché?", mi chiese subito, incrociando le braccia al petto
e guardandomi serio.
Esitai un attimo a rispondere. Perché non volevo avere
figli? "Non potrei sopportare di perdere un altro bambino", sussurrai.
"Solo questo?".
"Credo di sì. In fondo, se ho già avuto un ab...
un aborto", continuai, deglutendo rumorosamente. "non è
escluso che io ne possa avere altri. E questo mi spaventa".
"Solo questo?", mi chiese di nuovo.
Io lo guardai negli occhi, confusa. Cosa voleva che dicessi?
"Non ha paura di perdere ancora Adam?", mi chiese e rimasi a fissarlo
inebetita, con la bocca aperta. Era la prima volta che diceva il suo
nome, ma forse era stato quello a fare scattare la molla dentro di me e
a farmi rendere conto che, effettivamente, il mio terrore
più grande era un altro abbandono per colpa di un altro
figlio. Quello non avrei proprio potuto sopportarlo.
"Sì", sussurrai. "Nessuno mi assicura che non reagirebbe
nello stesso modo e, sinceramente, preferisco non avere figli che
soffrire come prima".
"E se fosse lui a chiederle di avere dei bambini?".
"Non lo so", sbottai nervosa. "Non so come reagirei, va bene?
Probabilmente all'inizio rifiuterei, ma poi ci proverei per
accontentarlo".
"Non sarebbe un figlio voluto, allora".
"Senta, perché dobbiamo parlarne adesso?", esclamai, facendo
una smorfia di disappunto e alzandomi in piedi, nonostante mancassero
ancora dieci minuti alla fine dell'appuntamento.
"Perché si tratta del suo futuro", rispose semplicemente.
"Appunto, futuro", ribattei. "Io vivo nel presente, adesso".
Mr Klant mi guardò negli occhi per un attimo, rimanendo in
silenzio. Poi si aprì in un sorriso. "Perfetto. Allora ci
vediamo tra un mese", mi salutò, alzandosi e aprendomi la
porta velocemente.
Confusa, infilai la giacca e afferrai la borsa, seguendolo fuori dallo
studio. "Arrivederci", mormorai, un po' imbarazzata per avere reagito
in modo così esagerato.
"Ah, Amanda", mi richiamò, prima che schiacciassi il tasto
dell'ascensore. "Si ricordi che il futuro non è mai troppo
lontano", disse, lanciandomi un'occhiata enigmatica e chiudendosi la
porta dell'ufficio alle spalle.
Restai un attimo ferma, con la mano alzata e il dito davanti al
pulsanre dell'ascensore.
E quelle parole, alle mie orecchie, suonarono più come una
minaccia che come un semplice dato di fatto.
* "Come vorrei"- La Sirenetta, Disney --> https://www.youtube.com/watch?v=i06xkkornF8
Salve genteeee
Sono sopravvissuta
a un'altra settimana infernale e mi preparo ad affrontane un'altra.
Però non mi dimentico di voi e nei momenti di pausa riesco
sempre a prendere in mano questa storia che piano piano sta prendendo
forma oltre che nella mia mente anche sul computer.
Che dire di questo
capitolo? Credo che la prima parte si spieghi da se. Amanda
è sempre stata insicura e tutta questa situazione priva di
certezze l'ha messa in crisi. Cedere poi ai suoi istinti ha peggiorato
le cose, perché si è accorta che ormai
è troppo tardi per tornare indietro, che il suo amore per
Adam è ancora grande e forte. Così decide di
"vivere alla giornata", di accettare quello che accadrà
senza rimorsi e tenere nel cuore quello che è successo.
Nella seconda parte, però, si spiegano molte altre cose,
oltre al rinnovato rapporto tra lei ed Adam, tra cui Austin e il
bambino. Quest'ultimo è un argomento tabù per
Amanda, ma prima di quando creda si troverà a doverlo
affrontare di nuovo, come ha predetto il caro veggente psicologo.
Bene, ringrazio di
cuore tutti quelli che leggono e mettono questa storia in una lista, in
particolare chi mi segue dall'inizio di quest'avventura.
Vi lascio con un
piccolo spoiler e scappo a studiare psicologia.
Baci
mikchan
SPOILER...
Capitolo tredici: OH, SHIT!
[...] "Bene", disse dopo qualche minuto. "Ho un proposta da farvi. Come
ogni anno, le più grandi case editrici mondiali si ritrovano
tutte assieme e, tra convegni e interviste, ci sono molte informazione
che interessano anche a noi, pur non essendo né un giornale
di gossip né una rivista sui libri. Quest'anno l'incontro
sarà in Norvegia, dal cinque al dieci aprile, quindi tra
poco più di due settimane, e la redazione pagherà
il viaggio e l'alloggio a due giornalisti per un soggiorno di cinque
giorni, ovvero tutta la durata del meeting, proprio ad Oslo. [...]
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Capitolo 13 *** Oh, shit! ***
13- OH, SHIT!
"Ehi, Amanda! Tutto bene?".
Alzai la testa di scatto dal computer, trovandomi davanti Jamie che mi
guardava preoccupata. Lanciai uno sguardo allo schermo, dove il cursore
lampeggiava ancora sulla pagina bianca e vuota.
Accidenti! Mi ero di nuovo lasciata prendere dai miei pensieri,
arrivando fino ad estraniarmi dal mondo reale e non accorgendomi
nemmeno della mia collega che mi chiamava. Dovevo decisamente fare
qualcosa per questa mia mania, altrimenti mi sarei trovata senza lavoro
per lazzaronaggine.
"Mandy?", mi richiamò Jamie, abbozzando un sorriso.
"È da un ora che fissi quel computer con aria assorta, senza
toccare mezzo tasto. Hai bisogno di una mano con l'articolo?"
Scossi la testa, confusa, e ricordandomi in quel momento il motivo che
mi aveva spinta ad aprire una pagina di Word, per poi trovarmi senza
ispirazione al momento di mettermi a scrivere. "Scusa", mormorai,
passandomi una mano sugli occhi. "È un periodo piuttosto
stressante".
Jamie annuì, accarezzandomi dolcemente il braccio e tornando
alla sua posizione.
Il mio pensiero corse subito ad Adam e a suo padre che, finalmente,
dopo quasi tre settimane di ricovero, era stato dimesso il giorno
prima, con il divieto assoluto di sforzi e di tornare al lavoro. Era
stato difficile affrontare i primi giorni, quando Richard non si voleva
proprio svegliare e Adam era sempre più nervoso e
irrascibile. I medici non sapevano cosa dire: l'intervento era andato
bene e si sarebbe dovuto riprendere una volta terminato l'effetto
dell'anestesia. Ma, forse, Richard aveva preso quei tre giorni in
più di riposo per poi tornare più forte di prima.
Ed era stato così. Si era svegliato un pomeriggio, quando
sia io che Adam eravamo in ospedale, dove ormai passavamo la maggior
parte del tempo. Io non c'entravo nulla, non essendo una parente, ma
non me la sentivo di abbandonare Adam proprio nel momento del bisogno.
E, alla fine, avevo pianto di gioia vedendo le lacrime di padre e
figlio, che si abbracciavano con forza, felici di potersi vedere
ancora.
Le cose tra Adam e me, tuttavia, non erano avanzate molto, rispetto a
quella strana giornata di quasi un mese prima. Sembravamo due
fidanzatini adolescenti, sempre con le mani strette tra di loro e
pronti in ogni occasione a saltarsi addosso per spengnere quel
desiderio che ogni volta avvampava sempre di più.
Sinceramente, non sapevo dire se quella passione fosse dovuta
all'enorme astinenza che avevamo alle spalle o alla paura di perderlo,
prima o poi, e di non poter più godere del suo affetto
carnale.
Ma quello era un problema secondario, molto lontano dai miei pensieri
quotidiani, riempiti per lo più dal lavoro e da Adam che,
con la sua esuberanza e il suo amore era capace di fare splendere anche
la giornata più buia. Ci davamo forza a vicenda,
sostenendoci e sorreggendoci, come una vecchia coppia e mi rendeva
estremamente felice rendermi conto che, lentamente, stavamo
riacquistando l'intimità e il rapporto di un tempo.
Il suono dell'arrivo di una mail mi riscosse dai miei pensieri e,
sospirando, cercai di non pensare al fatto di essermi persa a
Pensierolandia di nuovo e aprii la cartella, trovando un paio di
articoli da correggere. Mi misi subito al lavoro, cercando di
convicermi che ne stessi facendo, considerata la sconsolante pagina
bianca che troneggiava sullo schermo del computer. Era il secondo vero
articolo che scrivevo e, con questa partenza, sarebbe stato anche
l'ultimo, vista la vicina scadenza di consegna.
Sbuffai, schiacciando con forza sul tasto cancella ed eliminando, per
sbaglio, tre parole. Sbuffai di nuovo, sentendomi una stupida
locomotiva a vapore e sistemai il danno, cercando di correggere quei
benedetti testi senza peggiorarli.
"Vieni a pranzo?", mi chiese Jamie quando ebbi finito di inviare le
bozze sistemate.
Scossi la testa. "Oggi passo, grazie", dissi abbozzando un sorriso e
sentendo un conato risalirmi l'esofago alla sola idea di cibo solido.
Quella mattina, infatti, come da qualche giorno, mi ero alzata con una
nausea disgustosamente insistente, che mi costringeva ad incontrare il
water subito appena sveglia. Durante la giornata diminuiva, anche se
non scompariva mai del tutto per darmi un po' di tregua, ma a causa di
quel continuo sapore di bile in bocca non riuscivo a mandare
giù nemmeno un boccone e non toccavo qualcosa che potesse
considerarsi cibo dal giorno prima, in cui avevo fatto colazione con
due biscotti che erano finiti poco dopo nelle fogne.
Ma non me ne ero preoccupata molto, sapendo di soffrire da sempre di
problemi di stomaco che, a volte, ritornavano a farmi visita e poi
sparivano per molti mesi. Sapevo che spesso era il nervosismo a
causarmi quei malesseri ed, effettivamente, l'ultimo periodo non era
stato esattamente tranquillo. Preferivo non pensarci, concentrandomi su
altro e finendo inevitabilmente per far viaggiare lontani i miei
pensieri.
Appena la sala si fu svuotata mi alzai dalla mia postazione con un
sospiro, ignorando il senso di vuoto che mi colse e che scomparve
subito, dato sicuramente dalla mancanza di energia, feci tappa in bagno
per poi obbligarmi a mangiare qualcosa. Nonostante la nausea, infatti,
sentivo in fondo allo stomaco quel senso di fame che non riuscivo a
soddisfare. Inoltre ero consapevole che, se mi fossi intestardita a non
tocare cibo sarei presto svenuta per un calo di zuccheri, anzi, mi
sopresi di essere ancora in piedi e abbastanza in forza per pensare.
Presi un the caldo alla macchinetta e comprai una confezione di
biscotti integrali che finirono subito nel cestino non appena aprii il
sacchetto. Non riuscivo a spiegarmi quello strano malessere se non
adducendo al fatto che non vedevo Adam da quasi tre giorni, ovvero da
quando avevo iniziato a stare poco bene e al nervosismo che questo
portava. Anche lui era molto impegnato tra il lavoro e suo padre e i
nostri incontri si erano ridotti a sporadiche chiamate alla sera.
Sapevo bene che per lui quella situazione era molto stancante e che
riuscire a conciliare i suoi appuntamenti con i bisogni del padre era
complicato, ma a volte mi sentivo un po' messa da parte. Era stupido,
perché quando ci sentivamo esprimeva sempre il suo
dispiacere di non essere riuscito a fare di più e il suo
tono stanco mi sembrava ogni volta più sincero e disperato.
La verità era che mi mancava tantissimo, anche se tre giorni
erano il nulla confrontati ai cinque anni che avevamo passato divisi.
Sentirlo non era abbastanza, perché ormai ero assuefatta
dalla sua presenza, non riuscivo a farne a meno. Adam non era la mia
droga, era molto meglio, e non solo per il fatto che era gratis e che
non mi avrebbe portata all'ospedale. Era un mese che ci frequentavamo
seriamente, un mese che avevamo accettato che quello che avevamo
lasciato in sospeso bisognava concludere, un mese che mi aveva
trasformata nella donna più felice del mondo, un mese solo
era bastato per rendermi conto veramente quanto grande fosse l'amore
che provavo verso di lui. In confronto, quello che per Austin era stata
solo una piccola infatuazione, una stella, seppur luminosa,
nell'immensità dell'universo.
Quando ci pensavo, mi sentivo ancora in colpa per Austin. Si era
trovato suo malgrado in una situazione complicata e l'unico modo che
aveva trovato per uscirne era stato lasciarmi andare e abbandonare
quello che stavamo costruendo. Lui insisteva a dire che non importava,
che se io ero felice a lui non interessava altro. Ma sapevo che stava
ancora soffrendo e che, probabilmente, ne avrebbe sofferto a lungo. In
un attimo di egoismo, avevo sperato che potesse trovare qualcuno di
altrettanto speciale che gli facesse dimenticare la mia esistenza, per
poi cancellare quel pensiero con il timore di perdere una persona a me
ormai indispensabile. Cosa avrei fatto senza di lui? Ogni volta che mi
potevo questa domanda mi immaginavo un canotto o una zattera alla
deriva nell'oceano che, dopo anni di sbandamenti ed errare in
solitudine, trovava un'isola calma e pacifica. Beh, in quest'infantile
immagine mentale, Austin era la zattera, o qualunque altra cosa che mi
avrebbe potuto salvare dal naufragio e che, insieme a me, aveva vagato
per un tempo che sembrava infitito in quel mare che credevamo fosse la
salvezza. Questa certezza era crollata quando l'isola, Adam appunto,
era comparsa in lontananza e, avvicinandosi sempre di più,
aveva creato un distacco enorme con quella zattera che mi aveva salvata
e che, alla fine, avevo abbandonato sulla riva. Nei momenti del bisogno
andavo a cercarla, per poi lasciarmela di nuovo alle spalle.
Ma i triangoli amorosi non esistevano solo nei libri? Perché
io, che odiavo la geometria, mi ero ritrovata ad essere il vertice di
questa stupida figura?
Ovviamente era stupido pensarla in questi termini, soprattutto
perché ormai Austin faceva parte della mia vita solo come
amico e, anche se lui avesse voluto di più, non sarei stata
capace di regalargli qualcosa in più del mio affetto. E mi
dispiaceva pensare che io ero la causa della sua sofferenza, ma non
sapere cosa fare per aiutarlo.
"Amanda!".
Alzai la testa al suono del mio nome e mi sembrò di vivere
un deja-vu, solo che la protagonista questa volta era Claire e non
Jamie e il suo sguardo non era preoccupato, ma infastidito.
"È la terza volta che ti chiamo. Si può sapere
dove hai la testa?", mi riprese, incrociando le braccia al petto e
fulminandomi con quei suoi occhi azzurri.
Sospirai, scuotendo la testa. "Niente", mormorai, accorgendomi di avere
ancora in mano il bicchiere con il the, ormai freddo. "Avevi bisogno?",
le chiesi abbozzando un sorriso di scuse e appoggiando il bicchiere di
plastica sulla scrivania. Mi guardai intorno, notando la sala di nuovo
piena e rendendomi conto di come il tempo fosse passato in fretta.
Claire annuì. "Il direttore vuole vederci",
affermò.
"Perché?", chiesi, un po' preoccupata. Avevo ancora tempo
due giorni per consegnare l'articolo affidatomi e non avevo combinato
niente di grave, almeno non intenzionalmente.
"Non lo so", ammise. "Andiamo".
La seguii lungo il corridoio e salii con lei in ascensore, senza
scambiarci più una parola. Io ero troppo impegnata a cercare
un motivo per quella chiamata e Claire era per natura silenziosa,
quindi arrivammo all'ufficio del direttore in silenzio e senza nemmeno
guardarci in volto.
Claire bussò alla porta, aspettando di essere invitata ad
entrare, e poi l'aprii, precendendomi all'interno. La imitai e mi
chiusi la porta alle spalle, sedendomi poi accanto a lei su una delle
poltroncine davanti alla scrivania, dietro alla quale Mr Brown stava
guardando qualcosa al computer.
"Bene", disse dopo qualche minuto. "Ho un proposta da farvi. Come ogni
anno, le più grandi case editrici mondiali si ritrovano
tutte assieme e, tra convegni e interviste, ci sono molte informazione
che interessano anche a noi, pur non essendo né un giornale
di gossip né una rivista sui libri. (*) Quest'anno
l'incontro sarà in Norvegia, dal cinque al dieci aprile,
quindi tra poco più di due settimane, e la redazione
pagherà il viaggio e l'alloggio a due giornalisti per un
soggiorno di cinque giorni, ovvero tutta la durata del meeting, proprio
ad Oslo. Claire è già la seconda volta che
partecipa e sono certa che saprà aiutare anche te, Amanda,
per questa prima esperienza. Ora dovete solo dirmi se accettate e, in
tal caso, firmare qualche documento prima del fine settimana, in modo
che possa incominciare i preparativi. Marzo è quasi finito e
vorrei che vi documentaste in merito".
"Io accetto", affermò sicura Claire, annuendo piano.
"Ne sono contento. Amanda?".
Esistai un attimo prima di rispondere. Era un proposta fantastica,
unica e soprattutto inaspettata per una giornalista con così
poca esperienza. Certo, Mr Brown era stato entusiasta dei miei primi
lavori, ma ero ancora un piccolo granello di polvere nel mondo del
giornalismo. Inoltre non ero mai stata in Norvegia ed ero veramente
curiosa di conoscere un paese così diverso dal mio. Tuttavia
non volevo allontanarmi da casa e da Adam, specialmente in un momento
così delicato. C'erano tanti pro e contro, eppure la mia
coscenza mi imponeva di accettare per non perdere un'occasione simile.
Adam avrei potuto vederlo tutte le sere tramite Skype e, nel caso di
bisogno, sarei tornata immediatamente a casa. Per questo mi ritrovai ad
annuire con un sorriso timido. "Accetto".
"Fantastico!", esclamò il direttore. "Ero certo che non mi
avreste deluse. Ora stampo i documenti necessari e ve li faccio
portare. Potete tornare al lavoro", ci congedò, ritornando
allo schermo del computer e iniziando a battere freneticamente i tasti.
Seguii Claire fuori dal suo studio, senza riuscire a smettere di
sorridere. "È fantastico", mormorai, mentre salivamo
sull'ascensore.
"Fidati, sarà un'esperienza unica", mi disse, sorridendomi
gentile.
"Com'è stato l'anno scorso?", le chiesi curiosa.
"Davvero interessante. Soprattutto per le persone presenti. Pensa che
ho incontrato quasi tutti i miei scrittori preferiti in una sola
serata".
"Davvero?", esclamai.
Claire annuì. "Credimi, verrà fuori un articolo
con i fiocchi".
"A questo proposito: dobbiamo scriverne un pezzo per uno o...".
"Ci pensiamo poi, tranquilla", mi interruppe, salutandomi con una mano
quando l'ascensore si fermò ed uscimmo. "Documentati sugli
eventi e sugli invitati, mi raccomando".
Io annuii, salutandola con una mano mentre si dirigeva alla sua
postazione e, nel tornare alla mia scrivania, pensai che avrei dovuto
aggiornare Adam di questa scelta. Non che sarebbe cambiato qualcosa,
visto che ormai avevo accettato, ma mi sembrava giusto renderlo
partecipe della mia vita, ora che finalmente stavamo iniziando a
costruire qualcosa.
Era presto per chiamarlo, però. Infatti erano solo le due e
trenta del pomeriggio e sicuramente lo avrei disturbato, quindi decisi
di mandargli un semplice sms, neanche troppo esplicito.
"Stasera vieni a casa mia a cena. Ho una fantastica notizia da darti.
A".
Dentro di me, mentre premevo il tasto Invia, sperai che non reagisse
come Austin qualche mese prima, in una situazione analoga. Mi pentii
subito di non aver specificato, ma, prima di poter inviare un altro
messaggio, il telefono mi vibrò tra le mani, avvisandomi
dell'arrivo della risposta di Adam.
"D'accordo. A dopo, Lupacchiotta. Adam".
Sorrisi, leggendo quelle poche parole e non potei fare a meno di
sospirare sollevata. Come avevo previsto era impegnato, per questo
motivo mi aveva risposto altrettanto telegraficamente. Eppure quel
Lupacchiotta mi confermava che era stato lui a digitare quel messaggio,
e non la sua segretaria che, pur non essendo una bellezza
stratosferica, era pur sempre una donna e, dalle occhiate che lanciava
ad Adam, non aveva gli occhi foderati di prosciutto. Non ero proprio
gelosa, perché sapevo che Adam mi voleva bene e, come mi
ripeteva lui, passava le giornate a immaginarsi cosa farmi la sera,
però mi infastidiva vedere altre donne così
attratte dal suo fascino magnetico. Insomma, avevo impiegato cinque
anni per averlo di nuovo al mio fianco e non avrei permesso a una
stupida segretaria che rispondeva ai miei messaggi quando Adam era
impegnato di metterci i bastoni tra le ruote.
Il resto della giornata passo in fretta. Iniziai finalmente a scrivere
l'articolo che dovevo consegnare, ma, a nemmeno metà lavoro,
fui costretta a correre in bagno e rimettere tutto quello che non avevo
mangiato. Ancora china sul water, mi chiesi a cos'era dovuto
quest'ennesimo attacco e, quando uscii, capii immediatamente che la
causa era l'orribile odore di cipolla che veniva da un panino che un
mio collega stava mangiando. Avevo sempre odiato la cipolla, ma mi
stupii di aver percepito l'odore a una così grande distanza
e, soprattutto, di sentirlo dappertutto intorno a me.
Tornai alla scrivania barcollando, tenendo una mano sullo stomaco e
sperando di non dover tornare di nuovo in bagno. Mi buttai di peso
sulla sedia rotante e, dopo aver spruzzato qualche goccia del profumo
che portavo sempre in borsa, sospirai. Mi sentivo estremamente spossata
e fuori fase, quasi peggio dei primi giorni di mestruazioni. Mi
costrinsi a mettere in bocca una caramella al limone, un po' per
cancellare il sapore acido della bile, ma soprattutto perché
temevo di svenire da un momento all'altro.
Nonostante tutto quello che mi ripetevo, stavo iniziando a preoccuparmi
sul serio. I problemi di stomaco c'erano sempre stati, ma mai
accompagnati da giramenti di testa e debolezza, non fino a questo
livello, soprattutto. Tra l'altro, solitamente la nausea durava una
giornata, anche meno a volte, ma non mi era mai capitato di stare male
così a lungo. Mi ripromisi di richiamare il medico e
prendere un appuntamento appena tornata a casa e, dopo essermi calmata
e rilassata, ripresi a scrivere.
Finii la bozza appena in tempo per la fine del mio orario,
così la salvai e sorrisi a Jamie che, come tutte le sere, mi
aspettava davanti alla mia scrivania per accompagnarmi alla fermata
dell'autobus. Sistemai le ultime cose in borsa e mi alzai in fretta,
percependo immediatamente la testa girare come una trottola e la stanza
seguirla. Mi appoggiai pesantemente alla scrivania, sentendo il cuore
battermi all'impazzata nelle orecchie e le gambe perdere la forza per
sostenermi.
Mi ritrovai seduta per terra, con la schiena appoggiata alla gamba del
tavolo e Jamie davanti, che mi guardava preoccupata. Cercai di prendere
respiri profondi e, piano piano, la stanza smise di essere una
centrifuga, anche se le orecchie continuavano a fischiarmi e il cuore
non la smetteva di rimbombare furioso.
"Amanda!", mi richiamò Jamie, scuotendomi piano per una
spalla.
Provai ad alzare la testa, incontrando i suoi occhi azzurri.
"Va tutto bene?", mi chiese una voce sopra la mia testa, che riconobbi
subito come quella del direttore.
Annuii debolmente, iniziando a recuperare coscienza sulla
realtà. Jamie mi era davanti, accanto a lei Claire e
Susanne, un'altra giornalista, mi guardavano preoccupate e Mr Brown,
dall'alto della sua stazza, stava chiedendo se fosse il caso di
chiamare un'ambulanza.
A quelle parole mi riscossi e, lentamente, mi alzai in piedi,
appoggiandomi più del dovuto al braccio che qualcuno dei
miei colleghi, non saprei dire chi, mi aveva porso per aiutarmi. "Sto
bene", sussurrai, abbozzando un sorriso per niente rassicurante.
"È stato solo un mancamento".
"Ne sei certa?", mi chiese Claire, passandomi una mano sulla fronte per
controllare se avessi la febbre e piegando le labbra in un smorfia
quando incontrò la mia pelle fresca.
"Certo. Non ho mangiato nulla oggi, dev'essere stato per questo",
cercai di spiegare, convincendo poco anche me stessa.
"Ho chiamato il tuo ragazzo", m'informò Jamie, porgendomi il
telefono con una faccia dispiaciuta. "Arriverà tra poco".
Io annuii, incerta se arrabbiarmi o se ringraziarla e, nel dubbio,
abbozzai un altro pallido sorriso, sedendomi alla mia poltrona quando
sentii le gambe formicolarmi.
"Va bene, potete andare", esclamò Mr Brown agli altri,
rivolgendosi poi a me. "La prossima volta che stai poco bene vai a
casa, Amanda", mi rimproverò bonariamente.
"Dovevo finire l'articolo", mi giustificai.
"Puoi farlo benissimo dal tuo computer, lo sai", ribattè.
"Già, lo so", mormorai.
"Bene. Ora vai a casa e riposati. Se domani stai male chiama e non
azzardarti a venire, capito?", mi minaccio, senza riuscire a nascondere
la preoccupazione nella voce. Anche se era il mio capo, infatti, Mr
Brown era sempre stato molto gentile con me e con tutti i suoi
dipendenti, comportandosi con loro come se fossero suoi figli. Quando
una delle giornaliste più vecchie era morta di cancro,
qualche mese prima, aveva chiuso per un giorno la redazione e aveva
preteso di vederci tutti ai funerali, pronunciando davanti alla sua
famiglia le parole più belle che avessi mai sentito dire da
un datore di lavoro. Per questo mi ritrovai a sorridergli e ad annuire,
salutandolo mentre tornava al suo ufficio.
"Devi spiegarmi cosa ti sta succedendo!", mi riprese Jamie, incrociando
le braccia al petto e guardandomi con rimprovero.
"Ve l'ho detto: è stato un calo di zuccheri".
"Sono due giorni che non ti vedo toccare cibo, Amanda. E stamattina,
quando sei arrivata, avevi una faccia talmente pallida che mi sono
spaventata".
"Sono solo un po' stressata", cercai di giustificarmi.
"Come va con Adam?", mi chiese quindi.
"Bene", affermai sicura. "Però tra suo padre in ospedale, il
lavoro e questa nuova relazione non è facile gestire tutto".
Jamie mi guardò negli occhi in silenzio, senza cambiare
espressione. Era la prima volta che la vedevo così seria e
un po' mi stava spaventando. "Senti...", mormorò. "Forse non
dovrei farmi gli affari tuoi, ma non hai pensato che questo malessere
possa essere dovuto a...".
"A cosa, Jamie? Mi stai facendo preoccupare".
Lei sospirò. "Non lo so, Amanda! Però, pensaci.
Nausea, e non mentire, ti ho vista correre in bagno prima, mancamenti,
debolezza, scommetto anche che il tuo ciclo è in ritardo...
non ti viene in mente nulla?".
Ci pensai un attimo e, quasi senza accorgermene, cancellai dalla mente
l'unico pensiero che poteva essere plausibile. Non volevo nemmeno
prenderlo in considerazione.
"Allora?", mi incitò Jamie.
"Non lo so", sbottai, sentendo il telefono vibrare e accorgendomi del
messaggio che Adam mi aveva inviato per avvisarmi di essere arrivato.
"Te lo dico io, allora", esclamò, fermandomi prima che mi
potessi alzare e fulminandomi con lo sguardo. "Potresti aspettare un
bambino, Amanda. E, fossi in te, non la prenderei tanto alla leggera".
Un bambino.
Un bambino di Adam.
Di nuovo.
"Oh, merda!".
*ovviamente questo meeting non esiste, mi serviva soltanto una scusa
"plausibile" per spedire Amanda in Norvegia, per la gioia di Sonny_chan
che qualche mese fa mi aveva chiesto di postare qualche foto del mio
viaggio.
Salve
gente!
Un
capitolo un po' particolare, dove finalmente si risponde a qualche
domanda che ci si trascinava dietro fin dall'altra storia. Questa
gravidanza è, ovviamente, però vi anticipo che
tutto andrà bene. Come, lo scoprirete solo leggendo.
Il
viaggio in Norvegia è, come ho detto sopra, solo un
espediente per farle visitare questo bellissimo paese e per farne
conoscere qualche dettaglio anche a voi. Premetto che non ho ancora
scritto il prossimo capitolo e che non so quando avrò tempo
per farlo, però spero di riuscirci centro sabato.
Ora
scappo a studiare latino (vi lascio anche senza spoiler, sorry)
a
presto
mikchan
|
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Capitolo 14 *** Bitch and egoist ***
14- BITCH AND
EGOIST
"Mi raccomando. Se stai di nuovo male non fare l'eroina della
situazione".
Sbuffai sonoramente, staccando la testa dalla sua spalla e fulminandolo
con lo sguardo. "Se me lo ripeti un'altra volta ti picchio", lo
minacciai.
Adam scoppiò a ridere, abbracciandomi ancora più
forte. "Mi manchera, Lupacchiotta".
"Sto via cinque giorni, non tutta la vita", sussurrai, tornando a
nascondere il viso nella sua camicia per evitare di farmi vedere in
lacrime. Sarebbe stato un problema spiegargli perché non
stavo piangendo solo per la mia partenza.
"Lo so", sospirò. "Però ora che ci siamo
ritrovati non vorrei più lasciarti andare".
Mi morsi il labbro, costringendomi a non piangere. Mi sentivo una
stronza, un'immensa egoista e non mi meritavo la sua tristezza.
"Vado per lavorare", gli feci presente, deglutendo per cacciare il
groppo in gola che minacciava di farmi scoppiare.
"Lo so", ripeté. "Ma non potremo stare insieme nemmeno il
giorno del tuo compleanno".
"Ci vedremo via Skype", gli ricordai. "E poi non è
importante, è solo uno stupido compleanno".
"Ventotto anni non sono stupidi".
"Ma mi avvicinano ai trenta", mugugnai, ricordandomi all'improvviso le
parole di Mr Klant.
"Si ricordi che il
futuro non è mai troppo lontano".
Vaffanculo, quello era uno psicologo o un ciarlatano che prevedeva il
futuro? Strinsi tra i pugni la camicia di Adam e lui mi
abbracciò stretta.
Stronza, egoista.
"Ora devo andare", sussurrai, tirando su con il naso come una bambina.
"Okay", rispose lui, lasciandomi andare e regalandomi un sorriso
triste. "Chiamami appena arrivi", mi ricordò, accarezzandomi
una guancia.
Mi allungai sulla punta dei piedi e gli lasciai un piccolo bacio a
stampo. "Te lo prometto", sussurrai sulle sue labbra.
Adam mi guardò in silenzio un attimo, per poi afferrarmi la
nuca e costringermi in un bacio più profondo. Unimmo i
nostri corpi in un abbraccio disperato, ritrovandoci poi ad ansimare,
senza fiato.
"Ti amo", sussurrai, abbassando subito lo sguardo.
Stronza, egoista.
Adam abbozzò un sorriso. "Non scappare, Lupacchiotta", disse
e lessi la supplica nei suoi occhi.
"Mai", risposi, stringendogli la mano. Aprii la bocca, decisa
finalmente a riverlargli quel segreto che tenevo nascosto da quasi tre
settimane, ma la richiusi subito, terrorizzata.
"Ci vediamo tra cinque giorni", mi salutò, dandomi un bacio
sulla fronte.
Io annuii, afferrando il mio bagaglio a mano e seguendo Claire verso il
check-in. Prima di voltare l'angolo lo salutai un'ultima volta,
provando un tuffo al cuore quando incontrai il suo sorriso.
Stronza, egoista.
Passai il controllo in silenzio e a testa bassa, limitandomi poi a
seguire Claire tra i vari negozi mentre aspettavamo che chiamassero il
nostro volo. Quell'ora sembrava non passare più, mentre i
pensieri mi vorticavano in testa senza fine, tormentandomi.
Come potevo continuare a mentirgli in quel modo?
Era quella la domanda che non voleva abbandonarmi e che mi
tormentò anche per tutto il volo fino ad Oslo.
Erano passate più di due settimane da quando avevo scoperto
di essere incinta. Le previsioni di Jamie erano state giuste ed erano
state confermate dai quindici test di gravidanza che avevo comprato e
la visita ginecologica che la mia amica mi aveva costretto a fare.
Da quel giorno ero sprofondata in un baratro. In qualche modo avevo
detto ad Adam del viaggio in Norvegia, ma non ero riuscita a rivelargli
anche l'altra notizia. Ero terrorizzata, completamente e assolutamente
terrorizzata. Non tanto dal fatto di essere di nuovo incinta, ma dalla
reazione di Adam. Cosa avrebbe detto quando l'avrebbe saputo? Mi
avrebbe mollata di nuovo, confermando le teorie di mia madre? Oppure
avrebbe accettato di crescerlo insieme a me?
Se di una cosa ero certa, infatti, era che non avrei ucciso questo
bambino nemmeno se mi avesse obbligata. Me ne ero innamorata subito,
nonostante la paura, perché era il figlio di Adam e non
potevo non volergli bene almeno la metà di quanto amavo il
padre.
Nei miei pensieri era così facile convincermi che sarebbe
andato tutto bene, eppure sapevo che sarebbe stato difficile, anche se
Adam mi fosse stato accanto. Non mi ero dimenticata delle parole del
medico, cinque anni prima. Sarebbe stato complicato per me portare
avanti una gravidanza e farlo in una situazione delicata come la mia
diventava praticamente impossibile.
E anche di questo avevo paura. Temevo di illudere Adam, di promettergli
un figlio e poi di non essere capace a compiere quest'impresa.
Più volte, nelle ultime notti, avevo sognato di svegliarmi
in preda alle convulsioni, in un mare di sangue, mentre Adam mi
guardava dall'alto, ridendo. Sapevo che era solo un incubo, ma ne ero
terrorizzata, ancor più di perdere il bambino o Adam,
perché li perdevo entrambi, nel modo più
terribile che potessi immaginare.
Avrei dovuto dirglielo in ogni caso, ne ero consapevole. Ma le mie
paure erano troppe e troppo radicate e ogni volta che provavo, mi
trovavo poi a fare marcia indietro.
Più passava il tempo, però, e più
difficile sarebbe stato affrontarlo. Presto la pancia si sarebbe
incominciata a vedere e, ne ero certa, aveva già iniziato a
porsi delle domande sulle mie continue nausee e sulle stupide scuse che
inventavo per non restare a dormire da lui.
Stronza, egoista.
Mi addormentai con le lacrime agli occhi e la testa piena di pensieri,
sognando di bambini immersi nel sangue, disastri aerei e, infine, un
bellissimo vestito bianco.
Non seppi esattamente quanto dormii, ma, nel momento in cui iniziarono
le manovre di atteraggio, Claire mi scosse leggermente per una spalla,
svegliandomi e ricordandomi di allacciare la cintura di sicurezza.
Non dissi nulla per il resto dell'operazione, cercando anche di fermare
il mio cervello che continuava a ronzare.
Mi concentrai sul fatto di essere finalmente arrivata in Norvegia, un
paese che mai avrei immaginato di visitare. Effettivamente non ne
sapevo molto, ma, come da tradizione, avrei tanto voluto vedere
l'aurora boreale e i famosi fiordi. Questi pensieri riuscirono ad
occuparmi in parte la mente e, quando scendemmo dall'aereo, isolai
quella parte così rumorosa e ripassai quelle nozioni di
inglese che non prendevo in mano da anni. Ovviamente quell'incontro si
sarebbe tenuto in lingua mondiale, appunto l'inglese e, anche se non
ero proprio una cima, sapevo cavarmela nelle situazioni più
importanti. Avrei poi trovato qualche modo di capire quello che si
sarebbe detto al congresso, per il momento ero soltanto preoccupata a
ricordarmi come chiedere di arrivare in centro città.
Fortunatamente le abilità lingustiche di Claire erano molto
migliori delle mie e, presto, ci trovammo a bordo di un treno ad alta
velocità che ci accompagnò dall'aereoporto alla
stazione centrale di Oslo, vicino alla quale c'era il nostro albergo e
l'edificio in cui si sarebbe tenuto l'incontro.
Appena uscimmo dalla stazione la prima cosa che notai fu l'enorme tigre
al centro della piazza, ovviamente finta, ma talmente realistica che
dovetti fermarmi un attimo a fare qualche fotografia.[1]
Dopodiché, seguendo le indicazioni del GPS dal telefono di
Claire ci incamminammo per le vie di questa meravigliosa
città, che avremmo avuto l'opportunità di
visitare proprio quel pomeriggio e il mattino seguente, nell'attesa
dell'inizio del meeting il pomeriggio dopo.
Le strade dell'isola pedonale erano ampie ma piene di persone, spesso
intervallate da semafori che ognuno rispettava. La cosa soprendente,
nonostante l'enormità della gente che ci circondava, era il
clima tranquillo e posato, assolutamente diverso dalle grandi metropoli
a cui ero abbituata. Sorpassammo moltissimi negozi, alcuni conosciuti
altri completamente tradizionali, guardammo con stupore il grande
numero di persone che, sedute a terra, chiedevano l'elemosina, uno
distante a pochi metri dall'altro, incontrammo tantissimi artisti di
strada, intenti a suonare, cantare o disegnare per qualche spicciolo.
Era davvero una realtà molto diversa da quella a cui ero
abituata e me ne accorsi immediatamente quando, appena poggiammo le
valigie in hotel e uscimmo di nuovo, ci trovammo in una strada
trafficata, dove vigeva un ordine assoluto, quasi manacale. Non c'era
nessuno che urlava, nessuno che correva, nessuna macchina che suonava
per sorpassare. Era come se tutti lì prendessero la vita con
più tranquillità e, in qualche modo, non potei
fare a meno di pensare a quello che mi stava accadendo.
In quel momento, infatti, la mia vita era tutt'altro che tranquilla, ma
la colpa era solo mia perché insistevo a trovare problemi
dove non ve ne erano e mi facevo prendere subito dal panico. Se ne
fossi stata capace, mi sarei comportata come i Norvegesi: avrei cercato
di valutare con calma la situazione, decidendo alla fine per la
decisione migliore da prendere, senza inutili scenate o equivoci che
avrebbero solamente peggiorato la soluzione.
A peggiorare il tutto, infine, c'era il mio compleanno, che sarebbe
caduto due giorni dopo. Nonostante avessi ripetuto mille volte ad Adam
che non mi importava, in realtà era un traguardo che temevo
di raggiungere. Ventotto anni erano troppo vicini ai trenta e io non
avevo ancora combinato niente della mia vita. Certo, ultimamente tutto
pareva sistemarsi, ma con la notizia di questa gravidanza tutti i miei
pilastri erano crollati. Un bambino era una benedizione, lo sapevo, ma
avrebbe solamente complicato tutto e, in quel momento, l'ultima cosa di
cui avrei avuto bisogno erano complicazioni.
Involontariamente, passai tutto il pomeriggio a crogiolarmi tra questi
pensieri. Nonostante le foto, infatti, quasi non mi accorsi di quello
che facevo. Passai davanti al famoso Urlo di Much, esposto nella
Galleria Nazionale [2], come se fosse acqua; camminai in mezzo a piazze
affollate e aiuole verdeggianti [3] come se non esistessero, passeggiai
lungo la costa del porto[4] come se stessi volando. Non so se Claire si
accorse di qualcosa, ma, quando alla sera tornammo in albergo dopo aver
cenato in un piccolo ristorante e aver passeggiato di nuovo per le vie
della città, visitando inoltre il bellissimo palazzo
dell'opera, fu come se mi risvegliassi da un lungo sonno. Ovviamente
non dormii per nulla durante la notte, un po' per il sonnellino durante
il volo, ma soprattutto per il timore di sognare di nuovo e vedere cose
che mi avrebbero solamente spaventata.
La giornata seguente fu frenetica. Durante la mattinata concludemmo il
tour di Oslo, visitando un museo d'arte contemporanea [5] e il
famosissimo Parco delle sculture di Vigeland [6], dove vedemmo esposte
bellissime opere di questo artista, assolutamente realistiche ed
espressive, con i loro movimenti ampi e carichi di emozioni. Rimasi
assolutamente colpita da quelle opere per il grande impatto visivo che
offrivano, ma soprattutto per quello che comunicavano, nonostante
fossero solo statue. In particolare, mi fermai un attimo davanti ad una
raffigurazione, nella quale un padre prendeva sulla schiena un
bambino[7]. Sarebbe stata una scena normalissima, quasi quotidiana, ma
per me assunse un significato molto particolare. Subito mi chiesi se
Adam si sarebbe mai comportato così con un eventuale figlio
e, senza neanche un po' di esitazione, risposi affermativamente. Adam
era lui stesso un po' bambino e, se quello che portavo nella pancia
fosse stato un maschio, si sarebbe divertito a giocarci senza pensieri
e l'avrebbe trattata con devozione e amore se fosse stata una femmina.
Certo, tutto questo se non mi avesse lasciato prima a causa delle mie
insensate paure.
Stupida, egoista.
Passai il resto della mattinata in una specie di trance, arrivando non
so come al grande edificio dell'Opera [8], dove si sarebbe tenuto il
meeting per quei quattro giorni.
Tuttavia, appena il presidente iniziò a parlare, mi immersi
in quel mondo, fatto di inglese, persone di mille
nazionalità, con mille storie diverse da raccontare e mille
idee diverse da esporre.
Fu tutto molto diverso da come me l'ero immaginato. Per prima cosa, non
ebbi poi grandi problemi con l'inglese, a parte qualche madornale
errore di grammatica, ma, in generale, riuscii a capire ogni cosa. Dopo
il discorso iniziale, ci furono due conferenze, una sull'editoria
mondiale, l'altra sulla psicologia per la scelta dei manoscritti.
Quest'ultima fu particolarmente importante e, nonostante l'impaccio
della lingua, riuscii a prendere molti appunti, memore anche delle
lezioni di psicologia del liceo.
Alla fine della giornata, decidemmo, insieme ad alcuni giornalisti di
altre nazioni, di mangiare qualcosa assieme e poi fermarci in un pub
per chiaccherare. Accolsi subito con entusiasmo l'idea, un po'
perché ormai ero intrata in 'modalità inglese',
ma soprattutto perché una serata in compagnia mi avrebbe
evitato pensieri sgraditi, come le poche ore che mi separavano dal mio
compleanno.
Tuttavia, durante la serata, le cose degenerarono, perché
una giornalista tedesca iniziò a raccontare del suo
bellissimo bambino biondo, figlio del suo biondissimo marito, che amava
entrambi alla follia. Quando prese le foto dal portafoglio uscii dal
locale, scusandomi malamente e adducendo la scusa di dover telefonare
al mio ragazzo. Ed era vero, solo che farlo in quelle condizioni,
ovvero quasi in lacrime e con il respiro corto, l'avrebbe soltanto
fatto preoccupare inutilemente.
Mentre decidevo di mandargli un messaggio il telefono iniziò
a squillare e mi trovai davanti il suo nome, lampeggiante come un
richiamo. Incerta, dopo qualche respiro profondo, accettai la chiamata.
"Pronto?", sussurrai, schiarendomi la gola.
"Mandy!",
esclamò la voce dall'altra parte. "Perché non mi chiami
mai?".
"Stavo per farlo", mentii, strigendomi nel cappotto. Nonostante fosse
inizio aprile, infatti, le temperature erano ancora piuttosto basse e
il vento che tirava era freddo e pungente.
"Perfetto, allora",
ribatté lui.
"Mhmh", risposi, incerta su cosa iniziare un discorso. Non ero
dell'umore adatto, quella sera. Sentivo che presto sarei crollata e non
volevo farlo con lui, altrimenti avrei finito per riverlargli in malo
modo lo scomodo segreto che nascondevo.
"Va tutto bene?",
mi chiese infatti dopo un secondo di silenzio.
Sospirai. "Sono solo un po' stanca", mentii.
"Sicura?",
insistette.
"Certo. Ora siamo in un pub con alcuni colleghi stranieri. Ma oggi
è stata una giornata pesante".
"Cosa avete fatto?",
mi chiese, e io sospirai, sollevata di averlo indotto a cambiare
discorso.
Iniziai a raccontargli tutto, sentendo il cuore alleggerirsi mano a
mano che le parole uscivano e le sue arrivavano al mio orecchio.
Fu lì, non so come, che il mio cervello decise che era
arrivato il momento di porre una fine a quello scherzo. "Quando torno
dobbiamo parlare", dissi di getto.
"Mi vuoi lasciare?",
mi chiese lui esitante.
"No!", esclamai, forse con troppa enfasi. "C'è solo una cosa
che ti devo dire".
"Dimmela ora".
"Voglio farlo di persona, Adam".
"Cosa cambia? Ormai mi
hai incuriosito...".
"Non posso dirtelo così, dal nulla", mi lamentai.
"Se non mi vuoi lasciare
non c'è altra notizia che potrebbe ferirmi. A parte se
avessi un altro. Hai un altro?".
"Certo che no!".
"Bene, allora non ho
problemi".
"Non ne hai neanche se ti dico di essere incinta?".
Silenzio. Adam non rispose e capii di avere fatto una mossa sbagliata. "Lo sei?", mi
chiese serio prima che potessi aprire bocca e correggermi.
"Se lo fossi cosa faresti?", gli chiesi io, dando voce a quella domanda
che mi tormentava.
"Lo sei?",
ripeté con tono duro.
Aspettai un attimo prima di rispondere, poi sospirai. "Sì".
Silenzio. Di nuovo. Merda.
Non avrei dovuto dirglielo in quel modo, avrei dovuto aspettare di
averlo davanti e guardarlo negli occhi. Ma come potevo resistere altri
quattro giorni senza vederlo e assicurarmi che tutto andasse bene?
"Adam?", sussurrai, quando il silenzio si fece insopportabile.
Temetti di tutto. Urla, insulti, pure bestemmie, ma, per un'altra
volta, ebbi fatto male i miei conti. "È mio?",
sussurrò.
"Certo", risposi, sicura.
"Come fai ad...".
"Fidati, Adam. È tuo", ribattei. Sapevo cosa stava per dire,
ma non vedevo Austin da settimane e non avevo fatto l'amore che con
lui, nell'ultimo mese. Quindi il bambino poteva essere solo suo. O
dello Spirito Santo, ma speravo proprio di no!
"Okay",
mormorò poco dopo.
"Okay?", ripetei, scoinvolta.
"Quando torni ne
dobbiamo parlare. Seriamente".
"Lo so. Avevo solo una grande paura che tu potessi abbandonarmi
che...".
"E chi ti dice che tutto
sia rimasto come prima?", ribatté.
Quelle parole mi ferirono e mi immobilizzarono. E io che credevo che
tutto sarebbe andato per il meglio, dopo averglielo detto! Invece per
Adam non valevo abbastanza e nemmeno un bambino lo avrebbe tenuto al
mio fianco.
Ero stata una stupida, proprio come mia madre aveva predetto. Mi ero
fatta mettere incinta dopo nemmeno un mese, ritrovandomi dall'altra
parte del mondo da sola, in lacrime e al freddo.
"Amanda?",
lo sentii chiamarmi, ma non risposi. Perché avrei dovuto?
Senza togliere il telefono dall'orecchio mi accasciai a terra contro il
muro, in preda ad un dolore enorme, infinito. Ero sola. Sola con il mio
bambino.
Chiusi gli occhi, incominciando a sentire il respiro mancarmi e la
testa girare. Sapevo bene che in quelle occasioni dovevo solo stare
tranquilla e non agitarmi, ma non riuscivo a fermare il battito del
cuore, che frenetico rimbombava nel petto, testimone del dolore che mi
stava attanagliando le viscere.
Iniziai a sentire il mio nome, dalla voce di Adam e da altre, ma era
tutto talmente confuso che non mi accorsi nemmeno di venire sollevata,
ancora tremante e in lacrime.
Non opposi nessuna resistenza: che senso avrebbe avuto? Adam aveva
detto che era tutto finito, che non mi voleva più.
Perché avrei dovuto combattere? Per il bambino? No, lui mi
aveva portato via Adam e, a costo i sembrare egoista, non avrei
sofferto per lui.
Non so come, ma mi addormentai nel mio letto dell'albergo. Fu una
nottata tremenda, popolata da sogni insensati e spaventosi, dove non
c'era nient'altro che il nulla. E lì vagavo, cercando
qualcosa che nemmeno io sapevo e provando ad uscirne.
Quando il giorno dopo mi svegliai e mi trovai davanti il volto
preoccupato di Adam, credetti di essere in paradiso.
Salve
gentee!
Lo
so che avrei dovuto pubblicare ieri, ma queste ultime settimane sono
state assurde e ho davvero pochissimo tempo per mettermi al computer e
scrivere qualcosa di decente. Se aggiungete anche che, quando ho un
pizzico di ispirazione, quell'idiota patentato di mio fratello decide
di rimbambirsi davanti a You Tube, potete capire che questo non
è proprio il mio periodo. Per questo vorrei avvisarvi che
non so se riuscirò a stare al passo con gli aggiornamenti
settimanali in queste due o tre settimane prima delle vacanze,
perché sono già piena di impegni e, tra l'altro,
sono anche a corto di capitoli. Quindi non disperate se non vedete
l'aggiornamento nel week-end: se non muoio nel mentre,
riuscirò a ritagliarmi qualche spazietto per scrivere e
pubblicare!
Ora,
passando al capitolo. Come avrete notato ci sono dei numerini vicino a
certe parole, e questi numerini riportano a delle fotografie, che
posterò qui in fondo perché sono decisamente
incapace di creare un link o qualunque altra cosa che vi possa portare
alle immagini su internet. La maggior parte sono foto che ho scattato
io stessa, così come miei sono le emozioni e le descrizioni
del centro di Oslo. Non so voi dove abitate, ma io, essendo molto
vicina a Milano, che è per fama una città caotica
e, devo ammetterlo, piena di maleducati, trovarmi davanti a una
capitale così tranquilla, pur molto affollata, è
stata una grande sorpresa.
Per
quanto riguarda Adam ed Amanda... vi lascio così, con il
fiato sospeso. Come ho detto, non ho ancora scritto il capitolo, ma so
già cosa accadrà, quindi dovrete solo pazientare.
A
presto
mikchan
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Capitolo 15 *** Family ***
15- FAMILY
Il paradiso era un posto bellissimo.
Era azzurro, profumato, accogliente. Proprio come Adam. Era lui il mio
paradiso, il mio Eden personale, di cui non avrei mai voluto fare a
meno.
Sapevo di non meritarmelo, di avere un sacco di ragioni per finire
all'inferno, ma ero troppo egoista per ammetterlo: quando qualcuno
sarebbe venuto a reclamare quel qualcosa non mio, allora glielo avrei
dato indietro, ma fino a quel momento non avrei detto nulla, rimanendo
nel mio paradiso e cercando di non pensare al presente.
Per tutto il tempo che avevo dormito non avevo fatto altro ripetermi
quelle parole. Avevo sbagliato a riferigli quella notizia in modo
così affrettato e deciso, avrei dovuto aspettare di averlo
davanti e immergermi nei suoi occhi nell'ascoltare quell'ultima frase
che aveva segnato la mia fine.
Che senso aveva continuare a vivere senza quello per cui avevo lottato
così duramente negli ultimi mesi? Avevo perso la guerra,
abbandonato inutilmente il mio fortino e ora mi trovavo nel bel mezzo
del campo nemico, a terra e sanguinante, aspettando il colpo di grazia.
Eppure, tra tutti questi pensieri tragici, c'era qualcosa che non mi
aveva fatto perdere la speranza. Se in un primo momento avevo voluto
abbandonare il mio bambino, nell'esatto istante in cui avevo realizzato
di avere perso Adam per sempre, il mio cuore aveva deciso che non
avrebbe mai lasciato quello scricciolo che ancora mi stava crescendo
dentro. Certo, in qualche modo era la causa di tutto, ma era anche la
più grande benedizione che potessi avere. E se dovevo
bruciare all'inferno, preferivo farlo con il mio angioletto accanto.
Furono la sete e il bisogno di andare in bagno a svegliarmi.
Non seppi dire quanto dormii, né come arrivai alla mia
stanza d'albergo, ma quelli diventarono dettagli secondari nel momento
in cui aprii gli occhi e credetti sul serio di essere morta. Che altra
spiegazione potevo dare alla presenza di Adam nella mia stessa stanza,
altrimenti?
Sbattei le palpebre confusa, mettendo a fuoco le immagini davanti al
mio viso e rendendomi conto che le sensazioni umane mi rendevano viva,
purtroppo, e che anche Adam, seduto sul letto al mio fianco, era di
carne e sangue.
"Amanda", mi chiamò sorridendo, accarezzandomi i capelli
dolcemente.
Rimasi per un attimo stordita. Che cosa significava quel comportamento?
Perché mi coccolava dopo avermi detto che la nostra storia
era finita? E, soprattutto, che cavolo ci faceva lì?
"Io...", mormorai, schiarendomi la voce nel trovarmi la gola secca. "Ho
sete", continuai, decidendo di porre fine a quel noioso mantra che
chiedeva acqua al mio cervello, per poi potermi concentrare su cose
più importanti.
Osservai attentamente Adam alzarsi dal letto e, le prime cose che
registrai mentre mi mettevo seduta, furono l'assenza di Claire e il
sole dietro le tende sulla finestra. L'orologio sulla televisione
segnava le quattro del pomeriggio e mi sorpresi nel costatare che avevo
dormito quasi un'intera giornata.
Adam tornò con un bicchiere d'acqua e mi fissò
mentre lo trangugiavo velocemente, sospirando poi sollevata.
"Come va?", mi chiese, sedendosi di nuovo sul bordo del letto.
Io non risposi, incerta su cosa fare. Una parte di me mi spingeva a
saltargli addosso, baciarlo e ringraziarlo per essere al mio fianco.
Un'altra parte, invece, mi faceva presente quelle dure parole che non
avevano smesso un attimo di vorticarmi in testa. Niente sarebbe stato
più come prima, aveva detto.
Adam sospirò. "Mi hai fatto preoccupare tantissimo, ieri
sera. Non rispondevi più alla mia voce e ho dovuto chiamare
la tua collega per farmi dire cosa stesse succedendo".
"Quando sei arrivato?", chiesi sottovoce, cercando di cambiare
discorso. Quello che era successo la sera prima era ben impresso nei
miei ricordi: la chiamata, quella frase, il malessere e la voglia di
non avere mai avuto quel bambino non me li sarei mai dimenticata.
"Questa mattina", rispose, allungando una mano e stringendo forte la
mia che avevo appoggiato sulle coperte. Io rimasi impassibile,
più per la paura che fosse tutto un sogno che per altro.
Come avrei reagito se, dopo quest'ennesima parentesi idilliaca, se ne
sarebbe andato? "Ho preso il primo volo per Oslo appena chiusa la
comunicazione con Claire. Era terrorizzata, sai?".
"Mi dispiace", mormorai, deglutendo.
"Non dispiacerti, stupida", mi rimproverò.
"Perché non hai detto che non stavi bene?".
"Ma io stavo bene", ribattei, ritrovando all'improvviso quella grinta
che sembrava essersi persa. Era tutta colpa sua e della sua fottuta
paura di crearsi un futuro se avevo spaventato anche Claire e non gli
avrei permesso di farmi sentire male anche per quello.
"Lei mi ha detto il contrario. Sei praticamente svenuta in mezzo alla
strada", sbottò lui.
"Lo shock", risposi sicura.
"Sono io quello che dovrei essere sotto shock dopo quello che mi hai
detto ieri".
"Sei tu che hai insistito per saperlo", gli feci notare, chiedendomi
come fossimo arrivati a parlare della gravidanza in due battute.
"E vorrei ben vedere!", sbottò ironico. "Quando avevi
intenzione di dirmelo? Una volta partorito?".
"Non dire stupidaggini. Avevo solo bisogno di tempo per metabolizzare
la cosa".
"Potevamo farlo assieme, non ti pare?".
"Scusa se avevo paura di trovarmi di nuovo da sola".
"Ma che stronzate stai dicendo?".
"Mi avevi già abbandonata alla notizia di una gravidanza,
Adam. Permetti che potessi avere un po' paura che succedesse ancora".
"È diverso. Ora siamo adulti".
"Beh, io sono una fifona. Problemi?".
Adam sbuffò. "Senti, ormai è passato.
Però devi renderti conto che ormai stiamo insieme e che ogni
cosa che succede dobbiamo affrontarla insieme".
"Mi prendi in giro?", sbottai a quelle parole.
Lui alzò un sopracciglio, confuso. "Certo che no. Sono
serio".
"Ma vaffanculo!", esclamai, scostando le coperte dalle gambe e
alzandomi dal letto. Iniziai a cercare i vestiti in valigia,
frenenticamente.
"Prego?", disse dopo qualche secondo di silenzio.
"Non ci credo", sbottai scuotendo la testa, continuando a rovistare in
valigia. "Hai detto quelle cose e poi. Brutto coglione", continuai,
mormorando insulti a bassa voce.
"Potrei sapere cos'ho fatto?", mi chiese spazientito.
"Sei un coglione", ripetei ad alta voce.
"E perché, di grazia?".
"Perché mi hai fatto stare male per nulla!", eslcamai
stridula, alzandomi in piedi di scatto e dandogli una poderosa sberla
sul braccio.
"Eh?", chiese, ancor più confuso.
"Non prendermi in giro! Sai cos'hai detto: è per quello che
sono stata male".
Adam stette in silenzio e sperai per lui che stesse ripensando alla
telefonata della sera precedente. Io, dal mio canto, mi sentivo
un'emerita deficente! Avevo preso le sue parole troppo alla lettera,
fissandomi con un solo significato e convincendomi che non ci fosse
un'altra spiegazione. Se avessi pensato un attimo di più, se
non fossi stata così impulsiva, forse tutto sarebbe andato
diversamente.
"Ho semplicemente detto che avremmo dovuto parlarne con calma", disse
scrollando le spalle.
Presi un grosso respiro. "Testuali parole", mormorai. "E chi ti dice
che tutto sia rimasto come prima? Cosa avrei dovuto pensare?".
Adam mi fissò a bocca aperta per qualche istante. "Forse che
l'arrivo di un figlio porterà dei cambiamenti inevitabili
nelle nostre vite?".
Lo guardai incredula. "Ma porca merda!", esclamai, poco finemente. "E
non potevi essere più esplicito?".
"Sei tu che ti fai mille paranoie, Amanda", mi fece notare.
Sospirai e mi sedetti accanto a lui sul letto. "Ho avuto paura che
tutto fosse finito, che avessi faticato tanto per nulla, che tu no...".
"Basta", mi bloccò, mettendomi un dito sulle labbra vedendo
le lacrime bagnarmi gli occhi. "Abbiamo chiarito, non c'è
bisogno di stare ancora male".
"Ma come faccio ad essere sicura che tu non ci abbandonerai?",
mormorai, passandomi una mano sul ventre.
Adam mi strinse le spalle con un braccio. "Temo che dovrai fidarti,
Lupacchiotta".
"Quindi non ci lasci?", gli chiesi speranzosa.
"No, te lo prometto", disse sorridendo e allungando il mignolo. Lo
imitai e stringemmo le dita in un silenzioso patto, come si faceva
all'asilo.
"Non farmi più uno scherzo simile", mormorai, appoggiando la
testa sulla sua spalla.
"E, come mi sembra di averti già detto, tu smettila di fare
l'eroina", mi sgridò.
"Non sono stata male in questi giorni".
"Tranne ieri".
Scossi la testa. "Te l'ho già spiegato, Adam", sospirai.
"Lo so. Però il pensiero di saperti così fragile
mi fa accapponare la pelle. Sei andata da un medico?".
Sbuffai. "Certo che sì. Sto bene".
"E... e lui?", chiese emozionato, appoggiando il palmo della mano sulla
mia, che ancora era sul mio ventre piatto.
Sorrisi. "Anche lui. O lei".
"Vorrei tanto una femmina", sospirò, baciandomi i capelli.
"Sarebbe come te".
"A me basta che sia sano, poi non m'importa il sesso", risposi.
"Ovviamente", sussurrò, lasciandomi un leggero bacio sulla
base del collo.
Restammo così per un tempo infinito, stringendoci e
iniziando a conoscere il nostro bambino.
Ora tutto si era sistemato e il puzzle cominciava a riprendere forma.
Avevo ritrovato la tessera di Adam e quella del mio cuore e le avevo
incollate per essere certa che non potessero scappare. Era un bel
puzzle, quello della mia vita, e non vedevo l'ora di poter aggiungere
anche la tessera del nostro piccolo.
Quando Claire rientrò dal meeting, quella sera, ci
trovò ancora così.
Mi sgridò per averla fatta preoccupare, ma, quando le dissi
di essere incinta, si sciolse e iniziò a fare mille moine,
facendomi sorridere con quella sua voce squillante e quell'accento
francese. Poi mi raccontò quello che era successo quel
giorno e, dopo aver ordinato qualcosa al ristorante cinese all'angolo,
continuammo a parlare per tutta la sera, noi tre.
"Posso chiederti una cosa?", mi domandò Adam ad un certo
punto.
Io annuii, mischiando con le bacchette il riso alla cantonese che avevo
preso.
"Ci sarebbe la possibilità di allungare la vacanza di
qualche giorno?".
Lo guardai sorpresa, poi scossi le spalle. "Non lo so", ammisi. "Il
volo di ritorno è già pagato.
Perché?".
"Volevo stare un po' con te. Da soli", aggiunse. "E visitare questo
paese già che ci siamo".
"Oslo l'ho già vista quasi tutta", gli feci presente.
"Lo so", rispose. "Però stavo pensando a qualcos'altro.
Quando andavo all'università ho conosciuto un ragazzo
Norvegese, che mi ha spesso scritto di andarlo a trovare. Beh, potremmo
prendere due piccioni con una fava", mi spiegò.
"Io credo che se rimborsi il volo di ritorno non ci siano problemi,
Amanda", s'intromise Claire. "Fai uno squillo a Brown e spiegagli la
situazione: sono certa che ti darà il permesso".
Annuii. "Domani mattina lo chiamo", mi ripromisi. Poi mi rivolsi ad
Adam. "E dove abita questo ragazzo? Qui vicino?".
Adam scosse la testa. "No, vive in un paesino al nord. Ora non mi
ricordo il nome, ma posso contattarlo e, una volta finito il meeting
qui ad Oslo, possiamo prenotare un volo e stare lì un paio
di giorni".
"Wow, al nord!", esclamai. "Quindi vedremo l'aurora boreale?", chiesi
curiosa, non essendo ancora riuscita ad ammirare quel fenomeno in
paese. "Credo", rispose Adam ridendo. "Però è
solo un'ipotesi", mi ricordò.
"Tranquillo, domani chiamo Brown e poi decidiamo".
"Sarebbe la nostra prima vacanza assieme", disse abbracciandomi e
dandomi un bacio sulla tempia.
"In realtà siamo già andati in vacanza insieme,
noi due".
"Appunto, noi due", sottolineò, accarezzandomi la pancia.
"La nostra prima vacanza di famiglia", sussurrai.
"La prima di molte".
Ero davvero senza parole.
Assistere a uno spettacolo così magnifico era sempre stato
un mio sogno e, finalmente, grazie a Birk, l'amico norvegese di Adam,
si stava realizzando. Certo, faceva un freddo cane, ma per l'alba avrei
fatto questo ed altro.
Mi accoccolai sulla spalla del mio ragazzo, stringendomi nel cappotto e
nella coperta che ci avvolgeva le spalle. Il vento freddo che soffiava
nonostante le montagne che si stagliavano davanti ai nostri occhi
dietro una distesa cristallina d'acqua era davvero fastidioso, anche se
eravamo imbaccuccati come Eschimesi, tra maglioni, giacche, calzettoni
e coperte di lana.
Sbadigliai rumorosamente, mettendomi poi una mano davanti alla bocca.
Ci eravamo svegliati prestissimo quella mattina, decisi a goderci
l'alba della fredda Norvegia. Un paio di sere prima, pochi giorni dopo
essere arrivati a Stokmarknes, un'isoletta sperduta nel nord
più nord del nord, eravamo riusciti ad ammirare la famosa
aurora boreale. [1] Era stato un'esperienza senza precedenti e per
parecchi minuti non ero riuscita ad aprire bocca, incantata da quelle
spirali color verde smeraldo che volteggiavano nel cielo nero, come se
fossero onde di un mare in tempesta. Peccato che di tempestoso in
quelle strisce di luce colorata non c'era nulla. Infondevano piuttosto
un senso di pace e tranquillità e, seduta su una coperta e
stretta tra le braccia di Adam, proprio come in quel momento, avevo
ascoltato incantata alcune leggende Norvegesi che vorticavano intorno a
quell'emozionante fenomeno. Mi ero informata sull'orgine della luce e,
anche se in fisica ero sempre stata una capra, avevo più o
meno capito che erano formate da particelle che, staccatesi dal sole,
si scontrano con l'atmosfera emettendo diverse luce di varie lunghezze
d'onda, visibili solo ai poli della Terra proprio per il fatto il
nostro pianeta non è perfettamente rotondo, ma ovale. Quando
Adam mi aveva chiesto spiegazioni su questo particolare, l'avevo
fissato per qualche secondo a bocca aperta, poi avevo sbottato un
"Wikipedia ne sa più di me", dimostrando di aver capito ben
poco di quello che fisicamente succedeva. Ma, in fondo, non me ne
importava nemmeno così tanto, non se ripensavo alla leggenda
che Birk ci aveva raccontato. Un'antica storia, infatti, narra che le
anime dei morti ballano nel cielo tutte assieme, formando onde di luce
per dire ai propri cari che sono sempre nei loro pensieri. Era un'idea
bellissima come spiegazione di quel fenomeno e dimostrava anche il
grande attaccamento di quei popoli ai defunti, ai quali dedicavano
spesso preghiere ogni volta che il cielo si colorava di quelle
magnifiche luci.
E quella mattina, l'ultima dato che quella seguente avremmo avuto
l'aereo molto presto, avevamo deciso di goderci l'ultimo spettacolo
naturale che quel paese, di cui mi ero innamorata, poteva offrirci.
Dopo l'aurora boreale e i fiordi, infatti, mancava solo l'alba
all'appello e, considerato il colore azzurro che il cielo stava
prendendo proprio dietro il profilo scuro della montagna, mancava
davvero poco al sorgere del sole.
Mi strinsi ancora di più ad Adam, che mi posò un
bacio tra i capelli e sorrise. "Sei stanca?", mi chiese.
"Un po'", risposi sbadigliando.
Adam non rispose, limitandosi a trascinarmi ancora più
vicina al suo petto, circondandomi con le braccia e sistemando la
coperta sulle nostre gambe intrecciate.
Poi, all'improvviso, quasi senza che ce ne accorgessimo, il sole
iniziò a fare capolino da dietro gli spuntoni delle
montagne, illuminando lentamente il mare azzurro ai suoi piedi e, pezzo
dopo pezzo, tutto il paesaggio, che aveva preso un colore sempre
più acceso, anche se, ad occhio nudo, sembrava quasi fosse
sfocato. [2]
"È bellissimo", sussurrai, sorridendo.
"Già", rispose Adam semplicemente, ma lo sentii fremere
contro la mia schiena, segno che quello spettacolo non aveva colpito
solo me.
"Vorrei non dover più tornare a casa", sussurrai,
stringendogli forte una mano.
"Purtroppo dobbiamo tornare a fare la vita di sempe", rispose lui,
baciandomi una tempia e appoggiandomi la mano stretta tra le mie sul
ventre. "E poi, te l'ho detto, voglio iniziare a preparare tutto per
l'arrivo di questo piccolino".
"Adam...".
"No, frena", mi anticipò, capendo subito cosa volessi dire.
"Andremo con calma, te l'ho promesso".
Sospirai. Perché mi sembrava di averla già
vissuta quella conversazione? "Non è che non voglio venire a
vivere con te", mormorai. "È solo...".
"Non sei ancora pronta", m'interruppe di nuovo. "Ti capisco".
Scossi la testa. "È successo tutto così in
fretta, Adam. Dammi il tempo per metabolizzare".
"Non ti sto mettendo fretta, Lupacchiotta. Voglio solo che tutto sia
perfetto".
"E lo sarà, fidati. Prenderemo una casa...".
"La mia è grande abbastanza per una squatra di calcio, non
trovi?".
Alzai un sopracciglio. "Ci trasferiremo a casa tua", riprovai. "E
poi...".
"Ci?".
"Io e Wulfie", spiegai, guardandolo come se la cosa fosse ovvia. "Non
era incluso un cane nel tuo progetto della famiglia perfetta?".
"Sì, però ho la sensazione che il tuo cane mi
odi".
"Non dire sciocchezze", lo ripresi. "È solo che non ti
conosce".
"Mah, se lo dici tu"; borbottò.
Sbuffai. "Posso continuare?", esclamai, fulminandolo con lo sguardo.
Adam fece un cenno affermativo e io presi un respiro profondo. "Allora.
Ci trasferiremo, io e Wulfie, a casa tua, arrederemo insieme una stanza
per il bambino...".
"La bambina".
"Il bambino o la bambina, compreremo tutto quello che serve e ci
prepareremo al grande giorno. Prima però...".
"Devi parlare con Mr Klant", m'interruppe per l'ennesima volta. Stavo
per voltarmi e insultarlo, ma, quando capii il significato delle sue
parole, mi limitai ad annuire. "Tranquilla", mi consolò,
abbozzando un sorriso. "Sono anch'io uno psicologo, ricordi? Capisco
come vanno queste cose".
Annuii di nuovo, esitando un attimo prima di porgli la domanda che mi
vorticava in mente da qualche tempo. "Non sei geloso?", sussurrai.
"Di chi? Di Mr Klant?", rispose ridendo.
Scrollai le spalle. "Beh, gli racconto tutto, sempre, e prima di fare
qualcosa sento il bisogno di avere un suo parere. Però anche
tu sei uno psicologo, e pure il mio ragazzo".
"Che stupida", rise scompigliandomi i capelli. "Ovvio che non sono
geloso! È il suo lavoro ascoltarti e deve conoscerti per
poterlo fare bene, così come faccio io con i miei pazienti.
Però a me basta leggerti negli occhi per capirti,
Lupacchiotta".
"Ne sei certo?", mormorai insicura.
Adam mi afferrò il mento e mi fece voltare la testa,
portando i nostro occhi ad incontrarsi inevitabilmente. Sussultai.
"Non hai paura di venire a vivere con me", sussurrò a pochi
centimentri dalla mia bocca. "E nemmeno hai bisogno dell'opinione di Mr
Klant. Hai solo paura di perdere il bambino. Di nuovo".
Sussultai di nuovo, stringendo le labbra. Maledizione. Ad Adam questo
non l'avevo detto e, anche se Mr Klant era a conoscenza di questa mia
paura, ero certa che con lui non ne avesse fatto parola. Allora era
vero che Adam era in grado di leggermi nell'anima, oppure ero io che
ero più semplice da capire di un libro aperto.
"Non perderti di nuovo a Pensierolandia", mi riprese, scuotendomi
leggermente le spalle. "Capisco questa tua paura, Lupacchiotta,
però...".
"No, tu non capisci", lo interruppi, trattenendo a stento il solito
groppo che si formava in gola quando parlavo di quell'argomento. "Io...
io sono completamente terrorizzata, Adam. Voglio già bene a
questo bambino, come ne volevo a quello che ho perso cinque anni fa. Tu
mi avevi abbandonato, e alla fine ho perso anche lui. Ho paura di come
potrei reagire se non riuscissi a portare a termine nemmeno questa
gravidanza. Cosa farai tu? Mi abbandonerai?".
"Mai", esclamò sicuro. "Non devi nemmeno pensarlo".
"Lo so", sbottai, ricordando le stesse parole che Mr Klant mi aveva
detto. Strinsi le palpebre, cercando di mandare indietro le lacrime.
"Però ho il terrore di perdere di nuovo entrambi, Adam.
Capisci come tutta questa situazione sia tragicamente uguale? Io, tu e
un bambino. L'ho già vissuta e non voglio ripassarci".
"Cosa vuoi dirmi, Amanda? Che non vuoi portare avanti la gravidanza?".
Scossi la testa energicamente. "Assolutamente no. Ho solo... paura",
sussurrai alla fine, non trovando un altro termine per descrivere
quella morsa che mi stava attanagliando il petto.
Adam mi strinse di nuovo a se. "Lo so", ripeté.
"Però io ci sono".
Il cuore mi balzò nel petto a quelle parole e, finalmente,
compresi la differenza tra il passato e il presente. Cinque anni prima
eravamo praticamente due bambini messi di fronte a uno sbaglio
più grande di loro. Perché sì, era
stato uno sbaglio, non importava di chi, però non eravamo
stati abbastanza adulti da prenderci le nostre
responsabilità. Se Adam era fuggito, io non mi ero
comportata diversamente tradendolo con il primo tipo incontrato per
strada. Avevamo sbagliato e, soprattutto io, mi ero resa conto
dell'errore solo quando avevo perso il bambino. Solo in quel momento mi
ero accorta di quello che avevo perso ed era stato troppo tardi.
Ora, invece, eravamo più responsabili, forse un po' immaturi
vista la gravidanza indesiderata, ma avevamo un piano solido su cui
basare un futuro che comprendeva un terzo elemento. Ad appena vent'anni
non avevamo niente di certo, ancora in bilico tra il mondo degli
adolescenti e quello degli adulti. Come avremmo potuto pensare di
crescere un bambino? Certo, ormai il danno era fatto e avremmo dovuto
prenderci le nostre responsabilità. Invece le cose erano
andate diversamente e ci eravamo trovati, cinque anni dopo, nella
stessa situazione.
Era un caso o uno stupido scherzo del destino?
Qualunque fosse stata la risposta a quella domanda ormai non potevamo
tirarci indietro, io prima di tutti. Non potevo più
nascondere la verità dietro ad illogiche paure: dovevo dare
al mio bambino tutto quello che meritava, mettendo da parte anche me
stessa se fosse stato necessario.
E, poi, avevo Adam con cui combattere. Non ero più da sola a
dover affrontare una gravidanza, già faticosa di suo, ma
potevo contare sull'appoggio di una persona che mi amava e che amava il
nostro bambino.
E, allora, che cavolo stavo aspettando?
"Vengo a vivere con te, Adam", sussurrai.
"Ma...".
"Niente ma", lo interruppi, voltandomi di nuovo e guardandolo negli
occhi in modo che potesse leggermi dentro come poco prima. "Iniziamo a
creare la nostra famiglia".
Salve
gente!
inizio
con lo scusarmi per l'enorme ritardo, anche se avevo previsto che ci
avrei messo più del solito ad aggiornare, ma questa
settimana è stata piena al massimo e ho avuto davvero poco
tempo per dedicarmi alla storia. Tra l'altro, visto che sono una
masochista (e anche un po' stupida) mi sono iscritta ad un paio di
contest e mi sto facendo tentare anche da un terzo. In ogni caso non
preoccupatevi: questa storia avrà sempre la precedenza a
tutte le altre, lo prometto!
Tornando
al capitolo. Come avete visto ogni cosa si è sistemata e sta
prendendo il corso giusto. Ovviamente i guai non sono finiti qui e
mancano ancora otto lunghi mesi alla nascita del bambino, un
lunghissimo lasso ti tempo nel quale possono succedere un sacco di
cose! Ma non vi spoilero niente, soprattutto perché sono
solo a metà della stesura del prossimo capitolo.
Le
immagini che troverete qui sotto sono quelle riferite ai numerini nel
testo (ancora devo imparare a creare i collegamenti D:). La foto
dell'alba e mia, quella dell'aurora boreale l'ho dovuta prendere da
internet perché, putroppo, per fotografarla servono delle
lenti speciali che, ovviamente, non sono inserite in una semplice
macchina digitale. Ogni cosa che ho scritto sulla Norvegia, tuttavia,
è vera: le sensazioni che ho provato, la leggenda
sull'aurora boreale e anche la sua formazione fisica (presa da
Wikipedia, lo ammetto, ma non sarei stata capace di spiegarla con
parole mie) e spero di avervi trasmesso un po' della bellezza di questo
magnifico paese. Vi auguro davvero di visitarlo, un giorno,
perché ne vale la pena, per tutto!
Ora
vado a finire il prossimo capitolo e poi a studiare fisica, giusto per
restare in tema, per la verifica di martedì: pregate per me,
davvero!
a
presto e grazie di tutto a tutti, in particolare ad Ali_13 e a minelli,
che recensiscono sempre!
baci
mikchan
1-->
2-->
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Capitolo 16 *** Peter Pan loves Wendy, Wendy loves Peter Pan ***
16- PETER PAN
LOVES WENDY, WENDY LOVES PETER PAN
Una volta tornati dalla Norvegia, fu dura riprendere la vita di tutti i
giorni.
Ritornare al lavoro fu la difficoltà più grande,
soprattutto nell'affrontare lo sguardo di Claire che, ogni volta che
m'incontrava, mi chiedeva come stessi, ancora palesemente terrorizzata
da quello che era successo quella famosa sera. Per fortuna aveva avuto
il buon gusto di non rivelare troppi dettagli al direttore, il quale
sapeva solo che mi ero sentita poco bene e avevo dovuto saltare una
giornata del meeting. Quando gli avevo accennato della gravidanza, poi,
si era del tutto addolcito, affidandomi immediatamente un altro
articolo, una specie di biografia su una leggenda del basket che ancora
dovevo iniziare.
Dirlo a mia madre era stata la cosa più difficile. Non avevo
scordato le parole che mi aveva urlato, quel pranzo di mesi prima.
Sapevo che nemmeno lei ci credeva davvero e che era solo un modo per
provocarmi, ma a quel punto avevo paura a scoprire come avrebbe potuto
reagire.
Per questo avevo chiesto ad Adam di accompagnarmi. Gli avevo anche
consigliato di indossare un giubbotto antiproiettili, conoscendo bene
l'immotivato odio che mia madre aveva incominciato a covare nei sui
confronti anni prima. Ovviamente non si era presentata con kalashnicov
o bombe a mano, ma la faccia che aveva fatto quando era entrata in casa
mia, quella domenica mezzogiorno, e aveva visto il mio fidanzato seduto
sul divano, aveva soltanto sottolineato il suo desiderio di possedere
qualche arma.
Era stato un pranzo terrificante. Seduta in mezzo tra Adam e mia madre,
avevo dovuto combattere su due fronti per non fare scatenare una vera e
propria guerra. Mia madre, dal canto suo, lo aveva immediatamente
accusato di essere un bastardo traditore, testuali parole, capace solo
di abbandonare le povere ragazze incinta. A quel punto avevo tremato al
pensiero di doverle rivelare della gravidanza e avevo assistito in
silenzio alla scena successiva, guardando con ansia Adam alzarsi
lentamente dal divano e cercare di risponderle nel modo più
tranquillo possibile. Con molta calma l'aveva salutata e le aveva
sommariamente spiegato le motivazioni delle sue decisioni. Ovviamente
non fu ancora abbastanza, ma si limitò a sorridere e a
strizzarmi l'occhio: sapevo che non se la sarebbe presa, ma mi
dispiaceva vedere mia madre trattarlo in un modo così
freddo.
"Quindi, Adam", disse mia madre una volta seduti a tavola. "Cosa fai
nella tua vita?".
Brutta idea quel pranzo, bruttissima, mi ripetei per l'ennesima volta
da meno di venti minuti. Cosa cavolo stavo pensando quando l'avevo
invitata?
Adam inghiottì il morso di lasagne. "Lavoro", rispose ovvio
e gli lanciai un'occhiataccia, l'ennesima di una lunga serie,
pregandolo di smetterla di provocare mia madre.
"Fai lo spazzino?", ribatté infatti la mia dolce genitrice.
Mi lasciai scappare un gemito di frustrazione.
"Lo psicologo", ripose senza perdere il sorriso. Poi infilzò
un'altro boccone di lasagna e, spostando lo sguardo su di me, lo
infilò lentamente in bocca. Rimasi per un attimo imbambolata
a fissare le sue labbra carnose chiudersi intorno alla forchetta e
quando si piegarono in un sorrisetto mi riscossi. Bastardo.
"Ah, sì?", esclamò mia madre, palesemente presa
alla sprovvista: sarebbe stato molto più semplice insultarlo
se avesse avuto un impiego di poco valore, ma uno psicologo era un
personaggio di grande rilievo e, nei suoi malati canoni, rappresentava
una persona con i soldi che uscivano da tutti i buchi disponibili. La
cosa positiva era che, nel caso, avrebbe accettato Adam per il suo
denaro, invece di sbatterlo fuori da casa mia a calci nel sedere.
"Mi sono appena trasferito nell'ufficio di Mr Klant", spiegò
dopo avere bevuto un sorso d'acqua. "Mi trovo davvero molto bene con
lui, sa?".
"Non ne metto in dubbio", rispose mia madre, lanciandomi uno sguardo di
rimprovero per non averla avvertita. "È un uomo molto a
modo", continuò, sottolineando l'ultima frase come per
evidenziare la differenza tra il mio psicologo e il mio ragazzo.
"Vuoi altre lasagne, Adam?", lo interruppi prima che aprisse bocca.
Sapevo cosa avrebbe voluto dire, i suoi occhi divertiti lo urlavano al
mondo e, per il momento, volevo evitare inutili spargimenti di sangue.
"No, grazie", mi sorrise dolcemente, allungando una mano per
accarezzare la mia, appoggiata sul tavolo.
"Da quanto tempo state assieme?", chiese mia madre, arrivando alla
domanda che più temevo per le sue conseguenze.
"Un paio di mesi", rispose Adam per me. "Ma è come se lo
fossimo da sempre".
"Beh, in realtà non è così",
ribatté lei, assottigliando gli occhi.
"Stiamo riprendendo confidenza l'uno con l'altro. E stiamo anche
imparando a perdonarci".
"Perdonarci?", ripetè mia madre.
"Esatto. Stiamo ricostruendo la nostra storia e dobbiamo partire dal
perdono per poterlo fare".
"E cosa avrebbe mia figlia da farsi perdonare?".
Adam mi lanciò un'occhiata e io sbuffai. "Mamma, smettila",
esclamai, intromettendomi finalmente nel discorso. "Non sono affari
tuoi".
Lei assottigliò gli occhi. "Mi sembrava di averne
già discusso, Amanda. E tu sei affare mio".
"Ma non la mia storia con Adam", ribattei.
"Certo che sì, se questa storia ti fa stare male".
"Ti sembro infelice, mamma?", sbottai.
"Non ancora".
"E non lo sarà per molto, molto tempo", intervenne Adam,
afferrandomi di colpo la mano che non aveva smesso un attimo di
accarezzare.
"E chi lo dice? Tu?".
Adam scrollò le spalle. "Io cercherò di fare del
mio meglio per renderla felice".
"Anche anni fa avevi detto così".
"Appunto, anni fa", ribatté lui.
"Non cambia nulla. Sei sempre tu e posso scommetterci quello che vuoi
che tra poco correrà da me piangendo".
Gli occhi di Adam si illuminarono. "Vuole scommettere davvero?".
"Adam!", esclamai io. "Mamma!", la ripresi poi per le sue parole.
"Che c'è, Mandy? Stiamo semplicemente parlando", mi rispose
il primo.
"No, vi state comportando come due bambini stupidi e immaturi".
"Non sono io quella immatura, qui", sbottò mia madre,
incrociando le braccia al petto e fulminando Adam con lo sguardo.
"Se anche io la giudicassi per i suoi errori passati, signora, in
questo momento non saremmo nemmeno qui a parlarne", ribatté
Adam seccamente. "Io ho sbagliato, Amanda ha sbagliato, ma non sono
affari suoi come cerchiamo di correggere i nostri errori".
"Qui ti sbagli, ragazzino", esclamò mia madre. "Per prima
cosa, tu non c'eri quando l'hai lasciata, o quando ha perso il vostro
bambino. Secondo, non devi interessarti del mio passato, visto che ci
convivo già ogni giorno".
"Appunto per questo credo che dovrebbe capire perché io e
Amanda vogliamo vivere insieme per ricostruire la nostra storia".
Mia madre lo guardò a bocca aperta, poi spostò lo
guardo su di me, fulminadomi. "Vivere insieme?".
Sospirai, passandomi una mano tra i capelli e appoggiando la forchetta
sul piatto, rinunciando a finire di mangiare. "Siamo adulti e
responsabili, mamma. E, come ha detto Adam, non possiamo rincominciare
da zero senza imparare a fidarci di nuovo dell'altro".
"Sì, ma vivere insieme?", ripeté.
"Hai presente quanto due persone decidono di andare ad abitare sotto lo
stesso tetto?", la provocai, alzando gli occhi al cielo. "Ecco, vuol
dire che vanno a vivere insieme. Capito?".
"Non sono stupida", sbottò. "Voglio solo sapere
perché".
Arrossii a quella domanda. Merda, merda, stra-merda. Ora come glielo
spiegavo che il vero motivo era una gravidanza? Merda.
"Mi sembrava di essere stato esaustivo, prima", intevenne Adam. "Oppure
devo ripetere per la decima volta che stiamo insieme e quindi vogliamo
vivere assieme?".
"Ma non è presto?", insistette mia madre, ignorando Adam che
la fulminò con gli occhi.
Sospirai. "Mamma, ci conosciamo da un sacco di tempo. E ti ricordo che
al liceo mi sono stanziata a casa sua per qualche mese, quindi non
sarebbe nemmeno una così scoinvolgente novità".
"E dove andreste a vivere?".
"A casa mia", disse Adam. "Ho una villetta qui vicino".
"E perché non qui, Amanda?", mi chiese ancora mia madre.
"Semplicemente perché questo appartamento è in
affitto. Invece la casa di Adam è più spaziosa e
carina e posso aiutarlo a finire di pagarla, quindi non fare problemi".
"Di questo ne riparliamo", borbottò Adam.
"A cosa vi serve una casa più grande se siete in due?",
perseverò mia madre.
Sbuffai. "Smettila con l'interrogatorio", la ripresi. "Come abbiamo
già detto, non sono affari tuoi".
Mia madre mi guardò negli occhi per qualche secondo,
impassibile. "Sei incinta", sussurrò poi, facendomi
sussultare.
Come cavolo aveva fatto a capirlo? Avevo la scritta "incinta" che
lampeggiava sopra la mia testa? Mi pedinava oppure aveva istallato
telecamere in giro per casa mia? Che cavolo era diventata, un alieno
che sa leggere nel pensiero?
"Ho indovinato, vero?", disse ridacchiando nervosamente dopo qualche
momento di silenzio in cui anche Adam aveva avuto il buon gusto di
stare zitto.
Sospirai, annuendo senza sapere cosa rispondere.
Mia madre si passò una mano sugli occhi. "È
suo?", chiese poi, indicando Adam.
"Certo che sì", esclamò questo.
Mia madre lo fulminò. "Come fai ad esserne certo?".
Adam ridacchiò. "Non stavamo parlando di fiducia, prima?
Beh, credo di dovermi proprio fidare, in questo caso. E poi i numeri
sono in mio favore, quindi...".
"Te ne andrai di nuovo?".
"Mi vede qui, signora", rispose prontamente Adam. "E non credo di avere
proposto a sua figlia di venire a vivere con me per nulla".
"L'hai già fatto", gli ricordò duramente mia
madre, dopo averlo guardato fisso negli occhi.
"Non sono così stupido da rifare questo errore. Mi sembrava
di averlo già detto".
"Lo spero per te".
"Signora", sbuffò Adam. "Guardi sua figlia in faccia: non le
sembra felice?".
Mia madre si voltò verso di me, incontrando il mio sguardo.
"Sì", sussurrò. "Ed è quello che mi fa
più paura, perché anche cinque anni fa era felice
e sappiamo entrambi com'è andata a finire".
Adam sospirò. "Impari anche lei a fidarsi", rispose
semplicemente.
"Non credo che sarò capace di guardarti con occhi diversi,
Adam", rispose mia madre, chiamandolo per la prima volta per nome. "Hai
fatto troppo male ad Amanda".
Lui scosse le spalle. "L'unico modo è avere fiducia",
ripeté.
"Ma questa va guadagnata", ribatté mia madre.
"Oh, lo so", ripose Adam semplicemente e non potei fare a meno di
abbassare lo sguardo alle sue parole. Già, la fiducia.
"Sarà diverso questa volta, mamma", cercai di rassicurarla.
Mia madre abbozzò un sorriso, cercando di trattenersi. "Lo
spero proprio, Amanda. Sarebbe ora che anche tu mi dassi un nipotino da
spupazzare. Certo, speravo che il padre potesse essere quacosa di
meglio, ma ci si può lavorare", scherzò.
Tirai un enorme sospiro di solievo, sorridendo.
Mia madre era lo scoglio più grande che dovevo superare e ce
l'avevo fatta. Per tutto il tempo avevo temuto che iniziasse ad
insultare Adam e me, urlasse, strepitasse e uscisse di casa lanciando
una minaccia in pieno sile "Dea dell'Olimpo scazzata".
E invece... invece era contenta per me. Ovviamente fece di tutto per
punzecchiare Adam per tutto il resto del pranzo, ma il clima si era
decisamente alleggerito e anche io mi sentivo molto meglio. Avere
l'appoggio di mia madre era essenziale, per me e la volevo accanto
anche in questa avventura. Volevo che mi accompagnasse al'ecografia che
avrei dovuto fare nel giro di qualche settimana, così come
volevo che imparasse ad accettare Adam per quello che era.
Quando se ne andò, verso metà pomeriggio, mi
promise che avrebbe tenuto la bocca chiusa con tutti gli altri, in modo
da costringermi a rivelare la bella notizia di persona. Dovevo
ricordarmi di chiamare mio fratello in serata e invitarlo a cena con la
moglie e Dan uno di quei giorni.
Dirlo ad Austin, invece, sarebbe stato molto più difficile.
Non tanto perché era stato il mio ex, ma perché
lui provava ancora qualcosa per me e l'avrei fatto soffrire
ulteriormente annunciandogli che aspettavo un bambino solo qualche mese
dopo averlo lasciato. Che razza di persona ero diventata?
Non riuscii a togliermi quel pensiero dalla mente per tutta la
giornata. Non ne parlai con Adam, ma capì da solo che
qualcosa non andava, quindi si autoinvitò a rimanere a
dormire da me, sapendo quanto odiassi stare sola di notte.
"Potevi evitare di dire a mia madre che andiamo a vivere assieme",
commentai legandomi i capelli in una coda e dandomi un'ultima occhiata
allo specchio, prima di uscire dal bagno ed entrare in camera da letto,
dove Adam già mi aspettava sotto le coperte.
"Mi è sfuggito", si difese. "E poi deve avere qualche strano
radar per capire ciò che la gente non vuole dire di
proposito. È inquietante".
"Smettila", lo ripresi, infilandomi sotto il lenzuolo. "Ha solo un buon
sesto senso".
"E si diverte a provocarmi".
"È una cosa reciproca, ammettilo", ridacchiai,
accoccolandomi al suo fianco.
Adam mi strinse le spalle con un braccio, lasciandomi appoggiare la
testa sulla sua spalla. "Beh, è divertente".
"Siete due bambini", borbottai.
"Non è vero, non sono infantile", si lamentò.
Lo guardai alzando un sopracciglio.
"E va bene", sbottò. "Sono un Peter Pan, contenta Wendy?".
"Dipende, se devo fare da baby-sitter ad un gruppo di marmocchi che non
vuole crescere, allora passo, mio caro Peter Pan".
"Ma Wendy, quella è la mia ciurma!".
"Guarda che Peter Pan non è un pirata", risi.
"E quindi? Non può avere una ciurma?".
"Sì, certo", scherzai, continuando a ridere.
"Peter Pan è il capo della ciurma e Wendy è la
sua principessa".
"Ma se Wendy è una principessa, Peter Pan non dovrebbe
essere un principe?".
"È principe dentro, mia cara Wendy".
"Non era bambino dentro?".
"Il bambino è cresciuto, Wendy cara. E ha scoperto che
essere adulti non è così male",
sussurrò baciandomi lentamente il collo.
Fremetti tra le sue braccia. "E la tua ciurma?", mormorai, cercando di
continuare quel discorso, per quanto stupido potesse essere, come
appiglio sulla realtà.
Adam mi girò tra le sue braccia e mi ritrovai sopra di lui,
con le gambe a stringere il suo bacino e le mani sul suo petto. "La mia
ciurma vola per i cieli, Wendy cara. E ogni sera raccoglie i bambini
dalla strada e li porta sull'Isola Che Non C'è".
"Seconda stella a destra e poi dritti fino al mattino, vero Peter
Pan?".
"Hai buona memoria, Wendy cara. Vediamo se ti ricordi anche questo",
sussurrò, facendo passare le mani sotto la maglia che
portavo come pigiama e slacciandomi di colpo il reggiseno.
Me li lasciai sfilare entrambi, abbassandomi poi sul suo petto e
avvicinandomi alla sua bocca. "Certo che ricordo, Peter Pan. Tu,
invece, ti sei scordato di questo?", mormorai, iniziando a baciargli il
collo ed il petto, scendendo sempre di più con la lingua
senza perdere il contatto visivo e, soprattutto, strusciandomi contro
il suo basso ventre.
"Peter Pan ricorda sempre tutto, Wendy cara", sospirò,
chiudendo gli occhi per un attimo.
"E ricorda anche che lo amo?".
Adam spalancò le palpebre e, prendendomi per le spalle, mi
fece sdraiare sul letto e si mise su di me, ribaltando le nostre
posizioni. "Peter Pan ama Wendy, da sempre", sussurrò,
calandosi per baciarmi dolcemente.
"E Wendy ama Peter Pan".
"Da sempre?".
"Per sempre".
Salve
gente!
finalmente
la scuola è finita e, anche se ho più compiti di
quanti ne possa fare, non vi lascio in attesa e cercherò di
pubblicare puntuale, una volta a settimana, almeno fino all'inizio
della scuola!
È
un capitolo un po' corto, lo so e la seconda parte non era nemmeno
prevista. Però mi sono fatta trascinare e la situazione
è degenerata tra le mie mani. Peccato che io adori Peter
Pan, così come adoro Adam e non ho avuto il cuore di
cancellarla e fare qualcosa di più serio. In fondo
c'è stata troppa serietà negli ultimi capitoli e
mi serviva qualcosa di allegro, soprattutto in previsione del prossimo
capitolo, che ho già iniziato a scrivere e che vi assicuro
è uno dei più tristi che abbi mai
scritto!
In
ogni caso, sperando di riuscire a finire il capitolo prima di partire
per la montagna, ne approfitto per augurare buon Natale e felice anno
nuovo a voi e a tutta la vostra famiglia, anche da parte di Adam e
Amanda.
bacibaci
mikchan
|
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Capitolo 17 *** Fight! ***
17- FIGHT!
È buio.
Questa è la
prima cosa che registro quando mi sveglio.
La seconda è
la scomoda sensazione di bagnato in mezzo alle gambe, che
però liquido senza nemmeno pensarci riconducendola a sudore.
Fa veramente caldo in questa stanza.
A fatica, mi allungo e
accendo la luce sul comodino posto accanto al letto e immediatamente,
appena abbasso lo sguardo, incontro il mio pancione, il mio piccolo
bambino. Sorrido mentre mi accarezzo la cima di quel dirigibile e prego
perché si avvicini il giorno del parto: tra la voglia di
conoscere il mio piccolo e quella di potermi vedere di nuovo i piedi
non so quale sia la più grande!
Sbuffando mi metto a
sedere, allungando l'occhio alla mia destra e assicurandomi della
presenza di Adam al mio fianco. È davvero una serata afosa,
lo devo ammettere, eppure c'è qualche parte del mio cervello
che cerca di ricordarmi quanto sia impossibile quella temperatura ad
aprile. Oltre a quello c'è anche qualcos'altro, ma mentre
provo a decifrarlo vengo distratta dallo strano colore scuro delle
lenzuola.
Eppure ero sicura che
fossero bianche ieri sera.
Per quanto la pancia me
lo permetta, mi chino in avanti e quello che i miei occhi incontrano mi
fa raggelare. I pantaloncini del pigiama, così come il
lenzuolo sono completamente rossi e la chiazza vermiglia continua ad
espandersi, inesorabile.
No, non è
possibile.
Prendo un grosso
respiro, cercando di mantenere la calma. Non è come sembra,
mi è semplicemente arrivato il ciclo, cerco di convincermi.
Una dolorosa fitta mi coglie alla sprovvista e non riesco a reprimere
del tutto il grido, mugugnando mentre mi stringo il ventre, ansimante.
"Adam", sussurro,
allungandomi per scuoterlo.
Ma il posto accanto a me
è vuoto e freddo, sempre più rosso e
terrorizzante.
"Adam", ripeto, sentendo
il panico farsi spazio a pugni nel mio cuore.
Non è
possibile. Non posso perderlo di nuovo. Non posso perderli entrambi.
Un grido squarcia l'aria
e mi ritrovo in lacrime per un'altra fitta, sempre più
dolorosa.
"Adam",
strillò.
No, no, no.
"Adam!"
Non voglio.
"Adam!"
Non è giusto.
"Amanda!". Mi volto
verso quella voce ma non vedo nulla. La stanza è di nuovo
buia e il rosso vermiglio sulle lenzuola è l'unico colore
che ho davanti.
E non è
più il colore dell'amore o della passione. È il
colore della morte.
"Amanda!". Provo
inutilmente ad assottigliare lo sguardo alla ricerca di Adam.
Perché è lui che mi chiama, ne sono certa. Non
dimenticherei mai la sua voce.
Non voglio che succeda.
"Adam!", urlo, in preda
ad un'altra fitta.
"Amanda", mi risponde,
mentre tutto intorno a me sembra fasi più confuso.
Non può
essere la fine. Non ora che le cose stavano andando così
bene.
"Adam", sussurro
accasciandomi sul cuscino.
No, ti prego.
"Amore!".
Spalancai le palpebre, mettendomi seduta di scatto ansimando e con il
respiro rotto dai singhiozzi.
Era stato tutto un sogno.
"Amanda", mi chiamò Adam, scuotendomi per le spalle.
Non riuscii nemmeno a guardarlo negli occhi, bastò la sua
voce e mi strinsi a lui, incapace di fermare le lacrime. Adam non disse
niente, limitandosi ad abbracciarmi e a consolarmi. Sapeva che non
avrei mai ragionato in quelle condizioni e che l'unico modo per
parlarne razionalmente era farmi calmare.
Ci misi parecchi minuti per riuscire a rilassare il respiro e a fare
cessare i singulti, e almeno il doppio per fermare le lacrime. Peccato
che appena alzai la testa dal petto caldo di Adam un conato mi
risalì l'esofago e mi costrinse a correre in bagno per
rimettere tutto quello che lo stomaco conteneva. Poco dopo sentii Adam
raggiungermi e sospirai sollevata quando appoggiò le sue
mani fresche sulla mia fronte, scostandomi i capelli.
"Va meglio?", mi chiese, quando mi vide accasciarmi a terra.
Annuii lentamente, incerta. Se intendeva la nausea, andava meglio,
almeno per il momento. Se invece voleva parlare del sogno, beh, allora
non andava bene per niente.
Adam mi prese dolcemente in braccio e mi riportò a letto.
Appena mi sedetti sul lenzuolo immaccolato non potei non controllare in
basso e mi ritrovai a sospirare di sollievo quando incontrai solo
bianco e nulla più.
"Forse è meglio se oggi stai a casa, Mandy",
sussurrò mentre si sdraiava accanto a me e mi trascinava su
di lui.
"Che ore sono?", mormorai, sbadigliando. Avevo un sapore oribile in
bocca, ma non riuscivo a trovare le forze per alzarmi e lavarmi i
denti, preferendo accoccolarmi su Adam.
"Le sei e mezza. È presto. Torna a dormire", disse, dandomi
un bacio sui capelli.
Scossi la testa energicamente. "No".
"Allora raccontami cos'hai sognato".
"Era soltanto un incubo", minimizzai, rabbrividendo.
"Ovvio", commentò solo, limitandosi a rafforzare la presa
sulle mie spalle.
Per qualche minuto nessuno parlò. Adam aveva capito che non
avrei parlato a meno che non lo avessi voluto, mentre io ero troppo
impegnata a cercare di non pensarci, più che a dargli un
significato, soprattutto perché questo lo conoscevo bene.
Avevo già perso sia Adam che un suo bambino ed ero
terrorizzata che potesse risuccedere. Non era la prima volta che
sognavo una simile tragedia: era capitato in Norvegia e molte altre
volte da quando avevo scoperto di essere incinta e potevo scommettere
che sarebbe continuato fino a che qualcuno non mi avrebbe assicurato
che tutto si sarebbe concluso con un lieto fine.
"Ho sognato di perdervi", sussurrai, passandomi una mano sul ventre
ancora piatto e stringendo con forza la maglia che indossavo.
"Ed è già capitato", disse lui.
Annuii. "Non posso farci niente, Adam. Ho paura".
"Ne abbiamo già parlato, piccola Wendy", rispose baciandomi
una tempia e chiamandomi con quel soprannome che mi aveva portato in
paradiso la sera prima.
"Wendy ha paura di perdere il suo Peter Pan", mormorai, sentendomi un
po' stupida ad usare quegli appellativi che, in fondo, erano
così tanto veritieri. Adam era un Peter Pan cresciuto, un
eterno bambino e avrebbe fatto concorrenza a quello che portavo in
pancia, mentre io ero una Wendy nata, sempre pronta a preoccuparmi per
gli altri, che si era innamorata del suo Peter Pan al primo sguardo.
Sarebbe stato tutto più semplice se avessimo potuto rimanere
bambini.
"Dov'è finita la mia Lupacchiotta coraggiosa?",
scherzò Adam.
Sospirai. "Ha perso la retta via, purtroppo".
"Beh, allora dovremmo aiutarla a tornare a casa. Che ne dici, Wendy?".
"Dico che con te andrei dovunque, Peter Pan".
"Anche sull'Isola Che Non C'è?".
"Quello sarà la nostra prima meta per le prossime vacanze",
promisi con un risolino. Mi girai tra le sue braccia e affondai la
faccia nel suo petto. Mi sentivo molto meglio lì in mezzo,
coccolata dal suo calore e dal suo profumo. Ecco cosa mi faceva
convincere di amarlo così tanto: era sempre capace di
tirarmi su di morare, in ogni occasione. La sua leggerezza, a volte
fuori luogo, era quello che mi serviva per acquietare i miei timori e
le mie ansie.
Non so come, ma mi riaddormentai. Fortunatamente fu un sonno profondo e
senza sogni e, quando mi svegliai qualche ora dopo, ero completamente
riposata.
Adam, però, non era più al mio fianco e al suo
posto, sul cuscino, trovai un biglietto.
"Sono andato in clinica, oggi finisco per le tre.
Stai a casa, per favore. Ho chiamato il giornale per dire che sei
malata, quindi goditi questa vacanza.
Riposati e prenditi cura del nostro piccolo Bambino Sperduto.
A più tardi, Wendy.
Ti amo. Peter Pan".
Sorrisi, leggendo quelle parole. La storia di Peter Pan e Wendy stava
decisamente degenerando, soprattutto se chiamava nostro figlio Bambino
Sperduto, proprio come i cuccioli che Peter Pan accoglieva sulla sua
isola, eppure ogni volta che scherzavamo così mi sentivo
rinascere, con il cuore che batteva forte e il sorriso che non voleva
scomparire dalle labbra.
La verità era che con Adam mi sentivo bene, fin troppo
forse. C'era il rischio che la mia diventasse una specie di dipendenza,
ma sinceramente non mi interessava. Lo amavo, nulla più.
Scostai le coperte e, come prima cosa, corsi a lavarmi i denti. Odiavo
il saporaccio che si formava in bocca appena sveglia, figurarsi se
associato c'era anche quello della bile. Mentre strofinavo con energia
nella speranza di impiantarmi il sapore mentoso del dentifricio,
lasciai vagare il mio guardo sullo specchio. Ero davvero conciata male,
tra occhiaie, occhi rossi per il pianto e capelli spettinati.
Mi sciacquai anche la faccia, nella speranza di acquistare uno sguardo
un po' più sveglio e, mentre mi spazzolavo le ciocche, mi
venne in mente un'idea. Appoggiai il pettine sul lavello e mi alzai la
maglia fin sotto il seno, mettendomi di profilo.
Era ancora presto perché si vedesse qualcosa, ero solo al
secondo mese, eppure io lo sentivo dentro di me e non solo per le
nausee e i cambiamenti di umore. Era il mio bambino, mio e di Adam e,
anche se non lo avevamo mai cercato, sentivo di volerlo immensamente.
Cinque anni prima ne ero spaventata, allora invece ero eccitata
all'idea di potere stringere mio figlio tra le braccia. E non era solo
per l'istinto materno che si stava risvegliando dentro di me, ma per il
desiderio di ricostruire tutto anche con Adam e, alla fine, quello era
stato l'unico modo che avevo trovato.
Dopo essermi fatta una doccia veloce e sbocconcellato qualche biscotto
davanti a una demenziale serie televisiva americana, accesi il computer
e mi occupai delle bozze che mi aveano inviato da correggere. Avevo
anche l'articolo da iniziare, quindi decisi di mettermi all'opera e
cercare qualche notizia sul famoso, non per me, giocatore
professionista di basket David Parker. Ovviamente il corpo centrare
dell'articolo sarebbe stata l'intervista fissata due giorni dopo, ma
volevo almeno documentarmi sulla sua vita, in modo da poter preparare
delle domande adeguate e anche accattivanti per il pubblico.
Avviai il motore di ricerca e, mentre aspettavo che si caricasse la
pagina, cercai di pensare perché quel nome mi suonava
così familiare. Certo, avevo conosciuto molti David nella
mia vita e sarebbe stato interessante se uno di questi fosse stato uno
di loro. Per prima cosa, essendo una completa ignorante in materia,
decisi di cercare qualche sua foto e digitai il suo nome della barra di
Google, premendo invio con una sorta di eccitazione. Era il mio primo
vero articolo, quello, con la mia prima vera rubbrica incentrata su
interviste a personaggi di rilievo. Certo, il gossip non era proprio il
mio campo principale d'interesse, ma dovevo partire dal basso se volevo
crescere e questi articoli sarebbero stati il mio trampolino di lancio.
Eppure, quando la pagina caricò le immagini, non potei fare
a meno di sgranare gli occhi.
Beh, era ovvio. Con la fortuna che mi ritrovavo, era palese che tra i
sette miliardi di persone che popolano il pianeta io andassi a trovare
proprio quel David. Non sapevo se ridere per questo stupido scherzo del
karma -maledetto lui-, oppure piangere per la sfiga che mi
perseguitava. Nel dubbio, rimasi a fissare quelle foto, incontrando e
riconoscendo quei particolari che mai avrei dimenticato. I capelli
biondo cenere, un po' più corti di allora, ma sempre
ordinati e precisi, anche nelle foto in cui era ritratto dopo una
partita, gli occhi scuri e penetranti, che non avevano perso quel
luccichio che mi aveva attratta allora, ma che poi mi aveva solo
spaventata a morte.
David Parker, il famoso campione di basket, era ovviamente il David con
cui avevo "fatto conoscenza" al liceo. In un certo senso era anche
ovvio: lui amava quello sport ed era anche parecchio bravo e,
più volte, mi aveva ripetuto che avrebbe tanto voluto fare
carriera come professionista. Con la fine del liceo, però,
avevo considerato chiuso il capitolo David e tutto quello che aveva
comportato. Certo, mi aveva fatto avvicinare ad Adam, ma mi aveva anche
usata e scambiata per una sgualdrina d'ultimo ordine, nemmeno degna di
essere pagata.
E, come da copione, proprio ora che le cose si stavano sistemando,
compariva un nuovo problema. E David sarebbe stato un grosso problema,
soprattutto visto che avrei dovuto incontrarlo. Oltre ad essere
estramamente imbarazzante, sarebbe stato anche un po' spaventoso,
perché non avevo sicuramente dimenticato i suoi occhi
così cattivi e le sue minacce, anche se era passato del
tempo e, si presumeva, fosse cresciuto anche lui. Dovevo ammettere che
quell'episodio mi aveva parecchio segnata: certo, non mi era successo
nulla e l'avevo superato abbastanza in fretta, eppure non ero stata
capace di perdonarlo, nemmeno a distanza di quasi otto anni.
Tuttavia non avrei rinunciato al mio articolo per una stupida paura da
ragazzina. Quella sarebbe stata un'intervista tra persone mature e
adulte, tranquilla e senza danni. Io non mi sarei fatta sopraffare
dalle emozioni -o, almeno, ci avrei provato- e, con un po' di fortuna,
David nemmeno mi avrebbe riconosciuta.
Il suono della suoneria del telefono mi riscosse dai miei pensieri e,
alzato lo sguardo verso l'orologio, mi accorsi che mancavano pochi
minuti a mezzogiorno e che avevo passato quasi due ore a fissare lo
schermo, perdendomi a Pensierolandia.
Sospirando, accettai la chiamata senza guardare chi fosse, certa che ci
sarebbe stato Adam dall'altra parte della cornetta. E, invece, come in
uno strano deja-vu al contrario, fu Austin a rispondere.
Non lo sentivo da settimane, dall'ultima volta che lo avevo incontrato
per caso al supermercato e l'idea che avrei dovuto dirgli della
gravidanza mi terrorizzava forse più dell'intervista a
David. Però sapevo che dovevo farlo, quindi presi un respiro
profondo e ricambiai il suo saluto entusiasta con un po' meno vigore.
"Tutto bene?", mi chiese e sentii in sottofondo i tasti del computer
battere veloci.
"Sì, certo", minimizzai. "Sei in redazione?".
"Mhm", rispose e me lo immaginai mettere la lingua tra i denti mentre
finiva di scrivere una frase importante. "Ho la pausa pranzo tra dieci
minuti e mi chiedevo se potevamo vederci. È da un po' che
non parliamo".
"Già", mormorai, facendo involontariamente scivolare la mano
sul mio ventre. "Comunque sono a casa oggi. Se vuoi puoi passare qui e
ti cucino qualcosa io".
"Grande. È da giorni che non riesco a mangiare qualcosa di
decente a causa del lavoro. Ma sei sicura che vada bene?", aggiunse
poi.
Abbozzai un sorriso. "Se ti riferisci ad Adam, è al lavoro",
spiegai. "E comunque non è un reato pranzare con un amico".
"Non è che poi mi fa a pezzettini?", scherzò.
"Sai com'è, ci tengo alla mia virilità".
Scoppiai a ridere. "Tranquillo, Austin. Non c'è nessun
problema, credimi".
"Perfetto, allora ci vediamo tra poco".
"Inizio a preparare il tuo piatto preferito".
"Grandissima. A dopo". E riattaccò.
Mi accasciai sulla sedia, sospirando. Quella non era proprio la mia
giornata. Tra l'incubo, la nausea, David e Austin sembrava che il karma
se la fosse presa proprio con me.
Cercando di non pensare al tutto quello, spensi il computer e misi sul
fuoco l'acqua per la pasta. Austin adorava le tagliatelle al
ragù di mia madre e, oltre ad essere un piatto semplice da
preparare e quindi in linea con le mie capacità intellettive
limitate di quel giorno, avevo anche del ragù di riserva,
che mi madre aveva lasciato nel mio frigo la sera prima, come faceva
ogni volta che veniva a trovarmi. Da un lato sentivo di dovermi
offendere, visto che mi considerava ancora una bambina incapace di fare
qualsiasi cosa senza la sua supervisione, dall'altro, però,
mi era effettivamente di grande aiuto e, in più, i suoi
manicaretti erano sempre deliziosi e io non rifiutavo mai del cibo
gratis!
Mentre il sugo bolliva lentamente e l'acqua si scaldava, andai a
cambiarmi. Credendo di dover restare in casa tutto il giorno da sola,
dopo la doccia mi ero infilata i pantaloni del pigiama e una vecchia
maglietta slabbrata di Adam, che mi stava enorme, e non era esattamente
l'abbigliamento adatto per accogliere un ospite, chiunque esso fosse
stato. Nel caso di Austin, poi, avevo sempre cercato di essere
impeccabile, conoscendo la sua derivazione altolocata e non abituata ai
"vestiti-da-giorno-no", anche se si era sempre lamentato nel vedermi
sempre elegante anche nei momenti più tranquilli.
Però quella era una fissa che non voleva scomparire dal mio
cervello e, anche in quel caso, tirai fuori dall'armadio dei jeans
puliti e una felpa azzurra, niente di eccessivo, ma sempre meglio dei
vestiti da barbona.
Ritornai in cucina e accesi la televisione per coprire quel silenzio
fastidioso e, soprattutto, per aggiornarmi sulle notizie del giorno.
Inviai anche un veloce messaggio ad Adam, per avvisarlo che avrei
pranzato con Austin. Non era per tranquillizzarlo o perché
avevo paura che mi potesse scoprire all'ultimo minuto, ma
perché volevo semplicemente che sapesse cosa facevo e,
soprattutto, che Austin sarebbe stato solo un amico, nulla
più.
Proprio mentre stavo mettendo la pasta nella pentola il campanello
suonò e mi annunciò l'arrivo di Austin con ben
dieci minuti di anticipo.
Corsi ad aprigli e non potei fare a meno di sorridere quando incontrai
il suo sguardo. Mi era davvero mancato, malgrado tutto. Certo, non
provavo per lui quell'amore devastante che invece provavo per Adam, ma
gli volevo bene, sinceramente e profondamente, quindi mi allungai
subito ad abbracciarlo, perdendomi per un attimo nel suo profumo dolce.
Non ero pentita della scelta che avevo fatto, eppure, per alcuni
aspetti, Austin rappresentava ancora il mio ideale di uomo, quello che
avrei voluto sposare se Adam non fosse mai comparso nella mia vita.
"Vieni, entra", lo invitai staccandomi dal suo collo, arrossendo. Beh,
forse ero stata un po' troppo precipitosa, ma ormai il danno era fatto.
E poi era chiaro che quella giornata sarebbe stata una merda, quindi di
che mi preoccupavo? "Ho appena messo la pasta nell'acqua. Cinque minuti
ed è pronta", dissi precendendolo in cucina.
Austin si tolse la giacca, appoggiandola sul divano e mi
seguì, sorridendo. "Tagliatelle al ragù?".
Gli feci l'occhiolino mentre finivo di condire dell'insalata con tutto
quello che trovavo in frigorifero. "Ovviamente", risposi ridendo.
"Siediti", dissi poi indicando le sedie.
Lui scosse la testa. "Ti aiuto a preparare la tavola", disse,
dirigendosi da solo alla credenza e afferrando due piatti e due
bicchieri. Si muoveva nella mia cucina con estrema
familiarità e la cosa mi metteva un po' a disagio,
soprattutto se lo paragonavo ad Adam, che invece amava vedermi sgobbare
stravaccato su una sedia o seduto sul tavolo.
Restammo per qualche minuto in silenzio, facendo finta di ascoltare il
telegiornale, ma in evidente imbarazzo. Cosa avrei dovuto dire? Non
potevo certo sorridergli e sparagli un "Oh, sono incinta" come se nulla
fosse. Sapevo che quello sarebbe stato il fulcro del discorso, ma
preferivo posticipare.
"Allora", incominciai, dopo avere messo la pasta nei piatti ed essermi
seduta accanto a lui. "Cosa mi racconti?".
Austin ingoiò una generosa porzione di tagliatelle prima di
rispondermi. "Solita storia. Lavoro, casa, cani-tra l'altro Wulfie
è ancora da me, se te ne sei dimenticata- e lavoro", disse
alzando le spalle.
"Niente donne alla lista?", scherzai senza pensarci, rendendomi conto
della gaffe solo quando alzò gli occhi e mi
guardò scettico.
"Mi stai davvero chiedendo se vado a letto con qualcuna?".
Arrossii. "Beh, in realtà non proprio. Però tu
sai di Adam e... non che io voglia interessarmi della tua vita
privata", mi affrettai a precisare abbassando la testa. "Vorrei solo
sapere che stai bene".
Austin rimase in silenzio per qualche secondo. "Sto bene",
sussurrò poi. "E mi sto vedendo con una", aggiunse.
Presi un grosso respiro, sorridendo. "Ne sono contenta. Davvero".
"Non vuoi sapere chi sia?".
Scossi le spalle. "Non necessariamente. L'importante è che
ti renda felice".
"È Alex", disse lui.
"La cameriera del Bless?", chiesi io stupita.
Austin arrossì. "Beh, sì. Una sera ero
lì, da solo e abbiamo iniziato a parlare. È
simpatica".
"Lo so. E anche molto carina".
"Già", confermò annuendo. "Invece a te le cose
come vanno?".
Mi raggelai. Era arrivato il momento. "Vanno", risposi laconica.
"Problemi in paradiso?".
Sospirai. "No, con Adam va tutto bene".
"Ma?".
"Ma niente... è un periodo un po' così",
borbottai. "Indovina chi devo intervistare", dissi poi, sperando di
cambiare argomento. Ero una codarda, lo sapevo.
"Chi? Obama?".
Ridacchiai. "Peggio. David".
Austin fece una faccia strana, come se stesse pensando chi fosse quel
David, poi incontrò il mio sguardo e si illuminò.
"Quel David", esclamò, ricordandosi di quello che gli avevo
raccontato.
"Già, proprio lui", sospirai.
"E questo cosa c'entra con Adam?", mi chiese di getto.
"Nulla, infatti. Sono solo un po' preoccupata di incontrarlo".
"Quindi il problema è David?", insistette.
Mi morsi un labbro. "Più o meno", ammisi, prendendo un
grosso respiro. "Austin, mi prometti che, qualunque cosa ti dica, tu
non mi abbandonerai?".
Austin si irrigidì. "Non so se posso", sussurrò.
Fantastico.
"Sono incinta", mormorai, dopo qualche secondo di silenzio pieno di
tensione.
Non ebbi il coraggio di alzare gli occhi, ma, poco dopo, furono le mani
dolci di Austin che mi afferrarono il mento e fecero incontrare i
nostri sguardi.
"Credevi davvero che ti avrei giudicata?", sussurrò.
"Non lo so", sussurrai, sentendo le lacrime affiorare. "Solo non volevo
farti soffrire".
"Non puoi sentirti in colpa per tutto, Amanda", mi
rimproverò.
"Ma io ti ho mollato per Adam", mugugnai.
"Lo so. Però ormai è passato. Che senso ha
piangerci sopra?".
"Non volevo farti soffrire", ripetei.
"Io sto bene, Mandy", disse accarezzandomi una guancia.
"Ne sei sicuro?".
Riddacchiò. "Certo. Però ora smetti di piangere,
dai".
Tirai su con il naso, annuendo. Odiavo quegli sbalzi d'umore causati
dagli ormoni e soprattutto le reazioni eccessive che provocavano.
"Io ti voglio bene, Austin", mormorai, abbozzando un sorriso.
"So anche questo, Amanda. E mi va bene così".
"Non ti meritavi di incontrare una stronza come me".
"Oh, piantala di dire stronzate", sbottò allungando i
pollici per asciugarmi le guance. "E ora parlami del bambino, dai".
Sorrisi. "È ancora presto", dissi. "Però gli
voglio già bene".
"E Adam come l'ha presa?".
"È contento", risposi. "Forse entrambi vogliamo cogliere
quest'occasione per riparare i danni del passato".
"Il destino ci pone davanti a scelte difficili e a volte ci aiuta
anche. Forse hai ragione, questo bambino è la vostra
opportunità per ricominciare".
"Non sei neanche un po' geloso?", mormorai guardandolo negli occhi.
"Certo che sono geloso", sbottò. "In questo momento sto
pensando che potrebbe essere stato mio figlio, quello.
Però... però è successo
così, quindi non sto a piangere su quello che non
potrò avere".
"Mi dispiace", sussurrai per l'ennesima volta.
"Non farlo. Meriti di trovare la felicità. E la
troverò anch'io, fidati".
"Dici?".
Scrollò le spalle. "Chi lo sa. Se il destino ti ha dato
un'altra opportunità, forse ne offrirà una anche
a me, non trovi?".
"Almeno non hai il karma bastardo che ti perseguita", scherzai.
"Si sistemerà tutto, prima o poi".
"È il prima o poi che mi frega".
"E allora combattilo, Amanda".
"Mi starai accanto?".
"E lo chiedi anche, stupida?".
Sorrisi, scuotendo la testa. Forse quel giorno il destino mi era
avverso, ma presto la ruota sarebbe girata e tutto sarebbe andato
meglio, non per volere divino, ma grazie ai miei sforzi e ai miei
sacrifici. Adam, il bambino, il mio futuro... tutto era in mano mia.
E allora fanculo al karma: l'avrei atteso al varco con torce e picconi
e l'avrei fatto a pezzi.
Ciaoooo
Scusate
per il ritardo, ma questi giorni sono veramente frenetici! Comunque,
BUON ANNO A TUTTI! Speriamo che questo 2014 sia migliore dell'anno
passato, veramente!
Sono
davvero di corsa, quindi non dico nulla sul capitolo: fatemi sapere
cosa ne pensate! Intanto ringrazio chiunque abbia inserito la storia in
una lista e chiunque la legga, un enorme bacio a Ali_13 e Minelli, che
mi sono vicine in ogni capitolo!
a
presto
mikchan
|
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Capitolo 18 *** When you least expect it ***
18- WHEN YOU LEAST EXPECT IT
"Sei
pronta?".
"Ovviamente no".
"Vuoi andare a casa?".
"Ovviamente no".
"E allora cosa stai aspettando?".
Sbuffai. "Che un meteorite mi cada in testa".
Adam ridacchiò. "Peccato che non siano previsti meteoriti in
caduta in questi giorni".
Sbuffai di nuovo, tirandogli una pacca sul braccio. "Non mi sei
d'aiuto, stupido".
"Devi decidere tu cosa fare, Lupacchiotta", disse semplicemente.
"Lo so", sospirai.
"E allora cosa ci fai ancora in macchina?".
Esitai un attimo. "Non lo so", ammisi.
"Beh, allora torniamo a casa. Non mi dispiacerebbe riprendere da dove
abbiamo interrotto stamattina", disse malizioso, posandomi una mano sul
ginocchio.
"Smettila", mugugnai, scostando con stizza la gamba. "Sono solo
nervosa".
"È un'intervista, Mandy. E tu sei una brava giornalista".
"Lo so", ripetei. "Però è l'intervistato che mi
preoccupa".
Adam sospirò. "Puoi chiedere al tuo capo di farti cambiare
articolo".
Scossi la testa. "Lo voglio fare io", obiettai.
"E allora esci da questa macchina ed entra in quella stupida palestra".
"Non sei nemmeno un po' preoccupato?", gli chiesi io dopo qualche
secondo di silenzio. "Eppure sai bene quello che è successo".
"È diverso ora: tu sei una giornalista, lui un semplice
atleta. Hai la possibilità di farlo cadere dalle stelle in
un secondo e lui lo sa, quindi non farà nulla che possa
rovinare la sua carriera".
"Ne sei sicuro?".
Lui scrollò le spalle. "Io mi comporterei così,
quindi sì, ne sono sicuro".
Presi un grosso respiro. "Okay, allora vado".
"Io ti aspetto qui, così poi andremo dritti a casa e potremo
continuare quella famosa faccenda".
Alzai gli occhi al cielo. "Vedi solo di non mollarmi qui che non saprei
nemmeno come tornare indietro".
"Tranquilla, Lupacchiotta. Ho la mia radio e un libro", disse indicando
il cruscotto. "Solo, non perderti in quisquiglie con il giocatore di
basket".
"Che ha un nome, però okay".
"Che mi importa del suo nome?".
Sbuffai, scuotendo la testa. "Vado", dissi allungandomi e lasciandogli
un bacio a stampo. "Ci vediamo tra meno di un'ora, promesso".
"Buon lavoro, Lupacchiotta. E ricordati chi è il lupo e chi
l'agnello!", aggiunse prima che chiudessi la portiera alle mie spalle.
Una volta fuori dall'automobile, presi un enorme respiro profondo. Adam
aveva ragione: io ero una giornalista, David il mio intervistato. Cosa
sarebbe potuto succedere in meno di un'ora? Niente.
Sentii il finestrino dell'auto abbassarsi e mi voltai, incontrando il
sorriso di Adam. "Fagli il culo a strisce, Lupacchiotta".
Scoppiai a ridere. "Sei l'emblema della finezza, Adam!".
"Eh, sono capacità. Ora muoviti che ti stanno aspettando".
Annuii e sorrisi. "Grazie a... amore", dissi, incerta se potevo
prendermi la libertà di chiamarlo in quel modo. Ma Adam non
si arrabbiò e il luccichio nei suoi occhi mi
confermò che, forse, non gli era dispiaciuto così
tanto.
Gli lanciai un bacio volante e mi voltai di nuovo, trovandomi davanti
l'entrata del Palazzetto dello Sport dove David si stava allenando.
Presi un altro respiro profondo e m'incamminai.
Al bancone dell'accoglienza clienti parlai con una segretaria, che mi
indicò la strada verso gli spogliatoi degli atleti,
spiegandomi che gli allenamenti sarebbero finiti nel giro di cinque
minuti e poi avrei potuto parlare con David. Imbarazzata -un'intervista
in uno spogliatoio pieno di ragazzi mezzi nudi?- le chiesi se fosse
possibile farla da qualche altra parte e, dopo avermi lanciato
un'occhiata divertita, mi disse che avremmo avuto a disposizione
l'ufficio dell'allenatore. Sospirai sollevata e seguii le sue
indicazioni, trovandomi in una stanza di fianco agli spogliatoi,
piuttosto anonima e piena di scartoffie. Non c'era ancora nessuno e mi
sedetti, approfittandone per ripassare le domande che avrei dovuto
porgli. Niente di eccessivo: qualcosa sulla sua carriera, sulla sua
famiglia e alcune un po' inutili, ma interessanti per i lettori, che mi
aveva suggerito Jamie.
Mi voltai di scatto quando sentii delle voci provenire dal corridoio e
intradivi alcuni uomini entrare nello spogliatoio. Mi chiesi se David
fosse a conoscenza di quell'intervista e sapesse dove trovarmi, ma ogni
dubbio fu cancellato quando lo vidi avanzare insieme ad un uomo
più anziano, l'allenatore presumibilmente, e dirigersi con
lui proprio nell'ufficio dove mi trovavo in quel momento.
Mi alzai in piedi e attesi il loro arrivo, presentandomi con un sorriso
cordiale e stando bene attenta a evitare lo sguardo di David.
"Sono davvero contento che abbiate accettato di tenere questa
intervista", stava dicendo l'allenatore, Micheal Clive. Era un uomo
abbastanza alto, sulla cinquantina, con i capelli quasi del tutto grigi
e un accenno di pancetta, ma tutto sommato attraente, anche grazie ai
suoi modi tranquilli e aperti. Aveva un unico difetto e mi erano
bastati pochi minuti per comprenderlo: quando iniziava a parlare, non
finiva più! Elogiò più volte il nostro
giornale e mi ripeté all'infinito di salutargli Mr Brown,
ricordando ad alta voce i "vecchi tempi" con il suo compagno di
appartamento all'università. "Il mondo è
così piccolo", diceva ogni volta che pronunciava il nome
dell'amico. Io stavo iniziando a spazientirmi a causa di quella
ridicola situazione: quel tipo non la smetteva di parlare e David non
mi aveva tolto gli occhi di dosso da quando era entrato in
quell'ufficio. Continuava a fissarmi spudoratamente e, anche se mi
rifiutavo di accertarmene, sentivo il suo sguardo che mi penetrava con
forza. Non mi doveva riconoscere, eh?
Fortunatamente dopo quasi quindici minuti di parlantina ininterrotta,
Clive si ricordò il motivo della mia presenza in quel luogo
e mi salutò calorosamente con due baci sulle guance, come se
fosse il mio più vecchio amico.
Uscì dall'ufficio in un lampo e rimasi sola con l'unica
persona che mai avrei voluto rivedere in tutta la mia vita. "Bene,
signor Parker", dissi dopo avere preso un respiro profondo. "Possiamo
finalmente iniziare".
David non rispose, rimanendo immobile con le braccia incrociate al
petto. Mi costrinsi a voltarmi e guardarlo in faccia, più
per educazione che per effettiva voglia, ma me ne pentii subito. Non
era affatto cambiato. Forse era un po' più alto e
più muscoloso, ma il suo volto era sempre lo stesso: stesso
cipiglio, stessi occhi scuri, stessi capelli biondo cenere, stesso
sguardo profondo. Era addirittura più bello di cinque anni
prima.
"Hai intenzione di fare finta di nulla?", mi chiese dopo qualche
secondo di imbarazzante silenzio, alzando un sopracciglio.
Sobbalzai a quelle parole. Negare, sempre, fino alla fine. Beh, quella
volta sarebbe stato complicato, accidenti! "Non capisco di cosa parla.
Però gradirei iniziare quest'intervista e recuperare il
tempo che abbiamo perso perché avrei altri impegni dopo e
non posso trattenermi a lungo", spiegai, cercando di sembrare
più professionale possibile.
David sbuffò, sciogliendo la sua posa e arrivando con due
lunghi passi alla sedia e sedendosi. Lo imitai, deglutendo e
ripetendomi nella mente le parole di Adam: io ero la giornalista, lui
l'intervistato.
"Bene. Non sono molte domande, ma la prego di essere il più
sincero possibile".
Lui annuì, sbuffando e mugugnando qualcosa che mi
suonò come "quante scenate", ma che scelsi volontariamente
di ignorare.
"Allora, come mai questa sua passione per il basket? Lo pratica da
molto, non è vero?", chiesi, accendendo il piccolo
registratore portatile che avevo messo in borsa in modo da poter
ascoltare con calma l'intervista e poter stendere l'articolo in un
secondo momento.
Lui scosse le spalle. "Ho iniziato come iniziano tutti i bambini:
costretto dai genitori. Poi mi sono appassionato e ho deciso di
continuare. Sono stato ovviamente molto fortunato: molti miei colleghi
hanno dovuto rinunciare per molti motivi, mentre io sono qua". Mi
irrigidii alle sue parole, comprendendo benissimo a chi si stesse
riferendo: Adam aveva smesso con il basket proprio a causa di un grosso
problema al ginocchio, che lo aveva portato a subire un'operazione anni
prima, quando ancora stavamo insieme. Era stata una notizia che aveva
fatto scalpore, perchè proprio quell'anno lui, come David,
erano entrati a far parte di una squadra di livello più alto
e perdere un giocatore valido a nemmeno metà stagione era
stata una grande sopresa per tutti. Ma quello che ci era stato peggio
era stato ovviamente Adam: si era rifiutato di vedere qualcuno per
settimane, chiudendosi nel suo mutismo e perdendo quell'allegria che lo
aveva sempre caratterizzato. Con il passare del tempo, però,
aveva dovuto accettarlo e se ne era fatto una ragione, ripiegando
sull'altro suo sogno che aveva voluto scartare per tentare di sfondare
nel mondo dello sport. "Comunque", continuò David,
interrompendo il corso dei miei ricordi, "fondamentalmente gioco per me
stesso. È uno sfogo, il migliore che ho trovato, a tutte le
frustrazioni. E poi devo ammetere che adoro quella sensazione che ti
sorprende quando sei in mezzo al campo, con una palla in mano a pochi
secondi dalla fine della partita: in quei momenti devi sapere essere
lucido, ma anche farti trasportare ed è questo che amo del
basket. È passione, ma tecnica allo stesso momento"
Io annuii, ancora un po' scossa da quello sconveniente riferimento ad
Adam e mi schiarii la gola prima di porre la seconda domanda. "Qualche
mese fa si è slogato una caviglia durante una partita. Crede
che ritornerà a giocare presto?".
"Ovviamente. Già sabato prossimo dovrei essere in grado di
rientrare in campo e fare il culo a quegli stronzi!".
"Ehm...", mormorai, scribacchiando sul bloc-notes. "Magari questa cosa
non la scrivo, che ne dice?".
David sbuffò. "Dico che questa pagliacciata mi sta
stancando, Amanda".
"Io sto facendo il mio lavoro", sbottai, facendo finta di non avere
sentito il mio nome di battesimo. "E, se non vuole che scriva che
è un gran maleducato, deve decidersi a darsi una calmata,
signor Parker. Altrimenti me ne torno da dove sono venuta".
"Stai giocando scorretto".
"Preferirei che mi dia del lei, se non le dispiace", aggiunsi,
fulminandolo con lo sguardo. Aveva ragione, stavo giocando sporco, ma
accidenti se me lo meritavo! Quella era una mia specie di rivincita e
non avrei mollato tanto facilmente.
"Non possiamo parlare come due persone civili?".
"Era la mia intenzione fin dall'inizio, signor Parker. Ma se lei
continua a interrompermi sono costretta a ribattere, non crede?".
"Sei sempre la solita testarda rompipalle", sbottò,
passandosi una mano tra i capelli.
Mi morsi la lingua, trattenendo un insulto. Avevo un vantaggio, certo,
ma se avessi incominciato a essere cattiva l'avrei perso e anche
l'articolo sarebbe andato a quel paese. Per questo lanciai un'occhiata
alla lista delle domane e ignorai la sua battuta. "Alcune riviste
scandalistiche hanno pubblicato sue foto in club privati, in compagnia
di parecchie ragazze. Cos'ha da dire?". Okay, lo ammetto: quella era
una domanda di Jamie ed era anche parecchio stronza, ma volevo tenere
le redini di quell'incontro e quello era l'unico modo che avevo.
David si irrigidì. "Dico che posso andare a divertirmi dove
voglio, le pare?", rispose.
"E la sua ragazza? È da un po' che non lo si vede
più in giro con Beatrice Mells".
"Non è la mia ragazza, è solo un'amica".
"Beh, alcune foto possono confermare il contrario", lo punzecchiai. Oh,
sì che mi stavo divertendo!
"Esco con lei a volte e me la scopo. Dov'è il problema?".
Sbuffai. "Le scoccia usare un linguaggio più educato, per
favore?".
"Sì, mi scoccia, porca puttana. Che cazzo te ne frega della
mia vita privata?".
"Sono una giornalista", gli ricordai con freddezza. "È il
mio lavoro farmi gli affari degli altri".
"Sei caduta davvero in basso, Amanda. Ti stai nascondendo dietro al tuo
lavoro per vendicarti".
Assottigliai gli occhi. "Non ti permetto di giudicarmi", sbottai
passando alla seconda persona senza nemmeno accorgemene. "E ho tutto il
diritto di vendicarmi di un bastardo come te".
"Voglio un'altra giornalista con cui tenere l'intervista", disse
duramente. "Tu non sei obiettiva e finirai per scrivere stronzate solo
per sentirti meglio".
"No, non sono così", affermai sicura. "Sono una
giornalista", ripetei. "E scrivo quello che vedo. E in questo momento
vedo un uomo estremamente maleducato, mi dispiace".
"E io vedo solo una persona che non ha il coraggio di affrontarmi,
nemmeno dopo tutti questi anni".
"Lasciamo il nostro passato fuori da questo posto", esclamai. "Voglio
finire l'intervista e ti assicuro che farò come se non ti
conoscessi".
"Sai che non è possibile".
"Beh, non m'interessa. Ora posso procedere con le domande?".
David mi guardò negli occhi per qualche secondo, po
sbuffò, annuendo.
Finii l'intervista nella metà di tempo che ci avrei
impiegato normalmente, saltando le domande alle quali conoscevo la
risposta e limitandomi a quelle essenziali. Anche David non si
allargò troppo, dicendo lo stretto essenziale e continuando
a fissarmi accigliato.
"Bene, la ringrazio per il tempo che mi ha concesso", dissi quando
David finì di parlare. Volevo uscire da quel posto in fretta
e tornare da Adam.
"Quando uscirà l'articolo?".
"È una rubbrica settimanale, quindi potrà
trovarlo sul giornale venerdì".
Lui annuì, alzandosi e stiracchiandosi. Lo imitai, infilando
in fretta il registratore e il quadernino in borsa e indossando la
giacca. "Arrivederci", lo salutai freddamente senza nemmeo guardarlo
negli occhi.
Veloce e indolore.
Veloce, purtroppo, era anche David, che mi afferrò per un
polso e mi costrinse a rimanere dov'ero. "Ora possiamo parlare?",
chiese impaziente.
Feci una smorfia, fingendo di guardare l'ora. "In realtà
sono in ritardo, dovrei proprio andare".
"Chiunque sia può aspettare cinque minuti",
sbottò.
"Non abbiamo niente da dirci", sibilai, torcendo il braccio e
obbligandolo a lasciarmelo.
"Poco fa mi sembrava il contrario, sai?".
"È stata solo una tua impressione, fidati".
David sbuffò. "Posso solo chiederti una cosa?".
Lo guardai, incerta. "Parla, poi deciderò se rispondere".
"Perché hai accettato l'articolo se sapevi che avresti
dovuto incontrarmi?".
Rimasi un'attimo spiazzata: quella domanda proprio non me la sarei mai
aspettata! "Perché è il mio lavoro", risposi
semplicemente. "C'è tanta gente che non sopporto e passare
un ora con te era uno dei mali minori. E poi non potevo rinunciare
l'articolo di apertura della mia rubbrica".
"Beh, allora sono contento per te", disse solo.
Io annuii piano. "Grazie. Ora posso andare?".
"Sei proprio di fretta, si può sapere chi ti sta aspettando,
il presidente degli Stati Uniti?", esclamò, alzando gli
occhi al cielo.
Assottigliai le labbra, incrociando le braccia. "Il mio fidanzato",
risposi secca.
David mi guardò sorpreso. "E qualcosa mi dice che lo conosco
anch'io, vero Amanda".
"Piantala con questi giri di parole", sbottai. "È Adam, se
ti interessa saperlo. E sarei dovuta essere con lui già da
cinque minuti".
"Beh, mi dispiace se ti sto togliendo tempo prezioso da passare con il
tuo uomo", ironizzò.
Sbuffai. "Sì, sì, ti dispiace proprio. Ora, se
permetti, abbiamo finito l'intervista, abbiamo parlato e io vorrei
tornare a casa".
"Non resti nemmeno se ti offro un caffé?".
Lo guardai, sorpresa. "Stai scherzando?".
Scrollò le spalle. "No. In nome della nostra vecchia
amicizia".
"Ma quale vecchia amicizia?", sbottai. "Non siamo mai stati amici".
"Già, ed è stata solo colpa tua".
Alzai gli occhi al cielo. "Non esagerare, eh! È partito
tutto da te, se non mi sbaglio".
"Ancora con quella storia?", esclamò. "Non possiamo passare
oltre?".
"Ma io sono passata oltre. Il problema è che non
c'è nessun noi, David. Quest'incontro è stato
un caso, ma fidati, non accadrà di nuovo".
"Non ci giurerei, fossi in te".
"Mi minacci? Di nuovo?", lo accusai.
"No, era solo un avvertimento, Amanda. Il mondo è piccolo,
no?".
"Il mondo ha anche tante strade, David".
"Come dice il detto? Tutte le strade portano a Roma".
"Dipende, se le prendi dalla parte opposta ti portano lontano da Roma".
David sbuffò, di nuovo. "Sempre testarda",
mugugnò.
"Non sei l'unico a non essere cambiato", mi lasciai sfuggire.
Lui alzò un sopracciglio, abbozzando un sorriso. "Credo che
lo prenderò con me un complimento", disse. "E comunque anche
tu sei sempre la stessa. Anzi, sei molto più bella".
Arrossi, distogliendo lo sguardo. "Grazie", mugugnai.
"È un dato di fatto. Hai anche le tette più
grosse", disse candidamente, aprendosi in un sorriso a trentadue denti.
"David!", lo ripresi. "Farmi un complimento non significa diventare uno
scaricatore di porto!".
"Beh, anche questo è un dato di fatto. Non è che
sei incinta?".
Ammutolii, rimanendo di pietra? Ma come cavolo aveva fatto a capirlo?
Semplicemente guardandomi il seno? Che razza di maniaco...
David mi guardò in cerca di una risposta e il suo sorriso
scomparve quando incontrò il mio sguardo confuso. "Credo che
la risposta sia sì", disse passandosi una mano sulla nuca,
imbarazzato.
Scossi la testa. "Sì, aspetto un bambino. Ora devo davvero
andare, David. È stato un piacere... più o meno",
aggiunsi a bassa voce.
Uscii in fretta dall'ufficio e mi diressi verso l'uscita a testa bassa.
"Buon fortuna, Amanda", mi urlò David. Mi ferma, ma non mi
voltai. "E ricordati che ci rincontreremo". Rabbrividii, rincominciando
a camminare a passo più spedito. Perché quelle
parole a me suonavano più come una minaccia che come un
avvertimento?
Uscii in fretta, ringraziando l'aria fresca che mi colpì
violenta le guance, portandoci un po' di refrigerio. Individuai subito
l'auto di Adam e mi ci catapultai dentro, attaccandomi subito alle sua
labbra, come se fosse l'ossigeno necessario per farmi tornare a
respirare.
"Che accoglienza", commentò ridacchiando quando mi staccai
per prendere fiato. "Cosa devo dedurre? Che è andato
così bene da volere festeggiare? Oppure che è
andato così male che mi vuoi usare per dimenticare?".
Sbuffai, sedendomi sul sedile del passeggero e allacciandomi la
cintura. "È andata bene. Più o meno", ripetei.
"Però è stato stancante cercare di mantenere le
distanze".
Adam annuì, accendendo la macchina e uscendo dal parcheggio.
"Ti ha riconosciuta?".
"Subito".
"Accidenti, che memoria".
"Già. Si ricordava addirittura dell'incidente che hai avuto
anni fa", gli rivelai.
Adam s'irrigidì. "Ma davvero?", sussurrò senza
staccare gli occhi dalla strada, ma stringendo la presa sul volante. "E
perché te ne ha parlato?".
Scossi le spalle, allungando una mano per stringergli il ginocchio e
rassicurarlo. "Stupidità, presumo. Oppure voglia di mettersi
in mostra".
"Stupidità", ripetè Adam, sbuffando.
"Ti manca giocare?", gli chiesi dopo qualche secondo di silenzio.
Lui esitò un attimo a rispondere. "A volte vorrei avere una
palla in mano e schiacciarla a terra con forza per sfogarmi", disse.
"Però non so se tornerei a giocare e non solo per il
ginocchio".
Il suo sguardo diceva chiaramente che non ne voleva parlare e non
insistetti: sapeva che se si voleva confidare io ci sarei stata,
forzarlo non sarebbe servito a nulla, lo sapevo bene.
"Comunque ora voglio solo andare a casa e rilassarmi con un bagno
caldo".
"Da sola?", chiese Adam, alzando un sopracciglio e sorridendo malizioso.
"Chissà", dissi semplicemente.
Adam scoppiò a ridere. "In realtà volevo
festeggiare, così ho prenotato un tavolo al tuo ristorante
preferito".
"Festeggiare cosa?", chiesi curiosa.
Lui scosse le spalle. "Tutto: la nostra storia, la gravidanza, mio
padre sta meglio, il tuo lavoro va alla grande e hai superato anche la
prova di David. Hai bisogno di altro per festeggiare?",
domandò retorico.
"No, solo che non me lo sarei mai aspettato", risposi sincera, non
riuscendo a smettere di sorridere per la commozione.
"Beh, qualche volta anche io devo essere romantico", rise.
"Tu lo sei sempre", sussurrai. "A modo tuo, ovviamente".
Adam si voltò e mi afferrò la mano, stringendola
con la sua sopra la leva del cambio. "E allora questa cosa facciamo le
cose per bene: ora ti lascio a casa, ti prepari e ti passo a prendere
alle nove. Prendi anche qualcosa con cui dormire perché
andiamo da me, dopo".
"Dimmi che non hai programmato tutto!", esclamai sorpresa.
Lui fece una specie di smorfia. "In realtà sto decidendo
tutto al momento", ammise.
Mi allungai verso di lui e gli lasciai un bacio sulla guancia. "Visto
che sei romantico?".
Lui scosse la testa, sorridendo. Intanto eravamo arrivati sotto la mia
palazzina e, dopo averlo salutato con un bacio a stampo, scesi
dall'auto e corsi in casa.
Non me la sarei mai aspettata un'iniziativa simile da parte di Adam:
non gli erano mai andati a genio i ristoranti e preferiva le cenette
intime in casa, dove si poteva parlare e farsi smancerie senza tanti
problemi. Però dovevo ammettere che mi conosceva bene e
sapeva che, qualche volta, mi piaceva andare fuori a cena, passeggiare
a braccetto e finire la serata facendo l'amore. Cose da libri harmony,
per intenderci, ma avevo bisogno di nutrire il mio lato romantico, ogni
tanto e Adam sapeva benissimo come farlo.
Quella sera fu magnifica. E non solo perché Adam si
comportò da perfetto gentiluomo e perché finimmo
per fare l'amore in macchina, come due ragazzini, per placare quel
desiderio che si era acceso durante la sera a causa delle sue continue
battute maliziose, ma soprattutto perché iniziavo finalmente
a sentire che tutto stava girando nel verso giusto.
Ero felice, come mai lo ero stata in vita mia. C'era qualcosa, nel
profondo del mio animo, che era rinato dopo tanto tempo. Il mio amore
per Adam era come un'eterna fenice, bella e maestosa, potente e
infinita.
Per quel motivo ero convinta che sarebbe durato per sempre, nonostante
le avversità. Forse ne ero inconsciamente consapevole,
certo, ma all'epoca non avevo ancora capito come funzionasse il mondo
e, soprattutto, che le fiamme che bruciano la fenice sono estremamente
più dolorose delle ceneri che la fanno rinascere.
Ehi
gente!
Finalmente
ho un attimo libero e riesco ad aggiornare.
Questo
capitolo era previsto fin dall'inizio: in fondo David è
stato colui che ha permesso l'inizio della relazione tra Adam e Amanda
e gli dovevo una ricomparsa. Per Amanda è stata un'altra
sfida da superare e, malgrado tutto, ce l'ha fatta: chissà
se le parole di David sono veritiere o meno...
Ringrazio
davvero tutti quelli che mi seguono, anche in silenzio, in particolare
Minelli e Ali_13: siete davvero dolcissime con i vostri commenti,
grazie di tutto!
Sono
riuscita a portare avanti di un paio di capitoli la storia e vi lascio
con uno spoiler del prossimo capitolo. Buon weekend a tutti!
mikchan
SPOILER
Capitolo 19- FEAR AND GUILT FEELINGS
[...] "Mi stai dicendo che non ti sei pentito di quello che
è successo?", esclamai.
"Ma la pianti di travisare le mie parole?", sbottò
arrabbiato. "Le cose stanno così e te lo dico per l'ultima
volta: io sono stato malissimo senza di te e per questo sto cercando di
rimediare. Ti voglio al mio fianco, dannazione, e non solo
perché sei la madre di mio figlio. Il fatto di avere
commesso uno sbaglio, però, non mi ha impedito di
rimboccarmi le maniche e faticare per riavere quello che volevo. Per
questo mi fanno infuriare questi continui piagnistei: hai sbagliato,
hai fatto soffrire delle persone? Bene, fai qualcosa per cambiare".
[...]
|
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Capitolo 19 *** Fears and guilt feelings ***
19- FEARS AND
GUILT FEELINGS
"Amanda. Amanda! Dai, Mandy svegliati. Mandy. Amanda. Lupacchiotta,
esci dal mondo dei sogni!".
Mugugnai qualcosa, probabilmente un insulto, a chiunque mi stesse
squotendo in quel modo, interrompendo la dormita peggiore del secolo.
Non volevo assolutamente alzarmi e, per sottolineare la mia decisione,
mi voltai dall'altra parte, sentendo improvvisamente mancare l'appoggio
sotto la schiena e ruzzolando addosso a qualcuno.
Giusto, il divano.
Lentamente stavo riprendendo l'appiglio sulla realtà e mi
ricordai di essere rimasta a casa quel giorno a causa dell'influenza e
della nausea che non mi avevano abbandonato tutta notte. Nel pomeriggio
avrei avuto la prima vera ecografia e, per riprendermi un po' e non
presentarmi davanti al medico come uno zombie ambulante, avevo deciso
di provare a dormire e avevo detto ad Adam di svegliarmi quando fosse
arrivato il momento di andare.
Il suddetto ragazzo si trovava, in quel momento, sotto di me e
ridacchiava divertito davanti alla mia faccia assonnata. "Finalmente",
disse, prendendomi per i fianchi e sollevandomi.
"Scusa", borbottai, passandomi una mano sugli occhi. Dovevo avere delle
occhiate mostruose e dei capelli che avrebbero fatto invidia a Medusa.
Inoltre l'influenza che avevo beccato mi rendeva il naso chiuso e mi
aveva portato un raffreddore orribile, fortunatamente senza la febbre,
che sarebbe stata solo l'ennesima disgrazia in quella disastrosa
settimana.
"Devi prepararti", disse Adam, facendomi sedere sul divano e
scostandomi i capelli dalla fronte. "Ha chiamato tua madre: arriva tra
dieci minuti". Sbadigliai. "Vado a farmi una doccia", dissi alzandomi e
trascinandomi in camera per prendere i vestiti. Non ero ancora del
tutto sveglia e non sapevo come facevo a restare in piedi senza
crollare a terra: avevo dormito veramente malissimo, tra la
scomodità del divano e il naso chiuso. Tra l'altro ero
davvero impaziente di fare la prima ecografia e vedere il mio bambino.
Sapevo che, essendo appena entrata nell'ottava settimana, non sarebbe
stato molto quello da vedere, ma sarebbe stato ugualmente emozionante,
ne ero certa.
Mi feci una doccia veloce e mi vestii in fretta, raggiungendo mia madre
e Adam che parlavano tranquilli in cucina, davanti a una tazza di
caffé.
Ecco, quello era uno degli aspetti positivi della gravidanza: se
isolavo la nausea, la stanchezza e la paura di perdere mio figlio
potevo vedere quanto le persone intorno a me si stessero impegnando per
rendere tutto fantastico. Loro due ne erano un esempio lampante:
discutevano sempre, per ogni stupidata, ma si vedeva che mia madre
stava iniziando ad accettare Adam come padre e fidanzato. Adam, dal
canto suo, era perfetto: sopportava i miei scleri con un sorriso, era
sempre presente e, negli ultimi giorni, aveva incominciato a sistemare
le varie faccende che precedevano il mio trasferimento da lui. Faceva
di tutto, dallo svuotare il mio armadio, a riordinare il disastro che
trovava in casa senza che io gli chiedessi nulla. Spesso mi perdevo a
guardarlo mentre preparava la cena, abitudine che aveva preso negli
ultimi tempi, e mi convincevo sempre di più che tutto
sarebbe andato per il verso giusto: io, Adam e il nostro bambino, o
bambina, come una vera famiglia.
Il viaggio verso la clinica fu silenzioso, almeno da parte mia. Adam e
mia madre continuarono il loro discorso, ma non m'impegnai nemmeno a
capire di cosa stessero parlando. In quel momento stavo solo cercando
di calmarmi, alle prese con un nervosismo mai visto, che aveva
cancellato l'eccitazione per quel momento, trasformandola in paura. E
se il mio bambino avesse avuto qualche problema? E se ci fosse stato il
rischio di un altro aborto? Come avrei reagito se avessi ricevuto
qualche brutta notizia?
Quando arrivammo avevo il fiato corto e la testa in palla. Sapevo di
dovere rimanere tranquilla, ma ero completamente terrorizzata da quella
visita. La cosa era quasi comica, visto che nemmeno di un'ora prima non
vedevo l'ora di quel momento e invece, una volta che questo era
diventato reale non avevo saputo affrontarlo.
Appena Adam incontrò il mio sguardo si rese conto
dell'uragano che era scoppiato dentro di me e corse ad abbracciarmi,
davanti a mia madre che ci guardò confusa.
"Andrà tutto bene", mi sussurrò all'orecchio,
accarezzandomi la schiena. Eravamo in mezzo al marciapiede, davanti
all'entrata della clinica, ma in quel momento non m'importava. Come
potevo entrare in quel posto con la paura di vedere distrutto di nuovo
tutto quello per cui avevo combattuto? Mi aggrappai alle sue spalle,
stringendo tra le dita la sua maglia.
"Andrà tutto bene", ripeté Adam.
Presi un respiro profondo. Dovevo convincermene anch'io. Sarebbe andato
tutto per il verso giusto, non poteva essere diversamente. Altrimenti
perché avevo avuto quella seconda possibilità? Se
pensavo che le cose sarebbero andate male, allora c'erano maggiori
possibilità che questo accadesse. Dovevo pensare positivo,
per Adam, che per l'ennesima volta mi stava stringendo a sé
con forza e per il mio bambino, che amavo già da impazzire e
che mai avrei voluto perdere.
"Va meglio?", mi chiese Adam allontanandomi dal suo petto per guardari
negli occhi.
Annuii. "Scusami, io er...".
"Piantala di scusarti", sbottò fulminandomi con lo sguardo.
"Non c'è niente di cui tu ti debba scusare".
"Ma io...".
"Niente ma", m'interruppe di nuovo, abbassandosi per darmi un bacio
sulla guancia e prendendomi la mano. "Ora andiamo a conoscere nostro
figlio".
Annuii confusa, ma sollevata. Non avevo bisogno di essere consolata, ma
di appoggiarmi alla forza di qualcuno e usarla come sostegno e
trampolino. E chi meglio di Adam poteva aiutarmi?
Mia madre ci squadrò un attimo, chiedendomi con lo sguardo
cosa cavolo era appena accaduto sotto il suo sguardo, ma mi limitai a
scrollare le spalle e seguire Adam oltre la pesante porta di vetro.
La sala d'aspetto in cui ci trovammo poco dopo non era molto piena, ma
la trovai comunque claustrofobica. Ci ero già stata cinque
anni prima, prima e dopo l'aborto spontaneo che avevo avuto e non ne
avevo un buon ricordo.
In ogni caso, cercai di non farmi prendere dal panico di nuovo. Non
sarebbe servito a nulla, se non a farmi stare peggio. Almeno, quelli
erano i pensieri razionali che cercavo di costruire, ma più
i minuti passavano, più mi sentivo nervosa.
Quasi mezz'ora dopo il nostro arrivo, la porta dello studio si
aprì e ne uscì una donna, con un sorriso
stratosferico e gli occhi luccicanti. Salutò il medico con
adorazione e per un attimo mi chiesi che fine avesse fatto la mia
ginecologa: non volevo quel tipo che non conoscevo. Ero una bambina
capricciosa, lo sapevo, ma in quel momento avevo bisogno di certezze.
Fortunatamente dietro di lui comparve subito la dottoressa Sylmir, la
mia ginecologa, e tirai un sospiro di solievo.
Prima di me c'era un'altra ragazza, che entrò titubante
nello studio e mi ritrovai a dover aspettare ancora prima del mio
turno. Ero sempre più agitata, nonostante sapessi che ci
sarebbe stata la mia dottoressa e non uno sconosciuto al mio fianco.
Neppure i tentativi di convincimento servivano più.
Fortunatamente ero troppo distratta per accorgermi del tempo che
passava e presto fu il mio turno.
Sia mia madre che Adam mi seguirono all'interno dello studio: li volevo
entrambi al mio fianco. Mia madre perché era lei,
perché mi era sempre stata accanto, a modo suo e
perché la volevo rendere partecipe del momento
più bello della mia vita. Adam semplicemente meritava di
essere lì: quello che portavo in grembo era il nostro
piccolo miracolo e, potevo giurarci, non si sarebbe perso nulla della
sua vita, nemmeno prima della sua nascita.
Fortunatamente, l'altro medico non entrò con noi e mi
ritrovai a tirare un sospiro di solievo.
"Allora, come procede? Vedo che stai iniziando a mettere su peso",
disse la dottoressa mentre mi sdraiavo sul lettino e mi alzavo la
maglietta. Effettivamente, negli ultimi tempi il seno si era
ingrossato, per la gioia di Adam e la pancia stava iniziando a farsi
vedere.
Il cuore mi batteva a mille, tra paura e eccitazione.
"Bene", risposi trasalendo quando cosparse il mio ventre del gel
freddo. "A parte la nausea e la stanchezza".
Lei annuì. "Tra qualche settimana dovresti iniziare a stare
meglio", mi spiegò iniziando a passare la sonda.
"Però devi stare sempre più attenta alla tua
alimentazione: mangia poco, ma di frequente e in modo salutare, in modo
da evitare l'acidità di stomaco e la nausea mattutina ".
"Lo so", dissi sicura. "Non mangio schifezze da quando ho scoperto di
essere incinta".
La dottoressa sorrise. "Perfetto. Allora", mormorò poi,
tornando a guardare lo schermo. "Il vostro piccolo sta bene", disse
lanciandomi un'occhiata veloce.
"È un maschio?", chiese Adam curioso, stringendomi la mano.
"È ancora presto per sapere il sesso", spiegò la
dottoressa. "Però sta iniziando a svilupparsi: se fate
attenzione potete già sentire il suo cuore battere".
Nella sala scese il silenzio e, dopo qualche secondo, iniziai a sentire
un rumore sordo e leggero, come quello di un taburo in lontananza e le
lacrime iniziarono a scendermi, silenziose. Mi voltai verso Adam e
incontrai il suo sguardo commosso. Lui si allungò per darmi
un bacio sulla fronte e sorrise.
"Bene", continuò la dottoressa, spezzando il silenzio e
spegnendo il monitor. "Ora vorrei farti qualche domanda, Amanda", disse
passandomi un asciugamano per pulirmi la pancia. "Voi potete aspettarla
fuori", disse poi rivolta ad Adam e a mia madre, che annuirono incerti.
Quando furono usciti scesi dal lettino e mi trasferii sulla sedia
davanti alla scrivania della dottoressa, dove lei si era già
accomodata e stava trascrivendo alcuni dati al computer.
"Allora, Amanda", disse dopo qualche minuto. "Hai qualcosa in
particolare da chiedermi?"
Io mi morsi un labbro, incerta. "In effetti", mormorai. "Vorrei sapere
se c'è ancora il rischio di un aborto".
"Sei riuscita a passare i due mesi tranquillamente, Amanda e le
possibilità di un aborto spontaneo sono diminuite
notevolmente", mi spiegò.
"Anche se mi è già successo?", insistetti.
Lei annuì. "Devi capire che la gravidanza non è
una cosa a se: è strettamente legata alla donna. I tuoi
sentimenti, le tue preoccupazioni, le tue paure, tutto influisce sul
bambino. Quando sei venuta da me cinque anni fa eri spaventata e sola:
certo, fisicamente eri perfettamente in grado di portare avanti la tua
gravidanza, ma il tuo corpo ha deciso che era meglio interromperla",
cercò di spiegarmi, "Ora, invece, sei raggiante e in
perfetta salute. Le nausee e la stanchezza sono sintomi normali e in
alcune donne sono più pronunciati che in altre, quindi non
devi preoccuparti se a volte stai male: nel giro di qualche settiamana
ti assicuro che scompariranno quando il tuo corpo si sarà
abituato alla nuova presenza e ai nuovi ormoni che sono entrati in
circolo".
Io sospirai, sollevata. "Ero terrorizzata, prima di entrare", le
rivelai.
"Lo credo bene, ogni donna lo sarebbe stata. Ma sono certa che
supererai questo momento con facilità".
Io annuii, sorridendo felice. Il mio cuore era più leggero e
mi sentivo sollevata da quelle parole: ora avevo la certezza che tutto
sarebbe andato bene.
Nella mezz'ora seguente la dottoressa mi fece domande più
specifiche riguardo tutta la mia vita clinica, dalle malattie, alle
allergie, mi prescrisse alcune medicine per il raffreddore che non
avrebbero interferito con il bambino e, dopo altri esami, mi
consigliò degli esercizi da compiere per rimanere in salute
e scongiurare definitivamente l'aborto e mi prescrisse una dieta
generale da seguire.
Quando uscii dallo studio, quasi un'ora dopo, non riuscivo a trattenere
il sorriso. Tra le braccia stringevo la mia cartella clinica con tutti
gli esami e le cose che mi sarebbero servite e, mentre raggiungevo mia
madre ed Adam, seduti su alcune poltrone, non potei fare a meno di
sospirare, sollevata. Tutto era andato per il meglio e sarebbe
continuato così, ne ero certa.
La dottoressa aveva ragione: c'era un enorme divario tra la gravidanza
che avevo dovuto affrontare cinque anni prima e quella che mi si poneva
davanti in quel momento. La più grande differenza era la
presenza di Adam al mio fianco: senza di lui non sarei mai riuscita a
superare le mie paure e i miei dubbi e solo con lui sarei riuscita a
costruirmi un futuro degno di questo nome.
Ero entrata in quella clinica terrorizzata e tremante, temendo quello
che sarebbe potuto succedere e ne uscivo come una persona nuova, con
una nuova consapevolezza di avere la forza di andare avanti.
Adam mi prese una mano e mi sorrise. Lui era il mio salvagente, ma
dovevo imparare a nuotare da sola, sempre con lui al mio fianco.
Saremmo stati dei bravi genitori, ne ero certa.
"Sono davvero contento per lei, Amanda".
Io annuii, incapace di smettere di sorridere. Era da giorni che non
riuscivo a togliermi quell'aria ebete dalla faccia. Adam mi prendeva
continuamente in giro, ma io non potevo farci nulla. Ero felice, come
non lo ero mai stata. "Grazie", mormorai.
"È davvero una gioia vederla sorridere in quel modo: le
brillano gli occhi".
"Me l'ha detto anche l'ultima volta che sono venuta. E quella
precedente", gli feci presente.
Lui annuì. "Perché è la
verità. Lei è raggiante", disse, usando lo stesso
termine della dottoressa. "E lo è da quando ha rincominciato
a frequentare Adam. O mi sbaglio?".
"No, non si sbaglia", risposi certa. "Adam ha decisamente rivoltato la
mia vita. È tutto così perfetto: ieri mi sono
trasferita definitivamente da lui e mi sembra già di
abitarci da anni in quella casa. E lui è sempre
così dolce con me, che a volte non sembra nemmeno lui. Poi
però viene fuori con una delle sue solite battute e mi rendo
conto di quanto lo ami anche per quel suo lato da idiota. Lui mi fa
ridere, mi fa sentire bene, accettata e desiderata. Non dico che con
Austin queste cose non accadessero", precisai, continuando il mio
monologo guardandomi le mani. "Però con Adam è
come se fosse tutto estremamente amplificato. Quello che con Austin era
dieci, con Adam è cento, in ogni campo. E un po' mi
dispiace, perché quando ci penso mi sento una stronza
approfittatrice, ma credo che il mio amore per Adam sia il colpevole di
tutto questo".
"Perché li paragona?".
Scossi le spalle. "Mi viene naturale. Li ho amati entrambi, anche se in
modi diversi. E poi non riesco a non sentirmi in colpa nei confronti di
Austin", spiegai.
"Ma non aveva detto che vi eravate parlati?".
Annuii. "Sì, e lui ha anche ammesso di essere ancora un po'
geloso. Ed è per questo che, nonostante mi abbia rassicurato
di essere felice e di stare iniziando una nuova relazione, mi sento
responsabile della sua tristezza. Insomma, l'ho abbandonato per il mio
ex, dopo avere impiegato mesi a riuscire ad aprirmi: non mi sarei
sorpresa se mi avesse cacciata a calci nel sedere, anzi, me lo sarei
meritato. Invece è stato dolce come sempre, anteponendo di
nuovo la mia felicità alla sua".
"È stato un bel gesto", commentò Mr Klant.
"Lo so", sbuffai. "Ma sarebbe stato tutto più facile se si
fosse arrabbiato".
"Sarebbe stato più facile perché non avrebbe
avuto a che fare con i sensi di colpa?".
Alzai le spalle. "In un certo senso. Ma anche perché credo
che avrebbe sofferto di meno".
"Penso che glielo abbia già detto lui stesso, ma deve
smetterla di prendersi sulle spalle la colpa di tutto".
"Lo so", borbottai di nuovo. "Eppure non riesco a farne a meno. Ed
è per questo che voglio aiutarlo".
"In che modo?".
Sorrisi. "Voglio che sia felice. Che sia con Alex, o un'altra donna,
voglio che si tolga dalla mente di avermi amata".
"Un po' improbabile, non crede?".
Scossi la testa. "Io credo che da qualche parte, nel mondo, ci sia la
persona giusta per noi. Non sarà mai perfetta, in fondo
nemmeno noi stessi lo siamo, ma sarà l'unica in grado di
capirti con uno sguardo, proteggerti e amarti per sempre. Lo so che
sembra una favola", dissi precedendo le parole di Mr Klant. "Eppure a
me è successo, dottore, e lei ne è stato
spettatore. Quindi perché non può succedere anche
per Austin?".
"Perché è una cosa che non si può
controllare, Amanda. Come pensa di fare per trovare la persona adatta a
lui?".
Feci una smorfia. Cavolo, non avevo pensato a quel particolare!
"Effettivamente è un po' impossibile", mormorai, passandomi
una mano tra i capelli. "Però non posso rimanere con le mani
in mano. Mi capisce?".
Lui annuì. "Capisco, ma allo stesso tempo mi rendo conto
anche che non sarebbe giusto interferire con la sua vita sentimentale,
non crede?".
"Non voglio interferire, voglio solo che sia felice".
"E allora gli stia accanto, come amica e lo aiuti a cercare la
felicità".
"Ma non soffrirà di più ad avermi vicina ogni
momento?", dissi incerta.
"Lasci a lui la scelta", ripose semplicemente.
Io annuii. Volevo con tutto il cuore aiutare Austin ad essere felice,
ma Mr Klant aveva ragione: non avre risolto nulla cercando di fare le
cose al suo posto. Era lui che doveva cercare la sua anima gemella e
innamorarsene, non io. Io dovevo solo rimanegli vicina, come amica, e
gioire per le sue conquiste.
In quel momento qualcuno bussò alla porta e, pochi secondi
dopo, Adam entrò nell'ufficio di Mr Klant.
"Salve Adam", lo salutò questo.
"Scusate per il disturbo", rispose lui, lanciandomi una veloce
occhiata. "Devo solo prendere dei documenti".
"Faccia pure", disse Mr Klant, indicandogli gli scaffali alle sue
spalle e ritornando poi a rivolgersi a me. "Allora, dove eravamo
rimasti?".
Ma io non lo stavo ascoltando, persa nell'osservare Adam che si era
chinato per cercare quello che gli serviva, mettendo in risalto il suo
sedere perfetto stretto nei pantaloni eleganti. Mi umettai le labbra,
sentendomi avvampare. Era un Dio Greco, vestito in quel modo, e spesso
mi chiedevo come fosse possibile per un uomo non avere nemmeno un
difetto fisico. Poi mi ricordavo dei suoi mille altri difetti, come il
disordine cronico, la schiettezza a volte esagerata e la fissazione per
il mio seno e mi rendevo conto che Adam non era affatto perfetto, ma lo
era per me. Mentre lo guardavo rapita, incapace di distogliere lo
sguardo dal suo corpo, pensai anche che era da quando avevo fatto la
prima ecografia che non facevamo l'amore e che mi mancava tantissimo
sentirmi stringere da lui e perdermi nel suo profumo.
Adam sfilò alcuni fogli da una cartella e la richiuse,
ringraziando Mr Klant che, dopo averlo guardato in silenzio per un
attimo, lo invitò a sedersi accanto a me e a farmi compagnia
in quei ultimi dieci minuti di seduta.
Lui mi guardò incerto, aspettando una mia risposta e io mi
limitai ad alzare le spalle. Non sapevo se era un bene o un male avere
Adam presente mentre parlavo con Mr Klant e lasciai a lui l'onere di
scegliere per entrambi. Dopo averci pensato un attimo,
sospirò e con due grandi falcate si ritrovò
davanti alla scrivania del dottore e si sedette sulla poltrona accanto
alla mia.
"Di cosa stavamo parlando, Amanda?", ripeté Mr Klant,
intrecciando le dita sotto il mento e guardandomi negli occhi.
"Di Austin", ammisi, sapendo che era inutile mentire, oltre che stupido
e voltandomi verso Adam per sondare la sua reazione, che si
limitò a una stretta di labbra e a un sopracciglio inarcato.
Mr Klant annuì. "Quindi cos'ha deciso di fare?".
Presi un respiro profondo. "Non intralcerò la sua vita",
ammisi. "Però gli voglio bene e lo aiuterò se
avrà bisogno di me".
"Perfetto. E lei, Adam?", chiese, rivolgendosi al mio ragazzo che lo
guardò confuso. "Cosa ne pensa?".
"Riguardo a cosa?".
"Ad Austin", rispose solo il mio dottore, limitandosi a quello invece
di rivelare tutta la faccenda, lasciando a me quell'ingrato compito.
"È l'ex della mia fidanzata, cosa dovrei pensare?".
"Gliel'ho fatta io questa domanda".
Adam esitò un attimo. "Sono geloso", ammise, evitando bene
di guardarmi in faccia. "Sono geloso marcio perché ha
aiutato Amanda quando io non c'ero e se ne è innamorato.
Però", aggiunse. "l'ho conosciuto ed è un bravo
ragazzo, sul serio".
"Non mi avevi mai detto che eri geloso", sussurrai.
Lui scosse le spalle, afferrandomi una mano. "Non era importante".
"Lo era per me. Vi sto facendo soffrire entrambi, accidenti", sbottai.
Adam alzò gli occhi al cielo. "Smettila di incolparti sempre
di tutto, stupida. Io sono l'uomo più felice del mondo, non
lo capisci?".
Sospirai. "Ho creato comunque un gran casino".
"Gran casino che vedi solo tu, Amanda. Credimi se ti dico che sono
felice, diamine".
"Non c'è bisogno che tu ti arrabbi", sbottai.
"E, come ti ho ripetuto all'infinito, non c'è bisogno che tu
ti senta in colpa per ogni cosa".
Sbuffai. "Non lo faccio per hobby, sai?".
"Non l'ho mai detto", esclamò lui.
"Se mi sento in colpa è perché so di avere
sbagliato".
"Tutti sbagliano, Amanda. Ma stare male ogni volta non serve a nulla".
"Mi stai dicendo che non ti sei pentito di quello che è
successo?", esclamai.
"Ma la pianti di travisare le mie parole?", sbottò
arrabbiato. "Le cose stanno così e te lo dico per l'ultima
volta: io sono stato malissimo senza di te e per questo sto cercando di
rimediare. Ti voglio al mio fianco, dannazione, e non solo
perché sei la madre di mio figlio. Il fatto di avere
commesso uno sbaglio, però, non mi ha impedito di
rimboccarmi le maniche e faticare per riavere quello che volevo. Per
questo mi fanno infuriare questi continui piagnistei: hai sbagliato,
hai fatto soffrire delle persone? Bene, fai qualcosa per cambiare".
Dopo il suo monologo, quasi urlato, Adam uscì dallo studio a
passo di marcia, senza dire nient'altro.
Rielaborai le sue parole e appoggiai la testa sulla scrivania,
sbattendo piano la fronte. "Sono una cogliona".
Salve
gente!
Finalmente
sono riuscita a far partire internet sul computer e ad
aggiornare!
Tornando
al capitolo. Non so se mi piaccia o meno. Come sempre, l'idea generale
era un po' diversa e mi sono lasciata trascinare dalle parole. Comunque
credo -spero- di aver centrato il punto, sottolineato anche dal titolo:
Amanda è piena di paure e sensi di colpa, ma deve imparare a
lasciarli da parte se vuole vivere serena.
Ringrazio
di cuore Ali_13 e Minelli, che come sempre commentano ogni capitolo e
anche tutti quelli che leggono in silenzio.
Ne
approfitto per farmi un po' di pubblicità: ho pubblicato una
one shot romantica, che partecipa al concorso "Ritorno all'infanzia" di
Fantasy 1994. Se vi va, dateci un'occhiata --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2394510&i=1
E,
se vi piace Lovely Complex, ho pubblicato anche una song su Risa e
Otani --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2394405&i=1
Oggi
niente spoiler, mi dispiace, ma non ho ancora finito di scrivere il
capitolo, quindi vi lascio con un po' di suspence in più.
Ah,
un'ultima cosa: non so se la vostra scuola ve l'ha proposto, ma
c'è in ballo un concorso letterario indetto
dall'associazione Lettelariamente, in cui bisogna scrivere una storia
partendo da un incipit dello scrittore Andrea Vitali. Fateci un salto,
se vi va.
A
presto
mikchan
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Capitolo 20 *** I love you ***
20- I LOVE YOU
Quella sera impiegai più del solito a tornare a casa. Mi
fermai a fare la spesa, anche se non ne avevamo effettivamente bisogno
e mi persi in libreria, tentando di scegliere qualcosa di nuovo da
leggere, ma non riuscendo a concentrarmi veramente, mentre le parole di
Adam continuavano a rimbombarmi in testa. Mi ero lasciata trascinare
dal discorso, ma anche lui aveva sbagliato a reagire in quel modo.
La prima cosa che sentii quando entrai in casa fu il rumore della
doccia e, poci secondi dopo, lo zampettare veloce di Wulfie che mi
raggiunse in un attimo sulla porta e iniziò a saltellare
felice. Mi abbassai e lo presi in braccio, coccolandolo. Mi era mancato
nell'ultimo periodo in cui lo avevo lasciato da Austin, ma prendermi
cura di un cane era diventato davvero troppo complicato. Una volta
trasferitami da Adam, invece, lo avevo ripreso con me ed era una gioia
vederlo ogni giorno gironzolare per la casa.
Adam.
Non sapevo se ero nervosa all'idea di incontrarlo dopo la sfuriata del
pomeriggio o solo perché era la nostra prima litigata da
quando eravamo tornati assieme.
Presi un respiro profondo e, dopo essermi tolta giacca e scarpe e
appoggiato le borse in cucina, iniziai a sistemare il casino che c'era
in soggiorno: tra il mio trasloco e il disordine di Adam si faceva
fatica a vedere dov'era il pavimento a causa dell'enorme
quantità di roba che vi era sopra. Raccolsi di tutto:
giornali, cartacce, lattine vuote da sotto il divano, calzini,
magliette e pantaloni. Questi ultimi dovevano essere quelli che Adam
aveva indossato quel giorno perché non erano ancora molto
sgualciti, anche se buttati malamente sul pavimento.
Nell'alzarli da terra, però, dalle tasche scivolò
un bigliettino. Mi morsi il labbro, incerta: poteva essere uno
scontrino o un promemoria, ma non avevo nessun diritto a sbirciare tra
le sue cose. Io mi fidavo di lui. Poi pensai che il foglietto era
caduto da solo e che, quindi, non avevo frugato nelle tasche. Curiosa,
raccolsi il pezzetto di carta e lo aprii lentamente, raggelando sul
posto.
In quel momento, sentii la porta del bagno al piano di sopra aprirsi e
qualcuno scendere le scale. Feci appena in tempo a voltarmi che Adam
comparve, con i capelli ancora umidi e una maglietta in mano.
"Ah, sei qui", commentò lanciandomi un'occhiata veloce e
infilandosi la t-shirt.
"A quanto pare", mormorai, in preda alla confusione. Quello che avevo
letto mi aveva presa alla sprovvista e non sapevo come reagire. L'idea
migliore sarebbe stata quella di chiedere tranquillamente spiegazioni:
eravamo adulti e ragionevoli e non c'era bisogno di fare delle scenate
per nulla. Ma mi conoscevo bene e il rischio che scoppiassi era molto
alto.
"Sono appena tornato a casa anch'io", continuò Adam entrando
in cucina. "Quindi non c'è nulla di pronto. Che ne dici se
ordiniamo una pizza e ci guardiamo un film?".
"Chi è Chantal?", chiesi invece io, pentendomi all'istante
di quella domanda. Ma non dovevamo parlarne tranquillamente? E allora
perché avevo usato quel tono accusatorio? Maledetta la mia
impulsività...
"Chantal chi?", domandò sorpreso.
Strinsi i denti. "Chiamami a questo numero, Chantal", recitai facendo
il verso a questa ipotetica donna che già mi stava
antipatica.
"È una mia collega", disse semplicemente. "Ma non capisco da
dove venga quel biglietto", ammise.
"Ah, no?", lo provocai. "E come c'è finito nei pantaloni?".
Lui sospirò. "Non lo so. Ma so di certo che stai prendendo
un granchio, Amanda. Chantal è solo una collega, anche
parecchio antipatica se proprio vuoi saperlo".
"Mi stai tradendo?", sussurrai stringendo i pugni. Stavo esagerando, ne
ero consapevole, ma la mia mente era offuscata dalla rabbia e dalla
gelosia. Avevo impiegato così tanto per riconquistarlo che
non avrei permesso alla Chantal di turno di portarmelo via.
"Guardami negli occhi, Amanda. Non ti sto tradendo", disse lentamente,
lo sguardo serio.
Dovevo fidarmi di lui, così come pretendevo che lui si
fidasse di me. E allora cos'era quel peso che mi stava opprimendo il
cuore e l'anima? Abbassai lo sguardo, senza dire nulla.
"Non mi credi?", chiese lui, alzando il tono della voce.
"Ti credo", sussurrai. Poi mi lasciai cadere sul divano, mollando i
vestiti che ancora stringevo tra le braccia e infilandomi le mani tra i
capelli. "Sono una cogliona", mormorai per la seconda volta in quella
giornata. Non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi: dopo tutto
quello che avevamo passato, come potevo ancora dubitare del suo amore?
Quel pomeriggio lo avevo accusato di non essersi pentito dei suoi
errori, poche ore dopo mi ero autoconvinta che avesse un'amante.
"Non rincominciare con i sensi di colpa", sbottò Adam
sedendosi al mio fianco. "Credo che per oggi ne abbiamo avuti
abbastanza, ti pare?".
Scossi la testa. "Convincimi che non lo sono", mugugnai.
"È stato solo un equivoco, Amanda. Avrei dovuto buttare
subito quel biglietto, ma non credevo che, vedendolo, avresti reagito
in questo modo".
"E come avrei dovuto reagire, sentiamo. Complimentandomi con te?",
esclamai con le lacrime agli occhi.
Adam sbuffò. "Ho appena detto che è stato tutto
un equivoco. Devi decisamente smetterla di leggere tra le righe di
quello che dico".
"Io non leggo tra le righe: hai detto, implicitamente, che speravi che
non trovassi il biglietto. Quindi me lo volevi nascondere".
"Qualcosa mi sta facendo pensare che vuoi litigare, Amanda".
"Non voglio litigare. Sono solo gelosa", m'impuntai.
"E allora smettila di incolparmi. Chantal è una mia collega,
nulla di più. Non l'ho nemmeno letto quel cazzo di biglietto
quando me l'ha rifilato in mano perché ero troppo nervoso
per quello che è successo da Mr Klant. Altrimenti, fidati,
le avrei detto chiaro e tondo che sono impegnato con una Lupacchiotta
psicopatica e gelosa, tra l'altro incinta".
"E perché non glielo hai detto?", sbottai.
"Ma sei stupida? Ti ho appena spiegato di non avere nemmeno aperto quel
foglio di carta".
"Avresti dovuto farlo, invece. Non eri nemmeno un po' curioso?".
"Ora stiamo sfociando nel ridicolo, Amanda", esclamò,
alzandosi in piedi di scatto. "Prima ti lamenti perché credi
che l'abbia letto, ora mi dici che avrei dovuto farlo. Spiegami tu come
dovrei comportarmi, dannazione".
"Ora non dare la colpa a me, Adam".
"Ma hai fatto tutto tu", esclamò esasperato. "Senti",
continò, prendendo un grosso respiro, "capisco che tu sia
gelosa, lo sono anche io, cosa credi? Ma ora stai esagerando, Amanda.
Ti ho spiegato come sono andate le cose e le opzioni sono due: o ti
fidi di me, oppure no".
"Io mi fido", sussurrai, sentendo le lacrime bagnarmi le guance. Avevo
una confusione enorme in testa: Adam aveva maledettamente ragione. Mi
ero comportata da stupida ragazzina gelosa che non era stata in grado
di usare il cervello e riflettere prima di parlare. Potevo dare la
colpa agli ormoni, al cane, al mio psicologo, ma la verità
era solo una sola: ero una cogliona.
"A me non sembra", disse infatti Adam. "Se ti fossi fidata di me, mi
avresti creduto, Amanda".
"Mi dispiace", mormorai.
"Non ne dubito", rispose lui. Poi, senza dire nient'altro,
salì al piano di sopra e ne scese qualche minuto dopo,
vestito e con i capelli asciutti. Si infilò giacca e scarpe
e, dopo avermi lanciato un'altra veloce occhiata, uscì di
casa, sbattendosi la porta alle spalle.
Rimasi con lo sguardo fisso per qualche minuto. Due giorni che vivevamo
assieme e già litigavamo. Come avremmo potuto essere una
famiglia? Come avrebbe vissuto nostro figlio in mezzo a due genitori
che si urlavano contro per certe stronzate?
Mi asciugai le lacrime e mi alzai dal divano. Come un automa, raccolsi
di nuovo tutta la roba che era caduta e la portai in lavanderia,
accendendo la lavatrice. Tornai poi in cucina e mi preparai qualcosa da
mangiare che non toccai nemmeno di striscio. Ripiegai su una lattina di
birra, che bevetti lentamente seduta sulla poltrona, con Wulfie
accoccolato ai miei piedi e la televisione accesa su un canale che non
stavo realmente guardando.
Mi addormentai così, in una posizione scomoda, le lacrime
agli occhi e un peso sul cuore. Avrei voluto aspettare Adam alzata, ma
Morfeo mi prese tra le sue braccia prima di quando me lo aspettassi.
La prima cosa che registrai, quando mi svegliai, fu l'assenza di un
appoggio sotto il mio sedere. Appena aprii gli occhi, però,
mi accorsi anche delle braccia che mi stringevano e del petto su cui
appoggiava la mia testa. Alzai gli occhi e incontrai la mandibola di
Adam, con quell'accenno di barba che lo rendeva così
attraente. Allungai d'istinto una mano e gli accarezzai una guancia.
"Scusa, non volevo svegliarti", disse voltandosi e guardandomi con un
mezzo sorriso.
Scossi la testa, scendendo dalle sue braccia quando entrò in
camera da letto, la nostra camera da letto. "Anzi, grazie. Mi fa un
male cane la schiena", dissi stiracchiandomi. Dormire sulla poltrona
era stata una pessima idea, decisamente.
"Infilati sotto le coperte. Io arrivo subito", disse lui sfilandosi la
giacca e buttandola sul letto prima di entrare in bagno.
Sbadigliando, mi sfilai i jeans e la maglietta, scostando il lenzuolo e
sedendomi sul bordo del letto. Non volevo addormentarmi di nuovo:
avremmo parlato e chiarito perché non riuscivo a resistere
in quel modo. Quelle poche parole che ci eravamo rivolti poco prima
erano state forzate e distanti e io non volevo un rapporto simile con
l'uomo che amavo.
Per questo lo aspettai sveglia, seduta al centro del letto con le gambe
incrociate. Quando Adam uscì dal bagno mi guardò
sorpreso, ma si tolse in fretta i vestiti e si sdraiò al mio
fianco, incrociando le braccia dietro la testa e fissando il soffitto.
"Mi dispiace", sussurrai. "Non volevo mancarti di rispetto o
offenderti. Mi sono solo lasciata prendere la mano".
Adam si mise seduto di scatto. "Ne sei convinta?", mi chiese
guardandomi negli occhi.
"Certo", risposi annuendo. "Però dille lo stesso quelle cose
a Chantal", aggiunsi, facendo una smorfia quando pronunciai quel nome.
"In particolare la parte della psicopatica".
Adam mi guardò serio per un attimo, poi scoppiò a
ridere. "Sei davvero fuori", esclamò scuotendo la testa.
"Lo farai?", insistetti.
Lui prese un respiro e annuì, ancora sorridendo.
"Però voglio sapere cosa stavi dicendo di Austin con Mr
Klant".
"Te l'ha detto lui, mi sembra".
"Sì, ma da dove è iniziato il discorso?".
Sospirai. "Dal fatto che l'ho fatto soffrire, suppongo".
"E te l'ha detto lui?".
"No, non l'ha detto, ma lo so".
"Lo sai perché sei una veggente?", mi prese in giro.
Sbuffai. "No, perché l'ho mollato per il mio ex e
perché sono incinta".
"Che scuse del cazzo. A me non sembra che Austin si sia arrabbiato
così tanto".
"Non si è arrabbiato perché è una
persona buona. Ma io so che ci è rimasto male".
"Sfido qualcuno a non farlo, Amanda. Ma, parole tue, vuole rimanere tuo
amico e ha iniziato a frequentare un'altra ragazza. Qual'è
il problema?".
Scossi le spalle. "Lo voglio semplicemente aiutare".
"Non credo che sia una buona idea, sai?".
"Non ho chiesto il tuo parere, mi sembra", sbottai.
"Ehi, ritira gli artigli. Ti ho solo fatto notare che impicciarsi degli
affari degli altri non è una grande idea".
"Non voglio impicciarmi dei suoi affari", esclamai stizzita.
"E allora lasciagli vivere la sua vita, Amanda".
"Non voglio che soffra", mormorai.
"Non sei tu che decidi, Mandy".
"Ma posso aiutarlo", insistetti.
"Limitati a stargli accanto, testona", disse Adam, accarezzandomi una
guancia.
Sospirai. "Sono stata davvero stronza con lui, Adam. Come fa a volermi
ancora bene?".
"Come faccio io ad amarti? Semplice", si rispose da solo. "Ti amo
perché sei tu. E probabilmente per lui è lo
stesso. Renditi conto che sei speciale, Mandy".
"Mr Klant mi ha detto la stessa cosa".
"Visto? Perché non ti metti l'animo in pace e ammetti a te
stessa che sei una bella persona?".
"Perché sono tremendamente insicura e stupida?", mormorai,
scuotendo la testa.
Adam ridacchiò. "Accorgersi del problema è il
primo passo per superarlo", disse.
Sbuffai. "Stupide frasi fatte", dissi incrociando le braccia al petto.
"Beh, accontentati di queste: è quasi l'una del mattino e
sono troppo stanco per dirti qualcosa di originale",
commentò sbadigliando, ritornando di nuovo sdraiato.
Lo guardai per un attimo, poi mi sdraiai accanto a lui, appoggiando la
testa sulla sua spalla e coprendo entrambi con il lenzuolo. "Dove sei
stato?", gli chiesi.
"In giro", rispose lui semplicemente.
"In giro è molto vago".
Adam sospirò. "Sono andato a bere qualcosa con Charlie".
"Charlie", mormorai. "Come sta Liz?".
Adam mi strinse le spalle con un braccio. "Sta bene".
"Mi manca, sai?".
"Immagino. Tra l'altro non mi hai ancora detto perché non vi
parlate più".
"Divergenza di opinioni".
"Più nello specifico?".
Sospirai, girandomi su un fianco per guardarlo negli occhi.
"Semplicemente ha voluto tagliare tutti i ponti dopo quello che
è successo con te", spiegai.
"Avete litigato per me?", esclamò sorpreso.
Feci una smorfia. "A dire il vero io mi sono limitata a incassare gli
insulti. Non avevo il coraggio di ribattere sapendo di essere nel
torto".
"Non si è comportata bene con te", disse dandomi un bacio
sulla fronte.
"E nemmeno io con te", gli feci notare.
"Sì, ma quella era una questione tra noi due. Non capisco
lei cosa c'entra".
"Ha semplicemente preso la tua difesa, Adam".
"Non avevo bisogno dell'avvocato".
"Senti, ormai è cosa passata. Liz mi manca, era la mia
migliore amica. Ma posso vivere anche senza di lei".
"Sto solo dicendo che ha esagerato".
Sospirai. "E cosa posso fare, Adam?".
"Provare a parlarci. Ora siamo tornati insieme, no? E aspettiamo anche
un bambino. Se io sono riuscito a fare tutto questo non vedo
perché lei non possa".
"Sai che è più testarda di un mulo", sbottai.
"Credi che non ci abbia provato in questi anni?".
"Posso provare a parlare con Charlie", mi propose.
"Non cambierebbe nulla, la conosci. Sarebbe capace di portarmi rancore
all'infinito, ma se non è nemmeno disposta ad ascoltarmi non
so proprio come chiederle scusa".
"Ma tu non devi chiederle scusa di niente!".
Sbuffai. "Lo so, cavolo. Vallo a dire a lei".
"Contaci", sbottò lui. "Non voglio che tu ci stia male. Ti
fai già un sacco di sensi di colpa da sola".
"Grazie eh", mugugnai.
"E poi", continuò. "Una volta vorrei uscire tutti e quattro
assieme, come quando andavamo al liceo".
"Niente sarà mai come quando andavamo al liceo".
"Beh, io e te ci siamo ancora, no?".
Sorrisi, allungandomi per dargli un bacio sulla guancia. "Mi dispiace
per quello che è successo oggi, Adam".
"Non preoccuparti. È normale discutere".
Sospirai, evitando di ribattere e mi appoggiai di nuovo con la testa
sulla sua spalla. "Non te ne andrai come ha fatto mio padre, vero?",
sussurrai.
Adam s'irrigidì, stringendomi più forte al suo
petto. "No", mormorò. "Non me ne andrò".
"Io ti amo, Adam".
"Era da un sacco di tempo che non te lo sentivo dire", sorrise,
appoggiando il mento sulla mia testa.
"Preparati a sentirlo ogni giorno perché ti amo, Adam. Come
non ho mai amato nessuno e come mai amerò qualcuno".
"Non ti sembra un po' esagerato? Prova a pensarci su".
Scossi la testa. "Ci ho già provato e non ha funzionato. Tu
sei tutto, per me. Ascolta il mio cuore", dissi prendendogli la mano e
appoggiandogliela sul mio petto, dove il mio muscolo caridaco batteva
placido e sereno. "È la tua voce che mi tranquillizza.
È il tuo modo di parlare, il tuo modo di chiamarmi con quel
nomignolo che mi riservi. È che sei tu. E quando si tratta
di te io non so che mi succede. Per quanto io cerchi di trattenermi, se
si tratta di te, io sono felice". *
"Sei davvero felice con me?".
"Come non lo ero mai stata", lo rassicurai. "Ogni giorno afferri un
pezzettino del mio cuore e lo rinchiudi al sicuro. So che lo
proteggerai e che non lo lascerai mai andare".
"Fidati".
"Mi fido", sussurrai.
Adam non rispose, limitandosi a sciogliere l'abbraccio solo per alzarsi
e poi posarsi su di me. "Non lascerò mai scappare il tuo
cuore, Lupacchiotta", sussurrò, abbassandosi per baciarmi.
Risposi senza esitazioni, aggrappandomi con le braccia dietro il suo
collo e inebriandomi del suo sapore e del suo profumo. "Non
permetterò mai a nessuno di rubarmelo", continuò,
facendo scivolare le mani lungo i miei fianchi. Allacciai le gambe al
suo bacino, avvicinandolo a me. Non ci mise molto a slacciarmi il
reggiseno e presto ci trovammo pelle contro pelle, calore contro
calore, cuore contro cuore.
Lo amavo, accidenti se lo amavo.
Amavo la sua personalità, il suo sorriso, il suo umorismo, i
suoi baci, il suo modo di farmi sentire perfetta, il suo modo di
amarmi. Amavo tutto di lui e mi chiedevo come avevo fatto a credere di
averlo scordato. In quel momento, stretta tra le sue braccia, mentre la
ragione veniva sopraffatta dall'istinto e dalle sue labbra bollenti sul
mio collo, sapevo che nel mio cuore niente era mai cambiato.
Mi lasciai trascinare in quel mondo fatto di baci e passione,
arpionandomi alla sua schiena mentre la sua bocca e le sue mani
vagavano incustodite sul mio corpo. Nessuno le fermò nemmeno
quando si infilarono sotto le mutandine e, nei minuti successivi,
credetti sinceramente di stare per morire. Era una sensazione
potentissima, proveniente sia dal mio basso ventre che dal cuore e
quando esplosi gridando ringraziai chiunque dovessi ringraziare per
avermi concesso una seconda possibilità.
Con Adam non era solo sesso, non lo era mai stato. Grazie al corpo
riuscivamo ad esprimere i nostri sentimenti e le nostre emozioni molto
più facilmente. Era come se in quei momenti ogni barriera
cadesse e restassimo solo noi due, abbracciati e ansimanti, sempre
più innamorati.
Adam non mi lasciò nemmeno il tempo di riprendere fiato:
entrò in me velocemente, facendomi di nuovo partire verso il
paradiso. Amavo il modo in cui mi toccava, il modo in cui mi baciava,
il modo in cui mi venerava. Attraverso gli occhi socchiusi e con ancora
un briciolo di lucidità era facile incontrare il suo sguardo
liquido e perdersi il quell'azzurro che sembrava infinito e bollente.
Bollente come le sue labbra sul mio collo e sul mio seno, bollente come
le sue mani che non smettevano mai di accarezzarmi, bollente come i
nostri cuori, che battevano all'unisono veloci come colibrì
e potenti come aquile.
Lo amavo, accidenti se lo amavo.
L'ennesimo orgasmo che mi colse poco dopo fu estenuante e bellissimo.
Mi sentivo in un limbo: ero consapevole di quello che stava succedendo,
ma allo stesso tempo tutto era sfocato e lontano. Sentii Adam
raggiungere l'apice poco dopo di me e accasciarsi sul mio corpo, non
smettendo un attimo di riempirmi di piccoli baci.
Lentamente ripresi il contatto con la realtà e sorrisi
teneramente quando lo vidi abbassarsi e regalare dei baci anche al mio
ventre, dove il nostro bambino stava crescendo. Sarebbe stato un padre
perfetto, ne ero più che certa.
"È stato fantastico", sussurrai accucciandomi di nuovo al
suo fianco.
"Tu sei fantastica", disse stringendomi a se e imprimendo di nuovo le
sue labbra sulla mia fronte.
"Ti amo".
"Vi amo", sussurrò lui.
Sorrisi. Era tutto perfetto.
*citazione di Anna Ombra Brambilla.
Salve
a tutti!
Lo
so, sono in ritardissimo, ma mi sono ritrovata all'ultimo minuto senza
mezzo capitolo già pronto, così ho deciso che da
oggi, prima di pubblicare, devo avere pronto almeno un altro capitolo e
scriverne almeno uno a settimana. In questo modo, spero, non
capiteranno più imprevisti così e anche io
sarò più tranquilla.
Ritornando
al capitolo. È il seguito dell'altro, con la spiegazione del
litigio e la sua conclusione. Non ho niente da dire in particolare, se
non che la frase con l'asterisco è di Anna Ombra Brambilla e
l'ho presa da una pagina di Facebook.
Ringrazio
sempre di cuore chiunque legga la mia storia, in particolare Minelli
che mi segue fin dall'inizio e DarkvViolet92 che si è letta
entrambe le storie ed è stata davvero dolcissima con i suoi
commenti.
Lo
so che sembrerò un po' idiota, ma faccio un'altro angolo
pubblicità. Eh, sì, perché mentre non
avevo ispirazione per concludere questo capitolo, ho scritto altre
storie, sempre delle one-shot. Che ci volete fare, quando l'ispirazione
chiama, bisogna rispondere!
"Io
mi arrendo a te, Risa", altra song-fic su Lovely Complex
--> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2413286&i=1
"Di
guardoni, papere e fumetti", un'originale commedia, di cui sto
lavorando anche al seguito. O, almeno, ci provo --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2409559&i=1
Bene,
ho finito qua. Vi lascio con lo spoiler del prossimo capitolo,
già pronto, ma che non pubblico fino a quando non
sarà fatto anche quello dopo.
A
presto
mikchan
SPOILER
capitolo ventuno: WEDDING'S TALES
[...] La cerimonia fu molto più che commovente. Piansi
dall'inizio alla fine, così contenta che la mia amica avesse
trovato la felicità e anche un po' invidiosa. Un anello al
dito era quello che ogni ragazza desiderava e, checchè ne
dicessi, il mio sogno segreto era di poter vivere quel momento
dall'altra parte, come sposa, ovviamente di Adam. Eppure sapevo anche
che non dovevo fargli pressioni: era già meraviglioso che
fossimo tornati insieme dopo tutto quello che era successo e, se il
destino avesse voluto, avremmo fatto anche noi quel passo. Prima o poi.
[...]
|
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Capitolo 21 *** Wedding's tales ***
21- WEDDING'S
TALES
Le settimane successive passarono in un lampo.
Come aveva previsto la dottoressa, le nausee e l'indisposizione
scomparvero gradualmente, permettendomi finalmente di dormire
tranquillamente la notte e tornare in forma al lavoro. La gravidanza
stava procedendo perfettamente: era ancora presto per affermare di
essere completamente fuori dal pericolo dell'aborto, ma dentro di me
sentivo che sarebbe andato tutto bene.
Me ne convincevo ogni volta che mi svegliavo al mattino e trovavo Adam
al mio fianco. Ogni giorno, sempre di più, sentivo di fare
parte di una famiglia. Adam mi faceva sentire amata e protetta, sapeva
risollevarmi il morale quando non riuscivo a non vedere il bicchiere
mezzo vuoto, mi appoggiava nelle mie scelte e mi aiutava se avevo
bisogno. E, in cambio, non chiedeva altro che il mio affetto. A me non
sembrava affatto uno scambio equo, ma non volevo discuterne con lui:
tutto stava andando così bene che l'ipotesi di una litigata
come avevamo avuto quella sera mi terrorizzava.
Il lato positivo era che mi ero convinta a non intromettermi nella vita
di Austin. L'avevo rivisto più volte e una sera eravamo
usciti tutti e quattro assieme e mi era sembrato felice. Sia Adam che
Mr Klant avevano ragione: non potevo fare nulla di più che
stargli accanto come amica ed era principalmente per quel motivo che ci
trovavamo praticamente tutti i mezzogiorno per pranzare insieme.
Malgrado tutto, Adam era contento di sapermi con Austin: con lui ero al
sicuro e non rischiavo di rimanere da sola tutto il giorno com'era
spesso successo da quando Jamie si era trasferita con il suo ragazzo e
aveva dovuto abbandonare la redazione. Non avevo molti amici
lì dentro, esclusa Claire che però era quasi
sempre impegnata, anche a causa del successo che aveva avuto la mia
rubbrica. Gli altri novellini come me erano gelosi della mia
arrampicata e ultimamente mi avevano allontanata dal gruppo. Ma non me
ne importava: con il resto dei colleghi avevo un buon rapporto e
passavo in redazione solo il tempo necessario a non essere sbattuta
fuori. Dopodiché, o uscivo a pranzo con Austin e, quando
poteva, con Jamie, o tornavo a casa e aspettavo Adam insieme a Wulfie.
Non mi dispiaceva la mia nuova vita, avevo tutto quello che avevo
sempre desiderato: pochi ma fidati amici, un lavoro, una casa, un uomo,
un cane e anche un figlio in arrivo. C'era davvero qualcos'altro che
potessi volere?
Beh, non mi sarebbe dispiaciuto riallacciare i rapporti con Liz.
Nonostante tutto quello che avevo detto ad Adam e tutto quello che lei
aveva detto a me, mi mancava tantissimo la sua compagnia. Non la vedevo
da cinque anni, ma non avevo ancora scordato la sua risata cristallina
e contagiosa e il suo modo estroverso e allegro di rivolgersi alla
gente. Per questo motivo mi ero lasciata convincere da Adam a parlare
con Charlie. Anche lui mi era mancato negli anni, ma avevo sempre avuto
una certa paura a contattarlo, temendo di dovermi scontrare di nuovo
sia con Liz che con Adam, che sicuramente era rimasto in contatto con
lui. Era stata una vera gioia sentire di nuovo la sua voce e ancora di
più incontrarlo una sera, dopo tutto quel tempo. Era molto
cambiato, ma tutto sommato rimaneva un uomo affascinante. Si stava
specializzando in pediatria, mi raccontò e dentro di me
pensai che sarebbe stato il medico perfetto per il mio bambino. Poi,
ovviamente, il discorso si trascinò su Liz. Charlie fu
costretto ad ammettere che la sua fidanzata era rimasta molto segnata
da quello che era successo: anche lei teneva molto alla mia amicizia,
ma se aveva un difetto, era quello di non sapere perdonare i torti
ricevuti. Dolce e carina all'apparenza, ma sarebbe stata capace di
portarmi rancore per il resto della mia vita se non avessi fatto
qualcosa.
Quello che non mi aspettavo, tuttavia, era di ricevere una telefonata
proprio dalla mia ex-migliore amica qualche giorno dopo l'incontro con
Charlie. E lei, senza tanti mezzi termini, mi ordinò di
stare lontana da loro e di non provare più a contattarli.
Dovevo ammettere che un po' mi ero aspettata una simile reazione da
parte sua, ma avevo sperato che il tempo l'avesse aiutata a smussare la
rabbia nei miei confronti. Evidentemente mi ero sbagliata e, dopo quel
giorno, non provai più a ricontattarla. Avevo frignato sulla
spalla di Adam per ore, dopo quella chiamata, scossa dall'avere sentito
la sua voce dopo così tanto tempo, ma anche dalle sue
parole.
Adam, dal canto suo, si era parecchio arrabbiato e, credendomi
addormentata, quella stessa sera aveva richiamato Liz e avevano
litigato pesantemente. In pratica, lui le aveva detto che era da
stupidi infantili intromettersi in affari che non la riguardavano e
farmi stare male per qualcosa che era successo anni prima. Le aveva
anche fatto notare che, se lui aveva avuto la forza di perdonarmi, lei
non aveva più nessun motivo di portarmi rancore. Non avevo
sentito le risposte di Liz, ma dal tono della voce di Adam era chiaro
che gli avesse risposto per le rime.
Mi dispiaceva non essere riuscita nemmeno a parlare tranquillamente con
lei, ma, a mente lucida, mi ero resa conto che Liz, per prima, aveva
rifiutato la comunicazione diretta con me. Non sapevo se era ancora
effettivamente arrabbiata o se continuava a portare avanti quella
sceneggiata per orgoglio, ma se non era disposta ad abbassare le armi
io non mi sarei buttata in mezzo al campo senza protezioni. Io ci avevo
provato, lei invece non ne aveva voluto nemmeno sapere. Una ben magra
consolazione.
Intanto maggio era iniziato e aveva portato con se le prime giornate
veramente calde. Ero contenta di poter riporre giacche e sciarpe, anche
se presto non sarei più entrata nemmeno nei vestiti che
avevo a causa della pancia. Nel giro di due settimane avrei fatto la
visita che ci avrebbe rivelato il sesso del nostro bambino ed ero
eccitata all'idea di iniziare a conoscerlo davvero. Avevamo deciso
quale sarebbe stata la sua cameretta e Adam aveva già
comprato culla e carrozzina, assecondato da mia madre che era arrivata
a casa nostra con l'auto carica di scatoloni pieni di roba per bambini.
Avevo perso un'intera giornata a frugare tra quei vecchi oggetti e
vestitini e mi ero ritrovata a sorridere intenerita quando avevo
riscoperto un album sotto tutte quelle cianfrusaglie.
Sapevo che non avrei dovuto aprirlo e consegnarlo a mia madre, ma la
curiosità era troppa e, seduta a gambe incrociate sul
pavimento, avevo iniziato a sfogliare quelle pagine ingiallite. Era un
album dei ricordi di mia madre. Conteneva tutta la sua vita, dalla sua
nascita, alla scuola, l'adolescenza e l'età adulta. C'erano
anche foto di lei con mio padre quando erano più giovani e
mi persi qualche istante nel fissare il volto di quell'uomo sconosciuto
che assomigliava così tanto a me. Non avevo avuto
più sue notizie dopo quello che era successo otto anni prima
e non ne volevo nemmeno. L'unica cosa di cui ero certa era che Adam
sarebbe stato diverso. L'ultima foto ritraeva la nostra famiglia: mia
madre, mio fratelo ed io, ancora neonata. Era una foto vecchia e
scolorita, ma rappresentava tutto quello che avevo. Per questo motivo,
con delicatezza, la sfilai dalle pieghe e la riposi tra i miei ricordi.
Maggio fu un mese pieno di belle notizie.
L'ecografia aveva scongiurato quasi sicuramente la
possibilità di un aborto e ci aveva confermato che, nel giro
di cinque mesi, avremmo avuto un maschietto in famiglia. Ero entusiasta
della notizia: un maschio era proprio quello che desideravo. Sarebbe
stato come Adam, ne ero certa e gli avrei voluto tanto bene quanto ne
volevo al padre. Adam invece, era rimasto un po' deluso: lui desiderava
una femmina da viziare, ma cercai di rassicurarlo, confessandogli che,
se avessimo avuto un altro figlio, anch'io avrei voluto una bambina.
Lei e il fratello avrebbero avuto un rapporto fantastico, come quello
che si era instaurato tra me ed Alex negli anni e che, ultimamente, era
più forte che mai.
Io ero appena entrata nel quarto mese quando ci giunse una lettera
inaspettata: Jamie e Daniel, il suo fidanzato, ci avevano invitato al
loro matrimonio, che si sarebbe tenuto a metà giugno.
Ero eccitatissima per la notizia e, per un attimo, desiderai anch'io
potermi considerare la moglie di Adam e non solo la sua compagna. Ma
sapevo che anche quel momento sarebbe arrivato, avrei solo dovuto
portare pazienza.
Mi feci accompagnare da Lisa a fare shopping e mi divertii tantissimo,
approfittandone anche per chiederle dei consigli sulla gravidanza e sui
figli. Lei mi fu di grande aiuto, rispondendo ad ogni mia curiosa
richiesta e proponendomi anche di iniziare anche ad informarmi sui
corsi preparto. Anche la mia ginecologa me ne aveva parlato, ma Lisa mi
spiegò meglio come funzionavano e mi diede l'indirizzo di
quello che aveva frequentato lei con Alex quando era incinta di Dan.
Mi aiutò anche a trovare un vestito perfetto per la
cerimonia: era azzurro e leggero, perfetto per l'estate, senza maniche,
con una fascia intrecciata sul seno e il tessuto della gonna che
scendeva morbito e lungo, coprendo in parte la pancia che stava
iniziando a crescere. Acquistai anche delle scarpe con il tacco basso,
ma comunque eleganti: sarebbe stato impossibile camminare in giro con i
soliti trampoli, soprattutto perché negli ultimi tempi le
caviglie tendevano a confiarsi se restavo troppo tempo in piedi o se mi
affaticavo eccessivamente. Ogni volta Adam mi sgridava, finendo poi per
massaggiarmi le gambe con dolcezza e, ogni volta, gli ripetevo che
volevo essere autonoma e indipendente fino a quando ci sarei riuscita:
in fondo ero solo incinta, mica malata!
Il giorno del matrimonio di Jamie il sole splendeva alto nel cielo ed
ero forse più eccitata io della sposa stessa. Impiegai
infatti un sacco di tempo a sistemarmi i capelli, rischiando
addirittura di bruciarmi con la piastra e infilarmi il pennellino del
mascara nell'occhio e uscendo di casa indenne solo grazie ad un
miracolo.
La cerimonia si sarebbe tenuta una villa poco fuori città,
in un parco, che si affacciava su un lago stupendo e cristallino. La
casa era una tipica costruzione ottocentesca, tinteggiata di ocra e con
dei deliziosi fiori freschi sulle finestre. La facciata era stata
ristrutturata recentemente e si affacciava su un enorme piazzale, al
centro del quale svettava una fontana che scrosciava tranquilla, con
l'acqua che scintillava sotto la luce del sole. L'interno era maestoso:
l'imponente ingresso era interamente illuminato dalla parete a vetrate
che dava sul cortile sul retro, dove si poteva vedere un giardino
sconfinato e la piccola cappella costruita per la cerimonia di quel
giorno.
Attaccata al braccio di Adam, seguii in silenziosa ammirazione il
percorso segnato da un lussuoso tappeto di velluto rosso, perdendomi
con sguardo luccicante nell'immensità della sala da ballo
che attraversammo, in centro alla quale svettava elegante un magnifico
lampadario, enorme e pieno di pietre e gemme colorate. Era il sogno di
qualunque bambina trovarsi in un posto simile e per un attimo ritornai
indietro con gli anni, immaginandomi i sontuosi balli e le feste che
avevano animato quella sala secoli prima.
Una volta uscita sul piazzale sul retro, mi lasciai incantare di nuovo
da giardino. Era davvero immenso e la foresta si estendeva a vista
d'occhio, come se non dovesse più finire. Al centro del
prato, poco più in basso, era stato allestito un piccolo
chiosco, con delle sedie disposte ordinatamente e un altare, dietro al
quale il celebrante e Daniel, il fidanzato di Jamie, stavano
discutendo.
"È davvero stupendo, questo posto", commentò
Adam, stringendomi al suo fianco mentre scendevamo gli scalini di
granito.
"Meraviglioso", affermai.
"Conosci qualcuno?", mi chiese poi.
Mi guardai incontro, riconoscendo alcuni colleghi e incontrando subito
lo sguardo di Claire, che sorrise, venendoci incontro. "Amanda, Adam!",
ci salutò.
"Ciao Claire", ricambiai, dandole un bacio sulla guancia.
"Vedo che questo piccolino continua a crescere", commentò
indicando il mio ventre.
Annuii, sorridendo. "Procede tutto alla grande".
"Ne sono contenta. Quando è prevista la nascita?".
"Verso inizio novembre", risposi.
"Non vedo l'ora di conoscerlo", ridacchiò.
"Anche noi", disse Adam stringendomi una mano.
"Forza, andiamo a sederci", disse Claire. "Jamie ci ha messe vicine,
così possiamo commentare tutto", esclamò
contenta.
Scoppiai a ridere e la seguii verso le sedie, tirandomi dietro Adam che
non aveva smesso un attimo di stringermi la mano. Era silenzioso, ma
tuttavia non mi feci domande: non conosceva quasi nessuno tra gli
invitati e, nonostante fosse estroverso di natura, preferiva di gran
lunga stare al mio fianco che andare in giro a presentarsi. O, almeno,
questo fu quello che mi disse quando gli chiesi spiegazioni.
Pochi minuti dopo l'orchestra iniziò a suonare e Jamie fece
il suo ingresso, avvolta in uno splendido abito avorio e accompanata
dal padre. La cerimonia fu molto più che commovente. Piansi
dall'inizio alla fine, così contenta che la mia amica avesse
trovato la felicità e anche un po' invidiosa. Un anello al
dito era quello che ogni ragazza desiderava e, checchè ne
dicessi, il mio sogno segreto era di poter vivere quel momento
dall'altra parte, come sposa, ovviamente di Adam. Eppure sapevo anche
che non dovevo fargli pressioni: era già meraviglioso che
fossimo tornati insieme dopo tutto quello che era successo e, se il
destino avesse voluto, avremmo fatto anche noi quel passo. Prima o poi.
Dopo il fatidico sì e il meraviglioso bacio, ci spostammo
tutti sotto l'enorme gazebo, dove erano sistemati i tavolini per il
ricevimento. Sempre insieme a Claire, cercammo i nostri posti e,
chiaccherando, aspettammo l'arrivo delle pietanze. Il banchetto fu
delizioso, rallegrato anche dall'orchestra che non aveva smesso un
attimo di suonare. Adam parlò pochissimo, concentrandosi sul
cibo come se fosse la sua unica ragione di vita, ma non smettendo un
attimo di cercare il contatto con il mio corpo: una mano sulla coscia,
il braccio intorno alle spalle, scostare una ciocca di capelli dal mio
viso, un piccolo bacio sulla guancia ogni tanto. Sembrava un cucciolo
alla ricerca di coccole e ogni volta che incrociavo il suo sguardo mi
si innondava il cuore di tenerezza e amore.
Appena la coppia di sposi aprì le danze, trascinai Adam in
pista e mi lasciai stringere mentre dondolavamo sul posto. Era dalla
festa di Natale che non ballavamo insieme e per un attimo mi sorpresi
del poco tempo che era effettivamente passato: erano davvero successe
così tante cose in sei mesi?
"A cosa pensi?", mi sussurrò Adam all'orecchio.
Sorrisi. "All'ultima volta che abbiamo ballato insieme".
"Non è un ricordo tanto piacevole", mormorò.
"Effettivamente è stata una serata strana".
"Strana è riduttivo".
"Beh, è iniziato tutto da lì, non credi?".
Adam esitò un attimo, poi annuì.
"Già", mormorò.
"Che hai oggi?".
"Niente, sono solo sovrappesiero".
Sospirai, appoggiando la testa al suo petto. "Se vuoi parlarne io ci
sono".
Adam mi strinse a se. "È solo un problema al lavoro".
"Ti hanno licenziato?", esclamai preoccupata.
"No, non è quello".
"Okay, allora cambiamo argomento".
"Ti ricordi Chantal?", sussurrò poco dopo.
Mi irrigidii. "Come potrei dimenticarla?", chiesi retorica.
Adam sospirò, appoggiando il mento sulla mia testa. "Non la
smette di ronzarmi intorno. Non so più cosa fare", ammise.
"Ma non gli hai detto di essere impegnato?", sbottai irritata.
Adam mi lanciò un'occhiataccia. "Secondo te?".
Sbuffai. "E allora cosa vuole ancora".
"E che ne so!", esclamò.
"Se vuoi ci parlo io", proposi.
"Il tuo parlare non implica prenderla a botte, vero?".
Ridacchiai, alzando le spalle. "Dipende tutto da lei", ammisi
candidamente.
"Lascia stare, troverò un modo".
"Sei sicuro di non volere il mio aiuto?".
"Preferisco non vederti in mezzo a una rissa", disse con un sorrisetto.
"E poi devi stare tranquilla, lo sai".
Sbuffai. "Che palle, Adam. Non muoio mica se tiro qualche sberla".
Lui scoppiò a ridere. "Certo che no. Ma evitiamo di provare
questa teoria, d'accordo?".
Sbuffai di nuovo. "Come sei noioso".
"Mi preoccupo per voi", disse solo.
"Lo so. A volte però esageri, sai?".
"È perché vi amo".
Mi lasciai sfuggire un sorriso. "Dove l'ho trovato un tipo come te?",
mormora a me stessa.
"In sconto al supermercato", scherzò. "C'era il prendi due,
paghi uno".
"E dov'è il secondo?".
"Qui", rispose, accarezzandomi la pancia. "Il mio piccolo ometto",
disse emozionato.
"A proposito, come lo chiamiamo?".
Adam mi guardò sorpreso. "Accidenti, non ci avevo pensato!".
"Non avevi pensato che tuo figlio avrebbe avuto bisogno di un nome?".
"Beh, sì. Ma non saprei quale scegliere".
"Io avevo pensato a qualcosa di particolare".
"E io di semplice".
Risi. "Partiamo bene".
"Che ne dici di chiamarlo come tuo padre?", proposi.
Lui scosse la testa. "Ci ha già pensato mia sorella", mi
ricordò.
Mi morsi un labbro, pensierosa. "Uhm... che ne dici di...".
"Chiamarlo come tuo fratello?".
"Alex?".
"Sì, è un bel nome".
"Perché dobbiamo scegliere il nome di un familiare?".
"Non lo so. Di solito non si fa così?".
"Mia nonna si chiamava Amanda", ammisi.
"Ma possiamo anche scegliere un nome diverso", aggiunse Adam.
"Credo sia meglio così. In fondo avere due Alex sarebbe un
po' troppo. E anche lui ha scelto un nome che non aveva nulla a che
fare con la famiglia".
"Ci pensiamo quando arriverà il momento, che ne dici?".
Sospirai. "Volevo essere pronta".
"Sono convinto che quando lo vedremo per la prima volta capiremo il
nome perfetto per lui".
"Ne sei certo?".
Adam sorrise. "Assolutamente".
"Allora mi fido di te", sussurrai, appoggiando di nuovo la testa sul
suo petto.
"Sei stanca?", mi chiese apprensivo. "Vuoi tornare a sederti?".
Era vero che mi infastidiva la sua continua preoccupazione, ma a volte
era estremamente dolce e mi lasciavo andare, facendomi coccolare come
se fossi una bambina. Per quello annuii e mi lasciai trascinare verso
il nostro tavolo, dove Claire stava parlando con un uomo che non avevo
mai visto. Sapevo che non era sposata e nemmeno impegnata, ma,
nonostante la sua avvenenza, non l'avevo mai vista accompagnata da
qualcuno.
Claire ci presentò Sean, un suo vecchio collega e cugino di
Daniel, il marito di Jamie. Quando si dice che il mondo è
piccolo! Parlammo tranquillamente tutti insieme, soffermandoci su
argomenti leggeri e divertenti, ma non mi sfuggirono le occhiate che i
due si lanciavano e mi ripromisi di chiedere a Claire cosa ci fosse
sotto.
Il ricevimento passò in un lampo, tra l'emozionante taglio
della torta e il lancio del bouquet, che fu preso da una delle
damigelle della sposa, e arrivò presto il tempo di
congedarci. Io ero stanca morta, con i piedi a pezzi e la schiena
dolorante e, come sempre in quelle occasioni, Adam era diventato
talmente preoccupato da risultare noioso.
Salutammo gli sposi e Claire, avviandoci poi verso casa. Mi addormentai
in macchina, cullata anche dalle note della musica che passavano alla
radio e fu Adam a portarmi in casa, sfilarmi il vestito e mettermi
sotto le coperte.
Quando mi svegliai, qualche ora dopo, Adam era seduto accanto a me, con
il computer sulle gambe e gli occhiali sul naso. Lo vedevo molto
raramente con quelli, perché preferiva le lenti a contatto,
ma dovevo ammettere che gli conferivano un'aria seria e attraente.
"Ti sei svegliata", disse incontrando il mio sguardo.
Sbadigliai, mettendomi seduta. "Scusa, non volevo addormentarmi".
"Non importa", rispose, concentrandosi di nuovo sullo schermo.
"Che fai?", gli chiesi curiosa.
Lui sorrise. "Controllo alcuni dati di una paziente".
"Non è tardi per lavorare?", domandai, appurando che fossero
le undici di sera passate.
Sospirò. "Lo so, ma non riesco a dormire".
"Come mai?".
"Non saprei", mormorò solo.
"Oggi sei piuttosto pensieroso. Ancora problemi con Chantal?", chiesi,
riferendomi alla nostra conversazione di quel pomeriggio.
"No, lei non c'entra". Poi prese un altro respiro. "È questa
ragazza", disse. "Non so come aiutarla".
"È una tua paziente?".
Lui annuì. "Una ragazzina", disse solo.
"Non puoi parlarne con me, vero?".
Si morse il labbro, scuotendo la testa. "Mi piacerebbe, ma purtroppo
non posso".
Lo guardai un attimo negli occhi. "Chiedi aiuto a Mr Klant", dissi
semplicemente. "Lui mi ha aiutato tantissimo e sono convinto che
avrà una soluzione anche per te".
"Gli parlerò", affermò, chiudendo poi di scatto
il portatile. "Che ne dici ora di dormire un po'?".
Scossi la testa. "Ho fame", ammisi con un sorriso.
"Fame di cosa?".
"Non lo so, qualunque cosa di commestibile".
Adam sorrise. "Vado a prepararti qualcosa. Stai qui", disse scostando
le coperte dalle gambe e alzandosi.
"No, vengo con te", disse invece, alzandomi anch'io e seguendolo fuori
dalla camera.
Lui mi guardò divertito e scosse la testa, scendendo le
scale e accendendo la luce in cucina.
"Allora, vediamo cosa offre la dispensa", mormorò aprendo il
frigorifero mentre mi sedevo sul tavolo.
"Un panino?", mi chiese mostrandomi una confezione di prosciutto.
Scossi la testa.
"È avanzata della pasta", continuò.
Scossi di nuovo la testa.
Adam chiuse il frigo e aprì l'armadietto dei dolci.
"Biscotti?".
"No".
"Grissini?".
"No".
"Nutella".
"Sì, la Nutella", esclamai, saltando in piedi.
Adam scoppiò a ridere, afferrando il vasetto e il pacco di
pane. "Diventerai una botte, Mandy. È quasi finito anche
questo barattolo".
Misi il broncio, incrociando le braccia. "Fa niente. Per la Nutella
questo ed altro".
Adam rise di nuovo, porgendomi una fetta di pane cosparsa di crema al
cioccolato.
"Grazie", mugugnai, dandogli poi un grosso morso.
"Dovresti mangiare più salutare", mi sgridò,
preparandosi intanto una fetta di pane e Nutella anche per lui.
"Questo è l'unico vizio che mi concedo", ribattei. "Non
rinuncio al cioccolato".
"Sei proprio drogata, vero?", chiese ridendo.
Alzai le spalle, dando un altro morso. "Purtroppo sì".
Finimmo il nostro spuntino e, dopo aver sistemato la cucina, tornammo a
letto, infilandoci sotto le coperte.
"Ti sei divertito, oggi?".
"Sì", rispose semplicemente, facendomi accoccolare sul suo
braccio.
"Anche se non conoscevi nessuno?".
"Sì", ripeté.
Io rimasi in silenzio, immergendo il volto nel suo petto e chiudendo
gli occhi.
"Un giorno succederà anche a noi", lo sentii sussurrare.
"Me lo prometti?", mormorai.
"Te lo giuro".
Salve
genteeeee!
Finalmente
il mio amato computer è tornato e riesco ad aggiornare!
Spero che nel frattempo non mi abbiate riempito di insulti, pomodori
&co.
Questo
capitolo è un po' di passaggio e un po' importante, lascio a
voi il compito di decidere cosa.
Purtroppo
ci avviciniamo alla fine e -non uccidetemi- mancano solo altri tre
capitoli, epilogo compreso, al termine della storia. So che non
è stata molto lunga, ma ha raggiunto il suo obiettivo,
ovvero quello di fare rincontrare Adam e Amanda e far rinascere la loro
storia d'amore. Quindi vi lascio un piccolo spoiler del prossimo
capitolo, nella speranza che non mi abbandoniate proprio alla fine!
Ah,
ne approfitto per farmi un po' di pubblicità: ho pubblicato
il continuo della storia "Di guardoni, papere e fumetti" e anche
un'altra song-fic su Lovely Complex. Fatemi sapere cosa ne pensate!
A
presto (questa volta davvero!)
mikchan
SPOILER...
Capitolo ventidue: OLD AND NEW MEMORIES
[...] "Sa, Amanda, è davvero molto cambiata dalla prima
volta che è entrata in questo studio".
Lo guardai sorpresa. "In realtà non più di tanto,
mi creda".
"Invece ne sono certo. Cinque anni fa era una ragazzina spaventata e
distrutta, che non riusciva nemmeno a pronunciare il nome del suo ex
fidanzato senza scoppiare a piangere. Poi, piano piano, si è
rialzata. Ne è stata in un certo senso obbligata, me ne
rendo conto, se non voleva continuare a passare la sua vita nei
rimpianti. Ma ha avuto la grande forza di mettersi di nuovo in
cammino".
"Non sono stata così forte", obiettai. [...]
|
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Capitolo 22 *** Old and new memories ***
22- OLD AND NEW MEMORIES
L'estate finì prima che riuscissi veramente a
godermela.
Malgrado gli impegni di lavoro, riuscimmo a ritagliarci qualche
settimana di vacanza, Adam ed io, e decidemmo di regalarci una crociera
sul Mediterraneo e il giro delle isole dell'arcipelago Greco.
Fu un viaggio bellissimo, e non solo per i magnifici paesaggi che
incontrammo, ma perché riuscimmo finalmente a stare insieme
veramente. Nelle ultime settimane, infatti, eravamo stati
impegnatissimi entrambi, io con la redazione e lui con la clinica, fino
al punto che certe sere non riuscivamo a resistere più di
dieci minuti e crollavamo entrambi davanti alla televisione ancora
accesa. Per questo motivo ci eravamo concessi un po' di relax lontani
dal mondo civilizzato e dalla frenesia quotidiana. In mezzo al mare,
seduti sulla straio, mano nella mano, sotto il sole rovente di fine
luglio ci eravamo rilassati come mai prima d'ora, certi che nessuno ci
avrebbe disturbati.
Avevamo conosciuto persone nuove e simpatiche e avevamo incontrato
anche Emily, in viaggio con la sua famiglia. Emily era stata una mia
amica al liceo e, al suo fianco, avevo sempre visto quel buzzurro di
Steve. Purtroppo, dalla fine della scuola, non avevo più
avuto loro notizie e mi dispiaceva sapere che nemmeno loro due erano
rimasti in contatto dopo che si erano lasciati. In ogni caso fui
veramente contenta di avere modo di parlare un po' con lei come ai
vecchi tempi. Certo, non era stata mia amica come Liz, ma le volevo
bene, anche se c'ero rimasta un po' male quando mi aveva rivelato che
lei, invece, con Liz si incontrava piuttosto spesso, forse anche grazie
alla congruenza dei lavori dei loro compagni. Il marito di Emily,
infatti, era un medico pediatra e lavorava presso la clinica dove lo
stesso Charlie aveva trovato posto. Non sapevo dire se era stata
maggiore la sorpresa o la delusione, a quella notizia, ma cercai di non
pensarci.
La compagnia di Emily fu piacevole per tutto il resto della nostra
vacanza. Lei non sapeva nulla di quello che era successo tra me ed Adam
e rimase sbalordita quando glielo raccontai, con tutto il contorno che
aveva avuto quella storia. Le parlai anche della gravidanza e ne fu
felice, passando il tempo a darmi consigli e a ricordarmi di andarla a
trovare, una volta tornati a casa, in modo che potesse reglarmi
qualcosa che suo figlio James, di quasi quattro anni, non usava
più.
Con l'inizio di settembre, poi, anch'io ero entrata nel settimo mese di
gestazione e ogni giorno ero sempre più impaziente di
conoscere il mio bambino. La pancia ormai era evidente e anche i
vestiti avevano incominciato a starmi stretti. Ad ogni visita che
facevo ero sempre più entusiasta e ogni giorno mi perdevo
nei miei pensieri, con la mano sul ventre, nell'attesa di percepire i
movimenti di mio figlio. Adam si era quasi messo a piangere quando
aveva sentito con la sua mano la forza di uno dei calci del nostro
bambino. Tutto era perfettamente perfetto.
Ci fu un altro pensiero che mi tormentò per tutta la durata
dell'estate. A inizio settembre, pochi giorni dopo l'anniversario della
morte di sua madre, ci sarebbe stato il compleanno di Adam e ancora non
sapevo cosa regalargli. Qualcosa di materiale mi sembrava scontato per
l'uomo che amavo, ma non volevo neppure arrivare a mani vuote. Bastava
un piccolo segno, qualcosa che mostrasse quanto grande fosse il mio
amore per lui.
L'idea mi venne verso fine agosto, dopo settimane di giri in centri
commerciali e mercatini, mentre ero sotto la doccia e Adam stava
preparando la cena. L'acqua scrosciante e calda mi aveva sempre
favorito l'uscita di belle idee e anche quella volta fu
così. Appena uscita dal bagno, ancora avvolta
nell'accappatoio, corsi a prendere il telefono e mandai un messaggio a
Charlie. Sapevo che Liz probabilmente mi avrebbe uccisa, ma Adam era il
suo migliore amico ed ero convinta che gli sarebbe piaciuto averci
entrambi al suo fianco in quel momento. Ventotto anni erano un grande
traguardo, anche se nulla di effettivamente eccezionale. Per me,
però, significavano molto: erano il tempo che avevano reso
Adam la persona che era, l'uomo che amavo. E, soprattutto, era il primo
compleanno che passavamo insieme dopo cinque anni.
Ne discussi anche con Mr Klant, che, nonostante tutto, continuavo a
vedere ogni due o tre mesi, non tanto per necessario bisogno, ma
più per abitudine. Ormai parlare con lui di ogni mio
problema era diventato qualcosa di naturale e, ogni tanto, sentivo il
bisogno di sfogarmi e ricevere i suoi sibillini consigli. Sapeva ogni
cosa riguardo alla mia gravidanza ed era contento che tutto stesse
procedendo per il meglio, soprattutto perché aveva condiviso
con me, cinque anni prima, quel momento così simile ma
così disastroso. Inizialmente avevo temuto che ad Adam
avrebbe dato fastidio l'affetto che avevo iniziato a provare per lui,
ma una volta capito che, per me, Mr Klant era come il padre che non
avevo mai avuto, aveva semplicemente sorriso, come a darmi un
silenzioso permesso. Non ne avevo effettivamente bisogno, ma ero
contenta di avere il suo appoggio e la sua approvazione per qualcosa di
così importante per me.
"E quel suo amico, Charlie, ha accettato di aiutarla?".
Io annuii, sorridendo. Mancava poco più di una settimana al
compleanno di Adam, ma non avevo voluto rinunciare a quella seduta ed
era stato un vero piacere vedere Mr Klant dopo tre mesi di vacanza. "Ne
è stato entusiasta fin da subito", risposi.
"E della sua fidanzata, cosa mi dice? Se non ricordo male non siete in
buoni rapporti".
Ahia, tasto dolente. "In realtà Liz è stata un
po' un problema. Nonostante tutto, Charlie voleva partecipare a questo
regalo, ma il problema ero io. Ho cercato di parlarle con calma, l'ho
anche invitata, ma non c'è stato verso di convincerla",
ammisi con una smorfia. "Alla fine, per sfinimento, Charlie l'ha
convinta, ma credo proprio che ci darà buca all'ultimo
minuto: la conosco bene, Liz, e farebbe ogni cosa per non incontrarmi e
non avere uno scontro diretto con me".
"Per quale motivo?".
"Beh, perché sarebbe costretta ad ammettere di stare
trascinando questa storia per orgoglio e niente più. Non
c'è più nessuna ragione per continuare questa
pagliacciata. Posso capire che le amicizie possano finire, e non avrei
problemi se ci fosse stata una motivazione valida. Ma Liz non c'entrava
nulla in quello che è successo tra me ed Adam e una reazione
simile, oltre che spropositata, è decisamente fuori luogo".
"Capisco. Ma lei cosa vorrebbe che accadesse?".
Strinsi le labbra. "La verità? A questo punto non lo so
più nemmeno io. Voglio ancora bene a Liz, dopotutto
è stata la mia migliore amica per anni. Ma sono stanca di
questo suo comportamento e di dover soffrire in questo modo per colpa
sua e della sua testardaggine".
"Quindi presume che la sua amica non si presenterà?".
"Ovviamente non ne sono certa", precisai. "Adam è stato
anche suo amico. Ma ho questa sensazione, lo ammetto".
Mr Klant annuì, incrociando le dita sotto il mento e
appoggiando i gomiti alla scrivania. "Sa, Amanda, è davvero
molto cambiata dalla prima volta che è entrata in questo
studio".
Lo guardai sorpresa. "In realtà non più di tanto,
mi creda".
"Invece ne sono certo. Cinque anni fa era una ragazzina spaventata e
distrutta, che non riusciva nemmeno a pronunciare il nome del suo ex
fidanzato senza scoppiare a piangere. Poi, piano piano, si è
rialzata. Ne è stata in un certo senso obbligata, me ne
rendo conto, se non voleva continuare a passare la sua vita nei
rimpianti. Ma ha avuto la grande forza di mettersi di nuovo in
cammino".
"Non sono stata così forte", obiettai.
"Io vedo tante persone passare di qui, sa? E non tutti riescono a
superare i loro problemi del tutto: rimane sempre una scia, dietro di
loro, qualcosa che putroppo non riescono a cancellare. Li chiami
ricordi o incubi, l'idea è la stessa".
"Anch'io ho ancora i miei incubi", lo interruppi.
"Certo, ma la sua scia è diversa. È il suo
passato ed è riuscita ad affrontarlo con coraggio, con i
suoi tempi e le sue modalità. Per questo dico che
è cambiata molto. Cinque anni fa non avrebbe mai ammesso di
essere disposta a perdere un'amica importante come questa Elisabeth",
mi fece notare.
Scrollai le spalle. "Mi sono semplicemente resa conto di come stavano
le cose".
"E non le sembra il ragionamento di una persona matura, questo?".
Mi ritrovai ad annuire. "Forse sono cambiata e nemmeno me ne sono resa
conto", mormorai.
"Da una parte ha ragione, Amanda", disse Mr Klant. "Lei è
sempre la stessa, con i suoi pensieri, le sue idee, le sue paure, ma ha
imparato a combattere per qualcosa di veramente importante ed
è questo che mette in luce la vera differenza".
Sorrisi. "Grazie", dissi sicura. "Se sono qui, alla fine, è
anche merito suo".
Lui scosse la testa. "Si fidi, ha fatto tutto da sola. Io ho
semplicemente tirato fuori le domande giuste al momento giusto".
"Beh, in ogni caso la ringrazio".
Il suo sorriso si allargò, mostrando due fossette sulle
guance. "Mi raccomando, Amanda, non si affatichi troppo".
Sospirai. "Lo so, anche Adam me lo ripete sempre".
"E qualcosa mi dice che lei non lo ascolta mai", ridacchiò.
"Non sono malata, posso camminare senza uccidermi e cucinare senza
cavarmi gli occhi", borbottai.
"Vuole solamente proteggerla".
"Lo so", ripetei. "Ma a volte esagera, accidenti".
"Posso capirlo. Anch'io ero eccessivamente protettivo quando mia moglie
era incinta".
"A proposito, come stanno sua moglie e sua figlia?".
I suoi occhi si illuminarono e sorrise di nuovo. "Benissimo, grazie.
Ora, però, è arrivato il momento di salutarci,
Amanda".
Annuii e mi alzai, allungando una mano e stringendola con la sua.
"Prenoterò un appuntamento prima del parto", promisi.
"Pensi a far nascere il suo bambino, Amanda", disse accompagnandomi
alla porta come faceva ogni volta. "Perché poi lo voglio
conoscere".
"Ne sarei veramente felice", affermai, aprendo la porta, ma fermandomi
sull'uscio. "Mr Klant", sussurrai, incapace di distogliere lo sguardo
dalla scena che avevo di fronte. "Quella donna si chiama Chantal,
vero?".
Lui alzò lo sguardo e vide Adam che, appoggiato al banco
informazioni, stava parlando con una ragazza poco più bassa
di lui, con dei bellissimi capelli corvini e un corpo da favola, e che
si stava aggrappando al suo braccio come se gli occhi del mio fidanzato
non fossero abbastanza chiari sul fastidio che stava provando.
Che razza di piovra, pensai.
"Sì, ma...", rispose Mr Klant, confuso.
Io annuii, salutandolo velocemente e dirigendomi a passo di marcia
verso quei due. La rabbia che mi stava montando dentro era tanta,
tantissima e per una volta ero pronta a sfogarla sulla persona giusta.
Appena Adam si accorse di me, si scrollò di dosso la piovra
e si voltò, dandole le spalle. Non ci pensai un attimo e mi
fiondai tra le sue braccia, incollandomi alle sue labbra come se
fossero una bombola d'ossigeno.
Prendi questo, priovra dei miei stivali, pensai, mentre sentivo le
braccia di Adam stringermi la schiena.
Lui si staccò da me dopo qualche momento, sorridendo.
Mormorò un grazie con le labbra e poi si voltò
verso la piovra... ehm, Chantal, con il sorriso più falso
che gli avessi visto in faccia. "Chantal, questa è Amanda,
la mia fidanzata", mi presentò, passandomi un braccio
intorno alle spalle e stringendomi a sè.
"Ah, ehm... allora lei...".
"Se stai per chiedere se esito davvero e se non sono solo una scusa di
Adam per non uscire con te, beh, piacere di conoscerti", dissi in
fretta, fulminandola con lo sguardo.
"Piacere mio", mormorò confusa. Chissà che razza
di idee si era già fatta!
"Possiamo andare, amore?", mi chiese Adam.
Annuii. "Sono un'ultima cosa". Poi mi rivolsi verso la piovra e le
lanciai la peggiore occhiata omicida che avessi in repertorio. "Se non
ti fosse chiaro, Adam è occupato. Oggi, domani e per sempre.
Quindi vedi di girargli alla larga".
La piovra si limitò a fissarmi, sorpresa, mentre mi voltavo
di nuovo e, afferrata la mano di Adam, mi dirigevo a passo spedito
verso gli ascensori.
Che soddisfazione, accidenti! Avrei dovuto farlo prima: minacciare
direttamente lei era stato molto più divertente che litigare
con Adam e decisamente molto più liberatorio.
"Ti adoro quando tiri fuori gli artigli, Lupacchiotta", mi disse Adam
una volta che fummo nell'ascensore.
Sorrisi. "Attento perché potrei graffiare anche te".
A sorpresa, lui mi strinse a sè, nonostante la pancia, e mi
rivolse uno sguardo malizioso. "Fidati, la scenetta di prima non mi ha
per niente spaventato. Anzi, direi proprio il contrario",
mormorò roco, abbassandosi e lasciandomi dei baci sul collo.
"Sei... il solito... cretino", ansimai, stringendo le unghie sulla sua
maglietta.
"Un cretino eccitato, Lupacchiotta", sottolineò.
L'ascensore suonò l'arrivo al piano terra e lo scostai da
me. "Temo proprio che dovrai aspettare, mio caro".
"E per quanto?".
"Dipende quanto tempo impieghiamo ad arrivare a casa senza superare il
limite di velocità ed ucciderci", scherzai.
"Mi stai sfidando?".
"Oh, certo che sì".
"E allora preparati a perdere, Lupacchiotta".
"Non vedo l'ora".
Sentii delle braccia stringermi da dietro le spalle e, sorridendo, mi
appoggiai al suo petto.
"Non ti trovavo più", mormorò al mio orecchio.
"Sono uscita a prendere una boccata d'aria", risposi.
"Non stavi bene?", mi chiese apprensivo.
Sospirai. "Mi girava un po' la testa", ammisi.
"Perché non mi hai chiamato?", mi rimproverò.
"Perché stavi parlando con i tuoi amici, Adam. E ora sto
meglio, quindi non preoccuparti".
"Lo sai che io mi preoccupo sempre troppo".
"Già. Ma in fondo ti amo anche per questo".
Lo sentii ridacchiare. "Grazie per questa bellissima festa, Mandy".
Sorrisi, girandomi tra le sue braccia e trovandomi davanti il suo
volto. "Sono contenta che sia riuscita bene".
Lui mi guardò serio. "Anche se Charlie si è
presentato senza Liz?".
Annuii. "Immaginavo che non sarebbe venuta. Cavoli suoi, si
è persa una festa magnifica".
"Ora non prenderti tanti meriti", scherzò.
"Ma ho io tutti i meriti: l'idea è stata mia".
Adam scoppiò a ridere. "Ed è stata un'idea
perfetta", disse, abbassandosi e facendo incontrare le nostre labbra.
Io allacciai le braccia dietro al suo collo, permettendogli di
avvicinarsi di più a me e di stringermi.
"Ti amo", mormorai staccandomi per un attimo e aprendo gli occhi,
incontrando i suoi pozzi blu che mi facevano impazzire.
Lui sorrise. "Anch'io. Non puoi immaginare quanto", disse
abbracciandomi forte. Appoggiai la testa alla sua spalla, sorridendo
anch'io.
"Stavo pensando a una cosa", mormorò dopo qualche secondo di
silenzio. "Charlie e Liz ci hanno regalato un weekend a Parigi, i miei
amici di tutto e di più. E tu?".
"Stai dicendo che vuoi un regalo da me?".
"Beh, non è che lo voglio... in realtà non mi
dispiacerebbe... pero se...".
Scoppiai a ridere davanti alla sua indecisione. "Il tuo regalo te lo
darò più tardi", promisi.
"Davvero?", esclamò felice, con gli occhi che luccicavano.
"Non è quello che stai pensando", lo ripresi, indovinando
quello che gli passava per la mente.
"Oh, davvero?", mormorò deluso.
Lo guardai seria per un attimo, poi risi di nuovo. "In
realtà c'è anche quello. Ma la parte
più importante è un'altra".
"Mi dici cos'è? Faccio finta di essere sopreso quando lo
vedo".
Scossi la testa, sciogliendomi dal suo abbraccio. "No, più
tardi".
"Ma più tardi quando? Sono già le dieci e mezza
di sera. È buio e fa freddo. Non puoi darmelo ora?".
"Non è esattamente una cosa che posso darti".
"E allora portami dov'è".
"Ma ci sono tutti gli invitati".
"Fa niente, se ne vanno a casa".
"Ma sei scemo? Che razza di festeggiato sei?".
"Uno che vuole vedere il suo regalo".
"Come sei noioso, Adam. Quando arriverà il momento lo
vedrai".
"Ma io lo voglio subito", si lamentò.
"Non fare il bambino", lo sgridai. "Ora torniamo dentro, ci divertiamo
e tra un po' prometto che ti porto dal tuo regalo".
"Me lo prometti?".
Sbuffai, non riuscendo a trattenere un sorriso davanti alla sua faccia
da cucciolo. "Promesso".
Adam si aprì in un sorriso e mi prese per mano. "Andiamo,
voglio farti conoscere qualcuno".
Mi trascinò a conoscere alcuni suoi amici
dell'università che avevo contattato grazie all'aiuto di
Charlie. E fu proprio quando lui mi fece il segnale convenuto che feci
abbassare Adam alla mia altezza e gli sussurrai all'orecchio che il suo
regalo era pronto.
I suoi occhi si illuminarono e, dopo aver congedato velocemente tutti
gli invitati, mi costrinse a infilare la giacca e mi
trasportò quasi di peso in macchina, eccitato come un
bambino il giorno di Natale. "Dimmi dove devo andare", mi
ordinò.
Risi e gli indicai pezzo per pezzo la strada che doveva seguire, con il
cuore che batteva sempre più forte mentre ci avvicinavamo.
Adam sembrò riconoscere il posto quando gli ordinai di
svoltare sullo sterrato, ma si limitò a lanciarmi uno
sguardo interrogativo.
"Cosa ci facciamo qui?", sussurrò, spegnendo la macchia
quando arrivammo davanti alla radura.
Presi un respiro profondo. "Ti ricordi questo posto?", gli chiesi
sottovoce.
Lui annuì, prendendomi una mano e stringendola. "Come potrei
non ricordarlo?", disse solo.
"Beh, forse ti sembrerà stupido, ma è questo il
mio regalo. Questa radura è stata molto importante per noi,
ma negli ultimi tempi non ci sono venuta molto spesso. Quelle poche
volte che mi sono concessa questa debolezza, mi ritrovavo ad annegare
tra i ricordi e le lacrime. Ho solo immagini tristi di questa radura e
voglio che ridiventi il nostro posto magico", confessai nervosa.
Adam non disse nulla per un po', poi allungò un braccio e mi
strinse a sè in un abbraccio soffocante, ma dolcissimo.
"Grazie", sussurrò. "È un regalo stupendo".
"Ne sei sicuro?".
"Certo. E sono contento che tu abbia voluto condividere di nuovo con me
questa radura", ammise.
"C'è un'altro pezzo del regalo che vorrei che tu vedessi".
"Ora?".
"Certo".
"Ma fa freddo fuori".
Scossi le spalle. "Non importa. Voglio portarti comunque".
"Posso immaginare do...".
"No", lo interruppi. "Lasciami questo brivido della sorpresa", lo
pregai.
Adam ridacchiò. "Va bene".
Scendemmo dalla macchina e, armati di pile elettriche, ci addentrammo
nel bosco. L'ultima volta che ci ero venuta le piante erano cresciute
moltissimo, interrompendo il sentiero e impedendomi di raggiungere la
meta. Charlie, però, aveva fatto un lavoro perfetto
perché il piccolo sentiero in quel momento era libero e
sicuro, nonostante il buio della notte.
Ci mettemmo meno tempo del previsto e, dopo nemmeno cinque minuti di
cammino, incontrammo la vecchia casetta dei cacciatori, che per fortuna
non era ancora stata abbattuta. Adam continuava a stare in silenzio e
io lo trascinai all'interno, completamente sistemato, con della legna
nuova nell'angolo e delle coperte stese per terra. Sì,
Charlie aveva fatto veramente un ottimo lavoro.
"Allora, cosa ne pensi?", gli chiesi sorridendo.
Adam ricambiò il sorriso. "È perfetto", ammise.
"Che ne dici di accendere il camino?", gli proposi.
"Vuoi dormire qui?", mi chiese sorpreso, notando le coperte e la legna.
Io annuii. "Come ai vecchi tempi".
"Ma... il bambino e...".
"Sto bene, Adam. E voglio fare l'amore con te in questa casa come
facemmo anni fa. Te lo ricordi".
"Come potrei non ricordarlo?", chiese di nuovo, sospirando. "Okay,
restiamo. Ma se succede qualcosa o se non stai bene torniamo a casa,
d'accordo?".
Annuii. "Promesso".
Adam sorrise e, dopo avermi lasciato un bacio sulla fronte, si
avvicinò al camino e lo accese, osservando per un attimo il
fuoco prendere vita e scoppiettare. Io intanto mi sedetti sulle coperte
e lo aspettai, accarezzandomi il ventre con aria assorta.
"Si sta muovendo?", mi chiese sedendosi al mio fianco.
"Ora no. Prima durante la festa non è stato fermo un
attimo".
"È già pieno di energie, mio figlio", disse con
lo sguardo pieno di orgoglio.
"Potrebbe distribuirle meglio, però sì", gli
concessi, sorridendo.
Adam appoggiò la mano sopra la mia e i suoi occhi si
sgrananrono, sorpresi. "Si è mosso", sussurrò,
aprendosi in un meraviglioso sorriso.
Lo imitai, annuendo commossa. "Ha riconosciuto il suo papà".
"Mi hai fatto il regalo migliore che potessi mai aspettarmi,
Lupacchiotta", mormorò emozionato.
"Beh, in realtà la radura e la casa non sono un vero e
proprio regalo".
"Mi hai regalato nuovi ricordi, scemotta", ribatté. "Ricordi
bellissimi che non scorderò mai".
"Per me ogni giorno è così", ammisi.
"Sarà tutto diverso quando nascerà questo
bambino, lo sai?", mi chiese, stringendomi le spalle e trascinandomi
straiata sulla coperta su di lui.
"Lo so. Ma non vedo l'ora che quel momento arrivi".
"Non sei spaventata?".
"Se parli del parto, sì, un sacco. Se parli della vita che
ci aspetta, no, nemmeno un po'".
"Sarai una madre fantastica".
"Questo sarà tutto da vedere, ma darò il
massimo".
"No, io ne sono certo. Tu sarai fantastica con questo bambino e con
me".
"Perché vi amo. Non ho bisogno di altro".
Adam mi baciò una tempia. "Riniziamo a costruire i nostri
ricordi?", mi propose.
"Non c'è bisogno di ripartire. Tutto il tempo che ho passato
con te è incancellabile".
"Ti amo, Amanda", sussurrò.
"Niente Lupacchiotta?".
"No, questa volta no. Semplicemente Amanda".
Salve
salvino gente!
Oggi
sono puntuale ed è per questo che sta diluviando. Ma non
preoccupatevi, mancano solo un paio di capitoli alla fine della storia
e sono già pronti entrambi, così sono certa di
non ritardare troppo. Avevo anche pensato di pubblicare due volte a
settimana, ma martedì parto per Ravenna con la mia classe e
quindi sono costretta a farvi aspettare fino a sabato prossimo.
Comunque,
tornando al capitolo. Credo che questo sia il capitolo più
importante di tutti. Si vede finalmente quanto Amanda sia cambiata,
quanto sia diventata consapevole dei propri sentimenti e delle proprie
forze ed è un passo enorme, ripensando che solo pochi mesi
prima faceva ancora a botte con il suo passato. Ma, in fondo, era
questo il mio obiettivo. Con questa storia volevo appunto far crescere
la mia protagonista attraverso sbagli e paure, per farla arrivare al
suo lieto fine. Ovviamente sono consapevole che, nella
realtà, è molto più difficile riuscire
a superare momenti come questi, ma vi chiedo di trattare questa mia
semplificazione come una specie di licenza poetica. In fondo, questa
è una storia di fantasia in molti suoi aspetti e non ha la
presunzione di voler ricalcare la verità in tutto e per
tutto. So anche che, sempre nella realtà, il novanta per
cento delle volte non ci si sposa con il primo amore, ma io sono
fondamentalmente una persona molto romantica e, per di più,
non sono nemmeno poi tanto matura come a volte mi convinco: quale
adolescente non sogna di avere un futuro con il primo fidanzatino, o
chi per lui?
Il
regalo che Amanda fa ad Adam per il suo compleanno, per chi non
l'avesse riconosciuto o per chi non avesse letto l'altra storia,
è quel posticino nel bosco in cui si erano rifugiati e dove
avevano aperto i loro cuori. Insomma, volevo riportare questo dettaglio
anche in questo sequel e farli ritornare un po' ragazzini.
Spero
che questo capitolo vi sia piaciuto. Ringrazio di cuore chi recensisce
ogni volta e chi mi segue in silenzio: non siete molti, ma ho capito
che su questo sito vale la politica del "pochi ma buoni" e io sono
davvero contenta di avere trovato voi.
a
presto
mikchan
p.s.
ne approfitto ancora per farmi un po' di pubblicità occulta,
anche se sta volta evito di mettere i link perché, per
qualche motivo, non mi ricordo più come inserirli con il
collegamento. Insomma, se non avete niente da fare passate a fare un
giro sulla mia pagina.
SPOILER-
Capitolo ventitre- FUTURE-
[...] "Hai l'armadio che straborda, non ci credo che non sai cosa
indossare", mi sgridò. "Forza, vestiti: saremmo dovuti
essere al ristorante esattamente... adesso".
Sbuffai. "Non mi va più bene niente", mi lamentai,
indicandogli i vestiti sul letto.
"Non è vero. Questa maglia verde è molto carina e
l'hai comprata settimana scorsa".
"Mi fa sembrare un prato", mugugnai.
"Questa gialla?".
"Non sono un canarino!". [...]
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Capitolo 23 *** Future ***
23- FUTURE
"Un appuntamento a quattro?".
"Mhm, mhm",
lo sentii mormorare dall'altro capo del telefono.
Mi accigliai. "Non sei un po' cresciuto per gli appuntamenti a quattro?
Tra un po' dovrai organizzarne a tuo figlio".
"Non parlarmene che si
è già fatto la fidanzatina all'asilo. Sono
così orgoglioso", gongolò.
Scossi la testa, sorridendo. "Alex, non so se è...".
"Alt, non dirlo",
m'interruppe. "È
un'idea grandiosa fondamentalmente per tre motivi: non ci vediamo da
mesi, tra poco partorisci e non avrai nemmeno più tempo per
te stessa e Lisa mi stressa perché vuole passare del tempo
con te".
"Possiamo andare a prendere un caffé un pomeriggio. Non
capisco perché organizzare addirittura una cena in un
ristorante", riabattei.
"Lo sai che mi piacciono
le cose in grande", disse Alex. "Ti prego".
"Non lo so, devo parlarne con Adam che in questo momento non...".
Il rumore della chiave nella toppa interruppe la mia frase e mi
ritrovai a sospirare. Tempismo perfetto.
"Ciao amore", mi salutò Adam, entrando in casa, scrollandosi
dal cappotto le gocce di pioggia fuggite all'ombrello.
"Ciao", ricambiai il saluto, ritrovandomi a sorridere quando mi
raggiunse veloce, regalandomi un bacio.
"Come sta il nostro ometto oggi?", mi chiese poi, dando una carezza al
pancione.
Sbuffai. "Irrequieto, fin troppo".
"Vuole uscire a giocare con il suo papà".
"Ti ricordo che mancano due settimane, paparino".
"Lo so, ma non vedo l'ora di conoscerlo".
"Amanda! Sei ancora
viva?". La voce di Alex attutita dalla cornetta mi
riportò alla mia chiamata.
Riavvicinai il telefonino all'orecchio. "Sì, sono viva",
sospirai. Odiavo quando Alex insisteva in quel modo, sopattutto
perché non sapevo dirgli di no.
"È arrivato
Adam?", mi chiese.
Mormorai un sì, guardando Adam sfilarsi il cappotto e
guardarmi curioso.
"Chi è?".
"Mio fratello", risposi. "Vuole che usciamo a cena, sabato sera.
Convincilo a rimandare".
"Mandy, sai che se non ti va di uscire nessuno ti obbliga", mi disse
tranquillo, accarezzandomi la testa.
Sbuffai. "Lo so. Ma non è per quello. Mi fa piacere vedere
Alex e Lisa, ma non mi va di andare in un ristorante", spiegai.
"Dillo a tuo fratello", disse semplicemente. "Li invitiamo a cena".
Scossi la testa. "Ha detto che vuole offrirci una cena come si deve in
un bel posto, per festeggiare la nascita del bambino".
"Casa nostra è un bel posto", ribatté.
"Prova a spiegarglielo", mugugnai.
"Mandy!",
mi sentii richiamare e sbuffai di nuovo.
"Io vado a farmi una doccia", disse Adam. "Decidi tu cosa fare, okay?",
concluse, lasciandomi con un bacio sulla fronte e una carezza al
pancione.
Io riavvicinai la cornetta all'orecchio. "Anche Adam ha detto che
potete venire anche qui, non è un problema".
"E, dai, sorellina.
Voglio farti un regalo, lasciati convincere".
Sbuffai. "Non puoi regalarmi un libro o un braccialetto?", mi lamentai.
"No, ti porto fuori a
cena".
"Va bene, veniamo", mi arresi. "Però non prenotare tanto
tardi, altrimenti poi dovrai sopportare tu tutte le mie lamentele,
intesi?".
"Per le sette, va bene?".
"Meglio che niente", gli concessi.
"Ti adoro, Mandy. Ci
vediamo sabato sera alle sette, allora".
"Fratello manipolatore", mugugnai. "Ci vediamo".
Ci salutammo e chiusi la chiamata, lasciando cadere il telefono al mio
fianco, tra i cuscini del divano. Parlare con Alex era sempre
estenuante, soprattutto quando voleva convincermi a fare qualcosa, come
quella sera. Ma, in fondo, lo adoravo troppo per rifiutargli un favore
e lui lo sapeva bene.
A fatica mi misi in piedi, facendo scorrere come ogni volta lo suardo
sul mio corpo. Il seno si era ingrossato parecchio e ormai il pancione
era cresciuto fino al suo limite, segno che presto il nostro bambino
sarebbe nato. Mancavano due settimane alla data prefissata, ma a parte
qualche dolorino ogni tanto, non c'era stato ancora alcun segno
dell'arrivo di quel birbante. Allungai lo sguardo, ma come da qualche
mese a quella parte, non riuscii a vedermi i piedi. Mi chiesi
distrattramente se prima o poi sarei riuscita di nuovo a toccarmi i
miei adorati piedini, che in quel momento erano doloranti e gonfi come
mongolfiere.
Lentamente, mi diressi verso la cucina, mettendo la pentola con l'acqua
sul fornello e iniziando a preparare la cena. Malgrado quello che Adam
pensava, non mi dispiaceva occuparmi di quel piccolo rituale ogni sera.
Mi rilassava, soprattutto se anche lui era con me e mi aiutava e mi
sentivo utile, visto che il resto delle faccende erano diventate
competenza di Adam, non di certo per mia scelta, quasi più
per obbligo. In fondo, con il pancione e tutto il resto era diventato
difficile lavare il pavimento o stendere i panni, ma Adam non si
lamentava di quel lavoro in più e, in un certo senso, non mi
dispiaceva vederlo sgobbare mentre io ero svaccata sul divano. Era una
specie di vendetta preventiva per quello che sarebbe venuto dopo, con
il bambino e tutto il resto.
"Cosa ha detto tuo fratello?", mi chiese entrano in cucina.
Mi voltai, sorridendo e arrossendo un poco. Nonostante il tempo passato
non mi ero ancora abituata a vederlo girare a petto nudo, soprattutto
con quei capelli bagnati e le goccioline che scendevano lente lungo la
sua pelle. Nell'ultimo periodo ero diventata molto suscettibile da quel
punto di vista e bastava un nonnulla per accendermi gli ormoni. "Mi
sono lasciata convincere", dissi schiarendomi la voce.
"Quindi?".
"Quindi sabato sera mangiamo gratis", scherzai.
"Grandioso", esclamò ridendo. "Ma tu sei sicura di
farcela?", mi chiese poi, diventando serio.
Sbuffai. "Dobbiamo stare seduti in un ristorante, non correre una
maratona", gli feci notare con un'occhiataccia.
"Lo so, ma se non ti senti bene non andiamo, promesso?".
Alzai gli occhi al cielo. Che esagerato! "Promesso", dissi per
rabbonirlo. "Ora vieni ad aiutarmi".
"Amanda!"
Sbuffai, ignorando la voce di Adam e concentrandomi sui vestiti che
avevo davanti. Il maglione rosa assolutamente no, sembravo una torta
alla glassa; la camicia bianca neppure, mi faceva sembrare un enorme
gelataio; la maglietta verde...
"Amanda, porco cane! Siamo in ritardo".
"E un attimo", sbottai, mettendomi le mani nei capelli. Accidenti, lo
sapevo che ero in ritardo, non c'era bisogno di farmelo notare ogni
dieci secondi.
Sentii dei passi salire le scale e, quando alzai lo sguardo, la porta
della camera si aprì. Adam entrò, già
pronto nel suo elegante completo e mi guardò scettico. "Cosa
ci fai ancora in pigiama?".
"Secondo te?", chiesi acida, sedendomi sul letto.
"Hai l'armadio che straborda, non ci credo che non sai cosa indossare",
mi sgridò. "Forza, vestiti: saremmo dovuti essere al
ristorante esattamente... adesso".
Sbuffai. "Non mi va più bene niente", mi lamentai,
indicandogli i vestiti sul letto.
"Non è vero. Questa maglia verde è molto carina e
l'hai comprata settimana scorsa".
"Mi fa sembrare un prato", mugugnai.
"Questa gialla?".
"Non sono un canarino!".
"E allora vieni in pigiama", esclamò Adam esasperato.
"Scusa", mormorai, mordendomi un labbro e sentendo gli occhi
inumidirsi. Accidenti, stupidi ormoni!
Adam sospirò. "Che ne dici di quel vestito azzurro che ti ha
regalato Jamie?", mi chiese, indicando il capo ancora dentro l'armadio.
"Ma è leggero", dissi tirando su con il naso, come se fossi
una bambina.
"Sopra puoi mettere il golfino di lana, quello nero", mi propose,
ignorando le mie lamentele.
"Sì, ma...".
"Sei bellissima, Mandy. Qualunque cosa indossi. Quindi smettila",
m'interruppe, afferrandomi il mento per guardarmi negli occhi e
sorridendo.
"Sono una balena", sussurrai.
"Sei la madre di mio figlio, testona", mi sgridò. Poi si
allungò per lasciarmi un veloce bacio. "E fidati di me, se
ti dico che sei bella".
Sospirai, annuendo. "Grazie, Adam".
Lui sorrise di nuovo, asciugandomi le lacrime con il pollice. "Quanto
mi dai da fare", mormorò tra sé. "A volte mi
chiedo chi è il bambino, qui dentro".
"Tra tutti e tre", dissi, ridacchiando.
"Forza, vestiti che tuo fratello ci aspetta".
Annuii e mi alzai in piedi, prendendo il vestito dall'armadio e
sorridendo. Come avrei fatto, senza Adam? Chi mi avrebbe risollevata
ogni volta? Chi mi avrebbe fatto tornare il sorriso? Mi accarezzai
piano la pancia. Presto avrebbe dovuto proteggere anche lui, mi dissi,
mentre gli angoli della bocca si alzavano.
Mi vestii in fretta ed uscimmo di corsa di casa, dirigendoci verso il
ristorante dove Alex aveva prenotato. Il cielo era scuro e cupo e le
prime gocce di pioggia stavano iniziando a scendere dalle nuvole
minacciose.
"Alex mi ucciderà", mugugnai, stringendomi nel cappotto
mentre l'auto procedeva veloce e silenziosa.
Adam ridacchiò. "Ucciderti magari no, però ti
tormenterà tutta la sera".
Sbuffai. "Non sei d'aiuto", replicai, sobbalzando quando un lampo
squarciò il cielo.
"Siamo quasi arrivati".
Annuii. "In questo momento potevo essere in casa, al calduccio, nel mio
pigiamone e invece devo sempre fare contento quell'idiota di mio
fratello", mugugnai, incrociando le braccia sotto il seno.
"Non stai bene?", mi chiese invece Adam.
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. "Sto bene. Tranquillo".
"Se non...".
"Sì, sì, lo so. Se mi sento male te lo dico", lo
precedetti, lanciandogli un'occhiataccia mentre entrava nel parcheggio
del ristorante.
"Lo sai che mi preoccupo", disse solo, abbozzando un sorriso.
Sospirai. "Non voglio sapere quanto diventerai noioso quando
nascerà questo bambino".
"Non vedo l'ora di insegnargli a giocare a basket".
"Fidati, è già capace", ribattei, guardandolo
eloquente. I calci che tirava ne erano una prova e avevo paura ad
immaginare quanto sarebbe stato effervescente una volta fuori dalla mia
pancia, libero di muoversi e fare disastri.
Adam rise e spense la macchina. Scendemmo entrambi e ci dirigemmo verso
il ristorante a passo veloce, avendo dimenticato l'ombrello ed essendo
già iniziato a piovere.
"Secondo te sono già dentro?", gli chiesi.
"Probabile".
"Amanda, Adam!". Mi voltai e incontrai Lisa che ci correva incontro da
dentro il locale. La salutammo e poi la seguimmo al tavolo, dove Alex
era già seduto e stava sgranocchiando un grissino.
"Finalmente", escamò, alzandosi in piedi. Senza nemmeno
darmi tempo di togliermi la giacca, mi strinse in un abbraccio
soffocante e mi ritrovai a sorridere.
"Non ti sembra di esagerare, fratellone?", risi.
"Quanto manca al parto?", mi chiese invece lui, sciogliendo l'abbraccio
e dando una carezza al pancione.
"Un paio di settimane", risposi tranquilla, lasciandomi sfilare la
giacca da Adam e sedendomi accanto a Lisa.
"Avete già deciso come chiamarlo?", mi chiese questa,
sorridendo.
Lanciai un'occhiata complice ad Adam. "Segreto", dissi.
"Ma come?", esclamò mio fratello.
"Non vogliamo dirlo a nessuno prima che nasca", spiegò Adam
afferrandomi la mano e stringendola.
"Per scaramanzia", aggiunsi, alzando le spalle.
"La solita idiota", borbottò Alex, scuotendo la testa.
"Vogliamo ordinare?", disse Adam, interrompendomi prima che potessi
ribattere all'offesa di mio fratello e iniziare l'ennesima guerra.
Guardai complice Alex, ridacchiando. In fondo mi mancavano i nostri
continui battibecchi.
Lisa chiamò il cameriere che ci portò i
menù. Dopo avere deciso cosa mangiare, ci trovammo a parlare
del più e del meno, tranquillamente, aggiornandoci su quello
che avevamo perso in quel tempo che non ci eravamo visti. Tra il lavoro
e Dan, che in quel momento era rimasto con i genitori di Lisa, era
difficile riuscire a organizzare un'uscita come ai vecchi tempi e
sapevo che l'arrivo di questo bambino ci avrebbe allontanati ancor di
più. Abitavamo in due paesi diversi, non molto lontani, ma
era comunque problematico riuscire a raggiungere l'altro. In ogni caso
mi ritrovai a ringraziare silenziosamente Alex: malgrado tutte le mie
lamentele ero contenta di avere accettato il loro invito. Mi serviva
proprio una serata di distrazioni, soprattutto con l'imminente parto
che, dovevo ammetterlo, un po' mi spaventava. Ovviamente Adam non ne
sapeva nulla, altrimenti mi avrebbe fatto una testa quadra con la sua
preoccupazione, ma speravo di poterne parlare un po' con Lisa, che
aveva già fatto questa esperienza e avrebbe potuto darmi dei
consigli.
"Amanda, mi accompagni in bagno?", mi chiese appunto Lisa ad un certo
punto.
Annuii, sentendomi un po' come al liceo, quando si andava in bagno
sempre in coppia. La seguii attraverso i tavoli, ma solo quando avevamo
attraversato tutta la sala mi accorsi di aver dimenticato la borsa al
tavolo. Lasciai Lisa in bagno e corsi a riprenderla, fermandomi di
botto dietro alla colonna vicino al nostro tavolo quando sentii le
parole che Alex aveva appena pronunciato.
"Dovrei riempirti di pugni per quello che hai fatto alla mia
sorellina".
"Dovresti", si limitò a rispondere Adam e io incominciai a
sentire il cuore battere impazzito.
"Ma...".
"Ma non lo farai, vero?".
Alex rise. "Già. Ma solo perché ci tengo a lei".
"Anche io. Tantissimo".
"Perché credi che ti abbia lasciato tutte le ossa a posto,
altrimenti?", chiese Alex retorico.
"Dovrei ringraziarti?".
"Limitati a proteggerla per me".
"Non ho bisogno di farlo per te, Alex", rispose Adam sicuro.
"Lo spero proprio. A quando il matrimonio, cognato?".
Sentii Adam iniziare a tossire e mi lasciai sfuggire un sorriso.
Alex era sempre il solito fratello iperprotettivo e geloso: a quasi
trent'anni ancora voleva tenermi chiusa in casa, al sicuro da ogni
pericolo. Ma gli volevo un mondo di bene e sarebbe stato sempre
così. Adam, invece, mi aveva sorpresa. Nonostante il tempo,
infatti, non era semplice per lui esprimere a parole quello che
provava. Me lo dimostrava con i gesti, a volte anche esagerati, ma
molto raramente lo diceva. E invece quella sera si era esposto e quelle
parole erano state le più belle che avessi mai sentito.
Mi appoggiai con la schiena al palo, sapendo che origliare era
sbagliato, ma dicendomi che, ormai, avevo sentito abbastanza da poter
ascoltare anche il seguito della conversazione.
"Ehi, Amanda!".
Mi voltai verso quella voce e sgranai gli occhi.
"Non è possibile", mormorai, staccandomi dalla colonna.
"Cosa ci fai qui?", mi chiese sorridendo, avvicinandosi velocemente a
me. Aveva visto chiaramente il mio sguardo, ma lo ignorò,
continuando a sorridere come se avesse visto il suo più
grande amico. Io, invece, avrei preferito trovarmi davanti un fantasma
piuttosto che proprio lui.
"Cosa vuoi che ci faccia in un ristorante, David?", risposi asciutta.
"Giusto. Beh, vedo che sei veramente in dolce attesa",
commentò ricordandosi le mie parole di quel pomeriggio.
Quanto tempo era passato? Mesi, di sicuro. E io mi ero decisamente
dimenticata di lui e delle sue stupide minaccie velate.
Annuii solo, incerta su come comportarmi. Avrei voluto allontanarmi, ma
come ogni volta c'era qualcosa di magnetico nei suoi occhi scuri che mi
bloccava al pavimento. Non sapevo se fosse paura, ma non mi piaceva
come sensazione.
"Sei da sola?", continuò imperterrito, ignorando il mio
cipiglio serio.
"No", mi limitai a rispondere, pregando che accadesse qualcosa che mi
salvasse da quella situazione. Alex e Adam erano a due passi da me, ma
non avevo il coraggio di richiamarli al mio fianco. Che cosa mi fermava?
"Te l'avevo che ci saremmo rivisti", ridacchiò, passandosi
una mano tra i capelli.
"Che gioia", dissi acida, alzando gli occhi al cielo.
"Non mi sembri tanto felice", constatò.
"Che perspicacia", mormorai. "Ora, se non ti dispiace, devo andare",
dissi, sperando che si allontanasse invece lui per primo.
"Mi ha fatto piacere rivederti", disse lui.
Annuii di nuovo, senza rispondere. D'istinto, allungai le mani sul
pancione e iniziai ad accarezzarlo in un gesto d'abitudine per
tranquillizzarmi.
"Amanda!". Mi voltai di scatto, trovandomi davanti la figura di Adam.
Mi lasciai scappare un sospiro di solievo, abbozzando un sorriso.
"Stai bene?", mi chiese, avvicinandosi e avvolgendomi la vita con un
braccio.
"Sì".
Poi si voltò verso David e per un attimo mi
sembrò di avere già visto una scena simile.
"David", disse solo.
"Adam", lo salutò l'altro con un cenno del capo. "E
così state ancora insieme".
"A quanto pare", rispose asciutto Adam.
"Stavo giusto chiedendo ad Amanda se le andava di uscire tutti insieme
una di queste sere", disse cercando di non mostrare nervosismo Bugia,
ma non dissi nulla. Ero troppo concentrata su quella guerra di sguardi
che stava avvenendo davanti a me. Adam non mi aveva mai spiegato bene
cos'era successo quando si era infortunato e aveva dovuto lasciare il
basket, ma dalle sue poche parole e dai suoi sguardi cupi quando tirava
fuori l'argomento, era chiaro che David, il suo compagno di squadra ma
grande rivale, c'entrava in qualche modo. Eppure non avevo mai
insistito: un po' perché volevo tenere David fuori dalla mia
vita, un po' perché non volevo obbligarlo a rivangare il
passato, soprattutto perché sapevo che ancora ci stava
male.
"Credo che declineremo l'invito, David".
Questo assottigliò gli occhi. "Ce l'hai ancora con me per
quello che è successo", sussurrò rivolto ad Adam
e non era una domanda.
Adam si limitò a scuotere le spalle. "Non particolarmente.
Ma sto decisamente meglio quando non ti vedo".
"Sai che non è stata colpa mia", insistette David.
"Punti di vista", si limitò a dire Adam.
"Vorrei parlarti, appena hai un attimo di tempo".
"Non abbiamo niente da dirci".
"Nemmeno se ti dicessi che si è liberato un posto da
allenatore?".
Adam s'irrigidì. "No", sussurrò poco dopo. "Ora
ho la mia vita".
"E il basket?", insistette David.
"Si tratta di scegliere delle priorità. E il basket non fa
più parte delle mie", rispose Adam semplicemente.
David annuì, facendo una smorfia. "Ripensaci".
"Non ne ho bisogno. Ora, se permetti, noi torniamo al nostro tavolo".
"È stato un piacere incontrarti di nuovo", disse David
allungando la mano.
Adam la guardò per qualche secondo, poi allungò
la sua. "Certo", rispose solo.
David si voltò e si allontanò, scomparendo in
fretta dietro l'angolo.
Tirai un'altro sospiro di solievo, mentre sentivo anche il braccio di
Adam rilassarsi intorno alla mia vita. Mi voltai e appoggiai la testa
alla sua spalla. "Che giornataccia", borbottai.
"Già. David era proprio l'ultima persona che avrei mai
voluto incontrare".
"Sei sicuro di quello che hai detto?".
Adam mi guardò negli occhi, poi annuì.
"Sicurissimo. Io ho un lavoro, per il quale mi sono impegnato
parecchio. E il basket è ormai solo un sogno. Quando il
nostro bambino sarà grande, gli passerò questa
passione, ma prima non voglio pensarci".
"Non voglio che tu sacrifichi i tuoi sogni".
"Ma io i miei sogni li ho realizzati", disse accarezzandomi una
guancia. "Non posso volere niente di più".
"Ne sei sicuro?".
"Ripeto, sicurissimo".
Sorrisi, annuendo e allungandomi per lasciargli un piccolo bacio.
Quando tornai con i peidi per terra, sentii una sensazione di bagnato
farsi largo tra le mie gambe e m'irrigidii.
"Piuttosto", continuò Adam. "Tu come stai? Non dev'essere
stato bello incontrarlo".
Lo guardai negli occhi, tremante. Ti prego, non ora, pensai, stringendo
la presa intorno alle sue braccia.
"Amanda?", mi chiese corrucciando lo sguardo. "Va tutto bene?".
"Io...".
"Mandy, devi dirmi cosa c'è che non va", disse preoccupato,
scuotendomi le spalle.
"Io...".
"Amanda!".
"Io..."
"Accidenti, Amanda! Sei impallidita all'improvviso e mi stai
maciullando un braccio. Che diavolo sta succedendo?"
"Io... io credo che mi si siano rotte le acque".
CINQUE ANNI DOPO
"Mamma, mamma, mamma. Merenda, merenda, merenda!"
Mi lascia sfuggire un sorriso, vedendo il mio bambino entrare di corsa
in cucina con il suo sorriso sdentato e correre intorno al tavolo.
"Merenda, merenda, merenda", ripeté.
"Cosa vuoi oggi?", gli chiesi.
Lui si fermò di scatto, iniziando a pensare. "Gelato",
strillò poi, riniziando a correre.
Scoppiai a ridere. "Va bene, ma solo se lo mangi qui seduto
tranquillo".
"Ma, mamma", si lamentò, fermandosi di nuovo.
"Niente ma. Mangi qui il gelato e poi puoi tornare a correre".
Lui mi guardò imbronciato, ma tornò a sorridere
quando tirai fuori dal frizzer uno dei suoi gelati preferiti,
ovviamente al cioccolato. Lo aiutai a sedersi su una sedia e mi
accomodai vicino a lui, dicendomi che avrei continuato più
tardi le mie faccende.
Mark era nato da ormai cinque anni e ancora non mi ero ancora abituata
al cuore che batteva forte ogni volta che lo vedevo ridere o alle
emozioni che provavo quando mi abbracciava. Era il mio piccolo
miracolo, il bambino che avevo sempre desiderato. Nella mia mente,
rappresentava anche quel bambino che non era mai venuto alla luce, ma
che avevo amato con tutta me stessa, così come amavo Adam e
Mark nel mio presente.
Adam, dal canto suo, era un padre perfetto. Interagiva con il figlio
come se fosse lui stesso un bambino e quando si rivolgeva a lui lo
guardava con uno sguardo così carico d'amore che mi si
chiudeva ogni volta lo stomaco.
"Mamma, adesso posso andare a giocare?". Mark mi riscosse dai miei
pensieri tirandomi la manica della maglietta e sorrisi quando incontrai
il suo musetto sporco di cioccolato.
Ridendo, mi allungai per prendere un tovagliolo e pulii quel piccolo
disastro, mentre lui si agitava e si contorceva per tornare a giocare.
In meno di due minuti era di nuovo pieno di energie e stava ancora
correndo come un matto per tutta la casa e tutto il giardino. Amavo
vederlo così vitale, sempre agitato, proprio come il padre.
Per me significava che stava bene e che era in salute e felice.
Qualche ora dopo, quando Mark si era stancato di rincorrere il niente e
si era buttato sul divano per rilassarsi un po' davanti ai cartoni,
anche Adam tornò a casa dal lavoro. Per fortuna io ero
riuscita ad organizzarmi con la redazione, dove mi recavo solo al
mattino, quando Mark era a scuola, in modo da poter poi passare il
pomeriggio con lui.
Appena sentì la chiave girare nella toppa, Mark
scattò in piedi e corse incontro al padre, che lo prese in
braccio al volo scoppiando a ridere.
"Ciao, ometto. Come stai?".
"Papà, papà. Vieni con me a vedere i cartoni?".
Adam annuì, sempre ridendo, e rimise per terra il bambino,
rivolgendomi poi un sorriso. Mi alzai anch'io e lo raggiunsi, dandogli
un lieve bacio.
"Credo che oggi si sia stancato abbastanza", dissi con un sorriso a
metà tra il divertito e l'orgoglioso. "Ha corso tutto il
pomeriggio".
"Crollerà dopo cena, tranquilla".
"Speriamo".
"A proposito. C'era un po' di roba nella buca delle lettere", disse
passandomi delle buste.
Sbuffai. "Non voglio aprire la bolletta dell'acqua dopo che Mark ha
allagato il giardino per riempire la piscina", mi lamentai.
"Guarda bene", si limitò a dire Adam, sfilandosi le scarpe.
"Cosa?".
"Questo", disse, prendendo una busta color avorio, abbastanza spessa e
finemente decorata.
"Cos'è?", chiesi curiosa.
"Non lo so, però è rivolto ad entrambi". Il suo
tono era divertito, evidentemente lui sapeva di cosa si trattava ma non
voleva dirmelo, cosa che aumentava la mia curiosità.
Gli strappai la busta di mano e la aprii in fretta. "Non è
possibile mormorai".
"Quindi?".
"Guarda", dissi, girando il cartoncino. "Non è possibile",
ripetei. "È l'invito al matrimonio di Charlie e Liz!"
Eeh
stop.
Sì,
il capitolo finisce così, ma non la storia, tranquilli!
Manca ancora l'epilogo che ho già scritto e che
pubblicherò in settimana appena ho un attimo di tempo.
Credo
di dovervi dare un po' di spiegazioni.
Allora,
la storia di David e Adam, ciò che è successo e
perché si comportano così non lo approfondita
volutamente. Vedete, tutta la storia è in prima persona,
quindi dal punto di vista di Amanda, che conosce solo ciò
che le succede. E, sinceramente, mi è sembrato un
comportamente molto "da Adam" non voler parlare del suo passato, in
particolare di quel momento. Insomma, alla fine, se facciamo un paio di
conti, tutto questo è successo in un anno (intendo
l'incontro tra Adam e Amanda, la loro storia, la gravidanza...) e mi
sembrava affrettato fare aprire Adam così in fretta dopo
averlo dipinto, nell'altra storia, come una persona piuttosto riservata
sulla sua vita privata. Come si dice, la fiducia va riguadagnata e
Amanda ha ancora tanta strada da fare!
Secondo
punto, il parto. Premettendo che non ho avuto alcuna esperienza diretta
e le uniche mie conoscenze in merito si riferiscono ai pomeriggi di
noia passati a guardare 16&Pregnant su MTV, ho deciso di
saltare quel pezzo piuttosto che scrivere cavolate. In fondo non era
così essenziale e lascio a voi il compito di immaginarlo, se
volete.
Terzo
punto, l'ultima parte. Allora, siamo andati avanti di cinque anni,
abbiamo scoperto come si chiama il loro bambino ed è
arrivata una misteriosa busta. Tutto si spiega nell'epilogo dell'altra
storia, Like a Phoenix. In breve, ho voluto intrecciare le due storie,
perché questa si inseriva proprio nel mezzo tra la prima e
il suo epilogo, ovvero il matrimonio di Liz e Charlie e il suo scopo
era raccontare cos'era successo in quegli anni ai protagonisti, Adam e
Amanda.
Okay,
io ho finito qui. Se avete domande, richieste o qualunque altra cosa
non siate timidi, ho tanto amore da distribuire per tutti!
Ringrazio
tutti quelli che mi hanno seguito fino a qui e spero che questa storia
vi sia piaciuta, almeno un po'. I ringraziamenti ufficiali e le lacrime
le lascio tutte all'epilogo e, mi dispiace, ma questa volta niente
spoiler.
A
presto
mikchan
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Capitolo 24 *** EPILOGUE- I'll be there ***
EPILOGUE- I'LL
BE THERE
Il cuore che batte frenetico, pompando sangue alle guance che ormai
sono in fiamme, l'ansia che attanaglia lo stomaco e fa sembrare che una
colonia di farfalle si sia annidata lì dentro, la paura che
tutto vada a rotoli e l'aspettativa di qualcosa di più.
Tutto quello si legge nel mio sguardo e l'ho capito anch'io, mentre
ormai da mezz'ora mi fisso allo specchio come una stupida. È
tutto impeccabile, so che è inutile cercare delle
imperfezioni, ma sono talmente nervosa che sarei capace di trovare
anche il minimo difetto. Indosso un semplice vestito bianco, con il
corpetto finemente decorato, una deliziosa scollatura a cuore e una
lunga gonna che si apre, leggera, scendendo lungo le gambe. I capelli
sono elegantemente acconciati e mi ricadono morbidi su una spalla,
mentre il trucco è leggero ma definito. Insomma, hanno fatto
un lavoro eccezionale.
Mi rigiro sul dito l'anello di fidanzamento, in un nervoso gesto
d'abitudine, e con un po' di timore penso che, presto, ne
indosserò un altro. Questo sarà speciale,
sarà l'anello che sigillerà la nostra unione,
anche se effettivamente non abbiamo bisogno di un oggetto per
dimostrare il nostro amore.
La porta si apre e le mie damigelle entrano sorridendo emozionate,
strette nei loro abiti coloro blu notte. Sorrido anch'io. "Siete
bellissime", dico, distogliendo finalmente l'attenzione dallo specchio
malefico.
"Tu lo sei di più", mormora Jamie asciugandosi una lacrima.
"Ti prego, non iniziare a piangere", l'ammonisce Liz. "Altrimenti sai
che disastro, poi, con il trucco".
Scoppiamo a ridere e, per un attimo, mi ritrovo a guardare le mie due
migliori amiche. Nonostante le enormi differenze si sono trovate
subito, diventando quasi inseparabili e io sono estremamente felice di
essere riuscita ad arrivare ad un momento tanto importante con due
persone simili al mio fianco.
Mi allungo e le abbraccio leggermente entrambe. "Siete le migliori
amiche che potessi mai desiderare", sussurro con un groppo in gola. Non
devo piangere, lo so, ma non posso proprio farci niente se mi commuovo
facilmente.
"Dai, sposina, non essere sdolcinata", mi riprende Liz con un enorme
sorriso e solo in questo momento mi accorgo di quanto mi sia mancata in
tutti questi anni.
"Aspetta di vedermi sull'altare, allora", scherzo, sciogliendo
l'abbraccio.
"Abbiamo una scorta di fazzoletti", dice Jamie, facendomi un'occhiolino
complice.
"Ragazze, è ora di andare", la voce di Alex da dietro la
porta ci distrae dai nostri discorsi. Afferro il mio bouquet e, dopo
aver preso un enorme sospiro, esco dalla stanza, trovandomi davanti mio
fratello, piuttosto spazientito. "Credo che un ritardo di dieci minuti
sia sufficiente e Adam sta per avere un infarto", dice facendo una
smorfia.
"Possiamo andare", annuisco, prendendolo sottobraccio.
Lui mi lancia un'occhiata e sorride. "Sono proprio contento per te,
sorellina", dice, iniziando a camminare lentamente.
Lo seguo fuori dalla sagrestia e ci ritroviamo sul piazzale della
chiesa. "Prega che il mio cuore regga, allora", sussurra.
"Io non ti faccio cadere", mi rassicura.
"Sarà meglio per te", lo rimbotto, ritrovandomi poi a
sorridere.
"Sei pronta?", mi chiede sentendo la musica iniziare a risuonare
leggera e vedendo le mie damigelle iniziare a percorrere la navata.
Annuisco. "Come non mai".
Alex non dice nient'altro, limitandosi a stringermi la mano e,
lentamente, inizia ad entrare in chiesa. Sono davvero contenta che
abbia accettato di portarmi all'altare, in assenza di un padre che
potesse adempiere a questo compito. Per me lui è una delle
persone più importanti e nessuno sarebbe stato all'altezza
della situazione.
Appena entriamo in chiesa resto per un attimo senza fiato. L'atmosfera
è veramente mozzafiato, con la luce che entra delicata dalle
enormi vetrate e i fiori, blu e bianchi, che decorano l'intero
ambiente. La mia attenzione, però, viene subito rapita da
una persona in fondo alla navata.
Adam è lì.
In piedi, con le mani intrecciate dietro la schiena e quel mezzo sorriso
che gli illumina il volto. È bellissimo nel suo completo
elegante, tanto che per il resto del tempo non riesco a distogliere lo
sguardo da lui. Appena arriviamo all'altare, Alex mi lascia la mano e
la porge, in un gesto pieno di significato, ad Adam, che la afferra e
la stringe, portandosela poi alle labbra per un veloce bacio.
Prima di voltarmi, con la coda dell'occhio, vedo due bambini seduti
accanto a mia madre e gli lancio un veloce sorriso. Mark e Jenna sono i
miei angeli, i nostri angeli. E non m'importa di avere avuto figli al
di fuori del matrimonio, perché per me valgono esattamente
quanto gli altri, anzi, sono forse ancora più speciali.
Non riesco ad ascoltare una sillaba di tutta la cerimonia. So
già cosa si dice, quindi mi perdo nei ricordi, ripassando
con la mente tutti i miei trentacinque anni.
Quante cose sono successe! Adam è stata decisamente la
più importante: senza di lui, effettivamente, non sarei qui.
Mi ha aiutata a riscoprire me stessa e mi ha insegnato ad amare. Mi ha
aperto gli occhi verso un mondo meraviglioso e per questo gliene
sarò sempre grata. La nostra relazione non è
stata per niente semplice, ma, forse anche grazie ad un pizzico di
fortuna, siamo stati in grado di ricostruirla nel momento in cui
è crollata. E credo che sia per questo che ora è
così forte: certo, discutiamo come ogni coppia, ma dentro di
noi c'è la consapevolezza che senza l'altro non ci sappiamo
stare e che, quindi, saremo destinati a stare insieme per sempre.
L'arrivo dei bambini, poi, ha aiutato a consolidare il tutto. Mark
è stato del tutto inaspettato, ma la sua nascita ha
rivoluzionato la nostra vita e anche la nostra relazione. Jenna,
invece, che adesso ha un anno e mezzo, è stata colei che ha
chiuso il nostro cerchio. Ora la nostra vita è perfetta, non
potrei desiderare nient'altro.
Per questo non esito nemmeno un attimo a pronunciare quel fatidico
sì e mi ritrovo a sorridere emozionata mentre Adam mi infila
al dito quella fede nuziale. Un simbolo, forse non necessario, ma
decisamente importante e che da oggi farà parte della nostra
vita.
Ora siamo marito e moglie, finalmente ci siamo ritrovati ed
è chiaro che non ci lasceremo più. Lo leggo nei
suoi occhi, mentre si abbassa a baciarmi. Lo leggo nei suoi gesti, ogni
giorno. Lo leggo nel mio cuore e non ho più dubbi.
La cerimonia finisce tra risate, lacrime e migliaia di chicchi di riso.
Credo di non essere mai stata così felice.
Appena usciti dalla chiesa, corro ad abbracciare i miei bambini e,
insieme, ci dirigiamo verso il ristorante che abbiamo affittato per
l'occasione. Ci meritiamo un grande matrimonio, decisamente.
Il resto della giornata passa tranquillo.
Tra il pranzo e tutto il resto ho anche il tempo di scambiare qualche
parola con Mr Klant e Austin.
Il primo non poteva decisamente mancare al mio matrimonio. Ricordo
ancora di quando gliel'ho rivelato e di quanta gioia avesse espresso
quel giorno. Nonostante tutto, mi sono affezionata a quest'uomo e, pur
rimanendo sempre il mio psicologo, so anche che è un amico,
qualcuno con cui confidarmi ed essere me stessa per ogni problema. Gli
sono estremamente grata per aver ricostruito la mia vita
perché, devo ammetterlo, senza di lui non avrei mai nemmeno
avuto il coraggio di guardarmi di nuovo allo specchio. È
solo grazie a lui se ho incontrato Adam che, forse per uno strano
scherzo del destino, si è trasferito proprio nel suo studio.
Coincidenze? Forze, oppure semplice fortuna. Fatto sta che, nella mia
mente, Mr Klant è il salvatore, una specie di supereroe con
gli occhiali e senza calzamaglia. Rappresenta, da un certo punto di
vista, il padre che non ho mai avuto e che ho sempre desiderato.
Per quanto riguarda Austin, invece, inizialmente sono stata molto
indecisa se invitarlo o meno. Temevo di poterlo ferire di nuovo e, dopo
tutto quello che è successo, quello era proprio l'ultimo dei
miei desideri. È stato Adam, come sempre, ad aprirmi gli
occhi. E mi ha fatto capire che per me Austin è e
sarà sempre una persona molto importante, colui che ha
saputo volermi bene nonostante tutti i miei complessi e che escluderlo
da un evento simile sarebbe stato un gesto meschino. Dentro di me ho
sempre saputo di volerlo al mio fianco in questo momento e lo avrei
sempre ringraziato per il suo cuore gentile e il sentimento che aveva
messo nel tirarmi fuori dal mio baratro. Per questo motivo ho inviato
anche a lui l'invito e sono stata immensamente felice quando si
è presentato insieme a una donna, che ho riconosciuto subito
come Alex, la cameriera del Bless. Sapevo che si stavano frequentando
anni prima, ma vedere che sono riusciti a formare una famiglia mi ha
resa estremamente orgogliosa.
A trentacinque anni sembra proprio che la mia vita stia finalmente
ruotando nel verso giusto.
All'improvviso Adam si alza in piedi, risvegliandomi dai miei pensieri
e, dopo aver lanciato uno sguardo complice a Charlie, lo vedo
deglutire. È nervoso e non riesco a capire
perché: cosa sta combinando?
Lo guardo sospettosa mentre sguscia via dal suo posto senza dirmi nulla
e avvicinarsi al palco, dove scambia qualche parola con la band che
abbiamo ingaggiato. Un enorme dubbio inizia a farsi spazio nella mia
testa e non so se averne paura o esserne felice. Come conferma, Adam
afferra il microfono e, dopo essersi schiarito la voce, sposta lo
sguardo su di me.
I suoi occhi mi immobilizzano e sento il cuore iniziare a battere
furioso. Sorrido.
"Non sono bravo con le parole", comincia a dire, mentre uno dei ragazzi
gli passa la sua chitarra. "Ma me la cavo con la musica", continua,
sedendosi su un piccolo sgabello. È tremendamente
affascinante in quella posizione, mentre si toglie i capelli dagli
occhi e sistema il microfono all'altezza delle sue labbra, piegate
all'insù come le mie. "Quindi questo è per te".
Non dice nient'altro, ma mi basta ascoltare le prime note della canzone
per capire che si riferisce a me.
"Io non ti prometto
qualcosa che non ho
quello che non sono
non posso esserlo
anche se so che
c'è chi dice
per quieto vivere
bisogna sempre fingere."
Mi sta dicendo che non è perfetto, ma in fondo nemmeno io lo
sono. E di sicuro non è quello che voglio da lui. Io lo amo
per quello che è, con la sua semplicità, la sua
allegria, il suo amore per me e per i suoi figli. Se Adam fosse stato
perfetto, probabilmente ora non saremmo dove siamo. Non c'è
bisogno di nessuna bugia tra di noi, ce ne sono state fin troppe e
ormai entrambi sappiamo bene le terribili conseguenze che portano.
Quindi la sincerità è la nostra arma vincente:
certo, a volte fa male, ma essere quello che siamo è l'unico
modo per restare uniti.
"Non posso giurare
che ogni giorno
sarò
bello, eccezionale,
allegro,
sensibile, fantastico
ci saranno dei giorni
grigi
ma passeranno sai e
spero che tu mi capirai."
Stringo i pugni. Vorrei urlargli che non ha bisogno di impegnarsi,
perché lui è fantastico così
com'è. Lui è Adam, ci sono davvero altri motivi
per volerlo al mio fianco? Ne abbiamo passate di tutti i colori, ma
abbiamo avuto la forza di rincominciare. Insieme. E questo mi basta per
sapere che saremo in grado di affrontare altri problemi simili senza
smettere di amarci.
"Nella buona sorte e
nelle avversità
nelle gioie e nelle
difficoltà
se tu ci sarai
io ci sarò.
io ci sarò."
Mi tornano in mente le parole che abbiamo pronunciato poco fa davanti
al prete. Essere finalmente marito e moglio non cambia le cose: abbiamo
sempre affrontato le gioie e le difficoltà fianco a fianco.
Lui c'è stato per me, io ci sono stata per lui. Il destino
ha voluto che succedesse qualcosa che ci facesse capire quanto il
nostro amore sia forte e noi abbiamo saputo approfittarne. Sento una
lacrima solcarmi una guancia e sorrido.
"So che nelle fiabe
succede sempre che
su un cavallo bianco
arriva un principe
e porta la bella al
castello
si sposano e
sarà
amore per
l'eternità.
Solo che la vita
non è proprio
così
a volte è
complicata come una
lunga corsa a ostacoli
dove non ti puoi ritirare
soltanto correre
con chi ti ama accanto a
te."
Certo, sarebbe bello vivere in una favola. Lì davvero
sarebbe tutto perfetto. Ma davvero voglio perdermi tutti quei momenti
stupendi che arrivano dopo quelli brutti? È proprio grazie
agli ostacoli che ci siamo avvicinati, che siamo diventati uno parte
dell'altro, che abbiamo iniziato ad amarci. E forse Adam non
sarà un principe azzurro, ma è lo stalliere
migliore che io abbia mai conosciuto. Correre al suo fianco
è l'onore più grande di tutti e, dentro di me,
prometto che farò di tutto perché le nostre
strade non si dividano ancora.
Mi alzo in piedi mentre Adam continua a cantare e lo vedo guardarmi
sorpreso quando si accorge che mi sto avvicinando a lui, lentamente.
Continuo a sorridere, mentre sollevo leggermente il vestito e salgo i
pochi gradini del palco. Adam continua a suonare, ritardando il
ritornello. Sento gli occhi di tutti gli invitati addosso, ma non
m'importa. Quando, finalmente, sono accanto a lui, afferro la mano che
mi porge e mi siedo sulle sue gambe, dandogli un piccolo bacio sulla
guancia. Adam appoggia la chitarra per terra, abbracciandomi.
Il suo gesto è stato bellissimo.
Ci voltiamo entrambi quando sentiamo le note della canzone e il
chitarrista ci fa l'occhiolino, indicandoci con la testa il microfono.
Ci guardiamo complici, sorridendo.
"Nella buona sorte e
nelle avversità,
nelle gioie e nelle
difficoltà
se tu ci sarai
io ci sarò.
io ci sarò."
Forse queste parole hanno più importanza di quelle
pronunciate in chiesa poco fa. Mostrano tutto il nostro amore, tutto
quello che abbiamo passato negli anni e che ancora vogliamo affrontare
insieme. È una promessa urlata al vento, anzi cantata
davanti a un'intera sala d'invitati, ma sinceramente poco m'importa di
non essere intonata: sono con Adam e, alle mie orecchie, le nostre voci
insieme sono perfette.
"Giuro, ti prometto
che io mi
impegnerò
io faro' di tutto
però
se il mondo col suo
delirio
riuscira' ad entrare e
far danni
ti prego dimmi che
combatterai insieme a
me."
Insieme. Questa è l'unica parola che riesce a dipingere il
nostro rapporto alla perfezione. E non ho bisogno di nessun giuramento
per affermare che non mi tirerò mai indietro, che, se ci
sarà da combattere, sarò la prima ad afferrare le
armi. L'unica condizione che pongo è la presenza di Adam al
mio fianco. Con lui mi sento potente e invincibile, capace di tutto,
anche di volare. E in questo momento sono i nostri cuori che stanno
volando impazziti e felici.
È tutto perfetto, pur non essendolo davvero. Cosa posso
chiedere di più?
Blocco le parole dell'ultimo ritornello con un bacio. È
dall'inizio della canzone che voglio incollare le mie labbra alle sue e
dimostrare a tutte queste persone che Adam è solo mio, il
mio stalliere, mio marito, il mio uomo, il padre dei miei figli, il mio
migliore amico, semplicemente tutto ciò di cui ho bisogno.
Le ultime note della canzone scemano mentre Adam mi stringe a se,
abbracciandomi nonostante lo scomodo vestito che ancora indosso. Sento
il suo cuore battere sotto la mia mano e il suo sorriso sulle sue
labbra.
È davvero una cosa così bella la
felicità?
Quando finalmente ci stacchiamo, il primo pesiero di entrambi
è voltarci verso i nostri figli, seduti al tavolo con i
nostri genitori. E basta un cenno di mia madre per farli correre
entrambi sul palco. Mi ritrovo a ridere di gioia, mentre prendo in
braccio Jenna e accarezzo la testa di Mark.
Siamo una famiglia. Non importa quante difficoltà dovremmo
affrontare, non importa quante volte ci ritroveremo a dover saltare
ostacoli troppo grandi.
Siamo uniti e ci amiamo e questa è l'unica cosa che conta
davvero.
Se qualche tempo fa ero convinta che non sarei mai riuscita ad essere
felice. Ora, invece, mi ritrovo con un marito meraviglioso, che amo con
tutta me stessa e con il quale ho due bellissimi bambini. Il mio
migliore amico è colui che mi è stato accanto nei
momenti difficili e il mio confessore è lo psicologo che mi
ha convinta di essere speciale. Ho anche due migliori amiche, una
recente e l'altra ritrovata, nella quale non speravo nemmeno
più. Ho un fratello che è come un padre per me,
una madre che darebbe la vita per vedermi felice e una famiglia
disposta a tutto, sempre.
Cos'altro potrei desiderare?
Mi appoggio alla staccionata che circonda il ristorante, fissando
assorta il sole che sta scendendo lento e calmo dietro l'orizzonte.
Sono uscita dalla sala qualche minuto fa, bisognosa di prendere un po'
d'aria dopo quell'esibizione.
All'improvviso, sento due braccia avvolgermi i fianchi e, sorridendo,
mi appoggio al suo petto.
"È bellissimo, vero?", sussurro, allungando una mano e
stringendo la sua.
Sento Adam respirare sui miei capelli "Fidati, oggi sei molto meglio
tu".
Sorrido di nuovo, girandomi tra le sue braccia e alzando il volto per
guardarlo negli occhi. "Sempre il solito adulatore", ridacchio.
Adam mi lascia un veloce bacio sulla fronte. "Sempre e comunque".
Appoggio la testa sul suo petto, sospirando. "E così ci
siamo arrivati anche noi", sussurro.
"Finalmente, oserei dire".
"Ce ne abbiamo messo di tempo".
"Forse troppo".
Scuoto la testa. "Forse è quello che ci serviva per
sistemare le cose".
"E le abbiamo sistemate?".
"Tu cosa credi?".
"Credo che la mia vita sia perfetta, in questo momento".
"Sei pronto a dovermi sopportare per sempre?", gli chiedo guardandolo
di nuovo negli occhi.
I suoi pozzi blu luccicano. "Per sempre", sussurra, abbassandosi per
baciarmi.
Rispondo al bacio, allacciando le braccia intorno al suo collo e
perdendomi nel suo profumo.
Il per sempre è molto lungo, lo so, ma so anche che con Adam
al mio fianco potrei affrontare qualunque cosa. Lo amo in una maniera
talmente totalizzante che a volte mi spaventa, ma mi riempie il cuore
ogni volta che sorride tanto da cancellare ogni dubbio o paura.
Siamo rinati, insieme.
Per un attimo mi balena in mente l'immagine di una fenice, potente e
maestosa, con le ali che bruciano dello stesso colore che ha il cielo
in questo momento. Il nostro amore è un po' come la fenice.
Brucia, a volte fa anche male, e può anche morire, ma
risorgerà eternamente tra le fiamme brillanti e
potenti del sentimento che ci unisce.
E potrà bruciare per tutto il tempo che vorrà
perché, se sono certa di una cosa, è che questo
tempo sarà eterno.
"Io ci sarò".
THE END
Ed eccoci, purtroppo, alla
fine di questa avventura.
Non potete capire l'emozione che sto provando nel pubblicare questo
ultimo capitolo. Questa storia è iniziata come un gioco, un
esperimento per cercare di capire cosa fossi capace di fare e, alla
fine, me ne sono talmente innamorata che non ho potuto fare a meno di
scriverne un seguito. E ora che anche questo seguito è
finito ho la certezza di essere cresciuta anch'io, non solo come
scrittrice, ma soprattutto come persona e questo lo devo solamente ad
Adam ed Amanda. Loro sono stati la mia prima creazione e li
ricorderò sempre con gioia e un po' di nostalgia.
Questo epilogo è la conclusione di tutto e, come tale, non
poteva non essere il matrimonio dei due protagonisti. Prima di questo
si colloca l'epilogo dell'altra storia, ovvero il matrimonio tra Liz e
Charlie, con il quale si chiudono definitivamente tutte le storie.
La canzone che canta Adam è, come avrete tutti capito, "Io
ci sarò" degli 883 (https://www.youtube.com/watch?v=QnAQCipg73I), canzone che sinceramente ho trovato
perfetta per il momento ma anche per la coppia in questione.
E, infine, i ringraziamenti. Un bacio enorme ad Ali_13, che mi segue
dall'altra storia e che non si perde un capitolo, lasciandomi sempre
delle recensioni fantastiche; un grazie grande grande anche a Minelli e
DarkViolet92 e, ovviamente, a tutti quelli che hanno letto la storia in
silenzio. È grazie a voi se mi sono appassionata
così tanto e, quindi, grazie grazie grazie!
Che altro dire? Ho un'altra storia in mente ma per ora ho steso solo il
prologo, ma spero di riuscire a buttare giù i primi capitoli
al più presto!
Spero di risentirvi tutti molto presto!
Bacibaci
mikchan
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