To Love You

di Artemisia89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Angel, Mezzanine ***
Capitolo 2: *** Neutralize ***
Capitolo 3: *** To love you ***



Capitolo 1
*** Angel, Mezzanine ***


Chiara

 

 

To Love You

[ You are my angel
Come from way above
To bring me love
]

 

 

 

 

“Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?”
 Romeo e Giulietta, William Shakespeare

 

“I ragazzi che s'amano non ci sono per nessuno, sono altrove, ben più lontano della notte.”
Jacques Prévert

 

 

 

~

 

 

 

<< Vedi, Clara? È quello laggiù. Il francese. Il barone francese. Il padre era un industriale, la madre una baronessa italiana. È da lei che ha ereditato il titolo, anche se si dice non l’abbia mai conosciuta. Vedi come conversa? È ricco, annoiato e…>>

Marguerite continuava a parlare con il suo solito tono frivolo, gallinaceo. A volte Clara si chiedeva se respirasse o meno: prese un flûte di champagne e si bagnò appena la lingua. La sala dell’Excelsior romano era satura di profumi, di suoni cristallini, di umori. Dovunque si voltasse, non vedeva che profonde scollature, acconciature massicciamente laccate, trucco pesante e squisite sfumature di ipocrisia.

<< Clara, mi stai ascoltando? >>

<< Certo Marguerite, si. >>

<< Guarda laggiù allora. >>

La sua amica puntò molto poco discretamente il dito verso uno smoking nero in fondo alla sala. Non riusciva a vedere molto, del suddetto smoking, ma quello che intravedeva le bastava.

Era circondato da almeno quattro donne, tutte splendide, tutte impreziosite dalla testa ai piedi di gioielli da migliaia di euro. Sinceramente, non aveva voglia di vedere oltre quella cortina; già solo quella era bastata a farla sentire profondamente inadeguata nel suo vestito fin troppo semplice per quell’ambiente. Guardò di sfuggita l’ora, scrollò il capo.

<< Marguerite? Io vado. >>

Si meritò – perché si, lo meritava – uno sguardo prima stupito, poi rabbioso, infine indifferente:

<< L’ho fatto per te, Clara. Ti ho trascinato fuori da quella gabbia, dovresti ringraziarmi. >>

Certo Marguerite, Certo.

Clara si chinò a baciarle la guancia, prese la borsa e si avviò verso l’uscita, leggermente traballante sui tacchi bassi. Ah, ovvio, l’uscita. Più facile a dirsi che a farsi. Soprattutto quando era assolutamente insensato chiedere informazioni ad un ospite presente in sala: Clara non parlava altra lingua che l’italiano e lì la lingua più usata era l’inglese o lo spagnolo.

Continuò a camminare per un corridoio, a scendere piani, poi ancora sale fioche, o troppo illuminate, e ancora piani e scale e sale. Cominciavano a farle male i piedi, e doveva ancora uscire. Figurarsi quando avrebbe dovuto arrivare alla fermata e prendere i due autobus che l’avrebbero riportata all’appartamento in cui viveva.

Si sedette su una poltrona, ai margini dell’ennesima sala: solo un attimo e mi riprendo, disse.

Solo un attimo…

Stava guardando lo smalto perlaceo sulle unghie dei piedi – Marguerite, aveva insistito così tanto a trascinarla a quella festa insulsa che non aveva potuto rifiutare. Se l’avesse fatto probabilmente la sua amica non le avrebbe rivolto la parola per decenni.  Ora pagava lo scotto. Piedi doloranti, umore a terra, fastidiosa sensazione di claustrofobia. Per l’appunto, stava cercando di valutare, piegandosi e chinandosi sulle proprie gambe, quanto tempo lo smalto avrebbe impiegato ad andare via da solo, quando vide davanti a sé un paio di scarpe nere, lucide, maschili.

<< Vous sentez-vous bien, Madamoseille? >>

Per un attimo Clara pensò con una risata che non avrebbe nemmeno dovuto assaggiare lo champagne. Lei non reggeva l’alcool: non le piaceva, le faceva venire il mal di testa. E ora anche le allucinazioni uditive. Le scarpe non parlano, Clara. Le scarpe non…

<<  Est-ce qu'elle me comprend, Madamoseille? >>

No, elle non comprendeva. Si limitò ad alzare lo sguardo sulla figura che, composta, dritta e aristocratica le stava davanti. Uno smoking nero. Clara rimase a guardarlo: la sua camicia candida, il suo papillon scurissimo. Una mano in tasca, l’altra tesa verso di lei.

La prese, così, spontaneamente. Si alzò, si trovò di fronte a lui.

Fu strano scoprire che lo smoking nero che le stava davanti aveva anche una testa, dei capelli mossi e un bel volto con strani occhi blu. Fu strano scoprire che aveva una bella voce roca, nonostante il francese. Lei amava poco il francese. A dirla tutta, detestava tutte le lingue all’infuori della sua.

<< No, non la capisco. – disse, poi, dopo qualche attimo in cui lui la scrutò – parla italiano? >>

<< Oui, ma certamente. La prego, non restiamo qui. Venga. >>

Prese Clara a braccetto e la costrinse a seguirlo giù, per le scale: si sentiva tremendamente goffa al suo fianco, oltre che, ovviamente, terribilmente inappropriata. Faceva una ben magra figura accanto a quell’uomo.  E poi, chi era? Chi poteva essere? Quanti anni aveva? 25, 26? Sempre e comunque molto più grande di lei. E poi, dove la stava portando? L’Hotel le apparve ad un tratto come un grande e orrendo labirinto. Le sembrava di essere in quel film di Kubrick: si aspettava di veder spuntare donne nude coperte da maschere da dietro le tende.

L’uomo a volte la guardava, ammiccava, distoglieva lo sguardo, sorrideva. Sempre accompagnandola dolcemente, ma in maniera risoluta, con il suo incedere – Clara si maledì per quei suoi pensieri banali, da scribacchina da quattro soldi, che usò quella sera – estremamente elegante. Appoggiava i piedi lui; non camminava. Ed emanava davvero un buon profumo: sentì quasi il desiderio di avvicinarsi per sentirlo meglio.

Non si accorse di essere arrivata nel locale attiguo all’uscita se non quando una ventata di aria fresca la fece rabbrividire: l’aveva accompagnata ad una grande portafinestra, credendo che si sentisse poco bene. Clara andò alla ricerca della propria giacca di filo, forse dimenticata da Marguerite, poi ricordò che lo smoking nero era ancora lì.

<< Si sente meglio? >>

<< Ah…si. Si, grazie. Avevo solo bisogno di trovare l’uscita. >>

<< Come si chiama? >>

Clara si morse le labbra, prima di rispondere. Da quanto non parlava ad un uomo? Ad un ragazzo, a prescindere. Coraggio, pensò. È come con la bicicletta: una volta che impari non dimentichi.

<< Clara…mi chiamo Clara. E lei – lei - ? >>

Sorrise di nuovo: aveva appoggiato la mano al muro, accanto a lei. Era molto, molto vicino.

<< François, per servirla, Mlle. >>

<< Fransuà? >> biascicò Clara balbettando. L’uomo sorrise di nuovo.

<< Qualcosa del genere.>>

Cominciò a torturare il braccialetto in filigrana che aveva al polso, sbirciando di quando in quando l’ora. Sentiva che ad ogni pausa, ad ogni silenzio, il cuore le batteva furiosamente. A volte si zittiva, altre invece le martellava il petto. Se non sarebbe morta per un infarto, lo avrebbe fatto per la vergogna: era sicura che lui avesse sentito quel battere incessante.

<< Sembri molto giovane, quanti anni hai? Oh, posso darti del tu? >>

Clara non annuì, ma si bagnò di nuovo le labbra. La gente rideva, nella sala. Vide una donna dal lungo abito lillà, fissare prima lo smoking nero, e poi lei. Non c’era nessun sentimento positivo nei suoi occhi.

<< Venti a giugno. E lei? >>

Rien vous, concluse François. L’essere rifiutato, quasi lo eccitava.

<< Troppo vieux per lei, Mlle. Sta andando via? Ha una macchina? >>

Clara pensò di mostrargli l’abbonamento annuale ai mezzi pubblici, poi la giudicò una pessima idea. Taxi? No, meglio evitare una possibile, pessima figura che la vedeva farfugliare parole senza senso tipo “ho dimenticato il portafoglio a casa”.

<< No, contavo di tornare a casa a piedi. >>

La guardò quasi scandalizzato poi, ancora, scoppiò in una sonora risata che fece voltare non poche teste femminili.

<< Lei mi piace. Venga, venga. La voiture, prie. >> Fece all’uomo alla reception. Un sorriso, un colpo di telefono e già la si vedeva arrivare lungo la strada.

<< Forse non dovrei…approfittare della sua gentilezza. >>

<< La prego…le va di considerarsi mia ospite, questa sera? >>

Gli occhi grigi la guardarono con una tale intensità che Clara si sentì quasi in colpa a pensare ciò che pensava.

<< …no. >>

<< come prego? >>

Sembrava divertito, terribilmente divertito.

<< Non credo sia una buona idea, signor François. Ho lezione domani. >>

<< Lasci che le offra qualcosa. La riaccompagnerò a casa personalmente. Mi sentirei più sicuro, sa. Non è mia habitude lasciar andare da sola una ragazza di venti’anni. Non di notte. Quindi la prego, Mlle Clara, si lasci convincere dalla ragionevolezza della mia proposta. >>

Clara guardò ancora l’orario, poi la notte dietro di la sua schiena, la macchina nera, cromata, elegante, e ancora lui.

Infine prese la mano che gli tendeva, per la seconda volta.

 

Aveva un bel modo di guidare: fluido, aristocratico, elegante – ancora una volta, si -. Quasi…affascinante? Certo, la decappottabile sportiva faceva la sua figura e scivolava leggera e veloce nella notte romana. Era tutta tirata a lucido: Clara avrebbe potuto specchiarsi, se solo l’avesse voluto, ma quello che aveva intravisto nello specchietto le era bastato.

Pallore cadaverico, occhiaie da troppo studio davvero malcelate dal correttore, e quel vestito che – le piaceva, davvero, ma la faceva sembrare troppo…semplice. Inadeguata, ancora una volta, come sempre.

Era troppo acqua e sapone per quel mondo, no? Marguerite glielo ripeteva sempre.

<< Madamoseilles? Dove posso ardire di portarla?>>

Sorridevano le labbra, e gli occhi grigi.

Clara si scoprì felice, anche solo per quello.

Ardire, ardire. Ardi, Clara.

<< Dove finisce la notte, signore. >>

Lo smoking nero rise di nuovo.

 

 

 

Clara si risvegliò tra le lenzuola del suo appartamento: nessuna sarebbe stata, molto probabilmente, più calma di lei. Si rigirò nel cotone bianchissimo, cercando l’altro cuscino che doveva essere scivolato a terra. Era sola in casa, e andava tutto bene. Si mise a sedere sul letto, guardando la luce filtrare dai vetri della finestra.  Era tutto in ordine: i libri, i quaderni, le penne. Tutto in ordine, tranne che le scarpe buttate ad un angolo della camera e il vestito, che giaceva mal piegato sulla sedia accanto al letto.

Solo tracce della serata precedente, che con metodo, Clara avrebbe fatto sparire.

Era stata felice ieri, ma ora andava tutto bene.

 

***

 

Dovuti credits.

La prima battuta viene dritta dritta da Ocean's 12, da cui ho tratto davvero grande, grande ispirazione. Chi vuol capire capisca. Inoltre, i sottotitoli tra le quadre fanno parte del testo della splendida canzone die Massive Attack, Angel.

E questa storia, questo parto è tutto dedicato ad una delle mie più care amiche, alla mia inseparabile (ed inarrestabile, ed insuperabile, ed inafferabile come Lup...ok, basta) papera, Helen Lance, Elena, che oggi compie gli anni. Scritta in tre, splendide ore dopo 7 di studio. Una storia che forse, per tua sventura, continuerò.

 

Tantissimi auguri, Elena.

Buon Compleanno!

 

Chiara

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Neutralize ***


Chiara

 

[ Her eyes

She’s on the dark side

Neutralize

Every man in sight]

 

 

 

Immagina.

Lui, siede in un bar e beve un caffè. Ebbene, immagina. La sua maglia chiara e dorata come l’alba sulla sabbia, i suoi ricci spinti malamente indietro, i sandali ai piedi come un pellegrino. Immagina le sue labbra sulla tazza bianca, quella singola goccia di caffè che scivola giù dal bordo, e macchia il candore del piattino.

L’uomo guarda prima il barista – gilet nero, camicia bianca, niente di nuovo – e poi l’orologio sopra di lui. Sono le sei di pomeriggio, e lui beve un caffè in un piccolo bar di via Cesalpino, appena a lato del dipartimento di Studi linguistici e letterari.

Immagina, lui la sta aspettando, e si chiede se aspetterà ancora per qualche ora.

Si guarda intorno: non beve un caffè in un bar normale da anni, probabilmente. Da quando si era laureato, e dopo il ristorante aveva vagato con Louis per le vie di Parigi tutta la notte. Alle cinque sembravano due cadaveri, e le rispettive famiglie avevano dovuto sborsare considerevoli somme per evitare che quelle foto apparissero nelle ultime pagine di Le Figaro. E non tanto per la sbronza, quanto esattamente per le pagine: suo padre diceva che sui giornali o si ha le prime pagine o è assolutamente inutile esserci.

E il babbo stava sempre in prima.

<< Macchiato, signore? >>

Non si accorse di aver ordinato un altro caffè, come non si accorse dell’ora e mezza che era trascorsa. Era venuto a Roma per una certa questione – una seccatura – ora invece si riscoprì avere un obiettivo. Rise al fluttuare di quella parola nella sua testa. Obiettivo. Si, esattamente. Doveva trovarla, doveva convincerla a venire con lui…

<< Si. Veloce per favore. >>

Poi avrebbe deciso cosa fare: l’importante era rivederla.

 

Quando la sera prima, dopo il breve aperitivo che avevano bevuto insieme lei lo aveva pregato di riportarla a casa, quasi non ci credette. Incroyable. Non era mai stato rifiutato da una donna, nemmeno da quelle più belle. Ogni serata aveva un chiaro evolversi: si iniziava con le presentazioni e si finiva a letto. Poi la mattina dopo non era importante, ma la notte – la notte – veniva innalzata a metafora di una vita intera.

Tout devrait faire le sexe, concluse. Ci sarebbero meno guerre.

Bevve con un sorso il secondo caffè, prese la giacca e mentre pagava gettava uno sguardo fuori, al cancello del Dipartimento, dove alcune ragazze si erano riunite per chiacchierare. Libri stretti sul seno, gli zaini sulle spalle, gli occhiali da sole ben calati sul naso.

Lei non c’era, ma poi, ad un tratto, la vide.

Scendeva le scale di marmo con una risolutezza che François ammirò grandemente: i sandali bassi ai piedi, una semplice gonna di jeans e una sobria maglietta bianca. Bella comme une fleur, sussurrò prima di andarle incontro.

Clara aveva già raggiunto l’angolo della strada, maledicendosi per la sua sbadataggine: aveva perso la patente. Non che guidasse, sia chiaro. A Roma era impossibile farlo, per una come lei. Lei aveva bisogno di strade a due corsie, rettilinee e magari in mezzo al nulla. Ripeteva già mentalmente la trafila che avrebbe dovuto fare per denunciarne la scomparsa quando si sentì trattenere dal braccio.

<< Bonjour, Mlle.>>

Clara strabuzzò gli occhi, guardò a terra, di lato e poi ancora l’orologio. Poi riguardò l’uomo. Lo smoking nero. Toccò il braccio che tratteneva il suo.

<< Ma allora lei non è stato un sogno, signore. >>

François rise, scuotendo la testa. Le porse il braccio, la ragazza lo guardò titubante, poi accettò, cercando di farglielo abbassare il più possibile. Cominciarono a camminare, mentre lei si voltava continuamente indietro, sbirciando le sue colleghe d’università.

Fortunatamente, sembravano non essersi accorte di nulla: tirò un sospiro di sollievo.

<< La imbarazza farsi vedere in giro con me? >>

<< Mi imbarazza farmi rivedere da lei. Ieri sono stata molto…sfrontata, signore. >>

Rise. Lei sfrontata. Lui voleva portarla a letto, e lei era la sfrontata. Ma no, forse questo era meglio non dirglielo.

<< No, affatto, Mlle. È stato un piacere conversare con lei, anche se le sue parole sono state poche e … più adatte ad un dialogo da romanzo, che ad un incontro tra due persone che si sono appena conosciute. Ma possiamo riparare..se le va. >>

Clara lo guardò curiosa, e anche un po’ spaventata.

<< Cosa intende dire? >>

Ah, délicieux.

<< Ieri sera nella mia macchina – ricorda quando le è caduta la borsetta? Ho trovato alcune cose che, evidentemente, non ha raccolto. Ora non so se lei lo ha fatto di proposito (il che mi lusingherebbe, sia chiaro) ma sappia che in questo momento sono tutte nel mio appartamento, qui a Roma. >>

Clara pensò un attimo, poi collegò.

<< …la patente! >>

<< Oui, exactement. Deve venire a recuperarla. >>

Clara ci pensò un attimo. Andare da lui significava non tornare a casa, non sistemare l’abito azzurro ancora gettato sulla sedia. Andare da lui significava disordinare ulteriormente la sua vita. Entropia.

Lo smoking nero – ancora più bello senza smoking nero – aspettava la sua risposta che arrivò, con un lungo sospiro.

<< …andiamo.>>

Questa volta lui rise ancora di più, e non solo di soddisfazione.

 

L’appartamento – un super attico di via Veneto, ovviamente -  era, in una sola parola, bianco. Bianche le poltrone, bianche i muri, bianchi i pochi soprammobili. Bianchi anche i fiori dell’unica, grande pianta che troneggiava nel centro della grande sala che fungeva da ingresso. Tutto bianco, pensò Clara, come in paradiso. Ma lo smoking nero le sembrò quanto di più lontano ci potesse essere da un angelo dai boccoli d’oro, alucce e tutto il resto. Quando avevano salito le scale, lui le aveva ceduto volentieri il passo con un gesto fluido della mano: Clara si era sentita bloccata. Dare le spalle ad un demonio. No, non era cosa da poco. Spalle, fondoschiena. Affatto. Sentiva lo sguardo di lui scivolarle addosso, impigliarsi e infiltrarsi in ogni piega della gonna come un liquido vischioso. Sarebbe stato così difficile lavarsi via quella sensazione, che probabilmente tutto quello le sarebbe servito da monito.

Non si fa Clara, non si fa.

<< Mlle? >>

Clara si volse con un sorriso di cortesia stampato sul volto. Una brezza leggerissima entrava dalle grandi portefinestre aperte. C’era qualcosa del locale che le piaceva tantissimo, che quasi invidiava. Non si trattava  solo dell’importanza dell’ubicazione, e nemmeno dell’ampiezza. Era qualcos’altro di così semplice che le sfuggiva.

<< Si? >> Un quadro. Aveva visto un abbozzo di colore sul muro bianco della saga successiva. Un impulso fortissimo e infantile di correre e andare a scoprire cosa venne represso solo a fatica. 

<< Mi segua, venga. Ho lasciato la sua patente nel mio studio. >>

Con euforia se possibile ancora più infantile, vide che  François la stava portando esattamente dove il cuore di lei desiderava andare. Clara avrebbe riflettuto sulla portata catastrofica di quel pomeriggio solo a distanza di anni, quando avrebbe appreso della scomparsa improvvisa di lui e ancor prima, semplicemente, appena uscita dall’appartamento. L’appartamento. Dove aveva letto di quella magica, squallida, cadente garçoniere? La Duras, giusto. L’amante. Quelle tende bianche a fluttuare nella sala, sfiorandola come garze sottili, come veli. Come vele.

L’uomo si mosse veloce, aggirando la scrivania e prendendo la patente da un cassetto . Con un sorriso la cercò, la guardò e la porse alla sua legittima proprietaria. Ma la ragazza stava a bocca aperta, persa in quei colori tenui eppure così violenti , che spiccavano nel quadro alle spalle dello studio.

Il quadro era semplice. Semplicissimo. Banale, mediocre quasi.

La prospettiva partiva da un balconcino in ferro battuto, allargandosi via via, aumentando di profondità. Il balcone, circondato di buganvillea rampicante dava direttamente e senza molti indugi sul mare. Un blu spaventoso che quasi l’atterrì. Nessuna barca in lontananza, nemmeno l’ombra di una vela.

<< è il mare? >>

<< No, Mlle. Est l’océan.

<< L’oceano?! >>

<< Si. – sorrise con gusto – quella è casa mia. >>

<< Ma anche questa è casa vostra. >>

Questa casa è la barca che manca al quadro, sembrò dire lui.  

 

Le ore passarono. Potremmo dire che passarono nel vuoto, che passarono contraddittoriamente veloci, ma noi diremo invece che passarono nella calma di quel bianco irreale. Fu come un’ipnosi. Clara si ritrovò persa già prima ancora di accettare l’inizio di una conversazione “sempre nel massimo del decoro”. Persino Jane Austen avrebbe approvato.  Lui parlava con una calma e una grazia che, da linguista, apprezzò a dismisura. Era un uomo a cui piaceva la parola, quindi parlava. Lei, delle parole, era innamorata. E quindi ascoltava.

Rimasero seduti sul divanetto – bianco – dello studio, a volte ridendo, a volte assorti. Lui le parlò della sua isola, D’Ouessant, e della famiglia, degli studi. Lei ascoltò voracemente, quasi invidiosa di quell’isola, di quel balconcino sull’oceano. Quando lui le chiese di soddisfare la sua curiosità – dimmi qualcosa di te. – erano già passati al tu, senza nemmeno accorgersene. Il Tu, galeotto fu il pronome.

<< Ho una vita noiosa. >>

<< Ce l’hai. Molti ti invidierebbero. >>

<< Non saprei. Forse. >>

Attesero.

<< Sono nata qui, ma ho trascorso la mia infanzia altrove. >>

<< Altrove? >>

<< Altrove, si. In campagna. Una periferia triste e immutabile. L’altalena sempre cigolante, la parrocchia di domenica, gli anniversari, le processioni. Cose così. >>

<< Sembra…pittoresco. >>

Lei lo guardò,  ridendo.

<< No che non lo è. >>

<< E non c’era un campo sterminato dietro casa tua?  >>

<< Si, c’era. >>

Si avvicinò. Le loro ginocchia si toccavano. La pelle nuda di lei, e fuori cominciava ad imbrunire. Che ore erano? Dov’erano? Tutto il disordine, l’entropia del mondo cresceva dentro di lei. Quella bestia, nello stomaco, che si dibatteva nelle acque sempre calme del suo spirito. Le processioni, le domeniche, gli anniversari..

E si avvicinava, lui, si avvicinava. A lei.

<< E tu correvi nell’erba alta, nella notte? E ridevi? E cadevi esausta in mezzo al campo?

La sua mano saliva. Dalla gonna su, misteriosamente, alla guancia. Si, cadeva. Cadeva stordita in mezzo al prato della sua infanzia. Ci stava ricadendo, adesso. Si sentiva sprofondare, nel divano da lui, prima che dal suo corpo, e quella mano che le accarezzava i capelli, che disegnava un sentiero tra il suo orecchio e la clavicola. Sussurrava. La sua gamba tra le sue gambe. Lo ebbe addosso, la sfiorava appena. Era terribile. Così terribilmente bello che Clara credette di morirne. Sussurrava.

 

E c’erano, le lucciole in quel campo? E hai mai provato a catturarne una? Ed eri sola? Sempre sola, sempre sola in quell’attimo solo per te. Solo per te. Le lucciole, e i profumi, e l’erba alta. C’era la vita, vero? Riprenditela, riprendi questa vita, che è solo per te Clara, è solo per te.

 

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Capitolo 3
*** To love you ***


Chiara

 

[ To love you

love you

love you

  love you.]

 

 

 

Tre di notte. A Clara sembrò di aver vissuto tremila notti, tutte quante in quelle poche ore.  Con il solito ma finalmente non represso impulso infantile decise di stringersi il lenzuolo bianchissimo addosso, come avrebbero fatto le eroine moderne dei suoi romanzi. Fiere della loro perdizione, del loro urlo di libertà. Ma non c’erano state urla di alcun genere quella notte.

Clara lo guardò, addormentato, nella luce che, tenue, entrava dalle finestre. Aveva lasciato tutto aperto. Nessuno di loro temeva il freddo, non quello fisico almeno. Non aveva mai visto un uomo nudo prima di allora, non nella realtà almeno. E ora davanti aveva il corpo perfetto di un amatore. Perché François era semplicemente questo, un amatore. Lui amava, nient’altro.

La luce sfiorava solo qualche ricciolo, poi abbandonava il volto e inondava il petto, il ventre, giù fino all’incavo prima delle gambe.  Clara aveva amato quel corpo. Si chiese se davvero, si poteva amare solo il corpo di un uomo senza apparire blasfemi.

Ma era vero, pensò, scivolando giù dal grande letto, insieme al lenzuolo. Aveva amato quel corpo. Lei amava il corpo di François, e lo avrebbe amato sempre. Lo aveva deciso.

Percorrendo la camera da letto, giunse alla sala attigua. Non si stupì di vedere che il balcone di ferro battuto era piccolo come quello del quadro: aprì la portafinestra e si affacciò.

Roma le venne incontro con un gran sciabordio di vita, troppo simile a quello del mare. No, c’est l’océane, Mlle. Giusto, c’est l’océane. Ma non era buio. Clara lasciò che un sorriso enorme, inusuale, e anche un po’ ebete – infantile, la parola giusta era infantile – le si distendesse sul viso. 

Quella distesa nera, compatta, immensa come l’oceano le apparve quella notte popolata – finalmente – da centinaia, migliaia di barche.

 

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