From limits far remote, where thou dost stay.

di Delilah Phoinix Blair
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** It's nothing but some feelings. ***
Capitolo 3: *** Your values are all shot. ***
Capitolo 4: *** Così percossa, attonita la terra al nunzio sta. ***
Capitolo 5: *** Mi amor cayò en tus brazos, tu amor temblò en los mios. ***
Capitolo 6: *** Take me where time does not exist. ***
Capitolo 7: *** Younger now than we were before. ***
Capitolo 8: *** Sweet love, so pure. ***
Capitolo 9: *** Just hold a smile. ***
Capitolo 10: *** Times square can't shine as bright as you. ***
Capitolo 11: *** And makes one little roome, an every where. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


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Prologo


Se pensier fosse la mia carne stanca
l'empia distanza non m'arresterebbe,
saprei arrivare, gli spazi annientando,
dai limiti del mondo fino a te.

 

Invano allor calpesterei le lande
più remote dal luogo che ti serra:
mari e terre il pensier rapido varca
e, dov'esser vorrebbe, e pensa ed è.

 

Pensar m'uccide che pensier non sono
per balzarti in un lampo, se mi manchi;
ma d'acqua e terra son fatto, e con doglia

 

deva aspettare quel che al tempo piace:
e sì tardi elementi non mi danno
che il pegno loro, lacrime pesanti.

 

William Shakespeare

 

12 Febbraio 2014

 

La Repubblica Bolivariana del Venezuela è una democrazia federale fondata sull'uguaglianza.
Così dicono.
In realtà è una dittatura comunista che si basa sul petrolio, che galleggia sul petrolio, che si nutre del petrolio quasi fosse la sua linfa vitale affinchè il governo possa continuare indisturbato a fare ciò che preferisce mentre la popolazione muore di fame sotto gli occhi di organizzazione sovranazionali quali l'ONU, comprando la loro noncuranza con il petrolio.
Chavez è morto di cancro a Marzo dell'anno scorso. Le elezioni del suo successore si sono svolte a Dicembre e Maduro inspiegabilmente ha vinto.
Il popolo venezuelano ancora una volta si è lasciato demagogicamente incantare da un uomo che ha promesso tutto e poi lo ha abbandonato.
La situazione economica è insostenibile: il governo raziona i beni di prima necessità. Latte, caffè, zucchero, olio e sapone sono reperibili solo di contrabbando. Il Bolivar (la moneta ufficiale) non vale assolutamente nulla al cambio.
Oggi gli studenti scendono in piazza per ottenere risonanza nel mondo: c'è bisogno di fare qualcosa, il paese sta morendo.
Il pianeta risponde con il silenzio.
Maduro invece si fa sentire di più: annulla i diritti costituzionali.
E' guerra civile.
Le persone muoiono per strada ammazzate di botte o semplicemente con un colpo di pistola, la nazione è ferma, viene imposto il coprifuoco.
Maduro chiede al suo amico Raul Castro di prestargli l'esercito visto che la polizia statale non basta a tenere a bada gli studenti. Lui acconsente di buon grado.
E' necessaria una svolta.
E' necessario che gli Stati Uniti prendano in mano la situazione, Venezuela ormai non è più in grado di salvarsi da sola.
E loro lo faranno, come fanno sempre, arrivano all'ultimo momento e cambiano le regole del gioco, non sempre come tutti si sarebbero aspettati.
L'Italia però non ha mai saputo giocare.

 

***

 

Nicolàs guardava fuori dalla finestra, con quello che Cilia chiamava "sorrisetto da bastardo" a deformargli il viso, nonostante la bocca fosse nascosta dai suoi baffi pesanti.

Sentì la sua segretaria bussare lievemente alla pesante porta in legno massiccio del suo studio e aprirla successivamente senza alcuna esitazione.

«Señor, han empezado a forzar las puertas. La manifestacciòn se ha puesto demasiado violenta.»[Signore, hanno iniziato a forzare le porte. La manifestazione è diventata troppo violenta.] Il tono della sua voce malcelava un certo timore. La folla fa paura a tutti, ma non a lui, non ai grandi.

«Tenemos que irnos o no va a lograr regresar a casa hoy,» [Dobbiamo andarcene o non riuscirà a tornare a casa oggi] continuò in un crescendo di sollecitazione, vedendo che l'uomo davanti a lei non accennava a muoversi.

«Raquèl, llama a James. Dile que ya todo està listo.» [Raquèl, chiama James. Digli che ormai è tutto pronto.] Disse invece Nicolàs, come se non avesse sentito una parola di ciò che la giovane donna gli stava cercando di dire. I suoi occhi rimanevano fissi sulla folla che si agitava come un'unica massa informe contro le pareti del Palacio de Miraflores. «Si, Venezuela està lista para esto.» [Si, il Venezuela è pronto per questo.]

Ormai Raquèl lo fissava con le labbra rosse dischiuse, come se fosse diventato pazzo. «Señor, a lo mejor usted no ha visto lo que està pasando, pero-» [Signore, forse lei non ha visto quello che sta succedendo, ma-] cercò di farlo ragionare, ottenendo solo di essere bruscamente interrotta.

«Que coño piensas que es lo que estoy mirando desde esta mañana?» [Che cazzo pensi che sia quello che sto guardando da questa mattina?] sbraitò infatti Nicolàs, voltandosi finalmente a guardarla, prima di riprendere con maggiore veemenza. «Si quieres irte, pues, vete! Y no regreses mañana porque no te necesitamos.» [Se vuoi andartene, bene, vattene! E non tornare domani perchè non abbiamo bisogno di te.] Una volta pronunciate queste parole, tornò a voltarsi verso la finestra e la liquidò con un rapido «Mientras te vas, mandame Ana Lucìa.»

Quelle parole e quel tono inumidirono immediatamente gli occhi di Raquèl. Rendersi conto di essere così facilmente sostituibile le fece molto male, lei che per mesi aveva seguito Nicolàs nei suoi progetti e lo aveva sempre aiutato, mettendosi a disposizione notte e giorno. C'era una sola cosa che le restava da fare e lo sapeva perfettamente.

«Que es lo que tengo que decirle a James?» [Cos'è che devo dire a James?] chiese, cercando di dare forza ad una voce che avrebbe solo voluto irrompere in un pianto di stanchezza ed esasperazione. Sì, perchè aveva contribuito a ciò che vedeva per strada, anche se solo come segretaria. E quel peso, che presto sarebbe diventato familiare e l'avrebbe accompagnata per tutta la vita, iniziò lentamente e subdolamente (proprio come avevano agito loro) a gravarle sulle spalle.

Ovviamente non vide, nè poteva immaginare, il "sorrisetto da bastardo" comparso sulle labbra di Maduro, mentre il suo popolo si affannava così strenuamente a fare i suoi interessi.

 

***

 

James era alla sua scrivania quando Stephenie fece il suo ingresso su quei tacchi alti che erano sicuramente uno dei lati migliori del suo nuovo incarico.

«They called from Caracas,» [Hanno chiamato da Caracas] esordì la ragazza, avvicinandosi a grandi falcate sinuose.

«Mmm...» mugugnò lui, osservandola da capo a piedi mentre si appoggiava con entrambe le mani al tavolo. «What did they want?» [Che volevano?] Chiese oziosamente.

Tutto quel temporeggiare lo irritava, ma non di un irritazione rabbiosa, quanto piuttosto annoiata.

«We can proceed,» [Possiamo procedere] rispose lei con un'alzata di spalle. «It's all set.» [E' tutto pronto.]

James si raddrizzò immediatamente sulla poltrona. «Are we sure?» [Siamo sicuri?] Un sorriso iniziava a farsi largo sul suo volto, di riflesso a quello di Stephenie.

«So it seems.» [Così sembra.]

James non potè fare a meno di alzarsi in piedi e iniziare a misurare la stanza a lunghi passi, tra i risolini della ragazza che lo fissava.

«Call Andrea for me.» [Chiamami Andrea.] Si interruppe all'improvviso, guardandola negli occhi. «We have a lot of things to arrange.» [Abbiamo molte cose da sistemare.]

 

***

 

Afrodite era bella.
Può sembrare scontato, insomma è la dea dell'amore e della bellezza, eppure è importante dirlo perchè la storia che mi accingo a raccontarvi non parla della dea Afrodite, ma solo di Afrodite, una ragazza pescarese di diciotto anni che frequentava il quarto anno del liceo classico Gabriele D'Annunzio e doveva il suo nome insolito alla passione per la letteratura greca e latina del padre, insegnante di queste discipline nello stesso liceo della figlia.
Ed era bella.
Di quella bellezza fresca ed intoccabile che ti fa sorridere dolcemente solo a guardarla.
Non era un cuore avvezzo al dolore.
Non era un cuore avvezzo all'amore.
La vita la coprì dell'uno e dell'altro.
Quel giorno, il 12 febbraio 2014, non fu affatto particolare per lei, mentre dall'altra parte del mondo la morte preparava il suo banchetto.
Lei invece era andata a scuola, dove la sua migliore amica, Silvia, le aveva raccontato di come avesse incontrato Tal dei Tali il pomeriggio precedente. All'uscita Paolo era passato a prenderla in macchina, premuroso come sempre, per riaccompagnarla a casa, dove si era fermato a pranzo su invito di Silvana ma sotto lo sguardo indagatore di Ferdinando e divertito di Marco.
Una giornata come molte altre in quella parte del globo.
No, per lei l'inferno iniziò solo successivamente.
Ma le portò via la vita.
Donandole Ryan.




 

 
NDA
Dunque, questa sarà una storia strana: narra l'ipotesi di una terza guerra mondiale di cui vedremo gli sviluppi nei prossimi capitoli. Di volta in volta vi scriverò nelle note finali cosa di ciò che scrivo che riguarda lo sfondo sociale della guerra è vero e cosa invece è inventato. Per intenderci qui l'unica invenzione è quella che riguarda gli Stati Uniti, che per il momento non hanno nessunissima intenzione di intervenire per fermare ciò che sta succedendo in Venezuela.
Per quanto riguarda i personaggi, qui sono come vedete solo citati, la storia vera e propria inizia nel primo capitolo.
Spero di leggere i vostri pareri per sapere se la storia vi intriga!
A presto!

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Capitolo 2
*** It's nothing but some feelings. ***


Grazie ad aithusa87, delusjone che hanno inserito la storia tra le seguite.
Grazie a Lott che ha inserito la storia tra le preferite.
Grazie ad AbigayleWood, Lott, delusjone che hanno recensito.
A proposito, alcune ragazze mi hanno chiesto di avvisarle privatamente ad ogni aggiornamento ed ho già scritto, rispondendo alle recensioni, che sono dispostissima a farlo, quindi basta chiedere, non siate timidi! :D





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It's nothing but some feelings.

 
 
6 Aprile 2014
 
 
Il sole bagnava con i suoi caldi raggi l'aria stranamente secca di quella mattina, districandosi a fatica dalle acque del mare per riuscire ad illuminare Pescara anche quel giorno.
Afrodite si perse quello spettacolo, ancora immersa nella calma del sonno, con i capelli biondi e liscissimi sparpagliati sul cuscino tra le lenzuola candide.
Quando si alzò dal letto il cielo aveva ormai raggiunto la stessa tonalità di celeste dei suoi occhi: era domenica e poteva permettersi di rimanere a poltrire fino a tardi.
Quel giorno si avviò in sala per la colazione quando erano ormai le 11.30 di mattina, costretta a quell'atto eroico dalla mole di studio che si ritrovava a dover affrontare.
Poi nel pomeriggio doveva vedersi con Paolo.
Si lasciò cadere di peso sulla sedia in cucina, iniziando a sbocconcellare un biscotto per trovare la forza di alzarsi e preparare il caffè.
《Buongiorno principessa!》 la salutò suo padre, accarezzandole teneramente il capo con una mano mentre le passava accanto diretto allo studio.
Si decise finalmente a dirigersi verso i fornelli, masticando una risposta.
《Che programmi hai per oggi?》 le chiese invece sua madre, sedendosi al tavolo per farle compagnia mentre mangiava, nonostante avesse fatto colazione ore prima probabilmente.
Afrodite si voltò verso di lei mentre aspettava che il caffè salisse, appoggiandosi al ripiano della cucina. 《Devo studiare per il compito di dopodomani su Virgilio. Oggi pomeriggio invece pensavo di vedermi con Paolo.》
Sua madre annuì sorridendo: adorava Paolo.
《Dov'è Marco?》 chiese Afrodite, scansandosi i capelli dal viso e guardandosi intorno come se si rendesse conto solo allora che la casa era più tranquilla del solito.
《E' andato a correre》 rispose sua madre, con espressione seria.
《Ovviamente》 commentò l'altra impassibile.
Poco dopo entrambe scoppiarono a ridere.
Era sempre stato divertente per loro vedere come Marco fosse ossessionato dal suo aspetto fisico.
Afrodite adorava la sua famiglia. Era una delle poche adolescenti della sua generazione a non avere problemi con i propri genitori.
Sua madre Silvana gestiva un fioraio vicino al conservatorio della città. Grazie alla sua passione la loro casa era sempre impregnata di un odore delicato ma caratteristico, dolcissimo. Era una donna leggermente pienotta, dalla quale Afrodite e suo fratello avevano ereditato i capelli biondi e lisci, ormai irriconoscibili nella madre a causa dell'età e quindi della tinta più scura.
Suo padre Ferdinando insegnava letteratura latina e greca nello stesso liceo che lei frequentava e ne era molto appassionato, tant'è che aveva dato alla figlia il nome della dea greca dell'amore e della bellezza, quasi a volerle augurare di trovare un giorno quell'amore divino che ti impedisce e ti permette di respirare, ed al suo primogenito quello dell'oratore migliore della storia di Roma, Marco Tullio Cicerone, come portafortuna per una carriera brillante.
Quest'ultimo, come se si fosse sentito chiamato in causa, entrò proprio in quel momento in cucina afferrando una bottiglia d'acqua piena per metà e scolandola tutta d'un fiato, per poi tergersi il sudore dalla fronte contro il pigiama di sua sorella, che nel frattempo si era voltata per versare il caffè.
《Buongiorno sorellina!》 la salutò poi, gettando la bottiglia ormai vuota nel cestino ed apprestandosi a monopolizzare il bagno.
《Marco che schifo!》 gli urlò dietro Afrodite pronta per il contrattacco, ma ormai suo fratello si era messo in salvo.
Lui e Paolo frequentavano la stessa classe, la 5 F, del liceo scientifico Galileo Galilei ed erano migliori amici, ma non esistevano sulla faccia della terra due persone più diverse tra loro.
Rassegnata a dover trovare un altro momento per la sua vendetta, Afrodite si avviò, caffè alla mano, in camera sua per iniziare a studiare.
La sua scrivania era situata sotto la finestra dato che adorava la vista di cui si poteva godere da lì: il mare.
Il condominio in cui alloggiava con la sua famiglia distava dal mare solo lo spazio di una strada. Affacciandosi un po' era in grado di sentire l'odore della salsedine trasportato dal vento che le sferzava il viso. La vista del placido Adriatico riusciva ad infonderle una calma ed una tranquillità che non riconosceva in nient'altro. Il lento andirivieni delle onde sul bagnasciuga avevano un ché di ipnotico e rassicurante.
Le piaceva rimanere seduta a quella scrivania ed immaginare le situazioni più disparate lasciandosi cullare dal suono della risacca.
Le risultava romantica anche l'idea di leggere l'Eneide, la storia di un viaggio per mare alla ricerca di un luogo da poter chiamare casa, sotto lo sguardo attento delle onde, quindi si mise al lavoro.
Prima ancora che la sua mente fosse in grado di entrare nell'ottica giusta, però, il suo cuore stava già divagando verso porti più dolci, dove le fumose sagome dei ricordi la attendevano sorridenti a braccia aperte.
Ricordava ancora perfettamente la prima volta che aveva visto Paolo: aveva dieci anni e suo fratello aveva portato a casa un amico conosciuto il primo giorno di scuola delle medie, si erano adorati fin da subito, in quella maniera litigiosa e fredda ma allo stesso tempo cameratesca che hanno i ragazzi. Paolo era entrato in casa loro con quel sorriso timido che conservava anche una volta diventato ormai maggiorenne e che le faceva sempre battere il cuore.
A quell'epoca ogni volta che Paolo andava a far visita a Marco, loro tre si ritrovavano insieme a guardare film o giocare in spiaggia tra le giostre di quei pochi stabilimenti che non le mettevano via per l'inverno. D'estate poi diventavano inseparabili: tutto il giorno in acqua a fare la lotta di sabbia oppure a giocare a racchettoni o "schiaccia sette".
Le cose erano cambiate quando Paolo e Marco avevano iniziato a frequentare il liceo, un anno prima di lei. Lì avevano trovato nuovi amici e la sorellina piccola era diventata un peso, così l'avevano scaricata. Aveva pianto tanto, la vedeva come una tragedia quando in realtà era perfettamente normale. Anche lei, una volta entrata al liceo, aveva fatto amicizia. Silvia era stata la sua prima compagna di banco tra quelle mura che l'avrebbero accolta o soffocata per i cinque anni successivi. Era stata la sua unica alleata in un mare di indifferenza, ipocrisia, falsità e superficialità intrecciate insieme a formare una trappola indistricabile dalla quale si erano tenute lontane l'un l'altra.
E Afrodite si era resa conto che la sua generazione, salvo rare eccezioni, valeva ben poco.
L'ultimo giorno di scuola del suo terzo anno all'uscita si era ritrovata davanti una sorpresa che le aveva cambiato la vita: Paolo era appoggiato alla sua macchina, fuori dal liceo, ed inspiegabilmente, nonostante tutto quel traffico che caratterizza le ore di punta e la ressa di motorini ed auto parcheggiate in doppia fila, gli occhi di Afrodite era stati subito catturati dal suo viso. Aveva stretto il braccio di Silvia per attirare la sua attenzione, mentre si poggiava una mano sul petto, come a voler controllare che ciò che vi si agitava dentro non fosse percepibile anche dall'esterno. Poi insieme si erano dirette verso di lui.
Aveva visto il suo sorriso allargarsi, mentre gli si avvicinava, fino ad illuminargli completamente il viso.
《Sono venuto qui per rapirvi》 aveva esordito quando si erano trovate a portata d'orecchio.
Era stata la settimana più bella di tutta la sua vita: erano partiti davvero, assieme a Marco, per la casa di Paolo a Capestrano, in montagna vicino a Bussi.
Avevano passato sette giorni splendidi, tra risate e scherzi e bagni all'allora nuova piscina comunale e gelati e cene tipiche scroccate ai vicini e passeggiate per le campagne e i boschi e il lago di Capodacqua, che era più una pozzanghera ma poco importava, e il monastero e il castello. Era stato un sogno, ubriacarsi di sole e felicità.
E Afrodite e Paolo erano tornati a Pescara mano nella mano.
Era iniziata così tra loro: gradualmente si erano avvicinati e la loro relazione era andata inspessendosi quasi senza che se ne accorgessero perchè era stato qualcosa di assolutamente naturale. Non sarebbe potuta andare che in quel modo.
Smise di fantasticare solo all'ora di pranzo e, rendendosi conto che era davvero tardi, decise di continuare a fare i compiti in cucina.
 
Afrodite aveva finito sia di studiare che di prepararsi quando suonarono alla porta.
《Vado io!》 esclamò prima di precipitarsi all'ingresso.
Una volta aperto l'uscio, la vista che le si parò davanti la lasciò senza parole come ogni volta.
Paolo era il tipico ragazzo che ispira fiducia al primo sguardo. Capelli scuri e ribelli, come se si fosse sempre appena svegliato; occhi tra il verde ed il dorato, particolarissimi e teneri allo stesso tempo, magnetici; labbra perfettamente disegnate, da cherubino, che sembravano morbide non meno di quanto realmente lo fossero; corporatura media, sicuramente non era troppo grosso, ma abbastanza da farla sentire protetta sul suo petto. Dove peraltro si ritrovò nel giro di pochi istanti, con il viso premuto nell'incavo del suo collo e le sue braccia a stringerle delicatamente la vita sottile.
《Ciao》 la salutò, respirando tra i suoi capelli e provocandole brividi con il suo fiato caldo.
Lei non riuscì a fare altro se non sorridere e chiudere gli occhi, lasciandosi trasportare da quell'abbraccio.
《Buonasera signora Trini.》 Fu lui il primo ad interrompere quel contatto per salutare Silvana.
《Quante volte dovrò ripeterti ancora che puoi chiamarmi anche solo Silvana!》 lo rimproverò bonariamente lei sorridendo.
《Ancora una volta, come sempre》 si intromise a quel punto Afrodite con una risata.
《Suo marito è in casa?》 chiese Paolo, stringendo la ragazza a sè con un braccio attorno alle spalle.
《Sì, ma è nello studio, sta correggendo alcuni compiti. Se vuoi te lo chiamo, così puoi salutarlo》 rispose Silvana, facendo per voltarsi.
《Non si preoccupi!》 la bloccò Paolo. 《Non lo disturbi. Me lo saluti lei, per favore.》
《Ma certo!》 esclamò una raggiante Silvana, visibilmente entusiasta del ragazzo di sua figlia.
《Hei coso!》 La voce di Marco fece capolino dal soggiorno, subito seguita dalla sua testa bionda, che spuntava dalla porta. 《Non ti scordare che è mia sorella》 lo redarguì, passandosi poi il pollice lungo tutto il collo in una non troppo velata minaccia.
Afrodite sbuffò e Paolo rise.
《Sei tu a dimenticare che io sono una brava persona》 si difese poi, calcando particolarmente sui pronomi personali.
Silvana annuì vigorosamente e fu il turno di Afrodite di ridere, mentre Marco si defilava in tutta fretta borbottando ed assottigliando gli occhi marroni, retaggio di Silvana. 《Non finisce qui.》
 
Erano in macchina. La strada sfrecciava al di là del finestrino abbassato quasi del tutto, unica testimone assieme al cielo corallo delle loro dita intrecciate sulla leva del cambio. Lui guardava di fronte a sé, lei invece il panorama, ma ogni tanto gli gettava sorridenti occhiate furtive che provocavano dolci carezze di rimando sul dorso della sua mano.
《Quanto manca?》 chiese ad un certo punto, voltandosi completamente verso di lui e rinunciando al proposito di mascherare la sua curiosità.
《Non fare la bambina》 la prese in giro lui ridendo.
Per tutta risposta lei mise su uno dei suoi bronci adorabili, tornando a guardare il panorama a braccia conserte.
Lui allora si passò la mano tra i capelli, prima di lasciarle una lieve carezza sul viso, che ne fece distendere e rilassare i lineamenti.
Si stava ancora beando di quelle attenzioni quando lui parlò di nuovo.
《Eccoci qui!》 esclamò, accostandosi al ciglio della strada e tirando il freno a mano per poi voltarsi verso di lei e avere modo di osservarla meglio mentre si guardava intorno.
《Dove siamo?》 chiese Afrodite, gli occhi celesti sbarrati.
《Non vuoi saperlo.》 Lui la guardò serio. 《Credimi, se ti dicessi dove ti ho portata poi dovrei ucciderti o tuo fratello ucciderebbe me.》
《E credi che Marco non ti ucciderebbe se scoprisse che mi hai uccisa?》 chiese allora lei, trattenendo a stento le risate.
《Non ci avevo pensato.》 disse allora lui, grattandosi il mento con fare cospiratorio.
Risero entrambi per un momento, poi Afrodite gli gettò le braccia al collo con trasporto, facendogli sbattere la testa contro il finestrino.
《Oddio, Paolo stai bene? Scusami!》 Si allontanò di scatto, fissandolo mortificata mentre si tastava il punto dolente a capo chino.
D'un tratto vide le sue spalle scosse dai singhiozzi e rimase paralizzata.
《Paolo...》
Il tremito non accennava a diminuire, così gli poggiò una mano sulla spalla per attirare la sua attenzione. Quando finalmente si decise ad alzare il volto vide i suoi occhi colmi di lacrime.
Paolo non riusciva a smettere di ridere.
《Scemo! Mi hai fatta preoccupare!》 lo rimproverò lei, colpendolo ad una spalla con un pugno.
《Ahi!》 gemette lui. 《Credi che mi lascerai tornare a Pescara intero?》
《No, se non ti decidi a dirmi dove siamo!》 replicò Afrodite, facendo davvero fatica a mantenere quel cipiglio infastidito.
《D'accordo, ma poi non dire che non ti avevo avvertito.》
《Avanti parla!》
《Siamo a Chieti》 ammise lui alla fine, rassegnato.
Afrodite rise di gusto, subito seguita dal ragazzo.
Tra Pescara e Chieti, entrambe capoluoghi di provincia, distanti una ventina di minuti l'una dall'altra, c'era una rivalità epica che non si sarebbe estinta nemmeno con la fine del mondo.
Il panorama che si stagliava davanti a loro, però, non aveva prezzo.
Erano al lato di una strada su uno dei colli che circondano Chieti, completamente immersi nel nulla o, per meglio dire, nel verde e a pochi metri da loro si trovava una valle, subito seguita da altri colli boscosi su cui ogni tanto sbucava qualche abitazione coraggiosa. Sullo sfondo del cielo in fiamme, infine, si imponeva alla vista il profilo della bella addormentata, nella sua posa romantica: sdraiata con le mani giunte sul ventre ed il corpo adagiato sulla roccia, se ne individuava perfettamente la forma da quell'angolazione nella cima frastagliata del Gran Sasso.
《E' davvero meravigliosa》 esordì Afrodite, dopo qualche minuto di estatica contemplazione.
《Anche tu lo sei》 disse semplicemente Paolo, senza smettere di osservarla.
Un lieve rossore si fece spazio sulle gote della ragazza mentre lo guardava di sottecchi.
《Vieni qui》 le disse una volta intercettato il suo sguardo, allargando le braccia per quanto permesso dall'abitacolo dell'auto.
Lei si lasciò abbracciare, tentando di non fare danni e stringendosi delicatamente a lui.
《Ti amo》 le sussurrò lui nella chioma bionda, quasi sperasse che tra quei fili dorati la sua confessione sarebbe andata perduta.
Lei si allontanò lo stretto necessario per riuscire a vedere quel volto che nascondeva un emozione così grande da stringerle il cuore. Ma non riuscì a proferire alcuna parola.
《Non è necessario che tu dica niente》 si affrettò a tranquillizzarla lui, vedendo il suo sguardo smarrito. 《Volevo solo che lo sapessi》 terminò con un'alzata di spalle.
E allora Afrodite fece l'unica cosa di cui era capace per riuscire a trasmettergli ciò che provava.
Lo baciò. Come non aveva mai fatto prima. Per quelle che parvero ore. Senza esserne mai davvero sazia.
《Torniamo a casa?》 le chiese Paolo, perso nelle attenzioni che lei stava riservando con quelle mani di seta ai suoi capelli e al suo viso, quando il fiato divenne troppo corto.
《No, restiamo ancora un po'》 rispose lei accoccolandosi contro di lui e voltandosi nuovamente verso quello spettacolo senza pari, oramai illuminato dalla luce opalescente della luna.

 
 
***
 
 
Afrodite osservava distrattamente le macchine che si susseguivano in quel pigro lunedì su via Venezia, fuori dalla finestra della sua classe, giocherellando quasi senza accorgersene con una ciocca di quei capelli del colore del grano. Mai come in quel momento, durante la lezione di inglese, si era resa conto di quanto fosse fortunata: se la vista fosse ricaduta sul cortile interno del liceo avrebbe visto solo una manciata di ragazzi seduti sulle scale antincendio a fumare, spettacolo ben più noioso rispetto al traffico mattutino.
L'aria era immobile in quella stanza spoglia.
D'un tratto, mentre la professoressa descriveva minuziosamente il teatro inglese durante la Restaurazione, entrò nell'aula il bidello attirando l'attenzione di tutti i presenti.
《Mi scusi professoressa》 la interruppe timidamente, guadagnandosi un'occhiata infastidita e piuttosto ostile. 《Il preside ci ha detto di avvisare tutte le classi che alle 10.30 in punto il Presidente del Consiglio farà un annuncio in diretta streaming importantissimo.》 Poggiò un foglio sulla cattedra avviandosi poi verso la porta, quasi stesse scappando. 《Quello è il link. Arrivederci!》 si affrettò a sgusciare fuori, chiudendosi immediatamente la porta alle spalle.
Parecchi sbuffi e diverse lamentele dopo, avevano acceso la LIM nuova di zecca ed erano miracolosamente riusciti a collegarsi alla rete wi-fi.
Il volto che apparve quando iniziò la diretta era completamente sconosciuto.
《Italiani!》 esordì con tono solenne l'uomo brizzolato.
Afrodite corrugò le sopracciglia a quell'invocazione, così come alcuni altri suoi compagni.
Qualcosa non andava.
《La situazione alla quale ci troviamo costretti a reagire oggi è tra le più incresciose.》 Fece una pausa. 《L'Italia ha coraggiosamente deciso di imbracciare le armi contro i demoni dell'oppressione. Ci sentiamo in obbligo》 Su quest'ultima parola il tono di voce si fece più elevato 《di ergerci al fianco dei nostri compagni statunitensi a paladini della libertà e del rispetto dell'individuo in quanto tale. E' per questo che, quando il presidente degli Stati Uniti d'America ha fatto appello al nostro senso di giustizia, chiedendoci di unirci alla loro causa, non abbiamo esitato》 altra frase detta con più enfasi di quanta ne fosse necessaria, 《nel dare una risposta affermativa.》 Fece un'altra pausa, come a voler dare ai telespettatori il tempo di metabolizzare quanto aveva detto. 《L'ex Presidente del Consiglio Renzi ha volontariamente》 parola che venne scandita con attenzione, per penetrare meglio nelle loro menti, 《presentato le sue dimissioni questa mattina ed io, Andrea Pinocchi, sono stato scelto dal nostro fidato Parlamento per guidarvi nell'atto eroico che ci accingiamo a compiere, per essere il vostro punto di riferimento in questa missione di pace. Ora io, con l'amore e la fiducia di un padre nei confronti dei propri figli, invito tutti coloro in età da lavoro ad unirsi al nostro esercito nella lotta comune per i diritti umani nel mondo!》
Il nuovo Presidente del Consiglio rimase per un attimo in silenzio, fissando la telecamera come se riuscisse davvero a vedere i volti delle persone dall'altra parte, sorridendo in un modo che aveva qualcosa di viscido e sornione dalla scrivania alla quale sedeva.
《Per chiarire meglio il contesto nel quale ci siamo venuti a trovare, ora ci collegheremo con il signor Simons, l'attuale Presidente dei nostri fidi alleati. La versione sottotitolata del suo intervento sarà disponibile a breve.》
《Oh, bene! Almeno faremo un po' di pratica》 commentò la professoressa, mentre lo scenario cambiava.
Il volto che si presentò loro davanti questa volta era molto più famigliare: Simons era entrato in carica al governo degli stati uniti il 20 gennaio 2013, soffiando il posto ad Obama. La sua espressione era molto meno gioviale e, quando iniziò a parlare, il suo discorso fu decisamente più diretto.
《Pochi sanno dello scempio che si sta compiendo in Venezuela》 esordì in inglese. 《Gli Stati Uniti ritengono che sia giunto il momento di porre fine a questo massacro ed hanno preso accordi con molti stati europei. Se state vedendo questo video significa che il vostro è tra questi e che da domani tutti coloro compresi tra i diciotto ed i quarantacinque anni saranno chiamati alla leva obbligatoria. Non vi dirò che la guerra sarà facile perchè non lo sarà: il Venezuela ha dalla sua parte la maggioranza degli stati sudamericani, la Russia e la Cina; ma insieme la vinceremo, questo posso garantirlo.》
Ci fu qualche attimo di silenzio.
《Cosa ha detto?》 chiese qualcuno.
《Siamo in guerra》 rispose Afrodite con un filo di voce roca.
La professoressa teneva lo sguardo fisso sullo schermo ormai nero.
Singhiozzava.
 
 
 
NDA
Allora! Ci sono molte cose da dire su questo capitolo: anzitutto Pinocchi e Simons sono personaggi di mia invenzione. State tranquilli, nel mondo reale Renzi e Obama sono ancora al potere! Il nome di Pinocchi ha un suo significato ma non voglio dirvelo, preferirei leggere le vostre ipotesi hahaha. Ora, perchè ho deciso di inventarli invece che lasciare immutati i governi? Perchè non sono dei bei personaggi e non volevo diffamare nessuno. Ovviamente c'è un motivo se Renzi viene scansato mentre Obama perde semplicemente le regolari elezioni.
I luoghi citati in questo capitolo sono tutti reali. L'Abruzzo è la mia regione, Pescara è la mia città e Capestrano è la mia infanzia, quindi conosco la zona pertanto le descrizioni ed i riferimenti saranno quanto più possibile precisi, dettagliati e fedeli, proprio perchè questa storia si pone come obiettivo quello di essere verosimile.
Il prossimo aggiornamento non sarà rapido quanto questo, ma vedrà la comparsa del tanto atteso Ryan (Lotta sa di cosa sto parlando!). Spero comunque di riuscire a mantenermi costante nel giovedì. Ripeto anche qui che, come ho già assicurato ad alcune ragazze, sono disposta ad avvisare privatamente per gli aggiornamenti, basta chiedere! :)
Ringrazio Danilas che ha realizzato questo bellissimo banner! Anche Miriana Di Carlo ne aveva fatto un altro davvero meraviglioso, ma purtroppo ho dovuto scegliere. Ad ogni modo non escludo affatto che prossimamente potrei decidere di utilizzare anche l'altro!
Il titolo del capitolo viene da una splendida canzone di Bon Jovi che si intitola Always ed ha un testo meraviglioso.
Spero davvero che vogliate lasciare un parere su questo primo capitolo!
A presto, vi abbraccio!
 
 
Per chi non l'avesse mai vista, questa è la bella addormentata d'Abruzzo! C'è chi ce la vede e chi non ce la vede, ma il Gran Sasso visto da Pescara e Chieti viene chiamato così hahaha

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Capitolo 3
*** Your values are all shot. ***


Grazie a Lott, BreesonKeller, MiriDH98 che hanno recensito.
 
 
 

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Your values are all shot.



Afrodite tornò a casa come un'automa. Non riusciva a respirare, sentiva la notizia annunciata dal Presidente penderle sul capo come una spada di Damocle e percorse la poca strada che separava il liceo da casa sua senza riuscire a staccare lo sguardo da terra. Si sentiva come se le avessero improvvisamente detto che tutto ciò che aveva vissuto fino a quel momento era stato un bel sogno, nulla di più.
Erano in guerra. Questa consapevolezza si avvolse attorno alla sua testa come una busta di plastica, offuscandole tutti i sensi. Il placido susseguirsi degli eventi sarebbe radicalmente cambiato. Il mondo usciva dal suo asse per sprofondare nel caos.
Intorno a lei le strade erano silenziose, quasi la città fosse già entrata in lutto, in netto contrasto con la confusione dell'istituto, dove invece i ragazzi continuavano a comportarsi esattamente come se nulla fosse successo. Ovviamente non si rendevano conto dell'accaduto.
Non si rendevano mai conto di niente.
Ancora non erano state notificate le modalità di leva. Insomma, come avrebbero fatto gli americani a costringerli al servizio militare?
Lo scoprì fin troppo presto.
Entrò nel condominio in via Regina Elena intorno alle due, aveva camminato davvero lentamente: normalmente impiegava la metà del tempo per coprire quella distanza.
《Afrodite, dove diavolo eri finita?》 sentì urlare sua madre dalla cucina prima ancora di riuscire a chiudersi alle spalle la porta d'ingresso. La vide avvicinarsi trafelata con il grembiule stretto attorno al corpo.
《Scusa il ritardo》 rispose con una voce che quasi non sembrava la sua, alzando solo allora lo sguardo spaurito.
Qualcosa si incrinò nell'espressione di sua madre quando vide quegli occhi sbarrati. Era il viso di una ragazza consapevole che la sua vita, come quella di tutti loro, era cambiata per sempre ma che non sapeva come comportarsi per affrontarla.
《Oh, piccola mia.》 Silvana la abbracciò stretta, cercando conforto anche lei in quel contatto. Le accarezzò i capelli come quando era bambina e si svegliava nel cuore della notte a causa dei brutti sogni.
Quello però non era un semplice mostro sotto il letto o nell'armadio.
Si sedettero a tavola tutti e quattro nel più rigoroso silenzio, l'aria era pesante quanto i loro cuori.
Fu Afrodite la prima a parlare, senza alzare gli occhi dalla bistecca che stava tagliando in quel momento.
《Te ne devi andare.》 Non guardò suo fratello, ma era ovvio che si riferisse a lui.
《E dove vuoi che vada?》 rispose Marco guardandola con un mezzo sorriso che non gli arrivava agli occhi.
《Non lo so, via da qui!》 esclamò allora Afrodite, alzando lo sguardo su di lui.
《Afrodite, credi che io non ci abbia pensato?》 intervenne a quel punto Ferdinando. 《Ho trascorso tutta la mattina a cercare un posto dove poterlo mandare, solo per scoprire che il nostro nuovo Presidente del Consiglio è molto più previdente dei suoi predecessori: ha fatto chiudere tutti gli aeroporti.》 Fece una pausa, massaggiandosi la base del naso con i gomiti poggiati stancamente sul tavolo. 《Non si esce dall'Italia.》 Concluse.
《Ma gli americani non possono costringerci? Come pensano di farlo?》 La ragazza si guardava intorno spaesata, posando gli occhi ora sul capo chino di sua madre, ora sulle mani di suo padre immerse tra i capelli brizzolati, ora sullo sguardo imperturbabile di suo fratello.
《Afrodite, sono americani, troveranno un modo. Loro trovano sempre un modo》 disse quest'ultimo con semplicità.
《No.》 Il suono che le uscì dalla gola non era altro che un'eco strozzata della sua voce.
《Andrà tutto bene》 cercò di tranquillizzarla Marco, tentando di essere più convincente con il suo sorriso. 《Ho la pelle dura io, ricordatelo.》 Riuscì a strapparle una risata sommessa con quell'ennesima espressione di arroganza.
 
Il giorno dopo si recarono entrambi a scuola regolarmente. La giornata trascorse lentamente, nell'inerzia della quiete prima della tempesta. Le solite facce assonnate, i soliti sbadigli, le solite battute sciocche durante le lezioni, i soliti schiamazzi al cambio dell'ora, il solito caffè con Silvia durante la ricreazione.
《Cosa pensi di tutta questa storia?》 le chiese l'amica una volta che si furono messe in fila al distributore.
《Non lo so, spero solo che lascino in pace mio fratello e Paolo》 rispose Afrodite con voce stanca, torturandosi le unghie.
《Lo spero anche io》 sospirò l'altra. Silvia aveva una cotta per Marco fin dalla prima volta che lo aveva visto fuori dal loro liceo, ancora prima di sapere che era il fratello della sua compagna di banco. Ovviamente lui era troppo maschio per accorgersene, come spesso accade.
Rientrarono in classe pochi istanti prima che suonasse la campanella.
I minuti si susseguivano esitanti, sempre identici a loro stessi, finchè un gruppo di uomini in uniforme mimetica non interruppe la lezione, entrando nell'aula senza bussare.
《Maggiorenni?》 chiese uno di loro, con un forte accento inglese e un italiano stentato.
Nessuno rispose. Sembrava quasi che avessero smesso tutti di respirare.
《Ho detto: maggiorenni?》 ripetè, questa volta con più decisione.
《Buongiorno anche a voi.》 Il professore di storia li guardò con sospetto.
《Tu!》 Un altro soldato lo indicò. 《Quanti anni hai?》
L'uomo non abbassò lo sguardo.
《Trentotto》 rispose, nascondendo a stento il tremore della voce.
Il soldato che aveva parlato per primo gli si avvicinò in fretta, prendendolo per un braccio e costringendolo ad alzarsi dalla sedia.《Devi venire con noi.》
《Ha appena avuto una figlia, cazzo!》 gridò un ragazzo dalle ultime file.
I soldati non lo degnarono di uno sguardo.
《Qualcun altro maggiorenne?》 chiese un terzo soldato scrutando i loro visi, quasi volesse leggervi la verità.
《Prendi quello.》 Il secondo soldato gli indicò il registro sulla cattedra, li ovviamente erano scritte le date di nascita.
Quando iniziò a chiamare tutti coloro che avevano già compiuto diciotto anni, nessuno emise un suono.
《Ok, se non parlate vi prendiamo tutti.》
Lentamente i ragazzi presero ad alzarsi dai banchi quando veniva pronunciato il loro nome. Quel macabro appello era un'agonia.
Quando tutti ebbero risposto alla chiamata, il gruppo uscì senza una parola, muovendosi a fatica in quel silenzio denso di atterrita incredulità.
Stava accadendo davvero.
 
Afrodite aveva i polmoni in fiamme. Dopo che tutte le classi avevano terminato l'appello, la preside li aveva lasciati liberi di tornare alle loro famiglie, in via del tutto straordinaria, ed ora lei stava percorrendo via Carducci alla massima velocità che riusciva ad imporre alle sue gambe e al suo cuore. Cercava di farsi spazio nella ressa di corpi improvvisamente accalcati senza ragione.
Il panico dilagava.
La quiete del giorno precedente non era nemmeno un ricordo, le persone in quel momento non stavano pensando a quanto erano state fortunate fino a quel momento, stavano solo cercando di fare qualcosa, qualunque cosa, per cambiare la realtà.
Quando giunse finalmente al portone del suo condominio le mani le tremavano e dovette incanalare tutta la sua concentrazione nell'operazione di inserire le chiavi nella toppa. Non perse tempo a chiamare l'ascensore ma si lanciò direttamente verso le scale, percorrendo le quattro rampe che la separavano dal suo appartamento al secondo piano quasi inciampando.
Quando finalmente riuscì ad entrare la casa era immersa nella quiete dell'abbandono silenzioso.
《Mamma!》 chiamò, poggiando le chiavi sul tavolino all'ingresso e avanzando lentamente verso il soggiorno.
Era vuoto.
Si affacciò alla porta della cucina, esitante.
《Papà! Marco!》 tentò ancora.
Anche in cucina non c'era nessuno, così come in tutta la casa, che controllò con attenzione, passandosi compulsivamente le mani tra i lunghi capelli biondi.
Ritornata nel soggiorno tirò fuori il cellulare dalla tasca e si affrettò a chiamare sua madre.
《Mamma!》 esclamò non appena il segnale risultò libero.
《Afrodite, non sei a scuola?》 La voce dall'altro lato era rotta, flebile.
《Dove siete?》 Afrodite non riusciva a smettere di camminare per la stanza.
《Siamo alla stazione》 rispose lei esitante.
《Arrivo.》 La ragazza interruppe la comunicazione, fiondandosi di nuovo fuori dalla porta di casa, per le scale.
Percorse correndo via Regina Elena e corso Umberto I fino ad arrivare alla stazione di Pescara Centrale, dalla facciata interamente in vetro. Il marciapiede antistante era gremito di gente, così come l'interno e le scale che portavano ai binari. Sembrava che tutta la città si fosse riunita li quel giorno e probabilmente era davvero così: tutti avevano qualcosa da perdere, o meglio, qualcuno.
Si sollevò sulle punte nella folla, cercando la testa bionda di suo fratello che era piuttosto alto.
Quando riuscì ad individuarlo sgomitò con tutta la delicatezza di cui fu capace nella frenesia del momento.
Riuscì a trovare un po' di pace solo quando finalmente gli si gettò tra le braccia. Lui la strinse a se, accarezzandole dolcemente la schiena, scossa dai singhiozzi.
《Andrà tutto bene》 le sussurrò Marco, serrando gli occhi per non permettere a nulla, nemmeno alle emozioni, di fuoriuscirne. La sentì dimenarsi e allentò la presa per avere la possibilità di guardarla meglio.
《Come fai a dire che andrà tutto bene?》 stava urlando lei intanto, colpendo quasi impercettibilmente il petto del fratello con quei pugni sottili in un crescendo di agitazione. 《Le persone cadono come mosche in guerra! Come fai?》.
Marco non riusciva ad opporsi, a calmarla, perchè infondo sapeva anche lui che la guerra è l'inferno in questa vita.
Silvana piangeva silenziosamente con il volto immerso tra le mani e Ferdinando la cullava avvolgendole un braccio attorno alle spalle e poggiando sul suo capo il mento reso ispido dalla corta barba. Gli occhi celesti, così simili a quelli della figlia, erano persi nella contemplazione di un punto imprecisato al di là della testa del treno, quasi stesse già vedendo gli orrori ai quali andava incontro portando con sè tutti quei ragazzi.
Non avevano la forza di placare la loro disperazione nè quella di Afrodite.
Arrivò Paolo a bloccarle le braccia. Il suo nome usciva dalle sue labbra ad intervalli regolari, quasi fosse un mantra: 《Afrodite, Afrodite, Afrodite...》. Tentò di farla voltare verso di sé per parlarle.
Quando finalmente ci riuscì le lacrime non avevano ancora smesso di rigarle le guance accese, anche se non stava più singhiozzando. Le prese il volto tra le mani, baciandole la fronte come a voler cancellare tutta quella sofferenza dalla sua mente con il suo amore.
《Ti prometto che ti riporterò indietro tuo fratello.》 La guardò intensamente negli occhi mentre lei ansimava, quasi la fatica per la corsa le fosse piombata addosso solo in quel momento. 《Ti giuro,》 Fece una pausa per cercare le parole giuste. 《che gli impedirò di mettersi nei casini per colpa di quel suo atteggiamento arrogante e superbo.》 La baciò teneramente, accarezzandole i capelli con le dita, mentre lei non aveva la forza nemmeno di alzare le braccia. 《Lo terrò lontano dai guai e lo riporterò a casa》 le disse piano, ad un soffio dalle sue labbra.
La relativa pace di quel momento venne interrotta presto.
《Tutti i cadetti inizino a salire sul treno》 annunciò una voce gracchiante, amplificata da un megafono.
Videro soldati in uniformi mimetiche avvicinarsi a tutti coloro che esitavano e trascinarli lontano per le braccia. Un soldato giunse anche vicino alla famiglia Trini.
《Veloce》 disse solo.
Marco abbracciò un'ultima volta i suoi genitori mentre Paolo dava un ultimo bacio ad Afrodite, che gli venne poi strappata per essere stritolata in un abbraccio da orso di suo fratello. 《Ti voglio bene sorellina》 le sussurrò lui. 《Fai la brava mentre non ci sono, altrimenti quando torno vedrai.》 Aggiunse con un sorriso e una carezza sul viso prima di allontanarsi assieme all'amico dirigendosi verso il treno.
Afrodite vide le porte chiudersi, così come fece la morsa che le opprimeva il cuore. Seguì con gli occhi i due ragazzi mentre prendevano posto.
Lentamente il treno iniziò a muoversi.
Paolo si alzò per aprire il finestrino.
Il suono delle sue parole si perse nel rumore delle ruote contro le rotaie ma Afrodite riuscì a comprenderle ugualmente.
Lacrime salate le scivolarono dagli occhi fino ad arrivare alle sue labbra.
"Ti amo anche io." Pensò, mentre guardava il treno allontanarsi, con il cuore che le rombava nelle orecchie.
 
Da quel fatidico giorno i soldati americani si erano insinuati a Pescara lentamente.
Il sindaco li aveva alloggiati al Sea Lion che era uno dei migliori tra i grandi alberghi alla fine del lungo mare a Montesilvano, un comune praticamente indistinguibile da Pescara: in pochi sanno davvero dove finisca l'uno ed inizi l'altro.
La vita della città si trascinava a stento. Tutto sembrava avvolto da una foschia malinconica: l'eccitazione per l'imminente arrivo dell'estate faticava a farsi sentire, le temperature non accennavano a volersi alzare, ogni famiglia aspettava in bilico notizie sui propri cari al fronte. Tutta la popolazione aveva la testa tra le nuvole.
La guerra procedeva lentamente. Il fronte era nell'America Latina, gli Stati Uniti erano partiti dal Messico per procedere in Guatemala e Belize, ignorando completamente Cuba che aveva notoriamente concentrato le sue forze nel Venezuela. Avanzare negli stati dell'America centrale non era stato difficile, si erano fatti strada senza combattere attraversando l'Honduras, El Salvador, il Nicaragua, Costa Rica e Panamà pacificamente, cioè chiedendo la resa dei governi e la loro collaborazione. La minaccia era stata solo velata e l'apparenza quindi conservata.
Un mese dopo la partenza delle truppe italiane però il fronte era arrivato in Colombia. Lì era iniziato il vero scontro e l'avanzata era stata fortemente rallentata. Tuttavia l'esercito aveva le spalle coperte, quindi riusciva a ricevere approvigionamenti e quant'altro fosse necessario.
Le notizie sull'andamento della guerra erano scarsissime e ai soldati era negata la possibilità di comunicare con la famiglia in madrepatria. I governi dovevano essere gli unici detentori delle informazioni e dovevano essere loro a decidere cosa dare in pasto alla popolazione. Quindi l'unico modo per sapere cosa ne fosse stato dei propri cari era quello di controllare le liste dei caduti su internet o al posto dei cartelli pubblicitari per strada affisse ai muri e trarre le proprie conclusioni: inizialmente le liste erano pressoché vuote mentre, da quando i telegiornali avevano avvisato la popolazione dello spostamento del fronte in Colombia, avevano iniziato ad allungarsi sempre di più; da questo i Pescaresi, come anche tutti gli italiani, avevano intuito che erano entrati per la prima volta in un territorio fermamente ostile, non abbindolabile dalle promesse di Simons.
 
Afrodite aveva deciso di non controllarle mai quelle dannate liste. Paolo le aveva promesso che sarebbero tornati entrambi sani e salvi e lei si fidava ciecamente di lui. Quando le leggevano ai notiziari spegnava la TV sotto lo sguardo comprensivo dei genitori, quando vedeva i link su facebook li nascondeva dalla home, quando passava davanti alle stampe in strada, aggiornate quotidianamente, abbassava lo sguardo sui suoi piedi e accelerava.
Non che uscisse molto ormai, nessuno lo faceva. Le strade erano quasi sgombre, persino Corso Vittorio o corso Umberto e addirittura anche di sabato. Tuttavia la città non era diventata pericolosa, i soldati americani erano civili e tutto sommato rispettosi ma erano soprattutto pochi, una cinquantina al massimo. Tentavano spudoratamente approcci con le ragazze Pescaresi e venivano regolarmente respinti perchè erano visti essenzialmente come coloro che avevano costretto l'Italia alla guerra, ma non erano troppo insistenti.
L'unico momento della giornata in cui Pescara tornava ad essere quella di un tempo era la sera: le ragazze si mettevano in tiro e si dedicavano alle loro solite vasche su corso Manthone. In quella circostanza a volte capitava che i tentativi dei soldati americani non andassero completamente a vuoto oppure che le loro avances si facessero più pressanti, fino ad arrivare ad alcuni stupri. Nascoste e protette dal buio della notte le ragazze cercavano una maniera qualunque per sentirsi ancora vive. Anche la più sbagliata ed impensabile.
Afrodite e Silvia di regola si astenevano da quel poco di vita mondana, preferendo rimanere a casa di una delle due a guardare un bel film davanti ad una ciotola di pop corn.
 
 
5 Maggio 2014
 
Come sarebbe bello dire "per caso"? Tu credi che ci sia davvero qualcosa che succede "per caso"?
[...]
Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita ti risponde.
 
 
Improvvisamente, dopo settimane di assenza, il sole decise di tornare a splendere sulle teste chine dei pescaresi, portandoli tutti al alzare lo sguardo per bearsi del calore di quei raggi tanto agognati.
Anche Afrodite socchiuse gli occhi sollevando il viso pallido verso il cielo mentre tornava da scuola. Sicuramente quegli interminabili giorni, in cui la cappa impenetrabile di nuvole sembrava avesse intenzione di racchiudere Pescara per sempre, non avevano giovato al morale della città.
Il sole aveva anche spezzato la monotonia che imbrigliava i pensieri intorpiditi di Afrodite da un mese a quella parte. Si sentiva spenta e stanca ed il susseguirsi di giorni e settimane completamente privi di eventi non aveva fatto altro che peggiorare la sensazione di vuoto che le riempiva non solo il petto ma anche la mente.
Quel pomeriggio, dopo il solito pranzo immerso in un silenzio rotto unicamente dal cozzare delle posate contro i piatti, decise che sarebbe andata a fare una passeggiata sul lungomare per godere appieno di quella giornata di sole, nel timore che non se ne sarebbe verificata presto un'altra.
Indossò uno dei vestitini primaverili che le piacevano tanto: era di un delicato azzurro decorato da una stampa di piccolissimi fiori bianchi, a maniche corte e leggermente più stretto in vita, le arrivava poco sopra le ginocchia. Vi abbinò un paio di vans bianche e non si preoccupò di prendere una borsa per portare con se il cellulare o le chiavi perchè sarebbe rimasta in zona ed i suoi genitori intendevano rimanere a casa.
Quando le si spalancò davanti lo spettacolo del litorale aspirò l'aria salmastra fin dentro l'anima e le sembrò di tornare a respirare, come se una piccola parte del peso che le gravava addosso fosse stato costretto, spaventato da quel cambiamento benefico come solo il mare poteva essere, a liquefarsi e scivolare via da lei.
Persa in quel sollievo, non si accorse di essersi allontanata più del previsto verso nord. Aveva ormai superato il confine tra Pescara e Montesilvano e non aveva idea dell'ora che si fosse fatta. Pensò di chiedere l'informazione a qualcuno, ma il marciapiede era deserto e si ritrovava a destra una serie di stabilimenti balneari ancora chiusi, mentre a sinistra, al di la della strada, la pineta. Immaginando che fossero circa le sei, si risolse a prendere il 2/ per tornare indietro visto che passava proprio sulla riviera.
Quando si stava guardando intorno per attraversare la strada però senti una voce spezzare il silenzio e coprire il sottofondo rilassante della marea.
《Hei bionda, dove vai?》 esclamò la voce alle sue spalle, densa di un forte accento anglosassone.
Le si gelò il sangue nelle vene ed affrettò il passo per non essere costretta a rispondere, senza nemmeno voltarsi a controllare l'ubicazione del suo interlocutore.
《Ti ho fatto una domanda!》 Questa volta il tono della voce era più deciso e meno canzonatorio.
Afrodite, sentendo che l'uomo si era avvicinato, decise di non fermarsi ad aspettare l'autobus ma continuare a camminare. Stava quasi per mettersi a correre al suono dei passi dietro di lei, quando sentì una mano stringerle il braccio destro con veemenza e costringerla a voltarsi.
Allora ebbe modo di vedere il soldato in borghese che le si parava davanti. Non era troppo massiccio, ma abbastanza per darle del filo da torcere. Aveva gli occhi lucidi e socchiusi e sembrava piuttosto alticcio.
Le prese il panico. Era sola, a chilometri da casa, tra le grinfie di un soldato americano ubriaco.
《Sei molto sexy. Vieni a bere qualcosa con me?》 Improvvisamente passò all'inglese e, anche se Afrodite lo conosceva piuttosto bene, parlare quella lingua non l'aiutò certo a impedire che l'uomo le si avvicinasse con il viso al collo, stringendole con entrambe le mani i polsi dietro la schiena ed utilizzando le loro braccia per tenerla premuta contro di se.
《No!》 urlò Afrodite tentando di divincolarsi e allontanare il viso da quello di lui, che la seguiva. 《Lasciami andare! Subito! Mi metto a urlare!》 continuò anche lei in inglese alzando la voce, sperando di spaventarlo.
《Tesoro stai già urlando ma non ti sentirà nessuno》 le rispose semplicemente lui con un sorriso melenso.
Lei sapeva che quell'uomo aveva perfettamente ragione, tuttavia, pur sentendo gli occhi pizzicarle, cercò di liberarsi da quella morsa con tutte le sue forze, che erano però di molto inferiori rispetto a quelle di lui. Intanto lui le torturava la pelle con viscidi morsi ad ogni parte del corpo che riusciva a raggiungere.
《Timothys, mi sembra che la signorina abbia assicurato di non volere la tua compagnia》 li interruppe in inglese una voce calda e sporca poco lontano.
L'uomo che la immobilizzava si ritrasse immediatamente voltandosi verso il nuovo arrivato e mettendosi sull'attenti, sembrando improvvisamente molto meno pericoloso.
《Si signore, mi scusi signore》 rispose in tono sommesso.
《Non è a me che devi chiedere scusa, idiota》 lo riprese ancora, alzando gli occhi al cielo con fare stizzito.
A quelle parole il suo aggressore si voltò nuovamente verso Afrodite, rimanendo sull'attenti. 《Mi scusi, signorina》 le disse senza guardarla e restando poi immobile, come se stesse aspettando una sua risposta.
Come se lei in quel momento fosse stata in grado di parlare. A malapena riusciva a respirare normalmente, gli occhi spalancati.
《Sparisci ora》  concluse con un gesto della mano il suo salvatore, dedicando allora tutta la sua attenzione ad Afrodite.
Così come fece lei.
Era uno degli uomini più belli che avesse mai visto: alto e massiccio, spalle larghe e braccia possenti, un corpo statuario perfettamente avvolto dalla divisa d'ordinanza che ne lasciava intravedere i tratti; capelli castano chiaro piuttosto corti e vagamente scompigliati; occhi del colore del miele, dal taglio affusolato, penetranti; un viso squadrato, corredato da una mandibola ben delineata, volitiva, importante, coperta da un lieve filo di barba che faceva venire voglia di passarci sopra le labbra per saggiarne la consistenza e sperimentare la sensazione di pizzicore contro la pelle sensibile della bocca; una bocca, la sua, tentatrice nella sua irregolarità, all'apparenza poco carnosa. In quel momento però il labbro inferiore si era inspessito mentre si distendeva in un'espressione di soddisfazione.
Qualcosa di spiacevole le schiacciò il petto a quella vista ma tentò di scacciarlo con disperazione.
Si rese conto che lo stava fissando e che anche lui doveva essersene accorto, così distolse lo sguardo, arrossendo leggermente e borbottando qualcosa di simile ad un ringraziamento.
《Non dovresti dare confidenza agli uomini, di questi tempi. Soprattutto se sei sola ed il sole sta per tramontare》 le raccomandò in inglese, la voce velata da un sorriso.
《Ci ho provato!》 Afrodite utilizzò la stessa lingua, tornando a guardarlo. Vide che non si era spostato, aveva solo lasciato sprofondare le mani nelle tasche.
《Dai, andiamo. Ti riaccompagno a casa, ho la macchina qui di fronte》 disse a quel punto, facendo per voltarsi. Vedendo però che la ragazza non accennava a muoversi, si bloccò. 《Impari in fretta.》 Le sue labbra si curvarono verso l'alto, distendendosi in una smorfia che le rese ancora più attraenti. 《Hai la mia parola che con me non ti accadrà nulla.》 La sua espressione si addolcì leggermente, mentre alzava le mani ai lati del capo. 《Ti riaccompagno solo a casa, è pericoloso andare in giro da sola.》
Lo guardò esitante. Era un'idea da pazzi tornare a casa in macchina con quello sconosciuto, eppure c'era qualcosa che la attraeva magneticamente a lui. Pertanto non se ne rese quasi conto quando gli si avvicinò per seguirlo, sotto quello sguardo attento ed incatenata al sorriso sul suo volto che aveva qualcosa di strafottente.
Arrivati all'auto, le aprì la portiera. Aveva una Ford Gran Torino cabrio nera fiammante, in perfetto stile vintage anni '70. Era un gioiello. Si sorprese di non averla notata prima, evidentemente doveva essersi fermato dopo che lei era già passata.
Il soldato prese posto al suo fianco e mise in moto.
《Da che lato?》 e chiese, uscendo dal posteggio.
《Pescara centrale》 rispose lei, la voce resa roca dal troppo silenzio e sicuramente anche dalla vicinanza di quell'uomo, che proprio in quel momento stava passando un braccio dietro il suo schienale per fare marcia indietro.
Durante il tragitto Afrodite si voltò verso il suo salvatore e l'immagine del profilo stagliato contro il cielo cobalto della sera, che si gettava tra le onde blu del mare, le tolse il respiro. Dovette voltarsi nuovamente verso la strada per riprendere fiato.
Fu lui a rompere il silenzio.
《Cosa ci facevi così lontano da casa tua tutta sola?》
《Ero uscita per fare una passeggiata ed ho perso la cognizione del tempo.》 Alzò il viso verso il cielo, dove iniziavano a spuntare le prime stelle. 《E' stata una così bella giornata.》 Sospirò.
《Si è vero.》
Questa volta fu il turno di Afrodite di sorprenderlo a fissarla quando abbassò di nuovo lo sguardo. Lui però non distolse subito gli occhi dal suo viso, ma la lasciò andare come in una carezza tornando a concentrarsi sulla strada.
《Perchè quell'uomo aveva paura di te?》 gli chiese d'un tratto.
《Perchè sono un suo superiore ed esistono sanzioni piuttosto gravi per atteggiamenti di quel tipo.》
《Che posto occupi?》 Dalla voce di Afrodite trapelava la curiosità implacabile.
《Sono un sottotenente》 rispose con un sorriso, regalandole un fugace sguardo. 《E posso garantirti che la pagherà.》
《Non c'è niente di assurdo nel suo comportamento.》 La guardò interrogativo, sollevando un sopracciglio per invitarla a continuare e spiegarsi meglio. 《Voi americani avete questa tendenza a credervi i padroni del mondo.》 Afrodite si strinse nelle spalle quando lo vide sorridere con lo sguardo fisso sulla strada.
《Forse lo siamo, biondina》 le rispose in tono canzonatorio.
《Lo siete senza dubbio. E' questo che fate: violentate i governi degli altri stati per ottenere ciò che volete. E vi riesce molto bene.》 Voltò il viso verso il finestrino senza vedere davvero ciò che vi scorreva dietro, tornando con il pensiero a Marco e Paolo.
《E' questo quello che credi stia succedendo?》 Il suo tono si era fatto improvvisamente serio.
《E' questo quello che è successo. Volete approfittare della situazione in cui si trova il Venezuela per appropriarvi di quei territori e dei pozzi petroliferi che vi si trovano. Per farlo avete bisogno dei nostri uomini, è semplice.》 La sua voce grondava di indignazione.
《Credimi non è affatto semplice. E' tutto tranne che semplice. E' la cosa più complessa che sia mai esistita. E tu non sai niente dell'inferno che si sta perpetrando li.》 Quella di lui invece di rabbia.
《E dov'erano gli Stati Uniti, i paladini della giustizia, nei due mesi tra la dichiarazione dello stato di guerra civile e l'inizio della guerra?》 gli chiese infervorandosi. Per la prima volta dopo un mese si stava alterando, uscendo da quello stato catatonico in cui versava fino al giorno precedente. Stava provando emozioni forti nei confronti di quella nazione fredda e calcolatrice: rabbia, indignazione, disprezzo. Si sentiva piena di energie, dirompente. Viva.
《Non vorrei sbagliarmi ma credo si trovassero sempre tra il Canada e il Messico》 rispose lui con freddezza. 《Vuoi sapere invece io ed il mio plotone dov'eravamo?》 Il tono si era fatto più acceso. 《Eravamo laggiù a cercare di evitare che la gente venisse uccisa per strada senza motivo, senza attirare troppo l'attenzione sui pochi uomini che avevo perchè in quel caso saremmo stati finiti, ci avrebbero trucidati, la fuga di informazioni non è vista esattamente di buon occhio. Ma gli Stati Uniti dovevano vagliare il terreno, rendersi conto della situazione prima di gettarsi a capofitto in questa cosa. Tu non hai nemmeno una pallida idea di quanto sia complesso e delicato l'equilibrio su cui barcolla il pianeta》 concluse stringendo il volante dell'auto con forza, fino a farsi sbiancare le nocche.
《E ovviamente, nonostante tutto quello che è successo durante il secolo scorso, ancora non vi è entrato in quelle teste dure che non si può cercare di raggiungere la pace con la guerra!》 esclamò Afrodite sarcasticamente. 《La guerra porta solo morte.》 La voce le morì in gola sull'ultima parola e si passò una mano tra i capelli, ostinandosi nel non volerlo guardare.
《Ma l'inattività non cambia le cose. E si da il caso che in un frangente come quello in cui ci troviamo questo tipo di atteggiamento avrebbe portato comunque alla morte di moltissime persone, troppe.》 La sua voce si mantenne inalterata, sebbene il suo nervosismo fosse evidente dal modo in cui serrava la mascella.
《Esistono altri modi.》 Le parole di Afrodite ormai erano ridotte ad un sussurro, zittite dal dolore che provava per tutte le persone che stavano rischiando la vita in quel momento, da entrambi i lati.
Udendo quella frase sospirata a fior di labbra, l'espressione dell'uomo si addolcì: lei non poteva sapere ciò che stava succedendo li, i telegiornali non potevano parlarne, era quindi ovvio che si preoccupasse per tutti coloro a cui teneva che si erano recati al fronte. Dal modo in cui parlava, sicuramente qualcuno a lei molto vicino era stato costretto a farlo.
E quella sua repulsione per la guerra, quel viso candido che rivelava un'anima altrettanto limpida, innocente lo fecero sentire sporco. Ma di una sporcizia che era pronto a rimuovere in ogni modo.
E gli fecero provare l'istinto irrefrenabile di proteggerla da tutto e tutti.
《Sono certo che nessuno ti sparerebbe se tu ti mettessi ad infilare fiori nella canne dei fucili di tutti i soldati impegnati nel conflitto, sospetto che saresti adorabile.》 Il viso del soldato tornò a sorridere, anche se meno apertamente di prima, mentre quello di Afrodite si velava di un leggero rossore. 《Ma purtroppo temo che non cambierebbe le cose.》 Fece una pausa per guardarla. 《Credimi, se ci fosse un altro modo...》 si interruppe, come se volesse cercare le parole adatte. 《Ma non potrei continuare a vivere normalmente sapendo che ciò che ho visto nell'America Latina continua a succedere e nessuno fa niente per fermarlo. Quella non è vita e tutti hanno il diritto di averne una.》 Lo vide stringere ancora il volante con una mano e passarsi l'altra tra i capelli. Seguì quel movimento. Non si era resa conto di essere tornata a guardarlo, ma non voleva smettere. 《Questo è l'unico modo che conosco.》
Quell'atteggiamento partecipe delle sofferenze altrui, ma combattuto nella prospettiva di agire egli stesso con la violenza per porvi fine, le mosse qualcosa dentro che non seppe identificare.
《Quanti anni hai?》 Fu lui a rompere il silenzio che si era venuto a creare dopo quella discussione, mentre entrambi riflettevano sulle parole dell'altro.
《Diciotto》 rispose lei esitante. 《Tu?》 Lui sembrava decisamente più grande.
《Qualcuno di più》 rispose infatti con un sorriso ironico.
《Quanti di più, avanti?》 Lo incalzò, ostentando sicurezza.
《Ne ho ventisette.》 Si voltò a guardarla, probabilmente per studiare la sua reazione.
Per tutta risposta lei cercò di celarla, ma non era sicura di essere riuscita a mascherare la sua delusione.
《Insomma sei un vecchio》 disse solo, con un'alzata di spalle.
Afrodite lo sentì abbandonarsi ad una risata divertita e si lasciò contagiare praticamente subito.
Gli indicò il suo portone e lui accostò l'auto.
《Beh, allora grazie!》 disse lei, guardando ovunque tranne che il suo viso. Alla fine però questo la attrasse come il miele ammalia le api e lei si prese un attimo per contemplare quei lineamenti atteggiati ad un sorriso seducente prima di voltarsi ed uscire dall'abitacolo.
《Come ti chiami?》 si sentì chiedere ad un passo dal citofono. Si voltò a guardarlo, stordita.
《Afrodite》 rispose tentennante. 《Tu invece, soldato?》 gli chiese di rimando, regalandogli il primo, vero, aperto sorriso che si concedeva da un mese. Subito ricambiato da quelle labbra che aveva fissato così tanto da poterle ormai considerare familiari. In realtà non aveva idea di quanto poco ancora le conoscesse.
《Ryan.》
 
 
 
 
 
 
NDA
Dunque. Scegliere il titolo per questo capitolo è stato davvero difficile. Volevo che riguardasse Ryan, doveva riguardare Ryan. Anche se di titoli sugli addii e sulle partenze ce ne sarebbero a bizzeffe, ma avranno il loro spazio più avanti. Prima ancora di scrivere il primo capitolo avevo già scritto nella mia mente la conversazione tra Ryan e Afrodite (anche tutta la scena in realtà, ma vabbe!) e il titolo doveva incentrarsi su di essa, ma stavo impazzendo per trovarlo, è stata la parte più difficile... Poi sono arrivati loro: i Mumford&sons con Broken crown e hanno portato l'illuminazione. "Your values ar all shot" è un verso di questa bellissima canzone, che tra l'altro secondo me si sposa piuttosto bene con il capitolo per quanto riguarda la musica (meno per il testo), e la traduzione non è "i tuoi valori sono tutti cicchetti" ma "I tuoi valori sono tutti spari", infatti "Shot" significa colpo, sparo, proiettile, anche bomba. E qui Afrodite accusa Ryan di rendere lecita la guerra e l'odio con i suoi valori, quindi mi sembrava piuttosto azzeccato. Per quanto riguarda le altre citazioni "Come sarebbe bello dire "per caso"? Tu credi che ci sia davvero qualcosa che succede "per caso"?" e "Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita ti risponde." sono frasi del libro Castelli di rabbia di Baricco e le ho inserite perchè sembra proprio che i due protagonisti si incontrino per paso, però poi la vita risponderà.
Altra parte difficilissima è stata la descrizione di Ryan (che poi sarebbe Channiong Tatum, che io personalmente AMO) e non sapevo cosa inventarmi per rendergli giustizia, davvero.
Quando Ryan dice ad Afrodite che sarebbe adorabile mentre mette fiori nei fucili volevo fare un omaggio alla marcia pacifista contro la guerra in Vietnam svoltasi a Washington nel 1968.

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Le notizie geografiche del capitolo (quelle sulla posizione degli stati nell'America Centro-Meridionale per intenderci) sono ovviamente attendibili, mentre la parte riguardante la guerra è altrettanto ovviamente farina del mio sacco.
La macchina di Ryan è un evidente tributo al film Gran Torino di Clint Eastwood, davvero splendido! Se non l'avete visto ve lo consiglio.

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Vi avviso che il prossimo aggiornamento arriverà con un certo ritardo perchè lunedì parto, ma dovrei riuscire ad aggiornare sicuramente entro giovedì 10!
Quindi vi saluto con questo capitolo chilometrico ed un forte abbraccio! A presto!!

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Capitolo 4
*** Così percossa, attonita la terra al nunzio sta. ***


Grazie a Elvass, Class of 13, Lady Angel 2002, Bijouttina, Sylvia Naberrie, Harryette, Gileky, Stephanie86 che hanno recensito.
Grazie a Class of 13, michyceli, Bijouttina, Lady Angel 2002 che hanno aggiunto la storia alle seguite.
 
 
 

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Così percossa, attonita la terra al nunzio sta.



Voi che per li occhi mi passaste 'l core.
 
6 Maggio 2014

  Non era riuscito a resistere, doveva vederla.
In realtà probabilmente non ci aveva nemmeno provato, semplicemente quel martedì, dopo una notte insonne passata con il viso di lei stampato nell'interno delle palpebre, all'una Ryan era salito in macchina e aveva guidato fino ad arrivare in via Venezia.
Non era stato difficile scoprire che liceo frequentasse, non c'erano molte ragazze con il suo stesso nome a Pescara quindi era bastata una breve ricerca su internet.
Una volta arrivato era sceso dall'auto e si era appoggiato a braccia conserte alla portiera. In attesa. Non era sicuro di sapere bene cosa stesse aspettando.
Non sapeva nemmeno cosa ci facesse li, davanti a quel liceo!
Voleva solo vederla senza essere visto, era piacevole guardarla. Osservarla sorridente, imbronciata, assorta, affascinata. Disgustata. Questo era leggermente meno piacevole. Non riuscì a trattenere la smorfia che si fece spazio sul suo viso.
Da quando aveva visto quell'ovale perfetto invaso dal disprezzo, era stato rapito dal desiderio di essere migliore di un soldato.
Da quando l'aveva vista ghermita dalla violenza, spaurita, inerme, aveva voluto dimostrarle che non tutti erano come Timothys, che lui era diverso, che l'avrebbe protetta.
Ed era completamente irrazionale, la conosceva appena. Tuttavia era bastato vederla, sentirla parlare di pace e di salvezza, di una vita diversa, per essere totalmente assuefatto alla sua presenza: ne voleva ancora.
Non sentì suonare la campanella, le pareti di quel vecchio edificio risalente al governo Mussolini erano troppo spesse per permetterlo, però vide le ragazze e qualche ragazzo dei primi anni iniziare ad uscire alla spicciolata.
L'edificio era rossastro e la sua facciata era divisa in due ordini: uno che comprendeva il piano terra, decorato da un bugnato dolce, ed un secondo che inglobava primo e secondo piano. Le finestre erano circondate da cornicioni bianchi. Vi si accedeva tramite una piccola scalinata semicircolare.
La vide all'inizio di quelle scale, come se fosse comparsa all'improvviso, con i capelli lisci come raggi di sole che le scivolavano sulle spalle, lambendole le braccia nude. Quel giorno indossava una maglietta in pizzo color crema che la rendeva adorabile, un paio di jeans chiari e delle ballerine turchesi. Così come i suoi occhi limpidi che scrutavano la folla mentre le sue esili braccia tentavano di farsi spazio. Le labbra rosa erano distese in un tenue sorriso mentre si voltava per cercare qualcuno e si ravvivava i crini biondi dopo aver individuato la sua amica. Scese le scale come se stesse fluttuando, con una grazia che non apparteneva a nessuno dei suoi coetanei.
Poi lo vide.
E lui rimase ad ammirare i suoi occhi farsi più grandi e le sue labbra dischiudersi appena, quasi per chiamarlo timidamente.
Ma Ryan l'avrebbe sentita, nonostante la distanza che li separava, lui avrebbe udito ugualmente la sua voce pronunciare teneramente il suo nome.
Lei distolse lo sguardo solo per dire qualcosa alla ragazza che le stava accanto, prima di avviarsi verso di lui sforzandosi di non perderlo di vista nella folla, di mantenere quegli occhi dorati incatenati ai suoi in quella maniera così indissolubile, che gli impediva ogni movimento.
Lui però ormai stava già girando attorno all'auto per riprendere il suo posto al volante.
Quando Afrodite riuscì a raggiungere la strada per attraversare, Ryan era già scomparso.
Si chiese quasi se non fosse stato tutto frutto della sua immaginazione: Afrodite aveva passato l'intera notte a ripassare nella mente il loro piccolo momento del giorno precedente, senza riuscire a chiudere occhio.
 
***

Yo no se, ni quiero, de las razones que dan derecho a matar.
 
Il primo funerale in memoria dei caduti in guerra si tenne il 18 maggio 2014 nella chiesa di San Cetteo, patrono della città.
I pescaresi che avevano perso la vita in quel mese e mezzo erano sette.
Paolo e Marco non erano tra questi.
Afrodite quella domenica mattina si alzò prima del solito per prepararsi in tutta calma ed avviarsi alla cattedrale a piedi. Iniziò la giornata con una doccia fresca che le servì per ricomporsi dopo la notte tipicamente umida della sua città nella quale, già da maggio, l'aria iniziava ad inspessirsi per il caldo. Non si preoccupò di asciugare i capelli nè di truccarsi, ma indossó subito un paio di jeans scuri con una maglietta in raso nero dalle maniche a tre quarti e delle ballerine lucide dello stesso colore.
Uscì quando i suoi genitori non si erano ancora alzati, lasciando loro un biglietto nel quale spiegava che era andata a fare una passeggiata e si sarebbero visti direttamente in chiesa. Decise di non passare per il lungomare, non voleva inquinare quel placido specchio con i suoi pensieri torbidi, così prese corso Umberto come per andare alla stazione, ma prima di arrivarvi svoltò a sinistra su corso Vittorio, avviandosi con tutta calma verso il fiume per raggiungere la zona sud della città che si trovava al di là e prendeva il nome di Portanuova. Sull'antico ponte Risorgimento non potè fare a meno di fermarsi e prendersi un momento appoggiata alla baluastra sul marciapiede est. Il sole era abbastanza alto ormai da permettere allo sguardo di spaziare scivolando sulla foce del fiume e sui pittoreschi pescherecci ormeggiati lungo il canale, al contrario delle barche più costose che trovavano invece posto nel porto turistico a sud, ma erano visibili anche il piccolo ponte Paolucci ed il più moderno ponte del mare, superiore al primo per altezza. Poteva notare i palazzi più alti alla sua sinistra, come l'hotel Duca d'Aosta o la rossiccia torre dell'orologio del comune, e quelli più bassi alla sua destra, parzialmente coperti dalla rampa dell'asse attrezzato. La vista della città era talmente splendida da riempire la mente di Afrodite di tristezza al pensiero di come i pescaresi passassero incuranti ogni giorno davanti a quello spettacolo, troppo impegnati con le loro irrequiete vite per prestarvi attenzione.
Quando riprese il cammino mancavano ormai dieci minuti all'inizio della funzione, tempo sufficiente per percorrere tutta via delle Caserme ed arrivare davanti alla cattedrale.
L'edificio, in stile tutto romanico com'era frequente in Abruzzo, aveva una rigorosa facciata rettangolare in pietra locale, suddivisa da lesene che ne preannunciavano la scansione interna in tre navate, ciascuna delle quali dotata di un portale sormontato da un arco a tutto sesto. Era interamente bianca, cosa che le garantiva una purezza che ben si accordava con la sua destinazione sacra.
La piazza che ne precedeva l'ingresso era ormai sgombra, così Afrodite si affrettò a raggiungere i suoi concittadini all'interno.
Le panche erano gremite di persone e l'ampio spazio del luminoso tempio era ricolmo del più assoluto silenzio. Nel punto di congiunzione tra la navata centrale ed il transetto riposavano le sette bare, sotto lo sguardo stanco del vescovo ancora immobile sul suo scranno dietro l'altare.
Prendendo docilmente posto al fianco dei suoi genitori, Afrodite si rese conto che di lato al presbiterio si trovavano alcuni dei soldati americani d'istanza a Pescara.
I suoi occhi affondarono nel miele che aveva invaso i suoi pensieri nei giorni precedenti, rendendoli stopposi, solo il tempo necessario per registrare il fatto che lui era presente.
A pochi passi da lei.
Percepì distintamente come sbagliato il brivido rovente che le corse lungo la schiena a quel pensiero.
Quando Afrodite distolse lo sguardo da Ryan, lo fece riproponendosi che non l'avrebbe più sollevato dalle sue mani aggrovigliate, per tutta la durata della cerimonia.
Il vescovo officiò la normale messa, prima di prendere la parola con voce vibrante, ma anche rotta dal dolore in alcuni punti, in onore dei soldati passati a miglior vita.
《Fratelli. Siamo qui riuniti oggi per raccoglierci in lutto attorno ai corpi esanimi dei nostri compagni, periti in guerra per una nobile causa. State certi che il nostro signore terrà con sè nella sua gloria questi martiri partiti dalle loro case per liberare i loro fratelli dall'oppressione dell'ingiustizia. Possiamo essere certi che trascorreranno la loro vita eterna tra le braccia sempiterne e misericordiose di Dio Nostro Padre. Io so, come lo sapete voi e come lo sanno i nostri fratelli statunitensi qui presenti, che non sono morti invano, che da troppo tempo la barbarie regnava sovrana in questo mondo ingiusto e che qualcuno doveva sovvertire questo caos per ristabilire l'ordine dettato dall'amore per il prossimo. Ebbene questi uomini, quasi fossero profeti del nostro signore al pari di suo figlio Gesù il Cristo, hanno contribuito a portare il suo messaggio di pace e libertà in una terra ormai vessata dal dio Denaro e da sua sorella Violenza. Per quanto la buona riuscita del nostro intento sia ancora lontana, Dio è vicino ai suoi figli, è dalla parte dell'Europa e dei nostri alleati statunitensi e continuerà ad esserlo. Quindi non disperate così che il loro sacrificio non sia vano, continuate ad avere fede e Dio pagherà i nostri sforzi.》
Afrodite sentì le gambe cederle e la testa farsi pesante a quelle parole, come se l'avessero riempita fino all'orlo, senza lasciare spazio a nessun altro pensiero.
《Salutiamo allora, augurando loro l'eterno riposo, il nostro fratello Giorgio Selva...》 Il vescovo prese ad elencare i nomi dei defunti, ma la mente di Afrodite si bloccò al primo, mentre quelle due parole iniziavano a rombarle nelle orecchie.
Era troppo.
Giorgio Selva.
L'eterno riposo dona a loro, o Signore.
L'intera cattedrale iniziò a risuonare di quella preghiera.
E splenda ad essi la luce perpetua.
Afrodite si portò una mano al petto.
Riposino in pace.
Le voci delle persone attorno a lei grondavano di lacrime, le stesse che le solcavano il viso. le mura della cattedrale trasudavano commemorazione.
Amen.
Così sia. No, non era giusto che così fosse.
L'eterno riposo dona a loro, o Signore.
Si appoggiò con le mani allo schienale della panca davanti a lei.
E splenda ad essi la luce perpetua.
《Afrodite, stai bene?》 Suo padre. Cosa gli sarebbe accaduto se le cose si fossero messe male?
Riposino in pace.
《Povera piccola.》 Il sussurro triste di sua madre.
Amen.
Così sia. La guerra era reale.
L'eterno riposo dona a loro, o Signore.
La morte era reale.
E splenda ad essi la luce perpetua.
《Sto bene, ho solo bisogno d'aria.》 Quasi non si accorse dei suoi piedi che si muovevano rapidi lungo il colonnato che divideva la navate centrale da quella laterale.
Riposino in pace.
La luce oltre il pesante portone della cattedrale le ferì gli occhi, l'aria fresca le invase i polmoni scossi dai singhiozzi, i suoni della città tornarono a riempire le sue orecchie, quasi a voler coprire tutto il dolore che avevano udito.
Amen.》 Un ospiro, il suo, che aveva il sapore di un "finalmente" più che di un "così sia".
D'un tratto sentì la porta della chiesa che si apriva e richiudeva dietro di lei. Decise di non controllare subito di chi si trattasse per avere il tempo di ricomporsi, certa che Silvia l'avesse seguita dopo averla vista fuggire in quel modo.
《Afrodite.》 La voce che si modellò attorno al suo nome non era però quella della sua migliore amica. Si voltò di scatto per trovarsi di fronte un corpo in perfetta uniforme. Quella fu la prima volta in cui la sua lingua accarezzò quella parola così nuova.
《Che succede?》 Ryan avanzò di un passo titubante, la fronte contratta e l'espressione contrita. 《Conoscevi qualcuno di loro?》
《Giorgio Selva era il mio insegnante di storia e filosofia.》 La voce le uscì più sicura di quanto avrebbe creduto.
《Mi dispiace.》 Ryan scandì quelle parole per fa sì che penetrassero fin nella parte più profonda di lei e si avvicinò ulteriormente, con calma. Ormai li separavano solo pochi passi.
《Quando è partito sua figlia aveva sette mesi.》
Nessuno dei due trovò qualcosa da dire, finchè Ryan non interruppe quel silenzio viscoso.
《Significa che quando sarà abbastanza grande, sua madre le racconterà che suo padre è morto in guerra per liberare un'intera popolazione dal peso della tirannide.》 Voleva convincerla, era evidente, aveva bisogno che lei gli credesse.
《Lo credi davvero?》 Il tono di Afrodite si fece più accondiscendente. 《Oppure le dirà che suo padre è morto in guerra per capriccio degli americani, perchè non sono mai sazi di quello che hanno.》 I suoi occhi si riempirono nuovamente di lacrime, che lei cercò stoicamente di trattenere.
《Non è così. Non è un capriccio. La gente lì muore.》 Il tono di lui si fece più duro.
《Me ne sono accorta.》 Afrodite alzò di poco la voce, indicando con rabbia la cattedrale alle spalle di lui.
《Quello che sto cercando di dirti è che vale la pena di mettere in pericolo la propria vita per salvare quella di persone indifese.》 Ryan sentì le spalle rilassarsi dopo aver pronunciato quelle parole, contemporaneamente il suo cuore venne stretto in una morsa alla vista delle lacrime che Afrodite non era più riuscita a trattenere e che ora le bagnavano le guance.
《Lo so.》 La sua voce ora aveva perso in volume ed asprezza ed era roca per il pianto. 《Ma è così difficile...》 Si passò una mano tra i capelli e distolse lo sguardo dal viso dell'uomo davanti a lei, in modo da lasciarlo libero di vagare per la piazza a destra della cattedrale, come se volesse permettere almeno ad esso di evadere da quella tensione. 《Tu sei abituato alla morte, io non l'avevo mai vista così da vicino.》 Continuava ad impedirsi di guardarlo. 《È talmente ingiusta...》 Fece una pausa come se stesse raccogliendo le idee e Ryan decise di non intromettersi per permetterle di sfogarsi.
Era perfettamente in grado di prendere su di se il dolore di Afrodite, di farlo suo per liberarla da quel sentimento di odio che non le apparteneva nè poteva appartenere ad una dea come lei, di assorbire quella disperazione che gli Stati Uniti avevano portato nella sua vita senza bussare, quasi come se fosse un piccolo pezzetto di lei da portare sempre con sè per ricordarsi che al mondo, nonostante tutto ciò che accadeva, c'era ancora qualcosa di puro, buono e innocente in grado di galleggiare, seppure a fatica, su tutto quel melmoso egoismo privo di scrupoli.
Afrodite era la sua Utopia.
《Come è possibile che esista un Dio?》 Il volto di Afrodite era assorto, i suoi occhi lontani. 《Com'è possibile che Dio voglia questo per i suoi figli? È la somma onnipotenza e la bontà assoluta, ma evidentemente non è entrambe le cose contemporaneamente, altrimenti il mondo sarebbe diverso. E non posso credere che tutto questo sia opera del libero arbitrio: siamo parte di lui, nati a sua immagine e somiglianza, dovremmo essere buoni, nel nostro cuore non dovrebbe esserci spazio per l'odio. Ma la realtà è ben diversa, allora io devo credere che ci abbiano mentito, da sempre. Devo credere che non esista nessun Dio, oppure semplicemente non devo credere a nulla. Ma ciò significa che siamo solo corpi invasi dalla disperata e sfrenata ricerca di qualcosa, sbocciati spontaneamente su questa terra che non meritiamo, perchè la stiamo distruggendo, esattamente come ci piace tanto distruggerci tra noi. Come si può fermare la macchina devastatrice che è diventata l'umanità senza rimanerne travolti? Come fermare questo processo di autodistruzione dettato dall'odio e dal desiderio insaziabile di avere? Non importa cosa si ha, l'importante in questo mondo è avere, ad ogni costo. Chi più ha, più ottiene. È un circolo vizioso, non se ne esce. Vite umane, denaro, potere, donne, cibo, case, beni di lusso, aziende. Non ha importanza. E non se ne esce: la malvagità ha posto radici così profonde nei cuori degli uomini da rendere difficile comprendere se non sia da sempre parte di loro. E se davvero lo fosse, quest'uomo così meschino e potente non può essere il frutto di qualcosa di tanto puro come Dio. Ma allora da dove viene? È possibile salvare un'umanità corrotta fino al punto da minacciare se stessa?》 La sua voce si spense lentamente, dopo quel discorso portato avanti con tanto ardore. I suoi occhi erano tornati gradualmente sul volto di Ryan mentre parlava.
《Non lo so. Ci stiamo provando, Afrodite.》 Eccolo il dolore di lei che si faceva spazio nel suo petto. Lo accolse. 《Stiamo provando a porre fine a quei soprusi, a quelle atrocitá.》
《Con altri soprusi, altre atrocità. La guerra non è la soluzione, è solo l'ennesimo problema che va ad aggiungersi alla catasta che il mondo tiene da parte.》 Il tono con cui lo disse non era accusatorio, ma rassegnato.
《Lo so, ma le parole non servono quando c'è di mezzo il potere. Qualcuno deve fermare l'uomo, anche a costo di danneggiarlo. Ognuno ha diritto a mangiare, lavorare, ricevere cure mediche, uscire di casa e passeggiare, avere qualcosa di suo senza il terrore che possano ammazzarlo pur di togliergliela, avere i soldi per fare un regalo alla propria moglie o fidanzata, portare la sua famiglia a fare una scampagnata, esprimere la propria idea, studiare, andare in vacanza, guadagnare in base ai propri sforzi, vedere le sue fatiche ricompensate, trovare al supermercato ciò di cui ha bisogno, comprare una casa dopo il matrimonio, progettare un futuro, dei figli. Altrimenti quella che viviamo non può essere definita vita.》 Fece una pausa per concentrarsi su quegli occhi limpidi e liquidi di sofferenza. 《È per questo che combatto: perchè le persone come te non dovrebbero conoscere alcuna ingiustizia, in nessuna parte del globo.》
Mentre parlava si era avvicinato abbastanza da riuscire a toccarla alzando una mano. E così fece.
Accarezzò per la prima volta quella pelle liscia, morbida, perfetta lasciando che le proprie dita si modellassero sul suo volto per imprimere in maniera indelebile quella consistenza nella memoria.
Passò qualche momento di impagabile abbandono, prima che Afrodite si ritraesse.
《È meglio che io vada ora, i miei genitori saranno preoccupati》 disse, senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi.
Lui annuì, seguendola con lo sguardo mentre passava al suo fianco per dirigersi verso la cattedrale. 《Ci vediamo presto, Afrodite》 le disse mentre le loro braccia si sfioravano al suo passaggio, riuscendo a malapena ad intravedere il sorriso timido di lei a quelle parole ed il rossore che le invase teneramente il volto.
Poi si allontanò a sua volta, diretto alla sua auto.
Tutto quello che Afrodite riuscì a pensare, mentre prendeva di nuovo posto accanto ai suoi genitori, era che quelle ultime parole avevano l'odore di una promessa.
Ryan la confondeva, mandava la sua razionalità in subbuglio.
E disarmandola la distraeva dal resto del mondo, con tutto ciò che esso portava con sé.
Quel breve contatto con le sue dita le aveva fatto dimenticare perfino dove si trovasse.
Era una cosa spregevole, ma Ryan la faceva sentire più leggera.
 
***
 
Silvia aveva visto Afrodite scappare dalla cattedrale.
Quando la funzione fu terminata e buona parte della città si riversò fuori dalla chiesa attraversi i tre portoni, cercò di individuarla in quel fiume di persone che sfociava a delta su viale Gabriele D'Annunzio. Alla fine si rassegnò e fu costretta a chiamarla al cellulare. Dovette attendere qualche istante prima che la sua migliore amica finalmente decidesse di rispondere.
《Afrodite, dove sei?》 le domandò subito, senza darle il tempo nemmeno di salutarla, ravvivandosi i ricci scuri.
《Sono in via Conte di Ruvo, sto tornando a casa.》 La sua voce era perplessa anche se conosceva benissimo il motivo della preoccupazione di Silvia.
《Mi aspetti lì così facciamo un pezzo di strada insieme?》 le chiese Silvia, avviandosi immediatamente verso il punto appena indicatole.
《Certo!》 La voce di Afrodite ora era squillante e allegra come al solito, come se non volesse farla preoccupare.
《Bene, arrivo subito.》
Quando la vide sola sul marciapiede le fu intimamente grata di aver chiesto ai suoi genitori di precederla, voleva parlare con lei.
Si avviarono una di fianco all'altra in silenzio, come indecise su cosa dire e soprattutto come dirlo. Ogni argomento in tempo di guerra era difficile.
Il cielo quel giorno non era dello stesso turchese dei giorni precedenti ma di una più mite tonalità di celeste, a causa della foschia e dell'umidità che addensavano l'aria senza portare però ancora al caldo afoso tipico delle estati pescaresi. Quella stessa foschia rendeva il panorama del Gran Sasso più nebuloso ed incerto al punto che, se non fosse stato per il suo profilo scuro, sarebbe stato difficile distinguere la montagna dallo sfondo. Di riflesso a quella tonalità così fresca, anche il fiume aveva assunto una colorazione insolita, sembrava più limpido.
Quando si trovavano ormai sul ponte Risorgimento, Silvia decise di prendere la parola.
Sollevò sul volto dell'amica le iridi di quello strano grigio che la caratterizzava, rese sottili dal sole di quella tarda domenica mattina.
《Cosa è successo durante il funerale?》 sbottò tutto d'un fiato.
Tra loro era sempre stato così: non avevano bisogno di frasi di circostanza o arrovellamenti, si erano ripromesse che, essendo sommerse da tutta quella cortesia di facciata che era la loro generazione, loro al contrario sarebbero state sincere e schiette l'una con l'altra.
《Mi ha fatto impressione sapere che Selva è morto. Questa guerra ci porterà via ogni cosa.》 La voce di Afrodite era atona, spenta.
《Lo so.》 Silvia tornò a guardare le sue scarpe e la pietra candida del marciapiede che scivolava sotto i suoi passi. 《Ma non devi essere preoccupata, Paolo e Marco torneranno sani e salvi quando tutta questa storia sarà finita, lo sai anche tu, Didi.》 Cercò di dare alla sua voce l'accezione più sicura che le fu possibile. Didi era il soprannome che Silvia le aveva trovato pochissimo tempo dopo che erano diventate amiche. Era un nomignolo piuttosto infantile che però ispirava dolcezza e tenerezza. Come lei.
Afrodite annuì per darsi coraggio, rispondendo al sorriso dell'amica con più convinzione di quanta realmente ne percepisse.
Una volta che furono arrivate davanti al portone del condominio di Afrodite, quest'ultima chiese all'amica di rimanere a pranzo con loro visto che ormai l'una era passata da un po' e casa sua si trovava nella zona di piazza Duca D'Aosta, che distava da lì circa venti minuti a piedi.
Pranzarono in allegria, nonostante i loro cuori fossero tutti un po' ammaccati o forse proprio per questo: avevano bisogno di nutrirsi di sorrisi e di riempire le loro menti con risate e chiacchiere.
Silvia aveva appena finito di raccontare di come sua madre avesse beccato suo padre a leggere il giornale del giorno precedente al contrario a causa degli occhi semi chiusi per la stanchezza, tra le risate generali, quando il telefono all'ingresso prese a squillare.
I tre padroni di casa si guardarono per un momento. Silvana si strinse nelle spalle e Ferdinando tornò quasi subito a chinare il capo sul suo piatto. A quel punto Afrodite non poté fare altro che sollevare gli occhi al cielo ed alzarsi da tavola.
《Non vi scomodate, tranquilli! Vado io!》 disse sorridendo, scuotendo il capo con rassegnazione mentre si avviava verso l'ingresso.
Mai si sarebbe aspettata di sentire quella voce.
《Marco?》 Il suo cuore era come impazzito, aveva aspettato di sentirlo per un mese e mezzo ed ora il suo desiderio era stato finalmente esaudito.
Si coprì con la mano l'orecchio che non era a contatto con la cornetta per assorbire meglio ogni sillaba di ciò che suo fratello intendeva dirle, per sentire solo lui e bearsi di quel suono tanto familiare.
La voce di Marco era esattamente come la ricordava, era la stessa che teneva serrata nel suo cuore e nella sua mente e che tirava fuori nei momenti in cui lui le mancava al punto da toglierle il fiato.
Eppure mai avrebbe pensato di udirla pronunciare quelle parole.
La cornetta le cadde di mano, atterrando sul pavimento con un tonfo sordo del quale non si curò minimamente, così come non si preoccupò della voce di Silvia che la chiamava, delle sue braccia che la scuotevano per sapere cosa fosse successo, di sua madre che raccoglieva il telefono per poi coprirsi le labbra con una mano una volta appresa la notizia, di suo padre che le accarezzava il capo con gli occhi parzialmente celati dietro le palpebre, quasi come se gli avvenimenti delle ultime settimane fossero tanti piccoli spilli pronti a trafiggere ogni punto debole e lui volesse tenerli al sicuro da quell'attacco.
Afrodite però tutti loro quasi non li vedeva.
La guerra era reale.
La morte era reale.
E quello era solo l'inizio.
 
 
 


NDA
Il liceo classico Gabriele D'Annunzio di Pescara è stato davvero costruito durante il governo Mussolini, tant'è che la pianta è a forma di M.
Le descrizioni di Pescara e della cattedrale sono come sempre fedeli alla realtà.
Per quanto riguarda la parte in chiesa, per chi non lo sapesse perchè è ateo o comunque non cattolico, l'eterno riposo è davvero la preghiera che si recita durante i funerali e la si ripete veramente tre volte. È una cosa che mi ha sempre fatto venire i brividi, non so perchè, quindi l'ho inserita in quella scena che doveva essere così agosciosa e cocitata.
All'inizio di questo capitolo mi sono concessa una piccola descrizione pseudo-stilnovistica di afrodite, non me ne vogliate hahaha però lui la vede così, ecco. Da qui anche la citazione all'inizio: celebre verso di una poesia di Cavalcanti, che è il mio stilnovista preferito, anche perchè contrariamente a quelle dei suoi contemporanei, le sue poesie sono sofferte, liriche.
Per quanto riguarda il titolo, si tratta di un verso della poesia Il cinque maggio di Manzoni.
La citazione che precede il funerale è tratta da una canzone dei Mecano (gruppo musicale spagnolo degli anni ottanta) che si intitola Otro muerto (un altro morto) e la traduzione è: Io non so, ne voglio sapere, le ragioni che danno il diritto di uccidere.
Ad un certo punto Ryan pensa ad Afrodite in termini di Utopia, non volevo intendere nel senso di "luogo inesistente" ma volevo alludere all'isola felice ideata da Thomas Moore nell'omonimo libro. Per chi non la conoscesse è un'isola sulla quale non vi è nè denaro nè proprietà privata, pertanto le persone vivono liberamente in pace, dedicandosi alla propria cultura ed al lavoro di ciascuno per il bene di tutti.
Giuro che questo sarà l'ultimo capitolo interamente triste per un bel po' di tempo, da ora il clima si distenderà molto, certo sempre per quanto concesso in tempo di guerra.
Il prossimo aggiornamento si terrà regolarmente giovedì prossimo!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vogliate lasciarmi un parere, ne sarei immensamente felice!
Per chi volesse contattarmi sono a vostra disposizione su facebook: https://www.facebook.com/delilah.efp, aggiungetemi!
Vi abbraccio tutte (o magari tutti, chissà!)
A presto!

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Capitolo 5
*** Mi amor cayò en tus brazos, tu amor temblò en los mios. ***


Grazie a Bijouttina, Lady Angel 2002, Vibral24, Tomocchan, Class of 13, _runaway, Claudia0102, GraStew, Atarassia_ che hanno recensito.
Grazie a Sun_Rise93, _runaway, Zanna Aleksandrovna (tra l'altro Zannina, sono rimasta a fissare il computer per dieci minuti quando ho visto il tuo nome nella lista!), Atarassia_ che hanno aggiunto la storia alle seguite.
Grazie a _runaway che ha aggiunto la storia alle preferite ed alle ricordate.





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Mi amor cayò en tus brazos, tu amor temblò en los mios.
 

El pueblo cubano como ha sufrido
pa' poder sobrevivir y llenar el vacío
de los familiares que se marcharon
y todo eso tu lo vas a pagar bien caro.
A los latinoamericanos tu engañaste,
dando muestras de una imagen que tu te inventaste
y a la hora cero y a la hora de la verdad 
todo era mentira todo era falsedad.
 
 
《Pronto?》 Una parola quasi sussurrata, che era sembrata un urlo nelle orecchie di chi, dall'altra parte del mondo, ascoltava.
《Marco?》 Quasi non riusciva a credere alle sue orecchie.
《Afrodite! Oh grazie a Dio stai bene! Come stanno mamma e papà? E Silvia come sta? Non puoi capire quanto mi mancate.》
Un gemito, quello di Marco, che le straziò il cuore anche con un oceano a dividerli, o magari proprio a causa di quella distanza.
《Qui è difficile. La guerra sta andando avanti sotto forma di guerriglia, ma questa è la loro terra: sono imbattibili. Saltano fuori dal nulla, sei morto prima di accorgerti che forse non eri così silenzioso come credevi.》
Frustrazione nella sua voce.
《Pochi giorni fa siamo venuti a sapere che nei licei venezuelani gli alunni studiano il funzionamento delle armi. Dio, il solo pensiero che i miei ipotetici figli possano ritrovarsi quotidianamente faccia a faccia con la morte a scuola mi fa venire i brividi. Questi figli di puttana li hanno fregati per bene, si sono presentati come dei salvatori e sono riusciti a salire al potere, poi hanno iniziato a mostrare la loro vera faccia, come è successo a Cuba. Ma gliela faremo pagare, Afrodite, nessuno merita questo.》
Una pausa.
《Da una settimana siamo dalle parti di Ibaguè, in Colombia, non molto lontano da Bogotà, la capitale, quindi gli scontri si fanno sempre più feroci. Non possono permetterci di avanzare ulteriormente.》
Esitazione.
《Qualche giorno fa volevamo tentare una sortita per fare una stima delle loro forze. Eravamo ventisei uomini. Sono bravo, sai? Mi scelgono quasi sempre per queste cose.》
Il cuore di Afrodite stretto in una morsa ferrea.
《Beh siamo arrivati quasi dentro Ibaguè, poi ci hanno fermati. Non li abbiamo visti, come sempre. Hanno catturato quasi tutti, siamo riusciti a scappare solo in due. Probabilmente anche loro vogliono informazioni sugli europei, perchè non hanno ucciso nessuno di noi.》
Lo sentì deglutire.
《Afrodite, Paolo era partito con me.》
Fu il turno di Afrodite di gemere.
《Ma lo ritroveremo, ci stiamo organizzando per andare a riprenderli.》
Avrebbe voluto dirgli di non andare, di salvarsi almeno lui, ma non riuscì ad emettere alcun suono.
《Sorellina ora devo andare. Mi hanno concesso di chiamarti solo perchè ho spiegato loro di te e Paolo.》
"No, no, no, ti prego!" quell'invocazione le si incastrò in gola, tutto ciò che riuscì a passare fu un sibilo roco.
《Dì a mamma e papà che li amo tantissimo!》
Sembrava un addio. Il suo tono era concitato, come se il tempo a sua disposizione stesse per scadere. Chi poteva porre dei limiti di tempo a due fratelli?
《Dì a Silvia che avrei voluto avere più tempo.》
Riusciva quasi a vederlo, mentre si stringeva la base del naso tra pollice ed indice.
《E tu abbi cura di te, finchè non torno.》
Calde lacrime iniziarono a rigarle le guance.
 
***
 
Un abrazo es quitar un pedazo pequeño de sí mismo a dar a otro
para que pueda continuar su viaje
 menos solo.

 
 
Non c'erano abbastanza soldi per pagare i professori oltre il periodo scolastico, la guerra stava prosciugando le forze della popolazione e le già scarse risorse economiche del paese.
Così era stato deciso che quell'anno gli esami di stato si sarebbero svolti in itinere: gli alunni avrebbero affrontato gli scritti il 22, 23 e 26 maggio e sarebbero stati sottoposti agli orali durante la prima settimana di giugno. Era una decisione della quale si vociferava già da anni a causa della crisi ed il nuovo conflitto mondiale non aveva fatto altro che dare l'ultima batosta alle finanze della nazione.
Era il 19 maggio quando il provvedimento venne reso noto e la stragrande maggioranza dei diplomandi accolse la notizia con un misto di disperazione e sollievo. La prima dovuta alla riduzione drastica del tempo da poter dedicare allo studio, la seconda all'idea di avere l'estate completamente libera.
Afrodite si chiedeva quale sarebbe stata la modalità del suo esame di stato dell'anno successivo mentre, una volta uscita da scuola, si dirigeva verso il lungomare percorrendo tutta via Venezia, per poi avviarsi lentamente verso casa, godendosi quel momento di dolce tepore.
Gli stabilimenti balneari avevano già iniziato a posizionare palme ed ombrelloni in vista dell'inizio della stagione e c'era già qualche ragazzo coraggioso che tentava il primo bagno nell'acqua ancora gelida del mare Adriatico.
Il sole era alto nel cielo ed abbracciava tutti i pescaresi, al punto da permettere ad Afrodite di passeggiare senza giacca. Guardandosi intorno era possibile vedere persone in bicicletta; oppure con gli auricolari nelle orecchie, intenti a fare un po' di moto; oppure con un cane al seguito.
Nessuno sembrava essere stato incrinato dagli avvenimenti del giorno precedente. La vita andava avanti, mentre la morte arrancava, riuscendo a raggiungerla solo di tanto in tanto. Il mondo continuava a girare normalmente, il sole non aveva smesso di sorgere o di brillare, era tutto normale.
Eppure nel petto di Afrodite si era aperta una ferita che, se non avesse ricevuto le cure adeguate a breve, si sarebbe sicuramente infettata, portandola a spegnersi ogni giorno un po' di più.
L'idea che Paolo potesse essere chissà dove, in chissà quali condizioni le metteva addosso un'angoscia che le impediva di pensare lucidamente.
Inutile dire che, una volta arrivata a casa e terminato il pranzo, si mise d'impegno alla scrivania decisa a studiare, ma la sua mente non sembrava altrettanto decisa a collaborare. Si perse quasi subito nella contemplazione che le offriva la finestra davanti alla scrivania. Il mare andava facendosi sempre più grosso a causa del vento che si alzava. Rimase quasi ipnotizzata dalle onde che si infrangevano contro gli scogli sollevando alti spruzzi luminescenti, così come brillava anche la superficie più calma del mare al largo, vagamente increspata dalla brezza primaverile.
Il lieve bussare alla porta della sua camera la svegliò da quello stato di torpore nel quale era caduta davanti a quello spettacolo, la mente anch'essa immersa in un altro tipo di acque agitate.
《Papo, entra.》 Rispose subito Afrodite, chiudendo i libri di testo che giacevano aperti sulla scrivania ancora intonsi.
《Afrodite, stavi studiando?》 le chiese suo padre, facendo capolino dall'uscio con il capo.
《No, non preoccuparti》 gli rispose lei sorridendo e provocando una mezza risata anche in suo padre.
《Allora non è che potresti andare a comprare alcune cose per la cena al supermercato? Tua madre ha chiamato dal negozio ed ha detto di avere un assoluto bisogno di panna da cucina e pancetta.》
《Certo, vado subito》 rispose sorridendo.
Aveva proprio voglia di uscire, quelle belle giornate invogliavano a liberarsi dalla costrizione delle quattro mura di una qualunque stanza.
Così prese qualche spicciolo dalla ciotola all'ingresso ed uscì con un ultimo saluto al padre, intento a preparare un compito di latino per i suoi alunni nello studio.
Quando varcò il portone della sua palazzina, tutto si sarebbe aspettata tranne quello che vide.
Parcheggiata proprio lì davanti c'era una Ford Gran Torino nera.
Ce n'erano davvero poche a Pescara, o meglio, era quasi sicura di poter affermare che ce ne fosse solo una.
Grazie al fatto che la capote fosse abbassata, riusciva a vedere perfettamente il conducente, un uomo dai capelli di un castano piuttosto chiaro, torturati da una mano che li scompigliava quasi nel tentativo di riordinare i pensieri che quelle ciocche celavano.
Per un momento rimase ferma sull'uscio, indecisa se richiamare la sua attenzione, completamente immersa in chissà quali elucubrazioni, oppure andare dritta a fare la spesa.
《Ryan?》 La curiosità sul motivo per il quale si trovasse proprio sotto casa sua fu più forte.
Lo vide riscuotersi e per una volta fu lei ad assistere mentre la sorpresa si faceva spazio tra i suoi lineamenti, subito ricacciata indietro, ma non abbastanza in fretta da passare totalmente inosservata. La mano che prima arruffava i suoi capelli andò a fare compagna all'altra sul volante per dargli la possibilità di guardare Afrodite.
《Esci?》 le chiese osservandola con attenzione.
《Devo andare a fare la spesa qui vicino》 rispose lei titubante.
《Ti accompagno, se ti va.》
Non c'era nessuna possibilità di riuscire a dirgli di no, non se la guardava in quel modo così avvolgente. Si ritrovò ad annuire prima ancora di rendersene conto ed immediatamente lui scese dall'auto e le si affiancò. Via regina Elena era decisamente silenziosa, non era una strada molto trafficata. Quando svoltarono a destra in viale Muzii un pensiero fulmineo attraversò la mente di Afrodite e si voltò di scatto a guardare l'uomo al suo fianco: sarebbe stato strano se qualcuno che la conosceva l'avesse vista passeggiare con un soldato americano. I suoi timori erano però inutili.
《Non ti ho mai visto in abiti civili》 osservò Afrodite, alzando lo sguardo sul suo viso per cercare i suoi occhi e trovandoli quasi subito, semplicemente perchè non l'avevano abbandonata per tutto il tragitto.
《Li indosso poco》 rispose lui con un'alzata di spalle ed un mezzo sorriso.
《Come mai da queste parti? Per quello che so voi alloggiate nella zona dei grandi alberghi a Montesilvano, giusto?》
A quelle parole il suo sorriso si fece più ampio, portandolo ad assottigliare leggermente gli occhi. 《Si, è giusto.》
Afrodite annuì. Aveva tranquillamente eluso la sua prima domanda, quella che davvero le interessava.
Percorsero la strada che li separava dal Simply in silenzio: Afrodite guardava i suoi piedi avvolti dalle ballerine, mentre Ryan guardava lei.
Quando entrarono nel supermercato, la ragazza iniziò ad aggirarsi tra le corsie, docilmente seguita da lui.
《Come ti trovi qui?》 gli chiese d'un tratto.
Quei silenzi carichi di qualcosa che non riusciva bene a definire le mettevano una strana agitazione addosso e sentiva il prepotente bisogno di colmarli il più possibile.
《Che dire?》 Ryan si strinse nelle spalle. 《Pescara è una bella città ed in Abruzzo ci sono tanti bei posti. Mi piace, anche se Boston è Boston.》
《Beh, immagino di si》 replicò Afrodite guardandolo di sottecchi.
《Poi vedere tutti quei posti con un gruppo di soldati perde moltissimo in piacevolezza.》 A quelle parole il suo sorriso si era fatto più malizioso.
Afrodite non potè evitare di ridere. 《Personalmente non ho mai visto l'Abruzzo come una regione particolarmente romantica, quindi direi che può anche andar bene.》
《Allora hai davvero visto poco della tua zona》 commentò lui con un'alzata di spalle.
《Ah, questi extracomunitari》 sospirò lei con finto rammarico. 《Pretendono di arrivare qui e conoscere la tua terra meglio di te.》
Risero entrambi a quelle parole, avviandosi verso la cassa.
Quando giunse il momento di pagare, Afrodite si mise a cercare il portafoglio nella borsa, ma una volta alzati gli occhi si accorse che Ryan la aspettava vicino all'uscita con gli acquisti già imbustati e la mano libera intenta a riposizionare il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni.
《Ti ringrazio, non dovevi》 gli disse imbarazzata, raggiungendolo per uscire.
《Fosse stato per te saremmo usciti da quel supermercato a notte fonda》 rispose lui alzando gli occhi al cielo. 《Ma cosa ci tenete in quelle borse?》
《Lo stretto indispensabile.》 Fu la risposta di Afrodite, accompagnata da un'alzata di spalle da parte sua ed uno sbuffo dell'uomo che le stava di fronte. 《Dai, dammi la busta.》
Lo vide alzare un sopracciglio ed un angolo delle labbra.
《La metto in borsa》 aggiunse, tendendo un braccio.
《Solo se vieni a fare una passeggiata con me.》
Rise a quelle parole. Sarebbe stata una frase infantile, se solo non fosse stato per quell'espressione: la mandibola volitiva contratta, le labbra atteggiate nel fantasma di un sorriso. Ma soprattutto gli occhi, assottigliati in due fessure che rendevano quasi indistinguibile il miele liquido che circondava le pupille.
Afrodite non rispose, si limitò a deglutire.
Ovviamente lui interpretò quella reazione come una risposta affermativa e le porse la busta, dirigendosi poi verso via De Amicis per prendere il lungomare.
Lei non potè, nè volle, fare altro che seguirlo.
Ci fu un altro momento di silenzio, questa volta rotto da Ryan non appena giunsero in vista del litorale.
《Dove studi?》 le chiese con tono innocente, svoltando a destra in direzione del fiume.
《Lo sai》 rispose lei, guardando di fronte a sè.
《Si, lo so》 ammise lui, un sorriso gli increspava il volto al ricordo di quella mattina di due settimane fa, quando era andato quasi a spiarla all'uscita da scuola.
《Come facevi a saperlo?》 Afrodite si rese conto solo in quel momento di non esserselo chiesto.
《Ti sorprenderà, ma non ci sono molte ragazze a Pescara con il tuo nome, non è stato difficile scoprirlo.》
《Mio padre è appassionato di cultura greca e latina》 asserì lei in risposta, ridendo. 《Ne ha fatto il suo lavoro, insegna nel mio liceo.》
《E tua madre invece? Cosa fa nella vita?》 le chiese allora lui, vedendola incline a parlare di se, improvvisamente avido di informazioni.
《Ha un negozio di fiori nella zona del conservatorio.》 Ryan vide il volto della ragazza al suo fianco accendersi. 《Credo che abbia costretto mio padre a scegliere l'appartamento in cui viviamo in base alla superficie del balcone. Ne abbiamo uno enorme fuori dalla cucina, sembra quasi un terrazzo, ed è sempre pieno di piante e fiori, nemmeno fosse una serra. Mia madre li adora, di qualunque tipo siano. Mio padre racconta sempre di averla conquistata proprio grazie ai fiori. Si sono conosciuti al liceo e, a detta sua, aveva ottimi informatori su mia madre.》 Afrodite si interruppe, guardando il mare al di là del profilo di Ryan, ripensando all'amore dei suoi genitori.
《E a te piacciono i fiori?》 le chiese allora lui, voltandosi verso di lei ed intercettando il suo sguardo.
《Moltissimo.》 Il suo volto si illuminò di un sorriso splendido, tutto a beneficio del soldato. 《Anche se i miei preferiti sono i papaveri.》
《I papaveri? Come mai?》 La trovava una scelta molto singolare, insomma i papaveri erano spesso considerati erbacce. La vide stringersi nelle spalle, cercando di sistemarsi i capelli aggrovigliati dal vento.
《Sono fiori che mettono allegria: sanno di viaggi in autostrada e di vacanze. Hanno un colore bellissimo e poi sono così sbarazzini.》
《Un po' come te.》 Ryan annuì, come se allora fosse tutto chiaro.
《Soldato, ti sembro sbarazzina solo perchè tu sei vecchio》 lo prese in giro Afrodite, cercando subito di scansarsi quando lui tentò di scompigliarle i capelli con una mano, vanificando i suoi sforzi di poco prima.
《Io non sono affatto vecchio!》 Ryan la guardò prima oltraggiato poi minaccioso, abbassandosi con il viso alla sua altezza.
《Ora sembri ancora più vecchio.》 Afrodite si sforzava di trattenere la risata che le invadeva il cuore, ma i risultati erano davvero scarsi.
《Stai giocando con il fuoco, biondina.》
Alla fine quella risata le scaturì dalle labbra e fu il suono più bello che Ryan avesse mai sentito: così pura, spontanea, liberatoria. Se ne riempì le orecchie, seguendola solo dopo qualche istante di contemplazione.
Nel frattempo erano arrivati al ponte del mare e Ryan si avviò in quella direzione per salirvi.
Era una struttura molto recente dal design moderno e flessuoso.
Procedettero in silenzio finchè non giunsero circa alla metà, dove la quota era massima e si poteva vedere praticamente tutta la zona centrale della città.
《Hai fratelli o sorelle?》 le chiese lui d'un tratto, mentre erano ancora fermi, appoggiati alla baluastra.
In estatica contemplazione del mare.
《Ho un fratello. E' di un anno più grande di me, quindi è partito anche lui due mesi fa per il Sudamerica con tutti gli altri》 rispose Afrodite, senza voltarsi verso di lui. La voce gocciolante di un sentimento troppo grande.
Il vento soffiava più forte lassù, avvolgendola in un abbraccio freddo e portandole continuamente ciocche di capelli a coprirle il viso.
Ryan riusciva comunque a scorgere quegli occhi celesti che sembravano in grado di scavargli l'anima ed in un istante quel colore si fuse all'azzurro del mare ed al turchese del cielo, sommergendolo con un'ondata di blu che gli tolse il fiato.
Sapeva che l'unico modo per tornare a respirare era lei.
Così la prese delicatamente per le spalle e se la strinse al petto, sentendola così piccola fra le sue braccia. Subito le sue narici vennero invase dal profumo di vaniglia che sprigionavano i suoi capelli.
Afrodite impiegò qualche istante per rendersi davvero conto di cosa stesse accadendo. Quell'abbraccio le sciolse un po' del peso che le gravava addosso da settimane e si trovò a ricambiare senza quasi accorgersene, aggrappandosi al maglioncino di cotone candido di Ryan come ad un salvagente. Si perse nel suo petto ampio, nelle sue braccia forti senza quasi respirare, beandosi dei respiri profondi di lui, che bastavano per entrambi. Non voleva turbare la perfetta quiete di quel momento con nessun movimento azzardato, avrebbe voluto rimanere così per sempre.
《Andrà tutto bene.》 Afrodite sentì quelle parole, attutite dai suoi capelli, e fu subito grata a Ryan per averle pronunciate perchè in quel momento riuscì a crederlo, riuscì davvero a pensare che sì, sarebbe andato tutto bene.
Rimasero perfettamente incastrati l'uno contro l'altra per un tempo che parve un anno, ma sarebbe potuto essere anche un mese, un giorno, un'ora o solo un secondo. Non sarebbe cambiato niente.
Afrodite trovò finalmente ristoro dal freddo che le gelava le ossa da troppo tempo, dal vento che le sferzava la pelle, in quell'abbraccio caldo.
Aveva trovato l'unico balsamo in grado di risanare la ferita che la guerra le aveva aperto nel petto.
 
Si riavviarono verso casa di Afrodite quando il sole si stava già abbassando dietro le montagne ed il cielo iniziava a tingersi di rosso, virando lentamente verso il cobalto mano a mano che lo sguardo scorreva verso il mare. Camminavano uno di fianco all'altra, in silenzio, con le loro braccia che si sfioravano leggermente di tanto in tanto.
Fortunatamente il vento aveva rallentato la sua furia, permettendo ad Afrodite di dare ai suoi capelli biondi, che ormai non erano poi così lisci, un aspetto accettabile, ma quelle ciocche arruffate e quel viso arrossato dal vento e dal moto le davano un aria fresca, allegra.
《Io ti ho parlato della mia famiglia, ma di te non so niente》 disse d'un tratto Afrodite, voltandosi a guardarlo e stringendosi le braccia attorno al corpo. Da quando il sole aveva iniziato a nascondersi dietro il profilo frastagliato del Gran Sasso, la temperatura si era abbassata.
《Non c'è molto da dire. Sono nato a Boston, sull'oceano Atlantico. Altro che questa pozzanghera adriatica che avete qua.》 Ryan si strinse nelle spalle.
《Hei! Non eri tu quello che diceva che l'Abruzzo è una bella regione e tutto il resto?》 Afrodite si finse offesa per quell'affronto al mare che amava tanto.
《Si, ma un giorno dovrò farti vedere anche Boston, oltre a tutti quei bei posti della tua regione che devono esserti sfuggiti.》
《Affare fatto, sottotenente》 replicò Afrodite, fingendo un'espressione impettita. 《Ora però vai avanti》 lo esortò subito dopo.
《Si, d'accordo.》 Ryan si passò una mano tra i capelli e si perse ad osservare il modo in cui le mani della piccola dea al suo fianco torturavano il bordo della camicetta color vinaccia che indossava. 《Mio padre ha combattuto in Afghanistan, era nell'esercito anche lui. E' morto come il Maggiore Martins.》
Afrodite alzò il volto di scatto dalle sue mani e il respiro le si strozzò in gola. 《Mi dispiace, scusami. Non pensavo...》 Non sapeva cosa dire. 《Parliamo d'altro, Ryan.》
Era la seconda volta che lei pronunciava il suo nome, con quell'accento un po' italiano che lo faceva sorridere.
Ci riuscì anche quella volta, spronandolo a continuare.
《No, non è successo nulla》 le disse, passandole un braccio attorno alle spalle e rammaricandosi di non aver preso la giacca dal sedile della macchina perchè l'aria iniziava a farsi un po' più che frizzante. 《Dopo la morte di mio padre, mia madre non è stata più la stessa. Loro erano come i pesci rossi, come i canarini. Ogni volta che lui andava in missione lei iniziava a sfiorire, ad invecchiare lentamente. Lui però tornava sempre, portando con sè qualcosa in ricordo dell'ennesima volta in cui era riuscito a rincasare sano e salvo dalla sua famiglia. Quella volta non tornò. E lei neppure. Si chiuse in un mondo tutto suo finchè il dolore non se la portò via. Resistette poco più di un anno senza mio padre, poi ebbe un infarto senza nessuna apparente causa.》 La sua voce si era fatta via, via più fioca mentre andava avanti nel racconto. Tuttavia il braccio di Afrodite, stretto attorno ai suoi fianchi in risposta al suo, lo scaldò abbastanza da ritrovare vigore. 《Io sono entrato nell'esercito poco dopo. Sono stato in Iraq, ma gli Stati Uniti stavano tenendo d'occhio il Venezuela da un po' di tempo e, quando la situazione è precipitata con l'elezione di Maduro e l'inizio delle sommosse, hanno deciso di mandare una quarantina di uomini a Caracas. Vedi, il presidente pensa che con tutto il disordine che c'è sarà semplice appropriarsi del paese, anche con tutta quella gente che si mette in mezzo.》
《E tu cosa pensi?》 gli chiese la ragazza, con voce quasi bambina.
《Penso che ciò che ho visto li non avrei mai voluto vederlo in tutta la mia vita. Ho visto poliziotti ammazzare di botte in un vicolo uno studente che stava partecipando al corteo del 12 Febbraio. Li ho visti uccidere Miss Anti-Maduro, una ragazza di ventitrè anni, con una pallottola sparata a dieci centimetri dall'occhio sinistro. Li ho visti picchiare a sangue un sacerdote. Cazzo, un ministro di Dio! E loro lo hanno reso quasi irriconoscibile.》 Il braccio libero di Ryan corse a scansare i suoi capelli dalla fronte, mentre gli occhi rimanevano fissi sul mare. 《Ho visto padri di famiglia dare fondo a metà del loro stipendio pur di ottenere qualche antibiotico per i figli deboli e denutriti, vulnerabili alle infezioni. Li ho visti pagare l'equivalente di venti dollari per un litro di latte.》 Alla fine di quel resoconto, Afrodite lo vide riscuotersi. 《Insomma, siamo tornati in patria a riferire la situazione e, credimi, non vedevamo l'ora di ripartire armati per fargli il culo. Poi è successo tutto quel che è successo. La dichiarazione di guerra, la risposta sudamericana, la reazione a catena di alleanze, la leva obbligatoria.》
《Questa ancora non riesco a spiegarmela. Insomma com'è possibile che in uno stato democratico come l'Italia i soldati americani siano potuti arrivare e trascinare via quasi con la forza chiunque fosse adatto al servizio militare?》 L'espressione di Afrodite era titubante, come se si aspettasse una risposta per niente gradevole.
《Cosa c'è rimasto di democratico in Italia, Afrodite?》 Infatti fu così. 《Siete al quarto presidente del consiglio eletto senza il vostro consenso.》
Afrodite abbassò lo sguardo sulle sue scarpe.
《Simons ha mandato una bella lettera a Pinocchi nella quale gli spiegava che aveva bisogno dei suoi uomini e lui non ha fatto altro che dire "Ok, vieni a prenderteli". E così è stato. Siamo stati autorizzati dal vostro governo, altrimenti non avremmo mai potuto farlo.》
Era la risposta più ovvia ed allo stesso modo la più terrificante.
《Mi hanno mandato d'istanza qui con il mio plotone perchè gli Stati Uniti vogliono avere tutto sotto controllo, sempre. Quando saranno certi della fedeltà dell'Europa probabilmente mi manderanno via.》
Il cuore di Afrodite ebbe un sussulto a quelle parole.
Anche lui sarebbe andato via prima o poi.
Non voleva pensarci. Così come sembrava non volerlo fare neanche lui, a giudicare dal modo in cui strinse la presa attorno alle sue spalle.
Ora aveva qualcosa a trattenerlo dalla rabbia che provava per quegli oppressori, per quei violenti bugiardi che stavano distruggendo il Venezuela, ingurgitandolo un pezzo alla volta e vivendo nel lusso a spese della popolazione, pronti a tutto pur di mantenere il controllo sull'oro nero di cui quella terra splendida era ricca.
Fino alla morte di Chavez la situazione era andata avanti senza particolari clamori: la criminalità era alle stelle, la legge era solo un pallido ricordo; ma gli omicidi non avevano ancora sostituito i sequestri, le sparatorie non avevano ancora preso il posto delle rapine. Con la presa del potere di Maduro la situazione era degenerata. Il popolo venezuelano, che aveva erroneamente creduto di essersi liberato di quello stato-non-stato che non li tutelava affatto, era passato dalla padella alla brace ed i giovani avevano capito che qualcosa andava fatto, così erano scesi in piazza per ottenere visibilità nel mondo.
Gli Stati uniti, così come tutte le altre potenze mondiali, avevano barattato il silenzio con petrolio venduto a prezzi stracciati.
Quando però la situazione si era fatta troppo violenta, avevano capito che continuando su quella strada non avrebbero fatto una bella figura e così avevano promosso quella guerra, anche perchè appropriarsi di territori così fruttiferi sia dal punto di vista energetico che turistico era senza dubbio una prospettiva appetibile.
In ogni caso loro ci guadagnavano sempre.
 
Ryan ed Afrodite arrivarono a casa di lei in silenzio, così come se n'erano allontanati.
Ryan si appoggiò alla portiera della sua macchina a braccia conserte, sorridendo maliziosamente per alleggerire l'atmosfera troppo tetra.
《Quando potrò rivederti?》 le chiese, vedendola in piedi di fronte a sè, affatto intenzionata a rientrare, a privare entrambi di quella compagnia così piacevole.
《Io...》 La sua voce era titubante, mentre lo guardava da sotto quelle ciglia chiare. 《Ryan, non lo so.》
Ryan si umettò rapidamente le labbra con la lingua. Ma per quanto fosse stato fugace, quel movimento non sfuggì alla ragazza.
《Sarò molto impegnata con la scuola.》 Arraffò la prima scusa che le venne in mente.
《Giusto.》 Ryan annuì. 《Che giorno finisci?》
《La...》 Afrodite si schiarì la voce. 《La regione ha stabilito che l'ultimo giorno di scuola sarà il 12 giugno.》 Si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, sotto lo sguardo indagatore dell'uomo davanti a lei che cercava di catturare il suo.
《Vorrà dire che verrò a cercarti dopo quella data.》 Scrollò le spalle. 《Non vorrei mai che tu ti distraessi dallo studio. Scommetto che sei un'ottima studentessa.》 Si avviò verso il posto del guidatore parlando con quel tono canzonatorio che la faceva sentire imbranata.
《Me la cavo》 rispose lei semplicemente, sorvolando volutamente su quella promessa insperata che Ryan le aveva regalato.
《Allora a Presto, Afrodite》 le disse lui facendole l'occhiolino, per poi prendere posto in auto.
Partì in fretta, dopo un ultimo fugace sguardo.
《A presto》 sussurrò Afrodite, quando ormai lui non poteva sentirla.
 
Quella sera, una volta al letto, la situazione nella quale si trovavano Paolo e Marco tornò a piombarle addosso in tutto il suo peso. Durante il pomeriggio quasi non ci aveva pensato, troppo presa da Ryan.
Era rientrata a casa molto più tardi di quanto suo padre si sarebbe aspettato.
《Afrodite, ma che fine avevi fatto?》 le chiese, piombando all'ingresso appena sentì la serratura della porta scattare.
《Scusami, ho incontrato Silvia ed abbiamo fatto una passeggiata》 gli rispose, assente.
《La prossima volta chiamami》 le intimò subito lui, un po' meno agitato, accarezzandole il capo quando lei gli passò affianco per dirigersi in camera sua.
《Sì, hai ragione.》
La cena si era svolta in un pensieroso silenzio e Afrodite si era ritrovata sola a fare i conti con i propri sentimenti prima di quanto si sarebbe aspettata.
Assieme all'angoscia per il futuro incerto di suo fratello e del suo ragazzo, si fece sentire anche il senso di colpa.
Si sentiva in colpa per essere riuscita a smettere di pensare a ciò che stava rischiando di perdere per qualche ora? Oppure perchè la compagnia di Ryan le piaceva molto più del lecito? O ancora, il suo senso di colpa era così opprimente proprio perchè derivava dall'unione di entrambe le cose?
Quando riuscì a chiudere occhio quelle domande si erano mischiate nella sua mente arrovellata più e più volte, fin quasi a perdere consistenza, ed un solo volto appariva chiaro in quel turbine di parole.
 
 
 

NDA
La macchina di Ryan, che in una prima stesura era una BMW, è diventata una Ford Gran Torino, in onore dell'omonimo film di Clint Eastwood. Mi è capitato di rivederlo l'altro giorno e ho pensato di fare un tributo a quel film splendido!
Sia il titolo che la citazione dopo la telefonata con Marco sono prese da un grande poeta cileno, Pablo Neruda, e significano rispettivamente "Il mio amore cadde tra le tue braccia, il tuo amore tremò tra le mie." e "Un abbraccio è dare un pezzetto di se stessi a qualcun altro affinchè possa continuare il suo viaggio meno solo." In spagnolo però sono molto più poetiche quindi ho preferito lasciarle in lingua originale. La citazione all'inizio del capitolo invece è di una canzone di un rapper cubano, Rey el Vikingo, che è dovuto scappare dal suo paese proprio per le sue canzoni a sfondo politico. La traduzione è questa: "Il popolo cubano come ha sofferto per poter sopravvivere e riempire il vuoto dei familiari che se ne sono andati e tu tutto questo lo pagherai davvero caro. Hai ingannato i latinoamericani, dando prova di un'immagine che tu ti sei inventato e all'ora-zero, all'ora della verità, era tutta una bugia, era tutta falsità."
Tutto ciò che riguarda le scuole sudamericane è riscontrato nella realtá, la legge è entrata in vigore da poco e appena l'ho saputo ho dovuto scriverlo qui. È inammissibile.
Anche tutto ciò che ho scritto sulle morti è reale. Non è morta solo quella ventina di persone che dichiara il tg qui in Europa, i ragazzi morti sono stati almeno un centinaio e le aggressioni della polizia continuano.
Si vocifera davvero da alcuni anni di svolgere gli esami di stato in itinere per non dover pagare i professori.
Ho creato per voi una mappa di Pescara con alcuni dei luoghi importanti di From limits far remote, where thou dost stay.

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Questo invece è il ponte del mare.

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Quindi grazie a tutte coloro che sono arrivate sin qui e spero che vogliate lasciare un parere a questo capitolo davvero importante. Il prossimo aggiornamento credo arriverà per giovedì 1 maggio, forse poco prima.
Vi abbraccio tutte!
Delilah <3

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Capitolo 6
*** Take me where time does not exist. ***


Grazie a _runaway, Bijouttina, Aven90, Netmine, Yoshino, Lotiel, youblowmymind, Sureness, DarkViolet92, Lunastorta87, JulieHudson, Lott, Dragasi, DreamerX, Zanna Aleksandrovna, You are a little late, wincus, Soheila che hanno recensito.
Grazie a Yoshino, dancing, DarkViolet92, DreamerX, Soheila che hanno aggiunto la storia alle seguite.
Grazie a You are a little late che ha aggiunto la storia alle preferite.
Grazie a DarkViolet92 che mi ha aggiunta agli autori preferiti.





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Take me where time does not exist.
 
 
Hemos perdido aún este crepúsculo.
Nadie nos vio esta tarde con las manos unidas
mientras la noche azul caía sobre el mundo.
 
 
C'è qualcosa di magico nei cerchi creati dalla pioggia nelle pozzanghere. Nel modo in cui quelle piccole lacrime colpiscono silenziose la pacifica superficie dell'acqua, increspandola solo per qualche istante prima di lasciare la scena alle loro gemelle in arrivo. Questo spettacolo è ancora più suggestivo quando la pioggia è quella estiva dalla consistenza infinitesimale, che ti inganna perchè sembra non esserci. Ma poi ti ritrovi a camminare per strada e in un attimo i tuoi capelli sono cosparsi di mille minuscole perle trasparenti e, quando chini il capo per proteggere il viso da quel dolce assalto, ti accorgi che quelle stesse perle turbano anche la quiete del pelo dell'acqua con piccoli cerchi argentei e ammalianti.
Nel mare è tutta un'altra storia. Quando arriva la pioggia il mare tira fuori la sua rabbia, quasi voglia dimostrare di essere più forte delle nuvole, così ricopre con nuove onde le sue stesse acque prima che qualcuno possa accorgersi delle ferite provocategli da quei proiettili precipitati dal cielo.
L'assalto più straziante è però quello contro le finestre. I rivoli di pioggia creati dalle gocce sul vetro impersonale e indifferente sembrano fare a gara per stabilire quale sia il più veloce. Vanno incontro impavidi al loro destino, senza sapere che una volta arrivati agli infissi delle finestre, alla fine della loro folle corsa, non sarà più possibile distinguerli sulla superficie fredda e marmorea dei davanzali. O forse lo sanno, ed è proprio la solitudine che provano all'idea di essere stati strappati dalle loro sorelle in cielo a spingerli a quell'ultimo folle gesto.
Afrodite guardava l'acqua scorrere contro la finestra della sua aula senza vederla davvero. Era il 3 giugno.
Nessuno aveva parlato della Festa della Repubblica del giorno precedente. Nessuno riteneva che l'Italia fosse ancora la Repubblica voluta da 12.718.641 dei loro 23.437.143 predecessori quei 2 e 3 giugno del lontano, non poi così lontano, 1946. Di quell'Italia, fondata sulla speranza di un nuovo inizio dopo la caduta del fascismo e l'esilio dei Savoia, non era rimasto nulla. Gli italiani erano troppo impegnati a coltivare ognuno il proprio orticello per accorgersi che il paese stava affondando. In ogni modo possibile. Economicamente, culturalmente, politicamente. Umanamente, nessuno guardava più in faccia chiunque gli camminasse incontro per strada. Perfino demograficamente: dal 2006 il numero delle nascite era inferiore a quello dei decessi; e più uno scendeva, più l'altro saliva. La gente moriva più spesso di quanto facesse l'amore.
Il 2 giugno Italiano veniva spesso accomunato al 4 luglio americano o al 14 luglio francese. Non c'è niente di più sbagliato: gli italiani non festeggiavano davvero la Repubblica e per gli studenti non era altro che un giorno come un altro per rimanere a casa a dormire.
Gli italiani non erano un popolo, ma soprattutto la loro non era una Repubblica.
In una Repubblica non si prendono decisioni come la rielezione del Presidente del Consiglio, l'entrata in guerra o il servizio militare obbligatorio senza che venga interpellato il popolo.
Afrodite aveva passato tutta la domenica e buona parte del lunedì a studiare in vista delle ultime due settimane di scuola, come al solito stracolme di verifiche scritte e orali di tutti quei professori con la terribile abitudine di ridursi sempre all'ultimo momento.
Fortunatamente le nuvole erano state dalla sua parte in quell'impresa, facendole il graditissimo favore di nascondere il sole alla sua vista, in modo tale che la voglia di uscire fosse ridotta al minimo.
Quel manto di piombo le risultava però pesante quanto utile: si sentiva oppressa da tutto quel grigiore che non la distraeva abbastanza dalle ultime parole di Marco. Da allora non aveva più avuto notizie da lui, così come anche il sole era scomparso dalla sua vita. Il cielo d'ovatta sporca la opprimeva, impedendole di respirare.
Si era gettata a capofitto nello studio per non pensare a Marco e a Paolo.
E a Ryan.
Il sottotenente aveva mantenuto la sua promessa: non l'aveva più visto da quel 19 maggio. Non da sveglia, almeno, perchè nei sogni il suo viso non aveva smesso di pararlesi davanti, le sue braccia non avevano smesso di avvolgerla in una stretta morbida, le sue labbra non avevano smesso di sorriderle maliziosamente e i suoi occhi, di quel miele screziato d'oro, non avevano smesso di scavarle dolorosamente l'anima.
Le giornate si erano susseguite tutte uguali. Se non fosse stato per le domeniche, Afrodite avrebbe giurato di aver vissuto undici volte lo stesso, noioso giorno.
Anche quel martedì mattina sarebbe stato identico a tutti gli altri se non fosse stato per la lezione di letteratura latina su Properzio. Stavano traducendo la settima elegia del secondo libro.
《Bene. Passiamo alla prossima frase. Chi vuole provare a tradurla?》 chiese la professoressa guardandosi intorno. Ovviamente nessuno si fece avanti e fu lei a dover decidere.
《Afrodite?》 disse alla fine la donna, vedendola con il viso rivolto alla finestra e la testa decisamente tra le nuvole. Era l'unica che chiamava per nome, visto quanto fosse particolare ed adatto alle sue materie.
La ragazza si riscosse e annuì, riportando la sua attenzione al libro di testo che si ritrovò davanti. 《Nullus de nostro sanguine miles erit.》 La voce le si spezzò quando si rese conto di cosa aveva appena letto. Alzo il viso verso la professoressa e la vide togliersi gli occhiali per stropicciarsi le palpebre con due dita, l'aria esausta. 《Nessun soldato nascerà dal nostro sangue》 tradusse flebile, scandendo lentamente ogni parola in modo da dare il tempo alla donna di riprendersi.
《Molto bene》 disse questa, dopo alcuni istanti, come tornando a respirare dopo minuti interi di apnea. 《Andiamo avanti.》
Afrodite però ormai non la ascoltava più.
Fu capace solo di scarabocchiare sul bordo del libro una frase dalla prima Ecloga di Virgilio che le era rimasta impressa: En quo discordia civis produxit miseros. Era una delle frasi dell'ultima battuta di Melibeo. Il pastore sta descrivendo all'amico Titiro di come gli siano state confiscate le terre a beneficio di uno dei veterani delle guerre civili che avevano dilaniato il periodo pre-augusteo.
Ecco dove la discordia dei cittadini ha portato i miseri.
 
***
 
 
《Hai notizie di tuo fratello?》
Da quando aveva visto Afrodite scappare sconvolta dalla cattedrale di San Cetteo e ricevere la terribile telefonata del fratello, Silvia aveva preso l'abitudine di fare con lei il tragitto fino a casa dopo la scuola, invece di prendere l'autobus come aveva sempre fatto. La scusa ufficiale era quella di godersi all'aria aperta quei primi raggi di sole estivo, ma in realtà sapevano entrambe che lo faceva per far sapere alla sua migliore amica quanto le fosse vicina in tutta quella situazione.
Afrodite le era profondamente grata, sia per l'affetto che le dimostrava con quei piccoli gesti che per la discrezione con cui li portava a termine.
Arrivava sempre, ogni giorno, un momento in cui veniva a crearsi tra le due amiche un certo silenzio e Silvia le porgeva quella domanda.
《Hai notizie di tuo fratello?》 le chiedeva con voce sommessa, come se pensasse che più alto fosse stato il suo tono, più quelle parole avrebbero fatto male alla ragazza al suo fianco.
Afrodite ogni volte sorrideva di un sorriso triste e sussurrava un "No.", come se pensasse che più alto fosse stato il suo tono, più quelle parole avrebbero fatto male alla ragazza al suo fianco.
Si puntellavano vicendevolmente nella mancanza di quei ragazzi così importanti per loro.
Però Afrodite non aveva avuto il coraggio di dirle di Ryan.
Si vergognava troppo dei nebulosi sentimenti che provava nei suoi confronti per parlarne con chiunque, anche con la sua migliore amica. Soprattutto con lei. Aveva paura di deluderla, lei che sapeva perfettamente quanto Paolo l'amasse.
Le due ragazze si sostenevano a vicenda, in quel modo silenzioso degli amici che non hanno bisogno di parole perchè il resto dice già tutto.
 
***
 
L'ultimo giorno di scuola non aveva risentito per nulla degli effetti della guerra: come sempre il liceo classico Gabriele D'Annunzio aveva organizzato un'assemblea d'istituto durante la quale le band del liceo si erano esibite in cortile sotto il sole cocente dell'estate pescarese alle porte; come sempre l'atmosfera era stata un misto di oziosità e agitazione; come sempre gli studenti avevano aspettato trepidanti il suono dell'ultima campanella; come sempre avevano tentato di urlare un conto alla rovescia durante gli ultimi dieci secondi che era risultato come sempre sfasato; come sempre tutti avevano abbracciato la prima persona sotto tiro, conosciuta o meno che fosse.
L'emozione era palpabile, come sempre, così come la spensieratezza.
D'altra parte all'italiano del XXI secolo non importa di cosa accade nel mondo, come sempre.
Così orde di studenti si erano riversate sulle scale del liceo, come sempre, e poi per le strade di Pescara.
Alla vista di quella ressa invalicabile di corpi sovreccitati Afrodite aveva sbuffato, scansandosi i capelli dal viso, come sempre, e Silvia aveva alzato gli occhi al cielo, a maggior ragione visto che quello non era un ultimo giorno di scuola come gli altri.
Afrodite ebbe l'ennesima dimostrazione della differenza di quell'anno dai precedenti nel momento in cui si accorse che qualcuno la aspettava all'uscita da scuola.
Come Paolo aveva fatto l'anno precedente.
Ma, allo stesso tempo, in maniera completamente diversa.
Indossava un paio di pantaloni color kaki ed una camicia verde scuro arrotolata fino ai gomiti che lasciava completamente scoperti i muscoli degli avambracci incrociati sul petto ampio, perfettamente fasciato dall'indumento. La guardava, con il bacino poggiato alla fiancata dell'auto e quello sguardo penetrante, impossibile da ignorare, che ormai Afrodite aveva imparato a conoscere.
Era esattamente nella stessa posizione in cui le era parso di vederlo quel 6 maggio.
Quella volta, però, non accennava a muoversi. La stava aspettando.
Così come aveva fatto Paolo l'anno precedente.
Fu troppo.
Liberò le iridi azzurre da quel miele colloso per riuscire a voltarsi e dirigersi nella direzione opposta a quella di Ryan, strattonando Silvia senza essere capace di darle una spiegazione.
《Didi, ma che succede?》 le chiese questa, seguendola a fatica nella folla.
《Da quella parte c'è troppa gente.》 Non era pronta ad un incontro tra la sua migliore amica e Ryan, non ancora.
《Ma che dici? Di qua non si riesce nemmeno a respirare》 osservò l'altra.
Afrodite non poteva negare che avesse ragione, ma la folla non faceva altro che offrirle un'ulteriore protezione dall'uomo che era venuto a cercarla.
Il problema era però quanto non fosse sicura di volerla, quella protezione.
Perchè era ormai quasi un mese che la sua mente oscillava tra ansia di avere notizie su Paolo e la speranza di incontrare Ryan tra le strade della città, casualmente o meno.
Si ritrovò a fermarsi bruscamente, così che Silvia finì per scontrarsi con la sua schiena.
《Ora tu mi spieghi cosa succede.》 L'espressione sul viso della mora era decisamente confusa.
《Non succede nulla!》 La voce le uscì più stridula di quanto si sarebbe aspettata.
《Ma chi vuoi prendere in giro, scusa?》 Il sopracciglio di Silvia ormai svettava in tutto il suo scetticismo.
《C'è una persona, dall'altra parte della strada》 ammise alla fine Afrodite con un gemito di frustrazione.
《E questa persona ti da dei problemi? Chi è?》 La preoccupazione della ragazza andava aumentando. 《Dannazione, Didi! Parla, su.》
《No, non mi da dei problemi, credo》 rispose a mezza voce.
Per tutta risposta l'amica sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
Proprio quando Afrodite stava per mettersi l'anima in pace all'idea di dover raccontare all'amica tutto ciò che era successo, si rese conto che la folla si era diradata abbastanza da permetterle di vedere Ryan, esattamente nella posizione in cui il suo sguardo l'aveva lasciato.
Era terribilmente bello, non riusciva più a distogliere lo sguardo.
Ed era lì per lei.
《Vì, fidati di me, è tutto a posto. Però mi sono resa conto di aver dimenticato una cosa in classe》 le disse per troncare il discorso, cercando di mascherare il nervosismo ravvivandosi i capelli con una mano. 《Tu, se vuoi, vai. Dovresti riuscire a prendere ancora l'autobus, io ci metterò una vita a convincere Croce a farmi salire.》
Infondo la scusa stava in piedi: Croce era un bidello rinomato per la sua pignoleria e ovviamente era proprio quello affidato al loro piano. Se Afrodite avesse davvero dimenticato qualcosa in classe non dubitava che lui le avrebbe fatto sudare le proverbiali sette camicie prima di permetterle di andare a riprenderla.
Proprio per questo, alla fine Silvia acconsentì.
《Però poi quando torni a casa mi chiami e mi spieghi chi c'era qui fuori.》 Il suo tono era categorico.
Afrodite annuì con convinzione, esibendosi in un gran sorriso che convinse definitivamente Silvia a dirigersi verso la fermata dell'autobus su Corso Vittorio, seppure titubante.
Una volta che la sua amica fu scomparsa dietro l'angolo, la ragazza si voltò verso la Gran Torino.
Avanzò verso Ryan lentamente, quasi senza badare alle macchine quando si trattò di attraversare la strada.
《Sei sicuro di essere americano e non svizzero?》 gli chiese una volta arrivata a portata d'orecchio.
《Avevo detto che ti avrei lasciata in pace finchè fossi stata impegnata con lo studio.》 Un sorrisetto strafottente si fece strada sul suo volto. 《Sei impegnata con lo studio?》
《Mi pare di no》 rispose lei, ridendo sommessamente.
《Quindi posso rapirti per questo pomeriggio?》
La vista le si oscurò per un attimo, ma tentò di ingoiare il groppo che le aveva chiuso la gola. Erano praticamente le stesse parole che le aveva detto Paolo l'anno precedente.
《Dipende.》 La sua voce fu un balbettio flebile, esitante.
《Da cosa?》 Vedendo la sua reazione, Ryan iniziò ad accigliarsi e le poggiò una mano sulla spalla.
Afrodite si riscosse a quel contatto.
Non dipendeva proprio da nulla, a quel punto.
Scosse la testa e si costrinse a scacciare tutti i pensieri tristi con un sorriso tenue. 《Dove andiamo?》
L'espressione sul viso di Ryan perse ogni traccia di arroganza e preoccupazione, dimostrando solo una grande esultanza.
《Prima di tutto a mangiare qualcosa!》 esclamò subito, scostandosi per aprirle la portiera.
 
Avevano impiegato mezz'ora per arrivare fin lì, ma ne era valsa la pena. Afrodite aveva chiamato i suoi genitori per avvisarli che non sarebbe tornata a casa, dicendo che avrebbe pranzato da Silvia.
In realtà era a Pineto.
L'agriturismo "La Rustìcola", dall'aspetto accogliente, presentava una facciata con mattoni a vista di un tenue giallo cotto dal sole. Sembrava la tipica casa disegnata dai bambini: la forma quadrata chiusa da un tetto a punta corredato di comignolo. L'unico elemento più complesso era il portico in legno che precedeva la costruzione, riscaldandola con il suo marrone scuro. Vi si arrivava tramite un sentiero di pietre levigate dai contorni irregolari, circondato da un boschetto di conifere.
Appena entrati vennero accolti da una cameriera sorridente e da un ambiente rustico e piacevole non meno di quello esterno: le pareti erano dolcemente dipinte di crema, abbellite da qualche stoviglia appesa, e si potevano vedere le travi e le assi in legno del soffitto.
《Avete prenotato?》 chiese la cameriera ai nuovi arrivati, guardando alternativamente Afrodite e Ryan.
《Veramente no, spero che abbiate comunque qualche tavolo》 rispose Ryan per entrambi, cercando di scandire il più lentamente possibile il suo inglese.
La cameriera sembrava essere comunque piuttosto confusa da quei suoni.
《No, non abbiamo prenotato》 tradusse per lei Afrodite.
La ragazza annuì, guardandola con riconoscenza.
《Siete fortunati, sono quasi le tre e si sono liberati diversi tavoli. Preferite stare fuori o dentro?》
《Fuori》 rispose immediatamente Afrodite, sorridendo a Ryan senza interpellarlo.
Conosceva la zona ed era fiduciosa sul fatto che la vista non l'avrebbe delusa.
Infatti non lo fece.
Sul retro, l'agriturismo si apriva ad un grande prato con una veranda più grande di quella anteriore dove prendevano posto alcuni tavoli. L'edificio sorgeva su una collina circa allo stesso livello della Torre di Cerrano, ma un poco più in alto, così da permettere la vista del maniero in lontananza circondato dai boschi. Tuttavia, proprio a causa di quegli alberi così suggestivi, non si riusciva a vedere la costa, che si trovava immediatamente dietro la torre.
《Peccato, pensavo si vedesse il mare》 disse Afrodite, sedendosi al piccolo tavolo e corrucciando lievemente le labbra, mentre Ryan si sistemava alla sua destra.
《Non ti piace il posto?》 le chiese subito.
《No, no! Non volevo dire questo》 si affrettò a rettificare. 《Il posto è splendido! Solo che pensavo fossimo abbastanza in alto da vedere il mare.》 Scrollò le spalle e le sue labbra si aprirono in un sorriso bellissimo alla vista del viso di Ryan affianco al profilo del castello. 《La vista della torre è bellissima, ci eri mai stato?》
《Solo con altri soldati》 le rispose, ammiccando maliziosamente.
《Cosa vi porto da bere?》 La cameriera si ripresentò da loro quasi subito con i menu.
Afrodite tradusse a Ryan.
"Devo insegnargli qualcosa in italiano." Si ritrovò a pensare con un sorriso, vedendo la sua espressione concentrata nel captare informazioni comprensibili.
《Vino?》 Più che un'affermazione sembrava una domanda.
《Devi riportarmi a casa dopo, sottotenente》 gli ricordò Afrodite in inglese, ridendo.
《Sono in grado di reggere un bicchiere di annacquato vino abruzzese, bambina.》 Ryan alzò gli occhi al soffitto con quelle parole.
La cameriera li guardava alternativamente, come se stesse seguendo una partita di tennis.
《Posso tornare tra poco...》 iniziò, titubante.
《No, non si preoccupi! Decidiamo subito》 la interruppe subito Afrodite.
Tornò a rivolgere l'attenzione su Ryan solo per rispondergli a tono. 《Se non avessi paura per la mia incolumità prenderei una bottiglia di rosso Zaccagnini!》 disse sporgendosi sul tavolo verso di lui con gli occhi assottigliati in due fessure.
Quel suo tentativo di risultare aggressiva fece ridere entrambi, ma agli occhi dell'uomo la rese solo più adorabile.
《Prendiamo un bottiglia d'acqua》 concluse lei in italiano, volgendosi verso la ragazza in piedi, ancora ridendo.
Quest'ultima appuntò l'ordinazione sul taccuino e li lasciò soli con un sorriso.
《Cos'hai preso?》
《Acqua!》 Il tono di lei trasudava ovvietà.
《Ma come?》 le chiese allora, ridendo. 《Cosa me l'hai chiesto a fare?》
《Non so, per vedere se eri d'accordo con la decisione che avevo preso.》 Anche lei lo seguì in quella risata.
《Cosa ordiniamo? Su questo hai carta bianca, purchè sia tipico.》 Ryan teneva la testa sulle dita intrecciate con i gomiti piegati sul tavolo, come se fosse in attento ascolto.
《Io direi un antipasto di salumi e formaggi, qui in Abruzzo siamo ossessionati dal pecorino, un assaggio di mugnaia al sugo e arrosticini》 elencò senza esitazione.
《Cos'è la mugnaia?》 Il suo bel viso appariva perplesso.
《E' un tipo di pasta tipico, sono una sorta di spaghetti spessi fatti a mano, quindi irregolari. E' buono fidati!》 concluse con entusiasmo.
《E gli arrosticini?》
《Spiedini di carne di pecora arrostiti alla brace.》
《Allevate altro al di là delle pecore?》 Il suo tono era evidentemente derisorio.
《Siamo un popolo di pastori! Sai, "Settembre andiamo, è tempo di migrare. Ora in terra d'Abruzzo i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare."?》 si giustificò Afrodite stringendo il petto, ancora scosso dalle risate, nelle spalle.
《Chi l'ha detto?》 le chiese con interesse.
《D'Annunzio, era pescarese e aveva case sparse un po' ovunque nella regione. Amava molto la sua terra, anche se poi come poetica può piacere o meno.》
《A te piace?》
《Nella prosa non molto, però in versi riesce a creare belle immagini.》
Ryan la guardava rapito mentre parlava.
Solo l'arrivo della cameriera riuscì ad interrompere quel dialogo di sguardi teneramente intrecciati alle parole.
 
《Io direi che possiamo andare》 disse Ryan una volta che ebbero finito di mangiare, alzandosi da tavola.
Afrodite lo guardò per un attimo spaesata. Non si era accorta del tempo trascorso. Tra risate, chiacchiere e le buffe difficoltà dell'uomo nel mangiare la mugnaia senza schizzare sugo ovunque si erano fatte le diciotto e trenta. Non voleva tornare subito a Pescara, tant'è che si alzò lentamente, gettando un'ultima occhiata nostalgica alla torre prima di rientrare nell'agriturismo.
《Non guardarmi con quegli occhioni tristi da cucciola, non ho intenzione di riportarti a casa ancora per un bel po'.》 Ryan si era portato dietro di lei dopo averle tenuto la porta aperta mentre rientrava e le aveva sussurrato quelle parole sfiorando quasi la sua guancia con la propria, tanto era vicino al suo orecchio.
Quella voce così bassa e vicina aveva scosso completamente la colonna vertebrale di Afrodite.
Ryan pagò per entrambi nonostante le lamentele e le insistenze della ragazza e tornarono fianco a fianco alla macchina.
《Quindi dove mi porti?》 gli chiese curiosa, mentre lui metteva in moto e utilizzava il suo sedile come appoggio per voltarsi e fare marcia indietro.
《In un altro bel posto, ovviamente. Solo bei posti per le piccole dee》 rispose con un sorriso, tornando a guardare la strada davanti a se.
Afrodite si ritrovò a ridere, abbandonandosi fiduciosamente alla sensazione di rilassatezza donata dalla natura che li circondava. Ryan aveva abbassato la capote della Gran Torino, così il vento ormai estivo le accarezzava i capelli in una coccola dolcissima mentre si godeva quei momenti con il capo reclinato sullo schienale e lo sguardo rivolto al suo gemello, il cielo.
《Sei così innocente, così pura.》 La voce di Ryan ruppe quel silenzio leggero, carica di un'ammirazione tormentata.
《Io non mi sento così innocente.》 La risposta arrivò accompagnata da un sorriso ironico e allo stesso tempo colpevole.
《Perchè mai?》 domandò incredulo.
《Perchè...》 Afrodite si interruppe ed abbassò lo sguardo sull'uomo al suo fianco, che stringeva il volante fino a farsi sbiancare le nocche senza concedersi più di guardarla. 《Nulla》 concluse alla fine la ragazza, non volendo rovinare quel pomeriggio con le sue confuse elocubrazioni.
Ryan a quel punto la guardò interdetto, come a volerle chiedere spiegazioni, ma dovette vedere qualcosa nei suoi occhi che lo spinse a rimandare il discorso ad un altro momento perchè le sorrise comprensivo e lasciò correre.
《Siamo arrivati》 disse d'un tratto, spegnendo l'auto.
Afrodite non si era accorta di nulla, troppo persa nella contemplazione del suo profilo concentrato forse nel fare ipotesi su cosa le passasse per la testa.
Si guardò intorno e riconobbe immediatamente quel parcheggio quasi desolato.
《Adoro questa spiaggia!》 esclamò Afrodite uscendo dall'auto con slancio e dirigendosi verso il sentiero che portava al litorale. 《Non vieni? Dai Ryan, si sta facendo tardi!》 lo chiamò voltandosi verso di lui ma continuando ad avanzare come prima.
《Comincia a scappare, biondina. Ora che ti raggiungo vedrai》 le rispose nel seguirla, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.
《Non riuscirai a raggiungermi, sei troppo vecchio!》 lo canzonò ridendo, poi gli volse le spalle per riuscire ad allontanarsi più velocemente. 《E poi sei un forestiero!》 concluse, scendendo nella boscaglia che si chiudeva sul sentiero.
《Questo non avresti dovuto dirlo!》 lo sentì dire, mentre si toglieva le ballerine per avere più libertà di movimento.
Ricordava la spiaggia, con la sua famiglia c'era stata diverse volte, eppure si scoprì impreparata a ciò che la aspettava dietro quell'intrico di alberi.
Si trattava di una lingua di sabbia spalmata al limitare della vegetazione e dolcemente accarezzata dalle onde placide della sera. Sul bosco si stagliava l'immagine della torre, dietro la quale iniziava a sparire il sole, irradiando nell'atmosfera una luce rossastra che evidenziava con un soffice rosa i contorni delle nuvole basse sul mare.
《Ti ho presa, Afrodite.》 sussurrò Ryan al suo orecchio, poggiandole il mento su una spalla e stringendole delicatamente le braccia in vita. 《Andiamo a sederci lì?》
Lei annuì senza parole davanti a quello spettacolo.
Il posto che le aveva indicato era un albero piuttosto grande che, con la sua chioma, proteggeva l'area sottostante dal resto della vegetazione, creando una specie di grotta verde al riparo dal vento fresco che iniziava ad alzarsi. Si sedettero a ridosso del tronco, uno affianco all'altra.
Lei, la testa poggiata sulla spalla dell'uomo, disegnava con le dita ghirigori immaginari sul braccio forte che la circondava ed altri nell'aria con le parole. Si raccontarono tutto ciò che era successo in quell'ultimo mese di lontananza e, prima che potessero accorgersene, il sole era tramontato ed il tempo a loro disposizione era finito.
Era giunto il momento di tornare alla vita reale.
 
 
 
 
NDA
Il titolo è tratto da una poesia di Herman Hesse, Hold my hand, mentre la citazione a inizio capitolo significa "Abbiamo perso anche questo crepuscolo. Non ci ha visti nessuno sta sera con le mani unite mentre la notte blu cadeva sul mondo."
Soprattutto la seconda mi sembrava molto adatta alla gita fuori porta (cominciate ad abituarvi) che fanno Ryan e Afrodite. Per quanto riguarda il titolo... Beh, è il motivo per cui Afrodite acconsenta a seguire Ryan: vuole andare in un posto dove il tempo ed i problemi della guerra e della vita incerta di Paolo non esistono. Non giudicatela, è una situazione difficile. Tra l'altro Ryan e Afrodite non sono innamorati! Ci tengo a chiarirlo perchè detesto gli amori campati sul nulla. Si stanno semplicemente tenendo compagnia. Lui è attratto dalla sua innocenza e la sua bellezza e riesce a farla sentire bene.
Lo so che la descrizione che faccio del popolo italiano può risultare pesante e poco gradevole. E' ovvio che ci sono anche eccezioni come Afrodite e Silvia, ma non me ne vogliate se ritengo che la stragrande maggioranza manifesterebbe più emozioni alla fine della scuola che allo scoppio della terza guerra mondiale perchè è così che funziona: quanti adolescenti si preoccupano di politica estera, ma anche interna? Tutti sappiamo che la percentuale è preoccupantemente bassa.
Vi rendo partecipi del fatto che "La rustìcola" esiste davvero ed è un posto bellissimo (si mangia anche bene!). La descrizione è quanto più fedele possibile alla mia esperienza alla Torre di Cerrano :) Anche la spiaggia è davvero così come la descrivo:
 
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Mentre questa è la vista dall'agriturismo:
 
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Aggiornerò entro giovedì 22 maggio. Scusatemi per il ritardo clamoroso di questo capitolo ma è davvero un periodo folle questo, non ho mai tempo per fermarmi e mettermi seriamente a scrivere!
Un abbraccio fortissimo, grazie a tutti! Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va :)
Delilah <3

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Capitolo 7
*** Younger now than we were before. ***


Grazie a ki_ra, STELLASASI, Leen Aleksevna, Gofranmalik998, Mizzy, Sha_17, Heaven_Tonight che hanno aggiunto la storia alle seguite.
Grazie a giugiulove15 che ha aggiunto la storia alle ricordate.
Grazie a DarkViolet92, Bijouttina, Lady Angel 2002, Zanna Aleksandrovna (che ringrazio anche per aver segnalato la mia storia su facebook! <3), Aven90, ki_ra, Heaven_Tonight, Soheila (idem come Zanna <3) che hanno recensito.
Grazie anche a Class Of 13 per il sostegno e il fangirling (?) su facebook hahahah





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Younger now than we were before.


 
Por mas que trabajas de tu salario no puedes vivir,
tienes que inventar, todo es ilegal,
eres un extraño en el único lugar
que tu puedes estar, no puedes viajar.
Los hoteles tu no puedes visitar,
eso es pa extranjeros, no pal nacional.
"El poder era pal pueblo", tu prometías
y a la hora de la verdad todo era fantasía.
 
15 giugno 2014
 
Sembrava quasi neve.
Tormento per alcuni, spettacolo per altri, il nulla assoluto per i più.
Quei piccoli, soffici frammenti di luce, nel loro candore, se ne stavano sospesi a mezz'aria quasi come decorazione delle turgide nuvole verdi dei pioppi.
Il cielo dell'ampia strada che costeggiava immediatamente la ferrovia sopraelevata era invaso dal fertile polline di quei maestosi alberi, in un reale quanto a momenti irrealistico acquerello dai tenui e sereni colori di una primavera che ha ormai lasciato il passo all'estate.
A chi si fosse fermato all'inizio del viale, prendendosi qualche istante per fare proprio quello spettacolo, la pace del momento sarebbe apparsa completamente irrazionale, irrispettosa nei confronti delle notizie trasmesse dal telegiornale del mattino.
Ibaguè era stata presa dagli Euro-statunitensi a danno solo ed esclusivamente della popolazione locale: l'esercito locale si era ritirato appena era stato in grado di comprendere appieno le forze avversarie, lasciando ai civili la scelta di difendere o meno la loro città.
Era stato un massacro.
L'unico motivo per il quale i telegiornali erano stati autorizzati a diffondere la notizia non era stata la vittoria conseguita, ma la brutta figura che avevano fatto i comunisti nell'abbandonare a se stesso, proprio nel momento del bisogno, quello che era da essi stessi definito il "loro popolo".
Infatti seppure gli Stati Uniti impedivano la diffusione di notizie a proposito delle nefandezze di cui si rendevano colpevoli, non mancavano di far sapere in che modo il governo Bolivariano obbligasse la popolazione a vivere: era diventato ormai impossibile reperire dei supermercati carta igienica, assorbenti, harina pan, spesso anche la carne; le persone ormai non lavoravano da mesi e lo stato provvedeva a fornire solo lo stretto indispensabile e solo una volta al giorno, tant'è che il braccio di chi aveva già avuto la sua razione veniva segnato; l'esercito  (perlopiù cubano) invadeva le strade, terrorizzando la popolazione; lo stato aveva requisito tutti gli elettrodomestici che non fossero di prima necessità, ora le famiglie avevano diritto a tante stanze e tanti letti quanti fossero i componenti, un frigorifero ed un fornello a gas, il resto era superfluo e se in una casa c'erano più camere di quante ne servissero alla famiglia, il governo aveva la facoltà di ricollocarla o di inserire nelle stanze in più dei senzatetto a sua scelta.
Una volta entrati a Ibaguè, il passo fino a Bogotà, e quindi al controllo della colombia, sarebbe stato breve.
Certo, grondante di sangue, ma pur sempre breve.
Marco non aveva ancora chiamato, Afrodite non aveva notizie di Paolo da troppo tempo. Sentiva di impazzire.
Era completamente assente mentre passeggiava sotto il sole ed il cielo di un limpidissimo celeste acceso del primo vero giorno di vacanze estive.
《Didi, mi stai ascoltando?》 le chiese Silvia, scuotendole una mano davanti al viso.
Erano sul marciapiede adiacente alla ferrovia e si stavano dirigendo verso Pescara sud, al di là del fiume, ovvero Portanuova, per comprare un regalo di compleanno alla madre della mora. Avevano già girato tutti i negozi su corso Umberto e dintorni, ma la ricerca aveva sortito scarsi risultati fino ad allora.
《Sì, certo che ti sto ascoltando》 si affrettò a rispondere Afrodite, riscuotendosi e distogliendo l'attenzione dai batuffoli sospesi in aria e, conseguentemente, anche dai suoi pensieri confusi.
《Comunque solo tu puoi ritrovarti a cercare il regalo per i cinquant'anni di tua madre all'ultimo momento, per di più di domenica!》 esclamò tentanto di mascherare la propria distrazione con una risata il meno possibile forzata.
《Non mi hai più richiamata ieri》 le fece notare l'amica, l'espressione corrucciata, ignorando i tentativi di Afrodite di apparire normale.
Solo in quel momento Afrodite ricordò di aver promesso alla sua amica, il giorno precedente, che l'avrebbe chiamata una volta tornata a casa per spiegarle chi fosse la persona che aveva visto all'uscita da scuola.
Le era passato di mente.
 
《Spero che tu ti sia divertita oggi.》 Ryan aveva interrotto il silenzio, affatto pesante, che si era venuto a creare nell'abitacolo della macchina.
In realtà non si poteva parlare proprio di abitacolo: la capote era ancora aperta e l'unico soffitto di cui i due disponevano era il cielo indaco della sera già appena, appena spruzzato di timide stelle.
《Abbastanza》 aveva risposto lei, sorridendo all'indirizzo di quel cielo indifferente, nella sua bellezza, al tormento che le faceva battere il cuore ad un ritmo folle e inumano. Quel muscolo furioso, con il suo spasmodico e sconclusionato agitarsi le impediva di respirare correttamente, ostruiva il passaggio all'ossigeno pretendendo l'intera scena, la completa attenzione nel suo esibirsi in quella danza da prima donna della quale l'etere e l'uomo al suo fianco erano pressochè ignari.
《Solo abbastanza?》 le aveva chiesto, stringendo con forza la leva del cambio. 《Dovrò impegnarmi di più allora.》 Un sorriso gli decorava un lato del viso, mentre negli occhi colore dell'oro fuso, a tratti screziato da venature più scure come se fosse stato ossidato, si agitava qualcosa di luminoso, vivo.
 
《Scusami, mi sono completamente dimenticata.》 La risposta di Arodite arrivò leggermente in ritardo, accompagnata da un tono di voce sommesso.
《Beh, raccontami ora, no?》 la incalzò Silvia.
《Non c'è nulla da raccontare.》 Afrodite cercò con tutta se stessa di nascondere l'esitazione che la pervadeva. 《E' solo un vecchio amico di famiglia che è venuto l'altra sera a cena》 si ritrovò a rispondere quasi senza esserne cosciente, come se stesse guardando la scena dal di fuori.
《E ti sta dando fastidio? Tuo padre lo sa?》 Il tono dell'amica si era fatto preoccupato.
《Ma no, che dici? Sarà venuto a riprendere qualcuno, non era lì per me!》 si affrettò ad aggiungere. 《Però è davvero antipatico, non avevo nessunissima voglia di doverci parlare》 concluse con un'alzata di spalle.
L'amica la guardò dubbiosa per qualche istante, poi, vedendola tutto sommato tranquilla, lasciò cadere l'argomento ricominciando a parlare di quello che a suo parere sarebbe stato il perfetto, e probabilmente introvabile, regalo per sua madre.
Una fresca, quanto rara, folata di vento accarezzò la pelle sudata di Afrodite, permettendole di prendere fiato in quell'afosa giornata di metà giugno. La scuola si era chiusa più tardi del solito per ordine della regione a causa delle esondazioni che si erano verificate nel mese di gennaio (non si sapeva bene per quale motivo) lungo il corso del fiume Pescara e addirittura del fiume Saline, che in realtà era piuttosto un ruscello, costringendo gli alunni a casa. Si era chiusa quando ormai l'umidità opprimente si appiccicava già creando quella patina di vapore che trattiene il sudore sulla pelle.
 
Afrodite era rabbrividita leggermente nella sua camicetta lilla, colpita dall'aria della sera che andava refrigerandosi.
Non c'era stato neanche bisogno di chiederlo che il tetto dell'auto si stava già richiudendo.
In pochi istanti l'ambiente allora chiuso era stato invaso dai corti respiri, dai loro profumi e dall'odore pungente della salsedine che era riuscito ad intrufolarsi mentre se ne stavano seduti sulla sabbia fino a rimanere intrappolato nelle membra.
Erano arrivati davanti al portone del condominio di lei senza quasi accorgersene, sotto lo guardo benevolo e ammiccante della luna.
《Grazie di tutto.》 Afrodite, nel pronunciare quelle parole sorridenti, aveva stretto con una mano la maniglia della portiera dell'auto.
Non riusciva a spiegarsi l'esitazione che la pervadeva, bloccandola in un'indecisione che non capiva.
《Sarebbe troppo da stalker chiedere il tuo numero?》 L'aveva guardata intensamente, sorridendo ironico.
《Immagino di no》 aveva risposto continuando a guardare la mano mollemente poggiata sul grembo, mentre con l'altra stringeva ancora la maniglia.
 
Afrodite percepì la presenza del telefono nella sua tasca come se stesse andando a fuoco.
 
La luna l'aveva seguita fin nella sua stanza e, una volta che si era messa a letto senza nemmeno mangiare nonostante fossero appena le nove, aveva iniziato ad accarezzarle il viso, i capelli scarmigliati ed il corpo avviluppato dal lenzuolo con i suoi raggi pallidi attraverso la finestra.
Afrodite ne scrutava la faccia tonda e rugosa, proprio come quella di una madre, senza riuscire a prendere sonno.
Il rumore che aveva fatto il suo telefono all'arrivo del messaggio quasi l'aveva spaventata, riscuotendola dalle sue meditazioni.
"Buonanotte, piccola Dea." recitava il messaggio.
"Afrodite!" l'aveva richiamata all'ordine la testa.
"Afrodite..." aveva sospirato indulgente il cuore, come trattenendosi dal rivelarle qualcosa di troppo difficile da accettare.
 
Erano arrivate al mare due ore e moltissimi negozi dopo, ma almeno Silvia aveva trovato il regalo perfetto.
Quell'anno Afrodite, Silvia ed altre ragazze della classe avevano deciso di prendere una palma alla Sirenetta, uno stabilimento balneare abbastanza vicino al centro della città. L'ambiente era tranquillo, riuscivano a godersi in tutta tranquillità la spiaggia ed il riposo che essa offriva.
Afrodite ad esempio se ne stava sdraiata con un telo sulla sabbia rovente, leggendo oziosamente un libro e lasciando che i raggi del sole riattivassero la seratonina ben nascosta in letargo nel suo corpo.
L'odore della salsedine e della crema solare; la delicatezza delle onde del mare tra i capelli e della sabbia sotto i piedi; le risate, le partite a beach volley, i tuffi, le uscite con il pattino, le nuotate fino agli scogli; perfino le alghe, le meduse; addirittura la mucillagine... tutto le era mancato dell'estate.
Ciò che le era mancato di più, però, non aveva alcuna possibilità di tornare: la spensieratezza.
Sentiva il bisogno di quella sensazione di onnipotenza che la libertà dagli impegni scolastici riusciva a donare, perchè quell'anno era stata inquinata dalla preoccupazione e dal senso di colpa latenti che non permettevano di viverla appieno.
Così nemmeno la lettura di un buon libro riusciva a cancellare dalla fronte di Afrodite quella ruga di ansia sorda.
I minuti scivolavano come una collana di perle tra le dita.
Durante uno di quei momenti quasi statici, sollevando le iridi meste dalle pagine, si rese conto di tanti piccoli dettagli ai quali non aveva fatto caso: i sorrisi tirati, i campi privi di giocatori, l'acqua intonsa.
Non sarebbe stata un'estate semplice.
 
***
 
We're falling apart
and coming together again and again
We're coming apart
but we pull it together,
pull it together, together again.
 
16 giugno 2014
 
Aprì gli occhi quando il sole della tarda mattinata rischiarava ormai il cielo, gemello dello sguardo che andò ad infrangervisi. Si alzò lentamente, quasi come se non volesse davvero svegliare il suo corpo con movimenti troppo bruschi. Si diresse in cucina per la colazione distendendo le membra con calma, i piedi scalzi e i capelli in disordine, che si affrettò ad allontanare da fronte e nuca raccogliendoli in un elastico. Si lasciò cadere su una delle sedie del tavolo in cucina, afferrando pigramente la scatola di cereali e la tazza che Silvana aveva lasciato sul tavolo per lei prima di uscire per andare al lavoro di buon mattino. La casa era completamente vuota, fatta eccezione per Afrodite e i caldi raggi del sole che penetravano dalle finestre nonostante le tende chiare: Ferdinando era a scuola per i consigli.
Sabato sera, nonostante fosse arrivata a casa alle otto e mezza senza avvisare, i suoi genitori non l'avevano accolta con stizza, anzi erano stati ben felici di vederla rincasare con un sorriso ebete stampato in faccia, dopo giorni e giorni di angosciosa apatia.
Era difficile per loro mantenere un atteggiamento rilassato nonostante la situazione in cui si trovava non solo la nazione, ma anche la loro famiglia, tuttavia cercavano di mostrarsi sereni per lei, perchè sembrava che quella ragazza sempre così allegra e vivace si stesse spegnendo lentamente, soffocata dalle ingiustizie di cui era spettatrice, come poteva fare una candela coperta da un bicchiere.
E Marco ancora non aveva chiamato.
Ma ciò che i suoi genitori non sapevano era che tutto ciò era ben condito da un sentimento agrodolce che le impediva di respirare.
Il rumore del telefono interruppe i suoi ragionamenti, risvegliandola dal torpore al quale si stava nuovamente abbandonando, come ormai le capitava sempre più spesso.
《Pronto?》 rispose subito, senza controllare chi fosse il mittente.
《Buongiorno, principessa!》
《Citazione davvero infelice, Stalker》 replicò scuotendo il capo con rassegnazione, ma non riuscendo comunque a trattenere del tutto un sorriso.
《Cosa fai oggi?》 La sua voce era calda anche attraverso il filtro metallico della cornetta.
《Pensavo di andare in spiaggia.》 Il cucchiaio che teneva in mano giocherellava con i cereali.
《Pensavo di portarti in un posto.》 D'improvviso, a quelle parole, rizzò la schiena dalla posizione rilassata contro lo schienale, nella quale si trovava poco prima, e abbandonò la posata contro il brodo della tazza.
Il respiro aveva iniziato ad accorciarsi, tanto che si alzò subito per aprire la portafinestra della cucina.
《Afrodite, sei ancora lì?》
Il cuore perse un battito quando sentì Ryan pronunciare quel nome. 《S-si, ci sono!》 balbettò infine, a fatica.
《Allora, ci vieni in un bel posto con me?》
Nessuno scrittore di poesia epica sarebbe riuscito a descrivere esaustivamente la battaglia che le imperversò dentro all'udire quelle parole.
Sembrava essersi risvegliata.
Quel sottotenente aveva il potere di riportarla in questo mondo, di rimettere insieme i cocci in cui il mondo l'aveva ridotta.
《Tra quanto tempo sei qui?》
 
***
 
You are soft. The world is going to chew you, then spit you out.
 
Non sapeva neanche lui cosa l'avesse spinto a sfiorare quella fottuta cornetta verde sullo schermo del suo cellulare per avviare la chiamata.
Forse per il fatto che non era riuscito a togliersela dalla testa per tutto il giorno precedente; sembrava non essere in grado di pensare ad altro, come se la sua mente avesse smesso di appartenergli, di rispondere alla sua volontà.
Sentiva una sottile esultanza scorrere immediatamente al di sotto della sua pelle dall'istante in cui l'aveva udita accettare il suo invito e non riusciva a scacciarla in nessun modo. A dire il vero, semplicemente non lo voleva.
Le aveva detto che sarebbe arrivato sotto casa sua circa in quarantacinque minuti, eppure si era precipitato immediatamente fuori dalla camera. Dai grandi alberghi al limitare di Montesilvano, fino al centro di Pescara aveva impiegato non più di venti minuti, compreso il tempo di trovare parcheggio. Ne aveva trascorsi altrettanti con un braccio mollemente poggiato alla portiera e le dita a tamburellare sul volante, prima di decidersi a mandarle un messaggio.
Era rimasto senza fiato allo scorgerla uscire dal portone del condominio con quell'espressione spaesata di chi cerca, ma teme di trovare.
Non attirò la sua attenzione, si limitò ad uscire dall'auto poggiandosi alla fiancata dal lato del passeggero con le braccia incrociate sul petto e ad aspettare che fosse lei ad accorgersi della sua presenza. Si guardava intorno, nella gonnellina rosa pastello di balze svolazzanti e la canotta bianca. Quando i suoi occhi finalmente si posarono su di lui, la vide sussultare e sbarrarli leggermente.
Ryan non potè evitare di serrare la mandibola in un sorriso a stento trattenuto. Sentì l'esultanza montargli dentro come ogni volta che la scopriva vulnerabile sotto il suo sguardo.
Afrodite si avviò verso la Gran Torino con passo malfermo, senza staccare nemmeno per un momento quegli oceani che le decoravano il viso più di quanto sarebbe stato in grado di fare qualunque gioiello da quell'uomo che l'attendeva e permettendo alle sue labbra di distendersi.
《Sottotenente Martins!》 lo salutò gioviale.
Il militare in questione rispose con un luminoso sorriso, staccando i fianchi dall'auto per aprirle la portiera con una galanteria quasi canzonatoria.
《Prego, signorina.》
Fece il giro dell'auto e Afrodite non potè evitare di rimirarlo con un'attenzione che la fece arrossire e non sfuggì al diretto interessato.
《Dove andiamo?》 chiese deglutendo, per cercare di smorzare la tensione.
《Perchè non provi ad indovinare, visto che dici di conoscere la tua regione così bene?》 la punzecchiò lui, ghignando. Inforcò un paio di occhiali e si immise nel leggero traffico pescarese, puntando dritto verso il fiume.
《Dunque...》 Afrodite si sforzò di riflettere, ma c'erano così tanti bei luoghi a sud del Pescara. 《Non saprei, ce ne sono troppi.》
《Allora immagino che lo vedrai tra poco.》
《Ma come? Ora sono curiosa!》 Il tono lamentoso della ragazza risultò teneramente infantile alle orecchie di Ryan.
《Biondina, non stressarmi. Sto guidando》 la rimbeccò lui, non riuscendo comunque a trattenere completamente una risata.
《Tu però stai stressando me!》 ribattè con foga, ridendo anche lei. 《Infondo la conosco poco, signore. Potrebbe portarmi ovunque.》
《Vorrei davvero portarti ovunque.》 Il tono si fece più serio, smorzando anche l'euforia della ragazza.
Ryan aveva fatto di tutto per pensare che quell'attrazione che provava nei suoi confronti era unicamente dovuta al fatto che lei fosse così fragile. E bella.
Ma in quella dea c'era qualcosa di più. Era pura, così pura che sembrava che tutta la sporcizia del mondo, lui compreso, non potessero nemmeno avvicinarsi. Era come il filo incandescente di una lampadina, che la polvere e le falene tentavano di sfiorare, venendo regolarmente respinte da quell'atmosfera rarefatta racchiusa nel vetro.
E poi era piccola, troppo.
E lui era un soldato americano e presto avrebbe abbandonato Pescara per il fronte e, alla fine della guerra, il fronte per casa sua a Boston.
C'erano una marea di motivi, etici e pratici, per lasciarla in pace.
Eppure erano lì, in quella macchina, diretti verso qualcosa che in realtà nessuno dei due sapeva ancora ben definire.
 
Impiegarono mezz'ora per raggiungere San Vito Chietino.
Afrodite conosceva il paese abbastanza bene da sapere che si arrivava alla spiaggia tramite una stradina che partiva dall'unica piazza (con tanto di gelateria!) e andava a inabissarsi in un sottopassaggio della ferrovia. Una volta arrivato lì però, Ryan tirò dritto lungo la Statale che correva parallelamente al litorale.
《Non ci fermiamo nemmeno qui? Ma dove mi stai portando?》
Avevano superato Francavilla e Ortona, ed un'innumerevole quantità di paesini nel mezzo, senza degnarle nemmeno di uno sguardo, ma una volte giunti a San Vito Afrodite era stata certa che fosse quella la loro destinazione.
《E' l'una! Ho così tanta fame che potrei mangiare anche te!》 rispose ridendo, passandosi una mano tra i capelli spettinati dal vento che li sferzava grazie alla capote abbassata.
Afrodite scosse la testa, controllando l'ora sullo schermo del cellulare e notando così che le era arrivato un messaggio.
"Didi, non ci raggiungi al mare?" Era Silvia.
"Non mi sento molto bene... Forse il ciclo in arrivo..." rispose in fretta. Una fitta di senso di colpa le strozzo la gola, ma si costrinse a a deglutire e tornare a guardare il mare alla sua sinistra.
Non stava facendo nulla di male.
E allora perchè ancora non aveva detto nulla a nessuno a proposito di Ryan?
Preferì non indugiare in quei pensieri che le facevano solo male.
《E dove mangiamo?》
《Qui》 disse semplicemente Ryan accostando e togliendosi gli occhiali per poi agganciarli all'orlo della T-shirt.
Si trovavano davanti all'entrata dell'hotel Garden, rinomato per la bravura dei cuochi nel preparare il pesce.
《Non ho mai mangiato qui》 esclamò Afrodite in un soffio, guardandosi intorno.
《E tu saresti abruzzese?》 Ryan la prese in giro, concludendo la domanda con uno sbuffo ironico e superandola in direzione dell'ingresso dell'hotel.
Afrodite gli tenne dietro, dopo un piccolo istante di esitazione.
Si sedettero ad un tavolo in terrazza, beandosi dei caldi raggi del sole e dell'ambiente elegante e raffinato.
《Avete già deciso cosa ordinare?》 Si avvicinò a loro un cameriere dai colori molto mediterranei: capelli, occhi e barba scuri, spalle relativamente strette e statura quasi scarsa. Si soffermò un attimo di troppo sul viso della straordinaria ragazza che si ritrovò davanti.
《Ma che vuole?》 chiese in inglese Ryan, ridendo.
《Ancora un minuto》 rispose lei al cameriere, alzando gli occhi al cielo in direzione dell'uomo seduto di fronte a lei.
《Bene, direi che questa volta decido io, è meglio》 iniziò Ryan, una volta che il ragazzo se ne fu andato.
《Non ti è piaciuto quello che ho ordinato l'altra volta?》 chiese mortificata.
《Certo che mi è piaciuto!》 si affrettò a correggiersi. 《Ma, andiamo... Si tratta di pesce》 aggiunse poi, grattandosi la nuca con un sorriso.
《E questo cosa significa?》 Il tono era orgogliosamente impettito.
Ryan si chinò sul tavolo per avvicinarsi a lei, come se dovesse rivelarle chissà quale segreto, portandola a fare altrettanto quasi inconsiamente. 《Tu pozzanghera.》 Puntò alla ragazza con l'indice. 《Io oceano.》 Passò a indicare se stesso.
Afrodite lo guardò per un istante, poi scoppiò in una sonora risata. Di quelle spontanee, sincere, liberatorie, che mostri solo a pochi, nelle quali viene fuori la vera te stessa.
《Tu straniero.》 lo corresse, la voce rotta dagli ultimi strascichi della risata di poco prima. 《Io abruzzese.》
《Oh, avanti! Cosa c'entra?》 esclamò lui, aprendo le braccia.
《Facciamo una cosa.》
《Vai, spara.》 Ryan si dispose all'ascolto, cercando di tornare serio e unendo gli indici davanti alle labbra dopo aver poggiato i gomiti sul tavolo.
Quel movimento catturò l'attenzione di Afrodite, portandola a posare lo sguardo su quella bocca. Mai decisione fu più sbagliata, se ne accorse quando vide quelle labbra modellarsi in un sorriso malizioso.
Tossicchiò e tornò a piantare gli occhi in quelli di lui, poi si accorse che anche quelli la destabilizzavano e optò per voltare il viso verso il panorama che si apriva al di là della balconata alla sua destra.
《Allora?》 la incalzò lui, vedendola in difficoltà, con quel sorriso strafottente.
《Io ordino il pranzo per te e tu lo ordini per me》 concluse.
《Ma così tu mangerai bene e io no!》 si lamentò lui, schernendola con una risata allegra.
《Ma quanto sei carino!》 sibillò sarcastica, assottigliando gli occhi.
Alla fine lui accolse la sua idea e richiamarono il cameriere.
Quando iniziarono ad arrivare le pietanze, Afrodite decise di cominciare le lezioni di italiano.
《Ok, questa si chiama "forchetta"》 esordì, prendendo in mano l'oggetto in questione.
Ryan rimase per un momento con quello stesso oggetto sospeso in aria nel percorso piatto-bocca.
《Che stai facendo?》 le chiese, anche se la risposta era piuttosto ovvia.
《Ti insegno l'italiano》 rispose con semplicità, scrollando le spalle. 《Avanti ripeti: "forchetta".》
《Mangia, altrimenti si raffredda》 le intimò, indicando il piatto con la sua forchetta e portandola poi finalmente alle labbra. 《In spiaggia potrai insegnarmi tutto quello che vuoi》 aggiunse, una volta che ebbe deglutito, vedendo il suo viso adorabilmente corrucciato distendersi lentamente in un sorriso.
Iniziò a mangiare di gusto, scansando i capelli dalle spalle in un fluido movimento di onde dorate.
 
《Andiamo?》 Ryan si pulì le labbra con il tovagliolo che aveva posato sulle gambe, facendo per alzarsi.
Aveva insistito per pagare il conto anche quella volta, non c'era stato nulla che Afrodite avesse potuto dire per evitarlo, tanto più visto che non l'aveva avvisata di quel pranzo dispendioso ed era uscita di casa con una scarsa manciata di euro.
Una volta usciti dall'hotel, si diressero di nuovo verso l'auto per raggiungere la spiaggia. Ryan si esibì in un'azzardata inversione a U sulla statale e tornarono sui loro passi.
Faticarono a trovare parcheggio, si erano fatte le tre di pomeriggio e quasi tutti i posti-macchina erano occupati.
Quando finalmente riuscirono a parcheggiare in piazza , Ryan scaricò dalla macchina un ombrellone ed un telo e insieme si incamminarono verso la spiaggia libera. Il litorale era roccioso e il suo bianco splendente formava con il turchese dell'acqua dai riflessi argentei un contrasto bellissimo.
《Mi piace l'idea di fare qui il primo bagno della stagione》 esordì Afrodite, guardando con desiderio le onde spumose che si infrangevano sul bagnasciuga.
《Mi stai dicendo che ancora non hai fatto nemmeno un bagno?》 le chiese con scherno.
《No》 rispose semplicemente, scrollando le spalle.
Per tutta risposta l'uomo al suo fianco lasciò cadere tutto ciò che aveva in mano e la guardò con un sorriso che non prometteva nulla di buono.
Vide quegli specchi celesti, che erano gli occhi della ragazza, farsi improvvisamente più grandi nel comprendere le sue intenzioni e anche lei abbandonò la borsa, voltandosi per scappare.
Ryan le lasciò l'illusione di avere qualche possibilità, regalandole un po' di vantaggio, poi la rincorse e l'acciuffò da dietro, stringendosela al petto come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza quasi accorgersene.
《Illusa!》 esclamò giocoso.
Tutta la spiaggia li stava guardando con divertita perplessità, mentre il soldato voltava la ragazza verso di se e la prendeva in baccio, costringendola ad attorcigliare le gambe attorno al suo busto, poco sotto il diaframma. Lei colse l'occasione che le forniva quella posizione per ricoprire di inutili pugni la sua schiena.
Ora che poteva tenersela vicina, la risata che aveva accompagnato la sua fuga gli risuonava forte e chiara tutt'attorno.
Si diresse con andatura ondeggiante verso l'acqua, con quella piccola Dea aggrappata a lui come un koala, e insieme fecero il primo bagno della stagione tra schizzi, risate, urletti, tuffi e tanti 《Ti prendo!》 seguiti da altrettanti 《Ryan!》.
Quando finalmente uscirono dall'acqua, i vestiti zuppi e i volti sorridenti, Ryan si apprestò a piantare l'ombrellone e Afrodite mise gli indumenti ad asciugare. Rimasero entrambi in costume ed ebbero la possibilità di scrutarsi per la prima volta. Le loro risate si spensero gradualmente mentre venivano a patti con quella realtà e fu lei ad arrossire per prima, distogliendo lo sguardo e cercando disperatamente qualcosa da fare per uscire da quella situazione. Trovò la sua salvezza nel telo che si trovava nella sua borsa e si impegnò a stenderlo all'ombra con grande attenzione. Ryan la imitò per poi sdraiarsi al suo fianco.
Sembravano due ragazzini impacciati e, difatti, lei lo era, ma lui non aveva mai avuto quel tipo di atteggiamento con una ragazza, non se la ragazza in questione lo attraeva più di quanto gli piacesse ammettere.
Afrodite era adagiata sulla schiena, con il viso voltato verso il soldato, che prese oziosamente un pietra al sole e la posò con cautela e precisione sulla sua nuca, strappandole un gridolino per il calore che emanava. Continuò così finchè non ebbe ripercorso tutta la sua colonna vertebrale con tanti sassi lisci e bianchi. La ragazza lo guardava sorridendo mentre portava a termine quell'operazione con il massimo della concentrazione. La osservava estasiato, sembrava quasi che la stesse venerando.
Quegli occhi su di se la facevano impazzire.
Quelle mani che le sfioravano casualmente la schiena le procuravano una scarica di piccoli brividi che si irradiava per tutto il corpo, rendendolo consapevole della presenza dell'uomo, come se la vista non bastasse a mandarla in confusione.
 
Si riavviarono verso le sei e mezza di sera perchè Afrodite non voleva far preoccupare di nuovo i suoi genitori tornando tardi.
Arrivati in piazza, Ryan vide la gelateria e decisero di approfittarne.
《Tiramisù e cioccolato?》 chiese, sentendo la ragazza fare la sua ordinazione.
《Si, prendo sempre questi》 replicò con naturalezza.
《Solitamente le ragazze preferiscono i gelati alla frutta.》
《E chi l'ha detto?》
《Boh, esperienza personale. Avete questo pallino fisso della linea e prendere gelati alla frutta vi fa sentire meno in colpa, immagino》 replicò sghignazzando.
《Sottotenente, mi sta dicendo che sono grassa?》 lo prese in giro.
《No, no!》 si affrettò a rispondere, negando anche con il capo. 《Sei perfetta》 concluse in un sospiro.
Lei non fece altro che arrossire e chinare il volto verso il suo gelato.
Si riavviò verso l'auto che era ancora rossa in viso.
《Credi davvero di poter entrare nella mia macchina con quello?》 le chiese ironico, alludendo al cono.
《Eddai, faremo tardi!》Erano ormai arrivati quasi alla Gran Torino.
Ryan sbuffò, trattenendo a stento un sorriso.
《Se ne fai cadere anche solo una goccia ti faccio scendere》 le intimò, indicandola con l'indice in uno scherzoso fare minaccioso.
《Signorsì signore.》 Afrodite si portò la mano alla fronte in una mal riuscita imitazione del saluto militare ed entrambi scoppiarono in una sonora risata, salendo in auto.
 
《Parlami dell'Iraq.》
La ragazza se ne uscì in quel modo dopo un quarto d'ora di viaggio.
Lo vide serrare la mandibola e profonde rughe di stanchezza andarono ad aggrinzarsi attorno ai suoi occhi. Sembrava che fosse invecchiato di dieci anni nel tempo necessario per pronunciare quella frase.
《Non sono cose per te》 disse con veemenza. 《Afrodite, tieniti fuori da tutto questo. Non farti inquinare da ciò che abbiamo fatto.》
Lei non seppe cosa rispondere, se non un timido 《Scusa.》
Ryan si passò una mano sul viso, esausto. 《Non volevo essere così brusco...》 Fece una pausa e Afrodite gli lasciò il tempo per riordinare le idee. 《E' che abbiamo commesso tutti, dall'una e dall'altra parte, delle azioni terribili. Tu... non saresti in grado nemmeno di sentirle, probabilmente.》
Lei lo guardò con dolcezza, ma tutto ciò a cui lui riusciva a pensare era che voleva proteggerla, voleva tenerla lontana da quel marciume che altrimenti avrebbe finito con il macchiare quella candida Dea che gli sedeva affianco, rimirandolo con i suoi occhioni limpidi.
《Fai tutto ciò di cui sei capace per impedire al mondo nè alla guerra di distruggerti. Perchè, credimi, ne sarebbero in grado.》
 
 




NDA
Allora!
Il titolo è un verso di Never say never dei The Fray; la citazione all'inizio del capitolo è un altro brano della canzone "Hasta cuando" di Rey el Vikingo (la traduzione è questa: "Anche con tutto quello che lavori non riesci a vivere del tuo stipendio, devi inventare, tutto è illegale, sei un estraneo nell'unico luogo dove puoi stare, non puoi viaggiare. Non puoi visitare gli hotel, sono per i turisti, non per i cubani. "Il potere è del popolo", promettevi e all'ora della verità era tutta fantasia"); poi abbiamo un pezzo sempre di Never say never dei The Fray; infine una citazione da The big bang theory, pronunciata da Sheldon Cooper. Non so se l'avete notato, ma ho un'ossessione per gli originali, cioè: le citazioni le scrivo solo in lingua originale xD non so se questo sia positivo o negativo, ma preferisco inserire la traduzione nelle note, spero non vi dispiaccia :) l'inglese tendo a non tradurlo a meno che non sia assolutamente incomprensibile.
Le strada adiacente alla ferrovia sopraelevata esiste e ci sono davvero i pioppi xD ci passo tutte le mattine per andare a scuola quindi la descrizione a inizio capitolo è nata così ahhaha
Il Pescara ed il Saline delimitano Pescara nord e Montesilvano, dividendole da Città Sant'Angelo e Pescara sud e hanno davvero esondato a gennaio tant'è che le scuole sono rimaste chiuse perchè le strade erano impraticabili e alcune famiglie erano sfollate.
Mi sono permessa di usare il termine pattino perchè sinceramente non so quale sia quello corretto in italiano, ad ogni modo intendevo il pedalò o come più vi piace xD
Le notizie relative alla vita in Venezuela sono tutte corrispondenti al vero (l'harina pan è una farina tipica che loro utilizzano, o meglio utilizzavano, praticamente tutti i giorni).
L'Hotel Garden esiste davvero e si trova sulla statale che attraversa San Vito Chietino :)
Mi scuso immensamente per il ritardo clamoroso, so di essere una persona orribile, ma la scuola mi ha davvero tolto la vita in questi giorni e non so dove ho trovato il tempo per scrivere questo capitolo... Ad ogni modo ora dovrebbe andare meglio! :D
Vi lascio con una foto dei nostri due protagonisti al mare *-*
 
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Alla prossima, vi mando un abbraccio fortissimo! :*
Delilah <3

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Capitolo 8
*** Sweet love, so pure. ***


Grazie a LisaJWolfe, nickka, Ahlia, malaria (Oh, mio Dio!), Ally M che hanno aggiunto la storia alle seguite.
Grazie a Zanna Aleksandrovna, DarkViolet92, ki_ra, Lady Angel 2002, Sun_Rise93, _runaway, Bijouttina, sognandoti, malaria (doppio "Oh, mio Dio!") che hanno recensito.
Grazie ad Arlie che ha aggiunto la storia alle preferite.




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Sweet love, so pure.



 
18 giugno 2014
 
Take me down to the river bend
Take me down to the fighting end
Wash the poison from off my skin
Show me how to be whole again
 
La guerra stava attraversando un momento di stallo durante il quale le due coalizioni sembravano osservarsi reciprocamente in cagnesco, senza però avere l’ardire di fare la prima mossa. Quella che, secondo gli statunitensi, sarebbe dovuta essere una guerra lampo, si stava rivelando una situazione più complicata del previsto. Come spesso accade, l’uomo, sommerso dalla sua sconfinata presunzione, aveva creduto di riuscire a raggiungere i propri obiettivi in men che non si dica, senza fare i conti con la superbia di quanti si trovano dall'altra parte. Ovviamente i mondiali di calcio, che sarebbero dovuti iniziare il 12 giugno con la partita Brasile-Croazia, erano stati annullati a causa del conflitto bellico e non si era ancora accennato ad una possibile data di rinvio, così come era avvenuto nel '42 e nel '46.
Com'è facilmente prevedibile, tutta la popolazione maschile rimasta in patria era uscita devastata da questa notizia.
Afrodite, invece, aveva tirato un sospiro di sollievo.
Orgoglio nazionale a parte, e lei ne aveva ben poco, trovava davvero difficile da accettare l'idea che venissero a trovarsi ad una così breve, e allo stesso tempo così ampia, distanza persone che potevano permettersi anche venti auto (come ad esempio Cristiano Ronaldo) ed altre che vivevano nelle favelas con a malapena il necessario per vivere. Aveva tenuto queste elucubrazioni per sè, ad ogni modo: durante i mondiali tutti diventavano improvvisamente italiani. Questo sentimento era ancora più accentuato quell'anno a causa del loro annullamento e non era il caso di mostrarsi anti-calcistica.
Dopotutto, secondo la poco modesta opinione della Samsung Group, "football will save the planet", come si era cercato di far passare in ogni modo nelle loro campagne pubblicitarie per il Samsung Galaxy S5 (in che modo avrebbe potuto salvare il pianeta? Questo non ci è dato saperlo). I due eventi, ossia il lancio del nuovo telefonino e l'inizio del campionato mondiale di calcio, dovevano infatti sponsorizzarsi vicendevolmente. Quando, però, il presidente della FIFA si era vista negata la possibilità di avviare davvero la manifestazione, il castello di carte messo in piedi dalla federazione e dall'azienda sulla superficialità delle persone era inevitabilmente crollato su se stesso e la FIFA aveva perso un sacco di soldi, mentre la Samsung Group aveva dovuto ricominciare tutta la campagna da capo, perdendo anche lei un sacco di soldi. Insomma il calcio non aveva potuto adempiere alla sua missione salvifica.
Certo, sarebbe potuto essere comunque un modo per staccare la spina dalle tragedie che andavano perpetrandosi nel mondo ad opera dell'una e dell'altra parte, ma avrebbe rappresentato, in realtà, solo l'ennesima ingiustizia, un'ulteriore ipocrisia da aggiungere a quelle di cui l'umanità si stava già rendendo colpevole. Tanto più, visto che in Brasile la situazione per la popolazione era ancora più critica da quando era iniziata la guerra.
Ci si potrebbe chiedere: e i calciatori non hanno partecipato alla leva?
Non scherziamo.
Si erano semplicemente limitati a fornire dei finanziamenti per la loro fazione, chi per gli Euro-Statunitensi e chi per i Comunisti.
In questo clima di profonda delusione per l'ingombrante assenza di un passatempo così popolare, Afrodite si limitava ad annuire quando Silvia le rammentava che quell'anno non avrebbero potuto bearsi dei "bei maschioni", come li chiamava lei, delle varie nazionali.
Esattamente come stava facendo in quel momento, mentre tornavano dalla spiaggia sotto il sole rossastro del pomeriggio che pian, piano diventava sera.
La bicicletta le era decisamente mancata: la sensazione del vento fresco, proveniente dal mare, sulla pelle accaldata e umida di sudore la faceva sentire rinata.
Le due amiche si separarono all'altezza della chiesa di Sant'Antonio, vicino casa della bionda, con il proposito di uscire a prendere un gelato sul lungo mare quella sera assieme alle altre ragazze.
Afrodite rincasò cercando segni dei suoi genitori e li trovò intenti a vedere un film sul divano, teneramente abbracciati.
《Vado a fare una doccia!》 esclamò sorridendo alla vista di quella scena.
《Sbrigati, ho già preparato il carpaccio》 la informò entusiasta Silvana. 《Sta aspettando solo te.》
《Oh, grazie mammina!》 Quando si trattava di cibo, Afrodite tornava ad essere una bambina, sopratutto se le venivano preparati i suoi piatti preferiti. Infatti si getto sul divano tra i suoi genitori, baciando sonoramente le guance di entrambi.
《Su, corri a lavarti!》 la incitò Ferdinando, scompigliandole i capelli. Vedendolo così impaziente, chiunque sarebbe riuscito ad indovinare da chi sua figlia avesse preso la golosità.
La ragazza si alzò immediatamente, dirigendosi verso il bagno.
Si fiondò sotto la doccia e sperò che la fretta di mettersi a tavola le impedisse di avere il tempo per pensare troppo, ma non fu così.
Faticava ad ammetterlo perfino con se stessa, però aveva aspettato una chiamata o un messaggio da parte di Ryan per due lunghissimi giorni trascorsi in spiaggia con le sue amiche.
Ciò che era più facile da accettare era la delusione per non aver avuto notizie da Marco su Paolo: dopo tutto gli avevano permesso di telefonarle solo in via eccezionale, se non l'aveva chiamata doveva voler dire che era andato tutto bene. Continuava a ripetersi queste rassicurazioni come a volersi auto-convincere.
Uscì dalla doccia e si precipitò in camera per scegliere subito qualcosa da mettere.
Gettò l'asciugamano sulla pediera in ferro battuto nero del letto dalle lenzuola color panna e iniziò a frugare nel grande armadio in legno bianco, perfettamente abbinato allo stile antiquato della scrivania, candida anch'essa.
Alla fine optò per un vestitino estivo in cotone bianco a due strati, il secondo trasparente e traforato, al quale abbinò dei bassi sandali marroni.
Silvia passò a prenderla subito dopo cena e si incontrarono sul lungomare con le altre, iniziando a passeggiare tra la gente.
Era sempre molto strano andare in giro per una Pescara quasi priva di ragazzi.
Svoltarono in Viale Muzii e le cinque ragazze invasero il bar Napoli, una delle migliori gelaterie della città.
Appena entrate videro un insolito gruppo di uomini, davanti all'espositore frigorifero, che le lasciò interdette.
Uno di loro si voltò verso l'entrata e subito il suo volto si aprì in un sorriso.
《Cosa possiamo offrire a queste belle signorine?》 esclamò in inglese, richiamando l'attenzione dell'uomo affianco a lui.
Questi si volse e in un solo istante il suo volto divenne una maschera di incredulità.
《Un po' di sana tranquillità》 si limitò a dire, perdendosi negli occhi di un celeste cristallino che lo fissavano di rimando. 《Lasciale in pace, Joe》 concluse, senza distogliere lo sguardo da Afrodite, incantato.
《Ma sarebbe maleducato!》 lo zittì con un gesto della mano. 《Buonasera, non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Joseph, caporale, e lui e Ryan.》
Afrodite non riusciva a smettere di guardare il sottotenente, non sapeva come comportarsi.
Non sapeva come evitare la catastrofe.
Le persone parlavano davvero tanto in quel grande paese che era Pescara (perchè sì, di questo si trattava) e il pettegolezzo di lei che, nonostante Paolo fosse in guerra a lottare ogni giorno per sopravvivere, conosceva abbastanza bene un ufficiale dell'esercito americano, ovvero il mostro cattivo che li aveva costretti alla leva, sarebbe stato davvero troppo da sopportare in quel momento.
Così semplicemente non disse niente, pregando Ryan con lo sguardo di fare altrettanto.
《Io sono-》 iniziò Federica, una delle amiche di Afrodite, bruscamente interrotta da quest'ultima.
《Non è necessario offrirci niente, grazie lo stesso》 esclamò con un entusiasmo forse troppo marcato. 《Tanto stavamo andando via.》
《Didi, ma che dici? Siamo arrivate adesso.》 Silvia la guardava dubbiosa.
《Sì, ma mi è venuta una gran voglia di una ciambella. Perchè non andiamo alla Cornetteria?》
《Io prenderò un gelato qui.》 Una ragazza di nome Giulia si allontanò dal gruppo, avvicinandosi alla cassa.
《Fantastico, offro io!》 si propose Joseph, facendo per seguirla.
Venne bruscamente fermato da un braccio di Ryan.
《In realtà ci tratterremmo molto volentieri con voi, ma stavamo andando via anche noi》 concluse in fretta trascinando l'amico con se verso l'uscita.
Tuttavia non prima di aver visto le spalle di Afrodite rilassarsi ed averla salutata con un sorriso malizioso appena accennato, che però bastò a farla arrossire.
La ragazza rimase imbambolata mentre le sue amiche si affrettavano alla cassa per prendere i loro gelati. Non si accorse nemmeno quando raggiunsero di nuovo lei e Silvia, che era rimasta ad osservarla vicino all'ingresso.
《Non volevi una ciambella?》 tentò di richiamarla all'ordine la sua migliore amica, con scarsi risultati. 《Didi?》 provò di nuovo, posandole una mano sulla spalla.
Afrodite si riscosse improvvisamente. 《Si, certo! Andiamo.》
 
Era rientrata a casa poco prima dell'una di notte e, nella tranquillità dell'appartamento silenzioso, aveva finalmente rilasciato la tensione accumulata, durante quella passeggiata interminabile, nel timore di scontrarsi di nuovo con gli americani.
Doveva ammettere, però, che l'incontro con Ryan le aveva messo un agitazione addosso da non potersi considerare completamente negativa, anzi vederlo voltarsi verso di lei prima di scappare dal bar le aveva provocato una scarica di caldi brividi lungo la schiena. Così come aveva fatto anche il messaggio che le aveva inviato pochi minuti dopo, facendola rizzare con la schiena sulla sedia. Si era guardata intorno furtiva dopo aver visto il nome del mittente e lo aveva aperto con la stessa cautela con cui si disinnesca una bomba, cercando di non farsi notare dalle altre ragazze, sedute con lei su una panchina del largo marciapiede del lungomare.
Tirò di nuovo fuori il cellulare per rileggerlo, mentre si dirigeva in camera sua, scalza per non fare rumore.
"Mi sto occupando di alcuni perlustramenti, per la prossima settimana dovremmo aver finito. Ho visto tanti nuovi posti da farti vedere, piccola Dea. Ti chiamo domenica."
E così si spiegava anche l'assenza degli ultimi due giorni.
Cavolo, Afrodite, devi darti una calmata! Per quanto tentasse di ripeterselo non riusciva a placare la trepidazione anche solo nel vedere quelle parole.
Si gettò sul letto affondando la testa nel cuscino.
Stava iniziando ad imparare come convivere con quella confusione e quel senso di colpa latente che ormai non la lasciavano mai. Li arginava in un cantuccio del cervello, vivendo le sensazioni al momento.
E Ryan sembrava essere l'unico in grado di provocargliene.
Si addormentò con quel pensiero martellante: il sottotenente Martins la faceva sentire viva in quel clima di morte e intorpidimento, le rendeva più facili da sopportare il veleno e la cattiveria dell'uomo. Quando era con lui la guerra non esisteva e lei poteva tornare ad essere se stessa.
 
***
 
But oh alas, so long, so far,
our bodies why do we forbear?
 
Tra mare e passeggiate in centro, arrivò la tanto agognata e temuta domenica.
Afrodite non sapeva proprio cosa aspettarsi, ma nell'impazienza che era andata aumentando da quella sera al bar, si era svegliata di buon mattino e aveva fatto una bella doccia rinfrescante dopo l'insolita calura della notte precedente.
Era completamente sola in casa, i suoi genitori erano al lavoro.
Il telefono squillò mentre era intenta a frizionare i capelli con un asciugamano, appena uscita dalla doccia, e si precipitò subito a rispondere.
Appena ebbe preso in mano il telefono, però, le mancò il coraggio. Si decise solo quando ormai la chiamata stava probabilmente per giungere a termine.
《Buongiorno》 disse, alzando le iridi celesti verso la fidata finestra sopra la scrivania, nella sua stanza, da cui poteva scorgere la distesa calma e luminosa del mare estivo. Si ravvivò i biondi capelli ancora spettinati, mentre iniziava a misurare a piccoli, frettolosi passi il pavimento della sua stanza.
《Buongiorno.》 Anche attraverso la cornetta, Afrodite poteva immaginare il sorriso ammiccante di lui. 《Allora, sei pronta?》
《Per...?》 La voce poteva sembrare dubbiosa, ma in realtà sapevano entrambi benissimo che Ryan intendeva portarla da qualche parte.
《Molto divertente》 scherzò infatti. 《Passo a prenderti tra venti minuti.》
《Ma sono appena uscita dalla doccia! Non ce la farò mai in venti minuti》 piagnucolò la ragazza, fermandosi nel bel mezzo della stanza ed iniziando a scrutare l'interno dell'armadio.
《Sono sicuro che ce la farai, invece.》 Lo sentì ridacchiare e poi interrompere la telefonata.
Si passò una mano tra i capelli e iniziò a frugare tra i vestiti.
 
La giornata sembrava assolutamente perfetta: il sole brillava alto nel cielo, ma la sua azione era mitigata da una piacevole brezza dal sapore di mare e risate. A evitare che i capelli ancora umidi svolazzassero ovunque, Afrodite aveva indossato un cappello in paglia dalla tesa abbastanza larga con un nastro bianco, abbinato ad un vestitino in cotone celeste. Appena scesa in strada si era guardata intorno per cercare la Gran Torino, ma aveva individuato piuttosto il soldato che la macchina: la aspettava poco distante dal portone del suo condominio, in quella posa di attesa che aveva ormai imparato a conoscere, con i fianchi poggiati alla portiera dell'auto dal lato del passeggero e le braccia conserte.
Era bellissimo, la T-shirt verde militare metteva perfettamente in risalto il suo fisico temprato dal duro allenamento nell'esercito ed il sorriso caldo, che gli comparve sul volto non appena la vide dirigersi verso di lui, avrebbe sciolto anche un ghiacciaio, così come quello sguardo avido con cui la accarezzava attentamente.
Quando lei fu abbastanza vicina, Ryan si scostò dall'auto aprendole la portiera senza distogliere nemmeno per un attimo gli occhi da quelli della ragazza.
《Visto?》 la rimbeccò, prendendo posto al suo fianco. 《Ho aspettato solo cinque minuti.》
《Vorrei bene vedere! Mi sono scapicollata》 replicò ridendo, mentre il soldato abbassava il freno a mano e si immetteva nel traffico scarso di quella domenica mattina.
《Immagino che non vorrai dirmi nemmeno questa volta dove mi porterai.》 Stava sorridendo dal momento in cui lo aveva visto e non riusciva a smettere.
《Ovviamente no》 rispose lui, gettandole un'occhiata furtiva prima di tornare a dedicarsi alla strada.
Afrodite si guardò un attimo intorno, poi rinunciò all'impresa di tentare di indovinare dove fossero diretti e si affidò al soldato che guidava al suo fianco.
Accese oziosamente la radio, abbandonandosi con la schiena contro lo schienale.
Clocks strikes upon the hour and the sun begins to fade.
Il volto di Afrodite si illuminò di un bellissimo sorriso, mentre riconosceva quella melodia ed iniziava a canticchiarla sottovoce.
Still enough time to figure out how to chase my blues away.
《Ti piace Whitney Houston?》 le domandò Ryan osservandola attentamente.
《Alcune canzoni, perchè no? Faceva musica molto...》 si interruppe un attimo come per cercare l'aggettivo giusto. 《Potente》 concluse.
Proprio in quel momento partì il ritornello di quella bellissima canzone degli anni '80.
I wanna dance with somebody, I wanna feel the heat with somebody. Yeah! I wanna dance with somebody, with somebody who loves me.》 Afrodite si ritrovò a cantare a perdifiato, alzando anche il volume della radio quasi al massimo, seguita da Ryan non appena la cantante iniziò a ripetere quei quattro versi. 《I wanna dance with somebody, I wanna feel the heat with somebody. Yeah! I wanna dance with somebody, with somebody who loves me.
《Ma sei pessimo!》 esclamò lei nel cercare di farsi sentire sopra la muscia, guardandolo ad occhi sbarrati e ridendo senza riuscire a fermarsi.
《Non è vero!》 Lui si finse offeso. 《Soon or later the fever ends and I wind up feeling down》 continuò da solo, come a voler dimostrare di saper cantare.
I need a man who'll take a chance on a love that burns hot enough to last》 lo interruppe lei, senza riuscire a smettere del tutto di ridere.
《Non è che tu sia tanto meglio!》 la prese in giro allora, sentendo un'evidente stonatura su "on a love".
《Ma scherzi?》 replicò lei, impettita. 《Sono bravissima!》
Nel frattempo era tornato di nuovo il ritornello ed entrambi ripresero a cantare anche più forte di prima, cercando di trattenere le risate a beneficio della canzone. 《I wanna dance with somebody, I wanna feel the heat with somebody. Yeah! I wanna dance with somebody, with somebody who loves me.
Somebody, huu! Somebody, huu!》 si esibì Afrodite, muovendosi sul sedile a tempo di musica.
Somebody who loves me!》 continuò lui, cimentandosi in un urletto davvero poco virile.
《Whitney ti sta odiando da lassù.》
Lui sembrò scacciare quelle parole con un gesto distratto della mano. 《La tua è tutta invidia per le mie doti canore.》
《Come no!》 Il suo tono era decisamente sarcastico.
L'atmosfera si era fatta estremamente leggera, loro stessi sembravano non avere più alcun peso, come se quel semplice espellere aria in maniera più o meno intonata avesse permesso loro di liberarsi anche delle preoccupazioni. Le persone sul tratto di statale che stavano percorrendo li guardavano sconvolti, scambiando la loro momentanea spensieratezza con il menefreghismo dei più.
Afrodite e Ryan non se ne curarono, ma anzi continuarono a girovagare tra le frequenze alla ricerca di qualunque cosa fosse cantabile.
Quando arrivarono a Ghiomera, mezz'ora dopo essere partiti da casa di Afrodite, la strada piegò a ridosso del litorale, esponendo le auto di passaggio all'odore di salsedine proveniente dal mare. Continuarono ad avanzare verso sud lungo la cosa, fino ad arrivare in un luogo che Afrodite aveva sentito spesso elogiare dai bagnanti, senza però visitarlo mai.
Si trovavano ai Ripari di Giobbe, una delle spiagge migliori d'Abruzzo a detta delle guide turistiche.
In effetti la vista che si aprì ai loro occhi, una volta che ebbero parcheggiato la macchina e furono arrivati in prossimità del mare, era davvero spettacolare.
Ryan però la trascinò verso una zona quasi isolata da un ammasso di scogli sulla sinistra e a destra da un promontorio erboso nel quale l'acqua aveva scavato una piccola grotta semi-sommersa come ce n'erano molte lungo quel tratto di costa.
La spiaggia rocciosa non era molto ampia in quel punto, ma abbastanza per la famiglia che vi trovarono e per loro due. L'acqua era limpidissima e sembrava perfettamente fresca, una vera tentazione nell'afa di quel giorno.
Afrodite, infatti, si affrettò subito a liberarsi delle infradito per immergere i piedi tra le piccole onde in cui quella superficie trasparente andava increspandosi.
La prima cosa che fecero, dopo aver piantato tra i sassi un piccolo ombrellone ed essersi liberati dei vestiti, fu un bel bagno.
Ryan entrò in acqua correndo e sollevando così un sacco di schizzi, tra le risate non solo di Afrodite, ma anche dei due bambini della coppia che si trovava poco distante. La ragazza, invece, tentò di abituarsi lentamente alla notevole differenza di temperatura, avanzando con piccoli passi e fermandosi quasi del tutto quando il livello dell'acqua arrivò a lambirle la pancia lasciata scoperta dal bikini. Il soldato iniziò a ridacchiare vedendola sobbalzare ad ogni piccola onda che arrivava a sfiorarle l'ombelico, ma d'un tratto il suo sguardo si fece famelico e lui si immerse fino a lasciar sporgere solo gli occhi e i capelli, per poi prendere ad avanzare lentamente.
《Ryan, no!》 esclamò, intuendo le sue intenzioni.
L'uomo finse di non sentirla.
《No, no, eddai!》 provò ad implorarlo, prima di ritrovarsi bombardata da un'infinità di schizzi, senza avere la possibilità di proteggersi in alcun modo.
In un attimo l'uomo le fu addosso e la costrinse con la testa sotto il pelo dell'acqua, per poi prenderla da sotto le ascelle e scaraventarla poco lontano.
《Sei un mostro!》 esclamò la ragazza, appena riemerse dall'acqua ormai agitata da tutto quel movimento.
Lo vide tenersi la pancia mentre rideva e anche lei lo imitò, mentre però gli occhi si abbandonavano a ben altre occupazioni, seguendo avidi la linea decisa della mandibola, i tendini lungo il collo virile, le clavicole che andavano a fondersi in quelle spalle larghe. Il suo sguardo si perse tra i muscoli guizzanti delle braccia e quelli dell'addome, contratti dalle troppe risate, e prima ancora di accorgersene era tornata seria. Lui se ne accorse e prese a guardarla dubbioso.
Prima che potesse fare qualche osservazione scomoda, così come preannunciava il sorrisetto malizioso comparso sulle sue labbra, Afrodite si riscosse e si voltò verso la piccola grotta.
《Andiamo a dare un'occhiata?》 esclamò, iniziando poi a nuotare rapidamente in quella direzione senza aspettarlo. 《Vediamo chi arriva prima》 aggiunse poco dopo voltandosi, ma Ryan non aveva mosso un muscolo.
《Non mi sembra una buona idea: lì dentro non arriva il sole e l'acqua è scura, potresti sbattere un piede contro un sasso nuotando.》 disse infatti.
《Oh, avanti! Signor Oceano, mi deludi!》 lo canzonò la ragazza, tornando a voltarsi e a nuotare verso la grotta.
Non trascorse nemmeno un minuto prima di sentirsi afferrare alla vita da due braccia forti. La sua schiena si ritrovò a contatto con un petto solido e le sue guance diventarono immediatamente roventi.
《Signorina, sei sotto la mia custodia.》 le sussurrò una voce all'orecchio, accarezzandole prima il viso e poi tutto il corpo con quel sospiro fresco e ricoprendo la sue pelle di brividi.
《Sottotenente, guardi che sono maggiorenne, non ho bisogno del baby sitter.》 borbottò lei, voltandosi per recuperare il suo spazio vitale, necessario a pensare lucidamente.
Pessima mossa.
Il soldato non allentò la presa sulla sua vita e lei fu costretta a tenersi con le mani sulle sue spalle per rimanere a galla, visto che, vicina com'era al suo corpo, non poteva nuotare e, a differenza sua, non arrivava a toccare con i piedi il fondo.
《A casa mia non saresti affatto maggiorenne, ti mancherebbero ancora tre anni.》 la rimbeccò, piegando un lato di quella bocca carnosa in un sorriso e attirando inevitabilmente in quel punto l'attenzione della ragazza tra le sue braccia.
《Ma siamo in Italia.》
《Non ricordarmelo》 la prese in giro lui, abbassando il capo con rassegnazione e provocando un moto di ilarità in entrambi.
Pochi istanti dopo fu il turno di Afrodite di scoprirlo a contemplarla. Se ne stavano li, in quella specie di abbraccio, a scrutarsi reciprocamente senza accennare a voler rompere il contatto.
La ragazza quasi non si accorse di quanto il sottotenente si fosse avvicinato.
Era troppo vicino.
Doveva fare qualcosa.
《Ryan...》 tentò di fermarlo, senza troppa convinzione, ottenendo come unico risultato quello di sentire la pelle bruciare sotto lo sguardo assetato di lui.
Fu un attimo, in un momento quelle labbra morbide scesero ad accarezzare la bocca rosea di lei, dischiusa in quel nome che sarebbe dovuto essere una preghiera. Di liberarla da quelle braccia? Di andarle più vicino? Afrodite non avrebbe saputo dirlo.
Lei si allontanò bruscamente e tutto finì prima ancora che potessero davvero prendere coscienza dell'accaduto. 
Era stato solo uno sfregamento di sospiri, la promessa di un bacio piuttosto che un bacio vero e proprio, eppure era bastato per accorciarle il respiro fino a lasciarla con il fiatone che, accompagnato dalle gote rosse e l'aria sconvolta, la faceva apparire davvero persa.
《Mi dispiace》 le sussurrò Ryan, gli occhi sbarrati in un'espressione riflesso della sua.
《Non fa niente》 rispose lei, dirigendosi mestamente verso la riva e cercando di ricomporre il suo volto in un sorriso convincente.
Era decisa a non permettere a quel quasi-bacio di rovinare l'atmosfera idilliaca che erano riusciti a creare.
Ryan la seguì immediatamente fuori dall'acqua, raggiungendola in pochi, ampi passi.
《Afrodite, mi dispiace davvero》 insistette, afferrandole delicatamente il braccio per convincerla a voltarsi e guardarlo in faccia.
《Non è successo niente, dico sul serio.》 Quella volta la sua espressione riuscì ad essere più convincente e vide i muscoli tesi dell'uomo rilassarsi.
Si sdraiarono sui teli a prendere il sole, finchè il caldo del mezzogiorno non divenne insopportabile e li costrinse a rintanarsi all'ombra.
Quando Ryan le disse che aveva preparato dei panini per il pranzo, tutto l'imbarazzo si sciolse definitivamente.
《Non ci credo!》 sbottò lei, sfumando l'esclamazione in una risata.
《Che c'è!》 Ryan aprì la borsa frigo sbuffando. 《Pensavo potesse essere una cosa carina.》 Si strinse nelle spalle, tendendole un involto di carta argentata.
《Oh, certo, lo è!》 si affrettò a chiarire lei. 《Ma non sai nemmeno cosa mi piace, se ho delle intolleranze》 osservò semplicemente.
《Lì dentro ci sono tonno e maionese》 la avvertì, prendendo anche un panino per se.
《Sono allergica al tonno.》 Vide nettamente gli angoli della sua bocca curvarsi verso il basso.
《Davvero?》
Si guardarono per un momento, in silenzio.
《No, ma avresti dovuto vedere la tua faccia.》 Afrodite si lasciò andare ad un'altra risata, schivando solo all'ultimo la carta d'alluminio che Ryan aveva tolto al suo panino per farne una pallina da lanciarle.
《Mangia quel panino, bambina ingrata, prima che io cambi idea e decida di riprendermelo》 la avvertì, dando il primo morso al suo pranzo. 《Hai idea di quanto sia distante il primo pasto commestibile? Almeno una mezz'ora a piedi e stai sicura che io non ti ci accompagno.》
《Allora prenderò la tua macchina.》 Afrodite scrollò le spalle, tentando di trattenere il sorriso che le nasceva spontaneo sulle labbra.
《Oh certo! Come no! Puoi provarci》 rispose semplicemente. 《Peccato che io sia un ufficiale e tu una bambina, non hai alcuna possibilità di successo》 concluse con un sorriso sadico.
《Scommetto che ci riuscirei》 lo sfidò.
《Mangia》 la rimbeccò, indicando il suo panino con il proprio ormai quasi terminato.
Afrodite lasciò andare il sorriso che tratteneva ormai da troppo tempo e diede il primo morso.
 
***
 
There comes a time when we hear a certain call
When the world must come together as one
There are people dying
and its time to lend a hand to life
There greatest gift of all
 
We cant go on pretending day by day
That someone, somewhere will soon make a change
We are all a part of Gods great big family
And the truth, you know,
Love is all we need
 
We are the world, we are the children
We are the ones who make a brighter day
So lets start giving
Theres a choice we're making
We're saving our own lives
it's true we'll make a better day
Just you and me
 
Erano rimasti in spiaggia fino alle sei di sera, visto che per tornare a Pescara erano necessari almeno quaranta minuti.
Si incamminarono quando il sole era ancora molto alto nel cielo, ma il loro ritorno si interruppe quasi subito.
《Che succede?》 chiese Afrodite, ancora seduta in macchina, mentre Ryan si avviava verso un bar.
《Devo andare in bagno》 rispose semplicemente, voltandosi. 《Vieni a prenderti qualcosa da bere, no?》 Le fece cenno di seguirlo con un braccio, per poi tornare ad avanzare verso la porta spalancata del locale.
Afrodite lo seguì. L'ambiente all'interno era troppo scuro e troppo caldo. Si sedette su uno sgabello ordinando una Fanta Lemon e dirigendo la sua attenzione allo schermo che, dall'angolo dietro il bancone, aveva catturato gli sguardi di tutti.
La telecamera inquadrava un uomo che, in piedi su una macchina, sembrava stesse tenendo un discorso davanti ad una folla molto inquieta. L'audio doveva essere in spagnolo, così il telegiornale aveva provveduto ad inserire dei sottotitoli.
《Vi sembra giusto che il governo ci abbia trascinato in questa guerra che non possiamo vincere? Credete che con le forze della sola Cuba possiamo sconfiggere gli Euro-Statunitensi? Perchè di questo si tratta, avete visto anche solo un soldato russo o cinese? Beh, io no.》 L'uomo sembrava parecchio infervorato e la folla raccolta in strada pendeva dalle sue labbra. 《E' giunto il momento di deporre le armi, da entrambe le parti. Sarà un massacro, ve lo garantisco, e io non voglio esserci quando accadrà, non voglio essere a Caracas quando i Comunisti verranno sconfitti su tutti i fronti, quando quelle bestie riusciranno ad entrare qui, per fare cosa? Per salvarci, dicono. Ve lo dico io cosa vogliono: vogliono il nostro petrolio. E sapete cosa ne penso? Che se lo prendessero, io non me ne faccio nulla. Voglio solo un posto dove lavorare, dove la mia famiglia possa vivere in una bella casa e i miei figli possano andare a scuola con la certezza di tornare sani e salvi a ora di pranzo. Voglio che l'umanità torni ad essere una sola. Perchè è così che deve essere: siamo tutti fratelli, ma tendiamo a dimenticarcene troppo spesso, guidati da questa assurda voglia di avere sempre di più e sempre più di tutti gli altri. E' necessario agire, cercare di cambiare le cose perchè, se non lo faremo noi, non lo farà nessuno. Cerchiamo di lasciare questo mondo un po' migliore di come l'abbiamo trovato*. Voglio un mondo dove comunismo e capitalismo non esistono, dove Chavez non è mai nato, dove Simons non è un bugiardo opportunista, dove Maduro non è uno stronzo che cerca di toglierci anche le mutande.》 L'uomo non riuscì a terminare l'ultima parola, un proiettile di pistola lo colpì in pieno petto, scaraventandolo giù dall'auto.
Afrodite si lasciò sfuggire un verso di sorpresa, prima che sullo schermo si scatenasse l'inferno, immobilizzandola con gli occhi sbarrati. La polizia e l'esercito sparavano sulla folla dai palazzi circostanti, si lanciavano tra la gente con manganelli o qualunque altro oggetto contundente, malmenando le persone completamente disarmate come se si fosse trattato di bambole di pezza.
《Andiamo via.》 Afrodite sentì la voce di Ryan al suo fianco come se provenisse da un altro pianeta. Non riusciva a muoversi.
Lo scenario cambiò e la telecamera inquadrò una giornalista nello studio del telegiornale.
《Questa la scena verificatasi pochi giorni fa a Caracas, in Venezuela. La manifestazione si è conclusa con un numero di morti che il nostro esercito non è stato in grado di quantificare. Lo stesso video ci è stato pervenuto semplicemente tramite Youtube.》
《Chiunque sia riuscito a pubblicarlo a quest'ora è morto, sicuramente.》 Disse qualcuno all'interno del bar.
La TV trasmise ancora alcune scene del video in slow-motion, finchè il campo visivo della videocamera non veniva completamente invaso da un poliziotto e il cameraman di fortuna si voltava, iniziando a correre e disattivando la registrazione.
《Afrodite, ti prego, andiamocene》 tentò ancora Ryan, stringendole una spalla per richiamarla al presente.
《Abbiamo motivo di credere che scene di questo tipo si svolgano quasi ogni giorno non solo nella capitale, ma anche in diverse altre città sudamericane. Il primo colpo di pistola pare essere partito dall'arma di un poliziotto venezuelano, nel momento in cui l'uomo ha iniziato ad insultare il presidente. Speriamo solo che il nostro esercito, che risulta essere stato purtroppo discretamente assottigliato, riesca a raggiungere queste zone prima che la situazione diventi irrecuperabile》 stava dicendo la giornalista con voce incolore.
Quelle poche parole della presentatrice bastarono per rompere l'incantesimo che sembrava trattenere Afrodite.
Corse in bagno, gettandosi ai piedi della tazza e piegandosi su di essa, senza riuscire a dare comunque alcun sollievo alle contrazioni che le stringevano lo stomaco.
《Dio...》 Sentì la presenza di Ryan sulla porta e lo vide con la coda dell'occhio chinarsi vicino a lei e scostarle i capelli dal viso. Afrodite si sedette sul pavimento, poggiandosi con la schiena alla parete affianco al WC e guardando l'uomo di fronte a lei con uno le iridi distrutte in mille schegge celesti che ormai colavano sul suo viso senza sosta.
《Cosa è rimasto da recuperare?》 chiese semplicemente, la voce rotta dai singhiozzi.
Ryan si inginocchiò davanti a lei a le prese il volto tra le mani, asciugando quelle guance che aveva visto arrossire tante volte. Accostò la fronte a quella della ragazza e prese un profondo respiro, come a voler assorbire il suo dolore per liberarla, prima di parlare.
《La speranza.》
 
***
 
Dejame un beso que me dure hasta el lunes,
un beso grande, un beso inmenso,
que me sostenga, que sea mi alimento
[...]
para llenar el silencio que dejas cuando te vas
porque contigo se van mis sueños.
Dejame un beso que me dure hasta el lunes,
que arranque todo el dolor,
que se apodere de mi.
 
Arrivarono davanti a casa di Afrodite intorno alle sette e mezza. Avevano trascorso l'ultima mezz'ora di viaggio nel più completo silenzio, una volta usciti dal bar. La ragazza sembrava completamente assente, aveva un'aria spossata.
《Non tornerà nessuno da questa guerra.》 Lo sguardo non accennava a posarsi su nulla di preciso.
《Non dire così》 sembrò implorarla Ryan, slacciandosi la cintura di sicurezza senza però voltarsi del tutto verso di lei, limitandosi solo a fissarla.
《Tu sai che è così anche meglio di me.》
Il soldato non trovò nulla da dire per rincuorarla.
《Quanto passerà prima che tu debba ripartire?》 gli chiese con rabbia, voltandosi finalmente nella sua direzione.
《Non vado da nessuna parte.》
《E tra quanto tempo dovrà andarsene anche mio padre? Prima o dopo che mio fratello sia morto?》 proseguì, ignorandolo. Il suo tono andava facendosi sempre più alto e spigoloso.
《Non lo permetterò》 disse semplicemente.
《E chi sei tu per impedirlo?》 chiese stizzita quasi urlando.
《Non è questo ciò che conta!》 esclamò Ryan sbattendo i palmi delle mani contro il volante. 《Non importa chi sono io. Tuo padre non partirà per il fronte e tuo fratello tornerà sano e salvo e devi crederci, cazzo.》 concluse alzando la voce anche lui. Si voltò verso di lei tuffando quegli occhi, resi più scuri dall'ira, nel suo mare personale incorniciato da una miriade di ciglia lunghissime.《Vedi? E' questo che fa la guerra: ti toglie qualunque briciolo di fiducia, ma non devi permetterglielo. Afrodite, mi hai capito? Non devi mai》 calcò su questa parola, prendendo una delle piccole mani di lei e facendola sparire tra le proprie, 《smettere di sperare che le cose possano migliorare. Perchè una volta che sono riusciti a toglierti l'ottimismo, una volta che hanno strappato quel bellissimo sorriso dal tuo cuore, allora hanno vinto. Comunisti, americani, europei... non ha importanza, non permettere a nessuno di loro di prendersi i tuoi sogni e la tua vita.》 Ryan pronunciò quelle parole senza abbandonare i suoi occhi nemmeno per il tempo di un battito di ciglia.
E allora Afrodite capì: il loro incontro casuale sul lungomare, gli appostamenti fuori dal liceo, il discorso dopo il primo funerale ai caduti, la spesa e la passeggiata sul ponte del mare, gli sms, le chiamate, la gita alla Torre di Cerrano e quella a San Vito, le canzoni in macchina, quello sfioramento di labbra in acqua... tutti quegli avvenimenti erano serviti solo ed unicamente per arrivare a quel punto, per darle la forza di sopportare tutte le immagini che avrebbe dovuto affrontare simili al reportage di quel pomeriggio e per portarla a desiderare l'uomo che le sedeva affianco più dello stesso ossigeno.
Lo baciò con tutta la forza che le rimaneva in corpo e la risposta di lui non si fece certamente attendere: la strinse tra le braccia per quanto permesso dall'abitacolo dell'auto, accarezzandole la schiena come a volersene imprimere ogni centimetro nella memoria. Afrodite sfiorò quelle guance ruvide di barba con i suoi morbidi polpastrelli, prima di affondare con le dita tra i suoi capelli e scendere sulla nuca per arrestare la sua corsa ancorata alle sue spalle, che, riuscì ad accettarlo solo in quel momento, aveva desiderato sforare dal primo momento in cui le aveva viste, fasciate perfettamente dalla divisa d'ordinanza. Vi si aggrappò come ci si affida ad una roccia, donandogli con quel bacio la sua resa. Perchè era inutile negarlo: lo voleva e aveva bisogno di lui, al resto avrebbe pensato dopo.
Purtroppo quel "dopo" arrivò troppo in fretta.
 


 
 
NDA
Il titolo è un verso della canzone Bound to you di Christina Aguilera, mentre la citazione a inizio capitolo viene da una canzone dei Linkin Park, Castle of glass.
La questione della sponsorizzazione reciproca tra Samsung e FIFA è vera e il motivo per cui ho deciso di inserire quel paragrafo è che ho avuto modo di vedere una pubblicità del Samsung Galaxy S5 in cui si diceva davvero che "Football will save the planet" e mi è sembrata una cosa talmente ridicola che non ho potuto non sottolineare che, almeno nella situazione che io sto descrivendo, i loro piani pubblicitari atti a prendere per il c**o la clientela non sono andati a buon fine.
Il bar Napoli esiste davvero ed è frequentato davvero da tutti ogni santa sera, quindi è piuttosto plausibile che Ryan e Afrodite si siano incontrati li casualmente.
Anche la Cornetteria esiste davvero (sì, si chiama davvero così e sì, fa cornetti, ma non solo; che fantasia, eh?) e le sue ciambelle glassate sono un qualcosa di eccezionale.
La seconda citazione fa parte di una poesia di John Donne e ve la traduco perchè è un inglese un po' arcaico, significa: "Ma, ahimè, perché così lungamente, e tanto, freniamo i nostri corpi?"
La canzone alla radio è evidentemente I wanna dance with somebody di Whitney Houston. La conoscete sicuramente, anche solo vagamente, e magari non sapevate titolo e autore, ma comunque vi consiglio di riascoltarla (oltre per il fatto che la amo!) perchè secondo me la scena rende di più sapendo cosa stanno cantando hahahah
La terza è un pezzo della canzone We are the world di Michael Jackson, mentre l'asterisco sta ad indicare una frase che ho preso dall'ultimo messaggio di Sir Robert Baden-Powell, che pochi di voi conosceranno, ma è il fondatore dello scoutismo e ha detto davvero tante cose bellissime.
L'ultima è una strofa di una canzone di Jerry Rivera, cantante portoricano, che si intitola Dejame un beso que me dure hasta el lunes. La traduzione è questa: "Lasciami un bacio che mi duri fino a lunedì, un bacio grande, un bacio immenso, che mi sostenga, che sia il mio alimento [...] per riempire il silenzio che lasci quando te ne vai perchè con te vanno via i miei sogni. Lasciami un bacio che mi duri fino a lunedì, che strappi tutto il dolore, che si impossessi di me." anche se in spagnolo rende moooooolto di più hahaha
Questa è la spiaggia ai Ripari di Giobbe :) O meglio, la spiaggia sarebbe più lunga, ma questo è l'angoletto di cui si appropriano Ryan e Afrodite.
 
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Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vogliate lasciarmi un parere! :D
Alla prossima, un bacione! :*
Delilah <3

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Capitolo 9
*** Just hold a smile. ***


Grazie a White and black, milly97, sukitte ii na yo, SweetCherry, aniasolary (sono senza parole *o*), Hanna Lewis che hanno aggiunto la storia alle seguite.
Grazie a Lunaby, MolokoVellocet che hanno aggiunto la storia alle ricordate.
Grazie a Dheja e DarkViolet92, Aven90, Lady Angel 2002, _runaway, Bijouttina, MolokoVellocet, Lunaby che hanno recensito.
Grazie a Malaria che ha inserito From Limits tra i "consigli per gli acquisti", facendole buona pubblicità su Facebook.
Ma soprattutto grazie a quel grandissimo S*****o del mio migliore amico che, dopo aver letto i capitoli tutti d'un fiato (tanto lo so che non sei riuscito a staccarti finchè non sei arrivato alla fine, figlio di p*****a), si è premurato di smontare From Limits pezzo per pezzo. Alla fine vedremo chi la spunterà e va' a c****e, ti rimangerai ogni sillaba. Con affetto, la tua sorellina preferita.
No, scherzi a parte, ci vogliamo davvero un gran bene! Giuro!
Anche se ha completamente smorzato la mia ispirazione per giorni, quindi prendetevela per il ritardo e anche nel caso in cui il capitolo faccia schifo :)
 




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Just hold a smile.


I don't think the world is sold
I'm just doing what we're told
I feel something so right
Doing the wrong thing
I feel something so wrong
Doing the right thing
I could lie, I couldn't lie, I could lie
Everything that kills me makes me feel alive
 
4 luglio 2014
 
Dopo quel 22 giugno, la vita di Afrodite era cambiata radicalmente. Da fuori pochi avrebbero potuto accorgersene, perchè cercava di mostrarsi il più normale possibile, ma dentro di lei tutto aveva preso a vorticare ad una velocità che la spaventava ogni volta che cercava di rimettere ordine tra i suoi pensieri. Non sapeva più dove sbattere la testa, non si riteneva più in grado di riconoscere cosa fosse giusto e cosa invece sbagliato.
I giorni trascorrevano lenti e noiosi come nelle settimane tra il 19 maggio e il 14 giugno, quando Ryan era scomparso per lasciarle il tempo di studiare e terminare l'anno scolastico.
Quella seconda volta però la lontananza era una sua scelta: dal giorno di quel fatidico bacio aveva smesso di rispondere alla chiamate e ai messaggi del soldato, troppo confusa per avere il coraggio di parlare con lui. Una mattina, dopo circa una settimana, aveva ricevuto l'ultimo SMS.
 
Era il 1 luglio e stava leggendo Logan's run seduta su una sdraio nella veranda della cucina del suo appartamento, che ridava su Via Regina Margherita, quando il telefonino aveva iniziato a vibrare, avvisandola dell'arrivo di un messaggio.
"Dobbiamo parlare. Non darmi dello stalker, ma sono sotto casa tua."
Era sobbalzata a quelle parole, prendendo grossi respiri per cercare di calmare il cuore che aveva preso a battere all'impazzata.
Voleva scendere le scale che li separavano e corrergli incontro e partire con lui per qualunque luogo potessero scegliere e allontanarsi da tutto e tutti.
Eppure razionalmente sapeva quanto fosse sbagliato, quanto i suoi genitori stessero già soffrendo per l'assenza di Marco, quanto Silvia avesse bisogno di lei per distrarsi da quella stessa mancanza, quanto fosse ingiusto e cattivo da parte sua pensare a Ryan mentre Paolo rischiava di perdere la vita, nonostante cercasse di auto-convincersi che, se la missione di recupero fosse andata male, Marco l'avrebbe chiamata; che doveva per forza essere andato tutto bene, altrimenti non sapeva come avrebbe fatto a sopportarlo.
Tuttavia non era riuscita ad impedire alle sue gambe di trascinarla fino alla ringhiera del balcone per spiare Ryan, grazie alla copertura offerta delle numerosissime piante che lo adornavano.
Lo aveva guardato stringere spasmodicamente le mani sul volante, come lo aveva visto fare spesso quando era nervoso.
Lo aveva guardato passarsi le dita tra i capelli e scrutare la strada.
Lo aveva guardato controllare lo schermo del telefono come un forsennato.
Lo aveva guardato fissare il portone del suo condominio, con un misto di speranza e sconforto nello sguardo, per minuti che le erano sembrati interminabili.
Lo aveva guardato mettere in moto e andare via, e aveva sentito il suo cuore svuotarsi definitivamente per seguirlo.
 
Da quel momento più nulla.
Afrodite non riusciva a capire se Ryan fosse arrabbiato oppure avesse capito che lei aveva bisogno di tempo, e inoltre il dolore per la mancanza di Marco e Paolo era tornato a farsi sentire prepotentemente.
La guerra comunque sembrava procedere a favore degli Euro-Statunitensi, perchè al telegiornale le notizie dal fronte erano sempre più frequenti e tutti si rendevano conto che non sarebbe stato così in caso di sconfitta. Tuttavia la linea del fronte non si era spostata molto più avanti di Bogotà, sembrava che i soldati stessero riprendendo fiato dopo la recente vittoria.
Questa, che per chiunque sarebbe stata un'ottima notizia, per Afrodite non era altro che la causa di tutti quei servizi, che venivano loro propinati alla TV, sulla guerra e sulle schermaglie che avevano luogo quasi ogni giorno, ma che non le dicevano nulla di preciso sui soldati italiani e soprattutto su Marco e Paolo.
Quel 4 luglio, un giorno così importante per la storia americana, Afrodite aveva in programma di andare al mare alla Sirenetta di mattina presto con Silvia e raccontarle almeno in parte ciò che le era successo recentemente, perchè sentiva davvero un gran bisogno di parlarne con qualcuno e dal momento in cui aveva aperto gli occhi non riusciva a smettere di pensare a Ryan.
Si vestì mentre era ancora in uno stato catatonico e riuscì a svegliarla solo l'aria fresca delle nove di mattina, che le sferzava il viso mentre si dirigeva in bici sul lungomare verso lo stabilimento.
Alle due amiche piaceva moltissimo vedersi in spiaggia presto: non c'era quasi nessuno, l'acqua era ancora pulitissima e la bassa marea permetteva di prendere il sole con i lettini in plastica parzialmente immersi a riva, così come stavano facendo le due amiche in quel momento, gli occhi chiusi e le membra completamente rilassate.
Ad un certo punto Afrodite prese coraggio e si decise a parlare.
《Ti devo raccontare una cosa》 disse, senza muovere un muscolo.
L'amica aprì un solo occhio di quel grigio sorprendente, disponendosi all'ascolto.
《Ho conosciuto un soldato americano.》
Silvia balzò a sedere, spalancando le palpebre e guardando la bionda con sgomento.
Seguì un breve silenzio, a quella reazione Afrodite aveva perso un po' del suo coraggio.
《Cosa?》 chiese la riccia, esortandola ad andare avanti.
《Ecco...》 Fece una piccola pausa. 《Stavo facendo una passeggiata sul lungo mare, quando-》
《Ma questo quando?》 la interruppe.
Afroditè titubò per alcuni secondi. 《Pochi giorni fa》 rispose alla fine, non avendo il coraggio di confessarle che il primo incontro con Ryan era avvenuto il 5 maggio, ovvero quasi due mesi prima. 《Ad ogni modo, dicevo,》 si affrettò a proseguire. 《ad un certo punto sbuca questo tipo che si mette a chiamarmi in inglese.》 Si era seduta anche lei nella foga del racconto ed aveva iniziato a gesticolare come al suo solito. 《Insomma io non gli do corda ma lui mi si avvicina e mi afferra un braccio.》
La sua amica si era portata una mano davanti alla bocca. 《Cosa?》 Era sempre più incredula. 《Era un soldato americano?》
Afrodite annuì e riprese il racconto. 《Poi però si è avvicinato un altro uomo e gli ha detto in inglese di lasciarmi in pace e lui se n'è andato con la coda tra le gambe.》
《E anche questo era un soldato?》
L'altra annuì di nuovo. 《Mi ha riaccompagnata a casa in macchina》 concluse.
《Ti sei fatta riaccompagnare a casa in macchina da un sconosciuto, per di più americano?!》 esclamò Silvia passandosi una mano tra i ricci scuri.
《Mi aveva appena salvata e mi sono fidata》 rispose mitemente l'altra, arrossendo.
《E scommetto che era carino.》 l'espressione dell'amica si fece maliziosa.
《Carino?》 domandò retoricamente con una risata stizzita. 《Era uno degli uomini più belli che avessi mai visto》 sospirò, arrossendo di nuovo e ripensando alla sensazione delle sue labbra che si modellavano febbrilmente contro le proprie.
《Com'era?》 Silvia era entrata nella sua modalita "pettilona" e niente e nessuno avrebbe potuto salvare Afrodite dalle sue domande.
《Beh-》
《Avanti!》 la interruppe, vedendola esitante.
《Ti ricordi quella sera che abbiamo incontrato dei soldati al Bar Napoli.》
Silvia si limitò ad annuire per non interromperla.
《Era Ryan.》 concluse, prendendo un sospiro.
《Quello silenzioso e bello da non crederci?》 chiese con tanto d'occhi.
Fu il turno di Afrodite di annuire in silenzio.
《In effetti mi sembravi un po' nervosa e sovrappensiero dopo quell'incontro. E perchè non ti ha salutata?》
《Ma figurati, non si sarà ricordato.》 La ragazza sminuì l'accaduto con un gesto della mano. 《Cioè, l'hai visto?》 chiese retoricamente ridendo, come se il suo aspetto bastasse a giustificare una tale dimenticanza.
《Sì che l'ho visto brutta-》 si interruppe schizzandole l'acqua da cui Afrodite tentò di ripararsi senza successo. 《Sempre il solito culo! A me non capiterebbe mai di incontrare un ufficiale del genere!》 continuò, fingendosi furiosa e scatenando un moto di risa nell'amica che decise di stare al gioco.
《Chi può, può e, chi non può, va a zompetti. Che vuoi farci?》 disse, atteggiandosi e schizzando l'acqua a Silvia di rimando.
Entrambe sapevano quanto quella conversazione fosse assurda, ma proprio per questo, perchè entrambe sapevano, Afrodite fu sempre grata a Silvia per non aver nominato Paolo.
In fondo non c'era niente di male nel guardare un paio di ufficiali.
《Certo che anche quel Joseph》 continuò la mora contemplando un punto nel vuoto. 《Però non è il mio tipo: capelli rossi, occhi castani e lentiggini? Nah》 concluse scrollando le spalle e tornando a prendere il sole.
《Infatti, a te piacciono biondi e soprattutto Trini》 la stuzzicò l'altra alludendo a Marco e imitandola.
Quella volta Silvia non si limitò a schizzarla, ma prese la rivista che aveva poggiato vicino ai piedi e gliela lanciò prendendola in pieno e guadagnando un sonoro gemito di dolore.
《Ben ti sta!》 concluse.
Ora che aveva raccontato a Silvia almeno dell'esistenza di Ryan, anche se non le aveva detto proprio tutto, si sentiva un po' più tranquilla e, come sempre succede, parte del suo senso di colpa era andato scemando nell'auto-convinzione che non ci fosse nulla di male. In fondo non aveva proprio mentito.
Certo sentiva ancora quel vuoto al centro del petto, ma ultimamente sembrava averci fatto l'abitudine e quella mancanza diventava troppo dolorosa unicamente quando si ritrovava da sola a pensare. Perfino la sua amata scrivania sotto la finestra le era diventata ostile: il panorama che prima la rilassava tanto, dal loro ultimo incontro non faceva altro che ricordarle i posti che aveva visitato assieme a Ryan.
E in più era perfettamente consapevole di non aver detto praticamente nulla alla sua amica, di essersi limitata a mettere la coscienza a posto al pensiero di averci provato, quando in realtà non aveva mai davvero avuto l'intenzione di spiegarle come si sentiva. Così in quel momento sentì tutta la distanza che si era venuta a creare tra loro due, che avevano sempre parlato di tutto, da quando le cose erano cambiate. E sapeva che la cosa non dipendeva solo da lei e dal suo silenzio: era stata proprio Silvia a liquidare quella breve conversazione portandola da seria a giocosa, non volendo prendere quel racconto sul serio. Sicuramente anche lei stava attraversando un momento difficile, visto che Marco era al fronte in costante pericolo e ormai non lo vedeva nè sentiva da tre mesi. Per la prima volta, dall'inizio della loro amicizia, stavano affrontando un problema contemporaneamente ma non insieme e questo non faceva altro che aumentare la sensazione di straniamento dal mondo che Afrodite provava da giorni.
L'acqua fresca che le sfiorava le dita, gettate al di là del bordo del lettino, le provocava tanti piccoli brividi che percepiva lontani, come se non la riguardassero davvero. Era come se tra lei e il mondo si fosse issato un muro che le impediva di vivere davvero ciò che le accadeva intorno. Si limitava ad assistere mentre le sue amiche chiacchieravano, mentre i suoi genitori si sforzavano di comportarsi normalmente, mentre la TV trasmetteva quelle immagini orribili; talvolta si inseriva nella conversazione, dava corda ai tentativi di Ferdinando e Silvana, spegneva la TV con stizza. Ma la verità era una sola: aveva perso quel qualcosa che l'aiutava a sopportare una situazione troppo difficile per lei che non aveva mai visto la morte così da vicino.
Ed era stata una sua scelta, dettata dal timore delle opinioni altrui e dal senso di colpa.
"Marco mi aveva detto di fare la brava" ricordò con un sorriso appena accennato, tenendo gli occhi chiusi e ripensando a quell'ultimo incontro alla stazione.
Ma Paolo non avrebbe voluto semplicemente vederla felice?
"Dio, Afrodite, pensi come se fosse già morto!" si rimproverò con stizza, scuotendo leggermente il capo come a voler scacciare quei pensieri molesti.
《Didi, tutto bene?》 le chiese Silvia, guardandola dubbiosa dal suo lettino.
Afrodite costrinse il suo volto a ridistendersi in un sorriso convincente ed annui con foga. 《Certo!》
 
Alla fine aveva ceduto.
Dopo quella giornata di mare, dopo aver parlato con Silvia ed aver quindi alleggerito la propria coscienza, dopo essersi resa conto di quanto i giorni le sembrassero infiniti e sempre uguali e di come giusto e sbagliato si fossero ormai capovolti irrimediabilmente da quando la guerra era entrata a far parte della sua vita, alla fine aveva ceduto.
"Felice giorno dell'indipendenza, sottotenente Martins! Come l'hai trascorso?" aveva digitato con mani tremanti senza però trovare davvero la forza di inviare il messaggio e sorvolare sul fatto di aver ignorato le sue chiamate ed i suoi SMS per dieci giorni, ma voleva fare un passo avanti, un tentativo di riavvicinamento meno brusco possibile.
Subito dopo essersi resa conto di averlo fatto davvero, di essere stata lei a cercare Ryan per la prima volta, di aver frantumato quell'ormai sottile barriera di indifferenza nei suoi confronti che cercava di imporre a se stessa e a lui, gettò il telefono sul letto per poi seguirlo dopo qualche istante, spogliandosi svogliatamente e rannicchiandosi sotto le coperte, decisa a dormire.
Fu la vibrazione del telefono a ridestarla da quel dormiveglia in cui era scivolata, esausta.
"Poteva andare meglio, siamo al Jayson's e ci stiamo facendo qualche birra con gli altri del plotone. Visto che domani è il mio compleanno, passo a prenderti dopo cena e ci andiamo a fare una passeggiata sul lungo mare."
Come sempre Ryan non chiedeva, si limitava ad avvisarla di ciò che aveva intenzione di fare senza concedersi il lusso del "ti va se...?", perchè sapeva di non poterselo permettere.
"Signorsì, signore!" si limitò a rispondere Afrodite, chiudendo poi finalmente gli occhi.
 
***
 
You're the queen of everything
as far as the eye can see,
under your command
I will be your guardian.
 
5 luglio 2014
 
Quella mattina si era svegliata con una certa trepidazione in corpo, come succedeva ogni volta se sapeva che avrebbe visto Ryan. Aveva tentato di comportarsi normalmente per tutto il giorno, ma non ci era particolarmente riuscita: a colazione aveva così tanto la testa tra le nuvole che dopo aver finito di mangiare aveva messo la tazza sporca nella dispensa, i biscotti in frigo e il latte nel lavandino e Silvana aveva trascorso una decina di minuti fissandola in tralice con quegli occhi così simili a quelli di Marco senza chiederle però niente.
La verità era che, nonostante Afrodite fosse praticamente su un altro pianeta, la sua era una distrazione sognante, non abbattuta come quella dei giorni precedenti. Così sua madre decise di lasciar perdere ogni preoccupazione, limitandosi a riordinare con titubanza le cose che sua figlia aveva riposto nel luogo sbagliato. Aveva poi reciso alcuni fiori, disponendoli in un vaso sulla tavola nella sala da pranzo, canticchiando allegramente un motivetto sottovoce. Erano sempre state molto diverse, lei e sua figlia, all'una bastava poco per sistemare il proprio umore, mentre l'altra trascorreva molto tempo a rimuginare, a riflettere su cosa fosse giusto e cosa invece fosse sbagliato, finendo col perdere di vista l'obiettivo di stare bene.
Per contro la ragazza era convinta di avere perfettamente successo nella sua opera di dissimulazione e non si rendeva conto di quanto l'aspettativa dell'incontro di quella sera l'avesse messa di buon umore, trascinandola nelle fantasie che l'attesa porta sempre con sè.
Erano già le undici quando Silvana decise di uscire per andare ad aprire il negozio, lasciano un sonoro bacio sul capo di Afrodite. Ormai lavorava pochissimo, nessuno comprava fiori in tempo di guerra e il pensiero che quei pochi che vendeva fossero destinati probabilmente al cimitero la faceva star male, così aveva ridotto le ore di attività dato che lo stipendio da professore di suo marito e i loro risparmi lo permettevano.
Visto che Ferdinando se ne stava seduto sul divano in soggiorno facendo oziosamente zapping alla TV in attesa delle qualifiche per il gran premio di Silverstone, Afrodite iniziò a sistemare un po' del tipico disordine di casa, senza portare davvero a termine nessuna faccenda con quell'agitazione di chi non riesce a star fermo. Quel giorno aveva deciso di non andare al mare, visto che comunque Silvia avrebbe trascorso il week-end in montagna con i suoi genitori e lei non aveva voglia di uscire.
Scelse di preparare un'insalata di riso bella fresca per il pranzo e si mise al lavoro con la musica nelle orecchie. A mezzogiorno e mezzo aveva finito e la mise nel frigo, andando poi a rilassarsi in veranda con Castelli di rabbia di Baricco.
"I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire pur di star dietro a un proprio desiderio. Si fa la schifezza e poi la si paga."
Una volta arrivata a questo brano, però, richiuse il libro con stizza, sorprendendosi come al solito del modo in cui Baricco riuscisse sempre a mettere sulla carta quelle sue sensazione che nemmeno lei sapeva di provare o che comunque non era in grado di comprendere fino in fondo finchè non le vedeva scritte da lui.
Ritornò in casa e si rese conto che ormai era ora di pranzo.
《Papà, sono finite le qualifiche?》 chiese dalla cucina a voce alta.
《Principessa, iniziano tra una mezz'oretta》 rispose lui allo stesso modo. 《Ti va se mangiamo qui?》
Afrodite preparò i piatti e li portò in tavola di soppiatto, come se Silvana potesse davvero vederla mentre infrangeva la regola numero uno della casa: non si mangia in nessun posto che non sia la sala da pranzo.
《La mamma non deve saperlo》 disse serio Ferdinando, prendendo il suo piatto dalle mani della figlia, che annuì con foga trattenendo a stento una risata.
《E' davvero buona!》 esclamò l'uomo subito dopo per poi continuare a mangiare con gusto, gli occhi fissi sulla TV.
Guardarono le qualifiche in silenzio, era quello il loro modo di stare insieme, non avevano mai avuto bisogno di molte parole. Se Silvana era la donna pimpante e sempre allegra dalla parlantina facile, Ferdinando, anche dopo tutti quegli anni, preferiva contemplarla estatico, prendendo da lei tutto ciò che poteva offrirgli e donandole la sua completa devozione così come faceva con Afrodite, che era però ben diversa dalla madre e forse più simile al padre, al punto che spesso trascorrevano il loro tempo senza dirsi nulla, ma comunque intimamente insieme.
Esattamente come stavano facendo in quel momento.
La ragazza condivise almeno un po' della sua delusione anche quando Ferdinando si alzò borbottando perchè le sue amate Ferrari erano uscite in Q1, piazzandosi nella griglia di partenza al diciannovesimo e ventesimo posto, e si diresse poi in cucina per riporre il piatto nella lavastoviglie. In fondo le piaceva guardare il gran premio con lui la domenica e un po' si era appassionata a quello sport così complicato fatto di motori e strategie. Le aveva fatto piacere infatti che non venisse sospeso il mondiale di Formula 1 a causa della guerra perchè era sì uno sport da milioni di euro, che però giravano anche tra persone qualificate come gli ingegneri e perfino i piloti dovevano avere un po' di sale in zucca per finire a quei livelli, quindi non le causava quel ribrezzo istantaneo che invece le procurava il calcio. Le gare non avevano subito alcuna variazionefatta eccezione per il circuito di Interlagos, in Brasile, che era stato cancellato perchè considerato dalla FIA troppo vicino alle zone interessate direttamente dal conflitto.
 
Il pomeriggio era volato, tra le pagine del romanzo che aveva finito col terminare mentre il sole si adagiava comodamente sulle colline che stringevano Pescara contro il mare e nell'aria iniziava a sentirsi il penetrante odore di cemento bagnato, che veniva da tutti accomunato alla pioggia, ma che in realtà solo pioggia non era perchè, si sa, in campagna la pioggia ha un odore diverso.
D'un tratto Afrodite riemerse dalla storia straziante di Castelli di rabbia, rendendosi conto che Silvana era tornata e si era fatta ora di cenare.
Aveva appena finito, quando lo schermo del cellulare si illuminò, avvisandola dell'arrivo di un nuovo messaggio.
"Tra venti minuti arrivo."
E lei era lì ad aspettarlo.
 
Ancora non riusciva a crederci.
Afrodite lo aveva cercato, così di punto in bianco, e lui non si era fatto domande.
L'aveva vista confusa quel 22 giugno e aveva capito, aveva aspettato.
In quel momento era sotto casa sua, nell'ormai familiare Via Regina Elena, e stava piovendo, così lui teneva un ombrello sollevato sopra la testa.
La vide uscire dal portone con solo una leggera felpa a coprirla e subito le andò incontro.
《Con un ombrello sarebbe stato troppo semplice, vero?》 la canzonò, coprendola con il suo.
《Non ne ho trovati a portata di mano》 rispose senza guardarlo, rossa in viso. L'imbarazzo era arrivato, esattamente come si era aspettata. 《Buon compleanno, comunque!》 Sembrò ricordarsi all'improvviso le sue parole della sera precedente e si sforzò di guardarlo per regalargli il sorriso migliore che riuscì a trovare dentro di sè.
Ryan la stava già guardando e il suo viso era già modellato in quella smorfia asimmetrica che era meglio di qualunque altro sorriso Afrodite avesse mai visto.
《Grazie.》
Rimasero fermi in silenzio per un po' prima di avviarsi sotto la pioggia.
《Dall'ombrellone all'ombrello?》 se ne uscì ad un tratto l'uomo.
《Benvenuto a Pescara, soldato, dove non si può stare tranquilli nemmeno un giorno senza chiedersi "Maglione o canotta oggi?"》 rise, di quella risata limpida e cristallina che ormai Ryan aveva imparato a collegare alla sua vera felicità.
《Bello!》 esclamò lui con ironia.
Era sabato sera, eppure per strada non si vedeva nessuno. Forse il clima era dalla loro parte.
Ormai erano le nove e mezza e, nel cielo, del sole non era rimasto nemmeno il rossore di una donna che si corica nuda nell'attesa del suo amore. Afrodite e Ryan presero il lungomare e si diressero a sud, verso il ponte del mare dove erano già stati quel pomeriggio di primavera che sembrava così lontano, dopo la spesa.
La vicinanza di quell'uomo le faceva fremere la pelle ad ogni piccolo alito di vento e le impediva quasi ogni pensiero logico, ma la ragazza sapeva che almeno con lui doveva essere sincera. Se non con Silvia, se non con se stessa, almeno con lui.
E così parlò.
《Io ho un ragazzo.》
E dopo aver detto quelle quattro parole, tutto il resto arrivò da solo, sotto lo sguardo dapprima sbigottito e poi lontano di lui.
《Si chiama Paolo, è il migliore amico di mio fratello ed è partito con lui per il fronte. Ci conosciamo praticamente da tutta la vita.》
E andò avanti così, parlando lentamente, finchè non furono arrivati alla Madonnina, come veniva chiamata la piazza da cui iniziava il ponte del mare a causa dell'alta colonna sormontata da una statua della vergine che vi si poteva scorgere. Quella volta, però, Ryan imbocco il lungofiume in direzione del mare aperto, ignorando il ponte. Quella breve strada pedonale costeggiava il fiume sulla destra fino al piccolo faro di segnalazione di inizio del canale, mentre sulla destra si protendeva oltre la costa con un ammasso di scogli artificiali in cemento che avevano portato all'accumulo di parecchia sabbia sotto i travocchi. Sì, perchè erano senza dubbio loro la cosa più interessante del molo dove ormai nessuna barca attraccava più da quando era stato aperto il porto turistico a Portanuova, se non i pescherecci e comunque sempre sul lato sud. Erano strutture in legno e metallo simili a palafitte, ma piccole e molto sopraelevate rispetto al livello del mare, un tempo utili solo per la pesca, con quelle lunghe travi grondanti di corde ormai inutilizzate.
Percorsero tutto il molo e Afrodite stava ancora parlando, aveva raccontato ogni singola cosa che riguardasse Paolo, come un fiume in piena che riesce finalmente a rompere gli argini e si scaglia con violenza su tutti coloro che erano rimasti lì, a guardarlo in silenzio senza far niente per trattenerlo perchè era giusto così. Gli raccontò di fiori, passeggiate, dolci, montagne, sorrisi, carezze, di baci rubati e di baci concessi tra gli improperi di un fratello troppo geloso, che alla fine però si era arreso.
Quando erano finalmente arrivati al faro si voltarono l'uno di fronte all'altra e Afrodite aveva finito le parole di una vita.
《Lo ami?》 le chiese Ryan semplicemente.
Afrodite sapeva che la risposta esatta sarebbe dovuta essere un bel "Sì!" convinto, eppure non riuscì ad emettere alcun suono.
《Dopo tutto quello che mi hai raccontato, dopo tutti gli anni in cui ti è stato vicino, dopo tutte le cose che hai condiviso con lui, come fai a non amarlo?》 strepitò, stringendo forte il manico dell'ombrello.
《Non lo so》 fu l'unica cosa che lei riuscì a rispondere con voce flebile.
《Non lo sai?》 il suo tono si era fatto esasperato.
《Io e lui siamo sempre stati insieme-》 iniziò senza guardarlo, torturandosi le unghie con le dita.
《L'ho capito questo!》 la interruppe con foga, perchè non sarebbe stato in grado di ascoltare altri ricordi felici.
《Ascoltami!》 esclamò, avvicinandosi di un passo. 《Sono sempre stata con lui, è sempre stato normale, giusto stare con lui.》 Si interruppe come a cercare le parole giuste. 《Ma ora le cose sono cambiate.》 tornò a posare il suo sguardo sul volto di Ryan e vi scorse un'espressione confusa. 《Con te è diverso, mi sembra tutto così sbagliato, eppure mi fa sentire bene e questo mi terrorizza perchè è come se non avessi più il controllo di ciò che voglio.》
《Non si può decidere cosa si vuole-》
《E questo mi fa impazzire!》 fu il suo turno di interromperlo. Si passo una mano tra i capelli appiccicosi di umidità per scostarli dal viso, piantando nei suoi occhi quelle iridi del colore del cielo, che quel giorno era coperto, ma non per loro.
《Ma non importa.》
Il volto di Ryan si fece dubbioso.
《Perchè senza di te, invece, è come se non fossi davvero viva.》
Fece una pausa come per valutare la sua reazione.
《Il senso di colpa e l'indecisione mi stanno uccidendo, ma almeno mi fanno continuare ad esistere.》 Abbassò il capo e la voce. 《L'apatia mi trascina solo lontana da me stessa-》
Le parole morirono tra le labbra di Ryan che erano scese a catturare le sue e lei potè finalmente ritrovare quella morbidezza che aveva ricordato con stizza per tutti quei giorni. Il soldato lasciò cadere l'ombrello e i due amanti vennero attaccati da una miriade di goccioline sottili, ma non se ne curarono, come spesso accade alla fine di quei film romantici banali, in cui basta un bacio sotto la pioggia per sistemare tutto e avere uno splendido happy ending e la pioggia serve a rendere tutto più romantico (oltre che a mostrare il fisico bestiale del protagonista maschile), mentre per loro, per Afrodite e Ryan, quella pioggia era solo un effetto collaterale. Perchè Ryan voleva stringerla con entrambe le braccia, l'avrebbe stretta anche con tutto il suo essere se fosse stato possibile; perchè la sentiva tremante contro di sè e quell'ombrello era solo un impiccio; perchè quello non era affatto il loro lieto fine, era solo un punto da cui partire per affrontare la guerra insieme e tenersi su, spalla contro spalla, labbra contro labbra, fronte contro fronte; perchè quel bacio non sistemava tutto, ma almeno li avvicinava un po'.
E lui avrebbe continuato a capire, ad aspettare.
Perchè quel bacio era bastato a parlare per entrambi.
 
Rimasero sotto la pioggia finchè non ne ebbero abbastanza di assaporarsi e cullarsi l'un l'altra, poi si riavviarono lentamente, mano nella mano, sul molo verso casa di Afrodite.
《Tu sai che io sono un soldato, ma io non so cosa vuoi fare da grande》 disse quasi subito Ryan scrutandola.
Afrodite si prese qualche momento prima di rispondere per abituarsi alla sensazione della pelle ruvida contro il palmo della sua mano.
《Mi piacerebbe affittare uno di questi e aprire un ristorante》 disse, mentre il suo sguardo si perdeva lungo la costa pescarese, illuminata da mille romantiche luci arancioni, ben visibile dal molo e ancor di più dai travocchi che stava indicando. Amava quel panorama, era come se da lì si potessero vedere solo le cose belle di Pescara, mentre quelle brutte rimanevano oscurate dalla notte
《Si può fare? Perchè non l'ha ancora fatto nessuno?》 Ryan sembrava sbalordito.
《Non lo so》 mormorò la ragazza, stringendosi nelle spalle. 《I travocchi sono tutti di proprietà privata, ma la burocrazia in Italia è interminabile e non oso nemmeno immaginare quante carte siano necessarie per aprire un ristorante su uno di questi cosi.》
Ryan sbuffò sonoramente. 《Io davvero non vi capisco voi italiani.》 Si passò una mano tra i capelli, seguendo lo sguardo di lei verso quel panorama splendido. 《Guarda che roba? E voi sprecate questi tracolli-》
《Travocchi》 lo interruppe lei, trattenendo malamente una risata.
《Sì, quel che è.》 Chiuse la questione con un gesto della mano libera. 《Insomma sprecate questi travocchi,》 La guardò chiedendo il suo consenso, che lei gli diede con un segno del capo e un sorriso. 《per un po' di carte da firmare?》
《E soldi da pagare e autorizzazioni da chiedere e soldi da pagare e mesi da aspettare e ancora soldi da pagare》 lo corresse.
《Io davvero non vi capisco》 concluse alzando le braccia in segno di resa anche se uno era ancora legato alla mano di lei.
Lei che scoppiò a ridere, e la sua risata era la cosa più bella del mondo.
《Forse ora, in tempo di guerra, la burocrazia romperebbe di meno》 sussurrò, quasi tra sè e sè. 《Peccato che non ci verrebbe nessuno》 concluse con un tono che voleva essere leggerò ma finì con il risultare sconsolato.
《Vorrà dire che ti aiuterò ad aprirlo, quando tutto questo sarà finito.》
Ryan fissava dritto davanti a sè, mentre invece lei non riusciva a distogliere lo sguardo da quell'espressione decisa incastrata nel suo profilo bellissimo. E, se lei in quel momento non riusciva a pensare a nulla, aveva la mente completamente bianca, lui invece non poteva smettere di ripromettersi che l'avrebbe protetta finchè ne fosse stato capace, perchè non meritava tutte quelle mancanze e non era giusto che una persona innocente come lei, ma come poteva essere chiunque altro, dovesse rinunciare ai propri sogni per il capriccio di altri. Se ne fosse stato capace le avrebbe donato il mondo intero, ogni cosa, ma poteva solo sperare di aiutarla ad ottenere ciò che voleva.
E proteggerla da tutto ciò che avrebbe potuto ferirla in qualsiasi modo.
Ryan interruppe la sua camminata all'improvviso, voltandosi verso di lei e tenendosela vicino grazie alla mano ancora intrecciata alla sua.
E la vide, con quegli occhi celesti, di un celeste quasi doloroso tanto era intenso, leggermente sbarrati per la sorpresa, con quella bocca rosa e carnosa già appena, appena socchiusa. La baciò dolcemente, continuando a stringerle la mano nella sua e accarezzandole lentamente una guancia con quella libera. Non aveva nessuna importanza l'età, la sua presenza solo temporanea a Pescara, il suo ragazzo oltreoceano, nulla.
Lui l'avrebbe protetta ugualmente.
Ma chi li avrebbe protetti da loro stessi?
 
***
 
The spirit of resistance to government is so valuable, that I wish it to be always kept alive.
It will be often exercised when wrong, but better so than not to be exercised at all.
 
4 luglio 2014
 
Si lasciò cadere sulla brandina, esausto.
Era stata una giornata interminabile: i soldati americani facevano già poco durante le azioni militari, ma quel giorno avevano praticamente avuto 24 ore di congedo per la loro festa nazionale (privilegio che ovviamente tutti gli altri non avevano avuto) e tutto il lavoro era finito nelle mani degli europei che avevano dovuto spaccarsi la schiena il doppio.
Non aveva la forza fisica e mentale di sopportare quel coglione di Guillaume, il ragazzo che occupava la branda sotto la sua, ma inevitabilmente questi fece il suo ingresso nella camerata con un asciugamano stretto intorno ai fianchi ed una mano a sfiorare i capelli rasati, subito seguito da Paolo.
Era stato difficile ritrovarlo, aveva rischiato di rimanere bloccato a Villavicencio, dove i comunisti si erano temporaneamente rifugiati dopo la presa di Bogotà, perchè i rinforzi tardavano ad arrivare e i sudamericani li avevano ormai individuati lanciandosi subito all'inseguimento. Non sapeva neanche lui come era riuscito a portarli fuori di lì, ma ce l'aveva fatta e il suo squadrone era ritornato alla base tutto intero. Riusciva a sentire ancora sulla lingua il sapore della paura di chi è braccato e ormai è convinto che "Questa volta non mi salverò, porca puttana!".
Erano passati quasi due mesi e avere vicino Paolo, sano e salvo, gli dava un'illusoria sensazione di sicurezza, anche se quella brutta esperienza aveva radicato in lui l'idea che non sarebbero mai riusciti a tornare a casa e non riusciva a liberarsi di quel presentimento che nella sua mente era ormai diventato certezza.
《Hei Trini, ti va un Texas hold 'em?》 gli chiese Guillaume in un inglese sporcato da un forte accento francese, tirando fuori le carte e sedendosi a un tavolo con altri due soldati.
《Questa volta passo》 rispose lui ritirando le gambe dal bordo della brandina superiore e sdraiandosi finalmente.
《Sei sempre così ennuyeux!》 sospirò allora Guillaume, iniziando a mischiare le carte.《Paul, a te non lo demande.》
Paolo doveva aver fatto un qualche gesto, perchè il dealer iniziò a distribuire le carte senza aspettare una risposta verbale.
Marco tuffò le dita sotto il cuscino e sfiorò la superficie liscia della carta. Quel piccolo, breve contatto bastò a farlo esplodere.
《Merda!》 strillò all'improvviso, stupendo anche se stesso e saltando giù dalla branda. Rovistò con rabbia nel suo armadietto e trovò finalmente il pacchetto di sigarette. Uscì dalla camerata sbattendo forte la porta dietro di sè e lasciando tutti basiti.
Anche Paolo si alzò lentamente, stanco, sotto gli occhi sbarrati di tutti, che non riuscivano ad abituarsi al carattere del ragazzo italiano, per seguirlo quasi trascinando i piedi sul pavimento spoglio. Era da un po' che ogni tanto Marco aveva i suoi momenti da cazzone e se ne usciva con quelle grida senza motivo. O meglio, il motivo c'era ed era l'ansia di non sapere cosa stesse succedendo alla sua famiglia, la rabbia per non poter essere lì con loro, lo schifo che la guerra e la morte, quella coppia inscindibile, gli procuravano.
Lo vide di spalle, la sigarette tra le dita, mai troppo lontana dalla bocca, nemmeno mentre espirava.
《Finirai per impazzire se non ti metti l'anima in pace》 gli disse Paolo, senza giri di parole.
《Sono già fuori di testa》 rispose l'altro con un'alzata di spalle, senza guardarlo ma continuando a tenere le iridi scure fisse davanti a sè.
L'amico sospirò e gli si affiancò.
《Tieni duro, finiamo questa cazzo di guerra e torniamocene a casa, ok?》 Strinse la spalla di Marco con forza e affetto, guardandolo.
《E se dovessimo perderla, la guerra?》 disse questi con voce spenta.
《Dimmi una guerra, una sola, che gli statunitensi hanno perso》 rispose semplicemente il moro, con una risata che non riusciva a trasmettere nessuna allegria.
《E se allora dovessimo vincerla?》 In quel momento Paolo spostò lo sguardo dal profilo del suo migliore amico per posarlo su ciò che guardava anche lui: Bogotà.
Si estendeva davanti a loro, intorno a loro. Era diventata loro. Ed era completamente distrutta.
Non trovò nulla da dire, così rimase in silenzio al suo fianco, finchè il filtro della sigaretta non finì sotto la sua scarpa.
 
Erano tornati dentro nella calma generale, come se non fosse successo nulla, e poco dopo le luci erano state spente e tutti si erano visti costretti a mettersi a dormire.
Marco giaceva supino sulla sua branda.
Allungò lentamente una mano sotto il cuscino, come se si stesse avvicinando a qualcosa di rovente, e le prese tenendole davanti al viso.
Due rettangoli di carta lucida, due foto. Nell'oscurità non riusciva a vederle, ma ormai ne aveva imparato ogni tratto a memoria: in quella più grande c'era tutta la famiglia Trini, la sua famiglia, e lui e Afrodite erano ancora piuttosto piccoli, abbastanza da non ricordare dove si trovassero; in quella più piccola invece c'erano lui, sua sorella, Paolo e Silvia, durante uno dei tanti giorni di "rapimento" che avevano trascorso in montagna l'estate precedente.
"Vorrei aver avuto più tempo."
Ingoiò con rabbia il groppo che gli chiudeva la gola e le ripose sotto il cuscino.
"Merda."
 
 
NDA
Prima di tutto mi scuso se il linguaggio nell'ultima parte vi è sembrato volgare o fuori luogo, però ho pensato fosse necessario per contestualizzare l'ambiente :)
Il titolo e la seconda citazione sono presi dalla canzone Never say never dei The Fray, mentre la citazione all'inizio è un pezzo della canzone Counting stars dei Onerepublic. L'ultima citazione è presa invece da una lettera di Thomas Jefferson (visto che è il giorno dell'indipendenza americana, mi sembrava il minimo!) ad Abigail Adams.
Questo è il panorama che si vede dal molo di Pescara guardando verso la città. In primo piano c'è uno dei tanti travocchi.

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Ringrazio Sleepwalker graphic che ha realizzato questo bellissimo banner nuovo! :*
Vi abbraccio forte tutti e spero di ruscire ad aggiornare il più presto possibilie!
Delilah <3

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Capitolo 10
*** Times square can't shine as bright as you. ***


Grazie a DarkViolet92, aniasolary, Lady Angel 2002, Bijouttina, AstoriaGM, irishpoweryaya, PaulLahote, Shinkari che hanno recensito.
Grazie a _KillyourDarlings_, AstoriaGM che hanno aggiunto la storia alle seguite.
Grazie a DeliveredMe che ha aggiunto la storia alle preferite (Solo ora?! Bella migliore amica real che sei! <3)
Grazie a Hanna Lewis e Aniasolary per tutto il sostegno su Facebook.





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Times square can't shine as bright as you.



 
10 luglio 2014
 
Take me out, spin me around,
we can laugh when we both fall down.
Let’s get stupid dancing with cupid tonight.
When I sing out of key,
still play air guitar for me.
Let’s get stupid dancing with cupid tonight,
don’t feel all kind of right.
 
Era ormai già trascorso il primo mese di vacanza, ma Afrodite non si sentiva affatto riposata, anzi. Non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione di quando rimani per troppo tempo con i muscoli contratti in una posizione scomoda, senza accorgertene, e nel momento in cui realizzi finalmente di non essere affatto rilassata e ti lasci andare, continua ad aleggiare sul tuo corpo una diffusa percezione di indolenzimento sordo e martellante. Da quando aveva parlato con Ryan, il giorno del suo compleanno, Afrodite si sentiva almeno un po' più tranquilla, ma questo non bastava a permetterle di godersi a pieno quell'ultima estate prima della vita vera a cui la fine del liceo avrebbe dato inizio.
Il tempo a Pescara quell'anno non era certo dei migliori e quelle nuvole, seppure chiare, che mitigavano la luce del sole senza rappresentare una vera e propria barriera contro il suo calore, non invogliavano certo a passare giornate intere al mare con le amiche.
Il nervosismo, peraltro, sembrava impregnare la terra stessa, non solo le persone, con la sua ansia latente che prometteva di diventare febbrile non appena il fragile equilibrio di paura e illusione fosse crollato sotto il peso del dolore. La gente iniziava a essere seriamente infastidita dal fatto di non poter avere contatti telefonici con i soldati al fronte, visto che i sudamericani avevano aumentato il ritmo dei tentativi di riprendersi Bogotà e i morti erano ormai all'ordine del giorno.
I telegiornali avevano dovuto accampare la scusa che i governi comunisti tenevano sotto controllo le linee telefoniche non solo locali, e quindi delle loro popolazioni, ma anche transoceaniche, e gli euro-statunitensi non potevano permettersi una fuga di informazioni. La verità era che non avrebbero mai rischiato la divulgazione in patria di ciò che stavano combinando.
Così le cose in Europa non cambiavano molto, tutto ciò che potevano fare era aspettare. Non si sapeva bene cosa, non si sapeva bene fino a quando, ma stavano tutti aspettando.
Visto che da quella sera di pioggia il tempo non si era ancora rimesso del tutto, Afrodite aveva trascorso pigramente gli ultimi giorni a casa, senza niente di davvero interessante da fare.
Giovedì, però, le nuvole decisero finalmente di lasciare un po' di tregua ai pescaresi e il sole potè di nuovo farsi vivo, così come fece anche Ryan.
《Buongiorno, piccola dea!》 lo sentì esclamare Afrodite non appena ebbe avvicinato il telefono all'orecchio.
《'Giorno》 rispose, con la voce ancora impastata dal sonno, tentando di mettersi seduta in quella trappola di lenzuola che era diventato il suo letto.
《Che programmi hai per oggi?》 la sua voce nascondeva un'impalpabile nota euforica.
《In realtà nulla, ho visto che è uscito il sole. Era ora!》 si ritrovò ad esclamare la ragazza, dopo essersi finalmente alzata ed aver accostato il viso alla finestra.
《Esatto, quindi direi che potrei passarti a prendere tra》 fece una breve pausa, probabilmente allontanando il ricevitore dall'orecchio per controllare l'orario. 《mezz'ora?》
《Hai intenzione di rapirmi ogni santa volta in cui il cielo si ricorderà che è estate?》 gli chiese ridacchiando, sapendo perfettamente quale sarebbe stata la sua risposta.
《Come minimo》 commentò lui infatti, interrompendo poi la comunicazione con una risata.
Afrodite dovette vestirsi in tutta fretta, come sempre da quando Ryan aveva preso quella mania di portarla in giro per l'Abruzzo, e salutò il padre con un bacio uscendo praticamente di volata e fiondandosi con trepidazione per le scale, nonostante avesse anche prenotato l'ascensore che però tardava ad arrivare.
Il sole non li aveva ingannati: appena si ritrovò fuori dal condominio i suoi raggi la scaldarono esattamente come la sua luce aveva anticipato attraverso il vetro delle finestre e subito sentì che l'atmosfera prometteva una bella giornata estiva.
Si guardò intorno cercando quell'auto familiare e trovandola quasi subito. Nonostante ormai si stesse abituando alla sua presenza, vederlo lì, appoggiato alla macchina con lo sguardo fisso su di lei come a volerla tenere un po' più vicina anche solo con quegli occhi, la destabilizzava sempre. Si avvicinò quasi trotterellando, ma non lo vide scostarsi per farla salire in auto nemmeno quando si ritrovò ad un passo da lui.
《Non mi fai salire, sottotenente Martins?》 gli chiese in tono giocoso, allontanandosi i capelli biondi dal viso per cercare un minimo di sollievo dal caldo.
Lui per tutta risposta non disse niente, si limitò a staccarsi dalla portiera, ritrovandosi a pochi centimetri dalla ragazza e approfittando di quella vicinanza improvvisa per eliminare ogni distanza tra loro.
《Buongiorno》 le sussurrò sorridendo sulle sue labbra, prima di sfregarle con le proprie. Rimasero immobili dopo quel breve contatto. Ryan non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle iridi di un celeste che sembrava volergli leggere dentro ogni cosa con la sua purezza, soprattutto allora che loro ricambiavano quelle occhiate con sbigottimento. Proprio quando stava per raggiungere il posto di guida, Afrodite gli si avvicinò di nuovo, lasciandogli un dolcissimo piccolo bacio sulle labbra e improvvisamente sparì quella sensazione di aver osato troppo che non si era nemmeno reso conto di provare e lui potè davvero trovare la forza per allontanarsi da lei.
Salirono in auto con il volto illuminato da due timidi sorrisi che sembravano urlare: potete dirmi ciò che volete, ma credo di essere felice. Ryan mise in moto subito e si immisero nel lento e fastidioso traffico cittadino.
Impiegarono quasi mezz'ora per uscire dalla città e imboccare la statale. Erano diretti a sud come quando erano andati ai Ripari di Giobbe o a San Vito e il paesaggio circostante iniziava a risultarle familiare. Quel tratto di statale era davvero molto bello: la strada correva parallela alla costa, a tratti nascosta dalla boscaglia folta in quell'estate così umida; improvvisamente poi si apriva il panorama meraviglioso della distesa cristallina del mare, di cui si poteva godere dalla posizione sopraelevata in cui si trovava la strada, mentre a destra si estendevano continuamente campi a diverse colture, tra cui la più frequente era sicuramente la vite, tipica della zona mediterranea. E la parte migliore di tutto era sicuramente rappresentata dall'infinità di papaveri che i due si vedevano scorrere davanti agli occhi a gran velocità e che per questo si trasformavano in vivacissime macchie rosse nel verde dell'erba sul ciglio della strada, ma anche di tanto in tanto fra i campi. Superarono Ortona, poi i Ripari, poi San Vito e Afrodite iniziava ad avere qualche idea su dove Ryan avesse intenzione di portarla.
《Stiamo andando a Fossacesia, vero?》 chiese d'un tratto, voltandosi verso di lei come una bambina che fosse riuscita finalmente a risolvere un indovinello propostole da un adulto.
《Più o meno》 rispose semplicemente lui, sorridendo a quel tono così euforico e teneramente infantile.
《Se non è Fossacesia deve essere Termoli, ma è lontanissima!》 esclamò sbarrando gli occhi.
A quel punto Ryan deviò per allontanarsi dalla costa. Si stavano dirigendo verso un'altura e la ragazza si sporse dal finestrino, stringendo gli occhi per proteggerli dal sole che ormai brillava alto, in modo da riuscire a vedere meglio quale fosse la loro destinazione e la vide: una struttura in pietra rossiccia sulla cima di quella collina. Doveva essere una chiesa perchè riusciva a distinguere tre protuberanze convesse su un lato e potevano essere solo tre absidi.
《Mi stai portando a visitare una chiesa?》 chiese tornando a sedersi composta, con la voce spezzata da una risata malcelata.
《No》 rispose lui, alzando gli occhi al cielo. 《Aspetta e vedrai.》
Continuarono a serpeggiare su un versante della collina, arrampicandosi tra gli alberi tutt'intorno. Alla fine Ryan parcheggiò proprio davanti alla semplice facciata della chiesa, uscendo poi dall'auto.
《Ma questa è la chiesa!》 esclamò lei, seguendolo fuori dall'abitacolo e guardando l'edificio con il piccolo naso rivolto verso l'alto e la bocca semi-dischiusa.
《Sì, è San Giovanni in Venere》 concesse, ammiccando nella sua direzione al nome della dea e provocando nella ragazza una timida risatina. 《Ma non ti ho portata qui per questo.》 La guardava con una strana trepidazione negli occhi.
《E per cosa, allora?》 chiese, la fronte aggrottata.
Ryan si esibì in un sorrisetto birichino, prendendola per le spalle ed aiutandola ad avanzare all'indietro, aumentando ulteriormente i suoi dubbi.
Improvvisamente la fece voltare e le sussurrò all'orecchio, rimanendo dietro di lei, con le mani poggiate sulle sue spalle: 《Per questo.》
Davanti a loro il panorama mozzava il fiato: oltre la distesa di alberi da frutto, ordinatamente allineati nei campi adagiati sul versante est della collina su cui si trovavano, la città di Fossacesia occupava una lunga lingua di terra e la costa concava sembrava voler abbracciare l'enorme distesa del mare. Tirava una leggera brezza salmastra e l'acqua brillava di riflessi argentei.
《E' bellissimo》 fu tutto ciò che Afrodite riuscì a dire, non riuscendo a nascondere l'entusiasmo nel voltarsi verso Ryan.
Lui le sorrise dolcemente, prendendole poi il volto tra le mani. Le posò un leggero bacio sulle labbra, prima di circondarle la spalle con un braccio e continuare ad ammirare la vista splendida.
《Ci facciamo fare una foto?》 chiese gettandole una fugace occhiata per sbirciare la sua reazione.
Afrodite scosse il capo, senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo che le si parava davanti. 《Non serve》 mormorò. 《Non riuscirei comunque a dimenticare tutto questo, neanche volendo》 concluse con un'alzata di spalle, posando il capo sul petto del soldato e sentendo, attraverso la stoffa della T-shirt, il cuore cercare di sfondare la cassa toracica.
E allora si sentì un po' meno sola.
Perchè il suo, di cuore, era esattamente nelle stesse condizioni.
 
Alla fine San Giovanni in Venere l'avevano visitata, con un nome così non avevano potuto fare altrimenti, e avevano deciso di pranzare con degli arrosticini comprati ad un chioschetto nella piazza davanti alla chiesa, seduti ad uno dei tavolini che ne formavano l'area picnic. Erano poi ridiscesi dalla collina, percorrendo a ritroso la strada che avevano utilizzato all'andata e, proprio quando Afrodite stava per chiedere dove fossero diretti a quel punto, Ryan rallentò e si insinuò in una minuscola stradina seminascosta dagli alberi in cui l'auto passava a malapena. Afrodite si ritrovò ad aggrottare la fronte, guardandosi intorno con grande curiosità.
《Stai cercando un posto dove nascondere il mio corpo, Stalker?》 chiese ironicamente la ragazza, ridendo seguita subito a ruota dal soldato.
All'improvviso la strada si aprì in un piccolo spiazzo e Ryan vi fermò la macchina senza indugi.
《Siamo soli》 commentò l'uomo, uscendo dall'auto.
《Ma come, la lasci qui in mezzo alla strada?》 chiese lei alludendo alla macchina ed uscendone a sua volta.
《Questo è un parcheggio, da qui alla spiaggia ci si arriva solo a piedi》 chiarì, precedendola verso la strada che, dopo quella sorta di piazzale, si reimmergeva nella vegetazione.
Percorsero ancora pochi metri prima che gli alberi si diradassero e il loro sguardo potesse spaziare fino all'estremo orizzonte. Un trabocco spezzava la visuale con quegli alti tronchi così caratteristici e all'apparenza anche terribilmente fragili, che invece resistevano imperturbabili alla forza delle onde da chissà quanto tempo senza nessuno scoglio a proteggerli, se non qualche masso vicino alla riva che invece di fermare l'avanzata dell'acqua sembrava semplicemente lasciarsi cullare e accarezzare da quel dondolio ritmico di fluidi luminescenti e spumeggianti.
Afrodite rimase senza fiato, osservando quello spettacolo dalla minuscola spiaggia che sorgeva proprio a destra dei tronchi del trabocco.
《Che cosa ci facciamo qui?》 chiese quasi sussurrando, come se avesse paura di rompere quella quiete parlando troppo forte.
《Passiamo una giornata al mare》 rispose semplicemente Ryan, ricominciando a camminare per poggiare le loro cose sui sassi. Erano a malapena le undici e mezza e avevano davvero praticamente tutto il giorno da trascorrere assieme, così Afrodite ricacciò in gola il groppo che era nato al solo pensiero e si incamminò verso gli asciugamani che l'uomo davanti a lei aveva già iniziato a stendere.
Erano lì da soli e Afrodite sentiva una strana sensazione percorrerle la pelle come una carezza elettrica, senza riuscire a capire bene di cosa si trattasse, sapeva solo che erano lì da soli, che lei era stessa supina sul suo asciugamano e che lui le stava affianco, con il capo poggiato ad una mano e il corpo rivolto verso di lei, quel corpo che non riusciva a smettere di guardare, di sfuggita per cercare di non farsi notare.
E loro erano lì, in quel piccolo angolo di natura pressoché incontaminata, da soli a scrutarsi, quasi avessero paura che una qualunque mossa avrebbe potuto rovinare tutto.
Fu Ryan ad avvicinarsi improvvisamente al suo viso per baciarla, quando la tensione era ormai diventata palpabile e riuscivano quasi a vederla aleggiare intorno a loro.
E' strano come la nostra mente di esseri umani cerchi sempre di salvarci dalla pazzia: quando facciamo qualcosa di sbagliato e sappiamo perfettamente quanto lo sia, ma non riusciamo a fermarci, sentiamo quel sudore freddo correrci lungo la schiena o magari il cuore scoppiarci nel petto fino ad impedirci di respirare; ma poi, mano a mano che continuiamo a fare quel qualcosa di pericolosamente sbagliato e dolcemente inevitabile, le sensazioni di malessere vanno affievolendosi, fino quasi a scomparire del tutto lasciandoci più storditi che amareggiati. E siamo salvi, perchè se non avessimo questa straordinaria capacità di adeguarci alle nostre stesse scelte, il senso di colpa finirebbe, in un modo o nell'altro, per consumarci. Perchè siamo noi i più terribili giudici di noi stessi e forse è giusto che sia così. Qualcuno, un certo Blaise Pascal (sì, lo stesso della Pressione, avete capito bene), una volta ha detto di aver capito che tutta l'infelicità dell'uomo sta nel non essere in grado di restare tranquillo in una camera, ma non si può ben capire cosa intendesse se non ci si è mai trovati nella condizione di sapere di aver fatto qualcosa di sbagliato e perseverare in quello sbaglio perchè è l'unica cosa che possiamo fare. E' proprio a questo punto che interviene il nostro eccezionale meccanismo di sopravvivenza e noi semplicemente ci dimentichiamo di quanto quell'azione sia sbagliata, perchè non potremmo comunque cambiare la realtà dei fatti.
Ed era esattamente così che si sentiva Afrodite: c'era stato un tempo in cui aveva saputo quanto tutto ciò che le stava succedendo fosse sbagliato, ma sotto le labbra di Ryan che si facevano passionali contro le sue, tra le sue braccia che la stringevano come a volerla tenere vicino al cuore per sempre, con le sue dita che la accarezzavano neanche fosse la cosa più bella e delicata del mondo, l'aveva dimenticato.
Perchè la realtà dei fatti era che doveva baciarlo, perchè altrimenti aveva la sensazione che non sarebbe riuscita nemmeno a respirare.
Sentiva la bocca calda del soldato cercare con urgenza la sua e una strana euforia aveva iniziato a pervaderla, al punto da non riuscire a trattenersi dal tuffare le dita tra i suoi capelli scompigliati per avvicinarlo ancora di più a sè, per quanto possibile.
Poi d'un tratto si sentì afferrare dietro la schiena e sotto le ginocchia e Ryan la sollevò, dirigendosi piuttosto lentamente verso la riva.
《Com'è? Fai fatica, soldato?》 chiese Afrodite, ridendo e stringendosi di più al suo collo. 《Non riesci nemmeno a sollevare un peso-piuma come me?》 continuò a prenderlo in giro, soffiando quelle parole sulla pelle sensibile dell'incavo della clavicola, mentre l'uomo iniziava ad immergersi a passi larghi nell'acqua fresca di quell'oasi sempre ombreggiata dalle chiome degli alberi che la circondavano.
《In effetti si, bambina》 rispose ridendo anche lui e lasciandola andare improvvisamente tra gli schizzi che avevano ormai iniziato a lambirle la schiena.
《Tu! Brutto-》 iniziò ad attaccarlo lanciandogli tutta l'acqua che riusciva non appena fu riemersa da quel tuffo improvviso, ma nel tentare di avvicinarsi per spingerlo, non si accorse che la roccia su cui poggiava i piedi era di piccole dimensioni e finì per cadere nello spazio tra un sasso e l'altro, scomparendo alla vista in superficie. Iniziò a nuotare e riemerse trovandosi davanti la risata sguainata di Ryan, che tentò di trattenersi solo per prenderla in braccio da sotto le ascelle, neanche fosse stata davvero una bambina, per portarsela vicina, sulla sua stessa roccia. La strinse in un abbraccio, sprofondando il viso tra i suoi capelli bagnati, e potè così notare che l'odore del mare, su di lei, era un'altra cosa.
 
Il sole stava iniziando a calare dietro le cime degli alberi e le ombre si facevano sempre più scure su quel volto  di porcellana che lo teneva incollato a sè. Erano seduti su un sasso abbastanza rialzato rispetto al livello del mare, ma meno di quanto lo fosse quella mattina, le gambe lasciate a dondolare oltre il bordo levigato dall'alta marea che stava ormai arrivando anche quel giorno.
《Dovresti avvisare che non tornerai a cena a casa.》 Ryan ruppe improvvisamente il leggero silenzio che si era venuto a creare, guardando il trabocco che si spingeva nel mare dalla costa.
《Perchè?》 chiese allora Afrodite, dubbiosa.
《Perchè ho prenotato lì》 rispose lui, semplicemente, indicando con un cenno del capo la piattaforma su cui andavano accendendosi diverse luci arancioni e soffuse ed alzandosi in piedi per scendere dal loro punto d'osservazione. 《Si è fatto anche piuttosto tardi, dovremmo avviarci》 concluse tendendola una mano e regalandole un sorriso, per aiutarla ad alzarsi e seguirlo.
Si arrampicarono di nuovo lungo la salita scoscesa che li avrebbe riportati all’auto e raggiunsero piuttosto in fretta lo spiazzo dove l’avevano lasciata parcheggiata. Superarono la Gran Tornino e imboccarono un altro sentiero che Afrodite non aveva notato affatto fino ad allora e all’improvviso, come quella mattina in spiaggia, si ritrovarono sulla costa che cadeva a strapiombo tra le onde placide del mare al crepuscolo. Davanti a loro c’era una sorta di esile portale in legno, con una corda intrecciata in cima in stile molto nautico e al di là di esso si allungava un ponte in legno che portava al vero e proprio trabocco di Punta Cavalluccio. Ryan la precedette su quel ponte e Afrodite non riuscì a nascondere del tutto la sua titubanza nel seguirlo, vedendo un sostegno all’apparenza così fragile
«Bambina, che fai?» le chiese lui, voltandosi e scrutandola con malcelato scherno. «Non vieni?» la rimbeccò.
La ragazza se ne stava ancora sull’orlo del litorale, con la brezza serale che le sollevava dolcemente, quasi fosse stata una carezza, l’orlo del leggero vestitino di cotone verde pastello, che si intonava perfettamente alla vegetazione circostante facendola apparire quasi una ninfa dei boschi, un qualche essere fatato e immaginario.
Sì, perché tutta quella cristallina bellezza, tutta quell’innocenza – Ryan ne era sicuro – non poteva davvero appartenere a quel mondo così squallido.
Tornò indietro, avvicinandosi a lei con lo stesso estatico stupore con cui avrebbe spiato di nascosto una vera semidea nei boschi, e lentamente le prese la mano, assaporando quel momento come se fosse stata la prima volta e tastando la consistenza della pelle sensibile del polso. Se la tirò vicino, costringendola praticamente a fare un passo in avanti sul ponte prima di scontrarsi contro il suo petto ampio.
«Guarda che nuoto molto bene» si pavoneggio sornione. «Anche se questa baracca abruzzese dovesse crollare direi che saresti al sicuro» concluse per provocarla, riuscendo perfettamente nell’intento.
«Guarda che queste “baracche abruzzesi” stanno su da anni» rispose infatti subito lei scimmiottandolo, sulla difensiva.
«E allora andiamo e smettila di fare la bambina fifona» la prese in giro, sfiorandole la punta del naso con un dito e sorridendo apertamente.
«E tu smettila di darmi della bambina» rispose incrociando le braccia al petto.
Ryan per tutta risposta le strinse le braccia attorno alla vita e se la portò ancora più vicina accarezzandole ancora il naso, quasi impercettibilmente, ma questa volta con il suo. In quel momento, con quel viso imbronciato, l’avrebbe baciata fino a consumare le labbra di entrambi, ma si staccò da lei con riluttanza e la condusse per mano lungo la passerella fino ad arrivare al vero e proprio ristorante. Il cameriere, che arrivò subito ad accoglierli, li guidò lungo due pontili che collegavano la piattaforma principale con altre due così piccole da contenere un solo tavolo ciascuna.
«Va bene qui?» chiese Ryan quando furono arrivati alla seconda delle piattaforme, quella più lontana, improvvisamente colto dall’idea che magari lei sarebbe voluta rimanere su quelle più grande, ma la ragazzina era così intenta a guardarsi intorno, a rimirare quel panorama a 360° che si poteva ammirare da quella posizione isolata, che nemmeno lo sentì e lui prese quella curiosità per un assenso, licenziando il cameriere e sedendosi per poterla osservare meglio mentre si beava di quella vista spettacolare.
Mangiarono pesce fresco senza ordinare niente. Funzionava così: il cameriere si informava su eventuali intolleranze e poi portava al tavolo tutto ciò che i pescatori del ristorante erano riusciti a pescare e cucinare in giornata. Il luogo era tremendamente suggestivo, tant’è che Afrodite non sapeva più bene dove guardare, e il cibo era ottimo.
«Sai cosa mi stavo chiedendo?» esclamò improvvisamente Ryan.
Afrodite fece cenno di no con la testa, la bocca piena intenta a masticare con calma per assaporare meglio il sapore di quei piatti deliziosi.
«Come mai tu parli tanto bene l’inglese se i tuoi compatrioti sono così-» l’uomo si interruppe, quasi a voler cercare il termine più adatto. «incapaci?» concluse.
Afrodite proruppe in una fragorosa risata, dovendo però ammettere che gli italiani, quando si trattava di inglese erano davvero terribili.
«Ho seguito diversi corsi sin dalla prima media ed ho partecipato a parecchie vacanze-studio da sola in maniera da essere costretta a parlare inglese» rispose semplicemente, stringendosi nelle spalle.
«Ah, capisco. Quindi sei l’eccezione che conferma la regola.»
«No, dai! Non siamo così male con l’inglese» tentò di difendere gli italiani, ma riuscirono a guardarsi solo per pochi secondi prima di mettersi a ridere. «Ok, d’accordo!» concesse la ragazza. «Siamo davvero terribili» tentò di dire tra le risate, mentre il soldato la guardava, anche lui ridendo, con un sopracciglio che svettava inevitabilmente verso l’alto.
Si fecero le undici di sera senza che neanche se ne fossero accorti, cullati alle loro chiacchiere e dal ritmico suono della risacca in lontananza e da quello delle onde che si infrangevano contro la parete rocciosa a cui era collegato il trabocco.
Era ormai arrivato il momento, anche quella volta, di tornare a casa.
 
***
 
Aime l'Art. De tous les mensonges c'est encore le moins menteur.
 
10 luglio 2014
 
Marco sentiva i suoi passi riecheggiare sul pavimento lastricato del silenzioso patio de Rafael Núñez, presidente (definito da alcuni dittatore) colombiano dell'ultimo ventennio dell'ottocento. Aveva voltato le spalle poco prima  al Capitolio Nacional de Colombia, sede del Congreso de la Repùblica, ma ci era riuscito solo a fatica: lui, che aveva scelto il liceo scientifico G. Galilei di Pescara per iscriversi alla facoltà di ingegneria meccanica e che proprio grazie a quella scuola aveva scoperto la passione inaspettata per l'architettura, era rimasto affascinato da quell'edificio così imponente e si era presentato in anticipo proprio per avere il tempo di fermarsi nella plaza de Bolìvar, il celebre libertador, ed osservare la facciata nord. Sperava che l'arte lo avrebbe aiutato a sentire meno la nostalgia di casa, come un balsamo che avrebbe potuto dargli l'illusione di alleviare il dolore semplicemente distogliendo la sua mente da esso. Il Capitolio era una costruzione di pietra dalle diverse sfumature di crema in stile classicheggiante la cui facciata somigliava ad un tempio esastilo, affiancato da due corpi architettonici tra loro identici e che lasciava intravedere parzialmente il cortile interno a cui dava accesso, in cui si poteva ammirare una seconda facciata nello stesso stile, ma con sole quattro colonne.
Marco aveva poi costeggiato lentamente il palazzo per arrivare sul retro, dove si apriva il patio de Rafael Núñez con la statua di Antonio Nariño, politico colombiano anche lui, vissuto a cavallo tra '700 e '800, che era stato imprigionato per aver tradotto in spagnolo la Declaraciòn de los Derechos del Hombre, la cui pubblicazione era stata proibita dal Tribunal del Santo Oficio de la Inquisiciòn, quando il Sud America era ancora una colonia dell'impero spagnolo e in Francia la rivoluzione aveva già compiuto metà del suo percorso. In questo cortile aveva contemplato dapprima il lato sud del Capitolio, composto da due scalinate successive, strette tra due porticati gemelli e culminanti in una facciata molto simile a quella interna del lato nord, e ora si trovava davanti al cancello in ferro battuto con due stemmi in oro della Repùblica de Colombia, che un tempo aveva protetto il Palacio de Nariño e che invece dall'arrivo degli Euro-statunitensi pendeva mezzo divelto dai cardini in un inerte invito a entrare e a fare di quel palazzo, di quel paese ciò che i vincitori avrebbero voluto.
Il ragazzo percepiva uno strano senso di inadeguatezza nel servirsi di quell'entrata violentata per accedere alla Plaza de Armas. L'aveva sempre vista in foto abbastanza affollata di piccioni e turisti, mentre in quel momento gli sembrava un luogo morto: le fontane che accompagnavano il visitatore con i loro getti verticali per tutta la lunghezza della piazza erano spente e l'acqua stagnante era diventata sporca; la bandiera colombiana era stata ammainata e lasciata a penzolare dall'asta con noncuranza; l'Observatorio Astronòmico, posto all'interno del giardino del palazzo, a destra della piazza, e sede delle prime riunioni dei cospiratori ai tempi della guerra di indipendenza dall'impero spagnolo, un luogo che trasudava libertà e storia da ogni fenditura, era rimasto coperto da piante rampicanti per buona parte delle pareti perchè evidentemente dall'inizio della guerra i giardinieri dovevano aver avuto davvero poco tempo per dedicarsi al loro lavoro e la costruzione era stata lasciata a se stessa, diventando non più un monumento alla libertà conquistata con fatica, ma l'ennesima riprova di quanto ogni sacrificio possa essere spazzato via da qualcuno di più forte.
Eppure in tutto quell'abbandono, il ragazzo riusciva ancora a scorgere l'antica bellezza che pervadeva quei luoghi.
Iniziava a essere tardi per continuare a guardarsi intorno, così Marco fu costretto a liquidare con un solo fugace sguardo El dios de la muerte e Vigilantes, due sculture di arte rispettivamente precolombiana e contemporanea che ornavano l'ingresso alla piazza, ripromettendosi di ritornarci una volta terminata la riunione, e si diresse a passo spedito verso l'entrata del palazzo, cercando di non permettere a tanta eleganza di intaccare la sua determinazione. Si trattava di una facciata dallo stile molto simile a quello del Capitolio, con la differenza che il frontone che sormontava le otto colonne binate recava al centro lo stemma della Repùblica de Colombia.
Credeva di essersi lasciato lo scoglio più grande alle spalle, ma praticamente non aveva ancora visto niente: appena ebbe varcato la soglia del palazzo, sfiorando quasi timorosamente il parquet di cui era rivestito il pavimento, i suoi occhi vennero invasi dalle bellezze che quelle mura nascondevano; mano a mano che si faceva strada tra i corridoi era sempre più colpito dagli arredi, dagli stucchi, dalle cornici, dagli arazzi, dagli affreschi, dai dipinti, dai tappeti, dai lampadari. Il pavimento ligneo creava con le pareti candide un contrasto senza pari e ogni nuova stanza presentava un'eleganza sempre nuova.
Vedere tutta quella bellezza lo destabilizzava se pensava a come tutt'attorno si stesse diffondendo la guerra, quasi fosse stata una brutta pestilenza da cui il mondo non sarebbe mai stato in grado di guarire, che lo portava a marcire al suo interno, mentre sulla superficie la natura e l'arte nascondevano quelle brutture come meglio riuscivano. E ci riuscivano, Marco sapeva bene quanto ci riuscissero, ma a volte la discordia degli uomini trafiggeva la terra così profondamente da permettere a quel marciume di zampillare fuori, come se fosse stato del sangue rappreso su una ferita infettata, sotto forma di miseria, fame, egoismo.
E morte.
Quando finalmente arrivò alla sala destinata alla riunione si rese conto con sollievo di non essere l'ultimo, e cercò di allentare il collo della divisa che indossava e che, nel clima tropicale della Colombia, gli impediva anche di respirare. Pochi istanti dopo il responsabile del suo squadrone iniziò a parlare.
《Domani riprenderemo a muoverci》 disse l'uomo in un inglese brusco, ma allo stesso tempo sfinito. 《Non ci dirigeremo direttamente verso Caracas, è esattamente ciò che loro si aspettano e l'effetto sorpresa è ancora la nostra arma vincente, quindi ce ne andremo a Est, verso il sud del Venezuela, attraverso la foresta amazzonica.》 fece una piccola pausa per squadrarli in volto uno ad uno. 《Non sarà una cosa semplice.》 Si passò una mano sul volto, poggiando poi entrambi i pugni al tavolo che lo separava dai soldati, come a volersi sorreggere. 《Da questo momento, nulla lo sarà》 commentò semplicemente, prima di riacquistare apparentemente il controllo su se stesso. 《Sanno che stiamo arrivando, ma non sanno da dove. Noi faremo il giro largo e li attaccheremo dall'unico punto da cui non si aspetterebbero mai di vederci arrivare: l'Avila.》 si riferiva alla collina che separava la città di Caracas dal mare: era circondata da boschi e poteva davvero essere un ottimo punto da cui iniziare l'invasione, ma arrivarci senza farsi notare, se non quando fosse stato troppo tardi, non sarebbe stato facile.
Marco si guardò intorno ancora, ma questa volta, la prima volta in tutto il giorno, non per ammirare, bensì per scrutare i volti degli altri soldati. Molti nemmeno li conosceva eppure erano tutti nella stessa condizione di non poter decidere cosa fare di se stessi: erano strumenti nelle mani di poteri troppo grandi per poterli comprendere davvero, per poterne capire le reali intenzioni.
E nonostante tutte le bellezze di cui avrebbero voluto riempirsi gli occhi, nonostante le violenze che invece colpivano quegli occhi ogni giorno, non potevano fare altro che abbassare il capo ed eseguire, cercando di restare vivi per loro stessi, non per una qualche causa più grande. Non esisteva più nessun ideale di liberazione o salvezza, c'erano solo dolore e distruzione e ognuno di loro non desiderava altro se non che tutto ciò che li circondava finisse in fretta per poter ritornare ad aprire gli occhi sanguinanti davanti alle loro case.
 
 
 
 
 
NDA
 
Chiedo davvero scusa per il ritardo, mi sento una persona orribile, ho impiegato un mese ad aggiornare, ma mi consola l'idea del "meglio tardi che mai" e quindi ho avuto il coraggio di rifarmi viva hahaha
Il titolo di questo nono capitolo viene dalla canzone che ha ispirato il mio nick, ovvero Hey there Delilah dei Plain white t's. La citazione ad inizio capitolo è il ritornello di Cupid di Daniel Powter che mi sa da morire di estate, mentre la seconda è una frase del mio amatissimo Gustave Flaubert e significa "Ama l'arte. Fra tutte le menzogne è ancora quella che mente di meno."
Non ho tradotto i nomi dei posti che Marco vede a Bogotà perchè mi sono sembrati piuttosto comprensibili anche in spagnolo, ma se invece non lo dovessero essere fatemelo sapere e provvederò ad inserire delle note! :D
I discorsi sul controllo delle linee telefoniche e sulla criminalità sono reali, nel senso che in Venezuela davvero le conversazioni sono registrate dallo stato da quando è iniziata la guerra civile e il tasso di criminalità è altissimo da anni.
Qui avete una foto del trabocco Cavalluccio:

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Anche la spiaggia che Afrodite e Ryan visitano in mattinata esiste davvero e io ci sono stata, ma non sono riuscita a trovare delle foto (nemmeno tra quelle che ho fatto io a suo tempo) quindi purtroppo non potrete fare altro che continuare ad immaginarla, sperando che la mia descrizione sia stata esaustiva :D
Questo è il panorama che si vede da San Giovanni in Venere:

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Mentre questa è la facciata nord del Capitolio:

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Questa è la facciata sud:


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Questo è il Palazzo di Nariño:

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E questa è la loro disposizione:


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Vi comunico, inoltre, che ho creato un gruppo Facebook dedicato alla storia dove pubblicherò anticipazioni, foto e quant'altro :D potete trovarlo qui: Dai limiti del mondo, fino a te.
Detto ciò vi saluto e spero che il prossimo aggiornamento non tarderà così tanto ad arrivare! :D Un bacione a tutti!
Delilah <3

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Capitolo 11
*** And makes one little roome, an every where. ***


 

Grazie a La Evans, Vibral24, Riveer che hanno aggiunto la storia alle seguite.
Grazie a Aniasolary e Rebirthlove (le mie fangirl adorate a cui voglio taaaaanto, tanto bene! ♡), LadyRiri, Vibral24 (che se continua a pubblicare foto di Nico io muoio!), Bijouttina, Lady Angel 2002, DarkViolet92, helhime, LadyRiri che hanno recensito.
Grazie a nadia_simo_oned, Riveer, FeelingAPanda, Rebirthlove, Giovanna16 (la mia futura concittadina acidona dal cuore tenero preferita *incrocia le dita*) che hanno aggiunto la storia alle preferite.
E un grazie speciale, enorme, mastodontico, gigantesco a Aniasolary e Rebirth che hanno anche creato dei meravigliosi banner (che trovate su facebook, potete aggiungermi, sono Delilah Boston anche lì) e sono sempre state presenti in questi mesi di assenza, ricordandomi di tanto in tanto quanto io ami questa storia hahaha ♡
Grazie mille anche a Arya Winchester, LadyRiri Cortez, Desy Lahote, Marthy Bittersweet, Tatia Petrova, Marisol De Lorenzo, Deny Malory, Amidala e Sofja Ivanovna per quello che hanno fatto per me :')
Mi odio per questa lunghissima assenza, ma purtroppo sono rimasta senza connessione a casa per tutti questi mesi. Ringrazio tutte coloro che hanno pazientemente aspettato il mio ritorno, siete dolcissime :') non sono brava con i discorsi di scuse e ringraziamento, quindi mi limiterò a scusarmi e ringraziarvi! Hahahaha speravo di poter tornare pubblicando a raffica tutto ciò che ho scritto in questi mesi, ma purtroppo il mio pc è stato formattato senza preavviso, quindi ho perso tutto... ma cercherò di non farvi aspettare molto :D
Questo è un capitolo importantissimo e mi ha quasi uccisa tenerlo nel mio computer senza potervelo far leggere, ma finalmente ecco a voi ♡
 



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And makes one little roome, an every where.
 

 

Settle down with me

Cover me up

Cuddle me in

Lie down with me

Hold me in your arms

Your heart’s against my chest

Lips pressed to my neck

I’ve fallen for your eyes

But they don’t know me yet

[…]

And I’ll be your safety

You’ll be my lady

 

I was made to keep your body warm

But I’m cold as the wind blows

So hold me in your arms

[…]

So hold you close

To help you give it up.

 

17 luglio 2014

 

Ryan si deterse il sudore dalla fronte con la canotta di cotone, l'unico indumento che lo proteggeva dall'aria immobile e sempre troppo calda della prima mattina pescarese. Il cielo prometteva pioggia, ma la speranza andava sempre al bel tempo, anche perchè di lì a due ore doveva vedersi con Afrodite. Nel frattempo correva sul lungo mare della città almeno da quarantacinque minuti e si stava chiedendo se fosse il caso di tornare indietro, verso l'albergo, quando si fermò per fare un po' di stretching. Amava la sensazione dei muscoli affaticati che si distendevano lentamente lasciando un doloroso rilassamento nelle membra.
Improvvisamente sentì la suoneria del telefono e se lo portò immediatamente all'orecchio senza nemmeno controllare il mittente della chiamata.
«Martins,» rispose seccamente, avvicinandosi con passo lento ad una fontanella.
«Hei, Ryan!» Joseph.
«Ti manco, Joe?» lo prese in giro: si erano salutati solo quarantacinque minuti prima.
«Molto divertente.» Il tono canzonatorio era inequivocabile. «Mentre tu fai il cazzone, Jacksons sta pensando a come ucciderti.»
Cadde completamente dalle nuvole. «Cosa?»
«Mi prendi per il culo? Te ne sei dimenticato?» La voce dell'amico era a metà tra il derisorio e l'incredulo. Ryan non sapeva cosa dire. «Il sottotenente un-minuto-di-ritardo-e-siete-fottuti Martins ha dimenticato una riunione?»
In quel momento gli tornò in mente la riunione straordinaria via Skype indetta da Jacksons per quel giorno.
«Porca puttana...» Dall'altro lato della cornetta sentì Joseph sbellicarsi dalle risate e anche lui non riuscì a trattenerne qualcuna sommessa. «Joe, devi aiutarmi, quello mi ammazza!» Le risate aumentarono. «Vaffanculo!» Ora rideva anche lui. «Sono uscito a correre! Mi hai visto uscire! Perchè non me l'hai ricordato? Sono...» Si guardò brevemente intorno. «Sono dalle parti delle Naiadi, sulla riviera, senza macchina.» Fece una breve pausa aspettandosi una risposta dall'amico, che ovviamente rimase in assoluto silenzio. «Sai cosa significa, vero?»
«Che il caporale Livingstone deve salvarti il culo.» Continuava a prenderlo in giro.
E come dargli torto, lui era sempre molto pignolo con il suo plotone per quanto riguardasse la puntualità e il rispetto.
"Che cazzo mi sta succedendo? Non sono mai stato così distratto!"
La risposta era una ed anche molto semplice, era una risposta dai lunghi capelli del colore del sole, gli occhi azzurri come l'oceano al largo di Boston e un viso da angelo... no, da Dea.
La sua Piccola Dea.
«Ryan, sei ancora lì?»
Si riscosse bruscamente da quei pensieri.
«Sì. Vedi di fare in fretta Joe, ti aspetto qui.»
«Signorsì, signore.»
Interruppe la comunicazione e si chinò sotto il getto freddo della fontanella, nella speranza che un po' d'acqua riuscisse a svegliarlo.
Sapeva perfettamente che non sarebbe bastata, ma almeno avrebbe fatto infuriare Joe quando sarebbe arrivato e avrebbe dovuto farlo salire sulla sua macchina completamente fradicio.
Quasi non si accorse quando una Ford Fiesta accostò sulle strisce pedonali, nonostante fosse assolutamente nel suo campo visivo, ma ormai si guardava intorno senza davvero vedere.
Joseph fu costretto a suonare il clacson per attirare la sua attenzione e Ryan distolse i pensieri da quelle labbra piene e morbide, correndo poi verso la macchina.
«Che schifo! Dovrò andare a lavare la macchina prima di uscire questa sera!» Lo rimbeccò l'amico, mentre si chiudeva la portiera alle spalle.
«Se Jacksons mi cazzia te la sfondo la macchina.» Ryan lo guardò torvo, ma non riuscì a trattenere un sorriso quando vide che Joseph se la stava ancora ridendo.
«Guarda che la colpa è tua!»
«Ricordami un attimo perchè ti permetto di darmi del tu, visto che sono il tuo ufficiale in comando, ora come ora.» Sbuffò rumorosamente.
«Perchè non puoi vivere senza di me!»
«Coglione...» Scosse il capo, sconsolato, e appoggiò le spalle esauste al sedile, intravedendo con la coda dell'occhio una smorfia disgustata del rosso.
Appena arrivarono al Sea Lion Grand Hotel, Ryan si fiondò in camera per lavarsi e prepararsi alla riunione. Rimase sotto il getto freddo della doccia finchè non si ritenne abbastanza lucido da poter affrontare la ramanzina del suo superiore. Si lasciò accarezzare dall'acqua immaginando al suo posto un paio di manine sul suo corpo.

“Resta concentrato, Martins!” Si richiamò all'ordine, uscendo dalla doccia in fretta.
Non vedeva Afrodite da una settimana esatta. Pescara era una città molto più piccola di quanto si potesse pensare: era semplicissimo incontrare conoscenti in giro per strada e loro due non potevano permetterselo, tanto più visto che Ferdinando, suo padre, essendo un professore non lavorava e passava le sue giornate in balcone o in spiaggia con gli amici di una vita. Era pericoloso anche solo passare a farle un saluto veloce tra un turno e l'altro. E non poteva rapirla ogni giorno per portarla fuori città, prima o poi i suoi genitori avrebbero iniziato ad incuriosirsi per tutte quelle gite "con gli amici" in giro per l'Abruzzo. Quel giorno erano riusciti a mettersi d'accordo per vedersi solo perchè Ferdinando e Silvana avevano un matrimonio noiosissimo (a detta di Afrodite) a Silvi, da cui era riuscita a svincolarsi. Almeno però riuscivano a sentirsi spesso.
«Piccola Dea, sono io.» Ogni volta che la chiamava la sua voce assumeva un'inflessione dolce che Joe prendeva sempre in giro, fingendo di vomitare.
«Hei!» Poi la sentiva sorridere (sì, ormai riusciva a sentirla sorridere) e capiva che il suo camerata avrebbe potuto prenderlo in giro anche per tutta la vita e non gli sarebbe importato, l'unica cosa che contava era continuare a farla sorridere.
«Cosa fai oggi?»
Le faceva sempre la stessa domanda: ogni mattina la chiamava prima di alzarsi dal letto, quando ancora oziava tra le lenzuola in mutande, e si prendeva qualche minuto solo per loro, per sentirsi parte della sua vita. Riusciva ad immaginare ogni espressione, ma desiderava intensamente poterle vedere con i suoi occhi, averla lì con lui ed accarezzare con le dita leggere quella pelle candida e perfetta, vederla arrossire per quelle carezze innocenti...
Si costrinse a indossare l'uniforme d'ordinanza e a precipitarsi fuori dalla camera per raggiungere la Sala Congressi che avevano riservato loro. Si trovava al primo piano ed era piccola visto che i soldati che gli erano stati affidati a Pescara erano solo quindici. Consisteva in alcuni tavoli disposti a ferro di cavallo davanti al telo di un proiettore.
Fece il suo ingresso quando ormai erano già tutti presenti e lo fissavano con occhi sbarrati.
"Che situazione di merda."
«Scusate il ritardo.» Risposero mettendosi sull'attenti, tentando di trattenere le risate con tutte le loro forze. «Riposo.»
Ryan si sedette e fece cenno a Timothys , quel grandissimo idiota di Timothys, di avviare la chiamata Skype con Jacksons. Era stato retrocesso a segretario per tentata violenza, ma non era abbastanza e per il suo sottotenente ogni scusa era buona per rendergli la vita difficile.
Un volto barbuto e stanco apparve sulla parete, i capelli ormai quasi interamente bianchi e i baffi a nascondere interamente il labbro superiore, e lo videro tossire per schiarirsi la voce.
«Ce l'abbiamo fatta!» Esclamò con scherno.
«Signore.» Lo salutò Ryan.
«Abbiamo la sua attenzione, Martins?» Sapeva che lo stava prendendo in giro, ma si dava comunque dello stupido per essersi dimenticato una riunione.
«Scusi il ritardo, signore.»
«Vi chiamo per dirvi che il caporale Franklyn è già in viaggio per comunicarvi il giorno e l'ora di una riunione che si svolgerà qui a Roma per discutere di ciò che sta succedendo in Sudamerica, la rete è troppo soggetta a intercettazioni, è necessario parlarne di persona.»
Ryan annuì.
«Quindi cerchi di rimanere in quell'albergo almeno finchè non arriverà il caporale, sottotenente Martins.»
In fondo Jacksons gli voleva bene, era stato compagno d'armi del maggiore Martins che l'aveva sempre reso partecipe della vita di suo figlio, quindi l'aveva visto crescere.

Lo stava solo prendendo in giro.
Davanti a tutto il suo plotone.
Rispose con un semplice mezzo sorriso e un secco «Sissignore» masticato tra i denti.
«Buon lavoro, soldati.»
Questi, sentendo un saluto sottinteso nelle parole del loro superiore, si alzarono tutti di scatto e si misero sull'attenti.
«Riposo.» Disse subito lui, con un sorriso appena accennato, ma che nascondeva una tristezza che Ryan notò subito.
La comunicazione si interruppe improvvisamente e il telo tornò bianco.
Ryan sapeva che Jacksons avrebbe anche potuto affidare il messaggio a Franklyn, senza indire necessariamente la riunione di quel giorno, ma era perfettamente consapevole che lo aveva fatto solo ed esclusivamente per vedere con i suoi occhi come stavano, come si trovavano i suoi soldati, perchè Jacksons era fatto così e nessuno lo sapeva quanto lui: non poteva aspettare di vederli a Roma, da quando erano arrivati, avevano avuto almeno una decina di riunioni tramite Skype, tutte brevi e concise e tutte di ordinaria amministrazione.
Quel giorno, però, aveva uno sguardo strano e Ryan non aveva alcun dubbio: doveva essere successo qualcosa.

 

Rientrò in camera quando non erano ancora nemmeno le dieci e subito la mano corse automatica al cellulare. Notò che aveva una chiamata persa di Afrodite e si affrettò a controllare l'ora, temendo di essere in clamoroso ritardo, eppure aveva ancora quindici minuti prima dell'ora dell'appuntamento. Certo, sarebbe sicuramente arrivato in ritardo, ora che Jacksons gli aveva ordinato di aspettare Franklyn, ma questo la ragazza non poteva ancora saperlo.
La richiamò, iniziando a misurare la stanza a grandi passi.
«Hei, Ryan...» Lo salutò dolcemente e lui sentì un sorriso diffondersi sul suo volto senza che potesse, o volesse, fare nulla per fermarlo.
«Piccola Dea, dimmi.»
«Che si fa?» Ryan aggrottò la fronte.
«Che intendi?»
«Sta diluviando.» Stava sorridendo, lo sapeva, rideva di lui. Perchè quando parlava con lei non vedeva nient'altro, figurarsi se poteva importargli qualcosa del tempo! Poi ebbe un'idea.
«Ho un'idea!» Esclamò.
«Sentiamo, soldato.»
Quella parola, soldato, sembrava quasi bella quando era lei a pronunciarla. Sì, perchè lei riusciva a farlo sentire sbagliato a causa la carriera che aveva scelto, ma poi quando lo guardava, quando gli sorrideva, quando lo baciava era come se lo perdonasse a nome delle persone che aveva ucciso in Iraq.
«Io devo rimanere qui per un po', ho ricevuto degli ordini, ma posso passarti a prendere e...» si interruppe, ora che lo diceva ad alta voce non gli sembrava più un'idea così geniale. «P-possiamo vedere un film,» riuscì a borbottare alla fine.
Ci fu un breve silenzio dall'altra parte.
«Certo, va bene.»
Ryan chiuse la chiamata dopo che ebbero terminato di mettersi d'accordo e aprì l'armadio per togliersi di dosso quell'opprimente divisa d'ordinanza. Indossare camicia e cravatta con 30° era molto più di quanto potesse sopportare in quel momento. Uscì solo dopo aver indossato dei bermuda, una canotta e una felpa con cappuccio.
Il receptionist lo salutò con la consueta deferenza e lui superò le porte scorrevoli di vetro. Una volta fuori si rese conto che Afrodite aveva ragione: un cielo scuro incombeva sulla città, rovesciando acqua su tutti loro quasi a secchiate. Ryan si avviò verso la Gran Torino senza preoccuparsi poi più di tanto di bagnarsi, ma il suo sguardo venne inevitabilmente catturato dal mare. Era solo una pozzanghera, quel mare Adriatico, eppure la violenza con cui si gettava sulla costa sabbiosa, spinto dal vento, gli ricordava un po' la sua Boston. Il grigio del cielo si specchiava sull'acqua creando un'atmosfera fredda e uniforme, accentuata dalla pioggia che creava quasi una superficie smerigliata che impediva di vedere bene a grandi distanze.
Ma doveva sbrigarsi. Era imperativo essere di ritorno prima dell'arrivo di Franklyn.
Si diresse verso via Regina Elena alla massima velocità consentita dalle condizioni climatiche e si ritrovò sotto casa di Afrodite quasi senza accorgersene.
Si arrogò il diritto di avvisare della sua presenza con il clacson, visto che mamma e papà dovevano certamente essere già usciti. La vide affacciarsi dal balcone per un attimo e subito tornare in casa. Uscì dal cancello dopo qualche minuto, correndo subito verso la macchina.
«Con un ombrello sarebbe stato troppo semplice, vero?» Le disse lui non appena la vide chiudersi la porta della macchina alle spalle e sistemarsi sul sedile con il capo ancora coperto dal cappuccio e il corpo tremante.
«Molto divertente!» Esclamò lei, riconoscendo la stessa frase che le aveva detto il giorno del loro ultimo incontro.
«Stai tremando... Vorrei vedere, con quei mini-pantaloncini» borbottò, allungando le braccia contro di lei e stringendosela al petto, come per scaldarla.
«Guarda che sei bagnato anche tu!» Lo rimbeccò, ridendo contro la sua canotta.
Ryan sbuffò tra le risate e si allontanò brevemente da lei per togliersi la felpa e tornare ad abbracciarla.
«Va meglio, così?»
In quel momento fu lei ad allontanarsi. Piantò quelle iridi cristalline nel miele dei suoi occhi e vi rimase avviluppata mentre lo baciava lentamente.
«Ora va meglio» rispose ancora a pochi millimetri dalle sue labbra, sospirando a fatica.
Ryan si costrinse a lasciarla andare e mise in moto, sussurrando un roco «Bene.»
Fu solo dopo qualche minuto che si ricordò di un dettaglio piuttosto importante.
«Conosci per caso una videoteca?» Le chiese continuando a guarda la strada dritto davanti a sè.
«Ho la tessera di Discover. E' qui vicino, gira a destra alla prossima e poi, dopo la strada parco, di nuovo a destra.»
«Strada parco?» le chiese dubbioso. Aveva pronunciato quel nome in italiano e lui non era ancora diventato abbastanza bravo da capire a cosa si riferisse.
«Sì, dai! La strada pedonale che va da viale Europa al centro! Devi averla vista per forza in mesi e mesi trascorsi qui! Attraversa tutta la città!»
Mentre lei lo "rimproverava", lui aveva svoltato a destra la prima volta e lei gli indicò subito la strada in questione.
«Ah, certo!» Esclamò lui, riconoscendola subito.
«Ho imparato ad andare in bicicletta sulla strada parco, sai?» Gli disse d'un tratto sorridendo mentre la guardava attraverso il finestrino.
«Mi sembra che voi pescaresi abbiate avuto proprio una bella idea.»
«Non sbilanciarti troppo.» Il suo sorriso andava affievolendosi lentamente. «Prima della guerra era già passato un provvedimento per trasformarla in una filovia.»
«Anche se avete già gli autobus?»
«Beh, gli autobus vanno a benzina, non sono elettrici, la filovia è una soluzione molto più ecologica.»
«Ma...?» Sentiva che doveva esserci un "ma".
«Ma i ragazzi sono legati alla strada parco. Prima di iniziare ad andare in centro, ho trascorso lì i miei pomeriggi per anni.»
«Sei affezionata a una strada?»
La vide sbuffare e ridere, con quella risata tintinnante che gli metteva allegria.
«Sì, qualche problema?» Si difese ridendo, prima di indicare un distributore di benzina. «Accosta qui! La videoteca è lì affianco.»
Scesero dall'auto e Ryan la prese per mano mentre correvano verso la pensilina della videoteca. I sampietrini ondeggiavano sotto di loro, sollevati dalle radici degli alberi che costeggiavano viale Bovio, come tutti i marciapiedi della città. Afrodite rischiò di inciampare almeno due volte durante quella fuga, ma si aggrappò sempre ridendo al braccio umido e nudo del soldato.
«Non ti sei rimesso la felpa!» Esclamò quando finalmente riuscirono a ripararsi all'asciutto.
Ryan si guardò e si rese conto di essere completamente zuppo.
«Me ne sono accorto quando ormai ero già sceso dalla macchina» si lamentò, colpendosi la fronte con una mano.
Afrodite non potè fare a meno di guardarlo, mentre lui sembrava distratto. L'aveva già visto in costume, ma quella era comunque una sensazione completamente nuova: la maglietta bagnata aderiva perfettamente alla muscolatura sviluppata dell'addome, agli addominali obliqui che sparivano nei bermuda, ai pettorali sporgenti, ma non troppo; e quando lui si voltò per dirigersi ad uno degli sportelli della videoteca, la ragazza si beò anche dei muscoli guizzanti delle spalle e di quelli che si stringevano sodi attorno al solco della colonna vertebrale, trascinando il suo sguardo avido fino ai dorsali, ai lombi e al fondoschiena a mandolino.
«Piccola Dea, se continui così mi consumi» la prese in giro senza voltarsi.
«Non capisco di cosa parli!» Disse, forse con un tono un po' troppo alto per risultare naturale, mentre un suo volto assumeva un'adorabile tonalità cremisi.
«D'accordo, adesso però scegliamo un film.»
Quando ebbe il coraggio di avvicinarglisi, dopo aver tentato di ricomporsi, vide che aveva ancora stampato in faccia quel suo sorriso irriverente e compiaciuto.
«Smettila di gongolare, scemo!» Lo rimbeccò, tirandogli una spallata che ovviamente non lo smosse neanche di un millimetro, ma che allargò ulteriormente quel sorriso. «E fatti più in là, non vedo niente.» Distolse lo sguardo da quel viso perfetto per concentrarsi sullo schermo.
«Certo.» Ryan si spostò alle sue spalle, imprigionandola tra le sue braccia poggiate allo sportello. Afrodite percepiva ogni terminazione nervosa tendersi verso quella presenza dietro di lei, lo sentiva respirare tra i suoi capelli e non riusciva a rilassare i nervi tesi della schiena.
«Che ne dici di Dear John?» Le chiese all'improvviso, scorrendo con lo sguardo i titoli disponibili.
«Ryan... stai scherzando?» La voce di Afrodite era un misto di incredulità e pacato divertimento.
«Sì, scherzo» ammise lui e la ragazza tirò un sospiro di sollievo. «Niente commedie romantiche.»
«D'accordo, allora niente film horror.»
«Concesso.»
La sua voce le accarezzava il colo fino a scivolarle nelle orecchie e lungo la colonna vertebrale. Non riusciva a concentrarsi sui titoli che le scorrevano davanti agli occhi, anche se lui praticamente non la stava toccando, ma era completamente circondata dal suo odore.
«Storia d'inverno?»
«Troppo triste!» Afrodite storse il naso, voleva qualcosa di allegro.
«The wolf of Wall Street?»
«Troppo lungo.»
«Dragon Trainer?» Ryan stava palesemente ridendo sotto i baffi.
«Già visto.» La ragazza lo guardò storto. «Al cinema.» La risata di Ryan si faceva sempre più evidente. «E mi è piaciuto moltissimo!»
«Non lo metto in dubbio, bimba.» Le schioccò un bacio su una guancia, mentre lei scuoteva il capo con rassegnazione.
«Eccolo! È perfetto: Edge of tomorrow!» Esclamò il soldato all'improvviso, facendola sussultare.
Afrodite ricordava di aver visto il trailer di quel film e di essere rimasta incuriosita, così non ebbe nulla da ridire e presto si ritrovarono di nuovo a correre sotto la pioggia fino alla macchina.
Accesero la radio durante il tragitto di ritorno e la ragazza iniziò a scorrere le frequenze alla ricerca di qualche canzone orecchiabile.
«Sai che odio lo zapping radiofonico?» disse ad un tratto lui con un sorrisetto ironico.
«Mi spiace» disse, cambiando ancora una volta la stazione. Lo guardò, costringendolo a distogliere lo sguardo dalla strada per osservare quel faccino serio. Tuttavia la loro serietà non durò a lungo e presto entrambi scoppiarono a ridere, senza il bisogno di nessun vero motivo, mentre la macchina vagava per le vie deserte di Pescara indisturbata.
«Amo questa canzone!» Trillò d'un tratto lei, alzando il volume. «But some...day... I will find my way back to where your... name... is written in the saaaaand» Iniziò a cantare ad alta voce, ma ciò che certamente non si aspettava era di essere seguita a ruota dal guidatore.
«'Cause I remember every sunset, I remember every world you said, we will never gonna say goodbye...» Anche lui cantava a squarciagola, guardandola di tanto in tanto e regalandole i sorrisi di un bambino, mentre le note dolcemente estive, pizzicate sulle corde della chitarra e dell'ukulele, imprimevano in maniera indelebile sulle loro pelli leggermente colorate dal sole i brividi di un estate che difficilmente sarebbero mai riusciti a dimenticare.
«Sing la la la da da» continuarono a cantare all'unisono, senza nemmeno preoccuparsi di stonare il meno possibile. «'Till we had to get back to... back to a summer paradise with you... And I'll be there in a heartbeat.»
Fu in quel momento che nella mente di Ryan iniziò a farsi spazio l'idea che avrebbe sconvolto per sempre, definitivamente le loro vite. Non era ancora convinto che fosse una buona idea, forse era ancora troppo presto, ma quel pensiero continuava ad allargarsi a macchia d'olio nella sua mente, finchè tutto ciò su cui riusciva a concentrarsi era quella beatitudine non solo immaginata, ma desiderata profondamente.

 

Arrivarono al Grand Hotel quasi senza accorgersene. In un attimo si ritrovarono di nuovo mano nella mano sotto la pioggia. Non erano ancora arrivati alla tettoia in vetro, quando all'improvviso Afrodite vide Ryan fermarsi e voltarsi rapidamente verso di lei e si ritrovò catapultata contro il suo petto e circondata da quelle braccia che aveva tanto osservato solo qualche minuto prima. Non avrebbe saputo dire chi avesse baciato l'altro, ma sapeva con certezza che le loro labbra si erano incontrate e che nessuno dei due sembrava intenzionato ad allontanarsi. Le sue mani andarono ad immergersi tra i suoi corti capelli bagnati senza aspettare il suo permesso e si rese conto che nessun pensiero aveva più senso fatta eccezione per la sensazione del suo corpo stretto contro quello dell'uomo che le stava dando quel bacio caldo e umido: la pioggia che la bagnava fino alle ossa, le persone che potevano vederli, la guerra che le aveva strappato Marco e Paolo e non solo loro. Ma era solo una bugia di cui le piaceva convincersi, bastava abbassare la guardia anche solo per un attimo e tutto le tornava alla mente, soprattutto ciò che era successo qualche giorno prima.

 

La televisione borbottava parole sorde in un angolo della stanza immersa nella penombra opprimente delle tende tirate.
"Spegni quell'affare, ti prego."
«Silvia...» iniziò Afrodite, ma si interruppe quasi subito vedendo gli occhi spenti e ormai secchi dell'amica. Si alzò in silenzio e spense la TV, gettando poi il telecomando sul letto con rabbia. Tornò a prendere posto al fianco della sua migliore amica.
Quell'immobilità la stava facendo impazzire, paradossalmente, lei che era sempre così pacata e riflessiva. Si era precipitata a casa di Silvia non appena aveva sentito, al TG del mattino, che l'età massima della leva obbligatoria era stata alzata da quarantacinque a cinquant'anni. Questa nuova fascia comprendeva Carlo, il padre di Silvia, anche se non Ferdinando. D'un tratto il suo cervello si era bruscamente risvegliato dal torpore del sonno ed era corsa in camera per mettersi qualcosa addosso e uscire il prima possibile, correndo a perdifiato fino a Piazza Duca. Com'era ovvio, l'aveva trovata già fortemente provata dalla notizia. Non c'era molto da dire, cercava solo di stare accanto, non aveva la pretesa di volerle tirare su il morale, ma voleva solo far sentire la sua vicinanza, mettersi a disposizione finchè l'amica l'avesse voluto. Perchè lei ci era già passata con Paolo e Marco e, anche se aveva sbagliato più e più volte cercando di trovare sollievo nella vicinanza di Ryan e ognuno ha il suo modo di reagire alle proprie tragedie, Silvia le era rimasta silenziosamente vicina, esattamente come stava cercando di fare lei in quel momento.

 

Si allontanò bruscamente da quella bocca dolce come il miele degli occhi del sottotenente, lasciandolo leggermente interdetto.
«Ok...» Lo sentì sospirare, mentre si passava una mano sul viso. «Scusa.» Sapeva di aver esagerato, di aver perso il controllo.
«No, Ryan-» Cercò di tranquillizzarlo lei, non era colpa sua, ma venne interrotta.
«Andiamo dentro, d'accordo?» Le circondò le spalle con un braccio, come a volerla inutilmente coprire dalla pioggia che ormai le aveva inzuppato completamente i vestiti, e la trascinò fino alla hall dell'hotel.
La vide tenere saggiamente gli occhi bassi mentre passavano davanti al receptionist.
«Sottotenente Martins...» Era titubante mentre lo salutava, si vedeva lontano un miglio. «Signorina...» Salutò anche Afrodite alla fine, guardandola dubbioso. Per tutta risposta Ryan si affrettò verso l'ascensore, liquidandolo con un cenno del capo.
Le porte dell'ascensore si stavano già chiudendo, quando videro una mano bloccare le porte e insinuarsi all'interno. Una zazzera rossa e un viso lentigginoso apparvero davanti a loro e Joseph si decise solo dopo qualche attimo di sbigottimento ad entrare in ascensore. I suoi tratti parvero alquanto familiari ad Afrodite, ma non riusciva proprio a ricordare dove l'avesse già visto. Indossava la divisa d'ordinanza e certamente i distintivi che vi erano appuntati chiarivano il suo grado, ma non per lei.
«Ottavo piano, sottotenente?» Gli chiese il rosso, nascondendo dietro finta deferenza il sorrisetto strafottente che gli era comparso sul volto alla vista del suo migliore amico e una ragazzina abbracciati e fradici in ascensore, probabilmente diretti alla camera camera di lui.
«Sì, caporale Livingstone, ma scenda prima lei, prego.» Lo prese in giro, reggendo il gioco.
Quella parola, "caporale", fece ricordare ad Afrodite dove aveva già visto il soldato: «Buonasera, non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Joseph, caporale, e lui è Ryan.»
«Ci conosciamo?» Chiese la ragazza con un filo di voce.
«Sì, bambolina.» Rispose il caporale, sorridendo mentre si abbassava all'altezza del suo viso, tanto vicino da spingerla ad arretrare con la testa.
«Non fare il coglione, Joe, lasciala in pace.» Lo rimbeccò Ryan sorridendo e stringendosi la ragazza più vicina al fianco.
«Sei un maleducato, Ryan.» Joseph tornò in posizione eretta, volgendo la sua attenzione al sottotenente. «Non mi presenti la tua amica?»
Proprio in quel momento un segnale acustico annunciò a tutti loro che erano arrivati al piano di Joseph. L'altro si lasciò sfuggire una risatina. «Sarà per un'altra volta.»
«Divertitevi!» Esclamò uscendo dall'ascensore e voltandosi un attimo prima che le porte si richiudessero per chiarire i significati nascosti della sua affermazione con un sorrisetto malizioso.
Afrodite sentì il sangue affluirle al volto e vide con la coda dell'occhio l'uomo al suo fianco scuotere il capo e ridacchiare.
«Scusalo» borbottò. «Giuro che non è sempre così.» Fece una piccola pausa. «Diciamo» concluse e entrambi scoppiarono a ridere mentre le porte dell'ascensore si aprivano lentamente sul corridoio illuminato a giorno.
Ad Afrodite non era mai capitato di entrare al Sea Lion e nella hall non aveva osato alzare gli occhi sull'ambiente circostante per l'imbarazzo di farsi vedere in un albergo con un uomo di dieci anni più vecchio di lei, in corridoio però potè notare quanto lusso trasudasse dalle stesse pareti e si rese conto anche che quello di Ryan era un attico. Lo seguì mentre si dirigeva verso la camera 812 e osservò le sue spalle mentre apriva la porta per farla passare per prima. Entrò nella camera e iniziò subito a guardarsi attorno: era un unico ambiente e la zona notte era divisa solo da pochi gradini dal resto della stanza, arredato come un piccolo salottino con un divano di pelle beige, un tavolino basso ed un televisore enorme; salendo i gradini, invece, si arrivava ad un letto a due piazze sui toni del bordeaux. Afrodite distolse rapidamente lo sguardo da quell'angolo e lo tenne fisso sulla sua felpa completamente bagnata.
«Ora che mi hai qui... che ci fai con me?» Gli chiese con un sorriso senza guardarlo, senza muoversi, senza quasi respirare.
«E' un test?» La superò e abbandonò il film sul tavolino, prima di voltarsi a guardarla. «Ebbene sì, lo confesso, ho visto anche io Pretty Woman» ammise ridendo e trascinando in quella risata anche la ragazza. «Vuoi cambiarti?» Si diresse verso l'armadio dalle ante specchio prima che lei avesse il tempo di rispondere e afferrò a caso una maglietta senza maniche e un paio di bermuda. «Non ho biancheria da ragazza, mi dispiace» la prese in giro mentre le metteva tra le mani gli indumenti asciutti e le indicava il bagno.
Sbirciò alle sue spalle mentre si dirigeva verso il bagno e lo vide sbracarsi sul divano con il telecomando e accendere la TV.
Anche il bagno era estremamente lussuoso, con la vasca/piscina in marmo a terra, e il suo riflesso nello specchio a figura intera con la canotta con la scritta ARMY e i bermuda fin troppo grandi di Ryan la facevano sentire quasi fuori posto. Scosse leggermente la testa passandosi una mano tra i capelli, come a voler scacciare i troppi pensieri che le affollavano la testa e la facevano dubitare di tutto ciò che stava facendo. Stava quasi per uscire dal bagno, quando sentì delle voci nella camera e si rese conto che Ryan non era più solo.
«Caporale Franklyn, l'aspettavo.» Sentiva la voce di Ryan e capì che era un suo collega dell'esercito alla porta. Probabilmente non era il caso di farsi vedere, soprattutto con i suoi vestiti.
«Lo so, sottotenente. E di certo lei sa che sono qui per comunicarle che domani lei e il suo secondo verrete scortati a Roma.» La seconda voce le era completamente sconosciuta, ma furono le parole a sconvolgerla maggiormente. Non poteva credere che Ryan dovesse già partire. Sentiva un nodo stringerle la gola.
Il loro tempo era già terminato.
Gli occhi presero a pizzicarle e le sfuggì un singhiozzo, che soffocò immediatamente contro il dorso della mano.
Sarebbe rimasta di nuovo sola, con la responsabilità di tenere viva Silvia che era vicina ad un crollo, ne era certa. Tanto più visto che, se gli USA stavano richiamando le forze, le cose non dovevano andare propriamente benissimo al fronte.
Sentì la porta della camera richiudersi e si affrettò a ricomporsi davanti allo specchio. Non voleva rovinare il loro ultimo giorno insieme con delle lacrime che comunque non avrebbero cambiato nulla.
Quando fu quasi soddisfatta del suo viso, uscì dal bagno con il sorriso migliore che riuscì a trovare e si schiarì la voce. Ryan le si avvicinò immediatamente, stringendole le braccia attorno alla vita con un'espressione corrucciata.
"Ti prego, fa che non se ne sia accorto."
«Che succede?» Le chiese, accarezzandole lievemente una guancia. Si era cambiato anche lui.
"Come non detto."
«Niente.» Sapeva di non sembrare credibile nemmeno un po', tant'è che la sua voce apparve incrinata anche alle sue orecchie.
«Hey, Piccola Dea, che succede?» Insistette lui, avvicinando i loro volti e scritandola come a volerle leggere l'anima.
«Vai via?» Chiese alla fine. Era inutile fare finta di niente. Ciò che non si aspettava sicuramente era di vederlo sorridere.
«No.»
Sentì la morsa che aveva iniziato a stringerle il cuore affievolirsi lentamente, anche se ancora non capiva. «Ma quell'uomo... quel Franklyn ha detto che parti domani.»
«Sì, ma torno tra dieci giorni.» La baciò lentamente, sentendo quelle labbra piene accarezzare le proprie e subito desiderò approfondire il bacio, ma fece lo sforzo di ritrarsi. «Ho delle cose da fare, delle persone da vedere e degli ordini da ricevere, ma tornerò tra dieci giorni, lo giuro.»
Non poteva fare a meno di credergli se la guardava in quel modo così intenso, facendole dimenticare anche dei dubbi che l'avevano attanagliata solo pochi istanti prima.
«Vogliamo vedere questo film?» Le chiese poi, lasciandola andare per sfiorarle il naso con un dito e dirigersi verso il lettore DVD. «Siediti, su!» Esclamò mentre armeggiava con la custodia del disco. Quando si voltò si rese conto che la sua canotta della USArmy stava sicuramente molto meglio a lei, rannicchiata su quel grande divano che la faceva apparire ancora più piccola. Le si sedette affianco e non fece neanche finta di non averla attirata verso di se volontariamente con un braccio, sarebbe stato inutile, quindi se la strinse addosso con tutta la disinvoltura di cui fu capace (e che comunque non era molta).
Non riuscì a resistere nemmeno fino alla seconda ripetizione della stessa giornata di Tom Cruise: sentiva l'odore di vaniglia della sua Piccola Dea circondarlo da ogni parte e c'era una sola cosa che desiderava fare in quel momento.
Le prese il mento fra le dita e la voltò in modo da potersi perdere nel blu immenso delle sue iridi. Avvicinò i loro volti lentamente, baciandola dapprima dolcemente, in un bacio lento, ma profondo. Quando però sentì una piccola mano aggrapparsi alla sua spalla gli parve di non essere più padrone del proprio corpo. In un attimo si ritrovò sopra di lei, quasi spaventato dalla sua stessa audacia, e senza che potesse fare nulla per impedirlo una delle sue mani si ritrovò a superare la debole barriera della larghissima maglietta di cotone per accarezzare quella pelle morbida e liscia che lo perseguitava nei suoi pensieri ogni volta che si azzardava a chiudere gli occhi.
Quando quella mano arrivò a sfiorare il tessuto leggero del reggiseno, Afrodite non potè trattenere un sospiro contro la sua bocca, che immediatamente scese a torturarle il collo con una scia di caldi baci umidi e irresistibilmente insistenti. Stava accarezzando gli stessi muscoli che aveva intravisto sotto la maglietta bagnata circa un'ora prima e non riusciva a pensare ad altro che non fossero quella bocca e quelle dita su di lei. Le loro lingue continuavano ad accarezzarsi e lentamente Afrodite iniziò a percepire la pressione della sua virilità contro una coscia. Non riusciva a capire se era più inebetita dalle attenzioni che una delle sue mani le stava dedicando, scendendo sempre più in basso lungo il suo fianco, oppure più spaventata dalle reazioni che il suo corpo stava avendo.
Continuava a spingersi contro di lui, a volere un contatto più stretto e quando quella mano arrivò al bordo dei pantaloni, più volte ripiegati per tenerli su, lo sentì sorridere contro le sue labbra nel saperla così piccola, così interamente stretta tra sè e il divano. La mano continuò il suo percorso fin sotto il ginocchio e Ryan si portò la gamba affusolata contro il fianco, prima di risalire lungo la coscia verso il caldo centro del suo piacere. La accarezzò dolcemente attraverso la stoffa.
Sentì il suo autocontrollo crollare definitivamente: le sue dita si fecero spazio dentro l'elastico dei pantaloni per farli scivolare lungo quelle gambe perfette e accompagnò quella discesa coprendo di baci il tessuto della sua stessa maglietta in corrispondenza del petto morbido, del solco fra i seni non troppo grandi, dell'addome piatto, del ventre percorso da incessanti brividi. Quando riuscì a sfilarle l'indumento, si affrettò a gettarsi di nuovo sulle sue labbra, sentendola gemere lievemente per il brusco, nuovo contatto tra le loro intimità. Si allontanò subito e tornò a sfiorare la sua intimità solo con le dita. Quella volta, però, c'era unicamente il suo intimo a dividerli e fu semplice scansarlo per far scorrere le dita lungo la sua apertura.
Afrodite ormai non ragionava, ogni sua sensazione era riconducibile all'uomo che le pesava addosso, senza pesare davvero. Nient'altro aveva più importanza.

Non era la prima volta che veniva toccata in quel modo, eppure tutto era diverso. Con Paolo erano andati anche oltre le semplici carezze che si erano scambiati lei e Ryan quel pomeriggio, ma tutto era risultato amplificato con quel soldato che conosceva da pochi mesi, ma che la faceva sentire felice al punto da chiedersi come avesse fatto a respirare senza di lui in diciotto anni.

Erano scomodi.

Ryan era alto e ingombrante.

Rischiavano di cadere sul tappeto da un momento all'altro.

La TV emetteva suoni indistinti e senza senso, ormai dimenticata.

Tuttavia Afrodite non ricordava di essere mai stata così bene in tutta la sua vita.

Erano semplicemente insieme, abbracciati su quel divano a coccolarsi in silenzio. Afrodite sentiva il suo respiro leggero tra i capelli. Si scostò leggermente dal petto contro cui quelle braccia forti la stringevano teneramente e incatenò i suoi occhi a quelli di Ryan, aquel miele in cui galleggiavano schegge dorate di sole.

«Sei gelida.» L'uomo accostò la fronte a quella della ragazza, sussurrandole quelle parole sulle labbra.

«Strano, tu sei una stufa!» lo prese in giro ridacchiando, ma bloccandosi immediatamente quando lui la strinse maggiormente a sé, facendo aderire i loro petti in un incastro perfetto. «Sarò ancora umida dopo tutta quella pioggia» balbettò, per distogliere l'attenzione da quel contatto così stretto.

Ryan le accarezzò la schiena lentamente, tornando a perdersi in quell'odore di vaniglia che ormai sospettava (e sperava) gli sarebbe rimasto addosso per sempre, e avrebbe voluto abbracciarla tutta, ma le braccia non bastavano.

 

***

 

Soldati.

Si sta come

d'autunno

sugli alberi

le foglie.

 

Tirava dalla sigaretta quasi con rabbia.
Non la ricordava nemmeno più, la prima che aveva fumato. Se ne era sempre tenuto lontano a Pescara: aveva troppa cura del suo corpo per rovinare il fiato da sportivo, faticosamente conquistato, con quelle schifezze. Un po' come Marco, avevano iniziato insieme a farsi il fisico per conquistare le ragazze, ma sin da quando erano bambini Paolo aveva avuto occhi solo per Didi. Ricordava ancora perfettamente il giorno in cui si era deciso a confessare al suo migliore amico i sentimenti che nutriva per sua sorella.

 

«Trini,non ne posso più, ti devo parlare.»

Era un caldo pomeriggio del maggio 2013 e i due ragazzi si erano rinchiusi a casa di Marco per un mega-ripassone in vista delle verifiche conclusive del loro quarto anno di liceo scientifico prima dell'inizio dell'estate della loro vita.

Perchè si erano ripromessi che quella sarebbe stata l'estate della loro vita.

«Sì, anche a me la filosofia mette rabbia, lo so, ma venerdì abbiamo il compito e dopo potremo mandare Hegel a fan-»

«No, non c'entra niente Hegel!» lo aveva interrotto, indeciso se ridere o sbattere la testa contro la scrivania.

L'altro aveva alzato di scatto il volto dalle pagine del libro per piantargli addosso uno sguardo sospettoso.

«Paolo. Non esiste.»

Era stato il suo turno di guardarlo con sospetto.

«Che-?»

«È mia sorella» aveva detto semplicemente, con un'espressione seria che Paolo non gli aveva mai visto in viso.

«Come-?»

«Oh, andiamo!» Marco si era alzato con stizza, iniziando a misurare la stanza a grandi passi e lasciando liì seduto, infastidito per essere stato interrotto ancora. «Ci conosciamo da una vita! Credevi davvero che non me ne sarei accorto! Le sbavi addosso da una vita.»

Non l'aveva mai sentito rivolgerglisi con quel tono, ma poteva capirlo: era il fratello maggiore e sapeva essere molto protettivo, soprattutto perchè era assolutamente consapevole della straordinaria bellezza di Afrodite.

«Marco, le voglio bene. È come dici tu: ci conosciamo da una vita, credevi davvero che non sarebbe mai successo? Cazzo, l'hai vista? Tua sorella è perfetta!» Si era alzato anche lui per fronteggiarlo e lo aveva visto fare metaforicamente un passo indietro. «Non è solo bella, anche se è sicuramente bella, ma lei ha qualcosa in più... non riesco a spiegartelo. E poi sarebbe strano, sei suo fratello! Ma sto divagando, il punto è che non le farei mai del male e tu questo lo sai.»

«Non intenzionalmente» il suo tono si era decisamente abbassato dall'inizio di quella conversazione assurda, ma Paolo sapeva che era sul punto di cedere.

«Sai anche che farei di tutto per evitare di farla soffrire anche solo involontariamente.»

Marco si era riseduto mestamente.

Rimasero per qualche istante in silenzio, poi il biondo si espresse.

«Va bene, potete stare insieme.»

Paolo tirò un sospiro di sollievo, imitandolo nel tornare a sedersi alla scrivania.

«Ma, sia chiaro, non ti scoperai mia sorella.»

 

Paolo si lasciò scappare un sorriso nel riportare alla mente quei ricordi di una vita che non sentiva più appartenergli, mentre ancora si guardava attorno, appena fuori dalla tenda che era stata loro assegnata.

Alla fine Marco aveva acconsentito a partire per il loro viaggio al lago di Capodacqua solo quando l'amico gli aveva fatto notare che Afrodite si sarebbe sicuramente portata anche Silvia.

Doveva sfruttare l'occasione, perchè l'anno successivo sarebbero stati impegnati con gli asami.

Di certo non aveva mai pensato di non completare la propria istruzione, ma le circostanze avevano preso quella decisione per lui.

E l'avevano anche portato lontano da Afrodite.

C'erano dei giorni, i peggiori, quelli in cui si ritrovava a dover uccidere per non essere ucciso, in cui gli sembrava quasi di non ricordare il suo volto e sentiva che era giusto così, che non meritava di ricordarla, che non era degno di lei. E poi c'erano giorni come quello, in cui non succedeva assolutamente nulla e la sua anima affogava tra i ricordi senza posa, pugnalando il suo corpo fino a ucciderlo di dolore al pensiero di non rivederla mai più. E quelli, i ricordi, non erano nemici che potesse o volesse uccidere, così si limitava ad aspettare che una nuova folata di vento li risospingesse verso quello scopo che non era il loro, ma era comunque qualcosa a cui aggrapparsi per non precipitare.

E non si sarebbe mai immaginato che avrebbe iniziato a fumare, eppure ora, a due passi dal confine tra Colombia e Venezuela, ne sentiva il bisogno più che mai. Aveva iniziato poco dopo aver lasciato il Panamà ed essere entrato in territorio nemico e ora non riusciva più a rilassarsi se non con la sigaretta tra le labbra. Non sembrava che la guerra sarebbe arrivata ad uno scontro decisivo: continuavano ad avanzare sotto il fuoco dei colombiani che si nascondevano tra le ombre delle loro foreste.

Erano poco più di tre mesi che lui e Marco si trovavano in Sudamerica.

Erano poco più di tre mesi che il suo migliore amico si era trasformato in un fantasma. Mangiava poco e male, viveva completamente isolato dagli altri camerata, con cui non aveva stretto alcun tipo di rapporto. Nemmeno Guillaume, con quel suo carattere espansivo ai limiti della sopportazione, era riuscito a fare breccia nel muro che andava ispessendosi tra Marco e il resto del mondo.

«Gavelli! Passa una snasta.»

“Parli del diavolo...”

Si voltò ad osservare quell'espressione apatica ormai familiare eppure sempre dolorosa.

Si passò una mano sul capo, cercando i suoi ricci castani senza trovarli. Non riusciva ad abituarsi all'idea di averli tagliati, ma erano troppo scomodi da tenere lunghi come li aveva.

Prima o poi sarebbero ricresciuti.

Tutto sarebbe tornato com'era.

 

***

 

We could steal time, just for one day.

 

La Gran Torino scivolò silenziosa lungo il ciglio della strada fino a fermarsi, ma Afrodite non accennò a scendere, si assicurò anche di non sfiorare nemmeno per caso la maniglia della portiera, come se avesse voluto fingere di non essersi accorta che erano arrivati in via Regina Elena.

«Piccola Dea, tornerò, lo sai... vero?» Ryan si ritrovò ad avere quasi paura di guardarla, perchè sapeva che inconsciamente lei era rimasta delusa da quell'allontanamento, anche se forse ancora non se n'era resa conto ed era consapevole che, se Ryan avesse potuto evitarlo, l'avrebbe fatto. Era l'ultimo degli ufficiali, un semplice sottotenente, e se il suo capitano lo convocava non poteva fare altro che eseguire.

«Sì, lo so.» Quell'assenso sembrò quasi dargli il permesso di voltarsi verso di lei e vide che anche quelle limpidi iridi turchesi si sottraevano al suo sguardo.

«Parti con me. Quando tornerò da Roma, andiamo via per un po', lontano.» L'aveva detto di getto; aveva permesso a quelle parole, incastrate nella sua gola da tutto il pomeriggio, di venire a galla e vedere la luce della speranza.

E la reazione fu proprio quella che si era aspettato: Afrodite aveva voltato il viso di scatto verso di lui e nei suoi occhi aveva intravisto un misto di eccitazione e paura.

«Ryan...» Afrodite ansimò, scuotendo lievemente il capo.

Era troppo, era già venuta meno praticamente a tutti i suoi principi con lui, perchè ne aveva bisogno, non era riuscita a fermarsi. Ma partire come una vera coppia, mentre Paolo rischiava la vita in Sudamerica, era davvero troppo da sopportare.

Sentiva il suo cuore, già fin troppo martoriato, spezzarsi per l'impossibilità di prendere una decisione.
«Ascolta...» Il soldato raccolse tra le dita le piccole gocce che le scivolavano via dalle iridi del colore del mare, solcando il viso di porcellana contratto da quella sensazione di non avere più il controllo sulla propria vita. Allora è questo ciò che si prova quando non si può fare quello che si desidera dal profondo di ogni piccolo angolo dell'anima?
«Non posso.» La ragazza continuava a cercare di tenere lontano l'uomo. Sì, perchè Ryan Martins era un uomo e lei era solo una ragazzina. E prima o poi se ne sarebbe accorto e anche lei si sarebbe resa conto di aver messo in discussione tutta la sua vecchia vita per un uomo che in realtà non la voleva. «Non è giusto, non posso farlo.»
«Hei,» sussurrò lui, cercando di stringere contro il suo petto ampio quello scricciolo che sentiva tremargli tra le braccia. «Hei, Piccola Dea.» Le accarezzò i capelli con dolcezza. «Respira. Hai tutto il tempo per pensarci, ok?» Le sorrise e per un attimo lei sembrò calmarsi, prima che la consapevolezza tornasse a farle strizzare gli occhi, come se volesse allontanarsi da lì almeno con il pensiero. Ma non era possibile: quello era l'unico posto in cui volesse stare. Eppure la sua testa sembrava pensarla in maniera diversa.
«Non ho bisogno di pensarci.» Fece una pausa e prese un respiro profondo. «Non posso dirti di si, Ryan.»
Lui si allontanò dalla ragazza per qualche istante e si passo una mano tra i capelli e sul viso.
«Afrodite,» la vide prendere fiato per ribattere e subito le posò sulle labbra piene e rosee uno dei pollici con cui aveva preso ad accarezzarle le guance morbide. «No, ascoltami. Se c'è una cosa che mi ha insegnato l'esercito è che il tempo non è mai abbastanza. Non importa quanto tu possa inseguirlo, fino quasi a sentirlo tra le dita, lui correrà sempre un po' più veloce di te. Non possiamo permetterci di perdere neanche un istante, perchè arriverà un momento in cui io dovrò andare via. No, non fare così, ti prego. Non sarà oggi e nemmeno domani ma prima o poi accadrà e io ti giuro che farò il possibile per non sprecare nemmeno un attimo, perchè nessuno potrà mai ridarmeli, questi momenti con te.» Accostò le loro due fronti e chiuse gli occhi. «Quindi, per favore, prenditi questi dieci giorni per pensarci.»
Il bacio che seguì fu caldo e intenso e, mentre le loro lingue si sfioravano ruvidamente, Afrodite percepì lo stesso vuoto allo stomaco che si prova quando si ha la sensazione di cadere durante il sonno.
E Ryan era questo, era il sogno che scuoteva la sua anima intorpidita e la svegliava dall'apatia che la mancanza le stringeva attorno.



Bene, bene :) prima di tutto vi avviso che ho modificato un po' il prologo, quindi vi consiglio di andare a leggere ;) lo so che il capitolo è tipo infinito, ma non volevo dividerlo, perchè era stato pensato per essere intero... e poi dovevo farmi perdonare per l'assenza xD quindi va bene così :) ad ogni modo la prima citazione è da Kiss me di Ed Sheeran, la seconda è Soldati di Ungaretti e la terza è da Heroes di David Bowie :D il titolo non è sbagliato hahaha viene da una poesia di John Donne, che aveva scritto proprio in quel modo :)
Spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto! Non so quando riuscirò ad aggiornare... spero presto, visto che il capitolo l'avevo praticamente già scritto hahaha come sempre fatemi notare le sviste che sicuramente ci saranno! Siete preziosissime :)
Un bacione e un abbraccio fortissimo, grazie ancora di aver aspettato :')
Deli :*

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