Polvere nera

di Lechatvert
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: la tigre e la falena ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo: l'albero di limoni ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo: luci nel cielo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo: rinascita ***



Capitolo 1
*** Prologo: la tigre e la falena ***


polverenera

Per iniziare

 

"Polvere nera" è stata un'idea fulminante, una di quelle che ti colgono la sera quando vorresti dormire in santa pace e che non ti mollano fino a che non hai scritto almeno un paio di pagine.

Sebbene quasi tutto ciò che scrivo veda la luce nel modo sopracitato, però, per questa storia la faccenda è stata un po' diversa. Mi sono lasciata infatti ispirare da una canzone italiana, per giunta neanche tanto famosa, in un cui sono incappata dopo tanto tempo dal primo ascolto. Quale sia, bé, temo non sia poi così difficile capirlo. E' comunque mia intenzione lasciare al lettore il compito di indovinare ;)

Non amo particolarmente le introduzioni troppo lunghe, ma stavolta volevo inserire una piccola premessa: l'ambientazione è la Forlì del 1500, quella appena conquistata da Cesare Borgia, quella che ha appena subito l'incursione e le barbarie di un esercito intero. Quella in cui, purtroppo, Caterina Sforza è tenuta prigioniera.

Cercherò di essere il più precisa possibile nelle note, a partire dal titolo, la famigerata "polvere nera", per finire con qualche delucidazione sugli avvenimenti dell'epoca, per chi magari non è così informato sui gossip rinascimentali. Se in ciò dovessi peccare ... sentitevi invitati a schiaffeggiarmi le mani!

Cosa aggiungere?

Sia Vittoria che Niccolò sono personaggi totalmente inventati da me, mentre i restanti, eccezioni a parte che saranno comunque indicate, sono più o meno rubati a Mamma Storia. 

Con ciò auguro buona lettura a chiunque voglia fermarsi per qualche riga o per il testo intero.

Un abbraccio,

        Lechatvert

 

 

 

 

Polvere nera
Prologo: la tigre e la falena

https://www.youtube.com/watch?v=yKNxeF4KMsY




Ho tracciato una linea,
l’ho tracciata per te.”
Coldplay – Yellow



Cari fratelli, caro padre, amata madre,
Numerose volte, prima di coricarmi, ho pensato a cosa scrivere in queste poche righe che sto per lasciarvi.
Mi sono spesso interrogata se fosse il caso di lasciarvi un ricordo della mia risata, piuttosto che qualche goccia d’inchiostro su un pezzo di carta, eppure, nell’ora in cui il Signore mi richiama a sé, nulla mi pare più doveroso che ribadire quanto amore ho provato per voi, quanto affetto e quanta felicità voi mi abbiate donato nella mia breve esistenza.
Porterò il vostro ricordo nel Regno dei Cieli e lo custodirò fino al giorno in cui non saremo di nuovo tutti assieme.
Vi prego, non siate tristi.
Sto andando in un posto infinitamente più bello, infinitamente più luminoso.
Ricordatemi sotto l’albero di limoni, intenta a ricamare il mio nome sui fazzoletti o a leggere le stupende poesie di mio padre.
Siete stati la mia anima, la mia guida, il mio sole.
Ora e per sempre, sarò le vostre stelle.
Con amore,

                                   





 

Basilica di San Pellegrino Laziosi, Forlì, 1500


La falena è innamorata di ciò che fa paura alla tigre, aveva detto una volta suo padre, eppure non c’erano falene, in quel momento, né grossi felini a ruggire dinanzi alla chiesa in fiamme.
Steso a terra, con i capelli castani impregnati di cenere e schegge di legno, con le vesti strappate e la pelle bruciacchiata, Niccolò trattenne a stento una risata, osservando dal viale la sua ultima opera d’arte schiudersi con la stessa dolcezza di un bocciolo di rosa.
Luci verdi e rosse si stagliavano sul cielo forlivese per poi tornare a essere semplice fuoco, tanto comune quanto indomabile.
«Vittoria! Vittoria!», cantò il ragazzo, mentre con le braccia protese verso il cielo disegnava dei grandi cerchi di polvere. «Se lo vedessi, amor mio! Se solo vedessi la magnificenza che ti ha strappata alle mie braccia!»
Scoppiò a ridere, rimettendosi in piedi per allontanarsi prima che l’intera struttura cedesse sotto la furia delle sue fiamme. Con allegria si calcò sul viso gli occhialini da lavoro con il quale aveva messo in sesto più armi di un artigliere e, una volta trovato posto nel camposanto adiacente alla chiesa, rimase a guardare ciò che era rimasto del suo spettacolo.
Sperava tanto che suo padre fosse lì, tra quelle lapidi di gesso e marmo, magari complice della stessa risata che in quell’istante lo obbligava a scuotere le spalle.
Perché sì, Angelo Sartori sarebbe stato fiero di lui, anche se non c’erano falene innamorate né tigri vigliacche, anche se quella che era appena saltata in aria era la sua chiesa preferita.
Perché quando si fa il bombarolo non importa nulla se non l’esplosione, l’effimero attimo in cui l’aria si ferma, in cui ogni respiro è di troppo e stona nella magnificenza della polvere che s’infiamma per colorare il cielo delle tonalità più disparate.
Ma non si sentiva bombarolo, Niccolò. Non in quel momento.
In quel momento, forse, si sentiva un po’ la falena dei racconti di suo padre. Piccolo e impotente dinanzi alle fiamme, mentre le grida della guardia cittadina si avvicinavano, eppure così affascinato dalla sua opera da non poterla lasciare.
Continuava a fissare il fuoco a pensare: “Non smettere, non ancora”. Serrava le palpebre quando gli occhi cominciavano a fare male e subito li riapriva, preoccupato come un bambino dinanzi alla prima nevicata di ottobre, per assicurarsi che nulla fosse cambiato.
Era la sua luce, la sua fiamma, la sua Vittoria che bruciava come la più brillante delle comete.

 

 

 

 

 

 

 

Note d'autore

Non che ci siano tutte queste note finali da aggiungere, anzi, avrei probabilmente fatto meglio a chiudere il capitolo con quel segno carino che il mio Photoshop ha deciso di creare oggi pomeriggio.

Tuttavia, mi sento in dovere di accreditare la citazione della falena e la tigre a Giovanni Papini. Per intero, ciò che scrisse è: "La falena è innamorata di ciò che fa paura alla tigre. Ma l'uomo – fiera destinata a diventar farfalla angelica – è nello stesso tempo sbigottito e attirato dal fuoco." Sappiate che è su questo concetto che voglio lavorare durante gli otto capitoli che (per ora) compongono questa storia.

Per chi volesse qualche anticipazione, posso rivelare un'impiccagione, una mano in fiamme e un albero di limoni, a cui per altro ho fatto appello per decorare il titolo della storia :)

Arrivata a questo punto, non mi resta che salutare e abbracciare chiunque sia arrivato fin qui. Prometto di dare il meglio di me nella stesura di questo (breve) progetto e spero di trovare qualche "compagno di viaggio"!

Un bacio a tutti,

        Lechatvert


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Capitolo 2
*** Capitolo primo: l'albero di limoni ***


polverenera

Polvere nera
Capitolo primo: l'albero di limoni

https://www.youtube.com/watch?v=T8PHNeT_x1U





Anche quando il tempo era scaduto, non riuscivo a smettere.
Stavo fluttuando tutto il giorno.
Marble Sounds – The time to sleep





Forlì, gennaio 1500.

«Maledetto cane!»
«Prendi questo, schifoso maiale!»
«Zitto, indegno bastardo!»
Vittoria distolse lo sguardo dal suo lavoro nella sala da pranzo, arrivando a voltarsi appena in tempo per vedere suo fratello Giacomo volare dall’altra parte del tavolo con una corona di margherite in testa.
Il povero ragazzo sbatté contro una sedia, ribaltandosi in avanti per scontrarsi di faccia con il pavimento ed emettere infine un verso di sonora sconfitta.
Dall’altra parte del salone, il primogenito dei Numai ridacchiò.
«Ti sei fatto male?», chiese, portandosi in spalla entrambe le spade di legno con le quali aveva combattuto.
Giacomo rantolò qualcosa di simile a una minaccia di vendetta, ma si guardò bene dal riprendere in mano la spada.
«Guglielmo! Ma che persona sei, a picchiare un prete», borbottò, riportandosi in piedi per lisciarsi la divisa scura dal Seminario pisano.
Vittoria soffocò una risatina divertita, tornando ad annodare in un anello la corda appesa alle travi del soffitto. Osservò a lungo il cappio, prima di infilarci il collo in mezzo e aggiustarlo alla sua misura.
«Credete che a Cesare Borgia piacerà cenare con un’impiccata sul tavolo?», chiese, facendo un leggero saltello.
Per un istante, tra i suoi piedi e il legno non vi fu che aria.
La ragazza sentì la corda stringersi sul suo collo, togliendole anche il più flebile respiro, dopodiché sotto di lei tornò a esserci un appoggio e il fiato riprese a scaldarle la gola come la più gentile delle carezze.
«Un impiccato al mattino, uno alla sera, che vuoi che cambi», commentò con uno sbuffo Giacomo, versando del vino nel suo calice e in quelli dei suoi fratelli. «Al massimo accopperai di terrore il suo ciambellano!»
Guglielmo roteò gli occhi con espressione asciutta.
«Cauti, voi due», li rimproverò. «Una con le azioni e l’altro con le parole. Cesare Borgia non è il tipo uomo che accetta simili scherzi in sua presenza.»
«E a te che importa?», chiese sfrontata Vittoria, scendendo dal tavolo con l’aiuto di Giacomo. «Se te ne stai nel tuo palazzo con tua moglie, il Valentino non ti vedrà neanche per sbaglio!»
«È proprio per questo che mi preoccupo, invece», la corresse subito Guglielmo. «Senza di me ti faresti trovare impiccata a una cena che potrebbe decidere le sorti dell’intera Romagna.»
Vittoria storse il naso e aprì la bocca per ribattere, ma le porte del salone si spalancarono all’improvviso, sbattendo sul muro a causa di tutta la forza che i nuovi arrivati misero nello spingerle per aprirsi la via.
Giacomo sobbalzò, quasi lasciando cadere a terra il suo calice, mentre Guglielmo si limitò a sospirare pesantemente, visibilmente scocciato da tutta quella situazione che lo vedeva obbligato a spendere del tempo con i suoi fratelli minori.
Nella confusione che quell’entrata aveva causato, Vittoria si sporse oltre le spalle larghe di Giacomo, raccogliendo l’abito nei pugni stretti delle mani per avvicinarsi spedita a quelle che parevano essere le sue tre dame di compagnia.
«Sta arrivando!», annunciò a gran voce Margherita, la più giovane, ben dritta dinanzi alle sue due compagne.
Simonetta, quella di mezzo, volteggiò sulle sue scarpine color lavanda.
«Dicono che abbia con sé almeno cento cavalli!»
Francesca, di gran lunga la più bella, si passò con vanità una mano nei capelli castani.
«A me hanno detto che saranno almeno il doppio!»
Vittoria sorrise, voltandosi verso i suoi fratelli con espressione divertita. Di rimando, Guglielmo colse la palla al balzo e si dileguò, sparendo in pochi istanti sul corridoio della magione. Giacomo, invece restò ad ascoltare i discorsi delle ragazze.
«A me non importa dei cavalli», disse cauta Vittoria, alzandosi sulle punte per accertarsi che suo fratello maggiore fosse ormai troppo lontano per udire le sue civetterie. «Perché Madonna Ricci lo ha incontrato due inverni fa e mi ha detto che è incredibilmente avvenente.»
Le tre dame ridacchiarono.
«Ma non era sposato?», commentò Margherita.
Vittoria strabuzzò gli occhi.
«Sposato? Io lo sapevo cardinale!»
Francesca sbuffò, prendendo a braccetto la dama più giovane prima di iniziare a camminare verso il portone d’entrata.
«Come siete disinformata, Madonna Vittoria!», la rimproverò, affabile. «Cesare Borgia ha rinunciato alla porpora quasi due anni fa, lasciando Santa Madre Chiesa per ciò che è la sua vera passione.»
La voce di Giacomo le colse tutte di sorpresa.
«Le prostitute?», chiese il ragazzo, rifacendosi presente con un sorriso gioviale.   
Margherita avvampò, nascondendosi con un saltello dietro il capo di Vittoria.
«Tranquille, signore mie», rise Giacomo, accompagnando il suo commento con un ampio gesto dalla mano inguantata. «Nessun nobiluomo a udire i vostri pettegolezzi; soltanto un umile prete!»
Vittoria mosse un passo avanti, guidando l’insolito gruppetto verso il cortile interno della magione. Era il suo luogo preferito, quello, con la vasca colma d’acqua piovana e gli alberi di magnolia piantati lungo il colonnato. Al centro, non da molto tempo, suo padre aveva fatto piantare un albero di limoni.
È il simbolo dei miei tre figli”, le aveva detto una volta, quando Giacomo non era ancora partito per il Seminario. “Il tronco, solido e slanciato, è tuo fratello Guglielmo, il futuro capofamiglia; i fiori immacolati rappresentano te, figlia mia, mentre Giacomo è …”
Giacomo sarebbe dovuto esser le foglie verdi e rigogliose dell’albero, ma per Vittoria era sempre rimasto l’acidità del limone, sebbene ciò rovinasse un poco la romantica metafora di suo padre.
Quando, a braccetto con il fratello minore, passò accanto all'albero, non poté fare a meno di ridacchiare.
«Spero di vedervi tutte, questa sera», disse, fermandosi nei pressi della vasca di marmo. Sott’acqua, al riparo dal gelo di gennaio, cinque tritoni riposavano tra le alghe del fondo. «Mio padre ha organizzato uno spettacolo per dare un degno benvenuto al Valentino. Ci saranno i fuochi artificiali.»
Margherita batté le mani, estasiata.
«Ha chiamato di nuovo Messer Sartori?», chiese.
Vittoria annuì.
«Così pare.»
«Oh, io amo gli spettacoli della sua bottega!»
Francesca mosse appena il capo, confusa.
«Chi sarebbe questo Messer Sartori?»
Simonetta la prese sotto braccio, facendo strada verso il portone.
«Un giovinetto che si diverte a fare il bombarolo», spiegò, divertita. «Ma un giovinetto davvero bravo, bisogna riconoscerlo!»
«Dipinge il cielo di verde!», strillò Margherita. «E di rosso, e di giallo!»
Mentre le dame di compagnia si allontanavano in completa ovazione, Vittoria rimase a guardarle saltellare per il corridoio.
Alle suggestive rappresentazioni di Messer Sartori era abituata, visto l’amicizia che correva tra suo padre e il proprietario della bottega. E, infatti, sapere di dover assistere all’ennesimo spettacolo pirotecnico della sua vita non la emozionava affatto.
Un po’ imbronciata, tornò a guardare verso suo fratello Giacomo, perso a osservare i tritoni nuotare nella vasca.
«Partirai per Pisa prima di cena?», chiese, chinandosi sulla superficie liscia dell’acqua per raccogliere una di quelle curiose bestioline.
Giacomo sospirò.
«Non ho modo di divertirmi a una messa in scena del genere.»
Vittoria ridacchiò.
«Possono dartene modo io», mormorò, alzando la manica del vestito per permettere al tritone di arrampicarsi un poco sul suo braccio pallido. «Il Dottor Cappelletti sostiene che questi animali siano velenosi, sai?»
Guardò il volto di Giacomo indurirsi di colpo, mentre il ragazzo si guardava intorno per assicurarsi che non vi fossero orecchie indiscrete a udire quella conversazione.
Prese un paio di respiri, dopodiché parlò, abbassando notevolmente il suo solito acuto tono di voce: «Chi vuoi uccidere, Sorella?»
Vittoria sorrise, stringendo il collo del tritone tra le dita affusolate.
«Sta’ a vedere, Giacomo», mormorò.
Piegò il polso e spezzò la testa della povera bestiola con un colpo deciso, lasciando che il corpicino le si afflosciasse sulla mano.
Giacomo ridacchiò, scuotendo piano il capo.
«Ho l’impressione che stasera ci divertiremo molto più del solito», commentò, sottovoce.
Vittoria si rimise composta, abbracciandolo prima di incamminarsi verso la sala da pranzo.
«Vado a togliere il cappio», spiegò. «A quanto pare non ne avrò bisogno.»






 

«Mi stai dicendo che non se ne fa niente, bombarolo?»
Con la sua scatola di legno sotto braccio, Niccolò Sartori alzò al cielo gli occhi castani. Arricciò il naso un paio di volte, guardandosi intorno giusto per assicurarsi di non avere una spada puntata contro, dopodiché tornò ad inarcare le sopracciglia dinanzi all’usciere di Palazzo Numai.
«Vi sto dicendo che non sono un bombarolo!», protestò, fingendosi offeso. «E vi sto anche dicendo che, se non mi pagherete immediatamente la somma pattuita, stasera gli unici fuochi artificiali da far vedere a Cesare Borgia saranno quelli in camera da letto con la figlia del padrone!»
La porta del palazzo si aprì, lasciando che la minuta figura dell’usciere si affacciasse sulla via.
Pareva un ratto, quell’insulso omino dai modi pomposi, tanto flebile e squittente era la sua vocina.
«Attento a come parli, ragazzino!», esclamò, puntandogli il dito contro nonostante la sua statura a dir poco ridicola non gli permettesse di arrivare neanche alle spalle di Niccolò. «Al padrone non piacciono le lingue lunghe!»
Il ragazzo lo guardò di sottecchi.
«Sono sicuro che non gli piacerà neanche una cena senza spettacolo», ribatté, malizioso. «Che mai ti costerà, vecchio! Dammi i miei soldi e fammi entrare!»
L’usciere parve farsi titubante.
«Il padrone mi ha chiesto di non anticipare neanche un fiorino …», biascicò, affranto.
«Se anticipare ora il pagamento, prometto di farvi uno sconto sul prezzo della polvere!», calcò Niccolò, affabile nel suo sorriso più convincente.
«E sia», concesse l’usciere, allungandogli un sacchetto di raso e facendosi da parte. «Ma badate bene, bombarolo: sarà meglio che stanotte il cielo non si spenga neanche per un istante!»
Ma colui che a Forlì tutti chiamavano bombarolo era già lontano, perso per l’unico corridoio che dall’entrata portava alla corte interna.
Niccolò Sartori conosceva Palazzo Numai quasi a memoria, tanti erano gli spettacoli che il padrone Luffo Numai aveva commissionato alla sua bottega.
Ventiquattro anni a settembre, di cui tredici passati a pesare la polvere nera e le sue componenti; di certo Niccolò aveva avuto più di un’occasione di esibirsi per le ricche famiglie forlivesi, soprattutto in veste dell’artigliere che non era.
Perciò, respingendo con furbizia il ricordo del suo ultimo esperimento bellico che aveva quasi ucciso un cavallo, Niccolò mosse quegli ultimi passi che lo separavano dalla corte interna, mollando a terra la scatola di legno per prendere un grosso respiro e riempirsi i polmoni dell’aria fresca della sera di gennaio.
Scrollò le spalle, chinandosi sulla sua cassetta per recuperare i primi sacchetti di polvere da legare alle colonne, e iniziò  a lavorare per allestire il palco di quella che, lo sapeva, sarebbe stata una delle sue più grandi esibizioni.
Aveva talmente tanta polvere da sparo da far saltare in aria un intero esercito ma non quella sera, non in quell’occasione. Per quella volta, avrebbe semplicemente rubato il respiro agli invitati nell’effimero istante in cui il cielo si sarebbe tinto dei colori dell’estate.
Lavorò senza sosta per quasi un’ora, balzando da una parte all’altra del cortile per assicurarsi che ogni sacchetto fosse sistemato in modo impeccabile.
Poi, quando ormai stava per finire, un servitore lo raggiunse tra l’erba.
«Madonna Vittoria vi manda i suoi ossequi», gli disse, semplicemente, consegnandogli un calice di vino e qualche biscotto su cui era stata spalmata una crema dall’aspetto simile al miele.
Mollato a terra un bastone che aveva usato come righello, Niccolò si pulì le mani sulla casacca.
«Dite a Madonna Vittoria che le sono davvero grato», disse, sorridendo contento al servitore prima di mettere in bocca un biscotto. «Delizioso. Che cos’è?»
L’uomo scrollò le spalle.
«La Signora si è raccomandata di tenerlo segreto.»
Niccolò scoppiò a ridere.
«Bevo alla sua salute, allora!», esclamò, alzando il calice di vino verso il cielo scuro della sera. «Ditele che stasera la lascerò senza parole!»
E l’avrebbe fatto di certo, con tutta la quantità di polvere nera che Messer Numai gli aveva commissionato. In quel cortile, ce n’era abbastanza per tingere la notte intera.
Ma Niccolò in testa aveva ben altri progetti e, se tutto sarebbe andato come nelle prove che aveva fatto in piccolo nel retrobottega, non ci sarebbe stata anima in tutta Forlì a non ammirare il suo operato.

Note d'autore

Bentrovati!

Ed eccoci al vero inizio dell'avventura (sempre che tale si possa chiamare)! Credo ci vorranno ancora un paio di capitoli perché la storia entri nel suo vivo, ma tenterò di non annoiare con questa introduzione. :3 

Questo primo capitolo era per conoscere bene sia Niccolò che Vittoria, sebbene Giacomo si sia inserito da solo. E fu così che un personaggio di bordo vinse sull'autrice e divenne quasi principale.

Jej!

Detto ciò, volevo inserire qualche nota ma mi rendo conto che parlare del famigerato veleno del tritone sia prematuro, quindi rimando tutto al prossimo appuntamento c: 

Vi faccio però vedere una foto di Palazzo Numai (che a Forlì esiste veramente, come esiste d'altro canto Luffo Numai e com'è vera la storia di Cesare Borgia che rimase ospite di questa famiglia per molto tempo dopo la conquista della città). E perdonate il pessimo scatto ... è il migliore che sono riuscita a trovare! ç_ç

Spendo qualche parola anche sulla famigerata Polvere Nera di Niccolò, che altro non è che una variante praticamente innocua della notissima polvere da sparo. Composta per la maggior parte da nitrato di potassio e carbone, viene usata ancor oggi per gli spettacoli pirotecnici. Come in ogni combustione, la fiamma può essere colorata a piacere con i diversi sali (ma di questo avremo modo di parlare più avanti :3). La polvere nera è stata comunque utilizzata in ambito bellico più o meno fino al 1870, anno in cui sono stati introdotti combustibili più veloci ed efficaci.

Quest'ultimo paragrafo di note lo voglio dedicare a tutte le persone che si sono fermate sul prologo, a quelle che hanno letto, che hanno storto il naso, che hanno aggiunto la storia tra le seguite, a tutte quelle che hanno commentato.

L'ultima cosa che mi aspettavo era una risposta tanto vitale, perciò ... bé, sappiate che non so davvero come ringraziarvi! ☆

E' stata una sorpresa piacevolissima; grazie, grazie mille a tutti!

Un bacio a tutti,

Lechatvert


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Capitolo 3
*** Capitolo secondo: luci nel cielo ***


polverenera

Polvere nera
Capitolo secondo: luci nel cielo

https://www.youtube.com/watch?v=6Cp6mKbRTQY





Sorella mia,
sai che l’acqua è dolce, ma il sangue è più denso
oh, se il Cielo dovesse mai crollare, per te
non c’è niente che non farei.

Avicii – Hey Brother





Vittoria scese lo scalone centrale del palazzo che il campanile batteva la sesta, avvolta nei più preziosi velluti che il sarto le aveva cucito addosso in un abito color dell’erba.
Capelli castani raccolti sopra il capo da una rete di preziosissime perle, labbra rosse di trucco e un odioso profumo di limone addosso, prese a braccetto prima Giacomo e poi Guglielmo, entrambi in piedi nell’atrio con addosso le loro casacche migliori.
«Buonasera», li salutò, elegante, mentre lo sguardo del maggiore dei due indugiava sul suo corpetto più stretto del solito per mettere in risalto i fianchi magri.
Giacomo scoppiò a ridere.
«Fratello mio, non si fissano così le forme di una signora», lo rimproverò, fingendosi indignato. «Non lo sai che le Scritture puniscono i pensieri impuri?»
Guglielmo lo guardò con un sopracciglio alzato.
«Quanto vino hai tracannato, Giacomo?», commentò, severo.
Vittoria ridacchiò, trascinando entrambi i ragazzi verso l’entrata principale, dove i loro genitori, così come la moglie di Guglielmo, attendevano l’aprirsi delle porte.
Difficile dire chi fosse il più teso.   
Luffo Numai continuava a passarsi la mano sudata tra i capelli scuri, mentre la sua consorte, Caterina, in piedi nonostante la malattia che da mesi la costringeva a letto, non faceva che voltarsi nervosamente verso Giacomo per aggiustargli il colletto della blusa.
Erano tutti in silenzio, tutti in attesa, quasi l’uomo che stava per arrivare fosse il Re di Francia in persona. E un po’ lo era, a sentire i racconti di Guglielmo, che in guerra c’era stato e che le battaglie del Valentino le aveva viste con i suoi occhi.
Vittoria deglutì e il rumore della saliva che le scese in gola le parve rimbombare per tutto il salone, tanto pesante era il silenzio della sua famiglia in attesa.
Poi, senza preavviso alcuno, le porte si aprirono.
Non vi furono applausi, né tantomeno rumorose accoglienze.
Il sussurro di Giacomo fu udito da tutta la sala, da ogni servo, da ogni dama, probabilmente persino da Cesare Borgia stesso, se solo egli non fosse stato impegnato in quell’istante a fare il suo ingresso nell’atrio del palazzo.
Illuminato da chissà quale ordine divino, il più giovane dei fratelli Numai si accostò all’orecchio di Vittoria, spostandole una ciocca di capelli dall’orecchio per poi farsi più vicino.
«Habla, Toro
La sonora sberla che Guglielmo diede sulla nuca del fratello minore coprì per un istante la risatina di Vittoria, la quale si piegò lievemente in avanti per coprirsi la bocca con entrambe le mani.
La ragazza fece appena in tempo ad accostarsi alla tunica scura di Giacomo che questi cadde in avanti, complice il troppo vino, trascinandola con sé verso il pavimento.
Sarebbero di certo finiti a rotolare per terra se non fosse stato per Guglielmo che, con un grosso sospiro, li agguantò entrambi per la collottola e li rimise composti e fermi sui piedi.
«Indisciplinati», commentò poi, dando un sonoro schiocco di lingua. Aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro, ma il ciambellano coprì ogni lamentela, annunciando l’illustre ospite a tutti presenti.
«Cesare Borgia, Duca di Valentinois!»
Giacomo ridacchiò.
«Che sciatteria, ridurlo a duca!», commentò, coprendosi la bocca con un gesto elegante della mano.
Vittoria lo prese per le spalle, sporgendosi quel che bastava per lanciare alla sala qualche occhiata indiscreta senza che alcuno notasse la sua indiscrezione. Aveva promesso alle sue dame una descrizione esaustiva del Valentino e non aveva intenzione di tornare nelle sue stanze a mani vuote.
Vide suo padre aprire le braccia in un gesto di benvenuto, mentre con passo deciso si muoveva verso Cesare Borgia e il suo ciambellano come ad elemosinare un abbraccio che non tardò ad arrivare.
«Mio Signore! Benvenuto a Forlì!»
Il Valentino, impettito in una veste scura bordata d’oro in parte nascosta dall’ampio mantello, si scostò appena dal padrone di casa, ringraziandolo con voce calda dell’ospitalità concessagli. Aveva i capelli castani e mossi, lasciati liberi di cadere sinuosi sulle spalle larghe. Gli occhi erano spilli, tanto brillanti da parere ghiaccio. Sotto una barba scura e ben curata, Vittoria scorse un sorriso che, più che di riconoscenza, le parve di mera soddisfazione.
Sentendosi le guance in fiamme, la ragazza spalancò la bocca, tuffando il mento tra i capelli scuri di Giacomo.
«È bello davvero!», sussurrò, attenta a non farsi udire da nessun’altro eccetto suo fratello minore. «Madonna Ricci aveva ragione!»
Il ragazzo alzò le spalle, arricciando il naso.
«A me mette solo inquietudine», rispose.
Guglielmo si piegò in avanti, abbassandosi quel che bastava per raggiungere la loro altezza.
«Silenzio», decretò, portando le mani dietro la schiena. «Prestate attenzione.»
Solo in quell’istante, Vittoria si accorse dell’avvicinarsi di suo padre.
Sgranando gli occhi, si mise ben dritta sulle gambe, gonfiando un poco il petto e assicurandosi che ogni piega dell’abito fosse al punto giusto.
Di fianco a lei, Giacomo commentò quel gran da fare con una risatina nervosa.
Luffo Numai passò loro accanto, fermandosi per fare le presentazioni del caso.
«Duca, i miei due figli più giovani: Giacomo Alessandro e Vittoria.»
Giacomo portò le mani alla veste, tirandola come a voler ampliare la gonna di un vestito da signora.
«Énchanté!», esclamò, scatenando le risatine soffuse della servitù.
L’unica cosa che lo salvò dal ricevere una seconda sberla fu Vittoria, che gli si mise davanti troppo velocemente, togliendo a Guglielmo l’opportunità di agire.
«Incantata», disse, lanciando un’occhiata preoccupata al fratello maggiore prima di rivolgersi al Valentino. «Davvero.»
L’uomo rimase fermo un istante a guardarla, schiudendo appena le labbra sottili come a voler commentare quella scena, ma subito si bloccò. Piegò il capo di lato, affilando lo sguardo di ghiaccio in un’espressione che Vittoria non seppe interpretare. Poi, richiamato alla realtà da chissà quale pensiero, prese la mano della ragazza nella sua e la portò alle labbra, lasciandole sul dorso un bacio freddo come il suo sorriso.
«Messer Numai», disse, senza staccare gli occhi dal viso di Vittoria che ancora proteggeva Giacomo dietro le sue spalle esili. «Avete una famiglia deliziosa.»
Si voltò di scatto con uno sbuffo, seguendo il padrone di casa verso la sala da pranzo, e fu allora che Guglielmo prese entrambi i suoi fratelli per le orecchie, portandoseli dinanzi quasi fossero più leggeri di un pugno di piume.
«Volete morire stanotte», soffiò, tanto minaccioso che quella domanda suonò come un’affermazione vera e propria.
Vittoria deglutì, mentre Giacomo si lisciava con noncuranza la veste.
«Borgia permettendo, sì grazie», ribatté, offeso.
L’espressione di Guglielmo si fece ancora più dura.
«Non sapete con chi avete a che fare», disse, stretto tra i denti. «Ho visto quell’uomo uccidere per molto meno della tua ridicola uscita, Giacomo. Un’altra trovata del genere e ti ritroverai appeso a testa in giù sul Montone.»
Vittoria roteò gli occhi.
«Guglielmo, lascialo in pace», borbottò, portando le mani ai fianchi. «Questa è casa nostra e ci comportiamo come ci pare e piace!»
Il maggiore dei Numai scosse il capo.
«No, Vittoria», rispose, sottovoce. «Questa adesso è casa del Valentino e lo resterà fino a che non avrà altre anime da torturare.»
Scambiò con i suoi fratelli un altro paio di occhiate, dopodiché si allontanò di gran carriera, facendo stridere gli stivali sul pavimento di marmo lucido.
Vittoria rimase immobile a guardarlo andare via, senza aver la forza di fermarlo. Accanto a sé udì Giacomo tirare su col naso.
«Olé!», commentò il ragazzo, alzando le braccia sopra il capo come a imitare i cantori spagnoli che di tanto in tanto giungevano alla Rocca.
Vittoria inarcò un sopracciglio.
«Ottima interpretazione», commentò, sarcastica.
Giacomo le strizzò l’occhio.
«Quando il pubblico vale, l’attore dà il meglio di sé.»






La notte era fredda, gelida e infima, così come l’aria che saliva dalla palude a intorpidirgli persino le ossa con la sua odiosa umidità.
Appoggiato a una delle colonne del cortile interno, Niccolò sbadigliò, portandosi con stanchezza una mano alla fronte.
«Hai una brutta cera, bombarolo», esordì la voce di Margherita, una delle giovani dame di Madonna Vittoria, in piedi accanto a lui tra l’erba secca. «Stai bene?»
Niccolò alzò le spalle.
«Provate a fare l’artigliere in una stramaledetta città che ha acqua persino nell’aria», rispose, sarcastico. «Dannazione, con questa umidità non prenderebbe fuoco neanche una biblioteca!»
«Poche storie, Sartori!», lo riprese Luffo Numai, in piedi sotto il colonnato assieme ai suoi illustri ospiti. «Da sette anni venite a deliziarci con i vostri fuochi e da sette anni vi lamentate dell’umidità di Forlì!»
Niccolò sorrise sghembo, portandosi al centro della corte interna, accanto a un albero di limoni rinsecchito che pareva a un passo dallo spezzarsi sotto i soffi del vento notturno.
«Mi han fatto nascere artigliere in questo luogo», ribatté, mentre uno dei servi si avvicinava per passargli una torcia ardente. «Ma di padre son veneziano: devo pur lamentarmi di qualcosa, no?»
Si inchinò appena, ignorando con vigore un giramento di capo che lo colse alla sprovvista. Decisamente, quella sera non si sentiva in gran forma. Sentiva le dita intorpidite, il capo leggero, assente, la vista offuscata.
Con noncuranza, diede fuoco ai primi tre sacchi di polvere, mettendosi ben al riparo quando questi vennero sparati verso il cielo, dove esplosero con i colori della bandiera forlivese.
Qualche applauso si levò dalla piccola folla di presenti, mentre Niccolò si riportava al centro del cortile.
«Messeri e Madonne», esordì, gonfiando il petto con quel poco fiato che la fiacchezza gli aveva lasciato. «Cari amici, amiche.» Fece una pausa, portando lo sguardo su quello che un servo gli aveva indicato essere Cesare Borgia. «Duchi», aggiunse, affabile. «Vi avevo promesso uno spettacolo al di sopra di ogni aspettativa, un’esibizione in cui il cielo non sarebbe rimasto scuro neanche per un istante.»
Si voltò per dare fuoco a un sacco posizionato accanto alla vasca di raccolta dell’acqua piovana. Proprio mentre si stava allontanando di qualche passo, una fiamma bianca schizzò verso l’alto, disperdendosi nel cielo notturno prima di ricadere a terra sotto forma di tante piccole spirali di scintille gialle e verdi.
Dal colonnato, la folla applaudì, stavolta sbilanciandosi in qualche commento vivace.
Niccolò sorrise.
«Tuttavia», riprese, fingendosi pensieroso. «Quando il mio buon amico Luffo mi ha confidato chi sarebbe stato l’ospite d’onore, mi sono a lungo interrogato sulla buona riuscita o meno di questo mio esperimento.»
Fece cenno ai servitori ai lati delle colonne di accendere le micce che aveva posizionato attorno al cortile e, in una manciata di secondi, una dozzina di razzi partì verso la volta celeste, schiudendosi infine in dodici bellissimi fiori di fuoco, ciascuno di colore diverso, che ricaddero con eleganza al suolo appassendo in piccoli fili dorati.
Giacomo Numai emise un piccolo strillo, prendendo a fischiare e ad applaudire con il brio che solo lui, in quella corte, possedeva.
«Ma non era ancora abbastanza», continuò pensieroso Niccolò, avvicinandosi di un altro passo al colonnato sotto il quale il Valentino osservava lo spettacolo. «Voglio dire: come impressionare chi ha addirittura combattuto una guerra? Non di certo con simili sciocchezze!»
Una fiamma color dell’alba s’innalzò nel cielo partendo dalla vasca, cogliendo tutti gli ospiti di sorpresa e facendo muovere loro un passo indietro.
Mentre le scintille rosate dell’esplosione ricadevano a terra, Niccolò si avvicinò ulteriormente a Cesare Borgia.
Represse un lieve conato di vomito, obbligandosi a concentrarsi sullo spettacolo.
«Ci sono! Quale più lieta idea per festeggiare il nostro ospite, se non utilizzare il mezzo stesso con cui egli è stato portato alla vittoria?»
Piegando appena il lato, allungò la mano verso la spada che il Valentino portava legata al fianco, sorridendo affabile al pubblico.
In un attimo, le guardie mossero un passo su di lui per bloccarlo, ma Cesare Borgia le fermò con un cenno del capo, ricambiando con freddezza il sorriso di Niccolò.
«Che faccia», disse, sguainando la spada e porgendogliela con garbo.
Niccolò afferrò l’arma, voltandosi verso la corte con una piroetta. Portò la mano libera in alto, facendo cenno ai servitori di dare fuoco agli ultimi sacchi di polvere accatastati nel cortile.
Con un fischio acuto della polvere che veniva lanciata verso l’alto, il cielo si tinse di un giallo intenso, brillante, che rimase a illuminare la corte più a lungo dei fuochi precedenti.
Poi, mentre il pubblico riprendeva il fiato tolto da quell’esplosione di luce,  un altro razzo partì in ritardo, scoppiando in verde erba che andò a sovrapporsi parzialmente al giallo già presente.
Niccolò annuì, contento della sua opera, dopodiché aprì la sacca che portava legata al fianco e ne estrasse una crema scura che passò su tutta la lama della spada. Passò poi l’arma su una fiaccola accesa e la guardò prendere fuoco, sempre più soddisfatto mentre i colori in cielo continuavano a brillare.
«Gloria ai Borgia!», gridò, prima di agguantare la borraccia che aveva preparato accanto a una delle colonne e prese un sorso della mistura che aveva creato qualche giorno prima in laboratorio.
Senza indugio, portò la spada in fiamme sopra il suo capo.
Riempì i polmoni con un grosso respiro e soffiò tutta l’aria che aveva in corpo sulla fiamma, la quale s’ingrossò fino a raggiungere il cielo e si tinse del colore vivo del sangue.
Quando Niccolò abbassò l’arma per piantarla a terra e spengere così il fuoco che la bruciava, il cielo era tinto dei colori dello stemma dei Borgia.
Il giallo della bandiera, il verde dell’erba, il rosso del toro.
Il pubblico scoppiò in un applauso entusiasta e, mentre le prime scintille cadevano sul cortile, Niccolò fece un grande inchino, soddisfatto di sé e della riuscita dello spettacolo al quale aveva lavorato per notti intere.
Ignorando i giramenti di capo che ancora continuavano a tormentarlo, riprese in mano la spada, facendola ruotare un po’ prima di riconsegnarla a lama bassa al suo legittimo proprietario.
«Gloria ai Borgia», ripeté, scambiando con il Valentino una lunga occhiata.
Lui smise di applaudire per riappropriarsi della sua arma.
«Siete abile», gli disse.
Niccolò barcollò un po’, rimettendosi composto per inchinarsi ulteriormente.
«Agli uomini di guerra l’onore delle armi, a noi artisti il diletto dei colori», rispose, divertito.
Fu nell’alzarsi che perse ogni controllo di sé.
A causa di un capogiro, si sbilanciò all’indietro, ma le gambe non furono in grado di muoversi, il bacino non riuscì a riportarlo dritto.
Sentì le voci che lo circondavano farsi più acute, un paio di servi accorrere per soccorrerlo, poi più niente.
Luci e ombre si mischiarono inesorabilmente nel vuoto, forme e colori persero ogni significato, d’un tratto non vi fu nemmeno il fischio del vento a ronzargli nelle orecchie.
Niccolò tentò di allungare una mano verso l’alto, ma sentì gli arti pesanti e immobili.
Aprì la bocca per gridare; non uscì che un rantolo.
Poi, il nero lo avvolse.


Note d'autore


Buonasera, madonne e messeri!
Come state? Io alquanto indolenzita dopo i festeggiamenti di laurea (quella di un'amica, la mia ancora è ben visibile con il cannocchiale!) ma ottimista in vista di un weekend tra le coperte e dormire *-*

Non so bene cosa inserire in queste note, perché avevo programmato di spiegare la faccenda dei tritoni velenosi ma preferisco rimandarla al prossimo capitolo. Avevo pensato allora a qualche composizione del colore dei fuochi artificiali, ma anche questo avrà una larga spiegazione più avanti quindi per ora mi chiudo nel silenzio stampa.

Confesso invece di aver "citato" il Quartetto Cetra (<3) in quell'Habla Toro (per chi non mastica lo spagnolo: Parla, Toro!) nella loro divertentissima interpretazione de "Il testamento del Toro". Ebbene sì, anche l'Olé di Giacomo arriva da lì.

Vi lascio ora con un video sui combattimenti con le spade infuocate (a cui tra l'altro ho rubato la "ricetta" per infiammare la lama). Prometto che passerò a spiegare anche la composizione di ogni razzo, ma non ora. Per questo capitolo ancora, vi chiedo di pazientare :)

Dal prossimo in poi, ogni elemento troverà il suo posto nella storia e scopriremo di più sul passato di Niccolò, che a quanto pare si è liberato all'idea coccolosa che avevo di lui nella mia testa per costruirsi un background più scanzonato. Ma vabbé, da quand'è che gli autori hanno potere sui personaggi?

Colgo l'occasione per ringraziare ulteriormente i lettori, silenziosi e non, quelli che spammano la storia alla zia (ma, perché no, anche allo zio!), quelli che mi mandano messaggi inquietanti al limite dell'euforia (Sì, Coco, sto parlando a te.), e quelli che invece ci sono e basta.



Tanti abbracci,

    Lechatvert


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Capitolo 4
*** Capitolo terzo: rinascita ***


polverenera

Polvere nera
Capitolo terzo: rinascita

https://www.youtube.com/watch?v=_l1bW0QyOD0





Perché non puoi avere le ali per volare
Come la rondine, così orgogliosa e libera?

Donovan – Donna Donna





Si svegliò all’improvviso con una fitta allo stomaco che lo fece letteralmente balzare a sedere sul materasso. Non capì subito dove si trovasse, ma dalla morbidezza delle lenzuola che lo avvolgevano dedusse di non aver ancora lasciato la dimora dei Numai.
Ansimante, si prese un momento per ricordare.
La cena, la spada, lo stemma …
Si portò le mani dinanzi al viso, controllando di avere le dita al posto giusto. C’erano anche le braccia, le gambe, le dita dei piedi … Per sicurezza si tastò la faccia, si toccò gli occhi, il naso, le orecchie.
Tutto al suo posto.
Dunque, nulla non gli era esploso addosso.
Confuso, provò a guardarsi attorno.
Si trovava in una stanza spoglia, su un letto pulito ma non particolarmente lavorato. C’era odore di chiuso. Piegato sullo scrittoio, un vecchio dall’aria impegnata annotava qualcosa sulla pagina di un vecchio libro.
Niccolò si fece presente con un colpo di tosse.
«Ah, siete sveglio!», commentò allegramente il vecchio, alzando il braccio e facendo volare sul pavimento un pezzo di carta stropicciata. «Il padrone chiede se avete intenzione di fermarvi a cena.»
«Perché no», rispose subito Niccolò.
Provò a mettersi in piedi, ma le caviglie lo tradirono prima di muovere un passo, costringendolo a sedersi di nuovo sul materasso in un gran scricchiolio d’assi.
«Non così in fretta», lo ribeccò il vecchio. «Il veleno è ancora in circolo.»
Niccolò assottigliò lo sguardo castano.
«Il cosa?», chiese dopo un’attenta riflessione.
Il vecchio roteò gli occhi, ma non si scompose in un commento scorse, anzi. Con calma si alzò dallo scrittoio si risedette accanto a Niccolò, passandogli una mano sulla fronte e sorridendogli con fare incoraggiante.
«Avete mangiato qualcosa di avariato e il vostro organismo si è ribellato», gli spiegò, pacato. «Vi ho fatto bere acqua e sale, perciò potreste vomitare ancora. Servirà a farvi riprendere più in fretta.»
Niccolò lo guardò, lasciando che le sue labbra si increspassero in un’espressione infelice. Per un istante si fece pensieroso, imbronciandosi appena mentre la sua bocca si apriva in un lampo di comprensione che parve destarlo da tutta la confusione in cui aveva sguazzato fino a quel momento.
Poi, scuotendo il capo, ribadì la sua confusione.
«Continuo a non capire», sospirò. «Che diavolo dovrei aver mangiato?»
Il vecchio arricciò il naso.
«Carne in salamoia, pesce marcio, tritoni.»
Niccolò alzò un sopracciglio.
«Tritoni.»
«Sì.»
Alzò anche l’altro.
«E dove li avrei trovati io, i tritoni?»
«Può esservi bastato un pezzo di carne di manzo troppo vecchio per esser cucinato; il corpo è debole, in questo periodo dell’anno. Ma non temete; entro sera vi sarete rimesso completamente.»
Niccolò strabuzzò gli occhi, portandosi una mano alla pancia per tastare la pelle tirata dai conati di vomito.
«Che diavolo ci faccio ancora qui?», domandò, riportando alla memoria solo in quel momento i fatti della sera precedente.
L’esibizione, Cesare Borgia, i fuochi nel cielo … Era tutto così confuso!
Nella sua testa, il colore dorato delle esplosioni si fondeva con i visi e le risate degli spettatori.
Provò a rimettersi in piedi, stavolta con più successo del primo tentativo.
Il vecchio lo raggiunse per posargli le mani raggrinzite sulle spalle.
«Il padrone ha insistito perché fossi io a occuparmi di voi», rispose, cordiale. «Pare tenere molto alla vostra amicizia.»
Voltandosi verso il giaciglio per recuperare borsello e cintura, Niccolò alzò le spalle.
«Da ragazzo veniva alla nostra bottega», spiegò, mentre si allacciava i bottoni della casacca sul petto glabro. Sua madre gli aveva parlato molto di Luffo Numai ma, nonostante come fossero andate le cose tra le loro due famiglie, non aveva mai usato parole cattive nei suoi confronti. «Mio padre gli insegnava a mischiare gli ingredienti per fare la polvere nera. Detto tra noi, non era un gran studente. Alla prima occasione ha fatto saltare in aria il laboratorio e ciò che di vivo c’era dentro.»
Il vecchio parve incupirsi un poco.
«Vostro padre?», chiese.
«E la sua prima moglie, sì.»
«Vedo che non serbate rancore.»
Niccolò sorrise appena, mostrando il palmo aperto della mano sinistra. Gli mancavano il mignolo e parte dell’anulare, vittime premature del suo primo esperimento nel laboratorio rimesso a nuovo dopo anni di sforzi.
«Sono cose che capitano, quando si fa il mio mestiere», disse, allora, alzando le spalle con fare noncurante.
E noncurante lo era davvero: in fondo, di suo padre non ricordava che la voce. Era troppo piccolo per serbarne altre memorie ma, in tutti quegli anni, aveva fatto in modo di farselo bastare.
«Nulla che non sia capitato anche a me.»
Il vecchio assottigliò lo sguardo scuro.
«Cosa intendete dire?»
Niccolò rimase un istante in silenzio, avviandosi verso la porta prima di afferrare la borsa che qualcuno aveva abbandonato a ridosso del muro.
«Lasciamo il passato ai nostri avi», rispose, sagace. «Andrò a ringraziare Messer Numai di persona. Grazie di ogni cura … come avete detto che vi chiamate?»
Il vecchio corrugò le sopracciglia.
«Cappelletti. Dottor Francesco Cappelletti.»
«Grazie di tutto.»
Soddisfatto, il ragazzo fece per andarsene, ma la voce del dottore lo bloccò sull’uscio, costringendosi a voltarsi verso lo scrittoio.
«Aspettate, Sartori!»
«Sì?»
«C’è una cosa che non vi ho detto.»
Niccolò tirò su col naso.
«Sarebbe?»
«Mentre dormivate, la scorsa notte un uomo è venuto più volte a chiedermi il vostro stato di salute.» Il vecchio fece una pausa, torturandosi con dei gesti nervosi i polpastrelli rinsecchiti. «Ha detto di chiamarsi de Corella e di essere un mandante di Cesare Borgia.»
Niccolò sospirò.
«Dunque il Valentino ora vuole la mia testa per essergli svenuto sui piedi?», commentò, affranto. Cappelletti si affrettò a scuotere il capo.
«Tutt’altro», precisò. «Si è detto alquanto interessato alle vostre polveri.»








Il rumore delle spade che si stavano scontrando nella stanza affianco strappò l’ennesimo sospiro scontento dalle labbra di Vittoria mentre, dinanzi al caminetto con le sue dame di compagnia accanto, la ragazza si accingeva a concludere un lavoro di ricamo di cui andava piuttosto fiera.
«Che vita triste», commentò, affranta, posando ago e filo per rivolgersi a Giacomo.
Il ragazzo, sdraiato su un divano, intento a farsi imboccare scherzosamente da Francesca, si alzò sui gomiti, mancando miseramente un acino d’uva.
«Vittoria, mia bella, che succede?», rispose, mostrandosi addolorato per la sorella.
La ragazza sospirò.
«Cesare Borgia è qui da ieri sera e non mi ha ancora rivolto la parola», confessò. «Non un fiore, un sorriso, uno sguardo. Non capisco, Giacomo: sono davvero così brutta?»
Attorno a lei cominciarono a fioccare i commenti delle sue dame.
«Siete bellissima, Madonna Vittoria», la rassicurò Margherita, posando il libro che fino a poco prima stava leggendo. «Di gran lunga la più graziosa tra le fanciulle di Forlì!»
«Il Duca è comunque un uomo sposato», precisò Francesca. «Può darsi che voglia rimanere fedele al patto stipulato con le nozze.»
«Non andrei di certo a raccontarlo ai quattro venti», ribatté afflitta Vittoria, sprofondando nelle vesti turchesi.
«Sarebbe comunque peccato», commentò Giacomo. «Antico Testamento, Levitico diciotto-venti: “Non avrai relazioni carnali con la moglie del tuo prossimo per contaminarti con lei”.»
Francesca commentò con un gridolino divertito la sua preparazione in fatto di Scritture e il ragazzo parve ben soddisfatto della sua esposizione.
Vittoria roteò gli occhi.
«Un minimo di interesse sarebbe comunque gradito», bofonchiò. «Persino Guglielmo, ha preso ad ignorarmi.»
Giacomo fece spallucce.
«Guglielmo che ci ignora? Non mi pare poi così strano.»
«Cesare e vostro fratello se ne stanno nell’altra stanza da ore», commentò cauta Simonetta. «Devono divertirsi un sacco, a farsi la guerra con le spade dell’armeria.»
«Sono due ottimi spadaccini», ribatté Giacomo.
«Due uomini di guerra», confermò Vittoria.
Il più giovane dei Numai parve illuminarsi.
«Due uomini», ripeté, annuendo piano mentre con lo sguardo passava da Francesca a Simonetta, le due dame di compagnia più anziane. «Amano due donne, non due ragazze. Se posso dare il mio umile consiglio di uomo di fede, sorella cara, il tuo è fondamentalmente un problema d’età: troppo giovane.»
Vittoria gonfiò il petto.
«Ti rammento che sono più vecchia di te di un anno!», esclamò, offesa.
«E io ti rammento che ho compiuto quindici anni a novembre. Tolto Guglielmo e i suoi modi da matusalemme, Cesare Borgia potrebbe fare da padre a tutti noi.»
Margherita ridacchiò.
«Precoce, ad avere venticinque anni e un figlio di quindici.»
«Margherita!», la rimproverarono subito Francesca e Simonetta.
La dama rise appena, roteando gli occhi quando le sue due compagne le lanciarono addosso un mare di gridolini scandalizzati.
Vittoria si limitò a scuotere il capo con aria divertita e a incrociare le braccia sul petto, mentre Giacomo si portava a sedere più compostamente sul cuscino morbido del divano.
Era incredibile quanto fosse divenuto arguto, a stare in seminario. E dire che, quando era partito, in lacrime e alto neanche la metà di Vittoria, era talmente timido da non riuscire praticamente a rivolgere la parola agli sconosciuti.
Timido e astemio, per la precisione, ma quelle sue peculiarità erano state completamente distrutte dopo i primi due anni a Pisa.
Ormai, del Giacomo che era partito da Forlì non era rimasto che il viso tondo e la mente brillante. Con grande gioia di Vittoria, per inciso, che nel fratello aveva scoperto una fonte di intrattenimento non indifferente.
«Che dovrei fare, in tua opinione?», gli chiese, quindi, certa di ricevere qualche tipo di scherzo di rimando.
Giacomo, invece, parve prendere la faccenda alquanto seriamente.
«Essere una signora», rispose, annuendo piano. «Le ragazzine non piacciono, agli uomini.»
Vittoria scattò in piedi.
Suo fratello aveva ragione, dopotutto.
Chinando appena il capo, si diede della stupida per non averci pensato prima. Chi mai si sarebbe aspettato di poter apparire affascinante con un cesto di ricamo tra le mani?
«So cosa fare», dichiarò, sottovoce, volgendo lo sguardo verso Giacomo. «Dì alla servitù di preparare una carrozza.»
Lui alzò un sopracciglio.
«Posso sapere dove siamo diretti?»
Vittoria strinse le spalle.
«Alla Rocca di Ravaldino.»
Vi fu un istante di silenzio in cui le dame di compagnia spalancarono la bocca e in cui, sbigottito, Giacomo si infilò un dito nell’orecchio, provando teatralmente a pulirlo.
«Temo di aver sentito male», commentò, poi. «Dov’è che stiamo andando?»
Vittoria roteò gli occhi.
«Da Caterina Sforza, alla rocca di Ravaldino!»
«Vorrai dire dal caro Generale d'Allègre che, per inciso, ci taglierà le gambe solo per aver pensato di conferire con Madonna Sforza.»
«Lasciami fare, Giacomo. Trovo che sia un’ottima idea. Ne parlerò immediatamente con Guglielmo!»
Il ragazzo restò impalato dov’era, arricciando appena il naso prima di dare una sonora sberla al bracciolo del divano.
«Al diavolo la carrozza!», esclamò, poi, balzando in piedi per seguire Vittoria verso la porta della stanza adiacente. «Tu, Guglielmo e il Valentino! È come la Messa di Pasqua con il prete ubriaco! Figurati se me la perdo!»
Congedate le dame di compagnia, i due fratelli bussarono alla porta della stanza vicina, attendendo con garbo di venire invitati ad entrare prima di fare il loro ingresso in quella che, solitamente, veniva utilizzata da Guglielmo e i suoi garzoni per tirare di scherma.
Vittoria, ben lontana da tutto ciò che fosse più affilato del suo ago per il ricamo, non aveva quasi mai messo piede in quella sala.
Si stupì di trovarla riscaldata dal caminetto acceso, pulita e ordinata, colma di luce che dalle finestre brillava sul marmo bianco del pavimento.
Da quando ci fosse del marmo lì, per Vittoria era un mistero.
Rimase a contemplare il lastricato per un istante, pensierosa, dopodiché piroettò sulle scarpine color del cielo e si voltò a braccia conserte verso suo fratello Guglielmo, in piedi accanto alla finestra con la spada poggiata alla spalla e la camicia sporca di sudore. Ansimava parecchio, passandosi una mano nei corti capelli neri per allontanare i ciuffi più lunghi dalla fronte corrugata.
Mai come in quella volta, Vittoria lesse negli occhi di suo fratello l’ombra dell’ira.
Si voltò allora verso Giacomo, che nel frattempo si era comodamente seduto sul tavolo con le gambe a penzoloni, e scambiò con lui una smorfia.
«Buon pomeriggio», esordì, poi, muovendo un passo poco convinto verso Guglielmo.
Lui scosse il capo tanto rapidamente che un paio di ciuffi ribelli si scostarono da dietro le orecchie e gli ricaddero sul naso.
«Sorella», mormorò, inchinandosi appena. «Giacomo.»
Dal tavolo, Giacomo emise un suono acuto in segno di saluto.
Vittoria sospirò, alzando la gonna quel tanto che bastava per voltarsi con grazia verso il Valentino, dritto dinanzi al caminetto con le braccia incrociate, e onorarlo con un piccolo inchino.
Lui si avvicinò per prenderle la mano, mai lei lo fermò con un lieve cenno del capo.
«Non vi disturbate», disse, con tono soffuso ma deciso. «Vorrei conferire con mio fratello maggiore e terrei particolarmente alla vostra presenza.»
Quando Cesare Borgia acconsentì alla sua richiesta con un mezzo sorriso, Vittoria respirò a fondo, lasciando che anche Guglielmo potesse avvicinarsi.
«Mia madre si sente sempre più debole», incalzò. «E la casa ha bisogno di una governante.»
Guglielmo annuì con fermezza.
«Ne sono consapevole. Madonna Ricci sarà di ritorno da Roma entro poche settimane.»
«Madonna Ricci ha servito con amore la nostra famiglia, ma non c’è più bisogno di scomodarla. Sua madre è anziana, sono certa che non sopporterebbe di veder partire la figlia. Mi occuperò io della casa.»
Guglielmo Numai non era mai stato particolarmente espressivo, anzi, molte volte Vittoria si era chiesta come potesse essere così bravo a mascherare ogni sua più lieve emozione, eppure, in quell’istante, nulla riuscì a celare lo sguardo di profondo odio che lui le buttò addosso.
Sembrava una minaccia di morte.
Vittoria si sentì avvampare, ma non si scompose.
«So già far di conto, dirigere la servitù non sarà un problema», insistette.
«Sei troppo giovane», decretò Guglielmo e, in altre occasioni, quella sua affermazione sarebbe stata la fine di ogni discussione.
Ma non quel giorno, perché Vittoria non aveva intenzione di demordere.
Così, gonfiando il petto, la ragazza portò le mani ai fianchi, pronta a controbattere con la stessa grinta di suo fratello maggiore.
«Tua moglie aveva la mia età quando nostro padre le ha affidato Palazzo Albertini, eppure casa tua è ancora in piedi!», protestò.
«Hai già le tue dame di compagnia, a cui badare.»
«Il padre di Simonetta la vuole sposa entro l’estate, mentre Francesca è stata promessa in sposa a un pisano. Di certo, tra qualche mese non mi resterà poi molto da tenere sott’occhio.»
Guglielmo roteò gli occhi, guardandosi bene dal dare ulteriori commenti. Scambiò una breve occhiata con Cesare Borgia, dopodiché tornò a concentrarsi su sua sorella, severo come mai prima d’ora.
«E sia», concesse, storcendo il naso. «Ma che ti affianchi Cappelletti, visto che pare l’unico ad avere ancora un po’ di sale in zucca.»
Vittoria sorrise, trattenendosi con fatica dal prendere a saltellare assieme a Giacomo come era solita fare nelle normali occasioni. La voce di suo fratello, infatti, le risuonava ancora in testa: una signora, Vittoria. E le signore, che lei sapesse, non si scomponevano mai.
«C’è un’ulteriore richiesta, che vorrei fare come governante», disse allora, posizionandosi al fianco di Guglielmo per rivolgersi con educazione al Valentino. «Che Messer Cesare il Duca mi accompagni prima di sera fino alla Rocca di Ravaldino, se egli non è occupato.»
Guglielmo sgranò gli occhi. Pareva sull’orlo di dare di matto.
«La Rocca non è luogo consono a una donna, in questo momento», commentò, ma Cesare lo bloccò con alzando la mano e muovendola appena nella sua direzione.
«Cosa dovete andare a fare, alla Rocca di Ravaldino?», chiese, cortese, tanto che Vittoria non poté evitare di arrossire. «È sede dell’esercito francese, in questi giorni.»
«Ne sono conscia.» La ragazza si sforzò di sorridere, sebbene l’imbarazzo le permettesse di muovere persino un singolo dito. «Tuttavia, mi preoccupo per i figli di Madonna Sforza.»
«I figli di Caterina sono sotto la custodia del Generale d'Allègre», fece prontamente presente Guglielmo.
«E non dubito che le sue cure siano degne di quelle riservate a un re», incalzò svelta Vittoria. «Tuttavia, il più giovane degli Sforza, Giovanni, non ha che due inverni. Sono convinta che sia la presenza di una donna, ciò di cui ha bisogno, non quella di un soldato, per quanto esso possa saper far bene il suo dovere.»
«E intenderesti occupartene tu?»
«Io e la balia, certo.»
Guglielmo si portò entrambe le mani al viso.
«Non intendo ascoltare oltre i tuoi deliri, Vittoria», rispose, lapidale, mentre posava al muro la spada per avvicinarsi alla tinozza d’acqua sul tavolo. «Cesare, non prestatele attenzione; mia sorella deve ancora imparare dove sia posto il limite tra realtà e fantasia.»
Il Valentino sorrise, offrendo il braccio alla ragazza con un lieve inchino.
«Invece ammiro molto l’apprensione di Madonna Vittoria», rispose, guardandola in viso con un’espressione per la prima volta rassicurante. «E condivido appieno il suo punto di vista; un figlio ha bisogno di una madre. Perciò, contate pure sulla mia presenza, Vittoria. Vi accompagnerò da d’Allègre seduta stante.» Sorrise di nuovo, stavolta socchiudendo gli occhi per un istante. «A meno che Guglielmo non voglia continuare il nostro duello.»
Guglielmo si accigliò, scambiando con Giacomo un’occhiata seccata prima di sospirare e accennare un sorrisetto tirato.
«Mio fratello Giacomo vi sostituirà», rispose, con una punta di perfidia nella voce roca.
Giacomo strabuzzò gli occhi.
«Accidenti, no!», protestò, ma nessuno gli diede retta.
Vittoria sbuffò con leggerezza, stringendosi con grazia al braccio di Cesare Borgia prima che questi prendesse a camminare con passo bonario verso la porta.
«Avete uno straordinario talento nel far innervosire vostro fratello», le sussurrò lui, senza mascherare un certo divertimento.
«No», rispose Vittoria, accennando una smorfia rallegrata. «Mio fratello ha uno straordinario talento nell’innervosirsi da solo!»
Risero assieme, accostandosi per un istante alla porta prima di abbandonare la stanza con il pavimento di marmo bianco per tornare in quella dove poco prima le dame di compagnia si godevano un intero pomeriggio d’ozio.
L’ultima cosa che Vittoria udì prima che l’uscio le si serrasse alle spalle, fu lo scrosciare dell’applauso che Giacomo riservò a quell’uscita di scena.


Note d'autore


Buonasera!

Volevo pubblicare il capitolo ieri ma poi mi sono persa nei meandri dell'oscuro fandom de Les Miserables e non sono riuscita a riemergere in tempo per finirlo! :(

Ho rimediato oggi.

Dunque, nelle note di oggi volevo spiegare un po' la faccenda della tetrodotossina, quello che forse ricorderete come il "veleno del tritone" e che ai giorni nostri è più famoso come "veleno del pesce palla". Si tratta di una potente neurotissina che pura risulta cento volte più potente del cianuro (è stata sintetizzata soltanto nel 1900 e, a dire il vero, il primo caso documentato della sua esistenza si ha soltanto nel corso del '700). Presente nel tritone, appunto, ma anche in moltissime specie di pesci e mammiferi, viene solitamente prodotta da alcuni bateri.

La massima concentrazione di tetrodotossina si ha nel fegato dell'animale che, se ingerito, risulta letale (non nel caso di animali piccoli come il nostro tritone, naturalmente). I sintomi di avvelenamento si manifestano in media dopo 2-3 ore e comprendono emicranie, giramenti di capo, vomito, paralisi.

La morte, che in genere arriva dopo 5-6 ore, avviene per soffocamento.

Ad oggi, non esistono antidoti efficaci al 100%, sebbene nei casi meno gravi venga praticata la lavanda gastrica (o, come nel caso di Niccolò, un bel po' di acqua e sale). 

Detto questo vi saluto, per oggi ho finito le lezioncine prese da Wikipedia °-°/


Tanti abbracci,

Lechatvert


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