Il tuo vero volto - Stagione finale

di Pandora86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Separazione ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. Attesa ***
Capitolo 3: *** capitolo 3. Condivisione ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. Coppia: Diversità o Uguaglianza? ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Amicizia e amore ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. Due facce di una stessa moneta ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. Madri e figli ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. Confronti ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. Vicini e lontani ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. Solo Amore ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. Faccia a faccia ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. Rivelazioni e chiarimenti ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. La controparte ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. Separazione ***


Eccomi con la quarta e ultima parte de “Il tuo vero volto”.
Un ringraziamento a tutti quelli che leggeranno, vecchi e nuovi lettori.

Spero che il primo capitolo vi piaccia.

Per gli eventuali nuovi lettori specifico che la storia potrebbe non essere comprensibile senza prima aver letto le tre storie che precedono questa.

Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni.

Per ora… buona lettura!

 
 
Il Tuo Vero Volto – Stagione Finale
 


Capitolo 1. Separazione
 

“Sei serio, Yo?” domandò Hanamichi, squadrando il suo migliore amico con la stessa faccia di chi assiste a un’invasione aliena e non riesce a crederci.

“Ti sembra la faccia di uno che scherza?” rispose imperturbabile Yohei, infilando un’altra maglia nel borsone.
“Beh, a me questo scherzo non piace neanche un po’” continuò Hanamichi, togliendo la maglia appena messa nel bagaglio.

“E, infatti, non è uno scherzo!” chiarì ancora l’altro, infilando nuovamente la maglia nella borsa da viaggio.

“E adesso ti vesti, oppure vuoi uscire così?” domandò con tono neutro, senza scomporsi.

D’altro canto, Mito aveva previsto quel teatrino fin dall’inizio, quindi continuò come se nulla fosse.

“Io rimango qui!” s’imbronciò Hanamichi, sedendosi sul letto e assumendo la migliore faccia offesa del suo repertorio.

“Sai che la stanza deve essere liberata” non gli badò Yohei.

“Allora pianto una tenda nel giardino!” s’impuntò l’altro, incrociando le braccia e sbuffando come un treno a vapore.

“Sì, va bene! Ma cominciamo a uscire da qui!” decretò Mito chiudendo, si sperava definitivamente, il borsone.

Per sicurezza, se lo caricò sulla spalla e si avvicinò alla porta aspettando che Hanamichi si decidesse a infilare la maglia.

Era da più di un’ora, infatti, che se da un lato Yohei infilava capi in valigia, dall’altra Hanamichi non faceva che toglierli.

Almeno, il problema bagaglio era risolto.

Vide che Hanamichi si decise a indossare la maglia e aprì la porta uscendo.

Il numero dieci fu immediatamente fuori dopo di lui.

“Non sono un dannato invalido, Yo!” ci tenne a ricordargli, provando ad afferrare la borsa.

Yohei fu veloce a scansarsi.

“Infatti, non è per quello che te la porto!” rispose avviandosi.

Solo allora Hanamichi notò che fuori dalla porta della sua stanza c’erano due persone che lo aspettavano.

Rukawa, ma quello, in fondo, l’aveva previsto, e Sendoh.

Persone che avevano atteso pazientemente per più di un’ora che lui uscisse, sentendo chiaramente i dibattiti che si svolgevano all’interno della stanza.

“Che diamine ci fanno qui?” domandò, fermandosi a metà corridoio e attirando l’attenzione di tutti i presenti.

“Beh, la presenza di Rukawa mi sembra ovvia!” ghignò Yohei.

Gli altri due assistevano a quel teatrino senza parlare.

Mito era stato chiaro: nessuno doveva interferire o sarebbe stato impossibile convincere Hanamichi.

Tuttavia, non si lamentavano; erano comunque felici di poter essere presenti.

Ognuno per le proprie ragioni certo, ma comunque contenti di poter essere parte della vita delle due persone che avevano di fronte.

“E il porcospino?” assottigliò lo sguardo Hanamichi.

“Beh…” fece finta di pensarci Yohei, portandosi una mano al mento.

“In effetti, non lo so!” liquidò la faccenda girandosi e continuano a camminare.

Hanamichi lo seguì a passo di marcia, continuando a borbottare con una pentola a pressione.

“Non dobbiamo passare a saldare il conto?” si fermò nuovamente Hanamichi davanti all’uscita.

“Non mi sembra che tu, come minorenne, possa avere delle carte di credito” gli rispose Mito con noncuranza, aprendo la porta d’ingresso e facendo cenno al suo migliore amico di uscire.

Il numero dieci non trovò nulla da ribattere e uscì in silenzio.

Silenzio che non sarebbe durato molto, Mito lo sapeva, quindi si preparò mentalmente alla prossima obiezione.

Obiezione che comparve, come volevasi dimostrare, quando raggiunsero la macchina che li attendeva fuori la clinica.

“Di chi è questa macchina?” domandò Hanamichi sospettoso.

“L’ho rubata per l’occasione!” gli rispose serio Yohei, cedendo il bagaglio all’uomo seduto al posto di guida.

“E hai rubato anche l’autista?” lo riprese sarcastico Hanamichi.

“Ovvio!” gli diede ragione Mito.

“Ho preso in ostaggio la sua famiglia che libererò quando saremo arrivati a destinazione” disse, aprendo la porta e facendo cenno all’altro di salire.

“E se non volessi entrare?” ghignò Hanamichi, portandosi le mani ai fianchi.
Rukawa si trattenne a stento dal dargli del do’hao.

Sendoh, invece, assisteva attento osservando soprattutto Yohei.

“E se ti prendessi di peso?” lo minacciò Mito, sorridendogli in modo fintamente conciliante.
Hanamichi, a quel punto, decise di salire.

Sapeva che se Mito lo minacciava di una cosa del genere, era benissimo in grado di metterla in pratica perciò decise di fare quello che l’altro chiedeva.

Ma non era una resa, no!

Avrebbe continuato a far valere le sue ragioni, a costo di sfinire Yohei a suon di chiacchiere.

A quel punto, anche gli altri si decisero a salire.

Hanamichi, Yohei e Sendoh accomodati sul sedile posteriore (Mito al centro) e Rukawa seduto davanti.

“Io non sono paralitico e potevamo prendere il treno!” ricominciò Hanamichi, non aspettando neanche che la macchina mettesse in moto.

“Infatti, usiamo la macchina perché così facciamo prima!” gli rispose pratico Yohei.

“Voglio andare a casa mia!” incrociò le braccia Hanamichi.

“Quale casa?” gli domandò innocentemente Yohei e Rukawa si mise sull’attenti sapendo, che a breve, sarebbe successo il putiferio.

D’altro canto, Mito era stato abbastanza scaltro da decidere di rivelare quel piccolo particolare solo quando sapeva che sarebbero stati al sicuro nell’abitacolo della macchina.

“La mia!” si alterò Hanamichi.

“Quale delle due?” domandò ancora Yohei, e Hanamichi lo guardò come se avesse appena detto un’eresia.

“Quella dove sono stato nell’ultimo anno!” assottigliò la voce, scandendo lentamente le parole.

“Oh!” finse di capire Yohei. “Quella!”.

“Sì! Quella!”.

“Mi sono dimenticato di dirti che quella non è più disponibile!” buttò lì Mito con tono neutro.

“E perché?” indagò Hanamichi.

“Vedi, la padrona ti ha buttato fuori!” iniziò a spiegargli Yohei.

“E come avrebbe fatto a buttarmi fuori se ero bloccato in quella dannata clinica?” s’infervorò Hanamichi.

“Beh, sai…” incominciò Yohei con un tono fintamente incerto.

“Cosa?” lo invitò a continuare Hanamichi con tono minaccioso.

“Diciamo che non essendo stato versato l’affitto, la padrona ha trovato un altro inquilino”.

“CHE COSA?” tuonò Hanamichi, come previsto.

“Niente affitto, Hana!” gli ribadì Yohei.

“E perché non ha ricevuto i soldi dell’affitto?” chiese Hanamichi, assottigliando le labbra.

“Beh, vedi, temo di essermene dimenticato” gli spiegò Yohei con tranquillità sistemandosi meglio sul sedile.

“Sai, sono stato un po’ occupato” aggiunse, guardando l’amico di sottecchi.

Rukawa sentì Hanamichi sospirare e pensò che veramente non esistesse nessuno in grado di reggere testa al suo do’hao tanto quanto Mito.

Il braccio destro del do’hao era stato molto furbo, decidendo di prendersi la colpa dell’avvenuto; sapeva, infatti, che Hanamichi non se la sarebbe mai presa con lui.

“Quella baldracca!” esplose, per l’appunto, il numero dieci.

“Se aveva urgente bisogno di soldi, poteva andare a battere il marciapiede” continuò a inveire contro la donna.

“Sono sempre stato puntuale” aggiunse con tono lamentoso, continuando il suo monologo.

“Poteva almeno ascoltarti quando hai provato a spiegare perché ti sei dimenticato” concluse, incrociando le braccia.

“Che ci vuoi fare!” sospirò Mito con tono conciliante.

Proprio come Yohei aveva previsto, Hanamichi aveva tratto le sue conclusioni.

Rukawa lo guardò dallo specchietto, sorridendo a mezza bocca.

Ovviamente, Hanamichi aveva creduto che realmente Mito si fosse dimenticato di versare la somma e che la donna non avesse voluto ascoltare ragione sui ritardi.

Inutile specificargli che quella casa fosse stata liberata quasi una settimana, dopo che Hanamichi era stato ricoverato, insieme all’ultimo affitto.

“Quindi, hai dovuto rimediare su questa soluzione! Beh, potevi dirlo prima!” disse Hanamichi dopo un po’, guardando fuori dal finestrino.

“In realtà, non mi sarebbe dispiaciuto averti a casa mia” rispose Mito sincero.

“Era quella l’idea iniziale. Ma qualcuno è stato molto insistente!” ghignò Yohei e Rukawa lo guardò storto.

Hanamichi invece, arrossì fino alla punta dei capelli, decidendo di guardare ostinatamente fuori dal finestrino.

A breve, si sarebbe trovato a casa di Rukawa.

Da soli! Pigolò nella sua mente.

Comunque, era inutile pensarci. Quando sarebbero arrivati a destinazione, si sarebbe regolato di conseguenza in qualunque tipo di situazione si fosse trovato.

Era o non era un Tensai, in fondo?

Il resto del tragitto fu silenzioso; ognuno era troppo preso dai propri pensieri.

Hanamichi sbuffava di tanto in tanto, ma non aveva più obiettato su nulla.

Yohei, con il collo poggiato sul sedile, lo guardava di sottecchi, tenendosi pronto alle eventuali obiezioni del numero dieci.

Sendoh invece, seduto di fianco a Mito, non poteva fare a meno di sospirare.

Sapeva perché si trovava lì; la sera prima, aveva sentito Yohei a telefono che lo aveva avvisato su quello che avrebbe fatto il giorno dopo. Inutile dire che Sendoh se lo aspettava. Sakuragi era il discorso per eccellenza: lo era stato agli inizi della loro conoscenza, e lo era tuttora visto che le sue dimissioni erano oramai imminenti.

Tuttavia, sapeva che obiettare sarebbe stato poco carino e non era nel suo essere perdersi in simili idiozie; sarebbe stato assurdo mettersi a fare i capricci quando Yohei aveva cose ben più importanti da sbrigare.

Motivo per cui, non aveva avuto dubbi in proposito la sera precedente: lo avrebbe accompagnato a tutti i costi.

E ora si trovava lì, a osservare il suo ragazzo che si districava alla perfezione tra gli sbalzi di umore del suo migliore amico.

In effetti, Sendoh sospettava che Yohei fosse l’unico a sapere come prendere Hanamichi, anche più di Rukawa. Lo dimostrava l’abilità con cui lo aveva convinto ad accettare quella nuova situazione, rinunciando a quella precedente, di cui Sendoh, tra le altre cose, non sapeva ancora nulla.

Non aveva idea, infatti, di che casa parlassero e non sapeva che Hanamichi vivesse da solo, prima del suo ricovero.

Mito non gli aveva mai detto nulla, non ancora almeno. Tuttavia, non aveva fatto domande, riproponendosi di aspettare quando lui e Yohei sarebbero stati da soli.

Rukawa, invece, non poteva fare altro che pregustare il momento in cui lui e Hanamichi sarebbero stati da soli.

Aveva diviso volentieri le incombenze con Mito, accettando senza obiettare che fosse lui a comunicare al numero dieci la sua nuova sistemazione.

In fondo, non aveva mai preteso di escludere Mito dalla vita del suo do’hao e poi, adesso che c’era anche Sendoh, non aveva motivo di provare fastidio verso il migliore amico del suo do’hao.

Non adesso che le cose erano arrivate a quel punto.

Agli inizi dell’anno scolastico, l’antipatia verso Mito c’era eccome, ma il motivo era piuttosto semplice, in effetti: sapeva di non avere speranze con Hanamichi e invidiava Mito per la sintonia che sembrava avere con la testa rossa.

Una sintonia unica nel suo genere; Rukawa, infatti, da buon osservatore qual era, si era sempre accorto delle occhiate particolari e degli sguardi complici.

Poi, l’antipatia era mutata in rassegnazione, verso quella figura che sembrava essere onnipresente.

E in ultimo, erano subentrate la stima e la realizzazione che Mito era una figura fondamentale nella vita di Hanamichi; accettare lui, significava di conseguenza accettare anche il suo fidato amico.

E, proprio come il basket, Rukawa aveva imparato che in alcuni casi è necessario dividersi i compiti. Motivo per cui, non aveva avuto nulla da ribattere quando Mito gli aveva comunicato che ci avrebbe pensato lui a convincere Hanamichi.

Chiuse gli occhi, perso tra questi pensieri.

Il tragitto sarebbe stato ancora lungo e Rukawa sapeva che avrebbe dovuto tenersi in forze per l’arrivo di un uragano rosso nella sua casa.
 

***
 

Hanamichi si sedette sul letto, sospirando stancamente.

Come diamine fosse finito in quella situazione, ancora non lo sapeva.

Si guardò intorno, studiando la camera.

Conosceva quella casa, ma in quella stanza non c’era mai stato.

Costatò che era più grande della sua intera abitazione dell’ultimo anno.

Guardò il borsone che aveva accanto, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare adesso.

In macchina, aveva cercato di non pensarci ma adesso il problema era più imminente che mai: come avrebbe dovuto fare per gestire quella convivenza?

Lui aveva le sue abitudini, i suoi modi di fare e, non per ultimo, aveva i suoi gusti culinari.

Una cosa semplice in una convivenza, ma che per loro poteva essere uno scoglio insormontabile.

E poi, lui era abituato a fare quello che voleva a qualsiasi orario desiderasse.

Come ci si comportava quando invece in casa c’era un'altra persona?

Non che Rukawa gli avesse messo i lucchetti alla porta, anzi.

Gli aveva mostrato la sua camera, decidendo di lasciarlo immediatamente solo con i suoi pensieri.

Anche Mito si era defilato sapendo che più sarebbe rimasto con lui, più sarebbe stato difficile lasciarlo andare.

Hanamichi aveva, infatti, ritenuto poco dignitoso attaccarsi alle gambe del suo amico, pregandolo di non lasciarlo da solo.

Un abbraccio, solo un abbraccio c’era stato fra loro prima di separarsi.

Non che fossero in partenza per due continenti diversi, solo che era la prima volta che non affrontavano qualcosa insieme.

Persino durante la riabilitazione, Mito si era piantato stabilmente in clinica allontanandosi solo durante la notte.

E anche durante la fisioterapia, Yohei lo raggiungeva in palestra facendo gli esercizi con lui.

Era vero, nell’ultimo anno aveva abitato da solo; ma poco contava considerando che comunque
Mito gli faceva da autista e spesso gli faceva compagnia durante il lavoro.

Per entrambi, quella era una separazione a tutti gli effetti.

D’altro canto, ora tutti e due avevano qualcuno accanto.

Era bello ma anche strano prenderne atto.

Forse, era questo il significato della parola crescere.
 

Continua…
 

Note:

Cronologicamente, la fic è ambientata circa un mese dopo la fine del manga, in pratica quando Hanamichi termina la riabilitazione e torna a scuola, mentre Rukawa conclude il ritiro con la nazionale.
Ho immaginato, infatti, un ipotetico continuo del manga, tenendo conto degli avvenimenti da me inventati nelle precedenti fic.

Spero che questo primo capitolo sia piaciuto.

Come sempre, attendo i vostri commenti.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. Attesa ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Un ringraziamento speciale va a hikaru83, che mi ha suggerito il titolo per questo capitolo, risolvendomi un grosso problema! (non avevo idee)
Grazie!
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
Capitolo 2. Attesa
 
Rukawa sedeva pensieroso sul divano del salotto.

Aveva mostrato la sua nuova camera a Hanamichi e aveva preferito lasciarlo da solo con i suoi pensieri. Allo stesso modo, anche lui stesso aveva bisogno di un minuto per riflettere.

Aveva atteso quel momento per molto tempo e niente di quello che aveva immaginato, poteva avvicinarsi lontanamente alle sensazioni che provava in quegli istanti.

Emozione, trepidazione, attesa… queste erano solo alcuni dei sentimenti che sentiva agitare dentro di sé.

Inoltre, aveva anche capito quanto il momento fosse difficile per Hanamichi; d’atro canto, non bisognava essere un genio per intuire una cosa del genere.

Un momento difficile per Hanamichi ma anche per Mito, a quanto sembrava.

Mito che, per la prima volta, affidava il suo migliore amico a qualcun altro scegliendo di separarsi da lui.

Non che avesse cambiato continente, ma comunque una separazione c’era stata.

Una separazione mentale più che fisica, in effetti.

Ed era con questo cui Rukawa doveva confrontarsi.

Il distacco mentale fra Hanamichi e Yohei.

Mito non ne aveva parlato molto. Rukawa sospettava che non ne avesse fatto parola con nessuno, neanche con Sendoh, eppure sicuramente doveva essere preoccupato a dispetto di tutta la sicurezza che ostentava.

E anche Hanamichi doveva essersi reso conto di quello che aveva significato realmente andare a stabilirsi da lui; sicuramente, la sua testa era satura di dubbi.

Mito aveva cercato di aggiornarlo su tutte le abitudini di Hanamichi e Rukawa era stato ben lieto di conoscerle, perché non voleva che il numero dieci si sentisse un ospite.

Il problema, per l’appunto, era cercare di farlo capire a Hanamichi stesso.

Perché quella separazione, secondo Mito, poteva solo portare a qualcosa di buono.

Per troppo tempo, infatti, Hanamichi si era chiuso nel suo mondo, circondato dalla sua fidata armata, non permettendo a nessuno di entrare.

Ora, era come se si stesse muovendo in una nuova dimensione che non escludeva niente della vita precedente ma che comunque apportava dei cambiamenti.

Cambiamenti che potevano solo essere migliori, secondo Mito.

Cambiamenti che non avrebbero escluso niente di quello che c’era stato in precedenza.

Perché Hanamichi non avrebbe perso Mito, né la sua armata, né le sue abitudini.

Al contrario, le avrebbe sempre avute aggiungendoci però qualcos’altro.

Aggiungendo Kaede Rukawa, per l’appunto.

Il problema però, era sempre farlo capire a Hanamichi.

Ci sarà tempo! Si consolò Rukawa.

Non era da lui, d’altro canto, perdersi d’animo per così poco.
 

***
 

Hanamichi decise di abbandonare la sua camera quando si accorse che era stato venti minuti buoni seduto sul letto, in silenzio, a fissare la parete.

Aprì la porta con l’aria baldanzosa che sempre lo contraddistingueva, decidendo di rimandare la parte dello svuotamento valige.

Aveva osservato fin troppo quella camera, tanto da accorgersi che Yohei aveva provveduto a far recapitare i libri di scuola, l’uniforme e tutto quello che c’era nella sua vecchia casa (o vecchia catapecchia, se si voleva essere precisi).

Tutto, ovviamente, in attesa di essere sistemato dal legittimo proprietario.

Proprietario che, guarda caso, non aveva nessuna voglia di mettersi a sistemare la sua roba.

Un po’ per noia (o per amor del sacro disordine!), un po’ perché voleva ancora cercare di capire cosa diamine ci facesse lì.

Motivo per cui, la soluzione migliore era rimandare a non si sapeva quando.

Con questi pensieri, e con una faccia da schiaffi che non portava nessuna traccia di tutti i sentimenti di preoccupazione che in quel momento provava, Hanamichi decise di scendere al piano di sotto sperando di incontrare Rukawa da qualche parte.

Quella casa era un labirinto: camere al piano di sotto, camere al piano di sopra… fortuna che aveva il bagno in camera o avrebbe fatto prima ad attrezzarsi con qualcosa, se gli fosse scappata veramente!

Rifece il percorso al contrario riuscendo a raggiungere il salotto; la kitsune non era lì.

Si soffermò sul tavolino da caffè al centro fra il divano e le due poltrone, richiamando alla mente la volta in cui Rukawa aveva svuotato il suo zaino, riempiendo il salotto di fogli sparsi.

La volta in cui gli aveva fatto i compiti!

Sorrise a quel ricordo; quanto si era divertito, allora!

Si chiese, in quel momento, se ci sarebbero stati altri momenti del genere, così spensierati e spontanei.

La risposta poteva essere semplice per un osservatore esterno, ma non per Hanamichi che, con la mente satura di dubbi, non riusciva a vedere giorni vissuti con allegria in quella che sembrava una convivenza forzata.

Un rumore proveniente dalla stanza accanto, lo distrasse dai suoi pensieri.

Si diresse verso quel rumore, aprendo la porta scorrevole che separava la stanza dal salotto.

Si accorse di trovarsi in cucina.

In effetti, non era mai stato nella cucina di quella casa pazzesca.

Non ebbe il tempo, tuttavia, di osservare l’arredamento nei dettagli, dato che qualcosa attirò la sua attenzione.

Qualcuno, per l’esattezza.

Rukawa, per l’appunto, che faceva non si sapeva bene cosa, sull’isola che troneggiava al centro della stanza.

Ebbe solo modo di osservare che una strana sostanza marrone era sparsa dappertutto, creando un forte contrasto con il bianco dell’isola.

Passarono alcuni istanti in silenzio, dove da un lato c’era Rukawa che, accortosi della sua presenza gli aveva rivolto solo un lieve cenno con il capo, continuava a fare ancora qualcosa che il numero dieci non seppe classificare.

Dall’altro lato invece, c’era Hanamichi che voleva sì spezzare il silenzio prendendo un po’ in giro la kitsune, tanto per tenersi in allenamento.

Il problema però era come prenderla in giro.

O meglio, su cosa, dato che non aveva ancora capito che diamine stesse cercando di fare (a parte sporcare tutte le superfici che meno di un minuto prima dovevano essere state candide!).

“Ehm” balbettò il numero dieci, cercando di avere l’illuminazione divina che gli avrebbe chiarito tutto.

“Nh!” mugugnò Rukawa continuando a fare non si sapeva cosa.

“Ti hanno assegnato un compito in economia domestica?” domandò allora Hanamichi con noncuranza.

In fondo, se si trovava in cucina, Rukawa doveva per forza cucinare qualcosa.

Era ovvio, no?

Anche se, da quello che sapeva, nella sua scuola erano le ragazze che frequentavano quella materia.

“Cazzo dici, do’aho?” fu l’elegante risposta di Rukawa, che sembrava abbastanza irritato.

Ecco Kaede Rukawa in tutta la sua finezza!

Fu questo il pensiero di Hanamichi che si avvicinò titubante.

Osservò meglio la sostanza sparsa sull’isola e, finalmente, l’illuminazione divina sembrò arrivare.

Annusò la strana polverina ed ebbe la conferma di quello che la kitsune stava facendo (o stava provando a fare, dipendeva dai punti di vista).

In ogni caso, vista l’espressione del numero undici, sembrava che la cosa non stesse dando i risultati sperati.

“Caffè!” esclamò, guardando Rukawa con un sopracciglio alzato.

“Nh!” confermò Rukawa, afferrando quello che sembrava un batticarne.

“Stai preparando il caffè!” esclamò ancora Hanamichi, osservando il numero undici come se lo avessero sostituito gli alieni.

“Nh!” confermò ancora Rukawa afferrando una manciata di – erano chicchi quelli? – qualcosa da una busta e poggiandoli sull’isola in un piccolo mucchietto.

Hanamichi lo osservò puntare quello che aveva in mano – possibile che si trattasse realmente di un batticarne? – verso il mucchietto.

Quando la mano di Rukawa si abbatté sul mucchietto, spargendo chicchi dappertutto, Hanamichi ritenne opportuno intervenire.

Visto e considerato che Rukawa, non contento, stava per dare un secondo colpo ai pochi chicchi rimasti sull’isola.

“Ehm” disse afferrando la mano di Rukawa giusto in tempo.

“Cosa – diamine – stai – facendo?” scandì lentamente, certo che il numero undici fosse ormai letteralmente impazzito.

“Levati dai piedi, do’hao!” rispose l’altro che, a quanto sembrava, non ammetteva repliche ne voleva interruzioni.

“Mi spieghi a che ti servono i chicchi?” chiese Hanamichi, sentendo l’irresistibile voglia di rifilare una testata all’altro.

“Forse a fare il caffè, do’hao!” non si perse d’animo Rukawa, guardando l’altro con lo stesso sguardo che si rivolgeva a bambino un po’ lento.

“E pensi sul serio di schiacciarli con un batticarne?” chiese Hanamichi perplesso.

“Vedi altro modo, do’aho?” non rinunciò all’immancabile insulto il numero undici.

“Sì!” si spazientì il numero dieci.

“Usare il bollitore, che non so perché non è stato ancora toccato, e il caffè solubile. A meno che tu non voglia continuare a distruggere l’isola cercando di macinare i chicchi!” rispose ironico l’altro.

Rukawa sbuffò facendo ondeggiare la lunga frangia e posò l’attrezzo.

Eppure, gli era sembrato facile.

Mito era stato chiaro ma lui, non contento, aveva cercato di documentarsi il più possibile ottenendo come risultato, quello di confondere tutte le informazioni ricevute e combinare solo un gran casino.

Hanamichi si intenerì di fronte a quella versione inedita di Rukawa.

In fondo, l’altro stava solo cercando di fargli un’accortezza.

Voleva fare qualcosa per lui, facendola come avrebbe fatto lui.

Fu per questo che addolcì il tono quando si decise a parlare.

“O forse, e dico forse, potevi chiedere a me!” gli sorrise sincero.

“Nh!” annuì Rukawa.

“Sono un Tensai, in fondo! Ah, ah, ah!” esclamò Hanamichi portandosi le mani ai fianchi.

“Tzè… do’hao!”.

“Baka kitsune!” strillò Hanamichi isterico.

“Vuoi forse negare che ho salvato la tua cucina dalla distruzione?” lo provocò, puntandogli l’indice contro.

“Non avevo ancora finito” s’impuntò Rukawa saccente.

Hanamichi prese un panno e cominciò a togliere tutte i vari tipi di caffè, in tutte le forme e di tutte le marche, dalla penisola, borbottando come una pentola a pressione.

“I chicchi non servono a niente, a meno che tu non abbia qualcosa per macinarli. Che non è il batticarne!” si sentì in dovere di specificare all’altro.

“Nh!” annuì ancora Rukawa.

Adesso che ci pensava, Mito non gli aveva detto niente riguardo ai chicchi di caffè. Doveva essere una cosa che aveva letto.

Siti del cazzo! Pensò, maledicendo tutte le informazioni sbagliate che aveva letto su internet.

“Per curiosità, quanto hai speso in caffè?” si sentì in dovere di domandare il numero dieci osservando tutti i tipi di caffè sparsi per la cucina.

“Nh… 10.000 yen!” rispose con noncuranza Rukawa.

(N.d.A. 10.000 yen corrispondono a 100,00 euro circa).

Hanamichi lo guardò allibito.

“ 10.000 yen!” ripeté lentamente non riuscendo a credere a quell’informazione.

“Nh” non rinunciò al suo monosillabo preferito il numero undici.

“E come pensi di prepararlo questo caffè?” gli chiese sarcastico Sakuragi, portandosi le mani ai fianchi.

Era vero, il caffè era l’ingrediente fondamentale per preparare, per l’appunto, il caffè.

Ma come pensava di riuscirci Rukawa con un bollitore?

Rukawa d’altro canto, a quella domanda, lo guardò saccente.

Possibile che Hanamichi credeva che lui fosse così sprovveduto?

Con una studiata lentezza, degna di una scena madre, Rukawa si avvicinò a uno dei mobili pregustandosi la faccia di Hanamichi di lì a breve.

Aprì l’anta, non rinunciando alla sua immancabile espressione supponente e ne mostrò il contenuto al compagno di squadra.

Hanamichi seguì quei movimenti, rimanendo sbigottito un istante dopo.

“Ma… quella…” balbettò lentamente avvicinandosi all’oggetto.

Non poteva essere quella cosa.

E, infatti, uno sguardo più attento gli rivelò che non era quell’oggetto.

“Dove te ne sei procurata una?” domandò lentamente Hanamichi, osservando ora Rukawa ora la macchinetta del caffè nuova fiammante che troneggiava sul ripiano del mobile.

“Nh… esistono gli acquisti online, do’hao!” sbuffò Rukawa, attento alle reazioni dell’altro.

Forse, aveva esagerato.

Per un momento, infatti, Hanamichi era impallidito di colpo.

“Credevo…” incominciò il numero dieci senza tuttavia riuscire a completare la frase.

Credevo fosse quella di mia madre.

Questo avrebbe voluto dire, ma non ci riuscì.

Non aveva importanza, però, visto che Rukawa sembrò capirlo comunque.

“Ti decidi a farmi vedere come si usa, do’hao?” chiese, infatti, l’altro spezzando così quel momento parecchio imbarazzante per Hanamichi.

“Fai largo al Tensai, kitsune!” ritrovò, infatti, la sua allegria il numero dieci e Rukawa, dentro di sé, tirò un sospiro di sollievo.

Alla fine, non era andata così male.

Era vero che voleva fare una sorpresa all’altro però anche così andava bene.

Hanamichi sembrava aver riacquistato il suo buon umore e, considerato che la convivenza sarebbe stata tutt’altro che facile, Rukawa non poté fare altro che unirsi all’altro nell’allegria e farsi contagiare nella risata allegra del suo personale uragano rosso.
 

***
 

“Ti fermi un attimo?” domandò Sendoh al limite della sopportazione, afferrando al volo il braccio di Yohei.

“Sto lavorando, se non te ne sei accorto” rispose piccato l’altro.

“Cinque minuti di pausa non faranno certo chiudere il locale” non si perse d’animo il giocatore e
Yohei, a quell’ennesima richiesta, sembrò cedere.

Sendoh lo osservò sedersi notando le occhiaie palesi sul volto dell’altro.

Mito aveva, infatti, preso il posto di Hanamichi in quel locale o almeno questo era riuscito ad afferrare visto che in quei giorni vedere l’altro era utopia.

E, sempre come Sendoh aveva capito, sostituiva Sakuragi non solo negli orari serali ma anche in quelli pomeridiani.

Inoltre, Mito non aveva detto più di tre parole da quando avevano lasciato casa di Rukawa e fin lì nulla di strano.

Il problema era che erano usciti da quella casa dopo mezzogiorno e adesso erano le undici di sera passate.

Lui aveva insistito nello stare con Yohei, quindi avevano pranzato insieme in un bar e poi Mito aveva attaccato con il suo turno alle tre del pomeriggio chiedendo anche un turno extra nella serata.

Era preoccupato, Sendoh lo aveva capito subito.

Preoccupato perché non poteva essere lui stesso a occuparsi di Sakuragi, questo era il motivo
principale e il giocatore sapeva che avrebbe dovuto farci i conti.

“Sei stanco!” disse, per spezzare quel silenzio così carico di tensione e soprattutto per sentire la voce di Mito.

“Naaa… cosa vuoi che sia” minimizzò Yohei e Sendoh, a quella risposta, sbottò.

“Già, che vuoi che sia lavorare per ore quando potresti fare molti più soldi e in molto meno tempo con una matita in mano”.

“Ne abbiamo già parlato” indurì il tono Yohei.

“Veramente, ne hai parlato tu, da solo!” lo corresse Sendoh.

“Forse perché sono affari miei” si alzò Yohei, decidendo di porre fine alla conversazione.

“Ma sì, quando una cosa non ti sta bene, ti alzi e te e vai” si alzò a sua volta Sendoh fornteggiandolo in tutto il suo metro e novanta.

“Perché non ti decidi a parlare, o almeno a provarci?” domandò poi, addolcendo il tono.

“Di cosa?” lo guardò l’altro.

“Di quello che provi!” gli chiarì Sendoh prendendogli la mano.

“Quando ti deciderai a parlarne, sai dove trovarmi” concluse, ben sapendo che da Mito, in quel momento, non avrebbe ottenuto nulla.

“Domani è sabato e i miei non ci sono” gli chiarì ancora Sendoh prima di avviarsi all’uscita.

Ora toccava a Mito decidere se fidarsi oppure no.
 

Continua…

Note:

Piccola precisazione:

In Giappone, per fare il caffè, si usa il bollitore.

Nei bar però è possibile avere un caffè che, come preparazione, assomiglia al nostro.

Nelle case invece è impossibile trovare una moka, anche se negli ultimi anni si sono diffusi gli acquisti online proprio di macchinette del caffè come la nostra.

Le destinazioni più comuni sono alcuni paesi dell’America; io, ai fini della storia, ho fatto finta che tra le destinazioni ci fosse anche il Giappone.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Nel frattempo, grazie a chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 3
*** capitolo 3. Condivisione ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
Capitolo 3. Condivisione
 

Hanamichi era steso sul letto della sua nuova camera con le braccia incrociate dietro la testa.

Guardò l’ora: erano le dieci di sera passate.

Il suo primo pensiero andò a Yohei.

Yohei che lavorava al posto suo al Cat’s Eye.

Considerando che aveva rilevato i suoi stessi turni, sicuramente a quell’ora stava ancora lavorando.

Quando Yohei glielo aveva detto, dopo essere arrivati a casa di Rukawa, Hanamichi aveva creduto di esplodere.

In quel momento, infatti, si era sentito come se gli avessero tolto tutto: la sua indipendenza, il suo lavoro e anche Yohei, visto l’alloggio che avevano deciso gli altri al posto suo.

Anche l’armata aveva evitato di farsi sentire in quei giorni e Hanamichi era esploso.

Le sue urla dovevano essere arrivate anche al piano inferiore.

Ma Mito, che lo conosceva come le sue tasche, aveva deciso di soprassedere lasciandolo sfogare e infine si erano abbracciati, segno che comunque non sarebbe cambiato nulla.

Tuttavia, in quel momento, alle dieci di sera passate, Hanamichi fu colpito da un pensiero abbastanza singolare: in tutta la giornata, solo in quel momento aveva pensato a Yohei e solo quando si era separato dalla kitsune per andare a dormire.

Si mise a sedere, un po’ confuso.

In effetti, la giornata era volata.

E lui, d’altra parte, aveva avuto un bel po’ d’affare nel cercare di stare dietro a Rukawa.

Rukawa che prima provava a preparargli il caffè, poi che proponeva un pranzo improbabile riuscendo a tirare fuori solo del riso bollito.

Poi ancora, che si piantava sul letto della sua stanza, con la scusa che Hanamichi andava tenuto d’occhio mentre sistemava la sua roba, altrimenti avrebbe potuto anche distruggergli la casa, e così via.

Rukawa, in effetti, non aveva fatto altro che palesare la sua presenza tutta la giornata impedendo al numero dieci di pensare.

Che l’abbia fatto apposta?

Fu questa la domanda di Hanamichi in quel momento.

La risposta, ovviamente, era sì.

Rukawa non aveva fatto altro che cercare di metterlo a suo agio; aveva anche detto che
l’indomani si sarebbe recato solo agli allenamenti, nel campetto vicino casa, senza andare a scuola, sempre per controllare la sua abitazione, questa era la scusa ufficiale.

Non che per Rukawa fosse un sacrificio così grande non recarsi a scuola, tuttavia, Hanamichi capì in quel momento che quando c’era Rukawa ogni cosa sembrava passare in secondo piano.

Il numero undici sembrava, infatti, conoscerlo a menadito, prevenendo tutti i suoi bisogni e anticipandoli.

Aveva addirittura fornito il suo bagno privato con le creme antiffiammatorie che necessitava, senza però proporsi per applicargliele.

E, anche questo, lo aveva fatto per lui ovviamente.

Conosceva il suo orgoglio e non aveva forzato la mano.

Hanamichi si intenerì a quel pensiero.

Fu per questo che si alzò, decidendo di ricambiare l’altro per tutte le gentilezze che gli aveva riservato.
 

***
 

Rukawa si rigirò nel letto per l’ennesima volta.

Chissà se Hanamichi si era ricordato di applicarsi la crema.

Il medico, e anche il fisioterapista, erano stati chiari: la schiena, seppur guarita, necessitava comunque di creme e massaggi.

Inoltre, anche se il trauma si era riassorbito, Hanamichi avrebbe comunque dovuto evitare di sovraccaricare la zona, non sforzandosi con pesi e movimenti inutili.

Ma come diamine avrebbe fatto a massaggiarsi da solo?!

Questa era la domanda di Rukawa che, per la prima volta in quei giorni, si chiese se effettivamente quella convivenza fosse stata la scelta giusta.

Sicuramente, Mito non avrebbe avuto problemi ad applicargli le creme.

Anzi, in realtà, Hanamichi non avrebbe avuto problemi a farsele applicare da Mito.

Però Rukawa, conoscendo la situazione già di per se complicata, aveva preferito omettere questa cosa e fare semplicemente presente al numero dieci che tutto quello di cui necessitava era in bagno.

Ora, colmo dei colmi, non riusciva nemmeno a prendere sonno.

La giornata era volata, o comunque a lui era sembrato così.

Lui aveva cercato di stare vicino il più possibile al numero dieci senza però fargli capire in alcun modo che lo stesse controllando.

Ci sarebbe mancato solo quello!

Rukawa aveva, infatti, ancora ben presenti le urla che erano giunte in salotto quando Mito aveva comunicato a Hanamichi che non avrebbe più lavorato.

In quel momento, lui e Sendoh (che si era praticamente autoinvitato, imponendo la sua presenza) si erano guardati perplessi, indecisi se intervenire o meno.

Poi, avevano rinunciato; in fondo, Mito era l’unico che poteva uscire vivo da quella stanza con il numero dieci di quell’umore.

Poi, erano andati via e la giornata, in un modo o in un altro, era passata.

Rukawa sapeva che era presto e che il numero dieci aveva bisogno di tempo per adattarsi.

Era uno spirito libero, proprio come lui.

Era indipendente, proprio come lui.

Ora, la cosa che però avrebbe dovuto capire era che non perdeva la sua indipendenza, anzi, nessuno dei due la perdeva, in quella convivenza.

Però, Rukawa lo sapeva, ci sarebbe voluto un bel po’ tempo.

Per questo, decise di scacchiare i dubbi inutili e mettersi finalmente a dormire.

Stava per assopirsi quando sentì bussare alla sua camera.

Aprì di scatto gli occhi; solo una persona poteva essere fuori dalla sua porta.
 

***
 

Yohei saltò sul suo inseparabile motorino, mettendo in moto e dirigendosi verso casa.

Le parole di Sendoh, dopo l’uscita teatrale dal locale di quest’ultimo, continuavano a balenargli in testa.

Era vero, era preoccupato.

Ma, d’altro canto, non si era mai trovato in una situazione del genere, quindi poteva essere comprensibile.

La domanda però era: perché Sendoh ne faceva un caso di stato?

Aveva bisogno di abituarsi all’idea, tutto qui!

E poi, non era lui ad avere dei problemi né quello che andava assistito.

Era Hanamichi che era in difficoltà, quindi perché avrebbe dovuto essere lui, Yohei Mito, ad avere dei problemi?

Era solo preoccupato, tutto qui!

Ma la preoccupazione non era un motivo sufficiente per lamentarsi.

Eppure, secondo Akira (come Yohei lo chiamava talvolta nei suoi pensieri) avrebbe dovuto essere più aperto e parlare.
Di cosa, poi?

Yohei proprio non lo sapeva.

O meglio, lo aveva capito ma lo riteneva sciocco.

Inoltre, quell’assurda insinuazione sul suo lavoro.

Perché il giocatore insisteva su quel punto?

Sono fatti miei!

Si ostinò Yohei nella sua mente.

Però… se erano una coppia, non significava che erano fatti di entrambi?

Ma lui che diamine ne sapeva di come ci si comportava in una coppia?

E poi, erano questo o si frequentavano?

Oppure ancora, avevano una relazione?

Mah… in fondo, erano solo sinonimi di uno stesso significato, in pratica, due persone che decidono di condividere qualcosa.

Condivisione…

Quindi, si intendeva anche una condivisione delle preoccupazioni?

Questa era la domanda di Yohei.

E se queste preoccupazioni non erano altro che inutili film mentali?

Non era meglio tenersi tutto per sé ed evitare di fare l’idiota davanti all’altro?

Ancora una volta, Yohei non sapeva rispondersi.

Con uno scatto brusco, invertì la direzione del motorino.

Sapeva che era tardi, tuttavia, forse, poteva trovare le risposte che voleva.
 

***
 

Hanamichi entrò titubante.

Una cosa era dirlo, una cosa era farlo.

Questo era il suo pensiero mentre entrava in camera di Rukawa.

Notò le coperte sfatte, segno che forse la kitsune stava già dormendo.

Tuttavia, non era quello il momento di perdersi in dubbi inutili.

Vide che Rukawa lo guardava perplesso… forse era ancora addormentato.

“Sei sveglio, volpe?” gli domandò Hanamichi, più che altro per spezzare quel silenzio imbarazzante.

“Nh” fu la prevedibile risposta di Rukawa che gli riservò la sua migliore occhiata truce del suo repertorio.

Hanamichi se ne accorse e si irritò.

“Ehi, chi mi assicura che tu non sia sonnambulo?” gli strepitò contro.

“Volevo assicurarmi di non dovermi chiudere a chiave dentro!” s’imbronciò, sedendosi sul letto dell’altro a gambe incrociate.

“Do’hao” fu la prevedibile risposta del numero undici che, solo in quel momento, sembrò notare cos’aveva Hanamichi in mano.

Il numero dieci seguì la traiettoria dello sguardo dell’altro e arrossì leggermente.

“Nemmeno i Tensai riescono a massaggiarsi da soli tutta la schiena!” gli urlò contro arrossendo, stavolta, fino alla cima dei capelli.

“Nh” rispose Rukawa decidendo di soprassedere e chiedendosi perché l’altro dovesse sempre e comunque urlare.

“Stenditi” gli ordinò, strappandogli il tubetto di mano.

Hanamichi obbedì in silenzio, borbottando insulti come una pentola a pressione.

“Do’hao” lo insultò nuovamente Rukawa.

“Mi spieghi adesso che ho fatto, baka?” urlò ancora Hanamichi, poggiandosi su un gomito.

“La maglia, do’hao” gli fece notare Rukawa.

Come diamine sperava che gli applicasse la crema se non si toglieva la maglia?

“Ah… già” borbottò il numero dieci, sfilandosi la maglia e arrossendo ancora di più.

Rukawa osservò la schiena dell’altro sentendo i suoi battiti accelerare.

Calmo! Doveva stare calmo!

E soprattutto, doveva controllarsi!

Con decisione, salì cavalcioni sull’altro senza pesargli addosso e, dopo aver spalmato una buona dose di crema, fu con trepidazione che avvicinò le mani alla pelle dell’altro.

Tuttavia, nonostante quello che provava dentro di sé, nessuna incertezza manifestavano i suoi movimenti che erano dolci e decisi allo stesso tempo.

“È fredda!” si lamentò il numero dieci, appena la crema fu a contatto con la sua pelle.

“Fermo, do'hao!” lo richiamò Rukawa severo, iniziando a massaggiare.

“Non darmi ordini, baka kitsune!” gli strepitò contro il numero dieci, obbedendo tuttavia all’ordine e provando a stare fermo.

Non era mica cosa facile, con Rukawa su di lui che gli massaggiava la schiena.

Sono un Tensai! Si rassicurò mentalmente.

O comunque, ci provò, decidendo di chiudere gli occhi e provando a rilassarsi.

Rukawa se ne accorse e sospirò di sollievo dentro di sé.

Tutto si aspettava, quella sera, tranne che Hanamichi gli chiedesse di aiutarlo con la crema.

Era un gesto di poco conto, a un occhio esterno.

Era un gesto che significava tantissimo, ai suoi occhi.

Hanamichi che rinunciava a un po’ del suo orgoglio, anche per una cosa banale come quella.

Sicuramente, era stato a pensarci almeno venti minuti buoni, magari camminando avanti e indietro nella sua stanza.

Rukawa sorrise intenerito a quel pensiero, continuando a massaggiare e assaporando il contatto con la pelle dell’altro.

Era quanto più potesse sperare per quella giornata e non poteva che esserne lieto.

Hanamichi, nel frattempo, si beava del tocco di Rukawa desiderando che quel momento non finisse mai.

Le mani del numero undici erano veloci e sicure ma anche molto delicate.

Quando sentì che si spostavano sui fianchi, Hanamichi rabbrividì istantaneamente ma non per il freddo: quel contatto lo stava eccitando.

Da quando i suoi fianchi erano così sensibili?

Non lo sapeva; sapeva solamente che ne voleva di più, molto di più.

Fu per questo che, istintivamente, alzò leggermente il bacino, sperando che quel contatto non finisse.

Rukawa, d’altro canto, sembrò capirlo visto che continuò in carezze sempre più audaci.

Il numero undici fissava ipnotizzato la schiena di Hanamichi, prima i dorsali ben delineati, poi la muscolatura sviluppata delle spalle, per finire sui fianchi snelli e ben definiti.

Per questo le sue mani si erano spostate; non era riuscito a trattenersi.

Hanamichi, in un primo momento, era rabbrividito, poi aveva leggermente alzato il bacino in un tacito invito a continuare.

Fu per questo che Rukawa decise di avanzare in carezze sempre più audaci, muovendosi lentamente dai fianchi fino alla base della schiena, proprio sull’orlo del pigiama di Hanamichi.

Decise di procedere lentamente, senza fretta, continuando il movimento delle mani che aveva assunto cadenze ipnotiche.

Sfiorò l’orlo del pigiama di Hanamichi, muovendosi sempre di più verso il basso.

Il numero dieci sembrò gradire quel contatto visto il mugolio sommesso che non era riuscito a trattenere o che forse, non aveva voluto trattenere.

Rukawa lo sapeva; anche Hanamichi lo desiderava in pari misura e con la sua stessa intensità.

Fu per questo che continuò, deciso a far impazzire l’altro, proprio come l’altro, con la sua immobilità e il suo copro statuario, stava facendo impazzire lui.

Si abbassò lentamente, andando a baciare il collo di Sakuragi e annusando il profumo dei suoi capelli.

Sfiorò quella pelle con piccoli baci, mentre con le mani abbassava sempre di più il pigiama arrivando finalmente a sfiorare il fondoschiena dell’altro.

Quanto gli era mancato quel contatto?

Impossibile misurarlo.

E anche Hanamichi doveva pensarla allo stesso modo poiché portò una mano sulla testa di
Rukawa, invitandolo, con quel gesto, a continuare.

Continuarono così per un po’, in quella posizione, entrambi troppo eccitati e felici per interrompere quelle lente e audaci carezze.

Rukawa si beò a lungo della pelle di Hanamichi, Hanamichi assaporò le sensazioni che la bocca e le mani di Rukawa sapevano dargli.

Fino a che, entrambi, come per tacito accordo, fecero sfiorare le loro labbra.

Hanamichi si girò, deciso ad approfondire il bacio.

Rukawa lo accontentò, non desiderando niente di meno.

Le carezze divennero più audaci e i baci sempre più vogliosi.

Gli indumenti, in quel momento, erano solo una fastidiosa barriera che Rukawa badò a eliminare.

Senza fretta, sfilò il pigiama all’altro, mentre Sakuragi provvedeva a fare lo stesso con lui.

Quando i loro corpi nudi entrarono a contatto, a entrambi sembrò di impazzire per il piacere.

L’incendio sembrò divampare.

Tutta la tensione provata, tutta la paura, tutte le ansie e i dubbi, sembrarono svanire all’istante.

Entrambi con un solo desiderio: volevano di più, sempre di più.

“Ti amo… Kaede!” sussurrò Hanamichi sulle labbra dell’altro, ripetendo la stessa frase di mesi addietro.

“Anche io, Hanamichi” rispose con voce ancora più bassa il numero undici, prendendo la mano dell’altro e portandola dentro di se.

Lo voleva.

Lo voleva fino allo sfinimento.

Lo voleva prima di impazzire del tutto.

E Hanamichi lo accontentò.

Il resto fu solo un amarsi dolce e passionale.

Il resto fu solo una danza di corpi vecchia come il mondo.

Fu solo un ritrovarsi dopo tanto tempo; fu solo amore.
 

Continua…
 
Note:

Non ho molto da dire su questo capitolo.

Ho cercato di trattare l’introspezione di ogni personaggio considerata la situazione nuova che sia Hanamichi, sia Kaede, sia Yohei stanno vivendo.

Spero di aver fatto un buon lavoro e che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Nel frattempo, grazie a chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. Coppia: Diversità o Uguaglianza? ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
Capitolo 4. Coppia: diversità o uguaglianza?
 
Sendoh continuava a camminare avanti e dietro per la sua camera, misurandola a grandi falcate.

Era mezzanotte passata e l’indomani avrebbe avuto scuola ma di dormire non se ne parlava proprio.

Era nero; dannatamente nero!

Quella sera, con Yohei, era sbottato ma grazie tante.

Non si pentiva delle parole dette all’altro, solo che la rabbia rimaneva comunque.

Era tornato da poco più di un mese dal ritiro con la nazionale e aveva ripreso la scuola con regolarità.

Solo una cosa stonava: di Yohei neanche l’ombra.

Ricordava che, quando aveva messo piede a Kanagawa, era rientrato a casa con il cuore in gola.

La sua prestazione sportiva al ritiro era stata un successo e lui, dopo i saluti doverosi ai suoi genitori, si era immediatamente precipitato al telefono.

Il numero composto era stato, ovviamente, quello di Mito.

Gli aveva risposto una donna, la madre sicuramente, dicendogli che Yohei non era in casa.

Sendoh si era ripromesso allora di telefonare il giorno dopo, ma il copione era stato lo stesso.

Dopo la scuola e prima degli allenamenti, aveva allora deciso di recarsi al liceo Shohoku certo che avrebbe incontrato l’altro lì, ma era stato un buco nell’acqua; di Mito neanche l’ombra.

Eppure, l’altro doveva aver saputo del suo ritorno.

Non che si aspettasse petali di rosa sparsi sul pavimento della stazione ma che almeno si facesse vivo; e invece, Yohei sembrava essersi volatilizzato.

Così, aveva continuato a chiamare a casa sua nei giorni successivi fono a che la madre, forse per pietà, lo aveva informato che Mito lavorava, dandogli poi il nome del locale in cui poteva trovarlo.

Sendoh aveva riagganciato, storcendo il naso a quelle informazioni.

Che diamine ci faceva Yohei a servire i tavoli in un bar?

Poco importava, visto che lo avrebbe saputo a breve, direttamente dall’altro, dato che aveva deciso di raggiungere il locale.

E cos’aveva visto?

Yohei che andava e veniva fra i tavoli, e fin qui niente di strano.

Quello che però aveva colpito il giocatore, era stata la faccia dell’altro: stanca oltre ogni dire.

Si era arrabbiato, questo lo ricordava bene.

Perché diamine Mito si ostinava a lavorare, quando avrebbe potuto fare quello per cui era nato?

Ma Mito era stato chiaro, quando finalmente era riuscito a parlargli: erano fatti suoi, fatti dai quali il giocatore era escluso.

E Sendoh aveva chinato il capo, non arrendendosi ma riproponendosi comunque di ricacciare fuori l’argomento in tempi migliori.

Mito lo aveva aggiornato sulle condizioni di Sakuragi e sul fatto che sarebbe andato da Rukawa di lì a breve e Sendoh, pur non conoscendo i dettagli, aveva intuito al volo che quella sarebbe stata una bella gatta da pelare.

C’era anche una certa questione dell’affitto, su cui il numero dieci sarebbe dovuto essere aggiornato.

In sintesi, Akira aveva capito che non era proprio il momento per parlare a Yohei su come stesse gestendo il suo tempo e perché stesse lavorando.

Solo che quella sera non ci aveva visto più.

Il trasferimento di Sakuragi a casa di Rukawa non aveva tolto parte delle preoccupazioni dalle spalle di Mito ma anzi, sembrava averne aggiunte altre.

Yohei era preoccupato sull’aver fatto la scelta giusta e questo Sendoh lo capiva.

Quello che non capiva, era perché si ostinasse a fare finta di niente.

Erano una coppia, dannazione!

Ma lo siamo?

Si domandò Akira in un angolino della sua mente.

Certo che lo siamo!

Fu l’ovvia risposta successiva, carica di sicurezza.

Perché questo erano, anche se Yohei non sembrava molto ferrato in questi rapporti.

E lui aveva fatto bene, quella sera, a dargli una bella scrollata; sapeva che l’altro ci avrebbe pensato su.

Perché Mito era così: non si otteneva nulla da lui con la dolcezza; bisognava scuoterlo.

E Sendoh pensava di averlo fatto.

Un motore in lontananza, proveniente dalla strada, lo distolse dai suoi pensieri.

Si affacciò, certo di quello che avrebbe visto.

Non si stupì, infatti, di vedere, in lontananza, un motorino rosa allontanarsi.

Yohei doveva aver pensato alle sue parole e raggiunto casa sua istintivamente ma, essendo tardi, aveva preferito rimandare il confronto all’indomani.

Sì, Sendoh era sicuro che fosse questo, quello che Mito aveva pensato.

Quanto ti conosco, eh, Yohei? Si domandò mentalmente.

Rimarresti stupito! Pensò ancora, allontanandosi dalla finestra e decidendo di andare a dormire.

L’indomani, sarebbe stata una lunga giornata.
 

***
 

Rukawa osservava il volto di Hanamichi che dormiva placido, spalmato sul suo corpo.

Dopo l’amplesso, il numero dieci era crollato addormentandosi di colpo, segno di tutta la stanchezza e la tensione provata, e Rukawa aveva provveduto ad accendere la piccola lampada sul comodino.

E ora, mentre accarezzava lentamente i capelli dell’altro e avvertiva il suo corpo nudo su di se, non poteva fare a meno di sentirsi finalmente completo.

Quanto aveva desiderato dormire abbracciato a Hanamichi dopo un momento di passione?

Quanto aveva desiderato poter condividere con lui la sua quotidianità?

Domande inutili… Rukawa sapeva di aver sempre desiderato l’altro anche agli albori della loro conoscenza.

E ora, finalmente, tutto questo si era avverato; si stava avverando.

Perché sarebbe stato compito suo continuare a coltivare quella storia e sorreggere l’altro in un momento così difficile della sua vita.

Gli argomenti spinosi, come l’indipendenza economica del numero dieci o la mancata presenza del suo unico parente orientale, non erano ancora stati toccati, ma Rukawa non aveva fretta.

Tutto a suo tempo! Pensò, annusando i capelli dell’altro e chiudendo gli occhi.

Il battito del cuore di Hanamichi era regolare sulla sua pelle e Rukawa, rassicurato dalla presenza dell’altro, decise di lasciarsi andare a quel rumore ritmico e rassicurante.

Decise di assaporare tutte le sensazioni, momento per momento, vivendo quell’istante di quiete senza pensare ad altro.

Perché niente e nessuno avrebbe distrutto quello che loro stavano costruendo.

Ci avrebbe pensato lui a fare in modo che le cose andassero così, o non si sarebbe chiamato Kaede Rukawa.
 

***
 

Yohei entrò piano, cercando di fare il meno rumore possibile.

Era stato almeno venti minuti fuori casa di Sendoh, a guardare la finestra della camera da letto del giocatore.

Quando era uscito dal locale, aveva sentito il bisogno di vederlo, forse per trovare le risposte che cercava.

Poi, rendendosi conto dell’orario, aveva costatato che non era il caso di presentarsi a casa dell’altro a quell’ora, visto e considerato che comunque il giocatore viveva con i suoi genitori e che non aveva uno stile di vita disordinato come il suo.

Una persona normale, questo era.

Di certo, non aveva una madre che chiudeva un occhio sugli orari improponibili del figlio e che scrollava le spalle quando un voto era troppo brutto.

Di certo, non aveva una madre che permetteva a suo figlio di lavorare senza discutere o che gli parlava da adulto quando i conti non quadravano.

Non che Yohei si lamentasse; voleva un bene dell’anima a sua madre e sapeva quanto la donna avesse sofferto.

Per questo Yohei, per quanto potesse sembrare che all’esterno facesse una vita scapestrata, cercava di dare il meno preoccupazioni possibili alla donna.

Solo che, in quei casi (avere una relazione con un proprio coetaneo, ad esempio) si vedevano le differenze sullo stile di vita.

E forse, a Yohei questo pesava un po’.

D’altro canto, sua madre aveva sempre saputo di avere un figlio maturo e a volte si rapportava a lui come a un adulto.

Avevano sempre condiviso tutti i problemi della casa, che fossero bollette o lavori domestici, e Mito non poteva che essere lieto di questo.

Solo che, a volte, e quella era una di quelle volte, si rendeva conto di come lui fosse diverso.

Come lui e Hanamichi fossero diversi.

Al suo migliore amico era andata bene; Rukawa viveva praticamente da solo e in passato non aveva esitato a recarsi a casa del numero undici a notte fonda.

Per lui invece non era così; Sendoh aveva dei genitori presenti e Yohei se ne era reso conto in quel momento quando, fuori dall’abitazione di quest’ultimo, si era domandato cosa diamine ci facesse lì.

Aveva osservato un po’ la camera del giocatore, vedendo la sua ombra che passeggiava avanti e indietro per la stanza, poi aveva deciso di tornare a casa.

Qualunque cosa avesse in mente, ci avrebbe pensato il giorno dopo.

Solo un grosso dubbio nella sua testa: poteva effettivamente funzionare tra loro, con tutte queste diversità evidenti?
 

***
 

Hanamichi aprì gli occhi lentamente, aspirando il profumo della pelle di Rukawa.

Ha un buon odore!

Fu questo il primo, e forse incoerente, pensiero mentre il sonno lo abbandonava pian piano.

Si mosse piano, attento a non svegliare l’altro, costatando che fuori era già mattina.

Un’occhiata veloce alla sveglia sul comodino gli confermò che erano le sette passate.

Non aveva perso la sua abitudine di svegliarsi presto a quanto pareva; anni passati tra lavoro e scuola lo avevano abituato ad alzarsi di buon ora.

Negli ultimi mesi poi, con il suo trasferimento e l’inizio del liceo, il tempo per dormire era stato veramente poco.

Eppure, nonostante fosse presto, si sentiva riposato come non mai.

Osservò il volto di Rukawa dormire placido, e i ricordi della sera prima iniziarono a scorrere nella sua testa, come un film a rallentatore.

D’altro canto, avrebbe dovuto mettere in conto che, prima o poi, né lui né Rukawa avrebbero saputo resistere all’altro.

Avevano passato tutta la giornata cercando entrambi quale fosse il modo migliore per impostare quella convivenza poi, la sera, nessuno dei due aveva saputo trattenere la passione, ma andava bene così.

C’erano molte cose da fare, nuove cose da organizzare; primo fra tutti, il ritorno a scuola.

Hanamichi doveva assolutamente riprendere il suo posto in squadra e recuperare il tempo perso, sia a livello sportivo che a livello accademico.

Tuttavia, per il momento, la prima cosa da fare era alzarsi dal letto, visto che Rukawa avrebbe continuato a ronfare per un bel po’, e preparare la colazione.

Riuscì, dopo alcuni sforzi, a staccarsi dalle braccia di Rukawa che lo avevano letteralmente arpionato e si diresse in bagno.

Dopo la doccia, aveva in mente una sorpresa niente male per la kitsune.
 

***
 

Rukawa si rigirò un paio di volte nel sonno, prima di svegliarsi del tutto.

C’era qualcosa che non andava.

Qualcuno, per l’appunto.

Qualcuno che mancava nel suo letto, a essere precisi.

Si alzò, vedendo che erano le nove passate; dove diamine era il do’hao?

E perché non lo aveva svegliato?

Si diresse in bagno per darsi una rinfrescata veloce, prima di andare da Hanamichi.

Sulla sua pelle, sentiva ancora il calore del corpo dell’altro che aveva dormito sul suo torace tutta la notte.

Sì abbandonò al getto d’acqua, richiamando alla mente le sensazioni della sera prima e domandandosi come avesse fatto a resistere tutta la giornata.

Inoltre, non gli sarebbe dispiaciuto svegliarsi con il do’hao e rimanere ancora un po’ a letto con lui.

Ma, evidentemente, Hanamichi aveva altri progetti.

Vorrà dire che si farà perdonare!

Questo era il pensiero di Rukawa mentre si rivestiva per uscire dalla sua camera.

Passò davanti alla stanza di Hanamichi, trovandola vuota.

Si diresse svelto in salotto, fino a che dei rumori provenienti dalla cucina attirarono la sua attenzione.

Aprì la porta scorrevole e rimase di stucco nel guardare all’interno della stanza.

L’isola era apparecchiata per fare colazione.

Al centro c’era un – cosa diamine era quello? – coso più o meno marrone, dall’odore invitante e del caffè fumante.

Quello che però colpiva era l’aroma sparso per tutta la stanza, che stuzzicava le narici e invogliava a mettersi a tavola.

Hanamichi intanto, accortosi della sua presenza, si voltò riservandogli uno dei suoi migliori sorrisi e Rukawa credette che non potesse esserci niente di più bello.

“Visto che Tensai, kitsune?” domandò allegro il numero dieci.

“Ho calcolato alla perfezione i tempi del tuo risveglio!” continuò a blaterare, mentre trafficava con i piatti.

“Per fare cosa?” domandò Rukawa, ancora mezzo addormentato.

“Per cucinare questo!” gli sorrise raggiante Hanamichi, indicando il coso sul tavolo.

Rukawa si avvicinò annusando e avendo la conferma che, qualunque cosa fosse, aveva veramente un buon odore.

Si sedette fiducioso, certo che non se ne sarebbe pentito.

Anche il giorno prima, quando aveva assaggiato il caffè, ne aveva apprezzato sia il sapore sia l’odore.

Certo, era molto più intenso rispetto a quello solubile, ma non per questo meno buono.

Hanamichi lo aveva guardato sorpreso, aspettandosi, come poi gli aveva raccontato, la stessa espressione disgustata di Mito.

Poi gli aveva sorriso raggiante e Rukawa aveva pensato che anche se non avesse realmente apprezzato la bevanda, avrebbe mentito volentieri pur di vedere ancora quel sorriso.

“Cosa dovrebbe essere?” domandò con noncuranza, in attesa che Hanamichi gli spiegasse meglio.

“Scones” gli rispose il numero dieci, sedendosi a sua volta.

“Eh?” si accigliò l’altro.

“Si chiamano Scones e sono delle focacce tipiche scozzesi” gli spiegò raggiante Hanamichi.

“Mia madre le adorava e le preparava ogni domenica” aggiunse poi in un sussurro e Rukawa annuì.

“Anche mio padre le adorava, così ho pensato che anche un palato esclusivamente orientale potesse apprezzarle” gli chiarì ancora, spiegandogli il motivo della sua scelta.

“Come sono fatte?” s’informò Rukawa, afferrando le bacchette da uno dei mobili.

“Eh no, kitsune” lo fermò Hanamichi.

“Solo tovaglioli. Non credo siano pratiche da mangiare con le bacchette!” gli chiarì ancora, afferrando una parte di focaccia e iniziando a mangiare.

Rukawa lo imitò e, ancora una volta, rimase sorpreso; quelle cose erano davvero buone.

Hanamichi si accorse della sua espressione e rise allegramente.

“Ah, ah, ah, sono un Tensai” riempì la stanza con la sua voce assordante.

“Sapevo che ti sarebbero piaciute!”.

“Nh” mugugnò Rukawa, certo che se gli avesse dato ragione, l’altro avrebbe continuato a vantarsene per tutto il giorno.

“Anche se manca un ingrediente!” precisò il numero dieci con una punta di rammarico.

“Cioè?” chiese Rukawa dubbioso.

“Manca l’uvetta” sospirò.

“Provvederemo!” lo rassicurò Rukawa, continuando a mangiare.

Come aveva previsto, Hanamichi non lo avrebbe mai stufato, neanche in cent’anni.

Si versò del caffè, osservando l’altro mentre si ingozzava senza cerimonie, e ribadì a se stesso quello che si era già ripromesso la sera precedente: niente e nessuno avrebbe intaccato quel legame.

Hanamichi gli aveva cucinato qualcosa che preparava sua madre e anche se non gli fosse piaciuto il sapore (cosa comunque non verificatasi), avrebbe comunque apprezzato il gesto, capendone il significato.

Tempo addietro, a casa di Hanamichi (o catapecchia, come la si voleva chiamare) aveva promesso all’altro che lo avrebbe accettato in tutte le sue diversità.

Hanamichi accettava quello che provava e Rukawa accettava le stranezze dell’altro, anche se per lui erano proprio quelle cose che rendevano speciale il numero dieci ai suoi occhi.

Quella mattina, Hanamichi stava mantenendo fede alla sua promessa; e Rukawa non avrebbe potuto fare a meno di mantenere la sua, neanche se avesse voluto.

Perché loro erano una coppia, e lo sarebbero stati qualunque cosa fosse successa.
 
Continua...

Note:

Gli scones sono delle focacce tipiche scozzesi a base di farina di grano tenero, uova, zucchero, burro e uvetta.

La preparazione è abbastanza semplice e gli ingredienti sono comuni tuttavia, ho pensato che l’uvetta non fosse proprio un ingrediente sempre presente in casa, ecco perché Hanamichi specifica poi che manca un ingrediente.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Come sempre, attendo i vostri commenti.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. Amicizia e amore ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
Capitolo 5. Amicizia e amore
 
Sendoh uscì da scuola, avviandosi direttamente a casa.

Inutile passare allo Shohoku… Yohei non sarebbe stato lì.

Per tutta la mattinata, non aveva concluso quasi nulla e la sua soglia di attenzione era ridotta ai minimi storici.

Per fortuna, quella giornata non c’erano gli allenamenti; si sarebbe comunque scaricato nel pomeriggio facendo qualche tiro al campetto, ma comunque non se la sentiva di interagire con la squadra.

Era il capitano e avrebbe dovuto dare il massimo; Yohei stesso non avrebbe accettato un calo della sua forma.

E Sendoh non osava immaginare quella sera (ipoteticamente riuscissero a vedersi) che reazione avrebbe scatenato in Yohei la notizia che gli allenamenti non erano stati il massimo.

Sendoh non aveva dimenticato, infatti, quanto l’altro fosse suscettibile sull’argomento e visto che non erano proprio in un clima tranquillo, era meglio evitare.

Anche se, questa comunque era una delle tante cose da affrontare; Yohei non poteva stare con lui pretendendo che la sua forma fosse sempre smagliante e, in caso contrario, farne un problema di stato.

D’altro canto, anche prima della comparsa di Yohei, Sendoh, pur essendo un campione, aveva avuto delle giornate no, anche in alcune partite dove, non essendo l’avversario stimolante, lui dava meno di quanto gli altri si aspettassero.

Per non parlare poi dei suoi continui ritardi… insomma, il punto era che Mito non doveva addossarsi anche il peso della sua carriera.

Era lui il Sempai, in fondo.

Entrò in casa, dirigendosi direttamente nella sua stanza. Mito, come aveva previsto, non era fuori casa sua.

Eppure, la sera precedente, sapeva di non essersi sbagliato: era il motorino di Mito quello che si allontanava.

Chissà perché era venuto e chissà perché aveva poi deciso di andare via.

Forse per l’ora, ipotizzo il giocatore.

Non pensò nemmeno di chiamarlo a casa; d’altro canto, lui era stato chiaro: se Mito avesse voluto, avrebbe saputo dove trovarlo.
 

***
 

“Che ci fai qui?” domandò Yohei, guardando il suo migliore amico.

“Prendo un caffè?” rispose l’altro, con tono fintamente innocente.

“Dovresti stare a casa!” lo rimproverò Mito, decidendo di staccare per qualche minuto mentre si sedeva di fronte all’altro.

“Ti ricordo che non sono un invalido!” assottigliò lo sguardo Hanamichi.

“Già basta la kitsune, che oggi ha saltato anche scuola” borbottò, fumante di rabbia.

“Come va la convivenza?” domandò Yohei con un risolino.

“Bene, considerando che qualcuno” e marcò sulla parola, “lo ha istruito bene!”.

“Chissà chi” scrollò le spalle Mito, con aria dubbiosa.

“E comunque, sono io che devo tenerlo a bada!” s’imbronciò Hanamichi, incrociando le braccia.

“Addirittura?” s’informò Yohei, chiedendosi che cosa mai Rukawa avesse combinato per far reagire il suo migliore amico in quel modo.

“Sì, addirittura” rimarcò il concetto il numero dieci.

“Considerando che stava distruggendo l’isola in cucina cercando di macinare dei chicchi di caffè!” sospirò, portandosi le mani al volto.

“Che cosa?” chiese Yohei, non del tutto certo di aver sentito bene.

“Stava provando a macinarli con un batticarne!” s’infervorò ancora Hanamichi.

“Un batticarne!” ripeté Yohei certo, stavolta, di non aver sentito bene.

“Un batticarne!” gli rimarcò il concetto l’altro.

“Io non gli ho detto nulla del genere!” ci tenne a precisare Mito, portandosi le mani al mento con aria dubbiosa.

Quella notizia era, in un certo senso, scioccante.

Rukawa che distruggeva il mobilio cercando di macinare il caffè con un batticarne.

“Perché non mi hai chiamato?” non riuscì a trattenersi, mentre sul volto compariva una risata.

“Lasciamo stare! E comunque, lo so che tu non gli hai detto nulla del genere” sospirò Hanamichi.

“A meno che, non sia impazzito anche tu!” sbatté il pugno sul tavolo.

“Chissà dove cazzo si è documentato!” imprecò ancora il numero dieci.

“Forse non sono stato molto esauriente” lo consolò l’amico, cercando di trattenere le risate.

Non era il caso di ridere quando Hanamichi era di quell’umore; a meno che non volesse una testata!

“O forse la kitsune deve sempre strafare” aggiunse Hanamichi assottigliando gli occhi.

“Hai presente quanto ha speso in caffè?” domandò, continuando nelle sue imprecazioni.

“Suppongo sia una domanda retorica, visto che me lo dirai lo stesso!”.

“10.000 yen” aggiunse, infatti, Hanamichi un istante dopo.

“Ti sembra normale?” chiese ancora.

“Beh, cerca di metterti a tuo agio!” provò a farlo ragionare Mito.

“Spendendo una fortuna in caffè?” gli fece il verso l’altro.

“Dagli tempo per cercare di capirti meglio” gli consigliò ancora Yohei.

“Già” asserì Hanamichi ritornando serio.

“Stamattina gli ho preparato gli scones” rivelò all’altro, con un sorriso timido.

“E suppongo che abbia apprezzato” costatò Mito, sorridendo a sua volta.

“Ovvio” si elettrizzò Hanamichi.

“Sono un Tensai ai fornelli” esclamò, attirando l’attenzione di mezzo locale.

Mito sospirò, abituato ai continui cambi d’umore del suo migliore amico.

“Gli hai teso una mano per arrivare a te” disse ancora, capendo appieno il significato del gesto di Hanamichi.

“Hai fatto bene!” approvò, sentendosi più rilassato.

In fondo, era stato lui l’artefice di quella convivenza e non poteva che essere felice dei primi risultati.

“Già” annuì Hanamichi.

Che Mito capisse al volo il significato del suo gesto, non aveva dubbi.

La cosa che lo rendeva felice era però che, quella mattina, sembrava averlo compreso anche Rukawa.

Forse, quella convivenza non sarebbe stata così disastrosa come aveva temuto.

Quella mattina, mentre cucinava, si era sentito a suo agio, nonostante non conoscesse l’ambiente.

E Rukawa non aveva battuto ciglio nel vedere che qualcuno aveva monopolizzato i fornelli, ma anzi era sembrato più che felice di ciò.

Non restava altro da fare che vedere come sarebbero andate le cose.

“Lunedì torno a scuola!” disse ancora Hanamichi, cambiando improvvisamente argomento e sapendo che l’altro avrebbe intuito al volo.

“Credo che sia con Rukawa che tu debba parlarne, non con me” gli rispose, infatti, Mito che sembrava non aver perso la facoltà di leggergli nel pensiero.

Hanamichi lo guardò storto.

“Ne sto parlando con te, adesso!” si stizzì.

“E ne parlerai con Rukawa, stasera!” gli fece eco l’altro.

“Sei diventato irritante” non riuscì a trattenersi Hanamichi.

“E tu sei diventato confusionario” imitò, ancora una volta, il tono dell’altro.

“Visto che hai sbagliato persona” continuò Yohei, non scomponendosi minimamente.

“Il problema Haruko riguarda te e Rukawa, non te e me!” gli sorrise poggiando il volto sulle mani.

Hanamichi sbuffò, preferendo non rispondere.

Sapeva che Mito avrebbe capito al volo cosa intendeva, per questo aveva introdotto l’argomento in quel modo.

D’altro canto, sapeva pure che avrebbe dovuto parlarne con Rukawa.

Ma come fare se, appena nominava la ragazza, l’altro diventava glaciale?

E poi, non poteva mica mettere i manifesti per Kanagawa?

Però lei era sua amica!

“Non è detto che tu debba affrontarla proprio lunedì” gli fece notare, con tono ovvio, Yohei strappandolo ai suoi pensieri.

“Sai come la penso!” s’incaponì Hanamichi.

“Sì, lo so! Via il dente, via il dolore!” lo anticipò Mito, conoscendo bene l’impetuosità dell’altro.

“È per questo che adesso sei qui, no?” domandò ancora Yohei.

“Hai nominato Haruko e l’atmosfera tra te e Rukawa si è raggelata di colpo!” tirò le somme, pratico come sempre.

“Hai messo le telecamere a casa della kitsune?” indagò Hanamichi.

“No, ti conosco troppo bene” ghignò Yohei.

“È andato a fare due tiri!” lo informò Hanamichi, non specificando il soggetto.

“E tu sei venuto qui” completò per lui Mito.

“Sai come la penso!” aggiunse, ritornando serio.

“Non buttarti a capofitto nelle imprese con le tue idee malsane” lo riprese Mito.

“E allora che devo fare?” s’infervorò Hanamichi.

“Innanzitutto, evitare di sbandierare il tuo amore per lei all’intero continente” gli appuntò Mito.

“Sai che è questo, che a Rukawa da fastidio!” concluse, con tono ovvio.

“E poi, vedere come va?” chiese sarcastico Hanamichi, sapendo che quella sarebbe stata la successiva frase dell’altro.

“Esattamente!” assottigliò lo sguardo Mito, incrociando le braccia.

“E adesso, io me ne torno a lavoro” disse alzandosi.

“Sì, certo, servire birre è di fondamentale importanza!” esclamò Hanamichi con tono sarcastico.

“Sai benissimo che non ti ho rubato il lavoro” si voltò verso di lui Yohei.

“Tornerai appena starai meglio” concluse, con praticità.

“E tu sai che non è per questo che sono incazzato” si alzò a sua volta Hanamichi.

“Vuoi una testata?” domandò, guardando l’altro truce.

“Vorrei che tutti non parlassero di questo, facendone un caso di stato!” lo guardò a sua volta Mito, poggiando le mani sul tavolo.

“E l’altro chi è? Il porcospino?” ghignò Hanamichi.

“Bravo” approvò. “Sono d’accordo con lui!” incrociò le braccia, guardando il suo migliore amico con un sorriso soddisfatto.

“Sento che, dopo questo, diventeremo grandi amici. Di certo, ha il merito di averti riportato sulla retta via! Ah, ah, ah” gongolò ancora, con la sua migliore faccia da ebete.

“Beh, io non credo, visto che gli ho detto di farsi i fatti suoi!” lo riportò alla realtà Yohei.

“Tu cosa?” domandò Hanamichi, guardando l’altro allibito.

“Hai sentito benissimo!” sorrise pungente Yohei.

“E poi, tu vieni a dire a me di parlare con Rukawa?” lo accusò il numero dieci, puntandogli l’indice contro.

“Haruko è un problema fra te e lui. Il mio lavoro, sono fatti miei!” rimarcò il concetto Yohei.

“E voi siete una coppia, Yo” s’inalberò Hanamichi.

“Sì, certo!” gli diede ragione Mito.

“Ora devo proprio andare” concluse, voltandosi e ponendo fine alla conversazione.

Hanamichi lo fissò per qualche minuto prima di decidere di tornare a casa.

Se neanche il porcospino riusciva a far ragionare Yohei, chi mai avrebbe potuto farlo?

Chissà le cose tra di loro come andavano, si domandò Hanamichi pensieroso.

Mito, d’altronde, non aveva scucito nemmeno una parola a riguardo.

Sempre che vadano da qualche parte!

Rifletté Hanamichi, sospirando triste.

D’altro canto, adesso lui poteva fare poco per Yohei.

Mito era più cocciuto di lui, quando voleva.

Ritornò a casa, decidendo di affrontare Rukawa e sperando nel buon esito della serata, sia per lui sia per Yo.
 

***
 

Rukawa si mise in posizione di tiro centrando, alcuni istanti dopo, abilmente il canestro.

Per l’ennesima volta.

Oramai, aveva perso il conto dei tiri fatti.

Prima dei tiri, aveva perso il conto delle schiacciate.

E prima ancora delle schiacciate, aveva perso il conto dei tiri fatti sotto canestro.

Oramai, erano passate più di due ore da quando era al campetto.

Recuperando la palla per metterla nell’apposita sacca, decise che era venuto il momento di tornare a casa. Ripensò ai momenti di alcune ore prima.
 


“Lunedì torno a scuola!” aveva annunciato Sakuragi, servendosi del caffè avanzato.

Rukawa aveva osservato la bottiglietta in cui aveva riposto la bevanda, notando come fosse oramai vuota.

Ma quanti ne beve al giorno? Si era domandato con un cipiglio perplesso, non capendo il motivo di tanta foga nell’annuncio che il numero dieci aveva appena dato.

“Lunedì torno a scuola, kitsune!” l’aveva riportato alla realtà Hanamichi.

“E allora?” aveva domandato Rukawa, con un cipiglio scuro in volto.

“Lunedì torno a scuola!” aveva ripetuto Hanamichi per la terza volta, mentre Rukawa prendeva in seria considerazione l’idea di dargli un pugno.

“Nh!” aveva invece esclamato il numero undici, preferendo dare voce al suo monosillabo preferito.

“Non capisci?” aveva domandato Sakuragi, avvicinandosi a lui a passo di marcia e puntandogli l’indice contro.

Perché è sempre così teatrale?

Si era domandato allora Rukawa, che continuava a non capire.

“No, se non mi spieghi, do’aho!” aveva poi risposto, non rinunciando a dargli dell’idiota.

Insulto che, viste le ultime tre frasi dell’altro, mai come quella volta, calzava a pennello.

“Haruko” si era allora spazientito il numero dieci, portandosi le mani ai fianchi.

“Ah!” aveva esclamato semplicemente Rukawa.

Ecco! Ora capiva!

O meglio, capiva il perché della foga presente in quella conversazione.

Perché delle mosse del numero dieci, o delle sue idee strampalate, beh, di quello, Rukawa non ne aveva proprio idea.

“Appunto!” aveva esultato Hanamichi e Rukawa aveva assottigliato lo sguardo.

Con tutti i problemi che aveva, il primo era quell’insulsa ragazzina.

Forse, era stato per questo che poi si era incupito.

Hanamichi voleva parlare di Haruko… come se fosse quello il problema principale!

“E allora?” lo aveva fissato Rukawa, serio.

“È mia amica” si era incupito, a sua volta, Hanamichi.

“Fai come ti pare. Vado a fare due tiri” si era allora voltato Rukawa, raggiungendo la porta.

Hanamichi lo aveva fissato, senza però parlare.

E lui era uscito.
 


Ora però, mentre tornava a casa, si diede mentalmente dello stupido.

Hanamichi teneva alla ragazza ma lui, al pensiero che lunedì avrebbe assistito nuovamente ai suoi teatrini urlanti, non ci aveva visto più.

Lo aveva lasciato a casa, facendogli intendere di fare come meglio credesse.

Ma forse, Hanamichi voleva da lui un consiglio.

Forse voleva che fosse lui, Kaede Rukawa, a dirgli cosa fare.

In fondo, era con lui che ne aveva parlato.

E lui era stato un coglione ad andarsene in quel modo.

Hanamichi si stava sforzando di metterlo al primo posto, chiedendo a lui prima di tutti.

E lui che faceva? Si innervosiva e lo liquidava in quel modo.

Sapeva che per Hanamichi la ragazza era importante, anche se faticava ad accettarlo.

Ma non voleva metterlo a scelta.

Fu questo il suo pensiero, mentre entrava in casa.

Non si stupì di trovarla vuota. C’era solo un posto, dove Hanamichi poteva essere andato: di sicuro, aveva raggiunto Mito, in cerca di supporto.

Supporto che lui non aveva saputo dargli.

Afferrò una bottiglia dal frigo, osservando la tazzina di caffè, vuota, nel lavandino.

Segno della presenza di Hanamichi in quella casa.

In fondo, era lì che doveva tornare.

Fu questo il pensiero di Rukawa, che aveva tutta l’intenzione di rimediare al suo errore e risolvere il problema Haruko, una volta per tutte.
 

***
 

Sendoh correva verso casa.

Una lunga corsa gli aveva scaricato i nervi.

Ora, si sentiva nuovamente calmo e pronto ad affrontare il problema Yohei.

Non che si aspettasse di trovarlo fuori casa, infatti, ci avrebbe pensato lui ad andarlo a cercare.

Fu perciò sorpreso quando notò la figura che lo aspettava fuori dal cancello di casa sua.

Non si chiese come il nuovo venuto sapesse dove abitava.

Oramai, aveva capito fin troppo bene come funzionavano le cose fra i due.

Anche l’altro lo guardò, rivolgendogli un’occhiata enigmatica.

E Sendoh si avvicinò, pronto a sentire le novità.
 
Continua…
 

Note:
 

10.000 yen corrispondono circa a 100,00 euro.

Non ho molto da dire su questo capitolo.

Spero solo che vi piaccia come sto gestendo i personaggi e la loro introspezione.

Come sempre, attendo i vostri pareri.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. Due facce di una stessa moneta ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Anche se un po’ in ritardo, faccio a tutti voi gli auguri di Buona Pasqua.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
Capitolo 6. Due facce di una stessa moneta.
 
“Allora porcospino, non mi fai entrare?” domandò Hanamichi con la sua migliore faccia da sbruffone.

Akira, dopo il primo momento di sorpresa, non faticò a ritrovare il suo buon umore, rivolgendo un sorriso smagliante all’altro.

“Certo!” disse sicuro avviandosi verso l’entrata di casa sua, seguito da Hanamichi.

“Rukawa ti ha già buttato fuori?” chiese, per alleggerire un po’ l’atmosfera.

La faccia di Hanamichi non prevedeva nulla di buono, eppure Akira non avvertiva astio nei suoi confronti.

Il numero dieci sembrava piuttosto imbufalito con chissà chi, invece che con lui.

“Lasciamo stare!” rispose Hanamichi, entrando e sedendosi sul divano senza troppe cerimonie.

Akira lo guardò perplesso ma decise di soprassedere.

“Akira, sei tornato!”.

Una voce femminile lo riscosse dalle sue osservazioni.

“Ciao mamma, questo è Hanamichi, un mio amico!” non si perse d’animo il giocatore.

“Salve signora!” sì alzò in piedi Sakuragi, mascherando la sorpresa mentre chinava il capo per salutare la donna e ricordava le buone maniere.

“Ciao caro” lo salutò allegra, prima di rivolgersi al figlio.

“Io e tuo padre andiamo via tra poco, Akira! Mi raccomando, per qualunque cosa, chiama”.

“Sì mamma” sorrise gentile il figlio, ben sapendo che la lista di raccomandazioni era ancora lunga.

“Il cibo già pronto è tutto in frigo, devi solo scaldarlo al microonde. Non fare tardi la sera e non lasciare tutto in giro”.

“Non ti preoccupare mamma!” provò a rassicurarla questi.

“E invece mi preoccupo” non si arrese la donna.

“Ho sempre trovato la casa in ordine perché tu, all’ultima ora, decidi di pulire la discarica che combini” gli ricordò, portandosi le mani ai fianchi.

“Ops” ridacchiò Akira, grattandosi la nuca. “Sono stato scoperto” ammise con sincerità.

“Bene, cerchiamo di non ripetere ogni volta lo stesso copione, figlio adorato e ordinato” sorrise la donna con tono tagliente, marcando le ultime parole.

“Sì mamma” ripeté il giocatore.

“Noi andiamo in camera” e si avviò, facendo cenno all’altro di seguirlo.

Hanamichi, che per tutto quel tempo era rimasto in piedi, lo seguì senza fiatare.

Anche quando raggiunse la camera del numero sette, rimase in silenzio, perso nelle sue riflessioni.

“Allora” lo riscosse dalle sue riflessioni Akira, “di cosa volevi parlarmi?”.

“Chi ti dice che voglia parlarti di qualcosa, porcospino?” lo provocò Hanamichi, ritrovando la sua baldanza.

Sendoh sorrise allegramente, pronto alla risposta.

“Come hai detto tu in clinica, noi non abbiamo un rapporto di amicizia, quindi se sei qui, vuoi per forza dirmi qualcosa” gli ricordò con ovvietà.

Hanamichi ghignò, non aspettandosi niente di meno dal numero sette del Ryonan.

“Anche se non mi dispiacerebbe essere tuo amico” aggiunse il numero sette, lasciando trasparire sincerità dalla voce.

Hanamichi annuì perplesso, indeciso su come incominciare il discorso.

Il carattere aperto di Sendoh era un toccasana per un tipo così impetuoso come lui.

“Devi convincere Yo, porcospino!” disse allora, andando dritto al sodo.

“A disegnare, intendi!” completò per lui Akira, perdendo il sorriso e sedendosi sul letto.

Hanamichi annuì, sedendosi a terra di fronte a lui.

“E credi che io possa farlo, se non ci sei riuscito nemmeno tu?” diede voce ai suoi dubbi il numero sette.

“Puoi riuscirci proprio perché sei tu!” lo sorprese allora Hanamichi.

Akira lo guardò perplesso.

“Che intendi?”

“È difficile da spiegare” ammise il numero dieci indeciso.

“Provaci!”

“Beh… tu sei diverso!” esclamò Hanamichi.

“Eh?”.

“Ci stavo pensando prima” costatò Hanamichi, mentre Akira continuava a non seguirlo.

“Non capisco” ammise sinceramente.

“Tu sei più…” e fece una pausa per ricercare la parola adatta, “normale!”.

“Scusa?!” si accigliò il numero sette.

“Oh, insomma!” si alzò in piedi Hanamichi, gesticolando vistosamente.

“Ci ho pensato prima, quando è spuntata fuori tua madre!” sbottò, camminando per la stanza a grandi falcate.

“Mia madre?” gli chiese ancora il numero sette, che faticava a stargli dietro.

“Sai, quando sono entrato, avevo dato per scontato che abitassi da solo!” gli chiarì Hanamichi e Akira sembrò capire.

Sapeva poco del numero dieci, come sapeva poco di Yo, ma una cosa che riguardava entrambi l’aveva capita: l’assoluta indipendenza con cui vivevano.

Per questo, forse, erano più maturi.

“Per questo non ti sei tolto le scarpe?” gli chiese allegro.

Hanamichi lo fissò perplesso e poi fissò i suoi piedi.

“Cazzo!” mugugnò, sedendosi nuovamente a terra.

Akira ridacchiò.

“Non solo per questo!” si sentì in dovere di specificargli Hanamichi.

“Nell’ultimo anno, ho vissuto da solo” gli confidò e Akira lo invitò, con lo sguardo, a continuare.

In fondo era vero che voleva essere amico di Sakuragi e le amicizie, quelle più vere, si
costruivano proprio così; non perché entrambi decidevano di essere amici ma semplicemente perché tutti e due, entrando in contatto per avvenimenti esterni, poco alla volta, entravano in confidenza.

Per Yohei e Rukawa doveva essere andata così.

Per lui e Sakuragi sarebbe potuto avvenire lo stesso.

“Quindi, hai fatto un po’ come ti pareva, e lo stesso hai sempre fatto a casa di Mito!” concluse per lui Akira.

“Già!” ammise Sakuragi, sorridendo appena.

“Ma aggiungo che è una cosa che mi accomuna molto con mia madre!” gli rivelò il numero dieci e
Akira si fece attento.

“Non ha mai sopportato questa assurda abitudine, come diceva lei” e sorrise.

“Prima o poi, mi dirai di che nazionalità sei?” gli domandò Akira, ritrovando il sorriso.

“Poco alla volta, porcospino” esclamò Hanamichi baldanzoso.

“Sono il Tensai dei misteri, io! Ah, ah, ah!”.

“Comunque” aggiunse dopo un po’, ritornando serio, “a me è andata meglio, con Rukawa!”.

“Che vuoi dire?” s’informò Sendoh, facendosi attento.

“Beh, il padre non abita con lui” disse Hanamichi con semplicità, scrollando le spalle e Akira,
ancora una volta, comprese perfettamente cosa l’altro volesse dirgli.

“Stando con lui, non hai perso la tua indipendenza!” tirò le somme, il numero sette.

“È per questo che mi hai definito normale” continuò poi, spiegandosi le frasi di Sakuragi.

“Io vivo ancora in famiglia, come è normale per la mia età. Tu e Yohei, invece, siete da sempre abituati a gestirvi le cose a modo vostro” concluse, capendo anche un altro atteggiamento,
proprio riguardante Yohei.

“Per questo, forse, ieri sera, non è entrato da me!” sussurrò, più a se stesso che all’altro, stavolta.

“Che intendi?” s’informò Hanamichi.

“Ieri sera, mi è sembrato di scorgere il suo motorino allontanarsi da qui, mentre mi affacciavo per caso!” gli spiegò il numero sette.

“Se conosco Yohei come lo conosco, allora il motivo deve essere stato questo” tirò le somme Hanamichi.

“Ma non è per questo, comunque, che sono qui!” esclamò ancora il numero dieci.

“Yohei sa essere irritante, quando vuole” continuò, assomigliando molto a un toro che si apprestava a caricare.

“Ed io non lo sopporto quando si ostina così” aggiunse.

“Quindi, è con lui che sei arrabbiato?” s’informò Akira ridacchiando.

“Mi fa imbestialire!” aggiunse con più impeto il numero dieci.

“Senti, lo so che ti ha mandato al diavolo, quando hai provato a farlo ragionare” disse ancora.

“Ma non ti devi arrendere!” s’infervorò, guardandolo con gli occhi carichi di apprensione.

Akira osservò quegli occhi, costatando come Hanamichi non si premurasse di nascondere nessuna delle sensazioni che provava.

Ci teneva a Yohei, questo gli dicevano quegli occhi.

Fu per questo che lo rassicurò.

“Non ne avevo nessuna intenzione!” esclamò deciso, guardandolo negli occhi.

Hanamichi gli sorrise di rimando e si alzò.

“Bene! Allora io vado o la kitsune distrugge la cucina! Ah, ah, ah” ritrovò il suo buon umore.

“Eh?” domandò Akira divertito.

“Lasciamo stare” rispose l’altro, facendogli cenno con la mano di lasciar perdere.

Akira sorrise e lo accompagnò alla porta.

Lo guardò allontanarsi mentre fischiettava, con le mani in tasca e la sua solita andatura baldanzosa.

A breve, i suoi genitori sarebbero andati via.

E lui aveva una questione urgente da risolvere.
 

***
 

Hanamichi fischiettava allegro, dirigendosi deciso verso la casa della kitsune.

O forse, casa mia? Si domandò poi nella sua mente.

Non lo sapeva ancora; quello che però sapeva con certezza, era che Sendoh fosse davvero la persona giusta per Yo.

Aveva visto una luce decisa nei suoi occhi e questo era bastato.

Sorrise, al pensiero che Yo aveva una bella gatta da pelare con il numero sette alle calcagna.

Eppure, non si conoscevano da molto.

Come poteva essere Sendoh così preso da Yohei?

Se lo era domandato in passato e continuava a domandarselo nel presente.

Forse, questo non ha importanza, si rispose poi da solo.

In fondo, lui, la prima volta che aveva visto Rukawa, non se ne era sentito subito attratto?

L’amore era così; poco importavano le differenze, poco contavano i caratteri delle persone in questione.

Era come una calamita: ci si sentiva attratti dalla persona, senza avere scampo, nonostante il carattere opposto.

Lui aveva sempre provato questo per Rukawa.

Quando si interrogava in maniera razionale, ecco che spuntavano tutti i difetti della kitsune: taciturno, asociale, eccetera, eccetera.

Quando però pensava al suo volto, lasciando da parte la ragione, ecco che tutti i difetti di Rukawa diventavano improvvisamente pregi.

Non l’avrebbe voluto diverso; non l’avrebbe voluto allegro e ciarliero.

In quei momenti, si rendeva conto che voleva il silenzio dell’altro, il suo essere ombroso e scostante.

Amava persino la sua espressione perennemente imbronciata.

Forse era proprio questo l’amore, o almeno, una delle tante facce del sentimento.

Non contavano le differenze sociali, né l’età, né i caratteri opposti.

Rukawa era la sua metà; questo lo aveva capito, anche se aveva faticato ad ammetterlo.

Per Yohei e Sendoh era la stessa cosa.

Avrebbero potuto ferirsi, allontanarsi e farsi male a vicenda, ma nessuno dei due avrebbe avuto scampo: sarebbero sempre stati, irrimediabilmente, attratti l’uno d’all’altra.

Perché erano complementari; perché si amavano.

E ora, lui doveva tornare dalla kitsune.

Si rendeva conto che era con Rukawa che doveva affrontare il problema Haruko.

Che poi, forse non era neanche un problema vero e proprio.

Con tutte le cose che ho da pensare! Sospirò mentalmente.

Quel pensiero lo colpì.

Forse era per questo che Rukawa si era tanto infastidito.

Non tanto per Haruko, ma per la sua insistenza nel voler affrontare subito la questione, lasciando da parte tutti gli altri problemi.

Sì, doveva parlarne con Rukawa.

E dovevano affrontare l’argomento da persone mature: Rukawa, senza eclissarsi nei suoi
silenzi, e lui, Hanamichi Sakuragi, senza rifugiarsi nelle sue pagliacciate.

Dovevano parlare.

E dovevano farlo subito!

Fu questo il pensiero che gli fece accelerare il passo verso casa.

Yohei era in buone mani e lui ora doveva affrontare Rukawa.
 

***
 

“Sì, certo!” disse Akira, parlando a telefono.

“Può riferirgli un messaggio?” chiese sorridendo, rivolgendosi alla donna all’altro capo del telefono.

“Gli dica che quando ha finito di lavorare, dovrebbe passare da me. Ho una cosa urgente da
dirgli” concluse, aspettando la risposta affermativa della donna.

“Grazie!” la salutò, per poi riattaccare.

Nel momento esatto in cui posò il telefono, il sorriso scomparve dal suo volto.

Aveva urgente bisogno di parlare con Yohei; troppe volte aveva rimandato, pensando che l’altro fosse troppo stanco o troppo indaffarato, o entrambi.

Beh, ora invece, era venuto il momento di affrontare tutte le questioni: una dopo l’altra.
 

***

La donna posò il telefono, con un’espressione perplessa in volto.

Guardò il foglio, dove aveva segnato il nome del ragazzo con cui aveva parlato.

Akira Sendoh.

Chi era?

Un mese addietro all’incirca, questo stesso ragazzo aveva chiamato per molti giorni e lei, dopo un po’, gli aveva detto dove poteva trovare Yohei.

Poi, le telefonate erano scomparse, ma lei aveva riconosciuto la voce.

Si sedette in cucina, pensierosa.

Aveva capito, dall’urgenza della voce del ragazzo, che doveva tenerci molto a Yohei.

Eppure, lei, in passato, non aveva mai sentito un nome del genere.

Suo figlio non aveva mai avuto nessun’altra frequentazione, se non Hanamichi e il Guntai.

Però, sapeva di non sbagliarsi: quel ragazzo aveva l’urgenza della voce tipica degli innamorati.

Nessuno poteva ingannarla in quel settore, pensò con un sorriso triste.

Lei che, nella sua gioventù, negli anni dell’università per la precisione, non aveva fatto altro che disegnare e scrivere, scrivere e disegnare.

Le sue trame preferite: complicate e tormentate storie d’amore.

Anche se aveva rinunciato alla sua carriera, sfruttando poi la sua laurea per fare l’insegnante, non poteva ingannarsi sulla voce di quel ragazzo.

Né poteva ingannarsi sugli sguardi e atteggiamenti del figlio.

Unì le mani, potandole sotto il mento.

Yohei doveva aver conosciuto qualcuno, in estate.

Qualcuno che non si era fatto allontanare dal suo atteggiamento scostante.

Qualcuno che si era innamorato di lui.

Un ragazzo, sorrise.

In fondo, lei non ci trovava nulla di male.

Non a caso, sapeva dove risiedeva adesso Hanamichi.

E no! Non ci trovava nulla di male.

Chi era lei per giudicare un amore, quando non era riuscita a portare avanti l’unica storia che le fosse mai interessata?

Chi era lei per giudicare un amore, definendolo normale o no, quando aveva sulle sue spalle il fallimento della sua vita?

Amava suo figlio, ma si era sempre resa conto del suo carattere freddo.

Della sua maturità, troppo grande per l’età che lo caratterizzava.

E lei non poteva fare nulla, se non continuare ad amarlo incondizionatamente.

Lo stesso valeva per Hanamichi.

Mai, in quegli anni lo aveva visto realmente felice.

Ora invece, lo era.

Accanto a qualcuno.

Accanto a un ragazzo.

E chi era lei per giudicare?

Nessuno.

Si meritava di essere felice, si meritava di essere amato.

Proprio come suo figlio.

Perché non era troppo tardi.

Fu questo il pensiero che l’accompagnò alla porta.

Non prima però di aver recuperato un indirizzo.

Sapeva cosa fare: doveva occuparsi di suo figlio.

Per la prima volta, in quegli anni, si sarebbe intromessa in faccende che riguardavano Yohei, che
lo toccavano personalmente.

Si sarebbe intromessa nei suoi rapporti privati, ma non aveva importanza.

Lei era una madre, e come tale era venuto il momento di comportarsi.
 

Continua…

Note:
 

In questo capitolo, entra in scena la madre di Yohei come personaggio attivo della storia.

Spero che non vi siate annoiati, dato che non succede quasi nulla tra i personaggi.

Ho preferito analizzare la crescita dei protagonisti, passo dopo passo, e cominciare a costruire l’amicizia tra Hanamichi e Yohei.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.

Come sempre, attendo i vostri commenti.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. Madri e figli ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
Capitolo 7. Madri e figli
 
Rukawa andò ad aprire la porta aspettando di trovarsi, finalmente, faccia a faccia con il suo do’hao.

Rimase perciò sorpreso quando posò lo sguardo sulla donna che sorrideva.

La mamma di Mito.

Che cosa poteva mai volere da lui?

Anzi… sicuramente cercava Hanamichi.

“Prego” si ricordò le buone maniere, scansandosi per far entrare la donna.

Questa fece un inchino con il capo e si accomodò in salotto, dopo essersi tolta le scarpe all’ingresso.

Hanamichi non l’ha fatto, quando è entrato qui ieri.

Fu questo il fugace pensiero di Rukawa, mentre osservava la donna che entrava.

Ora che ci pensava, Hanamichi non l’aveva mai fatto neanche in passato.

Una delle sue tante abitudini, che lo rendevano così speciale ai suoi occhi.

“Il do’h – Hanamichi non è qui!” esclamò alla donna che annuì sorridente.

“Posso offrirle del the, nell’attesa?” sì sentì in dovere di dire Rukawa.

“Oh, non disturbarti, caro!” rispose la madre di Mito.

“Come sta Hanamichi?” domandò poi.

“È una roccia!” affermò Rukawa con orgoglio.

“Sì, lo è” affermò la donna.

“Sono felice che abbia te!” esclamò ancora, con un sorriso benevolo.

“Posso chiederle perché è qui?” domandò Rukawa, cercando di essere il più cortese possibile.

Non era detto, infatti, che la venuta della madre di Mito in casa sua avrebbe portato buone notizie.

Anzi… il numero undici era sicuro che quella non fosse una visita di cortesia.

Vide la donna titubare e capì di aver fatto centro.

Si accomodò di fronte a lei, aspettando che si decidesse a parlare.

“Riguarda lo zio?” domandò poi a bruciapelo, fregandosene di essere stato così diretto.

Non gli piacevano le persone che prendevano tempo.

Se poi, queste persone dovevano dirgli qualcosa che riguardava Hanamichi, allora la sua poca pazienza andava a farsi benedire del tutto.

Vide la donna, dopo la sua affermazione, sgranare gli occhi con sorpresa e poi scuotere il capo.

“Oh, no!” disse sicura, ritrovando il sorriso.

“Vedi” incominciò titubante.

“Può parlare con me, di qualunque cosa riguardi Hanamichi” la interruppe Rukawa, stanco di tutte quelle esitazioni.

Il do’hao viveva in casa sua.

Casa nostra! Affermò in un angolino della sua mente.

E per lui non era più tempo di essere messo da parte.

Lui non voleva più essere messo da parte.

La donna sembrò capire quello che Rukawa intendesse perché annuì con il capo, pronta alle spiegazioni.

“So che ha tanti pensieri!” disse.

“Ma io sono una madre preoccupata” cercò di spiegarsi.

“E forse, anche tu puoi aiutarmi” continuò con un sorriso.

Rukawa annuì, invitandola a continuare.

“Io sono Kaori, comunque” si presentò.

“Per caso, conosci un certo Akira Sendoh?” chiese ancora.

Rukawa sbuffò, facendo ondeggiare la sua lunga frangia.

Mito.

Ecco perché la donna era venuta da loro.

Mito e Sendoh.

Che diamine aveva combinato quell’imbecille del numero sette?

Eppure, tutti loro erano stati chiari con quell’impiastro: se avesse fatto soffrire Mito, non sarebbe rimasto niente di lui.

Rukawa sentì la rabbia montargli dentro; Hanamichi aveva fin troppe preoccupazioni.

Mito stesso se ne rendeva conto.

Ma se la madre era venuta da lui, qualcosa doveva essere successo.

Lasciando da parte questi pensieri, impose a se stesso di darsi una calmata e pensare lucidamente.

Se non ne sapeva di più, non poteva fare niente.

“È il mio rivale” si decise a dire, trattenendosi dal dargli dell’idiota e facendo capire, in questo modo, che conosceva la persona in questione molto bene.

“Gioca nella squadra di basket del liceo Ryonan!” spiegò poi alla donna.

“Avevo intuito, dalla voce, che fosse un liceale!” sorrise di rimando.

“Che ha combinato quell’idiota?” domandò il numero undici, andando, come sempre, dritto al punto e stavolta non trattenendosi minimamente.

“Oh, nulla!” si affrettò a rispondere Kaori.

“Volevo solo sapere chi frequenta mio figlio” e Rukawa, a quell’affermazione, capì che c’era qualcosa di più.

“Vedi” continuò a spiegare.

“Questo ragazzo non ha fatto altro che chiamare continuamente ed io volevo solo sapere chi fosse”.

“Tzè” mugugnò Rukawa.

Eppure Sendoh sapeva che Mito non era in una situazione facile, così preso da Hanamichi e tutto il resto.

Che senso aveva comportarsi come una zecca?

“Mi è sembrato molto innamorato per telefono” continuò la donna.

“Lo è!” si sentì in dovere di precisargli Rukawa e la donna sorrise raggiante.

“A me sta bene!” confermò poi, facendo capire la sua posizione.

“Sai, io sono l’ultima persona che può giudicare”.

“Vorrei che mio figlio fosse felice” sospirò triste.

“Ma purtroppo, io so poco di lui e di quello che prova” ammise.

“Mi sono sempre rapportata a lui come un adulto” spiegò.

“E lui ha sempre avuto un carattere chiuso. Allontana le persone ed io non voglio che si giochi la possibilità di poter avere qualcuno accanto, chiunque egli sia” rivelò e Rukawa capì perfettamente cosa intendesse.

“Non ha mai voluto nessuno accanto, benché sia in un’età dove gli amori sono all’ordine del giorno” continuò a spiegare Kaori con gli occhi che, man mano, divenivano sempre più tristi.

“Sono felice per Hanamichi!” disse, dopo una pausa.

“Vorrei esserlo anche per mio figlio”.

Rukawa capì perfettamente il discorso della donna.

A lei non interessava chi Mito avesse al suo fianco, purché avesse qualcuno.

Purché si decidesse ad avere qualcuno.

Perché era tipico dell’età che li caratterizzava, comportarsi da adolescenti perennemente innamorati e alla ricerca del grande amore.

Poche delle storie che nascevano in quell’età andavano avanti, ma non aveva importanza, perché faceva parte della parola crescere.

Crescere e sbagliare.

Crescere e credere di essere innamorati.

Crescere e vivere.

Ma Mito rifiutava a priori l’idea e sua madre lo sapeva.

Forse, le telefonate di Sendoh avevano acceso in lei una speranza.

Qualcuno che era interessato a suo figlio, nonostante il suo carattere scostante.

Qualcuno che sobillava di chiamate, pur di sentire Yohei.

E sua madre, se da un lato ne era contenta, dall’altro non sapeva che fare.

Lei, da quello che Rukawa aveva capito, non parlava con il figlio di certe cose.

Ma come agire, per fare in modo che il figlio si desse una possibilità e decidesse di darla anche a Sendoh?

“Non si preoccupi!” disse sicuro.

La donna lo guardò sorpresa.

“Se Hanamichi fosse qui, le direbbe che suo figlio è in buone mani” la rassicurò.

“Io invece, da parte mia, le posso dire che Sendoh è talmente cocciuto da non lasciar perdere suo figlio in nessun caso” le chiarì la sua posizione.

“Quell’idiota è peggio di una zecca” aggiunse poi in un mugugno e Kaori ridacchiò.

La donna guardò il ragazzo che aveva di fronte.

Indiscutibilmente bello, questo era fuori discussione.

Quello che colpiva però, standoci a contatto per più di qualche minuto, non era tanto la bellezza quanto i suoi occhi.

Quanta determinazione poteva leggere Kaori in quegli occhi.

Strano a dirsi per un ragazzo così giovane; proprio come suo figlio, in effetti.

La stessa determinazione, quella che lei forse non aveva mai avuto.

Sì, Hanamichi era in buone mani.

Non si aspettava che il legame tra loro due potesse essere così profondo eppure, lei cosa ne sapeva di legami?

Neanche quando era andata a convivere con il padre di suo figlio c’era quel legame tra loro.

Era andata lì, sperando che Hanamichi potesse darle qualche informazione in più su Akira
Sendoh e invece, contro ogni previsione, aveva avuto molto di più.

Aveva, infatti, avuto la certezza che i suoi bambini non solo erano cresciuti, ma che erano anche cresciuti bene.

Forse, il merito andava a una donna.

Una donna dai capelli rossi e dal carattere allegro e ciarliero.

Una donna che aveva cresciuto anche il suo, di figlio.

Hanamichi aveva saputo creare un legame profondo con il ragazzo che aveva di fronte, e sicuramente il suo Yohei aveva contribuito a ciò.

Lo dimostrava il fatto che il ragazzo avesse voluto sapere in prima persona quello che riguardava Hanamichi.

“Ehi, Kitsune, ci sei?”.

Una voce, alta almeno un’ottava sopra la media, la distrasse dalle sue riflessioni.

“Kitsune, perché non mi rispondi?” stava intanto dicendo un Hanamichi appena entrato, fumante di rabbia.

“Tzè, do’aho” lo liquidò nel solito modo il numero undici, non facendo una piega.

“Baka” strillò Hanamichi isterico e Kaori, a quel punto, non potette fare a meno di ridere.

Solo in quel momento, Hanamichi sembrò accorgersi della presenza della donna.

“Ehi, Kaori” le andò incontro, abbracciandola.

“Ciao Hana” rispose lei sorridente.

Non lo vedeva da qualche tempo e gli sembrava che stesse bene.

Anche di questo, in parte, era merito di suo figlio, oltre che del ragazzo che le sedeva di fronte.

“Yo sta male?” si allarmò subito il numero dieci.

“No, caro, non preoccuparti!” lo tranquillizzò immediatamente.

“Sono passata a vedere come stavi!” e, a quelle parole, Hanamichi aggrottò lo sguardo.

“Sicuro?” domandò con occhi indagatori.

“Certo” sorrise la donna.

“E sono anche venuta a dirti che casa tua ti aspetta, qualora volessi tornarci” aggiunse con un sorriso.

“Grazie” ci tenne a dirle Hanamichi.

Sapeva che la madre di Yo puliva la casa dei suoi genitori periodicamente e di questo non poteva che esserne immensamente grato.

“Magari, ci puoi portare il tuo ragazzo, qualche volta” lo incoraggiò Kaori, ben sapendo quanto Hanamichi avesse difficoltà a entrare in quella casa.

“Ve-vedremo” lasciò cadere l’argomento Hanamichi, arrossendo fino alla cima dei capelli.

Non si era ancora abituato a pensare a Rukawa come il suo ragazzo.

E forse, non si sarebbe mai abituato.

“Pensaci!” lo invitò ancora Kaori, regalandogli un’affettuosa carezza al viso e Hanamichi annuì di rimando.

Prima o poi quello, era uno dei tanti problemi che avrebbe dovuto affrontare.

Lo sapeva bene, non poteva continuare a rimandare in eterno.

Questo era il suo pensiero mentre osservava la donna uscire.

Rukawa tornò da lui, dopo aver accompagnato la mamma di Mito alla porta, e non faticò a intuire il filo dei suoi pensieri.

“Non devi farlo da solo!” disse, avvicinandosi all’altro e guardandolo negli occhi.

Hanamichi sgranò gli occhi per la sorpresa e poi sorrise.

Rukawa aveva ragione: lui non era solo.

Non lo sarebbe stato per molto tempo a venire.

“Bene, kitsune” spezzò il silenzio.

“Adesso, dimmi cosa voleva realmente Kaori” esclamò, portandosi le mani ai fianchi.

“E non chiedermi come diamine faccio a saperlo, perché ti risponderei che la conosco troppo bene e che non sono idiota fino a questo punto!” continuò, parlando a raffica.

“Tzè, do’aho!” lo frenò Rukawa, andando a sedersi sul divano e invitando l’altro a fare lo stesso.

D’altro canto, anche Mito, a quel punto, era un problema che riguardava entrambi.
 

***
 

Yohei entrò in casa, guardando l’ora.

Le dieci di sera passate.

Il proprietario del locale non ne aveva voluto sapere di fargli fare un altro turno.

E dire che, di sabato sera, poteva fargli comodo un buttafuori dello stesso calibro di Hanamichi.

Troppo protettivo! Pensò con uno sbuffo, avvicinandosi al frigo.

Il proprietario del locale aveva sempre preso a cuore Hanamichi, trattandolo con grande riguardo e assumendo, talvolta, atteggiamenti paterni nei suoi confronti.

Peccato che con me sia fuori luogo! Pensò ancora, sempre più infastidito, mentre si versava da bere.

“Ciao, caro!”.

La voce di sua madre lo riscosse dai suoi pensieri.

“Ancora alzata?” s’informò gentile.

“Non per molto. Domani, devo andare a casa di un’autrice che è in ritardo per la consegna e disegnare più di dieci tavole” buttò lì Kaori.

“Capisco!” scrollò le spalle Yohei ma la donna non si aspettava una reazione diversa.

D’altro canto, era sempre così: lei parlava del suo lavoro, sperando che il figlio si decidesse a prendere la sua strada, e Yohei, di rimando, la ascoltava sempre rimanendo però indifferente.

“Vado in camera” disse Mito avviandosi, prima che la voce di sua madre lo richiamasse.

“Ho un messaggio per te!” lo informò la donna, valutando attentamente le reazioni del figlio alla luce delle informazioni che aveva ottenuto.

“È passato qualcuno dell’armata?” chiese Yohei con noncuranza.

“No, ma ha chiamato un certo Akira Sendoh”.

Come Kaori aveva previsto, il figlio non ebbe nessuna reazione.

“Mi ha chiesto di dirti che deve parlarti urgentemente!” continuò Kaori.

“Capisco!” liquidò la faccenda Yohei.

“È un amico di Hanamichi, gioca a basket” spiegò in maniera spiccia.

“Evidentemente, voleva sapere come sta! Lo chiamerò domani, ora è tardi” e si avviò.

“Mi ha chiesto di dirti di raggiungerlo, a qualunque ora tu finissi di lavorare” continuò ancora la madre, andandogli dietro.

“Non ti ha detto altro, a parte il nome?” indagò Yohei.

Non che dovesse nascondere qualcosa, ma erano comunque cose private e toccava a lui decidere su cosa e come avvertire sua madre.

“No!” gli confermò la donna, ben sapendo quali fossero i pensieri del figlio.

 “Beh, io vado a dormire”.

“Ha chiamato molte volte” disse ancora Kaori.

“Credo che tu debba andare a casa sua!” esclamò, sperando che il figlio si decidesse, una volta tanto, a considerare qualcuno che non fossero Hanamichi o lei.

“Quante volte ha chiamato, per l’esattezza?” s’informò Yohei dubbioso.

Se sua madre era così accorata, poteva solo essere quello il motivo.

“Ho perso il conto”.

“Bene!” sospirò Yohei facendo il percorso a ritroso.

“Vado da lui, visto che ha tutta questa urgenza” sorrise tagliente, marcando le parole.

“Credo che farò tardi” la salutò con affetto, prima di recarsi alla porta, e lei annuì di rimando.

La donna intuì le intenzioni del figlio e sospirò, mentre lo guardava uscire; ecco che suo figlio rialzava la sua barriera di ghiaccio, preparandosi a fare piazza pulita di chiunque gli si parasse
dinanzi.

Però, in fondo, era serena.

Secondo il ragazzo di Hanamichi, quel Sendoh era una persona in grado di stare accanto a Yohei, fronteggiandolo quando era necessario.

Ma soprattutto, era abbastanza innamorato da potergli stare accanto, senza farsi scoraggiare dal carattere scontroso e indipendente di suo figlio.

E lei non poteva fare più nulla, per il momento.

Ora, era tutto nelle mani di questo fantomatico Sendoh.
 

Continua…
 

Note:
 

Ecco che entra in scena la mamma di Mito.

Spero che vi sia piaciuto come personaggio e di aver delineato bene il rapporto che ha costruito con il figlio.

Non è, infatti, descritta come una madre classica ma come una madre che, essendo troppo giovane per gestire delle cose, ha fatto degli sbagli che non vuole far ricadere sul figlio.

D’altro canto, il loro rapporto non è per questo privo di affetto, come dimostra l’attaccamento di Mito nei suoi confronti.

Spero di essere riuscita a tracciare bene la psicologia di questo personaggio e del complicato ma solido rapporto che ha con il figlio.

Inoltre, spero anche si noti la differenza con la madre di Sendoh apparsa in precedenza.

La sua apparizione, infatti, serviva proprio a questo: far risaltare i diversi rapporti che possono esistere tra genitori e figli e che cambiano a seconda della storia familiare.

Come sempre, attendo i vostri pareri.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86
 

P.S. Ne approfitto per ringraziare hikaru83, slanif e Arcadia per le recensioni alla fic: Ecco le regole per scrivere una Ru - Hana di successo (o Hana – Ru che dir si voglia…).

Grazie, siete fantastiche. A breve, vi risponderò personalmente. Per ora vi ringrazio qui!
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. Confronti ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
Capitolo 8. Confronti
 
Kaede e Hanamichi sedevano sul divano, abbracciati tra loro.

Hanamichi aveva posato la testa sulla spalla di Kaede, mentre Rukawa cingeva, con un braccio, le spalle dell’altro.

“Quindi, il porcospino non ha fatto altro che chiamare a casa di Yo” riassunse Hanamichi con un ghigno.

“Nh” gli confermò Rukawa.

“Non pensavo si fossero visti così poco!” ammise Hanamichi pensieroso.

“Anche se, parlando con Yohei, qualcosa l’avevo immaginato” continuò.

Aveva, infatti, raccontato a Rukawa dove fosse stato e delle risposte lapidarie di Yohei riguardo alla sua vita.

“Non vuole intromissioni, ma se Kaori è venuta qua, vuol dire che anche Yohei è diverso da quando è tornato” continuò ancora.

“Solo che non sa di esserlo” disse Rukawa, intervenendo nel monologo dell’altro.

“Credo che Sendoh non avrà problemi!” lo rassicurò poi il numero undici andando ad accarezzare i capelli di Hanamichi.

Erano oramai ricresciuti abbastanza da poterci passare le dita dentro e Rukawa li adorava.

Adorava il loro colore, adorava il loro odore, adorava la loro consistenza.

Da sempre, aveva desiderato poter accarezzare quei capelli rosso fuoco, fin dalla prima volta che aveva visto Hanamichi.

Hanamichi, da parte sua, si beò di quelle carezze chiudendo gli occhi.

Adorava essere accarezzato in quel modo.

Rukawa toccava i suoi capelli con venerazione, Hanamichi lo sentiva.

E lui, così geloso dei suoi capelli, si era scoperto ad adorare quelle mani che giocavano con i ciuffi.

“Non pensavi fossi rosso sul serio, vero?” domandò a un certo punto, dopo alcuni minuti di silenzio, senza logica apparente.

“No!” gli confermò Rukawa ripetendo la stessa risposta di mesi addietro.

Avvicinò il suo volto ai capelli dell’altro, annusandone l’odore.

“Li adoro!” gli confessò sottovoce, smentendo la risposta che aveva dato tempo prima.
 

“Che ne pensi dei miei capelli, kitsune?”

“E non dire che ti piacciono, perché ti sbatto come un tappeto!”.

“Nh… strani!”.
 

Questa era stata la risposta di Rukawa tempo addietro.

L’unica risposta che aveva potuto dare, l’unica risposta che Hanamichi, a quei tempi, avrebbe potuto accettare.

Ma adesso, finalmente poteva dire la verità.

Anche Hanamichi sembrò pensare la stessa cosa, visto che aprì gli occhi, guardandolo incerto.

“Mi dicesti che erano strani!” esclamò in un sussurro.

“Mentivo” rispose semplicemente Rukawa e Hanamichi sorrise di rimando.

“Per Haruko” incominciò, ma Rukawa lo interruppe mettendogli un dito sulle labbra.

“Prenditi il tempo che vuoi” gli disse solamente, facendogli capire che qualunque cosa avesse deciso, le cose tra loro non sarebbero mutate.

“La mia kitsune gelosa” ridacchiò Hanamichi.

In fondo, quel pomeriggio erano stati due idioti.

Avevano fatto una questione assurda, partendo da un castello di carte.

Una discussione senza senso, questa era stata la loro, e la venuta della mamma di Mito sembrava aver riportato le cose alla normalità.

Entrambi, infatti, avevano avuto il medesimo pensiero e cioè quanto fossero stati idioti, reagendo in modo eccessivo, chi in un senso, chi nell’altro.

Entrambi, con la venuta di Kaori, avevano capito che niente avrebbe potuto cambiare il loro rapporto.

Un rapporto già solido, nonostante tutto.

Un rapporto che, però, Mito non aveva ancora.

Ma loro sì.

Questo era stato il pensiero di Sakuragi.

Questo era stato il pensiero di Rukawa.

E, tutti e due, erano riusciti a vedere la discussione pomeridiana per quello che era: solo una stronzata!

Questo era stato il pensiero di entrambi.

Così, per tacito accordo, avevano riportato le cose alla normalità.

“Dillo di nuovo, e ti ammazzo, do’hao” gli sibilò Kaede con tono minaccioso.

“Che paura, baka!” gli fece il verso Hanamichi.

“E come fai?” domandò ancora.

“Mi dormi addosso?” lo provocò.

Rukawa assottigliò gli occhi, avvicinando il volto al collo dell’altro.

“Ho molti modi per vendicarmi!” sussurrò, andando a mordicchiargli il collo e portando la mano libera sotto la maglia dell’altro.

“Anch’io!” rispose Hanamichi, portando la mano sul petto di Rukawa e allontanandolo da se.

“Anch’io, kitsune!” gli confermò, facendolo stendere sul divano e salendogli sopra.

Rukawa lo guardò perplesso.

Quella era una versione inedita di Hanamichi; dov’era il suo timido e impacciato do’hao, che arrossiva se si pronunciava la parola coppia e balbettava alla parola fidanzato?

Evidentemente, solo con le parole era tanto inibito, considerò Rukawa iniziando a eccitarsi mentre sentiva che Hanamichi, facendolo di proposito, faceva combaciare i loro bacini.

“Dimostramelo, do’hao!” rispose quindi Rukawa, afferrando il volto di Hanamichi e avvicinandolo al suo.

“Non vedo l’ora!” gli sussurrò il numero dieci, coinvolgendo l’altro in un bacio passionale.

Furono entrambi veloci a sfilarsi le maglie; troppa era la voglia di toccarsi.

Troppa era la voglia di sentire l’altro sotto la propria pelle.

Ognuno rassicurato dalla presenza dell’altro e dalla certezza che quello che avevano dinanzi, qualunque cosa fosse, li avrebbe visti insieme, schierati uno accanto all’altro, per molto tempo
ancora.

Non più soli.
 

***

Kaori andò a letto, ripensando agli sguardi del figlio.

Sapeva che non si sarebbe mai confidato con lei, ma non era questo l’importante.

A lei, che un tempo disegnava volti carichi di passione e di amore, non erano sfuggite le occhiate penetranti del figlio quando il nome ‘Akira Sendoh’ era stato pronunciato.

E così, qualcuno in grado di riscaldare il freddo cuore di suo figlio esisteva.

E dire che, un tempo, aveva creduto di vederlo insieme a Hanamichi.

D’altro canto, visto che era a conoscenza dell’orientamento sessuale dell’altro, non si sarebbe stupita di una cosa del genere.

Non che Hanamichi glielo avesse mai detto apertamente, ma lei non aveva faticato a collegare le frasi e gli atteggiamenti.

E sapeva che Yohei era l’unico con cui Hanamichi si confidasse.

Spesso, avrebbe voluto parlare al ragazzo, rassicurarlo su quello che provava, proprio come avrebbe fatto sua madre.

Perché ricordava bene quanto Hanamichi fosse spaventato dalla sua condizione.

Ma non poteva, dato che il ragazzo avrebbe preso le sue parole come la più grande delle umiliazioni.

In compenso, però, ci aveva pensato Yohei.

Suo figlio aveva dimostrato una maturità fuori dal comune e un sangue freddo molto marcato, così poco consono alla sua età.

E lei ne era stata orgogliosa; sempre.

Aveva sempre amato a dismisura quel figlio così testardo e caparbio che portava colpe inesistenti sulle sue spalle.

Per questo, a un certo punto, aveva sperato di vederlo accanto a Hanamichi.

In fondo, se erano così legati da amici e affrontavano tutto insieme, che male ci sarebbe stato se il loro legame fosse stato ancora più stretto?

Si sarebbero protetti a vicenda, e per Kaori era questo che contava.

Ma suo figlio l’aveva sorpresa ancora una volta.

Hanamichi aveva qualcuno accanto che lo amava e lo stimava, e non si trattava di suo figlio.

Perché, anche se non era intervenuta in nessun modo nelle vicende dei due ragazzi, lei sapeva come stavano le cose.

E non aveva gioito, in verità.

Perché Hanamichi aveva scelto qualcun altro?

Chi avrebbe protetto il suo bambino, anche se bambino non lo era mai stato?

Ma la domanda era stata un’altra: perché Yohei aveva faticato tanto per mettere accanto a
Hanamichi una persona che non fosse lui?

E, quella sera, aveva avuto le risposte che cercava; perché Hanamichi era felice e Yohei se ne era accorto per primo.

Inoltre, quel Sendoh forse era proprio come il ragazzo che Hanamichi aveva accanto.

Perché Kaori non aveva mai visto in suo figlio uno sguardo così intenso rivolto a Hanamichi.

Sì, quel ragazzo doveva essere speciale.

E Kaori non poteva che essere felice di questo.

Fu con questo pensiero che prese sonno.

Fu con la speranza di un avvenire migliore che si addormentò.
 

***
 

Yohei bussò insistentemente alla porta della casa di Sendoh.

Quando, dopo cinque minuti, nessuno ancora aveva aperto, sbuffò con stizza.

Non mi dire che va a dormire con le galline! Pensò arrabbiato.

Ma no! Si corresse poi.

In fondo, era sabato sera e di certo il giocatore era andato a divertirsi da qualche parte.

Bussò nuovamente, con più foga, e finalmente la porta si aprì.

Lo accolse una versione di Sendoh nuova: il giocatore aveva solo i pantaloni del pigiama addosso e una faccia assonnata.

Yohei lo guardò perplesso; ma allora stava veramente dormendo?

Cioè… alle undici di sabato sera, Sendoh dormiva?

“Mi fai entrare?” chiese, ancora più irritato di prima.

Il giocatore ritrovò il suo sorriso smagliante e si fece da parte.

“Mi sono appisolato davanti alla televisione” ridacchiò, grattandosi il capo.

Yohei gli rivolse la sua migliore occhiata perplessa.

“Di sabato sera?” domandò scettico.

“Non sono un tipo particolarmente notturno!” esclamò allegro il giocatore, raggiungendo nuovamente il divano e invitando l’altro ad accomodarsi.

Yohei fissò perplesso la stanza.

Sul divano c’era una coperta.

Sul tavolino davanti al divano, c’era un cartone che doveva aver contenuto del mangiare, oltre a vari tovaglioli accartocciati.

Per terra, ai piedi del divano, c’erano delle bibite e dei bicchieri di carta.

Su un lato del divano, oltre a due cuscini – non ne bastava uno? Si domandò Yohei dubbioso – c’erano dei vestiti, una tuta per l’esattezza, che il giocatore doveva aver indossato prima di mettersi il pigiama.

Sul tavolino, accanto al cartone contenente chissà cosa, c’erano dei libri aperti e per terra, oltre allo zaino di scuola, c’erano dei quaderni e delle matite.

Tutto quel disordine, in meno di due metri quadri.

Altro che vita notturna… quello sembrava un porcile di un pensionato che abita da solo.

L’unica differenza era che invece delle birre c’erano delle bevande energetiche.

“Che porcile!” non seppe trattenersi Yohei e Sendoh ridacchiò.

“Sì, non sono molto ordinato, in effetti! Ma perché sei ancora in piedi?” gli rivolse il suo sorriso smagliante migliore.

“E dove dovrei accomodarmi?” chiese Yohei tagliente.

“Oh!” non si perse d’animo Sendoh.

In men che non si dica, liberò il divano dai due cuscini, la coperta e i vestiti.

“Prego, accomodati” lo invitò, appallottolando il tutto con le braccia e gettandolo a terra.

Yohei lo guardò ancora più perplesso, decidendo però di soprassedere.

Cercando di non calpestare né libri, né quaderni, né matite, né bicchieri, né altro, si avvicinò al divano sedendosi.

Sendoh, visto il percorso a ostacoli che aveva fatto l’altro, decise di fare spazio, allontanando tutto con il piede.

Yohei lo osservò sempre più perplesso.

“Oh Kami!” sospirò, portandosi una mano agli occhi.

“Non pensavo fossi così pignolo!” lo provocò Sendoh.

“Di certo, sono più ordinato di te!” replicò Yohei.

“Non che ci voglia molto!” aggiunse poi con un ghigno.

“Hai cenato?” domandò Sendoh incoraggiante.

“Qualcosa al locale” rispose Yohei sentendo, poco a poco, sfumare la sua rabbia.

Era sempre così alla presenza dell’altro: Yohei partiva con i migliori propositi (o peggiori come in quel caso) e Sendoh smontava tutto senza neanche parlare.

Il suo atteggiamento tranquillo, il suo volto sorridente, avevano sempre quell’effetto su Mito che non sapeva se esserne felice o no.

Ora che ci pensava, era la prima volta che andava a casa dell’altro e forse era anche questo a placare il suo umore.

Vedere il giocatore nel suo ambiente, con un atteggiamento così rilassato, aveva un effetto tranquillizzante anche su di lui.

“Pensavo fossi uscito” costatò Yohei.

“Non esco molto e, comunque, sarei di sicuro già rientrato a quest’ora” gli spiegò tranquillo il giocatore.

Yohei guardò l’ora: le undici e venti.

E poi guardò perplesso il giocatore.

“A quest’ora?” non seppe trattenersi.

Lui era sempre stato in giro a notte fonda… di sabato sera poi!

C’era anche da dire che, però, sua madre non aveva mai posto limite di orario.

Ancora un’altra diversità, pensò Yohei triste.

Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, ma questo non gli impediva di provare tristezza.

Perché, in fondo, lui ci aveva sperato.

Sperato che funzionasse.

“Hai finito?”.

La voce di Sendoh lo distolse dalle sue riflessioni.

“Di fare cosa?” chiese Yohei con aria innocente.

“Di pensare alle differenze tra la mia vita casalinga e la tua notturna” rispose l’altro noncurante e Mito sgranò gli occhi.

La facilità con cui Sendoh incominciava a seguire il filo dei suoi pensieri stava diventando sconcertante.

E, ancora una volta, Yohei non sapeva se essere felice o no della cosa.

“E non fare quella faccia stupita” continuò il giocatore allegro.

“Era abbastanza evidente, in fondo!” concluse con una risatina.

Yohei sbuffò con disappunto.

“Ovviamente, sai perché sono qui!” esclamò, cercando di riportare il discorso sul motivo della sua presenza lì.

“Certo” non si scompose Sendoh avvicinando il viso al suo.

“Perché ti mancavo terribilmente!” soffiò sulle sue labbra.

Yohei sbuffò ancora, questa volta palesemente infastidito, e si alzò, allontanandosi dall’altro.

“Ah, Ah! Molto divertente” esclamò tagliente.

“O forse, perché tua madre ti ha riferito il mio messaggio” continuò ancora Sendoh, per nulla intimorito dall’evidente scocciatura dell’altro.

“Quante volte hai chiamato, esattamente” volle sapere Yohei, guardandolo con attenzione e portandosi le mani ai fianchi.

Il giocatore lo guardò con un ghigno appoggiando la schiena sulla spalliera del divano e sedendosi comodamente.

“Non me lo ricordo” rispose con noncuranza.

“Appunto!” si stizzì Yohei di fronte all’atteggiamento strafottente dell’altro.

“Ma perché parlare di questo?” chiese ancora Sendoh.

“In fondo, come mi hai fatto notare, è sabato sera!” e si guardò le unghie, osservando di sottecchi l’altro.

“E allora?” chiese Yohei assottigliando gli occhi.

Dire che fosse infastidito era poco.

Non solo il giocatore gli leggeva nel pensiero, e questo già non lo sopportava.

Quello che però più lo infastidiva, era il fatto che non capiva assolutamente cosa passasse nella testa dell’altro.

Non poteva chiamare a casa sua ogni quarto d’ora.

Non aveva nulla da fare che attaccarsi al telefono?

Perché Sendoh faceva finta di non capire il messaggio?

E perché lui stesso, Yohei Mito, era così poco deciso nel rimarcare lo stesso?

Fu perché troppo perso in questi pensieri, che non si accorse di quello che avvenne, o forse perché il giocatore aveva i riflessi e la velocità tipiche di un vero sportivo.

Fatto sta, che si ritrovò seduto cavalcioni sul giocatore.

Sendoh lo aveva afferrato, forse per le gambe, spingendolo in avanti e portandolo con lui sul divano.

Yohei, grazie ai suoi riflessi pronti, aveva portato le mani avanti.

Quindi, adesso si trovava con le mani poggiate sulla spalliera del divano, seduto cavalcioni sul giocatore.

Le braccia di Sendoh gli circondavano la vita, impedendogli di muoversi.

I loro visi erano a una distanza effimera.

“E allora, possiamo impiegare meglio il tempo, non credi?”.
 

Continua…
 

Note:
 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.

Come sempre, attendo i vostri commenti.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. Vicini e lontani ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
 
Capitolo 9. Vicini e lontani
 
 
Sendoh sorrideva, mentre osservava gli occhi di Yohei tingersi per lo stupore.

Sapeva di averlo preso in contropiede e si complimentava di questo; non era facile, infatti, cogliere di sorpresa un tipo come Mito.

Lo aveva osservato, mentre Yohei stava in piedi di fronte a lui, e aveva aspettato che fosse abbastanza distratto per fare quella mossa.

Mossa che non necessariamente sarebbe andata a buon fine, visti i riflessi pronti dell’altro.

Aveva rischiato non poco in effetti, correndo il rischio che i riflessi di Mito scattassero ancor prima che il proprietario se ne accorgesse.

La conseguenza sarebbe stata, come minimo, un occhio nero, sempre che il pugno di Mito non si fosse diretto al suo torace.

Lì di certo avrebbe riportato qualche costola incrinata.

Ma, per fortuna, era andata bene.

Le sue braccia stringevano la vita dell’altro e non aveva nessuna intenzione di spostarle.

Non aveva nessuna intenzione di lasciarlo andare e, in questo modo, rinunciare al tepore del corpo di Yohei premuto contro il suo.

“E allora, possiamo impiegare meglio il tempo, non credi?” chiese, decidendosi a parlare e avvicinando le sue labbra a quelle dell’altro.

Non aspettò una risposta.

Mito pensava troppo e, se voleva continuare a stringerlo fra le sue braccia, doveva continuare a prenderlo in contropiede.

Posò deciso le sue labbra su quelle dell’altro, dando comunque a Mito il tempo di scansarsi.

Non voleva che fosse un’imposizione, ma un desiderio di entrambi.

Perché anche Mito lo desiderava; altrimenti, in passato, le cose sarebbero andate diversamente tra loro.

Tuttavia, questa volta Sendoh non avrebbe dato voce solo ai suoi ormoni.

Questa volta avrebbe fatto le cose in maniera differente.

Non staccò le sue labbra da quelle dell’altro ma non provò neanche ad approfondire il bacio.

Si limitò a continuare a sorridere, mentre annusava il profumo della pelle di Yohei e gli accarezzava la guancia con la punta del naso.

Avvicinò le sue labbra, ma senza baciarlo.

“Allora?” gli sussurrò.

“Non credi sia un’idea più sensata?” domandò ancora.

Yohei deglutì.

La voce dell’altro, così bassa e sensuale, e quelle labbra, così invitanti, erano deleterie per il suo sistema nervoso.

Lo desiderava.

Lo desiderava, come non aveva mai desiderato nessun altro.

Le braccia di Sendoh che gli stringevano la vita, le gambe così muscolose, frutto di anni di allenamenti cui si era sottoposto il giocatore, erano invitanti e rendevano impossibile resistere.

Provò a parlare, ma la voce non uscì.

Quel volto sorridente e pacato lo spiazzava ma, al contempo, gli faceva provare degli istanti di quiete.

La sua oasi di pace.

Chiuse gli occhi, andando a posare la fronte sulla spalla dell’altro.

Le mani, ancorate alla spalliera del divano, si rilassarono poco a poco andando poi a posarsi sulle spalle del giocatore.

Sendoh sorrise non dicendo però nulla.

Era vero quando dicevano che i gesti contavano più delle parole; Mito ne era un chiaro esempio.

Il giocatore provava una forte tenerezza verso quella versione di Yohei così fragile, verso quel primo segno di cedimento da parte dell’altro.

Con le braccia andò a cingergli la vita, permettendogli di accomodarsi meglio sulle sue gambe, mentre con le mani percorreva su e giù la schiena dell’altro, in carezze calde e rassicuranti.

Gli piaceva Yohei; lo amava.

Gli piaceva il suo aspetto, gli piaceva il suo carattere così caparbio.

Gli piaceva tutto di lui.

Ma quello che più gli piaceva era il fatto che con l’altro nulla fosse mai scontato.

Mai pensare di conoscere Yohei, mai pensare di poter prevedere il suo umore o i suoi pensieri.

E Sendoh sospettava che sarebbe sempre stato così, anche fra dieci anni.

Stare con Yohei era un po’ come andare su un’altalena: era sempre presente quella sensazione di sospensione dalla terra, era sempre presente quell’adrenalina costante.

Proprio come un’altalena: si arrivava nel punto più alto, poi si scendeva nuovamente e così via.

In effetti, anche Sakuragi aveva questa caratteristica, seppur più marcata rispetto a Yohei; non si sapeva mai se l’umore del numero dieci sarebbe stato ciarliero oppure cupo.

Quando il numero dieci dello Shohoku si apprestava a parlare, non si sapeva mai se avrebbe detto una pagliacciata o una cosa seria.

Per questo Sakuragi aveva attirato l’interesse dello scostante numero undici, nientemeno che la super matricola: Kaede Rukawa.

Un giocatore che, proprio come lui, era stato così caparbio da non dare respiro all’altro finché non avesse ceduto.

Perché Sendoh era sicuro di una cosa: mai lo avrebbe lasciato andare.

Con una mano andò ad accarezzare i capelli di Mito, sentendolo molto più rilassato fra le sue braccia.

Dentro di sé, tirò un sospiro di sollievo; lui non voleva solo il corpo di Yohei, lui voleva essere per l’altro un Sempai, una spalla cui Mito avrebbe potuto poggiarsi.

E, quella sera, aveva raggiunto il suo obiettivo.

Perché quella sera lo sentiva vicino, come mai prima.

Rimasero così a lungo, fino a che Sendoh non sentì il respiro dell’altro sul suo collo farsi più pesante.

Allargò il sorriso, costatando che Yohei si era addormentato.

Lo accarezzò piano sulla nuca, riflettendo che non aveva mai visto l’altro dormire.

La serata era andata meglio di quanto avesse previsto, considerato l’umore con cui era arrivato Yohei.

Perché Sendoh aveva capito immediatamente quanto l’altro fosse sul piede di guerra.

Vide che Mito dormiva profondamente e lui non aveva dubbi su cosa fare; non poteva, infatti, lasciarsi scappare una simile opportunità.

Mai come quella volta aveva sentito Yohei così vicino a sé, e non parlava della vicinanza fisica quanto, piuttosto, di quella mentale.

I dubbi di Yohei gli erano chiari: come potevano stare insieme se erano così diversi?

Ma Sendoh non si perdeva d’animo, dato che avrebbe smontato quei dubbi uno dopo l’altro.

Perché sarebbero state proprio quelle diversità ad avvicinarli.

Sarebbero state proprio quelle diversità a completarli.

Sendoh lo sapeva già; ora non restava altro da fare che convincere Yohei.
 

***
 

Hanamichi aprì gli occhi, sentendo un peso sul suo corpo.

Non si stupì, quando vide Rukawa addormentato placidamente sul suo torace, con le braccia che gli stringevano la vita e una gamba poggiata sulle sue.

La serata era finita in modo ovvio: loro due che dormivano entrambi in camera di Rukawa, dopo essersi spostati dal divano e aver continuato più comodamente le loro effusioni.

Era già la seconda notte che dormiva nel letto dell’altro e, considerato che era in quella casa da appena due giorni (il terzo sarebbe incominciato a breve) si trattava una media abbastanza alta.

A quel punto, Hanamichi si chiese se avrebbe mai usato il suo di letto.

In fondo, però, andava bene così.

Sapeva che tra loro ci sarebbero stati alti e bassi, sia nella convivenza che nel rapporto, per cui decise di gustarsi appieno quei momenti, osservando il perfetto contrasto di colori tra il nero pece dei capelli della sua kitsune e la carnagione ambrata del suo torace, dove questi cadevano scomposti.

In fondo, non gli dispiaceva avere qualcuno accanto a se durante la notte.

Aveva sempre pensato che dormire con qualcuno fosse scomodo.

In passato, spesso lui e Yohei avevano diviso la camera e, a casa di quest’ultimo, anche il letto.

A volte, addirittura avevano dormito in cinque, sia in camera di Yo che nella sua vecchia abitazione, eppure lo schema era sempre lo stesso: lui e Yo nel letto e il resto dell’armata a terra sui futon.

Però, nonostante lui e Yohei condividessero lo stesso letto, nessuno dei due aveva mai invaso lo spazio dell’altro.

Ognuno, una volta terminate le chiacchiere notturne, si voltava dal proprio lato, cercando di dare più spazio possibile all’altro, ma senza sfiorarsi neanche con un dito.

In effetti, tutti e due, avrebbero trovato strano, se non fastidioso, svegliarsi sul corpo dell’altro.

In fondo, erano entrambi fatti allo stesso modo, anche se l’apparenza era diversa; tutti e due rifuggivano i contatti, ognuno a modo proprio: Hanamichi facendo la corte a ragazze che mai lo avrebbero contraccambiato e Yohei alzando un muro fra se e il resto del mondo.

Entrambi convinti che sarebbe stato sempre così: loro due da un lato e il resto del mondo dall’altro.

Eppure, nonostante fossero così vicini, erano comunque lontani, perché mai avrebbero potuto stare insieme.

D’altro canto, Hanamichi non aveva mai preso in considerazione Yohei sotto quel punto di vista.

Eppure, l’altro non era brutto. Inoltre, lo conosceva a menadito.

Non ci aveva mai pensato, valutò Hanamichi pensieroso, osservando Rukawa dormire spalmato sul suo corpo.

Forse perché non avrebbe mai funzionato.

Lui e Yo erano come due rette parallele: ogni retta seguiva l’identico percorso dell’altra senza mai sfiorarsi, senza mai incontrarsi.

Eppure, ogni retta era confortata dalla presenza della gemella accanto, sapendo che l’altra avrebbe compensato a un’eventuale mancanza della prima e viceversa.

Troppo uguali per stare insieme… troppo diversi per stare lontani.

E ora, entrambi avevano qualcuno.

Entrambi continuavano a camminare l’uno accanto all’altro, con l’aggiunta di qualcuno.

E a Hanamichi non dispiaceva, ora lo capiva.

Non provava nessun fastidio nella vicinanza di Rukawa; lui, così indipendente, che condivideva un momento intimo e privato – la notte per l’appunto – con qualcuno.

Perso in questi pensieri, non si accorse che Rukawa aveva aperto gli occhi e che lo guardava attento, nonostante fosse ancora presente l’alone del sonno sul suo volto.

“Sei uscito dal letargo, kitsune?” lo sfotté Hanamichi con tono ironico.

“Qual è il problema?” chiese Rukawa andando, come sempre, dritto al punto.

Hanamichi sgranò gli occhi.

“Scusa?” chiese, certo che Rukawa stesse ancora dormendo e parlasse nel sonno.

“Avevi la faccia di chi deve risolvere un problema di stato, do’hao!” lo riprese severo Rukawa, che non sopportava non sapere cosa passasse nella testa dell’altro.

Perché Hanamichi era molto più di quello che dava a vedere, e Rukawa sospettava che neanche fra cent’anni avrebbe potuto affermare di conoscerlo alla perfezione.

Il numero undici si era svegliato da qualche minuto, gustandosi la sensazione della pelle dell’altro sotto la sua.

Aveva aperto gli occhi, convinto di trovare Hanamichi ancora addormentato, e invece non solo il numero dieci era sveglio ma sembrava anche perso in chissà quale dilemma.

E Rukawa sapeva che meno il do’hao pensava, meglio era per tutti; esperienza personale!

Quindi, aveva affrontato le cose nel suo solito modo: andare direttamente alla fonte del problema.

“Niente di che!” provò a minimizzare Hanamichi, ma l’altro, evidentemente non contento per la risposta ricevuta, gli rifilò un calcio nello stinco.

“Ahia!” si alterò Hanamichi, sedendosi e massaggiandosi la caviglia dolorante.

“Sei impazzito, Rukawa?” strillò isterico, puntando l’indice sul petto nudo dell’altro.

“Vuoi una testata a prima mattina, forse?” continuò Hanamichi senza abbassare la voce.

“E tu vuoi farmi diventare sordo?” domandò a sua volta Rukawa, stendendosi nuovamente e abbracciando il cuscino.

“Perché mi hai dato un calcio?” s’impuntò Hanamichi, ritrattando tutti i pensieri avuti sul fatto che dormire insieme fosse piacevole.

Non si sarebbe più avvicinato al letto della kitsune, altroché!

“Così impari a prendermi in giro, do’hao!” gli rispose Rukawa con il suo solito cipiglio imbronciato.

“E tu mi rifili un calcio per questo?” domandò Hanamichi dubbioso, sentendosi molto come quei concorrenti di un quiz televisivo.

Solo che se qui alla risposta sbagliata partivano i calci, allora avrebbe dovuto cominciare a preoccuparsi sul serio.

“Nh!” gli confermò Kaede come risposta.

“Tu non sei normale, lo sai questo vero?” incrociò le braccia il numero dieci, assumendo la sua migliore espressione scettica, non del tutto convinto dell’effettiva sanità mentale dell’altro.

“Sono pratico!” non si perse d’animo Rukawa.

“Se aspetto te, passa un secolo”.

“E adesso dimmi a cosa pensavi” gli ordinò, voltando il viso e guardandolo in maniera penetrante.

“Guarda che non era nulla di che” provò a convincerlo Hanamichi ma, quando vide che l’altro assumeva un cipiglio contrariato, demorse.

“E VA BENE!” scattò, battendo il pugno sul letto.

Rukawa sospirò, considerando l’idea di comprarsi dei tappi per le orecchie.

Hanamichi avrebbe potuto fare il tenore se avesse voluto, considerando le ottave che toccava quando incominciava a urlare.

E lui non voleva rischiare la sordità precoce, visto che gli urli dell’altro erano sempre molto vicini ai suoi timpani.

Con rassegnazione, si girò su un fianco poggiandosi su un gomito, pronto ad ascoltare l’altro.

“Pensavo…” incominciò Hanamichi facendo una pausa subito dopo.

“A cosa?” lo incalzò severo Kaede.

“Vuoi farmi parlare, kitsune?” si alterò nuovamente Hanamichi.

“E tu vuoi una camomilla?” fu il sarcastico commento di Kaede che non si scompose minimamente di fronte all’atteggiamento dell’altro.

Buon segno; se non conosceva Hanamichi a fondo, perlomeno non aveva problemi a gestire i suoi continui sbalzi d’umore.

“Pensavo a Yo” gli rivelò finalmente Hanamichi e Rukawa assottigliò lo sguardo.

“Lui e Sendoh?” chiese, mettendosi a sua volta seduto.

“Lui ed io, kitsune” gli specificò Hanamichi e Rukawa assunse un’espressione perplessa.

“Alle nostre diversità” si fece serio il numero dieci.

“Sai, io credo che Kaori avesse sempre sospettato da che lato puntavano i miei gusti” rifletté ancora l’altro, mentre Kaede lo ascoltava attento.

“E credo anche che avesse sempre sperato di vedermi, un giorno, accanto a Yo” valutò ancora, e Rukawa, a quelle parole, indurì lo sguardo non interrompendo però l’altro.

“Non ne abbiamo mai parlato, ma credo che le sarebbe piaciuto vederci insieme, dato che non ci saremmo delusi a vicenda” spiegò ancora Hanamichi.

“Faceva riferimento alla sua storia andata male” intervenne Kaede e il numero dieci annuì.

“Eppure” continuò Sakuragi, “né io, né Yo abbiamo mai pensato a una cosa del genere. E adesso so anche perché!” sorrise Hanamichi.

“Siete uguali” rispose Rukawa e Hanamichi annuì.

“Sei perspicace quando vuoi, kitsune” lo sfotté allegro.

“E tu, ogni tanto, sei intelligente” rispose per le rime Rukawa.

“Come osi insultare il sommo Tensai?” si alterò Hanamichi, puntandogli il dito contro.

Rukawa sorrise impercettibilmente prima di avvicinare il suo volto a quello dell’altro.

“Io posso!” esclamò, prima di coinvolgerlo in un bacio tutt’altro che casto.

E, per quella mattina, non ci fu più modo di parlare.

Ogni cosa stava andando al posto giusto.

Tutti i pezzi del puzzle stavano andando al loro posto, supportati dagli altri pezzi che fornivano degli incastri perfetti.

Perché la vita era proprio come un puzzle.

All’inizio, quando lo si costruisce, si adocchiano tutti i pezzi sui bordi per cercare di capirci qualcosa.

Poi, subentra la confusione perché, terminati i bordi, non si sa come procedere per incastrare gli altri.

E poi, la soluzione ci arriva da altri pezzi, quelli che non avevamo considerato, quelli che credevamo andassero da tutt’altra parte.

Ed ecco che l’incastro perfetto prende vita.

Sakuragi e Rukawa.

Mito E Sendoh.

Tutti insieme nelle loro diversità.

Tutti vicini nonostante la lontananza.

Ma ognuno indipendente e perfettamente adatto per l’altro.

Amicizia e amore, amore e amicizia: un binomio perfetto per quattro ragazzi che si apprestavano a crescere.
 

Continua…
 

Note:
 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che non vi siate annoiate.

Come sempre, attendo i vostri commenti.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. Solo Amore ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
 
Capitolo 10. Solo amore
 

Yohei aprì lentamente gli occhi, guardandosi intorno.

Questo non è il soffitto della mia camera.

Fu questo il primo pensiero coerente che ebbe.

Si mosse lentamente, mettendosi a sedere e valutando che doveva essere da poco passata l’alba.

Fu allora che notò un’altra figura che dormiva beatamente stesa accanto a lui.
Sendoh.

Sono nella sua camera!

La realizzazione di dove effettivamente si trovasse, gli fece sgranare gli occhi per lo stupore.

Rimase per un istante perplesso, indeciso su cosa fare, mentre osservava l’altro dormire a pancia in giù.

Devo essermi addormentato! Valutò pensieroso.

Il problema, però, era cosa fare in quel momento. Rifletté sull’idea di andare via senza svegliare l’altro; in fondo, quando voleva, sapeva essere silenzioso.

Tuttavia, proprio mentre era perso in questi pensieri, Sendoh aprì lentamente gli occhi.

“Buongiorno!” sussurrò, stiracchiandosi.

Yohei deglutì di rimando.

“Pensavi di andartene senza salutarmi?” domandò Sendoh, stropicciandosi gli occhi mentre si poggiava su un gomito.

Yohei sbuffò.

Sì, l’intento era proprio quello.

E il fatto che stesse diventando così prevedibile lo irritava.

“Non volevo svegliarti!” affermò però, con la sua solita espressione sghemba.

“Sì, come no!” ridacchiò il numero sette, avvicinando il suo volto a quello dell’altro.

Solo in quel momento, Yohei costatò come Sendoh fosse a torso nudo.

E lo sono anch’io!

Valutò pensieroso in un angolino della sua mente.

Sendoh, nel frattempo, osservava il volto di Mito con un’espressione allegra.

“Ammettilo, che volevi sgattaiolare fuori di nascosto!” lo provocò, con voce sensuale.

Yohei sembrava molto più riposato rispetto alla sera precedente, nonostante non avesse dormito chissà quante ore, e di questo Sendoh non poteva che esserne felice.

Ricordava, la sera prima, che lo aveva stretto a lungo nel suo abbraccio, accarezzando la sua schiena e godendosi il tepore del suo corpo.

Poi, lo aveva sollevato e portato in camera, con l’unico desiderio di vederlo dormire accanto a sé.

Aveva inoltre chiamato casa sua, per avvertire la madre che si trovava da lui.

In realtà, aveva telefonato molto dopo aver steso Yohei sul suo letto rendendosi conto, solo in un secondo momento, che ora fosse.

Però, gli era sembrato doveroso avvertire la madre, anche se questo, forse, avrebbe scatenato l’ira di Mito.

Inoltre, non si aspettava che la telefonata prendesse quella piega.

Ripensò alla conversazione avuta con la donna la sera precedente.
 

“Volevo avvertirla che suo figlio, stanotte, dorme da me!” aveva annunciato dopo essersi presentato.

“Non si preoccupi, sta bene. Non ha chiamato lui, perché si è addormentato sul divano” aveva aggiunto poi, credendo che la donna potesse preoccuparsi visto che non l’aveva chiamata direttamente suo figlio.

Ed era stato allora che la madre di Mito l’aveva spiazzato.

“Tieni molto a lui?” aveva domandato e Sendoh aveva sgranato gli occhi, stringendo forte la cornetta.

Come regolarsi, di fronte ad una domanda del genere?

Cosa dire?

La verità, oppure lasciare intendere che tra loro ci fosse solo una bella amicizia?

Non lo sapeva, e non aveva neanche molto tempo per pesarci.

Ma come avrebbe reagito la mamma di Mito di fronte a loro due?

Yohei non gli aveva mai accennato nulla su sua madre e lui non voleva causare liti tra loro.

“So quali sono i vostri rapporti!” l’aveva quindi spiazzato la donna, ben interpretando il suo silenzio.

“E la cosa le crea problemi?” aveva allora domandato il giocatore con voce dura.

Sul suo volto, erano sparite tutte le tracce del suo famigerato sorriso.

Sul suo volto, c’erano solo i tratti di un’espressione decisa.

Un’espressione che è pronta a far valere le sue ragioni, costasse quello che costasse.

“Non temere!” l’aveva quindi rassicurato la donna, intuendo dal tono quanto il giocatore si fosse messo sulla difensiva.

“Non sono io l’ostacolo al vostro rapporto” aveva aggiunto, seria come non mai.

“E qual è allora?” si era fatto attendo Sendoh, volgendo inconsciamente lo sguardo sulla
stanza dove Yohei dormiva.


“Mio figlio stesso!” era stata la sicura risposta della madre di Mito.

Sendoh aveva sorriso, sospirando di rimando.

“Non si preoccupi!” l’aveva rassicurata.

“So come prenderlo”.

“Prenditi cura di lui!” era stata la raccomandazione della donna, prima di riagganciare.
 

“Sì, l’intento era proprio quello!” lo riscosse dai suoi pensieri la voce di Mito.

Akira ridacchiò.

“Lo sapevo!” affermò, ritornando a distendersi e portando l’altro accanto a se.

“Sono diventato prevedibile” sbuffò Yohei che non aveva protestato ma che anzi, si era messo
comodo, poggiandosi su un gomito e guardando l’altro.

“Oh forse, sono io che sto imparando a conoscerti!” sorrise Sendoh.

Yohei sbuffò.

Il giocatore invece, vedendolo così mansueto, andò a cingergli la vita con un braccio.

“Visto che è ancora l’alba, che ne dici di ritornare a dormire?” propose poi, mentre con la mano
gli accarezzava il fianco.

“Sai, quando dormi, hai un’espressione tenera” lo prese in giro ridacchiando.

“Io cosa?” domandò Mito, inarcando un sopracciglio.

“Sei tenero!” ripeté Sendoh avvicinando il volto a quello dell’altro e baciandolo lievemente sulle
labbra.

“Io – non – sono – tenero” scandì lentamente Mito, aggrottando lo sguardo.

Akira ridacchiò.

“È vero” si corresse poi.

“Sei tremendamente sensuale” si avvicinò ancora.

“Non volevi tornare a dormire?” ghignò Yohei.

“Mh… mi è passato il sonno!” rispose Akira, con voce suadente.

Yohei deglutì di rimando.

Lo desiderava.

Sì!

Lui desiderava Akira Sendoh.

Avevano avuto un unico incontro ravvicinato da quando si frequentavano e Yohei, seppur
avesse provato molto piacere nel sentire le mani del giocatore su di se, poi non ci aveva più pensato.

Ma adesso, con la mano di Akira che gli accarezzava il fianco, ripensò a quei momenti, costatando quanto desiderasse riviverli.

Perché lo desiderava.

Lui, che mal tollerava il contatto con gli altri e i rapporti in generale, desiderava le mani del giocatore sul suo corpo.

Desiderava sentire le sue labbra sul collo, desiderava avere la pelle dell’altro a contatto con la sua.

Com’era possibile?

Che si stesse rimbecillendo?

Lui, che trovava fastidiosa persino una stretta di mano, ecco che adesso cambiava completamente prospettiva.

Però Yohei, in cuor suo, sapeva che non era propriamente così.

Sapeva che non sarebbe diventato allegro e ciarliero, oppure avrebbe iniziato a distribuire
abbracci a tutta la popolazione mondiale, diventando un accanito sostenitore dei contatti fisici.

No!

Sapeva in cuor suo di non essere cambiato.

Era Sendoh che gli faceva quest’effetto.

Era la voce di Sendoh che, non solo tollerava, ma che trovava addirittura piacevole da ascoltare.

Erano le mani di Sendoh che voleva su di se, le sue e quelle di nessun altro.

Era con Sendoh che desiderava trascorrere il tempo, anche se cosparso di silenzi.

Era con lui che gli sarebbe piaciuto rilassarsi sul divano in un tranquillo sabato sera.

Sì… questa era la verità.

E, in quel momento che poteva rivivere tutte le sensazioni provate, si domandò quanto
contavano effettivamente le differenze tra loro.

Quanto contava realmente l'idea che loro non fossero fatti per stare insieme, più diversi del giorno e della notte?

Nulla!

Non importava, non in quel momento.

Momento che, forse l’ora, forse la vicinanza del giocatore, Yohei era deciso a godersi appieno.

Poco importava che forse – anzi, sicuramente – in un secondo momento si sarebbe arrovellato, nel disperato compito di catalogare nella sua mente tutte quelle sensazioni, e provare a dare a esse un minimo di logica.

Poco importava che, sicuramente, avrebbe lanciato il sasso e poi nascosto la mano, sentendosi incapace di gestire tutto quello.

Perché questa era la verità: la sua evidente incapacità nel gestire tutta quella situazione, troppo grande per uno come lui, troppo complicata per il suo modo di vivere.

Già… poco contava questo ora.

“A cosa pensi?”.

La voce di Sendoh lo riscosse dai suoi pensieri.

“Che sono uno stupido!” ammise Yohei con un sorriso disarmante.

Sendoh aggrottò leggermente le sopracciglia.

“Sono solo uno stupido!” disse ancora Yohei con una punta di rammarico nella voce, andando ad accarezzare la guancia dell’altro.

Sendoh andò prontamente ad afferrare quella mano, non sorprendendosi più di tanto per quel
gesto così affettuoso e intimo.

Perché lo sapeva, una carezza da parte di una persona chiusa come Yohei era molto più intima rispetto a un rapporto in se.

Era più intimo quel gesto, che l’incontro focoso che avevano avuto di pochi mesi prima.

D’altro canto, seppur non fosse riuscito a spiegarsi il complicato ragionamento che avesse portato Yohei a dire quelle cose, non gli importava più di tanto.

Perché Yohei era così; era il classico tipo che faceva un passo avanti e, immediatamente dopo, dieci indietro.

Poi ancora, un altro passo avanti e poi altri dieci indietro.

Ma a Sendoh non importava, anzi: era questo che voleva.

Lui non si accontentava di una relazione piatta; lui voleva una sfida, un qualcosa che, in ogni caso, lo stimolasse sempre e comunque.

E con Mito era proprio così. E poco importava che, dopo il passo avanti, si regredisse immediatamente.

Perché Sendoh sapeva che quel passo in avanti, lo avrebbe ricompensato più di ogni altra cosa.

Proprio come il basket, in effetti. Ci si allenava per ore intere, per anni, sfidando il proprio corpo con imprese sempre più difficili.

E tutto, per avere pochi minuti di gloria.

Pochi minuti, o addirittura quaranta, ma comunque pochi rispetto alle ore di allenamento.

Quaranta minuti dove si compiva una schiacciata incredibile, un passaggio eccezionale, un tiro in
sospensione spettacolare.

Pochi minuti che ripagavano tutti gli anni di allenamento.

E poco importava se il giorno dopo le gambe dolessero, oppure si sentisse la necessità di dormire tutto il giorno, per liberare la mente dall’adrenalina che, subito dopo la partita, si trasformava in stanchezza.

Giocare a basket era un impegno fisico e mentale che richiedeva una dedizione costante e assoluta.

Ma ne valeva la pena.

Perché, quei minuti dove l’adrenalina scorreva veloce, dove si compiva una cosa incredibile, ti entravano dentro marchiandoti a fuoco e spingendoti a volerne di più.

Spingendoti a cercare un avversario sempre più bravo, sempre più forte.

E con Yohei era proprio così.

Solamente perché adesso il ragazzo sembrava così tranquillo, non voleva dire che la tempesta fosse definitivamente scampata.

E Sendoh, da ottimo giocatore qual era, non vedeva l’ora.

Perché sarebbe stato sempre all’altezza: l’unico che avrebbe saputo tener testa a quel teppista burrascoso che adesso gli accarezzava la guancia.

Yohei gli ricordava un po’ una delle storie che gli raccontava suo padre quando era più piccolo.

Non ricordava i dettagli, però una cosa la rammentava: il vento dell’est.

C’era un vento, diceva suo padre, il cosiddetto vento dell’est che, quando soffiava, non lasciava scampo; nessuno poteva rimanere in piedi.

Come si poteva fare, allora? Era questo, quello che domandava a suo padre quando ascoltava quella storia.

E suo padre, dopo aver sorriso e avergli accarezzato la testa, rispondeva semplicemente:

“Bisogna coprirsi bene!”.

Sì, Mito assomigliava a quel vento e Akira era sicurissimo, dentro di sé, di essersi coperto a sufficienza, sia riguardo al presente che negli anni a venire.

Notò che la mano che gli accarezzava la guancia si era fermata e che Mito lo osservava perplesso.

“Io invece pensavo che mi ricordi molto una storia che mi raccontava mio padre da bambino” disse, rispondendo alla sua occhiata interrogativa.

“Ah sì?” domandò l’altro con un sorriso.

“E quale?” s’informò.

“Forse, un giorno, te la racconterò!” esclamò Sendoh allegramente.

Yohei ridacchiò con un’espressione rilassata e Sendoh desiderò che quel momento intimo, dove
c’erano solo loro, senza Sakuragi, Rukawa, o altro, potesse durare sempre.

Desiderò potersi svegliare ogni mattina con Yohei accanto e chiacchierare allegramente con lui, oppure stando in silenzio mentre si scambiavano effusioni.

Con lentezza, andò a cingere la vita dell’altro baciandogli lentamente le labbra.

Con la punta della lingua, andò a tracciare il contorno di quelle labbra così invitanti costatando, solo in quel momento, quanto effettivamente gli fosse mancato il contatto con l’altro.

Non sapeva se per Mito fosse lo stesso, se avesse in seguito ripensato al loro unico quasi rapporto, e se gli fosse mancato il suo corpo con la stessa intensità cui era mancato ad Akira.

Tuttavia, sapeva bene quanto l’altro gradisse quel contatto e fu per questo che non si fermò.

Continuò a tracciare il contorno delle labbra di Mito con la punta della lingua e non si stupì quando le braccia dell’altro andarono, a sua volta, a cingergli la vita.

Perché Mito, nonostante non avesse esperienza (per sua scelta, tra l’altro) non era un tipo da farsi intimorire o non reagire, aspettando inerme che fosse l’altra persona a fare tutto.

No! Mito reagiva eccome, e questo mandava Sendoh fuori di testa.

Perché l’altro era capace di muoversi come il più navigato dei don Giovanni, facendo passare la sua inesperienza in ultimo piano.

Lentamente, si stesero sul letto, continuando a baciarsi.

Sentì la lingua di Yohei accarezzare la sua e lo coinvolse in un bacio passionale.

Con le mani, andò a giocare con i capezzoli dell’altro, tracciando contorni immaginari sui pettorali scolpiti di Mito, mentre Yohei, a sua volta, gli accarezzava la schiena disegnando cerchi
immaginari sulle sue scapole.

Stavolta Yohei non si tratteneva, Sendoh lo notò ma non per questo decise di affrettare le cose.

Lo voleva, era vero, ma potevano semplicemente finirla lì.

Quelle che si stavano scambiando potevano essere semplicemente delle effusioni infuocate piuttosto che culminare in qualcos’altro e a Sendoh, questo, stava bene.

Non voleva affrettare le cose come la volta precedente.

Fu per questo che portò le sue labbra all’orecchio dell’altro, lasciando piccoli baci sul padiglione auricolare.

“Ti amo” sussurrò, prima di scendere lungo il collo ricordando con precisione matematica quale fosse il punto che faceva impazzire l’altro.

E, ancora una volta, Mito lo sorprese.

Si poggiò sui gomiti, prendendogli il volto con la mano e guardandolo negli occhi.

“Anche io…” ammise a voce bassissima, talmente bassa che Sendoh, se non lo avesse guardato negli occhi (come l’altro stesso aveva voluto), probabilmente non avrebbe sentito.

“Anche io… credo!” disse nuovamente Yohei scrutandolo attento e Sendoh sorrise, andando a sfiorargli la mano con le labbra.

“Credi?” domandò con un risolino.

“Me lo farò bastare… per ora!” esclamò, prima di tornare a dedicarsi nuovamente al suo collo, mentre con le mani andava a sfiorare la pelle al di sotto dei pantaloni.

Yohei fece lo stesso, accarezzandogli le gambe muscolose.

Fu allora che Sendoh, costatando lo stato in cui fossero entrambi, si staccò da lui e lo guardò.

Il suo sguardo era eloquente, gli occhi bruciavano di passione mal trattenuta.

Yohei, capendo quello sguardo, ridacchiò.

“Cos’è?” domandò.

“Non sai come dirmi quello che vuoi?” chiese, con il sorriso sghembo che tanto lo contraddistingueva.

“Devi volerlo anche tu!” rispose Sendoh seriamente.

“Sarà come tu lo vuoi!” disse ancora cercando di far capire il concetto all’altro.

Perché lo voleva, in qualunque modo l’altro avesse voluto.

E questo, Yohei doveva capirlo.

Doveva afferrare il concetto che non voleva solo il suo corpo, ma che quello, fosse un momento unico per entrambi.

Momento che sarebbe stato proprio come Mito avrebbe voluto.

“Sei tu l’esperto!” rispose ancora Yohei poggiandosi sui gomiti e sorprendendo il giocatore per l’ennesima volta.

Vedendo che Sendoh non si decideva, Mito gli prese la mano e, con gesto allusivo, se la portò lentamente alle labbra.

“Perché sei così titubante?” domandò con occhi attenti.

Occhi che ricordavano molto quelli di un predatore, questo pensò Sendoh in quel momento.

“Perché ti amo” rispose allora il giocatore, come se fosse la cosa più ovvia.

“E voglio che sia solo amore”.

Yohei sgranò impercettibilmente gli occhi prima di parlare nuovamente.

“E, allora, continua!” disse soltanto, stendendosi nuovamente e portando l’altro sopra di se.

“Continua” disse ancora sulle labbra dell’altro, prima di coinvolgerlo in un bacio passionale.

E Sendoh continuò.

Lo spogliò lentamente, come avrebbe voluto fare la prima volta, godendosi lo spettacolo del corpo di Mito fra le lenzuola sfatte del suo letto.

Baciò ogni lembo di pelle disponibile, sentendo i gemiti dell’altro crescere.

Lo preparò lentamente e con più dovizia del necessario.

Fino a che, Mito gli fece capire di andare avanti.

“Fidati di me” lo implorò Sendoh con voce sensuale ma anche carica di aspettativa.

“Mi fido!” disse solo Yohei.

E, per quella mattina, non ci fu più spazio per le parole.

Per quella mattina, dove l’alba aveva fatto capolino, non ci fu più spazio per i pensieri.

Per quella mattina, dove il nuovo giorno cominciava e il sole iniziava a filtrare dalle finestre chiuse, ci fu spazio solo per l’amore.
 

Continua…
 

Note:
 
In questo capitolo ci sono solo Mito e Sendoh. Mi sembrava, infatti, un momento troppo importante per entrambi, per cui ho preferito dare loro più spazio.

Spero che non vi siate annoiate e che il capitolo vi sia piaciuto.

Come sempre, attendo i vostri pareri.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. Faccia a faccia ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
Capitolo 11. Faccia a faccia.
 
Hanamichi e Yohei erano sulla terrazza della scuola.

Seduti spalla contro spalla, ognuno perso nei propri pensieri.

Quella mattina, per la prima volta da quando la scuola era iniziata, non avevano fatto la strada assieme.

Yohei, appena arrivato, era salito in terrazza e aveva trovato Hanamichi lì, seduto e perso in chissà quali pensieri.

“Il primo giorno e già salti le lezioni!” aveva esclamato allegro, per poi andarsi a sedere accanto a lui, con le spalle alla ringhiera.

“Sono un Tensai, posso fare a meno delle lezioni!” aveva risposto Hanamichi e poi non avevano più parlato.

Ognuno osservava l’altro.

Ognuno cercava di risolvere i propri dilemmi.

Era sempre così tra loro: cercavano di capire cosa affliggesse l’altro solo scrutandolo e, contemporaneamente, cercavano il modo migliore per esprimere il problema di turno che assillava la loro mente.

Chi li avesse visti in quel modo, spalla contro spalla, seduti vicino e in silenzio, avrebbe forse faticato a credere che si trattava dei teppisti della scuola e del quartiere.

Avrebbero faticato a identificarli nel rosso confusionario e nel suo braccio destro.

Eppure, quei momenti tra loro erano sempre esistiti.

Anche il resto del gruppo ne era a conoscenza. Sapevano, infatti, che in alcuni casi Yohei era l’unico a poter rimanere accanto ad Hanamichi e viceversa.

Sapevano che tra il loro capo e il suo braccio destro esisteva un legame speciale. Troppo speciale per essere espresso a parole, e la cosa non creava loro nessun problema.

Erano tutti affiatati, e avevano accettato le stranezze dei due con una scrollata di spalle.

Yohei era fin troppo abituato ai silenzi di Hanamichi e Hanamichi era fin troppo abituato alle espressioni cupe di Yohei.

Quando Hanamichi stava con lui, non si preoccupava di manifestare i suoi stati d’animo ma usava l’espressione corrispondente a quello che provava: silenzioso se era alle prese con un problema, allegro se succedeva qualcosa di bello.

Quando Hanamichi era con Yohei era sempre se stesso e per Yohei era la situazione era analoga.

“Suppongo non farai lo stesso con gli allenamenti!” spezzò il silenzio Mito, dopo un po’.

“Suppongo di no!” sussurrò Hanamichi, ben sapendo cosa significasse la parola ‘allenamento’.

“La affronterai oggi!” esclamò ancora Yohei e Hanamichi annuì con il capo.

“Sai che non riuscirei a guardarmi allo specchio, se dovessi mentirle ancora” affermò con sguardo sicuro e Yohei sorrise.

Hanamichi aveva un cuore d’oro.

Sperò solo che questo, anche Haruko lo capisse.

Sperò sul serio che la sorella del capitano non creasse problemi.

Comunque, nel caso le cose fossero andate male, ci avrebbe pensato lui.

“Anche tu sei strano oggi!” spezzò il silenzio dopo un po’ Hanamichi.

“Ti decidi una buona volta a confidarti con me?” s’infervorò poi.

Yohei sospirò.

“Non so da dove cominciare” ammise, massaggiandosi gli occhi con il pollice e l’indice.

“Dall’inizio?” gli suggerì Hanamichi, ripetendo la stessa cosa che gli aveva detto la sua kitsune molti mesi addietro.

“Ho dormito a casa di Sendoh, ieri!” buttò lì Yohei, deciso a confidarsi.

Hanamichi sorrise con affetto, ben consapevole del fatto che, dietro quell’affermazione, ci fosse molto di più.

“In realtà, mi sono addormentato sul divano e poi mi sono svegliato all’alba, nel suo letto, accanto a lui!” ci tenne poi a puntualizzare Yohei, nonostante l’amico non avesse detto nulla.

Era più forte di lui; nonostante quello che era successo, ci teneva comunque a rimarcare il concetto di quanto tutto fosse stato casuale.

“Non so se sono pronto a cose del genere!” esclamò poi, portando le ginocchia al petto e sospirando pensieroso.

“Come se potessi farne a meno” sbuffò Hanamichi a quel punto.

“Cioè?” alzò il sopracciglio Yohei.

“Andiamo, quanto mi sono opposto a quello che provavo per Rukawa?” domandò, con tono ovvio, Hanamichi.

“Tu negavi quello che provavi per altri motivi” fu la pronta risposta di Yohei.

“I motivi cambiano da persona a persona, Yo” sottolineò il numero dieci.

“Ma comunque, fatto sta, che è impossibile negare quello che si è” s’infervorò.

“Non hai passato l’anno scolastico a dirmi questo?” gli fece notare con tono ovvio.

“Tu è Rukawa avete molte cose in comune” s’impuntò Yohei.

“Sì, come no” gli diede ragione l’altro.

“Vediamo…” iniziò l’elenco, tenendo il conto sulla punta delle dita. “Il basket, il basket, il basket, poi… ah, l’ho detto il basket?” finse di pensarci su, con tono ironico.

Yohei sbuffò non negando l’evidenza.

“E va bene! Tu però sei un campione, hai del talento. Il vostro rapporto è alla pari, perché avete intenzione di percorrere la stessa strada e di farlo insieme” aggiunse con disappunto.

“Quindi, è questo il problema? Credi di essergli inferiore?” si portò le mani al mento Hanamichi, con il tono di una vecchia pettegola.

“Scusa?” domandò scettico Yohei.

“Credi che lui farà strada e che tu rimarrai nell’ombra!” ragionò Hanamichi annuendo con il capo e incrociando le braccia.

“Beh, io non sono un campione di basket!” s’impuntò ancora Yohei.

“È vero!” gli diede ragione Hanamichi.

“Sendoh esce ogni settimana sui giornali locali” ragionò ancora il numero dieci.

“Appunto!” confermò Yohei, certo che l’altro avesse afferrato il punto della questione.

“Ha una fila di ammiratrici!” costatò ancora Hanamichi.

“Infatti!” gli diede ancora ragione l’altro.

“È uno studente modello, oltre che una stella indiscussa del basket!” continuò il suo elenco Hanamichi.

“Già” e stavolta, il rammarico era evidente nel tono di Mito.

“Tu invece sei un teppista, un perfetto nessuno, e non sai assolutamente giocare a basket” finse di consolarlo Hanamichi.

“Come potresti reggere il confronto?” continuò il numero dieci con tono fintamente rammaricato mentre gli batteva una mano sulle spalle.

“Già!” s’imbronciò Yohei.

Era proprio quello il concetto.

Eppure, perché sentirlo, faceva così male?

“Anche se qualcosa puoi fare” ritornò serio Hanamichi.

“Iniziare a giocare a basket?” domandò ironico Yohei.

Hanamichi aggrottò lo sguardo, preparandosi bene le parole.

Non aveva fatto quel discorso casualmente; erano mesi che se lo preparava, da quando Sendoh era comparso nella vita di Yo.

Non a caso aveva detto al numero sette che lui poteva essere l’unico a smuovere Yohei.

“Tu hai queste!” disse il numero dieci, prendendo le mani del suo amico.

“Sendoh compare sui giornali locali, tu invece, grazie a queste, compari su giornali di tiratura nazionale”.

Yohei provò a obiettare ma Hanamichi non gliene diede il tempo.

“Sendoh ha una fila di ragazzine che starnazzano per lui per il suo aspetto e che sbavano per lui perché è nella loro stessa scuola. Tu invece potresti avere tutti gli allievi che vuoi, desiderosi solo di imparare da te, per quello che riesci a fare” continuò il numero dieci, contestando gli stessi punti che aveva elencato pochi minuti prima.

“Sendoh è un talento nascente del basket, ma tu sei un genio, un vero genio del tratto che non ha più nulla da imparare!” concluse Hanamichi, guardandolo negli occhi e lasciandogli le mani.

“Questa è la realtà, che tu lo voglia oppure no!” disse ancora Hanamichi, non sapendo cos’altro aggiungere.

“Non credi che sia venuto il momento di dimostrare a lui, e a te stesso, chi sei veramente?” domandò ancora, speranzoso.

Yohei guardò l’amico, rimanendo in silenzio. Fino a quel momento, non aveva fatto altro che cercare le differenze, tra lui e Sendoh, aggrappandosi a esse per avvallare la tesi che tra loro non potesse funzionare.

Si era convinto, con impegno e perseveranza, che la sua vita sarebbe stata sempre la stessa, che sarebbe rimasto all’ombra.

Però, se stava con Sendoh, era veramente possibile tutto ciò?

Dopo quello che era avvenuto la notte precedente, oramai, era impossibile fare finta di niente.

Non si era opposto alle mani del giocatore perché non aveva voluto.

Ma se voleva stare con Sendoh, non poteva rimanere un perfetto nessuno.

E se Hanamichi avesse avuto ragione? E se avesse finalmente mostrato a Sendoh, lui che cosa realmente sapeva fare?

Le differenze tra loro sarebbero diminuite o, comunque, sarebbero state due personalità di spicco, proprio come lo erano Hanamichi e Rukawa.

Forse era venuto il momento di prendere in considerazione il suo futuro. Forse, era venuto il momento di smettere di nascondersi.

Suo padre…

Se gli avesse dimostrato chi aveva realmente rinnegato?

Se invece che stare nell’ombra, avesse scelto di tornare alla ribalta e prendersi le sue rivincite, decidendo finalmente di farsi valere agli occhi del mondo?

Yohei non lo sapeva… sapeva soltanto che qualcosa, quella mattina, era scattato in lui e anche
Hanamichi sembrò capirlo visto che, per quelle ore, non ci fu più spazio per le parole.

Ognuno, perso nei propri pensieri.

Ognuno accanto all’altro, con la certezza che qualunque cosa avessero deciso, sarebbero rimasti sempre così, spalla contro spalla, a lottare insieme.
 

***
 

Hanamichi osservava Haruko bere il suo succo di frutta.

Quel pomeriggio, era tornato in squadra ricevendo un’accoglienza festosa da parte di tutti: soliti pugni del gorilla, soliti do’hao di Rukawa, soliti sorrisi incoraggianti da parte di Kogure.

E ancora: solite sventagliate da parte di Ayako, stessi sfottò di Mitsui e Ryota.

E, ovviamente, l’immancabile armata che faceva il tifo per lui.

Gli allenamenti erano cominciati e Hanamichi aveva scoperto, con stupore, di non aver dimenticato niente. Il suo corpo sembrava aver memorizzato, prima ancora della sua mente,
tutti i movimenti imparati durante l’anno.

Ovviamente, non aveva potuto stancarsi molto, né esibirsi nelle sue fenomenali schiacciate, ma andava bene così; era tornato a calpestare il parquet della palestra e solo questo contava.

E ora si trovava lì, seduto in uno dei tavolini del bar, in compagnia di Haruko.

La ragazza, amichevole come sempre, aveva accettato di buon grado di fermarsi con lui nel bar vicino la scuola.

Anche in passato avevano fatto una cosa del genere, quando lei lo aveva accompagnato a comprare le scarpe, quindi, nella sua richiesta non c’era nulla di strano.

E ora era lì, pronto a mostrarsi a lei con il suo volto: il suo vero volto.

Non si era preparato nessun discorso, non lo faceva mai, perché non era nel suo stile.

Anche con Yohei quella mattina, nonostante volesse dirgli quelle parole da mesi, non le aveva assolutamente programmate, lasciando che si formassero in base all’occasione.

E, anche in quel momento, avrebbe fatto così: le parole sarebbero uscite da sole, a seconda dei discorsi che si sarebbero creati.

“Sei stato molto bravo, oggi, Hanamichi” esordì Haruko sorridente, giocherellando con la cannuccia.

Hanamichi sorrise, portandosi una mano al mento e girando lo zucchero nel suo caffè con l’altra.

Haruko aveva leggermente sgranato gli occhi al momento dell’ordinazione ma non aveva commentato.

“Ti ringrazio!” rispose semplicemente, con un tono di voce serio e composto che mai avrebbe potuto pensare di usare alla presenza di Haruko.

Anche lei sembrò accorgersene perché sorrise incerta di rimando.

Sempre la stessa storia!

Fu questo il pensiero di Hanamichi, che provò un leggero rammarico nel pensare ciò.

Da un buffone, tutti si aspettavano sempre pagliacciate.

Perché al buffone era negato avere dei momenti no.

Al buffone era vietato provare a essere serio.

Gli venne in mente un’opera italiana.

Sua madre adorava l’opera, e lui era cresciuto ascoltando voci elevatissime che pronunciavano parole incomprensibili.

Non ricordava quale fosse l’opera, né chi fosse l’autore; il titolo della lirica però lo ricordava perché, quando sua madre glielo aveva spiegato, era stato a pensarci tutta la sera, colpito dalla tristezza di quel motivo.

Ridi pagliaccio, questo era il titolo che mai avrebbe potuto dimenticare.

Non ricordava bene la storia, sapeva solo che a cantare era un buffone di corte.

Un buffone che, quella sera, avrebbe dovuto esibirsi per far ridere le persone.

Solo che, proprio quella sera, aveva perso qualcuno di caro.

Hanamichi ricordava che fosse la figlia a essere morta, ma non ne era sicuro.

Fatto stava che quel buffone, mentre gli altri ridevano, aveva la morte nel cuore.

Sua madre gli aveva poi spiegato che quell’opera era una metafora per la vita di tutti i giorni, riferita alle maschere che continuamente si indossano e agli occhi degli altri che si fermano solo a quelle maschere.

Per lui, in quel momento, era così.

Haruko era una brava ragazza ma neanche lei era riuscita ad andare oltre.

Fu per questo che Hanamichi, in quel preciso momento, decise di buttare via tutte le sue maschere.

Decise di riporre il cerone e togliersi il naso da clown.

Solo così avrebbe potuto sperare di salvare un’amicizia. Solo così si sarebbe sentito a posto con se stesso.

“Ed è tutto merito tuo” le disse Hanamichi con calore e un sorriso affettuoso.

Un sorriso che Haruko, in futuro quando avrebbe ripensato a quel dialogo, avrebbe definito fraterno.

“Cosa dici?” sorrise anche lei di rimando.

Non aveva mai visto Hanamichi così e incominciava a sentirsi a disagio.

“Sei tu che mi hai fatto conoscere il basket e di questo ti ringrazierò sempre!”.

“È per questo che voglio essere sincero con te! Spero che la nostra amicizia possa salvarsi, in qualche modo” concluse, congiungendo le mani.

“Ma cosa dici, Hanamichi?” sorrise la ragazza, non capendo il discorso del numero dieci.

“Sono innamorato, Haruko!” esclamò Hanamichi con il volto serio, pronto a sganciare la bomba.

“Sono innamorato di Rukawa” disse, aspettando la reazione della ragazza.

Ora, era tutto nelle sue mani.
 

Continua…
 

Note:
 

Non ho molto da dire su questo capitolo, se non il fatto che era interamente dedicato all’amicizia così speciale tra Hana e Yo.

Ho ritenuto opportuno, infatti, dopo il capitolo precedente che Yohei si confrontasse con Hanamichi su quanto era avvenuto e spero di aver trattato bene i dialoghi tra i due.

Poi, c’è la parte di Haruko.

Una piccola precisazione tecnica:

“Ridi Pagliaccio” o più precisamente “Vesti la giubba” è un’aria dell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.

Le informazioni che Hanamichi ricorda su di essa sono sbagliate e la cosa è fatta apposta.

Infatti, essendo bambino quando ascolta la spiegazione dell’opera, volevo dare l’impressione di quando qualcosa ci rimane nel profondo, anche se non ne ricordiamo precisamente la storia.

Non si ricordano i dettagli, ma le sensazioni, questo era il senso di questi sbagli.

Il tenore che canta l’aria, nel ruolo di Canio, non ha perso la figlia e la storia è completamente diversa.

Però, il significato che Hanamichi ricorda è quello giusto. È, infatti, uno dei tanti significati che vengono dati all’opera.

Quest’aria, in particolare, vuole mettere in risalto il personaggio del “Clown tragico” che, con la maschera e il cerone non presenta nessun turbamento, ma che nella vita è infelice e frustrato.

Il cerone e il naso da clown rappresentano la sua maschera di difesa contro il mondo e non più il suo lavoro, rendendolo un personaggio completamente diverso da quello che appare.

Voglio però sottolineare che questo è un significato approssimativo e frettoloso di un’opera abbastanza complessa che trova molti riscontri nella vita reale, sia per il suo linguaggio chiaro e moderno rispetto alle altre opere sia per le metafore utilizzate.

Questo è il testo dell’aria:

Recitar! Mentre preso dal delirio,
non so più quel che dico,
e quel che faccio!

Eppur è d'uopo, sforzati!
Bah! sei tu forse un uom?
Tu se' Pagliaccio!

Vesti la giubba,
e la faccia infarina.
La gente paga, e rider vuole qua.
E se Arlecchin t'invola Colombina,
ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!

Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto
in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor

Ah, ridi, Pagliaccio,
sul tuo amore infranto!


Ridi del duol, che t'avvelena il cor!

 

Detto questo, la smetto di annoiarvi e aspetto, come sempre, i vostri commenti.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. Rivelazioni e chiarimenti ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
 
Capitolo 12. Rivelazioni e chiarimenti.
 

Il silenzio aleggiò per qualche minuto al tavolino del bar, dove erano seduti Haruko e Hanamichi.

Lui osservava la ragazza con volto serissimo.

Lei, che in un primo momento aveva sgranato gli occhi, ora giocherellava con la cannuccia muovendo quel che restava dei cubetti di ghiaccio nel suo bicchiere.

Hanamichi non ripeté la frase; sapeva che lei aveva capito fin troppo bene, e accettava qualsiasi reazione.

Certo, ammetteva con se stesso che rivelarle del suo amore per Rukawa era stato un azzardo. Per questo, non aveva accennato al fatto che stessero insieme o che abitasse da lui. Se doveva passare dei guai, e diventare lo zimbello della scuola – anche per quel motivo, tra le altre cose – l’avrebbe accettato senza rimpianti. Ma, di coinvolgere Rukawa, non ne aveva la minima intenzione.

Forse, se la loro amicizia si fosse salvata, allora, da amici, le avrebbe rivelato tanti piccoli dettagli.

Ma adesso non era proprio né il momento, né il luogo adatto.

Tuttavia, vista l’indecisione della ragazza, Hanamichi decise di venirle incontro incominciando a parlare.

“Io non sono chi credi, Haruko” le rivelò.

“Ma, allo stesso tempo, sono la stessa persona!” aggiunse, sperando che lei capisse quel concetto.

La ragazza, forse colpita da quella frase, alzò lo sguardo, fissandolo incerta.

“Ci sono tante cose di me che non sai” continuò ancora Hanamichi con un sorriso in volto.

Un sorriso così diverso dalle risate sguaiate che propinava a tutti.

Un sorriso che lo rendeva bello, fu questo il fugace pensiero di Haruko.

Un sorriso che gli illuminava il volto perché veniva dal cuore.

La ragazza lo vide prendere il portafoglio ed estrarne un cartoncino che poi le porse.

Lo prese con mani tremanti, riconoscendo nel cartoncino una fotografia.

Haruko osservò la foto e il volto di Hanamichi che le sorrideva di rimando incoraggiante.

E poi ancora… nuovamente il volto di Hanamichi e poi la foto.

“La donna sembra…” incominciò Haruko, facendo una pausa immediatamente dopo.

“Straniera!” concluse Hanamichi per lei e la ragazza annuì con il capo.

“È mia madre” le rivelò ancora il numero dieci.

“Quindi…” cominciò nuovamente Haruko, per interrompersi subito dopo.

“Sono occidentale, per metà” completò ancora la frase per lei Hanamichi.

Haruko si prese qualche istante per riflettere, continuando a osservare la foto.

Gli occhi di Hanamichi bambino erano ridenti e felici, così come i volti dell’uomo e della donna.

“Perché mi dici questo?” si decise infine a domandare, anche se, riflettendoci bene, la risposta poteva essere ovvia e quella apparire come la domanda più stupida fra tutte.

“Perché voglio continuare a essere tuo amico” fu, infatti, la semplice e candida risposta di Hanamichi che scrollò le spalle.

La ragazza annuì con il capo.

“Capisco perché tu preferisca farti passare per tinto!” disse dopo un po’, continuando a rimandare, con quelle esclamazioni, i chiarimenti sulla prima scioccante rivelazione di colui che le sedeva di fronte.

“Eppure, ho scelto di dirlo a te” rispose Hanamichi, continuando a farsi sviare dall’argomento principale.

“Perché voglio essere sincero” disse ancora.

“Su tutto!” concluse, facendole così capire che la sua prima affermazione, quella su Rukawa, non era stata accantonata.

“Tu sei…” domandò ancora Haruko, bloccandosi per l’ennesima volta un istante dopo.

“Sono gay, Haruko” confermò Hanamichi andando, con la mente, a ricordi di mesi addietro.

Quando, per la prima volta, si era trovato a casa di Rukawa dopo la scazzottata epica che avevano avuto in palestra, a causa della sconfitta inflitta dal Kainan.

Quella volta, Rukawa aveva pronunciato quella stessa frase con lo stesso tono di chi parla del tempo e lui ne era rimasto sorpreso.

Come poteva, infatti, Rukawa ammettere una cosa tanto vergognosa con quella semplicità?

Con lui poi, con il quale non faceva altro che insultarsi e prendersi a pugni per tutto il tempo.

A quel tempo, Hanamichi ne era rimasto sconvolto.

Adesso, invece, pronunciava quella stessa frase con la stessa semplicità.

D’altro canto, molte cose erano cambiate da allora e Hanamichi era cresciuto.

I suoi fantasmi, il suo dolore, non sarebbero mai andati via. Solo che, adesso, aveva qualcuno con cui condividere tutto, che fossero risate o lacrime.

“Io… non so cosa dire”.

La voce di Haruko lo riscosse dai suoi pensieri.

“Non dire nulla” rispose il numero dieci con tranquillità.

“Pensaci!” disse poi, alzandosi per andare via.

Ora, non aveva più nulla da fare. D’altro canto, Hanamichi sapeva che Haruko necessitava di tempo per assimilare le informazioni ricevute e forse, in un futuro che lui sperava prossimo, accettarle.

Uscì dal locale costatando che, anche se l’inverno si avvicinava, quella era una bella giornata di sole.

Sorrise, avviandosi verso casa; la kitsune lo aspettava, sapendo cosa avrebbe fatto quel pomeriggio.

Il cuore non era mai stato più leggero come in quel momento.
 

***
 

Haruko camminava verso casa con il cuore e la mente piena di dubbi.

Dopo che Hanamichi era andato via, si era presa qualche minuto per riflettere senza però concludere nulla.

Così, si era alzata, decidendo si uscire dal locale e dirigersi verso casa.

Inoltre, da quando era uscita dal bar, aveva la costante sensazione di essere seguita.

Forse, quella sensazione, era dovuta alle rivelazioni scioccanti di Hanamichi.

Hanamichi innamorato di Rukawa.

Si fermò, scuotendo la testa e sentendo le lacrime scendere lungo le guance.

Non si sentiva tradita, quanto piuttosto molto triste.

Lei amava Rukawa, lo osservava, lo idolatrava, lo sognava.

E sapeva che l’inarrivabile numero undici era l’oggetto delle fantasie di tutte le ragazze della scuola.

Tutte o quasi, almeno.

E ora, sapere che anche Hanamichi, e chissà quanti altri ragazzi a questo punto, era innamorato di Rukawa la faceva sentire strana.

Non che senza la rivelazione di Hanamichi lei avrebbe potuto avere qualche possibilità.

Solo, si rendeva finalmente conto di quanto il suo sogno con il numero undici fosse inaccessibile.

D’altro canto, capiva anche perché Hanamichi non le aveva mai detto niente.

Però, ora aveva bisogno di tempo per riflettere.

Persa in questi pensieri, non si accorse della figura che l’aveva affiancata.

Voltò lo sguardo, sgranando impercettibilmente gli occhi e capendo che la sua non era stata una sensazione.

Qualcuno la stava effettivamente seguendo, dal momento in cui era uscita dal locale.

“Tu?”.
 

***
 

“Non hai gli allenamenti?” domandò Yohei infastidito, rivolto al ragazzo che gli stava accanto.

“Sono finiti da poco, proprio come sono finiti per Sakuragi” rispose Sendoh con un sorriso disarmante.

“E non hai nulla di meglio da fare che stare qui?” domandò ancora Yohei sbuffando, mentre rivolgeva un’occhiata all’interno del locale dove Hanamichi era seduto con Haruko.

“Quando ci siamo diretti verso il bar, credevo volessi offrirmi qualcosa!” soffiò ancora Sendoh al suo orecchio, facendo venire la pelle d’oca a Mito.

“Non è questo il momento!” gli diede una gomitata Yohei allontanandolo da sé.

“Mh… allora spero ti deciderai a dirmi perché siamo appostati fuori da questo locale, aspettando che Sakuragi esca!” continuò ancora Sendoh imperterrito.

“Nessuno ti costringe a stare qui, quindi, no! Non credo te lo dirò!” esclamò Yohei sorridendo pungente.

“Va bene!” non si perse d’animo il numero sette.

“Allora, vorrà dire che aspetterò paziente” disse ancora, congiungendo con le braccia la vita dell’altro e poggiandogli il mento sulla spalla.

“Che fai?” chiese Yohei infastidito.

“Mi metto comodo nell’attesa!” fu la pronta risposta del giocatore.

“Se per te è comodo farsi venire la gobba, fa pure” rispose Yohei fingendosi indifferente ma non allontanando le braccia di Sendoh da se.

“È una cosa seria, vero?” chiese il giocatore dopo alcuni istanti di silenzio.

Non credeva, infatti, che Yohei potesse appostarsi fuori da un locale per gioco.

Non l’aveva mai presa in considerazione come ipotesi e, anche se aveva fatto un po’ d’ironia, aveva capito subito che doveva esserci sotto qualcosa di molto grosso.

“Più di quello che immagini” gli rispose Yohei mettendosi le mani in tasca e poggiando, forse in maniera inconscia, la testa sulla spalla del giocatore.

Sendoh se ne accorse, senza però farlo notare all’altro.

Mito non lo aveva allontanato da se e adesso si era totalmente rilassato.

Ed era bello stare lì, a fare chissà cosa, in quella posizione.

Sendoh non si era allontanato dall’altro né Yohei lo aveva scostato ma anzi, si era addirittura messo comodo.

E ora, gli stava anche rivelando, in parte, la gravità della situazione.

“Ti posso solo dire che se Hanamichi le sta dicendo quello che credo, e se lei si infuria, altra cosa che credo probabile, allora Hanamichi potrebbe avere dei guai. Soprattutto, se lei decide di parlare con le sue migliori amiche, altra cosa che, purtroppo, credo farà” riassunse la questione Mito, pratico come sempre, e Sendoh non ritenne opportuno interromperlo.

D’altro canto, aveva capito che Hanamichi nascondeva qualcosa di grosso, che forse aveva a che fare con la sua nazionalità o forse no, questo Sendoh non lo aveva ancora chiarito.

Tuttavia, gli era chiaro che se questo qualcosa di grosso fosse arrivato a scuola, allora il numero dieci avrebbe potuto passare dei seri guai.

“Se a questo, ci aggiungi che le sue amiche non brillano per intelligenza, allora siamo nei guai!” aggiunse Mito dopo un po’, sospirando pesantemente.

“È la sorella di Akagi, giusto?” s’informò Sendoh, staccandosi a malincuore dall’abbraccio e scegliendo di sedersi su una delle panchine che costeggiavano il marciapiede.

In fondo, erano in una strada affollata in un orario di punta.

Meglio non attirare l’attenzione, vista la situazione.

Mito lo seguì, sedendosi accanto a lui e rispondendo affermativamente alla domanda.

“E non ti sta molto simpatica, vero?” chiese ancora Akira.

“Mah…” rispose Yohei facendo un istante di pausa.

“Diciamo che faccio buon viso a cattivo gioco, ma non è che mi stia antipatica” gli rivelò.

“È una brava ragazza, tutto sommato. Anche se molto ingenua!” costatò poi con oggettività.

“Ma non ti piace, però. Caratterialmente, intendo. E neanche le sue amiche, mi è sembrato di capire” continuò ancora Sendoh, trovando molto piacevole chiacchierare con l’altro.

Da quando si conoscevano, avevano parlato molto poco e mai in maniera così tranquilla.

Inoltre, Yohei sembrava molto disponibile nel metterlo a conoscenza dei suoi pensieri, e Sendoh colse l’occasione al volo per conoscerlo meglio.

“Diciamo che trovo alcuni dei loro atteggiamenti molto stupidi. Però, è l’età, credo” rivelò ancora Mito.

“Sai” parlò ancora Yohei, “è innamoratissima di Rukawa. Come tutta la scuola, del resto”.

“E la cosa ti da fastidio?” ridacchiò Sendoh.

“Devo essere geloso?” lo punzecchiò.

“Ah, ah, ah” finse di ridere Yohei.

“Molto divertente!” esclamò, con un cipiglio severo.

“E allora, qual è il problema?” indagò Sendoh, ritornando serio.

“Visto e considerato che non si tratta di Rukawa!” esclamò poi.

“Infatti” gli confermò Yohei.

“Non è Rukawa, quanto il concetto di amore in se” gli rivelò i suoi pensieri.

“Cioè?” chiese Sendoh interessato.

Era la prima volta che affrontavano un argomento del genere ed era curioso di conoscere il punto di vista si Mito.

Anche perché, se aveva ben inteso quello che l’altro stava per dirgli, sospettava fortemente che quel punto di vista combaciasse perfettamente con il suo.

“Lo idolatra” gli chiarì Yohei.

“Non dico che sia impossibile innamorarsi di una persona che neanche si conosce” parlò ancora Mito.

“Sarei molto stupido, soprattutto se prendo in considerazione Hanamichi e Rukawa!”

“E me e te!” aggiunse Sendoh ridacchiando.

Yohei non rispose, decidendo di soprassedere.

“Quello che invece è sbagliato, è innamorarsi di una persona dopo averla idealizzata, e solo perché è popolare. Quello non è amore” gli chiarì Yohei.

“Certo, è tipico dell’età, ma è comunque sbagliato. Perché anche Rukawa ha dei difetti, ma nessuna delle sue fan lo prende in considerazione.

Rukawa ha un amore assoluto verso il basket, eppure, sono convinto che pochissime delle sue fan conoscano le regole basilari di questo sport.

Inoltre” e fece una pausa, come per raccogliere le idee, “anche Akagi è un fenomeno, in questo sport. Eppure, non ha lo stesso fan club che può vantare Rukawa. Non lo trovi contraddittorio?” gli domandò Yohei con sguardo attento.

“No!” rispose Sendoh sorridendo.

“Non lo trovo contraddittorio. Lo trovo assurdo” gli chiarì il suo pensiero e Yohei ridacchiò.

“Visto e considerato che anche io ho tutte le ragazze della scuola ai miei piedi, e la cosa mi ha sempre irritato molto, anche se, in linea di massima, sono sempre gentile con le mie ammiratrici” gli rivelò.

“Nessuna che ti accetti per quello che realmente sei, essendosi fatte un’idea di te del tutto sbagliata e fantasiosa” continuò ancora.

“Sì, può essere molto frustrante, come cosa” chiarì Sendoh e Yohei sorrise.

“Per questo, non mi sono mai accontentato” parlò ancora il giocatore.

“Per questo, ho sempre cercato qualcuno che vedesse al di là del mio aspetto e della mia bravura. E, sembra che alla fine la mia ricerca sia finita” concluse, guardando l’altro attentamente.

Yohei sorrise di rimando, non aggiungendo però nulla.

Forse, nonostante le diversità, lui e Sendoh non erano poi così dissimili.

Forse, entrambi avevano trovato quello che cercavano, chi inconsciamente, chi alla luce del sole.

Forse, la loro relazione poteva funzionare.

In fondo, sotto quel punto di vista erano sulla stessa lunghezza d’onda.

Chi mai avrebbe potuto dire quante altre cose ancora li accomunasse?

Una cosa era certa, comunque: solo il tempo avrebbe risposto a quella domanda.

Solo il tempo avrebbe dato conferma se vivere quella storia fosse sbagliato oppure no.

In ogni caso, nessuno avrebbe potuto rimproverarsi di nulla, perché sarebbero andati fino in fondo, decidendo di viverla.
 

Continua…
 

Non ho molto da dire su questo capitolo.

Haruko compare attivamente nella storia e spero di aver gestito bene il dialogo tra lei e Hanamichi.

Compare anche la sua introspezione che spero di aver reso al meglio.

Inoltre, anche Mito fa un grosso passo avanti decidendo di accettare la presenza del giocatore nella sua vita e renderlo partecipe dei suoi pensieri.

Pensieri che iniziano a prendere in considerazione l’idea di avere una storia e viverla fino in fondo e che stanno a significare che il personaggio, in qualche modo, sta cambiando e crescendo.

Spero di non averli stravolti e di aver gestito bene i pensieri di tutti loro.

Come sempre, attendo i vostri pareri.

Nel frattempo, ringrazio chi è giunto fin qui.

Ci vediamo martedì prossimo con il nuovo capitolo.

Pandora86
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. La controparte ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
 
 
Capitolo 13. La controparte.
 

“Sembra che le cose vadano per le lunghe!” esclamò Sendoh, dopo qualche minuto di silenzio.

Erano fuori dal bar da circa quaranta minuti e sembrava che né Sakuragi, né la ragazza, fossero intenzionati a uscire tanto presto.

“Spero che Hanamichi non le stia raccontando tutta la sua discendenza” sbuffò Mito seccato.

Sapeva quanto potesse essere logorroico il suo amico, ma quello che più lo infastidiva era il fatto che le parole che Hanamichi avrebbe potuto pronunciare correvano il rischio di non essere capite.

Inoltre, più tempo passava, più i sospetti che Haruko venisse a sapere più cose del dovuto si concretizzavano.

“Non mi hai ancora detto quali verità scioccanti potrebbero essere rivelate” insistette nuovamente Sendoh.

Yohei sembrava essere ancora più disponibile dopo il loro ultimo scambio di idee, quindi, perché non approfittarne?

Mito sbuffò ma poi sorrise.

“Sei insistente” affermò, con un finto cipiglio contrariato.

“Me lo hai già detto” ghignò Sendoh di rimando.

Mito sospirò e si arrese a spiegare.

“Devi sapere che Hanamichi non ha fatto altro che farle la corte, da quando è iniziato l’anno scolastico” incominciò.

“Aggiungo, però, che se ne sono accorti tutti tranne lei”.

“Ma non gli interessava Rukawa?” chiese Sendoh interessato.

Il numero dieci dello Shohoku era sempre una fonte di sorprese per lui, sia su un campo da gioco sia nella vita privata.

E quell’alone di mistero che circondava Sakuragi incominciava a incuriosirlo non poco.

Sospettava inoltre che il suo carattere non fosse così semplice come in realtà appariva e, per averne la prova, bastava considerare chi avesse scelto come migliore amico.

“Infatti!” gli confermò Mito, strappandolo dalle sue riflessioni.

“Ma non tutti sono in grado di accettare quello che sono. Non all’inizio almeno!” concluse Yohei, sapendo che Sendoh avrebbe capito al volo a cosa si riferisse.

E, infatti, il giocatore annuì di rimando, riflettendo sulle parole di Mito.

Sakuragi doveva essere una mente non poco contorta.

Ma, se voleva chiarire con la ragazza, come gli sembrava di aver capito, aveva comunque un animo buono, visto e considerato che, a detta di Yohei, lei non se ne era mai minimamente accorta.

Decise di approfittare della direzione che aveva preso il discorso, per approfondire anche un po’ il passato di Yohei in quel senso.

“E tu, invece?” domandò.

“Non mi sembra abbia avuto problemi ad accettare la cosa” disse ancora.

“Infatti, non è quello il problema” fu la lapidaria risposta di Yohei.

Sendoh ridacchiò.

“Già, non è per quello che scappi da me!” affermò sicuro.

“Io non scappo da te” ci tenne a precisare Mito.

“Infatti” confermò Sendoh a sua volta.

“Tu scappi dalle persone in generale” costatò, centrando perfettamente il punto.

“Ma come hai preso la cosa?” indagò ancora.

“Come avrei dovuto prenderla, visto che ho mosso mari e monti per par mettere insieme
Rukawa e Hanamichi?” gli fece il verso Yohei.

“Quindi, lo sapevi già” affermò ancora il giocatore.

“Sapere cosa?” domandò Yohei con il tono di chi si appresta a esalare l’ultimo respiro.

“Da che lato pendevano i tuoi gusti!” gli chiarì Sendoh.

“E invece no!” ci tenne a correggerlo Yohei, guardandolo storto.

Sendoh lo guardò sorpreso.

Quella sì che era una scoperta. Cioè, da un lato lo aveva sempre sospettato però, averne la conferma diretta, era tutt’altra cosa.

“Vuoi dire che…” e si interruppe, non sapendo bene come continuare.

“Nessuno ha mai destato il mio interesse, né ragazzo, né ragazza” completò per lui la frase Yohei.

“E poi, avevo leggermente altro a cui pensare” ci tenne ad aggiungere.

Sendoh annuì sorridendo appena.

“Quindi, io sono l’eccezione” sussurrò, prendendo la mano dell’altro.

“Vedi di non dare niente per scontato!” esclamò acido Mito, smentendo però il suo tono con i gesti, mentre le dita andavano a stringersi con quelle del giocatore.

“Non ci penso proprio” affermò Sendoh convinto, andando a rafforzare la presa intorno alla mano di Mito.

Quella nuova alleanza non poteva che renderlo felice.

Non avevano ancora parlato della notte passata insieme, ma poco importava. Sendoh sapeva che ce ne sarebbe stato il tempo.

Inoltre, il fatto che fosse lì, con Yohei, a districare quella complicata matassa che aveva creato
Sakuragi in pochi mesi di scuola, valeva molto più di mille notti passate assieme.

Perché, se quando erano stati insieme Mito gli aveva concesso il suo corpo, e parte del suo cuore con quell’ammissione incerta, essere lì con lui significava che Mito divideva con lui i suoi problemi, accettandolo nella quotidianità.

Per cui, andava bene così, valutò il numero sette mentre aspettava in silenzio.

“Oh!” esclamò Sendoh dopo qualche minuto.

“Sakuragi è uscito” disse ancora, alzandosi.

Quando vide che Yohei non faceva lo stesso, lo guardò perplesso.

“Non siamo venuti qui per Sakuragi?” domandò e Mito, in risposta, ghignò.

“No, direi proprio di no!” esclamò Yohei, sorridendo furbo.

“Non è lui che aspettiamo” disse, non aggiungendo più nulla e Sendoh non faticò a intuire i suoi pensieri.

Aveva, infatti, riconosciuto quell’espressione: era la stessa che aveva visto ad agosto, quando Yohei si apprestava a cacciare fuori gli artigli in difesa del suo migliore amico.

Si sedette, ansioso di conoscere le prossime mosse dell’altro e promettendo a se stesso che, se ce ne fosse stata la possibilità, avrebbe aiutato il suo ragazzo come meglio poteva.

Mosse che gli furono chiare appena qualche istante dopo, quando la ragazza uscì dal bar.

La conferma, stava nel fatto che il ghigno di Yohei era ricomparso, e stavolta più cattivo che mai.

Strinse con forza la mano di Mito, facendogli capire, in quella stretta, che lo avrebbe appoggiato.

Yohei gli sorrise, in risposta, e poi si alzò interrompendo il contatto fra le loro mani.

E Sendoh si apprestò ad ammirare uno dei tanti atteggiamenti del suo, finalmente, ragazzo: quello da pericoloso teppista.

Sapeva che Yohei non avrebbe mai fatto del male alla ragazza. Tuttavia, sapeva anche quanti problemi potesse procurare il fastidioso ciarlare delle ragazzine.

Forse, con le parole giuste e una buona dose di paura, la ragazza avrebbe tenuto la bocca chiusa su quello che Sakuragi le aveva rivelato.

Sì, Sendoh era sicuro di questo: Yohei voleva solo parlarle e quindi capire che intenzioni avesse nei confronti di Sakuragi.

E, di certo, ricordarle anche che sarebbe stato poco opportuno confidarsi con le sue amiche, cosa strettamente probabile nelle liceali.

Erano questi i pensieri di Sendoh mentre camminava accanto al silenzioso Yohei che, con le mani in tasca, seguiva la ragazza tenendosi a una decina di metri di distanza.

A un certo punto, Yohei interruppe i suoi passi, facendogli cenno di seguirlo in un posto da cui sarebbero stati poco visibili.

Sendoh lo seguì con sguardo interrogativo, notando che l’espressione di Yohei era mutata: da minacciosa, era ora divertita.

Passò qualche istante, e poi il numero sette capì il perché di quei movimenti.

Vide una figura avvicinarsi alla ragazza, rivolgendo uno sguardo crucciato verso Mito che ridacchiava silenziosamente.

Sorrise a sua volta, apprestandosi a seguire i nuovi sviluppi venutisi a creare.
 

***
 

Hanamichi rientrò piano, guardandosi attorno e notando quanto silenziosa fosse la casa.

Si stupì non poco notando che Rukawa non era in casa.

Forse, valutò, era andato a fare due tiri per ingannare l’attesa del suo ritorno.

Si sedette sul divano congiungendo le mani e riflettendo sugli avvenimenti.

Guardò il telefono, sperando che passassero presto le ore.

Sapeva che Yohei non sarebbe stato a casa a quell’ora, visto e considerato che si era appostato fuori dal bar dove aveva invitato Haruko.

Era sempre così, fra loro, pronti a guardarsi le spalle uno con l’altro, sempre all’erta in attesa di chissà quale pericolo.

Quello che lo aveva stupito era però la presenza del porcospino.

D’altro canto, impossibile non notarlo, con quella capigliatura assurda.

In cuor suo sorrise felice.

Mito meritava una persona del genere, e non provava nessun fastidio nel fatto che anche Sendoh fosse rientrato nei casini che lui stesso aveva creato in soli pochi mesi di scuola.

Se solo fosse stato più chiaro, almeno con se stesso.

Ma oramai era inutile.

Guardò il telefono, ansioso di conoscere come fossero andate le cose a Yohei, ben sapendo quanto il suo amico potesse essere persuasivo.

Sperò, tuttavia, che non ce ne fosse bisogno.

Guardò il telefono, sperando che Rukawa rientrasse presto dal suo allenamento pomeridiano.

Che rientrasse presto e che si sedesse accanto a lui, offrendogli la sua spalla, come era avvenuto mesi addietro nella sua catapecchia quando, non sopportando il dolore, aveva poggiato la fronte sulla spalla del numero undici in cerca di un sostegno.

Guardò il telefono e strinse fra le mani la felpa che Rukawa aveva lasciato in giro sperando che, con quel pezzo di stoffa a contatto con la sua pelle, si sarebbe sentito meno solo.

Tuttavia, in cuor suo, era sereno perché finalmente sapeva di aver fatto la cosa giusta.
 

***
 

“Tu?” balbettò Haruko incerta, arrossendo all’istante e poi chinando il capo.

Patetica.

Fu questo il pensiero che attraversò la mente nella figura che l’aveva avvicinata e che ora la guardava sprezzante.

“Che – che coincidenza!” balbettò Haruko, giocherellando con l’orlo della sua gonna.

“Tzè” fu la sprezzante risposta della persona, che aveva alzato leggermente il labbro con fare disgustato.

“Gli idioti credono alle coincidenze” disse con tono volutamente cattivo, e fu allora che la ragazza alzò, sorpresa, lo sguardo verso di lui.

“Eh- ehm – io non capisco!” sorrise incerta Haruko avendo, per la prima volta, la possibilità di osservare così da vicino il suo idolo.

Perché lei, nonostante fosse innamorata persa, quasi mai gli aveva rivolto la parola.

Mai aveva osservato i suoi occhi, mai aveva ascoltato la sua voce così da vicino.

In sostanza, oltre l’estetica, non conosceva nulla della persona che le stava di fronte.

E, anche sull’aspetto, non poteva di certo dire di conoscerlo a menadito, perché mai lo aveva avuto così vicino per più di qualche istante.

“Cosa ti ha detto?” andò dritto al punto Rukawa, senza mezzi termini e non curandosi di apparire scortese.

“Chi?” domandò stupidamente Haruko.

Rukawa sbuffò con disappunto, trattenendosi dal darle ancora dell’idiota.

In fondo, era la sorella del capitano ma, soprattutto, era la ragazza cui Hanamichi teneva.

Si sforzò quindi di essere più chiaro, non trattenendosi però dallo scandire le parole come se avesse davanti una persona un po’ tarda.

“Cosa – ti – ha – detto – Hanamichi?” chiese lentamente, inclinando il capo da un lato.

Haruko sbarrò gli occhi, sorpresa.

“Come lo sai?” domandò, riuscendo a non balbettare.

Rukawa sbuffò ancora.

Si era ripromesso di usare un minimo di tatto.

C’era da dire che però lui non era così ingenuo come il suo do’hao.

O forse, era più corretto dire che lui non era così buono come Hanamichi.

Perché lì la questione era evidente, anche se il do’hao non l’aveva mai capito e Rukawa aveva sempre omesso la cosa.

L’aveva omessa per non disilludere Hanamichi sulla bontà d’animo della ragazza.

In sostanza però, Rukawa non l’aveva mai sopportata e non perché Hanamichi le faceva la corte.

Anche quando pensava fosse etero, non era questo a infastidirlo della ragazza.

Quello che realmente non sopportava della stupida che aveva dinanzi, era la sua finta ingenuità, che andava bene per Hanamichi, ma che di certo non poteva trarre in inganno lui.

Perché lei sapeva.

Sì, Rukawa ne era certo. Si sarebbe giocato tranquillamente una mano su questo.

Lei sapeva che Hanamichi le faceva la corte e aveva sempre fatto finta di niente.

Non lo aveva accettato, non lo aveva rifiutato ma lo aveva lasciato in sospeso.

E se c’era una cosa che Rukawa proprio non sopportava, erano le questioni che non venivano risolte.

Spesso, nei mesi addietro, quando si poteva solo limitare a osservare il do’hao, si era sempre domandato perché lei non lo mandasse definitivamente al diavolo.

La loro manager era stata, ad esempio, chiara con Ryota e si vedeva lontano un miglio quanto fosse interessata ad Akagi.

Rukawa non aveva dubbi che il play maker l’avrebbe prima o poi conquistata, ma ci voleva comunque del tempo.

La Akagi, invece, no!

E Rukawa, che credeva il do’hao realmente innamorato, in cuor suo soffriva per quell’atteggiamento così strafottente camuffato però da un aspetto angelico e da una parolina gentile.

In sostanza, lui vedeva la ragazza come un’abile burattinaia e non sopportava che giocasse così sfacciatamente con i fili del cuore del suo do’hao.

Poi, la risposta per quell’atteggiamento gli era venuta settimane dopo, quando gli era capitato di ripensare al momentaneo allontanamento di Hanamichi dalla squadra, dopo poco che giocava.

Lei aveva sempre visto il talento di Hanamichi e sapeva che rimaneva in squadra per lei.

Che splendida occasione per fornire al fratello dei validi elementi alla squadra.

E, di conseguenza, Rukawa l’aveva inserita nella lista nera.

“Come lo sai?” la voce di Haruko lo riscosse dalle sue riflessioni.

E fu allora che Rukawa si decise a renderle pan per focaccia la sofferenza che aveva causato a lui, con il suo atteggiamento.

Sorrise, ma non era un sorriso benevolo. Era più un piegamento di labbra molto, molto sarcastico.

“Tzè” parlò con un tono di voce che risultasse chiaro e deciso in modo da non ripetere quanto stava per dire.

“Un po’ difficile che non lo sappia” e si prese un istante di pausa prima di continuare, facendo sì che in questo modo che il concetto venisse assimilato.

“Visto che è il mio ragazzo!”.
 

Continua…
 

Note:
 

Bene! Siamo arrivati al penultimo capitolo della fic.

Non ho molto da dire, se non una piccola precisazione.

L’ultima parte, quella riguardante Haruko, è interamente pensata da Rukawa con l’idea che si è fatto il numero undici della ragazza.

Nello capitolo precedente, anche Mito parla di lei, esprimendo un punto di vista differente.

Lo stesso fa Hanamichi, né “Il tuo vero volto”, dove esprime un punto di vista ancora diverso.

La cosa è voluta; ho cercato, infatti, di immedesimarmi nei personaggi cercando di esprimere il loro pensiero, che ovviamente non poteva essere uguale, su Haruko.

Spero di esserci riuscita.

Come sempre, attendo i vostri commenti.

Nel frattempo, vi do appuntamento a martedì prossimo con l’ultimo capitolo e ringrazio, come sempre, chi è giunto fin qui.

Pandora86

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. Epilogo ***


Eccomi con il nuovo capitolo.
Ringrazio chi ha recensito quello precedente e chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate!
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note.
Buona lettura.
 
 
 
Capitolo 14. Epilogo.
 

Rukawa osservò il volto della ragazza divenire pallido e poi, successivamente, sgranare gli occhi.

La vide boccheggiare e rimanere in silenzio, ma non ripeté la frase.

I suoi atteggiamenti stavano a significare che l’aveva udita benissimo.

Udita e capita, soprattutto.

Ed era questo, quello che contava.

Perché Rukawa, a differenza di Hanamichi, sapeva di non avere nulla da perdere.

Sicuramente, il suo do’hao non aveva neanche lontanamente accennato alla loro situazione e nemmeno rivelato da che lato pendessero i gusti della super matricola.

Il do’hao era troppo buono e sicuramente l’aveva fatto per non coinvolgerlo, nel caso la ragazza non avesse tenuto la bocca chiusa.

Però, Rukawa considerò che, anche se per il motivo sbagliato, Hanamichi aveva fatto la scelta giusta.

Perché, considerando che la ragazzina si sarebbe potuta arrabbiare molto (anche se Rukawa avrebbe definito il tutto come crisi isterica!) di certo non avrebbe minimamente creduto alle parole di Hanamichi.

Lui, d’altro canto, essendo la super matricola, asso indiscusso della squadra, idolo incondizionato di tutte le ragazzine della scuola, ecc…, ecc…, non aveva proprio nulla da perdere.

Anzi, sperò quasi che la ragazza rivelasse il fatto che Kaede Rukawa era gay.

Di certo, sarebbe stata mangiata viva da tutte le ragazze del liceo.

Prime fra tutte, ad agire, sarebbero state sicuramente le pazze esaltate RU, KA, e WA.

Già, se fosse stato un tipo diverso caratterialmente, sarebbe scoppiato a ridere seduta stante, tanto lo divertiva il pensiero.

Però, essendo Kaede Rukawa, alias la persona meno espressiva di tutta la popolazione mondiale, si limitò a ridere nella sua testa.
Inoltre, quel silenzio iniziava a seccarlo, per cui, decise di porvi fine nel suo solito modo.

“Sei sorda, oltre che tarda?” le disse, fissandola severamente.
Vide che la ragazza si apprestava a parlare e tirò un sospiro di sollievo.

Quando però la vide aprire e richiudere la bocca senza fare uscire alcun suono, allora valutò di risolvere tutto alla maniera di Hanamichi e prenderla a testate.

In fondo, con il fratello, nella partita contro il Ryonan aveva funzionato.

Forse, anche su di lei avrebbe avuto l’effetto di una bella svegliata.

Tuttavia, suppose che Hanamichi non avrebbe gradito la cosa, quindi preferì continuare a parlare, sperando che si svegliasse dallo stato di trance in cui sembrava caduta.

“Stiamo insieme” ripeté e vide Haruko alzare lo sguardo.

“Lo amo!” le disse ancora.

“Da sempre” ci tenne a sottolineare.

“E di certo, molto più di quanto tu creda di amare me” le disse ancora, sperando che lei capisse.

“Danneggia lui, e danneggerai anche me. Ma puoi stare certa che non rimarrò fermo a guardare” affermò con sicurezza, decidendo di girare i tacchi e andarsene.

Solo un’ultima cosa si sentì in dovere di aggiungere, prima di lasciarla definitivamente.

“Lui ti è molto affezionato. Non mandare tutto a cagare per una stronzata!” terminò per poi andarsene definitivamente.

D’altro canto, sapeva che le sue parole avrebbero avuto l’effetto sperato.

Tzè! Ironizzò nella sua testa.

L’unico vantaggio di essere l’idolo delle ragazzine!

Fu questo il suo pensiero mentre camminava lesto verso una sola possibile meta: il suo do’hao.
 

***
 

“Bel lavoro!” approvò Mito sorridendo, mentre guardava Rukawa allontanarsi.

“Davvero un gran bel lavoro, Kaede Rukawa” esclamò in un sussurro, con il cuore pieno di sentimenti contrastanti.

Se non fosse stato così estraneo al suo modo di essere, si sarebbe messo a piangere dalla
felicità e dalla commozione.

Perché, quello che aveva appena visto segnava, finalmente, la fine di un’era l’inizio di un’altra.

Liberazione, sollievo, e chissà quante altre sensazioni albergavano nel suo cuore, senza che lui avesse il tempo di catalogarle tutte.

Solo una cosa però sentiva più delle altre: il macigno che portava sul cuore era improvvisamente scomparso, lasciando il posto a qualcosa di indefinito.

Un po’ come quando ci si impegna con tutte le forze per qualcosa, utilizzando tutte le proprie energie e anche di più.

Si lavora sull’obiettivo, non pensando ad altro e dimenticandosi anche di respirare pur di raggiungerlo.

In quei frangenti, La mente e il corpo sono uniti in una cosa sola, e collaborano insieme per sostenersi in una lotta che si prevede difficile.

Poi, in un momento del tutto non previsto, ecco che questa cosa si realizza.

Succede quando si è al limite delle forze, ma non ci si arrende ancora.

Sì, eccolo che si realizza davanti ai propri occhi.

E, dopo aver lottato tanto, la prima sensazione è lo smarrimento.

Il lavoro è stato talmente duro che, in un primo momento, si fatica a credere di essere arrivati a un tale risultato.

Perché ci vuole tempo per assimilare il concetto: ci sono riuscito!

Mito sentì gli occhi pizzicare, nonostante tutto.

Tanti pensieri gli attraversavano la mente e, istintivamente, si portò una mano al cuore che batteva veloce: la voragine che aveva dentro era scomparsa.

Era tutta la vita che sperava in quel risultato e vederlo così, realizzato davanti ai suoi occhi, nudo e crudo, gli creava un senso di smarrimento.

Poggiò una mano al muro, sentendo la testa girare leggermente, e vi accostò la fronte.

Fu in quel momento che sentì una mano poggiata su di lui riportarlo alla realtà.

“Tutto bene?” gli chiese la voce preoccupata alle sue spalle, e Mito si voltò sentendo le sue guance bagnarsi.

Un’unica lacrima cadde.

Un’unica lacrima che finalmente, segnava l’inizio di una nuova vita.

Mito sorrise prima di rispondere, mentre andava ad afferrare la mano dell’altro, poggiata sulla sua spalla.

“Sì, tutto bene” confermò.

“Perché la tempesta è passata” e chiuse gli occhi, poggiando la fronte sul torace dell’altro.

Sendoh sorrise a sua volta, capendo pienamente il significato di quelle parole e stringendo l’altro a se.

Sapeva che Mito aveva vissuto tutta la vita in simbiosi con Hanamichi, cercando di fare in modo che fosse felice.

Aveva impiegato tutte le sue energie in quell’obiettivo, quindi capiva benissimo quello che provava.

Era come quando la sua squadra vinceva una partita decisiva.

Probabilmente, la stessa sensazione provata da Akagi quando non riusciva a credere di aver realizzato il suo sogno e aveva pianto lacrime di commozione.

Sì, lui aveva perfettamente inteso quello che l’altro stava provando.

Fu per questo che lo strinse a sé senza parlare.

Perché non c’era bisogno di parole ma solo di sentire il cuore di Mito battere contro il suo, mentre tutto il resto del mondo andava avanti, incurante di quello che era avvenuto nel cuore di quattro ragazzi.

Incurante del fatto che quattro ragazzi avessero trovato il loro posto nel mondo accanto a qualcun altro, desiderosi solo di crescere e vivere fino in fondo, affrontando tutto senza nascondersi.

Hanamichi, che finalmente aveva indossato la maschera del suo vero volto.

Yohei, che finalmente aveva detto addio alle catene che si era auto – imposto.

Kaede, che aveva difeso, per la prima volta nella sua vita, qualcun altro che non fosse se stesso e aveva definitivamente detto addio alla solitudine.

Akira, che aveva smesso di cercare la sua metà mancante nei volti di persone che, in fondo, non lo conoscevano affatto, trovando finalmente la sfida che cercava e che lo faceva stare bene.

Quattro ragazzi che avevano deciso di vivere con il loro vero volto.
 

Dieci anni dopo – America.
 

“Ma guarda, finalmente si sono decisi!” esclamò Sendoh leggendo l’e-mail.

Yohei uscì dal bagno, osservando con un ghigno quello che l’altro leggeva.

“Eh già, era ora!” affermò soddisfatto.

“Ma guarda, Kaede ti ha scelto come testimone!” ridacchiò, sedendosi su una delle gambe di Sendoh.

“E Hanamichi ha scelto te” esclamò allegro Akira.

“Questo era ovvio!” sbuffò l’altro guardandolo con espressione saccente.

“Hanamichi chiede se possiamo trattenerci, visto che vuole il tuo aiuto per organizzare la cerimonia” disse ancora Sendoh continuando a leggere.

“In effetti, dubito che i suoi nonni e Kaede siano molti d’aiuto visto che: gli uni rischierebbero di mandarli sul lastrico, dato che vogliono sempre il meglio per il loro nipotiiino” e qui Yohei imitò la voce della nonna di Hanamichi, “e che Kaede non farebbe altro che dire sì a qualunque cosa, rispondendo nel sonno” terminò la sua, più che oggettiva, analisi.

“Potremmo approfittarne anche noi!” sussurrò Sendoh sul collo dell’altro, con voce sensuale.

“No, grazie!” si scansò Mito, andando però a posare un bacio sulle labbra del giocatore.

“Cattivo!” piagnucolò Sendoh.

“Sempre” gli confermò Yohei ghignando.

“Chissà che faccia faranno, quando sapranno che io ho accettato il contratto per giocare nella loro stessa squadra” chiese Sendoh ridacchiando.

“Sono molto curioso, in effetti” rispose Mito sorridendo.

“Londra ci aspetta” esclamò il giocatore, stringendo la vita dell’altro.

“D’altro canto, tu puoi lavorare ovunque, vista la tua fama!” continuò ancora Sendoh.

“Comunque, ho il regalo di nozze giusto per loro” cambiò argomento Yohei, alzandosi e prendendo uno scatolone.

“È arrivato?” domandò Akira, interessato.

“Stamattina, mentre tu dormivi” confermò Yohei.

“Direttamente dal Giappone” e sorrise, mentre apriva il pacco con Sendoh che guardava interessato il contenuto.

Non vedeva l’ora di poter leggere la nuova opera di Mito in lingua madre, visto che questa era un po’ particolare.

Per l’occasione, Mito l’aveva completata prima di darla alle stampe e adesso eccoli lì, tutti i volumi che, Sendoh ne era sicuro, avrebbero spopolato in molti stati.

Era anche curioso di conoscere lo pseudonimo che Yohei aveva usato, proprio per sviare Kaede e Hanamichi.

Osservò la copertina del primo volume, toccandola con riverenza.

“In fondo” disse Yohei sorridendo, “è cominciato tutto da lì”.
Sendoh annuì e lesse il titolo:
 

                                             Slam Dunk Vol.1
                                          Di Takehoko Inoue
 


The End.
 

Note:

Non ho molto da dire su questo capitolo se non qualche piccola precisazione.

Come avrete notato, ho lasciato in sospeso alcune questioni.

Questa scelta non è stata casuale ma voluta.

In primis, c’è la questione Haruko che scelgo di concluderla così.

Credo sia, infatti, abbastanza evidente, dai pensieri di Rukawa e dalla precedente introspezione della ragazza che, alla fine, l’amicizia tra lei e Hanamichi si salverà.

Poi, non affronto le questioni familiari, tipo lo zio di Hanamichi o il padre di Yohei.

Anche questa è stata una scelta voluta dato che ho deciso di rispecchiare la caratteristica principale della storia dandole un finale introspettivo.

Infatti, poi riprendo la vita dei protagonisti dopo dieci anni non a caso.

È abbastanza ovvio che Hanamichi, nel corso dei dieci anni, abbia rivisto lo zio, così come Yohei suo padre.

Tuttavia, lo scopo de “Il tuo vero volto” non era tanto quello di risolvere i vari problemi dei protagonisti, quanto quello di trattare la loro crescita psicologica.

Hanamichi e Yohei sono finalmente cresciuti, decidendo di affrontare le cose belle della vita, e le cose brutte, con il loro vero volto e a testa alta.

Finalmente, si accettano per quello che sono scegliendo di rimanere uniti e imparare ad amare, nonostante tutto.

Perché lo scopo non era tanto scrivere di un lieto fine, dove tutte le problematiche si risolvono, dato che quelle, nella vita, ci saranno sempre. Il vero scopo è come le si affronta, da qui la scelta di dare un finale più introspettivo.

Lascio anche in sospeso la questione della casa di Hanamichi, lasciando intendere, nei capitoli precedenti, che finalmente vi farà ritorno con Kaede.

Per quanto riguarda invece la parte di Mito, beh, dato che “Il tuo vero volto” nasceva con lo scopo di creare degli avvenimenti che si integrassero perfettamente con il manga e che ne riempisse i vuoti, non contraddicendolo, mi è sembrato un modo carino per rendere la storia ancora più verosimile.

Tutti noi, infatti, conosciamo Slam Dunk, chi tramite il manga chi tramite l’anime, e scegliere di far scrivere a Mito quello che tutti noi conosciamo credo abbia concretizzato abbastanza bene lo scopo originale de “Il tuo vero volto”.

Inoltre, scelgo di far vivere Hanamichi e Kaede a Londra, perché più vicini ai nonni del numero dieci, anche se in uno stato diverso.

Anche qui il fatto che le due coppie abbiano vissuto per anni in continenti diversi è stata una scelta ponderata.

Perché Hanamichi e Yohei saranno sempre uniti, nonostante abbiano chilometri a dividerli.

Hanno imparato a camminare sulle loro gambe, riuscendo a porre fine a quella simbiosi fisica, che spesso ho decritto, in cui vivevano, capendo che le separazioni fisiche non sempre corrispondono a separazioni mentali.

Poi, c’è il ritorno nello stesso stato; anche questa, è stata una cosa calcolata.

Perché, Hanamichi e Yohei, possono vivere di nuovo insieme, ora che non hanno più quella dipendenza l’uno verso l’altro che li portava a isolarsi dal mondo e che ho descritto nei primi capitoli di questa storia.

Sono più che amici e più che fratelli e finalmente possono vivere vicini serenamente, senza creare uno spesso muro tra loro e il resto del mondo.
 
Che altro dire… spero che vi sia piaciuto come ho gestito il tutto.

Come sempre, aspetto i vostri commenti, salutandovi definitivamente e ringraziando tutti quelli che mi hanno letto e sostenuto in quest’avventura durata quasi due anni.

Grazie a tutti!

Per il futuro, ho in mente un’AU su Slam Dunk, ma non credo tornerò tanto presto (di sicuro dopo l’estate) dato che voglio concentrarmi su un’altra storia che sto pubblicando sul fandom di Merlin.

Spero di ritrovarvi tutti, alla mia prossima fic e, nel frattempo, ringrazio ancora chi è giunto fin qui.

Pandora86

Disclaimers: I fatti narrati in questa fic, così come nelle altre stagioni, sono inventati, e non scritti a scopo di lucro. I personaggi non mi appartengono e tutti i diritti sono riservati al legittimo proprietario del copyright.

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