Dalla Parte dell'Aquila

di BlackLuna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


CAPITOLO UNO
 
La vecchia Trabant viaggiava a ritmo regolare sulla strada asfaltata di recente, dando appena un lieve scossone quando incontrava qualche buca creatasi a causa delle forti piogge autunnali. Peter Kuspe aveva ricevuto quella macchina una decina di anni prima, dopo che la precedente aveva smesso di funzionare, Una mattina del 1982, quando Peter aveva trentasette anni, il vecchio catorcio si era rifiutato di accendersi, e, più tardi, dopo una lavata di capo proverbiale a causa del ritardo da parte del capo della fabbrica in cui Peter lavorava come addetto alle vendite, il meccanico ne aveva decretato il decesso dando una leggera pacca sulla spalla a Peter. Per circa un anno il povero uomo aveva dovuto contare solo sui mezzi pubblici, scarsi in quel piccolo borgo della Germania dell’est, aspettando, e sperando, che la Trabant che aveva ordinato arrivasse il prima possibile, anche se sapeva, tramite esperienze di amici e conoscenti, che questo poteva significare aspettare molto piu’ a lungo del previsto. Comunque, forse con più fortuna dei suoi amici, nel giro di un anno Peter Kuspe guidava la sua nuova Trabant fiammante, e per questa attesa relativamente breve se comparata a quella delle altre vittime della VEB Sachsenring Automobilwerke Zwickau, egli si convinse che quella macchina doveva essere nata fortunata, per cui aveva deciso che non si sarebbe separato da questo prodigio fino a che non fosse stato necessario darne una degna sepoltura.
Anne sobbalzo’ insieme alla macchina e al resto della famiglia quando una ruota passo’ dritta dentro una buca di dimensioni ragguardevoli posta proprio al centro della strada. “Prima del ’89 le strade non si sgretolavano per una lieve pioggerella!” esclamo’ Peter. Sua moglie Lidia sbuffo’. “Se stiamo a sentire te, tutto era meglio prima del ’89, anche l’aria.” gli fece notare annoiata. Peter era uno di quelli che normalmente si definiscono come sofferenti della “Ostalgie”, la nostalgia della Repubblica Democratica Tedesca. Convinto socialista e fedele al partito, al quale si era iscritto con entusiasmo non appena era stato abbastanza grande per farlo, Peter aveva vissuto la caduta del muro e la riunificazione della Germania come un duro colpo. Sosteneva che essere assoggettati al capitalismo americano era decisamente peggio di essere assoggettati alla società comunista di Stalin. Spesso si perdeva in racconti nostalgici di come semplice fosse la vita nella RDT. Tutti avevano un lavoro, tutti erano utili alla società. “Ti svegliavi al mattino con la sicurezza di fare qualcosa di importante per il tuo mondo, tutto funzionava come una grande fabbrica, in cui ognuno ha il suo spazio, il proprio ruolo. Io, per esempio, lavoravo in una fabbrica di pezzi per gli impianti elettrici. Il mio ruolo era quello dell’ufficio vendite. Era una certezza, sapevo che facevo quello e che la mia attività, nel mio piccolo, era importante come quella di un rappresentante di Stato, perché contribuivo, esattamente come lui, al progredire della società. Si, e’ vero, forse a Berlino l’hanno vissuta peggio, ho sentito di qualcuno che e’ stato ucciso, ma di sicuro non erano che incidenti, assolutamente sporadici, avvenuti quando questi pazzi decidevano di avventurarsi dall’altra parte, per avere cosa poi? , perché a quelle persone questa vita stava stretta. Sciocchi! Derubare il proprio mondo di elementi utili, solo per sentire che gusto ha la Coca Cola. No, no, no. Io non ho mai neanche pensato anche solo per un secondo di andarmene da qua. Era la mia vita e ne ero contento.”
Quello che poi seguiva era il racconto di come, con l’espandersi del capitalismo, la fabbrica fosse poi stata chiusa, per favorirne una privatizzata a pochi chilometri di distanza, in cui gli era anche stato offerto un posto di lavoro, se non fosse stato per la cocciutaggine dell’uomo, che si era quindi lasciato sfuggire l’opportunità di rifarsi una vita, o almeno di mantenerne una simile alla precedente. Ora l’uomo lavorava come impiegato in un ufficio assicurativo con un nome pericolosamente inglese, e doveva solo ringraziare la sua attitudine alla vendita se era stato preso, dal momento che poco nulla sapeva di assicurazioni.
Anne era nata nel 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, e ovviamente non ricordava nulla di quel periodo, e avrebbe creduto ciecamente alle parole del padre non fosse stato per la madre, decisamente meno entusiasta della vita nella RTD e per niente afflitta da Ostalgie. Il suo parere nelle storie permetteva di farsi un quadro piu’ realistico della situazione, vedendone anche le ombre, e non solo la luce accecante di cui il padre raccontava con fervore ogni qualvolta qualcuno o qualcosa gli dava un appiglio per iniziare.
Ma, a sei anni, la bambina non capiva molto dei discorsi di uno o dell’altro, per cui quando parlava il padre si immaginava un grande palazzo lucente in cui suo papà era il re, ragion per cui lei avrebbe potuto essere una principessa, e il fatto che ora lui non lo fosse piu’ implicava che anche lei aveva perso il suo grado, e poche cose la innervosivano allo stesso modo. Ma poi le parole disilluse della madre le ricordavano che nelle cantine del palazzo c’erano anche dei ratti, e sembrava che ultimamente di ratti ce ne fossero talmente tanti che il re, la regina e lei, la principessa, avevano dovuto cambiare casa, e si erano trasferiti a Rödigerstraße, 5. Inoltre, le sembrava di aver capito che nel palazzo era caduto un muro, per cui era davvero impossibile continuare ad abitarci. Un pochino, pero’, Anne si sentiva in colpa di questo. Era strano come tutto quanto fosse cambiato proprio l’anno della sua nascita, e spesso temeva che forse era stata proprio colpa sua il fatto che il muro del palazzo fosse caduto, e che di conseguenza il padre fosse diventato triste. Ovviamente non era del tutto sicuro che fosse così, ma non escludeva nulla a priori. Avrebbe solo voluto nascere un anno prima o un anno dopo, nel 1988 o nel 1990, così da essere sicura che non aveva nessun legame con la tristezza del padre, ma, ahimè, non poteva fare miracoli e neppure magie, quindi sarebbe forse rimasta per sempre con il dubbio di aver fatto cadere lei il muro tanto importante per suo padre, con i suoi primi vagiti di neonata.
“Quando arriviamo dalla nonna?” chiese dopo che i genitori avevano finito di battibeccare sul come fossero o meno le strade prima della sua nascita. Sapeva che mancavano circa cinque minuti alla casa della nonna, aveva visto il grande albero colpito dal fulmine, che d’estate spiccava tra gli altri perché era l’unico senza foglie, e sapeva che era a pochi chilometri dalla casa bianca della nonna. Aveva domandato solo per rompere il silenzio che si era creato in quella macchina, tipico lascito delle discussioni dei genitori, fossero queste sul muro di Berlino o meno, e Anne non amava sentire il peso di quel silenzio, e ancora meno le piaceva che questo accadesse il macchina, perché il rumore del motore della Trabant era l’unica cosa che si sentiva, e sembrava prenderli in giro e canzonarli, come a dire “Toh, io non conosco muri né palazzi, non so di fabbriche paradisiache dove tutti lavoravano con il sorriso sul volto, e quindi io continuo a borbottare, mentre voi continuate a tenervi il muso per come sono andate le cose, come se questo potesse cambiarle.” In quei momenti, Anne odiava la Trabant.
“Allora, quando arriviamo?” chiese ancora, visto che la prima volta la domanda era stata ignorata da entrambe i genitori.
“Ci siamo quasi, Anne, abbi pazienza ancora un attimo.” le disse la madre nascondendo un cipiglio nervoso dietro ad un tono zuccheroso.
Di nuovo la Trabant riprese a borbottare canzonandoli nel loro silenzio, ( “Brava, Anne, ci hai provato, ma sta volta ho vinto io”). Per fortuna la vittoria della macchina fu breve, dal momento che dopo pochi minuti, come avevano predetto la mamma e il vecchio albero colpito dal fulmine, Peter Kuspe mise la freccia per svoltare a sinistra. Imboccò una strada più piccola e che necessitava di una nuova asfaltatura già da qualche anno a questa parte. Boschi di conifere la costeggiavano, stagliandosi verdi contro il cielo grigio autunnale, e arrivavano fino al cancello nero di ferro battuto che torreggiava all’entrata del giardino della casa della nonna.
“Abbottonati la giacca e tirati su il cappuccio, sta ricominciando a piovere” la avvertì Lidia mentre Peter rallentava. Anne ubbidì tirandosi la giacca fin sopra il naso, anche se sapeva che non faceva così freddo da doversi imbacuccare come il giorno di Natale. Ma sua madre era una donna apprensiva, soprattutto per quello che riguardava la salute della bambina.
Il cancello nero era stato aperto per la Trabant, così che Peter non dovette fermarsi, e vi passo’ semplicemente attraverso, andandosi a parcheggiare il più vicino possibile all’entrata della casa.
La casa della nonna era una casa di discrete dimensioni, su due piani. Aveva moltissime finestre che facevano entrare quanta più luce possibile, ed era di un biancore candido che sembrava sprezzante del tempo che passava e tentava di renderlo vecchio, per cui ad Anne piaceva molto, perché le ricordava la casa delle Barbie che aveva visto a casa di una sua amica. Aveva pianto tutte le lacrime di cui disponeva per farsi comprare quella casa per il compleanno, ma erano state vane, così come quelle versate in vista di Natale, ma anche in quell’occasione Babbo Natale aveva fatto il taccagno, portandole una bambola che piangeva se le veniva tolto il ciuccio. Decisamente non all’altezza della casa per le Barbie.
Sulla soglia della pesante porta di legno chiaro c’era la nonna, Gretel Kuspe, una settantaquattrenne in forma. Nel suo portamento si potevano vedere i segni di un passato in una famiglia borghese, nei suoi capelli una spilla d’argento a forma di rosa suggeriva un lavoro ben pagato. La nonna non aveva mai tentato di nascondere la propria età dietro trucco pesante e tinte per i capelli. Portava, invece, i segni del tempo con orgoglio e dignità, curandosi con una crema per la notte, una per il giorno, un velo di rossetto e uno chignon di soffici capelli grigi ben stretto sulla nuca. A conoscerla superficialmente poteva sembrare una donna fredda, perennemente imbronciata a causa di una bocca la cui linea dura dava un’aria arrabbiata a tutto il viso. Gli occhi erano, però, molto dolci, anche se velati da un accenno di tristezza. Ora se ne stava ritta e impettita sulla soglia, ma non appena vide la bambina correre verso di lei, la sua freddezza si sciolse in un sorriso e aprì le braccia per salutarla.
“Nonna Gretel!” esclamò Anne buttandosi tra le sue braccia. La donna strinse forte a sé la bambina e le baciò una guancia arrossata dalla corsa, e dal calore del giaccone invernale.
“Anne, come sono felice di rivederti! Tuo papà si è comportato bene negli ultimi tempi?” le chiese giocosamente, sapendo che alla bambina piaceva fare la parte della maestra che racconta ai genitori il comportamento dei figli durante le ore di scuola. La bambina si allontanò un poco dalla nonna per guardarla bene in volto.
“Si” disse mettendosi le mani sui fianchi “però è un gran borbottone! Si lamenta sempre di tutto, anche delle strade!”
La nonna aveva adottato questo metodo per venire a sapere come effettivamente stava suo figlio, dal momento che non si era mai aperto molto con lei, e sapeva che la sua espressione impenetrabile era molto meno affidabile dei racconti distorti di una bambina di sei anni. Ora assunse uno sguardo severo e cercò di capire cosa poteva rendere insoddisfatto Peter.
“Davvero? Che briccone! E di cosa si è lamentato questa volta?” con mano lesta aprì un poco la chiusura lampo del giubbotto, almeno per fare emergere la bocca della bambina, il tutto prima che la nuora se ne accorgesse.
“Dice che non c’erano i buchi nelle strade prima!”
Peter raggiunse la figlioletta prima che Gretel potesse indagare su cosa intendesse con quel ‘prima’, e bloccò quella che avrebbe potuto tramutarsi in una discussione fastidiosa sul nascere. “E’ un metodo subdolo, mamma, te l’ho già detto.” le fece notare, e Gretel fece una finta espressione colpevole. “Se tu non mi dici niente, io dovrò pure avere degli informatori!” si giustificò.  Il quartetto si salutò e baciò, poi decisero di entrare in casa, e chiusero la giornata uggiosa fuori dalla porta d’ingesso.
Se fuori la casa della nonna poteva apparire sontuosa, dentro non era certo da meno. Tende di velluto erano appese alle finestre dei corridoi e delle camere da letto, mentre quelle delle altre stanze erano più leggere e seguivano una fantasia floreale che cambiava colore di stanza in stanza. I mobili erano quasi tutti d’epoca, di scuro legno massiccio e finemente lavorati, su di essi erano esposte in bella mostra molte fotografie che ritraevano la famiglia da quando Gretel e il marito erano piccoli, e molte foto dal dopoguerra. Ce n’erano moltissime anche di Peter, alcune decisamente imbarazzanti, ma che Gretel non avrebbe spostato di un centimetro nonostante il chiasso e le lamentele del figlio, per il semplice motivo che erano sempre state li. Vicino ad esse c’erano spesso soprammobili raffiguranti gli soggetti più svariati, alcuni souvenir portati da parenti e amici, altri comprati da Gretel stessa durante le varie gite e vacanze. Era un’amante dei viaggi all’estero, e soprattutto dei souvenir. Anche se visitava la piu’ piccola delle città, le piaceva portarsi dietro un ricordo di quella giornata e di quel luogo perché la “aiutavano a ricordare ogni particolare del passato”. Le miriadi di fotografie avevano la stessa funzione, così come tutti quei mobili fuori moda. Era attaccata ad ognuno di quegli oggetti, che per le altre persone non erano che cianfrusaglie, in un modo quasi morboso, e nei lunghi pomeriggi solitari non era raro trovarla intenta a rimirare ogni foto e a pulirla con un panno antistatico con un’amorevolezza comprensibile a pochi.
Anche Anne era attirata da tutti quegli oggetti, e spesso trotterellava per la casa alla ricerca di foto e soprammobili mai visti, e poi si divertiva a farsi raccontare la storia che c’era dietro ad ognuno di quegli oggetti, fosse questo una fotografia o un fermacapelli, e la ascoltava attentamente come se stesse guardando un film.
Fu proprio questa sua abitudine di curiosare in giro che portò Anne Kuspe a scoprire la storia più straordinaria ed entusiasmante che avesse mai sentito raccontare dalla nonna. Una storia che mai aveva avuto né ebbe pari in futuro, perché quello che venne a sapere non era solo il ricordo di un pomeriggio allegro passato in compagnia di amici, o di Peter Kuspe quando ancora questi non sapeva camminare. Quel giorno dell’ottobre 1995 Anne Kuspe scoprì la verità, e per molti anni avrebbe ricordato quel giorno con un’emozione incomparabile.
Ma questo Anne non lo sapeva ancora, e per il momento si limitava a dare forchettate annoiate agli spinaci senza che questi avessero la minima intenzione di sparirle dal piatto. I genitori e la nonna stavano conversando di argomenti fuori dalla portata di una bambina di sei anni, e quindi lei stava pensando agli affari suoi per conto suo. Quando decretò di aver pensato abbastanza (e gli spinaci erano diventati troppo freddi per poter essere mandati giù anche di forza), Anne prese parola. “Devo andare al bagno”.
La madre si distrasse dai discorsi importanti e da grandi che stava facendo per acconsentire a lasciarla alzarsi dal tavolo con un gesto d’assenso della mano. Anne scivolò giù dalla sedia e si diresse trotterellando fuori dalla sala da pranzo. Negli anni aveva affinato la sua tecnica di fuga dal tavolo, decretando che un “non ho più fame” oppure un “non mi piace”, per non parlare del famigerato “non ne voglio più”, non erano metodi efficaci per raggiungere i suoi scopi in fretta ed evitando una sgridata dal padre, dalla madre o dalla nonna stessa. No, anni di tentativi le avevano insegnato che chiedere di andare in bagno era la tecnica più efficace per svignarsela evitando questioni noiose e perditempo. Inoltre, quella scusa le dava un ampio margine di tempo per gironzolare un po’ per la casa della nonna prima di essere ripescata e riportata di peso al tavolo per finire gli avanzi di verdura abbandonati nel piatto.
Anne colse quindi l’occasione e cominciò il suo giro di perlustrazione dal piano superiore, che sarebbe stato l’ultimo ad essere visionato nel caso i genitori si fossero accorti degli spinaci rimasti, e che offriva più possibilità di svago e avventura, dal momento che comprendeva le camere da letto, in cui si trovavano foto e ninnoli nascosti ad un’occhiata superficiale per le stanze non private della casa.  
Trotterellando sulla moquette, Anne arrivò a quella che era stata la camera del padre. C’era un letto ad una piazza, un armadio e la bandiera della Germania con un simbolo che Anne non comprendeva, ma che le ricordava molto il compasso che utilizzava a scuola. Sotto, il padre aveva appeso uno striscione rosso con la scritta “Wir sind das Volk”[1] in nero, con le parole “wir” e “Volk” scritte tutte in maiuscolo. Sui vari scaffali c’erano libri di scuola e non. Quello più accessibile era un libricino abbastanza sottile, di quelle che Anne riconobbe come poesie. Anne aprì il libro dove c’era un’orecchia fatta dal giovane Peter, e vi trovò una poesia datata 1962, che un diciassettenne Peter Kuspe aveva cerchiato con una penna, e il segno era stato affiancato da un marcato punto esclamativo. Siccome sembrava che per il padre quella poesia avesse un significato particolare, Anne decise di provare a leggerla. Il testo, di un certo Volker Braun[2] di cui Anne non aveva mai sentito parlare prima di allora, citava così:
 
 
 
 
ISTANZA
 
Non veniteci con le cose pronte. Abbiamo bisogno di semilavorati.
Via il capriolo arrosto-qua con bosco e coltello.
Qui vige l’esperimento e non la rigida routine.
Gridate i vostri desideri: saranno il festino della vita.
Tra i continenti, verso ogni riva
Tende i muscoli il mare delle nostre attese
su ogni costa battono la risacca le sue dita
sul taglio della riva alza e spezza le onde
sempre alza la marea e la disperde
 
Per noi niente ricette, signore.
La vita, mister, non e’ più un libro illustrato né un difficile spartito, damigella
Qui viene imposto da subito il pensare. Via dalle poltrone,
giovanotti. Una branda da campo e io sono a posto.
Non così solenne, compagno, il pensiero esige fronti serene!
Chi mai rimpiange qui le mostrine guglielmine?
Le nostre spalle reggono un cielo pieno di stelle.
 
Qui stiamo scavando terra nuova e ritagliando nuovo cielo-
Qui lo Stato è di chi inizia, è semilavorato vita natural durante.
Gridate i vostri desideri: su tutte le rive
Batte il flutto delle vostre aspettative!
Ciò che ti urta al polpaccio, uomo, la risacca fragorosa:
sono i nostri mignoli che anticipano un frammento
di futuro, giocando.
 
(V.Braun)
 
Terminata la lettura, Anne era decisamente confusa, e non sapeva se quello che aveva appena letto le era piaciuto o meno. Credeva di aveva capito che c’era qualcuno che voleva fare qualcosa, esattamente non le era chiaro cosa, ma sembrava che alla base del testo di fosse un qualche fermento verso l’agire. Se fosse stata più grande avrebbe riconosciuto in quei versi una delle poesie più appassionate e piene di speranza ed entusiasmo dell’autore. Un giovane, all’epoca della stesura di qualche anno più vecchio di Peter Kuspe, che, entusiasta della RDT, lanciava un messaggio di azione alla sua generazione, di laboriosità, di entusiasmo della nuova società di cui si ritrovavano a far parte, e di cui dovevano essere ben orgogliosi. Peter Kuspe, almeno, lo era.
Ovviamente questo non poteva essere compreso da una bambina di sei anni, che, rimasta estremamente delusa per non aver capito la poesia (e per averla trovata anche alquanto noiosa, a dirla tutta), chiuse il libro e lo rimise a posto. Vagò ancora per qualche minuto nella stanza dalle pareti blu, senza trovare nulla di interessante ai suoi occhi, se non foto già viste, testimonianze dell’impegno ed entusiasmo politico del padre, che lei battezzò “roba noiosa di papà”, e giochi per maschi che non la intrattenerono per più di dieci minuti scarsi.
Abbandonata l’esplorazione in camera del padre, Anne prese a girovagare per il corridoio, cercando di aprire cassetti di mobiletti messi lungo di esso, ma che non rivelarono mai niente di entusiasmate. Anche il bagno non fu di grande aiuto: la collezione di trucchi della nonna comprendeva uno smalto, qualche crema e un rossetto, che Anne provò lanciando baci ad ammiratori immaginari, ma che la stufò ben presto.
Sbuffando, Anne rimise tutto a posto ed uscì dal bagno. Stava per tornare di sotto per chiedere di guardare la tele, quando si ricordò di non avere ispezionato una stanza, quella che, per altro, aveva la più alta probabilità di contenere segreti: la camera da letto della nonna. Sapeva che questa l’aveva più volte ammonita, dicendole di non curiosare in camera sua, più che altro per paura che la bambina ingerisse qualche pastiglia lasciata sul comodino credendo che si trattasse di una caramella. C’è da dire che Anne, essendo un’esperta di questo ultimo genere alimentare, sapeva riconoscerle perfettamente, e mai avrebbe ingoiato un blister di Valium per sbaglio. Quindi Anne si diresse verso la porta della camera da letto della nonna e la aprì piano per non fare rumore.
La stanza era ricoperta da carta da parati giallo tenue e decorata con motivi astratti e barocchi. Il letto si trovava proprio di fronte alla porta di ingresso ed era semplice, con la testiera e la struttura di ferro lavorato, con una fantasia che ricordava, nello stile, la carta da parati. Era un letto a due piazze ma non c’era posto per due persone. Infatti, i cuscini erano posizionati al centro, dando l’idea di una persona abituata a dormire da sola. Su un lato della stanza c’era una grande finestra che però era in parte coperta da una spessa tenda di velluto di colore scuro, che dava alla stanza un’aria lugubre, quasi triste, in contrasto con il resto della casa. Come se quella stanza fosse l’unico posto dove la nonna poteva mostrarsi davvero. Una cassettiera vicino alla porta, un bauletto ai piedi del letto, un armadio per i vestiti e un separé che nascondeva l’occorrente per la tolettatura erano gli unici addobbi di quella stanza.
Anne richiuse la porta dietro di sé e si avvicinò al letto. Era morbido e comodo, per cui Anne rimase seduta per un po’. Era già stata in quella stanza altre volte, e quello che la sorprendeva era la totale assenza di fotografie e soprammobili. Non c’era nulla, solo un vaso con dei fiori finti. Evidentemente la nonna doveva nascondere le proprie cose in maniera meticolosa, per cui, in maniera altrettanto meticolosa, incominciò la ricerca della bambina,
Guardò nell’armadio e vi trovò dei vestiti vecchi, che non aveva mai visto addosso alla nonna, insieme ad altri più nuovi e noti. Setacciò l’armadio ma non trovò nulla di interessante. Ripeté l’operazione per il baule (nutriva molte speranze in quest’ultimo, ma che furono deluse del tutto alla scoperta di romanzetti d’amore a buon prezzo). Anche la cassettiera fu passata in rassegna, anche se in modo sbrigativo, dal momento che conteneva anche le mutande della nonna, e Anne non voleva rischiare di essere colta in fragrante mentre esaminava un paio di mutandoni.
Guardò dietro il separé e giocò per un attimo a farsi il bagno con l’attrezzatura in ceramica bianca per la toletta. Guardò dietro le tende e sotto il letto, ma qui non trovò niente se non una serie di batuffoli di polvere che sembravano rincorrerla per la stanza, una volta uscita da la sotto.
Anne decretò la propria sconfitta e sedendosi sul letto cercò di pensare ancora una volta a dove potevano essere i segreti della nonna. Era impossibile che non ce ne fossero, quando la maggior parte era in esposta in bella mostra sui mobili di tutta la casa. Tutti avevano dei segreti in camera, lei aveva i disegni e i bigliettini che si scambiava a scuola con la sua amica del cuore. Aveva scoperto nel cassetto della mamma in bagno una serie di piccole boccettine di profumo, dei tester, che sapeva di non dover toccare o provare. Il papà, da quanto aveva scoperto, aveva delle poesie in camera, delle poesie cerchiate con un punto esclamativo vicino, che però Anne trovava molto più noiose dei profumi della mamma. Quindi anche la nonna doveva averne, da qualche parte.
Improvvisamente, si rese conto dell’unico posto che, seguendo l’ammonimento della nonna di non toccare le medicine, non aveva guardato: il cassetto del comodino. Si sentì profondamente sciocca. Quale posto migliore per nascondere qualcosa se non il comodino? Lei stessa ci teneva i bigliettini. Inoltre, era chiaro che li dovesse esserci qualcosa: altrimenti perché nonna le avrebbe detto di non toccarlo, usando la scusa delle pastiglie?
Con il cuore in gola, sentendosi solo come il primo uomo entrato in una piramide egizia potrebbe sentirsi, Anne aprì lentamente il cassetto, per non rovinarsi la sorpresa, e poi, quando questo fu completamente aperto, fece l’inventario di ciò che aveva davanti agli occhi: tre blister di pastiglie, una cartolina, una busta con delle lettere e delle fotografie tenute insieme da dello spago.
Anne per poco non svenne dall’emozione del suo ritrovamento! Scartò le pillole e si lanciò a capofitto sugli altri oggetti, indecisa su che cosa guardare per primo. Optò per la cartolina. Mostrava una città che non aveva mai visto, era in bianco e nero, e mostrava una ruota panoramica vista va varie angolazioni e altre parti di quello poteva sembrare un lunapark. Il retro era scritto con uno stile arzigogolato e raffinato, e diceva:
“Alle mie due bambine, Vienna è bellissima, addobbata con le bandiere del Reich sembra proprio fare parte della Germania. Mai giorno fu più felice, gli austriaci ci salutano per le strade e portano lo stemma del partito. Che questo sia solo l’inizio! Mi mancate,
 
Papà”
 
 
Una cartolina dal suo bisnonno! E da Vienna, per giunta! Non sapeva cosa fosse il Reich, ma, a giudicare dalle parole entusiaste scritte dall’uomo, doveva essere qualcosa di bellissimo.
Sempre più emozionata, Anne cominciò a sfogliare le lettere, ma ci rinunciò quasi subito a causa della scrittura troppo piccola e poco comprensibile della nonna e dell’altra persona, sempre la stessa, tranne che in isolati casi, con cui Gretel si scambiava una grande quantità di corrispondenza.
Le foto erano decisamente più interessanti e accessibili. Una rappresentava una donna giovane e bionda che sorrideva radiosa insieme ad un'altra ragazza, sempre bionda ma con i capelli più lunghi. Erano entrambe molto belle e si assomigliavano, in un certo senso. C’erano altre foto in cui compariva solo la ragazza con i capelli più lunghi, di cui una a braccetto con un uomo in una strana uniforme, decisamente più vecchio di lei, ma che la guardava con una tenerezza unica.
Altre foto mostravano un gruppo di ragazzi, con un’uniforme simile a quella appena vista, che facevano le cose più disparate, dal caricare dei fucili, al magiare, al dormire insieme su un prato, al giocare con degli animali. Una in particolare mostrava un uomo decisamente bello, con i capelli tirati indietro, una linea del naso dura, quasi freddo nei suoi lineamenti, ma con uno sguardo rasserenante mentre porgeva del cibo ad uno scoiattolo sul tavolo. Ad Anne quella foto piacque tantissimo, e rimase per un bel po’ a rimirarla. Quello che notò fu che l’uomo li raffigurato in primo piano era lo stesso che compariva nelle altre fotografie. Doveva essere quindi qualcuno che la nonna conosceva bene, per avere tutte quelle foto.
La bambina tornò di corsa alle lettere che aveva scartato perché difficili da decifrare, e si impegnò a leggere il nome del mittente su una lettera datata 12 Ottobre 1943. Quando lo decifrò balzò in piedi con il cuore in gola. Peter Kuspe. Suo padre.
Sua nonna si scambiava lettere con suo padre nel 1943? Non aveva senso. Suo padre era nato nel 1945, e decisamente non poteva essere lui il mittente delle lettere. E allora chi era Peter Kuspe? Era lo stesso uomo che compariva più volte nelle fotografie nascoste nel cassetto del comodino?
Anne aveva oramai deciso cosa fare. Fingere di non essere mai entrata in quella stanza era fuori questione. Doveva sapere di più di questo tizio che si spacciava per suo padre, e l’unico modo per scoprirlo era scendere con il bottino per chiederlo all’unica persona che poteva avere delle risposte: la nonna.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 

[1] “Noi siamo il Popolo”, slogan della RTD
[2] Poeta entusiasta della RTD, rimasto amaramente deluso dalla riunificazione della Germania

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


CAPITOLO DUE
 
“ Porto il dolce, se per voi va bene”, disse Gretel alzandosi dal tavolo e cominciando a sparecchiare. Vide che la nipotina Anne aveva avanzato gli spinaci nel piatto, ma non disse niente ai genitori per evitare che la riprendessero alla prima occasione. “Ho fatto la torta di mele.”
“Mmh, che buona! Quella con la cannella?” chiese la nuora, che sapeva essere estremamente golosa di dolci. “Dovresti andare a chiamare tua figlia, o si perde il dolce” aggiunse rivolta a Peter. L’uomo fece per alzarsi per recuperare Anne, ma questa fu più svelta e si presentò nella stanza con uno sguardo pensieroso.
“Sono qui” disse semplicemente, e si andò a sedere al tavolo.
“Eccoti!” esclamò la madre spostando la sedia alla bambina per permetterle di mettersi a tavola più facilmente.  “Ti stavi per perdere la torta della nonna, cosa sei andata a fare di sopra?”
La bambina aspettò qualche secondo prima di rispondere, nella mente le ronzavano ancora le lettere in bella calligrafia con le quali era stato scritto il nome di suo padre. Doveva chiedere spiegazioni? Doveva tacere? Forse era un segreto della nonna, ecco perché ci aveva messo tanto a scovarle. Forse la nonna non voleva che nessuno le vedesse, e se avesse scoperto che Anne aveva passato il suo tempo a ficcanasare nelle sue cose private si sarebbe arrabbiata. Ad Anne non era mai piaciuto fare arrabbiare la nonna, le veniva un colorito rosso acceso che non la convinceva per niente, sembrava le faccione dei cartoni animati quando si indispettiscono, ed in genere precede una fumata dalle orecchie accompagnata dal fischio di un treno. Ecco, alla nonna non era mai uscito fumo dalle orecchie, ma Anne non voleva che ci fosse una prima volta a questo evento, e soprattutto davanti alla mamma e al papà. In particolare davanti a quest’ultimo.
“Ero al bagno” si limitò a rispondere, senza convincere nemmeno se stessa.
“Al bagno,eh?” disse la nonna entrando in sala da pranzo con la torta e strizzandole l’occhio.
“Non hai combinato marachelle la sopra, vero?” indagò Peter.
Maledizione, la stavano mascherando.
“Oh, no. Solo il bagno..” fece in modo vago.
“Se hai allagato tutto mentre cercavi di giocare con l’acqua..” disse con tono minaccioso suo padre e lasciando intendere qualcosa di irripetibile.
“Oh, per l’amor del cielo! Lasciatela un po’ stare questa bambina!” intervenne la nonna in sua difesa. “Se ha allagato il bagno passerò strofinaccio, non è certo la fine del mondo!”
“Ma non ho allagato il bagno!” esclamò la bambina, carica per la consapevolezza di avere dalla sua parte la nonna, l’autorità in quella casa. “Eh, mamma, non l’ho allagato!” ripeté.
“Visto, non l’ha allagato, siamo tutti più sereni adesso, no?” tagliò corto la nonna cominciando ad affettare la torta.
Peter si lasciò cadere sulla sedia impotente davanti all’alleanza della madre e della bambina di sei anni: un fronte invincibile.
“Allora, la mangiamo questa torta?” chiese la madre, con rinnovata tranquillità: vedere suo marito battuto dalla suocera la divertiva molto.
Saltellante sulla sedia, Anne ricevette la sua fetta di torta alle mele con la cannella, e cominciò a divorarla, dimenticandosi presto del misterioso Peter Kuspe con il quale la nonna si scambiava lettere negli anni Quaranta, e di tutte le altre scoperte fatte poco prima. La mente dei bambini è meravigliosa da questo lato, tutto diventa improvvisamente di primaria importanza con la stessa facilità  e rapidità con la quale viene posto in secondo piano. Forse è proprio questo che li rende così spensierati, privi di grandi preoccupazioni: sanno dimenticare in fretta.
E così fece Anne durante il resto della giornata: la torta e le chiacchiere a tavola le fecero scordare le sue preoccupazioni, e per tutto il tempo guardò la televisione battendosi aspramente (e perdendo) contro il padre per i cartoni animati al posto del solito telegiornale o giocò a fare castelli di carta con la nonna (dopo la sconfitta).
Il tempo fuori era grigio e freddo e non accennava a volere migliorare, per cui giochi a palla erano fuori questione. Per tanto, per quanto giocare a fare i castelli di carta fosse divertente, dopo un quinto o sesto tentativo Anne cominciò  inesorabilmente ad annoiarsi, e la sua mente cominciò a macinare e a ritornare su argomentazioni che aveva messo in disparte.
Peter Kuspe intanto era seduto sul divano che guardava i notiziari, mentre sua moglie leggeva una rivista per donne, un articolo sulla vita che stava conducendo la principessa Diana. Molto probabilmente parlando più dei suoi abiti a questa o quella occasione mondana, piuttosto che della sua vita politica.
“Sei sempre li a leggere queste sciocchezze” commentò il marito. La donna non alzò nemmeno la testa e continuò la sua lettura.
“Almeno non mi rischia di partire un ictus tutte le volte che guardo il telegiornale” rispose secca la donna.
Anne giocherellò con un Re di Fiori che teneva in mano. “Vuoi cambiare gioco?” chiese Gretel notando il disinteresse farsi strada negli occhi della nipote. “Vuoi che giochiamo a Rubamazzetto?”
La bambina si riscosse dal torpore provocato dalla noia del pomeriggio e dal caminetto acceso. Le piaceva Rubamazzetto. “Oh, sì nonna!” esclamò, distruggendo con una manata il mezzo castello di carte che stavano costruendo. La nonna prese a distribuire le carte. Peter Kuspe venne rimesso nel suo angolino buio nella mente di Anne.
“Guardalo! Guardalo!” sbottò Peter, suo padre, rivolto un po’ a sua moglie, un po’ al televisore, un po’ a nessuno in particolare. Il notiziario stava parlando di un uomo paffuto con i capelli bianchi, e apparentemente innocuo. Il cancelliere Kohl.
“Guarda!” sbottò ancora Peter colmo di disprezzo verso il cristiano-democratico, questa volta chiaramente rivolto alla moglie.
“Ho visto!” si indispettì lei, “Helmut Kohl, cos’hai da sbraitare sempre quando vedi Helmut Kohl?”
“Oh, mi chiedi cos’ho da…”
“Tocca a te, cara, prendi la carta che ti serve dal tavolo” Gretel incitò Anne a giocare, dal momento che la bambina si era persa a guardare cosa stesse combinando suo padre. Tornò al gioco: in mano aveva un sette di picche, un due di quadri, un sei di quadri, un asso di fiori e una donna di cuori, e in tavola non c’era una sola carta che potesse fare al caso suo. Scartò la donna perché non sapeva che farsene.
“Oh, oh! Non avresti dovuto!” ridacchiò la nonna appropriandosene con una sua donna di fiori.
“Quell’uomo lì, lo vedi? Quello è il burattino degli americani!” riprese Peter rivolto alla moglie.
“E’ stato eletto con elezioni democratiche, tesoro, ricordi?” rispose svogliatamente la moglie.
“Certo! Sono sicuro che all’ovest l’hanno votato in molti, ma qui? Chi è che qui ha voltato per la Pera? Tu non hai idea delle macchinazioni che accadono dietro le quinte, cara mia!”
“Oh, per l’amor del cielo!”
Improvvisamente Anne si rese conto della presenza di un cinque di cuori e un due di picche che potevano dare una svolta interessante alla partita: con il suo sette di picche se ne appropriò e fece linguaccia alla nonna, che si finse terribilmente offesa. Posizionò le sue carte di lato a formare un piccolo mazzetto e pensò alla prossima mossa: doveva assolutamente riuscire ad appropriarsi del mazzetto della nonna e vincere! Le piaceva vincere.
“Io non l’ho votato, cara! Tu, si?” continuò Peter, rivolto ad una sempre più insofferente moglie.
“Cosa ti interessa a te di cosa voto io? Il voto è segreto, lo sai?” lo rimbeccò lei, non che avesse mai votato CDU[1], solo per infastidire il marito, che sembrava avere un’opinione così bassa di lei.
Una volta non era così, una volta Peter Kuspe era un uomo sagace e divertente, autoironico addirittura. Era quell’uomo che aveva sposato, quell’uomo perso dietro all’ideologia di popolo tedesco (il vero popolo tedesco, non quello in mano al capitalismo americano), e sposando lui ne aveva sposato l’ideologia, la fede. Prima della caduta del muro, Peter non aveva mai dato eccessivi segni della sua adesione al partito, almeno non quanti ne stava dando ultimamente. Quello che significava per lui la vita prima della Svolta era una sola cosa: equilibrio. Era grazie a quell’equilibrio che aveva vissuto ogni giorno della sua vita, e aveva ringraziato quello stesso equilibrio ogni qual volta ne avesse avuto l’occasione, partecipando a manifestazioni e a riunioni, portando alto il nome della sua causa, e della sua fedeltà, contro quelli che lui definiva ‘i traditori’, gente meno fortunata economicamente di lui che cercava, a proprie spese, spesso a costo della propria vita, di cercare un futuro più roseo dall’altra parte. La caduta del muro aveva fatto crollare le fondamenta dell’equilibrio, gettandolo nella confusione, e ora più che mai sembrava voler dimostrare la fede verso un dio che era morto nel 1989.
“Il voto segreto è da codardi” decretò Peter, sperando nel profondo di aver se non altro scalfito l’orgoglio della moglie.
Con un gesto rapido della mano, preceduto da una risatina colma di soddisfazione, Anne agguantò il mazzetto della nonna.
“Ehi, tu! Ma con che diritto?” disse Gretel fingendosi stupita, nonché un po’ risentita.
Anne sorrise scoprendo un buco derivato dalla caduta di un dente, qualche settimana prima. Mostrò orgogliosa il suo due di quadri, con il quale aveva il diritto di rubare il mazzetto della nonna, sul quale torreggiava un due di fiori. “Accidenti, mi sa che vincerai di nuovo tu! Guarda, mi hai lasciata senza carte!” fece la nonna con tono drammatico. Anne rise saltellando sul posto, ma la sua risata venne interrotta dallo sbottare di sua madre, che rabbuiò non poco anche la nonna.
“Mi stai forse dando della codarda?!”
“Non lo so, sto parlando con una codarda?” la incalzò Peter, quasi felice di aver portato la discussione sul piano personale, in modo da poter iniziare un litigio, che lo lasciava quasi sempre con l’amaro in bocca, ma che sul momento gli dava un po’ di sollievo. Non le permise di rispondere. “E’ per gente come te che è andato tutto a scatafascio, gente che non sa quello che vuole, gente che non sa pensare con la propria testa!”
La nonna aveva buttato un re di fiori, ma Anne aveva la testa altrove: dovevano sempre litigare tutte le volte che accendevano la televisione?
" ‘Gente che non sa pensare con la propria testa’, Peter? Tu vieni a dire a me questo, quando non eri in grado di fare un passo se non era il partito a dirtelo?!”
“Sei brava solo a sparare stronzate!” scattò Peter alzandosi di scatto e facendo sobbalzare Anne.
“Ehi, voi! Piano con le parole, c’è tua figlia, qua Peter, nel caso te ne fossi dimenticato” esclamò Gretel, che tutto sopportava tranne le parolacce dette di fronte ai bambini.
“Tu stanne fuori, mamma, è una discussione tra me e mia moglie!” disse Peter, ormai adirato, rivolto verso la madre. Questo zittirla fece scaldare anche l’anziana donna, che dimenticò improvvisamente il gioco che stava facendo con la nipotina e prese a roteare in aria la sua mano di carte (per altro mostrandole tutte ad Anne) come se fosse un’arma.
“Tu non vieni a casa mia a dirmi cosa posso e non posso fare, Peter! Stai urlando e cercando rogne da mezz’ora, Dio solo sa come faccia tua moglie a sopportarti!”
Anne sapeva a memoria tutte le carte che aveva in mano la nonna, avrebbe potuto vincere in modo relativamente facile ora, ma il gioco aveva perso interesse anche per lei. Per qualche ragione la giornata era stata rovinata, e ora tutti erano in piedi a urlarsi contro, presumibilmente per colpa di quell’uomo con i capelli bianchi che aveva visto di sfuggita alla televisione.
 Non era la prima volta che succedeva: Peter andava in escandescenza quasi tutte le volte che lo vedeva, e Anne aveva imparato a temere quel volto rigato dalle rughe tutte le volte che lo vedeva spuntare fuori in un qualche programma televisivo. Dato che la sua presenza sembrava irritare moltissimo il padre, anche Anne aveva imparato a non trovare particolarmente simpatica questa fantomatica Pera (Peter lo chiamava così, quindi presumibilmente quello era il suo nome), anzi col passare del tempo aveva imparato ad odiarlo. Non sapeva di preciso chi fosse, né cosa facesse, e tanto meno sapeva cosa in lui facesse arrabbiare tanto il padre, ma fatto sta che Peter diventava furibondo, e di conseguenza se la prendeva con la mamma (che lei avesse qualcosa a che fare con le pere?), e il tutto finiva esattamente come quel pomeriggio: paroloni che volavano e i suoi genitori che si attaccavano l’uno con l’altra, quasi dimenticando quale fosse la vera origine della discussione e chi fosse il vero nemico.
“Questa è anche casa mia!” ribatté Peter.
“Ha ragione tua madre, Peter, stai cercando rogne e per giunta non a casa tua! Ma dov’è l’educazione?” esclamò la moglie, grata dell’intervento, apparentemente a suo favore, della suocera. Non poteva sbagliarsi di più.
“Oh, anche tu non è che hai fatto molto per interrompere la cosa! Continui a dargli corda!” le fece notare sbottando la nonna, le carte abbandonate sul tavolo.
Questa sua affermazione provocò altro baccano tra i tre, che non fece che preoccupare sempre ancora di più Anne. La bambina appoggiò le sue carte sul tavolo, decretando che il gioco era finito. Rimase piccola piccola sulla sedia, sperando di non essere notata e di non essere tirata dentro quel vortice di voci arrabbiate. Guardava la punta delle sue scarpe e faceva ciondolare le gambe, aspettando la fine della discussione che non sembrava arrivare mai. Sempre più a disagio, la sua mente prese a vagare: ripensò all’albero colpito dal fulmine che decretava che si era quasi arrivati alla casa della nonna, ripensò alla torta di mele, ripensò al pranzo tranquillo. Poi le tornò in mente: Peter Kuspe. L’uomo misterioso che scriveva alla nonna. Sarebbe potuta tornare di sopra per vedere se riusciva a scoprire di più, ma temeva che se l’avessero sorpresa a ficcanasare si sarebbero arrabbiati anche con lei. Maledetta Pera, era tutta colpa sua.
Peter Kuspe. Peter Kuspe. Peter Kuspe. Quel nome le volteggiava nella testa come a domandare di essere pronunciato ad alta voce. Peter Kuspe. Forse avrebbe dovuto chiedere alla nonna, in fin dei conti, così, almeno lei, si sarebbe liberata da quell’assurda discussione che andava avanti da fin troppo tempo e che sembrava tirare dentro chiunque ci si avvicinasse. Peter Kuspe. Peter Kuspe. La curiosità cominciava ad avere il sopravvento: se avessero continuato a litigare, probabilmente avrebbero finito con l’andarsene prima del previsto, e allora Anne come avrebbe fatto a sapere? Doveva farlo ora: doveva scoprire ora la verità.
“Oh, ma falla finita!” stava sbottando suo padre, rivolto forse alla nonna, forse alla moglie.
Anne si voltò verso gli adulti e chiese con voce acuta e chiara: “Nonna, chi è Peter Kuspe?”
I tre non la udirono. Questo la indispettì. “Peter Kuspe!” esclamò di nuovo. Scese dalla sedia e si avvicinò al trio, ripetendo il nome come se fosse una cantilena. “Peter Kuspe! Peter Kuspe!!” urlò.
Finalmente tutti zittirono. “Cosa c’è, Anne? Non vedi che il papà sta parlando di cose serie?” le chiese annoiato il padre.
“Non tu!” esclamò velocemente Anne, temendo che quel breve momento di silenzio e di attenzione dato tutto a lei potesse finire da un momento all’altro.
“Cosa vuoi dire, tesoro?” le chiese dolcemente la mamma. Gretel stava zitta e rigida, la bocca ridotta a una linea netta.
“Peter Kuspe!” ripeté Anne come fosse ovvio, poi si voltò verso la nonna. “Nonna, tu sai chi è non è vero?”
Tutti si voltarono a guardare Gretel. “Lui..lui..lui..” prese a dire la nonna, lanciando degli sguardi colmi di ansia verso il figlio.
“Io ho visto che tieni delle foto e delle lettere nel cassetto in camera tua. E c’è sempre questo Peter Kuspe! Allora volevo sapere chi è!” spiegò Anne.
La nonna sembrava incapace di rispondere. “Peter Kuspe è tuo nonno” si intromise Peter.
Quello che stupì Anne non fu subito la consapevolezza di aver trovato suo nonno rinchiuso nel cassetto del comodino di sua nonna. Non fu nemmeno il fatto che quella fosse la prima volta che si nominava suo nonno in tutta la sua vita. Quello che la sconvolse fu il tono carico di disprezzo con cui il padre aveva pronunciato quel nome. Nemmeno la tanto odiata Pera aveva mai raggiunto quei livelli.
“Mio nonno…” mormorò, senza sapere esattamente cosa dire. Si voltò verso Gretel, che si teneva una mano sulla bocca e guardava quasi implorante suo figlio.  “E dov’è adesso?” chiese ancora Anne, vedendo che nessuno le rispondeva.
L’atmosfera nella casa ora era diversa. Prima era un vulcano in eruzione, caos e rabbia, ed era terribile. Terribile ma forse accettabile. Adesso non era più un vulcano, e forse sarebbe stato meglio se lo fosse stato. Sembrava che tutti stessero trattenendo il respiro, tutti sapevano ma nessuno parlava, come se il suono di una voce avrebbe potuto fare succedere qualcosa di terribile in quella stanza. Era il silenzio che separa il fulmine dal tuono, era l’attesa di qualcosa di terribile, e questo era intollerabile. Anne, dal piccolo della sua età, capì che aprire quel cassetto e rivelarne il contenuto aveva provocato qualcosa di inarrestabile, aveva risvegliato qualcosa che dormiva quieto da molto molto tempo.
“Forse dovremmo andare a casa!” esclamò la mamma con una voce falsamente serena, ma che comunque tremava. Guardava insistentemente Peter e sua madre, prima uno e poi l’altro. Lo sguardo del marito era accusatorio, fissava sua madre con una smorfia, si, disgustata e sembrava che nemmeno respirasse.
Gretel, dal canto suo, non aveva ancora tolto le mani da davanti alla bocca, e, dove prima sembrava essere una donna forte di carattere, ora era una persona debole e indifesa. Gli occhi erano lucidi e il suo petto si alzava e abbassava velocemente, aspettando una nuova e più terribile esplosione da parte del figlio. Gretel sapeva che non era più una astratta questione politica, per quanto potesse essere sentita in modo vivo da Peter. Si trattava di qualcosa di ben più importante: di lui e suo padre.
“Peter andiamo!” esclamò di nuovo la madre di Anne afferrando un braccio del marito, ma lui rimase fermo dov’era.
“Mamma...” disse con una voce che non sembrava appartenergli. Gretel sussultò e una lacrima sgorgò dai suoi occhi.
“Peter lo sai che non lo potevo fare” lo bloccò Gretel con voce rotta, e con le braccia tremanti tese cercò di avvicinarsi al figlio, che però si allontanò, e si liberò della presa della moglie.
“Avevi detto che le avevi buttate…” continuò Peter controllando la sua voce come se questa fosse un’arma e lui non volesse ancora utilizzarla.
“Come? Come potevo?” cercò di giustificarsi Gretel, e nuove lacrime le rigarono le guance.
“Sai cos’era lui, mamma! Lo sai perfettamente! E io non voglio feccia del genere in questa casa!” scattò Peter, spaventando sia Gretel che Anne, che, un po’ per la rabbia del padre, un po’ per la consapevolezza di aver messo nei pasticci la nonna, cominciò a piangere. Ma nessuno badava a lei ora, tutto nella stanza sembrava fissato su quello che stava succedendo tra Peter e Gretel.
“E’ tuo padre, non è feccia!” ribatté arrabbiata Gretel.
“Basta, ora andiamo” si intromise la mamma, riagguantando i braccio del marito, e la manina di Anne. Peter sembrava persuaso, quindi si lasciò tirare verso l’ingesso.
“Buttale!” intimò l’uomo a Gretel, e lei scosse la testa, tremante.
Anne si stava domandando cosa aveva combinato: cos’era tutto questo mistero intorno alla figura del nonno? Dov’era finito? E soprattutto, perché suo padre lo odiava tanto? Aveva risvegliato l’attenzione su una persona dimenticata da tempo, ma non aveva ancora capito chi fosse. Sapeva che era suo nonno, ma non era abbastanza. Peter Kuspe era suo nonno, e lei aveva il diritto di sapere.
“No!” urlò infine puntando i piedi. Si divincolò dalla stretta della madre e corse dalla nonna. “No! Io voglio sapere! Voglio sapere dov’è il mio nonno! Io non vado via, mamma”. I genitori della bambina rimasero per un po’ fermi a guardarla: sembrava diversa, risoluta e cresciuta.
“Certe cose è meglio non saperle, Anne” le disse in tono pacato il padre scoccando un’occhiata colma di risentimento verso la madre. Anne non si lasciò intimidire e prese la mano di Gretel, che la strinse forte. “Non per me” affermò con fermezza Anne.
Gretel si schiarì la voce per nascondere il pianto “Forse…forse potrei raccontarle…”
“No!” sbottò il padre. “Vieni qui, Anne”.
La bambina non si mosse. “Se non saprà mai si farà chissà quale idea di tuo padre”. La moglie di Peter aveva parlato. Era la prima volta che si schierava contro il marito sulla questione di Peter Kuspe senior. Peter la guardava interrogativo. “Se saprà la storia non ci costruirà castelli in aria. E’ meglio così.”
“Si!” confermò Anne, anche se non aveva del tutto capito cosa aveva detto la madre.
“Ha ragione, Peter” disse Gretel, più tranquilla ora che sapeva di non essere sola contro il figlio. “Lascia che le racconti. Capirà. Lasciatemela qua per questa notte, la verrete a riprendere domani. Staremo sole io e lei, e io le racconterò tutto. Domani le sarà passato il pallino del nonno e tutto tornerà normale. Sei d’accordo?”
“Io si!” rispose la madre. Si voltò a guardare il marito “Così tu non sarai obbligato a sentire la storia. E’ ora che lei sappia, non è più così piccola”.
Peter allargò le braccia in segno di resa. “Ho tutti contro” decretò, “che altra scelta ho?”.
Anne gli sorrise e si sentì improvvisamente più felice: la grande tensione che era presente prima sembrava momentaneamente sparita. Gretel aveva smesso di piangere e ora ringraziava Peter promettendogli che non sarebbe successo niente di male a sua figlia durante la permanenza a casa della nonna. E avrebbe finalmente scoperto chi era Peter Kuspe.
Fremente, Anne salutò i genitori e li guardò mentre si allontanavano con l’auto. Non appena questa abbandonò il vialetto, la bambina agguantò la mano della nonna e la tirò dentro casa, su per le scale, diretta verso la stanza da letto.
Una volta raggiunta la postazione, le due si sedettero sul letto. Il cassetto della nonna era rimasta aperto, anche se le lettere e le foto che aveva sfogliato erano state riposte al suo interno.
Gretel prese tutto il contenuto del cassetto e lo appoggiò sul letto. Foto, lettere, cartoline: tutto il passato di Gretel era appoggiato sul suo copriletto, e ora Anne avrebbe scoperto quali segreti nascondeva. Non stava nella pelle.
Gretel passò la mano sui suoi ricordi, come se fosse indecisa su cosa dire per iniziare, come se non riuscisse a capire quale delle foto e delle lettere fosse la più adatta ad iniziare il racconto di una vita intera.
“Non so da dove iniziare” ammise. “Ogni singolo foglio di carta su questo letto è un frammento della mia vita, è difficile dire quale sia il più importante.”
Rimase un po’ in silenzio scrutando le fotografie. Poi ne prese una e la mostrò ad Anne, che aspettava con il fiato sospeso. Mostrava un uomo in giacca e cravatta seduto dietro ad una scrivania, con un cipiglio orgoglioso e dei folti baffi ben curati.
“Questo era mio padre. Il suo nome era Franz Strauss, come il musicista, solo che non eravamo parenti, nonostante lo stesso cognome. Mio padre aveva fatto carriera da ufficiale nell’esercito tedesco, e aveva iniziato a prestare sevizio per la patria già prima della Repubblica di Weimar. Ha partecipato alla Grande Guerra, quando io non ero ancora nata, ed è tornato a casa nel 1918 sconfitto ma decorato. Ero molto orgogliosa di mio padre. Io e mia sorella Heidrun lo adoravamo. Nostra madre era morta di vaiolo quando avevamo io quattordici e lei dodici anni, e da allora nostro padre era diventato tutto il nostro mondo. Non ci lasciava mai e stava sempre con noi, tranne ovviamente quando doveva compiere i suoi doveri di Generale. Una di quelle volte è stata in occasione dell’annessione dell’Austria al Reich tedesco. Erano giorni di festa. Adolf Hitler era arrivato al potere da alcuni anni ormai, il popolo tedesco godeva di un buon reddito e di buone condizioni di vita, e la cosa sembrava non volersi arrestare.”
Anne ascoltava a bocca aperta anche se non capiva tutto quello che la nonna diceva, ma non voleva interromperla per non rompere la magia. Tutte le parole le si manifestavano davanti come se fosse un film.
“Era il 1938…”     
 
 
[1] Christlich Demokratische Union: il partito cristiano-democratico tedesco, eletto dopo la riunificazione della Germania in seguito alla caduta del Muro di Berlino. Il cancelliere Helmut Kohl (CDU) fu cancelliere della Germania dell’ovest e, dopo la riunificazione, delle due Germanie unite. Fortemente contrastato dalla sinistra tedesca, veniva soprannominato ‘pera’ a causa delle rappresentazioni satiriche che lo vedevano, appunto, rappresentato come una pera.

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