Ich Weiβ Es Nicht.

di Minina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I: L'arrivo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo II: Lo Scontro. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I: L'arrivo. ***


ICH WEIβ NICHT.

 

Capitolo I.

 

Eccoli la, verso il fronte.

Sebastian voltò il capo, gettando lo sguardo verso quell'accozzaglia di ragazzi che per chissà quanto tempo sarebbero stati gli unici pilastri, gli unici amici. Ma chissà poi, in realtà,di quanti di loro si sarebbe potuto fidare, là in battaglia.

 

Non erano la prima formazione ad andare al fronte; loro erano reclute, semplici reclute pronte a raggiungere quel che rimaneva della bucherellata fanteria rimasta nelle trincee, dove la morte di striscia e ti dorme accanto. Aveva sentito dire che l'ultimo attacco era andato peggio del previsto, con un alto numero di perdite, più di quelle che gli ufficiali si aspettavano. Aspettavano. Come puoi aspettarti la morte di un giovane di appena vent'anni?

Sebastian sapeva che tutto quello a cui stava andando incontro non era altro che un'enorme bugia, un'enorme buco nero che ti inghiottiva e non ti risputava più. Di fatto, molti, troppi, non li aveva risputati. Ma la patria è tutto, il dovere è tutto; così si trovò costretto ad arruolarsi, abbandonando cultura, famiglia, amori e vita, tutto per colpa di una propaganda inculcata a suon di martellare nelle menti più giovani da coloro che ora se ne stavano tranquilli a casa, bicchiere di vino in mano anziché un fucile. Professori, genitori, autorità, società che soggiogava la gioventù con la parola “vigliacco” in mano. Nessuno riuscì a tirarsi indietro.

 

Ed ora eccoli la, verso il fronte, verso la morte.

 

Sebastian, seduto come riusciva sul camion, fissava attorno a sé gli sguardi vuoti dei compagni, pieni di paure e ansie, pieni di rammarico e pentimento. Ma vi erano anche occhi pieni di vitalità, dinamismo, pronti al fervore della battaglia; occhi di ragazzi che non vedevano l'ora di afferrare il fucine e lanciarsi all'attacco. Probabilmente, loro, sarebbero stati i primi a soccombere.

 

A ridosso di un sentiero il camion si fermò, mentre una voce austera ordinò alle reclute di scendere e tenersi il fucile alla mano; da quel momento avrebbero proseguito a piedi.

In lontananza si sentivano già occasionali suoni ovattati, derivanti da colpi d'arma da fuoco o granate, ma nessun urlo. Non si stava ancora giocando la battaglia.

 

Il gruppo iniziò a marciare dentro il bosco, oltrepassando rami spezzati e alberi caduti, passo dopo passo in un terreno umido ed intervallato da qualche buca.

Non ci volle molto prima dell'arrivo.

 

Davanti a questa discreta massa di giovincelli se ne stavano, pacati e sorridenti, soldati semplici e sottufficiali un po' di qua e un po' di la, dietro la linea della trincea: c'era chi fumava -cioè praticamente tutti- chi giocava a carte, chi addirittura tentava di mettere sotto i denti un po' di lardo.

 

Per fortuna che non erano in prima linea.

 

Metà delle reclute venne deviata alle baracche, mentre l'altra metà -ossia una decina- fu costretta a restare.

Sebastian appoggiò il fucile a terra e si sedette sul terreno reso morbido dall'umidità, guardandosi intorno, cercando di capire, di rendersi conto del posto in cui era finito. Era tutto reale.

A Berlino aveva una famiglia, una bella ragazza d'amare, persino un cane e tre gatti. E ora? Ciò che gli rimaneva non era che il fucile, stivali, gavetta, forchetta a molla, coltello da tasca, una decina di sigarette e del tabacco sfuso. E nemmeno fumava.

 

Fece in tempo ad ambientarsi quel che bastava per capire da che parte soffiava la leggera brezza, che spari e sibili iniziarono a squarciare l'aria.

Spaventata la recluta si buttò a terra, così come fece la maggior parte degli altri soldati, che impugnati i fucili si avvicinarono alla linea iniziando a rispondere al fuoco. Accanto a lui aveva preso posto un ragazzo dall'aria sicuramente più esperta di lui, che senza timore rispondeva ai colpi d'arma mandati dal fronte avversario.

Sebastian non riusciva a muoversi, era spaventato, terrorizzato da quei suoni e da quei colpi. Pietrificato. Senza rendersene conto abbassò il volto alla fredda terra, non curante del fango che si impigliava tra i capelli e della perdita dell'elmetto. Non bisogno mai, mai lasciare che l'elmetto non sia posizionato in testa lungo la linea; quel pezzo di metallo potrebbe sempre salvarti la vita. Ma con le braccia attorno alla testa e un ghigno di panico in volto, penso che chiunque non avrebbe prestato molta attenzione alla mancanza dei un elmetto saldo in testa.

Il ragazzo accanto a Sebastian, di certo poco più grande di lui, in un momento raccolse l'affare e lo posizionò sul sedere della recluta, unico punto esposto e a rischio.

Non ostante le natiche non fossero l'esatta collocazione di tale strumento di guerra, una pallottola sul sedere certo creava fastidiosi problemi: ti mandava all'ospedale dove per mesi saresti dovuto vivere a pancia in giù, e ti assicurava un leggiadro zoppicare per il resto della tua esistenza. Meglio evitare.

 

Dopo interminabili minuti di miagolii di proiettili e ovattati tonfi d'artiglieria, il fuoco cessò; e come questo cessò, Sebastian iniziò a sollevare timidamente il capo, grato per la mancanza di lesioni, ma pervaso da un profondo senso di vergogna per l'atteggiamento mostrato. Perchè diavolo non aveva imbracciato il fucile e contribuito? Come gli era stato insegnato nel lungo e duro addestramento in caserma! Sospirò. Era certo che non avrebbe fatto faville al primo scontro ma, diamine, addirittura nascondersi a quel modo come un bambino, col battito fin troppo accelerato e il terrore in volto. Sperava almeno di non essersi messo pure a tremare.

 

Riacquistata la lucidità si rese conto della mancanza dell'elmetto in capo. Iniziò a tastarsi il corpo e il terreno affianco a lui alla ricerca ossessiva dell'oggetto, finché un risolino non gli solleticò le orecchie.

 

“è dietro di te recluta. SUL didietro di te”.

 

Il ragazzo lo guardava con la tenerezza con cui un uomo guarda il proprio cane che non riesce a trovare il pezzo di carne che se ne sta sulla sua testa, decorato di un ghigno divertito in volto, appoggiato con un gomito all'umido terreno.

Sebastian capì, si voltò e afferrò velocemente l'elmetto posizionandolo dove doveva stare, rosso di vergogna, muto.

 

“Sta tranquillo” rise il giovane “capita a tutte le reclute sane di mente, ti ci abituerai; vedrai che già al prossimo attacco starai difendendo la linea. E poi, ragazzo, non ti è andata poi così male! Tre reclute come te ho conosciuto, e tutte e tre se la sono fatta addosso, letteralmente. Tu almeno, hai ancora le mutande pulite”.

Sebastian non sapeva se prendere quelle parole come un complimento o come uno scherno; ma prese fiato: “perchè ci hanno attaccato?”

“Bhe, devono pur mantenerci in allenamento. No?” rise, alzandosi da terra e raggiungendo un gruppetto di altri tre ragazzi più in fondo.

Sebastian, invece, si limitò a sedersi e a ricomporsi, iniziando a tirare grossi respiri.

Si guardò nuovamente attorno, quattro dei suoi compagni del camion si erano diretti dietro degli alberi camminando goffamente. Oh, loro non si erano salvati da quella vergogna.

Sospirò, volse gli occhi al cielo.

 

Era al fronte, era tutto reale e doveva darsi forza.

 


 

ANGOLO AUTRICE:

 

Ommioddio prima originale storica che scrivo, ma che gioia.

Dopo aver passato gli ultimi mesi a leggere eeeeehm...5...6? Libri sulla guerra, e dopo aver letto qualche originale qui su EFP ho deciso di mettermi in gioco anche io.

Spero di aver fatto bene. Che dite??

Spero che come primo capitolo vi piaccia, non succede nulla di che ma, suvvia, è il primo capitolo!

Vi sarei grata se qualcuno lasciasse qualche recensioncina, così da vedere se vale la pena andare avanti oppure abbandonare.

Grazie a chi leggerà! Ciao a tutti.

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Capitolo 2
*** Capitolo II: Lo Scontro. ***


Capitolo II.

Il sole splendeva alto in cielo, riscaldando la terra umida e i cuori dei soldati a riposo, stesi sull’erba ora un po’ più accogliente. La maggior parte dei giovani tedeschi si approfittò di quella calura per far asciugare camicie e calze al sole, godendosi i tiepidi raggi solari sulla loro pelle.
Sebastian, appoggiata la schiena su di un pezzo di lego, ripensava a quel misero attacco e alla misera figura avvenuta qualche giorno addietro lungo la linea, finendo per ridere di sé stesso. Non doveva più accadere.
Nulla era andato come si aspettava. Aveva finito per fare la figura dell’idiota, del bambino attaccato alla gonna della madre, un frignone che mai aveva messo piede in caserma; eppure là era uno dei migliori. Com’era possibile?
Ti ci abituerai.
Che diamine! Sentiva ancora la vergogna stringergli il petto.
Scosse violentemente il capo; doveva smettere di pensarci. Tornò a guardarsi attorno, in solitudine, studiando l’ampio campionario di giovani uomini e ragazzi che beatamente si godevano quel po’ di riposo. Era come se fosse tornato al giorno in cui era arrivato: c’era chi fumava, chi sonnecchiava, chi giocava a carte; e proprio in quel gruppetto poco distante da lui, a giocare vi era anche il ragazzo dell’elmetto, che probabilmente, sentendosi fissato, si voltò verso di lui.
Sebastian sostenne lo sguardo del compagno per alcuni secondi, secondi che gli sembrarono un’eternità, per poi rigirare il capo nella direzione opposta, udendo subito dopo dei passi nell’erba e nel fago asciutto.

“Hei, hai mica una sigaretta?”

Sebastian alzò lo sguardo, accecato dai raggi del sole e dalla luce che circondava la figura del suo interlocutore. Si pose una mano sopra la fronte per coprirsi gli occhi chiari e rendere più nitida la figura di fronte a lui.

“Dico, ce l’hai mica una sigaretta?”

“Oh...” si ridestò, iniziando a frugare nelle tasche facendone uscire un intero pacchetto ancora in buone condizioni “prendi, io tanto non fumo”.

La figura resa scura dal riflesso del sole sospirò. “Si vede che sei nuovo”. Ridacchiò flebilmente. “Io ti ho chiesto solo una sigaretta, non tutto il pacchetto. Vedi, questo…” disse sollevando il pezzo di cartone scuro “lo puoi scambiare un po’ con qualsiasi cosa, non ti conviene darlo via così, è da sprovveduti!”.

Fu allora che il giovane s’inginocchiò a livello di Sebastian, rivelando le vere fattezze: era un giovane uomo dal corpo magro ma dalle spalle grosse, con due occhi color del ghiaccio e dei magnifici capelli bruni che gli scendevano a ciuffi sulla fronte.  Sebastian ne rimase come incantato.

“E poi aspetta e vedrai, comincerai anche tu a fumare. Tienitele ancora strette per un po’, fidati di me”.
Sebastian non rispose, limitandosi ad allungare il braccio per tornare in possesso del pacchetto, che iniziò a rigirarsi fra le mani. “D’accordo”.

Il giovane sorrise. “Quanti anni hai, recluta? Sembri parecchio giovane”.

“Diciannove. Ne ho diciannove”.

“Fiù” fischiò sorpreso. “Sai, ti facevo più giovane. In molti qua hanno la tua età. Purtroppo”.
Sebastian si limitò a sorridere di rimando, continuando a giochicchiare nervoso con il pacchetto, quasi quasi propenso ad accendersi una sigaretta.

“Perché tu? Quanti ne hai?”.

“Io? Oramai sono ventitré mio caro…?”

“Sebastian. Sebastian Träumen” sorrise sbilenco, poggiando le sigarette a terra e allungando la mano verso il ventitreenne, in attesa che venisse ricambiato il gesto.

“Gustave Sauer”.

Gustave strinse la mano di Sebastian con un’energia insolita, potente. Una di quelle strette di mano che ti ricordi per tutta la vita. Non sudaticcia, non mole, ma forte, rigorosa. Perfetta.

“Gustave? Perdonami, forse mi sbaglio, ma sembra tanto un nome…”

“Francese. Si, francese. I miei genitori erano, sono, fanatici di Gustave Flaubert. Renditi conto, mi hanno istigato a leggere Madame Bovary in tutte le salse. Risultato? Ora odio romanzo e autore, il cui nome ce l’avrò marchiato addosso per tutta la vita”. Sbuffò prendendo posto a fianco di Sebastian, steso supino sull’erba con le mani giunte dietro il collo e irradiato dai raggi solari sul volto, tanto che dovette continuare a parlare con le palpebre rigorosamente serrate.

“Che ironia. Con questo nome da questa parte della linea”.
Sebastian rise, riprendendo fra le mani il pacchetto di sigarette e iniziando a rigirarsene una fra le dita.

“Ad ogni modo, qui tutti mi chiamano Gutt”.

“Gutt?”. Domandò perplesso Sebastian. “Che insolito soprannome per un Gustave”.

“E’ venuto fuori questo, e questo mi voglio tenere. Di un po’, vuoi d’accendere?”.
Sebastian si voltò verso Gustave – o Gutt, insomma, quel che era- incapace di rispondere. Non aveva mai fumato prima d’ora e sapeva per certo che il primo tiro non sarebbe stata un gioia per i suoi polmoni tanto che avrebbe tossito così forte da far girare tutti verso di lui e farsi una bella risata, facendoli sospirare “Ah, Reclute”. No, aveva già dato. Almeno per qualche giorno voleva starsene tranquillo senza dover incappare nella vergogna.

“No”.

“D’accordo” rise “Come preferisci”.
Rimasero stesi alla luce del sole per vari minuti, forse anche un’ora, in completo silenzio, avvolti dalla tranquillità che li si sapeva essere una cosa rara, finché il sole non iniziò a tramontare lasciando spazio al flebile imbrunire e alla frescura che la sera porta con se. Gutt raccolse camicia e calze e si rivestì, rabbrividito dalla temperatura in calo.

“Da dove vieni?” domandò, chiudendosi i bottoni della giacca.

“Da Berlino”.

“Anche io. È una bella città, non trovi?”

Sebastian lo guardò. “Si, molto”.
Ancora per altro tempo rimasero in silenzio a contemplare qualcosa di indefinibile. Era strano, pensava Sebastian, molto strano. Un ragazzo che era là da chissà quanto tempo prima di lui per ore se n’era stato in sua compagnia, per lo più in silenzio, invece che rimanere con i compagni ormai amici a giocare a carte, raccontarsi aneddoti sporchi, o semplicemente dimenticare il posto dov’erano capitati. Era in procinto di domandare a Gutt il perché di quell’insolito gesto che l’interessato s’alzò, saltando sul posto tirandosi su i pantaloni.

“Vieni, andiamo a mettere qualcosa sotto i denti”.
Sebastian guardò dritto di fronte a sé. Vide un paio di uomini che trasportavano un grosso pentolone, posizionandolo su di un piccolo tavolino di legno che, per chissà quale strana legge, riusciva a sorreggerne il peso senza rompersi. Assieme a Gutt s’alzò dallo spiazzo d’erba, avvicinandosi con lui verso la fila che pian piano si stava formando. Prese mano alla gavetta e alla forchetta a molla e seguì i passi del più anziano che puntavano dritto su un piccolo gruppetto di giovani uomini.
Come un timido bambino presso la madre Sebastian lo seguì a capo chino, imbarazzato e nascosto dalle ampie spalle di Gutt che, con un gesto della mano, attirò l’attenzione del gruppo.
Sebastian conobbe così Mark, Tanko e Wolter.
Tanko era l’unico della sua stessa età, mentre i rimanenti erano uno di un anno più grande e uno più giovane di Gustave. Due originari di Bonn e uno di Ratisbona.

“Ti ci abituerai”. Gli sussurrò Wolter.

Ti ci abituerai. Ti ci abituerai alla morte, alla paura, alla vergona, agli istinti primordiali, alla mancanza di compassione e pietà, ti ci abituerai alla Guerra.
E di fatti, dopo un paio di giorni da quell’incontro, Sebastian dovette abituarsi.
I francesi avevano attaccato lanciando bombe piene di fosgene, che in pochi secondi s’irradiò per tutta la trincea. Assistito da Gutt e determinato a dimostrare quel che valeva, Sebastian si coprì svelto il volto con la maschera, spostandosi dalla sua bassa posizione verso una più alta. Assicurati che l’effetto fosse svanito i giovani si tolsero le maschere, issando la baionetta sul fucile. In una frazione di secondo abbassò lo sguardo verso la bassa trincea: i ragazzi che, visti i compagni togliersi la maschera avevano seguito il gesto, erano ora riversi a terra, volto viola e labbra blu. Le maschere erano soffocanti, forse tanto quanto il gas, ti facevano respirare l’aria che direttamente fuoriusciva dal respiro. Togliersela era un piacere, ma nelle zone più basse il gas rimaneva più a lungo che nelle zone alte, bruciandoti i polmoni.
L’ordine era quello di attaccare e cercare di guadagnare terreno e spostare la linea del fronte.
Sebastian, accerchiato dai compagni, partì assieme a loro circondato dagli scoppi delle bombe e dell’artiglieria, sfiorato dai miagolii dei proiettili. Vedeva ragazzi colpiti cadere a terra implorando aiuto, vedeva ragazzi diventare accozzaglia di membra e stoffa centrati dalle bombe, vedeva ragazzi che strisciavano al suolo con la sola forza delle braccia verso la linea amica, perché le gambe non c’erano più, vedeva ragazzi correre sui propri moncherini di caviglie, perché i piedi non c’erano più. Chi era fortunato veniva recuperato e portato verso la linea tedesca, curato o diretto nelle baracche ospedaliere. Se eri davvero fortunato ti beccavi una ferita tale da essere addirittura rimandato a casa. Ma avresti dovuto perdere gambe, braccia, o colpito alla spina dorsale. Chi non era fortunato rimaneva nel campo, nella terra di nessuno, lì a morire da solo.
Sebastian si scagliò contro i nemici, facendosi strada a suon fucilate e colpi di baionetta, che per quanto strumento di guerra e di morte fosse per l’avversario, lo era anche per il tedesco. Si impiantava tra le costole e per farla sgusciare fuori dovevi spingere sulla pancia del ferito. Questo era causa di morte per colpi di pallottole.
Colpito al braccio Sebastian si lasciò sfuggire il fucile dalle mani, pronto alla mercè del nemico. Allora Gutt, visto l’amico in pericolo, con un colpo di fucile sparò alla testa del francese, facendolo cadere sulle ginocchia e poi a terra.
Dato il fin troppo alto numero di perdite venne dato l’ordine di ritirata. I giovani uomini correvano verso la linea nemica ormai ridotta in brandelli, ma sempre ben solida, e arrivati li si contarono.
Sebastian, Gut, Mark, Tanko e Wolter c’erano tutti, e stavano bene, solo qualche; ma il gran numero del loro squadrone si era notevolmente ridotto. Fin troppo.

“Tutti qua? Siete solo voi?”. Domandò un Sergente.

“Si, siamo solo noi”. Rispose Tanko, ansimante e sporco di sangue, a capo chino.
Nemmeno il rancio erano riusciti a portargli in quel giorno d’inferno.
Sebastian, dopo essere stato medicato al braccio, ritornò vero il gruppo degli, ormai, amici. Estrasse dalla tasca il pacchetto di sigarette e se ne accese una, e al diavolo alla tosse.
Gutt lo guardò impressionato per la mancanza di singhiozzi. Gli posò una mano sulla spalla, facendo un po’ di pressione, sorridendogli.
Erano ancora tutti là, loro quattro, ma chissà ancora per quanto.
La Guerra per Sebastian non era appena che all’inizio; ma si era già abituato. 

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