Tortured Mind

di IamShe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La macchina dei ricordi ***
Capitolo 2: *** Il criminale perfetto ***
Capitolo 3: *** Una nuova memoria ***
Capitolo 4: *** L'effetto del Paikal ***
Capitolo 5: *** Faccia a faccia ***
Capitolo 6: *** Quell'aroma alla fragola ***
Capitolo 7: *** Oltre l'odore delle cose ***
Capitolo 8: *** Il luogo dei ricordi ***
Capitolo 9: *** Il profumo dell'infinito ***



Capitolo 1
*** La macchina dei ricordi ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Primo capitolo First chapter Premiere chapitre  La macchina dei ricordi Primer capìtulo Erest Kapitel 第一章  첫 번째 장  
 
 
 
Fu verso fine novembre che la macchina dei ricordi vide la sua prima luce. I giornalisti che ne parlarono in televisione dissero che era il simbolo di una nuova era, dove la tecnologia aveva superato la natura e l’uomo ne era diventato la vittima. Costruita e progettata da un gruppo di ingegneri e scienziati un po’ eccentrici di Tokyo, che lavoravano all’università di Touto, ambiva ad essere l’invenzione del secolo. I suoi creatori erano armati di ambizione e gloria, e dietro quella macchina serbavano anni di costrizioni, accuse e traumi, che qualsiasi uomo avrebbe voluto cancellare. C’era chi aveva perduto sua madre durante gli studi, chi aveva creduto in un amore fasullo, chi aveva sperso la sua strada nella droga. Quando si sottoposero al trattamento, aprirono dinanzi a loro una nuova vita, un nuovo mondo, nuovi sogni.
«La macchina è capace di eliminare qualsiasi ricordo si desideri, anche più di uno» aveva spiegato uno degli ingegneri alla tv, in una trasmissione dedicata completamente a loro. «Un trauma, un brutto periodo, un abuso che ci rovina l’esistenza, possono finalmente sparire grazie ad essa. Agisce su una specifica parte del cervello, iniettando un determinato siero che serve a ricoprire quella zona, e nasconderla. È come se un neurone cominciasse a giocare a nascondino col cervello, nascondendosi in esso e rendendosi così invisibile. Il cervello agisce con logica, proprio come noi: nessuno andrebbe a cercare qualcosa troppo vicino.»
Shiho distese le gambe sul morbido cuscino in cotone del salotto, sbattendo le palpebre con lentezza ed apparente noia. I suoi occhi azzurri erano fissi sulla trasmissione televisiva a cui lei, professoressa di chimica alla facoltà di Biotecnologie, avrebbe dovuto partecipare. Parte di quell’invenzione era merito anche suo: il siero che iniettavano nel cervello, era stato studiato e messo a punto da lei e da altri chimici, durante i due anni di insegnamento all’ateneo. Cosa l’aveva spinta ad accettare, ancora non lo sapeva. Probabilmente quella possibilità di dimenticare, di gettare in un ripostiglio tutti i ricordi legati all’organizzazione, e mascherarli da pensieri felici: era così che agiva la macchina. Una donna violentata avrebbe chiesto la rimozione del ricordo dell’atto: a quel punto, il serio si piantava nel cervello e vestiva la violenza di una dolce e romantica cena con i suoi fratelli. La donna avrebbe vissuto la sua vita normalmente, priva del pensiero tartassante d’essere stata usata: sarebbe cambiata.
«Non sei del tutto fiera della tua invenzione, vero?» una voce familiare le giunse dietro l’orecchio, spingendola a sorridere. Staccò gli occhi dallo schermo e li roteò sulla figura dietro di lei. Shinichi aveva preso posto sulla spalliera del divano, poggiando i gomiti sulle ginocchia. «Miyano?»
«Non è mia» replicò, calma, osservandolo. Notò che il detective aveva aiutato Agasa a sparecchiare la tavola, dato che quella sera aveva cenato con loro. «Ho solo contribuito alla realizzazione del loro magnifico progetto.»
«Spero ti abbiano pagata bene» la sfotté poi, lanciando un’occhiata alla televisione. In quel momento, l’intervistatore chiedeva ai vari ingegneri i possibili rischi.
«Troppo» sillabò lei. «Anche se... potrei pagarmi una seduta sulla macchina con quei soldi. Sai, solo per rimuovere diciotto anni della mia vita.»
«E credi sia la cosa giusta da fare?»
Shiho alzò le iridi al cielo, poi sospirò. «Risparmiami la predica, Kudo.»
«L’organizzazione è stata sterminata tre anni fa. Abbiamo vinto noi, loro hanno perso. Sei libera di vivere la tua vita come ti pare e piace, senza più alcuna paura o timore d’esser vista o trovata. Ma se sei qui è anche grazie a quello che hai passato.»
«Ti avevo detto di risparmiarmi la predica» replicò, pungente.
Lui fece spallucce, abbassò il viso e incurvò le labbra. «Ti consiglio solo di non farlo.»
«Forse perché il problema sarebbe poi spiegarmi come io e te siamo diventati amici. Non trovi?» lo sfotté, ridendo, e lui fece altrettanto.
«Perché? Io e te siamo amici?» rispose lui, imitando l’ironia della compagna. Shiho si sfumò di un leggero rosa sulle guance, distolse lo sguardo e lo piantò sul televisore.
«E tu?» chiese lei. «Se potessi cancellare qualcosa della tua vita, lo faresti?»
«No, per nulla.» Ribatté il detective prontamente.
«Ho sempre invidiato la tua sicurezza» disse dopo qualche attimo di silenzio. La voce del giornalista aveva ormai riempito la stanza, quando Shiho la spezzò. «La tua vita è una corona di trionfi e successi. È ovvio che tu non voglia cambiare nulla.»
«Sei riuscita a superare il trauma dell’organizzazione, sei riuscita a riappropriarti della tua vita, e sei anche riuscita a trovare un lavoro soddisfacente. Se non sono questi trionfi.»
La ragazza non parlò subito. Lasciò che le parole facessero il loro circolo nella mente, le assaporò pian piano e ne recepì il significato senza lasciarsi andare a particolari reazioni. Shinichi era convinto che lei fosse riuscita in tutto ciò, ma non doveva forse dire grazie a lui? Se non ci fosse stato, lei sarebbe comunque stata lì, o no? Non poteva e non voleva esserne sicura.
«Hai bevuto un po’ di umiltà a colazione?» chiese, accompagnata da un sorriso diabolico, osservandolo dal basso del salotto. Shinichi aveva gli occhi sul display del cellulare, che mise in stand-by qualche secondo dopo.
«Non sto dicendo che io non sono un vincente» rispose, ghignando. Camminò sul salotto e poi, con un salto, scese sul pavimento. «Sto solo dicendo che non sono l’unico.»
Alzò la mano e le diede le spalle, poi salutò Agasa con un urlo lontano, che tuonò contro le pareti e tornò indietro in un’eco prolungato. Shiho guardò le sue spalle svanire oltre la porta in legno, la sua sagoma nera avanzare e nascondersi nel giardino del professore. Sbuffò, affondando di nuovo la testa sul cuscino.
“Tu sei solo uno stupido” pensò, e sorrise.
 
 §§§
 
Shinichi entrò in casa girando la chiave nella toppa, mantenendo lo sguardo basso e lasciando le scarpe all’ingresso di casa sua, come la tradizione giapponese richiedeva. Affondò gli occhi nell’oscurità del corridoio, quando notò una sagoma nera come la pece muoversi lentamente verso di lui. Sorrise, poi chiuse la porta alle sue spalle, con un gesto secco della gamba.
«Non va bene, non va bene» disse il detective con un tono di voce ovattato e sfumato di note ilari. «Tempo fa conoscevo una ragazza molto sincera ed ingenua, che non avrebbe mai mentito ai suoi genitori.»
La sagoma rischiarì debolmente imbattendosi sui raggi argentei della luna, che descrissero il profilo di una donna giovane e bella, dagli occhi azzurri violacei e dalla carnagione chiara, ma non pallida. I lunghi capelli castani le scivolarono sulle spalle e le coprirono il seno e la schiena. Ran abbozzò un sorriso, ringraziando la notte per celarle il rossore alle guance. Dopo tre anni che s’amavano, di progressi ne avevano fatti molti. Perlopiù non provavano più imbarazzo nel parlare dei loro sentimenti e sensazioni, ma da parte della karateka c’era ancora qualche tabù da superare riguardo una certa sfera del loro rapporto. Inibizioni che provava giorno dopo giorno a surclassare: Shinichi era quello giusto, quello a cui si sarebbe data senza più alcuna esitazione.
O almeno, ci provava.
«Ho imparato dal maestro» rispose lei, sorridendo. Gli cinse il collo con le braccia e lo attrasse a sé: lo baciò sulle labbra, lasciando che Shinichi l’accogliesse addosso a lui. Così si aggrappò con le gambe alla sua schiena e gli permise di trascinarla lungo il corridoio buio della casa.
«Il maestro non inventa scuse banali come Mamma, papà, vado a dormire da Sonoko» la sfotté, ma non lasciò la sua presa. Ran rise, ed affondò la testa sulla sua spalla. Si cullò tra le sue braccia, che la portavano verso la camera buia al primo piano. Quella dove era solita scappare quando voleva averlo solo per sé.
«Disse quello che aveva da risolvere un caso difficile e complicato...» imitò l’ironia lei, strappandogli un sorriso.
«Era legittima. A te è banale.»
«Non è banale, è convincente e semplice» disse, socchiudendo gli occhi e assaporando quel momento.
«Ma non quattro volte a settimana», Shinichi portò una mano verso la sua schiena, e con le dita le alzò la maglietta di lana rossa.
«Cosa vuoi farci, siamo molto amiche», sorrise lei.
Il detective ricambiò il sorriso, cominciò a salire le scale, e gradino dopo gradino avvertì la voglia d’essere già in camera dei suoi divorarlo. Perché sembrava così lontana, proprio in quel momento? Le sfiorò la pelle e le baciò il collo, quando all’orecchio le disse:
«Anche io e te siamo molto amici.»
Ran alzò il volto, ridente, e riprese a stuzzicarlo: provocare non era il suo forte, anzi, era lo spicchio di tabù che ancora le ostacolava un pieno abbandono a lui. Si sentiva goffa e imbranata, quindi la maggior parte delle volte lasciava fare a lui, ma quella sera le scale e la camera erano davvero lontani. Così gli baciò le labbra superiori e tentò di attrarle alle sue con un morso: la stretta poco tenace indusse il detective a ricambiare il favore. Shinichi lasciò il solco dei suoi denti sul labbro di Ran, che si gonfiò e cominciò a pulsare. Ma non fu fastidioso, e lo divenne ancora di meno quando le loro lingue urtarono sulle loro labbra infiammate e desiderose di più di quello che stavano provando. Ran afferrò i lembi della sua maglietta, se la sfilò a la gettò a terra, non curante della destinazione. Rimase in reggiseno bianco, che durò giusto il tempo che il suo fidanzato la lasciasse andare sul materasso. Liberatosi anche della sua maglietta, il detective tornò sul corpo che da un po’ di tempo a quel momento pretendeva da avere tutto per sé, come un bambino con un lecca-lecca alla coca-cola. Sfiorò il suo profilo e le baciò la pancia, e sotto i suoi seni tremanti precipitò in un vortice di vanto e lussuria, che colmò e fece strepitare il recipiente già pieno del suo ego. Le catturò di nuovo le labbra e fece leva sulle braccia per non schiacciarla. Le annusò la pelle: la sua ragazza profumava di una bellissima fragranza dolce, dai toni zuccherati.
“Fragola” pensò, sorridendo tra sé e sé. Ran si inebriò del suo corpo, dell’incurvatura della sua bocca, dei suoi occhi cristallini e azzurri. Godé nel vederlo fare sua ogni singola parte di lei. Lo strinse forte a sé tra gli ansimi, quando lui le sussurrò, con voce rauca:
«Questi sono i momenti che non vorrei mai dimenticare.»
 
§§§
 
«Una macchina che annienta i ricordi?», sbuffò oltre il bicchiere in carta di caffè che stava sorseggiando, Heiji. Camminava svelto verso la casa del migliore amico, accompagnato dalla fidanzata, che quella mattina avrebbe dovuto dirigersi alla stazione metropolitana di Beika per raggiungere l’università di Touto. Anche lei frequentava l’ateneo di Biotecnologie come Shiho, ma da studentessa. Purtroppo lo sciopero dei mezzi gliel’aveva impedito, ed aveva chiesto al suo ragazzo di accompagnarla. Peccato che lui non potesse.
«Sì, è un’invenzione incredibile» gioii Kazuha, allargando le braccia. Il fatto che l’oggetto del secolo fosse stato realizzato anche grazie ad alcune menti della sua facoltà, la riempiva d’orgoglio.
«Si sono sottoposte alla cura già venti persone, a pieni risultati. Non ricordano nulla di quello che temevano.»
«Mah» sbuffò il ragazzo, poggiando con un po’ di pressione l’indice sul citofono in metallo grigio. «A me sembra una grande stupidaggine.» Guardò con occhi seccati ed assottigliati la maestosa residenza dell’amico, aggiustandosi con un gesto secco il cappello in testa.
“Prima o poi dovrò farmi dare le chiavi” pensò, mentre Kazuha gli ribadiva contro che lui era il solito tricheco dalla mente ottusa e limitata. “Mmmh, pessimo inizio di giornata.”
«Chi è?», dopo un paio di minuti estenuanti sentii la voce di Shinichi provenire dall’apparecchio, macchiata di un sonoro ronzio metallico.
«Chi può essere alle sei del mattino? Su, apri.»
«Infatti ho sbagliato a formulare la domanda, scusa» replicò l’amico, stizzito. «Che cazzo ci fai alle sei del mattino a casa mia!?»
«Kudo, scusami» si intromise la giovane con i capelli legati in una coda. «Ci devi fare un piacere.»
«Le devi.» Puntualizzò il fidanzato, seccato. Dall’apparecchio s’avvertì lo sbuffo di Shinichi, accompagnato allo scatto del cancello automatico, che cominciò ad aprirsi a loro. I due, che ormai vivevano a Tokyo da circa due anni, attraversarono il viale che portava alla villa. Heiji era di casa: lui e Shinichi avevano un’agenzia investigativa a loro nome, la SH*, a Tokyo. Era la migliore della città, quella con il più alto fatturato annuale. Secondo i giudizi della maggior parte dei loro clienti, o di quelli che almeno avevano chiesto loro consulenza una volta, era la migliore del paese. E ciò, a due ragazzi di ventuno anni, con Vanagloria di secondo nome, non poteva che renderli fieri ed orgogliosi di quello che erano.
«Buongiorno» li salutò il detective, cercando di mantenere la sua ira a causa della presenza di Kazuha, migliore amica di Ran. La notte prima non aveva proprio dormito, ed essere svegliato alle sei non era stato il massimo.
«Scusami, davvero» ripeté la ragazza. «È che hanno indotto uno sciopero dei mezzi, ma io non posso assolutamente mancare alla lezione di oggi. Hanno invitato un grande studioso americano, e voglio esserci.»
Shinichi ascoltò tutto mentre i due lo seguirono in cucina.
«Sì, praticamente mi servono le chiavi della tua moto per accompagnarla... dato che la mia è dal meccanico» aggiunse Heiji, con fare sbrigativo e seccato. Anche lui avrebbe voluto dormire di più. «Ciao ragazzi» li raggiunse una voce dolce e squillante, dalla loro destra. Vicino ai fornelli trovarono Ran, con una maglia lunga maschile addosso che, Hattori, aveva visto più e più volte all’amico. Incurvò le labbra con malizia, poi piantò gli occhi sui due.
«Ma guarda chi c’è...» commentò il detective nato ad Osaka. «Abbiamo interrotto qualcosa?»
La ragazza arrossì, mentre Kazuha le rivolgeva un divertito: «Hai finito i pigiama, Ran?»
«Hai deciso di prendere residenza qui?»
Shinichi pensò di abbandonare la cucina per recuperare le chiavi all’ingresso, così sfuggì ai commenti ironici dei suoi amici. Aveva però lasciato la fidanzata in loro balia, che altro non faceva che ripetere che lei non aveva dormito con lui.
«Certo, da Sonoko» ribatté Kazuha, sarcastica.
«O almeno così crede Kogoro» aggiunse Heiji, ridendo. Si avvicinò al frigo e si versò un bicchiere di latte freddo, che portò alla bocca e trangugiò nel giro di quattro secondi.
«La smettete?» provò la karateka, paonazza. «È capitato solo stanotte.»
«E ieri notte.»
«E l’altro ieri notte.»
«E lunedì notte.»
Scoppiarono a ridere entrambi e Ran sbuffò, distogliendo lo sguardo. «Perché mi sfottete? Voi vivete insieme!»
«Appunto, proprio perché non lo vivi come una cosa normale» commentò Kazuha, appoggiandosi al tavolo. Poi cacciò la lingua fuori: «se non ti desse fastidio, non ti prenderemmo in giro.»
«Vi odio» sentenziò la giovane, fingendosi offesa. Shinichi sbucò alla sua destra e tese le chiavi in mano all’amico, triste per non aver scampato del tutto la solita ruota degli sfottò.
«Ma è mai possibile che Kogoro non sospetti nulla?» si interessò Kazuha, ancora tremendamente allusiva. «È troppo banale come scusa!»
“Io temo che stia progettando la mia fine” commentò in mente Shinichi, avvertendo un sopracciglio pulsare. Ran rispose che era l’unica che gli veniva in mente, ma fu Heiji a riportare a galla l’argomento degli ultimi giorni di media e giornali.
«Secondo me Kogoro si è sottoposto alla macchina dei ricordi e ha chiesto di scordarsi del fatto che di avere un ragazzino come genero che gli ruba sia il lavoro, che la figlia.»
Tutti scoppiarono a ridere, ricoprendo di spensieratezza quella cucina in marmo e legno pregiato. Niente mai era andato bene come in quel periodo: risate, sfottò, casi, serate e nottate a sfregarsi tra le lenzuola. Chi aveva bisogno di dimenticare, non viveva la loro vita.
§§§
 
«Una grande invenzione, non c’è che dire» sussurrò alla televisione la donna dai lunghi capelli rossi e gli occhi verdi. Era alta e longilinea, le labbra carnose e rosse si scontravano con la sua carnagione pallida. Sopra la clavicola, una scritta in caratteri neri le adornava la pelle: Midori. L’uomo dietro di lei le baciò il tatuaggio, facendola rabbrividire.
«Te l’ho detto che ci sarebbero riusciti, ho buoni agganci a Biotecnologie.»
Midori sorrise, voltando lo sguardo verso di lui. Akira era un uomo sulla trentina, dai capelli fonati all’indietro e due grandi occhi di un arancio magnetico.
«Funziona?» si accertò. «Come vogliamo noi
«Alla perfezione.»
«Cosa aspettiamo, allora?» sillabò. «Rubiamola.»
«Sei impaziente, vero?» ghignò l’uomo, che provò a baciarla. Ma Midori si allontanò, muovendo con grazia le cosce e i piedi. Akira si incantava a guardarla.
«Non vuoi farla pagare a quei detective, a tutti quei poliziotti?» gli chiese. «Non vuoi creare il criminale perfetto
«Non aspetto altro da due anni.»
«E allora facciamolo» lo spronò ancora Midori, spegnendo la televisione e riavvicinandosi all’uomo.
«I ragazzi sono pronti?» si informò.
«Sì. Anestetici e un po’ di violenza, se ce ne fosse bisogno» emise un lieve sorriso lei, che contagiò il suo compagno.
«Bene, dunque...» Akira annuì, poi piantò gli occhi nei suoi: «Chi preferisci abbia il piacere di provarla?»
La rossa sembrò pensarci qualche istante, aggrottò persino le sopracciglia.
Leccò i suoi denti bianchi e poi decise, sorridendo: «Shinichi Kudo».
 
§§§
 
«Professoressa Miyano, che piacere.»
Il collega le tese la mano e ricercò la sua stretta, che venne ricambiata pochi secondi dopo con una certa titubanza. Shiho non era ancora del tutto abituata alle relazioni sociali, così come le richiedeva la vita di una normale ventiduenne che frequentava l’università. Di certo, già di per sé, l’ex donna in nero era un fenomeno: tutti le si congratularono per la giovane età e per il contributo dato alla realizzazione della macchina.
«Signori, abbiamo qui una delle menti che hanno permesso questa formidabile invenzione» disse ancora l’uomo, stavolta rivolgendosi ai presenti e indicando la ragazza. Vi erano circa tre quattro persone estranee, solitamente parenti dello stesso paziente. «A lei l’onore di dare una vita migliore a questo giovanotto.»
Sulla macchina era seduto uno studente di circa ventitré anni, caratterizzato da un profondo e fastidioso tremolio alle gambe. Shiho lo notò prima di ogni cosa, ed intuì anche che fosse una conseguenza diretta del ricordo che avrebbe voluto cancellare. Difatti, qualche secondo dopo, il ragazzo pronunciò la sua richiesta: «Vorrei dimenticare il momento in cui mio padre uccise se stesso e mia madre, sei anni fa.» Poi si guardò le gambe, e posandoci una mano sopra, provò a controllare l’incessante tremolio.
La professoressa annuì, si avvicinò alla macchina ed inserì alcuni codici di verifica. Davanti agli occhi, da un monitor touch, le spuntarono la pressione sanguigna del giovane, la sua temperatura, ed alcuni dati generali. Il ragazzo si rilassò sulla poltrona a sdraio, quando la sua testa venne circondata da un disco metallico, che pian piano si strinse sempre di più. Su di esso si accesero varie luci, tutte rosse.
Shiho inserì i comandi necessari e precisi per l’oscuramento di quel ricordo, quando le luci divennero man mano verdi.
“Kudo non è d’accordo” pensò. “Ma non tutti hanno la sua vita.”
Il giovane cadde in un profondo sonno, anestetizzato, e un piccolo ago verde gli perforò dolcemente il cervello. Furono attimi particolari e molto delicati, in cui tutti tennero il fiato sospeso. Dopo circa dieci minuti, la macchina risvegliò il suo paziente. Il ragazzo sbatté più volte le palpebre, si guardò intorno stranito e un po’ spaesato. Il dottore collega di Shiho gli si avvicinò, gli porse una mano e lo aiutò ad alzarsi.
«Come va?»
Quello sorrise, ed istintivamente gli venne di guardare la sua gamba, ma ne ignorava il motivo: sembrava tutto normale. «Bene» disse. «Ma non ricordo perché sono venuto qui.»
«E allora è a posto.» Rise quello.
“Nonostante il ricordo venga celato, il nostro istinto continua ad agire come se nulla fosse successo”, Shiho guardò con fierezza quella gamba ormai ferma. “Certe volte, è davvero meglio non conoscere.”
Un sospiro di sollievo generale percorse l’intera stanza, quando i familiari del ragazzo lo raggiunsero e lo abbracciarono.
La Miyano si fece da parte, mentre venne chiamata alla macchina un’altra paziente. Guardò la procedura con un po’ distacco, quando le si avvicinò una ragazza. Era una dei suoi allievi migliori, sicuramente una di quelli più capaci.
“Se non sbaglio si chiama Yuri” ricordò. “Yuri Haido.”
«Professoressa, anche lei qui?»
«Il professor Misao mi ha invitato» replicò Shiho. «Tu? Sei qui per sottoporti alla cura?»
La giovane rise, scuotendo il capo. «No, si figuri, prof. Ma credo che l’argomento della mia tesi debba essere questa macchina.»
«È un bel tema.»
«Già» annuì. «A questo proposito, posso chiederle delle informazioni più specifiche?»
Shiho acconsentì, e decise anche di allontanarsi leggermente dalla macchina e dalla procedura in corso.
«Ho notato diversi strumenti sul pannello di controllo, ma di molti ignoro la loro funzione. Ad esempio, a cosa servono i comandi in alto a sinistra del tabellone?»
«Sono comandi d’emergenza, servono per interrompere la procedura.» Rispose con sicurezza la giovane ramata.
«Vi sono comandi per ricostruire il ricordo?»
«Sì, eliminano l’effetto del siero.»
«Ci sono potenziali rischi per chi si sottopone?»
«Secondo le sperimentazioni in laboratorio, c’è un rischio dello 0,01% che il processo vada male.»
«Intende che possa causare danni al cervello?»
«No, ma che la macchina non funzioni.»
La ragazza annotò anche questa risposta. «L’effetto dura per tutta la vita?»
Shiho annuì.
«E se una persona richiedesse la totale cancellazione della propria memoria, sarebbe possibile?» domandò dopo un po’ la studentessa, con voce sicura ma bassa. La sua professoressa la guardò.
«Sì... con una procedura specifica e leggermente diversa.»
«In cosa consisterebbe?»
«Il siero utilizzato sarebbe diverso, e dannoso» ricordò alcune voci di corridoio nel risponderle, secondo cui era accaduto uno scandalo anni prima: gli scienziati che stavano lavorando a questo progetto, erano emigrati dalla vergogna. Ma sia per disinteresse che per noia, non aveva chiesto nulla.
«È per questo che nessuno l’ha richiesto?»
 «Il governo giapponese l’ha proibito» rispose.
«Come mai?»
Shiho inspirò aria. «È irreversibile. Una volta cancellata la memoria, non si potrebbe più tornare indietro.»
«Lei cosa ne pensa della macchina, professoressa?»
La giovane insegnante si voltò e per qualche secondo rimase a fissarla. Era una domanda che aveva fatto più e più volte anche a se stessa, ma senza riuscire a darsi una risposta. Quella macchina era capace di migliorarle la vita, eppure c’era qualcosa che le impediva di adorarla come avrebbe dovuto. Shinichi le aveva detto che ciò che è stato, faceva di lei quel che era. E se lei volesse essere diversa? Più pura, candida e semplice? Più come Ran?
«Una seconda possibilità va data a tutti» disse. «Anche a chi crede di non poterla meritare più.»
Poi abbandonò la stanza, ricordando a se stessa che lei era una di quelle che l’aveva già avuta.
 
§§§
 
«Pomodorini e mozzarella?»
«Mia!» rispose Kazuha, allungandosi per prenderla.
«Cotto, salame, melanzane e peperoni?» chiese Shinichi, con voce titubante e sorpresa, aprendo lo scatolo della pizza e sbirciandoci dentro.
«Mia» fece Heiji, imitando la fidanzata.
«Tanto per andare leggeri» lo sfotté poi l’amico, mentre consegnava a Ran la sua pizza.
«Pensa a te, piuttosto.»
Intervenne il campanello a risolvere la situazione. Il detective scivolò giù dallo sgabello e andò ad aprire, muovendosi velocemente tra il corridoio e l’ingresso della sua villa. Chiese chi era, e alla voce di Shiho, aprì la porta senza esitazioni.
«Che è successo?»
La scienziata gli alzò la mano di fronte agli occhi, mantenendo con due dita un biglietto bianco con una scritta nera sopra. Il ragazzo riconobbe la scrittura di Agasa, e lesse, sebbene il buio dell’ingresso, con velocità e divertimento: «Stasera ho una riunione di vecchi amici, scusami ma non ci sarò. Vai a cenare da Shinichi.»
«Il professore crede che non sappia stare sola.» Commentò lei, seccata.
L’amico le mandò un’occhiata eloquente ed ironica. «E allora perché sei qui?»
«Mi manca il sale e l’olio.» Rispose, per poi farsi spazio nell’ingresso. Shinichi la lasciò entrare, chiuse la porta e camminò verso gli altri.
«Rimani, no?» le propose, mandando un’occhiata verso la cucina.
«Con te?» chiese lei.
«Con noi» rispose il ragazzo, quando sulla soglia della porta apparve Ran. La karateka si illuminò con un sorriso, e l’accolse con gioia e calore.
«Ciao, Shiho!» aveva preso ormai a chiamarla per nome dalla sconfitta dell’organizzazione. E alla scienziata stava bene così. «Perché non ti unisci a noi?»
«Ehm...»
«Se fossi venuta dieci minuti prima avresti avuto una pizza tutta per te» commentò Shinichi, mentre raggiungeva la fidanzata in cucina. L’ex donna in nero li seguì, sebbene titubante e un po’ a disagio: nonostante gli anni, ancora non era abituata alla tempesta di gentilezza di Ran.
«Non c’è problema» fece la karateka. «Uno spicchio ciascuno, e ne mangerà una intera.»
Arrendendosi, la ragazza prese posto insieme agli altri quattro. Salutò Heiji e Kazuha, e tra una chiacchiera e l’altra, riuscì a passare anche una bella serata. Come proposto dal delfino – come la chiamava lei -* , Shiho non rimase a digiuno: anzi, mangiò anche più del dovuto, più di loro. E nonostante i presupposti, dovette ammettere a se stessa che le sarebbero serviti più spesso momenti come quelli. Di solito, quando il gruppetto si riuniva, lei era solita rimanere in disparte: sia perché si trovava nel bel mezzo di due coppie, sia perché si sentiva inadeguata. Qualche volta aveva fatto compagnia a Sonoko, ma quando questa era con Makoto, decideva di darsi perfino per malata. Lei non aveva un ragazzo, e non aveva mai fatto nulla per volerne uno. Considerando che l’unico che le era mai interessato fosse felicemente fidanzato da tre anni, aveva rinchiuso nel cassetto quell’argomento: per lei doveva esistere il lavoro, e nulla di più.
«Shiho, dillo anche tu a questi trogloditi» nel dibattito sulla macchina intervenne Kazuha, decisa come mai quel giorno a difendere la sua facoltà. «Non ci sono pericoli per l’essere umano, Heiji!»
«Il siero non è dannoso» aggiunse la scienziata, portando alla bocca un po’ di pizza con le patatine del detective vicino a lei.
«Io non mi farei mai impiantare nel cervello quel coso» disse Heiji, bevendo un po’ di coca-cola ghiacciata. Shinichi annuì, senza che nessuno lo vedesse.
«Abbi un po’ di rispetto per chi ci ha lavorato, almeno» lo rimbeccò la fidanzata, esasperata.
«Non sto offendendo nessuno.»
Shiho rimase ad ascoltarli con finto interesse, cercando di focalizzare su loro l’attenzione e non sugli altri due. Per quanto si sforzasse, lo sguardo le cadde più volte verso il detective padrone di casa. Abbassando gli occhi sotto il tavolo, notò che lui e Ran erano mano nella mano, strette e incastrate tra loro neanche dovessero morire da un momento all’altro. La karateka appoggiò la testa sulla spalla dell’investigatore, che venne così travolto da un intenso profumo di fragola. Lo stesso della notte prima, che l’aveva inebriato e fatto impazzire. Shinichi sorrise, avvicinando le labbra all’orecchio della fidanzata: «dormi anche questa notte da me?»
Ran arrossì, ma in quel momento avrebbe tanto voluto superare i suoi tabù. Alzò lo sguardo con tenacia, e prima che potesse rispondergli con malizia, la luce della cucina si frantumò.
Rimasero al buio. La karateka si strinse al suo ragazzo, ma un po’ tutti si agitarono.
«Ma che è successo?» chiese Kazuha, intimorita.
«La lampad...» stava per dire il suo fidanzato, ma venne interrotto. Il detective di Osaka si accasciò al pavimento, privo di sensi. Shinichi vide un’ombra muoversi tra di loro, e cercò di staccarsi da Ran. Ma quando la lasciò andare, la giovane cadde al pavimento.
«Ran!» urlò, mentre alle sue spalle, nel buio dell’ambiente, avvertì il rumore di un altro corpo caduto a terra a peso morto. Alzò lo sguardo e vide solo Kazuha all’in piedi.
«Scappa!» le disse, ma era troppo tardi: un’altra ombra aveva circondato le spalle della ragazza ed otturandole la bocca, le aveva fatto perdere i sensi.
Shinichi non seppe come muoversi: sebbene conoscesse a memoria la sua cucina, non aveva la minima idea di dove si nascondessero i criminali che li avevano sorpresi.
«Cosa volete?» chiese, girandosi intorno e cercando di ripararsi. Pensò ad un piano che potesse mettere in salvo tutti, ma il suo istinto lo fece voltare verso la sua fidanzata: Ran giaceva a terra con gli occhi chiusi, respirando normalmente. Questa fu l’ultima cosa che vide.
«Te», fu l’ultima che sentì. 
 
 
 
 
* Shiho chiama Ran “delfino” perché ritiene che lei sia uno “squalo”. I delfini sono candidi e puri, proprio come Ran... e Shiho lo teme. Il confronto viene fatto nel volume 31, file 5 – 7.



Me:
Ciao miei cari amici e lettori conanosi di EFP!
Un paio di voi sapevano già che sarei tornata a breve (e si sono preparati alla grande! xD) altri invece non ne erano a conoscenza. Dunque, comunque sia, sono tornata, e con una nuova storiella bella complicatuccia e bella fastidiosa. Per la prima volta ho focalizzato la mia attenzione tutta su Shinichi. No, non vi sto prendendo in giro XD Intendo u.u che per la prima volta mi sono buttata a studiare la sua vera psicologia, infatti la maggior parte della storia sarà narrata dal suo punto di vista. È stato difficile, lo ammetto, perché il nostro detective è abbastanza complicato come personaggio. Non si capisce bene cosa potrebbe o non potrebbe essere da lui a volte, e questo rende la scrittura molto più difficoltosa!
Per quanto riguarda la storia in sé, sono nove capitoli, che pubblicherò settimanalmente, a partire da oggi, 23 gennaio. Ammetto che anche il genere di storia che ho trattato è diverso dal solito: vi è molta azione, ma il romanticismo comunque non mancherà. Detto questo XD dopo avervi fatto leggere il tanto (seee...) agognato (u.u) primo capitolo (e all'intestazione vi ho dato anche una bella parentesi di come si potrebbe dire anche in altre lingue... grazie google traslate! xD) aspetto soltanto i vostri giudizi e le vostre recensioni, con la solita speranza che la storia piaccia, magari anche più delle altre. È un po' un mio capriccio quello di cercare ogni volta di superarmi XD
Dunque..... dimentico qualcosa? Ah sì, lo spoiler u.u Nel "mio amico di infanzia" pare che l'idea dello spoileruccio piacque molto, dunque la rinnovo, anche per smorzare la tensione e l'ansia che la storia vi metterà (sì, sto cercando di spaventarvi XD)!

Il 30 gennaio avremo, niente popodimeno che XD, il secondo chap. Ok, la smetto di dire idiozie XD

Secondo capitolo: "Il criminale perfetto"

«Tu sei il candidato perfetto per il progetto del secolo. Sei colui che darà un nuovo volto al senso dell’ordine, del rispetto e del potere. Sei colui che darà vita ad una nuova forma di giustizia.» Shinichi assottigliò gli occhi, avvertendo i muscoli del viso tirare. «Cosa farnetichi?»
Midori sorrise un altro po’ oltre la luce sbiadita della cenere accesa.
«Tu diventerai il criminale perfetto


La fantasia proprio, LOL. :D

Ci vediamo il 30, ragazzi! Un bacio enorme :*

P.s. mi siete mancati. <3


 
 
 

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Capitolo 2
*** Il criminale perfetto ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Secondo capitolo Second chapter Deuxième chapitre  Il criminale perfetto Segundo capìtulo Zweite Kapitel    번째 장   


 
 
Quando si svegliò, Shinichi avvertì un gran male alla testa. La tempia sinistra gli pulsava dolorosamente, la guancia era fredda ed umida, ed uno strano odore amaro gli torturava le narici. Realizzò fosse sangue. Il suo, soprattutto, quello che aveva perso in seguito all’impatto con il tacco del fucile che l’aveva fatto svenire. Intontito, aprì gli occhi lentamente. Vide intorno a sé una stanza buia, con diversi macchinari, alcune sedie, ed una finestra chiusa. Cercò di mettere al fuoco qualche particolare, ma gli sembrò impossibile in quelle condizioni. Troppo tardi realizzò di essere legato: due manette gli bloccavano i polsi alla poltrona sulla quale era quasi sdraiato, e alcune funi gli circondavano il petto, il ventre, le gambe e i piedi.
«Ben svegliato, detective
Si voltò di scatto verso la donna che aveva di fronte. Aveva lunghi capelli rossi, due penetranti occhi color smeraldo, un vestitino nero che andava a fasciarle il corpo ma lasciava nuda la spalla: Midori.
«E tu...» sussurrò, recuperando la voce nei meandri dei suoi polmoni. Lì dove respirare gli faceva ancora male, in seguito a quella botta. «Chi sei?»
Ma c’era qualcosa, in lei, che gli suggerì che già l’aveva vista. Ricordava vagamente un volto simile al suo, ma molto più giovane, più dolce e più ingenuo.
«Avremo tempo per conoscerci, detective, ma non ne abbiamo altrettanto per fare di te ciò che vogliamo.»
Shinichi respirò appena. La voce della donna era chiara, veloce e penetrante. Sembrava sicura di quello che stava facendo perché non lasciava trasparire nessuna forma di dubbio o timore.
«Cosa volete da me?» chiese, allora. Midori sorrise, allontanandosi di qualche passo. Shinichi le guardò le spalle minute e le gambe lunghe, che tanto gli ricordavano quelle di Ran.
“Ran!” sussultò, su quella sdraio, intrepido. Nella sua mente si fecero largo le immagini di qualche ora prima: i suoi amici che cadevano uno ad uno davanti ai suoi occhi, il corpo inerme della sua fidanzata al pavimento, quello pesante di Heiji un po’ più distante. E Shiho, e Kazuha, che erano con lui poco prima che quella voce lo tramortisse.
«Cosa avete fatto ai miei amici?»
Le luci della stanza si accesero, portando al chiaro la geometria del luogo. Shinichi notò di essere sotto una macchina maestosa ed incombente, di un metallo dipinto di bianco. Deglutì, esterrefatto, quando si rese conto di cosa si trattasse: era la macchina dei ricordi.
Midori gli si avvicinò di nuovo, e gli posò una mano sulla sua.
«Tra poco non ti importerà più nulla di loro» sillabò lentamente la giovane, quasi con perfidia.
Shinichi si dimenò sulla sdraio con impazienza. «Eh?»
Midori fece per calmarlo: il suo tocco, delicato e subdolo allo stesso tempo, strusciava sulla sua spalla e il suo petto. Il detective era intontito, spaesato e stranito. Un brivido lo percorse e lo obbligò a fermarsi, quando lei lo avvisò con spaventosa velocità del loro piano:
«Dimenticherai tutto ciò che sei.»
 
§§§
 
Le dita del giovane detective dalla pelle olivastra si contrassero e distesero in un solo gesto. Le sue palpebre ripresero a battere normalmente, mentre le sue iridi mettevano a fuoco il lampadario in stile moderno comperato da Yukiko anni prima, nell’enorme cucina dei Kudo. Si rimise a sedere con fatica, poggiando la schiena ad un cassettone vicino i fornelli. Guardò con stanchezza e riluttanza l’ambiente, ed incapace a formulare un pensiero razionale, stette parecchi secondi a scrutarlo: vi erano le lattine di Cola a terra, gocciolanti al pavimento, e alcuni pezzi di pizza schiacciati contro i mobili della stanza. Spostò lo sguardo più a destra: la sua ragazza era sdraiata pancia all’in giù, apparentemente immobile. Strabuzzò gli occhi e si trascinò sino a lei.
«Ehi, Kazuha», la chiamò, scuotendole la schiena. «Ehi, svegliati, Kazuha.»
La giovane mugugnò qualcosa, poi  cominciò a contrarsi su se stessa. Stiracchiò le gambe e le braccia, e quasi spontaneamente girò il corpo verso Heiji. Aprì con lentezza le palpebre, poi si fermò, stranita.
«Ohi.»
«Stai bene?» le chiese, sporgendosi verso di lei.
«Io... sì, credo... ma... non...» balbettò. Kazuha buttò gli occhi un po’ intorno, e si mise a sedere di scatto. Hattori invece aveva riacquistato l’uso degli arti inferiori, e riuscì finalmente a mettersi all’in piedi.
«Comincio a preoccuparmi» lo sentì dire, mentre lei continuava ad osservare la cucina. C’era un silenzio tombale.
«Heiji... cos’è successo?»
Il fidanzato sbuffò, si passò una mano fra i capelli e si tirò le guance all’ in giù.
«Siamo stati aggrediti» disse, come se la cosa fosse più che ovvia. Poi fece leva sulle ginocchia, si abbassò, e da terra recuperò una fialetta con una puntura. Era grande circa quanto l’unghia di un pollice. «E ci hanno anche mandato a nanna.»
«Chi ci ha aggredito?»
Il ragazzo negò, non sapendo cosa dire, mentre fece il giro della stanza alla ricerca delle altre fiale.
«Heiji, dove sono gli altri?»
Hattori non rispose, sembrava immobilizzato. Kazuha lo affiancò e seguì la traiettoria dei suoi occhi. A terra vi era del sangue, gocciolato da una sola ferita: quella di Shinichi.
«È questo che mi preoccupa.»
 
§§§
 
«Vuoi farmi... dimenticare tutto?» Shinichi rise, quasi schernendo la donna che aveva di fronte. Il suo sguardo riacquistò man mano la tenacia e la spavalderia che da sempre lo contraddistinguevano, eppure non brillava della solita sicurezza: dov’era la sua fidanzata, dov’erano i suoi amici? Lo mascherò nel migliore dei modi, cercando di pensare ad un modo per scampare a quella follia. La donna che gli stava parlando era sicuramente pazza, eppure il pensiero di non sapere cosa potesse aver fatto ai suoi amici lo struggeva: doveva sapere.
«Tra poco non riderai, detective.» Midori si sedette su uno sgabello a fianco alla macchina, ed incrociò le gambe.
«Questa macchina è capace ad eliminare solo i traumi che vogliamo» ribatté lui, cercando di prendere tempo. Osservò la stanza e capì che aveva ben poco con cui liberarsi: c’era l’orologio spara aghi soporiferi al suo polso che sarebbe potuto essergli d’aiuto, se solo non avesse avuto le mani bloccate.
«Questa macchina è capace ad eliminare tutto quello che vogliamo» lo corresse. Poi frugò con le mani nella sua borsa: aveva un tocco delicato e dolce, e quando estrasse il pacchetto di sigarette, lo rivolse al giovane Kudo. «Favorisci?»
Shinichi sorrise. Era l’occasione giusta per farsi liberare dalle manette uno dei due polsi.
«Sì, grazie.»
Midori si alzò, si avvicinò e tirò su col fiato. Si sporse verso di lui, e con la bocca gli indirizzò il fumo contro. Il moro si ritrovò così a respirare in una nube di nicotina che lo spinse a tossire ripetutamente: d’altronde lui non era un fumatore e quell’odore gli dava particolarmente fastidio.
«Stavi cercando di fregarmi, detective?» lo sfotté, sorridendo.
“Dannazione, è più furba del previsto” imprecò Shinichi, osservandola divenire sempre più nitida oltre il fumo. “Speriamo che non sappia dell’orologio. È la mia unica arma.”
«Cosa vuoi da me?» si decise finalmente a chiederle, con la voce ancora bassa per via della nube grigiastra che gli infastidiva le narici. Midori sbuffò altro fumo, sempre indirizzato al viso leggermente tumefatto del giovane. La sua ferita sanguinava ancora.
«Tu sei il candidato perfetto per il progetto del secolo. Sei colui che darà un nuovo volto al senso dell’ordine, del rispetto e del potere. Sei colui che darà vita ad una nuova forma di giustizia.»
Shinichi assottigliò gli occhi, avvertendo i muscoli del viso tirare. «Cosa farnetichi?»
Midori sorrise un altro po’ oltre la luce sbiadita della cenere accesa.
«Tu diventerai il criminale perfetto
Qualche secondo d’oblio, mentre il ragazzo fece sue le parole di quella giovane. Così innalzò un sopracciglio, incredulo. «Come scusa?»
«Mmh», si lamentò Midori, buttando un po’ di cenere a terra. «Quante spiegazioni a vuoto mi fai dare. Sai cosa mi da fastidio? È che tra un’ora non ricorderai nulla, quindi tanto vale tacere.»
«Tu sei pazza» disse. Ed gli era anche familiare. Dove l’aveva vista? Aveva un ricordo lontano, di circa qualche anno prima. L’omicidio di un uomo, le attenuanti di un altro.
La sua mente parlava ma lui non riusciva ad ascoltarla, i suoi ricordi così lo aiutarono: l’aveva vista alla fine di un caso risolto con Hattori, lei gli si era avvicinata, era felice.
«Sei grande» gli aveva detto in quel momento, e lui aveva ricambiato con un sorriso.
«E tu sei legato», gli sorrise. «Chi è quello che sta peggio?»
Shinichi distolse repentinamente i pensieri, ricordandosi improvvisamente che avrebbe dovuto trovare una soluzione per il presente. «Tu, perché io posso liberarmi.»
«I ricordi saranno la sola cosa di cui ti libererai» ricominciò Midori, ridendo con convinzione. Gli accarezzò la mano e la strinse nella sua, avvertendo una certa riluttanza da parte del giovane sdraiato là sopra. Così sorrise e forzò le loro mani in modo che potessero stringersi. «Ti ho osservato, sai. Tu hai sangue freddo. Sei glaciale, e per essere un difensore della giustizia, sei anche parecchio categorico. Quando sei a lavoro, il tuo sguardo non fa tramutare alcuna emozione: né gioia, né dolore o commiserazione per il delinquente di turno. Tu vuoi solo sbatterlo in gabbia.»
«Mi hai spiato?» comprese allora, cominciando a preoccuparsi sul serio. Ciò gli fece capire che l’attacco era premeditato, ed anche da parecchio.
«Mi piace osservarti mentre lavori.» Dichiarò la giovane, sorridendo e rilasciando andare un altro po’ di fumo. «Tu non lasci scampo a nessuno, questo lo adoro.»
«Io voglio che sia fatta giustizia» replicò Shinichi, cercando di sottoporsi alla mano della donna. Era liscia e fredda, e così diversa dal tocco di Ran. «Lavoro affinché un criminale non possa causare ulteriori vittime o danni.»
«Lo so», sembrò divertirsi Midori. «Però io ho osservato anche il tuo collega.»
“Hattori” volò subito col pensiero al suo amico, osservandola muovere le labbra a suon di sbuffi.
«Tu e lui eravate i candidati ideali per questa missione: intelligenti, geniali, sagaci. Eppure sotto questa macchina ci sei tu. Sai perché? Lui manca di una caratteristica fondamentale per un criminale: l’autocontrollo.»
Shinichi non disse nulla, e a stento inspirò. Controllò la respirazione in modo che Midori non s’accorgesse di un suo possibile nervosismo. Doveva mostrarsi sicuro: era la prima arma per sbriciolare la sicurezza di qualcun altro.
«È impulsivo, non ragiona di fronte al pericolo. Tu sì.»
Riuscì a districarsi dalla mano della donna, ma probabilmente perché era ciò che aveva voluto lei. Infatti Midori si allontanò, per affiancarsi alla macchina: pigiò qualche tasto, e questa cominciò ad emettere un rumore profondo e fastidioso, segno che stava per mettersi in moto.
“Dannazione” imprecò tra sé e sé, preoccupato. “Cosa posso fare?”
«Posso chiamarti per nome, detective?» lo sfotté, buttando via la sigaretta in un cestino lì vicino.
Lui emise un grugnito infastidito. «Chiamami come vuoi.»
«Bene, Shinichi» enfatizzò il tono sul nome, come a volergli dimostrare di essersi presa la briga di entrare in confidenza con lui senza troppi problemi. Fece schioccare le dita: «adesso possiamo iniziare.»
Il detective avvertì dei passi raggiungerlo, ed alcune urla smorzate diffondersi tra le mura dell’edificio. Rabbrividì quando riconobbe di chi erano. Shiho si presentò di fronte a lui trattenuta da tre uomini, quando venne catapultata a terra con poca delicatezza, giungendo a suoi piedi.
«Kudo» bisbigliò la ramata, deglutendo terrorizzata. Alle sue spalle, Ran doveva far fronte alla forza bruta di altri due criminali, che le riservarono lo stesso trattamento della scienziata.
«Shinichi!». Quando giunse al suo cospetto, Ran afferrò le gambe dell’amico d’infanzia e si aggrappò a lui. Ma non le fu possibile andare oltre: Midori ordinò ai suoi uomini di allontanarla.
Così venne presa per i capelli e sbattuta all’indietro, scontrandosi con un mobiletto poco distante e facendone cadere i fogli.
«Ran!» urlò, cercando di dimenarsi sulla sdraio e raggiungerla. Ma era così legato che anche respirare pareva divenire un pregio. La guardò e per un po’ rimase a scambiarsi con lei una profonda occhiata: la sua ragazza aveva i capelli scombinati e gli occhi luccicanti, come se da un secondo all’altro stesse per scoppiare a piangere.
“Ran” recitò il suo nome nella sua mente, ma la voce di Midori lo richiamò alla realtà. Aveva afferrato per il colletto la scienziata, costringendola a trascinarsi per la stanza.
«Adesso che ci siamo tutti, concedo l’onore alla dottoressa di dare vita al progetto», Shiho fu così  spinta ad alzarsi, ma era completamente all’oscuro del piano di quei malfattori: indietreggiò, ma si ritrovò a scontrarsi con uno di loro. Fu indirizzata e avvicinata alla macchina, quando cercò di liberarsi e proferì un seccato: «lasciatemi stare».
Poi successe qualcosa: dallo stesso corridoio da cui erano giunte le ragazze, fecero capolino altri passi. Nel giro di qualche secondo, alla porta si mostrò un giovane uomo sulla trentina. Quando questi assistette a quella scena, sorrise.
«Akira, finalmente.» Sbuffò Midori, che intanto chiese ai suoi uomini di afferrare la karateka con la forza: questa venne presa e bloccata tra le loro braccia. «Sei in ritardo.»
«Scusami», rise ancora lui, poi fece qualche passo e si posizionò di fronte al detective. «Che bello rivederla, signor Kudo.»
Shinichi assottigliò gli occhi come se volesse mettere meglio a fuoco la sua immagine. Cominciò a respirare con fatica, quando nella sua mente si districò, tra tutta quella confusione, un solo pensiero: “Akira Kitoshi.”
«Cosa vuoi?» chiese allora, «cosa ci fai qui?»
«Saltiamo i convenevoli, detective?» Akira rise di nuovo, poi rivolse lo sguardo a Shiho: «Dottoressa Miyano, avvii il processo di amnesia totale.»
«Cosa?»
«C-cosa?» le fece eco Ran, dall’altro lato della stanza.
«Ha capito bene» ribadì. «Avvii il processo di amnesia totale.»
La scienziata guardò il suo amico, cercando nella sfumatura dei suoi occhi qualche soluzione. Chi erano quelli? Perché li avevano rapiti? E cosa volevano da lui? Ma Shinichi non era in grado di aiutarla: era legato su quella macchina, e non poteva nemmeno parlarle dell’orologio.
«Dottoressa Miyano, è qui perché lei è l’unica a sapere attivare il processo. Adesso, con gentilezza, le chiedo di farlo.»
Shiho inarcò un sopracciglio: «No. Non è possibile, la macchina oscura solo un tot di ricordi.»
«Non cerchi di prendermi in giro, dottoressa» sentenziò Akira, con freddezza ed acidità. «Non sono famoso per la mia pazienza.»
Lei sospirò, e cercò di fornirsi della migliore sfilza di bugie che possedesse: «la macchina non ha questa capacità, e se l’avesse credo di non esserne a conoscenza.»
Akira sbuffò, guardò Shinichi e gli regalò un’occhiata beffarda: «Crede che io abbia voglia di perdere il mio tempo?»
«Neanche io, se è per questo.»
Il detective non abbassò lo sguardo, lo sostenne con decisione e fermezza. Quando l’uomo chiese nuovamente a Shiho di procedere col processo, e lei nuovamente si rifiutò, Shinichi assistette ad uno scorrere degli eventi repentino: uno degli uomini sparò Ran in una gamba, facendola gemere dal dolore. Il suo fidanzato urlò, disperato, cercando di raggiungerla. La scena si oscurò e fece spazio al solo sangue della karateka che giungeva al pavimento con preoccupante velocità.
«Ran! No!» sbraitò lui, facendo forza sulle catene e le funi che lo legavano: cominciò ad arrossire i polsi e il corpo per via dell’insistenza con cui tentava di liberarsi e raggiungerla. Ma sembrava tutto inutile: e mentre Ran gemeva, Shiho non aveva la minima idea di cosa potesse fare.
«Dottoressa Miyano?» la richiamò allora Akira, con fare convincente. «Prenda il siero giusto ed esegua il processo.»
“Il siero giusto?” pensò lei. La mente viaggiò a quel pomeriggio, a quelle domande, e a quella ragazza: “Dannazione, Yuri Haido!”
«Siamo stati così gentili da prelevare i campioni di siero che ci occorrono» continuò per lui Midori, permettendo che due uomini facessero spazio ad un tavolo su cui erano poggiate diverse fialette. «Le notizie a Biotecnologie corrono veloci.»
“Dannazione” imprecò Shiho. “Cosa potrei fare?”
Guardò il detective e notò che lui era poco interessato alle richieste gentili e discutibili di Akira e Midori: aveva il volto tirato e fisso sulla gamba della sua fidanzata, consapevole di non poter fare nulla per aiutarla.
“Dannazione, Kudo, dammi un’idea!”
Shinichi ansimava, il volto cinereo fisso sulla gamba coloratosi di cremisi di Ran: quando non ne poté più di quella visione, volse lo sguardo a Shiho. Con gli occhi gli indicò il suo orologio, quello che da Conan gli aveva salvato la vita un’infinità di volte. Sembrava dirle “usalo, usalo e scappate via”.
La dottoressa dapprima scosse il capo, pensando tra sé e sé che quella fosse una follia: il processo era irreversibile una volta iniziato, come avrebbe potuto salvarlo? Ma quando i criminali puntarono la pistola sul capo di Ran, Shinichi non ebbe più coraggio di resistere oltre.
«Fallo» le ordinò, con un filo di voce. «Fallo!»
Shiho socchiuse gli occhi: aveva le mani tremanti.
«Ok, basta», le sue parole interruppero i due uomini che imprigionavano Ran. La stessa Midori disse loro di fermarsi. «Per iniziare il processo, è necessario privarlo di ogni aggeggio metallico. Potrebbe interferire con la macchina.»
Akira la guardò leggermente perplesso. Probabilmente si stava chiedendo se fosse vero o meno, ma non la interruppe.
«No» gemette Ran, quando realizzò quello che stava per accadere: Shiho sottrasse l’orologio a Shinichi, e si apprestò ad iniziare il processo. Quando giunse di nuovo al pannello di comando, la scienziata inserì la fialetta in un tubicino apposito. Nella mano sinistra reggeva l’unica possibilità di fuga che aveva: di ago ce n’era solo uno, e doveva sfruttarlo il meglio possibile.
«No, Shiho!» urlò di nuovo la karateka, quando la macchina si accese di luci verdi e rosse. Due bracci ruotarono intorno al capo del detective, che rivolse un ultimo sguardo alla fidanzata. Probabilmente, quella era davvero l’ultima volta che si sarebbe ricordato di lei.
Ran incrociò quegli occhi azzurri e riempì di lacrime i suoi: non ci volle molto prima che queste scendessero e le bagnassero il viso, precipitando sui suoi pugni. Ne lanciò uno al pavimento, quando la macchina iniziò il processo: la fialetta era entrata in contatto col cervello del detective.
Tutti i criminali sembrarono estasiati ed attratti: Shiho guardò la karateka e sperò che fosse abbastanza lucida da riuscire a combattere con almeno uno dei due che la imprigionavano. Ma Ran era sull’orlo di una crisi di pianto, e continuava a balbettare il suo nome: «Shinichi... S-Shinichi! N-No!»
«Ehi, MOURI!» urlò Shiho all’improvviso, attraendo l’attenzione di tutti. «SCAPPA!»
Alle parole seguì l’azione: la giovane ramata mirò uno dei due uomini, e velocemente riuscì ad addormentarlo con l’ago, che gli perforò il collo. Ran strabuzzò gli occhi, cercò di recuperare tutte le sue energie ed ignorare il dolore alla gamba: si alzò e si proiettò contro l’altro, gettandolo a terra. In un istante scoppiò il caos: sia Akira che Midori non s’aspettavano quella reazione, e provarono a braccarle. Ma le due ragazze si riavvicinarono, si nascosero dietro la macchina e cercarono di fuggire: un’altra donna si pose davanti a loro, ma Shiho fece in modo che un mobiletto le cadesse contro e le impedisse di bloccarle. Akira sparò e colse la spalla della scienziata, che gemette ma non demorse: quando poterono finalmente uscire da quella stanza infernale, Ran gettò uno degli uomini contro i suoi complici. Guadagnarono così velocità e metri, ma la karateka era tutt’altro che intenta ad andarsene via.
«Shiho! Il processo! Shinichi! Dobbiamo salvarlo, ti prego!»
«No, non possiamo!» le urlò, mentre il fiato cominciò ad aggravarsi per via della corsa. «Mi dispiace, Mouri, ma è irreversibile. È troppo tardi ormai.»
Si fecero scudo con un muro, evitando i proiettili che sfiorarono i loro volti: erano traboccanti di sangue e prive di forze.
«Mi dispiace» ripeté Shiho, abbassando lo sguardo e ripartendo. Sfruttarono un condotto dell’aria condizionata: lì si nascosero e velocemente riuscirono ad uscire da quell’edificio, gettandosi nel buio della notte. Erano finalmente salve, ma un solo pensiero premeva nel cervello della giovane Mouri:
«Vuoi dire... che Shinichi non ricorderà mai più nulla?» diede alito alle sue paure, tra lo sgomento e l’incredulità. «N-Non è vero.»
«È meglio andare via di qui, Mouri.»
«NO, SHINICHI!» si gettò a terra Ran, esasperata. Fece scivolare con violenza le mani nei capelli e continuò a piangere, senza riuscire a calmarsi. «NO!!»
Shiho la guardò imperterrita, immobilizzata da uno strano e stupido senso di colpa: in qualche modo, era riuscita a rovinare di nuovo la loro vita.
 
§§§
 
L’uomo dall’impermeabile arancio avanzò nella centrale con un caffè in mano, tentando di svegliare il cervello con la giusta dose di caffeina: dopo uno sbadiglio lunghissimo, Megure vide avvicinarsi dall’entrata due ragazzi. Si accese in un sorriso, quando riconobbe uno dei due: «Oh, Hattori, qual buon v...»
Ma quello lo interruppe: «Ispettore! Siamo stati aggrediti! Kudo, Ran e Miyano sono scomparsi!»
L’uomo, dunque, sputò tutto il caffè per terra, incredulo. Strabuzzò le palpebre e fece anche cadere il bicchiere. «CHE COSA!?»
«Eravamo a casa di Kudo, e all’improvviso un gruppo di persone ci ha anestetizzato!» disse Kazuha, terrorizzata. Dopo aver ripreso i sensi, i due giovani di Osaka avevano convenuto che la cosa più giusta fosse avvisare la polizia.
«MA CHI ERANO!?» chiese l’ispettore, preoccupato come sempre quando l’argomento della conversazione era un certo detective figlio di uno dei suoi più grandi amici scrittori.
«Non lo sappiamo, purtroppo.»
«Ma voi state bene?»
«Sì» rispose freneticamente Hattori, al che la fidanzata aggiunse: «Solo un po’ intontiti.»
«Ok», Megure posò una mano sulla spalla della ragazza, quando richiamò alcuni suoi agenti dal fondo del corridoio. Urlò il loro nome e disse loro di occuparsi dei ragazzi: «portateli in ospedale, è meglio accertarci che stiate bene. Cercheremo noi i vostri amici.»
«No!» obiettò il kendoka. «Io sto benissimo!»
«Hattori.»
Heiji lo guardò negli occhi con ferocia: «Io-sto-bene.»
Il poliziotto ricambiò lo sguardo e poi sbuffò. «Ok. Chiba, chiama Takagi e Sato, ci vediamo dai K...»
«I-ISPETTORE!» urlò una voce alle loro spalle, che squarciò con terrore quella di Megure. Tutti si girarono, increduli, quando riconobbero Shiho, con la spalla sanguinante e i vestiti traboccanti di rosso scuro.
«Miyano!», Hattori le corse incontro, mentre alcuni poliziotti la aiutarono a sorreggersi in piedi.
«Cos’è successo?» cercò di spronarla a parlare, ma la giovane era scioccata. «Kudo...»
«UN’AMBULANZA, PRESTO!» gridò Megure ai suoi uomini, mentre Shiho si sorreggeva alla spalla di Heiji. Col respiro affannoso gli sussurrò: «Mouri... Mouri è qui fuori. Ha un proiettile nella coscia.»
«COSA? RAN!?» fece il ragazzo, lanciando un’occhiata alla fidanzata e pregandola di raggiungere l’altra. Kazuha corse fuori la centrale, dove trovò Ran ai piedi dei scalini principali, con il sangue che le scorreva da una gamba, e le mani sporche di terra sul volto: si dondolava con la schiena avanti ed indietro, ed aveva inevitabilmente attirato l’attenzione di molti.
«RAN!» le corse incontro la giovane, abbassandosi alla sua altezza per cercare di aiutarla: «Ran, stai perdendo sangue, sei ferita! Andiamo in ospedale!»
Ma la piccola Mouri non le rispose: con le unghia delle dita si graffiò il viso, che scrisse per lei il nome del ragazzo che amava da una vita.
«Shinichi...», le lacrime le caddero in bocca, regalando al suo palato un gusto amaro ed aspro. Eppure nulla era in confronto alla sua anima: «Il mio Shinichi...»
 
§§§
 
Risplendette il Sole oltre le pareti in vetro della villa, che riscaldarono le sue stanze e diedero inizio ad una nuova giornata. I raggi si intrufolarono tra le tende e giunsero sino al letto e alle sue lenzuola di seta bianca. Sopra, sdraiato in un apparente sonno ristoratore, vi era Shinichi. Quando la stella del nostro sistema posò i suoi raggi anche sul suo viso, il giovane fu costretto a svegliarsi. Titubante si ritrovò ad aprire gli occhi su un soffitto color blu e un lampadario di cristallo, che all’apparenza pareva anche caro. Volse la faccia a destra e a sinistra, intontito e spaesato, fece leva sulla schiena per potersi alzare. Si mise così a sedere sul materasso, cominciando ad ispezionare un po’ l’ambiente: era una bellissima stanza, circondata da innumerevoli vetri. Fuori, a quanto poteva scorgere, vi era un magnifico giardino con piscina.
«Ben svegliato, tesoro.»
La voce di una dolce donna fu la prima che sentì quella mattina: voltandosi, si scontrò con una giovane dai capelli rossi e gli occhi di un penetrante verde smeraldo. La guardò stranito, e preoccupandosi, cominciò a fissarla con insistenza.
Non la ricordava.
«Tutto bene? Hai avuto un brutto incidente ieri» lo informò, sorridente. Midori gli accarezzò il viso, ma a quel tocco il detective si sottrasse.
«Cosa...» boccheggiò, quasi terrorizzato. «Io... io non...»
Si diede un’altra occhiata intorno. Si scontrò così con uno specchio posto in corrispondenza del letto. Poté ammirare i suoi capelli corvini e ribelli, i suoi occhi azzurri e penetranti, il suo fisico longilineo.
Non sapeva dov’era, non sapeva che giorno fosse, ma il peggio, era che non sapeva chi fosse.
«Chi... chi sono, io?»
La donna dai capelli color cremisi sorrise. «Tu sei Shinichi Kudo.»
Il giovane strabuzzò gli occhi, e quando Midori si allungò nuovamente per accarezzarlo, le permise di farlo.
«Shinichi Kudo?» chiese conferma, con un filo di voce. La donna annuì, facendo scorrere le sue dita sul viso del ragazzo: aveva la pelle morbida e liscia.
«Sì, Shinichi», gli sussurrò sulle labbra, con dolcezza. «Sei il mio tesoro.»
«I-il tuo tesoro? Perché?» chiese lui.
Era spaesato: non sapeva chi fosse quella ragazza, ma la cosa più brutta era che non aveva la minima idea del perché non lo ricordasse. «Tu chi sei?»
«Io mi chiamo Ran, Ran Mouri. Sono la tua fidanzata.»




Me:
Aaaaarieccomi! :3 Passata in fretta una settimana, vero? Lo so che stavate tutti aspettando questo bel continuo (u.u dite di sì), ma non so se ve l'aspettavate già così movimentato :D Credo che il piano dei criminali adesso sia un tantino più chiaro rispetto ad una settimana fa, ma ovviamente ci sono da dire ancora taante cose, che troveranno spazio nei vari capitoli! Be', cosa ne pensate? Shinichi si scontra faccia a faccia coi suoi rapitori, li vede ferire Ran ed obbliga Shiho ad innescare il processo. Cosa succederà adesso? :D E Midori, che si finge proprio Ran? :3 Cosa avranno in mente e come riusciranno Ran e gli altri a ritrovarlo? 
Bene, per il momento è tutto u.u Vi aspetto numerosi al secondo capitoletto. <3
Un bacione grande ai recensori del primo, grazie mille ancora! <3
Vi lascio con lo spoiler, e ci vediamo il 6 febbraio!

Capitolo terzo "Una nuova memoria"
«A quanto pare non sono l’unico che comanda qui» osservò il detective, e Midori trattenne il fiato. Ogni qualvolta lui si accorgeva di cose non proprio ovvie, che faceva delle osservazioni o si comportava da detective, lei perdeva battiti del suo cuore. Aveva paura che l’effetto del siero scomparisse. Che lui tornasse ad essere lui. E tutta la sua fatica sarebbe andata sprecata.
«Infatti siamo in due» acconsentì Akira. «Io sono tuo fratello, mi chiamo Akira.»



Tonia
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Una nuova memoria ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Terzo capitolo Third chapter Trois chapitre  Una nuova memoria Tres capìtulo Drei Kapitel 第三章  장 세  
 
 
 

Shinichi la osservò ancora per molto, cercando di scorgere in lei qualunque dettaglio, anche insignificante, che potesse aiutarlo. Era bella, senza ombra di dubbio, e quei capelli rossi le cadevano a perfezione sul viso sottile e magro. Le labbra carnose e rosee erano allettanti, ma non gli donavano nessun ricordo: eppure quella donna sosteneva d’essere la sua fidanzata, il suo amore, la sua vita. Ma lui non riusciva a trovarla nei meandri del suo cervello: in realtà, era come se fosse stato svuotato.
«Io, io non mi ricordo...di te» disse il giovane Kudo, sincero e spaesato. Guardò la piscina oltre il vetro e ci piantò gli occhi sopra: «Non mi ricordo di niente... io non so chi sono.»
Midori gli posò la mano sulla spalla e gliela accarezzò. «Ieri notte hai avuto un bruttissimo incidente con la moto. Purtroppo hai battuto la testa, e...», la giovane fece per commuoversi, ripulendosi le palpebre di lacrime che non aveva. «Ho avuto tanta paura... ma il dottore ha detto che sei soltanto scosso dal trauma cranico che hai subito. Dice che presto ricorderai tutto, ed io lo spero perché non potrei sopportare che tu abbia dimenticato tutto di noi... Sai, tesoro, io e te ci conosciamo fin dall’infanzia. Io...» e si fermò per singhiozzare, fingendo di piangere e disperarsi. Shinichi la osservò, poi deglutì e ricominciò a guardarsi intorno. Nemmeno quella casa gli diceva nulla. Strinse i denti e si aggrappò ai suoi stessi capelli, cercando di imporsi un respiro regolare.
“Perché non ricordo nulla? Cosa mi è successo?”, guardò la ragazza e sussurrò, tormentato: «È straziante.»
«Se vuoi ti aiuto a ricordare» gli propose Midori, sorridente, che inspiegabilmente aveva improvvisamente finito di piangere. «Solo io ti conosco meglio di te stesso.»
Shinichi pazientò un po’, gli sembrava tutto così stranamente subdolo che stentò a credere fosse vero. Era come se il suo cervello avesse bisogno di sapere, di indagare, di cercare prove che testimoniassero ciò che gli stesse accadendo, e ne ignorava il motivo.
«Va bene» si arrese poi alla giovane, pronto ad ascoltare le sue parole.
Midori si mise un po’ più comoda, incrociando le gambe. Aveva imparato quella filastrocca a memoria: ore ed ore di prove, per far sì che tutto combaciasse, che nulla fosse lasciato a caso, e che tutto fosse perfetto. Come lui. «Il tuo nome è Shinichi Kudo, hai ventuno anni e vivi qui da quando sei nato. Questa villa...» divaricò le mani al soffitto, come per dimostrarne la grandezza. «...come questa città, sono tue.»
«Questa città?» chiese il giovane, stranito. Midori rise ed annuì: «Beika è tua.»
Shinichi inarcò un sopracciglio. «Che vuoi dire?»
«Tesoro, tu sei il figlio del più grande imprenditore di tutti i tempi. La tua famiglia è a capo di tutto qui: industrie, aziende, spaccio, armi... questa gente è sotto i tuoi piedi.»
«Spaccio?» domandò, assottigliando gli occhi. «Sono un criminale?»
«Tu non sei un criminale, tu sei il criminale» obiettò Midori. «La tua mente, il tuo ingegno, le tue idee... ti permettono d’essere rispettato da chiunque: uno come te non può avere nemici, soltanto seguaci.»
Shinichi si guardò le mani e le strinse sotto i suoi stessi occhi. “Io...Sono un genio del crimine?”
«Cosa faccio... precisamente?» riuscì a domandare poi, dopo qualche attimo di titubanza. Non sapeva perché, ma quella prospettiva di vita lo straniva.
Midori si aggrappò alla sua spalla, posandogli il viso sopra. «Grazie a te, riusciamo a sbarazzarci di chiunque: purtroppo, sebbene la superiorità del nostro clan, alcune persone sono così stupide da preferirci come nemici. Ma la tua mente è una miniera d’oro di piani: con te far morire qualcuno, anche sotto gli occhi degli sbirri, è più facile di bere un bicchiere d’acqua.»
«Dunque... progetto piani per uccidere persone?» chiese conferma lui, riflettendo la sua immagine nello specchio di fronte. Effettivamente notò una garza a fasciargli la testa: “è dovuta alla botta sulla moto che ho preso?” si chiese, mentre pazientava la risposta della donna.
«Sì, tesoro» sorrise Midori. Poi fece scivolare una mano tra i suoi capelli, e gli lasciò un bacio sul collo. «Perché te ne meravigli?»
«Non me ne meraviglio» rispose, osservandola. Il tocco della donna, notò, non gli causò nessun tipo di emozione. «Sai com’è, però, mi sveglio che non ricordo nulla di niente... permettimi di essere un po’ stranito.»
«Io ti permetto tutto.» La rossa rise, attraendolo a sé e baciandolo sulle labbra. Shinichi strabuzzò gli occhi quando avvertì le loro bocche unirsi, e si chiese perché anche quello gli risultasse così strano. Fu sul punto di interromperla, quando bussarono alla porta della meravigliosa stanza in cui s’era svegliato.
«Possiamo?» udirono i due, al che Midori emise un mugugno scocciato.
«Potete» disse, e si staccò leggermente dal detective. Shinichi vide entrare una decina di uomini, dalle più svariate età e stature. Lui non avrebbe potuto riconoscerli, ma erano quelli che l’avevano rapito il giorno prima: la banda di criminali avanzò nella sua stanza, e quando fu abbastanza vicina da poterlo toccare, si fermarono.
«Come sta?»
«È cosciente?»
«Si sente bene?»
Una sfilza di domande caricarono la mente già offuscata ed oppressa dell’investigatore, che non aveva la minima voglia di ascoltarli o parlar loro. Ringraziò così mentalmente la sua nuova compagna, quando questa prese parola: «Sta bene» rispose per lui Midori, emettendo un sospiro. «Ma non ricorda nulla del suo passato.»
Quelli parvero accendersi. Trattennero a stento un sorriso di soddisfazione: il loro piano era, dunque, andato in porto. Era riuscito.
«Nulla nulla?» chiese uno di loro, ilare, guadagnandosi un’occhiata truce da parte della donna. Fu lei a riprendere le redini del discorso: «Nulla. Ovviamente dovremo stargli vicino. Come sapete, il dottore ha detto che è una cosa temporanea probabilmente... ma cerchiamo di non stressarlo, ok?»
Shinichi guardò dapprima lei e poi tutti gli altri. “Sono una sottospecie di miei scagnozzi?” si domandò, ritenendoli non all’altezza delle parole proferitegli dalla rossa.
«E come si fa con l’agenzia? La chiuderemo?»
Shinichi aggrottò le sopracciglia a quella proposta. Si voltò verso l’uomo che l’aveva posta, e lo puntò: «Agenzia?»
«Non ricorda nemmeno questo?» fece eco un altro, mentre Midori si schiarì al voce e li zittì tutti.
«Siete imbecilli o cosa? Non ricorda nulla, è ovvio» recitò con maestria, poi si girò verso il giovane, e gli accarezzò la spalla: «Scusami tesoro, non te l’ho detto. Be’, ovviamente in giro non puoi presentarti come figlio del boss di mafia. Hai un lavoro di copertura.»
«E quale sarebbe?» chiese allora, incuriosito.
Midori incurvò le labbra in un sorriso: «Il detective.»
 
§§§
 
«Ok, quindi è sicuro?», Heiji emise un sospiro stentato, richiudendo le palpebre per poi riaprirle, cercando di vincere la stanchezza che lo dominava. Non aveva dormito per tutta la notte, il suo migliore amico era scomparso nel nulla e, come se tutto ciò non fosse abbastanza, aveva appena scoperto che una banda di criminali avrebbero voluto utilizzarlo come genio del crimine. «Kudo ha perso completamente la memoria?»
«C’è bisogno che te lo ripeta altre venti volte?» sbuffò Shiho, seduta sul lettino dell’ospedale, accanto a quello di Ran. La karateka, per la notte, era stata sedata: quando il giorno prima era arrivata con una pallottola nella coscia, sembrava non volerne sapere dell’operazione. Il suo unico pensiero era ritrovare Shinichi, cercarlo e portarlo a casa.
«È che non mi sembra possibile non ci sia un modo per ripristinargliela, cazzo.»
Ran ascoltò tutto senza proferire parola. Gli istanti dopo il risveglio erano stati i più brutti: aveva la gamba dolorante e fasciata in bianco, immobile e statica su quel materasso che aveva ormai imparato ad odiare. Ma non le importava del suo dolore fisico quanto di quello che avrebbe dovuto sopportare dopo, quando finalmente si fosse fatta capace di quello che era successo. Per il momento, le sembrava tutto ancora così impossibile, fuoriluogo, irreale. Shinichi non poteva averla dimenticata, non poteva essersi dimenticato di loro.
«Comunque io vado,» fece all’improvviso Hattori, alzandosi dalla sedia su cui s’era riposato per qualche minuto. Ran alzò soltanto gli occhi a lui, fissandolo: Heiji ricambiò lo sguardo, ma non disse nulla.
«Torno nella stanza dove quei tizi vi hanno portati. Devo trovare qualcosa che mi riporti a lui.»
«Voglio venire anche io» sentenziò la karateka improvvisamente, stringendo sotto i suoi pugni le lenzuola bianche che puzzavano d’ospedale. Le sue parole attrassero l’attenzione del detective e degli altri: apparivano quasi stupide.
«Non dire sciocchezze, Ran» fece allora Kazuha. «Sei debole, sei stata operata ad una coscia.»
«Non mi interessa.» Sentenziò, cominciando a scostare le coperte per permettersi di scendere. Era cosciente di quanto quella fosse una pazzia: ma cosa era più importante, per lei, non aveva nemmeno bisogno di chiederselo. Dunque era anche abbastanza convinta che nulla o nessuno avrebbe potuto fermarla: Shinichi aveva dimenticato tutto, ed era nelle mani di pazzi criminali assassini.
«Non sei in condizioni» obiettò Hattori, sebbene non riuscisse a biasimarla: era strano, ma poteva capire benissimo come si sentiva. Lui non ricordava niente, niente di niente.
“Kudo”, deglutì, preoccupato.
«Non preoccuparti per me» disse lei: la voce bassa, debole, spezzata ed insicura. «Non sono io quella senza memoria.»
«Ma hai una coscia fasciata» fece allora Shiho, un po’ spazientita da quelle smorfie, ma non del tutto contrariata: anche lei, come Heiji, riusciva a capirla. Eppure anni e anni con Shinichi le avevano impiantato nel cervello l’idea che, quando era possibile, era meglio cercare di evitare le stupidaggini.
«Fa’ nulla» disse, mettendosi all’in piedi. Fece più pressione sulla gamba sinistra, quella sana, così evitò la metà del dolore che avrebbe dovuto sopportare. «Voglio andare via.»
«Ran, per...» provò infine Kazuha, ma inutilmente.
La karateka aveva già indossato il giaccone del giorno prima, e se l’era infilato: «Dove devo firmare?»
 
§§§
 
«Tesoro, loro provvederanno a tutto ciò che desideri» disse Midori, indicando due degli scagnozzi. Erano esattamente quelli che, il giorno prima, avevano avuto Ran tra le braccia e le avevano sparato.
«Sono al tuo completo servizio» sorrise amabilmente, cercando di essere convincente. I due si guardarono con sospetto, come a chiedersi se anche questo facesse parte del piano.
«O...ok» annuì, titubante, il detective; un sopracciglio alzato e gli occhi fissi sui suoi nuovi schiavi. Shinichi si chiese, invece, se fossero quelli che lui aveva già scelto, o se la sua ragazza gliel’aveva affibbiati così, adesso, per punirlo, e si fosse presa i migliori.
«A cosa pensi?» domandò Midori, un po’ preoccupata: avevano fatto completo affidamento su quella macchina, ma se avesse fatto cilecca quella volta? Come potevano esserne sicuri?
«Eh?» si voltò lui, preso alla sprovvista. Non potendo rivelarle la verità, si guardò il corpo, ed una domanda gli sorse spontanea: «Potrei sapere perché, avendo fatto un incidente, non ho nemmeno un graffio?»
Tutti strabuzzarono gli occhi, presi alla sprovvista da quella domanda. Il detective aveva fatto caso al suo corpo completamente sano,e senza neanche un livido. Era una prova del suo intuito, eppure era rischioso lasciarlo col dubbio. Così, ancora una volta, Midori attirò l’attenzione a lei: «Ehm... sai, indossavi la tuta. Ti ha... protetto.»
«E non portavo il casco?» domandò allora, come se fosse lecito.
I presenti si lanciarono tra di loro una veloce occhiata. «No...» fece allora, uno di loro, in un soffio.
«Indossavo la tuta e non il casco?» chiese, stranito.
Midori rise per il nervosismo, e lo strinse forte a sé. «Ma tesoro, il casco è per i deboli! Va be’, se l’avessi avuto... ti saresti risparmiato il trauma. Ma tu... tu sei fatto così. Sei... s-spericolato. Ed io... non sai quante volte ti ho detto di metterlo, perché hai sempre fatto di...» e cominciò di nuovo a piangere, fingendo di asciugarsi lacrime che non aveva. «...di testa tua, ed io ho sempre avuto paura...»
Shinichi si stupì di come la giovane potesse e riuscisse a cambiare umore, ma, forse per farla smettere o forse perché era davvero convinto, s’alzò finalmente dal letto, ed ebbe la sensazione che quella fosse la prima volta che lo facesse: sapeva camminare, eppure non ricordava chi gliel’avesse insegnato. Era tremendo. Scrutò velocemente un po’ tutti, non riuscendo a capire per quale assurdo motivo non ricordasse nessuno di loro. Perché l’incidente in moto era stato così tremendo da smantellargli la memoria, ma non abbastanza da lasciargli qualche livido o graffio sul corpo. C’era solo quella lieve ferita alle tempie, proprio dove avrebbe dovuto portare il casco. Pensandoci, il casco non gli faceva poi tanta repulsione. Perché non l’aveva messo allora?
«Che ne dici se ci facciamo un giro?» chiese Midori. «Voglio farti toccare con le mani ciò che eri prima che lo dimenticassi.»
«Toccare...con le mani?» inarcò un sopracciglio lui, stranito.
Midori annuì semplicemente: «Vestiti, ti aspetta una bella sorpresa.»
Il detective si chiese se riuscisse a ricordare dove fossero i suoi vestiti in quella camera gigantesca, ma appena Midori si spostò e gli altri la seguirono fuori la camera, li vide nell’armadio di fronte a lui.
 
§§§
 
La coscia le faceva un male cane. Quando le sembrava di riuscire ad abituarsi al dolore, velocizzava il passo per star dietro a Kazuha, Shiho e Heiji, ma se ne pentiva immediatamente qualche attimo dopo. Non avrebbe mai creduto che una pallottola nella carne potesse fare tanto male, ma si era quasi convinta che fosse solo lo specchio sadico di ciò che sentiva dentro di lei. Shinichi scomparso, Shinichi senza memoria, Shinichi nelle mani di criminali spietati. Capì, quasi con disgusto, che pensare al suo fidanzato le alleviava il dolore alla coscia così come accresceva quello al petto. Decise di ignorarli entrambi: affiancò a fatica Heiji, indicandogli col capo la strada che il giorno prima, lei e Shiho, avevano percorso all’inverso.
«Non capisco perché tu voglia tornare lì. Ormai non ci sarà più nessuno... anzi, potrebbe essere una trappola» si stava lamentando la scienziata, con tono apparentemente indifferente. Aveva seguito Hattori senza particolari lamentele, dimentica però di quanto l’amico di Shinichi fosse avventato. In effetti, della loro improvvisa perlustrazione del luogo dove il detective era scomparso, non era stato avvisato nessuno, neanche la polizia. «Hai la stessa tendenza di Kudo a cacciarti nei guai.»
Heiji camminò dritto, accennando appena un sorriso. «Con la conseguente tendenza a cercare di tirarlo fuori.»
Ran si ritrovò concorde con il ragazzo. Anche Shinichi, sebbene a differenza di Heiji non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, starebbe già sulle tracce dell’amico.
«Sei ancora convinto che non gli abbiano distrutto la memoria.» Disse Shiho, e parve più una constatazione che un’accusa. La karateka abbassò il capo, stringendo le dita sotto la stoffa della sua maglietta.
Heiji si morse debolmente un labbro. «È più una speranza.»
«Non vorrei demolire il tuo castello di carte, ma so che effetti ha quel siero. E non c’è più nulla da fare.»
«Sembra quasi ti faccia piacere» sputò fuori Hattori, mentre una vena cominciava a pulsargli nervosamente sulla carotide.
Shiho replicò con un’occhiata stizzita. «Non dire idiozie. Io sono stata a contatto con la crudeltà più di ognuno di voi... e posso immaginare cosa un branco di criminali possa escogitare per ottenere ciò che vuole.»
Ran alzò il capo, mentre Heiji si fermò davanti alla grata che le due avevano scaraventato via il giorno prima, nell’intento di fuggire. Si accovacciò e per qualche istante rimase a guardarla, come incantato.
«Potrebbero torturarlo» disse il detective, rialzandosi e cacciando fuori l’aria in un sospiro.
Shiho sbuffò. «Non è la tortura fisica a preoccuparmi, non con un soggetto come Kudo.»
Ran si voltò altrove, reprimendo violentemente lo stimolo di piangere.
“Sono un cervello, Watson. Il resto di me è una mera appendice” diceva.
Adesso capiva.
Volevano torturarlo, sì.
Ma mentalmente.
 
§§§
 
Alla fine Shinichi aveva indossato un paio di jeans chiari ed una t-shirt bluastra, che andava ad esaltare dolcemente l’azzurro dei suoi occhi. Fuori camera sua, vide che due uomini lo stavano aspettando; uno con una bottiglia di birra in mano con l’aria di chi non vuole essere disturbato, e l’altro con le braccia incrociate ed un’espressione decisamente scocciata. Atteggiamento che aveva notato anche negli altri che Midori gli aveva presentato, ma non riusciva a capire da cosa fosse causato. Pensò di averlo dimenticato, come tutte le altre cose.
Fu scortato da quei due lungo tutto il tragitto. Cominciò così a disegnare in mente la planimetria della casa: era una villa, e questo l’aveva capito da parecchio, a tre piani. Quello della sua camera era il piano intermedio, dove si trovava anche un bagno ed un salone areato e luminoso, dalle pareti bianche e blu. Il piano superiore non lo visitò, e considerando che stava scendendo le scale in marmo bianco, si ritrovò faccia a faccia con il primo livello di quella villa. Dalla scarsa illuminazione, capì immediatamente d’essere sotto terra. Percorse un corridoio tetro e buio, illuminato solo da qualche faretto, per poi ritrovarsi di fronte ad una porta blindata. Sul muro, all’altezza dei suoi occhi e alla destra dell’infisso, vi era un tastierino numerico. Vide uno dei due uomini digitare un codice, che illuminò il tastierino di un verde chiaro. La porta si aprì davanti a lui ed un bagliore azzurro lo avvolse. Socchiuse leggermente le palpebre per abituarsi alla luce, simulando una smorfia, poi man mano le riaprì. Di fronte a lui vi era Midori, e dietro di lei vi erano armi. Armi e monitor.
«Benvenuto.»
Shinichi avanzò verso di lei lentamente, rapito da quella visione così incredibile ed... affascinante: vedeva la città in tutta la sua essenza. Scorse dei bambini giocare in un cortile con la palla, delle mamme chiacchierare un po’ più in là allegramente, e spostando lo sguardo su un altro monitor, si ritrovò a spiare un anziano col bastone da passeggio, due fidanzatini sbaciucchiarsi in un vicolo, un uomo correre verso la metropolitana più vicina. Lì lesse il nome della città: Tokyo. Dunque si trovava a Tokyo.
«Che te ne pare?»
Aveva mille domande da fare, ma ne formulò solo una: «Nessuno nota le telecamere?»
«Sono nascoste bene.» Sorrise lei, poi fece qualche passo e si fermò di fronte ad un monitor. Shinichi ci poggiò lo sguardo sopra involontariamente, osservando l’immagine di una villa in stile occidentale dai mattoni marroncini ed un ampio cortile esterno. Aveva anche un finestrone esterno ampissimo.
Casa sua, ma lui non la riconosceva.
Midori trattenne il respiro, piantò gli occhi su di lui nel tentativo di percepirne le emozioni e i pensieri: aveva ancora paura che potesse ricordare.
«Io odio questa villa, Shinichi.»
Lui inarcò un sopracciglio. «Dovrei sapere perché?»
«Perché è la villa... in cui ti hanno imprigionato.»
«Imprigionato?», Shinichi fissò con più intensità il profilo della villa ritratto nel monitor. Come gli succedeva per tutto il resto, non riuscì a ricordare nulla. Era una bella villa, stranamente in stile occidentale per essere giapponese, e sembrava momentaneamente vuota. Ci vivevano dentro o era stato solo il teatro della sua prigionia? Guardò Midori: «Chi mi ha imprigionato?»
Lei sedette su uno sgabello e con le gambe si dondolò e roteò su se stessa. «Coloro che dobbiamo uccidere» disse soltanto.
«Sono nostri... nemici?» chiese allora, curioso.
«Una specie» mormorò, poi ghignò. «Io li chiamo “rotture”.»
«E perché mi hanno imprigionato?»
«Perché li ostacolavi. Hanno cercato di arrestarti.»
«Sono poliziotti?» domandò.
«Sono feccia» rispose per lei una voce lontana, che fece eco sulle pareti della stanza buia dove si trovavano. Dalla porta apparve Akira, vestito di pelle nera, col viso tirato e serio. Avanzò verso Shinichi con sicurezza, fermandosi accanto alla sua collega dai capelli cremisi.
«Noto che il bell’addormentato si è svegliato» disse, rivolgendosi al detective. L’interessato storse il naso a quello sfottò. Aveva il vago presentimento di non essere una persona a cui si possono rivolgere insulti. «Come stai?»
«Oh, be’, a parte che non ricordo nulla di chi sono e di chi mi circonda... direi bene.»
Akira non riuscì a trattenere un sorriso, e lui se ne accorse. «Ti faccio ridere?»
«Noto con piacere che il caratterino da sbruffone saccente non l’hai perso.»
Shinichi scrollò le spalle, mentre Akira fece un cenno di mano ai suoi uomini per mandarli via. Obbedirono immediatamente, trascinandosi fuori dalla stanza con estrema velocità.
«A quanto pare non sono l’unico che comanda qui» osservò il detective, e Midori trattenne il fiato. Ogni qualvolta lui si accorgeva di cose non proprio ovvie, che faceva delle osservazioni o si comportava da detective, lei perdeva battiti del suo cuore. Aveva paura che l’effetto del siero scomparisse. Che lui tornasse ad essere lui. E tutta la sua fatica sarebbe andata sprecata.
«Infatti siamo in due» acconsentì Akira. «Io sono tuo fratello, mi chiamo Akira.»
 
§§§
 
La stanza aveva esattamente lo stesso aspetto del giorno prima. La macchina dei ricordi al centro, con il braccio meccanico a mezz’aria, e la fialetta del siero incastrata in esso. Alcuni tavoli rovesciati per lo scontro, medicinali abbandonati al pavimento senza cura e diversi fori di proiettile. Heiji camminò con cautela tra le varie bottigliette, raggiungendo il braccio della macchina. Lentamente ne estrasse la fialetta, ormai vuota, da cui ancora colavano diverse gocce di liquido verde.
«È questo il siero?» chiese a Shiho, che annuì.
Ran si avvicinò alla sedia dov’era stato sdraiato Shinichi. La accarezzò dolcemente, cercando di ricordarlo negli ultimi attimi in cui l’aveva visto. Quei criminali che le sparavano, lui che obbligava Shiho a proseguire. Non ce l’aveva fatta a vederla soffrire.
«Portiamolo con noi, potrebbe servire» disse il detective, arrotolando la fialetta intorno ad un fazzoletto e ficcandoselo in tasca. Ricominciò a perlustrare la stanza, aiutato da Kazuha e Shiho, che in realtà però non sapevano bene cosa cercare.
«Tutto ciò che è fuori dall’ordinario» rispose lui alla loro domanda taciuta.
«Qui è tutto fuori dall’ordinario, Heiji» replicò la fidanzata, lasciando andare una tubo di medicinali laddove l’aveva trovato.
«In disordine non significa fuori dall’ordinario» disse, poi si chinò, facendo leva sulle ginocchia. Con i polpastrelli della dita afferrò un bigliettino nascosto tra un flacone e il piede del tavolo. «Un pass per un privé, per esempio, è fuori dall’ordinario.»
Shiho l’avvicinò, per poi fermarsi a leggere il nome del locale. «Pandemonium.»*
«Andiamo a trovare questo pandemonio», Heiji si alzò e si diresse verso l’uscita. Shiho e Kazuha lo seguirono, ma Ran rimase dov’era. Vicino a quella sedia dove aveva visto torturare Shinichi. I suoi compagni pazientarono qualche secondo, ma lei pareva non volersi muovere. Fu Heiji a scuoterla dal suo sonno; le prese un braccio e la trascinò via.
«Lo troveremo» le assicurò. «Te lo prometto.»
 
§§§
 
«Non sapevo di avere un fratello» ammise il detective dopo qualche secondo di puro sconcerto, durante i quali Akira aveva goduto nel guardare la sua reazione. «O meglio, ho dimenticato di averlo.»
«Questo non è un bene» obiettò Akira, leggermente ironico. Shinichi si fermò per un po’ a guardarlo: non si somigliavano molto, anzi, per niente.
«Non puoi dimenticare tuo fratello.»
«Ho dimenticato tutto» disse, un po’ scocciato, ovviandolo.
Akira sorrise. «Dobbiamo rimediare» obiettò, con convinzione. Mosse qualche passo verso il detective, fermandosi di fronte a Midori. Lei gli passò una sorta di telecomando coi tasti luminosi.
«Ma non adesso» continuò, premendone uno. Shinichi osservò tutti gli schermi spegnersi tranne uno, quello più grande. Partì immediatamente un filmato su un vicolo buio e deserto.
«Ran ti ha detto dei nostri genitori» disse Akira, cercando conferma. La giovane dai capelli rossi scosse un po’ il capo.
«Solo i dettagli» lo avvisò, sorridendo. «Ho voluto lasciare a te l’onore.»
L’uomo annuì, come per dirle di aver fatto bene. «Shinichi» lo chiamò Akira, e lui si girò. Gli sembrava d’abitudine farlo. «Nostro padre era uno degli uomini più rispettati di Tokyo, uno dei più onorevoli. Ma è il potere che genera invidia.»
Il detective notò che sullo schermo erano spuntati due persone di mezz’età: un uomo e una donna a braccetto.
«E l’hanno ucciso» concluse. «Li hanno uccisi. E questo è il video della loro morte.»
Shinichi sgranò un po’ gli occhi, poi si immerse nel filmato. L’uomo e la donna camminarono finché non videro un gruppo di persone avvicinarli. Dalla stazza, parevano sia uomini che donne. Erano vestiti di nero, ed avevano il capo coperto, dunque era impossibile riconoscerli. Quando quello che avrebbe dovuto essere il padre di Shinichi e Akira si accorse di loro, tentò di fuggire, ma quelli furono più rapidi. Circa tre o quattro di loro circondarono la donna, e strattonandola, la allontanarono di qualche metro dal marito. Altri due avvicinarono lui: uno di loro gli disse qualcosa, poi gli diede un pugno.
«Gli ha appena detto che hanno anche te» lo avvisò Akira, senza staccare gli occhi dallo schermo.
L’uomo cadde a terra, mentre la donna veniva strattonata e spintonata tra di loro. Il marito tentò di reagire; si lanciò contro gli aggressori, ma non fece che peggiorare la situazione. Uno di loro prese in disparte la donna, le legò una corda alla gola e la trascinò via come fosse un sacco vuoto. Lei provò a liberarsi, ma non fece altro che stringere ancora di più la corda intorno alla sua gola. Uno degli aggressori la spinse verso il muro, facendole battere la testa, poi si abbassò e l’afferrò per i capelli. La donna dovette alzarsi, tremante, sotto gli occhi impotenti del marito, trattenuto per le braccia da altri due criminali. Fu in quel momento che le spararono: ma non alla testa o al cuore. Le spararono allo stomaco, due o tre volte. Ebbe tutto il tempo di accasciarsi a terra e sentirsi morire. La sua agonia non finì immediatamente: vide prima suo marito preso a pugni e a calci, poi gli spari al ventre. I criminali li guardarono contorcersi sotto il dolore del sangue che risaliva come bile lungo l’esofago, sputarlo e cercare di avvicinarsi l’uno all’altro. Morì prima lei, dopo circa cinque minuti. Poi toccò a lui esalare l’ultimo respiro.
«Li hanno lasciati morire così», tornò la voce di Akira a spezzare quella tensione. «Senza rispetto, senza onore.»
Shinichi aveva gli occhi sgranati e la salivazione a zero. «Chi erano?»
Akira premette un altro tasto. Lo schermo fece uno zoom sul volto dell’uomo che aveva parlato a loro padre. Questo si abbassò il cappuccio e portò allo scoperto la sua faccia, sebbene non totalmente riconoscibile per via del buio. Shinichi notò che fosse un ragazzo, più o meno della sua età, dalla carnagione scura e dagli occhi verdi. Era alto e muscoloso.
«Chi è lui?» domandò, cominciando a provare un senso di disgusto. Quel ragazzino gli aveva ucciso i genitori... li aveva torturati.
«Lui è quello che merita di morire peggio di chiunque altro, quello che tu ucciderai con le tue mani» dichiarò Akira. E sotto le luci della stanza che tornarono ad accendersi, ed i monitor che tornarono a spiare Tokyo, gli rivelò il suo nome:
«Heiji Hattori.»
 
 

 
 * LOL, omaggio a Shadowhunters <3


Me:
Eccomi qui! Nuovo capitolo, lo definirei più di transizione che altro. In fondo mi serve per mettere le basi a quel criminale che Shinichi dovrebbe diventare, studiare un po' la sua psicologia e il modo in cui reagisce a ciò che gli sta intorno. Bene bene u.u Shin-chan versione pazzo criminale ha il compito di uccidere il suo migliore amico, che però non riconosce e non ha la minima idea di chi sia. Intanto Midori... tanto cara Midori! XD si sbaciucchia per bene il suo finto fidanzato, godendosi questa sua nuova posizione u.u brutta infame degenere, sono abbastanza sicura verrà eletta come personaggio più odiato xD Mentre il nostro detective da mostra del suo adorabile intuito anche smemorato <3 E alla fine Heiji e Ran e tutti gli altri, trovano finalmente una traccia che potrà riportarli dal loro amico. Cosa succederà nel prossimo?

4 | L'effetto del Paikal
«Questi sono i tuoi ultimi attimi di vita», Midori tirò fuori una pistola dalla tasca posteriore dei pantaloni, e gliela puntò contro. La canna dell’arma era a pochi centimetri dalla sua fronte. «E li sprechi così?»
Ran avvertì le gambe tremare, mentre un rumore sordo di cocci che si frantumarono le raggiunse. Ma loro non ci badarono: «Shinichi. Dov’è Shinichi?»
«Proprio ciò che speravo mi chiedessi.»


Ci terrei a ringraziare tutti quelli che hanno commentato, tutti quelli che l'hanno inserita tra le preferite e quelli tra le seguite. *^*
Al 13 allora. <3
Un bacione enorme!
 
 
 

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Capitolo 4
*** L'effetto del Paikal ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Quarto capitolo Fourth chapter Quatrième chapitre  L'effetto del Paikal Cuarto capìtulo Vierte Kapitel 第四章  네 번째 장


Heiji fermò l’auto poco distante il disco club. Abbastanza lontano da non dare nell’occhio e abbastanza vicino da esser in grado di scappare all’occorrenza. Sperò comunque che non accadesse niente di pericoloso, dato che portava con sé due ragazze, tra cui una zoppicante e in evidente stato di shock, e l’altra chiaramente turbata ed afflitta. Erano proprio in momenti come quelli che avvertiva più di tutto la mancanza del suo collega di investigazione, quello su cui poteva fare affidamento su tutto, quello con cui bastava anche solo un’occhiata per capirsi.
“Chissà dove sei” pensò, affondando lo sguardo nel vuoto. “E se stai bene...”
Assottigliò leggermente gli occhi, quando, accorgendosi dei suoi pensieri, scosse velocemente il capo per scacciarli.
«Quanto ci impiega Takagi ad arrivare?» domandò, cercando di distrarsi, con una voce fin troppo bassa.
«Eccolo», lo indicò Shiho, vedendolo spuntare da una siepe qualche metro distante e avvicinarsi con sospetto verso di loro. Li chiamò, oltre il finestrino che gli offuscava e disturbava la voce. Heiji dunque lo abbassò, salutandolo.
«Cosa state combinando, ragazzi?»
«Cerchiamo di ritrovare Shinichi» spiegò Ran, quando la voce del detective di Osaka la sopraffò: «Abbiamo una traccia, ma abbiamo bisogno del tuo aiuto.»
«Ho la vaga impressione che vi caccerete nei guai» disse, stringendosi nelle spalle per il freddo. Heiji scese dall’auto, imitato dalle altre due, ed insieme raggiunsero il club. Durante il tragitto, Hattori spiegò più o meno tutto quello che era successo, quello che avevano trovato, e che intenzioni avevano. Il locale era pullulante di ragazzi, c’era chi era sobrio e chi era evidentemente brillo, alcuni forse sotto l’effetto di vere e proprio droghe, che si abbandonavano a danze poco armoniose e a movimenti privi di ogni pudore. Ran arrossì solo a guardarli, mentre Shiho passò davanti senza curarsene. Heiji e Takagi avvicinarono un tipo della security: un uomo largo quanto loro due messi insieme, ed altro quasi due metri.
«Desiderate?»
Takagi infilò la mano nello giubbotto e ne tirò fuori il distintivo. «Sono un poliziotto, ho bisogno di vedere il proprietario del locale.»
L’uomo impallidì. Ran pensò che fosse strano che un omone così grosso sbiancasse. «A-aspettate un attimo.» Così dicendo sparì oltre una porta blindata che sbatté dietro la sua ombra. Dopo qualche minuto tornò, e disse loro di seguirlo. Heiji e Takagi si guardarono, Shiho sorrise appena.
«Il potere del distintivo» disse, ironica, mentre il poliziotto assottigliava gli occhi.
«Vi servo solo per questo» obiettò lui, leggermente seccato. Evitò per poco un tavolino posto alla destra del corridoio che stavano percorrendo. Non si vedeva nulla lì dentro.
«Ognuno ha la sua utilità, Takagi» fece Heiji, mentre svoltava all’angolo, dietro l’ombra dell’uomo della security.
«Non so se prenderlo come un complimento» ammise, quando dovettero fermarsi di fronte ad un’altra porta blindata. Questa si aprì su una stanza quadrata, dal pavimento trasparente. Sotto di esso vi era il club, coi ragazzi che ballavano scatenati. Un uomo basso e dalle spalle minute, in giacca e cravatta beige, diede loro il benvenuto.
«Mi chiamo Tastuo Hochi» si presentò, stringendo la mano a tutti.
«Wataru Takagi» si presentò l’agente, a cui s’aggiunse la voce di Hattori: «Heiji Hattori. E loro due sono Ran Mouri e Shiho Miyano.»
L’uomo fece un debole inchino alle due ragazze, poi guardò gli altri due. Li invitò a sedersi, ma nessuno accettò.
«Dei poliziotti nel mio locale» disse allora, con un’impercettibile nota di fastidio. «Ho combinato qualcosa?»
“Spera per te di no” pensò il detective. Takagi fermò i suoi pensieri: «Potremmo visionare i filmati di sorveglianza dell’area privata?» chiese, gentilmente.
«Perché?» domandò l’uomo, insospettito.
«Stiamo cercando una persona.»
«E sarebbe passata per il privé del Pandemonium?», Shiho non capì se il proprietario stesse perdendo tempo o avesse tanta voglia di parlare.
«Questo non le interessa» disse Hattori, seccato.
«Siamo scorbutici?»
Takagi lanciò un’occhiataccia al ragazzo, ma Heiji non s’arrestò: «Signor Hochi, ho l’impressione che lei non voglia che io chieda ad un ispettore un mandato di perquisizione per questo locale. Io faccio un favore a lei, e lei lo fa a me.»
Shiho ebbe l’istinto di lasciar andare un fischio. L’uomo socchiuse gli occhi, rilasciò un sospiro, poi si alzò. «Seguitemi» sussurrò quasi, e poco dopo si ritrovarono in un altro stanzino, circondato da monitor che riprendevano il locale in ogni sua essenza. Disse a due ragazzi che controllavano la situazione di andarsi a fare un giro, poi fece sedere Heiji e le ragazze.
«Questi sono i filmati dell’ultima settimana» li avvisò, quando il detective prese possesso del mouse e cominciò a scorrere i frame. Diede tempo alle ragazze di riconoscere i volti, sorvolò e velocizzò le immagini sulle famiglie accompagnate da bambini o ragazzini.
«Niente ancora?»
«No» rispose Ran, sbilanciata in avanti verso il monitor, con le iridi azzurre che rispecchiavano i video. Il cuore le batteva all’impazzata per la paura di aver toppato. Passò circa un’ora; gli occhi di tutti cominciarono a diventare rossi dallo sforzo, ma nessuno demorse.
«Ricordate i volti di tutti?» chiese Takagi, un po’ stranito. «Li avete visti solo una volta.»
«Io ho una buona memoria» rispose Shiho.
Ran distolse per qualche istante lo sguardo dal video e lo piantò sull’amico poliziotto. «Come potrei dimenticare le facce dei criminali che mi hanno sparato e hanno rapito il mio ragazzo?»
E tornando a fissare i monitor, non si interessò nemmeno della risposta. Wataru pensò che fosse meglio stare zitto di fronte ad una donna nelle condizioni di Ran.
«Ohi, ferma ferma», tese una mano verso i monitor Shiho, e in quel preciso istante Heiji stoppò le immagini.
«Chi è?» domandò Hattori.
Ran sgranò gli occhi: riconobbe all’istante l’uomo che le aveva sparato nella coscia. «Lui!»
«Sì, è proprio lui» certificò la scienziata, sorridendo.
«Potrei sapere anche io?» si lamentò il detective, ma nessuna delle due se ne interessò. Shiho si rivolse direttamente al proprietario del locale: «Mi dia il nome e il cognome di quest’uomo» disse, puntandolo sullo schermo.
Hochi indietreggiò di qualche passo, leggermente infastidito. «Signorina, lei capisce che è impossibile che io sappia le generalità di ogni cliente di questo club.»
«Ma fa parte del privè» obiettò Ran, stringendo forte i pugni sulla stoffa dei suoi pantaloni. «Lei deve per forza avere una lista di persone che possono permetterselo.»
L’uomo titubò, tentando di prendere tempo. «Sì, ma violerei la loro privacy.»
Heiji si alzò con violenza dalla sedia, facendo sobbalzare i presenti dal rumore. Afferrò il cellulare dalla tasca e cominciò a scorrere alcuni voci nella rubrica.
«Come si chiamava l’ispettore di polizia di Tokyo?» chiese -anche se a nessuno in particolare-, con evidente ironia. «Ah sì, Megure...»
«Ok», l’uomo non si fece pregare. Sbuffò, poi richiamò uno dei suoi uomini, ordinando di portargli la lista degli iscritti al privè. Cinque minuti dopo si ripresentò il ragazzo, con in mano un foglio bianco A4. Questo passò dalle mani di Hochi a quelle di Takagi, sino a finire in quelle di Heiji.
«Non posso assicurarvi che in quella lista ci sia l’uomo che cercate» disse loro. Hattori gli fece un breve cenno del capo, e con uno sguardo eloquente gli fece che non avrebbe dimenticato facilmente il suo viso. «Non ci dia motivo di ritornare, signor Hochi.»
Ed insieme agli altri si dileguò, chiudendo la porta dietro di sé.
L’uomo rimase per qualche minuto a fissarla scricchiolare sotto la forza del colpo del ragazzo, poi emise un sospiro. Dalla tasca estrasse un cellulare, con le dita sfiorò il numero della persona che stava chiamando, e quando affiancò la cornetta all’orecchio, sentì una voce rispondergli.
«Akira, sono venuti a cercarlo al club» disse.
 
§§§
 
«Ehi, Midori.» Akira avanzò velocemente nella stanza della collega, muovendosi con una certa confidenza. La donna si stava pettinando i lunghi capelli rossi, seduta di fronte ad uno specchio.
«Saresti pregato di non chiamarmi così.»
«Ma qui non c’è Kudo» obiettò l’uomo, infastidito. «Mi piacerebbe ancora capire perché vuoi passare per la sua fidanzata.»
Lei gli rivolse un’occhiata stizzita e seccata. «Dato che parliamo di sentimenti, il suo cuore potrebbe ricollegare quel ruolo a quel nome. Se ha l’impressione di avere Ran Mouri vicino, non la cercherà. Non voglio confonderlo, tutto qui.»
Akira non sembrava soddisfatto. «Ma potresti doverlo intrattenere...» non continuò, ma le sue insinuazioni erano abbastanza precise. Midori non si scompose.
«E allora?» sorrise, tornando a pettinarsi i capelli. «Per fortuna è proprio un bel maschietto.»
L’uomo non rispose, sebbene fosse molto tentato. Sospirò, e mantenendosi i fianchi, tornò a guardarla.
«Mi ha chiamato Tastuo» la informò. «Sono venuti a cercarlo.»
«Chi erano?»
«Hattori, un poliziotto, e le due che ci sono scappate.»
Midori sgranò gli occhi. «Al Pandemonium?»
«Sono riusciti a cavargli solo una lista di clienti privati» disse immediatamente. «Dove c’è il tuo nome e quello di Satoshi.»
«Dobbiamo evitare che scoprano qualcosa» lo disse, senza neanche pensarci. «Dobbiamo sbarazzarci di loro il prima possibile.»
«Pensi che Kudo sia mentalmente pronto?» le chiese.
«Non ne ho idea» ammise, sinceramente. «Mi sembra un po’ spaesato.»
«Siamo sicuri che la macchina abbia fatto effetto?» domandò Akira, sedendosi sul materasso ed osservando la collega attraverso il riflesso dello specchio.
«In quel caso non sarebbe spaesato» gli rispose. «Si mostrerebbe sicuro.»
«Hai ragione», riprese a parlare lui, dopo qualche attimo di ragionamento. Si alzò dal materasso e virò verso la porta della stanza, lasciata aperta.
«Akira, aspetta» lo richiamò, prima che potesse andarsene, facendolo fermare. «Dai il comando di uccidere quelle due.»
Lui annuì, chiudendo la porta dietro di sé.
 
§§§
 
«Ci siamo ragazzi», dopo due ore di attesa, di estenuante ricerca e di speranze quasi perse, un barlume di luce rischiarò il buio tetro di quella nottata. La centrale, ormai deserta, ospitava Heiji e le ragazze, che avevano chiesto aiuto a Takagi per la ricerca di qualche nome sospetto. Erano alla terza pagina circa, quando il poliziotto curvò le labbra in su: «Shun Satoshi. Ha precedenti penali come spaccio di droga e sigarette.»
Heiji si lasciò andare ad un sorriso di soddisfazione. «Finalmente... forza, andiamo a fargli visita» disse, alzandosi e stiracchiando i muscoli indolenziti. Emise anche uno sbadiglio, che gli illuminò gli occhi di rosso e luce.
«Non dovreste riposare un po’?» domandò il poliziotto. «Da quante ore non dormite?»
«Non abbiamo tempo per dormire» ribatté Ran, imitando l’amico. Fece attenzione a non sforzare la coscia, che ancora le faceva male da lacrimare.
«Certo che ne avete», si impose. «E tu, poi, non dovresti proprio seguirli. Dovresti essere in ospedale.»
«Non posso non seguirli!», la karateka si infiammò, puntando i piedi a terra. «Shinichi è senza memoria e in compagnia di gente tutt’altro che affidabile. Io devo trovarlo.»
«No, tu devi riposarti» si intromise Heiji, con un sorriso dolce sul volto. «Ci penso io. Tu puoi andare a fare compagnia a Kazuha. Povera, l’abbiamo lasciata da sola.»
«State parlando della ricerca disperata del mio ragazzo» disse. «Perché dovrei restarmene a casa?»
«Perché sei stata operata neanche due giorni fa» rispose, poggiandole una mano sulla spalla. «Vai a casa mia, ci vediamo domani.»
Heiji si staccò e fece segno a Shiho di seguirlo. Ran era sul punto di fermarli, quando avvertì un dolore tremendo alla coscia, che le strappò un gemito. Sentì gli occhi gonfi e arrossati, quando si rese conto che se lei non aveva quell’urgente bisogno di riposare, la sua coscia non chiedeva altro. Si morse talmente forte il labbro inferiore che il dolore all’arto potesse sembrarle meno lancinante, ma non risolse nulla. Con una lacrima che cadde sul sangue che le inacidiva la bocca, chiese a Takagi di accompagnarla a casa.
 
«Siamo a circa venti minuti da dove abita questo tizio», Heiji e Shiho scesero insieme le scale della centrale, diretti verso l’auto del ragazzo. La notte era fredda e buia, il vento tagliava la faccia e mozzava il respiro, ma i due non rallentarono il passo, anzi lo velocizzarono. «Se ci muoviamo, riusciamo ad arrivarci anche in un quarto d’ora. Cerchiamo di stare attenti.»
Shiho ascoltò tutto, col capo basso e gli occhi nascosti dalla frangetta, ma non disse nulla. Hattori si girò qualche secondo a guardarla, chiedendosi dapprima se avesse dovuto insistere che anche lei andasse a dormire e a riposarsi. Ma Shiho non sembrava stanca, piuttosto abbattuta. Quando salirono in auto e chiusero le portiere, il silenzio li avvolse nella sua ombra più scura. Solo dopo circa cinque minuti di tragitto, il detective di Osaka si decise a parlare.
«So perché stai così» disse, superando un’auto che viaggiava a velocità fin troppo moderata. «Tu credi sia colpa tua che lui abbia perso la memoria.»
Shiho aveva lo sguardo fisso sul finestrino del lato passeggero, immobile e apparentemente assente; ma Heiji notò le sue dita strette intorno alla cintura di sicurezza, che tremavano come foglie. Sospirò, tornando ad osservare la strada.
«Pensi che, proprio come per l’apotoxina, tu sia riuscita a rovinargli di nuovo la vita.»
Shiho deglutì, inspirando più aria possibile. Si impose di non rispondergli, di lasciar correre, di non avere certi pensieri. Ma era giusto tenersi tutto per sé? Forse in quel momento parlare sarebbe stata la scelta giusta.
«Cosa ti fa credere sia così?» chiese infine, con immensa fatica.
Heiji sorrise. «Sono un detective, io mi accorgo di tutto.»
«Adesso sembri proprio Kudo» commentò, con indifferenza. Il ragazzo scoppiò a ridere.
«Non devi sentirti in colpa» disse poi, dopo qualche altro secondo di profondo silenzio. «Tutto quello che è successo non è dipeso da te, così come per l’apotoxina. Ti hanno costretta, e il caso ha voluto che per ben due volte la vittima fosse lui.»
«Sono stata io ad azionare quel processo» sussurrò lei, più a se stessa che ad Heiji. «Io gli ho tolto la memoria. Proprio a lui che, il giorno prima, mi aveva detto che quell’invenzione era un modo per scappare dai problemi del nostro passato. Ma come dirglielo che anche io volevo farlo? Anche io volevo dimenticare tutto quello che è successo... l’organizzazione, la guerra, l’apotoxina... volevo che niente più mi appartenesse.»
«È più che lecito quello che pensi» rispose Heiji, sorpassando un’altra auto.
«Kudo disse che non si sarebbe mai sottoposto a quella macchina.»
Il ragazzo rise. «Ma non puoi fare i paragoni con lui. Ogni persona è a sé. Per te è diverso.»
Shiho poté evitare di rispondere. Erano giunti a casa di Katoshi, ed intorno a loro regnava il silenzio più tombale. Il quartiere era isolato e apparentemente abbandonato, illuminato da due o tre lampioni, che emettevano una fioca e calda luce.
«C’è la folla» commentò ironicamente Heiji, incamminandosi verso la casa, con Shiho che lo seguiva a passo lento ed attento. Forzarono la serratura con uno spillino, sbattendo la porta per spalancarla. Heiji entrò per primo: avvertendo uno strano ticchettio echeggiare nell’ambiente, si imbatté in un salone-cucina, nella tipica disposizione di un monolocale. Fece qualche passo verso il salotto, incrociando con lo sguardo un tabellone vecchio e malandato, di ferro arrugginito.
«Ditta Midori...» lesse, poi sgranò gli occhi. Il ticchettio si era fatto sempre più forte.
Ebbe appena il tempo di urlare, che la bomba scoppiò davanti ai suoi occhi.
 
§§§
 
«Cosa fa il mio ragazzo solo soletto qui?»
Passò qualche secondo prima che Shinichi si girasse, incrociando gli occhi verde smeraldo e le gambe lunghe di Midori. L’aveva raggiunto sulla soffitta, su una sorta di terrazzo, circondato e chiuso da mille vetrate. Da quell’altezza, si vedeva Tokyo in tutti i suoi colori serali. Shinichi era sdraiato su un divanetto di pelle, con lo sguardo abbandonato nel vuoto. A fianco, un tavolino con diverse bottiglie di liquore appoggiate e due bicchieri di vetro.
«Cercavo di ritrovare me stesso nel buio della notte» disse. «Ma ho trovato soltanto oscurità.»
Midori si sdraiò a fianco a lui, poggiando la testa sul suo petto; le mani ad accarezzargli gli addominali descrissero cerchi astratti sulla sua maglietta. «A volte, il buio è migliore della luce. Nel buio possiamo essere quello che siamo davvero, senza alcuna paura.»
Shinichi immerse di nuovo gli occhi in quei colori. «Ho come la sensazione che non mi piace nascondermi, io voglio che tutti sappiano chi sono alla luce del Sole.»
«Be’, ma questo è normale» disse Midori. «A te non è mai piaciuto nasconderti, non sei un codardo. Ma come tutti, anche tu hai i tuoi lati oscuri, da dover mostrare solo a chi vuoi...»
«Tipo?» domandò, voltandosi a guardarla. I loro volti erano vicinissimi, tanto che il respiro di uno batteva sulle labbra dell’altro.
«Tipo me» sorrise lei, annullando la distanza tra le loro bocche. Si scontrarono con violenza, che divenne passione nel momento esatto in cui anche le lingue cominciarono a giocare. Midori sbilanciò il corpo contro quello del ragazzo, che intrecciò le gambe a lei e l’attrasse a sé con i palmi delle mani, che le sfioravano la schiena. Le dita di lui risalirono lungo la maglietta di lei, che si alzò e le lasciò la pelle nuda, percorsa da milioni di brividi. Midori fece scivolare una gamba verso di lui e con l’altra riuscì ad alzarsi e a mettersi a cavalcioni su Shinichi. Entrambi sorrisero, quando la ragazza si lasciò scivolare la maglia per gettarla a terra, mentre il detective le baciò la clavicola e scese fino al seno. Con le dita le afferrò la gonna per tirarla via, quando Midori gli agevolò il movimento con le gambe per sfilarsela da sola. Inavvertitamente, un piede finì contro le bottiglie di liquore che erano poggiate sul tavolino accanto, che cadde a terra, frantumandosi e scorrendo lungo tutto il pavimento.
Shinichi sobbalzò, ma lei non ci badò: «non pensarci» gli disse, e con solo l’intimo di fronte a lui, lo fece stendere sul divanetto, riafferrandogli le labbra e giocando a leccargli i denti. Ma lui non contraccambiava più.
«Shinichi...?» lo chiamò, ed alzando gli occhi notò che il suo respiro era accelerato, gli occhi cristallini erano vitrei, rivolti verso l’alto, ma non verso un punto specifico. «Shinichi, ohi...?» ripeté, preoccupata, rendendosi conto che lui non riusciva a sentirla. Il detective ebbe uno spasmo, e cercando di rimettersi all’in piedi, capì che la testa gli faceva fin troppo male: rimbombava dentro di lui come un martello pneumatico, costringendolo ad afferrarsi il capo con le mani e a scuoterlo. Emise diversi mugugni di dolore, mentre il buio della notte divenne chiaro. Sempre più chiaro, sempre più bianco.
Poi sentì una voce: lontana, maschile, arrogante e forte.
“Non raccontarmi frottole, lo so che il tuo amichetto è qui...” diceva, poi aggiunse: “Allora? Dov’è Shinichi Kudo? Voglio parlare con lui!”
Era un giovane dalla pelle scura, con un berretto con la scritta SAX bianco e verde, che avanzava in quello che sembrava un ufficio, o un’agenzia... La scena era particolarmente sbiadita, se non fosse per il giovane dalla voce arrogante: era nitidissimo, i suoi lineamenti si sarebbero potuti distinguere anche al buio. Il ragazzino si incamminò verso la finestra dell’agenzia, e Shinichi avvertì la sua testa frantumarsi dal dolore. Le fitte gli dilaniarono l’anima, quando il giovane si presentò, sfilandosi il cappellino.
“Mi chiamo Heiji Hattori, e sono un detective. Da sempre mi paragonano a Shinichi Kudo, voglio sfidarlo per sapere chi tra noi due è il migliore”.
Poi la scena sfumò. Il bianco tornò ad essere nero, e il volto arrogante di quel ragazzo scomparve dalla sua vista. Portò con sé l’odore forte di un liquore cinese, lo stesso che Shinichi annusò sbattendo al pavimento. Il Paikal.
 
§§§
 
«Ran, finalmente!», nell’andarle incontro, Kazuha urtò contro un suppellettile posto nel corridoio d’entrata, poco prima della porta. Avvertì una fitta di dolore espandersi alla spalla, ma non ci badò: abbracciò l’amica e la trascinò verso il salone, preparando il ghiaccio da mettere sulla coscia.
«Bevi questo» le disse, quando la vide seduta. «Come è andata?»
La karateka si limitò a scuotere il capo, con la bocca e il naso affondati nel bicchiere con l’antidolorifico.
«Non avete trovato nulla?» domandò ancora, sedendole accanto.
Ran deglutì, e con la punta del maglione si asciugò gli occhi bagnati. «Be’, sì, più o meno...» cominciò a spiegarle quello che era successo, sorvolando su alcuni particolari. Impiegò circa dieci minuti, poi si accasciò lentamente al salotto, cadendo in un profondo sonno. Sognò Shinichi in mezzo a mille spine, con addosso una tuta nera ed un cappuccio che gli copriva gran parte dei capelli. I suoi occhi azzurri erano fari in quel teatro di oscurità. Quando gli si avvicinò, lui la fermò con le dita. Erano fredde, glaciali.
«Non ti conosco» le disse. «Non so chi sei.»
Lei provò a ritoccarlo, ma lui le afferrò il braccio e glielo strinse, facendole male.
«Non mi ricordo di te» continuò, e poi ripeté: «Non so chi sei.»
«No!» urlò lei, svegliandosi di soprassalto, sbattendo più volte le palpebre per rendersi conto che si trattava di un incubo. Si girò intorno e vide Kazuha accucciata nell’angolo del salotto, con addosso uno striminzito plaid rosso acceso. La luce azzurrina del cielo le baciava alla perfezione i zigomi e le labbra. Si posò una mano sul petto, cercando di calmare il battito del suo cuore, e cominciò a inspirare ed espirare. Scostò un po’ la coperta per vedere in che condizioni fosse la gamba, e con grande dispiacere notò che era ancora rossa e gonfia, e che le faceva anche male. Imprecò tra sé e sé, e pensò di aver svegliato Kazuha, quando si rese conto che non era stata lei, ma il campanello.
«Mmm» mugugnò con bocca impastata l’amica, strofinandosi il polso sugli occhi. «Chi è a quest’ora?»
«Saranno Heiji e Shiho» ipotizzò lei. Era sul punto d’alzarsi quando Kazuha la anticipò.
«Vado io» disse, prima di svoltare l’angolo e andare ad aprirli. «Stai seduta.»
Nella corsa verso il portoncino, la giovane di Osaka sperò con tutte le sue forze che l’amica avesse ragione: non vedeva l’ora di rivedere il fidanzato, appurare che stesse bene, che non avesse combinato guai. Perché in quello era abbastanza esperto, secondo solo a Kudo. Ma quando spalancò la porta con un sorriso radioso e pieno di buon’auspicio, si ritrovò davanti Yuri Haido.
La sua compagna di università, la sua collega di tesi in Biotecnologie.
Ne rimase delusa, e non poté fare a meno di farglielo notare. Così, dopo essersi abbandonata ad un sospiro, cercò di armarsi di sorriso. Solo in quel momento si accorse che era affiancata da un’altra ragazza: bella e dai capelli cremisi. Midori.
«Ohi» la salutò, cordialmente. Poi fece un debole inchino alla sconosciuta. «È successo qualcosa? Che ci fai qui?»
La ragazza ricambiò il saluto. «Scusami se ti disturbo a quest’ora, ma hai presente la lezione di Chimica applicata dell’altro giorno? Io ho avuto un contrattempo e me la son persa... hai gli appunti?» domandò velocemente.
«Oh...», Kazuha non se l’aspettava, ma aveva capito a cosa si riferiva. Era la lezione in cui aveva incontrato uno degli scienziati più qualificati del Giappone. «Entra, entrate, prego.»
Le due scivolarono dentro l’appartamento, e con le pupille seguirono l’ombra di Kazuha proiettata sui muri dalle luci dell’alba.
«È una mia amica di corso» disse Kazuha allo sguardo speranzoso di Ran, che si voltò immediatamente verso la coscia che le procurava continue fitte di dolore. Quando anche lei fu in salone, Midori si accorse che Ran era di spalle, con la gamba distesa sui cuscini del divano e una coperta che le copriva la vita. Mentre Yuri seguiva la compagna di corso in camera, Midori si godé per qualche secondo l’edenica sensazione di avere a pochissimi metri quella a cui aveva rubato l’identità, e il ragazzo: Shinichi, che aveva lasciato a dormire sereno nel suo letto dopo l’attacco che aveva avuto la notte prima. Si chiese cosa fosse accaduto; un attimo prima erano a baciarsi appassionatamente, l’attimo dopo lo aveva visto in preda a numerosi spasmi e a delle urla lancinanti. Erano stati obbligati a somministrargli un sedativo per quietarlo. Scacciando quei pensieri, rilasciò un sorriso, poi sussurrò: «Carino, qui.»
Ran avvertì la sua voce come al rallentatore. Sgranò leggermente gli occhi, fino a spalancarli, quando si rese conto che il suo cervello aveva metabolizzato per lei l’idea peggiore e più assurda. Si voltò per appurarsene, scontrandosi con gli occhi verdi della giovane criminale, che le sorrideva malignamente dal salone della casa dei due ragazzi.
«T...tu» balbettò la karateka, avvertendo il cuore accelerare a dismisura. Si alzò lentamente dal divano, con la gamba che pareva legno secco, pronto per bruciare. «Non... è possibile.»
«Questi sono i tuoi ultimi attimi di vita», Midori tirò fuori una pistola dalla tasca posteriore dei pantaloni, e gliela puntò contro. La canna dell’arma era a pochi centimetri dalla sua fronte. «E li sprechi così?»
Ran avvertì le gambe tremare, mentre un rumore sordo di cocci che si frantumarono le raggiunse. Ma loro non ci badarono: «Shinichi. Dov’è Shinichi?»
«Proprio ciò che speravo mi chiedessi.»
«Dov’è?!»
«Nel mio letto a riposare», la rossa sorrise: «Bacia bene, sai».
«C-cosa?» sbraitò la karateka, che troppo tardi vide la scintilla scoccare nella canna della pistola.
«Mi dispiace», Midori premette il grilletto: «ma non ti manda i saluti».
E sparò.
 
 
Me:
Ehilà! Eccomi qui, dopo un'altra settimana, con San Valentino alle porte, ho pensato bene di regalarvi questo capitolo u.u Sì, sono di una dolcezza unica :D Ehm, spero non mi abbiate mandato troppe maledizioni durante la scena MidoriShinichi... ma era un'esigenza di trama *cough cough*, dovete capire! Infatti, la nostra cara rossa, facendo cadere a terra il Paikal... e frantumandolo, rievoca nella mente del detective il primo incontro con Heiji. Chissà, sarà forse questo il metodo per fargli ricordare tutto? Ubriachiamo Shinichi xD
E mentre il bell'addormentato dorme, ed i suoi amici riescono a trovare una traccia sui delinquenti... Shiho ed Heiji vengono colpiti in pieno da una bomba! Mentre... la nostra cara Ran, a parte farsi incubi su Shinichi, si ritrova faccia a faccia col suo incubo reale, quella che le ha fregato identità&ragazzo!   
Sarà morta a fine capitolo? chi lo sa u.u
Ci tengo a ringraziare i recensori della scorsa volta e quelli che l'hanno inserita tra le preferite! :D
Adesso vi lascio allo spoiler, e vi auguro un buon San Valentino, e a chi non è innamorato, un buon San Faustino! (Si chiamava così la festa dei single, giusto? xD)
Al 20 febbraio! :D Ciao!


Spoiler Capitolo Quinto "Faccia a faccia"

Midori colse la palla al balzo: «E ce n’è una... che è pazza. È pericolosa. Sai cosa dice? Dice che lei si chiama Ran Mouri, che è lei la tua ragazza, che voi stavate insieme. Ne è proprio convinta.»
Akira la guardò come se fosse anche lei impazzita, ma non le disse nulla.
«Almeno questa è pazza in senso buono» disse Shinichi.
«Che vuoi dire?» chiese Midori.
«È pazza di me» sorrise, ironico.

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Capitolo 5
*** Faccia a faccia ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Quinto capitolo Fifth chapter Cinq chapitre  Faccia a faccia Cinco capìtulo Fünf Kapitel 第5章  첫 번째 장  
 
 
 

Nell’attimo in cui Midori premette il grilletto, Kazuha le saltò addosso e le sbilanciò il corpo verso destra, facendole perdere l’equilibrio. Il proiettile vagò e sfiorò la guancia di Ran, ficcandosi nel quadro di seta dietro di lei, sulla parete. La karateka reagì come meglio poté, e notando che Yuri era stesa a terra, sparsa tra cocci di vetro del vaso frantumato, si avvinghiò su Midori; la rossa era sul punto di sparare di nuovo, ma cacciò un urlo quando il piede di Ran le scaraventò la pistola due metri lontano. Dovette così dibattersi con Kazuha, che le aveva sferrato due pugni al viso, entrambi attutiti con le braccia ma incassati, e Ran, col calcio che volava verso di lei. Approfittando dell’improvvisa lentezza dei movimenti della karateka, Midori si alzò e sbatté Kazuha all’indietro con un pugno. Ran stavolta fu più veloce: fiondandosi su di lei, riuscì a colpirle il viso con un pugno, incassandone un altro anche nello stomaco. Midori si accasciò, dolorante, su un fianco.
«Ed ora?» disse Kazuha, assestandole un calcio in testa, in modo da stordirla per un po’. «Chiamiamo la polizia?»
La karateka impiegò il tempo necessario per rendersi conto di quello che era effettivamente successo, tutto nel giro di qualche minuto. Un filo di sangue le scivolò lungo la guancia, dove il proiettile l’aveva sfiorata.
«No» si oppose, riprendendo fiato. «Lei è l’unica possibilità che ho di ritrovare Shinichi.»
«E allora?» replicò l’amica. «Glielo chiederai quando saremo in centrale.»
«Se l’arrestano non mi ci faranno avvicinare, e potrebbero passare altri giorni prima che io possa arrivare a lui» le confessò, dando voce a i suoi timori. «Cerca di comprendermi, per favore. Io... devo ritrovarlo. E poi...» ma non riuscì a continuare.
“Vorrei sapere che intendeva con è nel mio letto a riposare... bacia bene, sai...” pensò, mordendosi un labbro per l’agonia. Avvertì le palpebre riempirsi di lacrime, e sbattendole velocemente, fece in modo che queste cadessero. “Mi ha davvero dimenticata? Lui... non ricorda più noi?”
«Ran...» sussurrò Kazuha, notandola piangere. Un mugolio fuoriuscì dalle labbra di Midori, che cercò di risvegliarsi e rinvigorirsi. Le ragazze la videro stringere i denti e tentare di mettersi in ginocchio, quando dei passi le raggiunsero dalla porta. Si resero conto troppo tardi che erano dei complici della rossa: Ran riconobbe il tipo che l’aveva sparata nella coscia. Con un urlo disumano afferrò Kazuha per il polso e la trascinò via, verso l’altra parte dell’appartamento. Chiuse dietro di sé le porte, bloccandole con i mobili, poi ragionò sulle possibilità di fuga: ne aveva una, il balcone confinante con quello di un’altra casa.
«Seguimi!» urlò all’amica, dandosi uno slancio per saltare oltre la ringhiera ed atterrare sull’altra balconata. Attutì il colpo con le gambe, ma la ferita alla coscia le strappò un grido di dolore e un po’ di sangue schizzò sulla benda bianca, macchiandola. Aspettò che Kazuha la imitasse, per poi bussare alla finestra dei vicini. Dibatté i pugni contro il vetro con violenza, quando un proiettile le sfiorò la mano e la strisciò di sangue. Girandosi, si rese conto che i due uomini l’avevano raggiunte. Si accasciarono a terra, sperando che la ringhiera bastasse a proteggerle, quando la finestra si aprì e ne sbucò il volto di una donna anziana. Ran gioì, e senza alcuna spiegazione, trascinò l’amica con sé dentro l’appartamento. Rivolse un debole cenno di ringraziamento alla signora -che la osservò sbalordita-, per poi fuggire verso l’entrata. Si ritrovò sul pianerottolo, faccia a faccia con Midori. La rossa le puntò la pistola contro, ma lei fu più agile: nuovamente, con un calcio la disarmò, facendola barcollare all’indietro. Provò di nuovo a scappare, correndo verso le scale, quando dalla porta dell’ascensore sbucarono Heiji e Shiho. Erano ricoperti di sangue.
 
Gli animi si calmarono all’improvviso, come se la scena fosse stata fermata da qualcuno col telecomando. Midori vide i due ragazzi e sgranò gli occhi, quando uno dei suoi uomini la affiancò e le sussurrò qualcosa come «non possiamo», a cui aggiunse «Akira». Midori strinse i pugni con nervosismo, fissando negli occhi sia Ran che Heiji.
«Hattori» cominciò, recuperando la pistola che la karateka le aveva fatto volare. «Facciamo così. Tu vieni con noi, e noi lasciamo in pace le donzelle.»
Heiji fece qualche passo in avanti, quando Ran gli urlò di fermarsi. «No, non lo fare! Ti uccideranno, e uccideranno anche noi!»
«Ma...» si oppose il ragazzo, bloccandosi nel rendersi conto che la karateka aveva effettivamente ragione. Si fermò a pensare cosa avrebbero potuto fare: scappare e tentare di schivare le pallottole, affrontarli (ma era da escludere considerato che erano armati), consegnarsi a loro. Se la seconda era  folle, la terza da stupidi e la prima da speranzosi, Heiji si rese conto che la speranza era l’ultima cosa che gli rimaneva. Con ancora le porte dell’ascensore bloccate da quand’era apparso sul pianerottolo, pigiò il piano terra e trascinò all’interno le due ragazze, afferrando loro le maglie. Le pallottole tagliarono l’aria e si conficcarono sullo specchio alle loro spalle, per poi scontrarsi con le porte in ferro che si chiudevano. Negli attimi in cui l’ascensore scendeva, i quattro giovani si scambiarono un reciproco sguardo di terrore, che lasciò trasparire anche preoccupazione, angoscia, tensione e ansia.
«State bene?» domandò Kazuha, osservando il suo fidanzato e Shiho coperti di sangue.
Loro annuirono. «Sì, ci è scoppiata una bomba davanti, ma son riuscito ad attutire il colpo con un cartellone di ferro» rivelò, ripensando al cartello su cui aveva trovato la scritta Ditta Midori.
«E il sangue?» chiese Ran, esterrefatta.
«È ketchup» rise, prendendone un po’ col dito e leccandolo. Le porte dell’ascensore si aprirono e i ragazzi scattarono all’esterno, sperando di esser stati più veloci dei criminali nell’arrivare lì. All’entrata del condominio, Ran notò che Midori aveva ormai raggiunto l’atrio e li stava inseguendo, così decise di correre verso il parco, all’esterno. Per qualche istante non mossero piede, poiché nessuno sapeva come muoversi, poi un’auto coi lampeggianti li raggiunse. Era Takagi, insieme ad altri poliziotti.
«Ragazzi!» lo sentì urlare Ran, ma la sua attenzione era presa d’altro. Midori e gli altri criminali erano scomparsi, e con loro, anche la speranza di ritrovarlo.
“Shinichi...”
 
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“Shinichi...” una voce rischiarò la sua mente vuota.
Il detective si svegliò all’improvviso, sbattendo le palpebre a fatica, tentando di orientarsi; si rese conto così d’essere nella camera di Ran, l’aveva vista il giorno prima per salire sul terrazzo. Gliel’aveva sentito ordinare ai suoi uomini, dopo che lui, la notte prima, aveva avuto quella strana crisi. Aveva visto quel ragazzo, quel criminale che gli aveva ucciso i genitori, che chiedeva di lui, che voleva sfidarlo. Era arrogante e spocchioso, e parlava con uno strano accento del Kansai. Tutto si era svolto come una visione, un flashback. Che gli stesse tornando la memoria? Alzandosi dal letto, lo sperò con tutto se stesso. Si infilò una maglia sopra la tuta del pigiama, poi scese in salone. Vide Akira e Ran, seduti sul divano con la rabbia ritratta in viso. Quando si fece notare, Midori gli rivolse un debole sorriso: «Buongiorno».
«Successo qualcosa?» chiese, notando le loro espressioni. «Perché non mi avete svegliato? Saranno le dieci passate.»
«Dormivi come un sasso» commentò Akira, lanciando distrattamente lo sguardo alla tv.
Midori sospirò. «Volevamo farti riposare dopo la crisi che hai avuto ieri» gli disse. «Cosa ti è successo?»
Lui alzò le spalle, poi le si sedette accanto. «Non lo so... ho avuto come una specie di... flashback» dichiarò, con sincerità. Entrambi rizzarono le orecchie all’istante, sgranando gli occhi.
«Flashback?» chiese Akira, impassibile.
«E cosa hai visto?» domandò Midori, preoccupandosi.
Lui abbassò un po’ gli occhi al pavimento. «Ho visto quel tipo... Hattori, che chiedeva di me, che voleva sfidarmi o qualcosa del genere.»
«Hai ricordato altro?»
«No» certificò. Poi, notando le loro espressioni, chiese: «Pensate mi stia tornando la memoria?»
«Ehm... può essere» tentò di sembrare felice Midori, ma non ci riuscì molto. «Che... che bello.»
Akira si strofinò il mento, poi si passò le dita sulle labbra. «Sai, fratellino, oggi i nostri uomini hanno fatto cilecca.»
«Che è successo?»
«Avrebbero dovuto uccidere Hattori e le sue amiche, ma al massimo son riusciti a far scoppiare una bottiglia di ketchup» disse, tra l’ironico e il seccato. Midori lo osservò stranita, chiedendosi che intenzioni avesse.
«Senza i miei piani non son capaci a far nulla?» ghignò Shinichi, mentre Akira rideva nell’anima.
«Già» concordò. «Te la senti di tornare attivo?»
Il detective annuì, con convinzione. «Sì, credo.»
«Però non vorrei ucciderli subito» spiegò Akira. «Catturiamo Hattori o una delle sue sgualdrine, che tu conoscevi perché ti hanno imprigionato, e scopriamo se la loro visione riesce a farti tornare la memoria. Che ne dici?»
Midori strabuzzò le palpebre, sbalordita. Lo guardò minacciosa. «Ma cosa dici, Akira... E se la loro visione gli facesse nuovamente male, se gli causasse un’altra crisi?»
Il complice la guardò fisso negli occhi. «Scopriremo quanto profonda è quest’amnesia» disse, scandendo con chiarezza ogni parola.
«Io sono d’accordo», Shinichi annuì, pensando che fosse un piano perfetto. Più di ogni altra cosa aveva bisogno di ricordare. «Possiamo farlo anche oggi.»
Akira sorrise. «Hai ragione, Hattori merita di morire il prima possibile sotto le più atroci torture, e sotto i tuoi occhi. Ma dobbiamo avvisarti di alcune cose. Lui è un pazzo stratega, e come lui... anche le sue sgualdrine.»
«In che senso?», lo stesso sguardo di Shinichi ce l’aveva Midori. Non riusciva proprio a capire dove volesse arrivare.
«Quando ti hanno imprigionato, hanno inventato che sono loro quelli che ti amano, che noi siamo solo una massa di criminali che vuole sfruttarti» gli confidò, nel tentativo di prepararlo a ciò che presumibilmente il detective di Osaka avrebbe detto in un loro ipotetico incontro. «Lo fanno per confonderti. La prima volta ci sono riusciti e stavano quasi per ammazzarti, voglio prepararti... dato che non ricordi quello che è successo.»
Midori non riuscì a trattenere un sorriso, riuscendo però a nasconderlo a Shinichi. Il detective aveva un sopracciglio inarcato e le labbra storte in una smorfia.
«Non dovrei esser super intelligente io?» domandò. «Come ho potuto credergli?»
Akira sussultò, leggermente in difficoltà. Non se l’aspettava quella risposta. «Oh, be’... le donne ti hanno avvicinato con la scusa che erano grandi amiche di tua madre.»
Midori colse la palla al balzo: «E ce n’è una... che è pazza. È pericolosa. Sai cosa dice? Dice che lei si chiama Ran Mouri, che è lei la tua ragazza, che voi stavate insieme. Ne è proprio convinta.»
Akira la guardò come se fosse anche lei impazzita, ma non le disse nulla.
«Almeno questa è pazza in senso buono» disse Shinichi.
«Che vuoi dire?» chiese Midori.
«È pazza di me» sorrise, ironico. La giovane gli lanciò un’occhiataccia piena di gelosia, come se davvero fosse lei la vera Ran.
«Fai poco l’idiota» lo ammonì. «Sei impegnato, e questo te lo ricordi bene» disse, riferendosi alla notte prima e a quello che stavano per fare.
Shinichi curvò le labbra all’in su. La distruzione della sua memoria gli aveva anche spazzato via ogni sorta di pudore o inibizione, perché era come se nessuno gliel’avesse insegnato ad avere: «Veramente ricordo solo che sei la donna con cui vado a letto.»
La giovane sembrò sconvolgersi, con le guance che andavano sfumando di rosso. «Stronzo.»
«Solo la verità» confermò, un po’ ironico un po’ sincero, in un tono troppo familiare al vecchio Shinichi, quello consapevole di essere innamorato di una sola donna. Era abbastanza sicuro che la notte prima non avesse avvertito nessun sentimento particolare nel baciarla e spogliarla, ma si era convinto che probabilmente lui non l’aveva mai amata, anche prima dell’amnesia, ma che avesse sempre cercato di divertirsi con lei. Forse per lei non era così, forse lei ne era innamorata davvero. Ma era ancora giusto prenderla in giro? Il suo io passato lo faceva, perché lui non avrebbe dovuto? Perché continuava a sentire tutto come se fosse sbagliato, diverso, non adatto a lui?
Akira tossicchiò, attirando nuovamente l’attenzione sul concreto.
«Se aveste finito» disse, seccato. «Dovremmo elaborare un piano per catturarli.»
«Andiamo a casa di Hattori, ci portiamo dietro una dozzina di uomini e li mettiamo in ginocchio» propose Midori, sorridente ed entusiasta all’idea.
«No» obiettò Shinichi, strofinandosi il mento come quando, anche da piccolo, ragionava ad un caso. «Potremmo fare in modo che siano loro a venire da noi.»
«Spiegati meglio» disse Akira, interessato.
Shinichi guizzò con gli occhi, poi cominciò a ridacchiare. «Avete detto che loro mi hanno convinto di certe cose, vero? Be’, potrei telefonarlo e dirgli che voi mi state solo sfruttando, che voglio tornare con loro», poi ci pensò un attimo su e continuò: «che voglio tradirvi.»
«È perfetto.» Akira rise, soddisfatto. Shinichi lo ignorava, ma era proprio ciò che ci voleva per attrarre quel detective da loro. Se fosse andata come diceva lui, sarebbe risultato tutto straordinariamente spontaneo. «Ti voglio proprio bene, fratellino.»
«Bravissimo» si complimentò Midori, sporgendosi verso di lui e strappandogli un bacio. Gli infilò la lingua nella bocca e cercò di attrarlo nel suo vortice di passione, ma il detective era diviso tra la voglia di soddisfare i suoi istinti alla sensazione di star facendo qualcosa di sbagliato. Akira li divise, con una smorfia seccata e disgustata sul viso.
«A parte che ci sono tre camere da letto -con vista città- di sopra» commentò infastidito, «ma non è questo il momento di limonare.»
«Sei solo invidioso, fratellino» commentò Shinichi, sarcastico, passandogli accanto. «Vado a vestirmi.»
Akira gli lanciò un’occhiataccia, stringendo i pugni su se stesso. Quando il detective scomparve per le scale, si lasciò andare ad un commento pieno di disprezzo: «Nonostante tutto, mi continui a stare sul cazzo.»
«Senti un po’, tu», Midori gli afferrò il braccio, girandolo verso di lei. «Hai pensato che Shinichi potrebbe ricordare tutto vedendo i suoi amici? Ha giù avuto quel flashback. Perché dobbiamo rischiare così tanto?»
«Se accadesse, vorrebbe dire che la macchina non ha funzionato come dovrebbe» rispose, con freddezza.
«Ma per il momento sì» disse lei, «lo vedi? Sta succedendo proprio quello che volevamo.»
«Se continuasse ad avere altri flashback, come la risolveremmo poi? Dobbiamo metterlo davanti alla verità, per vedere come reagirà.»
Midori sgranò gli occhi. «E se dovesse ricordare tutto?»
«Lo uccidiamo.» Akira avvicinò le loro teste. «Così almeno la smetti di cercare di portartelo a letto.»
Midori storse le labbra in una smorfia di disgusto, la stessa che le rivolse il suo complice.
 
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«Vi è andata fin troppo bene!» urlò Megure, con gli occhi fuori dalle orbite e il viso rosso dalla rabbia. «Non so con chi prendermela di più! E tu, Takagi? Cos’hai in testa?! Cosa stavi aspettando ad avvisarmi?!»
Il poliziotto abbassò il capo, mortificato e consapevole d’aver sbagliato. Heiji e le ragazze lo affiancavano, ognuna con un’espressione diversa; quella di Ran era decisamente depressa.
«Non abbiamo avuto tempo» replicò Hattori, seccato. «Dovevamo agire.»
«E cosa avete risolto?», girò il capo da un volto ad un altro l’ispettore, visibilmente arrabbiato. «Sparatoria in pieno giorno in un condominio!»
«Noi non abbiamo sparato» puntualizzò Kazuha, anticipando il suo fidanzato. «Sono stati loro.»
«Sempre sparatoria è!» sbottò l’ispettore.
Hattori rilasciò un sospiro, poi abbassò gli occhi e tossicchiò. L’attenzione si concentrò su di lui; perfino Megure si zittì improvvisamente.
«Comunque, non tutti i mali vengono per nuocere» disse, portandosi la visiera del capello avanti. «All’appartamento che è scoppiato, ho finalmente capito chi sono e perché hanno messo su tutto questo teatrino.»
«Illuminaci, allora» disse Shiho.
Heiji prese un lungo respiro, poi cominciò a parlare. Era chiaro e preciso come sempre, proprio come aveva imparato da Shinichi. «Il cartellone che ci ha salvato la vita, aveva inciso sopra il nome di una ditta. Ditta Midori. Era una società finanziaria di un uomo potente e ricco, che venne ucciso circa tre anni fa. L’uomo non sembrava avere particolari problemi con nessuno sebbene l’azienda fosse sul lastrico, e l’unica sua figlia - Ichigo - viveva in Inghilterra ormai da anni. Alla fine, si scoprì che l’omicida era un certo Shiro Kitoshi e che, soffrendo di alcuni problemi depressivi e psicopatici, agì in preda all’incoscienza, colpendo più volte alla testa il suo capo con un oggetto contundente. Adesso non ricordo che oggetto era, ma l’uomo morì dissanguato. L’omicida aveva due fratelli: uno ingegnere, emigrato un paio di anni fa all’estero, ed un delinquente - arrestato per spaccio ed altro - che chiese di perdonare il fratello, perché non cosciente in quel momento, ma l’attenuante di incapacità di intendere e di volere non fu accettata da parte delle autorità - secondo cui l’uomo soffriva soltanto di depressione, una condizione comunque non abbastanza valida per scagionarlo - e quello finì in prigione con la condanna a quattordici anni e sette mesi. Ma si uccise due giorni dopo, sotto gli occhi del fratello, con cui gli era stato concesso di dividere la cella.»
Ran e gli altri lasciarono che finisse di parlare, ma dopo qualche secondo di silenzio, decisero di chiederglielo: «E questo cosa c’entra con quello che sta succedendo?»
«Non capite?» rise lui. «Il fratello di Shiro Kitoshi era Akira Kitoshi, ed i detective che risolsero il caso ed emisero la condizione non necessaria per l’innocenza, fummo io e Kudo.»
 
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«Eccomi», Shinichi sbucò dalle scale, scendendole a passo spedito e veloce, in preda all’emozione e all’adrenalina. Non vedeva l’ora di incontrare quell’arrogante assassino che gli aveva ucciso i genitori, che lo aveva imbrogliato, che si permetteva di sfidarlo davanti a tutti. Midori gli passò il cellulare, uno nuovo che avevano comprato appositamente, ma che finsero fosse stato sempre suo. Lui lo prese ed avvertì una strana sensazione di disagio. Non l’aveva mai usato, lo sentiva, perché non sapeva come usarlo.
“Ah, l’amnesia” pensò, ricordandosi improvvisamente che aveva dimenticato proprio tutto in quell’incidente. Quella condizione doveva risolversi il prima possibile, non poteva convivere ancora con quella continua sensazione di inadeguatezza.
«Sai già quello che gli devi dire?» chiese Akira.
Shinichi annuì.
«Sii convincente» disse Akira.
«Sempre», e lo chiamò.
 
«Dunque si sta vendicando» dedusse Ran, con la voce ridotta a poco più di un filo. La coscia le faceva sempre più male, ed erano ore che non assumeva un antidolorifico. Se avesse potuto, sarebbe salita di sopra a prenderlo, ma la casa di Heiji e Kazuha era sotto sequestro dalla polizia, e al massimo avrebbe potuto sperare nella buona coscienza di qualche vicino. «Ma non capisco, perché ha preso solo Shinichi? Perché poi oscurargli la memoria?»
«Forse perché...» cominciò Hattori, ma si bloccò improvvisamente. Il suo cellulare stava vibrando e suonando nella sua tasca, ma non aspettava nessuna chiamata in particolare. Forse qualche cliente. Forse i suoi genitori. Forse... forse lui.
Afferrò il cellulare con una velocità tale da risultare impetuosa. Controllò il numero, era anonimo.
«Chi è?» chiese Shiho, notando il suo improvviso cambio di umore.
Ma lui non ci badò. Portò l’apparecchio vicino all’orecchio, e rispose alla chiamata: «Pronto?»
«Hattori.»
Heiji perse un battito del cuore. Era lui. «Shinichi» mormorò il suo nome, spontaneamente, come se non avesse aspettato altro per tutto quel tempo. Shinichi riconobbe la sua voce: era quello del flashback della notte precedente.
Al suono di quelle lettere unite, Ran sussultò, e si avvinghiò all’amico.
«È lui?!» sbraitò, in preda al panico, alla gioia, al dolore, alla speranza che rinsaviva. «Voglio sentirlo, fammelo sentire!» disse frettolosamente, mentre le lacrime le bagnarono il viso stanco. Obbligò Heiji ad impostare il vivavoce, quando lui stesso chiese: «stai bene? Come hai fatto a...?», ma l’amico lo bloccò, imperterrito.
«Hattori, fammi parlare» disse con freddezza, ma velocemente, come se dovesse fuggire dal fuoco da un momento all’altro. «Ho poco tempo.»
«Shin...ichi...» balbettò Ran, con le mani tremanti a stringere il cellulare, con la voglia di viaggiare attraverso esso per trovarlo ed abbracciarlo.
Heiji riprese possesso dell’apparecchio, pensando che l’amico volesse parlare solo con lui e non avesse nemmeno la possibilità di salutare l’amata. «Parla, parla, dimmi.»
«Sono riuscito ad andarmene, ho bisogno soltanto che mi vieni a prendere al porto tra mezz’ora, ma devi essere puntuale, e per favore... vieni da solo.»
«Ok, va ben...» provò, ma la chiamata si staccò, e Ran rimase con le parole in gola, con la voglia di pronunciare «vengo anch’io» che non scemò immediatamente. Lo sgomento che aveva animato i ragazzi durante la chiamata li torturò per qualche secondo di troppo, e solo un movimento un po’ troppo brusco di Takagi, che urtò un vaso a terra e lo fece cadere, li riportò al concreto.
«Ok, devo andare» disse Heiji, col respiro affannoso e leggermente scioccato. «Prendo... vado con la moto.»
«Voglio venire anche io» si lamentò Ran, immediatamente. «Penserai mica mi stia qui?»
«Ma lui ha... ha detto che vuole ci vada da solo.»
«Non mi importa! Devo rivederlo!» sbraitò, indemoniata.
«Facciamo così» tossicchiò Shiho. «Heiji va da solo avanti, noi lo seguiamo dietro con l’auto. Ok?»
«Ma Kudo...» obiettò Hattori, ma si zittì. Vide Ran salire in auto con Takagi e Megure, e Shiho sedersi dietro, a fianco a Kazuha. Sospirò, quando si rese conto che a lui non restava altro che prendere la moto.
 
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Il porto era illuminato da una serie di lampioni posti a circa due metri uno dall’altro, che brillavano di una forte luce calda e rilassante. Il mare era limpido, e qualche peschereccio, in ritardo, era ancora in balia delle onde calme delle correnti. Heiji notò che il luogo non era del tutto deserto; c’erano alcune famiglie sedute sulle panchine, due bambini che giocavano a palla lì vicino, e altri cinque che giocavano a nascondino, con le mamme che intimavano loro di tornare.
“Speriamo non succeda niente di pericoloso” pensò Heiji, mentre la voce del suo migliore amico non tendeva a scemare dalla sua mente. Era più che lecito che lui avesse bisogno di aiuto, pensò, che fosse riuscito addirittura a scappare da quei criminali, ma che non avesse nemmeno perso la memoria era... strepitoso. Ignorava come avesse fatto, ma non gliene importava più di tanto: ce l’aveva fatta, e il suo cuore si riempiva di orgoglio.
«Kudo?» lo chiamò, dopo aver lasciato la moto pochi metri distante, accostata ad un’aiuola dietro la quale si erano nascosti tutti. Si incamminò verso un vicolo delimitato da alti e grossi container rossi e blu. Notò un fascio di luce proiettarsi contro la facciata laterale di una nave mercantile. La seguì, lasciandosi alle spalle tutti i lampioni, ed immergendosi nel buio della notte, rischiarato solo da quel fascio di luce. Quando voltò l’angolo, capì che la fonte erano i fari di un’auto, e che accanto ad essa, vi era lui.
«Kudo» lo chiamò, lasciandosi andare ad un sorriso spontaneo e pieno di gioia. Avanzò verso di lui velocemente, forse per abbracciarlo, forse per avvicinarsi e rendersi davvero conto che era lì, intero, vivo. Ma Shinichi gli puntò la pistola contro, e con voce glaciale, mormorò: «Fermo.»
Heiji si arrestò improvvisamente, sgranando gli occhi e sbattendo le palpebre, incredulo.
«Ehi» riprovò, con voce incerta. Poi fece qualche passo verso di lui, convinto che non fosse riuscito a riconoscerlo per via del buio: «Sono io, abbassa quell’arma.»
«Ti ho detto di stare fermo» ripeté, stringendo un po’ più forte la pistola, e Heiji si fermò.
“È proprio lui” pensò Shinichi, scrutandogli il viso e il corpo. La stessa carnagione scura, gli stessi occhi verdi, qualche muscolo in più, ma soprattutto la stessa voce. “Il tipo del flashback.”
Non lo riconobbe, ricordava di lui solo quella frazione di immagini che gli si erano susseguite nella mente la notte precedente.
«Perché ti comporti così?» domandò Heiji; la voce si incrinava ad ogni lettera: «Non capisco...»
«Hattori, Hattori Heiji» lo ignorò, perché Akira aveva giocato bene le sue carte, ed era stato convinto che quel ragazzo era un pazzo stratega. Che le sue parole l’avrebbero potuto confondere, che non doveva credergli. Eppure, doveva riconoscerlo, la parte di finto amico gli riusciva alla perfezione. «Così ti chiami, giusto? Che nome stupido. Se non sbaglio il significato del kanji del tuo nome è piatto, mentre il cognome significa... vestito. Un vestito piatto, però sei fortunato a non essere donna.»
Heiji non rispose subito, non riuscendo a credere che quella persona, che aveva sì il suo stesso corpo e la sua stessa voce, fosse proprio lui. «Cosa ti è successo?» domandò, poi notò dietro l’amico un’ombra muoversi. «Stai attento» stava per dirgli, quando le linee scure di quella sagoma si unirono nella figura di una donna, dagli occhi verde chiaro e i capelli rossi. Midori.
«Ma guarda guarda» rise la giovane. «Sai, volevamo venire a prenderti noi, ma Shinichi ha avuto un piano migliore.»
Heiji spostò lo sguardo da Midori all’amico, cercando di capire cosa stesse accadendo, se fosse reale, o se era solo uno stupido incubo.
«Non è possibile» mormorò, esterrefatto, il giovane.
Midori scoppiò a ridere, soddisfatta. «Allora, tesoro? Che ne dici? Ti serve ancora? Credo che sia abbastanza, no?»
Lui scrollò le spalle. «Non mi dice nulla.» 
Heiji deglutì, poi finalmente riuscì a riprendere parola: «Kudo... sono... sono io. Aspetta» e sgranò gli occhi, avvertendo il suo cuore accelerare. «Hai perso la memoria? Non ricordi nulla?»
Midori sussultò leggermente, e Shinichi strinse più forte la pistola. «E tu come lo sai?»
Hattori si voltò verso la rossa, e coi pugni serrati, avanzò verso di lei. «Perché loro te l’hanno tolta! Cosa gli avete detto? Cosa vi siete inventati?!»
«Fermo» disse l’amico, puntandogli nuovamente la pistola contro. Poi si girò verso Midori alla ricerca di spiegazioni. Lei disse semplicemente: «Te l’avevamo detto, no? Inventa di tutto. Non credergli.»
«Io mi invento le cose?!» tuonò, in preda alla collera. Si voltò verso il moretto e lo chiamò: «Shinichi» per nome, disperato, perché adesso non voleva altro che riprendersi quello che aveva perso, perché tutto quello era assurdo.
Si picchiettò il petto con le mani, e continuò: «Io sono tuo amico! Io sono il tuo migliore amico! Io ci sono sempre stato, io ti ho aiutato! Non loro!»
Shinichi storse le labbra. «Migliore amico? Hai ucciso i miei genitori...»
«Ho ucciso i tuoi genitori?!» chiese, incredulo.
«Mi hai imprigionato.»
«Che?!»
«Solo perché sei invidioso di me, perché vuoi battermi come detective. Perché vuoi umiliarmi.»
«Non è vero!» rispose velocemente Heiji. «Io ti stimo... io ti ho sempre stimato, sia come detective che come amico. Come avremmo fondato l’SH secondo te?»
«Stai zitto» lo fermò Midori, poi si voltò a guardare il moretto: «Hai visto come è bravo a mentire? È così che la prima volta ha fregato tutti.»
«I miei complimenti» disse Shinichi, continuando a puntare la pistola contro Heiji. «Potresti fare l’attore.»
«Io non sto mentendo!» sbottò, poi la voce si affievolì: «È la verità... solo la verità...» disse, poi mormorò, con la frangetta che gli copriva il verde degli occhi: «Ricordi? La verità è sempre una sola
Shinichi ebbe un sussulto, come se quelle parole gli garbassero talmente tanto da farlo sorridere. «Bella frase.»
«È tua» lo informò Heiji. «È la tua massima. Come puoi non ricordarla?»
«Come non ricordo il resto della mia vita» ammise l’altro, con inquietudine.
«Kudo...»
«Ok,» si intromise di nuovo Midori. «Facciamola finita. Shinichi, uccidilo e andiamocene.»
Le sue dita tremarono sul grilletto a quel comando. La sua mente gli sussurrava qualcosa, ma lui non riuscì a decifrarlo.
Heiji sussultò, deglutendo. «In qualche modo, da qualche parte, c’è ancora il mio migliore amico lì dentro. Non posso credere che sia scomparso così.»
«Che melodrammatico» disse disgustata Midori, guadagnandosi un’occhiataccia dall’altro. «Uccidilo, dai.»
“Ucciderlo” pensò il detective. “Basta che prema il grilletto e lo ucciderò. Però poi... poi morirà. La sua vita finirà, e per colpa mia...” scosse il capo, cominciando a sentirsi spaesato. “No, non mi dovrebbe importare, no?”
«Shinichi...» sussurrò Midori, preoccupata. «Uccidilo.»
Heiji si lasciò andare ad un sorriso. «Non ci riesce» disse. «L’istinto gli dice di fare altro.»
«Shinichi, uccidilo.»
«Segui il tuo istinto» si oppose Heiji.
«Non lo ascoltare, Shinichi» ribatté Midori.
«Abbassa quella pistola» disse l’altro.
Il moretto avvertì un forte mal di testa. Pregò che si zittissero entrambi, perché non riusciva proprio più a sopportarli.
«Fallo», cercò di convincerlo lei.
«Tu non sei un assassino» disse quello di Osaka.
Shinichi puntò gli occhi azzurri sul detective: li aveva arrossati, stanchi e strani. Non lo aveva mai visto così... così debole. Quei criminali avevano colpito dritto al punto che più lo rappresentava e lo governava: il cervello.
Gli avevano tolto tutto ciò che era.
“Io sono un cervello, Watson” diceva Holmes. “Il resto di me è mera appendice.”
La sua mente era stata torturata. Era dilaniata tra due fuochi, senza più la capacità di rendersi conto a quale dovesse fare riferimento. Ma prima che il detective riuscisse a scegliere da che parte stare, un urlo squarciò l’aria e il silenzio.
Si voltarono tutti: era Ran.
«Shinichi» disse, e lui ebbe la sensazione di aver finalmente trovato il suo faro nella tempesta.






Me:
AAAAAllora! Eccomi qui! Finalmente sono tornata :D
Bene, alla fine i nostri amori si sono rincontrati, ma Shinichi non riconosce Heiji... e pare nemmeno Ran. Comunque sia, qualcosa nel suo istinto di criminale fallisce...perché non riesce a sparare :D eh eh :D E mentre il nostro detective di Osaka ci spiega un po' cosa è successo qualche anno prima, Shinichi mette per la prima volta il suo ingegno dalla parte del male: fregare il suo migliore amico. Vi è piaciuta la scena iniziale con sparatorie ed annessi? Avete captato qualche segnale? :D Alcuni mi hanno detto che lo spoiler, appunto spoilerava XD, che Ran non fosse morta xD ma chi ci credeva che l'avrei fatta morire? xD D'altronde in questo chap non c'era nulla che avrei potuto anticiparvi senza spoilerarvi :D 
Mmmm che altro succede? Ah sì, Midori continua a sbaciucchiare Shinichi... io il permesso non gliel'ho dato u.u
Bene, dopo questi meravigliosi vaneggiamenti, vi aspetto al sesto chap. Vi dico di prepararvi che ormai siamo al centro della storia e le cose si faranno più che movimentate!
Vi posto lo spoiler del sesto, e come sempre, ringrazio i recensori del quarto capitolo. Un bacio a tutti quelli che mi sostengono sempre. :D

Spoiler Capitolo Sesto: "Quell'aroma alla fragola"
«Davvero non ti ricordi di me?»
«Sì» disse, «e lasciami.»
Ran avvertì le lacrime gonfiare le sue palpebre, ma non si diede per vinta. Le parole di Midori risuonavano ancora nella sua mente: “è nel mio letto... bacia bene...”. Si armò di tutta la tenacia di cui era capace, e con il corpo si spinse verso di lui. Lo abbracciò e lo baciò, lasciandolo basito per qualche secondo, poi si staccò. Un leggero profumo di fragola risalì su per le narici del detective.
«Anche io e te siamo molto amici», una frase, una voce.
Entrò nel suo cervello come una saetta, e gli procurò anche un’immensa fitta di dolore. Indietreggiò di qualche passo, così che il martirio passò subito, e lui riprese a respirare normalmente. Quando alzò gli occhi, vide lei era in lacrime, col capo basso.
«E di questo? Ti ricordi?»



Al 27 febbraio! 
Tonia

 

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Capitolo 6
*** Quell'aroma alla fragola ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Sesto capitolo Sixth chapter Sixième chapitre  Quell'aroma alla fragola Sexto capìtulo Sechste Kapitel 第六章  여섯 번째 장  
 
 
Shinichi restò a fissare quella donna dai lunghi capelli neri e dagli occhi azzurri, ma tendenti al viola, per parecchi secondi. Le scrutò il volto, e tra le labbra e il leggero accenno all’in su del naso, pensò che tutti i suoi lineamenti fossero al punto giusto. Aveva le guance arrossate, e questo la rendeva ancora più deliziosa, ma nulla era bello come la curva del suo seno, e quella dei suoi fianchi.
«Oh, è arrivata la psicopatica» mormorò Midori, con disgusto. Dalla tasca posteriore del jeans, la rossa tirò fuori una pistola, che puntò dritto verso la ragazza.
Ran guardò la scena spaesata, e tra uno sguardo al detective ed uno all’amico, tentò di capire cosa stesse accadendo.
«Shinichi» ripeté, ma un urlo di Heiji la bloccò: «ferma, non muoverti.»
Ran fece un passo d’arresto, poi osservò l’amico.
«Perché...?»
«Non ci riconosce» disse Hattori, velocemente. «Non sa chi siamo.»
Ran parve sprofondare in un baratro di oscurità. Tornò a fissare gli occhi sul volto sciupato del suo fidanzato, in cui scorse una vena di estraneità, ma infinita ed infinita incertezza.
«Non ti ricordi di me?» gli chiese, con un filo di voce. Sperò con tutta la forza che aveva in corpo che negasse, ma lo conosceva, e quello sguardo non gli apparteneva.
“Dovrebbe essere la tipa che si finge Ran.” Lui deglutì, riprendendo man mano coscienza di sé. «No», poi si voltò verso Heiji, e con voce glaciale aggiunse: «Ti avevo detto di venire da solo.»
Lui sbuffò, «è la tua fidanzata, e se lo ricordassi, sapresti anche che è terribilmente cocciuta quando si tratta di te.»
Shinichi assunse un’espressione strana, un misto tra incredulità, scetticismo e sorpresa. Guardò Midori, che prontamente gli rispose: «Ti avevamo avvisato che sono pazzi.»
«Oh, chi sarebbe pazzo?» ribatté Heiji, stizzito.
«Voi» rispose con convinzione Midori. «Io sono la sua fidanzata, e voi siete solo degli stupidi ciarlatani.»
«Come scusa?!» si infiammò Ran, facendo qualche passo in avanti. «Tu saresti la sua fidanzata?!»
«Sì, problemi?» ghignò Midori, godendo.
«Sono tuoi i problemi» ribatté l’altra. «Se ti prendo, ti tiro tutti quei bei capelli rossi che hai, e poi te li strappo uno ad uno.» Si mosse ancora verso il fidanzato, ma lui non spostò la pistola da Heiji.
«Sto tremando di paura» disse, sarcastica.
«Ma chiudi quella bocca, razza di gallina!»
«Come mi hai chiamato?!» si infiammò, tanto che i suoi capelli parevano fatti di scintille.
Shinichi e Heiji seguirono il dibattito girando la testa a destra e sinistra, completamente assorti. La canna della pistola del detective era ancora puntata su quello che da sempre lo nominava “migliore amico”, ma senza rendersene neanche conto. Tornò alla realtà solo quando il grido di un «fermi tutti» gli giunse dall’oscurità, e dietro Heiji e Ran sbucarono un altro paio di persone ed il lampeggiante rosso di un’auto poliziesca. Midori si zittì, e sussultò, mentre Takagi e Megure, con appresso diversi poliziotti –che avevano chiamato nel frattempo come rinforzi, avanzavano verso di loro con le pistole in mano. Si bloccarono, all’improvviso, quando lo videro: «Kudo!».
«Hai portato la polizia? Maledetto!» sbottò Midori, portando il quadrante dell’orologio in modo che riflettesse la luce del faro della loro auto. Fu come una specie di segnale: quando il fascio di luce si librò al cielo, dai container sbucarono i suoi uomini, che corsero verso di lei e puntarono le pistole contro i due poliziotti, Shiho, Heiji, Kazuha e Ran.
Seguì un disordine generale. Quando Midori diede l’ordine di sparare, Kazuha e Shiho si ripararono dietro l’auto, mentre Heiji e Ran si fecero protezione con due container. Megure e Takagi rimasero a proteggersi, e a sparare a loro volta, appoggiati al cofano dell’auto di Midori e Shinichi. Quando i due poliziotti spararono, Shinichi abbassò il capo e si accostò ad un container. Dietro lui, vi era Ran.
Si guardarono per qualche istante, fin quando non dovettero abbassarsi per evitare il proiettile di uno degli uomini di Midori, che aveva notato la ragazza, ma non Shinichi. Nel fracasso degli spari che volavano e squarciavano l’aria, la karateka trovò il coraggio di afferrargli la maglia che portava. Notò che non la conosceva, probabilmente erano i vestiti che gli avevano dato quei tipi.
«Davvero non ti ricordi di me?»
«Sì» disse, «e lasciami.»
Ran avvertì le lacrime gonfiare le sue palpebre, ma non si diede per vinta. Le parole di Midori risuonavano ancora nella sua mente: “è nel mio letto... bacia bene...”. Si armò di tutta la tenacia di cui era capace, e con il corpo si spinse verso di lui. Lo abbracciò e lo baciò, lasciandolo basito per qualche secondo, poi si staccò. Un leggero profumo di fragola risalì su per le narici del detective.
«Anche io e te siamo molto amici», una frase, una voce.
Entrò nel suo cervello come una saetta, e gli procurò anche un’immensa fitta di dolore. Indietreggiò di qualche passo, così che il martirio passò subito, e lui riprese a respirare normalmente. Quando alzò gli occhi, vide lei era in lacrime, col capo basso.
«E di questo? Ti ricordi?»
Avrebbe voluto risponderle di sì, che era quello che sentiva, ma gli sembrava assurdo. La sua mente non ricordava di averla mai baciata prima, ma le sue labbra sì. Ed anche il suo profumo. Alla fragola. E prima ancora che potesse certificarsi se quelle labbra le avesse già assaggiate, il frastuono di uno sparo e di un urlo giunse alle loro orecchie. Quando si girarono, videro che Megure era stato colpito, e che si era accasciato a terra, dolorante. Ran gridò, scattò in avanti, ma Shinichi la trattenne. Le afferrò il braccio, la trascinò all’indietro e la fece scontrare contro il suo petto. Un proiettile squarciò l’aria a pochi centimetri dalla karateka, ficcandosi nel ferro del container. Dietro di loro, uno dei criminali morì sotto il colpo di pistola di Takagi.
Il detective la lasciò andare, stupito e sconvolto da se stesso. Lei lo guardò con un misto di amore e tenerezza, a cui si aggiunse tristezza, quando si rese conto che era vero che non la ricordava, ma il suo corpo, il suo istinto, gli diceva di comportarsi ancora come Shinichi Kudo, quello vero.
Ran gli sorrise leggermente, dimentica del resto del mondo. «Grazie, mi hai salvato.»
«Non lo so perché l’ho fatto» sbottò lui, più brusco di quanto credeva.
«Shinichi...»
Poi Megure gridò di nuovo, e Takagi si accasciò a soccorrerlo. I malviventi ne approfittarono per riunirsi, ed indietreggiarono fino a dove erano nascosti Shinichi e Ran. Quando videro la giovane accanto a lui, l’afferrarono e le puntarono la pistola alla testa.
«Che nessuno si muova» disse Midori. «Perché la uccideremo. Non che mi dispiaccia.»
Shinichi avrebbe voluto fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non sapeva da che parte stare. Se avesse provato a salvare la ragazza gli avrebbero dato del traditore, ma se l’avesse lasciata nelle loro grinfie, a lui... a lui non sarebbe piaciuto. Quella ragazza era strana: aveva il potere di disorientarlo con la sua sola presenza. Cosa doveva fare?
La scena si calmò e i criminali presero potere: approfittando di Ran come ostaggio, indietreggiarono verso le loro auto. «Muoviti Shinichi» gli comandò Midori. «Sali in auto.»
Il detective le lanciò un’occhiataccia. «Quando hai finito di darmi ordini me lo dici.»
Lei parve rammaricata, mentre Ran veniva sbattuta all’interno tra le braccia ossute di due uomini. Shinichi corse in auto, seguito da Midori, ed insieme misero in retromarcia: tastando sull’acceleratore, indietreggiarono velocemente verso il buio dei container, mentre gli altri uomini scappavano a bordo di un’altra auto. 
Heiji si rialzò e scacciò un sasso a terra con rabbia; quando guardò all’orizzonte, la macchina era già scomparsa.
 
§§§
 
Ran si svegliò di soprassalto, con la bocca arida e secca, in una stanza completamente buia. Non ricordava come ci fosse arrivata, ma sapeva cos’era successo quand’era salita sull’auto: prima che avesse potuto anche solo aprire la bocca, l’avevano stordita con la canna di una pistola, e da lì non aveva capito più nulla. S’alzò dal pavimento, dov’era stata adagiata, con flemma: il corpo le faceva male, ma non se ne preoccupò molto. Rivedeva ancora davanti a lei Megure ferito, e Shinichi che dimostrava di non riconoscerla, di averla dimenticata, di non sapere più chi fosse. Una stretta le strinse il cuore, e stavolta il dolore fu tanto che dovette inspirare ed espirare per calmarsi un po’. Le ci vollero un paio di minuti, durante i quali scrutò un po’ la fisionomia della stanza: era quasi impossibile notare qualcos’altro a parte le pareti per via del buio, ma si rese conto che c’era anche uno specchio ed un mobiletto. Quando provò a mettersi in piedi per raggiungerlo, s’accorse d’essere legata ad esso con una catena e delle manette. Sbuffò, riabbassandosi e poggiando la schiena contro il mobile. Puzzava di vecchio e muffa. Probabilmente quella stanza era quasi sempre chiusa. Si chiese dove fosse Shinichi, che ne fosse stato di Heiji e gli altri, e se l’ispettore fosse riuscito a salvarsi.
Socchiuse gli occhi ed aspettò, sussurrando tra le lacrime il suo nome.
«Shinichi...»
 
“Shinichi...” di nuovo quella voce a tormentargli la testa, proprio come il giorno prima, che l’aveva svegliato. Adesso ne era più che certo, considerato che l’aveva conosciuta: apparteneva a quella ragazza che avevano rapito e segregato in cantina, e di cui adesso stavano decidendo le sorti. Midori era più che convinta a volerla uccidere, Akira invece era più propenso ad aspettare.
«È un’ottima esca per Hattori e i suoi colleghi» spiegò. «Senza pensare che adesso la polizia sa che ci siamo noi dietro tutta questa storia e non è proprio ciò che desideravo.»
«Non vedo cosa possano fregarsene di quella ragazzina petulante e noiosa» si lamentò, guadagnandosi un’occhiataccia dal socio in affari.
«Resta il fatto che eravate una decina di voi armati contro sei di loro, potrei sapere perché non li avete ammazzati tutti prima d’ogni cosa?» sbottò Akira, ignorando la giovane e passando oltre Shinichi. «Un compito avevate: ammazzare Hattori. Uno. E nemmeno quello! Siete riusciti soltanto a ferire un poliziotto grasso, mentre noi abbiamo perso uno degli nostri uomini. Complimenti vivissimi.»
«Perché non sei venuto tu?» replicò Shinichi, con le labbra storte in una smorfia. «Parli tanto, ma alla fine non ci sei mai.»
Akira lo avvicinò minaccioso. «E tu, fratellino? Com’è stato l’incontro con Hattori?»
Midori sussultò: non gli aveva detto dell’incertezza del detective nel doverlo sparare. E non aveva intenzione di dirglielo. Quello era stato forse un segno che la sua memoria stava tornando? Hattori aveva parlato di istinto, di verità. Aveva ragione? Shinichi non sapeva di essere un difensore della giustizia, eppure il suo corpo si comportava come tale. Cosa avrebbe potuto fare per trattenerlo a loro, a lei?
«Potrebbe essere perfino più simpatico di te» sorrise Shinichi. «Il che è tutto dire.»
«Dovrei ridere?»
Shinichi scrollò le spalle. «Piangi se vuoi.»
«Non fare tanto lo spiritoso» sputò fuori, con stizza. «Non sono proprio in vena.»
«Akira, calmati adesso» lo interruppe Midori, sbuffando seccata. Fece qualche passo verso il divano e ci si sedette sopra, accavallando le gambe. «Abbiamo la psicopatica, ed è indubbiamente un punto a nostro favore.»
«Adesso saranno all’ospedale, dato che uno di loro è stato ferito» commentò Yuri, seduta sul divano.
“Diversamente da noi, da voi...” pensò Shinichi, improvvisamente. Non riusciva ad immedesimarsi con quelle idee. “Che quell’uomo è morto sotto i nostri occhi e non abbiamo neanche recuperato il corpo.” Poi scosse il capo, rendendosi conto di star formulando un altro stupido pensiero; voltò lo sguardo verso lo specchio di fronte a lui, ed osservandosi, si chiese cosa gli stesse accadendo. Se era un criminale, perché non si sentiva tale? Abbassò gli occhi, sentendosi un traditore nei confronti di Midori, di Akira, dei suoi genitori che erano morti per lui.
«Certo», ammise Akira. «Ma adesso Hattori non abboccherà più facilmente. Ci serve un piano» disse, ed immediatamente tutti guardarono il detective, in attesa di una risposta.
«Sì, ma fatemi pensare un attimo» disse, rendendosi conto che quella era l’occasione giusta per dimostrare fedeltà a loro, per sentirsi uno di loro. Elaborare un piano gli piaceva, ammise a se stesso. Un po’ di meno elaborare un piano per uccidere qualcun altro. Questo gli sembrava strano, e scorretto. Pensò ad Hattori, al suo viso apparentemente sincero, a quegl’occhi verdi stanchi, alla sua voce incrinata quando gli aveva chiesto cosa gli stesse succedendo. Poi pensò a quella ragazza, a quella che Midori chiamava “la psicopatica”, a quella che era convinta di essere la sua fidanzata, all’affanno che aveva quando era sbucata dietro Hattori, ai suoi occhi violacei che si erano illuminati nel vederlo, a quel profumo di fragola che gli aveva fatto girare la testa. Pensò alla sua voce, che continuava a tornargli in mente, che continuava a chiedere di lui, che continuava a chiamarlo. Si ridestò, di nuovo. Lui era vissuto con Akira, era nato e cresciuto tra il lusso sporco e soldi facili, tra l’arroganza e sottomissione dei più deboli, di quelli che non fanno parte di quel mondo. Non poteva perdersi appresso al viso di una pazza.
Tossì, alzando lo sguardo verso i presenti.
«Hattori è un detective, no?» cominciò, con assoluta chiarezza. «Sbattiamogli un caso di fronte. Spingiamolo ad investigare, manovriamolo. Se gli indizi del caso portano verso una porta, lui l’aprirà, e lì potrebbe trovarci noi, me, Akira, un serpente» sorrise leggermente.
Akira parve riacquistare tutto l’entusiasmo. «Perfetto» disse. «Meraviglioso. Come un topo in trappola.»
«Effettivamente, potremmo farlo morire da solo» suggerì Shinichi. «Non mi va di macchiarmi le mani col suo stupido sangue» disse, ma in realtà era perché non era convinto di riuscire ad ucciderlo, proprio come non era riuscito a sparare. Il suo istinto, come aveva detto lui, gli diceva di non farlo, di comportarsi diversamente da come Akira e gli altri gli dicevano, e non poteva farci nulla. Dunque era meglio che facesse tutto da solo, che scomparisse al più presto dalla sua testa e dai suoi pensieri, che morisse insieme alla sua arroganza e alla sua voglia di competizione, che la smettesse di guardarlo con quegli occhi di cucciolo bastonato, come se lui l’avesse deluso più di ogni altra cosa.
«Come?»
«Se lo chiudiamo dentro una cella frigorifera, dopo un po’ morirà» suggerì Midori, ma Shinichi scosse il capo.
«La morte per ipotermia è lenta» disse, schifato; voleva per lui una morte rapida al massimo, indolore, quasi... giusta. Ma Akira non sembrava dello stesso parere.
«Meglio» lo sentì ghignare, «così avrà tutto il tempo di pensare ai suoi sbagli.»
«Potrebbero...» lo fermò, ma la voce gli uscì incerta. Era come se qualcosa, dentro di lui, stesse cercando di emergere dall’abisso, e lui stesse facendo di tutto per nasconderlo. «Potrebbero liberarlo se ci volesse troppo tempo, non sarebbe meglio una cosa veloce...?», “così la smetto di pentirmi di starlo dicendo” pensò, ma non lo disse.
«No, voglio che soffra», Akira gli frantumò le speranze, senza pietà.
«Sono d’accordo anche io» disse uno degli uomini.
«Adesso non resta che organizzare un po’ il caso... il luogo, la vicenda» fece Midori, «ed è tutto risolto».
«Un supermercato» suggerì qualcuno.
«No, un ristorante» dissero, un altro aggiunse: «un macellaio» e rise.
«Ci pensiamo domani» disse improvvisamente Akira, sbalordendo un po’ tutti. «Andiamo a riposare, che oggi è stata una giornata faticosa.»
Midori si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e sorridendo a Shinichi, gli prese la mano. «Andiamo.»
“E la ragazza?” avrebbe voluto chiedere lui, rendendosi conto che nessuno l’aveva più menzionata. Volevano far morire anche lei da sola, magari disidratata? Era un’immagine che gli donava un disgusto simile a quello che provava per la morte di Hattori, ma molto più forte. Quando l’aveva vista, al porto, gli era sembrata un angelo. Come si poteva desiderarne la morte?
Mentre saliva con Midori verso camera sua, si chiese perché quella ragazza insistesse così tanto con lui. Perché si fingeva la sua fidanzata se non lo era? Era innamorata di lui? Ma come poteva essere se lei aveva contribuito, secondo Akira, ad imprigionarlo? Era davvero pazza, allora? Eppure quando le aveva parlato, al porto, quando lei l’aveva baciato con quel profumo di fragola, gli era sembrato tutto così spontaneo, così sicuro. Sospirò, socchiudendo gli occhi. Ogni volta che pensava ad Hattori o a quella ragazza gli faceva male la testa, come se stesse per scoppiare, come se cercasse di suggerirgli qualcosa che lui non riuscisse ad afferrare.
«Shinichi...» giunse la voce di Midori a scuoterlo. «Come ti senti? Come va... l’amnesia?»
Lui la guardò per qualche secondo, non s’aspettava quella domanda. «Sempre uguale. Non ricordo nulla.»
«L’altra sera hai avuto un flashback però...» gli disse, ed abbassò gli occhi. «E oggi non sei riuscito a sparare ad Hattori, non hai provato ad uccidere nessuno di loro. Perché?»
Il detective sussultò, e con tutta la convinzione che possedeva, le disse: «Io... non volevo sporcarmi le mani con un essere viscido come lui, e non perdo tempo con delle psicopatiche.»
“Ma non è così” pensò tra sé e sé, mordendosi un labbro. “So di non averlo fatto... perché vederlo morire...”
La giovane sorrise. «Hai ragione», fece scivolare le dita sulle sue, e gli schioccò un bacio sulla bocca. Shinichi entrò in camera sua, chiuse la porta, e si lasciò cadere al pavimento, riflettendosi allo specchio. Accanto a lui sembrarono sedersi Ran e Heiji, con i loro corpi fantasma che gli infestavano la mente, con i loro occhi splendenti; Hattori e la sua impetuosità, Muori e la sua dolcezza.
Entrambi appoggiarono il loro capo spettrale sulla sua spalla, dolcemente, e socchiusero gli occhi.
“...perché vederli morire, avrebbe ucciso me” pensò, e loro sorrisero.
 
§§§
 
«Su, bevi qualcosa, Heiji.»
«Ti ho detto che non voglio nulla!» sbottò il detective, portandosi le mani sul viso per poi farle scivolare dietro i capelli, cercando di strapparli. Kazuha, con ancora la camomilla tra le mani, si sedette a fianco a lui, e cominciò ad assaggiarla al posto suo. Da quando erano tornati dal porto, non avevano mosso piede dall’ospedale dove Megure era stato ricoverato. Di fronte a loro, Shiho si era stretta nel caldo avvolgente di un cappotto prestatole da Takagi, che faceva avanti ed indietro nel corridoio, in trepidante attesa di notizie.
«Cosa gli avranno detto» pensò a voce alta il detective, col capo basso. «Mi ha accusato di avergli ucciso i genitori, di averlo torturato... cosa dannazione si sono inventati...»
«Piuttosto,» dimostrò di aver ascoltato tutto Kazuha, sorseggiando la camomilla e stringendosi su se stessa per infondersi un po’ di calore. «Adesso Ran è in quel covo di pazzi, con il suo fidanzato che non la riconosce più e che non farebbe niente per aiutarla... anzi, è quasi probabile che la uccida lui stesso.»
«Kazuha!» sbottò lui. «Cosa cavolo dici? Ti ho detto che non è riuscito ad uccidermi, e non ucciderà nemmeno lei... perché nonostante tutte le stronzate che gli hanno detto, la verità lui ce l’ha ancora dentro.»
«Peccato che non riesca a vederla,» ribatté la ragazza. «Heiji, devi smetterla di pensare a Kudo come a quello che conoscevi... non lo è più. Ti rendi conto che ti ha chiamato traendoti in inganno?»
«Solo perché loro l’hanno convinto che sono io il nemico!» disse, stizzito.
Shiho fece un verso spazientito, come a sperare si zittissero all’istante, dato che il chirurgo era finalmente uscito. Il medico virò alla ricerca di qualche familiare, ma quando capì che vi erano solo Takagi e i tre ragazzi, avvicinò loro.
«La moglie dell’ispettore sta arrivando» lo informò il poliziotto, e quello annuì.
«Le condizioni sono stabili, ma ha perso molto sangue ed ancora non riesce a riprendere conoscenza» disse loro, «ritengo che si debba aspettare qualche giorno per capire come reagirà. Ovviamente, speriamo in bene.»
Takagi strinse i pugni, mentre Hattori si limitò ad abbassare nuovamente il capo e a tenerselo fra le mani.
«Se avessimo novità, vi avviseremo» disse, poi si incamminò verso una famiglia che gli chiedeva informazioni riguardo il loro nipote.
«Chissà Ran come sta» mormorò Kazuha, abbassando gli occhi al pavimento. «Spero solo che sia ancora viva.»
«Lo è» rispose Heiji. «Lui non permetterà muoia.»
«Ma He...»
«Lui non permetterà che lei muoia» ripeté il detective, con freddezza, e lei si zittì.
 
§§§
 
Shinichi osservò il soffitto per tutta la notte, chiedendosi perché non riuscisse ad addormentarsi. La sua mente continuava a proiettargli davanti il viso di quella ragazza che avevano rapito, che – pensò – probabilmente aveva fame e sete, oppure freddo o caldo. Girando la testa alla sua destra, notò che erano le quattro di notte. Scostò le lenzuola e poggiò i piedi a terra, osservandosi intorno, come per certificare che non lo vedesse nessuno. Poi si infilò un paio di calzini per poter camminare senza rumore, quasi scivolando sul pavimento, ed aprì la porta di camera sua. Si sentì come un ladro che fuggiva dalla casa appena rapinata, ma non ci badò più di tanto. Chiuse la porta dietro di sé e diede un’occhiata al corridoio: notò che era libero, così corse verso la cucina, stando sempre attento che non ci fosse nessuno a fare la guardia. Quando arrivò vicino ai fornelli, notò il fumo di una sigaretta che si librava al cielo sulla terrazza adiacente. Si nascose velocemente, rendendosi conto che c’era ancora qualcuno sveglio.
«Ok, vada per il ristorante allora» stava dicendo una voce, che attrasse la sua attenzione. Sporse un po’ il viso per capire chi ci fosse lì fuori: erano Akira, uno dei suoi uomini, e Yuri.
Quelli risero. «Ma della ragazza dobbiamo liberarcene?»
«Secondo me possiamo ucciderla» disse lei. «D’altronde Kudo ha fornito un piano migliore del ricattarli.»
Akira annuì. «Sì, però la voglio far morire di disperazione... come è morto Shiro.»
“Shiro? Chi è Shiro?” si chiese Shinichi, sporgendosi un po’ più in avanti.
«Facciamola morire disidratata» disse l’altro, con un ghigno sadico sulle labbra.
«Ottima idea» convenne Yuri, poi si girò verso il suo capo.
Shinichi ebbe un brivido, che lo fece spingere ancora più in là, dove notò che la sigaretta dell’uomo era sul punto di finirsi, e che questo significava che presto sarebbero rientrati. E probabilmente, nel vederlo lì, rannicchiato come un ladro, li avrebbe fatto sospettare. Fece così dietrofront, e strisciando a terra, lasciò la cucina. Si rialzò una volta in corridoio, dove camminò velocemente verso la cantina. In realtà non sapeva esattamente dove si trovasse, però l’istinto gli diceva di andare verso il basso, dunque lo seguì. Dopo una rampa di scale, si ritrovò davanti due porte: una era quella dove aveva visto i monitor, l’altra doveva essere la cantina. Provò ad aprirla, ma era chiusa a chiave. Imprecò tra sé e sé, quando vide che la porta aveva la chiusura digitalizzata, come quella della sala dei monitor. Dunque ci voleva un codice. Provò quello che aveva visto usare per l’altra, ma non funzionò. Pensò a quale sarebbe potuta essere la password. Ripensò ad Akira, a quella villa, ad Hattori, a tutto quello che gli era stato detto in quei giorni, ma nulla gli pareva adatto per essere utilizzato come parola d’ordine. Poi quella frase gli tornò in mente: “...come è morto Shiro”, e senza pensarci un secondo in più, digitò il nome – tramite ideogrammi – sul tastierino. La porta si aprì, e lui sorrise.
Lì dentro era tutto buio, e mentre un profondo odore di chiuso e di vino gli infastidì le narici, la vide. Raggomitolata su se stessa, vicino ad una delle casse, col respiro pesante e soffocato. Solo quando fece qualche passo in avanti e le assi in legno del pavimento scricchiolarono, lei alzò il capo, sgranando gli occhi.
«Shinichi» balbettò, incredula. Lui si abbassò alla sua altezza e fissò gli occhi nei suoi.
«Ciao» le disse, semplicemente. «Ti ho portato qualcosa da mangiare.»
«Allora...» sussultò. «Ti ricordi di me?» gli chiese, col cuore che le batteva all’impazzata.
Lui scosse il capo. «No.»
«Oh», Ran abbassò il capo, delusa. «E allora perché mi porti queste cose?»
«Io...» provò a spiegare lui, stranito. In realtà non lo sapeva nemmeno lui perché lo stava facendo. Aveva solo la vaga sensazione di volerla proteggere a tutti i costi. «Non lo so...»
Le spezzò un po’ di pane e glielo imboccò. Ran deglutì a fatica, ma felicemente accettò l’acqua. La ingurgitò velocemente, come non ne avesse mai bevuta in vita sua.
«Il tuo istinto» disse, dopo aver bevuto. «È quella l’unica cosa che devi seguire, perché il tuo ha sempre funzionato bene.»
«Bene», Shinichi le spezzò un altro po’ di pane. «Adesso il mio istinto mi dice che devo farti mangiare e bere.»
Ran sorrise leggermente, per poi prendere il pane dalle sue dita. Quando ebbe finito, Shinichi afferrò la bottiglietta di acqua e la nascose sotto il pigiama. Ran aveva ancora indosso il pantaloncino del giorno prima, con la coscia fasciata malamente da una benda che si era ormai sporcata di rosso.
«Sei... ferita» disse lui, in un sospiro. Lei annuì debolmente, distendendo la gamba in modo che potesse provocarle meno dolore.
«Purtroppo non la sto curando a dovere» gli confidò, passandosi un dito sopra e sfiorando la benda. «Avrei bisogno di antidolorifici per sedare almeno il dolore.»
Shinichi affiancò le dita della giovane, posandoci la mano sopra ed imitando il suo movimento. Ran lo guardò accarezzarle la coscia, pensando che lui fosse la persona più dolce che conoscesse. Perché, proprio come in quel momento, lui non sapeva di esserlo.
«Sei abbastanza sazia?» le chiese poi, rialzando lo sguardo su di lei. «Sennò cerco qualcos’altro di sopra. Anche medicinali.»
«No, è abbastanza» rispose lei. «Grazie, Shin.»
Lui le sorrise, rinfrancato, perché trovò che lo avesse chiamato in un modo dolcissimo, come solo lei avrebbe potuto riuscirci. Si fermò per qualche attimo ad osservarla, chiedendosi come avesse potuto dimenticare un viso simile, poi si abbassò alla sua altezza.
«Come ti chiami?» le chiese, improvvisamente, osservandola negli occhi.
Lei sussultò: «Ran, Ran Mouri» rivelò, con convinzione.
«È un bel nome» le rispose, sorridendo. Probabilmente era falso, ma non gliene importava. A lei stava una meraviglia. «Orchidea, giusto?»
Lei annuì semplicemente.
«Però non profumi di orchidea» disse. «Profumi di fragola.»
«Profumo di... fragola?» gli chiese, con un sopracciglio innalzato. Lui annuì.
«Tu, e la tua pelle» disse, e si sporse verso di lei.
Le loro labbra tremarono quando si toccarono, ma non si allontanarono: Shinichi poggiò le mani sulle sue spalle, ed inarcò il volto così per baciarla meglio, mentre un intenso odore di fragola gli giunse fin su alle narici. Lasciò scivolare la lingua nella sua bocca, ma alla sua saliva si mischiò l’odore della pelle della giovane, che lo colpì dritto alla testa. La vista cominciò ad offuscarsi, il volto di Ran sbiadì, mentre di fronte a lui si materializzava un’altra scena. Una villa, una voce.
La figura di una donna.
«Non va bene, non va bene», si rese conto che la voce era la sua, ed era anche divertita. «Tempo fa conoscevo una ragazza molto sincera ed ingenua, che non avrebbe mai mentito ai suoi genitori.»
La testa cominciò a martellargli, talmente tanto che dovette staccarsi, ed indietreggiare qualche passo, esausto. Sbatté più volte le palpebre come per ridestarsi, mentre l’odore di fragola scivolava via dalle sue narici e le immagini tornarono ad essere nitide. Il volto della ragazza rischiarì da quella nube di luce che lo aveva colpito.
«Shin...» lo chiamò lei, preoccupata. «Shinichi, che hai?»
Lui rilasciò un sospiro, riprendendo a respirare normalmente. La osservò ancora per qualche secondo, ma dovette distogliere lo sguardo per via del dolore.
«Niente» disse, un po’ scosso, ed andò via.
Ran si passò un dito sulle labbra, laddove poco prima l’avevano toccate quelle di lui. Riusciva a sentire ancora il solco dei suoi denti, ed in bocca, ancora il sapore della sua saliva.
 
§§§
 
«Questa roba è vomitevole!»
Heiji fece una smorfia di disgusto, sul punto di sputare nel piatto quello che stava masticando. Era mattina da circa due ore, e dopo aver lasciato le ragazze insieme agli altri poliziotti di sopra, era sceso al bar dell’ospedale per cercare di infilare qualcosa nello stomaco. Ma tutto gli sembrava immangiabile ed orribile, e non fece nulla per nasconderlo. Si guadagnò, così, un’occhiataccia da parte del cameriere. Lui lo ignorò, concludendo il suo cappuccino in un sorso. Vide Takagi raggiungerlo da dietro e fermarsi a fianco a lui sul bancone.
«Sei riuscito a dormire?»
«Tu?» gli rispose Heiji, rendendo ovvia la risposta.
Takagi ordinò un caffè e un cornetto. Il cameriere guardò male anche lui, ma il poliziotto non riuscì a capire perché. Heiji alzò la mano per salutare l’amico e salire di sopra, ma la voce dell’agente lo fermò.
«Hattori, devo dirti una cosa» cominciò, con un sospiro, deglutendo in un sorso il caffè. «Riguarda Kudo.»
«Cioè?» chiese. Takagi trangugiò il cornetto con una velocità sorprendente, poi si pulì la bocca con il fazzoletto. Sospirò di nuovo, poi spinse Hattori per la schiena, fuori dal bar.
«Parliamone fuori.»
Insieme raggiunsero un cortile che affiancava l’edificio principale. Era talmente curato e bello che non sembrava neanche appartenere ad un ospedale. Si sedettero su una panchina di fronte ad una fontana, osservando i malati portati a spasso dai loro parenti, per una passeggiata mattutina.
«Su, parla.»
Takagi si guardò le mani, poggiate sulle ginocchia. «Hattori, quando ritroveremo Kudo... devo dirti che, cioè, voglio informarti che...»
«Che? Su, continua» cominciò a spazientirsi lui.
Il poliziotto deglutì. «Che lo arresteremo.»
Heiji perse un battito del cuore, poi rise, come per cacciare via la paura. «Cosa stai dicendo?»
«Hattori, Kudo è complice di un tentato omicidio e di un sequestro di persona...»
«MA SEI COMPLETAMENTE IMPAZZITO?!» sbottò il detective, urlando a squarciagola, afferrandolo per il colletto della camicia. Tutti i passanti si voltarono, impauriti, ma Takagi fece finta di nulla, e si staccò dalla presa del ragazzo, per poi tossire e ripristinare l’equilibrio.
«Non è quello che voglio io» precisò. «So che Kudo non è mentalmente stabile, chiamalo come vuoi... però con noi c’erano altri poliziotti ieri al porto. Se ci fossimo stati solo io e Megure, magari si poteva chiudere un occhio, ma quelli l’hanno visto con una pistola in mano... dalla parte opposta alla nostra.»
«Ma non ha senso» obiettò Heiji, esterrefatto. «Lui ha sempre aiutato la polizia. Adesso l’hanno convinto di essere un criminale, ma lo sai anche tu che non farebbe mai del male a nessuno!»
«Questo non puoi più saperlo per certo, Hattori.»
«Lo so per certo, invece!» replicò, sempre più stizzito. Altri volti si girarono, e lui abbassò la voce: «Quando ha avuto la possibilità di spararmi... non l’ha fatto. E questo dovrebbe bastare.»
«Oh be’, sì» lo sfotté Takagi, quasi ironico. «E questo come lo spieghi ai miei colleghi?»
«A parole!»
«Non fare lo stupido, Hattori» sospirò il poliziotto. «Ci vogliono delle prove, lo sai.»
Heiji sbatté più volte le palpebre, scuotendo il capo.
«Non potete sbattere in prigione lui... non potete sbatterlo in prigione solo perché ha perso la memoria e non sa più di chi fidarsi...» si lamentò il detective, incredulo, avvertendo la terra sotto i suoi piedi franare. Il suo mondo stava crollando, le sue certezze si stavano distruggendo, e tutto ciò che amava si stava allontanando. «Non è colpa sua...»
«Lo so,» disse Takagi. «Infatti io ho provato a convincerli che Kudo non è pericoloso... ma loro non mi hanno creduto, e l’hanno riferito al sovrintendente.»
«Dimmi che non è vero...» mormorò Heiji.
«E adesso c’è già un mandato d’arresto nei suoi confronti.»
«Non ci credo» commentò, socchiudendo gli occhi verdi.
«Mi dispiace.»
«È ridicolo» sbottò, stringendo i denti. «Dunque se mi metto in contatto con lui per cercare di farlo fuggire, sarò considerato un suo complice?»
Takagi non ebbe il coraggio di annuire, ma era come se l’avesse fatto.
Shinichi era diventato, ufficialmente, un bandito.

 
 
 
 
Me:
Oooh *___* Ciao baldi giovani e fanciulle! Finalmente i due piccioncini hanno un po' di momenti tutti per loro, dolciosi dolcetti *.*, grazie alla concessione della sottoscritta autrice u.ù Direi che le parti dedicate a loro sono quelle che preferisco del capitolo: il bacio timido ed iniziale di Ran, che subito scaturisce in lui qualche ricordo, e poi quello che cerca lui dopo, quando le porta da mangiare e bere <3 È di una cucciolosità (?) incredibile quel ragazzo <3
Avete capito più o meno cosa fa tornare la memoria a Shinichi? Ormai dovrebbe essere abbastanza chiaro u.u Ma per chi ancora non c'è arrivato, aspettate un altro po', perché ormai mancano solo tre chap alla fine della storia (ò.O) e dunque ci vorrà davvero poco per scoprire se Shinichi rimarrà smemorato, criminale ed assassino, con la coscienza sporca di aver ucciso qualcuno... o se tornerà ad essere quello di un tempo. :3 
Intanto il nostro eroe escogita un altro (già xD) piano per uccidere Hattori. E siamo a due. Chissà come la prenderà l'amico quando e se tutto sarà finito :3
Megure è stato ferito: direte voi, con tutta la pancia che ha non avrebbe dovuto attudire il colpo? E invece no, a quanto pare il suo grasso non è bastato :'D E dulcis in fundo, il detective è diventato un bandito/latitante per la polizia. Alleluja. 
Vedremo se Hattori riuscirà a risolvere tutto, o se dovrà dire addio al suo amato migliore amico :o
Ci tengo a ringraziare chi commenta capitolo per capitolo e mi da uno sprone sempre più grande per andare avanti e credere in me!
Grazie davvero. <3

E a quelli dedico questo spoiler, e a quelli do un bacio grande dritto dritto fino al 6 marzo! :D

«Sì, me l’ha detto mia cugina!» ribatté quella. «Shinichi Kudo è all’Haido Hotel!»
Alla giovane di Osaka si fermò il cuore dalla sorpresa.
«Ma siete proprio sicure?»
«Scusate, ragazze?» s’avvicinò velocemente a loro, ignorando completamente il caffelatte fumante sul bancone, ed il cameriere che le urlava dietro.
Quelle si girarono, come interrotte dal più grande sogno che avrebbero potuto fare.
«Kudo è all’Haido Hotel?» chiese conferma, esaltata. Forse avrebbe trovato finalmente una pista per aiutare Heiji nelle ricerche. «L’avete visto?»


Tonia

 

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Capitolo 7
*** Oltre l'odore delle cose ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Settimo capitolo Seventh chapter Septième chapitre  Oltre l'odore delle cose Séptimo capìtulo Siebten Kapitel 第七章  일곱 번째 장 
 
 
 
Alla fine non aveva chiuso occhio nemmeno dopo esser tornato dalla cantina. Ripensava ancora a quell’odore, e più ci ripensava, più la testa gli faceva male. Il dolore lo martoriava, lo torturava; e non aveva alcuna possibilità di spiegarsi né di capire perché gli accadesse. Con la testa all’in su, pensò all’ultima volta che avesse avvertito quella sensazione. Tralasciando quell’effimera del porto, quando lei l’aveva preso  e baciato, era successo lo stesso quella notte insieme a Midori, nel momento in cui era caduto a terra quel liquore cinese, il Paikal. Ed era esattamente quando ne aveva avvertito l’odore forte, che era cominciato a stare male. 
«L’odore delle cose» disse, tra sé e sé, sgranando gli occhi. «È l’odore delle cose di cui ho ricordo, che mi fa tornare la memoria.»
S’alzò dal letto velocemente, uscendo dalla stanza a passi veloci e spediti. Se ben ricordava, ne aveva vista un’altra in cucina, il giorno prima. Nonostante fossero le otto di mattina passate, per i corridoi ed in salone non incontrò nessuno. Pensò che fosse meglio così, ma quando giunse in cucina, s’imbatté faccia a faccia con Yuri e l’uomo che aveva sparato, giorni prima, alla coscia di Ran.
«Kudo» sillabò la ragazza, con una vena di astio. «Sei sveglio.»
«Così sembra» rispose lui, buttando lo sguardo da uno all’altro. «Gli altri dove sono?»
«Dove potrebbero essere?» I due risero con fragore. Shinichi assottigliò gli occhi, e pensò al ragazzo che aveva animato il suo primo flashback, e alla possibilità che fosse in serio pericolo. Più passava il tempo, più quel pensiero lo disgustava.
«La ragazza dov’è? Non l’avranno presa loro, vero?»
Yuri emise un mugolio strano, «perché? Cosa ti interessa?», poi sorrise: «sarà morta per lo spavento».
“Non potrebbero parlarmi in questo modo se io fossi davvero il loro capo” pensò il detective, ragionando per qualche istante. “Porterebbero più rispetto, come fanno con Akira. È ovvio che qui qualcosa non torna.”
«Voglio parlarle» confessò, giusto per testare le loro reazioni, per scrutare i loro occhi e intravedere i loro pensieri: ed entrambi furono sopraffatti dall’unica cosa che in quel momento lo stava aiutando. L’istinto.
«No. Meglio che torni di sopra» rispose l’uomo, ripensando ai comandi che Midori gli aveva dato quella stessa mattina: controllare Shinichi e tenerlo lontano da quella ragazza, che avrebbe potuto farlo tornare in sé.
«E questo lo decidi tu?» chiese il detective, curvando leggermente le labbra all’in su.
«No, in realtà...»
«Te l’hanno ordinato.» Completò lui, e l’uomo si zittì. «Che strano però. Io dovrei avere voce in capitolo su certe cose.»
Shinichi notò qualcosa di strano nell’atteggiamento della donna, sebbene il suo sguardo fosse rivolto all’altro: Yuri indossava un giacchetto di pelle, ma la sua mano destra era infilata dietro la schiena, sotto di esso, come se stesse impugnando qualcosa. La sua mente focalizzò per qualche istante la situazione: dal modo in cui aveva curvato il braccio, poteva essere o un coltello o una pistola. “Ancora più strano, direi” e sorrise. Non ci pensò molto; aveva intuito che in quel momento sorprenderli fosse la cosa migliore, dato che era lui quello disarmato, ed agì più velocemente che potesse. Afferrò l’uomo, e con forza lo spinse all’indietro, sul corpo della ragazza, che perdendo l’equilibrio, cadde sotto il collega sul pavimento e perse la presa sulla pistola, che roteò un metro distante. Shinichi la recuperò in un baleno, puntandogliela contro.
«E adesso come si fa? Hai perso il tuo giocattolino?» li schernì, mentre i due cercavano di rialzarsi e rimettersi in piedi: Yuri, soprattutto, stava tentando di scrollarsi da dosso il peso abnorme del collega.
«Ma che... che fai? Guarda che noi... siamo tuoi amici eh. Siamo... dalla tua parte» cercò di confonderlo l’uomo, ma la farsa non abboccava più.
«Qualcosa mi dice che chi cerca di calmare qualcuno con una pistola, non ne è proprio un amico.»
«Guarda che sei tu quello che ci sta puntando l’arma contro...» provò Yuri, ma invano.
«Appunto», Shinichi sorrise. «E non mi sento vostro amico.»
E sparò. In alto, verso qualcosa che i due non videro nemmeno arrivare, e che comunque non poterono evitare: il lampadario. Il detective lo colpì e mille pezzi di vetro e una possente struttura in metallo cadde verso di loro, che vi rimasero impigliati dentro. Il ferro colpì in testa la ragazza, che svenne e perse i sensi, e ferì al braccio l’uomo.
«Scusami» gli disse il detective, «fai sogni d’oro.»
E lo colpì alla testa con la canna della pistola, facendolo gemere ed accasciare su se stesso, svenuto. Shinichi sospirò e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse tenerli a bada: optò per la corda delle tende.
“Così dovrebbero stare buoni” pensò, “ma adesso...”
Rivolse lo sguardo verso le cantine, col cuore che gli batteva forte e violento per ciò che aveva appena fatto. Girovagò un po’ per di lì, alla ricerca di qualche mobile che avesse anche solo il vago aspetto di poter contenere medicinali, ma non trovò nulla. Decise dunque di raggiungerla, prima che potesse arrivare qualcun altro e scoprirlo. L’aveva fatto senza pensarci: non aveva deciso da sé, ma aveva seguito l’istinto, come lei gli aveva suggerito. Lei con quell’odore così particolare, così penetrante e dolce. Aveva ancora voglia di sentire quel profumo di fragola su di sé e sulla sua pelle. Amava come il dolore lo colpisse e lui non potesse farne a meno. Scese da lei velocemente, giunse nella cantina dove lei era segregata in poco meno di un minuto, immettendo il codice sul tastierino velocemente, e spalancando la porta davanti a sé. La vide prima di ogni altra cosa, appoggiata al mobile dove l’aveva lasciata il giorno prima, con le mani ammanettate e legate lì vicino. Aveva gli occhi chiusi ed era raggomitolata su se stessa, come il più bello degli angeli che dorme sulle sue stesse ali. Si sedette accanto a lei, a terra, senza smettere di osservare quelle manette.
“La devo liberare” pensò, “lei non deve stare così”, e provò ad andare a cercare qualcosa che potesse rompere quelle catene. Ma prima che potesse alzarsi, lei si svegliò. Aprì le palpebre velocemente, come se fosse stata colpita da una scossa, ed affondò gli occhi su di lui.
«Shinichi», lo chiamò, sussurrandolo. «Che ci fai qui?»
«Sono venuto a portarti altre robe da mangiare e bere, e...» disse semplicemente. Ringraziò il buio dell’ambiente per mascherargli il rossore che gli prendeva il volto. Ma quando si voltò a guardarla, notò che anche lei era arrossita. «Purtroppo non ho trovato antidolorifici.»
Ran si lasciò andare ad un sorriso, afferrando la bottiglietta. «Grazie, non preoccuparti» disse, «ma non è che ti faranno del male se sanno che sei qui? Non voglio succeda...»
Shinichi sgranò leggermente gli occhi, incredulo. «Ti preoccupi se faranno del male... a me?»
Lei bevve in un sorso metà dell’acqua, poi lo guardò dritto negli occhi: «Se fanno del male a te, fanno del male anche a me, Shinichi.»
Il detective non le rispose subito. Pensò che aveva avuto la stessa idea di lei e di Hattori, qualche giorno prima, quando aveva avvertito sensazione di vuoto glaciale al solo pensiero di perdere lei e di uccidere lui.
«Tu sembri conoscermi bene.»
«Io ti conosco bene» certificò. «E mi fido di te. So che, anche senza memoria, saprai da che parte stare.»
Lui ebbe un fremito. «Qui ti sbagli, io non so chi sono... figurati se so a chi credere.»
«Be’, già il fatto che non ti fidi completamente di loro è qualcosa» suggerì Ran. «Se non avessi dubbi, non saresti qui, vero? Perché non son stati loro a dirti di darmi da mangiare.»
“Io non mi fido di loro, solo di te.” Pensò, ma non glielo disse.
Annuì debolmente, e le spezzò un altro po’ di pane. Seguì qualche attimo di silenzio, rotto solo dal rumore dei denti di Ran.
«Qual è la tua versione?» chiese improvvisamente lui. «Voglio sapere per te chi sono.»
A Ran le si illuminarono gli occhi, mentre il colorito roseo del suo viso tornava per via del pane e dell’acqua.
«Tu sei Shinichi Kudo, figlio di Yusaku e Yukiko Kudo, detective di fama mondiale. Sei colui a cui la polizia faceva riferimento per risolvere i casi più intricati e difficili, sei colui che ha sconfitto una potente organizzazione criminale e ne è uscito vivo, sei colui che sbatte in galera i peggiori criminali, e oltretutto... sei il mio fidanzato.» Disse, poi aggiunse, stizzita: «Non di quella gallina.»
Lui fece un mezzo sorriso. «Lei mi ha detto che sei tu quella ad inventartelo...»
Ran spalancò gli occhi, sbalordita. «Non è vero, Shinichi! Sono io, te lo giuro, sono io quella vera!»
«È quello che dice anche lei» le disse, ma Ran notò che il suo sorriso non scemava. Era come se si stesse divertendo. Così frenò la lingua e pensò. Come poteva dimostrarglielo? Era sicura che, con una prova, il suo animo da detective avrebbe prevalso su tutte le parole false che gli avevano raccontato. Ma ci voleva qualcosa di certo e che, oltretutto, non fosse un ricordo che lui non aveva.
Deglutì, poi lo osservò. «Le cicatrici» concluse poi. «Ne hai tre. Una sull’avambraccio sinistro, dietro il gomito, una dietro la schiena all’altezza dei reni», e sorridendo, gli puntò l’indice verso il bacino basso. «Ed una qui.»
Shinichi l’ascoltò, poi si alzò leggermente la maglia. Prima dalla parte del braccio, e notò la cicatrice dietro il gomito, poi dall’addome, dove vide la seconda. Poi abbassò lievemente i pantaloni e si imbatté nella terza, esattamente dove l’aveva indicata la ragazza.
«Wow» si congratulò a modo suo, poi sorrise. «Questo non me l’aspettavo.»
«So anche che hai una voglia dietro la schiena a forma di stella, ma non so se riesci a vederla adesso» lo informò, considerando il buio dell’ambiente e la posizione della macchiolina.
“Avrebbe potuto vedere tutte ‘ste cose nel periodo in cui m’ha imprigionato” pensò. “Saremmo potuti andare a letto insieme qualche volta,” la osservò con profondità. “Oppure... sta dicendo la verità. La verità...”
«Secondo te come faccio a sapere queste cose?» gli chiese, infervorandosi. Forse sarebbe riuscita a convincerlo almeno da che parte stare.
«E sentiamo...» disse lui, ignorando volontariamente la sua domanda. «Perché avrei perso la memoria?»
Ran ci pensò un attimo su. «Mi pare ovvio che non t’abbiano detto la verità» dedusse. «L’hai persa perché ti hanno iniettato un siero nel cervello, che ti ha fatto dimenticare tutto quello che sei.»
«Niente incidente su moto?»
«No» disse lei. «È quello che ti hanno raccontato?»
“Effettivamente, converrebbe col fatto che non ho né graffi né contusioni” pensò lui. Le idee di quella ragazza si fecero sempre più spazio nella sua mente, martoriandola e contenendosi il posto con quelle che gli avevano insinuato Akira e Midori. Lei gli aveva detto che, per catturarlo, mesi prima lo avevano raggirato in questo modo. Con le parole. Eppure sembrava tutto così giusto, e loro così sbagliati. E quei due, che lui aveva stordito e legato, che adesso testimoniavano ciò che aveva fatto. Lui aveva scelto?
La sua mente ripescò dal nulla una frase che gli sembrava così affine:
“Dopo aver eliminato l’impossibile, tutto ciò che resta, per improbabile che sia, dev’essere per forza la verità.”
Ripensò a quello che era successo negli ultimi giorni: al suo risveglio, a Midori che gli raccontava chi era, ad Akira e alla storia dei suoi genitori, poi ad Hattori, al suo viso felice quando lo vide e a quello incredulo quando notò la pistola puntata contro di lui. Poi ripensò alla ragazza che aveva di fronte, a come si era sentito quando l’aveva vista, e cosa aveva avvertito quando lei lo aveva baciato.
Lei, che aveva la verità su di sé. Sulla sua pelle.
“La verità è sempre una sola”, la sua massima, la sua frase, ciò con cui Heiji aveva provato a farlo ragionare.
«Posso?» le chiese, dolcemente, indicandole il collo. Ran lo lasciò avvicinarsi. Shinichi le poggiò le mani sui fianchi e sfiorò il naso sulla sua pelle. Cominciò ad adorarla lentamente, così che man mano il dolce profumo gli salì dalle narici al cervello. Fu come se un turbine di emozioni si avvolgesse intorno a quell’aroma particolare, familiare e talmente forte che gli lanciò delle fitte al cervello. La testa cominciò a fargli male, ma non volle badarci. Risalendo lungo la sua guancia, le catturò le labbra in un bacio dolce e breve. Ran si lasciò baciare senza alcuna paura, e non esitò a ricambiare. Shinichi si impossessò della sua bocca, fece scivolare la lingua dentro e assaporò la sua saliva. Anche quella sapeva di fragola, come lei. Numerose fitte gli colpirono le tempie, mentre una voce emergeva dall’oscurità della sua memoria. Era poco nitida, ma conosciuta.
«Non va bene, non va bene» , avvertì la sua voce, sfumata di note ilari e divertite. «Tempo fa conoscevo una ragazza molto sincera ed ingenua, che non avrebbe mai mentito ai suoi genitori.» Poi vide un corridoio, delle pareti in legno, l’interno di una casa. Era calda, familiare. E poi una sagoma, che rischiarì debolmente, descrivendo il profilo di una donna giovane e bella, dagli occhi azzurri violacei e dalla carnagione chiara, ma non pallida. Era lei. Bella più che mai: piena di dolcezza, spensieratezza e un pizzico di malizia.
«Ho imparato dal maestro» rispose, sorridendogli. La vide avvicinarsi, cingergli il collo con le braccia e attrarlo a sé: lo stava baciando. Con passione, come se fosse da sempre sua. Poi sia aggrappò a lui.
«Il maestro non inventa scuse banali come Mamma, papà, vado a dormire da Sonoko» sentì la sua voce sfotterla, e lei ridere.
«Disse quello che aveva da risolvere un caso difficile e complicato...» imitò l’ironia lei.
«Era legittima. A te è banale.»
«Cosa vuoi farci, siamo molto amiche» disse lei, ancora, ormai in braccio a lui, che la stava portando verso di sopra, salendo alcune scale.
Poi le avvicinò le labbra all’orecchio, e le disse: «Anche io e te siamo molto amici» e la baciò di nuovo.
Shinichi si accasciò a terra, con la testa che gli martellava e pulsava sotto i colpi di quella voce e di quelle labbra, quel profumo che gli avvolgeva i neuroni e li stritolava. Gemé di dolore, mentre Ran sussultava dalla paura.
«Shinichi!?» chiese, preoccupata. «Shinichi, che hai!?»
La fidanzata cercò di sporsi verso di lui, ma le manette la trattenevano. Lo vide contorcersi in preda a degli spasmi che lo facevano urlare di dolore. Non sapeva cosa gli stesse accadendo, sperò soltanto che finisse presto.
«Shinichi?!» urlò quasi, lacrimante. «Shinichi, ti prego...»
Lui riuscì a spostare una mano dalla testa sino al suo braccio, e quasi avvertì di nuovo il profumo sconvolgerlo. «Sto b-bene...» balbettò. «Calmati... non urlare...»
«Voglio solo sapere che ti sta succedendo» disse lei, con le lacrime che le bagnavano il volto. «Mi stai facendo preoccupare!»
«Se ti sto vicino...» sussurrò, stringendo i denti ed allontanandosi leggermente da lei. «Se ti sto vicino, mi sento male. Il tuo profumo... mi fa stare male.»
Da quella distanza le fitte passarono, e il profumo scemò dalla sua mente, così come le immagini che si erano formate davanti ai suoi occhi dal nulla.
«Cosa?» chiese, incredula.
«Ma allo stesso tempo, il tuo profumo mi fa ricordare delle cose...» le rivelò, con gli occhi rossi e stanchi. Si alzò con flemma, e camminò di nuovo verso di lei. Le si inginocchiò di fronte, col respiro pesante.
«Stammi lontano, se devi stare male, stammi lontano!» lo pregò lei, ed una lacrima precipitò dalle palpebre fermandosi sulle sue labbra. Shinichi gliel’asciugò con le dita, facendo scivolare il dito sulla curva della sua bocca, per poi percorrere la sua guancia. Ran rabbrividì, preoccupata ed angosciata, ma gioiosa di gustarsi per qualche istante l’edenica sensazione di avere quelle mani sul suo viso.
«Stammi vicino» lo sentì sussurrare, oltre il fremito di un brivido, «perché se devo morire, morirò di te.»
 
§§§
 
«Un caffelatte, grazie.» Kazuha posò le monete sul bancone del bar, facendo scivolare lo scontrino di fronte agli occhi del cameriere. L’uomo le lanciò un’occhiata, poi indietreggiò verso le macchine. La giovane stiracchiò le braccia con stanchezza, guardandosi per qualche istante intorno. Era al bar dell’ospedale, dopo una nottata tremenda passata su una sedia; senza alcuna possibilità di tornare a casa, di riposare o risolvere la situazione. Sbadigliando, appoggiò la schiena al bancone, fissando un gruppetto di ragazzine ad un metro da lei. Sembravano sovraeccitate: erano ridenti e parlavano con uno strano intercalare.
«Mi ha detto che è all’Haido Hotel!» urlò una di loro, con un sorriso ampissimo. «Ci devo assolutamente andare! Non posso perdermelo!»
«Ma a che ora!?» le chiese un’altra, con gli occhi luminosi come lampioni.
Kazuha si interessò più di quanto volesse alla conversazione, dato che le ragazzine gridavano come pazze. Il cameriere dietro di lei le passò il caffelatte, richiamandola a bassa voce. Ma lei non ci prestò attenzione, dato che le ragazzine avevano approfondito la questione:
«Ma è vero?»
«Sì, me l’ha detto mia cugina!» ribatté quella. «Shinichi Kudo è all’Haido Hotel!»
Alla giovane di Osaka si fermò il cuore dalla sorpresa.
«Ma siete proprio sicure?»
«Scusate, ragazze?» s’avvicinò velocemente a loro, ignorando completamente il caffelatte fumante sul bancone, ed il cameriere che le urlava dietro.
Quelle si girarono, come interrotte dal più grande sogno che avrebbero potuto fare.
«Kudo è all’Haido Hotel?» chiese conferma, esaltata. Forse avrebbe trovato finalmente una pista per aiutare Heiji nelle ricerche. «L’avete visto?»
«No, però...» rispose una tra le tante, alzando la voce. «Dicono che c’è stato un omicidio, e che lui sta risolvendo il caso.»
«Oddio!» sbottò, per poi fuggire verso la sala d’attesa dell’ospedale. Salì velocemente le scale, ritrovandosi di fronte al reparto di ricovero d’urgenza. Entrò velocemente e raggiunse la stanza dove riposava Megure, fuori dalla quale era seduta Shiho, rannicchiata su se stessa.
«Heiji?»
La biondina alzò le spalle. «È sceso un po’ di tempo fa. È scomparso con Takagi.»
«Sai dov’è andato?»
Lei scosse il capo. Kazuha recuperò il cellulare e, digitando il numero del fidanzato, provò a chiamarlo. Ma il suo telefono squillava ininterrottamente, senza risposta.
«Dannazione», si morse un labbro, esasperata. Se avesse aspettato ancora, Shinichi sarebbe potuto andare via. E l’avrebbero perso di nuovo. Senza contare tutte le possibilità che avrebbero avuto di ritrovare anche Ran, di metterla in salvo da quella banda di criminali. Fece qualche passo indietro, riprovando di nuovo a chiamare il suo ragazzo.
«Kudo è stato visto all’Haido Hotel» disse frettolosamente alla ramata. «Vado lì. Avvisa Heiji, se lo vedi.»
Indietreggiò e cominciò a correre verso l’uscita, ignorando completamente Shiho che le gridava dietro.
«Toyama!» la chiamò, alzandosi velocemente dalla sedia. Ma Kazuha era ormai poco più di un’ombra, e le sue parole ridotte a poco più di un fremito.
«Potrebbe essere una trappola» avrebbe voluto dirle, ma non ci riuscì. Si guardò intorno, e scontrando con la spalla un poliziotto che era appena entrato, la seguì.
 
§§§
 
«Dove sei stato!? Aveva ragione lui... tu mi osservi da lontano e ridi di me che mi preoccupo per te, vero?», capì che i suoi occhi erano sempre stati così, che non era una sua impressione. Azzurri da sembrare viola. E nell’incantarsi a guardarla nel ricordo, una fitta gli colpì la testa, costringendolo a gemere.
«Sciocca... quando si tratta di te, come stai... lo capisco dal tono della voce», e sentì se stesso svanire nel nulla, e il profumo della giovane farlo tornare al presente.
«Adesso basta» si era staccata Ran, con gli occhi lacrimanti, «non posso farti soffrire in questo modo.»
«Non m’importa di soffrire» replicò lui, afferrandole il polso. «Voglio soltanto ricordare.»
«Shinichi...»
Il ragazzo le si avvicinò di nuovo, stavolta afferrandole direttamente le labbra e unendo la bocca con la sua. Avvertì la solita sensazione che la stanza gli stesse girando intorno, come se avesse bevuto litri di liquore, e la scena davanti a lui sbiadirsi per illuminare quella che gli suggeriva il cervello. Eppure quella volta si sentì diverso; il dolore riuscì a sopportarlo, e le uniche fitte che lo colpirono furono quelle al cuore. Le labbra di Ran lo tennero stretto al concreto, nello stesso momento in cui il suo odore alla fragola gli suggerì cosa era successo tra loro molto tempo prima. Si strinse ancora di più a lei, accarezzandole la schiena ed alzandole leggermente la maglia. La ragazza rabbrividì, e sebbene preoccupata per lui, non lo fermò. Fece scivolare le braccia intorno al suo collo, facendo aderire con più forza i loro corpi. Da quanto tempo non erano soli, non si dedicavano più a loro? Da quando aveva saputo che lui non ricordava più nulla di lei, aveva avuto paura che momenti del genere non avesse più potuti averli. Ma Shinichi aveva ricominciato a ricordare, in un modo tutto suo, ciò che erano stati. La uccideva vederlo stare male, ma ogni gemito di dolore era un passo in più verso la verità, verso di loro e verso di lei.
«Tu sei come un caso difficile e complicato! Mescoli talmente tante emozioni, che anche se io fossi Holmes, per me sarebbe impossibile capirti...», era di nuovo la sua stessa voce a parlare, e nuovamente di fronte a lui aveva lei. Le lacrime le bagnavano gli occhi, ma la moltitudine di colori e luci che li circondava, le faceva brillare come diamanti al sole. «...il cuore della donna che amo... come potrebbe essere oggetto di deduzione?»*
«Holmes?» chiese improvvisamente, interrompendo il loro bacio. Ran era sul punto di chiedersi cosa c’entrasse il detective in un momento come quello, ma poi realizzò che la sua amnesia gli aveva cancellato anche quella stupida, eppure così sua, mania. E se lo ricordava...
«Ti ricordi di Holmes?» si accese lei, sorridente.
«Sì, cioè... no» spiegò, poi avvertì le sue stesse guance divenire calde. Stava arrossendo. «Ehm... siamo stati a Londra, per caso?»
«Sì!» squittì la giovane, aggrappandosi a lui. «Ci siamo andati un paio di anni fa. Ricordi la bomba? Il Big Ben!?», Shinichi dondolò per un po’, ma si lasciò abbracciare.
«Ho un’idea!» disse lei, staccandosi leggermente. «Andiamo a casa tua, lì ci sono i libri di Sherlock Holmes, c’è tutta la tua vita, sono certa che ricorderai tutto.»
Il detective esitò per qualche istante, poi annuì.
«Aspetta un attimo che ti libero» le disse, e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse riuscirci, ma non trovò nient’altro che bottiglie di vetro. Decise di sceglierne una abbastanza grossa che avesse potuto almeno rompere il legno a cui era attaccata, ma un rumore secco e profondo lo fece sobbalzare. Ritornò velocemente da lei, preoccupato, quando la vide vicino alla porta d’entrata, finalmente libera.
«Ma come hai fatto?» le chiese, sbalordito.
«Sono una karateka, Holmes» gli fece l’occhiolino, sorridente. «Spero tu riesca a ricordarlo.»
Shinichi era esterrefatto, e non fece nulla per mascherarlo: «Dunque avresti potuto liberarti fin dall’inizio?» domandò, e lei annuì.
«E perché non l’hai fatto?»
«Avevo paura che se mi avessero trovata libera avrebbero dato la colpa a te, e ti avrebbero fatto del male...» disse, arrossendo vistosamente.
Il detective avrebbe voluto dirle qualcosa, ma le parole gli morirono in gola. Quella ragazza era ciò che più somigliava ad un angelo, le mancavano soltanto le ali bianche e piumose. Ma aveva la stessa bellezza, la stessa dolcezza o lo stesso amore di una creatura ultraterrena.
«Scusa... forse avresti preferito mi fossi liberata prima? È che...» cominciò lei, ma lui la zittì, attirandola a sé e baciandola.
«No» disse, sorridendole. «Va tutto bene. Tutto bene.»
 
§§§
 
«È assurdo», Heiji attraversò l’ingresso principale dell’ospedale buttando in un cestino una lattina di caffè freddo. «Io devo aiutarlo, Takagi. Non posso rimanere qui con le mani in mano... ad aspettare... che lo arrestino!»
«Dovremmo trovare delle prove che accertino che lui non abbia fatto nulla, e che soprattutto non era loro complice.»
Il detective sorrise, sarcastico. «Vuoi una prova? Lui è Shinichi Kudo, non ucciderebbe mai nessuno.»
I due entrarono in ascensore e pigiarono il tasto corrispondente al piano dove era stato ricoverato Megure. Heiji guardò la sua immagine riflessa nello specchio, e per qualche istante provò ad immaginare come potesse sentirsi se non sapesse chi fosse. Guardare se stesso e non riconoscersi, non sapere a chi credere, non capire da che parte stare. Doveva essere tremendo. Le porte dell’ascensore si aprirono di fronte l’entrata al reparto d’urgenza. Percorsero il corridoio velocemente, notando due agenti posti davanti alla porta della stanza di Megure. Heiji si guardò intorno, alla ricerca di Kazuha e Shiho, ma non le vide.
«Ah, Hattori, sei qui» disse uno dei due, assottigliando gli occhi e accentuando un brutto sorriso. «Pensavamo fossi andato a farti sparare dal tuo amico criminale.»
«Cosa hai detto?!» sbottò, scagliandosi contro di lui ed afferrandogli il colletto. Heiji lo sbatté al muro, ma l’intervento dell’altro poliziotto e di Takagi lo fermarono. Il fidanzato di Sato, soprattutto, lo trattenne in modo da farlo indietreggiare abbastanza.
«E voi?» domandò poi, leggermente irritato. Alla sua destra, Heiji, aveva gli occhi in fiamme.
«Che ci fate qui?»
«Ci hanno mandato per sorvegliare Megure» rispose l’altro, sbadigliando. «Non sia mai Kudo si ripresenti di nuovo e faccia una strage.»
Il detective strinse forte i pugni e i denti. «Ma volete capirlo che è senza memoria? Vorrei vedere voi, imbecilli!»
«Hattori, senza offesa, Kudo potrebbe anche uccidere qualcuno... ma tu sarai sempre qui pronto a difenderlo» confessò il poliziotto, seccato. In centrale, Shinichi ed Heiji non erano i beniamini di tutti. Vi era anche chi li odiava, chi li invidiava, chi non vedeva l’ora cadessero, fallissero, per poi approfittare e vivere dei loro sbagli. Per alcuni poliziotti era ridicolo che due detective privati avessero più rilievo di loro nelle indagini. «E non mi pare che l’assenza di memoria sia una giustificazione valida per compiere assassini.» 
«Lui non ha ucciso nessuno», Heiji si impose l’autocontrollo, così come gli diceva sempre l’amico. Ma fu più difficile del previsto trattenere la voglia di romper loro il naso con un pugno in faccia.
«Non ancora» ribatté l’altro, ricambiando l’occhiata ostile. Takagi si interpose tra i due e tentò di allontanarli di nuovo con le mani, ridacchiando nervosamente.
«Piuttosto, dato che siete qui...» spezzò il discorso, guardandosi intorno. «Avete visto le due ragazze?»
Hattori riuscì a calmarsi solo in quel momento. Anche lui, all’entrata, ne aveva notato l’assenza.
«Mmh?» mugugnò quello.
«Le ragazze» rispose Heiji. «Una biondina e l’altra mora, magre... erano qui, l’avete viste?»
«Ah sì», indicò l’uscita il poliziotto più altro, dai tratti tipicamente orientali. «Le ho sentite dire qualcosa sull’Haido Hotel, su un omicidio, e le ho viste fuggire verso là. Una delle due mi ha anche urtato senza chiedermi scusa.»
Heiji corrugò la fronte, insospettito. «Haido Hotel?»
Il poliziotto scrollò le spalle, come a volergli dire che non se ne importava molto di dove fossero andate. Il giovane lo ignorò, per la prima volta. Afferrò velocemente il cellulare e chiamò la fidanzata. Il suono muto dello squillo lo snervò, fin quando lei rispose, con la sua solita voce squillante.
«Si può sapere dove sei!?» la rimbeccò lui, adirato.
«All’Haido Hotel!» rispose con tutta sincerità lei, quasi urlando. «Ho avuto una soffiata che Kudo era qui. E dato che tu eri perdevi tempo...»
«Cosa!? Kudo?!» chiese, sorpreso. Takagi lo osservò con fare preoccupato, mentre gli altri due poliziotti si accesero dalla gioia. Heiji assottigliò gli occhi, pensando che dopotutto lui non era andato a farsi una semplice passeggiatina. «E chi diavolo te l’ha detto?»
«Una ragazzina al bar» confessò, «e le sue amichette. Dicono sia qui per un caso.»
«Ti rendi conto che potrebbe essere di nuovo una trappola, vero!?» le urlò contro il fidanzato. «Torna immediatamente indietro!»
«Ma He...» era sul punto di dire lei, ma la chiamata si interruppe.
«Kazuha?» la chiamò, agitandosi. «KAZUHA!?»
«Hattori...?» gli si avvicinò Takagi, impaurito.
«Dannazione!», Heiji sbatté il telefono a terra e cominciò a correre. Solo prima di svoltare l’angolo riuscì ad urlare all’amico poliziotto di chiamare rinforzi e di dirigersi tutti lì: all’Haido Hotel.
 
§§§
 
Shinichi e Ran riuscirono a fuggire dalla villa senza particolari problemi, considerando che le uniche persone che erano state messe a guardia del detective erano svenute e legate in soggiorno. Quando varcarono il cancello d’entrata, i due notarono una macchina avvicinarsi verso di loro. Si nascosero alla svelta dietro ad un cespuglio, quando l’auto li superò non curante, ignorando la loro presenza. Shinichi fece in tempo a scorgere il volto dell’autista, ormai fin troppo conosciuto. Era Midori, e pareva anche abbastanza agitata.
«Andiamo via, presto» disse alla ragazza, aiutandola ad alzarsi e scappando verso il cancello della villa, ormai aperto. Camminarono per circa venti minuti. Incredibilmente, riuscirono a trovare velocemente la metropolitana per raggiungere Beika e casa di Shinichi. Ran comprese che, alla fine, la villa dove avevano tenuto prigioniero il suo fidanzato era a pochi quartieri da quello natale. Quando scesero a Beika, Shinichi si osservò un po’ intorno, alla ricerca di qualcosa che riuscisse a scuotere la sua memoria.
«Mai possibile io sia vissuto qui e non ricordi nulla?»
«Sono sicura che ricorderai tutto prima o poi», allargò le braccia lei, superandolo e posizionandosi di fronte ad un edificio. Con un sorriso, glielo indicò: «questo è il Teitan, dove abbiamo frequentato le superiori.»
Shinichi lo osservò con un sopracciglio incurvato e le labbra storte in una smorfia. Aveva le mani nelle sacche e il portamento serio e composto, proprio come quando si incamminava la mattina per raggiungere quell’edificio. Ran ebbe l’impressione di rivederlo di nuovo con la divisa azzurrina, la cravatta lievemente allentata e la camicia bianca leggermente sbottonata al collo, come se non fosse passato neanche un attimo da quei giorni passati a dare un calcio ad un pallone e a risolvere casi, che poi gli sarebbero costati la vita.
«Insieme?» chiese poi, osservandola.
«Sì, siamo stati sempre in classe insieme» gli rispose, con un evidente tono entusiasta.
«Ci conosciamo da molto, a quanto pare» dedusse lui, avvicinandosi a lei. Aveva uno strano brillare negli occhi che lo rendeva ancora più affascinante del solito.
«Da sempre» annuì lei. «Talmente tanto, che non ricordo neppure quando ci siamo conosciuti...»
«Neanche io» disse lui, leggermente seccato: «ma d’altronde non ricordo neanche l’altro novanta per cento della mia vita.»
Ran non rispose nulla, e lo trascinò dritto verso casa sua, abbastanza lentamente da permettergli di perdersi un po’ nella fisionomia di quei luoghi, nella familiarità di quella strada e nella moltitudine di luci e colori che la caratterizzavano. Ma non vi erano profumi particolari che potessero risvegliare la sua memoria, né avvenimenti decisivi che sapessero sfiorarla. Lui non disse nulla per tutto il tragitto, abbassò soltanto il capo, leggermente sconsolato. L’unica ancora che lo tratteneva alla sua vita era quella ragazza che aveva davanti, con quei lunghi capelli castani e le movenze dolci e leggiadre. Forse non aveva neanche più senso tornare a ricordare, quando c’era lei che col suo profumo gli regalava ogni volta un momento diverso della sua vita, come la pellicola di un film che poteva rivedere tutte le volte che voleva.
Lei era la depositaria della sua vita. Un fruscio di foglie attrasse l’attenzione del detective, quando la karateka si fermò di fronte ad un cancello in ferro battuto, alto e possente.
«Shinichi» lo richiamò, facendolo voltare. Dietro di lei si ergeva maestosa la villa dei Kudo, nella sua totale bellezza e splendore.
«Bentornato a casa.»
 
 
 
* Traduzione libera by quella rompi di Pri <3  
 
Me:
Eccomi qui! E siamo arrivati a due capitoli dalla fine! Finalmente si è chiarito ciò che faceva tornare la memoria al nostro bel detective, ovvero gli odori - diciamo che credo che il profumo di ciò che ci appartiene ci rimarrà per sempre attaccato addosso, non so se vi è mai capitato, ma io di alcuni ricordi riesco ancora a percepire distintamente gli odori (meglio se sono gradevoli eh eh xD) e non le immagini! - e l'ho portato (Ran l'ha portato ahah XD) nel luogo dove ritengo ne abbia di più di cose da ricordare... casa sua. Mi è piaciuto particolarmente descrivere la parte con Shinichi che scopre la verità, o almeno decide di fidarsi, attraverso Ran e attraverso quello che sente sulla sua pelle :) La sua memoria è parzialmente tornata, vedremo se la sua maestosa villa riuscirà a completare l'opera iniziata dalla sua karateka. Infine, Kazuha si caccia nei guai, perché come una polla crede a ciò che le dicono le ragazzine, o comunque a ciò che sente in giro, e fugge all'Haido Hotel...
Cosa succederà lo scoprirete la settimana prossima, il 13 marzo, col penultimo capitolo! :D
Vi lascio allo spoiler, e vi ringrazio come sempre per le recensioni, per i preferiti e per i seguiti! Un bacione a tutti!


Capitolo Otto: Il luogo dei ricordi
«Ma non è un insulto» pensò lei, come a volerlo zittire ma non ci riuscì. Stava anche indietreggiando senza rendersene conto, con lui che la inseguiva verso il muro. Vi si fermò dopo qualche secondo, appoggiando la schiena al caldo legno intarsiato.
«Neanche antipatico lo è» disse lui. «È piuttosto un’azione-reazione.»
«Che?» chiese lei, divertita, quando le labbra del fidanzato si fermarono a pochi centimetri dalle sue. Shinichi appoggiò le braccia al muro e si strinse verso di lei, imprigionandola sotto il suo corpo.
«Se ti zittissi», e le soffiò sulla bocca, per poi baciarla. «Io diverrei incredibilmente simpatico.»



Tonia


 
 

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Capitolo 8
*** Il luogo dei ricordi ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Ottavo capitolo Eighth chapter Huitième chapitre  Il luogo dei ricordi Octavo capìtulo Achten Kapitel 第八章  여덟 번째 장  


 
«Casa mia...»
Shinichi lo pensò tra sé e sé, ma lo disse ad alta voce; quasi senza rendersene conto, quasi come per convincersene. Quando quella meravigliosa villa si aprì ai suoi occhi fu come un tuffo nel mare oscuro dei suoi ricordi. La sua mente viaggiava, nuotava e ricercava memorie che sembrava aver perso da sempre. Era stato convinto dagli altri che quella villa era stato il teatro delle sue torture, dove avevano abusato di lui. Ma cosa era vero davvero?
“Niente” fu quello che gli disse la mente. Il suo cervello gli parlava, gli sussurrava segreti con cui lui, forse adesso, aveva la chiave giusta per aprirli. Sapeva di doversi fidare del suo istinto ed era anche abbastanza convinto che ne avrebbe trovato la risposta lì, in quella casa.
«Entriamo» disse lei. «È qui che hai vissuto la tua vita».
Lui annuì e la seguì, lasciando che le loro mani si intrecciassero e che lo portassero all’interno. Al di là del portone principale, un misto profumo di agrumi e colonia lo proiettò nella familiarità del posto. E lì ricordò quanto quella casa fosse sua più di chiunque altro. Vide se stesso salire le scale in legno davanti a lui, Ran avvicinarsi minacciosa con una bandana tra i capelli ed uno spolverino in mano per sgridarlo.
«Ancora Holmes?» stava urlando, stufata.
Holmes. Un detective come lui, qualcosa che oltrepassava il semplice personaggio immaginario ammirato: quel nome e il modo in cui risuonava nel suo cervello, erano i pilastri delle sue idee e convinzioni, delle sue esperienze, del suo lavoro. Passarono davanti alla cucina: era in disordine, con ancora alcune macchie di pizza sui mobili e i piatti sporchi nel lavabo. Il detective ne assaporò l’odore ancora prima di vederla. E vide la tavolata con lei vicino, poi il buio, un colpo alla testa. Istintivamente portò le mani al capo per proteggersi: era proprio dove aveva la ferita, ormai rimarginata.
«Seguimi» gli disse Ran, distraendolo da quei pensieri. «Adesso ti porto nel tuo covo. Credo che tu abbia passato più tempo qui che in qualsiasi altra parte del mondo.»
Aprì una porta in legno, e Shinichi fu travolto dall’odore forte e allo stesso tempo particolare di libri nuovi e libri usurati. E vide se stesso leggerli sulla poltrona in vimini e i piedi appoggiati alla scrivania, e i fascicoli dei casi che aveva risolto e stava ancora risolvendo. E una pila di libri più ordinata di altri, quelli che portavano come iscrizione “Arthur Conan Doyle”. Il detective vi si avvicinò, facendo scivolare l’indice sulla loro copertina e gustandone il cartone ruvido sotto la sua pelle.
Poi il suo cuore accelerò: vide un bambino, occhialuto, rifugiarsi dietro la scrivania e mettersi degli occhiali; e Ran che lo abbracciò, chiedendogli come si chiamasse.
«Conan Edogawa» rispose il piccolo.
“Me” pensò. E vide i detective boys, e il professore e i loro infiniti campeggi. Il dolore squarciante al fianco destro e l’odore intenso di polvere da sparo nell’aria: una pallottola che gli aveva sfiorato il rene, la corsa in ospedale e i volti di chi aveva vicino preoccupati e tremanti.
«Io ho il suo stesso gruppo sanguigno» sentì dire da lei, sempre lei, quella che c’era sempre. Ricordò di una ragazzina ramata dallo sguardo truce che piangeva sul suo petto chiedendogli perché non fosse riuscito a salvare sua sorella.
«Tu, che sei così bravo» balbettava, lacrimando. «Tu, col tuo intuito! Perché?»
“Akemi” pensò. “Shiho”, la vide, che gli preparava l’antidoto, che leggeva riviste di moda con aria seccata e che sbuffava ad ogni suo sorriso.
E seguì così la curva dei libri, accanto ai quali una bottiglia di Paikal, mezza vuota, era lì come trofeo. I suoi occhi sgranarono nell’osservarla, ripensando al primo flashback che aveva avuto diversi giorni prima, quello che l’aveva fatto svenire tra le braccia di Midori. Quello più doloroso in assoluto.
«È quella che ti portò Hattori anni fa» lo informò Ran. «Hai voluto tenerla, come simbolo di ciò che ti è successo.»
«L’organizzazione.» Sussurrò solamente, afferrandola.
«Sì», gioì lei, rilasciando un sorriso pieno di felicità. Stava ricordando tutto. «Conan Edogawa, l’organizzazione... te lo ricordi, vero?»
E poi il nero pece si aprì intorno a lui. La testa cominciò a girargli, e tutto si colorò man mano di forme indistinte: due uomini vestiti di nero come corvi, che lo stordivano. La loro base e il loro covo, il loro capo, e tutto ciò che ne aveva seguito. La loro sconfitta.
La sua rinascita, il dolore di tornare ad essere se stesso: un po’ come quello che stava avvertendo in quell’istante nella sua mente.
Lui non le rispose, ormai non ne aveva più bisogno. Avvertì il freddo della bottiglia di liquore sulle dita, e lentamente la stappò, inondandosi le narici del suo odore forte e acido. Le fitte partirono immediatamente, accompagnate dallo sbiadirsi rapido della vista e di ciò che lo circondava. Ma stavolta il detective resistette, e non si accontentò del solo profumo: fece scivolare il liquore nella sua bocca come ghiaccio sul fuoco, così velocemente da pietrificargli la testa. Shinichi sgranò gli occhi e strinse i denti, reprimendo la voglia di urlare. E mentre il suo capo gemeva di dolore, come se mille spine gli si fossero conficcate nella mente, dinanzi a lui si aprì una nuova scena. Riuscì a lasciar aperto un occhio per guardare, ma era tutto sfocato. Vide la stanza in legno di una casa, una decina di persone, sentì il suo respiro soffocato; improvvisamente gli fece male tutto, anche il corpo. Da freddo lo avvertì terribilmente caldo.
Poi una voce, la stessa che aveva sentito nel primo flashback, la stessa che aveva conosciuto al porto. Era Hattori.
«Che ti prende, Kudo?» gli stava dicendo, con un tono che man mano si sfumava di preoccupazione. «E si può sapere come facevi ad avere tutte le informazioni sul caso?»
Shinichi avvertì la sua stessa tosse da lontano, senza però farla davvero. Poi virò gli occhi leggermente verso destra, dove un’altra voce lo stava rimproverando. Non riuscì a capirla né a captarla. Era come se quell’odore fosse strettamente legato al giovane dalla carnagione olivastra, e non rivelasse altri ricordi.
«Comunque... devo farti i complimenti», il viso di Hattori si schiarì, assieme alla sua voce, che assunse un tono completamente diverso da tutte le volte che l’aveva sentita. Scorse in lui qualcosa che non aveva mai avvertito prima con nessun altro. Era stima. «Mi hai battuto su tutto, ciò che si dice di te è vero... sei davvero un grande detective.»
Le pareti della biblioteca della villa tornarono intorno a lui, accartocciato su stesso a terra dolorante, con i denti e i pugni serrati. Vide la figura di Ran accasciarsi a lui e chiedergli come stesse, ma non prima che le sue ultime parole gli risuonassero nella mente:
«Sciocco... quando si tratta di deduzioni, non esistono né vincitori né vinti. La verità è sempre una sola.»
Poi la luce. Forte, chiara, e tutto tornò come prima.
«Ran» disse in un soffio, sorreggendosi il capo. Riprese a respirare normalmente solo dopo una manciata di minuti.
«Oddio, Shinichi!», lo aiutò ad alzarsi, con fare preoccupato, ma lui si scostò. Aveva lo sguardo basso e le mani leggermente tremanti, ma sembrava sicuro di sé, come non lo era da tempo.
«Ran» ripeté ancora, come se fosse l’unica cosa in grado di dirle.
«Ti senti bene?»
Shinichi sorrise. Era uno dei suoi soliti sorrisi, un misto tra sicurezza e spavalderia, ironia e decisione. E così lei capì tutto ancora prima che lui glielo dicesse:
«sono tornato, sono io».
 
§§§
 
«Che ne facciamo della ragazza?»
Il corpo inerme e privo di sensi di Kazuha, steso a terra in modo scomposto, era accerchiato dagli uomini che avevano rapito Shinichi, al cospetto di Akira.
«La stessa fine che faremo fare al fidanzato» rispose loro, osservandola dall’alto verso il basso, con ancora in mano la pistola stordente e il razzo elettrico che la dominava. L’uomo diede uno sguardo all’entrata dove aveva visto fuggire via Midori. Si chiese quali fossero le vere intenzioni di quella ragazza: l’aveva incontrata poco dopo la morte di suo fratello, e se n’era invaghito fin da subito, fin da quando aveva capito che anche lei odiava quei detective così sbruffoni e saccenti, convinti di possedere tutta la verità a portata di tasca. Ma da quando Shinichi Kudo era stato stordito, ed il piano era iniziato, il suo atteggiamento era cambiato radicalmente. Aveva accettato la condizione della farsa della fidanzata del detective giusto per amore della sua vendetta, convinto che potesse davvero servire per non confonderlo, ma sospettava che dietro quella recita ci fosse di più di quello che lei gli dicesse.
«Rinchiudetela nella cella», la indicò con un schiocco di dita ed una leggera inclinazione del capo. «Intanto noi cerchiamo un modo per far ritrovare ad Hattori la sua fidanzata.»
Gli uomini annuirono, trasportando la giovane per le braccia verso la cella frigorifera del ristorante. Akira fece qualche passo verso questa, fermandosi per recuperare il cellulare dalla tasca. Compose velocemente un numero, portando l’apparecchio all’orecchio sinistro.
«Si può sapere dove sei andata?» chiese a Midori, dall’altra parte della cornetta.
«Shinichi è... scappato» rispose lei, in preda al panico, camminando su e giù per la villa a passo svelto.
«Ha recuperato la memoria...?» dedusse l’uomo allora. Midori non gli rispose subito. Imponendosi il raziocinio, si fermò di sbotto e cominciò a pensare, inspirando ed espirando per calmarsi.
«No», disse lei con decisione, talmente tanta che stupì anche se stessa. «L’ho trovato, è qui.»
Lui inarcò un sopracciglio. «E dov’era?»
Lei fece un sorriso sadico, sfumato d’ira. «Nel suo letto a dormire» disse, poi staccò velocemente la chiamata. Dal basso di un comodino recuperò una beretta che nascose sotto la camicia e un coltello che si infilò nei calzini. Indossando velocemente una giacca, si guardò per l’ultima volta allo specchio della camera che aveva finto fosse sua e del detective.
«Andiamo a trovare i due fidanzatini.»
 
§§§
 
«Ti è tornata la memoria?» pronunciò lentamente Ran, quasi per paura che potesse non essere vero. Shinichi era di fronte a lei con il corpo un po’ tremolante ma lo sguardo sicuro di chi sapeva dove stare e con chi stare. «Davvero?» gli chiese ancora, quasi piangendo, col labbro arrossato di sangue sotto i denti bianchi e dritti.
Il detective le si avvicinò, ma non proferì parola. Quando le baciò le labbra, le sussurrò in quel tocco tutto ciò che avrebbe voluto dirle in tutti quei giorni: dello smarrimento, della paura di non sapere chi essere, della tortura mentale che aveva ricevuto, di ciò che lo avevano convinto. Ma tacque ed il profumo alla fragola misto all’odore del Paikal, che avevano dato vita alla sua rinascita, lo trascinarono in un turbine di emozioni e pulsioni che aveva represso per fin troppo tempo. E non smise di baciarla, nemmeno quando non ebbe più fiato per farlo ed avrebbe avuto bisogno di una pausa. Ed avrebbe voluto continuare, anche quando lei si ritrasse, con gli occhi lacrimanti.
«Dimmi che non è un sogno.»
Lui sorrise e le catturò di nuovo le labbra, strappandole un morso. Ran gemette e singhiozzando di nuovo, strinse le dita intorno alla stoffa della sua maglia.
«Sapevo... lo sapevo che tornando qui ci saresti riuscito» mormorò tra un bacio ed un altro lei, mentre lui avrebbe soltanto desiderato ziitirla. Glielo fece capire, ma in modo scherzoso, nello stesso tono che lo contraddistingueva da sempre, con quella frase che le ripeteva da una vita: «smettila di parlare, sei fastidiosa» mormorò, sorridendole. Lei si finse offesa, staccandosi da lui con una spinta.
«Antipatico» disse, mettendo il broncio.
«Logorroica» ribatté lui, divertito.
«Ma non è un insulto» pensò lei, come a volerlo zittire ma non ci riuscì. Stava anche indietreggiando senza rendersene conto, con lui che la inseguiva verso il muro. Vi si fermò dopo qualche secondo, appoggiando la schiena al caldo legno intarsiato.
«Neanche antipatico lo è» disse lui. «È piuttosto un’azione-reazione.»
«Che?» chiese lei, divertita, quando le labbra del fidanzato si fermarono a pochi centimetri dalle sue. Shinichi appoggiò le braccia al muro e si strinse verso di lei, imprigionandola sotto il suo corpo.
«Se ti zittissi», e le soffiò sulla bocca, per poi baciarla. «Io diverrei incredibilmente simpatico.»
Ran rise, mentre assaporava la sua lingua tra i denti e la sua saliva sulle gengive. Lo avvertì desideroso, non più preoccupato o torturato da fitte dolorose, soltanto voglioso di qualcosa che bramava da tanto. E quel qualcosa era lei. E quando se ne rese conto, il suo cuore accelerò velocemente, colpito da scosse continue di adrenalina, che le donarono il coraggio necessario per accontentarlo: fece scivolare le mani tra i suoi capelli corvini e col corpo si slanciò verso di lui. Shinichi le afferrò le gambe e la sollevò, attraendola a sé. Fece qualche passo all’indietro per controbilanciare il peso, poi si incamminò verso la porta di fronte. Sapeva benissimo dove andare e senza alcun dubbio vi si diresse. I lunghi capelli gli solleticavano le spalle, mentre la sua bocca gli sfiorava il collo e le guance arrossate e calde. Caddero insieme sul materasso della stanza del detective, che scricchiolò al loro peso e si inarcò sotto i loro movimenti. Si spostarono sino ai cuscini, dove la schiena di Ran si inarcò e permise alla maglia di scivolare via, sotto le spinta delle dita di Shinichi. Lo imitò, incespicando con la sua maglietta e la testa, scompigliandogli i ciuffi dei capelli neri, ma non ci badò. Non si fermò e non lo fermò, desiderava più di ogni altra cosa al mondo essere nuda al suo cospetto in quel momento. Come se fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto nella vita.
«Ran» sussurrò lui con dolcezza, sfiorandole col fiato la linea delle labbra. La giovane gemette sotto il suo corpo, rilasciando un sospiro al suono del suo nome.
Shinichi le strinse il capo tra le mani, socchiudendo gli occhi e trattenendola a sé.
«Grazie» disse soltanto e lei capì.
“Grazie di aver sempre creduto in me”.
 
§§§
 
La cucina del ristorante era stranamente vuota. Heiji avanzò con cautela, rendendosi conto che quella sarebbe potuta essere l’ennesima trappola organizzata dal suo migliore amico, passato ormai alla parte oscura della giustizia e dell’investigazione. Ci aveva rimuginato tutta la notte, ed ancora non riusciva a capacitarsene: Shinichi sarebbe mai potuto tornare ad essere se stesso? Era stupido e forse smielato da pensare, ma gli mancava davvero.
Gli mancava parlare con lui dei casi, delle ragazze e degli sport. Gli mancava sfotterlo per quello che combinava con Ran e gli mancava esser sfottuto per ciò che lui aveva combinato con l’altra. Gli mancava vederlo illuminarsi per un caso, e gli mancava concludere le sue frasi con le sue parole.
Era sempre stato l’altra metà di lui, l’unico che potesse davvero capire le sue passioni, le sue idee e i suoi principi, e l’unico che in qualche modo riuscisse anche a condividerle.
“Non può essere finito tutto così” pensò, stringendo i pugni con rabbia.
Scosse il capo poi, liberandosi di quei pensieri, per concentrarsi soprattutto sulla ricerca delle ragazze.
«Kazuha? Miyano?» le chiamò, prima a bassa voce, poi con più forza. «Kazuha, dove siete!?»
Si girò intorno, avvertendo dei lamenti provenire da una porta in ferro blindato di colore bianco. Corse velocemente verso di essa, mentre i gemiti si fecero sempre più forti. Batté alla porta, chiamando la sua fidanzata con molta più tenacia e paura.
«Kazuha!? Sei qui dentro?!»
Dalla porta sopraggiunse una voce flebile e stanca. «Heiji?» disse con stanchezza, ma era lei. Il detective sorrise, rinfrancato.
«Kazuha! Aspettami, non ti muovere! Adesso apro la...» non concluse la frase, rendendosi conto di trovarsi di fronte ad una cella frigorifera. Alla sua sinistra vi era un termometro: la temperatura indicava meno venti gradi centigradi. Sbiancò, impaurito. Perché Kazuha era lì dentro? Quando aprì la porta, vide la ragazza in un angolino, stretta su se stessa, con alcune ferite sul corpo e sul volto. Il suo pallore, e i denti bianchi che sbattevano continuamente sul labbro ferendolo, gli certificarono quanto freddo stesse sentendo.
«Heiji» piagnucolò, terrorizzata, con le mani legate ad un tubo d’acqua lì vicino. La corda le stringeva talmente i polsi che si era formato un alone rosso intorno, che unendosi al freddo polare, le aveva spezzato la pelle in diversi punti facendo fuoriuscire del sangue.
«Kazuha!» Il detective corse verso di lei, senza ragionare oltre su quello che stava accadendo. Appena fu vicino alla sua fidanzata, la porta della cella si chiuse, e qualcuno da fuori immise un codice di sicurezza. Sebbene fosse appena entrato, Heiji avvertì i brividi trapassargli la schiena e il corpo reclamare caldo e protezione. Guardò la porta, esterrefatto, sentendosi infinitamente stupido.
La sua fidanzata era priva di forze, con le labbra e le occhiaie violacee, e lui non avrebbe potuto fare più nulla per salvarla. Provò ad operare le prime manovre di pronto soccorso: cercò di farla stare sveglia, cercò di coprirle il corpo con la sua giacca in modo da trattenerle il calore, ma non servì a nulla. Quando ebbe urlato per due tre volte in cerca di aiuto, si rese conto che era finita.
Abbassò le palpebre, e dopo averla liberata dalla corda che le stringeva il polso, l’attrasse a sé e la cullò sul suo petto. La sentì piangere e mormorare il suo nome con debolezza, mentre il freddo pungente rubava via quei pochi segni vitali che le rimanevano. A giudicare dall’apparenza, era lì già da circa mezz’ora. Ciò significava che le rimanevano solo diversi pochi minuti di vita, per poi morire per ipotermia. E a lui invece restava fin troppo tempo. Avrebbe visto spegnersi la sua ragazza tra le sue mani, ed avrebbe avuto anche il tempo di rimpiangerla. Appoggiando la testa al muro, vide un’ultima volta il volto del suo migliore amico farsi spazio nella sua mente.
“Che sono terribilmente impulsivo te lo ricordi bene però...”, strinse le dita sulle spalle della sua ragazza, stringendola a lui. Si morse le labbra, digrignando i denti come arrabbiato e rattristito allo stesso tempo, mentre lacrime gelate gli bagnarono gli occhi smeraldo. “Vero... Kudo?”
 
§§§
 
La mano destra di Midori oscillava dolcemente sotto il peso della pistola, muovendosi a passo con le sue gambe e il suo corpo, di fronte alla villa in stile occidentale dei Kudo. Fece ruotare il silenziatore davanti alla canna dell’arma, sparando un colpo sulla serratura del cancello, aprendola. Camminò lentamente verso il portone principale, deliziandosi del solo rumore dei suoi passi sui mattoni luminosi di tramonto. Quando fu davanti alla porta, la aprì sparandole. Entrò così nella villa, assaporando per qualche istante l’odore caldo di famiglia e quel profumo agrodolce che aveva sentito anche sulla sua pelle, quando s’erano baciati giorni e giorni prima.
“Mi hai così deluso” pensò tra sé e sé, attraversando l’ampio salone e salendo delicatamente sui gradini. “Io che credevo in te, nella tua giustizia...”
Scivolò con le dita sul corrimani in legno, stando attenta ad alleviare il suo passo sulle scale. Quando fu finalmente di fronte ad una porta socchiusa, con un leggero bagliore luminoso arancio rosso che si insinuava tra le insenature, strinse forte tra le mani il manico della pistola.
Aprì dolcemente la porta, ritrovandosi in una stanza quadrata dall’arredamento classico ma apparentemente lussuoso. Sul letto, tra le lenzuola candide e bianche, vi erano Shinichi e Ran, addormentati. Erano vestiti, uno accanto all’altro, ma non abbracciati. Ran era girata sul fianco verso il suo ragazzo, mentre lui dormiva supino e con le gambe distese.
Midori avanzò verso la mora, alzando la canna della pistola affinché potesse sfiorarle le tempie e i ciuffi dei capelli castani. Il suo respiro regolare era così fastidioso che avrebbe voluto conficcarle la pallottola nei polmoni.
Pressò il grilletto, quando una stretta forte le afferrò il polso e due occhi azzurri la fissarono con freddezza e coraggio.
«Non lo fare. Tuo padre non vorrebbe.»
Midori sbatté più volte le palpebre, inspirando lentamente, come se il tempo si fosse bloccato. Poi abbassò lo sguardo sotto di sé:
«S-Shinichi.»
«Ti riconobbi, poi, sai?» le disse, spostando dolcemente la pistola verso il basso. «La prima volta che ci incontrammo. Ti avevo visto piangere e disperarti per l’omicidio di tuo padre, direttore amministrativo della ditta Midori, tre anni fa. Sei la figlia dell’uomo che il fratello di Akira uccise: Ichigo.»
La giovane dai lunghi capelli cremisi emise qualche sospiro stentato, allargando sempre più le iridi smeraldo. Non era neanche più abituata a sentirsi chiamare così da quando suo padre era stato ucciso.
«Hai... recuperato la memoria?» si accertò, sebbene fosse pienamente consapevole della risposta.
«Sì» disse lui. «Questa casa... è il luogo dei miei ricordi.»
«Lei», indicò Ran col capo e con una smorfia storse il labbro. «Lei lo sapeva e ti ci ha fatto venire, è tutta colpa sua.»
«Non potevi sperare che rimanessi smemorato per sempre» replicò lui, stringendo più forte le dita intorno al suo polso, in modo da non permetterle nessun movimento. «Fin dall’inizio, il processo non ha avuto successo.»
«Di cosa stai parlando?» sputò fuori, con gli occhi arrossati. Si liberò della sua stretta ed indietreggiò di qualche passo, stringendo i pugni. «Quella scienziata, Miyano... l’ho vista utilizzare il siero giusto! Ce l’ha confermato Yuri, che lavorava con lei all’università!»
«Il siero... era sperimentale, e di conseguenza non funziona correttamente» rispose lui, alzandosi dal letto ed avvicinandola. «Sebbene il progetto della macchina fosse in cantiere da un paio di anni, il Giappone ha dato l’approvazione alla realizzazione solo un anno fa. Nel frattempo, gli scienziati che avevano già lavorato al siero della totale eliminazione della memoria, furono licenziati perché il governo aveva ritenuto il progetto pericoloso per un essere umano. Per questo venne assunta Miyano come scienziata, che dal siero iniziale e sperimentale ne ricavò uno molto più lieve, e per niente nocivo all’uomo.»
«E nessuno lo sapeva?»
«No, perché gli scienziati che furono licenziati sono emigrati all’estero, sentendosi offesi. A Miyano è arrivata solo qualche voce di corridoio, ma la verità la conoscevano in pochi.»
Midori deglutì. «E tu...come hai fatto a scoprirlo?»
«Perché io ho lavorato al caso di Akira e Shiro.»
«Non... non capisco.»
«Ti ho parlato di scienziati ed ingegneri che, lavorando al progetto della macchina, sono stati poi costretti ad emigrare, giusto? Durante il caso si scoprì che vi era un terzo fratello, oltre ad Akira e Shiro, Kichi Kitoshi: un ingegnere emigrato all’estero anni prima. Pensa un po’...»
«E... che... che c’entra con...»
«È stato Kichi a rivelargli la verità sulla macchina, in una delle sue piacevoli visite dove era carcerato quell’angioletto di suo fratello.»
La giovane sentì mancare un battito del cuore. «Cosa?!» sbottò, incredula. Scosse il capo e si mise a ridere, come a volergli dimostrare che era impossibile. «Mi stai dicendo che Akira sapeva che tu non avresti davvero perso la memoria?! Ma è ridicolo!»
Lui annuì con decisione. «A lui sarebbero bastati pochi giorni, forse ore, per attuare il suo piano. Lui voleva che io uccidessi Hattori, e solo dopo avermi fatto recuperare la memoria, avrebbe poi ucciso me. Questo... affinché noi soffrissimo allo stesso modo di come hanno sofferto lui e suo fratello anni prima. Affinché anche noi capissimo cosa significa essere mentalmente instabili, così tanto da portarci ad uccidere un amico senza nemmeno rendercene conto. E questo perché avevamo incolpato suo fratello dell’omicidio di tuo padre senza considerare le attenuanti. Ma Akira era stato in prigione poco prima, e non aveva saputo che suo fratello era ormai guarito dalla depressione che lo aveva colpito... e che quell’omicidio era volutamente intenzionale perché tuo padre non gli aveva pagato tre stipendi consecutivi.»
«Non è possibile» sbatté le palpebre Midori, indietreggiando. «Non è vero.»
Shinichi abbassò le palpebre e il capo, prendendosi una piccola pausa. Poi tornò a guardarla, e la sua voce si fece molto più sicura: «Ma qualcosa è andato storto... e quel qualcosa sei tu.»
La giovane fece vibrare i denti, avvertendo man mano l’ira impossessarsi di lei. Akira l’aveva tradita ed ingannata. «Come?»
«Ammetto di non aver capito per quale motivo» disse lui. «Ma per assurdo tu hai rallentato tutto. Dove sarebbero bastate ore, sono passati giorni e giorni. Ed anche la farsa di fingerti Ran... quella è stata una tua idea, non di Akira.»
La donna deglutì, mordendosi un labbro.
«Perché l’hai fatto?» chiese Shinichi. «Perché non gli sei stata fedele?»
«Io...» balbettò lei, mentre sul suo viso si sfumava un colore rossastro, che andava a stonare col nero pece e buio della sua pistola e dei suoi vestiti. «Io... sono sempre stata una tua fan.»
Il detective inarcò un sopracciglio. «Come?»
«Quando mio padre venne ucciso, io ero in Inghilterra a studiare, ma non ho mai smesso di seguirti. Ti adoravo da anni. Così quando scoprii che eri tu il detective che si era incaricato del caso mi eccitai al pensiero che saresti stato proprio tu quello a vendicare la memoria di mio padre e a fargli giustizia. E non rimasi delusa dalla vostra deduzione, che mise in gabbia quello psicopatico, ma allo stesso tempo mi diede l’opportunità di incontrare Akira. Era sconvolto, e dato che aveva davvero avuto pochi rapporti con suo fratello e dunque non sapeva molto di lui, non poté riconoscermi come figlia dell’uomo che Shiro aveva ucciso. Quando lo sentii blaterare minacce su di te, su come avrebbe potuto “portarti dalla sua parte” mi preoccupai per la tua salute, così agii nel modo opposto che una persona normale avrebbe fatto: me lo feci amico. Quando mi chiese il nome, optai per assurdo per quello che più mi avrebbe avvicinato a mio padre... il nome della sua ditta. Gli raccontai una menzogna secondo cui anche io avevo avuto a che fare con te e che volevo fartela pagare, e dopo un paio di mesi di frequentazione, lui si cominciò a sbottonare. Mi disse che avevano inventato una macchina capace di cancellare la memoria ad ogni essere umano, e mi confidò che se fossimo riusciti a sottometterti al processo, tu “saresti passato dalla sua parte”.»
Shinichi assottigliò gli occhi, stranito. «Scusa, ma se eri una mia fan, perché non sei venuta a dirmelo?»
«Non capisci?» sbottò lei, stringendo i pugni e riempiendo le palpebre di lacrime o magari di rabbia. La villa era silenziosa come una chiesa, anche le parole dette più flebilmente echeggiavano. «Se tu avessi perso davvero la memoria, e ti fossi dimenticato di tutto...»
Prese una pausa, come se si fosse resa conto solo in quel momento di quanto stupida era stata.
«Saresti potuto finalmente essere... mio.»

 
 
Me:
Rieccomi qui! Ebbene, siamo già arrivati all'ottavo capitolo :) il prossimo è l'ultimo e sancirà la fine di quest'altra storia, che spero che bene o male sia riuscita a prendervi. Shinichi ha recuperato la memoria grazie sia a casa sua, a Ran, sia al processo che fin dall'inizio non è andato come avrebbe dovuto andare. Ammetto che all'inizio avrei voluto rendere Shin criminale per più tempo rispetto a come ne è poi uscito nella fic, ma non ci sono proprio riuscita... XD In fondo già è stato complicato e forzato farlo così! Hattori e quel genio di Kazuha sono intrappolati nella cella frigorifera, e quella santa donna (?) di Midori giunge a casa Kudo nell'intento di uccidere i due fidanzatini, o forse solo la sua rivale in amore :)
E, in tutto ciò, i due piccioncini hanno trovato un po' di tempo comunque per amarsi, dopo parecchi chap u.u spero che la scena vi sia piaciuta!
E...niente. Ci vediamo tra 7 giorni, col nostro ultimo appuntamento.
Spoiler, e....ciao!! 
Un bacione

«Per caso di qui è passato un ragazzo alto, dalla carnagione olivastra e con un evidente accento di Osaka?!» specificò, agitato e impaurito. Era la caratteristica di Heiji che, per assurdo, lo divertiva di più e che non avrebbe mai potuto ignorare. Quell’accento così strano, che se mai avesse voluto provare ad imitare si sarebbe beccato un bel pugno in faccia, perché ad Hattori dava fastidio che uno di Tokyo potesse parlare come lui, nella sacra lingua del Kansai. Però adesso non era più divertente; quell’accento, adesso, risuonava fastidiosamente nella sua mente e non scemava più via. Adesso lo odiava.
«Ehm... mi sembra di sì» disse l’uomo, stranito dal comportamento del detective. «Ma parecchio tempo fa. È andato verso la cucina.»



Tonia

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Capitolo 9
*** Il profumo dell'infinito ***


T o r t u r e d  M i n d

 
Nono capitolo Ninth chapter Neuvième chapitre  Il profumo dell'infinito Noveno capìtulo Neunten Kapitel 第九章 아홉 번째 장 
 
 
 



Shinichi non capì immediatamente cosa stessa accadendo, né recepì subito le sue parole. Sbatté più volte le palpebre come a cercare di convincersi di aver ascoltato bene, ma aveva perso il filo del discorso e non riusciva più a recuperarlo. Perché avrebbe dovuto essere suo?
«Scusami?» chiese, incredulo.
«Io ti amo, Shinichi» confessò la giovane, il cui vero nome era Ichigo. «Mi sei sempre piaciuto, e all’improvviso si è come materializzato davanti a me uno dei miei sogni più grandi... Io e te insieme, mentre tutto il mondo era il nulla.»
“Questa è pazza” pensò il detective, basito.
«L’ultima cosa che avrei voluto era ammazzarti» confessò ancora la ragazza. «Io ti volevo soltanto mio! Ho seguito tutti i tuoi casi fin da quando eri un detective di poco conto, poco più che quindicenne, io ci sono sempre stata per te e con te, solo che tu non lo sapevi. Ho un diario con ogni caso che hai risolto, e con una tua foto sul luogo del delitto.»
Shinichi rabbrividì, e indietreggiando, “ok, questa è totalmente pazza” si disse.
«E da sempre sei affiancato da lei» strinse i denti, stizzita. «Cosa ci trovi in lei? È una fifona, ha paura di tutto, piange sempre, non ha un minimo di intuito! Lo so che adesso ti sembrerò pazza...»
“Ma dai” la sfotté mentalmente, cercando di mantenersi serio.
«Ma sono abbastanza sicura che sia io la donna perfetta per te! D’altronde qualche giorno fa, c’era una bellissima sintonia tra noi. Lo ricordi no?» sorrise, con convinzione, ma Shinichi rimase impassibile, con lo sguardo glaciale.
«Non ricordavo nulla, mi hai spinto a credere fossi tu la mia ragazza» disse. «Ma posso assicurarti che per te non provo nulla, e questo lo sentivo distintamente... anche se non ricordavo niente.»
La tristezza si impossessò del volto di Midori. «Cosa?»
«Non proverò mai niente per te, nemmeno se mi forzi a crederlo. L’amore non si decide. Invece...» e sorrise, dando uno sguardo a Ran, ancora addormentata sotto di loro, «...appena ho visto la fifona qui presente, è stato diverso. Non saprei spiegartelo, è qualcosa che va oltre la mia razionalità.»
«Ma io...»
«Mi dispiace interrompere questa tenera e sdolcinata conversazione», una voce interruppe quella di Midori, che sbiancò e girò il capo di scatto, ritrovandosi di fronte alla figura robusta e alta di Akira.
«Ma dato che Kudo è riuscito ad ammazzare il suo migliore amico, adesso io dovrei ammazzare lui.»
 
§§§
 
Gli uomini di Akira esultarono in silenzio, sorridendo e ridendo alla vittoria della missione. Lasciarono velocemente il posto, assicurandosi che nessuno li vedesse fuggire via e cominciarono a canticchiare strane canzoni in rotta verso la macchina.
«Siamo stati dei grandi!»
«Vero!» replicò un altro, entusiasta, quando poi, guardandosi intorno, disse sconcertato: «Ma Akira dove è andato? Non lo vedo più.»
«Veramente se ne è andato già da parecchio» lo informò un altro, con un’evidente nota di fastidio. «Noi facciamo il lavoro e lui si prende il merito.»
Perfino un altro di loro annuì, aprendo la portiera dell’auto con la chiave. Ma una voce li fermò e li fece voltare all’unisono.
«Buongiorno, signori» disse.
Dietro di loro vi erano Sato, Takagi e Shiratori. Affiancati da decine di poliziotti.
 
§§§
 
“Hattori”, il suono del cognome del migliore amico risuonò nella sua mente come un’eco lontano e martoriante. Fu come cadere nel vuoto, senza nemmeno poter godere della sensazione che prima o poi sarebbe finita in uno sfracello. Shinichi stava precipitando dentro di sé, senza direzione o senso, continuava soltanto a precipitare, e a perdere tutte le sue funzioni cognitive. “Hattori.”
«Akira!» sbottò Midori nel vederlo avvicinarsi, mentre il detective era impallidito e cominciava a sudare freddo. Con tutto quello che era successo in quella giornata, aveva completamente dimenticato di aver suggerito, tempo prima, a quella banda di criminali il modo migliore per poter uccidere Heiji. Il suo corpo cominciò a tremare, colpito da un improvviso attacco d’ansia: alla fine, l’aveva ucciso davvero?
“No, non è possibile” rise, incredulo, cercando di auto convincersi. “Non posso averlo fatto davvero... non a lui... n-non è vero...”
«Che bel quadretto.»
«Akira, stai calmo» provò Midori. «Sai che tuo fratello ha ucciso volontariamente? Questa è una follia ormai, lasciamola perdere, ti prego!»
“Non so nemmeno dove l’hanno portato...” pensò tra sé e sé con le iridi azzurre divaricate, ignorando completamente l’uomo che avanzava verso di lui. “Ieri stavano dicendo qualcosa sul terrazzo...”
«Pazza ci sarai te» sputò fuori l’uomo arrabbiato.
«Akira... ti prego...»
«E dunque eri innamorata di questo qui?» rise il criminale, come se si stesse divertendo, «mio dio, Midori o come cavolo ti chiami, sei proprio pessima.»
«Non azzardarti a fargli del male!» sbottò ancora lei, lacrimando impaurita. «Lui non c’entra! Ha fatto solo il suo lavoro, il suo dovere!»
«Anche Hattori aveva fatto soltanto il suo dovere. Com’è che non ti vedo in pena per lui?» la sfotté Akira, mentre Midori indietreggiava lentamente verso Shinichi, con le gambe che la reggevano appena. Akira puntava contro di loro una pistola, ma lei aveva ancora la sua tra le dita, ed avrebbe potuto utilizzarla. Ma Shinichi aveva detto che suo padre non sarebbe stato fiero se avesse ucciso qualcuno, ma se avesse ucciso un criminale? Così alzò anche la canna della sua pistola verso il suo socio delinquente, che sorrise con spavalderia, piuttosto che impaurire.
«Brava, uccidimi pure» rise, soggiogandosi di loro. «Così Kudo avrà sulla coscienza due omicidi anziché uno. Dimmi, detective, come ci si sente ad aver ucciso il tuo migliore amico?»
Shinichi non rispose, incapace a recuperare tutta la sua sicurezza e audacia per cercare di zittirlo. Aveva davvero ucciso Hattori? Lui che gli era rimasto sempre accanto, lui che era corso quando l’aveva sentito al cellulare, lui che era caduto nella sua trappola perché si fidava troppo del suo amico, lui che l’aveva sempre aiutato, lui che da sempre era stato dalla sua parte?
«Ma dai, hai capito tutto poi» sussurrò Akira. «Io volevo farvi provare esattamente le stesse emozioni che abbiamo provato io e mio fratello. Io volevo portarti “dalla mia parte”, sì, ma non dalla parte della criminalità... ma nel mondo in cui non esistono funzioni mentali precise e funzionanti... laddove non ti accorgi di quel che sta accadendo, dove la razionalità non esiste!»
Premette l’indice sul grilletto, puntando alla sua testa. «E se anche io adesso non ti uccidessi, tu moriresti di questo: per le torture che la tua mente ha ricevuto, per l’impossibilità a vivere con la consapevolezza di aver ucciso una delle persone più care che avevi» disse, come se stesse sputando veleno. «Dunque, ringraziami anche, Kudo. Ti risparmio il dolore...», e premette il grilletto.
Ma il colpo non raggiunse mai il cervello del detective. Midori aveva sparato nello stesso momento, e Ran si era alzata, facendo crollare a terra Akira, salvandogli la vita. Tutto successe nel giro di qualche secondo: diversi poliziotti entrarono in camera coi fucili alle mani, puntandoli contro Midori e Akira, mentre Ran assestò un colpo alla nuca del criminale, privandolo dei sensi.
«Dovevo agire in questo momento, vero, Shinichi?» chiese conferma al fidanzato, come preoccupata, perché non poté fare a meno di notare il suo sguardo perso e vuoto. «Shinichi?»
«Noi siamo entrati nel momento giusto, vero, Kudo?», domandarono invece gli agenti, compiacendosi tra loro per come la missione fosse andata.
Midori osservò il tutto con incredulità, mentre i poliziotti la disarmarono e le puntarono due fucili alla testa, obbligandola a stare ferma. Le sue mani vennero intrappolate in delle manette troppo strette per poter pensare ad altro. Ma lei non ci badò, il suo sguardo era solo per il detective.
E lui era come se non fosse lì.
«Shinichi...» disse Ran, alzandosi ed avvicinandolo. «Ehi...»
«Dove sono?» chiese lui improvvisamente, come destandosi da un incubo. «Gli ispettori Sato e Shiratori non ci sono. Loro dovrebbero condurre le missioni in assenza di Megure. Dove sono andati?»
«Ehm...» balbettò uno dei poliziotti, in difficoltà. «Alla centrale ho sentito che vi era un’emergenza all’Haido Hotel.»
«Heiji.» Disse spontaneamente il suo nome, senza neanche rendersene conto. Superò i poliziotti velocemente, scontrandosi con le loro spalle, sperando che si attenessero al protocollo che lui aveva suggerito loro poche ore prima: arrestare Akira e Midori, e portarli in centrale. Ma non era quello il momento di pensarci. In realtà, quello non era il momento di pensare a nulla.
Non ragionò mentre prendeva la sua moto e accendeva il motore, non ragionò vedendo Ran seguirlo e saltare in sella, non ragionò quando sfrecciò velocemente per le strade di Tokyo, rischiando tamponamenti ed incidenti. In fondo, ammise, era tremendamente impulsivo anche lui, a volte. E gli succedeva solo in due casi, lo sapeva: Ran, intoccabile e sua, e Hattori, che a modo suo e di soppiatto era entrato dentro di lui, sconvolgendogli la vita. La sua mente non connetteva più nulla, aveva un solo ed unico obiettivo: trovarlo, parlargli, salvarlo.
Quando arrivò all’Haido Hotel, il sole era ormai calato del tutto. Il cielo si era sfumato di azzurro-blu, le numerose stelle lo illuminavano con eleganza e dolcezza al cospetto di una meravigliosa luna piena. Lasciò andare la moto senza cura, facendola sbattere a terra, non curandosi dei passanti che lo guardarono allibiti.
Corse verso l’interno, seguito da Ran, che durante il tragitto e per tutto il tempo non gli aveva chiesto né detto nulla. Il detective si fermò improvvisamente, chiedendosi da che parte dovesse andare e dove potesse essere. Poi ricordò, mentre il suo cuore accelerava: “cella frigorifera”.
Fece scattare le gambe in avanti, dritto verso il ristorante dell’albergo, che ricordava fosse al piano inferiore. Quando il receptionist gli chiese cosa volesse, Shinichi si fermò un istante per metabolizzare cosa stesse accadendo. Guardò l’uomo con gli occhi spalancati e il fiatone, il viso pallido e le mani tremanti.
«Per caso di qui è passato un ragazzo alto, dalla carnagione olivastra e con un evidente accento di Osaka?!» specificò, agitato e impaurito. Era la caratteristica di Heiji che, per assurdo, lo divertiva di più e che non avrebbe mai potuto ignorare. Quell’accento così strano, che se mai avesse voluto provare ad imitare si sarebbe beccato un bel pugno in faccia, perché ad Hattori dava fastidio che uno di Tokyo potesse parlare come lui, nella sacra lingua del Kansai. Però adesso non era più divertente; quell’accento, adesso, risuonava fastidiosamente nella sua mente e non scemava più via. Adesso lo odiava.
«Ehm... mi sembra di sì» disse l’uomo, stranito dal comportamento del detective. «Ma parecchio tempo fa. È andato verso la cucina.»
Shinichi sentì le gambe tremare, ma le obbligò a correre verso quella dannata cella frigorifera per salvarlo. Superò la cucina con velocità sorprendente, lasciando cadere dietro di sé pentole e forchette, e obbligando Ran ad evitarle per non inciamparci dentro. Quando furono davanti alla cella frigorifera, Shinichi cominciò a bussarci dentro con violenza.
«Hattori!?»
Ran deglutì, terrorizzata, rendendosi conto che dall’altra parte non proveniva nessuna risposta. Vi era un silenzio tombale, spezzato soltanto dal respiro pesante di Shinichi e dal cognome di Heiji che echeggiava nell’ambiente con angosciante paura. Il detective si rese conto che c’era un codice per aprire la porta, da inserire in un tastierino numerico alla sua destra. Un codice. Un codice a dividerlo dal suo migliore amico.
Provò tutte le parole che gli vennero in mente in quel momento, cercò di ragionare e pensare ma la sua mente non connetteva e non aveva alcuna intenzione di sforzarsi.
«Hattori...» mormorò, con le parole che gli morivano in gola e il fiato che si fermava e i polmoni che si strinsero su se stessi. Si accasciò sulle sue ginocchia, lasciando strisciare le dita e le unghie sulla porta blindata della cella frigorifera, mentre uno stridulo rumore di ferro spezzava il silenzio di quella cucina al piano inferiore dell’Haido Hotel.
«Shinichi...» lo chiamò Ran, mentre le lacrime le bagnarono copiosamente le guance. «Shinichi... Hattori è...» ma non riuscì a concludere, perché ormai era inutile anche parlare. Il detective infatti non la sentì: il suo sguardo era preso dalla porta e dalla sue unghie conficcate in essa.
“Heiji...” pensò, col palato secco e le fauci aride. “Heiji, non tu... non io...”
Poi i suoi occhi si spalancarono improvvisamente: “ma Sato e Shiratori, chi li ha...” pensò, quando la sua mente ebbe la facoltà di ragionare per un secondo, ma una voce lo fermò, e non gli diede il tempo di concludere.
«Ma che stai facendo?» disse, e Shinichi si voltò, e il suo cuore si bloccò improvvisamente. Quell’accento di Osaka, quella voce. Heiji era dietro di lui, sorridente, con solo una coperta sulle spalle. Heiji era lì, e dietro di lui vi erano Kazuha e Shiho.
«Hattori!» sbottò entusiasta Ran, piangendo dalla gioia, mentre Shinichi era paralizzato dalla sorpresa.
«Si può sapere perché Kudo urla il mio nome? Mi ha stonato un timpano!» ridacchiò, mentre le due ragazze accennarono un lieve sorriso.
Shiho aggiunse con una ben velata gioia: «credo che sia tornato ad essere lui», mentre Hattori scosse il capo, «il vecchio Kudo non avrebbe mai urlato il mio nome in questo modo, quindi è probabile sia impazzito» disse, e sorrise.
Shinichi si chiese se stesse sognando o meno, e gli venne una gran voglia di chiedere a qualcuno di loro se potessero dargli un pugno, tanto per capire se riuscisse a provare dolore. Ma ciò che aveva avvertito quando aveva pensato che lui fosse morto era troppo vero per non essere realtà.
«Ma... c-come hai fatto a salvarti?»
Lui indicò col capo Shiho. «Ci ha salvati lei.»
«Miyano?» la chiamò Shinichi, e lei riconobbe la stessa intonazione che metteva sempre quando la chiamava. Era proprio lui.
«Ho seguito Toyama verso l’albergo, ma lei non se ne è accorta. Quando sono arrivata, una banda di criminali l’ha tramortita e legata nella cella. Io ho aspettato in disparte che se ne andassero, ma ho capito che stavano aspettando che Hattori arrivasse per ucciderli definitivamente. Così ho pensato che era meglio aspettarlo - dato che da sola contro una decina di uomini armati potevo far nulla, far credere a loro che il piano fosse riuscito e poi salvarli. Intanto ho chiamato la polizia, che li ha prontamente arrestati all’uscita dell’albergo. E per fortuna, ero lì quando hanno inserito il codice per intrappolarli e rallentare i soccorsi. Per la cronaca, era “morte”. Direi che la fantasia non è il loro forte.»
«Ci stavo per rimettere le penne» rise Heiji, come se non fosse accaduto nulla, mentre Kazuha gli regalò un’occhiata truce. Era incredibile come il suo fidanzato riuscisse a minimizzare le cose.
«Ma piuttosto, perché sei qui ad urlare il mio nome tu?» chiese all’amico, con una vena di allegria. «E come hai fatto a recuperare la memoria?»
«Io...», Shinichi era a corto di parole. Aveva fatto una corsa pazzesca, terrorizzato all’idea di aver ucciso il suo migliore amico, aveva superato tutti i limiti orari e lasciato dieci poliziotti con due criminali in casa sua. Aveva passato giorni infernali, dove ignorava chi davvero fosse stato, dove aveva vissuto con dei delinquenti, e dove per poco non aveva mandato a monte tutti i suoi più cristallini principi. Era così stanco e stressato che avrebbe potuto addormentarsi anche all’in piedi.
“Perché tutte a me...”
Fece scivolare le gambe sul pavimento, appoggiando la schiena alla porta della cella frigorifera, e premendosi il capo tra le mani.
«Perché succedono tutte a me?!» sbottò, e dopo un attimo di stupore generale, strappò un riso a tutti.
Anche a se stesso.
 
§§§
 
«Oh, tutto è bene quel che finisce bene» sorrise Hattori, allegro come poche volte era stato prima d’allora. Era forse la sensazione di aver ritrovato il suo migliore amico, che stranamente lo stava evitando da quando s’erano incontrati, la convinzione che la giustizia avesse vinto di nuovo sulla criminalità, o magari la bellezza di vivere la vita quando poco prima hai avuto l’opportunità di morire.
«Dunque sono stati tutti arrestati, no? Non c’è possibilità che vadano ancora in giro a privare la gente della loro memoria?»
«No» accertò Sato, concludendo di scrivere il suo rapporto giornaliero. Da quando Megure era stato in ospedale, tutto il lavoro era gravato su lei e Shiratori. Takagi si godeva i benefici di essere ancora un agente, senza le responsabilità degli ispettori: per qualche attimo, lo invidiò. «Le telecamere messe in giro per Tokyo sono state tutte recuperate. Anche il proprietario del Pandemonium è stato arrestato, e la macchina adesso è sotto sequestro. E difficilmente tornerà a privare la gente dei suoi ricordi. Vedremo un po’ che ne penserà il governo.»
«Ma la denuncia nei confronti di Kudo è stata ritirata, no? Quei poliziotti l’hanno capito che doveva essere assolto da ogni accusa?»
«Sono stati mandati appositamente nella missione a casa sua per ascoltare tutto ciò che avevano da dire con Akira. Si sono ricreduti.»
«Oh, ma è una bellissima notizia!» squittì il detective, voltandosi verso l’amico, che però distolse lo sguardo imbarazzato. Da quando erano usciti da quella cucina, Shinichi non gli aveva ancora rivolto la parola.
«Ehi, Kudo, hai sentito?» riprovò, ma fu Ran a salvarlo dal timore che Hattori potesse capire perché avesse urlato a squarciagola il suo nome.
«Perché ricercavano Shinichi?» chiese la karateka, stranita.
«Per associazione a delinquere» disse Sato, «all’occhio di qualcuno risultava essere un complice.»
«Che assurdità!» sbottò lei, e Hattori annuì.
Il detective di Tokyo si schiarì la gola, ma un leggero rossore non tendeva a scemare dalle sue guance. «Come sta... l’ispettore Megure?»
«Bene, è uscito dall’ospedale» rispose la donna. «Adesso è a casa a godersi le cure di Midori. La sua però.»
Shinichi abbozzò un leggero sorriso. Era stato un criminale per pochi giorni ed aveva quasi ucciso Heiji e l’ispettore, senza contare che Ran era stata imprigionata da lui stesso. Aveva battuto ogni record. Anche se sospettava che non esistessero record di gente che perdesse la memoria e poi diventasse un criminale, ma non aveva voglia di pensarci.
Dopo aver rilasciato diverse deposizioni alla polizia, i ragazzi furono lasciati andare. Stanchi, si diressero tutti a casa di Shiho e Agasa, l’unica che non era stata profanata dei delinquenti e l’unica che per un po’ non sarebbe stata sotto sequestro. Quando il dottore li vide, preparò ad ognuno di loro un bel piatto di riso al curry e tanta frutta e diversi dolci, che la scienziata però non gli permise di mangiare.
«Ragazzi, è stata una brutta esperienza, però si è risolto tutto...» cercò di rincuorarli il dottore, notando una generale tristezza. «L’importante è che non si sia fatto male nessuno.»
Ma non vi fu risposta, tutti concentrarono i loro occhi soltanto sul riso al curry che avevano davanti. Soprattutto Shinichi, che sebbene fosse stato assolto da tutte le accuse e non avesse ucciso nessuno, era tremendamente silenzioso. La cena volò via velocemente, nel giro di circa cinque minuti. La fame era tanta, ma molto più profonda era la voglia di dormire e riposarsi. La voce del dottore fu l’unica che ascoltarono quella sera, e il rumore del riso che si rompeva tra i denti l’unico che si gustarono. Agasa diede due futon ai ragazzi, Shiho si accomodò sul divano, mentre Ran e Kazuha nel letto della scienziata.
Shinichi osservò il soffitto a cupola della casa del professore e provò a concentrarsi solo su quello, immaginandolo come un buco nero che potesse portarsi via tutto quello che aveva passato in quei giorni. E ci buttò dentro Heiji che stava per morire, Ran in quella cantina, il suo risveglio, il momento in cui gli avevano iniettato il siero e quando si era trovato faccia a faccia con loro al porto. I suoi flashback, prima col liquore e poi solo con la pelle della fidanzata.
Diede uno sguardo all’amico, che dormiva scomposto sul suo futon e a tratti russava pure, sia alla scienziata, che sembrava appisolata con grazia sul divano. Ma da come batteva le sue ciglia, troppo velocemente per qualcuno che stava dormendo, capì che era sveglia.
«Miyano?»
Gli arrivò un solo mugugno come risposta.
«Ti ho svegliata?» chiese, poi rise per come la domanda suonasse ovvia. Lei sbuffò.
«Che c’è Kudo? Mouri non ti ha dato il bacino della buonanotte e lo vuoi da me?»
«Miyano!»
«Se vuoi mi alzo e te lo do» rispose, seppur tra le righe ironiche era possibile scorgere una sorta di felicità.
«Smettila di dire idiozie» si lamentò. Sospettò che l’imbarazzo non lo avrebbe mai più lasciato. «Già oggi quell’altra mi ha fatto una dichiarazione d’amore.»
Shiho sbatté più volte le palpebre, allargando le iridi. «Ma chi?»
«Midori... o Ichigo. O come vuoi chiamarla.»
«La rossa?»
Lui annuì, strusciando la testa sul cuscino. «Lei.»
La scienziata rise per qualche istante, poi si zittì. «Dunque? Mi hai svegliata per parlare delle tue spasimanti? No perché facciamo mattina.»
Shinichi alzò il capo e la guardò insospettito. «Mi stai facendo un complimento?»
Lei sbuffò di nuovo, abbassando le palpebre. «Kudo, cosa vuoi?»
Shinichi avvertì le guance imporporarsi. «Niente... volevo solo... solo...», poi si voltò verso Hattori. «Ma secondo te sta dormendo sul serio?»
Shiho scosse il capo, sospirando incredula. «Dormi anche tu, Kudo.»
«Ma...»
«Non mi devi ringraziare» disse velocemente, in un sussurro. Shinichi allargò le palpebre, sorpreso per come avesse capito tutto all’istante, poi sorrise.
«Notte» disse lui, chiudendo gli occhi.
«Aspetta» lo richiamò Shiho, accavallando le gambe sui cuscini del salotto. «Avevi ragione, sai. Brutti o belli che siano, i ricordi sono tutto quello che ci appartiene e che ci rende unici.»
Lui curvò le labbra all’insù. «Sono felice tu abbia cambiato idea.»
«Non te l’ho mai detto...» disse, e sospirò. «Ma lo sai già
Shinichi rise, socchiudendo gli occhi.
Recepì il suo grazie tra le righe di una vita vissuta tra criminali, nella la rinascita di una donna che adesso aveva tutto ciò che potesse desiderare sotto il cielo stellato di Tokyo.
 
§§§
 
La bocca del detective di Osaka si aprì in un rumoroso e scomposto sbadiglio, accompagnato da una tazza di caffè amaro e qualche biscotto. Il suo futon con le coperte raggrinzite e stranamente tendenti al limite destro del materasso affiancava quello del suo migliore amico, che però sembrava ancora dormire serenamente. Anche la scienziata, sul salotto, apparentemente immobile, era avvolta in un sonno ristorante e riposante. In fondo, erano stati giorni estenuanti, ed avevano accumulato tanta stanchezza da poter dormire per giorni. Eppure lui era stato il primo a svegliarsi tra tutti, sebbene ancora non riuscisse a capacitarsi di cosa fosse stanco Agasa.
«Ciao Hattori.»
Perso nei suoi pensieri non si accorse immediatamente che accanto a lui, intorno al bancone circolare del professore, si fosse seduta Ran. Anche lei stava sbadigliando ed aveva due occhiaie violacee a truccarle il viso, che le donavano un aspetto stanco ma allo stesso tempo rilassato.
«Ciao Ran» la salutò, passandole il caffè. «Come mai già sveglia?»
«Potrei farti la stessa domanda» rispose con un sorriso, versando abbondante zucchero nella tazza. «Dormito bene?»
Lui rise, strofinandosi i capelli e lasciando una mano in essi. «Mi piacerebbe dirti di sì... quindi sì.»
«Se ti può consolare, neanche io ho dormito molto.»
«Ripensavo a quello che abbiamo passato e a come tutto sia stato così assurdo...» confidò Heiji, facendo roteare la tazza tra le sue dita per riscaldarsi. «Ancora non riesco a capacitarmene.»
«Io solo adesso mi sto rendendo conto di esser stata operata ad una coscia una settimana fa» sorrise, come se fosse inconcepibile. «Eppure, guardalo» indicò Shinichi con gli occhi. «Quanto vorrei avere il suo temperamento. Sembra che niente possa distruggerlo.»
Heiji scoppiò in una risata, scuotendo il capo e dando un sorso al suo caffè amaro. «Non credere. Non ha dormito bene neanche lui... e sono anche abbastanza sicuro che adesso sta solo facendo finta di dormire.»
«Dici?» si sorprese la ragazza, per poi cambiare espressione e sfumandosi di allegria. «Shinichi non fare l’asociale, vieni a fare una bella colazione con noi.»
Lo osservarono entrambi, ma lui non si mosse di un millimetro. Aveva un braccio piegato dietro la testa ed una mano che gli sfiorava l’addome, nella solita e classica posizione supina.
Ran si voltò verso Heiji. «Secondo me dorme.»
L’amico fece una smorfia divertita. «No, ci sta solo ignorando. Come al suo solito...» disse, poi abbassò la voce e disse sottovoce: «o almeno, come ignora sempre me.»
Lei rise, portandosi la tazza alla bocca. Il calore e l’odore del caffè le donarono un dolcissimo tepore.
«Lui non ti ignora per niente» ribatté lei, ripensando a come lo aveva visto impallidire alla notizia della sua morte, ed a come era fuggito verso l’hotel per cercare di salvarlo. E come aveva urlato il suo nome quella volta.
Heiji scosse il capo, come se volesse far trapelare un po’ di amarezza. «Già, praticamente non mi parla proprio più ormai» le rivelò, sussurrandolo in modo che solo lei ascoltasse. «Forse avrebbe voluto che facessi di più... non so.»
Ran rimase per un po’ a bocca aperta, allibita.
“Ma come... non lo ha sentito urlare il suo nome come un indemoniato?” pensò, ma poi si rese conto che Shinichi era davvero difficile da interpretare, e lei ne era pienamente a conoscenza. Era come se sapesse nascondere alla perfezione le sue emozioni dietro un muro, che però crollava appena vedeva avvicinarsi una palla demolitrice davanti. Pazientò qualche secondo per deglutire il caffè, poi virò di nuovo lo sguardo verso il suo detective, sorridendo con malizia. Aveva un conto in sospeso con lui.
«Shinichi, che dici? Vogliamo raccontare ad Hattori cosa è successo dopo che Akira è stato arrestato?»
Aspettò circa due secondi, poi il volto del suo fidanzato si girò verso di loro con gli occhi assottigliati e un sopracciglio inarcato. La risposta era così palese da essere comica; sembrava dirle “non ti azzardare”.
«Uh, ma guarda, eri sveglio allora» ridacchiò lei, mentre Heiji non parve minimamente sorpreso; li seguiva con gli occhi, stranito.
«Cos’è successo dopo l’arresto di Akira?» chiese, allora, ma nessuno parve rispondergli.
«Ho passato giorni infernali, se non ho neanche il diritto di dormire...» simulò di spazientirsi Shinichi, sia per zittire Heiji, sia per mascherare l’imbarazzo che stava provando in quel momento.
“Che razza di idee vengono a Ran di prima mattina?” si chiese, quasi disperato.
«Ma cos’è successo?» riprovò quello di Osaka, sempre più curioso.
«Hattori, devi sapere che...»
«RAN!» le urlò lui contro, arrossendo.
«Che c’è, Shinichi?» ridacchiò lei, godendosi quel momento di puro divertimento.
«Smettila di dire idiozie.»
«Ma se non ho neanche cominciato!»
«Si può sapere che è successo?» chiese di nuovo il giovane, spostando lo sguardo da destra a sinistra come ad una partita di tennis.
«Devi sapere, che quando Akira è arrivato...», ma una mano le coprì la bocca impedendole di continuare. Girandosi, vide dietro di sé il suo ragazzo.
«Insomma!?» si spazientì Heiji, esasperato.
«Non ti azzard...», Shinichi provò ad intimorire Ran, che intanto ridacchiava divertita sotto le sue dita, quando uno sbuffo ed una voce lo bloccò.
«Oh insomma... Kudo era preoccupato che per colpa sua tu fossi morto. Così, dopo che Akira è stato arrestato, lui è corso all’hotel come un indemoniato gridando il tuo nome ovunque per trovarti e salvarti la vita... e quando è arrivato davanti alla cella frigorifera e tu non rispondevi, era ormai convinto tu fossi morto, e per poco non s’è messo a frignare come un poppante» concluse Shiho, apparentemente ancora addormentata e con gli occhi chiusi dal sonno.
«MIYANO!» gridò Shinichi, ormai completamente arrossito ed infastidito.
«Kudo, come la fai difficile» si lamentò la ragazza, coprendosi le spalle con la coperta.
«Cioè... ma quindi eri preoccupato per me?!» si accese di gioia Hattori, con gli occhi luminosi come fari. Sul suo viso apparve un sorriso bellissimo, che però non intenerì per nulla il suo collega detective.
«Ma quando mai!»
«Preoccupato soltanto? Si stava disperando» rinforzò il concetto Ran, a dispetto del suo ragazzo.
«Ran!»
«E cosa ha detto!? Ah no, lo immagino già!» si incuriosì quello di Osaka, felice come un bambino che non aspettava nemmeno la risposta. Difatti, assunse un tono melodrammatico e cominciò, a suo parere, ad imitarlo: «Oh, Heiji, mio amico, come farò senza di te! Unica mente geniale che riesce a seguirmi, non potrò più vivere la mia vita senza di te! Mi manchi amico mio! Torna da me!»
Ran scoppiò a ridere, annuendo col capo. «Una cosa del genere.»
«EEEEH!?» si lamentò Shinichi, che mai come allora aveva voglia di dimenticare tutto. «Ma non diciamo cazzate!»
«Ma come sei dolce!» sbottò Heiji, entusiasta. Poi saltò giù dallo sgabello e poggiando sgraziatamente la tazza col caffè sul bancone, si spinse verso l’amico, allargando le braccia. «Vieni qui! Fatti abbracciare!»
«Hattori!» si scansò velocemente Shinichi, rosso d’imbarazzo. «Allontanati! Mi fai senso!»
«E dai, fatti abbracciare!» gli ripeté, inseguendolo nella villa del professore, con le braccia allargate ed un sorriso a trentadue denti stampato sulla bocca. «Shin-chan! Vieni dal tuo migliore amico!»
«Stammi lontano!»
«E non fare il timido!»
«HATTORI!!!»
 
§§§
 
Shinichi si sfilò la maglietta, facendola scivolare per il capo e scompigliandosi i capelli. Lo specchio davanti a lui gli ricordò di quella volta quando, in quella villa di criminali, aveva visto Heiji e Ran accanto a sé, ancora prima che potesse capire chi fossero davvero. La sua camera non aveva proprio niente a che fare con quell’altra: era calda e familiare, e sebbene ormai i mobili erano datati alla sua nascita, non li avrebbe cambiati per nulla al mondo. Sbuffando, gettò la maglia sul letto, nel momento esatto in cui avvertì la porta scricchiolare sotto il parquet in legno. Sperò non fosse Heiji, che in quei giorni non faceva che assillarlo.
«Ehi, non scendi giù a mangiare?» gli chiese Ran, poggiandosi allo stipite della porta. Lo sguardo della karateka cadde per qualche secondo di troppo sul petto scoperto del suo fidanzato, che le mandò uno sbuffo come risposta.
«Perché sei così scocciato?» domandò lei, intuendo il suo stato d’animo.
«Perché tu non hai taciuto con Hattori riguardo quel fatto?» domandò lui. «Adesso non fa che mandarmi messaggi a tutte le ore su quanto io lo ami e quanto non riesca a fare a meno di lui!» sbottò, esasperato.
«È stata Shiho a rivelare tutto» gli ricordò, ma lui prontamente rispose: «Sei stata tu a mettere in mezzo il discorso però.»
Ran rise appena. «Shinichi... stai esagerando, dai. È una cosa bella provare emozioni!»
«Non quando si tratta di Heiji Hattori.»
Lei gli si avvicinò, chiudendo la porta dietro di sé, e portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Vuoi sapere perché non ho mantenuto il tuo... grande segreto?»
«Ci terrei tanto.» Replicò, fingendosi stizzito. Un po’ lo era davvero: le attenzioni e le continue smancerie che gli aveva rivolto Heiji in quei due giorni lo stavano facendo esasperare. Lui non era certo un tipo da sdolcinerie del genere!
«Bene. Tu perché non mi hai detto di essere andato a letto con quella?» domandò lei, mutando tono improvvisamente, e il detective si rese conto che preferiva quello di prima.
«Come scusa?» inarcò un sopracciglio, stranito.
«Midori. L’ha detto lei.»
«Io non sono andato a letto con Midori!» ribatté, leggermente arrossito.
«Ah sì? E a cosa si riferiva lei quando ha detto “quella notte... c’era una bella sintonia tra noi”?» chiese Ran, con la fronte aggrottata e le mani sui fianchi. «Ti giuro che non mi sono arrabbiata perché sapevo che eri senza memoria, e dunque... ho capito... in un certo senso. Però non credere che l’abbia dimenticato! Non posso, davvero.»
Shinichi rimase senza parole per qualche istante di troppo, che altro non fecero che spazientire ancora di più la sua fidanzata. «Hai... Hai frainteso, Ran. Non ci sono andato a letto... cioè, quasi.»
«Quasi?» specificò lei, con una smorfia e gli occhi fiammanti.
«Sì, mi sono fermato.»
«E perché?»
«Perché...» e ricordò di quella sera e di come l’odore del Paikal gli sconvolse la mente e i sensi, di come tornò e rivisse il suo primo incontro con Heiji, e di come svenne pochi minuti dopo. Il dolore che aveva avvertito nel suo primo flashback e primo segnale che la sua memoria stesse tornando era ancora ben vivo nella sua testa. Tornò al presente e guardò la sua ragazza avvolta da un fascio di fiamme pronto a divorarlo. «Perché... avevo cominciato a ricordare qualcosa...»
Ran sembrò accendersi di gioia. «Ti sei ricordato di me allora!?»
Shinichi ebbe l’impressione che fosse giusto acconsentire, anche solo per non spegnerle quel sorriso entusiasta che aveva acceso sul suo viso. «Ehm... sì.»
«Shinichi...» mormorò la fidanzata, lacrimando quasi. «Ma è una cosa bellissima!»
Corse verso di lui e si gettò tra le sue braccia, aggrappandosi al suo collo ed intrecciando le gambe intorno alla sua schiena. Il detective si ritrovò ad indietreggiare per qualche passo, preso alla sprovvista, poi ricambiò l’abbraccio, stringendola a sé ancora più forte. Affondò la testa nell’incavo della sua spalla, e socchiudendo gli occhi, permise che l’odore alla fragola gli risalisse su alle narici senza procurargli alcun dolore.
«Te l’ho sempre detto, detective, tu sei migliore del tuo caro Holmes...» sussurrò Ran, appoggiata col capo alla sua spalla e con le dita nei suoi capelli corvini.
«Ah sì?» sorrise Shinichi, improvvisamente felice.
«C’è qualcosa che va oltre il cervello e la razionalità, oltre l’intelligenza e le intuizioni; quel qualcosa che il tuo mito non sapeva nemmeno come provare. E adesso hai la certezza che quel qualcosa non ti ha mai reso più debole di lui, soltanto più forte e sicuro, e non devi vergognartene. Senza il tuo cuore e le tue emozioni, tu non saresti riuscito a cavartela» disse, poi gli prese il viso tra le mani ed unì le loro bocche. Il loro fu un bacio semplice, diretto, spontaneo e familiare. «E io ti amo, Shinichi Kudo, soprattutto per questo. Per il fuoco che divampa dentro il ghiaccio che ti circonda.»
Shinichi sorrise, abbassando lo sguardo, imbarazzato. «Sei tu a far divampare quella fiamma, Ran.»
«Eh, no, c’è anche il tuo caro Hattori ad alimentarlo...» lo sfotté lei, maliziosa. Shinichi ricambiò lo sguardo, poi assumendo un sorriso sadico, le afferrò i fianchi e la sbatté sul letto, facendola rimbalzare sul materasso. Ran gemette, divertita, mentre lo vide piombare su di lei con un cuscino tra le mani. Lei lo imitò, e provò a contrastarlo col cuscino sotto il suo capo, ma fu inutile: Shinichi fu più veloce e le assestò una cuscinata in faccia, che le fece cadere il suo dalle mani. Lei provò a fare l’offesa, ma il fidanzato cadde su di lei e la baciò.
«Hattori non profuma di fragola» le disse.
Ran socchiuse gli occhi, ispirando il suo fiato sul collo. Non gliel’aveva mai detto, ma anche lui profumava di un’essenza particolare, impossibile da dimenticare, che ti penetrava nel cervello e nel cuore, sconvolgendoti i sensi.
Lui sapeva di azzurro e di cielo.
«Shinichi, tu profumi di infinito.»


NOTA: La scena in cui Shin corre e si dispera per l'amico, gridando il suo nome, è presa/ispirata al volume 23 (caso della Symphony). Qui le scan: http://www.mangareader.net/139-8274-3/detective-conan/chapter-228.html .

Me:
Eccomi qui! :) prima d'ogni cosa mi scuso coi recensori dello scorso capitolo per non aver risposto alle loro recensioni, ma non sono stata a casa in questi giorni e difatti non ho avuto neanche il tempo di controllare il capitolo e... be', ho dovuto un po' posticipare l'aggiornamento rispetto al solito orario XD Bene, siamo alla fine, ovviamente il mio Heiji si è salvato e grazie a Shiho, e tutto è bene ciò che finisce bene... sebbene Shin abbia qualche problema ad esternare i suoi sentimenti XD spero di non averlo reso OOC nel momento in cui cerca Heiji, in realtà mi sono rifatta molto al caso della Simphony, dunque dovrei esserci alla perfezione :)!
Che dire? Ehm... come al solito il finale che ho scritto non mi piace xD però va beh, spero che a voi faccia l'effetto contrario. E... niente. Adesso è il momento di salutarci, non so quando e se tornerò, quindi vi dico infinitamente grazie per tutto.
Grazie a quelli che l'hanno messa tra i preferiti, quella che l'hanno messa tra le ricordate e i seguiti.
Grazie a chi ha letto soltanto, a chi mi ha mandato mp, e a chi l'ha seguita da Facebook.
Grazie a tutti!!!



Un bacione grande!
Tonia

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