Bring me to life.

di ashtonsdimples
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 3: *** Capitolo due. ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


 
Prologo.
    

     Il vento gli graffiava il viso, ghiacciandogli la pelle e facendogli avere brividi di freddo che velocemente gli solleticavano la schiena. I passi si fecero sempre più incerti, come se al posto delle ginocchia avesse dei macigni che non gli permettevano di alzare le caviglie. Fu come se ad ogni passo commettesse un errore, ma lui non doveva pensarlo, non poteva. Il freddo si faceva sentire nella pelle, nelle ossa e soprattutto nell’anima, che lo accolse come un vecchio amico. Prese fiato, poggiando le mani sulle ginocchia, espirando con la bocca e cercando di catturare più aria possibile. Controllò l’orario, assicurandosi di essere puntuale, per poi asciugarsi la fronte e continuare a salire, sempre più lentamente. Si girò, osservando le nove rampe di scale appena corse con la più nascosta delle sue forze. Sospirò, continuando a salire fino all’ultimo dei piani.
   Aprì la porta e si accorse di tremare, dandosi mentalmente del bambino. Aveva o no diciotto anni? Sentì la brezza fresca corrodergli ciascun sentimento, congelandolo senza pietà. Le narici gli fecero male, talmente vento c’era, ed il suo cappellino con la visiera al contrario ormai non riusciva a tenere fermi quei dannati capelli. Sua madre diceva sempre che erano dei rovi, e che ogni momento era adatto per tagliarli. Pensò al suo sorriso e sentì il suo cuore sempre più pieno, ebbe paura che potesse scoppiare. Non era mai stato su quel palazzo, né tanto meno così tanto in alto a causa della vertigine. La paura delle altezze aveva preso sopravvento in molte sue occasioni, rovinandole. Sorrise, pensando a come fosse bello il cielo durante la notte: amava le stelle, il fatto che brillassero di luce propria e che, durante la loro morte, esplodessero. O anche perché ce n’erano diverse, ma tutte erano speciali e non c’erano distinzioni tra loro: ciascuna aveva un ruolo estremamente importante. Avrebbe voluto essere una stella, lo avrebbe voluto davvero.
    Singhiozzò una sola volta, senza far calare nessuna lacrima dai suoi occhi: ormai quelle erano terminate, ed erano per i bambini. Si tappò la bocca con la mano destra, il movimento veloce fece tentennare i braccialetti che portava al polso, facendogli ricordare il vero motivo per cui fosse andato al decimo piano del palazzo principale, e che prevedeva l’inimmaginabile fuorché le stelle. Chiuse entrambe le mani intorno al manico della balaustra, bagnata e fin troppo fredda, sentendo una sensazione fastidiosa nella bocca dello stomaco. Pensò che, molto probabilmente, gli stessero venendo dei conati, e che se avesse vomitato il tutto di sotto avrebbe potuto prendere sulla testa dei passanti. Gli venne da ridere, pensando alle loro facce.
    Si ritrovò a piangere, le mani nella faccia e la fronte poggiata sulla balaustra. La voglia di urlare incastrata in gola, le parole desiderose di uscire ed i singhiozzi ormai incontrollabili lo fecero sentire ancora peggio, facendogli male. Avrebbe voluto essere capito, sentito, coccolato. Controllò nuovamente l’orario, notando che mancavano solamente tre quarti d’ora al suo compleanno, e che a casa sua, forse, lo cercavano. Altri tre quarti d’ora e avrebbe compiuto diciannove anni. Si sedette con le spalle poggiate sulle sbarre, le mani ciondolanti e la testa rivolta verso l’alto. Le lacrime si asciugavano, e la sua solitudine cresceva. Si chiese se ci si potesse sentire in quel modo a quell’età. Si chiese se avesse ancora l’adolescenza incastrata dentro sé, causa del suo umore. Eppure non gli parve che la fascia d’età c’entrasse poi così tanto in quella situazione.
    Sentì i brividi solleticargli la pelle, rendendola d’oca, si passò le braccia l’una sull’altra continuamente, in modo da farsi caldo. Pensò che, probabilmente, uscire a febbraio con una sola felpa addosso non fosse stata una poi così grandiosa idea. Si morse il labbro, sentendo il sapore del sangue e il contatto della lingua con la carne. Gli diede fastidio, essendo tutta completamente tagliata, ma ormai era un vizio che non poteva più togliersi. Contrasse ogni muscolo del suo corpo, cercando di avere più caldo. Pensò di prendersi a sberle e portarsi a casa, smettendola di fare il coglione ed usando il cervello. Sorrise, pensando a quanto il gelo gli facesse male alla testa. Pensò di prendere le cuffie e drogarsi un po’ di tutta quella musica che il suo cellulare aveva. Volendo avrebbe potuto restarsene lì seduto tutta la notta che nessuno se ne sarebbe accorto, se non suo fratello. Sentì il cuore pompare a ritmo della musica appartenente alla sua playlist preferita e, per quelle poche volte che succedeva, si sentì più vivo che morto.
   Controllò nuovamente l’orario, notando quanto il tempo passi in fretta quando si ascoltano le proprie canzoni preferite. Pensò fosse troppo presto per mettere via le cuffie e smettere di prendere quell’aria fresca che, nonostante tutto, non era male. Si stava abituando al freddo, all’aria che gli faceva bruciare la pelle delle mani e del viso. Mancavano cinque minuti alle 00.00 e si sentì meglio. Per la prima volta si soffermò ad osservare il paesaggio visto da quel palazzo: le luci di San Diego ebbero una sfumatura particolare, quel giorno, o meglio quella notte, viste da quell’altezza. Cercò di non guardare la strada o i vari negozi in modo che il capogiro non lo uccidesse prima del tempo. Respirò aria pulita, eliminando ogni parte lurida e apparentemente felice della sua anima.
    Si arrampicò con facilità sulla balaustra, ripercorrendo con la mente tutte le volte in cui lui e Mike andavano a rubare le mele dall’albero della vicina, la signora Manson. Gli venne da piangere, immaginandolo in quel momento, e chiedendosi cosa diavolo stesse facendo. Scosse la testa, come dimenticando quei pensieri, e tornò al suo presente. Si tenne con le mani al manico, aspettando che fosse il momento adatto per mollarlo e lasciar andare via non solo i pensieri, finalmente. Quegli stessi pensieri non sarebbero più esistiti dopo quel momento. Avrebbe dimenticato tutto e tutti, fregandosene come gli altri lo facevano di lui, senza nemmeno accorgersene. Si diede dello sciocco per l’ennesima volta, dicendosi che molto probabilmente avrebbe dovuto dire quando stava male, piuttosto che aiutare gli altri mentre quelli stessi altri uccidevano lui stesso.
    Le sue labbra si alzarono verso l’alto formando un ampio ed autentico sorriso alla vista delle 23.59. Rise, pensando che quando avrebbe mollato la presa avrebbe urlato a squarciagola, abbandonando qualsiasi cosa e godendosi solo il suo momento. Sarebbe stato l’ultimo, e quella volta nessuno gliel’avrebbe rovinato: era solo, accompagnato da sé stesso. Si sentì sicuro di quello che stava per fare, era pronto da tempo, ed aspettava quel giorno da tanto, troppo. Ancora con le cuffie nelle orecchie diede un’occhiata al display del telefono, vedendo quattro zeri susseguirsi. Era il dieci febbraio, finalmente quel giorno era arrivato: aveva diciannove anni ed era libero, privo di alcuna preoccupazione.
    Si sentì felice, felice da morire. « Buon compleanno, Vic » sussurrò, mentre una lacrima scorreva nel suo viso. Allentò la presa delle mani lentamente, i piedi si sporgevano leggermente verso il vuoto, la paura di guardare verso il basso aumentava e si accorse di star cominciando a sudare. La mano destra lasciò completamente la balaustra, facendolo ridere. Era in bilico, mancava poco ormai. Non avrebbe mai più avuto rimpianti. Singhiozzò una seconda volta, la mano destra tappò immediatamente le labbra, facendolo sporgere ancora di più. Si immaginò Mike urlargli un: « Io l’ho sempre detto che non hai le palle! », ed altre lacrime fecero soccorso alla prima. Sentì uno strattone, e poi due braccia circondarlo. Una luce bianca lo accecò; si chiese se avesse perso la vista o se fosse finito in paradiso. Un dolore lancinante al petto lo trafisse, facendolo gemere dal dolore. Si aspettò di vedere chissà quale angelo di passaggio, con i boccoli d’oro e due occhi azzurri, più brillanti del sole stesso. Pensò a com’era conciato male per far parte di quel corteo di esseri perfetti in qualsiasi cosa, e pensò anche che “perfetto” era l’esatto opposto di “Victor Fentues”. Gli venne da ridere, ma il dolore gli fece fare semplicemente una smorfia. Aprì gli occhi, accorgendosi solo dopo di averli tenuti chiusi per chissà quanto tempo, vedendo poi che tutto era tornato buio, scuro, e che l’unica luce era quella delle stelle e dei lampioni.
    Vide una forma indefinita osservarlo, e si chiese se al posto del paradiso fosse finito all’inferno. Si diede nuovamente dello stupido, poiché era ovvio che un’anima morsa e sudicia come la sua dovesse ad ogni costo finire tra le fiamme ed il fuoco. Sentì voci ovattate, vide forme sempre più scure, doppie, triple, quadruple. Venne scosso energicamente, sbattè la testa nel pavimento duro ed oltre al dolore del petto dovette sopportare anche quello del capo. Per non parlare della sua anima che, molto probabilmente, ormai se n’era andata. Imprecò, cercando di mettersi in piedi e di vedere dov’era finito, sebbene non capisse un granché.
    « Ma dove cavolo credi di andare in queste condizioni? » sentì finalmente una voce, e ringraziò qualsiasi persona governasse negli inferi di non avergli privato l’udito. Rimase seduto, incapace di alzarsi. Si sfregò gli occhi, cercando di vedere in modo nitido tutto ciò che lo circondava.
La voce gli morì in gola, le labbra si muovevano ma nessun suono ne usciva fuori. Una ragazza con i capelli apparentemente verdi lo fissava, mentre respirava a pieni polmoni, come dopo una corsa. « E tu saresti un diavolo? » riuscì a dire con un filo di voce, tra l’altro roca. La vide scoppiare a ridere, sedergli davanti e continuare a guardarlo. « Che cazzo ridi? Dove sono? » si guardò intorno, e solo dopo aver perlustrato la zona sentì il cuore smettergli di battere nel petto. Provò a rimanere in silenzio per qualche secondo, scosso dai suoi accelerati sospiri, ma pensò di averlo perso per sempre. Si alzò nonostante il dolore lancinante, si mise ad urlare, inciampando su sé stesso e cadendo nuovamente sul freddo pavimento. Urlò sempre più forte, mentre piangeva, non lasciando tregua al tempo. Coprì il suo viso con le mani, sdraiato, infreddolito e dolorante. Un dolore più mentale che fisico e che non gli lasciava alcuna tregua. Sentì la sua anima fatta a brandelli senza alcuna pietà, scosso dai singhiozzi e dalla tristezza, dal senso di colpa e da quel dannato dolore che ormai era palpabile, si poteva quasi prendere tra le mani.
    Batté i pugni contro il suolo, facendosi male, inconscio se gli stesse uscendo sangue o meno. Tirò fuori la voce come desiderava fare da tempo ma come mai avrebbe voluto in quel momento. « Ti prego, basta » sussurrò la ragazza, facendolo sedere mentre ancora aveva le mani in faccia e tremava senza sosta. Pensò che fosse colpa sua, che l’avesse salvato quando invece meritava di morire schiantando il viso contro il marciapiede a dieci piani sotto i loro piedi. Lei lo abbracciò, come se volesse circondare con le sue braccine esili e fini quella tristezza incontrollabile. Victor si fermò per qualche secondo, respirando a pieni polmoni, cercando di prendere più aria possibile, ansimando ed ingoiando saliva irrefrenabilmente.
    « Perché? Dovevi lasciarmi cadere. Perché mi hai fermato? » disse, sommerso dai tremiti, incapace di parlare normalmente ed usando un filo sottile di voce. « Sono qui per il tuo stesso motivo. Pensavo che potevamo buttarci insieme, almeno non siamo soli » la ragazza mosse le labbra, ma sembrò che da esse non fosse uscito nulla se non un sospiro. Per un primo momento pensò di essersi immaginato le sue parole, per poi vedere i suoi occhi scontrarsi con i suoi, quasi facendosi male. Vedendo i suoi lineamenti pensò a quanti anni potesse avere, e dedusse dai quindici in giù. Notò la paura nei suoi occhi, lo sguardo che vagava in qualsiasi luogo, non restando su un punto per più di due secondi, tanto che incominciò a contarli. Gli venne da ridere. Il freddo gli pungeva le costole, il cuore, i polmoni. Faceva fatica a respirare, il petto gli doleva e pensò di aver perso sangue dalla testa. Prese per mano la ragazza che, a parer suo, era una ragazzina, per poi farla avvicinare alla balaustra. « Non sei troppo piccola per voler morire? » le chiese poi, cercando di non balbettare. Lei alzò le spalle, mettendosi un ciuffo ribelle di capelli dietro l’orecchio. « Potrei farti la stessa domanda » rispose lei, guardandolo ed accennando un sorriso. « Buon compleanno, comunque » continuò, mettendosi in punta di piedi ed allungando le braccia verso il suo collo. Solo dopo qualche istante capì l’azione che stava compiendo. Lo voleva davvero abbracciare? Si lasciò circondare, sentendo la stretta che due braccia così piccole potessero dare, e gli venne da sorridere.
    La ringraziò, aiutandola a scavalcare la balaustra dopo aver notato la sua poca abilità. Mentre lui, con un balzo, la raggiunse, lasciandola senza parole. La vide tremare quasi quanto lui, mentre si reggeva saldamente al manico. Guardava il fondo della strada con uno sguardo completamente diverso da quelli che le aveva visto fare fino a quel momento. Si sentì stupido, poiché lei non soffriva di vertigini mentre lui, solamente stando lì aggrappato alla balaustra, sudava freddo. « Mi ero promessa di non tirarmi indietro, questa volta » commentò lei a voce alta, continuando a guardare la strada quasi con disprezzo, come fosse un nemico. « Hai già provato a suicidarti? » le chiese lui, cercando i suoi occhi. Lei gli sorrise, annuendo. « Tre volte, e in modi diversi. La prima attraverso delle pillole, la seconda drogandomi e la terza volta mi sono buttata fuori dall’auto di mia madre » disse quelle parole con naturalezza, come se comportarsi in quel modo fosse la cosa più naturale di questo mondo.
    I brividi di Vic aumentarono, sentì le gambe quasi cedergli, le mani erano avvinghiate al manico e sudavano. Pensò che una ragazzina come quella al suo fianco, impaurita e non desiderosa di morire realmente quale era non dovesse avere quella fine. Avrebbe potuto rimanere e combattere per le sue priorità, ed eccola lì a salvare un povero stronzo qualunque da una morte dolorosa e, sebbene non volesse ammetterlo, non voluta a pieno. « Questa volta devo riuscirci » singhiozzò lei, asciugandosi una lacrima con la mano sinistra, e rimanendo in bilico, tenuta alla balaustra solamente dalla mano destra. Avrebbe potuto saltare in qualsiasi momento e sarebbe morta all’istante. La prese per mano, girandosi  e dando la schiena alla strada, al mondo che probabilmente l’avrebbe visto morto.  « Ti butti al contrario? » gli chiese lei, guardandolo incuriosita. Lui le sorrise, i tremiti incessanti, le dita delle mani intrecciate, fredde e tremanti. Si aggrappò con le gambe alla balaustra, facendo attenzione a non cadere, per poi prenderla per il bacino e metterla al sicuro nel pavimento.
     Lei non si mosse nemmeno un secondo, chiedendogli solamente dopo che anche lui fosse al sicuro il motivo di quel suo gesto. « Credo che tu abbia fallito anche questa volta » disse lui, cercando di smettere di agitarsi, inviando un messaggio a Mike scrivendogli quanto facesse freddo e che a momenti sarebbe tornato a casa.
« N-no, io devo farlo. Lasciami andare, io devo farlo » la voce della ragazzina s’incrinò, allontanandosi da lui, che la prese per le braccia, facendola scoppiare a piangere sul suo petto. « Non siamo soli, no? » le sussurrò all’orecchio, abbracciandola.

 
 

Angolo autrice:
eccomi qui, con la mia prima fan fiction sui Pierce the veil. E' piuttosto strano scrivere in questa sezione a dir la verità, ma non credo che questo sia così rilevante. Non ho mai scritto una cosa simile, questo prologo è stata come una rivoluzione del mio modo di scrivere.
Non so se esserne compiaciuta o meno, ma comunque ho messo tanto di me in questa fan fiction e spero che possa essere di vostro gradimento. Accetto ovviamente critiche poichè mi aiuteranno a migliorare.
Probabilmente molti non pensano a Vic come questo tipo di persona, ma non penso che far vedere un lato diverso di lui che magari nemmeno gli appartiene non sia così sbagliato. Sto farneticando.
Bene, prima che possa dire altre cazzate mi dileguo, spero che questo angolo autrice non vi faccia pensare quanto possa essere stupida. Perdonatemi se ci sono degli errori, non vi ho fatto caso.
Vi sarei grata se mi lasciaste una recensione, in modo da sapere cosa ne pensate.
Un bacio,

ashtonsdimples.

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Capitolo 2
*** Capitolo uno. ***


Capitolo uno.
 
    Pensava di essere abituato a quel tipo di mal di testa, al fastidio delle tempie e alla bocca dello stomaco che brontolava, facendolo tremare, come nei primi anni. Si diede del bambino, pensando a come il sodo allenamento fosse stato sprecato. Pensò alle parole di sua madre, dandole ragione: un ventunenne dovrebbe essere ottimista e spensierato, privo di complicazioni o timori assurdi. Dovrebbe tornare a casa alle due di notte il sabato, dopo una sbronza. A volte si ubriacava, ammise, ma per futili motivi (delle volte inesistenti) e soprattutto in compagnia del suo fedele fratellino che lo seguiva in tutte le sue sventure.
    Non c’era vento, i capelli ondeggiavano naturalmente, rivolti verso il terreno. Da sempre pensava a quanto fosse scomoda quella posizione, ma si arrampicava sopra quell’albero fin da quando era bambino. Abbandonava i pensieri, come se potessero scivolare dalle punte di quei rovi mossi e castani. La signora Manson era morta, i suoi ottant’anni passati a rimproverare lui e Mike per le mele rubate, per poi regalargliene alcune da portare alla madre con un sorriso ironico in volto. Gli venne da piangere, ricordando il giorno in cui la vide bianca e fredda su una bara scura, avvolta da tessuti candidi e morti con lei; il grembiule rosso e l’odore di dolci nelle mani. Le gambe cominciavano a far male, pensò a quando non sarebbe più riuscito a salire per via dell’essere troppo “grande” e quindi ingombrante. Si convinse che non sarebbe mai accaduto, ridendo. Sostava con le mani penzolanti nel vuoto, insieme ai suoi capelli. La testa all’ingiù, dondolandosi con il busto, le gambe circondavano un ramo evitandogli la caduta. Fu un’impresa arrampicarsi le prime volte, la schiena faceva male e l’interno delle ginocchia sanguinava. Era abituato a salirci d’estate, con i pantaloni corti e i rami più piccoli a graffiargli la pelle. Non era un dolore poi così impossibile da sopportare, dunque di giorno in giorno si faceva forza e saliva, a volte sino in cima, altre divertendosi dondolando nel vuoto mentre Mike lo guardava con preoccupazione, richiamandolo.
    Quella sensazione lo avvolgeva spesso, soprattutto la notte, quando il tempo per pensare era troppo e il silenzio si faceva opprimente. Il buio era sempre stato il suo migliore amico, lo circondava senza lasciargli nemmeno una parte scoperta. Chiudeva gli occhi periodicamente, lasciandosi trasportare dai pensieri, permettendo loro di cadere e smettere di tormentarlo per quel minuto periodo di tempo. Aveva bisogno di momenti in cui tentava di pensare al nulla, fracassandosi le orecchie dal rumore rotto del silenzio, mentre i singhiozzi cercavano di venir fuori e le lacrime bruciavano le guance. Ma erano solo sensazioni. Da quel giorno non pianse più, un po’ per la vergogna ed un po’ per il risentimento, per la malinconia e per l’incazzo che si teneva chiuso dentro, come fosse in un armadio chiuso a chiave. Quella chiave, però, era stata buttata in un pozzo ed il coraggio mancava per andare a recuperarla. Piuttosto, come solo un codardo può fare, aspettava che qualcuno sarebbe andato a prenderla al suo posto, e per un momento si illuse che quel qualcuno esisteva in chissà quale remota parte del pianeta.
    Si decise a scendere solamente dopo aver sentito vari richiami da parte del fratello e di sua madre: era pronta la cena, ed un buco nello stomaco gli fece capire quanta fame aveva. Non seppe con certezza quanto fosse rimasto appeso al ramo dell’albero, ma notò il tramonto nel cielo e si chiese se quella volta non avesse esagerato. Mike lo aspettava con un sorriso in volto, una cuffia nell’orecchio e l’altra lungo il petto. « Allora, che si mangia? » chiese il maggiore, ricambiando il sorriso e cercando di tenere a bada quei mostri che si diradavano nella sua mente. Nonostante tutto si sentiva apposto, circondato da quelle mura che per lui non odoravano di nulla mentre per gli ospiti di pulito e lavanda. Abitudine, pensò. Gli sarebbe piaciuto sentire un profumo nuovo, accogliente, appena attraversata la soglia di casa. Aveva, però, il sorriso di sua madre, che gli bastava. Si sedette al tavolo, incosciente di cosa avrebbe mangiato, lasciando che il suo stomaco mugugnasse qualcosa e che l’acquolina gli salisse in gola, per una volta.

 
**

Il cigolio delle ruote le rimbombava nelle orecchie e si chiese a quanto risalissero quei carrelli, ridendo. Osservava le persone cercare tra le varie liste i prodotti da trovare, i prezzi bassi ed il buon sapore o uso. Era divertente guardare i bambini ammirare grandiosi giocattoli, supplicare le proprie madri ed uscire, in alcuni casi, vittoriosi all’esterno, con il proprio bottino tra le braccia. Lei non ebbe mai avuto un suo tesoro, che poteva essere un orso di peluche a grandezza naturale o una chitarra giocattolo. L’unica cosa che portava sempre con sé riguardante la sua infanzia era una macchinina verde con due saette rosse ai lati, appartenente a suo padre. La vide per la prima volta all’età di cinque anni ed in quel momento si stupì, pensando che anche suo padre avesse passato un’infanzia.
    Mentre caricava nel carrello quasi del tutto traballante due flaconi di ammorbidente alla lavanda si chiese come fosse stato suo padre da bambino, con un sorriso dolce in volto e una spensieratezza innaturale, una voce tenera, le lentiggini ben evidenti e gli occhi color cielo curiosi di colorare il mondo. Pensò a quanto fosse impossibile, scosse la testa e si lasciò infastidire dal rumore delle ruote che presero a scricchiolare.
    Entrò nella corsia dei dolci, torturandosi le unghie nel sentire la salivazione aumentare, chiedendosi se fosse quella la famosa “acquolina in bocca”, che mai aveva provato. Sorrise vedendo un bambino arrampicarsi per raggiungere un pacco di biscotti al cioccolato. Nel vederlo così interessato le si scaldò il cuore, e si ritrovò a dare tra le mani la confezione di dolci al piccolo. « Grazie » una donna dagli occhi verdi identici a quelli del bimbo le sorrise, mostrando una dentatura perfetta. Capì immediatamente chi fosse, ricambiando il sorriso e salutando il bambino, che però la guardò sgranando gli occhi. Indicò le sue mani, non mosse le labbra, tremò e si nascose dietro le gambe della madre. « Alex, si puo’ sapere cosa fai? Ringrazia, avanti » disse poi, cercando di far avanzare il figlio. Marie non seppe cose dire, guardava il viso del piccolo, incerta su cosa fare. Si abbassò, piegando le ginocchia e puntellandosi sui piedi, allungando la mano cercando di toccare quella di Alex. « Mamma » urlò lui, nascondendo completamente il viso nel giubbotto della donna, che lo guardava spaventata. « Mamma, guardala! È morta, è morta! È un fantasma, è così pallida! » continuò poi, alzando sempre più la voce, indicandola e indietreggiando un po’ di più. Marie sentì un forte dolore alla testa ed il battito cardiaco aumentare sempre più. Si rizzò in piedi, le lacrime che minacciavano di sgorgare come fiumi e la delusione nel cuore, che pesava come un macigno.
    Capitava spesso che qualcuno la guardasse come una persona diversa per via della sua carnagione troppo bianca, ma mai un bambino. Dava molta importanza al loro pensiero, poiché a suo parere i bambini dicono sempre la verità, anche se non vogliono. Sentirsi dire quelle parole dal piccolo le lasciò un vuoto dentro, mentre spingeva il carello nella coda dinanzi alla cassa. Sentì il magone alla gola alleviarsi ed il dolore agli occhi diminuire, per poi pagare e dirigersi verso la macchina di sua madre, che l’aspettava nel parcheggio. Sospirò, salendo nel veicolo e cercando di pensare al nulla. Prese a contare la serie dei bracciali che aveva nei polsi, gesto che faceva quando troppi pensieri le invadevano la mente.
    Arrivata a casa si precipitò nella sua camera, fiondandosi nel letto e nascondendo la testa sotto al cuscino. Avrebbe voluto dormire, ma il suo cervello decise di lavorare proprio in quel momento, tenendola sveglia. Indossava ancora i jeans e la sua felpa grigia, avrebbe dovuto mettersi il pigiama ma a quell’ora la stanchezza s’impossessava del suo corpo senza alcuna pietà. Sentì le urla di sua madre chiamarla, probabilmente era pronta la cena o aveva combinato qualche altro pasticcio. « Devi andare a prendere Jason, è a casa di Rose a fare i compiti » sua madre le lanciò le chiavi di casa tra le mani, facendola spaventare. « È a due isolati da qui » sussurrò Marie, con un lamento. « E quindi? Se vuoi mangiare devo preparare qualcosa, tuo padre sta lavorando e tu sei l’unica libera in questo momento. Per favore » concluse poi, tenendo le buste tra le mani e guardandola come sempre faceva. La ragazza sentì il sangue ribollire, il nervoso crescere e lo sguardo di sua madre puntarsi nei suoi occhi. Non disse nulla, uscendo di casa e sbattendo la porta alle sue spalle.
    Quella sera, stranamente, non soffiava il vento, e Marie dovette aumentare il passo per raggiungere casa di Rose prima delle nove, poiché altrimenti si sarebbe fatto troppo tardi. Si maledisse per aver dimenticato le cuffie nella scrivania, sole. Le sarebbero servite in quel momento, poiché senti la voce arrivare nella trachea, incastrarsi nei denti sino a farli sanguinare e poi uscire fuori con un grido che avrebbe fatto spaventare, probabilmente, tutta San Diego. Le macchine andavano veloci e l’odore dello smog la fece tossire. Volle arrivare a casa il prima possibile. Svoltò l’angolo verso la casa dell’amica – o ragazza, non ne aveva idea - del suo fratellino, per poi vedere Jason seduto sul marciapiede con la cartella in mano e dei fogli sparsi sul pavimento. Corse da lui, notando anche i colori e l’astuccio ovunque. « Jason! » lo chiamò senza preavviso, facendolo spaventare: era concentrato. « Aspetta un momento, Marianne » le rispose alzando l’indice e prendendo un pastello verde, per poi terminare uno dei tanti disegni lì presenti. La maggiore si sedette al suo fianco, raccogliendo più fogli possibili e sfogliandoli, chiedendosi come riuscisse a rappresentare quei paesaggi o quelle persone.
   Notò sé stessa nel foglio che suo fratello teneva in mano: i capelli verde scuro scarmigliati ed un sorriso largo in volto, gli occhi azzurri e la pelle non colorata. « Tu sei molto bianca, Marianne. Sembri colorata con un gessetto che si usano nelle lavagne, e non mi è mai capitato di non dover colorare la pelle di una persona, nei miei disegni. Sei particolare. Non è una bella cosa, esserlo? » le chiese, guardandola negli occhi. Lo abbracciò, impulsivamente, senza alcuna spiegazione. Non era mai stata brava con le parole e lui questo lo sapeva, nonostante lo avesse sempre trattato come un bambino piccolo. Aveva quattordici anni, i capelli ricci, mille idee per la testa e una maturità troppo grande per le sue deboli spalle. Gli prese il viso fra le mani, gli diede un bacio nella fronte e, dopo aver raccolto e messo nello zaino tutti i disegni, insieme si incamminarono verso casa. « Hai quattordici anni, Jay. Che diavolo ci fai in mezzo alla strada a disegnare? » gli chiese, ridendo. « Tu scappi sempre di casa con le cuffie nelle orecchie e la custodia della chitarra. So che vai a suonare e non in una casa. Perché io non potrei fare la stessa cosa? » Marie, sentendo quella risposta, pensò a quanto suo fratello potesse essere così simile a lei. Lo guardò nuovamente, perdendosi nei suoi occhi e gli sorrise teneramente. « Smettila di guardarmi così, mi metti in imbarazzo » le diede una spinta, facendola ridere. « Sei uno stupido. Ti voglio bene » « Anch’io, e tu sei la maggiore, quindi sei più stupida »
    Continuarono a conversare in quel modo, prendendosi in giro e spintonandosi, circondando l’aria delle loro risate e dei pochi momenti in cui potevano stare insieme. Imboccarono il vialetto di casa facendo morire i propri sorrisi, guardandosi negli occhi e lasciando cadere la felicità del momento. « E rieccoci all’inferno » sospirarono all’unisono.
 
 
 
Spazio autrice:
eccomi qui, con il secondo capitolo. Premetto dicendo che, molto probabilmente, questo non sarà il titolo ufficiale di questa fan fiction. Mi sembra piuttosto deludente e scontato, per cui è quasi sicuro che nel corso dei capitoli verrà cambiato.
Credo sia arrivato il momento di parlare del capitolo. Devo dire che non mi soddisfa come il precedente ma spero vi piaccia ugualmente. Se nel prologo abbiamo avuto una scena particolare, dove il punto di vista di Vic faceva da padrone, in questo scritto possiamo notare che la vita del nostro protagonista viene messa un po' da parte e viene messo in risalto, invece, il punto di vista di Marianne. Non voglio svelare nulla su di lei, credo sia scontato e che chiunque legga non sia stupido, per cui avrete sicuramente capito a cosa mi sto riferendo con queste righe.
Spero, comunque, che non diate tutto per scontato poichè potreste avere varie sorprese. Sono ancora indecisa su come sviluppare questa storia ma spero di farlo nel migliore dei modi.
La parte in cui Marie incontra il bambino al supermercato mi ha toccata profondamente, poichè ho passato una situazione simile avendo la pelle molto bianca come la sua. Mi sono immersa in entrambi i personaggi e spero di ricavarne qualcosa di utile.
Aspetto delle recensioni, ribadisco di accettare critiche poichè mi aiuteranno a crescere e migliorare. Non mi pare ci siano errori, ma nel caso me ne sia scappato qualcuno perdonatemi ma non ho fatto caso.
Nel caso aveste voglia di contattarmi il mio nick di Twitter è
@themaysflower.
Un bacio, a presto.
ashtonsdimples

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Capitolo 3
*** Capitolo due. ***



Capitolo due.
 

    Secondo sua madre rimase in quella stanza per troppo tempo, avrebbe dovuto dormire un po’ e poi, magari, continuare con il suo lavoro. Si mise a sedere di fronte allo strumento, per lui il più complesso, sentendo la mano di sua madre toccargli la spalla sinistra. Gli chiese se avesse bisogno di qualcosa, ma lui non rispose. Gli facevano spesso quella domanda e lui restava fermo, zitto e con lo sguardo da un’altra parte, nel vuoto. Aveva bisogno del silenzio, ecco. Di stare solo con sé stesso, con i pensieri che voleva far scivolare via e insieme alla sua musica. Sentì i passi di sua madre allontanarsi, si pentì di non averle rivolto la parola ma proprio non riusciva a far uscire la voce. Si girò, guardando la sua schiena dritta e le braccia dondolanti, la mano destra poggiata sulla rispettiva coscia.
    Notò che anche lui, mentre camminava, aveva quello strano vizio. Non metteva la mano in tasca ma la sistemava sopra la coscia, mentre l’altra ciondolava nell’aria. Sorrise, chiedendosi se anche suo fratello avesse quella stessa stranezza. Pensando a lui si concentrò nuovamente sulla batteria, cercando di capirne i dettagli. Si alzò in piedi, girandoci intorno e cercando di ricordare i nomi di ogni componente, come Mike gli insegnò quando erano bambini. Riconobbe immediatamente la grancassa, fin troppo grande per i suoi gusti, i Tom, il rullante e la marea di piatti di cui non ricordava il nome o la funzione ad eccezione del Charleston. Vide il cofanetto con la marea di bacchette al suo interno e, una volta seduto, si chiede come si potesse suonare uno strumento del genere.
    Premette sul pedale, probabilmente troppo forte poiché un colpo seccò andò a finire sulla grancassa, fatto che lo fece saltare sullo sgabello, dondolarsi e cadere precipitosamente sul pavimento. Scoppiò a ridere, pensando a quanto potesse essere imbranato. Si risedette, incalcando più delicatamente il pedale e dandosi un tempo. Solo dopo si dimenticò di non aver preso le bacchette, e si maledisse. Si sporse verso il cofanetto, cercando di non perdere il ritmo. Si avvicinò sempre di più, sino a quando non si trovò a sbattere il fianco destro sul pavimento, facendolo gemere dal dolore. « Sei proprio un cretino » rise Mike, entrando dalla porta, indicandolo e mettendosi una mano nella pancia cercando di trattenere la risata. Vic alzò un dito medio, sorridente. « Questo aggeggio è opera di chissà quale demonio » disse, facendo un cenno allo strumento.
    Si alzò, risedendosi sullo sgabello e, con l’aiuto di Mike, riuscì a trovare un tempo adatto. Il minore schioccava le dita, mentre Vic premeva il pedale della grancassa. Mike si mise dietro di lui, circondandolo con le braccia e provando a fargli suonare il rullante e i Tom con il suo aiuto. Gli prese le mani ed in quel momento il maggiore si sentì tanto piccolo, ma allo stesso tempo protetto. Ricordò quando provarono a suonare insieme la batteria per la prima volta: un vero disastro. Lui cadeva in continuazione, le bacchette gli scivolavano di mano e non toccava bene con il piede il pedale del Charleston, mandando tutto a farsi benedire, finchè la pazienza non arrivava al limite e lanciava in aria le assi di legno, si sedeva sul pavimento freddo e diceva al minore di suonare per lui.
    « Se vuoi possiamo suonare qualcosa con meno pezzi, ad esempio i bonghi. Ti va? » chiese Mike, prendendone uno sottobraccio e porgendone un altro al fratello. Vic lo prese, sedendosi su una sedia al suo fianco e posizionando lo strumento in mezzo alle gambe, come di solito lui faceva. « Facciamo qualcosa di semplice » sorrise, cominciando a picchiettare con le dita sulla pelle che rivestiva il bongo. « Vedi, il suono cambia a seconda di cosa tu usi per suonare. Se usi i polpastrelli il suono diventa più acuto, quasi arzillo. Mentre, se usi l’intero dito oltre a farti più male il suono diventa più fermo e duro » spiegò, concentrando lo sguardo verso le sue mani che, passo alla volta, formavano dei ritmi che cambiavano  a seconda di quello che lui diceva. Vic rimase impassibile, con la bocca socchiusa, non riusciva a dire niente. Gli piaceva guardare il suo fratellino impegnarsi a suonare, perché alla fine la musica era la loro ragione di vita. Avevano sempre avuto quella passione e dopo aver lasciato i Before Today le giornate non erano più le stesse. Solo dopo tempo, troppo a suo parere, i due decisero di formare una band e, sotto l’etichetta Equal Vision, debuttare con un album tutto nuovo e soprattutto tutto loro.
    Perché, per quanto potesse sembrare strano, erano solo loro due: i fratelli Fuentes, con i loro strumenti, i loro scritti e la loro voglia di fare musica, perché la musica salva le vite, e questo meglio di Vic non lo sapeva nessuno. Pensò a quella sera ed un brivido gli passò la schiena, come se il vento che gli scompigliava i capelli quel giorno gli fosse rimasto dentro, come incastrato nelle arterie che portavano dritte al cuore. Chiuse gli occhi, ricordando ogni particolare che anche nel sonno si faceva vivo senza lasciargli tregua, perché la malinconia è una malattia e non ci sono cure per alleviarla o combatterla. Guardò istintivamente il suo braccialetto verde, strinse forte le dita in un pugno come se quel gesto potesse dargli tutta la forza del mondo, pensando ai suoi occhi azzurri e alla paura del suo sguardo.
    « Vic, ci sei? » Mike gli sventolò una mano davanti agli occhi, inchinandosi per raccogliere il bongo che accidentalmente aveva fatto cadere a terra. Stringendo così tanto il pugno perse la tattilità, dimenticandosi dello strumento. Schiuse le labbra, non sapendo cosa dire o fare. Non aveva mai parlato di quella sera, né a lui né tantomeno ai suoi genitori. Ci pensava spesso, chiedendosi se Mike avesse dovuto provare anche quel peso insieme a lui, ma ogni volta tornava alla stessa, identica conclusione: ne aveva sopportate troppe a causa sua, non avrebbe peggiorato la situazione ancora. Gli sorrise, cancellando quei pensieri o per lo meno provandoci, cercando di combattere stringendo i denti quel mal di testa che lo uccideva quando tentava di non pensare a niente. « Non sono portato per le percussioni, Mike. Per il momento la chitarra mi basta » scherzò, arrossendo un poco. Il più piccolo si alzò, dandogli una pacca sulla spalla e prendendogli il bongo dalle mani, rivolgendogli uno sguardo dolce ed uscendo dalla stanza, lasciandolo vagare nella sua amata solitudine.
    Si sdraiò sul pavimento, osservando il soffitto e sorrise, compiaciuto del lavoro che lui e Mike fecero in quell’arco di tempo. Abbandonarono i Before Today per varie cause: avevano tutti dei problemi per la testa, il diploma si avvicinava e la voglia di studiare era veramente poca, il lavoro era incessante le idee tardavano ad arrivare. Pensarono di farla finita insieme, abbandonando quel garage con le lacrime incastrate nelle ciglia e la gola che doleva. La musica era la loro vita, ed insieme fecero grandi cose, semplicemente il tempo scorreva troppo in fretta ed i secondi non bastavano per tutti. Il fatto di fondare una nuova band fu difficile, inizialmente. Voleva dire altre canzoni, altri pensieri, pareri ed opinioni. Il fatto delle etichette o di piacere alle persone. I testi da scrivere e l’ispirazione che non arrivava se non nei momenti meno attendibili, o alle due del mattino, magari provocata da un sogno.
    Vide il soffitto decorato – o rovinato, come preferiva scherzare suo padre – con i nomi più originali od improbabili che ad entrambi i fratelli Fuentes passavano per l’anticamera del cervello. Ogni qualvolta che ad uno venisse in mente un nome chiamava l’altro, prendevano una scala e scrivevano. La calligrafia non era delle migliori, ma come poteva esserlo? Il collo rivolto verso l’alto, il braccio che tremava e il pennello che sembrava prendere vita. In genere quello a salire era Mike, poiché Vic soffriva di vertigini, e come aiuto sosteneva la scala, mentre diceva quanto facesse schifo la sua scrittura e che, se proprio avesse voluto, si sarebbe potuto impegnare di più per renderla migliore. Ogni qualvolta una scena simile succedeva, il minore scendeva dalla scala, si sedeva e non si muoveva, fin quando l’altro non lo pregava corrucciando il labbro inferiore, portandolo all’esterno e guardandolo in modo troppo dolce per i suoi standard.
    Rise, pensando a quando si sporcarono con la vernice nera. Mike sventolò troppo voracemente il pennello, facendo cadere una goccia nera nella fronte del minore, che impiegò pochissimo tempo a prendere un altro pennello e, dopo vari salti, sporcare la maglia preferita del fratello. L’altezza non lo aiutava, ma trovava sempre un modo per vendicarsi, pensando che quell’atto fosse del tutto volontario e fraintendendo, come sempre. Il minore scese dalla scala, lo rincorse con tutte le sue forze e sebbene odiasse ammetterlo notò che, pur essendo piccolo, fu molto più veloce. Lo agguantò per un braccio, lo circondò facendolo ridere e, dopo tante storie, gli buttò il secchio di vernice in testa, sporcandolo da testa ai piedi, rendendolo un perfetto uomo fatto di petrolio. Vic s’infuriò, prese dell’altra vernice e gliela fiondò addosso, sporcandolo altrettanto ma non del tutto, essendo molto più basso. Imprecò, vedendo il liquido camminare nel pavimento fino a raggiungere l’angolo in qui erano poggiate le chitarre e la batteria.
    Si toccò la pancia, soffocando una sonora risata, vedendo passare nei suoi occhi l’immagine delle loro espressioni, vedendo la macchia nera estendersi. « Oh, porca troia! » dissero in coro, cercando di uscire e prendere uno straccio ed una scopa, cercando di salvare i propri strumenti e, possibilmente, le proprie vite. Non appena la madre seppe di quel casino li prese letteralmente per le orecchie, li fece correre nella loro camera con un mese di punizione: niente più strumenti. Si sentirono morire, ma nonostante tutto seppero che la pena non sarebbe mai durata così tanto, e divertiti dal misfatto appena combinato si diedero un sonoro cinque, facendo combaciare le proprie fronti come facevano da quando erano bambini.

**

    Non era mai stata brava in cucina, ma da quando i suoi genitori erano tanto occupati doveva arrangiarsi da sola, soprattutto per far trovare qualcosa di commestibile a Jason. Controllò l’orario, a minuti sarebbe tornato e l’acqua ancora non bolliva. Si chiese se fosse lei così maldestra o se quella cucina la odiava così tanto. Volle chiedere aiuto a sua madre, ma la voce le morì in gola: non avrebbe mai perso del suo tempo per un piatto di pasta, mai. Si ricordò quando un giorno prepararono insieme la colazione. L’edificio in cui abitavano non era dei migliori, c’erano vari problemi di condominio e l’aria era sporca, infetta. La vita era incasinata ed è per questo che se ne andarono in posti migliori. Prima Los Angeles, poi la California e San Diego, poi tornarono al punto di partenza: New York, ed infine nuovamente San Diego.
    Ricordò quando aveva i capelli neri ritirati in una coda, identici a quelli di sua madre, i piatti in tavola e l’acqua per la pasta pronta a bollire. Ley la prese in braccio, facendole vedere tutte le bollicine che scoppiettavano dentro la pentola. « Le vedi? Fano bum, bum bum! » ad ogni sonoro “bum!” le faceva fare un piccolo saltello, e lei rideva, rideva genuinamente, come solo i bambini possono fare. Le diede un bacio sulla guancia, la fece mettere in piedi su una sedia, in modo che potesse vedere senza avere le mani occupate. Le raccomandò di non toccare niente o si sarebbe fatta male, e Marie, da brava bambina quale era, tenne le mani distese, immobili. Prepararono il sugo, mettendoci degli spicchi d’aglio, spellando i pomodori e schiacciandoli manualmente, come faceva la nonna. Quello fu uno dei giorni più belli della sua vita, non vide mai più sua madre con quello sguardo, con quel luccichio negli occhi che solamente a lei riservava. Spesso avrebbe voluto urlarglielo in faccia, come quando lei le urlava di stare zitta e che non capiva il motivo del suo isolamento.
    Sapeva benissimo che sua madre non stava bene, voleva aiutarla ma lei non glielo lasciava fare. La respingeva, facendola sentire sola. Sfogava la sua preoccupazione suonando la chitarra, o ascoltando musica, o cercando di pensare al nulla. Jason era l’unica ragione per cui decise di rimanere in quelle mura, avvolta dal silenzio incessante e che faceva male alle orecchie quasi volesse spaccarle. « Sono tornato » sentì la voce assonnata del fratellino. Andò a salutarlo, dandogli un bacio nella guancia e prendendogli lo zaino. « Oh, Marianne, andiamo! Non ho cinque anni, posso portarlo da solo lo zaino » si lamentò lui, guardandola esasperato. Marie lasciò lo zaino sul pavimento, raggiunse la cucina ed imprecò notando che l’acqua ancora non bolliva. Maledisse la cucina per circa cinque volte, la voglia di prendere la pentola e gettarla sul pavimento in preda ad un attacco d’isteria era tanta, probabilmente troppa, ma decise di lasciar perdere.
    « Marianne! » sentì la voce di suo padre chiamarla dal suo studio, il che le diede sui nervi. Si chiese cosa mai volesse da lei a quell’ora. Si morse un unghia, addentandola il più possibile, volendo sentire il sapore del sangue circondarle la bocca. Si avviò verso la voce, aprì la porta e rimase nell’uscio. La stanza era buia, le finestre erano chiuse e la luce del computer l’accecò per qualche secondo. Si abituò, chiedendosi poi che diavolo stesse facendo. « Sei diventato un vampiro senza che io me ne accorgessi? » chiese, con tono duro. « Non rivolgerti così a me » rispose lui, arrogante come sempre dimostrava di essere. « Non sarebbe una novità, sai? Passi il tuo giorno qui dentro, a volte non so nemmeno se esisti o no. Si chiama sarcasmo, e se non ti dispiace ho un pranzo da preparare. Cosa vuoi? » mise odio in quelle parole, sentì il cuore accelerare ed ebbe paura di un’eventuale reazione. Fece un passo indietro, portando una seconda unghia alla bocca, esitando. Tremò. « Volevo accertarmi che tu dia da mangiare qualcosa di sano a tuo fratello » rispose con fare annoiato, senza girarsi o rivolgerle uno sguardo. Le sue parole non l’avevano nemmeno toccato, e quel gesto le fece ancora più male. « E da quando te ne sbatte qualcosa di Jason? » una lacrima le rigò il volto, ma non lo diede a vedere. Sentì il cuore lacerarle in mano, come sempre succedeva quando aveva una conversazione con suo padre.
    Non sapeva nemmeno chi fosse, cosa facesse, su cosa si concentrasse così tanto. Avrebbe voluto aiutarlo, qualche volta. Mettere l’odio che provava nei suoi confronti da parte e rendersi utile, vederlo sorridere e magari suonare insieme a lui, qualche volta. Quando compì dodici anni le regalò la sua chitarra, dicendole che a lui non serviva, che la musica era solamente una perdita di tempo. Lo mandò al diavolo, sbattendo la porta e ritornando in cucina, vedendo le bolle scoppiare incessantemente dalla pentole. Quella cucina si divertiva a prenderla in giro. Pensò di sorridere, ma tutto quello che ne uscì fu un singhiozzo. Batté i pugni sulla cucina, sentiva i nervi annodarsi nella in ogni parte del suo corpo. Mise la pasta e raggiunse il bagno, chiedendo al fratellino di controllare il suo pranzo.
    Jason la seguì, abbracciandola dalle spalle, poggiando la testa nella sua schiena con forza e tenendola il più stretto possibile. Marie scoppiò a piangere, stringendo le mani del suo fratellino, girandosi e baciandogli la fronte. « Non è niente, dai » gli sorrise, asciugandosi le lacrime e perdendosi nei suoi occhi. « Hai fame? » chiese, prendendolo per mano e portandolo verso la cucina, ma lui si bloccò prima. « Devi smetterla » sibilò, guardandola con sguardo fermo, imperscrutabile. Aprì la bocca senza farne uscire alcun suono, si chiese quanto fosse simile a suo padre in quel momento e credette di piangere nuovamente. « Ti sentirai male, scoppierai, Marianne » continuò, prendendole una mano. « Un abbraccio vale più di mille parole, no? Per cui abbracciami » sorrise, guardando gli occhi di sua sorella inumidirsi. Si abbracciarono, il cuore di Marie scoppiò in quell’istante, insieme alle sue lacrime. Pensò di sentirsi male, di svenire o di non avere più una testa a causa del troppo dolore, ma Jason era lì con lei, e non si sentì più poi così tanto sola.



Spazio autrice:
eccomi, con il secondo capitolo di questa storia.
Come già vi annunciavo negli scorsi capitoli quasi sicuramente avrei cambiato il titolo di questa fan fiction, difatti ora piuttosto che intitolarsi "Alone" si intitola "Bring me to life", e scoprirete il motivo. Ovviamente non subito, anzi. Ci sarà molto su cui lavorare. Ho le idee chiare e spero di ricavarne qualcosa il prima possibile. Spero che il cambiamento non vi dispiaccia.
Perdonatemi le frasi sgrammaticate o prive di senso, se ci dovessero essere eventuali errori anche a livello grammaticale, ma è tutto il giorno che scrivo, i miei occhi chiedono perdono e spero di non avervi deluso.
Come ripeto ogni volta tengo tantissimo a questa fan fiction, ci metto tutta me stessa, spero quindi che possa uscirne qualcosa di buono e che possa piacervi.
Venendo - finalmente! - al capitolo, troviamo una situazione particolare in entrambe le famiglie. Per quanto riguarda Vic, in questa parte di storia viene sommerso dai ricordi, dai momenti felici e a mio parere divertenti passati insieme al suo amato fratellino, Mike. Personalmente amo il loro rapporto, e se mai avessi avuto un fratello penso che l'ideale sarebbe stato un misto tra il Mike Fuentes ed il Jason di questa storia. Parlando della famiglia di Jason, ancora non si sa molto della storia di Marie, della loro famiglia, del motivo per cui traslochino così tanto. Scoprirete tutto, non preoccupatevi.
Inoltre, vediamo che esistono i Pierce the Veil, che devono ancora far uscire l'album di debutto, e qui se fossi una lettrice mi farei la domanda:"Ma questi due s'incontreranno mai?". Lo scoprirete.
Il mio spazio autrice è sempre più grande del capitolo. Che brutta cosa.
Aspetto una recensione, un bacio.
ashtonsdimples

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Capitolo 4
*** Capitolo tre. ***


Capitolo tre.
 
   
     La luce del sole quella mattina era tenue, passava dal vetro della finestra e si rifletteva sul suo viso, nel buio dei suoi occhi chiusi apparivano indistinte macchie bianche e rosse. Le palpebre erano talmente pesanti che la voglia di aprirle non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello. Ormai la primavera svolgeva pienamente il suo corso, eppure le coperte lo avvolgevano, poiché il freddo non pareva voler andarsene. Marzo era fottutamente pazzo. Vide la macchie spostarsi e prendere forma: un sole, un fiore, un petalo, una A. A per Alzati, Apri le palpebre, Anatra, Aeroplano, Aquilone, Arcobaleno, Arancione, Aquila, Alieno, Alex. All’ultimo nome scattò in avanti, restando seduto, gli occhi scuri spalancati e la consapevolezza di essere “un emerito idiota” scritta nella mente.
    Lanciò un cuscino addosso a suo fratello, che grugnì di rimando, restando nella sua posizione: non voleva saperne di alzarsi. A quel punto Vic prese un altro suo cuscino e glielo fiondò addosso, colpendolo alla testa. Si sentì trionfare, fin quando Mike glieli restituì entrambi schiacciandoglieli contro il viso, non permettendogli di respirare. Non si rese nemmeno conto dei suoi movimenti, era troppo divertito a ridere, e quando non sentì più l’aria scorrere nei suoi polmoni si contorse meglio che poté giusto per prendere quel poco di aria che gli bastava. Mike era più alto e apparentemente più grosso di lui, ma era pur sempre il maggiore ed aveva un orgoglio da salvaguardare. Facendo forza sulle braccia scansò i cuscini da dosso e prese fiato, notando l’espressione divertita del fratellino.  « Questa me la paghi » biascicò con la voce roca dal sonno, sorridendogli.
    I suoi capelli erano un ammasso indefinito di color castano, mossi da una parte ed appiattiti dall’altra. Controllò l’orologio e pensò di essere in estremo ritardo. Sua madre aveva cercato in ogni dove pur di trovargli un piccolo lavoretto. Non pensava gli servisse, dato che era convinto del successo di “A flair for the dramatic”, ma non volle deluderla proprio in quel momento. Se il cd avrebbe davvero avuto successo sarebbe andato via, avrebbe incontrato nuove persone, nuove etichette, avrebbe scritto ed inciso nuovi pezzi, avrebbe affrontato una vita completamente diversa da quella a San Diego. E sua madre sarebbe rimasta sola, senza i suoi cari figli a tenerle compagnia. Se l’immaginò durante il loro primo viaggio, all’aeroporto, con le lacrime agli occhi e le mani nelle sue guance, che augurava loro un buon divertimento e gli ricordava sottovoce di lavare i denti e cambiare la biancheria. Le fece compassione, soprattutto quando la vede in cucina a trafficare con la colazione quasi pronta al piano di sotto.
    « Victor, sei in ritardo! Ti pare il modo di presentarti così durante il tuo primo giorno di lavoro? Avanti, mangia e datti una sistemata. I signori Johnson sono davvero bravi, dovresti essere felice di lavorare per quel piccolino. Hanno anche una figlia più grande, ma non so quanti anni abbia. Magari ha la tua età! » lo incitò a prepararsi il più velocemente possibile, muovendosi dall’angolo cottura alla tavola come fosse una biglia impazzita. Sistemò il latte, lo zucchero, i toast e la marmellata uno dopo l’altro, con una velocità che a Vic sembrò impossibile. Era davvero agitata, così si avvicinò, le prese le spalle e la fece girare verso di lui. Era solo un po’ più alto di lei, pensò che effettivamente i suoi genitori non erano stati molto clementi con lui in fatto di altezza, ma le sussurrò comunque di stare calma e tranquilla, che sarebbe andato tutto bene. Dopo di che l’abbracciò dolcemente, stringendola a se. Amava quella donna più di ogni altra cosa al mondo.
    Uscì di casa ed il sole quasi non gli schiaffeggiò la faccia: che fosse seriamente arrivata la primavera? Decise di non arrivare alla resa dei conti troppo presto, d’altronde marzo era fottutamente pazzo, no? Decise di raggiungere la casa dei Johnson in bicicletta. Molte persone erano convinte che dalla bicicletta si possono vedere molte più cose, come le varie espressioni delle persone, i colori degli alberi che iniziano a fiorire, le tinteggiature delle case e i graffiti sui muri. Insomma, si potevano notare più cose e quasi nulla veniva lasciato al caso, ma Vic non ci aveva mai pensato. Quando tornava da scuola andava in bicicletta, ma andava veloce con il vento che gli faceva muovere i capelli in ogni parte, il cappellino poco saldo sulla testa e nessun pensiero in mente. Ricordava che, mentre tornava a casa, voleva arrivarci e basta, voleva essere salvo.
    Quella volta andò piano, fermandosi a guardare in ogni dove. E il mondo sembrava davvero diverso. Pensò fosse la bella giornata, le persone che facevano i fatti loro, alcuni che si salutavano calorosamente, altri che urtavano l’uno contro l’altro, certi si baciavano e altri ancora si guardavano in un finto cagnesco. Accelerò un poco, spostando lo sguardo sul cielo, anche se per una manciata di secondi: voleva vedere dove andava senza fare incidenti. Il colore era di un celeste chiaro, quasi pallido, circondato dai raggi del sole che parevano fulminarlo. Se avesse avuto tempo avrebbe volentieri fatto una foto, ma quando si ricordò del piccolo bambino che lo aspettava accelerò ancora, lasciando perdere le dicerie della gente, e cercando di raggiungere l’abitazione il prima possibile. Non si fece schiaffeggiare dal vento, non solo perché non ce n’era, ma perché il posto in cui era diretto era un po’ strano, o almeno, a lui non familiare. Le case erano grigie, spente, a volte con mattoni visibili. Sembrava un quartiere malfamato, ma sapeva bene che i Johnson non lo erano, e così si chiese se per caso non avesse sbagliato strada.
    Vide una signora accanto ad un ragazzino poco distanti da lui, così andò chiedere se fosse nella strada giusta. « Io li conosco, i Johnson. Devi andare sempre dritto, e poi giri la seconda a sinistra » rispose il ragazzino indicandogli la strada. Aveva parecchi ricci ed un sorriso che tendeva verso sinistra, i denti quasi del tutto perfetti e due occhi vivaci. Annuì, ringraziandolo ed accelerando ancora una volta.
    Suonò alla porta della famiglia Johnson, la casa all’esterno era identica alle altre, l’unica cosa diversa era la porta in un legno diverso rispetto alle altre. Si chiese se potesse essere possibile. Sua madre li aveva descritti come persone molto accoglienti, magari un po’ solitari ma comunque sembravano fatti d’oro, e insomma, era convinto fossero ricchi. Gli aprì la porta una ragazzina con dei folti capelli neri, gli occhi color nocciola ed una spruzzata di lentiggini nere sparse per tutta la faccia. Lo fece entrare, presentandosi come Rose. Il suo sorriso smagliante lo contagiò, facendogli salire il buonumore. Per quanto riguardava la casa, solo dopo essersi mosso da due passi dalla soglia capì di essersi sbagliato sin dall’inizio. Quelle case, pensò, rappresentavano perfettamente il detto: “Non giudicare mai un libro dalla copertina”. La tappezzeria era color panna, i mobili in legno perfettamente lucidati, quadri che raffiguravano natura morta, persone o animali abbellivano le mura, e non mancavano le credenze con le foto di famiglia, i piatti di porcellana e i vasi stracolmi di fiori variopinti. Era proprio una bella casa. Si convinse che lavorarci non doveva essere una tortura.
    Una donna sulla trentina, con dei folti capelli ricci color pece e due occhi azzurri gli tese la mano, che non tardò a stringere, presentandosi subito dopo. « Sei stato molto gentile a presentarti qui, Victor, ti ringrazio. Io sono Emily, e lei è mia figlia Rose, ma non è di lei che ti dovrai occupare. Lei ha quindici anni e questa sera verrà con noi. In genere è lei che accudisce suo fratello, ma ora sta crescendo, vuole uscire con le sue amiche e non voglio darle un simile peso quando noi lavoriamo » gli sorrise dolcemente, e pensò che avesse una dentatura perfetta. Si chiese se da bambina portasse l’apparecchio. « Adesso ti presento mio figlio. Non è un vero e proprio terremoto, ma penso che nel primo periodo sarà un po’ difficile neutralizzarlo » accennò una risata, continuando: « Spero che almeno tu possa trovarti bene insieme a noi. Lex? Alexander? Vieni qui amore » alzò la voce, ed un pesante rumore di passi si sentì dalle scale. Un bambino con i capelli castani, gli occhi azzurro cristallino e l’indice stretto tra i denti gli si presentò davanti, con un modellino di Batman in mano e Joker nell’altra. « Du shei Vic, velo? » liberò la voce arzilla ma tanto dolce, facendolo sorridere. Annuì, avvicinandosi, abbassandosi alla sua altezza e allungando una mano. Il bambino si pulì il dito coperto dalla saliva sulla maglietta e gliela strinse, e Vic rise. « Alex, ma ti sembra questo il modo? » sbuffò la madre, guardandolo con sufficienza. Il bambino rise, prendendola in giro.
    « Vieni con me Vic, di fashio vedele la mia cameletta e ti, ti, ti shvelo il mio segleto! » lo prese per mano senza esitazione, cominciando a salire le scale. Vic si girò verso la ragazzina e sua madre, salutandole con la mano libera. « Shai una cosa? » chiese poi, abbassando la voce: doveva essere importante. Vic avvicinò l’orecchio alle sue labbra, e sentì il bambino sussurrare: « I fantashmi eshishtono! » .



Spazio autrice:
devo ammettere che è da un bel po' che non aggiorno, ma dopo questo arco di tempo sono riuscita a buttare giù qualche riga.
Voglio premettere che d'ora in poi la storia andrà avanti sotto il punto di vista di Vic, che è il protagonista. Rivedremo Marie, non c'è da preoccuparsi, ma tra qualche capitolo.
Parliamo di questo, invece. Diciamo che da questo momento la storia comincia a decollare. Abbiamo conosciuto un nuovo personaggio, Alexander, che sarà molto importante in questa storia, molto più di quanto possiate credere. Lui dice che i fantasmi esistono, e questo dovrebbe significare qualcosa d'importante. Bisognerebbe prenderla come una cosa carina oppure no? D'altronde è un bambino che sta parlando.
Spero che focalizziate bene l'attenzione sul piccolino, e spero soprattutto che il capitolo vi sia piaciuto.
Perdonate l'attesa e gli eventuali errori, aspetto una vostra recensione. Ovviamente accetto le critiche: migliorare aiuta sempre!
Un bacio,

ashtonsdimples.

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro. ***


Capitolo quattro.
 
    Quel giorno faceva caldo, troppo caldo per i suoi gusti, e dire che il meteo aveva previsto pioggia. Persino la sua canottiera gli sembrò troppo pesante, con il sudore che gli colava la fronte. Gli passò per la mente l’idea di raccogliersi i capelli ma, no, non lo fece. Avrebbe perso la sua virilità, o almeno era convinto di questo. Alexander era stretto alle sue spalle, mentre nel parco i cani si divertivano a roteare in mezzo all’erba, i bambini giocavano a nascondino e qualche ape ronzava attorno alle loro orecchie. Quel pomeriggio sarebbero dovuti andare a prendere, finalmente, Jaime e Tony all’aeropoorto. Non vedeva l’ora di abbracciare i suoi compagni di avventura, d’altronde era anche grazie a loro se la carriera andava a gonfie vele.
    Jaime aveva accompagnato Tony in Messico, dai suoi genitori e parenti. Anche lui ci sarebbe voluto andare, ma tra band ed impegni vari non riuscì a fare un bel niente se non rimanere a casa, a parlare con i manager, con gli assistenti dell’etichetta e a giocare ai videogiochi insieme a suo fratello. Per lo più da una settimana accudiva un bambino che sembrava avere il fisico di un ben formato quindicenne, da quanto si muoveva. Era un vero e proprio terremoto, con la passione della chitarra e del violino. Un giorno provò a strimpellargli qualcosa, ma finì con Alex che rompeva una corda della sua amata chitarra, così decise di metterla al proprio posto. Non si arrabbiò, d’altronde ci voleva pazienza: era solo un bambino-uragano.
    « Vic, mi compri un gelato? » chiese con la sua vocetta, mordendosi un dito. In quella settimana scoprì che strascicava la lingua solo con le persone conosciute da poco. In realtà sapeva parlare piuttosto bene. Gli aveva confidato che usava parlare in quel modo per cercare di sembrare un bambino dolce e carino. Lui gli spiegò che lo era ugualmente, e lui si mise a piangere. Alexander non ebbe mai avuto un buon rapporto con i e le precedenti babysitter. Tutti pensavano fosse troppo rumoroso, troppo volenteroso e troppo… Troppo. Era un troppo per ogni cosa, e a lui dispiaceva. E, sì, era davvero un bambino pieno di energie, ma era comunque un bambino. Non gli era sembrato così terribile.
    Lo fece scendere dalle sue spalle, prendendogli una mano e andando verso una gelateria poco distante. Entrarono, il posto era accogliente: era un bar fatto in legno, con una tettoia molto carina, con dei quadri sparsi un po’ ovunque, graffiti ed immagini di band punk-rock in vari punti. Le guardò una ad una, riconoscendole tutte. Sorrise.  « A che gusto lo vuoi? » s’inginocchiò, guardando il bambino negli occhi. Alexander tese le mani, e Vic capì che voleva salirgli sulle spalle. Lo fece salire tranquillamente, capendo le sue intenzioni. Si sentiva un ometto e certe cose poteva farle benissimo da solo, e perché non dargli quell’esperienza? Si trattava solamente di un po’ di gelato. Una signora sui cinquanta si avviò verso di loro, stando dall’altra parte del bancone. Indossava un disgustoso completo composto da una maglietta lilla e un grembiule giallo limone: dava parecchio nell’occhio, probabilmente troppo. Pensò che se avesse mai lavorato come gelataio o cassiere, o simili, non avrebbe mai indossato una schifezza del genere. Piuttosto si sarebbe licenziato.
    « Prego ragazzo, dimmi » lo salutò cordialmente, regalandogli un sorriso di servizio. Vic alzò la testa, guardando il bambino. « Un cono con menta e stracciatella, grazie! » rispose squillante, per poi abbassare il viso e nasconderlo dietro i capelli di Vic, che sorrise. Quel giorno si accorse di non avere il cappello, ed era strano, dato che non lo scordava mai a casa. Pensò non fosse poi così importante e si mise a sedere in uno dei tavolini, davanti ad Alex che, tutto felice, si godeva il suo gelato. Si prese due secondi per guardare fuori da quella finestra, pensando che il parco visto da lì sembrava davvero meraviglioso, con la fontana al centro e tutti gli alberi intorno, le panchine verdi ed i sorrisi dei bimbi che si rincorrevano. A volte spuntavano persino le farfalle. Si avvicinò alla finestra aperta, sentendo un’aria fresca spostargli i capelli. « Hai un ciuffo buffo, Vic » rise il bambino, guardando i capelli di Vic indietreggiare a causa del venticello. Lo fece divertire, spostandosi il ciuffo dalla parte opposta in cui l’aveva solitamente e facendo facce strane: la boccaccia, la lingua di fuori, muoveva le sopracciglia, il naso, storceva le labbra. Il bambino scoppiò a ridere, quasi sporcandosi tutta la faccia di stracciatella.
    Lo vide bloccarsi di colpo, il gelato fermo in una mano e lo sguardo vacuo, gli occhi completamente sgranati. « Vic! Vic, guarda! » urlò, alzandosi sullo sgabello che lo sosteneva. Victor pensò potesse cadere, così si alzò per sostenerlo. Si girò nella sua direzione che lui indicava, notando solo un’enorme radio. « Bè, è molto bella, no? » chiese, tenendolo ancora. Sentì il bambino sedersi, imbronciandosi. « No, no, no, no! » piagnucolò poi, storcendo il viso in un’espressione triste. « Sei sicuro di non aver visto nessuno? » chiese poi, osservandolo. Vi scosse la testa, tornando a sedersi al suo posto. Chi avrebbe dovuto vedere di così importante? D’un tratto Alexander si alzò, correndo, spostando una tenda ed infilandocisi dentro. Ovviamente gli andrò dietro, fermato poi dalla signora che lo avvisava del divieto di accesso ai clienti. Lui provò a spiegare la situazione, ma non ci fu verso, così si rassegnò ad aspettarlo, in preda al panico.
    « Dove sei? » chiese Alex, una volta entrato nella sala oltre la tenda azzurra. Una ragazza le si prestò davanti, con un sorriso curioso in volto. Aveva i capelli rossi come il fuoco, un sorriso acceso ed il piercing al naso, proprio come Vic. Il bimbo ripeté la domanda, andando avanti nella sala, alla ricerca del suo qualcuno. Camminò, con la ragazza dai capelli color fiamma alle spalle, guardando a destra e a manca, non trovando nessuno. Si chiese dove l’avessero nascosta. Vide una porta strana, era di un giallo fosforescente, piuttosto buffo. Si avvicinò, cercando di sentire qualcosa, ma con scarsi risultati. Poggiò l’orecchio, e sentiva un cigolio e poi un tonfo: l’aprire e chiudersi di un qualcosa. Chiese ancora dove fosse, aumentando il tono della voce, sino a quando la strana porta non si aprì.
    Ne uscì una ragazza dai capelli verde acceso, che lo guardò con fare strano. Spostò lo sguardo da lui alla sua collega, come a chiederle che diamine ci facesse un bambino davanti alle celle frigorifere. « Fantasma! » esclamò, sorridendole. La ragazza si mise a ridere, pensando fosse piuttosto strano, quel bambino. Gli si avvicinò, scompigliandogli allegramente i capelli. « Mi conosci? » gli chiese, poi, imbarazzata. « Sì, tu sei fantasma! » alzò ancora di più la voce, facendola ridere. Chiese alla ragazza dai capelli rosso fuoco, Emma, di accompagnarlo da chi l’aveva smarrito, mentre lei metteva i gelati rimanenti nel congelatore.
    « Tieni, credo si sia innamorato di Marie, una mia collega » rise Emma, consegnando il bambino a Vic che, ormai, era bello che sudato. Pensò avesse fatto chissà quale cosa là dentro, e nonostante le lamentele alla cassiera non c’era via di entrata oltre quella maledetta tenda. « Bucciarda, io ho solo visto Fantasma! » mise le braccia conserte, offeso. Vic la prese a ridere, ringraziando di cuore Emma e, preso il bambino in spalla e pagato il conto, lasciarono insieme la gelateria. « Ma chi è Fantasma, umh? » chiese poi, con il bambino ancora stretto tra le sue spalle ed un languorino allo stomaco: era ora di pranzo.
**
    Dato che quel pomeriggio i signori Johnson non sarebbero rimasti a casa poiché lavoravano e Rose non era presente, Vic portò con se Alexander alla stazione, in modo da fargli compagnia. Con loro ovviamente c’era anche Mike, che quel giorno aveva deciso di appropriarsi della macchina di papà Fuentes e guidare lui, nonostante il maggiore non fosse proprio d’accordo. Decise di acconsentire solo per stare di più con il bambino. Durante il viaggio parlarono delle loro canzoni, dei progetti da far presente a Jaime e Tony, alle serate in programma e alle canzoni da incidere. Nonostante fossero distanti gli altri due componenti della band avevano cercato di mettere del loro il più possibile, partecipando per telefono ad alcune incisioni, vedendo Mike alla batteria e Vic alla chitarra sbizzarrirsi come non mai. Erano davvero fieri del loro progetto, della loro nuova vita.
    Dopo aver ingranato la seconda, il più piccolo dei Fuentes prese a tamburellare sul volante, componendo ritmi a caso che risuonavano nell’aria. Ad un certo punto, Vic, infastidito, accese la radio, facendogli una sonora pernacchia. « Ti da così fastidio? » « Mi fai salire l’ansia, Michael » sbuffò il maggiore, incrociando le braccia al petto. « Dev’essere una cosa seria, Mike » s’intromise il bambino, prendendo in giro il suo babysitter e poi mettersi a ridere. Vic si mise le mani nel volto, rassegnato, mentre le risate del bambino e di quel deficiente di suo fratello si facevano sentire vicine alle sue orecchie. Era convinto che sarebbe stato un viaggio parecchio lungo.
    E in parte, aveva ragione. Non fu poi così faticoso, ma tra le urla di Alex, la musica alla radio assordante e il tamburellare di Mike, la sua testa stava beatamente andando a rotoli. Quasi non ebbe la forza di pensare ai suoi due migliori amici, in quel momento. Ed era lì per loro. Controllò l’orario e pensò di essere maledettamente in ritardo, e che quei due lo avrebbero castrato, come minimo. Gli arrivi accumulavano di gente, le porte si aprivano e si chiudevano in continuazione, le persone erano piene di cartelli, sudate e – purtroppo – un certo fetore si sentiva nell’aria. La voglia di andarsene era tanta, troppa, ma quando vide il testone nero di Jaime un sorriso gli strappò via le labbra. Si avvicinò, saltandogli addosso ed inglobandolo con le braccia. « Ti pare questa l’ora di venire, eh, stronzone? » lo accolse il bassista, stringendolo forte. Gli era mancato come l’aria.
    Quando i quattro si riunirono, uno attaccato all’altro dallo stesso identico abbraccio, con il bambino in mezzo che li guardava divertito dal basso, poggiarono la fronte l’una sull’altra. Guardarsi negli occhi era difficile, ma ci provarono ugualmente. « Siamo tornati, eh? » chiese Tony, mostrando uno dei sorrisi più carini che avesse mai potuto fare. « Ci puoi scommettere amore mio, e abbiamo intenzione di spaccare il culo anche al mondo intero, se necessario » rispose Vic, con una luce negli occhi mai vista prima di allora.
 

Spazio autrice:
sono parecchio soddisfatta, alla fine non ho fatto passare così tanto tempo dall'ultima volta che ho aggiornato.
Dunque, eccomi qui, con il quarto capitolo. Da qui si capiscono molte più cose dato che, sì, Alexander è 
quell'Alexander del supermercato, che disse a Marie di sembrare un fantasma. Ebbene, come già vi ho detto, Marie non scomparirà così facilmente dalla storia, anzi. Vic non ha dimenticato lei, come lei non ha dimenticato lui. Su questo ne vedremo bene nel prossimo capitolo.
Eppure non si sono incontrati. Eppure, non s'incontreranno così facilmente come si spera.
In questo capitolo inoltre vediamo la rimpatriata di tutto i cari Pierce the Veil, insieme. Lo spirito di squadra credo sia fondamentale e, bè, eccolo qui! Proprio appassionatamente.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, lasciate pure una recensione: accetto le critiche poiché servono per migliorare. Chiedo venia per eventuali errori ma non ho avuto il tempo di rileggerlo tutto.
Un bacio,

ashtonsdimples.

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