Si svegliò di buon’ora. La
luce che riusciva a penetrare dalle imposte semi-serrate colpì i suoi occhi
quasi dolorosamente. Li richiuse all’istante. Forse era un segno che Martin non
fosse pronto, mentalmente quanto fisicamente, ad affrontare la giornata. Dai
rumori della stanza, stabilì che Benedict fosse già in piedi da un pezzo. Riconobbe
il suono della carta che veniva sfogliata e messa da parte; probabilmente
l’attore stava studiando il copione del nuovo film che avrebbe dovuto iniziare
a girare a breve, appena finite le riprese di Sherlock.
Arricciò il naso, indeciso
sul da farsi. Aveva voglia di spalancare le palpebre con la possibilità che il
rosso potesse spostare la propria attenzione su di lui? No di certo, ma,
d’altro canto, quali altre scelte aveva a disposizione? Ripensando alla sera
prima, si accorse di avere un vago accenno di nausea provocata da tutto l’alcol
che aveva generosamente regalato al suo fegato. Inoltre, per la prima volta da
un tempo che non era neanche in grado di quantificare, seppe con logorante
certezza che i suoi sentimenti per Benedict non erano più un segreto riservato
soltanto a sé stesso. Seppur senza esternarlo, Martin si angosciò. La sua non
era mancanza di fiducia nei confronti di Moffat, nonostante una reazione simile
lo potesse far credere. Piuttosto si trattava della consapevolezza di trovarsi esposto:
l’essere aperto in due su un tavolo chirurgico, dove chiunque può vedere cosa
si cela sotto il tessuto epiteliale e essere in potere di lacerare gli organi interni
con un bisturi.
Da sobrio, riguardo al suo
cuore, non avrebbe pronunciato una sola parola di troppo, tanto era timoroso
che qualsiasi cosa potesse dire un giorno gli si ritorcesse contro come un
serpente velenoso, facendolo soffrire e, eventualmente, provocando la perdita
della più grande amicizia che avesse mai avuto. Benedict era troppo importante
per lui, motivo per cui non avrebbe mai corso un rischio del genere.
Finalmente deciso,
affrontò gli invadenti raggi del sole che inondavano la camera e scalciò via le
pesanti coperte e lenzuola. Cumberbatch alzò la testa dai fogli che stava
contemplando distrattamente. Il biondo notò che i vestiti che indossava non
erano più quelli con il quale lo aveva trovato addormentato nel letto al suo
rientro. Ciò testimoniava che fosse attivo da più di quanto non si aspettasse.
Il suo sguardo si posò poi sui morbidi boccoli rossi che se ne stavano sparati
in qualsiasi direzione, indomati come la criniera di un leone. Immaginò le
possibili situazioni che prevedevano un risultato simile e tutto ciò che riuscì
a ricavarne fu accompagnato dalla sua presenza nuda in un letto. Dita curiose che si insinuano in quella
matassa color carota, i sospiri di piacere dell’altro quando inizia a tirare
con dolcezza, senza indolenzire in minima parte lo scalpo. La reazione del
suo corpo fu tutt’altro che inaspettata.
«Buongiorno, Martin. » Lo
salutò Benedict con un sorriso familiare.
Martin si sentì
impallidire, quasi fosse sicuro che i suoi pensieri venissero letti uno a uno,
poi arrossì violentemente. «Ehi, Ben. » Disse in un soffio, prima di afferrare
dei vestiti alla rinfusa e sgattaiolare nel bagno con il pretesto di farsi una
doccia. Una doccia terribilmente lunga.
Dio solo sapeva quando
odiasse il suo corpo per il comportamento da adolescente alla prima cotta che non
aveva remore a imporgli.
«Non sei stato in vena di
fare le ore piccole, ieri sera, eh? »
Benedict sbocconcellò la
mollica del panino che aveva davanti con aria assonnata. «Uhm, no. In effetti
non mi sentivo del tutto bene. Ho pensato fosse saggio riposarsi un po’. »
Spiegò flemmatico.
«Mi spiace, Ben, » si
scusò Martin, sinceramente mortificato. «Peccato che tu sia stato costretto ad
andartene così presto, ti sei perso la reazione di Steven quando ha scoperto
che qualche coglione ha rovesciato il proprio cocktail nella sua giacca. Era
veramente incazzato. » Raccontò, poi.
Qualche coglione. Ben si chiese se Martin avrebbe adottato una scelta di parole
differente, se solo avesse conosciuto l’identità del ‘coglione’ in questione. A
mente fredda, si rese conto di quanto quel suo gesto fosse stato oltremodo
infantile. Eppure, nonostante ciò, non riusciva proprio a pentirsene.
«È possibile che se lo sia
rovesciato da solo e poi abbia addossato la colpa su qualcun altro. Sai com’è
distratto, all’infuori delle ore di lavoro. » Ribatté con cipiglio scettico.
Martin alzò un
sopracciglio, confuso. «A dire il vero, no. Steven non mi ha mai dato questa
impressione. »
«Strano che tu non l’abbia
notato. » Commentò Benedict, tentando si suonare meno acido possibile. Che
l’argomento “Steven Moffat” gli facesse saltare i nervi era un fatto già
appurato da non troppe ore. L’unica cosa che fu in potere di fare era
nascondere la propria irritazione e reprimere i moti di gelosia, che gli tornavano
a gola come conati di vomito. Si irrigidì sulla propria sedia e si guardò
attorno, alla ricerca di qualche volto conosciuto che potesse aver fatto
capolino nella sala da pranzo dell’albergo. Non scorgere la figura di Moffat fu
un sollievo per l’anima.
«Spero che tu ti renda
conto che oggi sei strano. » Si sincerò Martin, appoggiando le labbra sulla sua
tazza da tè.
«Io non sono strano. »
Ribatté il rosso, che assunse un’espressione da cane bastonato.
«Ben, ti stai guardando
intorno come se debba scoppiare una bomba da un momento all’altro, » Gli fece
notare l’altro. «Per caso sei il fottuto 007 e io non ne sapevo niente? »
Benedict sorrise
divertito. «Chissà, magari lo sono. »
«E qual è la tua missione,
signor Bond, James Bond? »
«Top secret. »
«Al diavolo. » Esclamò
Martin, trattenendo a stento le risate che, improvvisamente, proruppero
spontaneamente, con gran naturalità. «Comunque sei un pessimo agente segreto,
visto e considerato che ti ho scoperto subito. La regina sarà terribilmente
delusa del tuo operato. »
Benedict abbassò la voce
di vari toni e si protese in avanti, quasi stesse per confidare un segreto.
«Troverò il modo di redimermi. »
«Sono spiacente, ma temo
che il cuore di sua maestà rimarrà per sempre afflitto dalla tua mancanza di riserbo.
» Rispose l’altro con altrettanto impeto recitativo. Con il sorriso che quello
scambio di battute gli aveva stampato in faccia, levò lo sguardo oltre le spalle
del rosso per vedere i clienti meno mattinieri dell’albergo fare la loro
entrata nella sala.
Fra i tanti, riconobbe la forma solida e familiare di Steven farsi strada verso
i balconi del self-service. Nonostante la sfuriata rivolta a chissà chi della
sera precedente, l’uomo parve aver riacquistato la sua flemma e essersi
riposato al meglio. «Guarda un po’ chi si è finalmente svegliato. » Commentò
distrattamente Freeman più a sé stesso che a chiunque altro. Agitò la mano in
direzione del soggetto delle sue improvvise attenzioni prima che questi si
dirigesse al proprio tavolo assegnato.
Incuriosito, Benedict si
voltò appena in tempo per vedere la simpatizzante risposta dell’ultima persona
che avrebbe voluto trovare alle sue spalle. Seppur in quel momento nutrisse
ancora una certa incertezza riguardo alla natura dell’irritazione spontanea che
provava alla sola vista di Moffat, l’attore presto si scoprì a serrare i denti
con una forza eccessiva. La serenità di poco prima aveva abbandonato i suoi
lineamenti con una velocità strabiliante.
Il richiamo di Martin lo
riscosse dal torpore che avvertiva chiaramente fargli perdere la lucidità.
«Ben? Va tutto bene? »
Si maledisse in tutte le
lingue che conosceva. «Uhm, » Chiosò dopo una pausa di riflessione
considerevolmente lunga, per essere a riguardo di una domanda tanto semplice.
Se avesse continuato così per ancora molto, il passo successivo sarebbe stato
buttare giù tutti i santi del paradiso.
«Bella risposta. »
Dannazione, perché deve sempre leggermi come un
maledettissimo libro? Si domandò mentalmente.
Magari prova i miei stessi sentimenti. Gli rispose la vocina che adorava far capolino
nella sua mente e tormentarlo ancor più di quanto già non facesse per conto
proprio.
No. È impossibile. Non sono uno stupido ingenuo.
In compenso la cocciutaggine non si fa mancare.
«Non vedo cosa dovrebbe
esserci che non va, tutto qui. » Proruppe, sorprendendo anche sé stesso. Non
era da tutti sostenere un dibattito interiore e, allo stesso tempo, mentire al
proprio migliore amico e convincerlo di qualcosa di assolutamente falso. Se la
cosa fosse riuscita, ne avrebbe trovato un motivo di orgoglio.
Questa volta il biondo
andò dritto al punto. «Lo sguardo assassino che hai appena lanciato a Steven,
tanto per cominciare. »
«Non ho lanciato a Steven
nessun- »
«Cristo santo, Ben, non
cercare di darmela a bere. Sai bene che non funziona con me. » Lo ammonì Martin, prima che si potesse spingere oltre. «Se tu
potessi fulminarlo con la sola volontà che ti si legge negli occhi, presto
avremmo un processo penale per omicidio colposo a cui prendere parte. »
Cumberbatch corse ai ripari
più in fretta che poté. «Devo ammettere che sei dotato di una fantasia superba,
» Si schiarì la voce e prese una sorsata del proprio Earl Grey. Stava
diventando freddo. «Ma io, davvero, non riesco a capire il motivo delle tue
accuse. Sono forse apparso un po’ imbronciato? »
«Un po’ imbronciato? Parli
come se non ti avessi visto con i miei occhi! Sono certo che anche Steven se ne
è accorto. È successo qualcosa fra voi due del quale dovrei essere messo al
corrente? Ti ha volutamente calpestato un’unghia incarnita? » Si informò
l’altro.
«Assolutamente no. »
Smettila, Martin. Smettila, ti prego. Ben ebbe l’accortezza di supplicarlo in un modo che
poteva essere udito solo attraverso l’uso di poteri telepatici. Si sentì cadere
preda dell’agitazione. In qualche modo, Martin gli si era ritorto contro e lo
aveva messo con le spalle al muro, senza lasciargli intravedere alcuno
spiraglio di via d’uscita.
Per sua immensa fortuna,
non gli fu concesso di replicare oltre: un’esclamazione di disgusto proruppe
dal tavolo di Moffat, situato qualche metro più in là rispetto al loro. L’uomo
apparve visibilmente stomacato da qualcosa di impossibile da definire con
esatta certezza. Benedict, suo malgrado, non riuscì a trattenere un sorriso
carico di soddisfazione. Ci è cascato.
«Ma che cazzo... » Iniziò
l’attore biondo con un accenno di sbigottimento che sembrava star a dire cos’altro può succedere, ancora?
«Steven, c’è qualcosa che non va? »
È preoccupato per lui! Sbottò Benedict contro sé stesso. Il flebile brio
che era riuscito a pervaderlo sfumò in un battito di ciglia. Contrariato,
represse un gemito e si esibì in un’espressione stupefatta degna delle sue doti
recitative. Si sarebbe volentieri messo in un angolino, con le braccia
incrociate sul petto e un’espressione imbronciata stampata in faccia da far
invidia a un bambino viziato nel pieno dei suoi capricci.
«Ho messo il sale nel tè
anziché lo zucchero, dannazione! » Sbottò burbero l’interpellato. Entrambi i
due amici non riuscirono a stabilire se quell’improvvisa esplosione di rabbia
era rivolta alla sua disattenzione oppure a qualcos’altro.
«Ma quella che hai sul
tavolo è una zuccheriera. » Osservò Freeman con piglio scettico.
«E’ proprio questo il
punto! Non capisco come ciò sia possibile. »
«Forse il cameriere si è
sbagliato. Può succedere, non è la fine del mondo. »
O forse li ho scambiati io di proposito. Suggerì mentalmente Benedict. Si sentiva meschino, preda
di un diavolo interiore. Anzi, di un pixie. Un diavolo si sarebbe mosso
unicamente per soddisfare i suoi fini malvagi, mentre lui era vittima e
carnefice di un dispettoso impulso vendicatore. Quell’esserino immaginario che
covava dentro di sé era completamente fuori dal suo controllo e non si sarebbe
fermato per nessuna ragione al mondo, se non per compiacersi del raggiungimento
del suo obiettivo. Il suo animo ruggiva implacabile e reclamava miomiomio.
***
«Stop! Buona! » Urlò una
voce fuori campo proveniente da dietro svariati monitor di tutte le dimensioni
possibili.
Sherlock e John si
fermarono all’istante, interrompendo il flusso di emozioni che li pervase a
causa del pericolo celato dietro all’ultimo nodo da sbrigliare della rete
criminale di James Moriarty. Improvvisamente non erano più preoccupati della
loro sorte, non sentivano più l’adrenalina pompare nelle loro vene o la paura
pressante di andare incontro alla morte. Semplicemente, in un attimo Sherlock
Holmes e John Watson avevano cessato di esistere. Al loro posto ora, con
indosso lo stesso aspetto e gli stessi vestiti, si presentarono Benedict Cumberbatch
e Martin Freeman.
I due attori sorrisero
soddisfatti del lavoro appena portato a termine. In studio si respirava un’aria
di completa armonia che ben si distingueva dai claustrofobici luoghi di lavoro
impregnati di rogne e antipatie.
«Ci pensi? Siamo già
terribilmente vicini a finire anche questa stagione. » Osservò Martin
allungandosi ad afferrare la tazza a righe bianche e blu. Come in ogni buon set
inglese che si rispetti, il tè non poteva mancare.
«Già, » commentò il finto
moro. «Mi mancherà essere Sherlock, sarà come avere un vuoto fino alle prossime
riprese. Calarsi nella sua pelle da una sensazione elettrizzante. »
L’altro stuzzicò con le
unghie il bordo dell’etichetta con su scritto di pennarello nero a punta larga
il suo nome a caratteri maiuscoli. La trama sottostante era diventata
inaspettatamente interessante. «A me mancherai tu. » Mormorò in un soffio
appena percettibile.
Benedict si irrigidì tutto
d’un colpo, convinto che le orecchie gli avessero giocato un brutto scherzo. Per
la prima volta nella sua intera carriera ringraziò di avere chili di make up
ben distribuiti su tutta la faccia a nascondere il rossore che, sicuro come
l’oro, aveva preso il sopravvento sulle sue guance.
«Ma che diavolo! »
I due attori si voltarono
con una sincronia quasi perfetta. Oltre le postazioni delle telecamere e gli
obbiettivi, Moffat lanciava imprecazioni inarticolate alla volta della propria
assistente. La povera sventurata gesticolò all’aria con un plico di dossier
dall’aspetto assurdamente pesante. Benedict ipotizzò che facesse pesi almeno
tre volte a settimana per tenersi allenata.
«Non mi importa se tu non
eri qui, maledizione! Me ne stanno capitando di tutti i colori! » Sbraitò
disperato l’uomo.
Seguirono una serie di
tentate spiegazioni in toni striduli da parte della ragazza dalla forza
sovraumana. «Della colla! Come te la spieghi tutta quella dannata colla sulla
mia sedia? È piovuta dal cielo, forse? » Moffat non le lasciò il tempo
necessario a formulare una risposta. «Certo che no! Perché abbiamo un tetto
sopra la testa e, in ogni caso, non ho mai sentito parlare di perturbazioni
cariche di colla vinilica! »
A Cumberbatch fu
impossibile trattenere una risata. Se l’immagine di Steven fuori di sé era
comica, vederlo infuriare a causa di un’enorme macchia bianca e appiccicosa
magicamente apparsa sul suo fondoschiena era il massimo che il suo
autocontrollo potesse tollerare.
Martin gli riservò
un’occhiataccia. «Non può essere un caso. » Ragionò con un tono che ricordava
fin troppo John quando constatava l’ovvio. Pure l’espressione facciale e la
rigida postura militare erano le stesse. Adorabile.
No.
Benedict si girò verso il
muro di finto cartongesso in modo da poter nascondere il suo divertimento dalla
vista degli altri. Inevitabilmente, gli montò su la sensazione di aver
oltrepassato un limite non segnato. La paura mista all’eccitazione del momento
lo fecero tremare sul posto come se fosse sconquassato dai singhiozzi. Sperò
con tutto il cuore che l’altro attore non se ne rendesse conto; l’impressione
che stesse ridendo delle disgrazie altrui sarebbe stato il male minore.
«Fanculo. » Dopo aver dato
sfoggio della propria finezza, Martin lo afferrò per la manica della giacca del
completo di sartoria e lo trascinò via con sé. Non sembrava adirato, sebbene la
sua affermazione suggerisse tutto il contrario, ma era nemmeno lo stereotipo
dell’allegria. Nonostante le gambe del biondo fossero notevolmente più corte
delle sue, per poter stare al passo Benedict fu costretto a procedere ad ampie
falcate e trattenersi dal fare domande di qualsivoglia tipo.
Lasciata alle spalle
l’insegna luminosa on air, percorsero
un paio di corridoi e si fermarono davanti alla porta dello sgabuzzino delle
inservienti. Martin si guardò attorno circospetto, controllando che non ci
fosse nessuno nei paraggi, poi girò la maniglia e entrò, seguito a ruota dal
più alto. Una volta dentro, la prima cosa che fece fu accendere la luce e
chiudere la porta a chiave.
«Da come ti comporti mi
viene da pensare che di noi due sia tu, l’agente segreto. » Scherzò Benedict
nascondendo l’insopportabile ansia che gli contorceva le viscere in modo
tutt’altro che piacevole. Da Oscar.
Sciò! Questo non è il momento migliore!
Freeman sbuffò
sonoramente. «Per quanto credi ancora di continuare con questa farsa? »
Domandò, sedendosi su un enorme scatolone senza badare alla sua robustezza. Era
un’autentica fortuna che questi non fosse vuoto come appariva. «Ti avverto
subito che negare alcunché è del tutto inutile. L’ho capito che sei stato tu. »
Aggiunse.
«A fare cosa? »
«Lo sai benissimo. Steven.
» Martin incrociò le braccia al petto con fare teatrale e dondolò
distrattamente le gambe, troppo corte per toccare il pavimento.
Beccato.
Benedict capì di essere
stato messo con le spalle al muro. La consapevolezza lo colpì tutta insieme,
come quando il mare si ritira dalla riva talmente tanto da formare un’onda
abbastanza grande da travolgere e portarsi via qualsiasi cosa, La gioia dei
surfisti; l’unica pecca era che lui non sapesse nemmeno che forma avesse una
tavola da surf. Era destinato a diventare poco più di un relitto.
Martin riprese la parola.
«Sul serio credevi che fossi così stupido da non accorgermene? Quanti altri
scherzi pensi che gli servano ancora prima di- »
No.
«No. »
«No? »
«No, non credo che tu sia
stupido. E non credo che nemmeno Steven lo sia. Solo... » Non ci riusciva. Dentro
di Benedict era scattato qualcosa che gli aveva bloccato totalmente l’apparato
fonatorio, impedendogli di continuare. Se fosse stato un robot si sarebbe
potuto dire che il suo sistema era andato in crash.
Diglielo. Suggerì
l’intrepida vocina che solo lui era in grado di sentire.
No.
Infondo desideravi di essere scoperto. Se gli
scherzi di per sé ti danno piacere, l’idea che Martin sappia che non son altro
che prove inconfutabili della tua gelosia ti eccita.
N-
Basta negare! Io sono te, ricordi?
Aveva ragione. Era giunta
la fatidica ora di smettere di mentire a sé stesso. Era una battaglia già persa
in partenza; senza contare che prima o poi sarebbe finito col soffrire di personalità
multipla, cosa che non lo allettava per niente.
«Era ciò che mi sentivo di
fare. » Ammise dopo una lunga pausa della quale il biondo non osò privarlo.
«Perché? »
«Ci deve essere per forza
un motivo? »
«Cazzo Ben, certo che deve
esserci! Quel povero stronzo non si merita di trovare cocktail non identificati
nella giacca o il sale nel tè mattutino o, peggio ancora, della colla sul culo!
»
«E non hai ancora visto
dove sono le sue chiavi della camera. » Si sentì di aggiungere l’attore con un
cipiglio degno di un bulletto soddisfatto di aver portato a termine la missione
routinaria che prevedeva di infilare la testa del secchione della classe nel
primo sanitario disponibile. Era come se i dilemmi c he lo avevano assillato
fino a un attimo prima si fossero dissolti nel nulla.
Martin scosse la testa.
«Ho quasi paura di scoprirlo. » Facendo forza sulle braccia, Martin scivolò giù
dallo scatolone e atterrò sui propri piedi.
«Prima o poi lo finirà
quel cappuccino di Starbucks. » Osservò con nonchalance, gli occhi che quasi
brillavano di luce loro.
«Gesù, Ben! » Ogni
tentativo di continuare a mantenere un’aria severa sfumò come se non fosse mai
esistito. Martin scoppiò a ridere di gusto. «Oh, mio Dio. » Disse con un filo
di voce solo quando riuscì a riprendere fiato.
«Cosa? » Domandò
l’interpellato nel vedere l’altro avvicinarsi pericolosamente a lui. Il panico
che gli montò in corpo divenne sempre più difficile da controllare: capì che
era la fine quando iniziò a fare domande a raffica in perfetto stile Sherlock.
«Ho fatto qualcosa di sbagliato? Ho esagerato un po’ troppo? Ho... »
Non gli fu permesso di
dire andare oltre. Martin lo aveva afferrato per il colletto della camicia
viola e con uno strattone lo aveva attirato a sé così violentemente da
rischiare di far cadere a terra entrambi. In un attimo le loro labbra furono
premute le une contro le altre in un bacio carico di urgenza. Benedict non si
oppose al modo tutt’altro che delicato con cui Martin aveva deciso di baciarlo
e, passato l’attimo di stupore, si lasciò andare.
Le loro bocche si
allontanarono per poi unirsi di nuovo, incapaci di stare lontane per più di
mezzo secondo. Le braccia di Martin finirono intorno al collo dell’uomo più
alto, mentre le mani di quest’ultimo andarono a posarsi teneramente sui suoi
fianchi. Successivamente, le labbra di uno si dischiusero sotto l’umido invito
della lingua dell’altro, facendo perdere al loro primo, pazzesco bacio ogni
parvenza di castità. Se fosse possibile congelare un attimo per l’eternità,
Benedict avrebbe scelto questo a occhi chiusi.
«Cristo santo. » Fu il
commento di Freeman non appena si separarono quel tanto da consentirgli di
ridare fiato ai polmoni.
«Uhm... » Farfugliò
Benedict, incapace di formulare frasi di senso compiuto. Appoggiò la propria
fronte su quella di Martin, fissandolo negli occhi come se fosse sufficiente a
trasmettergli il vortice di emozioni in cui era rimasto intrappolato.
«È questo che vuoi, Ben? »
Il tempo delle
dichiarazioni esplicite era ancora lontano, ma Cumberbatch non ne aveva
bisogno. Al momento, il suo amore preferiva trasmetterlo così come aveva scelto
Martin per entrambi. Chiuse gli occhi e si lasciò divorare.
Sì.
Fine
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