Tutti qui

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Saori ***
Capitolo 2: *** Orphée+Euridice ***
Capitolo 3: *** Camus ***
Capitolo 4: *** Death Mask ***
Capitolo 5: *** Saga ***
Capitolo 6: *** Shura ***
Capitolo 7: *** Doko e Sion ***
Capitolo 8: *** Aphrodite ***
Capitolo 9: *** Aldebaran. Milo ***
Capitolo 10: *** Shaka/Mu ***
Capitolo 11: *** Οι νεότεροι αδελφοί ***
Capitolo 12: *** Tutti qui ***



Capitolo 1
*** Saori ***


Saori


Come i giorni sono tanti 
a guardarli da quassù 
e a portarli tutti avanti 
quanti restano laggiù 
ti inventi allora degli istanti 
che la vita non dà più 
sotto le dita quei momenti 
che vorresti ancora tu 
tutti qui. 

 
 


Ade le ha mostrato la Giara con sguardo di sfida. E anche d’incredulità. E quando lei vi è entrata, e ha sistemato i suoi capelli lungo il collo d’oro, le ha scoccato un’occhiata indecifrabile. Scettica, forse. Ha scosso il capo e se n’è andato. Senza dire una parola. Senza aggiungere altro. Perché in cuor suo il dio dell’Aldilà sapeva che Athena si sarebbe sacrificata per l’umanità, ancora e ancora e ancora. Fino a perdere anche l’ultima goccia del suo sangue divino. Lo sapeva, ma sperava allo stesso tempo che la natura sovrannaturale della fanciulla chiamata Saori Kido uscisse fuori, prorompesse da quel corpicino esile e delicato in tutto il suo divino cipiglio e furore. Gli sarebbe piaciuto, forse?
Saori non sa dirlo. Ha chiuso gli occhi. Non voleva che il suo ultimo ricordo, l’ultima immagine riflessa sulla sua retina fossero i capelli di Ade che si allontanava da lei. Lisci, lucenti e neri. Come una notte senza stelle. Puri e assoluti. Come la disperazione della morte.
Saori aspetta. Perché sa che oramai è questione di tempo. Oramai ci siamo. La Guerra Sacra di questo secolo è al culmine, e lei può solo attendere. Attendere che il suo fato si compia. Forse, una volta per tutte.
Saori è stanca. La Giara si va pian piano tingendo sul fondo. Oro rosa, che le illumina il viso. La Giara è fredda e lei è esausta. La veglia al Santuario. Il gladio d’oro che le recide le vene del collo. Il viaggio all’Inferno in compagnia di Shaka. E ora la Giara. Che le sta rubando il sangue, stilla dopo stilla. E Saori ha freddo. Non la preoccupa scivolare nelle braccia di Hypnos, perché sa che gli artigli di Thanatos non la ghermiranno mai e poi mai. Ci penserà Seiya ad impedirlo. Come sempre. Quindi, che male ci sarebbe se adesso la coscienza di Saori sgusciasse in un oblio ristoratore? Cinque minuti, che saranno mai? La battaglia con Ade è appena cominciata. E lei deve recuperare le forze. Anche se si tratta di un effetto placebo. La battaglia, quella vera, la aspetta. E il Vecchio Maestro è stato molto esplicito al riguardo, quando ne hanno parlato, mesi fa.

Era ancora inverno. E i monti Lu erano incantevoli, con quell’aria nebbiosa che li rendeva simili ad un acquerello. O ad un dipinto sulla seta di un paravento prezioso. L’acqua della cascata scrosciava, forte e fiera, mentre il vecchio Doko meditava. Saori gli aveva fatto compagnia. Perché, se il vecchio Libra era ridotto in quello stato, era colpa sua. Sua e dei suoi doni divini.
«Ade vorrà chiudere la questione, questa volta. È incarognito. Incattivito dal tempo e frustrato dalla Sua forza, Athena.» Altrimenti, aveva concluso Doko, non avrebbe tentato in tutti i modi di decimare le schiere della Fanciulla sin dall’inizio. Mentre enumerava gli accidenti che avevano flagellato le schiere del Santuario, la voce di Libra assomigliava al suono delle foglie secche sotto i piedi. La maledizione di Saga. Il risveglio dei Titani. La lotta fratricida che aveva sconquassato le Dodici Case. Eris. Asgard. Apollo. Poseidone. Saori si era chiesta quale fosse lo scopo di un accanimento così alacre nei suoi confronti, e Libra le aveva spiegato che Ade aveva appreso a giocare d’anticipo.
«In guerra e in amore, tutto è concesso», le aveva detto il Venerabile Libra, coi suoi occhi velati che avevano visto il sangue e l’acciaio cozzare durante la precedente Guerra Sacra. Quando lei era nata dal grembo di una donna. E si chiamava Sasha. E suo fratello era l’essere più puro di quel tempo. Saori si era detta che le sarebbe piaciuto potersi vedere. Era curiosa. Com’era stata la vita di Sasha? Com’era nascere dal ventre di una donna, di un’umana, e condividere con loro la natura mortale?

Li capisci ancora meglio. E li ami ancora di più.

Saori spalanca gli occhi. È sola. Non c’è nessuno con lei a vegliare che non esca dalla Giara e tenti qualche tiro mancino.
 
E dove mai potresti andare da sola e senza la tua armatura?

Di nuovo quella voce. Si guarda intorno, per quanto il suo collo le permetta di voltare la testa, ma non c’è nessuno. Sto forse…

No, Saori. Non stai impazzendo. Guarda davanti a te. E mi vedrai.

E Saori ubbidisce. Titubante. Che si tratti di uno scherzo di Ade? Quando le sue pupille si fissano sulla parete rosso cremisi di fonte a lei, ecco che la vede. Appare dal fondo del muro di sangue che accoglie la Giara come il ventre materno farebbe con un feto. È una ragazzina. Quanti anni potrà avere? Tredici? Quattordici? Ha i capelli lunghi, che spiccano sul chitone bianco. Sono del colore delle violette in boccio. Con una frangia sulla fronte ad incorniciare un paio di occhi dolcissimi e di un verde innaturale. Che spicca. Sembrano… sembrano fatti di vetro, pensa la dea, da qualche parte nella sua testa, mentre non riesce a staccare gli occhi di dosso alla fanciulla.
«Ciao, Saori.» La sua voce è dolcissima. Preoccupata, forse.
Per me?, pensa la dea, avvicinando il collo al bordo della Giara. Fa male, ma non importa.
«Chi sei?», le domanda. Ha ragione Seiya quando le dice che non perderà mai il vizio di chiedere con chi sta parlando prima di presentarsi. Seiya. Saori si impone di non pensare a lui. Non adesso, almeno. Perché rivedere se stessa è come specchiarsi nel Tempo. Fa girare la testa. O forse è solo il sangue che defluisce lentamente dalle vene?
La ragazza sorride. «Io sono te. La te di un altro quando. La te di duecento anni fa. Sono Sasha.»
Saori spalanca gli occhi. Sasha. Davanti a lei. Com’è possibile?, pensa, prima di ricordarsi che dove si trova la fisica che conosce l’uomo ha lo stesso senso di una Ferrari in tangenziale. Le sembra di conoscerla, o questa familiarità è dovuta all’aver condiviso un noumenon divino? Ma allora perché anche il phaenomenon è lo stesso, quasi fossero due gocce d’acqua?
«Anche le gocce d’acqua non sono le stesse, per quanto si somiglino», le dice Sasha, strappandole un gemito di sorpresa. «Scusami. Non volevo spiare nella tua mente. Ma ho pensato… di non farti parlare per non farti affaticare.»
«No. Parlare va bene. Voglio sentire il suono della mia voce», le dice Saori sbattendo le ciglia. Impressionante, pensa guardando Sasha. «Perché sei qui? È consuetudine che Athena riveda se stessa prima della battaglia?»
Sasha sorride. Scuote la testa, facendo danzare i suoi lunghissimi capelli. Più lunghi di quelli di Saori. «No», le risponde. Avvicinandosi di un passo. «Volevo solo farti compagnia. Devi sentirti molto sola.»
Il cuore di Saori si stringe dalla tenerezza. «Grazie», le dice, un groppo alla gola che minaccia di incrinarle la voce. Questa fanciulla… il suo involucro… ha attraversato l’Elisio per farle compagnia. «Che genere di persona era, Sasha?», ha chiesto a Doko, prima di lasciare il monte Lu. E lui le ha risposto con un sorriso, dicendole un solo aggettivo. Umana.
Sasha si avvicina.
«Non ti preoccupare», le dice. Non le chiede se fa male. Forse lo sa per esperienza. «Arriveranno. Tutti qui. Tutti per te.»
E Saori scivola nel sonno.

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Capitolo 2
*** Orphée+Euridice ***


Orphée+Euridice


Santa musica leggera 
per chi è senza compagnia 
per un'esistenza intera 
per amore o per pazzia 

 
 


«Orphée, ricordi ancora il nostro primo incontro?»
Annuisce.
«Io stavo suonando, seduto su una roccia sotto al vecchio castagno di Kostas, mentre tu ritornavi al Santuario con una gerla piena di bucato.»
Euridice sorride e lui con lei. Quella piccola bugia non costa nulla. La verità è che in quell’occasione, un pigro pomeriggio agli inizi di Maggio che profumava di gigli e gelsomino, era stata lei ad accorgersi di lui. Perché Orphée, di Euridice, se ne era accorto un mese prima.
La Pasqua è un momento solenne e molto sentito in Grecia. Anche tra le mura del Santuario di Athena. Pasqua è passaggio, promessa e pace. Pasqua è la Primavera. Che entra, nei pertugi e per le porte. A passo sicuro ed armonioso. Senza chiedere permesso, come il fumo. Lei arriva, e ti prende per la mano. E anche se non te ne accorgi, lei aspetta, paziente, che tu levi lo sguardo sui suoi capelli. Di grano. Come quelli di Euridice. Che in quel mite pomeriggio di Aprile aveva visto danzare tra le lenzuola stese. I suoi piedi - piccoli, bianchi, agili - sfioravano appena l’erba verde mentre il vento gonfiava gentile il bucato come fossero le vele della nave di Teseo, ed i suoi capelli, una cascata di fili di seta dorata.
Orphée non l’aveva mai vista, anche se, ad onor del vero, va detto che prima di incontrarla Orphée non aveva mai prestato attenzione alle ragazze che lavoravano al Santuario. Erano presenze silenziose, che sfilavano in sottofondo, occupandosi di faccende quotidiane. Umane. Tutto sommato banali. Lui era impegnato dalla sua musica, dal rincorrere accordi e scale sulle corde ben tese della sua lira. Neppure si accorgeva dei conigli che si avvicinavano a lui, vincendo la loro naturale timidezza pur di ascoltare le sue melodie.
Orphée si era chiesto chi fosse quella ragazza. Quella fanciulla. Kore, l’aveva chiamata, dentro di sé, senza sapere che questo avrebbe causato la tragedia. Perché gli dei sanno essere molto invidiosi. E molto, molto vendicativi. E chi può essere tanto invidioso e tanto vendicativo quanto chi è costretto a vivere nelle tenebre per sei mesi all’anno?
Non ci aveva pensato, allora. Aveva solo sentito, prepotente, l’impulso di catturare quella fanciulla. Di stringerla tra le braccia. Di fermare, tra le dita, quelle gambe candide che saltavano, danzavano, sfioravano appena l’erba. Leggiadre. Come fosse un bambino che rincorre le ali coloratissime di una farfalla in volo su un campo pieno di papaveri. Senza sapere, poi, cosa farne.
Così erano iniziati gli appostamenti. Seduto, su quella roccia sotto le fronde rigogliose del castagno, Orphée aveva atteso che la fanciulla – che Kore – passasse di nuovo per quella strada che porta dal Lavatoio al Santuario. Aveva aspettato, paziente, come lo scorpione che attende la sua preda nascosto nell’ombra. Facendo ciò che più gli era congeniale. Suonando la sua lira. Mettendo tutto il suo struggimento in quelle note. E un mese dopo, la sua pazienza era stata ricompensata.
Euridice era risalita dal Lavatoio con una cesta di bucato appena raccolto tra le braccia, la gonna che le sfiorava i polpacci e l’erba che le solleticava le dita dei piedi nei suoi sandali rossi. E si era fermata, incantata, ad ascoltarlo, tra i conigli e le lepri, i cerbiatti, una coppia di fagiani e qualche sparuto passerotto. E il cuore di Orphée aveva ruggito dentro di sé, di gioia selvaggia, mentre le labbra tentavano di non curvarsi all’insù, soddisfatte. Le sue dita avevano carezzato la lira, con passione e delicatezza, e quando si erano fermate e lui aveva alzato il suo sguardo, Orphée aveva incontrato quello di lei. Ed entrambi avevano capito che non si sarebbero separati mai più. Fino alla fine del mondo.
 
Euridice sorride, le lacrime che tentano di non ruscellare giù dalle ciglia. Piangerà, non appena lui sarà abbastanza lontano da non udirla e da girare i piedi, e correre da lei. Euridice si sforza di sorridergli. Perché vuole che lui si ricordi il suo bel viso sorridente, e gli occhi scintillanti di gioia. Come quando lei gli aveva mostrato il bozzetto per le corone nuziali. Rami di alloro ed edera e una cascata di fiori bianchissimi. Che nessuno ha passato sulle loro teste, dall’una all’altro e dall’altro all’una, né il Sommo Sion, né pope Ioannis. Che li aspettano ancora, su quello che sarebbe dovuto essere il loro talamo. Abbandonati. Sfioriti. Secchi. Ma sempre bianchissimi.
Orphée deve andare. Euridice lo sa. Lo ha inteso guardandolo negli occhi, ma quello che Orphée non sa è che Euridice l’ha capito molto prima. Quando ha visto Pegaso e Andromeda avventurarsi per il giardino della Seconda Prigione. E il cuore di Euridice, il nucleo della sua anima imprigionata in quella roccia maledetta, si è messo a cantare. Melodioso, come l’usignolo sul ramo del pesco. Perché in quell'istante Euridice ha capito che le sue preghiere erano state esaudite. E che Orphée, in un modo o nell’altro, sarebbe tornato a vivere, e non sarebbe più rimasto accanto a lei. Come una farfalla in una teca.
Ma fa male dirsi addio. Anche se non se lo dicono. Anche se è straziante. Anche se non sanno cosa ci sarà, dopo.
Potrà morire, la Morte? Potrà finire tutto, oppure ci sarà ancora speranza, per loro?
Gli occhi di stella di Euridice incontrano lo sguardo di cielo di Orphée. E lei sa. Sa che se anche non ci dovesse essere nulla, dopo, saranno insieme.
Sono sceso fino all’inferno per starti accanto. Sono rimasto qui con te. Vuoi che io non ti trovi, dopo? Ovunque tu sarai?
E lei annuisce.
Lui le sistema un fiore tra i capelli. Rosso scuro. Come il sangue di Pharao che sta scorrendo lento, in rivoli, tra i fiori del giardino. Orphée ha spostato il cadavere perché i suoi occhi non lo vedano, e Pegaso e Andormeda l’hanno aiutato. Ha sentito solo un tonfo. Poi più nulla. Del loro aguzzino non è rimasto che una pozza scura tra i fiori ed uno specchio rotto che rimanda in mille frammenti l’immagine del suo Orphée. Se solo si potesse fermare il tempo, pensa Euridice, ma sa già che si tratta di un pensiero umano. Mortale. Perché quando sei roccia per metà, nel regno dei morti, il tempo non ha più valore. Muore anche lui, congelato in un attimo di eterno presente. Grigio. Sempre uguale a se stesso.
«Devo andare, Euridice…», le sussurra. Sorridendo. Sfiorandole una ciocca dorata, come una carezza di commiato. Una speranza di rivedersi. Una promessa. E lui le mantiene, le promesse. Anche a costo di rivoltare l’eternità da sotto in su, lui tornerà da lei. Suonerà la sua lira, e lei danzerà. Ancora. Sotto i raggi d’argento della luna piena.
Devo solo avere un po’ di pazienza, si dice. Per darsi forza. Per farsi coraggio. Perché la presenza di Orphée è stata sollievo, in tutto questo tempo. Anche se lei avrebbe voluto saperlo felice a godere i raggi caldi del sole. Anche per lei.
Pazienza, si dice. Mentre la sua schiena scompare dietro il crinale fiorito. Pazienza. Ha sempre saputo che avrebbe dovuto usarla. Sua madre, che lavava il bucato al Fontanile, le aveva raccomandato di pensarci molto bene prima di accettare la mano di quel giovane tanto affascinante. Perché un guerriero non è mai tuo. Devi sempre dividerlo con qualcun altro. Con l’esercito. Coi suoi commilitoni. E con la più terribile delle rivali. Athena. Che può essere benigna quanto terribile quando strappa gli uomini – i suoi guerrieri – dai letti e dalle braccia delle loro spose e dei loro figli.
«Saprai accettarlo, figlia mia?», le aveva chiesto sua madre. E adesso lei capisce che quel «Sì», pronunciato con la testardaggine dei vent’anni, è duro da sopportare. Perché le donne dei guerrieri sanno che la più grande delle virtù non è rincorrere i propri mariti ed aggrapparsi alle loro forti spalle, piangendo e pregandoli di non andare. È attendere il ritorno del proprio uomo, sull’uscio di casa. Un sorriso solare dipinto sul viso. Un porto sicuro per la nave sconquassata dalla procella.
Orphée va alla guerra. E solo adesso lei ricorda quello che avrebbe dovuto dirgli, prima del distacco. «Conosci te stesso.» Lo mormora all’aria, sicura che il vento caldo porterà quelle parole al suo uomo. Ed un accordo, leggero e tintinnate, le torna indietro. Come risposta.
Euridice sorride. Chiude gli occhi e aspetta.

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Capitolo 3
*** Camus ***


Camus


che dura tenerezza c'era 
al rientro di periferia 
dentro un ragazzo di pianura 
a caccia della sua poesia 

 
 


In una notte di Maggio come questa, Rémy l’aveva portato a fare una passeggiata.
«Vado a comprare le sigarette», aveva detto alla porta della cucina. Maman aveva mormorato qualcosa da dietro la tenda di perline avana e marroni, ma Rémy non era rimasto con la maniglia dell’uscio in mano per quello che aveva sentito, ma per lui. Che gli si era avvicinato, afferrandogli i calzoni e guardandolo da sotto in su. Negli occhi, una muta richiesta. Lo sguardo del cagnolino che vede il padrone andare via. Lo sguardo adorante del bambino che vuol stare con suo padre. Anche se all’epoca non esistevano concetti come madre e padre. All’epoca c’erano solo loro, Maman e Rémy.
Rémy gli aveva sorriso – una di quelle smorfie sghembe che riuscivano solo lui e che affascinavano tanto la tabaccaia giù all’angolo quanto mandavano il sangue alla testa ad Antoine – gli aveva infilato la giacca e l’aveva preso in braccio. «Andiamo a comprare le sigarette», si era corretto, prima di imboccare la porta di casa e chiudersela alle spalle.
Il cielo era freddo. Sembrava così immenso e profondo da fargli venire le vertigini. Come vedere il mare all’incontrario. Pulito, con la Via Lattea che assomigliava ad un fiume di luce abbagliante. Vicino, come se qualcuno avesse scambiato il mantello della notte per una torta e si fosse preso la briga di spargere la granella di zucchero a manciate generose.
Rémy se l’era sistemato sulle spalle, tenendolo per le caviglie, mentre lui gli aveva abbracciato la testa. I suoi capelli, rossi e scarmigliati, odoravano di tabacco e cuoio. Aromi forti. Come l’abbraccio solido di Rémy. Che gli dava sicurezza. Quando Antoine bussava alla porta col manico del suo bastone, con quell’odiosa testa di cavallo in avorio. Quando sognava che Antoine arrivava per portargli via Maman. Quando cadeva. Quando era stanco e non ne poteva più di tutto quel freddo. Rémy c’era. E una parte di lui sapeva che ci sarebbe stato sempre, che ogni volta in cui Etienne avesse pianto, o gridato o chiamato il suo nome, Rémy sarebbe apparso. Ma c’era anche qualcos'altro, dentro di lui. Qualcosa che serpeggiava, viscido e freddo, e s’ingigantiva nutrendosi delle sue paure di bambino. La consapevolezza che Rémy se ne sarebbe andato. Sarebbe uscito dalla sua vita per non fare più ritorno.
«Avanti, giovanotto», gli aveva detto accendendosi una sigaretta. «Dov’è Arturo?»
«Nella Costellazione del Pastore», aveva risposto fissando i capelli di Rémy.
«E dov’è il Pastore?»
Il suo ditino era salito ad indicare il disegno di un aquilone nel cielo mentre il fumo grigio azzurro si alzava come a voler raggiungere le stelle anche lui. Rémy si era fermato, la sigaretta stretta tra i denti e aveva annuito.  «Bene. E adesso trovami gli altri vertici del Triangolo di Primavera.»
Aveva tentennato. Non gli interessava di mostrargli Spica e Denebola. Doveva dirgli una cosa importante.
«Rémy… dov’eri, ieri?»
«Fuori per lavoro. Te l’ho detto, no? Ti ho anche portato un regalino.» Altra boccata. «È successo qualcosa?»
«Ieri è venuto Antoine.» Si era aggrappato ai suoi capelli e aveva stretto le gambe attorno al collo di Rémy. «Ha detto… ha detto…»
«Delle cose brutte a Maman?»
Etienne aveva annuito e aveva ispirato forte l’odore dei capelli di Rémy. Per darsi coraggio.
«Maman ha detto di non dirtelo, ma…»
«Hai fatto bene. Ad Antoine piace scherzare. Piace fare la voce grossa. E sai perché?»
«Perché?»
«Perché è basso. Basso, calvo e zoppo. Allora lui crede che se alza la voce, gli altri pensano che lui sia più grosso. Più pericoloso. Ma dai retta al vecchio Rémy. Antoine è una mezza calzetta…»
«Sì, ma ha detto quelle cose a Maman!!» Perché Rémy avrà avuto ragione – come sempre – ma Maman non si era spaventata quando Antoine le aveva detto – le aveva promesso – che l’avrebbe sbattuta in strada a continuare la tradizione di famiglia, ma quando Antoine aveva minacciato lui. Spingendogli sotto il mento quell’odiosa testa di cavallo, fredda e scivolosa.
«Lo so», gli aveva ribattuto Rémy. Continuando a camminare come se niente fosse. Come se stessero andando a passeggio in una mite serata di Maggio. Lui si era sporto, cercando di decifrare l’espressione di Rémy. Per capire cosa stesse pensando. Aveva capito che aveva qualcosa in mente. Un’idea. Un pensiero. Uno dei suoi tanti assi pronti a saltar fuori dalla manica all’occorrenza. Al momento giusto.
«Il tabaccaio è chiuso», gli aveva detto. Julie aveva tirato giù la saracinesca alle sette in punto. L’unica era svoltare a destra e andare da Jean, in fondo a rue du Paradis. Ma i piedi di Rémy avevano preso tutt’altra direzione. «Jean è dall’altra parte», gli aveva ricordato, voltandosi verso la stradina tra le case che scompariva in una svolta capricciosa.
Rémy aveva sollevato la sigaretta, in modo che anche lui la vedesse, tutta storta e lunga la metà, la punta rosso fiamma che sembrava una stella tascabile.
«Ti svelo un segreto. Non stiamo andando a compare le sigarette.»
«E dove stiamo andando?»
Il sorriso a mezzaluna non era la smorfia sghemba che gli piaceva – e che piaceva tanto a Julie; era quell’altro sorriso. Quello da faina, quello che assomigliava ad una tagliola, quello che scintillava freddo. Quello che Rémy metteva su quando qualcuno faceva qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Come minacciare la sua famiglia, ad esempio.
«A casa di Antoine. Ovvio.»
Un misto di eccitazione e paura gli aveva fritto la spina dorsale. «Davvero? Ma Maman sa…»
«Shhh…», e Rémy aveva tirato un’altra boccata di fumo. «Sarà il nostro piccolo segreto. Una cosa tra uomini. Intesi?»
«E io che devo fare?»
«Stai accanto a me. Se Antoine ha un briciolo di cervello, risolviamo la questione in tre minuti. Altrimenti…»
«Altrimenti?»
«Gli mostrerò perché mi chiamano Il Bifolco. E credimi, non è perché vengo dalle montagne…»
Aveva visto una luce rossastra sfrigolare sulla punta delle dita di Rémy, come fossero le lucine che appendevano all’albero ogni Natale e che Maman riponeva in una grossa scatola rossa dopo l’Epifania. Sapeva che Rémy era diverso. Sapeva che era capace di cose che i padri degli altri bambini non erano in grado di fare, e non si trattava di cambiare una lampadina, aggiustare un rubinetto che perde o attaccare un quadro al muro. In quello, Rémy era negato. Ma c’era qualcosa che solo lui sapeva fare. Qualcosa che gli aveva mostrato per gioco prima, per tranquillizzarlo quando fuori infuriava la burrasca, e per insegnamento poi. Qualcosa chiamata Cosmo. Qualcosa che doveva avere anche lui. Rémy ne era certissimo. Diceva che l’aveva visto. Che era diverso dal suo, rosso scuro e caldo. Era freddo. Era dorato. E lui non riusciva a capire come mai ogni volta che si parlava del colore del suo cosmo, Rémy sfoderava il terzo sorriso - quello che avrebbe conosciuto in seguito, quando un suo allievo avrebbe risvegliato dal sonno dei Ghiacci Perenni l’armatura del Cigno - quello colorato dalla soddisfazione e dall’orgoglio paterno. Anche se la sua vita sarebbe stata una costellazione di battaglie, sangue e morti. Ma lo sarebbe stata per Athena, e non per bagattelle come chi avrebbe dovuto spartirsi il quartiere o gestire lo spaccio in zona.
«Ti attende un grande futuro, Etienne», gli ripeteva Rémy. Quando lo vedeva scoraggiato. Stanco. Quando non riusciva a convogliare il proprio cosmo sulla punta dell’indice, non importa quanto si sforzasse, fin quasi a farsi schizzare il cervello dalle orecchie. E glielo aveva detto anche quella sera, tornando da casa di Antoine.
Rémy lo portava a cavalluccio. Era contento. Aveva un labbro spaccato e un occhio socchiuso che sarebbe diventato livido a breve, ma un sorriso mai visto prima gli incurvava le belle labbra all’insù. Era soddisfatto. Oh, Maman si sarebbe infuriata a vederseli tornare pesti e malconci – cosa che era davvero successa – ma adesso importava solo che Antoine aveva capito. E che per un bel pezzo se ne sarebbe stato buono e tranquillo. Fino alla prossima volta, certo. Perché certi tipi sono troppo stupidi, e hanno bisogno di ripetizioni. E ancora e ancora e ancora.
Camminavano di buon passo, l’odore dei gelsomini che riempiva l’aria. Le stelle erano una manciata di diamanti sparsi a pioggia sul fondo nero della notte, mentre Rémy gli raccontava di un posto lontano. Dove non c’era bisogno di illuminare le strade con torce e fiaccole quando il sole scivola oltre l’orizzonte, perché a quello pensa la luce della luna. E le stelle vegliano sul sonno degli uomini come farebbe una madre alla culla del suo bambino. «Ti piacerebbe andarci, Etienne? Ti piacerebbe guardare quel cielo?»
«Ho paura del cielo, se non ci sei tu», aveva pigolato lui, i capelli di Rémy stretti nei pugni, chiusi con l’ostinazione di un bambino di cinque anni.
Rémy aveva riso, un suono forte e profondo e argentino, come quello delle campane che riempiono l’aria della domenica mattina. Aveva riso e gli aveva detto che solo i ladri e gli assassini hanno paura del cielo e non riescono a guardare la sua purezza. «Il firmamento è la luce di Dio. E solo i peccatori non riescono a sopportarla, chouchou
Poco convinto, aveva alzato la testa, le mani di Rémy strette attorno alle caviglie, a dirgli: «Stai tranquillo. Io sono con te.». E l’aveva visto. Il fiume delle stelle. Il mare capovolto, e scuro e profondo. E aveva sentito che lo stavano chiamando. Aveva visto qualcosa brillare, lontano lontano. Qualcosa di giallo. Come il suo cosmo.
«Quella è Sadalmelik, la Fortuna del Re», gli aveva detto Rémy, mentre i suoi occhi si perdevano a contemplare quel puntino. «La stella più brillante della tua Costellazione, Etienne.»
«L’Acquario?» La testa di Rémy aveva fatto un movimento impercettibile. Era come se stesse trattenendo il fiato. «È bellissima», aveva risposto, e la tensione nei muscoli di Rémy si era sciolta. Come faceva Julie quando lui le sorrideva per avere un piccolo sconto. Lontano dagli occhi belli di Maman.
«Avanti, giovanotto», aveva detto Rémy dopo un periodo incalcolabile di tempo – una decina di minuti come un istante congelato – «Torniamo a casa…». E si erano diretti da Maman passeggiando sull’acciottolato della città vecchia, stretti l’uno all’altro, canticchiando filastrocche e motivetti lui e fumando un’altra sigaretta Rémy, fino a quando non avevano visto la luce gialla della lanterna della loro casetta.

Ainsi font, font, font,
Les petites marionnettes,
Ainsi font, font, font,
Trois p'tits tours et puis s'en vont.

 
Il cielo del Santuario è uno splendido mare capovolto. Ti sembra quasi di scivolarci dentro, se non stai attento. Se ti sporgi troppo, per guardare quel fiume di stelle, cadi. E se cadi, non sai dove finirai. In qualche ammasso stellare. Sulla scia calda e luminosa di una cometa. Tra gli asteroidi. O in qualche buco nero. Come quello da cui è appena emerso lui.
Le Dodici Case spiccano bianchissime contro il nero della notte. L’aria profuma di gelsomino, ma non di cuoio, non di tabacco. Profuma dell’odore dolciastro dei fiori nei vasi, davanti alle tombe. E di quello del sangue. Il Kerameikos è squartato dall'interno. Come se fosse esplosa una bomba. Come se qualcuno vi avesse passato il vomere. Per dissodare la terra. E seminare nuove piante. Anche se non è più stagione. Un ben macabro raccolto, pensa, mentre le mani di Milo si serrano attorno al suo collo. Non si può uccidere un uomo già morto, ma quelle dita d’acciaio fanno male. E per un istante, mentre il fiato sembra volerlo abbandonare di nuovo, Camus si dice che non può finire lì. Non così. Non ancora. Non adesso. È appena iniziata. E deve aiutare Athena.
Athena…
Milo lascia andare la presa. Le sue mani scivolano via dal suo collo, come se fosse un fantoccio, un burattino a cui han tagliato i fili. Una marionetta stanca. Anche se le marionette siamo noi, amico mio.
I suoi occhi salgono al cielo. Anche se non vede più lo splendore delle stelle. Anche se sulle sue mani c’è ancora il sangue di Shaka. E quello di Athena. Ma alza lo stesso lo sguardo a quel firmamento lontano, freddo. E la costellazione del Pastore si ammanta di nuvole, per non vedere quel figlio. Per non trattenerlo sotto di sé. Perché Athena aspetta. E i suoi passi devono raggiungerla.

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Capitolo 4
*** Death Mask ***


Death Mask
 
 
tutti qui, tutti qui 
i miei viaggi che vago 
per quel mare che ormai è un lago 
tutti qui i miei sogni 
di essere un mago 
e di correre il vento mai pago 
 
 


Quando è arrivato s’è guardato intorno. Spaesato. Confuso. Perché Andrea non c’era. Non c’erano i suoi occhi, il suo viso, i suoi capelli rossi e le sue mani bianche. Non c’era il suo accento tedesco e quel suo modo assassino di dire buongiorno.
«PuOn’ciOnnoh».
Non c’era un cazzo, laggiù, se non il vuoto ed il buio, prima, e quella dannatissima bara ardente, dopo.
Come sorrideva, quel bastardo di Minosse, mentre lui sciorinava tutte le sue colpe davanti al tribunale della Seconda Prigione. Tutte quante. Dalla prima, che nemmeno ricordava più – quando a tre anni aveva schiacciato quel grosso ragno con un libro e l’aveva mostrato a sua sorella Daniela che ancora agitava le zampette – all’ultima – quel piano scellerato ideato da Saga e da lui portato avanti con zelo indefesso. Tutte, tutte, tutte. Anche quelle che no, non avrebbe mai pensato fossero colpe. Sapeva che un giorno qualcuno, dall’altra parte, gli avrebbe chiesto conto e ragione dei ragazzini falciati nel corso delle varie missioni, liquidandoli come atti di estremo sadismo e gratuita violenza, anche se la vita è piena di sfumature che l’Aldilà sembra aver dimenticato.
Ma la guerra? Davvero rinfacci ad un soldato di aver combattuto?
«E allora, in nome del Cielo, mi dici perché gli dei si circondano di guerrieri?!»
La sua voce è rimbombata fino a perdersi nell’aria asfittica della Seconda Prigione. Ma nessuno gli ha risposto.
La verità, allora, qual è? Che la gente non vuole sporcarsi le mani per davvero, ecco qual è.
In guerra e in amore è tutto concesso, si dice. Col sorriso di chi la sa lunga. Ma in quel tutto, sbandierato così alla leggera, non c’è anche questo? Non c’è il sangue del nemico che ti cola sulle mani, gli stivali e la giacca? O quello lo abbuoniamo, per simpatia? E se uno spara nel mucchio, per colpire quanti più nemici possibile, non è logico ipotizzare che cadranno anche gli ostaggi a terra? In un lago di sangue, magari?
Magari sì. Perché la guerra non è un pic-nic tra i fiori. E chi afferma il contrario non ha imbracciato più di un’arma giocattolo. Due dita distese, due dita ripiegate, il pollice dritto a formare l’idea platonica di una pistola. Innocua.
«La guerra odora di sangue, polvere e merda», diceva Tonio. «E se non è del nemico, allora è roba tua.»
E lui, di restare stecchito a terra per un atto di generosità gratuita no, non se l’è mai sentita.
Ogni missione implica dolore. Ed è meglio che sia quello degli altri, piuttosto che il mio, si è detto e ripetuto. A partire dall’istante esatto in cui l’Armatura lo ha avvolto. E ad Athena è stato bene così. Altrimenti, perché concedergli le Sacre Vestigia del Cancro? Perché non fermarlo prima?

Perché c’è bisogno di qualcuno che non abbia paura di infilare le dita nel fango e rimestarlo per bene. C’è bisogno di chi non abbia timore di sporcarsi le mani. Di fare quello che va fatto.

Ne è sempre stato convinto. Anche quando Tonio giudicava che avesse esagerato. Anche quando Andrea gli chiedeva – lo pregava – di smetterla. Che non era necessario spargere tutto quel sangue. Tutto quel dolore. Tutte quelle teste.
«A te piace quello che fai», gli ha detto un giorno, gli occhi scintillanti di pianto. «Non si tratta di un male necessario. Tu lo cerchi. Lo desideri. Te lo leggo nello sguardo. Tu… Non hai alcun rimorso…»
E lui giù a spiegare a quella capa ‘nduruta che i rimorsi sono pericolosi. Sono dolore gratuito, bile fresca e morte sicura, che ti aspetta dietro l’angolo impaziente come la puttana che adesca i militari in cerca di guadagno facile.
Cambia qualcosa a struggersi e dolersi per le vite spezzate? Sempre avrebbe dovuto uccidere quelle persone. Giustiziarle, in nome di Athena. Perché il Sacerdote… perché Saga non lo mandava in giro a cogliere fiori da depositare ai piedi della statua della dea. Lo mandava a prendere teste.  A risolvere situazioni che erano diventate spinose e contorte come i rami di un ulivo saraceno. Dove, mettendoci le mani dentro, non era possibile non restare prigionieri di quei problemi che doveva risolvere. Sciogliere. Anche a costo di passarli da parte a parte. E allora tanto valeva riderci su. Far sembrare al nemico che quello, per lui, era un trastullo, un balocco, un modo di ammazzare il tempo.
Trovare il lato positivo in quello che faceva. Nel sangue che versava. Il sangue altrui, che scorreva sul campo di battaglia, era la prova della sua forza. Della sua potenza. E sì, collezionava le teste dei suoi nemici. Che differenza c’era tra lui e il cacciatore che espone sopra al caminetto la testa del cervo, colle sue belle corna ramificate?
Il nemico era la sua preda. L’ostacolo che si frapponeva alla realizzazione del suo sogno. Del sogno di Saga. E lui avrebbe percorso quella strada fino alla fine. Anche a costo di lastricarla di sangue e lacrime. Altrui.
«Amaru cu u porcu no 'mmazza, a li travi soi non ‘mpicca sarzizza», le diceva, il sorriso del demone. Ricorrendo alla meschina verità del suo dialetto di sale, sangue e roccia e aroma di cedro. Gustandosi lo spettacolo del suo viso strammato quando non lo seguiva più lungo le curve dell’italiano, perdendosi in quelle consonanti aspirate e in quelle parole ruvide.
«Non puoi fare una frittata, senza rompere le uova», le traduceva. E Andrea tornava a galleggiare. «Non c’è spazio, per la pietà, quando sei un Santo di Athena», le ripeteva fino allo sfinimento. Ma lei no. Lei, no. Lei non capiva. Lei non voleva capire che la pietà è un lusso carissimo. Un’esitazione che si paga con la vita.
«Anche un nemico può chiederti pietà. E allora, che fai? Lo accontenti? O ti prendi qualche minuto per rifletterci su? Per ponderare se, come e quando concedergli la grazia, al nemico che ti supplica in ginocchio e a mani giunte?»
Le ha insegnato che in battaglia non c’è tempo per la pietà. Provando a farle entrare in quella testa quadrata l’istinto di sopravvivenza. Il tempo della guerra. Quando hai a disposizione un rapido colpo d’occhio per capire quanto è forte il tuo avversario, quanto sono numerosi i nemici e quali vie di fuga ti potrebbero tornare utili. Un rapido colpo d’occhio. Un battito di ciglia e niente più. La lunghezza della vita umana. Che si accorcia drasticamente quando si indugia in sciocchezze come la pietà ed il rimorso.
È per un atto di pietà che Andrea è morta.
Sì, è lui che l’ha fatta cadere nella Bocca di Ade. L’ha spinta giù, mentre lei si teneva le mani sullo squarcio che aveva sull’addome. Addome che sarebbe rimasto un guscio sterile. Vuoto. Le ha pestato le mani che si aggrappavano a quella roccia grigia e fredda. Perché perdesse la presa. E scivolasse giù.
È stata pietà, la sua.
Pietà per un’anima lacerata che non avrebbe mai potuto tornare indietro, nel regno dei vivi. Andrea sarebbe rimasta per sempre in quel limbo. Non sarebbe mai morta. Non sarebbe mai rinata. Avrebbe vagato in eterno con l’anima squarciata. Ed era la giusta punizione per quello che aveva fatto. Perché era stata tanto stupida da concedere pietà a quella bestia. Da abbassare lo sguardo il tempo necessario perché lui, il mostro, le infilzasse lo stomaco con i suoi artigli. Le perforasse il busto, da parte a parte. E ne tirasse fuori le viscere.
E quando lui le ha chiesto perché, per quale motivo avesse fatto una cazzata così assurda, lei gli ha sussurrato che aveva visto qualcosa, in quegli occhi vitrei. Rosso sangue. Una richiesta di pietà.
È per un atto di pietà che è morta Andrea.
La propria. E la sua. Ma la sua no, non l’ha accettata tanto a cuor leggero. La sua no, non la voleva.
Sei impazzito?!, gridavano i suoi occhi. Smarginati di speranza, terrore e amore. Mentre lui le schiacciava coi piedi le dita lorde del suo stesso sangue e di quello del nemico. Ridendo. Perché capisse. Anche solo all’ultimo istante, ma capisse che il maestro – e il guerriero – l’avevano avuto vinta sull’amante. Che se l’amante l’avrebbe afferrata e stretta a sé, cullandola tra le braccia tamponandole le ferite e sussurrandole all’orecchio parole d’amore e di speranza, non così avrebbe fatto il guerriero, non così avrebbe fatto il maestro. Perché entrambi sapevano che la speranza era morta nell’istante stesso in cui gli artigli del mostro avevano lacerato l’anima di Andrea. Sarebbe stata una pietosa bugia.
E lui no, non poteva restare laggiù, con lei.
E lui no, non se la sentiva di lasciarla sola, in tutto quel grigio, per andarla a trovare, di volta in volta. Ed i mastini, i mostri che si aggirano nelle ombre e si nutrono di coloro che vagano lungo l'orlo della Bocca dell'Ade, sarebbero arrivati. Presto. Molto presto. Richiamati dall’anima lacerata. E lui non avrebbe mai permesso che pasteggiassero con la sua Andrea.
Così il maestro ed il guerriero hanno convinto l’amante, sussurrandogli all’orecchio la verità. E lui ha deciso di mostrarle cosa fosse davvero la pietà. Quanto pesasse, sul cuore e sulle braccia, sollevarla di peso, lasciarla cadere e spingerla giù. Nel buio.
È un peccato che Andrea non ci fosse ad aspettarlo, laggiù. Alla fine del buio. Perché lui avrebbe voluto chiederle se avesse sentito la sua voce quando, dopo che le ombre l’hanno inghiottita, ha urlato la sua rabbia e il suo dolore a quel cielo incolore. Se l’avesse sentito chiamare il suo nome, con la disperazione che filtrava da ogni sillaba. Se avesse sentito le sue lacrime. Le sue bestemmie.
Lui sa che lei l’ha percepito. Così come adesso lui sente gli occhi verdi di lei fissi sulla sua schiena. Ma vuole sentirlo dalla sua voce, con quel tono da fumetto che inciampa nella musicalità dell’italiano, e leggerlo nei suoi occhi. E sa che non succederà fino a quando lei non avrà deciso che basta così. Che l’ha perdonato. Che, dopotutto, ha ancora voglia di specchiare i suoi occhi di lago in quelli azzurro mare dei suoi. Anche solo per un fugace battito di ciglia.
Faranno pace, alla fine. Il guaio è che è lei a tenere il coltello dalla parte del manico, ora che sono tutte e due davanti all’eternità.
Le donne sono creature strane, Marco. Tanto belle quanto impossibili, diceva Tonio. E lui, Death Mask di Cancer, si trova costretto a dargli ragione, ora che risale verso la Bocca dell’Ade con l’espressione seria. Perché si riparte. Ricomincia la giostra, signori in carrozza! E lui va alla guerra senza che lei lo abbia salutato.

Andrea, sei una stupida. Testarda e orgogliosa e cocciuta anche da morta.

È strano tornare indietro. È strano compiere a ritroso lo stesso percorso che riservava alle sue vittime. Mentre cadeva, per buona grazia del Dragone, ha cercato di appigliarsi a qualsiasi cosa potesse appendersi: sporgenze delle rocce, rami, rientranze, anche il più piccolo appiglio sarebbe andato bene pur di non precipitare verso la morte come una palla di piombo che cade in uno stagno. Ma le pareti della bocca dell’Ade sono lisce, come ha scoperto urlando il nome della dea Athena, invano; lisce come la pelle di un neonato, senza appigli, sporgenze, nicchie, rami. È un volo a cadere, senza speranza. E adesso sta risalendo quello stesso percorso come farebbe un ragno o una formica. Sta semplicemente camminando. Perché ad Athena serve qualcuno che sia disposto ad immergersi nel fango. A sporcarsi le mani. Per amore suo. E della giustizia.

Guardami, Andrea. Guarda bene e impara. Athena mi chiama e io devo andare. Questa sarà l’ultima lezione come tuo maestro. Guarda e aspettami. Conosco me stesso. E niente in eccesso.

 

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Capitolo 5
*** Saga ***


Saga
 
 
e per battere il mio tempo 
l'ho dovuto vivere e 
mi ha rubato nel frattempo 
tutti quanti gli altri me
 
 
 


«Andiamo. Athena ci attende», ha detto il Sommo Sion dando inizio alla missione. E lui, il cuore gonfio di mille sentimenti, lo ha seguito. Su, lungo quel sentiero tortuoso che conduce alla luce. Al mondo dei vivi. Osservando. Gli ha fatto uno strano effetto trovarsi assieme a loro, su quella mulattiera di rocce grigie sotto un cielo color melanzana; più che l’idea di tornare alla vita, a respirare l’aria pura del Santuario, a vedere la luce delle stelle trapuntare il cielo, gli è sembrato strano trovarsi accanto al Cancro e ai Pesci come compagni d’arme, e non più come il Sacerdote e due suoi fedelissimi seguaci.
Per gli altri come sarà? Per il Sommo Sion come sarà?, si è chiesto il guerriero marciando alle spalle del vecchio Sacerdote. Non ha potuto fare a meno di fissare la schiena dell’uomo nel punto esatto in cui il suo braccio gli sfondò il costato. Ed uscì dall’altra parte del busto. Non c’è traccia del suo passaggio, eppure Saga ha sentito le mani lorde ed appiccicose del sangue del Sacerdote. Come tredici anni prima.

Ade ha ridato loro dei corpi perfetti. Senza ferite. Senza il peso dell’età. Giovani, forti, robusti. Possenti. Eppure Saga non sente l’energia crepitare sulla sua pelle. C’è il suo Cosmo, sì. Ampio, forte, doppio; ma manca qualcosa. Non percepisce l’armatura respirargli addosso. È un guerriero dentro una scatola di latta.
Saga sapeva che quello che stavano facendo fosse una pazzia. Eppure erano disposti a tentare il tutto per tutto, ad ingannare il dio della Morte pur di riuscire nel loro piano. Non si sono preoccupati degli Spectre che hanno marciato a poca distanza da loro, quanto bastasse perché non uscissero assieme a rimirar le stelle, ma sufficiente per ascoltare ciò che i sacri guerrieri di Athena avrebbero potuto dirsi. Si è concesso un sorriso. Quello che dovevano dirsi se lo sono detto prima di comparire di fronte a Pandora e alla sua arpa. Il Sommo Sion è stato chiaro. Aiolos non c’era, ma nessuno si è stupito di questa defezione.
«L’anima di Aiolos riposa nell’Elisio», ha detto il Pontefice guardando i suoi occhi, profondi come quel mare che sbatte senza resa sugli scogli di Kerkyra. «La sua presenza avrebbe reso poco credibile la nostra commedia. Non pensate anche voi?», ma Saga si chiede se davvero crederanno al loro voltafaccia. Non è morto con la testa sul grembo della dea, sussurrandole «Thliberòs… Thitò sighnomi», chiedendo perdono, a lei e ai suoi compagni, per aver permesso a quell’anima nera di annidiarglisi nel cuore?
Eppure.
Eppure.
Eppure.

Athena lo sta aspettando. Sta aspettando proprio lui, Saga di Gemini. Nonostante tutto. E a quell'idea il suo sangue ha cantato, rombato, scrosciato nelle sue vene.
Con il ruggito potente delle fiere. La forza delle cascate. L’esplosione delle stelle.
Athena sapeva.
Athena avrebbe capito.
Questo ha detto loro il Sommo Sion e lui gli ha creduto. Ma ora che lungo il marmo immacolato del Santuario campeggia una lunga scia di sangue – dei nemici e degli amici – qualcosa, dentro di lui, vacilla.
Ora che la vede, bella come una visione, un fiore in boccio sul ciglio dell’eternità, lui sa che non può farlo. Non ce la fa. Nonostante i piedi gli gridino di proseguire. Nonostante manchi poco, pochissimo alla fine della sua missione. Della sua finta vita. Del suo dolore. Deve solo allungare le dita. Solo un ultimo sforzo. Eppure, non ce la fa.
Le cose non sono andate come aveva assicurato loro il Sommo Sion. Il piano non era questo.
Avrebbero finto di essere dei nemici.
Avrebbero finto di combattere i loro stessi compagni.
Avrebbero finto di consegnare Athena nelle mani di Ade e del suo esercito. L’avrebbero scortata personalmente nel cuore del Regno dei Morti. E lì, sarebbe iniziata la battaglia. Quella vera. Sarebbe stata una colossale messinscena. Avrebbero dovuto fare un po’ di teatro. Avrebbero distrutto gli scherani dell’Armata Infernale, bastava fare un bella recita. Essere convincenti. E lui è un maestro nell’arte di recitare. Un attore nato. Non è forse per questo che è riuscito a spacciarsi per il Sommo Sion per tredici, lunghi anni?

O quello, o una fortuna sfacciata, pensa, vedendola avanzare. Bella come l’aurora, tenera come una cerbiatta e terribile come un esercito a bandiere spiegate. Saga prega che si sia trattato di bravura personale; non per vanità, ma perché gli serve che la sua buona stella lo aiuti. Adesso più che mai.
«Vi stavo aspettando», dice la Fanciulla. La sua voce inciampa nel greco, ma il timbro è melodioso. Il canto dell’usignolo sul ramo del pesco, pensa Saga. Stregato. Non indossa la sua Armatura, ma gli occhi riverberano dello scintillio azzurro del metallo. Su quella terrazza ci sono otto persone, ma Saga sa che Athena sta parlando a lui. E questo lo terrorizza.

Cosa vuoi da me, Athena?

C’è sempre una notte stellata a far da sfondo ai loro incontri. Alle loro esistenze che si sfiorano. Si cercano. Si aspettano. Come due fidanzati.
Era una notte come questa quando il pugnale dorato vibrò sulla culla, e la luna si tinse di sangue.
Era oramai sera quando lo Scettro di Nike fermò la sua folle sciarada e lo Scudo di Athena gli purificò il cuore, scacciando il daimon dalla sua anima.
Ed è notte anche adesso, una notte cupa e densa e avvolgente come un mantello bagnato, come un incubo che la luce lontana delle stelle non fa che acuire.
C’è Kanon, accanto a lei. Il suo sbaglio più grande. Tra le mani, quel maledetto cofanetto. E Athena gli sta parlando. Gli sta dicendo delle cose che lui non capisce. Che lui si rifiuta persino di considerare. Non vuole sentire. Non le basta quello che ha fatto? Non le basta che abbia immolato Shaka e la propria anima, pur di avanzare di un altro passo verso di lei? Pur di essere credibile? Per la salvezza della Giustizia? Saga non comprende a quale gioco stiano giocando gli dei. Perché è tutto troppo assurdo. Troppo orribile per essere vero. Per non essere uno scherzo macabro. Una piccola, feroce vendetta di quel disgraziato di suo fratello. Ma la luce che scorge negli occhi di Kanon, la fermezza con cui l’altro gli conferma che sì, è tutto vero, gli allargano lo sguardo dal terrore.

No. Athena, no! Ti prego. Tutto. Ma questo, no.

Saga si getterebbe nudo nel fuoco se solo lei glielo chiedesse. Adesso. All’istante. Prosciugherebbe i mari e colmerebbe il cielo, per lei. Non sarebbe un peso. E quand’anche lei gli chiedesse di combattere da solo le schiere infernali, lui lo farebbe. Anche se non avesse avuto che mezza possibilità di farcela, da vivo. Figuriamoci da morto.
Ma lei non gli sta chiedendo niente di tutto ciò. Gli sta domandando una cosa ben più semplice, ma ben più orribile. Lei gli sta chiedendo di ucciderla. Di impugnare quell’arma maledetta e di conficcargliela nel petto. Nel cuore. Come avrebbe dovuto fare tredici anni fa. Come sarebbe riuscito a fare la sua parte malvagia se il suo vero io non avesse esitato, pregando che gli dei fermassero la sua mano, e se Aiolos non avesse intercettato la lama con la propria carne.
Saga non vuole ascoltarla. Non vuole perché non è questo che aveva prospettato loro il Sommo Sion. Perché lui non osa levare la mano su Athena. Non può farlo. Perché no, questo non lo libererebbe dal dolore di aver mosso guerra al Santuario. Per la morte di Aldebaran. Per il sacrificio di Shaka. Per la sconfitta di Death Mask ed Aphrodite. Per i Santi d’Argento che sono caduti lungo il cammino.

Non puoi chiedermi questo, Athena!

Eppure lui sa che è vero. Sa che Athena lo ha aspettato per questo motivo. Sa che ha speso i suoi ultimi minuti di vita attendendo il suo carnefice con la virginale paura della sposa. Nel suo chitone bianco. Pura e immacolata. Le manca solo la corona di fiori da metterle sui capelli. Lo ha atteso, perché lui è il suo mistico sposo. Lui è l’uomo che lei ha scelto per versare il proprio sangue. Non alla gloria di Imene, nel sacro mistero del talamo; ma sul candore del marmo di un Santuario spezzato, sventrato, sconquassato. Da quell’esplosione capace di disintegrare le stelle. Da quel colpo proibito che ha condannato lui e gli altri all’eterna damnatio memoriae.
Il pugnale è viscido e freddo tra le dita. Metallo che brucia come se fosse ancora nella fucina del Fabbro. È Athena a mettergli quell’arma tra le mani. Non sa neppure lui come. I suoi occhi sono persi in quelli di lei. Grandi. Dolci. Smarginati. Traboccanti di un amore così puro e assoluto che lui no, non sente di meritare. Saga si specchia in quello sguardo e vi cade. Annegando come Narciso nella fonte, alla ricerca di un doppio non da amare, ma da sacrificare. Di qualcuno che porti su di sé l’infamia del tradimento, la blasfemia del deicidio, il peso dell’ichor di Athena.

Non ne son degno. Le mie mani sono troppo lorde, Mia Signora.

Eppure, nel fondo della sua anima, Saga sa di essere l’unico che può assecondare il suo volere, che può esaudire il desiderio della dea. Ancora una volta, è lui l’ago della bilancia. Perché Athena ha sempre saputo che lui sarebbe stato l’unico a sporcarsi le mani, qualora fosse stato necessario. L’unico che avrebbe bevuto il calice fino alla feccia, stilla a stilla, lasciando a lei il vino ed il miele. L’unico da poter impersonare il suo sposo in quelle nozze simboliche, l’unico che avrebbe sopportato di violare uno sposalizio in bianco. Macchiandolo di sangue. Urlando contro il cielo. Ridendo e piangendo allo stesso tempo.
Eppure, questo pensiero non lo conforta. Non lo aiuta a sopportare il dolore che il pugnale gli causa, e delle dita sottili e bianchissime di Athena strette attorno alle sue. Perché Saga sa che è lui, la sposa. La vittima. L’agnello. Che osserva impotente la lama rivolgersi verso il candido collo di Athena alla ricerca assetata della giugulare da squarciare.
Aiutami, Saga. Accompagnami nel mio viaggio. Non lasciarmi da sola.
Questo pensa Athena, colpendo se stessa in questa notte disgraziata, il suo cosmo divino che gli esplode nella testa come un fuoco d’artificio. La luna volge altrove il suo sguardo d’argento mentre a terra si apre un lago rosso scuro, che risalta contro il marmo. Le stelle gridano. Il cielo si spezza. E lei cade. Lontano da lui.
E mentre un urlo – dolore, terrore, raccapriccio – gli muore in gola, troppo gelato per spezzare il silenzio irreale della notte – «Athena, tu sei la mia vita e io ti amo!» – e le sue mani non riescono ad afferrare la sua sposa, che già la Morte reclama a sé, Saga si chiede se è davvero questo, quello che Athena si aspettava da lui.
 
 

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Capitolo 6
*** Shura ***


Shura
 
 
e una canzone non è niente 
è un odore o una bugia 
soffia al cuore della gente 
mentre prova a volar via 

 
 


«Aiolia… ascoltami!»
«Stai. Zitto.»
I passi del Leone sono pesanti quanto il suo cuore. Se non fosse stato per l’intervento di Athena, il suo sangue e le sue viscere starebbero decorando la Scalinata Sacra, gradino dopo gradino, fino allo spiazzo antistante la Prima Casa. Un sacrificio d’espiazione. La canzone del capro.
Aiolia freme.
Perché vorrebbe dargli la lezione che si merita?
Possibile.
Perché deve risparmiare la vita di un traditore?
Probabile.
Perché deve trasportare a braccia l’assassino di suo fratello?
Sicuro.
Shura questo lo capisce. Lui, al suo posto, non proverebbe le stesse cose?
«Aiolia…», e solo pronunciare quel nome gli costa moltissimo. Shaka non se n’è andato senza colpo ferire. Anzi. I tre Gold Saint traditori del Santuario sono ridotti ad un cieco, un sordo ed un muto. Un terzo, un terzo, un terzo. Come potrebbero anche solo sperare di farcela contro tre assi?
Se non avesse l’assoluta necessità di avvisare Aiolia, di parlargli, di farsi ascoltare, a Shura scapperebbe da ridere.



Il ritorno verso il mondo dei vivi non è una passeggiata. Devono percorrere al contrario l’angusto anfratto della Bocca dell’Ade. È un imbuto dalle pareti lisce, senza appigli. «O le anime tenterebbero la risalita», ha spiegato Mask tra una bestemmia e l’altra. Una prova impossibile. Eppure lo affrontano. Scalano quel dannatissimo imbuto perché sono Santi di Athena, nonostante le Surplice che indossino siano macchie indelebili sull’anima.
Ade non ha concesso loro nulla. Un corpo ed una corazza è tutto ciò di cui si sono dovuti accontentare. Un passaggio diretto per il Regno dei Vivi sarebbe stata cosa gradita. Pulita. Facile. Ma avrebbe dato loro tempo. Per organizzarsi. Per ideare un piano. Per comunicare ai Santi di Athena superstiti le loro vere intenzioni. E questo Eaco e Minosse non potevano permetterlo.
«Risalirete la Bocca dell’Ade. Perché? Che problema c’è? Siete un po’ arrugginiti, del movimento vi farà solo che bene», ha detto il Gigante dai capelli d’argento quando il Sommo Sion ha cercato, invano, un modo più rapido per tornare in superficie.
Ce l’hanno fatta in tre ore. Hanno compiuto un miracolo, il primo di quella lunga notte.
Il secondo, sarà arrivare integri al cospetto di Athena.
Il terzo, non lasciare sul terreno i loro stessi compagni.
Sente lo sguardo di Saga sul suo collo. Gemini vuole parlargli, ma sa anche che non è il momento. C’è qualcosa di più grosso in ballo di un chiarimento e una richiesta di perdono. E il Sommo Sion è stato chiaro. Niente tentennamenti. Niente cincischiamenti. Risolveranno dopo le loro controversie. «Se ne avrete il tempo», ha detto prima di mettersi alla testa del drappello e marciare verso il Santuario.

 


Quando arrivano alla Nona Casa, la mascella del Leone si serra. Freme, la mandibola pronta a spalancarsi ed i denti ad azzannare. Athena ha detto di portarli alla Tredicesima Casa, ma non di portarveli incolumi. E se il Leone volesse avere uno scambio di opinioni con un ex-compagno ridotto ad un ammasso di carne e sangue tenuto insieme per scommessa e fede, né Milo né Mu avrebbero qualcosa da ridire. Anzi. Volterebbero la testa dall’altra parte. O spenderebbero quel tempo per chiarire altre faccende.
Aiolia deve sapere. Aiolia deve ascoltarlo. Perché la sua anima gronda pentimento. Perché vuole espiare la sua colpa. Perché Shura, il detentore della Sacra Lama, ha preso un abbaglio accecante. Come il riverbero del sole su di un pezzo di vetro.
Perché deve avvisarli. Loro devono sapere. Non c’è momento migliore. Potrebbe sussurrare qualcosa alle orecchie di Aiolia. Tutta la verità, nient’altro che la verità, e nessuno oltre a loro due sentirebbe. Le farfalle di Papillon sono un ricordo spiacevole al risveglio, la sensazione di latente pericolo che lascia in bocca un brutto sogno.
L’orecchio di Aiolia è vicino alle sue labbra. Dovrebbe solo farsi uscire il fiato, e tutto sarebbe risolto. Compreso. Capito. Perdonato, no. Ma gli altri saprebbero a cosa stanno andando incontro. Qual è il piano del Sacerdote. Basterebbe così poco, così poco. Tanto quanto manca all’uomo in mare per afferrare il salvagente che potrebbe salvarlo. Ma il Leone allontana ogni speranza con una zampata rabbiosa e feroce. Un gesto di avvertimento. La prossima, sarà quella decisiva. E l’uomo in mare cade giù. Affondando nel buio.


 
«Aiolos non c’è. »
Saga interrompe la sua ricerca e il potente Gemini, l’uomo che assomiglia ad un dio sceso in terra, quasi trasale quando il Capricorno gli piazza gli occhi nei suoi. Lo sguardo di Shura è fuoco liquido color verde bosco che divampa nel blu oltremare di Saga. Un blu cupo e tranquillo allo stesso tempo.
Si fronteggiano per istanti eterni. Muti. Nessuno interrompe quel dialogo silenzioso.
Shura non sa cosa vogliano fare gli altri. Se vogliano discutere con Saga. E al momento non gli interessa. Adesso vuole solo potersi chiarire con Aiolos. Chiedergli perdono, per aver alzato la mano contro un compagno d’arme, contro un fratello, quasi, invece di sentire le sue ragioni. Avrebbe dovuto dimostrare maggior buonsenso, ma Saga aveva saputo come e dove soffiare perché nel suo cuore infuriasse un incendio di sentimenti contrastanti.  Aiolos era il suo mito. Il suo modello. L’esempio a cui guardare per tendere verso l’infinito. E Saga sapeva che una cosa sola avrebbe distrutto il piedistallo su cui il giovane Shura aveva posto il Sagittario. La salvezza di Athena.
«E non ci sarà.»
Il Sommo Sion si intromette. Cerca Shura con lo sguardo, calmo, limpido, sereno. E il Capricorno capisce.

 


Vorrebbe presentarsi a lei, farle sapere che anche da morto, anche dal Regno di Ade, lui è un suo fedele servo. Indegno del suo amore e di maneggiare Excalibur, ma pronto a rischiare tutto e ancor di più solo per lei. Vorrebbe cadere in ginocchio. Vorrebbe chiederle perdono con la sua voce e specchiarsi nei suoi occhi. Dicono che siano cerulei, ma la realtà, Shura lo sa, è un'altra. Azzurro è il riverbero dell’armatura sulle iridi della divina Athena. I suoi occhi sono verdi. Li percepisce mano a mano che si avvicina, le gambe malferme, le ginocchia che tremano e scricchiolano, come se stessero per spezzarsi. Gli occhi di Athena sono verdi. Splendenti come laghetti di montagna. Come pezzi di vetro, pensa, da qualche parte dentro di sé. 
Ci siamo già incontrati. Tanti anni fa, vorrebbe dirle. Ma la lingua tace. Non ci sono parole, non le trova più. E anche se Shura sa che sono sempre lì, sulla punta della lingua, pronte a ruzzolare via e a perdersi in questa sera disgraziata, lui le ha dimenticate. Peccato.
La notte odora di gelsomini. E violette tenere. Di quelle che spuntano timide, al bordo delle strade. Percepisce solo un’ombra, davanti a sé. Un’ombra splendente. Che rifulge d’oro contro il nero della notte. Come a sfidare le tenebre. Un’immagine pazzesca, ma questa notte ha ben poco di normale. Questa, è una notte di prodigi e miracoli. Questa è la notte in cui i cieli e la terra finiranno. Questa è la notte per cui si è preparato da quando ha l’età del ricordo. E adesso che la sta vivendo, pur se come spettro, adesso tutto passa in secondo piano.
Ha il fiato corto, Shura. È stanco. Per la battaglia. Per le lotte. Non è uno scherzo combattere scalando la collina dello Zodiaco, tempio dopo tempio. Eppure, adesso che Athena è così vicina, la sua sola presenza cancella la  stanchezza, il dolore e il rimorso. C’è Athena. Andrà tutto bene, si dice, in un angolo della mente. Raccontandosi una pietosa bugia. Una delle tante che ha costellato la sua breve esistenza. Non sa cosa abbia in mente il Sommo Sion. Cosa dirle. Come convincerla a seguirli nel regno dell’Oltretomba. E lottare con loro. Che la difenderanno. La proteggeranno. E le apriranno la strada. Fino a raggiungere Aiolos.



La mano tesa che gli è apparsa davanti è quella del Sommo Sion. Ha spaccato il ghiaccio della Caina e lo ha estratto da quell’avello gelato sollevandolo per le ascelle. Ha sorriso, Sion dell’Ariete. Una curva mesta, sulle sue labbra rosate. Un’ombra nello sguardo aperto, limpido, sincero. Il riflesso di un passato lontano, perso nel tempo. Shura vorrebbe sapere che giorno sia. Shura ha perso il conto del tempo, ma con l’eternità davanti, Shura si chiede se abbia senso porsi questa domanda.
«È ora,
Campeador», gli dice il vecchio Sacerdote. E qualcosa dentro di lui risponde al richiamo. Gli sembra di riconoscere in quel ragazzo, giovane e forte, l’uomo con la palandrana e la maschera rituale che presiedeva al culto della divina Athena. Che spiegava loro la mitologia, l’astronomia, e li preparava alla battaglia. Tuttavia, gli pare anche di riconoscere un compagno. Sion dell’Ariete. Ma è solo un attimo. Shura sbatte le palpebre e l’incantesimo si spezza. Sulla pelle, l’artiglio del ghiaccio e le raffiche di vento. Nel cuore, la contezza di chi è. Di chi è stato. Di una donna che lo attende, accanto alla finestra, i capelli color delle viole e gli occhi come laghetti di montagna. Di un chitone candido come le nuvole. Di una canzone da cantare di padre in figlio. Di una spada brandita. Per uccidere. Per vivere. Per la Giustizia.
«Vieni. Andiamo», e il Sommo Sion si passa un braccio attorno al collo e lo aiuta. Un passo. Le gambe non rispondono. I piedi slittano sul ghiaccio.
«Adagio, ragazzo», lo esorta il Sacerdote. «Adagio.»
Shura scivola ancora. Una volta, due, tre. «Io… Io non posso.»
Lo dice come se fosse una scusa. Perché lui può. Eccome, se può. Solo che ha dimenticato come si cammina. Come si sta eretti. E come può combattere e saltare se le gambe non lo supportano?
«Puoi.»
E mentre il Sacerdote avanza, lui si ritrova a seguirlo. Scivolando, slittando, sdrucciolando. Cadendo. E rialzandosi.
Le gambe fanno meno male. Si stanno svegliando. Deve muoversi. Deve camminare. Deve andare avanti. Perché Athena lo sta aspettando.   

 


Aiolos è lì. Accanto a lui. Come da bambini, quando osservavano assieme le stelle, una bibita tra le mani e il naso all’insù a scrutare il cielo viola. Qui non si vede il cielo. Qui il Muro del Pianto è così alto da incombere su di loro a perdita d'occhio. All’infinito. Su, su, su e oltre. Come nei fumetti.
A vederlo, diresti che il cuore si gela. Muore, dentro il tuo petto. E se lui non fosse già morto – due volte – il suo cuore proverebbe la disperazione più pura e profonda che esista. Il pianto inconsolabile del bambino che ha perso il padre. Del fratello che seppellisce l’altro fratello. Ma lui è già morto. E c’è Aiolos, accanto a lui, adesso.
Pensava che avrebbero parlato. Pensava che il Sagittario non l’avrebbe guardato in faccia. Si sono scambiati uno sguardo, un battito di ciglia o poco più, e si sono chiariti. Un battito di ciglia, e niente più. E Shura ha capito che Aiolos lo ha perdonato. E Aiolos sa che Shura ha compreso. Tutto rientrava in piano ben più ampio. E loro, piccole pedine di un gioco assai più grande, non han potuto che arrendersi al destino deciso dalle Moirai.
Le ali del Sagittario splendono. La freccia è incoccata. L’arco si tende. La corda freme. Shura alza il braccio.
Sono i Cavalieri della Speranza. E la speranza è ciò che resta agli uomini dopo che Epimeteo aprì il vaso di Pandora. La Speranza del colore dell’arcobaleno. La Speranza di luce. Quella che loro dodici faranno risplendere in quest’ora di tenebra.
«La notte è più scura prima che sorga il sole», gli ha detto Aiolos tanti e tanti anni fa, mentre Venere si faceva attendere e Aiolia dormiva già, vinto dalla stanchezza.
«Ma per quanto la notte possa sembrarti interminabile, il sole sorgerà sempre. Di nuovo. Per un altro giorno.»
Shura lo mormora, un sussurro appena, e le labbra di Aiolos si arricciano all’insù.
«Andiamo», sussurra il Sagittario. Aiolos. Sisifo. Shura. El Cid. E chi è venuto prima di loro. La notte è più buia prima che sorga il sole. Un istante prima di scagliare la freccia.

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Capitolo 7
*** Doko e Sion ***


Doko e Shion
 
 



dal ponte amaro del presente 
dietro a qualche nostalgia 
o un metro dopo l'orizzonte 
sopra il treno della fantasia 

 
 


È stata una vita lunga, la sua. Lunga e soddisfacente.
Qualcuno potrebbe obiettare che un’esistenza, lunga o corta che sia, senza la benedizione di un figlio sia come un colino senza fori; lui risponderebbe rigirando la questione con una domanda delle sue, porta con un sorriso senza tempo e una luce giocherellona negli occhi. Crescere degli allievi, plasmarli e permettere loro di camminare con le proprie gambe non è la stessa cosa? Certo, gli allievi non nascono dai tuoi lombi e non hanno il naso di tuo padre o le mani di tua sorella o la stessa forma dei tuoi occhi. Ma importano certe cose quando hai la responsabilità di educare una vita?
Lui risponderebbe di no.
Non conta la corteccia dell’albero, che sia di betulla, salice o acero. Conta l’albero. Che cresca forte, sano, e che i suoi rami robusti e le sue fronde rigogliose e svettanti si tendano abbracciare quel cielo lontano cui l’uomo no, non smette di guardare con un po’ di rimpianto.
«È il respiro delle stelle», gli avrebbe detto il Sommo Sage, gli occhi a contemplare la Via Lattea mentre il respiro degli ulivi nella notte attica avrebbe sussurrato alle loro orecchie una canzone antica quanto la terra. «Siamo come isole alla deriva, quaggiù. E anche se amiamo questo tempo e questa vita, è lassù che vogliamo tornare», avrebbe concluso indicandogli un punto imprecisato del cielo.
Lui si sarebbe perso a seguire quel dito, magro e distorto dall’età invidiosa, ed il Sommo Sage avrebbe nascosto un sorriso sotto i baffi. Ma i giorni passati ad ascoltare la voce colma di saggezza del Sommo Sage sono un puntolino lontano nel tempo, un’ombra fugace tra le ciglia. Anche se le stelle sono sempre le stesse.
 
La Meridiana ha risposto al suo tocco come un violino ben accordato. Dodici ore. È un piccolo espediente, ma basterà. Per vedere quel che si prova. Shiryu non amerà ripetere l’esperienza, ma pazienza. Shiryu non dovrebbe essere qui, innanzitutto. Dovrebbe essere accanto a Shun Rei, a riposare cullato dallo scroscio gentile della cascata. Invece, quello zuccone testardo lo ha seguito tra le colonne di marmo del Santuario.
«Chi nasce tondo, non può diventare quadrato», avrebbe detto Manigoldo, con un sorriso dei suoi, una di quelle smorfie che chiamano i pugni come il miele fa con gli orsi.
Doko sorride a quel ricordo. Inopportuno, forse. Ma quando incontri un vecchio amico dopo tanto tempo, i ricordi del passato in comune sfondano ogni diga ed ogni argine. Come un fiume impetuoso e capriccioso. Come una tigre giocherellona che ha deciso di palleggiarsi tra le zampe un povero coniglio impaurito.
Sion non è mai stato un coniglio impaurito. Anzi. Gli ha sempre invidiato, in fondo, quella flemma che lo contraddistingueva. E Doko sa quanto Sion, il mite e calmo Sion sappia essere pericoloso, se provocato. Eppure, gli prudono le mani, pardon: le zampe, al tigrotto. Ha voglia di giocare. Di prendersi a zampate, di rincorrersi e perché no?, anche di graffiarsi e di scambiarsi qualche morso. In completa amicizia. Come si fa tra fratelli. E di farsi spiegare cosa diamine abbia nella testa il suo vecchio amico.
«Vai, Shiryu.»
Il tono è quello di un padre che manda il figlio a giocare in giardino perché gli adulti devono discutere di qualcosa di importante, e le questioni importanti si discutono in privato.
I piedi di Shiryu sono inchiodati al suolo, l’armatura è un po’ ammaccata ma va ancora bene.
«Athena ti aspetta», ed il Dragone trasale. Un cenno, le labbra del suo allievo che si stringono, ma poi i suoi piedi si muovono. E riprendono a correre. Ancora e ancora e ancora. Perché la strada per raggiungere Athena è lunga, e un pochino tortuosa.
«S’è fatto grande», commenta Sion. Avvicinandosi. Le braccia sono in posizione, ma nello sguardo c’è un altro messaggio.
«Sì», concede Doko. Stringe i pugni e si prepara a contrattaccare. Li ho sentiti, Sion. Li ho percepiti esattamente tutti attorno a noi, nascosti dietro quelle colonne.
Un lampo, un’esplosione di luce e la Tigre si prepara a giocherellare un po’.
Ha passato troppo tempo a sonnecchiare, davanti alla cascata, al riparo tra le foglie e la vegetazione lussureggiante della Cina. È ora di sgranchirsi le gambe.
 
Le corna dell’Ariete possono fare male. Molto male. E gli scherani di Ade lo hanno imparato a loro spese. Piangendo. Gridando il nome di Ade e bestemmiando contro quel cielo nero, ingemmato di stelle che brillano come diamanti purissimi. Cadendo al suolo. Imbrattando il sacro selciato del Santuario di un sangue scuro e nero come il peccato.
È il prezzo da pagare per aver accettato di servire una divinità. Per essere dalla parte sbagliata della barricata.
Manigoldo avrebbe detto che non importa in quale schieramento si militi, importa quello che si dà nello spargere il proprio sangue. E Doko si chiede cosa diamine sia successo perché, in questo tempo e in questa vita, un pensiero così semplice ed umano e puro si sia ritorto su se stesso, come i rami di un ulivo saraceno.
Sion riprende fiato. Il suo cosmo splende e scintilla, ma c’è qualcosa di sbagliato. Non si tratta del suo corpo. Sanno entrambi che è una cocente beffa. Non importa quanto le tue ossa siano doloranti e martoriate dall’artrosi, o se i tuoi muscoli si siano infiacchiti nell’attesa. Ciò che rende tale un Santo è il cosmo. E quello di Sion è macchiato da un sentimento che Doko non gli conosce. Non è rimpianto, no. Quello ha colorato i suoi giorni quando vedeva la giovane Yuzuriha sfilare sotto ai suoi occhi. È dolore? Tristezza? Rabbia?
Doko sa che non hanno il tempo per sedersi e tirare fuori con le tenaglie la verità dalla bocca chiusa di Sion come facevano durante i giorni della loro giovinezza, duecento anni prima. Non serve. Doko si accomoda sulla prima colonna che gli capita a tiro, un paio di nemici ai suoi piedi, e posa le mani sulle ginocchia.
«Allora, mi spieghi che sta succedendo?»
Sion tentenna. Una farfalla, le ali nere e viola che fluttuano nella notte, indugia sui capelli dell’amico di sempre, poi si allontana, sparendo incontro all’orizzonte. Come se stesse seguendo i passi di Shiryu. Di Mu. Di Saga, Shura e Camus.
«Ci stavano controllando?»
La domanda suona sciocca alle sue stesse orecchie.
Sion guadagna un posto accanto a Doko. Non ha il coraggio di guardarlo negli occhi. E Doko si chiede a quali compromessi sia dovuto scendere. Anche lui hai cresciuto dei figli, dopo tutto. Non sono suoi, non sono nati da lui – e da Yuzurika – ma nel suo cuore è come se lo fossero. E Doko, questo, lo capisce benissimo. Quello che non capisce è che cosa diamine stia passando nella testa dell’Ariete. Perché lui, il Venerabile Libra, non ha creduto alla storiella del tradimento nemmeno per un secondo.
«Sì.»
E in quel sospiro, Shion rilascia una stanchezza che Doko fatica a comprendere. Ha il cuore pesante, Sion dell’Ariete. Lo ha sentito piangere, quando Mu ha massacrato Aphrodite e Death Mask.
«È stata dura.»
Lo immagino. «Che c’è in ballo, Sion?»
«Oltre ad Athena?»
«Sì.» Lo sguardo di Doko si alza verso le stelle. Arriverò a breve, ragazze. Molto a breve. «Oltre ad Athena.»
E Sion racconta. Tutto. Come un penitente davanti al suo confessore. Quando termina ha il fiato corto. Come se non ricordasse che per parlare si deve anche respirare. O come se respirare non fosse che una perdita di tempo. Il fuoco dell’Ariete sta per esaurirsi. E altri cosmi stanno esplodendo attorno a loro. Come fuochi d’artificio. O come bombe di profondità.
«Sono stato un pessimo mentore», sputa Sion, e Doko sa che è la parola padre quella che stava per ruzzolare giù dalla lingua dell’Ariete. Una paternità sacrificata sull’altare di Athena. Per un bene superiore. Per indicare la strada a coloro che sono venuti dopo di loro. E che porranno fine a questo assurdo balletto di nascite e morti e rinascite. Come tanti gusci di cicala. Non può fare a meno di pensarlo, Doko. Perché quando Death Mask si è presentato alla cascata di Goro Ho, lui ha provato un tuffo al cuore doloroso. E più quel pazzo parlava, più si domandava, Doko, che fine avesse fatto l’anima di Manigoldo. Dove fosse andata. Se non avesse confuso la strada, e se nel suo involucro non fosse finita un’altra anima. Per sbaglio. Perché duecento e passa anni sono un tempo lungo. E un’anima si può perdere, lungo quei sentieri che gestiscono la reincarnazione.
«Quei ragazzi… quei ragazzi stanno andando a morire, Doko.»
Quei ragazzi sono già morti, Sion. Questo vorrebbe dirgli, Doko, ma tace. Perché la verità sputata in faccia fa male. Come un coltello tra le scapole.
«È tutto quello che ho saputo inventare.»
Doko gli rivolge un’occhiata pensierosa.
«L’ultima guerra sacra… è stata uno stillicidio.» Sion alza il viso al cielo a cercare conforto e solidarietà e compassione in quelle stelle lontane, che lo guardano con un misto di curiosità. «Ognuno di noi che partiva sapeva che non sarebbe tornato. Ognuno di noi aspettava il proprio momento, come un conto alla rovescia.»
Doko annuisce. «Ma il battito stesso del cuore non è il ticchettio di una bomba?»
«NO!» Sion si alza. Rabbioso. «No. Non abbiamo tempo per gingillarci con questioni filosofiche.»
«Abbiamo dodici ore, Sion. E arrivati alla nostra età, il tempo non si conta in minuti, ma in istanti.»
«Doko…» La voce di Sion è simile ad un ringhio, basso e rabbioso.
Doko alza le mani, in cerca di resa.
«Non ho saputo proteggere Saga da se stesso. Non ho saputo proteggerli da lui. E sono andato io stesso a prenderli all’inferno. Li ho tirati fuori dai loro sepolcri con queste stesse mani
Un pensiero assurdo si fa strada nella mente di Doko. Le unghie di Sion sono perfette. Curate. E lui ricorda come Sion non se le mangiasse, mai. Nemmeno durante i giorni dell’assedio.
«Quando sono morto, ho pregato. Con tutto me stesso, con tutta l’anima che Athena mi aiutasse. Che mi indicasse la strada. Io l’avrei percorsa, anche a costo di attraversare l’Ade. Metro dopo metro.»
Quand’anche io camminassi nella Valle dell’Ombra e della Morte, pensa Doko, ripescando dalla memoria una delle preghiere che Sasha ripeteva, la sera, prima di coricarsi, inginocchiata davanti alle lenzuola candide del suo letto, una finestra aperta da cui ammirare il cielo.
«Ma ho capito cosa fare solo quando i ragazzi sono arrivati nell’oltretomba. Non prima. La guerra sarebbe ricominciata, sì. Ma stavolta avremmo attaccato Ade tutti assieme.»
La gamba sinistra di Doko smette di dondolare.
«Mi stai dicendo che…»
«Athena non sa nulla della sua armatura. Non è stata istruita al suo compito. Non è stata preparata. Non è né come Sasha, né come le altre che l’hanno preceduta.»
E Doko capisce che Sion ha ragione. Lui stesso non ha speso interi pomeriggi ad educarla al suo ruolo, a spiegarle quello che l’avrebbe aspettata una volta che il sigillo di Ade avesse perso la sua efficacia e si fosse spezzato?
«L’unico modo… l’unico modo che mi è venuto in mente per parlare con lei è questo», e Sion allarga le braccia, a circondare se stesso, Doko e l’intero Santuario. Forse il mondo intero, pensa Libra. Annuendo.
«I ragazzi lo sanno?»
Sa che è sciocco chiedergli una cosa simile, eppure ha posto lo stesso quella domanda. Perché deve sapere. Perché non devono esserci spazi d’ombra, tra le colonne del Santuario e tra le schiere d’Athena. Ci sono state troppe menzogne, tra di loro. Troppi veleni. Ora deve esserci spazio solo per la verità. Nient’altro che la verità.
Sion annuisce.
«Sì», e in quel sospiro libera un altro pezzetto della sua anima. «Ade ha mandato i suoi sgherri dietro di noi. Come tanti cani da caccia. Semmai avessimo tentato qualche…»
«Tiro mancino», lo aiuta Doko. Dicendosi che sì, ha perfettamente senso. Non ci si può fidare fino in fondo di un vecchio amico. Figuriamoci di un nemico.
«Esatto.» Sion si passa una mano sugli occhi. «Hai visto quelle farfalle? Sono le spie di Ade. I suoi occhi e le sue orecchie. E adesso le schiere di Ade sanno che si tratta di un trucco.»
«Suppongo che lo abbiano sempre saputo», commenta Doko alzandosi. «Quindi? Adesso cosa prevede di fare, il tuo piano?»
«Raggiungere Athena.» Sion lo dice come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Ed in fondo lo è. Perché sono Santi di Athena, loro. Nonostante tutto.
«E allora, cosa stiamo aspettando, vecchio mio?»

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Capitolo 8
*** Aphrodite ***


Aphrodite
 

tutti qui i miei sguardi 
oltre il cielo in un salto 
per vederlo una volta dall'alto
 
 
 


Polidori aveva ragione.
Il crepuscolo in questi climi meridionali è quasi sconosciuto: il sole tramonta all'improvviso ed è subito notte, scriveva nella sua novella. E se al principio aveva giudicato quelle pagine un’accozzaglia di sciocchezze e fantasticherie, aveva dovuto convenire col medico italo britannico quando i suoi occhi erano incappati in quella frase. Perché per lui, abituato ai lunghi crepuscoli di Huskvarna, Jönköping, nello Småland, era stato difficile adattarsi alla luce ateniese.
Il sole in Grecia non scherza. È invadente, eccessivo, rapace. Quando albeggia, l’orizzonte si tinge di rosa già alle quattro del mattino, e la luce calda e spietata arriva piano piano, dentro casa, serpeggiando. Come dita protese ad illuminare – ghermire – tutte le forme di vita.
Non è il buio, quello da temere, in Grecia. È il sole.
Che bussa. Sulle palpebre calate, sulle persiane accostate, sotto le porte.
Che non aspetta che tu gli apra. Entra da sé. Senza chiedere permesso.
Che arde, brucia, incendia un cielo di un azzurro impossibile con la risata del ragazzino impertinente ed egoista.
È faticoso vedere, in Grecia.
E doloroso il sole, in Grecia.
Di giorno Apollo canta, suona la cetra e danza nel cielo, di nuvola in nuvola; ma quando il suo carro oltrepassa le vette dei monti ad ovest, tutto tace. Tutto si spegne. Come se qualcuno avesse premuto un interruttore.
Il crepuscolo ateniese c’è e non c’è. È un velo rosato, leggero ed impalpabile come quello delle spose. E prima che i tuoi occhi si siano abituati al cambio di luminosità, e prima che tu abbia compreso di trovarti nell’ora del crepuscolo, ecco che si fa buio. Un buio nero, pesto, cupo e profondo, rischiarato a stento dalle stelle, che assomigliano a quella luce che filtrava dalla porta che sua madre lasciava socchiusa e che lo accompagnava nei sentieri del sonno, tenendolo per mano.
Il crepuscolo in Grecia non esiste.
Polidori aveva ragione.
 
 
Quando lo aveva detto a Gerda, tuttavia, lei non l’aveva compreso. Si era limitata ad alzare lo sguardo su di lui e a fissarlo, un’espressione indecifrabile dipinta su quella maschera di carne marcia e sangue nero. I suoi occhi, gialli e gonfi, come pustole sulla schiena di un allettato, avevano incrociato i suoi, una muta richiesta di spiegazione a serpeggiare in quel barlume d’intelligenza malvagia che pareva animarli.
Lui aveva storto le labbra.
«Il crepuscolo», le aveva spiegato, giocherellando con una delle sue rose. Quella bianca e candida come la neve. E aveva indicato il cielo, sopra di loro. Un tappeto nero, come una cappa che si aggira per i vicoli umidi, e pesante, come le reti dei pescatori cariche di pesci. Come il fondo dell’inferno in cui avrebbe rispedito quell’essere. E stavolta avrebbe fatto in modo che non tornasse più a disturbare i vivi.
La creatura l’aveva fissato sempre più perplessa. Aveva assunto un’espressione dubbiosa – come se lui fosse stato pazzo a parlare di certe cose in un momento simile. Yngve aveva dovuto convenire sull’inopportunità della citazione, ma d’altro canto con chi altri avrebbe potuto affrontare un simile discorso? Quale momento migliore? Non era stata colpa sua, se s’era perso lungo i sentieri di una delirante novella romantica. Era stata colpa di Gerda, della creatura che il Sacerdote lo aveva mandato ad sradicare dal villaggio parrocchiale di Gammelstad, se il suo cervello si era baloccato con simili analogie. Poco male. Al Santuario non ne sarebbe arrivata notizia.
 
 
Don Kristian lo aveva aspettato fuori dalla chiesa in pietra, tra edifici rossi dalle imposte bianche e piccole stradine sterrate. Era un ragazzetto rubicondo strappato al lavoro nei campi che tremava di paura e si tratteneva – a stento – dal segnarsi, parlando della faccenda, come la chiamava lui.
«Mi dica quello che sa, padre. Per filo e per segno», era stato l’attacco, ed era rimasto ad ascoltare ad orecchie spalancate, mentre il suo sguardo cercava conferme nella mimica del ragazzotto. Era terrorizzato.
Qualcuno aveva portato il malocchio, in città. La morte. E il pio sacerdote temeva di avere per le mani una gatta da pelare che non era in grado di gestire. Di immaginare. Perché certi personaggi vanno bene per i racconti attorno al fuoco, come catarsi nelle lunghe notti d’inverno, quando persino il sole va a dormire; non a passeggiare per le stradine della tua parrocchia.
«Capisco», aveva detto lui, alla fine del racconto. Concedendosi qualche minuto per riordinare le idee e regalare attimi di genuino terrore a don Kristian. «Può accompagnarmi alla casa in questione, padre?»
Don Kristian si era limitato ad indicargli l’edificio – «Il terzo entrando in paese, vicino al cimitero» – a raccomandarlo a Dio nelle sue preghiere e ad augurargli buona fortuna. Yngve si era incamminato, sorridendo e pensando che se fosse bastato avere fede in Dio e snocciolare qualche preghiera alla sera per risolvere la faccenda, lui non si sarebbe dovuto scomodare a raggiungere l’angolo più settentrionale del Golfo di Botnia ammantato di neve. Perché la fede, da sola, non salva. Perché per certe questioni, occorrono degli specialisti. A ciascuno il suo. Al contadino i campi, al re il regno, al prete l’anima. E al santo, il mistero.
E all'eroe, il mostro.

 
La casa di Olle era stata cosparsa di acqua santa e benedetta per tre volte, ma non era bastato. La bestia era tornata ancora e ancora e ancora, ad ogni luna crescente che il buon Dio mandava in terra, lasciando alle proprie spalle una scia di morti al sorgere del sole. Olle era disperato. «Andarmene? E dove?», gli aveva detto. «Anche se emigrassi altrove, quella cosa mi conosce. E mi seguirebbe. E ucciderebbe la mia famiglia fino all’ultimo membro.»
E poco dopo che era sceso il buio, Yngve aveva sentito bussare alla finestra della sua stanza, mentre il fuoco scoppiettava allegro nel camino.
«Yngve Eriksson», aveva detto la voce. Di donna. Profonda e terribile, come se provenisse dal fondo di un pozzo prosciugato. Era una voce dura, di marmo e gelo. Una voce che non ammetteva repliche. Una voce che sembrava parlare direttamente al suo cervello. «Yngve Eriksson. Vieni.»
Aveva indossato la sua corazza ed era uscito.
Lei era lì. Ferma. Bianca come la neve, i capelli biondi impiastricciati di terra e sangue, il vestito ridotto ad un velo di ragnatela. Lo fissava coi suoi occhi vuoti, le braccia a ciondolare lungo il busto, il collo spezzato che ricadeva di lato, in maniera innaturale.
«Chi sei?», gli aveva chiesto. Sulla soglia della casa, la porta socchiusa e le braccia di lei ferme accanto al busto. Come una cosa morta.
«Io sono Gerda.»
Aveva risposto con dolore. Con fatica. Ma l’aveva fatto.
Gerda.
Quella che aveva portato l’epidemia. Da dove? Luleå, Göteborg, Malmö, Stoccolma, Uppsala o in un bosco lì accanto, poco importava. Lei era l’untrice. E lui avrebbe dovuto essere un bravo medico e arrestare l’infezione prima che sortisse altri danni. E dove deve stare il mestolo, se non nella pentola?
Saga sapeva di poter contare su di lui e sulla sua mancanza di compassione umana. Per questo l’aveva chiamato. Per questo lui avrebbe dimostrato al Sacerdote che aveva scelto bene, affidandogli quella missione.
Gerda lo fissava, stupita. Perché non riesco ad entrare, si stava chiedendo, e questo Yngve aveva potuto leggerlo chiaramente sul suo viso.
«Aconito», aveva spiegato lui, indicando lo stipite della porta. «Tiene lontane quelle come te.»
«Yngve Eriksson», lo aveva chiamato lei. Nel buio. Mentre le sue braccia no, non riuscivano a ghermire il suo collo. Voleva lui. Perché lui era quello pericoloso. Lui quello da eliminare prima di tornare a chiamare Olle e gli altri membri della sua famiglia. «Vieni.»
«Se ti fa piacere…», e l’aveva raggiunta all’esterno, una rosa nera tra le dita ed il mantello candido a danzare dietro di lui. Come un corteo di colombe.
Gerda era indietreggiata. Gemendo. Come se fosse stata una lumaca gettata in un barattolo di sale grosso.
«Perché?», gli aveva chiesto. Sinceramente stupita.
«Perché sì», le aveva risposto lui.
«È una risposta stupida», aveva commentato lei.
«È una domanda stupida.»
Lei l’aveva squadrato, sotto la luna sottile come un’unghia, coperta dalle nuvole per non prendere il freddo della notte di Marzo. Come se fosse stato uno scolaro indisponente.
«Aconito?», gli aveva chiesto. Ancora.
«Aconito», aveva risposto lui, omettendo di essere l’eroe. Quello che l’avrebbe ricacciata inidetro, una volta per tutte.
«Sei coraggioso», aveva asserito. Come se parlasse tra sé e sé. «Non riceviamo molti forestieri, qui», e alle sue orecchie quelle parole erano suonate come la più stupida delle menzogne.
Lui aveva sorriso alle sue labbra, bluastre ed enfie, mentre le si era fermato davanti.
«E i pellegrini? Quelli che in passato avrebbero dovuto riposare in queste case?», le aveva chiesto.
«Oh. Quello.» Lei aveva scosso la testa, i capelli si erano mossi come alghe umide sulle sue spalle nude e pallide. «Quello non esiste più da molto, moltissimo tempo. Questo paese ha perso il senso del sacro», aveva risposto. Sibillina. E su quegli occhi era sceso il velo del tempo.
Yngve si era specchiato in uno sguardo che aveva visto i secoli affastellarsi l’uno sull’altro, come fogli di giornale buono per accendere il fuoco. Come i ciottoli sul greto del fiume, dove da bambino aveva visto i gamberi salire a riva, la sera, sotto una luna di burro.
«Il senso del sacro.»
Aveva ripetuto quelle parole. Assaporandole, come fosse la salsa all’aneto da stendere sul salmone o lo sciroppo di sambuco di Astrid.
Il senso del sacro.
Quello che concorre a mantenere l’ordine nel cosmo. Quello che delimita gli affari degli uomini dagli affari degli dei. Quello che organizza e regola gli affari degli uomini e gli affari degli dei. Quello a cui forse quella creatura sottostava più di quanto lui non fosse disposto a credere.
Gerda aveva annuito. Gerda aveva sorriso.
«Lascia che ti mostri il sacro», aveva detto. Mentre il suo corpo era cresciuto a dismisura e le sue braccia erano diventate così lunghe da poter abbracciare la terra.
Yngve aveva sorriso di rimando. Per educazione. Ed era cominciata la danza.


 
Risparmiami, gridavano gli occhi di quell’essere ributtante steso al suolo. Yngve non aveva saputo dire a chi appartenesse tutto quel sangue che insozzava il terreno, se alla creatura stessa o alle sue vittime. Risparmiami, urlava, dritto nella sua mente. Il corpo di Gerda non avrebbe più potuto parlare. Le aveva squarciato la gola, da un capo all’altro, e gliel’aveva riempita dei petali delle sue rose. Quelle nere. Dal fusto robusto e le spine larghe. Quelle benedette da Athena. Le stesse che aveva usato per ancorarla al suolo.
Ora non occorreva far altro che attendere l’alba. E vegliare il corpo, fino a quel momento. Per evitare che se ne tornasse al sepolcro.
La vera Gerda era morta di parto, centocinquant’anni prima a leghe e leghe di distanza. Morta urlando e bestemmiando il nome di Dio, per il dolore ed il rancore. Per un figlio non voluto. Un figlio nato già morto. Un figlio che le avrebbe regalato la pace del sepolcro. Ma Gerda era giovane. Giovane, bella ed affamata, di vita e d’amore. E non avrebbe accettato l’eterno riposo tanto facilmente. Perché il buio fa paura. Perché il sole è dolce, in Svezia. Dolce e tenue, mentre spunta tra le nuvole. Non graffia gli occhi, non brucia la pelle, non abbaglia il viandante. Ma lo accompagna, per un poco. Anche quando è sceso oltre l’orizzonte, ad illuminare altri giorni.
Liberami!, aveva urlato la creatura, rabbiosa, marosa, impetuosa, mentre il cielo si andava tingendo di rosa, a est. Liberami, Yngve figlio di Erik. Liberami! O sarà peggio per te!
Lui l’aveva guardata, come a chiederle e a chiedersi cosa mai avrebbe potuto fare quella creatura ad un passo dalla morte eterna.
«Davvero?» Quella domanda era salita alle labbra spontanea, la curiosità del bambino che tutti amavano e vezzeggiavano, nonostante potesse ucciderli con le sue rose avvelenate.

Io vedo nel futuro, Yngve figlio di Erik. Io vedo il tuo futuro. Sei bello come le tue rose e forte come un vero guerriero. Ma non sei un eroe. C’è un’ombra su di te, Yngve figlio di Erik. Un’ombra che tu conosci. Un’ombra nera. E che ti porterà a bussare…

Non aveva aspettato che la creatura terminasse il suo vaticinio. Yngve le si era avvicinato, le aveva piantato la sua rosa candida nella schiena, lì dove avrebbe dovuto trovarsi il cuore, e mentre la creatura si contorceva dal dolore le aveva afferrato la mandibola, lì dove i capelli ricadevano come alghe marcite, e le aveva staccato la testa con un gesto secco. Se ne era disfatto lanciandosela alle spalle, come un guscio di noce, e si era seduto, tra le case rosse dalle finestre bianche. In silenzio. Aspettando che il sole sorgesse e riducesse in cenere quel corpo immondo.


 
Polidori aveva ragione.
La notte in Grecia può essere nera come il fondo dell’inferno e densa come la melassa che ribolle sul fondo del paiolo. Come la marmellata di sorbo, pensa, mentre il vento gli porta altri odori e altri sapori. Il cielo è tempestato di stelle, lontane e fredde. Un palliativo alla paura del buio. Che ricordi al bambino che il sole sorgerà, domani. Che illumini la strada al viandante. E che tenga lontane le presenze maligne.
Polidori aveva ragione.
Perché il sole ti sorprende, con un'alba improvvisa, nell'ora più scura e buia che precede la luce. E loro non hanno tempo.
La terra del cimitero spande l’olezzo umido e dolciastro della decomposizione, che neppure le sue rose più potenti possono annullare. Non c’è più il mantello candido, a sventolare oltre le sue spalle, ma un drappo nero che lo riveste da capo a piedi. Yngve sorride, nella sua corazza fredda. Si intona con le rose piraña, dopotutto, pensa. Gerda aveva ragione. Come Polidori. È diventato un revenant come lei.  Ma si guarderà bene dall’ammetterlo, anche a se stesso.
Il Sommo Sion si volta. È tempo di andare. Di salire alla Tredicesima Casa per chiamare – per sussurrare – nella notte il nome di Athena. Perché esca a giocare con loro. Perché è giunto il momento che tutti aspettavano. E lui salirà ad avvisarla.
E mentre i suoi piedi si muovono in direzione della Prima Casa, in direzione di Athena, che li aspetta, lassù, oltre le stanze del Sacerdote, a Yngve sembra di sentire una risata echeggiare nella sua mente. Una risata profonda, buia e gelida. Come un pozzo asciutto. La risata di un Draugr.

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Capitolo 9
*** Aldebaran. Milo ***


Aldebaran. Milo
 
e arrivare in capo al mondo 
e alle stelle che non hai 
ma siamo storie di un secondo 
di chi non ha vinto mai 
 
 

Una bella mattina – o una brutta mattina,  a seconda del punto di vista – Adriano Souza da Lima si era svegliato con la testa sudata e pesante. Molto pesante. Aveva pensato fosse colpa dell’afa e del caldo assurdo delle colline dell’Attica, un clima umido e persistente che per lui, paulista di Paraisópolis, era impossibile concepire, abituato alla mitezza del suo paese.
Così Adriano si era alzato, ignorando lo sguardo curioso che i suoi compagni, ancora nei loro lettini, gli avevano rivolto. Ci era abituato. Gli altri non credevano possibile che un ragazzino come loro potesse essere così grande e così grosso, e quella mattina, con la testa gonfia come un pallone, quello era l’ultimo dei suoi problemi.
Aveva attraversato la camerata. La porta del bagno era aperta e lui l’aveva infilata, deciso a ficcare la testa sotto l’acqua e a lasciarcela per un bel pezzo, quando qualcosa aveva rallentato la sua andatura, strusciando contro gli stipiti di legno scrostato della porta.
Ma che?, si era chiesto, con un piede ancora nel mondo dei sogni e le palpebre a mezz’asta. E poi aveva capito. Si era visto, nello specchio tondo che pendeva storto sopra al lavabo, e aveva notato qualcosa attorno alla sua testa. Qualcosa di bianco. Di soffice. Di pesante. Il suo cuscino. Saldamente ancorato – incollato – alla sua chioma.


Non c’era stato verso di salvare i suoi capelli – lunghi e scurissimi, su cui tutte le sere passava l’olio di cocco che Zuleika gli faceva arrivare fino a quel villaggio sperduto tra le montagne. Il barbiere aveva preso le forbici e aveva iniziato a tagliare. Tutto. Zac, zac, zac. E ogni volta che le lame si chiudevano, lasciando cadere un’altra ciocca sul pavimento, lui tratteneva una lacrima. Di rabbia. Pura e cieca. Oh, il Sacerdote aveva deciso che tutti gli altri subissero la stessa umiliazione, colpevoli o innocenti che fossero; ma non era abbastanza. Non si era scoperto chi avesse avuto quella bella alzata d’ingegno, né qualcuno si era fatto avanti, nossignore. Adriano avrebbe gradito che accadesse, oh se l’avrebbe gradito. Così avrebbe scambiato due chiacchiere con il responsabile di quello scherzo atroce. E prima di scassargli tutte le ossa che aveva in corpo – tutte e duecentosessanta, dalla prima all’ultima – si sarebbe fatto spiegare perché avesse scelto proprio il suo di cuscino, tra quelli di tutti gli altri, su cui spargere tutta quella colla. Così, per sapere.
 

Aphrodite aveva strillato come una donnicciola mentre le forbici mietevano i suoi capelli, e le lacrime gli avevano inondato gli occhioni che a Zuleika sarebbero piaciuti tanto tanto. Zuleika che amava tanto i suoi capelli. Lui aveva pensato di tagliarseli, una volta toccato con mano quanto fossero pesanti gli allenamenti e quanto potesse essere assurdo e afoso il clima di Atene. Ma poi, quando aveva ricevuto il primo pacco da casa e aveva trovato l’olio, aveva deciso che no, non se li sarebbe tagliati. Per nulla al mondo.
L’unico a restare zitto e immobile, a non fiatare, a non protestare neppure con lo sguardo era stato Milo dello Scorpione. Si era seduto sulla sedia, quando era arrivato il suo turno, aveva stretto i pugni sulle ginocchia e aveva alzato la testa. E il sospetto che fosse stato lui, l’idiota che aveva sparso la colla sul suo cuscino come se dovesse riparare una barca, era nato in quel momento. Con la consapevolezza accecante del primo raggio di sole che fende le tenebre. Perché Milo aveva sostenuto lo sguardo di tutti, sfidandoli a ridere di lui, se ne avevano il coraggio; tutti, tranne il suo.
Adriano non aveva chiesto. Adriano aveva guardato quel ragazzino cambiare nel tempo. L’aveva visto arrabbiarsi e placarsi al soffio del vento. Ridere di tutto e tutti e anche di se stesso. Odiare ed amare con la stessa intensità. Con quel furore che solo la fame di vita ti può assicurare. L’aveva visto detestare cordialmente una persona fino a diventarne così amico, ma così amico da poterne essere considerato quasi come un fratello. O forse qualcosa di più.
Perché un fratello ha il tuo stesso sangue che gli scorre nelle vene. Ed è proprio quel sangue, quella vicinanza, a rendertelo speciale. Perché un fratello è una parte di te, una copia diversa, ma sostanzialmente simile, uscita dalla stessa matrice e con gli stessi ingredienti; qualcuno che, se i tuoi cromosomi si fossero mischiati diversamente, potresti essere tu.
Un amico, invece, è diverso.
Con un amico condividi l’anima. Lui non è come te. Lui può aver fatto – ha fatto – esperienze diverse ed è sicuramente uscito da un altro stampo e da un altro forno, ed è diverso da te, è un altro, pur se gli ingredienti che lo compongono sono gli stessi che tengono insieme te: acqua, aria, fuoco, terra e anima.
Un fratello lo scegli perché devi.
Un amico, perché lo vuoi.


Ed era stato davanti alla tomba dell’amico più caro che Milo avesse mai avuto, che Adriano era entrato in argomento.
«Sai», gli aveva detto accomodandosi accanto a lui, davanti alla lapide di Camus con una bella bottiglia di vino. Rosso, forte e corposo. Di quelli che se non stai attento ti mandano K.O. senza chiederti né permesso, né scusa, «niente e nessuno mi toglie dalla testa che quello scherzo idiota fosse destinato a lui, a Camus, e non a me. Quello della colla sul cuscino, dico.»
Aveva ignorato lo sguardo assassino di Milo che gli ringhiava di voler restare da solo sulla tomba dell’amico che aveva mandato all’inferno con le sue stesse mani. Perché avrebbe dovuto dargli retta? L’aria era ancora calda e placida, ed invitava a trattenersi fuori, la sera. Per bere qualcosa. E scambiarsi chiacchiere e verità sotto le stelle.


L’autunno, ad Atene, è una propaggine dell’estate, un terrazzo condonato che è troppo grande per poterlo chiamare balcone e troppo piccolo per essere una stanza vera e propria. Come quelli che spuntavano addosso alle case – come i funghi nel bosco dopo la pioggia – quando le famiglie si allargavano, accorpavano, moltiplicavano laggiù, a Paraisópolis, in Brasile. Dove non hai bisogno di essere un Santo per ammettere la tua sconfitta. E che cadere fa male, molto male. Specie se piombi giù da un piedistallo altissimo. Dove sei salito non sai neppure tu quando, né come, né perché. Ma da cui precipiti senza avere un appiglio, un paracadute, una mano che ti soccorra. Tastando la tua piccolezza. La tua fragilità. Ed aprendo gli occhi sul tappeto di cocci, sangue e anima che ti sei lasciato dietro. Per rincorrere il volo di una libellula lungo lo stagno.


«Il mio letto era di fronte al suo, all’epoca. Secondo da sinistra. Mentre quello di Camus era il secondo, sì. Ma da destra.»
Silenzio.
Milo era tornato a guardare la lapide. Come a chiederle consiglio, come se quel pezzo di marmo avesse potuto dirgli «Taci, per carità» o «Avanti, sputa il rospo, adesso puoi». Aveva capito che lui non se ne sarebbe andato a meno di non schiodarlo via di peso da quella terra smossa e umida. E non sarebbe stato facile. Non con l’umore di Milo sotto i tacchi e con la forza di volontà di una spugna di mare spiaggiata. E aveva ceduto. Accettando la bottiglia che l’altro gli stava porgendo.
«Chissà», aveva risposto. Sibillino. «Chi lo sa…»
E avevano bevuto. In un silenzio riempito dai rumori della notte, alla luce delle stelle. Aprendo la bocca solo per respirare e brindare. Levando alta la bottiglia. Ai caduti. Agli amici. Ai fratelli. Che il destino aveva separato da loro tanto, troppo presto. Ma che avrebbero rivisto, un giorno. Quando sarebbe scoccata la loro ora.
«Ci stanno aspettando. Io lo so. Io lo so», aveva detto Milo asciugandosi le labbra col dorso della mano, gli occhi lucidi per il pianto represso o per l’entusiasmo di Dioniso. O tutte e due le cose assieme. Gli aveva passato la bottiglia, oramai agli sgoccioli. Lui l’aveva osservata in controluce e si era sentito dire: «Beve la scolatura chi è bello di natura.».
Si erano scambiati uno sguardo di sottecchi. Un botta e risposta.
Un: «Mi stai prendendo in giro?», cui era seguito un ironico e strafottente:«Io? Non oserei mai!».
E avevano riso. Mezzi ubriachi, la schiena contro la terra e il viso a guardare il cielo ingemmato di stelle. Avevano riso di pancia, di cuore e di anima. Rompendo il silenzio del Kerameikos senza un reale motivo. Senza un perché. Con l’unico, egoistico desiderio di sentirsi vivi.
E Adriano, e forse anche Milo, aveva percepito che Camus si era unito a loro. Ridendo con discrezione, un sorriso appena accennato, come piaceva a lui. Facendo brillare le stelle della sua costellazione con lo stesso guizzo che gli attraversava, a volte, lo sguardo blu.
 

Ma tu guarda cosa mi viene in mente proprio adesso.

Il ghiaccio del Cocito è fatto di roccia, dura e incattivita. Romperlo non è facile, ma niente, a questo mondo, è indistruttibile. Neppure le loro armature.
Il sangue di Athena sta scorrendo. Piano, debole, quanto ne può uscire da un taglietto, o poco più. Lo percepisce scorrere attraverso quella terra maledetta. Dritto al cuore, come una canzone che ci accoglie mentre riemergiamo dal mondo dei sogni. E il suo, di sangue, sta ruggendo.
Milo si sveglia, la testa che sporge dal terreno. Ghiaccio. Attorno a sé, sui capelli, sulle ciglia scure. «Duro e nero dei peccati degli uomini», così ha detto Radamante quando li ha incassati in quel posto. Con le sue stesse mani. «Non sono un tuo compagno. Non sperare che sarà piacevole», ha sibilato la Viverna prima che tutto attorno a lui si spegnesse.
Ed è stato di parola. Piacevole non lo è. Affatto. Ma sono poche, le cose piacevoli a questo mondo. La risata di un bambino. L’abbraccio di una donna. Il pane appena uscito dal forno. Lo sciabordio delle onde. Il crepitio delle fiamme nel camino. Il suono della pioggia. Il rumore del pluriball che scoppia. Una bottiglia di vino condivisa con un amico in una sera d’autunno. Il sole che splende, attraverso le fronde dei limoni.
Questo è il bagaglio con cui affronterà l’Inferno. Perché Milo ha sempre saputo che no, non sarebbe finito nell’Elisio nemmeno per sbaglio, nemmeno per sogno.

Non dopo aver sparso tutto quel sangue per ordine del Sacerdote.


Eppure…
Eppure…
Eppure.


La speranza è l’ultima cosa ad abbandonare una persona. Vola via dopo che anche l’anima s’è incamminata per il suo ultimo viaggio. L’accompagna. Perché fare la strada da soli è brutto. Perché quando c’è qualcuno, accanto a te, che ti aiuta a sopportare la solitudine, il passo si fa più leggero e tutto assume contorni meno cupi. È come se un piccolo raggio di sole splendesse, ovunque e comunque. Anche all’Inferno.
Ed è un piccolo raggio di sole quello che Milo sta producendo adesso, in piedi sopra la buca in cui la Viverna l’ha rinchiuso.
«Ragazzi, sveglia!», dice a Mu ed Aiolia. Prima di lanciarsi contro il nemico. Che li sta caricando. Da solo, lo stolto. E lui aveva giusto bisogno di sgranchirsi un po’ e di liberare il suo aculeo, prima di mettersi in cammino.
Perché non è finita. Non è ancora finita. E non lo sarà fino a quando non si sarà riunito con gli altri Santi, e avrà spinto Athena oltre la morte. Dovesse spargere il suo stesso sangue per aprirle la strada, lui lo farà. E mentre la Cuspide Scarlatta affonda nel corpo del nemico una, due, tre, cinque, dieci, quindici volte, lo Scorpione riacquista colore. E pensa che quelle due mammolette dei suoi amici debbono spicciarsi ad uscire fuori dal ghiaccio del Cocito. Non sentono il cosmo di Shaka risplendere poco distante? Non sentono il sangue di Athena ruscellare sulla terra malata e scura dell’Inferno?
Sì che lo sentono. Devono solo capire che non sono morti, non ancora. Perché non possono permettersi questo lusso. Anche se sono stanchi, e la strada è tutta in salita. Anche se vorrebbero cedere alle dolci lusinghe del gelo e cadere in un sonno eterno. E viverli, i loro desideri. I loro ricordi. Sognare le risate dei bambini, la pelle di una donna, il sapore del vino, il profumo del pane, la luce del sole. Che splende, tra le fronde dei limoni.
«Hai finito di giocare?»
La voce di Aiolia è stanca. Non nasconde quella nota pesante, in sottofondo. Quella nota dura che gli gonfia il cuore, perché sa quello che lo aspetta e sa che davvero non sarà piacevole. Eppure sa di dover andare avanti. Fino in fondo. Fino alla fine. Fino in capo al mondo. Perché i loro compagni li stanno aspettando. Perché Athena li sta aspettando.
Presto sarà tutto finito. Presto raggiungerà Aiolos. Camus. Aldebaran. E forse, si dice Milo mettendosi in marcia coi suoi compagni d’arme – i suoi fratellisarà il caso di dirgli che a mettere la colla sul cuscino sono stato io. Anche se lui sa che Aldebaran l’ha sempre saputo. Ma sarà divertente lo stesso vedere lo sguardo del Toro brillare. E dirgli:«Avevo ragione!», prima che il gigante buono reclini indietro la testa e liberi una risata delle sue. Che risuoni forte, alta e chiara. E rimbalzi per tutto l’Inferno, fino a raggiungere Athena, ovunque lei si trovi. Che le dica di avere un altro pochino di pazienza.
Perché loro, i suoi Santi, stanno arrivando.

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Capitolo 10
*** Shaka/Mu ***


Shaka/Mu

 
tutti qui, tutti qui 
i miei anni alle porte 
sulle scale di un pianoforte 



 

«Hai capito, Mu?»
Per una volta, vorrebbe rispondere di no. Proprio lui, l’allievo prediletto, l’allievo cresciuto – plasmato – ad immagine e somiglianza del maestro. Quello sempre attento, quello che non s’è mai perso ad ascoltare il canto delle cince o a sognare sulla forma delle nuvole, quello sempre lesto ad ubbidire, ad assecondare, ad anticipare il proprio maestro. Maestro cui, per una volta, una sola nella sua vita, vorrebbe rispondere: «No.».
Perché Mu non ha capito. Mu non può capire. Mu sta ancora chiedendosi come sia possibile che il suo maestro sia lì, davanti a lui. Vivo. O in una qualche forma che assomiglia paurosamente e pericolosamente alla vita. Un ginocchio ha ceduto ed è sceso a terra. È Sion, si dice. È il tuo Maestro. Quello che Saga trucidò all’Altura delle Stelle. Quando tutto iniziò. In una Notte di Sangue.

So chi è. Non so perché sia vivo. Dopo tutti questi anni…

Sion sembra aspettare una sua risposta. Mu ha imparato in fretta a distinguere i silenzi. Ed è nei silenzi di Sion che lui percepisce la domanda che non gli ha mai posto. Mai. Nemmeno quand’era un marmocchio sperduto in un posto distante miglia e miglia da casa.
«Allora, Mu?»
Questa gli sta chiedendo lo sguardo sereno di Sion. Fronteggiando Doko. Giovane. Forte. Battagliero. Libero dal Misopethamenos.
E Mu sfiora, per un attimo soltanto, quanto sappiano essere terribili le benedizioni divine.
E Mu, per abitudine, per vergogna, o per orgoglio, annuisce. Anche se non ha capito, non ha compreso quello che il Sommo Sion voglia da lui.
Vuole che fermi Saga?
Vuole che si unisca a loro?
Vuole che avvisi Athena?
Mu non chiede. Non è nella sua natura porre domande al prossimo. È nella sua natura porle a sé stesso. E trovare la risposta dentro di sé. Questo Sion lo sa. Lo sa molto bene. Troppo bene.
E Mu annuisce. Un cenno lento, profondo. Bugiardo. Che comunichi a Sion che sì, ha capito cosa il Maestro si attende che l’allievo faccia. Anche se l’allievo brancola nel dubbio. Ma c’è un indizio, a voler ben vedere. Due, anzi. Una scalinata, alle sue spalle. Quella che conduce alla Prima Casa. E la Meridiana è accesa. Questo può voler dire solo una cosa. Raggiungere Athena alla Tredicesima. Per salvarla da Saga. O forse anche no.
Mu si volta e inizia a correre. La strada è lunga. E lui sa che troverà la risposta al suo quesito strada facendo, gradino dopo gradino. Pregando che non sia quella sbagliata.

 
La palla sale alta nel cielo.
Rotola, rotola, rotola, mostrando spicchi di colore diverso, azzurro e arancio. La palla è di cenci, di scampoli avanzati cuciti assieme dalle donne del Santuario. «Si chiamano
Attendenti», gli ha detto Sion. Per chiarezza. Per amore di precisione. E perché Mu non chiamasse di nuovo Filotea, «mamma». Per i bambini è facile confondersi. Confondersi e riconfigurarsi. Una madre, un padre, dei fratelli. Questo è una famiglia. E se una famiglia non ce l’hai, allora te la costruisci. Con quello che hai. Come fossero costruzioni di legno da assemblare assieme. Anche se manca qualche pezzo. Creando una casetta sghemba e traballante, ma che agli occhi del bambino è una reggia sontuosa. Una madre, un padre, dei fratelli, forse. Se ce li hai. Se ti avanzano. Se vuoi metterli nell’equazione. Come fossero balconi, abbaini o cancellate dipinte di verde.
Mu ha capito che Filotea non è sua madre. E che non potrà nemmeno
fare finta che lo sia. Neppure nella sua testa. Filotea è Filotea. Che gli prepara i vestiti puliti, gli serve i pasti, gli sistema il letto e lava le sue cose. E gli allunga una zolletta di zucchero. Di nascosto. Dietro la schiena. Quando il Sommo Sion non vede. Anche se Mu sa che il Sommo Sion sa. Ma che mantiene il segreto. Per una convenzione sociale. In questa famiglia scombinata il Sommo Sion potrebbe essere il nonno, forse. Ma questo, Mu, non ha il coraggio di metterlo nell’equazione scritta sulla lavagna del suo cuore. Perché il Sommo Sion che direbbe? Si dispiacerebbe? Ne sarebbe felice?
La palla sale alta, nel cielo.
Ma cadrà. E chi la raccoglierà dovrà rispondere alla domanda di Aiolos, prima di rilanciarla ad un altro compagno. E la domanda è: «Quali sono i nomi dei Tre Giudici Infernali?».
«Aiacos», risponde Shura, prima di lanciare la palla.
«Minos», aggiunge Mask. Regalandogli un sorriso. Un sorriso
malvagio. Mu sa che c’è il suo zampino dietro lo scherzo fatto ad Aldebaran. E sa che quella palla, lanciata proprio a lui, che il greco lo mastica poco, è una cattiveria. Gratuita. E per questo ancora più stupida.
Mu allunga la mani. La palla sta finendo tra lui e Shaka. Che è più lesto. Più armonioso. Le braccia di Mu si fermano, come per magia, vedendo quella pelle chiara. Lasciandole la precedenza. E la palla a spicchi arancioni e azzurri cade tra le dita sottili di Shaka. Che risponde: «Salamandra.».


 
Rhadamanthys della Viverna non assomiglia affatto ad una salamandra.
Rhadamanthys della Viverna è l’archetipo dell’avversario. Forte. Dotato di un cosmo mostruoso. Enorme. Immenso. Una montagna troppo alta da scalare. Montagna davanti la quale Mu si sente una formica. Talmente piccola che un sassetto, di quella montagna, potrebbe schiacciarla. E Rhadamanthys non si lascia certo pregare.
Al castello di Ade l’aria è pesante. Il Cosmo è pesante. Sembrano fatti di piombo, lui, Aiolia e Milo. Rhadamanthys, no. Rhadamanthys sembra fatto di vento. Un vento nero, caldo e ustionante. Come i vapori di un vulcano. Come il soffio di un drago. Li afferra, uno ad uno. E li sbatte via, come fastidiose zanzare. Basta un piccolo gesto del dito, come a muovere una biglia su una pista di sabbia. Ed è con un gesto naturale che Rhdamanthys raccoglie Milo. Come fosse un gattino bagnato. Lo raccoglie, issandolo per il collo. E guardandolo negli occhi.
Mu non sente cosa la Viverna stia dicendo allo Scorpione. Il suo cervello ha staccato ogni contatto uditivo. C’è solo il vento che urla nella sua mente. Nel suo sguardo, l’immagine di Milo sospeso nel vuoto. Come un gattino di cui liberarsi in maniera atroce. Soffocandolo. Affogandolo. O in entrambi i modi.
Lo sguardo di Rhadamanthys è seccato.
Si aspettava forse che fossero avversari più resistenti? Degni di lui? Mu vorrebbe spiegargli che è un miracolo essere sopravvissuti all’urlo di Athena. All’urlo di Athena che conteneva in sé il colpo di Saga dei Gemelli. Che è un miracolo il solo stare eretti, al castello di Ade. Perché la pressione è forte. Troppo, per loro. E vorrebbe chiedergli come diamine faccia lui, invece, a muoversi come se fosse fatto di carta.
Aiolia lo chiede al suo posto. Forse. Mu non ne è certo. La Viverna s’è voltata, scoccando al Leone un’occhiata velenosa. Assassina. Della Baccante davanti al capretto. Aiolia sarà il prossimo, questo promettono gli occhi di Rhadamanthys. Che prima si libererà dell’insetto. Poi del gattino. E quindi scannerà l’agnello. La Viverna mormora qualcosa, cosa Mu non lo comprende. Poi le sue mani si aprono, le dita si allentano e Milo cade. Giù. Nel buio. Sparisce davanti allo sguardo stravolto di Mu. Milo. Come se fosse immondizia che finisce nella pattumiera. In un angolo del suo cervello Mu si stupisce di non vedere Rhadamanthys  sbattere le mani tra loro, come quando si è finito un lavoro pesante e noioso. E lo si è finito per bene.
Perché non ha finito, si dice. Manca ancora Aiolia. Manco ancora io.
Rhadamanthys si avvicina, le nere ali della sua Surplice che risplendono. Cupe. Una luce nera. Un ossimoro impossibile. Ma Mu sa che la parola impossibile è cancellata e bandita da ogni dizionario, stanotte. E forse, per tutte le altre notti a seguire.

 
«La palla era destinata a me.»
Shaka si volta e il suo viso, con gli occhi chiusi, è più espressivo di quello degli altri compagni. Con Shaka devi saper vedere e sentire. Mu crede lo faccia per loro. Per aiutarli a cogliere le mille sfumature dell’esistenza. Dell’animo umano. Uno sguardo racconta più di mille parole, dicono. Con Shaka è vero il contrario. Mu sta imparando a leggere le curve che assumono le sue sopracciglia. Un arco appena percettibile, tanto che si chiede se non se lo sia sognato, è quello che vede dipingersi adesso, quando Shaka ha alzato il viso verso di lui.
«Ciliegie?», chiede.
Mu annuisce. Poi dice: «Sì.».
«Perché?», chiede Shaka.
Mu si stringe nelle spalle, poi si inginocchia. Posa il cesto di vimini accanto a Shaka. Hanno raccolto quei frutti nel primo pomeriggio. Aiolia ha scoperto Mask e Aphrodite ad arrampicarsi per cogliere le ciliegie dall'albero dietro il Kerameikos. E ha chiamato Milo. Che ha chiamato Camus. Che ha chiamato Mu. Che ha chiamato Aldebaran. Che ha chiamato Shura. Che per correttezza avrebbe voluto chiamare anche Shaka. Solo che non l’ha trovato.
«Perché mi andava.»
«Allora anch’io», dice Shaka. Cogliendo una ciliegia. Rossa. Invitante, come la gemella appesa allo stesso picciolo. «L’ho fatto perché mi andava.»
«Ti andava di farti deridere da Mask?»
«No», replica Shaka. Sputando il seme della ciliegia nella propria mano. «L’ho fatto perché andava fatto.»
«Non capisco», dice Mu. Incrociando le gambe. «A me non importa se Mask mi prende in giro. Davvero.»
«Questa è una bugia», replica ancora Shaka. I capelli d’oro gli scivolano sulla spalla, Sembrano quasi vivi.
«No che non lo è!»
«Sì», e in quella pacatezza Mu trova la propria sconfitta. La forza della verità. La certezza di essere nel giusto. Di aver visto più lontano di tutti, nonostante le sue palpebre siano sempre abbassate. «A te da
fastidio che Mask rida di te. Anche se non lo ammetterai mai. Nemmeno con te stesso.»
«E allora perché?», chiede Mu. Anche se la domanda che lui vorrebbe porgli è un’altra.
Come hai fatto a capirlo?
Shaka deve avere il dono della telepatia. O forse è lui che riesce a parlare nella testa del compagno. Perché la Vergine sorride – un sorriso bellissimo e radioso, di chi è in pace col mondo e con se stesso – e risponde:«Perché io leggo nell’animo delle persone. Grazie a questi occhi chiusi.».
«E… e non ti da fastidio che Mask rida di te?»
Shaka scuote la testa da sinistra a destra, i capelli che scivolano sullo sparato color zafferano della sua veste. «No. Perché lui non voleva ridere di me. Lui voleva ridere di
te
Mu lo osserva in silenzio, quasi meditando sulle parole che ha appena ascoltato.
«Non sempre le persone agiscono in maniera diretta. È vero il contrario. Le persone reagiscono e vivono dentro Maya. Dentro l’Illusione. E illudono loro stesse, illudendo gli altri. Come hai fatto tu.»
«Io?» Mu è sconcertato. Lui ha illuso se stesso?
E quando?
Shaka afferra un’altra coppia di ciliegie. «Tu», ribatte la Vergine. «In inglese esiste il verbo to pretend. Che significa far credere qualcosa a qualcuno. Partendo da una menzogna. Come fa l’attore quando sale sul palcoscenico, hai presente? Tu sai che lui non è il Re, il Principe o l’assassino, ma è un’altra persona. Eppure, quando recita lui fa finta. Ed è quello che fai tu. Tu act like you don’t care what he thinks about you. Ti comporti come se non ti interessasse quello che lui pensa di te. È quello che tu fai quando mostri a Mask che no, non ti importa che lui rida di te; vuoi farglielo credere, con l’intento di ingannarlo.»
«Io non…», ma la protesta di Mu gli si smorza nella gola. Perché è vero. Lui vuole che Mask creda alla sua bugia. Pietosa, senza dubbio. Per risparmiarsi lo scherno e le risate del compagno più grande. Il Sommo Sion gli ha spiegato che Mask lo stuzzica e lo provoca perché sa che lui ci resta male. Che ha terreno fertile per le sue provocazioni. Che non c’è gusto ad infastidire chi non ci dà corda. E secondo questa logica, la cosa migliore da fare è comportarsi come se le beffe del Cancro non scalfissero la seraficità dell’Ariete.
«Come ragionamento in sé non è sbagliato», ribatte Shaka, dopo aver ascoltato la spiegazione di Mu, mentre il cesto di ciliegie si va pericolosamente assottigliando.
«E allora
perché è sbagliato», chiede Mu. Perché non esistono scale di grigio, a questo mondo. Esistono il bianco ed il nero. O no?
«È sbagliato perché si basa su un
come. Che contiene in sé una bugia. Un millantare qualcosa che non esiste. Perché a te dà fastidio che lui ti provochi.»
«E allora come se ne esce?», chiede Mu. La pazienza lo sta abbandonando. Gli sembra di essere caduto in un labirinto, di quelli dalle siepi alte il doppio di una persona, con i corridoi tutti uguali. È entrato nel labirinto. Ed ha perso la spoletta del filo.
Shaka sorride. Paziente. Sereno. Come se si aspettasse quella domanda. «Rompendo il velo di Maya», risponde. «Un passo alla volta. Piano piano. Distruggendo le illusioni. Le illusioni sono attive fino a quando tu ci credi. Come i giochi di prestigio. Quando conosci il trucco, la magia è finita.»
«Quindi dovrei credere che…»
«No», lo interrompe Shaka, prima che lui si perda ancora di più nel labirinto. «Non devi credere nulla. Devi smettere di credere che non t’importi e fare sì che non t’importi
davvero
Mu storna lo sguardo dal compagno ed osserva il panorama davanti a sé senza vederlo. E medita sulle parole di Shaka, mentre questi continua a mangiare le ciliegie e a tenere da parte i semi. Mu sa che vuole piantarli nel Giardino di Sala, alle spalle della Casa della vergine, ma cancella questo pensiero, tornando a focalizzarsi sulle parole di Shaka. E a meditare. Solo. Accanto all’amico. Nel silenzio. Sul bianco e sul nero.
Il Sacerdote li troverà solo a sera, ancora lì a meditare, ognuno per i fatti propri, quando il sole sarà già declinato oltre i monti.


 
Che quella di Saga fosse una facciata l’ha capito quando Shaka ha sbarrato le porte del Giardino di Sala. Aveva avuto il sentore di essersi incamminato sulla strada giusta trovando quei tre Spectre cadaveri, spogliati delle loro corazze. Un colpo dato di taglio, come la lama di una spada. Un gelo mortale. Un’esplosione abbacinante. E quando Mu ha trovato le porte chiuse, no, non se l’è sentita di lasciar passare Aiolia. Perché Shaka aveva qualcosa in mente, di questo Mu ne era sicuro. Quel qualcosa che la Vergine ha scritto col suo sangue, sui petali dei fiori che ha affidato al vento.
Arayashiki.
L’Ottavo Senso. Il risveglio più profondo dell’anima. Superare la morte, sublimandola. Morire e non morire. Perché se entri nel regno di Ade da morto, diventi un suo suddito. E non puoi ribellarti al tuo signore. E loro no, non sono servi di Ade. Sono servi di Athena. Nei secoli dei secoli, amen. Questo il Sommo Sion voleva che lui ricordasse. Quelle chiacchierate con Shaka, all’ombra degli alberi gemelli, mangiando ciliegie sempre più buone. Voleva che ricordasse delle semplici, piccole verità. Che il Manashiki è solo uno stadio della coscienza. Che tutti gli uomini hanno in sé il seme del divino. Come i semi delle ciliegie che Shaka conservava nel pugno della sua mano.
«Shaka», mormora Aiolia, fermando il pungo della Vergine dal battere contro un enorme muro. Che sale su, fino a perdita d’occhio. Gli occhi verdi del Leone si allargano dallo stupore. Shaka li osserva, sperduto, confuso e felice che ci siano riusciti, a risvegliare l’Arayashiki. Che mentre scivolavano nella Bocca dell’Ade abbiano saputo espandere il proprio cosmo fino a raggiungere l’Ottavo Senso. In punto di morte. Per essere liberi. Di combattere per Athena. Fino alla fine. Anche nell’Aldilà.
«Shaka sei ancora vivo? È ancora vivo!», esclama il Leone rivolgendosi ai suoi compagni.
Mu annuisce. Non dice «Te l’avevo detto», perché non si addice a lui, quella battuta – anche se l’ha pensata, e Aiolia lo sa. Si addice più a Milo. Che infatti commenta: «Te l’aveva detto, no?», tirandosi fuori dalla questione. Come se lui non fosse sceso alla Sesta Casa ben deciso a trapassare da parte a parte Saga, Shura e Camus – soprattutto Camus, pensa Mu – per aver ucciso Shaka.
Shaka che è ancora vivo, pur se solo con lo spirito. Shaka che li accoglie con un sorriso, un sorriso preoccupato.
«Athena è andata con Ade. Oltre questo muro. Ed io non riesco a raggiungerla…»
«Da solo?», obietta Milo.
«Siamo in quattro, qui. Diamoci da fare», dice Mu. Prendendo il comando della spedizione.
Athena è dietro quel muro. Che li aspetta. Buttarlo giù non sarà semplice, ma neppure impossibile. Perché la parola impossibile è stata cancellata dai dizionari, in questa notte in cui i cieli urlano e la terra trema, le acque s’innalzano ed il fuoco divampa. Questa è una notte in cui tutto può succedere. Questa è una notte di miracoli. Questa è la notte di Athena.
 

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Capitolo 11
*** Οι νεότεροι αδελφοί ***


Οι νεότεροι αδελφοί

 


tutti qui i miei pezzi  a ingannare la sorte 
per cantare più a lungo e più forte
 

 
 

È quando la polvere si posa che Aiolia sgrana gli occhi. Mai avrebbe immaginato di sentire un simile ordine. Ma poi ricorda che questa è una notte pazzesca, dove il sotto ed il sopra hanno ben pensato di rovesciarsi. Per divertimento. Per ammazzare il tempo e la noia. Per ammazzare loro.
Athena ha una spiccata predilezione al perdono. Alla benevolenza. Alla pietà. E Aiolia sa che se Saga è morto non è stato perché lui, o un altro dei suoi compagni, gli ha messo le mani addosso, no; è stato perché Saga s’è ucciso. Con le sue stesse mani. Perché non poteva sopportare il perdono terribile di Athena. Per ubrys è morto Saga. Perché era un uomo.
E se c’è una cosa che il Leone ha imparato, in questa vita, è che l’amore e la misericordia divina travalicano la concezione umana e i suoi limiti. Sorpassandoli. Colmandoli. Contraddicendoli.
Dove Aiolia – ma anche Milo, perché Mu sfugge alla sua comprensione più del solito, stanotte – vede che non c’è più spazio per l’amore, la misericordia e la comprensione, perché è stato versato del sangue – il sangue di Shaka – Athena, invece, sa – vede – che c’è ancora speranza. C’è sempre speranza.
I comandamenti, le regole, i precetti morali sono questioni che riguardano gli uomini. Che gli dei han dato loro per regolamentarne l’esistenza. La convivenza tra simili. La moralità di un uomo non è quella di un dio. Che guarda alla creatura e al creato come farebbe un padre severo, o una madre comprensiva. Che è – e che deve essere – superiore alle questioni terrene. Che variano al variare dei tempi, mentre il dio, e la sua morale, sono fuori dal tempo. Essi esistono. Di per sé. Uguali, eterni ed immutabili. Nei secoli dei secoli, amen.
Così, quando la voce di Athena esplode nelle loro menti – col profumo dei fiori di campo e la lucente fierezza di un raggio di sole – Aiolia trasale. E mentre percepisce la tracotanza di Milo nell’alzare la voce per chiedere conto e ragione di ciò che Athena ha ordinato loro, lui sa già che lo faranno. Raccoglieranno quell’immondizia da terra e la porteranno ad Athena. Perché nella sua voce, oltre ai fiori di campo e alla luce del sole, c’è la premura e l’impazienza di chi ha gettato via qualcosa di molto, molto prezioso assieme all’immondizia. Qualcosa che lui non può, che lui non riesce a vedere. Perché dove Athena scorge tre vite umane – la cui fiamma s’è spenta tanto, troppo tempo fa – lui vede solo del marciume.
 
 
Il cofanetto è di ebano. Forse. Per quel che lui ne può sapere potrebbe trattarsi anche di palissandro. O di qualche altro materiale ancora.
Il cofanetto è di legno scuro, con intarsi di pregevole fattura. I rinforzi sono lamine d’oro, così come dorata è la serratura. Che sta lì per bellezza, oramai. Saga la fece saltare anni fa, scardinandola durante quella notte disgraziata, e nessuno si è mai preso la briga di farla riparare. Chissà poi perché.
Il cofanetto è bellissimo. L’interno è foderato di pregiato velluto cremisi, che non sfigurerebbe sulle spalle di un re.
Eppure, per Kanon, quel cofanetto è orribile. È la cosa più terrificante che esista. Un oggetto da seppellire nei recessi della Terra. Dentro una colonna di cemento armato. O in uno di quei luoghi inaccessibili e nascosti che neppure compaiono sulle carte geografiche. In fondo al mare. Ché tanto Poseidone riposa nell’anfora, sotto un sigillo rigenerato col sangue di Athena.
Anzi, pensa Kanon, la cosa migliore sarebbe distruggerlo.
Perché certe cose tornano sempre a galla. Con la marea. Quando uno meno se l’aspetta. E non è scheletro, questo, che possa cadere nelle mani sbagliate. Che non sono quelle del nemico, no. Fosse così, sarebbe tutto più facile. S’inscriverebbe nell’ordine naturale delle cose. Avrebbe un senso. Ma così, un’arma così potente alla mercé delle mani di un’innocente fanciulla, così è quanto di più orribile Kanon abbia mai affrontato.
Vorrebbe tanto che suo fratello l’avesse distrutto. Non tanto il cofanetto. Quanto il suo contenuto. Ma no. No. È pronto a scommettere che per Saga quell’arma rappresentasse una specie di polizza. Un’assicurazione sulla vita. Da usare qualora la Freccia d’Oro avesse mancato il bersaglio. Altrimenti non l’avrebbe conservato al di sotto del trono del Sacerdote – del trono della dea. Da dove Athena stessa gli ha chiesto di prelevarlo. E da dove lui, con mani tremanti, l’ha estratto.
 
 
 
Aiolia ha sentito male.
Aiolia deve aver sentito male. Percepisce lo sgomento e la perplessità dei suoi compagni e dei nemici, rigidi come statue di sale e gesso. E quindi, no, non ha capito male. A meno che non abbiano capito male in sei.
Alle spalle di Athena, Kanon non si scompone; nelle mani un cofanetto – quel cofanetto – e un’espressione indecifrabile sul volto. Quella del guerriero – del soldato – che ha ricevuto un ordine e che lo porterà a termine. Nonostante tutto.
Aiolia ha capito benissimo.
E se una parte consistente della sua anima è troppo occupata a stupirsi e a dirsi che no, non è possibile, che deve esserci qualcosa d’altro, nella richiesta di Athena, che; una parte, una piccola parte di Aiolia crolla. Va giù. Si disfà. Come macerie rumorose che precipitano giù da una scarpata sassosa. Per nove giorni e nove notti. Siamo in Grecia, giusto? E quella è Athena, giusto?
Athena che ha appena chiesto a Saga di squarciarle la gola.
E la parte di Aiolia che sta rovinando su se stessa, vorrebbe urlare. E chiederle se non sia impazzita. Se l’orrore – e la paura – non l’abbiano fatta uscire di senno. Se non abbia pensato per un istante, uno solo, ad Aiolos. Che per lei… per lei!
 
Mio. Fratello. Si. È. Fatto. Ammazzare. Perché. Quel. Bastardo. Non. Infilasse. Quel. Pugnale. Nella. Tua. Gola!
 
Aiolia è un fiume in piena. Un mare smarginato e furioso, che minaccia – che promette – di portarsi dietro il litorale con una mareggiata più rabbiosa delle altre.
 
Mi senti, Athena?!
 
Aiolia sta per scattare. Che ci vuole? Tre passi. Solo tre passi. E poi le fauci del Leone azzanneranno, squarteranno, dilanieranno Saga. E chiunque si frapporrà tra loro due. Mu compreso. Dopo tutto, con Saga ha un conto ancora aperto. Un conto che gronda sangue innocente. Il sangue di Aiolos. Che è colato su quella lama, quando ha fermato il polso dei Gemelli. Ed è giusto, adesso, che Aiolia prenda su di sé la responsabilità di avanzare. Di strappare dalle mani di Saga – lorde del sangue di tanti, troppi innocenti – quel pugnale. Spezzarlo in due, tre, quattro, miliardi di parti. Di frammenti. Di atomi. Cosicché non nuoccia più a nessuno.
Perché quella di Saga è una posa. Perché sta piangendo, adesso, come il coccodrillo che ha appena mangiato i propri piccoli. E prenderà quel pugnale dalle mani bianche di Athena. Lo farà. Oh, se lo farà. Non ha appena ucciso Shaka senza troppi complimenti, senza troppi rimorsi? Athena pensa forse che si fermerà, adesso? Che non le punterà quell’arma alla gola?
No, non lo farà. Sarebbe assurdo fermarsi adesso, ora che è a tanto così dal suo obbiettivo. Un battito di ciglia, o poco più.
No, non si fermerà. Così come non s’è fermato lui quando ha lanciato il Lightning Plasma contro Athena.
       
 
Il Sommo Sion ha preso le redini della situazione. Col cipiglio di chi ha visto la morte tante, troppe volte.
Il Sommo Sion non s’è scomposto quando l’ha visto. Forse il Sommo Sion ha sempre saputo che Saga avesse un fratello minore. Un gemello. Identico a lui in tutto, tranne che nel cuore. Perché stupirsi? Il Fato ama baloccarsi con le vite umane, seguendo un senso dell’ironia crudele e beffardo.
In un angolo della mente, Kanon si chiede se anche in passato vi fossero due candidati per l’armatura del Gemelli. Non se ne stupirebbe. Per l’ironia malata del Caso, certo. Ma anche perché manovrare galassie e dimensioni non è semplice. È doloroso. Qualcosa che mette a dura prova la mente, certo; ma anche il fisico. E gli esseri umani sanno essere d’acciaio e di vetro, allo stesso tempo. Com’era Saga, da vivo. E può servire una riserva. Un piano B. Perché non si sa mai. Perché uno potrebbe impazzire. O consumarsi da sé, come una fiamma nell’aria.
Questo Kanon non lo ha sempre pensato. Anzi. Da bambino – da ragazzo –guardava alla corazza di Gemini come ad un premio. La corona d’alloro del vincitore. La tenia del Santo. Qualcosa di solo suo. Qualcosa da strappare a Saga – al perfetto Saga – e da tenere stratta tra le dita. Tutta per sé. Per non essere più l’eterno secondo. L’eterna ombra del fratello prodigioso. Per essere Viktoras, una volta tanto. E non il fratello di.
Ma adesso Kanon ha lasciato dietro di sé quei fardelli. Quei macigni. Che gli rendevano pesante l’anima e il passo.
Adesso non più Viktoras, il gemello invidioso.
Adesso è Kanon. Santo di Athena.
Adesso è leggero. Quasi danza mentre si muove. Anche se il sentiero per cui si sta inoltrando è irto di spine come un roseto ed intricato come un ginepraio. Perché adesso Kanon ha trovato il suo posto nel mondo. Proiettando la propria, di ombra. Ed è così che seguirà gli altri, alla ricerca di Athena. Vestendo l’Armatura dei Gemelli. Risvegliando l’Arayashiki.
 
 
Non importa dove tu sia diretto o quanta strada tu debba fare per giungere a destinazione. Quello che conta è il viaggio. Ciò che impari strada facendo. Quello che lasci. Quello che prendi. L’impronta che testimoni che sì, tu sei esistito. Che ricordi a chi ti ha conosciuto chi eri. E lo tramandi alle nuove generazioni.
Aiolos ne era convintissimo. Con una determinazione che strappava un sorriso a Galan. Un sorriso che Aiolia, all’epoca, non capiva. Non comprendeva. Perché pensava che Galan ridesse di suo fratello e delle sue convinzioni, ed in effetti era così; ma Aiolia, all’epoca, ancora non conosceva le mille sfaccettature dell’amicizia, quel sentimento così simile alla fratellanza che ti fa scegliere quella sola, singola persona come confidente, come compagno di viaggio lungo quel sentiero che si chiama vita. Che è pieno di curve, dossi e panorami mozzafiato. Serate al chiaro di luna e vallate sferzate dal vento. Ruscelli tranquilli e gole innevate. E freddo e fame e rabbia e amore e gelosia e complicità e felicità. Come un sussurro nel vento. Un attimo fugace. Un battito sfarfallante delle ciglia.
È compito del fratello maggiore tracciare la strada per il fratello minore. Essere un esempio, una guida, un faro. Una bussola morale. Da vivi. Ma soprattutto da morti. Ed è con una punta di rimpianto e di rimorso che Aiolia stringe la mano di suo fratello. Una stretta virile. Da uomo a uomo. Da compagno a compagno.
E quel: «Sono orgoglioso di te» che Aiolos pronuncia con gli occhi scintillanti, il Cosmo che brucia sincero, sono una gioia ed un dolore, per il giovane Leone. Che non sente di meritare la sua criniera.
«Aiolos…», riesce solo a dire. E in quel nome, nel nome di suo fratello maggiore, Aiolia riversa se stesso. Tutto il suo amore. Tutto l’affetto che lo ha spinto, pressato e stremato in questi anni. Per riabilitare il nome del Sagittario. Per lavare via un’onta di sangue. Per se stesso, forse. Per far splendere l’impronta di quel fratello così amato e perduto in un attimo. Nella polvere e nel sangue. Per tramandarlo ai posteri. A coloro che verranno. Come questi ragazzini di Bronzo. Che porteranno avanti la battaglia. Sulle loro giovani spalle. Come dei fratelli minori. Cui tocca mostrare la via. La strada. La luce nelle tenebre. Perché devono portare l’armatura sacra ad Athena. Perché Athena li sta aspettando.
 
 
Rhadamanthys della Viverna è un soggetto particolare.
Uno dei tre Giudici. Forse, il più potente guerriero al servizio di Hades.
«Saresti?», gli ha chiesto, apparendo dal nulla, come fosse un pensiero sbagliato, un incubo velenoso.
Ha riconosciuto l’Armatura dei Gemelli. Identica alla Surplice violacea che Ade ha ricreato per il traditore supremo. Il Giuda del Santuario. Ha capito che si tratta del gemello di Saga – a meno ché questi non avesse sconfitto da solo la Morte e fosse tornato a nuova vita sulle sue gambe – ma è come se avesse voluto sentire il suo nome. Conoscerlo. Se per sapere chi lo spedirà all’Inferno – anche se all’Inferno ci sono già, a voler spaccare il capello in quattro – o per aggiungerlo alla lista dei nemici sconfitti, poco importa. Rhadamanthys ha voluto saperlo. E lui non è stato così scortese da rifiutare di presentarsi.
«Kanon. Santo di Athena. Della costellazione dei Gemelli.»
«Uhm.» E basta. Niente commenti. Niente elucubrazioni. Solo il silenzio. Solo un cenno del capo, come a dirgli: «Ho capito».
E poi c’è stata la battaglia. Il rincorrersi, per le Prigioni e i Gironi. Sotto un cielo violaceo e malato, tra pile di sassi e rocce ammonticchiati lungo i sentieri brulli e morti dell’Inferno. Come se stessero giocando. Come due cuccioli di orso – o di tigre, ché forse rende di più l’idea – che si azzannano e graffiano sempre con maggior foga. Perché sanno di avere un loro pari, di fronte. Qualcuno con cui correre affiancati, testa a testa, fiato a fiato. Qualcuno con cui divertirsi, prima di spedirlo tra le braccia di Thanatos. Come suddito di Ade, e non più come suo guerriero. O suo potenziale nemico.
Fino a quando non è successo.
Fino a quando il sangue di Athena non ha iniziato a ruscellare, dentro la Giara.
Fino a quando l’anima di Saga non ha rotto per davvero i sigilli della morte. Ed ha iniziato a richiamare l’armatura. La loro armatura. Ma c’è una nota di urgenza, in quella richiesta. Come se volesse chiedere il permesso a suo fratello. Perché Saga ha bisogno di Gemini. Perché Saga vuole essere il Santo dei Gemelli. Per una volta sola. L’ultima. La più importante.
Se il momento non fosse così dannatamente serio, Kanon rifiuterebbe di cedergli l’Armatura. Come due fratelli che bisticciano per chi deve guidare il trenino e chi fare il capostazione, limitandosi a dire: «Signori, in carrozza!».
Ma adesso, sotto un cielo color melanzana, Kanon sa che deve fare un passo indietro. Che l’armatura spetta a Saga. Che l’Armatura vuole aderire alle membra del suo gemello. Perché Gemini li ha sempre riconosciuti. Entrambi. E ha sempre saputo che quello che aveva più bisogno di lei non era Kanon – Viktoras - ma Saga – Vassilios. Colui che era sgusciato per primo dal grembo materno, scavalcando il gemello pronto a nascere. Il vero fratello minore, tra i due, era Saga. Non Kanon. Kanon che acconsente alla richiesta del fratellino. Cedendogli le vestigia dorate ed indossando il cappellino infeltrito del capostazione. E se mentre consegna l’armatura dei Gemelli a Saga non pronuncia quel:«Signori, in carrozza!», che Vasilios amava tanto sentirgli pronunciare – Perché lo dici così bene, tu! Sembra quasi vero!–, è perché Rhadamanthys penserebbe che è impazzito sul serio.
«Sei impazzito?!»
Come volevasi dimostrare.
Parli del diavolo e spuntano le corna.
Corna nere. Aguzze. Pericolose. Fatte d’ombra e incubo e potenza. Devastante. Annichilente. Calda, come il vento del deserto. Nera, come il peccato quando ti abbraccia, seducente, e ti sussurra e ti promette quello che tu vuoi sentire.
Rhadamanthys ha lo sguardo stupito e attonito di chi ha appena ricevuto uno schiaffo in faccia. Senza un preavviso. Senza un motivo. Cinque dita che lasciano una scia bruciante e rossa sulla guancia. Senza un perché.
«No», replica Kanon. «Non ne ho bisogno, per sconfiggere uno come te.»
Bluffare. Distrarre l’avversario dal correre al Muro del Pianto. Questo deve fare Kanon. Questo deve fare Viktoras. Perché Saga – Vasilios – è impegnato. In una scommessa mortale. E Rhadamanthys sarebbe capace di mandare tutto a gambe all’aria. Anche a costo di rivoltare l’Inferno come un paio di calzini. Rhadamanthys della Viverna. La variabile impazzita. Quello che è meglio tenere lontano – molto lontano – dagli altri compagni. Dagli altri fratelli. È questo, quello che fanno i fratelli maggiori, giusto?, pensa Kanon – pensa Viktoras – mentre si aggrappa alle spalle di Rhadamanthys. E vola via. Con lui. Affidando Athena e l’umanità alle spalle di suo fratello. Tracciando la scia che lui seguirà, e che indicherà ai Santi di Bronzo. Per arrivare da Athena. E consegnarle l’Armatura che la dea sta aspettando.

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Capitolo 12
*** Tutti qui ***


Tutti qui

 






Quando la Fanciulla è apparsa nei Campi Elisi, lui l’ha riconosciuta subito.
Lunghi, lunghissimi capelli del colore delle viole di campo. Occhi grandi, enormi, smarginati. Che assomigliavano a lucenti pezzi di vetro. E una coroncina di fiori al polso destro. Fiori piccoli, dai petali bianchissimi, come il chitone della ragazza.
Gli ha sorriso, un sorriso timido, ma fiducioso. E le sue gambe si sono piegate. Davanti a Lei. A lei, che lui ha riconosciuto con un singolo sguardo. A lei, che lui ha sempre amato. Con tutto se stesso, anima, corpo, cuore e cosmo. Fin dall’inizio. Fin dall’era mitologica. Quando il suo nome era un altro. Quando si chiamava Sisifo.
«Mia Signora…» Anissa. Alexandra. Glaucopis. Areia. Pallas. Parthenos. Tritogenia. Polias. Ergane. Promachos. Itonia. Atritonia.
«Ne è passato di tempo», e la sua voce assomigliava ad un suono melodioso. Un balsamo per l’anima. Un raggio di sole, uno vero. Non come la luce soffusa che accompagna le anime dei beati tra i prati e i ruscelli dell’Elisio.
Un sentimento nuovo gli ha riempito il cuore. Come quando si incontra una persona cara. Una persona amata. Lontana ma non perduta. Distante ma vicina.
«Mia Signora…»
Non credeva di poter sentire ancora il cuore spaccarsi in due dall’emozione. Dalla tenerezza. Non credeva che avrebbe potuto commuoversi ancora. Non da morto.
«Ho bisogno di te, Toxòtis. Ho bisogno delle tue ali», gli ha detto, e lui sapeva – lui ha sempre saputo – che era lì per questo. Perché anche lui se n’era accorto. Anche lui aveva percepito la sua presenza. Laggiù, lontano, nel buio dell’Inferno. Athena.
«Andiamo», le ha detto. Con la voce di Aiolos. Con la sicurezza di Sisifo. Le ali splendenti del Sagittario aperte dietro di sé.
 
 
La nebbia si va diradando.
Presto l’aurora tingerà di rosa i monti e i marmi del Partenone. E lui dovrà andarsene. Dovrà muoversi. Nascondersi. E proteggere la neonata. La Dea.
Aiolos sa che è impossibile. Aiolos sa che sta per rendere l’anima e che è solo per la sua testardaggine che respira ancora. Si tiene attaccato coi denti a quest’esistenza disgraziata. Perché non può permettersi di cedere. Non ancora. Non fino a quando non avrà messo la bambina al sicuro. Lontano dalle grinfie di Saga.

Come farlo è la questione, adesso che si riposa, che recupera il fiato all’ombra del marmo candido, la bambina stretta al petto. Dorme, avvolta nella sua copertina rosa. Le ciglia, lunghe e scure, proiettano un’ombra sulle guance candide. Il respiro è lento. Calmo. Sereno. Tutt’altra cosa rispetto al pianto disperato di poche ore prima. Quando il suo cosmo ha sentito il grido della Dea, in quei vagiti che rompevano il silenzio della notte. Non erano i capricci di una neonata o una richiesta, un bisogno materiale, no. Era l’accorato appello della Dea. Che chiamava in soccorso i suoi Santi. E lui ha risposto.
È stata Athena a guidare i suoi passi verso la città. Verso l’Acropoli. Verso il Partenone. Mandandogli come guida una civetta. Bianca come la neve. E seguendo il suo volo lui sapeva – lui ha sempre saputo – che quell’animale sacro lo stava conducendo dove Saga non avrebbe potuto raggiungerlo. Che il male che s’è annidato nel cuore del suo compagno e amico non avrebbe avuto modo di superare i confini del vecchio santuario della Dea.
Ma la sua vita sta scivolando via. Si sta perdendo nel vento, come sabbia tra le dita, granello dopo granello, respiro dopo respiro. E lui prega, con tutto se stesso, che Athena gli mandi qualcuno. Un amico. Un suo compagno, anche se Aiolos non nutre grosse speranze in loro. Sono troppo piccoli per opporsi a Saga. Per ragionare con la propria testa e comprendere che quel Sacerdote non è il Sommo Sion, ma un impostore. E se persino Shura ha alzato Excalibur contro di lui – rischiando di colpire la neonata! – ha ben poche speranze di trovare soccorso nei suoi compagni.
Anzi, forse è meglio che non arrivi nessuno dal Santuario. Perché lui non potrebbe fidarsi. E se fosse un bluff? E se una volta tornati al tempio Saga riuscisse a mettere le mani sulla bambina? No, sarebbe peggio. Affidare a loro la bambina sarebbe spedire entrambi a morte certa. Per questo Aiolos prega. Trattenendo l’anima, mentre la luce del sole fende le tenebre. Prega che Athena lo aiuti. Lo sostenga, fino all’ultimo. E che gli invii un uomo della provvidenza. La stessa di cui il pope di Rodrio ha parlato ad Aiolia, mandandolo in confusione. Ma la divinità, qualsiasi nome essa abbia, non agisce forse nel medesimo modo, per la stessa via?

Di questo Aiolos è certo. Con una fede incrollabile ed un amore immenso che avrebbe fatto invidia all’apostolo Paolo. Athena manderà qualcuno. E lo solleverà da quel dolore.
Non sente più le costole. Le braccia. Respirare brucia. Come fuoco liquido nei polmoni. Il fegato ed i reni sono collassati. La milza reggerà ancora per poco. E la vista inizia ad annebbiarsi. Tra poco arriveranno le allucinazioni. Uditive prima, visive poi. Per questo Aiolos stringe l’anima coi denti. Deve resistere. Poco. Ancora poco. Ancora poche ore. Una sola basterebbe. Poi avrà tutto il tempo per riposare. Tirare il fiato. E vegliare su di Athena.

 
 
 
Come sei bella, pensa.
La neonata che stringeva al petto s’è fatta grande. È quasi una donna, adesso. I capelli sono sempre lunghissimi, che pendono oltre il collo della Giara, le ciglia nerissime e l’incarnato di alabastro. Aiolos vorrebbe che aprisse gli occhi e lo guardasse. Lo riconoscesse. Anche solo per un momento. Ma non c’è tempo. Non c’è mai tempo, nemmeno da morti. È un'eterna corsa in velocità contro lo scorrere della clessidra, la loro. Per sconfiggere Ade, una volta per tutte. Per la gloria di Athena.
Aiolos si dice che è meglio così. Che è meglio che lei non lo guardi. Perché altrimenti le ginocchia gli cederebbero. Le gambe si farebbero di burro. Cadrebbe ai suoi piedi. E userebbe tutte le lacrime che non ha pianto. Per questo posa appena il piede e riparte. Il tempo necessario perché Sasha atterri senza traumi e gli abbandoni le mani.
La fanciulla fa appena a tempo a sorridergli che lui è già ripartito. Via. Lontano. Veloce come la luce di una cometa. Incontro all’Armatura del Sagittario.
Lei lo guarda sparire in un lampo, prima di avvicinarsi alla Giara. Gli ha già detto grazie. Aggrappata alle sue spalle. E lì, tra le sue braccia, respirando il suo profumo, Sasha ha ritrovato il suo Sagittario. Il suo Toxòtis. Stessi capelli castani. Stessi occhi verdi. Stesso cosmo lucente. Stesse ali spiegate. Stesso amore infinito per lei. Padre Isacco diceva che non c’è amore più grande di quello di chi dona la vita per i propri amici. Perché è l’amore il fulcro di tutta l’esistenza umana. Ed è per amore che lei ha combattuto con Aron e Tenma, tanti anni fa, al posto di questa ragazza. Questa ragazza che è sola ad affrontare il suo destino, che è sempre stata sola ad attendere la fine delle battaglie. E Sasha ha pietà di lei. Per questo ha chiesto al suo Toxòtis di portarla da lei. Per poter fare la propria parte, e poco importa se come dama di compagnia o angelo al capezzale. A Sasha non pesa. Quante volte ha vegliato Cardia durante quelle febbri che gli fiaccavano il corpo e gli incendiavano il sangue? E quando El Cid si ruppe entrambe le gambe, non rimase accanto a lui quasi giorno e notte? E persino Albafica dovette arrendersi a lei. Che non aveva paura di respirare l’aroma velenoso delle sue rose. Che non aveva paura di accettarli per quello che erano. Ragazzi. Ventenni o poco più. Fiori recisi da una mano invidiosa che lei aveva riunito attorno a sé. E raccolto in una ghirlanda di fiori da portare al polso.
 
 
Coraggio. Resisti. Ci siamo quasi.
Dev’essere impazzito. Ha sentito quelle parole, le ha percepite forti e chiare, come adesso percepisce il corpicino esile del fagottino che stringe al petto, ma non s’è accorto di averle sentite nella mente, e non con le orecchie. Pensa che sia arrivata la fine, e che lui vuole ancora qualche scampolo di vita. Ne ha bisogno. Un bisogno disperato. Non per sé, o per dire addio a qualcuno di caro. Ma per la bambina. Perché ancora non può arrendersi, non fino a quando lei non sarà al sicuro. Lontano.
Apre gli occhi. Oramai è mattino. I cancelli del Partenone saranno aperti da pochi minuti, ma per lui è troppo rischioso restare lì. Deve andarsene. Anche se non sa dove. Anche se non sa come.
Coraggio. Manca poco.
Ancora quella voce. Ma chi?
Sono qui. Accanto a te.
Possibile che sia stata la bambina? Aiolos sa che passerà ancora un mese o due prima che lei inizi ad articolare dei suoni – che col tempo si trasformeranno in timidi ed incerti borbottii e poi in parole, più o meno intellegibili – così come sa che lui non li ascolterà mai. Eppure quella che ha sentito è la voce di Athena. Lo sa. Lo sente. Con quella certezza capace di smuovere le montagne.
E la vede.
Lunghissimi capelli del colore delle violette.
Sguardo splendente.
Chitone candido.
Braccia bianchissime.
Ed un braccialetto al polso destro. Fiori bianchi intrecciati in una ghirlanda.
Athena…
Resisti. Una mano gli accarezza il volto, allontanando il dolore e la stanchezza. Assorbendolo, come fa una spugna con l’acqua del mare. Arriverà un uomo. Tra pochi minuti. Un barbaro dell’estremo oriente. Vestito di grigio. Con un marchingegno che emette luce. Avrà la barba, scura e folta come quella del Cronide. Tu non temere. È Xenios ad inviarlo sul tuo cammino. Affidagli la neonata. Affidagli Athena. Lui la proteggerà. Lui farà sì che ad entrambi non venga fatto alcun male.
E io?, vorrebbe dirle il Sagittario, in un impeto di adolescente terrore. Che ne sarà di me?, pensa Aiolos, in un angolo della sua mente. Che ne sarà di mio fratello? Ma basta che il suo sguardo – per quanto annebbiato, per quanto stanco, per quanto spento – incontri quello splendente della Fanciulla e i suoi timori sono spazzati via. Con la forza del fortunale e la delicatezza della brezza di mare.
Veglierò io su Aiolia. E accompagnerò i tuoi passi, dopo.
Ed è con questa certezza – con questa promessa – che Aiolos aspetta. Mentre le mani della Fanciulla leniscono il suo dolore. Mentre la neonata dorme. Mentre il suo destino sta per compiersi. Mentre un barbaro che viene da un paese lontanissimo si avvicina a lui. Passo dopo passo.
 


Sono tutti qui.
Sono uomini, adesso.
Il Sommo Sion gli aveva raccontato di com’era, ai suoi tempi, riunirsi assieme ai propri compagni. Aiolos riusciva a considerare tale solo Saga, perché tutti gli altri erano troppo piccoli per suscitare in lui quel sentimento di cameratismo che traspariva dai racconti del vecchio sacerdote. E Aiolos non comprendeva fino in fondo cosa significasse lo splendore accecante dell’oro amplificato dal candore purissimo del marmo della Sala del sacerdote. Non capiva, ma sapeva che l’avrebbe visto, un giorno. Quando gli altri sarebbero stati abbastanza grandi da poter indossare la propria corazza senza ballarvi dentro o senza sembrare delle scatolette di sardine. Quando sarebbero stati degli uomini. Quando sarebbero stati dei compagni.
Il marmo del Muro del Pianto non è paragonabile a quello del Santuario di Athena, ma ad Aiolos sono sempre piaciute le sfide. E il Sommo Sion lo sapeva. Non è per questo che si affidò a lui per placare le intemperanze dello Scorpione e vincere la riservatezza del giovane Acquario?
Qualcuno ci ha rimesso i capelli, ma vedere lo sguardo che si scambiano i due e quella stretta di mano fraterna, val bene un salto dal barbiere.
Così come vedere Aiolia, davanti a sé, nell’Armatura del Leone. È un uomo, adesso. Più robusto di lui. Più grande. Ed Aiolos deve trattenere un groppo in gola mentre gli parla, la voce arrochita dal tempo.
«Sono fiero di te.»
Una frase che fa scorrere le lacrime sul viso abbronzato del Leone. Ed abbracciarsi, stringersi al petto quel fratellino tanto amato, è questione di un respiro. Un attimo, uno solo. Prima della fine. Prima che questo muro crolli, una volta per tutte. Prima che questi ragazzini giungano da Athena.
Manca poco. Poi potrai riposare.
E Aiolos li vede. Accanto a loro. Come angeli custodi. Vede Sisifo mettergli una mano sulla spalla, la stessa armatura del Sagittario ricoprire le membra del se stesso precedente. Del Toxòtis di un’altra epoca. Quando Athena si faceva chiamare Sasha e lui, il Toxòtis, aveva superato in volo lo Ionio per andarla a recuperare in uno sperduto villaggio del Sud Italia. Quando l’aveva amata con tutta l’anima, come un uomo ama una donna. Quando lei l’aveva salvato da se stesso. Quando lui aveva giurato di proteggerla. Sempre. Comunque. Attraverso il tempo e lo spazio.
È il giuramento che abbiamo fatto tutti noi. Ecco perché ci siamo reincarnati in voi. Ecco perché adesso metteremo fine a questa storia. Insieme.
Sisifo gli ha parlato dritto nella mente, un sorriso sincero e risoluto a balenargli negli occhi e a piegargli le labbra. Perché è ora. È arrivato il momento di sconfiggere Ade. Una volta per tutte. Di far splendere un raggio di sole che fenda in due le tenebre. E raggiunga Athena.
«Sono gli uomini che compiono i miracoli, non gli dei», ripeteva il Sommo Sion a lui e a Saga. E sono degli uomini, adesso, che abbatteranno il Muro del pianto. E che si ritroveranno, nel sole di domani. Nel riso di un bambino. Nella pioggia. Nel vento. Nel mare. Negli occhi di questi Santi di Bronzo che corrono oltre i pesanti portoni, ché il loro potere non li sfiori e non li annichilisca. C’è molto altro da fare, ma non saranno loro a farlo. Saranno le nuove generazioni. Saranno coloro che verranno. Perché i ragazzi, questi ragazzi che stringono l’Armatura di Athena, sono gli eroi del futuro. Perché la vita, perché il futuro è adesso.
Ed appartiene a loro. Ed appartiene ad Athena. Che loro raggiungeranno. Sulla scia di una cometa. Che splenderà nell’ora più buia dell’umanità. E che raggiungerà la Dea. Per portarle un raggio di speranza.
Tutti insieme.
Tutti qui.
se nel sole di domani 
ci perdessimo così 
e se anche fossimo lontani 
noi saremo insieme sempre tutti qui

 
 

Note, Ringraziamenti e Spiegazioni:
Ed è con soddisfazione ed un poco di fatica che siamo giunti alla fine di questa cavalcata.
Dodici capitoli per dodici (più o meno) protagonisti all’interno della notte più lunga, della battaglia più dura, la battaglia finale, quella che ha lasciato sul terreno tutti – se non proprio tutti, quasi tutti – i nostri beniamini.
Non so voi, ma il sacrificio dei Santi d’oro al Muro del Pianto (che trovo sia un termine più evocativo di Muro del Lamento. Cos’è, le anime hanno mal di pancia?!) è stato – ed è tuttora – qualcosa che ha scavato una profondissima frattura tra me e Kurumada. Perché delle Facce di bronzo salverei solo Hyoga, ad essere smaccatamente sincera. Perché sono i Santi d’Oro quelli che più mi interessano e di cui mi interessa raccontare (mi sa che non s’era capito).
Lascio andare questa storia con un po’ di rimpianto, con quel sentimento che si prova quando finisce qualcosa di bello; e si vorrebbe che continuasse, per sempre, ma si sa – si sente – che è giusto così. Che è giusto che ognuno vada per la propria strada. E che se la storia che abbiamo vissuto è stata così bella lo si deve proprio al fatto che abbiamo sempre saputo che sarebbe finita. E ce la siamo goduta fino in fondo.
 
Prima di immergermi nelle note – che non ho inserito capitolo per capitolo, preferendo metterle tutte qui – vorrei spendere due parole nei ringraziamenti. Dovuti e doverosi.
A Sen, per prima. Che mi ha consigliato, spronato e sostenuto durante questa lunga cavalcata.
A Nocturnia, sempre ripresa per i capelli dal decesso per i troppi feels (cit.).
A JLJ, sempre presente e sempre entusiasta.
A Titania, prezioso aiuto per inquadrare al meglio Saga.
Ad Avalon9.
A Scarlett Rose.
E a tutti coloro che la mia mente arteriosclerotica adesso non rammenta.
A chi ha inserito questa storia tra le preferite/seguite/ricordate.
A chi ha commentato.
A chi ha letto.
A chi è piaciuta.
A chi non è piaciuta.
A tutti voi, va il mio grazie più sincero.
Grazie per essere arrivati fin qui. E alla prossima.
E mentre vi bevete il caffè che vi siete strameritati per essere giunti fino alla fine, spazio alle note vere e proprie. Per qualsiasi dubbio, chiarimento o curiosità, sapete dove trovarmi.
Buona lettura.
 
Tutti Qui, Claudio Baglioni, 2005.
 
Sasha è la reincarnazione di Athena durante la precedente Guerra Sacra. Il suo nome è il diminutivo di Alexandra (=protettrice degli uomini), uno degli appellativi di Athena. A differenza di Saori, Sasha è un involucro umano in cui si è reincarnata l’anima di Athena, che invece di manifestarsi ai piedi della sua stessa statua in un corpo divino, ha scelto di provare l’ebbrezza dell’essere mortale, seppure al cinquanta per cento. Se questo vi ricorda qualcosa, sappiate che siete nel giusto. Le sue avventure sono narrate in Lost Canvas, che credo molti di voi conosceranno a memoria; ma era giusto specificarlo.
 
Orphée è il Santo d’Argento della Costellazione della Lira. Seiya e Shun scoprono che si era rifugiato all’inferno quando la sua amata Euridice era morta a seguito del morso di un serpente proprio la mattina delle nozze (quando si dice la sfiga, insomma). Fancazzista imperituro, suona la lira per il Sommo Ade e per i suoi Tre Generali. Se dapprima non vuole saperne di combattere per Athena (e considerato che durante la battaglia del santuario e contro Posidone se n’è stato bellamente a farsi gli affari suoi, io non me ne stupisco affatto), cambia idea quando scopre che la causa delle loro disgrazie è Pharao di Sphinx, Spectre al servizio di Ade cui pandora ha ordinato di fermare la coppia ad un passo dall’uscita del regno dei morti. Sì, ho seguito il mito pari pari. Perché nel mito è Persefone a consentire ad Orfeo di tentare di tornare indietro con la sua amtissima Euridice. E sì, se Euridice è morsa proprio la mattina delle nozze ed Orphée fallisce l’impresa è per ubris. E perché se la sono andata a cercare questi due. Diciamolo.
 
Camus nel mio headcanon ha un nome umano e tutto sommato banale: si chiama Etienne. Maman non ha ancora un nome, mentre Rémy è suo padre, nonché Santo d’Argento della Costellazione di Boote, nonché copia spudorata di un personaggio dei comics americani. A voi scoprire di chi si tratta.
Il Triangolo di Primavera è una figura del Cielo primaverile che ha ai vertici le tre stelle Arturo (alpha Bootes), Spica (alpha Virginis) e Denebola (beta Leonis).
La filastrocca  è una celebre comptine, Ainsi font, di cui trovate il testo qui ed una versione cantata qui. Mi raccomando di girare le mani correttamente.
 
Death Mask è calabresissimo, della costa ionica, a sud di Crotone, e porta con sé la ferinità della sua terra e di quella spiaggia di sabbia nera di origine vulcanica. Il proverbio che cita ad Andrea, la cui storia sto raccontando qui, significa, letteralmente, Il contadino che non ammazza il maiale non può appendere le salsicce alle travi. Una versione più pragmatica del classico non puoi fare una frittata senza rompere le uova.
 
Saga mette in scena il cosiddetto sposalizio mistico, quello che intercorre tra un Santo e la divinità, quando l’uomo – o la donna – donano se stessi al divino. Solo che mentre dovrebbe essere lui, l’uomo, la parte attiva – la spada è l’archetipo maschile per eccellenza – si ritrova a vivere un ribaltamento di ruoli quando Athena gli chiede di ucciderla. Usando proprio quel pugnale con cui aveva tentato di eliminarla qualche anno prima.
 
Shura è una spada spezzata. Nel mio headcanon è ed è sempre stato il Campeador, l’appellativo di Rodrigo Diaz di Vivar.  Quando ho scoperto che anche la Teshirogi aveva chiamato El Cid il precedente Capricorno ho pensato di averci azzeccato. O di aver fatto un accostamento becero, facite vobis. Campeador è la forma latina del cognome Campi Doctor, che si assegnava a chi avesse sostenuto e vinto un combattimento giudiziario. El Cid riprende l’arabo Sidi (=mio signore).
 
Sion e Doko. Perché sì. Perché c’è stato un chiarimento fra di loro. Ovviamente fuori scena. Altrimenti il lettore avrebbe mangiato la foglia all’istante. Il verso citato a memoria da Doko è il numero quattro del Salmo 23, secondo la Nuova Diodati: «Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, non temerei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.».
 
Aphrodite nel mio mondo si chiama Yngve. Yngve, come Malmsteen. Il suo nome significa “della tribù degli Ingaevoni”, quei germani occidentali di cui parla anche Tacito nel suo Germania, e che comprendeva Sassoni, Angli, Iuti e Frisoni. La radice del nome Yngvi si fa risalire a quella del dio Freyr, dio della bellezza e della fecondità.
L’avversario di Yngve/Aphrodite è un Draugr, un revenant di matrice scandinava. Indica un po’ tutti coloro che tornano a camminare dopo la morte, dai vampiri, ai fantasmi agli zombi. Il villaggio di Gammelstad esiste davvero e lo trovate a Nord, sulle sponde del mare di Botnia. Lo Småland è una regione storica della Svezia meridionale.
 
Aldebaran e Milo li vedo come due ottimi amici. Sarà che Toro e Scorpione sono due Segni complementari, sarà che, essendo entrambi Segni Fissi sono molto pratici e pragmatici, ma li vedevo bene, assieme. E sì, il sacrificio del Toro, con lo Scorpione che fa sì che si compia, strizza l’occhio ai misteri del dio Mitra, in cui il Toro era il sacrificio e lo Scorpione, animale ctonio per eccellenza, artigliava i testicoli dell’animale (e quindi la sua vitalità e la sua fecondità) alla terra. Parlerò di quell’incresciosissimo incidente a breve. Promesso.
 
Shaka e Mu sono stati i più difficili da inquadrare. Shaka, nella mia testa, è nato in India, ma da genitori europei. Inglesi, credo. Solo dopo ha iniziato a manifestare i segni della sua vera natura (non un Buddha, ma un bodhisatt’va, ossia colui che ha esperito l’Illuminazione (bodha), ma che continua a reincarnarsi per aiutare gli uomini a spezzare il vincolo del samsàra). Ho fatto girare tutta la storia sul significato del verbo inglese to pretend, che è un po’ la chiave per comprendere tutta la saga del Santuario. La raccolta delle ciliegie prende spunto da una fan art trovata anni fa su deviantart in cui i Santi d’Oro bambini raccoglievano delle ciliegie e finivano per addormentarsi ai piedi della statua della dea Athena, dove Aiolos e Saga finivano poi per trovarli dopo una lunga ricerca.
A chiamare Salamandra il povero Rhadamantys è stato il piccolo Gio. Che da bravo Gemelli, ha la vista lunga, lui.
 
Οι νεότεροι αδελφοί significa fratelli minori, sempre se non ho fatto qualche casino. E non potevano che essere Aiolia, con il suo amore indefesso – ed anche un po’ ottuso – nei confronti di Aiolos, e Kanon –  che nel mio headcanon si chiama Viktoras, vittorioso. Con Rhadamanthys della viverna come special guest star. Ubi maior, ecc. ecc.
 
Aiolos compare nel finale, assieme a Sasha e a Sisifo. E agli altri Gold saint. Perché nella mia testa c’era un motivo per cui i Santi di questa e della precedente Guerra Sacra avessero lo stesso aspetto – pur se qualcuno s’è perso strada facendo, vedi Aphrodite e Death Mask che c’azzeccano con Albafica (sic!) e Manigoldo come i cavoli a merenda.
Il verso biblico citato da Sasha, per bocca di padre Isacco (farina del mio sacco, ah ah) appartiene al Vangelo di Giovanni, capitolo 15, versetto 13, nella traduzione della Nuova Diodati: «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la propria vita per i suoi amici.».
Nella mia visione degli Olimpici, non si chiamano quasi mai per nome, ma attraverso un appellativo. Athena è dunque La Fanciulla.
Cronide è il patronimico per Zeus, che significa Figlio di Crono. Xenios è un altro appellativo di Zeus, nelle sue funzioni di protettore dell'ospite e dello straniero (xenos).
Con barbaro i Greci non intendevano le popolazioni nomadi oltre il confine, ma quasi tutti gli stranieri di cui non capivano il linguaggio. Barbaros è un termine onomatopeico che allude alla balbuzie, o anche alla non fluidità d'eloquio di quelle popolazioni che non parlavano il greco (scusate tanto, eh).
I ragazzi sono gli eroi del futuro è la traduzione letterale di una strofa di Pegasus Fantasy, prima sigla d'apertura di Saint Seiya:
聖闘士星矢 少年はみんな/
聖闘士星矢 明日の勇者 oh yeah!
(Saint Seiya Shonen wa minna/
Saint Seiya Ashita no Yuusha - oh yeah!)
(Saint Seiya, ogni ragazzo
Saint Seiya, è un eroe di domani - oh yeah!).
Toxòtis è il termine greco con cui si indica il Segno Zodiacale del sagittario.
Anissa, Alexandra, Glaucopis, Areia, Pallas, Parthenos, Tritogenia, Polias, Ergane, Promachos, Itonia, Atritonia, sono tutti epiteti di Athena. Anche se il suo epiteto ad Atene era uno e uno solo: Thea. La Dea.

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